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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI

“PARTHENOPE”

DANIELA COVINO

STRATEGIE COMPETITIVE DELLE IMPRESE


AGROALIMENTARI

DISPENSA PER L’ESAME DA 9 CFU- 2021


2 INDICE

INDICE

CONTENUTO DELLA DISPENSA ...................................................................................................... 5

PARTE INTRODUTTIVA: STRATEGIE DELLE IMPRESE AGROALIMENTARI ................................................... 6

INTRODUZIONE: DEFINIZIONE, STRUTTURA ED ELEMENTI STRATEGICI DEI SISTEMI AGROALIMENTARI ... 6


LA GRANDE DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA (GDO) .................................................................... 12
TIPOLOGIE DI MERCATO AGROALIMENTARE ............................................................................... 23
LE STRATEGIE COMPETITIVE ..................................................................................................... 29

1. IL SISTEMA AGROALIMENTARE ITALIANO: STRUTTURA, RELAZIONI, STRATEGIE ................................ 52

INTRODUZIONE ...................................................................................................................... 52
1.1 L’INDUSTRIA ITALIANA NEL COMPARTO ALIMENTARE ............................................................. 57
1.2 IL “MADE IN ITALY” NELL’INDUSTRIA ALIMENTARE ................................................................ 62
1.3 LA DISTRIBUZIONE ALIMENTARE.......................................................................................... 64
1.4 LE RELAZIONI FRA INDUSTRIA E DISTRIBUZIONE ALIMENTARE................................................... 70
1.5 LE NUOVE TENDENZE DEI CONSUMI ALIMENTARI ................................................................... 72
1.6 LE CARATTERISTICHE DEI “FOOD MILES”............................................................................. 73
CONCLUSIONI ........................................................................................................................ 75

2. FORME DI COMPETIZIONE NEI MERCATI AGROALIMENTARI ......................................................... 77

2.1 AGROALIMENTARE E COMPETITIVITÀ: FONTI, FORME, ATTORI DELLA COMPETIZIONE ................. 77


2.2 COMPETITIVITÀ E ORGANIZZAZIONE: FORME DI INTEGRAZIONE E COORDINAMENTO TRA AZIENDE
NEL SISTEMA AGROALIMENTARE ......................................................................................... 82

2.3 STRATEGIE COMPETITIVE: MOTIVAZIONI GENERALI E POTENZIALI LEVE ..................................... 87

3. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ, QUALITÀ E SICUREZZA ALIMENTARE ..................... 93

3.1 LE SPECIFICITÀ DELLA QUALITÀ NELL’AGROALIMENTARE ......................................................... 93


INDICE .3

3.1.1 I beni alimentari come “beni esperienza” e “beni fiducia” .............................. 94


3.1.2 La sicurezza alimentare: un prerequisito ......................................................... 95
3.1.3 Dimensioni oggettive e soggettive della qualità .............................................. 96
3.1.4 La differenziazione verticale e quella orizzontale nell’agro-alimentare .......... 97
3.2 LA QUALITÀ COME LEVA COMPETITIVA ................................................................................ 98
3.2.1 Il ruolo della qualità nelle strategia basate sui prezzi ...................................... 99
3.2.2 Il ruolo della qualità nelle strategia di differenziazione di prodotto ............. 100
3.2.3 La qualità come fulcro della competitività dell’agro-alimentare italiano...... 102
3.3 GLI SCHEMI DI ASSICURAZIONE DELLA QUALITÀ ................................................................... 106
3.4 LA RINTRACCIABILITÀ COME STRUMENTO PER LA SICUREZZA ALIMENTARE: INNOVAZIONI
NELL’AGROALIMENTARE ED EFFETTI SUL SISTEMA ................................................................ 114

4. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ ED ETICA NELL’AGROALIMENTARE ..................... 122

INTRODUZIONE .................................................................................................................... 122


4.1 LE CRITICITÀ ETICHE NELL’AGROALIMENTARE: UNA SISTEMATIZZAZIONE ................................. 123
4.2 UNA PANORAMICA SULLE “PECULIARITÀ ETICHE” DEI SISTEMI AGROALIMENTARI..................... 126
4.3 I POTENZIALI CORRETTIVI ................................................................................................. 128

5. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ E TUTELA AMBIENTALE .................................... 134

5.1 INTERAZIONI TRA AMBIENTE ED ECONOMIA........................................................................ 134


5.2 STRUMENTI DI POLITICA AMBIENTALE ............................................................................... 138
5.3 GLI STRUMENTI VOLONTARI: IL REGOLAMENTO EMAS, LA NORMA UNI EN ISO 14001:04 .... 139
5.4 EMAS............................................................................................................................ 141
5.5 LE NORME INTERNAZIONALI ISO 14000 .......................................................................... 143
5.6 BENEFICI/COSTI DELL’IMPLEMENTAZIONE DI UN SGA ......................................................... 145

6. STRATEGIE DI COSTO: LA LOGISTICA COME LEVA COMPETITIVA PER IL SISTEMA AGROALIMENTARE..... 149

6.1 LA STRATEGICITÀ DELLA LOGISTICA NEL COMPARTO AGROALIMENTARE .................................. 149


6.2 ELEMENTI DESCRITTIVI, PROBLEMATICHE E POSSIBILI CORRETTIVI PER LA LOGISTICA IN ITALIA .... 150
6.3 LA STRATEGICITÀ DELLA LOGISTICA PER I PRODOTTI DEPERIBILI E LA SITUAZIONE IN CAMPANIA .. 157
4 Contenuto della dispensa
5 Contenuto della dispensa

CONTENUTO DELLA DISPENSA

La presente dispensa è organizzata nel modo seguente:

Nella prima parte, vengono forniti gli elementi descrittivi del Sistema Agroalimentare italiano
nelle sue diverse componenti: agricoltura, industria, distribuzione, sia da un punto di vista
strutturale, che problematico, evidenziando gli elementi critici sui quali possono essere messe
in atto strategie competitive.

Nella seconda parte vengono richiamati i concetti teorici relativi alle diverse strategie com-
petitive, sia di costo che di differenziazione, dopo aver descritto le modalità e le forme di
competizione più rilevanti nei sistemi agroalimentari, sia ti tipo orizzontale, che di tipo verti-
cale.

Di seguito vengono invece descritte le principali e più importanti strategie competitive, con
particolare riferimento a quelle di differenziazione, mentre come esempio di strategia com-
petitiva per il contenimento dei costi è esemplificata la leva della logistica.
6 Parte Introduttiva

PARTE INTRODUTTIVA: STRATEGIE DELLE IMPRESE AGROALIMENTARI

INTRODUZIONE: DEFINIZIONE, STRUTTURA ED ELEMENTI STRATEGICI DEI SISTEMI AGROALIMENTARI

Per sistema agro-alimentare si intende l’insieme di attività (cioè imprese e settori) tra di loro
collegate da rapporti commerciali, che contribuiscono alla creazione del valore del prodotto
alimentare finito che giunge sulla tavola del consumatore.

È, in sostanza, tutto ciò che interviene tra “field” (il campo coltivato) e“fork” (la forchetta, la
tavola del consumatore).

La composizione di questo sistema varia perciò nel tempo e nello spazio, in virtù del
cambiamento di tecnologie e comportamenti di consumo. L’agricoltura è, però, di fatto l’unico
settore irrinunciabile. Oggi, si tende a considerare il sistema alimentare come composto da
questi macro-settori:

 Produzione di mezzi tecnici per l’agricoltura (fertilizzanti, mangimi, ecc.);


 Agricoltura;
 Industria alimentare;
 Distribuzione al consumo;
 Ristorazione collettiva.
Quella sopra indicata, indica in ordine i passaggi che portano il prodotto finale ai consumatori.

Il mercato agroalimentare è l’insieme dei luoghi fisici e virtuali in cui gli attori prendono
decisioni, producono, scambiano beni e servizi (produzione-trasformazione-
commercializzazione-distribuzione-consumo).

Per dare una definizione più esaustiva di settore agroalimentare, lo si può definire come:
“Insieme di rapporti allargati tra agricoltura e industria (in senso lato) dove il fulcro
dinamico è costituito dai modelli di consumo”.

Si possono avere 2 possibili approcci al mercato:

 concorrere in base al prezzo di vendita: in tal caso si tralasciano completamente le


caratteristiche distintive dei prodotti e si punta su prodotti indifferenziati
concorrendo sul prezzo (commodities);
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .7

 concorrere sulla strategia di differenziazione creando nicchie, differenziando i


prodotti (specialities).

Di seguito sono riportate le caratteristiche specifiche di entrambe:

PRODOTTO DI MASSA
CARATTERISTICHE SPECIALITA’ (specialities)
(commodities)
PRODOTTO Differenziabile Indifferenziato
SVILUPPO DOMANDA Alto Basso
CONTENUTO DI SERVIZI
Molti Pochi
ALL’UTILIZZATORE
DIMENSIONE MERCATO Relativamente bassa Alta
BARRIERE ENTRATA Relativamente alte Inesistenti
BARRIERE USCITA Possono esistere Inesistenti
CONCORRENZA DI PREZZO Bassa Alta

MARGINE LORDO Alto Basso

Commodities: Prodotti comuni, materie prime grezze non sottoposte ad alcuna


trasformazione industriale. Perfetta intersostituibilità.

Specialities: Sono rappresentate dai prodotti tipici, fortemente legati al territorio, il cui valore
discende direttamente da competenze specifiche dei produttori e dalle caratteristiche
pedoclimatiche del territorio. La forza competitiva, quindi, sta nell’esclusività produttiva.

Il settore dell’agricoltura presenta molte debolezze relative alla natura dei prodotti, alla poca
controllabilità dei fattori atmosferici, alla frammentarietà della produzione e alla
globalizzazione. Questo settore, difatti presenta le “caratteristiche di “price taker”, in quanto,
avendo una domanda così frammentata, qualsiasi impresa non rappresenta una parte
significativa dell’offerta.

CARATTERISTICHE
NECESSITA’ DEL CONSEGUENZE
DEI PRODOTTI IMPLICAZIONI
MERCATO LOGISTICHE
AGRICOLI
8 Parte Introduttiva

Rotture di carico
Rapidità-puntualità- (impossibilità di assicurare
omogeneità- riduzione Incertezza e perdita di in modo completo e
Deperibilità
tempi trasporto- potere contrattuale costante il rifornimento
standardizzazione continuo), Discontinuità
del servizio in generale
Rapidità-puntualità-
omogeneità- riduzione Incertezza e perdita di
Variabilità
tempi trasporto- potere contrattuale
standardizzazione
Rapidità-puntualità-
omogeneità- riduzione Incertezza e perdita di
Stagionalità-ciclicità
tempi trasporto- potere contrattuale
standardizzazione
Rapidità-puntualità-
omogeneità- riduzione Incertezza e perdita di
Incertezza
tempi trasporto- potere contrattuale
standardizzazione

Queste caratteristiche dei prodotti, Inducono ampie fluttuazioni di prezzo in quanto


impediscono una programmazione efficace nel breve periodo: le possibilità di modulare
l’offerta sulla domanda di mercato sono relative.

Una prima grande distinzione va fatta tra prodotti deperibili (freschi e freschissimi) e
prodotti dry (secchi).

Le caratteristiche di deperibilità influenzano innanzitutto la definizione dei mercati potenziali


in funzione dei tempi di trasporto.

Infatti, i prodotti deperibili necessitano del mantenimento della catena del freddo durante le
fasi di produzione, stoccaggio, trasporto, commercializzazione.

In assenza di tecnologia di trasporto refrigerata, il rapporto tra zona di produzione e luogo di


consumo è necessariamente molto stretto con conseguenti effetti di riduzione nel numero di
alimenti e riduzione nel numero di concorrenti provenienti da territori non limitrofi.

La disponibilità di una tecnologia di trasporti più avanzata e refrigerata, ha consentito di


abbreviare i tempi di percorrenza e allungare il periodo di conservazione dei prodotti,
abbreviando di fatto le distanze ed avvicinando le aree produttive ad un numero sempre
crescente di mercati al consumo.
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .9

L’importanza della componente trasporto (frequenza, qualità, puntualità) è inversamente


proporzionale al grado di conservabilità dei prodotti (meno durata ha il prodotto, più deve
aumentare frequenza e qualità del trasporto).

La globalizzazione ha ampliato la dimensione dei mercati ma anche il numero dei competitors,


aumentando così la produzione e il consumo ma anche la competitività.

Il forte legame tra produzione agricola e stagionalità rappresenta un vincolo ma anche


un’opportunità. Vincolo perché ostacola il trasporto verso i mercati di consumo su un arco
temporale lungo; Vantaggio per i competitor in termini di programmazione rispetto a prodotti
possibili sostituti (es. prodotti “precoci”).

Esempio della Spagna: secondo paese europeo produttore di ortofrutticoli; grossi investimenti
su varietà precoci; spiazza la produzione europea sfruttando la minore tensione competitiva.

Esempio della Nuova Zelanda:

 secondi produttore mondiale di Kiwi (il vero nome è actinidia, ma assume tale nome
dalla specie di uccello simbolo nazionale della Nuova Zelanda);
 produzione temporalmente speculare.
1. Nel periodo di sovrapposizione: dumping di prezzo (abbassamento radicale dei
prezzi).

2. Recupero di margini nei periodi di esclusività persi durante il periodo di


dumping.

Essendoci un basso grado di differenziazione, le leve competitive si basano soprattutto sui


cambiamenti dei prezzi.

Disomogeneità delle produzioni agricole:

 Frutta: Calibro, peso, dimensioni, caratteristiche organolettiche ed estetiche


 Per gli ortaggi: Consistenza, colore, concentrazione salina
Il settore agricolo italiano presenta numerose difficoltà nell’interrelarsi con la moderna
distribuzione, in quanto la piccola o addirittura piccolissima grandezza delle aziende italiane
(5 ettari contro i 16 di quelli di media dell’unione europea) non consente a quest’ultime di
avere un requisito oggi indispensabile in un mercato sempre più segmentato: la flessibilità.
Anche se è inverosimile un certo requisito per questo settore, in particolare per quanto
10 Parte Introduttiva

concerne la gestione del periodo esatto di offerta del prodotto sul mercato. Si tende quindi
alla ciclicità piuttosto che alla flessibilità. I ritmi della produzione non vanno mai realmente a
regime come per i prodotti industriali. In generale la fase iniziale si caratterizza per livelli
produttivi limitati cui seguono incrementi destinati poi a flettere nel tempo. È pertanto
fondamentale pianificare gli investimenti e l’evoluzione del mercato.

Un quadro sintetico dell’industria alimentare è fornito dalla matrice di Bombal-Chalmin,


nella quale i settori produttivi sono ordinati rispetto:

 al grado di internazionalizzazione degli approvvigionamenti;


 al grado di internazionalizzazione dei comportamenti alimentari dei consumatori.
NELLA MATRICE DUNQUE I DIVERSI LIVELLI INDIVIDUANO IL GRADO DI
INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI CONSUMI, gli stadi invece indicano il processo tecnico. Più è
alto il grado di internazionalizzazione degli approvvigionamenti, più ci si sposta verso l’alto.
Più è alto il grado di internazionalizzazione del consumo alimentare, più ci si sposta verso
destra. Liquori e baby food sono esempi di prodotti a elevato livello di internazionalizzazione
del consumo e contemporaneamente elevato livello di internazionalizzazione degli
approvvigionamenti; li troviamo quindi nella matrice, in alto a destra.

STADI:

I STADIO: PREINDUSTRIALIZZAZIONE

Le imprese utilizzano processi artigianali e poco industrializzati, sono numericamente molte


ed in media di piccola dimensione, il confronto è basato essenzialmente sul prezzo

II STADIO: PRIMA INDUSTRIALIZZAZIONE

La trasformazione non è più artigianale, ma conserva uno stretto legame con l’agricoltura, sul
piano dell’immagine/qualità del prodotto. Si avviano i primi processi di concentrazione delle
imprese e si diffondono quelli di meccanizzazione

III STADIO: STANDARDIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE

Il prodotto risultante dal processo di trasformazione acquisisce un’immagine differenziata, si


generalizzano i marchi, la presentazione del prodotto è particolarmente curata, il grado di
concentrazione degli operatori è elevato; alto il valore aggiunto detenuto dalla trasformazione
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .11

IV STADIO: INDUSTRIA MODERNA

Il legame tra agricoltura e industria è minimizzato, il valore aggiunto è creato per la maggior
parte dall’industria, attraverso l’affermazione di prodotti in specifici segmenti di mercato

La distribuzione alimentare

Insieme di operatori, imprese, figure economiche necessari al trasferimento dei prodotti


alimentari verso gli utilizzatori intermedi e i consumatori finali.

Le diverse tipologie distributive sono strutturate:

 in funzione dei prodotti trattati;


 secondo specifiche logiche strategico-gestionali;
 dal punto di vista della tipologia di utente.
Secondo quest’ultima logica:

 vendita all’ingrosso: rivolta all’operatore intermedio;


 commercio al dettaglio: rivolto al consumatore finale.
I mercati all’ingrosso

Funzioni:

 concentrazione del prodotto;


 conservazione;
 redistribuzione al dettaglio;
 acquisto e vendita di produzioni.
I soggetti coinvolti sono i grossisti, ed i produttori. Lo scambio avviene tra grossisti e
dettaglianti.

I mercati all’ingrosso sono in generale gestiti da enti pubblici e l’oggetto di contrattazione è


per lo più rappresentato da prodotti deperibili in base alla specifica domanda di mercato.

I mercati all’ingrosso si dividono in 2 gruppi:

 I Cash & Carry: Si tratta di depositi a libero servizio e sono rivolti ai commercianti
titolari di partita IVA. I tempi, le modalità di trasporto, le politiche di riassortimento
sono completamente a carico dei dettaglianti;
12 Parte Introduttiva

 I Gros Market a differenza dei Cash & Carry utilizzano esclusivamente il libero
servizio (catene di supermercati per dettaglianti es. carrefour).
Commercio al dettaglio

La formula distributiva maggiormente presente nei mercati agroalimentari. Si basa sulla


vendita assistita e una forte specializzazione merceologica.

Ruolo fondamentale è costituito dall’esperienza e competenza degli operatori nella gestione


dei prodotti sul punto vendita, soprattutto per i deperibili, con alta percentuale di scarto e
breve shelf-life (vita scaffale).

Per anni questa è stata la formula distributiva tecnicamente ottimale per i prodotti deperibili.
Oggi questo discorso non è più necessariamente valido grazie alle soluzioni nel campo della
logistica distributiva, anche se sempre più spesso vediamo tornare tale logica poiché i
consumatori considerano come valore aggiunto vicinanza e rapporto interpersonale.

I prezzi sono superiori alla media per: maggiore servizio, maggiore incidenza di manodopera,
maggiore assistenza al consumatore.

Sempre più frequenti sono le grandi catene distributive organizzate che si caratterizzano per
la loro grandezza, vasta gamma e assortimento di prodotti (è possibile che il consumatore
trovi tutto ciò che cerca in un unico punto vendita).

Assortimento: vari tipi di prodotti uno diverso dall’altro.

Gamma: diverse varietà di uno stesso prodotto (es: yogurt- greco, senza lattosio, senza grassi).

LA GRANDE DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA (GDO)

La Grande Distribuzione Organizzata (GDO) costituisce oggi la componente chiave del sistema
agro-alimentare nazionale e globale. La componente, cioè, che ne guida gli sviluppi mediante
le sue scelte strategiche.
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .13

DO: indica la “Distribuzione Organizzata”, cioè forme distributive di tipo associativo o


cooperativo presenti su tutto il territorio nazionale, o parte di esso, sotto forma di imprese
diverse, anche con piccole superfici di vendita, ma che agiscono sotto un’unica insegna e
coordinate da una sede nazionale (per esempio SIGMA, CRAI, ecc.).

GD: indica la Grande Distribuzione, cioè quel tipo di imprese distributrici che sotto forma di
unica impresa agiscono su tutto il territorio nazionale o larga parte di esso, di solito su superfici
di vendita medio-grandi (per esempio Esselunga, Carrefour, Auchan, ecc.).

La GDO indica l’insieme di queste due forme ma anche la crescente tendenza delle due ad
integrarsi in gruppi, partnership, strategie comuni.

Il motivo per il quale la GDO ha assunto un ruolo così importante, è dato dal fatto che è
cambiato il modo di acquistare da parte degli italiani. Questi ultimi infatti, sono sempre più
propensi ad acquistare presso le GDO. Inoltre c’è stato un altrettanto forte cambiamento nel
rapporto tra le GDO e le filiere agroalimentari. Queste infatti, costituiscono oggi
l’intermediario “obbligato” (circa l’80% degli acquisti) tra il produttore agricolo e il
consumatore.

Con il tempo, quindi, ha cercato di sviluppare strategie finalizzate a massimizzare i vantaggi di


questa posizione favorevole di intermediazione.

 Piramide rovesciata: Farms: 1,7 millions (2010)


 (Aziende settore alimentare) Food industry firms: 55000 (2011) Italy = 30%
Supermarkets: 8823 (2012) France and UK = 55%
Hypermarkets: 393 (2012) Sweden = 90%

Minimarket: 400 m2
Supermercati: +400 m2
Ipermercati: Più di 2500 m2
Ad oggi l’ipermercato è ancora poco presente in Italia piuttosto che in altri paesi come Francia
e Spagna. Inoltre c’è un divario abbastanza forte tra nord e sud-isole.

La GDO è ormai sempre più caratterizzata da operatori nazionali e internazionali presenti con
grandi superfici commerciali, gli ipermercati. La superficie degli ipermercati per abitante è
14 Parte Introduttiva

aumentata in Italia del 327% dal 1992 al 2003, mentre l’aumento è “solo” del 67% per i
supermercati. Se ne contano circa 600 oggi in Italia. Fino agli anni ’80, soprattutto in Italia, la
DO aveva un forte connotato territoriale. Era, cioè, caratterizzata da realtà commerciali che
non superavano il contesto locale, regionale o, al massimo, interregionale. Il territorio
nazionale era quindi costituito da poche e piccole catene. Tale caratteristica si sta però
progressivamente esaurendo. Delle prime 16 catene della GDO in Italia, solamente 5 non
coprono tutto il territorio nazionale:

 Esselunga e Agorà, assente al Sud e Isole.


 Lombardini, assente al Centro.
 Il Gigante e Bennet, assenti sia al Centro che al Sud e Isole.
La de-territorializzazione avviene sia per la progressiva riduzione ed eventuale scomparsa di
alcune imprese operanti solo su scala locale o, più spesso, per processi di fusione o acquisto
da parte di gruppi più grandi. Ne consegue la progressiva riduzione delle catene e dei gruppi
operanti sul territorio nazionale o, comunque, la concentrazione di gran parte del volume di
affari in un numero limitato di operatori.

L’ultima fase di questo complesso processo di ristrutturazione, consiste


nell’internazionalizzazione delle imprese. Le modalità di internazionalizzazione possibili, però,
sono differenti. Modalità tutte attualmente impiegate nel territorio nazionale da gruppi
stranieri della GDO, mentre, al contrario, le imprese della nostra GDO fanno fatica ad essere
presenti in altri paesi. Le possibili forme di internazionalizzazione sono:

 Imprese di grandi dimensioni capaci di aprire superfici commerciali in più paesi, oltre
quello di origine (per esempio, Auchan e Carrefour).
 Imprese straniere che acquistano imprese o gruppi nazionali e, in questo modo,
cominciano ad operare nel relativo territorio (per esempio, il Gruppo Carrefour).
 Fusione o partnership di gruppi o catene di diverse nazioni a formare conglomerati
capaci di agire in più contesti nazionali (per esempio, l’alleanza tra Conad ed il gruppo
cooperativo francese Leclerc, con cui Conad sta cercando di entrare nel canale Iper
ove finora è stata assente).
Tali strategie commerciali sono finalizzate a conquistare il potere di mercato nelle due
direzioni:
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .15

 Verso il consumatore, alla ricerca di posizioni fortemente oligopoliste mediante la


creazione delle private labels (marche private).
 Verso i fornitori, alla ricerca di posizioni fortemente oligopsoniste o, persino
monopsoniste, in modo da mettere “alle strette” i fornitori, costringendoli a vendere
i propri prodotti alle condizioni delle GDO.
L’avvento delle private labels ha, a sua volta, favorito un’altra strategia, questa rivolta
principalmente ai fornitori. Anche grazie alle Marche Private, la GDO ha conquistato una
grande libertà di manovra nell’approvvigionamento del prodotto alla ricerca delle condizioni
migliori (soprattutto, il costo più basso). Il prodotto, spesso indifferenziato, può provenire da
fornitori di qualsiasi area geografica e, soprattutto, così facendo questi fornitori possono
essere facilmente messi in competizione e sostituiti tra loro.

Questo è ciò che si intende oggi per Global Sourcing (o Approvvigionamento Globale) favorito
anche dall’apertura commerciale internazionale, dal progresso tecnico, in particolare nei
trasporti e nelle comunicazioni

Un effetto di questa grande possibilità di approvvigionamento, è quello di consentire alla GDO


di imporre ai potenziali fornitori i propri standard qualitativi. Invece di dover scegliere tra
pochi fornitori, ognuno con un prodotto con le sue proprie caratteristiche, oggi la GDO può
mettere in competizione molti fornitori “obbligandoli” a realizzare un prodotto omogeneo,
con le caratteristiche codificate dalla stessa GDO. Si tratta dei cosiddetti private standards,
cioè quegli standard qualitativi che la GDO impone ai propri fornitori per il mantenimento del
rapporto commerciale.

Standard qualità obbligatori: rappresentano il requisito minimo per entrare nel mercato
(HCCP minimo) sono stabiliti dallo stato.

Standard qualità non obbligatori ma che, essendo richiesti dalle GDO, e per quindi poter
vendere I prodotti, vengono considerati come obbligatori (global gap ossia buone pratiche
agricole).

Gli standard privati tendono a trasferire gli oneri del controllo qualitativo sui fornitori, i quali
si vedono imporre protocolli a cui si devono attenere (benchmarking= comparazione delle
performance).
16 Parte Introduttiva

Inoltre, nonostante si tratti di standard B2B (Business-to-Business), la GDO cerca di farne


anche un uso promozionale presso il consumatore in termini di credibilità ed affidabilità,
soprattutto rispetto ad aspetti di sicurezza e di tracciabilità alimentare. Ciò consente alla GDO
di ridurre i cosiddetti costi di transazione (di controllo, legali, ecc.), nonché i costi connessi al
cambiamento di queste tendenze. Ciò per imporre una forte omologazione nelle forniture e
nei consumi riducendo la varietà e le possibilità di scelta.

Buyer power e Buyers’ alliances

Per Buyers’ Alliances si intendono quegli accordi B2B tra operatori della GDO per operare
come compratore unico (il buyer) rispetto ad uno o più fornitori.

Queste strategie, sebbene anch’esse finalizzate spesso a ridurre i costi di transazione, si


traducono in un ulteriore aumento del potere dei compratori (il buyer power), cioè della GDO,
e, quindi, in ulteriore forte pressione competitiva e selettiva sui fornitori agricoli ed industriali.

Esempio:

In un piccolo paese africano più gruppi della GDO possono accordarsi per operare con un unico
acquirente di banane. Questo unico acquirente opera da monopsonista anche se, di fatto, per
più acquirenti. Così, se l’acquirente decide di abbandonare un fornitore od una zona del paese,
quest’ultima perde in realtà un intero gruppo di clienti della GDO.

Veniamo ora alcune considerazioni di sintesi.

La GDO è oggi un operatore dominante nelle filiere agro-alimentari. In particolare, la


penetrazione dei prodotti agro-alimentari italiani nei mercati esteri passa oggi attraverso due
possibili strategie prevalenti:

 Accordi con la GDO straniera.


 Penetrazione della GDO italiana all’estero che faccia da “traino” al prodotto
nazionale.
Su entrambi questi aspetti, però, mostriamo rilevanti ritardi.

l’Italia esporta i suoi prodotti agro-alimentari soprattutto in Germania, Francia ed USA. Però,
nell’ambito della UE (quindi, Germania e Francia) la nostra GDO è debole rispetto a quella di
Germania e Francia (per esempio, Carrefour, Auchan e Leclerc, da tempo operanti in Italia,
sono tutte francesi)
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .17

Certamente, in molti casi si può far leva sul Made in Italy per aumentare il grado di
penetrazione, ma i prodotti imitativi sono tanti e forti, spesso proprio veicolati dalla GDO
straniera. Quest’ultimo problema è ancora più forte fuori dalla UE, per esempio negli USA,
dove a maggior ragione la nostra GDO è assente.

Al contrario la loro GDO “sfrutta” il Made in Italy per imporre sui propri mercati prodotti
imitativi realizzati all’interno (molti prodotti con nomi simili ai top italiani come il Parmesan
che imita il parmigiano regiano)

Private Labels: Per private labels (marche private) si intendono quei prodotti recanti il marchio
di una catena della GDO e commercializzati esclusivamente nei propri punti vendita, sebbene
normalmente realizzati da terzi.

Il marchio, quindi, non si riferisce a chi concretamente produce il bene, ma a chi lo


commercializza. Il produttore finisce quindi per realizzare un prodotto senza marchio, senza
una sua “individualità”.

Le "marche private" sono cresciute e lo fanno costantemente da dieci anni a questa parte,
battendo anche il segmento dei discount. Il modello delle marche private è un elemento ormai
strategico per il mondo della grande distribuzione - che offre al consumatore uno strumento
di tutela del potere d'acquisto, garantendo il miglior rapporto qualità/prezzo.

Ma attenzione, la moda dei prodotti a marchio privato non è solo frutto della crisi: è un modo
diverso di fare la spesa, ignorando i richiami della pubblicità e affidandosi invece alla fiducia
che si ripone nella catena di grande distribuzione prescelta. Un atteggiamento già diffuso da
tempo all'estero e che ha numeri ben più importanti rispetto a quelli italiani: in Francia e
Germania, ad esempio, i prodotti private label sono poco meno di un terzo rispetto alle
vendite globali nel supermercato e in Gran Bretagna sfiorano il 45%.

Mediamente, infatti, i prodotti a marca commerciale sono offerti con uno sconto compreso
tra il 30 e il 40% rispetto ai prodotti più cari e spesso hanno una qualità comparabile (se si
esclude la linea a minor costo): il procedimento con cui si arriva a queste produzioni prevede
infatti che la catena di grande distribuzione fissi un capitolato – con le caratteristiche
specifiche dei vari generi alimentari – e poi cerchi un produttore.
18 Parte Introduttiva

Di frequente è lo stesso che produce con marchio proprio e magari è leader di mercato. In
questo modo, infatti, fa lavorare di più i propri impianti e senza affrontare le spese di
marketing e pubblicità.

Strategie delle Private label: Una strategia di vendita di quest’ultime è la diversificazione:


ormai è frequente vedere la linea di prodotto a minor costo, ma importante è anche il ruolo
della linea bio, la linea di specialità regionali, la linea a qualità certificata...

E tra l'altro sono proprio le linee top del segmento private label a crescere di più: l'incremento
del fatturato nel 2012 è stato del 9%. Ai primi due posti troviamo Carrefour e Auchan.

Nell’ambito agro-alimentare, peraltro, le private labels si sono progressivamente distinte in


due categorie, le Marche Insegna e le Marche Premium, e due diverse strategie, le strategie
Monobranding e Multibranding

Le Marche Insegna sono semplicemente le Marche Private che recano il nome della catena
che le vende nei suoi punti di vendita, senza ulteriori elementi di caratterizzazione. Esse
occupano l’85% del mercato delle private label, anche perché alcune catene della GDO
realizzano solo queste (Monobranding).

Le Marche Premium sono marche con nomi diversi da quello della catena ma comunque
vendute esclusivamente nelle sue superfici commerciali e caratterizzate da prodotti con
requisiti particolari; per esempio prodotti tipici (Sapori e Dintorni di Conad), prodotti biologici
(Bio Auchan di Auchan), prodotti a basso prezzo (Fidel di Esselunga). Queste altre catene,
invece realizzano entrambe le gamme di prodotti (Multibranding) come, per esempio, nel
caso di Conad (Conad, Sapori e Dintorni, Bio Conad).

L’avvento delle private labels ha avuto alcune importanti conseguenze:

1. Ha progressivamente costretto molte imprese industriali agro-alimentari (e


agricole) a divenire semplici sub-fornitori, esecutori senza un proprio marchio e
una propria strategia commerciale, con una forte competizione interna (tra i diversi
sub-fornitori).

2. Ha progressivamente trasferito nelle “mani” della GDO il controllo della


progettazione del prodotto, della sua promozione commerciale, della stessa
innovazione (il branding).
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .19

3. Ha consentito di ridurre la dipendenza della GDO dai grandi marchi industriali (es.
Barilla-Mulino Bianco) potendoli sostituire con marchi propri, così incrementando
il potere contrattuale nei loro confronti.

4. Ha consentito alla GDO di porre sul mercato un gamma di beni alimentari (e non
solo) molto vasta, fuori dalla portata di qualsiasi impresa industriale alimentare, e
con grandi capacità di modulare le strategie commerciali (per esempio, le
campagne promozionali).

L’export agroalimentare italiano: ha fatto registrare un nuovo record nel 2013 (+6,6%
sull’indice delle esportazioni del settore (+6,9% per prodotti alimentari, +5,4% per prodotti
agricoli). A fare da traino nelle esportazioni del Made in Italy, è in particolar modo il vino.
Quest’ultimo fa infatti registrare un record storico, con un valore delle vendite che raggiunge
i 5 miliardi di euro. Tra i vini, i più richiesti sono gli spumanti, con una forte domanda da parte
di Regno Unito, China, Russia e Usa. Non è da meno il settore alimentare, con la crescita
dell’esportazione di panettone, salumi, pasta e formaggi.

Del dato italiano, circa il 20% del valore delle esportazioni è dato dal solo vino, e buona parte
è comunque costituito dal cosiddetto Made in Italy (da non confondere con i prodotti dop )
alimentare, cioè da prodotti di elevata qualità e tipici della nostra tradizione alimentare e
gastronomica. Anche su questo, però, non sfruttiamo le potenzialità: se il “vero” Made in Italy
alimentare vale circa 15 miliardi di € sui mercati mondiali, i prodotti imitativi valgono
addirittura 56 miliardi di €!

Il Valore Aggiunto (VA) è un indicatore efficace della creazione di valore di un settore. Esso,
infatti, è calcolato sottraendo al valore della produzione il costo dei mezzi tecnici acquistati
per realizzarla.

Il VA dell’agricoltura italiana, misurato a prezzi correnti, è rimasto pressoché costante dal


2001. Quello dell’industria alimentare è invece cresciuto significativamente.

La formazione del valore nel sistema agro-alimentare tende a spostarsi verso i “servizi” a valle,
quelli più vicini al consumatore e quindi in ambito di trasformazione.

Secondo i dati, il sistema agro-alimentare nell’ultimo ventennio, in particolare dal 1995 è


cresciuto. Ad oggi infatti, esso rappresenta circa il 17% dell’intero PIL italiano (rispetto al 15%
20 Parte Introduttiva

del 1995) ed ammonta a 267 miliardi di euro. Il PIL quindi è cresciuto, ma la quota parte degli
acquisti agroalimentari da parte delle famiglie è decresciuta. Questo è spiegabile attraverso la
legge di Engel, ossia quanta più ricchezza si avrà, più ci si rivolgerà a prodotti di lusso.

Da non escludere il problema dell’obesità, dato anche da un basso rapporto informazione-


livello economico, ma anche dalla diffusione dei fast food e quindi “cibi spazzatura”.

Da sottolineare anche che il nostro, non è un paese autosufficiente nella capacità produttiva
e che quindi le importazioni sono maggiori delle esportazioni.

Misurato a prezzi costanti, il VA consente di confrontare anni differenti in termini di quantità


prodotte, indipendentemente, quindi, dai movimenti dei prezzi.

Il VA agricolo italiano a prezzi costanti nel 2003, per esempio, è pressoché uguale ai livelli del
1993, cioè di dieci anni prima. Questa “stagnazione” nella creazione di valore, è dovuta
all’arresto della crescita quantitativa che aveva caratterizzato, invece, i decenni precedenti.

A ciò, però, non ha corrisposto una crescita della componente di prezzo. Questa sì è sì
verificata, ma non a vantaggio del prodotto agricolo, né di quello trasformato, bensì del
prodotto venduto al dettaglio.

La Filiera (Insieme degli agenti e delle operazioni che concorrono alla formazione ed al
trasferimento di uno o più prodotti allo stadio finale di utilizzazione) è un concetto utile per
comprendere la formazione e la distribuzione del valore nei numerosi passaggi del prodotto
alimentare “dal campo alla tavola”.

Come esempio, si consideri che la principale (e più complessa) filiera agroalimentari è


probabilmente la Filiera Lattiero-Casearia. Prendendo un anno ad esempio Italia, nel 2004, la
sola industria alimentare ha fatturato 13,5 miliardi di € nel comparto lattiero-caseario. I
passaggi da considerare dal produttore di mangime e foraggio per gli animali, fino alle aziende
di confezionamento e poi distribuzione, sono circa 8.

Due sembrano oggi i fattori di successo nelle strategie di gestione della filiera (anche note
come supply chain managment):

 La logistica.
 La rintracciabilità.
Entrambi riguardano la corretta gestione dei flussi tra le imprese ed i soggetti della filiera.
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .21

Per supply chain (letteralmente catena di distribuzione) s’intende: un sistema di


organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a
trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente. Questo processo,
comincia con le materie prime, continua con la realizzazione del prodotto finito e la sua
gestione di magazzino, e termina con la fornitura del prodotto finale al cliente.

La Logistica concerne la gestione efficiente dei flussi fisici dei prodotti, al fine di minimizzare i
costi e massimizzare il valore del prodotto finale.

La Rintracciabilità, invece, concerne la gestione efficace dei flussi informativi connessi al


prodotto. Tali flussi informativi, a differenza di quelli fisici, sono bi-direzionali cioè si muovono
sia dal “produttore al consumatore” che viceversa.

La creazione e la distribuzione del valore lungo la filiera dipende sostanzialmente da due


fattori:

 La capacità di un soggetto della filiera di minimizzare i costi (di produzione e di


transazione) per unità di prodotto, quindi la sua efficienza (Lean Supply Chain).
 La capacità di un soggetto della filiera di “imporre” un prezzo di vendita più elevato
od un prezzo di acquisto più basso.
La dimensione economica è un elemento decisivo per entrambi gli aspetti.

Grandi dimensioni di impresa consentono economie di scala e maggiori investimenti in


innovazione che aumentino l’efficienza produttiva. Consentono anche di esercitare un
maggiore potere di mercato limitando il numero di soggetti venditori e compratori.

Il sistema agroalimentare, non solo in Italia, presenta una situazione particolarmente critica:

 tantissimi produttori agricoli di piccole e piccolissime dimensioni;


 molte industrie alimentari di dimensione medio-piccola;
 poche e grandi imprese della Distribuzione Organizzata (o Grande Distribuzione
Organizzata, GDO).
A livello globale poi, l’asimmetria è ancora più evidente. È comprensibile dunque che il potere
di mercato cresce muovendosi lungo la filiera “dal campo alla tavola”. Tuttavia, questo
processo può essere contrastato dai soggetti a monte della GDO, mediante due strategie:

 La differenziazione produttiva.
22 Parte Introduttiva

 La riduzione della dimensione della filiera, cioè dei soggetti coinvolti, in particolare
by-passando i soggetti che esercitano maggiore potere di mercato (filiere corte).
Per filiera corta si intende l’insieme di modalità organizzative della filiera finalizzate a ridurre
ai minimi termini il canale commerciale tra produttore e consumatore fino al contatto diretto.

La differenziazione del prodotto può realizzarsi in due modi:

 In senso orizzontale, cioè aumentando la varietà dei prodotti in commercio anche


mediante l’introduzione di nuovi marchi (brand) con relative politiche commerciali
(strategie di branding).
 In senso verticale, cioè incrementando la qualità dei prodotti esistenti mediante una
classificazione, o “gradazione”, della qualità stessa (grading).
Queste due strategie però, richiedono ingenti investimenti, sia nell’uno che nell’altro caso.
Infatti, per la strategia del branding, c’è bisogno di un investimento in pubblicità e
promozione; nel caso del grading, bisogna investire in standard qualitativi. Per tutto ciò, solo
le grandi imprese possono permettersi queste strategie.

Ciò rende la differenziazione produttiva una soluzione che, piuttosto che consentire alle
imprese agricole e agroindustriali di recuperare potere di mercato, viene adottata proprio
dalla GDO per rafforzare il suo potere di mercato poiché la GDO è in grado di impostare forti
strategie di branding e quindi di differenziazione (si pensi allo sviluppo delle private labels)
ed è in grado di imporre standard qualitativi a monte, cioè ai fornitori (grading)
sovrapponendosi e scavalcando quelli che i fornitori stessi vorrebbero darsi (è il fenomeno
dell’affermazione dei private standards).

E’ pur vero tuttavia, che le strategie di differenziazione, soprattutto nel senso del grading,
hanno consentito anche alle imprese agricole ed agroindustriali di piccole dimensioni ma
elevati livelli qualitativi, di recuperare potere di mercato. È il caso dell’affermazione degli
standard di certificazione dei prodotti biologici, dei prodotti con denominazione di origine o
di standard auto-imposti di sicurezza o eticità.

In questo modo, le piccole imprese agricole e agroindustriali possono operare da sole o in


filiere corte, senza il bisogno di ricorrere alle GDO. Le modalità con cui stabiliscono un canale
diretto possono essere: vendita diretta in azienda, ai mercati rionali, vendita on-line, al punto
vendita in un centro commerciale (es. distributori automatici del latte) e altro ancora.
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .23

TIPOLOGIE DI MERCATO AGROALIMENTARE

È il luogo economico (fisico o virtuale) dove si realizzano l’incontro tra la domanda e l’offerta.
Vi sono diverse tipologie a seconda delle caratteristiche strutturali o delle modalità con cui i
soggetti vi operano.

Classificazione in base al comportamento dei venditori e degli acquirenti: oligopolio,


monopolio, concorrenza perfetta, oligopsonio, monopsonio, concorrenza monopsonistica.

*Il termine monopsonio designa una particolare forma di mercato caratterizzata dalla
presenza di un solo acquirente a fronte di una pluralità di venditori.

*L'oligopsonio è una forma di mercato in cui la domanda è concentrata in un ristretto numero


di operatori, mentre l’offerta è frammentata in un numero indefinito di operatori.

*La concorrenza monopolistica indica una forma di mercato intermedia alla concorrenza
perfetta e al monopolio. Le imprese offrono un prodotto non omogeneo e differenziato. La
differenziazione di prodotto determina un cambiamento nelle preferenze dei consumatori in
quanto, pur essendo simili, i prodotti delle imprese non sono considerati dagli acquirenti come
beni sostituti. Ogni singola impresa può modificare sia la quantità di produzione e sia il prezzo.
Il potere di mercato è direttamente correlato al grado di differenziazione del prodotto.

Nel caso del settore agroalimentare, ci avviciniamo ad un modello che è molto simile a quello
della concorrenza perfetta. Per esempio, l’agricoltore ha un ruolo di price taker, in quanto non
può influire sul prezzo di vendita né modificando la produzione, ne azioni di promozione
(prodotti omogenei impossibile promuovere le differenze qualitative). Il modello di
concorrenza perfetta:

 numero elevato di imprese in concorrenza tra loro, la competizione si basa solo sul
prezzo;
 assenza di barriere, all’entrata, all’uscita;
 prodotti omogenei;
 tutte le imprese dispongono della medesima tecnologia (stessa funzione di
produzione);
24 Parte Introduttiva

 trasparenza del mercato e perfetta informazione.


In questo tipo di mercato, la formazione del prezzo deriva unicamente dall’incontro tra la
domanda e l’offerta, che sono molto rigide perché sono soggette ad ampie fluttuazioni di
prezzo date anche dall’instabilità del clima e di tutti i fattori che riguardano questo settore.

NEL BREVE PERIODO NEL LUNGO PERIODO


L’offerta è perfettamente RIGIDA perché L’impiego di tutti i fattori produttivi può essere
tutti i fattori della produzione sono fissi variato

Il prezzo deriva quindi dalla posizione della La curva di OFFERTA può essere modificata
CURVA DI DOMANDA

QUALSIASI TRASLAZIONE DELLA


DOMANDA MODIFICA IL LIVELLO DEL IL PREZZO DI EQUILIBRIO SI FORMA AD UN
PREZZO MA LASCIA INALTERATA LA LIVELLO STABILITO DALL’INCONTRO DELLE
QUANTITA’ DUE CURVE

Il mercato dei CEREALI è un buon esempio pratico di concorrenza perfetta:

 elevata sostituibilità e disponibilità del prodotto a livello mondiale;


 alto numero di concorrenti;
 recente ingresso di nuovi competitors nello scenario competitivo, che fondano il
proprio vantaggio competitivo sulle economie di costo;
 le transazioni avvengono presso luoghi fisici di incontro tra domanda e offerta, che
sono le BORSE MERCI.
Monopolio: Forma di mercato in cui opera un solo produttore e non esistono succedanei al
prodotto venduto dalla singola impresa. Sono presenti barriere all’entrata e la condizione
d’equilibrio s’incontra quando il costo marginale è uguale al ricavo marginale. Il produttore è
quindi un price maker (decide il prezzo) Il prezzo del mercato monopolistico è un mark up,
cioè un ricarico sul costo marginale che sarà tanto più alto quanto più elastica è la domanda.
Prezzo e quantità non sono tuttavia obiettivi liberamente perseguibili in contemporanea in
quanto si deve tenere conto della domanda di mercato.
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .25

L’esistenza di barriere all’entrata non obbliga il monopolista alla scelta ottima di produzione,
né alla necessità di ampliare la capacità dell’impianto sino al livello produttivo. Di
conseguenza, anche nel lungo periodo viene prodotta una quantità inferiore ad un prezzo più
elevato.

In AGRICOLTURA si possono concretizzare situazioni di monopolio locale: sono aree limitate


particolarmente favorite (infrastrutture, o condizioni naturali) in cui una sola impresa o un
ristretto gruppo può esercitare un effettivo controllo del prezzo.

Il monopolista può attuare una politica di discriminazione dei prezzi: Imporre per lo stesso
prodotto prezzi differenti su mercati separati con l’obiettivo di rendere massimo il profitto
totale. I mercati però devono essere necessariamente separati, altrimenti il consumatore si
rivolgerebbe esclusivamente al mercato nel quale il prezzo è più basso. La separazione dei
mercati è ottenibile attraverso l’intervento dello Stato.

Spesso accade nella realtà che nei diversi settori produttivi vi è spesso un numero elevato di
imprese, ma non tale da concludere che ognuna di esse detenga una quota infinitesimale della
domanda globale di mercato come previsto dalla concorrenza perfetta, ma nemmeno una
posizione tale da consentire la predeterminazione di prezzi e quantità prodotte in maniera
autonoma (monopolio).

Queste vengono dette forme di mercato imperfette. Tra queste troviamo l’oligopolio: più
imprese dal lato dell’offerta (relativamente poche), ciascuna delle quali può esercitare
influenza su prezzo e/o quantità. Il reale elemento rilevante è la presenza di una possibile
interazione strategica tra le imprese: tale condizione è assente sia nel monopolio che in
concorrenza perfetta.

Le imprese collaborano (collusione, accordi espliciti o impliciti) al fine comune di massimizzare


il profitto di un settore, pur restando ciascuna impresa con l’obiettivo di massimizzare i propri
profitti. Ciò avviene attraverso la strategia comune di non farsi concorrenza (se nessuna
abbassa i prezzi, i profitti sono equi ma stabili. Se solo una inizia a farlo, comincia la guerra tra
imprese attraverso i prezzi che terminerà solo quando si arriverà al punto in cui, abbassare
ulteriormente i prezzi comporterebbe l’uscita dal mercato.)
26 Parte Introduttiva

 gli operatori “rompono” gli accordi al fine di consentire alla propria impresa profitti
più elevati che nel caso di collusione.
 le imprese producono beni simili tra loro ma differenziabili: marca, pubblicità, servizi
accessori. Non esistono barriere all’entrata.
Tipi di mercati nel settore agro-alimentare:

• SETTORE PRIMARIO E MATERIE PRIME: Di norma prevalgono condizioni relativamente


prossime alla concorrenza perfetta:

- nessun ostacolo di rilievo all’entrata;

- prodotti sostanzialmente omogenei;

- dimensioni operatori molto piccole.

• SETTORE DISTRIBUZIONE COMMERCIALE (dettaglio e ingrosso): La forma di mercato


dominante è la concorrenza monopolistica

- differenziazione specifica dei prodotti;

- preferenze consumatori;

-scarsa conoscenza alternative di acquisto.

La presenza di marchi nel settore alimentare impone relazioni verticali di concorrenza


oligo/monopolistica tra industria di trasformazione e distribuzione alimentare. Esempio del
latte:

 venduto all’ingrosso dall’allevatore non viene sostenuto dalla pubblicità;


 trasformato, in brick, viene in genere qualificato con un marchio e pubblicizzato,
consentendo all’industria l’imposizione di prezzi superiori rispetto alla concorrenza.
Nel Settore agro-alimentare, un ruolo di certo rilievo ha l’oligopsonio. In diversi comparti
dell’agroalimentare un ristretto numero di industrie (soprattutto GDO) raccoglie l’offerta di
un gran numero di agricoltori.

I paesi molto sviluppati vedono ridursi sempre più il valore aggiunto creato, a fonte dei paesi
in via di sviluppo che traggono la maggior parte delle loro risorse e dei loro guadagni dal
settore primario.
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .27

Con l’obbiettivo di assicurare l’autosufficienza in termini quantitativi a livello agroalimentare,


l’UE ha introdotto alcuni sovvenzionamenti per l’agricoltura comunitaria. Sul fronte dei prezzi
per esempio, ha introdotto: prezzi di intervento, prezzi soglia, prezzi minimi garantiti,
prelievi alle importazioni, dazi e tariffe sulle produzioni extraeuropee. Regolando in maniera
artificiale i prezzi, si viene a verificare un prezzo artificiale. Questo mette in atto una serie di
barriere negli scambi (se i prezzi interni e quelli internazionali sono diversi, c’è bisogno di
mettere barriere all’ingresso altrimenti i consumatori si rivolgono verso altri mercati).

Non essendo sostenibile la competizione basata sui costi di produzione, l’UE ha introdotto
misure di incentivazione mirate alla valorizzazione della qualità. La presenza di specifiche
normative all’interno di ciascun mercato agroalimentare tutelano tali mercati a “proteggere”
i propri prodotti e li utilizzano come strumenti di difesa/attacco commerciale nei confronti dei
competitori.

La struttura di un settore è il rapporto tra i vari fattori della produzione e in particolare la


dotazione dei capitali. Storicamente il settore agricolo è un settore debole e vulnerabile. Per
questo è necessario un intervento pubblico per le seguenti motivazioni:

 MOTIVAZIONI ALLOCATIVE: consentire l’effettiva produzione delle esternalità


positive e dei beni pubblici (piantare alberi per prevenire frane o semplicemente per
abbellimento ecc);
 MOTIVAZIONI DISTRIBUTIVE: gli agricoltori devono ottenere remunerazioni
accettabili e comparabili;
 MOTIVAZIONI MACROECONOMICHE: scambio di risorse tra agricoltura ed altri
settori per lo sviluppo economico a livello locale, nazionale, globale.
Il settore agricolo difatti, tende ad essere sottovalutato, nonostante abbia bisogno di fondi e
risorse. L’obbiettivo della politica agricola quindi è quello di governare l’aggiustamento
dell’agricoltura in armonia agli andamenti generali dell’economia ed al mutare della società e
degli assetti istituzionali. Gli strumenti della politica agraria sono:

 Interventi sui prezzi.

 Sussidi economici.

 Politiche strutturali.
28 Parte Introduttiva

 Politiche di mercato.

Gli OBIETTIVI sono:

 stabilizzare i prezzi percepiti dagli agricoltori prevenendo le oscillazioni indesiderate;


 mantenere i prezzi ad un livello tale da garantire la vitalità economica del settore.
Gli STRUMENTI:

prezzi garantiti o prezzi d’intervento (lo stato si impegna ad acquistare qualsiasi quantità
prodotta ad un certo prezzo):
 prezzo minimo: se il prezzo di mercato scende al di sotto di tale livello, agli agricoltori
conviene vendere allo stato;
 prezzo massimo: lo stato immette gli stocks sul mercato se il prezzo sale sopra questo
livello.
e i dazi doganali.
Con i prezzi garantiti/prezzi d’intervento (è il prezzo al di sotto del quale la Comunità
interviene per stabilizzare il mercato attraverso l’acquisto di eccedenze, il ritiro dei prodotti
dal circuito alimentare, la loro trasformazione in prodotti di facile smercio o l’invio degli stessi
ai paesi terzi bisognosi. Esso rappresenta il limite inferiore stabilito per il prezzo interno dei
prodotti agricoli), gli agricoltori vengono spinti a produrre e ad utilizzare al massimo i propri
impianti in quanto, qualora non dovessero vendere tutta la merce, sarebbe lo stato a
comprarlo poi appunto al prezzo minimo garantito. Nel peggiore dei casi, le eccedenze
vengono tolte dal mercato e quindi letteralmente distrutte. Ciò però comporta spese maggiori
per lo stato che si riversano di conseguenza sui cittadini. Si è quindi visto che Il prezzo garantito
non è uno strumento efficace, in quanto non solo porta i produttori a produrre andando anche
oltre quella che è la domanda e causando quindi eccessi di produzione, ma permette anche
alle aziende con costi marginali molto elevati (e quindi non efficienti) a sopravvivere nel
mercato.

A causa dei prezzi dei prodotti agricoli dei Paesi extracomunitari, troppo bassi rispetto a quelli
della Comunità Europea, furono erette delle vere e proprie barriere doganali, che
imponevano dazi sulle merci in ingresso, facendone crescere il prezzo e scoraggiandone,
quindi, l'importazione. Parallelamente, le esportazioni verso i Paesi dell'area
extracomunitaria, furono incoraggiate con sovvenzioni (restituzioni) agli esportatori; tali
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .29

restituzioni, compensavano la differenza tra prezzi comunitari più alti e prezzi esterni, più
bassi. In tal modo, si ridussero anche le eccedenze.

Un’altra strategia di mercato che possono attuare le aziende agricole, è la valorizzazione della
multifunzionalità dell’agricoltura, ossia l’integrazione dell’attività produttiva con attività
connesse (es. agriturismo), dando magari anche garanzie di standard di qualità sanitari ed
ambientali.

LE STRATEGIE COMPETITIVE

Le strategie competitive comprendono tutti quei piani d’azione che determinano il modo di
operare dell’impresa nell’ambito del mercato e del settore e che le consentono di competere
efficacemente. L’obbiettivo dell’impresa è quello di assicurarsi nel proprio ambiente
competitivo, un vantaggio difendibile nel tempo.

Un’impresa dispone di un vantaggio competitivo quando dispone di capacità (o


competenze) distintive in grado di garantire un differenziale superiore ai concorrenti tra il
valore di scambio conseguibile e i costi sostenuti per il prodotto.

Il vantaggio competitivo può conseguirsi attraverso due strategie:

 DIFFERENZIAZIONE (prodotto unico; prezzo superiore).


 LEADERSHIP DI COSTO (prodotto simile e ad alta sostituibilità, prezzo inferiore).
La strategia leadership di costo è valida in quei mercati in cui gli acquirenti mostrano elevata
sensibilità al prezzo (il vantaggio di costo deve fondarsi però su elementi di difficile
imitazione).

Per percorrere questa strategia, c’è bisogno che l’impresa svolga in maniera più efficiente dei
competitors le attività della catena del valore e che elimini da quest’ultima fonti di costo
indesiderate. Tutto ciò è raggiungibile attraverso:

 Economie di scala (sfruttando al meglio gli impianti).


 Sfruttamento dell’esperienza.
30 Parte Introduttiva

 Riduzione dei costi unitari di produzione (attraverso lo sfruttamento efficiente della


capacità produttiva e attraverso l’uso di sistemi informatici di pianificazione e di
gestione delle attività e la condivisione dei dati).
 MIGLIORE RIPARTIZIONE DEI COSTI FISSI (es: pubblicità; attraverso l’incremento del
volume delle vendite).
 Collaborazione con i fornitori per snellire processi di ordinazione e acquisto
(pratiche just-in-time).
 RIDUZIONE DELLA MANODOPERA attraverso metodi di produzione a basso impiego
e tecnologie in grado di ridurre il ricorso alla manodopera.
 MIGLIORARE LA POSIZIONE CONTRATTUALE per ottenere prezzi adeguati dai
fornitori.
 RICONFIGURAZIONE DELLA CATENA DEL VALORE: MANTENERE E VALORIZZARE
SOLTANTO QUELLE ATTIVITA’ DEI PROCESSI AZIENDALI CHE PRODUCONO VALORE
PER IL CLIENTE ED ELIMINARE O RIDURRE AL MINIMO QUELLE CHE NON
PRODUCONO VALORE.

GROSSI VANTAGGI DI COSTO POSSONO DERIVARE INOLTRE DA:


 integrazione verticale (l’azienda si amplia assumendo al suo interno altri processi
necessari all’attività aziendale. Es.: acquista un suo subfornitore oppure assume al
suo interno anche la fase distributiva);
 integrazione orizzontale (l’azienda amplia la sua dimensione integrando o anche
acquistando altre aziende simili o uguali alla propria. Es.: la barilla compra la voiello);
 internazionalizzazione.
Un’ulteriore strategia di costo, può essere ridurre all’essenziale l’offerta, limitando ad
esempio il canale distributivo solo dove necessario. Queste però sono strategie che possono
contribuire alla LEADERSHIP DI COSTO, ma non configurano una reale superiorità nei confronti
dei rivali.

I prerequisiti per adottare una strategia di leadership di costo sono:

 Intensa concorrenza di prezzo tra venditori;


 Scarsa possibilità di differenziazione che configurino valore per il cliente;
 Alta elasticità della domanda rispetto al prezzo;
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .31

 Prodotti standardizzati ed a elevata sostituibilità;


 Basse barriere per i nuovi entranti orientati a concorrere sui prezzi.

Rischi delle strategie di riduzione dei costi:

 “Guerre di prezzi”: politiche di prezzi particolarmente aggressive possono condurre


a riduzione dei profitti. Conviene se:
 riduzione dei prezzi inferiore ai vantaggi di costo;

 l’incremento delle vendite compensa la riduzione del margine di profitto.

 La strategia di costo non può essere “esclusiva”: il vantaggio è imitabile dunque non
durevole, i concorrenti mettono in atto strategie di recupero;
 Compromissione delle aspettative dei clienti/consumatori rispetto al prodotto e ad
alcune sue funzioni d’uso;
 Obsolescenza tecnologica: rischio di farsi sorprendere dall’introduzione di nuovi
paradigmi tecnologici che richiedono elevati investimenti iniziali e conseguente
perdita del primato.
La strategia di differenziazione, invece, consiste nel realizzare un prodotto/servizio con
caratteristiche di unicità che abbiano valore per un numero elevato di clienti e che lo distingua
dai concorrenti.

Opportunità connesse alle strategie di differenziazione:

 praticare un prezzo più elevato;

 incrementare le vendite;

 fidelizzare l’acquirente.

Il premio di prezzo che il cliente è disposto a pagare riflette appunto sia il valore reale che il
valore percepito

A volte è la percezione del cliente a determinare un vantaggio competitivo da differenziazione,


non progettato e non intenzionale da parte dell’impresa, in quanto, in caso di conoscenza
incompleta, gli acquirenti stimano il valore genericamente basandosi su indicatori oggettivi
come prezzo, confezione, notorietà, clienti, quota di mercato dell’impresa.
32 Parte Introduttiva

Per una strategia di differenziazione, costituiscono elementi importanti:

 ridurre i costi complessivi di utilizzo;

 migliorare la performance del prodotto;

 aumentare la soddisfazione del cliente in termini intangibili;

 differenziare sulla base di competenze e capacità non possedute o non imitabili dai
rivali.

Le strategie di differenziazione afferiscono tutti i livelli della catena del valore. Alcune fonti di
differenziazioni sono:

 caratteristiche del prodotto;

 tempismo (vantaggio da first mover, importanza per gli standard tecnologici);

 localizzazione;

 mix di prodotto (importante se i clienti acquistano dall’impresa più prodotti);

 accordi con altre imprese (per fornire eventualmente caratteristiche aggiuntive);

 reputazione (fonte di vantaggio competitivo sostenibile).

I vantaggi delle strategie di differenziazione:

 protezione dal potere contrattuale dei fornitori;

 vantaggio di potere contrattuale nei confronti degli acquirenti;

 ampliamento delle barriere all’entrata di nuovi competitors;

 indebolimento delle capacità competitive di concorrenti su prodotti sostituti.

Gli svantaggi delle strategie di differenziazione:

 insuccesso nel caso di rapida o facile imitabilità degli attributi della differenziazione;

 non riconoscimento da parte del cliente del valore degli attributi della differenziazione;

 costi eccessivi della strategia di differenziazione con conseguente erosione dei profitti;

 eccessivo sovrapprezzo (in assenza di relativa disponibilità a pagare).


Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .33

L’obiettivo è quello di fornire un prodotto di valore superiore ad un prezzo inferiore rispetto


a quello praticato dai concorrenti.

Una possibile alternativa a queste due strategie, è la strategia di focalizzazione: adatte ad


organizzazioni che non hanno risorse per competere su un’ampia area di mercato ma hanno
competenze e capacità distintive rilevanti soltanto per uno specifico segmento di mercato
(nicchie di mercato).

Anche la strategia di focalizzazione però si divide in:

 orientata ai costi: l’obbiettivo è quello di ottenere un vantaggio competitivo servendo


gli acquirenti di una determinata nicchia di mercato con un costo (e ad un prezzo)
inferiori a quello dei concorrenti (esempio delle private label);

 orientata alla differenziazione: ottenere un vantaggio competitivo puntando su


un’offerta di prodotto studiata in base alle preferenze e ai bisogni specifici di un
determinato gruppo di acquirenti, praticando un prezzo più elevato.

Condizioni ottimali per le strategie di focalizzazione:

 nicchia sufficientemente ampia da garantire profitti e prospettive di crescita;

 assenza di leader di settore nella nicchia;

 privilegiare settori che naturalmente presentano nicchie di mercato;

 privilegiare nicchie che possono rappresentare “luogo” eletto di specializzazione per


pochi concorrenti;

 utilizzare la fedeltà dei clienti come strumento per disincentivare l’ingresso in quel
segmento di nuovi concorrenti.

VANTAGGI STRATEGIE DI SVANTAGGI STRATEGIE DI FOCALIZZAZIONE:


FOCALIZZAZIONE: -posizione contrattuale di svantaggio rispetto
-l’impresa è protetta nei confronti dei ai fornitori
suoi rivali -bassi volumi produttivi (alti costi di
-l’impresa detiene una posizione di produzione)
vantaggio rispetto ai compratori (es: può -la nicchia può essere instabile
darsi che sia l’unica o una delle poche -la nicchia può essere insidiata da un full-line
imprese a vendere quel prodotto) -i concorrenti potrebbero contrastare la
-l’impresa è protetta rispetto ai capacità dell’impresa di servire la nicchia
potenziali nuovi entranti e prodotti -i bisogni della nicchia potrebbero estendersi
sostituti al mercato
-l’impresa gode dei vantaggi derivanti da -la nicchia può divenire terreno di severa
un’efficace segmentazione competizione
34 Parte Introduttiva

Il processo produttivo stabilisce una relazione tra:

la soddisfazione dei bisogni espressi dalla società e Il raggiungimento dei fini d’impresa che
consiste nel creare nuova ricchezza, generando redditi da distribuire ai soggetti coinvolti.

Le aziende sviluppano una struttura fatta di:

 capitali impiegati nell’attività di produzione (fabbricati, macchine, ecc.);

 risorse umane (personale stabilmente impiegato);

 organizzazione del processo produttivo (specializzazione e coordinamento tra le varie


fasi del processo produttivo).

Durante la loro attività, le aziende sono costantemente sottoposte a PRESSIONI COMPETITIVE


che non possono essere esaminate alla sola luce della relazione tra quantità e prezzo. Il
mercato, infatti, nella realtà non è riconducibile al modello di EQUILIBRIO in cui i dati del
problema sono chiaramente definiti. Un modello efficace per descrivere la molteplicità dei
fronti sui quali un’attività imprenditoriale deve misurarsi è quello di CONCORRENZA
ALLARGATA (Porter):

Concorrenti del settore:

 potenziali entranti;

 acquirenti;

 sostituti;

 fornitori.

Lo spazio d’azione di un’azienda di produzione è costantemente sottoposto alle pressioni


competitive provenienti da:
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .35

1. Aziende dello stesso settore: i concorrenti che producono beni sostituti di quello
prodotto dall’azienda in questione (es.: Coca Cola / Pepsi) con cui il nostro soggetto
spartisce quote di un determinato mercato;

2. Aziende esterne al settore strettamente inteso, come nel caso degli altri “attori”
che compongono la filiera all’interno della quale si colloca l’attività aziendale.

Un esempio di pressione competitive all’interno della filiera è la grande distribuzione. Essa


infatti determina una grande pressione competitiva per cercare di ottenere le condizioni più
favorevoli per la fornitura dei prodotti.

Anche soggetti che sono al di fuori della filiera, possono operare pressioni competitive: in un
mercato privo di barriere all’ingresso infatti, in qualsiasi momento potrebbe entrare come
nuovo concorrente magari dotato di maggiori risorse finanziarie o di nuove e più efficienti
tecnologie di produzione.

Anche l’ingresso sul mercato di prodotti sostituti che rimpiazzano le produzioni offerte
dall’azienda rappresentano pressioni competitive esterne. La sostituzione può riguardare:

 prodotti della stessa categoria merceologica (es.: consumo di verdure fresche


sostituite da prodotti “imbustati”);

 effetti incrociati non di tipo diretto (es.: se un bene punta alla soddisfazione di un
bisogno di tipo immateriale, come la necessità di socializzare, il medesimo bisogno
potrà essere soddisfatto con infinite tipologie di beni sostituti.

Per alleggerire le pressioni competitive le aziende mettono in atto una serie di azioni
strategiche come l’implementazione di forme di integrazione e coordinamento con altre
imprese.

Due sono le principali forme di integrazione tra le imprese:

INTEGRAZIONE ORIZZONTALE: Attuata tra imprese della MEDESIMA FASE della filiera.
Finalizzata allo sfruttamento delle economie di scala consentite dalla tecnologia di produzione
adottata. Es.: la cooperazione agroalimentare tra aziende che si occupano di una fase della
trasformazione che sfruttano la vicinanza territoriale al fine di rendere il processo
economicamente sostenibile.
36 Parte Introduttiva

INTEGRAZIONE VERTICALE: Attuata tra imprese che realizzano FASI DIVERSE del processo
produttivo. Finalizzata al coordinamento delle azioni per il raggiungimento di un obiettivo
competitivo comune. Indirizzata al controllo dei costi di transazione, attraverso lo sviluppo di
relazioni di compravendita stabili tra partners commerciali considerati affidabili.

Le forme di integrazione verticale nel settore agroalimentare sono particolarmente frequenti


in relazione al problema del CONTROLLO QUALITA’ in quanto facilitano la riduzione delle
asimmetrie informative tra domanda ed offerta al punto che è spesso la medesima azienda ad
integrare verticalmente l’intero processo produttivo.

Al fine di garantire la tracciabilità completa del processo produttivo richiesta dalla legge, è
sempre più diffuso l’utilizzo di prodotti provenienti da “filiere controllate” offerti dalla grande
distribuzione che si occupa di stabilire i rapporti di coordinamento.

Le imprese italiane utilizzano il processo di integrazione specialmente per quanto riguarda la


loro connessione geografica. Esse infatti, pur essendo tante piccole e medie imprese diverse,
sono accomunate dallo stesso territorio e dallo stesso know-how. Nel caso dell’industria
agroalimentare il collegamento tra il prodotto e il suo luogo d’origine è sinonimo di tipicità e
garanzia di qualità agli occhi del consumatore.

Qualsiasi progetto imprenditoriale deve definire una qualità (quella che si ritiene desiderabile
dai consumatori ad un determinato prezzo) e un prezzo (quello che l’imprenditore prevede
che il cliente sarà disposto a pagare per un prodotto). Le azioni competitive tra le aziende
possono essere dunque:

1. ridurre il prezzo di vendita;

2. differenziare il prodotto qualitativamente.

1) Strategia di prezzo:

La capacità di offrire a prezzi inferiori un prodotto che sia sostituto diretto di quelli offerti
dalla concorrenza.

Per ridurre il prezzo di vendita sarà necessario quindi ridurre i costi di produzione
(approvvigionamenti a prezzi più vantaggiosi; economie di scala).
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .37

Un esempio di strategia di prezzo sul mercato al consumo nel campo agroalimentare è


rappresentato dalla diffusione dei DISCOUNT (che vendono prodotti ad un prezzo
mediamente più basso rispetto alle altre forme di distribuzione moderna grazie
all’abbattimento dei costi logistici e di quelli legati all’immagine della catena)

2) Strategia di differenziazione:

Un esempio di strategia è quella legata alla differenziazione del prodotto che, limitando il
grado di sostituibilità dello stesso, mira ad indurre nel consumatore una maggiore fedeltà e
consente all’impresa una maggiore libertà nella determinazione del prezzo di vendita. La
differenziazione del prodotto, può essere di due tipi:

 ORIZZONTALE o VERTICALE.
Il caso di differenziazione ORIZZONTALE è quello di un prodotto che si distingue da quelli della
MEDESIMA CATEGORIA per una diversa combinazione delle sue caratteristiche intrinseche ed
estrinseche (es.: nuovo tipo di biscotto)

Il caso di differenziazione VERTICALE è quello di un prodotto superiore in tutte le sue


caratteristiche rispetto a quelli offerti dalla concorrenza al fine di dare risposta alla specifica
domanda di una fascia di consumatori che, riconoscendone la superiorità qualitativa, sono
disposti a pagare un prezzo maggiore.

La strategia di differenziazione qualitativa dei prodotti è fortemente legata a quella della


distribuzione delle INFORMAZIONI. Queste ultime infatti comunicano al cliente le
caratteristiche del prodotto, spesso di natura “immateriale” (es: rispetto di determinati
standards), colmando il “gap” informativo (asimmetria) tra azienda e consumatore finale.

In presenza di asimmetrie informative non è sufficiente che l’azienda produca realmente in


maniera differente da un punto di vista qualitativo; è necessario che tale differenza venga
comunicata ai potenziali acquirenti e percepita come credibile.

La GRANDE DISTRIBUZIONE utilizza il proprio nome come garanzia di qualità fino al punto di
lanciare sul mercato prodotti a marchio proprio (Private Label) su cui hanno un margine di
guadagno maggiore rispetto a quelli altrui che semplicemente commercializzano.

L’esistenza di problemi informativi ha portato alla diffusione di diverse forme di


CERTIFICAZIONE DELLA QUALITA’, operate da soggetti esterni all’azienda, indipendenti da
38 Parte Introduttiva

quest’ultima e credibili agli occhi degli acquirenti. Alcune forme di certificazione sono
OBBLIGATORIE (HCCP che indica la tracciabilità dei prodotti alimentari), altre sono
VOLONTARIE.

Tra le forme di certificazione volontaria, basate sull’applicazione di uno specifico disciplinare


dettato dalla Comunità Europea, ricordiamo quelle legate all’ORIGINE GEOGRAFICA (D.O.P;
I.G.P.) I MARCHI EUROPEI DI ORIGINE GEOGRAFICA conferiscono una forte credibilità e
garanzia alle produzioni alimentari e diventano il volano per ulteriori strategie di
valorizzazione integrata del territorio di origine, distribuendo valore aggiunto lungo tutta la
filiera alimentare.

Il significato del termine “qualità” si è evoluto in base alle esigenze espresse dal consumo e
dal mercato.

Le aziende hanno nel tempo reagito ricercando strumenti e tecniche in grado di conseguire
prodotti e servizi rispondenti alle istanze espresse dal mercato. La “qualità” nel sistema
agroalimentare è arricchita dalla pressante esigenza di una gestione controllata volta ad
evitare i cosiddetti “rischi alimentari”. Tale gestione controllata riguarda l’intero assetto
organizzativo.

Nel corso degli anni, il concetto di qualità si è evoluto, passando dall’essere un semplice
controllo finale per eliminare gli scarti, a una vera e propria strategia aziendale rivolta al
consumatore finale. Si è passati ad un concetto di qualità come conformità ad uno di qualità
come eccellenza.

Anche i modelli di consumo sono cambiati, passando da uno quantitativo ad uno qualitativo.

Caratteristiche qualitative di prodotto e processo ricercate dai consumatori:

CARATTERISTICHE DI PRODOTTO CARATTERISTICHE DI PROCESSO


o Prodotti senza OGM o Prodotto “dell’agricoltura biologica
o Prodotti che non arrecano o Prodotto ecologicamente corretto
danni alla salute o Prodotto senza impiego di lavoro minorile
o Prodotti salutari o Prodotto rispettoso di standard etici
o caratteristiche nutrizionali o Prodotto equo e solidale
o gli attributi di forma o Prodotto che rispetta il benessere degli
o Prodotto ad origine animali
controllata e/o protetta
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .39

Uno studioso di nome Nichols ha dato una sua definizione di qualità definendola come: “la
rispondenza del prodotto al fine per il quale è destinato, cioè, nel caso dei prodotti agro-
alimentari, la sua capacità di soddisfare le esigenze o i gusti dei consumatori”. Quindi maggiore
è la qualità, maggiore sono le possibilità di soddisfare i gusti e le preferenze del consumatore.

La filiera è l’unità base su cui si esercita l’azione di gestione della qualità in maniera proattiva,
cioè prima che si verifichi il problema.

La qualità deve soddisfare esigenze di carattere primario, ossia legate a determinazioni


oggettive della realtà (salute, sicurezza…) e di carattere accessorio, legate cioè a
determinazioni sensoriali-soggettive.

La qualità si dice certificata quando una terza parte, indipendente dall’impresa dichiara che,
un determinato prodotto è conforme ad una specifica norma o a requisiti concordati o assunti
dall’azienda come parametri essenziali di qualità. La certificazione può essere relativa al
prodotto, al processo, all’origine geografica…e viene indicata da un opportuno marchio.

La qualità commerciale è quella che in maniera più netta va a influire sulla qualità percepita
dal consumatore. Essa infatti risponde alle esigenze del consumatore riferendosi alle
caratteristiche di un prodotto, compreso il servizio in esso incorporato.

La qualità è una caratteristica oggettiva. Esiste però la possibilità che la percezione della
qualità del prodotto da parte del consumatore sia diversa. Infatti si può avere il caso in cui
prodotti identici vengono percepiti come diversi e prodotti diversi per le loro caratteristiche
qualitative percepiti come simili. Ciò è rilevante per il produttore in quanto testimonia che
non è servito il suo investimento in termini di grading (qualità).

Ipotizzando che:

 ci siano soltanto due qualità (ad esempio un olio di qualità più elevata ed uno più
comune);

 i consumatori siano disposti a pagare di più per il prodotto di qualità più alta;

 produrre il prodotto di qualità più alta costi di più che produrre il prodotto di qualità
inferiore.
40 Parte Introduttiva

Un’impresa che non riesce a produrre ne prodotti a costi bassi ne prodotti a costi alti, esce dal
mercato.

È possibile distinguere tre tipi di prodotti:

 prodotti “ricerca”: le caratteristiche del prodotto sono note ai consumatori prima


della decisione di acquisto, quindi non sussiste il problema della simmetria
informativa.
 prodotti “esperienza”: le caratteristiche del prodotto sono note ai consumatori dopo
il consumo. I consumatori, dopo il consumo, acquisiscono piena informazione sulle
caratteristiche del prodotto. Si crea quindi una sorta di “reputazione del prodotto”.
 prodotti “fiducia”: le caratteristiche del prodotto non sono note ai consumatori
neanche dopo il consumo (asimmetria informativa). Le caratteristiche che li rendono
beni di fiducia sono: prodotto a “denominazione di origine controllata” (DOC) o “
protetta” (DOP); prodotto che non arreca danni alla salute; prodotto “che fa bene
alla salute” prodotto “che non contiene OGM” ; prodotto equo e solidale; prodotto
che non sfrutta lavoro minorile ecc.
Anche se non è possibile per loro essere certi della “qualità” del prodotto, neanche dopo
averlo consumato, i consumatori, o alcuni tra essi, sono disponibili a pagare di più un prodotto
che abbia una o più di queste caratteristiche. Questa asimmetria informativa determina un
forte incentivo per le imprese ad offrire ai consumatori prodotti di qualità più alta.

In assenza appunto, di informazioni, c’è bisogno di un “sostituto”, che spinga i consumatori ad


acquistare detti prodotti, ad esempio grazie ad una “garanzia” fornita da terzi sulle
caratteristiche del prodotto o del processo produttivo che il consumatore non è in grado di
verificare da sé.

Quest’ultima serve ai consumatori per assicurarli che quando scelgono di acquistare un


prodotto di una data qualità possono contare sul fatto che non possa trattarsi di un prodotto
di qualità inferiore e ai produttori di prodotti di migliore qualità per differenziarsi e far sì che i
produttori di beni di qualità inferiore non possano vendere i loro prodotti come se fossero di
migliore qualità facendo diminuire il prezzo per questi ultimi.

Per quanto riguarda l’aspetto economico, Il mercato della qualità dei prodotti alimentari è
soggetto a fallimento perché è caratterizzato da informazione imperfetta. Si è instituita quindi
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .41

una “politica della qualità” al fine di trovare una soluzione alla carenza informativa e di
tutelare il consumatore finale. Tra gli aspetti di questa politica, troviamo:

 standard minimi di qualità;

 classificazioni;

 obbligo fornire informazioni in etichetta.

Il ruolo dell’istituzione pubblica/privata è quello di fornire un sistema di valutazione delle


caratteristiche qualitative dei prodotti e prevenire forme di scambio non corrette con
obbiettivo ultimo sempre l’equità e la tutela del consumatore. Gli strumenti utilizzati sono:

 Classificazione e standard: Facilitano gli scambi fornendo un numero limitato di


categorie omogenee. Inoltre agevolano l’individuazione della relazione prezzo-
valore tra diverse partite di merce e diverse possibili “qualità” di uno stesso prodotto.
In questo modo, le incertezze qualitative del prodotto sono limitate.
 Certificazione: è l’atto mediante il quale una terza parte (un ente pubblico o privato
ad esempio) attesta, che un determinato prodotto, processo o servizio, è conforme
a una data norma o regola tecnica. Ci sono diversi tipi di certificazioni:
 Certificazione cogente: attesta il rispetto delle norme di carattere obbligatorio,
stabilite per garantire la sicurezza degli alimenti.

 Certificazione volontaria: è una scelta dell’impresa che si sottopone a ulteriori


forme di controllo da parte di un organismo indipendente.

Attraverso la formulazione di norme di carattere obbligatorio e volontario l’Unione Europea è


impegnata a garantire la qualità. Le NORME TECNICHE sono disposizioni normative emanate
da Stati, enti pubblici o organismi privati, che indicano la composizione, le caratteristiche, le
modalità di utilizzo, i segni distintivi, i sistemi, la natura ed il valore dei controlli sui prodotti
che vengono commercializzati ed utilizzati sul territorio nazionale.

Esistono 3 ambiti generali di riferimento per la qualità:

 AMBITO COGENTE: tutela dell’igiene dei prodotti agroalimentari; fornisce garanzie


sotto l’aspetto nutrizionale e consente alle aziende di definire gli aspetti
organizzativi, tecnici e operativi.
42 Parte Introduttiva

La Comunità ha emanato inizialmente disposizioni per singola categoria di prodotto


(verticale); successivamente poi, ha redatto delle disposizioni applicabili trasversalmente a
tutte le imprese nel campo della produzione di alimenti e bevande(orizzontale). Una serie di
direttive orizzontali hanno riguardato l’attuazione di sistemi di autocontrollo dei rischi
igienico-sanitari prevedendo l’applicazione di procedure preventive da parte delle aziende
alimentari. In particolare, la DIRETTIVA 93/43/CEE, a partire dal 4 dicembre del 2000, richiede
alle imprese di effettuare l’autocontrollo obbligatoriamente secondo i principi del sistema
HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point).

Negli ultimi decenni, sotto la spinta di alcune emergenze (mucca pazza, diossine nei mangimi),
si è assistito a una notevole evoluzione della legislazione alimentare:

 01/02/2002 Pubblicazione Regolamento 178. Istituisce l'Autorità europea per la


sicurezza alimentare (si trova a Parma) e tutela gli interessi dei consumatori e tende
a prevenire ogni pratica in grado di indurre in errore il consumatore, attraverso la
rintracciabilità.

PRINCIPIO DI PRECAUZIONE: sono misure che vengono adottate quando c’è la possibilità di
effetti dannosi sulla salute e quando c’è un’incertezza in ambito scientifico. La scelta migliore
è quella di prendere come realistica l’ipotesi più devastante e quindi adottare soluzioni che
minimizzino il rischio.

Inoltre, il regolamento 178, istituisce le pratiche di rintracciabilità obbligatorie per tutte le


filiere agroalimentari. In particolare, dal controllo del prodotto al controllo del processo; dalla
garanzia del prodotto alla garanzia della filiera.

La rintracciabilità dev’essere sia a monte individuando i fornitori diretti di materie prime, che
a valle individuando le imprese dirette alle quali sono stati forniti i propri prodotti (one step
back; one step follow)

 AMBITO REGOLAMENTATO: comprende quelle certificazioni che il produttore


decide autonomamente di conseguire con lo scopo di essere più competitivo.
Si chiamano così e non volontarie perché il protocollo è stabilito in un ambito sovranazionale
che è quello dell’unione europea ma di fatto è una certificazione volontaria (se produco
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .43

mozzarella di bufala, non per forza devo acquisire il marchio dop). La certificazione dop, igp e
le altre prevedono una iscrizione a un consorzio. La conformità ai suddetti regolamenti è una
libera scelta dell’imprenditore, ma una volta ottenuto il riconoscimento, l’osservanza della
norma diventa obbligatoria e viene verificata da organismi di controllo.

Sia i marchi dop che igp liberano il mercato dalla asimmetria informativa perché danno più
fiducia.

La denominazione di origine protetta, meglio nota con l'acronimo DOP, è un marchio di tutela
giuridica della denominazione che viene attribuito dall’Unione Europea agli alimenti le cui
peculiari caratteristiche qualitative dipendono esclusivamente dal territorio in cui sono stati
prodotti

L'ambiente geografico comprende sia fattori naturali (clima, caratteristiche ambientali), sia
fattori umani (tecniche di produzione tramandate nel tempo, artigianalità, savoir-faire) che,
combinati insieme, consentono di ottenere un prodotto inimitabile al di fuori di una
determinata zona produttiva.

Affinché un prodotto sia DOP, le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione devono


avvenire in un’area geografica delimitata. Chi fa prodotti DOP deve attenersi alle rigide regole
produttive stabilite. Il rispetto di tali regole è garantito da uno specifico organismo di controllo.

Per distinguere, anche visivamente, i prodotti DOP da quelli IGP, i colori del relativo marchio
sono giallo-rosso.

Per ottenere la certificazione IGP (indicazione geografica protetta) invece, a differenza della
certificazione dop, ci si può avvalere anche solo di uno degli elementi distintivi (produzione,
trasformazione ed elaborazione) e non per forza tutti e tre. I colori di questo marchio sono
giallo-blu.

STG: (Specialità tradizionale garantita), meglio noto con l'acronimo STG, è un marchio di
origine introdotto dall’ Unione Europea volto a tutelare produzioni che siano caratterizzate da
composizioni o metodi di produzione tradizionali. Questa certificazione, diversamente da altri
marchi, quali (DOP) e (IGP), si rivolge a prodotti agricoli e alimentari che abbiano una
"specificità" legata al metodo di produzione o alla composizione legata alla tradizione di una
44 Parte Introduttiva

zona, ma che non vengano prodotti necessariamente solo in tale zona. Un esempio è la pizza
napoletana.

I riconoscimenti dop igp e stg devono essere richiesti da un’associazione di produttori o


trasformatori interessati al prodotto e ricadenti nel territorio delimitato. Dire made in Italy
non è dire DOP o IGP.

Per beneficiare di un marchio DOP IGP STG il prodotto deve essere conforme ad una
disciplinare che abbia i seguenti requisiti:

 Il nome del prodotto utilizzato storicamente e nel commercio.

 Descrizione del prodotto, comprese materie prime, caratteristiche chimiche, fisiche.

 Definizione area geografica del metodo di produzione.

 Elementi che dimostrano l’originarietà del prodotto dalla zona geografica indicata e
del carattere tradizionale del prodotto.

 Descrizione del metodo di ottenimento.

 Gli elementi che stabiliscono il legame tra qualità caratteristiche del prodotto e
territorio di origine/che attestino il carattere tradizionale del prodotto.

 Nome indirizzo dell’autorità che verifica il rispetto della disciplinare di produzione.

In Europa l’Italia detiene il primato del numero di riconoscimenti, scavalcando anche la


Francia. Inoltre i riconoscimenti “DOC e DOCG” sono ormai superati in quanto erano solo
riconoscimenti nazionali. Ciò non toglie che le imprese possano continuare ad apporli sui
propri prodotti.

I prodotti che più godono di queste certificazioni sono frutta e verdura, formaggi, olive e
bestiame.

I prodotti di qualità certificata pesano per circa il 40% sul fatturato dell’industria
agroalimentare italiana. Sono appunti i prodotti dop, igp, stg a subire maggiormente il
fenomeno dell’agro-pirateria ossia minacce per i prodotti di qualità che sono contraffazioni o
semplicemente richiamano il concetto di italianità (parmesan). Questi ultimi, per quanto
scorretti, sono consentiti dalla legge.
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .45

 AMBITO VOLONTARIO: Si base su regole e norme stabilite di comune accordo tra le


varie parti interessate; attesta la conformità di un prodotto standard identificato da
un documento tecnico.
A livello internazionale opera l’ISO( International Organization for Standardization);

A livello europeo opera il CEN (Comitato Europeo di Normazione);

A livello nazionale c’è un organo che in Italia è l’UNI, l’Organismo Nazionale di Unificazione;

Ci sono poi standard a livello internazionale per la certificazione di qualità nella filiera di
fornitura di prodotti alla GDO e sono: BRC (è lo standard della britannica) e IFS( è uno standard
condiviso dalle filiere della GDO agroalimentare francese e tedesca)

L’agricoltura biologica indica un metodo di coltivazione e allevamento che ammette solo


l’utilizzo di sostanze naturali. Da ricordare che è il metodo di produzione ad essere definito
biologico e non il prodotto.

L’agricoltura biologica mira ad ottenere e ad offrire al consumatore prodotti freschi, gustosi e


genuini, rispettando il ciclo della natura.

Nell’agricoltura biologica non si utilizzano sostanze chimiche, nè Organismi Geneticamente


Modificati (OGM). Alla difesa delle colture si provvede innanzitutto in via preventiva, di
selezionare specie resistenti alle malattie e intervenendo con tecniche di coltivazione
appropriate come, per esempio la rotazione delle colture; Altre pratiche agricole biologiche
sono:

Uso efficace delle risorse del luogo, come l’utilizzo del letame per fertilizzare la terra o la
coltivazione dei foraggi per il bestiame all’interno dell’azienda agricola;

In caso di necessità, per la difesa delle colture si interviene con sostanze naturali vegetali,
animali o minerali: estratti di piante, insetti utili che predano i parassiti.

I prodotti alimentari per essere etichettati e venduti come biologici devono contenere almeno
il 95% di ingredienti certificati bio. La percentuale si riferisce al totale degli ingredienti di
origine agricola ed esclude acqua, sale, additivi ed altri ingredienti non agricoli ammessi.
46 Parte Introduttiva

Si possono utilizzare ingredienti convenzionali solo se rientrano tra quelli previsti in una
apposita lista dal Reg CE 889/08. Ai prodotti che vantano una percentuale bio superiore al
95% è concessa l'applicazione di un apposito logo UE. L'uso di tale logo è obbligatorio dal 1
luglio 2010 per tutti i prodotti ottenuti nell'UE.

Sono ammessi, inoltre, solo additivi, eccipienti e coadiuvanti tecnologici ritenuti innocui dalla
commissione UE (es. acido citrico, acido ascorbico, farina di semi di carrube, ecc.), indicati in
liste apposite.

E’ vietato l’impiego di qualsiasi ingrediente ottenuto o derivato da OGM.

Quando la quantità degli ingredienti bio è inferiore al 95%, non è possibile riportare il termine
"biologico" nello stesso campo visivo della denominazione del prodotto, ma solo in
corrispondenza della lista degli ingredienti certificati e precisando la loro tipologia nella lista
degli ingredienti.

Gli impianti di trasformazione, magazzinaggio e condizionamento devono garantire che la


lavorazione dei prodotti da agricoltura biologica avvenga separatamente da quelli
convenzionali. I requisiti più significativi da rispettare ai fini della conformità alla normativa
del biologico (Reg. CE 834/07) sono:

 qualifica dei fornitori biologici;

 controlli al ricevimento dei prodotti biologici;

 separazione dei 2 cicli produttivi, biologico e convenzionale (ad esempio in serre


apposite).

Il regolamento biologico si applica anche agli allevamenti. In particolare, gli animali devono
essere alimentati rispettando il loro fabbisogno con prodotti vegetali ottenuti anch'essi con
metodo di produzione biologico; devono avere uno spazio sufficiente per potersi muovere
(per ogni specie e categoria di animali il Regolamento CE definisce degli spazi minimi che
devono essere garantiti sia al coperto sia all'aperto) e anche nella fase di macellazione si deve
mirare alla minor sofferenza degli animali che incide sul prodotto finito. E' preferibile allevare
razze autoctone, che sono meglio adattate alle condizioni ambientali locali. E' vietato l'impiego
di razze ottenute mediante manipolazione genetica.

Le motivazioni che portano all’acquisto di prodotti biologici sono:


Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .47

 Volontà di contribuire alla protezione dell'ambiente, delle risorse naturali, del


benessere degli animali e delle comunità rurali.
 Preferenze dei consumatori verso prodotti di piu’ elevata qualita’, con particolare
riferimento alla componente salutistica
Inoltre usare prodotti biologici, riduce gli effetti ambientali negativi dell’agricoltura
convenzionale e favorisce lo sviluppo economico senza conseguenze negative sull’ambiente.

in termini economici la conversione al biologico conviene se la variazione dei ricavi ottenuta


con la conversione supera la variazione dei costi. Le componenti che fanno differire i ricavi del
biologico da quelli del convenzionale sono:

 le RESE PRODUTTIVE che in genere si presentano più basse per le produzioni


biologiche;
 i PREZZI: su questi influisce, oltre che l’offerta, anche la domanda di prodotti
biologici, ma anche differenze qualitative dei prodotti e le capacità dei produttori di
trovare e sfruttare adeguatamente i canali commerciali appropriati;
 il SUSSIDIO PUBBLICO.
SE ESAMINIAMO LA PARTE DEI COSTI, LA VARIAZIONE DERIVANTE DALLA CONVERSIONE AL
BIOLOGICO HA DUE COMPONENTI:

 I COSTI DI PRODUZIONE, che sono fortemente diversificati per tipo di coltura e per
tipo di azienda. Caratteristiche specifiche aziendali, capacità tecniche ed
imprenditoriali, natura dei terreni, condizioni pedoclimatiche differiscono fra le
aziende e rendono più o meno costosa la tecnica biologica.
 I COSTI DI CERTIFICAZIONE, in questo caso oltre ai costi espliciti, va considerato
anche il carico burocratico relativo, che si traduce in un impegno di tempo per
l’agricoltore.
Corporate Social Responsibility (CSR): un’impresa non è un’isola separata dall’ambiente
sociale in cui opera, ma un punto di riferimento per dipendenti, comunità e consumatori.
Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici
applicabili, ma anche andare al di là investendo «di più» nel capitale umano, nell’ambiente e
nei rapporti con le altre parti interessate.
48 Parte Introduttiva

La certificazione biologica contribuisce da un lato a colmare il gap informativo esistente tra


consumatori e i soggetti a monte della filiera agroalimentare, facilitando le decisioni
d’acquisto dei consumatori, e dall’altro a migliorare l’efficienza del mercato.

Esistono 3 tipologie di Certificazione Volontaria:

 Prodotto: attesta la conformità di un prodotto a determinati requisiti (EPD);

 Ambientale: attesta che i prodotti, i processi produttivi e l’attività di un’azienda


siano ecocompatibili (ISO 14001);

 Etica: attesta che l’attività dell’azienda viene svolta tenendo in grande


considerazione i lavoratori e la sicurezza degli stessi, senza ledere i diritti umani.
(SA8000).

Una delle problematiche dei prodotti biologici è il differenziale di prezzo rispetto al


convenzionale: se il prodotto biologico non riesce a raggiungere un idoneo canale
commerciale e viene venduto insieme al convenzionale non può ottenere un differenziale di
prezzo. Talvolta vi è la difficoltà di riconoscere il biologico come segnale di qualità; inoltre
spesso gli agricoltori che, avendo un rapporto di fiducia coi clienti, non sentono il bisogno
di certificare la propria produzione e quindi risparmiano i costi relativi.

Negli anni si è assistito a un cambiamento del concetto di qualità. Quest’ultimo infatti è


strettamente legata a quello di “sicurezza”. Questo perché il consumatore è più attento alle
conseguenze delle sue scelte d’acquisto dal punto di vista sociale, etico e ambientale. Inoltre
si è avuto uno sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e la crisi del settore
agroalimentare, manifestatesi a partire dalla seconda metà degli anni Novanta con l’influenza
aviaria, mucca pazza.

Gli interventi dell’azienda, durante la produzione di beni e servizi, sono causa di


deprezzamento fisico e qualitativo in quanto Il processo produttivo attinge risorse
dall’ambiente e sversa i suoi rifiuti di lavorazione nell’ambiente. Quindi non soltanto ogni volta
che avviene un processo produttivo si impoverisce il territorio, ma lo si peggiora con gli scarti.

“Lo sviluppo per essere sostenibile, deve venire incontro ai bisogni delle generazioni presenti
senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”
(Rapporto Brundtland, Nazioni Unite, 1987).
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .49

Nel settore agroalimentare, la produzione di alimenti di qualità ottenuta con processi


ambientalmente sostenibili, oltre ad essere una esigenza dei consumatori è una priorità per i
produttori agricoli e consente risparmi energetici, di risorse e di materiali, traducendosi in
benefici economici.

Le certificazioni ambientali riferite alle organizzazioni sono il Sistema di Gestione Ambientale


(SGA) e l’accreditamento ISO 14001 (la parte del sistema di gestione generale che comprende
la struttura organizzativa, le attività di pianificazione, le responsabilità, le prassi, le procedure,
i processi, le risorse per elaborare, mettere in atto, conseguire, riesaminare e mantenere
attiva la politica ambientale).

In riferimento ai prodotti invece è la Dichiarazione ambientale di prodotto (EPD).

Certificazione di prodotto EPD:

Per i Produttori: le eco-etichette possono garantire le prestazioni ambientali dei propri


prodotti e del loro operare “virtuoso” e rappresentano anche un vantaggio competitivo
rispetto alle aziende concorrenti.

Per il consumatore: sono una garanzia, delle qualità ecologiche e d'uso dei prodotti che va al
di là del marchio del produttore.

Certificazione volontaria di prodotto: quantificazione dei potenziali impatti ambientali


calcolati in base all’analisi del ciclo di vita del prodotto (LCA). L’LCA è uno strumento
internazionale di valutazione ambientale di un prodotto, di un processo o di una attività “dalla
culla alla tomba”.

In relazione alla filiera agroalimentare all’interno di un sistema EPD, gli indicatori che
esprimono i potenziali impatti ambientali sono:

La carbon footprint (impronta carbonica), un indicatore di sostenibilità basato sulla


quantificazione delle emissioni di gas serra.

Il water footprint (impronta idrica) un indicatore che determina il carico ambientale relativo
all’utilizzo della risorsa idrica. Attualmente l’acqua è una risorsa scarsa, almeno in alcune parti
del mondo.
50 Parte Introduttiva

Le aziende del settore agroalimentare che hanno certificato i loro prodotti EPD in Italia sono
cinque: Cerelia e San Benedetto per l’acqua minerale, Granarolo per il latte, Barilla per la pasta
ed altri suoi prodotti e CIV&CIV per il vino.

Il bilancio ambientale si affianca al bilancio tradizionale ed è un “documento informativo


(contabile) nel quale sono descritte le principali relazioni tra l’impresa e l’ambiente, pubblicato
volontariamente allo scopo di comunicare direttamente con il pubblico interessato”. Benefici:

 monitoraggio di tutti gli aspetti ambientali significativi (individuazione dei costi


ambientali e degli sprechi);
 benefici in termini di immagine aziendale che scaturiscono dal migliore
soddisfacimento delle esigenze conoscitive degli stakeholders e dalla concreta
dimostrazione di un maggior impegno nella gestione delle problematiche ambientali.
Il GPP (Green Public Procurement) o acquisti verdi è uno strumento di politica ambientale
volontario attraverso cui le autorità pubbliche si impegnano sia a razionalizzare acquisti e
consumi che ad incrementare la qualità ambientale delle proprie forniture ed affidamenti. I
prodotti alimentari green sono i prodotti biologici, frutta e verdura di stagione e prodotti a
chilometri zero, da utilizzare nelle strutture pubbliche come gli ospedali e scuole.

Nella filiera agroalimentare si verificano spesso abusi e violazioni dei diritti dei lavoratori,
generalmente bambini e donne, le categorie più indifese. In particolare c’è lo sfruttamento
minorile piuttosto che la violazione al diritto d’istruzione.

Per questo motivo, è stato implementato lo standard di “impresa etica” che non ha come fine
ultimo lo scopo di lucro, ma mostra il suo impegno verso lo sviluppo sostenibile e la
responsabilità sociale. Il fattore che spinge sempre più imprese ad adottare atteggiamenti
“etici” è rappresentato dal consumatore che predilige quelle imprese che possiedono una
cultura aziendale con cui possa identificarsi.

Un altro strumento ambientale usato dalle imprese e che si affianca al bilancio ambientale, è
il bilancio sociale, redatto volontariamente con cadenza annuale per migliorare le relazioni
sociali legame con il territorio.

L'impegno etico e sociale di un'impresa oltre ad essere testimoniato dal proprio Codice etico
e/o Bilancio sociale, può anche essere certificato:
Parte introduttiva: strategie delle imprese agroalimentari .51

 SA 8000 (rappresenta la prima norma a livello internazionale che permette la


certificazione etica di un’impresa) Essa richiede che l’impresa soddisfi dei requisiti
sociali minimi. È una scelta volontaria dell’azienda ma che porta come vantaggio il
miglioramento dell’immagine aziendale. I punti contenuti nella norma si riferiscono
al controllo dei seguenti aspetti:
1. LAVORO INFANTILE

2. LAVORO FORZATO E OBBLIGATO

3. SALUTE E SICUREZZA

4. DISCRIMINAZIONE

6. ORARIO DI LAVORO

7. RETRIBUZIONE

Nel mondo le imprese con certificazione SA8000 sono attualmente 4000, il 53% si trova in
Europa, molte in italia (Granarolo, Maina), altre in asia e poche in nordamerica.
52 Capitolo 1

1. IL SISTEMA AGROALIMENTARE ITALIANO: STRUTTURA, RELAZIONI,


STRATEGIE 

INTRODUZIONE

L’agricoltura italiana, con le imprese agricole protagoniste di innumerevoli cambiamenti, è


stata in questi lunghi anni un fulcro per la storia del paese, per la sua stabilità e il suo sviluppo.
Le trasformazioni che si sono verificate negli ultimi decenni nell’economia italiana sono state
così profonde da avere pochi paragoni al mondo. L’Italia è passata dall’essere un paese
prevalentemente agricolo-industriale a paese industriale vero e proprio, fino a mostrare tutte
le caratteristiche di una società post-industriale. Sebbene le rilevanti trasformazioni
dell’agricoltura italiana abbiano avuto inizio dall’Unità d’Italia in poi, è nel secondo
dopoguerra che esse subiscono una profonda accelerazione. Negli anni Cinquanta del
Novecento l’economia italiana era ancora legata per una cospicua quota di reddito (circa il
20%) all’agricoltura, nella quale, tuttavia, era impiegato circa il 36% della forza lavoro.
L’industria, ancora poco aperta ai mercati internazionali, produceva il 32% del PIL e i suoi
addetti rappresentavano il 34% del totale. L’agricoltura, sebbene costituisse la principale voce
del reddito nazionale, fu condizionata per molto tempo dall’inadeguatezza delle tecniche e
degli strumenti impiegati e solo in poche zone diventò un’attività moderna e avanzata. Tali
zone coincidevano in pratica con larga parte dell’Emilia Romagna e della Lombardia,
particolarmente fertili nei territori della bassa Pianura Padana, dove da tempo l’attività
agricola e zootecnica era condotta con notevole dinamismo da affittuari e proprietari o, come
in Emilia, da coltivatori diretti, spesso riuniti in cooperative, per aumentare le potenzialità di
capitali e di investimenti; nel Nord lo stesso Veneto era rimasto sino a tutti gli anni Cinquanta,
terra di limitati sviluppi. Il settore agricolo visse una condizione di endemico sottosviluppo nel
Sud del paese, dove alla questione sociale, economica e generale, si aggiungevano problemi
legati all’estremo frazionamento dei fondi e alla difficoltà di lavorarli, essendo situati in gran


Il Capitolo I relativo alla descrizione del sistema agroalimentare ed il Capitolo VI, relativo alla logistica sono stati
curati dalla dott.ssa Daniela Catapano, dottorando di Ricerca in Economia delle Risorse Alimentari e
dell’Ambiente.
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .53

parte in zone collinari o addirittura montuose, spesso soggette a frane. Nel meridione era
rimasta, con retaggio secolare, un’agricoltura povera, con bassissime rese produttive. Accanto
al minifondo nelle zone di montagna, dominava il latifondo costituito da vasti territori
controllati da grandi proprietari di ascendenza feudale, i cosiddetti “baroni”; questi immensi
domini venivano solo in parte sfruttati per produzioni cerealicole, ricorrendo ad una
manodopera stagionale e sottopagata. Tali condizioni di arretratezza e di povertà non
potevano che indurre all’emigrazione non appena si fossero presentate le occasioni
favorevoli. Subito dopo il periodo della ricostruzione, terminato con i primi anni ’50, si è
verificato un forte e rapido esodo agricolo sia verso l’estero che all’interno del Paese.

L’esodo agricolo accompagnato da forti migrazioni interne, dal Sud al Nord, come mai
avvenuto in precedenza, modifica i rapporti tra città e campagna. Il fenomeno è determinato
principalmente da tre fattori:

 L’uso delle macchine e l’applicazione della tecnologia aumentano notevolmente la


produttività del lavoro agricolo, riducendo la domanda di lavoratori contadini.
 I nuovi mass media (radio, tv) spingono le giovani generazioni a mutare le proprie
abitudini di vita, alzando le proprie aspettative di consumo (consumismo) e
abbandonando il classico autoconsumo contadino.
 La ricostruzione post-bellica e la nascita dell’industria italiana: aumenta la domanda
di lavoro operario presso le industrie situate nei pressi delle grandi città o all’estero
(cosiddetto miracolo italiano).
Il contemporaneo, e certamente interconnesso, processo di sviluppo industriale, il cosiddetto
“miracolo economico” italiano, ha sancito la definitiva affermazione dell’Italia fra i paesi
maggiormente industrializzati cambiando radicalmente i rapporti fra città e campagna.
Nonostante la fortissima contrazione dell’occupazione agricola, la produzione ha fatto
registrare negli ultimi cinquant’anni dei tassi di sviluppo notevolmente superiori a quelli di
tutti i periodi precedenti, grazie anche alla forte diffusione della meccanizzazione e del
progresso tecnico, soprattutto nelle zone irrigue di pianura. La meccanizzazione
dell’agricoltura, strettamente legata all’esodo agricolo, è un vettore decisivo d’incremento
della produttività. L’introduzione massiccia di macchine e motori ha liberato una quantità di
tempo di lavoro più che proporzionale all’entità della riduzione della manodopera, ha
54 Capitolo 1

predisposto l’agricoltore a nuove innovazioni, avvicinandolo decisamente all’industria, alla


città e alla modernizzazione. L’incremento del parco di trattrici, come di altri mezzi a motore,
conosce il tasso più alto nel decennio 1958-1968 (16,5% annuo), rivelando differenziali
regionali accentuati, destinati successivamente a ridursi ma non a scomparire. Una forte
spinta alla meccanizzazione viene data da due elementi importanti, verificatesi negli anni
sessanta: da un lato, la forte domanda interna stimola le economie di scala e quindi la
riduzione dei costi relativi delle macchine, proprio quando cominciano a verificarsi i più
marcati incrementi del costo del lavoro in agricoltura; dall’altro un forte stimolo viene dalle
misure di politica agricola con i finanziamenti dei Piani quinquennali di sviluppo
dell’agricoltura del 1961 e del 1966 (i cosiddetti Piani Verdi1) che privilegiano gli investimenti
aziendali, in particolare in macchine e bestiame. Tale progresso meccanico riduce
drasticamente i tempi di lavoro delle singole operazioni colturali, e un numero maggiore di
colture risultano sempre meno intensive in termini di richiesta di manodopera.

Intere colture ad alta intensità, come la barbabietola, già all’inizio degli anni ’70 risultano
completamente meccanizzate. Le nuove macchine condizionano i metodi di coltivazione, la
sistemazione delle piantagioni, la regressione di questa da zone impervie, meccanicamente
non accessibili, nel momento in cui affermano un’agricoltura totalmente mercantile, con
indirizzi produttivi specializzati e standardizzati. La domanda di macchine si fa sempre più
intensa nei decenni successivi e riguarda non solo i trattori, ma anche la meccanizzazione
minore (motocoltivatori, motozappe, ecc), mentre la presenza delle mietitrebbiatrici si
afferma. La produzione agricola raddoppiata in termini reali nel secondo dopoguerra,
decuplica per ogni occupato agricolo. La forte riduzione dell’autoconsumo delle famiglie
contadine, conseguente ai processi di urbanizzazione e l’aumento del reddito disponibile
hanno incrementato i consumi alimentari a tal punto che la produzione agricola non è stata in
grado di soddisfarli. Si è verificato in Italia un grave deficit strutturale nella bilancia dei
pagamenti per i prodotti agroalimentari. Agli inizi degli anni ’70 l’occupazione agricola si è già
ridotta a 3,6 milioni, meno della metà di quella presente agli inizi degli anni ’50, con un forte
ridimensionamento soprattutto dell’occupazione contadina, rispetto a quella salariata e

1
I piani Verdi sono delle leggi di intervento pluriennale in agricoltura: sul territorio, sul capitale fondiario e sul
capitale di esercizio. Questi provvedimenti favoriscono l’accesso al credito agrario e gli impegni a sostegno della
bonifica, della meccanizzazione, dell’impiego di bestiame di razza e di sementi selezionate.
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .55

bracciantile. Nei decenni successivi l’esodo si fa più regolare, e interessa in misura analoga sia
la componente bracciantile che quella contadina. Ciò in larga parte è determinato dalla
drastica riduzione dell’attrazione di manodopera esercitata da parte della grande industria del
Nord-Ovest del paese, soprattutto a partire dai primi anni ’70. Il diffondersi di processi di
industrializzazione, che interessano aree sempre più rilevanti del Nord-Est e del Centro del
paese, e la crescita di settori terziari e della pubblica amministrazione, favoriscono
l’affermazione e la crescita delle aziende agricole part-time e pluriattive, dove i familiari o gli
stessi conduttori sono impegnati anche in attività extra-agricole. La produttività del lavoro
agricolo, sempre a partire da quegli anni, aumenta rapidamente rendendo le remunerazioni
salariali sempre più consistenti. In molte aree del Nord, si manifestano difficoltà a reperire
manodopera qualificata e molte operazioni meccaniche vengono effettuate ricorrendo a
servizi esterni alle aziende, con la rapida diffusione del contoterzismo (ossia la fornitura di
servizi meccanici che si sono progressivamente estesi dalla raccolta, a tutte le altre operazioni
colturali (semina, aratura, ecc.)).

Dagli inizi degli anni ‘80 la domanda alimentare ha progressivamente raggiunto la saturazione
e l’attenzione dei consumatori si è spostata sui problemi salutistici e dietetici, con l’affermarsi
della cosiddetta “dieta mediterranea2”, e sempre maggiore è diventata l’attenzione verso le
produzioni tipiche e di qualità, che caratterizzano le realtà regionali e locali italiane. Tutto
questo ha modificato strettamente le diverse componenti del sistema agroalimentare
caratterizzato, da un lato, per le sempre più evidenti interconnessioni e integrazioni fra
agricoltura, industria e distribuzione alimentare nel fornire prodotti e beni ai consumatori
italiani e dall’altro, per la necessità di rispondere a nuove esigenze della società italiana in
termini di qualità della vita, valorizzazione dell’ambiente, utilizzo e salvaguardia delle risorse
naturali. L’integrazione crescente all’interno del sistema agroalimentare va presa in

2
La dieta mediterranea fu scoperta dallo scienziato Ancel Keys, autore del libro Eat Well and Stay Well: the
Mediterranean Way, che notò una bassissima incidenza di malattie delle coronarie presso gli abitanti del Cilento
e dell’isola di Creta. Studiandone l’alimentazione caratteristica di quell’area geografica, avanzò l’ipotesi che essa
potesse determinare lo stato di salute della popolazione. Generalmente tende a consigliare un consumo di pesce,
frutta, verdura, cereali, olio d’oliva, vino e pane. Un posto privilegiato è occupato dai cereali e una nota
particolare meritano i cereali integrali che si differenziano da quelli raffinati. Quest’ultimi, infatti, subiscono,
l’esportazione della parte esterna del chicco, impoverendo di fatto il prodotto finale, specialmente dal punto di
vista della fibra alimentare, che apporta un maggiore senso di sazietà abbassando l’indice glicemico dell’alimento
in cui sono contenute. Ricchi di tale sostanza sono anche frutta e verdura, che contengono anche un’ingente
quantità d’acqua, mentre molti frutti forniscono un imprescindibile e insostituibile contributo di vitamina C.
56 Capitolo 1

considerazione, sia per la necessità di instaurare nuovi rapporti fra produttori e consumatori
all’interno della catena alimentare, sia, e più in generale, per riannodare le relazioni fra
campagna e città che si erano disaggregate nel corso dei decenni passati. L’evoluzione del
sistema agroalimentare ha visto, ben presto, il ridimensionamento del ruolo economico ed
occupazionale dell’agricoltura, mentre è cresciuto quello dell’industria alimentare e
soprattutto della grande distribuzione organizzata. L’industria alimentare anche se, oggi,
caratterizzata dalla presenza di numerose piccole e medie aziende, ha superato la fase
artigianale, per diventare uno dei principali settori dell’industria manifatturiera.
L’affermazione di gruppi multinazionali, anche di provenienza straniera, e dei cosiddetti
distretti agroalimentari3, ne hanno caratterizzato sempre la crescente integrazione lungo tutta
la catena alimentare. La stessa affermazione dell’industria alimentare ha rappresentato uno
degli elementi di maggior rilievo delle trasformazioni più recenti

del sistema agroalimentare italiano, soprattutto dalla metà degli anni ’80, cambiando non solo
l’importanza ma anche i rapporti fra le diverse componenti. Ma al di là delle innumerevoli
linee strategiche che negli ultimi anni sono state profuse risulta di fondamentale importanza
individuare le questioni critiche sui quali gli operatori del sistema dovranno concentrare i
propri sforzi: i sistemi agroalimentari mondiali appaiono sempre più sensibili non solo alle
pressioni provenienti dai rapporti di forza esistenti al loro interno e che oggi testimoniano
l’egemonia della GDO (grande distribuzione organizzata) ma anche e, soprattutto, alle
numerose forze che provengono dal contesto politico-istituzionale e che spingono per un
sistema sempre più flessibile e in grado di offrire prodotti e servizi di qualità, ovvero, per
operatori sempre più capaci di intuire e rispondere alle esigenze dei consumatori.
All’agricoltura italiana, in questo processo di grande trasformazione del sistema
agroalimentare, si pongono nuovi obiettivi, oltre a quello produttivo ed occupazionale, che
riguardano la salvaguardia dell’ambiente, la rivalutazione delle risorse naturali e del paesaggio
e più in generale, si guarda al ruolo “multifunzionale” che l’agricoltura può svolgere nelle

3
Per “distretto agro-alimentare”si intende l’insieme delle produzioni agricole, ittiche, di trasformazione
alimentare e delle attività agro-industriali ad esse collegate, articolato in una rete stretta di rapporti di filiere e
settori di filiere tale da caratterizzare significativamente l’ambito produttivo locale; l’insieme si connota inoltre
per l’integrazione con il sistema distributivo, che seppur elemento relativamente esterno ad esso mantiene
sempre una forte influenza sulle componenti che si collocano soprattutto a monte dello stesso.
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .57

società avanzate. La ricerca di un’agricoltura sostenibile e compatibile con l’ambiente


rappresenta una delle nuove sfide che dovranno essere affrontate nei prossimi anni, non solo
per ricreare e sviluppare dei rapporti più stretti fra città e campagna ma, soprattutto fra
produttori e consumatori di beni alimentari.

1.1 L’INDUSTRIA ITALIANA NEL COMPARTO ALIMENTARE

Le strette connessioni esistenti tra agricoltura, industria di trasformazione e distribuzione


alimentare impongono, oggi, una visione più complessiva del sistema agroalimentare. Le
attività che direttamente e indirettamente fanno parte del sistema sono numerose e vanno
dall’agricoltura produttrice di mezzi tecnici, dall’industria della trasformazione alimentare fino
alla logistica e alla distribuzione. L’industria agro-alimentare, rappresentata dall’insieme delle
industrie di trasformazione in alimenti e bevande di prodotti agricoli, degli allevamenti e della
pesca, rappresenta un settore rilevante all’interno dell’industria manifatturiera italiana. Il
termine agroalimentare indica appunto la stretta correlazione ed il rapporto funzionale
esistente tra il settore primario (agricolo) e quello di natura più propriamente industriale,
l’alimentare. Tale rapporto si sviluppa secondo una direzione biunivoca per cui l’agricoltura
condiziona il settore a valle e,viceversa, il settore alimentare, a sua volta, influisce
pesantemente sul settore a monte. Un tempo la componente agricola prevaleva e
condizionava l’industria alimentare. Oggi, invece, molteplici fattori impongono all’agricoltura
di adattarsi alle esigenze dell’industria di trasformazione e della distribuzione alimentare, ed
ancora più a valle, ai gusti e alle richieste dei consumatori finali. Differenti cause hanno
contribuito a questa trasformazione: la riduzione dei costi di trasporto, che ha consentito la
delocalizzazione di molte industrie ed una maggior internazionalizzazione del mercato, i nuovi
modelli di consumo orientati verso valori intrinseci degli alimenti (esempio delle colture
biologiche4), l’affermarsi di nuovi circuiti distributivi, in particolare quelli riguardanti la grande

4
L’agricoltura biologica è un metodo di produzione definito dal punto di vista legislativo a livello comunitario con
un regolamento, il Regolamento CEE 2092/1991, e a livello nazionale con il D.M 220/95 (un ultimo Regolamento
è quello CE 834/2007). Il termine richiama un particolare metodo di coltivazione e di allevamento che ammette
solo l’impiego di sostanze di origine naturale, presenti cioè in natura, escludendo l’utilizzo di sostanze chimiche
di sintesi (concimi, diserbanti, insetticidi). Tale sistema si contrappone all’agricoltura convenzionale, un metodo
ad agricoltura intensiva, generalmente a regime monocolturale che utilizza tecniche di coltivazione e di
58 Capitolo 1

industria. L’integrazione dell’agricoltura e dell’allevamento con l’industria alimentare ha


costituito un fattore chiave per il settore agro-industriale. La volontà di innovare, unita alla
consapevolezza di quanto fosse necessario mantenere anche gli aspetti socio-culturali, la
tradizione e la valorizzazione delle produzioni tipiche, hanno portato l’Italia in una posizione
di leadership a livello nazionale in campo agroalimentare.

Insieme con l’agricoltura, l’indotto e la distribuzione, l’industria alimentare italiana


rappresenta, oggi, l’elemento centrale del primo settore economico del paese. All’interno
delle attività manifatturiere, l’alimentare occupa il quarto comparto per numero di imprese,
circa 55 mila (pari al 13% del totale manifatturiero) e 392 mila addetti. La dimensione media
delle imprese del settore, di poco superiore ai 7 addetti, è inferiore ai 9,5 addetti medi delle
imprese manifatturiere. Ad oggi, l’industria compra e trasforma il 72% delle materie agricole
nazionali, con un fatturato globale dell’ordine di 127 miliardi di euro. I comparti e le filiere di
maggior rilievo sono il lattiero-caseario (23%), dolciario (11%), la trasformazione delle carni e
salumi (15%), seguono i comparti delle carni avicole, mangimistico, pastificazione e molitorio,
e conserve vegetali con un’importanza relativa di circa il 3-5% per ciascuno di essi. L’industria
alimentare italiana è caratterizzata anche dalla presenza di numerosissimi comparti di minore
importanza (zucchero, birra, succhi e bevande di frutta, surgelati, ecc..) che ne denotano la
profonda differenziazione.

Nel 2011, l’alimentare italiano, con 127 miliardi di fatturato, e quasi 400 mila addetti, ha
registrato un saldo attivo della bilancia commerciale di oltre 4 mld (+29,3%): incoraggiante
segnale di ripresa è l’export , che ha chiuso con una quota di 23 mld e un incremento del
+10,2% rispetto al corrispondente periodo del 2010. A livello strutturale, il 2011 ha recato,
anche, qualche criticità al settore, ovvero il riapparire della flessione della produzione che si
era presentata nel biennio 2008-2009. Il calo del 2011 sull’anno precedente è pari infatti al -
1,5%, mentre il valore del fatturato del settore cresce solo del 2,4%, al di sotto del tasso di
inflazione (+3,2%), attestandosi a 127 miliardi di euro.

allevamento tradizionali, e che prevede l’adozione di prodotti chimici di sintesi a scopo fertilizzante e
antiparassitario.
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .59

Tabella 1 – Industria alimentare italiana dati 2010 – stime 2011

STIME 2011 STIME 2011


2010 VAR % 2009
(Mld €) (VAR % su 2010)
Fatturato 124 +3,3% 127 +2,4%
Produzione 124 +2% 127 -1,5%
Export 21 +10,5% 23 +10,2%
Import 17 +13,2% 18,7 +10,6%
Bilancia commerciale 4 -2,1% 4,3 +29,3%
Fonte: Stime Federalimentare 2010.

Tabella 2 – Fatturato dell’industria alimentare per settori (euro), 201

FATTURATO 2010 VAR %


COMPARTI (milioni di euro) 10/ 09
Acque minerali 2.100 -4,5
Alcoli e acquaviti 1.000 0,0
Alimentazione animale 6.650 16,7
Avicolo 5.300 -0,4
Bevande gassate 1.800 0,0
Birra 2.550 6,2
Caffè 2.440 1,7
Carni bovine 5.900 0,0
Conserve vegetali 3.700 0,0
Dolciario 12.051 4,5
Infanzia, dietetici e integratori alimentari 3.050 1,7
Ittici 1.420 2,4
Lattiero – Caseario 14.800 2,6
Molitorio 2.590 1,2
Olio di oliva e di semi 4.200 5,0
Pane industriale 651 3,2
Pasta 4.303 -3,2
Preparati 4a gamma freschi e prod. liofilizzati 1.000 3,1
Riso 1.030 -1,9
Salumi 7.928 4,3
Sostituti del pane 384 5,2
Succhi di frutta/ Elab. 1.053 -1,0
Surgelati 4.126 1,6
Vino 10.700 0,9
Zucchero 630 0,0
Varie 22.644 6,5
TOTALE 124.000 3,3
Fonte: Federalimentare 2011.
60 Capitolo 1

A livello settoriale, una congiuntura favorevole si è registrata per l’industria dei gelati, della
pasta, mangimistica, degli elaborati a base di carne e per quella di trasformazione
ortofrutticoli. Il trimestre, invece, si è rivelato difficile per l’industria delle acque naturali e
delle bevande analcoliche, per quella dolciaria, molitoria, di prima lavorazione delle carni
bianche, riso e olio d’oliva. In ambito territoriale, è l’area Nord Est con le migliori tenute ma
non mancano modeste riprese al Centro. Di converso, è risultato in flessione il Mezzogiorno e
il Nord Ovest. La distribuzione regionale vede una localizzazione rilevante in Lombardia,
seguita dall’Emilia Romagna. Nel Sud la regione con la presenza del maggior numero di unità
locali è la Sicilia ma è la Campania ad avere il maggior numero di addetti. Nelle regioni del
Centro-Nord si concentra oltre il 60% delle imprese e quasi l’80% del valore aggiunto
dell’industria alimentare italiana. In complesso l’industria alimentare italiana si presenta
fortemente polverizzata; il numero delle piccole imprese è molto alto (6.500 con più di 9
addetti e 2.600 con più di 19 addetti), tuttavia sono quelle con più di 100 addetti ad avere il
fatturato (70%) e l’occupazione maggiori (52%). Risulta evidente quindi la presenza di una
forte concentrazione e di una frangia concorrenziale composta da una miriade di piccole e
piccolissime unità produttive, che vivono di mercati locali e spesso di produzioni tradizionali
(tipiche o del territorio). Le prospettive di crescita del sistema dipendono da un continuo
processo di aggiustamento nell’allocazione dei fattori produttivi e delle produzioni ai fini del
mantenimento di adeguati livelli di competitività. Oggi l’industria agroalimentare italiana si
trova a doversi confrontare con altri importanti cambiamenti che vedono in particolare il forte
e rapido sviluppo dei sistemi logistici e della grande distribuzione organizzata.

L’affermarsi della grande distribuzione nell’ultimo decennio ha provocato un notevole


ridimensionamento della vecchia struttura distributiva tradizionale, che spesso in passato
aveva salvaguardato e protetto il sistema agroalimentare italiano dalla concorrenza sempre
più massiccia degli altri paesi europei. Tale comparto sta diventando un settore di punta non
solo in ambito nazionale, ma anche a livello comunitario. Esso è caratterizzato da una
concorrenza crescente, che porta le industrie a concentrare l’offerta e a sacrificare parte dei
profitti per conservare la quota di mercato. Anche l’industria alimentare europea, considerata
un settore a bassa intensità di innovazione, e caratterizzata dalla presenza storica di alcuni
grandi gruppi che nei rispettivi comparti occupano posizioni di leadership, è stata condizionata
dal sempre crescente potere contrattuale delle grandi catene distributive. Le imprese
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .61

dell’industria alimentare europea sono prevalentemente interessate ad acquisire economie


di scala/scopo tramite innovazioni di processo e meno stimolate ad introdurre innovazioni di
prodotto. A tutto ciò si aggiungono le conseguenze dell’apertura dei mercati che richiede
all’industria alimentare una sempre maggiore capacità di segmentazione e quindi un maggior
numero ed un più alto turnover di nuovi prodotti. Questo fa sì che l’industria agroalimentare,
seppur low tech se comparata con le altre industrie, tenda a diventare più tecnologica rispetto
al passato. Secondo dati raccolti dall’Istat, anche le imprese alimentari italiane sono coinvolte
in processi innovativi: la propensione a innovare e l’impegno finanziario per le attività
innovative sono solo lievemente inferiori a quelli medi registrati dal complesso dell’industria
manifatturiera: nel triennio 2006-2008 il 51,2% delle imprese alimentari ha effettuato
innovazioni, contro il 54,4% della media manifatturiera.

Tabella 3 – Diffusione e dimensione dell’innovazione (2008)

Innov. Innov. Non


Spesa per
Attività Totale Tecnologiche Tecnologiche
Totale l’innovazione
economica imprese (processo e (marketing o
per addetto
prodotto) organizzative)
Industria
6.699 51,2 35,1 42,5 7.125
alimentare
Totale
85.694 54,4 41,5 41,6 8.029
manifattura
Fonte: Istat, 2006-2008.

Il 35% delle imprese italiane ha introdotto almeno un’innovazione di prodotto o processo e il


42,5% forme di innovazione organizzativa o di marketing, associando l’innovazione nel design
o packaging (40% delle imprese). Nello stesso periodo, oltre la metà delle imprese innovatrici
ha scelto l’innovazione congiunta di prodotto-processo come modalità prevalente. Il settore
alimentare si caratterizza, dunque, al pari di quello europeo, per una maggiore vocazione
alla sola innovazione di processo: il 36,1% delle imprese innovatrici, pur non dedicandosi allo
sviluppo di nuovi prodotti, ha scelto di adottare sistemi di produzione tecnologicamente più
avanzati, macchinari ad elevato contenuto innovativo, tecnologie che garantiscono una
maggiore produttività e migliori prestazioni in termini di rapidità, precisione e flessibilità. Gli
investimenti in innovazione tecnologica dell’industria alimentare hanno raggiunto, nel 2008,
62 Capitolo 1

circa 1 miliardo di euro, con un’incidenza media per addetto di oltre 7.000 euro, contro gli
8.000 euro registrati nell’intero settore manifatturiero.

1.2 IL “MADE IN ITALY” NELL’INDUSTRIA ALIMENTARE

L’industria italiana, generalmente riconosciuta come l’ambasciatrice del Made in Italy nel
mondo, rappresenta il secondo comparto produttivo del manifatturiero nazionale. Si tratta di
una realtà che ha raggiunto miliardi di fatturato annuo, composta da circa 6.500 imprese che
esportano circa l’80% di marchi industriali prestigiosi. La capacità di esportare e di confrontarsi
con il mercato globale decretano il successo, e forse la stessa sopravvivenza, del Made in Italy
alimentare, che resta il portabandiera dell’intera produzione industriale nazionale nel mondo.
La nozione di Made in Italy, individua l’origine del prodotto in un Paese o territorio dove ha
avuto luogo l’ultima trasformazione industriale. Il Made in Italy deriva dalla capacità del
produttore di selezionare e miscelare materie prime (nazionali ed estere) lavorandole secondo
ricette e tecniche originali, garantendo con la propria responsabilità la qualità dei prodotti.
Valore aggiunto indiscusso dell’alimentare italiano è, soprattutto, lo strettissimo legame che
la produzione ha con la tradizione di questo paese. I prodotti “tipici”, quelli legati ad un
territorio determinato, coprono il 10% circa della produzione alimentare. Sono prodotti che,
dal legame col territorio, traggono elementi non solo economici ma anche un aspetto
qualitativo caratterizzante. Di questo genere di prodotti l’Italia è leader in Europa per numero
di DOP e IGP5 riconosciuti, ossia per ricchezza di tipicità. Il restante 90% è rappresentato dal
Made in Italy, che non sempre ha un legame specifico con il territorio. Questo genere di
produzione ha un legame forte con una tradizione fatta di trasformazione dei prodotti
alimentari, di selezione delle materie prime provenienti dal mondo intero, e infine di
produzione dei prodotti adeguati ai gusti e alle specifiche culture dei consumatori italiani e di

5
Con denominazione origine protetta (DOP) ed indicazione geografica protetta (IGP) ci si riferisce al nome di una
regione, o di un luogo determinato oppure (ma molto di raro) ad un paese al solo scopo di identificare uno
specifico prodotto agricolo o alimentare come originario di quel particolare sito geografico. In maniera
dettagliata, nella DOP la qualità o le caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente
geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avviene
nell’area geografica delimitata.
Nell’IGP, invece, una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica può essere attribuita all’origine
geografica e la produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avviene nell’area geografica determinata.
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .63

tutto il mondo. E’quello che può essere chiamato “know how”, ossia la capacità di trasformare
prodotti agricoli nazionali e di prodotti selezionati nel mondo intero. Un esempio nè è il caffè.
Pur trattandosi di un prodotto che caratterizza molto il nostro paese, non si produce neppure
un chicco di caffè in Italia. Eppure, l’industria italiana ha una sapienza impareggiabile nel
produrre quel caffè che tutti definiscono “caffè italiano”. Ebbene, questo 90% di prodotti che
esulano dalla categoria formale dei tipici contribuisce fortemente, attraverso i suoi marchi,
alla crescita del prodotto italiano nel mondo.

Secondo i dati forniti da Federalimentare e Assolatte, le esportazioni del Made in Italy nel
2011, in crescita del 6,3%, sono state guidate da tre settori cardine: il vino, i prodotti lattiero-
caseari e la pasta con un progresso di oltre 13% per quelle vitivinicole. Tra i prodotti più
rappresentativi del Made in Italy, emerge una crescita moderata anche per il comparto
frutticolo (+2,4%), grazie soprattutto alle mele che hanno controbilanciato il forte calo delle
esportazioni di frutta estiva e agrumi. In netto recupero, dopo un biennio negativo, i flussi
oltrefrontiera di pasta, che hanno fatto registrare nel periodo gennaio-novembre un +7,4%.
Tra i formaggi e latticini, che nel complesso replicano il successo del 2010 con un +16%, sono
i formaggi grana (Grana padano e Parmigiano reggiano) e il Gorgonzola a registrare gli
incrementi più significativi, rispettivamente del 22% e del 14%. Da segnalare anche
l’inversione di tendenza del Pecorino/Fiore sardo, in ripresa del 6,7%. I prodotti da forno e
quelli della salumeria, entrambi in crescita di oltre il 7% , proseguono la tendenza positiva che,
seppure più marcata nel 2010, non aveva conosciuto arresti neanche durante la crisi del 2009.
Anche l’olio di oliva incrementa le vendite all’estero del 7%, mentre si delinea un bilancio
piuttosto deludente per gli ortaggi freschi. Tra i principali Paesi di destinazione
dell’agroalimentare italiano, i dati del periodo gennaio-novembre 2011 indicano aumenti dei
flussi in valore verso la Germania (+5,4%), la Francia (+9,2%) e il Regno unito (+2,8%), con un
incremento medio nella Ue del 6,7%. Cresce a ritmi più sostenuti la domanda nei Paesi
extraeuropei (+13,5%), tra i quali spicca soprattutto il ruolo degli Stati Uniti (+10,8%). Un dato
importante innanzitutto perché riguarda la prima voce dell’export alimentare italiano (per un
valore di circa 3,5 miliardi di euro l’anno) e, in secondo luogo, perché ribalta il calo in valore
registrato dalle esportazioni nel corso del 2009 (-5,5%). Valorizzare le produzioni di qualità è
una scelta strategica irrinunciabile, un’arma vincente del Made in Italy, una sicurezza e una
garanzia sia per i consumatori che per gli agricoltori. Da qui l’esigenza di salvaguardare il
64 Capitolo 1

nostro sistema agroalimentare che proprio nella qualità, nella tipicità e nel legame con il
territorio ha le sue fondamentali prerogative. La conclusione del percorso sul nostro Made in
Italy abbinata al concetto della qualità dei prodotti alimentari, coincide con l’apertura di un
altro importante capitolo per il futuro dell’agricoltura europea, la nuova Pac. Si spera che la
nuova politica agricola comunitaria possa accompagnare l’industria alimentare con forti
scelte, adeguate risorse e servizi efficaci per rafforzare l’agricoltura, migliorare il reddito dei
produttori, salvaguardare l’ambiente e il territorio

1.3 LA DISTRIBUZIONE ALIMENTARE

I cambiamenti avvenuti nel sistema agroalimentare hanno subito una profonda accelerazione
negli ultimi decenni nell’ambito della distribuzione e commercializzazione dei prodotti. Tali
cambiamenti hanno fatto registrare, un vero e proprio crollo del sistema di distribuzione
tradizionale, caratterizzato dalla presenza di un numero molto elevato e diffuso di negozi, e al
tempo stesso si è affermata la grande distribuzione organizzata imperniata sui supermercati
ed ipermercati, acquistando quote di mercati sempre maggiori fino a diventare la parte
largamente prevalente del sistema distributivo agroalimentare, avvicinando l’Italia agli altri
paesi europei. Il processo di razionalizzazione, che ha coinvolto, la struttura del commercio
agroalimentare negli ultimi anni, ha generato una diminuzione del numero di esercizi del
“piccolo dettaglio”, senza però ridimensionarne l’importanza, che si esprime non solo sotto il
punto di vista economico, ma anche attraverso il ruolo di supporto alle funzioni residenziali e
produttive. La struttura tradizionale della distribuzione alimentare fino a tutti gli anni ’80 è
stata caratterizzata dalla presenza di un numero rilevantissimo di negozi diffusi su tutto il
territorio nazionale, nelle grandi, piccole città e paesi e soprattutto dalla legge n.426 del 1971,
che ha imposto forte limitazioni nei piani commerciali con la fissazione di tabelle
merceologiche, del numero degli esercizi e il limite massimo delle superficie di vendita. Ciò ha
costituito una forte barriera all’entrata per le grandi superfici e l’impossibilità di usufruire di
economie di dimensione. La situazione è cambiata con il testo Unico sul commercio fisso del
1988, che ha eliminato, almeno in parte, il vincolo all’ampliamento e al trasferimento della
superficie degli esercizi di media e grande dimensione istituendo un centro di rilevazione
permanente per il settore distributivo. Successivamente, diversi decreti e in particolare il
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .65

decreto Bersani del 2000, hanno portato ad una maggiore liberalizzazione delle licenze e degli
orari di apertura. La diffusione della grande distribuzione, causa principale del crollo del
sistema tradizionale, è iniziata nelle regioni del Nord, e in particolare nelle grandi città e loro
periferie. I primi esercizi a diffondersi sono stati i supermercati, seguiti da ipermercati, dove
le grandi superfici dei reparti alimentari sono state affiancate da numerose altre attività
commerciali. Verso gli anni ’90 ha preso piede in modo sistematico anche una nuova forma di
distribuzione, rappresentata dagli hard discounts (forma di distribuzione che punta al ribasso
dei costi e quindi dei prezzi dei prodotti alimentari, basandosi sulla vendita di prodotti non di
marca e poco pubblicizzati). Tali risultati dimostrano come il consumatore abbia modificato le
sue abitudini di acquisto verso una maggiore propensione a preferire il punto vendita che sia
raggiungibile con il minor sacrificio, che offra una vasta gamma di prodotti e, che sia
competitivo in termini di prezzo. In poco tempo la grande distribuzione organizzata è
diventata quindi una delle forme di distribuzione alimentare più importanti e diffuse in tutto
il paese. Il maggiore potere contrattuale che si è andato concentrando nelle mani delle
imprese di distribuzione si è concretizzato con l’affermarsi di marchi propri (private label6)
delle diverse catene distributive, che si contrappongono ai marchi privati che fanno capo alle
grandi industrie e gruppi alimentari italiani e stranieri. L’attenzione alla qualità e alla sicurezza
alimentare da parte della grande distribuzione si è progressivamente affermata non solo,
come strategia di mercato, ma anche come risposta alla crescente sensibilità dei consumatori.
La grande distribuzione ha, quindi, sviluppato un’azione importante nella definizione degli
standard e delle caratteristiche che devono avere i prodotti alimentari fin dalla fase della
produzione agricola. Un aspetto da non trascurare riguarda la maggiore attenzione che la
grande distribuzione dà alle produzioni agroalimentari fresche e di qualità, come strumenti
per affermare la propria immagine e fidelizzare i propri clienti. Secondo dati forniti da
ACNielsen, a livello strutturale, oggi una cospicua quota di mercato è occupata da
supermercati e negozi tradizionali. Al 1 gennaio 2009 sono stati censiti 9.133 supermercati
(+3,6% rispetto all’anno precedente) con una forte concentrazione soprattutto nel

6
Le private label o marche private, sono prodotti e servizi, solitamente realizzati e forniti da società terze
(fornitore di marca industriale e terzista vera e propria) e venduti con il marchio della società che vende offre il
prodotto/servizio (distributore).
66 Capitolo 1

Mezzogiorno (+4,3% unità di vendita). Anche gli ipermercati sono in aumento, con 552 unità
(+6,1%).

Tabella 4 – Peso dei canali distributivi alimentari


DIMENSIONE QUOTA DI
CATEGORIA MERCATO %
Supermercati 1.200 – 2.500 mq 39,6
Superette e negozi tradizionali < 400 mq 18,3
Libero Servizio 10,4
Ipermercati >2500 mq 12,1
Hard Discount 2000-2500 mq 9,5
Altro 10,1
Fonte: ACNielsen (2011).

La distribuzione è diventa sempre più concentrata ed orientata all’internazionalizzazione,


tanto che tale fenomeno è definito dalla società di ricerche Mc-Kinsey “oligopolio
distributivo”. Soprattutto nei paesi ad economia avanzata, si è verificato un cambiamento di
rotta sul piano comportamentale da parte del consumatore, che essendo sensibile a
determinate regole di marketing, è diventato più esigente su aspetti che appartengono al
nuovo stile di vita presente nelle economie sviluppate e richiede, pertanto, una revisione delle
regole di marketing da parte delle aziende. Il prodotto offerto,oggi, dalla grande distribuzione
al consumatore è un prodotto complesso che incorpora servizi e varietà di offerta sugli scaffali.
Infatti, la scelta del punto vendita non è semplicemente legata al prezzo ma anche ad altri
fattori come ad esempio, la vicinanza al luogo di lavoro o residenza e la possibilità di
parcheggio. In Italia, tra il 1996 e il 2008, il numero di punti vendita al dettaglio è aumentato
sensibilmente sia per quanto riguarda i negozi tradizionali sia per la distribuzione moderna.
Per i primi questa tendenza complessiva è dovuta esclusivamente agli esercizi che vendono
prodotti non alimentari (+19%) che hanno controbilanciato il declino dei negozi alimentari (-
14%). Per la distribuzione moderna sono aumentati i punti vendita di entrambe le tipologie di
prodotti, ma la crescita è nettamente più marcata per i non alimentari (+60% contro +34%). Il
risultato è che, in Italia, la quota di mercato della grande distribuzione organizzata (GDO) è
passata, in dieci anni, dal 36 al 52%, mentre quella dei negozi tradizionali è scesa dal 53 al
35,6%. Questo ribaltamento è ancora più evidente per quanto riguarda i generi alimentari: la
quota di mercato della GDO è passata dal 50% al 69%, mentre quella dei negozi tradizionali è
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .67

scesa dal 41% al 18%. Stessa tendenza, si è registrata per i beni non alimentari: la quota di
mercato della GDP è, infatti, passata dal 20 al 35%, mentre quella dei negozi tradizionali è
scesa dal 67 al 50%. Più precisamente, nell’ambito dei super e ipermercati, i primi cinque
distributori hanno una quota di mercato pari al 95% in Francia, al 96% in Germania, al 70% nel
Regno Unito, al’80% in Spagna e al 60% in Italia.

Tabella 5 – Peso dei canali di vendita


2010 Italia Spagna Francia Germania UK
Ipermercati (>2500) 29% 28% 55% 28% 51%
Supermercati (400-2500) 48% 52% 41% 68% 25%
Superette e negozi tradizionali 23% 20% 4% 4% 24%
Fonte: ACNielsen (2011).
A livello internazionale, sempre per quanto riguarda gli alimenti, il leader della grande
distribuzione organizzata è WalMart, con una cifra d’affari che, nel 2011, ha superato i 316
miliardi di euro. Al secondo posto, ma molto più lontano, si trova il gruppo francese Carrefour
che ha fatturato solo 90,1 miliardi di euro. Seguono poi un altro americano e un gruppo
tedesco Tesco, Metro (circa 67 miliardi di euro). Il primo italiano, Coop Italia, si posiziona al
49° posto, con 15,5 miliardi di euro di cifra d’affari e al I posto dei grandi distributori italiani.

Tabella 6 – Grandi distributori internazionali (Mld €)

FATTURATO
Wal-Mart 316
Carrefour 90,1
Tesco 71
Metro 67,3
Kroger 62
Costco 57,5
Target 49,6
Seven 44
Aeon 43,8
Edeka 43,1
Auchan 42,5
Rewe 39,8
Fonte: Iri Infoscan- 2011.
Al secondo posto, nella classifica italiana, si posiziona Conad (circa 10 miliardi di euro), seguito
dal Gruppo Auchan (8 Mld), Selex (tutti circa 7 miliardi), Esselunga (7 miliardi), Carrefour,
Despar, etc.
68 Capitolo 1

Tabella 7 – Gruppi della distribuzione alimentare italiana


Quota di mercato 2010
( % su GDO tot. Fatturato)
Coop Italia 15,4
Conad 10,1
Gruppo Auchan 8,3
Selex 7,9
Esselunga 7,7
Gruppo Carrefour 7,2
Despar 4,4
Interdis 3,9
Gruppo Pam 3,5
Eurospin 3,4
Fonte: Iri Infoscan- 2011.

Da un’analisi sulla densità del sistema distributivo italiano emerge, anche, una disuguaglianza
tra Italia settentrionale e meridionale. Al sud prevale la presenza di molte superficie dedicate
al libero servizio. Molto importante è la continua crescita dei discounts che si sta imponendo
come alternativa ai Superstore. Al nord i punti vendita di libero servizio lasciano posto alle
grandi superficie di vendita. Più della metà degli ipermercati in tutta Italia si concentra in
Lombardia, Veneto e Piemonte. Anche l’andamento delle vendite alimentari rispecchiano i
criteri del sistema distributivo italiano. Nel I semestre 2011, le vendite hanno registrato un
aumento dello + 0,5% seguendo il trend cominciato nel 2010; per il dettaglio tradizionale i
volumi venduti sono ancora inferiori all’anno precedente (0,4%), a conferma dell’andamento
deludente del canale.

Tabella 8 – Vendite alimentari al dettaglio 2011


Var % vendite Var % vendite alimentari
alimentari (Su indici destagionalizzati)
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .69

(Su indici grezzi su


valori correnti)
I TRIMESTRE 2011
Aprile 4,3 1,1
Maggio -0,3 0,5
Giugno 0,2 0,3
II TRIMESTRE 2011
Luglio -2,1 -0,5
Agosto 1,7 0,3
Settembre 0,7 0,1
III TRIMESTRE
Ottobre 0,9 0,8
Novembre 0,0 0,0
Dicembre -1,7 -2,0
IV TRIMESTRE -0,4 -0,5
Fonte: Federalimentare.

Analizzando la regione Campania, si è assistito negli ultimi anni, ad una comparsa di punti
vendita al dettaglio con elevata superficie, provocando una fuoriuscita dal mercato dei piccoli
dettaglianti tradizionali. Tale riduzione, che può essere adottata come indice di
razionalizzazione e riorganizzazione del sistema distributivo, è stata meno sensibile rispetto al
dato italiano e al Mezzogiorno nel suo complesso. Ciò è indice di un notevole ritardo nel
processo di modernizzazione della distribuzione alimentare all’interno della regione,
confermata anche dalla minore riduzione del numero dei grossisti, che indica la persistenza di
canali commerciali di tipo “lungo”, che caratterizzano settori distributivi di tipo più
tradizionale (ortofrutticolo, cerealicolo, pataticolo, ecc). Indipendentemente dalla situazione
campana della distribuzione alimentare resta un dato di fatto che oggi i sistemi agroalimentari
di successo debbano essere in grado di gestire in maniera efficiente: i rapporti con la
distribuzione moderna. La posizione di forza che caratterizza il settore della distribuzione
alimentare deriva proprio dal posizionamento strategico in prossimità di un consumatore il
cui comportamento è in profonda evoluzione. In un sistema agroalimentare condotto dal
consumatore, l’impresa agroalimentare moderna affronta un duplice ruolo: non è più quello
del fornitore di prodotti ad elevata sostituibilità, ma è attivamente impegnata nella
soddisfazione generale di un consumatore sempre più self-concerned, che ricerca anche nei
prodotti alimentari un valore reale per il denaro che dedica all’acquisto di tali beni.
70 Capitolo 1

1.4 LE RELAZIONI FRA INDUSTRIA E DISTRIBUZIONE ALIMENTARE

La politica di concentrazione intrapresa dal settore della distribuzione ha avuto il suo stimolo
principale nel tentativo di aumentare il proprio potere contrattuale. Conseguenza inevitabile
di questo processo è stato il superamento della funzione di semplice raccordo tra produzione
e consumo, e l’acquisizione di una rilevante funzione di condizionamento dei consumatori.
Questo cambiamento ha determinato un conflitto tra industria e distribuzione alimentare.
L’inizio del conflitto occorre con l’affermarsi dei prodotti di marca che rendono le insegne
fortemente sostituibili fra loro, rendendo il livello generale dei prezzi l’unico fattore di
differenziazione agli occhi del consumatore. La competitività sul fronte dei prezzi implica una
compressione dei margini del distributore, che per ovviare a tale processo ha davanti l’unica
soluzione di affrancarsi dai vincoli imposti dall’industria alimentare di marca. Il conflitto con
l’industria alimentare si identifica nel continuo tentativo da parte della distribuzione di
massimizzare i propri margini mercantili attraverso la riduzione dei prezzi degli input. Il prezzo
alla distribuzione, qualora non sia imposto dall’industria, genera una spietata concorrenza sui
prezzi offerti dalle imprese distributive, spesso provocando alterazioni nella percezione della
qualità dei prodotti da parte del consumatore. Viceversa, in caso di prezzi non imposti, la
concorrenza tra imprese distributive s’incentra sulla differenziazione e sul livello di servizi
addizionali offerti con il prodotto. Le strategie possibili per l’industria alimentare mirate a
mantenere la propria posizione mercantile nei confronti della moderna distribuzione
s’incentrano sulla massima possibile differenziazione dei prodotti, o meglio sulla creazione di
una forte immagine per i propri prodotti (o per i propri marchi) attraverso la comunicazione.
La forte fidelizzazione del consumatore nei confronti della marca sbilancia il potere mercantile
a favore dell’industria, dal momento che la formula distributiva è scelta perché comprende
nel proprio assortimento la marca ricercata dal consumatore. Un primo vincolo per la
distribuzione è la necessità di comprendere nella propria offerta le marche leader per non
compromettere l’immagine della propria insegna; dall’altra parte, in una simile situazione i
prodotti si vendono da sé, e veramente ristretti possono essere i condizionamenti della
distribuzione sul consumatore. Ma nel tempo sia attraverso i processi di concentrazione che
attraverso un’imponente organizzazione, la fidelizzazione alla marca si è gradualmente
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .71

trasformata in fidelizzazione all’insegna, con l’appropriarsi da parte dell’industria delle


funzioni di condizionamento nei confronti del consumatore, consentendo un’inversione nella
detenzione al potere contrattuale tra distribuzione stessa ed industria alimentare. Il conflitto
che si è generato nel tempo tra industria alimentare e distribuzione ha avuto, in ogni caso,
l’effetto di un reciproco condizionamento tra i due attori. La distribuzione ha reso possibile il
processo di concentrazione dell’industria alimentare, mentre la competizione con l’industria
ha spinto la moderna distribuzione ad integrare verticalmente determinate funzioni logistiche
(tradizionalmente di competenza degli intermediari grossisti). Le industrie alimentari con le
capacità adeguate hanno reagito con l’ampliamento della gamma dei prodotti offerti e con la
ricerca di prodotti innovativi, per combattere le barriere all’entrata innalzate dalla moderna
distribuzione. La riorganizzazione delle funzioni svolte dalla moderna distribuzione ha avuto
ripercussione positiva sul contenimento dei margini di commercializzazione: dal conflitto con
l’industria, la moderna distribuzione ha ricavato l’impulso alla ricerca di economie di scala.
L’effetto finale del conflitto è stato infine l’ampliamento della gamma di alternative a
disposizione del consumatore, da cui in ogni caso sono partiti gli impulsi al cambiamento. La
diffusione di iniziative come l’ECR7 ed il Category Management8, dall’altra parte, rendono
conto di un passaggio nei canali agro-alimentari da conflitto a collaborazione. L’obiettivo
comune è quello di soddisfare comportamenti d’acquisto estremamente diversificati
mettendo in atto una strategia competitiva nella quale lavorare congiuntamente. L’industria
si avvantaggia di questa collaborazione soprattutto perché essa è un mezzo per avere un
immediato feed-back sul consumo,

prerogativa all’origine del conflitto con la distribuzione. Il risultato segnato dal passaggio dal
conflitto alla collaborazione (di cui l’iniziativa ECR è un sintomo), è la massimizzazione della
soddisfazione del consumatore attraverso prodotti da lui “derivati” (pulled), in base alle sue
necessità, piuttosto che spinti (pushed) nel canale dall’industria alimentare attraverso precise

7
Per ECR (Efficient consumer response) si intende una condivisione di esperienze e conoscenze sul mercato e sui
consumatori da parte delle aziende della produzione e della distribuzione allo scopo di ottimizzare le strategie
che permettono di raggiungere obiettivi comuni e offrire la risposta migliore per i consumatori. Questa
ottimizzazione è facilitata dalla venuta delle nuove tecnologie e dal rinnovamento dei metodi tradizionali del
trade marketing.
8
Per Category Management si intende il processo di gestione delle Categorie di Prodotto, il cui obiettivo è
l’aumento della soddisfazione delle esigenze del consumatore sul punto vendita.
72 Capitolo 1

politiche di prezzo nei confronti delle imprese distributive, focalizzando l’attenzione


sull’efficienza globale della supply chain piuttosto che su quella delle singole componenti.
L’attivazione di un tavolo di confronto tra industria e Gdo è stata avviata dal Mipaf e dal Mise
(ministero dello sviluppo economico) al fine di:

 Creare e migliorare il valore dei prodotti attraverso forme collaborative atte a


garantire al consumatore offerte migliori, in termini di prodotto-servizio, ricercando
un utilizzo ottimale delle risorse e la massima efficienza possibile in tutte le fasi della
filiera produzione-distribuzione-consumo.
 Una correttezza dei rapporti commerciali: ossia prestazioni reali proporzionalmente
legate a reali effettive controprestazioni, sia in riferimento alla fornitura di beni che
alla prestazione di servizi.
 Garantire una reciprocità con rapporti contrattuali trasparenti e effettivi, affinché il
vantaggio di una parte non avvenga a svantaggio dell’altra e non si determinino
pratiche anticoncorrenziale.

1.5 LE NUOVE TENDENZE DEI CONSUMI ALIMENTARI

Le tendenze nei consumi alimentari, in particolare i comportamenti di spesa emergenti dei


consumatori italiani, in questi anni di crisi, hanno avuto evidenti impatti sull’agricoltura e
sull’industria alimentare nazionale. L’aumento della pressione fiscale e la competitività sui
mercati, hanno orientato i consumatori verso nuovi stili di consumo alimentare, modificando
in tutto o in parte le loro abitudini di acquisto. L’acquisto e il consumo di cibo vengono sempre
più a dipendere da un set di variabili soggettive: disponibilità di tempo per la preparazione dei
pasti, dimensione del nucleo familiare e valore attribuito al tempo libero. Il consumatore
odierno, finisce, così, per incasellarsi in più dimensioni combinabili, con esigenze,
comportamenti complessi e svariati che oscillano tra l’attenzione alla salute e la gratificazione
del palato, tra la responsabilità sociale e il consumismo, privilegiando la qualità alla quantità.
L’erosione del potere di acquisto delle famiglie ha ridotto lo spazio di mercato domestico ma,
allo stesso tempo, ha spinto il consumatore ad avere, sulla propria tavola, prodotti tipici e in
misura maggiore, prodotti di qualità. Allo stesso tempo, la tipologia di servizio commerciale
ha caratterizzato il consumatore ad avere una visione più qualificata del prodotto: le scelte
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .73

dove effettuare l’acquisto e con quale frequenza, spesso, precedono la decisione stessa dello
specifico bene da acquistare. Più volte, il consumatore è orientato verso prodotti che
consentano la semplificazione della preparazione: da cibi più semplici, che richiedono un
minor tempo di elaborazione culinaria, a pasti già pronti (pre-cotti o cotti). Oggi, il
consumatore è sempre più attento ed orientato verso acquisti consapevoli e include nel
concetto di qualità dei prodotti agro-alimentari anche valori quali la sostenibilità ambientale
e sociale della produzione. È dunque mosso da un senso di responsabilità e di consapevolezza,
da una condivisione di vedute e di sensibilità in cui l’etica e la responsabilità sociale sono
sempre parte integrante del concetto di qualità. Il consumatore si mostra attento a ciò che
mangia in termini di igiene, salubrità e qualità nutrizionale, acquistando minori quantità di
cibo perché si possa ricercare nel prodotto una parte emozionale nel gusto, nell’esperienza e
nel rispetto per l’ambiente.

È nel momento di acquisto e consumo alimentare che si rafforza la consapevolezza del nesso
tra alimentazione e salute: la convergenza verso alcune categorie di dieta, prima fra tutte la
dieta mediterranea, ha agito da modello per una sana alimentazione, attraverso la tendenza
ad acquistare prodotti a basso contenuto di grassi, in linea con le nuove esigenze di vita. Oggi,
la funzione salutistica richiama maggiormente l’attenzione del consumatore, incrociandosi
con le problematiche e le recenti polemiche sui cibi transgenici, guardati con sospetto dai
consumatori. Le sfide in questo settore , pongono una riformulazione degli alimenti, allo
scopo di eliminare o sostituire gli ingredienti indesiderati, per lo sviluppo di nuovi prodotti, in
grado di intercettare le esigenze dei consumatori.

1.6 LE CARATTERISTICHE DEI “FOOD MILES”

Nelle nuove tendenze di consumo, anche il trasporto, con tutte le implicazioni di carattere
ambientale e sociale, assume un’importanza decisiva incidendo in maniera tanto più
consistente quanto maggiore risulta l’entità dei food miles. Con l’espressione “food miles”,
pur intendendo i chilometri percorsi da un alimento dal luogo nel quale avviene la sua fase
produttiva a quello in cui è consumato, si mira ad esprimere l’entità dell’impatto ambientale
del trasporto del cibo che arriva sulla nostra tavola. Se questo aspetto poteva apparire di
scarso rilievo fino a qualche tempo fa, è divenuto, oggi, sebbene sia ancora circoscritto in
74 Capitolo 1

Italia ed assai rilevante nei Paesi anglosassoni e in particolare in Inghilterra, di grande attualità,
a seguito di alcuni comportamenti tendenziali dei consumatori biologici più consapevoli. Il
forte consumo energetico, l’elevato impatto ambientale e il peggioramento della qualità della
vita, imputabile agli effetti della movimentazione su gomma delle merci (congestionamento
del traffico, incidenti, inquinamento acustico), rappresentano delle conseguenze del trasporto
degli alimenti che confliggono con i fondamenti etici su cui sono basati i principi
dell’agricoltura biologica. Che un prodotto agricolo perda la propria caratterizzazione
biologica all’aumentare della distanza che percorre dalla località di produzione fino al luogo
del consumo, rappresenta un dato che, al di là della percezione etica individuale, può essere
quantificato in termini di emissioni di anidride carbonica, consumo di combustibili fossili,
inquinamento dell’aria, incremento del traffico, degli incidenti, del rumore. Ovviamente, oltre
alla distanza, altri elementi contribuiscono a determinare l’entità di tale impatto: la via seguita
per il trasporto (mare, terra, aria) e le caratteristiche del mezzo di trasporto, in relazione ai
suoi consumi energetici e alle capacità di carico. I food miles, calcolati tenendo conto di questi
aspetti, rappresentano un adeguato misuratore della perdita di “biologicità” di un prodotto
lungo la sua catena distributiva. Una significativa conferma degli effetti dei food miles
proviene da un recente studio commissionato dal DEFRA (Department for Environment, Food
and Rural Affairs), dal titolo “The validity of food miles as an indicator of sustainable
development” dove si mette in luce come l’aumento dei food miles abbia determinato un
impatto ambientale, sociale ed economico associato al trasporto (emissioni di biossido di
carbonio, inquinamento dell’aria, traffico, incidenti e rumore).

La sostituibilità che nelle scelte di acquisto sembra manifestarsi fra prodotti biologici e
prodotti locali, anche in relazione a considerazioni sulla relativa convenienza in termini di
prezzo, rende sempre meno sostenibile, anche in termini economici, il trasporto dei prodotti
biologici. Il rapporto fra agricoltura biologica e food miles, cresciuto e rafforzatosi sulla base
della forte spinta iniziale della domanda dei prodotti biologici, ha mostrato tutti i suoi limiti
etici, ambientali e sociali. Di conseguenza, la scarsa compatibilità fra l’effettiva “biologicità” di
un prodotto e i suoi food miles, temporaneamente eclissata dalle favorevoli condizioni del
mercato, comincia ad essere percepita da un crescente numero di consumatori. In queste
condizioni, l’unica via perseguibile per preservare la “biologicità” degli alimenti e, allo stesso
tempo, rispondere alle istanze dei consumatori più attenti, è ricercare nuovi strumenti
Il sistema agroalimentare italiano: struttura, relazioni, strategie .75

normativi, attraverso i quali garantire che i prodotti biologici posseggano effettivamente quel
valore immateriale di carattere ambientale e sociale che viene loro attribuito.

CONCLUSIONI

Le pagine precedenti hanno consentito di disegnare un quadro generale dell’evoluzione del


sistema agroalimentare, fissando, in tal modo, i principali elementi distintivi del settore
distributivo e le potenzialità dell’industria alimentare. L’industria di trasformazione
alimentare si è caratterizzata come uno dei settori portanti della nostra economia,
dimostrando di essere in grado di reagire in modo positivo alle difficoltà congiunturali e
mostrando andamenti anticiclici importanti. I suoi livelli occupazionali e la produttività hanno
seguito negli ultimi decenni quelli dell’industria manifatturiera. Il suo valore aggiunto si sta
avvicinando sempre più a quello dell’agricoltura. I processi di internazionalizzazione in atto
sembrano mettere sempre più in difficoltà la struttura produttiva dell’industria alimentare.
L’affermarsi di alcuni gruppi nazionali è stato accompagnato da una sempre maggiore
presenza di imprese multinazionali9 estere che ha dato luogo a numerose acquisizioni, fusioni
e partecipazioni fra imprese del settore. Lo sviluppo delle attività agricole e dell’industria
alimentare si è però caratterizzato per la concentrazione nelle zone più ricche dove lo stretto
collegamento fra agricoltura e industria alimentare ha permesso la costituzione di veri e propri
distretti agroalimentari. La presenza di numerose realtà locali, dove imprese di piccola e media
dimensione concorrono alla valorizzazione delle produzioni di qualità e tipiche, costituisce un
elemento di vitalità del sistema agroalimentare italiano. La situazione si presenta molto più
complicata nelle aree agricole soggette a forte marginalizzazione, soprattutto nel Sud, dove i
sistemi agro-industriali stentano a svilupparsi e le produzioni agroalimentari più tipiche non
riescono ad essere competitive sui mercati nazionali ed europei. Inoltre, le rapide
trasformazioni del sistema distributivo, con il crollo del sistema tradizionale, l’affermarsi della

9
Una multinazionale è un’impresa, di norma una società, che controlla altre imprese dislocate in paesi diversi.
L’espressione “impresa multinazionale”, utilizzata per la prima volta da David Lilienthal, direttore della Tennessee
Valley Authority in una relazione presentata al Carnegy Institute of Tecnology nel 1963, assunse risonanza
internazionale il 20 aprile dello stesso anno quando il settimanale Business Week dedicò al tema un articolo dal
titolo Multinational Companies.
76 Capitolo 1

grande distribuzione, i nuovi orientamenti di consumo, gli scandali alimentari (fenomeno della
mucca pazza10, polli alla diossina11, aflatossine nel latte12, Sudan Rosso nei sughi13, ecc)
verificatesi a partire dagli anni ’80 rafforzano il bisogno di qualità e sicurezza degli alimenti,
offrendo da un lato nuove opportunità allo sviluppo del sistema agroalimentare, ma allo
stesso tempo lo rendono più aperto e penetrabile, rispetto al passato, alle produzioni estere.
I cambiamenti del sistema distributivo hanno reso più evidente la necessità di offrire al
consumatore una gamma sempre più vasta di prodotti. Le caratteristiche di freschezza di molti
beni alimentari hanno portato alla definizione di strategie della qualità e genuinità dei prodotti
alimentari tali da attrarre il consumatore e renderlo più fedele alla catena distributiva La
ricerca di un nuovo equilibrio all’interno del settore agroalimentare italiano si presenta oggi
tanto più necessaria quanto complessa. Gli elementi fondamentali vanno individuati in nuovi
rapporti fra produttori e consumatori, che salvaguardino le professionalità e i redditi dei primi
e, allo stesso tempo, assicurino alimenti sani e di qualità ai secondi. Migliorare le scelte
alimentari passa anche dai controlli e dalla certificazione della qualità complessiva lungo tutta
la catena alimentare, ma rilevanti risultano l’informazione e l’educazione dei consumatori
stessi.

10
Il fenomeno dell’Encefalopatia Spongiforme Bovina, meglio conosciuto come “mucca pazza”, è una malattia
neurologica degenerativa, appartenente al gruppo di malattie denominate Encefalopatie Spongiformi
Trasmissibili, che colpiscono i bovini.
11
L’influenza aviaria ha interessato gli allevamenti asiatici, in misura minore quelli europei e in particolare quelli
italiani.
12
Le aflatossine vengono annoverate tra le principali micotossine che sono delle sostanze tossiche originate dal
metabolismo di alcuni funghi, molti dei quali presenti su vari substrati (foraggi, cereali, farine di estrazione,
arachidi)..
13
Il Sudan Rosso è un colorante industriale di colore arancio/rosso che naturalmente non è contenuto negli ali-
menti. Oltre che nelle materie plastiche, ne è stato riscontrato la presenza anche in sughi e condimenti.
77 Capitolo 2

2. FORME DI COMPETIZIONE NEI MERCATI AGROALIMENTARI

2.1 AGROALIMENTARE E COMPETITIVITÀ: FONTI, FORME, ATTORI DELLA COMPETIZIONE

Nel sistema economico la funzione di creazione di nuova ricchezza è per la gran parte svolto
dalle aziende di produzione, unità organizzative nate da una iniziativa imprenditoriale e che si
strutturano per produrre stabilmente nel tempo redditi da distribuire ai soggetti coinvolti.

La creazione di redditi è effettuata attraverso il processo di produzione che permettere di


mettere stabilmente in relazione la soddisfazione dei bisogni espressi dalla società con il rag-
giungimento dei fini d’impresa.

Le aziende nascono per operare stabilmente nel tempo e per questo sviluppano una struttura
fatta di capitali impiegati nell’attività di produzione (fabbricati, macchine, dotazioni
finanziarie), di risorse umane utilizzate con continuità (personale e sua organizzazione), di
organizzazione concreta del processo produttivo (specializzazione e coordinamento tra le
attività di approvvigionamento, produzione, commercializzazione, ricerca e sviluppo, gestione
amministrativo finanziaria etc.).

Nella misura in cui l’obiettivo imprenditoriale assegnato all’azienda, è capace di soddisfare


bisogni reali, l’attività aziendale può svilupparsi e crescere nel tempo.

Nelle economie nelle quali il mercato rappresenta la fondamentale forma di organizzazione


sociale della produzione, durante la loro attività le aziende sono continuamente sottoposte a
pressioni competitive.

Il modello del mercato proposto dall’analisi microeconomica rappresenta in modo semplifi-


cato alcuni aspetti fondamentale di tale competizione.

Tuttavia non è difficile immaginare come la semplice relazione tra quantità e prezzo, alla base
della teoria dell’offerta, sia insufficiente per rappresentare la complessità delle decisioni che
le aziende di produzione prendono e delle azioni che mettono in atto durante la competizione.

Non solo: il modello del mercato, essendo un modello di equilibrio può solo descrivere le
scelte degli attori e dedurre gli esiti di un processo competitivo in cui i “dati” del problema
78 Capitolo II

economico (prezzi dei fattori produttivi, tecnologia di produzione, preferenze dei consuma-
tori, strutture di mercato) siano chiaramente definiti (siano dati nel vero senso della parola).

Quando si osserva la realtà delle attività di produzione per il mercato, viceversa, ci si trova di
fronte un processo nel quale il raggiungimento concreto degli obiettivi aziendali di breve
periodo si sviluppa congiuntamente alla scoperta di nuove opportunità ancora sconosciute
(nuovi dati per definire il problema imprenditoriale) ed alla realizzazione di azioni per sfrut-
tarle in futuro.

Un modello particolarmente efficace per descrivere la molteplicità di fronti sui quali un’attività
imprenditoriale deve misurarsi è quello di concorrenza allargata proposto da Porter (2001).

Figura 1 – Il modello di concorrenza allargata di Porter

Il centro della figura rappresenta lo spazio d’azione di un’azienda nel perseguimento dei suoi
obiettivi imprenditoriali, la sua libertà di movimento nello scegliere cosa, come, per chi pro-
durre. Questo spazio è continuamente conteso all’azienda da una serie di pressioni competi-
tive, rappresentate dalle frecce, provenienti da soggetti diversi.

Una prima fondamentale pressione competitiva proviene dalle aziende dello stesso settore,
cioè da concorrenti che, con la loro produzione, cercano di soddisfare i bisogni dei consuma-
tori producendo beni che sono sostituti più o meno stretti di quello prodotto dall’azienda.
Forme di competizione nei mercati agroalimentari .79

È il concetto più intuitivo di concorrenza (quella, per intendersi, che c’è tra Coca-Cola e Pepsi)
in cui le aziende si spartiscono le quote di un determinato “mercato”. Le forme di concorrenza
rappresentate nel modello di mercato (in tutte le sue formulazioni) sono riconducibili a questa
forma di competizione. Tuttavia, l’azione imprenditoriale è soggetta ad altre importanti
pressioni competitive che provengono dall’esterno del settore strettamente inteso (ad
esempio da imprese che non sono imprese di produzione alimentare).

Innanzitutto devono essere considerate le pressioni competitive che provengono dagli altri
attori della filiera all’interno della quale si colloca l’attività aziendale. Uno dei fattori deter-
minanti della dinamica strutturale del sistema economico è il progresso tecnico che determina
la divisione del lavoro e la specializzazione.

La produzione alimentare, che nelle economie prevalentemente rurali viene per la gran parte
svolta dalle aziende agrarie, con lo sviluppo economico tende a scindersi in diverse fasi che, in
misura crescente, diventano oggetto di attività imprenditoriale in aziende specializzate.

Così, mentre le aziende agricole tendono a diventare sempre più aziende fornitrici di materie
prime si forma contemporaneamente un’industria della trasformazione alimentare, a sua
volta organizzata secondo una scomposizione che può essere più o meno spinta del processo
di produzione (prima e seconda trasformazione, affinamento e stagionatura, confeziona-
mento etc.), e un comparto della distribuzione finale dei prodotti verso i consumatori (con-
servazione, trasporto, vendita al dettaglio etc.).

Lungo la filiera di una produzione alimentare si creano una serie di mercati intermedi nei quali
un’azienda si confronta con i fornitori (mercati a monte) e con i clienti (mercati a valle). È
chiaro che dal punto di vista dell’azienda i clienti e i fornitori sono allo stesso tempo partner (i
rapporti con clienti e fornitori sono indispensabili per raggiungere gli obiettivi aziendali e si
basano sulla convenienza allo scambio da entrambe le parti) e concorrenti (il vantaggio
complessivo di una transazione può distribuirsi tra i due soggetti che la realizzano in modo
ineguale in base all’accordo che si raggiunge su prezzo, qualità e quantità scambiata).

La posizione relativa in termini di potere di mercato si riflette sull’intensità della pressione


80 Capitolo II

competitiva che proviene dagli scambi all’interno della filiera. Nel caso dell’industria alimen-
tare è indubbio che una forte pressione proviene oggi dal comparto della distribuzione che
mostra oggi un grado di concentrazione sensibilmente superiore.

Nelle economie sviluppate la grande distribuzione moderna ormai soddisfa la maggior parte
della domanda finale: i pochi soggetti che detengono le maggiori quote di mercato possono
così esercitare sull’industria di produzione forti pressioni per ottenere più favorevoli condi-
zioni di fornitura dei prodotti.

Verso l’industria alimentare possono provenire pressioni competitive anche dal lato dei for-
nitori, come nel caso in cui i mercati delle materie prime sono soggetti a particolari tensioni
(approvvigionamento delle commodities agricole acquistate sui mercati internazionali)
oppure quando esistono forme di concentrazione e limitazione quantitativa dell’offerta (come
nel caso di board nazionali per la commercializzazione di prodotti agricoli).

Le pressioni competitive presentate fino a questo punto provengono da soggetti che già
operano lungo la filiera di produzione.

Un’altra categoria di pressioni competitive è quella che proviene da comportamenti e azioni


competitive potenziali. La potenzialità delle minacce è evidentemente connessa con la natura
della concorrenza: in un ambiente economico in cui il decentramento delle decisioni
economiche determina l’impossibilità di ottenere tutte le informazioni rilevanti, gli impren-
ditori sono sempre alla ricerca di nuove opportunità non ancora sfruttate per realizzare valore
aggiunto e, a meno che non esistano ostacoli invalicabili,nessuna attività imprenditoriale di
successo è al sicuro dalla sfida di nuovi competitori.

Le aziende sono potenzialmente esposte alla minaccia dell’entrata nella competizione di nuovi
concorrenti, magari dotati di importanti risorse finanziarie o capaci di sfruttare nuove e più
efficienti tecnologie di produzione. Quanto più un mercato è contendibile (cioè senza barriere
all’ingresso di nuove imprese di qualsiasi natura) tanto più la minaccia può essere concreta e
richiedere opportune contromisure (alcuni di questi meccanismi sono analizzati nel modello
di oligopolio studiato dalla microeconomia).
Forme di competizione nei mercati agroalimentari .81

È quanto ad esempio succede nelle filiere alimentari quando una grande impresa, magari a
carattere multinazionale, acquisisce un marchio consolidato su un mercato nazionale, per
entrare in tale mercato esprimendo tutto il suo potenziale di crescita.

In Italia questo è successo in passato per molte industrie di trasformazione mentre, in tempi
più recenti, si sono manifestati i primi fenomeni di ingresso di gruppi internazionali nella
sistema della distribuzione alimentare.

Un’ulteriore minaccia potenziale può provenire da prodotti sostituti, in grado di rimpiazzare


le produzioni offerte dall’azienda nella soddisfazione dei bisogni dei consumatori. Questo
meccanismo è piuttosto evidente quando si parla di prodotti della stessa categoria merceo-
logica (un nuovo tipo di sostituto del pane, insalate già pronte da consumare rispetto a quelle
semplicemente lavate) ma potrebbe essere attivo anche attraverso effetti incrociati molto
meno intuitivi. Il grande rilancio dei consumi di vino di qualità degli ultimi anni, ad esempio, è
stato fortemente motivato dall’esigenza di soddisfare bisogni più astratti come quello di stima
e di realizzazione.

Dal momento che si tratta di bisogni non strettamente legati alle caratteristiche intrinseche
del vino, quanto piuttosto alle sue caratteristiche immateriali (come la storia e la cultura di un
territorio di origine) ed ai rituali di consumo ad esso associati (occasioni di socializzazione,
consumo fuori casa) non si può escludere, in linea di principio, che questi stessi bisogni pos-
sano essere soddisfatti in futuro attraverso il consumo di altri beni, magari di una categoria
completamente diversa, sia all’interno che all’esterno del comparto delle bevande: si pensi ad
esempio al ruolo che possono ricoprire le spese per viaggi e istruzione, oppure l’arredamento
di lusso. Non è un caso, del resto, che anche nel settore di produzione dei diamanti il principale
produttore, che opera in una situazione vicina al monopolio, realizzi con una certa continuità
campagne pubblicitarie.

Per “alleggerire” le pressioni competitive, le aziende mettono in atto una serie di azioni stra-
tegiche. Esse sono riconducibili a due grandi categorie.

In primo luogo le aziende perseguono una serie di accordi volti a creare forme di integrazione
e coordinamento con altre imprese per perseguire obiettivi comuni in modo più efficace
rispetto ad un’azione competitiva isolata.
82 Capitolo II

In secondo luogo le aziende scelgono una serie di azioni strategiche volte ad accrescere la loro
quota di mercato; mettono in atto una strategia competitiva propriamente detta.

Nel seguito, le due categorie di azioni verranno brevemente descritte con riferimento alle
tendenze più recenti che si sono manifestate nei sistemi agroalimentari delle economie
avanzate.

2.2 COMPETITIVITÀ E ORGANIZZAZIONE: FORME DI INTEGRAZIONE E COORDINAMENTO TRA


AZIENDE NEL SISTEMA AGROALIMENTARE

La domanda finale di beni alimentari viene soddisfatta nel sistema economico da una molte-
plicità di imprese operanti lungo le diverse fasi della filiera agroalimentare. Il processo di
sviluppo economico e la dinamica strutturale che lo ha accompagnato hanno reso progressi-
vamente più complessa la struttura del sistema agroalimentare.

Innanzitutto è avvenuta una progressiva scomposizione del processo di produzione degli


alimenti le cui diverse fasi vengono spesso realizzate in aziende diverse. Produzione della
materia prima agricola, trasformazione delle materie prime in prodotti finiti spesso anch’essa
suddivisa in più stadi (ad es. molitura dei cereali, trasformazione delle farine),
confezionamento, magazzinaggio e trasporto, commercializzazione finale: tutte queste ope-
razioni, benché talvolta vengano realizzate tutte dalla stessa azienda (come ad esempio nel
caso di alcune case vinicole orientate su produzioni di elevata qualità) molto più spesso rap-
presentano il campo operativo di aziende diverse che, lungo la filiera, si scambiano prodotti
semilavorati e/o finiti sui mercati intermedi nei quali la filiera

alimentare è articolata.

In secondo luogo i mercati si sono progressivamente aperti alla competizione internazionale


per effetto del processo di globalizzazione. Da un lato la costante diminuzione dei costi di
trasporto, unito al miglioramento delle tecniche di conservazione, ha allargato l’area di po-
tenziale mercato per molte produzioni agroalimentari che un tempo erano confinate su
mercati locali (si pensi ad esempio alla frutta fresca che oggi viene commercializzata su scala
mondiale). Dall’altro il progresso nelle tecnologie di trasmissione delle informazioni ha aperto
un campo potenzialmente enorme di intensificazione delle relazioni commerciali tra le diverse
Forme di competizione nei mercati agroalimentari .83

componenti del sistema agroalimentare (basti pensare al fenomeno del commercio


elettronico che, soprattutto nel campo delle produzioni alimentari di qualità, già oggi consente
ad imprese di produzione di piccole dimensioni di affrontare con successo mercati
geograficamente molto lontani).

Per descrivere adeguatamente la struttura del sistema agroalimentare, di conseguenza, non è


sufficiente quantificare le aziende operanti nelle sue diverse fasi (agricola, industriale e
commerciale) ma è necessario anche delineare i principali processi di integrazione e coordi-
namento esistenti tra le imprese stesse.

Le aziende del sistema agroalimentare si “contendono” il valore complessivo prodotto dal


sistema agroalimentare (approssimativamente corrispondente al valore dei consumi alimen-
tari) attraverso un processo competitivo nel quale i rapporti di forza sui diversi mercati risul-
tano essere determinanti.

Le strategie di integrazione e coordinamento nascono in genere come risposta alle pressioni


competitive e vengono attuate dalle imprese per aumentare il loro margine di manovra nella
produzione di nuova ricchezza attraverso la produzione.

Due sono le fondamentali forme di integrazione tra imprese: quella orizzontale e quella ver-
ticale.

La prima si attua quando imprese attive nella medesima fase della filiera agroalimentare
decidono di operare svolgendo la medesima attività con forme di coordinamento più o meno

vincolanti.

La seconda si realizza invece quando aziende che realizzano fasi diverse del processo produt-
tivo, invece di competere confrontandosi (in un rapporto fornitore/cliente) nei diversi mercati
lungo la filiera, decidono di coordinare le loro azioni per il raggiungimento di un obiettivo
competitivo comune.

Le forme di integrazione orizzontale sono in genere finalizzate allo sfruttamento delle eco-
nomie di scala consentite dalla tecnologia di produzione. Un esempio tipico settore di cui ci
occupiamo è quello della cooperazione agroalimentare. Anche se i processi di trasformazione
alimentare sono per la gran parte usciti dal settore agricolo per essere realizzati da imprese di
trasformazione industriale, certe forme di prima e seconda trasformazione sono, per motivi
84 Capitolo II

tecnologici, strettamente legati al territorio di provenienza delle materie prime agricole. In


questi casi è frequente la creazione di imprese cooperative da parte dalle aziende agricole,
per la realizzazione collettiva di tali processi di trasformazione ad una scala dimensionale che
li renda economicamente sostenibili.

In Italia, le imprese cooperative rappresentano una componente importante dell’industria


alimentare: in alcuni comparti, come quello enologico, quello caseario, quello di trasforma-
zione delle olive, le cooperative di trasformazione sono non di rado imprese capaci di com-
petere efficacemente sui mercati a valle, realizzando un vantaggio, in termini di distribuzione
del valore aggiunto, a favore della componente agricola.

Le motivazioni economiche alla base delle forme di integrazione verticale possono essere in
buona parte ricondotte alla controllo dei costi di transazione.

La realizzazione di transazioni su qualsiasi mercato, infatti, oltre al prezzo di scambio che viene
concordato, comporta anche il sostenimento da parte dei contraenti di una serie di costi
indispensabili per rendere possibile la transazione stessa: ricerca e individuazione di
clienti/fornitori affidabili, costo di rinforzo legale dei contratti, concessione di particolari
condizioni commerciali, costi connessi alla valutazione della qualità delle merci scambiate e
così via.

Che i costi di transazione possano essere anche molto elevati è testimoniato dal fatto che le
imprese tendono a consolidare nel tempo le relazioni di compravendita con alcuni partner
commerciali considerati affidabili, concedendo spesso loro delle condizioni di favore pur di
non interrompere il rapporto di fornitura/clientela.

Anche se questo comportamento potrebbe sembrare nel breve periodo meno efficiente
rispetto ad una ricerca continua sul mercato delle migliori condizioni di scambio, nel lungo
periodo, minimizzando i costi connessi alle transazioni, questa strategia commerciale si
dimostra spesso la migliore.

Non mancano esempi di integrazione verticale nel sistema agroalimentare. Sui mercati agricoli
alla produzione si possono innanzitutto citare i contratti collettivi di filiera finalizzati a definire
collettivamente i prezzi dei prodotti agricoli destinati alla trasformazione industriale e a
garantire l’approvvigionamento di determinate materie prime, anche attraverso veri e propri
Forme di competizione nei mercati agroalimentari .85

contratti di coltivazione. Mentre i produttori agricoli incrementano la loro forza contrattuale


attraverso la contrattazione collettiva, potendo alla fine contare su prezzi di vendita ben
definiti e talvolta su garanzie relativamente ai volumi di produzione assorbiti, l’industria
alimentare può sfruttare al meglio le economie di localizzazione e ridurre il rischio di mancato
approvvigionamento delle materie prime.

Esempi di queste forme di integrazione verticale sono presenti nel caso della filiera lattiero-
casearia, di trasformazione del pomodoro, della produzione di zucchero dalle barbabietole.

Le forme di integrazione verticale appaiono inoltre particolarmente interessanti nel settore


alimentare in relazione al problema del controllo della qualità: all’interno di un rapporto
consolidato, infatti, è più facile definire un insieme di parametri di valutazione della qualità
condiviso in grado di ridurre le asimmetrie informative tra offerta e domanda. La crescente
attenzione del consumatore per la qualità e la riduzione dei rischi alimentari rende conve-
niente talvolta la completa integrazione delle diverse fasi di produzione in un’unica azienda:
un esempio emblematico è rappresentato dalle imprese di produzione di alimenti per bambini
che estendono il loro campo diretto di azione anche alla fase di produzione della materia
prima agricola. Più in generale è sempre più richiesta dal consumatore finale, ed oggi in Italia
resa obbligatoria dalla legislazione alimentare, la tracciabilità completa del processo
produttivo alimentare (“dal campo alla tavola”) come garanzia di sicurezza alimentare. Una
forma di coordinamento volta a soddisfare queste esigenze è quello dei prodotti provenienti
da “filiere controllate” offerti dalla grande distribuzione: i fornitori concordano con le imprese
a valle dei veri e propri disciplinari di produzione nel rispetto dei quali il rapporto di fornitura
si sviluppa e si consolida. Anche tra industria di trasformazione e imprese della grande
distribuzione alimentare si realizzano importanti forme di coordinamento. Un esempio è
costituito dai prodotti trasformati commercializzati con un marchio di proprietà delle aziende
di grande distribuzione (private label): un segmento di consumi in forte crescita e che spesso
porta le imprese di trasformazione coinvolte a trasformarsi in vere e proprie imprese satellite
di quelle di distribuzione.

Le forme di integrazione orizzontale e verticale tra aziende sono ovviamente definite e limitate
dai vincoli tecnologici che legano le attività di produzione.
86 Capitolo II

Un altro livello di integrazione particolarmente importante nel sistema produttivo italiano,


anche nella sua componente agroalimentare, è quello connesso alla collocazione geografica.
Il concetto guida in questo caso è quello di distretto, sviluppato per studiare particolari forme
di localizzazione e organizzazione delle attività industriale.

Il sistema produttivo di determinati sistemi locali, caratterizzati da imprese di medie e piccole


dimensioni, si è dimostrato nel tempo particolarmente competitivo nel soddisfare la domanda
finale attraverso particolari processi produttivi.

Si tratta di una competitività di sistema nel quale la localizzazione geografica delle attività
risulta fondamentale perché permette di usufruire una serie di economie esterne alle singole
imprese ma interne al distretto e fondamentalmente legate alla conoscenza. Nel sistema
locale si accumula un patrimonio di know how, relazioni commerciali, senso di appartenenza
che, di fatto, rende più stabile ed efficace l’approccio ai mercati.

Nel caso delle produzioni agroalimentari la vocazione di determinate aree agricole verso
determinate produzioni ha favorito in molte zone la strutturazione di un corrispondente
sistema di trasformazione industriale che, in taluni casi, ha assunto le caratteristiche di un vero
e proprio distretto.

Un esempio è costituito dall’area di produzione del formaggio Parmigiano Reggiano. In esso


un sistema di allevamenti, caseifici e di strutture per la stagionatura del formaggio, a cui si
affianca il sistema di allevamento-trasformazione della carne di maiale che impiega i sotto-
prodotti della lavorazione del latte, è venuto a creare nell’area delle province emiliane un vero
e proprio distretto agro-industriale. Nel caso delle produzioni agroalimentari, tra l’altro, gioca
a favore della creazione di forme di coordinamento distrettuale tra le imprese, il rico-
noscimento dell’origine geografica come criterio per la valutazione della qualità da parte del
consumatore.

Se la domanda di tipicità alimentare esprime una domanda di collegamento esplicito del cibo
ad una origine geografica che sia ben riconoscibile, allora la prima base per la costruzione di
un sistema distrettuale di imprese è già posta: infatti non importa più solo il “come” si pro-
duce, ma anche il “dove”.
Forme di competizione nei mercati agroalimentari .87

2.3 STRATEGIE COMPETITIVE: MOTIVAZIONI GENERALI E POTENZIALI LEVE

Mediante la soddisfazione dei bisogni espressi dalla domanda finale di beni e servizi, il sistema
produttivo crea continuamente valore individuando e sfruttando, attraverso la capacità
imprenditoriale dei suoi attori, le opportunità di arbitraggio che, in ogni momento, vengono
offerte da un sistema dei prezzi continuamente in movimento.

La distribuzione di tale valore tra le imprese che operano nelle diverse fasi del processo pro-
duttivo alimentare, a partire dalla produzione di materie prime agricole fino alla distribuzione
finale di prodotti alimentari finiti, dipende sia dall’evoluzione complessiva del sistema
economico connessa con i processi di sviluppo, sia dalle dinamiche competitive in atto nel
settore.

Il comportamento competitivo delle aziende di produzione è così finalizzato a trattenere la


maggior quota possibile di valore attraverso l’individuazione di nuove opportunità ancora non
utilizzate. Le aziende cercano attivamente di attirare verso le loro produzioni un volume
crescente di domanda.

Per ottenere questo risultato esse possono agire su due variabili fondamentali: il prezzo e la
qualità del prodotto.

(Nel seguito della dispensa entreremo maggiormente nel dettaglio delle cinque strategie
competitive di base, schematicamente suddivise tra strategie di costo e strategie di differen-
ziazione, e in tale ambito verranno presentate e approfondite alcune tra queste particolar-
mente rilevanti per l’agroalimentare.)

Il processo di continuo adattamento delle aziende alle opportunità offerte dal mercato è
mosso dalla convinzione degli imprenditori che un prodotto di una determinata qualità,
ottenibile da fattori che hanno un certo prezzo, sarà considerato appetibile da un ampio
numero di clienti/consumatori anche se offerto ad un prezzo ancora più alto di quello dei
fattori.

Qualsiasi progetto imprenditoriale, in altri termini, deve definire contemporaneamente una


qualità (quella che si ritiene desiderabile dai consumatori ad un determinato prezzo) e un
prezzo (quello che l’imprenditore prevede che il cliente sarà disposto a pagare per un prodotto
di quella determinata qualità).
88 Capitolo II

Di conseguenza le azioni competitive possono essere ricondotte a due strategie fondamentali:


quella basata sulla riduzione del prezzo di vendita e quella basata sulla differenziazione
qualitativa.

Kirzner (1973) ha evidenziato come quando la differenziazione qualitativa viene introdotta nel
modello di mercato essa venga trattata con un modello che ha alcune delle caratteristiche del
monopolio (concorrenza monopolistica). Essa in realtà è l’espressione più genuina e in un
certo senso inevitabile della competizione in quanto tale.

La capacità di offrire a prezzi inferiori un prodotto che sia sostituto stretto di quelli offerti dalla
concorrenza appare come una soluzione ovvia al problema della competizione, suggerito dallo
stesso modello di mercato e concorrenza proposto dalla teoria microeconomica. La possibilità
di vendere a prezzi inferiori corrisponde alla capacità di ridurre più degli altri i costi di
produzione: ciò può essere perseguito sia attraverso il reperimento di fattori della produzione
ad un costo inferiore (si pensi ad esempio all’approvvigionamento di commodities agricole a
prezzi più vantaggiosi nei Paesi meno sviluppati) sia attraverso un uso più efficiente delle
risorse impiegate nella produzione (ad esempio sfruttando le economie di scala rese possibili
dall’adozione di moderne tecnologie di trasformazione: nel caso dell’olio di oliva passando, ad
esempio, dal ciclo discontinuo classico alle presse continue per la l’estrazione dell’olio).

Un esempio di strategia di prezzo sul mercato al consumo di prodotti alimentari è rappresen-


tato da una parte dalla diffusione dei cosiddetti discount, nei quali i prodotti alimentari di base
possono essere offerti a prezzi mediamente più bassi rispetto alle altre forme di distribuzione
moderna grazie un abbattimento dei costi logistici e di quelli connessi all’immagine della
catena (arredo dei punti vendita ridotto all’essenziale, esposizione della merce
nell’imballaggio utilizzato durante il trasporto etc.).

Anche la grande distribuzione in parte ha utilizzato in anni recenti la strategia di prezzo, pro-
ponendo in assortimento prodotti caratterizzati principalmente per il loro prezzo competitivo.

La differenziazione delle produzioni, viceversa, tendendo a ridurre il grado di sostituibilità tra


le merci, è capace di indurre in almeno una parte dei consumatori una maggiore fedeltà al
prodotto, aumentando in qualche misura la discrezionalità dell’impresa nella determinazione
del prezzo di vendita. La crescente attività di innovazione di prodotto e di processo che si
Forme di competizione nei mercati agroalimentari .89

riscontra nel sistema agroalimentare, è sempre più collegata ad una strategia di differen-
ziazione qualitativa, resa sempre più necessaria da una domanda alimentare rivolta alla sod-
disfazione di bisogni che si fanno con il tempo più astratti.

La differenziazione qualitativa può essere sia orizzontale che verticale. Nel primo caso un
prodotto alimentare si caratterizza per una combinazione delle sue caratteristiche intrinseche
ed estrinseche diversa nella sua composizione da quella dei prodotti concorrenti, a parità di
livello qualitativo percepito: il lancio di un nuovo prodotto all’interno di una determinata linea
(ad esempio un nuovo tipo di biscotto) bene rappresenta questa strategia di differenziazione
che cerca di soddisfare gusti e preferenze dei consumatori che si ritengono ancora non
sufficientemente valorizzati.

Nel secondo caso le aziende cercano di differenziare il prodotto conferendogli un livello qua-
litativo superiore in tutte le sue caratteristiche rispetto a quelli offerti dalla concorrenza (è il
caso ad esempio di determinati marchi di pasta): nel caso in cui questa qualità superiore venga
riconosciuta dai consumatori le aziende potranno commercializzare i prodotti a prezzi
superiori.

La strategia di differenziazione qualitativa nel caso dei prodotti alimentari è fortemente


influenzata da problemi legati alla distribuzione delle informazioni. Molte delle caratteristiche
qualitative dei prodotti agricoli e alimentari che potrebbero essere desiderabili, infatti, sono
difficili da valutare dai potenziali acquirenti prima dell’acquisto e talvolta anche dopo. Si pensi
ad esempio alla utilizzazione di determinate tecniche nella produzione delle materie prime
agricole, come nel caso dell’adozione di metodi di coltivazione a basso impatto ambientale,
che non necessariamente si riflettono in caratteristiche oggettivamente misurabili del
prodotto; oppure alle caratteristiche di salubrità degli alimenti destinati al consumo finale,
come l’assenza di contaminazione con sostanze che, pur non provocando effetti immediati e
acuti sulla salute, possono produrre nel tempo la manifestazione di patologie anche gravi
(come ad esempio sostanze cancerogene).

I due esempi appena fatti si riferiscono a caratteristiche per le quali i compratori sarebbero
potenzialmente disposti a pagare un premio di prezzo ma che, in un normale scambio di
mercato, non potrebbero essere adeguatamente valorizzate per un evidente problema di
asimmetria informativa. Il problema delle asimmetrie informative è crescente nel mercato dei
90 Capitolo II

prodotti alimentari, nel quale la domanda finale è sempre più attenta alle (e disponibile a
pagare per le) caratteristiche immateriali del prodotto: origine, compatibilità ambientale,
rispetto di determinati standard etici nelle diverse fasi della filiera (è il caso del commercio
equo e solidale sviluppatosi proprio nella commercializzazione di prodotti alimentari; o del
rispetto di determinati standard di rispetto della dignità del lavoro umano).

In presenza di asimmetrie informative non è sufficiente che le aziende lungo la filiera agroa-
limentare producano un bene realmente differenziato: è necessario che questa differenzia-
zione venga comunicata ai potenziali acquirenti è percepita come credibile. La stessa crea-
zione di marche industriali, attraverso adeguati investimenti in comunicazione, costituisce una
risposta a questa esigenza. Una marca industriale affermata, infatti, costituisce per un’azienda
un capitale immateriale corrispondente alla sua credibilità agli occhi dei consumatori. Un
esempio nel campo delle produzioni alimentari è quello del gruppo di trasformazione lattiero-
casearia Galbani che,attraverso una prolungata campagna di comunicazione, ha per anni
associato il proprio nome al concetto di fiducia.

Più in generale tutti le grandi marche “ombrello” inviano un segnale di affidabilità volto a
rendere credibili le promesse di qualità associate ai singoli prodotti.

La strategia di marca non è utilizzata dalla sola industria alimentare: anche le catene della
grande distribuzione alimentare accumulano nella loro insegna un capitale di fiducia da parte
dei consumatori, facendosi garanti della qualità nella scelta dell’assortimento proposto.
Questo capitale si è consolidato talmente da rendere possibile la forte diffusione delle
cosiddette private label, marche commerciali di proprietà delle catene di grande distribuzione
sotto le quali vengono commercializzati alimenti prodotti con appositi contratti di fornitura da
industrie di trasformazione. L’uso delle private label da parte dalle catene di grande
distribuzione permette loro di aumentare a l’assortimento sullo scaffale scaricando
sull’industria alimentare il costo dei processi di innovazione, trattenendo allo stesso tempo
una maggiore quota del valore aggiunto rispetto alla semplice commercializzazione di prodotti
con marca industriale.

Se la strategia di marca si sviluppa in genere con l’instaurarsi di una vero e proprio settore
industriale di trasformazione alimentare, l’esistenza di problemi informativi di natura nuova è
testimoniato dalla diffusione, negli anni più recenti, delle diverse forme di certificazione della
Forme di competizione nei mercati agroalimentari .91

qualità. Nel caso della certificazione la presenza di determinate caratteristiche qualitative


viene attestata da un soggetto che, essendo indipendente rispetto al venditore è più credibile
agli occhi dell’acquirente. Alcune forme di certificazione sono oggi obbligatorie, come ad
esempio nel caso della tracciabilità delle produzioni alimentari a partire dalla fase di
produzione delle materie prime agricole. Questo tipo di certificazione è divenuta obbligatoria
a livello europeo dopo che una serie di crisi e scandali alimentari verificatisi negli anni ’90
hanno modificato la sensibilità dei consumatori e incrinato la loro fiducia nella filiera di pro-
duzione alimentare. Il suo obiettivo è quello di identificare in modo trasparente tutto ciò che
è andato a costituire un alimento finito in modo che, qualora si venissero a manifestarsi par-
ticolari problemi di salubrità, sia possibile intervenire rapidamente lungo tutto la filiera per
individuare in tempi rapidi le cause.

Altre forme di certificazione sono volontarie anche se sempre più spesso fanno riferimento
all’applicazione di standard internazionali e vengono utilizzate sia per certificare caratteristi-
che di prodotto che di processo. Sempre più spesso per operare nella filiera agroalimentare
nazionale e sui mercati esteri è necessario per le aziende adottare anche più di uno di questi
standard di qualità (ISO, BRC, EMAS, etc.).

Un esempio di certificazione importante nel caso dei prodotti alimentari e rivolta espressa-
mente ai consumatori è quella relativa all’origine geografica delle produzioni. Come abbiamo
visto i consumatori attribuiscono un’importanza crescente all’origine geografica come aspetto
che garantisce la qualità e la tipicità delle produzioni alimentari. L’utilizzazione del nome della
regione di origine come marchio di qualità in Europa è volontario ma regolamentato: l’Unione
Europea, concede l’uso di una serie di marchi di origine (Denominazione di Origine Protetta,
Indicazione Geografica Tipica) in presenza di una certificazione che risponda a determinati
requisiti più o meno stringenti a seconda del tipo di marchio utilizzato. I marchi europei di
origine geografica conferiscono una forte credibilità e garanzia alle produzioni alimentari e
vengono visti come un’importante opportunità da sfruttare per il sistema agroalimentare
italiano, nel quale esiste una vasta tradizione gastronomica che potrebbe essere valorizzata.
Questa strategia di differenziazione, riconducendo la qualità degli alimenti alle caratteristiche
del territorio, viene vista come una opportunità competitiva soprattutto nel mondo agricolo,
92 Capitolo II

anche in vista di una più favorevole distribuzione del valore aggiunto lungo la filiera
alimentare.

Schema riassuntivo sulle strategie competitive di base


Focalizzazione Focalizzazione
Leadership di Valore
Differenziazione orientata al orientata alla
costo dell’offerta
costo differenziazione
Target Acquirenti attenti
Ampio Ampio Nicchia di mercato Nicchia di mercato
strategico al valore
Base del Bassi costi Prodotto unico
Migliore rapporto
vantaggio Bassi costi Prodotto unico all’interno della all’interno della
valore/prezzo
competitivo nicchia nicchia
Caratteristiche Progettato per
Linea di Enfasi sulle Progettato in base
Prodotto di base attraenti di fascia soddisfare i gusti della
prodotto caratteristiche ai gusti della nicchia
alta nicchia
Si tende a ridurre i
Offerta di ogni Offerta di ogni Offrire tutte le
Enfasi sulla costi Ridurre costi per
caratteristica senza caratteristica caratteristiche per
produzione indipendentemente nicchia
considerare i costi contenendo i costi nicchia
dalla qualità
Si pubblicizza il
valore dell’offerta Si pubblicizzano
Si pubblicizzano le Si caratterizzano
Valorizzate (ottenuto quelle
caratteristiche di quelle caratteristiche
Enfasi sul caratteristiche che offrendo caratteristiche che
differenziazione che soddisfano
marketing consentono di caratteristiche soddisfano le
coprendo tali costi meglio le aspettative
ridurre i costi analoghe a un aspettative della
con il premium price della nicchia
prezzo inferiore o nicchia
viceversa)
Servire la nicchia
Servire la nicchia
Innovazione meglio dei
Elementi Prezzi convenienti, Capacità di ridurre contenendo i costi
costante, attenzione concorrenti, senza
valore elevato, i costi e di offrire senza entrare in
strategici riduzione costante
su poche
caratteristiche di nuovi segmenti o
entrare in nuovi
cruciali caratteristiche di segmenti o rivolgersi
dei costi fascia alta rivolgersi a un
differenziazione a un mercato più
mercato più ampio
ampio
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .93

3. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ, QUALITÀ E SICUREZZA


ALIMENTARE

3.1 LE SPECIFICITÀ DELLA QUALITÀ NELL’AGROALIMENTARE

I prodotti agroalimentari presentano aspetti del tutto particolari circa la definizione, la misura,
l’ottenimento e la garanzia di un dato livello qualitativo. Anzitutto la definizione di qualità non
è, né può essere, univoca in quanto essa deve essere definita rispetto alla capacità di un dato
bene o servizio di soddisfare i bisogni espressi o latenti dei consumatori e/o dei clienti.

Nel caso dei prodotti alimentari, inoltre, data la forte sensibilità dei consumatori finali, in
particolare rispetto a talune delle caratteristiche qualitative, c’è una sensibilità del tutto par-
ticolare rispetto alle stesse: si pensi ai contenuti nutrizionali e salutistici degli alimenti, senza
escludere gli aspetti igienici e di sicurezza sanitaria, per fare solo alcuni esempi.

Inoltre, non va sottovalutato il fatto che i prodotti alimentari non possano essere pienamente
valutati dal punto di vista qualitativo se non solo dopo il consumo e, in parte, nemmeno dopo
di esso. Ciò fa comprendere l’importanza, specie in questi casi, dei sistemi di controllo, di
garanzia e di comunicazione, inclusi i marchi, atti a costruire una reputazione e un rapporto di
fiducia che risulta centrale per l’apprezzamento e la valorizzazione della qualità.

Questo contesto impone, quindi, anche alle aziende agricole, una serie di attività e di controlli
dai costi crescenti, dei quali non sempre gli operatori percepiscono i benefici. Se da un lato,
quindi, vi sono certamente nuove esigenze in termini di controlli del rispetto delle garanzie
minime di qualità dei prodotti alimentari, dall’altro c’è il rischio concreto che, anche a causa
della struttura stessa del mercato agricolo, gli agricoltori siano di fatto impossibilitati a
recuperare almeno parte dei costi di questi sistemi con conseguente aumento delle difficoltà
economiche e finanziarie.

D’altro canto, la qualità dei prodotti alimentari non può certo essere limitata alla verifica e al

controllo di requisiti minimi di sicurezza. Anzi, è sempre più necessario passare a forme di
valorizzazione adeguata della qualità che consentano di ottenere, dal mercato, un prezzo
finale dei prodotto agricolo più interessante e remunerativo. In questi casi, non di rado, è
94 Capitolo 3

anche necessario realizzare un sistema di qualità integrato coerente tra i diversi soggetti delle
filiere interessate, in quanto, la qualità del prodotto alimentare finale (che include una quota
crescente di servizi), è frutto delle scelte di un numero spesso molto elevato di operatori.

Se, nel primo caso, l’obiettivo degli strumenti deve essere quello di ridurre i costi del sistema
di controlli e di garanzie, distribuendoli tra i diversi soggetti delle filiere in misura proporzio-
nale alla possibilità di ricavarne benefici, questo diverso approccio alla qualità è quello cer-
tamente più interessante e promettente, anche se non privo di insidie e di difficoltà.

3.1.1 I BENI ALIMENTARI COME “BENI ESPERIENZA” E “BENI FIDUCIA”


Secondo una classificazione divenuta ormai classica, i beni alimentari possono essere consi-
derati dei beni “esperienza” nel senso che il loro livello qualitativo e le loro caratteristiche
possono essere conosciute quasi soltanto mediante una esperienza diretta di consumo, o
meglio dopo tale esperienza. Ovviamente vi sono diversi indicatori, incluse talune informa-
zioni disponibili sull’etichetta del prodotto, che possono migliorare ed aumentare le infor-
mazioni disponibili sull’alimento anche prima del consumo, ma ciò vale se si è fissata, nel
tempo, nella mente dei consumatori, una conoscenza appropriata circa la corrispondenza tra
le caratteristiche del prodotto e le informazioni dell’etichetta.

Inoltre, sempre più frequentemente, gli alimenti assumono anche alcune delle caratteristiche
dei beni “di fiducia” nel senso che talune caratteristiche non possono essere conosciute con
certezza nemmeno dopo l’esperienza di consumo: si pensi, ad esempio, al contenuto di
additivi, conservanti o sostanze utili alla salute, al contenuto in residui, al rispetto di deter-
minate modalità produttive, ecc. Con riferimento ai suddetti parametri o ad altri analoghi,
nemmeno l’esperienza diretta di consumo consente di giungere ad una valutazione precisa da
parte del consumatore: è solo la fiducia nei marchi, nelle informazioni di etichetta o in altri
elementi che indirettamente comunicano una certa “reputazione” del prodotto che il
consumatore acquisisce informazioni sul prodotto e assume le sue decisioni.

Anche per le ragioni di cui sopra, quindi, nel caso dei prodotti alimentari si verifica una situa-
zione di forte asimmetria informativa che crea incertezza nei consumatori e occasioni per
comportamenti non corretti (“moral hazard”) da parte di taluni produttori. Se non si mettono
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .95

in campo strumenti idonei di controllo e di informazione adeguata, quindi, si corre il rischio di


generare una perdita netta di benessere sociale sia a danno dei consumatori sia a danno dei
produttori. I consumatori, infatti, incorrono nel rischio di non riuscire ad acquistare ciò che
desiderano, non trovando ciò che cercano, in termini qualitativi, proprio a causa della
inadeguatezza delle informazioni ricevute sul prodotto. Per i produttori, invece, il pericolo
consiste nel fatto che finiscono per essere di fatto avvantaggiati coloro che non operano
correttamente o comunque coloro che producono beni di qualità inferiore a danno dei
produttori di beni di qualità (e costi) superiori con conseguente scomparsa, nel tempo, sia dei
produttori di questi prodotti che dei prodotti stessi con un “appiattimento” verso il basso della
qualità e una riduzione del grado di varietà disponibile per le diverse categorie merceologiche.

3.1.2 LA SICUREZZA ALIMENTARE: UN PREREQUISITO

Il termine “sicurezza” in campo alimentare ha due diverse accezioni che la lingua inglese
identifica con due diverse parole: la “food security” e la “food safety”. Mentre la prima iden-
tifica la sicurezza degli approvvigionamenti, ovvero la disponibilità di alimenti in quantità
adeguata a soddisfare i bisogni basilari, la seconda si riferisce alla assenza di possibili impatti
negativi sulla salute dei consumatori. Nel passaggio dalla prima alla seconda si potrebbe rias-
sumere uno dei principali cambiamenti della politica agro-alimentare dell’Unione Europea nel
corso degli ultimi decenni: mentre negli obiettivi della PAC (Politica Agricola Comune) del
Trattato di Roma del 1957 si leggeva, in modo esplicito, “garantire la sicurezza degli approv-
vigionamenti”, nella ridefinizione degli stessi in occasione della stesura di Agenda 2000 (Com
(97)2000def del 15 luglio 1997), si legge, tra l’altro: “La salute, in particolare la sicurezza degli
alimenti, costituisce la principale preoccupazione”. Ci si è dunque spostati nel tempo
dall’attenzione primaria alla quantità di cibo disponibile a quella per la sua “qualità”, anzitutto
intesa nel senso di sicurezza sanitaria.

Non si può certo affermare che la sicurezza sanitaria degli alimenti non fosse un obiettivo
anche in precedenza, ovviamente, ma non era stato evidenziato per due ragioni: la prima era
l’assoluta prevalenza della dimensione quantitativa su quella qualitativa, data l’urgenza di
superare la relativa scarsità di alimenti; la seconda è dovuta ai grandi cambiamenti che si sono
realizzati nei sistemi agroalimentari moderni.
96 Capitolo 3

Con lo sviluppo di tali sistemi, infatti, è progressivamente aumentata la distanza, sia fisica che
culturale, tra chi produce le materie prime agricole e il consumatore finale. Inoltre,
all’aumentata distanza corrisponde anche una progressiva “spersonalizzazione dei rapporti”
lungo la filiera che porta ad una sostanziale modifica del sistema informale di garanzie che, un
tempo, il contatto personale tra acquirenti e venditori, nei diversi stadi, era in grado di
assicurare. L’acquisto dei prodotti alimentari avviene, ormai, in misura largamente prevalente
all’interno di punti vendita della GDO senza contatti con il personale. La catena scelta, in
qualche misura, assieme ai diversi tipi di marchio e di informazioni in etichetta che il prodotto
può presentare, sono i nuovi elementi di garanzia, in sostituzione di quelli offerti dai sistemi
di rapporti personali di un tempo.

La crescente spersonalizzazione degli scambi ma anche la globalizzazione dei mercati, che ha


realizzato una crescente integrazione internazionale dei sistemi produttivi, hanno portato,
quindi, anche ad una percezione diversa dei rischi e ad una effettiva maggiore difficoltà ed
importanza dei controlli formali e/o istituzionali. Non di rado, l’opinione pubblica esprime
perplessità sulla qualità di prodotti di importazione o di provenienza ignota e manifesta una
spiccata preoccupazione quando percepisce l’incertezza relativa a taluni aspetti qualitativi dei
prodotti alimentari che, anche solo in parte, utilizzino materie prime agricole di provenienza
lontana.

Nella attenzione alla indicazione dell’origine delle materie prime agricole vi è certamente,
almeno in taluni casi, anche una componente di domanda di sicurezza: l’origine, in altri ter-
mini, può essere, tra le altre cose, anche un indicatore indiretto e quantomeno impreciso, di
sicurezza alimentare.

3.1.3 DIMENSIONI OGGETTIVE E SOGGETTIVE DELLA QUALITÀ


Come accennato, la qualità può essere definita come il grado in cui un prodotto soddisfa le

esigenze e le aspettative dei clienti, e in ultima analisi, nel caso di prodotti alimentari, anche
dei consumatori finali. È evidente che il grado di soddisfazione dipende da una pluralità di
fattori, alcuni dei quali misurabili e altri no, alcuni dei quali riferiti a bisogni noti ed espressi,
altri a bisogni non espressi o latenti; in tutti i casi, il rapporto tra i clienti/consumatori ed il
prodotto, specie nel caso dei prodotti alimentari, ha una forte componente soggettiva.
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .97

Per questa ragione, se, da un lato, è necessario proseguire in un percorso di sempre più
attenta e precisa definizione delle caratteristiche misurabili ed oggettive dei prodotti alimen-
tari, che necessariamente si traducono in una altrettanto precisa definizione delle caratteri-
stiche dei prodotti agricoli di partenza, dall’altro, è pur sempre importante prestare attenzione
anche alle altre caratteristiche, non necessariamente tutte facilmente misurabili, che
permettono ad un prodotto alimentare di essere percepito come di qualità “superiore”
rispetto ad altri.

La componente soggettiva della qualità, o meglio, le componenti soggettive, rappresentano


una difficoltà per quanti operino a livello aziendale in quanto non facili da identificare, clas-
sificare, raggruppare e valutare per la loro portata economica; allo stesso tempo, però, esse
rappresentano anche una grande opportunità: è proprio dalla capacità di soddisfare con suc-
cesso questa domanda di qualità che possono scaturire le migliori opportunità economiche
per un dato prodotto e/o per una data azienda. È questo lo spazio tipico del marketing agro-
alimentare.

Queste opportunità, tuttavia, riguardano in misura maggiore i prodotti destinati ai consuma-


tori finali, ma, certamente, non tutti i prodotti allo stesso modo: è certamente molto più dif-
ficile differenziare farina bianca o farina di mais, zucchero o latte UHT, per fare qualche
esempio, piuttosto di quanto non lo sia per salumi o formaggi.

3.1.4 LA DIFFERENZIAZIONE VERTICALE E QUELLA ORIZZONTALE NELL’AGRO-ALIMENTARE


Un aspetto strettamente connesso con la duplice dimensione soggettiva ed oggettiva della
qualità nel settore agroalimentare, è quello della possibilità di differenziazione sia verticale
che orizzontale degli alimenti.

Poiché i beni alimentari possono essere interpretati e definiti da un insieme, più o meno
complesso, di caratteristiche, si possono verificare casi di differenziazione verticale solo
quando, per tutte le caratteristiche rilevanti, un prodotto sia “superiore”, rispetto ad un altro,
in termini oggettivi percepiti come tali dai consumatori e quindi valorizzati di conseguenza.

Tuttavia, nella maggior parte dei casi, non è possibile stabilire a priori se un determinato bene
alimentare sia “superiore” per “tutte” le caratteristiche rilevanti rispetto ad un altro, sia
98 Capitolo 3

perché, tra le caratteristiche rilevanti per i consumatori, ve ne potrebbero essere di non


misurabili e di non oggettive, sia perché, molto spesso, un bene alimentare si differenza da un
altro in senso “migliorativo” per alcune caratteristiche, ma in senso “peggiorativo” per alcune
altre; ne consegue che l’esito finale, in termini di disponibilità a pagare un dato prezzo da parte
dei consumatori, dipenderà dall’importanza che le diverse caratteristiche hanno per i diversi
consumatori.

A priori, quindi, nell’alimentare si deve parlare di differenziazione senza poter ipotizzare


necessariamente la presenza di una qualità “migliore” rispetto ad una “peggiore”, ma piutto-
sto la presenza di beni di qualità semplicemente diversa. Sono le preferenze effettive ed i
comportamenti di consumo che definiscono, in ultima analisi, quale sia la percezione dei
diversi mix di caratteristiche di prodotti concorrenti.

Questo aspetto è importante per almeno due ragioni. Anzitutto, i diversi strumenti disponibili
per identificare prodotti “di qualità” nell’agroalimentare (DOP, IGP, STG, DOC, DOCG, BIO,
ecc.) non portano “necessariamente” alla formazione di una graduatoria e quindi di una
differenza di prezzo univoca tra i diversi prodotti.

In secondo luogo, data la almeno parziale soggettività della percezione e della valutazione
della qualità, essa non deve essere considerata stabile nel tempo: un prodotto può guada-
gnare o perdere in apprezzamento per il suo livello qualitativo anche se restassero invariate
tutte le sue caratteristiche. È evidente che anche questa considerazione ha implicazioni in
termini di strategie di marketing.

3.2 LA QUALITÀ COME LEVA COMPETITIVA

Sempre più spesso ed in situazioni assai diverse quanto a luoghi, contesti operativi e comparti
o filiere interessate, si affronta il tema della qualità ed il termine ritorna con insistenza con
riferimento ad aspetti molto diversi tra loro.

Tra le tante chiavi di lettura possibili, ve n’è una di forte interesse per la sua capacità discri-
minatoria dal punto di vista sia della comprensione dei contenuti del termine che della sua
rilevanza per le dinamiche aziendali e di mercato, come pure quelle del ruolo e degli strumenti
di un eventuale intervento pubblico.
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .99

Tale prospettiva si basa sulla individuazione della strategia competitiva prevalente nei diversi
comparti e nelle diverse filiere considerate: è di importanza decisiva, infatti, distinguere tra
una strategia competitiva basata sui prezzi e quindi, indirettamente, sulla leadership nei costi
di produzione, o piuttosto una strategia centrata sul perseguimento di una differenziazione di
prodotto finalizzata a conseguire un vantaggio che si traduce nella possibilità di ottenere un
prezzo di vendita del prodotto significativamente e stabilmente più elevato rispetto a quello
della concorrenza. In entrambi i casi si parla di qualità ma la prospettiva è sostanzialmente
diversa.

3.2.1 IL RUOLO DELLA QUALITÀ NELLE STRATEGIA BASATE SUI PREZZI


In genere si è portati a considerare i prodotti agricoli semplicemente, o almeno primaria-
mente, come semplici materie prime e, in quanto tali, scarsamente o per nulla differenziabili.
Non di rado, ad esempio, studiosi e operatori mostrano le forti preoccupazioni per un
aumento della concorrenza di prezzo da parte di produttori di territorio diversi nell’ambito
dello stesso Paese o di altre parti dell’Unione Europea, se non addirittura di Paesi extra-UE.

E mentre si descrivono i gravi rischi per i produttori, determinati da questa crescente concor-
renza, spesso si sottolineano anche le caratteristiche che renderebbero qualitativamente
preferibili i prodotto nazionali o di un dato territorio. È evidente che, almeno in parte, tali
considerazioni appaiono contraddittorie ad una analisi più approfondita e mostrano come non
vi sia chiarezza sul ruolo della qualità nelle diverse condizioni di mercato e di strategia
competitiva.

Nel caso di prodotti agricoli assai scarsamente differenziabili e/o differenziati, cioè prodotti

assimilabili a “comuni” materie prime, l’elemento di gran lunga dominante nella competizione
è, ovviamente, il prezzo. Ciò non implica, necessariamente, che non vi siano anche specifiche
richieste da parte degli acquirenti, in termini di particolari caratteristiche di prodotto o del
processo produttivo. In questi casi, infatti, tendono a svilupparsi rapporti contrattuali basati
su specifiche produttive ben precise, che possono anche includere la valorizzazione di talune
caratteristiche del prodotto; la rilevanza di queste rispetto al prezzo finale è, tuttavia,
100 Capitolo 3

generalmente molto limitata; ne consegue una fortissima sostituibilità tra produttori, aree
produttive e Paesi di provenienza.

In altri termini, si parla anche in questo caso di qualità ma nel senso di rispetto di standard
minimi o di caratteristiche particolari: ciò non è in grado di influenzare in modo significativo il
prezzo finale.

Possibili esempi di prodotti che presentano queste caratteristiche sono i cereali, le proteiche
e le oleaginose, il latte per uso industriale, talune produzioni ortofrutticole destinate
all’industria (arance da succo, pesche e pere da industria, ecc.).

La qualità, in questi casi, tende a riferirsi semplicemente al rispetto di determinati parametri


di natura chimico-fisica, biologica, tecnologica, ecc. Si tratta cioè, soprattutto, se non esclusi-
vamente, di caratteristiche misurabili che tendono quasi inevitabilmente a divenire prere-
quisiti piuttosto che attributi migliorativi, specie dal punto di vista degli scarsissimi effetti che
essi sono in grado di generare sul prezzo al quale questi prodotti agricoli vengono scambiati.

In questi casi, per l’agricoltore, esistono poche alternative se non quella di allinearsi, con i
minori costi e la migliore efficacia possibile, alle richieste dei mercati, sempre prestando la
massima attenzione alla dinamica dei costi che resta quella decisiva per la competitività.

Spesso, infatti, in questo contesto competitivo, la qualità permette semplicemente l’accesso


al mercato, l’accesso al sistema della trasformazione, piuttosto che un premio di prezzo.

3.2.2 IL RUOLO DELLA QUALITÀ NELLE STRATEGIA DI DIFFERENZIAZIONE DI PRODOTTO


Sempre con riferimento ai prodotti agricoli che più assomigliano a vere e proprie materie
prime, per la loro forte omogeneità e/o per l’alto grado di trasformazione che in genere
subiscono prima di raggiungere il consumatore finale, esistono alcune, seppur limitate,
opportunità di intervento finalizzate a perseguire politiche di valorizzazione dei prodotti
basate sulla differenziazione.

Si tratta, ad esempio, della possibilità di differenziare il prodotto agricolo mediante il marchio


“biologico”; alternativamente potrebbero agire in modo simile, scelte quali “OGM-free” o
eventuali altri marchi o certificazioni ambientali (ad esempio EMAS o ISO14001) e/o etici (ad
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .101

esempio la certificazione SA8000). In tutti i casi, tuttavia, è sempre e assolutamente necessario


verificare attentamente, caso per caso, prodotto per prodotto, azienda per azienda, territorio
per territorio, se si possano ipotizzare ragionevolmente risultati economici soddisfacenti in un
orizzonte temporale compatibile con le esigenze aziendali. Solo la verifica del mercato, infatti,
può dire se le singole scelte possono portare a risultati positivi e non vi sono ragioni, a priori,
per ipotizzare un esito piuttosto che un altro. Anche in questo caso, quindi, studi di mercato e
un adeguato supporto in termini di marketing sono elementi necessari, come sempre quanto
si tenta la strada della differenziazione del prodotto.

In altri casi, invece, si possono utilizzare anche altri strumenti di differenziazione, quali le
indicazioni geografiche: DOP e IGP per i prodotti agro-alimentari, DOC, DOCG e IGT per i vini.

Dallo scorso maggio sono entrate in vigore anche in Italia le nuove norme europee che vanno
a modificare le denominazioni fino ad ora usate per classificare i vini: i VQPRD (vini di qualità
prodotti in regioni determinate) lascia il posto ai DOP(denominazione di origine protetta) che
si dividono in: DOC (denominazione di origine controllata) e DOCG (denominazione di origine
controllata e garantita). Le IGT (indicazione geografica tipica) lasciano il posto alle IGP
(indicazione geografica protetta).

Novità anche per i vini da tavola: la dicitura ‘da tavola’ per i vini comuni è stata soppressa e
dovranno indicare il vitigno senza alcun legame con il territorio di produzione. Cambiano
anche i controlli: non saranno più effettuati dai consorzi di produttori, ma da a soggetti terzi
e prevedono sanzioni più alte, proprio per garantire la qualità del vino che arriva nelle nostre
tavole. Tra le altre novità: obbligatorio indicare l’annata di produzione in etichetta; innalzato
da 5 a 10 anni il tempo necessario per il passaggio da DOC a DOCG (5 anni da IGT a DOCG);
soppressi gli albo degli imbottigliatori, dei vigneti e l’elenco delle vigne; sportello unico
dedicato ai produttori per snellire tutti gli aspetti burocratici prima demandati a vari enti;
introdotto l’obbligo dei contrassegni di Stato anche sui vini DOC

Questi stessi strumenti di differenziazione, inoltre, possono combinarsi anche con quelli del
biologico o con le altre certificazioni etiche o ambientali di cui sopra.
102 Capitolo 3

Al di là degli strumenti specifici, tuttavia, le strategie di differenziazione dei prodotti sono


finalizzate a raggiungere l’obiettivo di un premio di prezzo finale che si traduca, nel caso dei
prodotti alimentari, anche in un premio di prezzo per la fase agricola della produzione. È ancor
più evidente, nel caso di produzione di un prodotto per il quale si persegua questa strategia,
quanto le diverse fasi della filiera debbano essere necessariamente ed efficacemente
coordinate proprio al fine di creare, mantenere e valorizzare quegli elementi differenziali sui
quali si basa la percezione di qualità dei consumatori finali.

La qualità, infatti, origina dai processi utilizzati, sia a livello agricolo che di trasformazione, ma
risente anche degli altri fattori di produzione utilizzati sia in agricoltura che a livello di
industria, così come delle modalità di confezionamento, di conservazione, di presentazione,
nonché di preparazione finale e di consumo.

È evidente, quindi, come unitamente al prodotto, debba giungere fino al consumatore anche
un flusso adeguato di servizi, ma, soprattutto, di informazioni che favoriscano una più chiara
percezione delle sue caratteristiche, materiali ed immateriali. Queste informazioni, almeno in
parte, possono anche essere comunicate in modo sintetico mediante appositi marchi, se la
loro gestione nel tempo ha saputo costruire e rafforzare una reputazione, cioè un apprezza-
mento stabile e forte per il prodotto, i processi, i servizi, le altre caratteristiche qualitative
(quali l’origine, ad esempio) rispetto ai quali i consumatori si sentono adeguatamente garan-
titi. La comunicazione, in altri termini, non fa altro che contribuire a costruire, mantenere e
rafforzare nel tempo questa reputazione, sintesi del grado di apprezzamento dei consumatori
per il prodotto.

3.2.3 LA QUALITÀ COME FULCRO DELLA COMPETITIVITÀ DELL’AGRO-ALIMENTARE ITALIANO


La riforma della PAC, che il nostro Paese ha iniziato ad applicare dal 1 gennaio 2005, rappre-
senta una grande sfida per l’intero agroalimentare nazionale: quella di adeguarsi rapidamente
ed efficacemente ad un cambiamento profondo di contesto competitivo che imporrà
modificazioni, talvolta drastiche, nelle strategie competitive delle aziende agricole, delle
filiere, dei distretti, degli stessi territori.
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .103

Le nuove direzioni della Politica agricola possono in tale ambito schematizzarsi sui seguenti
effetti: (1) rendere gli agricoltori molto più attenti ai segnali di mercato; (2) portare presumi-
bilmente ad un’ulteriore accentuazione dell’instabilità dei prezzi dei prodotti agricoli; (3)
rendere gli imprenditori agricoli più attenti a tutte le possibilità di incremento dei pezzi di
vendita dei loro prodotti mediante la risposta a una domanda finale sempre più multiforme e
complessa.

La competitività dell’agricoltura italiana in termini di costi di produzione, infatti, salvo raris-


sime eccezioni, è particolarmente difficile in un contesto ormai non solo di Unione Europea a
27 Paesi, ma anche di crescente concorrenza sul piano mediterraneo e globale.

Anche per queste ragioni, quindi, appare importante, per il sistema agro-alimentare nazionale,
puntare in misura crescente al sostegno di forme di competizione basate su un‘adeguata
valorizzazione della qualità degli alimenti.

Nell’ambito delle produzioni agricole scarsamente o per nulla differenziate, la concorrenza di


prezzo è destinata ad essere sempre più forte ed i prezzi, presumibilmente, più variabili, cre-
ando sia occasioni positive che situazioni di difficoltà come spesso avviene sui mercati inter-
nazionali delle “commodities” agricole.

Resta vero, allo stato attuale, che solo una parte relativamente limitata delle produzioni gode
di forme di tutela e/o di valorizzazione mediante marchi di vario tipo, ma è anche altrettanto
vero che molti prodotti, si pensi a quello ortofrutticoli, potrebbero giovarsi assai più di quanto
non abbiano fatto finora, di questi strumenti, anche per tentare la carta di una
differenziazione certo difficile, ma non più della crescente competizione sui prezzi.

In sintesi, i sistemi agroalimentari, e tra questi quello italiano, si trovano ad operare su scenari
competitivi dove, per effetto di alcune variabili, l’innovazione, o meglio la capacità di
rispondere in maniera consona alle esigenze di innovazione da parte della domanda inter-
media e finale, svolge un ruolo cruciale.

Questa considerazione ha validità sia che rivolgiamo la nostra analisi a mercati più qualificati
ed esigenti, quelli che in un recente passato si soleva indicare con il termine di “mercati di
nicchia”, sia per i mercati delle cosiddette commodities, dei prodotti di massa, dove invece la
104 Capitolo 3

leva strategica di competitività si individua ancora sul continuo contenimento dei costi e,
dunque, su di una organizzazione e gestione efficiente della supply chain.

Parlando della coniugazione dei concetti di innovazione e di qualità nell’agroalimentare, una


distinzione più pertinente sembra, piuttosto che quella tra produzioni di pregio e produzioni
di massa, tra i modelli “from lab to fork” e “farm to fork”, parafrasando e richiamando il con-
cetto di rintracciabilità e di trasparenza propugnato con tanta forza nei documenti dell’Unione
europea in riferimento alle produzioni agroalimentari, a partire dal Libro Bianco sulla sicurezza
alimentare.

Quest’ultimo disegna un modello tipicamente rappresentativo dell’agroalimentare europeo,


in linea con le indicazioni più recenti della politica di settore, che mette alla base del successo
competitivo i concetti di “naturalità”, massimo legame con il territorio, rispetto di esso e
dell’ambiente, forte ruolo della tradizione, elevato grado di differenziazione delle produzioni
quali indicatori di qualità.

Il primo modello di agroalimentare, invece, è proprio delle grandi imprese e delle multina-
zionali: si caratterizza per un elevato grado di concentrazione, elevata intensità finanziaria,
grossi investimenti in innovazione tecnologica ed a livello del marketing.

Il successo competitivo dell’agroalimentare non può che passare attraverso ipotesi di coesi-
stenza possibile dei due modelli, ed in particolare la sostenibilità del secondo presuppone una
sistematica adozione, monitoraggio, certificazione e comunicazione della qualità, azioni che
richiedono l’efficace presenza di un’intensa politica per l’innovazione.

La maggiore divulgazione delle ricerche scientifiche in campo medico ed il più elevato grado
culturale hanno contribuito a formare una tipologia di consumatore sempre più istruito,
consapevole, informato, attento e selettivo, che si pone una serie di interrogativi e cerca di
soddisfare al meglio le proprie esigenze; di contro, aspetti di tipo contingente, quali crisi ali-
mentari e l’introduzione sul mercato di cibi geneticamente modificati, hanno reso partico-
larmente sensibile i consumatori verso il tema della “food safety”.

Per cui, la domanda di qualità da parte dei consumatori ha assunto un’accezione tanto ampia
da ricomprendere una serie di elementi quali: sicurezza, salubrità, convenienza, autenticità,
naturalità e sostenibilità, che vanno ben oltre la visione classica del concetto di “qualità”. A
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .105

fronte di tali considerazioni, la sicurezza alimentare è diventata una priorità da gestire, a livello
internazionale, come “responsabilità condivisa” ed ha assunto un carattere di trasversalità
rispetto a tutte le altre politiche. Tale situazione è l’incipit di un processo di cambiamento che
sta interessando tutto il settore agroalimentare e sta spingendo gli operatori del mercato ad
assumersi responsabilità ben definite verso il consumatore ed ad affrontare nuove sfide.

Le Autorità Europee hanno risposto a questo nuova esigenza con il Regolamento (CE) n.
178/2002, che segna un punto di rottura con cinquanta anni di vuoto di controllo e di infor-
mazioni ed è espressione della volontà di creare una struttura regolamentativa e degli stru-
menti di controllo utili a prevenire situazioni di rischio atti, quindi, a tutelare la vita e la salute
umana, degli animali e vegetali, ed a rispondere, contemporaneamente, alle pressioni della
domanda circa l’ottenimento di maggiori garanzie. Il Regolamento è orientato allo sviluppo
coerente ed armonizzato della legislazione alimentare che, in questa nuova veste, si fonda su
principi di ordine generale quali: il carattere integrato della catena alimentare “dai campi alla
tavola”; l’analisi del rischio; la responsabilità di tutti gli operatori del settore alimentare; la
rintracciabilità; il diritto all’informazione dei cittadini.

Gli attori in grado di uscire con successo dalla battaglia competitiva saranno quelli in grado di
darsi la migliore possibile organizzazione, ma soprattutto di integrare il maggior livello possi-
bile di garanzia ai rispettivi clienti. In questo ambito, gli schemi di assicurazione della qualità
(Quality Assurance Schemes), rappresentano un elemento di innovazione nel sistema agroa-
limentare, la cui diffusione e rapidità di adozione dipende da numerosissime caratteristiche,
riconducibili ad alcune interne all’impresa (struttura e dimensione) e ad altre ad essa esterne
(soprattutto riconducibili alla quantità e qualità di informazione).

Lo scenario internazionale vede, inoltre, il sistema agroalimentare operare in un contesto


sempre più globale, in cui, causa la liberalizzazione degli scambi attraverso il graduale ma
continuo processo di eliminazione delle barriere tariffarie, è prevedibile un sensibile incre-
mento delle barriere non tariffarie, tra cui, presumibilmente, avranno un posto di tutto rilievo
gli schemi di assicurazione della qualità.
106 Capitolo 3

3.3 GLI SCHEMI DI ASSICURAZIONE DELLA QUALITÀ

Alla domanda di qualità espressa dal consumatore, i diversi stakeholders, situati a differenti
livelli del sistema agroalimentare, stanno rispondendo, con un ricorso sempre maggiore e
sempre più inserito nel contesto dell’obbligatorietà, con iniziative riconducibili al fenomeno
dell’etichettatura, ma soprattutto con l’introduzione di veri e propri prodotti innovativi, che,
in materia di qualità e sicurezza, si configurano in prodotti con qualità assicurata.

Una illustrazione, seppure sintetica dei principali schemi di gestione della qualità nel sistema
agroalimentare italiano, allo scopo di individuarne gli aspetti innovativi, non può prescindere
da un cenno ai contenuti del Codex Alimentarius. Il Codice, elaborato dalla FAO e dall’OMS
agli inizi degli anni ’60, ha rappresentato fino ad oggi una base imprescindibile per la rego-
lamentazione di qualità e sicurezza all’interno delle catene agroalimentari, svolgendo nel
contempo un ruolo di “faro”, nella definizione di regole generali in materia, in grado di assi-
curare un commercio internazionale quanto più possibile privo di distorsioni. Circa un ven-
tennio dopo, inizia lo sviluppo di sistemi ispirati al concetto di Buona prassi (Good Practice),
rivolti essenzialmente alla gestione dei processi di trasformazione dei prodotti agro-alimen-
tari.

Tali sistemi, rappresentano i primi schemi di assicurazione della qualità, che, convenzional-
mente, vengono identificati con la classificazione di schemi di I generazione, schematizzazione
essenzialmente legata all’evoluzione temporale dei QAS.

Il concetto di GAP, Good Agricultural Practice, individua le linee guida per le attività agricole,
volte alla riduzione ed al controllo dei rischi in termini fisici, chimici e biologici, e sempre più
spesso richiamate ed enfatizzate nei documenti e nella produzione normativa in ambito della
Politica Agricola Comunitaria. Non minore importanza rivestono le Buone Pratiche Igieniche
(GHP, Good Hygienic Practice); le Buone Pratiche di Trasformazione (GMP, Good
Manifacturing Pactice); le Buone Pratiche di Commercializzazione (GTP, Good Trade Practice).

Agli inizi degli anni ’90 gli standard ISO 9000 (International Organisation for Standardisation)
hanno conosciuto una diffusione sempre crescente. Si tratta di standard internazionali il cui
obiettivo è quello di evitare le barriere tecniche al commercio, attraverso il raggiungimento di
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .107

un elevato grado di uniformità. Gli standard contenuti nelle ISO 9000 sono indipendenti dai
settori di applicazione.

Qualche anno più tardi si è diffuso un numero sempre crescente di sistemi riferiti all’HACCP:
il concetto alla base dell’Hazard Analysis Control of Critical Point è l’identificazione dei rischi
per la salute durante i processi produttivi.

Nel corso dello stesso decennio, iniziano a vedere ampia diffusione anche gli schemi di assi-
curazione della qualità cosiddetti di II generazione, che essenzialmente si differenziano da
quelli di prima generazione per un maggiore contenuto in termini di possibilità di differen-
ziazione. Questi segnano un graduale passaggio verso un approccio sempre più mirato
all’aggiunta di valore al prodotto alimentare ed alla comunicazione di questo al cliente o al
consumatore finale.

Appartengono a questa categoria gli schemi di tutela della provenienza geografica (denomi-
nazione di origine protetta, DOP, e indicazione geografica protetta, IGP), la certificazione del
metodo di produzione biologico, che incarnano schemi di assicurazione volontari della qualità
in ambito regolamentato, e la certificazione BRC (British Retail Consortium). Questo è uno
standard progettato da importanti insegne della Grande distribuzione britannica, con lo scopo
di verificare le metodiche di lavorazione e soprattutto i criteri igienici dei propri fornitori di
prodotti a marchio, in base a principi codificati e condivisi, nel rispetto di alcuni requisiti
minimali. Il “Food Global Standard BRC”, rappresenta attualmente, in tutta Europa, la norma
maggiormente richiesta dalle diverse insegne della distribuzione ai fini della validazione dei
propri fornitori.

La versione iniziale dello Standard risale al 2002, mentre a gennaio 2005 una revisione pro-
fonda ne ha cambiato forma e contenuti. Il funzionamento dello schema BRC si basa su una
serie di audit inerenti ai diversi requisiti. Il nuovo standard prevede quattro gradi di conformità
(A, B, C, D), decrescenti secondo le carenze e le non conformità riscontrate; il raggiungimento
del livello D implica la ripetizione dell’iter certificativo. Lo standard, tuttavia, prevede dei
requisiti fondamentali (sine qua non), relativamente ai quali anche una sola non conformità
blocca la procedura di certificazione.
108 Capitolo 3

Lo standard revisionato tiene conto in particolar modo della normativa europea in materia di
sicurezza degli alimenti, pone attenzione ai sistemi di rintracciabilità ed ai problemi della
contaminazione crociata da organismi geneticamente modificati.

La conclusione dell’iter prevede il rilascio di un certificato e la stesura di un report esaustivo


che, per ogni requisito, mette in evidenza punti di forza e di debolezza: entrambi rendono
possibile l’entrata nella rosa fornitori della Grande Distribuzione.

Lo standard copre dei punti cardine tra cui il sistema HACCP, la gestione della qualità e
dell’ambiente di lavoro, il controllo del prodotto e del processo produttivo.

A seguito dell’ultima revisione lo standard BRC risulta molto allineato ad un altro standard
globale che è l’IFS (International Food Standard, tedesco), rendendo possibile la realizzazione
di alcuni audit congiunti per il conseguimento di entrambe le certificazioni.

Il principale vantaggio derivante dal conseguimento dello standard BRC deriva dalla sua
completezza: esso viene commissionato dal fornitore e gli esiti dell’iter certificativo possono
essere sottoposti a tutti i clienti che riconoscono lo standard, che offre un quadro chiaro degli
obblighi e dei requisiti tanto per il cliente che per il fornitore.

Alla fine degli anni ’90, iniziano a diffondersi gli schemi di assicurazione della qualità di III ge-
nerazione, che rappresentano una vera innovazione nel panorama dell’agroalimentare.
L’evoluzione concettuale che ha condotto alla definizione degli schemi di III generazione sta
soprattutto nel passaggio da schemi di assicurazione orientati al prodotto (product oriented)
a quelli orientati al processo (process oriented).

Le motivazioni alla base di questa evoluzione sono da ricercarsi nelle richieste sempre più
pressanti da parte dei consumatori di un “alto” livello di qualità, che, includendo quello che
dovrebbe essere un prerequisito obbligato, cioè la sicurezza degli alimenti, è più opportu-
namente sintetizzabile in termini di “qualità costante”: cultura della qualità e cultura della
sicurezza divengono concetti inscindibili.

Di conseguenza, l’assicurazione della qualità dei prodotti alimentari da parte del sistema
produttivo è una risposta alle istanze del consumo, che si inserisce nel più ampio contesto di
“alta qualità del livello di vita”.
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .109

Il problema della valutazione della qualità di un alimento si complica per il peso crescente dei
requisiti soggettivi assegnati dal consumatore al prodotto alimentare, o meglio per la
progressiva prevalenza degli attributi “wants” rispetto a quelli “musts”. Ciò deriva essen-
zialmente dalla crescente importanza assegnata ai segnali estrinseci, all’enfasi sugli attributi
ambientali o periferici al prodotto. Questa evoluzione è ben rappresentata dallo spostamento
di attenzione verso il concetto di alimentazione piuttosto che di cibo in sé.

Un sistema agroalimentare competitivo deve essere in grado di individuare le variabili stra-


tegiche e, in base a queste, darsi strumenti ed organizzazioni idenei per fornire risposte ade-
guate.

Le catene agroalimentari gestiscono contemporaneamente flussi di materiali e flussi di in-


formazioni; il problema è l’incorporazione della qualità in entrambe le dimensioni: da qui è
immediato affermare che un concetto innovativo di qualità richiede un approccio di sistema.
L’organizzazione delle catene agroalimentari ha in questo contesto un’importanza fonda-
mentale: una supply chain adeguatamente coordinata consente una gestione efficiente dei
flussi fisici e un’ottimale diffusione e condivisione dell’informazione. Questo tipo di organiz-
zazione rende possibile la rispondenza del prodotto e dei suoi attributi alle esigenze del mer-
cato attraverso un approccio integrato al problema della qualità. Una delle sfide più impe-
gnative è rappresentata dalla necessità di includere la qualità nei passaggi di informazione: in
una logica di domanda, in base alla quale una supply chain funziona, l’assicurazione della
qualità deve essere incorporata come attributo di un prodotto agroalimentare.

In quest’ottica, alla domanda di qualità espressa dal mercato, la risposta dei diversi
stakeholders ai differenti livelli del sistema agroalimentare ed alla sua periferia non può che
estrinsecarsi nell’introduzione di prodotti innovativi che si configurano in prodotti con qualità
assicurata. L’obbligatorietà di tale percorso proviene dalle seguenti considerazioni: la qualità
di un prodotto deriva da una valutazione totale; il test finale di validazione del modello di
qualità è il prezzo che i consumatori sono disposti a riconoscere al prodotto agroalimentare; i
servizi e l’immagine (attributi intangibili) vedono incrementare il loro peso nella formazione
del prezzo finale. Il problema per l’offerta è, dunque, differenziare in qualità e comunicare
qualità.
110 Capitolo 3

È evidente che, in questo quadro, la qualità “normativa” rappresenta una condizione neces-
saria ma non sufficiente per conquistare il mercato, ed è quindi piuttosto una condizione pre-
competitiva. L’assicurazione della qualità, invece, è lo strumento che, insieme alla marca,
consente di generare “trust” nel consumatore, dal momento che tali schemi tengono
efficientemente conto del peso degli attributi “ricerca” e “fiducia”.

Gli schemi di assicurazione della qualità di III generazione rappresentano, quindi,


un’innovazione appropriata per l’agroalimentare, perché consentono di trattare la qualità in
un’ottica sistemica, rispondono ad una logica “demand pulled”, ma soprattutto sono rispon-
denti alle esigenze della Moderna Distribuzione, cui nei sistemi agroalimentari moderni spetta
la leadership di canale, perché forniscono utili elementi di differenziazione in aggiunta alle
possibilità offerte dalla politica delle marche commerciali.

Il concetto di Quality Management (QM) pervade la maggior parte dei programmi volti
all’assicurazione della qualità. Esso si basa sull’idea che il miglioramento della qualità degli
alimenti passa necessariamente attraverso un ripensamento ed una migliore organizzazione
dei processi (dalla produzione alla commercializzazione), ed ovviamente implica un approccio
“integrato” al problema qualità, rappresentando un superamento dell’idea che il livello di
qualità e di sicurezza di un alimento possano essere opportunamente identificati e valutati a
partire dal prodotto finale. Il Quality Management segna, quindi, un importante passaggio da
un approccio ispettivo ad un approccio preventivo nei confronti della qualità in senso lato dei
prodotti agroalimentari.

L’approccio tradizionale al tema della qualità, che vedeva le imprese organizzare i propri
sistemi di gestione della qualità a fronte di strutture pubbliche volte al semplice controllo della
stessa, perde molta efficacia in considerazione della maggiore e crescente complessità dei
sistemi agroalimentari da un punto di vista organizzativo, del crescente ampliarsi delle
possibilità di approvvigionamento della materia prima agricola e dei salienti cambiamenti
tecnologici.

È evidente che un approccio integrato al problema della qualità, richiede una stretta coope-
razione tra gli attori operanti ai diversi livelli del sistema agroalimentare, con l’obiettivo con-
diviso di integrare le richieste della collettività, in termini di qualità e sicurezza, nei propri
processi individuali di gestione.
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .111

Negli ultimi dieci anni, in particolare, sono stati sviluppati sistemi di gestione della qualità
specifici per ciascun Paese e per molti prodotti alimentari, il cui numero è cresciuto a ritmi
impressionanti, essenzialmente come risposta ai problemi di sicurezza degli alimenti ed in
linea con i dictat derivanti dalla crescente globalizzazione. L’evidente obiettivo immediato
degli schemi di III generazione è, come visto, quello di accrescere il “trust”, la fiducia, da parte
del consumatore, ma in realtà le potenzialità di tali schemi vanno ben oltre. I QAS rap-
presentano un potente elemento di differenziazione dai competitors, ed uno strumento
fondamentale di procurement management: ai fornitori vengono imposti dai committenti
standard di qualità, il mancato rispetto dei quali implica la fuoriuscita dalla rosa dei fornitori.

Per l’industria, la diffusione degli schemi di III generazione limita in misura crescente la
necessità di impegnarsi in iniziative autonome di garanzia e di conquista della fiducia dei
consumatori, giacché il successo commerciale è decretato essenzialmente dal grado di
impegno profuso nel rispetto e nell’adeguamento agli standard imposti dalla Moderna
Distribuzione.

Tra gli schemi di III generazione, l’EurepGAP è un’iniziativa intrapresa a fine anni ’90 da
distributori riuniti nell’Euro-Retailer Produce Working Group (Eurep), che coinvolge agricoltori
e distributori nel comune obiettivo di sviluppare standard e procedure comuni e riconosciuti
a livello internazionale per la certificazione delle GAP e, parallelamente, promuovere ed
incoraggiare buone pratiche di lavorazione in agricoltura, creando uno standard minimo.

Il progetto EurepGAP rappresenta un risposta al crescente interesse da parte dei consumatori


circa l’impatto dell’attività primaria sulla qualità del prodotto alimentare finito. Lo standard
viene definito da input derivanti da diversi portatori di interesse (coltivatori, industria
alimentare, Grande Distribuzione), con l’impegno, da parte di tutti i coltivatori aderenti di
applicare lo standard GAP, allo scopo di mantenere la fiducia dei consumatori circa la salubrità
dei prodotti, di minimizzare l’impatto delle proprie coltivazioni sull’ambiente, attraverso la
riduzione dell’uso dei fitofarmaci, a favore della lotta integrata, il maggior ricorso a risorse
energetiche a minore impatto ambientale, ad assicurare la salute, la formazione ed un equo
trattamento dei lavoratori. La certificazione EurepGAP viene rilasciata annualmente al singolo
coltivatore o a cooperative di produttori.
112 Capitolo 3

Anche la certificazione IFS (International Food Standard) si colloca tra gli schemi di III gene-
razione, con contenuti abbastanza simili alla certificazione BRC, su iniziativa delle insegne più
importanti della Grande Distribuzione tedesca, con l’obiettivo di verificare le metodiche di
lavorazione ed i criteri igienici dei propri fornitori a fronte di principi comuni.

Tanto lo schema BRC che l’IFS sono stati sviluppati con l’impronta del progetto GFSI (Global
Food Safety Iniziative), il cui scopo è l’armonizzazione, secondo principi guida codificati, dei
diversi standard della Grande Distribuzione per la validazione dei propri fornitori. Questo
standard si basa su alcuni punti cardine tra cui spiccano: il sistema qualità; la gestione
dell’HACCP; il rispetto della normativa alimentare; il rispetto delle buone pratiche di tra-
sformazione (GMP).

Lo standard IFS viene conseguito attraverso una check-list a punteggio, con alcuni requisiti
imprescindibili (musts), che rappresentano un prerequisito per l’ottenimento della certifica-
zione, e una conformità a punteggio (con un punteggio minimo obbligatorio per la certifica-
zione).

Uno schema di controllo di qualità e sicurezza diffuso in maniera omogenea in Europa è lo


schema IKB (Integrated Chain Control System), che ha l’obiettivo di coprire i diversi passaggi
nelle supply chain in relazione ai su citati aspetti.

Gli aspetti principali dello schema IKB riguardano la comunicazione intra filiera ed all’esterno
di questa, l’obbligo di tracciabilità, le norme sull’alimentazione degli animali, le specifiche
misure di igiene. Il conseguimento della certificazione avviene attraverso lo svolgimento di un
sistema di audit indipendenti.

Inizialmente progettato per il settore delle carni e più recentemente esteso al settore frutta
fresca, verdura e patate, il sistema QS (Quality System) è un sistema volontario di assicura-
zione della qualità, che prevede un controllo completo, dal campo di coltivazione fino al punto
vendita. La progettazione di questo schema di assicurazione di III generazione risale al 2001
ad opera di attori afferenti a diversi livelli delle catene alimentari sotto forma di alleanza per
un’attiva tutela del consumatore. Questo sistema dispone di norme proprie differenziate per
i diversi stadi: produzione, commercio all’ingrosso, commercio al dettaglio. Sotto lo schema
QS possono essere riconosciuti altri sistemi di certificazione ed i relativi audit, tra cui
L’EurepGAP. Un sistema di contratti vincola tutti gli aderenti allo schema ad attenersi alle
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .113

regole ed alle procedure previste. Lo schema si basa su un sistema di audit interni che ogni
partner esegue per la propria organizzazione. È quindi un esempio di sistema basato
sull’autocontrollo, la cui verifica e validazione avviene attraverso un audit indipendente
effettuato da organismi di controllo accreditati secondo la norma ISO 65 (EN45011) e
riconosciuti da QS.

Lo schema GFSI (Global Food Safety Iniziative) è una progetto internazionale per la sicurezza
alimentare intrapreso da 40 leader della Grande Distribuzione in Europa, Nord America e
Australia, coprendo il 65% del mercato mondiale, che si basa sull’assunto che “la sicurezza
alimentare non può essere condizionata da interessi competitivi”. La concretizzazione di
quest’affermazione avviene attraverso il perseguimento di alcuni obiettivi: migliorare la sicu-
rezza alimentare, stabilendo un sistema mondiale di riferimento per gli standard del settore;
garantire la tutela del consumatore, sviluppando un sistema di allarme rapido e rafforzando
la sua fiducia e consapevolezza; definire requisiti per schemi di sicurezza alimentare che
coprano l’intera filiera; promuovere la collaborazione tra industrie alimentari, istituzioni e
autorità nazionali e sopranazionali; ridurre i costi relativi a queste operazioni lungo tutta la
catena dell’offerta.

Il Documento Guida sviluppato da GFSI, rappresenta un benchmarking rispetto al quale con-


frontare le norme nazionali e settoriali in materia di sicurezza degli alimenti, ed in base al quale
un sistema di sicurezza alimentare conforme viene accettato come “standard riconosciuto”. Il
Sistema di Gestione sviluppato si basa sulle Buone Pratiche e sul sistema HACCP.

Sotto l’iniziativa GFSI non avviene nessuna attività di certificazione o accreditamento, ma


viene piuttosto incoraggiato l’uso di audit di terzi; tuttavia, le norme relative alla sicurezza
alimentare giudicate conformi possono essere utilizzate da fornitori e distributori lungo
l’intera catena dell’offerta per definire i contratti per l’acquisto dei prodotti.

Tra le Norme accettate e riconosciute conformi all’iniziativa GFSI, compaiono il Codice


Olandese dell’HACCP, più rigido, IFS, BRC, EFSIS (European Food Safety Inspection Service),
SQF (Safe Quality Food).

Gli schemi di assicurazione della qualità di II e III generazione sono standard a proprietà pub-
blica (controllati dalle Autorità o da Organizzazioni), ma più spesso a proprietà privata, riferita
114 Capitolo 3

all’intera supply chain, al settore distributivo (IFS; BRC), ai fornitori (AFS), ai certificatori
(EFSIS), o infine riconducibili ad autonome iniziative dei diversi stakeholders.

Un numero limitato degli schemi visti sono ampiamente diffusi nelle supply chain agroali-
mentari europee ed italiane con in comune un focus centrato sulla gestione dei processi
produttivi. Spesso però, manca l’ultimo step per la conquista della fiducia da parte del con-
sumatore, causa la carenza di concrete azioni di comunicazione. Essi spesso finiscono, per-
tanto, per rappresentare essenzialmente un prerequisito per l’accesso a specifici canali di
mercato.

La nota maggiormente distintiva degli schemi di assicurazione della qualità di III generazione
sta comunque nell’adozione di un approccio precauzionale piuttosto che di un approccio
reattivo, definendo uno scenario in cui il criterio di autocontrollo sostituisce l’approccio di
controllo e adeguamento.

3.4 LA RINTRACCIABILITÀ COME STRUMENTO PER LA SICUREZZA ALIMENTARE: INNOVAZIONI


NELL’AGROALIMENTARE ED EFFETTI SUL SISTEMA

Tra gli elementi di novità caratterizzanti la legislazione alimentare introdotta dal Reg. 178/02,
quello della “rintracciabilità” è stato tra i più dibattuti sia per i suoi potenziali effetti sul
mercato, che per i vincoli imposti soprattutto agli operatori del settore alimentare obbligati a
garantirla utilizzando modelli e metodi diversi e più o meno efficaci.

In particolare per rintracciabilità, in base alla definizione dell’art. 3 del Regolamento n.


178/02/CE, si intende la “possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un
mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o
atta ad entrare a far parte di un alimento o di un mangime attraverso tutte le fasi della pro-
duzione, della trasformazione e della distribuzione”.

La conseguente prescrizione derivante dall’art. 18 del suddetto Regolamento recita: “È


disposta in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione la rin-
tracciabilità degli alimenti, dei mangimi, degli animali destinati alla produzione alimentare e
di qualsiasi altra sostanza destinata o atta a entrare a far parte di un alimento o di un man-
gime” (Commissione europea, 2000b).
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .115

La logica legata a tale prescrizione è quella di un approccio “one step back-one step forward”
che implica: una rintracciabilità a monte: si impone alle organizzazioni di individuare chi abbia
fornito loro un alimento, un mangime, o qualunque sostanza destinata ad entrare in contatto
con l’alimento o un mangime (fornitori); una rintracciabilità a valle: si impone alle
organizzazioni di individuare a chi è stato fornito il proprio prodotto (clienti).

Per ottemperare a questa prescrizione gli operatori hanno la necessità di disporre di sistemi e
procedure che consentano di identificare i fornitori ed i clienti diretti dei loro prodotti e di
mettere a disposizioni delle autorità competenti le informazioni a riguardo. Il Regolamento
segue il principio cosiddetto “a cascata” che prevede la registrazione del flusso di materiali, in
entrata ed in uscita, da parte di tutti gli operatori della filiera; mentre, non è previsto il
“sistema passaporto” che implica la registrazione di ogni passaggio seguito dal singolo pro-
dotto.

Si evince che nell’intenzione dei policy makers europei la rintracciabilità vuole essere uno
strumento atto a rispondere all’esigenza di offrire “sicurezza”, attraverso l’identificazione del
percorso che un prodotto compie prima di arrivare alla nostra tavola, il che implica anche una
formale “assunzione di responsabilità” da parte di tutti gli operatori coinvolti. Di conseguenza,
la rintracciabilità diventa un mezzo operativo per gestire in modo veloce eventuali situazioni
di pericolo per la salute collettiva attraverso lo sviluppo di rapide azioni di ritiro e/o richiamo
di prodotti dal mercato.

L’identificazione degli stimoli economici nell’introduzione di sistemi di rintracciabilità è utile


per comprendere se questa è verosimilmente strumentale alla diffusione di una rete di
benefici economici.

Partendo da questo presupposto, è facile aspettarsi diversi sistemi di rintracciabilità a seconda


che nascano in ambito pubblico o privato, la cui efficienza è condizionata dagli obiettivi che si
vogliono raggiungere. Un sistema a matrice pubblica ha una motivazione di fondo legata al
benessere pubblico ed al tentativo di ridurre il fallimento di mercato attraverso la creazione
di trasparenza e l’aumento del flusso di informazioni, rese disponibili fra tutti gli attori lungo
la catena dell’offerta

Un sistema a matrice privata è per lo più orientato alla generazione di profitto ottenibile
attraverso la riconquista di parti di mercato rappresentate da consumatori sfiduciati ed
116 Capitolo 3

insoddisfatti, e ad una riduzione di costi derivanti da potenziali problemi di sicurezza alimen-


tare ed ad una riduzione dei costi di monitoraggio attraverso la gestione delle relazioni con la
catena dell’offerta e l’utilizzo delle opportunità derivanti da una sorta di differenziazione del
prodotto, ravvisabile nell’offerta di addizionali assicurazioni di qualità. Per cui, a seconda degli
obiettivi in materia di sicurezza alimentare, è più utile usare una forma di rintracciabilità
piuttosto che un’altra.

Si intersecano due questioni: la spinta pubblica all’adozione di strumenti che possano garan-
tirle maggiore controllo ed elementi di garanzia nei confronti dei consumatori e gli
oneri/opportunità delle organizzazioni private.

La realtà conduce ad una riflessione di ordine generale: l’efficacia dell’introduzione di sistemi


di rintracciabilità è legata alla capacità di coniugare il benessere pubblico con la possibilità di
ottenere dei profitti per le organizzazioni coinvolte, quindi, soltanto se si verifica un intera-
zione tra i diversi attori del mercato si può garantire il monitoraggio di tutta la catena di pro-
duzione, un’adeguata identificazione dei diversi attori ed una corretta informazione e rea-
zione.

Si evince quanto oggi il concetto di rintracciabilità sia legato a quello di filiera che implica la
condivisione di obiettivi e strategie e l’esistenza di un approccio collaborativo tra le diverse
organizzazioni, finalizzato ad una gestione unitaria dei flussi e delle attività a rilevanza critica
per le caratteristiche del prodotto ed all’identificazione di un processo che vede coinvolti tutti
gli attori del sistema: agricoltori, produttori, allevatori, industria di trasformazione, tra-
sportatori e distributori, commercianti all’ingrosso e al dettaglio, fino al consumatore, in modo
da generare una “rintracciabilità delle responsabilità”.

Tecnicamente implementare sistemi di rintracciabilità che rispondano alle aspettative dei


policy makers, al fine di offrire qualità intesa come valore aggiunto, che in qualche modo
tutelino i consumatori e contribuiscano ad un miglioramento della gestione organizzativa e
delle prestazioni sia lungo la filiera che all’interno di ogni singola realtà operante sul mercato
presuppone: l’identificazione ed il monitoraggio dei flussi lungo i diversi anelli della catena
alimentare tracciando le informazioni; l’identificazione delle responsabilità ai fini della tra-
sparenza; la definizione di un modello organizzativo.
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .117

In tale contesto, l’informazione e la comunicazione giocano un ruolo fondamentale nel


momento in cui possono essere una leva competitiva per conquistare posizioni di preminenza
sia a livello orizzontale che verticale, tra le organizzazioni appartenenti a diversi stadi della
catena dell’offerta.

Tutto ciò genera un impatto sui costi sulla catena dell’offerta, che vengono divisi tra i diversi
attori della catena; per cui aspetti quali la struttura dei sistemi di rintracciabilità e le relazioni
stabilite lungo la catena dell’offerta, il relativo potere dei partecipanti, l’ampiezza, profondità
e precisione del sistema, il valore che i consumatori danno alle informazioni fornite, sono
fattori discriminanti nella distribuzione dei benefici e costi della rintracciabilità.

Ne deriva che la rintracciabilità da sola non garantisce la sicurezza, ma necessita di elementi


di supporto come un’informazione credibile ed il controllo pubblico che possano compensare
le lacune intrinseche della stessa e creare effetti virtuosi per il mercato a beneficio di tutti.

La situazione brevemente descritta implica la coesistenza di diverse forme e livelli di rintrac-


ciabilità condizionati dagli “attributi di qualità” che si mira ad offrire; di conseguenza, lo stesso
“concetto di rintracciabilità” può assumere valenze diverse a seconda che ci si riferisca a
semplici sistemi di identificazione e tracciabilità per la minimizzazione dell’impatto dei rischi
alimentari, oppure a programmi che consentano, oltre l’identificazione delle identità,
l’assicurazione di aggiuntivi elementi di qualità lungo la catena dell’offerta. In pratica, è pos-
sibile che si offrano diverse forme di assicurazione di qualità e di sicurezza alimentare.

La tendenza attuale è realizzare sistemi di rintracciabilità che permettano di identificare tutti


gli acquirenti ed i fornitori di un prodotto alimentare o tutti gli operatori che hanno contribuito
alla formazione di uno specifico lotto, seguendo un approccio collaborativo lungo la filiera.

In linea generale troviamo due modelli prevalenti:

 Sistemi di rintracciabilità di filiera che rispondono esclusivamente alle prescrizioni


dell’art.18 del Reg. 178/02 caratterizzati dall’obbligo, per tutte le organizzazioni
appartenenti alla filiera, di redigere un elenco dei fornitori e dei clienti intervenuti
nell’intero ciclo produttivo di un alimento, identificando i flussi di materiali in
entrata e in uscita.
118 Capitolo 3

 Sistemi di rintracciabilità di filiera di prodotto riferibili sia alla normativa verticale


applicata a particolari comparti produttivi che agli standards normativi privati sorti
come risposta alle nuove richieste di mercato; questi sistemi comportano
l’identificazione documentata di tutte le aziende coinvolte nella produzione e
commercializzazione di una unità di prodotto materialmente e singolarmente
identificabile. Hanno come elementi caratterizzanti: la trasparenza, che consente
l’identificazione nominativa di tutti quelli che hanno contribuito al prodotto finale;
la precisa individuazione della fonte del danno, che consente di neutralizzare qual-
siasi rischio o non conformità e di isolare le aziende che hanno contribuito alla sua
produzione; la possibilità di fornire un supporto per il controllo di processo colle-
gando, attraverso un sistema documentato, tutti gli elementi utili a garantire la
qualità e l’igiene del prodotto. Tra i due modelli, il secondo a livello applicativo è più
complesso ma, al contempo, è quello che coniuga meglio l’esigenza di garantire la
rintracciabilità con l’obiettivo di creare sinergie lungo la filiera; questo presuppone
uno sforzo organizzativo ed economico delle organizzazioni volto all’innovazione ed
al miglioramento della gestione dei processi con ricadute importanti sul mercato.

L’aspetto che in tal senso assume un ruolo prioritario è quello legato all’attuazione di un
sistema di identificazione e monitoraggio delle responsabilità e dei flussi di materiali capace
di garantire l’individuazione di ogni fase di produzione del prodotto ed inoltre, con precisione,
identificare in che misura e su quale lotto del prodotto finito ogni organizzazione della filiera
ha lavorato.

Lo step successivo all’implementazione di un sistema di rintracciabilità è la comunicazione


dello stesso finalizzata a dare visibilità ed a trasmettere informazioni, non solo lungo la catena
della produzione ma anche verso l’esterno. Le aziende partecipanti alla filiera, in base alle loro
esigenze aziendali e strategiche, individuano la tipologia di informazioni da comunicare e
condividere e possono liberamente utilizzare lo strumento che ritengono più opportuno
partendo dall’etichettatura fino a marchi, codici a barre, numeri verdi e riferimenti a siti
internet.

Il collegamento tra identificazione e gestione dell’informazione è quindi una caratteristica


basilare per un efficace implementazione di un sistema di rintracciabilità, comune a tutti i
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .119

sistemi indipendentemente dal tipo di prodotto, produzione e sistema di controllo utilizzato,


ma anche uno degli aspetti più critici da gestire e, a volte, addirittura invalidante.

Di fatto diversi fattori influenzano lo sviluppo di pratiche di rintracciabilità corrette e ne limi-


tano l’adozione nelle organizzazioni.

Implementare un sistema di rintracciabilità significa sviluppare ed acquisire metodi e stru-


menti che impattano sulle politiche e strategie di ogni singola organizzazione, per cui la scelta
è legata sia al contesto istituzionale, inteso come politiche di sviluppo dei sistemi, sia alla realtà
aziendale, alla criticità (rischio) dell’investimento richiesto, alla presenza di adeguate risorse,
alle pressioni dei clienti e alle capacità di gestire le novità di tipo organizzativo ed operativo.

Una delle maggiori difficoltà riscontrate è creare un raccordo, comprensivo del trasferimento
di informazioni, tra i diversi attori della filiera soprattutto con quelli della distribuzione che
attualmente occupano una posizione dominante all’interno del mercato agroalimentare.

Si sottolinea l’importanza nodale, per l’efficienza dei sistemi, della gestione strutturata ed
organizzata delle informazioni legate ai processi proprio perché tali informazioni rappresen-
tano una guida al miglioramento ed offrono, tramite opportune rielaborazioni, la possibilità
ottenere un vantaggio competitivo. Emerge, quindi, la valenza strategica della rintracciabilità
identificabile non come mera risposta ad un obbligo di legge o come un “costo”, ma con un
mezzo per costruire banche dati di informazioni fondamentali all’analisi di processi e risorse e
delle relative performance, correggendole in tempo reale, attraverso un sistematico moni-
toraggio.

Nello scenario agroalimentare l’introduzione di obblighi cogenti e dei relativi strumenti ap-
plicativi richiede necessariamente un cambiamento nelle classiche relazioni tra gli
stakeholders e comporta l’adozione di procedure e tecnologie innovative volte a riorganizzare
i processi sia all’interno della singola organizzazione che lungo la supply chain ed ad
ottimizzare la gestione delle informazioni al fine di potenziare le prestazioni, permettendo di
sfruttare i vantaggi derivanti dall’introduzione di nuovi elementi organizzativi.

Al fine di un efficace funzionamento dei sistemi di rintracciabilità l’adozione di innovazioni


tecnologiche, logistiche e di adeguati programmi di gestione a supporto della gestione dei
120 Capitolo 3

processi e dei flussi di materia e di informazioni è un aspetto cardine per raggiungere obiettivi
di eccellenza.

Necessità primaria è l’adozione di un linguaggio comune che metta in comunicazione i diversi


attori lungo tutta la filiera produttiva.

Va da sé che per la corretta implementazione di un sistema di rintracciabilità è necessario che


un sistema di raccolta e gestione dati, collegato tra i diversi attori, sia gestito in modo univoco.
Alla base ci devono essere meccanismi che: facilitino il riconoscimento ed autenticazione delle
informazione lungo la filiera; rendano l’informazione accessibile a tutti gli operatori; tengano
traccia e conservino l’informazione ed i relativi dati.

Attualmente, il mercato dell’Information and Communication Technologies, motore trainante


delle moderne economie, offre delle interessanti applicazioni tecnologiche al settore
agroalimentare e rappresenta un opportunità da sfruttare per realizzare un efficace sistema
di gestione dati, sia all’interno dell’azienda che lungo la filiera, in grado di generare effetti
positivi per tutta la catena dell’offerta con riflessi fondamentali nell’ottimizzazione della
tracciabilità delle singole unità logistiche.

Le situazioni che si ritrovano più di frequente nella pratica sono quelle in cui le organizzazioni
hanno implementato software gestionali per la rintracciabilità personalizzati ed operanti
all’interno della filiera utili all’interscambio di dati ed anche alla generazione di etichette lo-
gistiche. Le forme più evolute possono presentare anche una piattaforma web su cui condi-
videre le informazioni ed offrire servizi evoluti come creare interfacce con il cliente, finestre
per le comunicazioni intra ed extra filiera, etc.

Spesso questi software integrano una tecnologia di codifica dei dati, che comunemente è
quella basata sui codici a barre decodificati e registrati tramite lettori ottici, tipica dello stan-
dards EAN/UCC 128. Questo è un sistema armonizzato a livello internazionale di codifica delle
informazioni della rintracciabilità; è un sistema facoltativo per le aziende ma utile ad
implementare la rintracciabilità perché fornisce regole, un set di informazioni e la simbologia
a barre per riprodurle. Questo permette di assegnare ad ogni prodotto delle etichette logi-
stiche che si riferiscono ad ogni stadio della produzione e della distribuzione di un prodotto,
utilizzando un unico numero identificativo utile in fase di richiamo/ ritiro del prodotto.
Strategie di differenziazione: competitività, qualità e sicurezza alimentare .121

Si riscontrano ancora poche applicazioni della forma di codifica più avanzata cioè quella RFID,-
Radio Frequency Identification. Tale tecnologia, attraverso un’etichetta o un dispositivo con
un circuito integrato programmabile collegato ad una antenna, consente la comunicazione a
distanza tramite segnali a radiofrequenza.

Questa soluzione permette la raccolta e l’immagazzinamento dei dati in modo automatico,


favorendo la comunicazione lungo tutta la filiera e garantendo notevoli vantaggi, sia per la
garanzia di trasparenza, che di tipo organizzativo (snellimento logistica).

Il limite è che richiede un investimento iniziale molto alto, ma sicuramente rispetto ad altri
metodi (alla codifica con i codici a barre), permette di supportare più dati in uno spazio minimo
e di leggerli a distanza eliminando le difficoltà di lettura dei bar code. Garantisce, inoltre, la
protezione delle informazioni con un adeguata criptatura.

Oggi, purtroppo, per quanto il settore agroalimentare si stia avviando all’utilizzo di sistemi
innovativi relativi alle informazioni gli ostacoli sono ancora molti per le aziende che hanno
implementato sistemi di rintracciabilità le quali sono spesso condizionate da fattori ambien-
tali, organizzativi e contestuali che creano una situazione di conflitto tra elementi di stimolo e
limitanti all’innovazione tecnologica e si traducono nella difficoltà, comune alla maggior parte
delle organizzazioni, di implementare sistemi informatizzati a causa della loro elevata
onerosità soprattutto per gli investimenti di start-up in tecnologia e formazione, a fronte di
un risultato che risulta essere, a volte, poco aderente alle peculiari e contingenti strategie
aziendali.
122 Capitolo 4

4. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ ED ETICA


NELL’AGROALIMENTARE

INTRODUZIONE

La discussione di tematiche “etiche” in merito al sistema dell’agricoltura e dell’alimentazione


diviene più complesso per una numerosa serie di fattori che riguardano contemporaneamente
la sfera della produzione e del consumo e che in estrema sintesi possono essere ricondotti ad
un denominatore comune che è la globalizzazione dei mercati.

Le decisioni relative all’alimentazione assumono valenze sempre più sociali e culturali oltre
che economiche, come dimostra il proliferare di standard di natura pubblica e privata per-
meati appunto da valenze etiche. Questi cercano in qualche modo di rispondere a dibattiti più
o meno universalmente condivisi, come le crisi legate ai rischi alimentari, i potenziali pericoli
derivanti dagli OGM, il ruolo del metodo di produzione biologico, le preferenze da accordare
al locale piuttosto che al globale, l’emergenza obesità, i pericoli ambientali, le condizioni del
lavoro in agricoltura ed altro ancora.

Inoltre, le preoccupazioni etiche vanno estese in generale alle relazioni verticali tra i diversi
attori delle catene dell’offerta, sia in ambito domestico, che internazionale: un trattamento
corretto e trasparente dei fornitori, cioè una migliore integrazione di considerazioni etiche
nelle politiche di approvvigionamento di beni e servizi da parte delle imprese, può rappre-
sentare una modalità per gestire in maniera più efficace ed etica i rapporti lungo la supply
chain.

Emerge dunque una vera e propria “etica dell’alimentazione” nella forma di responsabilità
morale legata all’atto del produrre e consumare cibo. Essa si lega dunque ad un modello di
agricoltura responsabile ed altrettanto al sistema agroalimentare moderno nel suo complesso
andando ad interessare tutti gli anelli della catena del valore.

Un rapido sguardo al solo settore agricolo fa emergere preoccupazioni etiche già solo in rife-
rimento alla questione ambientale in termini di consumo di carburanti fossili, di acqua, di
suolo a ritmi insostenibili, contribuendo così ad una serie di degradi legati all’inquinamento di
Strategie di differenziazione: competitività ed etica nell’agroalimentare .123

acque e falde, all’impoverimento dei suoli e alla desertificazione, alla diminuzione della
biodiversità.

Alcuni comparti agricoli, in particolare ad esempio il comparto delle carni, contribuiscono in


modo drammatico all’acuirsi di tali emergenze, attraverso soprattutto gli sprechi energetici
legati al tipo di alimentazione che rendono tali attività a consumo critico di risorse.

Legati al tipo di attività inoltre, emergono tutta una serie di problematiche di salute pubblica,
connesse alla concentrazione dei residui degli allevamenti, all’uso indiscriminato di antibiotici.

Peraltro, dal punto di vista del consumo finale, il grasso animale è implicato in tutta una serie
di malattie cronico-degenerative che affliggono le società sviluppate e post-industriali.

Gli stessi pesticidi impiegati diffusamente dall’agricoltura convenzionale sono associati ad un


aumento nel rischio di cancro per i lavoratori ed i consumatori e ad altre disfunzioni, oltre ad
essere responsabili degli ampiamente dibattuti impatti ambientali sui suoli e sulle falde.

È quindi importante fornire un’introduzione su alcune questioni etiche fondamentali per i


sistemi agroalimentari sviluppati e per quelli emergenti, e proporre quindi i relativi spunti di
riflessione, nella convinzione della necessità di un dibattito che vada oltre il dilemma “con-
venzionale vs geneticamente modificato”, e tenga invece in considerazione principi che pos-
sibilmente dovrebbero essere invarianti tra comparti alimentari, fasi della catena, localizza-
zione delle attività produttive: l’etica deve riguardare i luoghi, le modalità, le “cose” che con-
tribuiscono a definire la nostra alimentazione, ma soprattutto deve condurre a considerazioni
legate al “dove”, al “chi”, al “come” ed alle possibili interrelazioni ed influenze.

4.1 LE CRITICITÀ ETICHE NELL’AGROALIMENTARE: UNA SISTEMATIZZAZIONE

Dalla breve introduzione che precede, appare evidente che nonostante l’ampiezza del dibat-
tito da anni già in atto, non è semplice individuare un significato ed uno scopo univoci per il
termine “etica” applicato alle questioni agroalimentari.

In particolare, appare evidentemente complesso individuare i soggetti interessati a partire da


coloro che attivamente lavorano nell’ambito della produzione degli alimenti, passando per
124 Capitolo 4

l’intricata rete delle interrelazioni verticali lungo le catene dell’offerta, arrivando ai soggetti
del consumo ed andando oltre fino ai potenziali effetti successivi.

In sintesi, ciascun apporto nell’ambito della food supply chain è potenzialmente portatore di
preoccupazioni di carattere etico che possono riverberare non soltanto su altri individui ma
anche su altri portatori di interesse (animali o ambiente).

La riflessione è resa più complicata dal fatto che l’etica implica giudizi di natura oggettiva ma
anche soggettiva, derivanti da differenti combinazioni di valori applicati a situazioni pratiche.

Studi a livello europeo hanno concentrato l’attenzione sulle diverse dimensioni dell’etica
nell’agroalimentare in differenti contesti sia nel mercato dei prodotti di massa indifferenziati
(commodities) sia in catene dell’offerta più complesse e differenziate.

Risulta possibile “categorizzare” alcune ampie dimensioni delle preoccupazioni etiche nelle
catene agroalimentari, sottolineandone la natura dinamica e le crescenti interconnessioni.

Una schematizzazione molto utile è opera una grossa ripartizione in attributi etici di tipo
sostantivo e attributi etici di tipo procedurale.

I primi si riferiscono alle conseguenze derivanti ai diversi portatori di interesse dalle pratiche
di produzione nell’agroalimentare o dall’azione di consumo. Intuitivamente è immediato
pensare alla salute umana e alla qualità (e sicurezza) degli alimenti, ma in questa categoria
ricadono anche altre questioni etiche fondamentali quali le condizioni di lavoro, il benessere
degli animali, gli impatti dei metodi di produzione e trasformazione sulle risorse naturali e
sull’ambiente, i termini commerciali (prezzi e condizioni per i fornitori), l’origine e la localiz-
zazione delle diverse fasi della produzione. La peculiarità di questi attributi così definiti
“sostantivi” (Tav. 1) sta nella loro tendenza allo sconfinamento ed alla sovrapposizione: un
chiaro esempio è fornito dalle evidenti sovrapposizioni tra le preoccupazioni relative alle
condizioni di lavoro e quelle relative ai termini di scambio commerciale.
Strategie di differenziazione: competitività ed etica nell’agroalimentare .125

Tavola 1
Preoccupazioni etiche di tipo “sostantivo”
Salute umana (sicurezza degli alimenti, igiene, malattie animali, condizioni di lavoro…)
Benessere animale
Impatto dei metodi di produzione e trasformazione (ambientale, territoriale, impatto sul
benessere animale….)
Termini di scambio commerciale (prezzo, condizioni contrattuali…)
Condizioni di lavoro e standard relativi
Qualità intrinseca dei prodotti (composizione, gusto, aspetto….)
Origine e localizzazione

La seconda grande categoria comprende invece questioni di carattere etico in più orizzontali
rispetto agli attributi di carattere “sostantivo”, che implicano le modalità di partecipazione e
di motivazione nei processi di informazione circa le caratteristiche dei prodotti alimentari; le
modalità con cui questi sono stati ottenuti e dunque sui potenziali impatti sui diversi portatori
di interesse. Gli attributi procedurali (Tav. 2), fiducia, trasparenza e partecipazione si
interrelano strettamente tra di loro ed hanno fondamentalmente a che vedere con
l’informazione in termini di disponibilità, affidabilità e fruibilità: il rispettivo campo eletto di
concretizzazione si concreto sono gli standard e gli schemi di certificazione, con un importante
ruolo nelle aree del marketing e dell’etichettatura.

Tavola 2
Preoccupazioni etiche di tipo “procedurale”
Fiducia
Partecipazione
Trasparenza

Nel seguito del lavoro sarà evidente come nell’agroalimentare la presenza dei due tipi di
“attributi etici” sia molto forte e significativa.
126 Capitolo 4

4.2 UNA PANORAMICA SULLE “PECULIARITÀ ETICHE” DEI SISTEMI AGROALIMENTARI

Le modalità con cui le imprese in generale operano sui mercati globali è sempre più influen-
zato da alcuni fattori quali l'attenzione nei confronti delle problematiche ambientali, la cre-
scente pressione dell'opinione pubblica e i provvedimenti normativi: ciò discende dalle sem-
pre più pressanti richieste di consumatori e mercato richiedono di prodotti e servizi "etici"
erogati da aziende socialmente responsabili.

Il settore alimentare, in particolare, presenta problematiche di primo piano: in estrema sintesi


a livello ambientale, esempi emblematici sono l'agricoltura intensiva e le monocolture, mentre
da un punto di vista sociale, l'utilizzo diffuso del lavoro minorile e del lavoro nero; le relative
interdipendenze rendono le emergenze ambientali anche di carattere sociale e viceversa.
Altro argomento scottante è il presunto potenziale negativo legato alla diffusione degli
organismi geneticamente modificati, che, nonostante gli indiscutibili vantaggi legati alle rese,
rappresenterebbero una possibile minaccia per la biodiversità (problema ambientale), e
d’altra parte comporterebbero da un punto di vista sociale un aggravio di costi soprattutto
per aree rurali già povere, costringendo gli agricoltori all'acquisto annuale di sementi gene-
ralmente più costose, in assenza di regole internazionali per stabilirne il prezzo.

Anche le emergenze alimentari recenti, legate ai diversi rischi connessi all’insicurezza degli
alimenti, rappresentano a pieno titolo problematiche sociali oltre che economiche legate agli
interessi di consumatori e produttori. Nondimeno, gli aumenti indiscriminati dei prezzi al
consumo di vari generi alimentari negli ultimi anni costituiscono un’ulteriore problematica di
carattere sociale, andando generalmente a colpire stakeholders più deboli.

Il sistema agroalimentare si configura così come campo eletto per la responsabilità sociale,
imponendo quindi una riflessione organica su obiettivi, strumenti e attori interessati: le
capacità di risposta al riguardo, da parte della singola azienda, del sistema nel suo complesso,
ma anche delle politiche pubbliche di settore rappresentano fattori di competitività sempre
più imprescindibili.

I consumatori richiedono una mole crescente di informazioni sul prodotto e sui processi pro-
duttivi in termini di contenuti socialmente responsabili, di sostenibilità sotto il profilo
ambientale, di livelli di sicurezza e salubrità.
Strategie di differenziazione: competitività ed etica nell’agroalimentare .127

L’impresa socialmente responsabile ha dunque anche la necessità di comunicare le proprie


caratteristiche che in tal senso devono andare oltre gli standard definiti dagli obblighi di legge,
coniugando cioè obiettivi di responsabilità con altri di strategicità.

Le criticità etiche possono dunque essere riassunte nelle seguenti: il rispetto e la tutela
dell’ambiente, la garanzia di accettabili condizioni di lavoro e l’assenza di discriminazioni e
sfruttamento nei confronti delle fasce più deboli della popolazione, la distribuzione equa del
valore prodotto lungo l’intera catena di offerta, la valorizzazione di specificità territoriali di
carattere paesaggistico, culturale e sociale.

Se nel settore primario le preoccupazioni etiche vertono innanzitutto sull’ambiente e sulla


figura del lavoratore, ragionando per l’intero sistema è necessario estendere il ragionamento
alle relazioni verticali tra i diversi attori delle catene dell’offerta, sia in ambito domestico, che
internazionale.

Relazioni etiche verticali presuppongono un trattamento corretto e trasparente dei fornitori,


cioè un approccio etico nelle politiche di approvvigionamento di beni e servizi da parte delle
imprese.

I processi di industrializzazione e di globalizzazione dell’agroalimentare, hanno reso più labili


contenuti di sostenibilità ambientale e sociale, e ciò è stato solo parzialmente corretto
dall’intervento pubblico sia in termini economici che ambientali, di conseguenza la respon-
sabilità si è spostata sempre più sugli attori economici stessi.

Per quanto attiene alle condizioni dei lavoratori, soprattutto il settore primario si caratterizza
per le ridotte dimensioni aziendali che impongono recuperi di competitività anche attraverso
comportamenti penalizzanti nei confronti del fattore lavoro: di conseguenza forti criticità
emergono sotto il profilo della qualità in termini di basso livello di sicurezza, elevata
stagionalità, ampio utilizzo di manodopera immigrata, lavoro irregolare.

Parallelamente, il processo di creazione del valore si è spostato sempre più a valle annettendo
via via una leadership sempre più marcata alla Moderna Distribuzione, che spesso risulta in
comportamenti vessatori, soprattutto nei confronti dei fornitori.

Le catene dell’offerta agroalimentari si configurano in una grande diversificazione degli attori


coinvolti (agricoltori, trasformatori, commercianti, grossisti e dettaglianti) e delle dimensioni
128 Capitolo 4

delle imprese, complessità che si confronta sempre più spesso con una serie di pratiche
commerciali non etiche, legate essenzialmente allo squilibrio nel potere contrattuale delle
parti: a maggiore dimensione economica e concentrazione (MD) corrisponde una crescente
capacità di imporre condizioni contrattuali inique, sia in termini di prezzo, che nei termini e
nelle condizioni. Tali pratiche possono verificarsi a tutti i livelli delle catene dell’offerta, ma
riguardano in particolare le relazioni tra le grandi insegne della distribuzione alimentare e i
loro fornitori, che spesso hanno poche o nulle alternative per vendere i loro prodotti. Inoltre,
la continua diffusione delle marche private rappresenta un ulteriore fattore di incremento di
pratiche non corrette da parte della MD nei confronti dei fornitori: verso i prodotti di marca,
minacciati sovente di essere eliminati dagli assortimenti, in quanto molto più costosi dei
prodotti a marchio privato, e verso i piccoli produttori che possono essere sostituiti con
estrema facilità.

4.3 I POTENZIALI CORRETTIVI

Gli strumenti di gestione socialmente responsabile sono utilizzabili ai diversi livelli del sistema
agroalimentare per la messa in atto di comportamenti responsabili nei confronti dei diversi
stakeholders.

Generalmente si usa distinguere questi dagli strumenti per il consumo socialmente respon-
sabile che, agendo sul lato domanda, sono mirati ad indirizzare la decisioni di acquisto finali
(consumatori) o intermedie (distribuzione e altro operatori) a favore di effetti più sostenibili
ed equi.

Nell’ambito degli strumenti di gestione socialmente responsabile, i codici di condotta indivi-


duano e fissano principi di comportamento responsabile.14

Il Codice Etico definisce la responsabilità etico-sociale di ogni partecipante all’organizzazione


imprenditoriale, introducendo una definizione chiara ed esplicita delle responsabilità etiche e

14
A livello internazionale il Global Compact mira ad ottenere un mercato globale più equo attraverso
l’applicazione di principi universali nei seguenti ambiti: diritti umani, norme del lavoro, tutela dell’ambiente, lotta
alla corruzione
Strategie di differenziazione: competitività ed etica nell’agroalimentare .129

sociali dei propri dirigenti, quadri, dipendenti e spesso anche fornitori verso i diversi gruppi di
stakeholders in modo da creare fiducia verso l’esterno.

Gli strumenti di rendicontazione sociale, invece, hanno la finalità di rendere trasparenti per
tutte le parti interessate i risultati conseguiti dall’organizzazione: il bilancio sociale è il più noto
strumento di rendicontazione sociale insieme all’AccountAbility 1000 che mira al
miglioramento del dialogo e delle relazioni in generale tra gli stakeholders.

I Bilanci e Rapporti Ambientali, Sociali e di Sostenibilità sono strumenti volontari che non
contengono soltanto aspetti di contabilità (sia essa economica, ambientale e sociale), ma
anche la descrizione dei prodotti, dei processi, degli obiettivi e delle strategie adottate al fine
di creare valore, per l’azienda, per le comunità, per il territorio, raccontando e costruendo il
dialogo e la partecipazione. Il Bilancio Sociale rappresenta, dunque, “l'utilizzo di un modello di
rendicontazione sulle quantità e sulle qualità di relazione tra l'impresa ed i gruppi di rife-
rimento rappresentativi dell'intera collettività, mirante a delineare un quadro omogeneo,
puntuale, completo e trasparente della complessa interdipendenza tra i fattori economici e
quelli socio-politici connaturati e conseguenti alle scelte fatte”.

Gli standard di gestione e certificazione rappresentano modelli ai quali le imprese devono


uniformare i propri processi gestionali su criteri di gestione socialmente responsabile svilup-
pati da specifici organismi.

Per le piccole e medie imprese dell’agroalimentare l’orientamento è verso l’attivazione di


sistemi gestionali proiettati a superare il mero rispetto delle leggi, delle prescrizioni minime e
degli obblighi giuridici, al fine di dare una più esaustiva risposta alle esigenze dei vari
stakeholders utilizzando gli strumenti normativi disponibili:

Oltre alle norme ISO 9001, Sistema di Gestione della Qualità, che dimostra la capacità di
un’Organizzazione di fornire prodotti e servizi conformi a determinati standard e finalizzato
ad accrescere la soddisfazione del cliente; ISO14001, Sistema di Gestione Ambientale, in grado
di dimostrare l’impegno nel minimizzare l’impatto ambientale dei processi, prodotti e servizi,
attestandone l’affidabilità, si stanno diffondendo standard e sistemi gestionali con un
contenuto più specificatamente etico:
130 Capitolo 4

 BS OHSAS 18001, Sistema di Gestione Salute e Sicurezza, per rispondere alle normative
vigenti ed aiutare le aziende a formulare politiche di prevenzione e salvaguardia della
Salute dei Lavoratori;
 ISO 22000 Sistemi di Gestione della Sicurezza nel settore agroalimentare, che consente
a tutte le aziende coinvolte nella filiera di identificare i rischi cui sono esposte e di
gestirli in modo efficace: la certificazione secondo tale norma fornisce efficaci
strumenti per comunicare con gli stakeholder; si tratta di un elemento particolarmente
importante per dimostrare l’impegno di un’azienda nei confronti della sicurezza
alimentare nel pieno rispetto dei requisiti di Corporate Governance, Responsabilità
Sociale d’Impresa e Bilancio di Sostenibilità.
La norma SA 8000 è uno standard di gestione internazionale che disciplina i seguenti temi:
rispetto dei diritti umani, diritti dei lavoratori, tutela contro lo sfruttamento dei minori, sicu-
rezza sui luoghi di lavoro, ed è pertanto lo standard in particolare e lo strumento in generale
più specificamente attinente l’integrazione dei principi della responsabilità sociale orientati
alle risorse umane e rappresenta il sistema di gestione di responsabilità più importante e
diffuso.

L'impegno etico e sociale di un’impresa oltre ad essere testimoniato dal proprio Codice etico
e/o Bilancio sociale, può dunque anche essere certificato.

Questo standard nasce dal CEPAA (Council of Economical Priorities Accreditation Agency), che
ha per missione guidare le organizzazioni verso la responsabilità sociale, riunendo i principali
stakeholders per sviluppare standard volontari basati sul consenso, accreditando orga-
nizzazioni qualificate per verificare la conformità, promuovendo la conoscenza e compren-
sione dello standard e incoraggiandone l'attuazione a livello mondiale.

Lo standard e le relative procedure di accreditamento e certificazione nascono in un ottica


globale e transnazionale, pur recependo le peculiarità normative locali.

Un’Organizzazione che intende richiedere la certificazione SA 8000 deve: assicurarsi che


quanto richiesto dai requisiti SA 8000 sia effettivamente compreso ed implementato a tutti i
livelli dell'Organizzazione; fornire a tutte le parti interessate le informazioni sulle performance
raggiunte in relazione ai requisiti e tenerne un’appropriata e completa documentazione;
Strategie di differenziazione: competitività ed etica nell’agroalimentare .131

adottare un piano di coinvolgimento e sensibilizzazione dei fornitori sui temi della SA 8000 e
darne evidenza.

È previsto un sistema di reclami che accresce il valore aggiunto apportato da tale standard in
termini di affidabilità, coinvolgimento, trasparenza (si ricordino i sopra citati attributi “pro-
cedurali”).

Con riferimento all’agroalimentare italiano, l’interesse verso la SA 8000, deriva sia da parte di
grandi imprese, con produzione delocalizzata in Paesi in via di sviluppo (soprattutto in merito
a tematiche attinenti il lavoro), sia da parte di multinazionali operanti anche sul territorio
italiano, sia da parte di imprese che la interpretano soprattutto come strumento di vantaggio
competitivo nei confronti di competitors.

Uno studio recente sulla diffusione di tale standard in Italia ne evidenzia una massima diffu-
sione in Toscana e in Umbria (essenzialmente dovuto alla presenza di incentivi economici e
fiscali), e una buona diffusione in regioni quali Campania, Puglia e Marche, dove un fattore
determinante è stato l’impegno attivo da parte di enti locali, soprattutto le camere di com-
mercio.

La ISO 26000 rappresenta invece uno standard sviluppato dall’ISO che fornisce le linee guida
si base volontaria sulla responsabilità sociale nel settore pubblico come in quello privato e
mira a raggiungere un consenso internazionale su significati e contenuti della responsabilità
sociale stessa, attraverso la traduzione di principi in azioni concrete e le ridefinizione e il
miglioramento delle “buone prassi”. Dal 1° novembre 2010, tale norma è pronta ad essere
utilizzata come standard tecnico internazionale fornendo alle organizzazioni una guida
armonizzata e universalmente applicabile alle pratiche di responsabilità sociale, come risul-
tato del più ampio consenso internazionale raggiunto tra gli esperti e i principali soggetti
interessati.

Il Social Statement (SS), infine, è uno strumento volontario, pensato in primo luogo per guidare
le imprese nell’attività di rendicontazione delle proprie prestazioni sociali, standardizzando la
modalità di rilevazione e presentazione delle informazioni e favorendo forme di confronto e
valutazione dei risultati ottenuti. Il Social Statement vuole soprattutto rispondere alle
crescenti richieste informative che provengono da molteplici categorie di stakeholders sulle
132 Capitolo 4

tematiche della Corporate Social Responsibility, mirando a garantire maggiore trasparenza


nella comunicazione delle imprese, a tutela dei consumatori e a vantaggio di tutti i cittadini.

Esso si basa sulla definizione di CSR data dalla Commissione Europea nel Libro Verde, pubbli-
cato nel luglio 200115 dove si desume che essere socialmente responsabili implica andare oltre
il semplice rispetto della normativa vigente, “investendo” di più nel capitale umano,
nell’ambiente e nei rapporti con le parti interessate”. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali ha messo a punto una proposta per orientare le imprese nella predisposizione del Social
Statement attraverso indicatori qualitativi e quantitativi.

Le iniziative in campo etico-sociale nel sistema agroalimentare possono rappresentare un


importante strumento in grado di rispondere ai cambiamenti in atto, a monte e a valle della
filiera, all’interno delle aziende agricole e alimentari.

Come visto, il tema delle risorse umane è profondamente delicato: nel sistema agroalimentare
le ridotte dimensioni imprenditoriali rendono talvolta ancora più complesso l’approccio a tale
problematica, aggravata dalle caratteristiche dell’organizzazione produttiva, che comporta in
generale basso livello di sicurezza, elevata stagionalità, ampio utilizzo di manodopera
immigrata e lavoro irregolare.

Inoltre il legame dei sistemi agroalimentari con il territorio rappresenta una dimensione che
va al di là della semplice realtà aziendale, in grado di generare valore sull’insieme del contesto
economico-sociale. Lo sviluppo di un rapporto positivo con il territorio permette alle imprese
del sistema agroalimentare una migliore valorizzazione delle risorse della comunità
territoriale, quindi di svolgere una funzione socio-ambientale attraverso la salvaguardia del
patrimonio naturalistico e culturale, la tutela delle tradizioni, delle condizioni dei lavoratori e
della popolazione rurale e le conoscenze accumulate negli spazi rurali.

L’introduzione della variabile “etica” attraverso la diffusione degli strumenti della responsa-
bilità sociale favorisce il radicamento dell’impresa e può creare un rapporto privilegiato con il
mercato locale, indirizzando la competitività delle imprese agroalimentari su un modello che
valorizza le specificità locali e regionali e consente di superare il limite della piccola dimensione

15
“A concept whereby companies integrate social and environmental concerns in their business operations and
in their interaction with their stakeholders on a voluntary basis“ (Commissione europea, 2001).
Strategie di differenziazione: competitività ed etica nell’agroalimentare .133

aziendale. Con riferimento alla variabile ambiente, il peggioramento delle condizioni


ambientali per la collettività e l’abbassamento del livello della qualità della vita delle
popolazioni locali spingono verso una richiesta più pressante di conservazione delle condizioni
paesaggistico-ambientali e l’utilizzo di tecnologie sempre meno inquinanti. Gli agricoltori sono
sempre più disponibili ad adottare metodi di coltivazione più attenti alla salvaguardia delle
risorse naturali, anche se ciò comporta un aumento dei costi aziendali.

In generale, i numerosi percorsi e strumenti utilizzabili nell’ambito della responsabilità sociale


nel sistema agroalimentare possono consentire all’impresa agroalimentare di differenziare il
proprio prodotto attraverso l’acquisizione di caratteristiche distintive riconosciute e richieste
dal consumatore, sebbene le buone pratiche in questo senso presentino talvolta difficoltà di
implementazione.

Alcune imprese già da tempo hanno colto il senso di tale opportunità rispondendo alla cre-
scente domanda dei consumatori e adottando, nell’ambito delle proprie strategie e attività,
pratiche di responsabilità sociale. L’impatto economico della responsabilità sociale delle im-
prese può essere ripartito in effetti diretti e effetti indiretti. Risultati positivi diretti possono
ad esempio derivare da un migliore ambiente di lavoro che si traduce in un maggiore impegno
e in una maggiore produttività dei lavoratori, ovvero possono derivare da un’efficace gestione
delle risorse naturali. Gli effetti indiretti si legano alla crescente attenzione dei consumatori e
degli investitori, che amplia il ventaglio delle possibilità dell’impresa di creare e comunicare
valore nel mercato; al contrario la reputazione di un’impresa può spesso soffrire per le critiche
formulate nei riguardi delle sue prassi commerciali e/o di gestione delle risorse umane, dei
rapporti con i fornitori o dell’approccio all’ambiente, con gravi conseguenze sull’immagine.
134 Capitolo 5

5. STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE: COMPETITIVITÀ E TUTELA AMBIENTALE

I problemi dell’inquinamento e del depauperamento delle risorse naturali sono oramai dive-
nuti delle emergenze vere e proprie. Ciò ha implicazioni particolarmente significative per
l’intero sistema agroalimentare ma, soprattutto, per il settore agricolo, sia per le caratteristi-
che della sua attività produttiva (utilizzatrice/generatrice di risorse naturali) che per la sua
estensione territoriale. L’agricoltura, che insieme alle foreste si estende per oltre il 75% della
superficie dell’Unione Europea, è chiamata, quindi, da una parte a rispettare regole sempre
più precise e, dall’altra, a esercitare un ruolo fondamentale nella gestione del territorio.

La maggiore sensibilità della pubblica opinione si è tradotta in una crescente attenzione verso
il comportamento delle imprese, alle quali si richiede l’attivazione di processi produttivi che
portino all’ottenimento di prodotti “sicuri” e che riducano al minimo l’impatto negativo sulle
risorse naturali. In questo contesto, un ruolo importante è svolto dalle autorità pubbliche
attraverso la definizione di una serie di interventi atti a correggere i meccanismi di
funzionamento del mercato.

La stessa Politica Agricola Comunitaria ha nel corso del tempo subito un processo di rinver-
dimento, ritenendo gli incentivi alla produttività storicamente concessi ai produttori agricoli
come forma di sostegno del reddito, una causa primaria di pressione incontrollata
sull’ambiente, riorientando quindi gli strumenti verso obiettivi di tutela ambientale, anzi,
condizionando la concessione degli aiuti al rispetto di requisiti di rispetto e salvaguardia
dell’ambiente (principio di eco condizionalità).

Nel seguito verranno descritte le possibilità per le imprese (anche agroalimentari) di compe-
tere differenziando la propria offerta attraverso contenuti ambientali.

5.1 INTERAZIONI TRA AMBIENTE ED ECONOMIA

La crescita dei livelli d’inquinamento prodotti dall’attività umana che si è registrata negli ultimi
decenni, ed i riflessi che lo stesso ha avuto sulla vita di ognuno, ha aumentato l’attenzione e
la sensibilità di tutte le parti sociali circa le problematiche di difesa dell’ambiente.
Strategie di differenziazione: competitività e tutela ambientale .135

Si sta vivendo un vero cambiamento culturale, sociale e politico che ha posto in primo piano
il complesso ed articolato rapporto tra ambiente ed economia, ovvero, la difficoltà di conci-
liare la crescita economica con la tutela dell’ambiente.

Per la loro stessa natura, gli aspetti ambientali sono stati e sono oggetto di analisi scientifica
e tecnica che ha avuto come output lo sviluppo di molteplici studi sul clima come, ad esempio,
la messa a punto di materiali e tecnologie non inquinanti.

La tutela ambientale, inoltre, è terreno d’analisi e d’intervento dei policy makers dei diversi
Paesi e, sempre più spesso, degli organismi sopranazionali: questi formulano le politiche
ambientali ai vari livelli, pongono il quadro legislativo complessivo e regolamentano i diversi
aspetti della protezione ambientale.

Il punto nodale di ogni politica ambientale risiede nel rapporto con il sistema economico a
livello macro, e con il mondo delle imprese a livello micro. Così le questioni ambientali sono
direttamente o indirettamente riconducibili al sistema industriale, o, più in generale, allo
sviluppo economico; ugualmente, qualsiasi intervento a salvaguardia ambientale finisce per
avere riflessi sul sistema economico.

L’evoluzione della domanda di tutela ambientale, legata ad una molteplicità di fattori sinte-
tizzabili nell’oggettivo aggravamento dei problemi ecologici, nella crescita del benessere, nella
maggiore sensibilizzazione dell’opinione pubblica e della conseguente strumentalizzazione
politica che talvolta viene fatta, unitamente ad una maggiore diffusione delle informazioni, ha
richiesto una trasformazione del rapporto tra ambiente ed economia.

Fino agli anni Settanta era convinzione comune che esistesse un netto trade-off tra crescita
economica e qualità ambientale, per cui i due aspetti erano ritenuti incompatibili, in quanto
qualunque scelta a favore di uno andava a discapito dell’altro.

Ma l’introduzione del concetto di “sviluppo sostenibile” ha realmente modificato


l’atteggiamento comune.

Tale concetto è stato lanciato per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica e degli
studiosi nel 1987 con il famoso “rapporto Brundtland” intitolato “Our Common Future” della
Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo nell’ambito delle Nazioni Unite.
136 Capitolo 5

Secondo la definizione data nel rapporto Brundtland, lo “sviluppo” per essere “sostenibile”,
deve venire incontro ai bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità
delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni.

La qualità dell’ambiente va considerata una caratteristica essenziale per la qualità della vita in
una società e, quindi, come caratteristica essenziale della qualità dello sviluppo economico.

Il mutamento culturale innescato dalla diffusione del concetto di “sviluppo sostenibile” ha


spinto a credere che il sistema economico deve essere in grado di attivare processi di produ-
zione, consumo e smaltimento, capaci di creare benessere senza incidere in modo irreparabile
sulla disponibilità delle risorse attraverso il loro riutilizzo.

Naturalmente ci si può chiedere come è possibile sfruttare l’ambiente e al tempo stesso pre-
servarlo, visto che in particolare lo sviluppo economico comporta anche una crescita di pro-
duzione dei beni e servizi, e diventa quindi difficile non solo diminuire ma, addirittura, man-
tenere costante il flusso di sfruttamento delle risorse ambientali.

La risposta a tale quesito è da ravvisarsi nel progresso tecnologico; infatti, attraverso


l’introduzione e la diffusione di tecnologie pulite si può ottenere: una riduzione dei coefficienti
di sfruttamento dell’ambiente per unità di prodotto o servizio, a riduzione dell'intensità di
inquinamento, un abbattimento dell'inquinamento a valle, l’aumento delle attività di
recupero dei rifiuti e dei residui, la riduzione dei consumi di energia, l’ottimizzazione dell'uti-
lizzo delle risorse. Il problema, allora, diventa quello di valutare se il progresso tecnologico,
necessario per una continua riduzione dello sfruttamento dell'ambiente, sia un risultato
spontaneo del processo di accumulazione, implicito nello sviluppo economico, e di conse-
guenza se si possa avere nel tempo una riduzione dell'impiego del fattore produttivo ambiente
come è avvenuto per il fattore produttivo lavoro. L'evidenza empirica e la riflessione teorica
sono concordi nel ritenere che siano in atto, soprattutto nelle economie avanzate, tendenze
spontanee nella direzione della sostenibilità, ma che queste si manifestino in modo parziale e
non siano sufficienti.

Di certo, in seguito alla diffusione di una nuova cultura e sensibilità ambientale, oggi si è ini-
ziata ad intravede la possibilità di considerare la crescita economica sotto una nuova luce, non
più un limite per l’ambiente, ma una soluzione.
Strategie di differenziazione: competitività e tutela ambientale .137

Di qui, nella realtà dei Paesi più avanzati, si sta progressivamente aumentando la scelta di
prodotti tecnologicamente innovativi ed ecocompatibili. Ma bisogna sempre considerare che
la questione ambientale va affrontata in maniera globale ed il concetto di sviluppo sostenibile
va sostenuto a livello mondiale, considerandone le peculiarità16, quali: la scala internazionale
dei fenomeni ambientali, il loro forte legame con il processo di sviluppo economico,
l’incertezza del fenomeno ambientale, che vanno al di là di quelle caratteristiche su cui gran
parte della letteratura economica sul tema dell’inquinamento è stata concepita.

Proprio considerando tali caratteristiche si può individuare il rovescio della medaglia


nell’economia dei Paesi in via di Sviluppo (PVS) che, spinti dalla necessità di uscire dal sotto-
sviluppo in cui versano e avendo quindi bisogni primari da soddisfare, portano avanti attività
e processi che non tengono minimamente conto della tutela ambientale, producendo delle
esternalità negative che impattano sull’ambiente globale.

Questa considerazione propone la questione della crescita economica equilibrata per tutti i
Paesi, e della necessità di affrontare il problema ambientale in maniera ampia e globale.

È utile, perciò, analizzare tale problematica sia da un punto di vista macroeconomico, quindi
assegnando un ruolo di primaria importanza alle politiche ambientali ed a tutti gli aspetti ad
essa correlati, sia da un punto di vista microeconomico, analizzando gli atteggiamenti delle
imprese, come attori principali nel produrre impatti ambientali e nello sfruttare risorse nei
confronti dell’ambiente stesso.

La politica ambientale può, nell’ambito della più generale politica economica di un Paese,
essere un efficace stimolo all’intero sistema economico attraverso investimenti pubblici e può
divenire un utile modello di ristrutturazione e razionalizzazione, economica e tecnologica, di
alcuni settori industriali o aree territoriali.

In termini generali, si può dire che, al di là dei rilevanti divari (politici, culturali, economici,
sociali) esistenti tra i diversi Paesi, i miglioramenti nell’efficienza della produzione e dei con-
sumi conseguenti ad un’efficace politica ambientale comportano di norma la disponibilità di
beni e servizi a costi reali decrescenti, che a loro volta tendono ad incentivare la domanda. Ne

16
Cfr. Lo sviluppo sostenibile, A. Lanza, IL Mulino.
138 Capitolo 5

consegue che la riduzione dell’impatto ambientale per unità di prodotto conduce com-
plessivamente ad una crescita del PIL.

L’esigenza di coniugare crescita economica e tutela ambientale, implica che la società ponga
come obiettivo primario la “sostenibilità ambientale” del sistema economico, creando, tra-
mite una politica ambientale mirata, le condizioni per l’equilibrio tra il sistema economico ed
ambiente ed assicurando che l’ambiente conservi la sua funzione di tutela della vita attraverso
lo sviluppo di una coscienza e cultura ambientale.

5.2 STRUMENTI DI POLITICA AMBIENTALE

Visto che lo sviluppo sostenibile non è qualcosa di automatico o spontaneo, sono necessarie
appropriate politiche pubbliche per indirizzare lo sviluppo del sistema economico verso la
conservazione dell’ambiente e di tutte le sue funzioni, e per gestire i complessi rapporti
intercorrenti tra mercato, imprese e società.

È compito dei policy makers offrire un indirizzo e un controllo della attività economiche, per
raggiungere un equilibrio tra crescita economica e tutela ambientale.

Tra gli strumenti più usati dai policy makers troviamo:

 La regolazione diretta: definizione di standard, norme di legge e divieti.


 Gli strumenti economici: tasse, spesa pubblica intesa sia come investimenti pubblici
diretti che come sussidi e incentivi rivolti a incrementare comportamenti sostenibili
delle organizzazioni.
 Gli accordi volontari: meccanismi che prevedono una cooperazione tra i soggetti eco-
nomici nella definizione degli obiettivi ambientali e nella ricerca di soluzioni ai problemi
che si incontrano per il raggiungimento di tali obiettivi.
L’introduzione degli “accordi volontari”, uno strumento alternativo ed efficace, ha segnato il
passaggio dalle politiche di “command e control”, lacunose a causa di limiti intrinseci, quali la
mancanza di cooperazione, la tendenza a comportamenti passivi da parte delle imprese,
l’aumento dei costi pubblici per il controllo, ad una logica collaborativa. La collaborazione di
tipo volontaristico ha cercato di superare i limiti della struttura regolamentativa che, pur
Strategie di differenziazione: competitività e tutela ambientale .139

costituendo un elemento imprescindibile, in tutti i Paesi industrializzati, non risultava suffi-


ciente a garantire un livello di qualità ambientale compatibile con le esigenze di crescita e di
tutela ambientale di una società evoluta. In tal modo la Pubblica Amministrazione ha avuto la
possibilità di programmare obiettivi a livello generale tramite la concertazione con l’industria,
e l’industria ha avuto la possibilità di influire sulle scelte dell’Autorità.

5.3 GLI STRUMENTI VOLONTARI: IL REGOLAMENTO EMAS, LA NORMA UNI EN ISO 14001:04

Gli accordi volontari sono strumenti messi a disposizione delle organizzazioni volti ad avere un
approccio alla questione ambientale lontano dalla logica di “command and control” ed
orientato a favorire un nuovo tra imprese, istituzioni e pubblico basato sulla trasparenza, sul
supporto reciproco e sulla collaborazione.

In particolare facciamo riferimento alle seguenti norme a carattere volontario:

 le norme internazionali ISO 14000 in materia di Sistemi di Gestione Ambientale (SGA),


utili soprattutto ai fini della relativa certificazione ambientale dell'attività produttiva;
 il Regolamento comunitario EMAS III n. 1221/2009 noto come Regolamento EMAS sul-
l’adesione volontaria delle imprese al Sistema comunitario di ecogestione e audit,
dell’Unione Europea.
Per le aziende di qualsiasi dimensione adottare un approccio pro-attivo, volto all’aumento di
efficacia e di efficienza nella gestione delle problematiche ambientali, può essere molto pro-
ficuo per individuare delle soluzioni strategiche e operative innovative, in modo tale che
l’ambiente possa essere vissuto non solo come un vincolo ma anche come una fonte di
opportunità.

L’organizzazione che contribuisce alla sostenibilità, si garantisce una maggiore sopravvivenza


e sviluppo nel lungo periodo e può sfruttare i vantaggi della eco-efficienza ai fini della sua
competitività.

Bisogna però valutare quali possano essere le prospettive di reale sviluppo e divulgazione di
queste politiche ambientali tra le aziende che compongono la nostra economia.
140 Capitolo 5

La realtà del tessuto industriale del nostro Paese è in gran parte costituita da piccole e medie
imprese che presentano una struttura organizzativa e gestionale tale da rendere problematica
l’introduzione e diffusione di sistemi innovativi di gestione ambientale. Tra le difficoltà
incontrate principalmente dalle PMI si riscontrano innanzitutto i “costi” eccessivi connessi alle
attività necessarie e la carenza di competenze specifiche delle risorse umane. Per cui spesso
le stesse assumono un atteggiamento “attendista” specie riguardo a scelte con un orizzonte
temporale ed economico di medio-lungo periodo, quali quelle ambientali.

Inoltre, il fabbisogno in/formativo circa le tematiche non solo legislative, ma anche di focaliz-
zazione dell’interesse verso aspetti inerenti ai processi, quali la riduzione dell’impatto
ambientale, l’ottimizzazione dell’impiego delle risorse all’interno dei processi e il con-
trollo/valutazione dei rischi, determina la richiesta di strumenti di supporto adatti a rendere
la normativa in materia ambientale, sia pubblica (EMAS) o privata (ISO 14000), più adeguata
al contesto specifico, tenendo presenti le peculiarità del contesto competitivo di ogni singola
realtà, la tipologia e le competenze delle strutture esistenti, la novità degli argomenti rispetto
all’esperienza e cultura aziendale.

Si evidenzia, in tal modo, l’importanza di interventi d’incentivo e di supporto alla alle piccole
e medie imprese, quali agevolazioni amministrative, fiscali e finanziarie, nonché di progetti-
pilota e iniziative, concertate da soggetti pubblici o privati, finalizzate alla promozione degli
strumenti utili alla gestione del fattore ambientale e alla sperimentazione degli stessi. Inoltre,
c’è l’esigenza di colmare le lacune in/formative, offrendo strumenti di supporto ai processi di
cambiamento della cultura e delle conoscenze delle risorse umane che operino all’interno
delle imprese al fine di sviluppare attività di gestione ambientale.

Il superamento delle problematiche sopra esposte trova sicuramente condizioni favorevoli in


quelle aree in cui vi sono delle concentrazioni di aziende che presentano problematiche
ambientali omogenee. Questo è tradizionalmente il caso dei distretti industriali, i quali, dopo
i vantaggi ottenuti da sempre nella individuazione di soluzioni alle problematiche connesse
agli aspetti produttivi, logistici e commerciali, oggi si accingono ad ottenere gli stessi risultati,
e in alcuni casi li hanno già ottenuti, in ambito ambientale.
Strategie di differenziazione: competitività e tutela ambientale .141

La presenza di distretti, o comunque di una concentrazione di aziende con problematiche


ambientali comuni, sicuramente rappresenta un elemento di attrattività per quelle azioni di
impulso che sono chiamate ad assicurare le istituzioni.

Difatti, l'esito positivo dell'interazione tra imprese, opinione pubblica e tutti gli altri attori
coinvolti nella tutela ambientale (mass media, comunità scientifica, associazioni ambientali-
ste, sistema creditizio, assicurazioni ecc.) dipende dall'intervento di un terzo attore: le Istitu-
zioni; queste, infatti, tramite una programmazione concertata delle politiche ambientali pos-
sono contribuire a rafforzare sempre più nei diversi ambiti sociali la cultura necessaria per il
perseguimento costante di uno sviluppo sostenibile.

5.4 EMAS

Uno degli obiettivi principali della Commissione Europea, come definito anche nel Trattato di
Maastricht, è “promuovere uno sviluppo delle attività economiche armonioso e bilanciato,
una crescita sostenibile nel rispetto dell’ambiente… migliorando gli standard della qualità
della vita”. Perciò la Comunità si è impegnata da un lato a rendere meno lacunoso l’apparato
normativo e dall’altro ha provato ad offrire strumenti utili a diffondere l’informazione tra i
cittadini, a dare i giusti incentivi per raggiungere miglioramenti ambientali nel mercato, ed
assicurare l’integrazione dell’ambiente nelle altre politiche.

Le ragioni di tale atteggiamento comunitario sono da cercarsi in due concetti fondamentali.

Il primo concetto è basato su di un approccio legato al controllo integrato dell’attività


d’impresa, volto a monitorare come l’impresa gestisce al suo interno ed in modo integrato le
problematiche ambientali di sicurezza e della salute dei lavoratori.

Il secondo si basa sulla sollecitazione e sulla premiazione di un comportamento volontario


delle imprese verso la difesa dell’ambiente. Lo scopo è quello di stimolare l’azienda dove è più
sensibile, cioè, sulla competitività ed il mercato, mettendola nel contempo nelle condizioni di
fare un uso più razionale delle risorse che sfrutta per i suoi processi, e di considerare la
salvaguardia ambientale nell’ambito dei propri interessi economici.
142 Capitolo 5

Proprio in tale contesto si colloca il “Sistema Comunitario di Ecogestione ed Audit” (EMAS-


Environmental Managment and Audit Scheme), che mira a favorire una riorganizzazione e
razionalizzazione della gestione ambientale dell'azienda, basata non solo sul rispetto dei limiti
imposti dalle leggi, che rimane comunque un obbligo dovuto, ma su un rapporto nuovo tra la
stessa impresa, le istituzioni e il pubblico.

L’introduzione dell’attività di Audit ambientale, condotto da esperti aziendali e consulenti


esterni, soddisfa l’esigenza di gestire in modo sistematico i problemi ambientali, quali:
l’aumento della sensibilità del pubblico, le conseguenze legali, economiche e d’immagine,
l’aumento della complessità tecnica, organizzativa, gestionale delle attività.

Aspetti caratterizzanti del Regolamento sono:

 campo di applicazione rivolto a tutti i settori di attività economica.


 incorporazione della norma ISO per quanto riguarda il sistema di gestione
ambientale (procedure, organizzazione, prassi e sistemi di controllo interni);
 elaborazione di mezzi per sostenere l'applicazione del Regolamento a livello delle
piccole e medie imprese (PMI);
 logo di EMAS visibile e riconoscibile, per permettere all’organizzazione registrata di
comunicare più efficacemente la propria partecipazione in EMAS;
 l’elaborazione di una strategia di promozione da attuare congiuntamente da parte
degli Stati membri e della Commissione;
 miglioramento del controllo dei risultati in materia di ambiente delle organizzazioni;
 miglioramento della comunicazione tra organizzazioni registrate e i loro
stakeholders;
 maggiore attenzione delle organizzazioni nel considerare gli impatti ambientali
significativi, sia quelli diretti (relativi all’attività che l’organizzazione controlla e cono-
sce), sia quelli indiretti (su cui l’organizzazione non ha controllo al di fuori della
stessa: es. prestazioni dei fornitori e clienti, nuovi mercati, trasporti)delle proprie at-
tività, prodotti e servizi;
 introduzione di benefici regolamentari, quali: semplificazioni delle procedure
autorizzative e di controllo per le imprese che aderiscono ad EMAS;
 cadenza della verifica della dichiarazione ambientale annuale;
Strategie di differenziazione: competitività e tutela ambientale .143

 definizione di indicatori di prestazione ambientale.


Il sistema ha come obiettivo fondamentale la responsabilizzazione delle organizzazioni che
svolgono un’attività ad impatto ambientale, mediante la volontaria assunzione di un impegno
al miglioramento continuo delle proprie performance ambientali; impegno dettato più da
pressioni di natura competitiva e sociale che da prescrizioni normative, da attuarsi attraverso:

 l’adozione di politiche, programmi e sistemi di gestione ambientale da parte delle


aziende in relazione ai loro siti17;
 la sistematica, obiettiva e periodica valutazione dei risultati;
 la trasmissione al pubblico dei sistemi adottati e dei risultati ottenuti.
Aderire al regolamento EMAS ed ottenere la certificazione ambientale è la strada maestra per
l’eco-efficienza, cioè per l'eccellenza del business collegato ad una gestione appropriata
dell'ambiente, alle preoccupazioni per il degrado ambientale ed i bisogni delle future gene-
razioni. Diventa quindi sempre più importante per le organizzazioni dare visibilità alla loro
strategia ambientale e ai livelli di performance ambientali conseguiti.

Evidentemente ciò comporta un impegno a tutti i livelli aziendali, che devono contribuire a
produrre un salto di qualità nella gestione dell’azienda, tenendo ben presenti due punti di
riferimento essenziali: la “filosofia” sottostante al Regolamento (quella del miglioramento
continuo e dello sviluppo sostenibile), e le specifiche caratteristiche della realtà in cui è
chiamata ad operare (dotazione tecnologica, localizzazione, grado culturale del personale,
etc.).

5.5 LE NORME INTERNAZIONALI ISO 14000

In seguito all’introduzione del Regolamento EMAS, come strumento della politica ambientale
della Comunità Europea con valenza competitiva sul mercato, alcuni Paesi Extra Europei lo
hanno percepito inizialmente come barriera per il mercato internazionale. A fronte di questa

17
Sito: è la più piccola entità registrabile. “Tutto il terreno, in una zona geografica precisa, sotto il controllo
gestionale di un’organizzazione che comprende attività, prodotti e servizi. Esso include anche qualsiasi infra-
struttura impianto e materiali”.
144 Capitolo 5

situazione, in sede ISO18 è stata promossa la costituzione del TC-207 Environmental


management (Comitato Tecnico) che, mutuando dalle serie ISO 9000 (sistemi di gestione della
qualità) le metodologie operative, i requisiti e i processi di certificazione industriale, ha
prodotto la normativa della serie ISO 14000 (sistemi di gestione ambientale) con il fine di
migliorare la gestione della variabile ambientale all'interno di qualsiasi organizzazione.

La famiglia delle ISO 14000, le cui prime norme sono state pubblicate nel Settembre e
nell'Ottobre 1996, si riferiscono a diversi aspetti della gestione ambientale. Le norme non
specificano i livelli di prestazione ambientale, cosa che ne consente l'applicazione in una ampia
gamma di organizzazioni, indipendentemente dal rispettivo livello di maturità ambientale.
Tuttavia, si richiede alle organizzazioni l’impegno a conformarsi alle leggi e ai regolamenti
ambientali applicabili, unitamente allo sviluppo di un sistema di gestione ambientale che
fornisca un quadro operativo, nell’ottica del miglioramento continuo.

La norma ISO 14001:2004 “Sistemi di gestione ambientale - Requisiti e guida all’uso” è l’unica
norma prescrittiva e certificabile, mentre le altre sono delle semplici guide. La norma 14001
specifica i requisiti di un sistema di gestione ambientale. Soddisfare questi requisiti richiede
una prova obiettiva, soggetta a verifica, per dimostrare che il sistema di gestione ambientale
operi efficacemente in conformità alla norma. La norma ISO 14001 può quindi essere
impiegata a fini interni, per fornire garanzie alla direzione dell'organizzazione, e a scopi
esterni, per fornire garanzie alle parti interessate. In particolare, in un contesto esterno, la
conformità alla ISO 14001 può essere utilizzata a supporto delle dichiarazioni di una
organizzazione relative alle proprie politiche ed attività ambientali.

La norma UNI EN ISO 14001 fornisce i requisiti di un sistema di gestione ambientale in modo
tale da permettere ad un’organizzazione di formulare una politica e stabilire degli obiettivi,
tenendo conto delle prescrizioni legislative e delle informazioni riguardanti gli impatti
ambientali significativi. È stata redatta in modo da essere appropriata per organizzazioni di
ogni tipo e dimensione e si adatta alle differenti situazioni geografiche, culturali e sociali. La

18
“International Organization for Standardization”: si tratta di una organizzazione non governativa sorta nel 1947
che federa organismi di controllo-standard nazionali, appartenenti a oltre 130 Paesi in tutto il mondo, uno per
ogni Stato. L’obiettivo di ISO consiste nel promuovere lo sviluppo di standard (qualitativi, ambientali, ecc.) nella
produzione industriale mondiale, così da facilitare la cooperazione tra aziende e rendere più semplice e sicuro,
in quanto garantito da standard produttivi comuni, lo scambio di beni e servizi.
Strategie di differenziazione: competitività e tutela ambientale .145

norma, inoltre, prevede sia per la parte relativa alla struttura ed alle responsabilità del sistema
di gestione, sia per la documentazione, la possibilità che queste siano integrate con altri
sistemi già in atto o in fase di attuazione nell’organizzazione.

La norma evidenzia che il successo del sistema dipende dall’impegno di tutti i livelli e di tutte
le funzioni dell’organizzazione, specialmente del livello più elevato (l’alta direzione).

Va considerato, inoltre, che le fasi di attuazione di un sistema di gestione ambientale (SGA)


sono semplici da comprendere, ma il processo attuativo di un SGA in un’azienda non è sempre
facile ed immediato. La ragione di ciò sembra essere legata, più che ad una difficoltà intrinseca
delle operazioni da svolgere, o alla carenza di risorse umane e finanziarie, alla necessità di
integrare le nuove attività previste dal SGA con il normale svolgimento del lavoro quotidiano
nell'azienda. Perciò è necessario definire i ruoli e le modalità operative per introdurre
all’interno dell’azienda prassi di comportamento orientate al rispetto dell’ambiente.

Un ruolo fondamentale rivestono di certo gli interventi in/formativi volti a diffondere la nuova
cultura, ed a promuovere la comunicazione all’interno dell’organizzazione.

5.6 BENEFICI/COSTI DELL’IMPLEMENTAZIONE DI UN SGA

Le principali motivazioni dell’interesse verso la certificazione ambientale sono state indivi-


duate19 in: possibili finanziamenti ottenibili, aumento di visibilità dell’azienda, miglioramento
della gestione ambientale delle proprie attività, miglior dialogo con la P.A., agevolazioni in
materia di autorizzazioni legate alla normativa ambientale cogente, migliore programmazione
delle attività di controllo ambientale.

Risulta evidente che il modo migliore per stimolare una crescita di sensibilità verso l’ambiente,
non può prescindere dalla possibilità che tale crescita viaggi in parallelo con degli iniziali
benefici economici, d'immagine o di quote di mercato e non solo con un aggravio di costi.

19
Fonte: Indagine dell’UNI tra i principali enti di Certificazione italiani.
146 Capitolo 5

Un altro dato importante, che emerge dall’indagine UNI, è l’alto grado di soddisfazione delle
aziende per i benefici derivanti dall'adozione di un SGA, quali la conformità legislativa, una
migliore gestione aziendale, ma anche la riduzione degli sprechi.

Di qui si evince una crescente diffusione della consapevolezza delle organizzazioni circa la
necessità di coniugare la crescita economica con la protezione ambientale e trasformare la
salvaguardia ambientale da “minaccia” in “leva competitiva”.

Gli strumenti volontari (Reg. EMAS, norma ISO 14001) messi a disposizione delle organizza-
zioni per aiutarle a gestire il “fattore” ambiente, non più in maniera adattiva, hanno assunto
un ruolo determinante nel guidare le organizzazioni a gestire “l’ambiente” non più solo come
fattore di costo, ma di opportunità consentendo alle stesse di coniugare le scelte competitive
e strategiche con le prescrizioni e le problematiche di tutela e prevenzione.

Perciò, le organizzazioni che hanno voluto rendere visibile ed effettivo il loro impegno per la
salvaguardia dell’ambiente hanno adottato al loro interno un “sistema di gestione ambien-
tale”, integrando, quindi, la variabile ambientale nella gestione complessiva, e dimostrando
l’impegno concreto a gestirla in modo globale, coerente, integrato, nell’ottica del migliora-
mento continuo delle proprie prestazioni ambientali.

Quando un’azienda sceglie di seguire la strada dell’implementazione di un Sistema di Gestione


Ambientale, e di ottenere la relativa certificazione, è naturale che si aspetti che i benefici
presunti, derivanti da tale scelta, superino i costi stimati: tale tipo di valutazione incontra un
grosso limite, consistente nel fatto che tanto i costi quanto i benefici sono difficilmente
quantificabili, a causa della molteplicità degli aspetti e dei fattori che possono incidere in un
senso o nell’altro.

Infatti, a livello applicativo, la possibilità di avere minori costi nel rispettare la normativa a
tutela dell’ambiente implica l’impegno delle organizzazioni nell’agire in anticipo rispetto alla
normativa, acquistando il vantaggio di programmare gli interventi necessari secondo i propri
tempi caratteristici d’investimento, senza dover sottostare all'imposizione di vincoli che
diventano operativi con scadenze troppo ravvicinate. L’organizzazione può così sottrarsi a
problemi di liquidità legati alla necessità di effettuare delle spese improvvise, impreviste o
incerte nell'ammontare, migliorando la gestione finanziaria. Va da se che per poter adottare
le soluzioni tecniche migliori e meno onerose, applicando i tradizionali criteri di economicità,
Strategie di differenziazione: competitività e tutela ambientale .147

vanno evitate situazioni di particolare urgenza e scadenze incombenti. Infine, va constatato


che a volte le tecnologie pulite che consentono di ridurre a monte la produzione di fattori
inquinanti, possono essere meno costose di quelle di abbattimento applicate a valle dei pro-
cessi produttivi, per togliere gli inquinanti una volta prodotti e per ridurre i quantitativi e/o la
pericolosità dei rifiuti. Di conseguenza molto spesso è preferibile agire in una logica preventiva
piuttosto che agire in una logica di risanamento. Ciò implica capacità di programmazione
dell’organizzazione unita ad una dettagliata conoscenza della normativa ambientale e tecnica.

L’importanza di gestire con correttezza il fattore “ambiente” si traduce anche nell’opportunità


di ridurre il rischio di incidenti ambientali, che a sua volta implica una forte riduzione di costi,
spesso rilevanti e di solito non controllabili, conseguenti al verificarsi di eventi indesiderati. La
cattiva gestione dell'ambiente sottopone l’organizzazione ad un costante rischio di sanzioni
amministrative, penali, o nei casi più gravi, responsabilità civile per danni ambientali.

Godere di tali benefici e conseguire certi traguardi comporta, però, l’impiego mirato di risorse
sia economiche che umane.

Tra le principali “voci di costo” che comporta l’implementazione di un SGA troviamo i costi
relativi alla certificazione, che di norma sono abbastanza contenuti, anche se la loro incidenza
può risultare più o meno forte nel bilancio di un’azienda a seconda delle dimensioni, della
tipologia e del collocamento della stessa sul mercato.

Inoltre, bisogna considerare anche i costi per gli investimenti in apparecchiature ed impianti
nell’ottica del raggiungimento dell’efficienza ambientale. Agire in maniera preventiva significa
inserire la variabile ambientale in tutte le scelte di investimento e di manutenzione, cercando
di ottenere un risparmio di risorse a monte, ed un ritorno a livello economico.

Introdurre il fattore ambiente tra le variabili strategiche di gestione è una scelta da fare in
modo ponderato e organicamente gestito in termini di processi e funzioni destinando a tale
aspetto risorse adeguate. Le organizzazioni che hanno integrato nella loro gestione “il fattore
ambiente” in modo sistemico e sviluppato politiche ambientali ed obiettivi di tutela e
miglioramento dell’ambiente hanno riscontrato i seguenti vantaggi competitivi:

 razionalizzazione e semplificazione della gestione tecnica e amministrativa dei pro-


cessi;
148 Capitolo 5

 risparmio energetico;
 miglioramento dell’immagine e del prestigio aziendale e la potenziale crescita della
quota di mercato.
 Miglioramento della valutazione patrimoniale dell’azienda e delle sue quote azionarie,
considerato che il mercato dei capitali si sta evolvendo verso “la richiesta di profitto”
generata attraverso una crescita eco-compatibile.
Strategie di costo: la logistica come leva competitiva per il sistema agroalimentare 149
.

6. STRATEGIE DI COSTO: LA LOGISTICA COME LEVA COMPETITIVA PER IL


SISTEMA AGROALIMENTARE

6.1 LA STRATEGICITÀ DELLA LOGISTICA NEL COMPARTO AGROALIMENTARE

Nel settore alimentare, la movimentazione dei prodotti lungo la catena distributiva, dal pro-
duttore al punto di vendita, deve avvenire in modo sempre più rapido e preciso, rispettando
alti standard di servizio (efficienza, igiene, sicurezza, ecologia), sensibilmente diversi rispetto
a quelli legati a prodotti non deperibili o non alimentari. Difficile e complesso è indicare la
scelta più adatta fra interscambio e pooling20 per i prodotti deperibili: le variabili in gioco sono
numerose e articolate, il confronto deve necessariamente avvenire all’interno delle singole
relazioni fra industria e distribuzione, sulla base dell’analisi dei costi ma anche delle strategie
aziendali e dell’efficienza commerciale. L’efficienza commerciale e distributiva sono diventate
leve fondamentali delle strategie competitive nel sistema agroalimentare ed il nostro Paese
deve concentrare su questi temi le linee strategiche di sviluppo. La sfida competitiva dell’Italia
è quanto mai legata al recupero di alcune parti delle inefficienze che caratterizzano il nostro
sistema commerciale e distributivo, mentre le crescenti emergenze ambientali rendono non
più rinviabile la riorganizzazione del sistema dei trasporti e delle infrastrutture. Per l’intero
sistema agroalimentare la logistica si sta sempre più affermando come uno strumento decisivo
di razionalizzazione dei flussi, vera e propria discriminante competitiva a tutti i livelli della
catena produttiva, commerciale e distributiva. Ciò è giustificato dalle profonde modificazioni
delle condizioni competitive, che hanno prodotto, tra l’altro, la rapida evoluzione delle
strutture e delle funzioni logistiche e di trasporto. L’ottimizzazione dei processi logistici
produrrebbe benefici molto significativi sul sistema produttivo e agroalimentare. italiano, sia
diretti in termini di minori costi che indiretti maggiore competitività. La Logistica dei prodotti

20
Il Pooling è un modello alternativo per ridurre i costi e per risolvere efficacemente le problematiche legate alla
gestione del pallet sul mercato italiano. La definizione di derivazione anglosassone “Pool” intende un insieme
omogeneo di mezzi che, adeguatamente gestito ed organizzato, permette di ottenere sostanziali economie di
scala, fornendo agli utilizzatori una serie di vantaggi competitivi che non potrebbero essere ottenuti con una
applicazione individuale delle stesse risorse.
150 Capitolo 6

agroalimentari è connotata da caratteristiche e peculiarità particolarmente difficili da gestire:


coordinamento efficiente dei processi produttivi, rapporti con i fornitori e relativi contratti,
mantenimento della catena del freddo, conformità rispetto alle numerose normative sorte a
tutela dei consumatori. Per raggiungere buoni obiettivi di efficacia ed efficienza aziendale, gli
attori della filiera devono ottimizzare tempi e risorse, senza esimersi dalla visione sistematica
di Supply Chain. Per poter competere sul mercato, in un settore fortemente condizionato dalla
crisi dei consumi e veicolato da un’ottica pull, le aziende del settore devono:

 comprendere le reali esigenze del consumatore per modulare l’offerta e immettere sul
mercato quello che il consumatore effettivamente vuole;
 avvalersi di operatori logistici ad alto valore aggiunto;
 dotarsi di un eccellente sistema informativo.
Oggi, la crescente complessità della gestione dei flussi fisici ed informativi trasforma la logi-
stica in uno prezioso strumento di vantaggio competitivo, obbligando però gli operatori
coinvolti ad una crescente collaborazione. Il massimo coordinamento fra gli operatori nella
gestione della supply chain è la condizione necessaria per ottimizzare i risultati della logistica.

6.2 ELEMENTI DESCRITTIVI, PROBLEMATICHE E POSSIBILI CORRETTIVI PER LA LOGISTICA IN ITALIA

Le attività di realizzazione e distribuzione dei prodotti (progettazione, innovazione del pro-


dotto e del processo, approvvigionamenti, produzione, distribuzione e trasporto) rappresen-
tano elementi sempre più critici per il successo delle aziende agroalimentari. Circa un terzo
dei costi del sistema agroalimentare italiano è imputabile ai servizi di trasporto e logistica. Il
mercato dei trasporti e della logistica è uno dei più importanti in termini di fatturato com-
plessivo e il suo valore in Europa è stimato in circa mille miliardi di lire. Il peso del trasporto è
in continua crescita anche se, negli ultimi anni, il settore italiano dei trasporti e della logistica
si è presentato molto debole caratterizzato da piccole imprese, spesso a valenza regionale e
con un’offerta di servizi limitata. Anche per questo settore l’Italia ha rappresentato “terra di
conquista” e molte delle principali imprese nazionali sono state acquisite da gruppi interna-
zionali, che hanno peraltro contribuito alla loro crescita e al loro riposizionamento sul mercato
dei servizi logistici. L’approccio alla logistica è cambiato moltissimo negli ultimi anni. Negli anni
’80, con lo sviluppo della Grande distribuzione a livello nazionale, la concentrazione dei punti
Strategie di costo: la logistica come leva competitiva per il sistema agroalimentare 151
.

decisionali e l’incremento del potere contrattuale, l’industria, in particolare quella


agroalimentare, si è adeguata all’evoluzione del sistema distributivo. Gli anni ’90 hanno
portato alla ribalta un ulteriore sviluppo del concetto di logistica evidenziandone una
suddivisione in due tipologie:

una logistica esterna: quando si delegano tali servizi ai prestatori di servizi logistici, soggetti
esterni, ossia operatori che si preoccupano di fornire una serie di servizi che coprono l’intero
processo logistico;

logistica interna: quando si creano divisioni interne all’azienda dedicate esclusivamente alla
logistica, totalmente autonome dalle altre funzioni.

In entrambi i casi, alla logistica viene riconosciuto un ruolo che deve essere autonomo e non
dipendente da altre funzioni aziendali. Il concetto di logistica si è via via esteso negli ultimi
anni: da attività meramente sussidiaria alle operazioni di trasporto e stoccaggio delle merci
della singola azienda, la logistica è diventata elemento focale della catena del valore dei
sistemi produttivi locali nazionali ed internazionali, integrata nelle attività di produzione,
distribuzione e commercializzazione delle reti di imprese e componente chiave delle strategie
competitive di comparti, filiere ed interi settori dell’industria e dei servizi. Riconoscendo
l’enorme strategicità del settore, che vale a livello mondiale circa 5.400 miliardi di euro, pari
al 13,8% del PIL, sui processi di crescita economica e insieme sugli equilibri sociali ed
ambientali dei territori, la Commissione Europea ha proposto nell’ottobre 2007 un “Piano di
azione per la logistica del trasporto merci” in particolare il trasporto dei prodotti deperibili,
con l’esplicito obiettivo di “migliorare il flusso di informazioni che accompagna il trasporto
fisico delle merci, semplificare le procedure amministrative, rafforzare la competenza e il
potere di attrazione del settore della logistica e incoraggiare i servizi di qualità”; il Piano è
orientato alla sostenibilità e per questo raccomanda “l’innovazione della logistica in ambienti
urbani e del trasporto sulle lunghe distanze concentrato nei “corridoi verdi”, ovvero quei
corridoi che, combinando l’uso di diversi modi di trasporto, offrono soluzioni efficaci dal punto
di vista del consumo energetico. Si è arrivati così a definire la logistica come l’insieme delle
attività organizzative, gestionali e strategiche che governano nelle aziende i flussi dei materiali
dall’acquisto delle materie presso i fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti e al
152 Capitolo 6

servizio post-vendita. La funzione della logistica è pertanto quella di programmare, gestire e


controllare in maniera efficace il flusso dei beni, dei servizi e delle relative informazioni, dal
punto di origine al punto di consumo. Una classica definizione di logistica assicura che: “i beni
(o i servizi) giusti si trovino nel posto giusto, al momento giusto, nel giusto assortimento, nella
giusta quantità, nella giusta condizione di presentazione e al minimo costo”. Tale attività,
intesa come gestione globale e integrata dei flussi di merci e di informazioni dal punto di
approvvigionamento a quello di utilizzazione e di consumo, è diventata un elemento decisivo
nella valorizzazione commerciale dei prodotti agroalimentari e si configura come il nuovo
fattore competitivo nella concorrenza fra imprese e nei rapporti clienti-fornitori, grazie al
suo grande potenziale di riduzione dei costi. L’obiettivo della logistica è quello di organizzare
un sistema che assicuri la presenza, al minor costo, dei necessari quantitativi di merce là dove
sono richiesti, al momento ed al luogo voluto, riducendo il più possibile gli stock lungo tutta la
supply chain21. La logistica deve garantire, pertanto, ai prodotti un corretto iter di veicolazione,
deve assicurare un idoneo processo distributivo. Questo tipo di ragionamento ha una valenza
ancor maggiore per le piccole medie imprese, che da sempre rappresentano il tessuto
produttivo italiano. I vantaggi della razionalizzazione logistica dovrebbero ricadere su tutti gli
anelli della catena, in termini di maggiore efficienza e minori costi, per tradursi infine anche
sul consumatore finale. Esistono numerose definizioni di logistica, adeguate ai diversi settori
a cui sono applicabili: quella dell’US Council of Logistics Management la definisce come:
“quella parte del processo della supply chain che programma, gestisce e controlla in maniera
efficiente ed efficace il flusso di beni e servizi e delle relative informazioni dal punto di origine
al punto di consumo, con l’obiettivo di soddisfare le richieste del cliente”.

L’Associazione Italiana di Logistica e di Supply Chain Management (AILOG) definisce la logistica


come: “L’insieme delle attività organizzative, gestionali e strategiche che governano nelle

21
La Supply Chain riguarda il processo di pianificazione, implementazione e controllo dell’efficiente ed efficace
flusso e stoccaggio di materie prime, semilavorati e prodotti finiti e delle relative informazioni dal punto di origine
al punto di consumo con lo scopo di soddisfare le esigenze dei clienti. Questa definizione molto ampia include
tutta la serie di attività logistiche quali customer service, previsione della domanda, gestione della
comunicazione, gestione scorte, material handling, processazione dell’ordine, localizzazione di fabbriche e
depositi, approvvigionamenti, imballaggio, gestione dei ritorni, trasporti, magazzinaggio e stoccaggio. Queste
attività insieme agli input ed output formano il quadro delle componenti del Logistics Management, ovvero la
gestione della logistica che può comprendere tutte o solo alcune delle attività suddette a seconda del fatto che
sia più o meno integrata.
Strategie di costo: la logistica come leva competitiva per il sistema agroalimentare 153
.

aziende il flusso dei materiali e delle relative informazioni, dalle loro origini presso i fornitori
fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti ed al servizio post-vendita”. Dal punto di vista
organizzativo, una corretta gestione logistica porta al rafforzamento delle relazioni fra tutti gli
operatori economici, in un’ottica cosiddetta di supply chain management, dove gli attori che
partecipano alla valorizzazione di un prodotto non appartengono esclusivamente al settore
agroalimentare ma svolgono anche altre funzioni fondamentali lungo la catena di fornitura,
come il trasporto e la distribuzione fisica delle merci, la gestione delle scorte, la
commercializzazione. Inoltre, la logistica riveste un ruolo chiave nella valorizzazione
qualitativa dei prodotti soprattutto per quanto riguarda il sistema agroalimentare nazionale:
la corretta gestione della catena del freddo decisiva per il raggiungimento dell’obiettivo
qualità tende a diffondere l’utilizzazione delle tecnologie del freddo lungo tutta la catena
produttiva e commerciale e ad organizzare la circolazione di prodotti alimentari attorno a siti
funzionanti a temperature controllate, lo sviluppo di piattaforme logistiche, luogo di
concentrazione dell’offerta, di preparazione degli ordini e composizione dei carichi, giocano
un ruolo essenziale nella riorganizzazione dei circuiti di scambio e nella diffusione di nuove
forme di connessione delle reti di trasporto, il monitoraggio continuo della qualità e della
rintracciabilità, la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione sono tutti elementi
decisivi per le filiere nazionali più esposte alla concorrenza internazionale. L’Ismea (Istituto di
Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) nel 2006 ha condotto, in collaborazione con il Mipaf
(Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali) un’indagine su logistica e sistema
agroalimentare italiano i cui risultati hanno dimostrato che circa un terzo dei costi sostenuti
del settore sono imputabili ai servizi di trasporto e logistica. Secondo Ismea, che sottolinea
il ruolo chiave che i servizi logistici hanno nella valorizzazione dei prodotti del settore agro-
alimentare, esistono in Italia significativi margini di razionalizzazione dei processi e riduzione
dei costi, indicando alcune criticità del sistema italiano su cui è necessario intervenire:

 La scarsa integrazione tra sistema produttivo e strutture distributive, causa della


scarsa diffusione in Italia della “filiera corta” (passaggio diretto dall’impresa di pro-
duzione alla grande distribuzione);
154 Capitolo 6

 Le piccole dimensioni sia delle aziende produttive orto-frutticole, sia delle imprese
che offrono servizi logistici, giudicate queste ultime anche scarsamente innovative e
limitate dal punto di vista dei servizi e della copertura territoriale;
 La bassa efficienza lungo i canali di distribuzione e di commercializzazione, il cui
effetto più evidente è la bassa percentuale di carichi completi;
 Lo scarso ricorso all’intermodalità (il 90% dei trasporti sono effettuati su gomma) e
la bassa diffusione di Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione;
 La scarsa presenza di società di servizi partecipate da operatori del servizio agricolo,
che potrebbero operare sulla struttura dei costi e aggregare la domanda in volumi
significativi di merce.

La ricerca di soluzioni per migliorare il sistema agroalimentare si dovrà concentrare ancora su


nuovi punti chiave: il primo tema è quello della “lunghezza della catena”: nonostante si stia
riducendo il numero dei passaggi tra produzione e distribuzione, la catena di distribuzione
fisica delle merci si allunga, segno di inefficienza del sistema degli scambi. La presenza dei
grossisti resta elevata (superiore alla media europea), pari ad un terzo nelle forniture di
materie prime agricole alle imprese agroindustriali, con percentuali maggiori nel Centro e nel
Sud rispetto al Nord del Paese. Il secondo punto riguarda i costi di logistica, che rappresentano
un quarto del fatturato delle imprese agroalimentari, con punte del 30-35% nel settore
dell’ortofrutta, a causa del più basso valore medio unitario del prodotto venduto. Il peso dei
costi di solo trasporto sul totale di quelli logistici è pari a un terzo, mentre l’insieme degli oneri
di gestione del magazzino (scorte, movimentazioni e picking22) copre un altro terzo dei costi
logistici. Dati che inducono i ricercatori a segnalare la necessità di razionalizzare sia gli aspetti
trasportistici (intermodalità, ottimizzazione dei carichi) sia quelli della gestione e
movimentazione di magazzino, attraverso un incremento delle piattaforme logistiche di con-
centrazione a monte e di rilancio delle spedizioni verso valle. Terzo punto, le carenze nazionali
in tema di catena del freddo e l’elevato tasso di contestazione sulla qualità, dovuto al fatto

22
È quel processo con cui si prelevano dallo stoccaggio alcuni prodotti, in modo da comporre esattamente
l’ordine richiesto dal cliente. È il prelievo frazionato di unità di carico di livello inferiore da unità di carico di livello
superiore (prelievo di colli da pallet, di pezzi da scatole). Rappresenta uno dei costi maggiori dell’attività di
magazzinaggio. Può essere svolto da operatori di magazzino che si recano tramite carrelli commissionatori alle
postazioni di prelievo o dalla movimentazione dei materiali tramite sistemi automatici alle postazioni fisse degli
operatori di magazzino.
Strategie di costo: la logistica come leva competitiva per il sistema agroalimentare 155
.

che l’allungamento della catena e lo scarso coordinamento tra gli operatori a monte e a valle
rendono complicata la tracciabilità dei carichi. L’attenzione si sposta quindi sul concetto di
“servizio” e la ricerca di efficienza lungo i canali di commercializzazione e distribuzione è
condizione necessaria per il rafforzamento del vantaggio competitivo del sistema agroali-
mentare italiano. La sfida logistica, per la sua importanza strategica, per la dimensione globale
e per le complesse ristrutturazioni e riorganizzazioni che essa comporta, segnerà ancor più
decisamente gli scenari competitivi agroalimentari nei prossimi anni. Alla luce dei risultati
dell’indagine e con l’obiettivo di migliorare le condizioni di competitività del sistema
agroalimentare attraverso il potenziamento del sistema logistico garantendo una maggiore
efficienza, l’istituto Ismea lancia ancora una serie di suggerimenti al Mipaf, relativi a quattro
aspetti importanti e distinti in funzione della nuova programmazione 2007-2013.

In via schematica questi sono:

1. Accesso al mercato

Le misure devono puntare al:

 miglioramento degli standard qualitativi, diffondendo i controlli qualità e la certifica-


zione;
 sostegno alla diffusione della rintracciabilità agroalimentare, che deve essere
accompagnata da una forte spinta in termini di innovazione tecnologica (ICT);
 sostegno all’accesso ai mercati di sbocco in termini di marketing strategico, analisi di
competitività, benchmarking, ecc;
 sostegno all’ammodernamento economico gestionale finanziario delle imprese, attra-
verso la diffusione di tecniche e procedure di controllo di gestione, contrattualistica
commerciale; accessibilità ai mercati, buone pratiche.

2. Logistica e supply chain management


 favorire la razionalizzazione del trasporto ed il ricorso all’intermodalità attraverso gli
incentivi alle imprese;

 potenziare le piattaforme logistiche, per la raccolta, lavorazione, confezionamento e


stoccaggio dei prodotti agroalimentari;
156 Capitolo 6

 promuovere investimenti per la gestione della catena del freddo, attraverso interventi
mirati a livello di stoccaggio, lavorazione, trasporto delle merci;
 individuare e costituire poli logistici agroalimentari (aree a forte vocazione ridistribuiva
e di concentrazione dell’offerta, oltre che a vocazione produttiva).

3. ICT (Information and communication technology)

 investimenti per piattaforme virtuali di scambio elettronico di informazioni, fra poli


logistici e imprese (agroalimentari, di trasporto e di logistica) ai fini del
tracking&tracing e della security.

4. Ricerca e innovazione, di processo e di prodotto

 incentivazione di forme innovative di stoccaggio, di trasporto e di gestione


dell’intermodalità, finalizzata alla razionalizzazione della supply chain agroalimentare,
con una particolare attenzione ai prodotti deperibili;
 le innovazioni di prodotto dovranno sempre di più accompagnare l’evoluzione dei con-
sumi nei suoi diversi aspetti: tempi e luoghi di acquisto, modelli di consumo di
riferimento, contenuto di servizi e di informazione in etichetta, definendo nuovi pro-
dotti ad alto contenuto “qualitativo”;
 le innovazioni di processo avranno un ruolo centrale nei prossimi anni, per quanto
riguarda le tecniche di conservazione, la gestione della durata commerciale del pro-
dotto, il packaging23, ecc. Sul tema dell’innovazione, quindi, occorre far incontrare la
domanda e l’offerta, attraverso strumenti che permettano alle rispettive imprese dei
due settori di convergere verso soluzioni accettate e desiderate dal mercato e per-
corribili dal punto di vista tecnico e tecnologico.

23
Il packaging è l’insieme degli elementi e materiali usati per confezionare il prodotto (struttura, etichetta e
imballaggio) al fine di renderlo più attraente e più riconoscibile. Si identifica nella fase finale dei processi di
produzione.
Strategie di costo: la logistica come leva competitiva per il sistema agroalimentare 157
.

6.3 LA STRATEGICITÀ DELLA LOGISTICA PER I PRODOTTI DEPERIBILI E LA SITUAZIONE IN CAMPANIA

Alcuni settori produttivi, come quelli dei prodotti freschi e deperibili, sono chiamati a raffor-
zare i loro processi di modernizzazione per poterne cogliere le opportunità. Essi rappresen-
tano la vera cartina tornasole di queste tendenze in atto e per essi la logistica è lo strumento
irrinunciabile di controllo della variabile principale della loro azione economica: il fattore
“tempo”. La situazione dell’organizzazione logistica nazionale non è completamente positiva:
le imprese ortofrutticole sono in difficoltà nel controllare e gestire la struttura dei costi logistici
e si evidenzia, spesso, un ritardo nell’adeguamento delle dotazioni infrastrutturali sia di tipo
stradale che per quanto riguarda il trasporto intermodale (gomma-treno, gomma-aereo in
particolare). Per l’ortofrutta soprattutto, i “tempi commerciali” devono tener conto dei “tempi
biologici” dell’agricoltura ma non possono prescindere dai “tempi logistici”. Il focus è dunque
non solo sui “tempi di consegna” delle merci, ma anche sul “mantenimento delle condizioni
di qualità delle merci alla consegna”. In questi settori, la riorganizzazione della circolazione dei
flussi di merci e delle informazioni che le accompagnano, è diventata uno dei principali fattori
competitivi nella concorrenza fra imprese, grazie al suo grande potenziale di riduzione dei
costi. Una logistica efficiente ha un forte impatto sulla riduzione dei costi ma “obbliga” le
imprese commerciali e di produzione ad una forte riorganizzazione industriale. L’impatto
organizzativo avviene sia all’interno delle imprese attraverso processi, sia all’esterno tramite
relazioni commerciali e relazioni con gli operatori logistici. Il sistema logistico dell’ortofrutta
presenta forti carenze principalmente di tipo imprenditoriale. Lo sviluppo degli operatori è
limitato dalla mancata specializzazione verso i prodotti ortofrutticoli freschi. L’assenza di
strutture di supporto al processo logistico dedicate per questi prodotti e la mancanza di una
visione sistemica del comparto limita le possibilità del territorio di accaparrarsi gran parte del
valore aggiunto di produzioni fortemente qualitative24. In un contesto come quello appena
descritto ci sono gli spazi per realizzare con profitto un progetto di integrazione logistica in
grado di generare:

24
Molti prodotti agroalimentari italiani possono fregiarsi di denominazioni di origine senza contare che i prodotti
italiani sono conosciuti, acquistati e imitati in tutto il mondo.
158 Capitolo 6

 Ottimizzazione del traffico di prodotti ortofrutticoli;


 Attività di lavorazione dei prodotti ad alto valore aggiunto;
 Occupazione di un numero di addetti compreso dai 150 ai 400;
 Profitto per le imprese logistiche.
Il trasporto dell’ortofrutta prodotta nel nostro mezzogiorno verso i mercati di consumo, Nord
Italia e Centro Europa, avviene attraverso le direttrici di traffico autostradale per l’80% su
gomma. Solo una piccola parte utilizza l’intermodalità nave-gomma. Gli operatori della
logistica in Campania delineano un’offerta fortemente polverizzata, difatti, nessuno di tali
operatori detiene una quota di mercato superiore all’1%. La gamma dei servizi offerti nella
maggioranza dei casi, è limitata al trasporto; molti operatori, pur avendo strutture adeguate
allo stoccaggio di deperibili, si limitano ad effettuare l’attività trasportistica. La modalità di
trasporto preferita è quella stradale, si ricorre al trasporto ferroviario solo quando il trasporto
su gomma risulta impossibile da effettuare, per cause esterne ed immodificabili. Il trasporto
combinato strada-mare, invece, interessa soltanto le movimentazioni in entrata nella regione,
e riguarda per lo più, i flussi di frutta esotica. In merito alla committenza, gli operatori logistici
Campani, sono contattati dai produttori, dai grossisti o dagli spedizionieri, raramente dalla
GDO (grande distribuzione organizzata). I fattori di competitività sono riconducibili al prezzo
ed alla qualità, che si identifica essenzialmente con la tempestività del servizio; essendo il
mercato fortemente concorrenziale, gli operatori logistici tendono a competere soprattutto
contraendo il prezzo. Dalla suddetta analisi emerge, che, lo sviluppo di tale comparto, non può
prescindere dalla specializzazione e contestualmente dall’integrazione degli operatori della
logistica, fattori ancora assenti nel panorama degli operatori campani.

PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEGLI OPERATORI LOGISTICI CAMPANI NEL SETTORE


DELL’ORTOFRUTTA
 Marcata polverizzazione dell’offerta

 Gamma dei servizi offerti: trasporto

 Modalità di trasporto: su gomma

 Committenza: eterogenea tra tutti i soggetti della filiera ortofrutticola

 Fattori di competitività: prezzo e qualità


Strategie di costo: la logistica come leva competitiva per il sistema agroalimentare 159
.

Per essi, infatti, la logistica è qualcosa di più del semplice trasferimento di una merce da un
luogo ad un altro del territorio, ma rappresenta l’insieme di tutte quelle tecniche e funzioni
organizzative, concentrazione dell’offerta in piattaforma, stoccaggio, rottura e manipolazione
del carico, tecniche di magazzinaggio, preparazione degli ordini, gestione della catena del
freddo, che sono lo strumento essenziale per garantire la consegna del prodotto al cliente nei
modi, nei tempi e ai costi desiderati da quest’ultimo. In questo contesto, il settore
agroalimentare in generale, ed ortofrutticolo in particolare, deve cercare di utilizzare la logi-
stica soprattutto come elemento a garanzia della qualità finale dei prodotti, obiettivo da
realizzare tramite l’introduzione di sistemi avanzati da immettere su scala industriale ed a costi
sostenibili, in grado di assicurare la qualità dei prodotti e la conservazione delle loro
caratteristiche organolettiche. Lo strumento logistico deve essere finalizzato a far arrivare
sulla tavola dei consumatori europei a costi competitivi, anche in relazione alla corrispondente
situazione di mercato, frutta ed ortaggi ad un punto ottimale di maturazione e ciò grazie a
soluzioni tecnologiche innovative e modalità di trasporto sostenibili dal punto di vista
ambientale ed economicamente valide. Le stesse criticità valgono anche per quanto riguarda
la capacità frigorifera: l’Italia può contare su circa 3 milioni di metri cubi di freddo negativo e
positivo (da -25°C a +14°C), meno della metà di quanto può contare la Germania, un terzo
rispetto all’Olanda. Vi è ancora molto da fare, sia per quanto riguarda la gestione logistica e
informatizzata degli ordini e degli approvvigionamenti da parte degli operatori, sia rispetto
alla carenza di poli e aree logistiche per la gestione intermodale dei trasporti come la carenza
di “freddo” lungo la catena distributiva ma tutto ciò dimostra come il sistema agroalimentare
si stia muovendo verso un miglioramento della competitività e dell’efficienza.
160 Capitolo 6

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