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Roberto Albanesi

Il manuale completo
dell’alimentazione
Volume 1 - Principi della nutrizione

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Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte del libro può essere riprodotta o diffusa con un mezzo
qualsiasi, fotocopie, microfilm o altro, senza il permesso di Thea s.r.l.

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Tel. 349/2689058
Sito Internet: http://www.albanesi.it

Revisione editoriale: Daniele Lucarelli


Realizzazione eBook: Luca Lazzari

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Sommario
Prefazione alla quinta edizione
Introduzione
Capitolo 1 - La dieta italiana
Capitolo 2 - Dieta italiana e cucina
Capitolo 3 - I carboidrati
Capitolo 4 - Le proteine
Capitolo 5 - I grassi
Capitolo 6 - Acqua, fibre e micronutrienti
Capitolo 7 - Il sovrappeso
Capitolo 8 - Psicologia dell’alimentazione
Capitolo 9 - La carta d’identità alimentare
Appendice 1 - L’indice glicemico
Appendice 2 - Tabella delle quantità sazianti
Appendice 3 - Il fabbisogno energetico degli sport più comuni
Appendice 4 - Il fabbisogno energetico delle attività più comuni
Appendice 5 - Teoria dei macronutrienti
Appendice 6 - Gli indici di fibra
Appendice 7 - Linee guida per l’alimentazione (le regole della dieta italiana)
Catalogo - I best-seller di www.albanesi.it

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Prefazione alla quinta edizione
La quinta edizione di questo manuale in formato e-book è suddivisa in tre volumi per agevolare
l’utente nell’acquisto della materia di suo interesse.
Il primo volume (Principi della nutrizione) copre i principi della nutrizione e deve considerarsi
sicuramente propedeutico agli altri due.
Il secondo volume (Alimentazione e salute) riguarda la gestione e la qualità dei cibi, il rapporto
fra alimentazione e salute e tutto ciò che serve per iniziare una dieta per il controllo del peso.
Il terzo volume (Modelli alimentari) contiene la scheda di tutti i principali modelli alimentari
attualmente in voga.
Grazie al formato elettronico, la versione dei tre volumi e-book contiene materiale aggiuntivo
rispetto alla versione cartacea e ciò rende il manuale ancora più completo! Oggi posso finalmente
dire che il cammino intrapreso nel 2003 con la prima edizione del manuale si è assestato su un
livello che da un lato è perfettamente aggiornato (qualità) e dall’altro offre al lettore tutto ciò che
serve per la conoscenza del mondo della nutrizione (quantità).
Nei tre volumi troverete anche la descrizione di un modello alimentare, la dieta italiana, che altro
non è che la versione scientifica (cioè corredata di una trattazione numerica) della dieta
mediterranea. Dalla sua apparizione il mio modello alimentare si è ormai trovato un suo spazio,
soprattutto fra tutti coloro che hanno capito che si può amare il cibo e goderselo: basta possedere
una coscienza alimentare e fare attività fisica.
I suggerimenti più importanti sono riassunti alla fine dei volumi nell’Appendice Linee guida per
l’alimentazione; nel manuale la numerazione delle regole fa riferimento alla loro posizione
nell’appendice.
Il testo può essere completato con altri miei testi (segnalo per esempio Il manuale completo della
cucina ASI che ho scritto in collaborazione con Matteo Lorenzi) per la cui descrizione rimando al
mio sito; nel sito, oltre al catalogo, segnalo, nella sezione Nutrizione, le sottosezioni Qualità dei
cibi, Cucina, Ricette, Dieta che integrano gli argomenti del presente manuale. Attraverso il sito
sono a disposizione di tutti i lettori che, avendo compreso lo spirito della dieta italiana, volessero
spiegazioni e/o approfondimenti su temi specifici. L’indirizzo del sito è:

http://www.albanesi.it

Nota
Nel testo l’unità di densità calorica (kcal/100 g) è abbreviata in: 1 alb = 1
kcal/100 g.

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Introduzione
Il successo avuto dalla prima edizione del testo mi ha portato popolarità, ma anche molte critiche.
Quella più comune è che non sono laureato in scienza dell’alimentazione e non sono che un
ingegnere elettronico con specializzazione in informatica; a detta dei miei detrattori, per quanto
intelligente possa essere, non sarei in grado di raccogliere informazioni dalle ricerche scientifiche
e di elaborarle secondo una visione logica, coerente e produttiva. Questa ipotesi rivela che le
persone che la fanno sono talmente rigide da non concepire nemmeno il fatto che una persona
possa acculturarsi da autodidatta al di fuori di canali tradizionali. Io ho incominciato a occuparmi
di alimentazione molti anni fa. Studiavo, e molto, ma non vedevo il motivo di iscrivermi a un
corso di laurea per prendere un pezzo di carta (ne ho già uno).
Oggi il mio sito Internet è seguito da 1.500.000 visitatori unici al mese ed è sicuramente leader nel
settore del benessere e della qualità della vita.
Ho iniziato a occuparmi di alimentazione in relazione alla mia attività sportiva preferita (la corsa
di resistenza). Non sono mai stato un campione, anzi, a livello giovanile potevo essere
sicuramente giudicato come mediocre (nel senso che “sta nella media generale”). Superati i 30
anni, quando la corsa divenne un piacevole passatempo, il mio spirito scientifico mi spinse a
indagare non solo i metodi di allenamento, ma anche tutto ciò che ruotava attorno alla prestazione
dell’atleta. Ovvio che l’alimentazione fosse uno dei temi principali. Anche grazie all’aiuto di
alcuni amici (fra cui ricordo Massimo Bresciani), iniziai ad approfondire a tal punto le tematiche
da arrivare a livelli di competenza decisamente superiori a quelli che toccavo nel mio lavoro di
tutti i giorni (l’informatico), lavoro in cui avevo già un livello di specializzazione molto alto.
Per farla breve, voglio portare un riscontro più pratico al mio lavoro: me stesso.

•• A 49 anni, alla mia decima maratona, ho ottenuto il mio record assoluto, undici minuti in meno
di 23 anni prima.
•• Sono una persona dinamica e attiva, in perfetto peso forma, che riesce a svolgere mille attività:
sinteticamente, le persone che mi conoscono mi danno dieci anni di meno.
Chi fa sport sa cosa significa il primo punto; oggi batto tranquillamente molti atleti coetanei che
erano stati nazionali, non tanto perché sia migliorato a tal punto da potermi illudere di andare alle
Olimpiadi, quanto per il fatto che sono invecchiato molto meglio di loro. E il secondo punto non è
che l’ulteriore riprova di ciò che ho appena detto.
A molti queste credenziali potrebbero non essere sufficienti per dare peso alle mie tesi in materia
di alimentazione. Vediamo però cosa offre il mercato. Parto dall’ovvia assunzione (regola dello
specchio) che:

poiché tutti mangiamo, un nutrizionista è lo specchio di ciò in cui crede.

Scoprirete che molti dietologi che vi parlano delle mirabilie della dieta mediterranea, delle
proprietà incredibili del cibo x o dell’alimento y hanno un fisico con il quale non vorreste fare
cambio:

•• sono forse giovanili e sportivi? Molti sono magri, ma dimostrano tutta la loro età.
•• Sono forse in perfetto peso forma? Molti sono un po’ cicciottelli e sicuramente non sono i
migliori testimonial di quello che dicono.

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Ma andiamo nello specifico e scopriremo come la massa si sia spesso lasciata suggestionare da
personaggi che non rispettano la “regola dello specchio” proponendo scorciatoie apparentemente
facili, ma di fatto impraticabili.
La dieta metabolica è la creatura di Di Pasquale (che la ritiene il Santo Graal delle diete); peccato
che per sua stessa ammissione sia “alto 167 cm e pesi 84 kg”. Ma c’è di peggio.
Mark Hughes, il fondatore di Herbalife, uno dei metodi più chiacchierati per il dimagrimento, è
morto (2000) in circostanze non chiare a soli 44 anni.
E che dire di Robert Atkins, creatore della celebre dieta omonima (Volume 3, Capitolo 7), morto
(2003) a soli 72 anni con il ragguardevole peso di 116 kg?
Michel Montignac è morto nel 2010 a 65 anni per le complicanze di un cancro alla prostata; certo
l’alimentazione non può sconfiggere il cancro, ma demonizzare alcune forme di glicidi appare
eccessivo se poi si vive 15 anni di meno di chi quei glicidi li ha sempre assunti.
In altri termini, è abbastanza inutile proporre modelli alimentari vendendo o regalando illusioni di
salute perenne se non si è in grado di proporsi con un look che “mantenga le promesse”. In
particolare un regime alimentare corretto dovrebbe almeno assicurare:

•• un corpo forte e magro (sconfitta del sovrappeso ed efficienza fisica);


•• un invecchiamento rallentato e ben gestito.

Judith Mazel, l’ideatrice della dieta di Beverly Hills, è morta a soli 63 anni per problemi
vascolari. Aveva illuso milioni di americani di trovare bellezza e giovinezza con una dieta
criticata dai più illustri nutrizionisti. Molti nutrizionisti che perorano un modello alimentare,
sicuramente lo seguono da decenni: sono lo specchio di come può aiutarci. È inutile che decantino
le mirabilie di certi cibi se poi appaiono vecchi e in leggero sovrappeso come tante persone che
non curano poi granché la loro alimentazione.
Io tengo molto alla regola dello specchio perché so che è la mia miglior credenziale. So che a
quasi 60 anni corro come un ragazzino di 20. So che quando vedo un cinquantenne, spesso lo vedo
vecchio, soprattutto quando dice la classica frase “quand’ero giovane…”. So che mi fanno un po’
tenerezza tutti quelli che cercano di mettersi a dieta per eliminare la pancetta o le gambe
cellulitiche e che non capiscono come mai io a tavola mangi il doppio di loro. So che
difficilmente ho trovato qualcuno che apprezzi la vita come il sottoscritto. So che quello che sono
è anche merito della dieta italiana.

L’aspettativa di vita
Se si vuole calcolare la vita media di un gruppo di soggetti con esattezza, occorre che tutti siano
morti per poter determinare banalmente la media matematica. Tale dato non è molto significativo
perché a chi è in vita interessa soprattutto conoscere quale è la sua aspettativa di vita media.
Ovviamente tale valore può solo essere stimato con complessi calcoli statistici, spesso non
sempre concordanti. Nella Tabella 1, che trovate nella pagina seguente, riporto i dati di una decina
di Paesi (fonte: Nazioni Unite, per il periodo 2005-2010).

TABELLA 1
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• Paese > AV
• Giappone > 82,5

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• Italia > 82
• Svizzera > 81,2
• Australia > 80,9
• Svezia > 80,9
• Francia > 80,7
• Spagna > 80,7
• Germania > 79,4
• Stati Uniti > 78,2
• India > 64,7
• Swaziland > 39,6
----------

TABELLA 2
----------
• Paese > AVS
• Giappone > 74,5
• Australia > 73,2
• Francia > 73,1
• Svezia > 73
• Spagna > 72,8
• Italia > 72,7
• Svizzera > 72,5
• Germania > 70,4
• Stati Uniti > 70
• Uganda > 32,7
• Sierra Leone > 25,9
----------

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha stilato anche un interessante rapporto


sull’aspettativa di vita in salute (AVS) e non semplicemente sull’aspettativa di vita (Tabella 2).
Notate come le differenze fra i Paesi industrializzati siano veramente piccole, si parla di 2-4 anni
al massimo.

La grande illusione
Le tabelle citate nel paragrafo precedente sono molto importanti al fine di capire come
l’alimentazione possa migliorare la nostra vita.
Che cosa hanno in comune un giapponese, un americano, un italiano, uno svedese e un tedesco dal
punto di vista alimentare? Tutti risponderebbero: nulla o ben poco. In realtà non è così.
Analizziamo i seguenti quattro punti.

1. I loro Paesi sono altamente industrializzati e le notizie salutiste possono circolare velocemente.
2. I loro Paesi hanno una speranza di vita paragonabile. Non è certo la differenza di uno o due anni
che può essere significativa in un discorso generale.
3. Il sovrappeso è un grave problema in tutti i Paesi considerati.
4. È pur vero che le abitudini alimentari sono molto diverse fra i vari Paesi.

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Sintetizzando quest’ultima considerazione con i tre punti precedenti, si scopre che è veramente
utopistico creare un modello alimentare globale a partire dalle abitudini di una determinata
popolazione. Non bastano cioè indicazioni generiche sui cibi o sulle abitudini alimentari per
ottenere risultati significativi e sono perciò destinate al fallimento e alla confusione alimentare
quelle diete che sono prive di aspetti quantitativi formalizzati. Il giapponese che si nutre di pesce
o l’italiano che si nutre di pasta arriveranno comunque al sovrappeso perché l’indicazione è
troppo generica.
L’evidenza degli insuccessi di indicazioni generiche ha fatto nascere modelli alimentari sempre
più sofisticati. Attualmente nei Paesi industrializzati la popolazione si può dividere in tre fasce:

A. Chi segue un modello alimentare preciso e ha una coscienza alimentare sviluppata (a


prescindere dalla correttezza del proprio modello).
B. Chi, senza capire, si lascia guidare da informazioni avute da altri.
C. Chi non segue nessun modello alimentare.

Gran parte dell’insieme C può entrare a far parte temporaneamente dell’insieme B nei periodi in
cui per esempio decide di seguire una dieta. È abbastanza ovvio che se la maggior parte della
popolazione appartiene agli insiemi B e C i risultati sono globalmente disastrosi ed è purtroppo
ciò che accade nella realtà. C’è quindi da chiedersi perché l’insieme A sia così poco numeroso.
La risposta è abbastanza semplice: le attuali teorie alimentari non sono in grado di proporre un
modello:

•• preciso
•• coerente
•• concreto
•• compatibile con la qualità della vita.

In realtà, i sostanziali fallimenti dei vari modelli nascono dall’incapacità di armonizzarsi con la
psicologia alimentare della massa.
Per capirne il motivo, consideriamo il termine ortoressia. Ortoressia significa un’ossessione
maniacale per i cibi sani. L’ortoressico preferisce morire di fame piuttosto che mangiare cibi che
ritiene contaminati o che comunque possano nuocere alla sua salute. Molti comportamenti
giudicati normali sono in realtà ortoressici. L’ortoressia è stata descritta come problema sociale
da un ex-ortoressico, il dietologo Steven Bratman. Ampliando la definizione di Bratman,
definiamo ortoressico

chiunque abbia una posizione integralista in alcuni aspetti della propria alimentazione.

L’origine dell’ortoressia
Non è possibile riassumere in poche righe le cause di un fenomeno complesso, ma il titolo del
paragrafo precedente (La grande illusione) mette già sulla buona strada. L’ortoressia si sviluppa
spesso in personalità semplicistiche o in personalità paurose (la teoria della personalità è
discussa nel mio testo La felicità è possibile). Rimandando al testo per la descrizione di tali
personalità, rilevo che la personalità semplicistica diventa ortoressica perché, incapace di gestire
la complessità del mondo, tende a semplificare la realtà oltre misura, separa nettamente il bene e

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il male e trova comodo avere poche e ferree regole. La personalità fobica invece si esalta nella
possibilità di usare l’alimentazione per difendersi dalle sue paure, dalle malattie,
dall’invecchiamento: più diventa integralista e più diventa sicura.
Purtroppo i modelli alimentari attuali sono in gran parte ortoressici (in senso lato) e non sono in
grado di catturare la maggioranza della popolazione (che ortoressica non è), se non
marginalmente. Vediamo come i vari modelli si possano inquadrare in una tale visione.

Gli ortoressici positivi


L’esempio classico di ortoressia positiva è rappresentato dalla dieta mediterranea (Volume 3,
Capitolo 1). Ci sono alimenti buoni che vanno spinti e altri meno buoni che devono essere limitati.
È la forma di ortoressia più accettabile: l’aspetto maniacale non sta nell’opporsi a certi cibi,
quanto nel promuoverne euforicamente alcuni oltre i loro effettivi meriti. Un dietologo
mediterraneo esalterà oltre misura i pregi di frutta, verdura, olio d’oliva, pasta ecc. Suggerirà di
evitare il burro e i grassi animali, di moderare la carne rossa ecc. Il più delle volte crea
nell’interlocutore l’illusione che basta mangiare i cibi “buoni” per arrivare alla salute.
Cosa non va – La mancanza di indicazioni quantitative disillude ben presto il soggetto: pur
mangiando cibi buoni non ha una buona salute, in particolare è in sovrappeso.

Gli ortoressici salutisti


Sono gli ortoressici classici, quelli della definizione originale di Bratman. È il caso dei vegani
(Volume 3, Capitolo 11) per motivi alimentari, dei puristi, della dieta del gruppo sanguigno
(Volume 3, Capitolo 12) o della macrobiotica e di tutti coloro che eliminano ampie categorie di
cibi ritenendoli dannosi, a prescindere da ogni riscontro scientifico.
Cosa non va – Ovviamente solo una piccola parte della popolazione può accettare pesanti vincoli
sulla propria alimentazione per benefici promessi, ma non provati. Inoltre molto spesso alcuni
aspetti del modello (troppo singolari) ne inficiano altri degni di essere considerati (metodo
Kousmine).

Gli ortoressici etici


Sono rappresentati dai vegetariani (per motivi etici e non per motivi alimentari; i vegetariani che
sono tali perché ritengono che la carne faccia male rientrano nell’ortoressia salutista, Volume 3,
Capitolo 10), dai vegani per motivi etici (non consumano prodotti animali derivanti
dall’allevamento perché ritengono esecrabili le condizioni degli animali in cattività, Volume 3,
Capitolo 11) e da tutti coloro che escludono ampie categorie di alimenti per motivi etici, spirituali
o religiosi. Il concetto di ampia categoria è fondamentale: non si considera ortoressico un regime
che esclude gruppi molto ristretti di alimenti.
Cosa non va – Molti vegetariani o vegani etici ritengono che la loro sia una “scelta personale” e
che quindi non andrebbe discussa e criticata. In realtà:

A. Un modello che la maggior parte della popolazione non segue (e non vuole seguire) non può
essere una risposta ai problemi dell’alimentazione.
B. Il punto precedente per un ortoressico etico è poco importante perché, secondo lui, la sua è una

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“scelta personale”. In realtà non è così: ogni scelta etica interessa la collettività. Infatti chi
sceglie, inevitabilmente tenderà a rendere la società affine alla sua idea (è etica!). Se non ci riesce
è solo perché è in minoranza. Nel nostro caso è ovvio che se la scelta è etica, si tenderà ad abolire
tutto ciò che è in contrasto con essa (macellazione degli animali, caccia, pesca, importazione di
carni e di pesce fino, nel caso dei vegani etici, all’abolizione degli allevamenti di animali).

Gli ortoressici demonizzanti


Sono tutti coloro che demonizzano un cibo o un insieme di cibi a scopo salutistico o per aiutare il
dimagrimento (sono ortoressici qualitativi). Esempi di ortoressia demonizzante sono il metodo
Montignac e tutti quei modelli che demonizzano l’indice glicemico.

Gli ortoressici quantitativi


Sono tutti coloro che propongono modelli alimentari con la semplice finalità di dimagrire. Esempi
tipici di ortoressia quantitativa sono le diete dei giornali femminili che durano lo spazio di un
numero o le più consolidate diete iperproteiche (Volume 3, Capitolo 6). A prescindere dai
sacrifici che il soggetto deve fare a causa della dieta, hanno il principale difetto nella loro stessa
definizione: sono transitorie. L’ortoressico quantitativo è perennemente a dieta pur essendo
sempre in sovrappeso!
Cosa non va – Il concetto di “dieta per dimagrire” è punitivo e su di esso non si può certo
impostare una strategia a lungo termine che assicuri la salute del soggetto. Se suscitano interesse,
queste diete vengono spesso abbandonate non appena il soggetto si accorge che non può gestirle
all’infinito.

Gli ortoressici globalizzanti


Con un termine oggi di moda, il globalizzante è colui che applica alla generalità della popolazione
concetti che funzionano su pochi individui nell’ottimistica speranza che ciò sia vero. È il caso di
coloro che propugnano le diete dissociate (Volume 3, Capitolo 9).
Cosa non va – Per la loro stessa genesi, i regimi alimentari globalizzanti non ottengono risultati
che su gruppi molto ristretti e quindi per le fasce rimanenti restano poco più che una curiosità.

Gli ortoressici matematici


È una nuova tipologia che comprende tutti coloro che propongono modelli alimentari che hanno
cercato di opporsi al pressappochismo dei modelli non quantitativi. Ne sono esempi la dieta a
zona (Volume 3, Capitolo 2; anche nella versione italiana) o le teorie di Udo Erasmus sui rapporti
fra acidi grassi essenziali. Partendo da ipotesi scientifiche (spesso non del tutto dimostrate), si
costruisce un modello alimentare talmente complesso che spesso è abbastanza facile mostrarne le
contraddizioni.
Cosa non va – Spentosi l’entusiasmo iniziale dovuto all’euforia di partecipare a qualcosa di
scientifico e di innovativo, le difficoltà quotidiane vanificano gli eventuali pregi dei modelli
adottati. Molti di quelli che dichiarano di aderire al modello in questione spesso lo adattano alla
loro alimentazione, snaturandolo completamente: gli aspetti numerici ne costituiscono il fascino e

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il limite (incoerenze e impraticabilità).

Perché non essere ortoressici


Dopo questa semplice panoramica è chiaro che chiunque voglia dire qualcosa di nuovo
nell’ambito dell’alimentazione deve utilizzare una visione non ortoressica. Per farlo basta
correggere i difetti delle varie classi; introdurremo le prime regole del nostro modello (il numero
fra parentesi indica il numero della regola come riportata nell’Appendice 7).

(3) Per chi è normopeso non esistono cibi buoni e cibi cattivi.

Una sostanza che è comunque e sempre cattiva non si può ritenere un cibo, a tutti gli effetti è un
veleno. L’esempio classico è quello dei grassi vegetali idrogenati (ved. Capitolo 5).

(4) Chi mangia male vivrà peggio, ma chi spera di conquistarsi il paradiso mangiando
benissimo è un illuso.

Significa che è importante evitare i gravi errori nell’alimentazione, ma la stessa non può, da sola,
assicurarci la salute. Per esempio, la genetica sta sempre più dimostrando che “siamo anche ciò
che nasciamo”, non solo ciò che mangiamo.

(5) Un modello alimentare per essere valido deve poter essere seguito per sempre da una
qualunque persona sana senza penalizzare la qualità della vita.

In altre parole, i numeri devono essere solo quelli veramente necessari e devono consentire una
certa flessibilità. Nei confronti del cibo ogni soggetto ha una reazione diversa (per esempio
l’assorbimento di una certa sostanza) e i cibi stessi hanno caratteristiche che possono variare nel
tempo (per esempio il grado di maturazione di un frutto), dipendere dalla varietà o dalla marca,
dal metodo di produzione e/o di conservazione ecc. È abbastanza inutile cercare di misurare tutto
con la calcolatrice quando i dati di partenza sono approssimativi!

(2) Scopo principale del modello è la sconfitta del sovrappeso concependo il cibo come un
concetto positivo: mangiare bene è un diritto, non un peccato.

È abbastanza ottimistico pensare di poter sconfiggere malattie come il cancro, l’AIDS, la sclerosi
multipla ecc. solo con l’alimentazione. Nessuno ci è riuscito. Se si fermasse il sovrappeso, si
eliminerebbe uno dei principali fattori di rischio in patologie gravi e diffusissime.
Accontentiamoci di questo grosso successo.
Già, ma esiste un modello alimentare che rispetti le regole sopraesposte?
Sì e si chiama dieta italiana. Come vedremo, è un modello che prende il meglio da tutti i suoi
predecessori e, senza stimoli ortoressici, fonde il tutto in una concezione semplice, ma innovativa.
Il nome è un omaggio al saper mangiar bene degli italiani, l’augurio che tutti possano essere
amanti della buona cucina e in ottima forma.
La dieta italiana:

•• è compatibile con i piatti della buona cucina, secondo il motto si mangi poco, ma si mangi
bene;

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•• è compatibile con una visione salutista della vita, in particolare nei confronti del sovrappeso (e
quindi del rischio cardiovascolare, del diabete e del cancro);
•• è un modello alimentare che si può seguire per tutta la vita;
•• è un modello alimentare in cui i dati numerici sono ridotti ai soli aspetti generali
dell’alimentazione.

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Capitolo 1 - La dieta italiana
Scopo fondamentale della dieta italiana è soprattutto quello di arrivare a una visione coerente
dell’alimentazione. È incredibile come le precedenti proposte non siano state in grado di risolvere
i problemi alimentari della popolazione occidentale. Incompletezza, mancanza di rigore
scientifico o impraticabilità hanno sempre fatto sì che i passati modelli fossero regimi dietetici
teorici, incapaci di soddisfare coerentemente tutti i bisogni del soggetto. Nel Volume 3 (Modelli
alimentari) sono analizzati i motivi degli insuccessi delle varie diete, mentre in questo capitolo
tratteremo i fattori che rendono quella italiana veramente innovativa.

Il test
Per capire se questo libro può esservi utile, potete eseguire un semplice test. Leggete le frasi
sottostanti e indicate quali di esse sono corrette.

1. Il vino è un alimento fondamentale per il cuore.


2. Si deve bere almeno un litro di acqua al giorno.
3. Il sale provoca l’ipertensione (pressione alta).
4. Si deve limitare a una volta alla settimana l’uso di cibi contenenti colesterolo.
5. Si deve moderare l’uso di grassi animali, preferendo quelli vegetali.
6. I grassi saturi sono i grassi “cattivi”.
7. Si devono preferire alimenti a basso indice glicemico.
8. L’alimentazione deve essere ricca di frutta e verdura perché ricche di antiossidanti.
9. Si deve limitare il quantitativo di grassi.
10. Si deve limitare l’uso di cibi raffinati.
11. Come condimento si usi l’olio di oliva anziché il burro.
12. Si deve preferire un’acqua povera di sodio.

Fatto?
Ebbene, tutte le frasi soprariportate sono sbagliate. Di seguito diamo una brevissima spiegazione
e rimandiamo alle parti del Manuale dove l’argomento è trattato in dettaglio.

1. Non è vero che il vino è “fondamentale” per il cuore, se ne può fare tranquillamente a meno con
uno stile di vita corretto. Alcune ricerche indicano che una modica quantità di vino aiuterebbe chi
mangia male a proteggere il proprio cuore, ma globalmente altre ricerche dimostrano che il vino,
se (forse) protegge il cuore, sicuramente distrugge il fegato. Ved. Il vino e l’alcol, Volume 2
Capitolo 3.
2. Chi ha uno stile di vita corretto ha un meccanismo della sete che funziona benissimo e che
avverte il nostro corpo quando ha bisogno di acqua: si deve bere quando si ha sete. Solo nelle
persone molto anziane e nei malati tale meccanismo si inceppa. Ved. L’acqua, Capitolo 6.
3. Le ultime ricerche hanno dimostrato che il sale non provoca l’ipertensione, ma aggrava quella
preesistente. Chi ha uno stile di vita corretto ha un meccanismo di eliminazione del sodio che
funziona benissimo. Ved. Il sodio e il sale, Capitolo 6.
4. Il colesterolo non deve essere demonizzato perché svolge molte utili funzioni. Il rischio
cardiovascolare ha altri fattori degni di considerazione. Inoltre con l’alimentazione non si

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controlla più del 20% del colesterolo. Chi ha uno stile di vita corretto ha un rapporto (fattore di
rischio cardiovascolare) fra colesterolo totale e colesterolo buono (HDL) molto “sicuro”, tant’è
che il valore del colesterolo totale ha poco pregio. Ved. Il colesterolo, Volume 2 Capitolo 3.
5. Non esistono i “grassi animali”: esistono grassi saturi che sono contenuti nei grassi presenti
nelle carni animali, ma gli stessi grassi saturi sono contenuti anche nell’olio di palma, di cocco
(spesso racchiusi sotto la nozione generica: grasso vegetale) e persino nel burro di cacao, quindi
nel cioccolato. Chi ha uno stile di vita corretto può mangiare sia grassi di origine animale sia
cioccolato! Ved. Gli acidi grassi, Capitolo 5.
6. I grassi saturi sono fondamentali dal punto di vista energetico. È il loro abuso che genera
problemi, come del resto l’abuso di tutti i cibi “ricchi” di proprietà. Chi ha uno stile di vita
corretto non può abusare di tali grassi per il vincolo del sovrappeso. Ved. Grassi saturi: la
verità, Capitolo 5.
7. Ciò che conta non è l’indice glicemico, ma il carico glicemico. Inoltre in alcune circostanze
(per esempio dopo uno sforzo intenso e prolungato) è opportuno che il carico glicemico sia
elevato per permettere all’insulina di ripristinare le scorte di glicogeno che sono state perse. Per
chi ha uno stile di vita corretto l’azione dell’insulina non è negativa. Ved. Indice e carico
glicemico, Capitolo 3.
8. Sperare di fermare terribili malattie come il cancro con gli antiossidanti della frutta e della
verdura è come cercare di abbattere un elefante con un sassolino. La frutta e la verdura sono
fondamentali perché cibi ipocalorici. Chi ha uno stile di vita corretto le introduce naturalmente
nella propria dieta. Ved. Frutta e verdura, Volume 2 Capitolo 6.
9. Il sovrappeso non dipende dai grassi introdotti, ma dalle calorie totali assunte. Limitare i grassi
se ci si abbuffa di carboidrati è del tutto inutile. Chi ha uno stile di vita corretto non può abusare
di grassi per il vincolo del sovrappeso. Ved. Perché si ingrassa, Capitolo 7.
10. I cibi raffinati sono comunque cibi con un valore energetico interessante; i principi nutritivi
che si perdono con la raffinazione possono essere coperti da altri cibi. Chi ha uno stile di vita
corretto non può abusare di cibi raffinati per il vincolo del sovrappeso. Ved. La raffinazione,
Volume 2 Capitolo 2.
11. Ogni alimento grasso è un mix di grassi, magari con uno prevalente. 10 g di burro contengono
tanti grassi saturi come 30 g di olio. Chi ha uno stile di vita corretto sa che contano le quantità.
Ved. Olio di oliva, Volume 2 Capitolo 6.
12. Scegliere un’acqua senza sodio fa risparmiare in un mese il sodio contenuto in 20 g di
prosciutto crudo. Chi ha uno stile di vita corretto sa che tale risparmio è come sperare di diventare
ricchi risparmiando un euro al giorno. Ved. Acqua minerale, Volume 2 Capitolo 6.

Spero di avervi stancato con la frase “chi ha uno stile di vita corretto”.

Lo stile di vita corretto e il vincolo del sovrappeso


Vedremo che lo stile di vita corretto è quello che assicura

un corpo forte e magro.

Il dietologo classico dà già per scontato che il soggetto che ha davanti sia sano mentre per la dieta
italiana è sovente malato e la malattia si chiama sovrappeso.
Consideriamo uno studio su 476 bambini olandesi nati nel 1980 e pubblicato nel 1997: dopo

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quindici anni di controllo i ragazzi con dieta scarsa di sodio avevano più bassi valori di pressione
arteriosa. Ciò non significa nulla e può essere molto fuorviante. Infatti il ruolo del sodio diventa
molto importante per chi ha modelli nutrizionali errati, è sedentario ecc. Nel 2002 una ricerca
inglese molto ampia ha dimostrato che la moderazione del sodio non previene l’ipertensione e che
un eccessivo consumo aggrava quella già in atto. Meditate sulla differenza: per chi si nutre (e
vive) male il sodio è un grave problema, ma chi segue un regime alimentare corretto possiede
meccanismi di controllo che risolvono la situazione.
La rivoluzione della dieta italiana deriva banalmente dal fatto che se si considerano le due
proposizioni:

A. Per evitare il sovrappeso non si deve superare un certo contributo calorico giornaliero.
B. Per l’alimento X non si deve superare la quota Y;

si scopre nella totalità dei casi che

in un corpo forte il solo vincolo del sovrappeso limita praticamente ogni posizione
salutisticamente errata.

Cioè le proposizioni di tipo B) sono automaticamente soddisfatte se lo è la proposizione A).


Facciamo un paio di esempi. Molti nutrizionisti pongono l’accento sulla necessità di limitare i
grassi. Ma se voglio essere magro non potrò certo abbuffarmi di grassi. Altri sostengono che
bisogna limitare i cibi raffinati, i dolci ecc. Ma anche in questo caso una persona magra li limita
già automaticamente.
È profondamente errato non dire la verità alla gente, cercando di farla pervenire alla strada giusta
(sconfitta del sovrappeso) attraverso strade tortuose: il risultato è che il soggetto ubbidisce ad
alcune limitazioni (no ai grassi, ma si abbuffa di dolci; no ai dolci, ma si abbuffa di pasta; no al
burro, ma si inzuppa di olio ecc.), ma, visto che non ottiene nulla, si convince che il sovrappeso è
inevitabile.
Molti dei consigli dei dietologi sono perciò del tutto inutili, basta sviluppare nell’individuo la
coscienza che solo essendo magro potrà stare bene e fornirgli le conoscenze necessarie (complete,
non parziali!).

La rivoluzione della dieta italiana


Ormai ogni cibo può essere considerato un amico (fa bene) o un nemico (fa male); i mezzi di
informazione e gli addetti ai lavori spesso offrono giudizi contrastanti sullo stesso alimento, un
giorno santificato e il successivo demonizzato. Ovvia conseguenza è il disorientamento del
destinatario del messaggio nutrizionale con successivo rifiuto del messaggio stesso: si continua
mangiare a caso e male. La rivoluzione della dieta italiana consiste proprio nel fatto di aver
trovato la condizione che mette tutti d’accordo:

(3) per chi è normopeso non esistono cibi buoni e cibi cattivi.

In altri termini, essere forti e magri semplifica molto la vita alimentare (e la vita in generale!).
Infatti i divieti e le raccomandazioni valgono spesso solo per chi è sovrappeso e vuole continuare
a esserlo!

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Ad alcuni il nome (dieta italiana) può risultare improprio, dal momento che esiste già la dieta
mediterranea e visto che gli italiani sono il secondo popolo di obesi in Europa.
In realtà, in quanto italiano, come ideatore del modello alimentare mi riservo il diritto di
chiamarlo con quello che per me è un invito a prendere il meglio della nostra tradizione
alimentare, buttando il peggio (il sovrappeso, appunto). Di italiano c’è sicuramente l’amore per il
cibo e una visione non punitiva e non ortoressica dell’alimentazione. In questo capitolo vedremo
appunto come legare la dieta italiana con la mediterranea e con la buona cucina.

Il sedentario
Un altro errore classico del passato è stato quello di rivolgersi al sedentario. Ciò ha portato a una
serie di errori derivanti da medie su un campione non idoneo: fabbisogni giornalieri sovrastimati
e pesi “normali” eccessivi. Ritenere normale il peso di 70 kg di un soggetto sedentario di 30 anni
alto 170 cm è assurdo: significa predisporlo al sovrappeso marcato perché a 40 anni sarà almeno
80 kg. Questi dati sono fra i maggiori responsabili del sovrappeso e di una cattiva cultura
alimentare nonché della demonizzazione di cibi ritenuti pericolosi per la linea. Infatti con dati
“accettabili” un po’ gonfiati basta un nonnulla ed ecco che il soggetto incomincia a mettere su
chili: ciò che può valere per la media non vale certo per tutti! Inoltre si crea una confusione nella
trasmissione dell’informazione: se 2.400 kcal al giorno è il mio fabbisogno scientificamente
corretto perché ingrasso? Ecco che allora si tirano in ballo i cibi pericolosi, illudendo il soggetto
che, eliminandoli, dimagrirà. Invece basterebbe dirgli la verità: deve mangiare di meno e fare
attività fisica.

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Capitolo 2 - Dieta italiana e cucina
Se si esclude la dieta mediterranea, molti regimi alimentari non sono compatibili con la nostra
cucina classica e raffinata nel gusto. È fuor di dubbio che l’immagine abbastanza comune di chef
obesi non si presti a sposare il concetto di buona cucina con quello di alimentazione salutista. In
realtà non è necessariamente così. Infatti mangiare bene è compatibile con la dieta italiana proprio
grazie al principio che se non si è in sovrappeso non esistono cibi cattivi. Ha dunque poco pregio
considerare come attentati alla linea gran parte dei cibi della cucina classica.

Gli interessi commerciali


L’eventuale incompatibilità fra sana alimentazione e cucina, più che a motivi teorici e scientifici, è
sicuramente dovuta agli interessi commerciali che inquinano ogni discorso serio
sull’alimentazione. In campo alimentare solo pochi sono liberi di dire veramente le cose come
stanno.
Non è libero il politico che non può certo schierarsi contro certe esagerate santificazioni di alcuni
cibi, né può lanciarsi in crociate contro certe mode alimentari. Questi comportamenti si traducono
automaticamente nella perdita di migliaia di voti e sono al di fuori di una logica “italiana” della
politica.
Non sono liberi il giornale o la televisione che, vivendo di pubblicità, non possono certo
schierarsi contro certi errori alimentari. Quando mai si vedrà su un determinato media un pezzo
contro la margarina idrogenata quando uno dei maggiori inserzionisti fa prodotti solo con questo
ingrediente?
Non è libero il professore universitario che è chiamato a dare il suo parere su un problema
alimentare perché deve stare attento a non scontrarsi inutilmente con i produttori che comunque
hanno un peso “politico” o con i suoi avversari accademici che non aspettano altro che posizioni
troppo nette per poterlo attaccare senza pietà.
Il risultato di questo stato di cose è che l’informazione arriva sempre criptata, generalizzata,
annacquata. E quindi inutile. Vediamo un paio di esempi.
Porzioni piccole – Nel 2003 il Ministro della Salute, il Prof. Girolamo Sirchia (persona fra
l’altro stimabilissima) per cercare di fermare il sovrappeso ha dato l’indicazione ai ristoratori di
usare porzioni più piccole. Peccato che chi va al ristorante e non una ha buona coscienza
alimentare, spesso vada per abbuffarsi. Porzioni più piccole vogliono dire semplicemente una
portata in più per calmare comunque l’appetito pantagruelico. I ristoratori non ci perdono (anzi!),
ma il sovrappeso non ne esce sconfitto.
Le merendine – Nel 2004 l’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la
Nutrizione) creò il merendometro, uno strumento che permette di calcolare in pochi secondi
l’indice di massa corporea ed elenca il decalogo della merenda sana. In questo modo i
nutrizionisti italiani (a differenza di quelli stranieri; in Francia il ministro della Sanità stava
pensando all’abolizione della merenda nelle scuole per fermare il sovrappeso infantile) trovarono
il modo di giustificare lo snack, continuando a non avere il coraggio di opporsi alla grande
industria poco sensibile alla salute degli italiani. Il meccanismo era sottile e, per le industrie
dolciarie, geniale: poiché un bambino può abbuffarsi di merendine e difficilmente supera l’IMC
del sovrappeso (che l’INRAN non rivedrà mai verso il basso!), praticamente lo si abitua con una
scelta alimentare sbagliata alla quale sarà legato per tutta la vita.

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In entrambi i casi sono fuor di dubbio la competenza e l’onestà di chi ha elaborato l’idea. Si può
però notare l’artificiosità dello stratagemma per comprendere come chi lo aveva creato si fosse
trovato in realtà con le mani legate e avesse cercato di salvare capra e cavoli, non potendo dire
chiaramente le cose come stavano perché “troppo dure”.
Questo testo e il sito che lo sostiene non vivono di pubblicità, non fanno politica e non ambiscono
a cariche accademiche. Per questo possono dire tutta la verità.

L’enogastronomia
È ormai prassi comune non parlare più di cucina, di gastronomia, ma di enogastronomia. Questo è
forse il dato che meglio dimostra quanto detto nel paragrafo precedente.
A prescindere dalle fortissime pressioni commerciali che hanno tentato di spingere il consumo di
vino in mille modi, attualmente tutti sono concordi nel ritenere che la dose salutisticamente
accettabile non possa andare al di là di un bicchiere a pasto. I produttori sanno benissimo che se
queste dosi fossero rispettate il mercato del vino crollerebbe.
Nel Volume 2, Capitolo 3 (Il vino e l’alcol) troverete la giustificazione scientifica del perché due
bicchieri al giorno sono il massimo salutisticamente consentito e perché è corretto abbinare il vino
a una sola portata, gustando prodotti di qualità (personalmente un ottimo passito di Pantelleria con
il dolce a fine di un ottimo pasto non me lo nego mai, a riprova del fatto che la posizione della
dieta italiana sul vino non è frutto di un astemio). In questo paragrafo è opportuno invece
sottolineare come il concetto di enogastronomia faccia a pugni con la sana alimentazione (tanto
varrebbe chiamarla “abbuffati e bevi”), anche se salva moltissimi interessi commerciali.
Provate ad ascoltare un sommelier che descrive un vino: spesso vi sembrerà di ascoltare un
grande critico d’arte che descrive un’opera di Raffaello, di Rubens, di Van Gogh, tanta è l’enfasi e
la retorica del linguaggio. Gli addetti ai lavori parlano sempre di “bere con moderazione”, ma
come si può moderarsi se poi a ogni portata di un piatto suggeriscono un vino? Notate l’ipocrisia
del messaggio. Il vino non può essere una bevanda, perché a pasto “naturalmente” si berrebbe
almeno mezzo litro di vino, una dose salutisticamente inaccettabile, soprattutto se poi si assumono
altri liquori (da notare la lotta commerciale ai superalcolici: vino sì, superalcolici no, quando
invece è banale concludere che un litro di vino equivale a circa 0,3 litri di whisky, una dose
francamente da alcolizzato).

La cucina tipica
Chi ha compreso il significato del paragrafo precedente, arriva automaticamente a comprendere
che la cucina tipica, tradizionale, non ha nessuna relazione con una sana alimentazione. Nel
Volume 2, Capitolo 2 (La qualità del cibo) vedremo che il concetto di genuino non è
necessariamente legato a quello di salubrità. Anzi, molti piatti tipici sono inutilmente ipercalorici,
perché nati in un’epoca in cui la scienza dell’alimentazione non esisteva nella sua forma moderna
di disciplina comunque correlata alla salute dell’individuo.
La cucina tipica ha il grosso difetto di tramandare una visione del cibo ormai superata: il cibo
visto come espressione di benessere sociale. Ritrovarsi attorno a una tavola era il modo migliore
per festeggiare un periodo di vita o momenti particolarmente felici, sereni, fecondi. Ovvio che si
potesse esagerare. Oggi le occasioni per esagerare invece si sprecano e tale visione non è più
compatibile con la salute.
Alcuni ristoratori hanno rielaborato il concetto di tradizione, cercando di sposarlo con quello di

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benessere, hanno alleggerito i piatti e fanno un buon lavoro. Altri continuano imperterriti ad
attentare alla nostra salute. Impariamo a scegliere.
E soprattutto liberiamoci dallo stereotipo della riunione conviviale. Ancora oggi è troppo viva la
consuetudine di usare il cibo per ritrovarsi in famiglia, fra amici, per lavoro. Se dobbiamo farlo,
facciamolo con moderazione e soprattutto comprendiamo che, se abbiamo bisogno del cibo per
uno scambio umano, probabilmente vuol dire che non abbiamo poi moltissime cose importanti da
dirci. Supportiamo l’idea del pranzo buono, ma ipocalorico e, anziché il cibo, facciamo in modo
che siano i nostri sentimenti, le nostre idee a dare un senso all’incontro.

La cucina raffinata
Alla cucina tipica si contrappone idealmente la cucina raffinata. Anche nella cucina raffinata si
toccano le stesse punte di retorica che abbiamo trovato parlando del sommelier e della
descrizione che questi dà di un vino pregiato. Ammesso che cucinare bene possa essere un’arte,
sicuramente non è un’arte di difficile apprendimento, tant’è che se la figura dello chef ne è
l’emblema, di chef ne esistono migliaia. Spesso pertanto è esagerata l’enfasi con cui un locale
propone i suoi piatti, facendo pagare all’ignaro cliente tutta una presentazione scenica del locale e
dei piatti che con la bontà del cibo poco hanno a che fare.
Trucco tipico della cucina raffinata è poi l’impiego di microporzioni che sono veramente un
insulto a chi ama il cibo. Imparate a giudicare un locale di qualità dalla dimensione delle
porzioni: se sono minuscole e il gestore tenta di renderle appetibili giocando sul vostro senso di
fame, scartatelo!

Il fast food e il bar


Molte persone, per lavoro o per ragioni economiche, scelgono i fast food o i bar come meta
preferita delle loro escursioni alimentari. I nutrizionisti classici bocciano il fast food perché ricco
di cibi grassi e ipercalorici. Però, se questa è la causa della condanna, allora occorre condannare
anche buona parte della cucina italiana tradizionale. Per la dieta italiana se il soggetto è
normopeso non deve temere grassi appetitosi. Il vero problema dei fast food e dei bar è invece la
qualità dei cibi.
In teoria potrebbero essere luoghi compatibili con la buona alimentazione. In pratica sono spesso
il luogo dove si servono cibi di bassissima qualità a causa dell’uso di oli e grassi idrogenati
(margarina), di oli scadenti, di cibi con conservanti (costano meno!) ecc. Da alcune rilevazioni
fatte negli Stati Uniti, negli oli parzialmente idrogenati usati nei fast food è presente ben un 15% di
acidi grassi trans e addirittura un 45% negli oli usati per la frittura delle patatine fritte! Provate a
leggere (se trovate l’etichetta nutrizionale) gli ingredienti delle appetitosissime brioche che vi
servono al bar con un fumante cappuccino; un esempio: “margarina proveniente da oli
parzialmente idrogenati di palma e di colza”. E c’è gente che in quel bar ha fatto colazione per
anni!
Ovviamente la spinta salutista sta portando i fast food verso posizioni più attente alla salute, ma è
indubbio che il percorso sia ancora molto lungo. È opportuno che chi mangia in un fast food scarti
i cibi a rischio (come le amatissime patatine fritte) e i piatti pronti (primi e secondi surgelati,
dolci ecc.) di cui non ha la possibilità di leggere l’etichetta nutrizionale. È questo il modo
migliore di smuovere le cose.

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Le pizzerie
Dando un dispiacere a molti, è necessario precisare che la pizza non è un alimento particolarmente
interessante (ved. Volume 2, Capitolo 6). Fra l’altro, spesso non è poi nemmeno tanto economico.
Chi vuole mangiare in pizzeria senza optare per i normali piatti (ormai le migliori pizzerie sono
anche ottimi ristoranti) deve scegliere locali dove si usano ingredienti di notevole qualità. Una
pizza con formaggio fuso di bassa qualità, prosciutto cotto di seconda scelta, abbondantemente
innaffiata di olio (che non è certo extravergine d’oliva spremuto meccanicamente) può risultare
appetitosa, ma è un insulto al nostro apparato digerente. Quindi per le pizzerie, occhio alla qualità.

I cibi e il costo della spesa


Il lato economico ha un’importanza spesso fondamentale nelle scelte dei cibi; purtroppo errate
convinzioni alimentari si traducono spesso in errati comportamenti nella spesa di tutti i giorni.
Vediamo gli errori più comuni.
I prodotti di qualità costano – Non è affatto vero. Oggi la produzione industriale, accanto a
prodotti discutibili, ne sforna molti di alta qualità e su questi spesso vengono fatte campagne di
lancio, sconti per quantità ecc. Chi si lamenta dei prezzi dovrebbe capire che fare la spesa tutti i
giorni è decisamente antieconomico: meglio fare incetta di prodotti in offerta (basta un congelatore
per conservare i cibi deperibili), magari scontati del 30-40%, piuttosto che scegliere ogni giorno
prodotti scadenti, ma meno cari rispetto al prezzo di listino di prodotti migliori. Il miglior tonno in
offerta al 30% di sconto costa come un tonno scadente a prezzo pieno. Se il prezzo è importante,
studiate le strategie commerciali dei vari esercizi commerciali. È intelligente trovare a minor
prezzo prodotti ottimi, non spendere di meno in assoluto.
Alcuni alimenti sono inavvicinabili – Se alludete a branzini, salmone affumicato, culatello ecc.
avete ragione, ma dal punto di vista nutrizionale non è detto che sia migliore ciò che costa di più.
Il tartufo è l’esempio più eclatante: anche quello più costoso ha proprietà nutrizionali
praticamente nulle. Quindi imparate a giudicare i cibi non in base alla moda più raffinata, ma al
loro vero valore nutritivo. Il tonno o il salmone al naturale in scatola sono altrettanto validi che
orate e branzini e il salmone al naturale è addirittura meglio di quello affumicato e costosissimo.
Frutta e verdura costano troppo – Non fissatevi su prodotti precisi, ma siate elastici e scegliete
sempre frutta e verdura di stagione. Se i pomodori costano troppo, comprate le zucchine o
viceversa. Inoltre ricordatevi che la surgelazione altera le proprietà del prodotto esattamente
come il trasporto e la conservazione sul banco per i prodotti freschi. A meno che non vi coltiviate
frutta e verdura voi stessi, probabilmente un prodotto surgelato è del tutto equivalente a uno fresco
acquistato presso un punto vendita, ma raccolto diversi giorni prima.
Riassumendo – La filosofia del basare le scelte alimentari sul prezzo indica scarsa cura della
propria alimentazione che, prima che sul prezzo, deve basarsi sulla salubrità dei prodotti. È molto
facile dimostrare che

l’alimentazione non può essere un collo di bottiglia economico nella qualità della propria vita.

Questa affermazione stupirà soprattutto coloro che lottano mensilmente per sopravvivere, ma è del
tutto logica se si pensa ai tanti errori “economici” che si commettono, salvo poi tentare di porvi
rimedio con l’errato ricorso al discount. Di seguito alcune semplici “dritte” per spendere bene e
mangiare meglio.

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•• Scegliete 2 o 3 supermercati di alta qualità e verificate le offerte. Prodotti di medio-alta qualità
vengono periodicamente offerti anche con sconti del 50%. Se i prodotti consentono una
conservazione lunga, approfittate delle offerte.
•• Dotatevi di strumenti (congelatore, affettatrice ecc.) che consentano di ottimizzare i costi,
permettendo di acquistare prodotti a prezzi favorevoli perché in quantità.
•• Dotatevi di strumenti (macchina del pane, yogurtiera ecc.) che consentano risparmio di denaro e
(importante) di tempo.
•• Non fissatevi su alimenti precisi, ma verificate alternative equivalenti. Ciò vale soprattutto per
frutta, verdura e pesce.
•• Ricordate infine che chi segue un’alimentazione per un corretto peso corporeo mangia
mediamente il 20% in meno di chi è sovrappeso. Come dire: mangia di meno, ma meglio!

I discount
La diffusione di discount alimentari o di catene discount-like pone il problema del confronto con i
supermercati della grande distribuzione. Per focalizzare l’argomento è importante capire perché in
un discount si trovano prezzi inferiori.
Conservazione più lunga – L’uso di conservanti e additivi vari nonché di tecniche particolari
(che in genere impoveriscono il prodotto, come l’UHT per il latte) e di ingredienti meno
deperibili (come i grassi idrogenati) permettono tempi di scadenza più lunghi e quindi prodotti
meno costosi.
Ingredienti – Mediamente gli ingredienti hanno qualità inferiore o alcuni di essi sono in quantità
decisamente meno interessante. In uno yogurt ottimo la frutta può arrivare al 18%, in uno scadente
non arriva al 6%; gli aromi fanno il resto.
Gusto – L’ultima cosa che dovete fare è quindi fidarvi del gusto: se un prodotto è buono non è
detto che sia di ottima qualità. È ormai facilissimo, usando aromi, esaltatori di sapidità
(glutammato), additivi (polifosfati), ottenere prodotti decisamente appetibili.
Accordi commerciali? – La favola della bontà dell’accordo commerciale con il produttore X per
avere un prezzo inferiore è banalmente contraddetta dalle regole dell’economia. Qualunque grande
catena di supermercati vende molto di più delle piccole catene di discount. Se in un discount
trovate un prodotto che costa di meno che in un supermercato normale (parliamo dello stesso
prodotto, non di uno equivalente), osservate la data di scadenza: nel discount è sempre molto più
breve. Si potrebbe obiettare che ciò non è significativo perché se il tal prodotto scade fra tre mesi
o fra un anno poco importa, visto che lo consumo oggi. In realtà la data di scadenza non risponde
alla logica del sì o del no. Un prodotto più fresco di un altro è sempre migliore. Provate con il
formaggio scegliendo una ricotta a un giorno dalla scadenza e la stessa marca a dieci giorni dalla
scadenza. La data di scadenza non sempre è indice di degrado del prodotto dal punto di vista
igienico; spesso è indice del degrado del gusto. Molti prodotti con il tempo perdono acqua e,
diventando più secchi, diventano decisamente meno buoni. Provate con barrette alimentari vicine
alla scadenza e capirete il reale significato della data di scadenza.

La cucina ASI
Quando nel 2003 ho proposto il modello alimentare della dieta italiana, ho introdotto il concetto

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di cucina ASI (definendola come cucina Appetibile, Saziante e Ipocalorica) che doveva risolvere
il difficile rapporto fra gusto e salute. La dieta italiana mette in guardia da posizioni molto
semplicistiche che pensano di risolvere il problema della fame con ripartizioni opportune di
macronutrienti o con combinazioni ottimali di cibi e suggerisce che “olio, zucchero e burro
devono essere impiegati nella quantità minima tale da soddisfare la preparazione di piatti ASI”.
Questo è stato il punto di partenza. Grazie all’opera di diversi chef, è stato possibile arrivare a
dimostrare che il concetto di cucina ASI non è utopia, ma può essere implementato da tutti e con
facilità (Il manuale completo della cucina ASI, ed. THEA,
http://www.albanesi.it/ecommerce/cucinaasi.htm).
Nel testo sulla cucina ASI troverete non solo le ricette ASI, ma soprattutto le tecniche, nuove e in
parte rivoluzionarie, per cucinare piatti ASI. Qui ci limiteremo a descrivere tale tipo di cucina.
La prima cosa che abbiamo studiato è stata la definizione in termini quantitativi della cucina ASI;
ci siamo resi conto che la sazietà di un piatto complesso (cioè cucinato) non poteva essere
ricondotta facilmente ai suoi alimenti base (gli ingredienti), né al suo contenuto calorico, né
ovviamente al gusto, elemento che spesso fa fallire ogni proposito salutistico. Era però possibile
combinare gusto, calorie e sazietà con un percorso che comprendesse obbligatoriamente tutti e tre
i fattori considerati.
Il nostro viaggio comincia dalla salute: un piatto per essere salutista non può essere ipercalorico,
anzi. Si continua per la psicologia dell’alimentazione: un piatto ipocalorico deve essere saziante;
se non lo fosse, sarebbe frustrante perché assocerebbe l’idea di dieta al concetto di sofferenza
della fame. Infine si arriva all’arte dello chef: la cucina ASI ridefinisce anche il concetto di abilità
culinaria. Ci sono migliaia di persone che per diletto o per professione sanno (o pensano di
sapere) cucinare: tutti noi abbiamo amici o amiche che senza essere professionisti sanno preparare
piatti deliziosi. Quindi, se le cose stessero così, cucinare non sarebbe certo un’arte. Né
varrebbero le motivazioni dell’alta cucina in cui si ingigantiscono i pregi di molti piatti solo
offrendo all’assaggiatore microporzioni (fra l’altro costosissime) dove si cercano alchimie
stratosferiche i cui risultati risulterebbero dubbi se la porzione offerta fosse normale e se lo chef
non giocasse sul senso di fame dell’assaggiatore. Proviamo però a pensare ai vincoli della cucina
ASI e immaginiamo una gara culinaria in cui gli chef debbano rispettare certi vincoli calorici e di
sazietà. Solo i migliori riusciranno a ottenere risultati apprezzabili. Quindi: la cucina ASI è
veramente il banco di prova per tutti coloro che vogliono una certificazione della loro abilità
culinaria.
Con gli chef abbiamo studiato limiti calorici ragionevoli per non deprimere la loro creatività e
nello stesso tempo avere ricette ipocaloriche e sazianti. Il campo di ricerca della cucina ASI
comprende solamente quelle pietanze che non sono sazianti di per sé: sono perciò esclusi i
contorni, ovvero i piatti di sole verdure. Non vengono contemplati dalla cucina ASI nemmeno i
piatti non cucinati, ovvero quelli costituiti da singoli alimenti o da gruppi di alimenti senza
elaborazione culinaria (come gli antipasti).
I vincoli calorici fissati dalla cucina ASI sono i seguenti:

•• primi piatti: 100 alb


•• zuppe e minestre: 50 alb
•• secondi piatti: 100 alb
•• dolci freddi: 150 alb
•• dolci da forno: 300 alb.

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La cucina ASI ha poi definito anche i valori numerici in un modo molto semplice per mangiare in
modo appetibile, saziante e ipocalorico: il piatto unico. Per la cucina ASI tale piatto deve
ispirarsi a una delle regole della dieta italiana: “carboidrati: minimo 45%, proteine: minimo 15%,
grassi: minimo 25%” e avere una densità calorica inferiore a 150 alb. La maggior densità calorica
rispetto a primi e secondi è giustificata dal fatto che il piatto unico, per sua stessa definizione, è il
solo componente il pasto (un piatto unico utilizzato come primo o secondo insieme ad altre portate
non è più ASI). A causa della mancanza di varietà, ha in media una sazietà maggiore che consente
di utilizzare una maggiore densità calorica.

Confronto fra cucina ASI e cucina dietetica tradizionale


La cucina dietetica (o light o ipocalorica) tradizionale ha sempre analizzato il problema del
sovrappeso monodimensionalmente, cioè considerando solo le calorie. È questa la causa
principale del suo fallimento. Insalatone giganti, piatti senza gusto, porzioncine minime: avendo un
solo parametro, cadeva sempre sul gusto o sulla sazietà. Non esistono trucchi per limitare
l’assunzione calorica se non quello di giocare con le calorie del piatto. Non a caso ancora oggi
molti sono convinti (vedasi la vecchia proposta del ministro della Salute ai ristoratori) che
limitare le porzioni sia uno stratagemma efficace. In realtà non lo è e rischia di essere un
boomerang se non si adottano anche in questo caso criteri quantitativi.

La limitazione della porzione


È abbastanza evidente che la porzione rappresenta un eventuale sottomultiplo dell’assunzione
alimentare. Limitare le porzioni non è certo una grande trovata se c’è la possibilità del bis o del
tris. In un ristorante porzioni più piccole incentivano chi ha fame a iniziare anche dagli antipasti o
a finire con un dolce che altrimenti avrebbe saltato, se sazio dopo il primo o il secondo.
Con le stesse finalità, molte pubblicità di prodotti alimentari inducono all’acquisto con frasi del
tipo “solo 95 kcal”. È ovvio che diminuendo la porzione, qualunque alimento, anche il più
calorico, diventa accettabile (più corretto è riferirsi alla densità alimentare cioè alle calorie per
100 g di alimento): uno snack di sole 80 kcal è accettabile, ma probabilmente lascerà una fame
incredibile.
Piccole porzioni sollecitano quindi a consumare n pezzi del prodotto con conseguente
vanificazione delle intenzioni di ipocaloricità. È necessario pertanto avere porzioni non troppo
piccole, ma nemmeno troppo grandi, evitando il fenomeno del bis. Per esempio, per un primo una
porzione da 200 kcal sarebbe assolutamente inefficace perché si potrebbe fare il bis magari
diversificando la scelta (una pasta e un risotto), mentre una da 600 kcal sarebbe eccessiva di per
sé. Stando sulle 300-400 kcal si rende meno probabile la richiesta del bis e si controllano le
calorie. Pertanto la cucina ASI pone le seguenti limitazioni:

•• primi e secondi: porzioni da 250 a 400 kcal, a seconda della sazietà.


•• Zuppe e minestre: porzioni da 150 a 300 kcal a seconda della sazietà.
•• Dolci freddi: porzioni da 150 a 300 kcal, a seconda della sazietà.
•• Dolci da forno: da 250 a 400 kcal, a seconda della sazietà.
•• Per i piatti unici non c’è limitazione sulla porzione.

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Le caratteristiche della preparazione
La cucina ASI non è solo una cucina dietetica o una cucina gustosa, vuole essere soprattutto una
cucina pratica, da utilizzare ogni giorno. L’aspetto della praticità porta con sé alcune
caratteristiche irrinunciabili: la loro presenza contemporanea nella cucina ASI è un ulteriore plus
di questo modello culinario.
Velocità - Se si vuole fare in modo che un modello di cucina sia utilizzato da gran parte della
popolazione, è necessario che le ricette siano veloci. Chi non è particolarmente appassionato di
cucina trova disincentivante perdere ore per preparare un piatto, per quanto succulento possa
essere. Anche nella ristorazione il tempo di preparazione di una ricetta è fondamentale. Pertanto
un piatto dovrebbe richiedere non più di 30-40’, solo così diventa un piatto universale.
Reperibilità degli ingredienti - Un altro forte ostacolo alla diffusione di un modello culinario è la
reperibilità degli ingredienti. Non c’è nulla di più deludente che leggere gli ingredienti di una
buona ricetta e scoprire che ci vogliono ore di ricerca per trovare gli ingredienti meno comuni.
Anche se nelle città esistono ormai supermercati dove si trova di tutto, spesso non sono facilmente
accessibili e, anche quando lo sono, la ricerca di ingredienti particolari richiede di passare molto
tempo fra gli scaffali.
Numero degli ingredienti - Ovviamente non basta che gli ingredienti siano comuni, occorre che
siano anche pochi. Ricette con decine di ingredienti possono essere molto professionali, ma poco
adatte a chi non è espertissimo. Non sempre sono chiari l’importanza e il ruolo dei vari ingredienti
nella ricetta per cui classicamente si finisce per ritoccare (con esiti a volte disastrosi)
l’impostazione originaria, eliminando senza logica gli ingredienti che non abbiamo!
Facilità di preparazione - Questo aspetto è considerato importante da moltissimi manuali di
cucina e la cucina ASI non fa altro che riproporlo come una delle caratteristiche principali del
cucinare moderno. Una ricetta vincente deve essere preparata da chiunque abbia l’interesse a
farlo, ottenendo un piatto di qualità almeno sufficiente.

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Capitolo 3 - I carboidrati
Le sostanze che forniscono all’organismo l’energia necessaria per vivere sono dette
macronutrienti. Esistono tre tipi di macronutrienti: carboidrati, lipidi e proteine. Ogni tipologia
ha caratteristiche proprie e viene gestita dal nostro corpo secondo modalità differenti. In questo
capitolo inizieremo studiando i carboidrati.
I carboidrati sono detti anche glucidi o, più modernamente, glicidi. Sono sostanze organiche
costituite da carbonio, idrogeno, ossigeno, con formula generale Cx(H2O)y ; ogni grammo di
carboidrati fornisce quattro calorie e a seconda del numero di zuccheri semplici presenti nella
formula si suddividono in monosaccaridi, disaccaridi e polisaccaridi. Sono presenti in modo
consistente nei tessuti dei viventi con funzione energetica attraverso il processo di respirazione;
inoltre, hanno funzione di riserva (amido, glicogeno) e di sostegno (cellulose, emicellulose ecc.
dei vegetali, chitina degli Insetti). Si originano nelle piante dall’anidride carbonica dell’aria e
dall’acqua del suolo tramite l’energia solare in presenza di clorofilla (fotosintesi). Dal punto di
vista chimico sono alcoli polivalenti, cui si collegano una funzione chetonica o una aldeidica.
Sono stati identificati più di duecento monosaccaridi formati da una sola molecola di zucchero
semplice. I più importanti monosaccaridi sono il glucosio (la cui concentrazione nel sangue è
detta glicemia), il fruttosio e il galattosio.
I disaccaridi (per esempio il saccarosio e il lattosio) sono formati dall’unione di glucosio e di un
altro monosaccaride.
I polisaccaridi sono carboidrati complessi (fino a migliaia di zuccheri). Fra quelli di origine
vegetale è da ricordare l’amido; sono importanti polisaccaridi anche le fibre che, pur non essendo
digerite né assorbite dall’organismo, giocano un ruolo essenziale nell’alimentazione. Fra i
polisaccaridi di origine animale sicuramente il più importante è il glicogeno; infatti
nell’organismo sono presenti circa 350-500 g di carboidrati, quasi tutti sotto forma di glicogeno:
250-400 g nei muscoli e 80-100 g nel fegato.
Meno dell’1% è rappresentato da glucosio circolante nel sangue. Il glicogeno è un polisaccaride
formato da una lunga catena di molecole di glucosio. Nel fegato si hanno catene più lunghe
(30.000 molecole di glucosio, quasi cento volte il numero di quelle che si trovano nella farina),
nei muscoli più corte (circa 6.000 molecole) e più leggere. Durante uno sforzo muscolare (per
esempio una corsa) i muscoli utilizzano la loro riserva di glicogeno. Contemporaneamente il
fegato rilascia una parte del suo, parte che viene trasformata in glucosio che passa nel sangue e
viene utilizzato sia come energia diretta sia come fonte per la ricostruzione del glicogeno
muscolare. Sangue, muscoli e fegato si scambiano le fonti energetiche, convertendole e
riconvertendole a seconda delle necessità e delle possibilità dei vari processi coinvolti.
Le scorte di carboidrati possono fornire all’organismo circa 2.000 calorie (pari a circa 500 g di
glicogeno), una quantità paragonabile alla spesa energetica di una corsa di 30 km. Solo il
glicogeno del fegato può essere scomposto in glucosio e liberato nel sangue, in modo da servire
gli organi, principalmente il cervello.

Il fabbisogno di carboidrati
Il fabbisogno giornaliero di glucosio per il cervello e per il sangue (cioè quello primario) è di
circa 180 g (720 calorie) per un uomo del peso di 70 kg. Per esprimere il fabbisogno glicidico
essenziale in grammi si può proporre la seguente formula (P è il peso):

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FG=2,6*P.

I carboidrati vengono utilizzati per produrre energia in attività di una certa intensità, sia sportive
sia lavorative. A stretto rigore di logica, per un sedentario il fabbisogno di carboidrati si riduce a
poco più di quello essenziale, mentre per uno sportivo o per chi ha un lavoro molto faticoso (per
esempio un traslocatore) tale fabbisogno cresce nettamente.
I carboidrati assunti in eccesso vengono trasformati in grasso secondo il meccanismo descritto nel
Capitolo 7. Se invece l’apporto di glucosio con le scorte è insufficiente, la glicemia si abbassa
(ipoglicemia) e la sofferenza cerebrale può manifestarsi con capogiri e senso di spossatezza. Se il
glucosio scarseggia e non c’è sufficiente apporto di carboidrati, il fegato sintetizza glucosio da
proteine e da lipidi con un processo denominato gluconeogenesi. Tale processo provoca però un
eccesso di urea (con sovraccarico renale) e un accumulo di corpi chetonici (scorie provenienti
dall’utilizzo degli acidi grassi) con conseguente acidosi. Per riassumere: un eccesso di carboidrati
provoca un aumento di peso e un’iperinsulinemia che a sua volta innesca altri processi negativi;
una carenza dei carboidrati rende particolarmente difficile il rifornimento di glucosio
all’organismo, soprattutto per i lavori di una certa intensità.

Indice e carico glicemico


L’indice glicemico (Appendice 1) di un carboidrato esprime la velocità con cui aumenta la
glicemia in seguito all’assunzione di 50 g del carboidrato sotto esame. L’indice è espresso in
termini percentuali, rapportandolo alla velocità di aumento con la stessa quantità di glucosio
(indice pari a 100): un indice glicemico di 50 vuol dire che l’alimento innalza la glicemia con una
velocità che è la metà di quella del glucosio. La definizione di indice glicemico ha portato alla
ridicola demonizzazione di alcuni cibi (come per esempio banane, carote, patate) prima che si
capisse che ciò che conta è sempre l’aspetto quantitativo del problema definito dal carico
glicemico. In altri termini, come per ingrassare conta la quantità di alimento che si mangia, così
per l’attivazione del meccanismo dell’insulina conta la quantità di cibo glicidico che si assume: il
fruttosio ha un indice glicemico che è un terzo di quello dello zucchero comune, ma 30 g di
fruttosio provocano un rilascio insulinico maggiore di 8 g di zucchero. Pertanto è fondamentale
capire la definizione di carico glicemico, ottenuto moltiplicando la quantità del carboidrato
considerato per il suo indice glicemico. 30 g di fruttosio danno un carico di 30*23=690 mentre 8 g
di zucchero danno 8*67=536.
Con un’analogia, l’indice glicemico sta al carico glicemico come il peso specifico sta al peso di
un materiale. Il peso specifico del ferro è maggiore di quello dei mattoni, ma è meno doloroso se
ci cade sul piede una moneta di ferro che un mattone!
Il paragone fra fruttosio e zucchero è però troppo semplice perché entrambi sono carboidrati puri.
Cosa accade quando consideriamo due alimenti diversi A e B? Occorre moltiplicare l’indice
glicemico per la quantità di carboidrati in essi contenuti.
Per esempio, confrontiamo 500 g di uva con 50 g di biscotti secchi. L’uva ha indice glicemico
circa 55, mentre i biscotti circa 65.
I 500 g di uva contengono circa 75 g di carboidrati quindi il carico glicemico è 75x55= 4.125.
I 50 g di biscotti contengono circa 35 g di carboidrati quindi il carico glicemico è 35x65= 2.275,
nettamente inferiore a quello dell’uva.
Il semplice esempio mostrato indica come possa essere fuorviante generalizzare (per esempio

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ritenere che la frutta sia sempre meglio dei biscotti) senza verificare di volta in volta il caso
particolare (tipo di alimento e quantità).

Il grande abbaglio dell’indice glicemico


Nella tabella degli indici glicemici (Appendice 1) sono codificati circa 1.700 alimenti (a fine
appendice un brevissimo sunto). Per capire come sia insulso cercare di basare l’alimentazione
solo sugli indici glicemici, basta consultarla!
Infatti si scopre che l’indice glicemico di un alimento dipende da:

•• varietà (per esempio le diverse varietà di un frutto hanno indice glicemico diverso);
•• tempo di raccolta (un frutto acerbo ha un indice glicemico diverso da quello di un frutto molto
maturo);
•• zona geografica di produzione (per esempio una mela coltivata in Danimarca o in Italia);
•• modalità di produzione (per esempio i vari prodotti “industriali”);
•• il contenuto di grassi e di proteine (per esempio il gelato);
•• il contenuto in fibre (per esempio i veri corn flakes, ricchi di fibre, vs. i corn flakes più calorici
molto più simili ai biscotti);
•• la conservazione e l’essiccazione;
•• il metodo di cottura (per esempio bollire o cuocere al forno varia l’indice glicemico);
•• la durata della cottura (per esempio pasta al dente o leggermente scotta);
•• gli altri ingredienti della ricetta (la pasta al pesto avrà indice glicemico diverso da quello della
pasta al pomodoro).

Esempi di variabilità dell’indice glicemico:

•• Il caso più eclatante è quello del pane. In Messico usano speciali inibitori enzimatici e si
ottiene un pane che varia attorno a 30 come indice glicemico; la baguette francese è invece attorno
ai 100 con 110 come massimo. La media è attorno a 70, ma è una media che dice poco...
•• Stessa cosa per le patate; se al forno il loro indice glicemico varia da 56 a 111 (media dei casi
a 85±12); se bollite, varia da 56 a 101 (molte tabelle riportano solo quest’ultimo dato!).
•• Per citare un frutto, l’indice glicemico della banana varia da 30 a 75 con una media di 52 circa.
Si noti come anche gli altri frutti varino piuttosto pesantemente.
•• L’indice glicemico del riso varia da 48 a 112 (bollito 13 minuti, dato di un prodotto italiano),
ma si scopre che il valore dipende decisamente dalla varietà: per l’Arborio del nostro classico
risotto siamo a 69±7.
•• Si noti come anche alcune bevande (come Coca Cola, Fanta, Gatorade) siano variabili.
•• Una varietà di latte intero italiana è stata recensita a indice glicemico uguale a 11, meno della
metà della media.
•• Eclatante anche il caso del miele il cui indice glicemico varia da un tipo a 32 a un altro a 95.

E questi non sono che alcuni esempi...


Praticamente nelle tabelle che si trovano comunemente vengono passate le medie con la stessa
precisione scientifica dell’esempio del mezzo pollo a testa con il poveraccio che muore di fame
perché il pollo intero me lo sono mangiato io.

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In pratica è veramente difficile sapere con esattezza l’indice glicemico degli alimenti che
entrano nella nostra alimentazione.

Quindi la dieta italiana ritiene ortoressico considerare l’indice glicemico alla base della propria
alimentazione (vedasi dieta di Montignac e le indicazioni di altri modelli o di ambienti
salutistici): basta il semplice vincolo del sovrappeso per non avere problemi. In altri termini,
basta essere magri!
Dovrebbe essere chiaro che per la glicemia l’indice glicemico ha un’importanza decisamente
inferiore a quella che normalmente gli si attribuisce. Solo per i diabetici è fondamentale. Per la
persona sana è molto più importante non abbuffarsi di carboidrati.
Come vedremo nel paragrafo Perché s’ingrassa, nel Capitolo 7, il livello del glucosio nel sangue
è controllato dall’insulina: un’assunzione di carboidrati produce un aumento della glicemia e
innesca il rilascio dell’insulina che riequilibra la situazione. Il picco insulinico è tanto maggiore
quanto più alto è il carico glicemico dei carboidrati assunti.

L’attività fisica
Per trattare moltissime patologie si associa la dieta all’attività fisica; oggi anche una semplice
visione salutista della vita lo fa (quindi in soggetti perfettamente sani). Nonostante ciò, molti
modelli alimentari continuano a rivolgersi indistintamente a sedentari o a persone attive. E
falliscono. L’esperienza porta a enunciare subito fra le novità più importanti della dieta italiana
che:

(6) non è possibile seguire un’alimentazione corretta senza praticare un’attività fisica continua
e di intensità non trascurabile.

Vedremo più avanti (Appendice 7) le motivazioni scientifiche. Per ora limitiamoci a quelle
pratiche e psicologiche.
Se un soggetto è giovane, a causa del suo metabolismo, spesso non ha problemi di sovrappeso.
Consideriamo però un soggetto che:

A. ha fra i 30 e i 60 anni;
B. ha un lavoro sedentario;
C. ha una situazione psichica e fisica nella normalità.

Il punto a) fa riferimento all’insieme dei soggetti in cui il metabolismo comincia a diminuire (dai
30 anni), ma sono ancora sufficientemente giovani da essere ragionevolmente immuni dai sintomi
più gravi di malattie croniche (se si considerasse l’insieme degli ottantenni si scoprirebbe un
insieme sostanzialmente magro perché l’obesità ha “selezionato” il campione, in altri termini sono
rimasti quasi solamente i normopeso).
Il punto b) è ovvio: un lavoro fisicamente attivo (per esempio un traslocatore) può essere del tutto
equivalente a un’attività sportiva. Purtroppo l’impiego di macchine riduce sempre più il numero
dei lavori fisicamente attivi: non basta tornare stanchi alla sera per affermare che il proprio
lavoro è fisicamente attivo (la stanchezza può essere semplicemente psicologica o fisica, ma senza
dispendio di calorie: se si sta in piedi per un’ora alla fine si è stanchi, ma le calorie bruciate sono
molto poche!).

29
Sul punto c) si deve riflettere un attimo. Se il soggetto vive in una situazione di stress (familiare,
lavorativo ecc.) o per altri motivi non è psichicamente al meglio (è un soggetto ansioso, depresso
o eccessivamente euforico) sicuramente distoglierà gran parte delle sue attenzioni
dall’alimentazione (salvo usarla come valvola di sfogo, vedasi il caso della bulimia) e potrà
essere magro seguendo anche un’alimentazione casuale. Un altro caso da considerare è quello di
chi ha disfunzioni ormonali (per esempio tiroidee) per cui può abbuffarsi senza problemi di
sovrappeso. Ovvio che i soggetti che non soddisfano il punto c) non possono entrare nel campione
da considerare; per fortuna rappresentano una piccola, anche se non trascurabile, parte della
popolazione.
Il soggetto che soddisfa i tre punti sopraccitati lo definiremo soggetto standard: è a questo che un
modello alimentare deve rivolgersi.
Ebbene, la probabilità che un soggetto standard sia normopeso (nel senso stretto del termine, cioè
non considerando normali 3-4 kg in più solo perché il soggetto ha per esempio 40 anni) è
decisamente bassa se è completamente sedentario. Dai dati che ho raccolto non supera il 10%.
Anziché proporre visioni punitive dell’alimentazione a soggetti sedentari standard, è più semplice
prendere atto della realtà e accettare la (6) come presupposto di ogni regime alimentare che vuole
arrivare a risultati concreti. Vedremo nel Capitolo 7 come l’attività fisica può contrastare il
sovrappeso.

E la dieta mediterranea?
La relazione fra dieta italiana e dieta mediterranea apparirà subito abbastanza chiara dicendo che
la dieta italiana può essere considerata una forma restrittiva della dieta mediterranea, proprio
come l’Italia è “uno” dei Paesi dell’area mediterranea. In particolare, la dieta italiana è
compatibile con la mediterranea, ma non viceversa. L’ortoressia positiva della dieta mediterranea
ha santificato alcuni cibi, nettamente sopravvalutandoli (spesso anche per interessi commerciali e
di campanilismo). In sostanza la dieta mediterranea è una visione troppo semplicistica
dell’alimentazione che ha avuto successo in quanto tale, dando l’illusione che mangiare cibi sani
sia garanzia di salute. In realtà la dieta italiana va molto oltre e vuole essere il punto di arrivo del
viaggio iniziato con la mediterranea.
Potremmo dire che

la dieta italiana è una versione quantitativamente corretta della dieta mediterranea.

In altri termini, mette e spiega quei numeri che sono assenti nella dieta mediterranea, con la banale
constatazione che senza numeri nessun modello alimentare può dirsi scientifico.

L’amido

L’amido (dal greco al greco amilon, “non macinato”) è, insieme a glicogeno e cellulosa, uno dei
principali polisaccaridi (i carboidrati complessi più rappresentati in natura); l’amido è costituito
da un notevole numero di unità di glucosio che sono legate fra loro da un legame glicosidico; esso
rappresenta la principale riserva energetica delle piante, in esse l’amido è concentrato in
particolar modo nei tuberi e nei semi, ma anche nei frutti.
Chimicamente l’amido è un carboidrato complesso costituito da due polimeri del glucosio,

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l’amilosio e l’amilopectina. Viene rappresentato con la formula (C6H10O5)n. Il numero n
rappresenta il numero dei residui di glucosio che sono uniti tra loro a formare le macromolecole
dei vari amidi. Detto numero varia da un amido all’altro (diverso è per esempio nell’amido di
riso rispetto a quello di patate); il valore medio di n è di qualche centinaia.
L’amido viene sintetizzato nelle piante a partire dal glucosio che, a sua volta, viene prodotto dalla
fotosintesi clorofilliana (il complesso processo di riduzione biologica grazie al quale le piante
verdi e altri organismi possono produrre sostanze organiche -soprattutto glicidi- a partire da
composti inorganici semplici -anidride carbonica e acqua- in presenza di luce solare); di seguito
sono visibili tali processi:

anidride carbonica + acqua + luce --> glucosio + ossigeno


ovvero 6 CO2 + 6 H2O + luce --> C6H12O6 + 6 O2

La formazione dell’amido (ovvero l’unione di amilosio e amilopectina) è catalizzata da un enzima


noto come amido sintetasi. Per ogni due molecole di glucosio che si legano, viene eliminata una
molecola d’acqua:

glucosio + enzima (amido sintetasi) --> amido + acqua


ovvero n C6H12O6 + enzima (amido sintetasi) --> H-(C6H10O5)n -OH + n-1 H2O

L’amilosio è un carboidrato complesso formato da catene di glucosio da 600-3.000 unità con


legame alfa 1,4 e caratterizzato da una struttura lineare. L’amilosio costituisce circa il 20% del
totale dell’amido.
L’amilopectina è un carboidrato complesso formato da catene di glucosio da 6.200-62.000 unità
con legame alfa 1,6 e caratterizzato da una struttura ramificata. L’amilopectina costituisce circa
l’80% dell’amido.
La proporzione di amilosio e amilopectina varia comunque da pianta a pianta; nelle patate per
esempio è, percentualmente parlando, di 21-79, nel frumento 25-75, nel mais 27-73 e nella tapioca
17-83.
Sia l’amilosio che l’amilopectina, opportunamente trattati, sono in grado di scindersi in singole
unità di glucosio. Lo stesso tipo di reazione avviene nell’organismo umano a opera di varie
tipologie di enzimi (amilasi, destrinasi, maltasi, ptialina ecc.) grazie al contributo degli acidi
gastrici.
In natura l’amido è disponibile sotto forma di granuli e la digeribilità di questo carboidrato
complesso è inversamente proporzionale alla grandezza dei granuli e direttamente proporzionale
alla quantità di amilopectina (la cui struttura, lo ribadiamo, è ramificata); granuli di piccole
dimensioni (che nel caso dell’amido possono andare da 0,1 a 200 mm) e con molte ramificazioni
risultano più facilmente attaccabili dagli enzimi deputati alla digestione. La digeribilità
dell’amido aumenta anche nel caso in cui esso sia sotto forma gelatinizzata; come detto, in natura
l’amido è presente sotto forma di granuli e, a temperatura ambiente, è quasi totalmente insolubile
in acqua; attraverso un aumento della temperatura è possibile effettuare una solubilizzazione
parziale dell’amido che porta alla formazione di un gel che risulta più facilmente digeribile a
causa della disorganizzazione strutturale che l’amido ha subito.
Al contrario, quando i cibi amidacei vengono raffreddati, le molecole di amido in essi presenti si
riorganizzano e la digeribilità diminuisce; il tipico esempio è quello del pane; è infatti noto a tutti
che il pane raffermo è molto meno digeribile di quello fresco. In seguito al processo di

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ricristallizzazione si ha la formazione di granuli di amido resistente che sono praticamente
digeribili e che, per certi versi, possono essere paragonati a fibre alimentari.
Un grammo di amido apporta circa 4,2 kcal.

Utilizzi dell’amido
Gli utilizzi dell’amido sono molteplici e investono diversi settori industriali. Per quanto concerne
l’industria alimentare, le principali fonti da cui si ricava l’amido sono il grano, il mais, le patate,
il riso e la tapioca; buone fonti di amido sono anche i fagioli. L’uso principale dell’amido in
ambito alimentare è quello di agente addensante. Nell’industria farmaceutica l’amido viene
generalmente utilizzato come eccipiente.
Nell’industria cartiera l’amido viene utilizzato per produrre carta, cartone e colle (salda
d’amido).

Il fruttosio
Il fruttosio (noto anche come levulosio) è un monosaccaride (i monosaccaridi sono gli zuccheri
cosiddetti semplici) che si trova nella stragrande maggioranza dei frutti zuccherini, nel miele e
anche in alcune verdure; combinato con il glucosio forma un disaccaride noto come saccarosio,
ovvero il comune zucchero da cucina. Due delle caratteristiche che lo rendono diverso dal
saccarosio sono il suo indice glicemico (decisamente più basso; ricordiamo che il fruttosio è uno
dei carboidrati con l’indice glicemico più basso) e il suo potere dolcificante (superiore di circa
un terzo rispetto a quello del saccarosio).
Negli ultimi tempi il fruttosio viene decisamente chiacchierato e sono molti quelli che cominciano
a dubitare sull’opportunità del suo utilizzo; utilizzo che rispetto a quello che se ne faceva nei primi
anni del XX secolo è decisamente aumentato (è praticamente quadruplicato).
Generalmente il fruttosio viene “associato” alla frutta e, in effetti, come accennato all’inizio, il
fruttosio è uno dei carboidrati che i frutti zuccherini contengono in abbondanza. Non è però solo
dalla frutta che deriva la nostra assunzione giornaliera di questo carboidrato, bensì dallo sciroppo
di mais ricco di fruttosio, noto anche come HCFS (acronimo dei termini High Fructose Corn
Syrup) e dal saccarosio.
HCFS - È dal 1984 che l’industria delle bibite analcoliche ha adottato l’HCFS come dolcificante
principale dei propri prodotti e le ragioni economiche hanno avuto la loro notevole parte in questa
scelta. Cerchiamo di capire perché. Il saccarosio viene estratto dalla canna da zucchero, mentre lo
sciroppo di mais ricco di fruttosio viene ovviamente estratto dal mais; entrambi gli zuccheri sono
utilizzati dall’industria alimentare, ma negli USA il prezzo dello zucchero di canna è molto più
alto di quello del mais (viene iperprodotto perché viene utilizzato anche come mangime per gli
animali) e, conseguentemente, la produzione di HCFS è decisamente più conveniente. Perché
quindi utilizzare saccarosio per dolcificare le bevande quando era possibile utilizzare un prodotto
decisamente meno costoso? Ovvio che la scelta cadesse sullo sciroppo di mais ricco di fruttosio.
Il fatto che nell’ultimo trentennio l’obesità sia diventata un problema endemico ha fatto sì che
molti ritenessero che potesse esserci un’associazione fra obesità e aumentato consumo di fruttosio.
Da alcune indagini fatte si è visto che mediamente un soggetto assume giornalmente circa 80
grammi di zuccheri aggiunti (circa 320 calorie giornaliere quindi); circa il 50% di questi zuccheri
sono rappresentati dal fruttosio.
Ma perché si è obesi? Forse a causa di un cattivo regime alimentare? Forse perché viene svolta

32
poca attività fisica? Oppure perché vi è a tutti i livelli una massiccia assunzione di fruttosio?
La tesi che vuole il fruttosio quale responsabile dell’obesità viene rifiutata dalle industrie
alimentari (se fosse vera, ciò costerebbe loro miliardi di dollari). Rispondere alle domande
soprariportate non è banale, ma una cosa è possibile affermare, l’aumento del consumo di
sciroppo di mais ricco di fruttosio non facilita le cose nella dura lotta contro l’obesità, anzi.

Fruttosio e glucosio
La maggior parte dei carboidrati che assumiamo vengono trasformati in glucosio quando arrivano
nel flusso sanguigno. I meccanismi con i quali il fruttosio viene assorbito a livello intestinale si
differenziano da quelli attraverso i quali viene assorbito il glucosio e perdipiù il fruttosio viene
assorbito molto più lentamente. Contrariamente a quanto accade con il glucosio, il fruttosio non
stimola un notevole rilascio di insulina.
Non tutte le persone tra l’altro sono in grado di assorbire totalmente il fruttosio se questo viene
assunto in quantità notevoli (per esempio circa 50 g, una quantità certamente non minimale, è come
se mangiassimo 5 mele, non sempre semplicissimo; meno difficoltoso assumerlo con 450 ml di
succo frutta dolcificato che ne apporta circa 45 g!).
Il problema relativo al malassorbimento del fruttosio colpisce molte persone (secondo alcune
stime interessa circa il 40% dei nordamericani e degli europei); non è un problema di poco conto
perché nell’intestino di questi soggetti rimangono notevoli quantità di fruttosio (le loro cellule
intestinali sono prive di trasportatori di fruttosio) con conseguenti meteorismo, flatulenza e
diarrea.
Un modo di accelerare l’assorbimento di fruttosio è quello di miscelarlo con il glucosio; è il
tipico caso delle bevande sportive che presentano un mix di questi due carboidrati.
Insomma, fra fruttosio e glucosio esistono alcune differenze sia per quanto riguarda il loro
assorbimento, il modo nel quale vengono digeriti e il modo in cui vengono metabolizzati
dall’organismo.

Cosa succede quando il fruttosio arriva nel fegato?


Nell’organo epatico il fruttosio può avere comportamenti diversi; può per esempio convertirsi in
sostanze derivate del glucosio e depositarsi come glicogeno epatico, una cosa che nei soggetti che
praticano un’intensa attività fisica è decisamente positiva; sfortunatamente la capacità dell’organo
epatico di effettuare la conversione di fruttosio in derivati del glucosio non è illimitata e ciò può
creare diversi problemi perché, se l’assunzione di fruttosio è eccessiva, il fruttosio che arriva nel
fegato può essere trasformato in grasso (ciò può verificarsi in particolar modo nei soggetti affetti
da ipertrigliceridemia, resistenza all’insulina o diabete di tipo 2.
Una delle cose che spesso vengono ritenute positive è il fatto che i livelli ematici di fruttosio non
provocano una risposta ormonale immediata; meno positivo è il fatto che un’alta assunzione di
fruttosio, pur essendo in grado di stimolare la sintesi dei lipidi, non è in grado di stimolare la
produzione di leptina; la riduzione della produzione di questo ormone può avere effetti
decisamente deleteri.
Quindi: il fruttosio ha un indice glicemico basso, nelle persone che praticano un’intensa attività
fisica favorisce il ripristino delle scorte di glicogeno epatico, ma se assunto in quantità eccessiva
può creare diversi problemi di cui alcuni non di poco conto. Sembra naturale quindi porsi la
domanda che dà il titolo al paragrafo seguente.

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Il fruttosio fa male?
Ha suscitato notevole (e immeritato) scalpore una relativamente recente ricerca del Centro
galiziano per la Ricerca Biomedica in Fisiopatologia della Obesità e della Nutrizione che ha
correlato l’abuso di fruttosio con gravi alterazioni del metabolismo.
La ricerca - L’ingestione di grandi quantità di fruttosio negli animali da laboratorio per un tempo
sufficientemente prolungato provoca una resistenza alla leptina, l’ormone proteico che regola il
livello di lipidi nel sangue. Ciò ovviamente può favorire l’obesità.
Inoltre aumenterebbe anche la resistenza all’insulina, cosa particolarmente critica per i diabetici.
Infine l’abuso di fruttosio provoca un aumento dei trigliceridi nel sangue e abbassa il colesterolo
buono, aumentando il rischio di malattie cardiovascolari.
Una valutazione - Dare megadosi di una sostanza per un tempo prolungato è il miglior modo di
ottenere effetti negativi, qualunque sia la sostanza! Persino l’acqua può essere mortale se assunta
in dosi eccessive (iponatriemia, eccessiva diluizione che riduce i livelli di sodio nel sangue). La
ricerca è banale perché si sa già che l’eccesso di qualsiasi sostanza nutritiva (anche benefica)
porta alla disfunzione metabolica.
Pertanto per chiunque segua un’alimentazione equilibrata la ricerca non ha spessore pratico. Come
suggerisce la regola della dieta italiana (Per chi è normopeso non esistono cibi buoni e cibi
cattivi), non è possibile abbuffarsi di fruttosio senza ingrassare e quindi avere i problemi citati
dalla ricerca.
Infatti, come abbiamo visto nei paragrafi iniziali, il fruttosio si assume non solo dalla frutta, ma
anche dallo sciroppo di mais e dallo zucchero (è un disaccaride).
Un soggetto normopeso con alimentazione corretta non si abbuffa né di bibite né di zucchero
(vedasi la regola della dieta italiana: La dieta italiana sconsiglia l’uso di tutti quegli alimenti
con zucchero “aggiunto” per i quali esiste un’alternativa senza zucchero (bevande, yogurt,
marmellata, succhi di frutta, frutta sciroppata, macedonie di frutta ecc.).
Sintetizzando:

per un soggetto con un buon stile di vita l’eccesso di fruttosio non si verifica.

Ovviamente il discorso è interessante per tutti coloro che hanno patologie e anziché migliorare il
loro stile di vita, cercano scorciatoie (come per esempio la sostituzione dello zucchero con il
fruttosio per continuare a soddisfare il loro gusto del dolce). Anche in questo caso occorre però
stare molto attenti a non scambiare correlazioni per cause. Per esempio, l’HFCS avrebbe effetti
dannosi sul fegato di chi è affetto da steatosi epatica non alcolica. Una ricerca pubblicata su
Hepatology (M. Abdelmalek et al., Duke University Medical Center) ha preso in esame 427
pazienti con steatosi epatica non alcolica, scoprendo che solo il 19% di loro non consuma
bevande zuccherate. Probabilmente se si fossero presi in esame 427 soggetti sani si sarebbe
trovata una percentuale superiore all’80% che comunque consuma bevande zuccherate!
Quindi regola finale: non demonizzate il fruttosio, basta non abusarne!

Il galattosio
Il galattosio è un monosaccaride del quale sono note due forme isomere, D e L. È un epimero del

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glucosio [si dicono epimeri due monosaccaridi che differiscono per la configurazione di un unico
centro asimmetrico; nel caso di glucosio e galattosio la sola differenza è nella posizione dell’-OH
nel carbonio-4 (C-4)] al quale è simile nella struttura e identico nella composizione.
Il galattosio, sotto forma di β-d-galattopiranosio, variamente combinato con altri zuccheri, è
diffusissimo in natura, sia nel regno vegetale sia nel regno animale. È il principale zucchero dei
glicolipidi (termine generico che indica lipidi contenenti oligosaccaridi) di piante e alghe.
Dopo il glucosio è il carboidrato più diffuso nel regno animale; lo si ritrova infatti nelle
glicoproteine dei polmoni, nei cerebrosidi (una categoria di glicolipidi) e nei gangliosidi del
sistema nervoso, nel fibrinogeno, nelle gamma-globuline e nelle membrane cellulari.
A partire dal d-glucosio (con il quale forma il lattosio), viene sintetizzato dalle ghiandole
mammarie dei Mammiferi.

Glicolisi e galattosio
Com’è noto, lo zucchero semplice più utilizzato dalla glicolisi è il glucosio; tuttavia, anche altri
carboidrati possono essere utilizzati dal pathway metabolico (locuzione nota anche come via
metabolica) della glicolisi; è per esempio il caso di fruttosio e galattosio. Per la conversione di
quest’ultimo in un intermedio della glicolisi sono necessarie diverse reazioni. Inizialmente il
galattosio viene convertito in galattosio-1-fosfato grazie all’azione dell’enzima galattochinasi.
Successivamente, il galattosio-1-fosfato viene legato a una molecola di uridina a partire da uno
degli intermedi della sintesi del glicogeno, l’UDP-glucosio. Il risultato di questa reazione è la
formazione di glucosio-1-fosfato e UDP-galattosio; questa reazione richiede l’intervento
dell’enzima galattosio-1-fosfato uridiltransferasi. A questo punto l’UDP-galattosio viene
convertito in UDP-glucosio grazie all’enzima UDP-galattosio-4-epimerasi (questo enzima è noto
anche come waldenasi o galattowaldenasi, dal nome del chimico tedesco Paul Walden). Si ha poi
la conversione dell’UDP-glucosio in glucosio-1-fosfato a opera della UDP-glucosio
pirofosforilasi; infine, il glucosio-1-fosfato viene convertito in un intermedio della glicolisi, il
glucosio-6-fosfato dalla fosfoglucomutasi, un enzima che appartiene alla classe delle cosiddette
isomerasi.
I deficit enzimatici relativi al metabolismo del galattosio sono alla base di alcune patologie
metaboliche note come galattosemie.

Galattosemia
La galattosemia è una rara e grave patologia metabolica che viene trasmessa per via autosomica
recessiva causata dalla carenza di uno degli enzimi deputati al metabolismo del galattosio,
zucchero presente in particolar modo nel latte (ricordiamo che galattosio e glucosio formano il
lattosio che rappresenta circa il 98% dei carboidrati presenti nel latte). La carenza enzimatica
porta a un eccessivo accumulo di galattosio a livello ematico.
La galattosemia non deve essere confusa con l’intolleranza al lattosio, un’intolleranza enzimatica
causata da un difetto delle disaccaridasi (gli enzimi che catalizzano l’idrolisi dei disaccaridi).
Se la galattosemia non viene diagnosticata precocemente, può risultare fatale.
Esistono tre tipologie di galattosemia, una è relativa all’enzima galattosio-1-fosfato
uridiltransferasi, una all’enzima galattochinasi e una all’enzima UDP-galattosio-4-epimerasi.
Sembra che la prima sommaria descrizione di galattosemia sia dovuta a Thalhammer, nel 1908, ma

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non tutte le fonti concordano attribuendola a F. Goppert che l’avrebbe descritta dettagliatamente
nel 1917. Tuttavia, la causa della patologia fu individuata soltanto molti anni dopo, nel 1956 per
l’esattezza, grazie al lavoro di Herman Kalckar, un biochimico danese.
La tipologia di galattosemia che viene riscontrata con più frequenza è quella legata al deficit dell’
UDP-galattosio-4-epimerasi, mentre quella che si riscontra più raramente è la galattosemia dovuta
al deficit dell’enzima galattosio-1-fosfato uridiltransferasi.
La diagnosi di galattosemia viene effettuata tramite l’esecuzione di test laboratoristici; per farlo si
devono misurare i livelli enzimatici negli eritrociti, nei leucociti o nel fegato.
La malattia si manifesta generalmente nei primi giorni di vita dopo l’assunzione del latte materno
o di quello in polvere; i sintomi sono variegati; si possono infatti avere vomito, epatomegalia,
splenomegalia, ittero, aminoaciduria, albuminuria, cirrosi, deficit neurologici ecc.
Se la galattosemia non viene prontamente diagnosticata si corre il rischio di seri danni a livello di
vari organi; nei casi più gravi, come detto, può sopraggiungere la morte.
Il trattamento della galattosemia è sostanzialmente basato sull’eliminazione del galattosio della
dieta; eliminazione che dovrà perdurare per tutta la vita. Nei neonati si devono eliminare il latte
materno e quello in polvere sostituendoli con alimenti che siano privi di lattosio o galattosio.
Il rispetto di un regime privo di galattosio va monitorato periodicamente attraverso la
monitorizzazione dei livelli enzimatici nei globuli rossi. È consigliabile che le madri di bambini
affetti da galattosemia seguano una dieta priva di lattosio e galattosio nel corso di eventuali
successive gravidanze in quanto ciò permetterà un miglioramento sintomatico del nascituro.

Il glucosio
Il glucosio (anche glicosio, glucoso, destrosio o, più “volgarmente”, zucchero d’uva o zucchero
d’amido) è un monosaccaride (ovvero uno zucchero semplice), peraltro il più diffuso in natura,
con formula chimica C6H12O6.
In combinazione con altri monosaccaridi forma diversi tipi di disaccaridi quali, per esempio, il
saccarosio (il comune zucchero da cucina, combinazione di glucosio e fruttosio), il lattosio
(combinazione di glucosio e galattosio) e il maltosio (disaccaride costituito da due molecole di
glucosio unite tra loro attraverso legami α; è noto anche come zucchero di malto).
Allo stato libero il glucosio è presente in molti vegetali e anche nel miele.

La principale fonte energetica delle cellule


Il glucosio può essere a ben ragione considerato come la fonte energetica principale delle nostre
cellule e di quelle di molti altri organismi, semplici o complessi che siano.
Nell’uomo il glucosio viene assorbito nel sangue attraverso le pareti dell’intestino; una parte
viene utilizzata per il nutrimento delle cellule cerebrali, mentre il glucosio che non viene
metabolizzato viene accumulato nel fegato e nei muscoli sotto forma di glicogeno, un
polisaccaride, formato da una lunga catena di molecole di glucosio. Il glicogeno è anche presente,
seppure in piccole quantità, nel cuore, nei reni e nel tessuto adiposo. Nei muscoli si trovano circa
i due terzi del glicogeno presente nell’organismo (approssimativamente 200-300 g), mentre le
scorte di glicogeno epatiche rappresentano pressappoco il rimanente terzo (80-100 g circa).
L’assorbimento del glucosio a livello dell’intestino avviene grazie ai cosiddetti
glucotrasportatori, ovvero delle proteine di membrana che permettono il passaggio del glucosio

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attraverso la membrana plasmatica.
Il glucosio non richiede nessuna elaborazione digestiva e il suo assorbimento è, pertanto,
particolarmente rapido; questa caratteristica lo rende uno dei carboidrati semplici a più alto
indice glicemico; in molte tabelle, tale carboidrato rappresenta l’unità di misura di tale indice e
viene posto a 100. L’indice glicemico, in riferimento a un carboidrato, esprime la velocità con cui
aumenta la concentrazione di glucosio nel sangue (ovvero la glicemia) in seguito all’assunzione di
50 g del carboidrato che viene esaminato.
Nell’uomo il glucosio è, di fatto, la sola fonte energetica del cervello e degli eritrociti e questo è
uno dei motivi per i quali è importante che il tasso di glucosio nel sangue si mantenga entro i limiti
dell’intervallo di normalità, ovvero tra 65 e 110 mg/dl. Com’è noto, il tasso di glucosio nel sangue
viene regolato tramite una serie di meccanismi neurormonali e metabolici che hanno lo scopo di
impedire che vi siano forti oscillazioni, sia in difetto che in eccesso, della concentrazione del
monosaccaride in questione. Una condizione di ipoglicemia viene solitamente percepita dal
soggetto se il tasso di glucosio ematico scende al di sotto dei 50 mg/dl; il sintomo principale è un
senso generale di debolezza accompagnato da altri sintomi quali pallore, palpitazioni, scialorrea,
tremori ecc.
Diversi problemi può creare anche una condizione persistente di iperglicemia; è fondamentale la
persistenza per considerare patologica la condizione di iperglicemia; è normale, infatti, che nel
corso della giornata il tasso di glucosio ematico superi momentaneamente il limite di normalità; un
organismo sano, infatti, gestisce tranquillamente una situazione occasionale di iperglicemia (ma
anche di ipoglicemia).
Le condizioni che possono provocare iperglicemia sono numerose, la più nota è senz’altro il
diabete mellito, una seria patologia che può avere gravi conseguenze se non gestita correttamente.

La scissione del glucosio (glicolisi)


La glicolisi (scissione del glucosio), nota anche come via di Embden-Meyerof, è un importante
processo metabolico in anaerobiosi non stretta tramite il quale una molecola di glucosio viene
convertita in molecole più semplici; ciò conduce alla produzione di energia sotto forma di ATP
(adenosintrifosfato). La glicolisi avviene attraverso una serie di reazioni catalizzate da enzimi; il
processo avviene in dieci tappe (il prodotto di ogni tappa diviene substrato per l’enzima
successivo); risultano quindi coinvolti dieci enzimi.
Si parla anche di glicolisi aerobica, ma piuttosto impropriamente perché di fatto viene utilizzato il
piruvato e non direttamente il glucosio.
Normalmente, nell’uomo, determinati tessuti hanno un metabolismo di tipo aerobico, ma, in
particolari condizioni di carenza di ossigeno, sono in grado di ottenere energia tramite la glicolisi
anaerobica; il tipico caso è quello dei tessuti muscolari striati quando sono costretti a sforzi fisici
intensi, ma limitati nel tempo (dell’ordine dei minuti); non tutti i tessuti, però, possiedono la stessa
capacità di resistere in condizioni di carenza di ossigeno; un tipico esempio è rappresentato dal
muscolo cardiaco che mal sopporta una condizione di anaerobiosi.

La gluconeogenesi
La gluconeogenesi (anche neoglucogenesi) è un processo metabolico attraverso cui il glucosio
viene sintetizzato a partire da precursori non glicidici. Tale processo avviene quando c’è carenza
di glucosio nel flusso sanguigno. In buona parte, ma non interamente, la gluconeogenesi è il

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processo inverso della glicolisi (non tutti gli enzimi coinvolti nei due processi sono gli stessi).
I precursori non glicidici dai quali si ricava glucosio grazie al processo gluconeogenetico sono gli
aminoacidi, il glicerolo, l’acido lattico, il piruvato ecc.
Scopo primario della gluconeogenesi è quello di contribuire al mantenimento costante della
concentrazione sanguigna di glucosio.
Questo processo metabolico, fondamentale quando le riserve glicidiche sono prossime
all’esaurimento, avviene a livello di diversi tessuti dell’organismo, ma in modo particolare nel
fegato.
Una condizione che richiede un ricorso prolungato al processo di gluconeogenesi è il digiuno; se il
digiuno è protratto per più giorni è inevitabile che il processo gluconeogenetico inizi a produrre
effetti negativi; si ha, infatti, l’intaccamento della massa magra, necessario per la conversione
delle proteine in energia (ciò è però causa di un sovraccarico epatico); si ha anche l’utilizzazione
dei lipidi che provoca un accumulo di scorte chetoniche. È per questo motivo che il digiuno, al
contrario di quanto alcuni sostengono, è una condizione che, se persistente, non purifica
l’organismo, bensì contribuisce a intossicarlo.

Il lattosio
Il lattosio è un disaccaride (ricordiamo che i disaccaridi sono glicidi la cui molecola risulta dalla
combinazione di due monosaccaridi) con formula C12H22O11; nella fattispecie, una molecola di
lattosio è costituita da una molecola di glucosio e da una molecola di galattosio.
Il lattosio è contenuto principalmente nel latte dei Mammiferi (rapporto 2:3 fra la forma α e quella
β) ed è per questo motivo che è comunemente conosciuto come “zucchero di latte”; rappresenta il
98% circa dei carboidrati presenti in detto alimento; non è però contenuto solo nel latte, ma anche,
seppure in minor misura, in diversi suoi derivati (per esempio i formaggi e gli yogurt) nonché in
tutti quegli alimenti a base di siero di latte.
Nel latte intero il lattosio è presente in quantitativi percentuali oscillanti tra il 4,7 e il 5% circa;
nel colostro invece la sua presenza è più ridotta (dal 2,2 al 3% circa).

Scissione del lattosio


Affinché il nostro organismo possa utilizzare il lattosio come fonte energetica è necessaria la sua
scissione nei due monosaccaridi che lo costituiscono. La scissione del lattosio avviene a livello
della superficie esterna delle cellule epiteliali che formano il rivestimento dell’intestino tenue.
L’enzima che consente detta scissione è la lattasi. A scissione ultimata, le unità monosaccaridiche
che ne derivano (glucosio e galattosio) vengono trasportate all’interno delle cellule che rivestono
l’intestino, poi passano nel flusso ematico e raggiungono l’organo epatico dove subiranno un
processo di fosforilazione, ovvero saranno convertite in una forma che prenderà la via glicolitica.
Il glucosio fosforilato verrà inserito direttamente nella via glicolitica, mentre il galattosio dovrà
essere prima convertito in glucosio.

La biosintesi del lattosio


La biosintesi del lattosio avviene a livello della ghiandola mammaria nel corso della lattazione
(processo consistente nella produzione e nella secrezione di latte da parte della ghiandola

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mammaria delle femmine dei Mammiferi). L’enzima che permette questa reazione è la galattosil-
transferasi. Nel corso della lattazione la specificità della galattosil-transferasi viene modificata da
una proteina ausiliaria (l’α-lattalbumina, il cui ruolo è rimasto ignoto per molto tempo) e in tal
modo l’enzima può catalizzare in modo rapido la sintesi del lattosio.
Vediamo più dettagliatamente come avviene questo processo. La galattosil-transferasi trasferisce
le unità di galattosio (qui sotto forma di UDP-galattosio) al glucosio producendo lattosio. In
questa reazione l’enzima coinvolto viene chiamato lattosio-sintasi (o lattosio-sintetasi); il cambio
di specificità cui accennavamo poco sopra avviene grazie all’azione dell’α-lattalbumina (la
sintesi di questa proteina, che viene regolata dall’ormone responsabile della lattazione, porta alla
formazione di un complesso noto come α-lattalbumina-galattosil-transferasi, ovvero la lattosio-
sintasi).

Il lattosio negli alimenti


Come detto in precedenza, il lattosio è soprattutto contenuto nel latte dei Mammiferi (un litro di
latte vaccino contiene circa 50 g di lattosio). Oltre che nei già citati derivati del latte e negli
alimenti a base di siero di latte, il lattosio è presente in molti altri cibi; questo perché, a livello
industriale, a molti alimenti viene aggiunto lattosio durante la loro preparazione; è possibile
quindi ritrovare questo carboidrato nella lista degli ingredienti di cibi quali minestre, pane,
pasticcini, prodotti da forno, salumi ecc.

Intolleranza al lattosio
L’intolleranza al lattosio (anche maldigestione di lattosio) è un disturbo causato da un difetto
nella metabolizzazione del lattosio; di fatto viene a mancare la capacità di scindere il legame β-
glucosidico del lattosio, funzione che, come abbiamo visto, negli esseri umani è deputata a un
enzima noto come lattasi. (ved. L’intolleranza al lattosio, Volume 2, Capitolo 3).

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Capitolo 4 - Le proteine
Le proteine (anche protidi) sono sostanze organiche molto complesse e sono uno dei costituenti
fondamentali di tutte le cellule del mondo animale e di quello vegetale. Chimicamente parlando
sono dei polimeri (macromolecole costituite da numerosi gruppi molecolari) costituiti da residui
aminoacidici che sono uniti tra loro da legami peptidici. Le proteine differiscono fra loro per il
numero, la composizione e la sequenza degli aminoacidi che le costituiscono.
Un indice della complessità e della lunghezza delle proteine è dato dal loro elevato peso
molecolare che può raggiungere anche il valore di 7.000.000.
Le proteine sono abbondantemente presenti negli organismi viventi, rappresentano infatti più della
metà del peso secco di animali e batteri.
Una delle più importanti classificazioni delle proteine è quella che distingue fra proteine semplici
e proteine coniugate.
Le proteine vengono dette semplici se sono costituite soltanto da aminoacidi, mentre si parla di
proteine coniugate se a esse è legato un gruppo non proteico (detto anche gruppo prostetico); le
proteine coniugate possono essere distinte in diverse classi a seconda del tipo di gruppo
prostetico. Le diverse tipologie di proteine coniugate sono le seguenti:

•• glicoproteine
•• lipoproteine
•• nucleoproteine
•• emoproteine
•• metalloproteine
•• fosfoproteine
•• flavoproteine.

Nelle glicoproteine il gruppo prostetico è costituito da glicidi (un esempio è rappresentato


dall’alfafetoproteina); nelle lipoproteine il gruppo prostetico è costituito da lipidi (un esempio è il
colesterolo LDL), nelle nucleoproteine il gruppo prostetico è rappresentato da un acido nucleico
(un esempio è rappresentato dai telomeri), le emoproteine (anche eme proteine) sono proteine
contenenti un gruppo prostetico eme (un esempio è rappresentato dall’emoglobina), le
metalloproteine sono proteine la cui frazione non proteica è rappresentata da ioni metallici (per
esempio la ferritina), le fosfoproteine hanno come gruppo prostetico l’acido fosforico (per
esempio la caseina) mentre le flavoproteine hanno come gruppi prostetici i nucleotidi flavinici (un
esempio di flavoproteine è rappresentato dai fotorecettori responsabili della sensibilità alla luce
blu, ovvero la fototropina 1 e la fototropina 2).
Le proteine sono presenti negli alimenti di origine animale (carne, latte, uova, pesce ecc.) e in
quelli di origine vegetale (cereali, leguminose ecc.). Le proteine contengono sempre carbonio,
idrogeno, azoto e ossigeno; possono anche contenere ferro, fosforo, rame, zinco e zolfo; l’unità
base delle proteine sono gli aminoacidi, di cui sono note venti tipologie; il loro numero genera,
con tutte le varie combinazioni, un’enorme varietà di proteine. La sequenza di aminoacidi in una
proteina può essere avvolta a elica, essere globulare o combinarsi con più catene assieme: tale
costituzione dipende strettamente dalla funzione svolta, distinguendo le proteine in fibrose,
globulari ecc.
Gli animali costruiscono le proteine necessarie all’organismo trasformando in aminoacidi le
proteine assunte con l’alimentazione, per poi ricombinarli nelle proteine necessarie seguendo le

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informazioni fornite dal proprio DNA, nella sintesi proteica.
Un dato che tutti dovrebbero conoscere: ogni grammo di proteine fornisce 4 calorie.

Il fabbisogno proteico
Le proteine sono molecole fondamentali per il nostro organismo; esse sono presenti nel plasma,
nei tessuti, nei muscoli. Intervengono nella definizione del patrimonio genetico, nella sintesi di
emoglobina e di mioglobina; la maggior parte degli ormoni e quasi tutti gli enzimi sono di origine
proteica. A differenza di quanto accade con carboidrati e lipidi, il corpo non immagazzina scorte
proteiche, anche se circa il 15% di esso è costituito da proteine (circa la metà se non si considera
l’acqua). Circa il 65% del contenuto proteico è presente nei muscoli. Per l’organismo è di
fondamentale importanza il processo con cui (grazie all’impiego delle proteine) si sintetizzano i
tessuti e l’equilibrio che si stabilisce fra costruzione (anabolismo) e distruzione (catabolismo) per
esempio in seguito a intensa attività fisica. In determinate condizioni l’organismo smonta le
proteine contenute nel muscolo per ricavarne energia; se le proteine sono assunte in quantità
insufficiente, la fase di costruzione non riesce a ripristinare le perdite muscolari avvenute nella
fase catabolica: si avrà pertanto una perdita di massa muscolare. Poiché esiste comunque un limite
all’aumento della massa muscolare e il catabolismo proteico aumenta in situazioni di carenza di
carboidrati, se si assumono troppe proteine, quelle in eccesso vengono trasformate in grassi di
deposito e le scorie sono eliminate come urea con sovraccarico del rene che deve purificare il
sangue dall’urea per la sua successiva eliminazione con le urine. Sul fabbisogno proteico di un
sedentario c’è un notevole accordo: per un adulto circa 0,83 g di proteine per kg di peso corporeo,
secondo la formula

FP=0,83*P.

Le cose cambiano quando si introduce una correzione per l’attività sportiva o lavorativa. Basta
pensare che i body builder arrivano anche a quattro volte i valori raccomandati per i sedentari.
Non esistono ricerche scientifiche su soggetti in condizioni normali (cioè non sottoposti a
trattamenti dopanti) che giustifichino tali aumenti: alcuni studi hanno mostrato che aumentare fino a
tre volte la dose proteica giornaliera non ha prodotto nessun miglioramento nelle prestazioni
durante allenamenti pesanti. La ricerca più eclatante è quella di Tarnopolski del 1988.
Raccogliendo l’azoto espulso con le urine, le feci e il sudore è possibile calcolare l’equilibrio del
bilancio proteico; la ricerca prese in esame tre gruppi, sedentari, body builder e atleti di fondo. Il
risultato fu che per i body builder, l’integrazione corretta per mantenere l’equilibrio doveva essere
di 1,2 g per kg di peso, mentre per gli atleti di fondo di 1,6 g. Ricerche successive indipendenti
(cioè non commissionate da fornitori di integratori proteici) hanno confermato gli studi di
Tarnopolski, arrivando a indicare al massimo una dose proteica di 2 g per kg di peso in body
builder professionisti natural (cioè che non fanno uso di anabolizzanti) e una dose di 1,5 g per kg
di peso per l’abituale frequentatore della palestra con allenamento orientato alla forza muscolare.
È chiaro che questi risultati possono spiegare come in molti body builder decisamente “cresciuti”
non sia l’assunzione proteica a incrementare la massa magra quanto l’assunzione di sostanze
anabolizzanti che stimolano un’anomala sintesi proteica.

Massa muscolare e proteine

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Nonostante l’evidente clamore pubblicitario, non esistono sostanze che incrementano la massa
muscolare. I prodotti pubblicizzati sono decisamente troppo ottimistici sugli effetti e, purtroppo,
molti atleti abusano di proteine e aminoacidi nella convinzione che “male non fanno”. In realtà non
è così poiché alte dosi possono alzare notevolmente l’azotemia con conseguente sovraccarico
renale. La massa muscolare si può sviluppare se esistono tre fattori:

•• i mattoni (le proteine)


•• i muratori (gli ormoni che fanno scattare il meccanismo di costruzione)
•• l’esercizio fisico (il via ai lavori di costruzione).

Per un soggetto che inizia il potenziamento muscolare è fondamentale soprattutto il terzo punto che
consente rapidi miglioramenti. Dopo un certo lasso di tempo non si ottengono più risultati evidenti
e, naturalmente o spinto da altri, il soggetto prende in considerazione il primo punto
(sperabilmente non il secondo).
Come vedremo nel Capitolo 9, se la parte proteica dell’alimentazione è di circa il 20%,
l’integrazione di proteine (cioè l’assunzione di altre proteine oltre a quelle assunte con la normale
alimentazione) è del tutto inutile perché in genere nel soggetto manca il secondo punto o il terzo
punto è insufficiente.
Gli ormoni necessari per l’aumento muscolare (anabolismo) non sono controllabili da integratori.
Infatti l’assunzione di aminoacidi non aumenta i livelli di ormone della crescita, né la potenza
aerobica, né la prestazione in attività massimali. Non variano neppure le concentrazioni di
testosterone o cortisolo. È vero che esistono studi che asseriscono che aminoacidi come
l’arginina, la lisina, la glutammina, la glicina e l’ornitina incrementano i livelli ormone della
crescita (GH), ma la presenza in letteratura di dati discordanti può spiegarsi col fatto che gli studi
positivi sono stati tutti svolti non su campioni della popolazione, ma su ristretti gruppi di soggetti
in clinica. I risultati positivi riguardano la somministrazione di un aminoacido e in genere il
livello di GH aumenta di un fattore da tre a dieci. A prescindere dal fatto che alcuni aminoacidi
sono antagonisti (come la coppia arginina e lisina), se questi risultati fossero veri, somministrando
5 g di arginina, 2 g di lisina, 5 g di ornitina, 2 g di glutammina e 6 g di glicina, il livello di GH
dovrebbe aumentare di oltre 100 volte! Ovviamente non è così e la spiegazione è semplice: certi
risultati clinici si raggiungono in condizioni di estrema carenza (per esempio operando su pazienti
sedentari e anziani); l’organismo ha sempre livelli di controllo: finché non vengono raggiunti
l’integrazione funziona, poi viene annullata (per esempio semplicemente ignorando il messaggio
che arriva dalla sostanza).
Riassumendo, ogni soggetto ha un massimo di massa muscolare che è dovuto alle sue capacità
anaboliche (la probabilità di aumentare le quali senza doping è paragonabile a quella di far
crescere in statura un soggetto adulto), gli mancano cioè i muratori per crescere oltre un certo
limite. Il suo quadro ormonale è quello che limita la sua crescita muscolare (in un adulto over 25,
dopo sei mesi di esercizio fisico intenso e professionale in genere si raggiunge almeno il 95% di
tale massimo). Quando vediamo un atleta con poco grasso e moltissimi muscoli che afferma che è
cresciuto perché ha fatto uso di integratori proteici dobbiamo sempre chiederci “a cosa li ha
abbinati” (cioè che muratori ha usato!) e il dubbio che si possa trattare di steroidi è altissimo. Vi
sono poi soggetti che confondono abilmente il grasso con i muscoli. Con un’alimentazione
ipercalorica e l’esercizio fisico distribuiscono su tutto il corpo il grasso corporeo (a differenza
dei sedentari che lo localizzano) e appaiono degli “armadi”. Se si guardano da vicino e si fa il test
delle vene (Capitolo 7), si scopre che sono grossi perché grassi: è la fine che fanno molti atleti di

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potenza dopo i 30 anni quando il metabolismo basale inizia a diminuire.

Molti muscoli e zero grasso?


La speranza di avere moltissimi muscoli senza un filo di grasso è pura utopia per un soggetto che
ha superato i 30 anni. Infatti in moltissime discipline di forza (sollevamento pesi, lancio del peso,
sumo ecc.) l’atleta molto forte non è privo di grasso. Solo nel mondo del body building
professionistico (dove la riduzione del grasso è ottenuta con opportune sostanze) si hanno atleti
ipermuscolosi e senza grasso: il grave è che si fa credere che questa situazione possa valere per
tutti, mentre invece è vero il contrario. Infatti:

1. Perché si abbia crescita muscolare si deve fornire il dovuto quantitativo di proteine in presenza
di ormoni anabolizzanti (naturali o sintetici).
2. Nei giovani il quadro ormonale porta abbastanza naturalmente alla magrezza; già un adulto che
assume troppe proteine si ritrova invece con muscoli, ma anche con grasso. Questo perché la
produzione di ormoni anabolici decresce con l’età.
3. Non esistono sostanze naturali per incrementare significativamente la produzione di ormoni
anabolici.
4. L’allenamento è in grado di produrre un aumento dei livelli di ormoni anabolici, aumento che
comunque ha un chiaro limite individuale.
5. Perché si abbia diminuzione della massa grassa occorre bruciare il grasso tramite esercizio
fisico, tramite un quadro ormonale opportuno o tramite sostanze bruciagrasso.
6. Chi non vuole modificare il quadro ormonale con pratiche dopanti, usa sostanze (lecite e no)
per bruciare il grasso in quei settori dove è necessario essere magri (body building).
7. Attualmente non esistono dimagranti leciti che consentano di bruciare il grasso in maniera
significativa.
8. L’altra alternativa per essere magri è fare attività aerobica (l’attività di potenza non permette di
bruciare molto).
9. L’attività aerobica si oppone alla crescita muscolare, infatti nessun maratoneta, per quanto
faccia potenziamento muscolare, riesce ad avere muscoli da sollevatore di pesi.

Questi punti sono il frutto di quanto la scienza medica ha appurato in questi ultimi vent’anni (a
dispetto delle ottimistiche pubblicità di integratori, pillole bruciagrasso e modelli alimentari la
cui efficacia non è mai stata provata).
I punti 1 e 2 ci dicono che possiamo fornire quante proteine vogliamo, ma questo risulta essere
abbastanza inutile se non ci sono ormoni a sufficienza. Quindi si cerca di aumentare la produzione
di quest’ultimi.
Il punto 3 ci dice che non è possibile aumentare naturalmente la produzione ormonale né con
l’alimentazione né con l’integrazione. Un esempio è fornito dal presunto (falso) incremento della
produzione di ormone della crescita a seguito dell’assunzione di aminoacidi in una persona sana.
Del resto se fosse possibile veramente modificare significativamente il quadro ormonale, molte
malattie ormonali sarebbero curate con l’integrazione o con l’alimentazione (anziché con la
somministrazione di ormoni), cosa che non è vera.
Il punto 4 ci dice che quando un sedentario inizia ad allenarsi i suoi muscoli crescono facilmente
senza grasso, ma ben presto si ha una saturazione anabolica e le proteine fornite possono andare
verso l’anabolismo, ma anche verso l’eccesso di grasso.

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Il sogno di molti body builder di essere eccezionalmente muscolosi e “naturalmente” (cioè senza
doping) magri è facilmente smontato da tutti gli altri atleti degli sport di forza (pesisti, sollevatori
di pesi ecc.); in questi sport l’atleta raggiunge il massimo della forza e dello sviluppo muscolare,
ma non è definito (cioè l’aspetto grasso del corpo è ben visibile!). È importante cioè non
mitizzare l’allenamento. Se si pensa che, nell’ipotesi di allenamento ottimale, solo un soggetto su
10.000 può correre la maratona in meno di 2h20’ (un tempo nemmeno a livello italiano), si
intuisce facilmente che è illusorio pensare che tutti o la gran parte degli atleti (magari over 30...)
possano diventare muscolosi e definiti come body builder professionisti. La gran parte dei soggetti
otterrà una buona muscolatura, ma nulla più. Chi vorrà aumentarla ancora, dovrà convivere con un
po’ di grasso.
Il punto 7 ci dice che non ha senso ricorrere a sostanze bruciagrasso.
In sostanza i nove punti prima citati ci dicono che:

1. Ognuno di noi ha un massimo di massa magra senza grasso fissato dalla genetica individuale.
2. Oltre tale limite non è possibile incrementare naturalmente la massa magra senza portare con sé
il grasso.
3. Il massimo della definizione (muscoli senza grasso) nella maggior parte delle persone è
associato a uno sviluppo muscolare piuttosto modesto.

L’atleta citato in letteratura che è riuscito a costruire la maggior massa magra è un atleta di sumo
(Kendo, 1994) con 121,3 kg di massa magra, ma un sacco di grasso! Fondamentale il terzo punto:
troppi si illudono di definirsi e a un tempo costruirsi muscoli notevoli. La crescita muscolare è
comunque un esempio di performance: pretendere di avere muscoli molto sviluppati con una
definizione perfetta è come pretendere di correre la maratona in meno di 3 ore (comunque quasi
un’ora sopra il record mondiale): per la stragrande maggioranza delle persone resta comunque un
sogno!

La qualità delle proteine


La qualità delle proteine può essere valutata attraverso modalità diverse fra loro. Di seguito
esamineremo alcuni fra i molti indici che nel corso degli anni sono stati proposti dagli addetti ai
lavori.

Valore biologico (VB)


Il valore biologico (VB) è probabilmente l’indice più importante (e più utilizzato) per la
valutazione della qualità delle proteine. Questo indice mostra quanto la composizione
aminoacidica è sbilanciata. Scientificamente indica la quantità di azoto trattenuto per il
mantenimento e/o l’accrescimento; viene stabilito verificando la quantità di azoto che viene
assorbito e utilizzato al netto di tutte le perdite che si verificano attraverso le escrezioni urinarie,
fecali ecc.
Il valore di riferimento è l’uovo il cui valore biologico è 100 (sono stati anche proposti valori
fino a 150 per proteine del siero del latte).

Proteine del siero del latte - Hanno un alto valore biologico (VB>100). Possono essere ottenute
per ultrafiltrazione (contengono al massimo il 6% di grassi e l’80% circa di proteine), per

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microfiltrazione (con proteine superiori all’80% e grassi inferiori all’1%) o per scambio ionico
(con grassi inferiori all’1% e proteine superiori al 90%, quelle di migliore qualità).
Proteine dell’uovo - Hanno un valore biologico di 100, rallentano lo svuotamento gastrico,
abbassando l’indice glicemico degli alimenti glicidici.
Proteine del latte - Hanno un VB superiore a 90 e un tempo di digeribilità medio.
Proteine della caseina - Hanno un VB inferiore a 80. Sono molto sazianti (la caseina tende ad
assorbire acqua) e sono digerite piuttosto lentamente.
Proteine della soia - Hanno un VB inferiore a 75.
Proteine del grano - Hanno un VB inferiore a 55. Sia queste sia le precedenti non presentano uno
spettro aminoacidico buono.

Integrazione proteica e VB - Un’integrazione proteica non è sempre consigliabile. In realtà


esistono alcune categorie (per esempio body builder professionisti, chi prepara le ultramaratone,
chi non mangia carne né pesce per scelta o semplicemente per scarsa appetibilità ecc.) che
richiedono necessariamente un’integrazione di tale tipo. Nel caso dei vegetariani lo spettro
aminoacidico delle proteine vegetali non è ottimale ed è opportuna un’integrazione proteica da
proteine del latte o dell’uovo (per i vegetaliani, che rifiutano ogni alimento di origine animale, ciò
è evidentemente impossibile).
Si deve notare che la cottura dei cibi diminuisce notevolmente il valore biologico delle proteine
(per esempio dopo la cottura la carne di pollo ha un VB di 76 e la carne di manzo addirittura di
50). Questo è l’unico punto a favore di chi sostiene l’uso di integratori proteici nell’alimentazione.
In realtà la quota proteica calcolata nelle varie diete presuppone la cottura dei cibi. Pertanto
quando si parla di un apporto proteico del 20% si presuppone che le proteine derivino da un mix
di cibi cucinati o meno (per esempio il formaggio); usare integratori proteici con alto VB innalza
ulteriormente la quota proteica nell’alimentazione.

Rapporto di efficienza proteica


Il rapporto di efficienza proteica (PER) è un parametro che indica l’aumento di peso per 1 g di
proteina ingerita in animali cavia in condizioni nutrizionali standardizzate.
Il PER delle proteine del latte corrisponde a 3,1; quello della caseina è 2,9 e quello delle proteine
del siero del latte è 3,6. Più basso il PER delle proteine della soia e del grano, rispettivamente
corrispondente a 2,1 e 1,5.

Coefficiente di utilizzazione digestiva (CUD) o digeribilità (D o PD)


Il coefficiente di utilizzazione digestiva (CUD) è un indice che si ricava dalla seguente formula:
(azoto assorbito/azoto introdotto con il regime alimentare)*100. Il massimo valore ottenibile è
100. Con il CUD si indica l’efficienza con la quale viene digerita la proteina che si prende in
esame. Fra le proteine maggiormente digeribili vi sono quelle del grano, del latte e della soia

PDCAAS
Il PDCAAS (Protein Digestibility Corrected Amino Acid Score, valore degli aminoacidi corretto
per la digeribilità delle proteine) è un indice relativamente recente che è stato adottato nel 1993

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dalla FDA e dalla FAO/WHO in quanto ritenuto il miglior metodo per la valutazione della qualità
delle proteine. Il valore massimo del PDCAAS è 1,0 (ogni proteina che ha questo valore viene
considerata come “completa” per l’essere umano).
La formula che viene utilizzata per calcolare il PDCAAS è la seguente: (mg dell’aminoacido
limitante in 1 g delle proteine testate/mg dello stesso aminoacido in 1 g delle proteine di
riferimento)* % della digeribilità basata sulle feci.
Tra gli alimenti che raggiungono il massimo punteggio troviamo l’albume, le proteine del siero del
latte e la caseina. Ottimo il punteggio della carne di manzo, 0,92.
Dal momento che la formula fa riferimento al concetto di aminoacido limitante è opportuno fornire
una breve spiegazione su cosa si intende con questa espressione. Com’è noto, tutte le proteine
alimentari contengono i cosiddetti aminoacidi essenziali; quando all’organismo umano forniamo
proteine alimentari queste vengono scisse in aminoacidi che vengono utilizzati per la sintesi di
proteine umane; arrivati a un certo punto di questo processo, uno degli aminoacidi essenziali si
esaurirà prima degli altri; in quel momento l’organismo interrompe la produzione di proteine dal
momento che viene a mancare un tassello fondamentale che non può essere autoprodotto; il primo
aminoacido a esaurirsi viene quindi definito aminoacido limitante della proteina che si prende in
esame.

Indice (o punteggio) chimico


L’indice chimico (IPC) è un indice che viene ottenuto grazie alla seguente formula: (aminoacido
limitante/aminoacido limitante nelle proteine dell’uovo)*100. Si fa riferimento alle quantità
contenute in un grammo della proteina che viene presa in esame. Quanto più alto è il valore
dell’indice chimico, tanto più alta sarà la percentuale degli aminoacidi essenziali presenti.

Utilizzazione proteica netta (NPU)


Con questo indice si indica la quota di azoto introdotto che viene trattenuto dall’organismo.
La formula è la seguente: (g di azoto utilizzati (trattenuti)/g di azoto ingeriti); questo valore
corrisponde al VB*CUD espresso in percentuale.

Come si vede gli indici utilizzati per valutare la qualità delle proteine sono numerosi e molti di
essi sono più complessi e in linea di massima meno attendibili del semplice VB.

Gli aminoacidi
Gli aminoacidi (o amminoacidi) sono composti organici che contengono contemporaneamente uno
o più gruppi amminici -NH2 e uno o più gruppi carbossilici –COOH (Figura 1).

Figura 1 - Struttura base di un aminoacido.

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Sono i componenti essenziali delle proteine; hanno grande importanza nella costituzione
biochimica dei tessuti dell’organismo umano e, di conseguenza, nell’alimentazione. Un
aminoacido può esistere in due forme, levogira o destrogira. Le due forme contengono
chimicamente gli stessi elementi, nelle stesse quantità e sequenza, ma una forma è speculare
rispetto all’altra. Gli aminoacidi si formano alla fine del processo di digestione delle proteine
grazie ai fermenti pepsina, tripsina ed erepsina. Gli otto aminoacidi essenziali che l’organismo
non può sintetizzare, e che deve ricevere dalla digestione, sono triptofano, fenilalanina, lisina,
treonina, valina, leucina, isoleucina e metionina. Per i bambini risultano essenziali anche
arginina e istidina. L’organismo ne sintetizza altri che si dicono non essenziali. Gli aminoacidi
non servono solo nell’anabolismo muscolare; alcuni di essi vengono anche utilizzati a fini
energetici. Il processo (gluconeogenesi) per il quale alcuni aminoacidi vengono trasformati in
glucosio (poi usato come fonte energetica) dipende dall’intensità del lavoro e dalla sua durata: in
un lavoro leggero di circa 40’ solo il 4% dell’energia proviene dalle proteine, mentre in un lavoro
intenso della stessa durata si arriva a un contributo del 15%; dopo 4 ore di lavoro leggero ben il
45% del glucosio liberato dal fegato proviene dalle proteine. Particolare importanza per il
processo che ottiene energia dalle proteine rivestono i tre aminoacidi ramificati (isoleucina,
leucina, valina), così chiamati per la loro struttura. In breve, di seguito, le caratteristiche dei
principali aminoacidi.
Acido aspartico – Noto anche come L-aspartato, è un aminoacido non essenziale. Deve il suo
nome all’ortaggio dal quale fu isolato la prima volta insieme all’asparagina, l’asparago. È
coinvolto nel ciclo dell’urea e nel ciclo di Krebs. È un aminoacido gluconeogenetico: quando
l’organismo necessita di glucosio, l’aspartato viene trasformato in ossalacetato che è in grado di
entrare nel ciclo Krebs oppure può trasformarsi in glucosio per mezzo della via gluconeogenetica.
Oltre che nelle funzioni sopracitate, l’acido aspartico è coinvolto nella formazione di anticorpi,
DNA e RNA.
L’integrazione nelle forme di aspartati di potassio e di magnesio è tutt’oggi utilizzata in ambito
sportivo per la prevenzione dei crampi e per il reintegro salino.
Acido glutammico – L’acido glutammico è un aminoacido che fa parte della struttura di diverse
proteine, sia vegetali che animali. È presente in buone quantità in diverse tipologie di alimenti
(carne, pesce, uova, prodotti lattiero-caseari, vegetali ecc.). Per l’uomo è un aminoacido non
essenziale dal momento che il nostro organismo può operarne la sintesi metabolica. La sua
formazione può derivare dall’acido piruvico o dall’acido alfa-chetoglutarico (prodotti intermedi
del catabolismo glicidico) o anche da altri aminoacidi quali l’istidina e la prolina. L’acido
glutammico è coinvolto in numerose funzioni di tipo biologico; interviene infatti nella sintesi delle
proteine, dell’acido folico, dell’acetilcolina e del glutatione. È un precursore di glutammina,

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prolina, arginina e GABA; reagendo con la citrullina forma arginina e, insieme alla glutammina,
entra nel meccanismo di inattivazione dell’ammoniaca che viene prodotta dal catabolismo
proteico e da quello aminoacidico. Un’altra sua importante funzione è quella di intervenire nei
meccanismi che regolano la permeabilità di membrana nelle cellule nervose.
Alanina – È un aminoacido non essenziale; nella sua molecola è presente un atomo di carbonio
asimmetrico; l’alanina pertanto può esistere in due forme: quella destrogira e quella levogira; la
forma levogira è particolarmente importante. Durante l’attività fisica, il ruolo dell’alanina è
quello di entrare a far parte di una via metabolica denominata ciclo alanina-glucosio (Capitolo 5,
I meccanismi energetici). L’alanina può contribuire alla riduzione del colesterolo nel sangue.
Arginina – L’arginina è un aminoacido condizionatamente essenziale (come la glicina, la
glutammina, la prolina e la taurina), ricopre cioè un ruolo indispensabile per il mantenimento
dell’omeostasi ovvero la condizione di stabilità interna dell’organismo. L’arginina è contenuta in
svariati alimenti. Dosi interessanti di tale aminoacido sono contenute per esempio nelle proteine
isolate della soia, nella polvere di albume, nel merluzzo sotto sale, nelle noci secche, nelle
arachidi, nella farina di soia, nella pancetta di maiale cotta, nelle mandorle secche, nelle nocciole
secche, nelle lenticchie ecc. L’arginina è un aminoacido essenziale solo nella prima fase della
vita, fin verso i 13-14 anni, mentre non lo è più successivamente. Favorisce la produzione
dell’ormone della crescita, accelera la cicatrizzazione delle lesioni, gioca un ruolo
particolarmente importante nel ciclo dell’urea, favorisce il metabolismo dei grassi ed entra nel
meccanismo di controllo del glucosio. È indicata negli stati di sovrappeso, come sostanza
antinvecchiamento e disintossicante (anti-radicali liberi). Controindicata in caso di infezioni virali
(herpes) o di turbe schizofreniche.
Carnitina – La carnitina è un aminoacido che viene assunto con la dieta (è presente nelle carni e
nei prodotti caseari) o sintetizzato dal nostro organismo nel fegato e nei reni a partire da due
aminoacidi (lisina e metionina) in presenza di vitamina B6, vitamina C e ferro. Il ruolo della
carnitina nel nostro organismo è quello di legarsi e permettere il passaggio degli acidi grassi
(sotto forma di acetilCoA-carnitina) attraverso le membrane dei mitocondri, rendendoli così
disponibili per la beta-ossidazione. Poiché la carnitina facilita il passaggio dei lipidi a catena
lunga all’interno dei mitocondri e poiché l’ossidazione dei lipidi produce energia, si è ipotizzato
che l’assunzione di carnitina potesse migliorare le prestazioni. In realtà tale ipotesi si è rivelata
decisamente ottimistica.
Cisteina – La L-cisteina (o, più semplicemente, cisteina) è un aminoacido non essenziale,
nell’organismo umano viene ottenuto dall’aminoacido essenziale metionina tramite due vie
metaboliche, la prima è la transmetilazione, reazione attraverso la quale la metionina viene
trasformata in omocisteina; la seconda è quella della transulfurazione, reazione che trasforma
l’omocisteina in cisteina. Uno dei derivati della cisteina, la N-acetilcisteina, viene utilizzato come
principio attivo di diversi farmaci ad azione mucolitica. La cisteina è contenuta in molti alimenti,
in particolar modo nelle carni, nei prodotti lattiero-caseari, in alcuni tipi di cereali e nelle uova. È
presente nelle strutture del coenzima A, del glutatione e della cheratina, una proteina largamente
diffusa e che è il principale costituente di capelli, peli e unghie. A livello epatico, grazie
all’intervento dell’enzima cisteina desulfidrasi, la cisteina viene degradata in ammoniaca, acido
solfidrico e acido piruvico che a sua volta viene degradato nel ciclo di Krebs o sfruttato per la
gluconeogenesi. In campo medico la cisteina viene utilizzata per accelerare la cicatrizzazione di
piaghe e ferite e come agente profilattico nelle patologie provocate da esposizioni a radiazioni; è
anche utilizzata come agente chelante.
Cistina – È un disintossicante dai metalli pesanti, utilizzato nel trattamento delle lesioni cutanee.

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Fenilalanina – La fenilalanina è un aminoacido essenziale contenuto nella stragrande maggioranza
delle proteine di origine animale e vegetale. Il nostro organismo metabolizza la fenilalanina sia
nella sua forma levogira (L-fenilalanina) sia in quella destrogira (D-fenilalanina); nei prodotti di
sintesi la fenilalanina è presente sotto quest’ultima forma. A differenza di quanto accade con gli
altri aminoacidi, la forma destrogira non viene eliminata dal nostro organismo; la D-fenilalanina
viene convertita in feniletilamina (un neurotrasmettitore monoamminico); le feniletilamine sono
una classe di sostanze alla quale appartengono diversi stimolanti. Partecipa alla sintesi della
tirosina in presenza delle vitamine B6 e C ed è importante per il normale funzionamento della
tiroide. Poiché induce un senso di sazietà (favorendo la produzione di colecistochinina) è
impiegata nei casi di sovrappeso. È utile come antidepressivo. Controindicata in caso di
ipertensione e di fenilchetonuria, nonché insieme a farmaci inibitori della monoamminossidasi.
Glicina - La glicina è un aminoacido non essenziale presente in piccola quantità nella stragrande
maggioranza delle proteine che si trovano nei tendini e nei muscoli; costituisce circa un terzo della
struttura del collagene. La glicina è un neurotrasmettitore inibitorio a livello di sistema nervoso
centrale; fondamentale la sua azione nella regolazione dei motoneuroni; insieme ad arginina e
metionina partecipa alla sintesi di creatina nell’organo epatico, nel pancreas e nel rene; svolge
inoltre importanti funzioni a livello di produzione di immunoglobuline e anticorpi. La glicina è
contenuta in diversi alimenti (proteine della soia, alghe, pesci, carne e formaggi).
Glutammina – La L-glutammina (o, più semplicemente, glutammina) è un aminoacido non
essenziale la cui sintesi avviene a partire da altri aminoacidi (arginina, ornitina e prolina) nel
tessuto muscolare, dov’è particolarmente abbondante (nella muscolatura rappresenta circa il 65%
degli aminoacidi presenti). La stragrande maggioranza della glutammina presente nel torrente
sanguigno è di produzione muscolare; in misura minore viene prodotta dal fegato e da altri organi.
La glutammina viene utilizzata dal nostro corpo come precursore di altri aminoacidi non essenziali
e può fornire energia in condizioni di elevato catabolismo. Nei neuroni viene convertita in acido
glutammico dall’enzima glutaminasi. Viene usata come coadiuvante nelle terapie
dell’affaticamento mentale per le sue importanti funzioni a livello nervoso e cerebrale; la
glutammina è altresì importante per il controllo dell’azoto. Nel mondo dello sport gli integratori a
base di glutammina godono di notevole considerazione; come per molti altri integratori, la
diffusione di questa sostanza arriva dal mondo del body building.
Isoleucina – L’isoleucina (o L-isoleucina o acido 2(S)-ammino-3(S)-metilpentanoico), come la
leucina, è un aminoacido ramificato particolarmente presente nelle carni e nel pesce, ma anche nei
legumi, nelle uova e nei latticini. Nell’uomo svolge diverse funzioni, oltre a risultare fondamentale
per la formazione dell’emoglobina, gioca un ruolo importantissimo nella sintesi proteica, in
particolar modo di quella muscolare; è inoltre in grado di prevenire il catabolismo delle proteine
strutturali e di accelerare i tempi di recupero dopo sforzi di una certa entità. È un aminoacido sia
glucogenico (può ciò essere convertito in glucosio) che chetogenico; in condizioni di normalità
queste due vie metaboliche non sono particolarmente attive, ma assumono notevole importanza nel
caso in cui l’organismo venga sottoposto a un digiuno prolungato oppure quando iniziano a ridursi
le scorte di glucosio ematico a motivo di sforzi prolungati nel tempo.
Leucina – La leucina (o L-leucina o acido 2(S)-ammino-4-metilpentanoico) è il principale dei tre
aminoacidi ramificati. Questo aminoacido riveste notevole importanza per la crescita e la
resistenza del tessuto muscolare; promuove la sintesi proteica nei muscoli e anche nel fegato; è in
grado di rallentare il processo di decomposizione delle proteine muscolari e promuove i processi
rigenerativi. Svolge altresì attività chetogenica (può cioè essere convertito in corpi chetonici) e
può quindi sostenere il metabolismo nei periodi di digiuno. La leucina non viene utilizzata soltanto

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nel tessuto muscolare e nel fegato, ma anche nel tessuto adiposo. È particolarmente presente nei
cibi ricchi di proteine, ma, a differenza di altri aminoacidi, la si può trovare in discrete quantità
anche in cereali e legumi. Leucina, isoleucina e valina devono essere somministrati insieme e in
un rapporto che secondo la letteratura deve essere 2:1:1.
Lisina – La L-lisina (o anche, più semplicemente, lisina) è uno degli aminoacidi essenziali. Le
funzioni svolte dalla lisina nel nostro organismo sono numerose: oltre a essere, insieme ad altri
aminoacidi (glicina, prolina, leucina ecc.), presente nella struttura del collagene, la lisina è uno
dei precursori, insieme alla metionina, della carnitina; è inoltre un precursore della niacina
(vitamina B3), vitamina la cui carenza può causare la pellagra. La lisina favorisce la produzione di
anticorpi, enzimi e ormoni (fra cui quello della crescita) e l’assorbimento di calcio.
Metionina – La L-metionina (o, più semplicemente, metionina) è un aminoacido essenziale; è
l’unico di questa tipologia di aminoacidi a contenere zolfo nella sua formula. Le funzioni della
metionina sono numerose; partecipa ai processi di sintesi di varie sostanze tra le quali si
ricordano la carnitina, la cisteina, la cistina, la creatina, la taurina, la lecitina, la colina, la
vitamina B12 ecc. La metionina è una sostanza dalle proprietà lipotropiche (facilita cioè la
metabolizzazione dei lipidi). La metionina è contenuta in diversi alimenti (albume, latte vaccino,
formaggi, carne bovina, proteine isolate della soia ecc.). Il fabbisogno di metionina nell’uomo
adulto è stimato essere di circa 800-1.000 mg giornalieri. Sotto forma di farmaco la metionina
viene utilizzata per il trattamento delle infezioni urinarie croniche e in soggetti affetti da calcolosi
fosfatica.
Ornitina – L’ornitina è un aminoacido non essenziale (acido 2,5-diamminovalerianico). Interviene
nella disintossicazione dall’ammoniaca; favorisce la cicatrizzazione delle ferite e stimola le
difese immunitarie. Dovrebbe favorire la produzione dell’ormone della crescita, ma accanto alle
ricerche in cui si afferma il suo ruolo favorente la produzione di tale ormone, ve ne sono molte
altre che non sono riuscite a confermare i risultati.
Prolina - È un aminoacido importante per la rigenerazione dei muscoli e delle strutture tendinee. È
consigliabile l’assunzione con vitamina C.
Taurina – La taurina (anche acido 2-amminoetanosulfonico) è un aminoacido condizionatamente
essenziale. La taurina è il secondo aminoacido più presente nell’organismo umano, la si trova
concentrata soprattutto nei tessuti nervoso, muscolare e cardiaco. Negli adulti la taurina viene
sintetizzata a partire da metionina o cisteina in presenza di vitamina B6; i neonati invece assumono
taurina dal latte materno. Questo aminoacido svolge diverse funzioni, una delle più importanti è
quella relativa alla sintesi degli acidi biliari, acidi che facilitano l’eliminazione del colesterolo e
risultano essenziali nei processi di digestione dei lipidi e di assorbimento delle vitamine di tipo
liposolubile. La taurina svolge, insieme allo zinco, una funzione protettiva a livello oculare. La
taurina è presente nelle fonti proteiche di origine animale (carne, pesce, latte e uova), ma non è
presente nei vegetali.
Tirosina – La L-tirosina (o, più semplicemente, tirosina) è un aminoacido non essenziale (viene
sintetizzata dalla fenilalanina, un aminoacido essenziale). La tirosina è un precursore di diversi
ormoni e neurotrasmettitori (tiroxina, dopamina, noradrenalina e adrenalina). Svolge un ruolo
importante nella produzione di eritrociti, leucociti, melatonina e GH. La tirosina è presente nelle
proteine isolate della soia, nelle carni, nel pesce, nei formaggi, nel latte, nelle uova, nelle arachidi
ecc.
Treonina – La treonina è un aminoacido essenziale che si trova in piccole quantità nella
stragrande maggioranza delle proteine. Nei tessuti animali la sua formazione avviene in presenza

50
dell’enzima treonina-sintetasi a partire dall’omoserina, un prodotto intermedio della sintesi della
cisteina. La treonina è un aminoacido glicogenetico; ovvero uno di quegli aminoacidi che
nell’organismo umano vengono trasformati in glucosio. Le principali funzioni dell’organismo che
vedono il coinvolgimento di questo aminoacido sono la formazione dei tessuti e il rafforzamento
del sistema immunitario; contribuisce inoltre a prevenire l’accumulo di grasso a livello epatico;
per questo motivo la treonina è considerata come una sostanza in grado di disintossicare il fegato.
Gli alimenti più ricchi di treonina sono le uova, le alghe spiruline, le proteine isolate della soia, la
carne di vitello, la carne di maiale e quella di coniglio, i fagioli, i formaggi, i ceci, le arachidi
ecc.
Triptofano – Il triptofano è un aminoacido essenziale; deve quindi essere introdotto con la dieta.
Il triptofano è presente nella stragrande maggioranza delle sostanze proteiche; si trova in
particolar nelle carni, nei formaggi, nel pesce e nel latte. È un elemento fondamentale nella sintesi
di vitamina B6 (circa il 3% del triptofano alimentare viene destinato alla sintesi di questa
vitamina) e serotonina. Gli enzimi coinvolti nella sintesi della serotonina a partire dal triptofano
sono due: la triptofano 5-monossigenasi e l’aminoacido decarbossilasi. Inizialmente, grazie
all’azione della triptofano 5-monossigenasi, il triptofano viene convertito in 5-idrossitriptofano,
quest’ultimo viene poi decarbossilato a serotonina, grazie all’azione dell’aminoacido
decarbossilasi.
Valina – La valina (o L-valina o acido 2(S)-ammino-3-metilbutanoico) è un componente
indispensabile della biosintesi proteica e assieme agli altri due aminoacidi ramificati svolge
importanti funzioni di nutrimento dei muscoli. Può essere utilizzata dall’organismo umano per
produrre energia da cibi altamente proteici o nel caso si abbia una mobilizzazione delle riserve
proteiche endogene. È inoltre importante per le funzioni mentali, il coordinamento muscolare e le
funzioni nervose. La degradazione della valina porta alla formazione di propionil-CoA il quale,
dopo la conversione in succinil-CoA, contribuisce al completamento del ciclo di Krebs. Fra i cibi
che contengono discrete quantità di valina ricordiamo la carne di manzo, il petto di pollo, il
salmone, la segale ecc.

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Capitolo 5 - I grassi
In biologia il termine lipidi (come scientificamente si suole chiamare i grassi, dal greco lipos,
grasso) indica sostanze organiche insolubili in acqua e solubili in solventi organici come etere e
benzolo. I lipidi:

•• si dividono in semplici e composti; i primi sono costituiti solo da idrogeno, ossigeno e


carbonio, mentre nei secondi sono presenti anche azoto, fosforo e zolfo.
•• Forniscono 9 calorie per grammo.

I lipidi semplici
I lipidi semplici sono costituiti dal legame fra glicerolo e acidi grassi (fino a tre). A seconda del
numero di acidi grassi avremo perciò mono-, di- e trigliceridi. Al glicerolo possono legarsi acidi
grassi di diverso tipo. Normalmente in natura nei trigliceridi (glicerolo + tre acidi grassi) in
posizione centrale si lega un acido grasso insaturo (tranne che nello strutto e nel latte materno);
trovando in questa posizione più del 2% di acidi grassi saturi, è lecito supporre l’origine sintetica
del grasso. I monogliceridi e i digliceridi sono molecole polari (cioè elettricamente non neutre);
nell’acqua si aggregano in micelle, divenendo tensioattivi ed emulsionanti; da qui il loro impiego
come additivi alimentari nei gelati, creme, salse ecc. Il corpo immagazzina i trigliceridi in
speciali cellule, dette adipociti, localizzate nel tessuto adiposo presente specialmente in sede
sottocutanea e addominale. La riserva energetica rappresentata dai grassi di un soggetto
normopeso è sufficiente per un periodo di sopravvivenza di due-tre mesi.

Gli acidi grassi


A prescindere da ogni altra considerazione biochimica, è fondamentale comprendere le
implicazioni della suddivisione degli acidi grassi in acidi saturi e insaturi (Figura 2).

Figura 2 - La saturazione degli acidi grassi.

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Gli acidi grassi insaturi hanno uno o più legami doppi di carbonio che possono rompersi e legare
altri atomi di idrogeno; gli acidi saturi non hanno doppi legami e non possono (come dice il
nome) aggiungere altri atomi di idrogeno. La saturazione si esprime in una maggiore densità: gli
acidi saturi sono in genere solidi, mentre quelli insaturi sono liquidi.
Gli acidi grassi insaturi si dividono a loro volta in monoinsaturi (un solo doppio legame) e
polinsaturi (due o più).
Fra i lipidi semplici particolare importanza rivestono gli acidi grassi essenziali (EFA, essential
fatty acids), otto in tutto, divisi in due classi, gli omega 3 e gli omega 6, spesso raggruppati sotto
il nome di vitamina F. Per le proprietà degli EFA si rimanda al paragrafo corrispondente; basterà
ricordare che già fin dal 1970 Dyerberg aveva mostrato la correlazione fra il consumo di pesce e
la bassa incidenza di cardiopatie negli eschimesi.
Un acido grasso è costituito da atomi di carbonio e idrogeno e dal gruppo carbossilico (COOH);
importante poi è il numero di doppi legami fra atomi di carbonio e la loro posizione (che definisce
la classe W). Pertanto un modo molto semplice di indicare un acido grasso è:

Cx:y Wz.

Per esempio, C18:3 W3 si legge come un acido grasso (l’acido linolenico, un polinsaturo omega
3) con 18 atomi di carbonio, 3 doppi legami (quindi saturabili) di cui il primo è dopo il terzo
(W3) atomo di carbonio. Vediamo una semplice tabella riassuntiva:

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ACIDI GRASSI

• SATURI > CATENA MEDIA


• SATURI > A CATENA LUNGA

• INSATURI > MONOINSATURI


• INSATURI > POLINSATURI > ……

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• INSATURI > POLINSATURI > OMEGA 3
• INSATURI > POLINSATURI > OMEGA 6

• IDROGENATI
----------

Alcuni esempi.
Saturi – Sono contenuti nel grasso delle carni animali, uova, salumi, latticini, olio di cocco, burro
di cacao, olio di palma.
Monoinsaturi – Sono contenuti in olio di oliva, di arachidi, di noci.
Polinsaturi omega 3 – Sono contenuti in pesce e olio di pesce.
Polinsaturi omega 6 – Sono contenuti negli oli di mais e di girasole.
Idrogenati – Di natura sintetica, si ottengono con procedimento chimico.

I grassi saturi
Gli acidi grassi saturi hanno una configurazione spaziale lineare (vedasi, più avanti, la Figura 3
nel sottoparagrafo Gli alimenti grassi) che facilita le interazioni fra le molecole, dando solidità
alla struttura; è per questo che normalmente hanno punto di fusione elevato, infatti quelli con
almeno dieci atomi di carbonio sono solidi a temperatura ambiente. Inoltre sono molto
conservabili.
A causa della loro struttura, quelli con almeno 16 atomi di carbonio hanno la tendenza a interferire
con le normali funzioni metaboliche e, se consumati in eccesso, possono depositarsi lungo i vasi
sanguigni formando placche ateromatose e dando seri problemi coronarici.
Sono una fonte privilegiata di energia (ved. il paragrafo I meccanismi energetici): per esempio,
dall’ossidazione di una molecola di acido palmitico si arriva a 129 molecole di ATP, mentre
partendo da una molecola di glucosio se ne ottengono solo 38.

Grassi saturi: la verità


I grassi saturi (spesso erroneamente definiti “animali”) sono demonizzati da 50 anni come una
delle principali cause di cardiopatia coronarica (in altri termini, infarto); questa demonizzazione
ha portato a estendere l’attacco ai grassi saturi di origine animale su altri fronti come quello del
cancro, arrivando ad assurde posizioni di totale esclusione. Anche se non è negli scopi di questo
paragrafo, ricordiamo che recentemente le ricerche che prima demonizzavano i grassi saturi come
causa di cancro al colon e al retto (non esistono studi che li correlino al concetto generale di
cancro!) si sono spostate sul sovrappeso e sull’uso di grassi trans. In questo paragrafo vogliamo
mostrare come sia possibile, a causa di interessi commerciali e scientifici, sostenere per 50 anni
posizioni completamente errate. Vediamo prima la storia (i numeri fra parentesi quadra fanno
riferimento alla bibliografia consultabile alla pagina del mio sito:
http://www.albanesi.it/Alimentazione/grassisaturi.htm).

1954: un giovane ricercatore russo, David Kritchevsky, pubblica uno studio [1] sugli effetti
dell’aggiunta di colesterolo alla dieta vegetariana dei conigli. Lo studio indica la formazione di
ateromi (le placche che ostruiscono i vasi sanguigni).
1954: sempre Kritchevsky (in contatto con l’American Oil Chemists Society) pubblica una ricerca

54
[2] dove descrive il benefico uso di acidi grassi polinsaturi sui livelli di colesterolo.
Seconda metà degli anni ‘50: viene costruita la teoria dei lipidi, in parte fraintendendo gli studi
di Kritchevsky. I grassi saturi e il colesterolo dei cibi animali innalzerebbero il livello di
colesterolo nel sangue. È avviata una serie di iniziative (fra cui, 1957, l’Anti-Coronary Club, a
cura del Nutrition Bureau of the New York Health Department) in cui la margarina sostituisce il
burro e i grassi saturi animali.
1955: viene pubblicizzato uno studio sulle placche arteriose di soldati uccisi nella guerra di
Corea; tale studio viene ridimensionato da uno studio del 1961 [3] in cui si mostra che la
percentuale di placche ateromatose patogeniche dei giapponesi (la cui dieta è povera di grassi
animali) è simile (65% contro 75%) a quella degli americani.
1956: l’American Heart Association (AHA) presenta l’ipotesi dei lipidi e lancia la Prudent diet
nella quale olio di mais, margarina, pollo e cereali sostituiscono burro, lardo, carne e uova. Solo
il dott. White dissente dai suoi colleghi della AHA, con la banale constatazione che nel 1900
l’infarto miocardico era praticamente sconosciuto nonostante il consumo di uova fosse tre volte
superiore a quello del 1956 e l’olio di mais non fosse disponibile.
1957: uno studio [4] sui Bantù (ampiamente vegetariani) mostra che hanno lo stesso livello di
occlusione delle arterie di quello di popolazioni del Sud Africa che mangiano più carne.
1958: uno studio [5] sui neri giamaicani mostra lo stesso livello di aterosclerosi degli americani,
sebbene i primi siano meno colpiti da patologie cardiovascolari.
1960: uno studio [6] mostra che le lesioni aterosclerotiche dei giapponesi sono simili a quelle
degli americani.
1961: l’American Heart Association pubblica le prime linee guida alimentari in cui si suggerisce
la sostituzione dei grassi saturi con i polinsaturi. 1964: il famoso cardiochirurgo De Bakey
pubblica una ricerca [9] su 1.700 pazienti in cui dimostra che non c’è relazione fra livelli ematici
di colesterolo e ostruzione delle arterie.
1966: termina l’esperimento del dott. Joliffe (Anti-Coronary Club) e i risultati vengono pubblicati
sul Journal of the American Medical Association [11]: il gruppo con Prudent Diet mostra un
livello sierico medio di colesterolo di 220 contro il livello di 250 di quello del gruppo di
controllo. Nel gruppo con Prudent Diet ci sono state (in nove anni) otto morti per patologia
cardiaca contro nove in quello di controllo che mangiava carne tre volte al giorno. Nel frattempo
lo stesso Dott. Jolliffe, sostenitore della Prudent Diet, muore per trombosi vascolare. I sostenitori
della teoria dei lipidi liquidano l’esperimento dicendo che i numeri coinvolti sono troppo piccoli
per essere statisticamente significativi. Viene ripetuto l’esperimento su 2.000 soggetti, ma i
risultati sono equivalenti. A questo punto il dott. Page dell’AHA suggerisce che si deve impiegare
un campione di un milione di unità: il progetto inizia, ma non viene mai terminato “per ragioni di
costi”.
1968: l’International Atherosclerosis Project (analisi di 22.000 corpi di 14 nazioni) mostra che il
livello di ateroma è lo stesso in tutte le parti del mondo a prescindere dal modello alimentare [7].
Conclude una serie di studi che sono orientati ad affermare che il restringimento delle arterie è un
fenomeno naturale molto complesso che non si può ridurre alla sola ipotesi dei lipidi.
1968: per la prima volta la AHA mette in guardia dall’impiego dei grassi idrogenati, ma la
Procter&Gamble riesce a far ritoccare il documento, eliminando ogni accenno ai grassi trans.
1972: Mann pubblica lo studio [35] sui Masai africani, grandi consumatori di cibi ad alto
contenuto di colesterolo e di grassi saturi.
1978: riprendendo gli studi di Kummerow [16], Mary Enig pone l’accento sulla correlazione fra

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patologie cardiache e acidi grassi trans.
1982: un altro famosissimo studio ([27], Multiple Risk Factor Intervention Trial, MRFIT) cerca di
correlare il rischio cardiovascolare al livello di colesterolo di 362.000 uomini e trova che le
morti annuali sono leggermente inferiori allo 0,1% con livelli di colesterolo sotto ai 140 mg/dl e
circa lo 0,2% per livelli sopra i 300 mg/dl. Questo basta per far dire al dott. La Rosa
dell’American Heart Association che la curva di rischio inizia a flettersi decisamente a 200 mg/l,
mentre in realtà la “curva” è una retta che non mostra nessun punto critico. Matematicamente ciò
significa che abbassare di 32 mg/dl i livelli di colesterolo (forse il massimo di quello che si
riesce a ottenere con l’alimentazione!) abbassa il rischio di morte dello 0,02%!
1983: la Enig pubblica [21] un elenco di 220 cibi contenenti quantità sospette di acidi grassi trans,
mostrando come il consumo di grassi trans sia di 12 g per americano.
1983: Kummerow (università dell’Illinois) mostra come il consumo di grassi trans aumenti il
rischio cardiovascolare [34].
1983: Horrobin [40] indica che il consumo di grassi trans contrasta l’azione positiva degli omega
3, alterando l’equilibrio delle prostaglandine.
1984: in un altro studio [17] la Enig mostra come i grassi trans interferiscano con il sistema
enzimatico che dovrebbe neutralizzare gli agenti cancerogeni, potenziando l’azione di questi
ultimi.
1984: il rapporto finale della Cholesterol Consensus Conference fissa a 200 mg/dl il limite di
rischio e consiglia di sostituire il burro con la margarina.
1985: la Federation of American Societies for Experimental Biology (FASEB) indice
un’audizione sul problema dei grassi trans. Enig è l’accusa mentre Hunter e Applewhite dell’ISEO
(Institute of Shortening and Edible Oils) e Ronald Simpson (poi membro del National Association
of Margarine Manufacturers) rappresentano la difesa. Il processo si conclude con un nulla di fatto.
1986: Hunter e Applewhite pubblicano sull’American Journal of Clinical Nutrition [22] un
articolo “filosofico” che assolve i grassi trans con la considerazione falsa che gli americani
assumono al massimo 6-8 g di grassi trans. L’articolo sarà poi ripreso senza spirito critico dalle
varie fonti.
1987: viene pubblicato il primo studio [12] sugli abitanti di Framingham, un piccolo centro del
Massachusetts (analisi di 5.209 abitanti dal 1949 al 1953 e successivamente di un secondo gruppo
dal 1968 al 1975 cercando di correlarlo al primo gruppo, ormai prossimo ai 50 anni). Il famoso
studio Framingham mostra che non c’è nessuna significativa differenza nel rischio cardiovascolare
fra individui i cui livelli di colesterolo variano da 204 a 294 mg/dl [25]. Nonostante ciò, il dott.
Kannel, direttore dello studio, sentenzia che il livello di colesterolo totale plasmatico è un potente
indicatore del rischio cardiovascolare. È solo dieci anni dopo che i dati dello studio Framingham
vengono pubblicati senza enfasi sul l’Archives of Internal Medicine. Purtroppo le parole di
Kannel avevano già fatto il giro del mondo. Citiamo Castelli, autore della pubblicazione dello
studio [26] e successore di Kannel: “In Framingham, Massachusetts, the more saturated fat one ate,
the more cholesterol one ate, the more calories one ate, the lower people’s serum cholesterol…
we found that the people who ate the most cholesterol, ate the most saturated fat, ate the most
calories weighed the least and were the most physically active…”. Molte fonti citano ancora oggi
lo studio Framingham con le tesi di Kannel riportando la bibliografia di Castelli!
1988: alla conferenza del National Food Processors Association, M. Enig e Frank McLaughlin,
direttore del Center for Business and Public Policy dell’università del Maryland, chiedono che su
tutti i cibi venga indicata la quota di grassi trans (il loro appello sarà recepito solo a partire dal
2006!).

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1989: un ricercatore ceco (Hanis) mostra [38] come il consumo di grassi trans diminuisca i livelli
di testosterone e aumenti la quantità di sperma anomalo.
1990: Teter mostra come l’uso di grassi trans inibisca la produzione di latte nelle gestanti e
modifichi la membrana cellulare dei globuli rossi e l’azione dell’insulina [37].
1990: Koletzko mostra [39] che il consumo di grassi trans diminuisce il peso dei bambini alla
nascita.
1990: Mensink e Katan dimostrano che l’uso di margarina alza il rischio cardiovascolare [43].
1993: Mann esce dal gruppo Framingham e pubblica le critiche alle conclusioni dello studio [36].
1993: per la prima volta un’autorità, i ricercatori del governo canadese, ammette che i cibi
comunemente consumati contengono elevate quantità di acidi grassi trans [20].
1993: gli studi del ricercatore di Harvard, Willett (1993, database del Nurses Health Study,
85.095 donne, [45]-[46]), confermano l’aumento del rischio cardiovascolare legato all’uso dei
grassi trans.
1994: lo studio di Ascherio [13] conferma la ricerca di Willett.
1994: le ricerche di Mann confermano che il consumo di grassi trans alza il rischio
cardiovascolare [41].
1995: finalmente anche gli europei si occupano di grassi trans e una ricerca mostra la correlazione
fra cancro al polmone nei ratti e consumo di grassi trans [42].
1998: una ricerca promossa dall’American Heart Association [48] conferma i dati già noti: 1% di
colesterolo in meno per 1% di grassi saturi in meno nella dieta. Scopre però che diminuisce anche
il colesterolo HDL e che aumenta un altro fattore di rischio cardiovascolare: passando dal 15% al
6% di grassi saturi nella dieta, la lipoproteina (a) aumenta del 15%. La diminuzione dell’LDL è
così vanificata dalla diminuzione del l’HDL e dall’aumento della lipoproteina (a).
1998: al simposio “Evolution of Ideas about the Nutritional Value of Dietary Diet” [47] D.
Kritchevsky ammette che l’uso di diete a basso tenore di grassi non incide in maniera significativa
nella mortalità per infarto coronarico. Il cerchio si chiude.
2013: quindici anni dopo la chiusura del cerchio c’è ancora chi demonizza i grassi saturi!

1 – È incredibile come per almeno 20 anni si sia sostenuta la sostituzione del burro con la
margarina e si siano ritenuti i grassi trans innocui, da parte di medici e associazioni per la
protezione del cuore. Dal 2006 negli USA è obbligatoria l’indicazione della quantità di grassi
trans. Si noti come il provvedimento sia entrato in vigore dopo tre anni dall’approvazione, a
riprova delle fortissime pressioni. Ci sono voluti più di 50 anni per sapere la verità.

2 – È incredibile come moltissimi medici si riferiscano a una generica bibliografia senza leggere
gli articoli, come si fidino del passaparola per l’inerzia di non aggiornarsi. Troverete esempi di
errori grossolani di interpretazione dei dati nel Volume 2, Capitolo 3 (Il grande abbaglio del
colesterolo); qui è riportato solo quello più eclatante che aleggia ancora negli ambulatori di molti
medici o nei laboratori. È comprensibile che ci possano essere interessi milionari nello spingere i
farmaci anticolesterolo, ma la matematica non è un’opinione.
Tutti continuano a parlare di colesterolo totale. Ora, se consideriamo lo studio Multiple Risk
Factor (su 361.662 maschi, numericamente il più grande studio sul colesterolo), scopriamo che il
rischio di cardiopatia ischemica aumenta dell’1% per ogni mg di colesterolo in più mentre
l’aumento di colesterolo HDL è associato alla diminuzione del rischio di infarto del 4,4% per ogni
mg. Supponiamo che le condizioni iniziali del soggetto siano:

57
colesterolo totale 200 – colesterolo HDL 50.

Il soggetto cambia stile di vita e arriva a:

colesterolo totale 252 – colesterolo HDL 80.

Ha smesso di fumare, fa sport ecc.


Se è visitato da un medico di vecchia generazione o ritira gli esami in un laboratorio
“tradizionale”, cosa scopre? Che gli dicono che ha il colesterolo un po’ alto e che è meglio tenerlo
sotto controllo.
Usando lo studio Multiple Risk Factor, si scopre che il suo rischio è diminuito del 20% circa!
Infatti il suo indice di rischio cardiovascolare (colesterolo totale/colesterolo HDL) è diminuito da
4 a 3,15.

3 – La pubblicazione dei risultati della ricerca promossa dall’American Heart Association mostra
chiaramente che non ha un grande significato demonizzare i grassi saturi nella dieta. Nonostante
ciò, ancora per anni sentiremo medici parlare di grassi animali che fanno male…

Questo paragrafo non vuole annullare le ricerche precedenti, vuole solo reinterpretarle,
ridimensionando certi risultati. In particolare, due risultati.

A. I grassi saturi non incidono significativamente sul rischio di cardiopatia coronarica in maniera
diretta (lo fanno in modo indiretto come causa del sovrappeso, insieme ad altre fonti energetiche
come carboidrati e altri tipi di grassi).
B. Il rischio cardiovascolare deve essere espresso innanzitutto come legato ai seguenti fattori
controllabili:

•• fumo
•• sovrappeso
•• ipertensione
•• diabete
•• indice di rischio (colesterolo totale/colesterolo HDL).

Fattori come l’età o il sesso sono importanti, ma ovviamente non modificabili e devono essere
tenuti in considerazione solo a fini statistici per il calcolo del rischio assoluto. Altri fattori come
fibrinogeno, omocisteina, PAI-1 (Inibitore Attivatore del Plasminogeno), uricemia, lipoproteina
(a), proteina C reattiva devono essere ulteriormente indagati, ma probabilmente riguardano
percentuali piccole nell’insieme degli individui che non presentano i fattori di rischio principali. I
fattori da approfondire possono essere considerati sia attivatori del rischio (come un livello di
lipoproteina (a) superiore a 25 mg/dl) sia indicatori (per esempio la proteina C reattiva indica
un’infiammazione in corso e, specificamente, un’irritazione delle pareti delle arterie). In ogni caso
non è facile eseguire screening di massa per capirne fino in fondo la correlazione con la
cardiopatia coronarica.

I grassi monoinsaturi e polinsaturi

58
Come si vede dalla Figura 3, gli acidi grassi mono- e polinsaturi hanno una struttura più elastica,
con curve che non consentono una disposizione ordinata. Hanno quindi temperatura più bassa e un
minor grado di conservabilità. Queste proprietà dipendono dal numero di doppi legami, per cui se
per esempio mettiamo in frigorifero l’olio di oliva (costituito principalmente da acidi grassi
monoinsaturi) solidificherà mentre l’olio di girasole (in prevalenza costituito da polinsaturi)
resterà liquido.

Figura 3 - Esempi di acido grasso saturo (a sinistra, acido stearico) e polinsaturo (a destra,
acido linolenico).

A livello di stabilità quindi i monoinsaturi sono migliori dei polinsaturi che hanno molta facilità a
ossidarsi, tant’è che un loro consumo eccessivo è legato a immunodeficienza e a un aumento del
rischio tumorale.

Gli alimenti grassi


Un errore molto comune è legare un alimento a una sola tipologia di acidi grassi (per esempio
l’olio di oliva ai grassi monoinsaturi). Infatti ogni alimento lipidico (cioè con prevalenza di
grassi) è un mix di acidi grassi. Nella Tabella 3 è elencata la composizione tipica di alimenti
grassi e oli. La tabella si basa sulla formula di Albanesi (2003) per la descrizione del contenuto
in acidi grassi di un alimento. La formula è costituita da quattro numeri che indicano
rispettivamente la percentuale di acidi grassi saturi a catena lunga, saturi a catena media,
monoinsaturi e polinsaturi, in modo da avere subito una chiara “fotografia” alimentare.

TABELLA 3 - La composizione di alcuni grassi alimentari.


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• Olio di babassu
> LCT 29,7 :|: MCT 53,7 :|: Mono. 14,2 :|: Poli. 2,4

• Burro
> LCT 52,6 :|: MCT 12,4 :|: Mono. 31,4 :|: Poli. 3,6

• Canola
> LCT 7,3 :|: MCT 0 :|: Mono. 62,9 :|: Poli. 29,8

• Grasso del pollo


> LCT 33 :|: MCT 0,1 :|: Mono. 45,5 :|: Poli. 21,4

• Burro di cacao
> LCT 62 :|: MCT 0 :|: Mono. 34,8 :|: Poli. 3,2

• Olio di cocco
> LCT 30,5 :|: MCT 60,7 :|: Mono. 6,8 :|: Poli. 2

• Olio di mais
> LCT 13,6 :|: MCT 0 :|: Mono. 25,6 :|: Poli. 60,8

• Olio di semi di cotone


> LCT 25,5 :|: MCT 0 :|: Mono. 19,3 :|: Poli. 55,2

• Illipè
> LCT 62,5 :|: MCT 0 :|: Mono. 36,5 :|: Poli. 1

• Strutto
> LCT 41,7 :|: MCT 0,2 :|: Mono. 48,1 :|: Poli. 10

• Aringa americana (menhaden)


> LCT 31,3 :|: MCT 0 :|: Mono. 26,6 :|: Poli. 42,1

• Olio di oliva (vergine)


> LCT 16,1 :|: MCT 0 :|: Mono. 74,9 :|: Poli. 9

• Olio di palma
> LCT 50 :|: MCT 0 :|: Mono. 39,5 :|: Poli. 10,5
• Olio di palma (frazione: oleina)
> LCT 45,9 :|: MCT 0 :|: Mono. 42,7 :|: Poli. 11,4

• Olio di palma (frazione: stearina)


> LCT 63,3 :|: MCT 0 :|: Mono. 29,8 :|: Poli. 6,9

• Olio di palmisto (PKO, olio di semi di palma)


> LCT 27,2 :|: MCT 55,1 :|: Mono. 15,4 :|: Poli. 2,3

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• PKO - Frazione oleina
> LCT 23,4 :|: MCT 50,8 :|: Mono. 22,4 :|: Poli. 3,4

• PKO - Frazione stearina


> LCT 31,4 :|: MCT 60,9 :|: Mono. 6,9 :|: Poli. 0,8

• Olio d’arachide
> LCT 19,4 :|: MCT 0 :|: Mono. 48,6 :|: Poli. 32

• Olio di colza (alta perc. di acido erucico)


> LCT 6,3 :|: MCT 0 :|: Mono. 71,6 :|: Poli. 22,1

• Olio di cartamo
> LCT 9,7 :|: MCT 0 :|: Mono. 12,2 :|: Poli. 78,1

• Olio di cartamo (alto contenuto oleico)


> LCT 10,8 :|: MCT 0 :|: Mono. 81,8 :|: Poli. 7,4

• Burro di Galam
> LCT 48 :|: MCT 0 :|: Mono. 45,5 :|: Poli. 6,5

• Olio di soia
> LCT 15,4 :|: MCT 0 :|: Mono. 23,4 :|: Poli. 61,2

• Olio di girasole
> LCT 12,8 :|: MCT 0 :|: Mono. 18,9 :|: Poli. 68,3

• Olio di girasole (alto contenuto oleico)


> LCT 9,6 :|: MCT 0 :|: Mono. 81,4 :|: Poli. 9

• Grasso bovino
> LCT 48,3 :|: MCT 0,1 :|: Mono. 48,3 :|: Poli. 3,3

• Olio della palma del Brasile


> LCT 30,5 :|: MCT 56,8 :|: Mono. 10,3 :|: Poli. 2,4

• Olio di vinacciolo
> LCT 10 :|: MCT 0 :|: Mono. 18 :|: Poli. 72

• Oli di sesamo
> LCT 14,8 :|: MCT 0 :|: Mono. 41,5 :|: Poli. 43,7
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Gli acidi grassi essenziali


Attorno alla locuzione acidi grassi essenziali (EFA, essential fatty acids) c’è molta confusione.
Infatti l’aggettivo essenziale può essere interpretato in due modi diversi:

61
•• esteso – ciò che è essenziale per la vita del soggetto;
•• ristretto – ciò che si deve necessariamente assumere dall’alimentazione perché il nostro corpo
non è in grado di produrlo.

Se si considerano due classi di acidi grassi polinsaturi, gli omega 3 e gli omega 6 (otto in tutto) ci
si può riferire a loro come acidi grassi essenziali, nel senso esteso del termine. Il numero dopo la
parola omega indica quanti atomi di carbonio ci sono a partire dall’ultimo atomo di carbonio (che
è per questo denominato carbonio omega, dall’ultima lettera dell’alfabeto greco) fino ad arrivare
al primo doppio legame. I grassi omega sono importanti, fra l’altro, per la crescita, la produzione
di energia, la salute della membrana cellulare e di quella mitocondriale (per esempio aumento
della sintesi proteica dei mitocondri epatici e rigenerazione del parenchima epatico), la sintesi
dell’emoglobina, la coagulazione e la resistenza capillare, la funzione sessuale e la riproduzione,
la cura di alcune patologie della pelle (eczema atopico e dermatiti), una miglior tolleranza ai
carboidrati nei diabetici, una riduzione (gli omega 3) di colesterolo totale e di quello cattivo
(LDL) e dei trigliceridi, come precursori delle prostaglandine.
In senso ristretto (che è anche quello più corretto, tant’è che gli EFA vengono anche chiamati
vitamina F) due soli sono gli acidi omega essenziali, cioè non sintetizzabili dal corpo umano:
l’acido alfalinolenico (omega 3) e l’acido linoleico (omega 6).
Gli omega 3 sono contenuti soprattutto nei grassi del pesce (salmone, sgombri, acciughe ecc. ) e
nell’olio di pesce. Da ricordare fra gli essenziali l’acido alfalinolenico (contenuto nelle noci e
negli oli di soia e di mais); l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA,
fondamentale per la composizione dei lipidi del cervello e dei fosfolipidi delle membrane
sinaptiche implicate nella trasmissione dell’impulso nervoso) sono invece non essenziali perché
sintetizzati da altri acidi grassi.
Gli omega 6 sono contenuti soprattutto negli oli vegetali (oli di girasole e di mais che però non
devono essere cotti), ma anche in cibi proteici, nelle verdure e nei cereali. Da ricordare l’acido
linoleico (è contenuto in noci, cereali, olio di mais e di girasole, legumi; da esso derivano l’acido
gammalinolenico, GLA, utile nella riduzione del colesterolo, contro l’artrite reumatoide, la
neuropatia diabetica e l’eczema) e l’acido arachidonico.
Gli eicosanoidi – Gli acidi grassi omega 3 e omega 6 sono importanti perché intervengono nel
metabolismo degli eicosanoidi (il cui studio valse il Nobel nel 1982 a Bergstrom, Samuelson e
Vane), sostanze (superormoni) che controllano i sistemi ormonali. Sono rappresentati da diverse
famiglie (prostaglandine, tromboxani, leucotrieni, lipossine ecc.). Secondo una visione molto
divulgativa della materia esisterebbero eicosanoidi buoni ed eicosanoidi cattivi. In realtà la
funzione degli eicosanoidi è stata decisamente semplificata e banalizzata e rischia di diventare
superficiale come quella del colesterolo nel rischio cardiovascolare. Infatti è molto riduttivo
parlare di eicosanoidi buoni ed eicosanoidi cattivi, in quanto fisiologicamente la cosa più
importante è il giusto equilibrio fra di loro. È anche decisamente ottimistico (e non confermato da
nessuna ricerca) sperare di controllare la produzione di eicosanoidi con l’alimentazione, partendo
magari da una serie di reazioni biochimiche. In effetti esistono enzimi (come le deltadesaturasi)
che controllano reazioni chimiche che trasformano acidi grassi essenziali fino ad arrivare alla
produzione di eicosanoidi, ma tali reazioni sono controllate anche da moltissimi altri fattori,
indipendenti dall’alimentazione. Anzi, questi fattori si devono considerare prioritari: lo stile di
vita (fumo, alcol, sovrappeso, malnutrizione, sedentarietà ecc. ), l’età, lo stress, lo stato di salute
del soggetto, carenze vitaminiche e/o di minerali, l’assunzione di farmaci.

62
In altri termini, se anche si trovasse un tipo di alimentazione ottimale, tale sforzo potrebbe essere
vanificato nella gran parte della popolazione da uno stile di vita errato, dallo stress e da malattie
croniche.
Il rapporto omega 3/omega 6 – Alcuni modelli alimentari sono diventati sempre più ortoressici,
introducendo per esempio il rapporto ottimale fra omega 3 e omega 6; quale sia questo rapporto,
nessuno è riuscito a determinarlo secondo motivazioni convincenti, tant’è che esistono oggi molte
contrastanti teorie. Il tentativo di cercare un rapporto ottimale è un caso di ortoressia matematica.
Infatti la strategia sarebbe possibile solo se ci fossero pochi alimenti interessati e se fossero
esclusivi nei confronti di una delle due serie (cioè contengono solo omega 3 o solo omega 6). In
realtà molti sono gli alimenti che hanno acidi grassi essenziali, anche se in quantità ridotte, ma,
più grave, alcuni fra i più gettonati (come l’olio di mais) li contengono entrambi: se aggiungo una
certa quantità di un alimento bivalente (cioè contenente acidi delle due classi), vado a sommare
una quantità X di omega 3 e una quantità Y di omega 6. Un matematico comprende benissimo che
l’additività può rendere impossibile il raggiungimento di un rapporto. Inoltre la quantità di EFA
contenuta in molti alimenti dipende dal trattamento: non solo la cottura, ma anche la semplice
esposizione alla luce del sole (per esempio per l’olio di lino) degrada l’acido essenziale presente
nell’alimento. Il rapporto consigliato attualmente sia dalle tabelle LARN, sia dalle linee guida
delle National Academies of Sciences statunitensi (un raro caso dove USA ed Europa sono
d’accordo in tema alimentare) è 1:10.
I soli omega 3 – Siamo ormai bombardati dai miracolosi effetti degli omega 3. Cosa c’è di vero?
Qualcosa sicuramente, ma non è possibile ritenerli la panacea di tutti i mali. Infatti moltissime
ricerche sono condotte su soggetti malati e/o anziani; non è affatto automatico (anzi, il più delle
volte non lo è) che i benefici che un malato ha da una sostanza (farmaco) possano essere tali anche
se la sostanza è assunta da una persona sana. Un malato (anziano) ha equilibri alterati che una
sostanza può contribuire a ristabilire, mentre una persona sana non ha tale bisogno. Citiamo un
esempio sconosciuto ai più. Tutti sanno che fra gli eschimesi la mortalità per infarto miocardico è
molto bassa a causa del consumo di pesce; pochissimi però sanno che è molto alta quella per
incidenti vascolari cerebrali. Questo perché grandi quantità di omega 3 hanno un’azione
anticoagulante favorendo le emorragie cerebrali. La posizione della dieta italiana è che:

(16)È importante assicurare le dosi minime giornaliere di acidi grassi essenziali.

La soluzione migliore è quindi quella di assicurare al corpo le dosi minime di EFA. Tali
fabbisogni giornalieri (fra l’altro consigliati anche dalla FAO) sono:

•• omega 6: 6% del fabbisogno calorico giornaliero


•• omega 3: 1,5% del fabbisogno calorico giornaliero.

Notate come giustamente non si parla di grammi, ma di percentuale del fabbisogno calorico
giornaliero. Un individuo che assume 1.800 kcal al giorno dovrebbe assumere almeno 12 g di
omega 6 e 3 g di omega 3.
Le ricerche degli ultimi anni hanno portato a un ulteriore raffinamento suddividendo i contributi. Il
dato globale di 3 g è stato suddiviso in 2 g per l’acido alfa-linolenico (ALA) e 0,5-1 g per
EPA+DHA.
L’ALA è assunto attraverso molti cibi non espressamente ricchi in esso (carne, formaggi, olio
d’oliva, legumi, pesce magro); il problema è che con un’alimentazione equilibrata e in linea con la

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dieta italiana si arriva a circa 1-1,5 g al giorno. Per esempio, 200 g di carne, 50 g di formaggio,
20 g di olio d’oliva, 100 g di piselli danno 1 g circa con un apporto calorico di 700 kcal. Da
notare che l’olio d’oliva è molto ricco in ALA (0,8 g per 100 g), come del resto molti ortaggi a
contenuto grasso non basso (per esempio 250 g di avocado danno 0,6 g di ALA con 400 kcal). La
frutta secca (noci, arachidi ecc.) è ricchissima di ALA, ma molto calorica. Più difficile sopperire
al fabbisogno di EPA e DHA senza ricorrere ad alimenti specifici come, per esempio, il salmone.
Un alimento prezioso: il salmone al naturale - Alcuni lo consumano crudo a colazione,
ottenendo un senso di sazietà notevolissimo; altri lo usano in ricette molto semplici a pranzo o a
cena. Ovviamente può essere alternato a frutta secca (noci) oppure ad altri pesci (oltre le sardine,
anche sgombri o acciughe), ma vale la pena provare a inserirlo nell’alimentazione perché è un
alimento appetibile, saziante e ipocalorico (ASI). Per arrivare a integrare la dose di EPA+DHA e
0,5-1 g di ALA (la parte non coperta da una normale alimentazione equilibrata) basta giocare con
gli alimenti nutraceutici (si veda al Capitolo 6 il paragrafo La soluzione nutraceutica)
relativamente agli omega 3. Per esempio:

75 g di salmone al naturale e 15 g di noci danno circa (dipende dalle varietà) 1 g di EPA+DHA


e 1 g di ALA.

Basta inserirli in una colazione standard e il gioco è fatto (con circa 200 kcal).

I trigliceridi a catena media (MCT)


In natura esistono circa 600 tipi diversi di grassi, tra quelli di origine animale e quelli di origine
vegetale. Chimicamente sono tutti costituiti da acidi grassi (composti di carbonio, idrogeno e
ossigeno) e da glicerina (glicerolo). I grassi più importanti che entrano a fare parte della
composizione del corpo umano sono appunto i trigliceridi: quelli a catena media (MCT, Medium
Chain Triglicerides) sono acidi grassi saturi, molto stabili, in cui l’espressione catena media si
riferisce al fatto che gli atomi di carbonio vanno da un minimo di 6 a un massimo di 12 (acido
caproico, caprilico, caprico, laurico). A differenza di altri acidi grassi saturi, quelli a catena
media non aumentano i livelli di colesterolo LDL e sono quindi da preferirsi rispetto agli altri a
catena lunga (LCT).
In realtà, i vantaggi dell’assunzione di MCT erano già noti ai medici già a partire dal 1960,
quando venivano somministrati come fonte energetica, in sostituzione dei trigliceridi a catena
lunga, ai pazienti che soffrivano di enteropatie da glutine e di tutta una serie di disturbi associati al
cattivo o mancato assorbimento di grassi a livello intestinale. Infatti era stato già allora
evidenziato che gli MCT sono più facilmente assimilabili dal corpo umano perché non necessitano
di una preventiva scissione (idrolisi): possono essere quindi assorbiti direttamente dalla mucosa
intestinale (a ogni livello dell’intestino) e portati nel sangue direttamente dai vasi linfatici. Non
sono necessari quindi i sali biliari per la loro digestione. Inoltre, poiché lo scopo dei grassi è
quello di portare energia ai mitocondri, nel caso degli MCT questo processo avviene senza
utilizzare la carnitina, risultando quindi più efficiente. Recentemente la ricerca medica ha
proposto somministrazione di MCT anche a pazienti affetti da gravi patologie cardiovascolari e
respiratorie, in quanto costituiscono un’ottima fonte calorica (l’apporto è di 830 calorie per 100
g) senza avere effetti negativi propri degli LCT. Gli MCT in natura sono contenuti prevalentemente
nel l’olio di palma, nell’olio di cocco, in quello di mandorla e nel burro. Nell’organismo umano
vengono prodotti nelle ghiandole mammarie.

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Gli acidi grassi trans
Gli acidi grassi trans (trans fatty acids) sono un capitolo dell’alimentazione moderna molto
importante e vale la pena comprendere a fondo le implicazioni che il loro uso comporta.
Sappiamo che i grassi sono descritti da una formula chimica bruta in cui sono elencati gli elementi
e il loro numero di atomi (carbonio, idrogeno, ossigeno ecc.). Per esempio, l’acido linolenico ha
formula C17H29COOH. Ovviamente gli atomi si dispongono nello spazio in modo tipico della
sostanza; parleremo perciò di formula spaziale. Senza entrare in noiosi dettagli chimici,
ricordiamo soltanto che un acido grasso può esistere in natura sotto due forme, una cis e una trans
(dal latino, al di qua o al di là della catena degli atomi di carbonio) a seconda della posizione di
certi gruppi. In figura 4 un semplice schema che riporta una parte della formula di un acido grasso
e che mostra la differenza fra forma cis e forma trans.

Figura 4 - Forme cis e trans di un acido grasso.

A complicare la situazione ci si è messo anche l’uomo che per dare maggiore consistenza a certi
grassi insaturi ha creato processi (idrogenazione) per cui si rompe artificialmente un doppio
legame e si aggiunge idrogeno, ottenendo prodotti in cui fra l’altro la percentuale della forma trans
è molto alta. Si basano sulla scoperta di Sabatier che, usando un catalizzatore al nichel, idrogenò
l’etilene a etano. L’inglese Norman applicò la scoperta agli oli alimentari e la brevettò. Nel 1909
la Procter&Gamble acquistò il brevetto per gli USA. Il primo esempio di idrogenazione risale al
1911 (prodotti di pasticceria della Crisco).
Le percentuali degli acidi grassi trans – I grassi non saturi naturali si trovano normalmente nella
forma cis. Una piccola quantità di grassi trans è però presente nel cibo poiché si forma nello
stomaco dei ruminanti a causa dell’azione di determinati batteri. Si trovano nel latte, nei prodotti
caseari, nella carne dei ruminanti (notate l’arretratezza di chi è rimasto alla suddivisione fra carne
rossa e carne bianca: nella carne di cavallo, di cinghiale, di maiale, carni rosse, non ci sono grassi
trans perché non sono ruminanti!) e di alcuni marsupiali. I grassi trans si trovano poi anche nei
semi e nelle foglie di diverse piante [14] (nel paragrafo, i numeri fra parentesi quadra fanno
riferimento alla bibliografia consultabile alla pagina del mio sito:
http://www.albanesi.it/Alimentazione/transfattyacid.htm) il cui consumo alimentare è però
irrilevante.
Il processo di raffinazione degli oli vegetali, a causa delle alte temperature di certi processi, può

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introdurre una percentuale di grassi trans. Per esempio, l’acido linoleico ha due doppi legami e
l’acido alfa-linolenico ne ha tre. I vari legami non sono equivalenti: per esempio il passaggio
dalla forma nativa c,c,c dell’acido alfa-linolenico alla forma c,c,t avviene più rapidamente di
quello alla forma t,c,c [15]. Il passaggio si ha a 245 °C e continua linearmente per circa otto ore;
inizia poi la formazione dell’isomero t,c,t e dopo 16 ore quella dell’isomero t,t,t.
Le temperature ottenute nei processi di raffinazione si ottengono facilmente anche friggendo per
qualche decina di minuti un olio vegetale. Ecco perché i fritti a partire da oli vegetali ricchi di
grassi polinsaturi sono comunque nocivi.
Ecco alcuni dati medi:

•• burro, latte, carne: 4% dei grassi presenti


•• margarina non spalmabile: 20-50%
•• margarina spalmabile: 15-28%
•• oli vegetali raffinati: 2-7%
•• dolci di pasticceria con grassi vegetali idrogenati: 30-60%
•• oli parzialmente idrogenati usati nei fast food: 15%
•• patate fritte (fast food): 45%.

Negli USA l’assunzione di grassi trans è del 2-4% contro il 12-14% di grassi saturi.
Gli acidi grassi trans “naturali” sono invece prodotti nel rumine di mucche e pecore in seguito a
reazioni di idrogenazione parziale e/o di isomerizzazione da acidi grassi insaturi contenuti nel
mangime animale (bioidrogenazione). Le reazioni sono svolte dai batteri presenti nella flora
intestinale dei ruminanti. Di conseguenza, nel grasso contenuto nel latte, burro, formaggio e nella
carne si trovano dal 2-9% di acidi grassi trans. L’acido transvaccinico che si trova nel burro e nei
formaggi è un prodotto di transizione verso il noto CLA (acido linoleico coniugato), le cui
proprietà sono spesso sovrastimate, ma che non è certo nocivo!
Numerose ricerche mostrano il ruolo positivo del CLA e di altri grassi trans naturali. Appare
quindi logico chiederci: come mai le ricerche condannano i trans artificiali e assolvono quelli
naturali? Ulteriori indagini mostrano una differenza fondamentale: la maggior parte degli acidi
grassi trans nel latte e carne sono costituiti da acidi grassi simili a quelli trovati in oli vegetali
parzialmente idrogenati, ma in proporzioni diverse. Probabilmente la miscela “naturale” è tale da
minimizzare gli effetti negativi della geometria degli acidi trans (ved. Perché fanno male).
Gli studi che condannano i grassi trans – Lo studio di Mensink e Katan del 1990 [4] mostrò che i
grassi trans alzano il livello del colesterolo LDL diminuendo quello del colesterolo HDL,
peggiorando il rapporto di rischio cardiovascolare. Almeno altri dodici studi significativi
confermarono la ricerca del 1990.
In particolare, due studi ([5] e [8]) confrontarono i grassi trans con i grassi saturi e conclusero che
i primi sono decisamente più influenti sul rischio cardiovascolare. Nel luglio 2002 la National
Academy of Sciences (NAS, [3]) ha confermato definitivamente la tesi che i grassi trans sono
decisamente peggiori dei grassi saturi rispetto al rischio cardiovascolare.
Una ricerca di Sundram [6] ha mostrato che le concentrazioni di lipoproteina (a) (che è
considerata un fattore di rischio cardiovascolare indipendente poiché è in gran parte controllata
geneticamente) aumentano in una dieta ricca di grassi trans, mentre restano stabili o addirittura
diminuiscono in una dieta con grassi saturi. Una seguente ricerca di Sundram [5] mostrò che la
concentrazione di lipoproteina (a) diminuisce significativamente quando si sostituiscono i grassi
trans con olio di palma.

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Anche studi epidemiologici hanno confermato la relazione fra rischio cardiovascolare e grassi
trans. Sia quello di Willett (1993, database del Nurses Health Study, 85.095 donne, [7]), sia
quello più celebre di Ascherio (1994, su 239 soggetti, [1]) arrivarono alle stesse conclusioni: un
aumento del rischio del 27% e circa 30.000 morti ogni anno associabili a diete ricche di grassi
trans (negli USA). Una ricerca successiva [9] ha confermato tale ultimo dato, stimando i decessi
fra 25.000 e 30.000.
Anche gli studi sul diabete sono significativi [2]. Un aumento del 2% di grassi trans in sostituzione
di carboidrati aumenta il rischio diabetico di un fattore 1,39, mentre non c’è praticamente
variazione (0,97) nel caso di sostituzione con grassi saturi.
Gli studi di Willett e di Ascherio riportano anche i danni riguardanti la “distruzione” degli acidi
grassi essenziali da parte dei grassi trans.
Perché fanno male – I grassi trans fanno male perché sostanzialmente hanno una geometria
diversa da quelli cis (Figura 5).

Figura 5 - Le diverse geometrie dei grassi cis e trans.

La geometria lineare degli acidi trans:

1. rende più rigide le membrane cellulari (gli acidi cis hanno una geometria più dolce che ammette
curve fin verso 0 °C). Alcuni studi mostrano che la percentuale di grassi trans nelle membrane di
cellule umane arriva fino al 20%; ben si comprende la possibile limitazione funzionale.
2. Consente una maggiore densità anche a 37 °C, facilitando la formazione di complessi solidi che
possono alterare il lume dei vasi.
3. Negli acidi grassi essenziali blocca l’enzima δ-6-desaturasi, necessario per arrivare agli acidi
GLA e SDA (stearidonico) da cui derivano prostaglandine, leucotrieni ed eicosanoidi. Ecco
perché non solo un’assunzione insufficiente di EFA, ma anche un’assunzione eccessiva di trans
può provocare malattie croniche o degenerative ([10] e [11]).
La tolleranza – In genere quando una sostanza è tollerata dal corpo si fissano delle dosi
giornaliere accettabili (per esempio per il dolcificante aspartame è di 50 mg/kg di peso corporeo,
per il vino un paio di bicchieri al giorno ecc.). Ebbene, l’Institute of Medicine (IOM) of the
National Academies of Sciences, Engineering, Medicine and Research Council americano ha

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proposto per i grassi trans un Tolerable Upper Intake Level (UL) di zero.
Una posizione meno drastica è supportata da altre associazioni americane. In particolare si può
utilizzare la dose che può essere assunta attraverso un’alimentazione naturale che comprenda in
misura corretta latte, latticini, carne (10% dei grassi saturi sul totale delle calorie) ecc. Tale dose
di tutta sicurezza non supera lo 0,5% delle calorie giornaliere. Per un soggetto di 60 kg che
assume 1.800 kcal al giorno significa 1 g: basta una merendina ai grassi idrogenati per superarla,
mentre di latte intero ne occorrono circa 8 litri! Come si vede, quando la percentuale di grassi
trans del cibo considerato aumenta considerevolmente (per esempio passando dal 2-3% al 30%)
si sfora con grande facilità.
Riassumendo – Mary Enig è un’autorità mondiale nel campo dei grassi trans. È una ricercatrice
del Maryland (ha lavorato per molti anni nel Lipids Research Group, Department of Chemistry and
Biochemistry, University of Maryland), fra l’altro è stata consulting editor per il “Journal of the
American College of Nutrition”.
Ha riassunto così i problemi dei grassi trans:

1. Abbassano il colesterolo HDL e alzano quello LDL.


2. Alzano la concentrazione della lipoproteina (a).
3. Abbassano il valore biologico del latte materno.
4. Causano un basso peso dei bambini alla nascita.
5. Aumentano i livelli di insulina in risposta a un carico glicemico.
6. Interferiscono con la risposta immunitaria diminuendo l’efficienza della risposta delle cellule B
e aumentando la proliferazione delle cellule T.
7. Diminuiscono il livello di testosterone.
8. Inibiscono alcune reazioni enzimatiche fondamentali (come quella della δ-6-desaturasi).
9. Alterano la permeabilità e la fluidità delle membrane cellulari.
10. Alterano la costituzione e il numero degli adipociti (cellule di deposito del grasso).
11. Interferiscono con il metabolismo degli acidi grassi essenziali omega-3.
12. Incrementano la produzione di radicali liberi.
Un ultimo commento: sarebbe opportuno che chi cerca soluzioni semplicistiche a patologie
croniche (come le intolleranze alimentari a cibi del tutto innocui) si decidesse seriamente a
considerare il ruolo dei grassi trans. Che senso ha far credere al paziente di essere intollerante al
lievito quando poi si può abbuffare di merendine ricche di grassi trans?

I grassi idrogenati
I grassi idrogenati sono grassi ottenuti mediante il processo di idrogenazione; il grasso così
ottenuto ha qualità completamente differenti dal grasso di partenza.
Chi opera nel settore alimentare spesso pensa che l’idrogenazione riguardi solo gli acidi grassi; in
realtà è una reazione chimica attraverso la quale uno o più legami multipli di carbonio vengono
ridotti a legami semplici per addizione di atomi di idrogeno (la reazione inversa è detta
deidrogenazione). Di solito si usa idrogeno gassoso che agisce sulla materia da idrogenare in
presenza di catalizzatori; il tutto avviene a temperature e pressioni elevate. Nella figura 6 il
benzene è idrogenato a cicloesano in presenza di nickel di Raney.

Figura 6 - Idrogenazione del benzene.

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In campo alimentare l’idrogenazione trasforma acidi grassi polinsaturi in altri grassi;
storicamente, la margarina è il grasso idrogenato per eccellenza. I “vantaggi” dell’idrogenazione
sono evidenti:

•• solidità - Si può ottenere un grasso solido (surrogato per esempio del burro) a partire da oli; i
grassi solidi sono molto utilizzati nei prodotti da forno (si pensi a biscotti, brioche, crostate ecc.).
•• Lunga scadenza - I grassi idrogenati si degradano meno facilmente rispetto ai grassi naturali:
così una brioche prodotta con margarina può avere data di scadenza a un anno quando la stessa
prodotta con burro avrebbe data di scadenza di pochi mesi. Per il gusto? Basta aggiungere aromi e
il gioco è fatto. Pensateci la prossima volta che al bar ordinerete una brioche senza sapere con che
ingredienti è fatta!
•• Costi - I grassi idrogenati costano meno e quindi è possibile ottenere prodotti molto
competitivi; tale caratteristica amplia l’impiego dei grassi idrogenati a campi in cui i precedenti
due presunti vantaggi non sono in fondo determinanti. Si pensi per esempio alla gelateria in cui
con grassi idrogenati, aromi e coloranti si possono ottenere decine di gusti da offrire al cliente a
costi molto bassi (o a costi “normali”, spacciando il prodotto per genuino e artigianale con
ricarichi enormi).

Meno interessante la caratteristica di un’ottima stabilità alla temperatura; infatti anche oli
semplicemente raffinati (che comunque contengono una piccola percentuale di grassi trans) hanno
alti punti di fumo; nei fast food e negli esercizi di ristorazione di bassa qualità si utilizzano (anzi,
si dovrebbe dire si utilizzano più volte!) oli raffinati più che oli idrogenati. A fronte dei citati
presunti vantaggi, salutisticamente c’è purtroppo uno svantaggio che fa bocciare senza appello il
processo industriale dell’idrogenazione: alcuni legami passano dalla forma cis alla forma trans.
Ormai da anni si sa che i grassi trans sono nocivi per la salute, aumentando soprattutto il rischio
cardiovascolare.
A seguito dell’azione dei gruppi salutisti (includo anche il mio sito perché fin dal 2001 è in prima
linea), recentemente alcuni Paesi hanno posto restrizioni all’uso di grassi trans e quindi di grassi
idrogenati, ma la qualità dei prodotti è migliorata solo di poco per il ricorso massiccio a generici
grassi vegetali ottenuti per raffinazione, frazionamento o interesterificazione.

Grassi idrogenati e grassi trans


I grassi vegetali idrogenati sono stati messi giustamente sul banco degli imputati di ogni tribunale
salutistico perché collegati ai grassi trans, grassi che alzano i livelli di colesterolo cattivo e
abbassano quelli del colesterolo buono.
Negli USA dal 2006 è obbligatorio inserire sull’etichetta la quantità di grassi trans, per cui può
capitare di trovare prodotti con grassi vegetali idrogenati e senza grassi trans (0 g).

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Una prima scappatoia è offerta dalla legge che consente di scrivere 0 per quantità minori o uguali
a 0,5 g.
La seconda è offerta dalla chimica cui i produttori sono ricorsi quando è scattato l’obbligo di
indicare sulle confezioni grassi trans.
Partiamo da un grasso vegetale. Lo si idrogena parzialmente e diventa un po’ più solido, ma
sempre abbastanza cremoso da risultare appetibile. Contiene grassi trans e quindi è da bocciare.
Se invece lo idrogeno totalmente praticamente lo trasformo per la maggior parte in acido stearico,
un acido che il corpo sa trasformare in acido oleico, un monoinsaturo che non innalza il
colesterolo cattivo. La quantità di grassi trans diventa piccola (inferiore al 2-3%, il che significa
che, anche per prodotti in cui i grassi idrogenati sono il 20% sul totale, resto sotto a 0,5 g per 100
g e posso scrivere 0). L’inconveniente qual è? Che il grasso così ottenuto è praticamente cera,
quindi molto difficilmente digeribile, di pressoché nullo valore alimentare e utile solo ad
appesantire il prodotto quel tanto da renderlo simile come consistenza a un prodotto genuino con
grassi di prima qualità.
Attenzione: le diciture “grassi idrogenati” e “grassi parzialmente idrogenati” possono essere la
stessa cosa (quindi con grassi trans), non è possibile saperlo; purtroppo il produttore non ha
nessun vantaggio a specificare “grassi totalmente idrogenati” perché quel totalmente verrebbe
inteso dall’inesperto come peggiorativo rispetto a parzialmente (è il contrario!) e dall’esperto
come la volontà di aggirare le limitazioni sui grassi trans con un prodotto di bassissima qualità.

Alimenti a rischio di grassi idrogenati


•• Cracker e grissini
•• Creme spalmabili
•• Dessert, budini e mousse
•• Dolci, biscotti, merendine e prodotti di pasticceria
•• Farciture per primi e secondi piatti (surgelati) e dolci (per esempio panettoni farciti,
cioccolatini farciti ecc.)
•• Gelati
•• Margarina
•• Preparati per cioccolate, dolci, paste sfoglie ecc.
•• Semifreddi.

Per la descrizione e la valutazione delle varie categorie si veda la sottosezione Qualità dei cibi
del mio sito Internet.

Margarina e grassi vegetali idrogenati


Sulle etichette degli alimenti è facile trovare la scritta “grassi vegetali idrogenati”, quindi si
potrebbe essere portati a credere che basti leggere bene le etichette per stare al sicuro. In realtà
non è così.
Nella preparazione della margarina viene effettuata una parziale idrogenazione ricadendo dalla
padella alla brace, solo che sull’etichetta troveremo scritto “margarina” e chi non sa come stanno
le cose potrebbe addirittura pensare che la situazione sia migliore di quella in cui compare il
burro (“la margarina è vegetale” è il ragionamento semplicistico!). In realtà meglio il sano burro
che la margarina!

70
Un particolare agghiacciante: gli allevatori di suini non usano grassi idrogenati (che sono a basso
costo!) perché sarebbero nocivi agli animali.
Nel processo che conduce (usando l’idrogenazione) alla margarina in genere si usa:

•• 20% di stearina di palma – 80% di olio di girasole;


•• 20% di stearina di palma – 10% di olio di semi di palma – 70% olio di colza o di girasole.

Margarina vegetale non idrogenata – Nel sottoparagrafo La lavorazione degli oli vegetali si
descrive il processo di frazionamento con cui si ricava da un olio la parte solida. Con il
frazionamento togliamo cioè chimicamente la parte “leggera” dell’olio, ottenendo un solido
costituito in abbondanza da grassi saturi. Sicuramente il composto ottenuto è peggiore del burro;
l’unico vantaggio che ha rispetto agli idrogenati è che non è trans se non nella misura in cui il
processo chimico ne introduce una piccola quantità.
La margarina vegetale non idrogenata è utilizzata soprattutto in “prodotti biologici”. L’assurdo di
certi produttori biologici è di fare i difficili sugli ingredienti per poi inserire per motivi di costo
un ingrediente tipicamente chimico sperando che la gente non se ne accorga!

Grassi e oli vegetali


Sulle etichette nutrizionali si leggono spesso due scritte non del tutto chiare:

•• grassi vegetali (una dizione per indicare sia oli vegetali sia grassi vegetali saturi solidi)
•• grassi vegetali idrogenati.

In teoria dovrebbe essere a tutti chiara la distinzione fra olio e grasso vegetale, con il termine
“olio” che indica un liquido mentre “grasso” un solido. Purtroppo la legge consente di usare
dizioni molto vaghe nell’indicare gli ingredienti di un prodotto e spesso la dizione grasso
vegetale si riferisce in realtà, per esempio, a olio di palma.
Vediamo cosa accade partendo dalla materia prima (di origine vegetale, per esempio il seme
dell’arachide). Già qui le cose non sono chiarissime. Per esempio, con “olio vegetale” si può
intendere olio di girasole od olio di colza; quest’ultimo è veramente pessimo perché è costituito
per circa la metà da acido erucico i cui effetti negativi sulla crescita, sul fegato e sul cuore sono
ormai documentati, tant’è che per legge l’acido erucico non può superare il 5% del totale degli
acidi grassi presenti negli oli di semi e nelle margarine. Per evitare la tossicità, negli USA è stato
lanciato un olio di colza geneticamente modificato a basso tenore di acido erucico, l’olio canola.
Per capire ulteriormente come la locuzione “grasso vegetale” sia confusa si considerino alcuni oli
impiegati spesso nei nostri cibi. L’olio di cocco contiene l’87% di grassi saturi, quindi
sembrerebbe logico considerarlo di qualità inferiore al burro (che ne contiene solo il 65%). I
grassi saturi però (andando un po’ più in là nella nostra conoscenza) possono essere a catena
media (non influenzano i valori di colesterolo) o a catena lunga (questi sì!). Nell’olio di cocco una
buona percentuale dei grassi saturi contenuti è a catena media (MCT) e quindi se si vuole fare un
discorso corretto occorre conoscere la percentuale dei grassi saturi a catena lunga: nell’olio di
cocco i grassi a catena media (caproico, caprilico, laurico e caprico) sono il 60,7%! Come si
vede l’olio di cocco è molto meno dannoso di quanto si pensi. Se si passa poi all’olio di palma si
scopre che in commercio esistono due oli di palma: quello “rossiccio” e quello “gialliccio”,
ricavato dal “kernel”, cioè dai semi (PKO, palm kernel oil); le caratteristiche (ved. tabella nel

71
sottoparagrafo Gli alimenti grassi) sono completamente diverse, peccato che nei prodotti venga
usata la sola dizione “olio di palma”.
Purtroppo la confusione non si risolve certo orientandosi al biologico: molti prodotti biologici
(anche di case molto distribuite) hanno fra gli ingredienti olio di palma (da agricoltura biologica!)
o “grasso vegetale” non meglio identificato e non sono a mio avviso il massimo della qualità: che
bisogno c’è di usare olio di palma (meglio il burro che non dà adito a dubbi sulla raffinazione) o,
peggio, “grasso vegetale”?
Le qualità del poco chiaro “grasso vegetale” sono poi ulteriormente confuse dal processo di
lavorazione.

La lavorazione degli oli vegetali


La prima fase è l’estrazione dell’olio che può avvenire con metodi non chimici (come la
spremitura a freddo delle olive per l’olio extravergine d’oliva) o chimici (raffinazione).
La raffinazione degrada le potenziali qualità dell’olio poiché vengono perse sostanze utili e
aggiunge quantità, più o meno salutisticamente rilevanti, di sostanze nocive o per lo meno sospette
(acidi grassi trans). L’unico vantaggio che l’olio raffinato presenta rispetto a un olio spremuto a
freddo è un più alto punto di fumo (per questo di solito gli oli raffinati vengono usati nelle
fritture). Si può sicuramente affermare che un olio raffinato deve essere considerato un olio di
seconda scelta.
La raffinazione avviene attraverso sei stadi:

1) Estrazione con solventi - I semi vengono frantumati e messi in un bagno di solvente a base di
idrocarburi (di solito esano o eptano); con un’agitazione meccanica si separa la parte
inutilizzabile del seme, poi il solvente viene rimosso per evaporazione a 150 °C e riutilizzato.
2) Degommazione - Questa fase avviene a 60 °C e serve per rimuovere le fibre gommose, i
carboidrati complessi e i fosfolipidi; in alcuni casi vengono rimossi anche alcuni minerali (ferro,
calcio, magnesio, rame).
3) Spremitura - Ciò che resta dei semi viene spremuto ulteriormente ottenendo l’olio.
4) Deacidificazione - Per azione a 75 °C della soda caustica (NaOH, idrossido di sodio),
eventualmente miscelata con carbonato di sodio (Na2CO3), l’acidità dell’olio viene abbassata,
rimuovendo gli acidi grassi liberi dell’olio; purtroppo vengono persi altri micronutrienti, anche se
rimangono i pigmenti che danno all’olio una caratteristica colorazione gialla.
5) Decolorazione - Per l’azione a 110 °C di terre decoloranti, l’olio perde i pigmenti (per
esempio clorofilla e betacarotene), alcune sostanze aromatiche e le eventuali tracce di saponi
residuo di precedenti trattamenti. Il processo modifica in piccola percentuale gli acidi grassi
insaturi con formazione di acidi grassi trans e aumenta la coniugazione dei doppi legami negli
acidi grassi polinsaturi.
6) Deodorazione - L’olio viene distillato a vapore a 240-270 °C per 30-60 minuti. Vengono
rimosse le ultime sostanze aromatiche, i rimanenti acidi grassi liberi e sostanze (dalle fasi
precedenti) che darebbero un sapore sgradevole all’olio. In questo processo si formano gli acidi
grassi “trans” (massimo un 5%) e si degradano la vitamina E e i fitosteroli, insieme ad alcuni
residui tossici (pesticidi).

L’olio così ottenuto può essere direttamente utilizzato nell’alimentazione o può subire altri
processi che lo trasformano chimicamente e fisicamente:

72
•• l’idrogenazione con cui chimicamente si rende meno degradabile un olio (in genere rendendo
solido un prodotto liquido);
•• il frazionamento con cui si separa la parte solida di un olio;
•• l’interesterificazione con cui si modifica la struttura chimica degli acidi grassi ridistribuendoli
tra varie fonti lipidiche, ma senza idrogenarli.

Ovvio che quello che conta è il prodotto finale usato come ingrediente dell’alimento, ma è
importante giudicare anche il prodotto di partenza e il processo di lavorazione.
La raffinazione, il frazionamento e l’interesterificazione arrivano a prodotti che comunque non
sono genuini, senza la garanzia di non essere ricavati da oli di qualità scadente. Inoltre, questi
alimenti presentano comunque un elevato contenuto di acidi grassi saturi, proprio perché
semisolidi a temperatura ambiente e non possono escludere una piccola percentuale di acidi grassi
trans.

Cos’è il grasso vegetale


Riassumendo le varie possibilità, si può concludere che se manca il processo di idrogenazione
(cioè non si parla di grasso vegetale idrogenato o di margarina), il grasso vegetale è un composto
mediamente peggiore del burro.

Cos’è l’olio vegetale


Anche nel caso dell’olio (visto che non si conosce l’olio di partenza) si deve interpretare la
dizione come quella riferentesi a un prodotto paragonabile a un generico olio di semi con
l’aggravante che la composizione è del tutto sconosciuta perché potrebbe esservi una percentuale
di grassi saturi (a catena lunga o media) non indifferente.

Grassi vegetali: cosa fare?


Una semplice tabellina ci consente di valutare i grassi che troviamo nei prodotti.

***** Olio extravergine d’oliva


**** Burro, olio di cocco
*** Oli e grassi di seconda scelta completamente specificati (strutto, olio di girasole, olio
d’arachide, olio d’oliva, olio di palma)
** Oli di seconda scelta generici: grassi vegetali, oli vegetali, margarina non idrogenata
* Grassi vegetali idrogenati senza grassi trans
– Grassi vegetali idrogenati.

Un prodotto accettabile dovrebbe usare solo ingredienti delle prime tre categorie. In alcuni casi la
preparazione del prodotto può richiedere un ingrediente di minore qualità salutistica (per esempio
il burro anziché l’olio extravergine d’oliva), in altri casi problemi di costo possono far pendere la
scelta su un olio di seconda scelta (girasole anziché extravergine d’oliva); in altri la durata del
prodotto (data di scadenza) può indirizzare verso l’olio di palma anziché verso il burro ecc. In
ogni caso le ultime tre classi non sono mai giustificate. Si noti come questa posizione penalizzi

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(giustamente!) il produttore che usa olio di palma (o di cocco) e non ha il coraggio di citarlo
nell’etichetta nutrizionale preferendo la dizione generica “grasso vegetale” perché pensa che il
consumatore sprovveduto si spaventi di meno!

NOTA - Alcuni oli (come l’olio di girasole) si possono ottenere anche tramite spremitura a
freddo, quindi senza raffinazione. Purtroppo alcune loro caratteristiche (come il basso punto di
fumo) non consentono di raggiungere le prime due classi di merito se usati per cucinare a
temperature medio-alte.

I lipidi composti
Sono rappresentati da trigliceridi legati ad altri composti. Si possono citare i fosfolipidi,
costituenti essenziali della membrana cellulare, e le lipoproteine che svolgono la fondamentale
funzione di trasportare i lipidi nel sangue. Le lipoproteine a bassa densità (LDL) distribuiscono il
colesterolo alle cellule e depositandosi sulla parete delle arterie formano placche ateromatose;
quelle ad alta densità (HDL) rimuovono il colesterolo in eccesso dalle cellule e lo riportano al
fegato dove viene impiegato per la produzione della bile.

Il fabbisogno lipidico
Le diete tradizionali hanno demonizzato i lipidi, spingendo al consumo di alimenti a basso tenore
di grassi con un contributo calorico elevatissimo, senza tener conto che i carboidrati in eccesso
vengono comunque trasformati in grasso corporeo. A onor del vero anche i tradizionalisti
assegnano una quota abbastanza alta ai lipidi nelle diete equilibrate (quelle cioè a regime), circa il
30%. Attualmente si stima che la quantità corretta possa andare a coprire dal 25 al 40% del
fabbisogno calorico, con l’avvertenza di preferire i grassi insaturi. Per chi, stordito dalla
martellante pubblicità antigrassi, non fosse ancora convinto della necessità di inserire nella dieta
una buona percentuale di lipidi, ricordiamo che ce ne vogliono quotidianamente almeno 20 g (pari
a circa 200 calorie) per trasportare le vitamine liposolubili (che si sciolgono cioè nei grassi e non
nell’acqua, come la A, la D, la E e la K).
Il grasso corporeo è comunque una fonte di energia enorme (circa 31.500 calorie per un soggetto
di 70 kg anche con il solo 8% di massa grassa, tenendo conto che il 34% è costituito dal grasso
primario degli organi e non è utilizzabile) che può entrare in gioco a basse intensità o quando
scarseggiano le scorte di glicogeno. I lipidi non sostituiscono però i carboidrati quando questi
terminano, ma già da subito li affiancano nella produzione di energia. Data l’enorme disponibilità
calorica di origine lipidica non ci può essere comunque un problema di esaurimento dei grassi.
Pertanto quando si parla di fabbisogno lipidico si fissa un tetto massimo, mai minimo. Tale limite
superiore è fissato dal fabbisogno calorico giornaliero totale (FCT), dal fabbisogno proteico (FP)
e da quello glicidico (FG) secondo la semplice formula:

FL=FCT-FG-FP.

I grassi cioè sono jolly utili per fornire energia al corpo rispettando gli altri vincoli nutrizionali. In
tal senso in una dieta la loro percentuale deve essere vista come una conseguenza degli altri
vincoli, non un vincolo stesso da rispettare. Contrariamente a quanto affermato dai sostenitori
delle diete iperlipidiche, non è possibile sostituire il fabbisogno glicidico (FG) con un’analoga

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quantità calorica di grassi in quanto la gluconeogenesi (il fenomeno che si attiva per convertire il
glicerolo proveniente dal catabolismo dei grassi in glicogeno) causa un accumulo di corpi
chetonici (scorie con azione acidificante) eliminati tramite le urine, provocando un aumento dei
livelli plasmatici di acido urico, un’alterazione dell’equilibrio elettrolitico e disidratazione.

La degradazione degli oli


Questo paragrafo è introduttivo alla risoluzione del problema di come e quando friggere. Infatti gli
oli commestibili subiscono varie degradazioni che ne abbassano notevolmente l’interesse e il
valore alimentare, in alcuni casi arrivando anche nella fascia di danno per la salute. In maniera
divulgativa cercheremo di semplificare i principali processi riassumendoli praticamente in tre
casi.
Gli acidi grassi liberi – La percentuale di acidi grassi liberi non deriva solo dalla lavorazione
(per esempio gli oli raffinati ne hanno molto pochi e per questo hanno alti punti di fumo), ma anche
dalla natura intrinseca dell’olio. Nel caso dell’olio d’oliva tale percentuale rappresenta l’acidità
ed è un importante parametro merceologico; infatti l’aumento dell’acidità è dovuto a un enzima
specifico (lipasi) che agisce catalizzando la reazione di trasformazione:

trigliceride - > digliceride + acido grasso.

L’azione della lipasi può poi continuare sul digliceride, aumentando la frazione di acidi grassi
liberi. Tale azione ha un massimo attorno a 3.540 °C, mentre si arresta intorno a 0 °C. Per legge un
olio d’oliva extravergine deve avere un’acidità massima dello 0,8%, mentre in genere i migliori
oli extravergini arrivano allo 0,3-0,4%. Poiché la quota di acidi grassi liberi influenza il punto di
fumo, è importante che la percentuale di acidi grassi dell’olio di base sia bassa.
Il punto di fumo – Di solito si cerca di rappresentare il degrado dell’olio in funzione della
temperatura con il punto di fumo, temperatura alla quale si sviluppano sostanze nocive e tipico di
ogni olio. Il punto di fumo in realtà varia a seconda di molte condizioni, alcune indipendenti
dall’olio stesso (per esempio l’uso di una padella più ampia abbassa il punto di fumo). In realtà il
punto di fumo è importante, ma non è il solo fattore che descrive la degradazione dell’olio. Infatti
descrive solo la degradazione del glicerolo in acroleina a causa della temperatura. In altri termini,
la temperatura elevata (spesso superiore ai 150 °C) promuove una scissione simile a quella
ottenuta per via enzimatica per intervento della lipasi. La principale differenza è la velocità del
processo che in caso di temperature molto elevate è sicuramente maggiore di quella causata
dall’enzima.
Ossidazione enzimatica – In genere la quantità di perossidi misura lo stato di ossidazione
dell’olio. Tale stato è praticamente detto irrancidimento, termine che tutti associamo alla
formazione di sostanze dall’odore e dal sapore sgradevoli. Nel caso di olio fresco la causa
dell’ossidazione è soprattutto enzimatica; l’enzima lipossidasi lega chimicamente l’ossigeno
dell’aria agli acidi grassi dei trigliceridi; il fenomeno è dipendente dalla temperatura, ma la
lipossidasi risulta attiva anche a temperature molto basse (40 °C). L’ossidazione enzimatica è
maggiore quanto più l’olio è insaturo e quindi è massima nei polinsaturi. Per questo motivo
l’impiego di olio di girasole nei surgelati deve considerarsi una seconda scelta perché, di fatto,
anche a basse temperature è meno stabile alla lunga conservazione rispetto all’olio d’oliva.
Ossidazione chimicofisica – L’ossidazione può avvenire anche per esposizione alla luce (diretta
o soffusa) senza l’intervento di enzimi. La reazione origina idroperossidi secondo lo schema (R* e

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H* sono i due radicali; E. Fedeli; Gli oli e i grassi nella nutrizione umana; Journal of Food
Science and Nutrition; lug/sett. 2004):

Iniziazione – RH — > R* + H*
Propagazione – R* + O2 — > RO2*
RO2* + RH — > R* + ROOH.

L’intervento di un attivatore (generalmente una radiazione, ma anche il calore o il contatto con


alcuni metalli come ferro, rame, nickel) inizia il processo con la formazione dei due radicali liberi
R* e H*. R* si combina con una molecola di ossigeno e si genera il radicale perossido RO2* che a
sua volta estrae idrogeno da una molecola lipidica intatta e rigenera un radicale R* che ritorna a
combinarsi con ossigeno nella reazione di propagazione. Poiché l’iniziazione è sempre attiva, il
fattore di propagazione è sempre maggiore di 1 e si ha una reazione a catena, aggravata dal
successivo intervento del perossido ROOH che è molto reattivo.
Se interviene un antiossidante (AH), la reazione a catena può essere interrotta secondo lo schema:

ROO* + AH — > ROOH + A*


ROO* + A* — > ROOA.

Come si vede, si ha, alla fine del processo, un complesso stabile. La raffinazione degli oli
distrugge gran parte degli antiossidanti contenuti naturalmente nell’olio; inoltre anche
l’ossidazione chimico-fisica è maggiore se la temperatura di lavoro è maggiore.
L’indice Rancimat – È un indice che misura il grado di resistenza all’ossidazione. Si valuta a
temperatura elevata (di solito 110 °C); la produzione di composti volatili altera la conducibilità di
un sistema di controllo (per esempio della semplice acqua in cui sono convogliate le sostanze
prodotte): un repentino cambio di questa conducibilità rileva che il processo di ossidazione si è
innescato in maniera significativa. In genere:

•• gli oli non raffinati possono avere valori di Rancimat di 8-10 ore. Gli oli ricchi di acidi grassi
polinsaturi hanno indice minore.
•• I migliori oli d’oliva extravergini hanno valori superiori a 10, arrivando fino a 14-16 ore se
denocciolati (Amirante e al., 2001).
•• Gli oli raffinati senza l’aggiunta di antiossidanti non arrivano alle 8 ore.
•• Per prolungarne la conservazione si aggiungono antiossidanti come il butilidrossianisolo (BHA)
o il butilidrossitoluolo (BHT) che la dieta italiana guarda con sospetto.

Il punto di fumo
Se sottoponiamo un olio a un deciso innalzamento termico, per effetto della temperatura l’olio è
prima idrolizzato in glicerolo e acidi grassi. La degradazione dell’olio avviene poi per
trasformazione del glicerolo (con perdita di acqua) in acroleina (aldeide acrilica); tale fenomeno
è visibile perché l’acroleina appare sotto forma di fumo che abbandona l’olio. La formazione di
acroleina è tanto maggiore quanto più l’olio è ricco di acidi insaturi (più sensibili al calore) e
determina il punto di fumo dell’olio in questione. L’acroleina è irritante per la mucosa gastrica e
nociva per il fegato: la somministrazione di oli mantenuti al punto di fumo per due ore provoca un
danno epatico facilmente riscontrabile. Si noti come il processo di formazione dell’acroleina sia a

76
due stadi; qualunque fattore inibisca, all’aumentare della temperatura, la scissione dei trigliceridi
in glicerolo e acidi grassi ritarda il secondo stadio con formazione di acroleina.
Un esempio: la chiarificazione del burro – Ciò che complica il discorso è che il punto di fumo
può variare per piccoli dettagli. Per esempio il burro italiano che ha una notevole quantità d’acqua
(è infatti meno calorico degli oli) ha un basso punto di fumo (130 °C) perché l’acqua facilita
l’idrolisi degli acidi grassi che diventano così liberi. Il burro francese (che invece non contiene
acqua) ha un punto di fumo molto più alto e quindi può essere usato per friggere. Nel caso si usi
burro italiano si può chiarificare, eliminando l’acqua e innalzando il suo punto di fumo (che arriva
fino a 200 °C e quindi può essere usato per friggere). Per chiarificarlo basta metterlo in un
pentolino e farlo sciogliere a bagnomaria per circa 15 minuti, senza farlo bollire. Si formano degli
agglomerati di materia bianca (in gran parte caseina) che vanno eliminati filtrando il tutto con un
colino a trama fitta. Il burro raffreddato si conserva poi in frigorifero.
Da cosa dipende il punto di fumo – In base a quanto detto, è molto importante conoscere il punto
di fumo dell’olio che si va a usare. È un grave errore scegliere un olio a caso in base a sole
considerazioni organolettiche. Purtroppo le informazioni che circolano sono spesso inquinate da
interessi commerciali o da errori grossolani (come quelle che parlano di punto di fumo dell’olio
di oliva di oltre 300 °C, forse per una banale confusione fra gradi Celsius e gradi Fahrenheit; la
formula di conversione è GC=5/9*(GF-32), per esempio 113 °F corrispondono a 45 °C). Il punto
di fumo dipende dal contenuto di acidi grassi liberi. Per esempio, con un contenuto dello 0,04% il
punto di fumo è di 220 °C, mentre con un contenuto dell’1% è di 160 °C. Poiché la raffinazione
(come si vede, anche ciò che è negativo ha dei punti a suo favore!) elimina una buona parte degli
acidi grassi liberi,

gli oli non raffinati hanno punti di fumo decisamente più bassi.

Come cambia – Alcuni fattori possono cambiare nettamente il punto di fumo (PF):

•• la miscela di oli diversi


•• la presenza di batteri
•• la presenza di sale
•• la durata del riscaldamento (il PF si abbassa)
•• il numero di volte che l’olio è usato (il PF si abbassa)
•• la conservazione dell’olio (ossigeno, luce, temperatura ecc. )
•• dimensione e forma del recipiente di cottura (il PF si abbassa se la padella di frittura è ampia)
•• la presenza di acqua (come nel burro italiano; il PF si abbassa)
•• la presenza di mono- e digliceridi (il PF si abbassa)
•• la presenza di acidi grassi liberi (il PF si abbassa).

Nella tabella 4 sono elencati i punti di fumo degli oli più comuni.

TABELLA 4 – Punto di fumo di vari grassi (in gradi centigradi).


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• Arachide
> Raffinato 230 :|: Non raffinato 160

• Avocado

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> Raffinato 270

• Burro non chiarificato


> Non raffinato 110-130

• Burro chiarificato
> Non raffinato 180-200

• Canapa
> Raffinato 165

• Canola
> Raffinato 200-235 :|: Non raffinato 110

• Cartamo
> Raffinato 265

• Cocco
> Raffinato 175

• Colza
> Raffinato 225

• Cotone
> Raffinato 215

• Girasole
> Raffinato 225-245

• Lino
> Non raffinato 110

• Mais
> Raffinato 230 :|: Non raffinato 110

• Mandorla
> Raffinato 220 :|: Non raffinato 160

• Margarina
> Raffinato 150

• Nocciola
> Raffinato 220

• Noce
> Raffinato 200

• Oliva

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> Raffinato 190-240 :|: Non raffinato 160

• Palma
> Raffinato 240 :|: Non raffinato 160-210

• Riso
> Raffinato 230-255

• Sesamo
> Raffinato 215-230

• Soia
> Raffinato 230-240 :|: Non raffinato 175

• Strutto
> Non raffinato 160

• Vinacciolo
> Raffinato 245 :|: Non raffinato 160
----------

La scelta dell’olio
Da un punto di vista calorico gli oli sono tutti equivalenti, con la canonica corrispondenza di 9
kcal per grammo, il burro invece ha meno calorie (7,6 kcal/g). È importante però considerare il
loro comportamento e le loro proprietà per definire una strategia ottimale. Non tutti gli oli di semi
sono nutrizionalmente positivi; per esempio l’olio di colza contiene l’acido erucico che si è
dimostrato nocivo sugli animali (la sua percentuale non può superare il 5% negli oli di semi vari).
Per scegliere l’olio migliore è necessario considerare:

•• le proprietà salutistiche
•• la degradazione
•• il punto di fumo
•• i processi di raffinazione.

Riassumendo le conoscenze attuali in base ai punti precedenti:

•• un olio è tanto migliore quanto più alta è la sua quantità di acidi grassi monoinsaturi, poiché i
polinsaturi sono instabili e i saturi provocano un aumento della colesterolemia.
•• Gli oli raffinati si degradano molto più rapidamente di quelli non raffinati o contengono
antiossidanti sospetti come il BHT e il BHA.
•• Gli oli raffinati contengono quantità minime di antiossidanti.
•• Il punto di fumo di oli non raffinati è generalmente basso se si eccettua l’olio d’oliva
extravergine. Il punto di fumo di oli raffinati è in genere alto.
•• Gli oli raffinati possono avere una quota di grassi trans.
•• Gli oli con un alto contenuto di polinsaturi sono molto facilmente ossidabili (ossidazione
enzimatica e ossidazione chimica).

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Da questa breve carrellata si deduce che il miglior olio in assoluto da usare a freddo o per
friggere è sicuramente l’olio extravergine d’oliva che:

•• ha un’alta percentuale di monoinsaturi


•• contiene antiossidanti naturali
•• ha un punto di fumo di 160-210 °C
•• non ha grassi trans
•• ha buona stabilità di conservazione.

La frittura – L’uso dell’olio in cucina è spesso legato alla necessità di friggere i cibi. In realtà
sarebbe più corretto parlare di:

•• frittura a immersione (deep frying) con l’alimento immerso nell’olio (per esempio una frittura
di calamari);
•• soffritto con l’alimento immerso parzialmente (per esempio nelle verdure).

Per le considerazioni sul punto di fumo appare ragionevole:

1. Scaldare l’olio il minor tempo possibile (è una pessima abitudine lasciar friggere l’olio mentre
si è impegnati altrove in cucina o soffriggere per esempio le verdure a lungo e più del dovuto).
2. Non riusare l’olio di frittura (cosa purtroppo comune negli esercizi pubblici, pensiamo alle
classiche patatine fritte).

Nonostante queste indicazioni, nel caso di frittura a immersione la scelta dell’olio è difficile.
Infatti un olio raffinato ha un alto punto di fumo, ma è sicuramente poco stabile all’ossidazione se
è ricco di polinsaturi (l’acroleina si forma dal glicerolo, non dall’acido grasso che si è staccato
dal glicerolo, quindi non bisogna confondere il problema dell’acroleina con quello
dell’ossidazione). Si potrebbe usare olio di palma raffinato che ha punto di fumo alto (240 °C),
pochi polinsaturi (10% circa), ma circa il 45-50% di saturi. Poiché in genere non si conoscono i
dettagli della raffinazione non si hanno informazioni sulla quota di grassi trans e sugli antiossidanti
aggiunti.
L’olio d’oliva extravergine ha un buon punto di fumo, ma non si può essere certi che sia superiore
alle temperature usate: per esempio la temperatura di frittura potrebbe essere di 180 °C e il punto
di fumo dell’olio extravergine usato essere di 160 °C.
Si è pertanto di fronte a una innegabile difficoltà salutistica. Se si usano alte temperature, si
devono usare oli raffinati mentre se si vogliono usare oli non raffinati occorre controllare le
temperature. Non ha pregio teorico il consiglio di limitare l’uso dei fritti perché friggere
saltuariamente equivale al saggio consiglio di non friggere. In base alle considerazioni precedenti
una buona scelta può essere l’uso prevalente di olio extravegine d’oliva e per soffriggere solo
olio d’oliva extravergine con controllo della temperatura. La frittura a immersione non è
salutisticamente accettabile e deve essere limitata. In base anche a considerazioni economiche, gli
oli di semi specifici (girasole, arachide, mais ecc. ) si possono usare per condire (arricchendo la
propria dieta di acidi grassi polinsaturi) e il burro può essere usato in tutti quei piatti in cui non
viene portato ad alte temperature.

80
I meccanismi energetici
Nella Figura 7 riportata più avanti sono rappresentati in maniera molto schematica i meccanismi
energetici che avvengono nel nostro organismo utilizzando i macronutrienti trattati in questo e nei
precedenti capitoli. Lo schema sembra molto complesso, ma analizzandone i singoli blocchi si
capirà facilmente come funziona.
Nella parte alta dello schema (quella non energetica, ma di preparazione), si parte dai
macronutrienti (proteine, carboidrati complessi, lipidi) che vengono scomposti nei loro blocchi
costitutivi (aminoacidi, glucosio, acidi grassi).
Nella parte intermedia i blocchi costitutivi vengono trasformati in composti intermedi (piruvato,
acetilcoenzima A ecc.) con liberazione di una piccola parte dell’energia biomolecolare coinvolta
nei processi. La parte in basso avviene nei mitocondri, piccole formazioni contenute nel
citoplasma della cellula (circa 2.000 ogni cellula), della lunghezza di 1 o 2 µm e delimitate da due
membrane. La membrana più interna è ripiegata a formare le creste, sedi degli enzimi che
intervengono nella respirazione cellulare e nella produzione di ATP. Nei mitocondri i composti
intermedi finiscono nel ciclo di Krebs (detto anche ciclo dell’acido citrico) e nei processi della
catena di trasporto degli elettroni e della fosforilazione ossidativa. Nei mitocondri si realizza
gran parte della sintesi dell’ATP.

Figura 7 - I meccanismi energetici del corpo umano. L’energia è prodotta nei processi
rappresentati con le ellissi.

Vediamo i processi principali descritti in figura.

Catabolismo dei lipidi (blocco 1) – Grazie a un opportuno enzima (lipasi), i trigliceridi (la fonte
lipidica presente nelle cellule muscolari, soprattutto quelle lente, e nel sangue) vengono idrolizzati
(cioè scissi grazie a una reazione con molecole d’acqua) in glicerolo e acidi grassi. Il glicerolo
entra nella glicolisi e contribuisce a formare piruvato.

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Catabolismo dei carboidrati (blocco 2) – I carboidrati complessi vengono trasformati in glucosio
che può essere immagazzinato come glicogeno nel fegato e nei muscoli. Il glucosio si può formare
anche per gluconeogenesi, un processo che avviene nel fegato e che impiega composti diversi dai
carboidrati come aminoacidi, piruvato, lattato o glicerolo.
Catabolismo delle proteine (blocco 3) – Consente di ottenere gli aminoacidi.
Deamminazione – È un processo che si verifica nel fegato e che consiste nella rimozione
dell’azoto dalla molecola di un aminoacido. Lo scheletro rimasto può essere usato per sintetizzare
nuovi composti oppure per produrre energia. Le diverse vie che si originano dalla deamminazione
dipendono dall’aminoacido: l’alanina (e forse la glutammina) entrano nella gluconeogenesi, dalla
glicina si ottiene acetilCoA (Co sta per coenzima) ecc.
Ciclo dell’urea – L’azoto liberato sotto forma di ammoniaca viene trasformato dal fegato in urea e
quest’ultima ripassa in circolo per essere espulsa con le urine. Negli uccelli l’azoto viene
eliminato come acido urico, insolubile in acqua (è per questo che gli uccelli bevono poco); nel
l’uomo invece il catabolismo proteico produce scorie solubili, aumentando il fabbisogno idrico.
Se i reni non filtrano correttamente il sangue eliminando l’urea con le urine, la si troverà in esso
presente in alte concentrazioni (azotemia elevata). Nel caso si riscontrino valori alti di azotemia,
ci si può trovare di fronte a un’eccessiva assunzione di proteine (come nel caso di dieta
iperproteica o di assunzione eccessiva di integratori aminoacidici) o a una temporanea
“intossicazione” da superlavoro (come può accadere dopo un’intensa attività sportiva).
Ciclo alanina-glucosio – Come è indicato in Figura 7 anche gli aminoacidi entrano nel processo
energetico; per esempio quando dopo una corsa di diverse decine di minuti nei muscoli diminuisce
la disponibilità di glicogeno, a partire da aminoacidi a catena ramificata (come la leucina) e dal
piruvato si forma l’alanina per transaminazione (cioè un processo per cui il gruppo amminico
proprio degli aminoacidi passa da un aminoacido a un’altra sostanza costituendo un nuovo
aminoacido); l’alanina passa nel fegato dove le viene tolto il gruppo amminico (deamminazione),
ottenendo ammoniaca e uno scheletro carbonioso dal quale si ottiene glucosio che finalmente
viene utilizzato come energia. Il rilascio di alanina da parte dei muscoli aumenta al crescere
dell’intensità del lavoro e si stima che per lavori piuttosto intensi il 10-15% del glucosio
necessario derivi dal ciclo alanina-glucosio.
Glicolisi – È il processo in cui il glucosio all’interno del citoplasma di una cellula è convertito in
piruvato con liberazione di una quota modesta di energia (circa il 5% dell’energia contenuta in
una molecola di glucosio). Avviene con una sequenza di dieci reazioni, molto veloci e che non
richiedono la presenza di ossigeno: il processo è cioè anaerobico. Ciò è importante perché spiega
come il glucosio sia l’unica fonte anaerobica di ATP e consenta la disponibilità di energia per
lavori di alta intensità, quando i meccanismi aerobici non sono in grado di far fronte alla richiesta
energetica. Durante le reazioni tipiche della glicolisi si ha una liberazione di ioni (cioè molecole
cariche elettricamente) idrogeno; se la loro produzione è eccessiva il processo si blocca. Per
ovviare a questo problema il piruvato che si forma al termine della glicolisi può accettare
temporaneamente l’idrogeno e trasformarsi in lattato. Il lattato si diffonde al di fuori della
membrana cellulare, viene tamponato (scompare cioè l’idrogeno che è legato al lattato nella
formazione dell’acido lattico) nel plasma e quindi rimosso e la cellula può continuare la glicolisi.
Se la richiesta energetica è molto elevata il sistema però va in crisi; per ripristinare il processo
occorre che gli ioni idrogeno vengano ossidati in presenza di ossigeno e ciò può verificarsi con la
pausa o con una diminuzione dell’intensità dello sforzo.
Ciclo di Cori – Contrariamente a quanto si crede, il lattato non è un prodotto inutile e/o dannoso
per l’organismo. L’energia chimica contenuta nel lattato può essere utilizzata dal fegato che con un

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processo di gluconeogenesi sintetizza a glucosio il lattato che proviene dal circolo ematico.
β-ossidazione degli acidi grassi – È un processo che avviene nei mitocondri: dagli acidi grassi si
originano acetilcoenzima A che entra nel ciclo di Krebs e atomi di idrogeno che saranno ossidati
nella catena respiratoria. Poiché per la liberazione dell’idrogeno deve essere presente l’ossigeno,
la β-ossidazione è un processo aerobico e in genere molto più lento della glicolisi anaerobica.
Ciò spiega come i lipidi possano intervenire massicciamente come apporto energetico se il lavoro
muscolare non è sufficientemente intenso. È molto importante notare che il catabolismo dei lipidi
dipende dalla presenza di un livello minimo di catabolismo dei carboidrati. Se si osserva lo
schema generale si nota che dal piruvato si genera anche ossalacetato che serve per mantenere il
ciclo di Krebs in cui entrano l’acetilCoA prodotto della β−ossidazione. Se si riduce il piruvato i
prodotti della β−ossidazione non possono entrare nel ciclo di Krebs e vengono eliminati come
corpi chetonici (con conseguente acidosi).
Catena respiratoria – Sulla superficie interna dei mitocondri l’idrogeno si ossida grazie
all’intervento di opportuni enzimi (deidrogenasi). Il processo avviene con una serie di reazioni
chimiche in cui gli elettroni del l’idrogeno passano a una serie di trasportatori intermedi
(coenzima Q e citocromi) finché arrivano all’ossigeno, combinandosi con il quale formano acqua.
A ogni passaggio della catena si libera energia e tale energia è sufficiente per consentire la sintesi
dell’ATP per fosforilazione.
Fosforilazione ossidativa – È il processo aerobico in cui gli elettroni che derivano dai cicli
metabolici precedenti sono ceduti all’ossigeno molecolare con produzione di energia
immagazzinata sotto forma di ATP. La fosforilazione si attua nella membrana interna dei
mitocondri cellulari grazie alla catena di trasporto degli elettroni sino all’ossigeno molecolare.
Ciclo di Krebs (o dell’acido citrico) – Come si nota dallo schema generale il piruvato originatosi
dalla glicolisi si trasforma (irreversibilmente) in acetilCoA che entra nel ciclo di Krebs. In tale
ciclo dall’acetilCoA si ottengono anidride carbonica e atomi di idrogeno che entrano nella catena
respiratoria. Il ciclo di Krebs e la catena respiratoria lavorano in stretta simbiosi: finché c’è
ossigeno la catena respiratoria fornisce alcune sostanze essenziali al funzionamento del ciclo che a
sua volta continua a cedere atomi d’idrogeno ed elettroni alla catena. I due processi sono cioè
aerobici. Da notare che nei processi sopradescritti che avvengono nei mitocondri giocano un ruolo
importante vitamine del gruppo B come niacina e riboflavina.

Le trasformazioni fra macronutrienti


Anche se vi siete persi fra i processi appena descritti, dovrebbe essere rimasto un concetto
fondamentale:

il corpo è in grado di trasformare alcuni macronutrienti in altri, sopperendo a carenze


momentanee.

Ciò è importantissimo perché praticamente consente di considerare come unità alimentare la


giornata e non il singolo pasto. Vediamo innanzitutto come sono immagazzinati i macronutrienti. I
carboidrati vengono immagazzinati come tali (grazie all’azione dell’insulina) fino a saturare le
scorte di glicogeno, poi vengono trasformati in grasso. I grassi vengono immagazzinati con
continuità negli adipociti; da questi vengono prelevati per ottenere energia sotto l’azione di
ormoni (epinefrina, norepinefrina, ACTH, glucagone); tale processo è ostacolato dall’insulina.
Dai grassi non è possibile ottenere carboidrati perché non esiste via metabolica che lo consenta

83
(se si esclude la gluconeogenesi da glicerolo che produce quantità comunque modestissime).
Interessante la trasformazione delle proteine. Le proteine possono essere convertite in glucosio
(cioè carboidrati). Il processo (protein burning) è tanto più sensibile:

•• quanto più il corpo è in deplezione di glicogeno;


•• quanto maggiore è il consumo di proteine nella dieta.

Quindi, a seconda di quante proteine si assumono e a seconda della capacità del soggetto di
utilizzare il ciclo alanina-glucosio, si può dire che una proteina:

1. viene utilizzata per rimediare al catabolismo proteico;


2. poi, se lo stimolo anabolico è soddisfatto, viene trasformata in glucosio (ciclo alanina-
glucosio);
3. poi se il ciclo è saturato, viene eliminata.
Se un “mediterraneo classico” sedentario passa a una dieta iperproteica (avendo un ciclo
dell’alanina inefficiente) dimagrirà velocemente (finché il ciclo non diventa efficiente, poi il
fenomeno di dimagrimento “per cambio dieta” cessa) perché prevarrà il terzo punto; se per
dimagrire un body builder sovrappeso segue una dieta iperproteica diminuirà molto meno perché
il secondo punto è molto forte.
Realisticamente cioè il terzo punto è molto sensibile solo in individui che assumono molte
proteine (quota superiore al 15%) e sono genericamente sedentari. È interessante notare come la
parte proteica che viene trasformata in glucosio vada a influenzare la trasformazione di
carboidrati in grasso perché le scorte di glicogeno vengono in parte saturate dal glucosio
proveniente dalla conversione proteica. Sintetizzando si può dire che, praticamente, si hanno
queste possibili trasformazioni:

carboidrati - > grassi


proteine - > carboidrati
proteine - > grassi.

Non si hanno invece (praticamente) le trasformazioni:

grassi - > carboidrati


grassi - > proteine
carboidrati - > proteine.

Questi risultati sono fondamentali e saranno ripresi più volte (Capitolo 7, Perché si ingrassa). In
particolare permettono di concludere che:

•• il digiuno è nocivo perché non è possibile ottenere dalle scorte di grassi del soggetto né
carboidrati né proteine, con conseguente sofferenza di tutti quegli organi che necessitano di
carboidrati e di proteine (per esempio cervello, muscoli ecc.).
•• La quota di proteine nell’alimentazione non può scendere sotto certi valori se si vuole un fisico
forte e magro perché le proteine non possono essere sintetizzate da carboidrati o da grassi.

84
Capitolo 6 - Acqua, fibre e micronutrienti
Carboidrati, proteine e grassi non sono ovviamente le sole sostanze fondamentali per il nostro
organismo. Acqua, fibre e micronutrienti completano il quadro degli attori dei processi che
avvengono nel nostro corpo grazie all’alimentazione. In particolare i micronutrienti sono
rappresentati da quelle sostanze che, pur agendo in quantità minima, sono in grado di influenzare i
processi che avvengono nel nostro organismo. I micronutrienti più importanti sono i minerali e le
vitamine. Si deve subito rilevare che:

(18)una dieta equilibrata assicura il corretto apporto di minerali e non ha senso assumerne con
integratori se non in presenza di carenza accertata.

La stessa cosa non può dirsi per le vitamine che svolgono talmente tante funzioni all’interno
dell’organismo umano che molti ricercatori sono ormai arrivati a concludere che una loro
integrazione non solo è utile, ma è addirittura necessaria.

L’acqua
L’organismo umano è formato per il 65% da acqua (dal 99% del liquido oculare al 2% dello
smalto dentale); questa percentuale è una media in quanto ci sono notevoli variazioni da individuo
a individuo, dovute soprattutto al fatto che nella massa muscolare il contenuto in acqua arriva al
75%, mentre nella massa grassa è circa la metà. Contrariamente a quanto si pensa, l’acqua non
viene persa solo con le urine o il sudore, ma anche con altri processi. Circa 0,35 l sono eliminati
attraverso la cute con la perspiratio insensibilis, l’evaporazione verso l’esterno; in condizioni di
iperventilazione (come durante una corsa) si perde acqua (vapor acqueo, circa 80 ml in venti
minuti) con l’espirazione; infine circa 0,2 l sono eliminati con le feci. Con le urine si perdono
mediamente 1-1,5 l d’acqua al giorno; si deve tener conto che poiché il rene elimina rifiuti
organici (come l’urea), esiste una quota obbligata (circa 15 ml/g di soluto) che aumenta
all’aumentare delle scorie. Chi segue diete iperproteiche deve sapere che, a causa
dell’eliminazione dell’urea, aumenta il rischio di disidratazione. Le perdite più variabili d’acqua
sono quelle associate al processo di sudorazione (da 0,5 a diversi litri al giorno a seconda delle
condizioni).
L’acqua può essere assunta direttamente o indirettamente tramite cibi che ne contengono una
notevole percentuale (come frutta, verdura, latte ecc.). Per questo motivo, salvo casi particolari, è
del tutto fuori luogo dare indicazioni di quanto si deve bere. Un qualunque dato generale che non
tenga conto dell’alimentazione del soggetto è del tutto privo di significato. Inoltre si deve sapere
che, se è vero che l’acqua è di gran lunga l’alimento più importante, è sempre disponibile (a meno
che non si sia in un deserto), a differenza di molte sostanze che possono mancare
nell’alimentazione per errori di scelta, e che il nostro corpo ha meccanismi di controllo tali per
cui con l’acqua non fallisce. In altri termini, a un individuo sano viene sete quando il corpo ha
bisogno di bere. La stessa cosa non si può dire per carboidrati, grassi ecc. L’appetito di un
individuo sano non è tarato sul suo effettivo bisogno. Riassumendo:

(17)Per il corretto equilibrio idrico di una persona sana è sufficiente bere quando si ha sete,
verificando che il colore delle proprie urine resti chiaro.

85
Le fibre
Le fibre alimentari (talvolta anche fibre dietetiche) sono una classe di alimenti di difficile
definizione. Nel corso degli anni sono state diverse le definizioni di fibra alimentare; storicamente
la prima (1953) viene attribuita a Hipsley che definì la fibra alimentare come “porzione non
digeribile costituente le pareti delle cellule vegetali”. Negli anni ‘70 del XX secolo, furono molte
altre le definizioni date alle fibre alimentari da studiosi quali Burkitt, Trowell, Walzer e Painter
secondo i quali dovevano essere escluse dalla definizione i polisaccaridi che venivano aggiunti al
regime alimentare come additivi (per esempio la gomma delle piante o la cellulosa modificata); in
seguito però tale definizione fu modificata ed essa includeva anche tutti i polisaccaridi e la lignina
(sostanze non idrolizzabili dalle secrezioni dell’apparato digerente dell’uomo). Nel loro testo
Chimica degli alimenti, Paolo Cabras e Aldo Martelli riportano due fra le più recenti definizioni
di fibra alimentare, una di tipo fisiologico: “la fibra alimentare è la componente dietetica
resistente alla degradazione da parte degli enzimi del corredo enzimatico”, e una di tipo chimico:
“la fibra alimentare è la somma dei polisaccaridi di origine non amidacea e della lignina”.
Più concretamente comunque, in linea generale, le fibre alimentari sono (quasi sempre)
carboidrati che, resistendo alla digestione enzimatica intestinale (anche se una parte è fermentata
dalla flora batterica intestinale e quindi assorbita), non sono importanti dal punto di vista calorico.
Le fibre si trovano in diverse forme solo nei vegetali (cellulosa, pectina, lignina, resina gommosa
ecc.).
Sono ormai diversi anni che viene sottolineato il ruolo delle fibre nell’alimentazione (i primi studi
sulle fibre alimentari risalgono alla seconda metà del XX secolo); in effetti, le proprietà delle
fibre alimentari sono numerose; ne citiamo alcune: aumentano il senso di sazietà, sono in grado di
trattenere l’acqua, migliorano la motilità intestinale, riducono l’indice glicemico dei carboidrati e
non hanno valore calorico.

Fibre alimentari solubili e insolubili


Le fibre alimentari vengono suddivise in due grandi gruppi: fibre solubili e fibre insolubili (in
acqua). Sia le fibre solubili che quelle insolubili intervengono, con differenti effetti, nei processi
digestivi e in quelli intestinali.
Le fibre solubili (per esempio le gomme, i galattomannani, le mucillagini e le pectine) sono
caratterizzate da notevole idrofilia, ovvero possiedono la capacità di legare molecole d’acqua; a
contatto con i liquidi queste fibre formano una sostanza gelatinosa che aderisce molto bene alle
pareti dell’intestino. Le fibre solubili si trovano in diversi alimenti, fra i quali crusca di avena,
orzo perlato, legumi, patate, albicocche, mele, riso integrale ecc. Queste fibre rallentano lo
svuotamento gastrico (con conseguente aumento del senso di sazietà), rallentano il transito
intestinale, facilitano l’eliminazione degli acidi biliari, riducono sia l’assorbimento che la
produzione di colesterolo. Relativamente a quest’ultimo punto, sono diversi gli studi sugli effetti
che le fibre hanno sul metabolismo lipidico; questi studi hanno mostrato un effetto di riduzione sia
dei livelli ematici di colesterolo totale sia di quelli di colesterolo LDL. Tale effetto potrebbe
essere dovuto sia alla diminuzione dell’assorbimento del colesterolo di natura alimentare sia alla
diminuzione del riassorbimento degli acidi biliari; alcuni di questi acidi, infatti, si legano ai
gruppi polari delle fibre non fermentate e vengono escreti tramite le feci; la sintesi di nuovi acidi
biliari (a partire dal colesterolo epatico) induce la captazione del colesterolo in circolo da parte
del fegato con conseguente diminuzione dei livelli di colesterolo ematico.

86
Oltre a favorire un maggior controllo della stipsi idiopatica cronica (aumentano la viscosità della
massa intestinale), le fibre solubili possono risultare di una certa utilità per quei soggetti che sono
affetti da problemi di tipo metabolico e che potrebbero ricevere un beneficio da un assorbimento
dei nutrienti più lento o più ridotto (il tipico caso è rappresentato da coloro che soffrono di
diabete) e anche per coloro che stanno seguendo una dieta mirata alla riduzione del proprio peso
in quanto, come detto in precedenza, aumentano il senso di sazietà.
Un’altra importante azione delle fibre solubili è quella di ridurre il rischio di contrarre tumori
intestinali. Relativamente alla loro azione antitumorale, diversi sono gli scenari proposti per
spiegare l’azione delle fibre, fra questi ne ricordiamo due:

•• la produzione di acidi grassi a catena corta come, per esempio, l’acido acetico, l’acido
propionico e l’acido butirrico; questi acidi, che sembrano possedere proprietà antitumorali,
rappresentano la principale fonte energetica degli enterociti (le cellule dell’intestino) e aiutano a
mantenere e migliorare il trofismo e la massa della mucosa dell’intestino.
•• Il mantenimento di un pH intestinale ottimale, ciò impedirebbe alla flora intestinale nociva di
svilupparsi e produrre metaboliti tossici, alcuni dei quali sembrano avere una qualche relazione
con lo sviluppo di neoplasie intestinali.

Le fibre insolubili (per esempio le cellulose, le emicellulose, la lignina e i polimeri di struttura


complessa) sono caratterizzate soprattutto dalla loro rimarchevole capacità di trattenere notevoli
quantità di acqua e dal fatto di essere fermentate dalla microflora colonica.
Le fibre insolubili sono presenti in diversi cibi fra i quali i cereali integrali, la crusca di grano, il
pane integrale, l’orzo intero, le verdure, i fagioli, le fave, i piselli, il radicchio rosso, le
melanzane, le carote, le pere ecc.
Queste fibre aumentano la massa fecale e ne diluiscono il contenuto, accelerano il transito
intestinale e riducono il tempo di contatto fra mucosa intestinale e sostanze potenzialmente
dannose (tossiche, cancerogene ecc).
Le fibre insolubili contribuiscono al miglioramento della regolazione delle funzioni intestinali e
possono risultare utili a coloro che soffrono di stipsi spastica, diverticolosi, diverticolite e
diarrea.

Quante fibre?
In seguito alle varie azioni benefiche illustrate in precedenza, si tende spesso (in particolar modo
quando si seguono diete ipocaloriche) a eccedere nel consumo di fibre, dimenticando che una
quantità eccessiva ostacola anche l’assunzione di microelementi utili (calcio, ferro, magnesio
ecc.), dà problemi intestinali e alla lunga abitua il corpo a essere più attento all’assorbimento dei
cibi, causando un effetto ingrassante di rimbalzo quando si torna a una dieta normale.
La quantità consigliata di fibre dovrebbe essere di 1 g ogni 100 calorie di cibo assunte.

Numerosi sono gli integratori a base di fibre; il loro impiego è un grossolano errore dietetico:
poiché aumentare la quantità di fibre oltre la dose consigliata può essere controproducente, avere
la necessità di integrare le fibre vuol dire seguire un’alimentazione squilibrata. Il normale e
regolare consumo di frutta e soprattutto di verdura assicura la giusta quantità di fibre.
La dieta italiana definisce l’indice di fibra come il quantitativo in g (moltiplicato per 100) per
100 kcal dell’alimento considerato.

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IF=(FIB/CAL)x100

dove CAL sono le calorie per 100 g e FIB le fibre in grammi sempre riferite a 100 g.
Quanto più l’indice è alto tanto più la densità di fibre relativamente alle calorie è alta.

NOTA - Per valutare l’apporto in fibre, è fondamentale riferire il quantitativo di fibre alle calorie
dell’alimento piuttosto che considerare il valore assoluto perché l’obiettivo non è assumere tante
fibre quanto assumerne la giusta quantità, evitando il sovrappeso derivante da un’assunzione
eccessiva di calorie.

Per esempio, 100 g di uva contengono solo 1,5 g di fibre apportando circa 61 kcal. Un soggetto
con un’assunzione giornaliera di 2.000 kcal dovrebbe mangiare circa 1,3 kg di uva con un introito
calorico di ben 811 kcal. Se utilizza insalata (per esempio cicoria 10 alb, 3,6 g di fibre) per avere
20 g di fibre bastano 55 kcal. È evidente che le fibre non derivano da un solo alimento, ma
l’indice di fibra dà indicazioni su quali alimenti utilizzare limitando contemporaneamente le
calorie.
La tabella degli indici di fibra dei principali alimenti è consultabile nell’Appendice 6.

Fibre e calorie
Cosa significa che le fibre non sono importanti dal punto di vista calorico?
In teoria si può calcolare che in media apportino 2 kcal/g, quindi il loro contributo non sarebbe
minimale. Occorre però comprendere che siamo in un regime di approssimazioni (per i dettagli si
vedano i due modi di calcolare le tabelle delle calorie): i carboidrati (di frutta e verdura)
apportano un po’ meno di 4 kcal/g per cui è risultato più semplice considerare 4 kcal per i
carboidrati e 0 per le fibre piuttosto che 3,6 kcal per i carboidrati e 2 per le fibre. Data la
ripartizione di fibre vs. carboidrati negli alimenti, la seconda approssimazione di Atwater (4 e 0)
funziona per la stragrande maggioranza dei cibi ed è più facile della prima (3,6 e 2) da
maneggiare.
Va da sé che un discorso esatto si può fare solo in laboratorio, ricavando per ogni alimento il
contributo calorico: solo così si hanno le vere tabelle nutrizionali.
Il diffondersi nella popolazione della mentalità anoressica ha però portato molti a usare “solo” la
seconda approssimazione di Atwater come se fosse vangelo. Se un soggetto con un consumo
calorico di 2.000 kcal in una dieta equilibrata dovrebbe utilizzare 20 g di fibre (cioè al massimo
40 kcal che vengono compensate dalla sovrastima dei carboidrati della frutta e della verdura), non
è raro trovare casi in cui per stare bassi con le calorie (le fibre si dovrebbero assumere
soprattutto per altri scopi) si arriva a 60-75 g con alimenti decisamente sbilanciati verso le fibre.
In tali casi l’errore può essere anche di 120-150 kcal al giorno e non viene bilanciato né da una
diminuita digeribilità dei cibi (se assunti con fibre sono meno digeribili) né con la sovrastima dei
“veri” carboidrati di frutta e verdura. Per questi motivi, dal 31 ottobre 2012 in Europa gli alimenti
contenenti fibre dovranno conteggiarle come 2 kcal/g, togliendo l’illusione che mangiare solo
verdure “non fa ingrassare” e ridirigendo il soggetto verso una dieta più equilibrata.

I minerali

88
Oltre ai quattro elementi principali (carbonio, ossigeno, idrogeno e azoto) il nostro corpo contiene
altri 22 elementi. Come detto nella premessa, un’integrazione minerale senza l’accertamento di
una carenza è inutile, anzi un eccesso di queste sostanze (a differenza di ciò che succede per molte
vitamine) può essere addirittura nocivo.
Non è questa la sede per esaminare in dettaglio le funzioni di tutti questi micronutrienti, anche se
alcuni studiosi cercano di dar loro un significato spesso esagerato in rapporto allo stato di
benessere del soggetto. Per farlo arrivano all’impiego di tecniche abbastanza discutibili come il
mineralogramma (di solito eseguito con l’analisi del capello). Inevitabilmente le eventuali
“scoperte” si traducono poi in una serie di proibizioni circa i cibi pericolosi e di consigli verso i
cibi che servirebbero a ripristinare i corretti equilibri di minerali. Si tratta sicuramente di una
forma di ortoressia salutista, motivata dalla semplicistica convinzione che sia possibile ristabilire
la salute operando su dati desunti da un unico esame. Occorre diffidare sempre di chi vuole
proporci la salute studiando e modificando un solo aspetto del nostro organismo.
Nel testo vengono trattati quei minerali la cui carenza può interessare una parte significativa della
popolazione; per altri (come zinco, fosforo ecc.) si rimanda alla sezione Integratori del sito
albanesi.it

Perché il mineralogramma non funziona


Il mineralogramma viene generalmente effettuato su un campione di capelli in quanto, secondo le
fonti che lo “sponsorizzano”, l’analisi effettuata su altri reperti (unghie, peli pubici o ascellari
ecc.) potrebbe risultare meno accurata. Il campione dovrebbe venire prelevato dalla regione retro-
nucale. Il taglio di capelli dovrebbe essere eseguito dopo almeno quattro ore dall’ultimo lavaggio,
ma possibilmente non più di venti ore dopo. È necessario che, al momento del taglio, i capelli
siano perfettamente asciutti; i laboratori consigliano inoltre di utilizzare la parte più vicina allo
scalpo; la lunghezza dei capelli che verranno utilizzati deve aggirarsi sui 3-3,5 cm circa. Il
campione ideale dovrebbe essere composto dall’insieme di ciocche prelevate da più punti.
I laboratori generalmente specificano che sono diversi i fattori che possono influenzare la lettura
del mineralogramma (bagni in piscina, shampoo, tinture, decolorazioni, permanente ecc.).
Il metodo generalmente utilizzato per l’esecuzione del mineralogramma è la spettrometria ICP-
AES (Inducted Coupled Plasma – Atomic Emission Spectrometry). In prima battuta, il campione
di capelli viene ridotto in piccolissime parti, pesato e fatto sciogliere in una soluzione acida per
rimuovere la cheratina; viene poi eseguita una reidratazione del campione che viene infine
bruciato a temperature che oscillano tra gli 8.000 e i 10.000 °C; a queste temperature, infatti, i
minerali emettono luci specifiche a lunghezza d’onda.
Un famoso studio e un autorevole commento sulla rivista Journal of American Medical
Association hanno mostrato che l’affidabilità di queste analisi è piuttosto scarsa. Tale studio non è
mai stato smentito. Qui di seguito riportiamo i dubbi principali su tale metodica.
Interpretazione – Occorre una grande esperienza per leggere i dati. Nonostante tutti si rifacciano
a laboratori americani (chissà poi perché devono essere più affidabili dei nostri), ci si limita a
fornire il nome e non a spiegare chiaramente il metodo di interpretazione. Il motivo è che tale
metodo non esiste, ognuno fa da sé e già questo è indice di contraddizioni ed errori.
Errori – I capelli sono soggetti a fattori atmosferici (smog) e a stress chimici (come bagni in
piscina, shampoo, tinture ecc.) che rendono per lo meno dubbio ogni prelievo.
Le “scoperte” del mineralogramma – A parte i minerali più importanti per i quali esistono
esami convenzionali molto più precisi, sui minerali secondari si sa veramente ancora molto poco

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ed è quindi assurdo prendere decisioni su ciò che non si sa. Per dare un’idea delle conoscenze
“sicure” possiamo dire solo che il boro in alte dosi influenza il metabolismo del calcio nei maiali
o che forse il cromo influenza il metabolismo dei glicidi (ma l’uso di esso come dimagrante dà
scarsissimi risultati). Di seguito un elenco di minerali per i quali tutta la ricerca usa il
condizionale o non sa mettere in sicura relazione con patologie umane: boro, cromo, litio,
molibdeno, manganese, vanadio, zirconio, bario, stagno, bismuto, berillio. Per i seguenti minerali
l’analisi del capello non è attendibile o non fornisce alcun risultato utile (per ammissione degli
stessi fautori del mineralogramma): argento, oro, cobalto, germanio, torio. Per altri (fosforo)
rileva patologie talmente gravi (anoressia, alcolismo ecc.) che non è necessario un esame per
diagnosticarle. Per questi altri è possibile una contaminazione esterna: rame, selenio, zolfo,
titanio. Per i metalli tossici (cadmio, mercurio, piombo, arsenico ecc.), la loro scoperta non ha
nessun influsso sull’alimentazione (i cibi non ne contengono o non dovrebbero contenerne) e può
comunque essere facilmente messa in relazione con il luogo di lavoro o con l’ambiente abituale
del soggetto (è abbastanza ovvio che chi fa il vigile in una grande città e non usa la mascherina
possa essere “inquinato”).
Gli incroci metabolici – Molti minerali influenzano il metabolismo di altri (per esempio le coppie
rame-zinco e magnesio-calcio); appare quindi del tutto ottimistico cercare di ripristinare una
situazione semplicemente “integrando”: la somministrazione di un minerale “carente” potrebbe
portare a livello ottimale quello in oggetto, ma innescare carenze o eccessi in altri.
Diagnosi – Gli stessi fautori del mineralogramma specificano che si tratta di uno screening-test
che non può fornire una diagnosi di una determinata patologia.
Analisi – È assurdo derivare dal mineralogramma informazioni sulla tiroide, le ghiandole
surrenali, la tolleranza al glucosio, l’osteoporosi ecc. quando esistono metodi molto più precisi.
Sangue e capello – Si sostiene che i livelli nel capello sono più significativi di quelli nel sangue.
Ciò è del tutto fuorviante perché lo stato del soggetto dipende da ciò che è circolante e arriva ai
muscoli e agli organi. Supponiamo di considerare l’analisi del contenuto intestinale; troveremmo
molte sostanze “tossiche” nonché microrganismi potenzialmente pericolosi: perché dovremmo in
base a questa scoperta considerare il soggetto malato (lo saremmo tutti)? Non esiste nessuna
correlazione diretta fra la presenza di sostanze nocive nel capello e la loro influenza sulla salute
del soggetto. È cioè arbitrario stabilire una connessione biunivoca fra ciò che è contenuto nel
capello e la salute del soggetto. Chi conosce il significato del termine biunivoco avrà capito che il
mineralogramma dà per scontato che tutto ciò che succede nel corpo arrivi al capello e che tutto
ciò che è nel capello influenzi ciò che è nel corpo. Un’estensione arbitraria del principio di causa
ed effetto.
I minerali da monitorare – Alla luce delle attuali conoscenze, chi è esente da rischi professionali
e vive in zone in cui l’inquinamento non è altissimo (cioè almeno il 99% del territorio nazionale; a
chi non ne fosse convinto suggeriamo di recarsi per esempio a Bangkok e verificare cosa vuol dire
“inquinamento altissimo”) può fissare l’attenzione in maniera convenzionale (con esami del
sangue e delle urine o test allergologici) sui seguenti minerali: ferro, calcio, magnesio, potassio,
nichel, iodio e sodio.

Il ferro
Il ferro è forse il microalimento più conosciuto e discusso perché entra nel ciclo di formazione dei
globuli rossi (in parole povere è in relazione con il sangue). È un elemento chimico (simbolo Fe)
che biologicamente svolge un ruolo importante anche per gli organismi viventi, in quanto

90
componente fondamentale della clorofilla e dell’emoglobina. La sideremia è la concentrazione del
ferro nel sangue (da 60 a 160 mg/dl per l’uomo e da 20 a 140 mg/dl per la donna); ovviamente
nell’anemia sideropenica si hanno valori inferiori. È importante capire bene qual è il ruolo del
ferro (ed eventualmente dell’acido folico e della vitamina B12) nell’anemia per evitare di
incorrere in grossolani errori. L’eritropoiesi (cioè la produzione dei globuli rossi) è regolata da
una glicoproteina, l’eritropoietina, che è sensibile al livello di ipossia (carenza di ossigeno) dei
tessuti: quando alcune cellule specializzate del rene rilevano una carenza di ossigeno, aumenta la
secrezione di eritropoietina che a sua volta aumenta la divisione cellulare che dà origine a globuli
rossi finiti e aumenta la sintesi dell’emoglobina. Per tale sintesi sono essenziali il ferro, l’acido
folico e la vitamina B12. L’organismo contiene circa 4 g di ferro, di cui la metà nell’emoglobina.
Un altro grammo è immagazzinato nei depositi del fegato, della milza e del midollo osseo sotto
forma di emosiderina e di ferritina. È poi presente nella mioglobina e negli enzimi respiratori.
Poiché la vita media dei globuli rossi è di circa centoventi giorni, circa 20 mg di ferro al giorno si
rendono nuovamente disponibili per la produzione dei nuovi. Il meccanismo (Figura 8) ha una
perdita di circa 1-2 mg al giorno, quota deve essere reintegrata con la dieta. L’organismo è in
grado di assorbire dal 10 al 15% del ferro assunto con l’alimentazione; tale percentuale varia
proprio in funzione della tipologia dei cibi e della modalità d’assunzione. Se è di origine vegetale
solo il 2-10% viene assorbito, mentre se è di origine animale l’assorbimento può arrivare fino al
35%; ciò perché il ferro emoglobinico è assorbito molto più facilmente, soprattutto se viene
assunto contemporaneamente a vitamina C (è per questo che il ferro di una bistecca innaffiata con
gocce di limone è assorbito più facilmente di molti preparati farmacologici).

Figura 8 - Il ferro nel corpo umano.

Gli alimenti più ricchi di ferro sono le carni rosse, il tuorlo d’uovo e poi (con i limiti
d’assorbimento citati) il pane integrale, la verdura, le carote e la frutta.
L’errore più comune che si commette è proprio quello di associare la carenza di ferro all’anemia,
cioè a quella malattia del sangue caratterizzata da grave scarsità di globuli rossi, di emoglobina o
di entrambi. In realtà esistono moltissime forme di anemia e quindi anche moltissime cause. La
cosa fondamentale è sapere che molte anemie non sono dovute a carenza di ferro; quelle che lo
sono vengono denominate sideropeniche.
Poiché si può stimare che 20 mg di ferro al giorno siano più che sufficienti per mantenere il
bilancio del ferro in equilibrio, sembra che soltanto situazioni eccezionali (come allattamento o
gravidanza) giustifichino l’integrazione con ferro. Le uniche tre eccezioni sono rappresentate dai

91
vegetariani, dalle donne durante le mestruazioni e dagli atleti di marcia e corsa di lunghe distanze.
I primi perché hanno difficoltà d’assorbimento del ferro di origine vegetale. Le seconde perché
perdono circa 25 mg di ferro (in realtà da 5 a 50): in questo caso un’integrazione con 250 mg al
giorno durante il periodo mestruale può essere giustificata. Gli ultimi perché la corsa produce
microtraumi che provocano la morte dei globuli rossi, nonché piccole emorragie locali
(sanguinamento gastrico o intestinale che produce perdite del metallo tramite le feci). In realtà
l’anemia da sport non è banalmente trattabile con ferro perché spesso, pur avendolo a
disposizione, manca lo stimolo (eritropoietina) che innesca la filiera di costruzione dei globuli
rossi; se l’atleta ha valori normali di ferritina (depositi) e sideremia (ferro circolante) in
condizioni alimentari normali un’integrazione con ferro non aumenta né l’emoglobina né
l’ematocrito. In ogni caso per integrarlo è meglio usare sali ferrosi semplici (100-200 mg al
giorno), preferibilmente somministrati lontano dai pasti (se non si hanno problemi digestivi); i
prodotti gastroprotetti sono molto meno efficaci a causa di rilascio insufficiente a livello
gastroenterico.

Il calcio
Il calcio è un elemento chimico (simbolo Ca) indispensabile alla vita degli animali e dei vegetali
ed è presente nell’organismo umano in una percentuale del 2,5%. Nel tessuto osseo si trova il
99% del calcio contenuto nell’organismo (sotto forma di idrossiapatite), ma l’1% restante svolge
comunque importanti funzioni. Nei Vertebrati lo ione calcio agevola la coagulazione del sangue
(in cui è presente nella concentrazione di 9-11,5 mg/dl, in due frazioni, diffusibile e non
diffusibile; la frazione diffusibile è sua volta costituita da calcio ionizzato, che esercita un’azione
fisiologica, e non ionizzato). Il calcio è fondamentale per la contrazione muscolare e nella
conduzione dell’impulso nervoso nel sistema nervoso centrale, attiva molti enzimi, entra nella
composizione della forma attiva della vitamina D ed è importante nel trasporto di sostanze
attraverso le membrane cellulari. Poiché favorisce il rimodellamento osseo, viene utilizzato in
casi di rachitismo e nelle malattie delle ossa. Il suo metabolismo è regolato dalla vitamina D, dal
paratormone e dalla calcitonina.
I cibi più ricchi di calcio sono latte, formaggi, tuorlo d’uovo e verdure. L’assorbimento avviene
nell’intestino tenue sotto forma di sali solubili; se il calcio transita nell’intestino sotto forma di
sale insolubile viene eliminato. L’importanza della prevenzione dell’osteoporosi (malattia che
causa una fragilità ossea responsabile di molte fratture nell’età avanzata; il 90% delle persone
colpite è di sesso femminile) è fondamentale se si tiene conto che circa per il 75% della
popolazione la dose giornaliera di calcio è inferiore a quella consigliata (1 g nell’adulto). Si è
dimostrato che:

l’attività fisica aiuta nella prevenzione dell’invecchiamento dell’apparato scheletrico,

ma anche che:

nelle donne un’attività fisica intensa che riduce notevolmente la massa corporea e produce
amenorrea secondaria predispone all’osteoporosi in tarda età.

Ciò si spiega con la sospensione della produzione di estrogeni che agiscono come protezione nei
confronti della demineralizzazione ossea. Alla luce delle precedenti considerazioni, poiché con

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una dieta equilibrata si assume circa 1 g di calcio al giorno, le donne che svolgono un’attività
fisica intensa e quelle sedentarie che hanno superato i 35 anni dovrebbero valutarne attentamente
l’integrazione (per esempio citrato di calcio), anche perché basta portare la razione giornaliera a
1,5 g per ridurre significativamente i rischi di osteoporosi. Un’ultima considerazione sul fatto che
molti integratori di calcio contengono anche vitamina D: in realtà l’assunzione di questa vitamina
dovrebbe essere motivata da una reale carenza e non semplicemente dal desiderio di migliorare
l’assorbimento di calcio. Infatti la vitamina D è liposolubile e un suo accumulo può provocare
sgradevoli effetti collaterali (diarrea, nausea, perdita di peso, danni renali). In genere la dose
assunta con l’alimentazione è più che sufficiente per garantire che l’assunzione del solo calcio sia
efficace.

Il magnesio
Il magnesio (simbolo chimico Mg) è un elemento indispensabile per la vita di animali e piante.
Nell’organismo dell’uomo è secondo soltanto al calcio ed è presente nelle ossa (il 60% circa del
totale) e nei muscoli; nel plasma l’80% è sotto forma di ione diffusibile mentre il rimanente è
reversibilmente legato a una proteina. Entra nelle reazioni di produzione dell’energia (reazioni di
fosforilazione nelle quali è coinvolto l’ATP) e nella sintesi delle proteine, dei grassi, degli acidi
nucleici.
L’assorbimento del magnesio avviene lungo tutto il tratto intestinale; la sua percentuale di
assorbimento è inversamente proporzionale alla quantità assunta. Il suo assorbimento viene
influenzato dall’ingestione di altre sostanze; la vitamina D, per esempio, ne incrementa
l’assorbimento intestinale, mentre un regime alimentare ricco di fibre, in particolar modo di fitati,
è causa di una riduzione di tale assorbimento. L’assorbimento di magnesio viene ridotto anche
dall’assunzione di integratori di zinco; una dieta iperproteica ne aumenta l’escrezione urinaria,
questa viene aumentata anche dall’assunzione di elevate dosi di calcio.
L’organo principalmente coinvolto nel mantenimento delle concentrazioni di magnesio
nell’organismo è il rene.
Carenze di magnesio possono essere dovute a un’eccessiva assunzione di bevande alcoliche;
l’alcolismo in effetti sembra essere la condizione maggiormente coinvolta nella carenza di tale
minerale; quasi tutti i soggetti affetti da alcolismo presentano sintomi da deplezione di magnesio.
Perdite di magnesio possono essere causate inoltre dall’assunzione di farmaci ad azione diuretica.
La carenza di magnesio può essere causa di aritmia e di ipertensione arteriosa, ma non è solo
l’apparato cardiovascolare a soffrire di un insufficiente apporto di tale minerale, possono infatti
verificarsi problemi all’apparato scheletrico (si ricorda che tale apparato contiene circa il 60% di
tutto il magnesio presente nell’organismo) che potrebbe sviluppare osteoporosi, in particolar
modo nel periodo della menopausa.
La carenza di magnesio provoca inoltre una tetania causata da un’alterata trasmissione
neuromuscolare. Gli ioni magnesio sono antagonisti a quelli del calcio, favorendo la depressione
del sistema nervoso centrale e periferico: un abbassamento dei valori di magnesio (con calcio
nella norma) aumenterebbe la produzione di acetilcolina diminuendone anche la velocità di
idrolisi con aumento dell’irritabilità neuromuscolare.
Il fabbisogno giornaliero medio di magnesio è di circa 400 mg; è presente nelle mandorle, nelle
nocciole, nelle leguminose, nei cereali integrali e nei vegetali verdi. Nella frutta è presente in
discreta quantità solo nelle banane. Nelle piante il magnesio è il costituente attivo della clorofilla.
Sul mercato esistono molti integratori di magnesio. Innanzitutto, prima di assumerli, occorre

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verificare che esista un effettivo bisogno. Ogni sostanza ha effetti ben precisi sul nostro organismo
e in genere ci possono essere problemi sia di carenza, ma anche di sovradosaggio. Nel caso del
magnesio potrebbe esserci un’eccessiva depressione delle funzioni dei sistemi nervosi centrale e
periferico. Supposto quindi di aver appurato una lieve carenza di magnesio (per esempio a causa
di un’intensa attività sportiva), è preferibile rivolgersi a prodotti dove il magnesio è offerto al
nostro organismo in forme “appetibili”: non basta cioè assumere magnesio, occorre farlo anche in
una forma che il nostro corpo assorba bene.

Il potassio
Il potassio (simbolo chimico K) riveste un’estrema importanza a livello cellulare intervenendo nel
potenziale di membrana, nell’equilibrio acido/base e nella pressione osmotica. Dal punto di vista
metabolico è coinvolto nella glicolisi e quindi è fondamentale per la produzione di ATP. È
importante per l’equilibrio idrico dell’organismo, per la contrazione muscolare, per la
trasmissione nervosa e per il perfetto funzionamento del cuore.
È proprio quest’ultimo punto che deve far riflettere su eventuali carenze di potassio: si tratterebbe
di situazioni così gravi (extrasistole, fibrillazione, arresto cardiaco) da essere facilmente
identificabili con i gravi problemi che il soggetto manifesterebbe. Idem dicasi per sovraddosaggi.
Il nostro organismo è cioè ben protetto da eventuali oscillazioni di questo minerale e in genere
alterazioni del potassio (ipo- o iperkaliemia) sono da collegare a gravi patologie, scelte
nutrizionali estreme (anoressia, digiuno ecc.) o all’assunzione di farmaci (cortisonici, lassativi,
diuretici, dosi eccessive di liquirizia). Da un punto di vista salutistico il rapporto sodio/potassio
influenza la pressione arteriosa.
Il potassio è contenuto in grande quantità nella frutta (datteri, albicocche, banane), nella verdura
cruda (fave, cipolle), nei legumi (soia), nei cereali integrali. Occorre tener presente che viene
facilmente eliminato con la cottura dei cibi.

Il sodio e il sale
Il sodio è un elemento chimico (simbolo Na) scoperto da H. Davy nel 1807 per elettrolisi
dell’idrossido di sodio fuso. Nel corpo umano funge spesso da antagonista del potassio. Mantiene
la pressione osmotica, protegge il corpo dall’eccessiva disidratazione, regola l’eccitabilità
muscolare e la permeabilità delle membrane.
Nell’alimentazione umana viene assunto soprattutto dal cloruro di sodio, il normale sale da
cucina. La prevalenza di questa sostanza sugli altri cibi è talmente netta che praticamente è l’unica
che debba essere considerata quando si parla di sodio. Nessun peso pratico hanno per esempio le
acque minerali prive di sodio, cui la pubblicità attribuisce immeritatamente troppi benefici. In
moltissime acque minerali il contenuto di sodio è inferiore a 50 mg per litro, il che significa che
se se ne bevono cinque litri si arriva a un quarto di grammo di sodio, eventualmente risparmiato se
l’acqua usata non lo contiene. Il risparmio è del solo 5% della quantità di sodio introdotta con la
dieta nell’alimentazione occidentale (5 g, pari a oltre 13 g di sale). È chiaro quindi che non è certo
l’acqua minerale iposodica che ci può salvare dal sodio, ma l’abitudine a non salare i cibi e a
evitare quelli pesantemente salati. Risparmiare il sodio dell’acqua minerale è come sperare di
diventare ricchi risparmiando un euro al giorno. Una cosa che tutti sanno è che il sale è
controindicato nell’ipertensione. Fermandoci a questo livello di comprensione è abbastanza facile
trarre conclusioni errate. Infatti chi usa male questa informazione deduce arbitrariamente che “il

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sale fa alzare la pressione”. Questa seconda espressione è totalmente sbagliata come è dimostrato
da molti studi. Vediamo di capire come stanno le cose.
Il meccanismo di assorbimento – Il sodio viene assunto principalmente sotto forma di cloruro (il
sale da cucina). Se l’apporto è scarso, l’aldosterone (un ormone) stimola a livello renale il
riassorbimento di sodio dalle urine; se invece l’apporto è elevato, l’aldosterone è disattivato e il
sodio viene espulso con le urine. Ciò significa che per individui fisiologicamente normali non ci
può essere nessun danno e ciò spiega perché molte persone che mangiano salato non hanno
problemi di ritenzione idrica o di ipertensione; al più alcune ricerche hanno messo in guardia dal
fatto che un eccesso di sodio provoca una maggior escrezione renale di calcio con un aumentato
rischio di osteoporosi. Purtroppo in molti individui il meccanismo non funziona perfettamente: in
un terzo circa degli ipertesi esiste la tendenza a ritenere il sodio. Pertanto è comunque ragionevole
non superare le dosi raccomandate (da 0,5 a 3 g al giorno); nelle diete occidentali tale valore è
spesso superato, avendosi una media di 4,5 g di sodio al giorno (12 g circa di sale da cucina, ma
oltre a questo si devono considerare i dadi per brodo, le salse, gli alimenti conservati ecc.).
La strategia da impiegare – Mangiare salato fa male. Salutisticamente tutti i media ci stanno
bombardando con questa informazione. Se troppo sodio fa male, nessuno fa notare che c’è anche
un motivo in più per disintossicarsi dal gusto del salato: il salato aumenta l’appetibilità dei cibi.
Il che significa che meno salato mangiamo meno inneschiamo lo stimolo della fame. Consideriamo
per esempio il glutammato di sodio; viene aggiunto a molti cibi con ingredienti insipidi per
migliorarne il gusto. Non a caso è contenuto in molti dadi per brodo. Sapete a che categoria di
additivi appartiene? Ovviamente agli esaltatori di sapidità!
Tutti noi sappiamo che un piatto insipido diventa più appetibile aggiungendo un pizzico di sale.
Con questo gesto noi ci predisponiamo a mangiare di più. Per motivi salutistici (poco sodio) e per
motivi dietetici (nessuna esaltazione dell’appetibilità dei cibi), la mia dieta italiana consiglia di:

(24) non abituarsi ad aggiungere sale a tavola.


Se si è fra quelli che salano un piatto prima di averlo assaggiato, ci si può disintossicare in due-
tre settimane. Il modo più semplice è la sostituzione del sale con spezie (caso classico il
peperoncino: un piatto di penne all’arrabbiata è gustosissimo anche con pochissimo sale). Infatti il
gusto del salato viene rinforzato dall’amaro e dall’aspro, per cui posso usare meno sale,
rinforzando la poca quantità usata con sostanze aspre o amare (le spezie sono la combinazione di
aspro e amaro con sostanze leggermente irritanti). Per chi sta cercando di disintossicarsi dal gusto
del salato è opportuno per esempio usare nell’insalata pomodori un po’ acerbi perché, essendo più
aspri dei pomodori maturi, permettono di usare meno sale. Per lo stesso motivo nella stessa
insalata è opportuno abbondare con limone o aceto e scarseggiare d’olio che, essendo neutro, non
influenza il gusto del salato. Per usare correttamente le spezie, occorre conoscerle per capire quali
si apprezzano maggiormente. Un uso casuale può infatti convincere che la strategia non sia quella
giusta perché i piatti risultano poco appetibili. In particolare nell’uso delle erbe che hanno un
sapore caratteristico a cui non siamo abituati. Poi occorre seguire alcune semplici regole:

•• non usarne mai una quantità eccessiva: un quarto di cucchiaino per erbe secche e un cucchiaino
per erbe fresche.
•• Per piatti che richiedono lunghe cotture, aggiungere le erbe solo nell’ultima parte (30-60’) della
cottura.
•• Per piatti veloci aggiungere le erbe prima della cottura. Le bistecche si possono spolverare con
le erbe anche durante la cottura.

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•• Sugli arrosti spruzzate le erbe prima della cottura.
•• Nel caso di piatti freddi (come insalate, salse ecc.), aggiungere le erbe diverse ore prima di
servire.

Il sale nei cibi


Innanzitutto vediamo di evidenziare le classi alimentari a rischio. Abbiamo già visto che l’acqua
minerale non è un alimento a rischio sodio, anche se una pubblicità martellante continua a
proporci marche “poverissime di sodio”. In effetti, alla fine del paragrafo apparirà ridicolo il
comportamento di chi si premura di scegliere un’acqua senza sodio (una qualunque acqua
oligominerale ne contiene pochissimo) e poi si mangia UNA fetta di prosciutto crudo, fetta che
contiene tanto sodio quanto 40 litri di acqua oligominerale.
In realtà il sodio è critico in tutte le preparazioni industriali dei cibi. Oltre all’effetto
conservante, il sale esplica anche un’azione gustativa, rendendo più appetibili (meno insipidi) gli
alimenti. Purtroppo la legge non impone di specificare la dose di sale e non ha senso escludere
tutti gli alimenti contenenti sale perché alla fine si rimarrebbe con il carrello della spesa vuoto.
Quanto sale? - La dose salutistica massima (per un soggetto di media corporatura, 70 kg) si
aggira sui 3 g di sodio al giorno, pari a 8 g di sale da cucina. In sostanza per avere la quantità di
sodio da quella del sale usato basta dividere per 2,66. Sarebbe più facile riferirsi agli 8 g di sale
da cucina al giorno, ma le tabelle alimentari si riferiscono sempre al sodio perché il sale è la fonte
principale di sodio, ma non l’unica. I dati degli alimenti che ricorrono nel paragrafo sono sempre
riferiti al sodio e a 100 g di alimento.
Un cibo si deve considerare a rischio sale quando supera i 500 mg (0,5 g) di sodio per 100 g. Il
pane bianco normale per esempio ha circa 300 mg di sale per 100 g. In teoria ci vogliono 1,2 kg di
pane per superare la dose giornaliera di sodio; poiché tale quantità è pari a 3.000 kcal, il pane è
un alimento sicuro nei confronti del sodio perché in un regime ipocalorico un soggetto standard
non raggiunge mai tale assunzione calorica. Un classico esempio di come il vincolo delle calorie
della dieta italiana semplifichi la vita permettendo di consumare senza molte attenzioni una
vastissima gamma di alimenti (quelli appunto con meno di 500 mg di sodio per 100 g).
La prova - È sufficiente conoscere le categorie a rischio ed evitare consumi paralleli che portano
il consumo di sodio oltre il consentito. Provate ad alimentarvi normalmente (stesso numero di
calorie quotidiane), inserendo nella vostra alimentazione 100 g di prosciutto crudo. Sicuramente
berrete di più e la mattina dopo il vostro peso sarà inspiegabilmente lievitato di circa 300 g per
ogni 50 kg di peso corporeo. Il vostro organismo richiama acqua per eliminare il sale, riuscendoci
in circa 24-36 ore. Ovvio che se continuate ad assumere tanto sodio… La prova descritta vi fa
capire come sia fuorviante quella pubblicità dove si vede l’acqua minerale che elimina il sodio in
eccesso, spingendolo fuori da un bicchiere: a prescindere dal fatto che qualunque acqua ottiene lo
stesso effetto, bere molto non risolve il problema, se ogni giorno introduciamo troppo sodio che
va a rimpiazzare quello eliminato. Il consiglio corretto non è bere tanta acqua di una certa marca
quanto assumere poco sodio!
Vediamo le categorie alimentari a rischio.
Cibi salati – Si devono considerare tali i cibi conservati sotto sale (per esempio le acciughe) o
quelli con la denominazione “salato” (per esempio arachidi salate). Per i primi vale l’avvertenza
di utilizzarli in cucina tenendo conto che apportano già il gusto del salato. Per i secondi, la dieta
italiana ne sconsiglia l’impiego (Non abituarsi ad aggiungere sale a tavola).
Salumi – È sicuramente la classe a rischio di sodio più conosciuta. Si va da 2,6 g di sodio per il

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prosciutto crudo agli 0,7 del prosciutto cotto, passando per esempio per 1,6 g della bresaola o 0,9
g del cotechino bollito. Il consiglio è di consumare con moderazione questi alimenti, senza farne la
base principale del pasto (il classico pane e salame).
Corn Flakes – Sorpresa? I cereali per la prima colazione sono spesso molto ricchi di sale perché
aumenta l’appetibilità del prodotto. Scegliete quindi quelli con etichetta nutrizionale che riporta il
contenuto di sodio e regolatevi di conseguenza. Nei casi più sfortunati si assumono 30-40 g di
corn flakes per un totale di circa 1 g di sodio, un quantitativo veramente alto per la partenza di una
giornata salutistica.
Formaggi – Anche i formaggi sono a rischio, ma, come per i salumi, non si può fare di tutte le
erbe un fascio. Se si parte da 1,8 g di sodio per il pecorino e si arriva a poco più di 300 mg per
groviera e crescenza, ben si comprende come non si possa generalizzare. Consultando la tabella 5
si può controllare quali sono i formaggi da consumare con più attenzione.
Patatine – Anche qui tutto noto. Le patatine sono alimenti in cui il sale aumenta a tal punto
l’appetibilità che probabilmente non sarebbero consumate senza. Se si considera che 100 g di
patatine apportano circa 500 kcal circa e oltre 1 g di sodio, è difficile vederne un impiego
salutistico. Anche le patatine fritte servite fresche, se leggermente meno caloriche, hanno lo stesso
problema.
Pizza – Il contenuto di sale della pizza è una delle tante argomentazioni (eccesso di calorie,
scarsa digeribilità, ingredienti spesso di seconda scelta, temperatura di cottura troppo elevata
ecc.) che smentiscono i nutrizionisti che spingono entusiasticamente l’italico alimento. Si è attorno
agli 800 mg di sodio.
Margarina – Se non bastasse tutto il discorso sui grassi trans per astenersi dall’impiego di
margarina, a differenza degli altri condimenti (olio e burro), la margarina è molto ricca di sodio
(800 mg contro 0 dell’olio e i 7 del burro)
Liofilizzati – Per esaltare il sapore si usa non solo sale, ma anche glutammato. In ogni caso, anche
quelli con solo sale sono molto ricchi di sodio, soprattutto le minestre (addirittura alcuni
minestroni liofilizzati arrivano a 5,5 g di sodio!).
Salse – Ovviamente il discorso è variabile e si deve esaminare caso per caso, ma in genere il sale
è un ingrediente importante, tant’è che l’alimento che contiene più sale in assoluto è la salsa di
soia con quasi 6 g di sodio.
Nella tabella 5 sono inseriti a mo’ di esempio alcuni alimenti con contenuto in sodio superiore alla
soglia di attenzione di 500 mg.

TABELLA 5 - Il sodio nei cibi.


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Alimento > g di sodio per 100 g di alimento
• Salsa di soia > 5,8
• Minestre liofilizzate > Da 2 a 5,6
• Prosciutto crudo > 2,6
• Salmone affumicato > 1,9
• Salame > Da 1,4 a 1,8
• Pecorino > 1,8
• Bresaola e speck > 1,6
• Ketchup > 1,1
• Patatine fritte > 1,1
• Formaggini > 1

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• Corn flakes > Da 0,5 a 1
• Wurstel > 0,9
• Taleggio e provolone > 0,9
• Cotechino, zampone > Da 0,6 a 0,8
• Margarina > 0,8
• Pizza > 0,8
• Brie, grana, fontina, camembert > 0,7
• Prosciutto cotto > 0,7
• Carne in scatola > 0,6
• Gorgonzola, parmigiano > 0,6
• Mortadella > 0,5-0,6
----------

Gli integratori salini


I cosiddetti sali minerali entrano nei discorsi dell’estate soprattutto quando si parla di
sudorazione e di disidratazione. In realtà, come è dimostrato da una serie impressionante di studi:

il reintegro salino è essenziale in attività fisiche della durata superiore alle quattro ore.

Considerando anche una sensibilità individuale alla disidratazione, si può comunque affermare
che tutti gli integratori salini sono completamente ingiustificati per attività fisiche di durata
inferiore alle due ore: basta reidratarsi con acqua per non avere alcun problema. Quindi
assumere i liquidi necessari, ma l’acqua basta. Nonostante questi risultati scientificamente certi, si
continua a leggere che è consigliabile aggiungere alle bevande una piccola quantità di sali.
L’equivoco nasce dal fatto che alcuni problemi (crampi) sono erroneamente attribuiti alla
disidratazione; se fosse così perché calciatori professionisti sono colti da crampi nei
supplementari di una partita in una serata primaverile? Sicuramente durante gli intervalli hanno
avuto tutto il tempo di reidratarsi. L’uso di un integratore salino porta con sé inevitabilmente un
numero impressionante di calorie; mediamente contiene circa 400 kcal per litro, l’equivalente di
un piatto di pasta.

Lo iodio
Lo iodio è un micronutriente troppo spesso sottovalutato. In Italia sono cinque milioni i soggetti
che hanno problemi di gozzo, cioè presentano un ingrossamento della tiroide (nell’Italia
meridionale il 25% dei ragazzi delle scuole dell’obbligo). La causa è principalmente il deficit di
iodio ambientale che determina una scarsa produzione di ormoni tiroidei a cui l’organismo tenta di
porre riparo con una superstimolazione della tiroide. È quindi il caso di conoscerlo da vicino.
Lo iodio è un elemento chimico (simbolo I) molto diffuso in natura, ma presente in percentuali
ridotte. Quasi tutti gli esseri viventi contengono tracce di iodio. Allo stato puro è un solido di
colore scuro che sublima a temperatura ambiente, formando un vapore di colore violaceo. È
elemento fondamentale di diversi minerali. Si trova in piccola quantità come ioduro nelle acque
marine ed è più abbondante in alcuni depositi salini come il nitro del Cile in cui si trova come
iodato di sodio. In medicina viene utilizzato come disinfettante per ferite (tintura di iodio) o per
l’intestino e nelle disfunzioni tiroidee caratterizzate da carenza di iodio.

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La quantità di iodio contenuta nell’organismo umano è 40 mg circa, il 60% dei quali nella tiroide
(il rimanente nelle ovaie, nel sangue, nei muscoli). Nella tiroide è contenuto nella triiodotironina
(T3) e nella tiroxina (T4), due ormoni che influenzano il metabolismo. Da un punto di vista clinico
la carenza di iodio causa ipotiroidismo, gozzo, rischio di aborto, cretinismo. Lo iodio (assorbito
nell’intestino tenue ed eliminato con le urine) è contenuto soprattutto nel pesce (sgombri,
merluzzo, cozze, tonno, scampi), quello contenuto nelle verdure dipende dai terreni di
coltivazione. Alcuni alimenti (cavolo, rapa, manioca, cipolla e noci) contengono sostanze
gozzigene, cioè in grado di bloccare l’assorbimento di iodio. La cosa deve essere tenuta ben
presente da tutti coloro che per esempio usano le noci come uno degli elementi lipidici principali
(per esempio i sostenitori della dieta a zona). Le dosi raccomandate sono 150 mcg e, per la donna,
200 mcg durante l’allattamento, 175 mcg in gravidanza.
In caso di carenza è possibile integrare lo iodio utilizzando sali iodati. In un’area con deficit
marcato di iodio (Garfagnana) la somministrazione di sale iodato ha riportato alla normalità la
popolazione dopo dieci anni dalla primitiva osservazione. Il sale iodato (eventualmente nella sua
versione iposodica) può essere utilizzato anche da tutti coloro che hanno una bassa produzione di
ormoni tiroidei in seguito a un rallentamento metabolico dovuto all’età e/o a regimi alimentari
ipocalorici.

Le vitamine
Il termine vitamine deriva da un termine tedesco, vitamin, esso nasce da un equivoco perché uno
scienziato polacco, Casimir Funk, scambiò le vitamine per amine (nel 1911 Funk stava studiando
una sostanza contenuta nella pula di riso che in seguito si scoprì essere la vitamina B1; essa
conteneva un gruppo amminico e lo scienziato suppose che tutte le altre sostanze dello stesso tipo
fossero composte analogamente e le chiamò amine della vita, o anche, più semplicemente,
vitamine).
Di fatto le vitamine vennero scoperte all’inizio del XIX sec. in seguito allo studio di malattie
nutrizionali come lo scorbuto e la pellagra, tipiche manifestazioni di avitaminosi. A parte la
vitamina D, non sono sintetizzabili dal l’uomo e devono perciò essere introdotte con la dieta. Le
piante invece le producono normalmente e sono la risorsa vitaminica per il regno animale. Ogni
vitamina ha una particolare struttura e alcune di esse (A, D, niacina e acido folico) vengono
attivate da altre sostanze dette provitamine. Agiscono da coenzimi, cioè in appoggio all’azione
degli enzimi per catalizzare le reazioni chimiche della vita.
La più nota nomenclatura delle vitamine è quella tradizionale, la cosiddetta nomenclatura
tedesca, basata sulle lettere dell’alfabeto. Una commissione internazionale ha stabilito i termini
ufficiali relativi alle varie vitamine, ma l’utilizzo della nomenclatura tedesca è quello tuttora più
frequente. Si deve però tenere conto che negli elenchi della nomenclatura tedesca sono indicate
talvolta delle sostanze che non sono propriamente vitamine, ma altri composti che si comportano o
funzionano come tali (un tipico esempio è il coenzima Q10, noto anche come vitamina Q).
In passato le vitamine venivano ricavate dall’estrazione dai minerali che le contenevano in
notevoli dosi; tale metodologia però era alquanto complessa e, come se non bastasse, anche
decisamente costosa. Attualmente invece le vitamine vengono ricavate da processi che possono
essere di sintesi parziale o di sintesi totale. Quest’ultimo metodo è quello attualmente più
utilizzato; con questa metodologia le vitamine vengono ricavate da molecole più semplici che
sono state a loro volta ricavate da processi artificiali. Con il metodo di sintesi parziale invece le
vitamine vengono ottenute apportando modifiche alle molecole di composti naturali la cui struttura

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chimica si avvicina a quella della vitamina che si vuole ottenere.
Un problema da risolvere nella produzione sintetica delle vitamine era quello della scarsa
stabilità negli integratori alimentari, nei cibi e in altri prodotti farmaceutici; tale problema era
legato ai fenomeni di ossidazione; il problema si verificava in misura minore nelle vitamine
estratte da prodotti presenti in natura perché essi contengono generalmente sostanze antiossidanti
che forniscono una certa protezione dai succitati fenomeni ossidativi. La risoluzione del problema
nelle vitamine di sintesi è arrivata con l’aggiunta di sostanze antiossidanti ricavate artificialmente
e aggiunte ai prodotti alimentari e di tipo farmaceutico.
Alcune sostanze possono ridurre l’assorbimento o l’utilizzo delle vitamine. Un eccesso di ferro
contrasta la vitamina A e la E; il cortisone la vitamina A e la C; i lassativi la vitamina B12;
l’aspirina la vitamina C e la K; gli antibiotici, la vitamina C, la B5 e la K. Il caffè, il fumo e l’alcol
sono altri agenti che contrastano molte vitamine.
Le strutture chimiche delle varie vitamine sono molto differenti fra loro; alcune di esse sono
composti ternari (carbonio, idrogeno e ossigeno), altre sono composti quaternari (carbonio,
idrogeno, ossigeno e azoto), mentre altre sono composti quinari (carbonio, idrogeno, ossigeno,
azoto e zolfo). Una struttura particolare è quella della vitamina B12, l’unica vitamina, fra quelle
attualmente conosciute, nella quale compare un elemento metallico (nella fattispecie il cobalto).
Viste le notevoli differenze strutturali, non è possibile operare una valida classificazione
operativa delle vitamine in base al parametro “struttura chimica”. La classificazione più valida
dal punto di vista operativo è quella che le suddivide in vitamine idrosolubili e vitamine
liposolubili. Le vitamine idrosolubili sono quelle solubili in acqua, mentre le vitamine
liposolubili sono quelle solubili nei grassi corporei (la vitamina A, la vitamina D, la vitamina E e
la vitamina K).
Questa distinzione è molto importante per comprendere gli effetti di un sovradosaggio di una
particolare vitamina. Per le idrosolubili non c’è problema poiché generalmente la dose non
utilizzata viene espulsa con le urine. Per le liposolubili c’è invece un accumulo nel grasso
corporeo che può provocare effetti tossici (soprattutto per A e D); per le vitamine liposolubili c’è
pertanto una dose giornaliera massima che è consigliabile non superare. Molti ricercatori
(soprattutto americani) ritengono che sia fondamentale un’integrazione vitaminica e che le
cosiddette RDA (le Recommended Daily Allowances, le dosi giornaliere consigliate) siano del
tutto insufficienti. Altri invece sostengono che non c’è nessun bisogno d’integrazione e che le RDA
sono corrette e che si possono raggiungere con una dieta equilibrata. Anzi, un eventuale
sovradosaggio creerebbe problemi, soprattutto in soggetti a rischio. Oltre agli effetti negativi
ormai certi legati a iperdosaggi di vitamina A (sul sistema nervoso), D (reni) ed E (stanchezza,
disturbi visivi, ipoglicemia ecc.), anche le vitamine idrosolubili possono creare problemi. Per
esempio la vitamina C può favorire gli attacchi di gotta, aumentando l’acido urico nel sangue, o, in
soggetti con carenza di ferro, può distruggere la B12. Un eccesso di vitamina B6 può provocare
patologie epatiche o danni nervosi, mentre un eccesso di B2 può creare disturbi visivi e un eccesso
di B3 impedisce l’impiego di acidi grassi da parte del miocardio durante gli sforzi. È anche ovvio
che tutti questi problemi vengono innescati da megadosi, spesso 100 volte superiori a quelle
giornalmente assunte con la dieta.

L’integrazione vitaminica
Questo paragrafo prende in esame le varie posizioni sull’integrazione vitaminica, giudicandole

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soprattutto dal punto di vista logico e dei riscontri pratici. Premessa fondamentale è che:

(1) nel mondo della ricerca si trovano ricerche a suffragio di TUTTE le posizioni.

La (1) ci spiega perché non è possibile arrivare a una posizione completamente scientifica, da tutti
riconosciuta, ma si possa aspirare al massimo a una posizione coerente e probabilisticamente (nel
senso che, analizzati in dettaglio i risultati delle ricerche, sembra la più probabile) accettabile.
Prima di affrontare le varie posizioni, nella tabella 6 illustriamo l’efficacia dell’integrazione in
relazione all’obiettivo, considerando ovviamente solo soggetti sani (cioè senza valutare
l’efficacia dell’integrazione in patologie particolari: ricordiamo che logicamente se una sostanza
cura la patologia X non è detto che la sua somministrazione preventiva possa prevenire la
patologia! Esempio: una distorsione si cura con ghiaccio e antinfiammatori, ma sarebbe ridicolo
se per evitare distorsioni usassimo ghiaccio e antinfiammatori tutte le sere...).

TABELLA 6 - Efficacia delle vitamine.


----------
Scopo > Efficacia
• Stanchezza e umore > *
• Tumori > **/***
• Patologie da raffreddamento > **
• Invecchiamento > ****
• Prestazioni sportive > *
• Recupero sportivo > ***

* praticamente nulla
** non significativa
*** interessante, da valutare
**** certa, da valutare l’entità dell’azione
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Le premesse teoriche
1) Esistono moltissimi integratori inutili. È vero; molti sono dubbi, altri (acido lipoico,
resveratrolo, glutatione ecc.) richiedono quantità e modalità di assunzione impraticabili. Esiste
però un insieme di sostanze delle quali la scienza medica ha ormai decretato l’utilità e in questo
ristretto sottoinsieme degli integratori sicuramente le vitamine la fanno da padrone per la facilità
d’impiego e la (possibile) efficacia.
2) Le vitamine sono sostanze biologicamente attive. Come ogni sostanza biologicamente attiva,
è fondamentale definire una quantità biologicamente eccellente. È inutile parlare di RDA perché
spesso con tale acronimo si intende la minima quantità che il soggetto deve assumere per non
avere problemi. In realtà, come sa ogni studente di biologia, l’intervallo di azione di una sostanza
è sempre abbastanza largo, da un minimo a un massimo. A mio avviso è corretto riferirsi alla
Massima Quantità Utile (MQU, che per alcuni potrebbe anche coincidere con la RDA, ma
logicamente non è detto che ciò debba necessariamente accadere). In tutto il paragrafo usiamo
come analogia il paragone con i carboidrati. Troppi fanno male, ma pochi anche. A persone non
sane (diabetici) possono fare malissimo quantità consigliabili a un soggetto sano. Tenetevi a mente

101
questa analogia quando discutete di vitamine.
3) Diventa fondamentale definire una MQU. Non si tratta quindi di alimentazione o
integrazione. È puerile pensare che la natura sia tarata per darci tutto quello che serve. L’esempio
classico è quello dei fitosteroli. Esistono alcuni prodotti (yogurt arricchiti con fitosteroli) che
dimostrano chiaramente che la natura non è in grado di supportare il nostro bisogno di fitosteroli.
Infatti i 2 g di fitosteroli che sono contenuti in una confezione di yogurt sono contenuti in 8 kg di
arance o 42 kg di pomodori o in 5 kg di broccoli o in 12 kg di carote. Il risultato qual è? Se si usa
uno di tali prodotti il colesterolo LDL (cattivo) diminuisce di almeno il 10%, se uso frutta e
verdura non si sposta di una virgola.
4) La MQU è individuale. Deve tener conto di molti fattori, in primis età, sesso e attività fisica
del soggetto. Dire che ognuno di noi ha bisogno di 60 (o di 200 o di 1.000) mg di vitamina C al
giorno è assurdo e scientificamente scorretto.

Le posizioni
1 - Basta l’alimentazione

Posizione sostenibile, basata sul fatto che la frutta e la verdura sono spesso indicate come alimenti
nobili perché ricche di vitamine e, in particolare, di antiossidanti. Il Dipartimento dell’Agricoltura
degli Stati Uniti ha misurato la capacità antiossidante delle verdure e della frutta (l’unità di misura
è l’ORAC acronimo di Oxygen Radical Absorbance Capacity, la capacità di assorbimento del
radicale ossigeno): nella categoria frutta la migliore è la prugna nera (5.770 ORAC per 100 g),
mentre per la verdura il migliore è il cavolo (1.700 ORAC per 100 g). Per capire come queste
sostanze svolgano un’azione comunque limitata, si consideri che una sigaretta produce 10 miliardi
di radicali liberi. Poiché non si possono ingurgitare quantità enormi di frutta e verdura, nella lotta
ai radicali liberi appare ottimistico l’entusiastico richiamo al consumo di frutta da parte di molti
dietologi che evidentemente non considerano l’aspetto quantitativo del problema (avete mai
osservato i nutrizionisti che parlano in televisione del favoloso potere antiossidante di frutta e
verdura? Documentatevi sulla loro età: tranne rare eccezioni, sono sempre visivamente molto più
vecchi degli anni che hanno!). Sperare di fermare terribili malattie come il cancro con gli
antiossidanti della frutta e della verdura è come cercare di abbattere un elefante con un sassolino.
Anche la tesi che le popolazioni che consumano grandi quantità di frutta e verdura vivano più a
lungo è facilmente smentibile (i giapponesi consumano poca frutta e verdura) e comunque le
differenze nella vita media fra le varie popolazioni sono così minime (uno-due anni al massimo
per i Paesi più industrializzati) da ritenere che non è il tipo di cibo che viene assunto il principale
fattore di longevità (semmai è la quantità!).
Spesso il nutrizionista contrario a ogni supplementazione antiossidante è convinto che con
l’alimentazione si possa curare tutto e tutti (delirio di onnipotenza). In realtà è più interessante
considerare l’integrazione come un intervento medico a 360 gradi. Il Council for Responsible
Nutrition ritiene l’integrazione con vitamina E un mezzo economico e conveniente per colmare le
lacune alimentari. La più recente metanalisi (che comprende anche il discusso studio della John
Hopkins University) di 95 ricerche cliniche ed epidemiologiche promuove decisamente
l’integrazione con vitamina E (American Journal of Clinical Nutrition, Vol. 81, No. 4, 736-745,
April 2005).

2 - Integrazione a basso dosaggio

102
Le RDA (dosi giornaliere consigliate) delle vitamine sono talmente basse (in genere si
raggiungono con l’alimentazione) che molti ritengono che basti una piccola integrazione. Il
ragionamento è questo: se basta un dosaggio vitaminico basso, integriamo le vitamine che
eventualmente non sono coperte da un’alimentazione poco attenta. In realtà un’integrazione a
basso dosaggio è facilmente coperta già con l’alimentazione ed è meglio migliorare
l’alimentazione piuttosto che ingurgitare pillole inutili (ved. il sottoparagrafo Multivitaminico: la
soluzione alimentare).

3 - Integrazione ad alto dosaggio

Le prime due posizioni sono sostenute soprattutto dalla scuola europea (e italiana in particolare).
Molti ricercatori americani sostengono invece che le RDA sono decisamente insufficienti per
assicurare i benefici che le vitamine potrebbero offrire e propongono dosaggi decisamente più alti
(ved. tabella 7).

TABELLA 7 - Il dosaggio vitaminico americano.


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Vitamina > RDA > Integrazione
• A > 5.000 UI > 1.000-5.000 UI
• Tiamina (B1) > 1,5 mg > 10-50 mg
• Riboflavina (B2) > 1,7 mg > 5-50 mg
• Niacina (B3) > 20 mg > 10-50 mg
• Acido pantotenico (B5) > 10 mg > 10-50 mg
• Piridossina (B6) > 2 mg > 10-50 mg
• Biotina (B8) > 30 mg > 100 mg
• Acido folico (B9) > 400 mcg > 0,5-1 mg
• Cianocobalamina (B12) > 6 mcg > 10-50 mcg
• C > 60 mg > 500-1.000 mg
• E > 30 UI > 200-400 UI
----------

4 - Le vitamine non fanno nulla

Chi afferma ciò è in completa malafede. Esistono migliaia di studi (basta fare una ricerca in
Pubmed) che spingono per l’integrazione vitaminica. Ci si mette pochi minuti per trovare studi
recentissimi che per esempio dimostrano che una supplementazione di 200 UI di vitamina E
aumenta le difese immunitarie negli anziani (Tuft University, 20% di rischio in meno di malattie
respiratorie); che l’uso di vitamina C ed E associate riduce il rischio di demenza (Neurology); che
200 UI (donne) e 400 UI (uomini) di vitamina E per almeno due anni riducono rispettivamente del
41% e del 37% il rischio di patologia cardiovascolare (Harvard Medical School); che
l’assunzione regolare di 400 UI di vitamina E protegge da problemi oculari della vecchiaia
(National Eye Institute); che l’assunzione per almeno 10 anni di vitamina E riduce il rischio di
vari tipi di cancro. Fondamentale: tutti questi risultati si riconducono alla semplice considerazione
che l’integrazione vitaminica riduce l’invecchiamento; infatti le patologie sopraccennate (anche le
forme di tumore considerate) sono tipiche dell’invecchiamento, cioè del danneggiamento con l’età

103
della macchina uomo.
Il risultato attuale delle ricerche è che su dieci, otto spingono per l’integrazione vitaminica e
quelle due che la condannano usano, per farlo, campioni di soggetti non sani (come per esempio
forti fumatori nei quali l’integrazione con alcuni antiossidanti può addirittura essere
controindicata: ricordate l’esempio dei carboidrati e dei diabetici).
Purtroppo le ricerche contrarie all’integrazione vitaminica hanno sbagliato campione, come
ammettono anche molti dei ricercatori che sono arrivati a queste conclusioni: la presenza di
soggetti che non hanno alcuno stress ossidativo in studi clinici sugli effetti degli antiossidanti
potrebbe aver modificato le conclusioni finali della ricerca stessa. Il punto è proprio questo: se si
considera un soggetto di 25 anni sedentario, la vitamina E non fa nulla perché il soggetto è ben
protetto contro gli stress ossidativi, ma se si considerano:

•• un soggetto over 35
•• un soggetto che fa attività sportiva in modo intenso

le conclusioni sono diametralmente opposte. Tant’è che esistono molte ricerche che, usando gli
stessi marker, dimostrano la riduzione dello stress ossidativo. Si noti come variando il campione
di partenza si “stiracchiano le conclusioni” per arrivare dove si vuole. L’errore dei ricercatori è
considerare persone sane sia il venticinquenne sia il cinquantenne che invece sano non è perché
malato di invecchiamento. Probabilmente chi è sedentario è ben protetto fino a 40-45 anni, ma,
come sappiamo, se è protetto dai radicali liberi, non lo è certo dal sovrappeso.

5 – Un’integrazione vitaminica ad alto dosaggio fa male

Nessuna ricerca condotta su persone sane arriva a questa conclusione con i dosaggi indicati
dall’integrazione ad alto livello. Esistono ricerche che:

•• indicano che su soggetti portatori di patologie alcune vitamine aggravano il rischio di patologia.
•• Dimostrano che su esperimenti non in vivo (cioè solo chimici) alcune vitamine sono anche
ossidanti. Tali considerazioni sono molto fumose, sarebbe come dire di non respirare perché
l’ossigeno fa male, visti i danni che produce sul ferro (ruggine).
•• Indicano che con megadosi di vitamine ci sono effetti collaterali.

L’ultimo punto è solo accademico, perché con megadosi di qualunque sostanza si hanno sempre
effetti collaterali. Queste ricerche non vogliono dire (come spesso i media interpretano) che la
vitamina X fa male, quanto vogliono fissare il suo quantitativo massimo assumibile. Per esempio
per la vitamina E si pensava quindici anni fa che il limite fosse 800 UI (800 mg di vitamina E
sintetica); oggi si è stabilito con ricerche accurate che anche dosi di 3,2 g al giorno non danno
effetti collaterali in soggetti sani.
Inoltre ciò che smentisce chi condanna un’integrazione vitaminica ad alto dosaggio è il fatto (ved.
paragrafo seguente) che con cibi comunissimi è possibile arrivare agli stessi livelli di
integrazione (per esempio 0,5-1 g di vitamina C).

Quale posizione scegliere?


L’uscita di cibi sempre più arricchiti in vitamine consente di scegliere una soluzione veramente
innovativa. Innanzitutto scegliamo fra soluzione europea (rappresentata da 1 e 2) e americana (3).

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L’errore fondamentale di chi crede che si possa operare con la sola generica sana alimentazione è
che non considera che non tutti i cibi sono uguali dal punto di vista vitaminico; pertanto dire che
basta l’alimentazione è una posizione molto semplicistica. È abbastanza facile mostrare che due
soggetti che mangiano tutto sommato bene possono assumere dai cibi 50 mg di vitamina C al
giorno oppure 500! Ma cosa farebbe optare per la posizione 3? Un ragionamento banale che i
nutrizionisti che perorano la soluzione europea non hanno il coraggio di fare.

1. I sostenitori delle RDA basse parlano per esempio di 60 mg per la vitamina C.


2. Poi però mi dicono che nell’alimentazione devono essere presenti molta frutta e molta verdura
per prevenire questo e quello. Faccio due conti e le 5-6 porzioni al giorno di frutta e verdura mi
danno un quantitativo di vitamina C che va da 100 a 500 mg (per esempio due arance, 300 g, e due
kiwi, 150 g, apportano da soli oltre 300 mg di vitamina C).
3. Se il loro consiglio in 2) è giusto (e io sono convinto che lo sia), la dose (RDA) che
propongono in 1) è da Terzo Mondo.

La soluzione nutraceutica
Il termine nutraceutico è un neologismo nato unendo i termini nutrizione e farmaceutica e si
riferisce allo studio di alimenti, o parti di alimenti, che hanno una funzione benefica sulla salute
umana.
Fra l’altro, la nutraceutica si pone il problema di sostituire farmaci o integratori con combinazioni
appropriate di cibi. Per esempio, è ormai a tutti nota l’importanza degli acidi grassi omega 3.
Molti ricorrono a integratori quando potrebbero tranquillamente usare cibi di normale reperibilità:
per avere almeno 12 g di omega 6 e 3 g di omega 3 (una dose ragionevole per chi segue
un’alimentazione da 1.800 kcal al giorno) bastano 35 g di noci oppure 100 g di salmone al
naturale + 20 g di olio di girasole crudo. Il metodo è generale:

•• scegliere i cibi nutraceutici


•• definirne le quantità.

I cibi arricchiti
Negli ultimi anni sono usciti sul mercato molti cibi arricchiti con sostanze ritenute, a torto o a
ragione, utili alla nostra salute. Sono ormai noti gli alimenti che integrano per esempio il calcio
(soprattutto latte, yogurt, derivati della soia ecc.), consentendo praticamente di raggiungere le dosi
consigliate di questo minerale. Un po’ meno interessante è l’arricchimento con ferro, dato che,
nella popolazione, la carenza è molto meno diffusa di quanto si pensi e che un sovradosaggio
potrebbe dare effetti collaterali. Novità relativamente recente è l’arricchimento dello yogurt con il
coenzima Q10, cosa che consente di evitare i notevoli costi dell’integrazione. Molto interessanti
le integrazioni di vitamine con alcune categorie alimentari che praticamente hanno reso possibile
la soluzione nutraceutica dell’integrazione vitaminica.

Le vitamine dai cibi


Per capire come la soluzione nutraceutica possa essere implementata, consideriamo le categorie
che più delle altre arricchiscono i prodotti di vitamina C (ricordo che la dose “italiana”

105
raccomandata di vitamina C è di 60 mg, mentre quella “americana” è di 500-1.000 mg a seconda
dell’attività fisica svolta): barrette sostitutive del pasto, bibite e latte, biscotti, cereali per la
prima colazione, fette biscottate, integratori salini, merendine, salumi, succhi di frutta, yogurt.
Per esempio, non tutti sanno che molti salumi contengono additivi non propriamente salutari, i
nitriti e i nitrati (si consideri che se un litro di acqua contenesse gli stessi nitriti/nitrati di 100 g
della maggior parte dei salumi non sarebbe giudicata potabile!); anche per cercare di limitarne la
nocività (soprattutto dei nitrati che sono i meno dannosi perché più stabili e controllabili) si
aggiunge acido ascorbico (vitamina C) in dosi massicce, per esempio 2 g per kg, cioè ben 200 mg
per etto.
Il succo di frutta concentrato di pompelmo o di arancia contiene circa 200 mg di vitamina C per
100 g; molte bibite contengono succo al 10-20% quindi per 100 g abbiamo circa 30 mg di
vitamina. Ovviamente il consumatore non assumerà tutti i cibi elencati, ma proviamo a stilare una
giornata ragionevole con:

•• 400 ml (due bicchieri) di bevande arricchite di vitamina C: 120 mg


•• 75 g di corn flakes (o altri prodotti da forno per la prima colazione arricchiti con vitamina C):
70 mg
•• yogurt alla frutta, due vasetti da 125 g: 70 mg
•• due barrette: 90 mg
•• 50 g di salume con nitrati (evitiamo almeno quello con nitriti!) e vitamina C: 100 mg.

Si arriva a ben 450 mg. Anche se alcuni cibi non saranno scelti dai più salutisti (per esempio i
salumi, per evitare i nitrati), appare ragionevole affermare che con scelte oculate di prodotti
arricchiti di buona qualità è possibile arrivare a 300 mg di vitamina C. E con l’alimentazione
“non arricchita”? Traduciamo il consiglio di assumere molta frutta e verdura dato senza
riflessione da molti nutrizionisti in qualcosa di più concreto. La differenza sostanziale con la
nostra posizione è che

è fondamentale scegliere il tipo di verdura e di frutta.

Anche la patata è “verdura”, ma chi si abbuffa di patate, a prescindere dall’introito calorico


notevole, non assumerà grandi dosi di vitamina C (la patata ne contiene 15 mg/100 g)! Di seguito
elenchiamo gli alimenti più importanti nei confronti della vitamina C (dosi per 100 g); abbiamo
inserito quelli contenenti una significativa quantità di detta vitamina e che possono essere
impiegati in quantità significative al contrario di altri (per esempio peperoncini, ribes e
prezzemolo) che ne sono molto ricchi, ma non possono essere assunti in grandi quantità.

•• peperoni: 150 mg
•• kiwi: 85 mg
•• cavoli e simili: 65 mg
•• fragola: 55 mg
•• spinaci: 55 mg
•• arancia e simili: 55 mg.

Le rimanenti frutta e verdura hanno un quantitativo che va da 10 a 35 mg per 100 g. Quest’ultima


quantità è quella contenuta anche in alcune carni (fegato).
Chi non usa i cibi nutraceutici, ma assume un’ottima quantità di verdura e frutta (per esempio 800

106
g al giorno; la quantità non è affatto esagerata: 300 g di insalata e pomodori o altra verdura, 300 g
di melone, 200 g di banane), arriva mediamente a 200 mg di vitamina C al giorno.
Utilizzando i prodotti nutraceutici si può invece arrivare tranquillamente a 500 mg; per curiosità
ecco un paio di combinazioni:

•• 200 g di spinaci, 250 g di fragole e 250 g di kiwi al giorno più altri 100 g di frutta e verdura a
piacere;
•• 150 g di peperoni, 300 g di arance (due arance) e 200 g di cavoli.

Concludendo:

combinando cibi arricchiti + cibi nutraceutici + il consumo di una quantità superiore alla
media di frutta e verdura è possibile avere un’integrazione all’americana (ad alto dosaggio) di
vitamina C.

A questo punto ci si deve chiedere: perché usare integratori? Una risposta ragionevole è: solo se i
cibi nutraceutici non sono particolarmente graditi.

Per le altre vitamine?


Il discorso è analogo: è possibile scegliere cibi arricchiti (per esempio corn flakes, come gli All
Bran Kellogg’s Classic, yogurt, come i Vitasnella Danone alla frutta e barrette opportune come
quelle dell’Enervit) e nutraceutici per avere alti dosaggi vitaminici. Per esempio, ecco una lista di
cibi nutraceutici:

•• fegato di vitello (vitamina A e vitamine del gruppo B)


•• tonno e salmone (vitamine del gruppo B e vitamina D)
•• lievito di birra (vitamine del gruppo B)
•• noci (vitamina E)
•• cavoli (vitamina K).

Nel prossimo sottoparagrafo si vedrà come implementare praticamente la soluzione nutraceutica


per un multivitaminico.
L’unica vitamina veramente non coperta è la vitamina E, per la quale continua a rimanere valido il
consiglio di un’integrazione supplementare, non esistendo cibi che la contengano in quantità tali da
sostituire un integratore ad alto dosaggio.

Multivitaminico: la soluzione alimentare


Molte persone sono solite ingurgitare di tutto in base al supposto intelligente principio che “male
non fa” purché sia lecito. A prescindere dal fatto che ciò non è vero (un accumulo di un integratore
inutile può dare comunque seri problemi), l’atteggiamento rivela una scarsissima conoscenza
alimentare.
In questo sottoparagrafo vogliamo mostrare come un multivitaminico a basso dosaggio sia
banalmente rimpiazzato da un pasto normale, per giunta ipocalorico. È questa la miglior
dimostrazione di come l’acquistare tali multivitaminici sia uno spreco di soldi.

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TABELLA 8 - Multivitaminico: la soluzione alimentare.
----------
Vitamine > Nostro menu > Multivitaminico a basso dosaggio
• Vit. A > 36.000 UI > 2.666 UI
• Vit. B1 (tiamina) > 2,4 mg > 1,4 mg
• Vit. B2 (riboflavina) > 2,8 mg > 1,6 mg
• Vit. B3 (niacina) > 25 mg > 18 mg
• Vit. B5 (ac. pantotenico) > 7,1 mg > 6 mg
• Vit. B6 (piridossina) > 2,5 mg > 2 mg
• Vit. B8 (biotina) > 150 mcg > 15 mcg
• Vit. B9 (ac. folico) > 1000 mcg > 200 mcg
• Vit. B12 > 11 mcg > 1 mcg
• Vit. C > 60 mg > 60 mg
• Vit. D > 730 UI > 200 UI
• Vit. E > 25 UI > 10 UI
• Vit. K > 570 mcg > 30 mcg
----------

Mostreremo anche come sia possibile seguire la stessa strategia per un multivitaminico ad alto
dosaggio, ma si vedrà che il menu proposto non è facilmente appetibile risulta un po’ troppo
calorico.
La soluzione alimentare si basa su 7 cibi fondamentali (“i magnifici sette”):

•• fegato di vitello (vitamina A e vitamine del gruppo B)


•• arancia (vitamina C)
•• tonno e salmone (vitamine del gruppo B e vitamina D)
•• lievito di birra (vitamine del gruppo B)
•• noci (vitamina E)
•• cavoli (vitamina K).

I contenuti vitaminici sono ripresi da Le nouveau guide des vitamines di Souccar-Courtay (ed.
Seuil).
Primo piatto – Un primo di pasta con sugo ipocalorico, ma saziante: sulla pasta, al posto del
parmigiano, usare 20 g di lievito di birra in scaglie.
Secondo piatto – 50 g di fegato di vitello, 100 g di tonno e 100 g di salmone al naturale. Il
fegato deve essere cotto al vapore, molto leggero. Contorno: 100 g di cavoli di Bruxelles al
vapore.
Frutta – Un’arancia di 120 g, 30 g di noci.

Ovvio che si possa aggiungere altro, per esempio olio e aceto (o limone) sui broccoli, arricchire
il secondo ecc. I dati che seguono si riferiscono solo ai SETTE cibi in corsivo. Segue la
comparazione fra un noto multivitaminico a basso dosaggio e nostri piatti. Il contenuto calorico
del menu è di circa 1.000 kcal; ovviamente può essere diviso in pranzo e cena (per esempio
pranzo: primo piatto + noci; cena: secondo piatto + arancia o secondo un’altra suddivisione a

108
piacimento).
Chi non volesse usare i 50 g di fegato di vitello perché è terrorizzato dal contenuto di colesterolo,
può sostituirlo (tenendo conto anche dei 70 g di pasta che apportano già un modesto quantitativo
vitaminico) con:

80 g di patate
50 g di formaggio (taleggio o Camembert)
300 ml di latte intero
250 g di yogurt
170 g di pollo

quantità che in una giornata, per un soggetto di 70 kg, sono perfettamente assumibili.
Se confrontiamo i risultati ottenuti con il nostro menu con un multivitaminico ad alto dosaggio
(tabella 9), scopriamo che alcune vitamine non sono coperte.
Si tratta delle vitamine essenziali

B1 - B2 - B5 - B6 - C - E.

Sono queste vitamine che richiedono l’uso di integratori.

TABELLA 9 - Multivitaminico ad alto dosaggio e soluzione alimentare.


----------
Vitamine
> Nostro menu > Multivitaminico ad alto dosaggio > Integrazione americana

• Vit. A
> 36.000 UI > 3.333 UI > 1.000-5.000 UI

• Vit. B1 (tiamina)
> 2,4 mg > 20 mg > 10-50 mg

• Vit. B2 (riboflavina)
> 2,8 mg > 5 mg > 5-50 mg

• Vit. B3 (niacina)
> 25 mg > 50 mg > 10-50 mg

• Vit. B5 (ac. pantotenico)


> 7,1 mg > 11,6 mg > 10-50 mg

• Vit. B6 (piridossina)
> 2,5 mg > 10 mg > 10-75 mg

• Vit. B8 (biotina)
> 150 mcg > 1.800 mcg > 100 mcg

109
• Vit. B9 (ac. folico)
> 1.000 mcg > - > 0,5-1 mg

• Vit. B12
> 11 mcg > 5 mcg > 10-50 mcg

• Vit. C
> 60 mg > 150 mg > 500-1.000 mg

• Vit. D
> 730 UI > 400 UI > -

• Vit. E
> 25 UI > 10 UI > 200-400 UI

• Vit. K
> 570 mcg > - > -
----------

Teoricamente si potrebbe coprire la dose americana con alimenti, ma è:

•• obiettivamente difficile per vitamina C (aggiungere al nostro menu 8 arance), B2 (aggiungere 50


g di fegato di vitello), B5 (bastano i 50 g di fegato di vitello).
•• Praticamente impossibile per B1 (si dovrebbero aggiungere 65 g di lievito di birra), B6 (si
dovrebbero aggiungere 100 g di germe di grano e 800 g di banane al netto), E (100 g di germe di
grano oppure 300 g di mandorle, pari queste ultime a circa 1.700 kcal!).

Poiché le vitamine essenziali sono particolarmente importanti per gli sportivi, appare più logico
usare un multivitaminico ad alto dosaggio, non dimenticando la sostituzione alimentare con i
magnifici sette, magari per periodi di rallentamento dell’attività sportiva.

La vitamina A
La vitamina A è stata scoperta nel 1913 nell’uovo da E. McCollum e M. Davis, due ricercatori
dell’università del Wisconsin, e nell’olio di fegato da T. Osborne e L. Mendel della Connecticut
Agricultural Experiment Station. Nel 1931 lo svizzero Karrer isolò il betacarotene e determinò la
sua formula chimica, dopo che l’anno prima l’inglese Moore aveva mostrato che la sostanza
identificata nelle carote nel 1919 da Steenbock era in realtà la provitamina.
Sin dai primi anni dopo la scoperta si mise in relazione la carenza di vitamina A con alcune
patologie della vista. La vitamina A si trova in natura in due forme principali: il retinolo (di
origine animale; si trova nel tuorlo d’uovo e nel fegato) e i carotenoidi (di origine vegetale; si
trovano nella frutta e nella verdura di colore arancione o verde scuro); entrambe le forme sono
provitamine cioè precursori che vengono poi trasformati nella vitamina.
Molte sono le funzioni della vitamina A (da non confondere con quelle del betacarotene che si è
conquistato una sua autonomia, indipendentemente dalla capacità di trasformarsi in vitamina A); la
sua carenza rende la pelle rugosa, gli occhi diventano rossi e irritabili, si accentua la sensibilità

110
alla luce e si abbassa la visione notturna; può instaurarsi un’anemia, aumentano i rischi di calcoli
renali e di allergie e si deprime il sistema immunitario. La vitamina A coopera efficacemente nel
trattamento di molti disturbi visivi, promuove la crescita, lo sviluppo e il funzionamento di molti
tessuti e organi, contribuisce alla salute della pelle, delle mucose e dei capelli.
La vitamina A, applicata esternamente, viene utilizzata per trattare l’acne, la foruncolosi,
l’impetigine e le ulcere cutanee.
Dal momento che la vitamina A è insolubile in acqua, mentre lo è facilmente in acetone, grassi, oli
ed etere, fa parte del gruppo delle vitamine liposolubili, per le quali occorre fare attenzione alla
quantità massima di assunzione. Come è ormai noto da tempo, la vitamina A è, insieme alla
vitamina D, l’unica che può provocare danni seri (problemi al fegato, fenomeni depressivi fino al
suicidio e altri problemi nervosi, danni alle ossa e alle articolazioni e al feto, in gravidanza) se
assunta in quantità maggiori di quelle consigliate (come ben sanno gli esploratori dell’Artico e gli
eschimesi che si astengono dal consumare fegato di orso polare o di foca perché ricchissimi di
vitamina A, 15.000 UI per grammo!). L’intossicazione acuta di vitamina A si ha solo con dosi
enormi (2 milioni di UI), mentre più subdola è l’intossicazione cronica, sicuramente presente in
soggetti che assumono 20.000 UI al giorno per periodi che vanno da 6 a 8 anni (Geubel, 1991).
La somministrazione di vitamina A deve essere fatta con estrema cautela, e solo sotto stretto
controllo medico, nei casi di diabete, fibrosi cistica, disturbi intestinali, malattie renali ed
epatiche, problemi al pancreas e alla tiroide.
La RDA della vitamina A è di 5.000 UI al giorno, anche se la dose ottimale è di 8.000 UI. Negli
Stati Uniti, recenti ricerche hanno portato la dose di assunzione giornaliera a 10.000 U.I. Nei
soggetti sani l’alimentazione copre facilmente la quota necessaria. L’integrazione con la vitamina
A non è quindi necessaria per i soggetti sani che seguono una dieta equilibrata; l’assunzione
tramite un multivitaminico contenente vitamina A non dovrebbe superare le dosi di 1.000-5.000
UI.
Nel caso fosse necessaria una supplementazione con questa sostanza (fumatori, diabetici, bevitori
ecc.), il dosaggio e l’eventuale preferenza di altri integratori come il betacarotene devono essere
valutati dal medico curante.
Particolare attenzione va posta alla somministrazione di questa vitamina a bambini e anziani.

La vitamina B 1 (tiamina)
La vitamina B1 (tiamina) è una sostanza idrosolubile, coinvolta (la forma attiva, tiamindifosfato)
nel catabolismo dei carboidrati e degli aminoacidi. La tiamina gioca un ruolo importante anche nei
fenomeni neurochimici e nella sintesi dei precursori del DNA (per tale motivo è usata nelle
ricerche sui tumori). Per il suo intervento nelle reazioni energetiche, è citata, spesso a sproposito,
nei meccanismi legati a una carenza di energia (stanchezza).
La vitamina B1 è un coenzima e come tale partecipa alle reazioni chimiche facilitandole, ma senza
esserne mutata (si legga: consumata). Questo assicura che ne bastano dosi piccole per sostenere
per mesi le reazioni che facilita. Infatti la vita media della tiamina è di circa due settimane (la
dose presente nel nostro corpo è di 30 mg, concentrata nelle ossa, nei muscoli, nel cuore, nel
fegato, nei reni e nel cervello) e si assiste a una carenza dopo tre settimane solo in soggetti che
non ne assumono dall’alimentazione. Poiché l’alcol altera l’assorbimento e l’attività della tiamina,
è naturale riscontrare carenze di vitamina B1 soprattutto negli alcolisti.
La carenza di vitamina B1 si manifesta con patologie caratteristiche (beri-beri o sindrome di

111
Wernicke-Korsakoff). Il beri-beri colpisce il sistema cardiovascolare, ma è reversibile con una
pronta somministrazione di tale vitamina. Recenti ricerche hanno trovato una situazione simile
all’Alzheimer nel cervello di ratti con forti carenze di tiamina. La carenza di tiamina è fra le cause
di una forma di anemia megaloblastica e di disturbi del sistema nervoso.
La tiamina è presente nelle carni di maiale e di pollo, nei fiocchi d’avena, nel fegato, nei cereali
integrali e nei legumi. Non si conosce tossicità anche dopo assunzioni ad alte dosi.
La tiamina supporta l’integrità delle membrane, le regolari funzioni del sistema nervoso, dei
muscoli e del cuore; coopera nel trattamento dell’Herpes zoster, promuove uno sviluppo e una
crescita regolari.
Le alte temperature e la lunga esposizione al calore possono diminuire la quota di questa vitamina
negli alimenti.
La RDA consigliata per un adulto è di 1-1,5 mg al giorno, mentre la dose “americana” è di 50-100
mg. Come per altre vitamine del gruppo B, chi non vuole ricorrere a integratori può servirsi del
lievito di birra in scaglie che contiene quantità significative di vitamine del complesso B, tiamina
compresa (12 mg/100 g). Nella tabella 10 è mostrato il contenuto vitaminico del lievito di birra
(per 100 g) confrontato con quello dell’alimento comune più ricco della vitamina in questione (Le
nouveau guide des vitamines, T. Souccar, J-P. Curtay).

TABELLA 10 - Contenuto vitaminico del lievito di birra confrontato con quello dell’alimento
comune più ricco della vitamina in questione.
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Vitamina > Quantità (mg) > Quantità alimento più ricco (mg)
• B1 > 12 > Carne di maiale: 1,15
• B2 > 4 > Fegato di agnello: 5
• B3 > 38 > Fegato di agnello: 25
• B5 > 12 > Fegato di vitello: 8
• B6 > 1,3 > Sardina: 1
• B7 (colina) > 408 > Uovo: 527
• B9 (folati) > 1 > Fegato di pollo: 0,7
• B12 > 0,50 mcg > Fegato di vitello: 60 mcg
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La vitamina B 2 (riboflavina)
La vitamina B2 (anche lattoflavina, riboflavina o vitamina G) è una vitamina appartenente al
cosiddetto complesso vitaminico B.
La vitamina B2 è stata identificata verso la fine degli anni ‘20 da Paul György, un medico
ungherese. György si rese conto che il latte aveva concentrazioni abbastanza elevate di tale
vitamina (tant’è che inizialmente la si chiamò lattoflavina, più tardi venne scoperto che tale
sostanza legava una catena formata da ribitolo e la si chiamò riboflavina). Fu isolata nel 1932 da
Theodor Wagner-Jauregg e sintetizzata da R. Kuhn (in seguito insignito del Nobel per la chimica),
E. Weygand e P. Karrer nel 1934.
La vitamina B2 agisce biologicamente sotto forma di due coenzimi, la FAD (flavina adenina
dinucleotide) e la FMN (flavina mononucleotide); tali coenzimi, tra le altre cose, intervengono in

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diverse reazioni relative al metabolismo dei macronutrienti (carboidrati, proteine e grassi). La
conversione della vitamina B2 nelle due forme sopracitate avviene secondo questo schema:

Riboflavina + ATP —> FMN + ADP


FMN + ATP —> FAD + PPi (pirofosfato).

Le principali funzioni della vitamina B2 sono quelle di favorire l’utilizzazione energetica dei
macronutrienti assunti con l’alimentazione, la conservazione dell’integrità del sistema nervoso,
della cute e degli occhi; la riboflavina promuove inoltre uno sviluppo e una crescita regolari, ha
effetto antimalarico e può avere una certa efficacia in alcuni tipi di malattie infettive, nella gastrite
e in alcune patologie epatiche.
La vitamina B2 viene assorbita in modo rapido dal tratto gastrointestinale. Buona parte di essa
(circa il 60%) si lega alle proteine plasmatiche e viene distribuita ai vari tessuti dell’organismo,
ma non viene immagazzinata se non in minima parte. A livello ematico la vitamina B2 è presente
sia in forma libera sia sotto forma di flavina mononucleotide (FMN); il trasporto avviene
attraverso le immunoglobuline A, G e M. Gli organi che contengono riboflavina in maggior
quantità sono il cuore, il fegato e l’intestino. La quantità in eccesso viene escreta principalmente
attraverso le urine dove è possibile ritrovarla sotto forma libera (in ragione del 60-70%) o
degradata (30-40%). Dal momento che, come accennato in precedenza, i depositi nell’organismo
di riboflavina non sono particolarmente importanti, le quantità di riboflavina espulse con le urine
riflettono il grado di assunzione dietetico di tale vitamina. La quantità di riboflavina espulsa
attraverso le feci è trascurabile e si ritiene che tale quantitativo sia dovuto ai processi metabolici
della flora intestinale.
La vitamina B2 è presente in molti alimenti sia vegetali che animali (lievito di birra, fegato, latte,
organi come cuore o rene, pappa reale, radicchio verde, soia, formaggi ecc.).
La vitamina B2 non è particolarmente solubile in acqua ed è abbastanza stabile al calore; per tali
motivi la cottura inattiva al massimo il 20% del quantitativo globale di vitamina B2. La riboflavina
è però una sostanza che se esposta alla luce è sottoposta a una reazione fotolitica che, provocando
il distacco del radicale ribitolo, è causa della perdita dell’azione vitaminica (è per questo motivo
che il latte perde una buona parte di vitamina B2 se viene esposto alla luce solare).
Secondo quanto indicato dal National Research Council (1989) il fabbisogno di vitamina B2 può
essere calcolato in funzione delle calorie che vengono introdotte con la dieta; secondo diversi
studi un quantitativo corretto corrisponde a 0,6 mg/1.000 kcal. Altre fonti raccomandano invece
livelli ben più elevati (dai 5 ai 50 mg/die). Ovviamente i livelli raccomandati subiscono
variazioni a seconda dell’età, del sesso e delle condizioni di salute del soggetto.
Una dieta equilibrata è in grado di fornire un quantitativo sufficiente di riboflavina; per tale
motivo, in un soggetto giovane e sano, l’integrazione di tale vitamina non è necessaria.
Come per altre vitamine del gruppo B, chi non vuole ricorrere a integratori può servirsi del lievito
di birra in scaglie.

La vitamina B 3 (niacina)
La vitamina B3 (nota anche come vitamina PP, dall’inglese Pellagra Preventing, ovvero
antipellagra) è una vitamina idrosolubile appartenente al cosiddetto complesso vitaminico B.

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La vitamina B2 viene anche chiamata niacina; niacina è un termine generico con il quale si
indicano due sostanze: l’acido nicotinico (che sarebbe la niacina propriamente detta) e la
nicotinammide (anche niacinammide).
La vitamina B3 agisce biologicamente sotto forma di due coenzimi, la NAD (nicotin adenin
dinucleotide) e la NADP (nicotin adenin dinucleotide fosfato). La vitamina B3 è coinvolta in
diversi processi quali, per esempio, il metabolismo energetico, la sintesi del DNA e il
funzionamento del sistema nervoso.
La vitamina B3 presenta caratteristiche di stabilità decisamente superiori ad altre vitamine del
complesso vitaminico B, essendo resistente al calore, all’ossidazione e alle basi.
La niacina viene assorbita a livello intestinale, dopo un processo di idrolisi, sotto forma di
nicotinammide e acido nicotinico; tali sostanze vengono poi cedute ai vari tessuti. Viene
immagazzinata soprattutto a livello epatico. Oltre che per via alimentare, la vitamina B3 può
essere sintetizzata a partire da uno degli aminoacidi essenziali, il triptofano. Il fabbisogno di
niacina e triptofano viene espresso come NE, acronimo di “Niacina Equivalenti”;
convenzionalmente si considera che 60 mg di triptofano corrispondano a un 1 mg di niacina. La
vitamina B3 in eccesso viene escreta per via renale.
La vitamina B3 è presente in molti alimenti (lievito di birra, crusca di frumento, fegato, arachidi,
pesce, pollame, ma in alcuni di essi è presente sotto una forma non disponibile.
Secondo le raccomandazioni europee il fabbisogno giornaliero di niacina viene considerato in 6,6
mg ogni 1.000 kcal assunte attraverso l’alimentazione. Altre fonti suggeriscono invece introiti ben
superiori, fino ad arrivare a circa 50 mg/die). Ovviamente i livelli raccomandati subiscono
variazioni a seconda dell’età, del sesso e delle condizioni di salute del soggetto.
Una dieta equilibrata è in grado di fornire un quantitativo sufficiente di vitamina B3; per tale
motivo, in un soggetto sano, l’integrazione di tale vitamina non è necessaria. Come per altre
vitamine del gruppo B, chi non vuole ricorrere a integratori può servirsi del lievito di birra in
scaglie
La vitamina B3 ha riconosciuti effetti ipolipemizzanti (l’assunzione in dosi elevate diminuisce i
livelli plasmatici di colesterolo LDL e trigliceridi e alza quelli di colesterolo HDL), se utilizzata
a tale scopo i dosaggi prescritti sono generalmente superiori ai 250 mg/die con incrementi
settimanali fino ad arrivare, in determinate situazioni, a dosaggi di 2 g/die. Tali assunzioni hanno
valore farmacologico per cui dovranno essere messe in atto tutte le precauzioni del caso;
potrebbero infatti verificarsi sintomi da sovradosaggio.

La vitamina B 5 (acido pantotenico)


La vitamina B5 (anche acido pantotenico o vitamina W) è uno dei componenti del coenzima A
(CoA), una molecola che svolge un ruolo fondamentale nel metabolismo (è per esempio coinvolta
nel meccanismo di ossidazione dei grassi e nel ciclo di Krebs). La vitamina B5 è una vitamina
idrosolubile, instabile al calore e che viene distrutta da acidi e basi. È una sostanza essenziale ai
fini del metabolismo di carboidrati, grassi e proteine e gioca un ruolo fondamentale nella sintesi
di ormoni e colesterolo.
Il termine pantotenico deriva dalla parola greca pantos che significa “ovunque”; in effetti l’acido
pantotenico è una sostanza che è possibile trovare in moltissimi alimenti.
La scoperta della vitamina B5 è relativamente recente, risale infatti al 1940; occorsero circa 6 anni

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prima che i meccanismi biologici di questa sostanza divenissero noti.
Il coenzima A introdotto con la dieta viene idrolizzato all’interno del lume dell’intestino. La
stragrande maggioranza di vitamina B5 che viene assorbita dall’organismo proviene da questo
meccanismo di idrolisi. La vitamina B5 assorbita viene poi trasportata ai tessuti dell’organismo
per via ematica, principalmente per mezzo dei globuli rossi. La vitamina B5 contenuta nel plasma
viene assorbita dalle cellule attraverso un meccanismo sodio-dipendente.
L’escrezione del pantotenato che si forma dal catabolismo del CoA avviene per via renale.
Come accennato, sono moltissime le fonti alimentari attraverso le quali è reperibile la vitamina
B5. In modo particolare ne sono ricchi i funghi essiccati, il lievito di birra, le uova, il fegato di
ovini, bovini e suini, il germe di grano, le arachidi ecc.
Una dieta equilibrata è sufficiente a fornire il giusto fabbisogno di acido pantotenico;
generalmente infatti non è necessario, in soggetti giovani e sani, ricorrere ad alcun tipo di
integrazione di questa sostanza. Una soluzione particolarmente interessante per coloro che non
vogliono utilizzare integratori vitaminici è il ricorso al lievito di birra in scaglie.

La vitamina B 6 (piridossina)
Vitamina B6 è una terminologia generica con la quale si identificano 3 diversi composti:
piridossina, piridossale e piridossamina. La vitamina B6 è una vitamina idrosolubile la cui forma
attiva, il piridossal fosfato, entra in numerose reazioni enzimatiche a livello cerebrale, cutaneo ed
epatico. È fondamentale per sintetizzare la serotonina e la norepinefrina (due importanti
neurotrasmettitori) ed entra nel processo di formazione della mielina, la membrana che avvolge,
proteggendole, le fibre nervose.
La scoperta della vitamina B6 è relativamente recente (1935) e la denominazione è dovuta al fatto
che fu il sesto fattore che apparteneva al gruppo vitaminico B a essere descritto. Talvolta, invero
raramente, viene anche chiamata vitamina Y.
La vitamina B6 è stabile al calore, resiste agli acidi e agli alcali, ma si degrada alla luce e in
presenza di sostanze ossidanti o di alcol.
L’assorbimento della vitamina B6 avviene a livello intestinale. Viene trasportata dal plasma (e si
lega all’albumina) e dagli eritrociti (e si lega all’emoglobina). La vitamina B6 viene per la gran
parte depositata a livello epatico e, in seguito, viene trasportata dal plasma agli altri tessuti.
L’eccesso di vitamina B6 viene eliminato per via renale.
Il fabbisogno giornaliero viene stimato mediamente in circa 1,7 mg; nelle gestanti e nelle nutrici
viene raccomandato un incremento di circa il 30% della dose consigliata normalmente. Una
piccola parte di vitamina B6 viene fornita dalla flora batterica dell’intestino. Una leggera
deficienza di vitamina B6 è abbastanza diffusa nella popolazione nonostante le fonti alimentari di
tale vitamina siano numerose; tra queste ricordiamo le carni, le frattaglie, alcuni prodotti ittici,
leguminose, verdure (in particolar modo carote, nei piselli e spinaci), nel latte, nei prodotti
caseari, nelle uova e nei cereali poco raffinati. Viene maggiormente fornita dai prodotti di origine
animale dal momento che in quelli di origine vegetale è legata a composti che ne inibiscono la
disponibilità.
Fra gli effetti dimostrati dell’assunzione di vitamina B6 vi sono l’efficacia nel trattamento
dell’anemia sideroblastica ereditaria, nella prevenzione degli effetti avversi dovuti all’assunzione
di cicloserina (un antibiotico ad ampio spettro), nel trattamento delle deficienze e delle neuriti

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provocate da ridotto introito alimentare, nel trattamento delle convulsioni nei neonati piridossino-
dipendenti (la dipendenza del neonato può essere dovuta o un eccessivo uso di vitamina da parte
della madre durante il periodo dalla gravidanza oppure da un deficit genetico di piridossina).

Integrazione delle vitamine B1, B2, B3, B5, B6


In genere per soggetti sani sotto i 40 anni non è necessaria un’integrazione.
Per queste vitamine si può prendere in considerazione un’integrazione in determinate situazioni
(persone anziane, soggetti che svolgono professioni particolarmente faticose o che praticano
attività sportiva a intensità medio-alta, soggetti colpiti da malattie croniche logoranti, persone con
ustioni estese o con lesioni di particolare gravità, soggetti che abusano di alcol o sostanze
stupefacenti). Una soluzione interessante per chi non vuole ricorrere agli integratori può essere
quella di servirsi di lievito di birra in scaglie.

La vitamina B 8 (biotina)
La biotina è una vitamina idrosolubile appartenente al gruppo vitaminico B. Il termine biotina è,
secondo la IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry), l’unica denominazione
corretta. In passato la biotina era anche nota come vitamina H o I secondo la nomenclatura
tedesca; secondo la nomenclatura anglosassone era nota come vitamina B7, mentre secondo quella
francese era nota come vitamina B8.
L’origine del nome deriva dal termine greco bios (vita). La sua scoperta è relativamente recente
(1936). In realtà la biotina è un coenzima (coenzima R) senza il quale determinati enzimi
carbossilasi non svolgerebbero adeguatamente le loro funzioni; tali enzimi infatti sono coinvolti
nella via biosintetica degli acidi grassi, nella gluconeogenesi, nel catabolismo degli aminoacidi e
in quello degli acidi grassi che hanno un numero di carboni dispari e nel catabolismo della
leucina. Alcuni studi recenti indicano che la biotina è una sostanza necessaria per alcuni processi
cellulari come per esempio la replicazione del DNA.
Secondo alcuni autori, in linea puramente teorica (dal momento che non sono stati riportati casi in
letteratura), la mancanza di biotina può essere causa di morte. La carenza di biotina però è un
evento rarissimo dal momento che, oltre al fatto che le richieste di tale sostanza sono decisamente
basse, essa si trova in numerosi alimenti.
Come accennato all’inizio, la biotina è una sostanza solubile in acqua e, in tale condizione, può
resistere al calore, agli acidi e alle basi; può però essere distrutta dalla luce ultravioletta e da forti
agenti ossidanti.
L’organismo umano non è grado di sintetizzare la biotina e la sua assunzione avviene
principalmente per via alimentare e, in minima parte, grazie alla sintesi effettuata dalla flora
batterica intestinale. La biotina che viene introdotta per via alimentare non è in forma libera, ma è
legata alle proteine per mezzo della lisina; la biotinidasi, un enzima presente nel succo
pancreatico, opera una scissione del legame biotina-lisina e, in tal modo, la biotina viene liberata
nel lume intestinale. Attualmente, i meccanismi dell’assorbimento della biotina a livello
intestinale non sono perfettamente noti. Si sa che la vitamina circola a livello plasmatico sia in
forma libera che legata alle proteine, ma non è noto se esista una specifica vitamina di trasporto.
La biotina assorbita in eccesso viene successivamente escreta per via renale, mentre quella non
assorbita nell’intestino tenue o quella sintetizzata dalla flora batterica intestinale viene escreta per

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via fecale.
Le fonti migliori di biotina le verdure, la carne, i legumi e il lievito di birra.
Le indicazioni sul fabbisogno giornaliero variano a seconda degli autori; molte fonti indicano un
fabbisogno giornaliero variabile, a seconda dei casi, dai 20 ai 150 mcg (nei bambini si va dai 20
ai 30 mcg giornalieri). L’integrazione di biotina viene effettuata generalmente con lo scopo di
rinforzare unghie e capelli.
Come detto, la carenza di biotina è un evento estremamente raro; le sue manifestazioni principali
avvengono a carico della cute che tende a desquamarsi.

La vitamina B 9 (acido folico)


L’acido folico (anche vitamina B9, vitamina M, folacina o acido pteroilmonoglutammico) è una
vitamina idrosolubile appartenente al gruppo B; trattasi di un acido la cui complessa struttura
comprende nuclei benzenici ed eterociclici con azoto. L’acido folico deve essere assunto tramite
l’alimentazione e può essere prodotto dalla flora batterica intestinale.
La scoperta dell’acido folico può essere fatta risalire al 1931; in quell’anno Lucy Wills,
un’ematologa inglese, si trovava a Bombay (l’odierna Mumbai) per condurre delle ricerche sulle
cause dell’anemia macrocitica. Wills notò che questa patologia era di frequente riscontro in donne
indigenti in stato interessante e ciò indirizzo i suoi studi verso la ricerca di un deficit di uno o più
fattori di tipo nutrizionale; la Wills notò che somministrando Marmite (un estratto di lievito usato
in ambito gastronomico) era osservabile un netto miglioramento del quadro anemico; questo
utilizzo dell’estratto di lievito mostrò quindi un’importante attività terapeutica dell’acido folico
prima ancora che questo venisse scoperto; inizialmente la sostanza isolata dal lievito fu
denominata fattore Wills. Nel 1941, il fattore Wills fu denominato acido folico (dal latino folium,
foglia, perché i ricercatori Roger J. Williams e Herschel K. Mitchell lo isolarono dalle foglie
degli spinaci, vegetali particolarmente ricchi di questa sostanza). Due anni dopo fu descritta la
struttura molecolare dell’acido folico e Robert Angier e E. L. Robert Stokstad lo isolarono in
forma cristallina pura. Per moltissimo tempo l’acido folico sintetico è stato utilizzato in modo
quasi esclusivo in ambito ematologico. La stessa Wills, a partire dal 1945, sostituì l’estratto di
lievito con l’acido folico sintetico per curare l’anemia macrocitica.
L’acido folico è presente nel fegato, nella carne, nel lievito di birra e in molti alimenti vegetali
(asparagi, carciofi, verdure, arance e agrumi). La cottura degli alimenti ne riduce notevolmente il
contenuto (circa 80%).
Pur essendo stato scoperto quasi un secolo fa, il ruolo dell’acido folico non è stato ancora del
tutto chiarito. Si sa però che è una vitamina essenziale per la sintesi di DNA, RNA e di
aminoacidi. Come vitamina del gruppo B interviene nella formazione dei globuli rossi (fattore
antianemico) ed è importante per l’equilibrio del sistema nervoso. L’acido folico favorisce la
fertilità, aiuta sia prima sia durante la gravidanza ed è consigliato durante il periodo
dell’allattamento. È stata riconosciuta all’acido folico un’importanza fondamentale nella
prevenzione di alcune malformazioni neonatali, in particolar modo di quelle relative al tubo
neurale come, per esempio, anencefalia, encefalocele e spina bifida. È inoltre in grado di ridurre i
livelli di omocisteina, un aminoacido presente nel sangue e i cui alti livelli (iperomocisteinemia)
sono associati a un maggior rischio cardiovascolare. L’acido folico riveste anche una notevole
importanza per tutti quei tessuti che vanno incontro a processi di proliferazione e differenziazione
(per esempio, i tessuti embrionali). L’acido folico avrebbe infine effetti positivi nella prevenzione

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di difetti e malformazioni congenite come labioschisi e palatoschisi, dei tumori, dell’Alzheimer,
ma, come detto, il suo ruolo non è ancora stato completamente chiarito e sono necessarie ulteriori
conferme.
Secondo alcuni studi, una carenza di folati può essere strettamente connessa all’ipoacusia (perdita
di udito) tipica della terza età (circa un adulto su tre al di sopra dei 60 anni e la metà degli over
85).
La RDA (Recommended Daily Allowance, la dose giornaliera consigliata) dell’acido folico è di
circa 400 microgrammi, anche se i più recenti studi consigliano un’assunzione di 1 mg al giorno.
Se preso da solo, l’acido folico viene assorbito al 100% (da qui l’efficacia dei prodotti
d’integrazione alimentare); la percentuale scende all’85% se l’acido viene preso con gli alimenti
e al 50% se assunto come folati dai cibi. Anche se assunto in eccesso, l’acido folico non ha effetti
collaterali.
La standardizzazione dell’azione dell’acido folico passa attraverso la definizione del DFE
(dietary folate equivalent) dove 1 DFE = 1 microgrammo di folato alimentare = 0,5 microgrammi
di integratore (sintetico) assunto a stomaco vuoto.
Poiché una carenza relativa di acido folico nel sangue materno prima del concepimento e durante
le prime settimane di gravidanza aumenta le probabilità di avere un figlio con un difetto di
chiusura del tubo neurale, è consigliabile integrare l’alimentazione della donna con 0,5-0,8 mg al
giorno almeno tre mesi prima dell’inizio di una gravidanza e nei successivi tre mesi; con tale
integrazione, si riduce il rischio del 70%.
Molte fonti consigliano l’integrazione di acido folico non solo per le donne che decidono di dare
inizio a una gravidanza. Il consiglio prevalente è quello di effettuare un’integrazione, per lo meno
a cicli (tre all’anno), per il mantenimento generale della salute.

La vitamina B 12 (cianocobalamina)
Vitamina B12 è una dizione generica con la quale viene identificato un gruppo di sostanze affini
chimicamente e note come cobalamine (il termine deriva da cobalto, uno degli elementi contenuti
da queste sostanze); le principali cobalamine sono la metilcobalamina, l’idrossicobalamina e la
deossiadenosilcobalamina; la cianocobalamina è un’altra forma di cobalamina, scarsamente
presente nell’organismo, ma più stabile di altre ed è questa forma che viene utilizzata per
confezionare farmaci e integratori alimentari di vitamina B12.
La vitamina B12 è importantissima per la sintesi dell’emoglobina. La vitamina B12 infatti agisce in
combinazione con l’acido folico per una perfetta emopoiesi. La sua carenza è pertanto simile a
quella dell’acido folico e, quando è grave, produce anemia. Viene immagazzinata nel fegato dopo
essere stata assorbita nell’intestino ileo grazie a recettori sensibili a un complesso B12 che si
forma nello stomaco. Nel caso di anemia perniciosa il complesso non si forma, la vitamina non
viene assorbita e si genera lo stato anemico del soggetto. Anche particolari forme di gastrite
possono originare il problema.
Si deve però notare che occorrono circa 20 anni (non è un errore, è proprio 20, non 2!) perché si
generi uno stato patologico in un individuo sano che assume poca vitamina B12; infatti la vitamina
B12 è un coenzima e come tale in teoria partecipa alle reazioni senza essere distrutta. Questo
spiega perché molti soggetti che diventano vegani in età adulta sembrano non avere problemi.
Diverso è il caso in cui il soggetto non riesca ad assorbire quantità anche minimali per problemi
gastro-intestinali: bastano da sei mesi a pochi anni per evidenziare la carenza.

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La vitamina B12 è presente solo in alimenti di origine animale. Fonti preferenziali (>10 μg/100 g)
sono gli organi animali e i molluschi; è presente (1-10 μg/100 g) anche nel tuorlo d’uova, nella
carne e nel pollame, nel pesce, nei formaggi fermentati e nel latte in polvere (il latte e latticini
contengono meno di 1 mg/100 g). Contrariamente alla credenza comune e a quanto riportato da
fonti vegane, non esistono forme umanamente attive (cioè che l’organismo umano può utilizzare)
nelle alghe come nori o spirulina.
La vitamina B12 favorisce l’utilizzo degli alimenti a scopo energetico.
La supplementazione di vitamina B12 consente di curare alcune forme di malattie nervose legate a
una sua carenza ed è utilizzata per trattare l’anemia perniciosa.
La vitamina B12 è in grado di curare e prevenire i problemi indotti da un ridotto apporto e
assorbimento di questa vitamina. In combinazione con l’acido folico, la vitamina B12 è in grado di
abbassare i livelli ematici di omocisteina.
La RDA consigliata è di 6 μg, mentre formulazioni americane arrivano anche a 100 μg giornalieri.
In ogni caso un buon multivitaminico copre i fabbisogni della vitamina senza nessun problema.
Non appare giustificato quindi il ricorso a farmaci che apportino megadosi di vitamina B12
(possono necessitare di integrazione i vegani, chi abusa di alcol e/o sostanze stupefacenti, soggetti
affetti da patologie croniche debilitanti e i grandi ustionati). La vitamina B12 non è comunque
tossica anche in alte dosi.

La vitamina C (acido ascorbico)


È una delle vitamine più importanti perché il suo spettro d’azione è veramente ampio. Vediamo gli
effetti più importanti:

•• è attiva nella produzione di anticorpi e rafforza la funzione dei fagociti, aumentando la


resistenza dell’organismo;
•• è un ottimo antiossidante (combatte i radicali liberi);
•• entra nei processi di sintesi del collagene, dell’interferone, della carnitina, degli ormoni
surrenalici ecc.;
•• entra nei processi di produzione dell’energia;
•• previene l’accumulo di istamina (azione antiallergica);
•• favorisce l’assorbimento del ferro e di altri minerali (zinco, calcio, magnesio ecc.);
•• protegge dall’inquinamento e da molte sostanze tossiche (nicotina, benzoato ecc.).

Molto diffusa nel mondo vegetale (frutta e verdura sono gli alimenti da cui la assumiamo), nel
mondo animale è contenuta in fegato e reni; è solubile in acqua (in soluzione ha pH=2,4) e poco in
alcol. Viene distrutta rapidamente dalla luce, dall’esposizione all’aria e dal calore. Molti farmaci
ne riducono l’assorbimento (pillola contraccettiva, aspirina, sulfamidici, tetracicline), come pure
il fumo.
La carenza di vitamina C provoca lo scorbuto; se l’alimentazione è particolarmente povera di
vitamina C (o se esistono altre condizioni patologiche, come ipertiroidismo, patologie
infiammatorie, gravidanza, allattamento, interventi chirurgici), dopo un periodo di latenza, che
negli adulti può variare da tre a dodici mesi, compaiono i sintomi della malattia (piccole
emorragie, irritabilità, apatia, dimagrimento, dolori muscolari e articolari, difficoltà a rimarginare
le ferite). Ovviamente la cura si basa sulla somministrazione di vitamina C.

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Assorbimento
La vitamina C è assorbita a livello dell’intestino tenue mediante un processo di trasporto attivo
saturabile. Dire che il processo è saturabile significa che la percentuale di assorbimento scende al
crescere della dose. Fino a 30 mg è del 100%, da 30 a 180 mg scende al 70%. Circa il 50% di
una singola dose compresa fra 1 e 1,5 g viene assorbito a livello intestinale. Fino a 500 mg
l’assorbimento avviene per trasporto attivo, poi entrano in gioco meccanismi di diffusione.
Quindi (approssimativamente):

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Quantità assunta > Quantità assorbita
• 100 mg > 80 mg
• 200 mg > 150 mg
• 500 mg > 300 mg
• 1.000 mg > 550 mg
----------

Concentrazione plasmatica
La vitamina C non utilizzata dall’organismo viene espulsa velocemente per via renale. Questo
fatto porta molti ricercatori a ritenere che sia inutile una dose di vitamina C superiore alla RDA
europea consigliata (60 mg, una dose bassissima). In realtà non ha pregio il fatto che nel corpo
umano sia contenuta al massimo una quantità di vitamina C che va da 1,5 a 5 g. Infatti una
supplementazione giornaliera di 0,5/1 g rappresenta un terzo della dose contenuta nel corpo. Con
un’analogia, la quantità di carboidrati stoccata nel nostro corpo è di 500 g circa (glicogeno più
glucosio circolante), ma noi ne assumiamo giornalmente una quantità che è superiore a un terzo (a
meno di non seguire una dieta poverissima di carboidrati). Più interessante il fatto che rimarca
come la concentrazione plasmatica media di vitamina C sia di circa 0,5 mg/dl (circa 25 mg
circolanti); questo dato sembrerebbe rimarcare l’inutilità di superare dosi eccessive che
comunque sarebbero eliminate. Va notato che la dose circolante è un concetto puntuale nel tempo,
cioè in un dato istante. Quando la vitamina C viene ceduta ai tessuti il circolo è pronto a riceverne
altra. In ogni caso, decisiva è la ricerca (1995) del Consiglio superiore d’igiene pubblica di
Francia (sezione alimentazione e nutrizione): l’analisi degli studi in letteratura, mostra che la
concentrazione plasmatica della vitamina C aumenta nel 95% degli individui fino ad assunzioni
che vanno da 400 mg (per i meno sensibili all’incremento della quantità) a 1 g (per i più sensibili)
raddoppiandosi o triplicandosi rispetto alla situazione con assunzione normale (60 mg).
Quindi: fino a 0,5-1 g di vitamina C (la soglia dipende anche dall’attività fisica del soggetto) più
vitamina si assume più ne viene eliminata (fra l’altro, secondo alcuni il surplus di vitamina nella
vescica diminuirebbe il rischio di cancro con effetto analogo all’azione della vitamina
nell’esofago sui nitriti/nitrati), ma più aumenta la concentrazione plasmatica.

Il fabbisogno
A questo punto non resta che chiedersi se una maggiore concentrazione plasmatica di vitamina C
sia positiva: un numero enorme di ricerche rispondono di sì, contraddette da un numero

120
decisamente inferiore. Per esempio nel PDR (Physicians Desk Reference) Integratori
nutrizionali (attualmente il riassunto delle ricerche più aggiornate) si legge:

In soggetti adulti sani, è improbabile che dosi orali fino a 3 g/die di vitamina C causino effetti
collaterali. Gli effetti secondari più frequenti in soggetti che assumono dosi maggiori sono di
tipo gastrointestinale e comprendono nausea, crampi addominali, diarrea e flatulenza.

Dallo stesso testo:

in letteratura non sono riportati casi di sovradosaggio.

Inoltre:

in letteratura non si segnalano casi di scorbuto da sospensione di vitamina C.

La dose pertanto può essere di 0,5-1 g soprattutto per tutti coloro che hanno superato i 35 anni.
Tali dosi possono essere ottenute con i cibi oppure con integratori di alta qualità.

La vitamina D
Vitamina D è una dizione alquanto generica con la quale si indica un gruppo di 5 diverse vitamine
(vitamine D1, D2, D3, D4 e D5). Di queste cinque forme di vitamina D, sono due quelle che vengono
considerate più importanti: la vitamina D2 (anche ergocalciferolo) e la vitamina D3 (anche
colecalciferolo). La scoperta della struttura della vitamina D avvenne nel 1930 grazie a Adolf
Otto Reinhold Windaus, un chimico tedesco premio Nobel per la chimica nel 1928 per i suoi studi
sugli steroidi e sulle loro relazioni con le vitamine.
Le varie forme di vitamina D sono pro-ormoni, ovvero sostanze precursori degli ormoni; la
vitamina D fa parte, insieme alle vitamine A, E e K, del gruppo delle cosiddette vitamine
liposolubili (ovvero solubili nei grassi).
Nutrizionalmente parlando, la vitamina D2 e la vitamina D3 sono considerate del tutto equivalenti;
la sintesi della vitamina D2 avviene grazie all’esposizione alla luce ultravioletta di una sostanza
presente nelle piante e nei lieviti, l’ergosterolo. La sintesi della vitamina D3 avviene invece in
seguito all’esposizione alla luce ultravioletta del 7-deidrocolesterolo, un precursore del
colesterolo che viene sintetizzato a livello dell’epidermide e che è presente anche nel latte di
molti mammiferi.
Negli esseri umani la vitamina D può giungere attraverso dieta, esposizione alla luce solare e
integrazione alimentare. La vitamina D derivante dall’epidermide o dall’alimentazione è una
forma non attiva biologicamente; la sua trasformazione in forma biologicamente attiva
(calcitriolo) necessita di alcune trasformazioni metaboliche che consistono in due reazioni di
idrossilazione; la prima reazione avviene a livello epatico, la seconda a livello renale. I
principali organi bersaglio della vitamina D sono le ossa, i reni e l’intestino.
A livello osseo la funzione della vitamina D è quella di stimolare sia il riassorbimento di calcio
sia di stimolare la mineralizzazione della matrice. A livello renale la vitamina D agisce favorendo
l’escrezione dei fosfati e il riassorbimento del calcio. Nell’intestino, tramite la sintesi di
specifiche proteine, la vitamina D agisce stimolando l’assorbimento di calcio.
La concentrazione di vitamina D a livello plasmatico può essere influenzata da numerosi fattori; i

121
più importanti sono la stagione (nella stagione estiva si ha una produzione maggiore di vitamina D
che ne permette un accumulo per i periodi meno soleggiati), il tempo di esposizione alla luce
solare, la razza (i soggetti con la pelle scura, a parità di esposizione solare, raggiungono livelli
ematici inferiori di vitamina D), le quantità assorbite tramite il regime alimentare e/o tramite
un’eventuale integrazione (che può essere di tipo farmacologico dietro opportuna prescrizione
medica oppure semplicemente derivante da integratori vitaminici assunti volontariamente dal
soggetto).
I sottoindicati intervalli di riferimento definiscono i livelli di presenza di vitamina D a livello
plasmatico, in base a tali intervalli si definiscono livelli di deficienza, insufficienza, sufficienza e
tossicità:

•• deficienza: <10 ng/mL (0 - 25 nmol/L)


•• insufficienza: 10 - 30 ng/mL (25 - 75 nmol/L)
•• sufficienza: 30 - 100 ng/mL (75 - 250 nmol/L)
•• tossicità: >100 ng/mL (> 250 nmol/L).

La presenza di valori superiori alla norma è un evento abbastanza raro; è infatti alquanto
improbabile che si assumano quantità in eccesso di vitamina D con la dieta dal momento che gli
alimenti che la contengono in quantità apprezzabili non sono poi molto numerosi; non sono noti poi
casi di ipervitaminosi D provocati da un eccesso di esposizione alla luce solare. Sono invece
possibili casi di sovradosaggio o intossicazione dovuti o all’assunzione eccessiva di calciferolo
per scopi terapeutici oppure per abuso di integratori alimentari. Attualmente si considera che il
limite superiore giornaliero tollerabile di vitamina D per un adulto sia di 2.000 UI (anche se
alcune fonti si spingono fino a 4.000 UI).
Non sono molti gli alimenti che contengono notevoli quantità di vitamina D; fra essi ricordiamo
l’olio di fegato di merluzzo (10.000 UI per 100 g), l’ippoglosso (1.097), lo sgombro sotto sale
(1.006), la carpa (988), l’anguilla (932), il salmone affumicato (685), il pesce gatto (500) ecc.
Quantità decisamente inferiori si trovano nel tuorlo d’uovo (133) e nel latte (79).
Per quanto riguarda il fabbisogno di vitamina D, i livelli di assunzione cambiano a seconda delle
età e delle varie condizioni. In un adulto sano che non è costretto a rimanere all’interno
dell’abitazione, è sufficiente la normale esposizione alla luce solare e non vi è bisogno di
integrazioni dietetiche. Il corretto apporto in tali soggetti è considerato 10 ng/die.
Nei bambini di età compresa fra uno e tre anni, nel caso venga a mancare una sufficiente
esposizione alla luce solare, viene consigliato un apporto di vitamina D non inferiore a 10 ng/die.
La richiesta di vitamina D è più elevata nei bambini di età superiore ai 3 anni e negli adolescenti;
tale richiesta non necessita però di integrazione dietetica nel caso l’esposizione alla luce del sole
sia adeguata; in caso contrario viene consigliata un’assunzione tra i 10 e i 15 ng/die.
Le donne in stato di gravidanza o che allattano si trovano in una condizione di aumentato
fabbisogno e vi sono molti studi che hanno dimostrato che, per evitare una carenza, è opportuno un
apporto di 10 ng/die. Stesso apporto anche per le persone anziane, considerate soggetti a rischio
di carenza sia per motivi fisiologici (con l’invecchiamento diminuisce la capacità di sintesi
endogena) sia perché, generalmente, diminuisce il tempo di esposizione alla luce solare.

La vitamina E
La dizione vitamina E indica una famiglia di composti che ruotano intorno all’alfa-tocoferolo. La

122
famiglia può essere divisa in due gruppi: i tocoferoli e i tocotrienoli. In totale abbiamo otto forme,
quattro tocoferoli (alfa, beta, gamma e delta) e quattro tocotrienoli (alfa, beta, gamma e delta).
Non tutte le forme hanno la stessa attività biologica. Infatti nel plasma umano sembra sia presente
e attivo il solo alfa-tocoferolo; ciò dipende dal fatto che la proteina che trasporta la vitamina E
(alfa-TTP) riconosce selettivamente l’alfa-tocoferolo. Anche i sali di vitamina E devono infatti
essere convertiti in alfa-tocoferolo per essere attivi.
Questo spiega la necessità di usare le UI (unità internazionali) per esprimere l’attività biologica
della vitamina E. Le unità internazionali sono un’unità di misura che esprime la quantità di
vitamina attiva. La complicazione riguardante la vitamina E è dovuta al fatto che storicamente 1
UI=1 mg di vitamina E sintetica. Poi si scoprì che esistono diverse forme di vitamina E e che
ognuna di esse aveva un’attività diversa. Le equivalenze sono queste:

•• 1 mg di vitamina E sintetica (dl-alfa-tocoferolo) = 1 UI


•• 1 mg di vitamina E naturale (d-alfa-tocoferolo) = 1 alfa-TE o 1 TE (tocoferolo equivalente)
•• 1 UI = 0,67 TE
•• 1,49 UI = 1 TE
•• 1 mg di dl-alfa-tocoferolo = 1,1 UI
•• 1 mg di beta-tocoferolo = 0,4 TE
•• 1 mg di gamma-tocoferolo = 0,2 TE.

Se ci si riferisce al peso molecolare, l’attività biologica della vitamina E naturale è addirittura


doppia rispetto a quella sintetica. Per evitare la confusione è conveniente fare riferimento alle
sole UI. Infatti se si parla di mg non si può essere precisi a meno di non esprimere anche la fonte.
La vitamina E sintetica viene denominata dl-alfa-tocoferolo e contiene tutte le otto forme
steroisomere possibili (da non confondere con le otto forme di vitamina E di cui si è parlato
all’inizio del paragrafo) mentre nel plasma e nei tessuti umani ne sono presenti solo 5. Le altre tre
forme non vengono pertanto utilizzate.
La vitamina E naturale viene denominata d-alfa-tocoferolo. Le fonti più ricche sono gli oli
vegetali non raffinati (di germe di grano, di cartamo, di girasole, di semi di cotone ecc.) che
presentano la vitamina almeno nel 50% sotto forma di d-alfa-tocoferolo. L’olio di semi di soia e
di mais hanno un contenuto circa 10 volte superiore di gamma-tocoferolo rispetto a quello di alfa-
tocoferolo. Gli oli di palma, di riso e di cocco sono ricchi di tocotrienoli. Altre fonti sono le parti
grasse delle carni animali, i cerali integrali, le noci e molti tipi di frutta e verdura.
La vitamina E naturale degli integratori deriva principalmente dall’olio di soia non raffinato.
Poiché l’olio di soia contiene principalmente gammatocoferolo, la trasformazione in alfa-
tocoferolo è comunque sintetica tant’è che sarebbe corretto parlare di vitamina E di “provenienza
naturale”.
Fra i sali della vitamina E si usano principalmente l’alfa-tocoferil acetato (la forma solida
disperdibile in acqua è praticamente pura, mentre quella oleosa contiene solo il 40-50% del sale),
il d-alfa-tocoferolo succinato (vitamina E secca) e le due forme sintetiche dei sali. Nei prodotti
contenenti tocoferoli misti occorre sempre fare riferimento alla sola dose di d-alfa-tocoferolo.
La vitamina E è una vitamina liposolubile (solubile cioè nei grassi) che si trova principalmente
negli oli vegetali spremuti a freddo, in tutti i semi interi crudi, nelle noci e nella soia e in piccole
quantità nella carne, nelle uova, nel pollame, nel pesce. Originariamente fu ottenuta per la prima
volta dall’olio di germe di grano.
La vitamina E è un potente antiossidante, fondamentale nella lotta ai radicali liberi. Protegge la

123
vitamina A dalla scomposizione, la C e quelle del gruppo B dall’ossidazione e migliora la
trasportabilità dell’ossigeno da parte dei globuli rossi. È coinvolta anche nei processi energetici,
aumentando la resistenza del soggetto. Dal punto di vista cardiovascolare, è un leggero
vasodilatatore, svolge attività antitrombotica e rinforza le pareti dei capillari. Protegge
dall’ossidazione diversi ormoni e consente un corretto utilizzo da parte dell’organismo dell’acido
linoleico; consente una riduzione del fabbisogno di vitamina A. Stimolando la diuresi, migliora la
situazione di soggetti cardiopatici e/o ipertesi. Migliora infine la messa a fuoco della vista nelle
persone di mezza età. Da questo breve quadro si comprende come possa essere notevolmente
attiva nella difesa della salute e soprattutto nella prevenzione dell’invecchiamento.

L’assorbimento
Come le altre vitamine liposolubili, viene assorbita in presenza di sali biliari e grassi. Assimilata
nell’intestino è trasportata al fegato, dove viene immagazzinata; è anche depositata in altri organi
(tessuti grassi, nel cuore, nei muscoli, nei testicoli, nell’utero, nel sangue e nelle ghiandole
surrenali e pituitaria). In genere con la dieta se ne assumono 20 UI (1 UI=1 mg per la vitamina E
sintetica). È stato dimostrato che le forme naturali di vitamina E sono più efficaci di quelle
sintetiche, soprattutto come antiossidanti. Negli integratori le forme migliori sono sicuramente
quelle la cui denominazione inizia con d-alfa-tocoferol... Se ferro inorganico e vitamina E
vengono assunti insieme, diminuisce l’assorbimento di entrambi; è preferibile pertanto assumere il
ferro (a stomaco vuoto) 8-12 ore dopo la vitamina E o assumere forme di ferro compatibili come
il fumarato ferroso. Molte sostanze possono ridurne l’assorbimento (cloro dell’acqua potabile,
pillola contraccettiva, composti inorganici del ferro ecc.). La vitamina E viene distrutta dal calore
della cottura, dai raggi ultravioletti e dall’ambiente alcalino (come il bicarbonato di sodio). Gli
alimenti che contengono grandi quantità di vitamina C possono favorire l’assorbimento della E.

Dosaggio e tossicità
Un’assunzione corretta deve tener conto non del peso del soggetto, ma della quantità di grassi
polinsaturi della dieta, dell’esposizione all’inquinamento, dell’età. Attualmente molti studi
americani consigliano un’integrazione di 200-400 UI al giorno.
Dosi inferiori alle 800 UI non danno generalmente problemi; dosaggi più alti (superiori a 3.000
UI) possono provocare un aumento della pressione sanguigna. È decisamente sconsigliata per i
pazienti affetti da reumatismo cardiaco cronico. Particolare attenzione deve essere posta da coloro
che assumono anticoagulanti.

Patologie e vitamina E
La vitamina E si è rivelata molto utile nelle seguenti patologie o situazioni:

•• malattie gastrointestinali
•• morbo di Parkinson (il medicinale Deprenyl associato alla vitamina E può diminuirne i sintomi)
•• convulsioni nei bambini epilettici
•• rafforzamento del sistema immunitario
•• prevenzione delle malattie cardiache

124
•• angina pectoris
•• gestione del colesterolo (500 UI al giorno aumentano il colesterolo HDL)
•• malattia reumatica
•• crampi notturni, spasmi muscolari associati a claudicatio intermittente
•• prevenzione del tumore al polmone (la probabilità di ammalarsi è due volte e mezzo minore)
•• sindrome premestruale
•• radioterapia e chemioterapia
•• distrofia muscolare
•• sclerosi multipla
•• trattamento delle vene varicose
•• malattia di Crohn
•• diabete
•• limitazione dei danni del fumo di sigaretta
•• cefalee.

Moltissime altre ricerche sono condotte sull’impiego della vitamina E, rendendola una delle
sostanze più interessanti nella gestione delle patologie.
Non ci sono invece prove scientifiche della funzione della vitamina E sia come cicatrizzante sia
come fattore attivo nella sfera sessuale.
Provate un semplice test d’invecchiamento: a temperatura standard (20 °C) pizzicatevi il dorso
della mano sollevando la pelle per circa cinque secondi, poi rilasciatela: il tempo che impiega per
tornare completamente nella posizione originaria fornisce la vostra età biologica; se ci impiega
cinque secondi avete un’età biologica di 50 anni. Provate a rifare il test dopo un mese di
assunzione di vitamina E (da 200 a 400 UI a seconda dell’alimentazione): sorprendentemente il
tempo sarà minore, la pelle, più liscia ed elastica, reagisce meglio. Pensate a cosa può accadere
dentro di voi.

La vitamina K
Vitamina K è una terminologia alquanto generica con la quale si indicano diversi composti
liposolubili che vengono raggruppati sotto il nome di naftochinoni.
Esistono tre tipi di vitamina K. La vitamina K1 (anche fitonadione o fillochinone), la vitamina K2
(vari composti noti come menachinoni) e la vitamina K3 (menadione). Il derivato bisolfitico della
vitamina K3 è idrosolubile.
La scoperta della vitamina K risale al 1939, è opera di uno scienziato danese, Carl Peter Henrik
Dam (1895-1976) ed è legata agli studi che lo stesso scienziato aveva compiuto su una sindrome
emorragica che era causata dalla deficienza di un fattore vitaminico ancora sconosciuto, tale
fattore venne denominato fattore K (iniziale del termine koagulation). Nel 1935 Dam stava infatti
studiando una patologia emorragica presente nei pulcini che venivano alimentati con lievito e
cereali. Dam notò che tale patologia tendeva a regredire per poi successivamente sparire quando
la dieta veniva variata con l’aggiunta di foglie verdi. La vitamina K1 fu isolata nel 1939 dallo
stesso scienziato danese in collaborazione con Edward A. Doisy, nello stesso anno fu isolata
anche la vitamina K2 a opera di McKee. Per la loro opera sulla vitamina K, nel 1943 Dam e Doisy
sono stati congiuntamente insigniti del premio Nobel. Le forme sintetiche delle vitamine K1 e K2
sono state ottenute rispettivamente nel 1964 e nel 1958.

125
La vitamina K è una sostanza stabile all’aria, agli acidi e all’acqua, ma viene degradata dalla luce,
dalle basi e da agenti riducenti; è una sostanza essenziale per un corretto processo di coagulazione
del sangue. La vitamina K ha infatti il compito di controllare la sintesi epatica del fattore di
coagulazione II (la protrombina), del fattore di coagulazione VII (la proconvertina), del fattore di
coagulazione IX (il fattore Christmas) e del fattore di coagulazione X (il fattore Stuart). Vi sono
poi altri fattori della coagulazione che dipendono dalla vitamina K ovvero le proteine C, S e Z; le
prime due sono proteine anticoagulanti.
La carenza di vitamina K o i disturbi della funzionalità del fegato (per esempio una grave
insufficienza epatica) possono portare a deficienze relative ai fattori di coagulazione e al rischio
di sanguinamenti.
Attualmente si ritiene come adeguato un apporto di vitamina K giornaliero di circa 1 µg per kg di
peso corporeo. Tale apporto, in soggetti sani, è sicuramente garantito da una dieta varia ed
equilibrata.
Fra le fonti migliori di vitamina K si ricordano i vegetali a foglie verdi come i broccoli, il cavolo,
i cavolini di Bruxelles, le cime di rapa, la lattuga, gli spinaci ecc. Discrete quantità di vitamina K
sono inoltre contenute nella salvia fresca, nel prezzemolo, nel timo e nella maggiorana essiccati.
Minori quantità si trovano poi nella soia e nei piselli, nelle uova, nel fegato di maiale e in quello
di manzo.
L’integrazione di vitamina K andrebbe fatta soltanto dietro prescrizione medica in quanto tale
sostanza può avere diverse controindicazioni.

126
Capitolo 7 - Il sovrappeso
Questo è forse il capitolo più importante di tutto il testo. In esso vengono trattati tutti quei concetti
che devono essere necessariamente capiti per una gestione autonoma della propria alimentazione.
Si imparerà che:

•• è più importante la percentuale di grasso corporeo che il peso in sé


•• tre sono le cause del sovrappeso
•• l’attività fisica è necessaria
•• i dimagranti hanno un’efficacia molto limitata.

Cos’è il grasso
Gli adipociti? Chi sono costoro? Sono i responsabili del sovrappeso e del l’obesità. Quando
osserviamo una persona in sovrappeso siamo naturalmente portati a parlare di grasso in eccesso;
se vogliamo essere più forbiti, parliamo di tessuto adiposo e delle sue varie implicazioni sulla
salute. I puristi sono poi portati a utilizzare la terminologia organo adiposo; infatti, il grasso è
formato da due tipi di cellule differenti (il termine tessuto indica strutture che hanno solamente un
tipo di cellula) anche se simili. Le cellule del volgarmente detto grasso sono gli adipociti. La
massa grassa è cioè rappresentata dal grasso contenuto negli adipociti. Fin qui tutto chiaro, ma il
fenomeno del sovrappeso come si lega con queste cellule? Per ingrassare non ci sono che due
possibilità:

•• un aumento del numero degli adipociti (iperplasia);


•• un aumento del loro volume, cioè un aumento del loro contenuto di grasso (ipertrofia).

Non è facile legare i due processi alla vita del soggetto perché in teoria potrebbero intrecciarsi e
avere diversa importanza in momenti diversi. Con una biopsia del tessuto adiposo è però
possibile isolare i singoli adipociti, contare il loro numero e determinare la loro massa.
Conoscendo la massa grassa totale è possibile anche risalire al numero totale di adipociti.
Per esempio, in un soggetto di mezza età già fisicamente attivo, dopo sei mesi di allenamento per
la maratona il volume degli adipociti era diminuito del 18,2% circa. Quindi

l’esercizio fisico e il conseguente dimagrimento svuotano gli adipociti.

Più interessante invece calcolare il numero degli adipociti negli obesi (Hirsch e Knittle):

negli obesi il numero degli adipociti è circa tre volte superiore rispetto a quello nei soggetti
normalmente in sovrappeso.

Questo spiega perché l’obesità è una malattia mentre il sovrappeso non lo è. Nel soggetto
sovrappeso gli adipociti si riempiono di grasso, ma non è penalizzato rispetto a un normopeso
perché basta svuotare gli adipociti. Nell’obeso questa operazione è più difficile perché gli
adipociti sono in maggior numero, rivelando una propensione del corpo all’accumulo di grasso.
Però si deve rilevare che, ai fini del dimagrimento, il numero di adipociti non può essere
considerato un alibi; infatti:

127
il dimagrimento sia nell’obeso sia nel sovrappeso avviene svuotando gli adipociti.

Il peso di un adipocita molto grosso (obeso) può ridursi fino a 5 volte. Il che significa che se
l’obeso perde 45 kg, il peso delle cellule adipose vuote restanti è di soli 8-10 kg (Hirsch). In un
soggetto sovrappeso poiché il numero degli adipociti è un terzo, si può calcolare che al più il peso
degli adipociti vuoti (in cui la percentuale di acqua è notevolmente aumentata rispetto alla
condizione di obesità) è di 3 kg (soggetto di 75 kg). Ricordiamoci questo dato che ci servirà più
avanti.

Il numero degli adipociti


Gli adipociti si formano rapidamente nel corso del primo anno di vita (un triplo rispetto alla
nascita), poi aumentano linearmente fino ai 10 anni. Nella fase dell’adolescenza il numero degli
adipociti aumenta ancora leggermente, poi resta stabile. Da questa descrizione si conclude che:

•• gli adipociti praticamente non muoiono mai;


•• non esiste un’obesità da adulti; l’obeso diventa tale da bambino. Un soggetto normale che ha un
aumento notevole di peso è sempre un soggetto in sovrappeso;
•• il sovrappeso può essere favorito da una scorretta alimentazione infantile; senza che ci siano gli
estremi dell’obesità (numero di adipociti triplo) il numero di adipociti può essere leggermente
superiore in bambini ipernutriti e scarsamente attivi (aumento del 70% circa).

Fondiamo questi dati con il dato che in un soggetto adulto non obeso il peso massimo delle cellule
adipose vuote è di circa 3 kg. Poiché al massimo ha un numero di adipociti che è il 70% in più
rispetto a quello di un normopeso (supposto che sia stato in sovrappeso fin da piccolo), si può
supporre che a causa di un sovrappeso infantile (non obesità) un soggetto di 75 kg ha un peso in
eccesso dovuto agli adipociti vuoti al massimo di 1,75 kg circa.
Ciò si verifica per bambini decisamente in sovrappeso che da adulti si sono messi a regime e sono
dimagriti fino al normopeso. Invece se nell’adolescenza si aveva un peso normale, non esiste un
surplus di peso da adipociti vuoti.

La misurazione del grasso corporeo


Il nostro corpo è costituito da:

•• ossa e organi interni


•• muscoli
•• riserve di carboidrati (glicogeno)
•• grasso
•• acqua.

L’obiettivo di una buona alimentazione è innanzitutto evitare il sovrappeso. Tale termine è però
fuorviante perché si riferisce a una visione troppo approssimativa. Infatti esiste solo una vaga
relazione fra il peso del soggetto e la quantità di grasso del suo corpo. Pensiamo a un sedentario
con 20 kg di sovrappeso localizzati nella pancia e a un atleta tutto muscoli: hanno lo stesso peso,

128
ma il primo è in condizioni salutisticamente disastrose. Basta questo esempio per capire come il
peso non possa bastare per definire il sovrappeso di un individuo.
Un metodo ormai superato di misurare la massa grassa del soggetto è quello di partire da alcuni
dati ossei (polso, cosce, vita ecc.), metterli in relazione con sesso e altezza, estrapolare un dato
ottimale di peso e quindi stabilire l’eventuale sovrappeso. Il metodo è quanto mai approssimativo
perché è ormai stato ampiamente dimostrato che i concetti di “costituzione robusta”, “ossa
pesanti” ecc. non sono scientifici.
Attualmente la misurazione della massa grassa può avvenire con finalità scientifiche usando
diversi metodi, alcuni dei quali anche molto precisi. Prima di entrare nel merito dei metodi è
necessario precisare che il concetto di percentuale di massa grassa non sempre è ben definito. A
creare confusione concorre il fatto che non sempre è chiara la differenza fra grasso totale, grasso
di scorta e grasso essenziale. Infatti il grasso totale è dato dalla somma di quello di scorta (in
teoria superfluo, anche se una minima quantità è comunque consigliabile) e di quello essenziale (il
3-4% per l’uomo e il 10-11% per la donna, il grasso necessario al metabolismo, quello di cui non
si può fare a meno). Su alcuni testi si legge di maratoneti (atleti che hanno un bassissimo valore di
massa grassa) con lo 0,5% di grasso: evidentemente si intende grasso di scorta; mentre su altri
testi si legge di maratoneti con un 6% di grasso; evidentemente s’intende grasso totale. Alcuni
metodi di misurazione (per esempio plicometria computerizzata) danno grande enfasi al grasso di
scorta (cioè lo presentano come unico risultato), salvo poi scoprire in un angolo dello stampato la
percentuale di quello essenziale. Così capita che un lettore dei dati si veda attribuire il 7% di
grasso corporeo (quando in realtà è l’11%, se si tiene conto del 4% scritto in piccolo nell’elenco
dei risultati secondari) e suppone che la sua situazione sia migliore di quella dell’amico che con
un altro metodo ha ottenuto il 9,5% (di grasso però totale). Analizziamo alcuni metodi complessi.
DEXA (Dual Energy X-ray Absorptiometry) – È il metodo considerato migliore perché è
affidabile, preciso, ripetibile e si basa su tre componenti (muscolo, grasso, osso) anziché due
(muscolo, grasso). È però di difficile attuazione per il costo dell’apparecchiatura e per la
difficoltà d’esecuzione: il soggetto deve stare assolutamente fermo per 10-20 minuti mentre
avviene la scansione di tutto il corpo.
Pesata idrostatica – Se effettuato correttamente, anche questo metodo (che però non considera la
parte ossea) può essere molto attendibile. Il problema consiste nel fatto che il soggetto deve
essere in grado di espellere tutta l’aria dai polmoni quando è immerso nell’acqua. Anche in questo
caso l’apparecchiatura è costosa e il metodo viene utilizzato a soli fini di ricerca.
NIR (Near Infra-Red) – Utilizza una sonda a fibra ottica. Il metodo è poco costoso, facile,
veloce, anche se non ancora sufficientemente preciso.

La plicometria
Esistono molte metodiche per la misurazione della massa corporea, ma la maggioranza di esse
richiede l’utilizzo di apparecchiature complesse, costose e di scarsa praticità. La plicometria è un
sistema di misurazione semplice che, grazie a uno strumento denominato plicometro, permette di
ottenere indicazioni sulla massa corporea di un soggetto in termini di massa grassa e massa magra.
In sostanza il vantaggio sostanziale della plicometria, rispetto ad altre metodiche, è rappresentato
dal buon rapporto esistente fra la veridicità del risultato (soprattutto nei soggetti giovani) e il
costo e la semplicità nell’uso.
Il plicometro è costituito sostanzialmente da una pinza che aderisce alle pliche sottocutanee e da
una ghiera graduata che serve a misurare la distanza fra le punte. È molto importante che lo

129
strumento sia tarato affinché venga esercitata una pressione costante di 10 g/mm2; una pressione
diversa può introdurre errori nel rilevamento. La misurazione avviene prendendo tra indice e
pollice la plica sottocutanea (facendo in modo di escludere i muscoli sottostanti) e applicando il
plicometro; la misura deve essere letta molto velocemente (possibilmente entro tre secondi) per
far sì che non vi sia una compressione eccessiva del tessuto. A seconda delle metodiche scelte si
userà un numero diverso di pliche. Esistono vari tipi di plicometro, quelli più usati sono
l’Harpenden, l’Holtain, il Lange e il Tanner-Whitehouse.
Le misurazioni vengono effettuate utilizzando diversi tipi di equazioni. I metodi più noti sono
quelli che utilizzano le equazioni di Jackson-Pollock, Durnin-Womersley e Katch-McArdle.
La metodica di Jackson e Pollock può essere utilizzata con due diversi tipi di equazione, una con 7
punti di rilevamento (i cosiddetti punti di repere) e una con 3. L’equazione che prende in
considerazione i 7 punti di rilevamento viene generalmente utilizzata nella valutazione della
composizione corporea della popolazione in generale; l’equazione che invece utilizza solo tre
punti di rilevamento (che sono diversi a seconda del sesso del soggetto) viene usata per la
valutazione della composizione corporea di soggetti sportivi.
Misurazione con 7 punti di repere (uomo e donna):

•• ascellare media
•• addominale
•• coscia anteriore
•• pettorale
•• sottoscapolare
•• sovrailiaca
•• tricipitale.

Misurazione con 3 punti di repere (uomo)

•• addominale
•• coscia anteriore
•• pettorale.
Misurazione con 3 punti di repere (donna)

•• coscia anteriore
•• sovrailiaca
•• tricipitale.

Il metodo Durnin-Womersley utilizza 4 pliche:

•• bicipitale
•• sottoscapolare
•• sovrailiaca
•• tricipitale.

Il metodo Katch-McArdle utilizza soltanto due pliche:

•• sottoscapolare
•• tricipitale.

130
Durante le fasi della rilevazione della massa corporea è possibile commettere un certo numero di
errori, errori che, sinteticamente, possiamo far risalire a:

•• abilità tecnica dell’operatore (un posizionamento errato del plicometro introduce errori)
•• strumentazione (esistono strumenti più precisi di altri, è importante inoltre usare sempre lo
stesso tipo di plicometro in misurazioni diverse sullo stesso soggetto)
•• fattori soggettivi (livello di idratazione, spessore cutaneo, comprimibilità del tessuto adiposo
ecc.)
•• tipo di equazione usata (c’è un eccesso di generalizzazione).

La plicometria è sconsigliata per i sovrappeso over 40; il motivo è che la percentuale di grasso
viscerale di tali soggetti non è trascurabile; tale grasso non è misurabile con il plicometro. Per
questa categoria di soggetti è necessario ricorrere a metodi bioimpendenziometrici.
Nonostante un certo margine di errore sia inevitabile e che sia utilizzabile soprattutto in individui
giovani, la plicometria è pur sempre una metodica che presenta una certa affidabilità, soprattutto
nella misurazione delle variazioni del rapporto esistente fra massa grassa e massa magra di uno
stesso soggetto. Inoltre, come accennato all’inizio, la semplicità di esecuzione e i costi contenuti
la fanno preferire ad altre metodiche, magari molto più precise, ma allo stesso tempo complesse e
onerose economicamente.

La bioimpedenziometria
La bioimpedenziometria è una tecnica per lo studio della composizione del corpo umano nata
dagli studi sull’impedenza del corpo umano (d’Arsonval, 1893, Hober, 1913, Philippson, 1920).
Già negli anni ’70 si scoprì che l’impedenza misurata a basse frequenze stima soprattutto l’acqua
extracellulare (ECW, in inglese, extracellular water), mentre le misure ad alta frequenza sono
predittive dell’acqua totale (TBW; total body water).
Lo sviluppo della bioimpedenziometria è stato reso possibile (a partire dagli anni ’80) dalla
comparsa sul mercato di strumentazione portatile, funzionante con corrente alternata a 50 kHz.
Quando una corrente elettrica è applicata a un cilindro riempito con una soluzione salina, il fluido
si oppone al passaggio della corrente quanto più alta è la sua resistenza elettrica (R, espressa in
ohm, Ω). La resistenza è direttamente proporzionale alla lunghezza L e inversamente al diametro
D. Se si sostituisce una parte del fluido con grasso (che è un conduttore scadente), la resistenza
aumenta. Se consideriamo il corpo umano come una serie di cilindri uniti tra di loro (braccia,
tronco, gambe), la resistenza misurata considerando l’intero corpo rifletterà la sua composizione.
In realtà, se si applica una corrente alternata il conduttore si oppone al passaggio della corrente a
seconda della sua impedenza (Z, in Ω). L’impedenza ha una parte resistiva (la resistenza R, in
regime di corrente continua R e Z coincidono) e una parte legata ai fenomeni energetici di
accumulo (la reattanza, X). Matematicamente, ciò si esprime dicendo che l’impedenza è un numero
immaginario, la cui parte reale è la resistenza e la parte immaginaria è la reattanza: Z=R+jX (j è
l’unità immaginaria).
Nel corpo umano sano la resistenza contribuisce per ben il 98% all’impedenza (Lukaski, 1985); la
reattanza (2%) è legata alla presenza di elementi capacitivi nel corpo, simili ai condensatori
elettrici.
Senza entrare in noiose spiegazioni matematiche, basti sapere che il rapporto fra X ed R è detto

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fattore Q e la sua tangente è detta angolo di fase. Praticamente l’angolo di fase indica quanto più
il corpo differisce da una resistenza pura (Brazier, 1935).
Nella tecnica di misura classica in genere si usano quattro elettrodi cutanei, una coppia sul dorso
della mano e una coppia sul dorso del piede. Il soggetto è supino, non a contatto con superfici
metalliche. A seconda della strumentazione, le gambe sono divaricate di un angolo che va da 0 a
45° e gli arti superiori sono abdotti (allontanati dal tronco) di un angolo da 0 a 30°. In genere si
usa una corrente alternata a 50 kHz di debole intensità (400 microampere), del tutto innocua.
Una prima difficoltà è rappresentata dalla forma del corpo. La tecnica indicata è universalmente
utilizzata per la grande comodità della misura. Scheltinga et al. hanno dimostrato, prima sui cani
(1991) e poi sull’uomo (1992), che con elettrodi prossimali (cioè posti all’inizio degli arti)
anziché distali (alla fine) è più facile riconoscere variazioni dei fluidi corporei, cioè, in altri
termini, la misura è più precisa. Ciò è dovuto al fatto che gli arti, avendo un diametro molto più
piccolo del tronco, contribuiscono in maniera maggiore all’impedenza (per esempio la resistenza
dell’intero corpo passa da 500 Ω a 220 Ω se misurata con elettrodi prossimali). È quindi
abbastanza evidente che una localizzazione del grasso nel tronco viene “attenuata” da braccia e
gambe troppo snelle. Risultano pertanto poco sensate le correzioni che gli algoritmi dei
bioimpedenziometri apportano, semplicemente presupponendo una localizzazione del grasso nelle
sedi più tipiche (addome-uomo, fianchi-donna) in base a sesso ed età. Per eliminare del tutto ogni
imprecisione sarebbe necessario considerare nella misura anche la forma del corpo esaminato.
Questa prima difficoltà esclude da ogni discorso seriamente scientifico quei bioimpedenziometri
(comuni in molte farmacie) che misurano l’impedenza da braccio a braccio.
Ricerche distinte di Elsen e di Schell hanno mostrato che lo spostamento di un cm di un elettrodo
può causare in alcuni casi un errore del 10%. I manuali che accompagnano la strumentazione sono
molto chiari sul posizionamento, ma l’operatore che non conosca i termini del problema può
facilmente ottenere dati approssimativi.
La temperatura ambientale deve essere confortevole.
Per gli strumenti che utilizzano la posizione supina, l’angolazione degli arti rispetto al tronco è
fondamentale e anche in questo caso l’operatore deve conoscere il valore giusto dell’angolo
arti/tronco.
Il soggetto non deve mangiare o bere diverse ore prima del test (Heyward consiglia addirittura 4
ore), non deve fare esercizio fisico nelle 12 ore prima del test, assumere farmaci o integratori nei
giorni precedenti il test, non deve urinare 30’ prima del test (questo consiglio non sembra del tutto
sensato), né assumere alcolici. Non a caso spesso si consiglia di effettuare la misura al risveglio
mattutino.
La bioimpedenziometria consente di ottenere l’acqua totale (TBW); da essa per un adulto sano, in
modo un po’ semplicistico si potrebbe determinare la massa magra supponendo che questa sia il
73% dell’acqua totale. Il dato è ovviamente una media e già questa ipotesi introduce sul singolo
un potenziale errore.
Teoricamente, se l’idratazione cambia, cambia la conducibilità del corpo umano. In particolare a
una minore idratazione corrisponde una maggiore reattanza. Ben si comprende come una misura di
un soggetto pensando che sia normoidratato mentre non lo è e l’applicazione di semplici formule
standard porti a risultati errati. In particolare, l’idratazione può essere alterata per

•• sudorazione eccessiva
•• ritenzione idrica (eccessiva ingestione di liquidi, farmaci, integratori ecc.)
•• posizione del soggetto (per effetto della forza di gravità se il soggetto è in piedi la sua

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idratazione non è la stessa di quando è supino).
•• variazione nell’emocromo (cioè nella fluidità del sangue; Scheltinga, 1991).

Il terzo punto è facilmente gestibile dall’algoritmo, conoscendo la posizione del soggetto, mentre
gli altri non sono gestibili “al buio” cioè senza un’anamnesi.
Da quanto detto risulta abbastanza evidente che ipotesi troppo rigide (idratazione ottimale, massa
magra=73% di TBW) non possono che dare risultati apprezzabili in un numero limitato di soggetti.
Se poi si aggiunge il problema della forma, ben si comprende che con uno strumento
bioimpedenziometrico tradizionale non si possa che stimare la massa grassa con
un’approssimazione che, secondo le ricerche più precise (Kushner, 1986, Lukaski, 1986,
Stolarczyk, 1994), è attorno al 5%. Se il soggetto collabora e si mette in condizioni ideali, l’errore
può essere dell’1 o 2% del peso globale. Va da sé che se il soggetto non è sano, i dati non sono
significativi.
L’idea è quella di inserire anche la reattanza e il suo significato fisiologico, non solo per avere
dati più precisi su idratazione, massa magra e massa grassa, ma, possibilmente, anche altri.
Un dato importante è l’acqua extracellulare. L’ECW infatti aumenta (o diminuisce)
significativamente in condizioni patologiche, cosicché in campo medico si è data molta importanza
alla sua misura sia con metodi impedenziometrici a multifrequenza o a frequenza singola sia con
metodi fisico-chimici.
Nei soggetti patologici, a un aumento dell’ECW corrisponde una diminuzione della reattanza.
Risulta evidente che se la strumentazione riesce a misurare le due componenti R e X, anziché un
solo valore di impedenza Z, è possibile avere maggiori informazioni. Purtroppo anche tale
strumentazione non può che confrontarsi con l’intervallo di riferimento della popolazione normale
e con condizioni di normoidratazione. Un po’ grossolanamente, si può dire che nel termine
normale è riassunta una serie di ipotesi che non necessariamente sono verificate per tutti gli
individui sani.
I singoli produttori di strumentazione bioimpedenziometrica hanno poi definito altre grandezze,
attribuendo loro significati troppo “ottimistici” e attualmente la bioimpedenziometria per un
soggetto sano può essere usata per due scopi fondamentali:

•• assoluto – Si vogliono determinare i valori esatti di massa magra, grassa, TBW ed ECW; per
farlo è necessario personalizzare le misure, tenendo conto di tutti i fattori descritti sopra e
conoscendo perfettamente lo strumento che si usa. Probabilmente senza l’intervento di un addetto
ai lavori, il compito si prospetta improbo.
•• Relativo – Si vogliono monitorare le variazioni delle precedenti grandezze; in questo caso un
ottimo strumento bioimpedenziometrico può essere applicato abbastanza al buio, con l’unica
avvertenza di effettuare le misure sempre nelle stesse condizioni.

Esempio – Con lo strumento X di buona qualità Tizio rileva una massa grassa del 19%.
Probabilmente quella reale potrebbe essere del 16% come del 22 o 24%. Occorre personalizzare
il valore istantaneo offerto dallo strumento con le considerazioni sul corpo di Tizio, le modalità
della misura ecc.
Tizio però tiene per buono il 19%. A lui può interessare ridurla. Se si misura sempre nelle stesse
condizioni, quando rileverà un valore del 17% potrà essere soddisfatto perché la sua massa grassa
(qualunque sia il valore reale) è scesa del 2%.

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La bilancia impedenziometrica
Chi vuole usare tecniche impedenziometriche senza ricorrere a comunque imprecisi strumenti
complessi e costosi può servirsi di una buona bilancia impedenziometrica, cioè di una normale
bilancia con due elettrodi sul piatto che permettono di condurre un debole segnale elettrico lungo
il corpo: si tratta cioè di una variante della bioimpedenza convenzionale. Valori ideali per gli
uomini sono 7-12% e per le donne 13%-20%. La bilancia impedenziometrica misura il grasso
totale.
Gli errori della bilancia impedenziometrica – Essendo un metodo semplice e in rapida
diffusione, discuteremo brevemente le maggiori fonti di errore. L’errore è implicito nell’algoritmo
che tenta (in modo molto complesso) di calcolare la percentuale di grasso rispetto al peso usando
fra le variabili fornite anche il peso stesso (matematicamente si parla di riferimento circolare).
Risulta evidente che ogni condizione che altera il peso del soggetto senza toccare il grasso
provoca errore.
L’algoritmo - Qualunque bilancia utilizza una descrizione del corpo umano che necessariamente è
una media sulla popolazione. Già questo concetto indica che per il singolo individuo vi sarà un
errore che è tanto maggiore quanto più grande è lo scostamento dal modello previsto
dell’organismo che si va a misurare (rimanendo pur sempre nell’insieme dei soggetti sani).
Inoltre spesso vi è un errore dovuto a un riferimento circolare: l’algoritmo tenta di calcolare la
percentuale di grasso rispetto al peso usando fra le variabili fornite anche il peso stesso. Risulta
evidente che ogni condizione che altera il peso del soggetto senza toccare il grasso provoca
errore. L’esempio più semplice è quello di chi si pesa parzialmente vestito. Di solito le bilance
impedenziometriche sono dotate di un tasto solo peso che serve per pesate veloci dove si sa già
che la misurazione del grasso non può essere precisa.
L’errore più grave che ogni modello porta con sé è quello relativo alla forma del corpo. Poiché la
forma del corpo è importante, è ovvio che, se il soggetto è muscoloso, la corrente incontrerà
comunque una resistenza maggiore e si rischia di scambiare i muscoli per grasso. È per questo che
le bilance più professionali hanno la funzione Atleta per tutti coloro che, a seguito di un’attività
sportiva molto intensa, hanno masse muscolari decisamente più sviluppate. Non fatevi però
fuorviare da poche ore di sport: affinché le masse muscolari cambino decisamente rispetto alla
situazione dello stesso soggetto sedentario occorre un allenamento intenso e continuo. Anche molti
sedentari hanno geneticamente masse muscolari non trascurabili che diminuiscono solo con l’età
(dopo i 30 anni). In genere per la bilancia l’atleta è un soggetto che:

•• allena tutta la muscolatura;


•• ha una frequenza cardiaca a riposo inferiore ai 60 battiti al minuto;
•• si allena per almeno 8-10 ore alla settimana.

La prima condizione è quella più vincolante (è infatti comune trovare amatori che si allenano per
8 ore alla settimana e hanno bassi valori di frequenza cardiaca). Infatti in molti sport le masse
muscolari non sono sollecitate in egual misura (corsa, calcio, ciclismo ecc.); solo in pochi
(canottaggio, nuoto, pugilato ecc.) lo sono veramente.
L’idratazione - Le condizioni secondarie di errore (come la callosità dei piedi, il fatto che il
soggetto espiri o inspiri durante la misurazione, l’assunzione di particolari sostanze) sono
singolarmente di poco conto, ma, se fossero tutte in fase, cioè in un’unica direzione, potrebbero
diventare importanti. L’idratazione è però sicuramente la più importante causa d’errore.

134
L’organismo umano è formato per il 65% da acqua. L’acqua viene persa con:

•• le urine (1-1,5 l)
•• il sudore (da 0,5 l a diversi litri)
•• la perspiratio insensibilis (l’evaporazione verso l’esterno, 0,35 l)
•• l’espirazione (solo negli atleti, in caso di iperventilazione)
•• le feci (0,2 l).

Se il corpo è disidratato o superidratato, la sua resistenza cambia e inganna la bilancia. Ecco


perché condizioni come un allenamento, un pasto molto abbondante (con conseguente aumento dei
liquidi introdotti per la digestione del cibo, liquidi che poi in parte saranno espulsi con le urine),
una doccia o un bagno caldo, una giornata molto calda con conseguente abbondante sudorazione
ecc. alterano i dati.
Altre condizioni di minore importanza sono una netta diminuzione delle scorte di glicogeno (il
glicogeno lega molta acqua) e lo svuotamento intestinale (dopo un’abbuffata l’intestino risulta
pieno, ma si tratta di un peso transitorio e conviene attendere almeno una giornata prima di
ricavare dati attendibili sul reale aumento di peso dovuto all’eccesso alimentare). L’errore dovuto
a una cattiva idratazione arriva fino al 20% relativo, cioè un soggetto con il 18% di grasso
potrebbe vedersi attribuire un 15%.
Il percorso - Si potrebbe pensare di risolvere il problema della muscolazione asimmetrica
utilizzando un posizionamento diverso degli elettrodi.
Come si vede nell’immagine, il percorso attraversa quasi tutto il corpo, ma non tutto.

Misura la percentuale di grasso soprattutto del distretto inferiore; ciò significa che dà per scontato
che la massa muscolare sia uniformemente distribuita. Se un soggetto ha le braccia rachitiche e le
gambe molto muscolose, ha un distretto superiore molto leggero. L’algoritmo di calcolo della
bilancia valuta la percentuale di grasso del distretto inferiore (dove passa la corrente) ed
erroneamente dà per scontato che anche il distretto superiore (le braccia, dove non passa la
corrente) sia altrettanto muscoloso. Risultato: il peso del distretto superiore è visto tutto come
muscoli e la percentuale di grasso totale è inferiore. Quindi, perché la misurazione sia corretta
occorre che i due distretti siano muscolosi in egual misura. L’errore per il percorso della corrente
può arrivare fino al 50% relativo nel caso di maratoneti di ottimo livello (cioè la bilancia dà un

135
4% mentre in realtà siamo al 6%). Le cose peggiorano se il percorso della corrente va da braccio
a braccio: in alcune farmacie si sono diffusi oggetti per la sola misurazione del grasso, utilizzando
soprattutto il distretto superiore (la corrente passa fra le braccia anziché fra le gambe). Questi
sono ancora più imprecisi della bilancia, poiché fra la popolazione sono in numero decisamente
superiore coloro che hanno un distretto inferiore muscolarmente migliore di quello superiore. Il
risultato è che, se le braccia sono poco muscolose, i muscoli delle gambe vengono scambiati per
grasso con il risultato di avere una percentuale di grasso corporeo decisamente sovrastimata.
L’errore arriva addirittura al 100%.
Esistono anche strumenti con quattro elettrodi anziché due (due elettrodi si tengono in mano). I
risultati pratici non sono però migliori rispetto alla strumentazione con due elettrodi,
probabilmente perché la mano (per forma, sudorazione, callosità ecc.) non è certo un punto
ottimale (meglio sarebbe il polso).
La pratica - Ecco alcuni consigli per usare al meglio la bilancia.
La scelta della bilancia in base alla qualità è molto difficile perché escono sempre nuovi modelli
(non sempre migliori) e l’utente in genere non ha che sé stesso come parametro di confronto.
Esiste un primo semplicissimo test che si può eseguire purtroppo a posteriori (cioè dopo
l’acquisto):
se una bilancia non ha una buona ripetibilità, è di pessima qualità. Ripetibilità significa che, se
eseguo diverse misurazioni successive (cioè praticamente contemporanee) dello stesso soggetto,
devo ottenere sempre lo stesso risultato. Ovviamente la ripetibilità è condizione necessaria, ma
non sufficiente per la buona qualità!
Un’altra cosa che si può fare è di scegliere il periodo del giorno più stabile. Infatti, l’unico dato
attendibile della bilancia è quello che si ottiene al mattino appena svegli. La notte deve essere
stata tranquilla e la cena precedente normale e, eventualmente, tale da ripristinare le scorte di
glicogeno. Purtroppo, a causa della posizione orizzontale mantenuta durante la notte, i fluidi del
corpo al mattino al risveglio non sono equamente distribuiti, ma sono conservati nell’area del
tronco e il risultato della bilancia è inesatto per un 8% (relativo) circa (lo stesso errore che si
ottiene bevendo 300 cc di acqua fredda appena prima della misurazione) in eccesso: un dato del
10% deve essere corretto in 9,2%.
La documentazione delle bilance riporta il tardo pomeriggio come periodo migliore per la misura,
ma la nostra esperienza rivela che in tale periodo della giornata è più facile incorrere in
condizioni di errore a causa della variabilità delle situazioni.
Se la bilancia possiede la modalità Atleta, sceglietela solo se praticate uno sport simmetrico e se
soddisfate i criteri citati nel sotto-sottoparagrafo L’algoritmo. Altrimenti, se il soggetto non
pratica uno degli sport simmetrici indicati oppure non lo pratica per il numero di ore previsto
oppure non ha una bassa frequenza cardiaca, è più corretto scegliere la modalità normale e tenere
conto che la percentuale di grasso verrà sovrastimata dall’1 al 4% (ma come vedremo ciò è poco
importante).
La bilancia impedenziometrica è il metodo più semplice per misurare le variazioni di massa
grassa di un soggetto a dieta o in uno sportivo. A prescindere dagli errori (che comunque, se la
bilancia è buona, globalmente non superano mai il 2%), è estremamente affidabile nel registrare le
variazioni di massa grassa e quindi è un valido strumento per supportare la propria coscienza
alimentare. In sostanza, anziché ricercare la massima precisione (a quest’ora ho la percentuale X
di grasso) è più opportuno misurare le variazioni della percentuale di grasso, mediandole sulla
durata di una settimana (senza cioè dare un’importanza eccessiva all’aumento dello 0,2 o dello
0,3% da ieri a oggi).

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Il controllo del peso
Il controllo del proprio peso deve essere un’operazione normale che non deve diventare
ossessiva. Non si controlla il peso per il timore di essere aumentati (posizione negativa), ma per
imparare a conoscere come lavora il proprio corpo e sapere quindi gestirlo al meglio.
Ossa e organi interni – Nel breve-medio periodo il peso delle ossa e degli organi interni è
costante e non ha senso quindi considerarlo potenzialmente variabile nel controllo della propria
massa. Ciò che può cambiare è il contenuto dell’intestino: se un soggetto a dieta si abbuffa, il
giorno dopo rileverà un aumento considerevole di peso. In realtà questo aumento è fittizio, perché
in gran parte è dovuto al maggior contenuto intestinale (rispetto alla situazione di normalità).
L’intestino risulta cioè sovraccarico rispetto alla situazione standard e il peso aumenta finché non
si è ristabilita la situazione (cioè praticamente non si pesano solo le calorie dei cibi assunti in più,
ma anche le scorie che le accompagnano negli alimenti). Il discorso può essere ulteriormente
compreso se il soggetto si pesa dopo aver mangiato 2 kg di mele (ammesso che ci riesca!). Le
mele apportano circa 900 kcal che tradotti in grassi fanno 100 g; considerando l’acqua che resterà
legata ai grassi il soggetto aumenta di 200 g e non dei 2 kg che segna la bilancia appena finito il
pasto. Nel tempo verranno eliminate le sostanze non necessarie (acqua, fibre, prodotti di rifiuto
della digestione delle mele ecc.).
Muscoli – Sono funzione della dieta (se per esempio è troppo ipocalorica si bruciano anche i
muscoli) e dell’esercizio fisico che tende a incrementarli. La percentuale di massa magra deve
essere stimata con precisione usando una bilancia impedenziometrica affidabile. Solo così si può
realmente valutare se un dimagrimento è reale (perdita di grasso) o è fittizio (perdita di muscoli,
l’individuo diventa magro, ma “debole”). Questo concetto sfugge alle mentalità anoressiche che
considerano solo il peso e non la percentuale di grasso del proprio corpo. Occorre tener presente
che nei muscoli l’acqua arriva al 65-70% per cui se si usa una dieta ipocalorica che “brucia” i
muscoli, si perde peso facilmente perché con i muscoli sparisce anche tutta l’acqua legata a essi.
Ovviamente non è una buona strategia. Quindi:

ognuno dovrebbe conoscere la propria percentuale di massa grassa.

Riserve di carboidrati (glicogeno) – Questa variabile è considerata da pochi perché il glicogeno


immagazzinato nei muscoli e nel fegato non supera in genere lo 0,7% del peso corporeo
dell’individuo. Il corpo è cioè in grado di immagazzinare carboidrati in quantità limitata,
sufficiente per esempio per compiere uno sforzo pari a una corsa di circa 30 km. Quando queste
riserve diminuiscono il soggetto spesso si sente stanco e svuotato. Anche in questo caso, diete
ipocaloriche possono portare a una condizione permanente di riserve di glicogeno basse. Ciò crea
una condizione di dimagramento fittizia. Infatti immaginiamo un atleta che compia un grosso sforzo
fisico, per esempio corra al massimo delle sue possibilità per 10 km; se lo sforzo è molto intenso,
il substrato utilizzato è rappresentato quasi totalmente dai carboidrati. Poiché un g di glicogeno
lega 2,7 g di acqua e apporta 4 kcal, un atleta di 70 kg che consuma per la gara sui 10 km 700 kcal
circa avrà bisogno di 175 g di glicogeno, cioè perderà circa 650 g (considerando anche l’acqua
legata al glicogeno), a prescindere dall’acqua che perderà per problemi di termoregolazione
(quantità che per sforzi massimali è sicuramente notevole, cioè l’atleta suderà molto). In questo
caso si vedrà un dimagramento fittizio notevole, in quanto il glicogeno viene ripristinato solo dopo
un certo tempo.

137
Se lo reintegro con le stesse calorie perse dopo parecchie ore (diciamo un giorno al massimo,
dipende dall’indice glicemico degli alimenti), ritorno al peso iniziale. Se reintegro con meno
calorie, le scorte si rigenereranno con minore velocità, verranno bruciati grassi per le attività
meno intense e si dimagrirà stabilmente, ma meno di quanto verificato immediatamente dopo lo
sforzo. Per concludere, se il nostro atleta ha speso 700 calorie, appena reidratato (cioè dopo che
ha bevuto e ha recuperato l’acqua persa) vedrà un dimagramento fittizio di 650 g; se ripristina
solamente 400 kcal, quando le varie trasformazioni fra macronutrienti che l’organismo sa gestire
si sono concluse, avrà perso solo 66 g (infatti 700-400 kcal=300 kcal; poiché 300 kcal
equivalgono a 300/9=33 g di grassi, con l’acqua legata dai grassi si arriva a 66 g). Come si vede
il dimagramento fittizio è notevole.
Grasso – Chi controlla frequentemente il peso corporeo lo fa spesso nel timore di ingrassare
molto. Questo timore a breve è del tutto infondato. Poiché un g di grasso lega il 50% di acqua e
apporta 9 kcal, per ingrassare di 3 kg occorre immagazzinare 1,5 kg di grasso, cioè assumere
1.500*9=13.500 kcal. Assumere 13.500 kcal in più (rispetto alla normale alimentazione) in una
settimana (cioè circa 2.000 kcal al giorno) è praticamente impossibile, a meno di non partecipare
a cenoni, matrimoni e abbuffate varie. Nel lungo periodo invece si comprende come anche sole
100 kcal al giorno in più possano in un anno portare il soggetto a pesare 6 kg in più!
Acqua – La quantità d’acqua che è presente nel nostro corpo è notevole per cui, nonostante i
meccanismi di regolazione, è possibile avere una certa variabilità senza che il soggetto manifesti
sintomi preoccupanti. Un modo (stupido) di barare sul proprio peso è forzarsi a non bere oppure
fare attività fisica coprendosi moltissimo per sudare il più possibile. Barando sull’acqua, si può
variare il proprio peso in su (si beve troppo, il che accade molto raramente) o in giù (si beve
troppo poco e non si reintegra il sudore perso) fino a 2 kg per un soggetto di circa 70 kg. Esistono
anche altri fattori oltre al semplice bere che possono agire sull’acqua del nostro corpo:

•• l’assunzione di integratori volumizzanti (che causano un incremento di volume delle cellule


ritenendo acqua) come la creatina e la glutammina.
•• L’assunzione di cibi (in particolare quelli salati o ricchi di glutammato di sodio, tipico per
esempio della cucina cinese) che inducono un maggior consumo d’acqua che verrà poi smaltita
una volta eliminato il sodio contenuto negli alimenti.
•• L’assunzione di farmaci (per esempio gli antinfiammatori che inibendo l’azione delle
prostaglandine facilitano la ritenzione idrica).

Le tre tipologie di sovrappeso


Il sovrappeso è un problema che riguarda ormai ampie fasce della popolazione. Per affrontare il
problema e risolverlo è importante capire in prima persona. Due sono i punti fondamentali:

•• le cause
•• i meccanismi con cui le cause producono i loro effetti.

Ereditario? – A prescindere da cause patologiche (che riguardano comunque solo una percentuale
minima della popolazione), è fondamentale sapere che non esistono “predisposizioni al
sovrappeso”. Frasi come “il grasso è di famiglia” non hanno ragioni di essere: in una famiglia
spesso tutti sono in sovrappeso semplicemente perché per cultura si tramandano informazioni
alimentari e stile di vita scorretti.

138
La costituzione robusta – Per chi non ha la possibilità o non vuole dotarsi di una bilancia
impedenziometrica esiste sempre l’alibi della costituzione robusta. Frasi del tipo: “ho una
struttura fisica molto pesante”, “sono di costituzione robusta” ecc. erano giustificate finché non
esistevano le bilance impedenziometriche. Oggi non si può più barare perché bastano pochi
secondi per misurare la propria percentuale di massa grassa. Vedremo più avanti che la dieta
italiana fissa i valori salutisticamente ottimali. Qui ci preme solo dire che esiste un facile test che
condanna i portatori della presunta costituzione robusta.
Il test delle vene – Allungate un braccio con il palmo della mano rivolto verso l’alto. Osservate
il vostro avambraccio. Chi è correttamente magro dovrebbe notare sei vene che scorrono più o
meno parallelamente dal gomito al polso, come i fiumi su una carta geografica. Se le vene non
sono in rilievo netto (non basta scorgerle fra il grasso!) non siete in peso forma ottimale. Per le
donne (che hanno fisiologicamente circa l’8% di grasso in più) è sufficiente che le vene si vedano
nell’interezza del percorso. Un’ultima osservazione, direi tragica. È inutile pensare che avete chili
di troppo perché madre natura vi ha dotato di una costituzione robusta. Se esistesse veramente la
costituzione robusta perché nei campi di concentramento tutti erano scheletrici? Veniamo dunque
alle due reali cause del sovrappeso.

L’iperalimentazione
L’iperalimentazione (alimentazione ipercalorica) è una causa ovvia a tutti, ma non lo è altrettanto
la suddivisione in due rami ben distinti. Infatti si possono introdurre molte calorie perché si
mangia troppo o perché si mangia male. Parleremo pertanto di due forme di iperalimentazione.
Iperalimentazione quantitativa – Il soggetto è dotato di un appetito eccessivo, non riesce a
controllarlo e finisce per eccedere con le calorie. Anche se “mangia bene” (la classica dieta
mediterranea) finisce per andare in sovrappeso, soprattutto se ha superato i 30 anni e non fa
attività fisica. Nel caso sia giovane e faccia un po’ di sport diventa spesso un falso magro: il
grasso si distribuisce uniformemente e armonicamente lungo tutto il corpo e non si vede. Per
svelare i falsi magri, se non volete misurare il grasso con l’apposita strumentazione, esiste il
semplice test delle vene descritto precedentemente. L’iperalimentato quantitativo diventerà
sicuramente un soggetto in deciso sovrappeso non appena il metabolismo basale rallenterà. Negli
uomini comparirà la classica pancetta, nelle donne la “culotte de cheval”.
Iperalimentazione qualitativa – Il soggetto è dotato di un appetito normale o addirittura scarso,
ciononostante è in sovrappeso. In genere o è ipometabolico o mangia male. Ecco gli errori
alimentari più comuni:

•• dare la preferenza a cibi ipercalorici come i grassi (salumi e formaggi grassi anziché magri,
carne grassa ecc.) e i carboidrati poco sazianti (dolci, pasta, pane, pizza);
•• mangiare spesso;
•• assumere calorie inutili (d’estate bevande zuccherate o succhi di frutta, vino e alcolici,
caramelle ecc.).

In genere il soggetto non ha nessuna coscienza alimentare, cioè le sue conoscenze


sull’alimentazione sono scarse, spesso per sentito dire, a volte addirittura completamente errate.

Il rallentamento del metabolismo

139
Riguarda solo soggetti che hanno superato i 30 anni d’età, una soglia in cui il fabbisogno calorico
quotidiano può scendere decisamente. Le stesse assunzioni caloriche di dieci anni prima portano
inevitabilmente al sovrappeso. Anche il soggetto che corre ai ripari spesso si accorge che è
difficile seguire la dieta ipocalorica che assicura il peso corretto. Il tutto è complicato dal fatto
che esistono persone non più giovani e sedentarie che possono abbuffarsi comunque senza
ingrassare. Ciò porta il nostro individuo in sovrappeso a pensare di essere “sfortunato”, vittima di
una sorta di malocchio genetico. In realtà si scoprirebbe che chi si abbuffa senza ingrassare ha
valori ormonali scorretti (spesso basta il quadro tiroideo), è cioè malato, oppure fa molta attività
sportiva. La situazione è poi complicata dal fatto che chi si mette a dieta e segue un regime
ipocalorico spesso esagera e innesca un’ulteriore decisa riduzione del metabolismo secondo
meccanismi classici. In condizioni normali l’ormone tiroideo T4 viene convertito nell’ormone T3,
la cui attività è circa cinque volte superiore a quella del T4. Durante una dieta ipocalorica questa
conversione rallenta e con essa il metabolismo. È abbastanza facile scoprire che soggetti a dieta
da diversi mesi e con percentuali di massa grassa basse abbiano anche bassi valori di T3.
Un altro meccanismo di controllo è rappresentato dai livelli di ATP nel fegato: la dieta
ipocalorica fa abbassare questi livelli e automaticamente abbassa il metabolismo.
Infine alcuni neurotrasmettitori sono controllati dai livelli di alcuni aminoacidi, per esempio la
tirosina. Una dieta ipocalorica ha parallelamente una ridotta quantità di tirosina e automaticamente
il cervello riduce il metabolismo.
Da notare che la riduzione del metabolismo dovuta a restrizioni dietetiche avviene solo se le
restrizioni sono veramente importanti, scorrette dal punto di vista di una valida strategia di
dimagrimento. Nel caso di un piano di dimagramento corretto la riduzione è rilevabile (ved.
Capitolo 9, Il fabbisogno calorico quotidiano), ma non superiore alle 100 kcal al giorno.
La situazione di rallentamento del metabolismo è comunque la situazione più frustrante e
disorientante, anche perché innesca l’alibi dell’ipometabolismo.

Il metabolismo basso
Molte persone in sovrappeso od obese sono convinte di avere un metabolismo che le fa
ingrassare, mentre, sempre secondo loro, ci sono soggetti molto fortunati che possono abbuffarsi
senza ingrassare. Il metabolismo basso diventa così un alibi (al pari di quello della “costituzione
robusta”) per evitare ogni impegno alimentare. La leggenda del metabolismo basso nasce dalla
constatazione (oggettiva!) che dopo i 30 anni normalmente la persona tende a ingrassare pur
mangiando come prima. Premesso che genericamente in media un soggetto di 30 anni ha una vita
molto meno attiva di una persona di 20 (e quindi comunque brucia di meno), si deve sempre
ricordare che una modesta diminuzione del metabolismo, per esempio 100 kcal al giorno, produce
un ingrassamento di circa 6 kg in un anno (considerando l’acqua legata al grasso e mangiando
sempre nello stesso modo). Quindi, senza entrare in considerazioni sulla fisiologia dell’individuo,
se si considera un periodo di 5 anni si avrebbe un incremento ponderale di ben 30 kg. Sono
pochissime le persone che hanno un tale aumento di peso, quindi

il rallentamento del metabolismo è decisamente inferiore a 100 kcal/giorno.

Come collegare questa evidenza con il fatto che la scienza dell’alimentazione ci dice che dopo i
25 anni il metabolismo basale decresce dell’1% all’anno circa? Il tutto si spiega con il fatto che il
metabolismo scende perché diminuisce la massa muscolare (infatti negli atleti ancora in attività a

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40 anni il fenomeno è meno evidente che nel sedentario) e la massa diminuisce perché il soggetto
diventa più sedentario. Il vero problema è quindi che tale modesto rallentamento è dovuto a un
netto decremento dell’attività del soggetto (si pensi per esempio a tutti i ventenni “sedentari” che
ballano in discoteca per diverse ore la settimana, mentre, una volta messa su famiglia, poltriscono
davanti alla tv), decremento che a sua volta produce un ipoconsumo. Infatti anche fra i sedentari
(quindi senza dover fare i conti con il consumo calorico legato all’attività fisica) occorre
distinguere fra metabolismo basale (quello deputato alla sola sopravvivenza) e consumo calorico
quotidiano che mantiene un certo peso. Un soggetto che pesa 10 kg in meno di un altro può
assumere 300-400 calorie in più di un altro mantenendo un ugual peso perché ha una vita più
attiva, nel bene o nel male: dorme meno, è più stressato oppure, pur essendo un soggetto calmo, è
più attivo in tutto ciò che fa, dal gesticolare al parlare, al camminare. Come spiegato
nell’Appendice 5, il fabbisogno calorico quotidiano di un sedentario è:

FCQ=MB+MA.

Per molti soggetti MA (metabolismo di attività, MB è il metabolismo basale) è significativo (in


altri termini, simulano con la loro condotta di vita un’attività fisica), per altri (quelli che
sostengono di avere il “metabolismo basso”) è trascurabile. Cioè, se A e B hanno lo stesso peso,
la stessa massa magra, sono sedentari e A può assumere X calorie al giorno più di B ed entrambi
mantengono lo stesso peso, non vuol dire che A ha un metabolismo basale più alto di B, ma che
vive la vita più “attivamente”.
Un po’ di teoria – I testi di fisiologia più evoluti tendono ormai a legare il metabolismo basale
unicamente alla massa magra del soggetto; riassumendo i vari contributi, qualche anno fa proposi
la formula

MB=28*MM.

Così un soggetto che pesa 70 kg con il 20% di massa grassa (cioè con l’80% di massa magra) ha
un metabolismo basale di 1.568 kcal (28*0,8*70), cioè circa 1.600 kcal. Partendo da questi dati, è
interessante quindi analizzare i motivi per cui la gente crede erroneamente di avere un
metabolismo basso.

1) Sedentarietà – La dieta italiana sottolinea la necessità dell’attività sportiva. Purtroppo ci sono


ancora nutrizionisti che illudono la popolazione che si può essere magri da sedentari, senza
evidenziare che è un’impresa durissima. Infatti leggiamo la precedente formula: più la massa
magra diminuisce più diminuisce il metabolismo. Quindi chi si lamenta del metabolismo basso in
realtà molto spesso incolpa sé stesso: una persona pesante 70 kg con il 30% di grasso (le donne
sotto questo aspetto sono penalizzate perché naturalmente hanno più grasso) ha un metabolismo
basale di sole 1.372 kcal, mentre un soggetto pesante 60 kg con un 10% di grasso ha un
metabolismo basale di 1.512 kcal: può mangiare circa 150 kcal al giorno di più dell’altra persona
che pesa 10 kg in più!
2) Ignoranza medica – Molte persone sono convinte di avere disfunzioni ormonali; premesso che:

•• una persona che ha disfunzioni ormonali è una persona malata e che quindi sarebbe opportuno
non limitarsi a “pensare di averle”, ma cercare di agire per scoprirle ed eliminarle;
•• molte disfunzioni sono comunque curabili con una terapia ormonale sostitutiva, grazie alla quale
il soggetto torna normale e quindi non avrebbe più senso l’alibi del “metabolismo basso”;

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gran parte delle disfunzioni lamentate non vengono riscontrate (gli esami tiroidei sono normali; è
altresì vero che dovrebbe preoccuparsi chi mangia di tutto e senza limiti e non ingrassa: il più
delle volte è soggetto a ipertiroidismo). Se si sottopongono questi pazienti alla misurazione del
metabolismo basale (metodo Bia Akern), si trova spesso che il metabolismo è addirittura
aumentato.
3) Ignoranza alimentare – In genere chi parla di metabolismo basso ha una scarsa cultura
alimentare e si lascia facilmente fuorviare da errate valutazioni. Vediamo un esempio. Anna, 40
anni, 160 cm per 60 kg, 32% di massa grassa, sedentaria con un lavoro sedentario (impiegata). A
20 anni era 46 kg, in 20 anni 14 kg in più, nonostante continue diete e migliaia di giornali
femminili acquistati nel tentativo di conoscere nuove soluzioni. È ormai iperfrustrata e si è
convinta di avere un metabolismo basso. Soprattutto da quando ha conosciuto Angelo, quarantenne
sportivo e dinamico, un fisico da 180 cm per 70 kg e 12% di massa grassa. A una cena comune
Anna non prende che un secondo, un dolce e un caffè, spiegando a tutti che sta provando
l’ennesima dieta; Angelo parte con un po’ d’antipasto, un primo, un secondo, un po’ di formaggio e
un dolce. Anna: 800 kcal, Angelo 2.000 kcal. Nonostante la sua “dieta” Anna non sa che ha sforato
(fra colazione e pranzo ha già assunto altre 800 kcal, Angelo è arrivato a 1.000 circa), mentre
Angelo no. Infatti il metabolismo basale di Anna è di circa 1.150 kcal, a cui vanno aggiunte circa
300 kcal per la sua vita sedentaria: un totale di 1.450, ampiamente sforato dalle 1.600 kcal
odierne. Angelo invece ha un metabolismo basale di circa 1.750 kcal, a cui vanno aggiunte circa
300 kcal per il suo lavoro (sedentario) e circa 900 per la sua attività sportiva (oggi ha corso per
una dozzina di km): totale 2.950 kcal, in linea con il suo consumo odierno.

Le calorie nascoste
Una delle obiezioni più comuni alla negazione dell’alibi di un metabolismo basso per individui
sani è rappresentata dalla classica domanda:

Ma se non ho un metabolismo basso come è possibile che, mangiando le stesse cose, io sia in
sovrappeso e Tizio sia magro?

Per rispondere in modo convincente alla domanda è necessario esaminare in dettaglio il diario
alimentare di entrambe le persone. Nella quasi totalità dei casi si scopre che due sono i motivi del
sovrappeso di chi con perplessità ci pone la domanda:

1. ignoranza dell’esistenza di cibi dinamici, cioè di quei cibi il cui contenuto calorico può variare
molto (anche la frutta può essere dinamica). Fare colazione con 50 g di una marmellata che
apporta 130 alb fa risparmiare ben 60 calorie rispetto al farla con una da 250 alb. Visto che i cibi
dinamici sono molto comuni, è evidente che chi non ha una coscienza alimentare e non conosce il
potere calorico dei cibi che assume non può poi lamentarsi se ha qualche chilo di troppo.
2. Ignoranza delle calorie nascoste. Esistono alcuni alimenti che “sistematicamente” non vengono
conteggiati (o lo sono molto parzialmente) perché sono semplicemente “aggiunti” alla normale
alimentazione.

Il secondo motivo fa riferimento a cibi come olio, burro, zucchero, vino, pane. Rientrerebbe in
questo caso anche l’impiego di succhi di frutta o di bibite gassose al pasto anziché di acqua;

142
fortunatamente le campagne di sensibilizzazione alimentare hanno portato a evitare le bevande più
caloriche, magari sostituendole con bibite light. Per i cinque alimenti principali invece la
situazione è ancora molto difficile perché vengono ritenuti fondamentali e si continuano a
commettere errori incredibili, come per esempio farsi “solo” un’insalata, ma annaffiandola con
30-40 g di olio e rendendola così equivalente a un piatto di pastasciutta! Oppure rinunciare allo
zucchero nel caffè, ma aggiungere 23 cucchiai di zucchero alla macedonia di frutta, altrimenti
troppo “brusca”.

Sapete per esempio quanto olio consumate al mese oppure quanto pane o quanto zucchero?

Vediamo le situazioni relative a due individui, Magro con comportamento cosciente e Grasso con
comportamento casuale. Ecco i loro consumi mensili (per lo zucchero si tratta di zucchero
aggiunto ai cibi, non di quello eventualmente usato per preparare dolci e altri alimenti, per olio e
burro si tratta invece del contributo globale).

----------
• Olio (litri) > Magro 0,5 > Grasso 3
• Pane (kg) > Magro 2 > Grasso 9
• Zucchero (Kg) > Magro 0 > Grasso 1,5
• Vino ( litri) > Magro 3 > Grasso 12
• Burro (grammi) > Magro 100 > Grasso 500
• KCAL TOTALI > Magro 9.000 > Grasso 45.000
----------

Una differenza di 36.000 kcal, cioè di 4 kg di grasso senza contare l’acqua legata al grasso! Non
limitatevi quindi a eliminare lo zucchero dal caffè, ma considerate tutti e cinque gli alimenti a
rischio. Non a caso la regola 8 della dieta italiana afferma:

(8) Olio, zucchero e burro devono essere impiegati nella quantità minima tale da soddisfare la
preparazione di piatti ASI.

L’innalzamento del metabolismo


Tutti sanno che con l’età il metabolismo rallenta e sembra del tutto logico cercare strategie che
contrastino il fenomeno. Cominciamo con il dire che non esistono pillole che alzano
significativamente il metabolismo. Scartate le pillole, esistono altre vie? La risposta è: no. Un no
non deciso, ma abbastanza netto. Vediamo le otto strade che si utilizzano.
Incremento della massa muscolare - In teoria funzionerebbe perché i muscoli bruciano il 90% di
calorie in più che le cellule adipose. Peccato che un aumento della massa muscolare in un soggetto
over 35 porti sempre con sé una certa percentuale di grasso perché l’aumento muscolare non può
essere ottenuto in condizioni di restrizione calorica. Per riportare il nostro 45-enne ai valori di
metabolismo di un tempo è necessario un incremento muscolare di circa 3 kg, cioè tutto compreso
(acqua, grasso associato alla crescita muscolare ecc.) circa 8-10 kg. Considerando che chi si pone
il problema del metabolismo lento è spesso in sovrappeso…
Spuntini - Molti nutrizionisti li sostengono entusiasticamente. La realtà delle cose dimostra che,
dopo un successo iniziale, si trasformano in un boomerang evidente: il soggetto bara con la

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dimensione dello spuntino e sfora con le calorie, alzando forse il metabolismo, ma alzando anche
il proprio peso: una mela diventa una grossa mela, uno yogurt diventa un delizioso vasetto di
yogurt cremoso alla frutta addizionato di zucchero ecc.
Certo mangiare regolarmente senza saltare i pasti è fondamentale per una corretta alimentazione,
ma non si può pensare che mangiare sotto comando di un timer possa farci ritornare al
metabolismo giovanile.
Esercizio fisico - Anche in questo caso l’esercizio fisico rallenta la diminuzione del metabolismo,
ma non può certo fermarla. Anche perché l’esercizio fisico migliore per innalzare il metabolismo
è quello anaerobico che però è anche quello che complessivamente (a causa dell’intensità, e
quindi brevità, dello sforzo) fa bruciare meno calorie complessive.
Alimentazione proteica - Avere una quota proteica del 15% almeno contribuisce sicuramente a
innalzare il metabolismo ed è forse il trucco più semplice e senza controindicazioni. Si tratta però
di un trucco limitato perché per un sedentario (uno sportivo limita il sovrappeso più con l’attività
sportiva che riportando il metabolismo ai livelli di un tempo: 180 kcal corrispondono a 3 km di
corsa se pesiamo 60 kg) non può andare salutisticamente oltre il 20%.
Sonno - La regolarità del sonno aiuta l’innalzamento del metabolismo, mentre una qualità cattiva
del nostro riposo facilita l’intolleranza al glucosio e un abbassamento del metabolismo
(University of Chicago, 1999). Le ricerche però non sono concordi e sembra molto ottimistico
sperare che basti dormire bene per ritrovare il metabolismo dei vent’anni.
Consumo di alcol - Il consumo di alcol rallenta la combustione dei grassi. Il fenomeno è tanto più
evidente in chi assume regolarmente alcolici, per esempio vino in entrambi i pasti principali.
Caffeina - Il più semplice innalzatore del metabolismo è la caffeina; non solo caffè, ma anche tè,
soprattutto nella versione verde; usare il tè verde come bevanda, soprattutto nella stagione calda,
può far recuperare circa un terzo del metabolismo perduto. La cattiva notizia è che il corpo con il
tempo si assuefa alla caffeina e i benefici sono nettamente inferiori.
Calcio - Recenti ricerche hanno dimostrato che chi consuma abitualmente latte e formaggi ha un
metabolismo migliore (nel senso che è più vicino a quello giovanile). La spiegazione sembra
essere un maggiore livello di calcio nelle cellule che consente un miglior metabolismo dei grassi.
Concludendo, chi impiega la miglior strategia possibile realisticamente riesce a recuperare al
massimo circa un 50% del metabolismo. Un soggetto sedentario di 45 anni che a 25 anni rimaneva
magro assumendo 2.400 calorie senza nessuna strategia di innalzamento metabolico deve ora
assumere 2.000 kcal, con la migliore strategia può assumerne 2.200 circa.

Perché s’ingrassa
Secondo una visione tradizionale si ingrassa quando il bilancio energetico è attivo, cioè quando
s’incamerano più calorie di quante se ne bruciano. Poiché ogni cibo può essere suddiviso nei tre
macronutrienti principali, proteine, grassi e carboidrati, è importante studiarne il metabolismo,
cioè la loro gestione da parte dell’organismo, dalla loro assunzione fino alla loro utilizzazione e/o
eliminazione. Che io sappia, attualmente non esiste un modello completo del metabolismo. Ciò è
causa di notevoli errori fra i non addetti ai lavori (ma anche fra i professionisti) poiché una
visione parziale, se trattata come generale, non può che portare a errori. L’errore più grossolano è
per esempio rappresentato dalla diffusa credenza che il miglior modo per dimagrire sia quello di
eseguire uno sforzo fisico a bassa intensità. Se è vero che uno sforzo a bassa intensità permette di
bruciare i grassi, il dimagrimento non consiste nel solo “bruciare i grassi”, come è erroneamente
sottinteso da chi vuole semplificare il discorso.

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Il modello deve spiegare:

•• come vengono assimilati i macronutrienti;


•• come vengono immagazzinati;
•• come vengono utilizzati.
Deve essere semplice e graficamente mnemonico, cioè fornire visivamente le principali
differenze. Il modo più semplice che mi è venuto in mente è quello a scatole. Ogni macronutriente
è rappresentato da una scatola che ha determinate caratteristiche.

La scatola dei carboidrati


È la scatola più semplice. Ha dimensioni fisse, cioè ha pareti rigide. Può essere riempita o meno.
La dimensione della scatola rappresenta la scorta massima di carboidrati. Questo dato è
praticamente costante. L’ipotesi che fosse ampliabile con l’allenamento o l’alimentazione è stata
smentita da molto tempo. Non si può escludere che in piccola parte le dimensioni della scatola
possano variare (soprattutto da individuo a individuo), ma la variazione (indotta appunto
dall’alimentazione e dal tipo di attività fisica) non può ragionevolmente superare il 10-15% in un
soggetto magro e ben allenato. Le dimensioni della scatola in tale soggetto sono 30*P kcal, cioè se
per esempio il soggetto pesa 70 kg, 2.100 kcal, cioè 550 g circa. Fisiologicamente tali scorte sono
sparse fra fegato, muscoli e sangue, ma ai fini del modello di primo livello la loro dislocazione è
poco importante. Quando si mangia, il livello degli zuccheri nel sangue (glicemia) aumenta a
seguito dell’assunzione di carboidrati. Tale innalzamento provoca, da parte delle cellule beta del
pancreas, la secrezione dell’insulina, il cui compito è di abbassare la glicemia. La risposta è tanto
più rapida quanto più alto è il carico glicemico dei carboidrati assunti. L’insulina:

•• facilita l’ingresso del glucosio nelle cellule muscolari;


•• dà il via all’immagazzinamento delle scorte di glicogeno (cioè le scorte di carboidrati) nel
fegato e blocca il rilascio di quello presente;
•• trasforma l’eccedenza di carboidrati in grasso;
•• blocca il consumo dei grassi già presenti.

Nella formulazione originaria della dieta a zona, Sears ha commesso l’errore di considerare
l’azione dell’insulina sempre negativa. In realtà lo è solo quando le scorte di glicogeno
dell’individuo sono al massimo (e allora si parla di carboidrati in eccesso). Finché non lo sono,
l’azione dell’insulina è necessaria e importantissima. Esiste un ormone antagonista dell’insulina,
il glucagone, che fa innalzare i livelli di glucosio nel sangue. Se c’è troppa insulina o poco
glucagone scatta l’ipoglicemia con conseguente sofferenza cerebrale. Il glucagone:

•• libera il glicogeno immagazzinato nel fegato;


•• consente di bruciare i grassi;
•• stimola la gluconeogenesi, favorendo la conversione degli aminoacidi in glucosio da parte del
fegato.

Il controllo del sistema si basa sull’equilibrio dell’azione dei due ormoni. Se si assumono troppi
carboidrati si ha un eccesso d’insulina che blocca il rilascio di glicogeno, il cervello entra in crisi
(la spiegazione della sonnolenza dopo un pasto iperglicidico o il senso di affaticamento e di

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svogliatezza che accompagna le giornate di molte persone che seguono una dieta sbagliata) e
richiede energia che noi tentiamo di reintrodurre con altri carboidrati peggiorando la situazione.

Un eccesso di carboidrati fa ingrassare, non fa bruciare i grassi, stimola maggiormente la


fame, rende fisicamente meno attivi.

La scatola dei grassi


È una scatola senza fondo, quindi ha dimensione teoricamente infinita. Questa semplicissima
visione rende conto del fatto che teoricamente un soggetto può ingrassare all’infinito.

La scatola delle proteine


È una scatola a fondo variabile, il fondo si comporta cioè come un cilindro che, scorrendo, varia
la dimensione della scatola. Fisiologicamente la posizione del cilindro (e quindi le dimensioni
della scatola) dipende dalla situazione ormonale-alimentare del soggetto. A seconda dei mattoni
forniti per costruire i muscoli (proteine) e dallo stimolo a usarli (che dipende dai livelli
ormonali, ma non solo) il cilindro si abbassa (e le dimensioni aumentano, cioè la massa muscolare
cresce) oppure si alza (la massa muscolare diminuisce).
Ecco il modello a scatole dei macronutrienti.

Come si riempiono o si svuotano le scatole?


Riempimento – Ovvio: normalmente con l’alimentazione.
Svuotamento – Richieste dal metabolismo basale (cioè tutto ciò che serve per mantenere in vita il
soggetto) e dalla gestione delle attività del soggetto. Quest’ultimo punto riguarda principalmente le
richieste energetiche.

Il riempimento da carboidrati
Osserviamo lo schema:

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Come si vede i carboidrati possono essere trasformati in riserve e, quando la scatola è piena,
ecco che i carboidrati assunti in eccesso finiscono nella scatola dei grassi.

Il riempimento da grassi
È ovviamente il più semplice: tutto finisce nella scatola dei grassi.

Il riempimento da proteine
È il più complesso, e non ancora perfettamente chiarito. Per chi fosse interessato, rimandiamo al
sottoparagrafo Le trasformazioni fra macronutrienti. Come si vede (ordine dei numeri) dapprima
le proteine rispondono alle esigenze anaboliche (di costruzione), terminate queste, per una certa
quota alle esigenze di ripristino delle scorte di carboidrati e, saturate queste ultime, dei grassi.
Infine una parte delle proteine, se assunte in eccesso, viene eliminata. Le quantità sono
strettamente correlate alle caratteristiche individuali (per esempio con il fenomeno del protein
burning per deaminazione delle proteine in eccesso rispetto agli scopi anabolici, cioè di
costruzione).

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Lo svuotamento
Una trattazione molto schematica dello svuotamento passa attraverso la definizione di intensità e
durata dello sforzo. Con una buona approssimazione:

•• i carboidrati si consumano con sforzi di alta intensità. La quota consumata sale al crescere
dell’intensità dello sforzo.
•• I grassi si consumano con sforzi di bassa intensità. La quota consumata sale al diminuire
dell’intensità dello sforzo. I grassi possono essere bruciati solo se la scatola dei carboidrati non è
vuota.
•• Le proteine si consumano quanto più lo sforzo è prolungato nel tempo (e si esauriscono le
riserve di carboidrati). Il catabolismo muscolare per sforzi molto intensi è comunque limitato
perché l’energia sviluppata (a prescindere dalla forza espressa) è sempre modesta (e non potrebbe
essere altrimenti, vista l’intensità spesso massimale).
Se il soggetto assume 2.000 kcal e ha un fabbisogno di 1.800, a seconda della sua situazione (per
esempio delle scorte di glicogeno), i macronutrienti delle 2.000 kcal andranno nelle varie scatole
e l’attività giornaliera (a seconda dell’intensità e delle durate degli sforzi) ne preleverà 1.800:
nelle scatole rimarranno globalmente 200 kcal che produrranno un ingrassamento.
A causa delle trasformazioni, ciò che conta è il deficit calorico. In altre parole, l’alimentazione
sistema le scatole, dopo che l’attività fisica le ha svuotate in un senso o nell’altro.

Il grasso localizzato
Il grasso localizzato è una condizione molto comune in chi ha qualche chilo di sovrappeso. Infatti
una percentuale non indifferente di chi inizia a praticare attività sportiva per dimagrire è
interessata alla sola eliminazione del grasso localizzato. Non a caso la cosiddetta prova costume
evidenzia gli inestetismi di un sovrappeso limitato a porzioni ben definite del corpo.
Sostanzialmente il sovrappeso assume due forme ben distinte:

•• generalizzato. Il grasso si distribuisce uniformemente in tutto il corpo, anche nei muscoli. Il


soggetto appare robusto e forte perché il grasso gonfia i muscoli (che al miscroscopio
apparirebbero densi di goccioline di grasso, proprio come i migliori e più morbidi prosciutti).
•• Localizzato. L’organismo ha sedi preferenziali di accumulo (addome nei maschi, fianchi nelle
donne). Tutte le calorie assunte in più oltre al proprio fabbisogno finiscono sempre nella stessa

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zona.

Il grasso generalizzato è tipico di chi è molto giovane e/o fa molto sport (sopratutto a livello
intenso); non è infrequente il caso di sportivi in sovrappeso che in realtà si credono magri
semplicemente perché l’eccesso di grasso corporeo si è distribuito uniformemente.
Il grasso localizzato è causato da una predisposizione genetica, da un basso livello di attività
fisica e da un’alta percentuale di massa grassa; è quindi tipico dell’over 30, soprattutto se
sedentario.

La teoria
Il nostro organismo può immagazzinare il grasso in modo diverso a seconda delle caratteristiche
individuali. Fattori molto importanti che determinano la localizzazione del grasso sono il sesso e
la sedentarietà del soggetto, oltre ovviamente la quantità di grasso in eccesso (la localizzazione
inizia solo quando si superano certi valori di sovrappeso).
Nel caso di sovrappeso le donne tendono ad assumere una configurazione a pera con il grasso
localizzato nelle cosce, mentre gli uomini una configurazione a mela con il grasso localizzato nella
pancia. Tra l’altro, quest’ultimo tipo di configurazione è associato a un maggior rischio
cardiovascolare.
Il grasso localizzato è in genere associato a valori più alti di trigliceridi, di glicemia e di
pressione arteriosa.
L’età gioca un ruolo importante perché modificazioni ormonali (calo degli estrogeni nelle donne e
del testosterone negli uomini) e un’aumentata resistenza all’insulina favoriscono la localizzazione
del grasso. La sedentarietà tende a localizzare maggiormente il grasso, mentre un’attività fisica
regolare tende a distribuirlo più uniformemente.

La pratica
Quando i chili in eccesso si “localizzano” stranamente in un punto particolare del corpo, ciò fa
erroneamente credere al soggetto che non si tratti di un problema alimentare, ma di una qualche
predisposizione contro la quale non si può lottare. Alcuni adottano strategie molto ottimistiche
come quella di eseguire centinaia di addominali o quella di usare fasce riscaldanti per sciogliere
la pancetta.
In realtà la strategia per combattere il grasso localizzato passa attraverso una fase di dimagrimento
e una di potenziamento.
Il dimagrimento – La necessità di una fase di dimagrimento è dovuta al fatto che

non è possibile sciogliere il grasso localizzato in maniera definitiva con sole azioni locali.

È cioè molto ottimistico sperare di dimagrire facendo attività fisica per i soli punti dove c’è il
grasso oppure scaldarli, massaggiarli ecc. Se il soggetto ha una zona di accumulo preferenziale
(supponiamo la pancia), contrariamente a quanto si crede, sciogliere il grasso localmente è
un’operazione abbastanza inutile, un po’ come svuotare il mare con un secchiello. Infatti sia
un’azione locale (addominali, massaggio ecc.) sia un’azione generale (un’ora di corsa, di ciclismo
o di nuoto) preleveranno il grasso dai depositi (per esempio la pancia), ma poi le calorie
introdotte in più con l’alimentazione ritorneranno nella zona di accumulo, cioè la pancia. Se il

149
soggetto non abbina all’attività fisica un regime alimentare corretto i risultati sono deludenti. In
altri termini,
per eliminare completamente il grasso locale è necessario dimagrire al punto da avere un IMC
compatibile con un corpo magro.

Come spiegato nel sottoparagrafo che tratta dell’IMC, ciò significa, per la stragrande maggioranza
della popolazione, avere un valore di 22 per l’uomo e 20 per la donna. Per esempio, per una
donna alta 160 cm un peso di 51,2 kg e per un uomo alto 175 cm un peso di 67,4.
Nella prima fase pertanto sarà necessario abbinare a un esercizio fisico soprattutto aerobico un
modello alimentare che assicuri un dimagrimento salutistico, ma costante e sufficientemente
rapido.
Il potenziamento – Una volta persi i chili di troppo, non è infrequente trovarsi di fronte a un
problema di altra natura: il grasso si è sciolto, ma la pelle, che prima doveva contenerlo,
ovviamente non si è ritirata e ora risulta in eccesso, producendo comunque un cattivo effetto
estetico. A differenza che nei grandi obesi dove sono state perse decine di chilogrammi e l’unica
soluzione è quella chirurgica, in chi ha perso pochi chilogrammi di grasso localizzato la soluzione
migliore consiste nel riempire nuovamente lo spazio che si è liberato, stavolta non grasso, ma con
muscoli. Un’attività anche intensa, purché graduale, può far ottenere brillanti risultati in poche
settimane.
Soprattutto nelle donne, in alcuni casi la precedente lunga sedentarietà ha reso parzialmente
irreversibile il fenomeno (si parla allora un po’ impropriamente di cellulite) e per risolverlo
completamente (con il dimagrimento si ottengono comunque risultati nettamente visibili) è
necessario adottare tecniche mediche.

I dimagranti da banco
Sul mercato è comparsa una serie di prodotti che promettono un rapido dimagramento
semplicemente assumendo qualche pastiglia prima dei pasti; possono essere acquistati senza
ricetta medica e quindi sembrerebbero la soluzione facile e ideale per ogni problema di
sovrappeso. In realtà è decisamente ottimistico sperare che funzionino e l’acquirente si trova
spesso in una strada a fondo chiuso mentre era partito dall’idea di aver trovato una geniale
scorciatoia. I meccanismi d’intervento sono sostanzialmente tre: accelerazione del metabolismo,
eliminazione di parte di zuccheri e/o grassi, diminuzione del senso di fame.
L’accelerazione del metabolismo – Si cerca di innalzare la temperatura corporea o di stimolare
particolari situazioni (per esempio risvegliando la tiroide). È il caso del celeberrimo fucus, alga
delle Fucacee che vive nei mari temperato-freddi. La specie Fucus vesciculosus (quercia marina)
viene utilizzata in erboristeria per preparare dimagranti; la presunta efficacia deriverebbe dallo
iodio contenuto nell’alga (presenza scoperta da B. Courtois ai primi dell’800) che stimolerebbe la
tiroide, normalizzando il metabolismo dei soggetti in cui l’obesità deriva da una disfunzione
tiroidea (comunque una piccola percentuale della popolazione sovrappeso). Il fucus contiene
anche l’acido alginico che può assorbire una quantità d’acqua pari a cento volte il suo peso (da
qui il teorico impiego anticellulite). In realtà in soggetti sovrappeso, ma sani, i meccanismi di
controllo dell’organismo sono tali che il prodotto viene spesso neutralizzato da un’assuefazione
che vanifica i benefici iniziali. Purtroppo tutte le sostanze non nocive che vogliono innalzare il
metabolismo sono meno efficaci della semplice caffeina, assunta in giuste dosi.
Le pillole brucia-grassi – Molti prodotti si basano su erbe cui vengono attribuite proprietà

150
dimagranti inesistenti. Sono a base di sostanze che, intervenendo sul metabolismo dei lipidi,
dovrebbero controllare l’accumulo di grassi, aiutando a bruciare quelli esistenti. Alcuni vanno a
intaccare processi che comunque in un individuo sano (come la maggior parte dei soggetti
sovrappeso) sono utili; addirittura se usati da sportivi possono produrre cali d’energia (dovuti
all’inibizione dei processi o a un generico effetto anoressante) che non giustificano l’impiego. È il
caso della garcinia, nome comune della Garcinia cambogia, pianta originaria del sud-est
asiatico, utilizzata in erboristeria in prodotti dimagranti per la presenza di acido idrossicitrico
nella buccia del frutto. Sembra che l’acido agisca sull’enzima citratoliasi o direttamente
sull’acetilcoenzima-A, bloccando la sintesi degli acidi grassi, evitando che si formi tessuto
adiposo. Se da un lato il processo sarebbe positivo poiché porta al consumo dei grassi circolanti
(con riduzione dei trigliceridi), dall’altro è negativo perché l’acetilcoenzima-A è fondamentale
nella produzione di energia. Altri (come il Citrus aurantium) attaccano direttamente i grassi già
depositati e li trasformano in energia (almeno teoricamente). In corrispondenza di precisi stadi di
maturazione il frutto del Citrus aurantium contiene una combinazione di amine adrenergiche
(sinefrina, N-metilsinefrina, hordenina, octopamina e tiramina) che aumenta l’attività metabolica,
aumentando la β-ossidazione dei grassi. Questo in teoria: in pratica non esiste nessuna evidenza
scientifica di una reale efficacia. Esistono molte ricerche che dimostrano come l’azione possa
sussistere solo se il soggetto ha una dieta fortemente ipercalorica; cioè l’effetto di queste sostanze
si riduce a bruciare un 10% circa delle calorie introdotte. Se il soggetto segue una dieta
ipocalorica (come generalmente è consigliato), la quota risparmiata è veramente minima e i
risultati sono deludenti.
La riduzione del senso di fame – Si attua di solito con l’ingestione di sostanze come il chitosano
(una sostanza cristallina ottenuta dalla chitina che costituisce lo scheletro esterno degli Artropodi
e dei Crostacei in particolare), il guar (una fibra estratta dai semi di una leguminosa) o il
glucomannano (uno zucchero complesso estratto da un albero del Giappone) che si comportano
come spugne che, gonfiandosi in presenza di acqua, danno un senso di pienezza e impediscono
l’assorbimento dei nutrienti. Ovviamente non vanno a intaccare la massa magra, ma il loro utilizzo
continuo non sempre è consigliabile a causa dei problemi gastrici (nausea e lunghezza della
digestione) e intestinali (flatulenza, volume delle feci) che portano con sé. Un altro metodo per
ridurre il senso di fame è utilizzare sostanze con un effetto anoressante. È decisamente
sconsigliato; i prodotti anoressanti blandi (come la bromelina, enzima sulfidrilico che oltre a
controllare i fenomeni infiammatori ha un’azione proteolitica, cioè favorisce la digestione delle
proteine, e anoressante) danno risultati praticamente nulli, quelli che lo sono realmente vengono
considerati psicofarmaci con pesanti effetti collaterali.
Funzionano? – La risposta è:

se funzionassero il sovrappeso non esisterebbe.

Molti dimagranti vengono reclamizzati con la classica frase “test clinici hanno dimostrato che…”.
Con questa frase si spingono molti prodotti per il benessere, sperando che l’utente recepisca il
messaggio come una verità inconfutabile. E “purtroppo” spesso ciò avviene. Occorre subito far
presente che un test clinico è una ricerca condotta su un numero limitato di soggetti e dovrebbe
essere considerato un punto di partenza e non di arrivo. La confusione nasce dal fatto che il
ricevitore del messaggio non conosce la differenza fra ricerca (un punto di partenza che serve
come spunto ad altri scienziati per confermarlo e farlo diventare scienza) e scienza (una ricerca
replicabile quindi un punto di arrivo: chiunque la esegua trova sempre gli stessi risultati) e quindi

151
i limiti della ricerca stessa.
Di fronte a una ricerca ci si deve sempre porre nell’ottica di scoprire il trucco, proprio come
davanti a un gioco di un prestigiatore. Questa posizione non è frutto di scetticismo, ma è indice di
spirito critico. Una famosa casa ci sottopose i risultati di una ricerca per convincerci che il
proprio dimagrante era efficace.
L’esperimento era durato 10 settimane con 32 partecipanti, suddivisi in tre gruppi. Il requisito per
la partecipazione era un sovrappeso di 9 kg e l’assenza di una qualunque forma di interazione
dietetica (farmacologica o alimentare). I 32 partecipanti erano stati assegnati a caso in tre gruppi:

A. Solo uso del prodotto.


B. Prodotto + dieta + attività fisica.
C. Nessun prodotto + dieta + attività fisica.

Ovviamente nei casi b) e c) si è manifestato un dimagramento. La nostra attenzione va rivolta però


al caso a). Infatti dovrebbe essere ormai chiaro che

sono fuorvianti tutte le ricerche in cui il gruppo testato assume il prodotto in combinazione a
una dieta ipocalorica e/o attività fisica.

Infatti come si può stabilire quale sia il fattore che ha portato al dimagramento significativo? Il
controllo del gruppo a) ha mostrato:

1. dopo un mese una perdita media di 3,5 kg (da 1,2 a 5,5 kg);
2. dopo due mesi e mezzo una perdita media di 4,6 kg (da 0,5 a 10,8 kg).

Gli estremi probabilmente sono dovuti a interazioni psicologiche che spiegano 0,5 kg di sola
diminuzione (“prendo la pillola, posso mangiare di più”) o addirittura 10,8 kg di diminuzione
(“finalmente sto dimagrendo, è meglio che controlli anche l’alimentazione”). Concentriamoci
pertanto sulla media. Due osservazioni:

1. dopo un calo di 3,5 kg nel primo mese, nei secondi 45 gg. il calo è stato solo di 1,1 kg. Ciò
significa che il corpo si assuefà o il prodotto diventa meno efficace quando il sovrappeso è
minore.
2. Comunque sembra che il prodotto funzioni.

In base a questi risultati fummo invitati dalla casa produttrice a eseguire un test indipendente. Il
nostro test impiegò 30 soggetti che non variarono la loro dieta né il loro regime di attività
sportiva/lavorativa nei 30 gg. del test (30 gg. è il periodo più favorevole).
Il prodotto era molto completo, il meglio di quelli presenti sul mercato. Come si può vedere dai
componenti, riassume tutto ciò che viene comunemente usato. Infatti era costituito da due
sottoprodotti:

1. P1: calorie e fat eliminator (a base di chitosano e fibre dell’arancia).


2. P2: carb. e fat burner (a base di Citramax 50% acido idrossicitrico -Garcinia cambogia,
Advantra Z, Citrus Aurantium, Noce di Kola).

Assunzione per 30 gg.

152
1. P1: una capsula con acqua 30’ prima di colazione, pranzo e cena.
2. P2: una capsula con acqua dopo la colazione, pranzo e cena.

Dov’è il trucco? – Prima di rendere noti i risultati del nostro esperimento, riflettiamo su come sia
possibile che:

A. la ricerca sia corretta;


B. i risultati siano fuorvianti.

Infatti il possibile trucco è che nulla si dice sui soggetti, se non che sono in sovrappeso di 9 kg. È
questo il parametro che può trarre in inganno. Infatti il ricevente il messaggio penserà: “è il mio
caso, anzi, meglio, visto che io ho solo 6 kg di sovrappeso”. In realtà non è così.

Quando si definisce un campione si deve definirlo in modo che sia esattamente uguale al target.

In questo caso l’unico dato in comune è il sovrappeso, ma non il peso o l’età. Vediamo come con
il solo vincolo del sovrappeso posso far tornare i conti.
Scelgo:

A. individui giovani (massimo 30 anni)


B. con peso non inferiore a 85 kg
C. in sovrappeso di 9 kg.

Nel protocollo dell’esperimento diffondo solo la notizia c), sperando che il ricevente si identifichi
con il campione.
Un individuo che corrisponde alla descrizione realisticamente avrà un consumo calorico di circa
3.500 kcal al giorno. Supponiamo che il prodotto dimagrante provochi una riduzione delle calorie
del 12%. L’individuo continuerà a mangiare come prima risparmiando 420 kcal al giorno, cioè
12.600 kcal al mese. Calcolando l’acqua legata al grasso (50%), perderà 2,8 kg. Ma cosa succede
in un individuo di sesso femminile di 40 anni, di peso 60 kg (per 165 cm) con un metabolismo
basale rallentato? Il soggetto con 1.800 kcal non cala di peso. Il rendimento del prodotto potrebbe
ridursi al 6% perché l’organismo ha comunque bisogno di una quota di macronutrienti e contrasta
ben più duramente ogni azione tesa a sottrarglieli (osservazione esposta sopra in merito al
risultato dell’esperimento). Il soggetto risparmia 108 kcal al giorno, cioè 3.240 kcal; tradotto in
peso 0,7 kg al mese! Tenuto conto del fatto che nei secondi 45 gg. ci sarà un ulteriore
ridimensionamento della diminuzione corporea, è ragionevole aspettarsi che, grazie al prodotto, la
nostra amica possa dimagrire di 1 kg in due mesi e mezzo. Molto poco e sostanziale fallimento del
dimagrante.
I risultati del nostro test – I 30 soggetti furono suddivisi in due gruppi:

A. individui con meno 35 anni d’età e IMC da 22 a 26 per gli uomini e da 20 a 24 per le donne
(quindi sovrappeso, ma non obesità);
B. individui di oltre 35 anni e IMC da 22 a 26 per gli uomini e da 20 a 24 per le donne.

GRUPPO A (14 soggetti) - Due soggetti non hanno portato a termine il test per problemi piuttosto
fastidiosi (un caso di astenia pronunciata e l’altro di nausea e dolori gastrici). 12 soggetti hanno

153
portato a termine l’esperimento e nei trenta giorni di test hanno mostrato il seguente
comportamento:

•• perdita di peso media in valore assoluto: 1,4 kg


•• perdita di peso media in valore percentuale: 1,9%
•• massima perdita di peso in valore assoluto: 3,4 kg
•• massima perdita di peso in valore percentuale: 4,2%
•• numero soggetti con perdita < 1 kg: 5
•• numero soggetti senza effetti collaterali: 6.

Effetti collaterali: nausea, gonfiore gastrico, crampi, diarrea, astenia.

GRUPPO B (16 soggetti) - Un soggetto non ha portato a termine il test (nausea). 15 soggetti hanno
portato a termine l’esperimento e nei trenta giorni di test hanno mostrato il seguente
comportamento:

•• perdita di peso media in valore assoluto: 0,9 kg


•• perdita di peso media in valore percentuale: 1,3%
•• massima perdita di peso in valore assoluto: 2,8 kg
•• massima perdita di peso in valore percentuale: 3,9%
•• numero soggetti con perdita < 1 kg: 12
•• numero soggetti senza effetti collaterali: 9

Effetti collaterali: nausea, gonfiore gastrico, crampi, diarrea, astenia.

I risultati sono molto più modesti di quelli presentati dalla casa produttrice, il che dimostra che
probabilmente i nostri dubbi espressi nella sezione Dov’è il trucco? sono fondati. Si può
ragionevolmente concludere che:

A. l’azione autonoma dei migliori dimagranti da banco può essere stimata inferiore al 2% del peso
corporeo (in 30 gg.).
B. Funzionano meglio con individui in cui il metabolismo non è ancora stato rallentato dall’età
(inferiori ai 35 anni).
C. Nel 50% circa dei casi si verificano effetti collaterali.
D. Tenuto conto del meccanismo d’assuefazione per cui i benefici dopo i primi 30 gg.
diminuiscono notevolmente, non sembra al momento che i dimagranti da banco possano essere una
risposta efficace al problema del sovrappeso.

I dimagranti con prescrizione


Come abbiamo visto, i dimagranti da banco non forniscono sufficienti garanzie di un’azione
efficace. Possono essere usati come coadiuvanti di diete ipocaloriche, ma se il soggetto non sa
seguire una dieta lo aiuteranno pochissimo nel raggiungere l’obiettivo del dimagramento.
I dimagranti con prescrizione hanno un’efficacia maggiore, ma anche maggiori effetti collaterali e
vengono impiegati non per soggetti sovrappeso, ma solo per veri obesi. I farmaci dimagranti che
possono essere prescritti dal medico sono l’Orlistat e la Sibutramina. In Italia la Sibutramina è
stata più volte immessa e ritirata dal mercato. Il 24 gennaio 2010 è stata nuovamente bandita in

154
base alle indicazioni dell’Agenzia Italiana del Farmaco.
Orlistat – Blocca l’azione degli enzimi responsabili della digestione e dell’assorbimento dei
grassi (riduzione dell’assorbimento del 30% circa); i grassi non assorbiti vengono eliminati con le
feci. Con un banale calcolo, se il soggetto assume 3.000 calorie, di cui il 30% da grassi, l’Orlistat
permette di risparmiare 270 calorie. Da studi molto accurati si è visto che chi perde 5 kg con la
sola dieta, abbinando l’Orlistat ne perde circa 9. Anche in questo caso il solo farmaco non basta
quindi a garantire un dimagrimento consistente. Poiché il risparmio è proporzionale con il cibo,
l’Orlistat è indicato per chi ingrassa perché mangia troppo, mentre non lo è per chi ingrassa
perché brucia poco. Le controindicazioni sono gravi disturbi intestinali (il farmaco aumenta la
quantità delle feci espulse). Dal novembre 2009 l’Orlistat è venduto anche come dimagrante da
banco.
Sibutramina – Regola il senso di fame e aumenta il consumo dell’energia da parte
dell’organismo, potenziando l’attività di serotonina e noradrenalina. La sua azione è cioè
complementare a quella dell’Orlistat ed è indicata per chi ingrassa perché brucia poco. Ha
controindicazioni importanti perché aumenta la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa e non
deve essere usata con gli antidepressivi che agiscono sulla serotonina.

L’attività fisica
Nel Capitolo 1 (ved. paragrafo L’attività fisica) abbiamo enunciato una delle regole principali
della dieta italiana:

(6)non è possibile seguire un’alimentazione corretta senza praticare un’attività fisica continua
e di intensità non trascurabile.

Il motivo teorico è espresso nell’Appendice 5, mentre quelli pratici e/o psicologici sono già stati
trattati nel Capitolo 1. Ora ci occuperemo di definire le caratteristiche della corretta attività fisica,
in grado di supportare al meglio una sana alimentazione. Prima di farlo è importante sottolineare
ancora una volta che

alimentazione e sport sono due concetti inscindibili.

È veramente ottimistico (nel senso che le probabilità sono basse) sperare che si possa mangiare
bene per tutta la propria vita e non essere sovrappeso senza fare attività sportiva, ma lo è anche
fare attività sportiva nella convinzione che basti questa per sconfiggere il sovrappeso (con un
banale ragionamento del tipo: “faccio sport, posso abbuffarmi finché voglio che non ingrasso”).

Quanto sport?
Il famoso motto latino tot capita tot sententiae (tante le teste, altrettanti i giudizi) si adatta
perfettamente alle innumerevoli teorie che circolano sulla relazione fra benessere e attività
sportiva. Sembra infatti che ognuno di noi definisca il proprio come il miglior modo di praticare
una sana attività sportiva. Limitandosi a citare due posizioni estreme, c’è chi ritiene che sia
salutare il semplice camminare per trenta minuti al giorno e chi invece è convinto che sia
impossibile avere un qualche beneficio se non si fa sport in maniera continua e intensa.
Quest’ultima posizione si accorda a una ricerca di massa proveniente dalla Germania (2001).

155
Analizzando le informazioni su 12.000 soggetti, si è constatato che, per quanto riguarda il rischio
cardiovascolare, fra gli uomini solo l’attività intensa ha mostrato di avere un effetto positivo
riducendo tutti i fattori di rischio: i livelli di colesterolo e trigliceridi, la pressione sanguigna, la
frequenza cardiaca e il peso corporeo. Per quanto riguarda le donne, si è avuta una diminuzione
della pressione del sangue, della frequenza cardiaca e del peso. Per entrambi i sessi, un’attività
blanda ha generato scarsi benefici e, in alcuni casi, nessuno.
Quindi il messaggio da trasmettere sembrerebbe questo: è abbastanza inutile svolgere un’attività
sportiva blanda, spacciandola come attività fisica. Ciò è in accordo con il celebre studio
dell’università di Harvard; tale ricerca (ormai universalmente accettata) su 17.000 allievi, seguiti
dal 1916 al 1950, ha mostrato come la curva di rischio cardiovascolare diminuisca all’aumentare
dell’esercizio fisico praticato fino ad avere un minimo con 6-8 ore settimanali. Lo studio di
Harvard è la prova più convincente che non solo è consigliabile fare sport, ma è necessario.
Perché perdere qualche anno della propria speranza di vita solo perché si ritiene che lo sport sia
noioso o troppo faticoso? Uno studio derivato dal campione italiano del Seven Countries Study su
soggetti dai 40 ai 59 anni ha rilevato che chi pratica un’intensa attività sportiva da almeno dieci
anni ha un indice di rischio cardiovascolare uguale ai due terzi di chi la pratica moderatamente e a
un terzo rispetto a un sedentario, riconfermando i risultati del campione di Harvard.
In realtà molti medici (per lo più sedentari) sostengono che non tutti sono in grado di svolgere
un’attività fisica intensa e che pure una leggera (come camminare per qualche decina di minuti) è
sicuramente positiva. Anche molti mezzi di informazione sono allineati su questa posizione,
soprattutto quelli che hanno un pubblico con un’alta percentuale di sedentari.
Grazie all’esperienza acquisita sul campo seguendo centinaia di atleti e alle informazioni che
giungono dalla ricerca, è però possibile dirimere una volta per tutte la questione di come si debba
fare sport per avere un minimo beneficio per la nostra salute.
Infatti una definizione salutista di attività sportiva è:

qualunque attività che migliora significativamente le caratteristiche fisiologiche


dell’individuo.

In base a questa definizione non è più possibile barare: se faccio sport, ma il mio corpo non
cambia di una virgola, lo faccio inutilmente e ciò significa errare in una o più delle tre variabili
fondamentali:

•• intensità (lo faccio troppo blandamente)


•• frequenza (lo faccio troppo di rado)
•• durata (il mio allenamento dura troppo poco).

L’espressione “caratteristiche fisiologiche” è volutamente vaga per dare la massima estensione


salutista. Esistono sport che in base a tale definizione non possono essere considerati tali, altri che
sono al limite e dipendono dall’interpretazione soggettiva. Si pensi al tiro a segno o a tutti quegli
sport in cui la componente tecnica è predominante. Gli appassionati di questi sport sicuramente
non saranno d’accordo, ma per convincerli basta eseguire un’analisi del sangue dell’atleta: è
praticamente impossibile distinguerla da quella di un sedentario.
Per altri sport la situazione è più sfumata e dipende da come viene interpretata. Un portiere di una
squadra di calcio può fare sport o meno a seconda dell’impegno individuale che infonde negli
allenamenti: in teoria, se ha molta classe, potrebbe limitare al minimo la parte atletica e quindi

156
non avere alcun beneficio salutistico. La stessa situazione si ha per tutti coloro che fanno sport a
livello amatoriale: se il livello non è sufficientemente intenso, fisiologicamente non si ha nessuna
modificazione e quindi nessun beneficio.
Per sapere se si fa bene sport, basta una semplice visita medica con un’analisi del sangue. Infatti,
se fatto come si deve, lo sport modifica i seguenti parametri.
Peso – L’attività fisica dovrebbe favorire la diminuzione del peso corporeo. Il condizionale è
d’obbligo perché spesso viene impiegata come alibi per supportare un’alimentazione non ottimale.
Se il soggetto non è magro l’attività praticata non apporta nessun beneficio salutista, anzi spesso
nei soggetti sovrappeso un’intensa attività sportiva può addirittura essere controproducente. Una
pratica ottimale e una sana alimentazione mantengono i livelli dei trigliceridi inferiori a 100-110
mg/dl.
Frequenza cardiaca a riposo – Se il volume del cuore aumenta per stimoli di potenza (aumento
delle pareti cardiache) o di resistenza (aumento del volume cardiaco), a riposo il cuore farà meno
fatica a supportare le esigenze del corpo e la frequenza cardiaca diminuirà. Una frequenza
cardiaca a riposo inferiore alle 60 pulsazioni al secondo è una naturale conseguenza di un
allenamento in un soggetto normale (cioè che già di per sé non sia bradicardico).
Muscolatura – Come per il peso, anche la muscolatura è un indicatore che deve modificarsi in
presenza di un’attività salutista; la variazione può essere globale o parziale (per esempio solo gli
arti inferiori). Per la reale valutazione della muscolatura occorre anche tener conto della
percentuale di massa grassa del soggetto: l’atleta non deve apparire grosso solo perché il grasso
in eccesso ha gonfiato la muscolatura.
Pressione arteriosa – Sicuramente avere una pressione alta è tipico di un’attività sportiva non
ottimale. Se esistono altri fattori che possono mascherare i benefici dello sport, è pur vero che
l’ipertensione negli sportivi si riscontra spesso per errori nella pratica sportiva. I più comuni sono
un’attività troppo blanda (il soggetto resta sostanzialmente un sedentario) o, al contrario, troppo
stressante (la qualità, cioè l’intensità, prevale nettamente sulla quantità).
Colesterolo HDL – Anche se alcuni sostengono che lo sport diminuisca il colesterolo totale, in
realtà aumenta sicuramente il colesterolo HDL (quello buono) e quindi riduce il rischio
cardiovascolare (colesterolo totale/colesterolo HDL); se il colesterolo HDL è troppo basso
(inferiore a 4050 mg/dl) l’attività sportiva non è servita allo scopo.
Glicemia – Una pratica sportiva regolare e sufficientemente intensa abbassa la glicemia (cioè il
contenuto del glucosio nel sangue) sotto i 100 mg/dl, spesso sotto i 90 mg/dl. Ovviamente la
glicemia è influenzata anche dall’alimentazione e da altri fattori, ma è rarissimo trovare un vero
atleta con la glicemia alta.
MCV – È il volume globulare medio: negli sport aerobici il corpo aumenta le dimensioni dei
globuli rossi per trasportare meglio l’ossigeno. Valori tipici di un atleta sono superiori a 90
femtolitri (femto è un prefisso che divide l’unità di misura per 1015). Attenzione che anche
condizioni patologiche (come il fumo o l’alcol) possono farlo variare in tal senso. Non occorre
essere campioni per praticare una sana attività sportiva.

Ecco i parametri di uno sportivo ideale.


Massa grassa – Inferiore al 12% per gli uomini e al 20% per le donne (valore totale, grasso
essenziale compreso).
Frequenza cardiaca a riposo – Inferiore a 60 pulsazioni/minuto.
Pressione arteriosa – Valori massimi 130-90.
Colesterolo HDL – Superiore a 40 mg/dl.

157
Glicemia – Inferiore a 100 mg/dl.
Trigliceridi – Inferiori a 110 mg/dl.

Quale sport?
Sintetizzando i benefici dello sport e tralasciando quelli di ricaduta (per esempio controllando il
sovrappeso lo sport riduce il rischio di tumori), possiamo dire che sono cinque le aree
d’intervento:

A. protezione ed efficienza cardiovascolare (colesterolo HDL, pressione arteriosa, aumento della


funzionalità cardiaca ecc.);
B. controllo del peso corporeo;
C. efficienza muscolo-scheletrica;
D. stimolazione e regolazione ormonale (controllo della glicemia, stimolazione dell’ormone della
crescita ecc.);
E. azione psichica (controllo dello stress, aumento della forza di volontà e dell’autostima ecc.).

I vari sport non sono ovviamente equivalenti ai fini della salute poiché hanno una diversa efficacia
nelle varie aree di intervento.

La durata e l’intensità dell’azione sportiva determinano il livello di protezione dello sport


considerato.

Ovviamente ogni sport ha altri aspetti positivi, oltre a quelli di protezione: il divertimento, i
contatti sociali, il coinvolgimento emotivo che porta l’individuo in uno stato di benessere ecc. In
questo paragrafo però si considerano solo i vantaggi salutistici della pratica sportiva. In
quest’ottica sono proprio la durata e l’intensità dell’attività che ne determinano i benefici,
naturalmente considerando che l’attività non sia saltuaria, ma continua e programmata. Mettiamo
ancora una volta in guardia da una pratica sportiva casuale, disordinata e a volte esagerata:

i benefici si hanno solo se si è allenati.

Nella tabella 11 è espressa la correlazione (in scala da 1 a 5) fra sport e aree di intervento.

TABELLA 11 - Valutazione salutistica dei vari sport.


----------
• Aerobica
> Cuore 3 > Peso 4 > Muscoli/scheletro 4 > Ormoni 4 > Psiche 2 > Globale 4

• Atletica (fondo)
> Cuore 5 > Peso 5 > Muscoli/scheletro 3 > Ormoni 5 > Psiche 5 > Globale 5

• Atletica (lanci)
> Cuore 1 > Peso 0 > Muscoli/scheletro 5 > Ormoni 2 > Psiche 1 > Globale 2

• Atletica (salti)
> Cuore 1 > Peso 4 > Muscoli/scheletro 4 > Ormoni 2 > Psiche 1 > Globale 3

158
• Atletica (velocità)
> Cuore 2 > Peso 2 > Muscoli/scheletro 5 > Ormoni 5 > Psiche 3 > Globale 4

• Baseball
> Cuore 2 > Peso 2 > Muscoli/scheletro 3 > Ormoni 4 > Psiche 2 > Globale 3

• Basket
> Cuore 2 > Peso 2 > Muscoli/scheletro 5 > Ormoni 4 > Psiche 3 > Globale 4

• Body building
> Cuore 1 > Peso 3 > Muscoli/scheletro 5 > Ormoni 3 > Psiche 2 > Globale 3

• Calcio
> Cuore 3 > Peso 3 > Muscoli/scheletro 3 > Ormoni 4 > Psiche 2 > Globale 4

• Canottaggio
> Cuore 4 > Peso 3 > Muscoli/scheletro 5 > Ormoni 5 > Psiche 4 > Globale 4

• Ciclismo
> Cuore 5 > Peso 5 > Muscoli/scheletro 4 > Ormoni 5 > Psiche 5 > Globale 5

• Equitazione
> Cuore 0 > Peso 0 > Muscoli/scheletro 1 > Ormoni 0 > Psiche 1 > Globale 1

• Ginnastica
> Cuore 2 > Peso 4 > Muscoli/scheletro 5 > Ormoni 4 > Psiche 3 > Globale 4

• Golf
> Cuore 1 > Peso 1 > Muscoli/scheletro 2 > Ormoni 1 > Psiche 1 > Globale 2

• Gymnasium training
> Cuore 2 > Peso 3 > Muscoli/scheletro 4 > Ormoni 2 > Psiche 2 > Globale 3

• Judo
> Cuore 3 > Peso 4 > Muscoli/scheletro 4 > Ormoni 4 > Psiche 3 > Globale 4

• Karate
> Cuore 3 > Peso 4 > Muscoli/scheletro 4 > Ormoni 4 > Psiche 3 > Globale 4

• Nuoto (velocità)
> Cuore 3 > Peso 3 > Muscoli/scheletro 5 > Ormoni 5 > Psiche 3 > Globale 4

• Nuoto (fondo)
> Cuore 5 > Peso 4 > Muscoli/scheletro 5 > Ormoni 5 > Psiche 5 > Globale 5

• Pallanuoto
> Cuore 3 > Peso 3 > Muscoli/scheletro 5 > Ormoni 5 > Psiche 4 > Globale 4

159
• Pallavolo
> Cuore 1 > Peso 1 > Muscoli/scheletro 4 > Ormoni 2 > Psiche 2 > Globale 2

• Rugby
> Cuore 3 > Peso 0 > Muscoli/scheletro 2 > Ormoni 4 > Psiche 3 > Globale 3

• Scherma
> Cuore 2 > Peso 3 > Muscoli/scheletro 4 > Ormoni 4 > Psiche 2 > Globale 3

• Sci (discesa)
> Cuore 3 > Peso 2 > Muscoli/scheletro 5 > Ormoni 5 > Psiche 4 > Globale 4

• Sci (fondo)
> Cuore 5 > Peso 5 > Muscoli/scheletro 3 > Ormoni 5 > Psiche 5 > Globale 5

• Sollevamento pesi
> Cuore 1 > Peso 0 > Muscoli/scheletro 5 > Ormoni 3 > Psiche 1 > Globale 2

• Squash
> Cuore 3 > Peso 3 > Muscoli/scheletro 4 > Ormoni 4 > Psiche 4 > Globale 4

• Tennis
> Cuore 3 > Peso 3 > Muscoli/scheletro 3 > Ormoni 4 > Psiche 4 > Globale 3

• Windsurf
> Cuore 1 > Peso 1 > Muscoli/scheletro 3 > Ormoni 2 > Psiche 3 > Globale 2

LEGENDA - CUORE - Si valuta la protezione cardiovascolare. PESO - Si valuta l’importanza


del controllo del peso corporeo e di un’alimentazione equilibrata. MUSCOLI E SCHELETRO -
Si valuta l’importanza della muscolatura, ma anche i traumatismi introdotti dallo sport
considerato. ORMONI - Si valuta la sollecitazione ormonale prodotta dallo sport in sé.
PSICHE - Si valuta la resistenza alla fatica. Sono inseriti solo gli sport che possono essere
praticati da un amatore, facilmente e con continuità.
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Sono stati inclusi gli sport che possono essere praticati con una certa continuità; è stata anche fatta
la distinzione fra body building (inteso in senso professionale, dove l’atleta vuole anche definirsi
al massimo, minimizzando la propria massa grassa) e gymnasium training (il generico allenamento
pesi/aerobico che si svolge in palestra). Come si può notare gli sport che meglio preservano la
nostra salute sono la corsa prolungata, il ciclismo, il nuoto (fondo) e lo sci di fondo. A tutti i nostri
lettori consigliamo lo sport più semplice per mantenersi in forma: la corsa, la madre di tutti gli
sport. Chi fosse interessato ad approfondire l’argomento può consultare Il manuale completo
della corsa (ed. Thea, http://www.albanesi.it/ecommerce/corsa.htm).

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Capitolo 8 - Psicologia dell’alimentazione

Come indica il titolo, in questo capitolo tratteremo di reazioni di soggetti normali sottoposti a
situazioni di normalità, evitando cioè di discutere aspetti che sono tipicamente oggetto della
psichiatria (bulimia, anoressia ecc.).
Definire esattamente cosa condizioni l’alimentazione di un individuo è al di là degli scopi di
questo libro. È però importante fissare delle linee guida in cui muoversi per capire come un
modello alimentare possa definirsi concreto. Nel momento stesso in cui non tiene conto del
comportamento di gran parte della popolazione nei riguardi dell’alimentazione è sicuramente un
modello astratto. In particolare va affrontato il problema che c’è alla base di ogni scelta
alimentare: lo stimolo a mangiare.

Perché si mangia
Innanzitutto osserviamo che non si parla di fame, ma di stimolo a mangiare. La fame è una
particolare forma di stimolo alimentare caratterizzata da una grande motivazione a mangiare e
collegata a una sofferenza nel caso in cui questo stimolo non venga soddisfatto. In realtà non
sempre si mangia perché si ha fame e questo è uno dei motivi per cui una semplice regolazione
della fame non assicura di essere immuni dal sovrappeso.
La fame è una sensazione che viene causata dal bisogno di cibo. Tale sensazione viene
generalmente avvertita dopo che sono trascorse alcune ore dal pasto, inizialmente in forma più
lieve, in seguito più imperiosamente. In alcuni disturbi di carattere psichico, la sensazione di fame
può essere alterata e ciò può condurre il soggetto ad assumere cibo in modo eccessivo (è, per
esempio, il caso della bulimia) oppure ad assumerne in quantità inferiori alle esigenze
dell’organismo o, addirittura, a privarsene (digiuno) come accade, per esempio, alle persone
affette da anoressia. La sensazione di fame, comunque, anche in un soggetto sano, può essere
variamente influenzata da diversi fattori, come il livello di attività fisica, gli stati emotivi,
l’assunzione di determinate sostanze ecc.

Fame e sazietà: i segnali


Quello della regolazione della fame è un meccanismo piuttosto complesso, non ancora
perfettamente noto, che è regolato da diversi mediatori.
In condizioni di normalità, l’organismo umano utilizza dei segnali che guidano il soggetto a
ricercare o meno l’assunzione di cibo; detti segnali sono quelli che regolano le sensazioni di fame
e di sazietà.
Il meccanismo che regola la fame è localizzato nell’ipotalamo; nella zona laterale si trova il
cosiddetto centro della fame, mentre nell’area mediale ha sede il centro della sazietà; questi due
centri interagiscono finemente tra loro regolando, di fatto, l’assunzione di calorie.
I segnali di fame (o segnali oressigeni) e quelli di sazietà (segnali anoressigeni) sono legati
all’azione di numerosi mediatori; quelli principali sono leptina, insulina e grelina. I primi due
informano l’organismo inviando segnali di “pieno” o “troppo pieno”, mentre la grelina agisce in
modo opposto.
Leptina - La leptina è un ormone proteico scoperto nel 1994 da Friedman; le sue funzioni sono
numerose, fra esse spiccano il controllo del comportamento alimentare e la regolazione

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dell’attività tiroidea. La leptina viene secreta dal tessuto adiposo bianco in base allo stato
nutrizionale del soggetto e all’attività liposintetica del tessuto adiposo. I livelli ematici di leptina
sono relazionati all’entità della massa grassa (risultano superiori nei soggetti affetti da obesità e
inferiori negli individui magri); si innalzano in seguito all’assunzione di cibo e diminuiscono nel
digiuno protratto. La leptina agisce sui vari recettori localizzati nell’ipotalamo per diminuire la
sensazione di fame.
Anni addietro, fu pubblicato uno studio che indagava sulla relazione tra leptina e sovrappeso;
come abbiamo visto la leptina agisce riducendo la sensazione di fame; in topi privi del gene che
codifica la leptina (gene OB) fu osservato un abnorme aumento di peso; com’è noto però quello
che accade nei topi non sempre si verifica nell’uomo e, infatti, esistono soggetti affetti da obesità
pur in presenza di notevoli concentrazioni plasmatiche di leptina. La risposta più probabile sul
perché ciò possa accadere è che ci si trovi di fronte a casi di leptino-resistenza, un concetto
analogo a quello di insulino-resistenza; in pratica, non funzionano più quei meccanismi che
controllano le riserve lipidiche.
Insulina - L’insulina, come noto, è un ormone proteico secreto da cellule appartenenti a strutture
endocrine del pancreas. La sua secrezione in circolo è, in sostanza, una risposta all’assunzione di
carboidrati; essa praticamente gestisce il carico glicidico dopo un pasto. L’insulina, analogamente
a quanto fa la leptina nei confronti dei lipidi, fornisce un segnale di abbondanza relativo ai glicidi.
PYY 3-36 - Oltre ai segnali forniti da leptina e insulina va ricordato quello del peptide PYY 3-36
(un ormone prodotto dal colon) che agisce come indicatore di abbondanza di energia calorica
introdotta.
Grelina - Alla grelina, un ormone scoperto nel 1999, è affidato il compito di segnalare la carenza
di cibo; la grelina viene prodotta principalmente dallo stomaco, in particolar modo quando siamo
a “stomaco vuoto”, ovvero in una condizione in cui un soggetto sano avverte lo stimolo della fame.
Elevati livelli di grelina sono correlati a un incremento ponderale, in particolar modo relativo alla
massa grassa. Di norma, i livelli plasmatici di questo ormone sono massimi durante la condizione
di digiuno e si riducono drasticamente dopo un pasto e in condizioni di iperalimentazione.

La fame e le varie teorie


Gli studi sui meccanismi regolatori della fame sono numerosi, così come numerosi sono quelli che
cercano di spiegare i meccanismi che sono alla base di fenomeni legati, in un certo qual modo, a
un’errata interpretazione della sensazione di fame. Le teorie proposte per spiegare i meccanismi
della fame sono numerose; fra quelle più note vi sono la teoria della regolazione glicostatica (o
glucostatica), la teoria della regolazione lipostatica e la teoria della regolazione termostatica.
Teoria glicostatica - In base alla teoria glicostatica, sviluppata da Mayer, l’attività dei nuclei
dell’ipotalamo deputati alle sensazioni di appetito e fame e di quelli dai quali dipende il senso di
sazietà dipenderebbe dalla concentrazione ematica di glucosio; nel momento in cui il tasso
ematico di glucosio scende sotto determinati valori (valori di guardia) si innesca lo stimolo della
fame; al contrario, nel momento in cui la glicemia si innalza in modo eccessivo, il cervello
capisce che non è più necessario introdurre cibo e conseguentemente la sensazione di fame viene a
cessare. In altri termini, un aumento della glicemia (che di norma si verifica appunto nel periodo
post-prandiale) inibisce i nuclei ipotalamici deputati alla sensazione di fame e stimola quelli
legati al senso di sazietà. Sempre secondo tale teoria, la situazione inversa si verificherebbe in
condizioni di digiuno.
Teoria lipostatica - Secondo la teoria lipostatica, i centri deputati alle sensazioni di fame e

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sazietà sono influenzati dai depositi adiposi dell’organismo. La fame varierebbe in modo
proporzionalmente inverso al variare dei depositi di grasso; nel momento in cui le scorte dei
lipidi iniziano a scarseggiare la sensazione di fame aumenta; al contrario, nel momento in cui le
scorte lipidiche vengono ricostruite lo stimolo della fame viene inibito. I fautori della teoria
lipostatica basano la loro convinzione sul fatto che, in un periodo di lungo termine, la
concentrazione ematica media degli acidi grassi è direttamente proporzionale alla quantità di
massa grassa dell’organismo; si ipotizza quindi che gli acidi grassi liberi agiscano in modo tale da
provocare un effetto a feedback negativo in grado di regolare l’assunzione di cibo.
Teoria della regolazione termostatica - In base alla teoria della regolazione termostatica,
formulata da Brobeck, l’attività dei centri deputati alle sensazioni di fame e sazietà dipenderebbe
dalla temperatura corporea; la teoria sostiene che la riduzione della temperatura corporea
agirebbe da stimolo sul centro della fame deprimendo il centro della sazietà; un innalzamento
della temperatura corporea, invece, agirebbe nel verso contrario. Detto in altri termini, nel
momento in cui, a seguito dell’assunzione di cibo, si registra un aumento della temperatura
corporea, verrebbe attivata la sensazione di sazietà, mentre in caso di digiuno, per il meccanismo
inverso, verrebbe evocato lo stimolo della fame.

La nostra visione
Nessuna delle tre teorie appare però superare la prova dei fatti, anche perché nell’uomo (in cui la
sfera psicologica è molto più importante che negli animali) lo stimolo della fame si fonde
indissolubilmente con l’appetito.
Spesso fame e appetito vengono considerati sinonimi. In realtà si tratta di due sensazioni diverse
fra loro, anche se può risultare non agevole distinguerle. La fame è sicuramente una necessità
fisiologica necessaria alla vita, una sensazione non facilmente controllabile che induce il soggetto
a introdurre cibo. Nell’appetito, invece, si registra un’attenzione maggiore alla qualità del cibo e
il desiderio di cibarsi è legato non soltanto alla fame, ma anche ad aspetti organolettici.
La dieta italiana ha una visione più completa del problema, definendo lo stimolo a mangiare (ES,
eating stimulus). L’ES ha sostanzialmente due componenti: una fisiologica (la “necessità” del
cibo) e una psichica (il “valore” del cibo). La componente fisiologica può essere equiparata a
grandi linee allo stimolo della fame, mentre quella psichica è sicuramente più complessa e
diversificata a seconda dei soggetti, essendo espressione dei tratti principali della loro
personalità.

La sazietà
La sazietà è un concetto molto importante perché ogni dieta non può prescindere dalla capacità di
combinare i cibi in maniera tale da evitare il più possibile lo stimolo della fame. Molte diete
teoriche falliscono proprio perché sono irrealizzabili dal punto di vista della sazietà o
dell’appetibilità dei cibi. Lo studio di questi due aspetti dovrebbe essere tanto importante quanto
lo studio calorico o quanto la ripartizione dei macronutrienti nella dieta.
La maggiore difficoltà è rappresentata dal fatto che i concetti di sazietà e di appetibilità sono
soggettivi: rispetto a questi due fattori, chi imposta la dieta deve cioè trattare i vari alimenti in
modo diverso per ogni soggetto. Finora si è cercato di attribuire la sazietà provocata dai cibi a
fattori quali il loro volume, la loro composizione (i grassi saziano più dei carboidrati che vengono
digeriti più facilmente), il loro aspetto (componente psicologica da non sottovalutare) ecc. In

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effetti queste considerazioni sono in linea di massima giuste, ma non consentono di arrivare a nulla
di quantitativo.

Lo stimolo della fame


Lo stimolo fisiologico a mangiare può originarsi in vari modi e con intensità diverse; molto resta
ancora da scoprire ed è compito della medicina fare chiarezza. Nella scienza dell’alimentazione si
inizia a studiare il soggetto dopo che ha ricevuto questo stimolo. Compito fondamentale di ogni
modello alimentare è soddisfarlo, facendo non solo meno danni possibile, ma anche ottimizzando
le risorse che tramite il cibo vengono passate all’organismo.
Appare evidente che con la cessazione dello stimolo (stato di sazietà) termina l’indagine. Il campo
di applicazione delle teorie alimentari resta quindi compreso fra la partenza dello stimolo della
fame e la sua cessazione (sazietà). Occorre pertanto chiedersi: cosa produce la sazietà?
Nella risposta NON bisogna tenere conto di fattori psicologici perché essi sono già considerati
nell’ES psichico e si deve quindi dare per scontato che i soggetti considerati nei confronti della
sazietà siano omogenei riguardo agli stimoli psichici.
Tre sono i fattori principali del concetto di sazietà:

•• il tempo di digestione del cibo (i grassi e le proteine per esempio saziano più dei carboidrati
che vengono digeriti più facilmente)
•• il riempimento gastrico che il cibo provoca (a parità di calorie la verdura cotta è più saziante di
una fetta di crostata)
•• l’appetibilità del cibo.

L’ultimo punto è un concetto sicuramente inquinato da motivazioni psicologiche e sarà trattato nel
prossimo paragrafo.

L’indice di sazietà a scala


Nel 1999 introdussi gli indici di sazietà (IS) degli alimenti. Chi si occupa di cucina dietetica deve
per forza di cose occuparsi dell’indice di sazietà. Vediamone l’importanza con un breve esempio
che considera tre alimenti tipicamente lipidici: le noci, le olive, la panna. A prima vista si
tenderebbe a escludere l’ultima possibilità a favore di una delle due precedenti. Per il nostro
individuo standard da 70 kg le dosi per il test sono 53 g di noci (parte edibile), 233 g di olive
verdi, 160 g di panna fresca. Considerando l’indice di sazietà, le noci probabilmente verranno
scartate perché 53 g di noci hanno in quasi tutti i casi una sazietà molto bassa; a seconda dei casi
verranno preferite le olive o addirittura la panna (a prescindere da ogni considerazione sui grassi
di origine animale o su quelli idrogenati spesso presenti nella panna vegetale). Se poi si
considerano alimenti tipicamente pericolosi per la dieta si scopre che in genere hanno indici di
sazietà molto bassi come quelli di 80 g di una merendina.
Il lavoro del 1999 fu importante perché i risultati evidenziavano in modo netto che:

1. la frutta ha in genere un buon indice di sazietà tranne la frutta secca (che invece lo ha
bassissimo), l’uva e i mandaranci: in sostanza la sazietà è aiutata dalle fibre ed è depressa dal
contenuto di grassi e di zuccheri;
2. la carne e il pesce hanno un buon indice di sazietà;

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3. la verdura (comprese le insalate) ha un buon indice di sazietà; fanno eccezione le verdure
caloriche come i fagioli o le patate;
4. i formaggi (anche la mozzarella) hanno un indice di sazietà basso;
5. i salumi (tranne il prosciutto cotto e la bresaola) hanno indice di sazietà basso;
6. alcuni cibi come la panna, le olive o lo yogurt intero hanno indici molto alti; da notare la
differenza fra yogurt intero e magro: spesso scegliere uno yogurt magro vuol dire mangiarne di più
per colmare lo stimolo della fame e quindi introdurre più calorie;
7. la pasta, la pizza e il pane (tipici della dieta mediterranea) hanno indici piuttosto bassi;
8. i dolci hanno indici di sazietà molto bassi;
9. i condimenti (burro, olio ecc.) hanno indice di sazietà molto basso.

I limiti dell’indice di sazietà numerico


Le considerazioni precedenti hanno un alto valore teorico e hanno permesso la nascita della
cucina ASI, ma l’indice numerico risultava poco pratico da gestire per tre problemi fondamentali.
Il volume – Poiché si considera una quantità di calorie proporzionale al peso del soggetto (5 kcal
per kg), è ovvio che la proporzionalità non è detto sussista con il volume che invece è importante
per il riempimento gastrico. Dati due soggetti sani (una donna sedentaria alta 160 cm - 48 kg e un
uomo sportivo alto 190 cm - 95 kg), per la donna (stomaco piccolo) il cioccolato (240 kcal) ha
comunque un effetto saziante, mentre nell’uomo (475 kcal) no. In genere per cibi con densità
calorica (le calorie per 100 g) elevata il problema è più sensibile. Fra l’altro, il tempo di
svuotamento gastrico non è proporzionale al peso del soggetto, ma è legato all’abitudine di
assumere quantità più o meno notevoli di cibo.
L’indice composto – Cosa accade se un cibo contiene due o più ingredienti? Si potrebbe pensare
che sia valido l’effetto sommatoria nel senso che l’indice di sazietà composto dell’alimento
sarebbe dato dalla media pesata degli indici di sazietà degli alimenti componenti rispetto alle
calorie.
In realtà non è affatto così. Infatti un alimento aggiunto a un altro può cambiare nettamente le
caratteristiche del prodotto finale. Consideriamo per esempio il cioccolato al latte e quello
fondente. L’indice di sazietà di quello al latte (molto più dolce) è nettamente inferiore. Abbiamo
appena scoperto un esempio di come l’aumentare il gusto del dolce di un cibo diminuisca il suo
indice di sazietà. Ovvio quindi che un frutto più dolce sia meno saziante di uno magari meno
maturo. Una marmellata con molto zucchero è meno saziante di una con meno zucchero. Stessa
cosa dicasi del burro o dell’olio; singolarmente sono alimenti dal basso indice di sazietà, poco
appetibili; nelle ricette concorrono invece ad alzare moltissimo l’indice di sazietà del piatto.
Zucchero, olio e burro sono cioè alimenti innescanti un alto indice di sazietà dei piatti che li
impiegano.
La dipendenza – L’ultima frase però è vera solo finché la marmellata non diventa troppo dolce e
ne siamo disgustati. Per questo i dolci sono meno sazianti del pane finché restano nel range di
appetibilità massima. In genere però, poiché il dolce crea dipendenza, un cibo dolce è veramente
meno saziante perché si lavora a parità di calorie: per un uomo di 60 kg, 75 g di crostata di mele
(una fettina) sono sicuramente meno sazianti di 120 g di pane. L’educazione ai gusti del dolce, del
salato, del grasso ecc. diventa pertanto fondamentale per rigettare gli alimenti troppo calorici e
quindi abbassarne automaticamente la sazietà.

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L’indice di sazietà in calorie
I tre problemi sopraccitati sono fattori che relativizzano un discorso mediato, nel senso che la
media può differire in modo evidente dal dato individuale. Questa differenza è poco capita se
l’indice di sazietà è definito con un numero; l’esperienza dimostra che il soggetto è molto più
ricettivo a comprendere la sazietà degli alimenti se l’indice è semplicemente espresso in kcal.
È cioè più corretto definire l’indice di sazietà come

l’inverso della quantità massima in calorie che un soggetto a digiuno da almeno tre ore può
assumere prima di sentirsi sazio.

È necessario considerare l’inverso per continuare a vedere l’IS come alto quando il cibo sazia
molto. Praticamente possiamo considerare la quantità saziante QS espressa in calorie come
l’inverso dell’indice di sazietà:

IS = 1 / QS.

Supponiamo che per le ciliegie sia 1 kg, corrispondente a circa 300 kcal; mentre per il panettone
supponiamo sia 600 g, quantità corrispondente a circa 2.400 kcal. Per il soggetto in esame le
ciliegie sono otto volte più sazianti del panettone.
Di solito si scopre che gli indici individuali sono abbastanza in linea con quelli mediati, ma
riferirsi a una quantità in kcal piuttosto che a un numero un po’ astratto è decisamente più
immediato. Per esempio, dire che le ciliegie hanno una QS di 300 kcal e il panettone di 2.400 kcal
è immediatamente recepibile, si comprende cioè subito che le ciliegie sono più “sazianti” del
panettone, almeno salutisticamente parlando.

L’appetibilità
L’appetibilità può essere definita come il piacere che un determinato alimento ci dà, l’indice di
quanto esso è desiderabile. È quindi nella natura stessa del termine appetibile portare con sé una
soggettività che non ha nessun senso cercare di rimuovere.
È importante notare che sono grossolani errori considerare l’appetibilità

1. come controtendenza della sazietà;


2. legata alla densità calorica dell’alimento.

Sazietà e appetibilità sono caratteristiche che non variano in modo esattamente opposto per il
semplice fatto che l’appetibilità è una grandezza che è funzione almeno dei seguenti fattori:

•• esperienze individuali
•• condizioni fisiologiche
•• sapore del cibo
•• gusto del cibo
•• indice di sazietà del cibo.

Se la relazione fra esperienze individuali e indice di appetibilità è chiara a tutti, va sottolineata

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anche l’importanza delle condizioni fisiologiche come per esempio la necessità di idratazione del
soggetto e la sua attività di termoregolazione quando fa molto caldo; un esempio più complesso
riguarda la fame di carboidrati dello sportivo che ha terminato le sue scorte di glicogeno.
Come si vede, la sazietà è uno dei fattori, ma non certo il principale. L’indice di sazietà di un cibo
non può essere messo in relazione inversa con l’indice di appetibilità per il semplice fatto che
entrano in gioco anche altri fattori.

Appetibilità alta, sazietà alta – Se “vado matto per le ciliegie” l’indice di appetibilità di queste
è massimo, 10 in una scala ipotetica. Ma anche l’indice di sazietà delle ciliegie resta comunque
alto, per il semplice fatto che, come vedremo, essendo ipocaloriche, anche l’abbuffata di un
chilogrammo di esse non apporta che circa 300 kcal. In questo caso, la sazietà derivante dal
riempimento gastrico fa sì che un elevatissimo indice di appetibilità sia collegato a un indice di
sazietà molto alto.
Appetibilità alta, sazietà bassa – Un altro esempio può essere quello di un gelato alla frutta. Se è
estate, è altamente appetibile e ha un indice di sazietà bassissimo perché è usuale superare le
1.000 kcal prima di sentirsene sazi.
Appetibilità bassa, sazietà bassa – Viceversa, un alimento giudicato anche non molto appetibile,
per esempio una torta che non ci piace granché, rischia di avere un indice di sazietà molto basso
perché anche solo una fetta può apportare 600 kcal.
Appetibilità bassa, sazietà alta – Qui è abbastanza facile illustrare il caso delle verdure; in
genere nessuno le ama alla follia (pensiamo alle insalatone dietetiche), ma saziano molto.

Anche legare l’appetibilità alla densità calorica di un alimento (cioè considerare l’alimento
appetibile quanto più è ipercalorico) è un errore grossolano. Si verifica facilmente che molti
alimenti ipercalorici, come l’olio, sono scarsamente appetibili, anche se contribuiscono in modo
fondamentale ad aumentare l’appetibilità dei cibi. In realtà alcuni di questi alimenti funzionano
come esaltatori di gusto, creando vere e proprie dipendenze.

Uno degli scopi di un modello moderno di cucina è pertanto quello di eliminare queste
dipendenze, riequilibrando il nostro gusto.

Esse possono essere riassunte con la nostra propensione verso alcuni gusti fondamentali:

•• il fresco
•• il dolce
•• il salato
•• il grasso.

Tali gusti derivano da esigenze metaboliche (fresco-acqua, dolce-carboidrati, salato-sali minerali,


grasso-lipidi ed energia). Per tale motivo secondo alcuni sarebbe impossibile o molto difficile
creare dipendenze. Il grossolano errore di valutazione nasce dal fatto che in soggetti non sani
(grandi obesi) effettivamente si sono riscontrate delle alterazioni metaboliche che esaltano la
dipendenza. In soggetti sani invece i gusti congeniti funzionano semplicemente a soglia: sono
programmati per arrivare a un livello ottimale della risorsa che gestiscono. Per esempio, un tè
freddo è appetibile finché abbiamo sete.
Purtroppo i gusti congeniti possono essere amplificati da esperienze alimentari errate. Se ci
abituiamo a bere il caffè molto zuccherato, berlo amaro sarà un supplizio. È il fenomeno

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dell’oversizing, il sovradimensionamento di ciò che è congenito. Quando il fenomeno diventa
imponente scatta la dipendenza dal gusto congenito. Un soggetto dipendente non può fare a meno
della fetta di dolce, un soggetto non dipendente la gradirà soprattutto quando sarà “affamato di
carboidrati”.
È pertanto corretto parlare di liberazione dalla dipendenza del salato, del dolce, del grasso.
Perfino di quella dal gusto del fresco per quegli individui che si costringono a bere quantità
industriali di acqua perché hanno “sentito dire alla televisione che si deve bere molto”.
I nostri organi gustativi sono in grado di modulare ulteriormente la valutazione dei cibi, inserendo
sui gusti congeniti quelli acquisiti. Diventa quindi importante conoscere anche la teoria del
sapore, cioè la sensazione percepita dai nostri organi sensoriali deputati al gusto.
Basandosi sulla teoria del gusto, la cucina ASI utilizza tecniche e propone ricette atte allo scopo
di ottenere un’alta appetibilità e un’ottima sazietà, mantenendo contenuta la densità calorica del
piatto.

Il gusto del dolce


Moltissimi progetti alimentari di dimagrimento falliscono perché il soggetto non sa resistere alla
tentazione di certi cibi. Percentualmente i fallimenti riguardano senza dubbio l’incapacità di
resistere ai dolci, spesso visti come necessario completamento della propria alimentazione e
quindi assunti regolarmente, quotidianamente.
Quello che per l’adolescente è la merendina, per l’adulto è la fetta di torta o semplicemente un
panino con la Nutella. A meno di un’attività fisica veramente intensa, è praticamente impossibile
inserire quotidianamente il dolce nei propri pasti senza arrivare al sovrappeso. Le ragioni sono
essenzialmente due.

1. I dolci hanno appetibilità alta e sazietà bassissima, relativamente alle calorie introdotte. Un
esempio su tutti: la panna. Da anni la panna è demonizzata come esempio di alimento da evitare,
pena il fallimento della dieta. In realtà la panna dei dolci è spesso panna zuccherata che ha
un’appetibilità alta, ma un grado di sazietà bassissimo. Ben diversa è la panna non zuccherata,
appetibile, ma anche molto saziante.
L’appetibilità dei dolci è alta proprio per il gusto del dolce che portano con sé; la sazietà è bassa
proprio per la dipendenza che il soggetto ha nei confronti di questo gusto.
È fondamentale comprendere che non sono i dolci sotto accusa, ma il dolce che portano con sé e
cioè lo zucchero aggiunto, il dolcificante ecc. Chi è educato correttamente al gusto del dolce
continuerà a gustare dolci, ma fra due ricette dello stesso dolce tenderà naturalmente a preferire
quella con meno zucchero aggiunto; lo stesso fra due biscotti ecc. Il risultato sarà l’assenza di veri
e propri fenomeni di dipendenza, un aumento della sazietà dei dolci assunti, un maggiore
equilibrio della propria alimentazione.
2. Il gusto del dolce resetta l’appetito. In altri termini significa che riazzera gran parte dei
meccanismi che ci fanno sentire sazi. Dopo aver finito una grande bistecca con abbondante
contorno ci si può sentire sazi, ma il posto per il dessert (se si è golosi di dolci) c’è sempre.

Questo secondo punto è molto importante perché non giustifica la banale sostituzione dello
zucchero con i dolcificanti. La pubblicità che mostra la donna bendata che sceglie fra diverse
proposte, orientandosi a quella gustosa, ma ipocalorica, non è il massimo come coscienza
alimentare. Infatti non elimina la dipendenza dal dolce. Finire comunque con un dessert troppo

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dolce riazzera la sazietà e ci predispone ad avere nuovamente fame a breve.
Il gusto si può educare? La risposta è: ovviamente sì. Basta seguire la regola della dieta italiana:

(9) La dieta italiana sconsiglia l’uso di tutti quegli alimenti con zucchero “aggiunto” per i
quali esiste un’alternativa senza zucchero (bevande, yogurt, marmellata, succhi di frutta, frutta
sciroppata, macedonie di frutta ecc.).

In una prima fase, si può usare il dolcificante per “disintossicarsi” dal gusto del dolce, ma occorre
tener presente che si tratta di una soluzione temporanea. La prassi è esattamente simile a quella di
chi vuole smettere di fumare, utilizzando sempre meno cibi con zucchero aggiunto o con
dolcificante.

Il valore del cibo e il set point


Abbiamo analizzato ciò che succede quando scatta l’ES che sostanzialmente può definirsi come
una finestra aperta sul cibo. Sempre muovendosi nell’ambito della normalità, esistono individui
che hanno spesso fame mentre altri mostrano una scarsa attenzione per il cibo.
La frequenza dell’ES è dunque una variabile importante che si lega al valore che il soggetto dà al
cibo. Senza entrare in dettagli di pertinenza della psicologia, è abbastanza facile riconoscere che
molti soggetti (normali) che hanno sempre appetito danno al cibo un altissimo valore esistenziale,
mentre chi gli attribuisce una mera funzione di sussistenza raramente è una buona forchetta. È
altresì facilmente riconoscibile che ogni situazione di stress abbassi (più o meno
temporaneamente) la priorità del cibo nella nostra scala di valori.
Sazietà, appetibilità e valore del cibo sono le tre variabili che gestiscono l’ES secondo infinite
possibilità di combinazioni che rendono spesso difficile un equilibrio alimentare.
Interessante definire il set point dell’individuo. La locuzione è stata introdotta da Bennet e Gurin.
Secondo i promotori, è un “punto di regolazione individuale della quantità di grasso” e sarebbe
possibile, seguendo una dieta molto naturale abbinata a un’attività fisica, abbassare il set point
evitando il sovrappeso. In realtà non è così semplice. Per molti individui il set point è basso
perché in questi soggetti i condizionamenti (e le conoscenze) dovuti alla filosofia di vita che
seguono sono tali che manca la spontaneità: essi operano (forse più naturalmente di altri) una serie
di restrizioni alimentari (di solito molto corrette) proprio come chi si mette a dieta seguendo un
qualsivoglia modello alimentare per il controllo del peso.
Appare più corretto definire il set point come

il peso che si stabilizza con lo stile di vita del soggetto.

Si può così differenziare il set point naturale (quello in cui il soggetto mangia quando ha fame e
tutto ciò che gli piace) e quello corretto da un opportuno stile di vita.
Nel mondo occidentale, realisticamente, oltre il 90% degli individui sani di età superiore ai 30
anni sarebbe sovrappeso. È dunque merito dei nutrizionisti se tale percentuale è attorno al “solo”
50%. Ovviamente si può fare di meglio.
In linea di massima:

nel mondo occidentale il set point naturale di un individuo è oltre i limiti di sovrappeso.

Da cosa dipende il set point? Dati:

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A. l’alimentazione (cioè principalmente le calorie introdotte)
B. l’attività fisica
C. il quadro ormonale individuale
D. le ore di sonno
E. lo stress e la condizione psichica generale
ogni persona ha un determinato set point, cioè un peso che tende a rimanere stabile se non
cambiano i fattori che l’influenzano.
Parlare di set point riferendosi solo al primo punto è sicuramente riduttivo. Pensare che basti
avere una coscienza alimentare che per esempio ci faccia scegliere cibi sazianti, appetibili, ma
poco calorici (i principi della cucina ASI) è un buon inizio per abbassare il proprio set point, ma
non è certo sufficiente. È un grave errore pensare che mangiare bene sia una condizione sufficiente
per essere magri, ma sicuramente è una condizione facilitante.
Allo stesso modo è un grave errore pensare che per essere magri basti fare sport (molte persone
sono stupite dal fatto che, nonostante facciano molto sport, non dimagriscono!); anche in questo
caso, fare molta attività fisica è una condizione facilitante l’abbassamento del proprio set point.
Chi ha capito le righe precedenti avrà ormai chiaro che i cinque punti lavorano insieme nella
gestione del set point. Sicuramente i primi due punti sono i più importanti, ma anche gli ultimi tre
sono da considerare. Nella tabella 12 alcuni dati riguardanti runner (principale attività fisica la
corsa) o sedentari, maschi; come variabile del quadro ormonale si è considerata l’età (come
avviene in una persona sana) e si sono scelti solo soggetti con lavoro sedentario (è possibile fare
attività fisica anche con un lavoro fisicamente impegnativo). Le calorie sono state normalizzate
con l’altezza in metri al quadrato: per esempio, un uomo che assume 2.000 kcal ed è alto 1,72 m
ha un introito calorico pari a 676 kcal normalizzate.

TABELLA 12 - Set point: tabella calorie normalizzate.


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• Calorie normalizzate 620
km/settimana 0 :|: Età 45 :|: Ore di sonno 9
Psicologia stabile :|: IMC 22,5

• Calorie normalizzate 810


km/settimana 0 :|: Età 38 :|: Ore di sonno 7
Psicologia stress moderato :|: IMC 23,5

• Calorie normalizzate 750


km/settimana 50 :|: Età 50 :|: Ore di sonno 8
Psicologia stabile :|: IMC 20,8

• Calorie normalizzate 900


km/settimana 120 :|: Età 46 :|: Ore di sonno 8
Psicologia stabile :|: IMC 20,5

• Calorie normalizzate 920


km/settimana 0 :|: Età 39 :|: Ore di sonno 7
Psicologia ansioso :|: IMC 27,2

170
• Calorie normalizzate 840
km/settimana 35 :|: Età 24 :|: Ore di sonno 8
Psicologia stress moderato :|: IMC 22,1

• Calorie normalizzate 1.050


km/settimana 0 :|: Età 28 :|: Ore di sonno 9
Psicologia stabile :|: IMC 29,4

• Calorie normalizzate 680


km/settimana 65 :|: Età 60 :|: Ore di sonno 7
Psicologia stabile :|: IMC 19,9

• Calorie normalizzate 745


km/settimana 55 :|: Età 49 :|: Ore di sonno 8
Psicologia stabile :|: IMC 19,8

• Calorie normalizzate 990


km/settimana 0 :|: Età 32 :|: Ore di sonno 7
Psicologia stress moderato :|: IMC 28,6
----------

La masticazione
Non indagheremo i fondamenti del famoso detto “la prima digestione avviene in bocca” perché
speriamo che la cultura media del lettore sia tale da aver ben chiara l’importanza della
masticazione dei cibi. Ricordiamo solo che chi ha problemi di masticazione spesso non ha
un’alimentazione ottimale e che eliminare tutta una serie di cibi è una strategia decisamente
peggiore rispetto a quella di “costruirsi” una bocca che possa gestire un’alimentazione equilibrata.
In questo paragrafo tratteremo la masticazione dal punto di vista psicologico, chiedendoci che
relazione esista fra masticazione e rapporto con il cibo.
Poiché tutti sanno che mangiare in fretta e masticare male non è salutare, ci si deve chiedere
perché molti continuano in questa insana abitudine. Sicuramente lo stress e una vita troppo
frenetica possono averla aiutata, ma in genere si verifica che il cattivo masticatore è tale anche in
situazioni per nulla stressanti come una piacevole riunione conviviale fra amici. È sempre il primo
a finire a prescindere dal tipo di portata e dalla fame che ha. In genere il cattivo masticatore ha un
cattivo rapporto con il cibo, visto come sola fonte di sussistenza e non come piacere della vita.
Masticare male e in fretta è però anche un boomerang per chi vuole seguire un regime ipocalorico.
Infatti il senso di sazietà è anche psicologico; masticare male non consente di assaporare il gusto
dei cibi e automaticamente ciò si traduce in una diminuzione del senso di sazietà degli stessi.
Anche masticare velocemente riduce il senso di sazietà perché accorcia il pasto e consente di
dirottare la propria fame su più portate.
Se pertanto avete molta fame, assaporate il cibo e masticate lentamente: oltre a digerire meglio, vi
sazierete molto prima.

Il digiuno

171
Una volta il digiuno era legato soprattutto a scelte di carattere mistico-religioso; oggi è visto
soprattutto come una forma di purificazione fisica, un’eliminazione delle tossine che dovrebbero
aver inquinato il nostro corpo a seguito di un regime alimentare sbagliato. A prescindere dal fatto
che spesso chi parla di digiuno riesce a infilare una serie impressionante di castronerie
scientifiche mentre spiega i presunti benefici dell’operazione, è possibile mostrare come il
digiuno, anche saltuario, sia effettivamente dannoso. Infatti durante una riduzione calorica,
l’organismo può attuare un processo di adattamento o di accomodamento. Con l’adattamento si
ha un abbassamento del metabolismo basale in modo da preservare le risorse, mentre con
l’accomodamento le risorse vengono utilizzate per sopperire al mancato apporto di nutrienti. In
genere l’organismo tende a utilizzare processi di adattamento che non sono distruttivi (per
esempio non è intaccata la massa magra). Con il digiuno è molto probabile che intervengano
processi di accomodamento, soprattutto se è protratto. Infatti la gluconeogenesi (l’impiego dei
lipidi e delle proteine per ottenere il glucosio necessario per mantenere i valori glicemici nella
norma; le scorte di glicogeno vengono infatti esaurite in meno di 24 ore) già dopo qualche giorno
comincia a produrre effetti negativi: la massa magra viene intaccata per convertire le proteine in
energia (con conseguente sovraccarico epatico) e allo stesso scopo vengono utilizzati anche i
grassi (con effetto dimagrante) con conseguente accumulo di scorie chetoniche. In sostanza

il digiuno anziché purificare l’organismo lo intossica!

Anche il digiuno di un giorno non è positivo. Infatti un sedentario (per uno sportivo sarebbe dura
digiunare e allenarsi) che ha un fabbisogno calorico di 1.800-1.900 calorie ne spende circa 1.400
per il metabolismo basale. Ciò vuol dire che per vivere, l’organismo, digiuni o no, produce scorie
(1.400 kcal su un totale di 1.900 sono circa il 75%!), la depurazione non dipende dal digiuno, ma
dalla capacità di eliminare queste scorie; se questa capacità viene meno o semplicemente
diminuisce, il digiuno non può certo ripristinarla. Non mangiare illudendosi che il nostro corpo
non bruci nulla perché non si introduce nulla e così ha il tempo di purificarsi rivela una
sostanziale ignoranza dei processi metabolici alla base della nostra vita.
Secondo alcune correnti igieniste, un digiuno avrebbe anche una funzione terapeutica e addirittura
guarirebbe da molte malattie, tumori compresi, grazie a un processo di autolisi cellulare che
provocherebbe un rinnovamento dei tessuti.
Questa teoria non è che l’esempio di come l’ignoranza delle basi della fisiologia umana tenda ad
avvalorare teorie fantasiose, puramente filosofiche, completamente staccate dalla realtà. Inutile
commentare, posso solo citare il caso di un mio compagno di squadra che, dopo aver abbracciato
da anni, teorie alternative, veganesimo ecc. è stato colpito a poco più di 50 anni da un tumore
all’intestino (patologia oggi curabile con un intervento convenzionale tempestivo); ha rifiutato tutte
le cure e, fino all’ultimo, ha creduto che il digiuno potesse salvarlo. Onore alla coerenza, ma forse
i figli e la moglie preferirebbero che fosse ancora vivo.
Pensare che il digiuno possa depurare è tipico di mentalità anoressiche che comunque ritengono
che il cibo o alcuni cibi possano fare molto male. Va da sé che in un soggetto sano non si
comprende perché debbano accumularsi scorie (quali? Dove? In che quantità?) che sarebbero
eliminate con il digiuno. Premesso che è il digiuno che intossica l’organismo, se un soggetto sano
non è in equilibrio con la propria alimentazione (cioè non riesce naturalmente a eliminare le
scorie che produce) significa semplicemente che mangia male.

172
Capitolo 9 - La carta d’identità alimentare
In linea teorica ognuno di noi potrebbe possedere una carta d’identità alimentare nella quale
compaiono i dati principali della sua alimentazione. Questo capitolo vuole definire quali sono le
informazioni che devono essere presenti nella carta d’identità alimentare:

•• peso corporeo
•• IMC
•• percentuale della massa grassa
•• fabbisogno calorico quotidiano
•• ripartizione dei macronutrienti.

Il peso forma
La definizione di peso forma non rientra fra i compiti di molti modelli alimentari, quasi che fosse
un compito troppo gravoso, un terreno minato su cui non camminare per evitare di essere dilaniati
da numeri poco credibili. La dieta italiana accetta la sfida e si confronta anche su questo punto.

L’IMC
Per definire il peso ideale massimo è necessario introdurre il concetto di indice di massa
corporea. L’IMC è definito così:

IMC=Peso (in kg)/Altezza (in metri) al quadrato.

In realtà l’IMC, da solo, non è un valido indicatore di peso forma. Dovrebbe essere a tutti chiaro
che il semplice riferimento al peso non dà nessuna reale indicazione sullo stato del soggetto; è
invece l’indicazione della sua massa grassa che può guidarci nutrizionalmente. Un uomo con oltre
il 15% di massa grassa e una donna con oltre il 22% non sono esempi di fisici atletici. Ma un
uomo alto 170 cm che pesa 70 kg come deve essere considerato? Se è un culturista si scoprirà che
non ha un filo di grasso, se è un sedentario probabilmente avrà un preoccupante accenno di
pancetta. Utilizzando l’indice di massa corporea, si scopre che nel caso dei due soggetti (culturista
e sedentario) si otterrebbe lo stesso risultato (IMC = 24,49).

Il valore massimo di IMC deve esprimere una condizione sufficiente per stabilire la magrezza di
un individuo.

Non ha cioè senso fissare limiti troppo “buoni” (il classico 25) per comprendere come magri
anche individui pesanti, ma muscolosi. Con questo atteggiamento si rischia di giudicare normali
anche individui in sovrappeso. Se si utilizza un’espressione restrittiva si può affermare che:

sono magri un uomo con IMC non superiore a 22 o una donna con IMC non superiore a 20.

Per un uomo il peso massimo è dato da 22*altezza2; per una donna da 20*altezza2, dove l’altezza è
data in metri. Per esempio un uomo alto 1,80 m dovrebbe pesare al massimo 71,28 kg, mentre una
donna alta 1,70 m dovrebbe pesare al massimo 57,8 kg.

173
La percentuale di massa grassa
Se si vuole tenere conto anche della muscolatura e della corporatura occorre riferirsi alla
percentuale di massa grassa. Katch ha mostrato come per le donne non esista una relazione fra
l’apparire di corporatura esile e una percentuale di grasso corporeo bassa. Ciò smonta
tradizionali teorie come quella di Behnke che considerava una serie di dati antropometrici per la
valutazione del peso ideale. In sostanza una persona è grassa se ha una percentuale di massa
grassa che supera un certo limite: semplice.
Se l’individuo è molto muscoloso o se pensa di avere la classica corporatura robusta (un alibi
troppo spesso addotto: si veda il test delle vene, Capitolo 7, paragrafo Le tre tipologie di
sovrappeso), deve fare necessariamente riferimento alla massa grassa per sapere se è sovrappeso,
misurandola per esempio con una bilancia impedenziometrica. È meglio non esagerare con lo
sviluppo della muscolatura: un culturista troppo muscoloso avrà grosse difficoltà a fare una lunga
camminata in salita perché il suo peso (muscoli e non grasso) sovraccarica il sistema
cardiovascolare. L’eccesso di muscolatura comporta anche un sovraccarico articolare e, in genere,
metabolico perché i muscoli, lavorando, producono molte scorie. In sostanza muscoli sì, ma non
troppi. Del resto ciò è importante anche ai fini della longevità: le persone più longeve sono magre,
ma non muscolose, anche se hanno lavorato tutta una vita. Con una constatazione semplicemente
pratica, si scopre facilmente che nelle società contadine a vivere più a lungo non sono gli uomini
più muscolosi, bensì quelli più longilinei.

La tabella di magrezza
Nel 1998 l’OMS descrisse lo stato della popolazione rispetto all’obesità con una tabella ormai
diventata celeberrima. La tabella si rifaceva all’IMC del soggetto (peso in kg diviso per altezza in
m al quadrato) e può essere semplificata come segue (in quella originaria si distinguono ulteriori
tre classi di obesità):

TABELLA 13 – La tabella dell’OMS.


----------
• Sottopeso: < 18,5
• Normale: da 18,5 a 24,9
• Sovrappeso: da 25 a 29,9
• Obeso: da 30 in su
----------

La tabella è stata purtroppo presa come vangelo da tutti gli studi che seguirono, senza che si
proponessero alternative. Eppure da più parti si è ormai visto che considerare normopeso un
soggetto con IMC = 24,5 (per esempio un soggetto di 75 kg per 175 cm di altezza) è veramente
ottimistico; per esempio sono moltissime le ricerche che associano una maggiore longevità
all’alimentazione ipocalorica e tale tipo di alimentazione porta necessariamente a un IMC
inferiore a 22-23.
Un’incredibile dimenticanza della proposta OMS è la differenziazione fra uomo e donna. Vista la
struttura corporea diversa, la diversa percentuale di grasso, il diverso quadro ormonale ecc. non è
possibile unificare senza proporre una semplificazione inaccettabile che inficia ogni screening di

174
massa.
Se la proposta della dieta italiana è precisa dal punto di vista scientifico, è abbastanza difficile
misurare la percentuale di grasso corporeo quando si analizzano centinaia o migliaia di soggetti.
Ci viene in aiuto il fatto che di individui magri e pesanti (muscolosi) ce ne sono molto pochi se si
considera la popolazione nella sua globalità; spesso è il singolo soggetto che si reputa muscoloso,
ma è smentito dalle misurazioni che dimostrano come il grasso si possa anche distribuire
uniformemente nei muscoli gonfiandoli. Alcuni dati:
•• su 83 runner maschi giudicati in sovrappeso con il solo IMC (IMC > 22), solo 3 sono risultati
avere una percentuale di grasso inferiore al 12%.
•• Su 48 frequentatori maschi di una palestra giudicati in sovrappeso con il solo IMC (IMC > 22),
solo 4 sono risultati avere una percentuale di grasso inferiore al 12%.
•• Su 61 sedentari maschi giudicati in sovrappeso con il solo IMC (IMC > 22), nessuno è risultato
avere una percentuale di grasso inferiore al 12%.

Si può stimare che meno del 3% della popolazione giudicata in sovrappeso con il solo IMC (IMC
>22) sia effettivamente magra; tale piccola percentuale va ricercata nei praticanti “veri” di sport
di forza e di potenza con età inferiore a 30-35 anni. Appare pertanto ragionevole proporre per
screening di massa una nuova tabella di magrezza:

TABELLA 14 – La nuova tabella di magrezza.


----------
Condizione: IMC uomo :|: IMC donna
• Sottopeso: < 19 :|: < 17
• Normale: da 19 a 22 :|: Da 17 a 20
• Sovrappeso: fra 22 e 25 :|: Fra 20 e 23
• Sovrappeso grave: fra 25 e 30 :|: Fra 23 e 28
• Obesità: da 30 in su :|: Da 28 in su
----------

Notiamo come si sia alzato leggermente il limite della normalità: da 18,5 a 19 (per gli uomini). È
la naturale conseguenza di ritenere la pratica sportiva necessaria al benessere del soggetto (forti e
magri) e quindi la necessità di avere comunque una muscolatura non minimale.
È importante leggere correttamente la tabella. Quando si cita un intervallo significa che la
persona, a seconda delle sue caratteristiche individuali, si situerà nell’intervallo in un punto a
piacere. Si commette un grave errore voler a tutti i costi scendere al livello minimo
dell’intervallo. Per esempio ci sono donne che con IMC=17 stanno bene e altre che con tale IMC
hanno episodi di amenorrea, stanchezza ecc. “Da 17 a 19” non vuole assolutamente dire che si è
magri solo con IMC=17! Per capirci, un’analogia: si è promossi se si prendono voti da 6 a 10. Lo
studente interpreta la cosa come “sono promosso solo se prendo 10”, non ci riesce e si suicida.
Assurdo! Così una donna (uomo) che sta bene con IMC=20 (22) è magra(o), che bisogno ha di
scendere ancora?
La semplice magrezza non è certo garanzia di salute, anzi. Se è ricercata come fine ultimo può
creare gravi problemi. Chi vuole confrontarsi personalmente con la tabella (che in generale è solo
una proposta di statistica nella popolazione) deve considerare che avere un ottimo stile di vita non
può prescindere dall’attività fisica e quindi se la persona non fa sport a medio-alta intensità non
avrà una muscolatura ottimale e in genere il suo parametro di magrezza dovrebbe essere aumentato

175
di 1 (uomini da 20 a 23, donne da 18 a 21).

Il peso forma secondo la dieta italiana


La dieta italiana trova una soluzione molto semplice per il peso forma. I limiti sono:

(11) La condizione di normalità nei riguardi del sovrappeso è:

UOMINI –IMC non superiore a 22 oppure massa grassa non superiore al 12%.
DONNE –IMC non superiore a 20 oppure massa grassa non superiore al 20%.

Prima di arrivare a facili critiche del tipo “l’IMC a 22 è una condizione troppo restrittiva”,
considerate l’OPPURE che rende l’IMC una condizione sufficiente, ma non necessaria per essere
magri.

Il fabbisogno calorico quotidiano


Per fabbisogno calorico quotidiano (FCQ) s’intende la quantità di calorie che si devono
assumere dagli alimenti per mantenere il proprio peso invariato. In prima approssimazione, se tale
quantità è inferiore all’FCQ si dimagrirà, se è superiore si ingrasserà. Le tabelle nutrizionali
tradizionali forniscono valori dell’FCQ estremamente alti, in alcuni casi anche esagerati,
concorrendo ad allontanare da una sana educazione alimentare tutti coloro che, utilizzando le
tabelle come alibi, evitano d’impostare un regime alimentare corretto. Perché le tabelle sono così
starate rispetto a un corretto discorso alimentare? Sicuramente esiste un fattore culturalmente
difficile da sradicare, rappresentato dal tradizionale accostamento bambino cicciottello uguale
bambino sano. Fino a qualche decennio fa la magrezza era vista come sinonimo di fragilità e, al
limite, di malattia. A parte queste considerazioni che non dovrebbero toccare chi fa un discorso
scientifico, purtroppo anche fra gli addetti ai lavori le tabelle dell’FCQ pompate continuano a
essere riprodotte su molti testi di dietologia. Per fortuna l’introduzione dell’indice di massa
corporea ha finalmente riportato sulla terra tutti quei dietologi che ritenevano del tutto normale
avere qualche chilo di troppo. Vediamo i punti principali che condannano le tabelle abbondanti.
Consideriamo un soggetto alto 1,75 m che pesa 84 kg con il 30% di massa grassa. Ciò significa
che la sua massa magra è di 58,8 kg e che ha ben 25,2 kg di grasso.
L’FCQ non deve fare riferimento al peso – Tutte le tabelle fanno riferimento al peso con l’ovvio
risultato che il cibo introdotto va ad alimentare anche la massa grassa. Poiché un soggetto atletico
ha il 10% circa di massa grassa (cioè per il caso esaminato 8,4 kg), le tabelle tradizionali che si
riferiscono al peso vanno a nutrire 16,8 kg di grasso superfluo (25,2-8,4), cioè il 20% del peso.
Per il soggetto in esame l’FCQ dovrebbe essere corretto del 20% in meno.
Si deve tener conto dell’adattamento – Quando l’organismo si trova a disposizione moltissime
risorse, perde la capacità di ottimizzare i suoi processi, capacità che recupera quando le risorse a
poco a poco diminuiscono. Ciò vuol dire che un individuo grasso può assumere più calorie perché
il suo corpo non le sfrutta bene, le spreca, visto che è abituato a riceverne tante. Quando il peso
scende e il soggetto pratica un’attività sportiva continua, il suo organismo impara a mantenere il
suo metabolismo con meno calorie di quelle utilizzate da un soggetto sovrappeso e non allenato.
Diventa cioè una formica mentre prima era una cicala. Per fare un esempio, se si scende dal 15%
al 10% di massa grassa in sei mesi, dopo altri sei mesi per mantenere la percentuale al 10% si

176
avrà un FCQ di un centinaio di calorie in meno.
Calcoliamo l’FCQ – Nella stesura della dieta italiana (2003) dovetti occuparmi della definizione
del fabbisogno calorico del soggetto. Classicamente, pensai di partire dal metabolismo basale e
poi aggiungere il consumo da attività. Mi accorsi ben presto che il fabbisogno da attività era il più
delle volte decisamente sovrastimato e che la gran parte delle persone oggi è purtroppo
sedentaria. Pensai pertanto di definire un fabbisogno calorico quotidiano da sedentario (FCQS)
che comprendesse il metabolismo basale del soggetto e il consumo per le attività tipiche di un
sedentario che, per esempio, lavora in ufficio, va al lavoro in macchina o con i mezzi, la sera
guarda la televisione ecc. Insomma una persona che non fa lavori caloricamente dispendiosi
(ricordo che lavorare al computer, stirare, cucinare, innaffiare il giardino possono essere attività
molto “faticose”, ma che fanno spendere pochissimo!) e che compie un tragitto inferiore ai 2 km al
giorno a piedi. Conoscendo il proprio peso forma (paragrafo precedente), il calcolo è molto
semplice.

Se siete in sovrappeso, usate un fabbisogno calorico di 600 (per le donne 540) * (l’altezza in m
al quadrato). Per esempio per un uomo sedentario di 170 cm il fabbisogno calorico è di 1.734
calorie (600*1,7*1,7), per una donna di 160 cm è di 1.382 (540*1,6*1,6).

Se non siete sovrappeso, il fabbisogno calorico giornaliero è quello che mantiene inalterato il
peso; basta cioè pesarsi e aggiustare le calorie assunte quotidianamente in modo che il peso
resti invariato.

Il dato interessante fu che tale formula poteva essere usata anche come formula standard per
impostare il regime calorico di partenza per un soggetto sovrappeso che volesse dimagrire. Infatti
la formula (come quella del metabolismo basale) considera il nutrimento della sola parte magra
del soggetto.

Un calcolo pratico
Molte persone che hanno un’attività lavorativa particolarmente intensa o un’attività sportiva
diversificata che non consenta un calcolo preciso (per esempio 2 giorni in palestra con i pesi, un
giorno in bici, 30 km, un giorno a tennis ecc.) si chiedono come calcolare il proprio fabbisogno
calorico quotidiano per mantenere il proprio peso. Se si pensa di essere normopeso basta
sommare le calorie assunte in una settimana normale che non abbia dato nessuna oscillazione nel
proprio peso corporeo (cioè il peso è rimasto invariato) e dividerle per sette. Ecco cosa si
intende per settimana normale:

•• i pasti non devono avere portate particolarmente voluminose che danno luogo a un sovraccarico
intestinale che verrà smaltito in più di 24 ore.
•• La funzione intestinale è regolare.
•• Il test viene con la normale attività lavorativa e sportiva, ma è necessario che il peso sia
verificato dopo un giorno di riposo (per esempio la domenica, dopo il sabato di riposo). Questo
per evitare che l’attività fisica possa alterare il peso perché causa disidratazione o diminuzione
delle scorte di carboidrati (glicogeno).
•• Non si assumono cibi particolarmente ricchi di sodio che possono provocare una temporanea
ritenzione idrica.

177
•• Non si assumono farmaci o integratori che possono provocare ritenzione idrica
(antinfiammatori, creatina, glutammina) o disidratazione (diuretici).

È importante leggere il paragrafo sul controllo del peso per evitare dimagrimenti/ingrassamenti
fittizi.

Cosa accade se il peso è aumentato o diminuito?

Il peso è aumentato (diminuito) di X kg. In questo caso si può stimare che 6.000 calorie circa
siano corrispondenti a 1 kg (considerando che in un g di tessuto adiposo in un soggetto normopeso
si ha dal 30 al 50% di acqua), quindi per semplicità 1 kg corrisponde a circa 1.000 calorie al
giorno in più (in meno); vediamo un esempio.
Quantità settimanale: 16.800 calorie; la media per giorno è 2.400 calorie.
Variazione di peso: 300 grammi in più. Ciò equivale a 300 calorie al giorno in più.
Il fabbisogno calorico del soggetto è quindi di 2.100 calorie.

Di seguito forniamo alcune utili avvertenze:

•• Usate una bilancia che dia un’ottima ripetibilità e con scala ai 100 g. Salendo sulla bilancia più
volte il peso indicato deve essere sempre lo stesso.
•• Non diventate maniaci. Questa determinazione empirica serve per darvi un ordine di grandezza.
Il fabbisogno calorico trovato è una media di quello reale. Se trovate 2.000 calorie, il vostro
fabbisogno reale oscillerà probabilmente fra 1.900 e 2.100; 2.000 è un buon punto di partenza.
Controlli periodici (per esempio settimanali) vi garantiranno una precisione molto maggiore di
qualsiasi calcolo.
•• È l’importante capire che nessuno può ingrassare di tantissimo in pochissimo tempo;
considerando dimagrimenti e ingrassamenti fittizi, è facile comprendere che un aumento
(diminuzione) reale di peso può essere facilmente gestito la settimana successiva il rilievo con un
aggiustamento del regime alimentare.
•• Il sovrappeso è spesso dovuto alla mancanza di questo aggiustamento. Mettersi a dieta qualche
giorno dopo le abbuffate delle feste è una strategia destinata a fallire se non si controllano
quantitativamente le calorie assunte e il proprio peso.

Dieta italiana: il k
La regola (12) della dieta italiana ci dice che:

(12) Il fabbisogno calorico (Q) giornaliero è:


in caso di sovrappeso, Q=kA2, dove k vale 600 per gli uomini e 540 per le donne e A2 è l’altezza
in m al quadrato.
In assenza di sovrappeso, è quello che mantiene inalterato il peso (o la massa grassa per gli
sportivi di potenza).

Ovviamente tale formula è una media sulla popolazione, una media dei casi che ho inizialmente
osservato (circa un centinaio) ed è stata confermata dall’esperienza di questi ultimi anni. La curva
di distribuzione del fabbisogno calorico quotidiano dei soggetti sedentari è una gaussiana con una

178
deviazione standard di circa 75 (67,5 per le donne) nel valore del k. Ciò significa che il 95% dei
soggetti sani ha un k compreso fra 450 e 750 (per le donne fra 405 e 675), con 600 come dato più
probabile. Vale a dire che un soggetto maschio alto 175 cm ha un FCQS compreso fra 1.400 e
2.300 kcal con un valore centrale di 1.850 circa.
La varianza non deve però spaventare; chi conosce la curva gaussiana sa che gli “estremi” indicati
valgono per una percentuale abbastanza piccola di persone. Sono comunque spiegabili e
comunque la formula nella sua versione centrale, oltre che essere fondamentale per chi vuole
dimagrire (chi è in sovrappeso si alimenta sempre con valori molto più elevati), è importante
come dato di partenza per un calcolo del proprio fabbisogno calorico quotidiano.

Perché il k varia
È interessante conoscere i fattori che possono spostare (in un verso o nell’altro) il valore centrale
del k.
Farmaci e integratori – Diciamo subito: non esistono integratori alimentari in grado di variare
significativamente il k. Le informazioni su aminoacidi che stimolano l’ormone della crescita o
simili possono essere accettate solo da chi ha scarso spirito critico. Idem dicasi delle pillole
bruciagrasso che vengono ottimisticamente acquistate per cambiare vita. Esistono invece farmaci
(quindi si devono fare i conti con possibili potenti effetti collaterali) che possono far variare
significativamente il k, anche dell’ordine di 100 unità: amfetamine o corticosteroidi (non tutti i
cortisonici per esempio fanno ingrassare, alcuni, come il triamcinolone, fanno dimagrire). Questo
fatto può far pensare che il k sia legato al quadro ormonale che, nella popolazione dei soggetti
sani, ha una certa variabilità. Va da sé che se il k è troppo basso (come, per esempio, in coloro
che sono affetti dalla tiroidite di Hashimoto, una patologia spesso non diagnosticata perché non
particolarmente penalizzante, soprattutto se in forma lieve) o troppo alto (come in altre patologie
tiroidee o in soggetti con alti valori di cortisolo), il soggetto non può essere considerato sano.
La formula indica quindi anche un range di normalità ormonale dell’individuo, normalità che si
manifesta in una corretta risposta dell’organismo al cibo.
Massa muscolare - Una massa muscolare superiore alla media aumenta il valore del k perché i
muscoli devono essere nutriti. Questo concetto è stato pompato a dismisura nelle palestre per
proporre uno stile di alimentazione esageratamente calorico. In realtà, i veri body builder con tanti
muscoli e poco grasso sono pochissimi nella popolazione. Per motivi ormonali, chi svolge
un’attività con i pesi senza ricorrere ad aiuti illeciti ha masse muscolari grandi, ma mai esagerate
e, se è ormai adulto, spesso non è perfettamente definito (cioè i muscoli portano con sé un po’ di
grasso).
Attività fisica – La motivazione teorica sta nel concetto che un’attività anaerobica innalza il
metabolismo basale; in realtà questo fattore è ininfluente per il sedentario o per chi svolge una
moderata attività fisica. Infatti, affinché ci sia l’innalzamento del metabolismo basale, il lavoro
anaerobico deve essere molto frequente, essendo del tutto ottimistico sperare che una sola seduta
settimanale possa alzare il metabolismo in modo costante e significativo. Molte persone tendono a
confondere il lavoro anaerobico con quello con i pesi e sono quindi convinte che si possa
lavorare anaerobicamente ogni giorno.
Ovviamente un lavoro veramente anaerobico produce sempre una certa quantità di lattato e solo
chi è allenato (o molto giovane) riesce a reggere alle sensazioni tipiche di un lavoro anaerobico
(per esempio il cosiddetto fiatone). Il sedentario che tenta di dimagrire non è in grado di compiere
un lavoro anaerobico decente; inoltre questo porta verso frequenze cardiache elevate; anche

179
ammesso che psicologicamente il soggetto le regga bene, è contro ogni logica allenante spingere
un individuo poco allenato verso tali frequenze. Si otterrebbe il risultato di affaticarlo e di ridurre
il suo volume sportivo globale.
Età – Poiché varia il quadro ormonale, si trova che il k trasla con l’età verso il basso. Per
esempio, il valore centrale di normalità per la popolazione maschile fra i 50 e 60 anni è 550.
Dieta ipocalorica - La riduzione del metabolismo è uno dei cavalli di battaglia dei nutrizionisti
che “odiano” le calorie. Il loro ragionamento è più o meno il seguente. Un soggetto, con
fabbisogno calorico di 2.000 kcal per mantenere invariato il peso, ingrassa; per dimagrire adotta
un regime calorico di 1.400 kcal, riuscendo a tornare al peso precedente, supponiamo, dopo un
mese. Purtroppo il suo corpo si è adattato a un regime più spartano e ora, per mantenere tale peso,
è necessario usare un FCQ minore rispetto alle 2.000 kcal.
A queste considerazioni qualitative è necessario rispondere scendendo un po’ più in dettaglio:

1. I fabbisogni che mantengono corpi magri secondo le tabelle vecchio stile sono esagerati, quindi
se il nostro soggetto si ritrova con un fabbisogno di 1.900 kcal e non più di 2.000 si è solo evoluto
verso una visione più moderna dell’alimentazione.
2. Affinché una dieta ipocalorica provochi un rallentamento del metabolismo è necessario che
essa venga protratta per un periodo che va da sei mesi a qualche anno, a seconda di quanto è
lontana dalla normalità. Una dieta ipocalorica corretta provoca un rallentamento praticamente
ininfluente. Quello che non capiscono i detrattori delle calorie è che se io faccio una dieta
ipocalorica corretta e scendo di peso, il nuovo FCQ è minore semplicemente perché il peso è
sceso!
3. Se fra i fattori negativi del rallentamento metabolico c’è una certa stanchezza (se la restrizione è
troppo drastica, per esempio inferiore a oltre il 30% dell’FCQ normale, è come se il corpo
andasse in letargo), fra quelli positivi c’è sicuramente il fatto che l’organismo può iniziare a
funzionare veramente bene. Avere bisogno di meno per vivere è una condizione di efficienza, non
di malattia: nessuno condannerebbe il fatto che un’automobile, a pari velocità, consumi di meno!
Non a caso tutte le teorie, ormai scientifiche, che sostengono che la restrizione calorica allunga la
vita si basano sul fatto che, consumando di meno e a pari capacità di smaltimento (ricordo che
l’attività sportiva aumenta la capacità di smaltimento dei radicali liberi), si producono meno
radicali liberi, meno scorie e gli organi sono in generale meno affaticati.

La ripartizione dei macronutrienti


Notiamo ancora una volta come nessuna dieta finora si sia preoccupata dei reali bisogni del nostro
organismo. Non sarebbe più logico partire da

una dieta che dia al corpo ciò di cui ha bisogno?

La dieta italiana vuole rispettare il fabbisogno calorico quotidiano, mantenendo una ripartizione
corretta dei macronutrienti (glicidi, cioè carboidrati, proteine e lipidi, cioè grassi). Origine della
dieta italiana è il metabolismo, suddiviso in catabolismo (il complesso delle trasformazioni
chimiche che avvengono nella cellula con lo scopo di ricavare energia) e in anabolismo (la
ricostruzione di ciò che è andato perso per la produzione di energia). Nell’adulto, anabolismo e
catabolismo devono bilanciarsi per ottenere un equilibrio dinamico che consenta la massima
efficienza. Sostanzialmente occorre alimentarsi per sostenere il metabolismo. Anche in questo

180
caso i calcoli sono piuttosto complessi e rimando chi fosse interessato all’Appendice 5.
Tale appendice (si ricordi che la ripartizione dei macronutrienti è in percentuale sulle calorie
totali, non sul peso) mostra che per un determinato soggetto è impossibile tradurre in maniera
significativamente concreta la teoria nella pratica. Troppe sono le variabili che possono scostarsi
praticamente da un discorso teorico e rendere tutto molto, molto soggettivo! Citiamo solo le più
importanti:

•• il metabolismo basale
•• il calcolo del fabbisogno calorico per l’attività lavorativa
•• il calcolo del fabbisogno calorico per l’attività sportiva
•• la variabilità delle caratteristiche degli alimenti (si vedano gli esempi ne L’ortoressia della
zona nel Volume 3, Capitolo 2)
•• l’assorbimento individuale delle varie sostanze
•• i metodi di cottura (si veda il Volume 2, Capitolo 1).

Spero che questo elenco vi abbia convinto che è semplicemente maniacale fare un discorso troppo
preciso. La prima versione della dieta italiana forniva una media (carboidrati 50%, proteine 20%,
grassi 30%). Precisando ancora meglio il discorso e riducendo ulteriormente il livello ortoressico
del modello, oggi si può affermare che

la teoria può servire per evidenziare i livelli sicuramente minimi per un discorso salutista di un
soggetto che segua una buona alimentazione e pratichi attività sportiva.

Attività sportiva che, come abbiamo visto, per la dieta italiana non è solo consigliabile, è
necessaria!
In base alla teoria (Appendice 5) si scopre facilmente che:

(14)La ripartizione giornaliera ottimale - carboidrati: minimo 45%, proteine: minimo 15%,
grassi: minimo 25%. Il restante 15% deve essere personalizzato in base al grado di
sedentarietà del soggetto.
Il 15% fluttuante andrebbe adattato al singolo soggetto; come precedentemente indicato, la gran
parte della popolazione può seguire un modello 50-20-30 con ottimi risultati.
Il 45% dei carboidrati è il minimo indispensabile per poter svolgere salutisticamente un’attività
fisica a medio-alta intensità; idem dicasi del 15% di proteine; il 25% minimo di grassi evita che
ci siano troppe conversioni di altri macronutrienti in grassi per avere a disposizione il carburante
(i grassi) per le attività a bassa intensità. Inoltre una dose del 25% di grassi assicura una certa
sazietà ai propri pasti.
Gli errori più comuni del soggetto sono di solito l’assunzione di troppi carboidrati (oltre il 60%,
come in molte diete “mediterranee” o vegetariane), di poche proteine (sotto al 15%, anche in
questo caso diete “mediterranee” o vegetariane ipoproteiche), di pochi grassi (sotto al 25%, come
in molte diete salutiste), di troppe proteine (sopra il 30%, come in molte diete iperproteiche), di
pochi carboidrati (sotto al 45% come nella dieta a zona).
La risposta alle critiche alla ripartizione della dieta italiana – I carboidrati non sono troppo
pochi e garantiscono un apporto energetico di prima qualità, ma non sono nemmeno troppi come
tradizionalmente accade nella dieta mediterranea non controllata o in certe diete vegetariane.
Ad alcuni le proteine potrebbero sembrare troppe, ma si deve ricordare che la dieta italiana dà
per scontata la pratica di un’attività sportiva. Parlare di una quota proteica del 10% per un

181
sedentario è già una partenza sbagliata. La percentuale dei grassi è in linea con quella ritenuta
accettabile da gran parte della scienza nutrizionale e tende a evitare ogni assurda demonizzazione
dei lipidi.
Infine le percentuali di proteine e di grassi garantiscono un buon potere saziante dei cibi.

La ripartizione temporale
Sicuramente avrete sentito Tizio dire che è meglio abbondare a pranzo e stare leggeri a cena
oppure Caio che sostiene che è meglio non mangiare molto a pranzo e compensare a cena. Cosa
c’è di vero in tutto ciò? Scientificamente molto poco che possa cambiare la vostra vita. In realtà le
condizioni individuali sono tali da far propendere per l’una o per l’altra scelta a seconda degli
orari, della calma con cui si può mangiare, di quando si va a dormire ecc. Scegliere e perorare
una delle due strade vuol dire spesso oggettivare le proprie preferenze, giustificandole con dati
che spesso non sono decisivi e si possono facilmente contestare. L’unico punto su cui tutti
dovrebbero essere d’accordo è che:

(19) la colazione deve apportare almeno il 20% delle calorie giornaliere.

Ci sono molti pro e nessun contro a questo punto:

A. per chi segue un regime alimentare che vuole assicurare un fisico magro è essenziale togliere
fin dalla prima mattina il senso di fame. Spesso un individuo in sovrappeso può nutrirsi con un
veloce caffè solo perché è ancora sazio dell’abbuffata della sera precedente. Altri invece devono
ricorrere a un abbondante spuntino a metà mattina per lenire il senso di fame.
B. È necessario ripristinare le calorie perse durante le ore di sonno e predisporsi al meglio alla
giornata.
C. Chi non ha tempo per farsi un’abbondante colazione in tutta calma vive una vita troppo
stressata o ama troppo alzarsi dal letto all’ultimo minuto: entrambe le motivazioni non sono
salutistiche.

L’ultimo punto è particolarmente importante. Mangiare (bene) deve essere un piacere. Iniziare la
giornata trangugiando un caffè e scappando velocemente al lavoro, elabora un rapporto con il cibo
che non è ottimale. Si mangia quando si ha tempo, il che significa bassa priorità all’alimentazione,
abbuffate per recuperare il piacere del cibo quando il tempo non manca oppure tanti piccoli
spuntini (“quando si ha fame si mangia quel che si può”) che sommati danno un contributo calorico
impressionante.

Gli spuntini
Ormai in quasi tutte le diete sono previsti spuntini fra i pasti principali; con termine anglosassone
alcuni li chiamano brunch, un misto fra breakfast e lunch, altri aggiungono l’aggettivo
rompidigiuno, evidenziando la funzione di rendere più sopportabile la dieta. In realtà lo spuntino
ha (o dovrebbe avere) uno scopo ben preciso: regolarizzare l’assunzione di cibo, evitando di
sovraccaricare l’apparato digerente in occasione dei pasti principali. Per evitare di ottenere
l’effetto opposto:

182
•• non deve essere troppo vicino ai pasti principali (e alla colazione);
•• non deve essere troppo calorico.

I due punti sopraccitati consentono di definire quando serve e come deve essere gestito.
I pro – Lo spuntino deve essere utilizzato da chi, per vari motivi, distanzia molto i pasti; non è
detto che debbano essercene due, anche il solo spuntino pomeridiano può andare benissimo. La
distanza dal pasto dovrebbe essere di almeno tre ore rispetto al precedente e di almeno due dal
successivo. Cioè lo spuntino è giustificato se ci sono almeno cinque ore di differenza fra due
pasti principali. Si deve notare che un pasto è considerato principale (colazione compresa)
quando consente un’assunzione di almeno il 20% delle calorie giornaliere. Non ha invece senso
fare uno spuntino alle ore dieci semplicemente perché la colazione è stata troppo povera.
I contro – Lo spuntino viene spesso inserito perché il pasto principale che lo precede non ha
soddisfatto psicologicamente (si ha ancora fame); in quest’ottica rivela o una scarsa
predisposizione del soggetto alla dieta o un errore nella stessa. Il secondo lato negativo dello
spuntino è che si tende spesso a esagerare caloricamente; far diventare d’abitudine le calorie di
uno spuntino 180 invece di 100 vuol dire non far quadrare il bilancio giornaliero di 160 kcal (se
gli spuntini sono due): tradotto in un anno vuol dire un aumento di peso di circa sei chilogrammi
(da qui la famosa frase: “eppure seguo la dieta scrupolosamente, non so perché aumento!”).
Un’ultima avvertenza: la giornata termina quando si va a dormire, per cui considerate anche la
parte dopo il secondo pasto principale. Se cenate alle 19.30 e andate a dormire alle 0.30, uno
spuntino alle 22.30 può essere indicato per evitare di andare a letto a stomaco vuoto.

La composizione del pasto


So di dare un dispiacere agli amanti della zona, ma ciò che conta non è il pasto (o peggio il
singolo spuntino) bensì il singolo giorno. Calcolare la ripartizione dei macronutrienti a ogni
singolo pasto è troppo ortoressico e anche sbagliato. Infatti dopo uno strenuo impegno sportivo
probabilmente sarà opportuno aumentare la dose di carboidrati e, in parte, di proteine, lasciando
la quota di grassi per i pasti più tranquilli. Questo perché il fisico è stanco e i grassi sono i meno
digeribili; il fisico è in deplezione di glicogeno e l’azione dell’insulina non è negativa tendendo a
trasformare i carboidrati nelle scorte che l’azione sportiva ha depauperato ecc. Stesse
considerazioni potrebbero farsi prima o dopo un’importante riunione di lavoro o una situazione
particolarmente stressante. Inoltre si deve anche considerare che il nostro corpo è in grado di
gestire i macronutrienti in modo abbastanza flessibile (ved. Le trasformazioni fra macronutrienti
nel Capitolo 5): percentuali maniacali sarebbero un insulto alla sua “intelligenza”.
Ciò che conta veramente è l’unità “giorno” per evitare che continue ripartizioni sbagliate mandino
in tilt il sistema.

183
Appendice 1 - L’indice glicemico
L’indice glicemico nella tabella riportata in questa appendice è stato riferito al glucosio. In altre
tabelle che si trovano nella letteratura scientifica l’alimento di riferimento non è il glucosio,
spesso è il pane bianco, un cibo tipico più vicino alla realtà quotidiana rispetto al classico
glucosio, che viene usato solo in studi scientifici. Per calcolare l’indice glicemico rispetto al
pane bianco basta moltiplicare per 1,37.
NOTA – Per calcolare sperimentalmente l’indice glicemico di un alimento che non è un
carboidrato puro si fa assumere al soggetto non 50 g dell’alimento, ma una quantità tale che
contenga 50 g di carboidrati. Se l’alimento contiene molta acqua tale quantità può essere
significativa; per esempio, per avere 50 g di carboidrati occorre assumere circa 800 g di
albicocche. Riferendosi alla tabella 15 si trova che 800 g di albicocche provocano la stessa
reazione insulinica di 50 g di spaghetti (crudi, cioè circa 125 g di pasta cotta).
L’unica tabella attendibile è la celebre International table of glycemic index and glycemic load
values (Foster-Powell K, Holt SH, Brand-Miller JC. Human Nutrition Unit, School of Molecular
and Microbial Biosciences, University of Sydney, NSW, Australia) pubblicata su Am J Clin Nutr.
2003 Apr; 77(4): 994. Una sua versione è consultabile nel mio sito Internet.

TABELLA 15 – Indice glicemico dei cibi comuni.


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Alimento > Indice glicemico
• Albicocca > da 57 a 64
• All-Bran (cereali ad alto contenuto di fibra) > 42±5
• Ananas > 59±8
• Arancia > da 31 a 51
• Banana (Sudafrica) > 70±5
• Biscotti (Oro Saiwa, Italia) > 64±3
• Carote > 47±16
• Ciliegie > 22
• Coca Cola > 58±5
• Croissant > 67
• Corn flakes (KELLOG’S, USA) > 91
• Cracker > da 52 a 98
• Datteri (secchi) > 103±21
• Fagioli > 29±9
• Fanta > 68±6
• Fruttosio > 19±2
• Gatorade > 78±13
• Gelato (vaniglia e cioccolato, Italia) > da 57 a 80
• Glucosio > 100
• Kiwi > 53±6
• Latte di soia > 32±2
• Latte intero > 27±4
• Latte scremato > 32±5
• Maccheroni > 47±2
• Mango > 51±5

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• Mela > da 28 a 44
• Miele > da 32 a 95
• Muffin > da 44 a 102
• Muesli > da 39 a 75
• Pane integrale > 53±3
• Pane bianco > da 30 a 110
• Pane di frumento senza glutine > 76±5
• Pane di segale > da 50 a 64
• Patate al forno > 89±12
• Patate bollite > da 56 a 101
• Patate fritte (surgelate) > 75
• Pera > 38±2
• Pesca fresca > da 28 a 56
• Pesche in scatola > da 30 a 71
• Pizza al formaggio (Italia) > 80
• Popcorn > 72±17
• Prugna > 39±15
• Riso bianco > da 48 a 112
• Saccarosio/zucchero di canna > 68±5
• Spaghetti > 57±6
• Succo d’ananas > 46
• Succo d’arancia > 50±4
• Succo di mela > 40±1
• Succo di pompelmo > 48
• Succo di pomodoro > 38±4
• Uva > da 46 a 59
• Yogurt bianco > 36±4
• Yogurt magro > da 14 a 45
----------

185
Appendice 2 - Tabella delle quantità sazianti
Ecco una tabella ottenuta mediando su 44 soggetti (2007). La tabella è solo indicativa; si potrebbe
anche considerarla come riferita a un singolo soggetto: ancora una volta si deve sottolineare come
i prodotti e i piatti preparati o elaborati siano molto meno sazianti degli alimenti semplici.

TABELLA 16 – Quantità sazianti.


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Alimento > Sazietà in kcal
• Albicocche > 420
• Ananas > 380
• Arachidi > 2.400
• Arance > 360
• Banane > 450
• Bresaola > 600
• Brie > 950
• Burro > 820
• Carne (carne magra, maiale o bovino, ai ferri) > 580
• Carote (al vapore) > 160
• Cavolfiore (al vapore) > 180
• Ciliegie > 450
• Cioccolato al latte > 1.050
• Cocomero > 200
• Emmenthal > 700
• Fichi > 510
• Fragole > 320
• Gorgonzola > 650
• Grana > 720
• Grissini/cracker > 1.100
• Insalata con olio (10 g per 100 g), aceto, sale > 440
• Latte intero > 550
• Mele > 430
• Miele > 330
• Mozzarella > 1.140
• Noci > 2.300
• Olive verdi > 700
• Orata (ai ferri) > 400
• Pane comune > 1.380
• Panna montata fresca > 620
• Pasta (amatriciana) > 1.650
• Patate fritte > 1.610
• Pere > 280
• Pesce spada (ai ferri) > 450
• Pesche > 340
• Pollo (petto) ai ferri > 490
• Pomodori in insalata olio (10 g per 100 g), aceto, sale > 510

186
• Pompelmo > 145
• Pop corn > 1.270
• Prosciutto cotto > 810
• Prosciutto crudo > 740
• Ricotta di mucca > 610
• Riso (risotto ai funghi) > 1.180
• Salame > 1.050
• Salmone al naturale > 650
• Tonno al naturale > 350
• Uovo bollito > 590
• Uva > 950
• Yogurt (intero) > 420
----------

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Appendice 3 - Il fabbisogno energetico degli sport più comuni
I valori riportati sono valori medi per un’ora d’attività per un soggetto di 70 kg. I valori relativi
si riferiscono alla pratica agonistica. I dati non tengono conto del dispendio metabolico (65
calorie circa) durante l’attività, in genere già inserito nel metabolismo basale. Ovviamente si tratta
di valori medi: un conto è pescare sul greto di un torrente stando per un’ora in piedi e spostandosi
continuamente lungo la riva e un conto è starsene un’ora seduti, pescando in uno stagno.

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Attività > Calorie
• Aerobica > 440
• Alpinismo > 600
• Baseball > 300
• Basket > 480
• Biliardo > 50
• Bowling > 250
• Boxe > 850
• Caccia > 200
• Calcio > 500
• Canoa > 350
• Ciclismo > 660
• Corsa > 850
• Equitazione (galoppo/trotto) > 400
• Ginnastica > 180
• Golf > 240
• Judo > 720
• Karate > 720
• Nuoto > 600
• Pallanuoto > 720
• Pallavolo > 540
• Pesca > 120
• Ping pong > 180
• Scherma > 600
• Squash > 850
• Tiro con l’arco > 280
• Windsurf > 200
----------

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Appendice 4 - Il fabbisogno energetico delle attività più comuni
I valori riportati sono valori medi per un’ora d’attività per un soggetto di 70 kg. I dati non tengono
conto del dispendio metabolico (65 calorie circa) durante l’attività, in genere già inserito nel
metabolismo basale. Ovviamente si tratta di valori medi.

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Attività > Calorie
• Accudire gli animali (fattoria) > 140
• Ballo lento > 80
• Ballo veloce > 390
• Cucinare > 60
• Cucire > 30
• Dipingere una parete > 140
• Fare shopping > 60
• Giocare a carte > 15
• Guardare la televisione > 10
• Lavare la macchina > 80
• Lavori di falegnameria > 80
• Lavori elettrici > 120
• Lavoro al computer > 18
• Lavoro alla scrivania > 10
• Lavoro a una macc. utensile > 80
• Mangiare > 5
• Passeggiare > 180
• Potare gli alberi > 420
• Pulire la casa > 110
• Scrivere > 30
• Spaccare la legna > 1.100
• Stare in piedi > 18
• Stirare > 40
• Suonare uno strumento > 60
• Tagliare il prato > 90
• Yoga > 140
• Zappare > 600
----------

189
Appendice 5 - Teoria dei macronutrienti
Chi ci segue da tempo nel campo dell’alimentazione conosce sicuramente la pentadieta, un regime
alimentare da noi ideato nel 1999 e che era nato partendo dai reali fabbisogni dell’organismo. La
dieta italiana è un superamento della pentadieta in senso non ortoressico. Infatti anche la
pentadieta era un approccio troppo teorico all’alimentazione, anche se ha evidenziato alcune delle
regole fondamentali della dieta italiana, in particolare la necessità di un’attività fisica (Capitolo
1) e la ripartizione dei macronutrienti (Capitolo 9). La pentadieta è comunque un punto importante
perché consente di capire esattamente come ognuno di noi può personalizzare la propria
alimentazione.
Per comprendere esattamente la teoria dei macronutrienti occorre conoscere:

•• fabbisogno glicidico
•• fabbisogno proteico
•• fabbisogno calorico quotidiano
•• fabbisogno sportivo
•• ripartizione finale dei macronutrienti.

Il concetto fondamentale è che:

poiché i vari fabbisogni possono essere espressi solo come approssimazioni, è un atteggiamento
ortoressico pretendere di estrapolare dati estremamente precisi con validità generale.

Occorre capire che ogni individuo tratta diversamente i cibi proprio come ogni auto (anche a
parità di cilindrata) tratta diversamente il carburante, per cui è ottimistico sperare di indicare con
estrema certezza dei dati generali. Inoltre i vari fabbisogni vengono soddisfatti con alimenti le cui
caratteristiche sono comunque approssimative (le calorie di un melone vanno per esempio da 34 a
55 alb).

Il soggetto ideale
Consideriamo un soggetto medio ideale, completamente sedentario.
Indicato con P il peso del soggetto, i dati significativi sono i seguenti.
Il fabbisogno glicidico (carboidrati) FG – Il fabbisogno giornaliero di glucosio per il cervello e
per il sangue è espresso in grammi in 2,6*P e in calorie in 10,3*P.
Il fabbisogno proteico FP – Tale fabbisogno espresso in grammi è 0,83*P e in calorie 3,3*P.
Il fabbisogno calorico quotidiano FCQ – Tradizionalmente il fabbisogno calorico si esprime
come:

FCQ=MB+MA

ove MB è il metabolismo basale (compreso il metabolismo legato alla digestione dei cibi) e MA è
il dispendio calorico legato all’attività del soggetto.
Su molti testi si trovano sia le valutazioni del metabolismo basale (MB) sia quelle legate
all’attività del soggetto (MA). Purtroppo tali valutazioni sono spesso errate in quanto non si tiene
conto che:

190
A. non ha senso calcolare il metabolismo basale a partire dal semplice peso del soggetto (si
nutrono anche i grassi); occorre partire dalla massa magra.
B. Il metabolismo basale diminuisce nettamente in soggetti allenati o che seguono una dieta
ipocalorica (riduzione che può arrivare al 45%). Come dire che il corpo si adatta a bruciare
meno, ottimizzando quello che ha a disposizione.
C. Il metabolismo basale dipende dalla dieta. Per esempio un pasto induce una maggior
termogenesi (legata alla richiesta di energia necessaria alla digestione) se è più ricco di proteine.
D. Il metabolismo d’attività è decisamente sovrastimato. Un soggetto di 62 kg che scrive un’ora al
computer spende solo 18 calorie in più rispetto alla condizione di riposo. Se si suppone che
dorma 9 ore e che sia particolarmente sedentario (quando non scrive al computer si sposta in
macchina o guarda la televisione) si scopre che per le attività giornaliere spende circa 150 calorie
oltre a quelle basali; se cammina per un’ora al giorno (cioè se si sposta a piedi o è solito fare una
blanda attività fisica) occorre aggiungere circa 220 calorie (370 in totale). Queste due condizioni
sono comuni per moltissime persone (i soggetti che definiremo sedentari) che svolgono un lavoro
d’ufficio o che comunque non comporti lunghi spostamenti a piedi o lavoro fisico continuo.
Pertanto il metabolismo d’attività per un sedentario può andare dalle 150 alle 400 calorie (per 60-
70 kg di peso).

Come abbiamo visto, il punto a) è quello che ha portato la dietologia tradizionale a sovrastimare i
fabbisogni giornalieri. Se si consultano tabelle tradizionali si trova che un sedentario standard di
70 kg (supponiamo con massa grassa del 20%) dovrebbe bruciare 2.350 calorie, mentre un atleta
(con 10% di massa magra) dello stesso peso che si alleni una volta al giorno circa 2.950. Se la
differenza è corretta, certo non lo è il punto di partenza, perché con 2.350 calorie al giorno il
sedentario rimarrà sempre una persona sovrappeso.
Combinando i punti a) e b) si può molto grossolanamente indicare che per il nostro soggetto
ideale:

MB=28*MM

ove MM è la massa magra in chilogrammi.


Così il sedentario sopraccitato dovrebbe (o potrebbe, allenando correttamente il suo corpo a
mangiare di meno) avere un MB di circa 1.600 calorie. Se è veramente un sedentario, aggiungendo
altre 200 calorie (MA) si arriva a 1.800, 550 in meno rispetto a quelle tradizionali. Queste 550
sono le calorie che vanno a nutrire la massa grassa, impedendo al soggetto di dimagrire. Ricordo
che alcune formule fanno riferimento all’età e al sesso: riferendoci alla massa magra, anziché al
peso, si superano questi problemi (se ci si riferisce al peso il riferimento con l’età può essere
giustificato in quanto con l’età la massa muscolare tende a diminuire).
Purtroppo il punto d) è facilmente teorizzabile solo per chi ha un’attività verosimilmente sempre
equivalente dal punto di vista energetico; ci si può rifare alla tabella delle attività (Appendice 4)
per avere i consumi calorici aggiuntivi rispetto alla condizione di riposo. Chi ha un’attività
decisamente variabile (supponiamo un imbianchino il cui flusso di lavoro varia nell’arco della
settimana) potrà avere soltanto utili indicazioni. Per convincersene basta ricordare che:

un eccesso di 100 calorie al giorno porta a un aumento di peso di 4-8 kg all’anno.

191
Il fabbisogno sportivoFS – Finora si è supposto che il soggetto non praticasse nessuna attività
sportiva. Ogni sport ha il suo modello nutrizionale e ci si dovrebbe rivolgere a un esperto del
settore per il calcolo dei consumi. Genericamente si può dire che i fabbisogni dipendono dalla
durata e dall’intensità dello sforzo. Si calcola il fabbisogno totale, quello di proteine e quello di
carboidrati: per differenza (totale - carboidrati - proteine) si trova banalmente il fabbisogno di
grassi. Ovviamente bisognerebbe studiare il singolo atleta per essere precisi, ma generalizzando si
possono dare alcuni dati. Per la corsa i dati sono i seguenti (km sono i chilometri percorsi).
Fabbisogno totale: il fabbisogno sportivo FS in calorie è = km*P. La formula è una
semplificazione molto realistica, visto che in letteratura si trova che con corsa “economica al
massimo” il dispendio è 0,82*km*P (cioè chi corre male ha un dispendio superiore).
Proteine: l’aumentato fabbisogno proteico in calorie è dato da FSP= Kp*km*P, ove Kp può
variare da 0 a 0,28 a seconda dell’intensità e della durata dello sforzo. Un atleta di 70 kg che
percorre 10 km di corsa a un buon ritmo (relativamente alle sue possibilità) ha un aumentato
fabbisogno proteico di circa 30-50 kcal. Il fabbisogno proteico fa riferimento al peso anziché alla
massa magra in quanto le richieste energetiche e i microtraumi provenienti dalla corsa dipendono
dal peso del soggetto: un obeso fa molta più fatica a salire le scale rispetto a chi è un fuscello! Il
processo per il quale alcuni amminoacidi vengono trasformati in glucosio (poi usato come fonte
energetica) dipende dall’intensità del lavoro e dalla durata: in un lavoro leggero di circa 40 minuti
solo il 4% dell’energia proviene dalle proteine; dopo 4 ore di lavoro leggero ben il 45% del
glucosio liberato dal fegato proviene dalle proteine e il contributo energetico delle proteine è pari
al 10-15% del totale.
Glicidi: l’aumentato fabbisogno glicidico in calorie è dato da FSG= Kc*km*P, ove Kc può variare
da 0,5 a 1 a seconda dell’intensità e della durata dello sforzo. Per sforzi a massima intensità Kc
vale 1, mentre vale 0,5 per sforzi a intensità molto bassa e per atleti allenati a bruciare i grassi.
Inoltre le riserve di carboidrati immagazzinate nei muscoli e nel fegato non sono sufficienti a
compiere sforzi di lunga durata (tipicamente una trentina di chilometri di corsa al massimo). Un
atleta di 70 kg che percorre 10 km di corsa al ritmo gara ha un aumentato fabbisogno glicidico di
circa 700 calorie.
La ripartizione – Il fabbisogno calorico giornaliero totale è FCT=MB+MA+FS; la quantità di
glicidi GLIC è data da FG+FSG; la quantità di proteine PROT è data da FP+FSP; quella di lipidi
si trova per differenza ed è data da FCT-GLIC-PROT.

Un esempio
Dovrebbe essere ormai chiaro che i conti esatti sono soggettivi. Infatti sono soggettivi:

A. il metabolismo basale
B. il metabolismo di attività
C. il fabbisogno sportivo totale
D. la quota proteica di fabbisogno sportivo
E. la quota glicidica di fabbisogno sportivo.

È però possibile ricavare interessanti risultati considerando un caso particolare e provando a


cambiare poi alcune variabili.
Consideriamo Carlo, un soggetto di 70 kg con massa grassa del 15% che ha 42 anni, svolge un
lavoro sedentario, va al lavoro in auto e dorme nove ore per notte. Ogni giorno si fa la sua

192
corsettina di sei chilometri a ritmo non impegnativo. Facciamo i nostri conti.
Il fabbisogno glicidico FG è di 721 calorie, quello proteico FP di 231 calorie. La massa magra di
Carlo è di 59,5 kg (70 kg-15%) e il suo fabbisogno calorico quotidiano è FCQ=28*59,5+300 (300
è il fabbisogno calorico stimato dal lavoro, dalle modalità con cui Carlo va al lavoro, dalle
attività che svolge quando torna a casa ecc.)=1.966. Il suo fabbisogno sportivo è di 420 calorie
(FS=70*6), il suo fabbisogno proteico sportivo è FPS=70*6*0,1=42 calorie, mentre quello
glicidico è FSG=70*6*0,7=294 calorie.
Quindi il suo FCT (fabbisogno giornaliero totale) è: FCQ+FS=2.386 calorie. Con queste calorie
Carlo non diminuirà di peso e potrà svolgere proficuamente il suo lavoro e la sua attività sportiva.
La sua ripartizione è:

•• Proteine = 231 + 42 = 273 calorie


•• Glicidi = 721 + 294 = 1.015 calorie
•• Lipidi = 2.386 - 1.015 - 273 = 1.098 calorie

La ripartizione è 42,5-11,5-46 (cioè 42,5% carboidrati, 11,5% proteine, 46% grassi). Scioccati
per i bassi contenuti di proteine e di carboidrati e quello alto di grassi? Riflettiamo su cosa non va
nella vita di Carlo dal punto di vista alimentare-sportivo. Non è certo obeso, ma non è certo
magro: chi pratica attività sportiva sufficientemente intensa riesce ad arrivare a una massa grassa
del 10-12%. Inoltre la sua attività sportiva (mezz’ora di corsetta ogni giorno) è troppo blanda e
per gestirla il corpo ha bisogno soprattutto di grassi. Ciò comporta che se si aumentano le proteine
e si diminuiscono i grassi come in una dieta (50-20-30), gran parte delle proteine sarà comunque
stoccata come grasso, costringendo il fisico a un lavoro in più per avere a disposizione il
carburante che gli serve. Sostanzialmente la vita di Carlo è troppo “blanda”.
Supponiamo che Carlo decida di movimentarla, mettendosi a dieta, scendendo a una percentuale
di massa grassa del 10% con peso di 66,5 kg e portando la corsa a 10 km quotidiani (45 minuti) a
media intensità. Rifacendo tutti i calcoli si troverebbe che la ripartizione sarebbe (46,6-13,9-
39,5). Se si portasse l’esercizio fisico a un’ora si arriverebbe a una ripartizione molto vicina a
50-20-30 tipica della dieta italiana.
Cosa è successo? Dimagrendo e aumentando l’attività sportiva (non solo in termini di quantità
quanto di qualità, cioè di intensità), i fabbisogni sono diventati più bilanciati.
Il modello teorico ha cioè mostrato che per avere un’alimentazione bilanciata che soddisfi i reali
bisogni del nostro corpo:

•• il soggetto deve essere magro;


•• deve svolgere un’attività sportiva continua e di almeno media intensità;
•• può utilizzare la semplice ripartizione 50-20-30.

193
Appendice 6 - Gli indici di fibra
Nella tabella che segue gli indici di fibra di alcuni alimenti comuni.

Tabella 17 – Indici di fibra.


----------
• Albicocche
Calorie 28 :|: Fibre 1,5 :|: Indice 5,4

• Ananas
Calorie 40 :|: Fibre 1 :|: Indice 2,50

• Arachidi
Calorie 600 :|: Fibre 8,1 :|: Indice 1,35

• Arance
Calorie 34 :|: Fibre 1,6 :|: Indice 4,71

• Asparagi
Calorie 25 :|: Fibre 2,1 :|: Indice 8,40

• Avocado
Calorie 231 :|: Fibre 3,3 :|: Indice 1,43

• Banane
Calorie 66 :|: Fibre 1,8 :|: Indice 2,73

• Carciofi
Calorie 22 :|: Fibre 7,6 :|: Indice 34,55

• Carote
Calorie 30 :|: Fibre 3,1 :|: Indice 10,33

• Castagne
Calorie 140 :|: Fibre 10,1 :|: Indice 7,21

• Cavolfiori
Calorie 25 :|: Fibre 2,3 :|: Indice 9,20

• Cavoli (cappuccio)
Calorie 19 :|: Fibre 3,1 :|: Indice 16,32

• Ceci
Calorie 334 :|: Fibre 13,8 :|: Indice 4,13

• Cetrioli

194
Calorie 14 :|: Fibre 0,6 :|: Indice 4,29

• Cicoria
Calorie 10 :|: Fibre 3,6 :|: Indice 36,00

• Ciliegie
Calorie 38 :|: Fibre 1 :|: Indice 2,63

• Cipolle
Calorie 26 :|: Fibre 1,3 :|: Indice 5,00

• Fagiolini
Calorie 17 :|: Fibre 2,9 :|: Indice 17,06

• Fagiolo
Calorie 104 :|: Fibre 10,6 :|: Indice 10,19

• Farina 00
Calorie 343 :|: Fibre 2,5 :|: Indice 0,73

• Fave
Calorie 37 :|: Fibre 1,5 :|: Indice 4,05

• Fichi
Calorie 45 :|: Fibre 1,6 :|: Indice 3,56

• Finocchio
Calorie 9 :|: Fibre 2,3 :|: Indice 25,56

• Fragole
Calorie 27 :|: Fibre 0,6 :|: Indice 2,22

• Funghi porcini
Calorie 27 :|: Fibre 2,5 :|: Indice 9,26

• Grissini
Calorie 435 :|: Fibre 0,2 :|: Indice 0,05

• Kaki
Calorie 67 :|: Fibre 0,5 :|: Indice 0,75

• Kiwi
Calorie 44 :|: Fibre 2,5 :|: Indice 5,68

• Lamponi
Calorie 34 :|: Fibre 0,6 :|: Indice 1,76

195
• Lattuga
Calorie 19 :|: Fibre 6,2 :|: Indice 32,63

• Lenticchie
Calorie 325 :|: Fibre 13,7 :|: Indice 4,22

• Limone
Calorie 11 :|: Fibre 1,9 :|: Indice 17,27

• Mandaranci
Calorie 53 :|: Fibre 2,2 :|: Indice 4,15

• Mandarini
Calorie 72 :|: Fibre 1,7 :|: Indice 2,36

• Mandorle
Calorie 542 :|: Fibre 14,3 :|: Indice 2,64

• Melanzane
Calorie 15 :|: Fibre 3,2 :|: Indice 21,33

• Mele
Calorie 45 :|: Fibre 2 :|: Indice 4,44

• Melone
Calorie 33 :|: Fibre 0,9 :|: Indice 2,73

• More
Calorie 30 :|: Fibre 3 :|: Indice 10,00

• Nespola
Calorie 28 :|: Fibre 2,8 :|: Indice 10,00

• Nocciola
Calorie 625 :|: Fibre 6,7 :|: Indice 1,07

• Noce di cocco
Calorie 351 :|: Fibre 10,1 :|: Indice 2,88

• Noci
Calorie 653 :|: Fibre 6,2 :|: Indice 0,95

• Olive nere
Calorie 234 :|: Fibre 1,6 :|: Indice 0,68

196
• Olive verdi
Calorie 142 :|: Fibre 1,7 :|: Indice 1,20

• Pane comune
Calorie 280 :|: Fibre 3 :|: Indice 1,07

• Pane integrale
Calorie 242 :|: Fibre 5,7 :|: Indice 2,36

• Pasta
Calorie 360 :|: Fibre 5,1 :|: Indice 1,42

• Pasta integrale
Calorie 330 :|: Fibre 7 :|: Indice 2,12

• Patate
Calorie 85 :|: Fibre 2,1 :|: Indice 2,47

• Peperoni
Calorie 22 :|: Fibre 1,9 :|: Indice 8,64

• Pere
Calorie 41 :|: Fibre 2,8 :|: Indice 6,83

• Pesche
Calorie 27 :|: Fibre 2,1 :|: Indice 7,78

• Piselli
Calorie 76 :|: Fibre 5,2 :|: Indice 6,84

• Pomodori
Calorie 18 :|: Fibre 0,6 :|: Indice 3,33

• Pompelmi
Calorie 26 :|: Fibre 1,6 :|: Indice 6,15

• Prezzemolo
Calorie 20 :|: Fibre 1,8 :|: Indice 9,00

• Prugne
Calorie 42 :|: Fibre 2,1 :|: Indice 5,00

• Radicchio
Calorie 13 :|: Fibre 3 :|: Indice 23,08

• Rape

197
Calorie 18 :|: Fibre 2,2 :|: Indice 12,22

• Riso
Calorie 360 :|: Fibre 0,6 :|: Indice 0,17

• Sedano
Calorie 20 :|: Fibre 1,6 :|: Indice 8,00

• Uva
Calorie 61 :|: Fibre 1,5 :|: Indice 2,46

• Zucca
Calorie 18 :|: Fibre 1,3 :|: Indice 7,22

• Zucchine
Calorie 11 :|: Fibre 0,9 :|: Indice 8,18

• Fibre 1 Nestlé
Calorie 264 :|: Fibre 32 :|: Indice 12,12

• All Bran Classici Kellogg’s


Calorie 275 :|: Fibre 27 :|: Indice 9,82

• Special K Kellogg’s
Calorie 373 :|: Fibre 2,5 :|: Indice 0,67

• Fitness Nestlé
Calorie 353 :|: Fibre 5,1 :|: Indice 1,44
----------

Cosa si scopre dalla tabella? Proviamo a ordinarla per indice di fibra, limitandoci ai cibi con IF>
9.

----------
• Cicoria
Calorie 10 :|: Fibre 3,6 :|: Indice 36,00

• Carciofi
Calorie 22 :|: Fibre 7,6 :|: Indice 34,55

• Lattuga
Calorie 19 :|: Fibre 6,2 :|: Indice 32,63

• Finocchio
Calorie 9 :|: Fibre 2,3 :|: Indice 25,56

198
• Radicchio
Calorie 13 :|: Fibre 3 :|: Indice 23,08

• Melanzane
Calorie 15 :|: Fibre 3,2 :|: Indice 21,33

• Limone
Calorie 11 :|: Fibre 1,9 :|: Indice 17,27

• Fagiolini
Calorie 17 :|: Fibre 2,9 :|: Indice 17,06

• Cavoli (cappuccio)
Calorie 19 :|: Fibre 3,1 :|: Indice 16,32

• Rape
Calorie 18 :|: Fibre 2,2 :|: Indice 12,22

• Fibre 1 Nestlé
Calorie 264 :|: Fibre 32 :|: Indice 12,12

• Carote
Calorie 30 :|: Fibre 3,1 :|: Indice 10,33

• Fagiolo
Calorie 104 :|: Fibre 10,6 :|: Indice 10,19

• More
Calorie 30 :|: Fibre 3 :|: Indice 10,00

• Nespola
Calorie 28 :|: Fibre 2,8 :|: Indice 10,00

• All Bran Classici Kellogg’s


Calorie 275 :|: Fibre 27 :|: Indice 9,82

• Funghi porcini
Calorie 27 :|: Fibre 2,5 :|: Indice 9,26

• Cavolfiori
Calorie 25 :|: Fibre 2,3 :|: Indice 9,20

• Prezzemolo
Calorie 20 :|: Fibre 1,8 :|: Indice 9,00
----------

199
Si scopre che:

1. la verdura ha un IF decisamente superiore alla frutta (tranne limoni, more e nespole). Per cui
l’indicazione dei nutrizionisti che consigliano di assumere fibre, con molta frutta e verdura, è
parzialmente scorretta. Se si assume solo frutta (per esempio perché non si gradisce la verdura),
per assumere il giusto quantitativo di fibre abbiamo un introito eccessivo di calorie.
2. Il semplice rivolgersi a cereali integrali non cambia di molto la situazione sul versante fibre,
pasta e farine integrali hanno comunque un basso indice di fibra, decisamente inferiore a quello
della verdura.
3. I falsi corn flakes (quelli che superano i 300 alb) che ormai hanno invaso il mercato hanno
indici di fibra molto bassi. Nonostante la pubblicità inviti a consumarli per sopperire al
fabbisogno di fibre, perché tale fabbisogno sia soddisfatto i quantitiativi devono essere aumentati
e di conseguenza il contenuto calorico lievita paurosamente.

Quindi? Verdura, verdura, verdura…

200
Appendice 7 - Linee guida per l’alimentazione (le regole della
dieta italiana)
La coscienza alimentare
(1) L’obesità si cura con il dietologo, il sovrappeso con la coscienza alimentare, cioè con la
consapevolezza di come, quanto e cosa mangiare. In un corpo forte il solo vincolo del sovrappeso
limita praticamente ogni posizione salutisticamente errata.

Gli scopi della dieta italiana


(2) Scopo principale della dieta italiana è la sconfitta del sovrappeso concependo il cibo come un
concetto positivo: mangiare bene è un diritto, non un peccato.
(3) Per chi è normopeso non esistono cibi buoni e cibi cattivi.
(4) Chi mangia male vivrà peggio, ma chi spera di conquistarsi il paradiso mangiando benissimo è
un illuso.
(5) Un modello alimentare per essere valido deve poter essere seguito per sempre da una
qualunque persona sana senza penalizzare la qualità della vita.

L’attività fisica
(6) Non è possibile seguire un’alimentazione corretta senza praticare un’attività fisica continua e
di intensità non trascurabile.

La cucina
(7) La dieta italiana sostiene la cucina che cerca il giusto compromesso fra appetibilità, sazietà e
ipocaloricità (piatti ASI).
(8) Olio, zucchero e burro devono essere impiegati nella quantità minima tale da soddisfare la
preparazione di piatti ASI.
(9) La dieta italiana sconsiglia l’uso di tutti quegli alimenti con zucchero “aggiunto” per i quali
esiste un’alternativa senza zucchero (bevande, yogurt, marmellata, succhi di frutta, frutta
sciroppata, macedonie di frutta ecc.).

Il sovrappeso
(10) Ognuno dovrebbe pesarsi periodicamente per controllare che il proprio peso sia corretto.
(11) La condizione di normalità nei riguardi del sovrappeso è:
UOMINI –IMC non superiore a 22 oppure massa grassa non superiore al 12%
DONNE –IMC non superiore a 20 oppure massa grassa non superiore al 20%
(12) Il fabbisogno calorico (Q) giornaliero è:
in caso di sovrappeso, Q=kA2, dove K vale 600 per gli uomini e 540 per le donne e A2 è l’altezza
in m al quadrato.
In assenza di sovrappeso, è quello che mantiene inalterato il peso (o la massa grassa per gli

201
sportivi di potenza).
(13) Ogni eccezione alimentare (situazione che fa superare il proprio Q) dovrebbe essere
recuperata (ritorno al proprio peso forma) prima della successiva.
(14) La ripartizione giornaliera ottimale - carboidrati: minimo 45%, proteine: minimo 15%,
grassi: minimo 25%. Il restante 15% deve essere personalizzato in base al grado di sedentarietà
del soggetto.
(15) La percentuale dei grassi saturi si mantenga attorno al 10% (un terzo dei grassi della dieta).

I cibi
(16) È importante assicurare le dosi minime giornaliere di acidi grassi essenziali.
(17) Per il corretto equilibrio idrico di una persona sana è sufficiente bere quando si ha sete,
verificando che il colore delle proprie urine resti chiaro.
(18) Una dieta equilibrata assicura il corretto apporto di minerali e non ha senso assumere
integratori minerali se non in presenza di carenza accertata.
(19) La colazione deve apportare almeno il 20% delle calorie giornaliere.
(20) Nella propria dieta devono essere inclusi cibi con alto indice di sazietà (frutta, verdura ecc.).
(21) Si abbini il vino a una sola portata, gustando prodotti di alta qualità.
(22) Un’assunzione salutista di alcol ha al massimo un indice alcolico di 3.
(23) La dieta italiana esclude i cibi che contengono grassi trans (margarina, grassi/oli
parzialmente o totalmente idrogenati) e consiglia moderazione nell’uso di cibi contenenti
ingredienti non completamente specificati (come grasso o olio vegetale).
(24) Non abituarsi ad aggiungere sale a tavola.
(25) La dieta italiana è l’unico modello alimentare a proporre una carta degli additivi. Fra l’altro,
sconsiglia l’uso di alimenti contenenti derivati dell’acido benzoico, dell’anidride solforosa,
derivati fenolici, nitriti, gallati, derivati dell’acido ortofosforico, polifosfati, glutammato di sodio
e ciclammato.

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205
Indice
Sommario
Prefazione alla quinta edizione
Introduzione
L’aspettativa di vita
La grande illusione
L’origine dell’ortoressia
Gli ortoressici positivi
Capitolo 1 - La dieta italiana
Il test
Lo stile di vita corretto e il vincolo del sovrappeso
La rivoluzione della dieta italiana
Il sedentario
Capitolo 2 - Dieta italiana e cucina
Gli interessi commerciali
L’enogastronomia
La cucina tipica
La cucina raffinata
Il fast food e il bar
Le pizzerie
I cibi e il costo della spesa
I discount
La cucina ASI
Capitolo 3 - I carboidrati
Il fabbisogno di carboidrati
Indice e carico glicemico
Il grande abbaglio dell’indice glicemico
L’attività fisica
E la dieta mediterranea?
L’amido
Il fruttosio
Il galattosio
Il glucosio
Il lattosio
Capitolo 4 - Le proteine
Il fabbisogno proteico
Massa muscolare e proteine
Molti muscoli e zero grasso?
La qualità delle proteine
Gli aminoacidi
Capitolo 5 - I grassi
I lipidi semplici
Gli acidi grassi
Grassi e oli vegetali

206
I lipidi composti
Il fabbisogno lipidico
La degradazione degli oli
I meccanismi energetici
Capitolo 6 - Acqua, fibre e micronutrienti
L’acqua
Le fibre
I minerali
Le vitamine
L’integrazione vitaminica
La soluzione nutraceutica
La vitamina A
La vitamina B1 (tiamina)
La vitamina B2 (riboflavina)
La vitamina B3 (niacina)
La vitamina B5 (acido pantotenico)
La vitamina B6 (piridossina)
La vitamina B8 (biotina)
La vitamina B9 (acido folico)
La vitamina B12 (cianocobalamina)
La vitamina C (acido ascorbico)
La vitamina D
La vitamina E
La vitamina K
Capitolo 7 - Il sovrappeso
Cos’è il grasso
La misurazione del grasso corporeo
Il controllo del peso
Le tre tipologie di sovrappeso
Perché s’ingrassa
Il grasso localizzato
I dimagranti da banco
I dimagranti con prescrizione
L’attività fisica
Capitolo 8 - Psicologia dell’alimentazione
Perché si mangia
La sazietà
L’appetibilità
Il gusto del dolce
Il valore del cibo e il set point
La masticazione
Il digiuno
Capitolo 9 - La carta d’identità alimentare
Il peso forma
Il fabbisogno calorico quotidiano
Dieta italiana: il k

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La ripartizione dei macronutrienti
La ripartizione temporale
La composizione del pasto
Appendice 1 - L’indice glicemico
Appendice 2 - Tabella delle quantità sazianti
Appendice 3 - Il fabbisogno energetico degli sport più comuni
Appendice 4 - Il fabbisogno energetico delle attività più comuni
Appendice 5 - Teoria dei macronutrienti
Il soggetto ideale
Un esempio
Appendice 6 - Gli indici di fibra
Appendice 7 - Linee guida per l’alimentazione (le regole della dieta italiana)
La coscienza alimentare
Gli scopi della dieta italiana
L’attività fisica
La cucina
Il sovrappeso
I cibi
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