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Le ultime scoperte a cui è pervenuta la ricerca scientifica indicano che le

spezie – ancor più delle erbe, della frutta e della verdura – sono ricchissime
di antiossidanti ed altri speciali composti che recano beneficio alla salute.
Studi condotti sui modelli alimentari in diverse parti del mondo confermano
che tra le popolazioni che consumano spezie si registra il tasso di incidenza
più basso di malattie che mettono a repentaglio la vita, quali patologie
cardiovascolari, tumori, diabete e morbo di Alzheimer.
L’uso terapeutico delle spezie è testimoniato da scritti sanscriti di oltre
3000 a fa e da molti antichi testi medici cinesi, ma sono soprattutto le nuove
scoperto del a scienza che confermano la validità del loro impiego,
mostrando che il loro valore va ben al di là di quello commerciale che da
sempre è stato loro attribuito.
Oggi gli studi epidemiologici evidenziano che le popolazioni che seguono
una dieta ricca di spezie registrano tassi di incidenza inferiori per alcune
patologie, ma anche gli studi di laboratorio confermano sempre più che le
proprietà delle spezie non hanno equivalenti in campo alimentare.
I fitonutrienti presenti nelle spezie sono innanzitutto potentissimi
antiossidanti in grado di combattere i radicali liberi che danneggiano le
cellule e favoriscono malattie e invecchiamento. Hanno evidenti proprietà
antinfiammatorie e antimicrobiche, oltre a svolgere moltissime azioni
specifiche. Per esempio limitano il rilascio di istamina (la sostanza che
scatena i sintomi allergici), regolano i livelli di glicemia e insulina
(prevenendo 0 trattando il diabete), hanno azione calmante, stimolano il
metabolismo, rilassano la muscolatura del tratto intestinale.
Questo libro esamina approfonditamente oltre 50 spezie, considerando le
loro qualità curative e offrendo indicazioni per abbinarle correttamente ai
vari disturbi. Ricchissimo di informazioni gastronomiche, compresa la
preparazione di miscele particolari 0 di ricette, fornisce tutti gli strumenti
per mettere in pratica il principio che te spezie sono altrettanto, se non più,
importanti del cibo che insaporiscono.
Bharat B. Aggarwal, eminente esperto a livello mondiale sull’uso
terapeutico delle spezie culinarie, esamina approfonditamente cinquanta
differenti spezie e le loro qualità curative ed offre alcune «prescrizioni» –
raggruppate per malattia – in modo da abbinare la giusta spezia a un
disturbo specifico. Un ampio corredo di informazioni gastronomiche,
incluse la preparazione di miscele di spezie particolari e decine di ricette,
completa ciascun consiglio medico.
BHARAT B.AGGARWAL professore presso il dipartimento
di terapie sperimentali dell’MD Anderson Cancer
Center di Houston, ha condotto ricerche decisive
per quanto concerne l’impiego terapeutico delle
spezie. È stato intervistato dai principali giornali ed
è apparso in numerose trasmissioni televisive negli
Stati Uniti. Ha tenuto oltre trecento conferenze in
trenta diversi paesi.

© 2014 red!
ISBN 978-88-573-0565-3
Traduzione di Bruna Bracco
Titolo originale: Healing spices
First published by Sterling Publishing Co., New York, 2011
Introduzione

Fin dall’infanzia, quando ancora vivevo nel Punjab, una regione


settentrionale dell’India, le spezie sono sempre state una presenza costante
nella mia vita, come pure nella mia alimentazione, nell’armadietto dei
medicinali e nei miei pensieri. Oggi, nei laboratori del Centro Oncologico
M.D. Anderson dell’Università del Texas, in cui lavoro come capo del
Dipartimento di Terapia sperimentale, le spezie sono diventate l’oggetto di
numerosi esperimenti; con l’ausilio dei miei colleghi, sto finalmente
scoprendo i segreti molecolari e biochimici che si celano dietro le virtù
terapeutiche di questi antichi rimedi e stiamo conducendo studi su esseri
umani allo scopo di mettere a frutto tali segreti nella battaglia contro il
cancro.
Durante la mia infanzia in India, le spezie erano le principali medicine
utilizzate in famiglia per curarci quotidianamente secondo i dettami
dell’Ayurveda, l’antica medicina tradizionale indiana che prevede l’impiego
di spezie, erbe e uno stile di vita sano per prevenire e trattare le malattie.
Tuttavia, ancor prima che medicine, le spezie erano… spezie! Sapere come
accostare le spezie in modo creativo in cucina fa parte della nostra cultura
familiare, un’arte domestica che ci viene naturale come se fosse impressa
nel nostro DNA. In India, è un grande onore cucinare per gli ospiti, e una
vera delizia per loro, poiché il cibo migliore lo si trova nelle case della
gente comune, non nei ristoranti.
Potete dunque immaginare il mio sconforto gastronomico quando, nel
1973, dopo essermi laureato in Scienze biochimiche nel mio paese, mi
trasferii all’Università di Louisville per conseguire il dottorato. Era
impossibile trovare ristoranti che servissero piatti vegetariani speziati o
negozi che vendessero le spezie che bramavo! Ebbene, lì un professore mi
parlò di Berkeley, un ambiente molto più «progressista» dove ci si poteva
trovare di tutto, ivi inclusi altri vegetariani come me nonché spezie esotiche.
In men che non si dica, ero a bordo di un autobus della Greyhound diretto
in California per iscrivermi all’Università di Berkeley, dove alla fine
conseguii il dottorato, e in effetti quella città si rivelò la «terra promessa»
americana delle spezie: là riuscii a trovare i cibi e le spezie necessarie per
ricreare lo stile di vita vegetariano che avevo sempre conosciuto ed amato.
Il mio primo vero lavoro dopo aver terminato gli studi a Berkeley fu una
vera chicca. Fui assunto dalla Genentech (una delle prime aziende
specializzate in ingegneria genetica) per studiare nuovi trattamenti su base
genetica per i tumori. Durante quei nove affascinanti anni alla Genentech
feci alcune importanti scoperte scientifiche, tra cui l’isolamento del fattore
di necrosi tumorale (TNF), una proteina «trasformista» in stile dottor Jekyll
e Mr. Hyde essenziale alla regolazione del sistema immunitario ma che
concorre anche allo scatenamento deU’infiammazione soggiacente i tumori
e di numerose altre patologie croniche.
Mentre lavoravo per la Genentech – una compagnia farmaceutica che non
aveva alcun interesse nella ricerca sulle spezie in senso terapeutico – le mie
fragranti amiche non erano mai distanti dai miei pensieri o dai miei pasti!
Mi tornava alla mente quella polvere giallo brillante chiamata curcuma
che mia madre usava ogni giorno praticamente in tutte le pietanze. Ne
spargeva anche un poco sulle ferite quando cadevo e mi facevo male,
oppure me la metteva sulla fronte quando avevo la febbre. Se avevo la
nausea, mi dava dello zenzero per farmi sentire meglio. Se non riuscivo a
dormire, aggiungeva del coriandolo a un bicchiere di latte caldo. Nelle
torride giornate estive preparava per tutta la famiglia una bevanda a base di
kokum, una spezia indiana che ci rinfrescava così istantaneamente e
magicamente da avere l’impressione di stare sotto una cascata di acqua
fresca. A quanto pare, quasi tutte le spezie presenti nel nostro nutrito
armadietto di cucina erano cibo e medicina al tempo stesso.
In effetti, le spezie che mia madre usava come rimedi tradizionali facevano
parte anche della materia medica degli antichi testi di medicina dell’India,
della Cina e del Tibet. Mi ero sovente chiesto: quanto sono potenti tali
spezie? Chissà se la curcumina, il principio attivo della curcuma, o il
garcinolo, la sostanza presente nel kokum, potrebbero essere tanto efficaci
da contribuire a rallentare o arrestare la crescita tumorale? Più tardi scoprii
che la risposta a entrambe le domande era sì.
Nel 1989, il duplice interesse nello svelare i segreti biochimici della letale
intrusione del cancro e neU’esaminare le virtù terapeutiche delle spezie mi
condusse a Houston e al Dipartimento di Terapia sperimentale del Centro
Oncologico M.D. Anderson dell’Università del Texas.
Lì, durante gli anni Novanta, scoprii che la curcumina è realmente attiva
contro i tumori: esperimento dopo esperimento giunsi a una maggiore
comprensione delle sue potenzialità. Sì, la curcumina è in grado di attaccare
tumori mammari che non rispondono più ai farmaci. Sì, è capace di
prolungare la vita di individui affetti da tumore al pancreas. E sì, è efficace
nel ritardare e forse anche arrestare l’insorgenza del cancro al colon.
Al principio i miei esperimenti sulla «medicina della tradizione popolare»
non suscitarono molto interesse nell’ambiente fortemente convenzionale
dell’M.D. Anderson. Quando per la prima volta menzionai a un oncologo che
un composto presente in una comune spezia indiana possedeva proprietà
antitumorali mai riscontrate in nessun’altra sostanza, fui cortesemente
messo alla porta.
Tuttavia, qualche mese dopo, partecipai a una conferenza in India insieme
a John Mendelsohn, presidente dell’M.D. Anderson nonché uno tra i più
autorevoli oncologi degli Stati Uniti. In quell’occasione egli assistette alla
mia relazione sul potenziale terapeutico della curcumina e successivamente
volle discuterne con me: «Non avevo idea che le prove scientifiche a
supporto dei suoi risultati fossero così solide», disse. Ne parlammo più
diffusamente durante il lungo volo di ritorno. Atterrati a Houston, aveva
maturato la decisione di avviare studi clinici sulla curcumina e i tumori. La
Food and Drug Administration avallò il progetto.
Ad oggi, sono stati completati decine di studi sulla curcumina condotti su
soggetti umani e molti altri sono tuttora in corso. Le ricerche dimostrano
che la curcumina può contribuire a trattare una vasta gamma di disturbi, tra
cui malattie cardiovascolari, morbo di Alzheimer, artrite, disturbi della
prostata, malattie infiammatorie deU’intestino, psoriasi e, naturalmente,
varie neoplasie maligne quali tumori del pancreas, del colon-retto, della
vescica, del cavo orale, della cervice e dello stomaco.
La scoperta delle straordinarie proprietà terapeutiche della curcuma e della
curcumina mi spronarono a studiare le spezie in laboratorio. Procedemmo a
condurre esperimenti su molte altre spezie e i relativi composti: il garcinolo
presente nel kokum, il zerumbone contenuto nello zenzero, l’acido ursolico
dell’origano, la quercitina delle cipolle, la capsaicina del peperoncino rosso
e gli ellagitannini presenti nella melagrana, solo per nominarne alcuni. E,
uno dopo l’altro, scoprimmo che – sì – le spezie e i loro composti sono
potenti mezzi terapeutici.
Nel lontano 1995, quando iniziai a studiare la curcuma, erano stati
pubblicati meno di cinquanta studi scientifici sulle potenzialità curative
delle spezie. Oggi sono migliaia. In tutto il mondo, vari ricercatori hanno
correlato le spezie usate in cucina con la prevenzione e il trattamento di
oltre centocinquanta disturbi. Si è scoperto, infatti, che contengono
composti in grado di combattere l’ossidazione e l’infiammazione – i due
processi alla base della maggior parte delle patologie croniche –, e gli studi
che analizzano il rapporto tra modelli alimentari e patologie, i cosiddetti
studi demografici o epidemiologici, hanno evidenziato una correlazione tra
elevato consumo di spezie e bassi tassi di malattie croniche.
Tali studi non sono sfuggiti all’attenzione della Food and Drug
Administration (FDA, l’ente per il controllo degli alimenti e dei farmaci) e
dell’Istituto Nazionale di Sanità (NIH) degli Stati Uniti, tuttavia il governo
non sta agendo con sufficiente rapidità nell’informare il pubblico che la
tipica dieta americana è tragicamente carente di spezie. Non sono neppure
menzionate nella piramide alimentare ideata dal Dipartimento
dell’Agricoltura statunitense! Ecco perché ho scritto questo libro.
Il fatto di includere semplicemente più verdura, frutta ed altri alimenti
integrali nella dieta non basta per vincere la lotta contro le malattie, poiché
il vero segreto per prevenirle e prolungare la vita è una dieta ricca di cibi
integrali e spezie; e le spezie, anche solo un pizzico oppure a cucchiaiate,
possono essere più importanti del cibo che insaporiscono! Provate ad aprite
un vasetto di origano o a soffriggere del fieno greco in padella: sentirete
quale potente, intossicante aroma è il profumo della salute e della
guarigione!
Sebbene molti americani abbiano sviluppato un maggiore interesse per la
cucina speziata (testimonianza ne sono i numerosi ristoranti etnici sorti
negli Stati Uniti), la maggior parte non sfrutta appieno il meraviglioso
mondo delle spezie, sia per il fascino gastronomico che per il potenziale
terapeutico che racchiude. Il motivo principale, a mio avviso, è che nessuno
insegna agli americani come utilizzarle per ottenere il massimo risultato.
Ma non è detto che le cose non possano cambiare.
Le spezie che salvano la vita finalmente dà alle spezie l’attenzione che
meritano. È il primo testo a presentare in un linguaggio semplice la realtà
scientifica sui loro poteri curativi, ma soprattutto insegna tutto ciò che
occorre per utilizzare una maggiore quantità di spezie nella propria dieta.
Personalmente cucino con le spezie ogni giorno: curcuma, peperoncini
rossi e verdi, coriandolo, cumino, ajowan, mango, cardamomo verde e nero,
cannella, chiodi di garofano, cipolla, aglio e zenzero. Ognuna di esse è
quotidianamente presente nella mia dieta, ma possono esserlo anche nella
vostra: cucinare con le spezie è un’abilità che svilupperete piuttosto
facilmente grazie alle informazioni e alle istruzioni contenute in questo
libro e, quando lo farete, arricchirete la vostra alimentazione di nuovi e
deliziosi aromi.
Mi raccomando, non attendete oltre ad introdurre le spezie nella vostra
vita quotidiana. Volete prevenire problemi di cuore, diabete, morbo di
Alzheimer e tumori? Chi non lo vorrebbe? Ebbene, aggiungete più aglio,
cannella e curcuma ai vostri piatti, e non dimenticate le altre quarantasette
spezie illustrate in questo libro!
Il commercio delle spezie, là dove pepe, chiodi di garofano, cannella ed
altre erano considerate preziose come l’oro, ha alimentato l’economia
mondiale fin dai tempi più antichi, tempi in cui le nazioni si facevano
guerra per ottenere il controllo sulle spezie e sulle vie attraverso cui
venivano trasportate ai mercati. La mia speranza è che questo libro
contribuisca ad aprire una nuova (e ben più pacifica) «via delle spezie»,
quella dal negozio alla vostra tavola passando per la vostra cucina.

Desidero concludere con una citazione attribuita a Carlo Magno, re,


conquistatore e amante delle spezie vissuto nell’VIII secolo, che riassume il
mio pensiero nei loro confronti: «Le spezie, dei medici alleate e dei cuochi
l’orgoglio».
Possano essere alleate della vostra salute e orgoglio della vostra cucina!

Bharat B. Aggarwal, PhD


Gennaio 2011
Parte prima

Il potere curativo delle spezie


Antiche medicine e nuove scoperte
La scienza conferma le virtù terapeutiche delle spezie

LE SPEZIE

A causa loro si combatterono guerre e interi regni crollarono; andando alla


loro ricerca l’uomo scoprì nuove terre. In tempi antichi e per vari secoli a
venire, le spezie furono spesso considerate più preziose dell’oro.
Ma ancor prima di costituire ricchezza, esse furono medicina. La curcuma,
i chiodi di garofano, la cannella, il coriandolo, lo zenzero e i grani di pepe
nero, tutti dotati di virtù curative, figurano tra le spezie più antiche, il cui
uso risale alle prime civiltà che comparvero su questa terra. Scritti sanscriti
di origine indiana di 3000 anni fa ne descrivono gli svariati usi terapeutici,
mentre gli antichi testi medici cinesi abbondano di rimedi a base di spezie
per combattere centinaia di disturbi.

LE SPEZIE E LA STORIA

Le spezie ebbero origine in India, Indonesia ed altre zone dell’Asia


meridionale e sudorientale e, non più tardi del 2600 a.C., furono importate
dall’Asia in alcuni paesi del Mediterraneo orientale quali la Siria e l’Egitto.
Gli egizi riverivano letteralmente le spezie: impiegavano cannella e cassia
nel processo di mummificazione e le deponevano nelle tombe dei faraoni a
guisa di viatico per il passaggio all’oltretomba.
I romani le ritenevano un bene di lusso supremo e le utilizzavano per
profumare palazzi e templi. Durante i banchetti, grandi quantità di spezie
venivano esibite per ammaliare gli ospiti, ed erano impiegate per
aromatizzare pietanze e vini. Persino i legionari si avviavano alla battaglia
aspergendosi di profumi speziati. Nel I secolo d.C. l’imperatore Nerone
bruciò l’equivalente delle entrate di un anno in preziosa cannella sulla pira
funeraria della moglie. Nel V secolo i visigoti accettarono di togliere
l’assedio a Roma in cambio di un riscatto in oro, argento e… pepe!
Dai secoli VIII fino al XV, il commercio delle spezie fu controllato dalla
Repubblica di Venezia, la quale divenne, di conseguenza, favolosamente
ricca, mentre gli arabi, in veste di intermediari, custodivano
scrupolosamente le fonti segrete della maggior parte delle spezie per tenere
alta la domanda e i prezzi. Nel tardo XV secolo, Portogallo e Spagna
tentarono di spezzare tale monopolio e Cristoforo Colombo, durante la
spedizione per mare intesa a cercare una nuova rotta occidentale verso
l’Isola delle Spezie, inavvertitamente «scoprì» l’America.
Mentre Colombo navigava verso ovest, altri si diressero ad est, e nei secoli
successivi spagnoli, portoghesi, olandesi, francesi e inglesi colonizzarono i
paesi da cui provenivano le spezie. Entro il 1600, la Compagnia delle Indie
Orientali che commerciava in spezie, di proprietà olandese, era diventata la
più ricca al mondo: contava 50,000 impiegati, 30.000 soldati e 200 navi. Un
articolo dell’Economist definisce le spezie «le radici più aromatiche,
profonde ed antiche dell’economia mondiale».
Entro il 1700 venivano già coltivate in più parti del mondo e in grandi
quantità, diventando così uno dei tanti beni del commercio mondiale.
Oggi, nel XXI secolo, la spettacolare storia delle spezie si sta ripetendo,
sebbene in termini di esplorazione scientifica. I moderni ricercatori nel
campo della medicina e della nutrizione stanno scoprendo un
inimmaginabile capitale di salute in quelle stesse spezie che tanta parte
ebbero nella storia dell’umanità.

I GIOIELLI DEL REGNO VEGETALE

Le spezie contengono un’elevata quantità di fitonutrienti, ossia composti


vegetali che donano salute e promuovono la guarigione in svariati modi. La
maggior parte di essi sono potenti antiossidanti in grado di controllare e
inibire le specie reattive dell’ossigeno (altrimenti note come «radicali
liberi») che possono danneggiare le cellule e favorire malattie e
invecchiamento. I fitonutrienti hanno altresì proprietà antinfiammatorie; si
tenga presente che l’infiammazione cronica di basso grado è stata correlata
allo sviluppo di molti dei disturbi più debilitanti e letali quali le patologie
cardiovascolari, i tumori, il diabete di tipo 2 e il morbo di Alzheimer. Le
spezie traggono inoltre le proprietà curative dall’elevata concentrazione di
oli volatili, cioè i composti che conferiscono loro il caratteristico aroma
pungente. «Volatile» è un termine utilizzato dai chimici per indicare un olio
che evapora rapidamente, non lascia macchie e ha il sentore della pianta da
cui proviene.
Studi epidemiologici volti ad esplorare il legame tra alimentazione e salute
dimostrano che le popolazioni che consumano una dieta ricca di spezie
registrano tassi di incidenza inferiori per determinate patologie. Negli Stati
Uniti, ad esempio, il tasso di tumori al colon è tre volte maggiore rispetto
all’India che, notoriamente, vanta una cucina speziata; l’India registra
inoltre uno dei tassi di incidenza più bassi per quanto riguarda il morbo di
Alzheimer. La Grecia, ben nota per la dieta ricca di aglio, cipolla, rosmarino
e maggiorana, presenta un ridotto tasso di malattie cardiovascolari, mentre
la Spagna, paese che consuma zafferano in elevate quantità, mostra bassi
livelli di colesterolo LDL, il colesterolo «cattivo» che ostruisce le arterie e
aumenta il rischio di infarto.
Ma, vi chiederete, non è possibile ricavare tutti questi fitonutrienti dalla
frutta e dalla verdura? Detto molto semplicemente, no. Le spezie
contengono numerosi fitonutrienti unici nel loro genere. Eccone alcuni
esempi:

• La curcumina esibisce efficaci proprietà antitumorali e gli studi


dimostrano che è in grado di combattere decine di altre patologie. La sua
unica fonte è la spezia nota come curcuma.
• Il timochinone è un potente immunostimolatore e si trova soltanto nel
sesamo nero, una spezia indiana.
• La piperina, il composto che fa starnutire quando si mangia del pepe
nero, protegge le cellule cerebrali ed esercita numerose altre azioni
terapeutiche.
• Gli alcaloidi carbazolici, che combattono il diabete di tipo 2, il cancro
del colon e il morbo di Alzheimer, si trovano esclusivamente nella foglia di
curry, una spezia indiana.
• La galangina, che allevia l’artrite, è reperibile solo nella galanga, una
spezia di origine asiatica.
• La diosgenina, presente nel fieno greco, può ridurre le infiammazioni e
uccidere le cellule tumorali.
• L’anetolo, presente sia nell’anice che nel finocchio, contribuisce a
rilassare i crampi mestruali ed è in grado di calmare le coliche infantili.
• L’eugenolo, che conferisce ai chiodi di garofano il caratteristico aroma, è
un potente antidolorifico naturale.
• L’acido rosmarinico rende il rosmarino uno dei più potenti antiossidanti
sul pianeta.
• Il gingerolo, un composto presente nello zenzero, calma la nausea.
• L’acido idrossicitrico abbonda nella spezia indiana nota come kokum ed
è un potente inibitore dell’appetito; non a caso figura già tra i principali
ingredienti in numerosi presidi formulati per perdere peso.
• La capsaicina, reperibile soltanto nel peperoncino, può contribuire ad
alleviare i sintomi dell’artrite e della psoriasi.

Man mano che vi addentrerete nella lettura di questo libro, vi renderete


conto che questi ed altri composti posseggono numerosi meccanismi di
azione, così come proprietà antiossidanti e antinfiammatorie. Molte spezie
rappresentano armi potenti contro i microbi – siano essi batteri, virus o
miceti –, limitano il rilascio di istamina, ossia la sostanza biochimica che
scatena i sintomi allergici, rafforzano il sistema immunitario, regolano i
livelli di glicemia e insulina – prevenendo o trattando in tal modo il diabete
–, calmano i nervi alleviando ansia e dolore, stimolano il metabolismo
bruciando calorie, svolgono un ruolo simile a quello degli ormoni
equilibrando, rafforzando e rigenerando l’organismo e, infine, rilassano la
muscolatura del tratto digerente alleviando così disturbi intestinali. Grazie a
tutte queste proprietà, unite ad altre, possono persino rallentare
l’invecchiamento.

COSA È UNA SPEZIA

Pensate a un pezzo di carbone che si trasforma in diamante. Pensate a un


byte che si moltiplica in una vasta mole di dati informatici. Pensate a un
cucchiaino di polvere di cacao che trasforma un banale bicchiere di latte in
una squisitezza. Pensate a qualcosa di concentrato - un distillato
dell’originale - che restituisce in generosa quantità la sostanza originale e,
in più, aggrega le proprie qualità uniche. Una spezia è tutto questo.
Le spezie sono commestibili, aromatiche e secche, e derivano dalle radici,
dalla corteccia, lo stelo, il bocciolo, le foglie, il fiore, il frutto o il seme di
una pianta. Sfoggiano un vero e proprio arcobaleno ricco di sfumature -
rossi brillanti, arancione, marrone, verde, nero e bianco - e, al contrario
delle erbe, sono tutte edibili.
La spezia non è un’erba. Le erbe, infatti, sono costituite per lo più da
foglie e non sempre sono commestibili. Nel caso del coriandolo, ad
esempio, l’erba aromatica è data dalle foglie fresche della pianta, mentre il
coriandolo vero e proprio (la spezia) sono i semi essiccati della pianta
medesima. Se si fanno seccare le foglie, però, queste andranno a costituire
una spezia.
Come tutte le definizioni, comunque, anche quella di spezia non è del tutto
precisa. In questo libro ho incluso alcune spezie che non rientrano
esattamente nella definizione data or ora ma sono ampiamente impiegate
per aromatizzare i cibi. La cipolla ne è un esempio, la citronella - un’erba
generalmente adoperata fresca anziché disidratata - è un altro. Tuttavia, per
la maggior parte, la definizione fornita è il modo migliore per capire cosa
sia e cosa non sia una spezia.
L’armadietto delle spezie curative
Come acquistare e conservare le spezie

Immaginate una bella coppa di gelato guarnita di frutta, granella e panna


montata ma senza vaniglia, un pesto senza basilico, una salsa senza
peperoncino o una paella senza zafferano. È semplicemente inconcepibile, e
questo perché le spezie definiscono ogni elemento del piatto in questione: il
sapore, la consistenza e l’aroma, il modo in cui è preparato e il modo in cui
verrà ricordato. Mangiare diventerebbe un atto altrettanto privo di gioia se
non fosse per le spezie, e i cuochi migliori lo sanno bene. Ecco un esempio
calzante.
Diversi anni fa, alcuni ricercatori della Cornell University esaminarono
oltre 4500 ricette pubblicate in quasi 100 libri di cucina. Scoprirono che il
93% includeva almeno una spezia e, in media, l’elenco degli ingredienti ne
conteneva quattro. Tale media, tuttavia, è ritenuta il minimo indispensabile
nelle tradizioni gastronomiche famose per gli aromi unici e intensi come
quella indiana, indonesiana e tailandese. Paragonate ad esse, la tipica dieta
americana è insipida.
Non è che gli americani non amino i cibi esotici. La proliferazione di
ristoranti che offrono queste ed altre cucine etniche sparsi su tutto il
territorio degli Stati Uniti testimonia il crescente interesse per il cibo
speziato. Perché, dunque, gli americani non consumano più piatti speziati in
ambito casalingo?
Perché ne sono intimoriti! La maggior parte delle spezie provenienti da
nazioni che vantano una cucina fortemente aromatica è sconosciuta al
palato degli americani. Molte di esse, come la galanga, l’assafetida e il
sesamo nero (per elencarne solo alcune) non sono disponibili nei classici
supermercati; di fatto, è possibile che non le abbiate mai sentite nominare.
Inoltre, in una ricetta, un lungo elenco di spezie rende il piatto
apparentemente complicato e costoso.
Tuttavia, anche a casa propria l’uso delle spezie non deve necessariamente
intimidire, né significa che debba essere complicato o costoso. Il segreto per
sentirsi a proprio agio con le spezie è comprenderle: capire come
acquistarle, utilizzarle e creare accostamenti che trasformano rapidamente
una ricetta insipida in un saporito piatto tutto da gustare.
Da un’indagine sui ricettari di cucina condotta da scienziati nutrizionisti è
emerso che il 93% delle ricette conteneva almeno una spezia e,
mediamente, quattro.
Il presente libro non solo olire centinaia di motivi per dare più gusto alla
propria vita contribuendo a migliorare la salute e prevenire la malattia, ma
fornisce anche centinaia di idee per farlo in modo particolarmente delizioso.

LE SPEZIE NELLA CUCINA E NELL’ALIMENTAZIONE

Contrariamente a quanto comunemente si crede, le spezie non sono


sinonimo di piccantezza. Di fatto, la maggior parte delle spezie non
aggiunge un sapore forte al cibo bensì è aromatica, e come tale adempie a
diversi scopi culinari. Le spezie:
• danno al cibo un aroma piacevole e stuzzicante che stimola l’appetito e
accresce il piacere del cibo;
• si fondono in nuove e piacevoli sensazioni gustative;
• conferiscono un aroma caratteristico, sia esso dolce, agro, pungente o
piccante;
• fungono da tenerizzatori naturali per tagli di carne duri ma economici;
• aggiungono corpo e consistenza a un piatto, tant’è che alcune vengono
usate come addensanti e leganti per le salse;
• danno colore a una pietanza rendendola visivamente più appetibile;
• favoriscono la digestione.
Tutte le spezie svolgono parecchi di questi compiti. La curcuma e lo
zafferano, ad esempio, apportano sia un colore brillante che profumo al
cibo. Il coriandolo funge da addensante conferendo contemporaneamente al
piatto un aroma singolare. Lo zenzero ravviva il sapore e facilita la
digestione.
Tuttavia, se si annusa una spezia allo stato naturale, si percepirà soltanto
un lieve sentore o nulla del tutto. Questo perché, tranne poche eccezioni, le
spezie sono equiparabili a qualsiasi altro cibo, ovvero qualcosa da cucinare.
La maggior parte delle spezie allo stato naturale è costituita da sostanza
organica essiccata: radici, corteccia, foglie, frutti essiccati e semi di arbusti
e piante. Tali elementi sono difficili da digerire «a crudo» e possono dare
problemi di stomaco.
In India, dove i cibi molto speziati rappresentano un vero e proprio modo
di vivere particolarmente amato, i cuochi in genere aggiungono le spezie
all’olio caldo all’inizio della preparazione, un attimo prima di unirvi gli altri
ingredienti. Tale accorgimento consente alle spezie di rilasciare gli oli
volatili, il cui aroma inebriante travolge i sensi; queste vengono poi
nuovamente aggiunte al termine della cottura. Man mano che leggerete le
sezioni dedicate alla cucina con le spezie (le sezioni gastronomiche che
accompagnano ognuna delle cinquanta spezie curative trattate nella
Seconda e Terza parte, quest’ultima dedicata alle cucine tradizionalmente
speziate), svilupperete uno spiccato senso per l’accostamento e l’uso delle
stesse nei pasti casalinghi. Inoltre, scoprirete che cucinare con le spezie è
facile.

COME REPERIRE LE SPEZIE

Tutte le spezie salutari sono facilmente reperibili, sebbene per trovarne


alcune occorra usare l’ingegno a seconda della zona in cui si vive. Inoltre, si
scoprirà che non sono per forza di cose costose.
La metà degli americani vive nel raggio di 80 chilometri da una grande
città che include comunità asiatiche, indiane e latine, e nella maggior parte
di questi contri abitati vi è almeno una drogheria asiatica, indiana o latina.
Sono questi i negozi in cui si trovano alcune dolio spezie meno usuali come
l’amchur, il cardamomo, il kokum, la galanga o il tamarindo. È possibile
trovare l’indirizzo di tali botteghe sulla guida telefonica o su Internet, in
quanto solitamente non fanno pubblicità. Detto per inciso, i reparti dedicati
ai prodotti orientali dei supermercati sono in continua espansione, per cui
sugli scaffali cominciano a comparire spezio non reperibili lino a qualche
anno fa. quali il fieno greco, la citronella, l’anice stellato e il wasabi.
Molti di questi negozi, in particolare quelli indiani, vendono le spezie in
quantitativi notevoli, confezionate in latte o sacchetti di plastica da 400
grammi o più. Le spezie acquistate in simili quantitativi sì conservano
meglio se rimosse dall’involucro di plastica e trasferite in contenitori dì
vetro ermetici. Il costo per l’acquisto è decisamente inferiore a quello dei
vasetti da poche decine di grammi contenenti la stessa spezia e reperibili
nelle grandi catene dì supermercati. In alternativa, è possìbile dividere il
costo ripartendo il quantitativo acquistato tra amici e parenti.
Vi sono inoltre vari dettaglianti che vendono tramite Internet. Tuttavia, è
bene confrontate i prezzi, poiché le spezie acquistate su Internet sono
generalmente più care di quelle disponibili nei negozi locali.

COME ACQUISTARE E CONSERVARE LE SPEZIE

Le spezie vengono tipicamente messe in commercio in lattine o vasetti di


vetro da 30 o 60 grammi. Quelle vendute in grandi quantitativi sono invece
confezionate in sacchetti di plastica. A questo proposito, evitate di
acquistare spezie in confezioni di cartone, in quanto non ne preservano la
freschezza. Come accennato prima, non appena tornati a casa è meglio
trasferirle in una latta o un contenitore di vetro a chiusura ermetica allo
scopo di mantenerne la fragranza.
È possibile acquistare spezie fresche, essiccate, intere, a pezzi, macinate
grosse e macinale fini. Le indicazioni su come acquistare le singole spezie
illustrate nel libro vengono fomite nella Seconda parte alla relativa voce. In
ogni caso, per ogni spezia, il massimo risultato in quanto ad aroma lo sì
ottiene acquistandola intera e macinandola da sé. Infatti. le spezie intere
cominciano a sprigionare lamina e il sapore non appena vengono macinate
e, per questo stesso motivo, hanno pochissimo profumo, o non ne hanno
affatto, allo stato naturale.
Qualora si decida di macinarle, è opportuno conservarle in appositi vasetti
per spezie acquistabili in vari negozi, supermercati, grandi rivenditori di
casalinghi o sui siti internet specializzati.
Tutte le spezie vanno conservate in un luogo fresco e asciutto. Il calore,
Turnidità e la luce solare diretta accelerano la perdita del sapore e possono
decomporre i componenti chimici aromatici. L’ideale è conservarle a una
temperatura tra i 10 °C e i 15 °C. Le temperature elevate possono indurire
le spezie o rapprendere quelle macinate e provocat e il mutamento o la
perdita di colore.
Quando si utilizzano le spezie, è bene non lasciarle in prossimità dei
fornelli. Si consiglia di chiuderle ermeticamente il contenitore subito dopo
l’uso e riporlo di nuovo in un luogo fresco quanto prima possibile.
In condizioni ideali, le spezie macinate si mantengono per circa un anno,
mentre quelle intere durano per due o tre anni.
Poiché le spezie vecchie perdono aroma e potere curativo, se quelle
conservate in dispensa non sono più particolarmente fresche, è meglio
gettarle via. È possibile valutare le condizioni delle spezie macinate
aprendo il vasetto e portandolo al naso: se profumano poco, sbarazzatesene.
Per controllare le spezie intere è sufficiente sfregarle leggermente tra le
dita: se ancora fresche, rilasceranno una piccola quantità di olio volatile
immediatamente percepibile all’olfatto.

ATTREZZI PER LE SPEZIE

Cucinare con le spezie della salute richiede pochi attrezzi da cucina.


Mortaio e pestello. Questo attrezzo di uso comune è indispensabile per
frantumare le spezie in pìccole quantità, un cucchiaino o meno, ed è
probabile che ne abbiate già uno. Assicuratevi che il pestello sia di
dimensioni giuste per il mortaio; in caso contrario, renderà più difficile
l’operazione di frantumazione e macinatura. Il mortaio e il pestello in
marmo sono i migliori. Quelli di legno trattengono l’aroma degli oli volatili
e possono rilasciarlo successivamente aggiungendo un aroma indesiderato
quando si lavorano altre spezie.
Un’alternativa a mortaio e pestello è rappresentata dal mattarello; in
questo caso, occorre pon e le spezie tra due fogli di carta oleata e
frantumarle passandovi sopra ripetutamente il mattarello.
Macinaspezie. Macinare più di una piccola quantità di spezie richiede
l’assistenza di un elettrodomestico. Esistono tre tipi di apparecchi adatti allo
scopo: un macinino per spezie, un macinino da caffè o un mini-robot da
cucina, che consentiranno di ridurre le spezie in una polvere impalpabile in
pochi secondi (rispetto al lavoro fatto a mano impiegando mortaio e
pestello) senza richiedere alcuna abilità particolare. Sarà sufficiente
introdurvi la spezia e accendere l’apparecchio (assicuratevi di seguire le
istruzioni per l’uso del produttore). Se. dopo averlo usato diverse volte, il
macinino comincia ad avere odore, questo dovrebbe scomparire macinando
dello zucchero o del riso.
Tegame con fondo spesso. Il tegame sarà necessario per la tostatura, un
processo essenziale prima di macinare svariati tipi di semi e spezie intere (si
veda di seguito). Il genere più adatto è il tradizionale tegame in ghisa già
trattato; non solo funziona meglio, ma è anche economico rispetto a molte
delle moderne linee di pentolame. Una padella di piccolo diametro è ideale
per chi prepara le spezie a casa propria.

TOSTATURA DELLE SPEZIE

La maggior parte delle spezie intere (ma non tutte) trae beneficio da una
leggera tostatura prima di procedere alla macinatura, ed è importante farlo
correttamente. L’obiettivo è farle colorire senza bruciarle. Se siete al vostro
primo tentativo, preparatevi a buttare via almeno un paio di volte le spezie.
Per iniziare, mettete un tegame dal fondo spesso (preferìbilmente di ghisa)
sul fornello a fuoco medio per circa 2 minuti finché non sarà perfettamente
caldo, quindi aggiungete le spezie. Afferrate il manico (avendo cura di
usare un guanto da forno o una presina poiché il manico si arroventa) e
scuotete il tegame facendo saltare le spezie; nel frattempo. mescolatele
continuamente con un cucchiaio di legno dì modo che non brucino. Durante
il primo minuto o due. mentre le spezie perdono l’umidità, non accade
nulla. Poi, man mano che la tostatura procede, inizieranno a fumare e ne
percepirete la fragranza quando cominceranno a rilasciare il loro aroma.
Continuate a tostarle finché non assumono un colore bruno. Se si
scuriscono troppo rapidamente, abbassate il fuoco. Trasferite poi le spezie
su un piatto pulito e lasciatele raffreddare prima di macinarle.
In genere, le spezie vanno tostate singolarmente, anche se si prepara una
miscela, poiché non prendono colore alla stessa velocità.
L’intero processo può richiedere da poco più di 2 a 10 minuti. L’elemento
tempo dipende dal tipo di spezia che si sta tostando, dalla quantità e dalle
dimensioni della padella. Quanto più il diametro è grande, più velocemente
si doreranno le spezie.
Avrete modo di fare ampia pratica di tostatura quando imparerete a
preparare le salutari miscele descritte nella terza parte del libro.
Le spezie sono belle da vedere, piacevoli da annusare e memorabili da
gustare. I capitoli dedicati alle singole spezie nella seconda parte del libro vi
consentiranno di esplorarle ad una ad una e di trarne non solo sapori squisiti
ma anche grande beneficio per la salute.
Parte seconda

Le spezie della salute


Aglio. Una forza contro le malattie cardiovascolari

Quando in Inghilterra alcuni scienziati inserirono le parole «dieta» e «anti-


invecchiamento» nel motore di ricerca di un database medico, si videro
restituire decine e decine di studi sull’aglio: un elenco interminabile.
Tali furono le conclusioni a cui giunsero i ricercatori: «Le conoscenze
accumulate nell’arco degli ultimi anni suggeriscono che l’apporto di aglio
nell’alimentazione umana può prevenire o ridurre l’incidenza delle
principali patologie croniche associate all’età avanzata, quali aterosclerosi,
ictus, tumori, disturbi autoimmuni, invecchiamento cerebrale, artrite e
formazione di cataratte».
Ecco un’affermazione importante per una spezia che un tempo veniva
comunemente soprannominata «la rosa puzzolente». Eppure, l’aglio
funziona proprio perché «puzza»: il suo aroma esplosivo deriva
dall’allicina, il principio più attivo in tale bulbo che si trasforma in
composti organici solforati, vale a dire quegli stessi composti che riducono
al minimo l’ossidazione, l’infiammazione ed altri processi deleteri per le
cellule che stanno alla base di ognuna delle «principali patologie croniche»
elencate dai ricercatori. Inoltre, l’aglio trabocca di vitamine, minerali ed
altri potenti agenti antiossidanti che proteggono da malattie cardiovascolari
e tumori.
In breve, l’aglio è uno dei rimedi naturali più potenti al mondo. La banca
dati medica dell’Istituto Nazionale di Sanità statunitense contiene oltre
3200 studi sulle proprietà terapeutiche dell’aglio, e molti di essi sono
focalizzati sulla prevenzione, il rallentamento e la regressione delle malattie
cardiovascolari, vale a dire gli infarti e gli ictus che uccidono più americani
di qualsiasi altro disturbo della salute.

Come mascherare la puzza d’aglio


La reputazione dell’aglio come spezia dal sapore e dall’odore forte è ben
meritata. Anche se si attenua con la cottura, un pasto contenente aglio può
far «sentire la sua presenza» per giorni, e ciò è particolarmente vero se lo si
consuma fresco.
Se l’insistente olezzo offende la vostre narici o quelle di altre persone
vicino a voi, ecco alcuni rimedi casalinghi di provata efficacia per
diminuirne l’odore:
• Bevete del vino rosso quando mangiate aglio.
• Aggiungete del prezzemolo alle ricette contenenti aglio.
• Masticate un rametto di prezzemolo fresco a fine pasto.
• Masticate qualche seme di finocchio, di anice o di cardamomo tostati.
Per togliersi l’odore delfaglìo dalle mani dopo averlo maneggiato:
• Lavatevi le mani con acqua e succo di limone.
• Sfregatevi le mani con un cucchiaio di acciaio inossidabile e poi lavate
sia mani che cucchiaio.
• Inumiditevi le mani e sfregate del bicarbonato di sodio tra i palmi.

UN AIUTO PER IL CUORE

Nel lontano 3000 a.C., Charak, il padre della medicina ayurvedica,


sosteneva che l’aglio «rinforza il cuore e mantiene fluido il sangue».
Oggi, nel 2011, un’équipe di ricercatori clinici ha riesaminato quella che
essi stessi definiscono una «vasta letteratura scientifica» sull’aglio e la
malattia cardiovascolare, dichiarando che «il consumo di aglio esercita un
significativo effetto protettivo contro l’aterosclerosi».
E quando un gruppo di ricercatori ha analizzato la dieta mediterranea,
notoriamente ricca di aglio e sovente rapportata a un cuore sano, ha stimato
che se tutti mangiassero uno o due spicchi d’aglio al giorno, il rischio di
patologie cardiovascolari a livello mondiale calerebbe del 25%. Tuttavia,
non occorre mangiare aglio crudo per trame beneficio: numerosi studi
dimostrano che l’aglio disidratato o in polvere è più terapeutico di quello
fresco. Vediamo, dunque, in quali modi l’aglio può dare una mano al cuore.
Riduzione della pressione arteriosa. La pressione alta è uno dei
principali fattori di rischio di infarti e ictus. Da una recente «meta-analisi»
di 11 studi su integratori a base di aglio e ipertensione risulta che l’aglio ha
ridotto la pressione sistolica (il valore della massima) di una media di 8,4
mm/Hg e la pressione diastolica (il valore della minima) di una media di 7,3
mm/Hg, il che rappresenta un calo molto significativo. Sulla rivista BMC
Cardiovascular Disorders, i ricercatori hanno concluso che «i preparati a
base di aglio sono superiori ai placebo nel ridurre la pressione in soggetti
ipertesi».
In uno studio condotto in Polonia, gli esperti avevano riscontrato che gli
integratori a base di aglio non solo producevano un calo della pressione, ma
prevenivano anche il danno genetico provocato dai processi ossidativi. «Tali
risultati evidenziano gli effetti positivi dell’integrazione a base di aglio nel
ridurre la pressione e contrastare lo stress ossidativo e, di conseguenza, nel
fornire cardioprotezione ai soggetti ipertesi», dichiararono su Molecular
and Cellular Biochemistry.
Fluidificazione del sangue. La cosiddetta aspirinetta viene prescritta per
prevenire gli infarti poiché «fluidifica» il sangue, riducendo in tal modo il
rischio che si vengano a formare coaguli che possono ostruire le arterie. Più
specificamente, l’aspirina riduce l’aderenza fra loro delle piastrine, ossia gli
elementi del sangue che si aggregano e formano il coagulo all’interno di un
processo definito aggregazione piastrinica. Ebbene, anche l’aglio è in
grado di fluidificare il sangue.
Nell’ambito di uno studio, alcuni ricercatori inglesi somministrarono
quotidianamente ai soggetti degli integratori a base di estratto d’aglio
invecchiato per un periodo di 13 settimane, misurando i livelli di
aggregazione piastrinica all’inizio e al termine dell’esperimento. Gli
integratori inibirono in misura significativa la percentuale di piastrine
aggre-gantisi e la velocità di aggregazione. Sul Journal of Nutrition, i
ricercatori dichiararono che l’estratto di aglio invecchiato «può sortire
benefici a livello di protezione da malattie cardiovascolari in conseguenza
dell’effetto inibitorio sull’aggregazione piastrinica».
Riduzione del colesterolo totale. Ebbene sì, l’aglio non riduce il
famigerato colesterolo LDL o, per lo meno, tale è stato il risultato di un
recente e largamente pubblicizzato studio della durata di sei mesi condotto
dai ricercatori dello Stanford Prevention Research Center. Gli esperti
somministrarono a 200 soggetti con elevati livelli di lipoproteine a bassa
densità (LDL) una dose giornaliera di aglio fresco, di integratore di aglio in
polvere, di estratto di aglio invecchiato o un placebo. «Nessuna delle
formule a base di aglio impiegate nello studio ha sortito effetti clinici degni
di nota sulle LDL», conclusero i ricercatori sulla rivista Archives of Internal
Medicine.
Tuttavia, quando i ricercatori dell’Università del Connecticut condussero
una meta-analisi esaminando questo e altri 28 studi sull’aglio e il
colesterolo, giunsero a conclusioni più positive. Come poterono osservare,
l’aglio riduceva significativamente il colesterolo totale e i trigliceridi (un
altro genere di lipidi dannosi per il cuore), sebbene non esercitasse alcun
effetto sul colesterolo LDL o HDL.
Riduzione della placca ateromatosa. Anno dopo anno, la placca si
accumula all’interno delle arterie restringendone il lume vasale, ma alcuni
frammenti possono staccarsi ed entrare in circolo andando ad ostruire
latteria e provocando un infarto o un ictus. Il processo di accumulo della
placca viene definito aterosclerosi e l’aglio può arrestare, rallentare o
addirittura far regredire tale processo.
I ricercatori del Reparto di Cardiologia dell’ICLA somministrarono
quotidianamente a 23 soggetti cardiopatici un integratore contenente
estratto di aglio invecchiato. Dopo un anno, i pazienti trattati con un
semplice placebo presentavano una velocità di progressione della placca
ateromatosa tre volte superiore rispetto a quelli che assumevano aglio. Un
altro studio della durata di un anno, condotto dai medesimi ricercatori,
prevedeva la somministrazione di un integratore contenente estratto di aglio
invecchiato, vitamine B e un aminoacido a sostegno e nutrimento delle
arterie; in tale occasione, la progressione della placca fu significativamente
più bassa nei pazienti trattati con aglio. In base alle conclusioni riportate
dagli scienziati su Preventive Medicine, la terapia a base di estratto di aglio
invecchiato e ulteriori principi nutritivi «ridusse la progressione
dell’aterosclerosi».
Anche nell’ambito di uno studio condotto in Germania, 142 soggetti
assunsero quotidianamente delle compresse di aglio in polvere e, nell’arco
di quattro anni, evidenziarono una riduzione della placca ateromatosa nelle
arterie in una percentuale che andava dal 5% al 18%. Sulla rivista medica
Atherosclerosis, i ricercatori scrissero quanto segue: «È possibile ascrivere
all’aglio un molo non solo preventivo ma probabilmente anche curativo nel
contesto terapeutico dell’aterosclerosi».
Arterie più flessibili. Il rivestimento delle pareti interne delle arterie è
definito endotelio e genera un composto, l’ossido di azoto, che rilassa e
dilata i vasi sanguigni. Alcuni ricercatori neozelandesi hanno somministrato
a 15 uomini affetti da malattia cardiovascolare un integratore a base di aglio
o un placebo; dopo due settimane «la dilatazione ascritta all’azione dei
prodotti endoteliali» delle arterie nei soggetti trattati con aglio era
aumentata del 44%. Si sottolinea che tali individui stavano già assumendo
aspirina e statina.
Riduzione del rischio di infarto. Un’équipe di ricercatori russi ha
somministrato un integratore a base di aglio o un placebo a 51 soggetti
cardiopatici. Un anno dopo, gli scienziati calcolarono che il rischio di
infarto era diminuito mediamente del 40% grazie all’integratore.

Aglio gigante, una pessima scelta

Se vedete dell’aglio gigante al supermercato, non avete alcun motivo per


pensare di esservi imbattuti in qualcosa di speciale, o almeno, non se è aglio
ciò che stavate veramente cercando. L’aglio gigante gli somiglia soltanto:
un enorme bulbo che può pesare fino a mezzo chilo.Tuttavia, non ha
neanche lontanamente l’aroma dell’aglio, e gli chef lo considerano di
qualità inferiore. In effetti, l’aglio gigante è botanicamente correlato al
porro e come tale dovrebbe essere adoperato: cotto in pentola o al forno
come verdura, oppure affettato crudo nelle insalate.

IL CANCRO DEL COLON NON PUÒ COMPETERE CON L’AGLIO

Esistono oltre 600 studi scientifici – condotti su cellule in vitro, su animali


e su esseri umani – che dimostrano come l’aglio possa prevenire e curare i
tumori. Ecco una rassegna delle osservazioni più significative.
Prevenzione del carcinoma del colon. In una meta-analisi comprendente
18 studi, eseguita dai ricercatori della Facoltà di Medicina della Washington
University di St. Louis, i soggetti con il più alto consumo di aglio
evidenziarono una percentuale di rischio di carcinoma del colon inferiore
del 41% rispetto agli individui dall’apporto più basso.
Arresto della progressione del tumore del colon ai primi stadi. Alcuni
ricercatori giapponesi studiarono 51 pazienti con adenomi colorettali, ossia
con lesioni precancerose a carico del colon. I soggetti vennero suddivisi in
due gruppi: a un gruppo venne somministrato dell’estratto di aglio
invecchiato e all’altro un placebo. Secondo quanto riportato dagli esperti sul
Journal of Nutrition, in capo a un anno il gruppo placebo aveva sviluppato
un numero superiore di adenomi, mentre l’aglio aveva «significativamente
ridotto sia le dimensioni che il numero di adenomi colorettali».
Prevenzione del carcinoma dello stomaco. In Cina, i ricercatori hanno
studiato oltre 5000 individui somministrando alla metà dei soggetti un
integratore a base di aglio in dosi elevate e all’altra metà un placebo. Dopo
cinque anni, le persone che avevano assunto aglio presentavano
un’incidenza di tumori gastrici inferiore del 47%.
Prevenzione del carcinoma endometriale. Un’équipe di ricercatori
italiani ha analizzato la dieta e i dati clinici di 454 donne affette da
carcinoma endometriale e 908 donne non colpite dal tumore, osservando
che quelle con un consumo di aglio superiore avevano una percentuale di
probabilità del 38% in meno di sviluppare un carcinoma dell’endometrio
rispetto a quante ne consumavano una quantità minima.
Prevenzione di altre forme di tumore. Esistono altri studi che mettono in
evidenza un legame tra maggiore apporto di aglio e riduzione del rischio di
carcinoma polmonare (22% in meno), carcinoma della prostata (36% in
meno) e tumori cerebrali (34% in meno).
Ma in che modo l’aglio arresta i tumori? I medici dell’Agenzia
Intemazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) affermano che l’aglio può
contribuire a:
• impedire che sostanze cancerogene danneggino il DNA cellulare;
• stimolare l’attività degli enzimi che depurano l’organismo da sostanze
cancerogene;
• eliminare i radicali liberi, ossia molecole che danneggiano le cellule
nonché fattore di sviluppo tumorale.

LOTTA ALLE INFEZIONI

L’aglio vanta un passato leggendario come mezzo per combattere le


infezioni. Fu Louis Pasteur a scoprirne le proprietà antibatteriche: accadde
al fronte, durante la Prima guerra mondiale, mentre si adoperava per
prevenire la cancrena e l’avvelenamento del sangue. Durante la Seconda
guerra mondiale i russi fecero un tale affidamento su di esso che venne
ribattezzato la «penicillina russa». Inoltre, esistono parecchi studi recenti
che confermano la capacità dell’aglio di combattere batteri e virus.
Prevenzione delle infezioni sui mezzi pubblici. I ricercatori finlandesi
hanno posto sotto osservazione 52 passeggeri che abitualmente prendevano
l’aereo. Dopo avere .som-ministrato a metà di loro uno spray nasale
contenente aglio (Nasaleze Travel) e all’altra metà un placebo, notarono che
i soggetti trattati con placebo avevano una tendenza a contrarre infezioni
dopo il volo quasi tre volte superiore.
Prevenzione del raffreddore. Alcuni ricercatori inglesi hanno studiato la
risposta fisiologica di 146 persone nel periodo da novembre a febbraio,
somministrando alla metà di loro un integratore a base di aglio e all’altra
metà un placebo. Sul totale, all’interno del gruppo placebo si ebbero 65 casi
di raffreddore e solo 24 nel gruppo che assunse aglio.
Nell’ambito di un ulteriore studio, alcuni ricercatori russi somministrarono
a 600 bambini e adolescenti di età compresa tra i 7 e i 16 anni un
integratore a base di aglio o un placebo, dimostrando così che i ragazzi che
assumevano il placebo contraevano raffreddori con una frequenza quattro
volte superiore.
Consiglio pertanto caldamente uno spicchio di aglio al giorno per ridurre il
rischio di raffreddori e influenza, nonché per garantire una buona salute in
generale.

AGLIO A VOLONTÀ

Una dieta ricca d’aglio può recare numerosi altri benefici.


Diabete. In Russia, alcuni scienziati hanno tenuto sotto osservazione 60
soggetti affetti da diabete di tipo 2 suddividendoli in due gruppi: a un
gruppo vennero somministrati integratori a base di aglio in polvere a
rilascio frazionato, all’altro un placebo. Dopo un mese, i soggetti trattati
con aglio avevano registrato un salutare calo della glicemia a digiuno,
passata da 138 mg/dl a 113 mg/dl.
Disturbi della prostata. I ricercatori italiani hanno studiato oltre 1800
uomini e il loro regime alimentare, riscontrando così che quanti
consumavano più aglio avevano una percentuale di probabilità del 28% in
meno di sviluppare ipertrofia prostatica benigna, un ingrossamento della
prostata che determina difficoltà urinarie negli individui in età più avanzata.
Invecchiamento della pelle. Gli scienziati tedeschi hanno scoperto che
l’assunzione di aglio in polvere favorisce l’afflusso del sangue alla cute, un
fattore assolutamente indispensabile per una pelle giovane e luminosa.
Candidosi orale. Alcuni ricercatori indiani hanno notato che la pasta
d’aglio è efficace quanto un farmaco convenzionale nel debellare la
candidosi orale (mughetto), un’infezione di origine micotica che colpisce la
mucosa della bocca.
Anemia falciforme. Alcuni ricercatori della Facoltà di Medicina
dell’UCLA hanno scoperto che un’integrazione a base di estratto di aglio per
un periodo di quattro settimane riduce del 30% il numero di globuli rossi
danneggiati, elemento distintivo di questa malattia.
Alopecia areata. Nell’ambito di questa affezione, caratterizzata dalla
perdita di capelli in aree circoscritte, l’aggiunta di un gel all’aglio al
trattamento standard ne migliora i risultati.

L’aglio può contribuire a prevenire e/o curare:

Alopecia Malattie cardiovascolari


Anemia falciforme Mughetto
Colesterolo Pressione alta
Diabete di tipo 2 Raffreddori
Ictus Invecchiamento della pelle
Influenza Trigliceridi
Ipertrofia prostatica Tumori

La cucina francese non è rinomata per il cibo agliato, tuttavia vanta tre
prestigiose salse all’aglio: l’aioli, una maionese all’aglio usata per
accompagnare pesce e insaporire verdure lessate, il pistou, che rappresenta
la versione francese del pesto italiano e va ad insaporire l’omonima
minestra di verdure, e la salsa rouille, una sorta di maionese aromatizzata
all’aglio, peperoncino rosso e zafferano che viene adoperata per
accompagnare la bouillabaisse, il bourride ed altre zuppe di pesce. La
persillade, infine, è una salsa all’aglio di ispirazione francese utilizzata però
nella cucina della Louisiana.
I greci amano in particolare la skordalia, una crema all’aglio preparata con
mandorle, olio di oliva e pane ammollato nel latte, che viene servita come
accompagnamento al baccalà o come salsina per pinzimonio. In Serbia la
gente mangia l’aglio come stuzzichino insieme allo slivovitz, un brandy di
prugne particolarmente alcolico.
L’aglio è anche un ingrediente fondamentale dell’ hummus, un popolare
contorno mediorientale che include anche ceci, olio di oliva e pinoli.
Compare altresì nella ricetta dell’harissa, un condimento tunisino
piccantissimo, e nella chermoula, una marinata per carne usata nella cucina
marocchina. Il cacik turco è una salsa all’aglio a base di yogurt e olio di
oliva e viene servito come contorno.
Anche la cucina tailandese è ricca di aglio: praticamente nessun piatto
salato ne è esente.
ALLA SCOPERTA DELL’AGLIO

Sia in veste di medicinale che di alimento, la storia dell’aglio risale a


moltissimo tempo fa. Esso figurava già negli antichi trattati di medicina di
Egitto, India, Cina, Grecia e Roma. Gli egizi lo propinavano agli schiavi
addetti alla costruzione delle piramidi, e faceva parte della dieta degli atleti
olimpici dell’antica Grecia. Durante il Medioevo veniva posto sulla soglia
delle case di notte per allontanare gli spiriti malvagi.
Oggigiorno, l’aglio insaporisce praticamente tutte le cucine del mondo ed
è il tratto caratteristico delle specialità gastronomiche di Messico, India,
Asia, Grecia e Italia.
L’aglio è sinonimo di cucina italiana e lo si ritrova in quasi tutte le ricette
salate. Tra le ben note salse italiane a base di aglio citiamo il pesto, sugo
che contiene anche basilico e olio di oliva, e la gremolata, un trito a base di
aglio e prezzemolo tradizionalmente adoperato per rifinire il celebre
ossobuco.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO


Il sapore dell’aglio fresco attraversa tutta una gamma di gradazioni, dal
moderato e dolce al forte e pungente, a seconda del tipo di aglio e del luogo
di coltivazione. Esistono varietà di aglio bianche, rosa e viola che si
presentano con un gambo lungo e sottile (hardneck) oppure senza gambo
(softneck); la varietà a gambo è quella di maggiore pungenza.
Il 90% dell’aglio venduto negli Stati Uniti è di tipo bianco, senza gambo, e
viene dalla California. Il sapore è forte e pungente ma, come per tutte le
varietà di aglio, si ingentilisce con la cottura attenuando l’intensità e
sviluppando un sapore leggermente dolce.
Secondo gli chef più accreditati l’aglio migliore proviene dalla Francia e
presenta un sapore e un aroma decisamente diverso da quello californiano.
Se riuscite a trovare dell’aglio francese, vale la pena di provarlo: si
riconosce dalla buccia sfumata di rosa. Altre varietà degne di nota
includono l’aglio bianco prussiano e l’aglio rosso spagnolo (roja).
Per apprezzarne al meglio l’aroma, consiglio di acquistare i bulbi freschi.
Essi possono variare alquanto per dimensioni e contenere un numero
qualsiasi di spicchi, da pochi a due dozzine. Tuttavia, quando si parla di
sapore, la dimensione non conta: il gusto è determinato dalla freschezza del
bulbo. Per avere garanzia di massima freschezza, cercate bulbi pienotti,
asciutti e che non abbiano la buccia rotta. Inoltre, l’acquisto di bulbi con
spicchi di grandi dimensioni rende più semplice il lavoro in cucina.
Ancora integri, i bulbi freschi si mantengono per circa due settimane; una
volta aper to il bulbo, tuttavia, la durata si riduce a una settimana. Non
appena l’aglio inizia a ger mogliare, è meglio eliminarlo poiché diventa
amaro durante la cottura.
Prima di germogliare, il colore degli spicchi comincia a virare verso il
verde; in tal caso tagliate via qualsiasi pezzo verde o comunque decolorato:
il massimo dell aroma si ottie ne solo adoperando la polpa bianca.
Per quanto riguarda l’aglio disidratato, in polvere o il sale all’aglio,
conservatelo in un contenitore a chiusura ermetica e riponetelo in un luogo
fresco lontano dalla luce. L’aglio disidratato dovrebbe conservarsi per circa
un anno e il sale all’aglio per piu anni; tuttavia. quando la polvere e il sale
cominciano a formare grumi, significa che hanno assorbito umidità e
conviene gettarli via.
Se la dieta che seguite non prevede un regolare apporto d’aglio, potreste
considerare l’uso di integratori, soprattutto se presentate uno o più fattori di
rischio di malattie cardiovascolari quali pressione alta, colesterolo alto,
diabete o se avete più di 65 anni. La formula più utilizzata negli studi
scientifici è l’estratto di aglio invecchiato; qualora optaste per questa
soluzione, seguite la posologia consigliata riportata sulla confezione o le
raccomandazioni del vostro medico.

Aglio arrostito: un paradiso speziato

Se non riuscite a concepire l’idea di mangiare un’intera testa d’aglio tutta


in una volta, allora non avete mai assaggiato l’aglio arrostito: è la prova
finale che l’aglio può avere un gusto morbido e dolce. Gli amanti dell’aglio
ne sono entusiasti e non ne hanno mai abbastanza: lo divorano spicchio per
spicchio, direttamente dalla buccia in bocca.Talvolta lo spalmano sul pane,
e questa potrebbe essere un’eccellente idea per un pranzo con tanto di
invitati: servire dell’aglio arrostito e crostini di pane come antipasto,
lasciando a ciascuno degli ospiti il piacere di unirsi come vuole a questa
incredibile festa del gusto.
Preparare l’aglio arrostito è semplice. Lasciate la testa intera eliminando
solo la pellicola esterna non attaccata agli spicchi, quindi ponete una o più
teste su un foglio d’alluminio grande abbastanza da avvolgerle
completamente e cospargetele con un filo d’olio di oliva. Chiudete bene il
cartoccio e fate arrostire in forno a 210 °C per 30 minuti su una teglia piana.

L’AGLIO IN CUCINA

L’aglio è un elemento estremamente versatile che si sposa con quasi tutte


le preparazioni salate. Può anche essere utilizzato crudo e, in tal caso, ne
sperimenterete tutto l’aroma forte e persistente. Quando lo spicchio è intero,
in genere profuma poco ma rilascia un aroma particolarmente forte nel
momento in cui viene pestato. Durante la cottura, l’aroma e il sapore si
ammorbidiscono diventando leggermente dolci.
Per utilizzare l’aglio, staccate gli spicchi dal bulbo, a meno che non stiate
preparando un piatto in cui si debbano mangiare interi, togliete la sottile
buccia che li avvolge. Questa potrebbe essere un’operazione complicata
solo se cercherete di pelarli con uno spelucchino come si fa con una mela o
una cipolla. Fate invece come i cuochi professionisti: adagiate lo spicchio
su di un tagliere e con un coltello adagiato sopra date un colpo alla lama
con il palmo della mano, la buccia si staccherà automaticamente. Se lo si
usa in padella fatelo soffriggere solo 1 minuto.
Ajowan. La farmacia di Madre Natura

L’ajowan (pronuncialo àj-o-wan) è una spezia molto popolare in India, ove


è apprezzata non solo per la caratteristica di conferire maggiore incisività ai
curry nonché aroma a pane e focaccine, ma anche per la facoltà di curare i
malanni quotidiani. Molti indiani preferiscono bere un poco di acqua omam
– ossia semi di ajowan macerati in acqua calda distillata – anziché prendere
un’aspirina per il mal di testa, uno sciroppo per la tosse, un antiacido per i
bruciori di stomaco o un antistaminico per le allergie. Ora la scienza sta
finalmente restituendo a questo rimedio tradizionale ciò che gli è dovuto: i
ricercatori hanno identificato oltre due dozzine di composti
farmacologicamente attivi in questi piccoli semi ricurvi, e uno di essi è forte
quanto la morfina.

UN ANTIDOLORIFICO NATURALE

Quando si masticano semi crudi di ajowan. la bocca si riempie di un


sapore piccante ed amaro così intenso da intorpidire un poco la lingua
temporaneamente. In cucina, l’ajowan viene sempre sottoposto a cottura per
eliminarne la pungenza. È l’effetto del timololo presenti nei semi, una
sostanza che può alleviare anche il dolore.
In uno studio condotto da ricercatori in Iran – dove l’ajowan è un rimedio
tradizionale contro il mal di testa e l’artrite – il potere analgesico della
spezia è stato messo a confronto con quello della morfina testandolo su
animali da laboratorio, e si è dimostrato altrettanto efficace. «Il presente
studio convalida le asserzioni della medicina tradizionale iraniana secondo
cui l’estratto di Carum copticum (ajowan) esercita un chiaro effetto
analgesico (antidolorifico)», scrivono i ricercatori sulla rivista Journal of
Ethnopharmacology.

L’INGREDIENTE SEGRETO: LA COLINA

L’acqua omam viene utilizzata come rimedio casalingo per curare una
vasta gamma di disturbi gastrointestinali: allevia i bruciori di stomaco,
riduce l’eruttazione e il gonfiore, diminuisce la flatulenza e blocca la
diarrea. Nell’ambito di un esperimento, i ricercatori hanno studiato quattro
diverse soluzioni di acqua omam (semi interi macerati in acqua fredda, un
infuso caldo ottenuto da semi interi, un estratto di semi ridotti in polvere e
macerati in acqua fredda e semi tostati macerati in acqua bollente) per
capire quale risultasse più efficace e perché.
Quando somministrarono ognuno dei quattro preparati ad animali di
laboratorio, scoprirono che tutti contribuivano a risanare il tratto digerente,
probabilmente grazie alla presenza della colina, un nutriente essenziale che
favorisce l’invio di segnali di guarigione da parte del cervello
all’organismo. Tuttavia, furono i semi tostati ad esercitare l’effetto
terapeutico maggiore sulla salute dell’apparato gastrointestinale. Quando gli
scienziati analizzarono i semi, rilevarono la presenza di acetilcolina, un
composto chimico che controlla la muscolatura involontaria come quella
che riveste le pareti intestinali. Altri ricercatori asserirono che la presenza di
acetilcolina può spiegare il motivo per cui l’ajowan calma con tanta
efficacia i disturbi del tratto digerente.

UN RIMEDIO POLIVALENTE

Asma, ipertensione, tosse, infezioni batteriche: l’ajowan viene da tempo


impiegato come rimedio popolare per tutti questi disturbi, e oggi i
ricercatori ne stanno confermando la reputazione terapeutica producendo
nuove prove scientifiche.
Asma. Gli scienziati hanno somministrato ad alcuni soggetti affetti da
asma un estratto di ajowan bollito, mentre un secondo gruppo è stato
trattato con teofillina, un broncodilatatore che apre le vie respiratorie. Ogni
30 minuti, per due ore, i ricercatori hanno proceduto a misurare la funzione
polmonare e hanno rilevato un aumento della capacità respiratoria fino al
32% nel gruppo trattato con l’estratto, con effetto simile a quello del
farmaco. Sulla rivista Therapie, hanno concluso che l’ajowan è equiparabile
alla teofillina nell’aprire le vie respiratorie di soggetti asmatici.
Ipertensione. L’ajowan ha evidenziato lo stesso effetto esercitato dal
verapamil (Calan), un farmaco calcio-antagonista, nel diminuire la
pressione arteriosa in animali da laboratorio. I ricercatori hanno ipotizzato
che l’acetilcolina presente nella spezia svolga un ruolo attivo con effetto
ipotensivo.
Tosse. Durante esperimenti di laboratorio condotti su animali, alcuni
ricercatori iraniani hanno scoperto che l’ajowan agisce più efficacemente
della codeina nel sopprimere la tosse. Una motivazione plausibile è che sia
ancora una volta l’acetilcolina a calmare le contrazioni che scatenano la
tosse.
Infezioni batteriche. Un’équipe di ricercatori dell’India ha osservato che
l’ajowan inibisce otto ceppi di batteri infettivi e, testando 54 erbe contro la
salmonella resistente ai farmaci, l’ajowan si è dimostrato una di quelle in
grado di uccidere il batterio.

ALLA SCOPERTA DELL’AJOWAN

L’ajowan, anche noto come erba del vescovo, è sconosciuto alla maggior
parte delle dispense americane ma non agli armadietti dei medicinali, in
quanto uno o più dei suoi principi attivi vengono utilizzati in farmaci e
pastiglie per la tosse. Il timololo, che ne costituisce l’olio essenziale, è
presente anche nei dentifrici e nei collutori. I componenti di tale spezia
vengono altresì impiegati per preservare la durata dei cibi confezionati e dei
profumi. L’ajowan è una spezia molto amata non solo nella cucina indiana,
ma anche in quella iraniana, pakistana e del Nordafrica. Ha un’affinità
naturale con gli alimenti ricchi di amidi e viene adoperato per vivacizzare il
sapore di pietanze contenenti radici e legumi. In India, rappresenta un
ingrediente essenziale nei piatti a base di lenticchie, sia per il sapore che per
la caratteristica di favorire la digestione e prevenire la flatulenza.
Quando si pranza in un ristorante indiano, è possibile trovare l’ajowan in
un antipasto chiamato pakora (frittelle di verdure) oppure negli involtini
ripieni detti samosa. È frequente nei prodotti da forno indiani e lo si ritrova
anche in una focaccina sottile detta pappadam, nonché nella paratha, una
sorta di pane fritto molto sottile. In Afghanistan, l’ajowan viene impiegato
nella preparazione di pane e impasti per prodotti da forno, ed è un
ingrediente fondamentale del berberè, una miscela di spezie etiope
adoperata per insaporire pietanze a base di verdura e carni in umido.
L’ajowan è un ingrediente di molti profumi.
L’AJOWAN IN CUCINA

L’ajowan ha un sapore intenso, una sorta di combinazione tra timo e anice,


e ne basta poco. Tale spezia va sempre sottoposta a cottura per eliminale
l’effetto di intorpidimento che danno i semi crudi. Quanto più viene cotta a
lungo, tanto più il sapore pungente si ammorbidisce. Per esal-lame l’aroma,
si consiglia di soffriggere preventivamente i semi in poco olio finché non si
coloriscono bene.
Poiché i piccoli semi sono facilmente masticabili, non è necessario
macinarli.
La piccola pianta dell’ajowan è simile al prezzemolo.
Chi ama l’ajowan in genere privilegia i semi interi in quanto aggiungono
croccantezza al piatto; tuttavia, se si preferiscono macinati, è bene tostarli
preventivamente. Poiché i semi sono teneri e si rompono facilmente con le
dita, è possibile ottenere una polvere fine utilizzando mortaio e pestello.
Questa spezia è nota soprattutto per l’aroma che conferisce a pane,
focaccine salate e dessert. Si sposa ottimamente con vari chutney
stuzzichini e sottaceti. Ecco alcune idee per sperimentare l’ajowan in
cucina:

• Aggiungetelo ai curry di carne e pesce, lenticchie stufate e sformati di


patate. Poiché il sapore si ammorbidisce con la cottura, potete metterne
anche più di un pizzico.
• Tostatelo a secco e aggiungetelo a snack energetici a base di frutta secca
o a mix di noci speziate.
• Aggiungetene un pizzico al pane fatto in casa e agli impasti per
preparazioni salate: darà più brio alla pasta della quiche di pollo o di altre
torte salate a base di carne.
• Spolveratene un poco sulle verdure in padella o al vapore.
• Incorporate i semi tostati al burro da usare per le sauté di verdure.
• rosolatelo in poco olio insieme ad aglio, zenzero e curcuma per fare un
soffritto.
Alloro. Un’infusione di antiossidanti

Chi avrebbe mai pensato che una piccola foglia essiccata potesse giovare
tanto alla salute! È dell’alloro che stiamo parlando, in grado di recare una
protezione antiossidante all’organismo con la stessa facilità con cui infonde
profumo al pesce al vapore.
Mentre si cucina, l’aroma dell’alloro si intensifica man mano che libera i
suoi oli volatili, i composti che conferiscono alla pianta la sua caratteristica
fragranza e che figurano inoltre tra i più potenti antiossidanti esistenti.
Di fatto, quando alcuni ricercatori coreani testarono centoventi spezie,
erbe e ortaggi per stabilirne il potere antiossidante – cioè la capacità di
ridurre l’ossidazione, ossia la «ruggine» interna che può erodere ogni
cellula del corpo, nonché il prezioso DNA all’interno delle cellule –,
scoprirono che l’alloro era il primo della lista. Era più potente della
vitamina C, un antiossidante naturale, e più potente del butilidrossianisolo
(BHA) e del butilidrossitoluene (BHT), antiossidanti di sintesi così efficaci da
venire utilizzati sistematicamente nella conservazione degli alimenti. Era
insomma all’altezza di parecchi celebri antiossidanti, come il resveratrolo
presente nel vino rosso e l’epigallocatechina gallato (EGCG) presente nel tè
verde.
Sono stati isolati più di ottanta composti attivi nell’alloro, ma gli
antiossidanti specifici che la pianta stessa utilizza per tenere a bada le
malattie sono l’olio volatile noto come cineolo (presente anche
nell’eucalipto) e una classe di composti chiamati sesquiterpeni, sostanze
che potrebbero essere particolarmente efficaci contro una malattia che ha
ormai assunto proporzioni epidemiche e sta flagellando oltre 20 milioni di
americani: il diabete di tipo 2, un disturbo caratterizzato da un eccesso di
zuccheri (glucosio) nel sangue.

IL CONTROLLO DEL DIABETE

Un’équipe di ricercatori guidata dal dottor Richard Anderson, uno


scienziato del Laboratorio di Ricerca sulla Nutrizione Umana di Beltsville,
che fa capo al Ministero dell’Agricoltura statunitense, ed esperto di
trattamenti naturali per il diabete di tipo 2, ha studiato 40 soggetti diabetici
dividendoli in quattro gruppi.
A tre gruppi furono somministrati integratori a base di alloro in dosi da 1,
2 e 3 grammi al giorno, mentre al quarto gruppo fu somministrato un
placebo.
In capo a un mese, i gruppi trattati con alloro registrarono un notevole calo
dei livelli di glicemia, fino al 26%. Ma non è tutto: i soggetti evidenziarono
anche un calo, attestato tra il 32% e il 40%, dei livelli di lipoproteine a
bassa densità (LDL) – il colesterolo «cattivo» –, una percentuale di aumento
tra il 20% e il 29% di lipoproteine ad alta densità (HDL) – il colesterolo
«buono» – e un calo dei trigliceridi, ossia lipidi presenti nel sangue che
danneggiano l’apparato cardiovascolare, tra il 25% e il 34%. Nel gruppo
trattato con placebo non si osservò alcun cambiamento per nessuno dei
parametri osservati.
Quali sono i meccanismi attraverso cui questa spezia esplica un effetto
tanto potente? In un articolo apparso sulla rivista Journal of Clinical
Biochemistry and Nutrition, i ricercatori ipotizzano che i «composti
bioattivi» dell’alloro potrebbero migliorare la sensibilità insulinica (la
capacità dell’ormone insulina di convogliare il glucosio dal torrente ematico
alle cellule), la captazione del glucosio (la capacità delle cellule di
rispondere all’insulina al suo arrivo), lo stato antiossidante (una minore
ossidazione si traduce in un migliore controllo del glucosio), la risposta
infiammatoria (idem per le infiammazioni di carattere meno cronico) e lo
scarico del glucosio (la velocità con cui il glucosio viene assorbito, per cui
un assorbimento più lento determina un maggiore equilibrio della glicemia).
Dal momento che il diabete di tipo 2 aumenta il rischio di patologie
cardiovascolari di ben sei volte, conducendo alla morte il 75% dei soggetti
affetti, questi risultati sono, come dire, rincuoranti.

I POTERI CURATIVI DELL’ALLORO

Le virtù terapeutiche dell’alloro non sono circoscritte al diabete di tipo 2.


Studi in vitro e in vivo condotti su animali – il primo stadio scientifico
necessario per dimostrare la capacità della spezia di migliorare la salute in
noi umani - indicano che può costituire un rimedio naturale per le seguenti
patologie.
Tumori. Diversi studi condotti su cellule tumorali dimostrano che il
partenolide, un composto presente nell’alloro, agisce in vari modi per
sconfiggere il cancro. Nell’ambito di uno studio russo, un’iniezione di
estratto d’alloro ha rallentato la comparsa e la crescita dei tumori in topi
affetti da carcinoma della mammella sperimentalmente indotto. Altri studi
indicano che l’alloro inibisce la leucemia e il cancro della cervice.
Artrite. L’alloro è un rimedio tradizionalmente impiegato per trattare i
sintomi dell’artrite. In esperimenti condotti su animali, alcuni medici del
Medio Oriente hanno riscontrato che gli oli volatili di tale pianta alleviano
il dolore e il gonfiore portati dal disturbo. Scrivendo su Phytotherapy
Research, gli studiosi conclusero che l’alloro possiede inoltre proprietà
antinfiammatorie «equiparabili a quelle di farmaci analgesici (antidolorifici)
e antinfiammatori non steroidei (come l’ibuprofene e il naprossene)».
Ulcere e disturbi della digestione. Un altro impiego tradizionale
dell’alloro riguarda il trattamento di disturbi gastrici. Di recente, alcuni
ricercatori della Turchia hanno scoperto che l’olio essenziale di alloro
previene le ulcere gastriche nei ratti. Altri studi indicano che può favorire la
digestione stimolando la secrezione degli acidi gastrici deputati alla
demolizione del cibo.
Infezioni batteriche. L’alloro combatte i batteri. In Marocco un’équipe di
ricercatori ha infettato alcuni animali da laboratorio con 16 diverse specie di
organismi infettivi, ma Talloro ha contribuito a tenere in scacco i germi
dimostrando così di esplicare un «forte effetto inibitore» sull’Escherichia
coli, la salmonella e la listeria, tutti batteri che possono provocare un
avvelenamento da cibo. In Pakistan gli studiosi hanno riscontrato che
l’alloro era in grado di controllare efficacemente 176 differenti specie di
batteri.
SARS (sindrome respiratoria acuta grave). L’alloro è anche in grado di
respingere i virus. Ricerche condotte presso vari laboratori in tutto il mondo
indicano che l’olio essenziale di alloro può rallentare o persino uccidere il
virus della SARS, cioè la causa della patologia respiratoria altamente
contagiosa che nel 2003 infettò 8000 persone e ne uccise 800 prima di
essere arginata.
Rimarginazione delle ferite. Da studi condotti su animali, si è scoperto
che gli oli volatili presenti nell’alloro contribuiscono ad accelerare la
rimarginazione di ferite.
Punture di zanzara. L’olio essenziale ottenuto dall’alloro è un
tradizionale repellente contro le zanzare, e uno studio pubblicato sul
Journal of Ethnopharmacology riferisce che è in grado di respingere le
zanzare per una durata di circa due ore.

ALLA SCOPERTA DELL’ALLORO

Le foglie di alloro vengono colte, e successivamente essiccate,


dall’omonimo albero, una pianta sempreverde dal fogliame folto che cresce
in abbondanza nel bacino del Mar Mediterraneo sebbene venga anche
coltivata in numerosi altri paesi. E le popolazioni del luogo le hanno colte
per millenni.
Quando i medici dell’antica Grecia terminavano gli studi, venivano
incoronati con rami di alloro, da cui l’origine del termine laureato;
analogamente, per gli antichi romani l’alloro era simbolo di vittoria e
coraggio, e i vincitori delle corse di bighe venivano incoronati con serti di
alloro.
Sebbene non sia più usanza indossare la corona d’alloro, comunque sia lo
si utilizza per cucinare. Esso è una delle spezie più diffuse e ampiamente
adoperate nella gastronomia nordamericana. È raro trovare una cucina in
cui non vi sia un vasetto di foglie d’alloro… a meno che non siano finite!
L’alloro conferisce aroma a minestre, carni in umido, fagioli, marinate e
pesce lessato. È un ingrediente fondamentale del famoso cioppino di San
Francisco, una zuppa di pesce che viene fatta cuocere a fuoco lento in una
salsa di pomodoro particolarmente saporita. L’alloro viene sovente
utilizzato in miscele di spezie per preparazioni sotto vetro ed è una delle
spezie adoperate per essiccare la carne di manzo del corned beef che, pur
non essendo un’invenzione gastronomica originale dell’America, è
sicuramente uno dei cibi preferiti dagli americani.
L’alloro viene generalmente impiegato in piatti salati sia negli Stati Uniti
che in Europa, sebbene gli inglesi (sempre originali in fatto di arte
culinaria) amino aggiungerlo anche alle creme pasticcere e ai budini.
L’alloro e la cucina francese sono «bons amis». È infatti la spezia
principale del bouquet gami che viene avvolto in una garza e aggiunto a
minestre, stufati e brodi lasciati sobbollire a lungo; è inoltre essenziale nella
preparazione del court bouillon, il preparato liquido aromatizzato usato per
lessare il pesce. Viene anche aggiunto ai cibi cucinati en papillote, una
tecnica culinaria per cui il pesce viene avvolto in un cartoccio e lasciato
cuocere nei propri succhi. Infine, viene usato per aromatizzare la
bouillabaisse e la bourride, due zuppe di pesce nonché specialità francesi.
Di fatto, l’alloro è un elemento indispensabile in tutte le culture
gastronomiche del bacino del Mediterraneo ed è uno degli ingredienti che
fanno della dieta mediterranea uno dei regimi alimentari più sani al mondo.
Sull’isola greca di Corfù, ad esempio, le foglie fresche di alloro vengono
usate per ricoprire la sikopsoma, una tortina piatta fatta di fichi secchi e
speziati.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

L’unico vero alloro, nonché quello utilizzato nella maggior parte degli
studi scientifici, proviene dalla pianta del Laurus nobilis. Tuttavia, in varie
parti del mondo, il termine alloro viene usato per descrivere foglie di
varietà botaniche differenti che nulla hanno a che fare con tale spezia. Se vi
imbattete in un alloro californiano, messicano, indiano, indonesiano o delle
Indie Occidentali, sappiate che non è vero alloro. Si tratta infatti di specie
completamente diverse: l’alloro indiano, ad esempio, è la foglia essiccata
della medesima pianta che produce la cannella, mentre l’alloro delle Indie
Occidentali viene da un albero della famiglia del pimento. Inoltre, le foglie
di tali piante presentano un aroma molto più marcato rispetto all’alloro.
L’alloro viene raramente venduto fresco a scopo culinario poiché il
profumo risulta più intenso e il sapore meno amaro se sottoposto a
essiccazione. Inoltre, le foglie essiccate infondono più aroma ai cibi.
La maggior parte delle foglie di alloro prodotte e vendute per
l’esportazione proviene dalla Turchia e dalla Grecia. Sul mercato se ne
trovano due qualità, ma solo una (che solitamente porta l’iscrizione
«selezionato a mano») può essere considerata adatta in quanto non contiene
elementi estranei.
Cercate sempre confezioni che presentano foglie integre, omogenee per
dimensioni e colore, e prive di picciolo o pezzetti di corteccia. Le foglie
devono essere pulite e verdi. Quanto più il colore è scuro e la foglia grande,
meglio è; l’ingiallimento è segno che sono state esposte alla luce per troppo
tempo.
L’alloro può contribuire a prevenire e/o curare:

Artrite Avvelenamento da cibo


Diabete di tipo 2 Ferite
indigestione Punture di zanzara
Sindrome respiratoria Tumori
Ulcera

L’ALLORO IN CUCINA

Il profumo pungente e legnoso nonché il sapore dell’alloro, con quella


vaga nota di eucalipto, si trasferiscono ai cibi non appena le foglie vengono
a contatto con un liquido caldo. Il sentore e l’aroma si fanno più intensi man
mano che cuociono, sebbene comincino a scomparire se si lasciano le foglie
in pentola troppo a lungo, oltre il paio d’ore.
L’alloro si accompagna bene praticamente a qualsiasi alimento cotto a
fuoco lento in un liquido, soprattutto con la carne arrosto e il pesce bollito.
La preparazione al vapore fa risaltare ancora di più il suo aroma naturale.
Una o due foglie di alloro di media grandezza sono sufficienti ad
aromatizzare una pietanza per finterà famiglia; il consiglio è di aggiungerlo
all’inizio della cottura.
In genere, l’alloro viene adoperato nelle ricette salate, tuttavia esalta anche
i dolci ai cucchiaio a base di latte o creme.
Le foglie di alloro vengono impiegate solo per conferire aroma grazie agli
oli rilasciati che vanno a permeare gli alimenti mentre cuociono. Tuttavia,
assicuratevi di eliminarle a fine cottura; la letteratura medica non contiene
soltanto ricerche sulle molte virtù dell’alloro, ma è anche piena di terribili
storie di danni recati al tratto digerente in seguito all’ingestione accidentale
di una foglia appuntita.
Ecco di seguito alcune idee per usare più alloro nella dieta e nella vita
quotidiana:

• Aggiungete una foglia o due all’acqua quando fate bollire carote, patate o
tagliatelle.
• Unite dell’alloro ai sughi di pomodoro, anche se state semplicemente
riscaldando una passata già pronta.
• Cucinate a vapore i gamberi usando della birra cui avrete aggiunto
qualche foglia di alloro.
• Date più profumo al riso inserendo una o due foglie d’alloro nel barattolo
del riso.
• Aggiungete una foglia di alloro alla carne o al pesce cucinati al cartoccio
o alla griglia.
• Preparate un court bouillon alla francese per il pesce lessato combinando
due parti d’acqua e una di vino bianco, carote a pezzi, cipolla, un pizzico di
timo e una foglia di alloro. Coprite e fate bollire a fuoco lento per un’ora
prima di immergervi il pesce. Assicuratevi che il liquido sia sufficiente a
ricoprire completamente il pesce.
Amchur. Mango, ma con un pizzico di salute in più

La famosissima spiaggia indiana di Madras Marina Beach, sita nella città


costiera di Chennai sul Golfo del Bengala, è una delle più grandi e
incantevoli spiagge del mondo. È una meta turistica ambita tutto l’anno, ma
in tarda primavera comincia letteralmente a brulicare di villeggianti, molti
dei quali si dirigono il più rapidamente possibile verso le numerose
bancarelle sul lungomare per fare uno spuntino a base di mango acerbo a
fettine essiccato, una rinomata prelibatezza della regione.
Il mango acerbo è lo stesso frutto tropicale che gli americani gustano a
colazione, a fettine nei cereali o sulle frittelle, oppure a pezzetti in una salsa
da abbinare a una cena caraibica a base di pesce, ma con una sola
differenza: gli americani mangiano i manghi quando sono maturi, di un bel
colore arancione, succosi e dolci, mentre in India si mangiano quando sono
ancora acerbi, verdi e aspri.
Oggi come oggi, la maggior parte degli americani conosce il mango; lo si
trova nel reparto di frutta e verdura dei supermercati ed è un ingrediente di
uso comune nella cucina fusion. Tuttavia, a meno che non siate stati in
India o in Asia, o non abbiate fatto acquisti in un negozio di specialità
indiane o asiatiche, sarà difficile che abbiate provato il mango sotto forma
di spezia. La spezia, detta amchur – da am, che significa mango, e chur, che
significa polvere – è una polvere ottenuta dal mango verde ancora acerbo.
E, al pari del frutto intero, fa molto bene alla salute poiché apporta una dose
concentrata dei numerosi e salutari principi nutritivi del mango.

UN CONCENTRATO DI SALUTARI AGENTI FITOCHIMICI

Come suggerisce la coloratissima polpa, il mango – analogamente ad


arance, carote, patate dolci ed altri alimenti di colore aranciato – è ricco di
salutari agenti fotochimici, ossia composti nutrizionali che contribuiscono a
prevenire svariate patologie di carattere cronico, quali le malattie
cardiovascolari, i tumori e il diabete di tipo 2. Nel mango, l’agente
fitochimico di maggior spicco è il betacarotene, un potente antiossidante,
ma ve ne sono molti altri.
Quando i ricercatori dell’Università della Florida hanno analizzato il
contenuto di agenti fitochimici di otto frutti tropicali, il mango ne è uscito
vincitore. «Riteniamo che il mango contenga alcuni antiossidanti che per la
loro unicità, nonché per l’elevatissima quantità, difficilmente si riscontrano
in altri generi di frutta o verdure», hanno commentato, e uno dei più
straordinari, e più potenti, è il lupeolo.
Proprietà antitumorali. Gli studi dimostrano che il lupeolo è in grado di
arrestare la mutazione del DNA, una delle principali cause della formazione
di tumori, esplicando un’azione antiossidante che neutralizza le specie
reattive dell’ossigeno (in sigla, ros), ossia molecole iperreattive che
«impazziscono» dando origine alle mutazioni.
Inoltre, in uno studio sul cancro della prostata condotto su animali, il
lupeolo è riuscito a far regredire il danno prostatico portando gli scienziati
alla conclusione che «il mango e i suoi costituenti merita di essere studiato
come possibile agente chemiopreventivo contro il carcinoma della
prostata».
Salute della prostata. Un altro studio condotto su animali da laboratorio
ha evidenziato che il lupeolo contenuto nel mango è in grado di ridurre
l’ingrossamento della prostata, un quadro clinico noto come ipertrofia
prostatica benigna (IPB) che colpisce quattro uomini su cinque oltre i 50
anni di età determinando sintomi urinari quali necessità impellente di
svuotare la vescica, maggiore frequenza nell’urinare, flusso urinario debole,
sforzo nella minzione e minzione frequente durante le ore notturne. Il
lupeolo, conclusero i ricercatori, «potrebbe diventare una valida alternativa
al trattamento della IPB».
Equilibrio glicemico. Studi condotti da ricercatori brasiliani indicano che
il mango può contribuire a normalizzare i livelli di zuccheri (glucosio) nel
sangue; gli animali a cui è stata sperimentalmente somministrata farina di
mango hanno infatti registrato livelli di glicemia più bassi del 66% rispetto
ad altri animali nutriti normalmente.
Recessione della piorrea. In un’ulteriore ricerca, sempre condotta su
animali da laboratorio, si è stabilito che la mangiferina – un altro
antiossidante presente nel mango – può ridurre l’infiammazione associata
alla malattia periodontale (piorrea) e rallentare la velocità di perdita ossea.
Tale è stata la conclusione dei ricercatori: «I risultati hanno dimostrato il
promettente potenziale terapeutico della mangiferina sia nella prevenzione
che nel trattamento della periodontite».
Protezione da agenti inquinanti. Alcuni studiosi indiani hanno scoperto
che la mangiferina protegge le cellule epatiche dagli effetti nocivi del
cadmio, un agente inquinante.
Rafforzamento della tiroide. In un’ulteriore ricerca condotta in India,
alcuni animali a cui sono stati somministrati estratti di mango hanno
evidenziato un’aumentata secrezione di vari ormoni tiroidei. Alcuni esperti
sostengono che l’ipotiroidismo, ossia una ridotta funzione della tiroide,
abbia carattere epidemico negli Stati Uniti e sia responsabile di una vasta
gamma di problemi, tra cui l’aumento di peso e l’affaticamento.
Malattie cardiovascolari. Un’altra équipe di ricercatori indiani ha
scoperto che la mangiferina contribuisce a rallentare lo sviluppo di malattie
cardiovascolari in animali nutriti con dieta j iperlipidica, e i risultati sono
stati pubblicati sulla rivista Vascular Pharmacology. Sempre in
quest’ambito, alcuni ricercatori cubani hanno studiato un estratto di
mangiferina brevettato, commercializzato con il nome di Vimang, e hanno
stabilito la sua «potenziale» efficacia nel trattamento di malattie
cardiovascolari.

L’amchur può contribuire a prevenire e/o curare:

Diabete di tipo 2 Malattie cardiovascolari


Disturbi della tiroide Piorrea
Ipertrofia prostatica benigna Tumori

IL MANGO INDIANO: IL FIOR FIORE DEL RACCOLTO

Esistono almeno un centinaio di differenti varietà di mango, con


dimensioni, colorì, consistenza e sapore differenti. Se pensate che il mango
che avete mangiato oggi abbia un gusto differente da quello mangiato la
settimana prima, probabilmente non è frutto della vostra immaginazione,
soprattutto se uno proveniva dall’India e l’altro no.
I manghi dell’India sono diversi da quelli che crescono in qualunque altra
parte del mondo: sono più grandi, meno fibrosi e molto più dolci. Gli
intenditori ritengono impareggiabile il sapore del mango indiano e, tra i
manghi coltivati in India, la varietà Alphonso è considerata la migliore.
La tarda primavera segnala l’inizio della stagione dei manghi in India,
epoca in cui i rami dell’imponente albero iniziano a piegarsi sotto il peso
dei frutti grandi quanto un pugno. La gente li compra a dozzine per
consumarli acerbi, spolverati di cumino, sale e, talvolta, salsa di soia. I
manghi sono altrettanto graditi in estate quando sono maturi, ma è il sapore
asprigno del mango acerbo ad essere realmente apprezzato.
Al pari degli avocado, i manghi maturano bene solo una volta staccati
dall’albero. Infatti, i frutti lasciati sui rami troppo a lungo sono
immangiabili poiché la polpa, in fase di maturazione, viene invasa dai
vermi. Poiché vengono colti ancora acerbi, sono prodotti perfetti per
l’esportazione, il che presenta un gran vantaggio per i consumatori di Stati
Uniti, Europa ed altre zone a clima temperato in cui il mango non cresce.
I manghi crescono non solo in India ma anche in Africa, nell’Asia
Sudorientale, nei Caraibi, in America Latina e nelle isole del Pacifico, ivi
incluse le Hawaii; tuttavia, il frutto ha avuto origine in India, e l’India è di
gran lunga il maggiore produttore al mondo. Verso la fine del XVII secolo,
gli imperatori indiani della dinastia Mogul ordinarono una piantagione di
100.000 alberi di mango per garantire al regno una fornitura illimitata di
tale frutto. Ancora oggi, gli indiani sanno bene quale uso saporito fare di
tutti quei manghi, e uno di questi è l’amchur.

ALLA SCOPERTA DELL’AMCHUR

L’amchur è poco noto al di fuori dell’India ma è uno degli alimenti


principali nelle case indiane. Viene preparato facendo essiccare al sole
fettine di mango acerbo, quindi il frutto secco viene sminuzzato fino a
ridurlo in polvere. Ha un sapore asprigno e intenso, simile a quello della
scorza di lime, e tradizionalmente ha un uso molto simile a quello che gli
americani fanno del lime o del limone: viene cioè impiegato come
acidulante. In India viene adoperato soprattutto per rendere aciduli i
chutney; ecco perché il chutney di mango che si può comprare confezionato
in bottiglia nei negozi di prodotti indiani ed asiatici è verde, un dettaglio
che sovente suscita perplessità in quanti non sono al corrente della
predilezione degli indiani per il mango acerbo. Viene inoltre usato per
acidulare condimenti e sottaceti (il mango verde sottaceto è spesso
fortemente speziato ed estrema-mente piccante) nonché preparazioni al
curry, soprattutto di verdure. L’amchur è altresì un ingrediente
fondamentale nella miscela di spezie chiamata chaat masala, un
condimento asprigno utilizzato per rifinire alcuni piatti di curry.
Questa spezia è utilizzata per ammorbidire la carne e il pollo cotti nei forni
tandoori, ed è uno degli ingredienti cui viene dato il merito per piatti
succulenti e succosi. Inoltre contribuisce ad abbassare il PH di una salsa
mantenendola più a lungo.
L’amchur è più diffusa nell’India settentrionale, mentre gli indiani delle
regioni meridionali preferiscono utilizzare il tamarindo come acidulante.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

L’amchur viene venduto in polvere o sotto forma di fette di mango acerbo


essiccato. Conviene tuttavia acquistarlo già macinato poiché le fette
essiccate sono dure e difficili da ridurre in polvere.
Durante la macinatura, il mango acerbo acquista una tonalità grigiastra,
mentre l’amchur reperibile nei negozi si presenta di colore marroncino
chiaro grazie all’aggiunta di un pizzico di curcuma, un’altra rinomata spezia
proveniente dall’India dalle sfumature dorate. Pertanto, non lasciatevi
sconcertare dal colore grigiastro: non ha nulla a che fare con la freschezza e
la qualità del prodotto. Un amchur più tendente al grigio indica soltanto che
è stata aggiunta meno curcuma o non ne contiene affatto.
L’amchur può essere acquistato presso i negozi di specialità indiane o
tramite Internet e viene commercializzato con il nome di amchur, amchoor
o polvere di mango verde. Si mantiene bene per circa un anno se chiuso in
un contenitore ermetico e riposto in un luogo fresco e lontano dalla luce.

L’AMCHUR IN CUCINA

Provate a considerare il mango acerbo macinato comé un’alternativa


esotica (e secca) agli agrumi. Ha un sapore agro ma è molto più delicato del
limone. Lo si può utilizzare come qualsiasi altro agente acidulante nei
sottaceti, nei chutney o in salse e condimenti.
L’amchur è inoltre eccellente se lo si combina a miscele di spezie asciutte
quando si necessita di un sapore agro per dare equilibrio. Ecco di seguito
qualche altro suggerimento per cucinare con questa spezia:

• Utilizzatelo nelle marinate in combinazione o in alternativa al succo di


limone. È particolarmente indicato per i tagli di carne dura.
• Per ottenere un aroma più intenso, spolverizzatelo sulle verdure al vapore
come fareste con il limone.
• Aggiungetene un pizzico al burro fuso servito su gamberi o astici al
vapore.
• Spolverizzatelo su carne e verdure per kebab prima di grigliarle.
• Aggiungetelo alle vostre ricette di chutney di frutta preferite.
• Distribuitelo sulle insalate di cetrioli e cipolla marinati.
Anice. Il digestivo per eccellenza

Se mettete piede nell’osteria di un piccolo villaggio lungo le coste del


Mediterraneo, con ogni probabilità vedrete degli anziani signori intenti al
quotidiano rituale di sorseggiare pastis (in Francia), ouzo (in Grecia) o raki
(in Turchia).
Tipicamente consumate dopo il pasto, tali bevande sono digestivi dallo
spiccato sapore di anice, una spezia dall’aroma simile a quello della
liquirizia tradizionalmente impiegata per calmare i dolori di stomaco e
facilitare la digestione.
Gli scienziati hanno scoperto che il composto spasmolitico presente
nell’anice è l’anetolo, il che rappresenta un ennesimo fattore a vantaggio
della dieta mediterranea che la rende uno dei regimi alimentari più salutari
al mondo.

UN RILASSAMENTO CHE NASCE DALL’INTERNO

Se si osservano gli uomini immersi nel loro rituale a metà giornata, è


evidente che sono contenti e rilassati, intenti a godersi la reciproca
compagnia. Tale rilassamento, tuttavia, si esplica anche all’intemo
dell’organismo; la ricerca ha dimostrato che l’anetolo rilassa il sistema
nervoso parasimpatico deputato al controllo della muscolatura del tratto
digerente. Di fatto, quando gli scienziati riscontrarono per la prima volta le
proprietà calmanti dell’anice, dichiararono che «l’effetto rilassante legittima
(l’uso dell’anice) nella medicina popolare».
Ma non solo: l’anetolo ne giustifica anche l’impiego nella medicina
moderna. L’uso dell’anice per trattare i disturbi della digestione è stato
avallato dalle Monografie della Commissione E, l’organismo tedesco che
fornisce linee guida in ambito fitoterapico ai professionisti di tale paese
nell’impiego medicinale delle erbe. Tale commissione scientifica indica che
l’anice può contribuire ad alleviare i seguenti disturbi:
• Alitosi
• Coliche
• Crampi allo stomaco
• Indigestione
• Meteorismo
• Stipsi
L’anice rilassa inoltre la muscolatura del tratto respiratorio, e i semi
possono calmare gli spasmi bronchiali che provocano i sintomi dell’asma.
In un esperimento condotto in Medio Oriente, gli scienziati hanno
osservato che l’anetolo agisce efficacemente nel ridurre gli spasmi digestivi
allo stesso modo dell’atropina (commercializzata come Sal-Tropine), un
farmaco acquistabile su prescrizione medica che viene utilizzato per trattare
spasmi gastrici e intestinali. L’estratto di anice esplica anche effetti analoghi
alla teolillina, un farmaco per l’asma che rilassa la muscolatura del tratto
respiratorio. Scrivendo sul Journal of Ethnopharmacology, i ricercatori
sottolinearono inoltre che l’anetolo presenta proprietà antinfiammatorie che
possono contribuire a calmare gli attacchi di asma.
In un altro studio, alcuni scienziati dell’Arabia Saudita hanno evidenziato
che l’estratto di anice «inibisce completamente la formazione di ulcere» in
animali con danni gastrici. Hanno infatti riscontrato che l’anice arrestava la
formazione di ulcere attraverso almeno quattro differenti meccanismi, tra
cui la riduzione delle secrezioni acide che posvmo irritare il rivestimento
delle mucose gastriche.
In Libano, un tradizionale rimedio contro la stipsi è bere un bicchiere
d’acqua in cui sono stati messi a bagno dei semi di anice - rimedio che gli
scienziati del luogo hanno testato riscontrandone l’efficacia. Gli stessi
ricercatori hanno anche scoperto che i semi di anice contribuiscono alla
conservazione dei liquidi corporei durante la stagione calda, prevenendo
così la disidratazione.

ALLA SCOPERTA DELL’ANICE

Gli antichi romani erano famosi per la loro golosità. Un banchetto tipico
poteva includere carne di cammello, giraffa, cinghiale, ostriche, astici,
scorfani e uccelletti. Dopodiché, per aiutare a digerire il tutto, mangiavano
sempre una fetta di torta cosparsa di semi d’anice detta mustaceus. Oggi, i
discendenti dei romani (nonché altri popoli europei) ottengono il medesimo
effetto – dopo pasti ben più modesti – masticando semi d’anice tostati.
L’anice è noto fin dall’antichità sia come aromatizzante che come
medicina. Nel XIV secolo la domanda commerciale era così alta che il re
Edoardo I d’Inghilterra intravide un’opportunità per aumentare le entrate e
la dichiarò una droga tassabile. Il denaro fu poi impiegato per pagare le
riparazioni e la manutenzione del London Bridge.
A parità di peso, l’anice è tredici volte più dolce dello zucchero, il che lo
rende un ottimo candidato per il dessert, sia esso costituito da una manciata
di semi tostati, una torta o un digestivo dopo pasto. Quasi tutti i paesi
europei sembrano avere ognuno un proprio liquore d’anice: oltre al pastis, i
francesi vantano anche l’anisette e il pernod; in Italia i liquori aromatizzati
all’anice sono lo Strega e la Sambuca; in Spagna si beve l’ojen, in Egitto il
kibib, in America Latina l’aguardiente e nel Medio Oriente l’arrak.
Ovviamente esistono anche modi non alcolici di concludere il pasto.
Portoghesi, tedeschi e scandinavi preparano tutti torte e pasticcini speciali a
base di anice, mentre i biscotti all’anice sono una tradizione natalizia sia in
Germania che in Italia.
L’anice è diffuso nella cucina asiatica e in particolare in quella cinese, ma
viene adoperato maggiormente in preparazioni salate anziché dolci. Anche
gli scandinavi lo prediligono nei piatti salati, e lo mettono nel pane di segale
nonché in una gran varietà di carni lavorate. In India, i semi di finocchio
(un’altra spezia dal sapore che ricorda la liquirizia) sono favoriti rispetto
all’anice.
Il gusto dell’anice è riconoscibile anche in sciroppi e pastiglie per la tosse
ove viene utilizzato, ancora una volta, sia come aromatizzante che come
principio medicinale.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Negli Stati Uniti la maggior parte dei semi di anice, di forma ovale e di un
colore che va dal giallo al verde, viene importata dalla Turchia e venduta
intera, spezzata o macinata. In ogni caso, i semi sono così piccoli da non
richiedere alcuna macinatura, e interi è il modo migliore di utilizzarli. Di
fatto, l’aroma dei semi di anice comincia a perdere intensità piuttosto
presto; pertanto, qualora vengano acquistati macinati, è bene utilizzarli nel
giro di pochi mesi (se avete in casa dell’anice macinato rimasto in dispensa
per parecchio tempo, vi consiglio di gettarlo via). I semi interi si
mantengono per circa tre anni in un contenitore ermetico riposto al buio.
La pianta dell’anice, una pianta annuale e dai fiori bianchi, cresce in quasi
tutte le zone a clima caldo, tra cui la Grecia, l’Africa del Nord, la Spagna,
l’Italia, Malta, l’America Centrale e la Turchia. State attenti quando vedete
dell’anice fresco in vendita: molto spesso ì semi di finocchio freschi
vengono erroneamente etichettati come anice.

L’anice può contribuire a prevenire e/o curare:

Alitosi Mal di stomaco


Asma Meteorismo
Coliche Stipsi
Disidratazione Ulcera
Indigestione

L’ANICE IN CUCINA

L’inconfondibile gusto liquiriziato dell’anice è simile a quello dei semi di


finocchio ma è più delicato e non lascia alcun retrogusto.
Negli Stati Uniti è soprattutto apprezzato nei dolci ma può essere anche
impiegato nelle preparazioni salate. È possibile tostarlo e soffriggerlo con
altre spezie per esaltare arrosti, curry, sughi al pomodoro e verdure stufate.
È anche possibile utilizzarlo per aromatizzare torte salate, salse, marinate,
condimenti per insalate e salsicce. Altri suggerimento per gustare l’anice:

• Aggiungete qualche seme pestato per equilibrare il sapore di salse e


gravy particolarmente saporiti.
• Nella preparazione del pane, pestate leggermente i semi prima di
aggiungerli all’impasto.
• Unite un pizzico o due di semi di anice alle minestre di verdura, alle torte
salate di pollo e ai frutti di mare in guazzetto.
• Cospargete i semi sulla superficie delTimpasto per il pane, i panini dolci
o le frittelle.
• Mettete una scodellina di semi di anice da usare come condimento sul
vassoio dei formaggi.
Anice stellato. Leggiadria e salute

Se le spezie dovessero partecipare a un concorso di bellezza, la corona


andrebbe all’anice stellato, per l’incarnato dai riflessi ramati, la figura soda,
le curve al loro posto e il profumo invitante. Il suo aspetto letteralmente da
«star» – una stella a otto punte dai carpelli snelli che accolgono ognuno un
seme – la rendono la spezia più affascinante al mondo. Ma la sua bellezza
non si ferma di certo alla sola superficie.

LA DIFESA UFFICIALE CONTRO L’INFLUENZA

Per migliaia di anni, i medici che praticavano la Medicina Tradizionale


Cinese hanno utilizzato questa spezia dal sapore liquiriziato per liberare le
mucose delle vie aeree (la spezia è un classico espettorante, ossia un agente
che diluisce e fluidifica il muco di modo che possa essere espettorato, cioè
eliminato tossendo), per l’artrite, come aiuto digestivo per alleviare gas e
gonfiore di stomaco e per stimolare l’appetito.
Oggigiorno, un composto presente nell’anice stellato viene impiegato
come «agente starter» per l’oseltamivir (Tamiflu), il farmaco antivirale più
comunemente prescritto per il trattamento dell’influenza – un fattore che
recentemente ha indotto un notevole aumento del prezzo di questa già
costosa spezia durante la pandemia di influenza suina. Il composto in
questione è l’acido shikimico, prodotto naturalmente dall’anice stellato in
quantità abbondanti. Occorrono oltre 13 chili di anice stellato per ottenere
mezzo chilo scarso di acido shikimico.
Tuttavia, questo composto è solo uno dei tanti che gli scienziati hanno
individuato, e che continuano a scoprire, nella spezia. Al pari dell’acido
shikimico, tali sostanze possono contribuire a combattere le infezioni, sia di
origine virale che batterica o micotica, e lo stato infiammatorio che il
processo infettivo porta inevitabilmente con sé. Primo fra tutti è l’anetolo,
l’olio volatile (nonché un valido antiossidante) che conferisce alla spezia il
suo caratteristico aroma dolce simile alla liquirizia. L’anetolo è lo stesso
composto che dà sapore al comune anice, sebbene le due spezie non siano
botanicamente correlate.
Vediamo ora alcuni modi in cui la spezia ha dimostrato di saper
combattere i microbi in laboratorio.
Virus di Epstein-Barr. Un gruppo di ricercatori giapponesi ha scoperto
che l’anice stellato è in grado di inibire la crescita del virus responsabile
della mononucleosi.
Shock settico. Nell’ambito di un esperimento condotto su animali, alcuni
ricercatori coreani hanno notato che i composti presenti nell’anice stellato
possono ridurre la pericolosità dello shock settico, un’infezione batterica a
livello sistemico con esito spesso letale.
Eikenella corrodens. Questo batterio, che si insedia nella mucosa orale e
nell’apparato respiratorio, è responsabile dell’insorgenza di infezioni da
morsi e può scatenarsi anche in individui affetti da tumori a carico del capo
e del collo. Alcuni ricercatori italiani hanno riscontrato che i composti
presenti nell’anice stellato ne arrestavano la crescita.
Herpes simplex (HSV 1). Quando un gruppo di ricercatori tedeschi studiò il
virus che causa l’herpes labiale, notò che un principio attivo dell’anice
stellato era in grado di limitare l’infettività virale del 99%.
HIV. Alcuni ricercatori in Cina e in Germania hanno notato che i composti
presenti nell’anice stellato esercitano un’attività antagonista contro il virus
resnonsabile dell’HIV e dell’AIDS.
Epatite B. I ricercatori cinesi hanno scoperto che i composti dell’anice
stellato possono debellare il virus responsabile di questa infezione a carico
del fegato.
Streptococcus mutans. Un’altra équipe di scienziati cinesi ha scoperto
che nuovi composti isolati nell’anice stellato mostrano un’attività
significativa contro i batteri del cavo orale che causano la carie dentaria.
Tumori. Un’altra ricerca di laboratorio ha evidenziato che i composti
dell’anice stellato uccidono le cellule tumorali e riducono il danno inferto
alle cellule cerebrali.

La caduta di una stella


Qualche anno fa l’anice stellato fu rimosso dagli scaffali di numerose
nazioni dopo che vari operatori sanitari di Stati Uniti, Italia, Spagna e
Olanda ricevettero telefonate assai allarmate da parte di genitori, i quali
riferivano che bambini e neonati si ammalavano quando utilizzavano
l’anice stellato come rimedio casalingo per alleviare disturbi respiratori e
calmare le coliche. Vennero riferiti settanta casi di questo genere con
sintomi anche gravi, tra cui crisi epilettiche, che tuttavia scomparivano nel
giro di due o tre giorni; non vi furono rapporti di disturbi a lungo termine.
Un’indagine svolta a livello internazionale indicò finalmente come
responsabile un impostore: l’anice stellato giapponese - una varietà del tutto
simile nell’aspetto ma tossica -aveva contaminato una fornitura di tè di
anice stellato. Ogni sospetto nei confronti della vera spezia venne a cadere,
e la Food and Drug Administration (l’ente statunitense per il controllo degli
alimenti e dei farmaci) riconfermò l’anice stellato come alimento sicuro
adatto al consumo umano.

ALLA SCOPERTA DELL’ANICE STELLATO

L’anice stellato è una spezia che deriva dal frutto di un albero sempreverde
originario della Cina, e non sarebbe esagerato affermare che è uno dei più
importanti ingredienti – se non il principale – della cucina cinese, la firma
aromatica che contraddistingue quasi tutte le cucine regionali della Cina.
Ad esempio, è l’aroma che conferisce all’anatra alla pechinese e alle costine
di maiale cinesi quel gusto peculiare che i cuochi americani trovano tanto
difficile da imitare ai propri fornelli.
Lo chef della tradizione cinese avvolge l’anice ; stellato in un sacchetto di
mussolina e lo immerge nel «brodo maestro», un brodo che continua a
bollire e ad essere rimescolato man mano che viene usato e vengono
aggiunti nuovi ingredienti. Di fatto, questo brodo può rimanere in uso per
mesi o persino anni; non per nulla, uno dei suoi nomi tradizionali è «salsa
dei mille anni».
Molte famiglie cinesi hanno una ricetta propria per tale brodo e
considerano gli ingredienti un segreto di famiglia da custodire gelosamente.
L’anice stellato, insieme alla cannella, è altresì un ingrediente essenziale
del famoso metodo di brasatura della scuola di Shanghai detto «cottura
rossa», nonché un elemento fondamentale della celeberrima polvere Cinque
spezie cinese ed altre miscele di spezie di ispirazione asiatica.
L’anice stellato viene adoperato con quasi altrettanta frequenza nelle
cucine del Vietnam e della Malesia, nelle quali, oltre a figurare nelle
minestre, nelle marinate e negli stufati, viene macinato e utilizzato insieme
ad altre spezie per insaporire arrosti e carni alla griglia. È altresì un
ingrediente importante della minestra di manzo vietnamita chiamata pho,
mentre gli abitanti della Malesia lo adoperano per conferire dolcezza ai
curry.
In Thailandia l’anice stellato viene combinato ad altre spezie nella
preparazione del tè.
Tale spezia è altresì popolare in India, dove viene usata nella cucina
Kashmiri.
Si è dovuto attendere il XVII secolo perché l’anice stellato venisse
introdotto in Europa, ove oggi è più diffuso come spezia per aromatizzare
prodotti di pasticceria, marmellate, sciroppi e digestivi.

L’anice stellato può contribuire a prevenire e/o curare:

Carie dentaria Epatite B


Herpes labiale HIV/AIDS
Influenza Mononucleosi
Shock settico Tumori

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

L’originale aspetto dell’anice stellato lo rende facile da identificare: un


frutto composto da otto baccelli uniti tra loro, detti carpelli, contenenti
ognuno un seme e disposti a forma di stella. È possibile acquistare il frutto
intero, in pezzi o macinato.
Durante l’acquisto scegliete frutti con la stella intatta. In effetti, si tratta
più di una questione estetica che non un problema di sapore o freschezza; la
presenza di pezzi rotti non è necessariamente sintomo di scarsa freschezza
quanto, piuttosto, che i frutti non sono stati trattati con cura durante la
spedizione o l’imballaggiò.
Per verificarne la freschezza, basta rompere un carpello e stringerlo tra le
dita finché il seme non esce; a quel punto, dovreste percepire
immediatamente l’aroma. Se viceversa non sentite profumo, significa che
l’anice è vecchio.
Fino a qualche anno fa l’anice stellato era considerato una spezia da
intenditori ed era difficile reperirla nei normali supermercati. Attualmente la
maggior parte dei negozi se ne rifornisce; in alternativa potete sempre
trovarlo nelle botteghe di prodotti indiani e asiatici. Una confezione da 110
grammi può costare una cifra qualsiasi tra i quattro e i dieci euro a seconda
di dove lo acquistate.
I frutti interi dell’anice stellato hanno lunga durata e si mantengono per
cinque anni se riposti in un vasetto di vetro con il coperchio a tenuta
ermetica. La versione macinata dura un anno nelle stesse condizioni di
conservazione.
L’anice stellato giapponese, che i cinesi definiscono «erba pazza», non
viene commercializzato in quanto è tossico. Ciò nonostante si sa che alcune
partite di anice stellato sono state contaminate dalla varietà giapponese.
Assicuratevi dunque di acquistare la spezia da un negoziante di fiducia. Il
vero anice stellato presenta sempre otto carpelli, mentre quello giapponese
ne ha dieci o anche più e, anziché profumare di liquirizia, sa di trementina o
alcol denaturato.

L’ANICE STELLATO IN CUCINA

L’anice stellato è dolce grazie alla notevole quantità di anetolo, che risulta
essere tredici volte più dolce dello zucchero; inoltre, ha un sapore intenso,
liquiriziato con un accenno di cannella e chiodo di garofano, e dunque ne
basta poco per cucinare. Un frutto intero o un pizzico di spezia macinata è
sufficiente per aromatizzare una sauté di verdure. Se se ne adopera troppo,
il piatto rischia di diventare amaro.
Uno dei segreti della cucina cinese è il modo in cui gli chef utilizzano
l’anice stellato quando preparano le carni, ossia lo lasciano brasare
lentamente in salsa di soia e cipolla, il che sviluppa zolfo e composti
aromatici fenolici che ne intensificano il sapore.
Il frutto a stella non è commestibile di per sé, ad eccezione della forma
macinata, ma molti cuochi lo recuperano dalla pentola per presentarlo come
decorazione sul vassoio o nel piatto. Viceversa, i semi sono commestibili e
hanno un interessante aroma di noce. Quando macinate l’anice stellato,
utilizzate sia i carpelli che i semi.
Ecco alcune idee per arricchire la dieta di anice stellato:

• Adoperatelo nelle minestre, negli stufati e nelle casserole che richiedono


una lunga cottura.
• Mettetelo in pentola quando preparate pollo e anatra arrosto.
• Aggiungetelo al liquido di cottura per brasati di carne e pesce.
• Aggiungete dell’anice stellato quando fate cuocere mele o prugne.
• Unitelo al liquido di cottura per le ricette di pollo o pesce lessato.
• Preparate una miscela da spennellare sulla carne di pollo o sulla
selvaggina mescolando 2 frutti di anice stellato macinati, 1 cucchiaio di
zucchero, 1 cucchiaino di semi di senape nera, 10 grani di pepe nero e 1
cucchiaino di sale. Queste dosi forniscono circa 1/4 di tazza e sono
sufficienti per ricoprire un animale intero.
Assafetida. Un leggendario antinfluenzale

Affermare che l’assafetida sia un gusto acquisito è quasi un eufemismo. In


effetti, l’odore solforoso (pensate alla puzza di aglio e cipolla che si
sprigiona quando si suda) è così intenso che anche solo socchiudere un
barattolo di assafetida in polvere lascia un odore acre nell’aria per ore, ma
fortunatamente si stempera con la cottura. L’assafetida viene prodotta dalla
resina di una pianta originaria del Medio Oriente.
Tuttavia l’odore stesso (foetida in latino significa puzzolente) è anche ciò
che ha consentito all’assafetida di svolgere un ruolo leggendario durante la
pandemia influenzale del 1918 negli Stati Uniti. L’influenza spagnola,
altrimenti conosciuta all’epoca come la Grande Influenza, devastò il mondo
per venti mesi uccidendo quasi cento milioni di persone – in America ne
morivano diecimila la settimana. In quel periodo, migliaia di persone si
aggiravano per le vie delle città portando un sacchettino di assafetida
dall’odore davvero pestifero legato al collo, cercando in tal modo di tenere
lontana l’infezione (nonché gli sconosciuti infetti). A quell’epoca, la U.S.
Pharmacopeia, un’organizzazione che dettava gli standard farmacologici,
approvò la spezia quale rimedio contro l’influenza.
Ma torniamo rapidamente al 2009 e ad alcuni laboratori siti in Egitto e
Taiwan.

LA MINACCIA DELL’INFLUENZA

L’influenza spagnola infettò il globo quasi un secolo fa, ma le descrizioni


della sua devastazione dominarono ancora una volta i mezzi di
informazione nel 2009 quando una nuova pandemia influenzale – quella
suina – scoppiò in Messico e si diffuse rapidamente in tutto il mondo.
All’epoca della stesura di questo libro, il tasso di infezione e decessi
dovuti all’influenza suina era irrisorio se paragonato a quello della
spagnola, tuttavia i due episodi hanno alcune caratteristiche in comune:
entrambi minacciavano soggetti in giovane età, più che le persone anziane,
ed entrambi erano influenze di tipo A (il tipo denota il livello di gravità, ove
«A» è il grado peggiore) con un sottotipo H1N1 (il sottotipo denota il genere
di virus).
Alcune équipe di ricercatori in Egitto e Taiwan analizzarono rapidamente
la maleodorante spezia per capire se poteva essere un degno avversario
contro l’influenza suina. E così fu, o almeno nei laboratori in cui
l’assafetida uccise il virus più efficacemente dell’amantadina (Symudine),
uno dei farmaci antivirali prescritti per il trattamento di tale affezione. Sulla
rivista della American Chemical Society, il Journal of Natural Products, i
ricercatori affermarono che i composti a base di assafetida «hanno buone
prospettive e possono fungere da componenti principali per lo sviluppo di
nuovi farmaci» contro l’influenza suina.

UN’ARMA PER FERMARE IL CANCRO

L’assafetida si annuncia all’olfatto grazie a una vasta quantità di composti


solforosi Gli scienziati, seguendo la pista principale dell’uso tradizionale
come medicina in numerose parti del mondo, hanno isolato centinaia di
composti attivi e stanno cercando di capire quali di essi possiedano
proprietà preventive e curative. Tuttavia, a prescindere da quali siano i
principi attivi dell assafetida, sono indubbiamente efficaci contro i tumori.
Una delle équipe di ricercatori che schierarono l’assafetida contro
l’influenza suina condusse anche uno studio sulla sua capacità di
combattere i tumori. Mescolando la spezia a cellule di carcinoma
polmonare, mammario, epati co e del cavo orale, osservarono una riduzione
dell’attività cancerosa pari al 50%. I ricercatori ipotizzarono che i
polifenoli, ossia potenti agenti antiossidanti presenti nell’assafetida simili a
quelli reperibili nel tè verde, nel vino rosso e nel cioccolato fondente,
potrebbero essere i fattori in grado di mettere finalmente il cancro con le
spalle al muro.
Anche alcuni studiosi indiani hanno analizzato le potenzialità antitumorali
della spezia e hanno scoperto che rallenta la formazione di tumori cutanei in
animali da laboratorio. Inoltre incrementa i livelli ematici di antiossidanti
antitumorali.
Infine, nell’ambito di uno studio sul carcinoma mammario, alcuni
scienziati indiani hanno osservato che l’uso di assafetida nell’alimentazione
di animali da laboratorio «ha come risultato una riduzione significativa» del
numero e della dimensione dei tumori indotti mediante somministrazione di
sostanze chimiche tossiche. «Tali risultati denotano il grande potenziale
dell’assafetida (nella prevenzione dei tumori)», conclusero in un articolo
pubblicato su Breast Cancer Researeh and Treatment.

La campagna anti-fumo di un medico

L’odore acre della collana di assafetida che aveva portato per tutta la
durata dell’epidemia di influenza spagnola era ancora presente nella
memoria di un otorinolaringoiatra di Filadelfia quando, nel 1975, propose
una nuova soluzione per aiutare la gente a smettere di fumare: alterando
cioè le sigarette con il sapore dell’assafetida.
Egli basò la sua ipotesi sul metodo del riflesso condizionato di Pavlov: se
le sigarette avessero avuto un sapore di assafetida anziché di tabacco, la
gente avrebbe iniziato a detestare l’aroma delle sigarette. E così fu.
Per tale esperimento il medico reclutò 21 fumatori tra i 23 e i 60 anni di
età che avevano fumato abitualmente circa un pacchetto di sigarette al
giorno per una media di 36 anni. Le istruzioni erano semplici: un istante
prima di accendere la sigaretta, dovevano mettere sotto la lingua una
pastiglia di assafetida e tenerla finché fumavano. Ogni soggetto ebbe in
dotazione 100 pastiglie, sufficienti a coprire cinque pacchetti di sigarette.
Nell’arco di una settimana, l’82% dei fumatori aveva smesso. Il solo atto di
portare una sigaretta alla bocca «suscita un senso di nausea e (il paziente)
non accende nemmeno la sigaretta», spiegò il dottor Albert P. Seltzer sul
Journal of the National Medical Association.
Quattro anni più tardi, tutti gli ex fumatori non avevano ancora
ricominciato a fumare.

UN COADIUVANTE DELLA DIGESTIONE

L’assafetida non solo è un ingrediente fondamentale della cucina indiana,


ma è anche una delle ragioni per cui lenticchie, fagioli e altri alimenti che
producono gas intestinali sono così ben tollerati nella dieta di tale paese. In
uno studio comparso sul Journal of Ethnopharmacology, alcuni scienziati
del Medio Oriente riferiscono che tale spezia rilassa la muscolatura del
tratto gastrointestinale. Due altri studi evidenziano che l’ingestione regolare
di assafetida può contribuire ad alleviare i sintomi della sindrome
dell’intestino irritabile, ivi inclusi i crampi intestinali, il gonfiore e la
formazione di gas.

L’assafetida può contribuire a prevenire e/o curare: influenza, intestino


irritabile, meteorismo, tumori.

ALLA SCOPERTA DELL’ASSAFETIDA

Quando si tratta di definire l’assafetida, una spezia prodotta dalla resina di


una pianta originaria dellTran e dell’Afghanistan, ci si può trovare di fronte
a posizioni a dir poco antitetiche: alcuni nomi popolari includono sia sterco
del diavolo che cibo degli dei! Il motivo principale è che l’assafetida è
maleodorante quand’è cruda ma diventa dolcemente aromatica se sottoposta
a cottura, con un sentore simile alle cipolle o all’aglio cotti.
Tale profumo è una presenza quotidiana nelle cucine del territorio indiano,
nepalese e parte del Medio Oriente. Un pezzo di resina di assafetida della
grandezza di una noce è quasi sempre presente sotto i coperchi delle pentole
in cui cuociono lenticchie, cavoli, cavolfiori, cavolini di Bruxelles ed altri
cibi spesso accusati di produrre flatulenza. L’assafetida è altresì usata con
frequenza per insaporire curry indiani, polpettine di carne macinata
chiamate kofta e il pappadam, il pane fritto della cucina locale. È inoltre un
ingrediente fondamentale della miscela di spezie indiana detta chaat masala,
adoperata nella preparazione di contorni e snack.
Gli iraniani sfregano l’assafetida sui piatti riscaldati usati per servire la
carne. In Afghanistan i cuochi cospargono la carne di sale e assafetida per
renderla più tenera.
Sebbene sia praticamente sconosciuta nell’ambito dell’arte culinaria
occidentale, non è escluso che ne abbiate un po’ nella credenza di cucina:
corrono voci che sia una spezia segreta e non indicata sull’etichetta della
famosa salsa Worcester…
CONSIGLI PER L’ACQUISTO

L’assafetida viene commercializzata in svariate forme, tra cui la resina


solida, in pasta e in polvere. Consiglio caldamente di acquistare la
confezione in polvere: per i nuovi adepti la resina solida può essere difficile
da gestire, come pure la pasta. Anche la polvere richiede un dosaggio
prudente, come verrà spiegato tra breve.
La polvere può essere di due colori: marroncino chiaro e gialla. La varietà
gialla è di sapore leggermente meno intenso in quanto il colore è dato dalla
curcuma, una spezia dalla tonalità giallo oro. L’assafetida gialla si combina
più facilmente ad altri ingredienti.
La resina varia di tonalità dal rosso scuro al marrone. È opportuno evitare i
prodotti dall’aspetto quasi nero in quanto è segno di scarsa freschezza.
Esistono due varietà di assafetida: hing e hingra. La hing è considerata
superiore tra le due in ragione dell’aroma più intenso.
Come scoprirete ben presto, la sfida più ardua non è acquistare la spezia,
bensì conservarla. Se non viene riposta correttamente, l’odore acre
dell’assafetida cruda può dominare il ristretto ambiente dello stipetto in cui
conservate le spezie e contaminare altri ingredienti. Un modo per contenere
l’odore è chiudere la spezia in un doppio involucro: tenete il contenitore
ermeticamente chiuso e ponetelo in un secondo contenitore ermetico o in
una busta di plastica richiudibile.

L’ASSAFETIDA IN CUCINA

Come già sottolineato, per quanto venga ridicolizzata a causa


dell’implacabile lezzo fuori dalla pentola, l’assafetida si placa in pentola
conferendo un lieve sapore dolce al cibo. Vi avviso, tuttavia, che ce ne
vuole molto poca per ottenere un simile effetto. Un pizzico è tutto ciò di cui
avete bisogno, persino se state preparando un curry o uno stufato per
numerosi ospiti.
Il modo migliore di utilizzare la polvere consiste nel friggerla in olio
all’inizio della cottura; tale accorgimento disperderà l’odore prima di
aggiungere gli altri ingredienti.
Basilico. Il giardino della giovinezza

Il basilico vanta sicuramente molto più dell’esplosione di gusto che si


verifica quando si addentano le fresche foglie estive. Tanto per cominciare,
può contribuire a mantenervi giovani.
In uno studio condotto sul basilico e l’invecchiamento, alcuni ricercatori
indiani hanno scoperto che i composti presenti in questo beniamino della
cucina neutralizzano determinate molecole note come radicali liberi.
Queste circolano indisturbate per l’organismo e producono un danno
ossidativo (una sorta di «ruggine» interna) corrodendo arterie, deteriorando
neuroni ed erodendo il DNA, che rappresenta un possibile fattore scatenante
dei tumori.
«Lo studio convalida l’impiego tradizionale del basilico nella medicina
ayurvedica quale sostanza che promuove la giovinezza», riferisce il dottor
Shinde alla conferenza tenutasi a Londra. La medicina ayurvedica è l’antico
sistema indiano di tutela della salute e di terapia naturale in cui il basilico
veniva impiegato non solo per ritardare l’invecchiamento, ma anche come
rimedio per il diabete, disturbi della digestione, affezioni cutanee, infezioni
e persino il morso dei serpenti.
Benché i ricercatori avessero studiato il basilico sacro, una varietà
originaria dell’India, tuttavia le oltre 30 varietà di basilico esistenti
contengono tutte i medesimi fitonutrienti eccezionalmente salutari, ivi
inclusi l’orientina e la vicenina (due agenti antiossidanti) nonché l’eugenolo
e l’apigenina (due oli volatili, cioè i composti concentrati che conferiscono
alla pianta il suo sentore caratteristico). Gli studi dimostrano che questi ed
altri composti presenti nel basilico possono contribuire a prevenire o trattare
una vasta gamma di condizioni cliniche.

UNA SPEZIA PER DEBELLARE LO STRESS

Quando un individuo è sotto stress – bloccato nel traffico, preoccupato per


il conto in banca, rimproverato dal capoufficio – le ghiandole surrenali
producono i cosiddetti ormoni dello stress, ossia il collisolo e l’adrenalina.
A breve termine questi danno una «carica» all’organismo consentendogli di
gestire la situazione ma, a lungo termine, indeboliscono il sistema
predisponendolo alla comparsa di disturbi banali quanto un raffreddore
oppure estremamente gravi come una cardiopatia. Di fatto, gli studi
dimostrano che un periodo di stress prolungato può causare o complicare
quasi tutti i problemi di salute.
Tuttavia, alcuni ricercatori indiani hanno riscontrato che svariati composti
presenti nell’estratto di basilico esplicavano «effetti anti-stress» su animali
da laboratorio stressati. Il basilico normalizzava i livelli di cortisolo,
riduceva la glicemia (che subisce un picco quando si è sotto stress),
diminuiva la creatina chinasi (un enzima che viene prodotto quando
l’organismo subisce un pesante stress, ad esempio durante un attacco
cardiaco) e arrestava l’ipertrofia surrenalica, segno di sovraffaticamento
delle ghiandole surrenali. In uno studio analogo, un’altra équipe di studiosi
espose gli animali a uno stress acustico protratto e i ricercatori scoprirono
che quelli a cui era stato somministrato il basilico presentavano livelli di
cortisolo decisamente inferiori.

UN AIUTO PER IL CUORE DANNEGGIATO

I ricercatori indiani hanno studiato alcuni animali in cui era stato indotto
un infarto, riscontrando così che l’estratto di basilico ne proteggeva il cuore
«migliorando il meccanismo di difesa antiossidante dell’organismo e
diminuendo la produzione di radicali liberi». Il basilico, conclusero gli
esperti in un articolo comparso su una rivista americana, «può avere un
potenziale valore terapeutico nel trattamento dell’infarto». Altri studi di
laboratorio dimostrano che l’estratto di basilico è in grado di ridurre i livelli
ematici di sostanze lipidiche dannose per il cuore, ivi inclusi i valori di
colesterolo totale, le lipoproteine a bassa densità (colesterolo LDL) e i
trigliceridi.

UN MONDO DI CURE

Tra gli altri disturbi che il basilico può contribuire a prevenire o curare
citiamo quanto segue.
Acne. Il basilico è in grado di uccidere i batteri che provocano l’acne,
secondo quanto riferito in uno studio pubblicato su riviste specialistiche. I
ricercatori giunsero alla seguente conclusione: «I risultati indicano la
possibilità di utilizzare il basilico tailandese, il basilico comune e il basilico
sacro in opportune formule per il trattamento dell’acne e la cura della
pelle».
Tumori. Studi di laboratorio condotti in India hanno evidenziato che
l’attività antiossidante del basilico «può potenzialmente bloccare o
sopprimere» tumori a carico del fegato, dello stomaco e dei polmoni.
Diabete. Uno studio pubblicato sulla rivista Journal of
Ethnopharmacology riferisce che l’estratto di foglie di basilico «ha prodotto
un calo significativo dei livelli di glicemia» in animali da laboratorio affetti
o meno da diabete.
Disturbi oculari. Secondo uno i colliri contenenti basilico e numerosi altri
composti naturali hanno contribuito ad alleviare i sintomi di disturbi oculari
in oltre il 90% degli individui che utilizzavano farmaci da banco. Le gocce
sono state impiegate in condizioni di secchezza oculare, congiuntivite
(occhi arrossati), dacriocistite (un’infezione della palpebra inferiore) e per
favorire il processo di recupero da interventi di cataratta. Il prodotto testato
è Ophthcare, una formula ayurvedica.
Dolori. Annusando del basilico fresco o essiccato, soprattutto della varietà
nota come Ocimum basilicum – il basilico comune –, si nota un leggero
sentore di chiodi di garofano. La fonte di tale aroma è l’eugenolo, il
medesimo composto che fa dell’olio di chiodi di garofano un efficace
antidolorifico. L’eugenolo agisce inibendo la cicloossigenasi (COX), ossia
l’enzima responsabile del dolore che viene normalmente inibito da farmaci
antin-fiammatori non steroidei (FANS) come l’aspirina, l’ibuprofene e il
naprossene.
Rimarginazione delle ferite. Alcuni ricercatori indiani hanno riscontrato
che l’estratto di foglie di basilico accelera il processo di rimarginazione
delle ferite. Sulla rivista Indian Journal of Experìmental Biology hanno
concluso che il basilico «potrebbe rappresentare un agente terapeutico
quanto mai economico per il trattamento delle ferite».
Gotta. Da ricerche condotte su animali in India è emerso che il basilico
riduce i livelli di acido urico, ovvero la sostanza responsabile del dolore e
dell’infiammazione nei casi di gotta.
Ulcere. Studi in vivo condotti su animali hanno dimostrato che il basilico
sacro inibisce la formazione delle ulcere riconducibili a stress e
all’assunzione di antinfiammatori non steroidei.
Malaria. Un preparato ayurvedico contenente foglie di basilico sacro
fresco e pepe nero ha contribuito ad alleviare i sintomi della malaria.

Il basilico può contribuire a prevenire e/o curare:

Infezioni oculari Malaria


Secchezza oculare Stress
Trigliceridi Acne
Colesterolo Congiuntivite
Diabete di tipo 2 Dolori
Ferite Tumori
Ulcera Gotta
Infarto

ALLA SCOPERTA DEL BASILICO

Sebbene il basilico sia uno dei condimenti più accreditati e versatili, non si
affermò nelle cucine degli americani fino agli anni Settanta, quando la
popolazione iniziò a frequentare abitualmente i ristoranti italiani e scoprì
che il sugo della pasta non doveva essere necessariamente rosso.
Oggigiorno il pesto, preparato con basilico comune (il tipo più
frequentemente usato in America), olio di oliva, pinoli e aglio, è diffuso
quanto il sugo rosso alla marinara.
Molte persone pensano che il basilico sia di origine italiana in quanto
viene sovente associato al pomodoro e cresce copioso lungo le coste del
Mediterraneo, ma di fatto è originario dell’India, dell’Asia Sud-Orientale e
del Nordafrica.
In passato la reputazione del basilico ebbe alti e bassi. Per gli italiani era il
simbolo dell’amore: un vaso di basilico sul davanzale di una ragazza era
segno che il corteggiamento da parte di uno spasimante era cosa gradita. Se
un uomo rumeno accettava un rametto di basilico da una donna, venivano
considerati fidanzati. Viceversa, gli antichi greci guardavano al basilico con
sospetto, forse per la sua assonanza con la parola basilisco, una creatura
mitologica mortale.
In ambito gastronomico, storicamente il basilico era per lo più utilizzato
nella regione italiana della Liguria, che include Genova, dove fu inventato il
pesto. Non molto distante da lì, nella regione della Provenza francese, i
cuochi erano soliti preparare un sugo al basilico molto simile denominato
pistou, che include aglio e talvolta pomodoro ma mai pinoli, e viene usato
per condire le minestre anziché la pasta. Ai giorni nostri, in Francia i)
basilico è altresì entrato a far parte di pàté e terrine di fegato, in quanto gli
oli volatili ne equilibrano la pienezza del gusto. Inoltre, nel bacino del
Mediterraneo, il basilico è privilegiato nelle preparazioni di pesce e salse
per il pesce.
Il basilico sacro e quello tailandese vengono comunemente adoperati nella
cucina orientale. È un aroma diffuso nelle cucine dell’Asia Sud-Orientale,
soprattutto del Vietnam, dove viene impiegato in quasi tutti i tipi di piatti:
minestre, insalate, sauté, carni in umido, curry e condimenti vari. I
giapponesi coltivano una sorta di basilico detto shiso, utilizzato nei rotolini
di sushi e nelle insalate, nonché fritto in pastella nei tempura.
Il basilico è una pianta riverita in India, ove veniva tradizionalmente
piantato attorno ai templi e impiegato nelle cerimonie religiose; le radici
venivano persino usate per intagliare i grani dei rosari, da cui il nome di
basilico sacro o tulsi. In alcuni sposalizi, i genitori portano all’altare la
sposa e una foglia di basilico in dono. In inverno gli indiani bevono un tè al
basilico chiamato tulsi ki chah, preparato con foglie di basilico sacro,
zenzero sminuzzato e miele.
I semi del basilico diventano gelatinosi quando vengono mescolati
all’acqua, caratteristica che assicura vere e proprie avventure culinarie. In
Thailandia, infatti, i semi di basilico vengono adoperati per preparare un
diffuso dessert a base di latte chiamato mang nak lam ka-ti, mentre in Iran e
Afghanistan, sono impiegati in un preparato simile al sorbetto.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Oltre ad essere famoso ovunque, il basilico è una bella pianta


lussureggiante con foglie piene di color verde scuro: colto fresco può
profumare una stanza quanto un bouquet di fiori. Cresce rigoglioso finché
lo si tiene al caldo, ben innaffiato e se ne colgono le punte per evitare che
fiorisca e faccia semi. È una pianta che ama il calore e avvizzisce ai primi
freddi.
Il basilico può essere acquistato fresco, essiccato, o in forma di pasta
sott’olio. Sebbene il basilico comune sia la varietà più diffusa, è possibile
acquistare pianticelle di basilico fresco di varietà differenti. A tale
proposito, conviene rivolgersi ai negozi di agraria locali.
Il basilico fresco disponibile nei supermercati è di tipo comune; durante
l’acquisto è meglio evitare le foglie già appassite o che presentano macchie
scure. Sebbene lo si possa conservare in frigorifero, avvolto in un
canovaccio appena inumidito, in ogni caso la refrigerazione non è il metodo
di conservazione più adatto in quanto il basilico inizia ad appassire dopo
pochi giorni.
È invece possibile congelare il basilico fresco, anche se è un’operazione
un po’ complicata. Un metodo intelligente è quello di radunare le foglie
fresche e metterle in un sacchetto di plastica trasparente senza schiacciarle,
riempire d’aria il sacchetto e legarlo ben stretto. Vi consiglio di porre il
sacchetto su un piano del freezer in modo che le foglie non vengano
ammaccate, e di prelevarle volta per volta a seconda delle necessità. Potete
anche tagliare rametti interi di basilico dal giardino e congelarli allo stesso
modo.
Il basilico essiccato non ha la stessa esuberante fragranza di quello fresco,
tuttavia le foglie disidratate presentano una forte concentrazione di olii
volatili salutari, una caratteristica di quando si apre il vasetto. Il basilico
essiccato è altresì migliore per le ricette a cottura lunga e dolce. In tal caso,
consiglio di cercare un prodotto di colore verde scuro uniforme.
Il basilico essiccato si conserva bene per sei mesi qualora chiuso in un
contenitore ermetico riposto in un luogo asciutto e lontano dalla luce diretta
del sole.
Il basilico sacro è disponibile anche come integratore alimentare.
Attenzione: studi condotti su animali indicano che l’estratto di basilico
assunto in notevoli quantità può avere effetti controproducenti sulla fertilità
sia nell’uomo che nella donna. Qualora una persona o una coppia intenda
avere un figlio, oppure in periodo di gravidanza, è opportuno astenersi
dall’assunzione di integratori. Come per tutti gli integratori trattati in questo
libro, l’uso va subordinato all’approvazione e alla supervisione di un
medico qualificato.

LE VARIETÀ DEL BASILICO

Non esiste un solo basilico, bensì se ne conta una immensa varietà di


piante che, botanicamente parlando, appartengono tutte alla famiglia
Ocimum e di cui soltanto alcune vengono utilizzate come spezia in cucina.
Queste sono le varietà di basilico che potete trovare nei negozi specializzati:
• Il basilico comune è la varietà più conosciuta negli Stati Uniti e in
Europa ed è di gran lunga la più diffusa a scopo culinario. Ha un sapore
pieno e dolce che richiama vagamente la menta, con un sentore di anice e
chiodo di garofano. È di colore verde brillante.
• In tempi più recenti, il basilico comune è stato ibridato per ottenere altre
varietà dagli aromi complessi che ne riflettono il nome: il basilico cannella,
il basilico limone e il basilico anice.
• Il basilico tailandese, altrimenti conosciuto come basilico bianco o
basilico Anise, ha un aspetto simile al basilico comune ma presenta steli
scuri con nervature violacee. Molti chef amano usarlo per le note
aromatiche più intense che ricordano l’anice e un profumo speziato che non
si ritrova nel basilico comune.
• Il basilico sacro, chiamato anche tulsi, viene coltivato in India dove è
considerato una pianta sacra e viene adoperato con scarsa frequenza come
spezia in cucina. Vanta una quantità di eugenolo superiore rispetto ad altre
varietà e, pertanto, ha un profumo pungente, simile a quello dei chiodi di
garofano (anche il chiodo di garofano contiene eugenolo). Le foglie sono
più piccole rispetto al basilico comune, con una sfumatura violacea, e la
pianta produce fiori color malva quando è pronta per fare seme. Tra tutte le
varietà di basilico è l’unica perenne.
• Il basilico delle Indie Occidentali ora viene coltivato in numerose parti
del mondo, sia come spezia che per tenere lontane le zanzare. Anch’esso ha
un profumo che richiama i chiodi di garofano.
• Il basilico dal fiore verde, o tè della Sierra Leone, viene coltivato e
utilizzato nelle regioni dell’Africa Occidentale. È la meno aromatica tra
tutte le varietà di basilico edibili.
• Il basilico violetto presenta due varietà, la Purple Ruffle e la Dark Opal,
che si possono talvolta scorgere nell’insalata servita nei ristoranti più
raffinati. Ha un profumo e un sapore più lieve del basilico comune.

IL BASILICO IN CUCINA

Anche se lo coltivate fresco voi stessi, conviene sempre avere un vasetto


di basilico essiccato in dispensa. Il basilico fresco è splendido se consumato
al naturale ma non si adatta molto bene alla cottura, specialmente se
prolungata, in quanto l’aroma si disperde facilmente. È inoltre un’erba
aromatica difficile da gestire poiché si scurisce se la foglia viene
ammaccata o se tagliata col coltello. Il mio consiglio è di aggiungere il
basilico fresco solo agli ultimi minuti di cottura. Se una ricetta richiede del
basilico fresco tritato, sminuzzatelo con le dita.
Ecco due tra i modi migliori per apprezzare il basilico fresco: prendete una
manciata di foglie intere e mettetele direttamente sulla pasta calda
condendo il tutto con olio extravergine di oliva, oppure mettete delle foglie
di basilico fresco tra una fetta di pomodoro – meglio se estivo e maturato
sulla pianta – e una di mozzarella, quindi condite con una spolverata di
pepe nero macinato fresco e un filo di olio extravergine di oliva.
Benché il basilico essiccato abbia un profumo molto carico, una volta in
pentola l’aroma non è così penetrante quanto l’odore sembra suggerire, per
cui potete usarne una buona dose. È particolarmente adatto alla
preparazione di sughi dal sapore pieno e intenso.
Il basilico vanta un’affinità naturale con il pomodoro. Il suo spiccato
sapore si associa bene ad altri sapori altrettanto marcati come i pomodori al
forno, i peperoni arrosto e l’olio di oliva.
Ian Hemphill, un esperto australiano di erbe e spezie, offre il seguente
suggerimento per rendere il sapore del basilico essiccato più simile a quello
fresco: mescolate 1/2 cucchiaino di basilico con 1/2 cucchiaino di succo di
limone, 1/2 cucchiaino di acqua, 1/2 cucchiaino d olio e un pizzico di chiodi
di garofano in polvere. Lasciate riposare per qualche minuto prima dell’uso.
Ed ecco qualche altra idea per arricchire di basilico la vostra dieta:

• Aggiungete del basilico ai panini imbottiti, sul formaggio alla piastra, ai


tramezzini al pomodoro ed altri tipi di tramezzino.
• Inserite delle foglie di basilico fresco in una bottiglia di aceto bianco da
usare come condimento per le insalate insieme a dell’olio di oliva.
• Abbinate il basilico fresco a menta, foglie fresche di coriandolo e lattuga,
germogli di fagiolo e peperoncini freschi per un piatto di insalata
vietnamita.
• Aggiungete foglie di basilico alle sauté all’ultimo momento prima di
spegnere il fuoco.
• Preparate una tisana mettendo in infusione nel tè verde o nero foglie di
basilico tritate.
• Per fare il pesto, mettete 1 tazza di foglie fresche di basilico, 1 tazza di
parmigiano, 1/2 tazza di pinoli e 5 spicchi d’aglio in un frullatore o un robot
da cucina. Frullate aggiungendo olio di oliva a filo (circa 1/4 di tazza)
finché il composto non raggiunge una consistenza cremosa. Adoperate il
pesto sulla pastasciutta, sulla carne grigliata o sul pesce. Aggiungetene un
cucchiaio alle minestre mescolando all’ultimo minuto.
• Preparate un pistou con lo stesso procedimento del pesto utilizzando però
solo foglie di basilico, 4 spicchi d’aglio e sale, e lasciando da parte il
formaggio e i pinoli. Gustate il pistou sul salmone freddo o caldo, le
bistecche arrosto o grigliate, i pomodori a fette o le bruschette.
• Per preparare una vinaigrette al basilico di accompagnamento a un carré
d’agnello o un arrosto d’agnello, ponete nel frullatore 1/4 tazza di sugo di
cottura della carne, 1/2 tazza ben stipata di foglie di basilico e 3 cucchiai di
aceto di vino bianco. Accendete il frullatore e incorporate lentamente 2
cucchiai di olio di oliva. Un attimo prima di servire, aggiungete 2 cucchiai
di olio extravergine di oliva, sàie e pepe quanto basta ed emulsionate bene.
• Per il pollo è possibile preparare una marinata con una bella manciata di
basilico fresco o, in alternativa, un cucchiaio di basilico essiccato, sale e
aglio tritato in olio extravergine di oliva, succo di limone e acqua in parti
uguali.
• Avvolgete i gamberetti in una foglia di basilico fissandola con uno
stuzzicadenti e serviteli con la classica salsa cocktail.
• Per evitare che insellate verdi già preparate ed altri cibi freschi si
deteriorino subito, soprattutto quando fa caldo, aggiungete del basilico
fresco oppure del basìlico essiccato al condimento o alla vinaigrette di base.
Cacao. Che bontà!

Quando si seppe la notizia, oltre una decina di anni fa, sembrava troppo
bello per essere vero: il cioccolato, il dolce sinonimo di decadenza
culinaria, era in effetti qualcosa di salutare.
Uno alla volta, gli studi scientifici hanno cominciato a comparire sulle
riviste mediche, studi così vivacemente provocatori da fare notizia in tutto il
mondo. «Il cioccolato: un cibo salutare?», meditava il New York Times nel
2000. «Il cioccolato fa bene», annunciava da Londra il Sunday Minor nel
2003. «Cioccolato: la sesta principale industria alimentare», dichiarava un
settimanale di Washington D.C. nel 2008. Un anno dopo, una rivista
specializzata deU’industria dolciaria pubblicava un articolo di copertina
sulle tavolette di cioccolato che andavano a ruba sugli scaffali dei
supermercati di tutta l’America. In effetti, i titoli dei giornali che
inneggiavano al cioccolato quale «nuovo cibo salutare» eccitarono il cuore
e la mente (e le papille gustative) di molti americani.
Ciò nonostante, non prendete troppo sul serio questi titoli. Non è il
cioccolato in sé a fare bene alla salute bensì il cacao, cioè la spezia in
polvere che dà al cioccolato il sapore di, insomma, cioccolato. Tutta la
salutare bontà di una tavoletta di cioccolato si concentra nel cacao. La verità
è che un quadretto di cioccolato è salutare solo nella misura in cui contiene
cacao.
Il cacao, la spezia, è una delle fonti più ricche di flavanoli, composti
vegetali che contribuiscono a proteggere il cuore in molti modi. Studio
dopo studio, la scienza ha dimostrato che i flavanoli del cacao contrastano i
radicali liberi che danneggiano le cellule, preservano l’integrità delle
membrane cellulari, proteggono il DNA, prevengono la formazione di
placche ateromatose, migliorano la circolazione nel distretto cardiaco,
abbassano la pressione e prevengono la formazione di coaguli che possono
provocare infarti o ictus.

I KUNA, GLI AMANTI DEL CACAO


Saremmo ancora qui a mangiare cioccolato con una punta di rimorso se
non fosse per gli indiani Kuna, gli abitanti delle remota isola di San Blas al
largo delle coste di Panama. Nel 1997 i ricercatori del Brigham and
Women’s Hospital di Boston (associato alla Facoltà di Medicina di
Harvard) furono i primi a notare che l’ipertensione era una condizione
praticamente sconosciuta a San Blas, l’isola in cui gli alberi di cacao
crescono allo stato naturale e il cacao, derivato dai frutti di tale albero, è
uno degli elementi base del regime alimentare locale. E normale per un
Kuna di 65 anni avere la pressione di un ventenne o un trentenne! E ciò non
è dovuto a un corredo genetico refrattario all’ipertensione, poiché tra i Kuna
che si trasferiscono sulla terra ferma a Panama e adottano la tipica dieta
panamense si riscontra il medesimo tasso di ipertensione e malattie
cardiovascolari che affligge il resto della nazione.
Qual è dunque il motivo? Il fatto è che i Kuna consumano molto cacao; in
effetti, così tanto da costituire l’apporto più elevato di flavanoli in assoluto
rispetto a tutte le altre popolazioni. Tìpicamente bevono quattro o cinque
tazze di cacao al giorno come bevanda, senza contare il cacao che
aggiungono al cibo. I ricercatori ritengono che la dieta ricca di cacao
contribuisca anche a giustificare un altro aspetto fenomenale della loro
salute: il tasso di morte per disturbi cardiovascolari, ictus, diabete e cancro
nell’isola di San Blas è decisamente inferiore a quello del vicino stato di
Panama e della maggior parte del mondo.
Tale fatto venne alla luce quando i ricercatori della Facoltà di Medicina di
Harvard tornarono a San Blas qualche anno dopo per confrontare le cause
di morte tra gli individui da sempre vissuti sull’isola e deceduti qualche
anno prima con quelle dei residenti a Panama. Rispetto alla popolazione
stanziale di San Blas, il tasso di morte per infarto tra i panamensi era sei
volte più alto, l’incidenza di ictus risultò essere diciassette volte superiore e
il numero di decessi per cancro diciotto volte più alto. Di fatto, un individuo
che rive a San Blas ha maggiori probabilità di morire di malaria, tubercolosi
o influenza che non di una qualsiasi delle sei principali cause di morte
osservate nei paesi industrializzati. E gran parte del merito va al cacao.

PERCHÉ LE ARTERIE ADORANO IL CACAO


L’elevato contenuto di flavanoli del cacao protegge le cellule epiteliali che
rivestono la parete interna delle arterie. Tali cellule producono ossido di
azoto, un composto chimico fondamentale per il benessere e il nutrimento
delle arterie. L’ossido di azoto rilassa e dilata i vasi sanguigni, favorendo il
flusso ematico e abbassando la pressione; inoltre, impedisce alle piastrine
di aggregarsi, prevenendo in tal modo la formazione dei coaguli
responsabili della maggior parte di infarti e ictus.
Tale sostanza ostacola la formazione di placche da parte delle cellule della
muscolatura liscia delle arterie e contribuisce persino a ridurre la placca una
volta formatasi.
L’ossido di azoto svolge una funzione importante non soltanto a livello
cardiaco, ma partecipa anche alla regolazione dell’insulina, l’ormone che
convoglia il glucosio dal sangue alle cellule. Livelli di insulina ben
bilanciati sono un fattore fondamentale per prevenire il diabete di tipo 2.
Ricordiamo poi che la condizione di prediabete, ossia il riscontro di valori
glicemici superiori alTintervallo normale ma non ancora così elevati da
porre una diagnosi definitiva di diabete, viene anche definita insulino-
resistenza. Inoltre, l’ossido di azoto contribuisce a uccidere le cellule
tumorali prima che si radichino nell’organismo.
La presenza di elevati livelli di ossido di azoto aumenta dunque le
probabilità di un’esistenza longeva, e grandi quantità di cacao stimolano la
produzione di ossido di azoto.

UN CUORE IN FORMA

Decine di studi dimostrano che gli individui che consumano cacao e il suo
ricco contenuto di flavanoli – bevuto stemperandone la polvere in acqua o
mangiato come cioccolato fondente (con un contenuto di cacao stabilito
pari al 74%) – sono più in forma dal punto di vista cardiovascolare rispetto
a quanti non ne fanno uso. Di seguito troverete un campione
rappresentativo dei quasi 200 studi condotti sul cacao nell’ultimo decennio.
Riduzione del colesterolo. In uno studio che coinvolgeva 160 soggetti, i
ricercatori giapponesi diedero da bere del cacao con un elevato contenuto di
flavanoli e del cacao con un basso contenuto di flavanoli; gli individui che
consumarono il primo registrarono un calo sostanziale del colesterolo LDL
(il colesterolo «cattivo») e un aumento del colesterolo HDL (quello
«buono»).
Riduzione dell’ossidazione delle LDL. La placca che va ad ostruire le
arterie si forma solo quando le lipoproteine a bassa densità (LDL) vanno
incontro a ossidazione produca rido una sostanza vischiosa che aderisce alle
pareti arteriose. I ricercatori dell’Università di Stato della Pennsylvania
hanno scoperto che l’aggiunta di cioccolato alla dieta tipica americana
ridurrebbe l’ossidazione delle LDL dell’8%.
Abbassamento della pressione. Analizzando dieci studi sul cacao ad alto
contenuto di flavanoli e ipertensione, condotti su 300 soggetti, un’équipe di
scienziati tedeschi ha notato che il consumo regolare di cacao aveva la
caratteristica di abbassare i valori pressori con una media di 4,5 mm/Hg per
la sistolica (valore della massima) e 2,5 mm/Hg per la diastolica (valore
della minima).
Miglioramento della circolazione. Nell’ambito di uno studio che
coinvolse 39 uomini in perfetta salute, un’équipe di ricercatori giapponesi
suddivise i partecipanti in due gruppi: uno dei due consumò cioccolato
fondente ricco di flavanoli, l’altro cioccolato bianco privo di tali composti.
Dopo due settimane, i soggetti che avevano mangiato cioccolato fondente
vennero sottoposti a un test di misurazione del flusso ematico arterioso e
presentarono un miglioramento del 22%. Sull’International Journal of
Cardiology i ricercatori scrissero che «l’apporto di cioccolato fondente ha
migliorato significativamente la circolazione coronarica in soggetti adulti
sani».
Fluidificazione del sangue. I medici del Centro di Ricerca per la
Trombosi della Johns Hopkins University hanno somministrato del
cioccolato fondente a 28 soggetti sani per sette giorni monitorandone i
livelli di attività piastrinica (la tendenza del sangue a formare coaguli che
ostruiscono le arterie). In base ai test, l’attività piastrinica era calata del
27%. Quanti avevano mangiato cioccolato fondente avevano anche
registrato ima riduzione delle lipoproteine a bassa densità (LDL) del 6% e un
aumento delle lipoproteine ad alta densità (HDL) del 9%.
Aumento dei livelli di ossido di azoto. Alcuni ricercatori tedeschi diedero
da mangiare a 44 uomini e donne di età compresa tra i 56 e i 73 anni piccole
quantità di cioccolato fondente e osservarono il costante aumento di un
bioindicatore dei livelli di ossido di azoto. In capo a 18 settimane, la
percentuale di soggetti partecipanti allo studio che soffriva di pressione alta
si ridusse dall’86% al 68%.
Arterie più flessibili. La malattia cardiovascolare in passato veniva
definita «indurimento delle arterie», e si sa che le arterie rigide sono
sinonimo di arterie malate. Alcuni ricercatori greci studiarono quasi 200
persone e osservarono una positiva correlazione tra aumentato apporto di
cacao e «scarsa rigidità delle arterie». I risultati furono pubblicati sulla
rivista American Journal of Cardiology.
Riduzione della proteina C-reattiva (PCR). Questo bioindicatore
dell’infiammazione è stato correlato alle patologie cardiovascolari. Quando
alcuni ricercatori italiani analizzarono i dati clinici e nutrizionali relativi a
un anno di circa 5000 persone, scoprirono che quanti consumavano
regolarmente cioccolato fondente presentavano livelli di PCR inferiori. Sul
Journal of Nutrition scrissero che «il consumo regolare di piccole quantità
di cioccolato fondente può ridurre l’infiammazione».
Riduzione del rischio di patologie cardiovascolari. La somma di tutti i
benefici finora contemplati offre un risultato davvero molto positivo.
Quando alcuni ricercatori olandesi analizzarono una mole di dati clinici e
nutrizionali pari a un periodo di 15 anni, relativi a 470 persone dai 65 anni
in su, notarono che quanti seguivano una dieta ricca di cacao avevano la
metà delle probabilità di morire per malattie cardiovascolari rispetto alle
persone che consumavano poco cacao o se ne astenevano.
Inoltre, quando un’équipe di ricercatori della Harvard School of Public
Health esaminò 137 studi sulla correlazione tra flavanoli e patologie
cardiovascolari, risultò che l’apporto più elevato di flavanoli derivati dal
cioccolato era correlato a un rischio di cardiopatia coronarica inferiore del
19% rispetto all’apporto più basso.
Sopravvivenza post-infarto. Il cioccolato fornisce protezione anche dopo
un infarto. Analizzando i dati nutrizionali dei partecipanti allo Stockholm
Heart Epidemiology Program relativi a un periodo di otto anni, un’équipe
di ricercatori svedesi individuò uno schema interessante: dei 1169 soggetti
coinvolti nello studio che avevano subito un infarto, quelli che avevano
consumato cioccolato almeno due volte a settimana prima dell’infarto
presentavano una percentuale di probabilità molto bassa (solo del 27%) di
morire entro gli otto anni successivi rispetto a quanti non avevano mai
mangiato cioccolato. «Per contrasto», scrissero «non vi era alcuna
correlazione tra tasso di mortalità per eventi cardiovascolari e apporto di
dolci di altro tipo».
Riduzione del rischio di ictus. Alcuni ricercatori canadesi hanno
analizzato diversi studi e riscontrato che nei soggetti che consumavano
cioccolato una volta alla settimana la percentuale di probabilità di incorrere
in un ictus si era abbassata del 22% rispetto agli individui che non ne
mangiavano; inoltre, osservarono che il consumo regolare di cioccolato
riduceva del 46% anche il rischio di morte dopo un episodio di ictus.

IL CIOCCOLATO «DÀ ALLA TESTA»

Una circolazione sanguigna buona non è solo cruciale per la salute del
cuore, ma è anche indispensabile per un cervello sano.
Nutrimento della materia grigia. A 16 soggetti in salute fu chiesto di
bere una bevanda al cacao ricca di flavanoli e successivamente di eseguire
un test mentale mentre i ricercatori ne monitoravano l’attività cerebrale
mediante risonanza magnetica funzionale. (fMRI). Gli studiosi osservarono
un marcato aumento del flusso sanguigno e, sulla rivista Journal of
Cardiovascular Pharmacology, riferirono quanto segue: «Il cacao, ricco di
flavanoli, è in grado di aumentare l’afflusso di sangue alla materia grigia
cerebrale, suggerendo pertanto una potenziale collocazione dei flavanoli nel
trattamento della demenza e degli ictus».
«La prospettiva di incrementare l’irrorazione cerebrale (afflusso di sangue
al cervello) mediante i flavanoli del cacao è estremamente promettente»,
riferirono altri ricercatori della Facoltà di Medicina di Harvard in un altro
articolo scientifico pubblicato sullo stesso numero della rivista.
Più energia mentale. Nell’ambito di uno studio, i flavanoli del cacao
furono somministrati sotto forma di bevanda a 30 individui prima di
eseguire sei test mentali della durata di 10 minuti l’uno, da svolgersi
nell’arco di un’ora. I soggetti ottennero risultati migliori in alcuni dei test e
con minore fatica mentale.
Anziani più brillanti. Alcuni ricercatori norvegesi sottoposero vari test
mentali standardizzati per valutare l’efficienza cognitiva e la memoria a
oltre 2000 soggetti di età compresa tra i 70 e i 74 anni, partecipanti a uno
studio sulla salute svoltosi nel lungo periodo che ne osservava il regime
alimentare. Gli anziani con l’apporto alimentare di cioccolato più alto
ottennero i risultati migliori nei test.

ULTERIORI CURE OFFERTE DAL CACAO

Può il cacao fare bene per ciò che vi affligge, indipendentemente da cosa
vi affligge? Moltissime persone risponderebbero di sì, e senza alcuna prova
scientifica a supporto! Ma potrebbero non essere distanti dalla verità.
Diabete. A fronte di un consumo quotidiano di circa 30 grammi di
cioccolato fondente (ricco di flavanoli) da parte di soggetti sani per un
periodo di una settimana, è stato evidenziato un miglioramento della
«sensibilità insulinica», ovvero la capacità delle cellule di rispondere
all’ormone che controlla la glicemia. Come menzionato in precedenza,
l’insulino-resistenza è uno dei primi segni di sviluppo del diabete di tipo 2.
Rughe. Invecchiamento fotoindotto è il termine scientifico che sta a
indicare rughe, macchie scure ed altri difetti della cute dopo anni di
esposizione ai raggi ultravioletti (UV) del sole. In uno studio condotto su 30
soggetti, il consumo di cioccolato ricco di flavanoli per tre mesi ha più che
raddoppiato la resistenza della pelle al danno inferto dai raggi UV. «Il nostro
studio dimostra che il consumo regolare di un cioccolato ad elevato
contenuto di flavanoli apporta una significativa fotoprotezione ed è pertanto
efficace nel proteggere la cute umana dagli effetti nocivi dei raggi UV»,
conclusero i ricercatori sul Journal of Cosmetic Dermatology. «Il cioccolato
non esplica alcun effetto analogo».
Pelle più morbida. In un altro studio sul cacao e i suoi effetti sulla pelle,
le donne che per tre mesi consumarono una bevanda a base di cacao ad
elevato contenuto di flavanoli presentavano una pelle meno ruvida e
desquamata rispetto ad altre donne che consumarono una bevanda di cacao
ma a basso contenuto di flavanoli.
Preeclampsia. Questo quadro clinico caratterizzato da ipertensione
durante la gravidanza colpisce il 5% delle donne incinte e può rappresentare
una grave minaccia per la vita sia della madre che del bambino. Studiando
quasi 3000 donne in stato di gravidanza, alcuni ricercatori dell’Università di
Yale hanno notato che le donne che mangiavano abitualmente cioccolata
presentavano un rischio minore di sviluppare preeclampsia rispetto a quelle
che non ne mangiavano mai; la percentuale di rischio si abbassò del 19%
nel primo trimestre di gravidanza e del 40% nel terzo trimestre.
Resistenza fisica. Nell’ambito di un esperimento, a 9 ciclisti professionisti
fu chiesto di pedalare fino all’esaurimento delle forze su una cyclette; quelli
che bevvero latte con cacao prima di iniziare riuscirono a pedalare più a
lungo, mostrando una resistenza superiore fino al 51 % rispetto agli atleti
che assunsero altri tipi di bevande sportive.

QUALE CIOCCOLATO? MEGLIO IL FONDENTE

Volete proteggere il cuore, nutrire il cervello, bilanciare la glicemia e


rendere più luminosa la pelle? Ebbene, non mangiate cioccolato, o meglio,
non il cioccolato al latte o quello bianco. Ricordate sempre che i benefici
recati alla salute dal cioccolato derivano dai flavanoli presenti nel cacao, e
che il cacao in polvere (ricco di flavanoli) o il cioccolato fondente – il tipo
che contiene almeno il 60% di cacao o, in condizioni ideali, non meno del
74% – è l’unico modo per garantire un apporto di flavanoli all’organismo.
Un’équipe di ricercatori dell’Università di Stato della Pennsylvania lo ha
dimostrato ricorrendo alla misurazione della quantità di flavanoli presenti
nel sangue di due gruppi di persone amanti del cioccolato, uno dei quali
consumò 1 etto di cioccolato fondente al giorno e l’altro la stessa quantità di
cioccolato ma al latte. Dopo due settimane, i livelli ematici di flavanoli nei
soggetti che avevano consumato cioccolato fondente era incrementato del
20%, mentre la percentuale rimase invariata nei consumatori di cioccolato
al latte.
Il latte presente nelle tavolette di cioccolato al latte potrebbe addirittura
vanificare l’effetto dei flavanoli. Tale è la conclusione a cui sono giunti
alcuni ricercatori in Italia e in Scozia, i quali hanno scoperto che il latte,
aggiunto per rendere più morbido e cremoso il cioccolato, lega i flavanoli
ostacolandone l’assorbimento da parte dell organismo. Quando i ricercatori
chiesero ad alcune persone di mangiare del cioccolato fondente
accompagnato da un bicchiere di latte, i livelli ematici di flavanoli non
aumentarono.
D’altro canto, il cacao fornisce un apporto concentrato di flavanoli,
consentendo di evitare i grassi e le calorie presenti in una tavoletta di
cioccolato. Ad esempio, 30 grammi (una porzione) di cioccolato fondente
contiene 155 calorie, 9 grammi di grassi e 185 mg di flavanoli. Un
cucchiaio di cacao in polvere – la sostanza utilizzata in molti studi di ricerca
– contiene circa 20 calorie, meno di 1 grammo di grassi e
approssimativamente 1,8 grammi di flavanoli. Analogamente ad altre
spezie, il cacao di per sé sostanzialmente non incide sull’apporto di calorie
giornaliero, ma può far salire notevolmente i livelli di nutrienti che
proteggono la salute.
In altre parole, potete tranquillamente consumare cacao senza timore di
acquistare peso! In uno studio condotto da ricercatori della Facoltà di
Medicina dell’Università di Yale, 44 soggetti in sovrappeso bevvero una
bevanda a base di cacao, con o senza zucchero, per sei settimane e non
acquistarono peso. Queste furono le conclusioni degli esperti pubblicate
sull’Intemational Journal of Cardiology. «Lo studio suggerisce che adulti
sani in sovrappeso possono consumare cacao nell’ambito del regime
alimentare quotidiano senza riscontrare effetti indesiderati sul peso
corporeo».

ALLA SCOPERTA DEL CACAO

La storia delle varie spezie in genere ha come protagoniste le antiche


civiltà dell’Egitto, della Grecia, di Roma, dell’India e della Cina. Tuttavia,
anche i maya, gli aztechi ed altre antiche popolazioni del Messico,
dell’America Centrale e del Sudamerica diedero vita a grandi e prospere
civiltà, e la spezia che veneravano era il cacao.
Gli aztechi lo definivano «il cibo degli dei» e riverivano le loro divinità
con bevande cerimoniali dette tchacahoua. La preparazione della bevanda
costituiva un elaborato rituale: i semi venivano estratti dalle cabosse, tostati,
ridotti in polvere mediante grosse pietre, e la polvere veniva poi aggiunta
all’acqua bollente insieme a miele, mais macinato, annatto e peperoncini
rossi; la mistura veniva quindi rimescolata lentamente sul fuoco fino ad
ottenere un beverone spesso e schiumoso. Si narra che in un’occasione
l’imperatore Montezuma abbia bevuto cinquanta tazze di tchacahoua da
una coppa d’oro.
Il cioccolato fu importato in Europa dagli spagnoli nel XV secolo, ove
venne riservato al consumo di aristocratici e teste coronate. Con l’avvento
del XVII secolo, in Inghilterra aprirono le prime «botteghe del cioccolato»,
dove il cioccolato era a disposizione di quanti potevano economicamente
permetterselo.
La Reale Marina Britannica soleva preparare una bevanda a base di cacao
chiamata kye per tenere svegli i marinai durante le guardie notturne; la
preparazione di tale intruglio era considerata un’arte che richiedeva un
periodo di apprendistato per perfezionarla. Il kye era considerato
sufficientemente potente e pronto da bere quando raggiungeva una
consistenza tale da infilarci un cucchiaio e farlo rimanere dritto.
Alcuni dei primi consumatori di cacao europei ne lodarono le proprietà
terapeutiche. Secondo il libro La vera storia del cioccolato, un testo
dell’epoca dichiarava che il cacao «ristorava il fegato, aiutava la digestione
e rendeva forti e felici». Il medesimo testo affermava, precorrendo la
scienza, che il cacao guariva il «mal di cuore».
Gli europei adottarono la spezia anche nella loro cucina. Una vecchia
ricetta siciliana di lasagne, ad esempio, include scaglie di cioccolato non
zuccherato nel sugo di carne. I cuochi spagnoli preparano il brasato di
coniglio e di piccione utilizzando vino e cacao, e combinano anche
cioccolato in polvere, latte e burro in una salsa di accompagnamento per
l’astice al vapore.
Inutile dire che il cacao è ancora immensamente popolare nelle Americhe.
Cacao e cannella sono una delle bevande più diffuse in Messico, ove molte
persone ne fanno un uso quotidiano. Il cacao viene aggiunto a zuppe di
pesce, zuppe di mais, basi per salse speziate dette sofritos e miscele di
spezie denominate recados. È anche un ingrediente essenziale del mole, una
rinomata salsa piccante. Una delle varianti più complesse di tale salsa è il
mole negro, originario di Oaxaca, che include oltre venti ingredienti e
richiede ore di preparazione.
In America, il cacao spicca per la sua presenza in innumerevoli
prelibatezze dolci, tuttavia un pizzico di cacao, o poco più, costituisce
anche il segreto di molte ricette di chili vincitrici di premi nei concorsi che
si tengono ogni anno in varie cittadine degli Stati Uniti.
Il cacao deriva dalle fave contenute all’interno del frutto dell’albero del
cacao.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO


L’albero del cacao, una pianta che produce grossi frutti contenenti le fave
di cacao, è originario del Messico, dell’America Centrale e del Sudamerica,
ma attualmente viene coltivato anche in Africa Occidentale, nello Sri
Lanka, a Giava e in Malesia.
Le fave di cacao grezze sono estremamente amare e praticamente
immangiabili. Per trasformarle in cioccolato, vengono fatte fermentare,
quindi vengono essiccate e tostate. A questo punto la fava viene decorticata
portando a nudo i cotiledoni che, a loro volta, verranno macinati a caldo per
liberare i grassi che daranno consistenza fluida alla massa di cacao o liquore
di cacao. La massa viene poi ulteriormente lavorata per ottenere la massa
base per il cioccolato o burro di cacao; quest’ultimo è un ingrediente
presente nella maggior parte dei prodotti di cioccolato.
Il cioccolato deriva il suo sapore intenso e astringente dai flavanoli
presenti nel cacao. Quanto più alta è la percentuale di cacao in un prodotto
di cioccolato, più elevato è il contenuto in flavanoli e più intenso il sapore.
Nel cioccolato, tuttavia, i flavanoli vengono diluiti dall’aggiunta di
zucchero e latte, per cui la varietà fondente rappresenta la forma più pura e
salutare di cioccolato. Il fondente con un contenuto del 74% o più di massa
di cacao è il più salutare in assoluto. Se vi interessa avere un cuore più sano,
dunque, non comprate nulla con una percentuale di cacao inferiore al 60%.
Molti tipi di cacao prodotti in Europa (ed alcuni negli Stati Uniti)
subiscono un trattamento denominato processo olandese che conferisce al
cacao un sapore meno amaro. Tuttavia, tale processo riduce la quantità di
flavanoli nel prodotto finale. Il cacao lavorato in questo modo presenta
sfumature di colore che vanno dal marrone chiaro al marrone scuro fin
quasi al nero, e quanto più il colore è scuro, meno amaro è il sapore e più
basso è il contenuto in flavanoli del prodotto. Per l’acquisto del prodotto si
tenga presente che ad una più alta percentuale di cacao corrisponde un
aroma più ricco.

Il cacao può contribuire a prevenire e/o curare:

Morbo di Alzheimer Perdita di memoria


Pressione alta Invecchiamento della pelle
Stanchezza fisica, mentale Colesterolo
Demenza Ictus
Malattie cardiovascolari Insulino-resistenza

IL CACAO IN CUCINA

Il cacao al naturale ha un sapore forte e astringente ma assume un aroma


delicatamente dolce durante la cottura e si armonizza perfettamente con
altre spezie nelle preparazioni salate. In Italia e in Spagna gli chef sono
soliti aggiungere un pizzico di cacao amaro alle basi di cipolla e aglio per i
piatti di pesce e carne.
È possibile aumentare l’apporto di flavanoli e risparmiare su calorie e
grassi sostituendo il cioccolato con del cacao amaro nella maggior parte
delle ricette. Al posto di ogni quadretto da 30 grammi di cioccolato si
possono usare 4 cucchiai di cacao amaro in polvere.
Gli esperti di scienze alimentari erano soliti pensare che la maggior parte
dei flavanoli si perdesse durante il processo di cottura in forno; esperimenti
recenti hanno invece dimostrato che l’impiego del lievito in polvere nelle
ricette mantiene intatti i flavanoli, sebbene l’uso del bicarbonato di sodio
risulti meno conservativo. Secondo lo studio pubblicato sul Journal ofFood
Science, poiché il bicarbonato di sodio è necessario per far lievitare le torte,
sostituendo per metà il bicarbonato con un altro agente lievitante si
ottengono torte ben lievitate e si preservano anche quasi tutti i flavanoli.
Ecco alcune idee per arricchire la vostra dieta di cacao:

• Il cacao si accosta bene alle verdure dolci per natura, quali carote e patate
dolci.
• Aggiungete 1 cucchiaino di cacao amaro in polvere durante la
preparazione di glasse per tali verdure.
• Aggiungete 1 cucchiaio di cacao amaro in polvere al chili con carne.
• Preparate una salutare cioccolata calda alla messicana sciogliendo 1
cucchiaio e mezzo di cacao amaro in polvere, 1 cucchiaio di zucchero, 1/2
cucchiaino di estratto di vaniglia, 1/4 di cucchiaino di cannella macinata e
una presa di chiodi di garofano in 1 quarto di litro d’acqua calda.
• Per preparare una glassa al cioccolato dietetica per guarnire le torte,
mescolate 1/2 tazza di cacao amaro in polvere con 1 tazza di zucchero e 1/2
tazza d’acqua in una casseruola rimestando finché la glassa non cola dal
cucchiaio a filo. Togliete dal fuoco e aggiungete 1 cucchiaio di burro
continuando a mescolare finché la glassa non sarà liscia e di giusta densità.
Cannella. Glicemia in equilibrio

La cannella è la spezia prediletta dai cuochi per conferire un sapore


particolare alle ricette di pasticceria. Forse può suonare ironico, ma la
cannella contribuisce a tenere sotto controllo i problemi di glicemia. O
forse, dal momento che 24 milioni di americani soffrono di diabete di tipo 2
e altri 57 milioni presentano un quadro prediabetico diagnosticato, è il
modo in cui Madre Natura ha voluto darci una chance.

SCONFIGGERE IL DIABETE

Negli Stati Uniti il tasso di incidenza del diabete di tipo 2 è raddoppiato


negli ultimi vent’anni, passando dal 5% al 10% della popolazione adulta e
con 1,3 milioni di nuovi casi all’anno. Questa patologia caratterizzata da
livelli di glicemia cronicamente elevati, con valori di glicemia a digiuno al
di sopra dei 125 milligrammi per decilitro (mg/dL), colpisce le arterie e le
vene aumentando di ben sei volte il rischio di malattie cardiovascolari. In
effetti, le linee guida sanitarie istruiscono i medici di trattare un paziente
affetto da diabete di tipo 2 come se avesse già avuto un infarto! Tale
compromissione del sistema circolatorio sistemico può condurre a numerosi
altri problemi di salute, oltre alle patologie cardiovascolari e all’ictus; tra
questi menzioniamo neuropatie, ulcere cutanee resistenti ai trattamenti,
perdita della vista e cecità, insufficienza renale e persino – dal momento che
il flusso ematico risulta ostacolato – l’amputazione di alluci, piedi e arti
inferiori colpiti da cancrena.
La gestione del diabete di tipo 2 richiede un approccio sistemico che
tipicamente comprende calo ponderale, maggiore consumo alimentare di
cibi integrali, esercizio fisico regolare e assunzione, per via orale o
intramuscolare, di farmaci ipoglicemizzanti come l’insulina, l’ormone
prodotto dal pancreas che controlla i livelli di zuccheri nel sangue. È
possibile prevenire il diabete o invertire il decorso del prediabete (con
valori di glicemia a digiuno compresi tra 100 e 125 mg/dL) semplicemente
agendo sullo stile di vita; come lo studio decennale del Programma di
Prevenzione del Diabete statunitense ha dimostrato, le modifiche apportate
allo stile di vita sono più efficaci dei farmaci assunti a scopo preventivo.
Tuttavia, studio dopo studio, siamo anche pervenuti alla conclusione che la
cannella può trovare una collocazione nella gestione dei livelli di glicemia
(glucosio nel sangue) su base quotidiana e nella riduzione dei fattori di
rischio della malattia cardiovascolare.
Controllo della glicemia a lungo termine. Nell’ambito di uno studio
recente condotto negli Stati Uniti, 109 soggetti affetti da diabete di tipo 2
furono suddivisi in due gruppi: a uno di questi venne somministrato 1
grammo di cannella al giorno e all’altro un placebo. Dopo tre mesi, i
soggetti trattati con cannella registrarono una riduzione dello 0,83% di A1C,
o emoglobina glicosilata, cioè la percentuale di emoglobina dei globuli rossi
che si è legata (glicosilata) al glucosio presente nel sangue e che fornisce il
valore più accurato per stabilire la qualità del controllo metabolico della
glicemia a lungo termine. Un valore pari o inferiore a 7% significa che il
diabete è sotto controllo, una riduzione dallo 0,5% allo 0,10% è considerata
un notevole miglioramento. I soggetti che assunsero il placebo ottennero
una riduzione di A1C dello 0,37%. Sul Journal of the American Board of
Family Medicine, il supervisore dello studio concluse che «l’assunzione di
cannella può essere utile come complemento al consueto trattamento» per il
diabete.
È molto probabile, tuttavia, che la cannella non sia in grado di esplicare
un’azione analoga di controllo nei casi di diabete di tipo 1, una patologia di
carattere autoimmune che colpisce le cellule pancreatiche deputate alla
produzione di insulina. In uno studio condotto presso il Dartmouth College
nel New Hampshire, i ricercatori hanno chiesto a 72 adolescenti affetti da
diabete di tipo 1 di assumere della cannella o un placebo. Dopo tre mesi non
era stato registrato alcun cambiamento a livello di A1C in nessuno dei due
gruppi né una riduzione del dosaggio di insulina che i soggetti dovevano
assumere per tenere sotto controllo la malattia.
Effetto protettivo sul cuore. In un altro studio, 30 pazienti con diabete di
tipo 2 assunsero da 1 a 6 grammi di cannella al giorno
(approssimativamente da 1/4 a 1/2 cucchiaino). In capo a 40 giorni, i livelli
di glicemia a digiuno avevano registrato un calo fino al 29%, e furono
evidenziate diminuzioni fino al 27% di colesterolo LDL (il colesterolo
«cattivo» che provoca l’ostruzione delle arterie), fino al 26% di colesterolo
totale e fino al 30% di trigliceridi (un diverso tipo di lipidi presenti nel
sangue associati a patologie cardiovascolari qualora presenti in quantità
elevate). Tali furono le conclusioni dei ricercatori, pubblicate sulla rivista
Diabetes Care: «I soggetti affetti da diabete di tipo 2 o quelli con elevati
livelli di glucosio ematico, trigliceridi o colesterolo totale hanno
verosimilmente tratto beneficio dall’inclusione della cannella nel regime
dietetico».
I ricercatori osservarono anche che nei partecipanti allo studio i livelli di
glicemia e tri-giiceridi si mantennero bassi anche nei 20 giorni successivi
pur non assumendo nulla, segno che la cannella non deve necessariamente
essere consumata ogni giorno per trarne beneficio.
Gli esperti sottolinearono inoltre che la cannella aveva agito positivamente
a qualsiasi dosaggio sperimentato, da 1 a 6 grammi, e che «l’apporto di una
quantità inferiore al grammo al giorno è verosimilmente in grado di
contribuire al controllo dei livelli ematici di glucosio e lipidi».
Infine, dichiararono che il regolare consumo alimentare di cannella è
probabilmente una scelta appropriata non solo per quanti soffrono di diabete
di tipo 2 ma per chiunque: «La cannella può essere di beneficio al resto
della popolazione per prevenire un innalzamento della glicemia e dei
trigliceridi». E il fatto che abbiano ragione è confermato da svariate prove.
Riduzione dei fattori di rischio di prediabete. Un’équipe di ricercatori
francesi ha studiato 22 persone sovrappeso suddividendole in due gruppi.
Un gruppo assunse un integratore disponibile in commercio (Cinnulin PF)
contenente 250 mg di estratto di cannella idrosolubile, all’altro gruppo fu
somministrato un placebo. Dopo tre mesi, i soggetti che assunsero
l’integratore di cannella presentavano livelli decisamente inferiori per quel
che concerne vari bioindicatori di ossidazione – il devastante processo che
porta alla distruzione delle cellule e contribuisce allo sviluppo sia di diabete
che di malattie cardiovascolari – e a valori inferiori di ossidazione
corrisposero livelli di glicemia più stabili. Sul Journal of the American
College of Nutrition, i ricercatori conclusero che «l’inclusione di composti
idrosolubili di cannella nella dieta potrebbe ridurre i fattori di rischio
associati a diabete e patologie cardiovascolari».
Controllo della sindrome metabolica. Questo quadro clinico, altresì noto
come sindrome da insulino-resistenza o sindrome X, è caratterizzato da alti
livelli di glicemia, obesità addominale, pressione arteriosa alta ed elevati
livelli di trigliceridi (ma non necessariamente di colesterolo LDL). Si tratta
di una forma di prediabete che, inutile dirlo, costituisce un fattore di rischio
nello sviluppo di diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari. La cannella
può contribuire a tenere sotto controllo tale sindrome.
Nell’ambito di uno studio, i 22 soggetti affetti da sindrome metabolica
osservati furono suddivisi in due gruppi: a uno dei due vennero
somministrati 500 mg di Cinnulin PF al giorno, all’altro venne
somministrato un placebo. Dopo tre mesi, i pazienti trattati con cannella
presentavano un calo significativo dei livelli di glicemia a digiuno (un calo
dell’8,4% attestato su un valore di 106), una riduzione della pressione
sistolica (la massima registrò un calo di 4 punti andandosi ad attestare su
128) e un aumento della massa corporea magra, o muscolare. Quest’ultimo
riscontro rappresenta una buona notizia, poiché un aumento della massa
magra è sinonimo di aumentata capacità di bruciare gli zuccheri ematici in
eccesso. Fu inoltre osservata una leggera diminuzione del grasso corporeo.
Tali furono le conclusioni dei ricercatori: «Tale spezia reperibile in natura è
in grado di ridurre i fattori di rischio associati a diabete e patologie
cardiovascolari».
Annullamento dei picchi glicemici dopo pasto. Alcuni ricercatori
svedesi misero sotto osservazione 14 individui sani a cui venne servito il
medesimo cibo due volte al giorno: budino di riso con o senza una generosa
spolverata di cannella. Il budino speziato alla cannella ridusse
significativamente i livelli di glicemia postprandiali.
Benefici negli individui sani. Un’équipe di ricercatori britannici ha
studiato alcuni giovani in buona salute suddividendoli in due gruppi: per
due settimane un gruppo assunse 3 grammi di cannella al giorno e l’altro un
placebo. Al termine di tale periodo, il test di tolleranza al glucosio – ovvero
la capacità dell’organismo di elaborare e immagazzinare glucosio – risultò
essere molto migliorato in quanti avevano assunto cannella, così come
risultò migliore la sensibilità insulinica, vale a dire la capacità di tale
ormone di convogliare il glucosio dal torrente ematico alle cellule.
Il dottor Richard Anderson, uno scienziato del Centro di Ricerca sulla
Nutrizione Umana di Beltsville (dipendente dal Ministero dell’Agricoltura
statunitense) che ha condotto svariati studi sul rapporto tra cannella e
diabete, ipotizza che la spezia simuli l’azione dell’insulina, l’ormone che
regola il glucosio nel sangue. Egli sostiene cioè che la cannella potrebbe
stimolare i recettori insulinici delle cellule adipose e muscolari consentendo
al glucosio in eccesso di trasferirsi dal sangue alle cellule.
Per lo stesso motivo, un’équipe di ricercatori indiani tesse le lodi
dell’aldeide cinnamica – il principio attivo della cannella – che, sulla base
di esperimenti condotti su animali affetti da diabete, ha dimostrato di ridurre
i livelli di glicemia, A1C, colesterolo totale e trigliceridi promuovendo al
tempo stesso un aumento dell’insulina e del colesterolo HDL (quello
«buono»). Tali risultati sono stati pubblicati sulla rivista Phytomedicine.

La vera cannella

Siete sicuri che quella che spolverizzate sul pane tostato o sul porridge
della colazione sia cannella? Attenzione: non è cannella vera, bensì cassia.
La cannella cassia (Cinnamomum cassia) e la cannella vera
(Cinnamomum verum o zeylanicum) appartengono alla medesima famiglia
botanica (Cinnamomum) e sono piante dall’aspetto molto simile, tant’è che
per distinguerle ci vuole un occhio esperto. Tuttavia differiscono nel sapore.
Delle due, la cassia ha un aroma più dolce e intenso ed è più apprezzata
come spezia in ambito culinario nella maggior parte del mondo (inclusi gli
Staci Uniti). È anche la varietà che è stata utilizzata in tutti gli studi
scientifici presentati in questo capitolo.
La cannella cassia viene comunemente adoperata negli Stati Uniti, in
Europa, in Cina e nel Sudest asiatico, mentre la cannella vera la si ritrova
nelle cucine del Messico, dell’America Latina, dell’India e di altri paesi
dell’Asia Meridionale.
In alcune nazioni è di fatto illegale riferirsi alla cassia come a cannella. In
Gran Bretagna e Australia, ad esempio, la Cinnamomum cassia può essere
commercializzata solo come cassia, e la Gnnamomum veruna può essere
venduta solo come cannella. Negli Stati Uniti, la legge consente di
commercializzare entrambe sotto il nome di cannella.
La Francia ha risolto la questione con il solito stile, chiamando tale spezia
cannelle e applicando il nome sia alla cassia che alla cannella vera.
La cassia è altresì conosciuta come cannella cinese, mentre la cannella
vera è nota anche con il nome di cannella regina, cannella di Ceylon o dello
Sri Lanka. Negli Stati Uniti potete trovare la cannella cassia praticamente
dovunque, mentre la cannella vera è reperibile solo nei negozi di prodotti
indiani e nelle drogherie specializzate oppure su internet.

CONTROLLO DELLA POLICISTOSI OVARICA (PCO)

Esiste un’altra patologia in cui i livelli di insulina e glicemia risultano


«impazziti» e la persona che ne soffre è a maggior rischio di diabete di tipo
2, malattie cardiovascolari e ictus: si tratta della policistosi ovarica (PCO).
Questo disturbo ormonale, che negli Stati Uniti colpisce una percentuale
che va dal 5% al 10% delle donne in età riproduttiva, si manifesta con la
formazione di molteplici microcisti sulla parete delle ovaie. I sintomi
includono alterazioni del ciclo mestruale, irsutismo a livello facciale e
corporeo, acne e obesità. Si tratta inoltre della causa più comune di sterilità
nella donna.
In uno studio condotto da ricercatori americani dell’Università della
Columbia in collaborazione con l’Università delle Hawaii e il Ministero
dell’Agricoltura statunitense, a 13 donne affette da PCO venne
somministrato un placebo oppure cannella in dosi da 333 mg tre volte al
giorno. Dopo otto settimane, le pazienti trattate con cannella avevano
registrato un calo del 17% dei livelli di glicemia a digiuno, una notevole
riduzione dell’insuli-no-resistenza e un calo pari al 21% dei livelli di
glicemia dopo un test di tolleranza al glucosio. I ricercatori definirono
questi risultati «promettenti» e incoraggiarono altri scienziati a realizzare
ulteriori studi a convalida di tali osservazioni successivamente pubblicate
sulla rivista Fertility and Sterility.

ANNIENTAMENTO DEI MICROBI

La cannella ha il potere di combattere i microbi, quali funghi e batteri, che


causano malattie.
Preservazione degli alimenti. Effettuando un esperimento di cucina con
due pentole di brodo vegetale, alcuni scienziati hanno dimostrato che la
cannella ha la capacità di preservare i cibi e contribuisce a prevenire
l’avvelenamento da cibo. Gli esperti aggiunsero della cannella solo in una
delle péntole e riposero entrambe in frigorifero, lasciandovele per ben due
mesi. Quando tolsero i coperchi, la pentola a cui non era stata aggiunta
cannella pullulava di batteri. Quanto all’altra, il brodo era in condizioni
sufficientemente buone da poter essere consumato. In effetti, gli scienziati
stessi commentarono che raggiunta di cannella ne aveva persino migliorato
il sapore!
Lotta ai miceti. La cannella è altresì efficace contro la Candida albicans,
il fungo che provoca la maggior parte delle infezioni vaginali da lieviti. In
alcuni test di laboratorio, gli estratti di cannella furono in grado di arrestare
la proliferazione di alcune specie di C. albicans resistenti al fluconazolo
(Diflucan), il farmaco comunemente impiegato nel trattamento della
candidosi.
Guerra ai batteri. Alcuni ricercatori italiani hanno scoperto che la
cannella è efficace nel debellare l’Helicobacter pylori, il batterio
responsabile della maggior parte dei casi di ulcera gastrica nonché causa
principale dei tumori allo stomaco. Di fatto, la ricerca ha dimostrato che la
cannella è più efficace dell’amoxicillina (un antibiotico) nel distruggere l’H.
pylori. Inoltre il batterio non mostra alcuna resistenza alla spezia, un fattore
di notevole rilevanza poiché l’H. pylori sta diventando sempre più resistente
al trattamento antibiotico standard.

ULTERIORI RAGGUAGLI SULLA CANNELLA

Esistono altre interessanti aree di ricerca che riguardano tale spezia.


Tumori. I ricercatori americani hanno scoperto che la cannella può
rallentare l’angiogenesi, ossia la formazione di nuovi vasi sanguigni che
vanno ad alimentare le masse tumorali. I risultati conclusivi, pubblicati
sulla rivista Carcinogenesis, indicano che un estratto di cannella «potrebbe
potenzialmente essere d’ausilio nella prevenzione e/o nel trattamento di
tumori».
Protezione post-ictus. Nell’ambito di esperimenti in vitro, un’équipe di
ricercatori coreani ha osservato che la cannella protegge le cellule cerebrali
dal genere di danno causato da un ictus.
Danni cerebrali da insufficienza epatica. Analogamente, la cannella
protegge le cellule cerebrali dal danno osservato nell’encefalopada epatica,
un tipo di danno cerebrale causato da un’epatopatia in stadio avanzato.
Rimarginazione delle ferite. In uno studio condotto su animali, alcuni
ricercatori indiani hanno riscontrato che gli estratti di cannella favoriscono
la rimarginazione delle ferite.

ALLA SCOPERTA DELLA CANNELLA

Il sapore dolce e al tempo stesso speziato della cannella è quello della sua
corteccia; infatti la spezia deriva dalla corteccia di un albero sempreverde
tropicale.
La sua fragranza deliziosamente aromatica è stata annunciata fin dagli
albori della storia umana. Dio comandò a Mosè di includere la cannella
nella formula dell’olio per le consacrazioni, e nel Cantico di Salomone se
ne celebra il profumo; i greci e i romani la offrivano ai loro dei.
Anche le antiche culture dell’India e della Cina adoperavano la cannella,
ma come medicina. I medici della scuola ayurvedica indiana la utilizzavano
– e continuano ad usarla ancora oggi – per curare disturbi respiratori,
problemi di stomaco, spasmi muscolari e, ovviamente, il diabete. I luminari
della Medicina Tradizionale Cinese la adoperavano – e la utilizzano ancora
oggi – per le sue qualità «riscaldanti», in particolare per problemi
respiratori e dolori muscolari. Non dimentichiamo che è anche uno dei
principali ingredienti del Balsamo di tigre, il ben noto unguento usato per
alleviare il dolore.
Naturalmente, la cannella è ben più di una medicina: è un ingrediente
estremamente apprezzato nelle cucine di tutto il mondo. Negli Stati Uniti e
in Europa compare per lo più nelle preparazioni dolci, quali crostate di
mele, torte al caffè, composte di frutta, panini dolci, muffin, ciambelle, torte
e biscotti. È uno dei principali ingredienti delle spezie per crostate di mele e
per i vini aromatizzati. Le stecche di cannella vengono usate per mescolare
bevande calde, tra cui il sidro speziato e il vin brulé.
Gli inglesi sono ghiotti di ciò che chiamano cassia. In molte case la gente
tiene una scatoletta d’argento piena di cassia sul tavolo per aggiungerne una
presa a dolci e bevande. Come ingrediente figura nelle crostate di frutta
inglesi, nella frutta cotta e nella pasticceria.
In Spagna, la cannella è un complemento apprezzato nelle preparazioni a
base di cioccolato e nei dessert. In Germania viene adoperata nello strudel
di mele, per insaporire piatti agrodolci e nelle ricette contenenti uva passa.
In Olanda, la cannella è il sapore dominante nei biscotti speziati di Natale
chiamati speculaas, mentre gli italiani mettono stecche di cannella intere
nella mostarda, un condimento classico non dissimile dal chutney.
I francesi prediligono la cannelle (il loro termine per cannella) nelle
preparazioni salate a base di selvaggina, come l’anatra alla Montmorency,
un piatto classico aromatizzato alla cannella con salsa di ciliegie. E anche
uno dei quattro ingredienti del mix di spezie francese noto come quatre
épices, per lo più utilizzato per esaltare ricette di cacciagione.
In Asia la cannella viene quasi esclusivamente adoperata nei piatti salati,
mentre i cinesi la usano nelle preparazioni brasate in pentola di coccio o,
come viene spesso definita, nella «cucina rossa». Si tratta di una tecnica di
cottura particolare in cui cannella, anice stellato e scorza d’arancia vengono
fatte sobbollire a lungo a fuoco lento in acqua, vino di riso e salsa di soia,
quindi si immerge un petto di pollo nel liquido di cottura e lo si fa cuocere
finché non diventa rosso e la carne è cotta a puntino. La cannella è inoltre
uno dei cinque componenti della polvere Cinque spezie cinese.
I cuochi del Medio Oriente utilizzano la cannella per aromatizzare le carni
in umido. È un ingrediente diffuso in molte miscele di spezie marocchine,
incluso il rinomato ras-el-hanout. Conferisce anche un aroma intenso agli
stufati marocchini chiamati tajine. In Siria è una delle due sole spezie
presenti in cucina (l’altra è il pimento), mentre in Iran è una spezia
fondamentale per la preparazione del khoresh, uno stufato dal sugo denso e
agro realizzato con succo di melagrana.
In India rappresenta una spezia comune nella cucina curry e viene
impiegata nei saporitissimi biryani. I cuochi indiani friggono una intera
stecca di cannella in olio bollente affinché liberi il suo aroma e poi la
aggiungono al cuny o al riso durante la cottura. Viene anche adoperata in
numerose miscele di spezie indiane ed è uno degli aromi principali
dell’onnipresente garam masala.
I vietnamiti utilizzano la cannella nei pho bo, zuppe di brodo di vitello
lasciate sobbollire a lungo e servite con spaghetti di riso.
I messicani amano molto il tè di cannella (té de canela), preparato con
stecche intere; tale spezia è inoltre un ingrediente dei mole messicani.
La cannella viene altresì adoperata in una vasta gamma di prodotti non
alimentari: viene utilizzata nei dentifrici per mascherare il gusto del
pirofosfato, una sostanza di cattivo sapore che inibisce la formazione della
placca, e nella produzione di articoli da toeletta, presidi farmaceutici e
persino nell’industria del tabacco.

Può un chewing gum rendere più intelligenti?

In un certo senso sì, se si mastica una chewing gum alla cannella. In


effetti, non occorre neanche masticarlo: il solo fatto di annusare la cannella
può stimolare le capacità intellettive.
Questo è il risultato di uno studio condotto dal dottor Philip R. Zoladz,
ricercatore universitario di psicologia presso la Ohio Northern University, il
quale ha notato che gli studenti ottenevano un punteggio più alto in diversi
test mentali di performance dopo avere annusato o assaggiato della
cannella.
Nella prima parte dello studio, il dottor Zoladz diede da masticare a un
gruppo di studenti quanto segue: chewing gum alla cannella, alla menta
piperita, alla ciliegia o un chewing gum senza sapore. Nella seconda parte,
chiese agli studenti di annusare della cannella, della menta piperita, del
gelsomino oppure nulla.
In entrambe le fasi, gli studenti che avevano masticato chewing gum alla
cannella o annusato la spezia ottennero il punteggio più alto, evidenziando
memoria migliore, attenzione più focalizzata e riflessi più rapidi nel
collegare ciò che vedevano e ciò che dovevano fare. Il dottor Zoladz e i suoi
colleghi conclusero che la cannella ha il potenziale di diminuire l’ansia da
esami e persino prevenire la perdita di memoria legata all’invecchiamento!

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Praticamente tutta la cannella importata negli Stati Uniti è cannella cassia


(per ulteriori informazioni sulla differenza tra cannella vera e cassia,
rimando i lettori al riquadro «Per cortesia, la vera cannella si faccia
riconoscere» in questo capitolo). Se desiderate reperire della cannella vera,
fate una puntata in una bottega indiana o in un negozio di prodotti biologici.
La cannella cassia è solitamente definita cannella, cassia o cannella cinese,
mentre la vera cannella viene chiamata cannella vera, cannella regina,
cannella di Ceylon o dello Sri Lanka.

La cannella può contribuire a prevenire e/o curare:

Malattie cardiovascolari Candidosi vaginale


Colesterolo Pressione alta
Diabete di tipo 2 Tumori
Ulcera Ictus
Trigliceridi Insulino-resistenza

Sia la cannella cassia che quella vera sono prodotte a partire dalla
corteccia, la quale viene essiccata e strettamente arrotolata a mo’ di
pergamena in cannelli, a formare quelle che chiamiamo stecche.
I cannelli vengono solitamente tagliati in pezzi da 10-12 centimetri in
modo da essere agevolmente contenuti in un barattolo per spezie, hanno un
aspetto compatto, di colore scuro bruno-rossastro, e sprigionano un
profumo dolce e intenso. L’albero della cannella è coltivato in Cina,
Vietnam e Indonesia.
La cannella vera viene colta dalla pianta allo stesso modo, ma i cannelli
risultano più lunghi, hanno una consistenza più fragile, come di carta
pergamena, e hanno un colore marroncino chiaro. Il sapore è leggero,
delicato e dolce. Sebbene la cannella vera cresca allo stato naturale
nell’India meridionale, la varietà migliore viene dallo Sri Lanka, al largo
delle coste dell’India.
La corteccia da cui deriva la cannella di migliore qualità viene rimossa dal
tronco e classificata in base alla lunghezza, alla larghezza e allo spessore.
I cannelli di qualità superiore sono strettamente arrotolati, presentano un
colore uniforme e una superficie priva di difetti. Durante il trasporto, spesso
accade che si spezzino e vengono pertanto venduti come quilling
(frammenti) di seconda classe. La classificazione successiva è definita
feathering (schegge) e si tratta della corteccia interna dei rami e dei piccoli
getti le cui dimensioni non sono sufficienti per formare un cannello
completo. Sono sempre e comunque considerati cannella, ma non hanno
quell’impatto visivo gradevole dei cannelli di buona qualità. La classe più
bassa è data dai chip (trucioli) di cannella, cascami ottenuti dalla rasatura e
dal taglio dei cannelli. Le schegge e i trucioli generalmente vengono dalle
Isole Seychelles o dal Madagascar e rappresentano buonissima parte della
fornitura mondiale di corteccia di cannella di classe inferiore.
Una volta macinata, la cannella inizia a perdere la fragranza che le deriva
dagli oli volatili e, pertanto, è meglio acquistarla in cannelli interi e
macinarla all’occorrenza. Poiché i cannelli sono piuttosto duri, avrete
bisogno di un macinaspezie robusto.
Se l’unica opzione a vostra disposizione è l’acquisto di cannella in
polvere, l’aroma più fragrante sarà quello assicurato da un prodotto di
migliore qualità e, dunque, la polvere dovrà essere omogenea e quasi
impalpabile anziché sabbiosa. La qualità migliore è rappresentata dai
cannelli macinati, sebbene la polvere possa anche essere ottenuta a partire
da frammenti di cannelli e schegge. La cassia macinata, sovente definita
«cannella del fornaio», ha solitamente un costo inferiore rispetto ai cannelli
macinati di cannella vera.
I cannelli, o stecche, interi si mantengono per tre anni purché non vengano
esposti a calore eccessivo. La cannella in polvere inizia a perdere l’aroma
nel giro di pochi mesi.

LA CANNELLA IN CUCINA

Tutti gli studi scientifici sui benefici per la salute offerti dalla cannella
sono stati condotti sulla cassia o cannella cinese, la spezia piů conosciuta e
venduta nei normali super-mercati. Gli esperti di cucina in genere
concordano (a parte alcuni «dissidenti») che è la cassia ad avere il sapore
migliore, in quanto piů robusto e profumato. La cassia si sposa bene ad altri
sapori intensi come quelli della frutta secca in guscio. La cannella vera, più
delicata, è un complemento migliore alla frutta fresca. Tuttavia non esistono
regole che impediscano di mescolare i due tipi e ottenere il meglio di
entrambi i mondi!
Negli Stati Uniti viene piů comunemente adoperata la cannella in polvere
poiché in genere è la forma utilizzata per la preparazione di pane e torte. La
scelta ricade invece sulle stecche in caso di piatti umidi salati; vengono
infatti adoperate per aromatizzare il liquido di cottura e poi scartate a
cottura ultimata e prima di servire.
Qualunque forma di cannella decidiate di usare, assicuratevi di non
cuocerla eccessivamente. La cannella, infatti, diventa amara se lasciata in
pentola troppo a lungo.
Ecco alcuni suggerimenti per aumentare il consumo di cannella con la
dieta quotidiana:

•• Mettete una stecca di cannella negli stufati di manzo o di verdure


oppure nella zuppa di lenticchie.
•• Preparate un vino alle spezie: versate una bottiglia di vino in una
pentola capiente e portate lentamente a ebollizione con 1/2 tazza di
zucchero, una stecca di cannella e un limone con la buccia steccando
quest’ultimo con chiodi di garofano. Lasciate sobbollire per 15 minuti.
•• Per preparare un tè speziato, versate 1 litro di tè già fatto in una
pentola, aggiungete 2 tazze di succo di mela e lasciate sobbollire per 10
minuti unendo un limone a fette e due stecche di cannella.
•• Spolverizzate della cannella sull’impasto per torte e quiche.
•• Spolverizzate mele, banane, meloni e arance con un pizzico di
cannella.
•• Aggiungete cannella, menta e prezzemolo nel manzo macinato per la
preparazione di hamburger o polpettoni.
•• Mescolate cannella, cardamomo e pepe nero in parti uguali e strofinate
il filetto di maiale o di agnello con le spezie prima di infornare.
•• Unite un poco di cannella al riso pilaf.
•• Aggiungete della cannella alla cioccolata calda per esaltare il gusto del
cioccolato.
Cardamomo, Una spezia a guardia dello stomaco

Antico quanto la civiltà, il cardamomo è sempre stato e continua ad essere


una delle spezie più costose al mondo. Verso la fine del Medioevo, nel tardo
XVI secolo, quando il prezzo dì tutte le spezie era salito alle stelle, il
cardamomo era tra le più care. Una manciata di capsule di cardamomo
costava l’equivalente del salario di un intero anno per un povero, ma i ricchi
europei ne pagavano volentieri il prezzo per via delle sue virtù medicinali e
culinarie. Non sorprende, dunque, che sia noto come «regina delle spezie»
(là dove il pepe ne è il re).
L’aroma e il sapore del cardamomo, delicatamente piacevole e unico nel
suo genere, è riconducibile al ricco e variegato contenuto di oltre
venticinque oli volatili, i composti di origine vegetale che ne conferiscono
la fragranza. In campo officinale, il più attivo è il cineolo dalle proprietà
antiossidanti, presente anche nell’alloro.
Nelle medicine tradizionali dell’Oriente, il cardamomo è stato impiegato
per trattare un’impressionante molteplicità di problemi di salute, incluse
malattie cardiovascolari, disturbi respiratori quali asma, bronchite,
raffreddori e influenza, e tutti i tipi di disturbi della digestione, dall’alitosi e
le coliche alla stipsi e la diarrea.
Dopo secoli di impiego nella medicina tradizionale, il XX secolo è
finalmente stato testimone delle prime ricerche scientifiche sui benefici
terapeutici del cardamomo. Nel 1978 fu fondato l’Indian Cardamom
Research Institute e, successivamente, tale istituto di ricerca venne
denominato Indian Institute of Spice Research.
Oggi la ricerca medica sul cardamomo e il cineolo viene svolta a livello
mondiale, sebbene la maggioranza degli studi venga ancora dall’India. Di
seguito forniamo la miglior selezione di risultati a cui stanno pervenendo i
ricercatori.

UN AIUTO PER LA DIGESTIONE

La capacità del cardamomo di calmare lo stomaco è leggendaria, tuttavia è


solo di recente che gli studi hanno iniziato a dimostrare perché sia efficace.
Negli ultimi vent’anni, decine di studi hanno dimostrato che gli oli volatili
del cardamomo sono potenti agenti antinfiammatori e antispastici che
possono agire sinergicamente per migliorare la digestione.
Dolori e spasmi gastrici. Ad esempio, lo studio realizzato da un’équipe di
ricercatori dell’Arabia Saudita indica che gli oli volatili del cardamomo
possono calmare lo stomaco bloccando i recettori cellulari che regolano le
contrazioni muscolari. Un’équipe indiana ha scoperto che il cardamomo
esplica un’azione analoga a quella dei farmaci colinergici e calcio-
antagonisti: i farmaci colinergici stimolano il sistema nervoso
parasimpatico, responsabile della salivazione, della digestione e del
rilassamento muscolare, mentre i farmaci calcio-antagonisti rilassano
anch’essi la muscolatura influendo sul movimento del calcio in entrata e in
uscita dalle cellule stesse.
Alitosi. Il cineolo è un antisettico e, come tale, uccide i batteri che
provocano l’alitosi.
Ulcere. Diversi studi dimostrano che il cineolo è in grado di rallentare o
arrestare lo sviluppo di ulcere gastriche indotte da aspirina e alcol in
animali da laboratorio.
Prevenzione del cancro del colon. Ricerche condotte su animali in India
indicano che il cardamomo può combattere le cellule tumorali del
carcinoma del colon in diversi modi: riducendo l’infiammazione che
alimenta la crescita tumorale, inibendo la divisione cellulare e uccidendo le
cellule tumorali stesse.

IL CARDAMOMO E LE MALATTIE CARDIACHE

Parecchi studi indicano che il cinedo contribuisce a proteggere il sistema


cardiovascolare nei seguenti modi.
Riduzione della pressione arteriosa. In uno studio pubblicato sulla
rivista Journal of Ethnopharmacology, il cardamomo ha indotto un calo
della pressione arteriosa in animali da laboratorio direttamente
proporzionale al dosaggio. Il medesimo studio dimostra che il cardamomo
agisce anche come diuretico, un genere di farmaco impiegato per trattare
l’ipertensione.
Prevenzione della formazione di coaguli. Gli infarti e gli ictus sono
sovente causati da coaguli di sangue che vanno ad ostruire un’arteria.
Alcuni ricercatori indiani hanno testato l’effetto dell’estratto di cardamomo
sulle piastrine umane, vale a dire gli elementi del sangue che si aggregano e
formano coaguli. La spezia ridusse l’aggregazione piastrinica, cioè la
capacità delle piastrine di aderire fra loro e produrre il coagulo.

Il cardamomo può contribuire a prevenire e/o curare:

Mal di stomaco Pressione alta


Sinusite Stipsi o diarrea
Alitosi Tumore del colon
Coliche Indigestione
Ulcere Malattie cardiovascolari

UN AIUTO ALLA RESPIRAZIONE

Così come è in grado di distendere lo stomaco, il cardamomo può rilassare


anche le vie respiratorie ripristinando la normale respirazione nelle persone
affette da disturbi respiratori.
Attenuazione dell’asma grave. Alcuni ricercatori tedeschi hanno studiato
32 soggetti affetti da asma grave e dipendenti da antinfiammatori steroidei
suddividendoli in due gruppi: ad uno solo di questi aggiunsero un
integratore di cineolo al regime farmacologico. Dopo due mesi, i pazienti
trattati con cineolo avevano ridotto del 36% la necessità di assumere
steroidi, rispetto al 1% relativo al gruppo non trattato. Sulla rivista
Respiratory Medicine, gli studiosi hanno concluso che «la terapia a lungo
termine con cineolo sortisce un effetto significativo nel ridurre l’assunzione
di farmaci nei casi di asma dipendente da steroidi».
Miglioramento della sinusite. Due studi tedeschi indicano che il cineolo
offre sollievo in caso di sinusite. Nell’ambito di uno studio, i ricercatori
invitarono 152 persone affette da infezioni acute dei seni nasali e paranasali
ad assumere cineolo in capsule da 100 mg tre volte al giorno oppure un
placebo. Dopo soli due giorni, i soggetti trattati con cineolo riferirono una
riduzione dei sintomi di cefalea, dolore ai seni, secrezioni e ostruzione
nasale. In un articolo pubblicato su Laryngoscope, gli studiosi conclusero
che «il trattamento tempestivo con cineolo è efficace e sicuro». In effetti, la
raccomandazione alle persone affette da sinusite acuta è di assumere un
integratore a base di estratto di cardamomo prima di provare con gli
antibiotici.
In uno studio analogo, che coinvolse 150 soggetti con sinusite acuta, i
ricercatori riconfermarono l’efficacia del trattamento con cinedo nel ridurre
le cefalee, alleviare il dolore a carico dei seni nasali e paranasali, diminuire
la produzione di muco e ridurre l’ostruzione nasale, concludendo che il
trattamento mediante l’estratto di tale spezia «ha rilevanza dal punto di vista
clinico».

ALLA SCOPERTA DEL CARDAMOMO

L’india è la patria del cardamomo. Per millenni i commercianti di spezie


hanno rastrellato le foreste pluviali montane delle Cardamom Hills
dell’India meridionale in cerca delle preziose capsule che crescono
spontanee sulle radici dei cespugli di cardamomo.
Gli antichi romani, amanti di questa spezia indiana, ne importavano grandi
quantitativi e lo utilizzavano nello stesso modo in cui ancora oggi viene
adoperato dalla popolazione dell’India: come spazzolino da denti
gentilmente fornito da Madre Natura.
Il cardamomo, infatti, pulisce i denti e rinfresca l’alito, ed è una delle
poche sostanze in grado di dissipare l’odore d’aglio che rimane nel fiato
dopo avere consumato un pasto fortemente speziato.
Ai giorni nostri il cardamomo è maggiormente diffuso nelle tradizioni
gastronomiche di India, Iran, Marocco e paesi arabi. Nella cucina araba,
esso conferisce un aroma dolce ai curry e ad altri piatti salati. È un
ingrediente fondamentale del mix di spezie chiamato ras-el-hanout e nel
garam masala, la ben nota miscela di spezie indiana. Il cardamomo viene
altresì adoperato nei dolci indiani detti halva nonché nei budini, negli
yogurt, nelle creme pasticcere e nei gelati. Conferisce un bouquet
particolare ai korma, stufati a base di yogurt molto diffusi in India, e ai
piatti di riso detti biryani. È inoltre un ingrediente importante del chai
masala, un tè caldo speziato che in tempi recenti ha acquisito popolarità
anche negli Stati Uniti.
Per quanto vasto il suo impiego in cucina, l‘80% della produzione
mondiale di cardamomo viene utilizzato dai paesi di lingua araba per fare il
caffè. Nelle case arabe è usanza servire agli ospiti un caffè aromatizzato al
cardamomo, detto gahira, in segno di ospitalità e generosità. La tecnica di
preparazione è semplice: basta incastrare una capsula di cardamomo nel
beccuccio della caffettiera e versare il caffè. Quando il liquido bollente
passa attraverso la capsula, ne assorbe Paroma e il caffè acquista un sapore
rinfrescante. Il cardamomo è altresì la spezia che ha contribuito alla fama
intemazionale del caffè turco.
Furono i vichinghi a introdurre il cardamomo in Scandinavia, paese in cui
è diffuso quasi quanto nell’Asia Meridionale e nel Medio Oriente. In
Svezia, Danimarca e Finlandia, viene principalmente adoperato per
aromatizzare torte, pani dolci, pasticcini (è ciò che rende inimitabile la pasta
sfoglia danese!), nonché frutta e verdura sotto vetro. Viene anche impiegato
per aromatizzare il glögg, un vino speziato caldo assai diffuso, ideale per
riscaldarsi durante i freddi inverni svedesi.
In Germania, il kardamom è una spezia largamente impiegata nella
preparazione di dolci natalizi, in particolare i famosi biscotti conosciuti col
nome di lebkuchen.
Il cardamomo migliore proviene dalle foreste pluviali dell’India
meridionale e le capsule sono prodotte da un cespuglio alto circa 2 metri.

Cardamomo vero e cardamomo falso

Esiste un cardamomo nero cinese, un cardamomo verde del Siam, un


cardamomo del Nepal o cardamomo maggiore, un cardamomo di Giava… e
via di questo passo, ma sono tutte varietà di cardamomo «false». Esiste un
solo ed autentico cardamomo: il cardamomo verde, la regina delle spezie,
quello usato in ambito culinario e universalmente noto semplicemente come
cardamomo.
L’India, tuttavia, produce una seconda varietà di cardamomo che si pone
tra quello vero e quello falso: il cardamomo marrone (o nero),
denigratoriamente definito «bastardo». È una spezia indissolubilmente
legata ad alcuni dei più prestigiosi piatti indiani inclusi quelli che
appartengono alla cucina tandoorì, così chiamata per via del tandoor, il
forno interrato in cui vengono cotte le preparazioni. Il cardamomo marrone
è la spezia principale che conferisce al pollo tikka e al pollo al burro – due
specialità indiane – il loro caratteristico sapore e consistenza.Viene talvolta
aggiunto alle preparazioni di riso dette biryani così come a numerosi altri
piatti.
Gli unici luoghi in cui si hanno maggiori probabilità di imbattersi nel
cardamomo marrone è una bottega di prodotti indiani, un droghiere
specializzato oppure online.Viene venduto esclusivamente in capsule
dall’aspetto simile al cardamomo verde ma di colore marroncino e
dimensioni due volte maggiori. Le capsule hanno un aspetto lievemente
opaco e polveroso.
Il primo approccio al cardamomo marrone è una vera e propria impresa
culinaria. Quando aprirete le capsule marroni, troverete all’interno dei semi
attaccaticci avvolti in una membrana appiccicosa. Una volta rimossi
continueranno ad appiccicarsi fra loro nonché alle dita. Il modo migliore
per gestirli è trasferirli in un mortaio insieme ad altre spezie asciutte che ne
assorbiranno la sostanza collosa, dopodiché sarà possibile aggiungerli ad
altre spezie.
Benché la scienza non abbia analizzato le proprietà terapeutiche del
cardamomo marrone, esso appartiene alla stessa famiglia del cardamomo
verde e contiene i medesimi oli volatili. Rispetto a quest’ultimo, sviluppa
anche un aroma simile a quello dell’eucalipto. Il costo, inoltre, è
decisamente inferiore, circa un terzo del prezzo del cardamomo verde, il
quale può superare i 30 dollari per mezzo chilo (il costo è inferiore nei
negozi indiani).

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Il cardamomo macinato o i semi di cardamomo reperibili nei reparti spezie


delle comuni drogherie non hanno alcunché di esotico né di straordinario, a
parte forse il prezzo. Le capsule di cardamomo, invece, sono tutt’altra cosa,
e non si trovano nei classici supermercati; è necessario recarsi in una
bottega indiana, oppure in un negozio di prodotti biologici.
In cucina vengono utilizzate sia le capsule che i semi. Le capsule di qualità
migliore hanno dimensioni piccole, una forma irregolarmente ovale e una
buccia di consistenza cartacea di colore giallo-verde. Scegliete capsule di
colore vivido e uniforme; non devono essere opache o sbiancate; evitate
inoltre le capsule fessurate agli angoli, segno che sono state colte
tardivamente e possono avere perso alcuni degli oli volatili. Le capsule di
cardamomo «bianche» sono in effetti capsule verdi sottoposte a sbiancatura,
una pratica avviata e caldeggiata dagli inglesi. Gli intenditori di spezie
preferiscono quelle verdi.
Se non riuscite a trovare le capsule di cardamomo, comprate i semi
piuttosto che la spezia macinata. Gli oli volatili presenti nei semi di
cardamomo sono delicati e l’aroma piacevole si disperde rapidamente nel
momento in cui i semi vengono esposti all’aria; di fatto la fragranza inizia a
svanire non appena i semi vengono rimossi dalla capsula. Qualora
acquistiate semi, potete mantenerne più a lungo il sapore macinandoli solo
all’occorrenza.
I semi del cardamomo verde sono in effetti di colore marrone, ma vengono
definiti cardamomo verde (o semplicemente cardamomo) per via della
capsula che li racchiude. Dovrebbero essere leggermente oleosi al tatto e
sprigionare un profumo che ricorda l’eucalipto con un accenno di menta e
pepe.
Il cardamomo migliore proviene dalle foreste pluviali dell’India
meridionale, ove un cespuglio alto circa 2 metri dai fiori gialli e blu ne
produce le capsule, ma viene anche coltivato in Thailandia e neH’America
Centrale. La maggior parte del cardamomo importato negli Stati Uniti
proviene dal Guatemala, il resto per lo più dall’India e dallo Sri Lanka.
Le capsule di cardamomo integre si conservano per due anni qualora poste
in un contenitore ermetico e lontano dalla luce solare. I semi si possono
mantenere per un anno nelle stesse condizioni. Il cardamomo macinato,
invece, ha un periodo di conservazione di circa sei mesi.

IL CARDAMOMO IN CUCINA

Se non avete mai sentito il profumo di una capsula di cardamomo, non


avete mai sperimentato il vero aroma della spezia. Ha un sapore
rinfrescante e astringente, piacevole al palato. In qualità di spezia, è
piuttosto versatile e si abbina a quasi tutti i piatti dolci e salati.
Le capsule trovano maggior impiego nelle preparazioni salate cotte in un
liquido. Numerose ricette etniche, infatti, richiedono l’uso di una capsula di
cardamomo pestata. Per pestare la capsula, passatela leggermente sotto il
mattarello o ponetela sotto la lama di un coltello e premete delicatamente;
la pestatura libera gli oli consentendo ai loro aromi di amalgamarsi agli altri
ingredienti. Tale tecnica è valida anche per le ricette che richiedono semi
interi. Al termine della cottura si dovranno eliminare le capsule ma non i
semi.
Il cardamomo macinato è la soluzione migliore per le preparazioni dolci,
ma va usato con parsimonia in quanto tende ad essere piuttosto pungente.
Poiché il cardamomo è un ingrediente fondamentale in molte miscele di
spezie tradizionali, prendetelo in considerazione quando preparate miscele
di vostra invenzione. Ecco alcuni suggerimenti per arricchire di cardamomo
la dieta di ogni giorno:

• Aromatizzate il caffè lungo del mattino come si usa fare nei paesi arabi.
Se vi è scomodo usare il bricco del caffè inserendo una capsula pestata nel
beccuccio, mettete una o due capsule pestate direttamente nel recipiente del
percolatore e filtrate il caffè nel mug o nella tazza. Per la quantità,
considerate una capsula per due mug o tazze.
• Mettete una o due capsule di cardamomo pestate nell’acqua di cottura del
riso o aggiungete un pizzico di cardamomo macinato al riso pilaf.
• Spolverizzate un poco di cardamomo macinato e zucchero sul
pompelmo.
• Aggiungete mezzo cucchiaino di cardamomo macinato al pan di zenzero
o alle ricette per le torte al cioccolato.
• Aromatizzate le banane flambé e altri dessert a base di frutta con dei
semi di cardamomo pestati.
• Aggiungete un cucchiaino di cardamomo macinato alle ricette per tortini
alla vaniglia e ai ripieni alla vaniglia per crostate.
• Strofinate del cardamomo sull’arrosto d’agnello prima di metterlo sullo
spiedo.
Chiodi di garofano. Per combattere il dolore

«Non è interessante? Del semplice olio di chiodi di garofano. E che


risultati sorprendenti… La vita può essere così semplice: sollievo o
sofferenza».
Queste potrebbero essere le parole del vostro dentista, ma in tal caso è
Lawrence Olivier a parlare, mentre interpreta il ruolo di un dentista sadico
nel film Il maratoneta del 1976, intento a trapanare ripetutamente i denti di
Dustin Hoffman per poi lenire il dolore con del «semplice» olio di chiodi di
garofano.
Fortunatamente, l’olio di chiodi di garofano è in grado di alleviare il
dolore dentale anche nella vita reale, nonché molti altri problemi di salute.

UNA CURA DOLCE PER DENTI E GENGIVE

Il nome scientifico del principio attivo presente nell’olio di chiodi di


garofano è eugenolo. Il solo masticare un chiodo di garofano – ossia il
bocciolo essiccato del fiore di una pianta asiatica, nonché una spezia
culinaria apprezzata in tutto il mondo – rivela quanto potente sia tale
sostanza: procura un immediato senso di intorpidimento locale. L’eugenolo
e altre molecole aromatiche presenti nel chiodo di garofano non solo lo
rendono una delle spezie dall’aroma più penetrante del pianeta, ma tale
potere di penetrazione si esplica in modo più manifesto dal dentista che non
in qualsiasi altro ambito (o durante un lungo e travagliato weekend
trascorso col mal di denti in attesa che lo studio apra).
È così, l’olio di chiodi di garofano è un blando anestetico. In effetti,
secondo quanto riferito da un’équipe di ricercatori sul Journal of Dentistry,
è efficace quanto la benzocaina nel desensibilizzare il tessuto orale prima
che il dentista proceda all’anestesia. Inoltre, è in grado di attivare la
circolazione: se strofinato su un dente dolorante, i vasi sanguigni che
irrorano la gengiva si dilatano portando il sangue alla superficie e
producendo una sensazione di calore calmante. Inoltre, è un analgesico in
grado di ridurre il dolore. Inoltre, ha proprietà antinfiammatorie che
riducono l’arrossamento e il gonfiore in prossimità di una ferita. Inoltre, è
un antibatterico che uccide i germi.
Tutte queste proprietà terapeutiche contribuiscono a spiegare perché
l’eugenolo non sia soltanto un rimedio casalingo per un mal di denti non
trattato, ma anche una formidabile medicina contro numerose forme di
malattia del cavo orale. Può combattere la gengivite, lo stadio iniziale della
piorrea in cui le gengive risultano infiammate, e può combattere la
periodontite, lo stadio finale della malattia in cui le gengive si ritirano e
l’osso viene eroso. È anche efficace in caso di stomatite, una dolorosa
infiammazione della mucosa orale provocata da fattori quali l’assunzione di
farmaci, una scarsa igiene dentale o protesi dentarie poco stabili.
«Sono secoli che l’olio di chiodi di garofano viene impiegato per curare
disturbi a livello dentale», afferma un’équipe di ricercatori indiani che
hanno vagliato l’efficacia duratura di un trattamento a base di eugenolo per
combattere la malattia periodontale, pubblicandone i risultati su una rivista
specializzata.

LA LOTTA ALLE INFEZIONI

Le proprietà antibatteriche dell’eugenolo non si limitano a combattere i


germi che aggrediscono denti e gengive, ma sono in grado di combattere
batteri (e virus) che colpiscono altri distretti dell’organismo.
Helicobacter pylori. Questo batterio è responsabile delle ulcere gastriche
ed è associato allo sviluppo di tumori dello stomaco. Un’équipe
intemazionale di ricercatori con sede in India aveva osservato che il
trattamento farmacologico convenzionale per sopprimere l’H. pylori è
efficace solo nel 80-90% dei casi e che le specie di batteri appartenenti a
questo ceppo stanno sviluppando resistenza a diversi antibiotici. Poiché
l’eugenolo si è già dimostrato efficace neirarrestare la proliferazione di
molti altri tipi di batteri piuttosto aggressivi – ivi inclusi la Escherichia coli
(avvelenamento da cibo), lo Staphylococcus (infezioni da stafilococco), il
Proteus (infezioni della vescica urinaria), la Klebsiella (infezioni delle vie
respiratorie), l’Enterobacter (infezioni nosocomiali) e lo Pseudomonas
(infezioni del tratto urinario) – decisero di testarlo anche contro l’H. pylori
e, nell’ambito di uno studio di laboratorio, scoprirono che l’eugenolo
arrestava la crescita di 30 specie di H. pylori con una rapidità d’azione
superiore a quella dell’amoxicillina (Amoxin) di un buon 25%. Inoltre,
notarono che i batteri non sviluppavano alcuna resistenza all’eugenolo.
Presentando le loro argomentazioni, i ricercatori fecero notare che
l’eugenolo fa già parte del regime alimentare di vari paesi ed è con ogni
probabilità «atossico»; inoltre, è stato usato dalla medicina moderna fin dal
1950 per trattare le ulcere, e i «benefici potrebbero essere molteplici» in
quanto costituisce anche un potente antiossidante. Sollecitarono pertanto
altri studiosi a replicare i loro risultati allo scopo di promuovere il ricorso
all’eugenolo come trattamento e risolvere il problema degli «esiti
terapeutici negativi e della resistenza agli antibiotici nell’ambito della
gestione clinica dell’H. pylori».
Herpes simplex. Conducendo test in vitro e su animali, alcuni ricercatori
giapponesi hanno notato che la somministrazione contemporanea di
aciclovir (Zovirax, un farmaco antivirale) ed eugenolo esplica un effetto più
potente contro il virus responsabile dell’herpes labiale (HV-1, herpes simplex
tipo 1) rispetto all’impiego esclusivo di aciclovir. Altri studiosi tailandesi
hanno invece rilevato che il virus responsabile dell’herpes genitale (HV-2,
herpes simplex tipo 2) non è in grado di replicarsi in presenza di eugenolo.
Infine, nell’ambito di uno studio condotto su animali, alcuni esperti
americani hanno riscontrato che l’eugenolo protegge contro le infezioni da
herpes simplex tipo 2.
Epatite C. Milioni di americani vengono infettati dal virus dell’epatite C,
una condizione che può sfociare in cirrosi e tumori del fegato. Un’équipe di
ricercatori giapponesi ha scoperto che l’eugenolo provoca una inibizione
quasi totale del virus. A tale proposito, le conclusioni degli scienziati
pubblicate su Phytotherapy Research sono le seguenti: «I prodotti naturali»,
incluso l’eugenolo, «possono svolgere un ruolo di primo piano come agenti
antivirali contro l’epatite C».

UNA PROTEZIONE A TUTTO TONDO

I ricercatori hanno scoperto molti altri modi in cui l’eugenolo può


proteggere l’organismo umano.
Zanzare, addio. Mettete via le candele di citronella e tirate fuori quelle a
base di olio di chiodi di garofano: potrebbe essere il modo migliore per
impedire alle zanzare di pungere. Ciò è quanto alcuni ricercatori tailandesi
hanno scoperto testando 38 differenti oli essenziali contro le punture di
zanzara, inclusa la diffusissima citronella.
Per il loro esperimento gli studiosi arruolarono alcuni volontari,
esponendone le braccia a un ambiente pieno di zanzare. Solo pochi oli
essenziali li protessero dalle punture e, fra questi, gli oli a base di citronella,
patchouli e chiodi di garofano fornirono totale repellenza per la durata di
due ore. Quando gli oli vennero nuovamente testati, solo quello di chiodi di
garofano fornì «il 100% di effetto repellente» per ben quattro ore.
Stop alla formazione di coaguli. I coaguli di sangue che ostruiscono le
arterie sono la causa prima della maggior parte degli infarti e degli ictus. La
formazione dei coaguli è in parte causata dall’aggregazione piastrinica,
vale a dire la capacità di determinate cellule ematiche, dette piastrine, di
aderire fra loro e produrre il coagulo. Alcuni ricercatori danesi hanno messo
a confronto l’eugenolo e due farmaci anticoagulanti che inibiscono
l’aggregazione piastrinica, cioè l’aspirina e l’indometacina, con il risultato
che l’effetto dell’eugenolo si è dimostrato più forte dell’aspirina ed
equivalente all’indometacina.
Proprietà antitumorali. Studi condotti su animali affetti da tumori
cutanei e carcinoma polmonare hanno evidenziato che l’eugenolo è in grado
di arrestare la moltiplicazione delle cellule tumorali.

L’insanguinata storia dei chiodi di garofano

I chiodi di garofano hanno un passato denso di episodi sanguinari. Il loro


impiego in ambito medico e culinario destò ben presto le brame degli
uomini e procurò immense ricchezze agli intrepidi esploratori che si
avventurarono alla loro ricerca. A causa loro, le nazioni si fecero guerra.
All’epoca della guerra delle spezie, nel 1605, gli olandesi strapparono il
possesso delle Molucche – note come le «Isole delle Spezie» – ai
portoghesi, spezzando cosi il monopolio del commercio dei chiodi di
garofano che durava da sessant’anni. Poi gli olandesi bruciarono e
sradicarono tutti gli alberi da cui si ricavava la spezia confinando le
piantagioni nella remota isola di Ambon, in modo da tenere segreta la fonte
dei chiodi di garofano e alto il prezzo sul mercato. Gli esploratori troppo
curiosi partiti in cerca della spezia venivano cacciati via. Chiunque fosse
stato colto ad esportare clandestinamente le piantine dall’isola veniva messo
a morte. Ci vollero quasi duecento anni per spezzare tale dominio ma, nei
primi anni del 1800, un francese di nome Pierre Poivre riuscì a
contrabbandare fuori dall’isola alcuni boccioli di chiodi di garofano in fiore.
Poivre portò i boccioli ai Caraibi, nelle Indie Occidentali francesi, e là si
mise a coltivare l’albero. Alla fine la pianta si diffuse in altri paesi con un
clima adatto alla sua coltivazione. Oggigiorno, la pianta che produce i
chiodi di garofano cresce in un’ampia fascia territoriale che va dal
Sudamerica al Nordafrica.

ALLA SCOPERTA DEI CHIODI DI GAROFANO

In tempi antichi i chiodi di garofano venivano adoperati per pulirsi i denti


e mantenere profumato l’alito. All’antica corte imperiale della Cina, durante
la dinastia Han, a nessuno era concesso parlare all’imperatore senza un
chiodo di garofano in bocca. Tale tradizione si è tramandata fino ai giorni
nostri in Asia, dove il chiodo di garofano viene sovente usato dopo il pasto
per rinfrescare l’alito.
Nella medicina tradizionale e popolare, i chiodi di garofano e il relativo
olio sono sempre stati utilizzati per curare tutta una serie di disturbi:
indigestione, nausea, gas intestinali, diarrea, gonfiore dello stomaco e
coliche, combattere infezioni di ogni tipo, calmare spasmi muscolari c
preparare le puerpere al parto, trattare affezioni cutanee quali acne, ulcere e
piaghe, come aiuto per la memoria e persino come afrodisiaco. E,
ovviamente, come spazzolino da denti.
Fu soltanto nel Medioevo che il chiodo di garofano prese piede in cucina.
Oggi i chiodi di garofano sono una spezia diffusa in praticamente tutte le
tradizioni gastronomiche, e le varie miscele di spezie provenienti da tutto il
mondo fanno ampio uso di chiodi di garofano. In Cina è uno dei principali
ingredienti della polvere Cinque spezie e lo ritroviamo in numerosi mix
indiani tra cui il garam masala, la miscela di base. È una delle quattro
spezie contemplate nel mélange francese quatte épices ed è un ingrediente
fondamentale sia della miscela marocchina denominata ras-el-hanout che
del baharat etiope.
I chiodi di garofano, che sono i boccioli fiorali di un albero sempreverde,
sono una spezia molto diffusa negli Stati Uniti, ove vengono adoperati in
preparazioni sia salate che dolci e le importazioni annue ammontano ad
oltre 1000 tonnellate. Gli americani sono soliti steccare il prosciutto con dei
chiodi di garofano, li includono nei mix di spezie per crostate di mele, li
mettono nelle uova sott’aceto e nelle aringhe marinate, e li aggiungono alle
salsicce fatte in casa e alle torte di frutta secca natalizie. Il chiodo di
garofano conferisce alla salsa Worcester quel suo aroma peculiare e, stando
a quel che si dice, è una delle spezie «segrete» del ketchup Heinz.

I chiodi di garofano possono contribuire a prevenire e/o curare:

Alitosi Epatite C
Ulcere Mal di denti
Herpes genitale Herpes labiale
Punture di zanzara Piorrea

I francesi usano steccare le cipolle con chiodi di garofano per rendere più
aromatici brodi e stufati. I tedeschi amano aggiungere chiodi di garofano
agli arrosti e altri piatti di carne a lunga cottura nonché alle pietanze di
selvaggina. Gli inglesi li mettono nel budino di Natale e nella torta di mele.
Il chiodo di garofano è altresì un ingrediente fondamentale per preparare il
vino alle spezie e lo si ritrova in molte altre bevande alcoliche: i tedeschi lo
usano per aromatizzare il celebre Feuerzangenbowle, letteralmente il
«punch con le pinze da camino», preparato con vino, rum caldo, agrumi e
zucchero. I francesi, invece, aggiungono chiodi di garofano a un liquore
d’arancio fatto in casa con chicchi di caffè e vodka. Versioni simili di tali
bevande sono tradizione anche in Italia e Spagna. Infine, i chiodi di
garofano vengono anche adoperati in alcuni vermouth dolci.
Ma nonostante la popolarità in cucina, gran parte della produzione
mondiale di chiodi di garofano finisce nella produzione della famosa
sigaretta indonesiana chiamata kretek. Tali sigarette contengono un 40% di
chiodi di garofano che causa un crepitio particolare quando vengono
fumate.
CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Il nome del chiodo di garofano deriva dal termine latino clavus – che
significa appunto chiodo – per via del suo aspetto molto simile al chiodo da
falegname. La spezia corrisponde al bocciolo ancora chiuso delle
infiorescenze di un albero che fiorisce due volte l’anno. La coltivazione e la
raccolta dei chiodi di garofano è un’operazione delicata poiché i boccioli
devono essere colti a mano dalla pianta al momento giusto.
I chiodi di garofano sono originari delle Molucche indonesiane, le
leggendarie «Isole delle Spezie», tuttavia la varietà migliore non proviene
da quelle terre. Tra gli «aficionados» del chiodo di garofano, quello
prodotto nell’isola malese di Penang è considerato il migliore, seguito a
ruota dalle varietà di Zanzibar e Madagascar. La maggior parte dei chiodi di
garofano importati negli Stati Uniti proviene dal Madagascar o dal Brasile.
L’unico modo per acquistare chiodi di garofano in base al luogo di
provenienza è rivolgersi a una drogheria specializzata oppure cercare sul
web.
Tuttavia, non è necessario fare tanta strada per comprare chiodi di
garofano esotici. Ai fini gastronomici, la cosa più importante è conservare il
più possibile la fragranza della spezia, e ciò significa acquistare i chiodi
interi e macinarli di persona. Una volta macinati, infatti, gli oli volatili
cominciano a disperdersi affievolendone così l’aroma.
Quando procedete all’acquisto, cercate chiodi di garofano di grandi
dimensioni, vale a dire sufficientemente grandi da distinguere chiaramente
il capo e il gambo. Detto per inciso, i chiodi di Penang sono i più grossi.
Dovete poter riconoscere i quattro sepali e i quattro petali ancora chiusi del
bocciolo, con gli stami al loro interno, che vanno a formare la capocchia del
chiodo. Astenetevi dal comprare chiodi di garofano che sembrano
frammenti di bastoncino: quelli sono solo i gambi. Il colore deve essere
bruno-rossastro.
I chiodi di garofano interi si mantengono per oltre un anno chiusi in un
contenitore ermetico e lontani dalla luce e dal calore.

IL CHIODO DI GAROFANO IN CUCINA


I chiodi di garofano hanno un profumo del tutto particolare, penetrante e
vagamente legnoso, e un sapore dolce con una punta di pepato. L’aroma si
attenua un poco con la cottura ma può dominare decisamente su altre
spezie.
Lo scrittore Tom Stobart, specializzato in gastronomia e autore di Cook’s
Encydopedia, fornisce questo consiglio: «Quando si tratta di conferire
aroma, è bene che i chiodi di garofano vengano tenuti sotto la soglia di
riconoscimento». Tenete a mente tale suggerimento quando cucinate con i
chiodi di garofano: ne bastano pochi per profumare una pentola di stufato, e
pochi chiodi macinati per insaporire un impasto dolce.
Quando aggiungete chiodi interi a una preparazione salata, dovreste
eliminarli prima di portare il piatto in tavola; masticare inavvertitamente un
chiodo di garofano può rovinare il sapore, per non parlare del rischio di
scheggiarsi un dente. Un accorgimento per evitare di ritrovarsi un chiodo di
garofano sotto i denti è quello di conficcare i chiodi in una piccola cipolla e
aggiungerla al liquido di cottura; a cottura ultimata, recuperate la cipolla e
scartatela.
Cipolla. Eccezionale contro il cancro

Il fatto che l’unico ortaggio abbastanza forte da far lacrimare gii occhi sia
anche sufficientemente potente da garantire la salute non deve sorprendere.
Le cipolle sono ricche di quercitina, un efficace genere di antiossidante che
rientra nella categoria dei flavonoidi, ossia sostanze in grado di ridurre il
rischio di tumori. Le cipolle fanno parte della stessa famiglia botanica
dell’aglio e, come l’aglio, contengono allicina che si trasforma in composti
organici solforati, ossia sostanze che possono ridurre il colesterolo,
fluidificare il sangue, garantire la flessibilità delle arterie e uccidere le
cellule tumorali. Le cipolle rosse e viola forniscono inoltre antocianine,
vale a dire gli stessi antiossidanti che fanno dei frutti di bosco veri e propri
fuoriclasse della nutrizione. Nel complesso, tali principi nutritivi, così come
molti altri composti, conferiscono alla spezia un potere terapeutico
eccezionale.

LE CIPOLLE ANTI-CANCRO

La convivenza tra quercitina e cancro è quanto mai difficile. La ricerca


scientifica dimostra che la quercitina è in grado di rallentare la crescita delle
cellule tumorali, arrestare la migrazione delle cellule ad altri siti
dell’organismo (metastasi) e indurne la morte con vari meccanismi, ad
esempio interrompendo l’afflusso di sangue che le alimenta o attivando geni
oncosoppressori. I vari composti organici solforati presenti nella cipolla
sortiscono effetti analoghi, e tutta questa attività a livello cellulare incide
profondamente su un’altra nostra attività quotidiana: la sopravvivenza! Uno
dopo l’altro, diversi studi hanno portato alla luce una correlazione
inversamente proporzionale tra apporto di cipolle e tassi di tumori ad esito
letale.
In uno studio pubblicato alcuni ricercatori italiani hanno analizzato i dati
nutrizionali e clinici di migliaia di individui desumendone un modello di
protezione costante: a un maggior consumo di cipolle corrispondeva un
numero inferiore di casi di tumore. Più specificamente, osservarono che,
rispetto a quanti consumavano meno cipolle, i soggetti con un apporto
alimentare più elevato presentavano una percentuale di rischio inferiore di
sviluppo delle seguenti patologie:

• carcinoma del colon: 56% in meno i carcinoma della mammella: 25% in


meno 1 carcinoma della prostata: 71% in meno
• carcinoma ovarico: 73% in meno
• carcinoma dell’esofago: 82% in meno
• tumori a carico della bocca: 84% in meno 1 carcinoma renale: 38% in
meno

Ed ecco le conclusioni dei ricercatori: «I nostri risultati confermano il


ruolo protettivo svolto dalle cipolle contro il rischio di sviluppo di svariate
tipologie di cancro».
Carcinoma endometriale. Un gruppo di ricercatori italiani ha osservato
che te donne che mangiavano due o più porzioni di cipolle alla settimana
presentavano una percentuale di rischio inferiore del 60% di sviluppare un
carcinoma dell’endometrio.
Carcinoma pancreatico. Alcuni ricercatori dell’Università della
California di San Francisco hanno analizzato i dati clinici e nutrizionali di
oltre 2000 persone osservando che nei soggetti con il maggior consumo di
cipolle (e aglio) la percentuale di rischio di carcinoma del pancreas era
inferiore del 54% rispetto agli individui con un consumo più limitato.
Carcinoma gastrico. Analizzando la dieta e i dati clinici di oltre 1900
individui di origine cinese, i ricercatori dell’Università della California
Meridionale hanno rilevato che a un maggior consumo di cipolle
corrispondeva un rischio di carcinoma dello stomaco inferiore.

LE ECCEZIONALI VIRTÙ DELLA CIPOLLA

Le cipolle proteggono la salute in numerosi altri modi.


Infarto. Un’équipe di ricercatori italiani ha analizzato i dati clinici e il
regime alimentare di oltre 1400 soggetti. Per gli individui che consumavano
una o più porzioni di cipolle alla settimana le probabilità di rischio di
infarto si attestavano su una percentuale inferiore del 22% rispetto a quelle
di persone con un consumo di cipolle ridottissimo. Le conclusioni degli
esperti furono pubblicate sull’European Journal of Nutrition: «Una dieta
ricca di cipolle può produrre un effetto positivo e auspicabile sul rischio di
infarto acuto del miocardio».
Colesterolo alto. Tra le donne giapponesi l’incidenza di infarti è
decisamente più bassa della media, ma qual è il motivo? Per scoprirlo,
alcuni ricercatori hanno analizzato il regime alimentare di 115 donne
giapponesi e hanno scoperto che quanti più flavonoidi consumavano
(essenzialmente da cipolle), più bassi risultavano i livelli di colesterolo
totale e LDL, ossia due fattori di rischio di malattie cardiovascolari. Il fatto
che le donne giapponesi presentino un consumo tanto elevato di flavonoidi
– principalmente quercitina e principalmente da cipolle – «può concorrere
alla bassa incidenza di cardiopatie coronariche rispetto alle donne di altri
paesi», conclusero gli esperti sul Journal of Nutrition.
Malattie cardiovascolari. In un altro studio, alcuni scienziati olandesi
hanno misurato l’apporto di flavonoidi – principalmente da tè, cipolle e
mele – in 805 soggetti di sesso maschile. Gli uomini contraddistinti
dall’apporto più elevato presentavano un rischio di patologie
cardiovascolari inferiore del 58% rispetto ai soggetti con l’apporto più
basso in assoluto. I risultati furono pubblicati sulla rivista Lancet.
Pressione alta. Un’équipe di ricercatori dell’Università dello Utah ha
trattato 41 pazienti ipertesi suddividendoli in due gruppi e somministrando
a solo uno di essi 730 mg di quercitina al giorno. In capo a un mese, i
soggetti trattati con l’integratore registrarono un calo della pressione pari a
57 punti per la sistolica (il valore della massima) e 5 punti per la diastolica
(il valore della minima).
Osteoporosi. Alcuni scienziati dell’Università di Medicina della Carolina
del Sud hanno analizzato i dati provenienti dalla National Health and
Nutrition Examination Survey (un’indagine periodica di analisi della salute
e della nutrizione svolta a livello nazionale, N.d.T.) che aveva coinvolto
oltre 35 milioni di donne. Dall’analisi risultò che le donne in periodo
perimenopausale e postmenopausale che consumavano una o più cipolle al
giorno presentavano una densità ossea superiore del 5% rispetto alle donne
che mangiavano cipolle solo una volta al mese o con frequenza addirittura
inferiore. I ricercatori giunsero alla conclusione che «il consumo di cipolle
sembra sortire effetti positivi sulla densità ossea» e, poiché ossa più dense
equivalgono a un minor numero di fratture, sulla rivista Menopause gli
esperti dichiararono che «le donne in età più avanzata che consumano
cipolle con maggiore frequenza potrebbero veder diminuire il rischio di
frattura dell’anca di oltre il 20% rispetto a chi non consuma mai cipolle».
Cicatrici chirurgiche. Alcuni ricercatori hanno notato che nelle persone
che utilizzano un gel a base di estratto di cipolla sulle cicatrici prodotte da
un intervento chirurgico, il tessuto cicatriziale è più morbido, meno
arrossato, con una pelle più liscia e un aspetto, nel complesso, esteticamente
migliore. Tali osservazioni sono state pubblicate sul Journal of Cosmetic
Dermatology.
Allergie. In un articolo sulle allergie, i ricercatori della Facoltà di
Medicina dell’Università di Boston sottolineano che la quercitina inibisce il
rilascio di istamina, ossia il fattore immune responsabile dei sintomi
allergici come lacrimazione e rinorrea. Scrivono inoltre che la quercitina è
«una terapia naturale sicura» per le allergie che può essere impiegata come
«terapia primaria o in combinazione ai metodi convenzionali».
Ipertrofia prostatica benigna. Questo disturbo, comunemente
denominato «ingrossamento della prostata», colpisce 10 milioni di uomini
di mezza età provocando difficoltà di minzione. Analizzando la dieta e i
dati clinici di oltre 1800 uomini, alcuni ricercatori italiani hanno notato che
coloro che mangiavano più cipolle presentavano un rischio ridotto del 59%
di sviluppare tale disturbo.
Diabete. Nel corso del tempo è stato realizzato un numero particolarmente
elevato di studi sulle cipolle e la riduzione del glucosio ematico in animali
da laboratorio affetti da diabete di tipo 2. Ciò ha indotto un’équipe di
ricercatori coreani a condurre una meta-analisi combinando i dati di tutti gli
studi per determinare se effettivamente ci fosse qualche risultato di spicco.
E così fu: le cipolle riducono la glicemia.

ALLA SCOPERTA DELLA CIPOLLA

Le cipolle vengono coltivate un po’ ovunque, non ultimo nell’orticello


dietro casa.
Esistono centinaia di varietà di cipolle, tutte diverse per colore, forma,
consistenza e forza aromatica.
Ne esistono centinaia di varietà, tutte diverse per colore, forma,
consistenza e forza aromatica. Possono essere gialle, rosse, viola, verdi,
bianche o dorate e, in quanto a dimensioni, variano dalla grandezza della
punta di un mignolo (le cipolline da cocktail) a quella di una palla da
baseball (le cipolle da stoccaggio). E poi vi sono ancora cipolle italiane,
cipolle delle Bermuda, cipolline, porri, cipolloni, scalogni e via di questo
passo.
Le cipolle insaporiscono più piatti di qualsiasi altra spezia. Costituiscono il
fondamento di praticamente tutte le basi per minestre, salse, preparazioni di
carne, pesce e verdure, e sono una spezia di rilievo in quasi tutte le culture
gastronomiche, ove vengono consumate crude, fritte, in pastella, al forno,
ridotte in crema, arrosto, alla griglia, bollite e sottaceto.
In Cina gli chef hanno un debole per i cipollotti dolci o di sapore
moderatamente pungente: li tritano o li affettano a crudo e li aggiungono a
minestre, sauté e preparazioni sottaceto. Le cipolle finiscono per guarnire i
laksa, ossia le minestre di spaghetti, vengono mescolate al riso, unite ai
condimenti e sminuzzate nelle salse.
In Indonesia le cipolle vengono affettate e unite a crudo in condimenti
piccanti chiamati sambal, serviti accanto a kebab di carne marinata detti
satay. Si usa anche aggiungerle pestate a miscele di spezie e intingoli
oppure cotte nelle salse. Per le loro caratteristiche di croccantezza e
dolcezza di sapore, vengono inoltre fritte in olio e adoperate per guarnire
tagliatelle saltate in padella e riso fritto.
In India le cipolle dorate, di forma tondeggiante e sapore pungente, sono
adoperate praticamente in tutte le ricette e vengono apprezzate non solo per
il loro aroma, ma anche per la trama e la consistenza che conferiscono ai
curry. Vengono mangiate crude nel kache piaz, un popolare condimento a
base di cipolla, e nel kachoomar a base di pomodoro. Gli indiani amano
mangiare le cipolle dorate così come sono (risultano più asciutte di quelle
che si trovano normalmente negli Stati Uniti) con un po’ di limone,
soprattutto quando sentono sopraggiungere un raffreddore.
Nella cucina turca lo scalogno intero accompagna tradizionalmente
l’agnello nei kebab, mentre in Tunisia i cuochi privilegiano il cuscus con
una pasta di cipolle fermentate detta hrous.
I francesi hanno un debole per gli scalogni sia di gusto intenso che
delicato, che utilizzano come base in numerose salse, tra cui la bernese. I
francesi sono famosi in tutto il mondo per la zuppa di cipolle e per la
pissaldière, una specialità provenzale composta da uno spesso strato di
cipolle caramellate su una spessa pasta crostosa somigliante a una pizza. La
torta di cipolle è una specialità della regione dell’Alsazia-Lorena, zona in
cui la gastronomia si ispira sia alla Francia che alla Germania.
I tedeschi sono ghiotti di cipolle ancor più dei francesi: saltate in padella
con lo strutto, guarniscono svariati piatti di carne e patate. Vengono anche
servite da soie, ridotte in purè o fritte, come verdura.
Gli spagnoli amano in particolar modo una salsa di pomodoro e cipolle
caramellate chiamata sofregit, mentre gli inglesi preferiscono le cipolle
ripiene. I russi sovente grattugiano le cipolle nelle marinate e in altri piatti
anziché spezzettarle o tritarle, in modo da rendere più forte il sapore.
Infine, negli Stati Uniti le cipolle, sia crude che fritte, costituiscono una
guarnizione di base in hot dog, hamburger, panini con salsicciotti e nei fast
food. Gli Stati Uniti sono la nazione che ha reso famosi in tutto il mondo gli
anelli fritti di cipolla in pastella.

La cipolla può contribuire a prevenire e/o curare:

Allergie Cicatrici
Colesterolo Pressione alta
Diabete di tipo 2 Tumori
Osteoporosi Infarti

Sul mercato statunitense le cipolle rientrano in due categorie definite in


base alla stagione e al tempo di raccolta: le cipolle primaverili (per
consumo fresco), tipicamente dolci, umide e deperibili, e le cipolle da
stoccaggio, pungenti, asciutte e conservabili a lungo.
Le cipolle primaverili vengono altresì definite cipolle verdi, cipolloni o
cipolle «gallesi». Si tratta di cipolle letteralmente giovani che non hanno
avuto ancora modo di crescere; alcune vengono colte prima che il bulbo
inizi a fiorire, e vi sono varietà che non giungono mai alla formazione del
bulbo. Sono dolci e umide e possono essere mangiate crude (in passato, le
cipolle primaverili venivano semplicemente condite con sale e consumate
come spuntino).
Le cipolle da stoccaggio, viceversa, vengono lasciate crescere per tutto il
periodo estivo e poi colte in autunno. Tutte le cipolle da stoccaggio sono
forti, vale a dire ricche di composti solforati. Poiché rispetto alle cipolle
primaverili non trattengono altrettanta umidità, risultano più forti di sapore
ma sono anche molto meno deperibili. La varietà dall’aroma più intenso e
pungente è la cipolla gialla, che in America viene comunemente definita
tonda o cipolla spagnola; segue a ruota la cipolla bianca, sovente chiamata
cipolla del Texas o Vìdalia, dal nome della cittadina della Georgia da cui
prende l’appellativo. Negli Stati Uniti le cipolle da stoccaggio vengono
classificate come segue:
• Le cipolle spagnole sono le classiche cipolle di grossa taglia reperibili in
commercio. Si tratta in effetti di cipolle tonde ma leggermente più dolci di
quelle preferite dagli indiani.
• Le cipolle delle Bermuda sono anch’esse dolci e possono essere di
varietà rossa, bianca e gialla.
• Le cipolle Vidalia (della Georgia) e le cipolle di Maui (coltivate
suU’omonima isola delle Hawaii) sono cipolle bianche ottenute da ibridi e
sono le più dolci fra le cipolle da stoccaggio.
Quando si tratta di cipolle e salute, tuttavia, c’è un’unica cosa da sapere:
quanto più forte è la cipolla, più elevato è il contenuto di composti organici
solforati e, di conseguenza, meglio fanno alla salute.

Lo scalogno: la cipolla più salutare

Non sottovalutate il potere curativo del piccolo scalogno. Quando i


ricercatori della Cornell University misurarono il contenuto nutrizionale di
13 varietà di cipolle vendute negli Stati Uniti, scoprirono che, a parità di
peso, gli scalogni presentavano un’attività antiossidante maggiore rispetto
alle cipolle gialle più forti e contenevano fenoli antiossidanti in quantità sei
volte superiori in confronto alle più delicate cipolle della varietà Vidalia.
Lo scalogno può essere impiegato sia a crudo che per cottura. L’aroma è
simile a quello di una cipolla forte con un sentore d’aglio. Poiché hanno un
sapore piuttosto intenso, quando li adoperate crudi è bene affettarli o tritarli
finemente.
Gli scalogni vanno conservati in un luogo fresco dove abbiano spazio per
respirare. Il consiglio è di acquistare scalogni che non siano ammaccati e di
non utilizzarli se hanno germogliato: non solo assumono un sapore amaro,
ma rovinerebbero anche gli altri scalogni.
Lo scalogno arrosto è un piacevole accompagnamento alle verdure, in
particolare se si servono come contorno a piatti di manzo, maiale, anatra o
pollo. Per preparare gli scalogni arrosto,fateli bollire a fuoco basso per 10
minuti nel latte senza privarli della buccia, quindi scolate il latte e fateli
arrostire in una cocotte coperta per 20 minuti, finché non sono teneri.
Infine, condite con una vinaigrette mediterranea.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Farete alla vostra salute e alle vostre papille gustative un gran favore se
acquisterete cipolle fresche e le adopererete con generosità: ogni giorno e
ogni qualvolta possibile. Detto ciò, le cipolle sono disponibili anche
disidratate in vari tipi di confezione: granulato, in polvere, macinate, tritate,
sminuzzate e tostate. Sia la cipolla fresca che le sue forme disidratate sono
reperibili in tutti i negozi di frutta e verdura nonché nei supermercati.
Quando si comprano cipolle da stoccaggio, è bene cercare bulbi pieni al
tatto, di colore uniforme e con diversi strati di buccia spessa e di
consistenza cartacea; devono essere sode e asciutte. Evitate le cipolle che
presentano macchie scure o aperte sul collo – segno che hanno preso
umidità – oppure zone molli, tracce di germoglio o marciume (la presenza
di chiazze scure è indice di marciume).
I cipolloni devono presentare cime dall’aspetto fresco: verdi, abbondanti e
turgide piuttosto che appassite.
Il modo migliore per conservare le cipolle da stoccaggio è in cantina, dove
la temperatura è fresca. In mancanza di una cantina, l’alternativa migliore è
conservarle a temperatura ambiente in un contenitore aperto, ad esempio un
cestino di vimini, per garantire una buona ventilazione. Una
raccomandazione: tenete le cipolle lontane dalle patate, poiché ne
assorbirebbero l’umidità e i gas finendo per guastarsi.
Le cipolle fresche di norma non andrebbero conservate in frigorifero, (ina
volta tagliate, tuttavia, è bene avvolgerle strettamente e riporle in (rigo,
dove si manterranno per circa una settimana qualora allettate, o per pochi
giorni se tritate. Cercate di non tagliarle con troppo anticipo prima dell’uso,
altrimenti cominciano a perdere i loro principi nutritivi.
Poiché i cipollotti sono deperibili, è bene conservarli in frigorifero in un
sacchetto di plastica. Si manterranno per circa una settimana.
Le cipolle da stoccaggio si mantengono bene per un periodo che va da
qualche settimana a qualche mese, a seconda del tipo di cipolla e del grado
di maturazione al momento dell’acquisto. In linea di massima, quanto più la
cipolla è forte, più a lungo si conserva.
Le cipolle disidratate durano per circa un anno qualora riposte in un
contenitore ermetico, in un luogo fresco e lontano dalla luce.

LA CIPOLLA IN CUCINA

Le cipolle sono sinonimo di cucina casalinga e sono indispensabili almeno


quanto il Scile e il pepe. Esse conferiscono ai piatti aroma, colore e
consistenza.
Le cipolle gialle sono più adatte alla preparazione di umidi, minestre e
salse che richiedono una cottura prolungata. Le cipolle dolci, come la
varietà Vidalia, trovano miglior impiego se cucinate intere al forno o per
preparare anelli di cipolla fritti in pastella. Le cipolle rosse sono perfette per
il consumo a crudo in panini, insalate e preparazioni sottaceto. Le
borretane, invece, vengono utilizzate per preparare cipolline glassate o
sott’aceto.
Per ridurre al minimo la lacrimazione quando le si affetta, mettetele in
frigo per almeno un’ora prima di procedere al taglio. Il freddo rallenta la
volatilità dell’allicina nel momento in cui la sostanza viene liberata
nell’atmosfera. Tagliare le cipolle sotto l’acqua corrente fredda è un altro
accorgimento che può impedire di far lacrimare gli occhi, tuttavia l’allicina
viene dilavata dall’acqua ed è meglio evitarlo.
Per eliminare l’odore di cipolla dalle mani dopo averla pelata e tritata,
sciacquate semplicemente le mani sotto l’acqua fredda oppure strofinate del
sale tra i palmi e poi lavatevi le mani con sapone e acqua tiepida.
Di seguito, alcuni suggerimenti per arricchire di cipolle la vostra dieta:

• Provate ad accompagnare la carne con delle cipolle saltate in padella:


forniranno l’umidità che spesso manca alle carni, soprattutto ai tagli
piuttosto magri.
• Le cipolle sono un ingrediente eccellente nella marinata per i tagli di
carne che richiedono di essere ammorbiditi. A tale scopo, tritate
grossolanamente le cipolle e disponetele sulla carne, quindi versate la
marinata sulle cipolle e intorno alla carne. Rigirate il pezzo ogni tanto (dopo
qualche ora) e ricoprite di cipolle l’altro lato aiutandovi con un cucchiaio.
• Se non amate mangiare le cipolle crude perché hanno un sapore troppo
forte, potete mitigarne la pungenza tenendole a bagno in acqua fredda per
una notte.
• Aggiungete delle cipolle crude rosse o di varietà dolce alle insalate di
verdura, di pollo e di tonno.
• Cipolle rosse o cipolloni affettati sono ottimi nelle insalate e nei
sandwich.
• Unite dello scalogno a dadini ai condimenti per insalate.
• Saltate in padella le cipolle e servitele sulle svizzere alla griglia. Uno
studio ha evidenziato che le cipolle saltate sulle svizzere cotte alla griglia
possono neutralizzare le ammine eterocicliche (HCA), ossia i composti
cancerogeni che si formano sulle carni grigliate e soprattutto nel manzo.
• Non pelate le cipolle quando le utilizzate insieme ad altre verdure
aromatiche per preparare il brodo: la buccia contribuisce a colorire il brodo
senza lasciare tracce di amaro.
• Quando cucinate le cipolle, evitate il burro e saltatele invece con poco
olio di oliva o di canola. Per evitare che assorbano troppo olio
(contribuendo a un indesiderato aumento delle calorie) abbassate il fuoco e
coprite bene con un coperchio: otterrete cipolle croccanti e poco unte.
• Se non volete che risultino troppo forti, tritate le cipolle o sminuzzatele
poco prima di aggiungerle alla ricetta. Le cipolle acquistano forza quanto
più rimangono a contatto con l’aria.
• È possibile avere dell’erba cipollina fresca a disposizione tutto l’anno e
senza spendere un soldo coltivandola in un vaso sul davanzale. Continuate a
cimarla con le forbici perché continui a crescere.
• Preparate le cipolle marinate alla nicaraguense – che i locali chiamano
cebollitas – unendo 1 tazza di aceto distillato bianco, 2 cucchiaini di sale e
1 cucchiaino di zucchero e versando il preparato su una cipolla e tre
peperoncini entrambi finemente affettati. Lasciate riposare le cebollitas a
temperatura ambiente per un’ora o due e poi riponete in frigo per almeno un
giorno prima di consumarle.
Citronella. La spezia calmante

La citronella è famosa per le sue virtù calmanti: quando un brasiliano è


teso e nervoso, beve abafado, una tisana di citronella ritenuta capace di
allentare la tensione e conciliare il sonno. I guaritori nigeriani adoperano la
tisana di citronella per alleviare il mal di gola, abbassare la febbre e tenere
sotto controllo il diabete. In Thailandia e Vietnam B dove la citronella è un
ingrediente largamente utilizzato in cucina – i guaritori la impiegano anche
per migliorare la circolazione.
Una ragione per cui tali rimedi popolari funzionano potrebbe risiedere nel
citrale, un olio con proprietà antiossidanti presente nella citronella che
svolge un’azione antinfiammatoria, antibatterica e antimicotica. L’olio è
altresì ricco di steroli vegetali, ossia fito-composti dalla struttura simile al
colesterolo che riducono l’assorbimento del colesterolo alimentare.

COME DOMARE IL COLESTEROLO

I ricercatori della Facoltà di Scienze della nutrizione dell’Università del


Wisconsin hanno tenuto sotto osservazione 22 persone con elevati livelli di
colesterolo totale (una media di 315 mg/dL, laddove 200 o un valore
inferiore rientrano nella norma) e somministrato loro 140 mg al giorno di
olio di citronella. Dopo tre mesi, 8 soggetti avevano registrato un forte calo
del colesterolo totale, fino a 38 mg/dL.
In un altro studio sulla citronella e il colesterolo, alcuni scienziati cileni
hanno scoperto che un composto presente nella pianta inibiva l’ossidazione
del colesterolo LDL (quello «cattivo»), vale a dire il processo che porta alla
formazione della placca ateromatosa sulle pareti delle arterie. Le
conclusioni dei ricercatori, pubblicate sulla rivista Molecules, furono le
seguenti: «Poiché il danno ossidativo sull’LDL è l’evento principale nella
formazione di lesioni aterosclerotiche, l’impiego di tale antiossidante
naturale può essere di qualche beneficio nel prevenire o attenuare
l’aterosclerosi».
Il colesterolo alto è un problema comune negli individui affetti da diabete
di tipo 2, il 75% dei quali muore per complicanze cardiovascolari.
Considerando che la citronella viene utilizzata dai guaritori Yoruba della
Nigeria sud-occidentale per trattare il diabete – nonché febbre, ittero,
infezioni della faringe e delle vie respiratorie, dolori da moderati a gravi,
ipertensione e obesità –, gli scienziati nigeriani hanno testato un estratto di
citronella su animali da laboratorio ed hanno rilevato che la spezia abbassa i
livelli di LDL, colesterolo totale e trigliceridi, aumentando parallelamente i
livelli di HDL e riducendo altresì i livelli di glucosio ematico. Tali risultati
«convalidano l’impiego popolare della citronella e la sicurezza della stessa
nei pazienti affetti da diabete di tipo 2».

INSISTIAMO SULLA CITRONELLA

La citronella può fare bene alla salute in diversi altri modi.


Tumori. In sede di laboratorio, un’équipe di ricercatori dell’Istituto
Indiano di Medicina Integrativa ha studiato gli effetti dell’olio di citronella
su 12 tipi di cellule di carcinoma umano. Quanto più olio di citronella
veniva usato, peggiori erano le condizioni per le cellule tumorali: la
citronella distruggeva le strutture digitiformi sulla superfìcie delle cellule
tumorali, bloccava il primo stadio della divisione cellulare e uccideva le
cellule. Sulla rivista Chemical and Biological Internetions, i ricercatori
conclusero che l’olio di cìtronella «rivela una promettente attività
antitumorale e riduce la vitalità delle cellule tumorali».
Quando alcuni studiosi israeliani hanno esaminato le potenzialità
antitumorali del citrale – in quantità tipicamente presenti in una tazza di
tisana di citronella – hanno scoperto che era in grado di uccidere le cellule
del carcinoma umano.
Nell’ambito di studi condotti su animali, i ricercatori del Dipartimento di
Dermatologia della Facoltà di Medicina dell’UCLA (Università della
California, Los Angeles) hanno notato che il citrale proteggeva le cavie da
tumori cutanei e può dunque trovare impiego come agente antitumorale.
Altri ricercatori giapponesi hanno inoltre scoperto che il citrale attivava
degli antiossidanti in sede cutanea che possono fornire protezione contro i
tumori della pelle.
Conducendo studi su animali, un altro gruppo di scienziati giapponesi ha
evidenziato che l’estratto di citronella fornisce protezione contro il
carcinoma epatico chimicamente indotto, e tali risultati sono stati pubblicati
su Cancer Letters. Secondo uno studio apparso su Carcinogenesis, invece,
un’équipe di studiosi giapponesi ha scoperto che l’estratto di citronella
protegge gli animali da laboratorio dal carcinoma del colon.
In India, alcuni ricercatori hanno riscontrato che un estratto di citronella
era in grado di proteggere i soggetti animali dalla radiazione ionizzante che
danneggia il DNA, ossia lo stesso tipo di radiazione responsabile dei tumori a
cui ci espone la luce solare e le apparecchiature mediche quali i dispositivi
per radiografie e TAC.
Ansia. Notando che la tisana di citronella viene normalmente usata nella
medicina popolare brasiliana per alleviare l’ansia, alcuni ricercatori del
Brasile hanno sperimentato un estratto di citronella sui topi. Utilizzando una
struttura a labirinto standard per valutare il livello di ansia, hanno
riscontrato che la tisana calmava notevolmente gli animali.
Insonnia. I medesimi scienziati hanno inoltre scoperto che l’estratto di
citronella riduce l’attività fisica e induce il sonno nei topi con la stessa
efficacia di un farmaco sedativo.
Epilessia. La spezia è anche in grado di ridurre il numero di crisi
epilettiche indotte chimicamente nei topi.
Infezioni micotiche e da lieviti. Alcuni medici del Sudafrica hanno
scoperto che la citronella combinata a succo di limone costituisce un
trattamento efficace per la candi-dosi orale, o mughetto (un’infezione
localizzata sulla superficie interna della guancia e sulla lingua provocata dal
fungo Candida albicans) in pazienti affetti da HIV/AIDS. I risultati dello
studio sono stati pubblicati sulla rivista Phytomedicine.
Sempre a tale proposito, alcuni ricercatori del Brasile hanno osservato che
l’olio di citronella e il citrale esercitano una potente attività antimicotica
contro i funghi del genere Candida. Alle stesse conclusioni sono pervenuti
anche alcuni ricercatori giapponesi, i quali hanno dichiarato che i risultati
ottenuti «forniscono una prova sperimentale del potenziale valore dell’olio
di citronella nel trattamento della candidosi orale e vaginale».

ALLA SCOPERTA DELLA CITRONELLA

La citronella è un’erba a portamento cespuglioso, con foglie nastriformi


dotate di un fusto centrale, ed è originaria dell’Asia Sud-orientale. Quando
le foglie vengono sminuzzate e pestate, rilasciano un profumo di limone
caratteristico nelle tradizioni gastronomiche della Thailandia e del Vietnam,
dove la citronella è largamente adoperata per preparazioni in umido e
minestre, come la minestra agro-piccante.
In Thailandia i gambi teneri vengono anche aggiunti freschi alle insalate o
ridotti in pasta da utilizzare nei curry; talvolta le foglie vengono annodate e
messe a cuocere direttamente nel curry. Di fatto, la citronella è adoperata
per aromatizzare paste e mélange speziati in tutto il Sudest asiatico; è infatti
un ingrediente fondamentale dei condimenti piccanti chiamati sambal e di
una salsa speziata indonesiana detta bumbu, onnipresente sulle bancarelle di
cibo ai bordi delle strade.
La citronella, originaria dell’Asia Sud-orientale, presenta foglie
nastriformi a portamento cespuglioso dotate di un fusto centrale.
Nell’antica Roma la citronella veniva utilizzata per profumare l’acqua dei
bagni.
Le coltivazioni di tale erba si trovano principalmente nell’Asia Sud-
orientale, nello Sri Lanka, in India, nella zona dei Caraibi, in Australia e in
Florida. La citronella della Florida, tuttavia, non viene coltivata a scopo
culinario bensì per l’estrazione dell’olio impiegato nella fabbricazione di
cosmetici, saponi, sali da bagno, profumi e cere per i mobili.
L’olio di citronella viene sovente utilizzato come repellente per insetti in
oli aromatici e candele, ma l’olio insettifugo viene estratto da due varietà di
citronella non commestibili.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Spesso è possibile trovare la citronella fresca in negozi ben fomiti o di


fascia alta nelle zone in cui risiede una vasta comunità indiana. Sebbene
l’intera pianta abbia caratteristiche aromatiche, di norma è disponibile solo
la parte terminale del gambo, di colore bianco, in quanto costituisce l’unica
parte della pianta sufficientemente tenera da potersi mangiare.
I gambi di citronella freschi vengono tipicamente venduti a mazzi.
Scegliete sempre gambi compatti che non abbiano un aspetto appassito o
rugoso; idealmente dovrebbero essere bianchi con una sfumatura
verdognola. In ogni caso, per coloro che appartengono a una delle culture
dei paesi di cui la citronella è originaria è più facile acquistare l’intera
pianta, radici e foglie comprese, poiché le foglie verranno utilizzate per
preparare tisane. Chi ama particolarmente la citronella aggiunge le foglie
anche alle ricette che prevedono un liquido di cottura, piegandole o
annodandole in modo da liberarne l’aroma; queste vengono poi scartate,
come l’alloro, prima di portare il piatto in tavola. Le botteghe indiane e
latine solitamente espongono la pianta intera (che si può trovare anche
surgelata), ma attenzione: le foglie hanno un bordo tagliente.
La citronella viene anche venduta in barattoli conservata in succo di
limone o aceto, e questa è la soluzione più vicina alla spezia fresca.
Nei negozi di prodotti indiani è» anche possibile acquistare la spezia
disidratata, che viene talvolta venduta sotto il nome indonesiano di sereh.
La citronella disidratata si può trovare intera, grattugiata o macinata; in tal
caso, prima di utilizzarla fatela rinvenire in acqua.
La citronella macinata è disponibile nella maggior parte dei supermercati
che dispongono di un reparto spezie ben fornito.
Tuttavia, la citronella disidratata, in tutte le sue forme, manca del tipico e
intenso profumo di limone che caratterizza l’erba fresca. Indubbiamente, il
massimo del sapore e del-raroma si ottiene dalla citronella fresca; se
tuttavia quest’ultima non è reperibile, quella conservata sotto vetro è la
scelta migliore rispetto a qualsiasi altra variante.
Nelle botteghe di prodotti asiatici e latini potete anche trovare foglie
essiccate di citronella per preparare tisane; non usatele per cucinare, poiché
contribuiscono ben poco a livello di sapore nel risultato finale del piatto.
La citronella fresca può essere conservata in frigorifero per circa due
settimane se riposta in un sacchetto di plastica. Può anche essere surgelata
in sacchetti ermetici per freezer è, in questo caso, si conserva per sei mesi.
La citronella disidratata, invece, va riposta in un contenitore a chiusura
ermetica in un luogo asciutto e lontano dalla luce. Si mantiene per circa un
anno.

La citronella può contribuire a prevenire e/o curare:

Ansia Candidosi del cavo orale


Colesterolo Epilessia
Diabete di tipo 2 Tumori
Candidosi vaginale Insonnia
Trigliceridi

LA CITRONELLA IN CUCINA

Grazie al sapore robusto, la citronella sopporta lunghe cotture senza


perdere nulla del suo aroma. È dunque ideale per preparazioni che
richiedono una cottura lenta e prolungata, come gli umidi e i curry. Tuttavia,
per sfruttare al meglio l’intenso aroma di limone, occorre prepararla
adeguatamente.
Se avete acquistato un gambo, tagliatelo a rondelle sottili; in alternativa,
tagliatelo in tranci e pestateli con la lama di un coltello, come fareste con
l’aglio, prima di aggiungere la citronella a un piatto. In breve, utilizzatela
allo stesso modo del cipollotto.
Se viceversa avete acquistato la pianta intera, con foglie e tutto il resto,
dovrete mondarla per ottenere la parte edibile: tagliate la parte radicale con
un coltello e sfilate via le foglie esterne fino a mettere a nudo il gambo
centrale bianco (sarebbe una buona idea indossare dei guanti per
proteggersi le mani da eventuali tagli), quindi affettate o spezzettate il
gambo.
In Thailandia la gente beve tè freddo alla citronella, leggermente
zuccherato, per compensare la piccantezza dei piatti. Viene servito sia a
pranzo che a cena.
Di seguito alcuni suggerimenti per arricchire di citronella la vostra dieta:

• Tagliate grossolanamente i gambi e aggiungeteli all’acqua quando


preparate del pesce al vapore.
• Mettete i gambi nel cartoccio di alluminio quando cucinare del pesce
grigliato.
• Per mescolare, utilizzate i gambi interi al posto del cucchiaio per
aggiungere una nota di profumo di limone ai drink o per intensificare il
gusto della limonata.
• La citronella può essere utilizzata per ammorbidire e aromatizzare la
carne. Tagliate a pezzi due gambi di citronella e passateli al macinaspezie
insieme ad aglio, chiodi di garofano e 1 cucchiaio di semi di coriandolo.
Unite alle spezie macinate 1 cucchiaio di zucchero di canna e 1/4 tazza di
salsa di pesce orientale, quindi soffregate le bistecche o il manzo per il
kebab con la mistura prima di metterli sulla griglia.
• Combinate citronella (dolce) e un’abbondante dose di aglio e scalogni
per preparare una salsa agrodolce come si usa fare in Malesia.
Cocco. Il grasso che brucia calorie

Con il termine cocco si intendono varie cose: la palma, la noce, il frutto


candito e anche la spezia.
In veste di spezia, il cocco corrisponde alla polpa disidratata e grattugiata
del frutto di una palma maestosa che cresce nelle regioni tropicali e
subtropicali di tutto il mondo. Sebbene gli abitanti di tali zone usino il
cocco per aromatizzare i piatti salati, noi occidentali lo identifichiamo con
dolci squisiti e tutte le calorie del caso, un’abitudine alimentare che può
aver condotto a una percezione diffusa che il cocco faccia male.
Vero è che il cocco contiene molti grassi: è composto da grassi per l’82%,
di cui il 76% sono saturi, esattamente il tipo di grassi che i medici
raccomandano di ridurre al minimo poiché ostruiscono le arterie. Ma ecco
la sorpresa: sono proprio i grassi saturi a rendere il cocco una super-spezia!
E questo perché i grassi saturi del cocco e quelli presenti nella carne e nel
latte non sono la stessa cosa.
I grassi saturi del cocco sono ciò che normalmente vengono definiti
trigliceridi a catena media (in sigla MCT), ma per capire perché tale
distinzione sia importante, esaminiamo i grassi più in dettaglio.
Se mettete una minuscola goccia di grasso sotto un potente microscopio in
grado di distinguere atomi e molecole, vedrete dei trigliceridi, ossia tre
acidi grassi agganciati tra loro a costituire una molecola di glicerolo. Tali
acidi grassi formano delle catene collegate da atomi di carbonio: alcune
catene sono brevi, composte da quattro a sei atomi di carbonio, alcune sono
lunghe, con 24 atomi di carbonio, ed altre ancora sono di media lunghezza e
presentano da 8 a 12 atomi di carbonio.
Il 90% dei grassi, come quelli presenti nella carne e nel latte, sono acidi
grassi a catena lunga. Per metabolizzarli l’organismo li intercetta nel
torrente ematico mediante molecole di trasporto dette chilomicroni e li
veicola verso gli adipociti.
I trigliceridi a catena media, invece, non vengono digeriti in questo modo.
L’organismo, infatti, li trasferisce direttamente dallo stomaco al fegato dove
vengono immediatamente metabolizzati, e tale azione metabolica fulminea
di fatto brucia più calorie di quante ne contenga il grasso stesso. Gli studi
dimostrano che le persone che assumono molti trigliceridi a catena media
con gli alimenti bruciano in media 100 calorie in più al giorno rispetto a
quanti non seguono una dieta ricca di MCT. E il cocco contiene più MCT di
qualsiasi altro alimento.
Sì, i grassi del cocco possono aiutarvi a bruciare calorie in modo da
perdere peso o mantenerlo stabile. Gli scienziati pensano di sì.

UN GRASSO PER ABBATTERE I CHILI DI TROPPO

Nell’ambito di un esperimento, alcuni ricercatori canadesi invitarono 12


donne in perfetta salute a scegliere tra due possibilità e adottare una strana
dieta per due settimane. Entrambe le diete erano composte da proteine per il
15%, carboidrati per il 45% e glassi per il 40%, e fin qui lutto nella norma.
Metà delie donne, tuttavia, doveva consumare l’80% dei grassi contemplati
mangiando sego di manzo, mentre le altre dovevano ricorrere a una
combinazione di burro e olio di noce di cocco. In altre parole, entrambi i
grappi dovettero consumare abbondanti quantità di grassi saturi contenenti
trigliceridi a catena lunga, ma solo uno dei due poteva contare anche
.sull’apporto di grassi saturi con trigliceridi a catena media.
In capo a due settimane, le donne che consumarono trigliceridi a catena
media bruciarono circa il 45% in più di grassi con trigliceridi a catena
lunga.
Nessuna perse o acquistò peso. D’altronde, lo studio non era stato
progettato come esperimento su come perdere peso bensì per comprovare
l’ipotesi che gli MCT sono eccezionali nel bruciare grassi, e fu proprio ciò
che venne dimostrato.
I ricercatori esposero le loro conclusioni in un articolo pubblicato sulla
rivista Intemational Journal of Obesity and Related Metabolic Disorders:
«La capacità degli MCT (di incrementare il metabolismo lipidico degli acidi
grassi saturi a catena lunga) suggerisce una possibilità di impiego nel
controllo del peso sul lungo periodo».
In uno studio comparso sulla rivista Lipids, alcuni ricercatori brasiliani
studiarono 40 donne suddividendole in due gruppi: a un gruppo vennero
somministrati integratori a base di olio di semi soia, l’altro assunse dell’olio
di noce di cocco. Dopo tre mesi, entrambi i gruppi avevano registrato un
moderato calo del peso ma solo le donne che assunsero olio di noce di
cocco presentavano meno pancia – e, detto per inciso, il grasso addominale
non è solo antiestetico ma ha anche la pessima abitudine di scaricare agenti
infiammatori che aumentano il rischio di malattie cardiovascolari è ictus. Il
cocco, conclusero i ricercatori, può «promuovere una riduzione dell’obesità
addominale».
Un’osservazione altrettanto importante fu che l’olio di noce di cocco non
aumentava i livelli di colesterolo LDL, dannoso per il cuore, bensì
incrementava i livelli di salutare colesterolo HDL.

COCCO PER UNA SALUTE MIGLIORE

Un fisico snello non è l’unico aspetto promozionale del cocco a vantaggio


della salute.
Proprietà antibatteriche. Il latte di noce di cocco contiene acido laurico,
un trigliceride a catena media che l’organismo scinde in monolaurina. In
uno studio condotto da ricercatori filippini, la monolaurina si è dimostrata
capace di uccidere diversi tipi di batteri, tra cui lo Staphylococcus aureus, lo
Streptococcus, l’Enterobacter e l’Enterococcus.
Anche un’altra équipe di esperti, in questo caso del Georgetown
University Medical Center, che ha studiato il composto afferma che la
monolaurina «potrebbe dimostrarsi utile nella prevenzione e nel trattamento
di infezioni batteriche gravi, in particolare i casi difficili da trattare e/o
resistenti ai farmaci antibatterici».
Acne. Alcuni ricercatori dell’Università della California di San Diego
hanno osservato che una formula contenente acido laurico si era dimostrata
eccezionalmente efficace nel-l’uccidere i batteri che provocano l’acne. La
formula, conclusero, ha un «grande potenziale per diventare un presidio
terapeutico sicuro ed efficace contro l’acne».
Proprietà antimicotiche. In Islanda, alcuni studiosi hanno scoperto che
l’acido laurico e l’acido caprico (un altro trigliceride a catena media
presente nel cocco) uccide la Candida aJbicans, il fungo responsabile delle
infezioni da lieviti.
Tumore del colon. Il cocco è ricco di catechine, vale a dire agenti
antiossidanti che svolgono un’azione di contrasto ai tumori. Nell’ambito di
uno studio condotto in India, l’aggiunta di cocco al regime alimentare di
alcuni animali da laboratorio ridusse notevolmente lo sviluppo di carcinomi
del colon indotti chimicamente.
Morbo di Alzheimer. Un’équipe intemazionale di scienziati ha indotto la
menopausa in animali da laboratorio suddividendoli successivamente in
quattro grappi e alimentando uno di questi con dell’acqua di noci di cocco.
Dopo cinque settimane, si resero conto che gli animali nutriti in tal modo
presentavano livelli ematici di estrogeni più alti e contemporaneamente una
minore distruzione delle cellule cerebrali. I risultati dimostrano dunque che
l’acqua di noci di cocco ha caratteristiche estrogeno-simili e potrebbe
svolgere una funzione importante nella prevenzione del morbo di
Alzheimer ed altri tipi di demenza che insorgono dopo la menopausa.
Morbo di Crohn. In Spagna alcuni scienziati hanno impiegato l’olio di
noce di cocco per ridurre il grado di morbosità di tale patologia
infiammatoria dell’intestino chimicamente indotta in animali da laboratorio.
L’olio agì riducendo l’infiammazione e, sul Journal of Clinical Nutrition, i
ricercatori scrissero che è presumibile attendersi un «effetto terapeutico
primario dei trigliceridi a catena media sul morbo di Crohn in soggetti
umani».
Proprietà antalgiche. Alcuni ricercatori brasiliani hanno notato che nella
regione nord-occidentale del Brasile le fibre del guscio della noce di cocco
vengono usate per preparare un tè normalmente impiegato per «trattare
disturbi infiammatori gravi». Quando gli scienziati testarono il tè su animali
da laboratorio, scoprirono che non solo riduceva l’infiammazione ma
alleviava anche il dolore allo stesso modo della morfina. Sulla rivista
Journal of Ethnophaimacology annunciarono che i riscontri di tale studio
confermavano l’efficacia del tè nel ridurre il processo flogistico.

ALLA SCOPERTA DEL COCCO

Non sorprende che la palma del cocco venga chiamata «l’albero della
vita». Tipicamente, una palma produce da 60 a 180 noci di cocco all’anno,
che costituiscono l’elemento di base della dieta di milioni di persone in
Asia Meridionale e nel Sudest asiatico, nel Pacifico meridionale e nell’area
caraibica, regioni in cui l’equivalente di una noce di cocco ogni giorno
viene consumata sotto forma di acqua, latte, olio e spezia.
L’acqua di cocco è il liquido che si trova all’interno delle noci non ancora
mature; si tratta di una bevanda diffusa in tutti i tropici. Ad esempio, in
Brasile figura solo al secondo posto dopo il succo d’arancia.
Il latte di cocco viene ottenuto versando dell’acqua bollente, normale o di
cocco, sulla polpa di cocco sminuzzata per poi strizzarla in modo da
estrarne il latte. Ha un sapore dolce e il colore del latte, con un gusto che
ricorda le mandorle, e viene ampiamente utilizzato come aromatizzante
nelle cucine di tutto il Sudest asiatico, dell’India meridionale,
dell’Indonesia, del Sudamerica, delle isole del Pacifico e dei Caraibi.
Il latte di cocco conferisce un sapore del tutto particolare al saté lalat, un
piatto a base di polpette alla piastra diffuso nell’isola indonesiana di
Madura, nei pressi di Giava. È ampiamente impiegato nella cucina bahiana
– una variante brasiliana locale simile a quella della tradizione Cajun – ed è
la base dell’apprezzatissima salsa di arachidi che contiene anche aglio,
pomodoro e foglie fresche di coriandolo.
Nello Sri Lanka, il latte di cocco viene adoperato insieme ad altre spezie
tostate per ammorbidire e dare corpo ai curry piccanti. Viene altresì
utilizzato negli hopper, una sorta di frittelle di farina di riso lievitate e cotte
al vapore che vengono servite a colazione.
La crema di cocco, una versione del latte di cocco di consistenza più
densa e pastosa, viene adoperata in molti piatti della regione del Kerala,
un’area dell’India meridionale nota per i suoi splendidi curry di pesce.
Il cocco come spezia (disidratato e grattugiato) è, unitamente al latte di
cocco, un ingrediente essenziale in vari curry e preparazioni di verdure
della cucina indonesiana e malese. La spezia viene inoltre usata in un piatto
di carne chiamato rendang, ma è anche adoperata per preparare budini di
riso e dadar, una sorta di crèpes con ripieno dolce di polpa di cocco.
Pesce e frutti di mare preparati con riso e cocco disidratato grattugiato
costituiscono la dieta quotidiana della popolazione che vive lungo la costa
tropicale del Malabar in India. Il cocco disidratato è poi ampiamente
utilizzato nella cucina dell’India meridionale, soprattutto nei curry; e non
dimentichiamo che tale zona è famosa per i suoi chutney di cocco. I piatti a
base di verdure contengono solitamente cocco disidratato tostato.
L’olio di noce di cocco è l’olio per frittura più diffuso nella cucina
dell’India meridionale.
Il cocco può contribuire a prevenire e/o curare:

Acne Candidosi vaginale


Dolori Infezioni batteriche
Obesità Tumori
Morbo di Alzheimer Morbo di Crohn

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

A parte gli abitanti della Florida e delle Hawaii, la maggior parte degli
americani conosce solo il cocco fresco e assaggia l’acqua di cocco
esclusivamente se va in vacanza ai tropici. Eppure, il cocco grattugiato sia
fresco che disidratato è facilmente reperibile nella maggior pare dei
supermercati, e viene venduto tostato, zuccherato o non zuccherato; è
persino disponibile in tre varianti: fine, media e grossa (la scala si riferisce
alle dimensioni della grana ottenuta, non alla qualità).
La scelta più ricca di cocco grattugiato la potete trovare nei negozi di
prodotti asiatici e indiani, ma è anche possibile acquistarlo online.
Il latte di cocco è reperibile in lattina sia zuccherato che non zuccherato
oppure sotto forma di pasta concentrata da ricostituire; dovreste trovarlo
nelle sezioni specializzate in prodotti asiatici della maggior parte dei
supermercati. Una volta aperta la lattina, potete riporre in freezer il
quantitativo non adoperato; il latte di cocco sopporta bene il congelamento
e si conserva per diversi mesi.
Negli Stati Uniti, l’olio di noci di cocco viene raramente adoperato in
cucina, in quanto poco conosciuto e per via dell’alto contenuto di grassi
saturi. Con la diffusione delle notizie sulla capacità dei trigliceridi a catena
media di bruciare i grassi, tuttavia, è possibile che prima o poi diventi un
alimento «funzionale» come l’olio di oliva, generalmente reputato un olio
dal buon sapore e per di più salutare. Per cucinare, l’olio di noce di cocco
vergine è considerato superiore all’olio normale.

IL COCCO IN CUCINA
Molti americani conoscono il cocco essenzialmente grazie al Coco Lopez,
una densa crema in scatola fatta di zucchero di canna e cocco che
costituisce l’ingrediente di base del drink al rum chiamato piña colada. Per
i cuochi, invece, è un ingrediente familiare utilizzato in torte, dolciumi e
altri dessert.
Nelle altre nazioni in cui cresce la palma da cocco, il cocco viene per lo
più usato nelle preparazioni salate. Per quel che riguarda l’impiego del
cocco in ricette salate, gli americani forse hanno più familiarità con i
gamberi al cocco (gamberi fritti con una impanatura di cocco), un antipasto
piuttosto diffuso. Non esitate a provare questa spezia in cucina, poiché si
adatta ottimamente a quasi tutti i tipi di cibo, in particolare le carni rosse, il
pollame e il pesce.
Oltre a preparare biscotti e torte, ecco alcune idee per estendere l’uso del
cocco ad altri ambiti in cucina:

• Distribuite del cocco tostato sui curry al termine della cottura oppure
aggiungete del cocco grattugiato a carne, pesce e curry.
• Provate una spolveratina di cocco sulla cioccolata calda o, meglio
ancora, preparate una cioccolata calda con latte di cocco anziché latte
vaccino. Usate una stecca di cannella per rimestare.
Coriandolo. Un aiuto per i problemi di intestino

Prima di tutto occorre definire il termine: le foglie fortemente prolumate


della pianta del coriandolo, che inglesi e spagnoli chiamano cilantro, non
costituiscono una spezia, bensì un’erba aromatica priva di proprietà
terapeutiche particolari.
I semi della pianta, singolarmente dolci, costituiscono la spezia detta
appunto coriandolo, e fanno davvero bene alla salute.
Il coriandolo è una delle spezie più antiche del mondo: alcuni semi
rinvenuti in uno scavo archeologico del Neolitico risalgono all’incirca al
7000 a.C. e sono stati anche ritrovati nella tomba di Tutankhamen. Il
coriandolo viene menzionato nell’Esodo della Bibbia ed era già utilizzato
come spezia nella Grecia antica.
Anticamente, in Asia, quanti praticavano la medicina cinese utilizzavano i
semi per trattare tutti i tipi di disturbi legati alla digestione, ed ancora oggi il
coriandolo è uno dei componenti dei preparati fitoterapici da banco
consigliati per problemi di stipsi e gas intestinali. I medici indiani della
tradizione ayurvedica lo adoperavano per molti scopi, ivi incluso come
diuretico. Un rapido excursus degli annali della medicina popolare a livello
planetario rivela che è stato impiegato per curare tutta una serie di problemi
di salute di vario tipo, tra cui infezioni della vescica e del tratto urinario,
allergie, diabete, ansia, ipertensione, insonnia e vertigini. Oggi come oggi,
gli scienziati vanno scoprendo man mano perché sia un agente terapeutico
efficace.
Il coriandolo è composto per l’85% da oli volatili che contengono almeno
26 principi attivi. Due di questi oli, il linalolo e il geranil acetato, sono
potenti antiossidanti che proteggono le cellule e, con ogni probabilità, sono
il fattore alla base di molte delle proprietà terapeutiche del coriandolo,
come la capacità di alleviare i disturbi della digestione.

UN RIMEDIO CONTRO IL MAL DI PANCIA

Il coriandolo è un classico rimedio per i problemi intestinali.


Sindrome dell’intestino irritabile. Un’équipe di gastroenterologi ha
studiato 32 persone affette da sindrome dell’intestino irritabile (in sigla IBS),
un disturbo della digestione cronico che colpisce il 10-20% degli americani,
di cui due terzi donne. I sintomi comprendono dolori addominali, crampi e
gonfiore dello stomaco accompagnati da diarrea e stipsi, solitamente luna o
l’altra ma talvolta entrambe, in alternanza. Gli esperti suddivisero i pazienti
in due gruppi: ad un gruppo venne somministrato del Carmint, un preparato
contenente coriandolo, l’altro ricevette un placebo. Dopo otto settimane, i
soggetti trattati con Carmint riferivano un miglioramento dei sintomi
addominali tre volte superiore a quello del gruppo placebo. I risultati
vennero pubblicati sulla rivista Digestive Diseases and Science.
Stipsi cronica. In un altro studio sui disturbi digestivi, i ricercatori
somministrarono a 86 ospiti di una casa di riposo della Pennsylvania una
tisana lassativa contenente coriandolo (Smooth Move) oppure una tisana
placebo. Nel giro di un mese, gli anziani che avevano assunto il preparato
Smooth Move andavano di corpo con maggiore frequenza.
Spasmi intestinali. «Il coriandolo viene tradizionalmente impiegato per
curare vari disturbi della digestione», affermava un’équipe di scienziati
pakistani e marocchini scrivendo sul Journal of Ethnopharmacology. In un
esperimento di laboratorio condotto su animali, osservarono che la spezia
esplica un’azione simile a quella dei farmaci ani spastici rilassando la
muscolatura contratta del tratto digerente responsabile del malessere della
IBS e di altri «disturbi riconducibili a iperreattività dell’intestino». Il
medesimo effetto rilassante, ma in ambito arterioso, potrebbe essere uno dei
motivi per cui la spezia ha contribuito ad abbassare i valori pressori
osservati durante l’esperimento. Gli esperti notarono anche che la spezia
ritardava il transito del cibo dallo stomaco all’intestino, una possibile
spiegazione del perché il coriandolo sia efficace nel ridurre l’indigestione e
la produzione di gas intestinali.
Ulteriori prove. Alcuni ricercatori dell’Arabia Saudita hanno inoltre
scoperto che il coriandolo svolge un’azione protettiva contro le ulcere
gastriche artificialmente indotte in animali da laboratorio, suffragando in tal
modo «l’uso tradizionale del coriandolo» per i problemi di stomaco.
L’ipotesi avanzata è che i potenti antiossidanti presenti nel coriandolo
proteggano la mucosa gastrica.
La Commissione E concorda. Non sorprende che la Commissione E –
l’organismo che fornisce linee guida a medici ed altri operatori sanitari in
Germania nell’uso terapeutico di rimedi naturali – abbia dichiarato che il
coriandolo è un presidio sicuro ed efficace nel trattamento di disturbi
digestivi, perdita dell’appetito, gonfiore di stomaco, flatulenza e disturbi
gastrici crampiformi.

UNA CORNUCOPIA DI CURE

Il coriandolo supera dunque il test del mal di pancia, tuttavia le sue


proprietà lenitive non si limitano a quest’ambito.
Riduzione dell’eritema in affezioni cutanee a base infiammatoria
(eczema, psoriasi, rosacea). Alcuni ricercatori olandesi hanno chiesto a 40
volontari di esporre piccole zone della schiena a una radiazione UV intensa,
ovvero il tipo di radiazione emanata dal sole che provoca scottature,
rugosità e tumori cutanei. Dopo l’esposizione, i ricercatori applicarono
dell’olio di coriandolo che ridusse significativamente l’arrossamento. Ne
conclusero che il coriandolo «potrebbe essere d’ausilio nel trattamento di
affezioni della cute a base infiammatoria» quali eczemi, psoriasi e rosacea.
Diabete. Il coriandolo è considerato un rimedio tradizionale per
«indigestione, diabete, reumatismi e dolori articolari», osservava un’équipe
di ricercatori. Analizzando gli effetti di un estratto a base di coriandolo su
animali da laboratorio affetti da diabete di tipo 2 artificialmente indotto, gli
esperti notarono che riduceva i livelli ematici di glucosio e aumentava i
livelli di insulina, cioè lormone che controlla gli zuccheri nel sangue.
Riduzione del colesterolo LDL e aumento del colesterolo HDL. Sul
Journal of Environmental Biology, un’équipe di ricercatori riferiva che «il
coriandolo è stato documentato come trattamento tradizionale per il
colesterolo». Nel loro studio, gli animali a cui venne somministrato del
coriandolo registrarono una riduzione del colesterolo LDL (quello «cattivo»)
è un incremento del colesterolo HDL (quello «buono»), esattamente il genere
di variazione che ridurrebbe drasticamente il rischio di patologie
cardiovascolari nell’uomo.
In un altro studio concernente i lipidi ematici, la capacità del coriandolo di
abbassare i livelli di colesterolo ha indotto i ricercatori a formulare queste
conclusioni: «Il coriandolo ha tutte le carte in regola per essere utilizzato
diffusamente come rimedio casalingo con effetti curativi e di prevenzione»
contro il colesterolo alto.
Insonnia. Un’équipe di ricercatori del Medio Oriente ha osservato che «il
coriandolo viene consigliato per alleviare ansia e insonnia nella medicina
tradizionale». Nell’ambito di uno studio condotto su animali, i ricercatori
hanno avuto modo di riscontrare che la spezia è un potente sedativo e
rilassante muscolare.
Tumore del colon. In uno studio condotto su animali, alcuni ricercatori
indiani hanno arrestato lo sviluppo dei tumori in casi di carcinoma del colon
chimicamente indotti. Ecco le loro conclusioni: «L’inclusione di tale spezia
nella dieta quotidiana svolge un ruolo significativo nella protezione del
colon da carcinogenesi».
Malattie del fegato. Alcuni ricercatori indiani hanno scoperto che gli
estratti di coriandolo proteggono il fegato. Hanno infatti notato che i potenti
agenti antiossidanti presenti nel coriandolo non solo proteggono
«l’integrità» delle cellule epatiche «ma, al tempo stesso, stimolano la
capacità rigenerativa e riparatrice del fegato»; una buona notizia, dunque,
per i 10 milioni di americani affetti da steatosi epatica non alcolica, epatite
C o cirrosi.
Candidosi. Alcuni studiosi brasiliani hanno testato l’olio essenziale di
coriandolo sulla Candida albicans (il fungo che provoca infezioni da lieviti)
e hanno scoperto che ne può limitare la proliferazione. Pubblicando le loro
conclusioni sulla rivista Food Chemistry, affermano che l’olio essenziale di
coriandolo «potrebbe essere impiegato per trattare o prevenire infezioni da
Candida».
Avvelenamento da piombo. Nell’ambito di uno studio condotto su
animali da laboratorio, alcuni ricercatori indiani hanno scoperto che gli
estratti di coriandolo possono «fornire significativa protezione» dai danni
causati dall’esposizione al piombo. All’interno di un secondo gruppo di
animali, gli estratti consentirono persino la regressione del danno. Secondo
le ipotesi avanzate sulla rivista Biological Trace Element Research, il
meccanismo sarebbe riconducibile alle proprietà antiossidanti del
coriandolo.

Il coriandolo può contribuire a prevenire e/o curare:


Intestino irritabile Candidosi vaginale
Colesterolo Pressione alta
Diabete di tipo 2 Diarrea
Psoriasi Insonnia
Malattie del fegato Mal di stomaco
Eczema Diarrea
Flatulenza Stipsi
Tumore del colon Ulcere

ALLA SCOPERTA DEL CORIANDOLO

Il coriandolo è il seme di una delicata pianta dai fiori rosa e malva che
assomiglia al prezzemolo e che, in effetti, appartiene alla stessa famiglia
botanica. Quando sono maturi, i semi di coriandolo sono deliziosamente
dolci, con un curioso aroma di salvia e arancio; viceversa, quando sono
ancora acerbi hanno uno sgradevole odore di cimice. Forse è questa la
ragione per cui i greci gli affibbiarono il nome korios, che significa appunto
«cimice».
Il coriandolo è il seme di una delicata pianta dai fiori rosa e malva che
assomiglia al prezzemolo.
Anche nell’improbabile caso che il coriandolo non sia presente
nell’armadietto delle spezie, lo è sicuramente in molte diete. Gli americani
mangiano molto coriandolo, molto più di 400.000 chili l’anno, e la maggior
parte viene usato per aromatizzare alcuni dei cibi preferiti degli americani,
come hot dog, salsicce, carni, pasticcini e biscotti. È anche un
aromatizzante utilizzato nel gin e in altri superalcolici.
I semi di coriandolo vengono adoperati in grandi quantità nelle
preparazioni sia dolci che salate di svariate culture gastronomiche in
Europa, India, America Latina, Messico, Nordafrica e Medio Oriente.
In Europa, i francesi profumano il formaggio con il coriandolo e lo
adoperano per aromatizzare la chartreuse, un rinomato liquore locale. È
inoltre un ingrediente fondamentale del chorizo, la piccante salsiccia
spagnola.
Il coriandolo è una delle spezie più diffuse nella cucina indiana nonché un
ingrediente essenziale in tutte le varietà di miscele curry. Gli indiani
sfruttano l’intera pianta – semi, radici, steli e foglie – per preparare salse e
chutney.
Nell’isola indonesiana di Giava, si usa strofinare la carne che andrà a
comporre il satay sia con semi che foglie fresche di coriandolo.
I marocchini usano sfregare la carne con semi di coriandolo e aggiungono
tale spezia a cuscus, stufati e insalate. Il coriandolo figura tra i principali
ingredienti delle miscele di spezie nordafricane, tra cui il baharat, il tabil e
il ras-el-hanout. Nello Yemen i cuochi lo mescolano a frutta secca,
peperoncini rossi ed altre spezie nella preparazione di un condimento
chiamato jhoung, molto diffuso anche come salsina da pinzimonio.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

I semi di coriandolo sono disponibili in due varietà principali: il


coriandolo europeo e quello indiano. La varietà europea è più profumata e
saporita per via di una concentrazione superiore di oli volatili, ivi incluso un
notevole quantitativo di linalolo. Il coriandolo indiano, tuttavia, contiene oli
assenti in quello europeo che conferiscono una fragranza più agrumata.
Entrambi vengono adoperati allo stesso modo in cucina.
La maggior parte del coriandolo reperibile sul mercato americano è di
provenienza europea. I due tipi si differenziano per dimensioni e colore: il
coriandolo europeo è sferico, il seme presenta delle piccole coste
superficiali, ha un diametro di mezzo centimetro alTincirca ed un colore
marroncino chiaro; il coriandolo indiano, invece, è leggermente più piccolo,
di forma più ovale ed è di colore giallo pallido con una sfumatura
verdognola.
Altre varietà di coriandolo provengono dal Marocco e dalla Romania: i
semi marocchini sono più grandi di quelli europei, mentre il coriandolo
rumeno è il più piccolo.
I semi interi di coriandolo sono composti da un guscio con due semini
secchi all’interno. Quando si procede all’acquisto, è bene controllare che
abbiano un aspetto uniforme di colore e siano puliti, senza scorie. Una
minuscola «coda» all’estremità del seme è del tutto naturale e non è segno
di residui di alcun tipo.
Sebbene il coriandolo venga anche venduto già macinato, è meglio
acquistare semi interi in quanto gli oli volatili si disperdono piuttosto
rapidamente dopo la macinatura. Se acquistate del coriandolo macinato,
compratene in quantità modeste. Il seme intero rimane fresco per oltre un
anno, mentre i semi macinati mantengono la loro fragranza solo per qualche
mese.
In genere, è possibile acquistare del prezzemolo essiccato ma non foglie di
coriandolo essiccate, poiché non reggono il processo di essiccazione.
Quando comprate del coriandolo fresco, cercate di acquistare foglie che
abbiano ancora la radice intatta poiché si mantengono fresche più a lungo.
Conservate le foglie immergendo lo stelo in un bicchiere d’acqua e ponete
quest’ultimo in frigo, coprendolo con una busta di plastica: in questo modo
si manterranno per diversi giorni.

IL CORIANDOLO IN CUCINA

Il coriandolo è una spezia utile e versatile che si accosta bene a qualsiasi


sapore; inoltre, non rischia mai di dominare altri aromi. Vi consiglio di
combinarlo sempre ad altre spezie, in modo particolare al suo compagno
preferito, il cumino.
È quasi impossibile usare troppo coriandolo: in alcune ricette della cucina
nordafricana viene addirittura dosato a tazze! In effetti, il coriandolo può
rimediare a vari errori in cucina; se avete avuto la mano pesante nel dosare
una determinata spezia in una ricetta, aggiungete la medesima quantità di
coriandolo macinato e questo correggerà il sapore. Tale accorgimento
funziona particolarmente bene se avete ecceduto con una spezia dal sapore
forte come il chiodo di garofano o la cannella.
Per ottenere un aroma più intenso, fate sempre tostare i semi prima di
macinarli. È possibile tostarli a secco, secondo le istruzioni fomite a pagina
24 oppure arrostirli in un velo d’olio. I semi si macinano facilmente con un
mortaio e un pestello.
Il coriandolo in semi interi crea un aroma complesso quando viene
aggiunto a brasati a lunga cottura, casserole oppure stufati. Quando si
preparano ricette dolci, tuttavia, è meglio usare solo coriandolo macinato.
I gusci dalla consistenza cartacea e la grana ruvida del coriandolo
macinato assorbono l’umidità, per cui si possono usare per ispessire salse e
gravy.
Poiché le foglie di coriandolo sono troppo delicate per sopportare il calore,
la cosa migliore è spargerle a crudo su un piatto finito o aggiungerle durante
gli ultimi minuti di cottura.
Ecco alcuni suggerimenti per arricchire di coriandolo la vostra dieta:

• Aggiungete del coriandolo intero o macinato agli stufati, agli sformati,


alle marinate, alle vinaigrette e alle preparazioni sottaceto.
• Macinate grossolanamente del coriandolo e strofinate carni e pesci prima
di procedere alla cottura.
• Mescolate semi di coriandolo e grani di pepe nel macinapepe che tenete a
portata di mano vicino al fornello.
• Preparate un rub marocchino classico mescolando il coriandolo con
aglio, burro e paprica, poi passate la carne d’agnello nella mistura prima di
arrostirla.
• Spolverate il coriandolo sui funghi saltati in padella.
Cumino. Diabete sotto controllo

Il cumino è una spezia dall’aspetto molto dimesso: semini vagamente


marroncini e un po’ smorti. Non è piacevole al tatto, anzi è un po’ troppo
oleoso, e il sapore non manda certo in orbita le papille gustative: è amaro
con un che di stantio. L’odore, poi, sa di pino vecchio un po’ ammuffito.
Ma quando dal vasetto passa in pentola, subisce una trasformazione degna
di Cenerentola: l’odore pungente e amaro si ammorbidisce trasformandosi
in un aroma ricco e singolare che riporta alla mente il profumo di una
taverna messicana. Questo perché mentre il peperoncino dà al cibo
messicano la sua piccantezza, il cumino gli conferisce vivacità. È infatti la
spezia per eccellenza, diffusissima nella cucina messicana.
L’aroma del cumino non è paragonabile a null’altro poiché è ricco di
cuminaldeide, un composto con proprietà medicinali estremamente attive.

COMBATTERE IL DIABETE

Il diabete è una malattia caratterizzata da livelli cronicamente elevati di


glucosio nel sangue. Tale «inondazione» di glucosio danneggia i vasi
sanguigni di tutto l’organismo aumentando il rischio di patologie
cardiovascolari e ictus (la causa di morte nel 75% delle persone affette da
diabete), cecità e patologie renali. Ed ecco come il cumino ci viene in
soccorso.
Nell’ambito di uno studio condotto in India, gli scienziati trattarono
animali da laboratorio affetti da diabete di tipo 2 con cumino o
glibenclamide (Diabeta), un farmaco ad azione ipoglicemizzante specifico
per il diabete. Scoprirono che entrambi agivano efficacemente nel ridurre i
livelli di colesterolo e di trigliceridi, ossia i lipidi presenti nel torrente
ematico che danneggiano il cuore comunemente riscontrati negli individui
affetti da diabete. Gli animali registrarono anche un calo significativo della
glicemia, livelli inferiori di A1C (la percentuale di emoglobina che si è
legata al glucosio nei globuli rossi e che fornisce una valutazione dei livelli
di glicemia a lungo termine) e livelli inferiori di lipidi dannosi e indicatori
flogistici nelle cellule del pancreas, l’organo deputato alla produzione di
insulina, ossia l’ormone che regola i livelli di glucosio ematico.
«L’integrazione di cumino si è rivelata più efficace della glibenclamide nel
trattamento del diabete mellito», conclusero i ricercatori su
Pharmacological Research.
Le persone affette da diabete presentano una percentuale di rischio
superiore al 60% di sviluppare cataratta, vale a dire una opacizzazione del
cristallino che offusca la visione. In un altro studio condotto su animali,
realizzato sempre in India, i ricercatori analizzarono gli effetti del cumino
su tale disturbo della vista e notarono che la somministrazione di cumino in
polvere a ratti diabetici ritardava la progressione della cataratta, prevenendo
così eventuali alterazioni del cristallino causate da alti livelli di glicemia.
Gli studiosi affermarono che il cumino somministrato con la dieta «era in
grado di ritardare la progressione e la maturazione di cataratte secondarie a
diabete».
Gli scienziati dell’Istituto Nazionale di Nutrizione dell’India hanno
evidenziato che il cumino – insieme a cannella, pepe nero e tè verde – può
ridurre dal 40% al 90% la formazione di prodotti finali di glicazione
avanzata (in sigla AGE). Gli AGE possono essere paragonati a piccole bombe
a orologeria cellulari tossiche che si vengono a formare quando il glucosio
in eccesso si lega a determinate proteine producendo alterazioni. Sulla
rivista Brìtish Journal of Nutrition, gli esperti scrissero che «l’inibizione
della formazione di AGE può verosimilmente trovare collocazione nella
prevenzione delle complicanze del diabete».

Il vero cumino

Il cumino sembra soffrire di una sorta di crisi di identità.


Non è kummel. In Europa, la popolarità del cumino ha ceduto il passo al
kummel, ma quest’ultimo non riesce a reggere il confronto con il vero
cumino in piatti quali chili e curry.
Non è sesamo nero. Il cumino non è la stessa cosa, né può essere un
sostituto del sesamo nero (anche chiamato cumino nero). Questo, infatti,
identifica la spezia indiana nota con il nome di kolonji, ma presenta semi
neri e lucidi e viene talvolta definito cumino imperiale, per via del fatto che
è decisamente più costoso del cumino.
Non è curcumina. Il cumino non ha la benché minima relazione con la
curcumina, il principio attivo presente nella curcuma.

PROTEZIONE DELLE OSSA

Spesso viene consigliato di mangiare più proteine della soia o assumere


integratori a base di soia per prevenire, ritardare o persino far regredire
l’osteoporosi, una malattia che causa la rarefazione del tessuto osseo e che
colpisce 10 milioni di americani. Il suggerimento deriva dal fatto che la soia
contiene fitoestrogeni, vale a dire composti vegetali che contribuiscono a
conservare il calcio nelle ossa. Ebbene, i ricercatori ora stanno rivolgendo
l’attenzione al cumino quale possibile agente protettivo per le ossa poiché
anch’esso è ricco di fitoestrogeni.
In uno studio di laboratorio, alcuni ricercatori indiani hanno valutato la
capacità del cumino di arrestare la perdita ossea in animali affetti da
osteoporosi artificialmente indotta. Gli studiosi osservarono che i soggetti a
cui venne somministrata la spezia presentavano una densità ossea maggiore
rispetto a quelli non trattati con cumino. Di fatto, l’effetto «osteoprotettivo»
della spezia era equiparabile a quello dell’estradiolo, un ormone
frequentemente impiegato nella prevenzione dell’osteoporosi prima che la
scienza scoprisse che incrementava anche il rischio di cardiopatie e tumori
mammari.
La conclusione degli esperti, degna di nota, suona così: «Il cumino può
contribuire ad arrestare la perdita ossea nelle donne in menopausa, e pare
essere un candidato potenziale nello sviluppo di nuovi approcci fitoterapici
al trattamento dell’osteoporosi privo di gravi effetti collaterali».

LOTTA Al TUMORI

Gli oli volatili del cumino e il ricco contenuto di vitamine C ed A lo


rendono un potente agente antiossidante e una potenziale arma contro il
cancro. Studi condotti su animali hanno evidenziato che:
• previene la formazione di tumori del colon in ratti nutriti con sostanze
cancerogene;
• riduce il rischio di tumori della cervice dell’82% rispetto ad animali non
trattati con cumino;
• riduce significativamente l’incidenza di tumori dello stomaco e del
fegato.

CUMINO E ANCORA CUMINO

Tra le altre patologie che il cumino può contribuire a controllare figurano


le seguenti.
Epilessia. Alcuni ricercatori del Medio Oriente hanno osservato che il
cumino sopprime le convulsioni in animali con crisi epilettiche
chimicamente indotte.
Avvelenamento da cibo. In India, i ricercatori hanno scoperto che il
cumino era la spezia più efficace nel bloccare l’azione dei batteri che
provocano avvelenamento da cibo.
Tubercolosi. Il cumino favorisce l’effetto antibatterico della rifampicina,
un antibiotico impiegato nel trattamento della tubercolosi.

Il cumino può contribuire a prevenire e/o curare:

Osteoporosi Diabete di tipo 2


Epilessia Osteoporosi
Tubercolosi Tumori

ALLA SCOPERTA DEL CUMINO

Al pari delle spezie più diffuse, il cumino vanta un «pedigree» storico di


tutto rispetto a livello planetario. Gli antichi greci tenevano il cumino in una
scatoletta sempre a portata di mano sulle tavole, esattamente come il pepe,
mentre, tra i primi romani, fungeva da moneta di scambio e veniva
utilizzato per pagare le tasse.
Oggi il cumino è un ingrediente base sulle tavole del Nordafrica, dell’Asia
Occidentale, dell’India, della Grecia, della Turchia e, ovviamente, del
Messico e dell’America Latina. Tuttavia, le nazioni del continente
americano a sud degli Stati Uniti non utilizzarono il cumino finché non
venne importato nelle Americhe da mercanti provenienti dall’India.
L’India è un paese che ha apprezzato il cumino per millenni, sia per il suo
aroma che per le proprietà medicinali. È infatti uno principali ingredienti
del curry in polvere e della maggior parte delle miscele di spezie per curry;
è altresì uno degli ingredienti fondamentali del garam masala, il mix di
spezie indiano di base, mentre i semi interi vengono adoperati nel chaat
masala e nel panch phoron.
In Messico il cumino è presente nei tacos, nelle enchiladas e nei burritos,
nonché in altri piatti popolari, ed è essenziale quanto il peperoncino rosso
nella preparazione del chili messicano e, per estensione, del chili con carne
texano.
Per quanto riguarda la zona dei Caraibi, i semi rientrano nella
composizione della polvere Colombo, una miscela di spezie super-piccante.
Il cumino deriva dalle infiorescenze di una pianta che cresce in terre aride
e calde.
Gli olandesi producono un formaggio aromatizzato al cumino, mentre il
pane al cumino è una specialità regionale della Francia. In Spagna viene
sapientemente combinato alla cannella e allo zafferano per aromatizzare
ricette in casseruola.
In Marocco è adoperato nel cuscus (granelli di semola cotti al vapore e
insaporiti con spezie) ed è l’ingrediente principale del ras-el-hanout, la
rinomata miscela di spezie marocchina. Gli iraniani, invece, lo utilizzano
nella preparazione di sottaceti.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Il cumino è per lo più noto agli americani come una polvere scura
vagamente unta al tatto ma, di fatto, nella sua forma originaria il cumino si
presenta in semi, ed è in tale forma che viene venduto nei negozi indiani
sotto il nome di jeera. La cucina indiana, come d’altronde molte tradizioni
culinarie asiatiche, fa uso di semi interi.
L’acquisto di semi interi è sicuramente una scelta migliore rispetto al
cumino macinato, ed entrambi sono disponibili nella maggior parte dei
supermercati. Se intendete preparare dei piatti etnici, con ogni probabilità
avrete bisogno di un vasetto di semi interi. Quando il cumino viene
macinato, il sapore comincia a deteriorarsi; pertanto, se avete in casa un
vasetto di cumino macinato da oltre un anno, conviene buttarlo via in
quanto non mantiene la buona qualità per più di pochi mesi.
I semi di cumino andrebbero tostati prima di macinarli; tale accorgimento
ne intensifica il sapore.
I semi di cumino sono di colore marroncino tendente al giallo, hanno una
forma ovale e rassomigliano a semi di kummel. Se non riuscite a trovarli al
supermercato, potete sempre acquistarli in un negozio specializzato in
prodotti indiani o di prodotti biologici.

IL CUMINO IN CUCINA

Il cumino è una delle spezie più frequentemente utilizzate per cucinare e lo


si ritrova praticamente in tutte le cucine del mondo. Il motivo di tale
diffusione è la sua grande versatilità. Tenete comunque presente che se la
spezia macinata ha un profumo piuttosto pungente, si ammorbidisce una
volta sottoposta a cottura.
Provate ad adoperare il cumino in stufati, casserole o in qualsiasi altra
ricetta che richieda una lunga cottura in umido. Si accosta bene a spezie dal
sapore forte, in particolare il peperoncino in polvere. Di fatto, il cumino può
tornare utile se trovate troppo forte un piatto che state preparando oppure
non ha l’aroma che intendevate dare; raggiunta di un pizzico di cumino
aiuterà a riequilibrare il sapore. Di seguito alcuni suggerimenti per
apprezzare al meglio il cumino:

• Glassate le verdure arrosto combinando 1/2 tazza di olio di canola, 1/2


tazza di succo d’arancio e 1 cucchiaio di cumino macinato; condite quindi
con sale e pepe nero macinato fresco.
• Utilizzate il cumino per insaporire le salse a base di formaggio.
• Spargetelo su una omelette al formaggio.
• Aggiungete i semi tostati alle marinate.
• Preparate un semplice mix di spezie con cumino e peperoncino in
polvere in parti uguali.
• Adoperatelo per speziare salsine da pinzimonio.
• Aggiungete dei semi tostati alle lenticchie e al riso pilaf.
Curcuma. La grande crociata contro la malattia

Un tempo sprezzantemente chiamata «zafferano dei poveri» per il suo


brillante colore giallo, ora la curcuma è considerata l’oro dell’India. Il
motivo per cui tale spezia è stata innalzata al rango di celebrità risiede nella
salute invidiabile delle persone che ne fanno un uso quotidiano in cucina
nonché nella sua emergente reputazione a livello scientifico come uno tra i
più potenti strumenti di cura di origine naturale.
La curcuma è un alimento di base della cucina indiana, presente in quasi
tutti i piatti che attraversano la tavola, dettaglio che non è sfuggito agli
scienziati, i quali trentanni fa notarono che l’incidenza di malattie croniche
nella popolazione indiana era notevolmente più bassa rispetto ai paesi
occidentali, in particolare gli Stati Uniti.
La curcuma deve le proprie capacità curative e di prevenzione al principio
attivo che la caratterizza: la curcumina, un composto che esplica un’azione
antiossidante e antinfiammatoria così potente e diversificata che si è
dimostrata in grado di proteggere e migliorare la salute praticamente di tutti
gli organi del corpo. Ad oggi, migliaia di studi condotti su animali ed esseri
umani hanno evidenziato che la curcumina può combattere oltre 70
malattie, incluse alcune delle più gravi minacce alla salute umana come il
cancro, le patologie cardiovascolari, il diabete di tipo 2 e il morbo di
Alzheimer. E l’elenco continua ad allungarsi.
Di fatto, la ricerca a livello intemazionale indica che la curcuma, assunta
come integratore di curcumina, è efficace quanto i farmaci o, in alcuni casi,
persino più efficace, ma soprattutto è priva degli effetti collaterali di questi
ultimi. Recentemente, io e i miei colleghi del Centro Oncologico M.D.
Anderson dell’Università del Texas abbiamo messo a confronto la
curcumina con farmaci antinfiammatori, analgesici e antitumorali, testando
l’efficacia di tali agenti nel ridurre l’infiammazione e arrestare la
proliferazione delle cellule tumorali. La curcumina si è dimostrata più
efficace dell’aspirina da banco e dell’ibu-profene nel ridurre
l’infiammazione, ed efficace quanto il ben più potente celecoxib (Celebrex),
un farmaco ottenibile solo su prescrizione medica. Nel contrastare le cellule
del carcinoma mammario ha altresì dimostrato un’efficacia pari a quella del
tamoxifene, un farmaco ampiamente prescritto per arrestare la metastasi o
la recidiva del cancro al seno. Questi risultati sono a dir poco stupefacenti.
«Se dovessi avere un’unica erba su cui fare affidamento per tutte le
possibili esigenze di salute e alimentari, sceglierei la spezia indiana
chiamata curcuma», disse il dottor David Frawley, fondatore e direttore
deiristituto Americano sugli Studi Vedici di Santa Fe, Nuovo Messico. È
una spezia, dichiarò, che tutti «dovrebbero imparare a conoscere e
introdurre nella loro vita».
Sono completamente d’accordo: attualmente., non c’è spezia che la
comunità scientifica stia esaminando più minuziosamente negli Stati Uniti e
in tutto il mondo – e non c’è spezia che offra maggiori promesse
nell’ambito della salute – della curcuma.

Il passo falso di Marco Polo

Quando Marco Polo «scoprì» la curcuma in Cina nel 1280, la assimilò al


costosissimo zafferano, la spezia che, se aggiunta a un liquido, assume un
colore giallo brillante. Non avrebbe potuto prendere un abbaglio più grosso.
Lo zafferano e la curcuma non hanno nulla in comune se non il colore.Tale
errore è la ragione per cui, circa settecento anni più tardi, la curcuma è
ancora considerata un sostituto economico dello zafferano.
Al pari dello zafferano, essa conferisce ai piatti una sfumatura giallo-
dorata ma non può esserne un sostituto, non più di quanto lo zafferano
possa sostituire la curcuma. In quanto spezie culinarie, il loro sapore e
aroma sono completamente differenti.

I MECCANISMI TERAPEUTICI DELLA CURCUMA E DELLA CURCUMINA

La curcuma svolge oltre una cinquantina di azioni terapeutiche,


dall’alleviamento del dolore al miglioramento della circolazione, ed è per
questo motivo che i guaritori indiani (e cinesi) l’hanno utilizzata per oltre
duemila anni per trattare tutta una serie di malattie. Ad esempio, i medici
tradizionali hanno impiegato la curcuma nei seguenti modi:
• come antiacido per calmare problemi di digestione;
• come polvere per accelerare la rimarginazione di ferite e prevenire
infezioni (in India le bende sovente contengono curcuma);
• come analgesico per alleviare il mal di testa (la curcumina è un
ingrediente del Tylenol, un antidolorifico da banco);
• come stimolante per migliorare il flusso sanguigno;
• come pomata ad uso topico per risolvere disturbi cutanei;
• come decongestionante per liberare i seni nasali (alcuni spray nasali
contengono curcumina).
In qualità di rimedio popolare è stata utilizzata per trattare circa 60
disturbi, dal morbillo, la varicella e le coliche ai raffreddori, le gengiviti, la
flatulenza, l’indigestione e lo stress.
La sua posizione ai primi posti nella classifica delle spezie curative,
tuttavia, deriva dal fatto che è un antiossidante con potenti proprietà
antinfiammatorie. Ma vediamo perché tale caratteristica è così importante.
L’ossidazione è una sorta di «ruggine» interna al nostro organismo causata
da ciò che gli scienziati definiscono specie reattive dell’ossigeno (in sigla,
ros), ossia molecole che, avendo un elettrone in meno nel guscio,
sottraggono un elettrone alle molecole vicine producendo un danno
ossidativo, altrimenti detto stress ossidativo. I ros sono prodotti da numerosi
fattori, come l’esposizione alla luce solare, l’inquinamento, una dieta ad
alto contenuto di grassi e persino il normale processo di invecchiamento.
Lo stress ossidativo provocato dai ros conduce a sua volta a uno stato di
infiammazione cronica di basso grado, una versione insidiosa dello stesso
tipo di arrossamento, calore e gonfiore causati dalla normale reazione
immune che accompagna una ferita. È stato dimostrato che uno stato di
infiammazione cronica scatena o aggrava molte delle patologie che
caratterizzano la vita moderna; tale gruppo include la malattia
cardiovascolare (MCV), che è causa di infarti e ictus, il diabete di tipo 2, che
quadruplica il rischio di MCV e può determinare inoltre insufficienza renale,
cecità e ulcere di gravità tale da richiedere l’amputazione, il morbo di
Alzheimer e di Parkinson, l’asma e le malattie autoimmuni come l’artrite
reumatoide e la psoriasi. In esperimenti condotti su colture cellulari, animali
ed esseri umani, l’azione antiossidante e antinfiammatorie della curcumina
si è dimostrata efficace contro tutte queste patologie.
Ma la potenza della curcumina come antiossidante ha attratto l’attenzione
della medicina convenzionale negli Stati Uniti e nel resto del mondo
essenzialmente per via della sua capacità scientificamente provata di
combattere il cancro.

LA SPEZIA ANTI-CANCRO

Anche lo scettico più incallito avrebbe serie difficoltà a mettere in dubbio


gli oltre mille studi di ricerca che espongono il medesimo risultato: la
curcumina è un agente antitumorale. La ricerca dimostra che la curcumina
presente nella curcuma è in grado di combattere il cancro a più livelli. Essa
è in grado di:
• inibire l’attivazione dei geni che scatenano il tumore;
• inibire la divisione (proliferazione) delle cellule tumorali;
• inibire la trasformazione di una normale cellula sana in cellula cancerosa;
• uccidere le cellule che hanno subito la mutazione in cellule tumorali;
• ridurre la massa del tumore;
• prevenire la metastasi, ossia la diffusione del cancro ad altri organi;
• prevenire lo sviluppo delle strutture vascolari necessarie alle cellule
tumorali per formarsi e proliferare;
• amplificare gli effetti della chemioterapia e della radioterapia.
La curcumina ha evidenziato alcune o tutte le azioni sopra descritte contro
22 differenti tipi di cancro, tra cui i tumori maligni statisticamente più letali:
il carcinoma mammario, il carcinoma del colon, del polmone e della
prostata. Ha altresì rallentato la progressione di alcune delle neoplasie più
difficili da trattare, come i tumori cerebrali e a carico delle ossa, le
leucemie, i tumori a carico dell’esofago, del fegato, del pancreas, dello
stomaco, della cervice uterina e i melanomi (la forma più letale di tumore
cutaneo). Non esiste nessun’altra sostanza di origine naturale che abbia
dimostrato di possedere un tale livello di efficacia contro il cancro. Ecco di
seguito i resoconti di alcuni studi sulla curcumina e i tumori.
Carcinoma mammario. Alcuni dei risultati più notevoli sono stati
raggiunti contro il cancro della mammella, e la curcumina si sta rivelando
promettente persino nei casi di carcinoma più resistenti al trattamento
chemioterapico. Nell’ambito di uno studio, quando i ricercatori aggiunsero
della curcumina al paclitaxel (Taxol), un agente chemioterapico
normalmente impiegato nel trattamento di tale tumore, non solo questa
aumentò gli effetti del farmaco ma ne ridusse anche gli effetti collaterali,
rendendo la chemioterapia un regime più tollerabile per i pazienti. In un
altro studio, apparso sulla rivista Menopause, i ricercatori osservarono che
la curcumina riduceva il rischio di carcinoma mammario nelle donne sotto
terapia ormonale sostitutiva (TOS) estroprogestinica, un fattore di rischio del
tumore ampiamente assodato.
Carcinoma del colon. Numerosi studi condotti su animali hanno
evidenziato che la curcumina può contribuire a prevenire e ritardare
l’insorgenza del carcinoma del colon, e studi condotti su soggetti umani
stanno iniziando a produrre i medesimi risultati. In uno studio, i ricercatori
dell’Università della California di Los Angeles hanno scoperto che la
curcumina preveniva la formazione di polipi (masse carnose sviluppatesi
sulla mucosa dell’intestino crasso) in soggetti con poliposi adenomatosa
familiare (FAP), una patologia ereditaria che può condurre a carcinoma del
colon. In un altro studio, gli individui affetti da FAP che assunsero 480 mg di
curcumina associati a 20 mg di quercitina (il principio attivo presente nelle
cipolle) svilupparono un numero minore di polipi e di dimensioni più
contenute.
Carcinoma della cervice. La curcumina si è dimostrata efficace
nell’uccidere il virus del papilloma umano, vale a dire la principale causa di
carcinoma della cervice uterina. È stato altresì dimostrato che la curcumina
combatte le alterazioni cellulari precancerose che sovente precedono tale
patologia.
Carcinoma polmonare. Svariati studi condotti su animali indicano che la
curcumina può fornire protezione contro il cancro del polmone indotto da
tabagismo. Nell’ambito di uno studio, 16 fumatori assunsero 1500 mg di
curcumina al giorno e, dopo trenta giorni, i campioni di urina evidenziavano
che avevano espulso una quantità significativamente maggiore di tossine
correlate al tabacco rispetto ad altri 6 fumatori che non assunsero la spezia.
Carcinoma pancreatico. Studi in vivo condotti sia su animali che su
esseri umani indicano un futuro promettente per la curcumina nella lotta
contro il carcinoma del pancreas, una forma di tumore maligno
caratterizzata da un altissimo tasso di mortalità che non risponde
adeguatamente ai farmaci chemioterapici. Nei nostri laboratori presso l’M.D.
Anderson, abbiamo scoperto che la curcumina assunta in combinazione a
gemcitabina (Gemzar), un agente chemioterapico, migliora l’azione del
farmaco in soggetti animali.
In un altro studio, a 34 pazienti affetti da carcinoma pancreatico in stadio
avanzato – di norma con esito mortale nell’arco dell’anno – sono state
somministrate ogni giorno elevate dosi di curcumina: nel 64% dei casi la
spezia ha rallentato, contro le previsioni date, la progressione della malattia.
Carcinoma prostatico. In uno studio riportato sulla rivista Cancer
Research, i ricercatori avevano indotto il cancro in alcuni topi
suddividendoli poi in quattro gruppi e sottoponendo ciascun gruppo a una
terapia differente. Un gruppo di topi venne trattato con curcumina, un
secondo gruppo con un farmaco chemioterapico, il terzo venne sottoposto a
radioterapia e il quarto non ricevette alcun trattamento. Dei quattro
trattamenti, la curcumina si dimostrò più efficace nel controllare la
progressione del tumore. In un altro studio, i ricercatori della Rutgers
University notarono che un regime terapeutico combinato di curcumina e
isotiocianato – un composto con proprietà antitumorali presente negli
ortaggi della famiglia delle crucifere, come il cavolfiore, il cavolo
cappuccio e il cavolo riccio – fece regredire la crescita di tumori prostatici
in topi da laboratorio.
Melanoma. Nei nostri laboratori del Centro Oncologico M.D. Anderson
abbiamo inoculato in alcuni topi sostanze che producono il melanoma.
Successivamente, abbiamo trattato metà dei topi aggiungendo della
curcumina nel mangime e l’altra metà applicando un impasto di curcumina
sulle lesioni cancerose. In entrambi i casi, la spezia rallentò la progressione
della malattia nella maggioranza degli animali. In un altro esperimento
abbiamo testato la curcumina su cellule di melanoma coltivate in
laboratorio per stabilire se la spezia fosse in grado di limitare la
sopravvivenza e la riproduzione delle cellule tumorali. Il risultato fu che
quanta più curcumina aggiungevamo alla coltura, tante più cellule
morivano.
Inoltre, gli studi scientifici evidenziano che il tasso di tumori è minimo nei
paesi che presentano il più alto apporto dietetico di curcumina. Sono
convinto che non si tratti di una coincidenza se il tasso delle più comuni
forme di cancro – polmone, mammella, colon e prostata — è dieci volte più
basso in India, risaputa amante della curcuma, rispetto agli Stati Uniti.
La curcumina può contribuire a prevenire e/o curare: ictus, infezioni
oculari (uveite), inquinamento, malattie cardiovascolari, malattie del fegato,
morbo di Alzheimer, morbo di Parkinson, obesità, pressione alta
(ipertensione), prurito, psoriasi, acne, allergie, artrite reumatoide e
osteoartrite, asma, colecistopatie, colesterolo, colite (malattia infiammatoria
dell’intestino), degenerazione maculare senile, depressione, dermatite da
contatto, diabete di tipo 2, dolori, ferite, fibrosi cistica, gotta, pustole, rash
cutaneo, sclerodermia, tumori.

PROTEZIONE CONTRO I TUMORI LEGATI ALL’INQUINAMENTO

L’incidenza di leucemie in età infantile è aumentata del 50% dal 1950 e


molti ricercatori sospettano che uno dei fattori responsabili sia
l’esposizione, nel periodo prenatale e postnatale, a inquinanti come il
benzene, una sostanza cancerogena che si trova nei prodotti di scarto
industriali. La curcuma può venire in soccorso.
A una recente conferenza sulle leucemie pediatriche, i ricercatori del
Loyola University Medical Center di Chicago hanno riferito prove secondo
cui mangiare cibi speziati con curcuma può ridurre il rischio di leucemia
contratta in età pediatrica. I ricercatori, che hanno studiato la curcuma per
vent’anni, sono convinti che la spezia agisca proteggendo i bambini da
agenti chimici ambientali nocivi.
Hanno inoltre scoperto che la curcuma ha il potere di:
• limitare la tossicità degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), ossia
sostanze chimiche ambientali cancerogene. Gli IPA si formano anche nella
carne bovina, nel pollame e nel pesce quando vengono cucinati sulla griglia
o fritti a temperature superiori a 180 °C;
• inibire il danno causato dalle radiazioni ionizzanti, quali quelle prodotte
dalla luce solare, dai raggi X e da altri mezzi di indagine clinica;
• prevenire la formazione di composti cancerogeni sospetti presenti nei
cibi lavorati industrialmente e sottoposti a particolari processi di
conservazione.
Perché la curcuma possa proteggere in modo ancora più efficace
l’organismo dai pericoli ambientali che possono provocare il cancro,
aggiungete una spolveratina di curcuma e pepe nero sui cibi. Gli studi
dimostrano che sia la curcumina presente nella curcuma che la piperina
presente nel pepe nero contrastano l’aggressione degli agenti ambientali
nocivi. Inoltre, la piperina favorisce l’assorbimento della curcumina.

UNA PROMESSA PER IL MORBO DI ALZHEIMER

Durante gli ultimi venticinque anni, negli Stati Uniti il tasso di incidenza
della malattia cerebrale che ci priva della memoria e che conosciamo con il
nome di Alzheimer è raddoppiato. Di fatto, sta aumentando quasi
dappertutto sul pianeta, ad eccezione dell’India, dove colpisce meno
dell’1% della popolazione. Il motivo potrebbe essere riconducibile alla
curcumina.
Il morbo di Alzheimer è causato da un accumulo di placca che infiltra le
cellule del cervello (neuroni) alterandone la comunicazione intercellulare.
Gli scienziati non conoscono la causa della formazione delle placche ma
conoscono i meccanismi attraverso cui si forma. L’elemento scatenante è
una proteina detta amiloide A. Nel tessuto cerebrale sano tale proteina viene
demolita ed eliminata; nel morbo di Alzheimer, invece, la proteina si
aggrega e si ispessisce. Studi condotti su animali indicano che la curcumina
si lega all’amiloide A impedendone l’aggregazione e il conseguente blocco
dell’attività neuronaie.
I farmaci attualmente impiegati nel trattamento del morbo di Alzheimer
riducono in parte i sintomi e rallentano la malattia, ma nessun farmaco è
considerato altamente efficace. La curcumina potrebbe essere la medicina
del futuro: non solo è in grado di ostacolare l’amiloide A, ma gli studi
indicano che può anche rallentare il danno ossidativo arrecato ai neuroni,
ridurre il danno a carico delle sinapsi neuronali – ossia le vie di
comunicazione tra le cellule cerebrali – e ridurre i livelli di metalli tossici
neH’ambiente cerebrale che possono contribuire all’insorgenza
dell’Alzheimer.
L’apporto regolare di curcuma si sta anche dimostrando una protezione
naturale contro il declino delle funzioni mnesiche e cognitive che possono
accompagnare l’età avanzata. In Asia alcuni scienziati hanno condotto uno
studio sul consumo di curcuma e l’acutezza mentale nelle persone anziane
non affette da morbo di Alzheimer, e hanno scoperto che quanti
consumavano cibi particolarmente ricchi di curcuma avevano un punteggio
più alto nei test mentali standard rispetto a quanti non consumavano
curcuma o solo raramente.

UN AIUTO PER IL MORBO DI PARKINSON

Il morbo di Parkinson è una patologia degenerativa causata dalla morte


delle cellule cerebrali che producono dopamina, un neurotrasmettitore che
controlla numerose funzioni tra cui la comunicazione tra sistema nervoso
centrale e muscoli. Sia il danno ossidativo che l’infiammazione sono due
fattori implicati nell’insorgenza della malattia, e tale fatto ha indotto i
ricercatori della Facoltà di Medicina della Johns Hopkins University a
chiedersi se la curcumina potesse contribuire a proteggere tali cellule dalla
distruzione.
Per verificare la teoria, i ricercatori crearono un modello sperimentale di
morbo di Parkinson in cui gli pseudoneuroni producevano una proteina che
uccise il 50% delle cellule. L’aggiunta di curcumina al modello cellulare
ridusse il tasso di mortalità delle cellule del 19%, riducendo al tempo stesso
drasticamente il tasso di danno ossidativo a carico delle stesse. «Questi
risultati suggeriscono che la curcumina è un potenziale candidato atto a
inibire il danno ossidativo che conduce al morbo di Parkinson», dichiarò il
dottor Wanli Smith, docente di psichiatria e scienze comportamentali presso
la Johns Hopkins. «Tale spezia di uso comune potrebbe essere un’arma
efficace per proteggere il cervello».

UN AUSILIO PER ALLEVIARE I SINTOMI DELL’ARTRITE

L’infiammazione è la caratteristica principale delle più frequenti forme di


artrite, vale a dire l’osteoartrite (che conduce alla distruzione della
cartilagine che ricopre e ripara la porzione terminale delle ossa), l’artrite
reumatoide (una malattia autoimmune che colpisce le articolazioni) e la
gotta (un quadro clinico caratterizzato da un eccesso di cristalli di acido
urico che distruggono le articolazioni).
Per combattere l’infiammazione numerosi pazienti affetti da artrite
assumono farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) come l’aspirina, il
naprossene (Aleve, Naprosyn) o l’ibuprofene (Motrin). Sebbene
contribuiscano a ridurre l’infiammazione, i FANS possono però irritare la
mucosa del tratto gastrointestinale, tanto che circa 1 su 3 dei 13 milioni di
individui che assumono FANS soffre di disturbi gastrointestinali che, ogni
anno, determinano il ricovero in strutture ospedaliere di 103.000 pazienti e
provocano la morte di oltre 16.000 persone in seguito a emorragie massicce
e improvvise a causa dell’ulcera. Si presumeva che la nuova classe di FANS
detti inibitori delle COX-2, come il celecoxib (Celebrex), risparmiasse il
tratto gastrointestinale ma, purtroppo, finirono per aumentare l’incidenza di
malattie cardiovascolari e ictus.
Non sorprende, dunque, che le persone affette da artrite stiano cercando un
agente antinfiammatorio sicuro ed efficace, e la curcumina potrebbe
rappresentare una valida alternativa.
Recentemente, alcuni ricercatori della Thailandia hanno comprovato il
potere antinfiammatorio della curcumina ponendo la spezia a confronto con
l’ibuprofene nell’ambito di un esperimento che ha coinvolto 107 soggetti
anziani affetti da osteoartrite al ginocchio. Per un periodo di sei settimane
metà dei pazienti assunse 800 mg di ibuprofene, mentre la restante metà
venne trattata con 2000 mg (2 grammi) di un estratto contenente curcumina
come principio attivo. Ogni due settimane i ricercatori procedettero a
misurare il livello di dolore, la flessibilità del ginocchio, la capacità di fare
le scale in salita e in discesa e il tempo necessario a percorrere una distanza
di 100 metri (poco più di un campo da calcio).
Gli studiosi osservarono che la curcumina «potrebbe essere altrettanto
efficace dell’i-buprofene nell’alleviare il dolore al ginocchio e nel
migliorare la mobilità dello stesso».
Nell’ambito di uno studio condotto su 18 persone affette da artrite
reumatoide, i ricercatori scoprirono che 1200 mg di curcumina assunta per
un periodo di due settimane riduceva efficacemente i sintomi dell’artrite
quanto il fenilbutazone (Butazolidina), un potente antinfiammatorio non
steroideo. I soggetti trattati con curcumina riferirono una riduzione del
gonfiore e della rigidità mattutini nonché un miglioramento della capacità
di eseguire normali attività quotidiane.
Uno studio condotto su animali, invece, ha dimostrato il modo in cui
agisce la curcumina. I ricercatori dell’Università dell’Arizona indussero in
via sperimentale l’artrite in animali da laboratorio e scoprirono che la
somministrazione di curcuma piima dell’induzione della malattia preveniva
l’infiammazione articolare. «La curcuma ha esibito una profonda azione
inibitoria sullartrite indotta, raramente riscontrata in altri casi», riferì la
dottoressa Janet L. Funk, responsabile dello studio. Negli animali affetti la
curcuma ridusse la distruzione cartilaginea del 66% e la distruzione ossea
del 57% rispetto ai soggetti che non ricevettero la spezia.
Quando i ricercatori analizzarono il meccanismo con cui agisce la
curcuma, scoprirono che «dirottava» i meccanismi genetici e molecolari
dell’artrite. Più specificamente, influenzava l’azione del fattore nucleare
kB, un cosiddetto «fattore di trascrizione» che attiva e disattiva i geni, e in
questo caso la curcuma stimolava il fattore a disattivare i geni pro-
infiammatori che finivano per distruggere la cartilagine e l’osso.

Curcuma contro curry in polvere

Non confondiamo la curcuma con il curry, una «spezia» che si può trovare
ovunque ad eccezione dell’India e della maggior parte dell’Asia.
Il classico curry in polvere non è una spezia, bensì una combinazione di
spezie che gli inglesi inventarono nel 1700 come «scorciatoia» per non
dover affrontare il compito apparentemente laborioso di creare più
combinazioni di spezie allo scopo di esaltare differenti piatti di curry.
Ebbene, possono avere risparmiato del tempo ma ne hanno anche
uniformato il sapore. Pertanto, se tutti i curry che preparate hanno lo stesso
identico gusto, prendetevela con il curry in polvere.
Le spezie presenti nel curry in polvere tipicamente includono coriandolo,
cumino, fieno greco, pepe nero e, immancabilmente, curcuma, la spezia che
conferisce al curry la caratteristica sfumatura gialla.
Fin dal momento in cui fu introdotto sul mercato, il curry in polvere
divenne popolare in tutto il mondo. Alcuni paesi, come la Francia e la
Danimarca, inventarono ognuno la propria versione, ma la polvere di curry
«buona per tutti gli usi» non prese mai piede in India o in altre regioni
dell’Asia dove la creazione di curry è una vera e propria arte, e l’uso di una
miscela standard di spezie è tutto meno che creativa. Nella cucina asiatica,
curry differenti richiedono differenti combinazioni di spezie, le quali
impartiscono un aroma speciale a quel particolare piatto. Lo capirete da voi
quando preparerete le miscele di spezie e di curry descritte nella Terza
parte.
Ma passiamo ad altri due fatti curiosi sul curry in polvere.
Viene spesso erroneamente detto che il curry è una ricca fonte di
curcumina, mentre ne è ricco solo nella misura in cui si usa curcuma nella
composizione della polvere, e la quantità di curcuma può variare.
Inoltre, il curry in polvere non ha nulla a che vedere con l’autentica spezia
denominata curry. Tale spezia si ottiene dalla foglia di curry che – a dispetto
del nome in comune – appartiene a una famiglia botanica distinta. Nel vero
curry (la foglia) la curcumina non è presente.

LA LOTTA CONTRO LA MALATTIA CARDIOVASCOLARE E L’ICTUS

Le specie reattive dell’ossigeno producono il danno maggiore colpendo le


arterie sane e, pertanto, non stupisce che alcuni ricercatori francesi abbiano
recentemente riferito che la curcumina può contribuire a prevenire anche la
placca ateromatosa che ostruisce le arterie, un fattore di rischio cruciale di
infarti e ictus. Nell’ambito dello studio da loro realizzato, i ricercatori
sottoposero due gruppi di topi alla stessa dieta iperlipidica (che favorisce
tale condizione) fornendo a uno solo dei gruppi un supplemento di
curcumina insieme al cibo. Dopo 16 settimane, i topi nutriti con curcumina
presentavano una percentuale di depositi lipidici nelle arterie del 26% in
meno. Gli esperti, inoltre, confermarono ciò che studi precedenti avevano
già evidenziato, ossia il fatto che la curcumina è in grado di alterare il
segnale genetico coinvolto nell’accumulo della placca.
Tuttavia, le prodezze della spezia in materia di difesa delle arterie non si
fermano qui. In un altro studio condotto su animali, realizzato presso il
Medical College of Georgia, fu osservato che la curcumina riduce le
dimensioni dei coaguli che si vengono a formare negli episodi di ictus
emorragico, cioè il tipo di ictus provocato dalla rottura di un vaso
sanguigno nel cervello. Durante l’esperimento, i ricercatori indussero l’ictus
in alcuni animali e successivamente inocularono della curcumina a
intervalli di un’ora per tre ore. La spezia ridusse significativamente la
massa dei coaguli.
Nell’ambito di un altro studio condotto su animali, gli stessi ricercatori
notarono che la curcuma riduce il rischio di vasospasmo cerebrale, ossia
l’Improvviso restringimento di un’arteria, talvolta attivato da un ictus o un
trauma cranico, che può mettere a repentaglio la vita. In base ai risultati a
cui pervennero, i ricercatori raccomandarono la curcuma come possibile
terapia ausiliaria «sia per prevenire lo sviluppo di vasospasmi cerebrali che
per ridurre il danno ossidativo a carico del cervello» in pazienti che hanno
subito un ictus o un trauma cranico.
La curcumina combatte anche il colesterolo, un altro fattore che favorisce
l’ostruzione delle arterie. Durante uno studio, alcuni ricercatori indiani
hanno invitato 10 uomini in salute ad assumere un integratore contenente
500 mg di curcumina ogni giorno. Dopo una sola settimana, i livelli di
colesterolo LDL (il colesterolo «cattivo») erano scesi mediamente del 33%,
mentre i livelli di colesterolo HDL (quello «buono») erano aumentati del
29%.
Uno dei motivi per cui la curcumina è un’eccellente sostanza
anticolesterolo deriva dal fatto che agisce a livello epatico: nel fegato, essa
aumenta la produzione di proteine che attaccano le particelle di LDL
favorendone così l’escrezione. La curcumina stimola altresì il fegato a
produrre più bile, la quale contribuisce a scindere ed eliminare il colesterolo
in eccesso.
Inoltre, studi condotti su animali evidenziano che la curcumina offre un
valido contributo nei seguenti casi:
• abbassamento dei trigliceridi, un’altra classe di lipidi ematici che
favorisce la formazione di placca ateromatosa;
• inibizione della produzione di omocisteina, un aminoacido correlato a un
alto tasso di malattie cardiovascolari e ictus;
• regolazione della pressione arteriosa;
• contenimento dei danni in seguito a infarto.

LA SALVAGUARDIA DEL FEGATO

Praticamente tutto ciò che viene introdotto nell’organismo umano, sia


sostanze nocive che salutari, passa per il fegato. Quando funziona al suo
meglio, esso può filtrare quasi tre quarti del sangue in un solo minuto e
demolire qualsiasi tossina. Il fegato, pierò, deve fare fronte a numerose
aggressioni: alcol, inquinamento, fumo passivo, allergeni, una dieta poco
sana e persino lo stress esigono un pesante tributo dal fegato e ne
determinano l’affaticamento. Tuttavia, la curcumina può contribuire a
mantenere il fegato in salute, e lo può fare in due modi: promuovendo la
produzione di enzimi deputati alla detos-sificazione del fegato e favorendo
il flusso biliare che depura il fegato e ne rinvigorisce le cellule.
Non solo la curcuma aiuta a mantenere il fegato in perfette condizioni, ma
studi condotti su animali realizzati negli Stati Uniti, in Finlandia e in Cina
suggeriscono che ha la facoltà di prevenire la cirrosi epatica alcolica e il
cancro al fegato.

UN AIUTO PER LE AFFEZIONI CUTANEE

Secondo la tradizione popolare indiana, la curcuma è il segreto per avere


una pelle sempre liscia e luminosa. In India è costume per le spose e gli
sposi applicare sulla pelle della curcuma mescolata a latte, prima della
cerimonia, per aumentare la luminosità della pelle. Le donne indiane
utilizzano ogni giorno un impasto a base di curcuma come maschera di
bellezza per prevenire imperfezioni e rughe. Non a caso, in India come in
molte altre patri del mondo, la curcuma è un ingrediente comune nei
prodotti cosmetici.
La scienza moderna ha confermato ciò che i medici ayurvedici indiani
sapevano già da molto tempo, ovvero che la curcuma è un rimedio efficace
per tutti i disturbi cutanei, quali acne, pustole, prurito e arrossamento,
nonché condizioni più ostinate come la dermatite da contatto (una reazione
allergica) e disturbi clinici più gravi come la psoriasi e la sclerodermia.
Inoltre, in un esperimento condotto su animali da laboratorio, nei soggetti
trattati con formule ad uso topico a base di curcumina le ferite si
rimarginavano più rapidamente e lasciavano cicatrici meno evidenti.

UNA SPEZIA PER BRUCIARE I GRASSI

I ricercatori della Tuft University hanno dimostrato che la curcuma può


svolgere un ruolo importante nella prevenzione dell’obesità.
Durante resperimento, i ricercatori hanno nutrito due gruppi di topi con un
regime alimentare ad alto contenuto di grassi nell’intento di favorire un
aumento di peso, ma a uno dei due gruppi venne anche somministrato un
integratore quotidiano di curcumina. Dopo 12 settimane, i topi che
assunsero curcumina avevano acquistato meno peso e accumulato meno
adipe. Inoltre, i livelli di colesterolo erano inferiori. «L’aumento di peso è il
risultato della crescita e dell’espansione del tessuto adiposo, evento che non
può verificarsi a meno che non si formino nuovi vasi sanguigni, processo
noto come angiogenesi», spiega il dottor Mohsen Meydani, un ricercatore
coinvolto in tale studio. «Sulla base dei nostri dati, la curcumina pare
sopprimere l’attività angiogenetica del tessuto adiposo in topi sottoposti a
dieta iper-lipidica». I ricercatori sono giunti alla conclusione che la curcuma
e la curcumina possono costituire una strategia promettente per prevenire
l’aumento di peso anche negli esseri umani.
La curcuma si ottiene dal rizoma, ossia il fusto sotterraneo della pianta.

UNA CORNUCOPIA DI POSSIBILITÀ TERAPEUTICHE

La curcuma e la curcumina possono contribuire a combattere molti altri


disturbi. Vediamo quali.
Malattia infiammatoria dell’intestino (morbo di Crohn e colite).
Parecchi studi condotti su animali e ricerche preliminari su esseri umani
indicano che la curcumina è efficace contro il morbo di Crohn e può
contribuire a sostenere la remissione della patologia in persone affette da
colite ulcerosa. In uno studio, la curcumina ha prodotto un significativo
miglioramento dei sintomi in 207 soggetti che presentavano una malattia
infiammatoria dell’intestino.
Fibrosi cistica. Questa patologia ad esito letale colpisce i bambini e i
giovani adulti causando un abnorme accumulo di muco nei polmoni. Nella
ricerca su soggetti animali, gli scienziati deU’Università di Yale hanno
riscontrato che la curcumina corregge un difetto responsabile dell’eccessiva
produzione di muco. A loro parere, una dose tale da fornire protezione
sarebbe ben tollerata anche da soggetti umani.
Depressione. Studi condotti su animali hanno evidenziato che la
curcumina limita il comportamento simil-depressivo nei topi e aumenta i
livelli di serotonina e dopamina, due sostanze chimiche cerebrali i cui livelli
spesso risultano scarsi nei quadri di depressione.
Diabete di tipo 2. Studi condotti su animali ed esseri umani dimostrano
che la curcumina contribuisce a tenere sotto controllo i livelli ematici di
glucosio e riduce altresì il rischio di complicanze associate a tale patologia,
ad esempio la retinopatia diabetica, che può condurre a cecità in seguito alla
distruzione dei vasi sanguigni che irrorano l’occhio. La curcumina può
inoltre rafforzare il pancreas favorendo così la produzione di insulina, ossia
l’ormone che regola la quantità di glucosio nel sangue.
Disturbi oculari. L’uveite è una grave infezione oculare che può condurre
a cecità. In uno studio condotto su 32 persone, la curcumina si è dimostrata
efficace quanto i corticosteroidi nel trattare l’infezione. Inoltre, in uno
studio comparso su Phytotherapy Research, un collirio contenente estratto
di curcuma (Ophthacare) si è dimostrato efficace nel trattare un certo
numero di disturbi oculari, tra cui congiuntivite, secchezza oculare e
complicanze nel trattamento postoperatorio della cataratta.
Colecistopatie. Uno studio che ha coinvolto pazienti affetti da
colecistopatie ha evidenziato che 20 mg/die di curcumina hanno ridotto la
formazione di calcoli biliari e migliorato la salute della cistifellea in
generale.
Degenerazione maculare senile. Questa patologia distrugge
gradualmente la macula, ossia la regione centrale della retina responsabile
della messa a fuoco e dell’acutezza visiva. Tale malattia, che colpisce il
20% degli americani tra i 65 e i 74 anni di età e il 35% degli individui al di
sopra dei 75 anni, è la causa principale di cecità. La ricerca condotta su
animali presso l’Health Sciences Center dell’Università dell’Oklahoma
indica che la curcumina può fornire una difesa naturale contro la
degenerazione maculare senile proteggendo la retina dai danni provocati
dallo stress fotoindotto e ossidativo. Studi condotti su animali hanno
evidenziato che la curcumina può fornire una protezione analoga anche nel
caso della cataratta.
Dolori. Numerosi studi dimostrano che la curcuma riduce il dolore e
Tinfiammazione. In uno di questi, i ricercatori somministrarono
quotidianamente a 45 pazienti sottoposti a interventi chirurgici 400 mg di
curcumina, 100 mg di fenilbutazone (un farmaco antinfiammatorio) o un
placebo, e la curcumina fornì notevole sollievo ma senza procurare gli
effetti collaterali del farmaco.

QUANTA NE OCCORRE?
Consumare molto cibo ricco di curcuma è un ottimo modo per promuovere
la salute. In India, un individuo ingerisce mediamente un cucchiaino di
curcuma al giorno ripartito su tre pasti, una quantità sufficiente perché gli
indiani godano di buona salute e presentino un’incidenza nettamente
inferiore di malattie quali morbo di Alzheimer, cancro e diabete di tipo 2.
Consiglio di assumere anche un integratore di curcumina in dosi da 500
mg al giorno.
Vi assicuro che la curcumina sotto forma di integratori è assolutamente
sicura: non è stato riscontrato alcun effetto collaterale grave e nessuna
forma di tossicità con l’assunzione di curcumina fino a 16 grammi al
giorno. In termini culinari, ciò equivarrebbe a mangiare una tazza intera di
curcuma al giorno!
È preferibile assumere l’integratore di curcumina a stomaco vuoto, circa
un’ora prima di mangiare. Potete migliorarne l’assorbimento assumendolo
insieme a succo di pompeimo, succo d’ananas, latte o piperina (pepe nero
sotto forma di integratore) oppure durante un pasto in cui si consumi
dell’olio (ad esempio olio di oliva) o latticini (ad esempio yogurt).

ALLA SCOPERTA DELLA CURCUMA

Forse gli americani pensano che la curcuma sia completamente


sconosciuta alle loro papille gustative, ma non è così. La curcuma viene
usata come aroma in alcuni dei loro alimenti preferiti: è ciò che conferisce
un colore giallo brillante al formaggio americano e alla senape dei panini ai
Wurstel, ma viene anche adoperata per dare colore al burro, alla margarina,
al brodo di pollo preconfezionato, ai sottaceti da mettere sul pane
imburrato, alle torte e al popcorn.
Quando si tratta di cucina, la curcuma è più nota come uno degli
ingredienti principali del curry, intendendo con ciò una gran varietà di piatti
speziati che accompagnano ogni pasto in India. Di fatto, la curcuma è
talmente amata in questo paese che viene utilizzata praticamente in tutte le
ricette, ed è inoltre un ingrediente frequente in molte miscele di spezie note
con il nome di masala.
I marocchini combinano la curcuma e lo zafferano per preparare l’harira,
una minestra che tradizionalmente viene consumata alla fine del Ramadan,
ed è anche un ingrediente del ras-el-hanout, il mix di spezie marocchino. I
libanesi la utilizzano per fare una sorta di torta margherita chiamata sfouf.
In tutto il Medio Oriente è un ingrediente fondamentale nella chermoula,
una marinata adoperata per insaporire pesce ad altri alimenti.
Anche i giapponesi sono amanti della curcuma e la utilizzano nel tè, nelle
bottiglie di aceto, la aggiungono alle tagliatelle e la mettono persino nel
cibo per cani. Inoltre la adoperano per i saponi, le lozioni e le creme per il
corpo.
In Inghilterra è possibile trovare la curcuma nei prodotti lattiero-caseari,
nelle pastiglie per la tosse e persino nei farmaci veterinari. È anche il
principale ingrediente del picalilli, un tipo di giardiniera con senape e
spezie molto apprezzato in Gran Bretagna, generalmente servito con le
carni e in particolare nel periodo delle festività natalizie.
La curcuma è l’ingrediente principe del pollo kapitan, un curry leggero
popolare in Malesia.
In Thailandia, invece, gli chef spesso utilizzano la zedoaria, una spezia
altrimenti nota come «curcuma bianca». Sebbene provenga dalla stessa
famiglia botanica, ha scarsa somiglianza con la curcuma e viene adoperata
come addensante in sostituzione della fecola; inoltre ha un bassissimo
contenuto di curcumina.
Infine, la curcuma viene usata per aromatizzare i momo, la versione
nepalese dei ravioli cinesi.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

La maggior parte della curcuma commercializzata in tutto il mondo


proviene da due località dell’India: Alleppey e Madras. Personalmente
consiglio di acquistare la curcuma di Alleppey, qualora possibile, in quanto
la ricerca ha dimostrato che ha un contenuto di curcumina quasi doppio
rispetto a quella di Madras. Inoltre, ha un colore più vivo (giallo brillante) e
un aroma più morbido.
La maggior parte della curcuma presente sul mercato mondiale é prodotta
in india, e la maggior parte della curcuma indiana proviene da Alleppey o
Madras.
La curcuma è reperibile nel reparto spezie della maggior parte dei
supermercati ma, se la si acquista in una drogheria specializzata, si può
notare una differenza di colore tra i vari pacchettini; ciò non è
assolutamente segno di deterioramento.
La curcuma si ottiene dal rizoma, ovvero la porzione sotterranea del fusto,
di una pianta perenne dal portamento cespuglioso; poiché è particolarmente
duro da macinare, viene quasi sempre venduto già macinato. Talvolta si
riesce a trovare il rizoma fresco nelle botteghe di prodotti indiani ed asiatici.
Se possibile, acquistate curcuma nella quantità che prevedete di adoperare
in pochi mesi, dal momento che col tempo tende a perdere l’aroma.

LA CURCUMA IN CUCINA

Tale spezia è l’unica fonte alimentare che rende immediatamente


disponibile la curcumina, pertanto conviene integrare alla propria dieta
quanta più curcuma possibile. Quando viene cucinata, sviluppa una lieve
fragranza che ricorda in qualche modo lo zenzero e l’arancio, con un sapore
leggermente pepato.
La curcuma costituisce ancora una novità per il palato e la cucina
occidentale. Difficilmente uno chef riesce a finire un vasetto di curcuma
prima della sua scadenza, ma le cose dovrebbero cambiare quando capirete
il vero senso culinario dell’uso della curcuma. Persino gli indiani
concordano che la curcuma allo stato naturale è piuttosto ruvida e
aggressiva, ed è per questo che la sottopongono sempre a cottura. La spezia,
infatti, si ammorbidisce di sapore quando viene cucinata. È sufficiente
scaldare poco olio in una padella e aggiungervi la curcuma a pioggia
rimestando continuamente perché non bruci; in pochi secondi, ne
percepirete il profumo deliziosamente aromatico, e capirete anche perché
gli indiani ne sono così appassionati! Se non sentite sprigionare il profumo,
significa che la spezia non è più fresca.
Ecco alcuni suggerimenti per adoperare più curcuma in cucina:

• Fate scaldare dell’olio in una padella e aggiungete la curcuma come


descritto poc’anzi, quindi aggiungete delle verdure e fatele saltare.
• Provate a fare la stessa cosa utilizzando però delle mele a fettine.
• Aggiungete della curcuma alle ricette classiche di carne, pollame e pesce
saltati in padella o appena scottati.
• Aggiungete un cucchiaino o due di curcuma alla carne e alle verdure
stufate nelle ricette per 2 o 4 persone. Aumentate la quantità per più
porzioni.
• Spolverizzate la curcuma sulle cipolle. Uno studio scientifico indica che
le cipolle e la curcuma agiscono sinergicamente proteggendo l’organismo
dal cancro.
• Adoperate la spezia in piatti a base di aurìfere per una maggiore difesa
contro il tumore al seno, alla prostata ed altri tipi di cancro. Le verdure della
famiglia delie aurìfere non solo fanno bene alla prostata ma il loro consumo
è associato a bassi livelli di tutti i tipi di malattia. Tali verdure includono il
cavolo cappuccio, il cavolfiore, il broccolo, i cavolini di Bruxelles, il cavolo
riccio e il crescione.
• Mangiate più senape gialla.
• Adoperate la curcuma sulle uova strapazzate e altri piatti a base di uova.
Non solo aggiunge aroma, ma dona alle uova un colore giallo intenso.
• Utilizzate la spezia come fanno in India, ad esempio nelle ricette di
lenticchie.
• Aggiungetela a salsine per pinzimonio e a condimenti per insalata.
• Incorporatela al burro fuso per condire le verdure cotte.
• Aggiungete un cucchiaio di curcuma alla zuppa di pollo mentre cuoce.
• Fate scaldare della curcuma in poco olio prima di aggiungerla all’acqua
di cottura per preparare un riso basmati.
• Aggiungete un cucchiaino di curcuma al chili fatto in casa.
• Adoperatela per insaporire frutti di mare in umido e piatti che prevedono
latte di cocco.
La curcuma non è consigliata per ricette che richiedono l’uso di
formaggio, poiché questo tende a mascherare l’aroma delicato della spezia.
Attenzione: in tempi antichi la curcuma trovava impiego anche come
colorante per tingere a colori vivaci le stoffe destinate ai ricchi. Pertanto,
fate attenzione agli schizzi: può essere difficile smacchiare gli abiti e può
macchiare anche il piano di lavoro delia cucina.
Fieno greco. Sconfiggiamo il diabete

I newyorkesi amano dire «una volta vista New York hai visto tutto», ma a
quanto pare loro stessi non hanno annusato tutto. Una sera di qualche anno
fa, il servizio di assistenza telefonica fu sommerso da una marea di
chiamate che riferivano di un misterioso odore, come di sciroppo d’acero,
che fluttuava sul distretto occidentale della Bassa Manhattan. Non era la
prima volta che veniva segnalato un «incidente» simile, e il sindaco della
città promise che i funzionari pubblici sarebbero andati in fondo alla
questione.
Qualche giorno dopo, il sindaco convocò una conferenza stampa.
Bacchetta alla mano, trascorse i successivi venti minuti a indicare i pallini
riportati su una cartina che contrassegnavano i luoghi in cui era stato
segnalato l’odore e delle frecce indicanti la direzione dei venti provenienti
dal New Jersey occidentale attraverso il fiume Hudson. L’odore, disse il
sindaco, si era manifestato nei giorni in cui la velocità del vento era
moderata e l’atmosfera piuttosto umida. 1 suoi investigatori ne avevano
seguito le tracce fino a uno stabilimento del New Jersey occidentale che
produceva aromi per cibi, bevande e per l’industria dei profumi. Quel
sentore di sciroppo d’acero, rivelò, era il profumo proveniente dalla
lavorazione dei semi di fieno greco.
«Posso immaginare molte cose ben peggiori dello sciroppo d’acero»,
dichiarò il sindaco a un giornalista. «Semplicemente è uno degli odori con
cui d’ora in poi dovremo convivere in una città come New York».

DALLA MEDICINA POPOLARE ALLA MEDICINA DEL FUTURO

Cos’è il fieno greco? Il fieno greco è, senza dubbio, un’astrusità per la


maggior parte del mondo occidentale (anche per i newyorkesi), ma è una
spezia comunemente adoperata in cucina nell’Asia Meridionale, nell’Asia
Orientale e in Medio Oriente. Vanta anche un celebre passato come spezia
ad uso medicinale: fin dall’antichità – e fino ai giorni nostri – è stato
impiegato come rimedio casalingo per un elenco straordinariamente lungo
di disturbi.
Il fieno greco è una pianta dai fiori gialli e bianchi che somiglia all’erba
medica.
Il fieno greco è un leggendario afrodisiaco, ma non solo: gli uomini lo
utilizzavano per far crescere la barba e le donne per irrobustire il seno. Il
ricco contenuto di diosgenina, un composto che svolge un’azione simile a
quella degli ormoni, è probabilmente il responsabile di qualsiasi effetto il
fieno greco possa produrre sull’aumento della libido o sulla procacità
femminile. È stato inoltre impiegato per regolare il ciclo mestruale,
alleviare i dolori del parto e stimolare la produzione di latte nelle donne che
allattavano al seno. Lasciati macerare in acqua, i semi si ammorbidiscbno e
si gonfiano in modo da poter essere utilizzati per normalizzare la
digestione, contrastando sia stipsi che diarrea. Con il fieno greco l’uomo in
passato ha combattuto asma, allergie ed altri disturbi respiratori, e nella
medicina ayurvedica – la medicina tradizionale dell’India – è un classico
«farmaco» per il controllo della glicemia (zuccheri nel sangue), un impiego
che la scienza moderna ha solidamente appoggiato.

BUONE NOTIZIE SUL FRONTE DELLA GLICEMIA

L’organismo funziona meglio se supportato da un rifornimento costante di


glucosio ematico: non troppo né troppo poco, insomma la giusta quantità.
L’insulina, un ormone prodotto dal pancreas, ha il compito di mantenere
stabili i livelli di glucosio nel sangue convogliandolo verso le cellule del
fegato, ove viene elaborato, le cellule dei muscoli per fornire energia
immediata, e le cellule adipose in cui viene immagazzinato. Tuttavia la
dieta americana standard, carica di zuccheri e carboidrati raffinati che si
trasformano in una enorme ondata di glucosio nel sangue, pone in
condizioni di netta inferiorità il pancreas e la sua capacità di produrre
insulina.
Inoltre, tutti i grassi presenti nella dieta vanno ad ostruire i recettori
insulinici delle cellule. Il risultato finale è la presenza di livelli
cronicamente elevati di glucosio nel sangue, e 57 milioni di americani
versano in una condizione di prediabete diagnosticata (valori di glicemia a
digiuno da 100 a 125 mg/dL). Le conseguenze a lungo termine del diabete
sono disastrose: anno dopo anno, il glucosio in eccesso devasta i vasi
sanguigni conducendo a malattie cardiovascolari, ictus, cecità (per via del
danno a carico dei vasi sanguigni della retina), nefropatia (a causa del
danno arrecato ai reni, organi riccamente vascolarizzati), neuropatia (a
causa del danno inflitto ai sottili vasi sanguigni detti capillari che
alimentano le fibre nervose) e amputazioni (dovute a scarsa circolazione
negli arti inferiori e nei piedi).
In tale catastrofico quadro, il fieno greco ci viene in soccorso. Oltre un
centinaio di studi scientifici – per lo più condotti su animali affetti da
diabete sperimentalmente indotto – dimostrano che il fieno greco ha la
capacità di regolare i livelli di glucosio nel sangue. Nello specifico, esso è
in grado di bilanciare la glicemia giorno per giorno, ridurre l’emoglobina
glicosilata (in sigla AlC, ovvero la percentuale di emoglobina dei globuli
rossi che si è legata al glucosio ematico e che fornisce il valore più accurato
per il controllo della glicemia a lungo termine), incrementare la produzione
di enzimi che contribuiscono alla regolazione del glucosio nel sangue e
attivare la trasduzione del segnale insulinico a livello cellulare. Il fieno
greco può altresì contribuire a tenere sotto controllo le ripercussioni di un
quadro iperglicemico, quali elevati livelli di colesterolo totale, colesterolo
LDL (quello «cattivo») e trigliceridi, nonché bassi livelli di lipoproteine ad
alta densità (HDL, il colesterolo «buono).
Nello studio più recente condotto su soggetti umani, i ricercatori della
Facoltà di Scienze dell’alimentazione dell’Università di Stato della
Louisiana hanno ridotto i semi di fieno greco in farina, preparato
un’infornata di pane e somministrato due fette al giorno a 8 persone affette
da diabete di tipo 2. Il risultato fu che il pane ridusse l’insulino-resistenza,
ossia l’incapacità da parte delle cellule di utilizzare l’insulina. Questa è
un’ennesima dimostrazione, dichiararono i ricercatori sul Journal of
Medicinal Food, che il fieno greco «riduce l’insulino-resistenza e può
trattare il diabete di tipo 2».
In un altro studio recente, pubblicato sull’Intemational Journal of Vitamin
and Nutrition Research, gli scienziati hanno studiato 18 persone affette da
diabete di tipo 2 a cui erano stati somministrati semi di fieno greco ridotti in
polvere aggiunti a yogurt o acqua calda. Dopo due mesi, i livelli di glicemia
a digiuno diminuirono del 25%, si assistette a un calo del 30% dei livelli di
trigliceridi e un abbassamento dei livelli di colesterolo LDL pari al 30%. Tali
furono le conclusioni dei ricercatori: «I semi di fieno greco possono essere
impiegati nel controllo del diabete di tipo 2».
Il fieno greco può contribuire a prevenire e/o curare:

Infezioni virali e batteriche Diabete di tipo 2


Colesterolo Trigliceridi
Steatosi Tumori
Obesità Insulino-resistenza
Cataratta Calcoli biliari

In Cina, un’équipe di ricercatori studiò 69 individui affetti da diabete di


tipo 2 scarsamente controllato nonostante l’assunzione di un farmaco
standard specifico. Suddivisero i soggetti in due gruppi: un gruppo continuò
ad assumere il farmaco, all’altro venne somministrato il farmaco
unitamente a semi di fieno greco. In capo a tre mesi, nei soggetti del
secondo gruppo si osservarono risultati notevoli: glicemia a digiuno molto
più bassa, livelli di glicemia dopo il pasto meno elevati, valori inferiori di
A1C e una diminuzione dei sintomi del diabete (ad esempio,
l’affaticamento). La terapia combinata con un antidiabetico e fieno greco
«può abbassare i livelli di glucosio ematico e migliorare i sintomi clinici nel
trattamento del diabete di tipo 2», sostennero gli esperti sul Chinese Journal
of Integrative Medicine.
Altri ricercatori, questa volta indiani, somministrarono a 60 diabetici una
mistura comprendente semi di fieno greco. Dopo tre mesi, molti dei soggetti
coinvolti nello studio avevano ridotto il dosaggio del farmaco
ipoglicemizzante o sospeso del tutto l’assunzione.
In un altro studio condotto in India, i medici del Jaipur Diabetes and
Research Center studiarono 25 soggetti con diabete diagnosticato
suddividendoli in due gruppi: la metà ricevette un estratto di semi di fieno
greco, gli altri seguirono un’apposita terapia alimentare supportata da
esercizio fisico. Dopo due mesi, i soggetti trattati con fieno greco
presentavano livelli più normali di glucosio e insulina, un calo maggiore dei
trigliceridi e un maggiore incremento dei livelli di lipoproteine ad alta
densità (HDL). Gli esperti conclusero che «l’impiego dei semi di fieno greco
migliora il controllo glicemico e diminuisce l’insulino-resistenza in pazienti
con diabete di tipo 2 di grado moderato».
Perché il fieno greco è così efficace nel controllare il diabete? I ricercatori
dell’Università di Stato della Louisiana affermano che «il fieno greco
stimola la trasduzione del segnale insulinico»; in altre parole, favorisce la
risposta delle cellule all’ormone che trasferisce il glucosio dal sangue. Il
fieno greco stimola altresì la secrezione di insulina da parte del pancreas,
rallenta l’assorbimento del glucosio a livello intestinale e favorisce la
produzione degli enzimi che regolano lo sfruttamento del glucosio per
produrre energia nelle cellule dei muscoli. Inoltre, sottolineano gli esperti,
«il fieno greco è molto sicuro».

IL FIENO GRECO: UN RIMEDIO NATURALE POLIVALENTE

Gli scienziati dell’Università di Stato della Louisiana fanno notare che «il
fieno greco esercita altri effetti benefici oltre all’effetto positivo riscontrato
nel diabete», tra questi inibisce la formazione di calcoli biliari, favorisce il
calo ponderale e contiene la steatosi epatica.
Perdita di peso. Alcuni ricercatori del Minnesota hanno studiato 18
persone obese (indice di massa corporea superiore a 30), suddividendole in
tre gruppi: a colazione un gruppo doveva assumere 4 grammi di fibre di
fieno greco in polvere disciolte in succo d’arancia, il secondo gruppo 8
grammi e il terzo nulla. Tra colazione e pranzo, il gruppo che assumeva 8
grammi di polvere riferì un maggiore senso di sazietà e minor fame, e
consumò il 10% in meno di calorie a pranzo! «Le fibre di fieno greco
possono espletare una funzione importante nel controllo dell’apporto
alimentare in individui obesi», dichiararono i ricercatori su Phytotherapy
Research. Le fibre di fieno greco in polvere – altrimenti note come
galattomannano – sono ampiamente disponibili sul mercato come
integratore alimentare.
In un altro esperimento, volto ad analizzare gli effetti del fieno greco sul
consumo alimentare, alcuni ricercatori francesi scoprirono che le persone
che assumevano un estratto di semi di fieno greco, in dosi pari a circa 600
mg al giorno, consumavano il 17% in meno di grassi e il 12% in meno di
calorie. Sulla rivista European Journal of Clinical Pharmacology, gli
esperti conclusero che l’estratto di semi di fieno greco potrebbe favorire il
«calo ponderale nel lungo periodo, in particolare in alcuni pazienti
sovrappeso o obesi per cui è raccomandata una dieta ipolipidica».
Tumori. In un articolo intitolato «Fieno greco: il ruolo di agente
antitumorale di una spezia commestibile presente in natura», gli scienziati
del Sidney Kimmel Comprehensive Cancer Center presso il Johns Hopkins
Hospital discutono di come i loro studi abbiano dimostrato che l’estratto di
fieno greco può rallentare o arrestare la crescita cellulare di tumori del seno,
del pancreas e della prostata. Nell’articolo pubblicato su Cancer Biology
and Therapy, affermano che «tali studi aggiungono un altro principio
biologicamente attivo all’arsenale degli agenti di origine naturale dotati di
potenziale terapeutico».
Ipercolesterolemia. II fieno greco non si limita a ridurre i livelli di
colesterolo soltanto in individui affetti da diabete di tipo 2. Alcuni
ricercatori indiani, infatti, hanno studiato 20 soggetti in buona salute
suddividendoli in due gruppi e somministrando soltanto a un gruppo semi di
fieno greco in polvere. Come riferirono sulla rivista Plant Foods in Human
Nutrition, dopo un mese, fu riscontrata una «significativa riduzione dei
livelli di colesterolo totale e LDL».
Steatosi epatica. Si stima che un terzo della popolazione americana soffra
di steatosi epatica non alcolica, condizione per cui almeno il 20% delle
cellule del fegato risultano infiltrate da accumuli di lipidi. Tra le cause
figurano condizioni di sovrappeso, insulino-resistenza, e diabete. Un’altra
fetta della popolazione americana, all’incirca 10 milioni di persone,
presenta una steatosi epatica alcolica, causata dal consumo eccessivo di
alcolici (oltre due drink al giorno per una donna e oltre tre drink al giorno
per un uomo). La steatosi epatica può sfociare in cirrosi e carcinoma
epatico. Durante uno studio condotto su animali, un’équipe di ricercatori
canadesi rilevarono che i semi di fieno greco prevengono o invertono il
decorso clinico della steatosi. Sull’International Journal of Obesity i
ricercatori dichiarano: «Tali risultati costituiscono un forte stimolo ad
esplorare i benefici terapeutici offerti dal fieno greco e dalle sue sostanze
attive nell’ambito (della steatosi epatica) associata a obesità e insulino-
resistenza».
Cataratta. In India, alcuni ricercatori utilizzarono una sostanza chimica
per indurre la cataratta in due gruppi di animali da laboratorio e
somministrarono semi di fieno greco a uno solo dei due gruppi. Il fieno
greco prevenne totalmente lo sviluppo della cataratta, mentre il 72% degli
animali che non assunsero i semi svilupparono la malattia. I ricercatori
notarono inoltre un elevato livello di attività antiossidante negli occhi degli
animali trattati con fieno greco.
Calcoli renali. L’80% dei calcoli renali sono formati da ossalato di calcio.
Considerando che i semi di fieno greco sono largamente utilizzati in
Marocco per prevenire lo sviluppo di calcoli renali negli individui
predisposti, alcuni ricercatori del luogo sperimentarono i semi su animali da
laboratorio. Il risultato fu che il fieno greco ridusse la deposizione di
ossalato di calcio nei reni del 27%.
Calcoli biliari. Nell’ambito di un esperimento, un’équipe di ricercatori
indiani indusse la formazione di calcoli biliari in animali da laboratorio e
poi suddivise i soggetti in tre gruppi: al primo gruppo venne somministrata
una dose elevata di semi di fieno greco in polvere, al secondo una dose più
bassa mentre il terzo non ricevette nulla. Il fieno greco fece regredire i
calcoli del 64% nel gruppo trattato con dosi elevate e del 61% in quello che
ricevette dosi inferiori, mentre non si apprezzò alcuna regressione nel
gruppo non trattato. I ricercatori giunsero alla conclusione che il fieno greco
può contribuire a prevenire la formazione di calcoli biliari, ridurre le
dimensioni quelli esistenti e prevenire recidive.
Infezioni. Durante un esperimento, alcuni studiosi indiani nutrirono degli
animali con estratto di fieno greco e ne analizzarono il sistema immunitario.
Notarono che la spezia aumentava l’attività dei macrofagi, ossia globuli
bianchi in grado di fagocitare batteri e virus. «Nel complesso, il fieno greco
presenta un effetto stimolante sulle funzioni immunitarie», scrissero, un
risultato che «conferma i presupposti del suo impiego in numerosi rimedi
ayurvedici».

ALLA SCOPERTA DEI SEMI DI FIENO GRECO

Il fieno greco, noto ai botanici come Trigonella foenum-graecum, è una


pianta dai fiori gialli e bianchi che somiglia all’erba medica. Di fatto, il
nome latino significa «fieno greco» e gli antichi egizi lo coltivavano come
foraggio per gli animali. Oggigiorno il fieno greco viene coltivato in tutto il
mondo, nell’Asia Meridionale, nel Medio Oriente, nel Sudamerica, in
Europa e in Cina.
In qualità di spezia, il fieno greco è diffuso in India, Egitto, Arabia
Saudita, Armenia, Iran e Turchia, ove viene adoperato per preparare curry,
chutney, sottaceti, salse e tutta una serie di piatti a base di verdure.
In India, i semi vengono tostati a secco o abbrustoliti in olio bollente e
utilizzati interi per insaporire piatti di curry, in particolare il curry di pesce,
stufati in brodo detti sambar, e crespelle di farina di riso e legumi
fermentati come i dosa e gli idli. È anche un ingrediente in numerose
miscele di spezie indiane, ivi inclusa la polvere di curry. Qualche seme di
fieno greco viene sempre aggiunto alle verdure ricche di amido e ai legumi
difficili da digerire, soprattutto quando l’assafetida non è disponibile.
In Medio Oriente, i semi vengono messi a bagno in acqua fredda per una
notte e mescolati ad altre spezie in modo da ottenere una pasta per un
condimento detto hilbeh e dolcetti chiamati halva. I cuochi macinano anche
il fieno greco riducendolo in pasta e con essa strofinano le carni salate che
verranno poi stagionate.
Nello Yemen, il fieno greco viene mescolato ad altre spezie per preparare
il zhug, adoperato nelle carni in umido. Gli armeni lo combinano ad aglio e
peperoncino rosso per preparare un mix pepato detto chemen, utilizzato per
aromatizzare la carne di manzo. I greci, invece, fanno bollire i semi e li
mangiano con il miele.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

I semi di fieno greco sono duri, di forma ovaleggiante e di colore bruno-


giallastro, somiglianti a pietruzze. È possibile riconoscerli dal profondo
solco distinguibile su un lato. Vengono commercializzati interi oppure
macinati nei negozi di prodotti indiani. Il fieno greco è altresì disponibile
nei negozi di spezie specializzati e online, solitamente in forma macinata.
In termini di qualità, una partita di semi di fieno greco non è dissimile da
altre, tuttavia controllate attentamente che siano privi di scorie. Poiché i
semi assomigliano effettivamente a sassolini, non è raro che siano
contaminati da pietruzze e residui. Esaminateli con attenzione prima di
metterli nel macinino in modo da non danneggiarlo.
I semi interi rimangono freschi per tre anni purché conservati in un
contenitore ermetico e lontano dalla luce. L’aroma del fieno greco si
disperde quando viene macinato e i semi macinati si mantengono solo per
qualche mese.
I SEMI DI FIENO GRECO IN CUCINA

Non mangiate mai i semi di fieno greco crudi: sono duri come pietre e
impossibili da masticare. La cottura ne trasforma il sapore pungente e
amarognolo in un aroma dal vago sentore di noce, simile allo sciroppo
d’acero. Inoltre contribuisce ad ammorbidire i semi in modo da poterli
macinare più facilmente. Una leggera tostatura per 1 minuto o 2 è più che
sufficiente; per istruzioni su come tostare le spezie, leggete il paragrafo a
pagina 24. Fate però attenzione a non bruciare i semi, altrimenti il sapore
diventa così amaro da diventare davvero sgradevole. Potete anche mettere a
bagno i semi per una notte in modo da ammorbidirli; diventeranno quasi
gelatinosi.
Aggiungete sempre fieno greco a una ricetta con moderazione, poiché il
sapore intenso può soffocare gli altri aromi.
Ecco qualche suggerimento per aumentare il consumo di fieno greco:

• Aggiungete una spolverata di semi macinati all’impanatura dei fritti.


• Distribuite qualche seme sulle verdure in casseruola.
• Aggiungete una presa di semi macinati alle ricette dei biscotti.
• Aggiungete una presa o due alla maionese per conferirle più vivacità e un
leggero sapore di senape.
• Combinate i semi tostati e macinati a peperoncini secchi macinati ed
altre spezie e adoperate la mistura per intingere il pane.
• Aggiungete dei semi tostati e grossolanamente triturati alle insalate per
conferire loro una piacevole croccantezza.
Finocchio. Un calmante per crampi e coliche

Il finocchio è una delle poche piante che racchiude in sé tutti gli usi
possibili: è al tempo stesso una verdura, un’erba aromatica e una spezia.
Ogni autunno, i bulbi che affiorano a livello del terreno (verdura)
sviluppano dei gambi simili alle coste del sedano, con fronde flessibili (erba
aromatica) che fioriscono e producono semi aromatici (spezia); ognuna di
queste parti – la verdura, l’erba aromatica e la spezia – emana un dolce
sentore liquiriziato.
Se il bulbo del finocchio non è propriamente l’ortaggio più apprezzato
(non a tutti piace una verdura o un’erba aromatica che sanno vagamente di
liquirizia) i semi sono invece molto richiesti: d’altronde sono la spezia che
ha reso celebre nel mondo la pizza italiana con salammo piccante e
peperoni.
Quando si mastica un seme di finocchio, il ben noto e intenso gusto
liquiriziato deriva da un olio volatile detto anetolo, lo stesso composto che
conferisce all’anice il suo aroma. I semi di finocchio sono ricchissimi di
anetolo e decine di altri potenti agenti fitochimici tra cui i fitoestrogeni, cioè
composti presenti nei vegetali che esercitano un’azione simile a quella degli
estrogeni. Una volta al mese, i fitoestrogeni possono trasformarsi nei
migliori amici di una donna.
Il finocchio è un bulbo da cui si sviluppano gambi con fronde flessibili che
fioriscono e producono semi aromatici.

ALLEVIARE I DOLORI MESTRUALI

I crampi mestruali, altrimenti definiti dismenorrea in linguaggio medico,


affliggono oltre il 50% delle donne in età fertile, e il 10% lamenta dolori
cosi intensi da debilitarle per qualche giorno ogni mese.
Nell’ambito di uno studio comparso sulla rivista International Journal of
Gynecology and Obstetrics, alcuni medici trattarono 30 studentesse del
liceo che presentavano crampi di entità da modesta a grave ricorrendo a un
estratto di finocchio o un farmaco antinfiammatorio non steroideo (FANS)
simile all’ibuprofene. Sia il farmaco che il finocchio alleviarono
efficacemente i dolori mestruali. I ricercatori conclusero che «l’essenza di
finocchio può essere impiegata con risultati sicuri ed efficaci» nel
trattamento dei crampi mestruali.
In uno studio analogo, che coinvolse ben 110 liceali, l’effetto del finocchio
fu addirittura superiore a quello dell’antinfiammatorio non steroideo,
recando «completo annullamento o riduzione del dolore» nell’80% dei casi
rispetto al 73% delle ragazze che assunsero il farmaco.
E ancora, in uno studio pubblicato su Phytomcdicine, i ricercatori
scoprirono che una formula ad uso topico di estratto di (inocchio riduceva il
diametro dei peli nelle donne con irsutismo (peluria abbondante e
indesiderata, come i peli facciali), problema causato da una condizione di
squilibrio ormonale.

CALMARE LE COLICHE

Se un bambino in tenerissima età piange sconsolatamente per ore


inarcando la schiena o alzando le gambine - e ciò si ripete invariabilmente
per un paio di giorni la settimana ripresentandosi di settimana in settimana
– è facile che soffra di coliche. La buona notizia è che il bimbo non è
malato, afferma la dottoressa Laura Riley, primario di ginecologia e
ostetricia presso il Massachusetts Generai Hospital di Boston e ricercatrice
universitaria presso il Dipartimento di Ostetricia, Ginecologia e Biologia
riproduttiva della Facoltà di Medicina di Harvard. Tuttavia, ciò non
significa che la mamma debba ammattire per via del pianto.
In uno studio successivamente pubblicato su Alternative Therapies in
Health and Medicine, alcuni medici suddivisero in due gruppi e trattarono
125 neonati sofferenti di coliche, di età compresa fra le due e le dodici
settimane: a un gruppo fu somministrato un prodotto contenente olio di
semi di finocchio (PediaCalm) e all’altro un placebo. Il prodotto a base di
semi di finocchio eliminò le coliche nel 65% dei casi rispetto al 24% dei
neonati che ricevettero il placebo. Nell’ambito di un altro studio, alcuni
ricercatori italiani somministrarono un placebo o una formula contenente
finocchio, camomilla e melissa a 88 neonati con coliche. Una settimana
dopo, il pianto dei bambini che avevano assunto finocchio era diminuito
mediamente da 3 ore e mezzo a 1 ora e un quarto; nel frattempo, i neonati
trattati con placebo ridussero il pianto da 3 ore e mezzo ad appena 3 ore.
UN POTENTE ANTINFIAMMATORIO

Il seme del finocchio è un potente agente antiossidante; di fatto, uno studio


dimostra che è più potente della vitamina E (un altro ben noto
antinfiammatorio) nello sconfiggere i radicali liberi, ossia le molecole che
provocano un danno ossidativo alle cellule e al DNA. Il seme del finocchio è
altresi un potente antinfiammatorio. Partendo dal presupposto che
l’ossidazione e l’infiammazione sono i due fattori concomitanti alla base di
numerose patologie croniche, tra cui malattie cardiovascolari, diabete di
tipo 2, morbo di Alzheimer, tumori e artrite, ecco spiegato perché il
finocchio può essere d’ausilio nel trattamento di tutti questi disturbi.
Morbo di Alzheimer e demenza non associata ad Alzheimer.
All’incirca un terzo della popolazione sui 75 anni di età soffre di demenza 1
intesa come perdita quasi totale della memoria - e il morbo di Alzheimer è
la forma più diffusa di demenza riscontrata nell’80% della totalità dei casi.
In uno studio condotto da ricercatori indiani, un estratto di semi di finocchio
ha profondamente migliorato la memoria a lungo termine in animali da
laboratorio; ha inoltre favorito l’attività dell’acetilcolina (un mediatore
chimico cerebrale) con la stessa modalità dazione del donepezil (Aricept),
un farmaco utilizzato nel trattamento del morbo di Azheimer. Sul Journal of
Medicinal Food, i ricercatori hanno j concluso che l’estratto di finocchio
«può essere impiegato nel trattamento di disturbi cognitivi quali demenza e
morbo di Azheimer».
Tumori. Un regime alimentare contenente semi di finocchio inibisce la
formazione di tumori in animali da laboratorio esposti a sostanze chimiche
cancerogene. Stando alle conclusioni di uno studio pubblicato su Food and
Chemical Toxicology, «l’inclusione dei semi di finocchio nella dieta può
verosimilmente ridurre il rischio di tumori nella popolazione umana».
Artrite. Un’équipe di ricercatori coreani ha scoperto che l’estratto di
finocchio riduce significativamente il gonfiore e il dolore in animali affetti
da artrite sperimentalmente indotta. Gli studiosi sono giunti alla
conclusione che l’attività antinfiammatoria del finocchio «può ridurre il
rischio di patologie a base infiammatoria» quali osteoartrite, artrite
reumatoide e lombalgia.
Malattie cardiovascolari e ictus. Alcuni ricercatori marocchini hanno
osservato che il finocchio riduce la pressione sistolica (il valore della
massima) in animali da laboratorio con ipertensione artificialmente indotta.
La pressione alta è il principale fattore di rischio in malattie cardiovascolari
e ictus. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Clinical and
Experimental Hypertension.
In un altro esperimento condotto su animali, alcuni ricercatori italiani
notarono che sia l’anetolo che un estratto di finocchio inibivano
l’aggregazione piastrinica, ossia l’adesione di determinati componenti del
sangue tra loro che conduce alla formazione di coaguli responsabili, in
ultima istanza, dell’ostruzione arteriosa. Al contrario dell’aspirina – spesso
impiegata per diminuire l’aggregazione piastrinica e «fluidificare» il sangue
–, né l’anetolo né l’estratto di finocchio provocano danni allo stomaco; anzi,
di fatto essi proteggono la mucosa gastrica.
Malattia infiammatoria dell’intestino. Nella medicina popolare, il
finocchio è sempre stato utilizzato per curare disturbi della digestione di
ogni tipo, ivi inclusi gonfiore addominale e produzione di gas intestinali, e
funziona perché rilassa la mucosa dell’intestino e calma l’infiammazione.
Probabilmente, il problema peggiore legato al processo digestivo è la
malattia infiammatoria dell’intestino, che si manifesta con stimoli urgenti
ad evacuare e diarrea quali sintomi principali. Tale disturbo viene definito
colite quando colpisce il colon (intestino crasso) e morbo di Crohn quando
si osservano focolai di infiammazione a carico dell’intestino tenue e crasso.
Alcuni ricercatori bulgari hanno somministrato una formula comprendente
finocchio a 24 soggetti affetti da colite. «Il dolore apprezzabile lungo il
tratto dell’intestino crasso scomparve nel 96% dei pazienti entro il
quindicesimo giorno di trattamento», scrissero gli esperti, e «nei pazienti
con sindrome diarroica, la defecazione risultò normalizzata».
Glaucoma. Nel glaucoma, i canali di deflusso dei liquidi dal bulbo oculare
si ostruiscono producendo una pressione all’interno dell’occhio che
danneggia il nervo ottico. Un’équipe di scienziati indiani somministrò un
collirio a base di estratto di finocchio ad alcuni animali affetti da glaucoma
sperimentalmente indotto. L’estratto ridusse la pressione endoculare del
31%, vale a dire lo stesso livello di sollievo recato da un farmaco
antiglaucoma. I ricercatori pertanto conclusero che il finocchio può trovare
impiego «nell’arsenale di farmaci antiglaucoma normalmente prescritti dai
medici».

I semi di finocchio possono contribuire a prevenire e/o curare:

Artrite, osteoartrite Colite


Crampi mestruali Demenza
Irsutismo Pressione alta

ALLA SCOPERTA DEI SEMI DI FINOCCHIO

Il finocchio viene largamente utilizzato nelle tradizioni culinarie del


Mediterraneo, in particolare in Italia. Fin dai tempi del Medioevo a Firenze
si coltiva una speciale varietà di finocchio estremamente apprezzata, e uno
dei liquori nazionali – la sambuca – è aromatizzato al finocchio. Inoltre, i
semi vengono tipicamente adoperati come spezia nella preparazione di
salsicce, polpette e salami.
I francesi della Provenza coltivano il finocchio (fenouil) da consumarsi
fresco in paste e insalate crude o come contorno di verdura. Una specialità
provenzale è il poisson au fenouil il pesce intero viene adagiato sulla griglia
su un letto di canne di finocchio che, bruciando, conferiscono al pesce un
aroma affumicato e dolce con reminiscenze di liquirizia. I semi vengono per
lo più adoperati in salse e ricette di pasta.
Gli inglesi usano i semi nelle minestre, mentre i tedeschi li aggiungono a
pane, piatti di pesce e crauti. Gli spagnoli impiegano i semi per
aromatizzare torte e altre preparazioni da forno, e gli scandinavi cospargono
di semi la superficie del pane di segale.
In India, i semi di finocchio costituiscono un ingrediente fondamentale in
numerose miscele di spezie, ivi incluse le polveri curry e il mix di semi
denominato panch phoron. Vengono aggiunti a preparazioni sottaceto, curry
e minestre nonché a piatti a base di lenticchie e riso. Il finocchio viene
anche adoperato nella preparazione di un particolare dessert chiamato
malpoora, una sorta di frittella aromatizzata al finocchio e al pistacchio.
Molti ristoranti indiani offrono dei semi di finocchio ricoperti di zucchero
alla fine del pasto insieme al caffè e al conto. Di recente l’India ha
cominciato a coltivare una propria varietà di semi di finocchio, i Lucknow,
dal nome della città di origine. Il finocchio Lucknow ha un sapore più
dolce, più vicino all’anice, e viene privilegiato come digestivo dopo il
pasto.
In Cina e in tutta l’Asia, i semi di finocchio vengono impiegati in
preparazioni agrodolci e in ricche salse per il pesce; gli asiatici tostano i
semi prima di adoperarli, conferendo cosi ai piatti un sapore più vivace.
I semi di finocchio sono presenti nella miscela di spezie ras-el-hanout, di
origine marocchina, e nel dukkah mediorientale. Infine, gli arabi li
cospargono sulle insalate e li aggiungono all’impasto per il pane.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

I semi di finocchio sono lunghi circa mezzo centimetro, di forma ovale


con costine verticali e di colore giallo pallido con sfumature verdastre.
Quando vi accingete all’acquisto, osservate bene la sfumatura poiché è
indice di buona qualità. Assicuratevi che la confezione non contenga scorie
di lavorazione; è difficile separare i semi, già di piccole dimensioni di per
sé, da residui e altri corpi estranei. Cercate preferibilmente semi interi non
spezzati.
I semi di finocchio sono disponibili in forma intera o macinata nella
maggior parte dei supermercati. Poiché gli oli volatili iniziano a disperdersi
non appena il seme viene macinato, è consigliabile acquistarli interi e
macinarli poco prima dell’uso per garantire il massimo sapore.
Se comprate semi di finocchio in un negozio di prodotti indiani, potreste
imbattervi nella varietà Lucknow, probabilmente in una confezione
etichettata come Lakhnawi saunf. Questi semi sono grandi circa la metà dei
semi di finocchio tipici ed essenzialmente verdi, di un colore giallo-verde
brillante come quello delle capsule di cardamomo.
I semi di finocchio si mantengono fino a tre anni chiusi in un contenitore
ermetico e conservati in un luogo fresco, lontano dalla luce del sole. I semi
macinati, invece, cominciano a perdere di intensità dopo sei mesi o anche
prima.
La pianta del finocchio viene coltivata nelle regioni a clima mite, inclusa
l’Italia, la Francia, l’India, il Marocco, l’Egitto e Taiwan. La maggior parte
dei semi di finocchio adoperati negli Stati Uniti viene importata dall’Egitto.
I SEMI DI FINOCCHIO IN CUCINA

Si tratta di una spezia dal sapore piuttosto intenso che si adatta altrettanto
bene a piatti dolci e salati. Può vivacizzare il gusto di una vasta gamma di
preparazioni, dalle carni alle torte o alle bevande. I semi contribuiscono a
dare equilibrio a quasi tutte le miscele di spezie. Il consiglio è di utilizzarli
nello stesso modo in cui si adoperano i semi di anice, cumino e kummel.
Diversamente dalla maggior parte degli altri semi, non è necessario
tostarli, benché la tostatura ne intensifichi e ne addolcisca l’aroma; qualora
tostati, assumono un retrogusto simile a quello dello zucchero di canna. In
tal caso, abbrustoliteli a secco, ma state attenti a non bruciarli, neanche un
poco, altrimenti prendono un sapore spiacevolmente amaro.
I semi di finocchio si sposano a molti elementi della dieta mediterranea, ad
esempio pomodori, olive mature, olio di oliva, basilico, carne alla piastra e
frutti di mare, e si combinano bene anche a pesci dalle carni grasse come
tonno e salmone.
Ecco alcuni suggerimenti per aggiungere più semi di finocchio alla propria
dieta:

• Il finocchio può trasformare una comune pagnotta di pane in qualcosa di


speciale: provate a mescolare un cucchiaio di semi all’impasto per il pane
che preferite.
• Spennellate del pane bianco, tipo italiano o francese, con dell’uovo
leggermente sbattuto, cospargetene la superficie di semi di finocchio e
infornate a 200 °C finché i semi non si attaccano alla crosta.
• Tostate e pestate dei semi di finocchio e metteteli in infusione nel tè.
• Distribuite semi di finocchio su torte e sui muffin prima di metterli in
forno.
• Aggiungete dei semi di finocchio alle macedonie e alle composte di
frutta.
• Preparate delle olive speziate mettendo a marinare 2 tazze di olive in 1/2
tazza di olio extravergine di oliva e, rispettivamente, 1 cucchiaino di semi di
finocchio, origano essiccato e timo essiccato.
Foglie di curry. Dalle fronde alle branche della medicina

Come per altre spezie presentate in questo libro, per poter discutere della
foglia di curry il primo passo è fugare qualsiasi dubbio.
La foglia di curry non equivale alla polvere di curry: non ne ha l’aspetto e
nemmeno il sapore. In compenso, ha molto a che vedere con i piatti di
curry. Il suo sapore meravigliosamente fragrante, con un sentore agrumato
di tangerino, è una presenza quasi costante nei curry dell’India meridionale,
almeno quanto lo è l’alloro negli stufati americani.
La foglia di curry è altresì un rimedio standard della medicina ayurvedica
(la medicina tradizionale dell’India) e in tale contesto viene impiegata per
tenere sotto controllo il diabete, le malattie cardiovascolari, le infezioni e le
infiammazioni. Negli anni Cinquanta, gli scienziati hanno iniziato a
scoprire i dettagli biochimici alla base delle sue virtù terapeutiche e, nei
decenni successivi, decine di studi hanno dimostrato la presenza di un
ricchissimo contenuto di composti officinali.
Analogamente a molti altri ortaggi a foglia verde, le foglie di curry sono
ricche di antiossidanti, in particolare di beta-carotene e vitamina C. Tuttavia,
quando i ricercatori indiani valutarono il potere antiossidante della foglia di
curry – ossia la sua capacità di fagocitare i radicali liberi, molecole che
provocano danni alle cellule del nostro organismo e al loro prezioso carico
genetico –, scoprirono che la sua azione superava di gran lunga quella di
altre tre verdure in foglia assai diffuse nella cucina indiana. La ragione
risiede nel fatto che un drappello scelto di antiossidanti, gli alcaloidi
carbazolici, sono presenti in grandi quantità solo nella foglia di curry.
La foglia di curry, contraddistinta da un sapore a metà tra il limone e il
tangerino, deriva da una pianta appartenente alla famiglia degli agrumi.

UN GRANDE AIUTO IN UNA PICCOLA FOGLIA

Alla luce di quanto detto, non sorprende che la foglia di curry sia in grado
di contrastare tutta una serie di malattie associate al danno ossidativo
provocato dai radicali liberi, come il diabete di tipo 2, le patologie
cardiovascolari e i tumori.
Diabete. Il diabete di tipo 2, ovvero la patologia caratterizzata da livelli di
glicemia cronicamente elevati, colpisce oltre 24 milioni di americani
danneggiandone i vasi sanguigni e provocando infarti, ictus, insufficienza
renale, cecità, ulcere plantari di difficile guarigione ed altri gravi disturbi
circolatori. Introdurre più foglie di curry nella dieta quotidiana può essere
d’aiuto.
In uno studio condotto su topi geneticamente selezionati per sviluppare
diabete, elevati livelli di colesterolo e obesità, alcuni ricercatori del Tang
Center for Herbal Medicine Research dell’Università di Chicago hanno
utilizzato foglie di curry per ridurre i livelli di glicemia (zuccheri nel
sangue) del 45%. Contemporaneamente, hanno assistito anche a un
notevole calo del colesterolo, pari al 35%, altro importante risultato dal
momento che un alto tasso di colesterolo rappresenta un aumento del
rischio di infarti e ictus, causa di morte per 3 persone su 4 affette da diabete
di tipo 2.
I ricercatori, pertanto, conclusero che la foglia di curry può anche essere
d’ausilio nel «perfezionare la gestione» del diabete di tipo 2 e del
colesterolo.
Un’équipe di ricercatori indiani del Centro di Terapie Alternative presso
l’Università di Allahabad hanno adoperato estratti di foglie di curry per
abbassare il glucosio del 48% in soggetti animali. La spezia ha ridotto
anche il colesterolo totale del 31%, i trigliceridi (altri lipidi presenti nel
sangue) del 23% e ha determinato un innalzamento del colesterolo HDL
(quello «buono») pari al 30%. Sulla rivista Journal of Ethnopharmacology,
gli esperti conclusero che la foglia di curry esplica un «effetto positivo nel
ridurre la gravità del diabete».
Perdita della memoria. Quando alcuni ricercatori indiani aggiunsero
delle foglie di curry alla dieta di alcuni animali da laboratorio, notarono che
la spezia ne migliorava la memoria, e quanta più spezia consumavano, più
erano in grado di ricordare. Gli studiosi rilevarono inoltre che promuoveva
l’attività colinergica a livello cerebrale, ossia quella stessa attività che
diminuisce progressivamente man mano che insorgono perdita di memoria
associata all’età, disturbi cognitivi di modesta entità e morbo di Alzheimer.
Le conclusioni degli esperti, pubblicate su Phytotherapy Research, furono
che la foglia di curry potrebbe presentare un notevole «potenziale
terapeutico nella gestione dei pazienti affetti da morbo di Alzheimer».
Carcinoma del colon. Alcuni ricercatori hanno scoperto che l’estratto di
foglie di curry riduce significativamente il numero di tumori in animali da
laboratorio affetti da carcinoma del colon chimicamente indotto. Stando ai
riscontri ottenuti, l’integrazione delle foglie di curry nel «regime alimentare
quotidiano svolge un ruolo significativo nella protezione del colon» contro
l’insorgenza di tumori.

ALLA SCOPERTA DELLE FOGLIE DI CURRY

L’albero del curry – un membro della famiglia degli agrumi che cresce nei
giardini delle case e nell’entroterra indiano – produce una foglia dal sapore
che sta a metà tra il limone e il tangerino.
Tale fragranza conferisce aroma non solo alle cucine dell’India e dello Sri
Lanka, ma anche a quelle di Birmania, Malesia e Singapore. Inoltre, è una
spezia essenziale non solo nei curry ma anche nei daal (stufati di
lenticchie), nelle samosa (antipasti fritti solitamente di verdure), nei
sambhar (zuppe di verdure), salse chutney e vari tipi di pane. È anche un
ingrediente della polvere di curry tipica della cucina dell’India meridionale.

Le foglie di curry possono contribuire a prevenire e/o curare:

Carcinoma del colon Morbo di Alzheimer


Perdita di memoria Trigliceridi
Colesterolo Diabete di tipo 2

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Le foglie di curry sono impareggiabili se consumate fresche, ma l’unico


luogo in cui avete possibilità di trovarle è una bottega indiana. Se siete tanto
fortunati da averne una nelle vicinanze, troverete le foglie di curry tra le
verdure, confezionate in mazzi in un involucro trasparente. Assomigliano a
foglie di alloro piccole e sottili. Non lasciatevi sfuggire l’occasione di
comprarle fresche: non sono costose e non le sprecherete, perché possono
essere surgelate. Se non sono esposte, chiedetele al negoziante: sono quasi
sempre disponibili.
Per conservare fresche e fragranti le foglie di curry, è meglio non staccarle
dal rametto finché non si è pronti ad usarle e staccarne solo la quantità
necessaria. Le foglie si conservano bene in frigorifero per circa una
settimana. Come accennato poc’anzi, possono anche essere surgelate;
mettetele semplicemente in un sacchetto in freezer e, di volta in volta,
prendete le foglie che vi servono. In freezer si mantengono per circa due
mesi. Una volta surgelate, sulla superficie si possono formare delle chiazze
scure fino ad annerire quasi completamente, ma tale alterazione dell’aspetto
non ne diminuisce il sapore. Se le foglie si sono scurite, è preferibile tritarle
dopo averle scongelate.
Le foglie di curry sono disponibili anche essiccate o in polvere. Si possono
acquistare entrambe nei negozi indiani o sui siti web specializzati nella
vendita di prodotti indiani. Sia le foglie essiccate che in polvere si
mantengono per circa un anno in un contenitore ermetico lontano dalla luce
e dal calore.

LE FOGLIE DI CURRY IN CUCINA

Provate a utilizzare le foglie di curry così come vengono adoperate nella


cucina indiana, cioè facendole saltare nell’olio sfrigolante all’inizio della
cottura. Poiché schizzano, abbiate l’accortezza di coprire la padella. Le
foglie così scottate conferiranno croccantezza e aroma ai piatti. Nella
tradizione gastronomica dell’India meridionale, le foglie di curry fresche
vengono per lo più abbinate ai semi di senape.
La foglia di curry fresca dona un sapore particolarmente fragrante e
peculiare al cibo, un profumo che si perde quasi del tutto quando la spezia
viene essiccata. Se adoperate delle foglie secche, aggiungetene una
manciata per raggiungere lo stesso risultato che otterreste con una sola
foglia fresca.
Ecco di seguito alcune idee per arricchire la dieta quotidiana di foglie di
curry:

• Aggiungete delle foglie fresche alle insalate e ai condimenti per insalate.


• Adoperatele nelle ricette di frutti di mare o negli stufati di carne.
• Provatele nel chili.
• Mettete qualche foglia fresca nelle zuppe di pollo oppure scodellate la
zuppa e aggiungete una foglia fresca in ogni piatto.
• Utilizzatele al posto dell’alloro per cambiare gusto.
• Il sapore agrumato della foglia di curry la rende perfetta per le marinate.
• Aggiungete una foglia o due alle preparazioni sott’aceto.
Galanga. Per una salute migliore, gentile omaggio della Thailandia

Se amate la cucina tailandese, sicuramente vi sarete imbattuti nella


galanga, anche se non ne avete mai sentito parlare. Questa radice nodosa,
parente dello zenzero, sta alla cucina tailandese come il peperoncino alla
cucina messicana. Senza di essa il cibo tailandese non avrebbe quel gusto
particolare e immediatamente riconoscibile.
Benché i cinesi preferiscano lo zenzero, i tailandesi prediligono il sapore
della galanga, molto simile a quello dello zenzero ma con una punta di
piccante che penetra fin nelle narici. Il suo peculiare «impatto» in bocca è
stato assimilato alla piccantezza immediata del peperoncino ma senza il suo
bruciore persistente.
Sebbene la galanga sia praticamente sconosciuta al mondo occidentale, le
popolazioni della Thailandia, dell’Indonesia e di altre regioni dell’Asia
Sud-orientale hanno fatto affidamento su di essa per secoli, e non solo come
spezia in ambito culinario. Di fatto, in Asia la galanga è meglio conosciuta
come medicina; i guaritori della medicina tradizionale l’hanno sempre
impiegata per trattare artrite, affezioni cutanee, disturbi digestivi, diabete e
persino il cancro.

UN SOLLIEVO PER L’ARTRITE

Le qualità terapeutiche della galanga derivano da un particolarissimo


insieme di composti antinfiammatori che vanno sotto il nome di acetati;
pertanto, non sorprende che possa essere efficace contro una patologia
infiammatoria molto diffusa come l’artrite.
I ricercatori dell’Università di Miami studiarono 261 soggetti affetti da
osteoartrite del ginocchio con dolori di entità da moderata a grave, e
somministrarono loro una formula combinata di zenzero e galanga o un
placebo. Dopo sei mesi, i pazienti trattati con zenzero e galanga riferivano
meno dolore al ginocchio in postura eretta, meno dolore dopo una
camminata, assumevano meno farmaci per alleviare il dolore acuto
dell’artrite, presentavano meno rigidità e nel complesso riuscivano a
muoversi e funzionare meglio durante il giorno. I risultati dello studio
furono pubblicati sulla rivista Arthritis and Rheumatism.
Nell’ambito di un altro studio, i ricercatori della Johns Hopkins University
valutarono le proprietà di una formula combinata di zenzero e galanga sui
sinoviociti, ossia le cellule che producono il liquido sinoidale con funzioni
di lubrificazione all’interno delle articolazioni. Gli studiosi notarono che la
formula diminuiva la produzione di chemochine, cioè componenti del
sistema immunitario che alimentano l’infiammazione. Sul Journal of
Alternative and Complementary Medicine, conclusero pertanto che «la
formula può essere utile nel sopprimere l’infiammazione riconducibile
all’artrite».
Un’équipe di studiosi tailandesi ha invece sperimentato un estratto di
galanga sui condrociti, ossia le cellule presenti nella cartilagine. In un
quadro artritico, la cartilagine è quella parte dell’articolazione che subisce
un’erosione, e le ossa, venendo a contatto e sfregando tra loro, causano
dolore. L’estratto favorì il rilascio di tre composti associati a una cartilagine
più resistente e sana: l’acido ialuronico, i glicosaminoglicani e le
metalloproteinasi. Scrivendo su Phytotherapy, gli esperti conclusero che
l’estratto di galanga è «un potenziale agente terapeutico nel trattamento
dell’osteoartrite».

ESTIRPIAMO IL CANCRO ALLA RADICE

Vari scienziati in tutto il mondo, incluso me e i miei colleglli del Centro


Oncologico M.D. Anderson, stanno conducendo indagini sulla galanga come
agente antitumorale.
Nel mio laboratorio, abbiamo notato che un composto della galanga,
l’acetossicavicolo acetato (ACA), disattiva i geni oncogeni limitando così la
crescita di tumori del seno, cutanei, polmonari e del sangue.
Nell’ambito di esperimenti condotti su animali, alcuni ricercatori
giapponesi hanno scoDerto che l’estratto di galanga previene i tumori
cutanei. Le fusioni sono state pubblicate sul Journal of Natural Medicine:
«La galanga può essere potenzialmente impiegata nella chemioprevenzione
dei tumori» (prevenzione mediante un composto naturale).
Il neuroblastoma è un tumore altamente maligno che si manifesta in età
pediatrica. Un’équipe di galanga ne uccideva le cellule e, sulla rivista
Anticancer Research, hanno reso noto che «potrebbe essere d’ausilio nel
trattamento dei pazienti affetti da neuroblastoma».
Esistono tre tipi dì galanga: la galanga maggiore, la galanga minore e la
kaempferia, ma solo il rizoma della galanga maggiore è apprezzato in
cucina.
Alcuni ricercatori tailandesi si sono chiesti perché gli abitanti di tale paese
presentavano un elevato tasso di infezioni da Helicobacter pylori – un
batterio che vive nello stomaco e che può causare ulcere e tumori – e, per
contro, un ridotto tasso di tumori gastrici rispetto ad altri paesi in via di
sviluppo ove le infezioni da H. pylori sono altrettanto comuni. A tale
proposito, scoprirono che diverse piante e spezie adoperate nella cucina
tailandese e in medicina, ivi inclusa la galanga, sono potenti inibitori di tale
batterio.
In Inghilterra gli scienziati hanno osservato che l’estratto di galanga attiva
alcuni enzimi che aiutano le cellule sane a sbarazzarsi delle sostanze
cancerogene e, inoltre, uccide le cellule tumorali del carcinoma mammario
e polmonare. «Questa duplice azione viene riscontrata piuttosto raramente
nell’ambito dei tradizionali rimedi antitumorali», dichiara il dottor Peter
Houghton, responsabile dello studio. «Normalmente, gli estratti sostengono
le difese naturali delle cellule sane oppure uccidono le cellule tumorali, ma
la galanga sembra agire in entrambi i modi».

MAGGIORE PROTEZIONE GRAZIE ALLA GALANGA

Di seguito elenchiamo altre malattie che la galanga può contribuire a


prevenire do a curare.
Diabete. I ricercatori del Pakistan hanno constatato che la galanga in
polvere riduce i livelli ematici di glucosio in animali da laboratorio con
un’efficacia pari a quella del gli-clazide (Diamicron), un farmaco
ipoglicemizzante per la cura del diabete. Gli esperti ipotizzano che gli
antiossidanti presenti nella spezia stimolino il pancreas a produrre più
insulina, lormone che riduce i livelli di glucosio.
Ulcere. In base a studi condotti su animali, alcuni ricercatori giapponesi
hanno scoperto che la galanga inibisce totalmente le ulcere gastriche e che,
in tale contesto, si è dimostrata più efficace di tre farmaci specifici per
l’ulcera: l’omeprazolo (Prilosec), la cimetidina (Tagamet) e il cloridrato di
cetraxato (Zydis).
Allergie. Un’équipe di ricercatori giapponesi ha scoperto che l’estratto di
galanga ostacola il processo cellulare responsabile di sintomi allergici come
la congestione nasale.

La galanga può contribuire a prevenire e/o curare: tumori, ulcere, allergie,


diabete di tipo 2, osteoartrite

ALLA SCOPERTA DELLA GALANGA

Esistono tre tipi di galanga: la galanga maggiore, la galanga minore e la


kaempferia, ma solo il rizoma della galanga maggiore è apprezzato in
cucina poiché è più delicato. La galanga minore e la kaempferia hanno un
sapore troppo pungente, canforato, e vengono impiegate più a scopo
medicinale che culinario.
Nella cucina tailandese, ma anche in quelle della Malesia, del Vietnam, di
Singapore, Cambogia e Indonesia, la galanga maggiore viene largamente
adoperata nella preparazione di curry, minestre, sauté e piatti di riso. Viene
utilizzata fresca o in polvere nella maggior parte delle ricette tailandesi,
dove figura come ingrediente principale nelle paste di curry rosse e verdi
nonché nella rinomata zuppa di pollo al cocco chiamata tom kha gai («kha»
significa, appunto, galanga). È anche un ingrediente essenziale dei rendang,
i piccantissimi stufati di carne e cocco che vengono serviti in occasione di
festività.
L’effetto riscaldante della galanga la rende un ingrediente perfetto per
conferire una sensazione «di bocca» alcolica a bevande a bassa gradazione
alcolica o analcoliche. In un test gustativo, quando la galanga fu aggiunta a
una bevanda alcolica di 20% voi., il livello di alcol fu percepito come
superiore a 30% voi. In un altro test, il gusto di una bevanda analcolica fu
reso molto simile a quello di un drink contenente alcol.
Originaria di Giava, la pianta della galanga – alta all’incirca un paio di
metri, produce graziosi fiori bianchi con sfumature verdi che ricordano
un’orchidea – viene coltivata in numerosi paesi del Sudest asiatico, tra cui
la Thailandia, l’Indonesia e le Filippine, nonché in Cina e in India. È altresì
nota con il nome di galingale, galangall e zenzero della Thailandia.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

La galanga somiglia a un versione gigante del suo più noto parente, lo


zenzero, ma presenta una polpa molto più fibrosa e compatta. È possibile
acquistarla fresca, surgelata, in scatola, sott’aceto oppure essiccata o,
ancora, intera, a lamelle o ridotta in polvere, sebbene sia quasi impossibile
reperirla in una qualsiasi di queste forme se non in un negozio di prodotti
asiatici oppure in internet su un sito specializzato in prodotti alimentari
tailandesi.
Quando si acquista della galanga fresca, è bene comprarla giovane. Il
rizoma di una pianta giovane fornisce sapore e consistenza ottimali, ed è più
facile da tagliare a lamelle e da gestire. La galanga giovane presenta una
buccia bruno-giallastra con sfumature rossastre e una polpa color crema.
Cercate rizomi sodi e con buccia liscia; una buccia rugosa è segno che la
pianta è più vecchia.
La galanga fresca non deperisce facilmente, per cui la potete
tranquillamente acquistare su Internet. Conservata in frigorifero in un
sacchetto di plastica, si manterrà per circa due settimane; se congelata, si
mantiene per circa due mesi.
La galanga essiccata solitamente viene venduta confezionata in pezzi che
somigliano a pezzetti di legno secco ed è molto dura: prima di utilizzarla,
occorre metterla a bagno in acqua bollente per 20-30 minuti. La versione
essiccata si conserva per anni purché rimanga protetta dall’umidità e dal
calore.
Se non siete abituati a usare la galanga in cucina, la cosa migliore è
acquistarla in polvere; spesso viene commercial izzata con il nome di
polvere Laos. Tuttavia, siate prudenti quando cucinate; la galanga in polvere
è più forte di quella fresca e può mettere a durissima prova le vostre narici
se vi avvicinate troppo e la annusate! Il consiglio è adoperare la metà di
quanto usereste se fosse fresca. La polvere si mantiene per circa un anno.

LA GALANGA IN CUCINA
Di per sé la galanga non è esteticamente un granché e ha poco gusto ma,
una volta aggiunta ad altre spezie e ingredienti in una ricetta, produce un
aroma difficile da eguagliare.
Gli chef tailandesi la adoperano non sbucciata e tagliata a lamelle sottili.
Se la trovate esteticamente poco elegante, potete grattare o pelare il rizoma;
in alternativa, potete anche grattugiare la polpa.
Adoperate la galanga come fareste con lo zenzero per insaporire curry,
preparazioni in umido e minestre. Essa conferisce un peculiare aroma
speziato alla maionese, alla panna acida e al ketchup. Fate soltanto
attenzione a non eccedere nelle dosi, poiché potrebbe assumere un sapore
come di medicinale.
Gli esperti divergono sul fatto che lo zenzero possa essere o meno un
sostituto idoneo. Ovviamente esso non conferisce lo stesso aroma ma,
poiché entrambi hanno un aroma netto e distinto, personalmente preferisco
sostituire la galanga con dello zenzero anziché fame del tutto a meno in una
ricetta.
Ginepro. Il diuretico naturale

La bacca di ginepro (in realtà non una bacca vera e propria bensì una
piccola pigna prodotta dalla pianta e dall’arbusto del ginepro) è
principalmente conosciuta come la spezia che contraddistingue l’aroma del
gin. Se al party di ieri sera avete bevuto un Martini, un Gin and Tonic, un
Long Island Iced Tea e un Tom Collins e oggi, postumi a parte, vi sembra di
correre in bagno più frequentemente del solito, be’, non è solo una
sensazione: la bacca di ginepro è un diuretico fenomenale, ossia una
sostanza che aumenta la produzione di urina.

MILLE PREMURE PER I RENI

Numerosi farmaci moderni indirizzati al trattamento dei disturbi urinari


includono uno o più composti estratti dalle bacche di ginepro. Tali composti
non solo stimolano i reni a produrre liquido, ma contribuiscono anche a
uccidere i batteri e, pertanto, costituiscono una soluzione ideale per
debellare le infezioni a carico della vescica e del tratto urinario. Di fatto, la
bacca di ginepro è così piena di premure per i reni che alcuni ricercatori
dell’Università della California hanno scoperto che contribuisce a prevenire
le crisi di rigetto in animali da laboratorio su cui sono stati
sperimentalmente eseguiti trapianti di rene.

UNA CURA SEMPRE VALIDA

Il ginepro può essere impiegato per curare svariati altri disturbi. Qui di
seguito alcuni esempi.
Mal di stomaco. Le Monografie della Commissione E - vale a dire i
compendi scientifici utilizzati in Germania come guida per medici ed altri
operatori sanitari nell’uso terapeutico dei rimedi naturali — approvano
l’impiego delle bacche di ginepro per trattare l’indigestione.
Disturbi cardiaci. Nell’ambito di uno studio condotto su animali, alcuni
scienziati hanno rilevato che le preparazioni a base di bacche di ginepro
svolgono un’azione simile a quella dell’amiloride cloridrato (Moduretic),
un diuretico utilizzato per tenere sotto controllo la pressione arteriosa e
l’insufficienza cardiaca congestizia.
Infiammazioni e infezioni. Le bacche di ginepro sono sempre state
impiegate per trattare «svariati quadri infiammatori e infettivi quali
bronchite, raffreddori, tosse, infezioni micotiche, emorroidi, disturbi
ginecologici e ferite nella medicina popolare turca», scrisse un’équipe di
ricercatori sul Journal of Ethnopharmacology. Gli esperti sottolinearono
inoltre che la bacca di ginepro risulta essere utilizzata a livello mondiale per
molti di questi disturbi nonché per l’artrite reumatoide, per regolarizzare il
ciclo mestruale e alleviare la dismenorrea. Quando testarono un estratto di
bacche di ginepro nell’ambito di un esperimento condotto su animali,
riscontrarono una notevole attività antinfiammatoria e analgesica pari a
quella dell’indometacina (Indocin), un farmaco antinfiammatorio non
steroideo (FANS) normalmente prescritto per l’artrite e altri disturbi dolorosi.
Diabete. Diversi studi condotti su animali evidenziano che la bacca di
ginepro è efficace nel ridurre i livelli ematici di glucosio.
Carcinoma mammario. In uno studio di laboratorio pubblicato sulla
rivista Oncology Reports, gli estratti di bacche di ginepro hanno
significativamente ridotto la crescita di cellule del carcinoma mammario
umano. In base alle conclusioni dei ricercatori, l’estratto «potrebbe essere
d’ausilio nel trattamento del carcinoma».
Danno epatico. In uno studio condotto su animali, i ricercatori
dell’Università della Carolina del Nord di Chapel Hill hanno scoperto che
un estratto di bacche di ginepro contribuiva a prevenire il tipo di danno
epatico riscontrato nell’alcolismo.
Herpes simplex. Studi in vitro hanno evidenziato che i composti del
ginepro inibiscono il virus responsabile dell’herpes simplex.

Le bacche di ginepro possono contribuire a prevenire e/o curare:

Artrite reumatoide Bronchite


Crampi metruali Disturbi ai reni
Diabete di tipo 2 Dolori
Emorroidi Herpes simplex
Indigestione Pressione alta
ALLA SCOPERTA DELLE BACCHE DI GINEPRO

Esistono oltre 70 specie di ginepro che comprendono sia varietà arboree


che arbustive. Le «bacche» del ginepro impiegano tre anni per giungere a
maturazione: inizialmente verdi, si colorano di blu e poi assumono una tinta
viola scuro. Una volta essiccate, si scuriscono assumendo una tonalità nero
bluastra.
La raccolta delle bacche solitamente avviene in autunno e può essere
un’operazione alquanto spinosa a causa delle dure foglie aghiformi che
proteggono le bacche.
Dunque, se avete intenzione di cogliere bacche di ginepro, munitevi di
guanti ma, soprattutto, assicuratevi bene che i frutti che state cogliendo
provengano all’arbusto di una specie edibile. Alcune varietà di ginepro,
infatti, sono velenose.
Il ginepro cresce in abbondanza nell’emisfero boreale, per cui non è affatto
sorprendente che tale spezia rifinisca tante specialità delle culture
gastronomiche ricche di carni tipiche dell’Europa Settentrionale, soprattutto
quelle della Scandinavia e della Germania. D’altronde, dove c’è selvaggina
c’è ginepro, e le bacche vengono adoperate per attenuare il sapore di
selvatico della carne di cervo, oca, anatra e cinghiale. Gli scandinavi le
utilizzano per arrostire la carne di renna e le aggiungono anche al gra-vlax,
una specialità a base di salmone affumicato con sale, zucchero e aneto. I
tedeschi mettono il ginepro nei brasati, nei piatti di verdure fermentate
come i crauti e lo adoperano come aroma principale negli Schnapps,
apprezzate grappe bianche. Le bacche di ginepro costituiscono la spezia
principale del maiale con crauti all’alsaziana, un rinomato piatto franco-
tedesco. Dal canto loro, i francesi aggiungono il ginepro nei pàté e nei
salumi.
Le fragranze al ginepro, pungenti e con un sentore di pino, sono piuttosto
diffuse come articoli da toilette e profumatori d’ambiente. Un tempo, gli
svizzeri usavano bruciare delle bacche di ginepro nel combustibile da
riscaldamento delle scuole per disinfettare le aule.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO


Le bacche di ginepro sono disponibili essiccate nella maggior parte dei
supermercati. Dovrebbero essere leggermente umide, flessibili al tatto e
schiacciarsi facilmente tra le dita.
Sulla superficie di alcune non di rado si distingue una lanugine opaca: si
tratta di muffa ed è una cosa assolutamente normale, in quanto le bacche
trattengono l’umidità. In ogni caso, è meglio evitare le bacche con troppa
muffa.
Le bacche di ginepro si conservano ottimamente in un contenitore
ermetico riposto lontano da calore e luce; se sono dure, significa che sono
andate a male e conviene gettarle via.

LE BACCHE DI GINEPRO IN CUCINA

In cucina le bacche di ginepro sono una spezia facile da gestire. È sempre


opportuno schiacciarle anziché adoperarle intere. Dal momento che sono
piuttosto tenere, è possibile farlo con le dita oppure pestandole leggermente
con il pestello in un mortaio. Nel momento in cui vengono schiacciate, le
bacche liberano i loro oli e, pertanto, sarebbe bene non schiacciarle né
macinarle fino al momento di adoperarle.
Le bacche di ginepro vengono tradizionalmente impiegate in piatti di
selvaggina, ma possono esaltare qualsiasi preparazione di carne, inclusi gli
arrosti di manzo e pollo. Alcuni chef le aggiungono persino al pesce in
umido.
Di seguito, presentiamo qualche idea per arricchire la vostra dieta di
bacche di ginepro:

• Utilizzate le bacche di ginepro nei rub di spezie per fagiani, anatre o


piccioni insieme a chiodi di garofano, alloro, rosmarino, timo, noce moscata
e aglio.
• Preparate ima marinata per tagli di selvaggina e kebab combinando sidro
di mele e olio di oliva con bacche di ginepro schiacciate, pepe nero in grani,
aglio e alloro.
• Il ginepro si sposa bene con la frutta di colore viola, e quindi susine,
more e mirtilli.
• Aggiungete alcune bacche all’oca e all’anatra arrosto per attenuare il
sapore del grasso.
• Aggiungete delle bacche di ginepro macinate alle farciture a base di
pane.
• Aggiungete qualche bacca nella cocotte quando preparate il coq au vin, il
classico pollo al vino francese.
Kokum. L’esotico prodigio dimagrante venuto dall’India

A meno che non abbiate visitato la costa occidentale dell’India o non siate
stati ospiti a tavola di una famiglia indiana, probabilmente non avete mai
assaggiato il kokum. Ma quando vi capiterà, è facile che non vediate l’ora
di gustarlo di nuovo.
Quanti sono stati tanto fortunati da visitare la regione indiana dei Ghati
Occidentali in estate raccontano sovente di avere provato un insolito drink
cremoso esclusivo di quella zona montuosa, di colore rosa, saporito e
rinfrescante, chiamato sol kadhi. La bevanda deve la cremosità al latte di
cocco, mentre il colore rosa viene dal kokum, una spezia esotica prodotta da
un rigoglioso albero da frutto ornamentale originario di tale regione.
Il piccolo frutto, che spicca rosso tra il fogliame verde e I muta in un viola
acceso quand’è maturo, viene raccolto ed essiccato in primavera, giusto in
tempo per esporre il sol kadhi nei menu dei roventi mesi che caratterizzano
la stagione estiva. Il drink non è solo famoso per il suo sapore, ma anche
perché aiuta la popolazione locale a rinfrescarsi in quell’atmosfera umida
tropicale, una proprietà curativa propria del kokum che contribuisce a
prevenire la disidratazione e le insolazioni. E anche se molte persone non se
ne rendono conto o non ci fanno caso, il kokum offre un altro beneficio: è in
grado di sopprimere la voglia di abbuffarsi!
Il kokum deriva da un rigoglioso albero da frutto ornamentale originario
dell’India.

UN AIUTO NATURALE PER PERDERE PESO

Gli scienziati stanno studiato il kokum come ausilio naturale per perdere
peso in quanto contiene acido idrossicitrico (HCA), un composto reperibile
nella buccia essiccata, cioè la spezia vera e propria. L’acido idrossicitrico è
un noto soppressore dell’appetito e numerosi studi dimostrano che
l’ingestione di tale sostanza non solo induce una perdita di peso, ma anche
una perdita di adipe.
Nell’ambito di uno studio condotto in Thailandia, i ricercatori invitarono
50 donne obese ad adottare una dieta di 1000 calorie al giorno e affiancare
una «pillola» dimagrante. Metà di loro assunse una pillola contenente HCA,
l’altra metà un placebo. Dopo due mesi, le donne a cui era stato
somministrato l’HCA avevano perso quasi il doppio del peso rispetto alle
altre, e i ricercatori riferirono che l’evidente discrepanza nel calo ponderale
«era dovuta alla perdita dei depositi di grasso».
In un altro studio, apparso sulla rivista Nutrition, gli scienziati misero a
dieta alcuni animali da laboratorio per un periodo di tre settimane, durante il
quale persero il 20% del peso corporeo. Nelle quattro settimane successive,
gli studiosi li lasciarono mangiare a sazietà — proprio come sovente
facciamo noi umani dopo una dieta ipocalorica stretta — ma a metà degli
animali fu dato dell acido idrossicitrico mescolato al cibo. Si scoprì che le
cavie che avevano assunto la sostanza mangiavano meno e riacquistavano
peso meno facilmente.
Il calo ponderale è l’ultimo elemento che si è andato ad aggiungere ai
numerosi benefici per la salute storicamente riconosciuti al kokum. Secoli
prima che la spezia diventasse un alimento base della rinomata cucina
locale Konkani, i medici della scuola tradizionale ayurvedica lo
impiegavano per curare piaghe e prevenire infezioni, migliorare la
digestione, trattare diarrea e stipsi, alleviare il dolore articolare deU’artrite
reumatoide, curare infezioni dell’orecchio e risanare ulcere. È altresì un
rimedio casalingo contro la febbre e le eruzioni cutanee.
Il kokum deriva tale variegata combinazione di azioni curative dal suo
principio attivo primario: il garcinolo, una sostanza dotata di proprietà
antiossidanti e antinfiammatorie. Tali proprietà hanno indotto me ed altri
ricercatori a chiederci se la spezia potesse potenzialmente essere impiegata
per combattere il cancro… e gli studi dimostrano che è così.

LA BATTAGLIA DEL KOKUM CONTRO IL CANCRO

Studi condotti su soggetti umani e animali presso i principali centri di


ricerca, incluso l’M.D. Anderson, hanno evidenziato che il garcinolo è in
grado di stanare e uccidere le cellule ribelli in due dozzine di differenti
ambiti nella progressione dei tumori. Ciò riveste notevole importanza
poiché gli agenti che dimostrano tali capacità non solo possono prevenire il
cancro, ma potrebbero anche essere eventualmente impiegati come
trattamento nell’ambito di questa patologia.
Alcuni ricercatori di Taiwan, ad esempio, hanno osservato le capacità di
tale composto dopo avere indotto il cancro in animali da laboratorio
utilizzando cellule di carcinoma umane. Una dose successiva di garcinolo
ha annientato le cellule tumorali.
In un altro studio, alcuni specialisti giapponesi di tumori della bocca
hanno iniettato nella lingua di animali da laboratorio delle cellule tumorali.
Negli otto mesi successivi, a metà delle cavie furono somministrate
quotidianamente dosi di garcinolo introducendo nel regime alimentare il
kokum; al termine dello studio, i ricercatori notarono che gli animali trattati
con kokum avevano sviluppato un numero inferiore di tumori e di massa
più ridotta.
Il kokum ha dimostrato la sua efficacia come agente antitumorale anche in
occasione di un test di confronto con la curcumina, un principio attivo
ampiamente studiato, presente nella curcuma indiana, che esercita una
potente attività antineoplastica. Il kokum è infatti strutturalmente simile alla
curcuma. In tale esperimento, condotto da un gruppo di ricercatori di
Taiwan e pubblicato sul Journal of Agricolture and Food, sia la curcumina
che il garcinolo si dimostrarono efficaci nell’arrestare la proliferazione di
cellule tumorali della leucemia, ma il garcinolo risultò essere il più potente
dei due.
Sostituzione: il kokum è simile al tamarindo e nelle ricette si possono
considerare intercambiabili. Un cucchiaino di kokum macinato equivale a
un cucchiaino di estratto di tamarindo.
Il kokum può contribuire a prevenire e/o curare: tumori, ulcere, eritemi,
indigestione, obesità

UN AIUTO PER L’ULCERA

Per secoli i medici della tradizione ayurvedica hanno impiegato con


successo il kokum per trattare e prevenire le ulcere gastriche, e la medicina
moderna sta fornendo le prove del perché funziona: esso infatti uccide
l’Helicobacterpylori, il batterio principale responsabile sia di ulcere
gastriche (a carico dello stomaco) che peptiche (stomaco, intestino tenue o
esofago).
Un problema di ulcera cronica può condurre a tumori gastrici e, sebbene
l’incidenza di tumori dello stomaco negli Stati Uniti sia piuttosto ridotta,
costituisce comunque una crescente preoccupazione poiché l’H. pylori sta
diventando sempre più resistente ai farmaci antibatterici. In virtù
dell’attività antibatterica espressamente mirata all’ulcera, il garcinolo si
pone come candidato di prima scelta a cui ricorrere per debellare il batterio
in modo naturale.
I risultati delle prime ricerche svolte in questo ambito sono promettenti.
Uno studio condotto su animali da laboratorio e pubblicato sulla rivista
Molecular Cell Biochemistry ha evidenziato che il garcinolo inibisce la
crescita dell’H. pylori e, quanto ad efficacia, si è dimostrato «equivalente o
superiore» alla claritromicina (Biaxin), un potente antibiotico, nel trattare
l’infezione.
In Giappone, paese che conta il più alto tasso di tumori gastrici al mondo, i
ricercatori hanno riscontrato che il garcinolo assunto con la dieta è così
efficace nel prevenire le ulcere in animali da laboratorio che ne hanno
suggerito il potenziale impiego come presidio antiulcera.
Ricerche preliminari suggeriscono che il potere antiossidante del garcinolo
è in grado di promuovere la salute del cervello. Alcuni scienziati di Taiwan
hanno scoperto che sette giorni di trattamento a base di garcinolo
favorivano la crescita di neuroni in vitro e arrestavano il danno ossidativo di
neuroni infetto da talune sostanze che possono recare un danno ossidativo ai
neuroni. I ricercatori giunsero alla conclusione che il garcinolo può svolgere
un’azione neuroprotettiva.

UN POTENTE ANTIOSSIDANTE

Uno dei motivi per cui il kokum si sta dimostrando una eccellente spezia
curativa è che il garcinolo agisce in molteplici modi a livello molecolare.
Ad esempio, esistono alcune molecole che danneggiano le cellule,
denominate specie reattive dell’ossigeno (in sigla, ros), che sono prodotte da
fattori quali un’alimentazione ad alto contenuto di grassi, inquinamento
atmosferico e stress. I ros svolgono un ruolo fondamentale nelle malattie
cardiovascolari, nei tumori e in numerosi altri disturbi cronici, ma l’attività
antiossidante del garcinolo, più potente della stessa vitamina E, si è
dimostrata in grado di sopprimere la produzione di ros. E questo non è che
uno dei modi in cui il garcinolo protegge le nostre cellule.
È ancora troppo presto per stabilire la reale idoneità di tale sostanza come
agente terapeutico; fino ad oggi è stato svolto solo un ridotto numero di
studi su animali e nessuno su soggetti umani. Comunque sia, in attesa di
ulteriori risultati scientifici, suggerisco di trarre beneficio dal garcinolo
acquisendo familiarità con il kokum e le ricette che prevedono l’impiego di
questa spezia, in particolare quelle di origine indiana.

ALLA SCOPERTA DEL KOKUM

Il kokum non lo si potrebbe esattamente definire affascinante, soprattutto


se paragonato ad altre spezie, tuttavia il sapore ne smentisce l’aspetto
dimesso. Al contrario del frutto del kokum dalla splendida tinta vivace, la
buccia essiccata che costituisce la spezia è di colore viola scuro, in effetti
quasi nera, con bordi raggrinziti, ed è anche è leggermente appiccicosa.
Asprigna di sapore, fornisce un piacevole contrasto agrodolce ai curry a
base di cocco esaltandone la qualità. Sebbene non abbia un profumo
inebriante come altre spezie, se si annusa con attenzione si può distinguere
un leggero aroma dolce.
Il kokum non è molto conosciuto come spezia culinaria al di fuori
dell’India, ma è uno degli ingredienti essenziali della cucina Konkani, una
gastronomia che è di per sé un’avventura, come sicuramente potrà
testimoniare chi ha assaggiato il sol kadhi.
Quando il kokum lascia i confini del suo paese, per lo più lo fa sotto forma
di burro di kokum, un emolliente impiegato in cosmesi molto simile al
burro di karité e di cacao. In Europa, è un componente comunemente
utilizzato nei rossetti, nelle creme idratanti, nei balsami per capelli e nelle
saponette, ma viene anche ampiamente adoperato in prodotti specifici per
pelli secche, screpolate, irritate o scottate.
Il kokum viene altresì impiegato nell’industria alimentare come regolatore
di acidità, e lo si può trovare tra gli ingredienti dei chutney e dei sottaceti di
importazione.
Tale spezia è conosciuta sotto vari nomi, tra cui kokam, kokkum,
mangostano, mangostano selvatico e mango rosso, sebbene non abbia
alcuna somiglianza con il mangostano o il mango. Il mangostano, che viene
impiegato in prodotti dimagranti, non contiene kokum benché contenga
acido idrossicitrico, cioè la medesima sostanza chimica che fa perdere peso
presente anche nel kokum.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Con un pizzico di ingegnosità, potete far entrare il kokum nella vostra


dispensa e dare nuovo slancio sia al gusto che alla salute.
In negozio cercate bucce sfumate di viola anziché quelle di aspetto nero;
devono essere morbide e flessibili. Se sono troppo dure o sono state
conservate in deposito per troppo tempo, iniziano a perdere sapore. La
presenza di una patina bianca su alcune bucce non deve essere motivo di
perplessità: si tratta solamente del sale residuo del processo di essiccazione
e per eliminarlo è sufficiente lavare le bucce sotto l’acqua fredda prima di
utilizzarle.
Acquistate solo una piccola quantità di kokum e riponetela in un barattolo
a chiusura ermetica; in questo modo, la spezia dovrebbe conservarsi per
circa un anno. Una confezione piccola contiene all’incirca una dozzina di
bucce. Sfortunatamente, non potrete essere sicuri della qualità finché non
immergerete il kokum in acqua: questa dovrebbe tingersi di un colore che
va dal rosa al porpora e, quanto più carica è la sfumatura, migliore è la
qualità.

IL KOKUM IN CUCINA

In cucina, il kokum viene adoperato in tre modi. Si può macinare l’intera


buccia e utilizzarla come spezia asciutta, solitamente in combinazione con
altre spezie; si può immergere la buccia intera in un liquido di cottura, ove
si ammorbidirà e darà sapore al piatto; infine, può essere macinato fino a
ridurlo in polvere.
L’impiego più comune è nella preparazione di curry e sol kadhi, ma si
sposa bene con patate, gombo, fagioli e lenticchie. Ecco alcuni
suggerimenti per adoperare il kokum a casa propria:

• Unite una o due bucce alle paste di curry e alle salse di pomodoro.
• Quando cucinate lenticchie, aggiungetene qualcuna all’inizio della
cottura.
• Macinate il kokum e distribuitene un poco sulla guaiava, sui chicchi di
melagrana, sulle verdure cotte, le patate e le minestre.
• Mescolate del kokum macinato allo yogurt.
Kümmel. Un aiuto dopo i pasti

Quando, nel Paese delle Meraviglie, Alice cadde nella tana del
Bianconiglio, era assai rammaricata di non avere con sé uno spazzolino da
denti, ma fortunatamente aveva in tasca una scatola di comfit. Quei dolcetti
al kümmel erano molto diffusi nell’Inghilterra dell’era vittoriana, epoca in
cui i semi di questa varietà di cumino erano tenuti in grande considerazione
per la capacità di rinfrescare l’alito e regolarizzare le funzioni dell’apparato
digerente.
I contadini di quel tempo celebravano il successo della semina primaverile
del grano bevendo birra e mangiando wiggs, un’ulteriore varietà di
pasticcini al kümmel. I più superstiziosi credevano che qualsiasi cosa
venisse a contatto con tali semi non sarebbe stata rubata; di conseguenza, le
donne nascondevano dei semi di kümmel nelle tasche dei mariti nella
speranza che impedissero loro di scappar via. Tale spezia veniva anche
imbottigliata e distribuita come filtro d’amore, per cui venne battezzata
«cumino dei baci».
Tuttavia la popolarità del kümmel presso gli inglesi si dileguò al pari degli
spazzacamini e dei «mutandoni» imposti dalla pruderie vittoriana per
nascondere la gambe dei pianoforti. Forse è giunto il momento di riportare
in auge questa spezia sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti, ove i
problemi postprandiali, quali bruciori, gonfiore, eruttazione, crampi e
nausea, assillano una percentuale stimata intorno al 40% della popolazione.
Recenti studi scientifici hanno dimostrato ciò che Alice e i suoi
contemporanei al di qua dello specchio già sapevano per esperienza diretta:
il kümmel, o cumino dei prati, è uno dei coadiuvanti della digestione più
efficaci in circolazione.

MEGLIO DEGLI ANTIACIDI

Alcuni ricercatori della Gran Bretagna hanno riesaminato 53 studi sugli


antiacidi notando che tali ritrovati offrivano scarso sollievo conto i
malesseri digestivi. Successivamente analizzarono 17 studi condotti su
rimedi erboristici inclusa una formula combinata di olio di menta piperita e
kümmel (o cumino dei prati) entrambi contenenti carvone, un componente
presente in alcuni oli essenziali in grado di rilassare gli spasmi del tratto
digerente. La formula erboristica riduceva efficacemente il mal di stomaco
e altri disturbi postprandiali in una percentuale di casi che andava dal 60%
al 95%. In uno studio, i soggetti che assunsero la formula combinata per
quattro settimane riferirono una diminuzione dei dolori gastrointestinali in
media del 45%.

UN RIMEDIO TRADIZIONALE PER IL DIABETE

Gli inglesi non sono gli unici storici sostenitori del kümmel. Anche gli
antichi greci, romani ed egizi prendevano in considerazione questa spezia
sia a livello culinario che medico, aggiungendola alla preparazione di pani e
dolci o alla frutta per stimolare la digestione e combattere raffreddori e
bronchiti.
Il kümmel continua ad essere un rimedio tradizionale molto diffuso in
Marocco, ove la gente comune ne mastica i semi leggermente tostati dopo
cena. È anche considerato un modo per prevenire e tenere sotto controllo i
problemi di glicemia. Infatti, nel 2004, alcuni ricercatori marocchini
sperimentarono il rimedio su topi affetti da diabete farmacologicamente
indotto e scoprirono che la somministrazione quotidiana per due settimane
aveva completamente normalizzato i livelli di glicemia degli animali. Tali
risultati «rappresentano una conferma sperimentale» dell impiego
tradizionale dei semi di kiimmef per tenere sotto controllo il diabete di tipo
2, secondo quanto riferito dai ricercatori sulla rivista Journal of
Ethnopharmacology.

GLI ALTRI SEGRETI DEL KÜMMEL

In effetti, i semi di questa varietà di cumino contengono oltre cinquanta


composti di valore terapeutico che possono essere di ausilio in tutti i tipi di
problemi di salute, come dimostrato dagli studi scientifici. Ed eccone
alcuni.
Tumori. I semi del kümmel sono particolarmente ricchi di limonene, un
composto di cui è nota l’attività antitumorale. Studi condotti su animali
hanno dimostrato che il limonene è in grado di arrestare la crescita di
tumori del seno, del fegato, del polmone e dello stomaco. Alcuni studi
indicano inoltre che il limonene e il carvone in combinazione riducono il
rischio di tumori del colon.
Avvelenamento da cibo. L’Escherichia coli è il batterio responsabile di
molti casi di avvelenamento da cibo, un’infezione che colpisce 76 milioni
di americani all’anno, vale a dire ben 21.000 persone al giorno. La carne del
pollo è una delle sedi preferite dell’E. coli, ma dopo avere contaminato una
pentola di zuppa di pollo, alcuni ricercatori hanno osservato che il carvone
preveniva la proliferazione del batterio.
Colesterolo e trigliceridi. Alcuni studiosi marocchini hanno notato che il
kümmel riduce i livelli ematici di questi due composti lipidici sia in animali
da laboratorio sani che affetti da diabete, e sono giunti alla conclusione che
la spezia esplica «una potente azione ipolipemizzante», ossia riduce i livelli
dei grassi nel sangue.
Stipsi. In Bulgaria, alcuni medici hanno trattato 32 pazienti con un quadro
di stipsi cronica somministrando un lassativo contenente kümmel, e 29 di
essi hanno cominciato ad evacuare regolarmente.
Tubercolosi. In India, paese in cui la tubercolosi è la principale causa di
morte per malattie infettive, i ricercatori hanno scoperto che il kümmel
utilizzato regolarmente nel regime alimentare favorisce l’assorbimento di
tre farmaci antitubercolari.

ALLA SCOPERTA DEL KÜMMEL

Al contrario di molte spezie salutari, il kümmel (o cumino dei prati) cresce


rigoglioso in climi moderatamente caldi anziché tropicali, e viene coltivato
in numerose parti del mondo, tra cui l’Europa, l’Asia Centrale, il Nordafrica
e gli Stati Uniti. Gli americani, tuttavia, non hanno sviluppato la stessa
passione per tale spezia come altre nazioni. Per lo più lo conoscono perché
ne hanno visto i semi sulla crosta del pane di segale che si mangia in
Germania e in Israele.
La vera terra del kümmel è l’Europa. L’intenso aroma, che ricorda quello
dell’anice, è caratteristico soprattutto della cucina tedesca: i cuochi hanno
scoperto che è in grado di bilanciare gli effetti degli amidi e dei grassi di cui
è ricca la tradizionale dieta a base di carne e patate. I tedeschi lo mettono in
tutte le preparazioni possibili: nelle minestre, nelle carni in umido, nelle
salsicce, negli sformati di patate e nelle torte. Viene sempre aggiunto ai
crauti e al cavolo bollito per eliminare il persistente odore sulfureo che il
cavolo cotto lascia dietro di sé, nonché per prevenire i gas intestinali. Viene
inoltre adoperato per aromatizzare liquori come grappe e, per l’appunto, il
kümmel.
Il cumino dei prati è anche l’ingrediente che determina il sapore
dell’aquavit, il liquore nazionale della Scandinavia. Conferisce saporosa
dolcezza al gulasch ungherese e, in Russia, viene utilizzato nel borsch. In
Francia, infine, viene impiegato come conservante nei choucroute.
Nell’Europa Centrale, i semi di kümmel leggermente tostati
accompagnano sovente un piatto di formaggio: gli abitanti dell’Alsazia-
Lorena, in Francia, lo mangiano con il formaggio Munster, gli olandesi con
il Tilsiter, mentre in Ungheria viene servito con Liptauer insieme a senape,
burro ed erba cipollina tritata.
Il cumino dei prati è un ingrediente fondamentale della rinomata e
infuocata harissa tunisina, uno dei condimenti più piccanti del pianeta. In
Nigeria, è la spezia che ricopre il chin-chin, una sorta di piccola frittella. In
India viene per lo più impiegato per la preparazione di stuzzichini.
Al contrario di molte spezie salutari, il kümmel cresce rigoglioso in climi
moderatamente caldi anziché tropicali, e viene coltivato in numerose parti
del mondo.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Esistono due tipi di kümmel: uno deriva da una pianta annuale originaria
dell’Europa e l’altro proviene da una pianta biennale che cresce in Medio
Oriente: gli intenditori affermano che la qualità migliore è coltivata in
Olanda. Tuttavia, nessuno di questi fattori è rilevante a meno che non si
acquistino le spezie in una drogheria specializzata.
La cosa più importante è acquistare sempre semi di kümmel interi, poiché
la macinatura rilascia gli oli volatili disperdendone l’aroma. Se conservati
in un contenitore a chiusura ermetica in un luogo fresco e lontano dalla luce
del sole, i semi interi si mantengono per due anni o più.
Il kümmel allo stato naturale presenta un aroma leggero e non diffonde il
suo pieno sapore finché il seme non viene cotto.
Il kümmel può contribuire a prevenire e/o curare:

Avvelenamento da cibo Stipsi


Bruciori di stomaco Trigliceridi
Colesterolo Tubercolosi
Diabete di tipo 2 Tumori
Indigestione

IL KÜMMEL IN CUCINA

Il sapore del cumino dei prati – che taluni ritengono essere un gusto
acquisito – è terroso, simile a quello del finocchio e dell’anice, con un
retrogusto di noce. Pur acquistando i semi interi, per ottenere la massima
intensità di aroma i semi vanno tostati a secco. Tostateli dunque finché non
percepite gli oli volatili liberati dal calore (lo saprete «a naso»), quindi
spegnete immediatamente il fuoco. Qualora lasciati a cuocere troppo a
lungo, i semi diventano amari.
L’aroma del kümmel è intenso e tende a dominare altri sapori. A meno che
non intendiate farlo risaltare, adoperatene meno rispetto ad altre spezie nelle
vostre ricette.
Diseguito, alcuni suggerimenti per utilizzare più kümmel in cucina:

• Il kümmel si sposa magnificamente con la carne di maiale. Cospargetene


un po’ sulle braciole o nel sugo dell’arrosto al forno durante gli ultimi 15
minuti di cottura.
• Questa spezia si sposa bene anche con le mele: aggiungetelo alla vostra
ricetta di mele speziate preferita.
• Aggiungete un pizzico di kümmel alla ricetta di un tortino di cipolle.
• Servite mele e kümmel come accompagnamento su un vassoio di
formaggi. Oltre ai formaggi già menzionati, il kümmel si abbina bene al
gouda e al gorgonzola.
• Mescolate semi di kümmel al formaggio in hocchi o allo yogurt.
• Provate a preparare questo famoso piatto tedesco: tagliate a metà delle
patate con la buccia nel senso della lunghezza; intingete il lato della polpa
nel burro fuso e poi in un piattino di semi di kümmel. Fate cuocere le patate
in forno a 200 °C per 30 minuti o finché non sono morbide, adagiandole
sulla teglia dalla parte del taglio.
Maggiorana. Il miracolo mediterraneo

Non vi è alcun dubbio che la dieta mediterranea faccia bene: innumerevoli


studi scientifici la associano a una salute migliore. Le persone che si
alimentano regolarmente in questo modo presentano meno malattie
cardiovascolari, ipertensione e ictus, meno tumori, condizioni di prediabete
e diabete di tipo 2, meno morbo di Alzheimer, meno obesità e meno
depressione. Tuttavia, quali siano gli elementi della dieta mediterranea in
grado di garantire un livello di salute tanto elevato rimane ancora oggetto di
notevoli controversie scientifiche. Sarà l’olio di oliva, ricco di grassi
monoinsaturi? Saranno la frutta e la verdura, ricche di antiossidanti? Sarà
forse il vino rosso, grazie al resveratrolo, o l’aglio che fluidifica il sangue?
Oppure tale dieta è così salutare per via dell’assenza di determinati
alimenti, come i grassi saturi delle carni rosse?
Ebbene, uno studio dimostra che potrebbe essere proprio una spezia a
svolgere un ruolo enorme nella dieta mediterranea e nella sua capacità di
sostenere la salute: la maggiorana.
RADDOPPIAMO LA PROTEZIONE

Ai fini di tale studio, i ricercatori italiani prepararono appositamente


diverse versioni di insalata in stile tipicamente mediterraneo: verdura a
foglia verde, ortaggi freschi e croccanti, e un condimento a base di olio di
oliva. Lo scopo era calcolare il potere antiossidante di ciascuna insalata in
base alla capacità di arrestare il processo di ossidazione che danneggia e
distrugge le cellule. È un fatto scientificamente riconosciuto che
l’ossidazione sia il processo principale coinvolto nella maggior parte delle
patologie croniche e nell’invecchiamento. A tale proposito, i ricercatori
adottarono un apposito test per misurare l’attività antiossidante in termini di
capacità di assorbimento dei radicali dell’ossigeno (in sigla, ORAC), vale a
dire la capacità degli antiossidanti di assorbire e disattivare le «specie
reattive dell’ossigeno» che producono il danno ossidativo.
Ogni insalata conteneva le bontà standard del Mediterraneo: lattuga
romana coltivata sul territorio, pomodori, cetrioli, cipolle e carote, un
condimento di olio di oliva e aceto aromatizzato al basilico al prezzemolo,
oppure una combinazione di aglio, rosmarino, salvia e peperoncino rosso e,
infine, e qui viene la parte più importante, uno o più esemplari di altre 30
verdure o spezie in combinazioni ogni volta diverse. Ogni insalata fu
sottoposta al test ORAC quattro volte.
La maggiorana è una pianticella dai piccoli fiori bianco rosati che
ingentilisce le pendici delle montagne di Francia, Grecia e Italia.
Quando i ricercatori aggiunsero una spolveratina di maggiorana sulle
insalate, le unità ORAC raddoppiarono. E una spolveratina significa
spolveratina: gli studiosi aggiunsero solo 3 grammi di spezia, all’incirca un
cucchiaino.
Ma perché la maggiorana è così potente? I ricercatori sostengono sia per
via dell’acido ursolico, del carvacrolo e del timololo. Questi ed altri
antiossidanti presenti nella maggiorana, infatti, sono in grado di proteggere
l’organismo in vari modi.

La maggiorana può contribuire a prevenire e/o curare:

Coaguli Ictus
Indigestione Infezioni batteriche
Ulcera Tumori
Malattie cardiovascolari Infezioni micotiche
Effetti da inquinamento Morbo di Alzheimer

LA MAGGIORANA DELLE MERAVIGLIE

Numerosi studi condotti su cellule e animali dimostrano che la maggiorana


può contribuire a sconfiggere alcune delle malattie che la dieta
mediterranea stessa tipicamente previene, nonché altre ancora.
Un aiuto per il morbo di Alzheimer. I farmaci impiegati per rallentare il
progresso del morbo di Alzheimer agiscono sostenendo i livelli di
acetilcolina, un neurotrasmettitore che accelera le comunicazioni tra il
cervello e le cellule. In uno studio condotto su animali, alcuni ricercatori
coreani hanno scoperto che l’acido ursolico era efficace quasi quanto i
farmaci che aumentano i livelli di acetilcolina. L’acido ursolico «potrebbe
rallentare il declino delle funzioni cognitive e della memoria in alcuni
pazienti» con un quadro di morbo di Alzheimer «lieve o moderato», e
«potrebbe essere incluso nel trattamento terapeutico di tale patologia».
Lotta ai tumori. In sede di laboratorio, i ricercatori del Libano hanno
notato che gli estratti di maggiorana arrestavano la crescita di cellule della
leucemia umana. Scrivendo sulla rivista Leukemia Research, gli scienziati
conclusero che l’estratto è un «potenziale agente terapeutico».
Stop a infarti e ictus. Un’équipe di ricercatori dell’Università di Teheran
ha notato che la maggiorana viene impiegata come fluidificante del sangue
nella medicina popolare iraniana. Quando testarono la spezia in laboratorio,
osservarono che riduceva l’aggregazione piastrinica (l’adesione di
componenti del sangue fra loro a formare coaguli che possono ostruire le
arterie) del 40%. Tale riscontro conferma «i presupposti per l’impiego
tradizionale» della maggiorana «nei trattamenti delle patologie
cardiovascolari e delle trombosi (coaguli)», scrissero gli studiosi sulla
rivista Vascular Pharmacology.
Una digestione migliore. Notando «l’elevato consumo di maggiorana
presso la popolazione iraniana», un altro gruppo di medici iraniani decise di
valutare la capacità della spezia di stimolare il rilascio di pepsina, un
enzima digestivo deputato alla demolizione delle proteine. In animali da
laboratorio la maggiorana aumentò la produzione di pepsina del 30%.
Protezione dagli agenti inquinanti. In uno studio condotto da scienziati
egiziani, gli estratti di maggiorana, grazie alle proprietà antiossidanti,
contribuirono a proteggere alcuni soggetti animali da danni epatici e renali
indotti dalla tossicità del piombo. Gli esperti conclusero che «sarebbe
consigliabile per i membri della popolazione che possono presentare bassi
livelli di esposizione al piombo» utilizzare estratti di maggiorana.
Prevenzione delle ulcere. Nell’ambito di uno studio condotto su animali
da laboratorio, alcuni scienziati dell’Arabia Saudita hanno scoperto che la
maggiorana forniva una protezione contro le ulcere chimicamente indotte.
In un altro esperimento eseguito in Medio Oriente, l’estratto di maggiorana
fornì protezione agli animali contro danni chimicamente indotti a carico del
fegato, dei reni e dei testicoli.
Protezione dalle infezioni. Alcuni ricercatori indiani hanno scoperto che
l’estratto di maggiorana uccide efficacemente tutta una serie di funghi e
batteri patogeni, ivi inclusi la Candida albicans (infezioni micotiche
vaginali), l’Escherichia coli (avvelenamento da cibo) e lo Staphylococcus
aureus (infezioni da stafilococco).
ALLA SCOPERTA DELLA MAGGIORANA

La maggiorana è una graziosa pianticella dai piccoli fiori bianco rosati che
ingentilisce le pendici delle montagne di Francia, Grecia e Italia, e fa dono
del suo aroma alle cucine delle case mediterranee. È altresì un parente
stretto dell’origano – il nome latino è infatti Origanum majorana –, tant’è
che molte persone fanno fatica a distinguerli.
Se nell’antica Grecia le spose e gli sposi indossavano ghirlande di
maggiorana come simbolo di amore e felicità, i greci dei nostri tempi non
hanno mai smesso di amare la maggiorana: il suo profumo nelle
preparazioni di carne e verdure cotte alla griglia all’aperto è un’istituzione
dello stile di vita di questo paese. Ma la maggiorana è anche un ingrediente
essenziale del gyro, un piatto greco che ha acquistato popolarità negli Stati
Uniti e in tutto il mondo.
Anche i francesi adoperano molta maggiorana; è particolarmente
apprezzata nella regione della Provenza, nel sud della Francia, ed è uno
degli ingredienti di base del bouquet garni, il classico mazzetto di erbe
aromatiche. I francesi adoperano sia maggiorana fresca che essiccata per
aromatizzare carne di pollo, agnello, pesce e salse a base di burro.
I tedeschi definiscono la maggiorana «l’erba delle salsicce» e sovente la
abbinano al timo nella preparazione di salsicce fatte in casa.
Gli italiani adoperano la maggiorana nello stesso modo in cui usano
l’origano: per il tipico chef italiano, se un piatto si sposa bene con l’origano,
si sposerà bene anche con la maggiorana.
In cucina, gli americani preferiscono l’origano alla maggiorana, tuttavia
quest’ultima viene comunemente impiegata come conservante in prodotti
alimentari quali salsicce di fegato, mortadella, formaggi, minestre e
condimenti per insalate. Figura anche come aroma nelle salse di produzione
industriale indicate per piatti di pollame.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

La maggiorana viene sovente chiamata maggiorana gentile per


distinguerla dall’origano che, tanto per complicare le cose, viene a sua volta
definito maggiorana selvatica. La maggior parte della maggiorana
commercializzata in tutto il mondo viene coltivata nell’area del
Mediterraneo, e la maggior parte di quella importata negli Stati Uniti
proviene dall’Egitto.
La maggiorana è disponibile fresca, essiccata (le foglie possono essere
intere o spezzettate) e in polvere. Solitamente quella essiccata è esposta nel
reparto spezie della maggior parte dei supermercati. Conservata in un
contenitore a chiusura ermetica in un luogo fresco e asciutto, mantiene la
sua fragranza per circa un anno.

LA MAGGIORANA IN CUCINA

La maggiorana ha un sapore leggermente dolce-amaro che la accosta più


al timo che all’origano. Non sbaglierete sicuramente ad adoperarla in
qualsiasi ricetta, tuttavia dà il meglio di sé in piatti e con sapori di stile
mediterraneo.
Paragonata all’origano (come spesso accade), la maggiorana ha un sapore
più garbato. Come regola d’oro, utilizzate la maggiorana per insaporire i
cibi più delicati, come le uova, e l’origano per aromatizzare piatti di
carattere più deciso, ad esempio le melanzane. Il fatto di essere più delicata
la rende anche più versatile.
C’è un unico errore che potreste commettere cucinando con la
maggiorana, ossia cuocerla troppo a lungo. Essendo un’erba delicata ha la
tendenza a diventare amara, per cui conviene sempre aggiungerla verso la
fine in preparazioni che richiedono cotture prolungate.
Mandorla. La custode del cuore

Sebbene si pensi alla mandorla come a un frutto secco in guscio, di fatto è


il seme del frutto del mandorlo e, per definizione, un seme essiccato è una
spezia. La natura di spezia spiega perché la mandorla conferisca tanto
aroma a tutta una serie di piatti dolci e salati, e spiega anche perché abbia
alle spalle una storia illustre come rimedio tradizionale. Dunque,
rimettiamola al posto che le compete, e cioè nell’armadietto delle spezie.
In qualità di spezia, la mandorla è unica sotto vari aspetti. Là dove le
spezie sono fondamentalmente prive di calorie, le mandorle sono
ipercaloriche – una trentina di grammi (circa venti mandorle) contengono
da 150 a 200 calorie –, e il 78% di tali calorie sono date da grassi. Ma non
spaventatevi: si tratta per lo più di acidi grassi monoinsaturi (e pertanto
salutari) che, come vedremo tra breve, la ricerca ha correlato a un cuore più
sano e persino al controllo del peso.
Le mandorle contengono anche altri fattori nutrizionali importanti per il
cuore. Trenta grammi circa di mandorle forniscono il 50% del fabbisogno
giornaliero di vitamina E, un principio nutritivo da tempo pubblicizzato
come sostegno alla circolazione. La medesima quantità fornisce anche il
25% del fabbisogno di magnesio, un minerale che esercita un effetto
calmante sul cuore. Tede spezia è inoltre ricca di folato (una vitamina del
gruppo B associata a bassi livelli di malattie cardiovascolari), di steroli
vegetali (composti naturali che presentano una composizione simile al
colesterolo e contribuiscono quindi a inibirne l’assorbimento) e di fibre
(anch’esse correlate a tassi inferiori di colesterolo).
Ma vediamo ora più in dettaglio perché la mandorla è una delle migliori
amiche del nostro cuore.

MONOMANIA? NON SE SI TRATTA DELLA SALUTE DEL CUORE

Desiderate consumare un pasto che contenga i sei principali principi


nutritivi che proteggono il cuore? Ebbene, cenate con un piatto di pesce
insaporito con aglio e guarnito con mandorle a scaglie, non dimenticate una
o due porzioni di verdure e bevete un bicchiere di vino rosso a pasto; per
dessert, mangiate una mela e un pezzetto di cioccolato.
A detta dei ricercatori britannici che hanno sfruttato i risultati statistici
della letteratura scientifica sulle malattie cardiovascolari per confezionare
questo pasto a salvaguardia del cuore, consumare tali alimenti ogni giorno
ridurrebbe del 76% il tasso mondiale di «episodi cardiovascolari» quali
angina, ictus e infarti, e allungherebbe la vita di 6,6 anni in media.
«Abbiamo selezionato questi alimenti poiché ognuno possiede una
sostanza che reca beneficio al cuore in maniera del tutto particolare»,
afferma il dottor Oscar H. Franco, medico e ricercatore del Centro Medico
dell’Università di Rotterdam, in Olanda.
La mandorla è stata scelta perché una trentina di grammi fornisce il
fabbisogno giornaliero di acidi grassi monoinsaturi (in sigla, MUFA).
Statisticamente, circa il 12% del calo calcolato complessivamente relativo
alle malattie cardiovascolari e all’aumento della longevità va imputato
proprio alle mandorle.
Ed ecco ulteriori riscontri sulle mandorle e il cuore.
Riduzione del colesterolo. Un’équipe di ricercatori nutrizionisti di livello
intemazionale dell’Università di Toronto ha analizzato le mandorle per
capire se erano in grado di contribuire a proteggere il cuore di 27 soggetti
con livelli elevati di colesterolo. Dopo un mese di dieta comprendente 30
grammi di mandorle al giorno (circa ima manciata), il tasso di colesterolo
LDL responsabile della formazione di placche ateromatose era calato del
4,4%; il consumo di 80 grammi al giorno aveva evidenziato un calo del
9,4%. Anche il rapporto tra colesterolo LDL (quello «cattivo») e HDL (quello
«buono») era migliorato. Inoltre, le mandorle avevano ridotto l’ossidazione
delle lipoproteine a bassa densità (LDL), uno dei primi stadi di
trasformazione del colesterolo alimentare in ateromi che vanno ad ostruire
le arterie.
I ricercatori sostengono che l’elemento alla base del miglioramento del
profilo del colesterolo è stato l’elevata quantità di acidi grassi monoinsaturi.
Hanno evidenziato che i risultati raccolti in anni di studi indicano che gli
acidi grassi monoinsaturi possono aumentare i livelli di lipoproteine ad alta
densità (HDL, che viceversa liberano le arterie), migliorare il rapporto tra
colesterolo LDL e HDL e ridurre il tasso di lipoproteine a bassa densità,
diminuendo pertanto considerevolmente il rischio di cardiopatie. Inoltre,
dicono i ricercatori, quando si consumano più acidi grassi monoinsaturi
fomiti dalle mandorle, si consumano anche meno grassi saturi presenti nelle
carni e nei prodotti caseari, e si sa che i grassi saturi rappresentano un
fattore di rischio di malattie cardiache.
In un articolo pubblicato su Circulation, una rivista della American Heart
Association, i ricercatori concludono che «le mandorle riducono i fattori di
rischio lipidico nella malattia coronarica», e ne consigliano «l’integrazione
nelle diete ipolipidiche».
Riduzione della proteina C reattiva. La proteina C reattiva è un
indicatore biologico degli stati di infiammazione cronica moderati, e le
teorie più aggiornate indicano che l’infiammazione a danno delle arterie è il
principale processo alla base dell’attuale diffusione di malattie cardiache,
nonché di molte altre patologie croniche. I ricercatori dell’Università di
Toronto hanno abbinato le mandorle e diversi altri componenti nutrizionali
in un approccio che hanno definito «Portafoglio dietetico» (per analogia
con un portafoglio di investimenti diversificato con intelligenza). Tali
alimenti – ossia le mandorle, gli steroli vegetali contenuti in una marca di
margarina salutare per il cuore, le proteine della soia provenienti da cibi
confezionati come il tofu, le fibre solubili come quelle apportate dal
porridge – hanno determinato un calo del 23,8% nei pazienti che
presentavano elevati livelli di proteina C reattiva. Il risultato è superiore a
quello ottenuto dalla categoria farmacologica delle statine, le quali sono
anch’esse in grado di ridurre tale bioindicatore dello stato infiammatorio.
Riduzione della pressione arteriosa. In uno studio analogo a quello del
Portafoglio dietetico, in questo caso condotto su 50 soggetti ipertesi, è stato
riscontrato che il consumo di mandorle ed altri alimenti, per la durata di un
anno, aveva contribuito a ridurre la pressione sistolica – ovvero il valore
della massima nella misurazione della pressione arteriosa – di 4,2 punti e la
pressione diastolica – cioè il valore della minima 1 di 2,3 punti. I ricercatori
procedettero quindi ad analizzare la dieta dei partecipanti allo studio per
determinare quali alimenti del Portafoglio avessero effettivamente mangiato
o non mangiato nel corso dell’anno, e scoprirono che «solo la
corrispondenza con il consumo di mandorle era associata alla riduzione
della pressione arteriosa». In altre parole, non erano stati gli steroli vegetali,
né la soia o le fibre solubili a fare la differenza, bensì le mandorle. Tale
studio è comparso sulla rivista European Journal of Clinical Nutrition.
Le mandorle, dunque, riducono l’ipertensione e aumentano i livelli di
lipoproteine ad alta densità (HDL), laddove una pressione elevata e bassi
livelli di HDL sono proprio due fattori concorrenti di una condizione
patologica denominata «sindrome metabolica» nella quale rientrano anche
iperglicemia, obesità e un alto tasso di trigliceridi (lipidi presenti nel
sangue). Il riscontro positivo di tutti questi fattori di rischio, o della maggior
parte, aumenta del 74% il rischio di morte per infarto o ictus. Inoltre, la
sindrome metabolica prelude anche all’insorgenza del diabete di tipo 2, il
quale a sua volta aumenta da sei a sette volte il rischio di cardiopatie. E
allora, mandorle alla riscossa!
COME VINCERE LA SINDROME METABOLICA

I ricercatori californiani del City of Hope National Medical Center hanno


condotto uno studio sul calo ponderale monitorando al tempo stesso i
parametri della sindrome metabolica. Sessantacinque soggetti sovrappeso
furono sottoposti a un regime alimentare ipocalorico affiancando
contemporaneamente il consumo di circa 80 grammi di mandorle al giorno.
Un altro gruppo utilizzò la stessa dieta consumando, viceversa, alimenti con
un apporto calorico e proteico equiparabile in sostituzione alle mandorle.
Dopo sei mesi, i soggetti che consumavano mandorle avevano perso il 62%
in più del peso totale, il 50% in più della massa adiposa addominale e
presentavano un calo del 56% della massa grassa corporea, nonché una
drastica riduzione della pressione sistolica pari all punti rispetto al gruppo
di controllo, il quale non aveva registrato alcun cambiamento.
Nel primo gruppo fu inoltre rilevato un aumento delle lipoproteine ad alta
densità, che risultò nullo nel gruppo che non aveva consumato mandorle.
Sul totale dei soggetti esaminati con una diagnosi precedente di diabete, il
96% degli appartenenti al gruppo che consumava mandorle ridusse i
farmaci per il diabete, a fronte di un 50% degli appartenenti all’altro
gruppo. Entrambi i gruppi registrarono risultati positivi per i livelli di
glicemia, insulina (l’ormone che controlla il tasso di zuccheri nel sangue),
colesterolo totale, trigliceridi, LDL e rapporto LDL/HDL.
Nell’articolo pubblicato sull’International Journal of Obesity and Related
Metabolic Disorders, i ricercatori conclusero che «Una dieta ipocalorica
arricchita da mandorle migliora un numero preponderante di anormalità
associate alla sindrome metabolica».
MOLTI GRASSI, POCHI CHILI

Le mandorle non mancano certo di calorie: una manciata ne fornisce da


150 a 200. Una manciata di mandorle come spuntino due volte al giorno
consente un apporto pari a 400 calorie, probabilmente il 20% del vostro
consumo totale! Tuttavia, le piccole mandorle nascondono una grande
sorpresa: gli studi dimostrano che chi mangia mandorle ha molte meno
probabilità di metter su peso!
Alcuni ricercatori spagnoli hanno analizzato i dati relativi alla salute di
quasi 9000 persone su un periodo di osservazione di due anni e hanno
scoperto che i soggetti che consumavano mandorle almeno due volte a
settimana avevano una percentuale di
probabilità del 31% in meno di acquistare peso rispetto a quanti non ne
consumavano.
Altri studiosi scozzesi riscontrarono che l’aggiunta di mandorle alla dieta
per dieci settimane non induceva alcun aumento di peso poiché le persone
tendevano a mangiare meno in generale, e giunsero così alla conclusione
che i piccoli semi che fanno bene al cuore si possono tranquillamente
mangiare senza rischio di metter su chili.
Gli scienziati della Facoltà di Scienze alimentari e della Nutrizione della
Purdue University, in Indiana, hanno esaminato in dettaglio l’effetto del
consumo di mandorle invitando un gruppo di 13 volontari in buona salute a
mangiare 10 mandorle in un sol boccone masticandolo per 10, 25 o 45
volte. Sull’American Journal of Clinical Nutrition i ricercatori annotarono
che masticare mandorle «sopprimeva notevolmente» la fame e produceva
un «considerevole senso di sazietà». Il numero ideale di atti di masticazione
per ottenere tali benefici è 25 volte per boccone (10 risultò troppo poco e 45
un numero eccessivo).
Oltre a tenere sotto controllo il peso, mangiare mandorle migliora anche la
salute. In uno studio pubblicato sul British Journal of Nutrition, gli studiosi
seguirono le abitudini alimentari di 81 soggetti. Dopo sei mesi, chiesero
loro di continuare a mangiare come di consueto aggiungendo però 60
grammi circa di mandorle al giorno, vale a dire ulteriori 220 calorie e 16
grammi di grassi.
Quale fu il risultato? Ebbene, i partecipanti mangiarono mandorle ma
finirono per assumere meno calorie e meno grassi rispetto a quelli
effettivamente incamerati prima di aggiungere le mandorle alla dieta.
Inoltre, l’apporto di sodio risultò minore, come pure quello del colesterolo
alimentare, di acidi grassi trans e zuccheri.
ALLA SCOPERTA DELLA MANDORLA

Se Washington D.C. è famosa per la fioritura dei meli, Maiorca è celebre


per la fiori tura dei mandorli. Da gennaio fino ai primi di marzo, quattro
milioni di mandorli rico prono l’isola più vasta della Spagna di una coltre di
fiori rosati.
Tuttavia, il mandorlo non è originario della Spagna bensì dell’Asia
Occidentale e del Nordafrica. Gli antichi egizi ritenevano che le mandorle
avessero proprietà medicamentose e le utilizzavano per trattare qualsiasi
disturbo, dal raffreddore ai tumori. I medici indiani della scuola ayurvedica
le impiegavano per trattare problemi di digestione, affezioni cutanee e
dentali; inoltre, le macinavano riducendole in pasta e le mescolavano al
porridge per aiutare i pazienti ad espellere i calcoli renali.
Il mandorlo, un albero rigoglioso e incantevole, cresce nelle zone a clima
caldo e temperato.
Oggi come oggi, si ritiene che Maiorca produca le mandorle più saporite,
mentre la cucina spagnola vanta la più vasta collezione di ricette con
mandorle al mondo, dalle preparazioni salate (incluse minestre e salse) a
quelle dolci (tra cui pasticcini, biscotti e una varietà di dessert). Le
mandorle costituiscono la base per la rinomata salsa romescu catalana, una
passata che comprende anche pomodori, aglio e peperoncini rossi.
Anche i tedeschi fanno ampio uso di mandorle; la città settentrionale di
Lubecca è infatti famosa per il suo marzapane, una pasta di mandorle
zuccherata che costituisce l’ingrediente di molti ripieni in torte e pasticcini.
Gli italiani impiegano le mandorle nel famoso Amaretto di Saranno, il
liquore ormai diffuso in tutto il mondo. In Francia si prepara l’orgeat, uno
sciroppo di mandorle, zucchero e acqua emulsionate che viene utilizzato nel
Mai Tai e in altri cocktail.
Negli Stati Uniti, le mandorle vengono usate per lo più nella preparazione
di dolci, tra cui paste frolle, torte e praline.
In India, vengono diffusamente adoperate nelle pietanze salate per esaltare
il sapore di riso, curry e verdure.
Gli chef mediorientali, invece, macinano le mandorle riducendole in farina
da utilizzare come addensante in stufati, minestre e salse gravy.

Le mandorle possono contribuire a prevenire e/o curare:

Colesterolo Diabete tipo 2


Ictus Insulino-resistenza
Pressione alta Obesità
Malattie cardiovascolari Trigliceridi

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Il mandorlo, un rigoglioso e incantevole albero che cresce solo nei paesi a


clima caldo e temperato come la Spagna, l’Italia e la California, produce la
ben nota mandorla, un seme ovale protetto da un guscio legnoso dalla polpa
color bianco avorio e ricoperto da una sottile pellicina coriacea marrone.
Dopo la raccolta, è possibile acquistarle in svariate forme: in guscio o
sgusciate intere, al naturale, sbiancate, pelate o non pelate, tostate, a
lamelle, a scaglie, in granella e sotto forma di pasta, farina, burro, olio o
estratto.
Le mandorle più fresche sono quelle in guscio. Verificate che il guscio non
sia fessurato, ammuffito o macchiato. Se intendete comprare mandorle già
sgusciate, cercate quelle in confezioni sigillate anziché le mandorle sfuse in
grossi recipienti aperti, in quanto l’esposizione all’aria e all’umidità ne
disperde la freschezza. Qualora le compriate sfuse, cercate mandorle
panciute e di colore uniforme, ma soprattutto annusatele: devono avere un
profumo dolce e di noce. Se l’odore è amaro e acre, significa che sono
irrancidite, cioè gli acidi grassi della mandorla sono andati a male.
Quando si acquistano mandorle tostate a secco, è bene optare per quelle
prive di additivi o conservanti.
Quanto più la mandorla è protetta, tanto più conserverà la sua freschezza.
Le mandorle in guscio rimangono fresche più a lungo di quelle sgusciate
ma non pelate; queste ultime si mantengono meglio delle mandorle pelate
che, a loro volta, si conservano più a lungo di quelle pelate e ridotte in
lamelle, e così via di questo passo.
Al pari di tutte le spezie, le mandorle vanno tenute in contenitori ermetici
lontano dal calore e dalla luce diretta; quanto più la temperatura è fresca,
meglio si conserveranno. È anche possibile riporle in frigorifero, un
accorgimento che ne preserverà la freschezza per parecchi mesi. In
congelatore, invece, si mantengono per circa un anno.
Le mandorle sono reperibili in tutte le forme possibili in commercio nella
maggior parte dei supermercati e negozi di gastronomia. Le mandorle
migliori provengono dalla Spagna (Maiorca), dall’Italia e dalla California.
Esistono due varietà di mandorle: dolci e amare. Le mandorle amare non
vengono commercializzate in quanto sono velenose; hanno infatti un
elevato contenuto di cianuro e di altri composti tossici. Sono principalmente
utilizzate per produrre l’olio di mandorla, da cui i composti velenosi
vengono estratti durante il processo di lavorazione.

LE MANDORLE IN CUCINA

Il sapore dolce e burroso della mandorla la rende l’ingrediente più adatto


per quasi tutte le ricette dolci e salate. Le mandorle possono essere
facilmente triturate ricorrendo a un macinino elettrico; è sufficiente dare
pochi rapidi impulsi per ottenere le dimensioni di grana desiderate.
Lasciando il macinino in funzione, si otterrà un burro di mandorle.
Le mandorle al naturale dovrebbero essere sbollentate o tostate prima
dell’uso.
È possibile rimuoverne la pellicina scottando le mandorle in acqua
bollente finché questa non inizia a gonfiare e poi passandole sotto un getto
di acqua fredda: la pellicina dovrebbe venire via facilmente pizzicando la
polpa.
Per tostare le mandorle, ponetele su una teglia e passatele in forno a 175
°C per circa 15 minuti. Le mandorle a scaglie o a lamelle andrebbero tostate
per circa la metà del tempo.
Per incrementare il consumo di mandorle nella dieta, mangiatene una
manciata almeno cinque volte alla settimana come spuntino. Ecco qualche
altra idea per aumentare l’apporto di mandorle:

• Preparate un burro speciale frullando le mandorle in un macinino


elettrico e lasciandolo in funzione a lungo. Mangiate il burro con una mela
a fette.
• Spalmate il burro di mandorla sul pane della colazione al posto del burro
di arachidi o di un formaggio fresco cremoso.
• Aggiungete un tocco di novità al panino di burro d’arachidi e marmellata
che preparate per la merenda dei bambini sostituendo il burro di arachidi
con quello di mandorle.
• Aggiungete mandorle tostate a scaglie o a lamelle ai cereali, allo yogurt,
alle insalate e ai tramezzini.
• Trasformate le mandorle in uno stuzzichino da aperitivo: incorporate 1
tazza di mandorle al naturale a 2 cucchiaini di olio extravergine di oliva, 3
cucchiaini di timo secco, 1 cucchiaino di sale e l’albume di un uovo. Fate
tostare in forno a 200 °C per 10 minuti e, infine, guarnite con foglioline di
timo fresco.
• Aggiungete mandorle a lamelle all’insalata di pollo o di tonno.
• Aggiungete una goccia di estratto di mandorle ai dolci preparati con
mandorle.
• Aggiungete qualche goccia di estratto di mandorle alla panna montata
Melagrana. «Una farmacia in tutto e per tutto»

Gli sfuggenti semi rosso granata della melagrana – che in India vengono
essiccati e adoperati come spezia – iniziarono a raggiungere la notorietà
come cibo salutare da gourmet negli anni Novanta del Novecento, epoca in
cui gli studi scientifici li collegarono per la prima volta alla salute del cuore
e della prostata. Oggigiorno la melagrana va per la maggiore e la ritroviamo
come aromatizzante in qualsiasi cosa, dall’acqua ai ghiaccioli e ai cocktail.
Ma non è solo di gran moda, è anche eccezionalmente salutare in ogni sua
parte: i semi, la polpa, la buccia, la radice, il fiore, persino la corteccia
dell’albero del melograno traboccano di polifenoli, sostanze antiossidanti di
origine vegetale che combattono le malattie. Gli estratti di semi e il succo di
melagrana presentano un’attività antiossidante da due a tre volte superiore a
quella del vino rosso e del tè verde, vere e proprie superstar in questo
ambito.
Ma laddove molti alimenti e spezie sono ricchi di polifenoli, la melagrana
è uno dei pochi ad esserne la fonte più abbondante di svariati tipi:
flavonoidi, antocianine, acido ellagico, acido punicico e molti altri ancora.
Centinaia di studi scientifici confermano che tale «farmacia» naturale ben
fornita di polifenoli può contribuire a prevenire o trattare diverse malattie,
ivi incluse le tre principali cause di morte tra la popolazione americana,
ossia malattie cardiovascolari, cancro e ictus.
Tali risultati scientifici non sorprenderebbero affatto alcun esponente della
scuola ayurvedica che adotti l’antico sistema indiano di terapia naturale: un
testo dell’Ayurveda, infatti, definisce la melagrana «una farmacia in tutto e
per tutto».

MARE CALMO E VENTO IN POPPA PER LE ARTERIE

Infarto e ictus sono l’accoppiata che uccide più americani di qualsiasi altro
problema di salute. La causa va ricondotta al fatto che le arterie dirette al
cuore e al cervello si ostruiscono a causa della placca, una fatale
combinazione di colesterolo e detriti cellulari ispessita da processi
infiammatori e ossidativi. Il termine medico che sta ad indicare tale
sciagura circolatoria è aterosclerosi. Volete il nome di una pianta tanto
potente da prevenire e far regredire il problema? È presto detto: il
melograno.
Regressione della placca ateromatosa. Un gruppo di ricercatori israeliani
ha tenuto sotto osservazione 20 pazienti con aterosclerosi a carico della
carotide, cioè l’arteria che decorre lungo il collo e fornisce sangue al
cervello (l’ostruzione di tale arteria conduce a ictus). Solo alO soggetti fu
raccomandato di bere del succo di melagrana. Dopo un anno, gli individui
che avevano bevuto il succo presentavano una riduzione della placca
ateromatosa pari al 30%, mentre quelli che non ne bevvero mostravano un
aumento della placca del 9%. I risultati furono riportati sulla rivista Clinical
Nutrition.
Altri ricercatori dell’Università di Chicago studiarono 189 soggetti, di età
compresa tra i 45 e i 74 anni, che presentavano uno o più fattori di rischio di
patologia cardiovascolare, quali colesterolo alto e ipertensione.
Suddividendoli in due gruppi, somministrarono solo a uno di essi 240 mi di
succo di melagrana al giorno. Nell’arco di un anno, i soggetti che
nell’ambito dello studio presentavano la percentuale di rischio più alta, in
termini di ipercolesterolemia (colesterolo totale e LDL), iperlipidemia
(trigliceridi alti) e livelli elevati di vari altri fattori di rischio, e che furono
inseriti nel gruppo trattato con melagrana mostrarono un tasso di crescita
della placca ateromatosa nettamente inferiore. Le osservazioni furono
pubblicate sull’American Journal of Cardiology.
Recupero di un cuore compromesso. Alcuni medici dell’Università della
California di San Francisco (UCSF) studiarono 45 individui di età media sui
69 anni affetti da malattia cardiovascolare. Quasi la metà aveva già subito
infarti, la maggior parte presentava ipertensione e quasi tutti
ipercolesterolemia. Per arginare gli effetti della patologia, tutti i soggetti
erano sotto terapia con farmaci ipocolesterolemizzanti (statine),
anticoagulanti e antipertensivi.
I ricercatori li suddivisero in due gruppi. Per tre mesi un gruppo bevve 240
mi di succo di melagrana al giorno mentre l’altro gruppo ricevette un
placebo.
All’inizio e al termine di tale periodo, i pazienti di entrambi i gruppi
vennero sottoposti a un test di perfusione miocardica, un tipo di esame
«sotto stress» che si avvale di una particolare tecnica di scansione
tomografica per misurare l’afflusso di sangue al cuore (e le aree di
ischemia) durante l’esercizio fisico.
Dopo tre mesi, il gruppo che aveva bevuto succo di melagrana registrò un
aumento del 17% dell’afflusso di sangue al cuore, mentre nel gruppo
placebo si rilevò una diminuzione del 18%.
È bene sottolineare che i risultati di tali esami hanno particolare rilevanza:
uno studio dimostra che l’elemento predittivo più affidabile dell’eventualità
che un individuo affetto da patologia cardiovascolare vada incontro a un
infarto è proprio l’afflusso di sangue al cuore, quantitativamente
determinato da un test di perfusione miocardica.
Riduzione dell’angina. Gli stessi ricercatori notarono inoltre che gli
episodi di angina (intenso dolore al torace) diminuirono del 50% nel gruppo
che beveva succo di melagrana, mentre erano aumentati del 38% nel gruppo
placebo.
I risultati dello studio furono pubblicati sull’American Journal of
Cardiology.
Aumento dell’ossido di azoto. Il delicato rivestimento delle pareti interne
delle arterie è detto endotelio. In questa sede, un sottile strato di cellule
endoteliali rilascia ossido di azoto (NO), un composto chimico che combatte
l’ossidazione e l’infiammazione mantenendo le arterie giovani e flessibili.
Alcuni esperti sono dell’avviso che un basso livello di ossido di azoto sia la
principale causa dell’aterosclerosi.
I ricercatori dell’Università di Napoli (Italia) e dell’Università della
California di Los Angeles (UCLA) hanno condotto parecchi studi per
determinare gli effetti della melagrana sull’ossido di azoto, ed ecco i
risultati.
• Il succo di melagrana si è rivelato più efficace del succo d’uva Concord,
del succo di mirtilli, del vino rosso, della vitamina C e della vitamina E1 tutti
potenti agenti antiossidanti – nel preservare l’ossido di azoto dalla
distruzione dovuta a processi ossidativi. «Un succo di melagrana possiede
una potente attività antiossidante che fornisce notevole protezione contro
l’abbattimento ossidativo dell’ossido di azoto», conclusero i ricercatori
sulla rivista Nitric Oxide.
• In test di laboratorio, il succo di melagrana ha ridotto l’attività dei geni
che rendono le cellule endoteliali maggiormente soggette a ossidazione e ha
incrementato la produzione di un enzima, la NO sintasi endoteliale, che
svolge un ruolo cruciale nella produzione di ossido di azoto. La melagrana,
conclusero i ricercatori negli Atti dell’Accademia Nazionale delle Scienze
americana, può avere una collocazione nella «prevenzione e trattamento
dell’aterosclerosi».
Abbassamento della pressione. Un gruppo di ricercatori israeliani invitò
alcune persone ipertese a bere piccole quantità di succo di melagrana ogni
giorno e, dopo due settimane, si assistette a un calo del 5% della pressione
sistolica (misurazione della massima); i soggetti presentavano inoltre una
diminuzione pari al 31% dell’attività dell’enzima di conversione
dell’angiotensina (in sigla, ACE), ossia l’enzima su cui agiscono i farmaci
antipertensivi cosiddetti ACE-inibitori. Le conclusioni furono riportate sulla
rivista Atherosclerosis: «Il succo di melagrana è in grado di fornire
protezione contro la patologia cardiovascolare».

CIRCOLAZIONE PIÙ PROTETTA IN CASO DI DIABETE

Anche il diabete, un disturbo legato al glucosio, reca danni ai vasi


sanguigni, e il 75% delle persone affette da diabete muore a causa
dell’aterosclerosi. Quasi tutte le cosiddette «complicanze» del diabete – che
si potrebbero considerare vere e proprie patologie di per sé – derivano da
problemi di circolazione: la cecità da una circolazione compromessa a
livello della retina dell’occhio, l’insufficienza renale dal danno a carico dei
vasi sanguigni dei reni, il bruciore e l’insensibilità che accompagnano le
neuropatie da uno scarso afflusso di sangue ai nervi, le amputazioni
(ricordiamo che il diabete è la causa più comune di amputazione non
correlata ad eventi traumatici) da una ridotta circolazione degli arti inferiori.
Protezione delle HDL dall’ossidazione. Le lipoproteine ad alta densità, o
HDL, ciò che comunemente viene definito colesterolo «buono», riducono la
placca ateromatosa responsabile dell’ostruzione delle arterie. Un gruppo di
ricercatori israeliani ha somministrato a 10 pazienti diabetici del succo o un
estratto di melagrana. Dopo un mese, l’aumento degli enzimi che
proteggono le HDL dall’ossidazione era pari al 40%. «Tali effetti positivi
potrebbero ritardare lo sviluppo dell’aterosclerosi in pazienti diabetici»,
conclusero gli esperti sul Journal of Agricultural and Food Chemistry.
Abbassamento del colesterolo. In Iran alcuni ricercatori somministrarono
del succo di melagrana a 22 pazienti diabetici e, nell’arco di un mese,
assistettero a un calo significativo dei livelli di colesterolo totale e LDL. In
un articolo pubblicato sull’International Journal of Vitamin and Nutrition,
gli studiosi scrissero che il consumo di melagrana «potrebbe modificare i
fattori di rischio delle malattie cardiovascolari» in pazienti affetti da
diabete.
Riduzione dei processi ossidativi a livello arterioso. Un altro gruppo di
ricercatori israeliani somministrò a 10 individui affetti da diabete del succo
di melagrana per un periodo di tre mesi, monitorandone i livelli di
ossidazione nel torrente ematico. Il tasso di lipidi ossidati risultò diminuito
del 58% e il livello complessivo di ossidazione cellulare era diminuito del
71%. Le conclusioni a cui giunsero, pubblicate sulla rivista Atherosclerosis,
evidenziano che «il consumo di succo di melagrana può contribuire a
rallentare la progressione del processo aterosclerotico» nei pazienti
diabetici.
Controllo del diabete. Altri studi condotti su animali, realizzati negli Stati
Uniti, in Australia e in India, evidenziano che la melagrana (più
specificamente i fiori del melograno e l’olio di semi di melagrana) è in
grado di controllare o invertire il decorso stesso del diabete.

STOP AL CARCINOMA ProsTATICO INCURABILE

Il carcinoma prostatico uccide più uomini di qualsiasi altra forma di


neoplasia maligna, ad eccezione del carcinoma polmonare. Negli ultimi
cinque anni, si è assistito a una vera e propria esplosione della ricerca
scientifica tesa a dimostrare che la melagrana può combattere tale cancro.
In un primo tempo, alcuni ricercatori tedeschi e un’équipe di studiosi
dell’Università del Wisconsin scoprirono che gli estratti di melagrana sono
in grado di arrestare la crescita delle cellule del carcinoma della prostata e
provocarne la morte, nonché di prevenire lo sviluppo della massa tumorale
e la successiva metastasi in soggetti animali. Gli studiosi pubblicarono sulla
rivista Cell Cycle le seguenti conclusioni: «Il consumo di melagrana può
ritardare la progressione del carcinoma prostatico, prolungando così la
sopravvivenza e migliorando la qualità della vita» del paziente oncologico.
Successivamente, alcuni ricercatori dell’UCLA somministrarono 240 ml/die
di succo di melagrana a uomini affetti da carcinoma della prostata già
trattati mediante radioterapia o chirurgia (asportazione della prostata o
prostatectomia totale) che tuttavia presentavano ancora livelli elevati di
antigene prostatico specifico (PSA), un bioindicatore di crescita tumorale.
Prima del trattamento, il «tempo di raddoppio» medio del PSA – cioè il
tempo necessario ai livelli di PSA per aumentare, ad esempio, da 2 a 4 – era
di 15 mesi; dopo il trattamento fu di ben 54 mesi!
Altri esami dimostrarono un calo pari al 12% nella crescita delle cellule
tumorali, un aumento del 17% della morte cellulare e un incremento del
23% per quanto riguardava i livelli ematici di ossido di azoto (che combatte
il cancro).
«Per i pazienti che si sono già sottoposti a una terapia primaria, quale la
prostatectomia totale, ma presentano un progressivo aumento del PSA, le
opzioni di trattamento sono limitate», scrisse sulla rivista Cancer Letters il
dottor David Heber, uno dei ricercatori coinvolti nello studio. «I nostri dati
sul succo di melagrana somministrato quotidianamente per due anni a 40
pazienti affetti da carcinoma prostatico con progressione del PSA
suggeriscono un’opzione atossica per la prevenzione o il ritardo
dell’oncogenesi prostatica. È notevole il fatto che, nell’ambito di questo
studio, l’85% dei pazienti abbia risposto positivamente al succo di
melagrana».
Dall’epoca del loro primo studio, i ricercatori dell’UCLA ne hanno condotto
numerosi altri allo scopo di individuare il principale meccanismo attraverso
cui la melagrana sconfigge il cancro, e sono giunti alla conclusione che esso
inibisce l’attività del fattore nucleare kB, una proteina complessa che si
trova nel nucleo delle cellule con la funzione di alimentare il carcinoma
prostatico.
Studi in vitro e in vivo su animali dimostrano che la melagrana può
combattere altri tipi di cancro. Ecco alcuni esempi tratti da oltre 80 studi su
tale frutto e i tumori.
Carcinoma mammario. Uno studio pubblicato su Breast Cancer
Research and Treatment riporta che la melagrana ha ridotto la crescita delle
cellule di carcinoma mammario umano in animali da laboratorio.
Carcinoma del colon. Su Cancer Science, alcuni ricercatori giapponesi
hanno riferito che un estratto di olio di semi di melagrana ha ridotto del
44% il tasso di carcinomi del colon in animali da laboratorio.
Carcinoma polmonare. Secondo uno studio condotto su animali e
comparso su Cancer Research, l’estratto di melagrana riduce il carcinoma
polmonare del 61%.
Tumori della pelle. In base a uno studio pubblicato sull’International
Journal of Cancer, la melagrana impiegata come lozione topica ha ridotto
significativamente i tumori in soggetti animali e ha impedito al cancro di
diffondersi.
Leucemia. Una ricerca di laboratorio realizzata in Giappone, riportata sul
Journal of Medicinal Food, evidenzia che l’estratto di melagrana inibisce la
crescita in vitro di cellule della leucemia.

LA PROMESSA DELLA MELAGRANA

La melagrana promette bene anche nella prevenzione e nel trattamento di


vari altri disturbi.
Disturbi odontoiatrici. In uno studio che ha coinvolto 60 individui, alcuni
ricercatori brasiliani hanno notato che sciacquare la bocca con un estratto
contenente melagrana riduceva la placca dentale in cui si annidano i batteri
dell’84% in più rispetto a un normale collutorio reperibile in commercio.
Quando un gruppo di ricercatori tailandesi impiegò dell’estratto di
melagrana per trattare la malattia periodontale (gengivite), osservò che il
preparato riduceva l’erosione delle gengive e la placca batterica.
In altri studi, una formula a base di melagrana ha contribuito a debellare la
stomatite da protesi, un’infezione micotica che colpisce le persone che
portano la dentiera.
Disfunzione erettile. Uno studio svoltosi presso la Male Clinic di Beverly
Hills evidenziò che gli uomini che bevvero succo di melagrana per due
settimane registrarono un miglioramento delle difficoltà nel raggiungere e
mantenere l’erezione. I risultati furono pubblicati sull’International Journal
of Impotence Research.
Rughe e invecchiamento della pelle. Nelle donne, l’assunzione
quotidiana di estratto di melagrana per un periodo di quattro settimane ha
ridotto il danno cutaneo provocato dalla radiazione ultravioletta, cioè lo
stesso tipo di danno che causa la formazione di rughe. In un altro studio,
l’acido ellagico ha prevenuto la distruzione del collagene indotta sempre
dalla radiazione ultravioletta. Sulla rivista Experimental Dermatology, i
ricercatori dichiararono che l’acido ellagico «può essere un promettente
trattamento antirughe».
Recupero dalle attività sportive. L’assunzione di estratto di melagrana
dopo una faticosa routine di sollevamento pesi ha consentito ad alcuni
sportivi di recuperare più rapidamente le forze rispetto a quelli che non
assunsero l’estratto. Lo studio fu condotto da alcuni ricercatori
dell’Università del Texas e comparve sulla rivista Medicine and Science in
Sports and Exercise.
Artrite. Nell’ambito di una ricerca condotta su animali, gli scienziati della
Case Western University di Cleveland, Ohio, scoprirono che l’estratto di
melagrana rallentava lo sviluppo e riduceva la gravità — a livello di
infiammazione e distruzione ossea — dell’artrite reumatoide chimicamente
indotta. L’estratto «può costituire un utile approccio preventivo in termini di
insorgenza e gravità dell’artrite infiammatoria», conclusero i ricercatori su
Nutrition.
Alcuni studiosi iraniani notarono che il succo di melagrana proteggeva la
cartilagine riducendo il danno provocato daH’osteoartrite chimicamente
indotta in animali da laboratorio. I risultati furono pubblicati su
Phytotherapy Research.
Morbo di Alzheimer. I ricercatori della Lorna Linda University, in
California, hanno somministrato in via sperimentale dell’estratto di
melagrana ad alcuni animali fin dalla nascita e hanno notato che i soggetti
erano più vigili man mano che invecchiavano; non solo, ma presentavano
anche una quantità inferiore, pari al 50%, di amiloide A — una proteina
associata al morbo di Alzheimer — nei tessuti cerebrali.
Obesità. Animali obesi nutriti con estratto di melagrana mangiano meno e
perdono sia peso che grasso; tali sono i risultati di uno studio pubblicato
sull’Intemational Journal of Obesitv.
Sterilità maschile. Dagli esperimenti risulta che gli animali trattati con
melagrana presentano una migliore qualità degli spermatozoi (forma e
movimento nella norma), una maggiore quantità di sperma e livelli più
elevati di testosterone.
Influenza. I ricercatori del Health Science Center dell’Università del
Texas hanno scoperto che l’estratto di melagrana uccide i virus
dell’influenza. Come scrissero sulla rivista Phytomedicine, «gli estratti di
melagrana dovrebbero essere sottoposti ad ulteriore studio per determinarne
il potenziale terapeutico e profilattico (preventivo) nelle epidemie e
pandemie di influenza».
Colite ulcerosa. Nell’ambito di un esperimento condotto su animali, un
gruppo di studiosi indiani ha scoperto che la melagrana riduce
l’infiammazione a carico del colon nel contesto di tale patologia.

ALLA SCOPERTA DELLA MELAGRANA

Crescevano nei Giardini pensili di Babilonia, una delle sette meraviglie del
mondo antico. Sono celebrati nell’Antico Testamento e furono amati dai
popoli dell’antico Egitto e della Magna Grecia. I frutti sono stati simbolo di
salute, fortuna, fertilità e immortalità. La città di Granada, in Spagna, porta
il loro nome (in spagnolo si dice appunto «granaria») e il frutto compare
sullo stemma araldico della città.
La melagrana, recita un articolo comparso sulla rivista Alternative
Medicine Review, «è un frutto antico, mistico e assolutamente peculiare».
Tanto peculiare, infatti, da non essere direttamente commestibile! Quando
si spezza la bacca globosa e la si apre, tuttavia, ecco comparire centinaia di
semi di un profondo colore rosso, annidati in una sorta di scrigno a nido
d’ape come luccicanti granati. Una melagrana contiene all’incirca
cinquecento semi. Di per sé non hanno molto profumo, ma l’esperienza
gustativa quando li si mette in bocca è straordinaria; succosi, dissetanti,
asprigni come mirtilli rossi e con un aroma dolce di acqua di rose.
I melograni originariamente crescevano sulle pendici dell’Himalaya,
dall’India settentrionale all’Iran, ma ora vengono coltivati in tutto il bacino
del Mediterraneo nonché nell’Asia Sud-orientale, nelle Indie orientali e
nelle regioni tropicali dell’Africa.
È possibile imbattersi in questi alberi dalla corteccia grigia, alti da 3 a 5
metri, anche in Arizona e in California, dove furono introdotti dagli
spagnoli nel XVIII secolo. In America il frutto faticò ad acquistare popolarità
poiché estrarre e mangiare i semi è un’operazione alquanto complessa, in
effetti un’operazione molto lenta. Le melagrane furono introdotte sul
mercato per la prima volta solo una decina d’anni fa o poco più, e all’epoca
erano considerate una moda salutista passeggera. Oggi, però, i benefici per
la salute scientificamente comprovati le hanno poste nell’olimpo dei
supereroi dei supermercati. Eppure, quando si parla del frutto, gli americani
ancora si domandano: e adesso, cosa dovrei farci con questo?
Se non si sa come fare, mangiarne i semi può trasformarsi in una scena da
film dell’orrore, il sugo che lascia una traccia rosso sangue su tutto ciò che
tocca: pelle, abiti, tutto, fin sopra i capelli!
In India, dove la melagrana è molto apprezzata, i semi vengono essiccati e
utilizzati come spezia a cui viene dato il nome di anardana, dall’aroma
intenso e deliziosamente fruttato. L’anardana viene adoperata intera o
macinata e la si ritrova in curry e chutney, nei ripieni per le pakora –
antipastini fritti salati – e le paratha, una sorta di pane fritto molto sottile.
Viene impiegata come aroma in modo molto simile all’amchur, una spezia
acidulante ottenuta dal mango acerbo. L’anardana è sovente preferita
all’amchur poiché conferisce un aroma agrodolce anziché solo agro.
In Turchia e in alcune zone del Medio Oriente i semi freschi e il loro succo
sono considerati un aroma essenziale per conferire alle carni e alla verdura
un gusto agrodolce e fruttato. Vengono utilizzati nelle marinate, nelle salse
e nei dessert. I semi, sia freschi che essiccati, vengono sovente distribuiti
sulle insalate e nell’hummus (ceci macinati); inoltre, costituiscono un
ingrediente fondamentale del famoso piatto persiano chiamato fesenjan, uno
stufato di pollo o selvaggina agro il cui sugo viene fatto addensare con
succo di melagrana e noci.
In Medio Oriente è diffusa la melassa di melagrana, che viene preparata
schiacciando i semi per estrame il succo e lasciandola cuocere finché non
raggiunge una consistenza spessa simile a quella della normale melassa ed
altrettanto scura di colore. Ha un sapore di frutti di bosco con un sentore
asprigno di agrume. È abbastanza simile alla granatina, uno sciroppo
analcolico preparato mescolando succo di melagrana e sciroppo di zucchero
caldo e adoperato in numerose ricette di cocktail. Oggi come oggi, non tutte
le «granatine» prodotte industrialmente sono fatte con vero succo di
melagrana.
I semi della melagrana sono molto apprezzati nella cucina messicana. La
cittadina di Puebla è il luogo d’origine del chile en nogada, un peperoncino
poblano farcito con un ripieno estremamente elaborato, affogato nella salsa
di noci e ricoperto di semi di melagrana.
La melagrana è anche conosciuta e adoperata in Russia: il kupati è una
salsiccia aromatizzata alla melagrana ed altre spezie, inclusi il pimento e il
coriandolo.
Negli Stati Uniti la si trova prevalentemente come succo, e viene
impiegata anche per aromatizzare acqua, tè, bibite energetiche, bibite
gassate e cocktail. Uno dei cocktail martini che attualmente vanno più di
moda è il martini alla melagrana, quello preferito da Oprah Winfrey.

La melagrana può contribuire a prevenire e/o curare:

Artrite e osteoartrite Colite


Disfunzione erettile Pressione alta
Diabete di tipo 2 Tumori
Obesità Gengivite
Sterilità maschile Aterosclerosi

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

L’unico momento in cui si possono gustare i semi della melagrana freschi


è quando il frutto è in stagione, da ottobre a gennaio. Il frutto viene colto
maturo e può variare di dimensioni, da quelle di una mela a quelle di una
grossa arancia. I frutti più grossi e pesanti dovrebbero avere semi più
sugosi. Quando li acquistate, cercate frutti integri che non presentino alcun
punto molle, con una buccia di colore vivido che può andare dal rosa al
rosso.
Le melagrane si conservano fresche a temperatura ambiente per diverse
settimane prima di asciugarsi, tuttavia manterranno meglio e più a lungo
l’umidità se riposte in frigorifero. In frigo dovrebbero durare per un mese o
più mantenendo la loro freschezza. I semi possono essere surgelati e si
conserveranno da sei a nove mesi. Se i semi freschi sono disponibili in
stagione, è invece molto difficile trovarli fuori stagione.
In tale epoca è possibile trovare solo l’anardana in un negozio di prodotti
indiani o magari in una drogheria specializzata. L’anardana è disponibile
essiccata o macinata. I semi essiccati hanno un colore rosso scuro con una
sfumatura di nero e si mantengono indefinitamente. Per ammorbidirli è
sufficiente metterli a bagno in acqua. I semi macinati, viceversa, durano per
un anno e più se conservati in un contenitore a chiusura ermetica lontano
dall’umidità e dal calore.
Solitamente è possibile reperire la melassa di melagrana nei negozi
specializzati in prodotti mediorientali, armeni o indiani. La melassa non
richiede particolari cure per la conservazione e non è necessario riporla in
frigorifero; qualora diventasse troppo spessa, basta immergere la bottiglietta
in acqua bollente per qualche minuto.

LA MELAGRANA IN CUCINA

L’interno della melagrana è composto per lo più da semi racchiusi in una


sorta di placenta suddivisa in due partizioni interne; il trucco per riuscire a
gustare i deliziosi semi è estrarli evitando di mangiare la placenta e le
membrane ad essa collegate.
Tradizionalmente, il modo migliore per mangiare la melagrana era estrarre
i semi uno per uno dal frutto aperto aiutandosi con uno spillo, ma oggi
nessuno fa più così. Il metodo più semplice per aprire il frutto e rimuovere i
semi, evitando le macchie, è farlo sul lavello della cucina sotto il getto
dell’acqua. Il primo passo consiste nell’indossare un grembiule, quindi si
posa il frutto su un tovagliolo di carta e lo si incide praticando un unico
taglio con un coltello ben affilato lungo la circonferenza. Fate attenzione a
non incidere la buccia troppo in profondità. Il frutto così inciso va quindi
immerso in una terrina capiente piena d’acqua e aperto a metà tenendolo
sott’acqua. Per separare i semi dalla placenta è sufficiente sfregarli con le
dita e, man mano che si separano, verranno a galla. Infine, li si recupera con
un colino e li si trasferisce in una ciotola.
I semi vanno macinati esclusivamente in un mortaio col pestello, dal
momento che possono ostruire un macinaspezie.
Per preparare il succo, mettete i semi in un frullatore o un robot da cucina
e frullateli fino ad ottenere un composto omogeneo. Premete quindi la polpa
su un colino per estrarre il liquido e scartare le fibre.
Una melagrana di dimensioni medie fornisce circa 1 tazza di semi e 1/2
tazza di succo.
La preparazione della melassa di melagrana è piuttosto semplice: mettete i
semi in una pentola e fateli bollire finché non si liquefanno e assumono una
consistenza spessa.
Potete distribuire i semi su qualsiasi piatto pronto che possa essere esaltato
da un aroma dolce e una consistenza croccante.
Ed ecco alcuni suggerimenti per sfruttare al meglio i semi della melagrana:

• Il succo è un eccellente tenerizzatore e un ottimo complemento per una


marinata. Aggiungete qualche seme o melassa di melagrana ai gravy e ai
ragù di carne durante la cottura.
• Prima di mettere in pentola, passate il pollo o la carne di maiale nella
melassa di melagrana, come fosse una marinata.
• Aggiungete un poco di melassa di melagrana alla vinaigrette.
• Distribuite semi e melassa sui gelati o sui frozen yogurt.
• Aggiungete dei semi alle insalate verdi o alle macedonie.
• Mescolate un poco di melassa di melagrana e selz in un bicchiere per
ottenere una bevanda rinfrescante.
• Spolverizzate dell’anardana macinata sulle verdure cotte o aggiungetela a
minestre e preparazioni in umido.
• Versate qualche goccia di melassa sui kebab di manzo e agnello quando
sono ancora ben caldi, non appena tolti dal grill.
• Aggiungete dei semi freschi sulle lenticchie ed altri piatti di verdura.
• Per preparare un martini alla melagrana, mescolate 60 mi di vodka, 15 mi
di succo di limone, 7 mi di succo di melagrana e un goccio di normale
sciroppo.
Menta. L’essenza della freschezza

«Menta» è un nome estremamente comune. Esiste la menta campestre, la


menta silvestre, la menta d’acqua e la menta di monte; e ancora, la menta
pelosa o menta d’Egitto, la menta Vietnamita, o pepe d’acqua, e la menta
della Corsica, per non parlare della menta riccia, di quella spinosa e della
mentuccia. E ovviamente il famoso binomio menta spicata (o romana) e
menta piperita. In totale, esistono circa 600 varietà che rispondono al nome
di «menta» (esiste persino una «menta di Smith», cioè la menta citrata),
nonché migliaia di prodotti che contengono menta.
La menta è uno degli aromi più riconoscibili e diffusi al mondo. Tra varie
altre cose, è un ingrediente impiegato nelle bevande analcoliche, nelle
caramelle, nei cocktail e nei liquori, nelle gelatine dolci, negli sciroppi,
nelle torte, nei tè freddi e nei gelati. Ciò nonostante, la menta usata per
aromatizzare tali golosità è solo una: la menta piperita, ossia la menta
dolce.
Quando ci si reca in drogheria per acquistare un vasetto di menta per
ricette che richiedono l’uso di tale spezia, anche in questo caso si acquista
una varietà di menta: la menta spicata, cioè quella aromatica.
Ma dolce o aromatica che sia, questa spezia rinfrescante è un potente
medicamento, a partire dall’apparato digerente.

UN APPARATO DIGERENTE IN CONDIZIONI PERFETTE

Gli studi dimostrano che la menta può contribuire ad alleviare i sintomi


della sindrome dell’intestino irritabile (IBS), un disturbo del tratto digerente
che si stima colpisca un individuo su 7 in America, tra cui molte donne. Gli
scienziati clinici classificano tale sindrome come un problema di salute
«funzionale», vale a dire che, pur non riscontrando alcuna anomalia
strutturale a livello dell’intestino, questo non funziona come dovrebbe in
quanto la muscolatura delle pareti intestinali si contrae più lentamente o
rapidamente della norma. Il risultato è l’insorgenza di una serie di sintomi
che possono includere dolori addominali, crampi e gonfiore, produzione
eccessiva di gas nonché diarrea e stipsi, talvolta una delle due, talvolta
entrambe in alternanza.
La menta agisce rilassando la muscolatura del tratto gastrointestinale,
contribuendo in tal modo a normalizzare le contrazioni e alleviare i sintomi.
In uno studio condotto da ricercatori italiani, 54 soggetti sofferenti di IBS
assunsero per quattro settimane olio di menta piperita in capsule
gastroresistenti (il rivestimento garantisce che la capsula si dissolva
nell’intestino anziché nello stomaco). Al principio e al termine del periodo
di osservazione, gli studiosi determinarono l’entità dei seguenti sintomi:
gonfiore addominale, dolore addominale o disagio, diarrea, stipsi,
sensazione di evacuazione incompleta, dolore durante la defecazione,
presenza di gas o muco nelle feci e urgenza dello stimolo a defecare. Il 75%
dei soggetti che assunsero il rimedio fitoterapico registrò una riduzione dei
sintomi pari ad almeno il 50%.
In un altro studio, 110 pazienti affetti da IBS furono suddivisi in due
gruppi: a un gruppo venne somministrato un placebo, all’altro gruppo una
capsula gastroresistente di olio di menta piperita 15-30 minuti prima di
ciascun pasto. Dei soggetti che assunsero menta, il 79% riferì un sollievo
del dolore addominale e del disagio, mentre il 29% registrò una totale
cessazione del dolore. Il gonfiore risultò ridotto nell‘83% dei casi e la
flatulenza nel 79%. Infine, I’83% dei pazienti comunicò di essere andato in
bagno un numero minore di volte. Nel gruppo placebo si registrarono solo
scarsi miglioramenti.
Alcuni ricercatori del Canada hanno osservato che l’olio di menta piperita
contribuisce a risolvere la proliferazione di batteri nell’intestino tenue – una
delle cause sospette nella sindrome dell’intestino irritabile – e, sulla rivista
Alternative Medicine Review, hanno riferito le loro conclusioni: «I risultati
in questo caso suggeriscono uno dei meccanismi con cui l’olio di menta
piperita, assunto in capsule gastroresistenti, migliora i sintomi dell’IBS».
Tuttavia, la sindrome dell’intestino irritabile non è l’unico disturbo che la
menta può aiutare a risolvere.
Indigestione. Alcuni ricercatori della Gran Bretagna hanno valutato 17
studi focalizzati sull’impiego di un rimedio naturale contenente una
combinazione di olio di menta perita e cumino dei prati (kummel) e hanno
notato che riduceva efficacemente il mal di stomaco e altri sintomi digestivi
postprandiali in una percentuale che andava dal 60% al 95% dei casi.
Uno studio condotto in Germania su 96 soggetti evidenziò che un rimedio
fitoterapico contenente menta piperita offriva notevole sollievo da ciò che i
medici definiscono «dispepsia», ciò che noi comuni pazienti chiamiamo
indigestione. Dopo quattro settimane di utilizzo, venne registrata una
riduzione dei sintomi del 40%.
Colonscopia. Da riscontri ottenuti su 409 soggetti, un gruppo di
ricercatori giapponesi ha rilevato che l’assunzione di olio di menta piperita
durante la colonscopia riduce gli spasmi gastrointestinali nell’86% dei casi
e senza presentare alcun «effetto indesiderato», il che lo rende una «valida
alternativa» ai farmaci antispastici che «talvolta provocano effetti
collaterali».
Esofagogastroduodenoscopia (EGDS). Durante questo esame clinico, la
sonda viene inserita nell’esofago e fatta passare attraverso lo stomaco fino
all’intestino tenue. Lo stesso gruppo di ricercatori giapponesi ha osservato
che l’olio di menta piperita presenta una «efficacia superiore» rispetto ai
farmaci antispastici normalmente impiegati per facilitare tale procedura
diagnostica. La menta piperita, inoltre, non produce alcun «effetto
collaterale di rilevanza», mentre i farmaci causano bocca secca, sfocamento
della vista e ritenzione urinaria.
Attenzione: la menta piperita non è la soluzione ideale per tutti i disturbi
digestivi. Alcuni esperti suggeriscono cautela a quanti soffrono di pirosi,
ernia iatale e calcoli renali, poiché la capacità dell’erba di rilassare la
muscolatura gastrointestinale potrebbe peggiorare tali disturbi.

RESPIRARE MEGLIO

La menta piperita è ricca di un composto chiamato mentolo. L’intensa


sensazione di freschezza prodotta dai cibi, dalle bevande e dai prodotti per
la cura del corpo è opera del mentolo, il quale stimola i recettori sensoriali
del freddo siti nelle mucose o nella cute.
In uno studio condotto in Germania, mirato ad analizzare i meccanismi
con cui il mentolo allevia la congestione nasale, i ricercatori sono giunti alle
stesse conclusioni degli entusiasti acquirenti di pastiglie mentolate: il
mentolo produce «una sensazione soggettiva di naso libero e aperto».
Anche un gruppo di ricercatori gallesi è dello stesso avviso. Essi
studiarono 62 individui con il raffreddore e li suddivisero in due gruppi: a
metà dei soggetti somministrarono una pastiglia contenente 11 mg di
mentolo e all’altra metà una pastiglia placebo. Gli individui che
succhiarono le pastiglie al mentolo riferirono un «notevole cambiamento»
nella «percezione del respiro attraverso il naso».
In Gran Bretagna, gli studiosi chiesero a 20 persone di inalare
ripetutamente una sostanza che li avrebbe fatti tossire. Cinque minuti prima
di ogni «prova della tosse», i soggetti inalarono mentolo o, in alternativa,
un’essenza di pino oppure semplice aria. Solo «l’inalazione di mentolo fu in
grado di ridurre la tosse», scrissero i ricercatori sulla rivista medica Thorax.
Inoltre, quando alcuni ricercatori giapponesi compromisero
sperimentalmente la respirazione di 11 individui, osservarono che inalare
mentolo determinava una «significativa riduzione delle sensazioni di
difficoltà respiratoria».

La menta può contribuire a prevenire e/o curare:

Allattamento problematico Menopausa problematica


Ansia Nausea postoperatoria
Allergie Nevralgia posterpetica
Broncopneumopatia cronica Policistosi ovarica
Carie dentaria Sindrome intestino irritabile
Congestione nasale Stress
Stanchezza mentale Gengivite
Indigestione Tumori

ULTERIORI FONTI DI SOLLIEVO

Esistono molti altri modi in cui la menta piperita e la menta spicata


possono dare ristoro alla salute.
Nevralgia posterpetica. Come menzionato poc’anzi, il mentolo attiva i
recettori sensoriali del freddo nelle cellule, producendo una sensazione
rinfrescante così intensa che il composto viene spesso impiegato in prodotti
analgesici per uso topico come creme e pomate. Ebbene, tale vigorosa
sensazione di freddo rappresenta anche il motivo per cui il mentolo può
agire efficacemente nell’alleviare il dolore violento della nevralgia
posterpetica, ossia il dolore a livello nervoso che si produce in seguito a un
attacco di herpes zoster (fuoco di Sant’Antonio), una violenta dermatite di
origine virale con sviluppo di vescicole che tipicamente colpisce individui
di mezza età o in età più avanzata.
In un resoconto pubblicato sul Clinical Journal of Pain, i ricercatori del
Pain Management Center of University College evidenziarono che
l’applicazione di olio di menta piperita titolato al 10% di mentolo
«produceva un miglioramento quasi immediato del dolore» in pazienti con
nevralgia posterpetica, e la sensazione di sollievo durava da 4 a 6 ore.
Prestazioni sul lavoro. Pare che il mentolo rinfreschi anche la mente.
Alcuni ricercatori della Wheeling Jesuit University, negli Stati Uniti, hanno
scoperto che annusare olio di menta piperita migliorava la performance
nell’ambito di due attività impiegatizie: la dattilografia, che richiede
velocità e precisione, e l’archiviazione in ordine alfabetico. Sulla rivista
Perceptual and Motor Skills, i ricercatori riferirono le seguenti conclusioni:
«L’olio di menta piperita può favorire l’acutizzazione dell’attenzione in
senso generale», sicché le persone «sono in grado di mantenere la
concentrazione sull’attività svolta e migliorare le prestazioni».
Policistosi ovarica. Questa condizione clinica contraddistinta da livelli
anormalmente elevati di testosterone affligge 1 donna americana su 10. Una
caratteristica sgradita di tale sindrome è la crescita eccessiva di peli sia sul
viso che sul corpo, definita irsutismo. Alcuni ricercatori della Gran
Bretagna hanno scoperto che bere un tè alla menta piperita due volte al
giorno per un mese riduce i livelli di testosterone fuori norma nelle donne
affette da PCO. Stando alle conclusioni riportate sulla rivista Phytotherapy
Research, «la menta piperita trova potenziale impiego come trattamento
coadiuvante naturale per l’irsutismo nella policistosi ovarica».
Stress e ansia. Alcuni scienziati coreani hanno notato che gli studenti di
infermieristica che inalavano menta piperita e altri oli essenziali
sviluppavano meno stress e ansia. Ne conclusero che l’inalazione di menta
piperita e altri oli essenziali «potrebbe essere un metodo di gestione dello
stress molto efficace».
Nausea postoperatoria. Tenendo sotto osservazione 33 pazienti di un
reparto di chirurgia, un’équipe di ricercatori statunitensi ha rilevato che
l’inalazione di olio di menta piperita riduceva del 29% la nausea
postoperatoria, un problema assai comune.
Allattamento. «Il dolore ai capezzoli e le ragadi che possono comparire
nelle donne che allattano al seno sono fattori che tipicamente le inducono a
cessare prematuramente l’allattamento». Questo è quanto riferisce
un’équipe di ricercatori sull’International Journal of Breastfeeding.
Tenendo sotto osservazione 196 neomamme che allattavano al seno, gli
studiosi notarono che nelle donne che ricorrevano a un trattamento topico
con acqua di menta piperita sui capezzoli, le probabilità di sviluppare ragadi
erano tre volte inferiori e il dolore ai capezzoli cinque volte inferiore.
Tubercolosi. Un gruppo di ricercatori russi ha scoperto che l’aggiunta di
olio di menta piperita a una terapia farmacologica combinata per la
tubercolosi contribuiva a uccidere i batteri e migliorare i sintomi. Ne
conclusero che «tale procedura potrebbe essere adottata nella prevenzione
di recidive ed esacerbazioni della tubercolosi polmonare».
Vampate di calore indotte da chemioterapia. Nell’ambito di uno studio
condotto da esperti in Gran Bretagna, alcune pazienti hanno constatato che
uno spray contenente olio di menta piperita era estremamente utile nel
ridurre le vampate di calore causate dagli agenti chemioterapici impiegati
nel trattamento del carcinoma mammario.
Tumori. Esistono decine di studi in vitro e condotti su animali che
dimostrano le capacità della menta nel combattere il cancro. La menta
piperita, la menta spicata e i fito-composti in esse contenuti si sono rivelati
efficaci nel rallentare, arrestare o distruggere tumori a carico di polmoni,
prostata, fegato, cute, stomaco, vescica urinaria, cervello, bocca e sangue.
Broncopneumopatia cronica ostruttiva. Comprendente l’enfisema
polmonare e la bronchite cronica, questa patologia respiratoria rappresenta
la quarta causa di morte negli Stati Uniti. Alcuni ricercatori cinesi hanno
evidenziato che l’olio di menta piperita riduce l’infiammazione polmonare
in ratti affetti da BPCO sperimentalmente indotta.
Carie e gengivite. Alcuni ricercatori mediorientali hanno notato che l’olio
di menta piperita uccide i batteri responsabili della carie dentaria e
contribuisce ad arrestare l’accumulo della placca.
Febbre da fieno. In sede di laboratorio, alcuni scienziati giapponesi hanno
rilevato che gli estratti di menta inibiscono il rilascio di istamina, l’agente
chimico responsabile di sintomi allergici quali lacrimazione, prurito e
congestione nasale. Ed ecco la conclusione degli esperti: «Questi risultati
suggeriscono che gli estratti (di menta) possono essere clinicamente efficaci
nell’alleviare i sintomi nasali della rinite allergica (febbre da fieno)».

ALLA SCOPERTA DELLA MENTA

La menta piperita e la menta spicata, o menta romana, sono state


impiegate per secoli nella preparazione di cosmetici e prodotti per l’igiene
personale, e oggi sono comunemente adoperate come aromi in dentifrici e
collutori. Tuttavia, la menta non fu mai utilizzata per aromatizzare il cibo
fino al XVII secolo.
Gli inglesi furono i primi a introdurre la menta in cucina e ne sono ancora
entusiasti: nessun cuoco inglese servirebbe dell’agnello senza la
tradizionale salsa alla menta. Anche gli americani prediligono la menta con
la carne d’agnello, di preferenza gelatine alla menta.
I paesi del Mediterraneo orientale: Grecia, Turchia e i paesi del Medio
Oriente che si affacciano sul Mediterraneo, e i paesi dell’Asia Sud-
orientale, come pure l’India, utilizzano molta menta: fresca o essiccata, in
piatti sia dolci che salati. E, naturalmente, nel tè: il tè nero con menta
piperita in infusione è una bevanda privilegiata in Medio Oriente e in
Africa.
In India, la raita alla menta, preparata con cetriolo e yogurt, è un
condimento diffuso che fa da fresco contrasto ai curry piccanti. La menta è
una delle spezie di base nelle kofta, le polpette di carne indiane, e viene
utilizzata nel mix di spezie chaat masala. La menta spicata viene macinata
insieme a cocco, peperoncino, cipolla e mango acerbo per preparare una
salsa chutney, e viene adoperata anche per aromatizzare piatti di riso detti
byriani.
Nel Nordafrica la menta è sempre presente quando viene servita l’harissa,
uno dei condimenti più piccanti al mondo. È inoltre una spezia comune
negli stufati marocchini detti tajine e nelle foghe di vite farcite, una
specialità mediorientale che ha incontrato successo negli Stati Uniti. È un
ingrediente del dukkah, la miscela di spezie egiziana, ed è anche una spezia
importante nelle cucine dell’Iran e della Turchia. La menta è ciò che
conferisce alla celebre salsa greca di yogurt e cetrioli detta tzatziki il suo
carattere distintivo.
In Malesia la menta viene combinata a curcuma, galanga, citronella e pasta
di gamberi per insaporire i laksa (tagliatelle in brodo), e viene adoperata
nella pasta di curry verde tailandese e, generalmente, nei soffritti della
cucina asiatica.
La menta figura anche tra i migliori amici dei baristi. Il loro repertorio
conta circa cinque dozzine di drink che prevedono foglie di menta o alcolici
aromatizzati alla menta, come il liquore Crème de menthe, utilizzato per
preparare Stinger e Grasshopper. Oggi come oggi il cocktail alla menta più
popolare è il Mojito, a base di succo di limone e tequila, ma non
dimentichiamo una delle grappe preferite dai tedeschi, lo Schnapps di
menta piperita. Il primo sabato di giugno, quando la cittadina di Churchill
Downs ospita il Derby del Kentucky, 30 chili di menta fresca vengono
messi a macerare per preparare il Mint Julep, il cocktail classico del derby,
preparato con bourbon, sciroppo, amaro e tantissima menta

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Come accennato in precedenza, la normale menta che si trova in


commercio è menta spicata essiccata, tuttavia è possibile reperire della
menta piperita essiccata nei negozi specializzati oppure su web.
La menta secca (parliamo della varietà aromatica) viene talvolta definita
«sbriciolata» perché le foglie essiccate si frantumano in piccoli pezzi
quando vengono separate dallo stelo strofinando quest’ultimo. Quando
viene essiccata assume una tonalità scura diventando quasi nera, ma il
colore non incide sulla qualità o la freschezza.
Quanto alla freschezza, basta controllare il profumo. La menta spicata
deve avere un aroma caldo e leggermente pungente; la menta piperita,
viceversa, una fragranza fresca e vagamente pepata.

LA MENTA IN CUCINA

A meno che non prepariate torte e pasticcini particolari, la menta piperita


trova scarso utilizzo in cucina se non per fare il tè, laddove invece esistono
numerosi modi per impiegare la menta spicata.
La menta è un aroma dominante e, pertanto, molti chef sono dell’avviso
che non si sposi bene con altre spezie. Tuttavia, i cuochi esperti di cucina
indiana e asiatica la combinano ad altre spezie forti con ottimi risultati.
Ecco alcune idee per utilizzare più menta in cucina:

• Dividete i rametti di menta in piccoli pezzi e fateli surgelare con


dell’acqua in una vaschetta per i cubetti di ghiaccio; usate il ghiaccio nel tè
freddo, nella limonata e nell’acqua tonica.
• Spolverate un poco di menta sul burro da spalmare sulle pannocchie di
mais.
• Triturate della menta fresca o essiccata con un pizzico di sale in un
mortaio e aggiungetela al condimento di olio di oliva e aceto.
• Aggiungete della menta alle minestre e alle salse a base di panna.
• Aggiungete della menta alla vellutata di piselli e alle ricette con piselli.
• Aggiungete della menta alle minestre di cetrioli fredde.
• Sostituite il basilico con la menta per preparare un pesto alla menta.
• Preparate una salsa chimichurri inedita sostituendo il prezzemolo con la
menta.
• Per cambiare gusto, adoperate la menta al posto dell’origano e della
maggiorana nelle ricette con melanzane e pomodori.
Noce moscata. Un pizzico di potere curativo

Quando la noce moscata venne importata per la prima volta nel


Connecticut, nel XVIII secolo, presso i giovani e ricchi gentiluomini diventò
subito di moda portare con sé una noce moscata e una piccola grattugia
d’argento in modo da poter aggiungere una spolveratina di spezia sul cibo
in qualunque momento e ovunque capitasse loro di pranzare.
Ma, come spesso accade, alla moda seguirono le truffe: i mercanti ben
presto presero a intagliare la corteccia d’albero in sembianti di noci
moscate, vendendo la falsa spezia allo stesso esorbitante prezzo
dell’originale. Immaginate lo sconcerto del giovane gentiluomo quando,
intento ad impressionare la sua giovine dama, esibiva la lucente grattugia e
iniziava a triturare una «noce moscata» di legno su una fetta di torta! La
pratica diffusa di tale frode, sostengono alcuni storici, fruttò al Connecticut
il nomignolo ufficioso di «Stato della Noce moscata».
Oggigiorno, pare essere più indicato «Paese della Noce moscata». Gli
americani, infatti, adorano usare la noce moscata come aroma in prodotti da
forno e nelle bevande classiche come la cioccolata calda, il sidro speziato e
lo zabaione freddo. Ma quando si spolverizza della noce moscata su un
drink, il brindisi va anche alla salute personale.

LA PROMESSA TERAPEUTICA DELLA MIRISTICINA

Non esiste nulla al mondo che abbia il sapore della noce moscata. L’aroma
dolce e intenso proviene dalla miristicina, un olio volatile presente in
numerose specie botaniche, tra cui le carote, il sedano e il prezzemolo, ma
in quantità più abbondanti nella noce moscata. Sebbene non sia stato
realizzato alcuno studio su soggetti umani, gli scienziati hanno condotto
studi in vitro e in vivo su animali per analizzare il potere terapeutico della
miristicina nonché di altri composti interessanti rinvenuti in tale spezia.
Colesterolo alto. Due studi in vivo condotti da ricercatori indiani hanno
evidenziato che la nóce moscata riduce i livelli di colesterolo totale e delle
nocive lipoproteine a bassa densità (LDL).
Tumori. Alcuni ricercatori della Thailandia hanno scoperto che l’estratto
di noce moscata uccide le cellule della leucemia umana.
Rughe. Un’équipe di ricercatori della Corea del Sud ha testato 150 piante
per individuare un composto che inibisse la elastasi, un enzima che ha la
proprietà di scindere l’elastina, ovvero le fibre di natura proteica che
mantengono la pelle giovanile, tesa e flessibile (quando l’elastina viene
meno la pelle ha un cedimento). La noce moscata fu una delle 6 piante
identificate che presentavano tale capacità. In un articolo apparso
sull’International Journal of Cosmetic Science, i ricercatori conclusero che,
addizionata a un cosmetico, la noce moscata potrebbe avere «effetti anti-
invecchiamento sulla pelle umana». In un altro studio realizzato da
ricercatori coreani, è stato osservato che un composto della noce moscata è
in grado di proteggere la pelle dai raggi UVB del sole, particolarmente
dannosi.
Ansia. In uno studio condotto su animali in India, la noce moscata ha
dimostrato di esercitare un’efficacia simile a quella di comuni farmaci
ansiolitici nell’alleviare i sintomi dell’ansia.
Depressione. Nell’ambito di uno studio condotto su animali e pubblicato
sul Journal of Medicinal Food, il trattamento con noce moscata si è rivelato
efficace quanto i farmaci nel produrre effetti antidepressivi di notevole
rilevanza.
Memoria. In uno studio condotto su animali, alcuni ricercatori indiani
hanno notato che la noce moscata migliora significativamente i processi di
apprendimento e la memoria.
Calo del desiderio sessuale. La noce moscata è uno stimolante del
sistema nervoso centrale e, nella medicina Unani – un sistema terapeutico
che trae origini dall’antica Grecia e attualmente insegnato in India e
Pakistan –, è considerata un afrodisiaco. Per testarne l’impiego in tal senso,
un gruppo di ricercatori indiani ha somministrato in via sperimentale della
noce moscata ad alcuni animali, i quali hanno decisamente gradito! «Il
conseguente rilevante e protratto aumento dell’attività sessuale indica che
l’estratto di noce moscata possiede proprietà afrodisiache che incrementano
la libido», conclusero gli esperti sulla rivista BMC Complementary and
Alternative Medicine.
Epilessia. In uno studio condotto su animali, alcuni ricercatori pakistani
hanno osservato che la noce moscata «esercita una notevole attività
anticonvulsivante» che consente di prevenire le crisi epilettiche. I risultati
della ricerca sono stati pubblicati su Phytotherapy Research.
Diarrea. Nell’ambito di uno studio condotto da ricercatori brasiliani, la
miristicina uccise il 90% dei rotavirus, vale a dire la causa virale più
comune della diarrea. Sul Journal of Ethnopharmacology, i ricercatori
conclusero che la noce moscata «può essere d’ausilio nel trattamento della
diarrea nell’uomo qualora l’agente eziologico sia un rotavirus». Un altro
studio ha evidenziato che il Medbarid, un rimedio ayurvedico contenente
noce moscata, è un presidio naturale efficace per la diarrea.

La noce moscata è un narcotico?

La noce moscata ha fama di essere un narcotico piuttosto economico, e


non si tratta di una leggenda metropolitana. L’ayurveda, il sistema indiano
di medicina naturale, si riferisce a tale spezia con il nome di madashaunda,
che significa «frutto narcotico». Numerosi studi scientifici condotti sulla
noce moscata hanno esaminato la spezia per individuare eventuali effetti
intossicanti e, in effetti, ne sono stati trovati; tuttavia, gli studi confermano
anche che occorre ingerire elevate quantità di noce moscata (all’incirca 30
grammi) per produrre un’intossicazione; una quantità impossibile da
consumare in un normale contesto culinario, dove un cucchiaino può
aromatizzare un intero cheesecake.
Probabilmente è questo il motivo per cui la DEA non fa incursioni negli
armadietti delle spezie degli americani. La Food and Drug Administration
(l’ente americano per il controllo degli alimenti e dei farmaci) classifica la
noce moscata come alimento GRAS (generalmente riconosciuto come sicuro)
qualora utilizzato come spezia culinaria. Inutile dire che non conviene
sperimentare la noce moscata come agente intossicante: vi è stato più di un
caso di avvelenamento fatale da noce moscata in persone che ci hanno
provato.

ALLA SCOPERTA DELLA NOCE MOSCATA


Se fate un viaggio nell’isola caraibica di Grenada – là dove gli alberi di
noce moscata sono prolifici, la spezia profuma Tana salmastra del mare e un
frutto di noce moscata figura sulla bandiera nazionale –, è molto probabile
che vi imbattiate in qualche isolano che si massaggia del burro di noce
moscata su un’articolazione colpita dall’artrosi, o di incontrare qualcuno
che aggiunge una spolveratina di spezia su un punch al rum. La noce
moscata è un rimedio popolare da sempre e continuerà ad esserlo. I
guaritori la utilizzano per alleviare i crampi allo stomaco, la diarrea e altri
disturbi della digestione, per ridurre il mal di testa, calmare le emozioni e
l’inquietudine, stimolare le mestruazioni e lenire le emorroidi.
La noce moscata vanta anche una lunga tradizione politica ed economica.
Fu infatti al centro del commercio mondiale delle spezie per vari secoli, e la
fonte della spezia – le isole Molucche in Indonesia, un tempo note come
«Isole delle Spezie» – era un segreto gelosamente custodito dai mercanti.
Dal 1300 fino al 1700, olandesi, portoghesi, francesi e inglesi si scontrarono
per il possesso delle isole, finché gli ultimi non iniziarono a coltivare
l’albero della noce moscata altrove, tra cui l’isola di Grenada.
Oggi la noce moscata cresce ancora rigogliosa nelle Molucche e a
Grenada, e queste due aree producono la maggior parte della fornitura
mondiale.
La spezia è il nucleo decorticato di un seme simile a una noce racchiuso
all’interno del frutto dell’albero della noce moscata. Di fatto l’albero
produce ben due spezie usate in ambito culinario: la noce moscata – il
nucleo del seme – e il macis, che corrisponde all’aril, ovvero la guaina
esterna che avvolge il seme come una rete. La noce moscata è dolce, mentre
il macis è aspro e forte.
L’impiego della noce moscata varia da paese a paese. Negli Stati Uniti e in
Inghilterra viene prevalentemente adoperata per aromatizzare preparazioni
dolci e bevande, sia alcoliche (zabaione, rum caldo, vino speziato, Kahlua e
creme di liquore) che analcoliche (cioccolata e milk-shake). Nella vecchia
Inghilterra, conferiva un po’ di vigore al porridge di piselli.
Nell’area dei Caraibi, la noce moscata viene utilizzata in una gran varietà
di ricette, incluse le carni in salsa jerk, i curry e le miscele di spezie. A
Grenada – dove lo sciroppo di noce moscata, preparato con zucchero e rum,
è un condimento assai diffuso – la spezia si accompagna praticamente a
qualsiasi cibo, inclusi gelati, minestre, crostate di patate dolci, pollo e una
miscellanea di cocktail al rum.
L’apprezzamento della Francia nei confronti della noce moscata risale a
diversi secoli fa, quando gli alberi contrabbandati delle «Isole delle Spezie»
furono piantati su suolo francese. La spezia contribuisce con una nota
briosa alla ricca salsa béchamel e alle patate al gratin. La noce moscata
rientra anche tra le quattro spezie del mélange noto come quatre épices.
In Germania è una spezia standard e viene adoperata per vivacizzare
patate, pasticci di carne e knödel. I tedeschi ne mettono un pizzico anche
nelle minestre di pollo.
L’India coltiva una sua varietà di noce moscata, la quale contiene più oli
volatili ed è pertanto leggermente più profumata delle noci indonesiane e
grenadine. Viene impiegata nella cucina Moghul e Kashmiri per insaporire
verdure e alcuni dessert; infine, è un ingrediente di base del mix di spezie
garam masala.
La noce moscata è altresì utilizzata nelle foglie di betel che, in India,
vengono strettamente arrotolate e masticate (come il tabacco da masticare)
con effetti digestivi e stimolanti.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

La noce moscata è disponibile intera o in polvere, ma risulta più aromatica


se acquistata intera e grattugiata al momento. Le noci moscate intere sono
lunghe approssimativamente da 2,5 a 3 centimetri, con un guscio
leggermente rugoso color marrone chiaro. La qualità è variabile. Vi
consiglio di cercare noci perfettamente integre e senza segni di vermi (ad
esempio tarlature) che potrebbero infestarle. Le noci moscate intere si
mantengono per qualche anno se riposte in contenitori ben sigillati in un
luogo asciutto e lontano dalla luce. Le noci intere conservate troppo a lungo
si asciugano e perdono i loro preziosi oli volatili.
Grazie all’elevato contenuto di oli volatili, la noce moscata macinata
trattiene a lungo il suo aroma e si mantiene fino a un anno o più, purché
conservata nelle stesse condizioni delle noci intere. A meno che non vi
dedichiate abbondantemente alla preparazione di pane e torte, il consiglio è
acquistare la confezione più piccola possibile dal momento che ne basta una
piccola quantità per ottenere un aroma intenso.
L’aroma della noce moscata può variare dal dolcemente speziato al forte e
leggermente amaro, a seconda del luogo di origine. I principali esportatori
sono l’Indonesia (isole Molucche), Grenada, la Francia e l’India.
L’Indonesia è di gran lunga il produttore principale nonché il fornitore della
maggior parte delle noci moscate importate negli Stati Uniti, tuttavia la
noce moscata di Grenada è considerata da molti la varietà migliore. È
possibile acquistare noci moscate grenadine (ma anche quelle francesi e le
noci moscate indiane fortemente profumate) da un rivenditore di spezie
specializzato oppure online.
Le noci moscate intere sono piuttosto dure e richiedono una grattugia per
estrame la spezia. In America, un tempo le grattugie per noci moscate erano
un articolo piuttosto caro; ora sono relativamente economiche e il prezzo
può variare da 3 a 15 dollari. Sono tipicamente fatte in materiale acrilico o
acciaio inossidabile, ma potreste ancora imbattervi in una grattugia
d’argento inglese in qualche negozietto di antiquariato. Le grattugie per
noci moscate sono un oggetto delizioso poiché presentano un piccolo
scompartimento in cui conservare le noci, ma una normale grattugia in
acciaio inossidabile per tutti gli usi sarà più che sufficiente.

La noce moscata può contribuire a prevenire e/o curare:

Ansia Tumori
Colesterolo Depressione
Diarrea Epilessia
Calo desiderio sessuale Rughe

LA NOCE MOSCATA IN CUCINA

L’aroma della noce moscata risulta più ricco nel momento in cui la si
grattugia e, pertanto, raccomando di grattugiarla direttamente sul cibo nel
momento in cui la ricetta indica di aggiungerla. Il sapore risulta migliore se
introdotta verso la fine della cottura.
La noce moscata è una delle spezie privilegiate per aromatizzare torte,
ripieni per crostate e sfoglie, ma è favolosa anche nelle preparazioni salate.
Un pizzico di noce moscata a fine cottura in un brasato o nelle casserole
che richiedono una cottura lenta, ad esempio, conferisce un profumo dolce e
speziato e un’ulteriore dimensione aromatica.
La noce moscata e i prodotti caseari formano un connubio perfetto. La
noce moscata si insinua tra le pingui note del latte, della panna, delle uova,
del formaggio e delle creme pasticcere, e si abbina particolarmente bene a
salse bianche ricche e addensate con farina. È un complemento perfetto per
piatti a base di patate e verdure dal sapore deciso, come cavolfiori,
melanzane, cavolini di Bruxelles e spinaci.
Di seguito, alcuni suggerimenti per arricchire di noce moscata la vostra
dieta:

• Spolverate della noce moscata sulle zuppe poco brodose, ad esempio di


piselli, lenticchie e fagioli neri.
• Aggiungete un pizzico di noce moscata al cavolo per mascherarne il
sapore di zolfo.
• Aggiungete della noce moscata alle quiche.
• Grattugiate un poco di noce moscata su stufati e brasati.
• Una spolveratina di noce moscata è perfetta sulle vellutate. Si sposa
particolarmente bene con la vellutata di spinaci e con sformati di patate.
• Spolverizzate la spezia direttamente sulle cipolle nei tortini di cipolla.
• Aggiungetene una spolveratina alla cioccolata calda, al gelato, ai milk-
shake o ai frullati.
• Aggiungete la spezia alle ricette in umido dal sugo denso e ai curry a
base di latte di cocco.
Origano. Una protezione contro le infezioni

Vi sfido a trovare una pizzeria o un ristorante italiano ovunque nel mondo


in cui non vi siano barattoli stracolmi di foglie secche di origano dal
profumo pungente. Tale spezia è sinonimo di Italia e cucina italiana:
lasagne, pizza e persino il pane all’aglio non potrebbero essere considerati
«italiani» senza l’origano.
Tuttavia, il paese numero uno dell’origano non è l’Italia, bensì la Turchia,
la quale ogni anno esporta 20 tonnellate di origano. I turchi stessi ne
adoperano 1000 tonnellate all’anno, e non solo perché ne amano il sapore: il
popolo turco crede fermamente nel potere curativo dell’origano.
Le cucine delle case sono sovente attrezzate con alambicchi per la
distillazione dell’acqua di origano, che le famiglie bevono per garantire una
buona digestione. Gli alambicchi, inoltre, sono progettati in modo da poterli
sistemare tranquillamente sul fornello in modo da disperdere i vapori
dell’olio di origano, che si ritiene rilassi i nervi e mantenga in buona salute.
La gente strofina i vapori condensati di tale olio sulle membra quando i
muscoli sono doloranti o quando i reumatismi si fanno sentire. Infine,
l’infuso di origano è il tè preferito dai turchi.
Se vi collegate a una banca dati scientifica e digitate la parola «origano»,
vi verranno restituiti innumerevoli studi che comprovano l’efficacia
dell’impiego terapeutico dell’origano così come avviene nella tradizione
turca.

LA LOTTA ALLE INFEZIONI

La ricerca attuale nel campo della gastroenterologia addita vari batteri,


funghi e parassiti quali cause comuni di disturbi intestinali, dalle ulcere alla
sindrome dell’intestino irritabile. Di fatto, i disturbi di origine microbica a
livello enterico sono attualmente ritenuti responsabili dell’insorgenza o
della complicanza di numerose patologie che vanno dalle allergie all’artrite.
I componenti principali dell’olio di origano — il carvacrolo e il timololo —
sono potenti agenti antibatterici, antivirali, antimicotici e antiparassitari.
Debelliamo i parassiti. Esistono numerosi tipi di parassiti intestinali, dai
microrganismi unicellulari ai vermi veri e propri. La parassitosi può essere
contratta ingerendo cibo o acqua contaminata, può essere trasmessa da un
animale domestico o persino da un passaporto: chi viaggia in paesi in via di
sviluppo talvolta finisce per ritrovarsi un «souvenir» che gradirebbe essersi
lasciato alle spalle.
Com’è ovvio, i parassiti intestinali provocano sintomi intestinali. La
diarrea cronica è il sintomo più comune ma, tra altre spiacevoli possibilità,
vi sono anche gonfiore di stomaco, produzione di gas intestinali, stipsi e la
presenza di sangue nelle feci, nonché sintomi non gastroenterici come
febbre e affaticamento.
I farmaci antiparassitari rappresentano il modo migliore per debellare i
parassiti, tuttavia non sempre sono efficaci. Per questo motivo, alcuni
medici americani degli stati sudoccidentali hanno deciso di provare l’olio di
origano su 34 pazienti con parassitosi ostinata: il trattamento mise fine al
regno degli invasori nella maggior parte dei casi, e ridusse il numero di
parassiti nei restanti pazienti.
Contrastare l’avvelenamento da cibo. Alcuni ricercatori hanno scoperto
che i composti organici presenti nell’origano sono in grado di uccidere
molti dei batteri che provocano avvelenamento da cibo, ad esempio
l’Escherichia coli, la Salmonella, la Listeria e la Shighella. In uno studio
commissionato dal Ministero dell’Agricoltura statunitense l’origano si
dimostrò più efficace dell’aglio e del pimento nell’inibire la proliferazione
di questi quattro batteri estremamente nocivi.
Una cura per l’ulcera. I ricercatori della Facoltà di Scienze alimentari
dell’Università del Massachusetts hanno riscontrato che una formula
combinata di estratto di origano e mirtillo rosso era in grado di uccidere
l’Helicobacter pilori, il batterio responsabile delle ulcere gastriche.
Calmare la colite. Un gruppo di ricercatori slovacchi ha osservato che una
formula combinata di origano e timo riduceva l’infiammazione a carico del
colon in animali da laboratorio affetti da colite chimicamente indotta, un
genere di malattia infiammatoria dell’intestino che colpisce oltre un milione
di americani.
Più vita al fegato. Diversi studi condotti su animali dimostrano che l’olio
di origano è in grado di rinforzare e riparare il fegato, una buona notizia per
10 milioni di americani affetti da steatosi epatica non alcolica, epatite C,
cirrosi ed altre patologie a carico del fegato.

L’origano può contribuire a prevenire e/o curare:

Avvelenamento da cibo Malattie cardiovascolari


Candida Malattie del fegato
Candidosi orale Morbo di Alzheimer
Candidosi vaginale Obesità
Colesterolo Parassitosi
Colite Sindrome metabolica
Infezioni da stafilococco Trigliceridi
Insulino-resistenza Tumori
Ipertensione Ulcere

LA LOTTA ALLE INFEZIONI VAGINALI

Le infezioni, naturalmente, non sono circoscritte solo all’apparato


digerente. L’infezione vaginale da lieviti – ciò che i medici definiscono
candidosi vulvovaginale – è un disturbo che colpisce 3 donne su 4 almeno
una volta nella vita. All’incirca il 45% delle donne contrae una seconda
infezione, mentre una percentuale compresa tra il 5% e l’8% lamenta
infezioni ricorrenti con recidive che si ripresentano 4 o 5 volte l’anno. Tali
infezioni pruriginose e talvolta dolorose sono quasi sempre causate dalla
Candida albicans, un lievito che causa infezioni micotiche.
Alcuni medici, capitanati dal dottor William C. Crook, autore di The Yeast
Connection pubblicato nel 1987, ritengono che l’infezione sistemica da C.
albicans sia un problema diffuso responsabile di una vasta gamma di
sintomi, tra cui affaticamento, mal di testa e disturbi digestivi.
Ebbene, quando la C. albicans vi molesta, fate appello all’origano.
Un’équipe di ricercatori del Georgetown University Medicai Center ha
osservato che l’olio di origano è in grado di inibire totalmente la crescita
della C. albicans in vitro e di uccidere l’80% dei funghi in animali da
laboratorio. L’olio impedisce al lievito di proliferare e smussa i «filamenti»
che utilizza per radicarsi nella mucosa. Gli studiosi sottolineano inoltre che
è efficace quanto gli antibiotici ad azione antimicotica come la nistatina (a
tale proposito, quando un gruppo di ricercatori italiani testò l’origano e la
nistatina in combinazione, scoprì che la spezia sosteneva l’azione
antimicotica del farmaco).
«È interessante notare», scrivono i ricercatori su Molecular and Clinical
Biochemistry, «che le infezioni da C. albicans nei soggetti debilitati, ad
esempio affetti da diabete e HIV, possono essere profilatticamente
controllate mediante l’assunzione quotidiana di dosi ridotte di olio di
origano, sia da solo che addizionato al cibo».
E concludono affermando che «la somministrazione orale quotidiana di
olio di origano può dimostrarsi altamente efficace nella prevenzione e nel
trattamento della candi-dosi».
Conducendo studi su animali, altri ricercatori hanno scoperto che il
carvacrolo e il timololo possono ridurre significativamente l’infezione in
caso di candidosi orale, ossia l’infezione che colpisce la mucosa della
bocca.

Un chiarimento sull’origano «messicano»

Il cosiddetto «origano messicano» non è origano. Non appartiene


nemmeno alla stessa famiglia botanica. Una volta essiccato, tuttavia,
somiglia all’origano e ha il sapore dell’origano, a parte il fatto che è più
intenso e questo hi una differenza enorme quando lo si aggiunge a tacos o
empanadas.
Come il «vero» origano è ricco di carvacrolo e timololo.
E come il «vero» origano viene impiegato nella medicina tradizionale di
tutto il Messico e l’America Meridionale per trattare disturbi digestivi e
respiratori poiché, come la ricerca ha dimostrato, è un agente antibatterico,
antiossidante e antitumorale.

ULTERIORI NOTIZIE DAL FRONTE DELL’ORIGANO


È in atto una provocatoria ricerca sul possibile impiego dell’origano nella
cura di altre patologie.
Sindrome metabolica. Questa condizione clinica è caratterizzata da alti
livelli di gli-cemia, obesità, ipertensione ed elevati livelli di trigliceridi
(grassi, o lipidi, presenti nel sangue). Un gruppo di ricercatori italiani ha
scoperto che gli estratti di origano agiscono allo stesso modo dei farmaci
impiegati nel trattamento della sindrome metabolica. Secondo gli esperti, lo
studio dimostra che gli estratti possono «contribuire al calo ponderale»
(obesità), «prevenire l’aterosclerosi» (da ipertensione) e «migliorare il
profilo lipidico» (trigliceridi alti).
Colesterolo alto. Alcuni ricercatori turchi hanno osservato 48 soggetti con
livelli di colesterolo moderatamente elevati suddividendoli in due gruppi e
somministrando solo a uno di questi dell’estratto di origano dopo ogni
pasto. Tre mesi più tardi, il gruppo che assumeva origano presentava un
maggiore abbassamento dei livelli di colesterolo LDL (quello «cattivo») e di
proteina C reattiva, un bioindicatore dello stato infiammatorio che può
danneggiare le arterie. Tali soggetti registrarono anche miglioramenti del
flusso ematico arterioso più marcati. I risultati dello studio sono stati
pubblicati sul Journal of International Medical Research.
Quando alcuni ricercatori turchi testarono alcune spezie in laboratorio per
determinarne la capacità di inibire l’ossidazione del colesterolo LDL – la
fase cruciale da cui ha origine la formazione della placca ateromatosa che
ostruisce le arterie –, scoprirono che l’origano esercitava un effetto più
pronunciato rispetto alle altre spezie.
Un gruppo di ricercatori spagnoli fece un ulteriore passo avanti in questa
direzione: gli studiosi misurarono la capacità dell’estratto di origano di
inibire il processo immediatamente successivo all’ossidazione del
colesterolo, vale a dire l’attivazione di fattori autoimmuni, detti citochine,
che attaccano il colesterolo ossidato come fosse un corpo estraneo
scatenando l’infiammazione che va ad aggravare la malattia
cardiovascolare. Gli estratti inibirono il rilascio di tre citochine pro-
infiammatorie
I ricercatori riferirono le loro conclusioni sulla rivista Food and Chemical
Toxicology: «Tali risultati suggeriscono che gli estratti di origano esercitano
un effetto antinfiammatorio nell’ambito di un modello cellulare di
aterosclerosi (malattia cardiovascolare)».
Carcinoma del colon. Sulla rivista Nutrition and Cancer, alcuni
ricercatori italiani riferirono che «l’origano in quanto spezia è largamente
adoperato nella dieta mediterranea, a sua volta associata a un ridotto rischio
di carcinoma del colon». Quando mescolarono in una provetta dell’estratto
di origano e cellule di carcinoma del colon, la spezia arrestò la crescita
cellulare e uccise le cellule tumorali, un effetto che i ricercatori hanno
battezzato «morte da origano».
«I risultati ottenuti suggeriscono che l’origano, nelle quantità reperibili
nella dieta mediterranea, può uccidere le cellule tumorali».
Ulteriori ricerche in vitro e condotte su animali focalizzate sul carvacrolo e
ad altri composti presenti nell’origano indicano che tali sostanze sono in
grado di rallentare o uccidere le cellule del carcinoma polmonare e del
colon nonché di tumori a carico del sangue e dell’utero.
Morbo di Alzheimer. I ricercatori hanno vagliato 139 spezie
analizzandone l’eventuale capacità di favorire l’attività dell’acetilcolina (un
mediatore chimico cerebrale) con la stessa modalità dazione dei farmaci
utilizzati per rallentare la progressione del morbo di Alzheimer, e solo
l’estratto di origano si è dimostrato altrettanto efficace.
Macchie cutanee. Alcuni ricercatori di Taiwan hanno scoperto che un
composto presente nell’origano è in grado di invertire la iperpigmentazione
che provoca le macchie scure della pelle (lentigo solari) normalmente
definite «di vecchiaia». A detta degli studiosi, «può essere d’ausilio in
prodotti contenenti agenti schiarenti della cute». I risultati dello studio sono
stati pubblicati sul Journal of Dermatological Science.
Infezioni da stafilococco. Le infezioni da Staphilococcus aureus
solitamente esordiscono in ospedale e talvolta hanno esito fatale. Un gruppo
di ricercatori del Georgetown University Medical Center ha notato che, tra i
vari composti testati, l’olio di origano era l’agente più potente in grado di
uccidere lo stafilococco. La somministrazione quotidiana ad animali in cui
era stato inoculato il batterio quadruplicò l’aspettativa di vita dei soggetti. I
ricercatori conclusero che l’olio di origano «può dimostrarsi utile» a livello
di «prevenzione e terapia» delle infezioni da Staphilococcus aureus.

ALLA SCOPERTA DELL’ORIGANO


Ippocrate, il padre delle medicina vissuto nell’antica Grecia, era a
conoscenza delle proprietà antisettiche dell’origano e lo impiegava per
trattare malattie dell’apparato digerente e respiratorio. Anche gli antichi
egizi lo adoperavano come disinfettante, mentre i romani lo utilizzavano
principalmente per stimolare la crescita dei capelli. Nell’ambito della
medicina popolare turca, l’olio di origano viene usato per alleviare il dolore
della carie dentaria, come antisettico sulle ferite e come rimedio per le
infiammazioni di ogni genere, tra cui psoriasi, tonsillite, ulcerazioni della
bocca e gengive infiammate, per nominarne solo alcune.
L’olio di origano è un integratore alimentare molto apprezzato negli Stati
Uniti, utilizzato per curare disturbi della digestione, infezioni micotiche e
come terapia profilattica durante la stagione dei raffreddori e dell’influenza.
L’origano è di casa nelle cucine degli americani almeno quanto lo è in ogni
altra parte del mondo.
Oltre ad essere un elemento di base nelle pizzerie e nei ristoranti italiani
sparsi in tutto il mondo, è una spezia comunemente adoperata nella cucina
tex-mex e nelle tradizioni gastronomiche degli stati sud-occidentali. È
inoltre un aroma diffuso nei ristoranti messicani degli Stati Uniti, dove
viene impiegato nella preparazione di minestre, miscele per chili, salse e
creme di fagioli (frijoles refritos).

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

L’origano è una pianta perenne che non richiede particolari cure e viene
coltivata in numerose regioni del mondo, inclusi gli Stati Uniti. Gli amanti
delle spezie sostengono che l’origano migliore viene dalla Turchia. Poiché
gli Stati Uniti sono uno dei maggiori importatori di origano turco, le
probabilità che sia proprio quella la varietà acquistata sono molto alte.
Tuttavia, anche l’origano greco viene importato negli Stati Uniti e, pertanto,
l’unico modo per sapere con certezza da dove proviene, è acquistare la
spezia presso un rivenditore specializzato che saprà sicuramente indicarvi il
paese di origine.
È possibile comprare origano fresco, essiccato e macinato. L’aroma
dell’origano essiccato è più robusto di quello fresco, e viene privilegiato
rispetto a quello macinato in quanto ha più profumo. L’origano essiccato si
mantiene per circa un anno se conservato in un contenitore ermetico lontano
dalla luce e in un luogo fresco.
Il sapore dell’origano è pungente e balsamico e tale caratteristica deriva
dal carvacro-lo e dal timololo, due sostanze volatili che possono variare di
intensità a seconda del luogo di coltivazione della pianta. L’origano più
forte proviene dalla Turchia; in paragone, se l’origano viene coltivato nel
giardinetto delle aromatiche dietro casa e poi fatto essiccare, risulta
delicato.
L’origano è talvolta definito «maggiorana selvatica» e viene sovente
confuso con la maggiorana, a sua volta chiamata «maggiorana gentile».
Sebbene tali erbe facciano entrambe parte della medesima famiglia botanica
e vengano spesso adoperate in modo intercambiabile in cucina, a livello di
sapore presentano solo una vaga somiglianza.

L’ORIGANO IN CUCINA

I cuochi professionisti preferiscono l’origano essiccato a quello fresco


poiché di gusto più intenso. In ogni caso, è possibile intensificare l’aroma
dell’origano fresco strofinando le foglie tra le mani e lasciandole cadere nel
piatto.
L’origano è una spezia facile da utilizzare in quanto si abbina praticamente
a tutto. Quando sperimentate ricette di vostra invenzione, tenete a mente
che l’origano è forte e può sovrastare i sapori del piatto; si sposa
perfettamente agli aromi più intensi. Viene tipicamente impiegato in
preparazioni a base di pomodoro o aglio, nei piatti di carne e selvaggina più
corposi, nei chili e nelle salse nonché nelle pastasciutte. Altre idee per
arricchire di origano la vostra dieta:

• Utilizzatelo nelle marinate.


• Impiegatelo nei rub per le carni alla griglia combinando 1 cucchiaino di
origano e, rispettivamente, 1/2 cucchiaino di peperoncini rossi secchi
sminuzzati, di sale e di pepe macinato fresco; sfregate quindi una bella
bistecca con la mistura prima di metterla sulla griglia.
• Provate l’origano nei condimenti per insalate.
• Aggiungetelo alle ricette a base di olio e aceto.
Pepe nero. Il re delle spezie

Questo condimento assai comune vanta una genealogia di tutto rispetto.


Durante il Medioevo, il pepe nero era considerato «il re delle spezie» ed
era più prezioso dell’oro. Solo la gente ricca poteva permetterselo, e lo
status sociale si misurava in termini di quantità delle scorte di pepe nero.
Per accrescerne il mistero e l’attrattiva, i mercanti arabi mantenevano il
più assoluto riserbo circa le sue origini, inventando stravaganti racconti di
pericolose imprese alla ricerca della spezia in terre immaginarie.
Durante il XV secolo, quando la Guerra delle spezie – ossia il conflitto tra
nazioni per il dominio del commercio delle spezie – si intensificò, le tariffe
doganali e le tasse provocarono un aumento della spezia che divenne fino a
trenta volte più cara. Ciò indusse Cristoforo Colombo a salpare dalla
Spagna diretto a ovest in cerca della terra del pepe e, di conseguenza, delle
ricchezze che sarebbero affluite nelle casse della regina di Spagna.
Purtroppo Colombo era fuori rotta di circa 7000 miglia nautiche: la terra
«segreta» era la costa del Malabar in India, ove ancora oggi viene coltivato
il pepe più profumato del mondo.

IL PEPE, UN RIMEDIO MILLENARIO

Il pepe nero indiano è considerato di qualità superiore poiché è


particolarmente ricco di pipelina, il composto che folgora le papille
gustative e scatena lo starnuto quando colpisce le terminazioni nervose
all’intemo del naso.
I medici indiani della tradizione ayurvedica – che praticavano la scienza,
nonché arte, millenaria della medicina naturale originaria di quel paese –
potevano non essere al corrente della piperina, ma sicuramente
conoscevano le proprietà curative del pepe e lo prescrivevano per una vasta
gamma di disturbi quotidiani, ivi inclusa la stipsi, la diarrea, le morsicature
di insetto, la carie dentaria, gli eritemi solari, l’artrite, le malattie
dell’apparato cardiovascolare e i disturbi polmonari.
Quando il pepe raggiunse la Cina, la spezia fu integrata nella Medicina
Tradizionale Cinese, un’altra tradizione medica millenaria, di cui un testo la
descriveva come in grado di «riscaldare il centro, disperdere il freddo
sciogliendo al contempo il catarro e attenuando la diarrea». Uno dei rimedi
erboristici cinesi in uso ancora oggi consiste in una polvere secca ottenuta
da una radice e ben 99 grani di pepe!
Nell’antica Roma il pepe era per lo più apprezzato per l’esito
gastronomico: i romani adoravano condire il cibo con il pepe e seppellivano
la carne ed altri alimenti deperibili sotto mucchi di pepe per evitare che
andassero a male. Quello fu il primo indizio che la spezia possedeva potenti
capacità antibatteriche; gli scienziati ora sanno che la piperina è in grado di
inibire persino i batteri mortali che provocano il botulismo.
Quando siete a Roma – o in qualunque altra parte del mondo – pepate il
vostro cibo come facevano i romani, perché il pepe fa bene… a partire dal
momento in cui lo ingerite.

METTIAMO IN MOTO LA DIGESTIONE

La piperina sollecita le papille gustative che, a loro volta, stimolano il


pancreas a produrre gli enzimi digestivi, oltre a tonificare il rivestimento
delle pareti intestinali. Questo impulso iniziale, volto a migliorare la
funzionalità e la velocità del processo digestivo, e estremamente utile.
Accelerazione del tempo di transito. In uno studio pubblicato sulla
rivista Journal of the American College of Nutrition, un’équipe di
gastroenterologi ha rilevato che 1,5 grammi di pepe nero accelerano il
«tempo di transito», ovvero il tempo richiesto affinché il cibo attraversi
tutto il tratto digerente. Un tempo di transito lento è stato associato a
numerosi problemi gastrointestinali, dalla stipsi al tumore del colon. I
ricercatori hanno osservato che il pepe nero «riveste importanza clinica
nella gestione di vari disturbi gastrointestinali».
Incremento dell’efficacia dei farmaci. Non solo il pepe aiuta a digerire
meglio il cibo, ma anche a metabolizzare più rapidamente i farmaci. In
alcuni studi condotti sia su animali che esseri umani, si è scoperto che la
piperina può favorire la biodisponibilità di tutta una serie di farmaci, inclusi
gli antibiotici, i beta-bloccanti per l’ipertensione, i farmaci bloccanti i canali
del calcio utilizzati per trattare patologie cardiovascolari, medicine per la
tosse ed anche farmaci prescritti per il trattamento di artrite, epilessia,
disturbi respiratori, tubercolosi e HIV/AIDS. Essa agisce influenzando gli
enzimi epatici che partecipano attivamente al metabolismo dei farmaci.
Sulla rivista Canadian Journal of Physiology and Pharmacology, un’équipe
di ricercatori indiani ha pubblicato le seguenti conclusioni: «La piperina
esplica un effetto eccezionalmente positivo sul sistema enzimatico del
fegato deputato alla metabolizzazione dei farmaci».

LA LOTTA CONTRO IL CANCRO

Studi di laboratorio condotti su animali e cellule umane dimostrano che la


piperina può svolgere una funzione importante nella prevenzione o nel
trattamento dei tumori.
Tumore del colon. In laboratorio, alcuni ricercatori statunitensi hanno
riscontrato che l’aggiunta di pepe nero a una coltura di cellule umane di
carcinoma del colon produceva una significativa inibizione della crescita.
L’apporto regolare di pepe nero in bassi dosaggi potrebbe «sortire effetti di
prevenzione contro il carcinoma del colon», conclusero gli esperti su
Annals of Clinical and Laboratory Science.
Carcinoma polmonare. «Il pepe nero viene da tempo largamente
impiegato in vari sistemi di medicina tradizionale», scriveva un’équipe di
ricercatori indiani su Molecular and Cellular Biochemistry, e ciò li indusse
a testare le capacità terapeutiche del pepe sul cancro ai polmoni. Nello
studio che condussero su animali, scoprirono che l’introduzione della
piperina nel trattamento del tumore modificava i livelli di diversi enzimi,
«evidenziando così un effetto antitumorale e antineoplastico».
Carcinoma mammario. Un’équipe di ricercatori indiani ha osservato che
l’aggiunta di estratto di pepe nero alla dieta di topi affetti da carcinoma
della mammella ne aumentava l’aspettativa di vita del 65%. I risultati sono
stati pubblicati sulla rivista Cancer Letters.

UN PO’ DI PEPE NELLA VITA FA SEMPRE BENE

Vari scienziati in ogni parte del mondo hanno scoperto come il pepe nero
possa migliorare la salute sotto numerosi altri aspetti.
Sollievo dall’artrite. Alcuni ricercatori coreani hanno analizzato gli effetti
della piperina sull’artrite in due modi: hanno aggiunto dell’estratto di pepe
nero a una coltura di cellule umane dell’artrite reumatoide e l’hanno
somministrata ad alcuni animali affetti da artrite indotta sperimentalmente.
Nelle cellule umane, la piperina ha ridotto alcuni agenti responsabili
dell’aggravamento del processo flogistico, segno distintivo dell’artrite
reumatoide, mentre negli animali ha ridotto l’infiammazione ed altri
sintomi dell’artrite. Su Arthritis Research & Therapy, gli studiosi
conclusero che la piperina potrebbe trovare una sua collocazione come
«integratore alimentare per il trattamento dell’artrite».
Prevenzione del morbo di Alzheimer. Alcuni scienziati tailandesi hanno
analizzato gli effetti della piperina su animali che presentavano alterazioni
cerebrali analoghe a quelle riscontrate nel morbo di Alzheimer e hanno
rilevato che l’estratto «migliorava significativamente i disturbi di memoria
e la degenerazione neuronaie (la distruzione delle cellule cerebrali)».
Miglioramento delle funzioni cerebrali. In un altro studio, la medesima
équipe osservò che, una volta somministrata ad animali, la piperina
esplicava «un’attività antidepressivo-simile e un effetto di miglioramento
delle funzioni cognitive».
Miglioramento della stabilità posturale nell’anziano. Alcuni ricercatori
giapponesi hanno scoperto che annusare olio di pepe nero consentiva una
maggiore stabilità della postura eretta (riducendo pertanto il rischio di
cadute) in 17 individui di 78 anni e di età superiore. «La stimolazione
olfattiva» mediante pepe nero «potrebbe migliorare la stabilità posturale nel
soggetto anziano», conclusero in un articolo pubblicato su Gait and
Posture.
Miglioramento della disfagia post-ictus. In seguito a un ictus molte
persone soffrono di disfagia, ossia hanno difficoltà a deglutire. La stessa
équipe di ricercatori giapponesi osservò che annusare olio di pepe nero per
1 minuto contribuiva a migliorare la capacità di deglutire in oltre 100
soggetti reduci da un ictus. Le conclusioni pubblicate sul Journal of the
American Geriatrie Society furono che «l’inalazione della frazione volatile
dell’olio di pepe nero può essere di beneficio nei pazienti che hanno subito
un ictus e presentano disfagia, indipendentemente dal livello di coscienza o
di stato fisico e mentale».
Un aiuto per i bambini cerebrolesi nutriti con sondino. In un terzo studio, i
medesimi esperti giapponesi hanno osservato che l’inalazione della frazione
volatile dell’olio di pepe nero era in grado di stimolare l’appetito in bambini
con danno neurologico e nutriti con un sondino gastrico, invogliandoli così
a mangiare più cibi solidi.
Cessazione del fumo. Gli scienziati del Nicotine Research Laboratory di
Durham, nella Carolina del Sud, hanno osservato che nei fumatori la voglia
di sigaretta si riduceva dopo avere inalato vapori contenenti olio essenziale
di pepe nero. Nelle conclusioni pubblicate su Drug and Alcohol
Dependency argomentarono che «i prodotti sostitutivi della sigaretta che
forniscono componenti del pepe potrebbero dimostrarsi utili negli interventi
di cessazione del fumo».
Riduzione dell’ipertensione. Uno studio condotto da ricercatori pakistani
e apparso sulla rivista Journal of Cardiovascular Pharmacology ha
dimostrato che la piperina riduce la pressione arteriosa in animali da
laboratorio.
Prevenzione delle malattie cardiovascolari. Si sa che le diete ricche di
grassi e le malattie cardiovascolari vanno a braccetto ma, a tale proposito,
alcuni studiosi indiani hanno scoperto che gli animali da laboratorio nutriti
con una dieta ricca di grassi e pepe nero presentavano livelli decisamente
inferiori di ossidazione, uno stadio cruciale del processo che trasforma il
colesterolo alimentare in placche che vanno ad ostruire le arterie. Gli esperti
ne conclusero che «l’integrazione con pepe nero o piperina può ridurre lo
stress ossidativo delle cellule indotto da una dieta ad elevato contenuto di
grassi».
Trattamento dell’ipertiroidismo. Un’équipe di ricercatori indiani ha
osservato che la piperina esplica un’azione tanto efficace quanto quella di
farmaci specifici nel trattamento dell’iperattività tiroidea in soggetti
animali.
Protezione dell’udito. Come evidenziato da alcuni ricercatori coreani, la
piperina protegge le cellule della coclea (l’organo sensoriale dell’udito
all’interno dell’orecchio) da danni chimici. Il danno cocleare conduce alla
perdita dell’udito.
Regressione della vitiligine. La malattia della cute nota come vitiligine –
una disfunzione delle cellule che producono il pigmento cutaneo dette
melanociti – genera la comparsa sulla pelle di chiazze irregolari color
avorio. Alcuni ricercatori della Gran Bretagna hanno scoperto che la
piperina promuove la crescita dei melanociti e ne hanno pubblicato il
riscontro sul Journal of Pharmacy and Pharmacology. «Tale osservazione
conferma e legittima l’uso tradizionale (del pepe nero) nella cura della
vitiligine».

ALLA SCOPERTA DEL PEPE NERO

Al pari dell’uva, anche il pepe nero cresce su piante rampicanti perenni;


tuttavia, i rampicanti del pepe si ergono a un’altezza di 9 o 10 metri e li si
può ammirare mentre ondeggiano sui tralicci accostati alle palme nello stato
di Kerala, sulla costa indiana del Malabar, ove il pepe nero costituisce una
redditizia attività commerciale e le piante di pepe si trovano ovunque.
La pianta del pepe ha foglie grandi e lucide, con infiorescenze a spiga
dette amenti che si ricoprono bacche, il frutto, appunto, di tale pianta. Un
amento carico di bacche assomiglia a uno stelo ritorto, fittamente ricoperto
di grani dall’aspetto di perline lucenti.
Dopo avere germogliato, le bacche assumono gradualmente un colore
verde scuro, segno che sono pronte per essere colte ed essiccate.
Durante l’essiccazione il rivestimento esterno delle bacche, detto
pericarpo, si ispessisce, diventa rugoso, oleoso e annerisce. A questo punto,
le bacche si sono trasformate nei grani di pepe che conosciamo, dal
profumo caldo e penetrante e dal sapore pieno con una piccantezza che
perdura.
Tuttavia, non tutto il pepe reperibile in commercio è nero.
Il pepe verde, entrato in gran voga negli anni Settanta grazie alla
popolarità della nouvelle cuisine francese, proviene dalle bacche del pepe
nero colte ancora immature e immerse in acqua bollente, un accorgimento
che disattiva gli enzimi della maturazione e impedisce ai grani di annerire.
Il pepe verde ha un sapore fresco e piccante ma molto più delicato di quello
nero. È addirittura possibile mangiarne i grani interi senza grossi
inconvenienti per le papille gustative!
Il pepe bianco è costituito dai frutti del pepe nero a cui è stato rimosso il
pericarpo, portando così alla luce il nucleo liscio e color crema che è il
seme. La rimozione del pericarpo è un’operazione complessa, fattore che
spiega perché il pepe bianco sia considerato una spezia da gourmet e sia più
costosa del pepe nero. Ha un aroma più piccante e acuto del pepe nero ma
un retrogusto leggermente dolce.
Il pepe rosa è una varietà di pepe le cui bacche vengono lasciate sulla
pianta a maturare finché non passano dal verde al giallo e poi al rosso; a
questo punto vengono colte e messe in commercio. Al pari del pepe bianco
è considerato una spezia da intenditori, aromatica e con un gusto morbido
dalle sfumature complesse.
La piperina è presente in tutti i tipi di pepe ma risulta più abbondante nel
pepe nero, e il pepe in circolazione è davvero tanto.
Dopo il sale, è la spezia più frequentemente adoperata in tutto il mondo.
Costituisce un ingrediente in quasi il 95% delle ricette e lo si può trovare su
quasi tutte le tavole del mondo. La cosa non deve stupire: il pepe conferisce
quella punta di «mordente» introvabile in qualsiasi altra spezia. Persino i
ristoranti che considerano il sale un insulto allo chef portano il pepe in
tavola, solitamente da macinare fresco.
La gastronomia indiana fa un uso elaborato del pepe nero ma rifugge dalle
altre varietà. E uno dei principali ingredienti in molte delle più apprezzate
miscele di spezie indiane, tra cui il garam masala e il sambaar masala. È
inoltre un ingrediente fondamentale del baharat, una miscela utilizzata in
tutto il Medio Oriente.
Viceversa, i francesi adorano il pepe bianco, il cui aroma si armonizza
perfettamente a molte salse a base di panna tipiche della loro cucina.
Utilizzano anche pepe nero e bianco insieme in un mélange da macinare
detto mignonette, e il pepe bianco è uno dei quattro ingredienti della
miscela di spezie nota come quatre épices. Tuttavia il pepe nero non è
completamente caduto in disgrazia: viene sovente unito al bouquet garni
adoperato in numerose cucine.
In America, i grani di pepe nero sono la chiave di volta della piccantissima
tradizione culinaria Cajun e della cucina creola.
Le bacche del pepe richiedono un clima caldo e la maggior parte del pepe
nero importato negli Stati Uniti proviene dall’Indonesia o dal Brasile. Tra
gli altri paesi produttori di pepe figurano la Malesia, il Madagascar, la
Tasmania e il Vietnam, il quale ha recentemente superato l’India in veste di
maggior produttore sul mercato mondiale.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO


Benché l’India non sia più il primo paese fornitore di pepe al mondo,
produce ancora il pepe di miglior qualità, di cui il 90% viene raccolto sulla
costa del Malabar e rappresenta una varietà particolarmente apprezzata per
l’elevato contenuto di piperina e altri oli volatili.
In questa regione vengono coltivate due varietà: il pepe di Malabar
(precedentemente definito pepe di Alleppy) e il Tellicherry. Dei due, il
Tellicherry è di qualità superiore. Il pepe Tellicherry migliore vanta il
marchio TGSEB, una sorta di denominazione di origine che significa:
Tellicherry (luogo di origine), Garbled (privo di scorie e bacche di seconda
scelta), Special (di qualità migliore) e Extra Bold (di dimensioni maggiori).
La denominazione Malabar Garbled No. 1 (MG1) indica un pepe
assolutamente puro e di eccellente qualità.
Anche la American Spice Trade Association (ASTA) – l’associazione per il
commercio delle spezie americana – applica al pepe i propri standard. La
sigla ASTA su un’etichetta indica che il pepe soddisfa gli standard di
purezza, contenuto in oli volatili, livello di umidità ed altre specifiche
tecniche.
Il pepe nero viene commercializzato in grani interi, grossolanamente
pestati o macinato.
La strategia migliore è quella di acquistare i grani interi e macinarli
all’occorrenza per trarre il gusto migliore e il massimo beneficio per la
salute. Una volta macinato, il pepe inizia a perdere il suo contenuto di
piperina e altri oli volatili; mantiene il sapore piccante ma perde l’aroma.
I grani di pepe nero di miglior qualità sono grandi e con una scorza rugosa
di un colore che va dal marrone scuro al nero giaietto, ricoperti da una
patina opaca. La presenza di una patina lucida indica un prodotto di qualità
inferiore.
Il pepe macinato è disponibile come macinato grosso o fine. Esiste un
indizio di qualità inferiore anche per il pepe macinato, ossia quando è
troppo nero, e ve ne spiego il motivo.
Quando le bacche del pepe vengono raccolte e poste ad essiccare, vi è
sempre una percentuale di grani vuoti all’interno, cioè mancanti del seme
chiaro. Tali frutti vengono definiti bacche vuote. Anche in questo caso
esiste una specifica di qualità sancita dal governo che limita la percentuale
di bacche vuote consentita in un raccolto, ma talvolta i coltivatori
infrangono le regole. Il pepe nero macinato migliore è di colore grigio in
quanto viene macinata l’intera bacca, pericarpo nero e seme bianco. Un
pepe troppo scuro è invece indice di un contenuto elevato di bacche vuote
finite nella macinatura.
Il pepe bianco viene venduto in grani interi. La qualità migliore è la
Muntok.
È possibile acquistare del pepe verde e rosa sia essiccato che in salamoia.
Le bacche della migliore qualità di pepe verde, definite di raccolto
tardivo, vengono liofilizzate. I grani dovrebbero avere un aspetto compatto,
pieno e un colore verde brillante. Sono eccellenti per cucinare ma non
conviene inserirli in un macinapepe in quanto sono troppo teneri e possono
ostruire il meccanismo.
Il pepe rosa incontra meno successo poiché ha un sapore meno intenso;
inoltre i grani sono troppo morbidi per essere macinati con un macinapepe.
Esiste anche una varietà di «pepe rosa» proveniente dal Brasile che
appartiene alla famiglia dell’anacardio. Non ha la benché minima relazione
con il pepe autentico e non è considerata particolarmente utile a livello
culinario. Tale genere di bacche rosa è stato bandito dagli Stati Uniti a causa
della possibile tossicità, ma talvolta alcune partite finiscono sugli scaffali
dei negozi. Assicuratevi quindi che il pepe rosa acquistato sia della famiglia
botanica Piper nigrum.
Il pepe, sia in grani che macinato, si conserva indefinitamente, ma quello
già macinato, se vecchio, non avrà più molto profumo.
Sia il pepe verde che rosa acquistati in salamoia dovrebbero essere
adoperati entro due settimane dall’apertura del vasetto.
Esistono numerose varietà di pepe nero, tra cui il rinomato pepe Sichuan
cinese, ma anche in questo caso non si tratta di vero pepe. Il Sichuan non ha
alcuna somiglianza con il pepe nero a livello di sapore, né può essere
considerato un sostituto soddisfacente per quest’ultimo.

IL PEPE NERO IN CUCINA

Tra tutte le spezie adoperate in cucina, il pepe nero è quella più utile e
indispensabile. Quando ci si trova di fronte a un piatto poco appetitoso, una
previdente macinata di pepe può salvare l’intero pasto.
Poiché il sapore robusto del pepe nero viene per lo più associato a cibi
particolarmente saporiti, adoperatelo senza problemi su carni rosse,
selvaggina, frutti di mare, fagioli e lenticchie, ma usatelo con parsimonia
sulle pietanze più delicate.
È tuttavia possibile mettere il pepe nero su qualsiasi cosa, persino la frutta.
I frutti di bosco, le mele, le pere e finanche il formaggio non disdegnano un
pizzico di pepe nero macinato al momento. Vi consiglio inoltre di
utilizzarlo per insaporire minestre, carni in umido, pesce e pollame.
Tenete sempre del pepe bianco a portata di mano nel caso desideriate
conferire a un piatto un po’ di carattere senza sopraffare gli altri aromi.
Inoltre, è sempre bene aggiungere il pepe a liquidi di cottura e salse
all’ultimo minuto; se aggiunto troppo presto durante la cottura, perde il suo
aroma fragrante e può lasciare un retrogusto amarognolo difficile da
eliminare.
Conservate i grani in un macinapepe di metallo, plastica o vetro ma non di
legno, poiché il legno sottrae al pepe gli oli volatili.
Ed ecco ancora qualche suggerimento per arricchire ulteriormente di pepe
la vostra dieta:

• Strofinate le carni rosse con del pepe nero macinato grosso prima di
grigliarle, arrostirle o brasarle. Non siate avari: la carne ne può sopportare
parecchio.
• Aggiungete dei grani interi alle marinate, ai brodi e alle preparazioni
sottovetro.
• Affettate le fragole su un letto di crescione e date una generosa
spolverata di pepe nero macinato, quindi condite il tutto con una vinaigrette
leggera di aceto balsamico.
• Aggiungete del pepe pestato ai condimenti per insalate fatti in casa.
• Mettete in tavola un macinapepe anziché una pepiera con del pepe già
macinato.
Peperoncino. Il grande medico

È buffo che in inglese la spezia più piccante al mondo sia chiamata chile.
E poi vi è un continuo dibattito sulla corretta ortografia: chile, chilli o chili?
E perché non scrivere addirittura chilly? (sottile ironia dell’autore poiché
«chilly» significa «freddo», quanto di più distante dal bruciore associato al
peperoncino? [N.d.T.]).
Quanti si professano «custodi della verità» (per così dire), si rimettono al
termine spagnolo chile anziché alla dizione americana chili, o chilli,
sinonimo di cucina messicana. E dunque, chile sia. Tuttavia, poco importa
come si scrive o come si pronuncia purché sappiate cosa indichi, e cioè
piccantezza: una vampata persistente che può andare dal forte all’infuocato.
Il peperoncino deriva il suo ardente marchio di fabbrica dalla capsaicina,
un alcaloide concentrato per lo più all’interno dei semi e delle membrane
interne, e quanto più elevato è il contenuto di capsaicina, tanto più il
peperoncino è piccante. È molto semplice: se non è piccante, non c’è
capsaicina, se non c’è capsaicina, non è peperoncino.
La capsaicina è indistruttibile: né caldo, né freddo, né acqua riescono ad
estinguerne il «fuoco», un fuoco così feroce da essere in grado di
«incenerire» una vasta gamma di malattie. E quanto più il peperoncino è
piccante, tanto più è efficace a livello terapeutico. Ma non abbiate paura:
non è necessario avere una soglia del dolore alta per trame beneficio. Tutte
le varietà di peperoncino, infatti, hanno proprietà curative.
L’effetto salutare della capsaicina viene esaltato da tutta una serie di
vitamine antiossidanti presenti nel peperoncino. A parità di peso, un
peperoncino contiene nove volte più vitamina A del pepe verde e il doppio
di vitamina C dell’arancia. È anche ricco di minerali, tra cui potassio e
magnesio.
Negli ultimi vent’anni sono stati pubblicati migliaia di studi scientifici che
descrivono i benefici terapeutici del peperoncino. Ecco di seguito alcune
delle notizie «più piccanti».

UN ANTIDOLORIFICO SPERIMENTATO
Quando si morsica un peperoncino, la capsaicina scatena il rilascio di un
neurotrasmettitore, chiamato sostanza P, che ordina al cervello di
trasmettere il dolore lungo le fibre nervose. Tuttavia, la capsaicina sviluppa
una tolleranza alla sostanza P: quanti più peperoncini si mangiano, minore è
lo stimolo della capsaicina che innesca il rilascio di tale sostanza.
Contemporaneamente, promuove il rilascio di somatostatina, un ormone
che calma le infiammazioni. Ecco perché i più irriducibili amanti del
peperoncino riescono a trangugiare serenamente una salsa habanera, un
condimento così piccante da lasciare i neofiti letteralmente agonizzanti. Di
fatto, le papille gustative si desensibilizzano al bruciore.
Le persone che lamentano dolori importanti producono anch’esse molta
sostanza P, e la capsaicina influisce sul dolore in modo analogo. Quando si
spalma sulla pèlle una pomata a base di capsaicina sulla zona dolorante,
subito si percepisce una sensazione di calore e di bruciore causata dalla
sostanza P. Tuttavia, l’applicazione ripetuta, solitamente per un periodo di
tre giorni, riduce e alla fine blocca la sostanza P, eliminando il dolore e
rilasciando somatostatina che promuove il processo di guarigione.
Vari studi hanno dimostrato che le pomate contenenti capsaicina,
approvate dalla Food and Drug Administration (FDA), l’ente per il controllo
degli alimenti e dei farmaci
statunitense, possono esercitare un effetto anestetico profondo e duraturo
su svariate condizioni dolorose. La maggior parte degli studi indica che le
pomate a base di capsaicina recano sollievo nel 75% dei soggetti che ne
fanno uso, e agisce efficacemente anche in presenza di dolori importanti. Lo
Zostrix, ad esempio, è una pomata contenente capsaicina approvata dalla
FDA e acquistabile su ricetta medica, che viene prescritta per alcuni degli
eventi più dolorosi in cui si può incappare, come le nevralgie associate alla
mastectomia o il dolore postoperatorio nei casi di amputazione.
L’unico svantaggio della pomata è il bruciore iniziale, che in alcuni
individui può causare arrossamento cutaneo e irritazione. Ciò nonostante, il
resoconto di uno studio pubblicato sugli Archives of Internal Medicine
dichiara che la pomata a base di capsaicina era il trattamento di elezione
preferito da 100 pazienti anziani affetti da osteoartrite grave a carico delle
ginocchia.
Di seguito sono elencati gli ambiti di impiego in cui tale pomata si è
rivelata più efficace.
Artrite. La capsaicina non solo offre sollievo dal dolore alle persone
affette da osteoartrite, ma gli studi indicano che aumenta anche la
produzione di liquido sinoidale, il quale lubrifica le articolazioni e
contribuisce a prevenire la distruzione della cartilagine. Tutto ciò si traduce
in una riduzione del dolore e un’aumentata flessibilità.
In uno studio condotto dai ricercatori della Facoltà di Medicina
dell’Università di Miami, alcuni soggetti affetti da osteoartrite al ginocchio
applicarono alla parte dolorante, quattro volte al giorno, una formula con
capsaicina titolata allo 0,025%, altri applicarono una normale pomata. Dopo
due mesi, i pazienti trattati con capsaicina registrarono una apprezzabile
riduzione del dolore e, nell’arco di tre mesi, l’81% riferì una diminuzione
dei sintomi dell’artrite, tra cui la rigidità mattutina. Viceversa, solo il 54%
degli individui che ricevettero il placebo riferì un miglioramento. Lo studio
è stato pubblicato su Seminars in Arthritis and Rheumatism.
Dolore neuropatico. Uno studio realizzato presso l’Università della
California di San Francisco ha evidenziato che l’applicazione di una pomata
ad elevato contenuto di capsaicina riduceva significativamente il dolore
nevralgico (neuropatia) debilitante e cronico associato a svariate tipologie
di disturbi. Sette pazienti su dieci sperimentarono un miglioramento fino al
50%.
Uno studio pubblicato sul British Journal of Clinical Phaxmacology,
condotto su 200 pazienti che avevano subito lesioni ai nervi, ha dimostrato
che la pomata a base di capsaicina «riduce significativamente» il dolore
lancinante e la sensazione di formicolio e intorpidimento.
Nevralgia posterpetica. Il fuoco di Sant’Antonio (herpes zoster), che
tipicamente colpisce soggetti di mezza età o anziani, si manifesta con la
comparsa di vescicole su base eritematosa scatenata dallo stesso virus che
durante l’infanzia aveva provocato la varicella. In molte persone sofferenti
di herpes zoster, la riattivazione del virus produce danni a carico dei nervi
dando luogo a un quadro estremamente doloroso che può durare per
settimane (e talvolta anni) definito «nevralgia posterpetica». La FDA ha
approvato un cerotto cutaneo, commercializzato con il nome di Qutenza e
acquistabile su ricetta medica, contenente capsaicina sintetica pura e
concentrata per alleviare la nevralgia posterpetica.
Neuropatia diabetica. Nell’ambito di uno studio, un’équipe di ricercatori
ha assegnato in modo casuale una pomata a base di capsaicina e un placebo
per il trattamento di 250 persone affette da neuropatia diabetica, una
complicanza frequente del diabete che determina un danno nervoso sovente
a carico delle gambe e dei piedi. I pazienti che utilizzarono la pomata di
capsaicina registrarono una riduzione dei sintomi approssimativamente del
70%.
«Fatta eccezione per il temporaneo bruciore iniziale, la capsaicina offre
parecchi vantaggi rispetto agli analgesici orali», scrissero i ricercatori sulla
rivista Archives of Internal Medicine, menzionando tra questi la totale
sicurezza, un minor numero di effetti collaterali e un minor numero di
interazioni con altri farmaci.
Dolore cervicale. I medici dell’Ospedale Militare Walter Reed di
Washington D.C. hanno trattato 23 pazienti con cervicalgia cronica mediante
una pomata contenente capsaicina titolata allo 0,025% e prescrivendone
l’applicazione quattro volte al giorno. Dopo un mese, i medici sottoposero
ai pazienti un questionario; tra le domande vi era questa: «Se il dolore
tornasse e vi fosse data una scelta, scegliereste di utilizzare nuovamente la
pomata?». Il 75% dei pazienti rispose affermativamente. Lo studio fu
pubblicato sull’American Journal of Physical Medicine & Rehabilitation.
Mal di testa. In 52 persone sofferenti di emicrania a grappolo, la
capsaicina applicata sul naso ridusse drasticamente i sintomi dolorosi.
Secondo i risultati pubblicati sulla rivista Pain, il 70% dei pazienti aveva
tratto beneficio dall’applicazione di capsaicina sulla narice corrispondente
al lato del capo in cui si sviluppava l’emicrania.

BRUCIAMO I GRASSI CON IL PEPERONCINO

La piccantissima capsaicina innalza la temperatura corporea, aumenta la


sudorazione e accelera il ritmo metabolico, un effetto che ha aiutato molte
persone a perdere peso ed altre a prevenirne l’aumento. Mangiare
peperoncini può dunque favorire il calo ponderale in svariati modi.
Accelerazione del metabolismo. Diversi studi indicano che il consumo di
peperoncini aumenta la velocità con cui si bruciano calorie. L’effetto può
durare da 20 minuti a 6 ore.
Riduzione dell’appetito. In uno studio condotto da ricercatori olandesi, i
soggetti che assunsero un integratore di capsaicina prima dei pasti
mangiarono meno grassi e introdussero meno calorie. I risultati vennero
pubblicati sull’Intemational Journal of Obesity.
Nell’ambito di un altro studio, apparso sul British Journal of Nutrition, gli
individui che consumarono peperoncini a colazione provarono meno
appetito a pranzo e mangiarono meno, e quanti mangiarono peperoncini
durante l’aperitivo prima di cena mangiarono meno calorie e grassi durante
il resto del pasto.
Scioglimento del grasso durante l’esercizio fisico. Secondo quanto
riportato da uno studio giapponese pubblicato sul Journal of Nutritional
Science and Vitaminology, assumere un integratore a base di capsaicina
prima di fare dell’esercizio aerobico consente di bruciare più grasso.
Riduzione degli adipociti. In una ricerca condotta su animali, il consumo
alimentare di peperoncino ha ridotto il numero di adipociti e contribuito a
prevenirne la formazione di nuovi, anche nei soggetti nutriti con una dieta
iperlipidica.
Prevenzione delle complicanze dell’obesità. I ricercatori hanno scoperto
che la capsaicina è in grado di ridurre l’insulino-resistenza e prevenire la
steatosi epatica in soggetti animali, due condizioni prediabetiche
frequentemente riscontrate negli americani che adottano una dieta ad alto
contenuto di grassi e zuccheri.

UNA SPEZIA CHE SCALDA IL CUORE

Studi demografici condotti in tutto il mondo dimostrano che le popolazioni


dei paesi in cui si consuma peperoncino presentano una percentuale
inferiore di malattie cardiovascolari rispetto alle persone che vivono in
paesi in cui la cucina non è piccante. La scienza indica che mangiare più
peperoncini può contribuire a:
Prevenire la formazione di coaguli. Esaminando i rapporti clinici dei
paesi che consumano peperoncino, gli scienziati hanno notato un’incidenza
inferiore di embolie, ovvero condizioni determinate dalla presenza di
coaguli potenzialmente pericolosi nel circolo ematico che possono condurre
a infarti o ictus. Gli studi indicano che la capsaicina agisce come un
farmaco anticoagulante aiutando l’organismo a dissolvere la fibrina, una
sostanza che concorre alla formazione di coaguli.
Migliorare i livelli di colesterolo. Secondo uno studio riportato dal
British Journal of Nutrition, alcuni ricercatori australiani hanno osservato
che negli adulti sani che introducono circa 30 grammi di peperoncino nella
dieta quotidiana aumenta la resistenza ai lipidi ossidati che si vanno a
depositare sulle pareti delle arterie provocandone l’ispessimento. Un
ulteriore studio pubblicato su Phytotherapy Research indica che, in animali
da laboratorio, gli integratori di capsaicina riducono i livelli di colesterolo
LDL dannoso e aumentano quelli di colesterolo HDL che ha invece una
funzione protettiva.
Ridurre il ritmo cardiaco. Secondo uno studio apparso sull’European
Journal of Clinical Nutrition, gli adulti sani che consumano circa 30
grammi al giorno di peperoncini per almeno un mese presentano un ritmo
cardiaco a riposo (segno di un cuore più forte e sano) inferiore rispetto a
quanti seguono una dieta non piccante.
Prevenire le aritmie. Studi condotti su animali hanno evidenziato che la
capsaicina riduce la tachicardia ventricolare e la fibrillazione ventricolare,
due gravi irregolarità del battito cardiaco che possono mettere a repentaglio
la vita. Secondo tali studi, pubblicati sull’European Journal of
Pharmacology, la capsaicina esplica un’azione simile ai calcioantagonisti,
ossia i farmaci prescritti nel trattamento di tali disturbi.
Ridurre il danno post-infarto. Nell’ambito di un esperimento condotto
su animali, i ricercatori hanno osservato che la capsaicina riduce il danno
arrecato alle cellule cardiache in seguito a un infarto. Riferendo i risultati
sulla rivista Circulation, i ricercatori ritengono che la capsaicina protegga il
cuore stimolando i nervi del midollo spinale, i quali a loro volta attivano i
nervi del muscolo cardiaco che garantiscono la sopravvivenza.

Una passione per il dolore

Stiamo parlando di quelle rare persone che non riescono a mangiare


costine o pollo se non abbondantemente conditi con una salsa infuocata
contenente almeno IO peperoncini e poi chiedono ancora il bis, oppure di
coloro che affondano i denti in un naga jolokia, uno dei peperoncini più
piccanti del pianeta, e proseguono come se nulla fosse.
Si dice che il gusto per il peperoncino sia un piacere acquisito, ma avere la
tenacia di testarne la «temperatura» e aumentare sempre più il livello di
piccantezza è una vera e propria dipendenza. Esistono migliaia di amanti
del peperoncino che si mettono alla prova e si sfidano l’un l’altro a salire un
gradino più su, quasi fosse una gara alla conquista dell’Everest. Esiste
persino un metodo scientifico per tenere traccia dei punti: la Scala di
Scoville.
La Scala di Scoville misura i livelli di capsaicina presenti in un
peperoncino sulla base della quantità di acqua zuccherata necessaria per
diluirne la piccantezza finché non diventa impercettibile e raggiunge il
livello di un comune peperone dolce. Un milione di gocce d’acqua sposta
l’indice verso l’alto di 1,5 unità. Ciò colloca il peperone dolce su un valore
0 e la capsaicina pura al 100% su un valore pari a 16 milioni di unità. La
sensazione di autentico dolore inizia intorno alle 100.000 unità e sale fino a
750.000. Un jalapeño, ad esempio, si attesta tra le 2.500 e le 8.000 unità; il
tabasco, nonché la salsa omonima, e il peperoncino di Cayenna (usato nella
maggior parte della ricerca medica) vanno dalle 30.000 alle 50.000 unità.
La varietà Scotch Bonnet adoperata nel jerk giamaicano si aggira tra le
150.000 e le 325.000, mentre i Bird’s Eye, i peperoncini impiegati nella
preparazione della salsa piripiri portoghese e dell’harissa tunisina fanno il
loro ingresso tra le 100.000 e le 225.000 unità. Si ritiene che il peperoncino
più piccante in assoluto sia il naga jolokia proveniente dall’India che, su
tale scala, batte tutti superando I milione di unità Scoville. Dei vari
peperoncini in cui ci si può verosimilmente imbattere, l’habanero arancione
è uno dei più piccanti, attestato tra le 150.00 e le 325.000 unità.Tuttavia,
qualche anno fa, è stato creato un ibrido dell’habanero denominato Red
Savina, il quale è passato in testa alla classifica sfondando il tetto delle
500.000 unità!

LA CAPSAICINA E LA PREVENZIONE DEI TUMORI

Dai reperti di decine di studi, inclusi quelli eseguiti nel mio laboratorio
presso il Centro Oncologico M.D. Anderson, risulta che la capsaicina provoca
la morte delle cellule tumorali in soggetti animali e colture di cellule
umane. A onor del vero, i primi studi sul cancro e il peperoncino avevano
prodotto risultati discordanti; alcuni suggerivano che il consumo di
peperoncino era addirittura responsabile di determinati tipi di neoplasie, tra
cui il tumore del colon. Tuttavia, è stato provato che la capsaicina reperibile
in commercio e utilizzata nei primi studi poteva essere stata contaminata da
impurità potenzialmente cancerogene, mentre la ricerca più recente e quella
tuttora in corso impiega capsaicina pura.
Un’ulteriore divergenza sorse quando i ricercatori dell’Università dello
Utah trovarono una correlazione tra il consumo alimentare di peperoncino e
un’elevata incidenza di tumori gastrici nei messicani emigrati in America e
nelle comunità Cajun e creole degli Stati Uniti. Tuttavia, tale situazione non
è data in tutte le nazioni in cui si mangia peperoncino, per cui sono più
propenso a credere (e con me numerosi altri scienziati) che vi sia
qualcos’altro nella dieta di tali individui che sta incrementando il rischio
tumorale. Inoltre, come leggerete fra poco, i peperoncini di fatto fanno bene
allo stomaco.
La verità è che, nell’ultimo decennio, circa un centinaio studi in vitro e in
vivo condotti su animali hanno evidenziato una forte correlazione tra
consumo di peperoncino e prevenzione dei tumori, tra cui quelli a carico del
seno, dell’esofago, dello stomaco, del fegato, della prostata, del cervello e
le leucemie.
Carcinoma della prostata. Nel corso di un esperimento, i ricercatori del
Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles osservarono che la capsaicina
aveva indotto la morte delle cellule tumorali, in una percentuale pari
all’80%, in animali affetti da car cinoma della prostata farmacologicamente
indotto, e le dimensioni delle masse tumorali residue erano
circa un quinto di quelle osservate nei topi non trattati. La capsaicina
aveva inoltre ridotto i livelli di antigene prostatico specifico (PSA), un
bioindicatore che segnala la presenza di un tumore maligno nell’individuo
maschio. Il dottor H. Philip Koeffler, primario del reparto di ematologia e
oncologia del Cedars-Sinai, dichiarò che non è da escludere che la
capsaicina possa essere impiegata in futuro per prevenire le recidive del
carcinoma della prostata negli uomini già colpiti da tale patologia.
Carcinoma mammario. L’équipe del Cedars-Sinai sta riscontrando un
analogo successo per quanto riguarda il cancro al seno. Secondo la rivista
Oncogene, la capsaicina avrebbe inibito cellule di carcinoma umano della
mammella in esperimenti in vitro e ridotto la massa tumorale del 50% in
animali da laboratorio. I ricercatori riferiscono che la capsaicina «può
essere potenzialmente impiegata nel trattamento e nella prevenzione del
carcinoma mammario umano».

Come estinguere il «fuoco»

Afferrare un bicchier d’acqua è la peggior cosa che si possa fare se avete


la bocca rovente a causa del peperoncino. Il motivo è che il peperoncino
non è solubile in acqua, anzi: questa ravviva ancor più il bruciore.
I grassi e l’alcol sono le uniche sostanze in grado di ridurre la sensazione,
sebbene siano efficaci solo in misura ridotta. La birra, il latte, il burro di
arachidi e il gelato funzionano meglio.
Non strofinatevi mai gli occhi o il viso dopo avere toccato del
peperoncino, poiché il residuo oleoso rimasto sulle dita è irritante e provoca
un bruciore che può protrarsi persino per diverse ore. Qualora capitasse,
sciacquate ripetutamente gli occhi con acqua fresca o una soluzione salina
finché il bruciore non accenna a diminuire.
Se la pelle brucia o è irritata dal contatto con il peperoncino, lavatela con
acqua e sapone o strofinatela con dell’alcol, poi tamponatela con un
batuffolo di cotone imbevuto di latte intero.

BUONO PER LO STOMACO

I peperoncini hanno la pessima reputazione, peraltro assolutamente falsa,


di provocare nello stomaco lo stesso bruciore che danno in bocca. Gli studi
hanno dimostrato l’esatto contrario, cioè non provocano ulcere né
emorroidi. Ecco ciò che sappiamo.
Ulcere. Sorpresa! Non solo il peperoncino non provoca ulcere ma di fatto
contribuisce a prevenirle.
«Le ricerche condotte negli ultimi anni hanno rivelato che il peperoncino e
la capsaicina (il suo principio attivo) non sono causa di formazione di
ulcere ma un fattore di beneficio», scrive un’équipe di ricercatori indiani su
Critical Reviews in Food Science and Nutrition. «La capsaicina non stimola
bensì inibisce la secrezione acida, stimola la produzione di agenti basici, la
secrezione di muco e, in particolare, il flusso ematico della mucosa gastrica,
fattori che contribuiscono a prevenire e rimarginare le ulcere».
Sulla rivista Digestive Diseases and Sciences, alcuni ricercatori della
Malesia hanno dichiarato che gli individui privi di ulcera mangiano 2,6
volte più peperoncino rispetto a quanti sviluppano un’ulcera, mentre
un’équipe di ricercatori coreani ha riscontrato che la capsaicina è tanto
potente da uccidere l’Helicobacter pilori, il batterio che figura come causa
principale delle ulcere gastriche.
Da ricerche condotte su animali a Singapore è emerso che dosi
equiparabili al consumo tipico di peperoncino fatto da un uomo proteggono
il rivestimento delle pareti gastriche dai danni associati all’alcol. Un altro
studio è giunto a risultati analoghi per quanto riguarda disturbi di stomaco
correlati all’abuso di aspirina.
Sempre a Singapore, secondo uno studio condotto su animali e pubblicato
sul Journal of Gastroenterology and Hepatology, è stato osservato che
l’assunzione a lungo termine di peperoncino protegge lo stomaco da
ulcerazioni da stress acuto, una complicanza seria in pazienti gravemente
malati che sovente provoca emorragie gastriche.
Indigestione. Riferendo i propri risultati sul New England Journal of
Medicine, alcuni ricercatori italiani hanno osservato che 2,5 grammi di
peperoncino rosso in polvere al giorno riducono la sintomatologia in
persone affette da dispepsia funzionale, un disturbo cronico della digestione
ad eziologia ignota e con sintomi simili a quelli dell’indigestione. Entro la
terza settimana di trattamento, i soggetti affetti da dispepsia riferivano un
miglioramento dei sintomi del 60%.

ALTRE SCOPERTE «PICCANTI»

Psoriasi. Diversi studi hanno evidenziato che la pomata contenente


capsaicina contribuisce a ridurre l’arrossamento e il prurito della psoriasi,
un disturbo cutaneo cronico su base infiammatoria per cui non esistono cure
note.
Nell’ambito di uno studio, ad alcuni soggetti affetti da psoriasi più o meno
grave venne applicata per diversi giorni una crema con un contenuto di
capsaicina titolato allo 0,01 o allo 0,025% su un lato del corpo e sull’altro
un placebo. In capo a sei settimane la pomata alla capsaicina aveva ridotto
del 68% la desquamazione, l’arrossamento e l’edema rispetto al 44%
imputato alla pomata placebo. Lo studio fu pubblicato sul Journal of the
American Academy of Dermatology.
Diabete di tipo 2. Secondo uno studio australiano comparso
sull’American Journal of Clinicad Nutrition, la quantità di insulina
necessaria ad abbassare la glicemia dopo un pasto risultava inferiore nei
soggetti che avevano mangiato del peperoncino rispetto a quelli che
avevano consumato un pasto non piccante.

ALLA SCOPERTA DEL PEPERONCINO

Il peperoncino è la spezia di cui si registra il maggiore consumo, tant’è che


in tutto il mondo si mangia peperoncino in quantità venti volte superiori a
qualsiasi altra spezia!
Milioni di persone hanno una tale passione per il piccante che esistono
centinaia di club e siti web dedicati agli irriducibili del peperoncino in cui
possono scambiarsi reciprocamente desideri e ricette; esistono poi almeno
due riviste specializzate che non scrivono d’altro che di peperoncino, una
mini-industria di salse piccanti assolutamente decisa ad appiccare il fuoco
ai palati dei consumatori, e persino un istituto internazionale no-profit
dedicato alla preservazione dei codici genetici di tutte le specie di
peperoncino e contemporaneamente alla produzione di varietà sempre più
piccanti. È un fatto sconcertante da comprendere, ma esistono oltre 3000
varietà di peperoncini.
È così difficile immaginare la cucina indiana senza i peperoncini che
solitamente si crede abbiano origini indiane. I peperoncini, invece,
provengono dal continente americano. Cristoforo Colombo li «scoprì»
lungo la rotta segreta che lo fece approdare sulle coste americane durante
l’affannosa ricerca della terra del pepe nero (informazione che gli arabi
tennero nascosta per secoli agli europei). Colombo dunque non trovò il
pepe (era 8000 chilometri distante dall’India), ma si imbattè nel «pepe
rosso», il peperoncino appunto. Quando il grande navigatore lo riportò con
sé in Spagna, fece immediatamente scalpore e venne battez- zi zato il «pepe
dei poveri». In ogni caso, fu forse uno dei doni più preziosi che il Nuovo
Mondo offrì al Vecchio Continente.
Entro il XVII secolo, il peperoncino era ormai noto in tutto il pianeta e
oggigiorno svolge un ruolo fondamentale nelle culture gastronomiche di
India, Africa, Asia, Caraibi, Messico, America Centrale e gli stati del sud e
del sud-ovest degli Stati Uniti. Il peperoncino conferisce piccan-tezza ai
curry dell’India meridionale, ai jerk giamaicani, alle salse e ai moles
messicani, i sambal della Malesia, il kimchi coreano, il rendang
indonesiano, il nam prik tailandese, l’harissa nordafricana e il piripirì
portoghese. Figura inoltre in svariate miscele di spezie, condimenti e salse.
Esistono oltre 3000 varietà di peperoncini, e quanto più piccolo e rosso è il
peperoncino, tanto più è piccante.
I Cajun, i creoli e i giamaicani (ma anche molti altri) fanno letteralmente a
gara per vedere chi riesce a creare le salse più infuocate; sono disponibili in
numerose varietà e gradazioni di piccantezza, e vengono adoperate come
condimento in tutta l’area dei Caraibi e negli Stati Uniti del sud, dalla
Louisiana all’Arizona.
Il Messico è celebre per la sua cucina piccante, e a ragione. Quella
messicana è la cultura del peperoncino più avanzata e si dice che i
messicani abbiano il palato più raffinato al mondo per sviluppare ricette a
base di peperoncino. Sono dei veri maestri nell’uso di una straordinaria
varietà di peperoncini freschi ed essiccati per conferire sapore, aroma,
consistenza, colore e piccantezza del tutto peculiari a un’intera gamma di
piatti. Il solo Messico è la patria di oltre 150 differenti varietà di
peperoncino e, grazie alla proliferazione dei ristoranti messicani negli Stati
Uniti, negli anni Ottanta le salse tex-mex hanno sottratto al ketchup il
primato di condimento preferito dagli americani.
Anche l’India può contare su un’infinita varietà di peperoncini, ognuno
con un aroma, un sapore e una piccantezza del tutto particolari. I
peperoncini verdi moderatamente piccanti vengono cucinati al burro con
pomodori, melassa e altre spezie in una vera ghiottoneria chiamata mirchi ki
bhaji. I peperoncini vengono inoltre farciti di spezie tostate e macerati in
olio di senape per preparare il mirch ka achar, da sempre un cavallo di
battaglia della gastronomia indiana da consumarsi con pane fritto. I curry
neri dello Sri Lanka contengono peperoncini Bird’s Eye, probabilmente i
più piccanti al mondo, nonché peperoncini rossi di Cayenna. Gli indiani
tipicamente stemperano il piccante servendo come accompagnamento
contorni rinfrescanti, detti raita, spesso a base di cetrioli e yogurt o piatti di
riso.
I peperoncini danno mordente anche alle cucine cinesi Sichuan e Hunan.
Una delle pietanze più piccanti è il pollo Kung pao, la cui salsa di fagioli
contiene abbastanza peperoncino da stuzzicare le papille gustative anche del
più satollo divoratore di peperoncino.
I peperoncini rivestono importanza anche nella cucina caraibica poiché
aggiungono carattere a cibi di base ricchi di amido e altrimenti insapori
come il riso con piselli, i fagioli, i cereali e la manioca. Stimolano inoltre la
sudorazione che funge da «condizionatore d’aria» naturale sotto il sole
implacabile di quei luoghi.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

I peperoncini sono bacche caratterizzate da una buccia spessa e lucida che


racchiude una cavità in cui si nasconde un rivestimento membranoso pieno
di semi. I frutti del peperoncino sono disponibili in un vasto assortimento di
forme, colori e gradi di piccantezza. Le dimensioni possono andare da meno
di 2 centimetri a 20 centimetri e oltre. Ma ce un dettaglio importante:
quanto più il peperoncino è piccolo, tanto più è piccante.
I peperoncini si trovano in commercio freschi, essiccati interi o
sminuzzati, in polvere, in scatola o in barattolo e sott’aceto. Sul mercato
sono reperibili diverse varietà, ma i peperoncini disponibili sia freschi che
essiccati tipicamente dipendono dalla zona, dai negozi e dalle comunità
etniche insediate nella regione.
I peperoncini freschi sono verdi finché non giungono a maturazione,
dopodiché diventano rossi, gialli, marroncini, viola o neri. Quando
acquistate peperoncini freschi, assicuratevi che il frutto sia consistente ed
abbia una buccia esterna liscia, lucida e di un bel colore brillante. Devono
essere sodi e pesanti, non flosci né ammaccati sulla punta o scoloriti. Il
raggrinzimento della buccia è segno che hanno cominciato a seccare o non
sono maturati sulla pianta, per cui è meglio evitarli.
I peperoncini freschi possono essere conservati in frigorifero per circa due
settimane. Avvolgeteli in un foglio di carta da cucina o metteteli in un
sacchetto di plastica lasciandolo parzialmente aperto. Possono anche essere
congelati in una apposita busta sigillata da freezer.
Se passibile, acquistate il tipo di peperoncino indicato nella ricetta.
Sebbene vada sempre bene sostituire un tipo con un altro, ricordate che
ognuno ha un suo sapore caratteristico ben riconoscibile nel risultato finale.
Ma soprattutto esiste una enorme differenza di sapore tra il peperoncino
fresco e quello essiccato, anche se la piccantezza non varia. Alcuni l’hanno
paragonata alla differenza che passa fra un pomodoro fresco e uno secco. Il
processo di essiccazione fonde gli zuccheri e altre sostanze, per cui il
peperoncino secco sviluppa un aroma più complesso. Se mentre cucinate
sostituite il peperoncino fresco con quello secco, o viceversa, aspettatevi un
sapore decisamente diverso.
I messicani considerano tale differenza di gusto talmente importante da
dare nomi diversi allo stesso tipo peperoncino fresco o essiccato. Ad
esempio, il poblano viene chiamato ancho se essiccato mentre il jalapeno
affumicato viene detto chipotle.
È più probabile che troviate una maggiore varietà acquistando peperoncini
essiccati: molti negozi ben fomiti espongono un’infinita varietà di sacchetti
di cellofan; potreste addirittura trovare una ghirlanda di peperoncini interi
essiccati, detta ristra, ancora appesa sul filo dove è stata posta a seccare. I
peperoncini essiccati hanno un aspetto diverso a seconda della varietà ma,
in ogni caso, cercate quelli che hanno ancora un bel colore vivido; se hanno
perso colore, è probabile che abbiano perso anche parte del sapore. I
peperoncini essiccati si conservato indefinitamente in un luogo asciutto e
lontano dalla luce.
Il peperoncino macinato viene prodotto principalmente per l’impiego in
miscele di spezie e per comodità accanto ai fornelli. Nei supermercati è
disponibile in due varietà: il peperoncino rosso in polvere e il peperoncino
Cayenna.
In America, il comune peperoncino in polvere non è peperoncino puro
bensì viene preparato macinando peperoncini misti ad altre spezie, ad
esempio cumino, origano e sale, e tipicamente viene consigliato per
ravvivare il gusto del chili con carne. Non illudetevi che sia peperoncino
puro a meno che non sia indicato sulla confezione.
Il peperoncino Cayenna in polvere è invece peperoncino puro macinato,
ottenuto dal peperoncino rosso lungo di Cayenna. Anche questo è molto
piccante e lo si può trovare nel reparto spezie di qualsiasi supermercato.
Molti negozi specializzati offrono altre varietà di peperoncino in polvere in
varie gradazioni di piccantezza. Il peperoncino ancho macinato, ad
esempio, è meno piccante di quello di Cayenna, ed è molto diffuso nella
cucina messicana. Il livello di piccantezza dei peperoncini in polvere varia a
seconda della percentuale di semi inclusi nella macinatura. Le varietà più
piccanti hanno un colore più arancione che rosso. I negozi di prodotti
asiatici, indiani e latini vendono peperoncini selezionati in polvere
confezionati in sacchetti.
I peperoncini vengono coltivati in tutto il mondo ma le piantagioni
principali si trovano in Messico, California, Texas, Nuovo Messico,
Arizona, Thailandia, India, Caraibi, Africa e Asia. Si stima che l’India sia il
maggiore produttore di peperoncini al mondo. Oltre ai jalapeno, i
peperoncini anchos del Messico e gli anaheim di Nuovo Messico e
California sono le varietà più comunemente adoperate negli Stati Uniti.

Il peperoncino può contribuire a prevenire e/o curare:

Cefalea tensiva Indigestione


Colesterolo Psoriasi
Diabete di tipo 2 Tumori
Ulcera Ictus
Osteoartrite Malattie cardiovascolari

IL PEPERONCINO IN CUCINA

Nonostante la sua piccantezza, il peperoncino conferisce un gusto


importante al cibo. Nondimeno, non dovrebbe mai essere adoperato da solo
come spezia, bensì come base portante per altri aromi, e si abbina
praticamente a qualsiasi assortimento di spezie.
Non è possibile privare il peperoncino della sua piccantezza ma è possibile
attenuarla scartando i semi e tagliando via le membrane interne, ossia le due
sedi in cui si concentra il piccante. Le membrane sono più piccanti dei semi
e si raggruppano in prossimità del picciolo, che risulta essere pertanto la
parte più forte del peperoncino. Per dare un sapore più dolce ai piatti, lavate
e asciugate il peperoncino, eliminate il picciolo e tagliate il frutto nel senso
della lunghezza con uno spelucchino ben affilato sotto l’acqua corrente.
I peperoncini interi essiccati andrebbero fatti rinvenire in acqua calda per
circa 20 minuti o finché non diventano sufficientemente morbidi e flessibili;
quindi, si può procedere a tagliarli e adoperarli secondo le indicazioni della
ricetta. È possibile rimuovere i semi del peperoncino essiccato spezzando il
frutto e dando dei colpetti per far fuoriuscire i semi.
Un avvertimento: la capsaicina è volatile e può provocare bruciore se
viene a contatto con la pelle. Indossate sempre dei guanti di plastica o
gomma quando manipolate qualsiasi peperoncino, e assicuratevi di non
toccarvi gli occhi né altri punti della pelle scoperti. Il bruciore provocato
dall’habanero, ad esempio, è così intenso che può causare la formazione di
vesciche sulla pelle, come è già successo nel caso di persone
particolarmente sensibili. Inoltre, evitate di aspirarne i vapori.
In condizioni ideali, per lavorare i peperoncini bisognerebbe disporre di un
coltello e un tagliere dedicati poiché, anche dopo il lavaggio, sulla
superficie degli utensili rimangono residui di capsaicina. Se eliminate i semi
e gli scarti dei peperoncini nel tritarifiuti, assicuratevi di lavarlo
successivamente con acqua molto fredda. L’acqua calda produce una
reazione violenta per cui i vapori irritanti si diffondono nell’aria; non per
altro, la capsaicina viene utilizzata negli spray al pepe per autodifesa.
Se avete qualche esitazione a cucinare con il peperoncino, iniziate sempre
con dosi minori: è sempre possibile aumentare la piccantezza ma difficile
(anche se non impossibile) ridurla. Se un piatto risulta troppo piccante,
aggiungete un poco di zucchero, latte o panna. Una vecchia diceria afferma
che mettere una patata intera nella pentola per mezz’ora assorbe parte del
piccante.
I peperoncini essiccati possono essere adoperati interi nelle preparazioni a
cottura lenta; in tal modo il piccante filtra lentamente e si lega al cibo. È
anche possibile metterli a bagno in acqua calda per ammorbidirli e poi
inciderli con un coltello affilato prima di aggiungerli in pentola.
Per intensificare il sapore dei peperoncini secchi, tostateli a secco prima di
metterli a bagno. Lo stesso effetto si può ottenere mettendoli sotto il grill.
Per conferire una piccantezza moderata ai piatti cotti a fuoco lento,
praticate delle incisioni su un peperoncino fresco intero e aggiungetelo al
cibo durante la cottura, quindi scartate il peperoncino prima di servire.
La sperimentazione di nuove ricette al peperoncino non è mai motivo di
noia: grazie alle numerosissime varietà, il peperoncino offre un’avventura
gastronomica infinita.
Pimento. Un medicamento completo

Il termine inglese per il pimento è «allspice», che letteralmente significa


«tutte le spezie», e non esiste nome più indicato per una spezia il cui sapore
ed aroma rassomiglia a quello di tante altre.
Se sottoposto a un test olfattivo alla cieca, il pimento è stato più volte
erroneamente identificato con la noce moscata, la cannella, il pepe nero e la
bacca di ginepro, ma più frequentemente viene scambiato per un chiodo di
garofano. La cosa non è affatto sorprendente poiché il pimento deriva il suo
ricco e fragrante aroma da un olio volatile detto eugenolo, la stessa sostanza
che rende l’olio di chiodi di garofano un ben noto desensibilizzante.
L’eugenolo, tuttavia, non è l’unico elemento a cui imputare la fama di
spezia medicinale attribuita al pimento. Esso contiene infatti oltre due
dozzine di composti che esplicano una gamma di azioni terapeutiche ben
più vasta, rendendolo un rimedio assolutamente versatile.

LA SALUTE VIEN DALLA GIAMAICA

Se avete mai messo piede sull’isola tropicale della Giamaica, avrete


sicuramente conosciuto il pimento nella sua massima espressione, cioè il
jerk, il vivace segreto dello stile culinario che costituisce la firma
gastronomica di tale paese. Il pimento è ciò che dà brio al «jerk chicken»
(pollo) e al «jerk pork» (maiale), mentre i 10 peperoncini Scotch Bonnet
contenuti in questa salsa infuocata sono ciò che conferisce al piatto la sua
piccantezza. Anche la migliore ricetta casalinga non riesce a competere con
il sapore del jerk giamaicano poiché la cottura lentissima, così come viene
eseguita nelle bancarelle che si scorgono lungo le strade di tutto il paese,
avviene su braci aromatizzate con il legno e le foglie dell’albero che
produce le bacche di pimento. Questo piccolo sempreverde arbustivo ha un
debole per il terreno sabbioso della Giamaica e non cresce in grandi
quantità altrove; per questo motivo è difficile imbattersi in un autentico jerk
in qualunque altra parte del mondo.
Il pimento costituisce il segreto del «jerk», un vero e proprio stile culinario
e specialità gastronomica della Giamaica.
Quando Cristoforo Colombo sbarcò in Giamaica nel 1494 e «scoprì» per
la prima volta le bacche di pimento essiccate, pensò tutto eccitato di avere
trovato il pepe nero, cosa che all’epoca equivaleva a una vincita milionaria
al lotto, se si considera che il pepe veniva utilizzato addirittura come valuta
negli scambi commerciali. Fu uno scambio di identità in buona fede, che
tuttavia non mitigò l’inevitabile delusione. Le bacche di pimento intere
assomigliano in effetti al pepe nero: hanno solo dimensioni leggermente più
grandi e una sfumatura bruno-rossastra più intensa. Dal punto di vista
medicinale, il pimento possiede qualità antivirali e antibatteriche che lo
rendolo un efficace antinfettivo e, grazie alle proprietà analgesiche e
anestetiche, è in grado di alleviare in certa misura il dolore. I gia maicani
furono i primi a utilizzarlo come rimedio popolare per moderare la
virulenza di un raffreddore, attenuare i dolori di stomaco, regolare il ciclo
mestruale e ridurre i sintomi di indigestione, flatulenza ed altri disturbi
digestivi.
Durante l’invasione napoleonica delFinvemo del 1812, i soldati russi
approfittarono delle sue qualità stimolanti (riscaldanti), sminuzzandolo e
mettendolo negli stivali per migliorare la circolazione sanguigna e tenere
caldi i piedi. Per le proprietà antimicotiche è annoverato tra i rimedi
casalinghi per il piede d’atleta: basta ridurre il pimento in polvere e
cospargerlo tra le dita. Impiegato come olio essenziale (olio di pimento), la
sua azione antinfiammatoria contribuisce ad alleviare i dolori muscolari e
l’artralgia dell’artrite reumatoide.

UN POTENTE ANTIOSSIDANTE

Il pimento è ricchissimo di antiossidanti. Un’équipe di ricercatori


giapponesi ha scoperto che queste piccole bacche contengono ben 25 fenoli,
una categoria di antiossidanti attivi. Tra questi figurano l’acido ellagico,
l’eugenolo e la quercetina, tutte sostanze che combattono il danno
ossidativo a carico delle cellule che può condurre a tumori, malattie
cardiovascolari, morbo di Alzheimer ed altre condizioni croniche. Ma il
pimento pare avere altri poteri curativi.
In tre studi distinti, alcuni ricercatori della Costa Rica riscontrarono che
tale spezia riduceva l’ipertensione in animali da laboratorio. A tale
proposito, si ipotizza che il pimento agisca rilassando il sistema nervoso
centrale e aumentando il flusso ematico arterioso.
Recentemente, altri ricercatori hanno confermato ciò che gli erboristi
costaricani sapevano già da secoli, ovvero che il pimento contribuisce ad
alleviare i sintomi della menopausa. Gli studiosi stavano esaminando il
pimento ed altre 16 specie vegetali impiegate in ambito erboristico quali
possibili alternative naturali alla terapia ormonale sostitutiva, la quale
aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e determinati tipi di tumore.
Sebbene si tratti di una ricerca preliminare, gli scienziati ritengono che il
pimento possa costituire una alternativa fattibile nel trattamento e nella
gestione della menopausa e dell’osteoporosi.

Difficile da riprodurre

Il gusto del pimento è dolcemente pungente con un che di pepato, un


sapore complesso e diffìcile da uguagliare. Ad esempio, ogni qualvolta in
cucina mancano cannella, chiodi di garofano o noce moscata, una quantità
equivalente di pimento diventa un perfetto sostituto; viceversa, se sono le
scorte di pimento ad esaurirsi, nessun’altra spezia presa singolarmente farà
al caso. Per ottenere un sostituto accettabile del pimento, è possibile
combinare I parte di noce moscata e, rispettivamente, 2 parti di cannella e di
chiodi di garofano in polvere.

ALLA SCOPERTA DEL PIMENTO

Benché non ve ne rendiate conto, è probabile che conosciate già bene tale
spezia. E un aroma naturale comunemente utilizzato in bevande gassate,
chewing gum, ketchup, salse da barbecue, pàté, terrine di carne, pesce
affumicato e carni in scatola. Potreste persino esservelo spruzzato addosso:
il pimento, infatti, viene abitualmente impiegato per dare fragranza a
cosmetici e persino deodoranti; se sull’etichetta di uno di questi prodotti
viene indicato «spezia», potete scommettere che si tratta del pimento.
Il pimento viene altresì adoperato per aromatizzare i liquori benedettini e
le chartreuse, e se avete mai provato il liquore giamaicano chiamato
pimento dram, avete bevuto del rum aromatizzato al pimento.
Tale spezia è un ingrediente comune nei curry, nelle droghe per vini
speziati e, ovviamente, nel jerk. Tuttavia è maggiormente noto come agente
conservante: i giamaicani impiegavano il pimento per conservare la carne
appena macellata e il pesce pescato molto prima che Cristoforo Colombo lo
«scoprisse» e lo riportasse con sé in Spagna. Oggi il pimento figura tra gli
ingredienti principali del pescado en escabeche spagnolo, ossia pesce fritto
e poi marinato in olio, aceto e bacche di pimento intere. I marocchini lo
utilizzano nelle tajine – pietanze a base di carni in umido sottoposte a lenta
cottura in speciali piatti di terracotta – e in Medio Oriente è un ingrediente
fondamentale del kibbeh, un piatto a base di bulgur e carne trita.
I messicani lo usano per aromatizzare il cioccolato, una consuetudine che
risale agli antichi maya, ed è un ingrediente essenziale del recado rojo, una
mistura di spezie macinate nonché un condimento popolare nelle cucine
tradizionali di Porto Rico e dello Yucatan messicano.
Negli Stati Uniti, viene più comunemente impiegato nei dessert ed è
l’ingrediente che conferisce alla torta di zucca il suo caratteristico aroma.
Insieme al cioccolato è l’ingrediente segreto del chili «stile Cincinnati», che
prende il nome dalla città che vanta il maggior numero di locali
specializzati in chili di qualsiasi altra zona degli Stati Uniti.
Benché il pimento non abbia mai raggiunto lo status di spezia
particolarmente ambita in Europa, i tedeschi ne fanno ampio uso: lo
utilizzano per aromatizzare piatti di pesce e carne e nella preparazione di
salsicce. Inoltre, è una delle quattro spezie del mix francese noto come
quatre épices, mentre gli inglesi lo adorano nelle torte di frutta. Gli
scandinavi possono contare sul pimento per la preparazione di aringhe
marinate; le piccole palline scure che si vedono nei barattoli di aringhe non
sono pepe, come comunemente si crede, bensì pimento. Colombo non fu
dunque l’unico ad essere ingannato da Madre Natura.
Il pimento può contribuire a prevenire e curare: disturbi della menopausa,
pressione alta (ipertensione).

CONSIGLI PER L’ACQUISTO


Il pimento è l’unica spezia originaria dell’emisfero occidentale. Sebbene
sia nativa della Giamaica, l’albero del pimento può crescere allo stato
selvatico nelle foreste pluviali dell’America Meridionale e Centrale. Ne
rimangono tuttavia pochi, in quanto la maggior parte fu abbattuta per
raccoglierne le bacche e gli sforzi compiuti per seminarli nuovamente sono
stati piuttosto fallimentari.
La lavorazione del pimento costituisce la principale industria giamaicana e
il pimento giamaicano è considerato superiore alla spezia prodotta in
Guatemala ed altri paesi dell’America Centrale e Meridionale. Il risultato
migliore in termini di aroma si ottiene acquistando le bacche intere, e
macinando da sé la spezia in piccole quantità. Noterete sicuramente la
differenza soprattutto nelle ricette al forno.
Il pimento in bacche intere dura molto a lungo e si conserva per vari anni
se tenuto in un luogo asciutto e lontano dalla luce. Una volta macinato
perde gradualmente il suo aroma intenso, per cui è meglio prepararne una
quantità non superiore a quella che si prevede di utilizzare nel giro di pochi
mesi.
Pomodoro secco. Il custode della salute maschile

Il pomodoro ha sempre disorientato i botanici fin dal momento in cui


iniziarono a classificare le piante del giardino di Madre Natura: è un frutto o
un ortaggio? Persino oggi, nel XXI secolo, la confusione persiste. I botanici
lo definiscono un frutto mentre i consumatori lo riconoscono come
ortaggio. Ebbene, talvolta il pomodoro può non essere nessuna delle due
cose, per lo meno quando viene fatto seccare. In tal caso è una spezia.
I pomodori sono ufficialmente «secchi» quando tutta l’umidità contenuta
viene eliminata lasciandoli essiccare al sole. Al tempo stesso, tutti i principi
nutritivi vengono trattenuti e forniscono una dose superconcentrata di tutte
le vitamine, i minerali e gli agenti fitochimici salutari per cui il pomodoro è
giustamente lodato. Tra le sostanze di maggior spicco c’è il licopene, il
pigmento che fornisce al pomodoro il suo colore rosso. Il licopene è anche
il membro più potente della formidabile famiglia di antiossidanti noti come
carotenoidi. Gli antiossidanti svolgono una funzione cruciale nella salute
dell’uomo poiché contribuiscono a proteggere l’organismo dai danni causati
dalle specie reattive dell’ossigeno (in sigla, ROS), ossia molecole che
danneggiano le cellule favorendo le malattie, prodotte in quantità abnormi
da numerosi fattori della vita odierna, come l’inquinamento ambientale, una
dieta ad alto contenuto di zuccheri o grassi e il fumo passivo.
Al contrario di altri nutrienti, il licopene non viene sintetizzato
dall’organismo umano; il cibo è la nostra unica fonte, e l‘85% del licopene
fornito dal regime dietetico deriva dai pomodori e dai prodotti alimentari a
base di pomodoro. Benché nulla possa eguagliare il gusto e il piacere
succoso di un pomodoro maturo appena staccato dalla pianta in estate, a
parità di peso si ottiene una quantità maggiore di licopene dai pomodori
secchi. Quando i ricercatori analizzarono una vasta gamma di prodotti
alimentari a base di pomodoro per stabilire quale fosse quello che
presentava il contenuto di licopene più alto, il pomodoro secco risultò di
gran lunga il più ricco. Ma questo è tutt’altro che sorprendente se si
considera che ci vogliono ben 10 pomodori freschi per produrre 30 grammi
di pomodori secchi.
UNA PROTEZIONE CONTRO IL CANCRO DELLA PROSTATA

Il licopene destò per la prima volta l’interesse degli scienziati americani


circa una trentina di anni fa, quando alcuni studi dimostrarono che il tasso
di mortalità riconducibile a qualsiasi tipologia di cancro era inferiore negli
anziani in cui l’apporto alimentare di pomodori era particolarmente elevato.
Tuttavia, tale nutriente essenziale acquistò notorietà quando gli studi
scientifici iniziarono a esibire prove del fatto che poteva contribuire a
proteggere gli uomini dal cancro alla prostata.
Fino ad oggi sono state condotte decine di studi sul pomodoro, sul
licopene e sul carcinoma prostatico. I risultati non sono sempre concordi,
tuttavia molti indicano che il consumo regolare di cibi a base di pomodoro
può contribuire a prevenire e trattare questa patologia. Eccone alcuni
esempi.
In un rapporto comparso sulla rivista Cancer Epidemiology Biomarkers
and Prevention, i ricercatori analizzarono 21 studi sulla correlazione tra
consumo di pomodoro e carcinoma prostatico. Gli uomini che avevano
mangiato maggiori quantità di pomodori cotti presentavano una percentuale
inferiore di rischio di carcinoma prostatico ridotta del 19% rispetto agli
uomini con il consumo più basso.
In un altro studio, i soggetti con un carcinoma della prostata conclamato
adottarono una dieta che contemplava pastasciutta e altri piatti di pasta con
sugo di pomodoro. Dopo tre settimane, i livelli di PSA (antigene prostatico
specifico), un bioindicatore dell’attività tumorale a livello prostatico, erano
scesi del 20%.
In India alcuni scienziati misero sotto osservazione un gruppo di uomini
con carcinoma prostatico in cui il tumore aveva già metastatizzato
infiltrando altre sedi al di fuori dell’organo. Poiché il testosterone alimenta
la crescita delle cellule prostatiche, tutti i soggetti avevano optato per un
trattamento clinico finalizzato a ridurre i livelli dell’ormone, ma la metà
assunse anche degli integratori di licopene. Due anni più tardi, i livelli di
PSA risultavano più bassi nei soggetti che avevano assunto licopene.

ULTERIORI PROPRIETÀ ANTITUMORALI


Il licopene ha fornito risultati promettenti nella riduzione del rischio di
diverse altre tipologie di tumori.
Tumore al seno. Studi condotti su animali ed esperimenti in vitro su
colture cellulari dimostrano che il licopene contribuisce a uccidere le cellule
del carcinoma mammario, anche i tipi più resistenti ai farmaci antitumorali.
Tumore del colon. I ricercatori hanno misurato i livelli sierici di licopene
in soggetti affetti da adenoma colorettale – una crescita neoplastica in sede
intestinale che può evolvere in tumore maligno – e in soggetti sani; i
soggetti con polipi presentavano una percentuale di licopene più bassa del
35%.
Tumore cerebrale. Uno studio condotto su animali ha evidenziato che i
trattamenti con licopene inibivano la crescita di cellule tumorali maligne
(glioma). La crescita risultò ulteriormente rallentata quando si somministrò
licopene agli animali prima di inoculare le cellule tumorali.
Carcinoma pancreatico. Nell’ambito di uno studio pubblicato sul
Journal of Nutrition si è osservato che i soggetti con il più elevato apporto
di licopene presentavano una percentuale di rischio inferiore, ridotta del
31%, di sviluppare un carcinoma pancreatico.
Gli studi scientifici hanno inoltre fornito risultati incoraggianti sul
licopene per quanto riguarda tumori a carico della vescica urinaria, della
cervice uterina, del fegato, del polmone, dello stomaco e del sangue.

Il pomodoro può contribuire a prevenire e/o curare:

Colesterolo Demenza
Tumori Morbo di Parkinson
Osteoporosi Sterilità maschile
Pressione alta Malattie cardiovascolari

I POMODORI FANNO BENE AL CUORE

La pianta del pomodoro cresce bene in climi miti e terreni sabbiosi, e


alcuni dei migliori pomodori al mondo vengono coltivati ed essiccati nelle
magnifiche regioni costiere soleggiate del Mar Mediterraneo, area in cui le
popolazioni che consumano i cibi salutari della cosiddetta dieta
mediterranea godono di un’incidenza di malattie cardiovascolari inferiore
rispetto alle popolazioni degli Stati Uniti e di numerosi altri paesi. Quali
cibi o quali combinazioni di cibi della dieta mediterranea garantiscano un
cuore più sano è un argomento ancora molto dibattuto. Tuttavia, un nuovo
studio comparso sul British Medical Journal dimostra che l’elevato
consumo di verdure, incluso il pomodoro ricco di licopene, è in vetta alla
classifica.
In uno studio sul licopene e le malattie cardiovascolari, i ricercatori hanno
esaminato gli apporti dietetici di 1400 persone, metà delle quali aveva
subito un infarto. Concentrando l’attenzione in particolare su tre potenti
antiossidanti: la vitamina E, il betacarotene e il licopene, gli studiosi
notarono che solo il licopene mostrava una correlazione con un tasso
inferiore di infarti. Le conclusioni a cui giunsero, pubblicate sull’American
Journal of Epidemiology, furono che il licopene verosimilmente concorre
all’effetto protettivo del consumo di verdura contro il rischio di infarto.
Nell’ambito di un altro studio, alcuni ricercatori di Harvard hanno
monitorato i dati relativi al consumo di pomodoro di quasi 40.000 donne di
mezza età e in età più avanzata che non presentavano alcuna malattia
cardiovascolare evidente. Dopo sette anni, le donne che avevano mangiato
solo una porzione e mezzo (o anche meno) a settimana di cibi contenenti
pomodoro ricco di licopene mostravano una percentuale di rischio superiore
del 29% di sviluppare una patologia cardiovascolare rispetto alle donne che
ne consumavano da 7 a 10 porzioni a settimana.
Vari studi dimostrano che il licopene contribuisce a mantenere il cuore
forte e le arterie flessibili in tre modi: inibendo la formazione di colesterolo
LDL (il colesterolo «cattivo»), fluidificando il sangue e abbassando la
pressione.
Nell’ambito di uno studio apparso sul British Journal of Nutrition, 21
soggetti sani trascorsero tre settimane adottando una dieta particolarmente
ricca di licopene, con un apporto giornaliero di 2 tazze di succo di
pomodoro e 30 g di ketchup. Al termine del periodo, le lipoproteine a bassa
densità (LDL) erano calate del 13% e i valori di colesterolo totale del 6%. I
ricercatori notarono anche che la dieta ricca di pomodoro riduceva
l’ossidazione dell’LDL, diminuendone così la capacità di trasformarsi in
placca arteriosa.
Alcuni ricercatori scozzesi hanno osservato che un estratto di pomodoro (il
contenuto di una pillola equiparabile a 6 pomodori interi) riduceva del 72%
la capacità di coagulazione del sangue, la quale rappresenta un fattore di
rischio per l’infarto.
Per quanto riguarda la pressione alta, alcuni ricercatori israeliani
invitarono 54 persone con ipertensione non controllata farmacologicamente
(ACE-inibitori, calcio-antagonisti o diuretici) ad assumere anch’essi estratto
di pomodoro o un placebo. Dopo sei settimane, i soggetti che assunsero
estratto di pomodoro registrarono un calo «clinicamente significativo» dei
valori pressori: la pressione sistolica diminuì da una media di 146 a 132,
quella diastolica da 82 a 78; parallelamente, i livelli sierici di licopene erano
triplicati. Nei soggetti trattati con placebo non si osservò alcuna variazione
dei livelli di licopene o della pressione arteriosa.

La leggenda del pomodoro velenoso

Si dice che fu un uomo assai coraggioso colui che per la prima volta
assaggiò un’ostrica cruda, ma forse tale nota di merito dovrebbe andare alla
prima persona che affondò i denti in un pomodoro. I pomodori rimasero nei
paraggi sulle loro pianticelle per un secolo, o giù di lì, prima di riuscire a
metter piede nelle cucine degli europei: la gente resisteva alla tentazione di
quel pomo rosso e succulento perché temeva fosse velenoso.
Quando i semi di pomodoro sbarcarono per la prima volta in Europa
attraverso la Spagna, verso la metà del 1500, la gente rimase scioccata dal
fatto che tale pianta fosse parente di un’altra pianta dalla reputazione
micidiale: la belladonna, il più famigerato membro della famiglia botanica
delle solanacee. Secondo gli storici della gastronomia non vi sono prove
che il pomodoro venisse mangiato o utilizzato in cucina, e questo per oltre
un secolo dal suo arrivo in Europa. Non comparve nessuna menzione
sull’uso del pomodoro in una preparazione culinaria in alcun ricettario del
continente fino alla metà del 1600, e ci vollero altri cinquantanni perché
diventasse un alimento comune.
Come si sia riusciti a superare tale pregiudizio nei confronti del pomodoro
non è ancora chiaro, ma non è escluso che abbia qualcosa a che fare con la
sua leggendaria reputazione di afrodisiaco. Forse, come Adamo, un uomo
più curioso di altri non riuscì a resistere alla tentazione, e così nacque il
nomignolo che gli affibbiarono nel 1700: pomo d’amore.
A proposito: i primi allarmisti non avevano del tutto torto. Le foglie della
pianta del pomodoro contengono effettivamente un alcaloide tossico; in
piccole dosi non è abbastanza forte da nuocere a un essere umano ma
potrebbe intossicare un cane o un gatto. Di fatto, alcuni cuochi aggiungono
una foglia o due di pomodoro al termine della preparazione di un sugo per
ripristinare parte del sapore fresco che si è perso durante la cottura.

NUOVA VITA PER LE OSSA GRAZIE AL LICOPENE

Oltre 10 milioni di americani soffrono di osteoporosi – una malattia che


indebolisce le ossa – di cui circa il 15% sono donne e il 4% uomini al di
sopra dei 50 anni; altri 10 milioni circa soffrono di osteopenia, una
condizione per cui la densità ossea è al di sotto della norma e può condurre
a osteoporosi. Inoltre, ogni anno, 2 milioni di persone con osteoporosi
vanno incontro a una cosiddetta «frattura osteoporotica», ove le sedi più
frequenti sono l’anca, la colonna vertebrale o i polsi.
I pomodori che lancereste sulla scena a un attore mediocre sarebbero forse
più utili alle ossa che svolgono malamente il loro ruolo… Studi su colture
cellulari effettuati dai ricercatori della Facoltà di Scienze della Nutrizione
dell’Università di Toronto indicano che il licopene potrebbe contribuire
all’accrescimento delle ossa stimolando gli osteoblasti – ossia le cellule che
concorrono alla formazione delle ossa – e inibendo gli osteoclasti, vale a
dire le cellule preposte alla disgregazione dell’osso. «La nostra ricerca
suggerisce che la prevenzione e il trattamento dell’osteoporosi attraverso il
consumo di pomodori e prodotti a base di pomodoro ricchi di licopene può
offrire un’alternativa fattibile ai farmaci prescritti per l’osteoporosi»,
afferma la dottoressa Leticia Rao, membro dell’équipe di ricerca.
Gli stessi ricercatori hanno inoltre dichiarato che le specie reattive
dell’ossigeno (ROS) potrebbero favorire lo sviluppo dell’osteoporosi
esattamente come nel caso delle malattie cardiovascolari. In uno studio
condotto su donne in periodo postmenopausale (le principali vittime
dell’osteoporosi), alcuni ricercatori canadesi hanno rilevato che le donne
che avevano adottato una dieta ricca di licopene presentavano livelli
decisamente inferiori di un bioindicatore legato ad elevati livelli sierici di
ROS e al grado di distruzione ossea. «Questi risultati suggeriscono che il
licopene, in quanto antiossidante alimentare, riduce lo stress ossidativo e i
livelli di marcatori del ricambio osseo nelle donne in periodo
postmenopausale». I risultati furono pubblicati su Osteoporosis
International.

IL NESSO CERVELLO-LICOPENE

Parecchi studi dimostrano che il licopene può svolgere un ruolo


importante nei casi di demenza, morbo di Parkinson ed altre forme di
declino senile. Eccone alcuni esempi.
Bassi livelli ematici di licopene sono stati riscontrati in soggetti con
demenza vascolare (il secondo tipo di demenza più frequentemente
osservato dopo il morbo di Alzheimer) e morbo di Parkinson. L Inoltre,
nell’ambito di uno studio condotto su 88 suore anziane ricoverate in una
casa di riposo, i ricercatori hanno rilevato una correlazione tra livelli
ematici di licopene elevati e una migliorata capacità nello svolgimento di
attività di cura personale.
Gli esperti ipotizzano che il licopene verosimilmente protegga il cervello
riducendo il danno infetto dai ROS.

LA PILLOLA DELLA FERTILITÀ MASCHILE

Si stima che una percentuale compresa tra il 7% e il 10% degli uomini


negli anni della piena maturità riproduttiva (dai 20 ai 50 anni) sia sterile e,
in un caso su quattro, i medici non riescono a individuarne la causa. È
possibile che le specie reattive dell’ossigeno ne siano responsabili; gli studi
dimostrano che il 25% degli uomini con un quadro di sterilità
«inspiegabile» presentano livelli significativi di ROS nello sperma, mentre
negli uomini fertili non si ha alcun riscontro in tal senso. Il licopene può
forse essere d’aiuto?
Alcuni ricercatori indiani hanno posto sotto osservazione 50 uomini sterili
di età compresa tra i 21 e i 50 anni trattandoli con 8 mg di licopene al
giorno per un anno. In media, i soggetti registrarono miglioramenti
significativi a livello di qualità degli spermatozoi, e il 36% delle loro
compagne riuscì successivamente a concepire.

POMODORO O LICOPENE, QUAL È MEGLIO?

Il licopene potrà anche essere il gioiello più fulgido della corona, ma il


pomodoro contiene altre preziose gemme nutrizionali. Infatti, i pomodori
sono anche ricchi di vitamina C e sono stracarichi di composti fitochimici,
quali l’acido cumarico, l’acido clorogenico e la tomatina, che svolgono
un’azione terapeutica.
In molti degli studi sul licopene, infatti, gli scienziati hanno utilizzato
prodotti a base di pomodoro come fonte di tale nutriente essenziale. Ciò
significa che il licopene potrebbe non agire completamente da solo; anzi, è
probabile che derivi la propria efficacia nel combattere le malattie dalla
sinergia con altri principi nutritivi.
Pertanto, anche se il licopene è disponibile come integratore alimentare,
non mi sento di raccomandarlo. A mio modesto parere è meglio puntare su
un maggiore consumo alimentare di pomodori e cibi contenenti pomodoro,
come sughi, minestre, succhi di pomodoro e ketchup, e tenere sempre a
portata di mano un vasetto di pomodori secchi in frigo. Di fatto, l’ideale
sarebbe mangiare pomodori secchi ed altri cibi a base di pomodoro ogni
giorno, poiché quando si smette di mangiare pomodori, i livelli di licopene
precipitano.

UN GRANDE AMORE PER I POMODORI

Il pomodoro viene adoperato praticamente in tutte le cucine del globo


terrestre per insaporire quasi tutti i cibi. Il numero totale di piatti in cui il
pomodoro figura come ingrediente principale si calcola in migliaia di unità.
È inutile dire che la cucina italiana sarebbe molto meno stuzzicante se non
fosse per il pomodoro, ma esso è anche uno degli alimenti di base della
dieta indiana, spesso usato come liquido per riequilibrare il gusto dato dalle
spezie ai curry e come ingrediente nelle salse chutney. Il pomodoro è
l’ingrediente che conferisce un sapore dolce e piacevolmente acidulo a
svariati piatti del Sudest asiatico, e anche in Cina viene utilizzato nelle salse
agrodolci. È il protagonista principale delle salse speziate a base di verdure
del Messico e dell’America Latina, nonché un ingrediente essenziale nei
sambal indonesiani e nei sofritos spagnoli.
Il currywurst – una salsiccia ricoperta di salsa al pomodoro vivacizzata da
curry e paprica – è un piatto nazionale della Germania; viene venduta agli
angoli delle strade di Berlino proprio come gli hot dog sono di casa a
Manhattan. I francesi arrostiscono lentamente i pomodori per farne un
confit dal sapore pieno e ricco da utilizzare per esaltare il gusto di altre
ricette. Nella Catalogna spagnola, la gente sfrega i pomodori su fette di
pane abbrustolito per preparare una bruschettà detta pa amb tomàquet,
ottima come stuzzichino o come spuntino. Il pomodoro ha persino generato
la sua brava quota di polemiche geografiche nel momento in cui gli abitanti
della Nuova Inghilterra si indignarono con i newyorchesi per aver sostituito
la panna della loro famosa zuppa di cozze con del pomodoro,
ribattezzandola poi «zuppa di cozze di Manhattan».
I pomodori vengono coltivati in numerosi colori e dimensioni: ce ne sono
di verdi, gialli, arancioni, rossi e viola, e i vari cultivar hanno dimensioni
che vanno dall’acino d’uva e quelle di una palla da baseball.
I pomodori sono molto più saporiti, e più salutari, quando li si lascia
giungere a completa maturazione sulla pianta in estate. Il licopene è ciò che
fornisce la tipica e ricca sfumatura rossa, ma tale pigmento satura il
pomodoro solo quando matura sulla pianta.
Quanto al gusto, se la polpa gelatinosa al centro del pomodoro lo rende
tanto succoso, il sapore vero è racchiuso nelle pareti, nella polpa soda
appena al di sotto della buccia, e si intensifica man mano che zuccheri e
acidi si accumulano durante la maturazione. Non stupisce quindi se certi
pomodori venduti nei supermercati vengono disprezzatamente etichettati
come «prodotto insapore»; il fatto è che vengono colti e spediti ancora
acerbi e successivamente esposti a gas di etilene per innescare la
maturazione nel frutto già completamente formato.
Un consiglio: a meno che non coltiviate voi stessi i pomodori, o abbiate la
possibilità di comprare pomodori locali presso un contadino, adoperate
pomodori in scatola o in vasetto. Di fatto risultano essere più salutari. La
scienza ha dimostrato che l’organismo assorbe meglio il licopene contenuto
nei pomodori cotti; in uno studio è stato osservato un assorbimento
addirittura triplo dopo avere sottoposto a cottura un prodotto a base di
pomodoro e, in base ai risultati di un altro esperimento, il licopene presente
nella passata di pomodoro viene assorbito quattro volte meglio di quello
contenuto nel pomodoro fresco.
La gamma di prodotti contenenti pomodoro è quasi illimitata. Esistono
infinite varietà di minestre, succhi, salse, concentrati e cibi pronti. I
pomodori già sottoposti a cottura si possono trovare interi, a cubetti, pelati o
passati e, ovviamente, sotto forma di spezia: i pomodori secchi.

ALLA SCOPERTA DEL POMODORO SECCO

I pomodori secchi sono in circolazione da molto, molto tempo; in effetti da


quando esistono i pomodori. Sono uno degli alimenti principali della dieta
mediterranea e italiana; tradizionalmente, le famiglie italiane mettevano a
seccare sui terrazzi delle case i pomodori raccolti nell’orto per garantirsene
una scorta per tutto l’inverno e fino alla nuova stagione. Di recente sono
diventati popolari anche negli Stati Uniti, tant’è che alcune statistiche
affermano che se ne consumano più in America che in Italia!
È possibile essiccare i pomodori in una o due ore utilizzando un
essiccatore per alimenti.
I pomodori secchi vengono lasciati essiccare al sole giorno dopo giorno
finché non perdono quasi completamente l’umidità e si accartocciano. Il
processo non ha una durata precisa e può richiedere da quattro a quattordici
giorni. Tanto meno si tratta di un procedimento difficile, occorre trovare
solo l’ambiente giusto: i pomodori hanno bisogno di un luogo ben ventilato,
vanno protetti da insetti e bestioline e occorre metterli al riparo durante la
notte. Se progettate di far seccare voi stessi i pomodori, preparatevi ad
essere pazienti. Rammentate anche che ci vogliono tanti pomodori per
ottenere una certo quantitativo di pomodorini secchi: un pomodoro grosso
come un pugno si riduce alle dimensioni di un mignolo.
Il sapore intenso e inimitabile, oltre che il lungo e meticoloso processo per
produrli, li classificano tra gli articoli da gourmet, e con un prezzo
conforme. Un vasetto da 225 grammi, disponibile nella maggior parte dei
supermercati e dei negozi di gastronomia in America, può costare 6 dollari
o anche più. Basta semplicemente fare il confronto con i 60 centesimi che si
pagano per una scatola di passata di pomodoro dello stesso peso.
Esiste tuttavia un modo relativamente semplice per essiccare un pomodoro
senza doverlo esporre al sole: l’arrostitura lenta. Potete usare qualsiasi tipo
di pomodoro maturo, sebbene i perini siano considerati i più adatti perché
hanno meno semi di altre varietà. Ecco come procedere:
1. Eliminate la parte del picciolo da ciascun pomodoro e tagliatelo a metà
nel senso della lunghezza. Disponete i mezzi pomodori su una teglia piana
con la superficie del taglio verso l’alto in modo che non si tocchino, salateli
e date una spolveratimi con la spezia che preferite.
2. Ponete la teglia in forno preriscaldato a 90 °C e lasciateli arrostire per 8-
10 ore. Verificate la cottura ogni una o due ore. Saranno pronti quando
risultano ben asciutti senza segno di umidità. Poiché potrebbero non
arrostirsi tutti uniformemente – e se il pomodoro non è completamente
asciutto l’umidità residua potrebbe raccogliere batteri –, se necessario
tirateli fuori dal forno uno per uno man mano che sono pronti.
Un altro metodo per far seccare i pomodori è utilizzare un essiccatore per
alimenti. L’inconveniente maggiore è la spesa iniziale per l’attrezzo, che
può costare 150 dollari o più, ma il vantaggio è che i pomodori si seccano
in un’ora o due soltanto. Cercate un elettrodomestico dotato di termostato,
dal momento che mantenere la temperatura giusta durante l’essiccazione
tiene a bada i batteri, e seguite le istruzioni della casa produttrice.
È possibile conservare i pomodori disidratati in sacchetti da freezer. Si
mantengono bene per circa due mesi se conservati in un luogo fresco e
asciutto, e per sei o nove mesi in congelatore. Prima di metterli via,
eliminate l’aria dal sacchetto.
Per quanto riguarda i pomodori seccati in forno, una volta adeguatamente
essiccati (il che significa completamente asciutti), si possono riporre in un
contenitore ermetico e tenere in dispensa indefinitamente; in tal caso
occorrerà farli rinvenire un poco prima di utilizzarli. In alternativa, metteteli
sottovetro in olio di oliva e poi in frigo, dove si manterranno per circa due
settimane. Per ricostituire i pomodori secchi, metteteli a bagno in acqua
calda per circa mezz’ora. Se procedete all’operazione ma non li utilizzate
immediatamente, dovete riporli in frigorifero.
Ecco alcuni suggerimenti per apprezzare al meglio i pomodori secchi:
• Gustateli da soli: forniranno un appetitoso spuntino.
• Aggiungeteli alle minestre, alle preparazioni in umido e ai sughi prima di
servire per dare un aspetto vivace e colorato ai vostri piatti.
• Adoperateli al posto dei pomodori freschi nei tramezzini.
• Sminuzzateli e aggiungeteli alle insalate di tonno, pollo o alle insalate
verdi.
• Tagliateli a striscioline e serviteli sulle pastasciutte.

Pomodori arrostiti in forno

Molto prima dell’introduzione sul mercato dei pomodori secchi essiccati al


sole, i francesi avevano già catturato la bontà concentrata di tale frutto
realizzandone un confit.
Il metodo per preparare i tomates confites è simile a quello dei pomodori
secchi tranne per il fatto che i pomodori vengono tirati fuori dal forno
quando sono ancora morbidi. Vengono quindi messi sott’olio in un vasetto
di vetro pronti per essere usati nelle insalate, sulla pasta o su qualsiasi piatto
che possa essere esaltato da un sapore ricco e pieno di pomodoro.
Per preparare il confit di pomodori, tagliate a quarti i pomodori interi e
disponeteli su una teglia ricoperta con un foglio di alluminio. Conditeli di
sale, pepe, timo essiccato e un pizzico di zucchero a velo. Ponete una fettina
sottile d’aglio al centro di ogni quarto di pomodoro e fate arrostire in forno
a 90 °C per un’ora. Girate quindi i pomodori, irrorate d’olio e lasciateli
cuocere ancora per un’altra ora.

IL POMODORO IN CUCINA

Essendo originari del Sudamerica, i pomodori freschi non amano il freddo.


Teneteli fuori dal frigorifero in quanto le temperature troppo basse ne
estinguono il sapore; conservateli piuttosto in un luogo fresco, la
temperatura ideale è sui 12 °C. Inoltre, non teneteli al sole.
Se per qualche ragione riponete i pomodori in frigorifero, lasciateli
riscaldare a temperatura ambiente per una mezz’oretta prima di consumarli.
In tal modo si riuscirà a recuperare gran parte, ma non tutto, il gusto.
Quando sono ben maturi, i pomodori cedono sotto una lieve pressione. Se
acquistate dei pomodori non del tutto maturi, potete affrettare il processo di
maturazione raccogliendoli in un sacchetto di carta marrone insieme a una
banana che libererà etilene.
Ecco alcuni modi per esaltare il sapore e le qualità nutritive dei pomodori.
Largo al gazpacho. Questa minestra fredda a base di pomodoro è
particolarmente salutare. Nell’ambito di un esperimento, i ricercatori della
Tuft University chiesero a un gruppo di volontari di consumare gazpacho
due volte al giorno per una settimana. I livelli ematici di vitamina C
aumentarono mediamente del 25%, mentre i livelli di tre bioindicatori dello
stato infiammatorio (un fattore di rischio di malattie cardiovascolari)
risultarono diminuiti.
Intero è meglio. Fresco o in scatola che sia, è meglio scegliere pomodori
interi. Gli studi dimostrano che il pomodoro intero è superiore, in termini
nutrizionali, ai prodotti pelati e privati dei semi. Pertanto, non togliete i
semi e il succo a meno che la ricetta non lo richieda espressamente: così
facendo si modifica anche l’equilibrio del sapore a favore del dolce.
Scoprite le virtù dell’olio. Pomodori e olio di oliva non solo sono i
pilastri della dieta mediterranea, ma formano un’accoppiata vincente nel
combattere malattie, in quanto l’olio di oliva aumenta la capacità di
assorbimento del licopene da parte dell’organismo. Quando un’équipe di
ricercatori di Harvard analizzò il regime alimentare di 40.000 donne, scoprì
che i livelli più alti di licopene venivano riscontrati nelle donne che
consumavano cibi con pomodori eolio di oliva (il che fortunatamente
include la pizza!). Tali donne presentavano un rischio di malattia
cardiovascolare ridotto del 24% rispetto al 29% registrato nelle donne
amanti del pomodoro ma che non aggiungevano sistematicamente olio di
oliva nei piatti a base di pomodoro. Quindi, non abbiate timore e condite
con olio di oliva.
Pomodoro e broccoli, accoppiata vincente. In quanto membro della
famiglia botanica delle crucifere, il broccolo è un ortaggio ben noto per le
sue proprietà antitumorali. In ricerche condotte su animali presso
l’Università delllllinois, gli scienziati hanno riscontrato che l’abbinamento
di broccoli e pomodori riduce più efficacemente il rischio di cancro della
prostata che non il consumo dei due ortaggi presi singolarmente.
Ecco qualche altro suggerimento su come adoperare i pomodori in cucina:
• Approfittate del periodo in cui i pomodori sono di stagione (ricavando
così anche un maggior contenuto di licopene) per acquistarne grandi
quantità e preparare subito sughi e salse da mettere via, surgelandole in
piccoli contenitori per comodità.
• Arricchite i sughi pronti per la pasta aggiungendo ima tazza o due di
pomodori a pezzi in scatola durante la cottura.
• Esaltate il gusto e le proprietà terapeutiche dei piatti a base di pomodoro
aggiungendo una spolveratina di baharat, una popolare miscela di spezie
mediorientale.
• Quando preparate una salsa di pomodoro partendo da zero, otterrete un
composto più morbido e omogeneo utilizzando pomodori freschi o
pomodori in scatola a pezzi anziché pomodori in scatola interi. Le industrie
alimentari, infetti, sovente aggiungono sali di calcio per garantire
compattezza ai frutti interi durante l’inscatolamento, e ciò interferisce con
la disintegrazione durante la cottura. Se volete ottenere una consistenza
molto liscia usando pomodori in scatola, verificate l’etichetta e scegliete
una marca che non abbia calcio nella lista degli ingredienti.
• L’aggiunta di un pizzico di zucchero alla salsa di pomodoro mentre
cuoce ne intensifica il sapore.
• Preparate una salsa da barbecue veloce e saporita mescolando 1 tazza di
ketchup con qualche spicchio d’aglio sminuzzato, 2 cucchiai di zenzero a
dadini, 2 cucchiai di rum e, rispettivamente, 1/4 tazza di zucchero di canna,
di salsa di soia e di aceto bianco distillato.
• Arrostite i pomodori in padella con olio di oliva: tagliate a metà i
pomodori e bucate la buccia con un coltello affilato in modo da far scolare
il sugo; cuocete per 10 minuti, quindi rigirate i pomodori, aggiustate di sale
e altre spezie e fate cuocere per altri 10 minuti.
Ecco la ricetta per preparare le bruschette al pomodoro, un classico della
regione catalana della Spagna. Fate grigliare o abbrustolite su una piastra
delle fette di pane a crosta dura tagliate spesse; mentre sono ancora calde,
strofinate la superficie con uno spicchio d’aglio schiacciato. Tagliate a metà
un grosso pomodoro e strofinatelo sulla fetta finché il pane non ne assorbe
il succo lasciando i semi sulla superficie.
Prezzemolo. Più potere agli antiossidanti

Il prezzemolo è molto più di una semplice guarnizione da scartare sul plat


du jour o un’erba per rinfrescare l’alito dopo il pasto. Può giocarsela alla
pari con qualsiasi altra specie vegetale in quanto nobile fonte di
antiossidanti a protezione delle cellule, in particolare gli antiossidanti noti
come flavonoidi che, come dimostrato dalla ricerca, svolgono un ruolo
importante nella lotta contro malattie cardiovascolari e cancro.
Ma soprattutto il prezzemolo è particolarmente ricco di apigenina, un
antiossidante che aiuta altri agenti antiossidanti ad agire con maggiore
efficacia.
In uno studio condotto da ricercatori danesi, 14 soggetti seguirono una
dieta essenzialmente priva di antiossidanti o flavoni per due settimane.
L’attività di due degli antiossidanti più potenti autonomamente prodotti
dall’organismo – la superossido dismutasi (SOD) e il glutatione – subì un
drastico calo e, parallelamente, si assistette a un aumento del danno
ossidativo a carico delle cellule. Tutto questo finché i volontari non presero
a consumare prezzemolo, ricco di apigenina. «L’intervento con apporto di
prezzemolo pare avere compensato e arrestato il calo», riferirono i
ricercatori sul British Journal of Nutrition, «con un conseguente aumento
dei livelli di SOD e glutatione».
Ma l’apigenina non è l’unico vantaggio che il prezzemolo ha da offrire;
esso fornisce anche notevoli quantità di vitamina A e C nonché luteina, un
antiossidante che contribuisce a prevenire la degenerazione maculare legata
all’avanzare dell’età e che, statisticamente, rappresenta la prima causa di
cecità. Inoltre, è una buona fonte di vitamine B, calcio e ferro.

IL POTERE CURATIVO DEL PREZZEMOLO

Gli esponenti della medicina tradizionale usano da sempre il prezzemolo


come diuretico, allo scopo di depurare reni e vescica e ridurre la pressione
alta. Tuttavia, come gli scienziati stanno scoprendo, il prezzemolo può
avere altre proprietà terapeutiche.
Tumori. I ricercatori della Facoltà di Medicina di Harvard hanno
analizzato il contenuto di flavonoidi del regime alimentare di 1140 donne
affette da carcinoma ovarico e 1180 donne sane e hanno scoperto che solo
l’apporto di apigenina era correlato a un’incidenza inferiore di tale
neoplasia, pari al 21%. Sono stati realizzati decine di studi in vitro e in vivo
su animali riguardo all’apigenina e il cancro e, da una recente revisione
della ricerca, gli scienziati della Case Western University di Cleveland sono
giunti alla conclusione che l’apigenina mostra un «considerevole potenziale
ancora da sviluppare come agente chemiopreventivo (una sostanza naturale
che combatte il cancro) in campo oncologico». Affermano inoltre che
l’apigenina è un antiossidante e un antinfiammatorio di tale efficacia che
potrebbe anche essere potenzialmente impiegata nel trattamento di malattie
cardiovascolari e del morbo di Alzheimer.
Malattie cardiovascolari. Notando che il prezzemolo viene impiegato in
Marocco come rimedio tradizionale per le malattie cardiovascolari,
un’équipe di ricercatori marocchini ne ha verificato l’efficacia a livello di
riduzione dell’aggregazione piastrinica; in breve, l’ispessimento del sangue
che può condurre alla formazione di coaguli che, andando ad ostruire le
arterie, sono la principale causa di infarti e ictus. Il prezzemolo ridusse
l’aggregazione piastrìnica fino al 65%. «L’apporto di prezzemolo con la
dieta può favorire la prevenzione di malattie cardiovascolari a livello
nutritivo», conclusero i ricercatori sul Journal of Ethnopharmacology.
Diabete. In Turchia, il prezzemolo viene impiegato come rimedio naturale
per trattare casi di diabete di tipo 2. Quando un gruppo di ricercatori turchi
testò la spezia su animali affetti da diabete chimicamente indotto, notò che
riduceva considerevolmente i livelli di glucosio ematico. Un’altra équipe di
ricercatori rilevò che il prezzemolo proteggeva gli animali diabetici da un
determinato tipo di danno epatico prodotto dalla patologia.
Stipsi. «La medicina popolare ha sempre sostenuto che il prezzemolo
possiede proprietà lassative», scrissero alcuni ricercatori libanesi sulla
rivista Phytomedicine, e quando lo analizzarono riscontrarono che
conteneva principi attivi analoghi a quelli presenti nei farmaci lassativi.
Ulcere. Alcuni ricercatori dell’Arabia Saudita hanno riesaminato la storia
dell’impiego del prezzemolo come rimedio tradizionale per numerosi
disturbi, ossia come diuretico per depurare il tratto urinario e prevenire i
calcoli renali, come medicina per trattare diarrea, indigestione, calcoli
biliari e flatulenza, e come presidio per i disturbi del mestruo. Quando
verificarono l’azione terapeutica della spezia su animali da laboratorio, si
resero conto che aveva la capacità di prevenire l’ulcera gastrica indotta in
via sperimentale.
Il prezzemolo può contribuire a prevenire e/o curare: diabete di tipo 2,
tumori, malattie cardiovascolari, ulcere, stipsi.

ALLA SCOPERTA DEL PREZZEMOLO

Gli americani usano molto prezzemolo: nella graduatoria degli aromi più
largamente adoperati risulta al terzo posto dopo sale e pepe. Ciò nonostante,
ne consumano quantità neanche lontanamente paragonabili a quelle delle
popolazioni del Medio Oriente, che ne fanno un uso decisamente massiccio.
Quasi ogni nazione del Medio Oriente e dell’area orientale del
Mediterraneo ha la propria versione di tabulò, un’insalata contenente
prezzemolo e grano bulgur in parti uguali condita con olio di oliva,
cipollotti e menta. In Libano, dove è nato il tabulè, gli chef preferiscono
usare molto più prezzemolo che grano, e «correggono» l’insalata con
cannella e pimento. Il baba ghanoush è un altro piatto tipico mediorientale
abbondantemente arricchito di prezzemolo e, al pari del tabulò, è diventato
popolare negli Stati Uniti.
Di fatto, il prezzemolo sta alla base di numerose preparazioni
gastronomiche in diverse parti del mondo.
La gremolata, un trito di prezzemolo, aglio e scorza di limone, è la
classica rifinitura per l’ossobuco, una specialità italiana della città di
Milano.
In Francia, aglio e prezzemolo costituiscono la mise en place per ogni
chef, vale a dire la base di molte ricette. È, ad esempio, il punto di partenza
per la persillade (che include anche olio e aceto), una salsa nonché un
condimento utilizzato nella cucina francese e greca oltre che neH’arte
culinaria Cajun e creola della Louisiana. I tedeschi preferiscono una varietà
di prezzemolo detta «di Amburgo» o radice di prezzemolo, dal sapore forte
e dalla consistenza del sedano; in effetti, ha un gusto molto vicino a quello
del sedano abbondantemente aromatizzato di prezzemolo. Il prezzemolo di
Amburgo in passato ha goduto di un breve momento di popolarità negli
Stati Uniti ma ora è praticamente caduto nell’oblio. In Gran Bretagna, gli
inglesi hanno sempre mostrato una certa predilezione per il prezzemolo fin
dai tempi di Enrico VIII, il quale ne amava il sapore che conferiva alle salse
bianche.
La cucina argentina è rinomata per il chimichurri, una salsa di colore
verde intenso utilizzata come accompagnamento per carni alla griglia e
adoperata anche come marinata. Il prezzemolo compare altresì nella
versione cubana del sofrito, una celebre salsa piccante nella cultura latina,
per ammorbidirne il gusto.
È difficile, invece, che troviate del prezzemolo nelle cucine di origine
asiatica, ove il sapore molto più deciso delle foglie fresche di coriandolo
viene preferito a tale spezia.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Esistono due varietà comuni di prezzemolo: il prezzemolo riccio,


privilegiato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, e quello a foglia piatta,
altrimenti detto prezzemolo italiano e prevalentemente adoperato in tutti gli
altri paesi.
Il prezzemolo a foglia piatta presenta un aroma più ricco e complesso della
varietà riccia e viene impiegato esclusivamente nella preparazione del
tabulè e altri piatti mediorientali che contemplano tale erba aromatica. Ha
un aspetto simile alle foglie fresche di coriandolo, ma annusandolo bene ci
si accorge della differenza. La varietà riccia è più diffusa negli Stati Uniti
perché consente una guarnizione esteticamente più accattivante. Entrambi
sono disponibili in quasi tutti i supermercati.
Il prezzemolo è reperibile sia fresco che essiccato. Quando acquistate il
prezzemolo fresco, scegliete mazzi con foglie non appassite e con gambi
dritti ed elastici. Prima di utilizzarlo sciacquatelo bene in acqua fredda per
rimuovere terra e sporcizia, specialmente le varietà ricce. Il modo migliore
per conservarlo è tenerlo in frigorifero in un bicchiere d’acqua. Se intendete
surgelarlo, avvolgete i gambi in un foglio di alluminio; la surgelazione è
perfetta anche per il prezzemolo finemente tritato.
Nel caso del prezzemolo essiccato, controllate che abbia un bel colore
verde scuro e non vi siano pezzi di gambo o foglie gialle. Verificatelo
direttamente sul posto al momento dell’acquisto: se la confezione rimane
troppo a lungo sullo scaffale non è raro che perda colore ed aroma.
Seccare il prezzemolo da sé è facile, oltre che essere meno costoso. È
sufficiente preriscaldare il forno a 120 °C e disporre i gambi su una teglia
piana, mettere la teglia in forno e spegnerlo. Lasciatelo «cuocere» per 15 o
20 minuti finché non diventa friabile girando i gambi almeno una volta
durante l’essiccazione.

IL PREZZEMOLO IN CUCINA

II prezzemolo si accosta bene praticamente a qualsiasi piatto. Quando


viene utilizzato come spezia, conferisce al cibo un sapore distintivo ma
leggero, per cui non sovrasterà mai gli altri aromi. E anche piuttosto
resistente: se lo mettete in una friggitrice, ne emergerà intatto sia di colore
che di aspetto.
I gambi hanno un aroma più intenso delle foglie e, pertanto, è una buona
idea utilizzarli. I gambi (non le foglie) sono più adatti per preparare brodi e
minestre.
In cucina, è possibile adoperare del prezzemolo fresco a foglie intere,
tagliuzzate, tritate più o meno finemente oppure ridotte in purè, e il
momento migliore per utilizzarlo è verso la fine della cottura, per esaltare il
sapore di altri ingredienti. Cuocete il prezzemolo tritato entro un’ora,
altrimenti il sentore pungente si disperderà.
Nelle ricette a cottura prolungata è preferibile usare il prezzemolo
essiccato, e si otterrà un aroma ancora più ricco se lo si mette a bagno in
acqua calda prima di adoperarlo.
Di seguito, alcuni suggerimenti per utilizzare più prezzemolo nella dieta
quotidiana:

• Il prezzemolo si armonizza particolarmente bene ai cibi «umidi»;


aggiungetelo pertanto a frittate, purè di patate, pastasciutte e minestre.
• Potete contare sul prezzemolo per compensare l’assertività delle foglie di
coriandolo o di altri aromi particolarmente robusti qualora abbiate esagerato
nel dosaggio.
• Preparate un trito di prezzemolo fresco e aglio da distribuire sulle patate
saltate in padella qualche minuto prima che siano pronte per ottenere delle
ottime patate trifolate.
• Preparate una gremolata combinando 1/2 tazza di prezzemolo tritato, 3
spicchi d’aglio tritati e il succo di 1 limone.
Rafano. Un potente alleato contro le infezioni

Il rafano sta alle spezie come le mele stanno alla torta: un modello di
americanità. Si stima che l’85% del rafano mondiale venga coltivato
proprio in America e buona parte viene trattenuta ad uso del mercato locale:
gli americani, infatti, consumano quasi 23 milioni di litri (di salsa) di rafano
all’anno!
Tuttavia, il rafano non è un prodotto esclusivamente americano. Originario
dell’area del Mediterraneo, nel XV secolo era già coltivato in Gran
Bretagna, dove veniva descritto come hoarse, a significare una radice «di
natura coriacea e forte» (in inglese, «hoarse» significa «rauco», mentre il
termine per rafano è «horseradish», letteralmente «radice del cavallo»
[N.d.T.]).
Il rafano allo stato naturale non ha odore, ma se si incide la polpa essa
sprigiona un effluvio pungentissimo, tale da aprire i seni nasali anche nel
peggior momento della stagione delle allergie. Non stupisce dunque che sia
stato adoperato come rimedio naturale molto prima di venire usato come
alimento. Grazie alla capacità di stimolare le mucose, in passato i medici lo
impiegavano per trattare raffreddori, tosse, calcoli renali, infezioni del tratto
urinario e, ovviamente, la raucedine.
Cosa conferisce al rafano tanta forza terapeutica? È la sinigrina, un olio
volatile che si scinde in isotiocianato di allile, un potente antibiotico di
origine naturale. Con ogni probabilità, l’isotiocianato di allile è la sostanza
che ne spiega la provata efficacia nel trattamento dei disturbi delle vie aeree
superiori, tuttavia non è l’unico agente terapeutico presente in tale spezia. A
parità di peso, il rafano contiene un numero di composti
farmacologicamente attivi superiore a qualsiasi altra spezia e, lasciatemi
aggiungere, composti molto attivi, in grado di decongestionare, ridurre il
gonfiore delle mucose irritate, alleviare infiammazioni, sopprimere gli
agenti ossidanti che provocano danni cellulari, contrastare virus e batteri,
rilassare i muscoli, stimolare il sistema immunitario e persino combattere il
cancro. Tutto ciò fa dell’umile rafano una spezia davvero speciale. Come
dice il dottor James A. Duke, noto botanico ed esperto di spezie, «il rafano
è utile nell’armadietto dei medicinali quasi quanto lo è sulla mensola delle
spezie».

UN ANTIBIOTICO NATURALE

Anche se il rafano è ricchissimo di fitonutrienti, gli scienziati hanno svolto


solo un numero esiguo di studi per valutarne le capacità curative. Ciò
nonostante, tede spezia è stata dichiarata farmacologicamente sicura ed
efficace per le infezioni delle vie aeree superiori dalle Monografie della
Commissione E, l’organismo tedesco che fornisce ai professionisti di tale
paese linee guida nell’impiego medicinale delle erbe.
Uno dei presidi naturali più diffusi in Germania per combattere le
infezioni è un preparato fitoterapico commercializzato con il nome di
Angocin Anti-Infekt N, contenente radice di rafano e nasturzio. Fin
dall’introduzione del prodotto sul mercato tedesco, diversi studi di
laboratorio e condotti su soggetti umani hanno dimostrato che è efficace
quanto gli antibiotici nel trattamento dei seguenti disturbi:
• affezioni gastrointestinali da cibo contaminato dal batterio E. coli
• affezioni gastrointestinali da cibo contaminato dal batterio
Staphylococcus aureus
• bronchite
• faringite da streptococco e altri disturbi gravi causati dal batterio
Streptococcus pyogenes, quali cellulite infettiva, impetigine e scarlattina
• infezioni dell’orecchio
• infezioni del tratto urinario
• influenza da Haemophylus, che tipicamente colpisce i bambini al di sotto
dei 5 anni
• polmonite
• sinusite

In uno di questi studi, che aveva coinvolto 858 bambini e adolescenti in 65


centri di cura tedeschi, gli studiosi avevano posto a confronto l’efficacia
dell’Angocin Anti-Infekt N e di un antibiotico nel trattamento di bronchiti e
infezioni del tratto urinario. L’efficacia fu valutata in base alla percentuale
di riduzione dei sintomi e alla velocità di remissione delle infezioni, e il
presidio contenente rafano risultò estremamente efficace. «I risultati
dimostrano che esiste un fondamento razionale per il trattamento sia delle
infezioni del tratto urinario che del tratto respiratorio mediante tale agente
terapeutico», commentarono i ricercatori.
Un altro studio tedesco mise a confronto l’efficacia del preparato a base di
rafano con altri antibiotici su 643 soggetti affetti da bronchite e 479
individui affetti da infezioni del tratto urinario. Ancora una volta, il rimedio
naturale agì efficacemente quanto gli antibiotici.
Il presidio a base di rafano si è anche dimostrato utile nel prevenire le
infezioni. Nell’ambito di uno studio, alcuni ricercatori arruolarono 219
soggetti, uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 75 anni, per testare
l’efficacia del rimedio nel prevenire le infezioni del tratto urinario.
All’inizio dello studio, tutti i pazienti non mostravano alcun sintomo
dell’infezione; metà dei soggetti assunse ogni giorno una dose
dell’integratore contenente rafano e l’altra metà un placebo. Dopo tre mesi,
gli studiosi osservarono che il tasso di recidive era inferiore del 50% nei
soggetti trattati con Angocin Anti-Infekt N rispetto ai pazienti trattati con
placebo. Un altro studio condotto su bambini con infezioni del tratto
urinario ricorrenti sortì risultati analoghi.

MEGLIO DEI BROCCOLI?

Esteriormente il rafano non è un granché: una radice coriacea, incolore e


inodore, lunga e bruttina che non esercita alcun fascino gastronomico;
insomma, il brutto anatroccolo della seducente famiglia di variopinte
verdure nota come crucifere. Le crucifere, di cui fanno parte broccoli,
crescione, germogli di senape, cavolo riccio, cavolo cappuccio e cavolini di
Bruxelles (per nominarne solo alcuni), sono ben note per la più vasta
produzione in tutto il regno vegetale di isotiocianati (ITC), ossia composti di
cui è stata dimostrata la capacità di proteggerci dai tumori.
Tuttavia gli ITC non esisterebbero se non fosse per l’esistenza di altri
composti importanti. i glucosinolati. Quando le libre delle crucifere
vengono spezzate — quando vengono strappate, tagliate o masticate — i
glucosinolati si preparano a liberare gli isotiocianati. Ecco perché il rafano
si distingue per essere qualcosa di più di una semplice spezia casalinga all
interno di una famiglia di invitanti verdure. Quando i ricercatori
dell’università dell’Illinois esaminarono il rafano al microscopio,
scoprirono che conteneva più glucosinolati del broccolo, il re delle
crucifere.
«Il rafano ha un contenuto di glucosinolati oltre dieci volte superiore al
broccolo, per cui non ne occorrono grandi quantità per sfruttarne tutti i
benefici», aveva commentato il dottor Mosbah Kushad, supervisore dello
studio. «Di fatto, un pizzico di rafano sulla bistecca è più che sufficiente a
fornire gli stessi benefici per la salute offerti dai broccoli». Dunque, ottime
notizie per chi detesta i broccoli!
In uno studio sugli ITC del rafano, gli scienziati dell’Università di Stato del
Michigan ne testarono la capacità di inibire l’attività delle cellule del
carcinoma del colon e del polmone. Man mano che il dosaggio di ITC veniva
aumentato, l’attività delle cellule tumorali che sostenevano il carcinoma si
indeboliva; tale indebolimento passò dal 30% al 68% nel caso del
carcinoma del colon e dal 30% al 71% nelle cellule tumorali del polmone.
Gli isotiocianati non sono gli unici composti antitumorali presenti nel
rafano. La spezi! contiene infatti oltre due dozzine di sostanze ad azione
antineoplastica e alcuni ricercatori inglesi stanno esaminandone una in
particolare, la perossidasi di rafano (HRP), per valutarne le possibilità di
impiego come componente in farmaci antitumorali. In uno studio di
laboratorio, il farmaco sperimentale ha contribuito a controllare la crescita
di cellule di carcinoma mammario e della vescica urinaria.

GRANDI SPERANZE CONTRO IL COLESTEROLO

Gli isotiocianati contenuti nelle crucifere (nel broccolo in particolare)


sostengono la salute del cuore contribuendo a tenere sotto controllo due dei
principali fattori di rischio delle malattie cardiovascolari: il colesterolo e i
trigliceridi, due tipi di lipidi presenti nel sangue. Uno studio pubblicato
sulla rivista Nutrition Research ha evidenziato che gli ITC presenti nel
rafano possono sortire il medesimo effetto.
In tale studio, i ricercatori avevano nutrito dei topi con una dieta ad alto
contenuto di grassi somministrando solo ad alcuni del rafano. In capo a tre
settimane, i topi che consumarono rafano, registrarono livelli di colesterolo
inferiori; l’ipotesi degli esperti fu che la spezia è in grado di bloccare la
produzione di colesterolo.
UNA CRUCIFERA UNICA NEL SUO GENERE

Non solo il rafano presenta una concentrazione di ITC superiore a quella di


altre crucifere, ma contiene anche tiocianato, una sostanza rara in natura
che produce un pizzicore intenso, una vera e propria «scarica» nella cavità
nasale quando la polpa viene incisa o masticata. Il tiocianato si trova solo in
altre due spezie, e precisamente nei semi di senape e nel wasabi, entrambi
membri del clan delle crucifere.
La sensazione penetrante del tiocianato non si produce attraverso lo stesso
meccanismo della capsaicina, ossia la sostanza chimica che fa bruciare la
lingua quando si mangia del peperoncino. Quando il rafano viene a contatto
con l’umidità della saliva, i tiocianati vengono liberati e risalgono lungo i
condotti nasali, e ciò spiega perché una dose consistente di rafano fa colare
il naso e fa venire le lacrime agli occhi. Il pizzicore però passa rapidamente,
lasciando in bocca un sapore caratteristico, quello di una radice bianca dalla
piccantezza di un jalapeño.
Il gusto del rafano puro, tuttavia, non è così conosciuto come si pensa,
poiché tale radice solitamente non è che uno fra vari altri ingredienti di una
salsa. Ecco perché non ci accorgiamo che il cosiddetto «wasabi» servito nei
ristoranti sushi è rafano puro colorato con spinaci e spirulina. Per ulteriori
informazioni sul wasabi, si rimanda al capitolo dedicato a tale spezia.

ALLA SCOPERTA DEL RAFANO

Il rafano giunse per la prima volta negli Stati Uniti nei primi decenni del
1600 insieme ai primi coloni, ma in realtà il suo enorme successo come
condimento decollò verso la metà del 1800, quando gli immigranti tedeschi
e polacchi portarono con sé in America la loro passione per questa spezia e
le loro ricette. Era diventato così popolare come condimento per carni e
pesce che nel 1869 un giovane imprenditore di nome Henry J. Heinz ebbe
l’idea di mescolarlo all’aceto per garantirne la conservazione, confezionarlo
in piccoli barattoli di vetro per «esibirne la purezza» e, con tanto di paniere
al braccio, venderlo porta a porta al vicinato della sua città natale,
Pittsburgh, in Pennsylvania. Il successo del rafano Heinz aumentò fino a
tramutarsi nel primo articolo alimentare d’America prodotto per il mercato
di massa, e la leggenda locale vuole che Heinz abbia grattugiato tanto di
quel rafano nella cantina della casa dei genitori che la gente riusciva ancora
a sentire l’odore dei potenti vapori esalare attraverso le assi del pavimento
molto tempo dopo il trasferimento del laboratorio altrove.
Oggi il rafano ricopre un ruolo culinario di primo piano sia negli Stati
Uniti che in Europa. In America lo si utilizza per trasformare un
comunissimo ketchup in una salsa cocktail «stappa-narici», l’onnipresente
salsa tradizionalmente servita con gamberi lessi e molluschi crudi.
Rappresenta anche un apprezzato supplemento al cocktail di succo di
pomodoro e vodka noto come Bloody Mary, e lo si ritrova sovente sui
banconi dei bar e dei ristoranti di pesce accanto a una ciotola di cracker
salati per accompagnare ostriche e altri molluschi. È il condimento classico
presente sui tavoli delle «steakhouse» e sui banconi di tutti i fast food da
costa a costa. Ogni giugno, la cittadina di Collinsville, nell’llinois,
autoproclamatasi capitale mondiale del rafano, ospita il Festival
Intemazionale del Rafano, che esibisce ogni genere di competizione
dedicata alla spezia, incluso un concorso di bellezza per la nomina di Miss
Rafano.
Ma, rimanendo in tema di culto del rafano, il primo premio va ai tedeschi,
i quali seguono ancora la rigida usanza di grattugiare la grossa e dura radice
e servirla fresca.
I tedeschi amano svisceratamente il rafano perché il suo gusto energico
stempera il sapore grasso delle salsicce e degli insoliti tagli di carne che
costituiscono la dieta standard di tale nazione. La cucina tedesca vanta
innumerevoli ricette per la salse di rafano: esistono salse di rafano all’aceto,
al limone, al pane, alla panna, alla birra e, celebre fra tutte, la
Apfelmeerrettich, una salsa di rafano e mele verdi asprigne. Ed è tutt’altro
che insolito vedersi portare in tavola le Meerettichkartofeln, le patate al
forno in salsa di rafano.
Anche gli europei dell’est e gli scandinavi hanno le loro tradizioni legate
al rafano.
In Norvegia, ad esempio, la radice grattugiata viene lavorata con panna
acida, zucchero e aceto per preparare una salsa chiamata pepperrotsaus, che
viene servita con il salmone freddo e altri pesci. I danesi fanno congelare il
rafano ridotto in crema e lo servono come sorbetto in una salsiera
ghiacciata. I polacchi grattugiano barbabietole e rafano per preparare un
condimento viola chiamato chrzan, servito con prosciutto cotto. La minestra
di rafano è un piatto tradizionale polacco del pranzo di Natale.
Si sa che i francesi non amano particolarmente i sapori eccezionalmente
forti, ma il rafano fa eccezione. Ritengono che la poderosa salsa rossa al
rafano prediletta dagli americani sia troppo pesante per il gusto delicato
delle ostriche crude e, pertanto, le accompagnano a una salsina chiamata
mignonette, che combina rafano, aceto e olio. In Inghilterra, la costata di
manzo con salsa di rafano alla panna è un piatto della tradizione nazionale.
Il rafano compare sulle tavole degli israeliani durante il Seder, il pasto che
celebra la festività della Pasqua ebraica: è uno dei maror (erbe amare) che
simboleggiano le sofferenze patite dagli israeliti durante la schiavitù in
Egitto.

Il rafano può contribuire a prevenire e/o curare:

Sinusite Bronchite
Colesterolo Faringite
Polmonite Tumori
Avvelenamento da cibo Influenza
Infezioni tratto urinario Infezioni orecchio

IL RAFANO IN CUCINA

Il sistema per apprezzare appieno il sapore del rafano in tutta la sua


pungenza è adoperarlo nel modo preferito dai tedeschi: grattugiato fresco
senza stemperarlo in alcun modo. Ma grattugiare il rafano è un’operazione
che richiede grande meticolosità e stoica sopportazione! La radice è dura,
resistente e lunga (fino a 30 centimetri e oltre), e la manovra richiede forza
muscolare e una grattugia ben affilata. I vapori colpiscono le narici come un
pugno sul naso, per cui è meglio lavorare all’aperto, se possibile, o in una
stanza ben ventilata vicino a una finestra aperta. È bene avvertire eventuali
persone presenti di tenersi sopravento per via delle esalazioni. Inoltre, una
volta grattugiato, il sapore deteriora rapidamente. Detto ciò, vi consiglio
caldamente di imboccare la via più facile e acquistare del rafano già
preparato e conservato sott’aceto, una soluzione per nulla costosa e
immediatamente fruibile. Forse non avrà la vivacità del rafano fresco ma gli
si avvicina, e le proprietà curative non vengono intaccate.
Si può trovare il rafano già preparato nei banchi frigo di qualsiasi
supermercato e, una volta a casa, durerà per mesi in frigorifero. Controllate
soltanto l’etichetta per verificare che gli ingredienti siano ridotti al minimo:
rafano, aceto bianco distillato e sale. Quando lo adoperate per cucinare, non
dimenticate di strizzarlo contro il dorso di una forchetta per eliminare tutto
l’aceto, in modo da avere solo il gusto del rafano. È anche possibile
acquistare la spezia in formato granulare e in fiocchi liofilizzati, che
dovranno poi essere reidratati.
In genere, i condimenti e le salse a base di rafano non vengono sottoposti a
cottura poiché il calore ne distrugge la pungenza e, una volta cotto, il rafano
è piuttosto blando di gusto. Pertanto, se sul menu di un ristorante vedete un
pesce in crosta di patate e rafano (oggi come oggi un piatto piuttosto
popolare) non è il caso di scartarlo per timore che sia troppo forte.
Il rafano si presta a una cucina facile e versatile.
Ecco alcuni dei numerosi modi in cui potete arricchire di rafano la vostra
dieta:

• Aggiungete una cucchiaiata di rafano alle insalate di patate, alle minestre


e alle salsine.
• Adoperatelo per conferire alla salsa di mele un tocco di sapore e brio in
più.
• Aggiungete un cucchiaio o due per «correggere» la salsa barbecue da
servire con la carne alla griglia.
• Mescolate un cucchiaio di rafano già preparato e 1/3 tazza di panna acida
per approntare una salsina da stendere sul pesce affumicato. Guarnite con
erba cipollina.
• Amalgamate rafano e panna acida, quindi unite il tutto al purè di patate.
• Per preparare una salsa cocktail di base, mescolate ketchup e rafano in
parti uguali, poi aggiungete qualche goccia di salsa Worcester e succo di
limone.
• Create una salsa un po’ originale in cui intingere crostacei e molluschi
combinando 2 cucchiai di maionese, 1 cucchiaio di panna acida, 1 cucchiaio
di rafano già preparato, 1/4 di cucchiaino di macis e 1/4 di cucchiaino di
menta. Aggiustate di sale all’aglio.
• Per preparare una crema tradizionale al rafano per il roastbeef, lavorate
con una frusta 1/2 tazza di panna da cucina finché non prende consistenza e
incorporate 2 cucchiai di rafano; aggiungete quindi 3 cucchiai di succo di
limone e aggiustate di sale e pepe. Mettete in fresco per almeno un’ora
prima di servire.
Rosmarino. Sulla griglia, uno scudo contro il cancro

Il rosmarino è sempre di casa durante i barbecue. Il suo aroma robusto


accentua il sapore intenso delle carni rosse. Gli artisti della griglia ne
aggiungono una spolveratina sulle carni da arrostire, lo incorporano alle
marinate e gettano rametti di rosmarino sulle braci per infondere a bistecche
e costine il suo aroma resinato con un tocco di affumicato.
Il rosmarino, tuttavia, ricopre anche un’altra importante funzione benché
poco nota e raramente riconosciuta: protegge la salute tenendo a distanza
alcuni ospiti sgraditi che rispondono al nome di ammine eterocicliche (in
sigla, HCA), un gruppetto di sostanze cancerogene sempre in agguato e
pronte a rovinarvi tutto il piacere del barbecue.

SALVIAMO L’HAMBURGER!

Nulla riesce a rovinare una bella grigliata quanto il sentir dire che il
succulento hamburger che vi state gustando è pieno di sostanze
cancerogene. Circa trent’anni fa, gli scienziati furono dei veri guastafeste
quando divulgarono al pubblico la notizia che grigliare, friggere, arrostire o
affumicare (ma, attenzione, non cuocere al forno) ad alte temperature
provoca la scomposizione delle molecole di determinati cibi producendo
sostanze chimiche tossiche dette animine eterocicliche, o HCA. Una volta
ingerite, queste vengono rapidamente assorbite dall’organismo e nell’uomo
ne sono state trovate tracce nelle cellule del colon, della mammella e della
prostata. Si è anche scoperto che inducono un danno genetico in animali da
laboratorio. Studi condotti sulla popolazione nel corso degli anni hanno
correlato l’elevato consumo di carne grigliata a un aumento del rischio per
vari tipi di cancro, inclusi i tumori maligni a carico del colon, del seno,
della prostata e del pancreas.
Le ricerche condotte negli ultimi trent’anni hanno puntualmente
evidenziato che le ammine eterocicliche iniziano ad accumularsi in tutti i
tipi di alimenti: carne bovina, pollame, e persino pesce, ma non nelle
verdure e nella frutta, 4 minuti dopo che la temperatura ha raggiunto i 178
°C. Ovviamente, quanto più è lungo il tempo di cottura e quanto più elevata
è la temperatura, maggiore è l’accumulo di sostanze tossiche. Nell’ambito
di uno studio, ad esempio, si è osservato che il cibo fritto a 224 °C
conteneva una quantità di HCA sei volte superiore allo stesso cibo fritto a
178 °C.
Le temperature elevate sono proprio ciò che per definizione consentono la
cottura alla griglia, la frittura, l’arrostitura e l’affumicatura. Il grill presente
nei forni standard di casa è impostato sui 260 °C e, nei migliori ristoranti di
carne alla brace, questa viene cotta a una temperatura di 315 °C e oltre.
Dire alla gente che non può più gustarsi un hamburger o una bistecca alla
griglia è un atto che rasenta rantiamericanismo. Di fatto, quanto le ammine
eterocicliche siano realmente cancerogene, o se non altro nocive, è stato
oggetto di numerose controversie in tutti questi anni. Ciò nonostante il
Ministero della Sanità statunitense le classifica come sostanze
«ragionevolmente passibili di cancerogenicità nell’uomo» che possono
aumentare il rischio di determinate tipologie di cancro.
Dunque, che fare?
Ebbene, il barbecue in giardino non è stato dichiarato pericoloso per la
salute e probabilmente mai lo sarà, e l’Agenzia Internazionale per la
Ricerca sul Cancro fa sapere che è possibile ridurre al minimo tale rischio
potenziale limitando l’impiego di metodi di cottura a temperature troppo
elevate ed evitando di mangiare cibo carbonizzato.
In alternativa, potete portare del rosmarino a tutte le grigliate a cui
parteciperete: gli studi dimostrano che questa spezia è un potente
antiossidante in grado di spazzare via le HCA.
Quando alcuni ricercatori austriaci hanno cotto degli hamburger per 20
minuti alla temperatura relativamente alta di 185 °C, hanno notato che le
ammine eterocicliche continuavano ad aumentare mentre la carne cuoceva.
Quando invece cosparsero di rosmarino un altro vassoio di hamburger
prima di metterli sulla griglia per poi cuocerli alla stessa temperatura e per
lo stesso lasso di tempo, la quantità di HCA rilevata era inferiore del 61%.
Negli ultimi anni, anche i ricercatori dell’Università di Stato del Kansas
hanno fatto esperimenti sulle ammine eterocicliche e il rosmarino e,
sistematicamente, il fatto di aggiungere un poco di estratto di rosmarino
commestibile sugli hamburger ne riduceva i livelli di HCA. In alcuni casi gli
scienziati non ne rilevarono neppure la presenza.
«Le basse temperature possono influire negativamente sul sapore»,
sottolinea il professor J. Scott Smith, ricercatore presso tale università.
«L’accorgimento migliore potrebbe essere usare degli estratti di rosmarino
in modo da poter mantenere elevata la temperatura».

UN ANTIOSSIDANTE DI GrosSO CALIBRO

Il «talento assassino» esibito dal rosmarino nei confronti delle sostanze


cancerogene deriva da una speciale miscela di antiossidanti: l’acido
rosmarinico, l’acido camosico e il camosolo. La combinazione di tali
sostanze fa del rosmarino uno dei più potenti antiossidanti di questo
pianeta. Vari studi dimostrano che il rosmarino possiede un potere
antiossidante superiore al butilidrossianisolo (BHA) e al butilidrossitoluene
(BHT), due sostanze di sintesi utilizzate come antiossidanti nell’industria
alimentare sufficientemente potenti da impedire ai grassi, quali burro e
strutto, di deperire.
Ma il rosmarino può fare ancora di meglio: può contribuire a far sì che il
nostro sistema immunitario non si indebolisca. Uno studio ha evidenziato
che il solo atto di inalare dell’olio essenziale di rosmarino riduceva i livelli
di cortisolo – l’ormone dello stress – in un gruppo di volontari. Tale
osservazione riveste notevole importanza poiché elevati livelli di cortisolo
sono associati a un aumento dello stress ossidativo, una sorta di «ruggine»
interna che danneggia e fa invecchiare le cellule. Di fatto, lo stress
ossidativo svolge una funzione cruciale in tutte le patologie a carattere
cronico, ivi incluse le malattie cardiovascolari, il cancro, il morbo di
Alzheimer e, naturalmente, il processo di invecchiamento.
Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Environmental Pathology,
Toxicology and Oncology, il rosmarino è un antiossidante così potente da
essere in grado di ridurre il tormento della sindrome da raggi (una delle più
pesanti fonti di stress ossidativo) e prolungare la vita di animali da
laboratorio esposti a massicce dosi di raggi gamma. In un altro esperimento
condotto su animali, un gruppo di ricercatori coreani ha scoperto che il
rosmarino preveniva i danni neurologici (per lo più causati da processi
ossidativi) prodotti dalla dieldrina, un pesticida tossico attualmente vietato
negli Stati Uniti ma ancora in uso in altre parti del mondo.
Pare che il rosmarino possa persino essere tanto efficace da proteggere la
pelle da uno dei più potenti e penetranti agenti ossidanti di questo universo:
il sole.

UNA PROTEZIONE NATURALE PER LA PELLE

Studi di laboratorio e condotti su animali suggeriscono che il rosmarino


può agire come scudo protettivo contro le radiazioni ultraviolette del sole
(raggi UV) che inducono un invecchiamento prematuro della pelle e
aumentano il rischio di tumori cutanei. Nell’ambito di uno studio
successivamente pubblicato sulla rivista European Journal of Dermatology,
l’estratto di rosmarino ha protetto cellule cutanee umane da eventuali danni
durante l’esposizione a una radiazione ultravioletta simulata. L’esperimento,
riferiscono i ricercatori francesi, «fornisce la conferma che tale estratto ha
buone prospettive di impiego nella prevenzione di danni cutanei
fotoindotti».
In un altro studio, i cui risultati riconfermano che il rosmarino può
letteralmente «salvare la pelle», i ricercatori della Rutger University del
New Jersey inocularono sperimentalmente a due gruppi di animali sostanze
cancerogene che provocano tumori cutanei. Un solo gruppo fu trattato con
camosolo prima di ogni inoculazione e, in capo a quattro mesi, i topi
appartenenti a tale gruppo svilupparono il 61% in meno di tumori.
In un ulteriore esperimento condotto su animali, alcuni ricercatori italiani
osservarono che l’estratto di rosmarino riduceva in modo significativo la
crescita di due differenti tipi di melanoma.

Il rosmarino può contribuire a prevenire e/o curare:

Ansia Infezioni urinarie


Artrite reumatoide Malattie cardiovascolari
Depressione Malattie del fegato
Dermatite Perdita di memoria
Diabete di tipo 2 Formazione di coaguli
Rughe Stress
Gotta Tumori
Ictus Ulcere

UNA SPEZIA DAI MOLTI TALENTI

Gli esponenti della medicina popolare credettero per lungo tempo che il
rosmarino avesse speciali poteri curativi e lo utilizzarono per trattare
diabete, malattie respiratorie, artrite e vertigini. La gente del popolo inalava
i vapori del rosmarino bollito nel vino per rendere la mente più acuta. Un
testo medico risalente al 1600 lo magnificava come «rimedio contro la
debolezza fisica e l’affaticamento mentale». L’olio di rosmarino veniva
inoltre utilizzato in lozioni per frizionare il cuoio capelluto allo scopo di
favorire la crescita e la robustezza dei capelli.
Molti di questi impieghi stanno ricevendo conferma della loro validità da
parte del mondo scientifico. Sappiamo, ad esempio, che il rosmarino
contiene principi nutritivi che possono contribuire a combattere
infiammazioni, batteri e virus, ed è in grado di stimolare il sistema nervoso.
L’industria cosmetica ripone sufficiente fiducia nell’impiego tradizionale di
tale pianta da inserirla nei preparati antirughe e per pelli grasse.
Oggi come oggi, oltre 500 studi hanno analizzato il rosmarino e i suoi
costituenti nella speranza di trovare una cura e un mezzo di prevenzione per
una miriade di disturbi, ed ecco alcuni dei risultati a cui la ricerca è
pervenuta.
Dermatite. Una pomata contenente estratto di rosmarino ha
significativamente ridotto l’essudato e il gonfiore in 21 pazienti affetti da
dermatite grave. I pazienti hanno riferito miglioramenti a livello di
secchezza, prurito e altri sintomi. Lo studio in questione è stato citato nel
mio libro Molecular Targets and Therapeutic Uses ofSpices.
Memoria. Svariati studi dimostrano che il profumo del rosmarino può
favorire i processi di pensiero e recupero mnemonico. Un esperimento
condotto su 144 individui, e riportato sull’International Journal of
Neuroscience, ha evidenziato che l’inalazione di olio essenziale di
rosmarino durante lo svolgimento di attività mentali migliorava la memoria.
In un altro caso, l’olio essenziale di rosmarino ha contribuito a ridurre
l’ansia prima di un test.
Tumori. Oltre 50 studi in vitro e in vivo su animali confermano che il
camosolo, l’acido camosico e altri componenti del rosmarino sono in grado
di inibire e uccidere le cellule tumorali. Ad esempio, in base al resoconto
comparso sulla rivista Oncology, un’équipe di ricercatori israeliani ha
scoperto che il rosmarino prolungava il periodo di sopravvivenza di topi
affetti da leucemia. Non solo, ma i ricercatori dell’Università dell’Illinois,
in uno studio pubblicato su Cancer Letters, hanno notato che l’estratto di
rosmarino era in grado di «inibire in modo significativo l’insorgenza e il
progresso» del carcinoma mammario in animali esposti ad agenti
cancerogeni.
Cirrosi. Secondo i risultati ottenuti da alcuni ricercatori messicani e
pubblicati su Phytotherapy Research, il rosmarino fornisce protezione
contro il danno tipico della cirrosi epatica in animali esposti a tetracloruro
di carbonio, un composto chimico la cui azione tossica colpisce in
particolare il fegato. Sempre in Messico, altri ricercatori hanno scoperto che
la somministrazione quotidiana di rosmarino a topi di laboratorio
migliorava l’integrità strutturale degli epatociti e proteggeva gli animali da
danni epatici nonostante l’esposizione reiterata a sostanze tossiche; i
risultati sono stati pubblicati sul Journal of Ethnopharmacology.
Formazione di coaguli e ictus. Due studi condotti da scienziati
giapponesi hanno evidenziato che l’aggiunta di rosmarino al regime
alimentare di animali da laboratorio nutriti con cibi ad alto contenuto di
grassi migliorava il flusso ematico diretto al cervello e passante per la
carotide, ossia l’arteria che decorre lungo il collo. Inoltre, inibiva in modo
significativo l’aggregazione piastrinica, riducendo così il rischio di
formazione di coaguli. Una dieta ad alto contenuto di grassi tipicamente
contribuisce all’accumulo di placca nelle arterie che può condurre a infarto
o ictus.
Artrite. Alcuni ricercatori statunitensi hanno osservato che un integratore
contenente estratto di rosmarino riduceva fino al 50% il dolore in persone
affette da artrite. Gli esperti riferirono i risultati ottenuti sulla rivista
Phytotherapy Research.
Studi condotti in Messico, inoltre, indicano che l’aggiunta di rosmarino al
regime alimentare di animali da laboratorio contribuisce ad alleviate il
dolore e l’infiammazione da artrite chimicamente indotta. Di seguito, le
conclusioni degli studiosi riportate sul Journal of Ethnopharmacology.
«Questo studio convalida l’impiego medicinale della pianta nella tradizione
popolare come antidolorifico e antinfiammatorio in caso di disturbi quali
artrite e gotta».
Secondo uno studio comparso sul Journal of Rheumatology, il trattamento
ripetuto con estratto di rosmarino «ha drasticamente ridotto» il dolore e
l’infiammazione e ha contribuito a ripristinare una funzionalità delle
articolazioni «prossima alla normalità»
in animali da laboratorio affetti da artrite reumatoide sperimentalmente
indotta. I ricercatori conclusero che «tale effetto potrebbe essere d’ausilio in
un contesto clinico (umano)».
Diabete. Nell’ambito di uno studio riportato sul Journal of
Ethnopharmacology, il trattamento con estratto di rosmarino ha contribuito
ad abbassare i livelli di glucosio ematico sia in conigli sani che diabetici. La
spezia si è dimostrata efficace quanto il glibenclamide (Glynase), un
farmaco prescritto per il diabete.
Ulcere. Dopo avere valutato il potenziale curativo a livello
gastrointestinale di 25 spezie e piante, gli scienziati dell’Università
dell’Illinois sono giunti alla conclusione che il rosmarino «può avere
prospettive terapeutiche nel trattamento di patologie quali l’ulcera peptica».
Ciò è quanto emerge da uno studio pubblicato su Phytotherapy Research.
Infezioni del tratto urinario. Secondo uno studio apparso sul Journal of
Ethnopharmacology, alcuni ricercatori marocchini hanno scoperto che il
rosmarino aumenta il flusso delle urine in modo analogo ai farmaci
diuretici. Gli studiosi sono giunti alla conclusione che la ricerca conferma la
pratica comune, diffusa in Marocco, di utilizzare il rosmarino per trattare le
infezioni delle vie urinarie.
Depressione. Il trattamento con estratto di rosmarino si è rivelato efficace
quanto l’assunzione di fluoxetina (Prozac) nel trattamento di sintomi
depressivi in soggetti animali.
I risultati dello studio, condotto da alcuni ricercatori brasiliani, sono stati
pubblicati sulla rivista Progress in Neuro-Psychopharmacology &
Biological Psychiatry.

ALLA SCOPERTA DEL ROSMARINO


Il rosmarino è una spezia leggendaria e sacra. La tradizione cristiana vuole
che la Vergine Maria abbia appoggiato su un arbusto dai fiori bianchi il
proprio manto blu durante una sosta dalla fuga dall’Egitto con Gesù ancora
bambino. Quando recuperò la veste, i fiori avevano assunto il colore del
manto, lo stesso colore azzurro violaceo che oggi troviamo nei fiori del
rosmarino. In inglese, il termine «Robe of Mary» – letteralmente «veste di
Maria» – si sarebbe poi trasformato in «rosemary»: rosmarino.
Nella Magna Grecia e nell’antica Roma era costume della tradizione usare
il rosmarino sia in occasione dei matrimoni che dei funerali. Le spose ne
portavano alcuni rametti nel bouquet, come segno di fedeltà, e i novelli
sposi piantavano un cespuglio di rosmarino il giorno delle nozze. Durante i
funerali, tra le mani dell’estinto venivano posti dei rami di rosmarino di
modo che, secondo la leggenda, sarebbero cresciuti ricoprendo l’intero
corpo; inoltre, si usava deporre sulla tomba dei propri cari alcuni ramoscelli
in segno di ricordo.
Nell’Europa premoderna, i francesi bruciavano rosmarino e bacche di
ginepro negli ospedali per purificare l’aria e prevenire le malattie, mentre in
Inghilterra gli aghi venivano bruciati come incenso nelle aule di tribunale
per proteggere i funzionari da malattie contagiose eventualmente trasmesse
dai prigionieri.
Oggi il rosmarino è particolarmente diffuso nel bacino del Mediterraneo,
dove cresce rigoglioso nei terreni aridi, assolati e sabbiosi del litorale
marino o sui muri di pietra dei giardini delle case. Ciò nonostante, la cucina
italiana e la cucina regionale francese della Provenza sono il contesto in cui,
come in nessun’altra parte al mondo, viene usato con maggiore entusiasmo
come ingrediente per piatti sia dolci che salati.
In Italia i macellai spesso legano dei rametti di rosmarino ai tagli di carne
per arrosto o regalano ai clienti qualche rametto. Gli italiani combinano il
rosmarino a miele, aglio, peperoncini e vino e lo utilizzano per spennellare
carni alla griglia come agnello, capretto, manzo e coniglio, ma anche pesce
e crostacei. Il pane al rosmarino è una specialità gastronomica rintracciabile
in quasi tutte le regioni italiane; forse il più famoso è il pan di ramerino, un
pane morbido con uva sultanina e aromatizzato al rosmarino che
tradizionalmente viene preparato a Firenze il Giovedì Santo. Tale erba
aromatica viene altresì adoperata in mix di spezie per condire pizze e
focacce, ed alcune sono insaporite esclusivamente con rosmarino.
La pianta cresce spontanea o viene coltivata negli orti privati in tutto il
territorio della Provenza. Sono rari i ristoranti provenzali in cui sulla tavola
non vi sia una bottiglia d’olio aromatizzato con un rametto di rosmarino,
peperoncino e altre spezie. rosmarino e aglio sono protagonisti nella
ratatouille provenzale ed è difficile trovare un piatto a base di agnello in cui
non venga adoperato del rosmarino. Quest’erba aromatica viene altresì
usata per speziare il pàté di fegato é aromatizzare pesci interi alla griglia.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

I rametti rigidi e legnosi del rosmarino, ricoperti di foglie aghiformi color


verde cupo, lo identificano come una delle piante aromatiche ad uso
culinario più riconoscibili. La pagina superiore delle foglie si presenta
lucida con una piega verticale al centro, mentre la pagina inferiore ha una
pallida sfumatura grigio-verde.
Di fatto, esistono due tipi di rosmarino commestibile: la varietà che cresce
a cespuglio, alto circa un metro e mezzo con rami rigidi, che viene spesso
usata come siepe attorno alle abitazioni, e una varietà a rami prostrati che
cresce sulle rocce e sui muri di sostegno. Il rosmarino a portamento eretto è
quello dal profumo e aroma più pungenti. L’unica differenza di aspetto tra
le due varietà, oltre alle dimensioni della pianta, è che le foglie del
rosmarino a portamento eretto sono lunghe circa 2 centimetri e mezzo,
mentre le foglie di quello prostrato sono lunghe circa la metà.
È possibile acquistare il rosmarino sia fresco che essiccato (aghi interi,
sminuzzati, frantumati o macinati in polvere), e non c’è molta differenza tra
i due tipi a livello di intensità; al contrario della maggior parte delle altre
spezie, il rosmarino mantiene il suo aroma e tutti gli oli volatili anche
quando viene macinato. Entrambi sono disponibili tutto l’anno nei
supermercati ben fomiti.
Il rosmarino è facile da coltivare in giardino o in vaso nelle zone a clima
mite. I rametti tagliati di fresco o acquistati si mantengono per una
settimana o più se messi a bagno in un bicchiere di acqua fresca; in
alternativa, li si può avvolgere in un foglio di alluminio, mettere in una
busta di plastica o farli surgelare.
Le foglie coriacee del rosmarino e i gambi legnosi lo rendono perfetto per
l’essiccazione ma, per preservare gli oli volatili, deve essere essiccato
immediatamente dopo il taglio appendendo i rami a testa in giù in un locale
buio, caldo e ben aerato per qualche giorno. Durante l’essiccazione i rami si
accartocciano.
Una volta essiccate, le foglie si staccano facilmente dal ramo. Per questa
operazione conviene tenere il rametto capovolto e strappare i singoli aghi in
modo da evitare di staccare anche dai pezzetti di gambo. Per comodità
potete tagliare i rami in segmenti più corti.
La maggior parte del rosmarino importato negli Stati Uniti proviene dalla
Spagna.

IL ROSMARINO IN CUCINA

Il rosmarino ha un profumo resinato e un sapore balsamico lievemente


pungente, a metà fra menta e pepe; l’aroma è forte e può facilmente
sovrastare un piatto. Se utilizzato in modo disattento o in eccesso dominerà
tutte le altre spezie ed aromi.
Il rosmarino non perde l’aroma durante la cottura lenta e prolungata, e
l’alto contenuto di oli essenziali si discioglie rapidamente nei grassi; anche
in questo caso, se non si provvede a sgrassare il liquido di cottura, rischia di
soffocare qualsiasi altro aroma. Il modo più ingegnoso di adoperare il
rosmarino durante le grigliate è gettare qualche rametto sulle braci verso la
fine della cottura e lasciare che il fumo profumi leggermente il cibo.
Essendo una spezia robusta, l’impiego migliore è con cibi dal gusto
corposo, quali agnello arrosto, pollo, brasati e stufati. Si abbina bene anche
agli alimenti ricchi di amido come focaccine, pane e ravioloni ripieni, ed è
perfetto per aromatizzare gli aceti.
Quando usate rosmarino fresco, strappate gli aghi dal ramo e sminuzzateli
all’ultimo minuto per liberare gli oli volatili. Le foglie essiccate vanno
adoperate allo stesso modo. Ecco alcune idee per arricchire di rosmarino la
vostra dieta:

• Mettete dei rametti interi sotto gli arrosti di agnello o inserite un rametto
nella cavità di un pollo o un pesce intero sventrato. I rametti interi adoperati
in tal modo devono essere rimossi e scartati prima di servire.
• Tritate finemente gli aghi e aggiungeteli alle minestre a base di
pomodoro.
• Tritate finemente del rosmarino e aggiungetelo all’impasto per la
preparazione di pane e focacce.
• Aggiungete dei rametti di rosmarino allo sciroppo per condire pere e
pesche affogate.
• Mettete in infusione nell’aceto un rametto di rosmarino e usatelo per
spruzzare il pane da abbrustolire sulla griglia.
• Utilizzate il rosmarino per aromatizzare verdure dal sapore deciso, ad
esempio cavolini di Bruxelles, cavoli e melanzane.
• Combinate un rametto grande di rosmarino, 2 o 3 peperoncini rossi
pestati, qualche rametto di timo fresco, una foglia di alloro, 1 cucchiaio di
origano, 1 cucchiaino di semi di finocchio e mettete il tutto in una bottiglia
di olio extravergine di oliva.
Salvia. Come migliorare memoria e umore

Volete un saggio consiglio medico? Mettete la salvia tra i principali


prodotti del vostro armadietto di spezie curative.
A partire da migliaia di anni fa, gli esponenti della medicina tradizionale –
terapeuti legati alla Medicina Tradizionale Cinese, alla medicina
ayurvedica, i medici della Magna Grecia e dell’antica Roma, gli uomini-
medicina dei nativi americani – hanno sempre consigliato di utilizzare la
salvia. La tradizione è così degna di nota che persino il suo nome botanico,
Salvia officinalis, viene dal latino salvus, che significa «salvo, sano», ad
indicarne le proprietà medicamentose. Come recita un proverbio tratto da
un manoscritto italiano medievale, «Perché un uomo dovrebbe morire
quando la salvia cresce nel suo giardino?»
Ebbene, se gli scienziati del XXI secolo coniassero proverbi, uno potrebbe
suonare così: «Perché un uomo o una donna dovrebbe perdere la memoria
quando ha della salvia a disposizione?»

MENTE PIÙ LUCIDA, UMORE MIGLIORE

Un integratore a base di salvia forse non vi renderà profondamente


«saggi», sebbene questa sia una delle definizioni che il dizionario fornisce
per la parola «sage» (in inglese, «sage» significa sia «saggio» che «salvia»
[N.d.T.]), ma potrebbe rendervi profondamente grati dal momento che
rasserena l’umore, rinnova la concentrazione e acuisce la memoria. E
questo è esattamente ciò che la salvia è in grado di fare, come dimostrato da
svariati studi scientifici che hanno in tal modo avvalorato secoli di
tradizione dell’uso medicinale di tale spezia per migliorare la memoria e
prevenire il declino cognitivo associato all’avanzare dell’età.
Recupero mnemonico più rapido e preciso. Nell’ambito di uno studio
condotto da alcuni psicologi britannici, gli esperti hanno chiesto a 24
studenti, sia uomini che donne con un’età media di 23 anni, di sottoporsi a
una serie di 11 test di memoria, ad esempio vedere comparire per 30
secondi una parola diversa ogni 2 secondi e poi avere un minuto di tempo
per ricordare e scrivere quante più parole possibili. I partecipanti ripeterono
i test più volte al giorno nell’arco di tre giorni distinti, assumendo un
integratore contenente estratto di salvia alcuni giorni sì ed altri no. I giorni
in cui assunsero salvia, furono in grado di richiamare alla memoria più
parole e più velocemente.
Maggiore calma e serenità. Gli studenti, tuttavia, non solo ricordavano
meglio quando assumevano salvia, ma si sentivano anche meglio: più
calmi, sereni e più vigili per un periodo fino a 6 ore dall’assunzione della
spezia. Sulla rivista Physiology & Behaviour, i ricercatori scrissero che «il
miglioramento dell’umore era forse il riscontro più sorprendente». In uno
studio di follow-up realizzato diversi anni dopo, i ricercatori appurarono
nuovamente che la salvia migliorava l’umore e riduceva anche l’ansia.
Gli esperti ipotizzano che la spezia migliori la memoria e l’umore agendo
a più livelli. La salvia inibirebbe l’azione della colinesterasi, un enzima che
distrugge l’acetilcolina, un neurotrasmettitore cerebrale implicato nei
processi mnemonici e negli stati di attenzione e vigilanza. La salvia
potrebbe inoltre migliorare il funzionamento dei recettori colinergici delle
cellule cerebrali deputati ad accogliere l’acetilcolina (così come un porto
accoglie una nave). Potrebbe aumentare i livelli di ormoni che ristorano il
cervello e, infine, potrebbe ridurre eventuali infiammazioni a carico dei
neuroni. È possibile che la salvia consenta tutto ciò e forse anche di più. Il
potere della salvia, sostengono i ricercatori, è probabilmente riconducibile a
«un complesso di meccanismi differenti».
Prevenzione della perdita di memoria associata all’età. In un altro
studio, i ricercatori adottarono la stessa serie di test per appurare se la salvia
fosse in grado di migliorare la capacità mnemonica di adulti in età più
avanzata. Ancora una volta, in 20 persone con un’età media di 72 anni, una
dose integrativa di estratto di salvia migliorò la capacità di elaborazione e
memorizzazione delle informazioni.
Un risultato «particolarmente importante», asserirono gli esperti sulla
rivista Psychopharmacology, fu che un test dimostrò che la salvia era in
grado di dimezzare la capacità della colinesterasi di distruggere
l’acetilcolina. La perdita di acetilcolina a livello cerebrale è il principale
fattore alla base della perdita di memoria nell’anziano, una situazione che
evolve per stadi progressivi a partire dalla perdita di memoria associata al
processo di invecchiamento per avanzare verso un lieve declino cognitivo e
poi sfociare disastrosamente nella demenza, quadro che, in una percentuale
compresa fra il 60% e l’80% dei casi, rientra in una diagnosi di morbo di
Alzheimer.
«I benefici ottenuti nel presente studio riflettono dunque una sostanziale
inversione del deterioramento della memoria che tipicamente si verifica
all’incirca verso il quinto decennio del normale processo di
invecchiamento», conclusero i ricercatori. «La salvia, pertanto, può
potenzialmente essere impiegata non solo per ottenere un miglioramento
delle funzioni cognitive nel soggetto anziano, ma anche come agente
terapeutico nel morbo di Alzheimer, singolarmente o in combinazione con
terapie più convenzionali».
Trattamento dell’Alzheimer. E a questo proposito, uno studio ha testato
la salvia su pazienti affetti da morbo di Alzheimer con risultati promettenti.
Un’équipe di medici iraniani ha somministrato estratto di salvia per quattro
mesi a soggetti con una diagnosi di morbo di Alzheimer da lieve a
moderato. Sul Journal of Clinical Pharmacy and Therapeutics, gli studiosi
riferirono quanto segue: la salvia «ha prodotto un esito significativamente
migliore sulle funzioni cognitive» rispetto a un altro gruppo di anziani
affetti dal morbo che non avevano assunto la spezia.
«I risultati ottenuti in questo studio indicano che la salvia è efficace nel
trattamento del morbo di Alzheimer in casi di lieve e moderata entità»,
conclusero i medici, sottolineando inoltre che poteva «ridurre l’agitazione»,
un problema assai comune in pazienti di questo tipo.

«SALVIFICA» DALLA TESTA AI PIEDI

La salvia, tuttavia, non fa solo bene al cervello, ma può contribuire anche


alla salute di tutto l’organismo.
Mal di gola. Nell’ambito di uno studio tedesco che ha coinvolto quasi 300
persone, uno spray contenente estratto di salvia si è rivelato notevolmente
superiore a un placebo nell’alleviare rapidamente il dolore e
l’infiammazione in casi di mal di gola. Lo spray fornisce «un trattamento
pratico e sicuro», conclusero i ricercatori sull’European Journal of Medical
Research. In un altro studio condotto su 154 soggetti sofferenti di mal di
gola, uno spray di echinacea e salvia si dimostrò più efficace nel ridurre i
sintomi faringei di uno spray a formula combinata clorexidina-lidocaina,
rispettivamente un antisettico e un anestetico.
Malattie cardiovascolari. La radice di una determinata varietà di salvia,
la Salvia miltiorrhiza – nota con i nomi volgari di salvia cinese, salvia rossa
e danshen – viene impiegata nella Medicina Tradizionale Cinese per trattare
malattie cardiovascolari. In uno studio condotto da medici cinesi e
pubblicato sulla rivista Phytotherapy Research, i pazienti che avevano
subito un ictus e trattati con danshen risultarono avere minori probabilità di
incorrere in un secondo ictus. In un altro studio, apparso sul Journal of
Alternative and Complementary Medicine, il danshen rallentò l’accumulo di
placca ateromatosa in soggetti con patologie cardiovascolari.
Psoriasi, eczema e dermatite da contatto. Alcuni ricercatori tedeschi
hanno osservato che una lozione per uso topico contenente estratto di salvia
agiva in modo altrettanto efficace quanto una pomata da banco a base di
idrocortisone nel risolvere eruzioni cutanee indotte da agenti irritanti. I
ricercatori conclusero che l’estratto di salvia «può essere d’ausilio nel
trattamento topico di disturbi cutanei a base infiammatoria».
Tumori. La ricerca scientifica ha dimostrato che la salvia è in grado di
prevenire tumori cutanei in animali da laboratorio e di uccidere cellule
tumorali del carcinoma del colon in vitro.
Diabete. In ricerche condotte su animali, la salvia ha stabilizzato i livelli
di glucosio ematico in soggetti affetti da diabete chimicamente indotto.
Herpes. Sulla base di ricerche di laboratorio realizzate da scienziati
tedeschi, risulta che l’estratto di salvia uccide il virus responsabile
dell’herpes labiale e dell’herpes genitale.
Ulcere. Nell’ambito di esperimenti condotti su animali, alcuni ricercatori
brasiliani hanno scoperto che la salvia offre protezione contro lo sviluppo di
ulcere gastriche.

ALLA SCOPERTA DELLA SALVIA

La salvia è stata impiegata come medicina per millenni prima che


divenisse una stravaganza culinaria in Europa in un periodo non precisato
del 1500. Con il trascorrere dei secoli, i cuochi giunsero ad apprezzare la
salvia per la sua azione sgrassante sulla selvaggina e gli insaccati freschi.
Tale erba aromatica è una caratteristica di spicco della cucina italiana.
Conferisce aroma ai saltimbocca alla romana, le tradizionali scaloppine di
vitello e prosciutto crudo della cucina laziale, e nessun piatto di ravioli
degni del loro ripieno potrebbe essere condito altrimenti se non con burro
fuso e salvia. La salvia viene anche aggiunta alla pasta e fagioli, mentre il
fegato alla salvia è un piatto diffusissimo a Venezia.
I tedeschi la usano nelle ricette a base di carne di maiale, agnello e
montone. Un piatto molto popolare in Germania è l’Aal in Salbei, ossia
anguilla spellata brasata in burro e salvia con cipolle. I francesi, invece,
mettono la salvia negli insaccati e nei salumi.
Gli inglesi hanno dato inizio all’abitudine di utilizzare la salvia con
abbondante cipolla e aggiungerla a pane e salsiccia come ripieno per i piatti
di selvaggina da penna. La adoperano anche nelle tortine ripiene di mele e
frutta secca speziata. Gli inglesi bevevano tè di salvia molto prima che il tè
nero diventasse una tradizione pomeridiana, e preparavano anche una birra
(ale) alla salvia. Tuttavia, l’impiego più comune per tale erba in Inghilterra
è l’aromatizzazione di formaggi: le striature verdi del Sage Derby derivano
dal liquido di vegetazione di salvia e foglie di spinacio, mentre il Sage
Lancashire contiene foglie di salvia sminuzzate.
Negli Stati Uniti, molti artigiani produttori di formaggio del Vermont
preparano la propria versione di formaggio alla salvia. Tale erba aromatica è
altresì diffusa come spezia nelle zuppe di pesce, nei ripieni, nelle ricette di
salsiccia, nel pesce e nelle costolette di maiale al forno, nei polpettoni di
carne e nelle preparazioni con formaggio fuso, ed è sinonimo di aroma per
il tacchino del Giorno del Ringraziamento.
In Medio Oriente le foglie fresche della salvia vengono aggiunte intere
direttamente nelle insalate.
La salvia è originaria del Mediterraneo. Questa pianta perenne si coltiva
facilmente nella maggior parte dei climi temperati e, nei giardini delle
abitazioni, può costituire un bell’esemplare ornamentale fortemente
profumato, i cui fiori deliziosi rosa-violetto attraggono le api.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Esistono quasi 900 varietà di salvia, ma solo alcune vengono utilizzate a


scopo culinario. La salvia comune, ossia la varietà che gli americani
conoscono meglio e che considerano più aromatica, presenta foglie
affusolate di colore grigio-verde, vellutate al tatto sulla pagina superiore
della foglia e una superficie chiara con nervature evidenti sulla pagina
inferiore.
La salvia ha un sapore balsamico resinato, pungente e caldo al tempo
stesso, come il gusto dell’autunno, così come la menta è fresca e vivace,
come il gusto della primavera.
La salvia comune viene coltivata in serre ed è disponibile tutto l’anno, ma
i produttori stanno introducendo sul mercato altre varietà interessanti. La
Salvia Rutilans, proveniente dal Messico, ha un inconfondibile profumo
fruttato di ananas; la salvia sclarea è più dolce e delicata della salvia
comune, mentre la salvia greca è più forte con una preponderanza di note
canforate.
Quando acquistate salvia fresca, scegliete sempre foglie turgide di colore
vivido e un picciolo eretto; le foglie dall’aspetto scarno e avvizzito hanno
conosciuto giorni migliori. La salvia fresca si mantiene tale per una
settimana avendo cura di metterla in un bicchiere d’acqua. Se lasciate in
frigo, le foglie iniziano a scolorire nel giro di pochi giorni.
La salvia essiccata solitamente viene prodotta utilizzando salvia della
Dalmazia (originaria della Croazia, sulla costa orientale del Mare Adriatico)
e venduta a foglie intere, tritate, sminuzzate, pestate, sbriciolate
(grossolanamente macinate) o macinate finemente.
La salvia sbriciolata ha un aspetto grigio e lanuginoso con una sfumatura
verdognola. Presenta un elevato contenuto di oli volatili che conferisce una
consistenza polverosa al tatto. Poiché viene macinata solo in minima parte,
mantiene il suo aroma più a lungo della salvia finemente macinata.
Ecco come fare per essiccare da sé la salvia: tagliate le foglie dal picciolo
e disponetele piatte su un tagliere vicino a una finestra da cui entri il sole,
rigirandole ogni giorno finché non sono perfettamente secche. L’operazione
può richiedere diversi giorni.
La salvia essiccata manterrà il suo aroma fino a un anno qualora
conservata in un contenitore ermetico lontano dalla luce e in un luogo
asciutto.

La salvia può contribuire a prevenire e/o curare:

Ansia Mal di gola


Dermatite da contatto Malattie cardiovascolari
Diabete di tipo 2 Morbo di Alzheimer
Eczema Perdita di memoria
Herpes genitale Psoriasi
Herpes labiale Tumori
Ictus Ulcere

LA SALVIA IN CUCINA

Per via dell’aroma robusto, la salvia si accosta meglio a piatti dal sapore
corposo. Ciò la rende particolarmente adatta a cibi autunnali e invernali
sottoposti a cottura lenta e prolungata. Poiché ha una notevole affinità per i
cibi grassi, è una spezia importante che si accompagna bene a piatti di
anatra, oca, brasati, salsicce, polpettoni di carne, ripieni e frattaglie, in
particolare il fegato. Si accosta bene anche alle verdure autunnali come la
zucca, le patate dolci e le mele.
La salvia essiccata ha un aroma più forte di quella fresca e, poiché
entrambe possono sovrastare i sapori di un piatto, usatele con parsimonia.
Sposatela ad altre spezie per ridurne la dominanza aromatica.
Di seguito, alcuni suggerimenti per aggiungere più salvia alla vostra dieta.

• Le foglie di salvia fritte sono una guarnizione assai di moda. Cospargete


le foglie di farina, immergetele nella chiara d’uovo montata e friggetele in
abbondante olio bollente. La salvia fritta assume un sapore che ricorda il
carciofo. Distribuitela sulla pastasciutta o sul pesce.
• Per preparare un sugo al burro e salvia, fate fondere una fettina di burro
in una padella, aggiungete un cucchiaino di salvia essiccata e rimestate bene
finché il burro non brunisce leggermente, quindi versate il sugo sulla pasta
o sui tortelli di zucca e completate con un pizzico di semi di zucca tostati.
• Distribuite un po’ di salvia grossolanamente macinata sulla pizza al
formaggio.
• Aggiungete della salvia grossolanamente macinata ai maccheroni al
cacio.
• Aggiungete salvia alle ricette dei polpettoni di carne.
• Aggiungete salvia alle ricette di melanzane al pomodoro.
• Distribuite della salvia sul soffritto di cipolle nella preparazione di stufati
e stracotti.
• Utilizzate della salvia fresca sminuzzata al posto dell’aneto sul salmone
affumicato.
• Aggiungete un pizzico di salvia su una mela fresca da mangiare così sui
due piedi.
Sedano selvatico. Pronto soccorso per la gotta

I semi di sedano che vengono aggiunti al Bloody Mary per conferire più
brio non hanno nulla a che vedere con la costa di sedano che si usa per
mescolarlo.
I semi di sedano derivano da una pianta appartenente alla stessa famiglia
chiamata Appio palustre che cresce negli acquitrini salati e negli estuari dei
fiumi in tutta Europa e in India. È altresì noto con il nome di sedano
selvatico e ha un aspetto molto simile a quello del sedano comune – la
varietà coltivata nei nostri orti come verdura – ma è talmente amaro da non
essere commestibile. I semi, invece, non solo sono commestibili ma
posseggono anche incredibili virtù. La spezia più piccola al mondo (450
grammi contengono ben 750.000 semi) nasconde un enorme talento
terapeutico in quanto è stracolma di fito-nutrienti che sostengono le cellule
del nostro organismo, principalmente ftalidi (sostanze antinfiammatorie che
conferiscono al sedano e ai semi di sedano il loro caratteristico mordente) e
apigenina, un olio volatile con proprietà antiossidanti. Tradizionalmente, i
medici usavano i semi di sedano per trattare malattie delle vie aeree
superiori come raffreddori, bronchiti, influenza e asma, ma anche
l’indigestione, la ritenzione idrica e le malattie del fegato. Oggi il sedano
selvatico è maggiormente noto come rimedio casalingo per i dolori e
l’infiammazione da artrite, ivi inclusa la forma artritica che colpisce
dolorosamente l’alluce del piede, la cosiddetta gotta.

METTIAMO FINE ALLA GOTTA

La gotta è causata da un accumulo di acido urico, un prodotto di scarto


delle urine. Col passare del tempo, l’acido urico in eccesso si sedimenta
formando cristalli di urato che migrano verso le estremità inferiori fino
all’alluce, sebbene possano depositarsi anche in altre articolazioni.
Lo sviluppo della gotta dipende da numerosi fattori di rischio; tra questi
figurano un eccessivo consumo di carne e alcol – entrambi ricchi di purine,
un componente alimentare che viene scomposto in acido urico –, una
condizione di sovrappeso e patologie quali il diabete di tipo 2 e
l’ipertensione, che indeboliscono i reni deputati allo smaltimento delle
purine. Infine, i soggetti più a rischio sono gli uomini: tre individui affetti
da gotta su quattro sono di sesso maschile (colpa della genetica e… della
birra!).
La gotta assume due forme: acuta e cronica. La condizione acuta è una
crisi, ossia scatena un dolore così lancinante che soltanto sfiorare il
lenzuolo con l’alluce può essere un’esperienza atroce. La gotta cronica
invece è una condizione patologica vera e propria: l’organismo non riesce
più a controllare l’eccesso di acido urico e i cristalli di urato formano degli
aggregati, detti tofi, che gradualmente deformano e distruggono le capsule
articolari.
La gotta richiede un trattamento farmacologico: un antinfiammatorio per
sedare il dolore delle crisi e allopurinolo (Zyloprim) per arrestare la
produzione endogena di acido urico. Tuttavia, il sedano selvatico è sempre
stato propagandato dalla medicina naturale (e dalle tormentate vittime)
come complemento efficace, se non addirittura un valido sostituto, dei
farmaci poiché calma le crisi e favorisce il controllo dell’acido urico a
lungo termine. Provate a digitare i termini semi di sedano e gotta in un
motore di ricerca in Internet ed entrerete in un mondo di testimonianze
secondo cui tale spezia combatte la gotta. Ma saranno tutte vere?
Il dottor James Duke, insigne esperto di fitoterapia nonché vittima della
gotta da lungo tempo, ritiene di sì. «Da quando ho cominciato ad assumere
semi di sedano, ho abbandonato rallopurinolo», ha dichiarato. «Per quanto
mi riguarda, il sedano selvatico è efficace a livello terapeutico quanto il suo
artificiale concorrente farmaceutico, e forse di più». (Comunque sia vi
raccomando di seguire tale esempio solo previa approvazione e sotto la
supervisione del vostro medico).
In ogni caso, esistono prove scientifiche a supporto dell’aneddoto del
dottor Duke.
Notando che il sedano selvatico veniva tradizionalmente usato per
combattere numerose condizioni flogistiche: asma, bronchite, osteoartrite,
artrite reumatoide e gotta, i ricercatori dell’Università di Stato del Michigan
decisero di sezionare e analizzare chimicamente i semi alla ricerca di
composti specifici con proprietà antinfiammatorie. E le trovarono.
Svariati composti presenti nei semi di sedano inibivano la ciclossigenasi 1
(COX-1) e la ciclossigenasi 2 (COX-2), due enzimi cellulari che scatenano
l’infiammazione (dolore, calore, arrossamento e gonfiore) alla base della
gotta e di numerose altre affezioni dolorose.
Su Phytomedicine, i ricercatori scrissero che «le attività biologiche
(riscontrate nei composti presenti nei semi di sedano) collimano con
l’impiego aneddotico dei semi di sedano per alleviare il dolore artritico e
associato alla gotta».
Citando questa ed altre ricerche, il dottor Michael Whitehouse, medico e
ricercatore presso l’Università del Queensland, in Australia, promuove le
proprietà antinfiammatorie dei semi di sedano sulla rivista
Immunopharmacology. «Gli estratti derivati dai semi di sedano indiani»,
scrive, «sono potenti nutraceutici che amplificano l’efficacia (dei farmaci
convenzionali) nel trattamento di infiammazioni croniche preesistenti» in
ambito di patologie come la gotta. In tale articolo esprime inoltre la
speranza che le pessime notizie sulla pericolosità della classe di farmaci
nota come inibitori delle COX-2 – quali il rofecoxib (Vioxx) e il valdecoxib
(Bextra), attualmente ritirati dal commercio – «stimolino un serio riesame
(dei semi di sedano e di altre) terapie antinfiammatorie tradizionali».

DAI DISTURBI MESTRUALI ALLE PUNTURE DI ZANZARA

Recenti testi divulgativi sulla salute testimoniano il fatto che


l’infiammazione rappresenta un grosso problema. Quando si sviluppa
un’infiammazione, il sistema immunitario chiama a raccolta il suo esercito
di cellule specializzate e prende d’assalto il sito di una lesione, qualunque
cosa essa sìa, da un brutto taglio a un preoccupante accumulo di colesterolo.
Il danno collaterale che ne risulta può provocare o complicare molti
problemi di salute. I minuscoli semi di sedano contengono
approssimativamente due dozzine di composti antinfiammatori che
consentono di combattere non solo la gotta ma anche molti altri tipi di
disturbi.
Dolori mestruali. I ricercatori hanno studiato 180 donne con dolorosi
crampi mestruali suddividendole in tre gruppi: ad uno venne somministrata
una formula fitoterapica contenente estratto di semi di sedano, zafferano e
anice, il secondo fu trattato con un analgesico antinfiammatorio, mentre al
terzo venne somministrato un placebo. Dopo tre mesi, le donne che
assunsero la formula fitoterapica e il farmaco presentavano una sostanziale
riduzione del dolore, sia in termini di intensità che di durata dei crampi.
Cardiopatie e ictus. Diversi studi condotti su animali hanno evidenziato
che l’estratto di semi di sedano può ridurre significativamente i livelli di
colesterolo totale, di lipo-proteine a bassa densità (LDL, il colesterolo
«cattivo») e di trigliceridi (un altro tipo d lipide presente nel sangue
ecuore). L’estratto ha inoltre ridotto i valori pressori in animali ipertesi e
contribuito a proteggere il cervello dai danni provocati da ictus
sperimentalmente indotto.
Malattie del fegato. Conducendo esperimenti su animali da laboratorio,
alcuni ricercatori indiani hanno scoperto che gli estratti di semi di sedano
proteggevano le cavie dal danno epatico causato da sostanze chimiche
tossiche. Lo studio, pubblicato sul Journal of Ethnopharmacology,
convalida dunque il tradizionale impiego dei semi di sedano nel trattamento
e nella prevenzione delle malattie del fegato. Un ulteriore studio condotto
su animali e comparso sulla rivista Cancer Letters ha evidenziato che
l’estratto di semi di sedano costituisce una protezione contro i tumori
epatici.
Punture di zanzara. Un’équipe di scienziati tailandesi ha applicato un
repellente ad uso topico derivato dai semi di sedano sulla pelle di alcuni
volontari e li ha esposti a sette differenti specie di zanzara. Il risultato fu che
il repellente fornì una protezione totale per 3-4 ore. I volontari continuarono
a usare il repellente a base di semi di sedano con ottimi risultati per altri
nove mesi.
Effetti collaterali dei farmaci. Un frequente effetto collaterale negli
uomini affetti da epilessia e sottoposti a trattamento con valproato di sodio
(Epilim) è il danno all’apparato riproduttivo a causa del brusco calo dei
livelli di testosterone. In ricerche condotte su animali, gli scienziati hanno
osservato che i semi di sedano erano in grado di impedire tale effetto
collaterale.
Ulcere. Alcuni ricercatori inglesi hanno constatato che l’estratto di semi di
sedano è in grado di uccidere l’Helicobacter pilori, il batterio responsabile
delle ulcere gastriche.
Infezioni micotiche. Studi in vitro dimostrano che il semi di sedano
possono arrestare la crescita di diversi ceppi di miceti, inclusi quelli
responsabili delle infezioni vaginali.
Il sedano selvatico può contribuire a prevenire e/o curare:

Malattie del fegato Artrite


Colesterolo Pressione alta
Candidosi vaginale Gotta
Ulcera Ictus
Crampi mestruali Puntura di zanzara

ALLA SCOPERTA DEL SEDANO SELVATICO

All’indomani di un pasto pantagruelico, gli antichi romani spesso


indossavano delle ghirlande di foglie e semi di sedano selvatico come
«cura» per i postumi del banchetto. Anche alcuni contemporanei
privilegiano i semi di sedano in un classico «rimedio» ricostituente per il
dopo-sbronza: il Bloody Mary, un cocktail di vodka contenente semi di
sedano, rafano e pepe nero macinato.
Tuttavia, sebbene i semi di sedano fossero stati impiegati per millenni
nell’ambito della medicina tradizionale, si dovette attendere il Medioevo
perché iniziassero ad ottenere il favore della popolazione come condimento,
almeno in Francia e in Italia. Oggi, il sedano selvatico è una spezia diffusa
nella cucina americana ed europea, ove viene aggiunto al succo di
pomodoro, nelle minestre di pollo, nei condimenti per insalate, nell’insalata
di cavolo crudo e come ingrediente in salsicce, Wurstel e corned beef.
Nell’industria alimentare viene impiegato nella lavorazione della
mortadella, negli hot dog, e altre carni trattate, nonché in bevande
analcoliche, minestre, sottaceti e persino nel gelato e in prodotti da forno.
Il sedano selvatico è altresì un pilastro della cucina dell’India
settentrionale, dove viene adoperato nei curry, nei sottaceti e nelle salse
chutney.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Il sedano selvatico ha un sapore pungente e un aroma erbaceo che ricorda


il fieno. I minuscoli semi sono di colore marrone scuro con venature chiare
lungo le coste, difficili da distinguere a occhio nudo. Sono reperibili interi
in qualsiasi drogheria con un reparto spezie ben fornito.
Poiché hanno dimensioni così ridotte, la macinatura non è necessaria,
sebbene si possano trovare in commercio semi leggermente pestati o
macinati. Tuttavia, la cosa migliore è acquistarli interi poiché la macinatura
disperde gli oli volatili che tanto beneficio recano alla salute. I semi interi si
mantengono per due anni o più, mentre i semi macinati devono essere
consumati nell’arco di pochi mesi.
È probabile che vi siate imbattuti nel sale di sedano in qualche
supermercato o in qualche ricetta. Si tratta di una miscela composta di sale
per circa il 60% e semi di sedano, talvolta con l’aggiunta di prezzemolo e
aneto. Se i semi di sedano non sono disponibili, questo sale è un sostituto
accettabile.
La maggior parte dei semi di sedano importata negli Stati Uniti proviene
dall’India.

IL SEDANO SELVATICO IN CUCINA

Allo stato naturale i semi di sedano sono amari, ma assumono un sapore


dolce quando vengono cucinati. Se intendete aggiungere del sedano
selvatico a un piatto crudo, potete addolcirne i semi tostandoli leggermente
a secco. State attenti a non bruciarli.
Questa spezia va usata con parsimonia: le dimensioni minuscole
dissimulano l’impatto aromatico che tali semi possono avere su una
pietanza. Nonostante ciò, non fatevi scrupolo di usarli, anzi: i ricercatori
dell’Università di Tokio hanno scientificamente dimostrato che il sedano
selvatico è indispensabile per aromatizzare le minestre; quando hanno
chiesto ai volontari coinvolti neH’esperimento di assaggiare del brodo con e
senza semi di sedano, questi hanno descritto il brodo ricco di semi come più
denso, di sapore più pieno e più soddisfacente.
Altri suggerimenti per introdurre più sedano selvatico nell’alimentazione
quotidiana:

• L’abbinamento gastronomico con tutto ciò che contiene pomodoro è uno


dei più fortunati. Aggiungete dunque semi di sedano al gazpacho, ai
cocktail con succo di pomodoro, alle minestre e ai sughi di pomodoro.
• Anche l’accostamento con le uova è perfetto: aggiungete una presa di
semi alle uova strapazzate o alle omelette. Un pizzico di semi tostati è
ottimo sulle uova alla diavola.
• Aggiungete dei semi di sedano ai brodi e alle minestre di pollo.
Senape. Una garanzia di buona salute

Nonostante le sue dimensioni – all’incirca 2 millimetri e mezzo di


diametro – il seme di senape ha ricoperto un ruolo simbolicamente
importante nella religione. Gesù Cristo affermava che basta avere una fede
grande quanto un granello di senape per riuscire a smuovere le montagne.
Gautama Buddha usava il seme di senape come misura dell’eternità: egli
paragonava il tempo infinito di un «ciclo cosmico» al tempo necessario per
spostare un enorme cumulo di semi di senape muovendo un solo seme ogni
cent’anni. Il Corano dice che, nel Giorno del Giudizio, si dovrà rendere
conto di ogni azione, foss’an-che del peso di un granello di senape.
Ebbene, oggi persino gli scienziati iniziano ad avere fede nel minuscolo
seme di senape. La fonte da cui proviene, la pianta della senape, è una
crucifera, ossia una pianta appartenente a una famiglia botanica dalle
proprietà antitumorali che comprende broccoli, cavolini di Bruxelles,
cavolo riccio e cavolo cappuccio. Pare che i semi di senape contengano gli
stessi composti antitumorali presenti in tali ortaggi ma in quantità
concentrate.

LA SQUADRA ANTI-CANCRO

I protagonisti principali sono i glucosinolati, composti fitochimici


rilasciati dalle cru-cifere quando tali verdure vengono masticate nonché dai
semi di senape quando vengono spezzati o posti a macerare. L’isotiocianato
di allile, un prodotto secondario dei glucosinolati, oleoso e pungente, è
responsabile della caratteristica piccantezza e di molte delle proprietà
terapeutiche dei semi di senape, riscontrate altresì in altre due crucifere
«parenti stretti» della senape: il rafano e il wasabi.
I semi di senape di cui stiamo parlando, però, non provengono dai
germogli di senape che potete trovare al supermercato, bensì sono i semi di
tre piante di senape tanto venerabili da essere menzionate negli antichi testi
religiosi. Ve li presento:
Semi di senape bianca o gialla. Ben noti negli Stati Uniti per via della
salsa di senape gialla in cui vengono usati, sono i semi di dimensioni più
grandi delle tre varietà contemplate e hanno un sapore più delicato.
Semi di senape bruna. Adoperati in Europa e Asia, sono noti anche con il
nome di senape cinese, hanno dimensioni medie e un sapore pungente.
Semi di senape nera. Originari dell’India, sono i più piccoli e i più potenti
dei tre, e presentano almeno un 30% di piccantezza in più rispetto alla
senape bruna.

UNA CONSIDEREVOLE PROTEZIONE

Oltre 200 studi in vitro e in vivo condotti su animali dimostrano che


l’isotiocianato di allile (in sigla, AITC) presente negli ortaggi e nelle piante
della famiglia delle crucifere può prevenire e rallentare la crescita di più
tipologie neoplastiche maligne, tra cui il carcinoma del colon, quello
polmonare, il carcinoma della prostata e il carcinoma ovarico. Una recente
revisione scientifica della ricerca sull’AITC, eseguita dall’Istituto
Oncologico Roswel) Park di Buffalo, nello stato di New York, ha concluso
che tale composto mostra una «attività antitumorale» e «presenta numerosi
attributi auspicabili in un agente chemiopreventivo (una sostanza naturale
che combatte il cancro) in campo oncologico».
Alcuni di questi studi hanno esaminato gli effetti dell’AITC e di altri
composti antitumorali rinvenuti nei semi di senape.
Gli acidi grassi omega-3 presenti nei pesci a carni grasse, come il salmone,
possono proteggere l’organismo dallo sviluppo di tumori del colon. Alcuni
ricercatori dell’Università di Stato del South Dakota hanno rilevato che
l’olio di semi di senape – ricco di acido alfa-linoleico (ALA), un omega-3 di
origine vegetale – fornisce maggiore protezione dal carcinoma del colon in
animali da laboratorio rispetto all’olio di pesce.
Alcuni ricercatori indiani hanno notato che i semi di senape bruna
riducono il livello dei tumori in animali affetti da carcinoma del colon
chimicamente indotto; sono pertanto giunti alla conclusione che
l’introduzione di semi di senape «nel regime alimentare quotidiano riveste
un ruolo fondamentale nella protezione del colon da cancerogenesi
chimica».
Un’équipe di ricercatori canadesi ha osservato che l’estratto di semi di
senape bianca o gialla riduce il carcinoma del colon fino al 50% in animali
da laboratorio nutriti con una dieta iperlipidica, e che l’estratto può
verosimilmente essere d’ausilio nel combattere «carcinomi del colon
associati a obesità» negli esseri umani.
Considerando che l’olio di semi di senape «viene ampiamente utilizzato
come strumento culinario in svariati paesi per via del suo caratteristico
sapore aspro e pungente, nonché adoperato anche come condimento», e
notando che i semi di senape sono «largamente impiegati nella preparazione
di salse, paste speziate e sottaceti», un altro gruppo di ricercatori indiani ha
condotto un esperimento su animali da laboratorio dimostrando che l’olio di
semi di senape fornisce protezione dal cancro chimicamente indotto. Gli
studiosi hanno ipotizzato un’azione basata sulla detossificazione da
sostanze chimiche oncogene e un effetto antiossidante volto a proteggere le
cellule dal danno ossidativo. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista
Cancer Letters.

UNA CURA ALL’ALTEZZA DELLE ASPETTATIVE

I ricercatori hanno evidenziato numerosi altri ambiti in cui i semi di


senape possono proteggere la salute.
Malattie cardiovascolari. I ricercatori della Harvard School of Public
Health hanno analizzato i dati relativi alla dieta e alle malattie
cardiovascolari di oltre 1000 individui abitanti in India e hanno osservato
che quanti adoperavano olio di semi di senape in cucina – un olio ricco di
acido alfa-linoleico che protegge il cuore – presentavano una percentuale di
rischio di malattie cardiovascolari inferiore del 51% rispetto alle persone
che utilizzavano olio di semi di girasole. I risultati sono stati pubblicati
sull’American Journal of Clinical Nutrition.
Nell’ambito di un esperimento, alcuni ricercatori indiani hanno nutrito
degli animali con semi di senape bruna ottenendo un abbassamento del
colesterolo totale e dei livelli di colesterolo LDL (quello «cattivo) nonché un
incremento dei livelli di HDL, il colesterolo «buono». I risultati sono stati
riportati in un articolo sulla rivista Plant Food for Human Nutrition.
Prediabete. Oltre 50 milioni di americani soffrono di un disturbo
patologico, noto anche come insulino-resistenza, in cui la risposta delle
cellule all’insulina, ossia l’ormone che controlla il glucosio, non è più
adeguata e i livelli di glucosio ematico (gli zuccheri nel sangue) si attestano
e permangono su valori elevati. Qualora non venga tenuto sotto controllo, il
prediabete può sfociare in diabete di tipo 2, il quale a sua volta può
condurre a malattie cardiovascolari, ictus, cecità, neuropatia e insufficienza
renale.
Nell’ambito di uno studio in vivo, un gruppo di ricercatori indiani ha
nutrito degli animali con una dieta ad alto contenuto di zuccheri in modo da
aumentare considerevolmente i livelli di glucosio e insulina; quando
integrarono la dieta con semi di senape bruna, i livelli di glucosio e insulina
si normalizzarono. Tali furono le conclusioni degli esperti pubblicate sul
Journal of Ethnopharmacology: i semi di senape «possono trovare
collocazione nella gestione dello stato prediabetico di insulino-resistenza e
sarebbe auspicabile promuoverne l’impiego in pazienti con tendenza al
prediabete».
Disturbi della prostata. L’ingrossamento della prostata – una condizione
clinica definita ipertrofia prostatica benigna (IPB) – è un problema diffuso
negli uomini in età avanzata che provoca difficoltà di minzione. In uno
studio condotto su animali, alcuni ricercatori cinesi hanno osservato che due
agenti fitochimici presenti nei semi della senape bianca contribuivano a
prevenire l’ipertrofia prostatica benigna sperimentalmente indotta.
Broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Un gruppo di medici
cinesi adottò il tradizionale rimedio popolare del «senapismo» – un
cataplasma preparato impregnando una pezza bagnata di semi di senape in
polvere (poltiglia) che viene poi racchiusa tra due garze di protezione e
applicata direttamente sul petto del paziente – per trattare 59 pazienti affetti
da bronchite cronica (una forma di broncopneumopatia cronica ostruttiva).
Venticinque altri soggetti affetti da BPCO non ricevettero tale trattamento.
Dopo un anno, gli individui curati con i cataplasmi di senape registrarono
un tasso di miglioramento superiore sia in termini di sintomi, come tosse e
mancanza di fiato, che di aumento dei livelli di fattori immuni che
contrastavano la malattia.
Salute cerebrale. Gli astrociti sono cellule a forma di stella presenti nel
cervello e nel midollo spinale che svolgono importanti funzioni: aiutano i
neurotrasmettitori a trasmettere i segnali nervosi da neurone a neurone,
contribuiscono a controllare il flusso ematico al cervello, forniscono ai
neuroni sostanze nutritive fondamentali, regolano i livelli di potassio nel
cervello – una sostanza di importanza cruciale per le funzioni neuronali – e,
quando i neuroni subiscono un danno (ad esempio una lesione del midollo
spinale), eliminano i detriti e contribuiscono a riparare la lesione. Gli acidi
grassi essenziali sono cruciali per la salute dei neuroni, e alcuni ricercatori
indiani hanno condotto studi di laboratorio sugli acidi grassi contenuti in
vari oli da cucina per analizzare il modo in cui incidono sulla crescita e lo
sviluppo degli astrociti. Scoprirono che, grazie all’acido alfa-lino leico,
l’olio di semi di senape «era più efficace di altri oli» nel promuovere la
crescita e Io sviluppo di tali cellule. Il ruolo dell’olio di semi di senape nel
«promuovere lo sviluppo degli astrociti può avere un potenziale impatto
positivo sulla salute dell’essere umano», conclusero gli esperti sulla rivista
Cell Molecular Neurobiology.

ALLA SCOPERTA DEI SEMI DI SENAPE

I semi di senape di per sé non hanno alcun aroma o sapore, ma quando il


rivestimento esterno del seme viene spezzato e l’interno viene a contatto
con l’acqua fredda (con l’acqua calda non succede), un enzima detto
mirosinasi entra in azione attivando il processo che produce il sapore
caratteristico delle senapi e delle mostarde.
Ci vogliono 10 minuti affinché i semi raggiungano la massima intensità di
sapore, dopodiché questo inizia a stemperarsi. Ed è proprio questo il segreto
della preparazione di una buona senape: portare i semi al livello di sapore
desiderato e poi aggiungere un ingrediente acido, quale può essere l’aceto,
per disattivare l’enzima; quindi si può procedere a unire gli altri aromi nella
combinazione preferita.
Gli antichi romani furono i primi a sviluppare la tecnica per la
preparazione della senape e diffusero tale pratica a tutto l’impero,
introducendo così i semi di senape bianca e nera in Inghilterra dove, oggi
come oggi, la senape rappresenta uno dei condimenti preferiti (forse perché
il suo gusto pungente rinvigorisce i cibi notoriamente poco saporiti di
questo paese).
I romani portarono i semi di senape anche a Digione, in Francia, e nel XIV
secolo tale città divenne la sede della prima industria commerciale
produttrice di senape (se mai vi trovaste a Digione, fate una puntata al
Museo della senape). Oggigiorno i francesi producono oltre 3500 varietà di
salse di senape.
Nel 1700 gli inglesi inventarono un modo per macinare i semi oleosi e
trasformarli in una polvere secca e, nel 1800, fu fondata la Colman’s
Mustard, ancora oggi l’azienda più famosa al mondo per la produzione di
senape in polvere. Inizialmente questa veniva lavorata mescolando semi di
senape bianca e nera con della curcuma (la spezia indiana giallo-dorata) per
dare colore alla senape, e farina di grano per darle consistenza. Oggi
vengono utilizzati solo semi di senape bianca.
La senape non giunse sulla scena gastronomica americana fino al tardo
Ottocento, epoca in cui i fratelli Robert e George French acquistarono uno
stabilimento di lavorazione a Fairport, nello stato di New York. Lì Robert
inventò la French’s mustard, la senape dal colore giallo brillante che fece il
suo debutto nel 1904 su un hot dog all’Esposizione Mondiale di St. Louis.
Attualmente, i semi di senape e la senape in polvere figurano tra le spezie
più diffuse al mondo. Sia la polvere che i semi vengono adoperati per
preparare salse di senape e mostarde con varianti distribuite lungo un’ampia
scala di piccantezza, dal delicato all’infuocato, e con un numero di aromi
pressoché infinito.
Gli inglesi prediligono le senapi forti preparate con semi di senape bruna o
una combinazione di senape bianca e nera. I tedeschi vantano una
vastissima gamma di senapi, e le bottigliette di senape delicata e forte sono
onnipresenti sulle tavole delle case e dei ristoranti di tutta la Germania. La
senape Dusseldorf, fatta con semi di senape nera, è la marca tedesca più
famosa. Sia inglesi che tedeschi adoperano dosi generose di senape su carni,
salsicce e affettati di carni arrosto fredde.
La senape di Digione viene anch’essa preparata con semi di senape nera
ed è un ingrediente di due famose salse francesi, la salsa Robert e la salsa
verde, tipicamente adoperate sulla carne alla griglia.
La senape cinese, conosciuta in tutto il mondo, è fatta di semi di senape
bruna ridotti in polvere ed acqua; i cinesi la utilizzano come salsa da
pinzimonio combinando senape in polvere con olio di sesamo e olio al
peperoncino.
La senape è considerata un elemento indispensabile sulla famosa carne di
manzo argentina.
I cuochi indiani impiegano semi di senape bruna o nera soffriggendoli in
olio bollente finché non iniziano a scoppiettare. Il procedimento sottrae
piccantezza alla senape e le conferisce un retrogusto di noce. Nella cucina
dell’India meridionale, i semi di senape bruna vengono soffritti in olio con
semi di cumino, foglie di curry e assafetida – un procedimento detto
rinvenimento – e aggiunti al cibo al termine della cottura.
Gli indiani aggiungono anche i semi interi a innumerevoli tipi di chutney,
curry, sottaceti e piatti a base di legumi chiamati dal. I semi di senape
vengono inoltre utilizzati per aromatizzare miscele e paste di curry nonché
svariati mix di spezie.
L’olio di senape, ottenuto a partire dai semi di senape bruna, è un olio da
cucina molto diffuso in India. Benché di odore pungente e di gusto amaro a
crudo, assume un aroma dolce e piacevole quando viene scaldato.
Negli Stati Uniti è inconcepibile mangiare un hot dog senza senape gialla,
ma questa è anche un condimento perfetto per le uova alla diavola e le
insalate di patate, nonché sulla carne alla griglia, le salsicce, il corned beef
gli affettati di carni arrosto fredde. Negli stati della Carolina e in altri stati
del sud si usa mangiare le costine e il maiale allo spiedo con una «mop
sauce» a base di senape (una salsina fluida utilizzata per spennellare la
carne durante la cottura, N.d.T.) anziché con la salsa rossa da barbecue.

I semi di senape possono contribuire a prevenire e/o curare:

Colesterolo Diabete tipo 2


Bassi livelli di HDL Ipertrofia prostatica
Malattie cardiovascolari Insulino-resistenza
Tumori Broncopneumopatia cronica ostruttiva

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Quando si tratta di semi di senape, la regola d’oro è la seguente: più sono


piccoli e scuri, piu sono piccanti. I semi di senape nera hanno un sapore
intensamente pungente con un retrogusto di noce, mentre i semi di senape
bruna sono meno piccanti e di gusto più morbido rispetto a quella nera;
infine, i semi di senape bianca hanno un aroma delicato.
I semi di senape bianca e la senape in polvere sono facilmente disponibili
nei negozi ben fomiti; i semi vengono venduti interi, pestati o macinati.
I semi di senape bruna sono più difficili da reperire, ma è possibile trovarli
nelle botteghe di prodotti indiani e asiatici oppure possono essere ordinati
su internet da rivenditori specializzati.
I semi di senape nera sono difficili da trovare perché la produzione non
viene realizzata su larga scala. In effetti, la raccolta è un’operazione
piuttosto complessa a causa delle ridotte dimensioni dei semi.
Persino un esperto di cucina ha qualche difficoltà a distinguere i semi di
senape bruna da quelli di senape nera, poiché i primi hanno un colore
marrone estremamente scuro sebbene con una lieve sfumatura rossiccia. Ma
ciò ha poca importanza: i semi bruni sono un valido sostituto dei semi neri
in qualsiasi ricetta.
I semi interi sono piuttosto stabili e si mantengono per tre anni. Non è
necessario tenerli lontano dal calore ma conviene conservarli in un luogo
asciutto.
Le salse di senape già pronte sono disponibili sul mercato in infinite
varietà e numerosi gradi di piccantezza. Quando acquistate una senape
pronta, evitate i vasetti o le bottigliette che mostrano segni di separazione,
tipicamente un velo di aceto tornato alla superficie. Per garantire il massimo
deU’aroma, conservate la senape pronta a temperatura ambiente.

I SEMI DI SENAPE IN CUCINA

Sebbene esistano migliaia di qualità diverse di senape pronta, è divertente


prepararne una da sé, oltre ad essere un buon modo per impressionare gli
ospiti.
La preparazione della senape viene fatta immergendo innanzitutto i semi
di senape macinati in acqua o altro liquido per estrarne la piccantezza,
quindi utilizzando dell’aceto o un altro ingrediente liquido di natura acida
per fissare l’aroma sviluppato e, successivamente, unendo altri aromi per
conferire alla senape il carattere desiderato. Quando si aggiungono aromi,
quasi tutti gli ingredienti risultano adatti: spezie esotiche, fiori
commestibili, vini, peperoncini e miele sono solo alcune tra le numerose
opzioni disponibili. L’uso di senape in polvere, ovviamente, semplifica
l’intero procedimento.
Gli ingredienti acidi non conferiscono aroma ma semplicemente bloccano
l’azione dell’enzima ed esaltano il profumo penetrante della mistura. Se si
aggiunge dell’aceto all’inizio, questo impedisce all’enzima di agire,
producendo così un sapore più delicato.
L’immersione iniziale in acqua è ciò che sviluppa il sapore. L’acqua
fredda, il latte, il vino e la birra figurano tra le scelte più popolari. L’acqua
conferisce alla senape un gusto secco e nitido, il latte un aroma più speziato
e pungente, mentre la birra la rende più piccante.
I semi devono rimanere a bagno nel liquido per 10 minuti per poter
sviluppare il sapore in tutta la sua intensità. L’aceto o l’acqua calda possono
essere aggiunti in qualsiasi momento entro questo arco di tempo per
fermare lo sviluppo della piccantezza. In ogni caso, se si superano i 10
minuti, l’aroma comincerà a disperdersi. I semi di senape bianca producono
una salsa più delicata, quelli bruni una senape forte – se avete mai
assaggiato la senape cinese, sapete quanto può essere piccante! – e i semi
neri una salsa più piccante ancora.
La preparazione della senape è solo uno dei numerosi impieghi di tali
semi. Questi non hanno necessariamente bisogno di essere tostati, ma la
tostatura conferirà al piatto più consistenza e aroma. Ecco alcune idee per
utilizzarli in cucina:

• Aggiungete dei semi interi alle marinate per ricette alla griglia, nonché ai
rub e alle salse per il barbecue.
• Tostate dei semi di senape e del cocco grattugiato e poi distribuiteli sui
fagioli al vapore.
• Poiché i semi di senape si abbinano in modo naturale agli ortaggi della
famiglia delle crucifere, fate soffriggere in olio dei semi finché non iniziano
a scoppiettare e rifinite in questo modo cavoli, cavolfiori, broccoli, cavolini
di Bruxelles, foglie di cavolo nero o germogli di senape.
• Preparate una miscela di semi di senape e, rispettivamente, 1 cucchiaio di
paprica e di origano con cui rivestire le carni rosse per le ricette in crosta.
• Unite 1/4 tazza di semi di senape macinati a 1/4 tazza di salsa Worcester
e il succo di un lime, quindi versate la mistura su un cosciotto d’agnello, o
un altro taglio d’agnello per arrosto, e lasciate marinare per circa 1 ora
prima di metterlo in pentola.
• Preparate la «Memphis mop sauce» combinando 1/2 tazza di senape
gialla, tipo quella da hot dog, con 2 tazze di aceto di sidro e 1 cucchiaino di
sale e usatela per spennellare la carne sul barbecue.
• Preparate una vinaigrette combinando 2 cucchiaini di semi di senape, 1
cucchiaino di senape di Digione, 1 cucchiaio di succo di limone e 2
cucchiai di aceto di sidro, quindi aggiungete 1/3 tazza di olio extravergine
di oliva ed emulsionate bene.
• Aggiungete della senape già pronta all’insalata di patate e della senape in
polvere all’insalata di pollo.
Sesamo. Per una circolazione migliore

«APRITI SESAMO!»

Questa notissima frase – la parola magica per accedere alla caverna del
tesoro che All Baba aveva udito per caso nella fiaba «Alì Babà e i quaranta
ladroni» – è probabilmente basata sul fatto che le capsule della pianta del
sesamo si rompono quando giungono a maturazione, aprendosi e
spargendone tutt’attorno i semi.
La pianta selvatica del sesamo, originaria dell’Africa Occidentale è stata
acclimatata anche in India, dove i semi sono simbolo di immortalità nella
religione induista e l’olio di semi di sesamo ricopre una funzione cruciale
nell’Ayurveda, l’antico sistema di medicina e terapia naturale. Charaka –
l’Ippocrate della medicina ayurvedica – lo definiva «il migliore degli oli» e
l’Ayurveda lo consiglia per l’abhyanga, un automassaggio quotidiano
completo per purificare e tonificare il corpo. Nel suo libro Ayurveda: la
scienza dell’autoguarigione, l’insigne medico ayurvedico dottor Vasant Lad
raccomanda un massaggio quotidiano con olio di sesamo alle gengive e lo
strofinamento della pianta dei piedi con l’olio prima di coricarsi per indurre
un sonno calmo e tranquillo.
I semi di sesamo sono così oleosi che lo si percepisce anche al tatto
strofinandoli tra le dita. In effetti il seme è composto per il 40%-60% di
olio, ivi inclusi numerosi grassi monoinsaturi (dello stesso tipo presente
nell’olio di oliva) che fanno bene al cuore. Il sesamo presenta anche un
contenuto di vitamina E molto elevato che, in qualità di antiossidante,
sostiene la salute del cuore. Inoltre, è ricco di fitosteroli, ossia composti di
origine vegetale simili al colesterolo che bloccano l’assorbimento del
colesterolo alimentare, ed è carico di lignani quali la sesamina e la
sesamolina, un genere di fitoestrogeni (sostanze estrogeniche di origine
vegetale) anch’essi legati alla salute del cuore. Pertanto, non sorprende
affatto che la ricerca scientifica sia riuscita a dimostrare che i minuscoli
semi del sesamo possono svolgere un ruolo fondamentale nella salute del
sistema cardiocircolatorio riducendo, verosimilmente, il rischio di infarti e
ictus.
«APRITEVI ARTERIE!»

La pressione alta, o ipertensione, è uno dei principali fattori di rischio di


infarto e ictus. I farmaci antipertensivi possono tenere sotto controllo tale
problema, ma la combinazione di antipertensivi e olio di semi di sesamo
potrebbe persino curarlo.
Una cura per l’ipertensione. Alcuni ricercatori indiani hanno studiato
circa 398 individui con pressione arteriosa molto elevata, tutti sotto terapia
farmacologica con nifedipina (Procardia) – un farmaco bloccante i canali
del calcio – per tenere sotto controllo il problema. A 365 partecipanti allo
studio fu chiesto di utilizzare l’olio di sesamo come unico tipo di olio
alimentare per due mesi e, al termine di tale periodo, i ricercatori stentarono
a credere ai risultati.
«Il consumo di olio di sesamo ha notevolmente ridotto i valori pressori»,
affermarono gli studiosi. La pressione sistolica (il valore della massima) era
calata da una media di 164 a 134, mentre quella diastolica (il valore della
minima) si era ridotta da 101 a 85. Interpretando i risultati in termini
diversi, la pressione media era scesa da ciò che gli esperti indicano come un
livello «molto elevato» di ipertensione di stadio 2 a un livello «di guardia»
riconducibile a uno stato di pre-ipertensione; in altre parole, i partecipanti
non presentavano più ipertensione così come clinicamente definita!
E non è tutto. I soggetti presentavano anche livelli ematici inferiori di
sodio e livelli superiori di potassio, che costituiscono un segno di gestione
efficace della pressione arteriosa, e registrarono una drastica riduzione
dell’ossidazione di lipidi ematici, ovvero il processo che conduce alla
formazione della placca che va ad ostruire le arterie. Infine, si assistette a un
cospicuo incremento dei livelli di vari antiossidanti nel sangue, come la
superossido dismutasi, che proteggono le arterie.
«Tali risultati suggeriscono che, in pazienti ipertesi che assumono
nifedipina, la sostituzione di altri oli alimentari con olio di sesamo nella
dieta produce un effetto addizionale a quello del farmaco nella riduzione
della pressione arteriosa», conclusero gli esperti sul Journal of Dietary
Supplements.
In un altro studio condotto dalla medesima équipe di ricercatori, 32
soggetti ipertesi in terapia farmacologica con agenti ipotensivi diversi – un
diuretico o un beta-bloccante –furono invitati ad utilizzare esclusivamente
olio di sesamo come olio per uso alimentare per un periodo di 45 giorni.
Ancora una volta, la pressione arteriosa venne normalizzata.
Successivamente, i soggetti smisero di usare l’olio di semi per altri 45
giorni, e la pressione schizzò nuovamente alle stelle! I risultati furono
pubblicati sullo Yale Journal of Biological Medicine.
Riduzione del colesterolo nelle donne in periodo postmenopausale. Il
calo di estrogeni fisiologico a cui si assiste nella donna che entra in
menopausa significa minore protezione delle arterie e un aumento
dell’incidenza di patologie cardiovascolari. Alcuni ricercatori di Taiwan
hanno studiato 24 donne in periodo postmenopausale suddividendole in due
gruppi. A uno solo dei gruppi venne indicato di includere 50 grammi di
sesamo in polvere nella dieta. Rispetto alle donne che non consumarono
sesamo, quelle che lo fecero registrarono un maggiore calo dei livelli di
colesterolo totale e di colesterolo LDL (quello «cattivo»), nonché un più
positivo e salutare rapporto tra colesterolo LDL e HDL (quello «buono»).
Inoltre, si assistette a una minore ossidazione delle lipoproteine a bassa
densità (LDL) e a un aumento dei livelli ematici di bioindicatori dell’attività
estrogenica. Sul Journal of Nutrition i ricercatori conclusero che «l’apporto
di sesamo reca beneficio alle donne in periodo postmenopausale».
Potenziamento dell’azione protettiva della vitamina E. «Si ritiene che i
tocoferoli» (ossia j componenti della vitamina E) «partecipino alla
prevenzione di patologie associate al processo di invecchiamento, quali
tumori e malattie cardiovascolari», scriveva un’équipe di ricercatori del
Centro di ricerca sui tumori dell’Università delle Hawaii sulla rivista
Nutrition and Cancer. Tuttavia, sottolineavano gli esperti, poco si sa su
quali alimenti aumentino effettivamente i livelli ematici di vitamina E e
favoriscano «l’attività funzionale» di protezione cellulare di questo
principio nutritivo. D’altro canto, la ricerca condotta su animali indica la
necessità di aumentare i livelli di gamma-tocoferolo affinché la vitamina E
possa esplicare la sua azione. La maggior parte degli integratori di vitamina
E, in effetti, contiene il più noto alfa-tocoferolo, ma sono i semi di sesamo
ad essere ricchi di gamma-tocoferolo.
Nell’ambito del loro studio, i ricercatori diedero da mangiare a 9 persone
dei muffin preparati con semi di sesamo (ricco di gamma-tocoferolo) o con
noci od olio di semi di soia (altre due buone fonti di gamma-tocoferolo).
Dopo tre giorni, soltanto i muffin ai semi di sesamo avevano prodotto un
«aumento significativo» dei livelli di gamma-tocoferolo ematico.

UN PICCOLO SEME PER GRANDI RISULTATI

La ricerca condotta su animali e studi in vitro rivelano promettenti


possibilità per il sesamo di concorrere alla prevenzione e al trattamento di
numerose malattie.
Morbo di Alzheimer. Alcuni ricercatori coreani hanno scoperto che il
sesamolo – un composto presente nel sesamo – era in grado di arrestare la
formazione di beta–amiloide, la proteina riscontrata nella placca che infiltra
il tessuto cerebrale delle persone affette da questa patologia degenerativa. Il
sesamo «potrebbe essere uno strumento promettente nel trattamento del
morbo di Alzheimer», conclusero i ricercatori sul Biological and
Phaimaceutical Bulletin.
Tumori. Numerosi studi dimostrano che il sesamo e i suoi componenti
potrebbero nascondere un potenziale antitumorale. A livello di test di
laboratorio, alcuni ricercatori giapponesi hanno osservato che la sesamina
inibisce la crescita di cellule del carcinoma mammario e che riduce altresì
l’attività dei geni legati a tumori a carico di polmoni, ossa, reni e cute. Un
altro gruppo di ricercatori giapponesi ha notato che il sesamolo è in grado di
uccidere le cellule della leucemia, mentre alcuni ricercatori statunitensi
hanno riscontrato che sia il sesamolo che l’olio di sesamo riducono il
numero di tumori in animali affetti da tumori della pelle chimicamente
indotti.
Corea di Huntington. Questa malattia genetica che colpisce il sistema
nervoso centrale insorge tipicamente nella mezza età e conduce a paralisi
semitotale e demenza. Alcuni ricercatori indiani, ricorrendo a un modello
animale di Corea di Huntington chimicamente indotto per testare l’efficacia
protettiva del sesamolo, riscontrarono che tale agente antiossidante del
sesamo contribuiva a prevenire la perdita del controllo muscolare e il
declino cognitivo. Sulla rivista Basic Clinical and Pharmacological
Toxicology scrissero che «il sesamo potrebbe essere impiegato come
efficace agente nel trattamento della Corea di Huntington».
Rimarginazione delle ferite. Nell’ambito di studi condotti su animali, un
gruppo di ricercatori indiani ha scoperto che una formula composita di semi
di sesamo e olio di sesamo accelera la rimarginazione di ferite.

ALLA SCOPERTA DEL SESAMO

È da diverso tempo ormai che l’uomo apprezza i semi di sesamo, tant’è


che su una tomba egizia risalente a 4000 anni fa sono scolpite le figure di
alcuni panettieri che cospargono il pane di semi di sesamo. Ancora oggi essi
vengono utilizzati per ricoprire pagnotte, focaccine, panini morbidi e
ciambelline di pane. Una curiosità: di tutti i semi di sesamo prodotti in
Messico, un terzo viene acquistato da McDonald’s per preparare i panini al
sesamo degli hamburger.
La maggior parte del sesamo prodotto su scala mondiale, tuttavia, viene
impiegato non come spezia bensì come materia prima per la preparazione di
olio di sesamo. Dalla pressatura a freddo dei semi si ottiene un olio
altamente stabile che non irrancidisce con il caldo o l’umidità. È questo il
motivo per cui l’olio di sesamo è diventato parte integrante della cucina
asiatica come olio per fritture e ingrediente per altre preparazioni (in tale
zona l’olio di sesamo viene anche chiamato olio gingelly).
I semi freschi della pianta del sesamo presentano svariate colorazioni:
giallo, marrone, nero e rosso, ma una volta sgusciati hanno tutti il
medesimo colore bianco crema. È questo il seme adoperato in tutti gli Stati
Uniti e l’Europa, mentre i semi neri non sgusciati vengono utilizzati in
aggiunta ai semi bianchi in Medio Oriente, India e Asia.
Il Medio Oriente vanta numerose specialità gastronomiche a base di
sesamo. Lhalva è una confezione di pasticceria molto popolare, densa e
dolce, fatta di semi di sesamo macinati e sciroppi zuccherati compressi fino
ad ottenere una pasta compatta. La tahina, una pasta di semi di sesamo
macinati, viene adoperata per preparare romonima salsa o come crema da
spalmare, e solitamente accompagna i falafel (polpettine di ceci fritte) e il
baba ghanoush, un contorno cremoso a base di melanzane condite.
L’hummus – facilmente reperibile in quasi tutti i supermercati degli Stati
Uniti – è una crema di ceci preparata con tahina, olio di oliva e spezie. Il
simsmiyeh è invece una sorta di torroncino morbido al sesamo diffuso in
Libano. Ma il sesamo compare anche tra gli ingredienti principali del
dukkah, la miscela egiziana di spezie e nocciole tritate.
In India i semi neri e bianchi del sesamo, detti gingili, svolgono parecchi
ruoli culinari: pane, pasticcini e focaccine vengono ricoperti di sesamo, e i
semi sono adoperati anche nel riso pilaf, nelle salse e nei ripieni. La regione
indiana di Gaya è rinomata per il tilkut, una stuzzicante barretta dolce fatta
con semi di sesamo.
Uno degli usi più innovativi del sesamo lo si ritrova nella cucina shoujin
ryori del Giappone, una tradizione culinaria vegetariana creata dai monaci
buddhisti. Tale cucina offre uno dei pochi piatti in cui i semi di sesamo sono
protagonisti assoluti: il goma dofu, ossia semi di sesamo macinati fino ad
ottenere una pasta e poi pressati in blocchi in modo molto simile al tofu,
un’altra specialità giapponese a base di semi di soia lavorati e pressati in
blocchi a forma di parallelepipedo secondo un procedimento particolare. La
cucina giapponese adopera i semi bianchi anche per aromatizzare la salsa
teriyaki nonché semi neri e bianchi nel sushi. Il sfochimi (il peperoncino ai
sette sapori) è una miscela di spezie tradizionale a base di sesamo e
rappresenta un condimento comune sulle tavole dei giapponesi. In
Giappone si usa anche mescolare sesamo, glutammato monosodico e sale
da utilizzare come normale sale da tavola. Sia in Cina che in Giappone i
semi di sesamo vengono inoltre macinati e ridotti in crema per condire le
tagliatelle.
In Messico i semi di sesamo sono sovente usati nelle ricette dei mole, salse
dalla preparazione assai complessa che costituiscono la firma gastronomica
di numerose cucine regionali.
Il sesamo non comparve negli Stati Uniti fino al XVII secolo, quando fu
portato dall’Africa Occidentale con il commercio degli schiavi. Nella
maggior parte degli stati del sud, gli abitanti chiamano ancora il sesamo
«benni», ove bermi è il nome africano con cui è conosciuto il sesamo, e una
specialità del sud sono proprio i benniseed cookies, ossia i biscotti di semi
di sesamo.

Il sesamo può contribuire a prevenire e/o curare: colesterolo, pressione


alta, malattie cardiovascolari.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO


I semi di sesamo hanno un colore bianco periato, sono piatti, piccoli e a
forma di lacrima. Sono facilmente reperibili in qualsiasi negozio ben
fornito. Durante l’acquisto, cercate semi di colore bianco-crema omogeneo.
Poiché sono piuttosto oleosi, i semi non durano molto a lungo. Se sono
rimasti nell’armadietto delle spezie per qualche mese, è meglio annusarli
prima di adoperarli: se sanno di rancido, buttateli via. Per conservarli al
meglio il più a lungo possibile, vanno riposti in contenitori ermetici e
riparati in un luogo fresco lontano dalla luce.
I semi neri di sesamo non sgusciati si possono trovare nei negozi di
prodotti indiani e asiatici. Non c’è molta differenza di gusto o consistenza
tra semi bianchi e semi neri, ma i cuochi spesso scelgono gli uni o gli altri
in base all’effetto estetico che intendono dare al piatto.
La maggior parte del sesamo proviene dalla Cina e dall’India, ma viene
anche coltivato in Guatemala, Messico e negli stati meridionali degli Stati
Uniti. Gran parte dei semi venduti sul mercato statunitense è di provenienza
messicana.

IL SESAMO IN CUCINA

Allo stato naturale i semi di sesamo hanno poco sapore e sanno di stantio,
per questo è necessario tostarli in modo da far affiorare la loro affascinante
essenza di noce. Tuttavia, l’operazione richiede particolare attenzione, in
quanto tendono a bruciare facilmente. Il modo più semplice è tostarli a
secco in una padella di ferro: scaldate la padella a fuoco medio-alto solo per
pocihi minuti finché non si dorano, e rimestate continuamente affinché non
brucino. Se iniziano a «saltellare», è segno che sono pronti.
L’olio di sesamo ha un sapore forte: ne basta poco. Il consiglio è di
utilizzarne solo un quarto o un terzo della quantità che adoperereste con
altri oli. L’olio di sesamo conferisce un piacevole aroma di noce alle sauté,
in particolare di pollo e di verdure.
Non c’è limite a. ciò che si può fare con i semi di sesamo tostati. Si
possono utilizzare indifferentemente sèmi bianchi e neri; se non avete a
disposizione semi neri, sostituiteli con i bianchi, l’unica perdita reale sarà
l’effetto scenografico della presentazione finale. Ecco alcune idee per
arricchire la vostra dieta di sesamo:
• Mettete dei semi tostati nelle insalate verdi o nelle macedonie.
• Insaporite gli spinaci al vapore con sesamo tostato e un soffritto d’aglio.
• Utilizzate semi di sesamo al posto del pangrattato per «impanare» le
coscette o i petti di pollo.
• Cospargete qualche seme di sesamo tostato sulle zuppe di lenticchie.
• Distribuite sul gelato una presa di sesamo tostato.
• Guarnite le uova alla diavola con semi neri e bianchi di sesamo tostato.
• Aggiungete semi bianchi tostati alle ricette di pollo alla diavola.
• Cospargete di sèmi bianchi tostati le puntine di maiale durante gli ultimi
minuti di cottura alla griglia dopo averle spennellate con una salsa da
barbecue speziata.
• Preparate una salamoia per la carne alla griglia combinando 2 cucchiai di
semi di sesamo bianchi e neri, 2 cucchiai di sale grosso, 1 cucchiaino di
peperoncino rosso a pezzetti e molti grani di pepe nero grossolanamente
pestati.
Sesamo nero. La «sorprendente» panacea

«È un rimedio per tutti i mali tranne la morte».


I pandit e gli eruditi attribuiscono tale affermazione sui sorprendenti poteri
terapeutici del sesamo nero al profeta Maometto, fondatore dell’Islam.
Anche la Bibbia contribuisce alla fama del sesamo nero curativo
nominandolo nel Vecchio Testamento nel Libro di Isaia.
E in questo caso, religione e scienza sono d’accordo. Un’équipe di
ricercatori della Medical University of South Carolina ha esaminato oltre
160 studi scientifici sulle qualità medicamentose di questa spezia nera come
il giaietto, originaria del Medio Oriente e dell’Asia Occidentale e
formalmente nota come Nigella sativa. «Tra le piante medicinali
terapeuticamente promettenti», dichiararono gli esperti, «il sesamo nero è
sorprendente».
Gli studi indicano che i semi di sesamo nero possono contribuire a
prevenire una vasta gamma di patologie croniche, tra cui tumori, malattie
cardiovascolari e asma, nonché numerosi altri disturbi. Il protagonista
presente in tali semi è un antiossidante straordinariamente potente chiamato
timochinone (TQ), un composto non ancora individuato in nessun’altra
specie vegetale. Il sesamo nero è altresì ricco di nutrienti, tra cui aminoacidi
essenziali (i componenti delle proteine), acidi grassi essenziali (i
componenti dei grassi), la vitamina beta-carotene e minerali quali calcio,
ferro e potassio. In totale, negli oli volatili del sesamo nero sono stati
individuati oltre 100 composti fondamentali per la salute, ma i ricercatori
sono dell’avviso che ve ne siano ancora molti altri da scoprire.
Ed ecco un assaggio di ciò che i ricercatori hanno già svelato circa i poteri
terapeutici del sesamo nero.

POTENZIAMENTO DEL SISTEMA IMMUNITARIO

Come notarono i ricercatori della Carolina del Sud, una delle preziose
proprietà del sesamo nero è la capacità di irrobustire il sistema immunitario.
«Gli studi suggeriscono che qualora impiegata su base continua, la Nigella
sativa (sesamo nero) può incrementare la risposta immune nell’essere
umano», scrissero.
Nell’ambito di uno studio, i soggetti trattati con olio di semi di sesamo
nero per quattro settimane registrarono un aumento pari al 30% dell’attività
delle cellule natural killer, ossia cellule del sistema immunitario che
uccidono virus e contrastano i tumori.
Le difese immunitarie generalmente diminuiscono con l’età, una
condizione che gli scienziati definiscono immunosenescenza. Di fatto,
alcuni esperti ritengono che l’invecchiamento sia causato da tale declino.
Tuttavia, i ricercatori della Carolina del Sud sostengono che l’olio estratto
dai semi di sesamo nero può migliorare la risposta immune anche
nell’individuo anziano, probabilmente perché la spezia apporta una
combinazione di acidi grassi essenziali (i componenti molecolari dei grassi)
particolarmente tonificanti per il sistema immunitario.

UNA PROTEZIONE PER IL CUORE

Svariati studi indicano che gli estratti di sesamo nero possono contribuire a
trattare patologie cardiovascolari.
Alcuni ricercatori pakistani hanno studiato 123 persone suddividendole in
due gruppi: per dieci mesi una metà dei soggetti assunse integratori a base
di sesamo nero in polvere e l’altra metà no. Fu riscontrato un impatto
positivo dei semi su quasi tutti i fattori di rischio delle cardiopatie, tra cui
pressione arteriosa, lipidi ematici quali il colesterolo, peso eccessivo, livelli
di glicemia (il 75% dei soggetti affetti da diabete muore di una malattia
cardiovascolare) e rapporto vita-fianchi (quanto più la circonferenza della
pancia è grande, maggiore è il rischio). Lo studio fu pubblicato sulla rivista
Journal of Alternative and Complementary Medicine.
Altri ricercatori in Medio Oriente hanno tenuto sotto osservazione alcuni
soggetti con ipertensione suddividendoli in tre gruppi: un gruppo assunse
200 mg di estratto di sesamo nero al giorno, un altro ne assunse 100 mg e al
terzo gruppo fu somministrato un placebo. Dopo due mesi, i soggetti trattati
con la spezia mostrarono un calo significativo dei valori pressori rispetto al
gruppo placebo. Il sesamo nero aveva inoltre abbassato i livelli di
colesterolo LDL. «L’assunzione quotidiana di estratto di semi di Nigella
sativa per due mesi ha verosimilmente esercitato un effetto di abbassamento
della pressione in pazienti moderatamente ipertesi», hanno concluso gli
studiosi sulla rivista Fundamentals of Clinical Pharmacology.

LA LOTTA Al TUMORI

Numerosi studi di laboratorio in vitro e su animali dimostrano che sia il


timochinone che i semi di sesamo nero sono in grado di combattere i
tumori, incluse le ricerche condotte da me personalmente e da alcuni miei
colleghi. I nostri studi e quelli pervenuti da altri laboratori indicano che il
timochinone può contrastare i tumori in svariati modi: è in grado di
arrestare la proliferazione delle cellule tumorali, ossia la divisione e la
moltiplicazione di tali cellule, e può arrestare la metastasi, cioè la
migrazione delle cellule tumorali dalla sede iniziale del tumore ad altre
regioni del corpo. Inoltre, può inibire l’angiogenesi, vale a dire la
formazione dei nuovi vasi sanguigni che vanno a nutrire la massa tumorale,
ed è in grado di indurre l’apoptosi, cioè la morte delle cellule tumorali.
Infine, può incrementare l’efficacia dei farmaci chemioterapici.
Una o più di queste azioni antitumorali è stata dimostrata in oltre una
dozzina di forme neoplastiche, tra cui il carcinoma mammario, del colon,
della prostata e del polmone, nonché tumori a carico della pelle,
dell’esofago, del pancreas, delle ovaie e del sangue.
Ad esempio, abbiamo testato il timochinone su cellule umane della
leucemia. Il composto ha esplicato un’azione a livello genetico inibendo la
regolazione aberrante delle proteine che controllano il DNA, e si sa che le
mutazioni del DNA sono la principale via che conduce al tumore. Abbiamo
anche riscontrato che un pre-trattamento a base di timochinone
incrementava l’efficacia e riduceva la tossicità di due farmaci impiegati nel
trattamento del carcinoma pancreatico, una scoperta cruciale per quel 50%
di pazienti affetti da tumore al pancreas che non risponde ai farmaci
chemioterapici o ha una ricaduta dopo una risposta positiva.
Studi recenti eseguiti in altri laboratori hanno prodotto risultati analoghi
altrettanto entusiasmanti.
I ricercatori dell’Istituto di Genetica e dell’Ospedale per Malattie
genetiche di Hydebarad, in India, hanno sperimentato un estratto prodotto
dai semi di sesamo nero in polvere sulle cellule del tumore della cervice
uterina, e questo ne ha indotto la morte. In un articolo apparso su Cancer
Celi Intemational hanno concluso che la spezia è un «potenziale agente
terapeutico contro il cancro della cervice».
Altri scienziati hanno studiato il timochinone ed hanno scoperto che
sensibilizzava al trattamento con farmaci chemioterapici i tumori
pancreatici indotti in animali da laboratorio, sortendo un effetto di
inibizione del tumore che saliva al 60%-80% rispetto al 15%-20% ottenuto
con i soli farmaci. Hanno inoltre osservato che il timochinone agiva
sottoregolando (ossia riducendone l’attività) due geni legati alla
sopravvivenza delle cellule tumorali.
Un’équipe di ricercatori hanno invece studiato le cellule del carcinoma
prostatico rilevando come il timochinone blocchi i recettori cellulari degli
ormoni androgeni, vale a dire gli ormoni che alimentano la crescita dei
tumori della prostata. «Siamo giunti alla conclusione che il timochinone, un
prodotto vegetale reperibile in natura, può dimostrarsi efficace nel trattare il
carcinoma prostatico», scrissero su Cancer Research. «Inoltre»,
proseguirono, «grazie all’azione selettiva sulle cellule tumorali, riteniamo
che il timochinone possa anche essere utilizzato in modo sicuro per
prevenire lo sviluppo di tumori a carico della prostata».
Poiché il timochinone mostra proprietà antitumorali così efficaci, in un
articolo scientifico,i miei colleghi ed io abbiamo dichiarato che «potrebbe
essere impiegato come potenziale candidato farmacologico nella terapia e
trattamento dei tumori».

Il sesamo nero può contribuire a prevenire e/o curare:

Allergie, asma Colite


Colesterolo Pressione alta
Dermatite Tumori
Ulcera Eczema
Malattie cardiovascolari Calo difese immunitarie

ASMA E ALLERGIE

Essendo un potente antiossidante e antinfiammatorio, il sesamo nero può


anche calmare i sintomi di asma e allergie, due condizioni a base
infiammatoria.
Alcuni ricercatori del Medio Oriente hanno studiato 29 persone affette da
asma dividendole in due gruppi e somministrando quotidianamente
dell’estratto di semi di sesamo nero solo a uno dei due gruppi. In capo a sei
settimane, i soggetti che assunsero la spezia registrarono notevoli
miglioramenti in senso generale, ossia un numero minore di sintomi, una
frequenza minore dei sintomi e un minor numero di attacchi gravi di asma.
Anche la funzione polmonare in generale era migliorata e i pazienti
assumevano meno farmaci per l’asma. Nei soggetti che non avevano
assunto l’estratto non vi fu alcun cambiamento degno di nota. Il risultato,
sostengono gli studiosi, dimostra che l’estratto di semi di sesamo nero
esercita un effetto protettivo contro l’asma.
Altri ricercatori tedeschi svolsero quattro studi sull’estratto di sesamo nero
e l’asma, la febbre da fieno (rinite allergica) e l’eczema (un disturbo
allergico che sfocia in rash cutanei ed altri sintomi) coinvolgendo 152
pazienti. Scoprirono che l’integrazione con olio estratto dai semi di sesamo
nero riduceva la «gravità soggettiva» dei disturbi, cioè le persone che
assunsero la spezia riferirono una riduzione dei sintomi. Tali furono le
conclusioni degli esperti pubblicate: «L’olio di semi di sesamo nero si è
dimostrato un efficace coadiuvante nel trattamento delle malattie
allergiche».

Uno scambio di identità

Negli Stati Uniti questa spezia viene comunemente chiamata cumino nero;
ne consegue che viene spesso confuso con il cumino. Persino alcuni testi di
riferimento sulle spezie apparentemente accurati associano il sesamo nero e
il cumino, dando cosi l’impressione che siano simili o siano addirittura due
specie botanicamente correlate.
Ebbene, il sesamo nero e il cumino hanno sicuramente alcune cose in
comune: sono entrambi spezie, vengono entrambi coltivati in India e sono
comunemente usati nella cucina indiana. Tuttavia, hanno un aspetto e un
sapore del tutto diverso e non provengono dalla stessa famiglia botanica.
UN BILANCIO IN ATTIVO PER LA SALUTE

Il sesamo nero può agire positivamente su numerose altre condizioni


cliniche.
Ulcere. Alcuni ricercatori egiziani hanno osservato che animali pretrattati
con sesamo nero presentavano un rallentamento dello sviluppo di ulcere
gastriche pari al 54%. Altri studi condotti su animali hanno evidenziato che
la spezia riduce del 36% il tasso di sviluppo di ulcere gastriche indotte
daH’aspirina.
Colite ulcerosa. Gli scienziati hanno scoperto che il timochinone offre
«protezione totale» dalle recidive in animali da laboratorio affetti da tale
patologia infiammatoria del tratto digerente.
Dolori. In studi condotti su animali, il sesamo nero si è dimostrato efficace
quanto i farmaci nel ridurre dolori e infiammazioni.
Sclerosi multipla. Due studi condotti su animali hanno evidenziato che il
timochinone rallenta la progressione della sclerosi multipla. I ricercatori
della Carolina del Sud asseriscono che «tali dati rivelano il potenziale
terapeutico del timochinone nel trattamento della sclerosi multipla in
soggetti umani».
Dermatite (allergia cutanea). Sugli animali, una pomata contenente olio
di semi di sesamo nero si è dimostrata efficace nel trattamento della
dermatite da contatto quanto i farmaci veterinari reperibili in commercio.
Epilessia. Alcuni medici del Medio Oriente hanno aggiunto 120 mg al
giorno di estratto di sesamo nero al regime terapeutico di 20 bambini affetti
da epilessia che non rispondevano positivamente agli anticonvulsivanti
prescritti per prevenire gli attacchi. La frequenza delle crisi, conclusero in
un articolo pubblicato su Medical Science Monitor, «è diminuita
significativamente durante il periodo di trattamento con l’estratto».

ALLA SCOPERTA DEL SESAMO NERO

Forse vi è capitato di visitare una delle prestigiose mostre che hanno fatto
il giro del mondo in cui vengono espostigli oggetti scoperti nella tomba del
faraone egizio Tutankhamen; ebbene, tra i reperti rinvenuti vi era anche del
sesamo nero.
La pianticella fiorita, alta appena 30 centimetri, che fornisce tali semi
cresce in Medio Oriente, in India, Pakistan e Afghanistan. Ippocrate la
chiamava melanthion, mentre in latino antico il sesamo nero era definito
panacea, ossia cura per tutti i mali. In arabo era noto come habbat el
baraka, o seme benedetto, in India viene chiamato kolonji e in Cina hak
jung chou.
Nei paesi di cui è originaria, tale spezia veniva adoperata allo stesso modo
del pepe e fu importata in America dai primi coloni, che ne fecero lo stesso
uso. Oggi è ancora sconosciuta alla maggior parte degli americani, sebbene
magari l’abbiano gustata nel pane naan indiano o nel caratteristico
formaggio armeno trafilato a strisce. Tuttavia, il sesamo nero è un
ingrediente base della cucina indiana e del Medio Oriente.
In India i semi vengono adoperati interi e tostati per preparare chutney,
curry, riso e piatti a base di yogurt. È uno degli ingredienti presenti nella
miscela di spezie composta esclusivamente da semi interi chiamata panch
phoron. Il sesamo nero è inoltre un ingrediente essenziale della cultura
gastronomica del Kashmir, dove viene utilizzato per aromatizzare le carni e
in salse ricche e cremose.
In Medio Oriente è una spezia fondamentale del kibbeh, una sorta di
crocchetta fritta dalla forma allungata fatta di bulgur e agnello. Il sesamo
nero viene sovente aggiunto al mix di spezie tipico di questa regione
denominato baharat. Il suo sapore, che richiama quello delle nocciole, è
apprezzato anche in vari tipi di pane e nei dolci e, in effetti, viene spesso
impastato con il miele e consumato come dolce.
In Etiopia è adoperato come spezia nelle bevande alcoliche, un uso molto
simile a quello che fanno gli americani dei semi di sedano nel Bloody Mary.
Infine, il sesamo nero è coltivato anche in Russia e viene usato per
guarnire la crosta del pane di segale.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Difficilmente riuscirete a rintracciare il sesamo nero nei classici


supermercati (sebbene sicuramente troviate il cumino), ma lo potete
reperire nei negozi di prodotti indiani o nelle drogherie specializzate. È
tuttavia possibile che non lo troviate sotto il nome di sesamo nero, per cui la
cosa migliore è chiedere del kolonji o della nigella, ossia i nomi indiani con
cui è conosciuta tale spezia.
È disponibile anche in Internet sotto il nome di cumino nero, kolonji,
nigella, kummel nero, seme nero, fiore di finocchio, coriandolo romano o
seme nero di cipolla; anche se non ha la benché minima relazione con il
kummel, il finocchio, il coriandolo o la cipolla, potreste ritrovarvi ad avere
acquistato erroneamente proprio del kummel o dei sémi di cipolla. Per
essere sicuri di procurarvi l’originale, richiedete il sesamo nero riferendovi
al suo nome botanico: Nigella sativa. Un altro modo per assicurarvi di
ottenere ciò che volete è osservare bene la spezia: i semi neri, lisci e lucenti,
sono inconfondibili.
I semi vengono sempre venduti interi dal momento che è modo in cui
solitamente li si impiega. Inoltre, non sono affatto costosi: un barattolo da
85 grammi costa circa 3 dollari in un negozio di prodotti indiani. I semi
vanno conservati in un luogo fresco e asciutto e si mantengono per tre anni.
Anche l’olio di semi di sesamo nero, o timochinone, è disponibile come
integratore alimentare. Per via delle sue potenzialità nella prevenzione dei
tumori e l’effetto positivo esercitato sul sistema immunitario, lo consiglio
come integratore da assumersi quotidianamente per sostenere la salute in
generale.
Benché non sia stato riscontrato alcun effetto collaterale, è bene che le
donne in stato di gravidanza ne evitino l’assunzione in quanto può
provocare contrazioni dell’utero.

IL SESAMO NERO IN CUCINA

Esiste molta confusione circa il nome del sesamo nero, ma vi sono pure
posizioni controverse per quel che riguarda il sapore. Alcuni sostengono
che i semi hanno un sapore pungente, altri lo descrivono come leggermente
pepato: io sarei d’accordo con gli ultimi. Alcuni dicono di percepire un
retrogusto di limone, altri dichiarano che il retrogusto ricorda la fragola, e
sono d’accordo con i primi. Non vi è tuttavia alcun dubbio sul sentore di
noce che rende il sesamo nero una spezia assai versatile in cucina.
I semi possono essere utilizzati allo stato naturale ma una tostatura a secco
ne esalta l’aroma. Se si intende macinarli, è opportuno tostarli.
Ecco alcuni suggerimenti su come impiegare il sesamo nero:
• I semi sono un complemento classico nelle salse chutney indiane:
aggiungetene un pizzico alle vostre ricette preferite.
• Il sesamo nero esalta pietanze a base di carne, soprattutto gli stufati di
agnello.
• Adoperate i semi per insaporire il riso pilaf o aggiungetene un poco al
purè di patate.
• Cospargeteli su biscotti e pane fatti in casa.
• Aggiungete del sesamo nero ai mix di spezie.
• Mettetelo nei sughi piccanti e nelle salse al peperoncino.
Tamarindo. Un rimedio popolare molto amato

Avete mai sentito parlare del tamarindo? È probabile che lo abbiate già
assaggiato. Il tamarindo, infatti, è la spezia fondamentale che conferisce alla
salsa Worcester il suo caratteristico sapore e, inoltre, ne prolunga la data di
scadenza.
In molti paesi africani, i baccelli e i semi dell’albero del tamarindo non
sono famosi come prodotto alimentare bensì come rimedio popolare
tradizionalmente usato per combattere le infezioni del tratto respiratorio, la
febbre, i disturbi digestivi e la stipsi, nonché per accelerare la
rimarginazione delle ferite e prevenire i colpi di sole. Un recente lavoro di
revisione sull’impiego del tamarindo nella medicina tradizionale dell’Africa
Occidentale e Orientale, comparso sulla rivista Journal of
Ethnopharmacology, citava ben 60 riferimenti scientifici. In varie parti del
mondo il tamarindo viene adoperato per curare molti altri problemi di
salute; ad esempio, viene usato come gargarismo per alleviare il mal di gola
e come linimento per le articolazioni doloranti. La spezia possiede un tale
potere curativo che, in esperimenti condotti su animali, i ricercatori indiani
hanno scoperto che era in grado di neutralizzare il veleno di uno dei
serpenti più letali al mondo: la vipera di Russell.
L’azione terapeutica del tamarindo deriva dai potenti agenti antiossidanti,
tra cui l’acido tartarico (presente anche nelle banane e nell’uva), che si
concentrano nei pericarpi. L’acido tartarico è anche la sostanza che
conferisce al tamarindo il caratteristico sapore acidulo. Inoltre, la polpa
costituisce un’ottima fonte di calcio e vitamine B come ribofla-vina e
tiamina. Insieme, tutte queste sostanze ed altri fitonutrienti fanno del
tamarindo una spezia curativa dalle molteplici virtù.

PROPRIETÀ TERAPEUTICHE DEL TAMARINDO

La ricerca preliminare indica che il tamarindo può contribuire a proteggere


e curare gli occhi.
Sindrome dell’occhio secco. La secchezza oculare è il motivo primo che
spinge a farsi visitare da un oculista e il 30% degli americani soffre di
sindrome dell’occhio secco, una patologia oculare prodotta da
un’alterazione del film lacrimale con sintomi di dolore, bruciore e
sensazione di sabbia (corpo estraneo) nell’occhio. Alcuni ricercatori italiani
hanno trattato 30 pazienti con occhio secco utilizzando un collirio a base di
acido ialuronico (un trattamento comune) o tamarindo. Dopo tre mesi, i
pazienti a cui venne somministrato il collirio con tamarindo riferirono un
grado di sollievo notevole dai vari sintomi: bruciore, difficoltà a inumidire
l’occhio sbattendo le palpebre e sensazione di avere un corpo estraneo
nell’occhio. I ricercatori ipotizzano che l’estratto di tamarindo agisca così
efficacemente, cioè lubrificando meglio e più a lungo l’occhio offrendo
sollievo, perché la sua struttura molecolare è simile alle mucine (sostanze
proteiche presenti nelle secrezioni mucose) della cornea e del dotto
lacrimale.
La ricerca è ancora allo stadio preliminare e, alla data di pubblicazione di
questo libro, il collirio con estratto di semi di tamarindo, o meglio
polisaccaridi da semi di tamarindo (TSP), non è ancora disponibile.
Cheratite batterica. In una ricerca condotta su animali, l’impiego
congiunto di un collirio a base di polisaccaridi da semi di tamarindo e un
antibiotico ha contribuito ad accelerare la risoluzione di un’infezione a
carico della cornea definita cheratite batterica.
Congiuntivite. Analogamente, l’uso di un collirio con TSP ha contribuito
ad accelerare la risoluzione della congiuntivite in animali da laboratorio
Cataratte e degenerazione maculare senile. L’esposiz.ione ai raggi UVB
del sole, dannosi per le cellule, non costituisce soltanto un fattore di rischio
per i tumori della pelle, ma aumenta anche il rischio di cataratte e
degenerazione maculare senile, due patologie oculari frequentemente
riscontrate nelle persone anziane. In uno studio in vitro, alcuni ricercatori
italiani hanno scoperto che il collirio a base di tamarindo protegge le cellule
della cornea dal danno da radiazioni UVB.

LE MOLTEPLICI VIRTÙ DEL TAMARINDO

Gli scienziati stanno scoprendo parecchi altri ambiti in cui il tamarindo


può prevenire e curare le malattie.
Colesterolo. Un gruppo di ricercatori del Pakistan ha invitato i
partecipanti all’esperimento, 30 adulti in salute, ad assumere estratto di
tamarindo oppure un placebo per un mese. Al termine di tale periodo, i
soggetti che assunsero tamarindo presentavano un calo del colesterolo totale
pari a 13 punti e di ben 20 punti per i valori di colesterolo LDL (quello
«cattivo»); inoltre, la pressione diastolica, ossia la lettura della minima, era
leggermente calata.
Nell’ambito di una ricerca condotta su animali, alcuni scienziati brasiliani
hanno notato che il tamarindo riduce i livelli di colesterolo totale e LDL,
aumenta i valori di colesterolo HDL (quello «buono») e induce un calo dei
trigliceridi e altri lipidi ematici. Sulla rivista Food and Chemical Toxicology
i ricercatori conclusero che «nel complesso, questi risultati indicano le
potenzialità terapeutiche degli estratti di tamarindo nel ridurre il rischio di
sviluppo di aterosclerosi in soggetti umani».
Uno studio in vitro realizzato dalla stessa équipe di ricercatori ha
evidenziato che il tamarindo influisce sulle cellule del sistema immunitario
umano (neutrofili) stimolandone l’attività antinfiammatoria tesa a ridurre i
processi flogistici alla base della malattia cardiovascolare.
Calcoli renali. Il tamarindo viene consumato quotidianamente nelle zone
tropicali dell’India meridionale ove la cucina locale è piccante e per lo più
vegetariana, entrambi elementi che si prestano bene all’uso di questa spezia
acidula. Tra la popolazione dell’India meridionale i calcoli renali vengono
riscontrati raramente in confronto agli abitanti del nord, zona in cui il
tamarindo è molto meno diffuso. Può esserci un collegamento tra il
consumo di tamarindo e la bassa incidenza di calcoli renali nell’India
meridionale? Per scoprirlo alcuni ricercatori dell’Istituto Nazionale di
Nutrizione di Hyderabad ha invitato 4 uomini ad adottare una dieta ricca di
cibi che inducono la formazione di cristalli di ossalato di calcio, vale a dire
la sostanza di cui sono composti la maggior parte dei calcoli renali. Dopo
una settimana, alla dieta fu aggiunto dell’estratto di tamarindo. I ricercatori
fecero un esame completo delle urine dei soggetti sia prima che dopo
l’introduzione del tamarindo, e osservarono che l’inserimento dell’estratto
nella dieta aveva abbassato i livelli di diversi parametri che incrementano il
rischio di formazione dei calcoli. Sulla rivista Nutritional Research gli
esperti conclusero che «il consumo di tamarindo offre in qualche misura
protezione contro la recidiva formazione di concrezioni di ossalato di calcio
negli uomini».
Tumori. Alcuni ricercatori indiani hanno scoperto che il tamarindo
rallenta la crescita di tumori del colon in animali da laboratorio.
Diabete di tipo 1. In India il tamarindo è un trattamento tradizionale per il
diabete. Nell’ambito di esperimenti condotti su animali, i ricercatori indiani
sono riusciti a ridurre I la glicemia in soggetti affetti da diabete di tipo 1
(una patologia autoimmune che distrugge le cellule pancreatiche deputate
alla produzione di insulina) farmacologicamente indotto. Il tamarindo «può
sortire effetti positivi nei casi di diabete mellito di tipo 1», conclusero gli
scienziati sul Journal of Ethnopharmacology.

ALLA SCOPERTA DEL TAMARINDO

Originario dell’Africa tropicale, il maestoso albero del tamarindo, che può


raggiungere un’altezza di 30 metri e una circonferenza di 9 metri, è
apprezzato soprattutto per l’ombra offerta dalla folta chioma nei paesi della
«fascia tropicale» che circonda il nostro globo. Gli alberi di tamarindo sono
praticamente indistruttibili: il profondo apparato radicale e il tronco robusto
dal legno duro consente all’albero di sopravvivere ai venti forti, e la pianta
è particolarmente resistente alla siccità. Misteriosamente, sotto la vasta
chioma di foglioline a pennacchio color verde pallido, che si incurva come i
rami di un salice piangente, non cresce altra vegetazione, il che rende il
cerchio d’ombra del tamarindo un luogo perfetto per un picnic o un pisolino
pomeridiano. È uno spettacolo vedere le fronde mentre si piegano sotto il
peso degli affusolati baccelli e le foglioline richiudersi di notte. Man mano
che i frutti si scuriscono sotto il sole, producono quel gusto acidulo di
susina che contraddistingue la spezia.
Al contrario di altre spezie tropicali che devono essere colte a mano e
maneggiate con cura, tutto ciò che occorre per raccogliere il tamarindo è
una persona sufficientemente coraggiosa da arrampicarsi sull’albero e
scuoterne i rami.
Una volta effettuata la raccolta, le bucce e i semi vengono rimossi e la
polpa viene pressata in panetti lasciati ad acidificare. Quando la polpa viene
esposta all’aria, comincia a ossidarsi e a scurirsi, diventando quasi nera;
inoltre, assume un sapore forte, pizzicorino e intensamente acidulo che la
rende perfetta come agente acidulante.
Il tamarindo è per l’Oriente ciò che il limone è per l’Occidente. È l’agente
acidulante più diffuso nella maggior parte dei paesi tropicali ed è un
ingrediente fondamentale della cucina indiana, tailandese, indonesiana e
malese. Viene adoperato come pasta e sotto forma di sciroppo e succo, ma
solo la pasta di tamarindo è abbastanza forte per reggere i sapori della
cucina indiana del sud, ove viene utilizzato per aromatizzare preparazioni
particolarmente piccanti come curry di pesce, vindaloo e piatti di verdure.
Viene aggiunto anche alle zuppe di verdura dette sambar e alle minestre
chiamate rasam. Si usa inoltre preparare una salsa al tamarindo in cui
intingere degli involtini fritti detti saniosa. Nell’India settentrionale, invece,
sono gli gnocchetti di pastella fritta chiamati dahi vada a galleggiare in una
salsa a base di tamarindo e yogurt.
Il tamarindo, chiamato assam in Asia, viene adoperato nelle marinate
indispensabili per preparare i celebri satay malesi e nelle salsine di
accompagnamento a questo piatto. Viene anche usato nelle minestre agre e
piccanti della tradizione cinese, tailandese e di Singapore. La pasta di
tamarindo è ciò che conferisce pungenza alle sauté dell’arte culinaria
asiatica. In Thailandia la polpa viene cosparsa di zucchero e consumata
direttamente come dolcetto; nelle Indie Occidentali i semi vengono
zuccherati e lavorati dandogli la forma di palline, mentre nelle Filippine a
tale preparazione si aggiungono patate dolci per approntare un delizioso
dolce detto champoy.
In Giamaica il tamarindo viene adoperato nelle marmellate, negli sciroppi
e nella salsa pickapeppa, assai diffusa anche negli Stati Uniti.
Il tamarindo ha un sapore fresco e rinfrescante che lo rende perfetto come
bevanda nelle terre tropicali. In India il drink viene aromatizzato con acqua
di rose e succo di limone e sorseggiato dopo cena nella sere più calde. Il
tamarindo viene inoltre diluito e zuccherato per preparare soft drink in
Giamaica e nei paesi latino-americani.
In tutta l’area dei Caraibi, Messico e America Latina, il tamarindo è un
dolciume molto popolare, dolce e acidulo al tempo stesso; i pulparìndo, noti
anche con altri nomi, sono palline o barrette di pasta di tamarindo addolcita
e rivestite di zucchero, talvolta speziate con peperoncino.
Oltre alla salsa Worcester, il tamarindo trova impiego anche in un altra
diffusissima mistura usata come condimento: l’angostura.
Il «segreto» della salsa Worcester

La salsa Worcester è un’invenzione inglese cui si giunse per caso nella


prima metà del 1840. Secondo la leggenda gastronomica, i proprietari di
una farmacia di Worcester – una cittadina ai piedi della scenografica catena
collinare delle Cotwolds Hills nella campagna inglese – avevano preparato,
secondo un’antica ricetta indiana, un barile di aceto speziato per un cliente
che non era mai più andato a ritirarlo.
L’intruglio rimase a riposare e fermentare nella cantina del negozio per
anni. I proprietari, John Weeley Lea e William Henry Perrin, convinti che
fosse andato a male incaricarono un commesso di sbarazzarsene. Il
commesso, tuttavia, percepito l’effluvio che proveniva dall’intruglio, decise
di assaggiarlo.il barile di aceto non era affatto andato a male, anzi il sapore
era cambiato in modo curioso e quanto mai interessante.
I proprietari imbottigliarono la salsa e la vendettero con il nome di «Lea &
Perrin’s Worcestershire Sauce». Il resto, come si dice, è storia. La salsa, ora
distribuita e arcinota
in tutto il mondo, viene adoperata per insaporire le carni grigliate ed è un
ingrediente popolare del cocktail Bloody Mary. La H. J. Heinz, l’azienda
che produce il ketchup americano, nel 2005 acquistò la Lea & Perrin’s e
tuttora commercializza la salsa con la sua etichetta originale.
Si dice che la ricetta sia un segreto, sebbene si sappia che contiene
tamarindo, chiodi di garofano, acciughe, cipolla e aglio. Esistono molte
altre marche che producono imitazioni della salsa Worcester, ma gli
intenditori affermano che nessuna di queste è all’altezza, neanche
lontanamente, della ricetta segreta della Lea & Perrin’s.

Il tamarindo può contribuire a prevenire e/o curare;

Calcoli renali Cataratta


Colesterolo Pressione alta
Diabete di tipo 1 Tumori
Congiuntivite Infezioni oculari
Sindrome dell’occhio secco Degenerazione maculare senile
CONSIGLI PER L’ACQUISTO

La maggior parte delle drogherie indiane e asiatiche vende il tamarindo in


panetti avvolti nella plastica, una massa fibrosa e vischiosa di polpa che,
ossidandosi allaria, si scurisce assumendo un colore che va dal marrone
scuro al nero. Il sapore e l’aroma si estrae mettendo a bagno la pasta in
acqua bollente e strizzandola. I panetti di tamarindo vengono importati
dall’India e dalla Thailandia. I due prodotti sono abbastanza diversi per
aspetto e sapore benché forniscano entrambi l’aroma acidulo cercato.
Quello indiano è piuttosto asciutto con una consistenza quasi cartacea; la
varietà tailandese ha un aspetto più raffinato ma è estremamente
appiccicosa; sebbene quest’ultima sia esteticamente più piacevole, il
tamarindo indiano è più facile da gestire.
Il tamarindo viene anche commercializzato come concentrato e come
polvere, ottenuta per essiccazione e macinatura. Anche questi devono essere
diluiti. Il concentrato è più agevole da adoperare in cucina: molti indiani
che vivono negli Stati Uniti acquistano e utilizzano il concentrato per
comodità. È reperibile in grossi contenitori di vetro in qualsiasi drogheria
indiana e ha un aspetto molto simile alla composta di mele. Se non avete
familiarità con il tamarindo, vi conviene acquistare un concentrato per i
primi esperimenti culinari. Il tamarindo in polvere, detto anche crema di
tamarindo o polvere assam, è più difficile da reperire.
A causa dall’elevato contenuto acido, il tamarindo è molto stabile e non
richiede particolari accorgimenti per la conservazione. I panetti possono
essere tenuti in sacchetti ermetici per impedire che si secchino.

IL TAMARINDO IN CUCINA

Il tamarindo ha un sapore simile al limone o al lime ma con qualcosa in


più; ha un profumo particolarmente aspro, da far arricciare il naso, per cui
tenetelo a mente quando cucinate; ne basta molto poco. La spezia
conferisce pungenza e aggiunge un colore bruno, ricco e appetitoso a salse
gravy, sauté, minestre, stufati, curry, chutney e salse in generale che lime e
limone non sono in grado di dare.
In veste di ingrediente, vi imbatterete nella polpa di tamarindo per lo più
nelle ricette indiane che, notoriamente, abbondano con le spezie. Ciò
nonostante, i ricettari solitamente prevedono «acqua di tamarindo» o «succo
di tamarindo», due termini che vengono usati indifferentemente per indicare
la stessa cosa; l’acqua/succo di tamarindo può essere preparata usando il
tamarindo in qualsiasi forma.
Per preparare l’acqua di tamarindo a partire dal panetto, staccate un
pezzetto di polpa di circa 2 centimetri e mezzo per lato e mettetelo a bagno
in 1/2 tazza d’acqua bollente per 15 minuti. Rimestate e premete con un
cucchiaio, quindi colate cercando di strizzare il più possibile la polpa ed
eliminatela.
Per preparare l’acqua di tamarindo con il concentrato, fate rinvenire 1/4
tazza di tamarindo in 1 tazza di acqua bollente per circa 15 minuti e poi
filtrate. L’acqua si mantiene in frigorifero solo per pochi giorni, ma è
possibile prepararne un buon quantitativo e poi metterla in freezer in
vaschette per i cubetti di ghiaccio. Quando volete preparare un piatto dolce
e salato o avete bisogno di un acidulante per vivacizzare una ricetta,
aggiungete semplicemente un cubetto di acqua di tamarindo.
La polpa e l’acqua di tamarindo non possono essere utilizzate in
sostituzione l’una dell’altra.
Timo. Nuoce ai microbi, giova alla salute

Cera una volta il timo. Ma questo forse era vero circa 5000 anni fa, prima
che i romani disseminassero la pianta in tutto l’impero. Ora ne esistono
svariati tipi: c’è il timo volgare, o francese, con cui la maggior parte di noi è
abituata a cucinare, e ci sono varietà di timo che un sagace amante delle
piante può scorgere durante una passeggiata in un tipico quartiere di
periferia, sbirciando nei giardini sul retro: il timo cedrino, dal delicato
profumo di limone, il timo arancio, il timo anice e il timo argentato. Su tutto
il pianeta esistono oltre 100 varietà di timo, ognuna con un aroma
sottilmente distinto, ma tutte le specie hanno un fattore in comune: l’olio
volatile chiamato timolo.
Il timolo è l’antisettico più potente mai inventato da Madre Natura. Se
applicato alla pelle o alla mucosa della bocca, è in grado di uccidere i
germi. Una curiosità: il timolo è uno dei principali antisettici presenti nel
collutorio Listerine, famoso per lo slogan «una bomba per l’igiene orale!».
Mentre è in corso una vasta ricerca preliminare, basata su studi in vitro ed
esperimenti su animali, sulle proprietà terapeutiche del timolo (e altri
potenti composti presenti nel timo) nel contesto di varie patologie, la ricerca
condotta su esseri umani e presa come standard di riferimento punta tutta
sui germi, in particolare i virus e i batteri responsabili della bronchite
cronica.

UN CALMANTE PER LA TOSSE

La bronchite acuta è un’infezione virale o batterica dell’albero bronchiale


che spesso si sviluppa tre o quattro giorni dopo l’insorgenza di un
raffreddore o dell’influenza. In risposta all’infezione i bronchi secernono
muco, e gli «accessi di tosse» che consentono di espettorare il muco
costituiscono il sintomo più rilevante di tale disturbo, talvolta accompagnati
da mal di gola, febbre e brividi simili a quelli sperimentati durante
l’influenza.
In Germania un gruppo di ricercatori ha studiato 361 adulti con bronchite
acuta suddividendoli in due gruppi; a un gruppo venne somministrata una
formula naturale contenente timo e radice di primula, l’altro gruppo assunse
un placebo. Negli undici giorni successivi, i ricercatori annotarono il
numero di accessi di tosse che assalivano ogni giorno i partecipanti allo
studio. I soggetti che assunsero la formula combinata timo/primula
registrarono una diminuzione degli accessi pari al 16% rispetto al gruppo
placebo e gli altri sintomi migliorarono molto rapidamente.
In un altro studio tedesco, gli scienziati somministrarono uno sciroppo
contenente timo ed edera (Bronchipret) a oltre 1200 bambini e adolescenti
con bronchite acuta. Dopo quattro giorni di trattamento, la gravità dei
sintomi era diminuita del 46%, e dopo dieci giorni era scesa dell’86%. Il
numero di accessi di tosse si era ridotto dell’81% dopo soli dieci giorni.
Circa 9 soggetti su 10 aveva trovato sollievo grazie al preparato. «La
bronchite acuta può essere trattata in modo sicuro ed efficace mediante uno
sciroppo a base di timo ed edera», conclusero i ricercatori.
In uno studio condotto su adulti, la combinazione fitoterapica timo/edera
fu in grado di ridurre gli accessi di tosse del 21% in più rispetto a un
placebo e di favorire una risoluzione più rapida degli altri sintomi.
Quando alcuni ricercatori svizzeri testarono tale prodotto fitoterapico sulla
tosse associata non solo a bronchite ma anche a comuni raffreddori e
qualsiasi altra infezione respiratoria con produzione di muco in eccesso,
riscontrarono un’azione «efficace o molto efficace» nel calmare la tosse nel
90% dei casi.

PROTEZIONE DALLA CARIE

Il timolo non solo aiuta i polmoni ma anche i denti. Sono stati condotti
oltre una dozzina di studi su due prodotti noti come Cervitec e CervitecPlus,
una lacca protettiva per i denti che combina timolo e clorexidina, un
antisettico. I prodotti si sono dimostrati efficaci in diversi contesti.
Anziani. In uno studio pubblicato alcuni ricercatori spagnoli hanno
osservato che la lacca protettiva contenente timolo contribuiva a prevenire
la carie in soggetti anziani ricoverati in una struttura assistenziale di tipo
residenziale.
Adolescenti con apparecchio. Un gruppo di ricercatori svedesi ha
riscontrato che la lacca protettiva contribuiva a ridurre i livelli di batteri
responsabili della carie dentaria che si annidano tra i molari degli
adolescenti che portano un apparecchio ortodontico.
Bambini. Un’altra équipe di ricercatori spagnoli ha notato che l’impiego
della lacca protettiva in bambini di 6 e 7 anni di età che avevano già
sviluppato la dentizione permanente contribuiva a prevenire la carie. Uno
studio pubblicato da dentisti brasiliani pubblicato su Caries Research,
indicava i medesimi risultati.

IL TIMO, UNA SPEZIA «ANTI-MALATTIA»

Il timolo rientra in una categoria di fitonutrienti (composti di origine


vegetale) denominata monoterpeni, la quale include gli oli volatili noti
come carvacrolo e geraniolo. Sono tutti potenti agenti antiossidanti che
esplicano anche un potente effetto antinfiammatorio e, pertanto, sono in
grado di frenare il duplice processo che sta alla base della maggior parte
delle patologie croniche o è responsabile del loro aggravamento. Tutti sono
oggetto di studio da parte degli scienziati per stabilirne il potenziale
protettivo e terapeutico.
Anti-invecchiamento. In due studi condotti su animali, alcuni ricercatori
scozzesi hanno sperimentato la capacità del limolo di rallentare «lo scorrere
del tempo». Nel primo studio, gli animali nutriti con olio di timo
presentavano un calo fisiologico meno marcato di superossido dismutasi e
giutatione perossidasi (due enzimi antiossidanti che vengono meno con
l’avanzare dell’età) rispetto agli animali non trattati. Nel secondo studio, i
ricercatori notarono che l’integrazione alimentare con olio di timo
proteggeva i neuroni del cervello in ratti in età avanzata.
Anti-cancro. Vi sono decine e decine di studi focalizzati sui monoterpeni
quali possibili agenti antitumorali che dimostrano come tali sostanze
proteggano il DNA (il danno genetico è la genesi del cancro) e svolgano
un’azione antineoplastica sui tumori a carico di fegato, cute, utero e sangue.
Anti-coagulo. In studi condotti su animali realizzati in Giappone,
l’aggiunta di timo a una dieta ad alto contenuto di lipidi ha ridotto la
formazione di coaguli, un fattore di rischio per infarti e ictus.
Anti-herpes. Nell’ambito di uno studio di laboratorio, alcuni ricercatori
tedeschi hanno riscontrato che il timolo arresta la replicazione del virus
herpes simplex tipo 1, quello che provoca l’herpes labiale.
Anti-infezione. I ricercatori tedeschi hanno evidenziato che l’olio di timo,
così come altri oli essenziali, è efficace contro i batteri che sviluppano
resistenza agli antibiotici, in particolare lo Staphylococcus aureus, che
provoca erosione e suppurazione nella zona colpita.
Anti-colite. Un gruppo di ricercatori croati ha osservato che una formula
combinata di olio di timo e origano, entrambi ricchi di timolo, riduce la
gravità della colite (una malattia infiammatoria dell’intestino) in animali da
laboratorio.
Anti-ulcera. Alcuni ricercatori iraniani hanno scoperto che diversi
componenti dell’olio di timo – timolo, carvacrolo, bomeolo ed altri –
esercitano una efficace azione soppressiva sull’Helicobacter pylori, il
batterio responsabile delle ulcere gastriche.
Anti-alcolismo. I ricercatori egiziani hanno scoperto che aggiungere timo
al regime dietetico di animali da laboratorio a cui era stato somministrato
alcol in quantità molto elevate contribuiva a proteggere il fegato e il
cervello dai danni correlati all’ingestione di alcol. «Il timo», conclusero gli
studiosi, «potrebbe concorrere a proteggere l’organismo dagli effetti tossici
prodotti dall’abuso di alcol».

Il timo può contribuire a prevenire e/o curare:

Influenza Raffreddori
Colite Bronchite
Alcolismo Tumori
Ulcera Ictus
Infarto Infezioni batteriche

ALLA SCOPERTA DEL TIMO

Gli antichi egizi adoperavano il timo nel processo di mummificazione, i


greci lo usavano nei templi al posto dell’incenso per rinfrescare e purificare
l’aria (il suo nome scientifico deriva dal greco thymon, ossia «forza,
coraggio», che risveglierebbe in coloro che ne odorano il profumo
balsamico), gli antichi romani credevano che il timo favorisse il vigore
fisico e lo adoperavano pertanto nell’acqua dei bagni.
La varietà di timo che tipicamente cresce nei giardini, ossia la varietà
esposta sugli scaffali delle spezie nei supermercati, è la fonte più
abbondante di timolo tra tutte le specie esistenti. Questo arbusto perenne
che forma piccoli cespugli compatti dalle foglie verdi, minute e ricoperte di
peluria, è originario del bacino del Mediterraneo e figura fra gli ingredienti
a cui viene attribuito il merito di rendere la dieta mediterranea una delle più
salutari del pianeta. Il timo è altresì una delle spezie più piacevolmente
aromatiche, e per questo motivo è apprezzato in tutto il mondo.
Il timo svolge un ruolo fondamentale nel conferire alle pietanze francesi
una notevole eleganza di sapori. Il profumo lievemente fumé e il sapore
intenso arricchiscono salse cremose, minestre e stufati. È la spezia
principale del celeberrimo boeuf bourguignon, di cui troviamo in questo
libro la ricetta di Julia Child (ed è una delle poche spezie che l’autrice
suggerisce ripetutamente nel suo classico bestseller Mastering the Art of
French Cooking).
Un rametto di timo è sempre presente anche nel tradizionale bouquet garni
francese. Circolano anche voci secondo cui rientri tra le 27 piante e spezie
utilizzate nella preparazione del Bénédictine, un liquore francese la cui
ricetta è un segreto gelosamente custodito.
Il timo cresce allo stato naturale nella regione della Provenza, dove il suo
profumo riempie laria portato da tiepide brezze, e durante la calda stagione
dell’estate provenzale è possibile trovarlo quasi completamente essiccato
sui suoi stessi rami. Qualche rametto di timo viene anche aggiunto alla
bouillabaisse e alla bourride, le zuppe di pesce che costituiscono la firma
gastronomica della cucina provenzale.
Il timo, tuttavia, è assai diffuso anche in Medio Oriente e nel Nordafrica.
La varietà mediorientale ha un aroma particolarmente pungente e viene
chiamato za’atar, lo stesso termine utilizzato per descrivere un mix di
spezie che include timo, semi di sesamo tostati, sommacco e sale. In
Marocco si coltiva una varietà con un distinto profumo di pino denominata
z’itra.
Il timo è una delle spezie più comuni presenti nell’armadietto delle spezie
di una cucina americana; viene adoperato nei ripieni, in minestre di verdure,
stufati e preparazioni en casserole. Fu l’unica spezia usata nella ricetta
originale della zuppa di cozze del New England e di Manhattan, sebbene
molte versioni moderne non includano alcuna spezia al di fuori del sale e
del pepe. Ed è anche una delle spezie dei rub usati nella cucina Cajun per la
preparazione di cibi «anneriti» (una tecnica culinaria che prevede la cottura
in una padella di ghisa rovente in modo che si formi una crosticina scura,
N.d.T.).

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Quando pensate di usare il timo, pensate al timo essiccato. È la forma più


adatta per cucinare poiché presenta un aroma più pungente e regge meglio
la cottura. Inoltre, costa meno: un mazzetto di timo fresco che dura sì e no
una settimana costa più di un vasetto di timo essiccato che dura un anno.
Il generico timo essiccato che si trova al supermercato è «timo volgare»,
proveniente dal Mediterraneo, altrimenti detto «francese», anche se la
maggior parte in effetti viene dalla Spagna. I grandi chef lo considerano il
migliore. Le foglie essiccate del timo hanno un colore grigio-verde. Quando
procedete all’acquisto, verificate che il vasetto non contenga altri corpi
estranei, come talvolta accade per alcune confezioni di marca e qualità
inferiore.
Negli ultimi anni, il timo cedrino è diventato di moda negli Stati Uniti e lo
si può reperire essiccato in qualsiasi supermercato. Si tratta di un incrocio
tra il timo volgare e il timo selvatico, caratterizzato da un cespuglio più
grande che cresce spontaneamente come pianta da sottobosco. Ha un aroma
meno pungente e (come dice il nome) un retrogusto di limone che deriva
dalla maggiore concentrazione di geraniolo.
È possibile reperire il timo fresco tutto l’anno in molti supermercati e, in
estate, presso molti mercati di contadini. Per conservare il timo fresco,
riponetelo in frigo avvolto in un canovaccio leggermente inumidito; in
questo modo si manterrà per una settimana.
Il timo essiccalo e più robusto rispetto alla maggior parte delle spezie e si
mantiene perfettamente per circa 18 mesi in un contenitore a chiusura
ermetica lontano dalla luce diretta del sole.

IL TIMO IN CUCINA

Il timo è una delle spezie più versatili e ingegnose, e il suo aroma


gradevole, sia fresco che essiccato, dà spessore a qualsiasi preparazione
salata.
Il timo può ravvivare gravy e salse, in particolare le salse dense a base di
panna. Se volete che il sapore del timo si amalgami a un gravy o una salsa,
aggiungetelo ai primi passaggi della ricetta. Se, viceversa, volete che il
gravy o la salsa profumino distintamente di timo, aggiungetelo verso la fine.
Il timo conferisce un aroma piacevole al pollo arrosto se ne strofinate la
pelle prima di metterlo sulla griglia o in forno. Si abbina anche alla carne di
manzo, soprattutto alla carne macinata, e si sposa particolarmente bene a
sughi e preparazioni con pomodoro nonché alle casserole con patate.
Quest’erba aromatica contribuisce anche a ridurre la sensazione di unto in
bocca lasciata dai cibi grassi, per cui distribuitelo sulla carne di oca e anatra
mentre arrostiscono.
Usate cautela quando adoperate timo fresco: si annerisce in un ambiente
acido, ad esempio in piatti contenenti pomodoro o limone; inoltre, perde
rapidamente il suo contenuto di oli volatili quando viene esposto al calore.
Ecco alcuni suggerimenti per arricchire di timo la vostra dieta:

• Aggiungete del timo essiccato e del limone, oppure del timo cedrino, al
burro fuso con cui condire astici o gamberi lessati.
• Distribuite del timo fresco o essiccato insieme a erba cipollina, o anche
da solo, sulle patate al forno.
• Fate saltare in padella dei funghi con timo essiccato, aglio e pomodori
secchi, dopo averli fatti rinvenire, e serviteli come accompagnamento a una
bistecca alla griglia.
• Aggiungete una spolveratina di timo alle radici commestibili.
• Mettete qualche rametto di timo fresco nella pentola dell’arrosto oppure
adagiate il pezzo da arrostire direttamente sui rametti.
• Mettete in infusione un rametto di timo in olio di oliva o in una bottiglia
di aceto per condire.
• Preparate il za’atar, una miscela di spezie mediorientale, combinando 1
cucchiaio di timo essiccato, 2 cucchiai di semi di sesamo tostati, 2
cucchiaini di sommacco e del sale.
• Distribuite del timo essiccato su un’insalata di pomodori, cetrioli, olive e
formaggio feta.
• Aggiungete un pizzico di timo essiccato all’olio di oliva e usatelo per
intingervi il pane.
• Aggiungete del timo essiccato alle uova strapazzate.
Vaniglia. Più salute nel dessert

Cheesecake newyorkese, torta farcita alla crema, crème brùlée… Sedetevi


e godetevi qualsiasi dessert: con ogni probabilità ci troverete della vaniglia.
La vaniglia figura tra gli aromi più adoperati e più invitanti al mondo. Di
questa costosa spezia ne vengono prodotte qualcosa come 10.000 tonnellate
l’anno, e la richiesta sul mercato supera di gran lunga l’offerta. Ecco perché
sugli scaffali dei negozi si trovano così tanti estratti di vaniglia artificiali.

LA SPEZIA-ORCHIDEA

Probabilmente non c’è nulla di sorprendente nel fatto che la vaniglia sia
tanto seducente se si considera il suo «pedigree» botanico. È l’unico
membro commestibile della famiglia delle orchidee, ritenute dalla maggior
parte della gente fiori a dir poco splendidi. Forse l’associazione tra la
vaniglia e la sensuale orchidea è il motivo per cui la spezia gode
dell’afrodisiaca reputazione di favorire un’atmosfera romantica. E si tratta
di una reputazione molto antica.
La vaniglia è originaria del Messico e i primi uomini che presero a
coltivarla – i totonac del Mesoamerica, rivali degli aztechi – raccontavano
questa leggenda di desiderio e amore sulle sue origini: l’orchidea tropicale
della vaniglia nacque dal sangue della dea principessa Xanat, decapitata dal
padre per avergli disobbedito ed essere fuggita con il suo amante mortale.
Nel XVIII secolo, ai mariti europei veniva consigliato di bere un tonico di
vaniglia per aumentare la virilità e la fertilità; inoltre, fin dalla sua
introduzione nel continente, la vaniglia è stata un ingrediente di felice
ispirazione nell’industria dei profumi.
Ciò nonostante, come afferma Jenna Deanne Bythrow dell’Università di
Georgetown in un articolo sulla spezia apparso in Seminars in Integrative
Medicine, l’uso tradizionale della vaniglia come tonico andava ben al di là
della camera da letto. Gli aztechi la portavano al collo come «amuleto
medicinale», i frati spagnoli la utilizzavano per trattare pazienti che
«tossivano e sputavano sangue»; nel Nuovo Mondo, così come nel Vecchio
Continente, era un rimedio di uso frequente per «problemi femminili» come
l’isteria e la depressione. Negli erbari del 1700 e del 1800 era propagandata
come «stimolante per i nervi», e un testo medico americano del 1800 ne
decanta le virtù e la capacità di «esaltare il cervello, prevenire il sonno,
aumentare l’energia muscolare e stimolare l’energia sessuale».

ESAMINIAMO LA VANIGLIA

Nella vaniglia sono stati isolati oltre 200 fitonutrienti, ossia composti
bioattivi di origine vegetale, e negli ultimi vent’anni gli scienziati hanno
cominciato ad esaminarne il potenziale terapeutico. La sostanza che è stata
oggetto degli esami più minuziosi è la vaniglina, o vanillina, il costituente
principale della spezia. Gli studi dimostrano che potrebbe ricoprire un ruolo
promettente nell’ambito di due grosse patologie: il cancro e l’anemia
falciforme.
Cancro. Nell’esplorazione su scala mondiale alla ricerca di composti
naturali atti a combattere i tumori, gli scienziati hanno analizzato in
dettaglio la vaniglina attraverso studi in vitro ed esperimenti su animali.
In Malesia, i ricercatori hanno osservato che la vaniglina era in grado di
uccidere cellule di tumore umano, e tali risultati li hanno indotti a dichiarare
che «potrebbe costituire un utile agente di prevenzione del carcinoma del
colon-retto».
In Thailandia, gli esperti hanno scoperto che la vaniglina potrebbe limitare
la metastasi, ossia la migrazione delle cellule cancerose dalla sede
originaria del tumore ad altre zone del corpo. A quanto pare, agirebbe
disattivando gli enzimi (proteine che innescano un’azione biochimica)
promotori della neoplasia e inibendo l’angiogenesi, ovvero la formazione di
nuovi vasi sanguigni che vanno ad alimentare il tumore. Anche i ricercatori
giapponesi hanno riscontrato il medesimo effetto, giungendo così alla
conclusione che la vaniglina «può essere d’ausilio nello sviluppo di farmaci
antimetastatici per il trattamento del cancro».
I ricercatori cinesi hanno scoperto che la bromovanina – un derivato della
vaniglina – arrestava la progressione di un «ampio spettro» di tumori umani
e, pertanto, suggerirono che il composto forniva «interessanti prospettive
nello sviluppo» di un nuovo farmaco antitumorale.
I ricercatori della Facoltà di Medicina dell’Università di New York hanno
notato che la vaniglina è antimutagena; nelle cellule umane ha ridotto del
73% la capacità delle tossine di indurre mutazioni del DNA, vale a dire il
danno genetico che scatena il cancro. Inoltre, hanno scoperto che la
vaniglina influenza 64 geni coinvolti nel processo tumorale, inclusi quelli
che controllano la crescita e la morte delle cellule cancerose.
Anemia falciforme. Questa patologia ereditaria e incurabile induce una
deformazione della struttura dei globuli rossi – che si presentano quindi
rigidi, vischiosi e a forma di falce (drepanociti) – mentre, in condizioni
normali, tali cellule del sangue incaricate del trasporto dell’ossigeno sono
flessibili e di forma tonda. Le cellule deformate si impigliano e si bloccano
nel torrente ematico, ostacolando l’afflusso di sangue e ossigeno 1
determinando i principali sintomi di questa malattia; crisi dolorose e
stanchezza.
I ricercatori del Children’s Hospital di Filadelfia hanno sperimentato un
farmaco derivato dalla vaniglina su alcuni topi allevati in modo da
sviluppare l’anemia falciforme, e hanno scoperto che il composto riduceva
significativamente la percentuale di drepanociti. Il composto, conclusero sul
British Journal of Haematology, potrebbe costituire un «nuovo e sicuro
agente anti-falcizzazione in pazienti affetti da anemia falciforme».

Estratto fatto in casa

Trenta grammi di estratto puro di vaniglia o una stecca di vaniglia costano


all’incirca la stessa cifra, approssimativamente 2 dollari e mezzo. È
possibile risparmiare denaro, senza perdere nulla in fatto di sapore,
preparando in casa l’estratto di vaniglia. È un procedimento facile, ecco
come fare.
Prendete due baccelli, o stecche, di vaniglia, spezzateli in due e metteteli
in un vaso di vetro con un tappo a chiusura ermetica; un vasetto vuoto di
maionese farà al caso vostro. Versate mezza tazza di vodka (qualunque tipo
andrà bene) e sigillate bene il contenitore. Lasciatelo riposare in un luogo
fresco lontano dalla luce per sei settimane, scuotendo il vasetto ogni giorno.
Questo è tutto.
Potete estrarre i baccelli o lasciarli nel liquido, aggiungendo altra vodka
man mano che adoperate l’estratto.

ALLA SCOPERTA DELLA VANIGLIA

Il termine vaniglia deriva dallo spagnolo vainilla, che significa «piccola


guaina, baccello» in riferimento ai sottili baccelli contenenti i semi
dell’orchidea tropicale, ciò che normalmente definiamo «stecche di
vaniglia». Un tempo cresceva esclusivamente in Messico poiché, allo stato
naturale, il fiore veniva impollinato da una specie locale di ape; ora viene
coltivata in tutto il mondo e l’impollinazione viene fatta a mano, un
processo lento e minuzioso che giustifica in parte l’elevato prezzo della
spezia (in ordine di [costo, seconda solo allo zafferano).
La vaniglia venne adoperata per la prima volta come spezia culinaria nei
prodotti di pasticceria ad opera degli europei nel XVII secolo. Oggigiorno, è
presente un po’ dappertutto come aroma per ripieni di crostate, gelati, (il
50% della vaniglia importata negli Stati Uniti viene utilizzata per produrre
gelati), torte, biscotti, mousse, soufflé, budini di riso e bevande alcoliche.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

La vaniglia ha una fragranza dolce e pervasiva che varia a seconda del


luogo di coltivazione. Viene commercializzata in due forme: come baccello
intero essiccato e come estratto, ed entrambi sono disponibili nella maggior
parte dei supermercati. Per ottenere il sapore migliore, affidatevi al
baccello. Esistono parecchie varietà di vaniglia.
La vaniglia francese, detta anche vaniglia Bourbon, è indubbiamente il
baccello di qualità migliore, più intenso di aroma e con il più alto contenuto
di vaniglina. I baccelli vengono coltivati in Madagascar, nell’isola La
Réunion e nelle Isole Comore, tutte nell’Oceano Indiano. La maggior parte
dei baccelli di vaniglia importati negli Stati Uniti è di varietà francese, e
sono pure quelli reperibili nella maggior parte dei supermercati.
La vaniglia messicana, a detta degli esperti, manca dell’intensità di
aroma tipico di quella francese, sebbene alcuni presunti intenditori la
preferiscano.
La vaniglia indonesiana, anche nota come vaniglia di Papua Nuova
Guinea, ha un aroma pieno ma una reputazione non eccelsa in fatto di
qualità.
La vaniglia tahitiana viene prodotta a Tahiti, ma è altresì coltivata nelle
Hawaii e in altre isole del Pacifico; ha un contenuto inferiore di vaniglina e,
pertanto, un profumo meno intenso rispetto a quello classico della vaniglia
francese o messicana. Ciò nonostante, la richiesta di vaniglia tahitiana è in
aumento in quanto il suo aroma unico l’ha resa popolare tra gli chef.
La vaniglia delle Indie Occidentali viene coltivata sull’isola francese di
Guadalupa, nei Caraibi. A causa dal basso contenuto di vaniglina non è
considerata idonea come spezia e viene pertanto venduta prevalentemente a
industrie produttrici di cosmetici.
Tipicamente, i baccelli di vaniglia vengono confezionati in tubetti
cilindrici in una quantità di tre stecche per confezione. Cercate baccelli di
colore marrone scuro (quasi nero), umidi al tatto e flessibili, come un pezzo
di liquirizia. Sulla superficie potreste notare una polvere bianca simile a
zucchero: si tratta di vaniglia givrée, o «brinata», in cui la vaniglina si è
cristallizzata sulla superficie e rappresenta la qualità migliore.
Qualora decidiate di non comprare i baccelli, acquistate dell’estratto di
vaniglia pura (o naturale). Nella preparazione dell’estratto, i baccelli
vengono frantumati, immersi in alcol e lasciati a macerare, quindi l’estratto
viene filtrato. In base alla legge federale americana, il contenuto minimo di
alcol deve essere 35%.
Le stecche di vaniglia o l’estratto vanno conservati in un contenitore
ermetico in un luogo fresco e lontano dalla luce. Entrambi si mantengono
fino a diciotto mesi.
Per quel che riguarda l’estratto di vaniglia artificiale, tale prodotto di
sintesi imita l’aroma della vera vaniglia ma non riesce a riprodurlo alla
perfezione e pertanto è considerato un elemento culinario di seconda scelta
da parte degli intenditori. Comunque sia, esistono moltissimi estratti di
vaniglia artificiali poiché la domanda di vaniglia naturale supera
notevolmente la reale disponibilità.
La vaniglia viene altresì commercializzata in pasta, utilizzata
principalmente nella preparazione di gelati e nei ristoranti.
I semi della vaniglia, estratti dal baccello, costituiscono il prodotto
commerciale più caro in assoluto ma hanno anche un aroma estremamente
intenso e persistente.
Sia la pasta che i semi possono essere acquistati da rivenditori specializzati
in prodotti a base di vaniglia rintracciabili su web.

LA VANIGLIA IN CUCINA

La vaniglia viene di norma adoperata nella preparazione di dolciumi


sebbene, di per sé, non sia particolarmente dolce: in realtà è lo zucchero a
fornire il sapore dolce. In Africa e nelle zone tropicali, in effetti, la vaniglia
viene più frequentemente utilizzata in preparazioni salate in umido più che
in ricette dolci. Gli chef occidentali hanno scoperto tale uso interessante
della spezia ed ora sui menu è facile trovare salse profumate alla vaniglia
come accompagnamento a portate principali, per lo più a base di pesce.
Provate a prendere in considerazione anche voi qualche esperimento
culinario con la vaniglia in preparazioni salate.
Quando adoperate baccelli freschi, incideteli per il lungo ed estraetene i
semi. Sia i semi che il baccello possono essere utilizzati per cucinare.
Non è necessario buttare via un baccello usato. Lasciatelo asciugare e
mettetelo in un barattolo di zucchero immergendolo completamente: potrete
riutilizzarlo più volte prima che perda del tutto il sapore. Ogni volta, dopo
averlo adoperato, rimettetelo nuovamente nello zucchero. Inoltre potete
anche utilizzare lo zucchero che nel frattempo avrà acquistato il profumo
della vaniglia.
Ecco alcune idee per piatti dolci e salati per arricchire di vaniglia la vostra
dieta:

• La vaniglia è eccezionale abbinata all’astice, ai gamberi e alle capesante.


Preparate una salsina di panna e profumatela adoperando baccelli di
vaniglia.
• Poiché la vaniglia si sposa bene al burro, addolcite le salse al burro che
accompagnano piatti salati a base di pesce o pollo.
• Utilizzate la vaniglia per smussare sapori più forti nelle salse, nei
chutney e nei curry.
• Mettete in infusione un baccello di vaniglia tagliato a metà nel caffè,
coprite il bricco e mettete in frigorifero; servite il caffè freddo con panna
montata e noce moscata.
• Aggiungete della vaniglia alle composte di frutta a base di mele, uva
spina e rabarbaro.
• Aggiungete 1 o 2 gocce di estratto di vaniglia al Vov fatto in casa o
quando montate la panna.
Wasabi. Un alleato piccante contro il cancro

Il wasabi è un condimento giapponese noto per lo più come guarnizione su


un piatto di sushi, bello come un quadro da esposizione, e per il fatto di
essere piccante, molto piccante. Basta immergere appena la punta della
bacchetta per sperimentarne appieno tutta la peculiare pungenza, non
dissimile dalla senape cinese piccante. Ebbene, tale rovente sensazione è
segno di una spezia curativa all’opera.
Il wasabi viene anche definito «rafano giapponese» e appartiene alla stessa
famiglia botanica del rafano, il genere Brassica che include le crucifere
come il cavolo cappuccio, i broccoli, i cavolini di Bruxelles e il cavolo
riccio. Le crucifere sono ricchissime di composti detti isotiocianati che,
come dimostrato dalla ricerca scientifica, vantano proprietà antitumorali.
Gli isotiocianati presenti esclusivamente nel wasabi sono responsabili della
sua eccezionale pungenza, tale da aprire i seni nasali, e sono potenzialmente
in grado di difenderci dal cancro.

UNA SITUAZIONE «SCOTTANTE» PER IL CANCRO

Studi in vitro e in vivo condotti su animali dimostrano che il wasabi


potrebbe assestare un duro colpo al cancro al pari di altri notevoli membri
della famiglia delle crucifere come, ad esempio, i broccoli.
Carcinoma mammario. Dagli studi in vitro condotti da alcuni ricercatori
giapponesi si è scoperto che un isotiocianato presente nel wasabi potrebbe
arrestare la crescita delle cellule del carcinoma mammario e procurarne la
morte. Tale isotiocianato, conclusero gli studiosi, «è un nuovo possibile
candidato in grado di tenere sotto controllo le cellule tumorali».
Blocco della metastasi. Per metastasi si intende la diffusione di un tumore
dalla sede originaria di insorgenza ad altre sedi dell’organismo. Quando un
gruppo di ricercatori giapponesi inoculò nei polmoni di animali da
laboratorio cellule di melanoma, notarono che il trattamento preliminare
con un isotiocianato del wasabi arrestava la crescita di tali cellule in una
percentuale pari all’82%. «Pare che il wasabi non solo inibisca la crescita
delle cellule tumorali ma anche la metastasi del tumore», scrissero su
Cancer Detection and Prevention, e conclusero: «Verosimilmente, il wasabi
è un eccellente candidato di origine alimentare che può essere d’ausilio nel
controllo della progressione dei tumori».
Carcinoma dello stomaco. In un altro studio, realizzato anch’esso in
Giappone, i ricercatori hanno indotto tumori gastrici in animali da
laboratorio e hanno suddiviso i soggetti in due gruppi, ad uno dei quali
venne somministrato del wasabi. Gli animali che non assunsero la radice
svilupparono un numero di tumori quattro volte superiore. Il carcinoma
dello stomaco «è stato soppresso grazie alla somministrazione di wasabi»,
scrissero i ricercatori sulla rivista Nutrition and Cancer.
Carcinoma del colon. La ricerca in vitro condotta dagli scienziati
dell’Università di Stato del Michigan ha evidenziato che i composti presenti
nel wasabi inibiscono la crescita cellulare del carcinoma del colon fino al
68%, quella del carcinoma polmonare fino al 71% e quella del carcinoma
dello stomaco fino al 44%.
Leucemia. Un’équipe di ricercatori giapponesi ha scoperto che il wasabi è
in grado di arrestare la crescita di cellule della leucemia e ne ha concluso
che la spezia è «potenzialmente utile come agente antitumorale di origine
naturale».

Troppo wasabi?

Affondare i denti in un peperoncino piccante può essere un’esperienza a


dir poco rovente, ma nulla è comparabile a un bel boccone di wasabi.
Sono state riportate notizie di reazioni assai preoccupanti in persone che
avevano ingenuamente mangiato wasabi come fosse semplice verdura
anziché un condimento da prendersi a piccolissime dosi. Benché, stando a
quel che si dice, possa provocare pallore, sudorazione profusa, eccessi di
tosse e talvolta disorientamento, fino a giungere al collasso, non è stato mai
riferito alcun episodio di decesso (seppure esista un film di Luc Besson che
porta lo stesso nome in cui, in una scena divertentissima, il personaggio di
Maurice assaggia il wasabi e rischia la morte per soffocamento). Una
«overdose» di wasabi, tuttavia, può rappresentare un rischio per le persone
con vasi sanguigni indeboliti, ad esempio quanti hanno subito un infarto o
un ictus e individui che soffrono di diabete di tipo 2.
Se avete fatto il passo più lungo della gamba, o letteralmente il boccone
più grande della bocca, cercate di stare calmi e respirate attraverso la bocca
in modo da evitare di inspirare nei polmoni gli agenti irritanti. La pungenza
si disperde piuttosto rapidamente e non permane, come accade per la
piccantezza del peperoncino, né si «riaccende» se cercate di mitigarla con
un bicchiere d’acqua o di birra.

DITE «SAYONARA» ALLE MALATTIE

Esistono molti altri modi in cui questa spezia di origine giapponese può
proteggere la nostra salute.
Avvelenamento da cibo. Alcuni studi indicano che il wasabi costituisce
una difesa naturale contro l’Escherichia coli e lo Staphylococcus aureus,
due batteri che provocano l’avvelenamento da cibo. Il wasabi venne
introdotto per la prima volta nella cucina giapponese proprio per ridurre il
rischio di avvelenamento da pesce crudo.
Ulcere. I batteri del genere Helicobacter pylori sono responsabili della
maggior parte dei casi di ulcera gastrica, e la persistenza di un’infezione da
H. pylori aumenta il rischio di sviluppo di tumori. Svariati studi dimostrano
che gli isotiocianati ed altri composti presenti nel wasabi sono in grado di
uccidere tali batteri.
Ipercolesterolemia. In un esperimento condotto su animali, alcuni
ricercatori australiani hanno scoperto che il wasabi può ridurre il colesterolo
LDL, tipicamente nocivo, e aumentare i livelli di salutare colesterolo HDL.
Carie dentaria. I ricercatori giapponesi hanno scoperto che gli
isotiocianati contenuti nel wasabi inibiscono la crescita dei batteri
responsabili delle carie.
Coaguli. Un gruppo di ricercatori ha isolato un isotiocianato del wasabi
che presenta una capacità dieci volte superiore all’aspirina di prevenire la
formazione di coaguli, cioè una delle principali cause di ostruzione delle
arterie che conduce a infarti e ictus.
Osteoporosi. La ricerca condotta su animali indica che il wasabi contiene
alcuni composti in grado di aumentare la densità ossea.
Eczema (dermatite atopica). In alcuni animali allevati in modo da
sviluppare una condizione eczematosa, la somministrazione di un estratto di
wasabi ha ridotto i sintomi di prurito e il grattamento. Inoltre, a livello
immunitario, ha limitato la reazione dei linfociti responsabili del prurito e
dell’infiammazione.

ALLA SCOPERTA DEL WASABI

Gli americani che conoscono il wasabi lo identificano con la salsa che


accompagna il pesce crudo servito come sushi (con riso) o sashimi (senza
riso), ma per i giapponesi è un condimento di uso comune, come il ketchup
per gli americani.
In Giappone viene usato per condire piatti teriyaki e tagliatelle, e viene
frequentemente aggiunto alle salsine da pinzimonio, alle salse, ai
condimenti per insalate e alle marinate. Una particolare salamoia assai
diffusa, chiamata wasabi zuke, viene preparata sfruttando tutte le parti della
pianta: foglie, fiori, steli e radice esterna, e mescolandole ad acqua salata e
sakè. È anche possibile trovare il vino di wasabi (sebbene venga acquistato
essenzialmente per il gusto della novità) e il liquore di wasabi, noto per
l’elevato contenuto alcolico.
I giapponesi apprezzano il wasabi per il suo sapore ma anche per il valore
estetico. La presentazione dei cibi, infatti, costituisce una parte notevole
dell’esperienza giapponese del pasto, e tale pasta di colore verde bril-RpsJ
H lante viene spesso utilizzata per mettere in evidenza le verdure scolpite
con intento ornamentale che adomano un piatto o un buffet giapponese.
In Giappone, la preparazione della pasta di wasabi è un’arte. Gli chef
pelano la radice, quindi la grattugiano finemente utilizzando una grattugia
di zigrino chiamata oroshi. La radice viene afferrata e tenuta a novanta
gradi sulla grattugia in modo da ridurre al minimo il rilascio degli oli
volatili e ottenere così il massimo risultato in fatto di sapore e trama. La
radice grattugiata viene poi pressata per fame una pasta.
Il wasabi fresco è una rara squisitezza in cui ci si può imbattere soltanto in
Giappone o, in Occidente, nei ristoranti più raffinati. Ha un sapore più dolce
e leggero della pasta omonima e la radice viene grattugiata al momento su
una varietà di piatti, proprio come avviene nei ristoranti italiani con il
parmigiano.
La pianta del wasabi, un tempo definita zenzero selvatico, è abbastanza
rara; cresce spontanea lungo le sponde dei freddi torrenti di montagna di
alcune zone del Giappone, dove le temperature tipicamente si aggirano sui
13 °C. La popolarità che la cucina giapponese ha acquisito durante gli
ultimi vent’anni ha suscitato interesse nella coltivazione della pianta e,
attualmente, il wasabi viene prodotto in Corea, Nuova Zelanda, Taiwan,
Cina e Oregon. La Nuova Zelanda sta acquistando una reputazione
eccellente con colture di prim’ordine, tanto che i suoi prodotti vengono
esportati persino in Giappone. Uno studio condotto in tale paese ha
evidenziato che il contenuto di isotiocianati del wasabi neo-zelandese è
superiore a quello del wasabi giapponese.
Poiché la pianta da cui si ricava la spezia è difficile da coltivare, e poiché
il tempo necessario affinché la pianta cresca giungendo a maturità è
piuttosto lungo, il wasabi risulta un articolo costoso se paragonato al rafano,
il «cugino» più diffuso. Inoltre, e preparatevi a una delusione, a causa del
costo ingente e della domanda di mercato altrettanto elevata, il wasabi che
viene servito nel tipico ristorantino sushi che si può trovare in città o nei
centri commerciali non è vero wasabi. Si tratta, piuttosto, di rafano in
polvere ricostituito in acqua e addizionato di spirulina o foglie di spinacio
per dare colore. A meno che non siate stati in Giappone e abbiate mangiato
in un ristorante giapponese di lusso, è probabile che non abbiate mai
assaggiato il vero wasabi. Occorre avere un palato esperto, e almeno una
esperienza diretta di ciò che è il vero wasabi, per riconoscere la differenza
tra l’originale e il wasabi che ci viene propinato nel tipico locale sushi:
entrambi hanno in comune la stessa pungenza, ma ogni somiglianza finisce
qui.

Il wasabi può contribuire a prevenire e/o curare:

Carie dentarie Coaguli


Ulcere Eczema
Osteoporosi Tumori
Colesterolo Avvelenamento da cibo

CONSIGLI PER L’ACQUISTO


Il wasabi commercializzato negli Stati Uniti viene proposto sotto forma di
pasta in tubetto oppure come polvere in scatolette di metallo. Poiché il
wasabi in tubetto è tipicamente rafano americano o europeo, se siete in
cerca del vero wasabi dovreste limitarvi ad acquistare quello in polvere.
L’unico modo per poter capire esattamente cosa si sta acquistando è
controllare l’etichetta. Il wasabi in polvere confezionato in Giappone è
reperìbile nei negozi di prodotti asiatici e nel reparto dedicato alla Cupina
orientale in molti dei più grandi supermercati. Tuttavia, il solo fatto che sia
di marca giapponese non significa che sia vero wasabi. I prodotti originali
contengono solo ed esclusivamente wasabi e non c’è ombra di senape,
rafano o coloranti nella lista degli ingredienti.
Il vero wasabi è anche acquistabile in internet.

IL WASABI IN CUCINA

Preparare il wasabi non potrebbe essere più semplice: prendete un


cucchiaino di polvere di wasabi e stemperatela in un cucchiaino d’acqua, o
poco più, finché non raggiunge la consistenza della pasta; lasciatelo quindi
riposare per almeno 10 minuti per dare modo all’aroma di svilupparsi.
Tenetelo coperto per preservarne l’aroma. Poiché il wasabi è
particolarmente deperibile, preparatene soltanto la quantità che prevedete di
utilizzare.
Per preparare la salsa wasabi, gli chef giapponesi grattugiano la radice
della pianta, dopo averla pelata, adoperando una grattugia di zigrino
chiamata oroshi, e poi la pressano per farne una pasta.
Il wasabi si può godere in molti altri modi oltre che come condimento per
il sushi. Ecco alcuni suggerimenti:

• Utilizzate il wasabi come fareste con la senape per condire carni cotte e
affumicate, ad esempio prosciutto cotto, brasati e corned beef.
• Adoperate il wasabi al posto della salsa cocktail su vongole e ostriche
crude o sui gamberetti. Ricordate soltanto di usarne poca.
• Vivacizzate il gusto della salsa cocktail aggiungendo un pizzico di
wasabi in polvere.
• Preparate un purè di patate al wasabi aggiungendo della polvere di
wasabi alla ricetta tradizionale. Adoperate circa 1 cucchiaio di wasabi in
polvere per 1,3 kg di patate.
• Preparate una maionese al wasabi aggiungendo 1 cucchiaino di wasabi in
polvere e una spruzzatina di succo di limone a 1/2 tazza di maionese
normale, quindi spalmatela sui tramezzini. Risulta particolarmente
piacevole nei tramezzini al prosciutto cotto.
• Preparate una vinaigrette al wasabi combinando 1 cucchiaio di pasta
wasabi e, rispettivamente, 1 cucchiaio di maionese, di mirin (sakè dolce da
cucina) e di aceto di riso.
• Sostituite parte della senape con della pasta wasabi per condire le uova
alla diavola.
• Preparate un burro aromatico adoperando 1/4 tazza di erba cipollina
essiccata, 1/4 tazza di wasabi in polvere e 1/2 tazza di burro ammorbidito.
Incorporate bene le spezie, date al burro la forma di un rotolo e mettete in
frigorifero. Tagliate delle fettine di burro e lasciatele sciogliere sdì tonno o
il salmone cotti alla griglia. In alternativa, ungete con il burro un pollo
intero prima di metterlo ad arrostire.
• Provate la pasta wasabi al posto del rafano o del tabasco nel Bloody
Mary.
• Preparate un pasto leggero di piselli al wasabi. Friggete o fate rosolare i
piselli, quindi ricopriteli di wasabi ed altri condimenti e passateli in forno
finché la buccia non diventa croccante. Con questa ricetta apprezzerete il
vero sapore del wasabi.
Zafferano. Su con lo spirito!

Lo zafferano è la spezia più costosa, ed anche più squisita, che esista al


mondo. I suoi filamenti di oro rosso, brillanti come un tramonto estivo,
valgono veramente tanto oro quanto pesano. O quasi. Negli Stati Uniti
mezzo chilo di zafferano si aggira intorno ai 5000 dollari, circa un quarto
del prezzo di mezzo chilo d’oro. E grazie a Dio lo zafferano viene venduto
a grammi.
Lo stigma è la parte del fiore su cui si deposita il polline, e lo zafferano
altro non è che lo stigma essiccato del croco violetto da cui si ricava tale
spezia. È facile capire perché sia la droga più costosa della terra, se si
considera che ci vogliono 80.000 fiori di croco e 250.000 stigmi essiccati
per produrre mezzo chilo di zafferano!
Gli stigmi vengono colti a mano quando questo fiore autunnale inizia a
schiudersi, un’operazione che assume proporzioni da vero e proprio rituale
durante le due/tre settimane di raccolta in Iran, nella regione indiana del
Kashmir e nella regione manchega della Spagna, ossia le zone dove viene
coltivato gran parte dello zafferano distribuito poi in tutto il mondo. In tali
regioni, il fiore viene per lo più coltivato in aziende agricole a conduzione
familiare, e ogni membro della famiglia dà una mano lavorando giorno e
notte per cogliere i fiori, asportare gli stigmi ed essiccarli approntandoli per
il mercato. Questo duro lavoro è sovente seguito da allegri festeggiamenti, e
l’euforia deriva forse proprio dallo stretto contatto con lo zafferano, la
«droga» che accresce il buon umore…

IL PROZAC DI MADRE NATURA

«Nella medicina tradizionale persiana lo zafferano viene impiegato contro


la depressione», scrisse un’équipe di psichiatri del Centro Medico
dell’Università di Teheran sul Journal of Ethnopharmacology.
Tale è il motivo per cui gli psichiatri decisero di sperimentare la spezia e
vedere se poteva funzionare per combattere la depressione. Non solo, ma
anche perché ipotizzarono che poteva funzionare molto meglio dei farmaci
antidepressivi.
«Sebbene siano disponibili svariati agenti farmacologici per il trattamento
della depressione, in genere gli psichiatri notano che numerosi pazienti non
riescono a tollerare gli effetti collaterali, non rispondono adeguatamente o
alla fine sviluppano assuefazione», dichiararono i ricercatori.
L’esito dell’esperimento fu che lo zafferano riuscì a rischiarare parecchi
giorni bui.
Valido quanto la fluoxetina (Prozac). I ricercatori studiarono 40 pazienti
con depressione da lieve a moderata suddividendoli in due gruppi: ad uno
somministrarono la fluoxetina, all’altro prescrissero dello zafferano in dosi
da 15 mg due volte al giorno. Dopo due mesi, lo zafferano si era dimostrato
efficace quanto la fluoxetina nell’alleviare la depressione nel 25% dei
partecipanti allo studio.
Un trattamento efficace. In un secondo studio svoltosi in Iran, alcuni
psichiatri studiarono anche loro 40 soggetti con depressione da lieve a
moderata suddividendoli in due gruppi: uno assunse 30 mg di zafferano al
giorno e l’altro un placebo. In capo a sei settimane, i pazienti trattati con
zafferano ottennero punteggi molto più bassi sulla Scala di Hamilton in un
test standard di valutazione della depressione. Le osservazioni vennero
pubblicate sulla rivista Phytomedicine.
Un altro gruppo di ricercatori iraniani, studiando 40 soggetti che per sei
settimane assunsero zafferano o un placebo, rilevarono un affetto ancora più
marcato della spezia.
Efficace quanto l’imipramina (Tofranil). Nell’ambito di un altro studio
condotto in Iran, gli esperti misero a confronto lo zafferano e l’imipramina
(Trofanil), un antidepressivo triciclico. Trenta individui affetti da
depressione da lieve a moderata furono suddividi in due gruppi a cui
vennero somministrati rispettivamente l’antidepressivo o la spezia, e lo
zafferano dimostrò di avere un’efficacia pari a quella del farmaco.
Il principio attivo. Alcuni ricercatori iraniani sostengono che la spezia
potrebbe agire esattamente nello stesso modo in cui agiscono numerosi
antidepressivi: due composti dello zafferano – la crocina e il sanafrale –
sosterrebbero i livelli di varie sostanze chimiche del mezzo cerebrale
(serotonina, dopamina e noradrenalina) che migliorano e stabilizzano
l’umore.
Nell’ambito di una ricerca condotta su animali, un gruppo di ricercatori
cinesi ha inteso esaminare il meccanismo antidepressivo dello zafferano.
Sono giunti alla conclusione che è la crocina il principio attivo presente
nella spezia, e che tale composto «dovrebbe essere preso in considerazione
come nuovo agente fitoterapico per la cura della depressione».

ZAFFERANO, E POI ANCORA ZAFFERANO

Lo zafferano può contribuire a preservare la salute o a migliorarla in molti


altri modi.
Aterosclerosi. Venti individui, di cui 10 in salute e 10 affetti da malattia
cardiovascolare, assunsero 100 mg al giorno di zafferano; dopo sei
settimane, l’ossidazione del colesterolo – il processo responsabile della
formazione della placca arteriosa – era diminuita del 43% nei soggetti sani
e del 36% nei pazienti affetti.
Morbo di Alzheimer. Alcuni ricercatori hanno condotto uno studio su 54
pazienti con morbo di Alzheimer da lieve a moderato suddividendoli in due
gruppi: a un gruppo furono somministrati 30 mg/die di zafferano, l’altro
venne trattato con donepezil (Aricept), un farmaco spesso prescritto per
rallentare la progressione della patologia. Dopo cinque mesi, lo zafferano si
era rivelato efficace quanto il donepezil nel rallentare il declino cognitivo
senza tuttavia mostrare alcun effetto collaterale.
Crampi mestruali. Un gruppo di esperti ha studiato 180 donne, di età
compresa tra i 18 e i 27 anni, che accusavano crampi mestruali
suddividendole in tre gruppi. Per tre cicli mestruali, dal giorno 1 al giorno
3, un gruppo ricevette un rimedio erboristico contenente 500 mg di
zafferano, il secondo dell’acido mefenamico (Ponstel) – un farmaco
antinfiammatorio non steroideo simile all’ibuprofene – e il terzo un placebo
con frequenza giornaliera. Entrambi i gruppi che assunsero zafferano e
acido mefenamico registrarono una significativa riduzione dell’intensità e
della durata del dolore durante il ciclo, e la riduzione maggiore si ebbe nelle
pazienti che assunsero zafferano.
Sindrome premestruale (SPM). Si stima che un’elevata percentuale di
donne (dal 70% al 90%) soffra di sindrome premestruale e il 10%-40% di
esse riferisce che i sintomi: malesseri fisici, emotivi e mentali di ogni
genere a partire da metà ciclo e per tutta la durata delle mestruazioni,
interferiscono con le attività quotidiane. Alcuni ricercatori hanno pertanto
studiato un gruppo di donne di età compresa tra i 20 e i 45 anni
suddividendole in due gruppi e somministrando solo a un gruppo 30 mg al
giorno di zafferano per due cicli mestruali. Su una rivista i ricercatori
scrissero che «lo zafferano si è dimostrato efficace nell’alleviare i sintomi
della SPM».
Sterilità maschile. Cinquantadue uomini con un problema di sterilità sono
stati trattati con zafferano in dosi da 50 mg al giorno; in capo a tre mesi, la
percentuale di spermatozoi morfologicamente normali (forma) era
aumentata del 21% e il numero di spermatozoi caratterizzati da una normale
motilità (movimento) era raddoppiato. A detta dei ricercatori, è probabile
che la crocina, essendo un potente antiossidante, abbia protetto e rigenerato
gli spermatozoi sortendo in tal modo risultati che gli stessi esperti
definirono «promettenti».
Disfunzione erettile. Un’équipe di ricercatori ha condotto uno studio su
20 uomini con disfunzione erettile somministrando loro 200 mg di
zafferano al giorno. Dopo 10 giorni si assistette a un miglioramento pari al
40% dei punteggi ottenuti sull’Indice Intemazionale della Disfunzione
Erettile, un questionario standard che viene sottoposto ai pazienti per
determinare la gravità del problema.
Tumori. Lo zafferano pare essere riuscito ad ostacolare numerose
tipologie di neoplasia maligna nell’ambito di studi in vitro e in vivo su
animali, ivi inclusi i tumori a carico del polmone, del colon, del seno, del
fegato, del pancreas, della vescica urinaria e della cervice uterina. Dopo
avere riesaminato oltre 30 studi sullo zafferano e il cancro, un’équipe di
ricercatori ha riportato le proprie conclusioni sulla rivista Acta
Horticulturae, secondo le quali lo zafferano «può avere buone potenzialità
di impiego nella prevenzione e/o nel trattamento di determinate forme di
cancro».
Ansia e insonnia. In un articolo pubblicato su Phytotherapy Research, un
gruppo di ricercatori osservava che «lo zafferano viene impiegato in caso di
insonnia e ansia nella medicina tradizionale». In un esperimento condotto
su animali riscontrarono che, effettivamente, gli estratti di zafferano
riducevano l’attività ansiosa e prolungavano il periodo di sonno
complessivo.
Perdita di memoria. Nell’ambito di esperimenti condotti su animali,
alcuni ricercatori greci hanno scoperto che i composti presenti nello
zafferano miglioravano la memoria.
Degenerazione maculare senile. Questa graduale distruzione della
macula (la regione centrale della retina) è la causa più comune di cecità
negli Stati Uniti. I medici del Texas A&M University College of Medicine
hanno notato che alcuni composti derivati dalla crocina erano in grado di
«aumentare significativamente l’afflusso di sangue alla retina» e potevano
«essere utilizzati per trattare casi di degenerazione maculare associata
all’invecchiamento».
Morbo di Parkinson. Questa patologia neurodegenerativa è caratterizzata
da una graduale e progressiva distruzione dell’area cerebrale in cui viene
prodotta la dopamina, evento che determina tutta una serie di sintomi quali
tremori, rigidità muscolare, apatia e demenza. In un esperimento condotto
su animali, alcuni ricercatori indiani hanno scoperto che la crocetina
presente nello zafferano proteggeva le cellule cerebrali preposte alla sintesi
della dopamina e stabilizzava i livelli di tale neurotrasmettitore. La
crocetina, scrissero i ricercatori, «è utile nella prevenzione del
parkinsonismo e può trovare impiego a livello terapeutico per combattere
questo devastante disturbo neurologico».
Sclerosi multipla. Un gruppo di ricercatori pakistani ha utilizzato lo
zafferano per ridurre i sintomi in soggetti animali affetti da sclerosi multipla
sperimentalmente indotta. La sclerosi multipla è una malattia autoimmune
che distrugge la guaina di rivestimento delle cellule nervose dando luogo a
una vasta gamma di sintomi neuromuscolari, tra cui anche difficoltà di
deambulazione. I ricercatori sono giunti alla conclusione che lo zafferano
«può essere potenzialmente d’aiuto nel trattamento della sclerosi multipla».

ALLA SCOPERTA DELLO ZAFFERANO

Esistono quasi un centinaio di varietà di fiori del genere Crocus ma solo


uno contiene gli stigmi da cui si ricava lo zafferano: il croco violetto privo
di foglie. Gli stigmi rossoarancioni sono attaccati a ima membrana alla base
del fiore detta stilo. Quando i fiori si schiudono in autunno, occorre
rimuovere al più presto gli stigmi dagli stili. I raccoglitori pongono estrema
attenzione a non rimuovere pezzi di stilo insieme agli stigmi: qualche stilo
in una partita di zafferano non costituisce un problema, ma una quantità
eccessiva rovinerebbe la qualità della spezia e, di conseguenza, ne
ridurrebbe il prezzo sul mercato. Una volta essiccati, gli stigmi si
trasformano in un groviglio di sottili filamenti arricciati, così leggeri da
venir spazzati via da un alito di vento.
Poiché gli stigmi devono essere colti non appena il fiore si schiude,
l’intero raccolto viene solitamente completato in pochi giorni. Il croco
violetto è originario dell’Iran ma, attualmente, viene coltivato in numerosi
paesi: Iran, India, Spagna, Grecia e Inghilterra sono tra le nazioni più
produttive, e le piccole aziende agricole sono per lo più a conduzione
familiare.
Lo zafferano è antico quanto il mondo. Gli antichi greci adoperavano la
spezia per profumare e purificare i templi, mentre gli antichi romani
facevano il bagno in acqua e zafferano. Cleopatra lo usava come maschera
di bellezza per il viso, o per lo meno questo è ciò che narra la leggenda. A
volte mi chiedo se esiste qualche spezia che la divina Cleopatra non abbia
impiegato nelle maschere di bellezza!
Ai tempi del Medioevo lo zafferano aveva assunto grande rilevanza
commerciale in Europa, soprattutto come tintura, e le stoffe così colorate
venivano confezionate in abiti per nobili e re.
In veste di spezia per uso culinario, lo zafferano è più diffuso nelle zone di
coltivazione. Spagna e Portogallo fanno grande uso di zafferano, tanto che
il suo incredibile colore si ritrova in miriadi di piatti di pesce e brodetti ai
frutti di mare. Il piatto nazionale spagnolo, la paella, composto da diverse
varietà di carni e pesce, porta la luminosa firma dorata dello zafferano.
La cucina provenzale sfoggia lo zafferano come ingrediente essenziale
nella bouillabaisse e nel rouille, una maionese resa più vivace da zafferano
e peperoncino.
Ma lo zafferano dà colore ai piatti a base di riso un po’ ovunque, inclusi i
biryani e il budino di riso detto kheer dell’India, nonché i pilaf e il budino
di riso shola iraniani, e non può mancare nel classico risotto alla milanese.
In India tale spezia viene adoperata nella sontuosa cucina Moghul. Il Shahi
raan, un elaborato cosciotto d’agnello arrosto con salsa allo zafferano e
uvetta passa – un vero piatto da re – viene preparato facendo marinare per
tre giorni la carne d’agnello.
Gli arabi adoperano lo zafferano unitamente al cardamomo per
aromatizzare i caffè.
Il 13 dicembre gli scandinavi celebrano la festa della santa patrona, Santa
Lucia, sfornando un pane allo zafferano detto Lussekatter (il gattino di
Lucia), che in famiglia viene tradizionalmente servito da una figlia
abbigliata con una lunga veste bianca, una candela in mano e in capo una
coroncina di rami di mirtillo rosso.
I tedeschi della Pennsylvania, ossia i discendenti dei primi immigranti
tedeschi che si stabilirono nella Pennsylvania orientale, adoperano lo
zafferano per colorare e aromatizzare il loro famoso tortino di pollo che, di
fatto, non è una torta salata bensì uno stufato di pollo ricoperto da sfoglie di
pasta. Furono i primi coloni a portare con loro dalla Germania lo zafferano
e il croco che oggi viene coltivato direttamente nel giardino di casa.

Lo zafferano può contribuire a prevenire e/o curare:

Ansia Aterosclerosi
Crampi mestruali Pressione alta
Disfunzione erettile Tumori
Perdita di memoria Insonnia
Sclerosi multipla Morbo di Parkinson

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Poiché è molto costoso, lo zafferano risulta essere la spezia più adulterata


e falsificata. Nella Germania del XVI secolo, il camuffamento di cartamo,
curcuma ed altre sostanze a basso prezzo affinché somigliassero allo
zafferano era un’attività assai lucrativa, oltre ad essere un reato. Di fatto, i
tedeschi lo ritenevano un crimine così grave che fondarono un gruppo di
inquisitori chiamato Safranschau, con il compito di perseguire, processare e
punire gli «adulteratori».
Sebbene la spezia venga coltivata in numerose zone in tutto il mondo (ne
vengono prodotte 220 tonnellate l’anno), lo zafferano della Spagna, e più
precisamente della Mancha, è considerato il migliore, seguito a ruota da
quello indiano del Kashmir. Lo zafferano australiano della Tasmania è uno
degli ultimi contendenti apparsi sulla scena per l’alta qualità della spezia e
il prezzo, se possibile, ancor più esorbitante. In ogni caso, il 90% dello
zafferano introdotto sul mercato mondiale viene prodotto in Iran.
Per lo zafferano si considerano due livelli di qualità: gli stigmi puri, senza
stilo, e i filamenti, che presentano un pezzetto di stilo pallido ancora
attaccato. Termini come coupé (spagnolo), morga (indiano), poshal
(iraniano) e stigmata (greco) denotano tutti lo stigma puro. Esistono inoltre
delle sottoqualità in base al contenuto di crocina presente nello zafferano:
un’elevata quantità di crocina è sinonimo di qualità migliore e, quanto più
scuro è il colore, più crocina contiene. Il colore dello zafferano può variare
dal giallo aranciato a un profondo rosso borgogna. Lo zafferano greco della
cittadina di Krokos è rigidamente controllato e i produttori sostengono che
abbia il contenuto di crocina più elevato in assoluto. Lo zafferano meno
costoso proviene dal Messico.
I filamenti sono facili da riconoscere, dal momento che la parte terminale
dello stigma è pallido o di colore giallo. All’interno di questi due gradi di
qualità vi sono varie sottoqualità in termini di contenuto di residui floreali
nel prodotto finale. Tipicamente, i filamenti hanno un prezzo inferiore agli
stigmi del 20%. Il sargoal iraniano (un filamento) può essere venduto anche
a due terzi del costo dello stigma.
In linea di massima, lo zafferano viene venduto in boccettini di vetro o
scatoline di plastica da circa 1,40 grammi (all’incirca un cucchiaio), e la
maggior parte dello zafferano venduto negli Stati Uniti viene importato
dalla Mancha.
La spezia viene anche commercializzata in polvere, ma a meno che non
siate assolutamente certi che sia vero zafferano, conviene acquistare stigmi
o filamenti.
Una confezione di zafferano tipicamente costa da 10 a 20 dollari o più;
pertanto, se vi imbattete in confezioni più economiche, è facile che non sia
puro. La polvere di curcuma, che è una spezia economica, viene sovente
spacciata per zafferano, soprattutto all’ignaro turista che si reca a fare
acquisti in una drogheria all’estero. Il cartamo viene frequentemente
lavorato in modo tale da imitare i filamenti di zafferano tanto da essere stato
battezzato «zafferano bastardo», ma non ha alcun gusto.
Esiste un solo modo per essere sicuri che il vostro acquisto sia zafferano
autentico. Lo zafferano è solubile in acqua e rilascia il suo colore quasi
all’istante quando lo si mette in una ciotola di acqua calda.
Lo zafferano si mantiene bene per un anno o più conservato in un luogo
asciutto e lontano dalla luce. È sconsigliabile conservarlo in frigo e non può
essere surgelato.

LO ZAFFERANO IN CUCINA

Il sapore dello zafferano varia a seconda del luogo di coltivazione e della


quantità di crocina in esso contenuta. L’aroma viene spesso accostato a
quello del vino barricato e il sapore a quello del miele con un retrogusto
amarognolo e persistente. Non appena viene a contatto con l’acqua, l’aroma
si intensifica, per cui ne basta un pizzico in qualsiasi preparazione
sufficiente per 4 persone.
Lo zafferano agisce solo ed esclusivamente nei liquidi e deve sempre
essere disciolto in acqua o latte caldo prima di aggiungerlo in pentola. La
maggior parte del colore viene rilasciata entro i primi 10 minuti, sebbene
non sia un problema lasciarlo cuocere nel liquido di cottura più a lungo,
anche per ore. Non aggiungete mai dello zafferano all’olio, poiché
quest’ultimo intrappola gli oli-volatili negli stigmi impedendo alla spezia di
effondere aroma e colore.
Prima di aggiungerlo a un liquido, è bene frantumare o macinare gli stigmi
in un mortaio; tale operazione risulterà più facile se prima gli si dà una
leggera e rapida tostata a secco in un padellino.
Tra i modi classici di adoperare lo zafferano figurano i brodetti di frutti di
mare, le minestre, i curry, i piatti a base di riso e le salse cremose. Non c’è
alcuna ragione di eccedere con lo zafferano: una quantità maggiore non ne
aumenterà il sapore.
Zenzero. Per alleviare il senso di nausea

La nausea può comparire come sintomo marginale in decine di quadri


clinici e malattie, dal morbo di Addison a una lesione cerebrale di origine
traumatica, ma in svariati altri casi costituisce un sintomo di notevole
rilevanza e fonte di disagio.
Tra questi ricordiamo la chinetosi (mal d’auto, mal di mare ecc.), che si
verifica quando il rapporto tra percezione visiva e sensazione del modo in
cui il corpo si muove risulta distorto, per cui i centri nervosi dell’equilibrio,
ubicati nell’orecchio interno, reagiscono a tali stimoli conflittuali
producendo un senso di nausea.
Ricordiamo inoltre le nausee mattutine, che insorgono nei primi mesi della
gravidanza tormentando innumerevoli future mamme.
Ricordiamo la nausea indotta da farmaci, come quella provocata
dall’anestesia o da agenti chemioterapici.
E ancora la nausea associata a disturbi della digestione, come nel caso
dell’avvelenamento da cibo.
Per migliaia di anni, in Cina, India, nel Medio Oriente e nell’Impero
romano, i guaritori hanno fatto ricorso allo zenzero per calmare quello
spiacevole senso di nausea e, durante gli ultimi decenni, gli scienziati di
tutto il mondo si sono impegnati a dimostrare che lo zenzero funziona
davvero.

STOP ALLA NAUSEA

Indipendentemente dal tipo di nausea, lo zenzero la blocca sul nascere.


Chinetosi. «La nausea associata alla chinetosi è un sintomo sgradevole»:
ecco l’eufemistico pronunciamento scientifico di un’équipe di
gastroenterologi dell’Università del Michigan e della National Ying-Ming
University di Taiwan. Tuttavia, aggiungono, neanche i farmaci standard
reperibili con o senza prescrizione medica sono particolarmente piacevoli,
poiché non solo «forniscono un controllo dei sintomi incompleto», ma
presentano anche «effetti collaterali non indifferenti, quali secchezza delle
fauci, letargia e sonnolenza».
Lo zenzero, invece, sostengono i suddetti ricercatori, è un tradizionale
rimedio cinese per la chinetosi e, pertanto, si sono proposti di capire non
solo se realmente funziona, ma anche come agisce.
A tale scopo, hanno chiesto a 13 volontari sofferenti di chinetosi (mal
d’auto, mal di mare o mal d’aereo) di sedersi su una sedia girevole. Inutile
dire che tutti finirono con il voltastomaco, ma quando i volontari assunsero
da 1000 a 2000 mg di zenzero prima di sedersi sulla sedia, ci volle il 35% di
tempo in più prima che sviluppassero nausea, la quale comunque diminuì di
intensità (30% in meno) e risultò molto meno fastidiosa 15, 30 e 45 minuti
dopo che la sedia aveva smesso di girare. Entrambe le dosi somministrate
agirono altrettanto efficacemente.
Nell’ambito dello stesso studio, i ricercatori misurarono anche i livelli
ematici di vasopressina – un ormone fondamentale per la regolazione dei
livelli di acqua, sale e glucosio nel sangue –, ipotizzando che potesse
concorrere in qualche modo all’insorgenza della nausea da chinetosi.
Scoprirono che lo zenzero inibiva il rilascio di vasopressina durante la
«vezione circolare».
Gli esperti misurarono inoltre l’attività elettrica dello stomaco
(tachigastria) durante la vezione circolare e notarono che lo zenzero
manteneva l’attività «relativamente stabile» se paragonata all’attività
«caotica» in assenza della spezia.
«Lo zenzero è efficace nel prevenire la chinetosi e, verosimilmente, agisce
inibendo il rilascio di vasopressina da parte del sistema nervoso centrale»,
dichiararono i ricercatori. «Lo zenzero potrebbe trovare collocazione come
nuovo agente nella prevenzione e nel trattamento della chinetosi».
E, aggiungerei, magari anche nella prevenzione e nel trattamento di altri
disturbi. I ricercatori infatti sottolinearono che per migliaia di anni i
guaritori cinesi avevano impiegato lo zenzero come rimedio sia per la
nausea che per i disturbi di stomaco, per la diarrea, per l’artrite e il mal di
denti.
Tuttavia, essi non furono i primi a sperimentare lo zenzero contro la
chinetosi. Già uno studio precedente aveva evidenziato che i cadetti della
marina che assumevano zenzero durante il loro «battesimo del mare»
soffrivano meno di chinetosi e lamentavano meno nausea, vomito,
sonnolenza e sudori freddi.
Nausee mattutine. Il mattino è il momento della giornata peggiore per un
vasto numero di donne incinte al primo trimestre di gestazione, una
percentuale stimata tra il 50% e l‘80%. Soffrono di nausee mattutine,
ovvero la nausea e il vomito che gli esperti sostengono essere scatenati
dall’improvvisa invasione di ormoni prodotta dalla gravidanza. Ma gli
esperti dicono forse qualcosa sul come risolvere il problema? Alcuni sì, e
consigliano di assumere dello zenzero.
«È stato dimostrato che lo zenzero migliora i sintomi di nausea e vomito
nelle donne in stato di gravidanza rispetto a un qualsiasi placebo», scrisse
un’équipe di ricercatori sulla rivista Annals of Pharmacotherapy dopo avere
analizzato per studi condotti 40 anni su tale spezia.
«Lo zenzero può rapprèsentare un trattamento efficace per la nausea e il
vomito in gravidanza», scrissero altri scienziati italiani su Obstetrics and
Gynecology dopo avere valutato i dati derivanti da sei studi sullo zenzero e
le nausee mattutine che videro il coinvolgimento di 675 donne. Essi
evidenziarono inoltre «l’assenza di effetti collaterali o effetti indesiderati
significativi sull’esito della gravidanza» per quel che riguardava
l’assunzione di integratori a base di tale spezia.
In una recensione sullo zenzero e le nausee mattutine si dichiara che «lo
zenzero offre al medico e alla donna incinta un’alternativa sicura ai farmaci
prescritti per la nausea».
Lo zenzero può essere d’aiuto persino nella forma più grave di tale
disturbo, definito iperemesi gravidica. In uno studio danese condotto su
donne che presentavano tale problema, lo zenzero fornì «maggiore sollievo
dei sintomi» rispetto a un placebo.
Nello studio più recente mirato a valutare gli effetti dello zenzero sulle
nausee mattutine, i ricercatori suddivisero 67 donne incinte in due gruppi:
ad un gruppo vennero somministrati 250 mg di zenzero quattro volte al
giorno, mentre l’altro ricevette un placebo. Dopo quattro giorni, nelle donne
che assunsero zenzero il vomito si era ridotto del 41%. Sul Journal of
Alternative and Complementary Medicine, gli studiosi conclusero che «lo
zenzero è un rimedio efficace per ridurre la nausea e il vomito durante la
gravidanza».
Nausea postoperatoria. Alcuni ricercatori, analizzando i dati appartenenti
a cinque studi sullo zenzero e sulla nausea postoperatoria che videro il
coinvolgimento di 363 pazienti, osservarono che una dose di 1000 mg/die
di zenzero riduceva del 31% le probabilità di sviluppare nausea e vomito
dopo un intervento chirurgico. Pertanto conclusero che «l’impiego dello
zenzero è un mezzo efficace per ridurre la nausea e il vomito
postoperatori».
Nausea indotta da chemioterapia. «La nausea che insorge nel periodo
che ha inizio 24 ore dopo la somministrazione di agenti chemioterapici
viene definita nausea ritardata e si presenta in molti pazienti oncologici»,
scriveva un gruppo di ricercatori. Quando somministrarono una bevanda ad
alto contenuto proteico insaporita con zenzero ad alcuni pazienti sotto
chemioterapia, scoprirono che riferivano meno nausea e utilizzavano meno
farmaci antiemetici rispetto ai pazienti che non assunsero la bevanda.
Giunsero quindi alla conclusione che «le proteine combinate a zenzero
potenzialmente rappresentano un trattamento innovativo su base
nutrizionale per la nausea ritardata indotta da chemioterapia».
Inoltre, sebbene un altro studio condotto da medici dell’Università del
Michigan evidenziasse che lo zenzero non era d’ausilio contro la nausea e il
vomito insorti dopo la chemioterapia, i soggetti che assunsero la spezia
riferirono però una «significativa riduzione della stanchezza» (un aspetto
assai problematico per i pazienti affetti da cancro), nonché un numero
minore di «effetti indesiderati» in generale dopo ogni trattamento
chemioterapico.

Lo zenzero coltivato in casa

Esiste un modo eccezionale per avere sempre una radice di zenzero fresca
in casa, ecco come.
Prendete una radice di zenzero acquistata in un negozio e tagliatene un
pezzo lungo almeno 5 centimetri, quindi mettetela in un vaso di terra
sabbiosa, come quella utilizzata per le piante grasse, e innaffiate di tanto in
tanto mantenendola sempre leggermente umida.
La radice comincerà a crescere nel giro di quattro-cinque settimane.
Quando avete bisogno di zenzero, scavate semplicemente per raggiungere
la radice e prelevatene una piccola porzione. La radice continuerà a
crescere.

Lo zenzero può contribuire a prevenire e/o curare:

Asma Chinetosi
Colesterolo Emicrania
Ictus Tumori
Infarto Indigestione
Nausea Trigliceridi

UN GROSSO AIUTO DALLO ZENZERO

Lo zenzero è ricco di fitonutrienti chiamati gingeroli che fungono da


agenti antiossidanti, antinfiammatori, antibatterici e antivirali, in breve,
«anti-malattia».
Artrite. Alcuni ricercatori dell’Università di Miami hanno studiato 247
soggetti affetti da osteoartrite del ginocchio e li hanno suddivisi in due
gruppi: un gruppo ricevette un estratto di zenzero e l’altro fu trattato con un
placebo. Dopo sei settimane, i pazienti che avevano assunto zenzero
riferirono una riduzione del dolore al ginocchio in postura eretta pari al
31%, una riduzione del dolore del 42% dopo aver camminato per 15 metri
e, in generale, un minore ricorso ad antidolorifici. I ricercatori scrissero che
«l’estratto di zenzero ha esercitato un effetto statisticamente significativo di
riduzione dei sintomi dell’osteoartrite a carico del ginocchio».
Tumori. Decine di studi condotti su cellule e animali dimostrano che lo
zenzero può avere proprietà antitumorali, in particolare riguardo alle
neoplasie maligne a carico di seno, prostata, cute, vescica urinaria, reni,
pancreas e ovaie. Nel laboratorio del nostro reparto di terapia sperimentale,
presso il Centro Oncologico M.D. Anderson dell’Università del Texas,
abbiamo eseguito diversi esperimenti su cellule e animali per valutare gli
effetti del zerumbone (un estratto a base di zenzero) sul cancro.
In uno studio apparso su Cancer Research, abbiamo dimostrato che il
zerumbone attiva i geni che conducono alla morte (apoptosi) delle cellule
tumorali del carcinoma del colon umano, e potrebbero altresì attivare i
medesimi geni apoptotici nelle cellule del carcinoma renale, mammario e
pancreatico. Il zerumbone ha inoltre attivato un gene «onco-soppressore».
In un altro studio ma condotto su animali, abbiamo scoperto che il
zerumbone era in grado di prevenire la perdita ossea associata al carcinoma
mammario, un problema assai comune. Pertanto, abbiamo teorizzato che
potesse contrastare anche l’osteoporosi.
Secondo quanto riferito in un ulteriore studio apparso sulla stessa rivista,
abbiamo osservato che il zerumbone era in grado di «sottoregolare» un gene
coinvolto nel processo di metastasi, ossia la disseminazione del carcinoma
al di fuori dell’organo originariamente colpito.
Infine abbiamo dimostrato che il zerumbone contribuisce attivamente a
inibire l’attivazione del NF-kB, una proteina complessa che attiva i geni
responsabili della formazione di tumori e della metastasi.
Emicrania. «Il trattamento dell’emicrania viene spesso procrastinato a
causa di complicanze indesiderate prodotte dai farmaci stessi», scrivevano i
ricercatori. Per capire se lo zenzero potesse fornire un’alternativa a tali
farmaci, somministrarono a 29 pazienti affetti da emicrania un placebo
oppure un integratore contenente partenio e zenzero (un prodotto
commercializzato come Gelstat Migraine). «Due ore dopo il trattamento, il
48% dei pazienti non accusava più alcun dolore e il 34% riferiva una
cefalea solo di modesta entità», dichiararono gli esperti. Inoltre,
sottolinearono che circa il 60% dei soggetti trattati con la formula fitote-
rapica si dissero soddisfatti dei risultati, e il 41% aveva l’impressione che
sortisse lo stesso effetto del farmaco normalmente usato. Non male per una
formula combinata di erbe e spezie!
Asma. Un gruppo di ricercatori della Gran Bretagna ha osservato che i
farmaci impiegati nel trattamento dell’asma sovente producono «risultati al
di sotto del livello ottimale» e che «numerosi pazienti nutrono dubbi
riguardo ai farmaci convenzionali», ad esempio i corticosteroidi assunti per
inalazione, in quanto presentano molti effetti collaterali a breve e lungo
termine. Per valutare se un approccio non farmacologico potesse essere
d’ausilio nel tenere sotto controllo l’asma, i ricercatori somministrarono a
30 adulti con asma da lieve a moderata un placebo o una formula naturale
che includeva 130 mg di estratto di zenzero con un contenuto
standardizzato di gingeroli. Dopo tre mesi, i pazienti che assunsero il
preparato presentavano «un miglioramento clinico» dei sintomi dell’asma,
la salute in generale era migliorata e i pazienti tossivano meno.
Pirosi e mal di stomaco. Alcuni ricercatori di Taiwan hanno
somministrato a 24 soggetti in buona salute 1200 mg di zenzero e ne hanno
misurato lo svuotamento gastrico, ossia la velocità con cui lo stomaco
digerisce i cibi. Ricordiamo che uno svuotamento gastrico troppo lento può
determinare bruciori (pirosi) nonché gonfiore, eruttazione e flatulenza dopo
mangiato. Lo zenzero dimezzò addirittura il tempo di svuotamento gastrico
di tali individui rispetto a quelli che ricevettero un placebo. Le conclusioni
degli scienziati furono che tale effetto potrebbe essere di beneficio alle
persone che soffrono di pirosi ed altri tipi di disturbi della digestione.
Problemi di colesterolo. Un’équipe di esperti ha studiato 95 individui con
problemi di iperlipidemia, più specificamente, elevati livelli di colesterolo
LDL (quello «cattivo») e di colesterolo totale, e bassi livelli di colesterolo
HDL (quello «buono»). I soggetti furono suddivisi in due gruppi: un gruppo
venne trattato con 1000 mg di zenzero tre volte al giorno, e all’altro venne
somministrato un placebo. In capo a 45 giorni, il gruppo trattato con
zenzero aveva registrato un maggiore calo delle lipoproteine a bassa densità
(LDL) e un incremento superiore delle lipoproteine ad alta densità (HDL).
Infarto e ictus. Alcuni scienziati di Taiwan hanno scoperto che lo zenzero
riduce l’aggregazione piastrinica, ossia l’adesione delle piastrine
(componenti del sangue) tra loro che conduce alla formazione di coaguli
che possono ostruire le arterie, responsabili della maggior parte dei casi di
infarto e ictus. La combinazione di zenzero e farmaci anticoagulanti
standard «potrebbe essere una preziosa soluzione in caso di complicanze
cardiovascolari (infarto) e cerebrovascolari (ictus)».

ALLA SCOPERTA DELLO ZENZERO

Lo zenzero era una delle spezie privilegiate sia in ambito culinario che
medico nella Cina e nella Roma antiche. Nel IX secolo lo zenzero giunse
finalmente in Europa e, nell’arco di un paio di secoli, era diventato così
popolare, soprattutto in Inghilterra, da essere utilizzato a tavola come il
pepe e il sale, persino per aromatizzare la birra (è questa l’origine del
ginger ale), Enrico VIII poteva non amare particolarmente le sue mogli ma
adorava sicuramente lo zenzero; e così fu anche per sua figlia Elisabetta I, la
quale talvolta, durante i pranzi di stato, omaggiava ciascun ospite di un
«omino di pan di zenzero» con le sembianze del commensale.
L’Inghilterra è tuttora celebre per il pan di zenzero: quasi tutte le città
hanno una propria ricetta e stampi particolari per dare forma a questi
biscotti. Gli omini di pan di zenzero fanno parte della ricorrenza nota come
Guy Fawkes Day (chiamata anche la Notte di Guy Fawkes o la Notte dei
falò) che cade in novembre e celebra lo sventato complotto dinamitardo
contro il palazzo del parlamento.
E a questo proposito, la casetta di pan di zenzero è un’invenzione tedesca,
ora diventata una tradizione di Natale diffusa in tutto il mondo.
Lo zenzero è un elemento base delle cucine di India, Cina, Corea,
Thailandia, Indonesia e Vietnam, ove viene adoperato più nelle preparazioni
salate che non nei dessert. In tali culture gastronomiche, lo zenzero è
l’equivalente dell’aglio e della cipolla nella cucina americana e, poiché
quella asiatica e quella indiana stanno acquistando sempre più vasta
popolarità, l’uso della spezia nei piatti salati sta godendo un revival a livello
internazionale.
In Germania, durante la vigilia di Natale, è tradizione mangiare carpe
cucinate con lo zenzero e biscotti allo zenzero. I giapponesi adorano lo
shoga, una varietà locale di zenzero che viene consumato sott’aceto. Lo
zenzero è uno dei principali ingredienti del kimchi, la famosa insalata
coreana fermentata, ed è un ingrediente essenziale nella preparazione di
numerosi curry, soprattutto quelli di ispirazione tailandese e malese. Inoltre,
risulta molto apprezzato come complemento a diverse miscele di spezie, ivi
incluso il mix piccante per il jerk giamaicano.
La popolazione di Myanmar (ex Birmania) ha scoperto una inedita qualità
dello zenzero: quando viene impiegato in grandi quantità, maschera l’odore
del pesce; e infatti, i piatti di pesce d’acqua dolce birmani includono sempre
lo zenzero.
Tale spezia gode di grande successo anche nel settore delle bevande, in cui
spiccano, ovviamente, il ginger ale e il tè allo zenzero. La Giamaica
produce una bevanda analcolica frizzante detta «ginger beer» (birra di
zenzero), mentre Bermuda produce una marca di birra di zenzero – la
Barrits (reputata superiore dagli esperti) – che si beve da sola o mescolata a
rum in un drink chiamato Dark and Stormy. Un bar di Manhattan ha
inventato il Moscow Mule, un drink preparato con birra di zenzero e vodka.
I francesi distillano un liquore chiamato Canton, mentre in Thailandia si
può trovare il khing sot, una bevanda di zenzero fresco preparata con olio di
zenzero. Nello Yemen, infine, lo zenzero viene adoperato per aromatizzare
il caffè.

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

Lo zenzero è un rizoma – termine che indica la porzione sotterranea del


fusto (non le radici) di una pianta – dall’aspetto nodoso. In inglese il rizoma
viene definito hand (mano). Lo zenzero fresco è reperibile sia intero che a
fettine, a dadini o conservato in salamoia, ma è anche possibile acquistare
dello zenzero disidratato a fettine, macinato o candito. Data la grande
popolarità dello zenzero, potete solitamente trovarlo in tutte queste forme
nella maggior parte dei supermercati.
Quando acquistate dello zenzero fresco, controllate che il rizoma abbia
una consistenza soda, l’aspetto rigonfio e una buccia liscia (una buccia
grinzosa è segno che è vecchio). Lo zenzero fresco è di colore marroncino
chiaro con una leggera sfumatura rosata e le nodosità hanno una tonalità
giallo-verde.
Sebbene tale spezia tragga il suo intenso aroma dai gingeroli, il contenuto
di gingerolo può variare a seconda del luogo e delle modalità di
coltivazione della pianta, nonché dalle modalità di raccolta dei rizomi.
Pertanto, il sapore dello zenzero fresco può essere più o meno intenso,
dolce o piccante in infinite gradazioni, e la pungenza può andare dal
delicato al forte.
La metà dello zenzero presente sul mercato mondiale viene coltivata sulla
costa indiana del Malabar, e quello prodotto nella cittadina di Cochin è
ritenuto di qualità superiore. Secondo il giudizio degli chef, lo zenzero
migliore al mondo – di sapore delicato, ideale per la cucina – cresce in
Giamaica, mentre lo zenzero della Nigeria e della Sierra Leone è
caratterizzato da un sapore più pungente. La maggior parte dello zenzero
importato negli Stati Uniti, invece, viene dalle Hawaii.
Una volta pelato, sigillato in un sacchetto e riposto in frigorifero, lo
zenzero fresco giovane si mantiene per circa due settimane, ma è anche
possibile conservarlo in freezer già pelato e affettato; basta farlo scongelare
prima dell’uso.
Lo zenzero più vecchio può essere conservato con la sua buccia in un
luogo fresco e asciutto, come si fa con cipolle e aglio, e lo si può conservare
indefinitamente in congelatore senza pelarlo e chiudendolo in un apposito
sacchetto da freezer. Quando è il momento di adoperarlo, basta tagliare la
quantità che si pensa di utilizzare e affettarlo o grattugiarlo ancora
congelato.
Lo zenzero macinato manca dell’aroma dello zenzero fresco, ma la
fragranza speziata e il sapore caratteristico rimangono intatti.
Lo zenzero conservato e quello candito vengono lavorati utilizzando dello
zucchero; inutile dire che sono dolci, tuttavia possono presentare una
piccantezza variabile. Entrambi si mantengono per circa un anno se
conservati in un luogo fresco e asciutto.

LO ZENZERO IN CUCINA

Lo zenzero è una spezia alquanto versatile, utilizzabile in quasi tutte le


preparazioni. Tuttavia, occorre tenere a mente che zenzero fresco e zenzero
disidratato differiscono notevolmente quanto ad effetto aromatizzante.
Sebbene spesso sia possibile sostituire l’uno con l’altro, quello disidratato
non fornirà la stessa intensità di sapore.
Sia lo zenzero fresco che quello disidratato vengono adoperati nella
preparazione di piatti salati, e il secondo trova quasi sempre impiego nelle
ricette dolci. La cucina contemporanea sfrutta principalmente lo zenzero
fresco, soprattutto se si tratta di piatti asiatici o indiani.
Lo zenzero fresco è facile da usare: basta pelarlo con uno spelucchino o un
pelapatate e poi affettarlo; lo spessore e le dimensioni ideali della fetta sono
quelle di una monetina. Nell’ambito della cucina indiana si usa pestarlo in
un mortaio.
Anche se lo zenzero fresco risulta piuttosto forte, il sapore si attenua con
la cottura.
I suggerimenti fomiti di seguito possono essere d’aiuto per arricchire la
vostra dieta di zenzero:

• Preparate una salsa da pinzimonio di ispirazione cinese combinando 3/4


tazza di salsa di soia giapponese e 1/4 tazza di aceto nero cinese, a cui
aggiungerete 2 cucchiaini di aglio, 2 cucchiaini di zenzero fresco
grattugiato e 1/2 cucchiaio di olio di sesamo. Se non riuscite a trovare
l’aceto cinese (solitamente disponibile nei negozi di prodotti asiatici),
potete utilizzare dell’aceto balsamico.
• Lo zenzero fresco si sposa magnificamente con i frutti di mare. Fate
fondere del burro e unite dello zenzero fresco grattugiato e menta essiccata,
quindi servite l’intingolo con astici o gamberi al vapore.
• Spolverizzate la zucca o le patate dolci con zenzero e zucchero di canna
prima di metterle in forno.
• Strofinate la carne con dello zenzero prima di cuocerla alla griglia per
ammorbidirla e aromatizzarla.
• Lo zenzero è un buon complemento per salse bianche e da dessert.
• Grattugiate finemente dello zenzero fresco sul tofu cotto o sulle
tagliatelle.
• Arricchite la salsa di mele con una spolveratina di zenzero in polvere o
aggiungetelo ai ripieni delle torte di frutta.
• Aggiungete all’impasto per i cheesecake dello zenzero fresco grattugiato.
• Cospargete panna montata o gelati di zenzero candito macinato.
• Per preparare uno sciroppo di zenzero, mettete 120 g di zenzero pelato e
tagliato a dadini in 1 tazza d’acqua a cui avrete aggiunto 1 tazza di
zucchero; portate a ebollizione e fate cuocere per 30 minuti, quindi filtrate e
lasciate raffreddare.
Zucca. Proteggiamo la prostata

Quando togliete la polpa di una zucca per fare una lanterna di Halloween,
non gettate via i semi: sono un gran dono per la vostra salute.
I semi di zucca sono ricchi di antiossidanti che proteggono le cellule, di
magnesio che calma i nervi, di ferro che nutre il sangue, di proteine che
irrobustiscono i muscoli, di zinco che rinforza il sistema immunitario e di
acidi grassi poiinsaturi che sostengono il cuore. Sono altresì ricchi di
fitosteroli, ossia composti di natura vegetale particolarmente indicati per la
prostata.

LA PROSTATA RINGRAZIA

Le dimensioni della ghiandola prostatica vengono sovente equiparate a


quelle di una noce.
Giunti ai cinquant’anni, 4 uomini su 5 sviluppano una ipertrofia prostatica
benigna (IPB), vale a dire un ingrossamento della prostata. Sfortunatamente
la ghiandola aderisce all’uretra, cioè il dotto che porta le urine dalla vescica
all’estemo, per cui, giunti a sessantanni, metà degli uomini comincia ad
accusare sintomi urinari causati dall’ingrossamento della prostata. I sintomi
possono essere decisamente fastidiosi e interferire con ciò che gli studi
scientifici amano definire la «qualità della vita». Si hanno più stimoli
improvvisi a urinare, si urina più frequentemente e talvolta ci si sveglia più
volte nel corso della notte. La minzione è difficile: l’emissione del flusso
urinario è ritardata, più debole all’inizio e discontinua al termine, può dare
luogo a sgocciolamento e a una sensazione di svuotamento incompleto della
vescica; è il momento di nutrire la prostata con qualche seme di zucca.
Un gruppo di ricercatori coreani ha somministrato ogni giorno 230 mi di
olio di semi di zucca a uomini affetti da ipertrofia prostatica benigna e, in
capo a un anno, la sintomatologia in generale era migliorata del 58%, la
velocità del «flusso urinario massimo» era salita del 13% e il punteggio di
un questionario sulla «qualità della vita» risultava migliorato del 41%.
«L’olio di semi di zucca», conclusero gli studiosi, può essere «un presidio
alternativo complementare efficace e clinicamente sicuro nei casi di IPB».
Nell’ambito di uno studio condotto in Svezia, i ricercatori
somministrarono a 53 uomini con IPB una formula integrativa combinata di
olio di semi di zucca e un’erba ad alto contenuto di fitosteroli. Dopo tre
mesi, tutti i sintomi erano migliorati: la minzione era meno frequente, il
flusso urinario più abbondante e rapido, si osservava minore
sgocciolamento e tutti i soggetti si sentivano decisamente meglio.
Ma come agiscono i semi di zucca? Esattamente allo stesso modo in cui
agiscono i farmaci prescritti per l’ipertrofia prostatica benigna, spiegano i
ricercatori coreani. I fitosteroli presenti nei semi inibiscono l’attività della
5-alfa reduttasi, un enzima che converte il testosterone in diidrotestosterone
(DHT), ossia il composto che alimenta l’ingrossamento della prostata negli
uomini di mezza età.

MAGGIORE PROTEZIONE GRAZIE Al SEMI DI ZUCCA

Studi condotti su animali, e alcuni su soggetti umani, dimostrano che i


semi di zucca possono contribuire a prevenire o trattare vari altri problemi
di salute.
Malattie cardiovascolari. La somministrazione di una combinazione di
semi di zucca e di lino con il cibo ha protetto alcuni animali da un aumento
del colesterolo nel momento in cui passarono a una dieta ad elevato
contenuto di colesterolo. Di fatto, il mix di semi abbassò i livelli di
colesterolo totale, LDL e trigliceridi – notoriamente nocivi per il cuore –
aumentando invece i salutari livelli di lipoproteine ad alta densità (HDL). I
ricercatori ipotizzano che le fibre e gli acidi grassi poiinsaturi presenti nei
semi possano avere prodotto tale effetto positivo.
In un altro studio, gli esperti osservarono che l’apporto di semi di zucca in
animali con elevati livelli di colesterolo favoriva l’effetto della simvastatina
(Zocor), un farmaco anticolesterolo.
Quando i ricercatori somministrarono olio di semi di zucca ad animali in
menopausa chimicamente indotta, notarono nei soggetti valori pressori più
bassi, livelli inferiori di colesterolo totale, LDL e trigliceridi, e assistettero a
un aumento dei livelli di HDL rispetto agli animali che non ricevettero olio
di semi di zucca. Vennero riportate le seguenti conclusioni: «È plausibile
che l’integrazione di olio di semi di zucca o i semplici semi nella dieta di
donne in menopausa possa ridurre il rischio di complicanze cardiovascolari
associate alla carenza di estrogeni».
Anemia da carenza di ferro. Secondo uno studio apparso, nelle donne
con anemia sideropenica l’apporto di cereali addizionati di ferro a
colazione, unitamente a 30 grammi al giorno di semi di zucca, ha
contribuito a risolvere il disturbo.
Artrite. Quando alcuni ricercatori somministrarono dell’olio di semi di
zucca ad animali affetti da artrite reumatoide chimicamente indotta,
notarono una notevole riduzione del gonfiore.

ALLA SCOPERTA DEI SEMI DI ZUCCA

Le zucche sono originarie dell’America Settentrionale e Centrale e i semi


di zucca sono una delle poche spezie provenienti dal Nuovo Mondo ad
essere state introdotte nel Vecchio Continente.
Le popolazioni indigene americane adoperavano la polpa della zucca come
cibo ma ne apprezzavano i semi come medicamento; mangiavano i semi per
sbarazzarsi di tenie, ascaridi ed altri parassiti e infezioni intestinali, nonché
per trattare disturbi vescicali e del tratto urinario. Con i semi di zucca
preparavano anche un cataplasma da applicare sulla pelle in caso di ustioni
e per alleviare mal di testa e artrite.
I semi di zucca vengono tipicamente consumati come spuntino
praticamente ovunque vi siano coltivazioni di zucche, ma sono altresì
diffusi come spezia nelle cucine dell’Africa Occidentale, della Spagna,
dell’America Centrale e del Messico.
In Messico i semi di zucca, le pepitas, sono un apprezzato fuori pasto ma
rappresentano anche una spezia importante: vengono aggiunti alle insalate e
macinati per addensare minestre e salse. Sono inoltre un ingrediente diffuso
dei celeberrimi moles messicani, le salse piccanti con sentore di noce che
vengono servite su pollo e frutti di mare. I moles originali preparati con tutti
i sacri crismi richiedono tempo e meticolosità e sono considerati una firma
gastronomica della cucina regionale messicana; di tali salse, le più note
sono quelle di Oaxaca, cittadina soprannominata «la terra dei sette moles»,
e tra queste spicca il rinomato mole verde de pepitas, una salsa di semi di
zucca tradizionalmente servita con il pollo.
In Africa Occidentale, dove le zucche crescono in abbondanza, i semi
vengono cotti, macinati e fermentati in modo da utilizzarli come spezia per
insaporire salse gravy e minestre.
L’olio di semi di zucca, invece, è diffusamente impiegato in India,
Germania e Austria per aromatizzare salse, pastasciutte, condimenti per
insalate e verdure.
I semi di zucca sono disponibili in commercio come snack: al naturale o
tostati, salati o non salati, ed è possibile trovarli sia in guscio che sgusciati;
tuttavia, se intendete adoperarli come spezia, è consigliabile acquistarli al
naturale. In tal caso, sono reperibili in molti esercizi commerciali ben forniti
e nei negozi di alimenti naturali e dietetica.
Al momento dell’acquisto, cercate semi integri e controllateli una volta
tornati a casa; è bene scartare i semi fessurati o comunque guasti.
Se si acquistano semi sfusi, verificate che siano ben pieni, privi di umidità
e senza danni visibili provocati da insetti; annusateli per assicurarvi che non
siano ammuffiti o irranciditi.

I semi di zucca possono contribuire a prevenire e/o curare:

Anemia Artrite reumatoide


Colesterolo Ipertrofia prostatica
Malattie cardiovascolari Trigliceridi

CONSIGLI PER L’ACQUISTO

I semi di zucca possono essere tenuti in frigo in un contenitore ermetico


per circa due mesi.
È anche possibile acquistare olio di semi di zucca presso negozi
specializzati. Leggete attentamente l’etichetta per assicurarvi che sia olio
originale al 100%; l’olio è piuttosto costoso e, talvolta, viene diluito con
olio di semi di girasole per abbassarne il prezzo.
Quello di semi di zucca è un olio di un colore verde carico, scuro, e può
avere o meno una sfumatura rossastra quando si osserva la bottiglia in
controluce. Alcuni degli oli miglio* ri provengono dall’Austria. Va
conservato in un luogo fresco e lontano dalla luce.
I SEMI DI ZUCCA IN CUCINA

Potete far seccare e arrostire voi stessi i semi che recuperate dalla zucca di
Halloween seguendo queste istruzioni.
Scavate via i semi con un cucchiaio robusto e puliteli dalla polpa rimasta
attaccata con un tovagliolo di carta. Allargate i semi su un canovaccio da
cucina pulito in modo che non si sovrappongano e lasciateli seccare all’aria
per una notte. Una zucca può contenere fino a 600 semi.
Per arrostirli, ponete i semi su una teglia piana disponendoli su un singolo
strato e passateli in forno a 150 °C per 20 o 30 minuti, o finché non si
dorano.
In cucina è possibile adoperare semi di zucca interi o macinati sia nelle
preparazioni dolci che salate.
Di seguito, alcuni suggerimenti per arricchire di semi di zucca la vostra
dieta:

• Distribuiteli su una qualsiasi delle miscele di spezie asciutte illustrate in


questo libro, spruzzate il tutto con un goccio di salsa Worcester e fateli
arrostire in forno come appena descritto. Aggiungete la mistura alle insalate
di pollo e tonno oppure distribuitela sulle insalate verdi.
• Macinate i semi e aggiungeteli a vinaigrette o condimenti cremosi per
insalate.
• Miscelate semi interi o macinati all’avena e ad altre zuppe di cereali.
• Utilizzate semi di zucca al posto delle noci quando preparate i croccanti.
• Macinate i semi e adoperateli come addensante nelle salse.
• Aggiungete dei semi macinati alle ricette di muffin e torte.
• Adoperate semi interi nell’impasto di vari tipi di pane sia lievitati che
non lievitati.
• Unite semi di zucca interi al müesli fatto in casa.
Parte terza

Miscele speciale di spezie


Miscele di spezie e rub da tutto il mondo

Le miscele di spezie rappresentano il modo migliore per apprezzare le


spezie curative e godere al meglio delle loro proprietà salutari e del loro
potenziale terapeutico. Non esiste metodo migliore per sviluppare sapori
distinti, aromi intensi e un senso di freschezza se non macinando o tostando
un assortimento di spezie sapientemente equilibrato e studiato per
sottolineare il gusto del cibo e soddisfare l’appetito.
Le cucine delle varie nazioni rinomate per i cibi speziati traggono le loro
caratteristiche di gusto salienti e peculiari dalla combinazione di spezie
complementari tra loro, solitamente in un numero minimo di quattro, ma
sovente anche di più, che dà vita a un sapore distinto, diverso da qualsiasi
spezia o alimento preso individualmente. Le miscele di spezie più famose
vengono dall’India, dall’Asia Meridionale, dal Nordafrica, dall’America
Latina e dai Caraibi, ove se ne gusta la bontà da migliaia di anni. L’uso
delle spezie è onnipresente in tali regioni del mondo ed è normale trovare
sulla tavola un mix di spezie, così come in America ci sono sempre una
saliera e una pepiera a portata di mano.
Le misture possono essere più o meno piccanti, più o meno saporite,
asciutte o combinate a ingredienti umidi sotto forma di pasta. Possono
essere costituite da spezie macinate o intere, alcune vengono
preliminarmente tostate, altre macinate e premiscelate per averle
comodamente pronte quando è il momento di cucinare. Possono essere
adoperate come parte integrante della ricetta o come condimento da
distribuire a piacere sulle pietanze oppure, ancora, possono essere aggiunte
alle marinate per intenerire tagli di carne e pollame. Vengono generalmente
usate per sottolineare i sapori ma, il più delle volte, si ricorre alle spezie per
sviluppare un gusto profondamente unico e delizioso.
In linea generale, in una miscela ben fatta non c’è una spezia dominante;
sono bilanciate in modo da ottenere un’armonia di aromi, benché una
persona dotata di un acuto senso dell’olfatto riesca a individuare le nuance
delle singole spezie. Persino le miscele che infuocherebbero la bocca con
un’aggiunta di peperoncino possono fornire la sensazione di piccantezza
senza lasciare trasparire il gusto netto del peperoncino. Il jerk giamaicano,
ad esempio, non sa di peperoncino, ma in compenso è terribilmente
piccante.
Le miscele di spezie, inoltre, fanno risparmiare tempo nella preparazione. I
piatti aromatici tipici dei paesi da cui provengono le spezie spesso
richiedono la tostatura e la macinatura delle stesse, il che può essere
un’operazione molto impegnativa, ma solo se lo si fa ogni volta che si
cucina. Ebbene, tutto ciò non è necessario. I cuochi che hanno familiarità
con le spezie preparano anzitempo una certa quantità di differenti miscele
che si mantengono perfette per mesi. Tale lavoro preliminare può
trasformare una ricetta da un interminabile elenco di ingredienti in un pasto
approntato in pochi minuti.
Esistono centinaia di miscele tradizionali di spezie provenienti da tutto il
mondo, persino da alcune zone degli Stati Uniti. Ciò nonostante, per tutti
questi classici, ad esclusione di poche eccezioni, sarà molto difficile trovare
riportata esattamente la stessa ricetta da un ricettario all’altro poiché gli
chef hanno la tendenza a innovare in modo del tutto personale. Tuttavia,
ogni miscela ha le sue spezie specifiche che la rendono un classico, e questo
non cambia; le spezie utilizzate a complemento e la quantità adoperata,
invece, possono essere adattate secondo il gusto personale.
Le miscele descritte in questo capitolo si ispirano alla mia ormai consunta
collezione di ricettari indiani e alla raccolta di ricette della mia co-autrice,
specializzata in cucina francese. Ci siamo permessi qualche licenza creativa
nella trattazione di tali mélange per ragioni di semplicità, reperibilità degli
ingredienti e, cosa più importante, per sfruttare al massimo l’uso delle
spezie curative. Le ricette sono ideate in modo da poter accompagnare una
vasta gamma di cibi e stili culinari, ma siete assolutamente liberi di
improvvisare e, se c’è una spezia che non gradite, potete usare un sostituto.
Nella misura in cui rimarrete fedeli alle spezie primarie di una determinata
miscela, dovreste riuscire a cogliere e riprodurne l’aroma classico.

UN SUGGERIMENTO SULLA TOSTATURA E LA CONSERVAZIONE

Le miscele di spezie risultano estremamente comode se vengono preparate


in anticipo, tuttavia è meglio non approntare una miscela se intendete
metterla via per qualche tempo prima di adoperarla per la prima volta. I vari
componenti di una miscela possono avere limiti diversi per quel che
concerne la freschezza: alcune spezie potrebbero diventare stantie prima di
altre alterando di conseguenza l’equilibrio dell’insieme. Le miscele
andrebbero utilizzate nel giro di un mese anche se la maggior parte dura da
tre a sei mesi o anche più. Se state sperimentando o non sapete se
utilizzerete la miscela con una certa frequenza, considerate l’idea di
dimezzare le dosi della ricetta. Inoltre, conservate le miscele in vasetti di
vetro ermetici piccoli, teneteli in un luogo fresco e lontano dalla luce e
assicuratevi di richiudere il vasetto immediatamente dopo l’uso.
Alcune delle miscele descritte richiedono l’uso di spezie intere
necessariamente da tostare e macinare. Si tratta di un’operazione facile, e in
ciascuna ricetta troverete le istruzioni su come farlo.
Molte di queste miscele sono anche disponibili in commercio ed è
possibile reperirle nei negozi di prodotti indiani e asiatici o tramite Internet.
Le miscele commerciali, tuttavia, possono contenere sale, glutammato
monosodico o altri ingredienti non presenti nella composizione originale.
Se la preparate con le vostre mani, saprete esattamente cosa c’è dentro.
Inoltre, poiché le miscele descritte in questo capitolo enfatizzano l’uso di
spezie particolarmente salutari, avrete la garanzia di una «porzione extra di
salute» ogni volta che userete il barattolino delle spezie.
Dunque, buon divertimento e buon appetito! o, come diciamo in India,
Bahut bhokh laggi he!

MASALA: LA SPEZIA INDIANA

In India il termine masala significa miscela di spezie, e il masala è


l’essenza della cucina indiana, grazie alle numerose varietà e combinazioni
adoperate in una vasta gamma di piatti, dove ciascuna regione è rinomata
per la sua miscela esclusiva.
Gli chef indiani sono celebri improvvisatori: aggiungono la loro spezia o
le loro spezie «segrete» a una miscela classica di masala personalizzando
così il proprio repertorio di ricette. La gamma di combinazioni possibili è
pressoché infinita ma, indipendentemente dalla combinazione, praticamente
tutti i masala includono spezie che presentano vantaggi salutari e
terapeutici.
Garam masala - piccantezza: moderata

Nota anche con il nome di Moghul garam masala, questa miscela è il mix
di spezie più diffuso e popolare dell’India. Viene adoperato praticamente in
ogni occasione, in modo molto simile all’uso che gli americani fanno del
sale e del pepe. In genere, viene usata come aromatizzante verso la fine
della cottura o spolverizzata sul cibo un attimo prima di servire. E
particolarmente apprezzata per dare il tocco finale ai curry. Poiché le spezie
sono tendenzialmente dolci anziché amare, la miscela non richiede
necessariamente la cottura per ammorbidirne il sapore. Può anche essere
distribuita su stufati e minestre un attimo prima di portare in tavola, nonché
sul riso o le verdure. Le spezie che conferiscono gli aromi primari sono il
cumino, il coriandolo, il pepe nero e il cardamomo marrone. Il garam
masala è nato al nord, patria della cucina Moghul, come dire la haute
cuisine della tradizione gastronomica indiana. Provate ad adoperarlo come
fanno in India, cioè in qualsiasi piatto desideriate.

4 cucchiai di semi di coriandolo


2 cucchiai di semi di cumino
1 cucchiaio di semi di kummel
1 cucchiaio di pepe nero in grani
2 cucchiaini di semi di cardamomo marrone
1 stecca di cannella (7-8 cm)
1 noce moscata intera
1 cucchiaino di chiodi di garofano interi

Sambaar masala - piccantezza: piccante

Questa miscela, assai diffusa nell’India meridionale, fa da contrasto al


masala moderatamente piccante originario del nord. Il sapore distintivo,
tuttavia, va ascritto ai legumi secchi che in India vengono chiamati dal.
Questo masala viene principalmente adoperato per aromatizzare piatti di
lenticchie, minestre e curry. La ricetta consente di prepararne una piccola
quantità poiché ne è richiesto soltanto un pizzico. Aggiustate la quantità di
peperoncino per ottenere una miscela più o meno piccante.

1 cucchiaio di semi di coriandolo


2 cucchiaini di semi di cumino
1 cucchiaino di semi di senape bruna
1 cucchiaino di pepe nero in grani
1/2 cucchiaino di semi di fieno greco
1/2 stecca di cannella a pezzetti
1 cucchiaino di curcuma
1/2 cucchiaino di assafetida macinata
6 peperoncini rossi essiccati privati del picciolo e dei semi
1 cucchiaio e 1/2 di urad dal (lenticchie bianche spezzate)
1 cucchiaio di chana dal (piselli gialli spezzati)

Chaatmasala - piccantezza: piccante

Il chaat masala deve il suo sapore unico a due spezie esotiche: l’amchur,
ossia la spezia agra con sentore di limone ottenuta dal mango acerbo, e il
sale nero, un condimento di gusto pungente diffuso in India che conferisce
alla miscela un sapore salato. Questa miscela viene usata con frequenza per
aromatizzare stuzzichini (molti indiani sono appassionati consumatori di
stuzzichini) e antipasti chiamati chaat, ma può essere adoperata anche nelle
minestre, negli stufati o in qualsiasi preparazione che richieda un sapore
deciso, piccante e acidulo.

2 cucchiai di semi di cumino


1 cucchiaio di pepe nero in grani
2 cucchiaini di semi di coriandolo
1 cucchiaino di semi di ajowan
1 cucchiaino di semi di anice
1/2 cucchiaino di menta essiccata
2 cucchiai di sale nero

Panch phoron - piccantezza: moderata

Il panch phoron – panch significa «cinque» e phora significa «semi» – è


una combinazione di cinque differenti semi aromatici. L’ingrediente
principale è il cumino, che in India viene chiamato kalonji. Questa miscela,
di origine bengalese, è composta da semi interi e viene aggiunta all’olio di
cottura all’inizio della preparazione.Viene tradizionalmente adoperata nei
piatti di lenticchie indiani e per insaporire verdure e patate, ma può essere
utilizzata per aromatizzare qualsiasi tipo di piatto. Quando volete
utilizzarla, fate scaldare dell’olio in una padella, come fareste per rosolare o
far saltare le verdure, unite circa 1/4 di cucchiaino di panch phoron all’olio
rigirando i semi finché non liberano il loro profumo, e poi aggiungete subito
gli altri ingredienti.

2 cucchiai di semi di senape


2 cucchiai di semi di cumino
2 cucchiai di semi di sesamo nero
1 cucchiaio di semi di fieno greco
1 cucchiaio di semi di finocchio

Ras-el-hanout - piccantezza: media

Il ras-el-hanout è considerato il re dei mix di spezie. La sua caratteristica


principale è la lunga lista di ingredienti – talvolta arriva a 30 o anche più –
che si fondono per dare vita a una miscela dal sapore pieno ed equilibrato.
La ricetta dipende dalla creatività e dal gusto personale del negoziante che
la prepara miscelando gli ingredienti più raffinati, e sovente contiene
elementi davvero esotici come i petali di rosa. È considerato il punto di
massima eccellenza nell’arte di combinare uno svariato assortimento di
spezie per dare vita ad un unico elemento finale il cui risultato è superiore
alla somma dei singoli ingredienti. Sebbene sia solo moderatamente
piccante, il ras-el-hanout è considerato una miscela corposa che può
sostituire qualsiasi spezia utilizzata nelle ricette quotidiane. Provatelo negli
stufati e aggiungetelo alle preparazioni di pesce e pollo in padella o alle
sauté; spolverizzato sul pollo arrosto, conferisce un piacevole colore e
aroma alla carne. In Marocco è una miscela molto apprezzata nei piatti di
agnello e nei cuscus. Adoperatene circa la metà rispetto alla quantità che
usereste per altre spezie. Sebbene gli ingredienti varino notevolmente, la
formulazione classica include quasi sempre cardamomo, cannella,
coriandolo, cumino, zenzero, paprica e curcuma.

2 cucchiai di semi di cumino


1 cucchiaino di semi di cardamomo verde
1 cucchiaino di semi di cardamomo marrone (facoltativo)
1 cucchiaino di semi di finocchio
1 cucchiaino di semi di kummel
1/4 tazza di paprica dolce ungherese
2 cucchiai di zenzero macinato
1 cucchiaio di coriandolo macinato
2 cucchiaini di cannella in polvere
2 cucchiaini di curcuma
1 cucchiaino di pimento macinato
1 cucchiaino di noce moscata in polvere
1 cucchiaino di galanga macinata (polvere Laos)
1/2 cucchiaino di chiodi di garofano macinati
1/2 cucchiaino di peperoncino rosso macinato

CINA: I GRANDI MAESTRI DELLE SPEZIE

Gli chef della Cina e dei paesi del Sudest asiatico, come Malesia,
Thailandia e Vietnam, sono considerati veri e propri maestri nell’arte di
combinare spezie, con un’enfasi particolare sulla creazione di salse speziate
da adoperare come condimento piuttosto che sulla realizzazione di miscele
asciutte. La salsa Hoi-sin, la salsa alle ostriche, quella alle susine e le salse
di pesce sono solo alcuni di una lunga lista di invitanti intingoli che
pongono queste cucine tra le gastronomie più variegate al mondo. Sebbene
vi sia una netta distinzione tra i tipi di salsa e le singole spezie che
contraddistinguono tali cucine, tutte dipendono – e ne fanno un uso
generoso – dalla celeberrima «polvere Cinque spezie» della Cina, in cui
l’esotico anice stellato regna sovrano.

Polvere Cinque spezie cinese - piccantezza: moderata

Se avete provato a preparare del cibo cinese a casa vostra ma non siete
riusciti a riprodurne esattamente il gusto, può essere dovuto all’assenza
della polvere Cinque spezie. Tale miscela è ciò che conferisce alle costine
grigliate, alle salsine da pinzimonio e ad altre specialità il loro sapore
distintivo. Molte ricette di ispirazione asiatica richiedono l’uso della
polvere Cinque spezie, ma è sovente difficile da reperire e non esiste alcun
sostituto adeguato in grado di fornire tale sapore. L’anice stellato e il pepe
di Sichuan si possono trovare nei negozi di prodotti asiatici o indiani, e
stanno cominciando a comparire con una certa regolarità sugli scaffali delle
spezie nei supermercati. I grani di pepe nero non hanno alcuna somiglianza
con il pepe di Sichuan e non sono, pertanto, un sostituto accettabile per tale
ricetta. Se non riuscite a trovare il pepe di Sichuan, potete ragionevolmente
sostituirlo con anice comune e pimento in parti uguali.

3 frutti di anice stellato


2 cucchiai di pepe di Sichuan
1 cucchiaio di semi di finocchio
1 cucchiaio di chiodi di garofano interi
1 stecca di cannella (7-8 cm)

MEDIO ORIENTE: TERRA DELLE MILLE SPEZIE

Le cucine del Medio Oriente sono state influenzate dalle tradizioni


gastronomiche dell’Iran, dell’India e dell’Europa. Il risultato è che le
miscele di spezie variano enormemente all’intemo dei vari paesi di
quest’area geografica.
Ricordiamo tra le principali il baharat e il dukkah

AMERICA LATINA E CARAIBI: IL TRIONFO DEL PEPERONCINO

Basta pronunciare la parola peperoncino ed ecco che subito vengono in


mente i paesi a sud del confine americano. Tuttavia, non tutte le cucine
regionali dell’America Latina e dei Caraibi sono infuocate: alcune
esibiscono piatti di moderata piccantezza che tradiscono un’influenza
squisitamente europea. Ma se amate i cibi piccanti, allora amerete anche le
tradizioni culinarie latinoamericane e caraibiche.

FRANCIA: UN SAPORE DELICATO

I francesi non sono grandi consumatori di miscele speziate poiché


ritengono che il sapore naturale del cibo che costituisce l’ingrediente
principale di un piatto debba risaltare. Per questo motivo, non si trovano
piatti francesi particolarmente speziati o piccanti. Vi sono, tuttavia, alcune
eccezioni che prevedono l’impiego di erbe aromatiche e spezie atte a
conferire alle preparazioni gastronomiche un aroma morbido. Tali mélange
traggono origine dalla tradizione culinaria delle regioni che si affacciano sul
Mediterraneo nel sud della Francia.

Quatre épices - piccantezza: moderata

Tre delle spezie contemplate in questa miscela, pepe in grani, chiodi di


garofano e noce moscata, rappresentano una costante nella formulazione di
base, ma la quarta può essere la cannella oppure lo zenzero macinato, o
anche una combinazione dei due. Anche la varietà del pepe in grani può
variare: talvolta viene utilizzato del pepe bianco, talvolta del pepe nero
oppure una miscela dei due tipi. Personalmente preferisco il pepe nero in
quanto contiene una maggiore quantità di oli essenziali salutari. In tal caso,
utilizzate un cucchiaio di zenzero macinato al posto della cannella. I
francesi adoperano tale miscela per insaporire pàté e terrine, ma viene
anche usata nella preparazione di ripieni, stracotti e può essere aggiunto a
una salsa glassata per accompagnare prosciutto cotto oppure pollo o maiale
alla griglia. Le quatre épices si mantengono bene fino a sei mesi.

1/3 tazza di pepe nero in grani


1 cucchiaio e 1/2 di chiodi di garofano interi
1 noce moscata intera
1 pezzetto di cannella (circa 2,5 cm)
L’arte del curry: la creazione di polveri e paste

Per un cuoco specializzato in curry, le spezie sono ciò che la tavolozza è


per un pittore. In effetti, la preparazione dei curry è un’arte, un’impresa
creativa i cui limiti sono posti soltanto dalla capacità dello chef di bilanciare
aromi e consistenza. Ma non lasciatevi intimorire dalla «creatività»; una
volta comprese le basi, creare un curry, anche uno di vostra invenzione, è
cosa semplice, come elaborare un disegno.
Contrariamente a quanto si crede, il curry non denota un singolo piatto
preparato utilizzando una spezia comunemente reperibile in commercio e
genericamente chiamata «curry in polvere». Il curry è, di fatto, uno stile
culinario caratterizzato da una miscela (curry) sapientemente equilibrata di
spezie tostate e ridotte in polvere fine che, durante la cottura a fuoco lento,
sviluppano sapore dando vita a un sugo cremoso. Gli aromi, la consistenza
e persino il colore possono variare, ma vi sono due fattori costanti: un curry
è sempre salato ed è sempre speziato.
Il termine curry deriva dalla parola indiana kari e i piatti curry sono
sinonimo di cucina indiana, da cui presero vita migliaia di anni fa. Il curry
tradizionale, tutt’oggi preparato in quasi tutte le case indiane, non
contempla un elenco fisso di ingredienti, bensì viene creato utilizzando una
mistura delle seguenti spezie; pepe nero, cardamomo, cannella, foglie di
curry, coriandolo, cumino, semi di fieno greco, semi di senape e curcuma.
Nel lontano passato, il ricordo del curry indiano – profumatissimo, dal
gusto intenso, corposo e appetitoso – seguì i mercanti di spezie nei loro
viaggi intorno al mondo, e fu così che i curry divennero la caratteristica
distintiva delle cucine originarie di molti paesi asiatici, tra cui la Malesia, la
Thailandia, la Birmania e l’Indonesia, nonché di alcune isole dei Caraibi.
Anche in Inghilterra, nazione la cui cucina è sempre stata notoriamente
poco saporita, si sviluppò un gusto per il curry in conseguenza della
pluricentenaria occupazione dell’India, e l’Inghilterra oggi vanta il maggior
numero di ristoranti specializzati in curry di qualsiasi altro paese, ad
eccezione dell’India.
Con il passare dei secoli, i paesi non indiani che adottarono la
consuetudine di creare curry modificarono anche le preparazioni in modo
da riflettere gli usi gastronomici, il genere di spezie e gli alimenti della
tradizione locale. La Malesia, l’Indonesia e la Thailandia sono ben note per
i loro curry innovativi e di carattere estremamente differente. I curry malesi
sono morbidi, spesso profumati con menta e cocco, mentre i curry tailandesi
sono estremamente piccanti e sovente aromatizzati con citronella, galanga e
peperoncino rosso. I curry indonesiani sono anch’essi piccanti, con una
prevalenza di coriandolo, cumino e peperoncino. Persino in India il sapore
del curry cambia man mano che ci si sposta lungo il territorio della nazione:
le popolazioni del Punjab, al nord, consumano curry dal sapore meno
piccante, in cui spiccano cardamomo, anice, noci, uvetta e yogurt, mentre i
tamil dell’India meridionale sono soliti preparare curry particolarmente
piccanti a base di semi di senape, tamarindo, foglie di curry e peperoncino.

REGOLE DI BASE PER LA PREPARAZIONE DEI CURRY

I piatti di curry vengono preparati facendo cuocere a fuoco lento carne,


pollame, pesce, frutti di mare o verdure in un liquido speziato, in modo
molto simile al metodo di cottura francese dei cibi in un fondo di vino ed
erbe aromatiche. Il procedimento prevede di soffriggere inizialmente una
miscela di spezie in olio bollente (in India i cuochi sovente adoperano un
burro chiarificato detto ghee) e poi aggiungere nuovamente le spezie in
momenti strategici durante la cottura. Le spezie possono essere date da una
mistura asciutta oppure elaborata incorporando del liquido alla miscela in
modo da ottenere una consistenza pastosa.
Benché esistano vari metodi di preparazione per un curry, queste sono le
istruzioni di carattere generale:

• Iniziate facendo soffriggere in olio o altri grassi gli aromi freschi di base,
ad esempio la cipolla e l’aglio, finché non si ammorbidiscono. Nelle ricette
indiane, spesso si aggiungono peperoncini e zenzero. Gli aromi di base sono
sempre elementi freschi opportunamente sminuzzati o tritati e includono:
aglio, zenzero, citronella, mango, cipolla, patate, scalogno, tamarindo, e
altre verdure
Tipicamente, per il soffritto si adoperano i seguenti grassi: olio di semi,
olio di sesamo, olio di senape, ghee.
È anche possibile tralasciare la preparazione degli ingredienti di base e
passare direttamente alla seconda fase aggiungendo soltanto la polvere di
curry all’olio. Tale procedimento è più comune nei curry malesi e tailandesi
che prevedono l’impiego di paste di curry anziché miscele di spezie
asciutte.
• Unite la polvere di curry (non il comune curry in polvere commerciale!)
o la pasta di curry. A questo punto, è possibile aggiungere anche altre
spezie, a discrezione del cuoco. Solitamente si tratta di una combinazione di
spezie dal sapore più deciso, magari foglie di curry, semi di fieno greco,
curcuma, noce moscata, cannella o anice stellato, che bilanciano la
pungenza degli ingredienti utilizzati nel soffritto iniziale. Lasciate cuocere a
fuoco basso le spezie finché non rilasciano il loro profumo; siccome ciò può
avvenire piuttosto rapidamente, state pronti ad aggiungere il resto degli
ingredienti.
Il procedimento di soffrittura delle spezie è un passo molto importante:
deve essere eseguito su fuoco basso e le spezie o la pasta devono essere
rimescolate continuamente per impedire che aderiscano al fondo della
padella o brucino. Mentre cuociono le spezie iniziano a scurirsi e addolcirsi.
Perdendo pungenza, gli aromi delle differenti spezie si fondono in modo
tale da non riuscire più a distinguere un aroma in particolare. Le spezie più
forti, come il cumino, la curcuma e il pepe nero, richiedono qualche
momento di più per ammorbidire il sapore un po’ più acre.
• Successivamente, aggiungete l’ingrediente principale e liquido
sufficiente a coprire. Legumi, patate o verdure, se gradite, possono essere
aggiunte a questo punto. Se l’ingrediente principale è carne o pollo, potete
farli rosolare per primi e poi trasferirli altrove prima di procedere con la
prima fase. Portate il liquido di cottura a ebollizione, coprite e lasciate
cuocere a fuoco lento per un’ora o due. Se lo si desidera, nel frattempo è
possibile aggiungere un addensante. Per ottenere un curry asciutto,
utilizzate una quantità minore di liquido e scoprite la pentola a metà cottura
in modo da farlo evaporare; se il liquido si consuma troppo rapidamente,
aggiungete un po’ d’acqua affinché gli ingredienti non brucino o non si
asciughino troppo.
Solitamente i liquidi adoperati nei curry sono: brodo, pomodori
schiacciati, latte di cocco, yogurt colato
Tra gli addensanti più utilizzati figurano: burro di mandorle o altri tipi di
noce, paste di semi macinati ottenute da fieno greco, senape, papavero o
sesamo, cipolle ridotte in purè, polpa di cocco grattugiata, legumi indiani
secchi, quali chana da/ (piselli gialli spezzati) o urad dal (lenticchie bianche
spezzate), succo di limone o lime, pasta di tamarindo, aceto.
• Terminate aggiungendo ulteriori spezie aromatiche. Potete adoperare una
miscela personale di spezie tostate o macinate di fresco o semplicemente un
cucchiaio di garam masala. Aggiustate di sale. Lasciate riposare il curry,
coperto, per circa mezz’ora. Può anche essere tenuto in caldo più a lungo in
forno a una temperatura di 120 °C. Se gradito, guarnite il piatto con foglie
fresche di coriandolo, foglie di curry o menta prima di servire.

I curry si mantengono bene in frigorifero e il sapore ne guadagna; il


consiglio è di prepararlo con uno o due giorni di anticipo.
Un piatto di curry non è completo senza l’aggiunta di riso, sottaceti,
chutney, salsine e, come si usa in India, pane non lievitato, ad esempio naan
o chapati. I curry sono molto speziati, anche se non necessariamente
piccanti, e gli altri cibi di contorno, in particolare il riso, hanno il compito di
contrastarne il sapore fortemente aromatico.

LA COMPOSIZIONE DEGLI AROMI NEL CURRY

I piatti di curry e le componenti speziate che ne definiscono il sapore sono


tanto variegati quanto le culture delle popolazioni che li consumano. Se
l’obiettivo è riprodurre il curry di un pasto etnico memorabile o della vostra
cucina etnica preferita, tenete presente che le spezie regnano sovrane e,
poiché le spezie vengono sapientemente combinate, non potete affidarvi
soltanto al naso per capire quali adoperare. Ma in questo caso posso venirvi
sicuramente in aiuto. Di seguito, è riportata una piccola guida, suddivisa per
paese, in cui sono elencati gli aromi che contraddistinguono i curry delle
varie cucine etniche.

India
L’India è la settima nazione del mondo in ordine di estensione territoriale e
la seconda in termini di popolazione; pertanto, il fatto che le preferenze di
gusto varino da regione a regione è tutt altro che sorprendente, e sono
proprio le spezie a dettar legge in tal senso. Innanzitutto, una polvere di
curry di base di alta qualità include: curcuma, cumino, coriandolo, pepe
nero, peperoncino rosso.
La definizione del sapore è data dalle spezie aggiuntive adoperate nel
curry. I curry indiani delle regioni settentrionali tendono ad essere poco
piccanti e cremosi con sentore di noce. Tali caratteristiche aromatiche si
ottengono utilizzando una combinazione qualsiasi delle seguenti spezie:
mandorle, alloro, sesamo nero, cardamomo verde o marrone, cannella,
chiodi di garofano, semi di finocchio, semi di fieno greco, garam masala,
aglio, menta, cipolla, zafferano, curcuma.
I curry dell’India meridionale possono andare dal piccante al
piccantissimo e presentano una netta fragranza di cocco. L’impronta
aromatica è data da una combinazione qualsiasi delle seguenti spezie: pepe
nero, polpa e latte di cocco, foglie di curry, semi di finocchio, semi di fieno
greco, zenzero, semi di senape, peperoncino rosso, tamarindo, pomodoro,
curcuma.
Nelle regioni orientali, i curry tendono ad avere un aroma pungente, in
genere sul versante del dolce. Questo tipo di sapore si ottiene adoperando
una qualsiasi combinazione delle seguenti spezie: assafetida, sesamo nero,
foglie fresche di coriandolo, semi di fieno greco, peperoncino verde, semi
di senape, panch phoron, uvetta, tamarindo.
Infine, i curry dell’India occidentale tendono ad essere piccanti e più sul
versante dell’agro. Tale effetto si ottiene aggiungendo una combinazione
qualsiasi delle seguenti spezie: coriandolo, peperoncino rosso, menta,
zafferano, aceto.

Sri Lanka

I curry originari dello Sri Lanka, un’isola al largo del promontorio


meridionale dell’India, sono estremamente piccanti ed esotici. Le spezie per
i curry di carne vengono tostate finché non diventano molto scure e
conferiscono, di conseguenza, un colore intensamente bruno al piatto; di
fatto, vengono sovente definiti «curry neri». Tali preparazioni includono
quasi sempre chiodi di garofano e cannella, due spezie originarie proprio di
quest’isola (i chiodi di garofano e la cannella dello Sri Lanka sono
considerati tra i migliori prodotti al mondo). Per preparare un curry di
ispirazione locale, adoperate una combinazione qualsiasi delle seguenti
spezie: semi di cardamomo, cannella, latte di cocco, chiodi di garofano,
foglie di curry, semi di coriandolo, semi di cumino, semi di finocchio, semi
di fieno greco, peperoncino rosso, tamarindo.

Thailandia

I curry della cucina tailandese sono famosi per la loro piccantezza. Il modo
migliore per riprodurne il sapore è utilizzare come base una pasta di
peperoncini pestati. Potete adoperare qualsiasi varietà di peperoncino, dal
momento che la piccantezza è questione di gusto personale. Il sapore
peculiare che denota un curry tailandese, tuttavia, deriva da un interessante
assortimento di aromi. Per preparare un curry tailandese, includete una
combinazione qualsiasi delle seguenti spezie: pepe nero, foglie fresche di
coriandolo, chiodi di garofano, polpa e latte di cocco, coriandolo, cumino,
galanga, aglio, citronella, scorza di limone e di lime, peperoncino rosso,
scalogno, basilico tailandese, curcuma, salsa di pesce, pasta di gamberetti,
arachidi.

Malesia

I curry malesi, tra i più delicati e complessi di tutta l’Asia Sud-orientale,


sono fortemente influenzati dall’India e contengono molte delle medesime
spezie. Un curry malese includerà una combinazione dei seguenti aromi:
pepe nero in grani, noci delle Molucche, polpa e latte di cocco, coriandolo,
semi di cumino, semi di finocchio, galanga, zenzero, citronella, lime,
menta, cipolla, scalogno, pasta di gamberetti, anice stellato.

Vietnam

I curry vietnamiti sono una interessante commistione di influenze cinesi,


indiane e francesi. Sono meno piccanti dei curry tailandesi e indiani ed
hanno un sapore agrodolce. Per preparare un curry vietnamita, adoperate
una combinazione qualsiasi dei seguenti aromi: polpa e latte di cocco,
foglie fresche di coriandolo, salsa di pesce, aglio, citronella, menta,
peperoncino rosso, zucchero, curcuma, aceto.

Indonesia

Il curry è un piatto assai diffuso in Indonesia, una vasta nazione-arcipelago


che include le isole Molucche, un tempo battezzate «Isole delle Spezie» dai
colonizzatori olandesi. Quasi tutte le regioni dell’Indonesia hanno la propria
specialità e i curry indonesiani contengono alcuni tra gli ingredienti più
esotici, come la manioca (tapioca), le foghe di salam e il trassi, una sorta di
pasta di gamberetti disidratati. Spesso vengono serviti con una guarnizione
di croccanti scalogni fritti e uova sode.
Altri aromi comuni includono: kummel, latte di cocco, foglie di curry,
galanga, zenzero, foglie di lime, noce moscata, semi di papavero.

MISCELE CURRY CLASSICHE

Esistono centinaia di miscele curry che fanno parte di una consolidata


tradizione culinaria e provenienti da decine di paesi, tutte prive di un elenco
fisso di ingredienti ed estremamente variegate dal punto di vista del sapore,
della consistenza e dell’intensità di aroma.
Nell’autentica cucina curry, utilizzare una polvere commerciale equivale
ad infrangere un tabù, poiché uniforma e appiattisce i sapori
indipendentemente dal piatto che si sta preparando. Viceversa, una polvere
di curry di stampo artigianale e di qualità superiore, che contempli un
insieme equilibrato e ben proporzionato di spezie e semi macinati, è nella
cucina curry, poiché è l’elemento che conferisce a un curry il suo carattere
peculiare e deliziosamente aromatico.
Per risparmiare tempo, e per via del fatto che ne basta una piccola quantità
per insaporire un piatto, i cuochi sono soliti preparare in anticipo (dal
momento che si conservano bene) tutta una serie di polveri di curry in
modeste quantità. Un cucchiaio di polvere è sufficiente per mezzo chilo di
carne, pesce, pollame o verdura utilizzato come ingrediente principale,
oppure si può utilizzare un cucchiaio’ ogni tazza o tazza e mezza di liquido.
Tutte le polveri descritte di seguito si mantengono bene fino a sei mesi se
conservate in un contenitore di vetro a chiusura ermetica.
Piccante e salutare: suggerimenti terapeutici dalle zone calde del
mondo

L’ospitalità indiana è leggendaria e il concetto di ospitalità ruota spesso


intorno al cibo. Per tradizione gli indiani hanno un approccio al cibo
sofisticato e sensuale, e apprezzano oltremodo il nesso tra buona
compagnia, buona tavola e buona salute.
Tale tradizione affonda le radici nell’Ayurveda, l’antico sistema indiano di
tutela della salute e di terapia naturale: il termine ayur significa infatti
«vita» o il vivere quotidiano, mentre la parola veda significa «conoscenza».
L’Ayurveda vede la vita come un’interazione tra cinque elementi a livello
cosmico: lo spazio (o etere), l’aria, il fuoco, l’acqua e la terra. Tali elementi
di base si manifestano nel sistema corpo-mente dell’essere umano
attraverso tre dosha, o energie vitali: vatta (spazio e aria), pitta (fuoco e
acqua) e kapha (acqua e terra). Ogni dosha regola un insieme di funzioni
fisiche, mentali ed emotive; pitta, ad esempio, è il principio che controlla la
temperatura corporea, l’intelligenza e la rabbia. In ogni individuo esiste un
dosha predominante per natura, e lo scopo dell’Ayurveda è quello di
mantenere sempre bilanciati i tre dosha in modo da garantire la migliore
condizione di salute e guarigione.
Vi chiederete cos’abbia a che fare tutto ciò con le spezie. Ebbene, uno dei
metodi principali attraverso cui l’Ayurveda bilancia i dosha è il cibo, ivi
incluso il sapore del cibo che, in tal senso, acquista un’importanza cruciale.
Per mantenere i tre dosha in equilibrio, l’Ayurveda insegna che ogni pasto
deve includere una combinazione intelligente di tutti e sei i rasa, ovvero i
sapori: dolce, agro, amaro, pungente (speziato), forte (astringente) e salato.
La Medicina Tradizionale Cinese (MTC) espone una filosofia e una pratica
analoghe. Secondo tale scuola di pensiero, il chi è l’energia cosmica, o
forza vitale, che scorre nel sistema corpo-mente, e un eccesso o una carenza
di chi – esuberanza o insufficienza di yang, o calore, oppure eccesso o
carenza di yin, o freddo – è causa di malattia. Un modo per mantenere il chi
in equilibrio passa attraverso l’equilibrio dei cinque sapori: dolce, agro,
amaro, speziato (piccante) e salato.
In altri termini, nelle antiche tradizioni di India e Cina, la meticolosa
combinazione dei sapori, e delle spezie, è considerata la chiave per
custodire la salute e guarire dalla malattia.

L’ABILITÀ NEL COMBINARE LE SPEZIE: COME ORIENTARSI

Oltre all’India e alla Cina, numerose altre zone del mondo caratterizzate
da un clima caldo sono famose per la loro predilezione nei confronti delle
spezie e per la perizia nel combinarle. Va da sé che sono proprio tali
accostamenti a produrre quei cibi e quelle pietanze squisite, uniche nel loro
genere, che gli americani hanno imparato ad amare quando si recano in
ristoranti che offrono cucina tailandese o vietnamita o indonesiana o…
insomma, decidete voi qual è la vostra cucina «etnica» preferita!
Ma il fatto che gli abitanti delle zone più calde siano esperti nell’uso
culinario delle spezie è tutt’altro che sorprendente, poiché le piante, gli
arbusti e gli alberi da cui derivano la maggior parte delle spezie esistenti
sono originarie proprio di quei paesi e di quelle regioni. Nelle zone più
calde del pianeta le spezie sono sempre state impiegate come medicina,
come sostanze conservanti, come aromatizzanti e persino come valuta di
scambio. L’equivalenza tra spezie e salute – spezie e vita – è sempre stato
un concetto ovvio e sottinteso. E lo è ancora.
Ecco perché, in molti dei «paesi delle spezie», se si entra in una casa
difficilmente si vedranno recipienti dosatori come tazze e cucchiai, ma si
noterà la presenza di un mortaio e un pestello, nonché una credenza colma
non già di vasetti diligentemente etichettati bensì di semi e capsule e polveri
di spezie in un assortimento dai colori straordinari.
E non sarà affatto improbabile che i padroni di casa siano maestri nell’arte
di combinare la loro provvista di spezie creando sapori straordinari, o per
meglio dire, davvero squisiti!
Tuttavia, non occorre essere nati in uno dei tanti paesi amanti delle spezie
sparsi per tutto il mondo per diventare esperti nell’aromatizzazione dei cibi.
Abbinare ad arte le spezie in una ricetta è una vera e propria abilità, ma
un’abilità che chiunque può acquisire. Ci vuole semplicemente pratica e
pazienza, ma è importante essere a conoscenza di quest’unico segreto:
l’accostamento creativo di varie spezie per realizzare un piatto delizioso
richiede - ed ecco che toma la parola d’ordine dell’Ayurveda e della MTC —
equilibrio.
Le miscele di spezie sono dette miscele proprio perché bilanciano i sapori
dando vita a un tutto armonico ove non spicca alcuna nota predominante.
Ognuna delle cinquanta spezie presentate in questo libro viene collocata in
una delle sei categorie di sapori: dolce, agro, amaro, forte, pungente e
piccante. La collocazione di una determinata spezia in una certa categoria è
tutt’altro che arbitraria; l’aglio è piccante, e la vaniglia è dolce, ma al tempo
stesso non è assoluta, nel senso che una singola spezia può porsi a cavallo
di vari sapori. Il cumino, ad esempio, è pungente ma presenta un retrogusto
amaro, mentre l’amchur è contemporaneamente dolce e agro.
Spostandosi dal dolce al piccante i sapori si fanno man mano più robusti.
Come vedrete, le percentuali di dolce/agro/amaro e
forte/pungente/piccante non sono uguali; una spezia pungente, ad esempio,
rischia di sopraffare una spezia dolce qualora utilizzata nelle stesse quantità,
viceversa l’impiego più abbondante di una spezia dolce (o una
combinazione di spezie dolci) contribuisce a raggiungere l’equilibrio.
Qualsiasi cosa facciate, ricordate: quando si tratta di combinare spezie non
esistono regole ferree, non esiste un modo giusto e un modo sbagliato. Se
desiderate che una miscela acquisti una nota agra o piccante, esaltate
maggiormente le combinazioni di spezie agre o piccanti nella ricetta e poi
bilanciate il tutto ricorrendo ad altri sapori.
Se volete ottenere l’equilibrio in base ai sei sapori dell’Ayurveda o ai
cinque sapori della Medicina Tradizionale Cinese, dovrete aggiungere un
po’ di sale. Qualora fosse necessario ridurre l’uso del’sale per ragioni
dietetiche (ad esempio, in caso di pressione alta), il sale alternativo di cui
abbiamo fornito la ricetta poc’anzi è un’opzione perfetta»
Man mano che utilizzerete sempre più frequentemente le spezie in cucina,
la preparazione di miscele particolari e persino la creazione di miscele di
vostra invenzione diventerà un’attività sempre più affascinante. Una
miscela di spezie ideata personalmente o una delle miscele descritte in
questo libro possono essere lo spunto per uno splendido regalo da fare agli
amici.
Sale alternativo di Alamelu

Questo superbo sostituto del sale è stato ideato da Alamelu Vairavan,


autrice di Healthy South Indian Cooking. È sorprendente come riesca ad
imitare quasi alla perfezione il sale vero e proprio: al contrario della
maggior parte dei surrogati disponibili in commercio, questa miscela non
contiene sostanze chimiche e non lascia alcuno spiacevole retrogusto.
Inoltre, è molto semplice da preparare. Combinate in parti uguali pepe nero
macinato e semi di cumino macinati (non è necessario tostarli
preliminarmente). Dopo la preparazione, mettete le spezie in una
saliera.Adoperate questo sale alternativo nella stessa quantità di sale
comune richiesta da una ricetta.
Epilogo: dall’artrite all’ulcera, una guida al potenziale terapeutico
delle spezie

Se soffrite di malattie cardiovascolari o nella vostra famiglia altre persone


ne hanno sofferto e intendete pertanto prevenirle, se desiderate un approccio
più incisivo nella preparazione dei pasti per proteggere voi e i vostri cari dal
cancro, se state cercando un’alternativa ai farmaci per alleviare i dolori
dell’artrite o volete riportare entro la norma la glicemia che il vostro medico
reputa eccessivamente alta, qualunque sia il vostro scopo in tema di salute
questa tabella di immediata consultazione può aiutarvi a raggiungerlo; vale
a dire, adoperando in maggiori quantità le spezie curative che, come
dimostrato dalla ricerca scientifica, sono in grado di prevenire o trattare la
malattia che vi preoccupa.
Ma chiariamo meglio questa affermazione. Le prove scientifiche a
supporto dell’uso delle spezie nella prevenzione e nel trattamento di
disturbi specifici si collocano a differenti livelli di credito e persuasione.
Alcune si basano su studi in vitro, altre sono il risultato di esperimenti
condotti su animali, altre ancora derivano da studi realizzati su esseri
umani. Solo alcuni studi in quest’ultimo ambito di ricerca rappresentano
quel genere di indagine rigorosa nonché uno standard di riferimento a cui i
medici per lo più si affidano per giudicare quali trattamenti funzionano
realmente e quali no. Nel corso della trattazione ho incluso i risultati
compresi a tutti i livelli poiché tutti sono in qualche modo promettenti, ma
solo alcuni di essi sono comprovati. Il modo migliore per sfruttare le spezie
della salute consiste nel dare priorità a quelle che influiscono sul disturbo
che si desidera prevenire o controllare ma, come per la frutta e la verdura, è
bene includere nella dieta quotidiana quante più spezie possibile, in modo
da sfruttarne appieno tutto il potenziale terapeutico.
Vi esorto inoltre a non ricorrere mai alle spezie in sostituzione a un
farmaco prescritto. Consideratele piuttosto come un possibile e potente
ausilio da affiancare alla normale terapia medica, nonché un modo
singolarmente efficace di contribuire a prevenire le malattie.

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