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Parrocchia S.

Ugo
I Libri Profetici
G. Benzi

I. PREMESSA: «VERA» E «FALSA» PROFEZIA


Chi è il profeta?1

Prima di affrontare in modo specifico i Profeti ed i loro scritti, ci è necessario richiamare alcune
dimensioni della profezia biblica.2 Il termine «profeta» deriva dal termine greco profētēs che
significa «colui che annuncia». La preposizione pro piuttosto che un significato temporale (colui
che annuncia qualcosa prima che avvenga), ha un significato spaziale: «colui che annuncia qualcosa
davanti al popolo, o all’individuo».
Nella Bibbia dei LXX il termine profētēs traduce l’ebraico nābî’ e, seppur più raramente, ḥōzeh
e rō’eh «veggente», termini questi considerati sinonimi, ma che accentuano più l’aspetto visionario.
Nella Bibbia ebraica si ha dunque per 315 volte il termine nābî’, che probabilmente significa
«chiamato», «eletto» (dall’accadico «chiamare»); per 76 volte ’ish ’Elohîm, «uomo di Dio», per 16
volte ḥōzeh, «visionario», e per 11 volte rō’eh, «veggente». Il significato del termine in ebraico
sarebbe dunque «il chiamato» da Dio ad un particolare ministero: annunziare al popolo (o al re) la
Parola di Dio. Il canone ebraico distingue i libri profetici in profeti anteriori e profeti posteriori. Tra
i primi figurano condottieri come Giosuè, i Giudici, Davide stesso, oppure profeti come Elia,
Eliseo, Samuele, Natan; ed altri ancora che non hanno lasciato testi scritti; tra i secondi tutti quelli
che hanno dato il loro nome ai «propri» libri profetici. Sia gli uni che gli altri condividono la stessa
missione, portare la parola di Dio al popolo, una parola di critica contro la politica condotta dal re o
contro il culto svuotato della fede e della giustizia. I profeti, sia anteriori che posteriori, appaiono
spesso, ma non necessariamente, in gruppo e sono a volte legati a santuari. I profeti postesilici
restringono invece la loro predicazione ad un particolare interesse per il culto: ci troviamo nel
periodo seguente all’esilio ed è perciò evidente la preoccupazione di far sopravvivere il patrimonio
spirituale d’Israele anche di fronte all’idolatria dei Grandi Imperi (babilonese, persiano, macedone e
romano).

La concezione cristiana

La tradizione cristiana ha interpretato la profezia biblica soprattutto in chiave messianica: i


profeti sono coloro che hanno annunziato il Cristo; le loro parole si sono compiute in Gesù di
Nazaret. In realtà i testi profetici che possono esser davvero considerati messianici non sono tanti: Is
7,1-18; 9,1-6; 11,1-9; Mi 5,1-4a; Zc 9,9. Questa interpretazione può dunque non corrispondere
completamente all’intenctio auctoris.

I profeti biblici
                                                                                                                       
1 G. BENZI, «Chi è il profeta?», in Parole di Vita, n°1 gen/feb 2009, pp. 4-6.
2 J.L. SICRE, I profeti di Israele e il loro messaggio, Borla, Roma 1989; J.L. SICRE, Introducción al profetismo
biblico, Verbo Divino, Estella 2011; R.G. KRATZ, I profeti di Israele, Queriniana, Brescia 2006; A. SPREAFICO, La voce
di Dio. Per capire i profeti, EDB, Bologna 1998. Il fenomeno della profezia non è sconosciuto anche in altri popoli
dell’Oriente antico, ma nel mondo biblico essa ha connotati propri.
Quando l’analisi storico-critica ottocentesca ha dimostrato non sempre praticabile
un’interpretazione messianica, si è sviluppato maggiormente l’interesse per la personalità dei
simgoli profeti: sotto l’influsso del romanticismo il profeta è stato infatti visto come un eroe
spirituale che si erge, geniale ed incompreso, sul suo popolo. Questa immagine del profeta va
corretta: egli è piuttosto il «chiamato» a far riecheggiare con tutto se stesso (con le labbra ma anche
con tutta la sua vita) nell’orecchio di un popolo distratto la Parola di giudizio e salvezza che Dio
nella sua misericordia continua a donare al suo popolo. In tal senso possiamo già dire che il profeta
«incarna» la Parola, perché le dà un corpo ed una storia.
La profezia, dunque, non è prima di tutto annuncio del futuro, ma svelamento del presente, e di
quella presenza di Dio con la sua Parola che, sola, può interpretare la storia degli uomini, sia nelle
loro scelte personali, sia in quelle del popolo credente. È infatti interessante come in Dt 18,9-22 si
delinea, ricalcando la figura idealizzata di Mosè, la carta di identità del vero profeta:
9
Quando sarai entrato nella terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti, non imparerai a
10
commettere gli abomini di quelle nazioni. Non si trovi in mezzo a te chi fa passare per il
fuoco il suo figlio o la sua figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o il presagio o la
11
magia, né chi faccia incantesimi, né chi consulti i negromanti o gli indovini, né chi
12
interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore. A causa di
13
questi abomini, il Signore, tuo Dio, sta per scacciare quelle nazioni davanti a te. Tu sarai
14
irreprensibile verso il Signore, tuo Dio, perché le nazioni, di cui tu vai ad occupare il paese,
ascoltano gli indovini e gli incantatori, ma quanto a te, non così ti ha permesso il Signore, tuo
Dio.
15
Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a
16
me. A lui darete ascolto. Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il
giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda
17
più questo grande fuoco, perché non muoia”. Il Signore mi rispose: “Quello che hanno
18
detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le
19
mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole
20
che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione
di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di
21
altri dèi, quel profeta dovrà morire”. Forse potresti dire nel tuo cuore: “Come riconosceremo
22
la parola che il Signore non ha detto?”. Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la
cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha
detta per presunzione. Non devi aver paura di lui.

Il vero profeta è colui che parla le vere parole di Dio, parole che accadono, cioè che si
realizzano (non per forza solo nel futuro). Inoltre la profezia richiede sempre «un terzo» cioè un
testimone che attesti l’evento (Beauchamp), sia esso il popolo intero, o una persona particolare.
In tal senso è interessante vedere come continuamente i profeti biblici si confrontano con i falsi
profeti, come attesta Isaia 30,8-10:
8
Su, vieni, scrivi questo su una tavoletta davanti a loro,
incidilo sopra un documento,
perché resti per il futuro
in testimonianza perenne.
9
Poiché questo è un popolo ribelle.
Sono figli bugiardi,
figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore.
10
Essi dicono ai veggenti: «Non abbiate visioni»
e ai profeti: «Non fateci profezie sincere,
diteci cose piacevoli, profetateci illusioni!

Intermezzo - una narrazione su vera e falsa profezia: 1Samuele 28,3-253

L’episodio di 1Samuele 28,3-25 è sicuramente una delle pagine più Noir dell’intera Bibbia. Il
re Saul, senza più il conforto della parola profetica di Samuele, in preda ai suoi deliranti terrori, di
fronte all’esercito nemico, decide di consultare una negromante (azione esplicitamente vietata dalla
legge mosaica), essa evoca lo spirito del profeta Samuele che predice la prossima sconfitta e la
morte del re. Tutta la scena si svolge in un’unica notte e crea, dal punto di vista della narrazione, un
potente diversivo tra l’ammassarsi dell’esercito filisteo contro Saul e la sua sconfitta mortale,
anticipata dall’episodio della negromante. I seguenti capitoli 29 e 30 narrano come Davide (che al
momento, bandito dal regno israelitico, si trova al seguito dei Filistei) viene da essi licenziato (cap.
29) e sia costretto ad impegnarsi in una campagna punitiva contro gli Amaleciti (cap. 30). Davide
risulta così totalmente innocente della disfatta di Saul e della sua morte, dalla cui notizia verrà
raggiunto ancora in territorio filisteo come si legge nel primo capitolo di 2 Samuele.
L’episodio della negromante di Endor anticipa dunque la morte del re Saul, e ne sancisce il
totale allontanamento dalla legge di Dio e dalla sua parola. Si tratta tuttavia di una scena
estremamente ricca di suspense, in cui il tragico eroe, vittima dei suoi errori e delle sue ossessive
paure, non viene dileggiato, ma anzi viene tratteggiato con una umanità che ispira pietà e
compassione.
Certo, può destare sorpresa – soprattutto per la nostra mentalità razionalista, che bolla con il
giusto sospetto di superstizione ogni manifestazione dell’occulto – che nella Bibbia si trovi questo
episodio dai contorni ambigui e tenebrosi. Soprattutto è interessante come la predizione della
sconfitta e della morte del re non sia in bocca alla medium, ma sia direttamente pronunciata dal
fantasma del profeta defunto, che si mostra come «un essere divino» (in ebraico abbiamo un unico
termine:’elōhîm) che «sale» dalla terra.

Lo sviluppo narrativo

Prima di affrontare questi interrogativi occorre entrare nello sviluppo narrativo dell’episodio
biblico. Il racconto si compone di un sommario iniziale (28,3-6) e di tre parti: ricerca e dialogo con
la negromante (28,7-11); l’evocazione dello spirito di Samuele con predizione della disfatta e della
morte di Saul (28,12-19); reazione di Saul al vaticinio (28,20-25). Indubbiamente la parte centrale è
significativa sotto il profilo del confronto tra profezia e negromanzia. Non viene descritto alcun
rituale magico. La donna che evoca lo spirito di Samuele grida di terrore perché scopre la vera
identità di Saul, che non si era manifestato. L’atto evocativo dunque opera una verità, dunque, ma
sull’al-di-qua, piuttosto che sull’al-di-là. Alla domanda del re di descrivere «l’essere divino che
sale dalla terra» la donna è piuttosto generica: essa «vede» un «uomo anziano avvolto in un
mantello». Saul si prostra con il viso a terra, dunque non «vede» Samuele che gli parla. La prima
parola del fantasma del profeta è un rimprovero «perché mi hai disturbato?».

                                                                                                                       
3 Cf. G. BENZI, «Profezia e necromanzia: Saul e la “pitonessa” di Endor», in Parole di vita, 3/2016.
La donna vide Samuele e proruppe in un forte grido e disse a Saul: «Perché mi hai
ingannata? Tu sei Saul!». Le rispose il re: «Non aver paura! Che cosa vedi?». La donna disse a
Saul: «Vedo un essere divino che sale dalla terra». Le domandò: «Che aspetto ha?». Rispose:
«È un uomo anziano che sale ed è avvolto in un mantello». Saul comprese che era veramente
Samuele e s’inginocchiò con la faccia a terra e si prostrò. Allora Samuele disse a Saul: «Perché
mi hai disturbato evocandomi?». Saul rispose: «Sono in grande angustia. I Filistei mi muovono
guerra e Dio si è allontanato da me: non mi ha più risposto, né attraverso i profeti né attraverso
i sogni; perciò ti ho chiamato, perché tu mi manifesti quello che devo fare». Samuele rispose:
«Perché mi vuoi consultare, quando il Signore si è allontanato da te ed è divenuto tuo nemico?
Il Signore ha fatto quello che ha detto per mezzo mio. Il Signore ha strappato da te il regno e
l’ha dato a un altro, a Davide. Poiché non hai ascoltato la voce del Signore e non hai dato corso
all'ardore della sua ira contro Amalèk, per questo il Signore ti ha trattato oggi in questo modo.
Il Signore metterà Israele insieme con te nelle mani dei Filistei. Domani tu e i tuoi figli sarete
con me; il Signore metterà anche le schiere d’Israele in mano ai Filistei».

Ci aiuta qui il confronto con la descrizione del sacrificio con cui Ulisse (Odissea, Libro XI)
evoca l’indovino Tiresia dal mondo dei morti. Vediamo quanto è minuziosa la descrizione del rito:

Addotto in su l'arena il buon naviglio, Garzoni ignari delle nozze, vecchi


E il monto e la pecora sbarcati, Da nemica fortuna assai versati,
Alla corrente dell'Oceano in riva E verginelle tenere, che impressi
Camminavam; finché venimmo ai lochi Portano i cuori di recente lutto;
Che la dea c'insegnò. Quivi per mano E molti dalle acute aste guerrieri
Eurìloco teneano e Perimede Nel campo un dì feriti, a cui rosseggia
Le due vittime; ed io, fuor tratto il Sul petto ancor l'insanguinato usbergo.
brando, Accorrean quinci e quindi, e tanti a
Scavai la fossa cubitale, e mele tondo
Con vino, indi vin puro e lucid'onda Aggiravan la fossa, e con tai grida,
Versàivi, a onor de' trapassati, intorno Ch'io ne gelai per subitana tema.
E di bianche farine il tutto aspersi. Pure a Eurìloco ingiunsi, e a Periméde
[…] Le già scannate vittime e scoiate
Fatte ai mani le preci, ambo afferrai Por su la fiamma, e molti ai dèi far voti,
Le vittime, e sgozzàile in su la fossa, Al prepotente Pluto e alla tremenda
Che tutto riceveane il sangue oscuro. Proserpina: ma io col brando ignudo
Ed ecco sorger della gente morta Sedea, né consentia che al vivo sangue,
Dal più cupo dell'Erebo, e assembrarsi Pria ch'io Tiresia interrogato avessi,
Le pallid'ombre: giovanette spose, S'accostasser dell'ombre i vôti capi.

La dinamica del racconto biblico è più sobria, ma nel contempo assai raffinata. Piuttosto che
dilungarsi in descrizioni di riti e magie o in discussioni teoriche sulla verità dell’accaduto, il
narratore affida alla messinscena alcuni messaggi ben chiari. Anzitutto l’ambiguità del mondo
dell’occulto che è racchiusa in quel «vedere» della donna: i suoi occhi rimangono appannati rispetto
alla visione dell’uomo avvolto nel mantello, ma si aprono – al contrario – sulla vera identità di Saul.
Non viene così dissipata la patina di mistero che circonda la morte ed il mondo degli spiriti, mentre
viene gettata luce sull’inganno e la reticenza umana. Il contatto con il mistero avviene per l’unico
canale che la Bibbia ammette come canale comunicativo autentico: l’udito. La condanna di Saul,
oltretutto, viene espressa proprio in questa linea: «non hai ascoltato la voce del Signore» (v. 18), e
Samuele non fa che ribadire ciò che già – in vita – aveva detto al re: «Il Signore ha fatto quello che
ha detto per mezzo mio».
Il metamessaggio di questa messinscena è chiaro: il mondo occulto è ambiguo, la pretesa dei
viventi di «vedere» al di là della morte è un desiderio che può solo recar loro danno; l’unica parola
certa è la parola del Signore.

Il divieto dell’occulto

La negromanzia è vietata dalla Bibbia: essa è punita con la pena di morte in Lv 20,6.27 (in
entrambi i versetti si ripete la coppia «negromanti» ’ôbōt e «indovini» yidde‘ōnîm) ed in Dt 18,9-14.
Quest’ultimo rimando è molto importante, e lo rileggiamo perché nel suo contesto abbiamo la
condanna dell’esercizio della negromanzia proprio in opposizione al dono della parola profetica da
parte di Dio:4
Quando sarai entrato nel paese che YHWH tuo Dio sta per darti, non imparerai a commettere gli
abomini delle nazioni che vi abitano. Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare
per il fuoco, il suo figlio o la sua figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o l’augurio o
la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti il negromante (’ôb) o l’indovino (yidde‘ōnî),
né chi interroghi i morti (dōreš ’el hammetîm), perché chiunque fa queste cose è in abominio a
YHWH; a causa di questi abomini, YHWH tuo Dio sta per scacciare quelle nazioni davanti a te.
Tu sarai irreprensibile verso YHWH tuo Dio, perché le nazioni, di cui tu vai ad occupare il
paese, ascoltano gli indovini e gli incantatori, ma quanto a te, non così ti ha permesso YHWH
tuo Dio. YHWH tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me
[Mosè]; a lui darete ascolto.
Il brano è molto interessante. Anzitutto esso non è sconosciuto al narratore di 1Samuele
28,3-25, in quanto proprio nel sommario del versetto 3, ci informa come Saul a suo tempo avesse
legiferato appositamente contro «negromanti e indovini» (è la stessa coppia citata in Lv 20,6.27 e Dt
18,11), ed il tema è poi ripreso narrativamente nel dialogo tra la negromante e Saul (1Sam 28,8-10):

La donna gli rispose: «Tu sai bene quello che ha fatto Saul: ha eliminato dalla terra i negromanti
e gli indovini. Perché dunque tendi un tranello alla mia vita per uccidermi?». Saul le giurò per il
Signore: «Per la vita del Signore, non avrai alcuna colpa per questa faccenda».

Il testo del divieto, come è formulato in Deuteronomio 18, mostra non solo la qualifica
idolatrica delle pratiche di negromanzia, ma indica anche la loro ferma opposizione alla profezia.5 I
termini tradotti con «negromante» e «indovino» sono assai discussi.6 La «pitonessa» è chiamata
ba‘alat ’ôb (v. 7) «donna [padrona] che possiede un ’ôb» ed al v.8 Saul le chiede di evocare un ’ôb.
Il termine è assai oscuro, forse seguendo Gb 32,19 si può pensare ad un «otre» e dunque si
riferirebbe alla «voce cavernosa di chi parla simile al rumore che fa un liquido in un otre non
pieno», tuttavia la radice accadica āw «parlare» farebbe pensare che ’ôb sia «colui che parla» in
stretta consonanza con yidde‘ōnî «colui che fa conoscere»7. Il greco traduce ’ôb con engastrimythos
«ventriloquo». In entrambi i casi si tratta dunque di uno spirito che il mago o la strega ha dentro di
sé con un senso di possesso (ba‘al). Possiamo così vedere come questa situazione sia l’esatto

                                                                                                                       
4 Si veda anche Dt 18,15-21.
5 Per il contesto socio religioso di Dt 18 si veda R.E. CLEMENTS, Un popolo scelto da Dio. Guida alla lettura del
Deuteronomio, Claudiana, Torino 1976,41-43.
6 Qui seguiamo G. BRESSAN, Samuele, Marietti, Casale Monferrato 1963, 421-422.
7 Ibidem, 421.
opposto della profezia biblica: il profeta – chiamato da Dio – non «possiede» la parola divina che
gli viene dal di fuori ed è diretta al re, o all’intero popolo o a suoi membri.

La voce del profeta Isaia

In Isaia 8,19-20, a conclusione del così detto «memoriale del profeta»8 abbiamo due versetti
interessantissimi per la nostra tematica: essi vedono la chiara opposizione tra la ricerca di una
parola «mantica» e la parola profetica donata da Dio.

Certo vi diranno: «Consultate i medium e gli indovini che bisbigliano e mormorano. Forse un
popolo non deve consultare i suoi dei? Per conto dei vivi, i morti?». Alla rivelazione e alla
testimonianza! Altrimenti diranno questa parola, nella quale non c’è aurora.9

Al v. 19 si introduce una contrapposizione tra l’atteggiamento del profeta e quello dei suoi
discepoli, ed il discorso del popolo che invita a rivolgersi ad oracoli mantici, forse proprio a motivo
del silenzio e del non intervento di Dio. La situazione è dunque assai simile a quella descritta in
1Sam 28,3-6. Possiamo riconoscere come il linguaggio di Is 8,19 abbia un’indubbia consonanza con
la teologia di Deuteronomio 18,10 possiamo inoltre vedere come il confronto tra l’atteggiamento del
popolo e quello dei discepoli del profeta sia chiaramente di segno opposto; come nota G.
Borgonovo11 l’uso del sintagma «vi diranno» all’inizio del versetto 8,19 si oppone a quanto si trova
in 8,11 «poiché così dice YHWH». È così messa in risalto l’arroganza delle parole del popolo, che
pretendono di «dire» qualcosa che sarebbe sul medesimo piano di ciò che YHWH stesso dice,
sostituendo così la «profezia» con lo spiritismo12 e con la pretesa di dominare il futuro attraverso la
divinazione. Nel v. 8,20 troviamo i termini tôrah (rivelazione) e te‘ûdah (testimonianza). Con il
primo termine qui si intende la «legge», molto probabilmente non con la connotazione di norme
codificate, bensì con l’idea di «insegnamento» e di «istruzione» per la condotta del popolo (la
«via») che emerge dalla parola divina espressa dal profeta già in 8,11-15, e comunque in tutto il suo
memoriale 7,1-8,18.13 Il termine «testimonianza» è così un ulteriore riferimento all’attestazione del
profeta. A tôrah e te‘ûdah è contrapposta la «parola» del popolo, che è identificata «senza aurora».
Effettivamente possiamo riconoscere che il versetto 8,20 ha un valore esplicativo rispetto a 8,19,
rafforza cioè il contrasto tra le «parole» senza futuro del popolo e la testimonianza del profeta,
creando nello stesso tempo un collegamento con 8,16 e con il tema della «luce» che troveremo in Is
                                                                                                                       
8 Si veda G. BENZI, La profezia dell’Emmanuele. I testi di Isaia 6-9 tra attesa e avvento di salvezzaI, EDB, Bologna
2014, 186-194.
9 Il termine šāḥar viene normalmente tradotto con «alba, aurora». Il testo greco della LXX legge dōra «doni» e così
anche la Siriaca, piuttosto rifacendosi all’ebraico šōḥar. Forse l’espressione ha un valore di evocazione mantica anche
in riferimento a Is 47,11.
10 Si veda anche 2Re 21,6; 23,24.
11 Cf. G. BORGONOVO, «Tôrah, Testimonianza e Scrittura. Per un’ermeneutica teologica del testo biblico», in La
Rivelazione attestata. La Bibbia fra Testo e Teologia, Fs. C.M. Martini, Milano 1998, 286, nota 8.
12 Confrontando Is 8,19 con 1Sam 28,13 (dove la negromante di Endor chiama «essere divino», lo spirito del
profeta Samuele che sale dagli inferi), si può pensare che anche Isaia si riferisca a degli «spiriti».
13 KAISER, Isaia 1-12, Brescia 1998, 264, commentando 8,20, propende ad interpretare l’espressione come
riferimento al «libro» della «legge scritta di Dio» (cf. Dt 1,5; 28,61; 31,9.26). Tuttavia, malgrado questo sottopasso,
come si è visto, sia in consonanza con il linguaggio del deuteronomista, con G. LIEDKE - C. PETERSEN, «tôrâ -
istruzione», in E. JENNI – C. WESTERMANN (edd.), Dizionario teologico dell’Antico Testamento, Marietti, Torino 1978,
937, preferiamo interpretare anche questa seconda ricorrenza del termine in modo più generale riferito alla parola
profetica di Isaia.
9,1. Possiamo così leggere in questo versetto una glossa, riconoscendone un inserimento non
casuale all’interno del testo: ribadire la validità della testimonianza profetica di Isaia.
In sintesi possiamo così affermare che Isaia 8,19-20 tematizza come non possa essere ricercata
alcuna speranza al di fuori della parola profetica. Per il suo collegamento attraverso il v. 19 alla
teologia deuteronomistica, possiamo anche affermare che qui la profezia è vista come un dono dato
da Dio perché il popolo possa affrontare il suo cammino nella storia, ma tale dono non elimina
l’atteggiamento di fiducia che Dio esige dal popolo,14 infatti la verifica di questo dono è rimandata
al futuro, così come l’aurora è solo annuncio della luce piena del giorno. Le parole invece della
divinazione, che pretendono di prevedere ed in tal modo influire sul futuro, sono parole che non
hanno in sé questa apertura e dunque sono parole che conducono all’errore ed alla rovina.
Riflettendo inoltre sul valore esplicativo che abbiamo assegnato al v. 20, si può vedere come a
queste parole senza «aurora», attinte dal mondo dei morti, si contrappone qui la parola profetica di
Isaia, annuncio di una salvezza che si presenta continuamente come «nascita» e «aurora». Mentre
dunque il popolo si volge a parole che vengono dal mondo dei morti, il profeta è portatore di una
parola aperta alla vita. Possiamo così notare come in questi versetti sia ripresa la teologia della
parola divina, che, espressa tramite il profeta ed «attestata» nella testimonianza scritta, permane
come unico punto di riferimento per il discernimento della storia e dell’agire di Dio al suo interno.
Il brano di Isaia illumina la comprensione dell’episodio della «pitonessa» di Endor e ci fa
cogliere come nella letteratura deuteronomistica sia ben chiara la distinzione tra la profezia come
dono di Dio ed ogni vana ricerca – anche attraverso l’ambiguo mondo dell’occulto – di parole che
possano interpretare la storia.

Il volto del vero Dio, Signore della storia.

La salvaguardia di un culto che scaturisca da un cuore giusto e retto è molto presente nei
profeti biblici. I profeti avvertivano il grande pericolo rappresentato dall’influsso dei riti cananei e
delle credenze pagane. Nel culto di Israele, infatti, si erano infiltrati elementi provenienti dalle
religioni dei popoli vicini, specialmente per quanto riguardava la preghiera per la fertilità del suolo
o la fecondità del gregge, sostituendosi alla preghiera di ringraziamento per i benefici ricevuti, che
sembra essere stato un elemento della fede originaria d’Israele. Al Signore che aveva donato la
libertà, la salvezza e la terra al suo popolo si sostituiva l’idea pervertita di un dio «garante dei beni»
attraverso il ciclico (e meccanico) ritorno dei fenomeni naturali e delle stagioni. A questo si
aggiungeva un certo sincretismo portato avanti dalla politica dei re, allo scopo di rinsaldare un’unità
che, se non era possibile raggiungere sul piano etnico, poteva esser almeno raggiunta su quello
religioso.
Deriva da questo anche l’interesse dei profeti per la politica. In Israele, specialmente al tempo
dei profeti preesilici, vi era uno stretto rapporto tra comunità religiosa e comunità politica. Nei testi
dei profeti troviamo molto spesso la denuncia dell’ingiustizia sociale, che colpiva naturalmente i
più poveri, i quali venivano sfruttati dai più ricchi senza che la legge fosse formalmente violata. La
società israelita era profondamente mutata e si era progressivamente allontanata dal modello tribale
e nomadico, che riusciva a garantire meglio la giustizia sociale all’interno del clan. Il modello
                                                                                                                       
14 Le categorie di «dono» e «fiducia» richiamano infatti la dimensione relazionale che descrive il rapporto tra Dio e
l’uomo nella Bibbia. Cf. C. RUSCONI, Gli scritti profetici dell’Antico Testamento. Volume primo. Questioni
introduttorie al profetismo. I profeti dalle origini al 721 a. Cr., (Prospettive Teologiche 4), Il Cerchio, Trieste 1992. 45-
47.
urbano certamente offriva molte occasioni a coloro che intendevano arricchirsi sulla pelle degli
altri: speculazioni, usura, sfruttamento delle classi più svantaggiate, frode nei commerci. La stessa
monarchia aveva contribuito alla creazione di una economia complessa creando distretti al fine di
riscuotere le tasse. Le guerre poi, avevano contribuito ad indebolire ancora di più l’equilibrio
sociale. I profeti vedono questo tradimento della giustizia sociale come una grave infedeltà al Dio
dell’alleanza.
In loro tuttavia lo sguardo al passato si accompagna ad uno sguardo al futuro: si sviluppa,
infatti, una prospettiva escatologica che giunge ad attendere un ritorno di tempi definitivi della
giustizia e della fedeltà del popolo all’alleanza. I profeti cercano di spiegare dunque la storia
presente alla luce della storia passata: la storia presente si spiega perché il popolo non è stato fedele
a Dio ed egli, così, lo ha punito. Ma questa concezione profetica della storia è sempre più di ampio
respiro, è una storiografia universale: rompe, infatti, i limiti del popolo di Dio per includere tutti i
popoli, specialmente i più vicini, che diventano, così, uno strumento nelle mani di Dio. In tal modo
la storiografia profetica si libera dalla concezione, allora diffusa, che vi fosse un destino di fronte al
quale non soltanto gli uomini, ma anche gli dei sono impotenti: è Dio il Signore della storia. Sarà
ancora lui a guidare il suo popolo alla salvezza, anzi una parte eletta di esso, rimasta fedele: il «resto
di Israele». Questo futuro di salvezza è certamente opera di Dio, ma anche dell’uomo al quale è
richiesta fede e fedeltà, cioè coerenza con la propria fede nel Dio della salvezza e della speranza.

Le cinque dimensioni della profezia biblica: spazio, tempo, parola, vocazione e corpo.
Quanto detto ci porta a considerare alcune dimensioni antropologiche che caratterizzano la
profezia: il tempo e lo spazio, il corpo, la parola e la vocazione profetica.15 È molto importante anzi
tutto considerare come i fattori temporali e spaziali siano in un qualche modo costitutivi
dell’esperienza profetica,16 anzi essi la identificano perché le permettono di presentare se stessa
come avvenuta in un preciso momento della storia, in un dato luogo ed in un dato contesto
culturale. Il profeta annuncia una parola divina creatrice della storia17 essa è una forza che,
entrando nella storia, mette in moto un processo di giudizio e di salvezza che certamente arriverà a
compimento. La parola profetica è anche interprete della storia. Anzi è proprio in questo contesto
che si situa in modo del tutto originale il rapporto della profezia con il tempo: di qui il richiamo ai
benefici di Dio nei confronti del popolo, e l’accusa nei confronti dei suoi tradimenti. La scrittura è
lo strumento attraverso il quale la profezia si determina come «datata» non solo nel tempo del suo
compimento, ma anche nel momento nel quale essa viene pronunciata e fissata18 (cf Is 8,1; 8,16-18;
29,11-12; 30,8). Una terza funzione della parola profetica in rapporto al tempo è quella di
interpellare la storia cioè di esigere una decisione, basata sulla fede nelle promesse di Dio che
opera nella realtà. Il tempo e lo spazio sono due categorie che si richiamano a vicenda, anche
nell’esperienza più comune, ponendo in primo piano la questione della «persona» del profeta, in
particolare quella del suo corpo che rimanda al suo essere persona nel mondo cioè il suo sentire e
agire. Il suo messaggio è spesso la sua biografia, la sua parola è lui stesso. Questa persona del
profeta che agisce in un tempo determinato e si relaziona in uno spazio concreto, è raggiunta da

                                                                                                                       
15 Cf P. BOVATI, «Il profetismo come lettura del senso della storia», Theologia Viatorum 4 (1999) 157-174; G.
BENZI, Ci è stato dato un figlio. Il Libro dell’Emmanuele (Is 6,1-9,6): struttura retorica e interpretazione teologica,
EDB, Bologna 2007, 65-69.
16 Beauchamp evidenzia come il messaggio profetico sia sempre “circostanziato”, cf. P. BEAUCHAMP, Le Deutéro-
Isaïe dans le cadre de l’alliance, Fourvière-Lyon 1970, 6-7.
17 Cf J.L. SICRE, Profetismo en Israel. El Profeta. Los Profetas. El Mensaje , Estella 19973, 441-458.
18 Cf P. BEAUCHAMP, L’Uno e l’Altro Testamento. Saggio di Lettura, Brescia 1985, 88.
una parola divina che la chiama ad una specifica missione. Dio, che pone la sua parola sulle labbra
del profeta, manda il suo profeta come messaggio ad Israele. La sua parola, Parola di Dio, trapassa
il profeta, per arrivare fino a noi. Potremo approfondire questi concetti attraverso una lettura
esegetica della Vocazione di Geremia (Ger 1,1-10).
Per approfondire. L. ALONSO SCHÖKEL . J.L. SICRE DIAZ, I Profeti, Borla, Roma 1996. N.
CALDUCH-BENAGES, I profeti, messaggeri di Dio. Presentazione essenziale, EDB, Bologna 2013.
J.L. SICRE, I profeti d’Israele e il loro messaggio, Borla, Roma 1989.
 

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