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R.

Albanesi

Inizia a correre!
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte del libro può essere riprodotta o
diffusa con un mezzo qualsiasi, fotocopie, microfilm o altro, senza il
permesso di Thea s.r.l.

Copyright 2013 by Thea s.r.l.


Via Rotta 24 - 27020 Travacò Siccomario (PV)
Tel. 349/2689058
Sito Internet: http://www.albanesi.it

ISBN 978-88-89017-23-4

Revisione editoriale: Daniele Lucarelli


Realizzazione eBook: Luca Lazzari
Indice
Introduzione
Capitolo 1 - Parola d’ordine: gradualità
Capitolo 2 - Parola d’ordine: concretezza
Capitolo 3 - L’importanza della pianificazione
Capitolo 4 - Corsa, un concetto globale
Appendice A - Le 20 regole della corsa
Appendice B - La strumentazione per la corsa
Appendice C - Correre al mattino
Appendice D - La differenza prestativa fra uomini e donne
Appendice E - La distanza salutistica
Appendice F - Il dizionario dell’infortunio
Introduzione
Sono stati scritti innumerevoli libri sulla corsa e molti altri seguiranno.
Non c’è da stupirsi, la corsa è un argomento che interessa o ha interessato
milioni di persone e i modi di vederla, interpretarla e studiarla sono i più
disparati. Su questa meravigliosa disciplina esistono testi decisamente
complessi e articolati, altri sono molto più semplici e, talvolta, forse troppo
superficiali.
Il difetto di molte opere sulla corsa è che tendono a dare per scontate
troppe cose; talvolta sono eccessivamente tecniche e sembrano più scritte
per gli addetti ai lavori piuttosto che per chi vuole iniziare un determinato
percorso ed è completamente, o quasi, a digiuno dell’argomento; altre volte
invece sono talmente banali che non riescono a catturare l’attenzione del
lettore e, nonostante le buone intenzioni, rimangono lettera morta.
Ho quindi sempre ritenuto che, nonostante la ricchezza di opere che
trattano di corsa, vi fosse un vuoto da colmare sull’argomento, vuoto che
vuole essere riempito da Inizia a correre!, un testo che unisce semplicità e
fruibilità, ma che vuole caratterizzarsi anche per il suo rigore scientifico.
Questo libro vuole essere la guida, l’allenatore, l’amico che accompagna
il percorso di tutti coloro che avvertono l’esigenza di iniziare a praticare la
corsa, una disciplina antica, ma dal fascino sempre vivo.
Gli scopi principali di questa mia nuova fatica sono essenzialmente due:
aiutare a capire la corsa, ma soprattutto farla amare a tal punto da renderla
un appuntamento irrinunciabile di molte proprie giornate, un incontro in
grado di migliorare in modo significativo la qualità della propria vita sotto
tutti i punti di vista.
Questo libro è in grado di rispondere a tutte quelle domande, e sono tante,
che può porsi colui che è seriamente intenzionato a lasciare le fila dei
sedentari per diventare un runner; può anche risultare molto utile al jogger
(ovvero colui che si ferma al benessere immediato della corsa, senza
inserirla in un piano organico di miglioramento della propria vita) o a chi
pratica il walking (colui la cui attività fisica si limita a lunghe passeggiate
quotidiane o quasi) per spingerli a fare un ulteriore salto di qualità dal punto
di vista psicofisico.
In questo testo si troveranno ripetuti riferimenti all’alimentazione; ciò è
dovuto al fatto che è impossibile scorrelare la pratica della corsa da un
corretto regime alimentare; alimentazione e sport sono infatti intimamente
connessi ed entrambi vanno curati in modo paritetico.
Chi conosce le mie opere sa che considero la corretta alimentazione uno
dei cardini fondamentali di un buon stile di vita, uno degli elementi
necessari a ottimizzare la propria qualità della vita.
Per chi avesse necessità di perdere qualche chilo consiglio Il Metodo
Albanesi [7], un’opera che consente in modo molto efficiente di imparare i
principi dell’alimentazione e a mangiare bene e il giusto.
Dovendo, inevitabilmente, trattare anche dettagli tecnici, ho prestato una
notevole attenzione a chiarire in modo semplice ed esaustivo tutti quei
termini o quelle locuzioni che, banali per i runner evoluti o per altri addetti
ai lavori, potrebbero non essere immediatamente comprensibili a chi si
affaccia a questa materia per la prima volta.
Un’indicazione che spesso si troverà leggendo il testo è quella relativa ai
secondi al km (”/km); un’espressione del tipo 2,5”/km è un dato che serve a
indicare, a seconda dei casi, un incremento o un decremento della velocità
tenuta o da tenere rispetto a un predeterminato ritmo. Altra espressione
ricorrente è quella che si riferisce ai minuti al km (’/km); correre a 4’/km
vuol dire, utilizzando altri termini, tenere una velocità pari a 15 km/h
(ovvero si percorre un km ogni 4 minuti).
Nel testo infine, in varie occasioni, si citeranno, attraverso riferimenti
numerici, altre opere (ed. Thea, disponibili nel mio sito) che completano le
informazioni trattate in questo libro:

Il manuale completo della corsa [1]


L’età non conta [2]
Guida agli integratori alimentari [3]
L’allenamento mentale negli sport di resistenza [4]
Donne di corsa [5]
Il manuale completo dell’alimentazione – La dieta italiana [6]
Il metodo Albanesi [7]
L’infortunio nella corsa [8]

Attraverso il mio sito Internet (http://www.albanesi.it) sono a disposizione


di tutti quei lettori che, avendo compreso lo spirito di Inizia a correre!,
richiedessero spiegazioni e/o approfondimenti su temi specifici.
Capitolo 1 - Parola d’ordine: gradualità
Le motivazioni che possono spingere una persona alla corsa possono
essere le più disparate; c’è chi lo fa per socializzare, c’è chi lo fa per le belle
sensazioni che prova mentre corre nei pressi di un bosco o di un parco, c’è
chi lo fa per migliorare o mantenere il proprio stato di salute, c’è chi lo fa
per porsi nuove sfide o perché è stato convinto da un amico podista e così
via.
Quali che siano le motivazioni che ci inducono a indossare le scarpette da
runner e per quanto intense possano essere, non devono farci perdere
l’equilibrio di un approccio graduale alla corsa.
Cominciamo con il dire che coloro che vogliono iniziare a correre
dovrebbero possedere due precisi prerequisiti.
Per quanto ciò possa sembrare più che ovvio, innanzitutto è bene
puntualizzare che si deve essere sani e questo può essere verificato soltanto
sottoponendosi a una visita medico-sportiva. È poi fondamentale avere un
peso corretto, idoneo alla pratica di uno sport comunque impegnativo come
la corsa. Approfondiamo quindi questi due importanti aspetti.

La visita medico-sportiva
La visita medico-sportiva è una tappa fondamentale per coloro che sono
intenzionati a iniziare una qualsivoglia attività sportiva. Il nostro
ordinamento giuridico prevede che coloro che si apprestano a iniziare
un’attività sportiva debbano sottoporsi alla cosiddetta visita di idoneità
agonistica.
Scopo della visita è verificare che la persona sia idonea a sostenere gli
sforzi richiesti dal tipo di sport che si desidera praticare. Il certificato
rilasciato in seguito a visita medico-sportiva non deve essere confuso con il
celeberrimo certificato di sana e robusta costituzione per sport a livello non
agonistico; il rilascio di quest’ultimo è a discrezione del medico di base e, a
differenza di quanto accade con la visita medico-sportiva, non richiede
l’effettuazione di particolari esami, ma si basa praticamente sulla
conoscenza che il medico di base ha della situazione sanitaria del proprio
assistito. Di fatto il certificato di sana e robusta costituzione è una sorta di
dichiarazione in cui il medico dichiara l’assenza di patologie tali da rendere
pericolosa una generica attività fisica; tale certificato non è vincolato a
specifiche attività sportive e ha una validità annuale; spesso viene richiesto,
per fini assicurativi, ai frequentatori di palestre, piscine o centri di fitness.
Il rilascio del certificato di attività agonistica può essere effettuato da
diverse strutture nelle quali operi un medico specialista in medicina dello
sport (A.S.L., centri pubblici non A.S.L., centri privati convenzionati o
accreditati, specialisti convenzionati o accreditati). Sono numerosi gli
accertamenti che vengono effettuati durante una visita per il rilascio del
certificato di attività agonistica, fra questi voglio ricordare la visita medica,
la spirometria, l’esame delle urine e gli elettrocardiogrammi a riposo e dopo
step-test.

Il peso corretto
Se l’idoneità all’attività agonistica può essere verificata soltanto previa
visita specialistica, la verifica della correttezza del proprio peso può essere
fatta in prima persona controllando il proprio indice di massa corporea
(IMC) attraverso un calcolo semplicissimo:

IMC=Peso (in kg)/Altezza (in metri) al quadrato.

Per un uomo l’indice di massa corporea deve essere inferiore a 27, mentre
per una donna deve essere inferiore a 25. Se questi limiti vengono superati è
necessario adottare un regime alimentare a fini dimagranti e ricorrere,
perlomeno inizialmente, a sport meno traumatici della corsa, per esempio il
walking o il fitwalking.
Perché il peso per un runner è un parametro molto importante?
Sostanzialmente per due motivi: il primo è relativo all’aspetto salutistico, il
secondo concerne invece l’aspetto prestativo.
Forse l’affermazione seguente potrà stupire molti, ma è certo che

per il runner amatoriale è più importante il controllo del proprio peso


che l’allenamento.
Dal punto di vista salutistico correre in condizioni di sovrappeso è
estremamente deleterio.
Che si corra per il piacere di sentirsi meglio e in piena forma oppure
perché ci piace gareggiare nelle gare amatoriali, poco cambia: correre
portandosi dietro chili di troppo aumenta notevolmente il rischio di
incorrere in problemi di varia natura (infortuni tendinei, muscolari ecc.),
senza contare il fatto che, se il nostro peso è inadeguato (nel senso di
eccessivo), il carico di fatica sarà decisamente superiore a quello che
dovremmo sopportare se il nostro peso fosse ottimale.
Anche dal punto di vista strettamente prestativo, sono numerosi i vantaggi
derivanti da un peso di forma ottimale. Per chi ama gareggiare, o comunque
allenarsi in modo scientifico tenendo nota delle proprie prestazioni
cronometriche, tali vantaggi si traducono in un miglioramento prestativo
quantificabile approssimativamente in 2,5”/km per ogni kg di peso perso.
Vediamo un esempio pratico: quanto possono costare 10 kg di sovrappeso
in una corsa di 10 km? La risposta è semplice: più di quattro minuti; si tratta
quindi di un costo notevole per un runner amatoriale. Il dato citato
(2,5”/km) è un dato indicativo, ma comunque realistico; in certi soggetti il
guadagno derivante dalla perdita dei chili in eccesso può essere maggiore,
in altri minore, dipende dalle caratteristiche fisiche del singolo. Tale
guadagno non sembri di poco conto (quando si parla di secondi al km si è
portati a pensare che si stia discutendo di inezie, ma in ambito podistico non
è così); che lo si creda o no, di fatto non esiste alcun tipo di allenamento che
permetta, a un amatore in peso forma che pratica la corsa da un certo
periodo di tempo, di ottenere miglioramenti del genere.
Riassumendo, coloro che vogliono iniziare a correre devono adottare un
regime alimentare corretto, chi infatti intende darsi alla corsa solo per avere
la possibilità di abbuffarsi otterrà ben poco da questa sua nuova attività.
Deve essere chiaro a questo punto che, se abbiamo letto con attenzione
quanto riportato in precedenza, non è una buona strategia iniziare a correre
se si è in sovrappeso; infatti le possibilità di infortunarsi sono molto più
elevate nei soggetti sovrappeso che in quelli normopeso; ragion per cui
prima si dimagrisce fino a rientrare nei limiti di IMC sopraccitati e poi si
può iniziare a correre.

Correre sì, ma quanto?


Oltre al proprio stato di salute e al proprio peso forma c’è un altro aspetto
che deve essere sviscerato con attenzione quando trattiamo di corsa ed esso
riguarda sia coloro che sono alle prime armi sia coloro che possono essere
definiti runner esperti: la distanza. L’entusiasmo derivante dall’aver iniziato
una nuova disciplina o dalla passione per uno sport che pratichiamo da anni
può talvolta fuorviarci ed è così che tutti, indistintamente, si sentono idonei
a correre qualsiasi distanza. Forse ciò che seguirà deluderà molti, ma è
doveroso ricordare che il fatto di essere idonei alla corsa non significa
affatto essere idonei a ogni distanza di corsa. A questo punto appare
scontato porsi una nuova domanda: “Com’è possibile sapere qual è la
distanza che più si adatta alla propria situazione personale?”. La domanda è
estremamente interessante e la risposta sta in una semplice tabella che ho
ideato nel 2006; la tabella, che propongo qui di seguito, si basa sull’indice
di massa corporea (IMC) del soggetto (fra parentesi è indicato il dato
femminile):

TABELLA 1.1
IMC e compatibilità del peso con la distanza di corsa
----------
Indice di massa corporea (IMC) > Descrizione
• Inferiore a 22 (20) > Peso ottimale
• Inferiore a 23 (21) > Peso compatibile con un chilometraggio massimo
settimanale fino a 80 km e gare fino alla mezza maratona (compresa,
maratona quindi esclusa)
• Inferiore a 25 (23) > Peso compatibile con un chilometraggio massimo
settimanale fino a 60 km, uscite massimo di un’ora e gare fino ai 10000 m
• Inferiore a 27 (25) > Peso compatibile solo con il jogging, uscite
massimo di 6-8 km
----------

Perché la distanza è un parametro importantissimo di cui il runner o


l’aspirante runner deve necessariamente tenere conto? Perché ogni runner
ha un carico massimo che può gestire senza incorrere in infortuni. La brutta
notizia è che non è possibile aprioristicamente indicare qual è questo carico
massimo; esso infatti non è dato oggettivo, ma fa parte delle caratteristiche
individuali del runner. Chi non tiene conto di questo parametro “scherza
con il fuoco” perché nel caso si orienti a distanze che oltrepassano il carico
massimo corre un notevole rischio di accorciare decisamente la propria vita
atletica. Questo carico massimo è detto distanza critica (Albanesi, 2007);
l’espressione è già di per sé molto esaustiva. È bene precisare che il
concetto di distanza critica non si applica soltanto al carico di lavoro
settimanale, ma anche alla singola seduta di allenamento; esistono soggetti
che, a prescindere dal rispetto del carico settimanale, vanno incontro a un
aumento del rischio di infortunio se oltrepassano la propria distanza critica
sulla singola seduta.
In linea generale (ma attenzione: si deve tenere conto della variabilità
individuale), un carico massimo di 70-80 km settimanali è il più idoneo per
durare il più a lungo possibile come atleti. Deve essere chiaro che il rispetto
del massimo carico chilometrico settimanale e quello della distanza critica
sulla singola seduta non ci immunizzano dal rischio di infortunio, ma è
sicuramente vero che ne minimizzano le probabilità. Non infortunarsi
consente di praticare la corsa continuativamente senza lunghe pause
atletiche che costringono talvolta, nel caso di infortuni di una certa entità, a
“ricominciare totalmente daccapo”.
In base a quanto sovraesposto appare ragionevole chiedersi anche quale
sia, per un runner, la distanza più salutistica; data l’importanza di questo
argomento, esso viene trattato a parte (vedasi Appendice E – La distanza
salutistica).
A questo punto non ci resta che iniziare il nostro viaggio alla scoperta
delle prime cinque delle venti fondamentali regole della corsa:

1. Che tu sia un principiante o un runner evoluto agisci con gradualità.


2. Poniti obiettivi sfidanti, ma realistici.
3. Sii continuo: il tuo obiettivo è di correre per tutta la vita.
4. Impara a entrare in sintonia con il clima.
5. Corri nel modo più naturale possibile, senza forzare la respirazione o la
falcata.

Che tu sia un principiante o un runner evoluto


agisci con gradualità
Quando parliamo di corsa, quello della gradualità è un concetto
fondamentale. Correre è un gesto naturale, ma ciò non significa che la corsa
debba essere affrontata a cuor leggero, anzi; se vogliamo che questo
meraviglioso sport entri a far parte della nostra vita in modo positivo e
duraturo, è necessario studiarla e capirla nei minimi dettagli. Non sempre
bruciare le tappe è fruttuoso; nella corsa certamente non lo è, perché chi
esagera durerà ben poco.
Il principio del sovraccarico
Per “imparare” a correre è necessario avere chiari alcuni fondamentali
concetti. Il primo punto che mi sembra necessario trattare è il cosiddetto
principio del sovraccarico. Cerchiamo di capire in cosa consiste questo
principio.
Da un punto di vista prettamente medico, lo scopo principale
dell’allenamento non è tanto il raggiungimento di una determinata
prestazione, ma far sì che l’organismo si adatti gradualmente a sostenere i
carichi di lavoro a cui esso viene sottoposto senza incorrere in traumi o
infortuni. L’allenamento quindi consente al corpo di adattarsi al gesto
atletico che si intende fargli compiere, è pertanto uno stimolo che permette
al corpo di modificarsi in base a nuove esigenze; se sollecitiamo il nostro
corpo in maniera maggiore rispetto al normale, stiamo innescando un
sovraccarico i cui effetti si realizzano nei periodi in cui riposiamo (o, più
tecnicamente, recuperiamo); ovvero, in poche parole, tra una seduta di
allenamento e l’altra.
Il recupero
A questo punto è necessario introdurre il concetto di riposo sportivo.
Uno dei problemi che affliggono anche coloro che praticano la corsa da
alcuni anni è la difficoltà nel recuperare le sedute di allenamento. Quando
ciò avviene, significa che la gestione del proprio organismo non è ottimale.
L’ottimizzazione del recupero è fondamentale se vogliamo che la nostra
corsa sia produttiva; se per la difficoltà a recuperare dobbiamo limitare le
nostre sedute di allenamento o in senso quantitativo o in senso qualitativo,
non riusciremo mai a raggiungere gli scopi che ci siamo prefissi. Se nel
nostro graduale avvicinarci alla corsa sapremo adottare una politica fatta di
piccoli passi e di leggeri, ma costanti miglioramenti, riusciremo a
migliorare la nostra capacità di recupero. Allenare il recupero vuol dire,
molto semplicemente, insegnare al nostro corpo a riparare sempre più
velocemente i “danni” causati dalla corsa. Per farlo si deve imparare a non
correre sempre “da riposati”; può sembrare contraddittorio, ma se non ci
abituiamo a correre anche da stanchi, non riusciremo mai a insegnare al
nostro corpo come fare a recuperare le fatiche delle sedute precedenti. Un
atleta ben allenato ed esperto ha, generalmente, doti di recupero ormai
consolidate. Ciò non può dirsi per il principiante (e nemmeno per quegli
atleti che ritornano all’attività dopo una malattia o dopo un infortunio) ed è
quindi necessario capire quale sia la strategia per migliorare la propria
capacità nel recuperare gli allenamenti. Non si può sperare che le doti di
recupero migliorino semplicemente allenandosi, ciò è molto ottimistico e
comunque non è la strategia migliore perché i tempi di andata a regime
risulteranno eccessivamente allungati. È quindi necessario seguire un
programma di allenamento di tipo “scientifico”, un programma cioè che
rispetti le esigenze del nostro corpo, ma che allo stesso tempo gli insegni a
convivere con la fatica. È perfettamente inutile allenarsi sette giorni alla
settimana se avvertiamo che il nostro corpo non è in grado di tollerare uno
sforzo del genere; è decisamente più ragionevole e fisiologicamente corretto
iniziare con un programma graduale che preveda tre o quattro sedute
settimanali; poi, quando le nostre doti di recupero saranno affinate, saremo
in grado di aumentare il numero degli allenamenti settimanali. Anche la
tipologia di allenamenti previsti dal programma ha la sua importanza; un
programma di sole sedute “facili” o uno di sole sedute “intense” non ci è
sicuramente d’aiuto nell’ottica del recupero; il primo non fornirà stimoli
adeguati al nostro organismo, il secondo finirà solo per stancarci. È quindi
necessario seguire un programma equilibrato ovvero un programma che
contempli sia sedute qualitative sia sedute quantitative sia sedute di
mantenimento.
Cerchiamo adesso di riassumere le cause principali di un recupero non
ottimale.
Spesso l’errore che si commette da principianti è quello di effettuare
allenamenti eccessivamente ravvicinati senza permettere la ricostituzione
delle nostre scorte energetiche (il cosiddetto glicogeno, il nostro
“carburante” privilegiato); l’errore è abbastanza comune in chi inizia a
correre e abbina l’attività fisica a un regime dimagrante. È bene precisare
che il ripristino delle scorte di glicogeno dovrebbe avvenire attraverso la
normale alimentazione, senza ricorrere a integratori glicidici dopo il
termine dell’allenamento; chi fa ricorso a tali integratori rischia di assumere
calorie in eccesso vanificando così gli sforzi fatti con la dieta. Gli
integratori glicidici sono da riservarsi ai professionisti o a quegli amatori
che hanno carichi giornalieri particolarmente pesanti.
Un altro errore che a volte viene commesso è quello di effettuare
allenamenti intensi (qualità) troppo frequentemente; come già accennato in
precedenza, non è possibile “tirare” al massimo in ogni seduta di
allenamento. Solitamente, in base agli obiettivi che ci siamo preposti e in
base al nostro grado di allenamento, è possibile inserire al massimo solo
due sedute di allenamento a impegno massimale; le altre sedute devono
avere un’intensità submassimale (dal 50 al 90% delle proprie possibilità);
quanto più ci avviciniamo al top del nostro potenziale, tanto maggiori sono i
microtraumi di tipo fisiologico e conseguentemente il tempo di recupero si
allungherà.
Anche il sovrappeso incide negativamente sul recupero perché comporta
sia un dispendio di energie maggiore del normale sia microtraumi di tipo
fisiologico. Sui limiti di IMC ci siamo già comunque espressi all’inizio del
capitolo.
Non va inoltre sottovalutato l’aspetto psicologico; non è pensabile correre
soltanto quando avvertiamo che il nostro fisico è in condizioni ottimali;
come già abbiamo detto, quando iniziamo a seguire un piano di allenamento
è più che normale che in alcuni giorni ci sentiamo più stanchi del solito; le
sensazioni di stanchezza comunque inizieranno a diminuire man mano che
il nostro corpo si starà adattando a carichi di lavoro sempre più impegnativi;
non c’è quindi da preoccuparsi se durante qualche seduta di allenamento
facciamo più fatica del solito: è del tutto normale e comprensibile.
Dal punto di vista psicologico sono importanti anche le motivazioni che ci
hanno spinto a intraprendere questa nuova “carriera”; chi fa attività
agonistica senza un minimo di passione, prima o poi finirà per mollare.
Anche l’età gioca il suo ruolo nel recupero, più si va avanti negli anni,
tanto più diventa difficile recuperare, ma a tale problema si può porre
parziale rimedio adottando un mirato programma di integrazione. Con gli
integratori il tempo di recupero può essere migliorato, essi cioè possono
aiutarci ad accorciare il tempo che l’organismo impiega a ritornare nelle
migliori condizioni dopo lo sforzo. Come abbiamo visto ciò è di notevole
importanza perché permette di accorciare la distanza tra due allenamenti
consecutivi e anche di evitare di affrontare l’allenamento successivo con il
fisico ancora eccessivamente affaticato, con il rischio di incorrere in
infortuni. Migliorare le capacità di recupero quindi, di fatto, può portare
indirettamente a un miglioramento delle prestazioni, ma non perché
l’integratore ha influenzato direttamente le variabili fisiologiche dello
sforzo fisico, ma solo perché l’atleta si allena più frequentemente e, al
tempo stesso, è più fresco e corre minori rischi di stop dovuti a infortuni per
sovraccarico. Questo discorso, valido a livello teorico generale, deve però
essere personalizzato in base alle caratteristiche personali: occorre quindi
considerare il carico allenante dell’atleta. La risposta dell’integrazione (cosa
assumere e in che dosi) dipenderà dal carico allenante. Il carico allenante
varia molto da atleta professionista a dilettante. Ovviamente, se la durata
dell’allenamento è troppo breve per provocare deficit riparabili in tempi
lunghi oppure se la frequenza degli allenamenti è talmente bassa che l’atleta
ha comunque perfettamente recuperato prima dell’allenamento successivo,
l’integratore è inutile. È invece consigliabile se lo sforzo dell’allenamento è
superiore ai novanta minuti o se ci si allena pressoché tutti i giorni.
L’importante è tenere bene a mente una cosa: gli integratori possono
rappresentare un valido aiuto, ma attenzione, non fanno miracoli!
Rimando comunque a [3] per ulteriori approfondimenti su questa
specifica materia.
I meccanismi energetici
Dal momento che abbiamo accennato ai carburanti necessari al nostro
corpo, di seguito forniamo una brevissima spiegazione sui meccanismi
energetici del nostro organismo.
Il combustile è rappresentato da carboidrati, grassi e, in minima parte,
proteine. Per intensità di corsa piuttosto blande il corpo brucia una buona
quota di grassi (almeno il 50%) ed è in equilibrio aerobico (ovvero, detto
un po’ grossolanamente, non si ha il “fiatone” quando si corre); se
aumentiamo l’intensità si bruciano maggiormente carboidrati e, se la
velocità cresce ancora, ecco che l’equilibrio si rompe e interviene un
meccanismo che non ha bisogno dell’ossigeno (meccanismo anaerobico),
questo meccanismo fornisce energia in tempi brevi, ma purtroppo produce
scorie (acido lattico) che inceppano l’organismo producendo un blocco
nella prestazione: l’atleta riesce quindi a mantenere lo sforzo solo per tempi
molto brevi.
Riassumiamo molto schematicamente i cinque i principali meccanismi
energetici:

•• meccanismo anaerobico alattacido (del creatinfosfato, anche


meccanismo CP) in cui si produce energia in assenza di ossigeno,
utilizzando processi molto rapidi, ma che non possono durare a lungo
(tipicamente una decina di secondi). Viene usato per scatti, salti, attività di
potenza come il sollevamento pesi.
•• Meccanismo anaerobico lattacido in cui si produce energia in assenza
di ossigeno. Viene usato negli sforzi brevi, ma sufficientemente lunghi da
produrre un affanno nella respirazione, per esempio una corsa di un
chilometro. Si arriva a una situazione di crisi (dovuta all’accumulo di lattato
nel sangue) che costringe il soggetto a diminuire la velocità per ritornare in
equilibrio.
•• Meccanismo aerobico glicidico in cui in presenza di ossigeno si
bruciano prevalentemente carboidrati. È usato negli sforzi intensi in cui
comunque si raggiunge un certo equilibrio, per esempio la corsa di una
decina di chilometri.
•• Meccanismo aerobico lipidico in cui in presenza di ossigeno si bruciano
prevalentemente lipidi (grassi). È usato in sforzi di modesta intensità (come
quando si fa jogging parlando tranquillamente) o in sforzi prolungati, dove
affianca il meccanismo precedente (come nella maratona). La biochimica
insegna che i lipidi non possono essere praticamente utilizzati se finiscono
le scorte dei carboidrati (il classico “muro” del maratoneta).
•• Meccanismo proteico in cui si bruciano le proteine per ottenere energia.
Come il precedente è un meccanismo che viene usato per ottenere energia
quando i carboidrati scarseggiano e diventa tanto più importante quanto lo
sforzo è prolungato (per esempio diverse ore). In questo caso si può dire
che i muscoli vengono “smontati” per produrre energia.

Ognuno di noi può sfruttare i cinque meccanismi in maniera diversa, a


seconda dell’allenamento e delle caratteristiche individuali congenite o
acquisite. È importante però notare che ogni meccanismo comporta
un’azione diversa nelle varie aree di intervento. Per esempio se è prevalente
il meccanismo CP (come nel saltatore in lungo) sarà massima l’azione
dell’efficienza muscolo-scheletrica, ma sarà pressoché nulla la protezione
cardiovascolare perché le durate sono troppo brevi per innescare i processi.
Il meccanismo anaerobico lattacido può esplicare un’utile azione ormonale,
ma una modesta azione sul controllo del peso: gli sforzi e gli allenamenti
sono tali da bruciare una quantità tutto sommato modesta di calorie (per
esempio non certo paragonabili a quelle di un triathleta). Per fortuna ogni
soggetto, nel suo gesto atletico o negli allenamenti che sono finalizzati al
miglioramento, non usa un solo meccanismo energetico; ne consegue un
beneficio globale che, pur essendo differente da sport a sport, fa preferire
dal punto di vista salutistico chi fa sport al sedentario.

Poniti obiettivi sfidanti, ma realistici


Nel precedente sottocapitolo ho utilizzato a un certo punto il termine
“entusiasmo”. La voglia, l’entusiasmo, la passione (ma soprattutto l’amore)
sono importantissimi in qualsiasi nostra attività, ma alla base di tutto deve
esserci sempre l’equilibrio.
È opportuno, nel momento in cui decidiamo di iniziare a correre, di
adottare la politica dei piccoli passi: non è assolutamente necessario
spaccare le montagne, l’importante è, un giorno dopo l’altro, provare ad
adattarsi alla corsa un po’ meglio del giorno precedente.
Nella corsa, porsi un obiettivo è oltremodo importante, questo è
innegabile perché le sfide con noi stessi sono il punto di partenza per
migliorarci, e non solo in ambito sportivo. L’importante è che questi
obiettivi siano oggettivamente alla nostra portata; possono non esserlo in un
determinato momento, ma potrebbero diventarlo con la costanza e
l’allenamento. Quindi:

obiettivi sfidanti, ma realistici.

Quello che si deve assolutamente evitare è di diventare schiavi di uno o


più obiettivi; se intendiamo battere un nostro record, non è saggio
prefissarsi miglioramenti eccezionali, è sufficiente migliorarsi, anche se di
pochi secondi.
Hard People Test
Un primo obiettivo ragionevole può essere quello di proporsi di percorrere
dieci chilometri in un’ora (eventualmente usando tratti di cammino, se non
si riesce a correre per tutta la distanza). Questo è un test di efficienza fisica
(Albanesi, 2002) che può essere superato abbastanza agevolmente da molte
persone purché siano in buona forma (quindi per chi parte dalla sedentarietà
ci vuole un periodo di allenamento che, ragionevolmente, se non si è in
sovrappeso, può durare dai 3 ai 6 mesi); se non si supera (o si pensa di non
superare) il test, è opportuno correre ai ripari. Molte persone di giovane età,
molto probabilmente, riusciranno a superare questo test anche senza essere
allenati, ma la percentuale di coloro in grado di farcela sarà decisamente
minore man mano che l’età anagrafica aumenta. La spiegazione di questo
“crollo verticale” nell’efficienza fisica è da ricercarsi nel fatto che molte
persone, raggiunta una certa età si lasciano inspiegabilmente andare ed
entrano a far parte della numerosa schiera dei cosiddetti sedentari totali, di
coloro cioè che non pratica nessuna attività fisica, anche a scopo ricreativo
(come la classica partita di pallone da ragazzi). Non è questa la sede per
trattare i danni che derivano dall’essere sedentari, ma è ormai da tutti
risaputo e accettato che la sedentarietà è uno dei fattori alla base
dell’obesità e anche, a lungo termine, di problemi di tipo cardiovascolare.
Se invece si è riusciti a superare il test, è ragionevole porsi obiettivi più
ambiziosi, sempre ovviamente nel rispetto della politica dei piccoli di passi
cui accennavamo all’inizio.
I miglioramenti a volte possono essere sensibili, a volte possono essere
minimi, tanto da sembrare quasi impercettibili; è normale, non siamo
macchine. Fondamentale è non scoraggiarsi e non lasciarsi abbattere dalle
prime inevitabili difficoltà che ostacoleranno il nostro cammino.
La fatica
A questo punto è bene sgombrare il campo da possibili equivoci; il fatto
che si parli di politica fatta di piccoli passi non significa che il nostro
allenamento debba essere condotto in modo eccessivamente blando;
insomma, detto un po’ brutalmente: si deve faticare. Se non si fa mai fatica
è praticamente impossibile che le nostre sedute siano allenanti; un livello di
fatica troppo basso non induce modificazioni fisiologiche significative,
modificazioni che sono l’obiettivo principale dell’allenamento. Chi vuole
praticare uno sport deve possedere una minima forza di volontà perché
pensare di raggiungere determinati risultati senza un minimo di fatica è pia
illusione. La buona notizia è che la corsa può incrementare la forza di
volontà che già possediamo.
Il basso livello di fatica è un concetto che viene dettagliatamente
sviscerato in una delle mie opere sulla corsa [1] quando viene trattato
l’argomento low training, qui vi accenno brevemente; low training è una
locuzione inglese con la quale si indica un tipo di preparazione atletica che
non è in grado di indurre sensibili modificazioni a livello fisiologico.
Sostanzialmente esistono tre categorie di soggetti alle quali è possibile
ricondurre il concetto di low training:

•• i frequentatori di palestra che svolgono una preparazione decisamente


blanda pensando, a torto, di bruciare migliaia di calorie;
•• i praticanti discipline di per sé blandamente atletiche che dovrebbero
essere riservate a persone che, per problemi di varia natura, sono
impossibilitati a svolgere attività fisiche più impegnative;
•• i praticanti discipline in cui determinati risultati sono più da ricondurre
alla sofisticata tecnologia del mezzo che allo sforzo compiuto in
allenamento (tipico caso è quello del ciclista sovrappeso che utilizza un
mezzo ipertecnologico e “vola” su tratti pianeggianti per poi arrancare
pietosamente nel momento in cui si trova ad affrontare una modesta
salitella).

Quindi: impegno e forza di volontà, senza che questo significhi


maniacalità o nevroticità.
La maratona
A proposito di nevroticità e piccoli passi: molti aspiranti runner iniziano il
loro percorso con in testa un preciso o
biettivo: la mitica maratona! Forse per antiche rimembranze scolastiche o
per un malinteso senso di “eroismo”, molti guardano alla maratona come
alla corsa delle corse, la vedono come il frutto proibito dello sport. È una
visione scorretta che spesso diventa la causa di una limitata durata atletica
con tutte le conseguenze del caso sia a livello salutistico che psicologico; è
doveroso infatti ricordare che dopo un anno di interruzione dell’attività
sportiva si vengono ad annullare tutti quei vantaggi acquisiti in anni e anni
di sport attivo.
Ma perché la maratona dovrebbe essere la causa di così tanti problemi?
Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: la maratona è una corsa
bellissima e affascinante; il problema è che molti, attratti dalla sua epicità,
la affrontano pur non essendo preparati né dal punto di vista atletico né dal
punto di vista psicologico con tutti i rischi che ciò comporta: infortuni e
“nausea da corsa”, tanto per citarne un paio. Tra l’altro di veramente epico
nella maratona c’è ben poco, dal momento che vi sono persone molto in
avanti con gli anni che riescono a correrla con relativa facilita. Fauja Singh,
un indiano residente in Inghilterra, cento anni di età, ha terminato senza
particolari problemi l’edizione 2011 della maratona di Toronto. Quindi,
prima di buttarci a corpo morto nell’avventura di una maratona, cerchiamo
prima di superare brillantemente il traguardo di dieci chilometri di corsa,
poi potremo pensare ad altre distanze; che senso può avere spaccarsi la
schiena per attaccare al muro, in bella mostra, un certificato di
partecipazione a una maratona e poi piantarla lì con la corsa?
Quello di ridimensionare il valore sportivo (e psicologico) della maratona
è un consiglio che vale anche per quei runner più esperti che sembrano
drogati di maratone: quindici, venti, anche trenta maratone all’anno per poi
smettere definitivamente con la corsa vittime di infortuni più o meno
pesanti.
La politica dei piccoli passi è la più ragionevole per cercare di
raggiungere il traguardo che tutti i runner dovrebbero porsi: correre fino alla
fine dei propri giorni.
Psicologia della corsa
Un doveroso cenno, parlando di piccoli passi, va riservato agli aspetti
psicologici della questione. Può accadere, durante il nostro graduale
cammino di avvicinamento a una pratica continuativa della corsa, di essere
bloccati lungo il percorso; che ciò accada per un infortunio o per
impedimenti di carattere extrasportivo poco importa; quello che è
importante è affrontare questo forzato stop con pazienza ed equilibrio; è
giusto ricordarsi che abbiamo una vita davanti per realizzare i nostri
obiettivi; non ci sono campionati del mondo da vincere o medaglie
olimpiche da mettersi al collo. I forzati stop sportivi possono generare
fenomeni opposti che alla fine però portano allo stesso risultato: basta con
la corsa!
Molte persone che iniziano a correre mollano dopo poco tempo
(probabilmente è il caso più frequente), incapaci di sopportare un certo
carico di fatica, altre invece affrontano questa loro nuova avventura in
modo quasi “maniacale”, sicuramente eccessivo. In quest’ultimo caso il
soggetto rischia di entrare in una spirale che potremmo definire come
nevrosi da sport o, se si vuole, come stress da attività sportiva. Raramente
questo tipo di stress deriva da un carico allenante eccessivo; la maggior
parte delle volte il principale responsabile è l’aspettativa che ci deriva dallo
sport. In altri termini, il non riuscire a raggiungere il risultato (o il fare
troppa fatica per raggiungerlo a causa del lavoro, di impegni familiari ecc.)
genera un’ansia che si manifesta con i sintomi tipici della nevrosi. Alla fine
si giunge al rifiuto totale di qualunque forma di attività fisica: lo sport ci ha
esistenzialmente delusi. Molti scambiano la nevrosi da sport con il
cosiddetto sovrallenamento. In realtà, per quanto la sintomatologia possa
essere simile, le due condizioni sono notevolmente diverse. Nella sindrome
da sovrallenamento è possibile riscontrare un carico di lavoro
oggettivamente pesante, mentre nella nevrosi da sport il carico di lavoro è
oggettivamente normale. In sostanza quello che succede nella nevrosi da
sport e che porta agli stessi sintomi del sovrallenamento è che il soggetto
amplifica, a causa delle sue aspettative, lo stress psicologico oggettivo delle
sedute e questa amplificazione rende il carico soggettivamente esagerato.
In genere chi è affetto da nevrosi da sport ha un rapporto patologico con la
corsa perché la vede come mezzo di affermazione della propria personalità.
Si esalta oltre misura per un successo e si deprime inconsolabilmente per un
insuccesso. Per uscire dalla nevrosi da sport è necessario riconsiderare il
rapporto con la corsa e con lo sport. La parola magica è divertimento. Se
fare sport è peggio che compiere un duro lavoro dal quale si aspetta una
lauta ricompensa, prima o poi si crollerà perché la ricompensa, per un non
professionista, sarà sempre piccola. È necessario imparare a fare fatica
divertendosi, non per un tempo, una posizione o un premio. Se manca il
divertimento, il nostro corpo prima o poi si ribellerà.
La noia e l’obiettivo prestazione - Molti principianti abbandonano la
corsa dopo pochi mesi dalla partenza della loro nuova vita sportiva. Ciò non
è sempre dovuto alla durezza delle sedute quanto alla noia, alla mancanza
di stimoli che la corsa offre loro.
Premesso che la corsa è sicuramente meno noiosa di altri sport individuali
(come, tanto per fare un esempio, il nuoto) e che si possono adottare tutta
una serie di accorgimenti per renderla piacevole, è indubbio che in essa non
è presente la componente ludica (di gioco) che svolge un grande potere
attraente negli sport di squadra.
Per vincere la noia sono possibili diverse strategie, ma si deve fare
attenzione a non scegliere quelle sbagliate. Appare incredibile, ma molti
principianti per vincere la noia scelgono strategie che, a prima vista
corrette, alla lunga si dimostrano invece perdenti. Per esempio:

•• musica
•• paesaggio e natura
•• variazione dei percorsi.

Il trait d’union fra di esse (che spiega perché queste strategie non sono
alla lunga vincenti) è che sono tipiche dei jogger, mentre nessun runner le
usa comunemente perché danno della corsa una dimensione tutto sommata
riduttiva. Per non annoiarsi occorre cioè dare alla corsa una dimensione
prioritaria.
A molti runner capita di gareggiare in mezzo a paesaggi molto belli, ma di
solito non li apprezzano più di tanto, perché magari sono concentrati sulla
sola maglietta dell’amico che li precede, sul sentiero che porta in cima a
una collina ecc. Molti penseranno che l’aspetto agonistico non possa essere
consigliato a un principiante. Ciò è vero fino a un certo punto.
Analizziamo gli errori tipici del principiante:

•• pigia troppo sull’acceleratore e “scoppia”, arrivando alla conclusione


che la corsa non fa per lui.
•• Segue un programma correttamente tarato per principianti, ma la cosa
finisce lì, senza obbiettivi e senza mete. Arriva la noia.

E qui ritorna prepotentemente il concetto di obiettivo: per non annoiarsi


nella corsa è necessario avere un obiettivo; se il soggetto è giovane e/o sta
“comunque” bene, tale obiettivo spesso non può essere genericamente la
salute, ma anche quello che viene definito come obiettivo sfidante [4].
L’esempio classico (che citavamo poco sopra) di obiettivo sfidante per un
principiante è “voglio correre una maratona”. Non si può però pretendere
che tutti i principianti abbiano un tale obiettivo. Ne esiste uno più generale;
è la prestazione, intesa anche in senso lato. Consideriamo che molte
persone corrono per dimagrire. Sicuramente se vedranno i risultati saranno
motivate a continuare. Per loro la prestazione è il peso sulla bilancia. Idem,
la prestazione serve a chi corre per la salute per verificare i risultati dei suoi
sforzi. In realtà, nella maggioranza dei casi, la prestazione non può che
essere legata al concetto di efficienza del proprio organismo e tale
efficienza si concretizza in un tempo. E considerare la prestazione significa
fare fatica, fatica fisica, non fatica mentale la quale può anche derivare dalla
noia o da un’inconscia avversione per il correre.
Se la strategia conservativa di non fare fatica (spirito di sopravvivenza) è
comunque inizialmente comprensibile in un principiante, ecco che diventa
un boomerang dopo pochi mesi, quando il runner proprio principiante non
lo è più.
Riassumendo: si può scegliere fra fatica (fisica) o noia. E la fatica fisica
porta al concetto di miglioramento della propria prestazione.
Ovviamente occorre dare un senso alla fatica fisica. Se manca tale senso,
la noia prima o poi comparirà. Proviamo a fare un esempio: alcuni runner,
in caso di stop forzati dovuti a infortuni, si dedicano a sport alternativi
come, per esempio, il ciclismo, ma molti di loro praticando questo tipo di
sport provano la stessa noia che altri provano durante la corsa. Il motivo è
presto spiegato: non hanno motivazioni, non quelle che hanno quando
praticano il running. Non riescono a dare un senso alla fatica che stanno
facendo. Chi non è interessato alla propria prestazione (senza ovviamente
essere schiavo di questo interesse) prima o poi si annoierà. Perché correre
senza fare fatica non gratifica. Può sembrare incredibile, ma è così. Non si
tratta di masochismo, come molti potrebbero pensare, ma sentire musica od
osservare il paesaggio è il modo migliore per deconcentrarsi e allontanarsi
dai propri limiti.
Molti “annoiati” ritengono che inserire troppa fatica possa portare a una
posizione maniacale. Ma non è vero. Porta piuttosto a dialogare per tutto il
tempo della corsa con il proprio corpo e tutto passa molto velocemente.
Migliorare la propria prestazione diventa un incredibile obbiettivo sia
salutistico (il mio corpo funziona meglio) sia pratico. Appena si inizia a
dare importanza alla prestazione, si incominciano ad apprezzare le
sottigliezze della corsa: le scarpe, il clima ostile, il compagno che ti aiuta
ecc. Diventi un esperto e inizi ad amarla. Non si può amare nulla se non si
conosce in dettaglio la cosa amata. Ecco quindi il programma antinoia:

programma per principianti -> obbiettivo -> fatica -> prestazione ->
gratificazione dalla prestazione.

Da ultimo si deve notare come fatica non sia sinonimo di sacrifici. Ma


parlerò di questo al momento di trattare la regola numero 20 (La fatica non
è un sacrificio, ma è una gratificazione, vedasi Capitolo IV).
Sii continuo: il tuo obiettivo è di correre per tutta
la vita
Quella della continuità è una regola fondamentale per il runner e chi vuole
diventarlo non può prescindere da essa. Quale che sia l’approccio che viene
adottato per iniziare a correre, ogni sforzo risulterà vano se non si riesce a
essere continui. Se vogliamo fare i sofisticati potremmo dire che
l’espressione runner discontinuo è un ossimoro, corsa e discontinuità infatti
mal si sposano fra loro, anzi, sono in notevole antitesi. È perfettamente
inutile, se non deleterio, dissipare energie alternando momenti di grande
coinvolgimento sportivo ad altri in cui la corsa non riesce a stimolarci più di
tanto. È un po’ quello che accade alle ragazze o alle donne più adulte che si
mettono a dieta ogni anno solo per la prova bikini; passato il momento
“clou” si riscoprono al punto di partenza, anzi spesso, si ritrovano addosso
qualche chilo in più di prima.
Non sembri un’analisi eccessivamente severa, la continuità nella corsa è
fondamentale se vogliamo raggiungere l’obiettivo di correre fino alla fine
dei nostri giorni. È necessario insistere su questo punto; forse il dato
seguente potrà sorprendere, ma la durata media della vita atletica di coloro
che iniziano a correre dopo una certa età (molti iniziano dopo che hanno
passato i 35-40 anni di età) è di circa 5 anni. E non sono gli infortuni che
fermano per sempre il percorso di tanti aspiranti runner, ma semplicemente
il fatto che questi non amavano fino in fondo quello che facevano; sono
davvero tanti quelli che si stufano paghi dei risultati a breve o medio
termine che hanno ottenuto (qualche chilo perso, qualche premio vinto,
qualche amico trovato ecc.) senza pensare che interrompendo il loro
cammino, torneranno nel giro di poco tempo fra le fila dei molti sedentari
annoiati. In fondo la loro era solo un hobby, ma l’hobby può essere
effimero, al contrario dell’amore che invece è duraturo. Quindi, per prima
cosa: per avere continuità nella corsa bisogna amarla.
Il principio di efficienza
Anche la paura gioca il suo ruolo nei prematuri addii all’attività sportiva
in generale e podistica in particolare; tanti infatti si arrendono al primo
dolorino; è bene quindi, a questo punto, parlare del principio di efficienza. Il
principio di efficienza non è solo uno dei capisaldi per smontare gli alibi del
sedentario che rinuncia all’attività sportiva, ma deve ritenersi un’importante
conquista salutista.
Partiamo dalla classica obiezione “non posso correre a causa di X”.
Appare a tutti ovvio che se X è una patologia cardiaca il soggetto non può
definirsi sano, mentre per i più ciò non è altrettanto ovvio se X è una
patologia ortopedica, spesso lieve.
Un mal di schiena altalenante, un menisco che ogni tanto duole, una
caviglia un po’ malandata ecc. sono tutti alibi per il “delitto perfetto”: non
fare sport; questo è stato asserito finora dalla medicina tradizionale,
soprattutto se il medico era un incallito sedentario. Oggi, invece, con la
crescita numerica di coloro che praticano un’attività sportiva, ci sono dati
sufficienti per smontare questi alibi. Possiamo sintetizzare il principio di
efficienza con questa affermazione:

ogni persona sana (dopo il dovuto periodo di allenamento) può correre


per 10 km 3 volte alla settimana.

Solo una percentuale molto piccola della popolazione non vi riesce e chi
non vi riesce non può essere definito sano. Quindi, se si è sani, non
arrendiamoci agli inevitabili dolorini da adattamento; con l’allenamento e la
continuità finiranno per sparire. I dolori da adattamento, tra l’altro, non
sono un’esclusiva dei principianti, ma possono colpire anche atleti più
navigati che sono stati fermi o coloro che arrivano alla corsa da altre
tipologie di sport. Esistono diverse strategie per superare il problema, si può
per esempio, nelle prime fasi del nostro percorso, evitare di correre due
giorni di seguito oppure si possono alternare allenamenti di corsa a sedute
di cammino (queste ultime dovrebbero essere piuttosto lunghe) o, ancora,
abbinare alla corsa un allenamento in palestra; in quest’ultimo caso,
paradossalmente, non si tratta tanto di rinforzare i muscoli quanto di
abituare tendini e articolazioni a sopportare carichi maggiori rispetto a
quelli della corsa di resistenza (per la quale la forza non è poi così
fondamentale).

Come si può quindi intuire da quanto sopra riportato, la continuità è una


condizione necessaria per raggiungere il nostro obiettivo. Certo, nel tempo
osserveremo fluttuazioni di efficienza e prestazione, ma ciò è da
considerarsi più che normale; i cali di condizione non devono deprimerci
così come i momenti top non devono esaltarci oltre misura; del resto la
politica dei piccoli passi è valida in molte altre situazioni della nostra vita e
la persona intelligente e concreta la adotta allo scopo di evitare di porsi
mete che, a una più attenta analisi, risulterebbero come irraggiungibili.
Per chi inizia a correre il primo vero passo della sua vita sportiva è
rappresentato dall’essere adeguatamente preparato agli sforzi che dovrà
compiere.

Impara a entrare in sintonia con il clima


Questa quarta regola è fondamentale per chi si pone come scopo
un’attività podistica continuativa. Per quanto possa apparire curioso, dove
non riescono la fatica, il fiatone o la noia, talvolta riescono il clima e i vari
eventi atmosferici che diventano il killer delle ambizioni dell’aspirante
runner. Abbiamo già ampiamente dibattuto di quanto sia importante la
continuità nella corsa e se non impariamo a entrare in sintonia con il clima
possiamo dare addio a tutti i nostri bei propositi perché, se pretendiamo di
correre soltanto in presenza di condizioni climatiche ottimali, correremo
ben poco e in modo discontinuo.
È necessario imparare a non avere paura o fastidio per qualche goccia di
pioggia, per un po’ di vento, per il gelo dell’inverno o per l’afa dell’estate;
non c’è ovviamente bisogno di fare gli eroi e voler correre a tutti i costi
anche se le condizioni meteorologiche sono impossibili, ma non si deve
nemmeno comportarsi come chi abbandona alla prima difficoltà. Ogni
avversità climatica può essere efficacemente contrastata, basta farlo con
buon senso e determinazione.
La pioggia
Uno degli eventi atmosferici più bloccanti in assoluto è la pioggia. Tale
asserto è tanto più vero quanto più il soggetto è un principiante; infatti chi
inizia è spesso pronto ad affrontare caldi africani (assecondando la
purtroppo comune credenza che sudare fa dimagrire!), freddi polari (basta
coprirsi con molte felpe!), bore da record ecc., ma la pioggia, quella no!
Non serve un k-way perché molti non sono impermeabili e quelli che lo
sono fanno sudare troppo; non serve un cappellino perché ben presto rivoli
di acqua scendono sul viso, spesso impedendo persino di vedere bene il
percorso. Se poi la pioggia è battente, chi ce lo fa fare di mettersi in moto?
Ma il problema non riguarda solo i principianti della corsa; anche runner
molto esperti e allenati temono la pioggia, vedendola come sinonimo di
malanno. Non si sa in base a quale spiegazione medica, correre nella
pioggia dovrebbe provocare mal di gola, raffreddori ecc. È fondamentale
capire che i malanni di stagione dipendono dalla temperatura, non dalla
pioggia in sé. In altri termini, se piovesse acqua calda, nessun malanno. La
pioggia però venendo a contatto con il corpo (direttamente o tramite i capi
bagnati) lo bagna e l’acqua, evaporando, lo raffredda ulteriormente,
aggravando la situazione termica che in inverno non è certo ottimale.
L’atleta ha però un vantaggio rispetto al sedentario che casualmente si
inzuppa d’acqua in una giornata con temperatura già rigida: essendo sotto
sforzo, il suo corpo è già pronto a reagire a un abbassamento di temperatura
con calore prodotto dall’interno. Quindi, il trucco per evitare malanni non
sta nel coprirsi oltremisura (anzi, farlo è controproducente perché sudando
molto, il sudore è del tutto equivalente a una pioggia “dall’interno” con lo
stesso principio di evaporazione raffreddante descritto per l’evento
atmosferico), ma nel non rimanere al freddo bagnati, una volta terminato lo
sforzo e iniziato il recupero; si consideri che il periodo in cui si ritorna in
condizioni di normalità (cioè quando il corpo smette di funzionare da
“stufa”) dipende dallo sforzo fatto; in quest’ottica il runner esperto,
arrivando a intensità di sforzo maggiori rispetto al principiante, è
sicuramente favorito. In genere il periodo di riequilibrio termico per uno
sforzo medio non è mai inferiore a 5 minuti; in tale lasso di tempo conviene
cambiarsi (anche all’aperto), indossando abiti asciutti.
Quanto detto sopra ci offre l’occasione per accennare brevemente
all’abbigliamento necessario in caso di pioggia; appare ovvio che è inutile e
controproducente coprirsi tanto e lo è anche usare capi poco traspiranti;
molto meglio utilizzare capi leggeri (ma termici, se in inverno) a manica
lunga (gli stessi usati in assenza di pioggia) con un giubbino impermeabile
a mezze maniche, traforato posteriormente per una traspirazione ideale. Le
gambe possono essere nude (calzoncini) o protette da una calzamaglia. In
testa un cappellino può servire se la pioggia è debole; se invece è forte
spesso rischia di essere controproducente, una volta inzuppato; tanto vale
non usare nulla, entrare in sintonia con la pioggia e correre!
Il freddo
Un altro evento atmosferico che ridimensiona i “sogni di gloria” degli
aspiranti runner è il freddo. Molto spesso, infatti, le rigide temperature
invernali diventano l’occasione per rinunciare alla seduta di allenamento.
Dietro questa scelta c’è un rapporto con il proprio corpo che non può essere
considerato ottimale; ma non c’è da scoraggiarsi, è solo questione di
vincere il negativo impatto iniziale; alla fine ne ricaveremo solo vantaggi,
fra i quali uno di notevole importanza salutistica: il potenziamento delle
proprie capacità immunitarie. Ci sono migliaia e migliaia di runner che
corrono nel freddo, difficilmente sono vittime di malanni da
raffreddamento, anzi; e giorno dopo giorno li vedete lì, a correre tranquilli
mentre piove o quando fa un freddo cane; non sono né eroi né uomini
bionici e nemmeno pazzi scatenati; sono semplicemente persone che hanno
imparato a gestire al meglio il proprio corpo, a trattarlo con cura e ad avere
fiducia in esso, ma soprattutto sono persone che amano quello che fanno e
che non intendono certo farsi scoraggiare da due gocce d’acqua o da una
temperatura piuttosto rigida. All’inizio ci sarà da “sopportare”, ma alla fine
diventerà tutto così naturale da non farci più nemmeno caso. Quanto più
diventiamo forti tanto meno il clima condizionerà le nostre scelte e,
conseguentemente, le nostre giornate.
Sfidare il freddo va bene, ma occorre farlo cum grano salis; molto spesso,
infatti, i problemi che derivano dal correre nel freddo sono legati a scelte
scorrette relative all’abbigliamento. Cercherò quindi di fornire qualche utile
consiglio sui capi da indossare quando la temperatura è piuttosto rigida.
Innanzitutto si eviti l’uso di indumenti eccessivamente larghi (come le tute
per esempio) che non consentono un riscaldamento particolarmente
efficiente a meno che non sia particolarmente pesanti, cosa quest’ultima che
fa nascere altri problemi. È opportuno evitare anche di vestirsi a strati
perché così facendo la traspirazione non è ottimale e la sudorazione diventa
eccessiva; la tecnica ha fatto passi da gigante in questi ultimi anni ed
esistono maglie termiche leggere e aderenti che garantiscono un’ottima
traspirabilità e allo stesso tempo un efficiente riparo dal freddo eccessivo.
Se poi la temperatura è particolarmente rigida esistono capi tecnici più
pesanti, ma sempre nei giusti limiti.
Per quanto riguarda la testa, sconsiglio l’utilizzo del cappello di lana che
dovrebbe essere utilizzato solo da coloro che sono calvi e non sono quindi
protetti dai capelli. Consigliabile invece l’utilizzo delle apposite fasce da
runner che riparano fronte e orecchie.
Anche l’utilizzo della sciarpa per la protezione della gola lascia il tempo
che trova, poco importa riparare la gola dall’aria fredda diretta quando poi il
contatto avviene comunque con la respirazione. Le cose cambiano invece
quando spostiamo il discorso sulle mani; l’utilizzo di guanti è decisamente
consigliabile; l’importante è trovare quelli più adatti al nostro scopo; né
eccessivamente pesanti né particolarmente leggeri.
Per quanto riguarda le gambe il consiglio è praticamente identico a quello
relativo ai capi che coprono le parti superiori del corpo; i pantaloni devono
essere leggeri, morbidi e traspiranti; in commercio esistono capi tecnici a
prezzi abbordabili che hanno tutte queste caratteristiche. Sono comunque
molti i runner che corrono per tutta la stagione invernale utilizzando i
calzoncini corti o, al limite, quelli da ciclisti o velocisti. Un ultimo cenno va
alle calze; non occorre portare calze troppo lunghe, è sufficiente che siano
solo un po’ più pesanti di quelle che si utilizzano normalmente durante i
mesi più caldi.
Il caldo
Dopo aver parlato di pioggia e gelo è inevitabile non parlare anche della
corsa durante i mesi estivi; sul fatto che correre quando il clima è
particolarmente afoso non sia il massimo si può essere tutti tranquillamente
d’accordo, ma, come il freddo non deve scoraggiare le nostre uscite
podistiche, nemmeno il caldo deve essere la scusa per rinunciare alla seduta
di allenamento. È ovviamente opportuno scegliere il momento migliore per
effettuare l’allenamento, magari poco prima del tramonto o subito dopo;
non è necessario correre alle due del pomeriggio quando il sole spacca
letteralmente le pietre; è sufficiente un minimo di buon senso. Per quanto
riguarda l’abbigliamento c’è ben poco da dire; l’abbigliamento standard è
costituito da canottiera e maglietta. Alcuni runner, quando fa
particolarmente caldo, scelgono di correre a torso nudo (o con il top per le
donne). Può sembrare strano, ma correre nudi non è la soluzione migliore;
infatti, così facendo, si ha la massima evaporazione con grande dispersione
energetica. La soluzione ideale consiste nello scegliere un capo di
abbigliamento che non faccia sudare troppo e che trattenga una parte del
sudore, ciò consentirà di evitare un’evaporazione massiccia o comunque la
renderà più graduale; saremo più umidi, ma non bagnati o sgocciolanti.
Un breve cenno va anche alla reidratazione. È innegabile che per molti
runner la questione della reidratazione rappresenti una sorta di serio
dilemma, in particolar modo per coloro si accingono ad affrontare corse di
una certa durata quando la temperatura è decisamente elevata. Porsi la
questione è corretto, ma molto spesso la portata del problema reidratazione
viene sovrastimata; non è infrequente notare runner che si allenano
portandosi appresso una bottiglia d’acqua; tale atteggiamento appare
eccessivamente prudenziale; non si corre certo il pericolo di disidratarsi se
corriamo per un’oretta sotto il sole primaverile; tra l’altro, se corriamo per
mezz’ora, non ci disidrateremmo neppure correndo sotto il sole di una
giornata d’estate con 30 °C all’ombra; sarà sufficiente bere dopo il termine
dell’allenamento. Ovviamente, chi si sottopone ad allenamenti di lunga
durata sotto il sole cocente (per esempio nel caso di una preparazione di una
maratona) dovrà reidratarsi in modo opportuno, ma non è necessario
esagerare; anche bere in modo eccessivo può creare problemi (il rischio
maggiore è quello di andare incontro a iponatriemia, la condizione per cui
la concentrazione di sodio nel sangue diminuisce a causa di un’assunzione
eccessiva di acqua). Quindi, non poniamoci il problema del bere se la
durata delle nostre sedute di allenamento è relativamente breve.

Corri nel modo più naturale possibile, senza


forzare la respirazione o la falcata
Quando una persona decide di iniziare a correre è quasi inevitabile che
persone più esperte (ma più spesso pseudoesperte…) si sentano in dovere di
riempirla di consigli sul corretto stile di corsa, sulla migliore tecnica, sulla
falcata, sul modo giusto di respirare e via discorrendo.
La falcata
Il mio consiglio è elementare: si deve correre nel modo più semplice
possibile; ovvero: correre e basta, senza preoccuparsi se la nostra falcata
può apparire più o meno goffa. La storia della corsa ci ha regalato campioni
il cui stile è quantomeno… discutibile. Pensiamo per esempio alla
straordinaria campionessa britannica Paula Radcliffe, una delle più grandi
maratonete della storia (2h15’25” il suo record in maratona che nel
momento in cui sto scrivendo è ancora il primato mondiale della specialità);
anche chi capisce poco di tecnica di corsa non fa troppa fatica a capire che
questa bravissima atleta non è il massimo della vita in quanto a stile; tant’è
che Orlando Pizzolato, il due volte vincitore della New York City
Marathon, scriveva qualche anno fa in suo articolo parlando della
maratoneta inglese: “… il suo stile di corsa non è eccelso, soprattutto per
quanto riguarda quel suo caratteristico ciondolare con la testa”. E
Pizzolato è certamente uno che se ne intende. Non è possibile, o quasi,
fornire regole generali per quanto riguarda lo stile di corsa (ovvero
l’impressione visiva che l’osservatore esterno ha di chi corre) o la tecnica
(ovvero l’abilità nel correre, l’efficienza) per un adulto (mentre è possibile
correggere i bambini o i ragazzi); ogni atleta imparerà a ottimizzare il
proprio stile che è unico e inimitabile. Insomma, in altri termini e ribadendo
il consiglio iniziale: corriamo e basta senza preoccuparci troppo di come
tenere le braccia, la testa, le spalle ecc.
La respirazione
Un breve cenno va dato anche alla respirazione; in effetti non è
infrequente che il runner principiante si chieda (o chieda a chi ritiene più
esperto) quale sia il modo migliore di respirare quando si corre. Ognuno dà
le sue risposte pensando al proprio modo di respirare, ma in realtà anche in
questo caso la risposta dovrebbe essere la seguente: “si deve respirare nel
modo che sentiamo essere il più naturale possibile”. Forzare la respirazione
in un senso o nell’altro (rallentarla o, al contrario, velocizzarla) è un errore
da non commettere. È vero che i grandi campioni adottano determinate
tecniche nella respirazione, ma loro sono, appunto, dei campioni; imitarli
può essere molto difficile e, spesso, controproducente.

Il programma per chi inizia


A questo punto, esposte le prime cinque regole, è il momento di passare
all’azione e scendere finalmente sul terreno di gioco del runner: la strada.
Il programma è quello tipico del sedentario che inizia a correre senza aver
praticato recentemente uno sport e senza essere in particolare sovrappeso.
Velocità – La frazione di corsa può essere eseguita a piacere, ma non è
necessario strafare: quello che conta è arrivare alla fine del lavoro. Ci si
dovrà curare della velocità di corsa solo dopo aver raggiunto l’ultimo
periodo, in cui l’obiettivo deve essere quello di riuscire a correre 10 km in
un’ora.
Durata del periodo - Un periodo deve essere ripetuto più volte finché
non si termina l’allenamento con la netta sensazione che si poteva
continuare ancora tranquillamente e il giorno successivo non si hanno
particolari fastidi. Una buona regola è di associare un periodo almeno a una
settimana.
Numero sedute – Dovrebbe andare da un minimo di tre a un massimo di
sei alla settimana. Come decidere tale numero? Dipende dalle proprie
caratteristiche: se abbiamo recuperato la seduta precedente, è possibile
uscire anche il giorno dopo, ma almeno un giorno di riposo alla settimana ci
vuole.
Durata del programma – A seconda delle caratteristiche individuali, il
tempo per completare il programma può andare dai 2 ai 6 mesi.

Periodo 1 - 2’ camminando + 1’ di corsa per 8 volte


Periodo 2 - 2’ camminando + 2’ di corsa per 6 volte
Periodo 3 - 2’ camminando + 3’ di corsa per 6 volte
Periodo 4 - 3’ camminando + 5’ di corsa per 5 volte
Periodo 5 - 3’ camminando + 8’ di corsa per 4 volte
Periodo 6 - 3’ camminando + 12’ di corsa per 3 volte
Periodo 7 - 5’ camminando + 20’ di corsa per 2 volte
Periodo 8 - 5’ camminando + 30’ di corsa + 5’ di cammino e 15’ di corsa
Periodo 9 - 5’ camminando + 45’ di corsa + 5’ di cammino e 15’ di corsa
Periodo 10 - 5’ di camminata + 10 km di corsa.
Il programma per la donna che inizia
La donna ha una forza muscolare mediamente inferiore all’uomo e ciò
comporta che statisticamente sia molto più comune una dolorabilità
muscolare come reazione alle prime corse; a differenza dell’uomo in cui la
dolorabilità è successiva allo sforzo; in molte donne il dolore compare
anche durante la corsa. Per questo motivo, è opportuno usare maggiore
gradualità e privilegiare il numero di ripetizioni piuttosto che allungare la
frazione di corsa.
Velocità – Nella principiante la dolorabilità muscolare può comparire
durante la corsa soprattutto se la velocità è eccessiva. Per la donna la fase al
passo è quindi ancora più importante; i recuperi al passo non vanno saltati
perché unire due frazioni di corsa rende molto più difficile finire
l’allenamento.
Durata del periodo - Un periodo deve essere ripetuto più volte finché
non si termina l’allenamento con la netta sensazione che si poteva
continuare ancora tranquillamente e il giorno successivo non si hanno
particolari fastidi. Una buona regola è di associare un periodo almeno a una
settimana.
Numero sedute – Dovrebbe andare da un minimo di tre a un massimo di
cinque alla settimana. Nel caso di cinque sedute i giorni di riposo
dovrebbero essere collocati in modo da recuperare il meglio possibile.
Durata del programma – A seconda delle caratteristiche individuali, il
tempo per completare il programma può andare dai 3 ai 4 mesi. Il
programma termina con i 45’ di corsa perché a questo punto non vi sono
più differenze con un principiante di sesso maschile e si potrà gradualmente
avvicinarsi all’ora di corsa e poi migliorare la prestazione fino a correre i 10
km in meno di un’ora.

Periodo 1 - 1’ camminando + 1’ di corsa per 8 volte


Periodo 2 - 1’ camminando + 1’ di corsa per 12 volte
Periodo 3 - 2’ camminando + 2’ di corsa per 6 volte
Periodo 4 - 2’ camminando + 2’ di corsa per 8 volte
Periodo 5 - 2’ camminando + 4’ di corsa per 6 volte
Periodo 6 - 2’ camminando + 6’ di corsa per 5 volte
Periodo 7 - 3’ camminando + 10’ di corsa per 3 volte
Periodo 8 - 3’ camminando + 15’ di corsa per 2 volte
Periodo 9 - 5’ camminando + 20’ di corsa + 5’ di cammino e 15’ di corsa
Periodo 10 - 5’ di camminata + 25’ di corsa + 5’ di cammino e 10’ di
corsa
Periodo 11 - 5’ di camminata + 30’ di corsa + 5’ di cammino e 15’ di
corsa
Periodo 12 - 5’ di camminata + 45’ di corsa.

Alle donne che intendono iniziare a correre consiglio inoltre la lettura di


[5], un testo che si rivolge a tutte le donne che praticano la corsa o che
vorrebbero iniziare a farlo. In esso è possibile trovare tutto ciò che non è
presente nei testi per soli uomini, con concetti e informazioni descritti in
modo semplice e pratico.
Il programma per chi proviene da altri sport
Chiariamo subito un concetto fondamentale: per cominciare a correre non
esiste l’ex-sportivo. L’affermazione è dimostrata dai tanti maratoneti a
livello mondiale che, smessa l’attività, una volta ripresala dopo anni dallo
stop, incontrano molte più difficoltà di amatori in attività che da giovani
non sono mai stati campioni. Chi ha praticato sport in gioventù deve avere
l’umiltà di iniziare a correre utilizzando il programma standard per
sedentari perché ragionevolmente dopo un anno che si è interrotta la pratica
sportiva si ritorna sedentari.
Chi invece proviene da altri sport (nei quali magari ha semplicemente
rallentato la propria attività) e vuole cimentarsi nella corsa deve tenere
presente che l’obiettivo fondamentale è abituare la carrozzeria ai
traumatismi di questo sport; per cui, se è possibile limitare molto la fase
dedicata al cammino, non è possibile esimersi dalla gradualità nella fase di
corsa. Un’altra cosa da tener presente è che una muscolatura eccessiva
(come quella di chi proviene dagli sport di potenza) è comunque
penalizzante per il runner.
Velocità – La frazione di corsa può essere corsa a piacere, anzi per lo
sportivo può essere veramente gratificante. Non si deve però utilizzare il
cronometro per scoprire se si è andati più forte della volta precedente. Il suo
impiego deve essere limitato agli scopi del programma.
Durata del periodo - Un periodo deve essere ripetuto più volte finché
non si termina l’allenamento con la netta sensazione che si poteva
continuare ancora tranquillamente e il giorno successivo non si hanno
particolari fastidi. Una buona regola è di associare un periodo almeno a una
settimana.
Numero sedute – Dovrebbe andare da un minimo di tre a un massimo di
sei alla settimana. Chi proviene da altri sport probabilmente possiede già
una buona soglia di resistenza alla fatica, ma non si deve abusarne. Fastidi o
doloretti vari indicano che il proprio corpo non si è ancora adattato alla
corsa e che ha bisogno di un giorno di riposo.
Durata del programma – A seconda delle caratteristiche individuali, il
tempo per completare il programma può andare dai 2 ai 4 mesi.

Periodo 1 - 1’ camminando + 2’ di corsa per 8 volte


Periodo 2 - 1’ camminando + 5’ di corsa per 6 volte
Periodo 3 - 1’ camminando + 10’ di corsa per 4 volte
Periodo 4 - 2’ camminando + 15’ di corsa per 3 volte
Periodo 5 - 5’ camminando + 5 km di corsa in 28’
Periodo 6 - 5’ camminando + 30’ di corsa + 5’ di cammino e 10’ di corsa
Periodo 7 - 5’ camminando + 25’ di corsa per 2 volte
Periodo 8 - 5’ camminando + 30’ di corsa per 2 volte
Periodo 9 - 5’ camminando + 45’ di corsa + 5’ di cammino e 15’ di corsa
Periodo 10 - 5’ di camminata + 10 km di corsa in un’ora.
Capitolo 2 - Parola d’ordine: concretezza
Per chi ha letto con attenzione il primo capitolo non sarà difficile
comprendere la notevole importanza che nella corsa riveste la gradualità.
Essere graduali è quindi essenziale, ma si deve imparare anche a essere
concreti. Anche la concretezza, al pari della gradualità, è un concetto
fondamentale nella corsa (ma non solo); infatti, se non si è persone concrete
non si valorizzeranno mai appieno le potenzialità del proprio corpo, così
come non si sarà mai in grado di accettare i propri limiti. Essere concreti ci
aiuterà a ottenere il massimo da noi stessi.
Spesso la persona poco concreta è talmente concentrata sull’obiettivo da
raggiungere che non riesce a focalizzare la propria mente su strategie che le
permettano di aumentare il proprio livello di concretezza. Diventare
persone più concrete è molto importante perché significa, sostanzialmente,
diventare persone più efficienti e l’efficienza nello sport è fondamentale!
A questo punto, dopo che nel primo capitolo abbiamo analizzato con cura
le regole dedicate alla gradualità, è il momento di passare in rassegna le
cinque regole dedicate alla concretezza. Eccole:

1. Accetta i limiti del tuo corpo: non illuderti di essere immortale.


2. Se sei una persona sana, fidati del tuo corpo.
3. Usa abbigliamento tecnico, in particolare scarpe con buona
ammortizzazione.
4. Se vuoi, usa integratori, ma sappi che, se non sei un professionista,
probabilmente non ne hai bisogno.
5. Se vuoi progredire, fatti una cultura sportiva, capendo in prima persona
che cos’è la corsa.

Accetta i limiti del tuo corpo: non illuderti di


essere immortale
La corsa può dare tanto, tantissimo, ma è molto facile commettere errori.
Non c’è di niente di strano in tutto questo; sbagliare è umano, è perseverare
nell’errore che può creare seri problemi. È per questo motivo che nel primo
capitolo si insiste molto e con decisione sul concetto di gradualità e su un
approccio alle cose il più equilibrato possibile.
I rischi maggiori nella corsa sono gli infortuni frequenti e la nevrosi da
sport; fra i tanti motivi che possono portare a queste situazioni c’è la non
accettazione dei propri limiti. Quanto più si è in grado di accettare i propri
limiti, tanto più vedremo diradarsi infortuni e stress; se riusciremo a farlo
proveremo soltanto divertimento allo stato puro e consapevolezza di volersi
bene.
Della nevrosi da sport si è già parlato diffusamente nel sottocapitolo
dedicato alla seconda regola (ved. Poniti obiettivi sfidanti, ma realistici);
qui vorrei trattare più compiutamente di uno degli spauracchi del runner:
l’infortunio.
L’infortunio
Non esiste un’immunizzazione dall’infortunio, ma è possibile agire in
modo da rendere quest’ultimo poco probabile. Una cosa importante che è
necessario capire è che non siamo tutti uguali e che il correre, per quanto
salutare possa essere, non ha il potere di renderci immortali. Abbiamo già
analizzato il concetto di distanza critica e spiegato che quando la si
oltrepassa, il rischio di infortunio è decisamente più elevato. La distanza
critica è un parametro alquanto variabile; alcuni soggetti possono avere una
soglia di distanza critica decisamente alta, mentre altri possono essere “più
sfortunati”; questa non deve sembrare un’offesa alla nostra voglia di fare
sport, anche perché è decisamente meglio correre veloci per 10 km invece
che trascinarsi come zombi e pieni di dolori e doloretti vari in una
maratona. Sfortunatamente non è possibile esorcizzare gli infortuni andando
in palestra (se la forza fosse determinante i professionisti non si
infortunerebbero mai e i runner sessantenni sarebbero sempre infortunati),
seguendo un certo programma d’allenamento o assumendo integratori; i
consigli più saggi che si possono dare sono quelli di conoscere sé stessi e di
non strafare.
Frequentemente gli addetti ai lavori inondano gli atleti con cifre, tabelle,
statistiche, ricerche per mostrare come sia possibile prevenire gli infortuni.
Il guaio è che queste ricerche sono spesso contraddittorie: c’è chi, tanto per
fare un esempio, promuove lo stretching, mentre altri lo giudicano
assolutamente ininfluente, c’è chi esalta i plantari e chi li ritiene solo una
grande trovata commerciale, c’è chi punta il dito sulle scarpe e chi spiega
che anche con scarpe normali, se non si esagera, non si avranno mai
problemi.
Sfortunatamente nessuno focalizza l’attenzione sulla psicologia del
soggetto, non accorgendosi che almeno nella metà dei casi l’infortunio
nasce da un approccio psicologico errato allo sport. Sarà sicuramente
capitato a tutti di notare come un principiante che corre solo perché forzato
da qualche chilo di troppo abbia una bassa motivazione e che scambi il
primo fastidio per un dolore gravissimo che richiede uno stop immediato.
Altri casi di infortuni psicologici sono quelli di chi spiega un “purtroppo
non posso correre” con un alibi medico che nella stragrande maggioranza
dei casi o non impedisce realmente di correre o deve far considerare il
soggetto alla stregua di un invalido.
Tralasciando i casi di non-runner, focalizziamo l’attenzione su chi è
motivato alla corsa. In genere è facile trovare una personalità che facilita
enormemente la comparsa di infortuni, soprattutto se esiste una maggior
predisposizione individuale. Tale personalità è quella denominata
dell’immortale.
Gli immortali
Chi è l’immortale? L’immortale è colui che, sentendosi sano, è convinto
di poter correre senza particolari attenzioni, sicuro che gli infortuni capitino
agli altri. Esistono tre categorie di immortali: gli immortali ignoranti, gli
immortali fissati e gli immortali furbi.
Negli immortali ignoranti tale convinzione è aggravata dalla mancanza di
informazioni. Esempi classici sono il principiante che, giovane e
baldanzoso, tenta nella sua prima uscita di emulare l’amico e correre per 10
km oppure il runner che è convinto che gli antinfiammatori possano curare
efficacemente patologie croniche perché alleviano il dolore.
Per fortuna le informazioni circolano ed è difficile trovare sportivi
completamente a digiuno di nozioni di medicina sportiva. Purtroppo però le
informazioni possono essere contraddittorie e variamente interpretabili. Una
categoria di runner, gli immortali fissati, le utilizza distorcendole e
adattandole al proprio scopo, quello cioè, appunto, di essere immortali;
queste persone arrivano al punto di ritenere la corsa come una specie di
droga, la loro diventa una vera e propria dipendenza da corsa. Le cause di
tale dipendenza sono diverse; per esempio il soggetto può ricavare dalla
corsa una grande autostima, può non avere altro di soddisfacente nella vita,
può sentirsi di nuovo giovane e forte, può socializzare grazie a essa ecc. In
questa sede l’importante è capire che la sua psicologia rende l’infortunio
simile a un lutto. Non sa accettarlo e non sa elaborarlo. Ecco quindi che
corre sul dolore o che cerca mille improbabili miracolose cure per non
smettere di correre. Per lui un periodo di stop, ci si passi la voluta
esagerazione, è come la morte di un amico caro, una cosa che non si riesce
ad accettare.
Vi sono infine gli immortali furbi, coloro che non fanno parte delle prime
due categorie (o che le hanno superate con l’esperienza, ma continuano a
ritenersi immortali) che elaborano una strategia in cui la prevenzione
dovrebbe assicurare loro una pratica sportiva senza infortuni. Nel furbo c’è
l’elaborazione del lutto, ma è sbagliata perché vive sull’illusione che,
facendo tutto per bene, l’infortunio non arriverà mai o non si ripeterà più e,
incredibilmente, anche certi addetti ai lavori involontariamente supportano
questa convinzione.
Ci sono atleti che sono veramente convinti di poter gareggiare ogni
domenica perché usano le scarpe giuste, i percorsi giusti, gli allenamenti
giusti (fra parentesi, le gare fanno parte del programma di allenamento e
gareggiare tutte le domeniche non è “fare gli allenamenti giusti”; non lo
fanno i campioni, figurarsi se possono farlo i principianti o gli amatori…),
hanno un peso corporeo perfetto ecc. Se a loro si chiedesse se un’auto può
essere immortale sicuramente risponderebbero di no e inizierebbero a citare
i fattori che ne accorciano la vita. Ebbene, con l’auto del proprio corpo
queste riflessioni non le fanno mai.
Vediamo come l’immortale furbo elabora il lutto dell’infortunio.

1. Il runner ha un infortunio.
2. Il suo umore si deprime perché non comprende che gli infortuni li
hanno anche i campioni, ma che per lui, che campione non è, il danno non
può essere cosmico.
3. Pur essendo relativamente giovane, non comprende che, ai fini della
salute, stare fermi il giusto periodo di tempo non cambia nulla. Teme per lo
stato di forma o per l’appuntamento che rischia di saltare. Questo con la
salute non c’entra nulla e fra l’altro indica una dipendenza dal suo oggetto
d’amore che rischia di diventare una droga.
4. Per uscire dal tunnel depressivo, si concede una speranza: “Okay, ho
sbagliato. Per essere immortali occorre diventare maniaci della prevenzione
e fare tutto al meglio”.
5. Entra in una spirale ipocondriaca con decine di paia di scarpe,
radiografie, ecografie, TAC, risonanze, esami della postura, plantari, sedute
di potenziamento infinite, stretching per diverse ore al giorno e chi più ne
ha più ne metta, fino ad arrivare a viaggi periodici a Lourdes. Si noti che la
prevenzione è molto saggia, ma solo se prima si sono accettati i propri
limiti.
6. Non vuole accettare il concetto che un infortunio può anche
cronicizzarsi. Ognuno ha il proprio tallone d’Achille, ma l’immortale non
vuole accettare questo discorso. Anziché accettare due o tre ricadute
all’anno e imparare a gestirle al meglio, vuole negare la patologia,
arrivando a lasciare lo sport perché “così non si può andare avanti” (due o
tre stop di 15 giorni in un anno).
Gli errori da non commettere
Vediamo adesso quali sono gli errori fisiologici dell’immortale.
L’immortale non ha la comprensione di alcuni fondamentali concetti di
fisiologia sportiva:

1. Distanza critica – In base alla propria genetica e al proprio passato


sportivo, ognuno ha una distanza critica, superata la quale ogni seduta fa
impennare le probabilità di infortunio. Per l’immortale la distanza critica è
infinita o comunque superiore alle sedute che “vuole e deve” svolgere per
centrare un certo obiettivo. Per esempio, nonostante sappia benissimo che
non è da tutti gareggiare abitualmente su mezze e maratone, la cosa non lo
deve riguardare: è o non è immortale?
2. Km settimanali – In base alla propria genetica e al proprio passato
sportivo, esiste per ognuno di noi una relazione certa fra la media dei km
percorsi settimanalmente e gli infortuni. Questo concetto è da tutti
conosciuto e applicato per le auto. In base al modello (e quindi alla qualità),
il motore di ogni auto ha un numero di km di percorrenza che ne fissa la
vita media: se vogliamo farla durare n anni, è necessario distribuire tale
numero negli n anni prefissati. Così se si vuole correre tutto l’anno senza
problemi è necessario distribuire il chilometraggio del nostro motore in
modo saggio. Se si carica troppo, dopo tre-quattro mesi si è fuori uso.
3. Qualità – L’immortale non comprende che non è possibile gareggiare
ogni domenica, allenarsi con sedute qualitative molto frequenti, sentire
sempre l’adrenalina nelle vene. Prima o poi il motore fonde.
4. Percorsi – Nel cuore dell’immortale vive il mito di Rambo: perché
rinunciare a percorsi mozzafiato (salite e discese ripidissime, campestri da
far paura, maratone della Valle della Morte ecc.), tanto si è immortali!
L’accettazione dei propri limiti
Chi ha compreso i precedenti errori è in grado di apprezzare la giusta
strategia:

1. Determinare la propria distanza critica e il chilometraggio settimanale


critico. Se tali valori sono inferiori a 10 km e a 40 km è il caso di indagarne
i motivi con un medico sportivo perché non si può certo dire di essere
“fisiologicamente sani”; anche se è possibile condurre una vita da sedentari,
il problema che limita la pratica della corsa esploderà sicuramente con
l’avanzare dell’età del soggetto: le case di riposo per anziani sono piene di
persone di 70-80 anni ancora lucidissime di testa, ma con gravi problemi
ortopedici; probabilmente queste persone a 40 anni dicevano all’amico “sai,
non posso correre perché…”.
2. Se non si sono commessi gli errori dell’immortale, in caso di infortunio
fermarsi e valutarne la gravità con un periodo di stop sportivo. Esistono
infortuni che rientrano da sé in pochi giorni, altri in un paio di settimane. Se
l’infortunio è traumatico e impedisce la normale vita da sedentario (per
esempio una brutta distorsione) è opportuno ricorrere subito al terapeuta,
altrimenti si può attendere per un periodo fino a tre settimane; trascorso il
quale è necessario rivolgersi a un medico/ortopedico sportivo.
3. A questo punto la risoluzione dell’infortunio passa attraverso quattro
fasi: diagnosi, cura, comprensione delle cause, ripresa. Fondamentale la
comprensione delle reali cause. Ancora oggi, senza evidenze scientifiche
che supportino le affermazioni, molti medici danno come causa una
caratteristica anatomica (piede piatto, piede cavo, dismetria degli arti,
postura ecc.), senza comprendere che tale caratteristica è al più una
condizione facilitante l’infortunio: il 90% della popolazione ha una gamba
più lunga dell’altra, come il 70% ha i piedi cavi o i piedi piatti. Se si pensa
che queste siano le cause degli infortuni di un atleta, come spiegare che
moltissimi altri con lo stesso problema non si infortunano?
Facciamo un esempio concreto che tocca molti runner o aspiranti tali: un
podista con mal di schiena ricorrente.
Primo intervento: capire la patologia; per questo è necessaria la
consulenza di un medico.
Una volta stabilizzata la situazione, capire il grado di gravità del mal di
schiena.
Se il soggetto non può correre, non è una buona cosa limitarsi a non
correre perché vuol dire che la situazione è abbastanza grave e che fra
vent’anni creerà problemi non indifferenti anche in condizione di
sedentarietà. Quindi si deve verificare la possibilità di risolvere
chirurgicamente il problema.
Se la situazione è compatibile con la corsa, il runner deve mettersi
nell’ottica di gestire le ricadute durante l’anno. Ciò significa evitarle il più
possibile e saperle curare. Alcuni consigli relativi al primo punto:
a) conoscere la distanza critica. Chi ha un’ernia ha per esempio due
possibilità: correre per un’ora tre volte alla settimana (in modo che ci sia
sempre un giorno di scarico) o correre più volte per 40’. A seconda dei casi
l’ora o i 40 minuti possono aumentare o diminuire. In ogni caso superare
l’ora di corsa è sempre critico. Meglio andare più forte che correre a lungo
(questo anche perché l’appoggio lento grava di più sulla schiena).
b) Scegliere il terreno più adatto: lo sterrato compatto. Da evitare lo
sterrato molle (il richiamo della gamba sollecita troppo la schiena) o erboso
(l’instabilità “muove” le protrusioni) e l’asfalto.
c) Il modo di correre deve essere naturale. Ogni forzatura rischia di
innescare altri problemi (ne ho già parlato nel primo capitolo). Sull’uso di
un plantare che scarichi la schiena occorre prestare attenzione al fatto che,
caricando in modo diverso il peso del corpo, ci si predispone a infortuni in
altre zone.
d) Il tipo di scarpe deve essere ammortizzante, cioè, in gergo tecnico, A3.
Ovviamente la calzata è personale. Per esempio, parlando di marche
commercialmente molto note, le Mizuno sono scarpe secche, come le Asics,
mentre Saucony o Nike sono morbide. Se la persona è elastica userà le
prime, se non lo è, userà le seconde.
e) Per riprendere la strategia giusta è farlo senza dolore e correre in modo
da ritardare al massimo il prossimo stop. Quindi, quando si è allenati e in
forma, ci si assicuri di non essere vicini al limite critico che fa scattare un
nuovo stop.
Per ulteriori approfondimenti sulla tematica “infortunio” si consulti
l’Appendice F (Il dizionario dell’infortunio).

Se sei una persona sana, fidati del tuo corpo


Come si scoprono i limiti del proprio organismo, è necessario imparare a
fidarsi del proprio corpo. Dopo che ci si è sottoposti alla visita medico-
sportiva (vedasi Capitolo I) e si è stati ritenuti idonei alla corsa è
fondamentale iniziare ad acquisire la consapevolezza che sarà il nostro
corpo ad avvertirci se si sta esagerando e che lo farà mandandoci tutta una
serie di segnali che sarebbe deleterio ignorare.
La stanchezza
Uno di detti segnali è rappresentato dalla stanchezza, un problema che
può affliggere principianti e no. Non è facile trattare della stanchezza dello
sportivo in modo esaustivo perché essa è un sintomo molto generico,
difficile da sviscerare in poche righe. Iniziamo con il parlare della
stanchezza che insorge in un soggetto con le seguenti caratteristiche:

•• non è reduce da patologie particolarmente importanti né soffre di


patologie croniche o di affezioni stagionali;
•• non è in particolari condizioni di stress (lavorativo, familiare ecc.);
•• non segue regimi alimentari particolarmente stressanti;
•• se pratica un’attività sportiva, l’allenamento è sufficientemente corretto
da evitare problemi di sovrallenamento.

In altri termini, la persona è apparentemente sana e senza problemi di


salute. È la condizione abbastanza tipica di molte persone che conducono
una vita sana e nonostante ciò entrano in periodi di stanchezza, a volte
inspiegabili. Per cercare di venire a capo del problema è opportuno
monitorare alcuni fattori: ematocrito, ormoni tiroidei, altri ormoni e
magnesio. Trattiamo velocemente questi quattro fattori.
Una variazione negativa di ematocrito (per esempio dovuta a un’anemia)
può essere associata a stanchezza. Avere l’ematocrito a 38 quando
normalmente lo si ha a 42 (ricordiamo che 42 è la soglia di normalità per un
sedentario, ma uno sportivo può avere valori anche inferiori senza che vi sia
nulla di patologico) provoca, oltre a un netto scadimento delle eventuali
prestazioni sportive, anche una sensazione di stanchezza a riposo. La
sensazione è amplificata se (come spesso succede negli sportivi) la
pressione arteriosa tende a valori bassi (il classico capogiro per un brusco
cambio di posizione, da sdraiato a eretto).
È importante rilevare che ciò che conta non è il valore assoluto
dell’ematocrito, ma la sua caduta. La stanchezza insorge quando c’è una
differenza negativa con la condizione di normalità. Nulla si può concludere
perciò con un solo esame, occorre conoscere il valore normale, magari di
quando il soggetto ha ottenuto buoni risultati. Ci sono soggetti che stanno
benissimo con 41 di ematocrito (e hanno sempre 41) e altri che a 43 (hanno
46 come valore normale) si sentono stanchi e svuotati. Ecco perché è utile
eseguire analisi con una certa regolarità (una volta all’anno e, i primi anni,
almeno trimestralmente per capire come variano i propri dati con la
stagionalità).
Anche un diminuito funzionamento della tiroide può produrre stanchezza.
Mentre un ipertiroidismo è sempre una condizione patologica, un leggero
ipotiroidismo (cioè valori leggermente inferiori alla norma) può non essere
patologico, anche se causa sintomi poco piacevoli come stanchezza e
aumento di peso corporeo. L’ipotiroidismo leggero può dipendere dall’età o
anche da un regime alimentare controllato che porta l’organismo a
risparmiare sul metabolismo. Per sapere come funziona la tiroide occorre
inserire nelle analisi anche il controllo di FT3, FT4 e TSH. Anche in questo
caso è utile avere un riscontro con una situazione di normalità precedente.
Valori fuori norma di testosterone, DHEA, cortisolo, ormoni femminili
ecc. possono giustificare la stanchezza. Poiché le possibilità sono molte, è
opportuno affidarsi a un endocrinologo per avere indicazioni più precise.
Una carenza di magnesio è spesso associata a irritabilità, dolori muscolari,
prestazioni ridotte ecc. Basta un semplice esame del sangue per rivelarla ed
è dunque facilmente risolvibile. L’errore da non fare è, in presenza di
stanchezza, assumere comunque magnesio senza averne accertata la
carenza.
I quattro fattori sopracitati possono non essere all’origine della
stanchezza; è quindi possibile prendere in considerazione un altro aspetto:
la stanchezza di origine alimentare. È fuori discussione che una pessima
alimentazione può provocare stanchezza (come nel caso di chi alterna
periodi di abbuffate a periodi di digiuno), ma anche un’alimentazione
troppo variata in calorie abitua il corpo a risparmiare (ecco la stanchezza)
quando non ha sufficienti calorie: è il caso classico di chi sta a dieta tutta la
settimana e poi si concede week-end ipercalorici. Il conto generale torna,
ma il corpo memorizza il periodo di magra e durante di esso sprofonda in
una specie di letargo. Un altro caso di stanchezza da cause alimentari è
quello di chi segue una dieta ipocalorica di mantenimento del peso corporeo
senza concedere le giuste pause di riposo al proprio organismo, dormendo
troppo poco o svolgendo troppe attività contemporaneamente. Bisogna
infatti ricordare che il grado di fatica di ogni sport è minimizzato dalla
specializzazione. A parità di tempo dedicato, praticare più sport o attività
comunque impegnative (trekking, ballo ecc.) è più dispendioso che
praticare un solo sport.
Un’altra ipotesi da prendersi in considerazione è quella della stanchezza
di tipo patologico. Molto spesso, dopo un episodio virale, la stanchezza e il
conseguente calo di prestazioni possono accompagnarci per diversi mesi.
Poiché in genere l’episodio scatenante non passa inosservato, risolvere il
problema è compito tipicamente medico. Esiste però un caso molto
subdolo, la mononucleosi. Infatti alcune infezioni passano completamente
inosservate e la mononucleosi (il cui virus sta oggi prendendo importanza in
molte altre patologie ancora poco conosciute, come, per esempio, la
sindrome da fatica cronica) può avvelenare per diversi mesi la vita sportiva
del soggetto.
La febbre da corsa
Altro segnale che spesso preoccupa l’aspirante runner è la cosiddetta
febbre da corsa. La febbre è un sintomo associato a un grande numero di
patologie; qui mi riferisco soltanto alla febbre “causata” dalla corsa e non a
quella che si manifesta a causa di una patologia in atto esacerbata dallo
stress della corsa.
Per comprendere il meccanismo con cui nell’atleta si può generare uno
stato febbrile, occorre sapere che l’uomo è dotato di un centro di
termoregolazione (nell’ipotalamo) che ha l’obiettivo di mantenere costante
la temperatura del corpo. I recettori termici segnalano variazioni della
temperatura e attivano risposte fisiologiche in grado di contrastare la
variazione di temperatura. La parte anteriore dell’ipotalamo coordina i
meccanismi di termodispersione (che abbassano la temperatura corporea),
mentre quella posteriore i meccanismi di termogenesi (che alzano la
temperatura). Per esempio, a tutti è noto che la sudorazione è un valido
mezzo di termodispersione. Esistono anche recettori periferici (sulla cute)
che inviano informazioni dalla periferia all’ipotalamo. In sostanza noi
abbiamo a disposizione un sofisticato termostato che ha lo scopo di
mantenere la temperatura corporea stabile attorno ai 37 °C. Nonostante
questo termostato sia efficientissimo, è necessario un certo tempo perché la
risposta dell’organismo ristabilisca la temperatura; pensiamo a una camera
condizionata a 25 °C in cui venga aperta la finestra in piena estate (35 °C)
per un’ora: dopo la chiusura della finestra il condizionatore impiegherà
comunque del tempo per riportare la temperatura a 25 °C. In questo
esempio è chiaro a tutti che il ripristino della temperatura dipende dalla
temperatura esterna, dalla grandezza della finestra, dal tempo in cui resta
aperta, dalla potenza del condizionatore ecc.
Nel caso di uno sforzo fisico, l’aumento di temperatura e il successivo
ripristino dipendono da:

•• intensità dello sforzo;


•• durata dello sforzo;
•• allenamento del soggetto e sue capacità di recupero.

Rifacendosi all’esempio fatto poco prima, il primo punto è analogo alla


quantità di caldo che entra dall’esterno e il secondo alla durata di apertura
della finestra. Nel caso sportivo però occorre riferirsi alla soggettività dello
sforzo e non al suo valore assoluto: un determinato lavoro può innalzare la
temperatura di soli 0,3 gradi, mentre un altro tipo di attività può innalzarla
di 1,5 gradi (cioè, fino ad arrivare a circa 38,5 °C). Poiché stiamo parlando
di corsa, e quindi di uno sport di resistenza, l’aumento non è istantaneo, ma
raggiunge il suo valore massimo dopo un tempo che dipende
dall’allenamento del soggetto (qualche decina di minuti): quanto più il
soggetto è allenato, tanto più il massimo è raggiunto tardi. Poi per un
periodo sufficientemente lungo (da un’ora a qualche ora) la temperatura
tende a rimanere costante, prima di un ulteriore innalzamento che segnala
una situazione di netta crisi. Questi dati sono stati desunti da Saltin ed
Hermansen e sono considerati ormai consolidati, nell’ovvia ipotesi che lo
sforzo si svolga in condizioni di temperatura esterna ottimale allo sforzo
stesso. In genere una condizione esterna non ottimale (temperatura troppo
alta) accorcia significativamente i tempi di innalzamento della temperatura
corporea.
Il terzo punto è meno relazionabile all’esempio del condizionatore. Infatti
fin dagli studi di Asmussen (1945) si suppone che l’innalzamento della
temperatura faciliti il metabolismo legato alla prestazione e al recupero; ciò
è tanto più vero quanto più lo sforzo è breve e violento. In altri termini, su
distanze relativamente brevi (diciamo fino ai 5000-10000 m), dove la parte
anaerobica è ancora significativa, il soggetto allenato aumenta la
temperatura del suo corpo per ottenere una prestazione migliore (del resto è
anche uno degli scopi del riscaldamento: non a caso molti atleti ottengono
grandi prestazioni dopo un lungo riscaldamento), ma nello stesso tempo,
tale aumento svanisce velocemente dopo lo sforzo perché i meccanismi di
recupero sono molto buoni.
Quando si può parlare quindi di febbre patologica da corsa? Quando in
relazione allo sforzo sostenuto la temperatura corporea sale troppo o
permane alta troppo a lungo.
Se si corre una gara di 5000 m (al termine la temperatura rettale può
arrivare a 41 °C) è normale avere una temperatura sopra i 37,5 °C ancora
per diverse ore dopo la gara. La stessa cosa per una maratona. Ai fini della
febbre, cioè dell’aumento della temperatura corporea, lo sforzo anaerobico
conta quanto più è intenso, mentre quello aerobico quanto più è prolungato.
Un atleta che corra 10 km a un ritmo che è di 30”/km più lento di quello
della maratona realisticamente dopo un’ora dall’allenamento non deve
rilevare un significativo aumento della temperatura. Stessa cosa per chi
corra 1000 m al ritmo che è solito tenere su una gara di 5000 m.
Nei principianti la scarsa esperienza e lo scarso allenamento possono
portare a frequenti “febbri da corsa”, soprattutto se, nell’ottica di bruciare le
tappe, l’atleta è portato a tirare a ogni allenamento; nei soggetti molto
allenati è invece il sovrallenamento che può portare a un’eccessiva
frequenza del fenomeno. E quanto la febbre è associata a dolori muscolari?
Presto detto: esiste ovviamente una correlazione fra febbre da corsa e dolori
muscolari (ma non un nesso causale, nel senso che non sono i dolori
muscolari che causano la febbre); entrambe le situazioni evidenziano un
impegno eccessivo e sono la fotografia di un corpo che deve ripristinare il
suo stato ottimale.
Se la febbre da corsa si presenta con una certa frequenza dopo allenamenti
blandi oppure permane dopo 8-12 ore da gare impegnative (per la maratona
anche 24-36 ore!) è necessario escludere il caso di un sovraccarico allenante
e agonistico e procedere a check-up di tipo clinico.
Sovrallenamento
Rimandando a [1] per i dettagli, qui basta ricordare che il sovrallenamento
è una patologia facilmente riconoscibile perché i sintomi sono molti e
devono essere contemporaneamente presenti; fra tali sintomi ricordiamo
l’elevata frequenza cardiaca a riposo, il calo ponderale, l’insonnia o un
sonno non ristoratore, problemi di tipo immunitario, ipotensione, dolori
muscolari, disturbi gastrointestinali, astenia, irritabilità o depressione, calo
della libido, diminuzione dell’appetito e amenorrea od oligomenorrea nelle
donne. Come si può intuire, fra stanchezza e sovrallenamento le differenze
sono notevoli.
I cali di prestazione sportiva
Imparare a fidarsi del proprio corpo vuol dire anche non preoccuparsi in
presenza di cali di prestazioni sportiva. Sono moltissimi gli sportivi che in
presenza di un calo di prestazioni pensano subito a qualcosa di patologico.
Se la preoccupazione può essere legittima non deve essere mai disgiunta
dalla consapevolezza che

l’allenamento, non solo non può far migliorare all’infinito, ma può


addirittura far peggiorare la nostra prestazione.

Tale asserto può stupire ed è quindi necessario fornire una chiara


spiegazione.
Consideriamo, a mo’ di esempio, un soggetto che si allena proficuamente
e per un certo periodo di tempo resta sui livelli per lui molto buoni. In
genere l’errore che commette è di insistere con lo stesso tipo di
allenamento. Se è un soggetto che pratica attività sportiva da poco o in
modo non intenso, probabilmente continuerà a migliorare, ma se è invece
un soggetto molto vicino al suo top a un certo punto inizierà a peggiorare.
Quali sono gli errori? Ve ne sono due. Vediamo il primo.
Alla base dei miglioramenti che induce l’allenamento c’è il principio della
supercompensazione, cioè la reazione che produce il fisico una volta
stressato ai suoi massimi livelli. Pertanto ogni miglioramento è frutto di uno
stress organico. Questo concetto non è affatto chiaro a chi, allenandosi in
modo intenso e professionale, pretenderebbe di migliorare sempre, di
gareggiare ogni domenica e magari di compiere duri allenamenti durante la
settimana.
Il concetto corretto è invece che dopo ogni periodo di miglioramento
(carico) deve essere presente un periodo di mantenimento (scarico), il cui
scopo ottimale è di rigenerare l’organismo senza fare perdere troppo in
prestazione. Passiamo adesso al secondo errore.
Purtroppo non funziona inserire un periodo di mantenimento quando si ha
già il calo di prestazioni. Infatti organicamente il corpo è già sofferente e
comunque reagisce male a ogni stress fisico, anche se limitato. A questo
punto si deve necessariamente inserire un periodo di rigenerazione che può
durare anche un paio di mesi. Nella prima fase del periodo di rigenerazione
il runner può dedicarsi ad altri sport, alla palestra o seguire un programma
molto blando e facile; nel secondo deve iniziare di nuovo la preparazione
esattamente come dopo un infortunio che lo abbia tenuto fermo diverse
settimane, con molta gradualità. Questo quadro fa capire l’importanza della
prevenzione del calo di prestazione.

Usa abbigliamento tecnico, in particolare scarpe


con buona ammortizzazione
Se ci si fida del proprio corpo, ci faciliteremo certamente le cose, ma
questo non è il solo modo di aiutarsi. Anche l’abbigliamento tecnico è
molto importante per la pratica della corsa.
Possiamo iniziare la nostra nuova avventura regalandoci nuovi vestiti; la
corsa è uno sport semplice, ma per farla bene non ci si può esimere
dall’avere buoni compagni: scarpe ben ammortizzate che salvino i nostri
tendini, magliette leggere per l’estate e capi traspiranti per l’inverno, ma
attenzione, tutti devono permettere una buona traspirazione perché coprirsi
per sudare molto è la strategia che boccia senza appello chi corre in maniera
improvvisata. Chi lo desidera può usare anche strumentazione sofisticata,
ma è bene sapere che chi conosce sé stesso e la corsa non ha bisogno di un
cardiofrequenzimetro per “sentire” il proprio cuore.
Entriamo più nel dettaglio e affrontiamo i punti sopracitati.
L’argomento scarpe potrebbe sembrare banale, ma in realtà non è così,
tant’è che in [1] dedico a questo argomento un lungo sottocapitolo. Non è
questa la sede per trattare l’argomento sviscerandone tutti i più minuziosi
dettagli; quello che però è importante capire è che la scelta delle scarpe da
runner non è una questione da prendere sottogamba. Per l’acquisto delle
nostre scarpe da corsa è consigliabile rivolgersi a negozi specializzati. Un
errore che non deve essere assolutamente commesso è quello di impiegare
per la corsa scarpe che sono state pensate per altri sport; sembra un
consiglio banale, ma nasce dall’esperienza; non è infatti infrequente vedere
runner che corrono con generiche scarpe da ginnastica; un errore
madornale, un vero e proprio attentato ai nostri poveri tendini. L’acquisto
delle scarpe da corsa non deve essere frettoloso, se non si ha il tempo di
scegliere con cura, è bene rimandare la visita al negozio a un momento più
propizio. Una volta nel negozio non esitiamo a chiedere consigli ai membri
del personale che sicuramente hanno una certa esperienza in merito, non c’è
bisogno di fare i timidi, chiediamo tutti i chiarimenti che riteniamo
opportuni, non esistono domande stupide quando parliamo della nostra
salute perché di questo si tratta. Ovviamente bisogna essere in grado di
fornire al commesso alcune informazioni basilari; dobbiamo infatti
specificare se le scarpe ci servono per gareggiare oppure per allenarci, se
siamo soliti correre su asfalto oppure se svolgeremo i nostri allenamenti su
terreni sterrati o su pista, se intendiamo allenarci per un carico settimanale
di X km piuttosto che per uno di Y km, a che ritmo corriamo abitualmente e
qual è il nostro peso. Insomma, quante più informazioni diamo al
commesso tanto più egli sarà in grado di consigliarci per il meglio.
Le misure che si trovano sulle scarpe da corsa sono generalmente tre:
quella inglese, quella italiana e quella americana, inoltre è presente la
specifica in cm relativa alla lunghezza. A noi interessa la misura italiana; è
necessario non raffrontarla con quella della cosiddetta scarpa borghese
perché tale misura è generalmente più bassa; comunque sia, ciò che è
importante è la prova; solo provando varie scarpe è possibile chiarirsi le
idee sulla calzata ideale. Dopo aver provato diversi modelli, come si deve
fare per scegliere? Il consiglio è quello di farlo basandosi sulle proprie
sensazioni relative alla calzata, se la scarpa ci piace, ma la troviamo poco
confortevole o avvertiamo qualche leggero fastidio bisogna orientarsi su un
modello diverso. Non si devono avere remore nel provare e riprovare i vari
modelli, dobbiamo farci centinaia di km con queste scarpe! Sostanzialmente
le caratteristiche della scarpa da corsa ideale sono comfort, morbidezza e
adattabilità alla forma del piede. Se è possibile (e in genere lo è) sarebbe
opportuno provare a correre per un paio di minuti con le scarpe candidate
all’acquisto, anche se, è giusto precisarlo, il responso finale sulla
correttezza della scelta arriverà soltanto quando si saranno percorsi km e
km (a proposito di km: dopo averne fatti un migliaio bisogna
“obbligatoriamente” cambiare scarpe perché queste perdono le loro
caratteristiche ammortizzanti). I criteri soprariportati valgono per maschi e
femmine anche se queste ultime potrebbero incontrare qualche difficoltà in
più nella scelta. In commercio esistono modelli unisex e modelli pensati
specificamente per le donne (solitamente riportano la sigla W, dall’inglese
woman, dopo il nome), ma il mio consiglio è quello di optare per il modello
unisex se è disponibile la misura giusta dal momento che questo tipo di
modello è generalmente migliore dal punto di vista qualitativo. Chiudo
l’argomento scarpe parlando di prezzo; non è detto che il modello costoso
sia il migliore, ma è anche vero che il prezzo non può essere preso in
considerazione per la scelta della scarpa da corsa ideale; insomma, detto un
po’ brutalmente: trattandosi di uno “strumento” importantissimo per la
salute dei nostri tendini, qualche soldino dobbiamo spendercelo.
Esaurito l’argomento scarpe possiamo passare all’abbigliamento; la
tipologia di quest’ultimo è ovviamente legata alle condizioni climatiche; per
quanto riguarda i mesi più caldi, come già accennato nel primo capitolo
(vedasi regola Impara a entrare in sintonia con il clima), l’abbigliamento è
costituito da canottiera e calzoncini corti; assolutamente bandito il fatto di
coprirsi con tute impermeabili allo scopo di sudare tantissimo per favorire il
dimagrimento (un vero e proprio controsenso fisiologico purtroppo ancora
duro a morire); quando le temperature iniziano a calare, ma non sono
ancora proibitive, si può passare a magliette da running a maniche lunghe,
mentre nei mesi particolarmente freddi si deve ricorrere all’utilizzo di
magliette termiche e di giubbotti da running; i negozi specializzati nella
corsa offrono un ampio ventaglio di scelta e non sarà affatto difficile
scegliere i capi più adatti; l’importante è ricordarsi di non esagerare troppo
con la pesantezza degli abiti; superato l’impatto iniziale infatti, il corpo
inizia a riscaldarsi ed essere troppo coperti ci farebbe sudare in modo
eccessivo. Quando le giornate sono particolarmente fredde e magari anche
ventose è possibile anche indossare un’apposita calzamaglia per coprire le
gambe.
Nei negozi specializzati nella corsa è possibile trovare anche capi di
abbigliamento intimo pensati appositamente per chi pratica uno sport; dal
momento che gli indumenti intimi sono a diretto contatto con la cute è
opportuno che consentano un’ottima traspirazione; i capi tecnici traspiranti
non assorbono il sudore, ma ne consentono l’evaporazione. Per le donne
esistono poi appositi reggiseni sportivi che, rispetto a quelli tradizionali,
garantiscono un maggiore sostegno.
Per quanto riguarda i calzini da corsa, il primo consiglio da dare è quello
di controllare accuratamente che non abbiano cuciture interne
particolarmente accentuate in quanto queste potrebbero essere causa di
fastidiose abrasioni o vesciche. Esistono calze da corsa di vario tipo e nei
materiali più vari (fibre sintetiche, naturali, miste ecc.), possono essere più
o meno basse, più o meno sottili ecc. Molto buone sono le calze tecniche in
fibra sintetica traspirante a doppio strato; sono calze molte resistenti e si
rivelano particolarmente adatte ad allenamenti di una certa durata.

Se vuoi, usa integratori, ma sappi che, se non sei


un professionista, probabilmente non ne hai
bisogno
Dovrebbe essere chiaro a chiunque che anche il doping più spinto non può
trasformare un ronzino in un purosangue, per cui, se si segue un regime
alimentare corretto, non si può certo pensare che gli integratori alimentari
possano farci volare.
L’integrazione alimentare è un valido aiuto allo sportivo, ma questi deve
avere la cultura (o comunque una persona di riferimento) che gli permetta
di gestirla al meglio.
La maggior parte degli atleti (anche amatoriali) si avvicina al mondo
dell’integrazione nella speranza di migliorare le proprie prestazioni.
Purtroppo la cattiva notizia è che non esiste nessun integratore che consenta
di farlo in modo significativo. “In modo significativo” vuol dire in modo
tale da cambiare la cilindrata di un atleta; checché se ne dica, non esistono
integratori che trasformano ronzini in purosangue. Se si ottengono
miglioramenti tali da far cambiare la cilindrata dell’atleta, si sconfina
chiaramente nel doping. Realisticamente, con gli integratori il
miglioramento prestativo non va al di là del 10% di quello ottenibile con la
scellerata pratica del doping. Allora a che servono gli integratori per chi
pratica sport? E qual è la migliore integrazione alimentare possibile? Non è
facile rispondere in modo serio e scientifico a questa domanda se non si
descrive la persona di cui stiamo parlando. Infatti esistono premesse valide
per tutti, ma conclusioni personalizzate per ogni realtà sportiva. Innanzitutto
è necessario rispondere a tre domande fondamentali: cosa sono gli
integratori alimentari? Quando funzionano? Quando non funzionano?
Cosa sono gli integratori alimentari?
La definizione di integratore alimentare non è certo semplice; si
sovrappone infatti parzialmente con quella di farmaco (un errore comune è
quello di ritenere che gli integratori siano sostanze destinate soltanto ai
soggetti sani) e tende a distinguersi da quella di sostanza dopante o doping
(con l’altro comune errore di ritenere che solo il doping faccia male, mentre
gli integratori sarebbero privi di effetti collaterali). Una definizione di
integratore può essere la seguente:

un integratore alimentare è un prodotto che vuole integrare la dieta


fornendo nutrienti di cui si può essere carenti o che è impossibile
assumere dall’alimentazione in quantità sufficienti.

Molti si troveranno d’accordo con questa definizione che però ha una


difficoltà pratica: attualmente vengono considerate come integratori anche
molte sostanze che nulla c’entrano con la normale alimentazione, per
esempio molte sostanze di origine naturale (come magari l’ultimo
sensazionale integratore ottenuto da una pianta africana fino a ieri
totalmente sconosciuta) o di origine sintetica (si pensi a molti prodotti usati
nel mondo del body building) che dovrebbero migliorare la nostra salute
oppure le nostre prestazioni sportive.
Sono queste “estensioni” che vanno guardate con sospetto e che devono
essere valutate correttamente, attribuendole all’ultima bufala relativa al
mondo dell’integrazione, a quello della farmacologia o a quello
pericolosissimo del doping.
Una definizione estesa può essere quella che definisce integratore

ogni sostanza che, assunta da una persona sana, ne migliora lo stato di


salute senza il pericolo di pesanti effetti collaterali.

Alcune precisazioni:

1. Nello stato di salute è ovviamente compresa anche la prestazione


sportiva.
2. La definizione non esclude che un integratore possa essere usato anche
nella cura di una patologia, ma evidenzia la differenza fondamentale con i
farmaci che di per sé curano stati patologici. Così, un presunto integratore
che viene usato solo per curare patologie minori, non è un integratore, è un
farmaco.
3. La definizione vuole evidenziare che una sostanza che sembra
funzionare in una percentuale limitata di soggetti sani, non è un integratore,
probabilmente è solo l’ultima trovata commerciale.
4. Infine, con il riferimento agli effetti collaterali, la definizione esclude
ogni sostanza dopante.
Integratori: quando funzionano?
Praticamente ogni sportivo, o quasi, ha assunto integratori per supportare
al meglio la propria passione; con lo sviluppo dello sport amatoriale il
fenomeno è diventato di massa. Purtroppo la mancanza di cultura fa sì che
si commettano molti errori, spesso sopravvalutando il ruolo degli integratori
nella prestazione (ricordiamo: un integratore non trasformerà mai un
ronzino in un purosangue); l’ignoranza su concetti fondamentali come
dosaggio, biodisponibilità, effetti collaterali ecc. porta a commettere molti
errori che potrebbero essere facilmente evitati con un minimo di studio o
comunque rivolgendosi a professionisti seri e qualificati, il cui giudizio non
è alterato dall’enorme business che si è creato attorno all’integrazione
alimentare.
Relativamente all’attività sportiva, è importante capire che

non esiste nessun integratore in grado di migliorare significativamente


la prestazione.

Spesso l’esaltazione di questo o quell’integratore serve semplicemente per


coprire pratiche dopanti: attribuisco il merito all’integratore perché non
posso diffondere la notizia che uso una sostanza illecita. In altri casi si usa il
trucco della seminformazione (un’informazione vera, ma fuorviante, il cui
scopo è quello di ingigantire l’effetto di un messaggio, ovviamente a
proprio vantaggio. Il trucco consiste nel dire la verità, ma di farlo in modo
che chi ascolta arrivi a conclusioni errate e favorevoli a chi lancia il
messaggio): per esempio, l’integratore X consente di prolungare lo sforzo
del 10% (test a esaurimento); il ricevente il messaggio interpreta la frase
come un miglioramento della prestazione quando il caso è analogo a quello
di un’automobile che non migliora la sua velocità, ma ha semplicemente
più benzina: dire che l’atleta riesce a correre a una velocità intermedia per 4
ore e mezzo anziché 4 ore e 15 minuti non vuole affatto dire che migliorerà
il suo record di 2h30’ sulla maratona!
Ovviamente l’affermazione soprastante non fa riferimento a quei prodotti
che sostituiscono l’alimentazione nelle prove di lunga durata (come acqua,
barrette ecc.); il “significativamente” è proprio il confine con il doping: una
qualunque sostanza in grado di far migliorare nettamente i risultati
dell’atleta ne sposta gli equilibri fisiologici a tal punto che è veramente
ingenuo pensare che non abbia effetti collaterali.
Nello sport però gli integratori non vengono usati soltanto per tentare di
migliorare la prestazione, ma anche per migliorare il recupero dell’atleta (è
il caso, per esempio, degli aminoacidi ramificati). Ogni allenatore sa che un
buon allenamento che consenta di recuperare velocemente è fondamentale
per sopportare carichi di lavoro corretti per il proprio corpo e che è una
strategia assolutamente perdente cercare di recuperare con integratori
quando il proprio recupero naturale è pessimo: prima o poi si incapperà in
una serie di infortuni più o meno bloccanti o si entrerà nella spirale del
sovrallenamento.
Poiché il recupero è fondamentale nell’ottica della seduta successiva,
l’atleta dovrebbe aver recuperato a sufficienza prima di un nuovo
impegnativo allenamento. Ai fini del recupero è quindi completamente
diversa la situazione fra il professionista che esegue un bigiornaliero
correndo globalmente per 40 km e l’amatore che si allena tre volte alla
settimana percorrendo al massimo 20 km nella seduta più lunga. Il concetto
che deve essere tenuto a mente è che

se la frequenza e la lunghezza degli allenamenti non sono elevate, ogni


integrazione finalizzata al recupero è inutile, basta una sana e corretta
alimentazione.

Poiché esistono profonde differenze fra uno sport e l’altro, è difficile dare
un’indicazione generale su quando e quanto siano utili gli integratori nel
recupero e quindi nell’allenamento. In linea di massima si può affermare
che gli integratori servono per recuperare meglio se:
•• lo sforzo è superiore ai 90’
•• il numero di ore settimanali di attività fisica effettiva è superiore alle sei
ore.
Integratori: quando non funzionano
Moltissimi farmaci e integratori alimentari non funzionano, soprattutto
quelli che dovrebbero risolvere piccole patologie o lievi carenze.
Nonostante la martellante pubblicità, ormai chi crede ancora ciecamente
nella potenza degli integratori (sia per lo sport sia per la vita normale) è
simile alla massaia che vent’anni fa credeva alla potenza del prodotto per
lavare i pavimenti perché vedeva in televisione la sua collega che puliva
senza fatica un pavimento sporcato ad hoc con un bel centimetro di polvere
e schifezze varie.
Per comprendere meglio questi concetti possiamo ricorrere al paradosso
dell’aspirante campione. È abbastanza facile trovare, a livello giovanile, un
atleta di diciotto anni in grado di correre i 1000 m in 2’40” senza che questi
abbia mai fatto uso di integrazione alimentare o di supporti per il
miglioramento della prestazione. A questo punto considerando tutti gli
articoli trovati in letteratura, il ragazzo potrebbe ragionare così: con gli
aminoacidi a catena ramificata guadagno 3”, con la creatina 5”, con
l’inosina 1”, con la carnitina 3”, con il bicarbonato 2”, con l’OKG o la
glutammina 2”, con il ginseng 2”, con la pappa reale 1”, con l’integrazione
vitaminica corretta 3”, con gli antiossidanti, i minerali e il coenzima Q10
4”: in totale in un mese d’integrazione si guadagnano 26”, cioè scendo a
2’14”. Considerando i benefici dell’elettrostimolazione e del potenziamento
muscolare, il cambio d’allenatore e di allenamenti (un allenatore nazionale
deve pur valere di più rispetto al mio professore di scuola...), l’ultimo
modello di scarpe chiodate ecc. guadagno ancora almeno 10”. Crescendo e
maturando dovrei guadagnare in un anno almeno 4”: è ormai certo che
l’anno prossimo correrò i mille in meno di due minuti, abbattendo di oltre
dieci secondi il record del mondo!
La cosa vale anche per tutti quegli integratori orientati a persone
“normali”: dalle vitamine che con dosi ridicole dovrebbero contrastare
l’invecchiamento, al ginkgo biloba che dovrebbe preservare la lucidità
mentale (ma diverse ricerche lo considerano poco più dell’acqua fresca),
agli integratori per alzare il tono dell’umore (come se la depressione anche
lieve fosse un qualcosa che si può curare con le pastiglie di iperico che si
trovano al supermercato) ecc.
Come integrare?
Negli sportivi over 35 è possibile per esempio considerare l’impiego di:

•• un multivitaminico;
•• antiossidanti come vitamina C e vitamina E (i più semplici e i più
efficaci come costo/prestazioni);
•• aminoacidi ramificati nel caso di chilometraggi sensibili (ovvero
singole sedute di allenamento superiori ai 20 km);
•• glucosamina nei casi di artrosi;
•• ferro, calcio, magnesio nei casi di carenza accertata.

Per gli aminoacidi ramificati (ma vale anche per gli omega 3), se la dose è
paragonabile a quella assunta con la normale alimentazione perché usare le
pillole?
Molti integratori sono venduti come tali per aggirare i problemi di una
prescrizione medica. Spesso le dosi che vengono proposte sono
decisamente insufficienti per ottenere una qualunque azione significativa.
Prendiamo il caso di un multivitaminico che contenga 30 mg di vitamina C
nella dose giornaliera consigliata dal produttore. Un’arancia ne contiene il
doppio! Non è preferibile utilizzare l’arancia?
È anche possibile arrivare a un’integrazione mirata ricorrendo alla
cosiddetta soluzione nutraceutica, locuzione con la quale si vuole indicare
un’integrazione alimentare ad alto dosaggio con l’uso preferenziale di
determinati alimenti; infatti, grazie ai progressi dell’alimentazione e
all’arricchimento dei cibi, è possibile effettuare con alimenti preferenziali
(intelligenti) un’integrazione ad alto dosaggio (noto anche come dosaggio
americano, per differenziarlo da quello europeo in cui le RDA, ovvero le
dosi giornaliere raccomandate, sono decisamente più basse) di quasi tutte le
vitamine, E esclusa.
In altri termini, quando parliamo di integrazione alimentare abbiamo due
possibilità:

•• scegliamo cibi opportuni (soluzione nutraceutica: per ulteriori


informazioni si consulti la pagina http:// www.
albanesi.it/dietaitaliana/BLU/Articoli/integratori_ alimentari.htm);
•• se non amiamo questi cibi possiamo ovviare con un’integrazione
vitaminica opportuna.

Se non altrimenti indicato, l’integrazione alimentare deve essere continua


perché il compito che l’integratore deve svolgere è quotidiano.
Chiudiamo questo paragrafo con una considerazione sui tanto reclamizzati
integratori salini; sono innumerevoli gli studi che indicano che il reintegro
salino è essenziale in attività fisiche della durata superiore alle quattro ore.
Anche considerando una sensibilità individuale alla disidratazione, si può
comunque affermare che tutti gli integratori salini sono completamente
ingiustificati per sforzi inferiori alle due ore; basta reidratarsi con acqua per
non avere alcun problema (la quantità dipende dallo sforzo e dalle
condizioni atmosferiche). L’equivoco su cui giocano le varie campagne
pubblicitarie nasce dal fatto che alcuni problemi (generalmente ci si
riferisce ai crampi) sono erroneamente attribuiti alla mancanza di sali: se
ciò fosse vero, perché calciatori perfettamente allenati sono colti da crampi
nei supplementari di una partita in una serata primaverile? Sicuramente
durante gli intervalli hanno avuto tutto il tempo di assumere sali.
Per ulteriori e più dettagliati approfondimenti sull’argomento integrazione
rimando a [3] e a [1].

Se vuoi progredire, fatti una cultura sportiva,


capendo in prima persona che cos’è la corsa
La conoscenza è molto importante nella corsa; può evitarci, infatti, di
commettere grossolani errori ed è fondamentale affinché possiamo
apprezzare al meglio questa nostra nuova passione evitando di trattarla con
superficialità. Quando amiamo veramente qualcosa, infatti, impariamo pian
piano ad apprezzarne i dettagli, le finezze e i continui miglioramenti che
solo una partecipazione intensa a ciò che si sta vivendo può dare. Chi ama
diventa un esperto di ciò che ama, non gli basta accontentarsi di una
sommaria conoscenza. Conoscere è fondamentale, si devono approfondire
le cose, farsi domande e gustare ciò che si capisce e si scopre. La
conoscenza è il risultato di studio, tempo e coinvolgimento. Se “amo” una
cosa, ma non ho tempo di coltivarla, a livello esistenziale tale oggetto resta
un piacevole passatempo e nulla più.
Spesso, durante questo cammino verso la conoscenza, può capitare che ci
vengano dati moltissimi consigli, a volte contraddittori. È quindi necessario
cercare una propria visione coerente della corsa, studiando e leggendo
riviste e libri che parlano di questa nostra nuova passione.
Le riviste
Nel nostro Paese esistono diverse riviste che trattano di corsa, anche se, si
deve ammetterlo, la situazione dell’editoria della corsa in Italia non appare
troppo rosea. Molti runner non leggono perché secondo loro “le riviste
dicono sempre le stesse cose”. In effetti, in questa posizione c’è del vero,
ma talvolta dietro a essa si nascondono anche diversi alibi: il risparmio di
qualche euro al mese, la poca propensione a leggere e quella ancora minore
a imparare e a riflettere, la presunzione di sapere già tutto ecc. A chi la
pensa così, è difficile far cambiare con poche righe. Li invito solo a
considerare che la lettura è sempre indice di un approccio più razionale alla
realtà perché le cose non basta intuirle o saperle a metà, ma occorre
conoscerle in dettaglio, al 100%.
Per i più refrattari, una storiella, un episodio riportato dal mio sito
Internet.

Anni fa, l’allora campione del mondo di scacchi, Anatolj Karpov, doveva
tenere una presentazione in uno dei migliori Club italiani. Arrivai molto
presto e lo trovai a un tavolo da gioco, con una decina di persone che lo
osservavano. Aveva in mano un libro sui finali e stava analizzando sulla
scacchiera una posizione che il libro riportava nelle prime pagine.
Dopo un po’, qualcuno gli chiese perché analizzasse un finale da un libro
che probabilmente conosceva a memoria. Karpov rimase con un pedone in
mano, a mezz’aria, rifletté e poi rispose: “Chissà, si può sempre scoprire
qualcosa…”.
I libri
Ovviamente non esistono solo le riviste, ma anche molti libri interessanti
che trattano l’argomento. La cosa importante è riuscire a formarsi le basi e
per farlo è consigliabile studiare su testi rigorosi. In Italia praticamente con
tali caratteristiche ci sono solo testi a orientamento universitario, il più delle
volte complessi (testi che comunque può valere la pena di provare a usare).
Negli Stati Uniti per esempio la situazione è molto diversa, in quel Paese
infatti esistono testi molto speciali, le cosiddette bibbie (bibles o complete
handbooks, espressione quest’ultima che nella nostra lingua potremmo
rendere efficacemente con Il manuale completo di...); sostanzialmente si
tratta di testi dal principiante all’agonista, per chi inizia o per il
professionista, scritti con linguaggio pratico, ma rigoroso. Dopo una loro
lettura (ammesso che si riesca a terminarla!) si diventa superesperti della
materia. Per quanto riguarda la corsa per esempio c’è un testo
interessantissimo Lore of running, scritto da Tim D. Noakes). Testi del
genere sono consigliabili per farsi le basi, poi si può passare a libri
universitari italiani o a Internet se uno vuole ulteriormente dettagliare
l’informazione o mantenerla aggiornata.
Il limite di simili opere è che sono in inglese e questo può rappresentare
un ostacolo per molti. Per questo il lavoro del mio sito degli ultimi 10 anni
è stato quello di fornire agli amanti della corsa una serie completa di opere
di cui questo testo è la ciliegina sulla torta. Ecco un breve elenco.

•• Inizia a correre! - Testo destinato al principiante che non è in


sovrappeso; nel caso si volesse iniziare a correre perdendo anche diversi
chili, ci si può rifare a Il Metodo Albanesi, in cui dieci lezioni alimentari
sono affiancate da dieci lezioni sportive per l’avvio alla corsa. Dopo il
Metodo Albanesi si può passare a Inizia a correre! o direttamente a Il
manuale completo della corsa.
•• Il metodo Albanesi – Testo destinato al principiante in sovrappeso. Un
metodo che, nel suo piccolo, può essere considerato come rivoluzionario; è
fondamentalmente un percorso in dieci passi attraverso il quale, passo dopo
passo, è possibile giungere alla meta: iniziare a correre e nel contempo
dimagrire fino a raggiungere un peso ottimale.
•• Il manuale completo della corsa – Un testo completo che raccoglie
tutto ciò che oggi si conosce su questa meravigliosa pratica sportiva. La
corsa viene analizzata sotto i vari aspetti, da quello semplicemente
salutistico fino ad arrivare a quello agonistico. È l’opera che può
accompagnare il principiante nei suoi primi passi come pure per far capire
al professionista tutti i fini meccanismi che si mettono in moto per arrivare
al vertice della sua prestazione.
•• Donne di corsa - Un testo destinato a tutte le donne che praticano la
corsa o che vorrebbero iniziare a farlo. In questa opera è possibile trovare
tutto ciò che non è presente nei testi per soli uomini, con concetti e
informazioni descritti in modo semplice e pratico. In questo libro l’autrice
descrive la sua esperienza di oltre vent’anni di corsa, avendo vissuto in
prima persona (e risolto!) molti dei problemi che vengono citati nel libro.
•• L’infortunio nella corsa – Un testo che non può mancare nella
biblioteca del runner. Grazie a esso, infatti, è possibile imparare a prevenire
gli infortuni, a capirne la gravità e a intervenire nel modo migliore e più
rapido. È un testo decisamente innovativo perché propone una strategia di
gestione dell’infortunio che, se non fa miracoli, ottimizza il tempo
necessario per riprendere l’attività e può essere applicata da tutti senza
conoscenze mediche approfondite.
•• Il manuale completo della maratona – Un testo destinato a molte
tipologie di runner: da quelli che, dopo essere passati dallo stato di
principianti a runner, sognano di correre la prima maratona fino ad arrivare
a coloro che, avendola già corsa, desiderano ottimizzare le proprie
prestazioni nella corsa di Filippide. È anche un valido supporto per atleti
evoluti e allenatori.
•• L’allenamento mentale negli sport di resistenza – Un testo specialistico
destinato a tutti coloro che praticano gli sport di resistenza. Adatto sia a
professionisti sia ad amatori, insegna in modo semplice a gestire al meglio
l’interazione corpo-mente senza trattare l’argomento con complesse teorie
psico-bio-neurologiche.
Conoscenza o gadget tecnologici?
La strumentazione sportiva (che tratto in dettaglio alla fine di questo testo,
vedasi Appendice B – La strumentazione per la corsa) diventa sempre più
sofisticata ed è pertanto logico aspettarsi che anche nel fitness il suo
impatto aumenti sempre più.
Nelle palestre è normale cercare di catturare il cliente con una serie di
gadget tecnologici che integrano la normale attrezzatura “non intelligente”;
oggi però anche lo sport praticato a livello amatoriale con il solo scopo di
aiutare la propria salute può avvalersi di moltissime proposte basate su
novità elettroniche e informatiche alcune delle quali dieci anni fa potevano
sembrare fantascientifiche.

La strumentazione sportiva può essere classificata secondo lo scopo che si


prefigge:
1. Ludica - Consente di aumentare il gradimento del soggetto verso la
pratica sportiva;
2. Allenante - Consente di definire meglio il proprio allenamento;
3. Scientifica - Fornisce un insieme di dati sull’attività che si sta
svolgendo, sia relativi al soggetto sia all’ambiente circostante.

Spesso gli scopi 2 e 3 sono difficilmente scindibili perché il dato fornito


serve o potrebbe servire per l’allenamento e un dato che serve
all’allenamento che non sia scientifico è poco significativo, se non dannoso.
Mentre la strumentazione ludica (per esempio quella che varia lo scenario
mostrato a chi fa spinning) è in genere sempre positiva, quella allenante e/o
scientifica il più delle volte serve solo ad attrarre quella parte (non
trascurabile) della clientela che è sensibile al fascino tecnologico.
Strumentazione sportiva: il dato serve?
Purtroppo chi è sensibile all’ultima novità tecnologica spesso lo è troppo e
non si pone mai la domanda che titola questo paragrafo.
Per capirci, “troppo sensibile” vuol dire che il soggetto cade vittima di un
mare di informazioni che sono talmente approssimate da essere inservibili.
Il produttore però gioca sui paroloni, su concetti come elettronico,
computer, automatico ecc. per dare l’idea del massimo della credibilità,
dell’affidabilità e dell’avanguardia scientifica. Rispondiamo quindi alla
domanda:
il dato non serve

•• quando è approssimato;
•• quando ci impedisce di conoscerci.

L’approssimazione si ha in tutti quei casi in cui

1. Si usano formule che hanno una grande dispersione (deviazione


standard) intorno al valore medio della popolazione;
2. La tecnologia non ha ancora risolto totalmente il problema;
3. Si simula male una situazione reale.

Il punto 1 è per esempio mostrato dal calcolo della massa grassa o delle
calorie bruciate a partire da peso, sesso, altezza, frequenza cardiaca ecc.
Molto spesso sarebbero sufficienti una calcolatrice e una formula desunta
da un buon libro di fisiologia dello sport per avere i dati con la stessa
approssimazione. Il danno prodotto dalla strumentazione è quello di far
credere al soggetto di avere fra le mani un dato preciso. Molti piani di
dimagrimento falliscono perché le cyclette o i tapis roulant (o treadmill che
dir si voglia) che vengono utilizzati forniscono un calcolo delle calorie
decisamente sovrastimato.
Il punto 2 lo si riscontra per esempio nelle unità GPS più scadenti.
Il punto 3 è tipico di una simulazione al chiuso di un’attività esterna.
Esempio classico sono i dati poco realistici relativi a chilometraggio e
velocità che vengono forniti da tapis roulant e bike. Al produttore interessa
solo marginalmente verificare che ci sia rispondenza con dati reali, anzi
spesso un piccolo aiuto può gratificare il soggetto. Così ci sono donne
sedentarie non allenate che vanno a 30 km/h sulla cyclette o sedentari che
corrono a 15 km/h sul tappeto con facilità disarmante. Per contro ci sono
anche atleti di un certo spessore che rilevano una difficoltà mostruosa a
ottenere sulla strumentazione da palestra gli stessi risultati che ottengono in
strada.
Negativa è anche la situazione in cui la strumentazione dà dati precisi che
in qualche modo però aiutano la pigrizia del soggetto a evitare la fatica di
capirsi. Esempio classico è il cardiofrequenzimetro. Se il dato rilevato è
esatto, spesso l’uso che se ne fa è sbagliato:

1. Viene usato per “evitare di esagerare”; tipico caso in cui il personal


trainer non vuole indagare l’effettiva condizione di salute del soggetto (un
cuore sano può essere comunque spinto al massimo).
2. Viene usato per diffondere concetti errati (per dimagrire occorre non
superare certe frequenze cardiache) che però consentono al soggetto (in
genere un sedentario con una bassa soglia di sofferenza alla fatica) di
ritenere che uno sport dolce sia il massimo.

È abbastanza evidente che il dato di frequenza cardiaca rilevato dal


cardiofrequenzimetro può essere banalmente sostituito dalla respirazione
del soggetto; si consideri per esempio questa classificazione:

1. Facile: il soggetto parla facilmente e con continuità.


2. Normale (sportivamente parlando): il soggetto pala abbastanza
facilmente, ma la continuità costa un minimo di concentrazione.
3. Impegnata: il soggetto può parlare, ma a tratti.
4. Affannata: il soggetto non riesce a parlare se non diminuendo
l’intensità dello sforzo.

Realisticamente, per un soggetto che ha frequenza cardiaca massima di


180, ognuna di queste classificazioni equivale a un range di circa 15
pulsazioni (per esempio, facile 130, normale 145 ecc.). Il soggetto,
conoscendosi, riuscirà sempre più a capire per esempio dove si colloca
quando è fra facile e normale, sbagliando per esempio di 5 pulsazioni circa
rispetto al dato reale. Dopo questa analisi credete che un
cardiofrequenzimetro sia veramente fondamentale? Chi risponderà di sì,
probabilmente sarà anche convinto che basta il solo dato della frequenza
cardiaca per tarare l’allenamento (errore grave: nessun professionista
userebbe solo questo dato) oppure cercherà di integrarlo anche con un
sistema che misura la ventilazione polmonare, un altro che rileva la
concentrazione di lattato (una piccola sonda fissata in un lobo auricolare
che legge il valore dal sangue) e un ultimo (tranquilli, non esiste ancora)
che esegue una lettura del glicogeno muscolare (cioè di quanta benzina è
rimasta all’atleta). Dipendenza tecnologica totale.
Non è più stimolante imparare a conoscersi? Io ritengo di sì, vale molto
più la propria conoscenza che la sudditanza da uno strumento. Quindi
investiamo in conoscenza piuttosto che in sofisticatissimi gadget
tecnologici che spesso tra, l’altro, di sofisticato hanno ben poco.
Capitolo 3 - L’importanza della pianificazione
Molti di coloro che hanno iniziato a correre avvertono a un certo punto
del loro percorso la voglia, il desiderio, l’esigenza di “fare qualcosa in più”.
Non per tutti è così, sono molti infatti i modi in cui la corsa viene amata e
interpretata. Le cinque regole che tratterò in questo terzo capitolo sono
dedicate in particolar modo a coloro che desiderano pianificare i loro sforzi
allo scopo di ottimizzarli. La pianificazione è oltremodo importante nella
corsa perché consente di sfruttare al meglio tutte le proprie possibilità. A
questo punto quindi, dopo aver analizzato in dettaglio le regole relative alla
gradualità e alla concretezza, possiamo fare un ulteriore passo nel nostro
percorso di avvicinamento ai segreti della corsa e concentrarci sulle regole
che riguardano la pianificazione; eccole di seguito:

1. Un programma d’allenamento non è obbligatorio, ma è utile.


2. Se non trovi il tempo per correre, fermati e pensa a come puoi trovarlo!
3. Non saltare mai la fase di riscaldamento.
4. Anche il riposo è una componente dell’allenamento.
5. Cura ogni caratteristica del runner: resistenza, forza, velocità, elasticità.

Queste cinque regole rappresentano per il principiante un vero e proprio


salto di qualità, ma anche i runner più esperti dovrebbero riguardarsele
perché talvolta si tende a tralasciarle e a non dar loro l’importanza che
meritano.

Un programma d’allenamento non è


obbligatorio, ma è utile
La corsa è un gesto naturale e sono tanti i runner che corrono a
sensazione.
Molti si ricorderanno sicuramente di Forrest Gump, il simpatico
personaggio interpretato sul grande schermo da Tom Hanks. Forrest era un
tipo un po’ bizzarro che a un certo punto della sua vita scopre una nuova
passione: correre liberamente senza meta e senza tempo.
Sono molti i podisti che potremmo definire “runner alla Forrest Gump”,
sono coloro che:

1. Amano correre a sensazione per almeno un’ora.


2. Amano correre almeno quattro volte alla settimana.
3. Non amano verificare lo stato del proprio allenamento con cronometro
e/o cardiofrequenzimetro.
4. Amano variare spesso i percorsi (spesso amano correre nel verde).
5. Sono poco inclini all’agonismo.

Il primo punto è quello più caratteristico e distingue il Forrest Gump dal


normale jogger la cui uscita spesso non arriva all’ora.
Il secondo punto è importante perché indica un sostanziale bisogno innato
di correre (come quello del protagonista del film), ben diverso da chi si
allena 2-3 volte alla settimana e preferisce correre sempre “da riposato”.
Il terzo punto è abbastanza comprensibile per il cronometro, un po’ meno
per il cardiofrequenzimetro. Molti maratoneti, per esempio, usano il
cardiofrequenzimetro per “non sbagliare”, quindi, intimamente, vogliono
una verifica del loro allenamento e non sono dei veri Forrest Gump.
Il quarto punto può sembrare superfluo, ma è psicologicamente sempre
importante. Di solito chi non verifica i tempi del proprio allenamento non
corre mai sullo stesso percorso. Infatti è del tutto umano, prima o poi, se si
usa lo stesso anello, verificare “quanto tempo ci si mette”. Se il runner non
lo fa, spesso non è perché ama la sensazione quanto piuttosto perché non
vuole stressarsi nel confronto. Questa è una differenza fondamentale con il
vero Forrest Gump che in genere non usa il cronometro, ma non perché lo
odia, ma semplicemente perché non sa che farsene (tra l’altro, variando
sempre i percorsi, i dati sarebbero comunque poco attendibili, anche
utilizzando la moderna tecnologia GPS).
Anche l’ultimo punto è importantissimo. Se intimamente il soggetto è
incline all’agonismo e corre a sensazione solo per insofferenza dell’impiego
di metodi di allenamento troppo sofisticati, la sua “corsa a sensazione”
anziché guidarlo, il giorno della gara, stimolato dall’evento e dalla presenza
degli altri runner, lo porterà al massacro.
Chiariamo subito un punto: non c’è assolutamente niente di male nel
correre alla Forrest Gump, date la mole di lavoro e la frequenza delle sedute
di allenamento; quello che però è certo è che utilizzando tale strategia non è
possibile riuscire a ottimizzare i propri sforzi. Quindi, chi ha in mente un
determinato obiettivo non può prescindere dal seguire un programma di
allenamento ben strutturato. Un programma ci aiuta a capire che non tutti i
giorni è possibile avere lo stesso grado di efficienza, che è importante
riscaldarsi, che è necessario scegliere percorsi fattibili e non massacranti
ecc.
Ovviamente, manco a dirlo, il programma che si sceglie deve essere
realistico (mai dimenticarsi la seconda regola: Poniti obiettivi sfidanti, ma
realistici). L’importante, infatti, è non commettere l’errore di credersi
campioni soltanto perché si è giovani, come del resto non si deve credere di
essere abilitati alla pratica della corsa soltanto perché in passato siamo stati
buoni sportivi. Il programma deve essere adatto, prima di tutto, alla propria
situazione attuale piuttosto che ai propri “sogni”; questi ultimi, infatti,
vanno riposti nel cassetto finché non si sarà raggiunto un buon livello.
Insomma, un programma deve avere come requisito basilare la sua
fattibilità. A questo punto diventa spontanea e lecita una domanda: quali
sono i fattori che si devono prendere in considerazione per verificare la
fattibilità di un programma di allenamento? Sono diversi, la fattibilità infatti
deve riguardare qualità, quantità, recupero, tempo dedicato alle singole
sedute, percorsi e strutture; se il programma con il quale intendiamo
cimentarci presenta problemi di fattibilità relativamente a uno o più di
questi punti è opportuno orientarsi su un programma diverso.
Terminologie dei programmi di allenamento
Prima di passare alla regola successiva ritengo necessario fornire alcune
delucidazioni relative alla terminologia; infatti, certe locuzioni (fondo lento,
fondo progressivo, allunghi ecc.) possono essere chiare per alcuni, ma
oscure per molti altri. È bene fornire qualche spiegazione perché tali
definizioni sono comuni nei testi e nelle riviste che trattano di corsa.
Fondo lento - Iniziamo innanzitutto con la definizione di fondo lento; il
fondo lento è il modo più naturale e istintivo di correre. Dal principiante
che vuole dimagrire al jogger evoluto che non ha più di tanto interesse al
miglioramento della propria prestazione, il fondo lento costituisce spesso
l’unico stimolo allenante perché facile e immediato nella sua esecuzione.
Per chi non ama correre verificando i riscontri cronometrici durante la corsa
(preferendo magari il cardiofrequenzimetro al cronometro) rappresenta la
strada per semplificare le uscite, riducendo i parametri significativi
dell’allenamento alla sola durata globale e lasciando alle proprie sensazioni
la gestione del ritmo. Dal punto di vista fisiologico gli effetti principali
della corsa lenta sono la diminuzione della frequenza cardiaca, l’aumento
della gittata cardiaca, l’aumento della capillarizzazione, l’aumento della
differenza artero-venosa, l’aumento del numero dei mitocondri nelle cellule,
il miglioramento della termoregolazione, il miglioramento del sistema
locomotore e la trasformazione di una parte di fibre rapide in fibre lente.
Il fondo lento viene spesso definito come la massima velocità alla quale
si può tranquillamente parlare. Questa definizione è profondamente
sbagliata, anche se, paradossalmente, spesso coincide con il ritmo corretto.
Infatti correla l’attitudine a “parlare” con il grado oggettivo di fatica
stabilendone arbitrariamente un nesso causale. L’attitudine a conversare
durante la corsa è una caratteristica personale e soprattutto dipende anche
dalla motivazione a correre. Se l’atleta è motivato può conversare
tranquillamente anche a ritmi piuttosto veloci, mentre se è “depresso” può
giudicare faticoso il parlare ad andature molto modeste. Tecnicamente
parlando, è più corretto dire che il fondo lento va da 30” a 1’ sopra al ritmo
dei 10000 m; così un runner che corre i 10 km in 50’ (5’/km) correrà il suo
fondo lento fra 5’30”/km e 6’/km.
Fondo medio - Il fondo medio dovrebbe porsi a metà strada fra la corsa
lenta e il ritmo massimale che l’atleta è in grado di tenere. Questa
definizione, per così dire, etimologica, ha il difetto di non fissare il secondo
parametro perché il ritmo massimale dipende dalla distanza che si percorre.
In genere si “sottintende” una distanza fra i 10 e i 15 km, cosicché il ritmo
del fondo medio è di circa l’8% più veloce di quello del fondo lento. Per un
atleta che esegue il lento a 5’/km il ritmo del fondo medio è attorno a
4’36”/km; mentre per uno che corre il lento a 4’/km il ritmo del medio è
attorno a 3’40”/km. Questo quando la distanza classica (10 km) di
esecuzione del medio è rispettata. Infatti occorre tener presente che nel
medio l’atleta è in equilibrio, per così dire, temporaneo: se protratto per un
chilometraggio eccessivo, il medio si trasforma in una gara, perdendo le
finalità allenanti.
Fondo progressivo - Il fondo progressivo è sicuramente il tipo di
allenamento più istintivo. Tranne i runner evoluti che si riscaldano
correttamente, principianti, jogger e chi “ha poco tempo” iniziano la seduta
di corsa semplicemente correndo. Per ragioni fisiologiche legate
all’attivazione metabolica del nostro corpo, ne risulta che la prima parte
dell’allenamento è sempre più lenta della seconda, con una fase iniziale
decisamente più lenta (l’atleta deve “scaldarsi”).
Inoltre con l’inizio della corsa si attivano anche meccanismi ormonali
(rilascio di endorfine) che tendono ad alzare la soglia di fatica; in aggiunta,
anche piccoli fastidi cronici tendono a scomparire, man mano che l’atleta si
scalda. Tutti questi fattori portano naturalmente il soggetto a “tirare” di più
nella seconda parte dell’allenamento, ammesso ovviamente che egli non sia
partito in maniera sconsiderata imponendosi una velocità decisamente
insostenibile per la distanza che voleva percorrere.
Da questa breve analisi e dalla terminologia stessa, risulta molto difficile
definire cosa si intenda per fondo progressivo, essendo probabilmente il tipo
di allenamento più personalizzabile. Potremmo definire come progressivo
quel tipo di allenamento in cui la distanza viene suddivisa in non più di
quattro frazioni da correre a velocità crescente e in cui solo durante
l’ultima si arriva a un impegno massimale. Il concetto di frazione è
fondamentale. Non si può parlare di progressivo se l’atleta aumenta il ritmo
a sensazione (in questo caso la locuzione più appropriata è corsa in
progressione).
Un esempio di seduta di fondo progressivo è la seguente: due terzi o metà
della distanza sono corsi alla velocità del fondo lento, il resto a quella del
fondo medio con l’ultimo km corso al massimo; un’altra modalità di fondo
progressivo è quella che prevede di correre il 50% del percorso alla velocità
del lento, il 30% alla velocità del fondo medio e il 20% al ritmo gara dei
10000 m.
Allunghi - Sono pochi i runner che non effettuano allunghi prima della
gara, soprattutto se questa è veloce. Non sempre chiaro è invece il ruolo e
l’importanza degli allunghi durante il normale allenamento. Gli allunghi
post-allenamento sono spesso consigliati, anche se erroneamente si lascia
all’atleta il compito di effettuarli, senza dare precisi consigli sul numero, la
velocità, l’esecuzione ecc. Lo scopo degli allunghi sarebbe quello di
svegliare e dare scioltezza al corpo rattrappito dall’andatura del lento.
Potenzialmente sono molto pericolosi: molti atleti (soprattutto chi è
abbastanza potente e ha un certo piacere alla velocità) sono vittime di
infortuni muscolari proprio perché eccedono nella velocità e nel numero
degli allunghi dopo un lento. In teoria basterebbero da quattro a dieci
allunghi da 80 m in scioltezza, ma anche così la casistica degli infortuni non
diminuisce. Oltre alla velocità, anche la fase di partenza può essere molto
critica quando si hanno muscoli e tendini stanchi per il lento. In sostanza,
per svegliare il corpo dopo un lento si può compiere l’ultimo chilometro a
circa 15”/km in meno con progressione negli ultimi 500 m (praticamente
cinque allunghi senza recupero). Per esempio se si corre il lento a 4’30”/km
si possono fare i 500 m con le frazioni da 100 m in 26”, 25”, 24”, 22”, 20”
circa.
Gli allunghi possono essere invece utili prima dell’allenamento, dopo
riscaldamento e stretching; quattro o cinque allunghi predispongono il
corpo a reagire da subito agli stimoli allenanti, evitando di usare i primi
chilometri per terminare il riscaldamento. Per un runner che prepara
distanze superiori ai 1500 m la velocità deve andare da quella che si tiene
su 5000 m a quella che si tiene su 1000 m.
Le ripetute - Il termine ripetute (anche ripetizioni) indica un tipo di
allenamento costituito da prove che si ripetono, intervallate da tratti percorsi
a velocità più blanda (recupero attivo) o da un determinato periodo di
riposo (recupero da fermo).
Le prove ripetute sono tipiche del runner evoluto che vuole ottimizzare la
prestazione. Infatti, uno dei cardini dell’allenamento è la ricerca di stimoli
allenanti più qualitativi, una volta che si siano create le condizioni di base
per sopportare un certo carico. Il concetto che sta alla base delle prove
ripetute è che con la gradualità è possibile migliorare un determinato
parametro fisiologico, sollecitando il corpo sul quel parametro per un tempo
minore, ma con intensità superiore. Il nostro corpo, abituatosi a reggere la
maggiore intensità, sopporterà anche una maggiore durata a quella nuova
intensità e la prestazione ne beneficerà.
Tratterò ancora delle ripetute più avanti (vedasi regola Cura ogni
caratteristica del runner: resistenza, forza, velocità, elasticità, paragrafo
Velocità e prove ripetute).

Come arrivare a un programma per i 10000 m


ovvero da principiante a runner
L’Hard People Test (vedasi Capitolo I, regola Poniti obiettivi sfidanti, ma
realistici) è, senza ombra di dubbio, un passo molto importante nella vita di
ogni sedentario che decide di iniziare a praticare la corsa. Correre 10 km in
meno di un’ora è sicuramente un’impresa, paragonabile a quella di tanti
runner esperti che corrono la loro prima maratona.
Una volta superato il test, non è infrequente avvertire il gap che esiste per
fare un ulteriore importante passo: diventare runner. Il salto può apparire
così difficile che molti restano fra le file dei jogger e si limitano a correre
tre o quattro volte alla settimana con andature da fondo lento. Non c’è
niente di male in questo, visto che un tale atteggiamento è perfettamente
compatibile con lo scopo di praticare lo sport in funzione della propria
salute, ma perché non osare di più? Con un ulteriore obbiettivo si
mantengono alte le motivazioni e, tutto sommato, può essere più facile
correre nei periodi in cui magari ci sentiamo meno predisposti all’attività
sportiva.
Con una definizione molto pratica, a mio avviso

un runner è un soggetto che ha sufficientemente ottimizzato la sua


prestazione sui 10000 m.

Quindi non sono per esempio runner:

•• atleti esperti con parecchi chili di sovrappeso;


•• atleti che si allenano meno di tre volte alla settimana;
•• atleti che si allenano praticando solo fondo lento.

Il “sufficientemente” della definizione può essere interpretato come non


più del 5% del tempo dell’atleta, cioè per esempio 2’ su 40’. Così un atleta
che corra i 10000 m in 42’, ma che ha 10 kg di sovrappeso, realisticamente
potrebbe correrli (un kg=2,5”/km circa) in 38’ e quindi non è un runner.
Analogamente, un atleta che corra solo due volte alla settimana è molto
distante dai suoi limiti.
Data la definizione di runner, sarebbe banale indicare al principiante la
strada di un serio programma per i 10000 m. In realtà, le probabilità che il
principiante non commetta errori nell’interpretare il programma sono
veramente piccole, quasi nulle.
Fermo restando che l’esecuzione di un tale programma è lo scopo finale
del principiante, è necessario guidarlo alla comprensione “pratica”
dell’allenamento nella corsa di resistenza con l’ausilio di tappe intermedie.
Tale comprensione passa attraverso tre tappe, durante le quali il runner
dovrà anche eliminare l’eventuale sovrappeso.
Prima tappa: medio e progressivo - Se il principiante ha utilizzato il
solo fondo lento per superare l’Hard People Test, dovrà necessariamente
inserire la cosiddetta parte anaerobica, quella, tanto per intenderci, che
richiede l’uso del “fiato”, cioè del respiro affannato.
Questa è la condizione più comune per chi si avvicina alla corsa non più
giovanissimo; molti giovani tendono invece a strafare da subito e hanno il
problema inverso: dopo pochi minuti sono già in affanno e arrivare all’ora
di corsa è una vera e propria pena, con un rallentamento finale evidente.
Lo scopo di questa prima tappa è di aumentare la capacità aerobica, cioè
il tempo per il quale si riesce a mantenere un ritmo sufficientemente
elevato, ma per un principiante basta parlare di velocità più brillante di
quella del lento.
Da un punto di vista pratico, al principiante deve importare solo una cosa:
mantenere il più a lungo possibile un ritmo in cui la conversazione continua
risulta difficile (mentre nel lento può tranquillamente parlare). Mantenere
non significa solo correre con un po’ di fiatone, perché è necessario non
diminuire la velocità di corsa.
Poiché solo atleti molto evoluti ci riescono per un’ora filata, è opportuno
inserire il concetto di progressivo: l’atleta inizia con il ritmo del lento e poi
passa a quello del medio. Lo scopo è di aumentare sempre più la durata del
ritmo medio nell’ora.
Quando (dopo adeguato riscaldamento) riesce a correre un medio di
almeno 40’ (sull’ora di corsa, cioè con i primi 20’ di lento) allora può
passare alla tappa successiva.
In genere il tempo necessario per superare questa tappa dipende da molti
fattori, non ultimo la soglia di sopportazione della fatica del soggetto (la
corsa parzialmente anaerobica offre sensazioni sicuramente più spiacevoli
della facile corsa lenta). Si può andare da due mesi a due anni. Ciò che
importa è la gradualità dell’approccio. La settimana tipo (4 allenamenti, chi
si allena di più inserirà degli altri lenti) è così congegnata:

1. Fondo lento
2. Fondo progressivo (medio)
3. Fondo lento
4. Fondo progressivo (medio)
con durate della sessione non inferiori ai 40’, riscaldamento escluso. Le
velocità e le modalità di esecuzione di medio e progressivo sono state
trattate nel paragrafo precedente.
Ora che il nostro principiante “sa” correre il medio, è necessario che
impari a correre le ripetute. In modo da apprendere poi con l’esperienza sul
campo tutta una serie di allenamenti basati sulle variazioni di ritmo. La
seconda fase è perciò dedicata alle ripetute con recupero da fermo.
Seconda tappa: le ripetute con recupero da fermo - Come si può
spiegare a un principiante l’essenza delle ripetute? Semplice: facendogli
fare un’esperienza diretta, in modo autodidattico. Ho verificato più volte
che runner con anni di anzianità alle spalle non sanno correre le ripetute
semplicemente perché non le hanno mai capite, seguendo in maniera
pappagallesca contorte tabelle d’allenamento.
Innanzitutto fissiamo la distanza: ripetute troppo brevi sono molto
pericolose per il nostro principiante che può infortunarsi interpretandole
come gare di velocità; d’altro canto, ripetute troppo lunghe sono
improponibili, visto l’allenamento del soggetto. La ripetuta classica resta
pertanto quella sui 1000 m. Fra l’altro, essa ha anche il vantaggio di far
capire chiaramente all’atleta cosa significano i tempi al km con i quali
necessariamente si scontrerà durante il prosieguo della sua carriera atletica.
Il tempo di recupero può andare dai 2’ ai 5’ e il numero di ripetizioni può
andare da 4 a 10.
A questo punto ci si potrebbe aspettare una tabella con la progressione
delle ripetute nel tempo (per acculturare l’atleta). Invece lo schema è molto
generico; la settimana tipo (4 allenamenti, chi si allena di più inserirà degli
altri lenti) è così congegnata:

1. Fondo lento
2. Ripetute
3. Fondo lento
4. Fondo progressivo (medio)

con durate della sessione non inferiori ai 40’, riscaldamento escluso!


Ovvio che tutti chiedano: come devo svolgere le ripetute? A piacere!
L’atleta sceglierà i parametri (numero, recupero, velocità dei 1000 m) e
poi eseguirà. Cosa potrà succedere? Ecco due scenari:
•• si fanno troppo forte le prime e le ultime risultano penose e ci si ferma
prima della fine dell’allenamento;
•• si finisce brillantemente, quasi senza sudare: per forza, si è andati
troppo piano.

Fra questi due scenari ce ne sono altri intermedi. L’atleta deve studiarli
attentamente finché non sarà in grado di prevedere cosa succederà. Infatti la
fase sarà superata quando, scelti a caso il numero di ripetizioni e il tempo
del recupero, l’atleta sarà in grado di prevedere a che velocità correrà
“quella” seduta di ripetute.
Una nota importante: la seduta è valida se fra il 1000 m più veloce e
quello più lento non ci sono più di 15”.

Per dare una traccia posso indicare che un atleta che corre (dalla fase
precedente) i 10000 m in 52’ correrà 4x1000 m con il recupero di 2’ fra i
4’40” e i 4’50”/km. Si deve tenere conto che:

•• se si aumenta il recupero, la velocità aumenterà, ma non di molto; è


necessario imparare a capire di quanto può aumentare (per esempio una
settimana correndo 4x1000 m (recupero 2’) e la settimana successiva un
4x1000 m (recupero 5’);
•• se si aumentano le ripetizioni, la velocità diminuirà, ma non di molto; è
necessario imparare a capire di quanto può diminuire (per esempio una
settimana correndo 4x1000 m (recupero 3’) e la settimana successiva un
8x1000 m (recupero 3’).

Questa fase è importantissima perché porterà a un’ottima conoscenza del


proprio fisico. Come detto, alla fine della fase l’aspirante runner sarà in
grado di rispondere a domande come: a che velocità corri 6 ripetute da
1000 m con il recupero di 3’?
Finché i risultati sul campo daranno riscontri troppo diversi da quelli
pensati a tavolino, è opportuno rimanere in questa fase. In genere la durata
della fase dipende dalla psicologia e dalla sensibilità dell’atleta ad ascoltare
il proprio corpo, ma in genere è molto più breve della prima e può andare
da due a sei mesi.
L’ultima fase del nostro avvicinamento allo stato di runner riguarda la
capacità di interpretare variazioni di ritmo con continuità di corsa.
Terza e ultima tappa: le ripetute con il recupero di corsa - A questo
punto il ritmo del proprio fondo lento sarà ben chiaro, supponiamo sia, per
esempio, 5’30”/km. La settimana tipo di questa fase (4 allenamenti, chi si
allena di più inserirà degli altri lenti) è così congegnata:

1. Fondo lento
2. Ripetute con recupero di corsa
3. Fondo lento
4. Fondo progressivo (medio)

Le ripetute sono sempre su 1000 m e per il recupero si utilizzerà questa


distanza standard. Il numero delle ripetute varierà da 3 a 6, per cui l’atleta
percorrerà al minimo 6 km (3 tratti veloci e 3 lenti) e al massimo 12 km (6
tratti veloci e 6 tratti lenti). Si inizia la seduta di ripetute sempre con il tratto
lento. La velocità del tratto veloce è fissata convenzionalmente in 40”/km in
meno del ritmo del fondo lento, per cui se per esempio FL=5’30”/km allora
FV=4’50”/km.
Sembrerebbe tutto definito e ci si potrebbe chiedere: dov’è il problema?
Un primo problema è il reggere l’allenamento; se con 3 ripetute è
abbastanza facile (se ovviamente si è scelto in modo corretto il ritmo del
fondo lento), con 6 potrebbe risultare impegnativo, anche se non
impossibile.
Il vero scoglio è rappresentato dall’incapacità del soggetto di andare alle
velocità previste (sensibilità al ritmo); ecco alcuni scenari:

•• si va troppo forte nei tratti veloci e il recupero diventa sensibilmente


più lento dell’usuale fondo lento (praticamente diventa un recupero in
souplesse, ovvero un recupero attivo caratterizzato però da un’intensità
molto bassa);
•• si va troppo piano nei tratti veloci e troppo forte nei recuperi,
praticamente diventa una corsa continua;
•• il programma è rispettato per la prima parte dell’allenamento, ma nella
seconda parte si verifica uno dei due problemi sopraccennati.

Quando la fase è superata? Quando su 6 ripetizioni (iniziate ovviamente


con 3, poi con 4 ecc. per capire come funziona il gioco):
•• la media dei tratti veloci è almeno 35”/km più veloce del fondo lento;
•• nessun chilometro di recupero è più lento di 10”/km rispetto al fondo
lento.

Per ulteriori approfondimenti si consulti il paragrafo Velocità e ripetute.


La durata di questa fase è estremamente variabile perché la sensibilità al
ritmo è più difficile da educare rispetto, per esempio, alla velocità di base
sulle ripetute con recupero da fermo. La durata può andare da uno a sei
mesi.
Come si può notare, la somma delle tre fasi può realisticamente andare da
5-6 mesi a tre anni. Una volta arrivati alla fine di questo cammino
propedeutico (e con un peso atleticamente corretto!) si è diventati runner e
ci si può cimentare nell’agognato programma per i 10000 m; un esempio di
un tal programma lo si può trovare consultando la pagina
http://www.albanesi.it/Arearossa/Articoli/01diec23.htm del mio sito
Internet.

Se non trovi il tempo per correre, fermati e


pensa a come puoi trovarlo!
Dal punto di vista psicologico questa regola è una delle più importanti.
Uno dei motivi per cui è consigliabile e utile usare un programma è che
“l’obbligarsi a seguirlo” può aiutarci a comprendere alcuni concetti
fondamentali, non solo in campo sportivo, ma anche in altri ambiti. Ci
obbligherà innanzitutto a dare una certa priorità alla corsa, priorità senza la
quale troppe cose potrebbero distrarci, rendendola solo un’esperienza breve
ed effimera. In fondo, anche se si è manager superimpegnati, basta segnare
ogni giorno sulla nostra agenda l’appuntamento con il cliente più
importante: il proprio corpo; l’attenzione e il rispetto che esso necessita è
un favore che dobbiamo a noi stessi e alle persone che ci stanno vicino, ai
nostri familiari in primis.
Parliamoci chiaro: fare sport a livelli decenti e utili porta via, al massimo,
il 5% del proprio tempo. Questo tempo è un investimento anche per la
propria famiglia. Un coniuge che invecchia prima del tempo di che utilità è?
Ma, soprattutto per chi ha figli, lo sport è il modo migliore per continuare il
dialogo con loro. Non è possibile che un figlio impari i valori dello sport se
vede un genitore sovrappeso, sedentario e vecchio. Ma, peggio, se
autonomamente si sarà fatto una coscienza sportiva, appena si accorgerà di
avere un “nonno” (leggasi padre invecchiato precocemente che non riesce
più a reggere 10’ giocando a pallone) o una “nonna” (leggasi madre
sovrappeso che sbanfa per salire una rampa di scale) piuttosto che un
padre o una madre, crollerà la stima che ha nel genitore e cesserà ogni
dialogo. Quindi trovare il tempo di fare sport è uno dei modi migliori per
supportare la propria famiglia.
Sfortunatamente sono molte le persone che rinunciano a vivere alcuni
aspetti dell’esistenza per mancanza di tempo. A volte si tratta solo di alibi
(come nel caso di chi, appunto, afferma che “non ha tempo per fare sport”)
con cui si vogliono evitare situazioni che inconsciamente non si ritengono
positive e/o interessanti; altre volte invece c’è proprio il rammarico che il
tempo non basti per fare questo o quello. Sarebbe tempo di finirla con le
scuse perché è possibile utilizzare una strategia risparmia tempo per
migliorare decisamente la qualità della propria vita. Come? Presto detto:

minimizzando il tempo destinato alle attività di gestione.

Con attività di gestione voglio riferirmi a tutte quelle attività che non sono
connesse con il lavoro o con i nostri oggetti d’amore. In altri termini, tutto
ciò che serve per vivere, ma è neutro nei confronti della nostra qualità della
vita.
Va subito precisato che un’attività può essere di gestione per un individuo
e un oggetto d’amore per un’altro. Per esempio, cucinare o curare il
giardino per alcuni possono essere solo noiose seccature perditempo,
mentre per altri possono rappresentare vere e proprie passioni.
È evidente che molte attività di gestione sono comunque indispensabili,
ma proprio perché neutre non devono occupare più del necessario. Perché
accade il contrario?
In alcune persone le cause sono rappresentate dai “dogmi”, ovvero
imposizioni interiori senza giustificazione pienamente cosciente e razionale.
“Prima di un’interrogazione si deve studiare molto”, “La casa deve essere
sempre in ordine”, “L’erba del giardino deve essere sempre tagliata”,
“L’auto deve essere sempre pulita” ecc.
In altre persone, una vita vuota tende a utilizzare le attività di gestione per
riempirla. Così alla fine non resta più tempo per cose più utili come lo
sport.
Spesso queste cause si sinergizzano, rinforzandosi fino a soffocare la vita
del soggetto.
La soluzione - Proviamo a immaginare una situazione in cui ci viene
chiesto: “quando metterai in ordine l’armadio in soffitta, buttando le cose
vecchie?”.
Prendiamoci dieci secondi per rispondere, cercando qualcosa di
equivalente, se non si ha un armadio in soffitta da sistemare.
Fatto? È sperabile non aver risposto: “al più presto” oppure “al massimo
fra qualche giorno” (presenza di un dogma dell’ordine: si deve ordinare
l’armadio); anche la risposta “nel prossimo week-end” o “nelle prossime
ferie” è semidisastrosa. Perché queste risposte non vanno?
Perché prescindono dal concetto di priorità. La strategia giusta consiste
ogni giorno nello stabilire una lista di priorità cioè un elenco delle cose da
fare in base all’importanza nella nostra qualità della vita.
Usando la lista di priorità si potrà scoprire per esempio che certe persone
hanno per noi una priorità bassissima e che avevamo con loro relazioni solo
perché “dovevamo”. Le relazioni umane diventano così spontanee e
sincere: non si coltivano momenti con persone delle quali tutto sommato
non ci interessa nulla. Mentre per un vero amico c’è sempre tempo.
Analogamente si ridimensionano certi dogmi, per esempio l’ordine e la
pulizia della casa che, anziché ordinatissima, brillante e splendente, deve
essere semplicemente “vivibile”.
La risposta alla domanda precedente è “non so, può darsi mai” (migliore
della pur buona “quando avrò tempo”). Infatti, se non mi serve qualcosa che
c’è nel vecchio armadio, perché sistemarlo, visto che nel frattempo potrei
leggere un libro (se amo la lettura) oppure andare a correre?
La lista di priorità va aiutata nel senso che occorre studiare anche la
strategia che non alzi la priorità di attività di gestione francamente
marginali. Un esempio banale, se non si domiciliano le bollette bancarie e a
ogni scadenza dobbiamo recarci in banca dilapidando un sacco di tempo,
non stiamo certo aiutando la nostra lista di priorità. Singolare il fatto che i
problemi si attirino a vicenda: molte persone non domiciliano le bollette
perché non sono in grado di gestire i propri risparmi e sapere se il saldo del
proprio conto corrente è in rosso o meno!
Chi vuole approfondire l’argomento, può consultare la pagina
http://www.albanesi.it/Mente/gestione.htm del mio sito Internet. Ci si
ricordi comunque che dire: “non ho tempo per fare sport” è solo un segno di
una cattiva organizzazione della propria vita.
Non saltare mai la fase di riscaldamento
Dopo la breve, ma assolutamente necessaria riflessione di carattere
esistenziale affrontata nella regola precedente, possiamo tornare a parlare
più specificamente di corsa.
L’argomento che viene trattato, il riscaldamento, è estremamente
importante; esso infatti è una componente basilare dell’allenamento.
Incredibilmente, molti runner, anche quelli più navigati ed esperti, lo
considerano un qualcosa in più, magari interessante, ma certamente non
indispensabile. Niente di più sbagliato: nessun runner che possa dirsi tale
può rinunciare alla fase di riscaldamento. Non importa il tipo di seduta; che
si debba affrontare un fondo lento, un lunghissimo, un progressivo oppure
una seduta di ripetute, poco cambia: il riscaldamento è un must.
Sostanzialmente il riscaldamento consta di due fasi: quella della corsa
blanda e quella degli allunghi. Lo scopo principale della prima è quello di
attivare i meccanismi energetici e di iniziare la predisposizione allo sforzo
dell’apparato locomotore. Scopo degli allunghi, che in realtà sono il vero e
proprio riscaldamento, è, come ho già ricordato nel sottoparagrafo
Terminologie dei programmi di allenamento, quello di preparare il corpo a
una reazione pressoché immediata agli stimoli dell’allenamento.
Il fatto che il riscaldamento debba essere sempre eseguito a prescindere
dalla tipologia della seduta non significa che esso debba essere sempre
condotto nello stesso modo; una prima regola che si può dare a livello
generale è la seguente: quanto più la seduta di allenamento è impegnativa,
tanto più il riscaldamento deve essere svolto con cura.
Gli atleti evoluti personalizzano il riscaldamento a seconda
dell’allenamento che andranno a svolgere; nel caso del principiante si può
utilizzare un riscaldamento standard costituito da 15’ di corsa molto lenta
seguita da una serie di cinque allunghi; i primi due di circa 80 m ed eseguiti
a un ritmo abbastanza lento e gli ultimi tre più brevi (circa 50 m) eseguiti a
un ritmo più veloce dei precedenti. Il recupero fra un allungo e l’altro è
costituito da un blando ritorno al passo.
E lo stretching? Forse la risposta deluderà qualcuno, ma lo stretching può
essere evitato; molti studi infatti hanno evidenziato che, al contrario di
quanto da molti ritenuto, lo stretching non solo non è in grado di prevenire
gli infortuni, ma, al contrario, potrebbe contribuire a innescarli. Solo chi sa
eseguire lo stretching in modo corretto può inserirlo nella fase di
riscaldamento; se la conoscenza su questo argomento è approssimativa, è
consigliabile rinunciarvi.
Lo stretching diventa uno strumento fondamentale per coloro che si
trovano in una fase di riabilitazione da interventi o blocchi della mobilità, è
molto importante nella fase del post-infortunio, è sconsigliato nella fase
acuta dell’infortunio ed è consigliato al runner che ricerca la prestazione
ottimale, ma solo dopo averne compresa esattamente l’esecuzione. I jogger
o i runner che non ricercano la prestazione “al secondo” dovrebbero evitarlo
e orientarsi al solo riscaldamento costituito da corsa blanda e allunghi.
Approfondimenti teorici e pratici sullo stretching sono reperibili in [1] e
nel mio sito Internet di riferimento http:// www.albanesi.it (Sezione Sport,
sottosezione Corsa/Esercizi) dove il lettore troverà anche una serie di 12
esercizi di base che possono essere utili a molti runner.
Anche il riposo è una componente dell’allenamento
Questa quattordicesima regola è importantissima per tutti runner, ma in
particolar modo per coloro che hanno da poco intrapreso la pratica della
corsa. Il riposo per un runner è indispensabile e la sua importanza,
nell’ottica dell’allenamento, non deve essere assolutamente sminuita.
In realtà questo argomento è già stato trattato nella parte dedicata alla
prima regola (vedasi Capitolo I, regola Che tu sia un principiante o un
runner evoluto agisci con gradualità, paragrafo Il recupero), qui mi limiterò
a un breve approfondimento.
All’inizio di questo capitolo ho evidenziato quanto possa essere
importante, per il runner principiante, seguire un programma
d’allenamento; quest’ultimo, infatti, permette di affinare al meglio la
propria preparazione. Ma i vantaggi nel seguire un programma di
allenamento non finiscono certo qui; grazie a esso infatti saremo in grado di
capire che non è possibile allenarsi in modo proficuo se non riusciamo a
gestire il recupero in modo ottimale. Se è vero che si deve imparare anche a
correre da stanchi, è anche vero che si può essere in grado di farlo solo
dopo aver accumulato una certa esperienza; ignorare questa indicazione può
aumentare i rischi di incorrere in infortuni più o meno seri. È necessario
imparare quindi ad alternare il riposo al gesto sportivo, considerandolo un
modo di fare il pieno di energie in vista della prossima seduta di
allenamento.
Ma come fare a capire quanto dobbiamo riposarci? Quante sedute
conviene inserire nel proprio programma di allenamento?
Per rispondere a queste domande dobbiamo fare innanzitutto riferimento
al celeberrimo studio dell’università di Harvard, studio che dal 1916 al
1950 ha seguito 17.000 soggetti con lo scopo di valutare i benefici
dell’attività fisica. Dallo studio, traslando i risultati alla corsa, si desume
come 40 km settimanali siano da considerarsi il limite minimo per ricavare
dei benefici a livello cardiovascolare (la curva di rischio diminuisce
all’aumentare dell’esercizio fisico praticato e tocca i suoi livelli più bassi
con 6-8 ore di attività fisica settimanale; paradossalmente per un atleta
evoluto il limite sale a 50 km perché in genere corre più velocemente!). A
questo punto, facendo due conti, è facile intuire che per percorrere 40 km
settimanali e avere a disposizione alcuni giorni per recuperare, è necessario
impostare un programma di allenamento che preveda almeno quattro sedute
per settimana, una media quindi di 10 km a seduta. Teoricamente, un carico
di 40 km può essere raggiunto anche con tre allenamenti settimanali, ma tre
sedute da 13-14 km non sono facili da gestire per un principiante e
potrebbero risultare eccessivamente stancanti e difficili da recuperare. Se
decidiamo di aumentare il carico settimanale chilometrico passando, per
esempio, a 60 km settimanali, è consigliabile adottare un programma di
allenamento con cinque sedute settimanali, avremo sì un giorno in meno per
riposare, ma recuperare cinque sedute da 12 km può risultare più facile che
recuperarne quattro da 15 km circa. Non bisogna infine dimenticare che
ogni runner è un caso a parte; a parità di chilometraggio e sedute c’è chi
recupera meglio di altri; non è quindi possibile riferirsi soltanto a dati
numerici, contano molto anche le sensazioni che l’atleta prova e sarebbe
deleterio ignorare, sempre e comunque, i segnali che il nostro corpo ci sta
inviando; con l’esperienza il runner troverà (o dovrebbe trovare) un
equilibrio tra sedute di allenamento attive e giorni di necessario recupero.
Non solo riposo fisico
Il riposo fisico è fondamentale; su questo non ci sono dubbi. Ma anche la
“mente” vuole la sua parte; in alcuni casi infatti il problema non è tanto
fisico, quanto psicologico.
La stanchezza psicologica deriva da errori che il runner commette, spesso
anche inconsapevolmente.
Le motivazioni e gli obiettivi – L’entusiasmo con cui si parte in un
progetto sportivo (come per esempio correre la prima maratona) può
scontrarsi con la dura realtà. Il soggetto non è ancora preparato per un
carico allenante eccessivo oppure per prestazioni troppo al di là del suo
potenziale atletico. La mente si accorge di ciò in base ai segnali che
arrivano dal corpo e pone un veto alla prosecuzione di un progetto assurdo.
Solo runner particolarmente nevrotici lo ignorano e continuano in
programmi di allenamento per loro impossibili arrivando a un vero e
proprio sovrallenamento (vedasi Capitolo II, regola Se sei una persona
sana, fidati del tuo corpo, paragrafo Il sovrallenamento). Questa sorta di
difesa che la mente mette in atto è quella che salva molti runner dal
sovrallenamento. Compare la stanchezza e un senso di frustrazione nel non
riuscire a compiere niente di significativo in campo sportivo. Cosa fare?
Anziché vedere questa situazione come negativa, è produttivo vederla come
positiva, un segnale che indica di ridimensionare i propri obiettivi per
vivere meglio, il vero e unico scopo della pratica sportiva. Essere dei
vincenti nella vita non significa arrivare primi, ma conoscersi a tal punto da
porsi sempre obbiettivi ragionevoli che si possono centrare.
Il gruppo – Spesso chi si allena in gruppo ed è fra i più deboli cade
vittima di periodi di stanchezza. Possiamo definire questo stato come
“sindrome dell’ultimo”. Praticamente ogni allenamento diventa una gara e
alla fine scatta il meccanismo di salvataggio: la mente si ribella a uno stato
di cose che porterebbe il fisico all’esaurimento. Cosa fare? È necessario
ritagliarsi, all’interno del gruppo, allenamenti facili. Per esempio, se i più
veloci fanno quattro giri, l’atleta più debole può farne due oppure tre,
l’importante è arrivare con lo stesso grado di fatica dei primi del gruppo.
Il periodaccio – Ovviamente non c’è solo la corsa nella vita. Difficoltà
sul lavoro, in famiglia o ogni altra preoccupazione possono far scattare il
rifiuto a un ulteriore carico visto in un determinato momento come
stressante (l’allenamento). Cosa fare? Si deve analizzare la propria
situazione con calma e usare lo sport come mezzo distensivo e non
ulteriormente stressante. Si può ridurre la qualità degli allenamenti, magari
allenandosi con un runner più debole. Insomma, la corsa deve essere un
piacere e non un dovere.
Il divertimento – Quale che sia la propria concezione della corsa,
dobbiamo sempre chiederci cos’è che ci diverte. Una volta trovata la
risposta, è necessario pianificare il proprio rapporto con la corsa in modo
che questo quid non manchi mai. Ma attenzione: la motivazione del
divertimento non deve dipendere dagli altri, ma da noi stessi. Risposte
sensate sono: “il senso di libertà”, “il contatto con la natura”, “la scoperta
del mio corpo” ecc. Risposte poco sensate, e per niente consone allo spirito
del correre per vivere meglio, sono: “arrivare primi” o “vincere i premi”.

Cura ogni caratteristica del runner: resistenza,


forza, velocità, elasticità
I lettori più attenti ricorderanno cosa ho scritto trattando la quinta regola
(vedasi Capitolo I, Corri nel modo più naturale possibile, senza forzare la
respirazione o la falcata, paragrafo La falcata): “corriamo e basta senza
preoccuparci troppo di come tenere le braccia, la testa, le spalle ecc. “. Non
intendo certo tornare sui miei passi; per un principiante il consiglio resta
valido ed è fondamentale, ma adesso, che iniziamo ad avere una certa
esperienza, è auspicabile compiere qualche passo avanti.
Pian piano, allenandoci, abbiamo imparato a diventare più resistenti; non
c’è però soltanto la resistenza nella corsa: ora è giunto il momento di
iniziare a curare tutte le altre caratteristiche del runner: forza, velocità ed
elasticità; senza queste caratteristiche la nostra corsa diventa quella di un
vecchio; anche gli ultranovantenni possono riuscire a correre una maratona
(ricordiamoci di Fauja Singh, l’indiano ultracentenario che si cimenta
ancora nella gara di Filippide), ma non c’è nessun novantenne in grado di
correre 5 km in meno di venti minuti, un tempo abbordabile per tanti
normalissimi quarantenni. La differenza sta proprio nella forza, nella
velocità e nell’elasticità, qualità che devono essere coltivate con sedute
dedicate, proprio come nelle prime uscite si sono utilizzate le fasi di
cammino per ricaricarsi in vista della nuova fase di corsa.
La forza
La forza di un soggetto è correlata alla superficie muscolare e al numero
di fibre. Queste due grandezze fisiologiche decrescono con l’età abbastanza
significativamente.
Vi sono studi (Lexel, 1993) che mostrano come la riduzione della forza
con l’età è dovuta a due fattori:

•• l’atrofia delle cellule muscolari


•• la diminuzione dell’allenamento alla forza.

Poiché non è detto che i due punti siano totalmente indipendenti, non è
ancora chiaro quanto un allenamento ottimale possa preservare dall’atrofia.
Gli studi sono condotti cioè su campioni di popolazione che ovviamente
considerano sedentari, atleti mal allenati e atleti ben allenati, questi ultimi in
percentuale veramente esigua e decrescente con l’età.
Infatti moltissimi altri studi verificano che la curva ottenuta dalla
popolazione è decisamente più pessimistica rispetto a quella ottenuta su
gruppi di soggetti anziani ben allenati.
Per esempio, un altro studio (Frontera, 1988) mostra che con tre mesi di
esercizio (con carico uguale all’80% della forza massima) la forza dei
muscoli estensori della gamba raddoppia in sedentari di età compresa fra i
60 e i 72 anni (mentre l’aumento dei flessori è solo del 7%).
Vi è però un altro studio che ha dato risultati ancor più eclatanti
(Klitgaard, 1990).
Un gruppo di soggetti di 70 anni che aveva mantenuto un allenamento
costante da circa 50 anni (in altri termini: faceva sport dall’età di 20 anni)
mostrava gli stessi parametri di forza del gruppo di controllo della
popolazione di 28 anni!
Altri studi (Fiatarone, 1994) mostrano risultati analoghi per gruppi ancora
più anziani (80 anni). Sembra quindi che i livelli di forza possano
mantenersi a ottimi livelli non solo con l’esercizio in tarda età, ma
soprattutto con la continuità dello stesso.
Ma quali sono i nostri livelli di forza? Com’è possibile rendersi conto se
ne siamo carenti o meno? Esiste un test, che è possibile eseguire in palestra,
grazie al quale è possibile verificare se è opportuno potenziarsi.
Per un certo gruppo muscolare (usando ovviamente la macchina
opportuna) si stabilisce qual è il carico massimo che si riesce a sollevare.
Tale carico viene definito 1R (10R è il carico massimo che si riesce a
sollevare dieci volte). Ovviamente la determinazione dell’1R deve essere
fatta dopo opportuno riscaldamento. Conosciuto tale valore (e recuperato lo
sforzo per ottenerlo), si imposta la macchina al 70% del valore trovato. Se
per esempio il valore dell’1R è 40 kg, si imposta a 28 kg. Si deve verificare
quante ripetizioni si riescono a effettuare con il carico al 70% di 1R.
Se le ripetizioni sono inferiori a 6 si è ancora troppo poco resistenti e
quindi, prima di pensare a un programma di potenziamento è il caso di
migliorare la nostra resistenza e per far questo c’è un solo sistema: correre.
Se le ripetizioni sono comprese fra 6 e 15 si possiede un rapporto corretto
fra resistenza e forza massima.
Se le ripetizioni sono superiori a 15 si è troppo resistenti e si ha una forza
massima troppo scarsa. È il caso in cui un potenziamento basato
sull’incremento della forza massima può essere sicuramente utile.
Se si scopre di essere carenti come forza, si deve capire che il
potenziamento passa attraverso due fasi:

•• aumento della forza


•• mantenimento.

Senza la seconda fase, la prima non ha senso. Pertanto, a mo’ di esempio,


il runner che esegue un programma di forza in vista di una maratona e poi
non lo mantiene, può solo illudersi di avere benefici se la maratona è corsa
due o tre mesi dopo.
Si deve notare che i vari metodi sono giudicati diversamente a seconda
che servano a incrementare la forza o a mantenerla.
Esistono diversi metodi che vengono consigliati per l’incremento della
forza, ma non tutti sono consigliabili. Di seguito una breve rassegna di
metodi consigliati e sconsigliati sia per quanto riguarda l’aumento della
forza sia per quanto concerne il mantenimento.
Fra i metodi consigliati per l’incremento della forza possiamo citare la
palestra, le salite brevi e il ciclismo.
La palestra è adatta a tutti coloro che hanno tempo: se non si ha molta
esperienza del lavoro in palestra, si usino pochi attrezzi dopo avere appreso
le modalità di impiego di ognuno di essi.
Le salite brevi sono tratti che vanno dai 50 ai 150 m, più comunemente
70-100 m, con una pendenza dal 10 al 20% (un esempio è il classico
cavalcavia); vanno corse a intensità quasi massimale, si recupera al passo in
discesa e spesso si protrae il recupero fino ad arrivare anche ai tre minuti. Il
numero di ripetizioni va da 10 a 20; l’importante è che numero di ripetizioni
e recupero consentano di affrontare la prossima prova a intensità ancora
elevata. Allenano il cuore a pompare maggior sangue nell’unità di tempo e
sono utili a tutti i runner, purché non ne abusino, soprattutto se non sono
abituati a sforzi massimali.
Se l’atleta usa percorsi impegnativi (MTB o bici da strada con salite), il
ciclismo, può essere un valido mezzo per migliorare la propria forza. Poiché
richiede un impegno aerobico comunque non indifferente, è adatto a chi si
allena alla corsa solo tre volte alla settimana.
Fra i metodi da molti suggeriti, ma che sconsiglio, vi sono la corsa su
percorsi collinari, la corsa sulla sabbia, la corsa campestre, le salite lunghe,
la ginnastica a corpo libero e l’elettrostimolazione.
Nell’allenamento collinare il neofita si adatterà automaticamente al
percorso e non sarà in grado di migliorare più di tanto, a differenza
dell’atleta esperto che “spingerà” sempre.
Anche la corsa sulla sabbia non è di aiuto perché se si tende a spingere
più del necessario (per potenziarsi) si rischiano infortuni muscolari.
Per la corsa campestre valgono le stesse considerazioni fatte per il
collinare; è infatti utopistico sperare che l’atleta principiante non si “adatti”
al percorso, spingendo quando è scorrevole e rallentando quando si fa duro.
Idem per le salite lunghe, come per campestre e collinare, scatta
l’adattamento.
La ginnastica a corpo libero è troppo blanda per sperare di ottenere
risultati in tempi brevi.
Per quanto riguarda l’elettrostimolazione è ormai accettato da tutti che i
risultati in un atleta sono pressoché nulli; possiede però una certa validità in
caso di riabilitazione dopo un infortunio.
Una precisazione importante: qualunque metodo si utilizzi per
incrementare la forza, si deve tenere a mente che lo sforzo aerobico (cioè la
corsa a ritmi di lento o di medio) è in controtendenza con la crescita
muscolare (ciò spiega perché alcuni atleti a riposo da un infortunio si siano
creati una muscolatura possente con elettrostimolazione, poi discioltasi una
volta ritornati ai soliti carichi di allenamento). Per cui nel periodo di
crescita muscolare sarebbe opportuno ridurre il chilometraggio; dal punto di
vista alimentare, un programma di potenziamento deve essere supportato da
un’alimentazione che preveda almeno un 15% di proteine.
La velocità
Molti principianti hanno la tendenza a preferire i lavori “di quantità”
(ovvero più km a ritmi “tranquillamente” sostenibili) rispetto a quelli “di
qualità” (ovvero ritmi più sostenuti o allenamenti più impegnativi come, per
esempio, le ripetute); l’atteggiamento è comprensibile perché la fatica che
caratterizza i lavori di quantità è, per certi versi, un tipo di fatica più
“sopportabile”: correre lentamente per 10 km è meno duro che correrne uno
alla morte!
La brutta notizia è che eseguire sempre lavori lunghi a ritmo medio o
lento aumenta (o comunque mantiene) le proprie capacità di resistenza, ma
finisce per penalizzare la velocità per curare la quale è necessario eseguire
sforzi di più breve durata, ma di intensità massima. I lavori qualitativi
vedono entrare in gioco il meccanismo anaerobico con la logica
conseguenza di una certa produzione di lattato, cosa che a sua volta genera
la spiacevole sensazione di un grado di fatica elevato; il prezzo quindi che
viene pagato con i lavori di qualità (una fatica per molti quasi
insopportabile) viene ricompensato con un miglioramento delle proprie
capacità anaerobiche. Come all’inizio del nostro percorso abbiamo iniziato
a sopportare la fatica che derivava dal non essere atleticamente resistenti,
così, con il progredire della nostra esperienza di runner, è necessario
impegnarsi a sopportare quanto di negativo viene percepito effettuando
lavori ad alta intensità.
La quasi idiosincrasia alla qualità non riguarda soltanto runner che hanno
iniziato da poco la loro avventura podistica, ma anche runner esperti e
navigati che stanno sperimentando un calo di motivazioni; questi
continuano ad allenarsi con la stessa frequenza settimanale, ma con lavori
tutto sommato “lenti” inserendo al più, nelle loro sedute di allenamento
settimanale, una o due prove che prevedono variazione del ritmo di corsa,
ma senza mai far scattare il meccanismo anaerobico. È superfluo dire che,
pur rimanendo atleti efficienti, la loro velocità di base inizierà pian piano a
decrescere. Volenti o nolenti, i lavori qualitativi sono necessari per ottenere
risultati migliori dal punto di vista cronometrico. Insomma, cerchiamo di
vedere la qualità come un professore sì antipatico, ma talmente bravo che
riesce a farci amare moltissimo la materia che sta insegnando.
Che fare dunque per curare al meglio le nostre doti di velocità? Presto
detto, è giunto il momento di affrontare più nel dettaglio l’argomento prove
ripetute.
Velocità e prove ripetute
Le prove ripetute rappresentano per il runner il lavoro qualitativo per
eccellenza. Chi ha iniziato a correre da alcuni mesi dovrebbe essere riuscito,
attraverso le varie sedute di allenamento, a costruirsi una certa base di
resistenza tale da consentirgli di gestire un certo carico di lavoro. Molti
saranno passati dall’alternanza di cammino e corsa alla corsa continua.
Ormai ci troviamo nella fase dell’osare di più.
Il concetto che sta alla base delle prove ripetute è che con la gradualità è
possibile migliorare un determinato parametro fisiologico, sollecitando il
corpo sul quel parametro per un tempo minore, ma con intensità superiore.
Il nostro corpo, abituatosi a reggere la maggiore intensità, sopporterà anche
una maggiore durata a quella nuova intensità e la prestazione ne beneficerà.
Come si può facilmente intuire dalla terminologia e come già accennato
nel paragrafo Terminologie dei programmi di allenamento (vedasi regola
Un programma d’allenamento non è obbligatorio, ma è utile), eseguire
delle prove ripetute significa correre più volte la stessa distanza, cercando
di impiegarci il minor tempo possibile. L’impegno deve essere massimale
(o quasi); la cosa importante sarebbe riuscire a eseguire alla stessa velocità
tutte le prove ripetute previste dalla seduta d’allenamento. Se, per esempio,
le prime prove vengono percorse molto più velocemente delle ultime, vuol
dire che il ritmo scelto inizialmente era ottimistico; se, al contrario, nelle
ultime prove abbiamo corso più velocemente di quanto non sia successo
nelle prime prove, significa che il ritmo scelto all’inizio era troppo
prudente. Generalmente il tipo di errore che viene commesso con più
frequenza è il primo (atteggiamento ottimistico).
Esistono molti tipi di prove ripetute: ripetute brevi (o corte), medie e
lunghe. Analizziamo brevemente un classico di questo tipo di prova: le
ripetute sui 1000 m rimandando a [1] per un’analisi più approfondita
dell’argomento generale. Si noti che molti concetti validi per i 1000 m
valgono anche per ripetute su distanze diverse.
La ripetuta sui 1000 m è un tipo di allenamento svolto in piano, su
superficie scorrevole, caratterizzato dai seguenti parametri:

•• LV = Lunghezza frazione veloce (nel nostro caso 1000 m)


•• RV = Ritmo frazione veloce
•• N = Numero frazioni veloci
•• LL = Lunghezza (o durata) del recupero (frazione lenta)
•• RL = Ritmo frazione lenta.

Lo scopo delle ripetute sui 1000 m dovrebbe essere quello di incrementare


il motore del runner in funzione della distanza su cui vuole esprimersi al
meglio.
La distanza D - Per un maratoneta è molto più importante il numero delle
ripetute piuttosto che la loro velocità. Per il confezionamento di una seduta
di prove ripetute è necessario pertanto fissare la distanza di riferimento D.
Questo è il modo più semplice per descrivere le frazioni lente.
Per le ripetute sui 1000 m D è di solito compresa fra 3 e 21 km; per i
maratoneti sono consigliabili ripetute più lunghe.
RV – Ovviamente deve essere sostenibile e deve essere fissato in base al
record dell’atleta sulla distanza D e sugli altri parametri delle ripetute.
Sostenibile significa che l’atleta non deve calare nelle prove finali della
seduta.
N – In genere va 4 a 10, per esempio 4x1000 m per chi prepara i 3000 m
oppure 10x1000 m per chi prepara la mezza maratona o i 10000 m.
LL – Può andare da 0,5 a 1 LV. Nel caso che si ragioni in termini di
durata occorre tradurre la distanza in tempo di percorrenza. Se decido di
recuperare con 3’ di corsa lenta e vado a 4’30”/km, ecco che il mio
recupero di 3’ equivale a 666 m. In genere nel recupero di corsa è
preferibile recuperare a distanza e non a tempo. Se il recupero è da fermo
(RL=0), la durata del recupero può andare da 1’ a 5’. La finalità della durata
del recupero da fermo dipende in primis da come si vuole gestire lo
smaltimento del lattato in funzione della seduta. La durata del recupero
dovrebbe essere tanto maggiore quanto minore è N e quanto minore è
l’impegno. Infatti con un ampio recupero è possibile andare più forte e tale
condizione è possibile solo se l’impegno delle ripetute non è eccessivo.
RL – Si hanno due possibilità. La prima consiste in RL=0, cioè nel
recupero da fermo. La seconda specifica la velocità del recupero di corsa.
Canonicamente tale velocità deve variare fra FL e FM. Anche in questo
caso la scelta di RL deve essere sostenibile. Alcuni autori (Pizzolato)
introducono l’indice di recupero come il rapporto fra le due velocità,
RL/RV. Per un atleta che corra la frazione veloce a 4’/km e quella lenta a
5’/km, l’indice di recupero è 0,8. L’indice di recupero aumenta quanto più
l’atleta è allenato e quanto più è performante.
Oltre a considerazioni fisiologiche, è necessario sottolineare il vantaggio
psicologico di un allenamento con prove ripetute. Tale vantaggio è
sicuramente rappresentato dal fatto che ognuno di noi incrementa
l’allocazione delle proprie risorse a fini prestativi in vista del traguardo; con
le prove ripetute il soggetto è stimolato a reggere fino alla fine della prova,
ricevendone come compenso una notevole diminuzione dello sforzo
(frazione lenta).
Con un po’ di prove, le ripetute servono anche a conoscerci meglio e a
conoscere i meccanismi della corsa. Per esempio, un soggetto allenato
dovrebbe essere in grado di correre 6x1000 m con 1’30” di recupero da
fermo alla velocità con cui corre la distanza di 3 km.
L’elasticità
Uno dei problemi di molti runner (soprattutto se over 30) è quello di
riuscire a mantenere, se non ad aumentare, la propria elasticità. In genere è
abbastanza facile trovare esercizi adatti allo scopo. Purtroppo però tali
esercizi, se sono adatti a soggetti giovani, non lo sono sicuramente per
soggetti più avanti con gli anni, perché comportano un traumatismo che
solo un fisico giovane può sopportare senza problemi. Per capire l’origine
di tale inadeguatezza, si deve aver presente la differenza fra flessibilità (o il
suo contrario, la rigidità) ed elasticità.
Con l’età esistono fenomeni degenerativi (artrosi) decisamente più gravi
per la flessibilità di quelli che possono colpire l’elasticità dei muscoli.
Ovvio che se le articolazioni sono rigide anche il gesto atletico è
penalizzato, ma in linea di principio l’elasticità di un soggetto potrebbe
essere ben conservata anche sopra i 50 anni.
Poiché la prestazione dell’atleta dipende sia dalla sua flessibilità sia dalla
sua elasticità è importante allenarle entrambe. Per l’allenamento della
flessibilità bastano per le articolazioni esercizi statici, intrinsecamente poco
pericolosi per l’assenza di moto e di energia cinetica. Per l’allenamento
dell’elasticità occorre invece ricorrere a esercizi dinamici. Sostenere che lo
stretching statico possa aumentare l’elasticità del muscolo è molto
ottimistico.
Se per la flessibilità esistono molte forme di allenamento (dallo stretching
allo yoga), per l’elasticità invece non è sempre chiaro cosa si debba fare.
Se utilizziamo esercizi che coinvolgono sia la flessibilità sia l’elasticità
(come per esempio i balzi) ci mettiamo nelle condizioni in cui l’esercizio
può essere deleterio in un soggetto non giovane. È cioè importante
sottolineare che è possibile applicare certi esercizi elastici solo in presenza
di una notevole flessibilità. Con l’età la flessibilità diventa un blocco
fondamentale per una serie di esercizi come balzi, salti ecc. perché il rischio
di infortunio diventa notevole e perché una tecnica troppo complessa mal si
sposa con un corpo poco flessibile. Se invece usiamo esercizi in cui è
coinvolta la sola elasticità, ecco che i rischi sono decisamente minori.
Quelli elencati di seguito sono esercizi che minimizzano questi rischi
perché si suppone che l’esecuzione sia sufficientemente soft da sopperire a
eventuali carenze in flessibilità. Tutti gli esercizi devono essere eseguiti con
un criterio di gradualità crescente e in condizioni di freschezza muscolare,
dopo adeguato riscaldamento.
Doppio balzo – Il soggetto si pone su un gradino di altezza X (all’inizio
anche molto basso, per esempio 10 cm). Salta verso il basso (a piedi uniti)
ed esegue un secondo salto in avanti. Ripete per n volte e per n serie. X
viene gradualmente aumentato, come pure le ripetizioni e le serie. Il fondo
deve essere piano, senza irregolarità, ed è opportuno usare scarpe
ammortizzate. La differenza con la normale corsa balzata tipica dei velocisti
è che l’energia cinetica iniziale è nulla: se il soggetto è poco elastico non
può trasformare l’energia cinetica della corsa in energia elastica e l’energia
impiegata nell’esercizio sarà comunque bassa e non pericolosa.
Cambio di ritmo – Si sceglie un percorso di 60-80 m. Si percorre la
prima metà a ritmo blando (velocità che si terrebbe su un 1500) e poi si
accelera al massimo nella seconda metà. Il miglioramento nel tempo della
seconda metà è indicativo del miglioramento dell’elasticità del soggetto. In
questo caso è la variazione di energia cinetica che è piccola (a meno di non
essere centometristi nati).
Molleggi sul gradino – Hanno ormai sostituito (congresso di Auckland,
2003) lo stretching come mezzo di elezione nella prevenzione e cura di
molte patologie tendinee e della muscolatura della gamba. In punta di piedi
(le dita appoggiano bene, ma la pianta no per evitare pressioni indesiderate
sull’arco plantare) si scende con i talloni e poi si risale spingendosi in su. La
gradualità consiste nel numero di ripetizioni (da 10 a 50), nella velocità di
esecuzione (all’inizio lentamente poi più svelti), nel numero di serie (da 1 a
3). Una variante successiva è quella di operare su un piede solo, con l’altro
ben appoggiato sul gradino superiore.
Capitolo 4 - Corsa, un concetto globale
Chi ha letto con attenzione i capitoli precedenti dovrebbe avere intuito che
ritengo l’attività fisica una componente molto importante nella vita di una
persona. Questa posizione rischia però di creare false aspettative e alcune
persone potrebbero amplificare oltre misura il valore dello sport, facendolo
diventare quasi una “religione”. Per alcuni lo sport diventa una specie di
“droga” e come accade per tutte le droghe può venirsi a creare una sorta di
dipendenza; è per esempio il caso del runner che si infortuna e non riesce
comunque a smettere di correre rischiando di aggravare le proprie
condizioni fisiche oppure quello di chi riesce sì a fermarsi, ma entra in una
specie di crisi esistenziale.
La corsa deve essere invece qualcosa che fa positivamente parte del
nostro modo di essere. Non si deve correre affinché gli altri ci apprezzino
oppure per raggiungere chissà quali prestigiosi traguardi sportivi, questi
ultimi, infatti, sono appannaggio di pochi, dei campioni. La corsa deve
essenzialmente servire a farci stare meglio, ma soprattutto deve servire a
farci diventare persone migliori, sotto tutti i punti di vista. Ecco quindi le
ultime cinque regole, forse le più importanti, quelle che riguardano la
globalità della corsa.

1. Ricordati che la corsa serve per migliorare la tua vita.


2. Abbina alla corsa un buon stile di vita, in primis cura la tua
alimentazione.
3. La durata della tua vita atletica dipende anche dal sovrappeso.
4. Non cercare di aumentare la tua autostima con i risultati sportivi, ma
impara che, poiché corri, sei già una persona degna di stima.
5. La fatica non è un sacrificio, ma è una gratificazione.

Ricordati che la corsa serve per migliorare la tua


vita
Correre senza collegare la pratica sportiva alle altre vicende della propria
vita è abbastanza schizofrenico. Sicuramente la corsa interessa due sfere
molto importanti della tua vita: l’alimentazione e la personalità. Può servire
pertanto per metterle a punto, ottenendo un significativo miglioramento
della qualità della propria vita.
L’alimentazione
È fuor di dubbio che molte persone si sono avvicinate alla corsa con lo
scopo di dimagrire; non c’è assolutamente niente di male in tutto questo,
anzi. Il problema è che, in molti casi, per raggiungere questo scopo si
commettono alcuni grossolani errori, errori che sono indotti soprattutto da
due false credenze:

•• per dimagrire è necessario sudare tantissimo


•• per dimagrire si deve fare attività sportiva a bassa intensità.

Per dimagrire si deve sudare tantissimo – Rischiando di deludere molti:


non è così. È vero che è molto comune imbattersi in jogger che si coprono
in modo eccessivo per favorire la sudorazione, jogger che scopriranno alla
fine della loro seduta di corsa di essere calati notevolmente di peso. Peccato
che la mattina seguente (dopo essersi necessariamente reidratati, cioè aver
bevuto per recuperare i liquidi persi) si renderanno conto che il loro
dimagrimento era fittizio e che il peso è ritornato a essere pressappoco
quello di sempre. Un altro “trucco” che viene spesso utilizzato è quello di
bere poco, ma si tratta di una strategia destinata al fallimento nel breve
termine perché è inevitabile doversi reidratare. In altri termini, sudare fa
perdere acqua (che poi si recupera), non grasso!
Per dimagrire si deve fare attività sportiva a bassa intensità – Questo
è un altro grossolano errore, alimentato spesso ad arte da gestori di palestre
e personal trainer poco professionali che mirano a tenersi il cliente
assecondando la sua pigrizia. L’errore è basato sul fatto quando si pratica
un’attività fisica a bassa intensità si consumano in modo preferenziale i
grassi; di qui il semplicistico ragionamento: “correndo forte brucerò
soltanto i carboidrati e non i grassi”, non capendo che l’importante è
bruciare calorie, non un determinato macronutriente.
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sulla questione. L’organismo
umano non funziona a compartimenti stagni ed esistono dei meccanismi che
trasformano i grassi in energia e i carboidrati in grassi. In altri termini: non
è affatto detto che se assumiamo carboidrati immagazzineremo solo
carboidrati e che se assumiamo grassi questi andranno inevitabilmente (e
tristemente) a depositarsi nella cosiddetta “pancetta”; il nostro organismo
infatti possiede sofisticati meccanismi grazie ai quali riesce a gestire in
modo intelligente le varie esigenze energetiche. Quello che è necessario
sapere è che:

•• il dimagrimento dipende essenzialmente dalla combinazione


sport/alimentazione, è sbagliato fermarsi soltanto a ciò che accade quando
si pratica attività sportiva, si deve anche analizzare ciò che accade dopo.
•• I carboidrati che vengono assunti con la dieta si trasformano in grassi
quando le nostre riserve glicidiche sono al massimo (ogni persona ha un
massimo stoccabile che non è superabile, cosa che non accade con i grassi
che non hanno limiti di sorta).

La raccomandazione di praticare attività fisica a bassa intensità quindi non


ha pregio nell’ottica del dimagramento; a fini dimagranti, infatti, ciò che
conta nella corsa sono i km percorsi, non la velocità che si riesce a tenere
(la cosa è diversa nel ciclismo, uno sport nel quale, i consumi energetici
dipendono, e non poco, anche dalla velocità che si tiene perché a seconda di
questa cambia il rendimento del mezzo). Quando corriamo lentamente si
bruciano in modo preferenziale i grassi e conseguentemente dimagriamo
perché viene a ridursi la scorta lipidica; quando corriamo più forte bruciamo
preferenzialmente i carboidrati e così facendo impediamo che quelli assunti
con la dieta si trasformino in grassi e quindi dimagriamo perché, di fatto, si
“dirottano” i carboidrati che finirebbero nella pancetta all’energia spesa per
la corsa o l’attività fisica in generale.
Come comportarsi se si è a dieta? - Supponiamo che il soggetto che
mantiene il suo peso con 2.000 kcal decida di assumerne 300 in meno
(quelle che consuma nell’attività fisica), ma faccia sport ad alti regimi
bruciando perciò soprattutto carboidrati. Si potrebbe pensare che non ci
siano calorie che andranno a sostituire la riserva di carboidrati persa; così
facendo si ricadrebbe nel caso del dimagrimento fittizio: il soggetto perde
peso perché svuota le sue riserve di carboidrati.
In realtà non è così; si deve infatti considerare che nelle 2.000 kcal ci sono
carboidrati. A meno che il soggetto non sia masochista, se vuole dimagrire,
significa che è attualmente in leggero sovrappeso. Supponiamo che delle
2.000 kcal 1.200 siano di carboidrati, 300 di proteine e 500 di grassi. Si
tratta del classico individuo che segue la dieta mediterranea, con peso di 65
kg (che giustifica l’equilibrio con 2.000 kcal, di cui 300 sportive) e che
dovrebbe dimagrire di 4-5 kg. In un tal soggetto la quantità di carboidrati è
eccessiva (come nel 90% della popolazione) e viene quotidianamente
trasformata in grasso. Infatti, il suo fabbisogno di carboidrati è di circa 676
calorie (il fabbisogno glicidico essenziale in grammi può essere calcolato
moltiplicando il peso P per 2,6). Se risparmia 300 calorie, ne assume solo
1.700 così ripartite: 1.020 di carboidrati, 255 di proteine e 425 di grassi.
Delle 1.020 kcal di carboidrati assunte, 676 andranno impiegate nel
metabolismo, 300 nel ripristinare le scorte e 44 saranno comunque
trasformate in grasso. Rispetto alla situazione primitiva solo 44 vengono
trasformate in grasso e non 344; quindi l’individuo perde grasso e non
riserve di carboidrati. Morale: le 300 calorie risparmiate dirottano i
carboidrati assunti con l’alimentazione dalla conversione in grasso al
ripristino delle scorte di carboidrati con l’effetto che le scorte di grassi
diminuiscono.
Dai conti soprariportati è anche ovvio che chi vuole dimagrire non può
intraprendere sforzi “mostruosi” (per esempio una maratona) e poi non
rialimentarsi decentemente perché altrimenti rischia di bruciare le sue scorte
di glicogeno o, soprattutto, le proteine dei muscoli. Tale pericolo è però
decisamente limitato dal fatto che chi è in netto sovrappeso non ha
l’allenamento sufficiente per tali tipi di sforzo.
E la fame? - Alcuni sostenitori dell’esercizio a bassa intensità sostengono
che correndo veloci si bruciano molti carboidrati, si abbassa la glicemia e si
innesca lo stimolo della fame. Queste persone probabilmente non hanno
mai fatto sport ad alta intensità e non sanno che dopo un tale sforzo il corpo
è così occupato a ripristinare le risorse (tante) perse con l’attività fisica che
non si ha che marginalmente fame; l’appetito arriva gradualmente e si
reintegrano le (giuste) calorie poco a poco.
Invece con lo sport a bassa intensità la fame arriva subito perché
l’appetito non è legato ai soli livelli di glicemia (come ingenuamente
credono i sostenitori dell’allenamento a bassa intensità): basta considerare
gli effetti di una piacevole passeggiata in montagna!
Per dimagrire si deve correre veloci - Detto in generale, per dimagrire
occorre fare la massima fatica. Anche questa è l’erronea convinzione di chi
pensa che si bruci di più se si va veloci (checché se ne dica, l’incremento
del metabolismo basale è, nella stragrande maggioranza delle persone, non
significativo). Che nella corsa il consumo calorico dipenda solo dai km
percorsi ce lo dice la fisica che mi fa sapere che il lavoro è dato dalla forza
(non tanto il peso, quanto le forze meccaniche del nostro apparato
locomotore per spostarlo in avanti, parallele allo spostamento; in una
visione molto rozza, pensiamo a una mano che spinge il soggetto in avanti)
per lo spostamento. La velocità con cui viene fatto il lavoro (la potenza)
non c’entra con il lavoro totale. L’errore di ritenere importante la velocità
nasce dal fatto che si confonde la potenza (lavoro nell’unità di tempo) con il
lavoro. Consideriamo un campione mondiale che pesa 60 kg e che in un’ora
percorre 20 km. Avrà consumato all’incirca 1.200 calorie. Un principiante
dello stesso peso che in un’ora percorre 10 km brucerà 600 calorie, la metà:
andare più forte ti fa bruciare più calorie nell’unità di tempo. Ma se il nostro
principiante percorre 20 km (ci mette il doppio del tempo: due ore) brucerà
anch’egli 1.200 calorie. Insomma, per bruciare X calorie, al nostro
campione occorre meno tempo di quanto ne serve al principiante; ma, a
parità di peso e di km percorsi, entrambi bruciano X.
L’uomo non è come un’auto che più va forte più i consumi aumentano:
l’uomo spende per fare un km sempre la stessa energia, a prescindere dalla
velocità. Quindi è meglio (nell’ottica del dimagrimento, non per altri
motivi!) fare 22 km a 5’/km che 20 a 4’30”/km.
La strategia giusta – Poiché, come abbiamo visto, nella corsa il consumo
calorico dipende dai chilometri percorsi, è ovvio che

per dimagrire occorre scegliere la velocità che consente di effettuare il


maggior numero di chilometri nel tempo che si ha a disposizione.

Questa frase non deve essere interpretata come il consiglio di partire a


palla e cercare stoicamente di resistere. Vuol semplicemente consigliare di
trovare una distribuzione dello sforzo che, in base al proprio grado di
allenamento, consenta di percorrere la strada più lunga. Per esempio, il
principiante che non ha nelle gambe un’ora di corsa, ma ha a disposizione
un’ora, alternerà corsa e cammino in modo da massimizzare i km percorsi.
La personalità
Nella parte introduttiva di questo quarto capitolo abbiamo scritto che la
corsa deve essere qualcosa che deve far parte positivamente del nostro
modo di essere. Purtroppo, in molte occasioni, ciò non si verifica. Infatti,
molte persone che praticano la corsa hanno di quest’ultima una visione
distorta, una visione che è indice di una personalità non totalmente
equilibrata.
Un interessante indicatore esistenziale è lo stop sportivo. Quando, per un
infortunio o per mille altre ragioni, non si riesce ad accettare la forzata
interruzione dell’attività sportiva, ci si deprime, si diventa nervosi e
irascibili, vuol dire che lo sport non è vissuto in maniera corretta, ma è la
ciambella di salvataggio di una vita tutto sommato non soddisfacente.
Ricordo che quando fui operato al tendine rotuleo approfittai dello stop di
qualche mese per diventare maestro di scacchi. La morale è che se
sappiamo amare la vita, come amiamo lo sport, possiamo trovare altre
attività e altri oggetti o persone verso cui convogliare la nostra capacità
d’amare. È cioè necessario pensare con una mente più ampia e non limitata
all’immediato e capire che anche nella ricostruzione c’è la possibilità di
amare lo sport proprio come quando si è al top della forma.
Qualche anno fa ricevetti una mail da una runner che seguiva il sito da
anni:

Dopo circa 20 anni di un bellissimo rapporto con la corsa, mi sto


disamorando e la cosa non mi piace. Iniziai a correre per dimagrire, avevo
alle spalle 10 anni di ginnastica aerobica ed adoravo sentire i muscoli agili
e caldi con il sangue che ti scorre veloce nelle vene. Con la corsa queste
sensazioni si sono amplificate anche grazie al fatto di correre in campagna.
Poi sono venuti gli allenamenti mirati, le gare, qualche vittoria a livello
locale ecc.
Però ora mi pesa, non mi diverto più, direi che “non gioco più”, è come
un lavoro. Quindi c’è qualcosa che non va nel rapporto con la corsa. Dopo
uno stop di tre mesi per infortunio la ripresa non c’è, ma non solo a livello
fisico, mi alleno senza passione, vado a fare le gare perché sono nel giro
degli amici, ma la fatica non mi appaga più! Ho pensato:

1 - Mollo la corsa, si vive anche senza, ma l’aspetto salutistico dove lo


metto?
2 - Mollo la compagnia con cui corro e mollo le gare (ma essendo la gran
parte dei miei rapporti umani, partner compreso, concentrati nell’ambiente
del podismo rimarrei sempre invischiata).
3 - Ciclismo - e qui c’è il “problema tempo”; in due ore non si fa un
granché senza considerare che non saprei nemmeno da che parte
cominciare, so solo andare in bici. Come ne usciresti tu?

Questa fu la mia risposta:

Quello che ti succede accade a tanti, non a caso la vita media di un runner
è attorno ai cinque anni. Molti si stufano della corsa semplicemente perché
non amano quello che fanno e vi sono stati trascinati dai risultati che hanno
ottenuto. Dicendo risultati non parlo di vittorie, di gare ecc., ma di
qualunque gratificazione se ne abbia: i chili persi oppure amici trovati
oppure la sensazione di sconfiggere lo scorrere del tempo per un’efficienza
fisica mai avuta prima. In realtà, dietro a quelli che noi chiamiamo hobby
c’è spesso un immediato riscontro pratico. Un riscontro poco spirituale, e
alla fine effimero. Se vuoi, anche la preoccupazione per la propria salute è
troppo pratica. Ci vuole qualcosa di molto più intimo per continuare per
sempre ad amare qualcosa (e allora un hobby diventa un oggetto d’amore)

Faccio molte cose, ma in quello che faccio cerco di metterci un po’ di
spiritualità. A volte parlo con runner che mi snocciolano tempi e gare:
capisco che dureranno poco perché non c’è nulla di intimo in quello che
fanno. Se spiegassi loro che non è che conti correre a 4’/km oppure arrivare
prima di Tizio o di Caio, sono sicuro, non capirebbero. Per esempio, non
capiscono perché gareggi ormai poco rinunciando a premi o a giornate
socializzanti in favore di una corsa nei miei campi, da qui a lì, con il
cronometro che segna un secondo meno di 17’. So benissimo che da qui a lì
non è scientifico, ma è molto più motivante perché “sono contento di farlo”.
Non a caso, nelle mie opere, parlando del fondo progressivo l’ho definito il
miglior allenamento per il wellrunner, cioè colui che corre per vivere
meglio. Parti magari stanco, poi le gambe incominciano a ingranare e alla
fine, magari per un refolo di vento fresco in faccia, ti viene voglia di tirare
l’ultimo mille, al massimo, per scoprire che sai ancora soffrire.
Molti mi hanno accusato di dare scarsa importanza alla spiritualità, ma
non è così. In genere confondono un sentimentalismo che dovrebbe
giustificare anche le azioni più assurde con la vera spiritualità, la profonda
conoscenza di ciò che si vive. Senza conoscenza non c’è spiritualità, quindi
quando c’è confusione (come quando si è accecati dalle passioni) non si
può parlare di spiritualità. Molte persone hanno passione per questo o per
quello, ma non hanno amore. Sicuramente molti runner hanno più passione
di me per la corsa, non mancano una gara e parlano solo di corsa, ma spesso
sono i primi a mollare perché la passione è effimera, l’amore è eterno. Tu
dici “mi alleno senza passione”, io non corro per passione, corro e basta;
quando ho voluto vedere i miei limiti mi sono allenato come un
professionista, oggi corro e basta, magari sfidando in un’impossibile gara
una bicicletta che trovo sul percorso oppure andando pianissimo con un
amico che ha appena cominciato a fare sport. Ma amo correre. C’è un timer
interno che mi porta a farlo. Come in tutte le cose che ho fatto e che faccio
c’è una profonda gratitudine per quello che mi hanno dato e le faccio anche
per dir loro grazie di avermi fatto diventare come sono.
Tu mi chiedi come ne uscirei, ma forse non posso risponderti perché io
non ci sarei mai entrato. In fondo mollare ciò che si è amato è incominciare
a smettere di amare la vita e io non penso proprio di farlo. Se poi il mille
finale ti è venuto lentissimo che importanza ha? Ci ridi sopra e ti riprometti
di riprovarci il prossimo giorno che il sole ti spingerà ancora al massimo le
tue gambe.
Nessun premio, nessun applauso, solo la voglia di vivere.

Abbina alla corsa un buon stile di vita, in primis


cura la tua alimentazione
Se è vero che molti diventano runner perché la corsa permette di
dimagrire più velocemente, è altresì vero che diversi di loro non arrivano
mai a un peso accettabile dal punto di vista sportivo, non curano
minimamente la loro alimentazione. Dell’importanza dell’alimentazione
abbiamo già parlato nella trattazione della regola precedente, qui ci
soffermeremo pertanto sugli altri aspetti di un buon stile di vita. Ma cosa si
intende esattamente quando si parla di buon stile di vita?
Il buon stile di vita
Questa locuzione ricorre spesso nei discorsi salutistici, ma nessuno si
assume l’onere di definirla, se non per grandi linee, affidandosi al solo
senso comune.
Una recente statistica afferma che circa i due terzi di italiani sono convinti
di seguire un buon stile di vita, ma che sono pure convinti che solo una
minoranza della popolazione viva in modo salutisticamente valido.
Incrociando tali dati non si può che arrivare che a una conclusione: ognuno
tira l’acqua al proprio mulino e definisce buono il “suo” stile di vita,
assolvendosi da tanti peccatucci che poi proprio veniali non sono. Si scopre
così che fumare 7-8 sigarette al giorno, bere mezzo litro di vino a pasto, non
fare attività fisica che in vacanza, avere 5-6 kg di sovrappeso non sono
considerati fattori negativi per la salute.
Partendo dai dati raccolti dalla letteratura scientifica è però possibile
ottenere una definizione di “buon stile di vita” molto precisa e soprattutto
utile a dimostrare come spesso non abbia senso ingannarsi e credere che il
proprio sia “il migliore dei modi possibili” relativamente alla nostra salute.
Come base per la ricerca della definizione utilizziamo il rapporto 2002
della World Health Organization (WHO).

TABELLA 4.1
Perdita in anni di vita dei principali fattori di rischio
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Fattore di rischio > Perdita di anni
• Fumo > 12,2
• Ipertensione > 10,9
• Alcol > 9,2
• Ipercolesterolemia > 7,6
• Sovrappeso > 7,4
• Ridotto consumo di frutta e verdura > 3,9
• Sedentarietà > 3,3
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La tabella si riferisce ai Paesi industrializzati ed è stata ridotta ai fattori


che superano i due anni di perdita (per perdite inferiori i dati appaiono poco
significativi).
È oltremodo importante saper leggere la tabella in modo statisticamente
corretto. I vari fattori, con un lavoro impressionante dal punto di vista
dell’analisi dei dati, sono stati scorrelati. Ciò significa che il valore relativo
a un fattore è quello che si otterrebbe se il soggetto non avesse che quel
fattore di rischio. In altri termini, se una persona non ha altri fattori
negativi, il fattore X quanto incide? Per esempio se una persona non fuma,
non beve, non ha la pressione alta, ha il colesterolo a posto, non è
sedentario, non è in sovrappeso però mangia poca frutta e verdura,
realisticamente mangerà pochissimo perché mangiare anche frutta e verdura
è l’unica strada per un sedentario di mangiare qualcosa di saziante senza
ingrassare. Mangiando pochissimo avrà un’alimentazione decisamente
sbilanciata e quindi perderà anni.
Nella realtà è molto difficile che chi fuma 30 sigarette al giorno non abbia
un’alta pressione arteriosa (ipertensione) o che abbia il colesterolo cattivo
entro i livelli considerati come normali. In altri termini:

i vari fattori di rischio si sinergizzano a vicenda.

Consideriamo un soggetto (riflettendo un attimo troveremo sicuramente


un nostro conoscente che corrisponde alla descrizione) che:

•• fuma 30 sigarette al giorno;


•• ha una pressione arteriosa elevata (per esempio 170/100 mmHg);
•• beve oltre la soglia etanolica (per esempio l’equivalente di 1 litro di
vino al giorno);
•• ha il colesterolo cattivo (LDL) alto e quello buono (HDL) basso (valori
per esempio 270-30);
•• è in sovrappeso (per esempio di 15 kg);
•• è sedentario.

Totale: ha perso 50,6 anni!


Questo dato può sembrare irrealistico, ma non lo è se si pensa che il
nostro aspirante suicida molto probabilmente ha una vita media di 50 anni
(fra incidenti cardiovascolari, tumori, ictus, diabete ecc.). In altri termini,
avrebbe potuto vivere fino a 100 anni. Tale conclusione è in linea con il
fatto che la vita media della popolazione occidentale è di 80 anni, pur
vivendo la gran parte in modo non salutisticamente accettabile.
Proviamo a ridurre i vizi del nostro soggetto e verifichiamo la perdita in
anni di chi:

•• non fuma;
•• ha una pressione “normale” (150/90 mmHg; 150 dovrebbe essere
considerata una pressione comunque elevata);
•• beve due bicchieri di vino a pasto e un liquore alla sera (l’equivalente di
un litro di vino al giorno);
•• ha il colesterolo cattivo alto e quello buono basso (270-30);
•• è in sovrappeso (per esempio di 10 kg);
•• è sedentario.

Totale: ha perso 27,5 anni.


È il classico soggetto che lascerà questa valle di lacrime attorno ai 70
anni.
Facciamo ancora meglio. Consideriamo un ultimo soggetto che:

•• non fuma;
•• ha una pressione “normale” (150/80 mmHg);
•• non beve o beve saltuariamente;
•• ha il colesterolo nella norma;
•• è in sovrappeso (per esempio 10 kg);
•• è sedentario.

Per molti il soggetto ha una vita sana, è in sovrappeso “per l’età”. Peccato
che abbia perso comunque 10,7 anni di vita. È il classico soggetto che
morirà attorno agli 80 anni, dopo aver passato gli ultimi 10-15 anni della
sua esistenza “da vecchio” con acciacchi vari.
Questi dati dovrebbero far riflettere sull’importanza dei fattori di rischio,
ma non risolvono ancora il problema di definire un buon stile di vita. Infatti
alcuni fattori (come l’ipertensione o l’ipercolesterolemia) non si riferiscono
a comportamenti del soggetto e una piccola parte della popolazione (non
pensate subito di essere fra questi!) è comunque geneticamente predisposta.
È inoltre importante notare che l’aspetto psicologico ha una rilevanza
fondamentale non tanto sull’aspettativa di vita quanto su moltissime
patologie che, se non fatali, certo sono esistenzialmente invalidanti.
Purtroppo l’aspetto psicologico non è quantificabile come i precedenti
fattori di rischio e la sua valutazione è lasciata al soggetto.
Il soggetto ha un buon stile di vita (Albanesi, 2006) se:

•• non fuma;
•• non beve abitualmente alcolici;
•• non fa uso di droghe e/o di sostanze illecite;
•• non è in sovrappeso;
•• non è sedentario;
•• ha un’alimentazione varia ed equilibrata;
•• esegue controlli periodici di prevenzione;
•• non si sente stressato;
•• non si sente depresso;
•• non si sente ansioso.

Note - Chi beve abitualmente alcolici a pasto non riesce a stare sotto la
soglia etanolica di sicurezza. Limitarsi a un solo bicchiere a pasto (senza
liquori extra e senza mai sforare) è una condizione teorica, ma non pratica.
Il sovrappeso deve essere calcolato con indici di magrezza moderni
(vedasi Capitolo I, paragrafo Correre sì, ma quanto? Tabella 1.1).
Alimentazione varia ed equilibrata non significa soltanto la presenza della
frutta e della verdura nei propri pasti, ma anche una varietà globale
nell’impiego dei cibi.
Lo stress, l’ansia e la depressione sono in gran parte dei casi motivati da
un errato percorso psicologico, da una cattiva comprensione del mondo e di
sé. L’impiego di farmaci per combatterli non può riportare a “buono” lo
stile di vita del soggetto.
Ovvio che lo stile di vita non è buono (cioè il soggetto vive male) se uno
solo dei punti sopraccitati non è soddisfatto. Può sembrare una condizione
molto restrittiva, ma è coerente con la logica e con la visione della vita di
chi cerca il meglio. Infatti, se si accetta la definizione di “buon stile di vita”
come AND logico di dieci condizioni (devono essere soddisfatte tutte), il
negato della proposizione (non buono, cioè cattivo stile di vita) è l’OR delle
dieci condizioni negate (basta che sia soddisfatta una sola delle negate).

La durata della tua vita atletica dipende anche


dal sovrappeso
Nella Tabella 1.1 citata poco prima vengono evidenziati i limiti massimi
che una persona ragionevole dovrebbe rispettare se è in sovrappeso. Certo,
una persona in forte sovrappeso può correre la maratona, ma statisticamente
la sua vita atletica sarà decisamente accorciata: tendini, ossa e articolazioni
prima o poi faranno crac e a nulla saranno serviti anni di pratica sportiva
quando poi si sarà ritornati fra le fila dei sedentari in sovrappeso. Pertanto è
necessario avere nei confronti dell’alimentazione la stessa attenzione che si
riserva alla corsa, in modo che sinergicamente possano aiutarti a cambiare
veramente la tua vita.
Il sovrappeso
Il sovrappeso è un problema che riguarda ormai ampie fasce della
popolazione. Per affrontare il problema e risolverlo è importante capire in
prima persona. Due sono i punti fondamentali:

•• capire le cause;
•• conoscere i meccanismi con cui le cause producono i loro effetti (vedasi
[6], Capitolo 5, sottocapitolo Perché si ingrassa).

Il sovrappeso è ereditario? – A prescindere da cause patologiche (che


riguardano comunque solo una percentuale minima della popolazione), è
fondamentale sapere che non esistono “predisposizioni al sovrappeso”.
Frasi come “il grasso è di famiglia” non hanno ragione di essere: in una
famiglia spesso tutti sono in sovrappeso semplicemente perché per cultura
si tramandano informazioni alimentari e stile di vita scorretti.
Costituzione robusta? – Frasi del tipo: “ho una struttura fisica molto
pesante”, “sono di costituzione robusta” ecc. erano giustificate finché non
esistevano le bilance impedenziometriche. Oggi non si può più barare
perché bastano pochi secondi per misurare la propria percentuale di massa
grassa. Una delle regole della dieta italiana fissa i valori salutisticamente
ottimali (vedasi [6], Appendice 19, Le regole della dieta italiana). Qui mi
preme solo sottolineare che, se il runner può correre (cioè non è troppo
sovrappeso), non è detto che possa correre bene a causa di qualche chilo di
troppo. Se non ha a disposizione una bilancia, esiste un’altra prova che
condanna i portatori della presunta costituzione robusta.
Si allunghi un braccio con il palmo della mano rivolto verso l’alto. Si
osservi l’avambraccio. Chi è correttamente magro dovrebbe notare sei o
sette vene che scorrono più o meno parallelamente dal gomito al polso,
come i fiumi su una carta geografica. Se le vene non sono in rilievo netto
(non basta vederle!) non si è in peso forma ottimale. Per le donne (che
hanno fisiologicamente circa l’8% di grasso in più) è sufficiente che le vene
si vedano nell’interezza del percorso.
Un’ultima osservazione, direi tragica. È inutile pensare che si hanno chili
di troppo perché madre natura ci ha dotato di una costituzione robusta. Se
esistesse veramente la costituzione robusta perché nei campi di
concentramento tutti erano scheletrici?
Veniamo dunque alle due reali cause del sovrappeso: iperalimentazione e
ipoconsumo.
Iperalimentazione (alimentazione ipercalorica) - Questa causa è ovvia
a tutti, ma non altrettanto ovvia è la suddivisione in due rami ben distinti.
Infatti si possono introdurre molte calorie perché si mangia troppo o perché
si mangia male. Parleremo pertanto di due forme di iperalimentazione.
Iperalimentazione quantitativa - Il soggetto è dotato di un appetito
eccessivo, non riesce a controllarlo e finisce per eccedere con le calorie.
Anche se “mangia bene” (la classica dieta mediterranea) finisce per andare
in sovrappeso, soprattutto se ha superato i 30 anni e se non fa attività fisica.
Nel caso che sia giovane e faccia un po’ di sport diventa spesso un falso
magro: il grasso si distribuisce uniformemente e armonicamente lungo tutto
il corpo e non si vede. Per svelare i falsi magri, se non volete misurare il
grasso con l’apposita strumentazione, esiste il semplice test delle vene che
abbiamo citato sopra. L’iperalimentato quantitativo diventerà sicuramente
un soggetto in deciso sovrappeso non appena il metabolismo basale
rallenterà. Comparirà la classica pancetta.
Iperalimentazione qualitativa - Il soggetto è dotato di un appetito
normale o addirittura scarso, ciononostante è in sovrappeso. In genere o è
ipometabolico o mangia male. Gli errori alimentari più comuni sono:

•• dare la preferenza a cibi ipercalorici come i grassi (salumi e formaggi


grassi anziché magri, carne grassa ecc.) e i carboidrati poco sazianti (dolci,
pasta, pane, pizza);
•• mangiare spesso;
•• assumere calorie inutili (d’estate bevande zuccherate o succhi di frutta,
vino, caramelle ecc.);
•• in genere il soggetto non ha nessuna coscienza alimentare, cioè le sue
conoscenze sull’alimentazione sono scarse, spesso per sentito dire, a volte
addirittura completamente errate.

Il rallentamento del metabolismo (ipoconsumo) - Riguarda solo


soggetti che hanno superato i 30 anni d’età, una soglia in cui il fabbisogno
calorico quotidiano può diminuire. Il rallentamento è originato soprattutto
dal decremento fisiologico della muscolatura con l’età; da notare che tale
decremento nello sportivo è minore e quindi è anche minore il
rallentamento del metabolismo.
Le stesse assunzioni caloriche di dieci anni prima portano inevitabilmente
al sovrappeso. Il tutto è complicato dal fatto che esistono persone non più
giovani e sedentarie che possono abbuffarsi comunque senza ingrassare.
Ciò porta il nostro individuo in sovrappeso a pensare di essere “sfortunato”,
vittima di una sorta di malocchio genetico. In realtà si scoprirebbe che chi si
abbuffa senza ingrassare ha valori ormonali scorretti (spesso basta il quadro
tiroideo), è cioè malato. La situazione è poi ulteriormente complicata dal
fatto che chi si mette a dieta e segue un regime ipocalorico spesso esagera e
innesca un’ulteriore decisa riduzione del metabolismo. Da notare che la
riduzione del metabolismo dovuta a restrizioni dietetiche avviene solo se le
restrizioni sono veramente importanti, scorrette dal punto di vista di una
valida strategia di dimagrimento. Nel caso di un piano di dimagramento
corretto la riduzione è irrilevante perché per un soggetto sovrappeso (non
obeso) si tratta di ridurre di poco la sua alimentazione. Infatti se il
metabolismo con l’età diminuisce, quantitativamente diminuisce
mediamente di non più di 100 kcal al giorno (equivalenti a circa 3 kg di
muscoli, la differenza fra un soggetto di 50 anni e uno di 25); purtroppo se
il soggetto mangia come prima, aumenterà di circa 4 kg in un anno!
Basta quindi diminuire leggermente il proprio introito calorico quotidiano
(100 kcal equivalgono al 5% di un soggetto con un’assunzione di 2.000 kcal
giornaliere) per rimanere in peso perfetto.
Sovrappeso: come sconfiggerlo
In [7] spiego che si può sconfiggere il sovrappeso solo abbinando due
fattori:

1. l’attività fisica
2. la coscienza alimentare, cioè la consapevolezza di cosa e quanto
mangiare.

Se per l’obesità è necessaria l’opera di un professionista, per il sovrappeso


rivolgersi a un dietologo è spesso un boomerang: infatti si applicheranno
alla lettera i consigli del medico, salvo poi, una volta lasciati soli, ingrassare
di nuovo e convincersi che purtroppo si è geneticamente predisposti al
sovrappeso. Non a caso, ritengo che i migliori dietologi non siano coloro
che stilano diete perfette, ma coloro che educano il cliente e gli formano
una coscienza alimentare [7].

Non cercare di aumentare la tua autostima con i


risultati sportivi, ma impara che, poiché corri, sei
già una persona degna di stima
La corsa può anche evidenziare aspetti negativi della propria personalità e
può essere di notevole aiuto per correggerli. Se per esempio una delle frasi
fra parentesi ci appartiene (“Con la volontà di allenarsi si arriva ovunque”,
“Chi ottiene scarsi risultati è uno scansafatiche”, “Arrivare ultimi? Tanto
vale smettere”, “Avrei rinunciato a tutto pur di diventare un campione”,
“Meglio ritirarsi che arrivare ultimi”) probabilmente la propria autostima si
basa sui risultati anziché su valori morali ed esistenziali (ciò che amiamo) e
la nostra forza di volontà è troppo nevrotica, cioè finalizzata sempre a un
obiettivo più che all’autocontrollo. La corsa può farci diventare persone
migliori se riusciremo a capire che non è tanto importante vincere o
partecipare quanto buttare il cuore oltre il traguardo, dando il meglio di sé,
a prescindere dall’essere primi o ultimi.
L’autostima
L’autostima è fondamentale per ottenere il meglio dalla vita. Poiché il
proprio livello di autostima nasce da un confronto fra sé e il mondo
circostante, se il confronto è errato, errate sono le conclusioni.

L’autostima è l’idea che ognuno ha di sé.

In termini molto pratici, è il voto che ci si dà. Poiché è un concetto


soggettivo, ecco che dal di fuori il giudizio dato dal singolo su sé stesso che
noi percepiamo possa essere del tutto diverso da quello che oggettivamente
pensiamo essere corretto.
Per esempio, un debole può avere una bassa autostima e ritenersi sempre
mediocre anche quando non lo è. Viceversa un apparente può pensare che
nulla gli è precluso perché in quel momento ha un notevole successo.
Quest’ultimo esempio ci fa capire come l’autostima non sia un concetto
statico, ma dinamico. Come una grande azienda che normalmente è
abbastanza stabile, ma può avere alti e bassi, generati da eventi che
accadono in essa o fuori di essa. Ovviamente sarebbe auspicabile che
l’autostima rimanesse sempre ai massimi livelli.
Lo sport non deve essere legato alla propria autostima – Il risultato
sportivo (sia che ci si alleni tutti i giorni oppure due volte alla settimana)
entra spesso a far parte della propria vita, quasi fosse un dato segnaletico
della propria carta di identità. Si noti per esempio come molti runner
tendano a raccontare i propri tempi; un mio amico raccontò alla nonna di
mia moglie, quasi novantenne, tutta la maratona di Reggio Emilia, dandogli
persino i tempi di passaggio! Come giudichereste un titolare di un negozio
che ogni volta vi racconta quanto ha incassato nella giornata, suddividendo
gli incassi per periodi del giorno o per articoli? Eppure, per quanto possa
sembrare incredibile, molti runner si comportano in modo analogo. Se
succede occasionalmente, può avere un senso contingente a una certa
discussione, ma se viene fatto “normalmente” indica la forte necessità di far
sapere all’altro quanto si vale (e con quel valore entrare a far parte di un
gruppo con cui socializzare) e come lo sport sia tutta la vita (anche se a
volte ciò è fermamente negato: in realtà il runner crede di avere una vita
interessante, ma, nonostante questo, non riesce che a raccontare agli altri
che di corsa, mostrando di fatto che inconsciamente il resto “conta
veramente poco”).
Lo sport non deve servire per avere successo – Altro punto dolente è la
ricerca del risultato (assoluto o personale) con la stessa determinazione con
cui, per esempio, nel campo del lavoro si ricerca il successo. Il runner basa
la propria strategia sportiva sull’aver raggiunto un certo risultato che lui
reputa buono (ma che, tranne che nel professionista, è oggettivamente
mediocre). Per capire quanto questo atteggiamento possa essere
psicologicamente fragile basti pensare a chi poggia la sua soddisfazione
esistenziale sull’aver fatto o no una certa carriera.
Se è normale che per ogni runner ci sia la fase del recordman (definiamo
recordman il runner alla continua ricerca del miglioramento della propria
prestazione, a prescindere dal valore assoluto di quest’ultima), come è
normale che in un certo lavoro si voglia guadagnare il più possibile, quello
che è anomalo è l’esagerato significato del risultato che diventa condizione
necessaria per fare sport. Non a caso alcuni vanno alla ricerca della loro
dimensione in molti sport a riprova del fatto che cercano dove emergere più
facilmente.
In [1] ho definito le varie tipologie di runner anche in base alle
motivazioni che li hanno portati alla corsa. Una figura interessante è quella
che definisco come selftester, ovvero colui che corre per migliorare la
propria autostima. A differenza del recordman, che si mette alla prova senza
implicazioni psicologiche, il selftester basa la propria autostima sul
raggiungimento dell’obbiettivo sportivo. Correre una maratona non è tanto
una barriera sfidante quanto un voto che il soggetto dà a sé stesso. Tipiche
del selftester sono anche le sfide “impossibili”, come le ultramaratone o la
maratona corsa da sedentario a maratoneta in sei mesi. In realtà lo sport non
è visto come valore a sé stante, ma è semplicemente un mezzo con cui dire
“valgo qualcosa”. Fortunatamente questa motivazione non è molto comune,
ma in genere è effimera proprio perché lo sport è un mezzo e non un valore:
se non raggiungo l’obbiettivo in tempi brevi, la carenza di autostima mi
convincerà che comunque “sono negato”; se raggiungo l’obbiettivo, posso
continuare (anche per anni) finché ci riesco, poi, appena vengo
ridimensionato, non ho più motivazioni e mi accontento di vivere di ricordi.
Oltremodo interessante anche la figura del visibile; dal momento che nella
popolazione è notevole la percentuale di chi ha un’autostima basata sul
successo, è evidente che molti pensano di ottenere una visibilità sociale
attraverso lo sport. Purtroppo però i campioni sono pochi e non tutti
riescono facilmente a vincere o anche solo a entrare nei premi una garetta
locale. Ecco allora che il visibile trasforma la partecipazione in vittoria. Se
la gara a cui partecipo è estremamente dura, anche se non vinco, ma arrivo,
ecco che sono un eroe. La maratona è naturalmente un fertile campo del
visibile. Correre una maratona è spesso il sogno che fa iniziare la carriera
sportiva a un sedentario. Se poi la maratona è quella di New York, allora...
Poiché agli occhi dei non sportivi la maratona è qualcosa di incredibile,
ecco che il visibile la usa per acquisire visibilità, nascondendo a sé stesso
che finire una maratona è banale con un minimo di allenamento. Quando la
maratona non basta, ecco il fenomeno dei plurimaratoneti o degli
ultramaratoneti. Un modo semplice per risultare visibile, se non si hanno
grandi doti atletiche, è di compiere un’impresa che comunque pochi sanno
terminare. Molti maratoneti si rendono conto che la loro maratona fatta
“camminando” è un’impresa eroica solo se raccontata a obesi sedentari;
ecco allora che scattano le idee geniali. La prima: se io ne corro tante, sarò
uno dei pochi che ci riesce. Infatti negli scorsi anni chi correva dieci
maratone all’anno era visto (da chi non capisce granché di corsa) come un
mito. Poi finalmente sono arrivati molti maratoneti che hanno dimostrato,
senza nessuna pretesa di eroismo, che si possono correre 50, 100 maratone
all’anno, cosa del tutto ovvia se si pensa che un professionista corre, nei
momenti di maggior carico, circa per 40 km al giorno! La seconda idea: dei
plurimaratoneti se ne parla ormai poco, ma allora perché non allunghiamo e
passiamo alle ultramaratone?
Da notare che la motivazione del visibile nulla ha a che fare con la
motivazione del selftester, al quale non interessa la visibilità presso altri, ma
soprattutto verso sé stesso, alla ricerca della costruzione di un’autostima che
è troppo fragile.

La fatica non è un sacrificio, ma è una


gratificazione
Qualche anno fa mi fu chiesto chi avessi maggiormente apprezzato alle
Olimpiadi di Pechino (2008). Iniziai eliminando tutti quegli atleti che, in
caso di vittoria o di sconfitta, avevano dato in escandescenze con lacrime,
salti di gioia, capelli strappati o simili. Un atleta che parla in lacrime della
medaglia che l’ha ripagato di tutti i sacrifici fatti nega praticamente l’amore
per quello che fa. Il vero sportivo che ama il suo sport sa che la fatica non è
un sacrificio, ma diventa una gratificazione. La mia palma andò a Lolo
Jones, ostacolista americana che, inciampando al penultimo ostacolo, arrivò
solo settima in una gara in cui era favoritissima. All’arrivo uno sguardo solo
stupito, poi, ancora a caldo, alla giornalista che l’intervistava: “È andata
male, ma pazienza; è tutta esperienza che servirà per il futuro!”.
Fatica sì, ma dove posso arrivare?
Moltissimi runner mi chiedono: “Fin dove posso arrivare? “, “Sino a
quando posso migliorare?”. Nel mio sito e nelle mie opere sulla corsa parlo
diffusamente di questo argomento (numero di allenamenti alla settimana,
doti naturali, età e prestazione, psicologia del soggetto ecc.).
Qui vorrei invitare però a riflettere su tali quesiti.
Negli ultimi anni mi sono un po’ defilato dal mondo “ufficiale” della
corsa amatoriale (tranne la mia collaborazione a Podismo e Atletica) perché
ne ho scoperto un potenziale terribile limite. Tutti (sia gli atleti che gli
allenatori) lavorano in funzione della prestazione, quasi fossero
professionisti. Ciò porta a un miglioramento delle conoscenze, ma ha anche
un limite enorme: il fraintendimento del valore dello sport. Per un amatore è
(deve essere) sicuramente legato alla salute e al rallentamento
dell’invecchiamento. Qual è invece il percorso tipico di chi dimentica il fine
ultimo? Vediamolo:

•• scopre la corsa e i suoi benefici salutistici;


•• si appassiona a tal punto che vuole scoprire i suoi limiti;
•• in genere si allena 3-4 volte alla settimana, per cui, anche se ha già
superato i 35-40 anni migliora velocemente;
•• scopre le maratone, gare molto diverse dai 5-10000 m perché non
consentono di ottimizzare in tempi brevi l’allenamento (leggasi “scoprire
subito i propri limiti”: le distanze più corte dopo una stagione condotta bene
rivelano subito il potenziale fisiologico dell’atleta), creando l’illusione di
miglioramenti perenni;
•• a volte l’esagerazione agonistica (sia per qualità, cioè per esempio ogni
allenamento una gara, sia per quantità, per esempio più di cinque maratone
all’anno) lo porta a frequenti infortuni che lo costringono all’abbandono;
•• se si salva, la “carriera” può durare solo 2-3 anni, in media 4-5, a volte
10. Questi dati sono dati statistici consolidati: non più del 15% dei runner
corre con lo stesso entusiasmo di 10 anni fa, circa il 60% ha smesso. Visto
che non migliora più, l’atleta non è più motivato, incomincia a dare la colpa
all’età, ridiventa molto meno ambizioso, spesso abbandona la corsa, usando
frasi come “ai miei tempi” e mettendo su chili e chili. A parte il
soddisfacimento di una vanità personale, ecco che questo periodo della sua
vita non gli è servito proprio a nulla.

Chi mi chiede quanto potrà ancora migliorare deve tener conto anche
della “nevrosi” con cui vive la corsa e le relative motivazioni. Quindi
compatibilmente con il suo carattere, il suo stile di vita ecc. magari 3h15’ in
maratona è il suo limite fisiologico. Se poi impazzisce, si allena 8-10 volte
alla settimana, impara a negare dolore e sofferenza come un fachiro indiano
ecc. potrebbe correrla anche in 3h10’ o 3h. Ma, francamente, non so se ne
vale la pena.
Quando ci si fa il “domandone”, occorre contemporaneamente chiedersi
se la corsa ci piace a prescindere dalla curiosità di scoprire sin dove si
arriva e dalla vanità di raggiungere degli obbiettivi. Se la risposta è
negativa, è meglio smettere subito.
Il wellrunness
Non posso chiudere questa mia opera non parlando del wellrunness, un
termine che ho coniato per definire in modo immediato il correre per vivere
meglio.
Wellrunness® è un marchio che ho registrato dopo essermi accorto che
ognuno degli addetti ai lavori intendeva la corsa a proprio modo. Le strade
che portano la gente alla corsa sono molte e molto diverse fra loro. Negli
anni mi sono accorto che chi ottiene i maggiori benefici dalla corsa è quella
categoria di persone in cui la cui motivazione è l’amore profondo e
disinteressato che nutrono nei confronti di questo bellissimo sport.
Possiamo quindi definire il wellrunness nel modo seguente:

la pratica della corsa con lo scopo di correre fino alla fine dei propri
giorni.

Le regole del wellrunness sono semplici e praticamente insite nella


definizione. Vediamole:

1. La finalità della corsa è il benessere a medio-lungo periodo. Se si vuole


correre per sempre occorre stare bene!
2. La corsa deve essere praticata a un livello di intensità medio-alta.
Un’attività sportiva a basso livello non garantisce un invecchiamento
ottimale.
3. La corsa deve essere supportata da un’attenzione salutista verso
l’alimentazione. Senza una coscienza alimentare non ci può essere uno stato
di salute ottimale.
4. La finalità dell’allenamento è il miglioramento della prestazione
compatibile con la massima durata atletica. Inutile fare un record e poi
smettere di correre.
5. La più lunga corsa di resistenza compatibile con il wellrunness è la
maratona. Salutisticamente le ultramaratone sono incompatibili con la
massima durata atletica del soggetto.
Sicuramente il wellrunner è un salutista, ma non solo. Sa benissimo che
senza un impegno a intensità medio-alta sarebbe destinato a rientrare nelle
fila di chi con l’età riduce di molto il peso dello sport nella propria vita,
perdendo molti benefici. D’altra parte è anche un soggetto equilibrato, non
gli interessano né la visibilità né lo sport come stimolatore dell’autostima. È
immune da certe deformazioni dell’agonismo, ma sa che senza impegno il
suo fare sport è solo una delle tante versioni di fitness. Come conciliare
l’impegno sportivo con la motivazione e quindi con la durata della propria
carriera? Con una battuta abbastanza seria, il miglior modo è di costringersi
a rimanere giovani.
Appendice A - Le 20 regole della corsa
In questa appendice trovate le venti regole d’oro della corsa sulle quali è
basata la stesura dell’intero libro:

1. Che tu sia un principiante o un runner evoluto agisci con gradualità.


2. Poniti obiettivi sfidanti, ma realistici.
3. Sii continuo: il tuo obiettivo è di correre per tutta la vita.
4. Impara a entrare in sintonia con il clima.
5. Corri nel modo più naturale possibile, senza forzare la respirazione o la
falcata.
6. Accetta i limiti del tuo corpo: non illuderti di essere immortale.
7. Se sei una persona sana, fidati del tuo corpo.
8. Usa abbigliamento tecnico, in particolare scarpe con buona
ammortizzazione.
9. Se vuoi, usa integratori, ma sappi che, se non sei un professionista,
probabilmente non ne hai bisogno.
10. Se vuoi progredire, fatti una cultura sportiva, capendo in prima
persona che cos’è la corsa.
11. Un programma d’allenamento non è obbligatorio, ma è utile.
12. Se non trovi il tempo per correre, fermati e pensa a come puoi
trovarlo!
13. Non saltare mai la fase di riscaldamento.
14. Anche il riposo è una componente dell’allenamento.
15. Cura ogni caratteristica del runner: resistenza, forza, velocità,
elasticità.
16. Ricordati che la corsa serve per migliorare la tua vita.
17. Abbina alla corsa un buon stile di vita, in primis cura la tua
alimentazione.
18. La durata della tua vita atletica dipende anche dal sovrappeso.
19. Non cercare di aumentare la tua autostima con i risultati sportivi, ma
impara che, poiché corri, sei già una persona degna di stima.
20. La fatica non è un sacrificio, ma è una gratificazione.
Appendice B - La strumentazione per la corsa
È di fatto impossibile trattare in poche pagine tutte le tipologie di
strumentazione per la corsa che il mercato propone; qui di seguito pertanto
analizzeremo soltanto tre strumenti che possono essere di una certa utilità a
chi ha deciso di diventare un runner: il cronometro, il GPS e il
cardiofrequenzimetro; il primo, più che importante, dovrebbe essere
considerato indispensabile; decisamente interessanti anche le possibilità
offerte dal GPS; per quanto riguarda il cardiofrequenzimetro invece la
questione è leggermente diversa, in quanto lo ritengo uno strumento che
può rivelarsi utile in diverse occasioni, ma la cui importanza non può certo
essere paragonata a quella del cronometro.

Il cronometro
Il termine cronometro (dal greco chronos, tempo e metron, misura) indica,
nel linguaggio comune, un particolare tipo di orologio che, oltre alle
normali funzioni, consente di rilevare la durata di un determinato
avvenimento con particolare precisione. Un orologio può essere definito
cronometro a condizione che sia conforme a determinati requisiti stabiliti
dal COSC (Contrôle Officiel Suisse des Chronomètres), altrimenti è più
corretto parlare di cronografo o di cronoscopio.
Uno degli usi più tipici del cronometro è la misurazione del tempo negli
avvenimenti sportivi. In Italia esiste, fin dal 1921, la FICR (Federazione
Italiana Cronometristi) la cui presenza è fondamentale nelle manifestazioni
di discipline sportive in cui è il tempo a determinare la classifica finale.
Al di là degli aspetti storici o sportivi ufficiali, a noi interessa sottolineare
l’importanza che il cronometro riveste per il runner.
Il cronometro serve? – Abbiamo già visto quanto sia importante per il
runner fissare degli obiettivi (vedasi Capitolo I, regola Poniti obiettivi
sfidanti, ma realistici). Si consideri poi che il solo fatto di porsi un
obiettivo, qualunque esso sia, condiziona l’allenamento, allenamento che
generalmente può avere fra i suoi scopi quello di arrivare alla massima
prestazione possibile. In quest’ottica, è fondamentale capire che
per arrivare alla massima prestazione è necessario che l’atleta sappia
gestire il ritmo ottimale.

Il cronometro è innegabilmente lo strumento più indicato per creare la


consapevolezza dei vari ritmi che devono essere tenuti nella seduta di
allenamento; talvolta si devono tenere ritmi più blandi, più facili (per
esempio quando si esegue un fondo lento); altre volte è necessario
velocizzare le sedute e tenere ritmi più impegnativi, più difficili (prove
ripetute, fondo medio, sedute a ritmo gara ecc.).
Cronometro o cardiofrequenzimetro? – Molti runner preferiscono usare
il cardiofrequenzimetro (strumento che trattiamo più avanti e che oltre alle
sue peculiari caratteristiche ha anche funzioni cronometriche) piuttosto che
il cronometro; la motivazione principale è da ricercarsi nel fatto che il
cronometro costringe a complicati calcoli matematici e non riesce a
prevedere l’insorgere della crisi. Qui ci limitiamo a ricordare che nessun
grande campione usa il cardiofrequenzimetro e che è praticamente
impossibile acquisire una consapevolezza assoluta del ritmo con il solo uso
del cardio. Detto questo, la scelta che il runner deve fare è praticamente
obbligata: cronometro. L’importante è capire la differenza fondamentale:

il cardio si sostituisce alla vostra testa, il cronometro è uno strumento


che la vostra testa usa!

Quale cronometro? – Con un costo piuttosto contenuto è possibile


acquistare uno strumento in grado di accontentare anche i runner più
esigenti. Le caratteristiche principali che un cronometro deve possedere
sono:

•• rilevazione dei tempi parziali e di giro (almeno 50 laps)


•• memorizzazione delle rilevazioni parziali o di giro
•• illuminazione notturna
•• resistenza all’acqua.

Ovviamente, quelli elencati sono da considerarsi i requisiti minimi, ma in


commercio, entro una fascia di prezzo che va dai 50 agli 80 euro, si trovano
cronometri dotati di numerose altre funzioni; per il runner, esse rivestono
un’importanza relativa, ma possono essere un ausilio interessante nella vita
di tutti i giorni (timer, allarmi impostabili per ora, per giorno, per weekend e
per settimana, fusi orari, pressione atmosferica, altitudine, modalità
notturna ecc.).
Durante l’allenamento la rilevazione dei tempi parziali e di giro è un
requisito fondamentale in quanto ci mette in grado di capire se stiamo
centrando i nostri sottobiettivi parziali, ci aiuta cioè a capire se siamo in
media relativamente al ritmo che dobbiamo tenere nella seduta. La
memorizzazione dei tempi parziali è una funzione indispensabile per la
valutazione complessiva dell’allenamento svolto. Serve a monitorare
l’andamento delle prestazioni (eventuali progressi o scadimenti) e di
conseguenza aiuta nell’ottimizzazione delle sedute di allenamento.
L’illuminazione notturna è una funzione che non può mancare in un
cronometro; se la maggior parte delle gare vengono svolte sempre di giorno
(le notturne sono limitate al periodo estivo), lo stesso non può dirsi delle
sedute di allenamento. Se non si è professionisti, bensì semplici runner
amatori che svolgono una comune attività lavorativa, è normale che molti
allenamenti vengano svolti in condizioni di assenza o scarsità di
illuminazione per diversi mesi dell’anno. Anche la resistenza all’acqua è un
requisito indispensabile in un cronometro; specialmente durante il periodo
autunnale e quello invernale non è infrequente per un runner allenarsi sotto
la pioggia. Va da sé che l’impermeabilità è una condizione necessaria per un
cronometro che si rispetti.

Il GPS
Il GPS (acronimo dei termini Global Positioning System, Sistema di
Posizionamento Globale) è un sistema di posizionamento su base satellitare
nato negli anni ‘70 negli Stati Uniti d’America per scopi esclusivamente
militari; il sistema GPS (o, più correttamente, NAVSTAR GPS, NAVigation
Satellite Time And Ranging Global Positioning System) fu creato
dall’USDOD, il Dipartimento della Difesa Statunitense.
I ricevitori GPS ricevono i segnali provenienti da alcuni satelliti presenti
nella propria parte di emisfero; il ricevitore scarta quelli che si trovano
troppo in basso all’orizzonte, dopodiché attua una selezione dei segnali
migliori. A questo punto viene spontaneo chiedersi come sia possibile che il
ricevitore riesca a “sapere” dov’è localizzato; ci riesce grazie a un calcolo
che è noto come trilaterazione; per comprendere il concetto di trilaterazione
può essere utile un esempio “pratico”. Ci troviamo in un luogo a noi
totalmente sconosciuto; chiediamo quindi a Tizio dove ci troviamo; ci viene
risposto che siamo a 625 km da A; ciò ci aiuta molto relativamente;
poniamo quindi a Caio la stessa domanda; ci viene risposto che ci troviamo
a 690 km da B; non è moltissimo, ma la visione comincia a schiarirsi,
infatti, se combiniamo entrambe le informazioni si ottiene un’intersezione
tra due aree circolari; si può quindi supporre di trovarsi in uno dei due punti
in cui le aree si intersecano; a questo punto interpelliamo Sempronio che ci
risponde che ci troviamo a 615 km da C; a questo punto, intersecando la
terza area possiamo escludere una delle due intersezioni precedenti perché
la terza area si intersecherà soltanto con una delle due intersezioni; quello
riportato è un esempio di trilaterazione a due dimensioni; la trilaterazione a
tre dimensioni, quella utilizzata dal GPS, è concettualmente simile, la
differenza sostanziale è che non si devono prendere in considerazione dei
cerchi, ma delle sfere. Grazie alla trilaterazione a tre dimensioni il GPS è in
grado di calcolare velocemente la propria posizione; attraverso la
combinazione delle informazioni che il ricevitore GPS ottiene da tre
satelliti, esso è in grado quindi di valutare longitudine e latitudine; se
aggiungiamo le informazioni provenienti da un quarto satellite, il
dispositivo GPS è in grado di fornire i dati relativi all’altitudine.
GPS e running
Nell’ambito del running il GPS viene soprattutto utilizzato per misurare le
distanze, anche se i dati che può fornire contemplano molte altre grandezze
legate allo spostamento del podista. Cerchiamo adesso, per chiarirci
ulteriormente le idee, di applicare alcune informazioni che abbiamo trattato
nei paragrafi precedenti. Sappiamo che un’unità GPS riceve i dati di
posizione da alcuni satelliti dopodiché avviene un campionamento di detti
dati; il campionamento avviene ogni n secondi. In questa semplice
descrizione ci sono i limiti e i vantaggi del sistema.
Infatti gli errori possibili sono sostanzialmente due:
a) non arriva il segnale del satellite. Ovvio che il dato di posizione viene a
mancare. Ciò avviene, similmente a come accade per i telefonini, quando
l’unità GPS “non prende” il segnale, in particolare quando “non ha cielo”.
Si deve notare che (per il punto b sottostante), se percorro una galleria
rettilinea, l’unità campionerà prima e dopo la galleria, congiungerà i punti e
l’errore sarà nullo. Se invece la galleria è piena di curve, congiungendo i
punti di inizio e di fine, si avrà un errore notevole.
b) Il campionamento è insufficiente. Ciò si verifica quando il percorso
non è rettilineo e pieno di curve. Supponiamo che il tratto del percorso sia
rappresentato dai due lati AB e BC del triangolo:

Se vado da A a C passando per B a 4’/km e impiego 5 secondi (cioè la


distanza AC è 20,83 m), se sono sfortunato e il rilevamento della mia
posizione avviene in A e in C, il sistema GPS rileva una distanza pari a
quella del lato AC e non quella che ho effettivamente percorso (lati
AB+BC). Il caso peggiore si ha quando il triangolo è equilatero con un
errore di 10,4 m.
La precisione - Ovviamente se sono fortunato e il campionamento
avviene in B non c’è errore perché i tratti AB e BC sono misurati
correttamente. I primi GPS avevano una frequenza di campionamento
molto bassa e quindi l’errore poteva essere notevole; oggi con
campionamenti ogni secondo l’errore può essere tranquillamente inferiore
ai 50 m per 10 km.
Attualmente i migliori GPS danno prestazioni molto attendibili, anche se,
come abbiamo visto, a volte prendono ancora cantonate; in ogni caso
l’errore massimo è sempre inferiore al 2% (200 m su 10 km, ma ormai sono
situazioni limite). Se si vuole misurare un percorso, è opportuno farlo
almeno due volte, in senso inverso e in giornate diverse; per la massima
precisione, è importante non farlo tutto di corsa poiché più veloci si va e più
tardi si rischia di agganciare il segnale: se per esempio si deve misurare un
mille, si può correre per 950 m e poi fare le ultime decine di metri al passo,
molto lentamente, evitando che il segnale dei 1.000 metri scatti quando si è
già a 1.020 o 1.030.
I vantaggi – Sono notevoli, soprattutto per coloro che amano correre in
libertà, decidendo spesso il percorso durante l’allenamento.
Gli svantaggi – Per misurare un percorso occorre … percorrerlo! Se per
esempio parto dal desiderio di trovare un percorso di 25 km, il GPS mi aiuta
solo… sul campo! Così un organizzatore di una corsa podistica che vuole
misurare il suo tracciato deve farselo di corsa e una modifica dell’ultima ora
(per esempio per cause di viabilità) renderà impossibile fornire una misura
precisa ai partecipanti.
Gli altri dati - I vari modelli consentono si avere molti altri dati, ma
praticamente l’unico veramente interessante è la distanza. in particolare, la
velocità rilevata è sempre molto imprecisa, se l’andatura del runner non è
uniforme perché frutto di una media, a volte non significativa.

Il cardiofrequenzimetro
Il cardiofrequenzimetro è uno strumento noto a molti runner esperti e che
viene spesso consigliato anche a chi decide di iniziare a correre. Purtroppo è
uno strumento che molte volte viene utilizzato in modo poco efficace. A
differenza di altri tipi di strumentazione (per esempio gli elettrostimolatori,
il cui ruolo nell’allenamento deve essere decisamente ridimensionato) il
cardiofrequenzimetro può essere impiegato con qualche successo. Occorre
però rilevare che la scelta di usarlo o no deve essere prettamente
individuale. Lo scopo di questo paragrafo è proprio quello di chiarire l’uso
corretto dello strumento.
I limiti del cardiofrequenzimetro
Francamente non sono mai stato favorevole a tarare gli allenamenti in
base alla frequenza cardiaca. I campioni non lo fanno, si servono dei tempi.
Esistono alcuni problemi irresolubili.
La frequenza cardiaca massima (FCMax) – La FCMax è un dato
veramente impreciso. La vecchia formula (220-età) è imprecisa, quella più
moderna di Tanaka (FcMax = 208-0,7*età) va meglio, ma è sempre una
media sulla popolazione. Sbagliare di un 5% (10 battiti circa) può essere
normale, ma è un errore piuttosto grave che produce risultati grossolani.
La rilevazione – Alcuni pensano di rilevare la FCMax sperimentalmente,
sul campo. In realtà la frequenza cardiaca massima non è facilmente
rilevabile. Ci sono errori strumentali, spesso i cardiofrequenzimetri rilevano
valori leggermente dubbi e la determinazione della frequenza non è
semplice. Molti runner rilevano la massima frequenza che hanno durante lo
sprint alla morte di una gara di mezzofondo prolungato. Questa non è la
frequenza cardiaca massima perché comunque non si arriva alle massime
concentrazioni di lattato possibili. Occorrerebbe correre al massimo un 800
o un 1000 m, cosa non semplice perché si può verificare solo in gare dove il
soggetto è motivatissimo (il concetto di “massimo” non deve trarre inganno,
nessuno correndo un 1000 m da solo riesce a dare veramente il massimo).
Il cardiofrequenzimetro: a cosa serve
Il cardiofrequenzimetro deve essere usato per allenarsi, in alternativa o
contemporaneamente al cronometro. I due strumenti non sono “nemici”, ma
“amici” che dovrebbero cooperare. Prima di vedere gli aspetti tecnici è utile
analizzare quelli “psicologici” e “personali”. Chi dovrebbe necessariamente
usare il cardiofrequenzimetro?

•• Chi non ha una mentalità sufficientemente matematica da gestire in


tempo reale i dati provenienti dal cronometro. Chi fa confusione con tempi
al chilometro, tempi al giro di pista, proiezioni ecc. troverà nel
cardiofrequenzimetro un semplice alleato che gli consentirà di conoscere
subito la sua reale prestazione.
•• Chi non ha una sufficiente capacità di ascoltarsi e tende a
sopravvalutarsi (e quindi a partire troppo forte) o a sottovalutarsi (e quindi a
partire troppo piano, ma ciò accade più raramente).
•• Chi non usa percorsi misurati con precisione.
•• Chi non usa percorsi scorrevoli. Dire di andare a 4’30”/km su un
percorso campestre non ha nessun significato dal punto di vista del giudizio
allenante.
•• Chi usa percorsi collinari. Anche la pendenza rende nullo ogni discorso
cronometrico.
Chi potrebbe non usarlo? In modo complementare all’elenco precedente,
chi ha una mentalità in grado di gestire facilmente i tempi e si trova nelle
seguenti condizioni di allenamento:

•• ha un’ottima capacità di ascoltare il proprio corpo. Ciò è


particolarmente vero per gli atleti di élite: se si considerano i primi 50 di
una maratona internazionale si scoprirà che pochissimi usano il
cardiofrequenzimetro.
•• Si allena su percorsi molto scorrevoli e misurati con precisione (pista o
asfalto piano).
Cardiofrequenzimetro o cronometro?
La domanda fondamentale è: si può usare il solo cardiofrequenzimetro e
avere un allenamento ottimale? La risposta è: no. L’analisi del problema è
affrontata in [4], a cui rimando per i dettagli. Poiché:

•• la massima concentrazione si ha solo con la consapevolezza del ritmo;


•• la massima concentrazione garantisce la miglior prestazione
minimizzando il senso di fatica;
•• l’uso del solo cardiofrequenzimetro non consente di affinare la
consapevolezza del ritmo;

allenarsi con il solo cardiofrequenzimetro vuol dire rinunciare a ottenere il


massimo.
Cardiofrequenzimetro e fisiologia
Il tipo di cardiofrequenzimetro - La prestazione non dipende solo dalla
frequenza cardiaca massima: è pertanto assurdo proporre allenamenti che si
basano solo su percentuali della frequenza cardiaca massima. Il
cardiofrequenzimetro deve essere in grado di registrare come il cuore
dell’atleta reagisce all’incremento di sforzo del soggetto; il
cardiofrequenzimetro deve cioè “capire l’atleta”. È pertanto utile orientarsi
su modelli per lo meno di medie prestazioni che hanno queste
personalizzazioni.
I meccanismi aerobici - Sono il regno del cardiofrequenzimetro; ciclismo
e maratona sono le discipline dove il suo impiego è più importante perché
molto preciso. Ricordiamo solo che non considera gli aspetti energetici.
Nell’analogia classica il cardiofrequenzimetro può dare il numero di giri del
motore, ma non la benzina che resta nel serbatoio. Ricordiamoci del
classico crollo nella maratona (il cosiddetto “muro”). Si sa che se finiscono
i carboidrati il corpo non è in grado di bruciare i grassi; arrivati in riserva al
trentacinquesimo chilometro c’è il crollo. Se si verifica la frequenza
cardiaca, questa non schizza a 200, anzi resta sotto soglia, ma l’atleta riesce
a malapena a trascinarsi. Nell’allenamento per la maratona è cioè
importante che l’atleta si alleni per arrivare alla corretta potenza lipidica a
prescindere dai dati di frequenza cardiaca.
I meccanismi anaerobici - È ovvio che due atleti che hanno la stessa
frequenza di soglia possono (e quasi sempre lo sono) essere completamente
diversi per le caratteristiche anaerobiche e in tutte le attività fino almeno ai
10-12 km in cui il meccanismo anaerobico gioca un ruolo importante: due
atleti che ottengono lo stesso risultato sull’ora non è detto che sui 3000 m
vadano alla stessa velocità. Quando l’allenamento è tipicamente anaerobico
(in genere quando la lunghezza totale delle prove è inferiore ai 5-6 km) i
dati del cardiofrequenzimetro possono non essere significativi e possono
essere valutati, non tanto per modulare l’allenamento, quanto per studiarlo a
posteriori. Già con lunghezze dell’ordine di 10-12 km (per esempio
10x1000 m o 4x3000 m) il cardiofrequenzimetro può aiutare moltissimo a
evitare partenze troppo azzardate.
I meccanismi di potenza - Ovviamente l’allenamento con il
cardiofrequenzimetro non può essere proposto a velocisti o a ottocentisti o
per ripetute brevi (200-300 m) svolte da mezzofondisti. Anche in questo
caso il suo uso può essere comunque di utilità statistica.
Per cosa non si deve usare il cardiofrequenzimetro
Il cardiofrequenzimetro non si deve usare per:

•• proteggere il proprio cuore;


•• dimagrire.

La protezione cardiovascolare - Molti usano il cardiofrequenzimetro (e,


in effetti, è stato questo il motivo della sua diffusione, favorita anche
dall’introduzione del cardiofrequenzimetro in strumentazione da palestra)
perché sono convinti che possa proteggere da eventuali eccessi che
potrebbero danneggiare il cuore. Nulla di più assurdo: chi ha un cuore sano
ha meccanismi di difesa naturali contro gli eccessi che sono molto più
attendibili di uno strumento; chi ce l’ha malato non si salva certo correndo
sottosoglia in quanto i problemi cardiovascolari si verificano anche a
frequenze cardiache molto distanti dalla massima frequenza. È sicuramente
più protettivo tenere sotto controllo i trigliceridi e il colesterolo che usare il
cardiofrequenzimetro e poi seguire un’alimentazione sbagliata; se un
elettrocardiogramma rileva anomalie cardiache gravi è abbastanza illogico
correre: non esistono patologie cardiache (ogni medico dovrebbe sapere
ormai che un’extrasistole o un soffio al cuore non sono di per sé patologici)
che prevedono di poter correre, ma poco e piano. Il medico che dice al
paziente: “Lei ha un soffio al cuore, se vuole corra, ma faccia poco e
piano”, scientificamente è nullo. O il soffio cardiaco non è patologico e
allora il cuore è sano e si può correre tranquillamente oppure è patologico e
allora è meglio non correre!
Il dimagramento - Il fatto che si possa usare il cardiofrequenzimetro e
dimagrire non significa che le due cose siano correlate da causa ed effetto.
In particolare, scientificamente non è vero che esista una frequenza
cardiaca alla quale si dimagrisce di più (perché per esempio si bruciano più
calorie). Ciò che conta sono le calorie spese durante lo sforzo e non quanti
grassi si bruciano. Quindi, se l’unico scopo è dimagrire, la strategia
migliore è quella che fa perdere più calorie. Per la corsa significa fare più
chilometri possibili e quindi (soprattutto se non si è allenati e si ha molto
tempo a disposizione) correre piano. Ovvio che se si corre a una frequenza
cardiaca bassa, sicuramente si correrà piano e a lungo perché è un ritmo
facile. Ma si può usare tranquillamente qualunque altro “indicatore di ritmo
facile” per esempio:

•• la massima velocità alla quale si riesce a conversare;


•• un dato al km che esprima tale ritmo facile (per esempio 5’/km);
•• la velocità alla quale si corrono senza problemi 12 km;
•• ecc.

I dati complementari calorie bruciate e la % dei grassi bruciati hanno


scarsa importanza dal punto di vista scientifico. Per il primo dato occorre
rilevare che le calorie consumate dipendono dalla percentuale di massa
grassa dell’individuo, dal metabolismo, dall’allenamento e dallo stile di
corsa. Un atleta che ha l’8% di massa grassa ha sicuramente un
metabolismo molto più efficiente di un atleta che ha il 15% che tra l’altro
probabilmente è poco allenato. Una stima (grossolana, di solito in eccesso)
delle calorie bruciate è data dal numero dei km per il peso espresso in kg:
non c’è quindi bisogno del cardiofrequenzimetro, basta una piccola
calcolatrice o una mente ben allenata ai calcoli. Sulla percentuale dei grassi
bruciati incidono talmente tanti fattori (alimentazione, allenamento, massa
grassa, riserve di glicogeno ecc.) che non è possibile avere un dato preciso
analizzando solo i dati cardiaci.
Appendice C - Correre al mattino
Correre al mattino presto è una pratica abbastanza comune; c’è chi lo fa
per comodità e chi per necessità, avendo una giornata lavorativa troppo
lunga. In alcuni periodi dell’anno correre al mattino consente di correre
comunque con la luce (per esempio dalle 8 alle 9 nel periodo invernale)
oppure con temperature decisamente più abbordabili che durante il giorno o
alla sera (per esempio dalle 7 alle 8 nel periodo estivo). Prima di fornire
alcuni consigli che possono tornare utili a chi corre al mattino, vorrei
ricordare, per amor di correttezza, che alcuni preparatori atletici sono
contrari alla pratica della corsa nelle ore mattutine; le motivazioni
(francamente risibili) su cui basano la loro asserzione sono diverse; le
riassumo citando il passo di un articolo che ho letto tempo addietro:

“Le distruttive, massacranti e dannose corse a digiuno innalzano


terribilmente i livelli di adrenalina e di cortisolo, oltre a liberare grandi e
pericolose quantità di radicali liberi, i responsabili della degenerazione
totale dell’organismo, favorenti, solo per fare pochi esempi,
l’invecchiamento in generale del corpo, pelle rugosa ed avvizzita compresa,
tipica anche di vari body builder grossi e dopati neanche 40enni, l’infarto
miocardico, potenzialmente anche il cancro ecc.
Ed il cortisolo? Non mi stanco di ripeterlo: sotto stress elevato e cronico,
favorisce la formazione di adipe viscero-addominale… e quelli corrono
tutte le mattine a digiuno per dimagrire…”.
Le argomentazioni sopracitate sono risibili, frutto solo del desiderio di
non far uscire dalle palestre persone (ottimi clienti del mercato degli
integratori) che incominciano ad avere dubbi “salutistici” sulla propria
attività sportiva.
Dal punto di vista fisiologico, il passo citato contiene molti errori e
imprecisioni.
Corsa a digiuno - Persino i maratoneti corrono abitualmente a digiuno
per il semplice fatto che durante la notte si perdono solo poche centinaia di
calorie, corrispondenti a circa 7-8 km di “autonomia”; poiché un soggetto
mediamente allenato ha scorte (attenzione: scorte, non la tenuta alla
distanza) per almeno 25 km, è chiaro che avere il serbatoio un po’ vuoto
non può fare la differenza. Sarebbe come dire che un’auto si muove solo se
ha il pieno di benzina. In genere, chi non è in grado di correre a digiuno non
lo è perché ha un fisico così scarso che non riesce nemmeno ad avere le
energie per correre pochi chilometri (non a caso il problema è tipico dei
principianti o di chi non ha una corretta alimentazione).
Innalzamento dei livelli di adrenalina e di cortisolo – Uno studio
pubblicato tempo fa su The British Journal of Sports Medicine consigliava
di non correre al mattino per l’elevato valore di cortisolo e catecolamine, gli
ormoni dello stress, già naturalmente alti alla mattina presto. In realtà, la
corsa lenta non alza questi livelli che sono tipici dello stress, quindi, il
sostenere di non correre al mattino per gli elevati livelli ormonali sarebbe
equivalente al consiglio di non andare a lavorare perché ci si stressa troppo!
Peraltro chi ha scritto l’articolo sembra non sapere che esistono lo stress
positivo (eustress) e quello negativo (distress); l’adrenalina e il cortisolo,
come gli altri ormoni, possono essere utili.
Pericolose quantità di radicali liberi - Se fosse vero, tutti coloro che
corrono al mattino sarebbero vecchissimi, cosa che non risulta essere vera.
Non conta quanti radicali liberi vengono prodotti, ma la differenza fra
quanti ne vengono prodotti e quanti ne vengono smaltiti. In un giovane lo
smaltimento è efficiente, ma l’efficienza diminuisce con l’età. La corsa
(anche quella al mattino) aiuta a migliorare lo smaltimento. Insomma
meglio produrre 80 e smaltire 80 che produrre 20 (perché dormo tutto il
giorno) e smaltire 0 (perché la mia sedentarietà mi ha reso uno zombie). È
pura matematica.
Sotto stress elevato e cronico, è favorita la formazione di adipe
viscero-addominale - Assurdità, divulgata solo per vendere improbabili
integratori bruciagrasso. Se fosse così, tutti i professionisti sarebbero grassi
atleti con la pancetta.
Correre la mattina genera stanchezza per tutto il resto della giornata
- La stanchezza è data anche dall’intensità dello sforzo; certo che se uno
non è allenato perché è abituato a sollevare quattro pesetti e va a correre per
10 km, è già tanto se non finisce in rianimazione. Insomma, basta ragionare
per demolire simili argomentazioni.

Riassumendo: i consigli utili per chi corre al mattino sono


sostanzialmente tre:
1. Non mangiare nulla o mangiare pochissimo (ovviamente si può bere,
ma non latte o altre bevande con contenuto grasso o proteico).
2. Riscaldarsi meglio di quando si corre alla sera (cioè 10’ in più).
3. Non eseguire prove di qualità, se non almeno due ore dopo che ci si è
svegliati; tale periodo è giustificato dal fatto che solo dopo un paio d’ore
tutte le funzioni organiche sono arrivate a regime e l’organismo può dare il
massimo.
Appendice D - La differenza prestativa fra uomini
e donne
L’oggetto di questa appendice è molto più complesso di quanto si
potrebbe essere portati a credere. Nella corsa, la differenza prestativa fra
uomo e donna si potrebbe banalmente desumere dalla differenza dei due
record del mondo sulle varie distanze (per esempio sulla maratona è
inferiore al 9%). Tale posizione non è però corretta perché non tiene conto
del sospetto del doping (il doping è molto più efficiente nella donna che non
nell’uomo perché l’aumento della potenza e la diminuzione del grasso
corporeo sono più realizzabili nel sesso femminile).
Un’altra posizione è quella che esamina semplicemente le medie ottenute
sulle prime 100 donne e sui primi 100 uomini su una determinata distanza.
Anche questo concetto è errato perché non tiene conto che per ragioni
diverse le donne fanno meno sport e quindi hanno meno opportunità di
essere coinvolte in prestazioni di alto livello. Non a caso maratone nazionali
possono essere vinte con tempi femminili che, trasportati al maschile, sono
tipici di un amatore di non eccelsa caratura, amatore che mai riuscirebbe ad
arrivare nelle prime posizioni di una maratona maschile. Si esprime il
concetto dicendo che “in campo femminile c’è minore concorrenza”.
Sembra che anche la ricerca non sia concorde. Gli studi sui nuclei
familiari (per eliminare possibili fattori non legati al sesso) mostrano delle
discrepanze, parlando di un peggioramento dal 15 al 30%. In realtà, se si
esaminano con più attenzione, si scopre che

nella corsa di resistenza quanto più alto è il livello di allenamento e


tanto più la differenza fra uomo-donna si avvicina al 15%.

Un dato numerico fra l’altro abbastanza facile da ricordare e da gestire.


Non a caso la differenza fra i minimi di partecipazione maschile e
femminile per le più importanti manifestazioni di maratona è circa del 15%.
Vediamo in una semplice tabella le equivalenze prestative.

Equivalenze prestative fra uomo e donna


----------
Uomo > Donna
• 3’ > 3’27”
• 3’30” > 4’01”5
• 4’ > 4’36”
• 4’30” > 5’10”6
• 5’ > 5’45”
• 5’30” > 6’19”5
----------

La prima cosa che salta all’occhio dalla tabella è che il livello medio della
corsa agonistica amatoriale è decisamente basso a livello femminile. Mentre
ci sono moltissimi atleti che corrono per esempio i 10000 m in meno di 40’,
esiste un numero di donne decisamente più limitato che li corre in meno di
4’36”/km. Ciò è sicuramente dovuto al fatto che la percentuale di donne che
fanno sport è inferiore a quella maschile, ma anche e soprattutto al fatto
che, molto spesso, la donna fa sport in modo blando e a finalità solo
dimagranti. Finché non cambierà la mentalità e le donne che partono dalla
sedentarietà non comprenderanno l’importanza di allenarsi con la stessa
intensità degli uomini, difficilmente il livello medio delle prestazioni
femminili aumenterà.
Il secondo punto importante (ma è solo un rilievo matematico che sfugge
ai più) è che la differenza dipende dal livello prestativo. Considerando i
cosiddetti top runner ciò non è evidente perché l’escursione dai 5000 m alla
maratona è solo di 25” (minimo olimpico a 2’40” per i 5000 m e a 3’05”
circa per la maratona); ciò porterebbe a credere che la differenza al km fra
uomo e donna non sia percentuale, ma fissa (per esempio 25”/km). In realtà
tale differenza è percentuale (15%).
L’importanza della tabella - Oltre a rendere assoluto il livello di una
prestazione femminile, la tabella consente di parametrare correttamente i
risultati di allenamenti misti: un uomo e una donna che hanno per esempio
una differenza di 30”/km su un 3000 m, sulla mezza possono avere una
differenza di 36”/km.
Appendice E - La distanza salutistica
Un vero sportivo non può non considerare l’aspetto salutistico dello sport
che pratica. Per chi si dedica alla corsa è naturale chiedersi quale sia la
distanza più salutistica.
Per la risposta occorre considerare alcuni punti ormai scientificamente
consolidati:

1. I benefici della corsa non sono eterni, ma vengono meno al massimo


dopo un anno che si è cessata l’attività.
2. I principali eventuali danni della corsa riguardano l’apparato
locomotore.

Il primo punto è alla base del mio concetto di wellrunness (vedasi


Capitolo IV, La fatica non è un sacrificio, ma è una gratificazione), il
correre per vivere meglio, il correre per sempre. Un’attività amatoriale di
cinque o dieci anni per poi tornare fra le fila dei sedentari non è poi un
grande aiuto alla nostra salute.
Il secondo punto da una parte ci rassicura che la corsa non fa male al
nostro cuore (come spesso pensano i principianti timorosi di eccedere) e
dall’altra ci dice che per ognuno di noi esiste una distanza critica superata la
quale, nella singola seduta, aumentano enormemente le probabilità di
innescare un infortunio (vedasi capitolo I, paragrafo Correre sì, ma
quanto?).
Alla luce di questi due punti esaminiamo le distanze più comuni del
fondo.
Ultramaratona - È abbastanza evidente che l’ultramaratona non può
essere una distanza salutistica. Innanzitutto molti runner vi giungono
impreparati (relativamente alla distanza) e ciò significa fare del male al
proprio corpo (uno dei principi cardine dell’allenamento salutistico è che si
corre una distanza quando si è preparati a essa); inoltre è l’unica distanza
per la quale esistono anche danni non ortopedici. In letteratura vi sono
ricerche, accettate anche dai sostenitori delle ultramaratone, che parlano di
effetti collaterali non da poco:
•• diminuzione preoccupante del colesterolo totale (ricordiamo che una
sua diminuzione sotto i 130 mg/dl facilita lo sviluppo di tumori);
•• indebolimento del sistema immunitario (con lo sviluppo di infezioni più
o meno ricorrenti);
•• casi di depressione (si inverte cioè l’effetto della corsa).

In altri termini, come per moltissime altre situazioni, non è affatto vero
che aumentando all’infinito il fattore positivo sotto studio (la corsa) questo
resti positivo.
Inoltre si possono esprimere anche dubbi psicologici sull’atleta. In genere
chi corre le ultramaratone vuole provare a infrangere limiti, personali o
assoluti; come scrisse alcuni anni fa in suo libro l’ultramaratoneta Dean
Karnazes, “vuole arrivare dove non è mai arrivato nessuno“. Purtroppo
questo ragionamento aumenta arbitrariamente il valore dell’impresa per il
semplice fatto che

arrivare dove non è mai arrivato nessuno quando nessuno (o quasi)


prova ad arrivarci non è una grande impresa.

Se un atleta vuole arrivare dove non è mai arrivato nessuno perché non
prova a correre i 10 km in 25’? Preso atto che la sua caratura atletica su
distanze inferiori è modesta e non migliorabile, l’ultramaratoneta si illude di
avere una maggiore visibilità allungando la distanza.
Dopo tutte queste considerazioni non c’è nemmeno bisogno di dire che
solo una percentuale minima di runner ha una distanza critica compatibile,
per esempio, con una 100 km. Sperare di essere fra questi è veramente
ottimistico se non si hanno dati oggettivi che il proprio fisico è inossidabile
(non basta cioè crederlo!).
Maratona - Meno del 10% della popolazione ha una distanza critica
uguale o superiore ai 42 km. Ciò significa che meno del 10% può correre la
maratona per sempre. La buona notizia è che i problemi salutistici non
ortopedici evidenziati per le ultramaratone non si verificano per la
maratona.
Restano però gravi problemi di tempo; molti allenamenti durano anche
due ore e i lunghissimi arrivano a tre e oltre. Ciò porta molti runner a
sottoallenarsi nella speranza che basti quello che hanno fatto.
Questo quadro non intacca il fascino della prova, ma sicuramente non la
elegge a regina del salutismo.
Mezza maratona - La curva della distanza critica è proprio centrata
attorno ai 24 km per gli uomini e 20 per le donne, quindi circa il 50% della
popolazione può allenarsi per la mezza maratona senza quei problemi
ortopedici di cui al punto 2.
Il 50% non è però del tutto rassicurante; se si tiene conto che molti
allenamenti per la mezza maratona superano abbondantemente l’ora, si
comprende anche che per allenarsi bene alla mezza occorre una
disponibilità di tempo nella giornata che supera quella soglia psicologica
che uno sportivo amatore dedica all’attività fisica. In sostanza la situazione
della mezza maratona è un miglioramento di quella della maratona, ma non
è ancora ottimale.
10 km - Finalmente ci siamo:

i 10 km sono la distanza salutisticamente migliore.

Innanzitutto perché l’essere ben allenati a essa comporta automaticamente


l’arrivare ai livelli che la ricerca medica (dallo studio di Harvard in poi) ha
definito essere quelli più salutistici (le 6-8 ore di allenamento settimanale);
non a caso il mio Hard People Test (vedasi Capitolo I) si basa proprio sui
10 km: a prescindere dall’età e dal sesso, una persona che non riesce a
percorrere 10 km in un’ora non si può certo dire in forma!
Inoltre per preparare la distanza è sufficiente una disponibilità temporale
nella giornata che è in genere comunque allocata per chi vuole fare sport
(un paio d’ore fra preparazione, allenamento, doccia).
Altro dato importante, la distanza combina meccanismi aerobici con
situazioni anaerobiche; in altri termini, consente al fisico di rimanere
“giovane”. Che senso ha correre a 80 anni la maratona in 6 ore, se poi
quando “corro” 100 m ci impiego 30” ed evidenzio tutta la mia vecchiaia?
Solo un 5% fra gli uomini e un 10% fra le donne non riesce a reggere i 10
km (la distanza critica è cioè inferiore), per allenarsi ai quali bastano tre
allenamenti settimanali. Non resta che consigliare a questi soggetti di
indagare i propri problemi ortopedici o i loro piani di allenamento (per
esempio, molti risolvono i problemi ortopedici correndo appunto tre volte
alla settimana anziché sei!); se ci sono problemi al ginocchio o alla schiena
non ha senso ignorarli solo perché a quarant’anni si sta bene: a sessanta si
starà molto peggio e a nulla varrà prendersela con il destino, soprattutto se
gli si è data una grande mano non facendo nulla. Non ha cioè senso la teoria
del “runner naturale”, un soggetto che può correre, mentre la maggior parte
delle persone incappa prima o poi in infortuni. Chi esprime simili concetti
quasi sempre ha una piccola patologia invalidante: non volendo ammettere
di essere “non sano” preferisce dare la colpa alla corsa!
Appendice F - Il dizionario dell’infortunio
L’infortunio è lo spauracchio di ogni runner e solo una piena
comprensione di tutto ciò che ruota attorno a esso ne consente una gestione
ottimale. Analizziamone brevemente i concetti fondamentali, espressi in
termini molto pratici.

Fastidio – Problema ortopedico che non pregiudica significativamente la


prestazione e che non peggiora nella seduta successiva.
Infortunio – Problema ortopedico che pregiudica significativamente la
prestazione o che peggiora nella seduta successiva.
Infortunio rientrante – Infortunio che guarisce con il solo riposo
sportivo.
Infortunio permanente - Infortunio che non è rientrante.
Infortunio recidivante – Infortunio che si ripresenta entro 12 mesi.
Principio di efficienza – Ogni soggetto sano e allenato può correre per 10
km tre volte alla settimana.
Distanza critica – Distanza oltre la quale aumenta significativamente la
probabilità di infortunarsi.
Effetto tempo – Eccessiva dilazione di una terapia per permettere il
naturale miglioramento della patologia. L’esempio classico è la cura di una
tendinite con 10 sedute della terapia X distanziate di 2 giorni: la tendinite
sarebbe probabilmente guarita con 20 giorni di riposo!
Effetto coincidenza – Casuale sovrapposizione temporale fra
applicazione di una cura e guarigione di una patologia. Nel caso di infortuni
curati sequenzialmente con tante terapie inefficaci, se la terapia n-esima si
associa temporalmente alla guarigione, ecco che viene ritenuta “certamente
efficace”.
Effetto placebo – Una terapia assolutamente inerte viene recepita dal
malato come un farmaco in grado di guarirlo o di farlo star meglio. Critico
nelle patologie croniche in cui il soggetto si autoconvince che con X sta “un
po’ meglio”.
Effetto risultato – Di una terapia, nella popolazione, si propaga
principalmente l’informazione relativa ai successi. Ciò spiega perché
terapie efficaci solo nel 5% degli infortuni vengano provate da tutti nella
speranza che “facciano qualcosa”.
Delirio di onnipotenza – Presunzione del medico di curare ogni
patologia; in campo ortopedico si concretizza spesso nel proporre a tutti lo
stesso tipo di terapia ritenendola in grado di curare ogni problema.
Effetto fuga – Convinzione del terapeuta sulla bontà della sua terapia
solo perché il paziente non ritorna più. Particolarmente critico negli
infortuni permanenti, nei quali il paziente tenta spesso diverse terapie.
Correre sul dolore – Il tentativo di continuare l’attività sportiva in
presenza di infortunio.
Indice di efficienza – Nel caso di infortuni rientranti, l’efficacia della
terapia si misura con l’indice di efficienza E=1-TG/TR, dove TG è il tempo
reale di guarigione, mentre TR è il tempo necessario per guarire col solo
riposo.

Consiglio vivamente all’aspirante runner di leggere il testo sull’infortunio


[8] oppure consultare gli articoli della sezione Medicina sportiva/Infortunio
del mio sito Internet (http://www.albanesi.it).
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