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Albanesi
Inizia a correre!
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte del libro può essere riprodotta o
diffusa con un mezzo qualsiasi, fotocopie, microfilm o altro, senza il
permesso di Thea s.r.l.
ISBN 978-88-89017-23-4
La visita medico-sportiva
La visita medico-sportiva è una tappa fondamentale per coloro che sono
intenzionati a iniziare una qualsivoglia attività sportiva. Il nostro
ordinamento giuridico prevede che coloro che si apprestano a iniziare
un’attività sportiva debbano sottoporsi alla cosiddetta visita di idoneità
agonistica.
Scopo della visita è verificare che la persona sia idonea a sostenere gli
sforzi richiesti dal tipo di sport che si desidera praticare. Il certificato
rilasciato in seguito a visita medico-sportiva non deve essere confuso con il
celeberrimo certificato di sana e robusta costituzione per sport a livello non
agonistico; il rilascio di quest’ultimo è a discrezione del medico di base e, a
differenza di quanto accade con la visita medico-sportiva, non richiede
l’effettuazione di particolari esami, ma si basa praticamente sulla
conoscenza che il medico di base ha della situazione sanitaria del proprio
assistito. Di fatto il certificato di sana e robusta costituzione è una sorta di
dichiarazione in cui il medico dichiara l’assenza di patologie tali da rendere
pericolosa una generica attività fisica; tale certificato non è vincolato a
specifiche attività sportive e ha una validità annuale; spesso viene richiesto,
per fini assicurativi, ai frequentatori di palestre, piscine o centri di fitness.
Il rilascio del certificato di attività agonistica può essere effettuato da
diverse strutture nelle quali operi un medico specialista in medicina dello
sport (A.S.L., centri pubblici non A.S.L., centri privati convenzionati o
accreditati, specialisti convenzionati o accreditati). Sono numerosi gli
accertamenti che vengono effettuati durante una visita per il rilascio del
certificato di attività agonistica, fra questi voglio ricordare la visita medica,
la spirometria, l’esame delle urine e gli elettrocardiogrammi a riposo e dopo
step-test.
Il peso corretto
Se l’idoneità all’attività agonistica può essere verificata soltanto previa
visita specialistica, la verifica della correttezza del proprio peso può essere
fatta in prima persona controllando il proprio indice di massa corporea
(IMC) attraverso un calcolo semplicissimo:
Per un uomo l’indice di massa corporea deve essere inferiore a 27, mentre
per una donna deve essere inferiore a 25. Se questi limiti vengono superati è
necessario adottare un regime alimentare a fini dimagranti e ricorrere,
perlomeno inizialmente, a sport meno traumatici della corsa, per esempio il
walking o il fitwalking.
Perché il peso per un runner è un parametro molto importante?
Sostanzialmente per due motivi: il primo è relativo all’aspetto salutistico, il
secondo concerne invece l’aspetto prestativo.
Forse l’affermazione seguente potrà stupire molti, ma è certo che
TABELLA 1.1
IMC e compatibilità del peso con la distanza di corsa
----------
Indice di massa corporea (IMC) > Descrizione
• Inferiore a 22 (20) > Peso ottimale
• Inferiore a 23 (21) > Peso compatibile con un chilometraggio massimo
settimanale fino a 80 km e gare fino alla mezza maratona (compresa,
maratona quindi esclusa)
• Inferiore a 25 (23) > Peso compatibile con un chilometraggio massimo
settimanale fino a 60 km, uscite massimo di un’ora e gare fino ai 10000 m
• Inferiore a 27 (25) > Peso compatibile solo con il jogging, uscite
massimo di 6-8 km
----------
•• musica
•• paesaggio e natura
•• variazione dei percorsi.
Il trait d’union fra di esse (che spiega perché queste strategie non sono
alla lunga vincenti) è che sono tipiche dei jogger, mentre nessun runner le
usa comunemente perché danno della corsa una dimensione tutto sommata
riduttiva. Per non annoiarsi occorre cioè dare alla corsa una dimensione
prioritaria.
A molti runner capita di gareggiare in mezzo a paesaggi molto belli, ma di
solito non li apprezzano più di tanto, perché magari sono concentrati sulla
sola maglietta dell’amico che li precede, sul sentiero che porta in cima a
una collina ecc. Molti penseranno che l’aspetto agonistico non possa essere
consigliato a un principiante. Ciò è vero fino a un certo punto.
Analizziamo gli errori tipici del principiante:
programma per principianti -> obbiettivo -> fatica -> prestazione ->
gratificazione dalla prestazione.
Solo una percentuale molto piccola della popolazione non vi riesce e chi
non vi riesce non può essere definito sano. Quindi, se si è sani, non
arrendiamoci agli inevitabili dolorini da adattamento; con l’allenamento e la
continuità finiranno per sparire. I dolori da adattamento, tra l’altro, non
sono un’esclusiva dei principianti, ma possono colpire anche atleti più
navigati che sono stati fermi o coloro che arrivano alla corsa da altre
tipologie di sport. Esistono diverse strategie per superare il problema, si può
per esempio, nelle prime fasi del nostro percorso, evitare di correre due
giorni di seguito oppure si possono alternare allenamenti di corsa a sedute
di cammino (queste ultime dovrebbero essere piuttosto lunghe) o, ancora,
abbinare alla corsa un allenamento in palestra; in quest’ultimo caso,
paradossalmente, non si tratta tanto di rinforzare i muscoli quanto di
abituare tendini e articolazioni a sopportare carichi maggiori rispetto a
quelli della corsa di resistenza (per la quale la forza non è poi così
fondamentale).
1. Il runner ha un infortunio.
2. Il suo umore si deprime perché non comprende che gli infortuni li
hanno anche i campioni, ma che per lui, che campione non è, il danno non
può essere cosmico.
3. Pur essendo relativamente giovane, non comprende che, ai fini della
salute, stare fermi il giusto periodo di tempo non cambia nulla. Teme per lo
stato di forma o per l’appuntamento che rischia di saltare. Questo con la
salute non c’entra nulla e fra l’altro indica una dipendenza dal suo oggetto
d’amore che rischia di diventare una droga.
4. Per uscire dal tunnel depressivo, si concede una speranza: “Okay, ho
sbagliato. Per essere immortali occorre diventare maniaci della prevenzione
e fare tutto al meglio”.
5. Entra in una spirale ipocondriaca con decine di paia di scarpe,
radiografie, ecografie, TAC, risonanze, esami della postura, plantari, sedute
di potenziamento infinite, stretching per diverse ore al giorno e chi più ne
ha più ne metta, fino ad arrivare a viaggi periodici a Lourdes. Si noti che la
prevenzione è molto saggia, ma solo se prima si sono accettati i propri
limiti.
6. Non vuole accettare il concetto che un infortunio può anche
cronicizzarsi. Ognuno ha il proprio tallone d’Achille, ma l’immortale non
vuole accettare questo discorso. Anziché accettare due o tre ricadute
all’anno e imparare a gestirle al meglio, vuole negare la patologia,
arrivando a lasciare lo sport perché “così non si può andare avanti” (due o
tre stop di 15 giorni in un anno).
Gli errori da non commettere
Vediamo adesso quali sono gli errori fisiologici dell’immortale.
L’immortale non ha la comprensione di alcuni fondamentali concetti di
fisiologia sportiva:
Alcune precisazioni:
Poiché esistono profonde differenze fra uno sport e l’altro, è difficile dare
un’indicazione generale su quando e quanto siano utili gli integratori nel
recupero e quindi nell’allenamento. In linea di massima si può affermare
che gli integratori servono per recuperare meglio se:
•• lo sforzo è superiore ai 90’
•• il numero di ore settimanali di attività fisica effettiva è superiore alle sei
ore.
Integratori: quando non funzionano
Moltissimi farmaci e integratori alimentari non funzionano, soprattutto
quelli che dovrebbero risolvere piccole patologie o lievi carenze.
Nonostante la martellante pubblicità, ormai chi crede ancora ciecamente
nella potenza degli integratori (sia per lo sport sia per la vita normale) è
simile alla massaia che vent’anni fa credeva alla potenza del prodotto per
lavare i pavimenti perché vedeva in televisione la sua collega che puliva
senza fatica un pavimento sporcato ad hoc con un bel centimetro di polvere
e schifezze varie.
Per comprendere meglio questi concetti possiamo ricorrere al paradosso
dell’aspirante campione. È abbastanza facile trovare, a livello giovanile, un
atleta di diciotto anni in grado di correre i 1000 m in 2’40” senza che questi
abbia mai fatto uso di integrazione alimentare o di supporti per il
miglioramento della prestazione. A questo punto considerando tutti gli
articoli trovati in letteratura, il ragazzo potrebbe ragionare così: con gli
aminoacidi a catena ramificata guadagno 3”, con la creatina 5”, con
l’inosina 1”, con la carnitina 3”, con il bicarbonato 2”, con l’OKG o la
glutammina 2”, con il ginseng 2”, con la pappa reale 1”, con l’integrazione
vitaminica corretta 3”, con gli antiossidanti, i minerali e il coenzima Q10
4”: in totale in un mese d’integrazione si guadagnano 26”, cioè scendo a
2’14”. Considerando i benefici dell’elettrostimolazione e del potenziamento
muscolare, il cambio d’allenatore e di allenamenti (un allenatore nazionale
deve pur valere di più rispetto al mio professore di scuola...), l’ultimo
modello di scarpe chiodate ecc. guadagno ancora almeno 10”. Crescendo e
maturando dovrei guadagnare in un anno almeno 4”: è ormai certo che
l’anno prossimo correrò i mille in meno di due minuti, abbattendo di oltre
dieci secondi il record del mondo!
La cosa vale anche per tutti quegli integratori orientati a persone
“normali”: dalle vitamine che con dosi ridicole dovrebbero contrastare
l’invecchiamento, al ginkgo biloba che dovrebbe preservare la lucidità
mentale (ma diverse ricerche lo considerano poco più dell’acqua fresca),
agli integratori per alzare il tono dell’umore (come se la depressione anche
lieve fosse un qualcosa che si può curare con le pastiglie di iperico che si
trovano al supermercato) ecc.
Come integrare?
Negli sportivi over 35 è possibile per esempio considerare l’impiego di:
•• un multivitaminico;
•• antiossidanti come vitamina C e vitamina E (i più semplici e i più
efficaci come costo/prestazioni);
•• aminoacidi ramificati nel caso di chilometraggi sensibili (ovvero
singole sedute di allenamento superiori ai 20 km);
•• glucosamina nei casi di artrosi;
•• ferro, calcio, magnesio nei casi di carenza accertata.
Per gli aminoacidi ramificati (ma vale anche per gli omega 3), se la dose è
paragonabile a quella assunta con la normale alimentazione perché usare le
pillole?
Molti integratori sono venduti come tali per aggirare i problemi di una
prescrizione medica. Spesso le dosi che vengono proposte sono
decisamente insufficienti per ottenere una qualunque azione significativa.
Prendiamo il caso di un multivitaminico che contenga 30 mg di vitamina C
nella dose giornaliera consigliata dal produttore. Un’arancia ne contiene il
doppio! Non è preferibile utilizzare l’arancia?
È anche possibile arrivare a un’integrazione mirata ricorrendo alla
cosiddetta soluzione nutraceutica, locuzione con la quale si vuole indicare
un’integrazione alimentare ad alto dosaggio con l’uso preferenziale di
determinati alimenti; infatti, grazie ai progressi dell’alimentazione e
all’arricchimento dei cibi, è possibile effettuare con alimenti preferenziali
(intelligenti) un’integrazione ad alto dosaggio (noto anche come dosaggio
americano, per differenziarlo da quello europeo in cui le RDA, ovvero le
dosi giornaliere raccomandate, sono decisamente più basse) di quasi tutte le
vitamine, E esclusa.
In altri termini, quando parliamo di integrazione alimentare abbiamo due
possibilità:
Anni fa, l’allora campione del mondo di scacchi, Anatolj Karpov, doveva
tenere una presentazione in uno dei migliori Club italiani. Arrivai molto
presto e lo trovai a un tavolo da gioco, con una decina di persone che lo
osservavano. Aveva in mano un libro sui finali e stava analizzando sulla
scacchiera una posizione che il libro riportava nelle prime pagine.
Dopo un po’, qualcuno gli chiese perché analizzasse un finale da un libro
che probabilmente conosceva a memoria. Karpov rimase con un pedone in
mano, a mezz’aria, rifletté e poi rispose: “Chissà, si può sempre scoprire
qualcosa…”.
I libri
Ovviamente non esistono solo le riviste, ma anche molti libri interessanti
che trattano l’argomento. La cosa importante è riuscire a formarsi le basi e
per farlo è consigliabile studiare su testi rigorosi. In Italia praticamente con
tali caratteristiche ci sono solo testi a orientamento universitario, il più delle
volte complessi (testi che comunque può valere la pena di provare a usare).
Negli Stati Uniti per esempio la situazione è molto diversa, in quel Paese
infatti esistono testi molto speciali, le cosiddette bibbie (bibles o complete
handbooks, espressione quest’ultima che nella nostra lingua potremmo
rendere efficacemente con Il manuale completo di...); sostanzialmente si
tratta di testi dal principiante all’agonista, per chi inizia o per il
professionista, scritti con linguaggio pratico, ma rigoroso. Dopo una loro
lettura (ammesso che si riesca a terminarla!) si diventa superesperti della
materia. Per quanto riguarda la corsa per esempio c’è un testo
interessantissimo Lore of running, scritto da Tim D. Noakes). Testi del
genere sono consigliabili per farsi le basi, poi si può passare a libri
universitari italiani o a Internet se uno vuole ulteriormente dettagliare
l’informazione o mantenerla aggiornata.
Il limite di simili opere è che sono in inglese e questo può rappresentare
un ostacolo per molti. Per questo il lavoro del mio sito degli ultimi 10 anni
è stato quello di fornire agli amanti della corsa una serie completa di opere
di cui questo testo è la ciliegina sulla torta. Ecco un breve elenco.
•• quando è approssimato;
•• quando ci impedisce di conoscerci.
Il punto 1 è per esempio mostrato dal calcolo della massa grassa o delle
calorie bruciate a partire da peso, sesso, altezza, frequenza cardiaca ecc.
Molto spesso sarebbero sufficienti una calcolatrice e una formula desunta
da un buon libro di fisiologia dello sport per avere i dati con la stessa
approssimazione. Il danno prodotto dalla strumentazione è quello di far
credere al soggetto di avere fra le mani un dato preciso. Molti piani di
dimagrimento falliscono perché le cyclette o i tapis roulant (o treadmill che
dir si voglia) che vengono utilizzati forniscono un calcolo delle calorie
decisamente sovrastimato.
Il punto 2 lo si riscontra per esempio nelle unità GPS più scadenti.
Il punto 3 è tipico di una simulazione al chiuso di un’attività esterna.
Esempio classico sono i dati poco realistici relativi a chilometraggio e
velocità che vengono forniti da tapis roulant e bike. Al produttore interessa
solo marginalmente verificare che ci sia rispondenza con dati reali, anzi
spesso un piccolo aiuto può gratificare il soggetto. Così ci sono donne
sedentarie non allenate che vanno a 30 km/h sulla cyclette o sedentari che
corrono a 15 km/h sul tappeto con facilità disarmante. Per contro ci sono
anche atleti di un certo spessore che rilevano una difficoltà mostruosa a
ottenere sulla strumentazione da palestra gli stessi risultati che ottengono in
strada.
Negativa è anche la situazione in cui la strumentazione dà dati precisi che
in qualche modo però aiutano la pigrizia del soggetto a evitare la fatica di
capirsi. Esempio classico è il cardiofrequenzimetro. Se il dato rilevato è
esatto, spesso l’uso che se ne fa è sbagliato:
1. Fondo lento
2. Fondo progressivo (medio)
3. Fondo lento
4. Fondo progressivo (medio)
con durate della sessione non inferiori ai 40’, riscaldamento escluso. Le
velocità e le modalità di esecuzione di medio e progressivo sono state
trattate nel paragrafo precedente.
Ora che il nostro principiante “sa” correre il medio, è necessario che
impari a correre le ripetute. In modo da apprendere poi con l’esperienza sul
campo tutta una serie di allenamenti basati sulle variazioni di ritmo. La
seconda fase è perciò dedicata alle ripetute con recupero da fermo.
Seconda tappa: le ripetute con recupero da fermo - Come si può
spiegare a un principiante l’essenza delle ripetute? Semplice: facendogli
fare un’esperienza diretta, in modo autodidattico. Ho verificato più volte
che runner con anni di anzianità alle spalle non sanno correre le ripetute
semplicemente perché non le hanno mai capite, seguendo in maniera
pappagallesca contorte tabelle d’allenamento.
Innanzitutto fissiamo la distanza: ripetute troppo brevi sono molto
pericolose per il nostro principiante che può infortunarsi interpretandole
come gare di velocità; d’altro canto, ripetute troppo lunghe sono
improponibili, visto l’allenamento del soggetto. La ripetuta classica resta
pertanto quella sui 1000 m. Fra l’altro, essa ha anche il vantaggio di far
capire chiaramente all’atleta cosa significano i tempi al km con i quali
necessariamente si scontrerà durante il prosieguo della sua carriera atletica.
Il tempo di recupero può andare dai 2’ ai 5’ e il numero di ripetizioni può
andare da 4 a 10.
A questo punto ci si potrebbe aspettare una tabella con la progressione
delle ripetute nel tempo (per acculturare l’atleta). Invece lo schema è molto
generico; la settimana tipo (4 allenamenti, chi si allena di più inserirà degli
altri lenti) è così congegnata:
1. Fondo lento
2. Ripetute
3. Fondo lento
4. Fondo progressivo (medio)
Fra questi due scenari ce ne sono altri intermedi. L’atleta deve studiarli
attentamente finché non sarà in grado di prevedere cosa succederà. Infatti la
fase sarà superata quando, scelti a caso il numero di ripetizioni e il tempo
del recupero, l’atleta sarà in grado di prevedere a che velocità correrà
“quella” seduta di ripetute.
Una nota importante: la seduta è valida se fra il 1000 m più veloce e
quello più lento non ci sono più di 15”.
Per dare una traccia posso indicare che un atleta che corre (dalla fase
precedente) i 10000 m in 52’ correrà 4x1000 m con il recupero di 2’ fra i
4’40” e i 4’50”/km. Si deve tenere conto che:
1. Fondo lento
2. Ripetute con recupero di corsa
3. Fondo lento
4. Fondo progressivo (medio)
Con attività di gestione voglio riferirmi a tutte quelle attività che non sono
connesse con il lavoro o con i nostri oggetti d’amore. In altri termini, tutto
ciò che serve per vivere, ma è neutro nei confronti della nostra qualità della
vita.
Va subito precisato che un’attività può essere di gestione per un individuo
e un oggetto d’amore per un’altro. Per esempio, cucinare o curare il
giardino per alcuni possono essere solo noiose seccature perditempo,
mentre per altri possono rappresentare vere e proprie passioni.
È evidente che molte attività di gestione sono comunque indispensabili,
ma proprio perché neutre non devono occupare più del necessario. Perché
accade il contrario?
In alcune persone le cause sono rappresentate dai “dogmi”, ovvero
imposizioni interiori senza giustificazione pienamente cosciente e razionale.
“Prima di un’interrogazione si deve studiare molto”, “La casa deve essere
sempre in ordine”, “L’erba del giardino deve essere sempre tagliata”,
“L’auto deve essere sempre pulita” ecc.
In altre persone, una vita vuota tende a utilizzare le attività di gestione per
riempirla. Così alla fine non resta più tempo per cose più utili come lo
sport.
Spesso queste cause si sinergizzano, rinforzandosi fino a soffocare la vita
del soggetto.
La soluzione - Proviamo a immaginare una situazione in cui ci viene
chiesto: “quando metterai in ordine l’armadio in soffitta, buttando le cose
vecchie?”.
Prendiamoci dieci secondi per rispondere, cercando qualcosa di
equivalente, se non si ha un armadio in soffitta da sistemare.
Fatto? È sperabile non aver risposto: “al più presto” oppure “al massimo
fra qualche giorno” (presenza di un dogma dell’ordine: si deve ordinare
l’armadio); anche la risposta “nel prossimo week-end” o “nelle prossime
ferie” è semidisastrosa. Perché queste risposte non vanno?
Perché prescindono dal concetto di priorità. La strategia giusta consiste
ogni giorno nello stabilire una lista di priorità cioè un elenco delle cose da
fare in base all’importanza nella nostra qualità della vita.
Usando la lista di priorità si potrà scoprire per esempio che certe persone
hanno per noi una priorità bassissima e che avevamo con loro relazioni solo
perché “dovevamo”. Le relazioni umane diventano così spontanee e
sincere: non si coltivano momenti con persone delle quali tutto sommato
non ci interessa nulla. Mentre per un vero amico c’è sempre tempo.
Analogamente si ridimensionano certi dogmi, per esempio l’ordine e la
pulizia della casa che, anziché ordinatissima, brillante e splendente, deve
essere semplicemente “vivibile”.
La risposta alla domanda precedente è “non so, può darsi mai” (migliore
della pur buona “quando avrò tempo”). Infatti, se non mi serve qualcosa che
c’è nel vecchio armadio, perché sistemarlo, visto che nel frattempo potrei
leggere un libro (se amo la lettura) oppure andare a correre?
La lista di priorità va aiutata nel senso che occorre studiare anche la
strategia che non alzi la priorità di attività di gestione francamente
marginali. Un esempio banale, se non si domiciliano le bollette bancarie e a
ogni scadenza dobbiamo recarci in banca dilapidando un sacco di tempo,
non stiamo certo aiutando la nostra lista di priorità. Singolare il fatto che i
problemi si attirino a vicenda: molte persone non domiciliano le bollette
perché non sono in grado di gestire i propri risparmi e sapere se il saldo del
proprio conto corrente è in rosso o meno!
Chi vuole approfondire l’argomento, può consultare la pagina
http://www.albanesi.it/Mente/gestione.htm del mio sito Internet. Ci si
ricordi comunque che dire: “non ho tempo per fare sport” è solo un segno di
una cattiva organizzazione della propria vita.
Non saltare mai la fase di riscaldamento
Dopo la breve, ma assolutamente necessaria riflessione di carattere
esistenziale affrontata nella regola precedente, possiamo tornare a parlare
più specificamente di corsa.
L’argomento che viene trattato, il riscaldamento, è estremamente
importante; esso infatti è una componente basilare dell’allenamento.
Incredibilmente, molti runner, anche quelli più navigati ed esperti, lo
considerano un qualcosa in più, magari interessante, ma certamente non
indispensabile. Niente di più sbagliato: nessun runner che possa dirsi tale
può rinunciare alla fase di riscaldamento. Non importa il tipo di seduta; che
si debba affrontare un fondo lento, un lunghissimo, un progressivo oppure
una seduta di ripetute, poco cambia: il riscaldamento è un must.
Sostanzialmente il riscaldamento consta di due fasi: quella della corsa
blanda e quella degli allunghi. Lo scopo principale della prima è quello di
attivare i meccanismi energetici e di iniziare la predisposizione allo sforzo
dell’apparato locomotore. Scopo degli allunghi, che in realtà sono il vero e
proprio riscaldamento, è, come ho già ricordato nel sottoparagrafo
Terminologie dei programmi di allenamento, quello di preparare il corpo a
una reazione pressoché immediata agli stimoli dell’allenamento.
Il fatto che il riscaldamento debba essere sempre eseguito a prescindere
dalla tipologia della seduta non significa che esso debba essere sempre
condotto nello stesso modo; una prima regola che si può dare a livello
generale è la seguente: quanto più la seduta di allenamento è impegnativa,
tanto più il riscaldamento deve essere svolto con cura.
Gli atleti evoluti personalizzano il riscaldamento a seconda
dell’allenamento che andranno a svolgere; nel caso del principiante si può
utilizzare un riscaldamento standard costituito da 15’ di corsa molto lenta
seguita da una serie di cinque allunghi; i primi due di circa 80 m ed eseguiti
a un ritmo abbastanza lento e gli ultimi tre più brevi (circa 50 m) eseguiti a
un ritmo più veloce dei precedenti. Il recupero fra un allungo e l’altro è
costituito da un blando ritorno al passo.
E lo stretching? Forse la risposta deluderà qualcuno, ma lo stretching può
essere evitato; molti studi infatti hanno evidenziato che, al contrario di
quanto da molti ritenuto, lo stretching non solo non è in grado di prevenire
gli infortuni, ma, al contrario, potrebbe contribuire a innescarli. Solo chi sa
eseguire lo stretching in modo corretto può inserirlo nella fase di
riscaldamento; se la conoscenza su questo argomento è approssimativa, è
consigliabile rinunciarvi.
Lo stretching diventa uno strumento fondamentale per coloro che si
trovano in una fase di riabilitazione da interventi o blocchi della mobilità, è
molto importante nella fase del post-infortunio, è sconsigliato nella fase
acuta dell’infortunio ed è consigliato al runner che ricerca la prestazione
ottimale, ma solo dopo averne compresa esattamente l’esecuzione. I jogger
o i runner che non ricercano la prestazione “al secondo” dovrebbero evitarlo
e orientarsi al solo riscaldamento costituito da corsa blanda e allunghi.
Approfondimenti teorici e pratici sullo stretching sono reperibili in [1] e
nel mio sito Internet di riferimento http:// www.albanesi.it (Sezione Sport,
sottosezione Corsa/Esercizi) dove il lettore troverà anche una serie di 12
esercizi di base che possono essere utili a molti runner.
Anche il riposo è una componente dell’allenamento
Questa quattordicesima regola è importantissima per tutti runner, ma in
particolar modo per coloro che hanno da poco intrapreso la pratica della
corsa. Il riposo per un runner è indispensabile e la sua importanza,
nell’ottica dell’allenamento, non deve essere assolutamente sminuita.
In realtà questo argomento è già stato trattato nella parte dedicata alla
prima regola (vedasi Capitolo I, regola Che tu sia un principiante o un
runner evoluto agisci con gradualità, paragrafo Il recupero), qui mi limiterò
a un breve approfondimento.
All’inizio di questo capitolo ho evidenziato quanto possa essere
importante, per il runner principiante, seguire un programma
d’allenamento; quest’ultimo, infatti, permette di affinare al meglio la
propria preparazione. Ma i vantaggi nel seguire un programma di
allenamento non finiscono certo qui; grazie a esso infatti saremo in grado di
capire che non è possibile allenarsi in modo proficuo se non riusciamo a
gestire il recupero in modo ottimale. Se è vero che si deve imparare anche a
correre da stanchi, è anche vero che si può essere in grado di farlo solo
dopo aver accumulato una certa esperienza; ignorare questa indicazione può
aumentare i rischi di incorrere in infortuni più o meno seri. È necessario
imparare quindi ad alternare il riposo al gesto sportivo, considerandolo un
modo di fare il pieno di energie in vista della prossima seduta di
allenamento.
Ma come fare a capire quanto dobbiamo riposarci? Quante sedute
conviene inserire nel proprio programma di allenamento?
Per rispondere a queste domande dobbiamo fare innanzitutto riferimento
al celeberrimo studio dell’università di Harvard, studio che dal 1916 al
1950 ha seguito 17.000 soggetti con lo scopo di valutare i benefici
dell’attività fisica. Dallo studio, traslando i risultati alla corsa, si desume
come 40 km settimanali siano da considerarsi il limite minimo per ricavare
dei benefici a livello cardiovascolare (la curva di rischio diminuisce
all’aumentare dell’esercizio fisico praticato e tocca i suoi livelli più bassi
con 6-8 ore di attività fisica settimanale; paradossalmente per un atleta
evoluto il limite sale a 50 km perché in genere corre più velocemente!). A
questo punto, facendo due conti, è facile intuire che per percorrere 40 km
settimanali e avere a disposizione alcuni giorni per recuperare, è necessario
impostare un programma di allenamento che preveda almeno quattro sedute
per settimana, una media quindi di 10 km a seduta. Teoricamente, un carico
di 40 km può essere raggiunto anche con tre allenamenti settimanali, ma tre
sedute da 13-14 km non sono facili da gestire per un principiante e
potrebbero risultare eccessivamente stancanti e difficili da recuperare. Se
decidiamo di aumentare il carico settimanale chilometrico passando, per
esempio, a 60 km settimanali, è consigliabile adottare un programma di
allenamento con cinque sedute settimanali, avremo sì un giorno in meno per
riposare, ma recuperare cinque sedute da 12 km può risultare più facile che
recuperarne quattro da 15 km circa. Non bisogna infine dimenticare che
ogni runner è un caso a parte; a parità di chilometraggio e sedute c’è chi
recupera meglio di altri; non è quindi possibile riferirsi soltanto a dati
numerici, contano molto anche le sensazioni che l’atleta prova e sarebbe
deleterio ignorare, sempre e comunque, i segnali che il nostro corpo ci sta
inviando; con l’esperienza il runner troverà (o dovrebbe trovare) un
equilibrio tra sedute di allenamento attive e giorni di necessario recupero.
Non solo riposo fisico
Il riposo fisico è fondamentale; su questo non ci sono dubbi. Ma anche la
“mente” vuole la sua parte; in alcuni casi infatti il problema non è tanto
fisico, quanto psicologico.
La stanchezza psicologica deriva da errori che il runner commette, spesso
anche inconsapevolmente.
Le motivazioni e gli obiettivi – L’entusiasmo con cui si parte in un
progetto sportivo (come per esempio correre la prima maratona) può
scontrarsi con la dura realtà. Il soggetto non è ancora preparato per un
carico allenante eccessivo oppure per prestazioni troppo al di là del suo
potenziale atletico. La mente si accorge di ciò in base ai segnali che
arrivano dal corpo e pone un veto alla prosecuzione di un progetto assurdo.
Solo runner particolarmente nevrotici lo ignorano e continuano in
programmi di allenamento per loro impossibili arrivando a un vero e
proprio sovrallenamento (vedasi Capitolo II, regola Se sei una persona
sana, fidati del tuo corpo, paragrafo Il sovrallenamento). Questa sorta di
difesa che la mente mette in atto è quella che salva molti runner dal
sovrallenamento. Compare la stanchezza e un senso di frustrazione nel non
riuscire a compiere niente di significativo in campo sportivo. Cosa fare?
Anziché vedere questa situazione come negativa, è produttivo vederla come
positiva, un segnale che indica di ridimensionare i propri obiettivi per
vivere meglio, il vero e unico scopo della pratica sportiva. Essere dei
vincenti nella vita non significa arrivare primi, ma conoscersi a tal punto da
porsi sempre obbiettivi ragionevoli che si possono centrare.
Il gruppo – Spesso chi si allena in gruppo ed è fra i più deboli cade
vittima di periodi di stanchezza. Possiamo definire questo stato come
“sindrome dell’ultimo”. Praticamente ogni allenamento diventa una gara e
alla fine scatta il meccanismo di salvataggio: la mente si ribella a uno stato
di cose che porterebbe il fisico all’esaurimento. Cosa fare? È necessario
ritagliarsi, all’interno del gruppo, allenamenti facili. Per esempio, se i più
veloci fanno quattro giri, l’atleta più debole può farne due oppure tre,
l’importante è arrivare con lo stesso grado di fatica dei primi del gruppo.
Il periodaccio – Ovviamente non c’è solo la corsa nella vita. Difficoltà
sul lavoro, in famiglia o ogni altra preoccupazione possono far scattare il
rifiuto a un ulteriore carico visto in un determinato momento come
stressante (l’allenamento). Cosa fare? Si deve analizzare la propria
situazione con calma e usare lo sport come mezzo distensivo e non
ulteriormente stressante. Si può ridurre la qualità degli allenamenti, magari
allenandosi con un runner più debole. Insomma, la corsa deve essere un
piacere e non un dovere.
Il divertimento – Quale che sia la propria concezione della corsa,
dobbiamo sempre chiederci cos’è che ci diverte. Una volta trovata la
risposta, è necessario pianificare il proprio rapporto con la corsa in modo
che questo quid non manchi mai. Ma attenzione: la motivazione del
divertimento non deve dipendere dagli altri, ma da noi stessi. Risposte
sensate sono: “il senso di libertà”, “il contatto con la natura”, “la scoperta
del mio corpo” ecc. Risposte poco sensate, e per niente consone allo spirito
del correre per vivere meglio, sono: “arrivare primi” o “vincere i premi”.
Poiché non è detto che i due punti siano totalmente indipendenti, non è
ancora chiaro quanto un allenamento ottimale possa preservare dall’atrofia.
Gli studi sono condotti cioè su campioni di popolazione che ovviamente
considerano sedentari, atleti mal allenati e atleti ben allenati, questi ultimi in
percentuale veramente esigua e decrescente con l’età.
Infatti moltissimi altri studi verificano che la curva ottenuta dalla
popolazione è decisamente più pessimistica rispetto a quella ottenuta su
gruppi di soggetti anziani ben allenati.
Per esempio, un altro studio (Frontera, 1988) mostra che con tre mesi di
esercizio (con carico uguale all’80% della forza massima) la forza dei
muscoli estensori della gamba raddoppia in sedentari di età compresa fra i
60 e i 72 anni (mentre l’aumento dei flessori è solo del 7%).
Vi è però un altro studio che ha dato risultati ancor più eclatanti
(Klitgaard, 1990).
Un gruppo di soggetti di 70 anni che aveva mantenuto un allenamento
costante da circa 50 anni (in altri termini: faceva sport dall’età di 20 anni)
mostrava gli stessi parametri di forza del gruppo di controllo della
popolazione di 28 anni!
Altri studi (Fiatarone, 1994) mostrano risultati analoghi per gruppi ancora
più anziani (80 anni). Sembra quindi che i livelli di forza possano
mantenersi a ottimi livelli non solo con l’esercizio in tarda età, ma
soprattutto con la continuità dello stesso.
Ma quali sono i nostri livelli di forza? Com’è possibile rendersi conto se
ne siamo carenti o meno? Esiste un test, che è possibile eseguire in palestra,
grazie al quale è possibile verificare se è opportuno potenziarsi.
Per un certo gruppo muscolare (usando ovviamente la macchina
opportuna) si stabilisce qual è il carico massimo che si riesce a sollevare.
Tale carico viene definito 1R (10R è il carico massimo che si riesce a
sollevare dieci volte). Ovviamente la determinazione dell’1R deve essere
fatta dopo opportuno riscaldamento. Conosciuto tale valore (e recuperato lo
sforzo per ottenerlo), si imposta la macchina al 70% del valore trovato. Se
per esempio il valore dell’1R è 40 kg, si imposta a 28 kg. Si deve verificare
quante ripetizioni si riescono a effettuare con il carico al 70% di 1R.
Se le ripetizioni sono inferiori a 6 si è ancora troppo poco resistenti e
quindi, prima di pensare a un programma di potenziamento è il caso di
migliorare la nostra resistenza e per far questo c’è un solo sistema: correre.
Se le ripetizioni sono comprese fra 6 e 15 si possiede un rapporto corretto
fra resistenza e forza massima.
Se le ripetizioni sono superiori a 15 si è troppo resistenti e si ha una forza
massima troppo scarsa. È il caso in cui un potenziamento basato
sull’incremento della forza massima può essere sicuramente utile.
Se si scopre di essere carenti come forza, si deve capire che il
potenziamento passa attraverso due fasi:
Quello che ti succede accade a tanti, non a caso la vita media di un runner
è attorno ai cinque anni. Molti si stufano della corsa semplicemente perché
non amano quello che fanno e vi sono stati trascinati dai risultati che hanno
ottenuto. Dicendo risultati non parlo di vittorie, di gare ecc., ma di
qualunque gratificazione se ne abbia: i chili persi oppure amici trovati
oppure la sensazione di sconfiggere lo scorrere del tempo per un’efficienza
fisica mai avuta prima. In realtà, dietro a quelli che noi chiamiamo hobby
c’è spesso un immediato riscontro pratico. Un riscontro poco spirituale, e
alla fine effimero. Se vuoi, anche la preoccupazione per la propria salute è
troppo pratica. Ci vuole qualcosa di molto più intimo per continuare per
sempre ad amare qualcosa (e allora un hobby diventa un oggetto d’amore)
…
Faccio molte cose, ma in quello che faccio cerco di metterci un po’ di
spiritualità. A volte parlo con runner che mi snocciolano tempi e gare:
capisco che dureranno poco perché non c’è nulla di intimo in quello che
fanno. Se spiegassi loro che non è che conti correre a 4’/km oppure arrivare
prima di Tizio o di Caio, sono sicuro, non capirebbero. Per esempio, non
capiscono perché gareggi ormai poco rinunciando a premi o a giornate
socializzanti in favore di una corsa nei miei campi, da qui a lì, con il
cronometro che segna un secondo meno di 17’. So benissimo che da qui a lì
non è scientifico, ma è molto più motivante perché “sono contento di farlo”.
Non a caso, nelle mie opere, parlando del fondo progressivo l’ho definito il
miglior allenamento per il wellrunner, cioè colui che corre per vivere
meglio. Parti magari stanco, poi le gambe incominciano a ingranare e alla
fine, magari per un refolo di vento fresco in faccia, ti viene voglia di tirare
l’ultimo mille, al massimo, per scoprire che sai ancora soffrire.
Molti mi hanno accusato di dare scarsa importanza alla spiritualità, ma
non è così. In genere confondono un sentimentalismo che dovrebbe
giustificare anche le azioni più assurde con la vera spiritualità, la profonda
conoscenza di ciò che si vive. Senza conoscenza non c’è spiritualità, quindi
quando c’è confusione (come quando si è accecati dalle passioni) non si
può parlare di spiritualità. Molte persone hanno passione per questo o per
quello, ma non hanno amore. Sicuramente molti runner hanno più passione
di me per la corsa, non mancano una gara e parlano solo di corsa, ma spesso
sono i primi a mollare perché la passione è effimera, l’amore è eterno. Tu
dici “mi alleno senza passione”, io non corro per passione, corro e basta;
quando ho voluto vedere i miei limiti mi sono allenato come un
professionista, oggi corro e basta, magari sfidando in un’impossibile gara
una bicicletta che trovo sul percorso oppure andando pianissimo con un
amico che ha appena cominciato a fare sport. Ma amo correre. C’è un timer
interno che mi porta a farlo. Come in tutte le cose che ho fatto e che faccio
c’è una profonda gratitudine per quello che mi hanno dato e le faccio anche
per dir loro grazie di avermi fatto diventare come sono.
Tu mi chiedi come ne uscirei, ma forse non posso risponderti perché io
non ci sarei mai entrato. In fondo mollare ciò che si è amato è incominciare
a smettere di amare la vita e io non penso proprio di farlo. Se poi il mille
finale ti è venuto lentissimo che importanza ha? Ci ridi sopra e ti riprometti
di riprovarci il prossimo giorno che il sole ti spingerà ancora al massimo le
tue gambe.
Nessun premio, nessun applauso, solo la voglia di vivere.
TABELLA 4.1
Perdita in anni di vita dei principali fattori di rischio
----------
Fattore di rischio > Perdita di anni
• Fumo > 12,2
• Ipertensione > 10,9
• Alcol > 9,2
• Ipercolesterolemia > 7,6
• Sovrappeso > 7,4
• Ridotto consumo di frutta e verdura > 3,9
• Sedentarietà > 3,3
----------
•• non fuma;
•• ha una pressione “normale” (150/90 mmHg; 150 dovrebbe essere
considerata una pressione comunque elevata);
•• beve due bicchieri di vino a pasto e un liquore alla sera (l’equivalente di
un litro di vino al giorno);
•• ha il colesterolo cattivo alto e quello buono basso (270-30);
•• è in sovrappeso (per esempio di 10 kg);
•• è sedentario.
•• non fuma;
•• ha una pressione “normale” (150/80 mmHg);
•• non beve o beve saltuariamente;
•• ha il colesterolo nella norma;
•• è in sovrappeso (per esempio 10 kg);
•• è sedentario.
Per molti il soggetto ha una vita sana, è in sovrappeso “per l’età”. Peccato
che abbia perso comunque 10,7 anni di vita. È il classico soggetto che
morirà attorno agli 80 anni, dopo aver passato gli ultimi 10-15 anni della
sua esistenza “da vecchio” con acciacchi vari.
Questi dati dovrebbero far riflettere sull’importanza dei fattori di rischio,
ma non risolvono ancora il problema di definire un buon stile di vita. Infatti
alcuni fattori (come l’ipertensione o l’ipercolesterolemia) non si riferiscono
a comportamenti del soggetto e una piccola parte della popolazione (non
pensate subito di essere fra questi!) è comunque geneticamente predisposta.
È inoltre importante notare che l’aspetto psicologico ha una rilevanza
fondamentale non tanto sull’aspettativa di vita quanto su moltissime
patologie che, se non fatali, certo sono esistenzialmente invalidanti.
Purtroppo l’aspetto psicologico non è quantificabile come i precedenti
fattori di rischio e la sua valutazione è lasciata al soggetto.
Il soggetto ha un buon stile di vita (Albanesi, 2006) se:
•• non fuma;
•• non beve abitualmente alcolici;
•• non fa uso di droghe e/o di sostanze illecite;
•• non è in sovrappeso;
•• non è sedentario;
•• ha un’alimentazione varia ed equilibrata;
•• esegue controlli periodici di prevenzione;
•• non si sente stressato;
•• non si sente depresso;
•• non si sente ansioso.
Note - Chi beve abitualmente alcolici a pasto non riesce a stare sotto la
soglia etanolica di sicurezza. Limitarsi a un solo bicchiere a pasto (senza
liquori extra e senza mai sforare) è una condizione teorica, ma non pratica.
Il sovrappeso deve essere calcolato con indici di magrezza moderni
(vedasi Capitolo I, paragrafo Correre sì, ma quanto? Tabella 1.1).
Alimentazione varia ed equilibrata non significa soltanto la presenza della
frutta e della verdura nei propri pasti, ma anche una varietà globale
nell’impiego dei cibi.
Lo stress, l’ansia e la depressione sono in gran parte dei casi motivati da
un errato percorso psicologico, da una cattiva comprensione del mondo e di
sé. L’impiego di farmaci per combatterli non può riportare a “buono” lo
stile di vita del soggetto.
Ovvio che lo stile di vita non è buono (cioè il soggetto vive male) se uno
solo dei punti sopraccitati non è soddisfatto. Può sembrare una condizione
molto restrittiva, ma è coerente con la logica e con la visione della vita di
chi cerca il meglio. Infatti, se si accetta la definizione di “buon stile di vita”
come AND logico di dieci condizioni (devono essere soddisfatte tutte), il
negato della proposizione (non buono, cioè cattivo stile di vita) è l’OR delle
dieci condizioni negate (basta che sia soddisfatta una sola delle negate).
•• capire le cause;
•• conoscere i meccanismi con cui le cause producono i loro effetti (vedasi
[6], Capitolo 5, sottocapitolo Perché si ingrassa).
1. l’attività fisica
2. la coscienza alimentare, cioè la consapevolezza di cosa e quanto
mangiare.
Chi mi chiede quanto potrà ancora migliorare deve tener conto anche
della “nevrosi” con cui vive la corsa e le relative motivazioni. Quindi
compatibilmente con il suo carattere, il suo stile di vita ecc. magari 3h15’ in
maratona è il suo limite fisiologico. Se poi impazzisce, si allena 8-10 volte
alla settimana, impara a negare dolore e sofferenza come un fachiro indiano
ecc. potrebbe correrla anche in 3h10’ o 3h. Ma, francamente, non so se ne
vale la pena.
Quando ci si fa il “domandone”, occorre contemporaneamente chiedersi
se la corsa ci piace a prescindere dalla curiosità di scoprire sin dove si
arriva e dalla vanità di raggiungere degli obbiettivi. Se la risposta è
negativa, è meglio smettere subito.
Il wellrunness
Non posso chiudere questa mia opera non parlando del wellrunness, un
termine che ho coniato per definire in modo immediato il correre per vivere
meglio.
Wellrunness® è un marchio che ho registrato dopo essermi accorto che
ognuno degli addetti ai lavori intendeva la corsa a proprio modo. Le strade
che portano la gente alla corsa sono molte e molto diverse fra loro. Negli
anni mi sono accorto che chi ottiene i maggiori benefici dalla corsa è quella
categoria di persone in cui la cui motivazione è l’amore profondo e
disinteressato che nutrono nei confronti di questo bellissimo sport.
Possiamo quindi definire il wellrunness nel modo seguente:
la pratica della corsa con lo scopo di correre fino alla fine dei propri
giorni.
Il cronometro
Il termine cronometro (dal greco chronos, tempo e metron, misura) indica,
nel linguaggio comune, un particolare tipo di orologio che, oltre alle
normali funzioni, consente di rilevare la durata di un determinato
avvenimento con particolare precisione. Un orologio può essere definito
cronometro a condizione che sia conforme a determinati requisiti stabiliti
dal COSC (Contrôle Officiel Suisse des Chronomètres), altrimenti è più
corretto parlare di cronografo o di cronoscopio.
Uno degli usi più tipici del cronometro è la misurazione del tempo negli
avvenimenti sportivi. In Italia esiste, fin dal 1921, la FICR (Federazione
Italiana Cronometristi) la cui presenza è fondamentale nelle manifestazioni
di discipline sportive in cui è il tempo a determinare la classifica finale.
Al di là degli aspetti storici o sportivi ufficiali, a noi interessa sottolineare
l’importanza che il cronometro riveste per il runner.
Il cronometro serve? – Abbiamo già visto quanto sia importante per il
runner fissare degli obiettivi (vedasi Capitolo I, regola Poniti obiettivi
sfidanti, ma realistici). Si consideri poi che il solo fatto di porsi un
obiettivo, qualunque esso sia, condiziona l’allenamento, allenamento che
generalmente può avere fra i suoi scopi quello di arrivare alla massima
prestazione possibile. In quest’ottica, è fondamentale capire che
per arrivare alla massima prestazione è necessario che l’atleta sappia
gestire il ritmo ottimale.
Il GPS
Il GPS (acronimo dei termini Global Positioning System, Sistema di
Posizionamento Globale) è un sistema di posizionamento su base satellitare
nato negli anni ‘70 negli Stati Uniti d’America per scopi esclusivamente
militari; il sistema GPS (o, più correttamente, NAVSTAR GPS, NAVigation
Satellite Time And Ranging Global Positioning System) fu creato
dall’USDOD, il Dipartimento della Difesa Statunitense.
I ricevitori GPS ricevono i segnali provenienti da alcuni satelliti presenti
nella propria parte di emisfero; il ricevitore scarta quelli che si trovano
troppo in basso all’orizzonte, dopodiché attua una selezione dei segnali
migliori. A questo punto viene spontaneo chiedersi come sia possibile che il
ricevitore riesca a “sapere” dov’è localizzato; ci riesce grazie a un calcolo
che è noto come trilaterazione; per comprendere il concetto di trilaterazione
può essere utile un esempio “pratico”. Ci troviamo in un luogo a noi
totalmente sconosciuto; chiediamo quindi a Tizio dove ci troviamo; ci viene
risposto che siamo a 625 km da A; ciò ci aiuta molto relativamente;
poniamo quindi a Caio la stessa domanda; ci viene risposto che ci troviamo
a 690 km da B; non è moltissimo, ma la visione comincia a schiarirsi,
infatti, se combiniamo entrambe le informazioni si ottiene un’intersezione
tra due aree circolari; si può quindi supporre di trovarsi in uno dei due punti
in cui le aree si intersecano; a questo punto interpelliamo Sempronio che ci
risponde che ci troviamo a 615 km da C; a questo punto, intersecando la
terza area possiamo escludere una delle due intersezioni precedenti perché
la terza area si intersecherà soltanto con una delle due intersezioni; quello
riportato è un esempio di trilaterazione a due dimensioni; la trilaterazione a
tre dimensioni, quella utilizzata dal GPS, è concettualmente simile, la
differenza sostanziale è che non si devono prendere in considerazione dei
cerchi, ma delle sfere. Grazie alla trilaterazione a tre dimensioni il GPS è in
grado di calcolare velocemente la propria posizione; attraverso la
combinazione delle informazioni che il ricevitore GPS ottiene da tre
satelliti, esso è in grado quindi di valutare longitudine e latitudine; se
aggiungiamo le informazioni provenienti da un quarto satellite, il
dispositivo GPS è in grado di fornire i dati relativi all’altitudine.
GPS e running
Nell’ambito del running il GPS viene soprattutto utilizzato per misurare le
distanze, anche se i dati che può fornire contemplano molte altre grandezze
legate allo spostamento del podista. Cerchiamo adesso, per chiarirci
ulteriormente le idee, di applicare alcune informazioni che abbiamo trattato
nei paragrafi precedenti. Sappiamo che un’unità GPS riceve i dati di
posizione da alcuni satelliti dopodiché avviene un campionamento di detti
dati; il campionamento avviene ogni n secondi. In questa semplice
descrizione ci sono i limiti e i vantaggi del sistema.
Infatti gli errori possibili sono sostanzialmente due:
a) non arriva il segnale del satellite. Ovvio che il dato di posizione viene a
mancare. Ciò avviene, similmente a come accade per i telefonini, quando
l’unità GPS “non prende” il segnale, in particolare quando “non ha cielo”.
Si deve notare che (per il punto b sottostante), se percorro una galleria
rettilinea, l’unità campionerà prima e dopo la galleria, congiungerà i punti e
l’errore sarà nullo. Se invece la galleria è piena di curve, congiungendo i
punti di inizio e di fine, si avrà un errore notevole.
b) Il campionamento è insufficiente. Ciò si verifica quando il percorso
non è rettilineo e pieno di curve. Supponiamo che il tratto del percorso sia
rappresentato dai due lati AB e BC del triangolo:
Il cardiofrequenzimetro
Il cardiofrequenzimetro è uno strumento noto a molti runner esperti e che
viene spesso consigliato anche a chi decide di iniziare a correre. Purtroppo è
uno strumento che molte volte viene utilizzato in modo poco efficace. A
differenza di altri tipi di strumentazione (per esempio gli elettrostimolatori,
il cui ruolo nell’allenamento deve essere decisamente ridimensionato) il
cardiofrequenzimetro può essere impiegato con qualche successo. Occorre
però rilevare che la scelta di usarlo o no deve essere prettamente
individuale. Lo scopo di questo paragrafo è proprio quello di chiarire l’uso
corretto dello strumento.
I limiti del cardiofrequenzimetro
Francamente non sono mai stato favorevole a tarare gli allenamenti in
base alla frequenza cardiaca. I campioni non lo fanno, si servono dei tempi.
Esistono alcuni problemi irresolubili.
La frequenza cardiaca massima (FCMax) – La FCMax è un dato
veramente impreciso. La vecchia formula (220-età) è imprecisa, quella più
moderna di Tanaka (FcMax = 208-0,7*età) va meglio, ma è sempre una
media sulla popolazione. Sbagliare di un 5% (10 battiti circa) può essere
normale, ma è un errore piuttosto grave che produce risultati grossolani.
La rilevazione – Alcuni pensano di rilevare la FCMax sperimentalmente,
sul campo. In realtà la frequenza cardiaca massima non è facilmente
rilevabile. Ci sono errori strumentali, spesso i cardiofrequenzimetri rilevano
valori leggermente dubbi e la determinazione della frequenza non è
semplice. Molti runner rilevano la massima frequenza che hanno durante lo
sprint alla morte di una gara di mezzofondo prolungato. Questa non è la
frequenza cardiaca massima perché comunque non si arriva alle massime
concentrazioni di lattato possibili. Occorrerebbe correre al massimo un 800
o un 1000 m, cosa non semplice perché si può verificare solo in gare dove il
soggetto è motivatissimo (il concetto di “massimo” non deve trarre inganno,
nessuno correndo un 1000 m da solo riesce a dare veramente il massimo).
Il cardiofrequenzimetro: a cosa serve
Il cardiofrequenzimetro deve essere usato per allenarsi, in alternativa o
contemporaneamente al cronometro. I due strumenti non sono “nemici”, ma
“amici” che dovrebbero cooperare. Prima di vedere gli aspetti tecnici è utile
analizzare quelli “psicologici” e “personali”. Chi dovrebbe necessariamente
usare il cardiofrequenzimetro?
La prima cosa che salta all’occhio dalla tabella è che il livello medio della
corsa agonistica amatoriale è decisamente basso a livello femminile. Mentre
ci sono moltissimi atleti che corrono per esempio i 10000 m in meno di 40’,
esiste un numero di donne decisamente più limitato che li corre in meno di
4’36”/km. Ciò è sicuramente dovuto al fatto che la percentuale di donne che
fanno sport è inferiore a quella maschile, ma anche e soprattutto al fatto
che, molto spesso, la donna fa sport in modo blando e a finalità solo
dimagranti. Finché non cambierà la mentalità e le donne che partono dalla
sedentarietà non comprenderanno l’importanza di allenarsi con la stessa
intensità degli uomini, difficilmente il livello medio delle prestazioni
femminili aumenterà.
Il secondo punto importante (ma è solo un rilievo matematico che sfugge
ai più) è che la differenza dipende dal livello prestativo. Considerando i
cosiddetti top runner ciò non è evidente perché l’escursione dai 5000 m alla
maratona è solo di 25” (minimo olimpico a 2’40” per i 5000 m e a 3’05”
circa per la maratona); ciò porterebbe a credere che la differenza al km fra
uomo e donna non sia percentuale, ma fissa (per esempio 25”/km). In realtà
tale differenza è percentuale (15%).
L’importanza della tabella - Oltre a rendere assoluto il livello di una
prestazione femminile, la tabella consente di parametrare correttamente i
risultati di allenamenti misti: un uomo e una donna che hanno per esempio
una differenza di 30”/km su un 3000 m, sulla mezza possono avere una
differenza di 36”/km.
Appendice E - La distanza salutistica
Un vero sportivo non può non considerare l’aspetto salutistico dello sport
che pratica. Per chi si dedica alla corsa è naturale chiedersi quale sia la
distanza più salutistica.
Per la risposta occorre considerare alcuni punti ormai scientificamente
consolidati:
In altri termini, come per moltissime altre situazioni, non è affatto vero
che aumentando all’infinito il fattore positivo sotto studio (la corsa) questo
resti positivo.
Inoltre si possono esprimere anche dubbi psicologici sull’atleta. In genere
chi corre le ultramaratone vuole provare a infrangere limiti, personali o
assoluti; come scrisse alcuni anni fa in suo libro l’ultramaratoneta Dean
Karnazes, “vuole arrivare dove non è mai arrivato nessuno“. Purtroppo
questo ragionamento aumenta arbitrariamente il valore dell’impresa per il
semplice fatto che
Se un atleta vuole arrivare dove non è mai arrivato nessuno perché non
prova a correre i 10 km in 25’? Preso atto che la sua caratura atletica su
distanze inferiori è modesta e non migliorabile, l’ultramaratoneta si illude di
avere una maggiore visibilità allungando la distanza.
Dopo tutte queste considerazioni non c’è nemmeno bisogno di dire che
solo una percentuale minima di runner ha una distanza critica compatibile,
per esempio, con una 100 km. Sperare di essere fra questi è veramente
ottimistico se non si hanno dati oggettivi che il proprio fisico è inossidabile
(non basta cioè crederlo!).
Maratona - Meno del 10% della popolazione ha una distanza critica
uguale o superiore ai 42 km. Ciò significa che meno del 10% può correre la
maratona per sempre. La buona notizia è che i problemi salutistici non
ortopedici evidenziati per le ultramaratone non si verificano per la
maratona.
Restano però gravi problemi di tempo; molti allenamenti durano anche
due ore e i lunghissimi arrivano a tre e oltre. Ciò porta molti runner a
sottoallenarsi nella speranza che basti quello che hanno fatto.
Questo quadro non intacca il fascino della prova, ma sicuramente non la
elegge a regina del salutismo.
Mezza maratona - La curva della distanza critica è proprio centrata
attorno ai 24 km per gli uomini e 20 per le donne, quindi circa il 50% della
popolazione può allenarsi per la mezza maratona senza quei problemi
ortopedici di cui al punto 2.
Il 50% non è però del tutto rassicurante; se si tiene conto che molti
allenamenti per la mezza maratona superano abbondantemente l’ora, si
comprende anche che per allenarsi bene alla mezza occorre una
disponibilità di tempo nella giornata che supera quella soglia psicologica
che uno sportivo amatore dedica all’attività fisica. In sostanza la situazione
della mezza maratona è un miglioramento di quella della maratona, ma non
è ancora ottimale.
10 km - Finalmente ci siamo:
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