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N° di matricola 89384 Federica Piccarolo

Canale B, corso 6

Relazione di pedagogia
Lo sport agonistico
Testo

Tommaso, atleta di marcia olimpica, specialità dell’atletica leggera, della categoria


Allievi Primo Anno, di anni 16, inizia a conseguire risultati degni di nota durante
alcune delle competizioni più importanti, come i Campionati Italiani. In vista della
gara di riapertura della stagione, che si sarebbe tenuta alla fine del mese di agosto,
l’allenatore comincia a trasmettere pressione all’atleta, uscito da un periodo di
pausa durante il periodo estivo, dovuto ad un lieve infortunio all’anca.

Due settimane prima della competizione riprendono gli allenamenti di carico, in


preparazione alla gara, dove sono alte le aspettative di buoni risultati sia da parte
dell’allenatore sia dell’atleta, ma anche le pressioni, verso quest’ultimo, che si vede
costretto ad una preparazione intensificata.

Arriva il giorno della competizione.


è il momento per Tommaso di dimostrare a sé stesso e all’allenatore i progressi
fatti, nonostante l’infortunio subìto. La distanza che Tommaso deve ricoprire è 5Km,
sua specialità, e possiede tutte le carte in regola per ottenere degli ottimi risultati.
Lo starter dà il “Via!”, parte la batteria con Tommaso che si trova in terza posizione,
fortemente deciso a difenderla.
Con un’ottima gestione del percorso, riesce ad ottenere la seconda posizione ed un
tempo meritevole, del quale è pienamente soddisfatto, soprattutto dopo aver
passato un periodo di infortunio che gli impediva di muoversi con scioltezza.

La gara si conclude con un record ed una vittoria personale, dopo la quale,


l’allenatore incrementa le sue aspettative e l’orgoglio per Tommaso, tanto da
trasformare una passione in un lavoro. Dopo questa gara riprendono gli allenamenti,
dove l’allenatore, abbagliato dall’ultimo trionfo di Tommaso, decide di modificare gli
allenamenti, intensificandone il programma, senza tener conto, però, della volontà e
delle capacità fisiche e sportive dell’atleta, che si ritrova a dover cambiare
improvvisamente la sua routine di allenamenti, che richiedono degli sforzi
notevolmente maggiori.

Dopo i primi “nuovi” allenamenti e la crescente pressione, l’atleta inizia a


demoralizzarsi, a perdere la concentrazione durante le prove e a non rendere più
come prima; diminuisce anche la voglia di impegnarsi e inizia a incrinarsi il rapporto
che si era instaurato con l’allenatore, di fiducia, rispetto e passione per la disciplina.

Si presenta il nuovo calendario gare, con molte competizioni importanti dove i tempi
da raggiungere sono fondamentali per la convocazione ai Campionati Italiani
invernali. Di conseguenza cresce anche la tensione nel cercare di non deludere le
aspettative dell’allenatore, dei compagni e le proprie.

Si giunge, dopo allenamenti pesanti e non del tutto proficui, alla prima
competizione.
La distanza da ricoprire è la stessa dell’ultima gara disputata, i 5Km, che però
purtroppo per Tommaso risultano più complicati da affrontare in termini di risorse
fisiche e di gestione del percorso, terminando, dunque, con un tempo troppo alto
per poter essere tenuto in considerazione, per un eventuale convocazione ai
Campionati Italiani, e per cui poter essere soddisfatti.
Come da previsioni iniziano ad arrivare le prime critiche relative alla sconfitta da
parte dell’allenatore, che si rivela essere un uomo scortese e senza tatto, tutto ciò di
cui Tommaso in quel momento avrebbe fatto a meno, essendo lui stesso demotivato
per la competizione
Purtroppo, seguirono commenti poco educati e decisamente non comprensivi anche
da parte dei compagni di squadra, cosicché, dopo queste ultime ed estenuanti
pressioni, inizia a dubitare di sé stesso e a perdere quel senso di fiducia e rispetto
nei confronti del suo, fino a qualche mese prima, punto di riferimento: l’allenatore.
In seguito a questa deludente prestazione e all’insuccesso che ne era derivato,
l’atleta torna a casa senza più neppure la voglia di riscattarsi, di rimettersi in gioco,
di ripartire con la grinta che lo contraddistingueva da sempre, sentimento che lo
spinge, gradualmente, ad allontanarsi dalla disciplina e dall’ambiente di contorno di
quest’ultima, divenuto fonte di stress e demoralizzazione sempre più presente,
decidendo così di concludere definitivamente e voltare pagina.
Domande

PRIMA DIVISIONE - Allenatore


- in quale modo l’allenatore ha risposto alla vittoria della gara di apertura?
- come, l’allenatore, ha gestito e si è comportato durante gli allenamenti
successivi?
- in quale modo l’allenatore ha reagito alla sconfitta della competizione?
- in quale maniera ha reagito all’allontanamento dell’atleta e al successivo
abbandono della disciplina?
- quale comportamento avrebbe potuto e/o dovuto assumere l’allenatore?
- avrebbe dovuto ascoltare l’atleta, senza curare i propri meri interessi?

SECONDA DIVISIONE - Atleta


-in quale modo ha reagito l’atleta alla prima vittoria?
- come ha reagito al cambiamento che riguardava gli allenamenti?
- come ha risposto alla sconfitta della gara successiva?
- quanto e come ha influito la pressione, esterna ed interna, sull’atleta?
- cosa ha condotto l’atleta alla decisione di abbandonare?

TERZA DIVISIONE – Famiglia/ Squadra


-in che modo e quanto ha influito la famiglia?
- quale è stata la risposta della famiglia alla prima vittoria?
- quale è stata la risposta della famiglia alla sconfitta dell’ultima gara?
- in che modo la squadra ha avuto un ruolo nell’abbandono da parte
dell’atleta?
- di che genere è stato il supporto che la squadra ha dato all’atleta?

Si è deciso di suddividere le domande in tre differenti divisioni che andassero a


toccare i tre aspetti fondamentali su cui si basa la nostra riflessione; in particolar
modo “la figura dell’allenatore”, “la figura dell’atleta” e “la figura dei compagni e
della famiglia”.

Discussione

Dopo la vittoria ottenuta, l’obiettivo che si erano posti atleta ed allenatore era stato
ampiamente conseguito, e c’era stata, da parte di entrambi la volontà di migliorare
e puntare ad un costante progresso.
Nel momento in cui l’atleta vince la gara ed ottiene notevoli tempi e risultati,
naturalmente, accrescono, da parte dell’allenatore, la fiducia e le aspettative nei
confronti dell’atleta, determinando anche un aumento delle responsabilità di
quest’ultimo.
Tutto ciò, tramuta in stress psico-fisico e pressione sul ragazzo, divenendo
controproducente e andando ad interferire sulle prestazioni sia in allenamento sia in
gara.
Non vengono tenute in considerazione le eventuali risposte e pensieri dell’atleta,
che, spronato in modo scorretto, comincia a dare segni di cedimento e peggiorare.
L’allenatore, offuscato dal desiderio di vedere il suo atleta nella miglior condizione
possibile, non tiene conto della volontà del ragazzo di dare importanza non soltanto
al mondo dello sport ma anche a quello scolastico e familiare, ciò che rispecchia il
carattere ligio e preciso dell’atleta.
Purtroppo, l’allenatore non si affida ad opzioni differenti dal fare continuare ad
allenare il ragazzo, che probabilmente preferiva che venissero allentate le pressioni
o che potesse venirgli concesso un periodo di pausa, anche a causa alla crescente
intensificazione delle sedute di allenamento; il che porta alla sconfitta della gara
successiva, dopo cui l’allenatore inizia a infondere pressioni nel ragazzo.
Tutto ciò conduce ad un calo di fiducia da parte dell’atleta nei confronti di sé stesso,
innanzitutto, dell’allenatore e del proprio sport.
A questo punto l’allenatore potrebbe aver commesso un errore significativo nella
posizione dell’obiettivo, senza riuscire, forse senza voler, comprendere le necessità
e le volontà dell’atleta stesso.
Il focus che è cambiato tra una gara e l’altra è probabilmente quello dell’atleta, che
non riesce più a convogliare tutte le sue forze nello spronare sé stesso ad un
continuo migliorarsi ma solamente su aspetti negativi che derivano dalle estenuanti
pressioni ed elevate aspettative da parte dell’allenatore e, ormai, anche da parte
dello sport stesso.
L’atleta, dunque, si ritrova sormontato da tutte queste continue ed incalzanti
sollecitazioni, che inizia a sentire come un peso ed un obbligo, che va a sovrastare
tutto ciò che era e continua ad essere importante per l’atleta, ovvero lo studio e la
famiglia.
Tutti questi allenamenti, pian piano, si trasformano in un lavoro, che inizia a
diventare inutile e distruttivo.
Sommata a tutti questi fattori, c’è la paura delle gare successive, importanti per la
carriera dell’atleta, che aveva cominciato a dubitare delle sue stesse capacità,
convincendosi che non sarebbe stato in grado di soddisfare le aspettative createsi
dopo la Vittoria.

Nonostante l’allenatore continui a spronare l’atleta in sempre più faticosi


allenamenti, i risultati non migliorano, rimanendo sulla soglia dell’“accettabile”.

Si è venuto a creare, dunque, un errore nella relazione educativa?


È forse giusto riporre una così grande fiducia e così tante aspettative in un singolo
ragazzo?
Ciò che senza dubbio è opportuno, è essere ottimisti, e riporre fiducia nel proprio
atleta, senza però cadere nell’ingenuità, che ha portato quest’ultimo a rendere
meno di quello che è effettivamente il suo potenziale.

È giusto continuare a spronare l’atleta, nonostante la sua carenza di fiducia?


Non c’è, naturalmente, una sola risposta, poiché va analizzata la situazione, ma di
certo, continuare ad esortare l’atleta con un atteggiamento che si tramuta in vera e
propria pressione psico-fisica, è molto facile, se non consequenziale, cadere
nell’unilateralità dell’intenzionalità educativa, come in questo caso, che riguarda
unicamente l’allenatore, senza andare a prendere in considerazione le necessità
dell’atleta e senza rendersi conto che il ragazzo ha perso tutta la volontà di essere
allenato e ancor più importante di essere educato.

Le gare successive, sono un vero e proprio cedimento che è cominciato nei mesi
precedenti, vengono definitivamente meno il senso di appagamento personale e la
volontà di porsi un obiettivo sportivo, su cui andare a lavorare per poterlo
raggiungere.
L’atleta comincia a sentir meno la fiducia in sé stesso, e inizia a farsi domande, a cui
però non è in grado di darsi risposte.
Perde definitivamente l’idea di allenatore come punto di riferimento.
Un possibile scenario potrebbe essere la scelta di cambiare allenatore o società, ma
l’atleta dopo costanti frustrazioni aveva iniziato a perdere la passione che tanto
aveva per questa disciplina atletica, e per l’ambiente che la circondava.
Non va sottovalutato il drastico cambio di programmazione negli allenamenti, che
sono stati notevolmente intensificati ed ampliati in termini di orari.
L’atleta ha dovuto mettersi a dura prova e tutto ciò che prima poteva essere inteso
come volontà di migliorare e superare i propri limiti, ben presto si è trasformato in
un frustrante obbligo da eseguire per non deludere l’allenatore.

La noncuranza da parte di quest’ultimo, accecato dalla veemenza della vittoria alla


prima gara, è stata determinante in modo negativo nella crescita sportiva, e non
solo, del ragazzo.

La famiglia ha sicuramente influenzato l’andamento del percorso dell’atleta,


soprattutto dovuta alla posizione della figura paterna, notevolmente coinvolta nel
mondo di questa disciplina e che non è stata estranea dallo spronare l’atleta.
Di certo, successivamente all’importante vittoria conseguita nella prima
competizione è cresciuto decisamente l’orgoglio per il ragazzo, tanto da farle sentire
il peso delle aspettative.

Qual è il confine tra seguire la passione del figlio per lo sport e diventare una
presenza morbosa ed opprimente?
Indubbiamente, un adolescente, ha necessità di avere la figura genitoriale al suo
fianco durante il suo percorso sportivo e non, sia nei successi sia, e soprattutto, negli
insuccessi; è però, estremamente facile e “pericoloso”, diventare degli “allenatori in
famiglia”, figura che non va a spezzare il continuum temporale che viene a crearsi tra
gli allenamenti ed il tempo libero, determinando, in questo modo, una visione
corrotta e snaturata dello sport.
In questo modo la passione viene a mancare e si trova a prevalere l’agonismo. Di
conseguenza, tutti quegli obiettivi e tutto ciò per cui l’atleta si impegnava tanto,
mosso dalla passione, vengono meno. Tutti gli impegni presi in precedenza, hanno,
oramai, il sapore amaro dell’obbligo e impedimenti alla vita esterna allo sport e
l’atleta inizia a sentire il peso della mancanza del tempo libero e ogni suo sforzo di
trovare negli allenamenti la connotazione di svago che li rendeva cosi piacevoli,
diventa vano.
Tutte le pressioni, interne ed esterne, tutte le nuove responsabilità, gli impedimenti
alla vita esterna, portano l’atleta a prendere la decisione di abbandonare, non solo
la propria disciplina, ma di allontanarsi da tutto l’ambiente e la vita che circonda e
che caratterizza lo sport.
La drastica decisione non ha solo interessato l’atleta, ma anche l’allenatore e la
squadra. Tommaso come ha comunicato la notizia? L’escamotage più semplice è
quello, probabilmente, di non ammettere effettivamente la volontà di abbandonare,
ma quello di allontanarsi in sordina, a poco a poco, senza dare vere e proprie
spiegazioni.
L’allenatore, per dissuaderlo dal prendere questa decisione, avrebbe potuto,
dovuto, comportarsi in maniera differente? Avesse avuto una visione più chiara
della situazione e si fosse reso conto che, così facendo, stava perdendo un atleta
avrebbe potuto parlargli e fargli capire che avrebbe sprecato il suo potenziale, di cui
si sarebbe pentito in un secondo momento.

Come è stata presa questa decisione da parte della famiglia e dall’allenatore?


Lo scenario familiare che viene a crearsi dopo la scelta dell’abbandono, è
strettamente legato al rapporto genitore-figlio.
Alcuni genitori non sono in grado di calarsi nei panni dei figli e possono reagire ad
alcune loro scelte in modo impulsivo e, quindi, sbagliato.
In questo frangente, un adolescente ha bisogno di supporto e non consigli su cosa
deve e non deve fare, proprio per il suo carattere fragile e volubile.
Necessita di qualcuno che lo accompagni, ponendosi al suo fianco, che sia in grado
di indicarli la giusta strada ma rendendolo capace di prendere le giuste decisioni con
la propria testa.
L’educatore non deve, in alcun modo, sostituirsi nelle decisioni dell’educando ma,
attraverso, un’azione indiretta, supportare il ragazzo affinché abbia la capacità e la
possibilità di crearsi un suo percorso individuale adeguato.
Deve essere, inoltre, guidato verso l’indipendenza; indipendenza che, a volte, viene
negata dalla famiglia stessa.
L’educatore, in questo specifico caso l’allenatore, deve essere in grado di porre in
primo piano il bene del giovane e per farlo non deve rimanere estraneo alla
situazione ed al problema, ma deve immedesimarsi, cercando, ad ogni modo, di
analizzare ciò che il ragazzo sta affrontando senza, però, lasciarsi coinvolgere in
maniera completa. L’allenatore deve mantenere il giusto distaccamento, affinché
non cada nell’errore di sostituire il benessere del ragazzo con il proprio.

Nello specifico caso di Tommaso, l’allenatore avrebbe dovuto porre in secondo


piano il percorso agonistico e le sue (dell’allenatore) volontà di raggiungere ottimi
risultati ad ogni costo; avrebbe, invece, dovuto porre la luce sul percorso della
formazione e realizzazione, intesa come tale, del ragazzo.
Esattamente come in famiglia, il ragazzo avrebbe dovuto ricevere supporto al fine di
sistemare gli aspetti che si erano incrinati durante questo percorso.

È facile individuare ed andare ad operare facilmente sulle problematiche di un


adolescente?
Il problema che può sorgere è che il ragazzo, di fronte agli insuccessi, visti da lui
come fallimenti personali, si chiuda in sé stesso e non cerchi una soluzione diversa
da quella che potrebbe trovare solo dentro di sé.
In questo modo non si verrebbero a creare le condizioni favorevoli per una
comunicazione corretta ed efficace e che quindi impedirebbe all’educatore, genitore
o allenatore che sia, di individuare i disagi che affliggono il giovane causando
incapacità di agire a riguardo.

Conclusione

Dopo le considerazioni a riguardo della situazione poc’anzi analizzata, si evince che


alla base di un rapporto educativo efficace deve esserci una buona dose di rispetto e
fiducia reciproca ma anche di comunicazione chiara ed empatica.

È sconsigliato se non terribilmente sbagliato capitolare nell’ingenuità ed impulsività


repentina del riporre grandi e premature aspettative nell’educando, portandolo, di
conseguenza ad una crisi personale.
È dunque importante, da parte dell’educatore, allenatore o famiglia, prendere le
parti, immedesimandosi nell’adolescente, cercando di non opprimerlo e
sovraccaricarlo, decidendo per lui, ma garantendogli la possibilità di decidere in
modo arbitrario ed allo stesso tempo con consapevolezza di causa.
L’educatore ha il compito di impegnarsi a comprendere le necessità del ragazzo.

Bisogna prendere in considerazione, perfino, la fascia d’età delicata in cui rientra


l’educando, ovvero la piena adolescenza, fase estremamente volubile in cui sono
presenti numerosi cambiamenti, fisici e psicologici, che rendono questo periodo
complesso e spinoso.
Nel caso sopr’anzi sottoposto, il soggetto risulta satollo di stimoli sia interni sia
esterni, e di conseguenza ogni tentativo potrebbe risultare essere
controproducente.

Senza dubbio, l’imprecisione dell’allenatore è stata quella di confondere l’obiettivo


con il fine. È stata data un’importanza eccessiva alle competizioni che hanno coperto
il ruolo di fine della relazione educativa, tralasciando la formazione del soggetto
come persona e sportivo. Ciò ha condotto ad una risposta esageratamente positiva
alla vittoria della prima gara, che ha reso saturo l’atleta di aspettative e
responsabilità troppo alte e deviate, in quanto la competizione successiva è
diventata il fine per entrambi.
La sconfitta della gara seguente non è stata percepita come un insuccesso da cui
trarne benefici in vista di un miglioramento verso il fine, ma come un vero e proprio
fallimento, con una connotazione quasi e puramente negativa.

È mancato il momento in cui l’allenatore ha spiegato all’atleta che il suo fine non
doveva essere la vittoria isolata, ma il miglioramento personale in campo agonistico
e non. Difatti, l’atleta non è stato in grado di costruirsi un percorso mentale che gli
permettesse di andare oltre e porsi come fine il miglioramento ed il superamento
dei limiti personali, proprio perché non ha ricevuto dall’allenatore l’impalcatura
necessaria per questo.
Oltretutto, c’è stata, a posteriori con connotazioni negative, l’influenza in sordina
della famiglia e della società, che ha incrementato le aspettative senza però
affiancarsi all’atleta nel suo percorso.
Da parte loro sono arrivate unicamente risposte esterne alla vittoria, ed è stata
sottovalutata la possibilità che l’atleta potesse sentirsi sotto pressione ed
attraversare una crisi.

Questa riflessione non è da considerarsi un plauso all’atleta, in quanto anche lui ha


commesso alcuni errori di valutazione personale.
Ciò che risalta come “colpa” possibile è la mancanza di una comunicazione chiara e
concreta da parte del ragazzo, che non ha cercato un punto d’incontro con
l’educatore quando la situazione ha cominciato a prendere una piega spiacevole.
Il soggetto, inconsciamente e non, ha creato una barriera, un muro che nascondesse
il disagio e le debolezze che avevano preso il sopravvento in quel momento, senza
lasciar trasparire nulla.
Ha impedito all’educatore di capire, analizzare e poter agire in modo adeguato sui
problemi che stava affrontando per la paura di affrontarli lui stesso.
Ciò chiarisce il punto della totale mancanza di un’autovalutazione.

Riflessioni personali

A mio avviso, si tratta di una situazione decisamente delicata, in quanto il soggetto si


trova in una fase che necessita di un occhio di riguardo nella formazione personale e
relazionale, e si affronta un periodo complesso nel percorso sportivo del ragazzo.
Non è stato giusto trattare come fine complessivo la vittoria alla prima gara, ma
trattarlo come un singolo obiettivo e gioirne in quanto era stato ottenuto un
successo.
Da parte dell’allenatore è mancata, oltretutto, una comunicazione con la famiglia,
che informasse dell’eventuale possibile rischio che poteva esserci nel caso le
aspettative fossero cresciute troppo.
In secondo luogo, era necessario che l’allenatore comunicasse con l’atleta, per
rendersi conto di ciò che provava e di quali fossero le sue impressioni in vista del
prossimo obiettivo.

Se l’atleta avesse avuto la forza di esternare le proprie paure e pressioni che lo


mettevano a disagio e non lo portavano ad esprimere tutto il suo potenziale,
l’allenatore, forse, avrebbe dovuto porlo di fronte alla possibilità di non affrontare
un cambiamento così repentino sul programma di allenamenti, che si è rivelato
essere distruttivo.
Così facendo avrebbe, probabilmente, ottenuto una risposta positiva al migliorare e
superare i propri limiti e la volontà di affrontare con forza ed entusiasmo gli obiettivi
successivi.

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