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Sergej N.

Bulgàkov

La Sposa dell’Agnello
La creazione, l’uomo,
la chiesa e la storia

ranrrq
l ET[J UJ Dj Edizioni Dehoniane Bologna
Elenco delle sigle

DS Denzinger-Schònmetzer, Enchirìdion symbolorum


definitionum et declarationum de rebus fidei et
m orum , Barcinone 361976.
D ThC Dictionnaire de théologie catholique, Paris 1903ss.
Mansi Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio,
ed. J.D . Mansi, Firenze 1759-1827.
PG Patrologiae cursus completus... Series graeca et
orientalis, ed. J.P. Migne, Paris 1857-1886.
PL Patrologiae cursus completus... Series latina, ed.
J.P. Migne, Paris 1844-1864.
RSR Recherches de Science réligieuse, Paris.
R Thom Revue thomiste, Paris.
STh T o m m a s o d ’A q u i n o , Summa theologiae.
Titolo originale:
Nevesta Agntsa
o Bogoéeloveéestve, Cast’ III

YMCA Press, Paris 1945

Tradotto direttamente dal russo da


CESARE RIZZI

© 1945 YMCA PRESS, Paris


® 1991 Centro Editoriale Dehoniano
Via Nosadella, 6 - 40123 Bologna

ISBN 88-10-40783-0

Stampa: Grafiche Dehoniane, Bologna 1991


Introduzione all’edizione italiana

A poco meno di cinquant’anni dalla pubblicazione, avve­


nuta in Parigi nel 1945, de La Sposa dell’Agnello, intatti e
avvincenti permangono anche in questa terza e ultima parte
della trilogia Sulla Divinoumanità (le altre due parti: L ’A ­
gnello di Dio e II Paraclito erano apparse, sempre a Parigi,
rispettivamente nel 1933 e nel 1936),1 il vigore speculativo e
la tensione spirituale della prolungata e, per certi aspetti,
alquanto originale riflessione teologica del protoiereo della
chiesa russo-ortodossa, Sergej Nicolaevié Bulgàkov (nato nel
1871 a Livny, nel distretto di Orèl, al centro della Russia
europea, e morto nel 1944 a Parigi, dove risiedeva dalla metà
degli anni Venti, a seguito della sua espulsione daU’Unione
Sovietica).2 Come lui stesso accenna sul limitare dell’opera
nelle brevi e appassionate parole rivolte al lettore, parole che

1 In ed izio n e italiana: L ’A g n ello di D io , il m istero d e l V erbo In carn ato,


intr. di P. C o d a , trad. di O .M . N o b ile V en tu ra, C ittà N u o v a , R om a 1990,
522 p p .; Il P a ra clito , intr. di P .C . B ori, trad. di F . M arch ese, E D B , B ologn a
21987, 665 pp.
2 P er n o tizie co n cern en ti la biografia e l’ele n c o co m p leto d elle n u m ero­
se o p ere di carattere e c o n o m ic o , filosofico e teo lo g ico di Sergej N . B u lgà­
k o v , si rim anda ai m oltep lici e in form atissim i saggi di Pier C esare B ori, il
m aggiore esp erto italian o in m ateria. N on si d im entich i com e q u est’ultim o
sia g iu sta m e n te in teressato alla «com p ren sion e della parabola sp iritu ale,
in tellettu a le, m orale ch e co n d u ce S .N . B u lg à k o v , attraverso un lu n go trava­
glio in teriore negli anni dram m atici che intercorrono tra le d u e rivoluzioni
ru sse d el 1905 e d el 1 9 1 7 , dal m arxism o aH 'idealism o e d a ll’id ea lism o
all’o rto d o ssia » . V ed i: P .C . B o r i , «In trod u zion e all’ed izion e italiana» d e II
P a ra c lito , 9-29; P .C . B o r i - P. B e t t i o l o , M o v im e n ti religiosi in R ussia
p rim a della riv o lu z io n e (190 0 -1917), Q u erin ian a, B rescia 1981, 179-185; 22 0 ­
226; S .N . B u l g à k o v , Il p r e z z o d e l pro g resso . S aggi 1897-1913, a cura di
P .C . B o r i, M arietti, C asale M onferrato 1984, L X II - 194.
8 La Sposa dell’Agnello

hanno il sapore di una sua ultima e definitiva testimonianza


cristiana a pochi mesi dalla m orte, sopraggiunta dopo anni di
lunga e dolorosa m alattia, il centro attorno a cui ruota tutta
quanta l’opera La Sposa dell’Agnello è l’um anità, intesa
tanto nella sua essenza, quale non-Divinità, avente tuttavia il
proprio fondam ento nella Santa T rinità, quanto nel suo
insieme, quale comunità di tutti gli uomini e, in un certo
senso, anche di tutti gli angeli.
Tenendo sem pre presente la verità fondam entale del
cristianesim o che questa trilogia teologica si propone di
investigare e di riaffermare, vale a dire la Divinoumanità (o
Teandria o Teantropia), è appunto tale realtà della Divinou­
m anità a costituire il fondam ento e la ragione sia della
creazione del primo Adam o e in lui di tutti gli uomini e per lui
di tutto il creato, sia della venuta nella carne del secondo
Adamo e della conseguente redenzione di tutti gli uomini e di
tutto il creato, sia infine della seconda e conclusiva venuta del
Dio-Uomo nella gloria, cioè nello Spirito Santo, venuta o
parusia che segna e la risurrezione universale e la trasfigura­
zione del m ondo intero e il giudizio finale e anche una
separazione. Q uest’ultima ha però una sua propria vicenda e
un suo proprio term ine, noti a Dio solo, il quale non può
ontologicamente perm ettere che la sua creatura, fosse anche
satana, e afortiori l’uomo peccatore, sia eternam ente danna­
ta e con ciò privata del suo amore, il che rappresenterebbe in
sé una contraddizione insuperabile, in quanto ogni creatura è
frutto appunto di un tale amore. E Dio, che è Am ore e il
Sommo Bene, vince nell’amore e nel bene il male, la m orte e
l’inferno, affinché «Dio sia tutto in tutti» nei secoli dei secoli.
In conformità a questi tre eventi, che il Padre opera per
mezzo del Figlio, su cui riposa lo Spirito Santo, S. Bulgàkov
struttura la propria riflessione teologica in tre parti ben
distinte, che li scandiscono ontologicamente e cronologica­
m ente, anche se una nota costante è abbastanza facilmente
discernibile. Si tratta dell’enfasi tutta particolare che l’autore
annette alla nozione di sinergismo o interazione tra Dio e la
creatura, interazione presente in ogni istante della vita del­
l’essere creaturale, che non è né un soggetto passivo dell’a­
Introduzione all’edizione italiana 9

zione divina né tanto meno qualcosa di assolutamente auto­


nomo, isolato in se stesso e autocreantesi, perché Dio solo è il
C reatore, il Provvidente, il Misericordioso. E nella ricerca
della soluzione del rapporto tra Dio e il mondo, rapporto da
S. Bulgàkov particolarm ente avvertito e indagato, egli intro­
duce la nozione di Sofia, che, se costituisce uno degli aspetti
più interessanti del suo pensiero, non ha però mancato di
suscitare parecchie discussioni e non poche perplessità, anche
airinterno delle chiese ortodosse. Ciò è dovuto in buona
parte al suo carattere ambiguo e non ben definito, «in quanto
essa viene applicata alternativam ente all’umanità, anima del
m ondo, nella misura in cui accoglie il Logos e trova in lui
unità, e alla Divinità, in quanto si apre ad abbracciare e a
riconciliare a sé la creazione».3 Secondo S. Bulgàkov, tra Dio
e la creatura, tra la natura divina e la natura creaturale del
Dio-Uom o, deve esistere e in effetti esiste una realtà inter­
media, che è comune ad entrambi e che in definitiva rende
possibile sia la creazione che l’incarnazione e la pentecoste;
in una parola la presenza del divino nel creaturale, dell’eter­
no nel tem porale: è la Sofia, la vera Sapienza di Dio, ad un
tempo eterna e creaturale. Così egli si esprime nella seconda
opera della sua trilogia, Il Paraclito: «Tale è il dilemma: o un
Dio-mondo o un mondo-Dio. Non può essere superato che
dalla sofiologia, che riconosce un terzo principio divino nel
mondo creato, come tertium prindpium , un vero ponte onto­
logico».4
La Parte I de La Sposa dell’Agnello ha come soggetto il
C reatore e la creazione. Dopo aver analizzato ciò che lungo i
secoli ha successivamente significato, tanto nella speculazio­
ne extracristiana quanto in quella cristiana, l’idea di creazio­
ne dal nulla e rinvenuto che anche il nulla è in un certo senso
creato da Dio, S. Bulgàkov si sofferma a considerare queste
due antinomie: eternità della creazione e temporalità del suo
essere, eternità dell’uomo e sua temporalità. Tratto specifico

3 B o r i , « I n tro d u z io n e » , 25.
4 B u l g à k o v , Il Paraclito, 6 8, n o ta 34.
10 La Sposa dell’Agnello

dell’uomo, in quanto «dio creaturale» (meglio che «dio crea­


to»), è la sua libertà, che, se lo innalza al di sopra di tutti gli
esseri viventi della terra, è tuttavia talmente connessa alla sua
creaturalità da non precludergli, in presenza appunto di
questa sua limitatezza e di questa sua imperfezione, la possi­
bilità di scegliere e di fare il bene o il male. E la possibilità di
quest’ultimo si è purtroppo realizzata con la caduta dei
progenitori. L’autore tratta poi diffusamente della correlazio­
ne esistente tra Dio, inteso quale Provvidenza che agisce sulla
storia umana e cosmica, e la libertà dell’uom o, inteso sia
come persona individualmente caratterizzata sia come mem­
bro della totalità del genere umano, ricorrendo e insistendovi
con grande energia alla chiarificante nozione del sinergismo.
A questo proposito egli affronta, non senza un notevole
ardire teologico, un tema che nella cristianità occidentale, a
partire da s. Agostino sino ai nostri giorni, è stato di brucian­
te e lacerante attualità: quello della praedestinatio degli uni,
gli eletti, alla beatitudine eterna e, implicitamente, anche se
di rado apertam ente proclam ato, quello della reprobatio
degli altri, i respinti, alle pene eterne.
La Parte II dell’opera è dedicata alla trattazione di tre
realtà, che S. Bulgàkov considera strettam ente connesse tra
di loro: la chiesa, la storia e la m orte. A lungo egli si sofferma
a delineare le caratteristiche essenziali e strutturali della
chiesa, che viene da lui intesa, utilizzando in modo insistente
le predilette categorie sofiologiche, come l’um anità intera,
che, se trova nella Divinoumanità del Cristo il fondam ento
della propria esistenza e la sorgente di quella indefettibile
vita di grazia, che si espande su tutti gli uomini e su tutto il
creato al di là dei confini, a noi visibili, segnati dai sacram en­
ti, ha nella santissima M adre di Dio il suo modello sublime,
«più onorabile dei Cherubini e incom parabilm ente più glorio­
sa dei Serafini». E tali spazi ecclesiali si dilatano nel tem po, e
l’uomo ha e vive una sua propria storia, in quanto egli è
impastato di tem poralità e di spazialità, due elementi assunti
dal Logos nella sua incarnazione e dallo Spirito Santo nella
sua azione. La m orte, che viene abitualm ente vista e vissuta
come la fine della storia individuale dell’uom o, interrom pen­
Introduzione all’edizione italiana 11

done in modo innaturale la tripartita struttura originaria,


anche se nel presente in uno stato decaduto, vale a dire
spirito, anima e corpo, è da S. Bulgàkov recepita non tanto in
questo senso, bensì come l’inizio di una vita, che, pur nella
propria non pienezza e mutilazione, in quanto si tratta di
un’esistenza umana vissuta solo nelle sue dimensioni psichi­
che e pneumatiche, nondimeno è capace di far fruttificare i
semi di bene della passata vita terrena (e ogni uomo, per
quanto grande peccatore egli sia, reca tuttavia in sé qualcosa
di ontologicamente buono, se non altro il fatto della sua
stessa creaturalità, perché Dio ha creato ogni essere vivente
«molto buono»); ed è inoltre capace di assumere un nuovo
indirizzo e di accettare in modo attivo l’evangelo della salvez­
za, che il Cristo nella sua discesa agli inferi annunziò a coloro
che l’attendevano e che si trovavano nelle tenebre e nell’om­
bra della morte (cf. lP t 3,18-22). E pertanto la condizione
dell’oltretom ba, per quanto a noi in questo eone resti del
tutto ignota e nascosta dal velo del mistero di Dio, costituisce
un m om ento decisivo e in definitiva salvifico tanto nella
storia di ogni singolo uomo quanto in quella dell’umanità nel
suo insieme, perché «Dio vuole che tutti gli uomini siano
salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (lT m 2,4).
La Parte III dell’opera affronta il mistero delle realtà
ultime: sia quelle umane e angeliche sia quelle cosmiche. Lo
stesso S. Bulgàkov ritiene che questa dottrina sull’escatologia
sia la sezione più im portante e anche la più impegnativa di
tutta la sua appassionata trilogia teologica consacrata alla
Divinoumanità. E infatti, anche ad una prima e rapida lettura
- ma in verità queste pagine m eriterebbero uno studio e una
meditazione prolungati e ripetuti - tale parte de La Sposa
dell’Agnello risulta la più avvincente. In alcune sue soluzioni,
talvolta davvero inattese, di questioni quanto mai angoscianti
e spesso soffocate e respinte nel nostro subconscio di uomini
e di cristiani (per esempio, la salvezza finale di tutti gli uomini
e di tutti gli angeli decaduti, con satana in testa, anche se
dopo un tem po indefinito di torm enti e di compunzione),
come altresì nella convincente argomentazione delFeternità
della beatitudine, ma non di quella delle pene, questo testo
12 La Sposa dell’Agnello

comunica un’ampiezza insospettabile alla nostra fede e non


può non rinvigorire la nostra speranza. In tutta questa rifles­
sione teologica, S. Bulgàkov, se da una parte si fa attento e
non ingenuo discepolo di Origene e di s. Gregorio di Nissa,
dall’altra con felicissima scelta sfrutta una formidabile e
profonda intuizione di s. Isacco di Ninive, secondo cui le
pene dell’inferno non sono altro che il frutto di un amore che
nello stesso tempo brucia e purifica, consuma e rifonde la
creatura, sia essa uomo o angelo, rendendola di nuovo atta
ad amare quell’Am ore che l’ha creata e ricreata, e ormai
pronta ad immergersi e a naufragare in questo Abisso infinito
dell’essere, su cui aleggia lo Spirito di Dio e le cui sponde
sono le braccia del Dio-Uomo in croce e il cui fondo è il seno
del Padre. Soltanto in questo modo si realizzerà la parola
della Scrittura, secondo cui «Dio sarà tutto in tutti e in tutto».
Nell’appendice S. Bulgàkov riafferma e puntualizza quan­
to già aveva detto nel corso dell’opera in relazione a due
problematiche specifiche: la prima relativa all’apocatastasi,
con particolare riferimento alla dottrina di s. Gregorio di
Nissa, e la seconda concernente l’agostinismo e la predestina­
zione. Non si può fare a meno di ammirare la conoscenza
profonda e di prima mano che egli possiede della teologia
cristiana, quale è stata proposta dai Padri e dai D ottori della
chiesa più autorevoli per santità e sapienza. Nel caso in
questione, la sua intelligenza di s. Agostino è un ottimo
esempio di come un autentico teologo cristiano sappia attin­
gere tanto alla tradizione orientale quanto a quella occidenta­
le, a somiglianza dello scriba evangelico.
Dopo aver accennato in m aniera assai concisa e inevita­
bilmente secondo param etri personali alle problem atiche e
alle soluzioni più suggestive presenti ne La Sposa dell’A gnel­
lo, non sembra inopportuno indicare alcune caratteristiche
generali della riflessione teologica di S. Bulgàkov, quali sono
ivi esem plate. Innanzi tutto, va rilevato il suo continuo
riferirsi alla parola di Dio nella sua totalità e integrità del­
l’Antico e del Nuovo Testam ento, non rifuggendo o tacendo
difficoltà, a prima vista insormontabili e contraddittorie, che i
diversi testi presentano. Pur conoscendo e in parte utilizzan-
Introduzione all'edizione italiana 13

do i lavori dell’esegesi a lui contemporanea, S. Bulgàkov


preferisce accostarsi alla Scrittura in modo diretto, come è
tradizione tuttora prevalente nelle chiese ortodosse, e adot­
tando ora il senso letterale, ora quello mistico e in genere la
sana erm eneutica patristica, ci offre non di rado interpreta­
zioni inattese e semplici, che illuminando rivelano aspetti di
quella verità sinfonica e inesauribile, che è la vita nostra in
Dio e la vita stessa di Dio.
U n’altra caratteristica riscontrabile in S. Bulgàkov è la
sua profonda conoscenza e familiarità con la tradizione della
propria chiesa russo-ortodossa, vale a dire con la tradizione
della «grande chiesa» bizantina, tradizione che è stata fedel­
m ente accolta e lungo i secoli genialmente rivissuta dal
popolo russo. Egli non si vergogna affatto di tale tradizione
ecclesiale e con coraggio ne afferma la validità e l’attualità
anche per i credenti del ventesimo secolo; e perciò di conti­
nuo fa riferimento ai testi che fissano e tram andano tale
depositum fidei: l’insegnamento dei Padri, e non solo di quelli
greci e latini, ma anche di quelli siriaci; le deliberazioni dei
primi sette concili ecumenici, celebrati nel millennio prece­
dente la frattura tra le due cristianità dell’oriente bizantino e
dell’occidente latino; e, certo non ultimi per importanza, i
m olteplici e ricchissimi testi liturgici, dall’innografia alle
anafore, ai tropari che dogmaticamente e devotamente cele­
brano i grandi misteri cristiani.
Un terzo aspetto degno di rilievo del metodo teologico
seguito da S. Bulgàkov è rappresentato dalla sua costante
aderenza alla vita concreta, dalla sua critica percezione della
contraddittorietà insita in certe dottrine religiose, dalla sua
rivalutazione del comune buon senso anche in materia reli­
giosa. Pur fondandosi saldamente sulla parola di Dio e pur
richiamandosi continuam ente alla tradizione ecclesiale, egli
non rinnega affatto la propria cultura e la propria filosofia,
che rientrano nel grande alveo dell’idealismo e del neokanti­
smo, ma di esse si serve nel compimento del suo diuturno
servizio dottrinale.
Q uesta traduzione integrale de La Sposa dell’Agnello,
traduzione volutam ente piuttosto letterale e a tratti non
14 La Sposa dell’Agnello

eccessivamente scorrevole, ma quanto mai fedele allo stile e


al pensiero di Sergej N. Bulgàkov, a volte non privi il primo
di qualche ridondanza e ripetitività e il secondo di una certa
involuzione e imprecisione, viene offerta al lettore italiano
all’indomani delle solenni celebrazioni in occasione del mil­
lennio del battesimo dell’antica Rus’ di Kiev. Tale evento di
grazia ha favorito in tutti i cristiani un rinnovato interesse e
un’intensa e fattiva partecipazione alla storia e alla realtà di
tutte le chiese sorelle della tradizione bizantina, che si sono
impiantate e diffuse in modo meraviglioso tra i popoli slavi, e
in particolare in Ucraina, in Russia e in Bielorussia.
Dedico questa mia traduzione alla beata memoria di Paul
Mailleux, s.j. (1905-1983), che anni or sono mi introdusse con
l’esempio e l’insegnamento nel mondo religioso russo, da lui
tanto profondam ente conosciuto e amato.

C esare R izzi

Bologna, 26 agosto 1990


Festa dell’icona della Madre di Dio di Vladimir
A l lettore

L ’opera, proposta all’attenzione del lettore, rappresenta


la terza e conclusiva parte di una trilogia teologica, dedicata a
rivelare la verità fondam entale del cristianesimo: la Teandria
o Divinoumanità. Secondo il piano generale, quale fu conce­
pito circa dieci anni fa, la prima parte di tale trilogia L ’Agnel­
lo di Dio (1933) e la seconda parte II Paraclito (1936) sono
consacrate all’essenza divina, cioè alla cristologia e alla pneu-
matologia, m entre la terza e ultima parte tratta dell’umanità:
qui sono considerati diversi aspetti dell’essere creaturale, dal
suo stato naturale, poi decaduto, a quello glorioso e trasfigu­
rato. Perciò tema di questo volume è la dottrina sulla chiesa,
l’ecclesiologia, intesa in tutta la sua ampiezza, quale sofiolo-
gia. Esso com prende necessariamente anche l’escatologia,
quale parte conclusiva di tutta quanta la dottrina sulla Tean­
dria. In quanto tale, risulta la parte più importante e più
impegnativa di tutto il lavoro dedicato alla Divinoumanità.
Così l’intende l’autore, che la rim ette ora al giudizio della
chiesa.
Alcune parole sulle vicende interne di questo libro. Esso
era già pronto per la stampa nel 1939. Tuttavia, prima della sua
pubblicazione, è trascorso un lungo intervallo, pieno di
sconvolgimenti grandissimi nella vita del mondo. Le prove di
questi anni, personali e generali, sono state come una verifica
esistenziale di quelle credenze, che qui vengono confessate. In
relazione a ciò devo dire che do alle stampe questo libro senza
esitazione alcuna nella sua forma originale. Soltanto sono stati
aggiunti sAcuni Addenda, come un A m en conclusivo: quantun­
que ripetano in parte cose già dette, mi sembrano necessari
appunto quale conferma di questa professione di fede.
16 La Sposa dell’Agnello

E cos’altro dire ancora? La verità rivelata a proposito


della Teandria, in particolare nel suo sviluppo escatologico,
contiene verità così irrefutabili e universali che davanti ad
esse impallidiscono, come se venissero annientati nel loro
significato ontologico, persino gli avvenimenti più tremendi
della storia mondiale, di cui oggi siamo testimoni, in quanto
noi li comprendiamo alla luce del Futuro. E questo Futuro è
la venuta della chiesa in potenza e in gloria, insieme alla
trasfigurazione del creato. Cuore e anima, centro personale
della creazione è la Vergine-M adre, «la Fidanzata e la Sposa
dell’Agnello»: ella è la stessa «città santa, la nuova Gerusa­
lemme, che scende dal cielo, da Dio, pronta come una sposa
adorna per il suo sposo» (Ap 21,2), «la dimora di Dio con gli
uomini» (Ap 21,3).
E di fronte a questo Futuro, è necessario ripetere sempre
di nuovo nel proprio cuore l’implorazione piena di fede, di
amore e di speranza: «E lo Spirito e la Sposa dicono: “Vie­
ni!” . E chi ascolta ripeta: “Vieni!” . Colui che attesta queste
cose dice: “Sì, verrò presto!” . Am en, Vieni, Signore Gesù!»
(Ap 22,17.20).

Parigi, Istituto S. Sergio


24 giugno 1942
Capitolo V

La chiesa

1. L ’e sse n z a della c h ie s a

(E c c l e s io l o g ia e s o f io l o g ia )

Il concetto più generalizzato e più profondo del sinergi­


smo è collegato all’idea di chiesa in tutti i suoi molteplici
sensi. Cominciamo da quello più generale. La chiesa è il
compimento del piano eterno di Dio rispetto alla creazione,1
è il compimento della «salvezza» della stessa creazione (cf.
l'excursus più avanti), della sua santificazione, della sua
glorificazione, della sua divinizzazione, della sua sofianizza-
zione. La chiesa è, in questo senso, lo stesso fondamento
della creazione, la sua interna finalità. Essa è la Sofia nei suoi
due aspetti, è la Sofia divina e la Sofia creaturale nella loro

1 Q u esto p en siero sul sign ificato prim ordiale d ella ch iesa, qu ale fon d a­
m en to ste s so d e ll’u n iv e r so , trova so lta n to una d e b o le esp r essio n e nella
patristica, il cui in teresse principale è rivolto alla ch iesa , quale istitu zion e e
o rg a n izza zio n e salvifica. T u ttavia, in casi sin goli, incontriam o q u esto p en sie­
ro, in p a rticolare, ne II P a sto re di E r m a . Erm a ha visto una vecch ia signora,
e un g io v a n e , apparsogli in so g n o , gli d ice ch e q uesta vecch ia signora è la
ch iesa di D io . «Io gli chiesi p erch é ella è vecch ia. M i disse c h e , p oich é è stata
creata prim a di tu tto , ella è vecch ia e che per lei è stato creato il m ond o»
(V isio n e 11, 4 , 1). Si cap isce ch e il giudizio sul fatto ch e la ch iesa sia stata
creata p u ò esse r e attribuito so lo al suo asp etto creatu rale, in q u an to il suo
a sp etto non creaturale a p p artiene all’essere etern o d ella Sofia divina. N e ll’o ­
m elia di C lem en te (1 4 , 3 ), la ch iesa p reesisten te è id en tificata con lo Spirito
S a n to , m en tre in Erm a lo S p irito, rivelantesi nel C risto, op era nella chiesa.
Q ui si parla d e ll’essen za d ella d istin zion e tra le due ipostasi d ella D iad e: il
F iglio e lo Spirito S a n to , nella rivelazion e d el P adre. D i solito la teologia
v ed e n el p en siero su ll’esisten za eterna d ella ch iesa un fatto casu ale, «degli
ech i di id e e g n o stich e» (V . T r o i t s k i j , Saggi d i storia su l d o g m a della ch iesa,
S ergu iev P osad 1912, 105; in russo).
374 La Sposa dell’Agnello

reciproca correlazione, che si esprime nella loro unione, e


questa unione è il sinergismo, la Divinoum anità in actu,
nell’essere eterno e nel divenire creaturale. La chiesa, da una
parte, né è stata «fondata» né è sorta nel tempo: essa è eterna
dell’eternità di D io, poiché è la stessa Sofia divina. Ma
insieme a ciò, essa nella creazione condivide con quest’ultima
il destino del divenire; e, in questo senso, sorge, o, più
precisamente, si rende manifesta nel tempo e nella storia.
Essa si manifesta in forme diverse: come la chiesa paradisia­
ca, come la chiesa veterotestam entaria, come la chiesa neote­
stam entaria, e, infine, come la chiesa nella vita del secolo
futuro, o, più esattam ente, dei secoli futuri. A proposito di
essa, quale fondamento della creazione, si dice nella Lettera
ecclesiologica agli Efesini (la cui autorità ecclesiale non
dipende dall’una o dall’altra soluzione al problema critico
riguardante il suo autore), che Dio, Padre del signore nostro
Gesù Cristo, «in lui ci ha scelti prima della creazione del
m ondo... predestinandoci a essere suoi figli adottivi per
opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volon­
tà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel
suo Figlio diletto, nel quale abbiamo la redenzione mediante
il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza
della sua grazia. Egli l’ha abbondantem ente riversata su di
noi con ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto
conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella
sua benevolenza aveva in lui prestabilito, per realizzarlo nella
pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo
tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. In lui
siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secon­
do il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme
alla sua volontà» (Ef 1,4-11). È qui espresso il piano generale
della creazione in rapporto al suo fondam ento divino, vale a
dire nel C risto, nell’inseparabilità del Cristo stesso dallo
Spirito Santo. Cristo, nella propria glorificazione, è stato
costituito «su tutte le cose a capo della chiesa, la quale è il suo
corpo, la pienezza di colui che si realizza interam ente in tutte
le cose» (Ef 1,22-23). Q ueste ultime parole sulla pienezza
(nXfjpw^a) del tutto nel tutto si riferiscono senza alcun
La chiesa 375

dubbio alla Sofia divina, quale fondamento della creazione


nel suo com piersi. Il sinergismo è il carattere di questa
correlazione: «Per questa grazia infatti siete salvi mediante la
fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle
opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera
sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha
predisposto perché noi le praticassimo» (Ef 2,8-10). Questo è
pure «l’adem pim ento del mistero nascosto da secoli nella
mente di Dio (= Dio), creatore dell’universo per mezzo di
Gesù Cristo, perché sia manifestata ora nel cielo, per mezzo
della chiesa, ai Principati e alle Potestà la multiforme Sapien­
za di Dio (f| jro^ujToixi^og Socpia toù Oeoij), secondo il
disegno eterno, che ha attuato in Cristo Gesù nostro signore»
(Ef 3,9-11). Non si può esprimere più chiaramente il fonda­
mento sofianico del m ondo, fondam ento che è la chiesa; e la
sofianizzazione del mondo si effettua mediante la redenzio­
ne, compiuta dal signore nostro Gesù Cristo nella sua incar­
nazione per opera dello Spirito Santo.
Questa correlazione generale esiste tra il principio divino
e il principio creaturale, la sofianizzazione in actu, è definita
come «grazia» in tutti i molteplici significati di questo concet­
to.2 E la chiesa è, in questo senso, considerata tanto l’orga­
nizzazione della vita di grazia, quanto la stessa vita di grazia.
Il dono della grazia, che viene concesso e che viene accolto
nel sinergismo divinoumano, opera la nostra salvezza, quale
attuazione della finalità del mondo, cioè la sua sofianizza­
zione.

* * *

2 N ella parola di D io il term ine «grazia» (oltre ch e nel se n so di b e n ev o ­


len za , di b en e in g en era le) è u sato nei diversi sensi di: 1. am ore (L e 1,30,
2 ,4 0 ), m isericord ia (R m 11,6); 2. in segn am en to rivelato da D io , il van gelo
376 La Sposa dell’Agnello

Excursus sulla salvezza

Che cosa vuol dire il termine «salvezza»? Poche parole e


pochi concetti sono stati usati tanto spesso come la parola e il
concetto di «salvezza». L ’uso frequente di questo concetto
nella s. Scrittura, in contesti differenti, ne rivela i diversi
aspetti. Qui bisogna dapprima evidenziare il suo significato
ontologico, con cui si esprime il fondamento eterno della
salvezza e la pienezza del suo compiersi, il dato-di-fatto e il
dato-da-compiere. In questo senso, si parla in generale della
salvezza eterna, cioè della Sofia divina nel suo rivelarsi nella
creazione. «Israele sarà salvato dal Signore con una salvezza
eterna» (Is 45,17). «La mia salvezza sarà eterna e la mia
giustizia non sarà annientata» (Is 51,6). A ciò si riferiscono
pure i testi di Is 52,7.10 e Is 56,1.
Nei Vangeli secondo Marco e secondo M atteo la parola
«salvezza» è completamente assente. Nel Vangelo secondo
Luca (1,69.77; 2,30; 19,9) e nel Vangelo secondo Giovanni
(4,22) essa ricorre senza alcun intenzionale significato ontolo­
gico; così pure negli Atti degli Apostoli (4,12; 13,26; 28,28).
Nelle Lettere di Giovanni e in quella di Giacomo questa
parola è assente.
In lP t salvezza è intesa in un senso escatologico: «Dalla
potenza di Dio siete custoditi m ediante la fede per la vostra
salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tem pi... su questa
salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che profetizzaro­
no sulla grazia a voi destinata... E fu loro rivelato che non per
se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi
sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il
Vangelo nello Spirito Santo m andato dal cielo; cose nelle
quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo» (lP t 1,5.10.12).

d el Cristo (L e 4 ,2 2 ; G v 1,16-17); 3. rivelazion e d el C risto e la sua chiam ata


(R m 1,5; E f 3,8; G al 2 ,9 ); 4. l’op era d ella red en zion e in siem e ai su oi frutti
(R m 5 ,1 5 -2 1 ); 5. tutta l’eco n o m ia d ella salvezza (2T m 1,9; E f 1,4-7); 6.
b en ed izio n e (R m 1,7; IC or 1,3; 2C or 1,2; e c c .); 7. d o n o d ello Spirito Santo
(E b 10,29; IC o r 15,10; 2C or 12,9). V .A .L . K a t a n s k i j , «La dottrina g en era ­
le sulla salvezza n ella lib ertà», in L ettu re C ristian e, 1900, I, 39ss.
La chiesa 377

In 2Ts 2,13: «Dio vi ha scelti come primizia per la


salvezza, attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la
fede nella verità», ha l’ontologia della salvezza. E anche in
2Tm 2,10: «Sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi
raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla
gloria eterna». E pure in Eb 5,9: «Cristo, reso perfetto,
divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli
obbediscono». Così pure nel libro dell’Apocalisse 7,10: «E
gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio
seduto sul trono e all’Agnello” ; Ap 12,10: «Allora udii una
gran voce nel cielo che diceva: “Ora si è compiuta la salvezza,
la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo”»
(in questo testo la salvezza è equiparata alla forza e al regno
del nostro Dio e alla potenza di Cristo, cioè alla rivelazione
della Sofia divina). E lo stesso si ha in Ap 19,1: «Alleluia!
Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio».
Il significato di un’azione divina è attribuito al termine
«salvezza» negli analoghi testi seguenti: Gv 3,17: «... Perché
il mondo si salvi per mezzo di lui» (Cristo); Gv 12,47: «Sono
venuto non per condannare il mondo, ma per salvare il
mondo»; lTm 2,4-5: «Dio vuole che tutti gli uomini siano
salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo,
infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e egli uomini,
l’uomo Cristo Gesù» (in questo testo si parla della Divinou-
m anità, quale eterno fondam ento sofianico dell’umanità).
Un significato simile lo ha anche il seguente testo di 2Tm 1,9­
10: «Dio ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione
santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo
proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo
Gesù fin dall’eternità (cioè, l’eterna divinoumanità o sofiani-
cità), ma che è stata rivelata solo ora con l’apparizione del
salvatore nostro Cristo Gesù». A ciò si riferisce 2Pt 1,11:
«Così vi sarà ampiamente aperto l’ingresso nel regno eterno
del signore nostro e salvatore Gesù Cristo».
Tutta questa serie di testi attribuisce in modo preciso alla
salvezza un carattere oggettivo-ontologico, salvezza che ha
un fondam ento eterno e che si realizza nella pienezza dei
tempi, come l’alfa e l’omega, come il principio e la fine. E
378 La Sposa dell’Agnello

solamente sulla base di questa ontologia, si attua la salvezza


personale, quale sua assimilazione o non assimilazione da par­
te della libertà creaturale. Appunto un tale significato pragma­
tico è attribuito al concetto di salvezza in tutta una serie di testi
vetero- e neo-testam entari, e non di rado esso viene applicato
a dei fatti particolari, per esem pio, alla vittoria sui nemici.
Q uest’ultimo significato ricorre, senza alcun dubbio, nell’A n­
tico Testamento: ISam 2,1; 2Sam 22,3.36.47; 23,5. In generale
hanno tale significato i testi seguenti: Sai 96,2 (= lC r 16,23);
2Cr 6,41; Sai 50,23; 51,14; 68,21; 74,12; 18,3; 119,41.81.155;
132,16; 140,8; 149,4; Pr 2,7; Is 40,5 (= Le 3,6); 46,13; 49,6 (At
13,47); 51,5; 56,1; Le 1,69.77; 2,30; 19,9; Gv 4,22; A t 4,12 (Sai
118,22); 13,26; 28,28; 2Pt 3,15; Rm 1,16; 10,1; 11,11; 13,11;
2Cor 6,2 (= Is 49,8); 7,10; Ef 1,13; 6,17; Fil 1,28; 2,12; lT s 5,8­
9; 2Ts 2,10.13; 2Tm 2,10; Eb 1,14; 2,3.10; 5,9; 9,28; 10,39. A
ciò pure si riferiscono le espressioni «salvare», «essere salva­
to»: M t 1,21; 10,22; 18,11; 19,25; 24,22: Me 5,34; 16,16; Le
1,71; 8,48; 9,56 (secondo alcuni codici e la Volgata); 13,23; Gv
5,34; A t 2,48; 4,12; 10,6 (secondo certi manoscritti bizantini);
15,1; 16,30-31; Gc 1,21 ; 2,14; 4,12; 5,20; lP t 3,21; 4,18; Gd 23;
Rm 5,10-11; 8,24; 9,27; 10,10; 11,26; IC or 3,15; 5,5; 15,2;
2Cor 1,6; Ef 2,8; lTm 1,15; Tt 3,5; Eb 7,25; Ap 21,24 («le na­
zioni salvate cam m ineranno...»). Il termine «Salvatore» ricor­
re in questi due testi: At 5,31 e 2Pt 2,20.
Tutti questi numerosi testi non si piegano ad una sola
caratteristica, ma esprimono il pensiero generale sull’acco­
glienza della salvezza e sulla sua assimilazione. Nell’impiego
di questo concetto c’è molto in comune con il concetto di
grazia. Si rivela qui il tema comune del sinergismo, tanto da
parte del dono divino, quanto da parte dello sforzo umano
per poterlo accogliere. Casi poi distinti si piegano difficilmen­
te ad una generalizzazione teologica.
Si può dire che la salvezza è il fondam ento e il frutto del
sinergismo, è il suo compiersi finale; la grazia invece è il cam­
mino per raggiungere tutto ciò: la salvezza è un «qualcosa»,
la grazia è un «come». Sia l’una che l’altra appartengono alla
forza della chiesa.
La chiesa 379

Nella parola di Dio, il termine «chiesa» viene usato in un


duplice senso: chiesa, sinonimo di comunità locale di creden­
ti, le chiese al plurale, unite tra di loro da una stessa unica
vita, e chiesa, sinonimo di questa stessa vita, quale unica
essenza mistica. La chiesa, in questo senso, è descritta come
il corpo del Cristo, corpo animato dallo Spirito Santo, come il
suo tem pio, come la sposa del Cristo. Bisogna comprendere
queste espressioni in tutto il loro vigore.
La chiesa, come corpo del Cristo, è considerata in relazio­
ne tanto all’unità di «molte» membra, quanto alla loro diver­
sità nell’«unico» corpo, e questa unità viene determinata e in
rapporto allo Spirito Santo, vivente nella chiesa, sotto l’a­
spetto pneumatologico, e in rapporto al Cristo, sotto l’aspet­
to cristologico. Am bedue gli aspetti sono presenti in una
specie di giustapposizione in ICor 6,15-19: «Non sapete che i
vostri corpi sono membra di Cristo?... O non sapete che il
vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi e che
avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?». Una
comparazione analoga l’abbiamo altresì nel c. 12 della stessa
L ettera, dove essa è applicata alla diversità dei carismi
dell’unico Spirito di D io, come pure alla diversità delle
membra dell’unico corpo del Cristo: «Vi sono diversità di
carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministe­
ri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni,
ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è
data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità
com une... (segue l’enumerazione di questi diversi carismi
dello Spirito). Ma tutte queste cose è l’unico e il medesimo
Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole»
(IC or 12,4-11). E quindi l’Apostolo passa immediatamente
alla dottrina sul corpo del Cristo: «Come infatti il corpo, pur
essendo uno, ha m olte m em bra e tutte le m em bra, pur
essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in
realtà noi tutti siarpo stati battezzati in un solo Spirito per
form are un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti
ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (IC or 12,12-13). E poi
segue il giudizio sulla diversità delle membra e sul loro
legame: «Ora voi siete corpo di Cristo e sue m embra, ciascu-
380 La Sposa dell’Agnello

no per la sua parte. Alcuni perciò Dio3 li ha posti nella


chiesa... (e segue di nuovo l’enumerazione dei carismi e dei
ministeri nella chiesa)» (IC or 12,27-30).
Questa comparazione tra il Cristo e lo Spirito Santo,
come se fossero in una giustapposizione indifferente, possie­
de un significato ecclesiologico di prim aria importanza. A ciò
si unisce la dottrina sulla diversità delle membra del corpo e
dei corrispondenti carismi. Questo pensiero generale sull’uni­
tà del corpo del Cristo in presenza della molteplicità delle
membra trova espressione in Rm 12,4-5: «Poiché, come in un
solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non
hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essen­
do molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua
parte siamo m em bra gli uni degli altri». E quindi in Rm 12,6­
8 si dà la stessa enumerazione dei diversi carismi e dei diversi
ministeri presenti nella chiesa, conformemente alla diversità
delle membra «secondo la grazia data a ciascuno di noi». Solo
in questo testo tali carismi e tali ministeri non sono riferiti alla
loro fonte unica, lo Spirito Santo, come si ha in IC or, ma
certam ente qui la dottrina specifica di questa Lettera riveste
una portata di assoluta priorità.
Un significato analogo, applicato all’unità della chiesa nel
Cristo, possiede pure la dottrina eucaristica di IC or 10,16-17:
«Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse
comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezzia­
mo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è
un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo:
tutti infatti partecipiamo dell’unico pane». Infine, secondo la
dottrina della Lettera agli Efesini, questa pluri-unità ecclesia­
le si rivela, nella propria pluridiversità e correlatività, come la
pienezza del Cristo: «Tutto Dio ha sottomesso ai suoi piedi e
10 ha costituito su tutte le cose a capo della chiesa, la quale è
11 suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interam ente in
tutte le cose» ( = ... ryug èotìv xò ocòfKX aùxoù, xò ;tXrÌQa)(xa

3 « D io » (ò d eóg, D io ip ostatico) qui ev id en tem en te si riferisce, in base


ad un co n fro n to d iretto con i cc. 8-11, allo Spirito S anto.
La chiesa 381

toù t à Jtavxa èv Jtàoi JtÀ.riQOi^évo'u, Ef 1,23). (L’uso dell’ar­


ticolo sottolinea il significato ontologico di tutti questi concet­
ti). Qui l’aspetto cristologico si congiunge, così come nella I
Lettera ai Corinzi, a quello pneumatologico: del Cristo si dice
che ci ha riconciliati con Dio, «siamo infatti opera sua, creati
in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto
perché noi le praticassimo» (Ef 2,10), «per creare in se stesso,
dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconci­
liare tutti e due con Dio in un solo corpo» (Ef 2,15-16). E
l’Apostolo continua: «Per mezzo di lui possiamo presentarci,
gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito,... e avendo come
pietra angolare lo stesso Cristo G esù,... in lui anche voi
insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di
Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2,18-22).4 Infine, nella
Lettera ai Colossesi 2,19 si parla del «capo, dal quale tutto il
corpo riceve sostentam ento e coesione per mezzo di giunture
e legami, realizzando così la crescita secondo il volere di
Dio».
In tutto questo gruppo di testi ecclesiologici, è necessario,
innanzi tutto, evidenziare l’idea di concentrazione o di conci-
liarità (= sobornosf ): la chiesa è un organismo o un corpo, è
una pluralità vivente. In esso si congiungono molte membra e
sono distribuiti carismi diversi in presenza di una pluralità
vivente, e questa pluriunità ha il Cristo come proprio capo ed
è animata dallo Spirito Santo.
In virtù di questo carattere diadico della chiesa, a proposi­
to di essa nello stesso modo si dice ai credenti: voi siete il
corpo del Cristo, voi siete il tempio dello Spirito Santo,
poiché l’uno senza l’altro non è possibile, e ogni ecclesiolo­
gia, che sia orientata in senso monistico, e non diadico, è
difettosa. Cf. ancora una volta Ef 2,18-22. In quanto eterna
Divinoumanità, la chiesa celeste è la vita di Dio, è l’autorive-

4 U n sign ificato an alogo l’ha pure un testo del c. 3: « ...c h e il Padre vi


c o n c e d a , se c o n d o la ricch ezza d ella sua gloria, di essere p o te n tem en te
rafforzati dal su o Spirito n ell’u o m o interiore. C he il Cristo abiti per la fed e
n ei vostri cuori» ( E f 3 ,1 6-17).
382 La Sposa dell’Agnello

lazione di Dio, è la Sofia divina. E appunto a questa definizio­


ne si riferisce il pensiero secondo cui la chiesa, quale corpo del
Cristo, è «la pienezza di colui che si realizza interam ente in
tutte le cose» (Ef 1,23). Che cosa significa questo pleroma se
non la vita eterna di Dio, la Sofia divina, alla quale unicamente
si addice il titolo di «tutto in tutte le cose»? Ovviamente, ciò
non può essere attribuito all’essere creaturale, che si trova
nello stato del divenire. Tuttavia, in questo divenire noi
«siamo stati predestinati» secondo il volere di Dio «a realizza­
re nella pienezza dei tempi il disegno di ricapitolare in Cristo
tutte le cose, quelle del cielo come quella della terra» (Ef
1,10). Nell’incarnazione del Cristo si attua l’unione della vita
divina con la vita creaturale, la divinizzazione dell’uomo,
divinizzazione che è la potenza della chiesa celeste, manifesta­
tasi nella chiesa terrestre. Nell’interpretazione sofiologica si
superano le difficoltà, altrimenti insormontabili, che sorgono
dall’applicare alla definizione di chiesa, da una parte, il con­
cetto di pienezza di colui che si realizza interam ente in tutte le
cose, e, dall’altra, il concetto di chiesa pellegrina nel mondo
(éxxXrioi'a jtaQ oixoùaa). La chiesa è la Sofia divina, eterna, e
la Sofia creaturale, diveniente, nella loro unità. Soltanto
questa unità eterna della vita di Dio, quale ens realissimum
della chiesa, è in grado di spiegare tutta la forza e tutta la veri­
tà delle insistenti affermazioni dell’Apostolo, affermazio­
ni che costituiscono il fondam ento stesso dell’ontologia eccle­
siale: •
IC or 10,17: «noi, pur essendo m olti, siamo un corpo
solo»;
Rm 12,5: «noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo
in Cristo»;
Col 3,15: «voi siete stati chiamati in un solo corpo»;
Ef 2,16: «per riconciliare tutti e due con Dio in un
solo corpo»;
E f 3,6: «che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù,
a partecipare alla stessa eredità, a form are lo
stesso unico corpo»;
Ef 4,4: «un solo corpo e un solo spirito».
Non si deve sminuire tutto il significato ontologico di
La chiesa 383

questa unità, trasform andola in un’immagine, in un paragone


soltanto: come il corpo, o simile al corpo. Al contrario, si
parla apertam ente di un solo corpo, come ciò si rivela in Ef
4,4-6, in rapporto diretto all’unità di Dio. La chiesa non è un
conglom erato, ma è un corpo, e, in quanto tale, esso non è
quasi-uno, ma è realmente uno, quantunque questa unità sia
non empirica, bensì sostanziale, ontologica. Da un punto di
vista em pirico, essa per il momento «realizza la crescita
secondo il volere di Dio» (Col 2,19).
Qual è la natura di questa unità? Essa corrisponde all’uni­
tà della vita divina, che è una, che è l’unità non della vacuità
ma della pienezza, dell’interezza di tutto nel tutto. Questa
pienezza è l’unica rivelazione della vita triipostatica di Dio,
nella quale l’unità sussiste come triunità. Con ciò si parla non
semplicemente dell’unità della vita di Dio, ma appunto del­
l’unità di un corpo, del corpo del Cristo, animato dallo
Spirito Santo. E il corpo, in rapporto allo Spirito, non è la sua
negazione, bensì la sua autorivelazione. E la chiesa, come
corpo del Cristo, è la partecipazione alla vita divina, è la sua
autorivelazione nella divinizzazione in divenire della creatu­
ra. Perciò tutto è uno in Cristo, in quanto uno solo è il Cristo
e uno solo è lo Spirito Santo, e una sola è la chiesa, come una
sola è questa vita divina, concessa alla creatura.
L’affermazione che la chiesa è il corpo del Cristo, del
D io-U om o, vero Dio e vero uom o, contiene un duplice
pensiero: prim o, che a D io, come anche all’uom o, e di
conseguenza al Dio-Uom o, è proprio avere un corpo; secon­
do, che il corpo del Dio-Uom o, il corpo del Cristo, è la
chiesa, quale um anità divinizzata, quale vita divinoumana.
Nella prima relazione è inammissibile limitare, e con ciò
alterare, il pensiero generale sul corpo del Cristo, nel senso
che al Cristo il corpo è proprio solamente per l’umanità,
come fosse un abito di carne, di cui egli, essendo lui stesso
incorporeo, si riveste per noi e per la nostra salvezza. Tale
supposizione risulta ontologicam ente contraddittoria, in
quanto ciò che è incorporeo non può per sua essenza rivestirsi
di ciò che è corporeo. La tradizione ecclesiale ha respinto una
tale comprensione del farsi uomo di Dio, comprensione che si
384 La Sposa dell’Agnello

limiterebbe solamente all’apparenza del rivestirsi di un abito


estraneo, ma che non costituirebbe l’autentica assunzione
dell’umanità reale. E tale assunzione è possibile solo per la
presenza di una correlazione positiva tra le due nature, quella
divina e quella umana. Questa stessa correlazione presuppo­
ne la presenza di due corporeità: la corporeità spirituale,
quella di Dio, la quale è la Sofia divina o la Gloria di Dio, e la
corporeità umana. Perciò l’esistenza del corpo del Cristo è un
fatto divinoumano. Aver paura del pensiero secondo cui la
corporeità, quale principio dell’autorivelazione dello Spirito
divino, contraddice la sua spiritualità, è un equivoco, che
conduce a negare o a sminuire la forza dell’incarnazione di
Dio.
Tuttavia, la difficoltà principale che incontra l’ecclesiolo­
gia concerne non tanto l’unità, quanto piuttosto la pluriunità,
la pluridiversità di questa unica vita, data quella sua manife­
stazione nella pienezza, a cui corrisponde tanto la pluralità
delle m em bra dell’unico corpo, quanto la diversità e la
pluralità dei carismi dell’unico Spirito. Bisogna congiungere
nella riflessione ecclesiologica tutta la realtà dell’unità, o
totalità, e tutta la realtà della pluralità, o pluridiversità.
Ciascuno tra i molti, pur rimanendo se stesso nella propria
particolarità, è m embro dell’unico Cristo, essendo mosso
dall’unico Spirito. Ma se ciascuno è il Cristo, essendo fatto
partecipe della sua vita, in che cosa allora consiste la sua vita
propria? Nell’idea dell’unità ecclesiale, quale corpo del Cri­
sto, e allo stesso modo quale tempio dello Spirito Santo, si
trova la palese antinomia tra l’uno e i molti, tra l’identico e il
diverso, tra ciò che è del Cristo e ciò che non lo è, in cui forza
uguale devono avere la tesi e l’antitesi. Tra di loro non si dà
né una sintesi logica né una sintesi statica, e tali antinomie si
superano solo dinam icam ente, con il movimento circolare
della vita. Il paradosso del corpo e delle membra («voi siete
corpo di Cristo e sue m embra, ciascuno per la sua parte»,
IC or 12,27) consiste nel fatto che ciascun membro del corpo
è con ciò stesso il corpo, appartenendo al tutto, e, in quanto
tale, è questo tutto, la cui forma si manifesta in esso, ma nello
stesso tempo se ne distingue: «Come infatti il corpo, pur
La chiesa 385

essendo uno, ha molte m em bra e tutte le m em bra, pur


essendo m olte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (IC or
12,12). Essere membro del corpo significa già essere il corpo,
in quanto le membra sussistono soltanto nel corpo, ed essere
corpo significa avere le membra, poiché il corpo sussiste
soltanto nelle m em bra, e anzi in membra diverse: «Ora il
corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra»
(IC or 12,14) (e segue la spiegazione dell’esempio applicato a
questo pensiero sul modello del piede, della mano, dell’orec­
chio, dell’occhio e dell’udito). E riguardo a tutte le membra
del corpo, pur con tutta la loro diversità, se ne afferma la
paricorporeità, l’equivalenza, che però non è uguaglianza,
ma appunto uguale importanza: «Ora, invece, Dio ha dispo­
sto le m em bra in modo distinto nel corpo, come egli ha
voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il
corpo? Invece molte sono le m embra, ma uno solo è il corpo»
(IC or 12,18-20). Il pensiero sull’equivalenza delle membra
del corpo è specialmente sviluppato nei successivi vv. 21-26 di
questo c. 12 della I Lettera ai Corinzi.
Se si considera il fatto che questa caratteristica della
chiesa, come un solo corpo, che è composto di membra
diverse, si riferisce a tutta quanta l’umanità, quale pluriuni-
tà, allora, evidentem ente, il principio della pluralità riguar­
da le ipostasi um ane, m entre il principio dell’unità del corpo
riguarda l’unità deH’um anità, all’inizio nel vecchio Adam o,
e in seguito nel nuovo Adam o. In principio Dio creò l’uomo
«a nostra immagine», maschio e femmina li creò, e ordinò
loro di essere fecondi e di moltiplicarsi, e ciò si riferiva non
a nuove specie di uomini o a nuove forme di creazioni, bensì
all’unico uom o, identico nella propria umanità, nella propria
natura, e nello stesso tempo plurimo nelle ipostasi. Ciascuna
ipostasi è un «come» personale di un «qualcosa» universale,
e, in quanto tale, appartiene alla pienezza, al pleroma. Essa
è un raggio di quella luce di Dio, di cui è detto che «egli era
la luce vera, che illumina ogni uomo che viene nel mondo»
(Gv 1,9). Ciascuna ipostasi appartiene al Cristo, che per­
ciò è il capo della chiesa. Tuttavia, il corpo della chiesa non
è solo un m embro tra le membra del corpo, quantunque il
386 La Sposa dell’Agnello

membro più importante. Esso è al di sopra di tutte le mem­


bra, quale loro fondam ento, e in esso tutte le singole membra
si trovano come la pluralità nell’unità: Cristo, come capo, è
non solo l’uomo, ma l’onniuomo (o l’uomo universale). Il
linguaggio della comparazione tra la chiesa e il corpo perde
qui vigore a causa dell’imprecisione, di cui si deve tener conto
nello sviluppare questo stesso pensiero.
Ma poiché la chiesa è la rivelazione diadica del Logos e
dello Spirito Santo, allora per questa sua caratteristica, allo
stesso modo reale e parallela alla pluriunità delle membra
ipostatiche del corpo, vi è la pluriunità dei carismi dello
Spirito, con cui nella loro totalità egli abbevera tutta quanta
l’um anità, secondo lo stesso c. 12 della I Lettera ai Corinzi:
«Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito» (IC or
12,4), e tutta questa diversità «è l’unico e medesimo Spirito
ad operarla, distribuendo a ciascuno come vuole» (IC or
12,11).5 II principio personale, il principio dell’individualizza­
zione dell’um anità, è in tal modo collegato all’azione o
all’autorivelazione diadica della Seconda e della Terza ipo­
stasi.
Perciò la dottrina sulla chiesa, come corpo del Cristo,
contiene la dottrina sull’uomo nella sua relazione con la
Divinoumanità eterna, quale suo fondamento. E qui presup­
posta non solo l’unità dell’um anità, in quanto tale, bensì
anche la pluriunità delle immagini o persone um ane nel
Cristo, quale Verbo incarnatosi, unto dallo Spirito riposante
in lui. Di nuovo ci troviamo qui di fronte al mistero di come
l’ipostasi divina del Cristo si moltiplichi e si identifichi nella
pluralità delle ipostasi um ane, ciascuna delle quali riceve e
conserva il suo proprio io personale, e nello stesso tempo si
identifica con il Cristo, immergendosi individualmente nella

5 È d eg n o di atten zion e il fatto ch e l’esp r essio n e «com e vu ole» è qui


applicata a ll’a zio n e d ello Spirito S a n to , m en tre, alcuni versetti più so tto (18)
essa è usata riguardo alla d istin zion e d elle m em bra nel co rp o , e in q u esto
ca so è applicata all’a zio n e d ella S econ d a ipostasi: «O ra D io ha d isp osto le
m em bra in m o d o d istin to n el co rp o , co m e egli ha v olu to» (ef. I C o t 12,27 a
p rop osito d elle m em bra d el corp o di C risto).
La chiesa 387

sua persona: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in


me» (Gal 2,20). È tale questa antinomia esistente tra l’uno e i
m olti, tra l’A rchetipo o Immagine prima e le immagini,
identiche nella diversità e diverse nell’identità, così come le
molte membra di un unico corpo. E questa antinomia, che,
assunta razionalm ente, conduce soltanto a delle contraddi­
zioni, esprime invece dinamicamente il mistero della Divi-
noum anità, la relazione appunto esistente tra la Sofia divina,
appartenente alla triipostaticità divina, e la Sofia creaturale,
affidata alla sorte delle immagini divine, cioè gli angeli e gli
uomini; e tutte queste immagini sono ontologicamente tra­
sparenti rispetto all'Immagine prima. Questo stesso pensiero
è espresso nel discorso del Signore a proposito del giudizio
finale, dove il Signore testimonia che egli è presente in ogni
uomo (e, di conseguenza, nessuno è escluso da questa pre­
senza). Non si tratta di un paragone o di una similitudine
soltanto, ma di una testimonianza di una realtà autentica,
benché m isteriosa.6

6 Q u esto p en siero su ll’au toid en tificazion e di C risto con l’um anità è ,


co m e già ab b iam o v isto , il p en siero p red iletto da s. A g o s t i n o nella sua
cristologia. C f. a n ch e i testi seg u e n ti, in cui è espressa q u esta id ea del
pancristism o: « N o n en im C hristus in capite et n on in corp ore. Q u od ergo
m em bra eiu s, ip se; q u od autem ip se, non con tin u o m em bra eiu s. N am si non
ipse essen t m em bra eiu s, non diceret: S au le, quid m e p ersequeris? (A ct.
IX ,4) N o n en im Saulus ip su m , sed m em bra eiu s, id est fid eles eiu s, in terra
p erseq uebatu r. N o lu it tam en d icere, san ctos m eo s, servos m eo s, p ostrem o
h o n o ra b iliu s, fratres m e o s, sed M e, h oc est m em bra m ea, quibus eg o sum
caput» (In Joan . E van g. traci. X X V III; P L X X X V , 1622; ved i stessa cit. alla
n o ta 6 3 , Parte I, c. 4 - n .d .t.) . Si ha la stessa id ea an ch e in S erm o 133 (P L
X X X V , 742): « ...E t n os ip se est. N am etsi nos ipse non essem u s, non esset
veru m . C u m unì ex m in im is m eis fecistis, m ihi fecistis (M t X X V , 4 0 ). Si nos
ip se non e ssem u s, non esse t veru m , S a u le, S a u le, quid m e persequeris? (A ct.
IX , 4 ). E rgo et n os ip se, quia n os m em bra eiu s, quia n os corpus eiu s, quia
ip se cap u t nostrum (E p h . 1,22), quia totus Christus caput et corpus». O
ancora: « ...I n d e autem apparet Christi corpus n os e s se , quia o m n es ungimur:
e t o m n e s in ilio e t C h risti e t C h ristu s su m u s, quia qu od am m od o totus
C hristus cap u t et corp u s e s t...» (E n arr. in P s. 26; P L X X X V I, 200). «Ita ut
o m n in o dubitari non p o sset Christum esse caput et corp u s, sp on su m et
sp o n sa m , F ilium D e i et e c c le s ia m ....» (E n arr. in P s. 20; P L X X X V I , 230).
« ...e r g o et n os C hristus. C hristus et ecclesia duo in carne una» (E narr. in Ps.
142; P L X X X V I I, 1847).
388 La Sposa dell’Agnello

Pertanto la dottrina sulla chiesa, come corpo del Cristo e


tempio dello Spirito Santo, ha innanzi tutto un significato
antropologico: in essa si afferma una specie di pancristismo e
di panpneumatismo, per i quali non si pone alcuna limitazio­
ne. In breve, essa contiene semplicemente il pensiero che
dopo l’incarnazione e la Pentecoste, il Cristo è il capo di tutta
l’um anità, e, di conseguenza, in essa vive. La stessa cosa si
afferma nei confronti dello Spirito Santo, e in questo senso la
dottrina dell’apostolo Paolo sullo Spirito Santo e i suoi
carismi è perfettam ente parallela al discorso di Gesù a propo­
sito del giudizio finale.
Ma, secondo il suo solito, dopo aver affermato questa
verità quale verità ontologica, l’apostolo Paolo trae da essa
un’applicazione pratica riguardo alla vita spirituale e morale:
la dottrina di IC or 6 sui nostri corpi, quali «membra del
Cristo» e templi dello Spirito Santo, viene applicata come
fondam ento dapprima per predicare contro la fornicazione, e
quindi, nell’elevato c. 12, per predicare l’amore reciproco.
Secondo ciò su cui si pone l’accento, nell’ecclesiologia dell’a­
postolo Paolo predomina ora un carattere dogmatico, ora
invece un carattere pratico. Tale ecclesiologia testim onia
l’esistenza di quell’unità misteriosa dell’um anità, unità che è
il mistero della chiesa, e insieme invita a recepire questo
m istero come guida per l’agire, affinché tutti siano uno
nell’amore. Nel linguaggio contem poraneo si può dire che
questa ecclesiologia è la dottrina sulla conciliarità della chie­
sa, conciliarità intesa tanto ontologicamente quanto pragma-
ticamente, quale principio dell’adunarsi e del concentrarsi
nell’am ore, della comunione collegiale.
La cosa più im portante ed essenziale, emersa nei capitoli
che sono stati esaminati delle Lettere dell’Apostolo, è che in
essi viene dato un fondam ento all’ecclesiologia, con la dottri­
na appunto sulla chiesa quale corpo del Cristo e tempio dello
Spirito Santo. E questa dottrina non deve essere trasform ata
in una specie di ornam ento decorativo, che resta soltanto
sullo sfondo, m entre l’attenzione principale è rivolta alla
natura istituzionale della chiesa, alla sua organizzazione
esterna.
La chiesa 389

La chiesa, come Divinoumanità, come corpo del Cristo e


tempio dello Spirito Santo, rappresenta l’unione o il congiun­
gimento del principio divino con quello creaturale, la loro
reciproca compenetrazione senza separazione e senza confu­
sione. In questo senso, essa è il sinergismo, mediante cui il
principio divino penetra e si salda all’umanità, mentre il
principio um ano è innalzato a quello divino. Perciò, in
pratica, il sinergismo è l’elargizione dei carismi divini e la loro
ricezione. Nella loro totalità questi carismi sono la pienezza,
ma nel loro combinarsi con l’accoglienza personale e nel loro
differenziarsi essi rappresentano i diversi ministeri. A ttraver­
so ciò si compie la crescita del corpo della chiesa (Ef 4,16),
nel quale ciascun membro riceve la propria «forza per cresce­
re». Perciò la dottrina sulla chiesa, come corpo mistico del
Cristo e come tempio dello Spirito Santo, è accompagnata
presso l’Apostolo da un’indicazione su questi carismi e su
questi ministeri diversi,7 insieme ad una loro enumerazione

7 R m 12,4-8: « P o ich é, co m e in un so lo corp o abbiam o m olte m em bra e


q u este m em bra non hanno tutte la m ed esim a fu n zio n e, così anche n o i, pur
e ssen d o m o lti, siam o un so lo corp o in Cristo e ciascu no per la sua parte
sia m o m em bra gli uni d egli altri. A b b ia m o pertanto doni diversi se co n d o la
grazia d ata a ciascu no di noi. Chi ha il d on o della p rofezia la eserciti secon d o
la m isura d ella fed e; chi ha un m inistero attenda al m inistero; chi l’in segn a­
m e n to , a ll’in seg n a m en to ; chi l’eso rta z io n e, all’esortazion e. Chi d à, lo faccia
con sem p licità; chi p resied e, lo faccia con d iligenza; chi fa op ere di m isericor­
d ia, le com p ia con gioia».
IC o r 12,4-10: «V i so n o diversità di carism i, m a uno so lo è lo Spirito; vi
so n o d iversità di m inisteri, m a uno so lo è il Signore; vi so n o diversità di
o p era zio n i, ma u n o so lo è D io , ch e op era tutto in tutti. E a ciascu no è data
una m an ifesta zio n e p articolare d ello Spirito per l'utilità com une: a uno vien e
c o n cesso d allo Spirito il lin gu aggio d ella sap ien za; a un altro in v ece, per
m ezzo d ello stesso S p irito, il lin gu aggio di scienza; a u n o la fed e per m ezzo
d ello stesso Spirito; a uno il p o tere d ei m iracoli; a un altro il d o n o della
p rofezia; a un altro il d o n o di distin guere gli spiriti; a un altro le varietà delle
lin gu e; a un altro in fin e l ’in terp retazion e d elle lingue».
IC or 12,27-31: « V o i sie te corp o di Cristo e su e m em bra, ciascuno per la
sua parte. A lcu n i p erciò D io li ha posti nella ch iesa in prim o lu ogo com e
a p o sto li, in se co n d o lu o g o com e p rofeti, in terzo lu ogo com e m aestri; poi
v en g o n o i m iracoli, poi i d on i di far gu arigion i, i doni di assisten za, di
g o v e r n a r e , d e lle lin g u e. S o n o fo rse tutti ap ostoli? T utti p rofeti? T utti
m aestri? T u tti o p eratori di m iracoli? T utti p o ssied o n o doni di far guarigioni?
T utti parlano lin gu e? T utti le interpretano? A sp irate ai carism i più gran-
390 La Sposa dell’Agnello

esemplificativa, quantunque niente affatto esaustiva.8 In que­


sta enumerazione è cosa caratteristica, innanzi tutto, l’assenza
della menzione della gerarchia, come se nel suo aspetto attuale
essa non esistesse affatto nel Nuovo Testam ento, al pari di
altre istituzioni canoniche ecclesiastiche. Tutti i ministeri
hanno il carattere di carismi personali, di ispirazione e di
creatività personale, e nello stesso tempo hanno il carattere di
ciò che entra organicamente a far parte della vita ecclesiale. La
chiesa qui si rivela sotto l’aspetto non del gerarchismo istitu­
zionale, bensì della creatività e dell’ispirazione personale (e
inoltre, come più sopra si è già notato, due volte viene indicato
il carattere stabilito da Dio stesso di questa libera ecclesialità:
«l’unico e il medesimo Spirito...»; «Dio ha disposto le membra
in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto», IC or
12,11.18). Questa vita organica e creativa della chiesa precede
ontologicamente il principio gerarchico, che nella sua forma
organizzata sorge nella chiesa solo più tardi. Tale vita, rispetto
a questo principio gerarchico, è il prius ontologico (e non il
contrario), o, per lo meno, è la condizione del suo essere,
quale ambiente ad esso indispensabile. Questo carattere spiri-
tuale-organico della chiesa, in tempi relativamente recenti,
viene in misura notevole dimenticato e persino oscurato da
quello istituzionale-gerarchico: la gerarchia balza in avanti,
come il prius della chiesa, e alla luce di questa priorità è
interpretata pure la dottrina corrispondente della rivelazione.
In particolare, si m ette in risalto la dottrina romana a proposi­
to della successione apostolica della gerarchia nella persona
dell’apostolo Pietro, successione che è altresì affermata anche
in oriente sotto forma di un papismo collettivo, quantunque si
rigetti il prim ato individuale dell’apostolo Pietro.9 Tra un’ec­
clesiologia ontologica e un’ecclesiologia istituzionale può ov-

d i...» . (IC o r 14,1: « R icercate la carità. A sp irate pure anche ai d on i d ello


S p irito, sop rattu tto alla p rofezia»),
8 C iò è co n ferm a to non so lo dal carattere gen erico d el testo , m a anche
dalla d iversità ta n to d el n u m ero q u a n to d egli stessi carism i n elle varie
en u m erazion i (R m 12; IC or 12), pur d an d osi una parziale loro coin cid en za.
9 C a ra tteristica d el tem p o di tran sizion e è la d ottrin a d ella ch iesa
La chiesa 391

viamente anche non esserci, e anzi non ci deve essere, contrad­


dizione; tuttavia, ciò è possibile soltanto con il distinguere
entram bi gli aspetti e con il m antenere una giusta proporzione
nelle loro reciproche relazioni, e, in ogni caso, dalla seconda
non deve mai essere soppressa la prima, vale a dire la dottrina
sofiologica sulla chiesa, dottrina che è contenuta in vari testi
della parola di Dio.
Ma ancor più sofiologica è la dottrina sulla chiesa, come
la fidanzata del Cristo e la sposa dell’Agnello, come l’amata
dell’amato del Cantico dei Cantici. A ciò si riferisce l’eccle­
siologia della Lettera agli Efesini, dove di nuovo si parla della
chiesa come del corpo di Cristo, e qui si ha in vista principal­
mente l’aspetto creaturale della chiesa, per la quale il Cristo
ha dato se stesso (Ef 5,25). E l’unione tra l’uomo e la donna
in una sola carne, insieme all’abbandono del padre e della
m adre, è interpretata in rapporto a Cristo e alla chiesa, come
un grande mistero (Ef 5,31-32). Questo testo misterioso e
conciso, e tanto più sbalorditivo nel proprio significato, è
unico nel suo genere nelle Lettere apostoliche. Esso però
trova un diretto parallelo nell’Apocalisse, e, anzi, nelle sue
parole più significative, perché conclusive, dell’ultimo libro
della parola di Dio. In Ap 21,9.10 l’angelo dice al veggente:
«Vieni, ti m ostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello», ed
era «la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da
Dio, risplendente della gloria di Dio». Nel contesto generale,
questa apparizione, che conclude la storia del mondo, come il
suo frutto m aturo, indica la sofianizzazione della creatura e,
in questo senso, la Sofia divina (= la Gloria di Dio), che
scende dal cielo sulla terra, nel m ondo creaturale. E a
proposito di ciò si dice (Ap 22,17): «Lo Spirito e la Sposa
dicono: “Vieni!” . E chi ascolta ripeta: “Vieni!”». Qui abbiamo

esp o sta da s. C i p r i a n o , ch e n el trattato D e cath olicae ecclesiae unitate appare


essere u n o d ei fond atori d ella sua clericalizzazion e. Il testo di M t 18,19-20,
ch e co stitu isce la b ase in crollab ile della vita ecclesia le, è da lui accolto
so lta n to n el se n so di un’a p p artenenza ad una giurisdizione can on ica, tradu­
c e n d o lo co sì n el lin g u a ggio deH’istitu zio n a lism o { D e cath olicae ecclesiae
u n itate, c. X II).
392 La Sposa dell’Agnello

come un pensiero duplice e preordinato: nel c. 21 si parla


della fidanzata-sposa, che scende dal cielo sulla terra; qui
invece, nel c. 22, si parla della sposa insieme allo Spirito, che
la anima e che vive in essa; ed essa si trova nel mondo e
attende la venuta di Cristo nella pienezza della rivelazione
divina nel mondo. La chiesa, quale Sofia, si trova nei cieli, è
la Gerusalem m e celeste (di cui è detto presso l’apostolo
Paolo, 2Cor 5,1-2: «Sappiamo che quando verrà disfatto
questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’a­
bitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani
di uomo, nei cieli. Perciò sospiriamo in questo nostro stato,
desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste»), che deve
discendere sulla terra. Ed essa stessa per mezzo dello Spirito
invoca questa discesa, come la sposa che attende il proprio
Sposo, cioè come la chiesa terrestre, creaturale. La chiesa,
sia quella celeste che quella terrestre, è una sola dal punto di
vista dell’entelechia nel suo fondam ento e nel suo term ine,
ma essa resta duplice nel processo del mondo, anteriorm ente
alla fine del mondo. Perciò anche la relazione esistente tra
questa dimora celeste e quella terrestre, o tra il Cristo e la
chiesa, si esprime nell’aiuto, nell’assistenza, nella redenzio­
ne. Nello stesso c. 5 della Lettera agli Efesini si dice che
«Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei», in
quanto «nessuno mai ha preso in odio la propria carne; al
contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la chiesa» (Ef
5,25.29); e quest’ultima unione di Cristo con la chiesa, quale
unione sponsale, è il grande mistero della chiesa.
Tuttavia, il coronam ento della dottrina mistica sulla chie­
sa, quale amore, l’abbiamo non nell’Apocalisse del Nuovo
T estam ento, bensì in quella dell’A ntico Testam ento, nel
canto d ’amore della Fidanzata e dell’Agnello, e in questo
senso il libro più misterioso, e perciò anche il più neotesta­
mentario della Bibbia: il Cantico dei Cantici. Questo libro,
ancor meno dell’Apocalisse, si presta ad un’analisi delle sue
singole parti e immagini; e nondimeno esso è tutto quanto
com penetrato da tale frem ito di questo amore e in esso
risuona un canto talm ente mirabile da apparire un prodigio
letterario. Non ci impegneremo ad analizzarlo nei suoi singoli
La chiesa 393

tratti. È sufficiente riconoscere, in accordo con tutta l’antica


tradizione della chiesa, che in esso sono descritte le relazioni
esistenti tra Cristo e la chiesa sotto l’immagine dell’amore
dello Sposo e della sposa, e inoltre è invisibilmente presente
l’A m ore stesso o ipostasi dell’Am ore, lo Spirito Santo. A b­
biamo qui la rivelazione della Seconda e della Terza ipostasi,
le due ipostasi rivelanti il Padre, quale coppia o sizìgia
sponsale, e ciò viene trasferito all’unione tra Cristo e la
chiesa. Il Verbo e lo Spirito testimoniano il Padre che è nei
cieli. E il Cantico dei Cantici è il canto dell’amore esistente
tra Dio e il mondo, tra il Creatore e la creazione, tra la Sofia
divina e la Sofia creaturale, è il canto del Figlio incarnato per
opera dello Spirito Santo ed è il canto della Sposa sempre
vergine (= vu|j,cpri cm3|icpeuTCx), sua Madre. Questa relazione
è l’amore congiungente in sé tutte le forme dell’amore perso­
nale e dell’amore impersonale, e il mistero di questo amore è
nascosto nei cieli, per essere rivelato sulla terra. Questo
amore mirabile e misterioso chiaramente non presuppone né
uno psicologismo né un’emozione, bensì presuppone un’on­
tologia di esso, la realtà di una correlazione esistente tra
realtà spirituali. Questa rivelazione testimonia che la chiesa
esiste, ad essa è inerente l’essere, quale ens realissimum, essa
è l’oggetto dell’amore divino. La chiesa, in questo senso,
viene descritta come il «corpo» o la sposa: «I mariti hanno il
dovere di amare le mogli come il proprio corpo» (Ef 5,28). La
chiesa sussiste nella pluralità delle ipostasi, come un unico
corpo dalle molte m embra. Ipostasi prim aria della chiesa e
suo personale punto di convergenza è la santissima M adre di
Cristo, la Pneum atofora.
Le definizioni della Sofia, come la Fidanzata, la Sposa e il
Corpo, sin dai tempi più antichi hanno dato adito ad equivo­
ci, tanto da parte di uno spiritualismo eccessivo, mediante cui
si sopprime il vigore stesso di questa immagine, con il risol­
verla e il dissolverla in un’allegoria, quanto da parte di un
eccessivo romanticismo, in cui hanno prevalso la poesia, le
emozioni e persino la passionalità. Al fine di chiarire tale
questione, bisogna, innanzi tutto, stabilire tutto quel com­
plesso di concetti, a cui fa riferimento qui la definizione di
394 La Sposa dell’Agnello

chiesa, come la fidanzata o la sposa, precisam ente sotto


l’aspetto della «femminilità» (e, evidentem ente, dell’«eterno
femminino»). Noi distinguiamo il principio maschile e il
principio femminile nello Spirito ipostatico, in quanto o
dall’uno o dall’altro viene caratterizzata la stessa ipostasi.
Tuttavia, l’immagine della chiesa non appartiene in generale
a questa contrapposizione o differenziazione esistente tra il
maschio e la femmina in senso ipostatico, e nei suoi diversi
aspetti. Ciò che qui si intende e che qui si contrappone non
riguarda tanto l’essere ipostatico, quanto invece quello non
ipostatico, quantunque sia anch’esso chiamato ad ipostatiz­
zarsi. La chiesa celeste, o Sofia divina, è appunto tale princi­
pio non ipostatico, il quale nondimeno, contenendo una sua
propria sostanzialità, quale natura o essenza di Dio, è dall’e­
ternità ipostatizzata nelle ipostasi divine, e inoltre sua apposi­
ta e specifica ipostasi è il Logos, che nell’unione indivisibile e
inconfondibile con lo Spirito Santo manifesta il Padre. Lo
stesso essere non ipostatico della Sofia divina è determ inato
dalla sua partecipazione all’amore divino, che la congiunge
alle ipostasi e che la ipostatizza.
Rispetto poi alla chiesa, quale Sofia creaturale, essa viene
ipostatizzata dalle ipostasi creaturali, e queste ipostasi si
uniscono convergendo interam ente nell’ipostasi del Dio-Uo­
mo, che è collegato direttam ente alla creazione attraverso la
M adre di Dio, la «Sposa sempre vergine», su cui ha steso la
propria om bra la Terza ipostasi. In quanto chiesa terrestre,
essa è stata ipostatizzata, «si ipostatizza» in Cristo, come la
fidanzata e la Sposa dell’Agnello.
La dottrina della s. Scrittura a proposito della chiesa,
corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo, fidanzata e sposa
dell’Agnello, in generale tutta l’ontologia ecclesiale ha a che
fare con il suo fondam ento eterno nei cieli e con la sua forza
rivelantesi nella creazione e nell’um anità. La chiesa è il
fondam ento generale dell’essere creaturale, è il suo principio
e il suo fine. Il problem a della chiesa è qui collocato entro la
concretezza storica, entro i confini dello spazio e del tem po,
entro determ inate organizzazioni ecclesiali. (E se queste
ultime sono parallelam ente menzionate come comunità loca-
La chiesa 395

li, con ciò allora se ne sottintende l’inclusione nella chiesa).


La questione relativa ai confini della chiesa, come essenza
ontologica, qui non affiora ancora. Tuttavia, non dobbiamo
sottrarci alla sua impostazione, in quanto i dati per una
risposta si hanno nella rivelazione e scaturiscono da definizio­
ni fondamentali. I confini della chiesa dal punto di vista
mistico od ontologico coincidono con i confini della forza
dell’incarnazione e della pentecoste, confini che non esistono
affatto. «E il Verbo si fece carne»: il farsi uomo del Signore
sotto form a della persona teandrica o divinoumana del Cristo
è l’assunzione dell’Adam o tutto intero, dell’umanità «perfet­
ta». Per questa assunzione non c’è, né può essere indicato
alcun confine, né dal di fuori, né dal di dentro. L’umanità del
C risto e l’um anità interna o intrinseca di ogni uom o, a
proposito della quale si può dire: nihil humanum est a Christo
alienum (ovviamente, non nel senso della condizione empiri­
camente presente e peccatrice dell’umanità, ma in quello
della sua natura). Tutti gli uomini appartengono all’umanità
del Cristo, e se questa umanità è la chiesa, quale corpo del
Cristo, allora in questo senso anche l’umanità tutta quanta
appartiene alla chiesa. Questa verità misteriosa è espressa, e
non una volta soltanto, nella Bibbia.
L ’angelo nella notte della nascita di Gesù dice ai pastori:
«Non tem ete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di
tutto il popolo («di tutti gli uomini», secondo alcuni codici
bizantini): oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore,
che è il Cristo signore» (Le 2,10-11). E il giusto Simeone
benedice e glorifica Dio «perché i miei occhi han visto la tua
salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per
illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele» (Le 2,30­
32). «E apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per
tutti gli uomini» (Tt 2,11). «Dio vuole che tutti gli uomini
siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (lT m
2,4). E se i sostenitori della dottrina sulla predestinazione, da
s. Agostino a Calvino, sono condotti dalla sua logica alla
conclusione che il Cristo è venuto per la salvezza non di tutta
l’um anità, ma soltanto di un numero limitato di eletti, allora
questa conclusione direttam ente e certam ente contraddice la
396 La Sposa dell’Agnello

testimonianza dell’Apostolo, testimonianza che elimina un


tale confine.
Ma l’argomento più decisivo in favore della forza universa­
le e onniumana dell’incarnazione del Cristo e della venuta
dello Spirito Santo nella Pentecoste è la testimonianza del
Signore stesso nel discorso sul giudizio finale (Mt 25,31-46),
dove egli identifica sé, la propria um anità, con tutti gli uomini.
Non si deve sminuire con un’interpretazione allegorica questa
testim onianza: tutta l’um anità, che si presenta davanti al
tribunale del Cristo, appartiene alla sua um anità, è il Cristo
(come questa stessa conclusione emerge da altri testi, per
esem pio, dalla parabola del buon Sam aritano). Da ciò si
impone la conclusione che per il farsi uomo del Logos non
sussiste alcun confine, come pure non ne sussiste alcuno per lo
Spirito Santo veniente nel m ondo (e di ciò parla l’apostolo
Pietro citando il profeta Gioele: «Negli ultimi tempi io effon­
derò il mio Spirito sopra ogni persona», A t 2,17).
Ma questa universalità è necessario estenderla dall’uomo
anche oltre l’uomo. L ’uom o non esiste separatam ente o
senza alcun legame con l’universo: al contrario, è il suo punto
di convergenza e il suo centro, è il «mondo in compendio», e
la natura um ana include in sé tutta quanta la natura creatura­
le. L’uomo è stato costituito da Dio suo capo, e mediante la
sua caduta l’ha sottomessa alla caducità, in cui essa geme e
soffre, attendendo la propria liberazione. Il m ondo naturale è
già stato sottoposto al potere del Cristo dopo la sua risurre­
zione: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt
28,18). La terra m aledetta diventa una terra nuova sotto un
cielo nuovo nella risurrezione, come anche i corpi umani
diventano corpi di gloria. Il campo della forza della Divinou-
manità coincide con il confine della chiesa, o meglio, un tale
confine non sussiste affatto, perché alla chiesa appartiene
tutto quanto l’universo, che è la sua periferia, il suo aspetto
cosmico.10

10 Q u esta id ea d e ll’a sp etto cosm ico d ella ch iesa è illustrata icon ografi­
ca m en te da alcune ico n e d ella M adre di D io , d o v e la T h e o tó k o s , q u ale cu ore
La chiesa 397

Ma questa universalità (o cattolicità) della chiesa, univer­


salità che di per sé ha già un fondamento nella stessa creazione
del mondo (Ef 3,9-11), si rivela anche escatologicamente, alla
fine del m ondo, nella parusia, come pure in ciò che segue la
parusia.
Innanzi tutto, nella trasfigurazione del mondo «nel giorno
del Signore» (2Pt 3,7-13), come anche nel giudizio del Signo­
re, a cui si presenteranno tutti i popoli, diventano manifeste
sia questa soppressione di confini dall’essere limitato che la
com parsa della sua cattolicità: ciò indica appunto la sua
appartenenza ontologica alla chiesa. E questa stessa cosa
appare nel compiersi finale, di cui si parla in ICor 15,24-28.
«E quando tutto gli sarà sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà
sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché
Dio sia tutto in tutti» (IC or 15,28). «Poiché da lui, grazie a lui
e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen»
(Rm 11,36).
Tuttavia, in tale definizione della cattolicità della chiesa
tutto si allarga e quasi si scioglie nell’infinità. Essa definisce
troppo, e perciò definisce pochissimo. Essa ha bisogno di un
supplem ento o di una precisazione ulteriore.
Nella rivelazione dell’interazione tra il principio divino e
quello um ano, o sinergismo, bisogna introdurvi la diversità
della chiesa (e delle chiese), come un’istituzione della grazia,
separandola da tutto il resto del m ondo, che si trova al di
fuori di essa «nelle tenebre e nell’om bra della morte».
A questo punto nuovam ente si pongono le questioni
concernenti la natura della chiesa e i suoi confini.

d ella ch iesa e sua p erso n ifica zio n e, è rappresentata con diversi attributi
c o sm ici, p er es.: «Il ro v eto a rd en te», «La sinassi d ella santissim a M adre di
D io » , ecc.
398 La Sposa dell’Agnello

2. L a c h ie s a ,
q uale o r g a n iz z a z io n e

sa c r a m en ta le - g e r a r c h ic a

Nella dottrina della parola di Dio a proposito della chiesa


non troviamo alcuna diretta indicazione su di essa, quale
organizzazione. È vero che ivi si parla delle chiese locali, a
cui sono state indirizzate le Lettere apostoliche, e che sono
nominate «tutte le chiese di Cristo» (Rm 16,16), e «le chiese
dell’Asia» e «la chiesa domestica che si raduna nella casa di
Aquila e Prisca» (IC or 16,19) e «le chiese della Galazia», ma
non si tratta certam ente di organizzazioni canoniche, «auto­
nome» o «autocefale», e via dicendo. Sono semplicemente
delle comunità locali, che si sentono appartenenti alla chiesa.
D ’altra parte, nell’Apocalisse 1-3 si parla degli «angeli» delle
sette chiese, i quali sono o le loro immagini spirituali oppure,
qualora fossero i loro rappresentanti gerarchici, non andreb­
bero però intesi quali rappresentanti di carismi e di poteri
gerarchici, bensì quali portatori dello spirito.
Nello stesso tempo gli inizi dei gradi gerarchici, che si
hanno nel Nuovo Testam ento, sono ancora piuttosto indeter­
m inati; e del resto essi sono così distinti dalla gerarchia
ecclesiastica nel suo aspetto sviluppato, che ad essa non
possono essere direttam ente equiparati. Essi, al massimo, ne
costituiscono soltanto i germi. Né vi è alcuna indicazione
diretta sull’esistenza di speciali poteri sacramentali, che sa­
rebbero collegati a determinati gradi gerarchici (ovviamente,
l’ordine apostolico occupa qui un posto del tutto particolare;
tuttavia, malgrado la teologia rom ana e quella romanizzante,
esso non deve esservi incluso). Qui si nota piuttosto una certa
am orficità gerarchica, ed è strano superare questo fatto
storico ricorrendo ad un postulato dogmatico, in rapporto
all’esistenza sin dall’inizio di una gerarchia avente tre gradi,
come di solito si fa .11 La chiesa apostolica non conosce il

11 Cf. il m io saggio: «G erarchia e sacram en ti», in P u f , Paris 1935, n. 49,


23-47. «T he M inistry and thè S acram en t», in una raccolta d allo ste sso tito lo ,
La chiesa 399

nostro sistema gerarchico, che sopraggiunge più tardi, a


cominciare dal secondo secolo. E non vi è alcun fondamento
storico sufficiente per colmare questo vuoto sulla carta della
storia della chiesa m ediante congetture dogmatiche. Di fatto,
ciò porta ad opporsi direttam ente alla parola di Dio, la quale
in modo preciso non ci ha narrato ciò che a qualunque costo
si vuole trovare in essa in virtù di certi postulati dogmatici. I
fatti storici bisogna accettarli così come sono, quantunque
vadano certam ente compresi alla luce della dottrina dogmati­
ca e in relazione ad essa. Un impedimento increscioso nella
storia della dogmatica appare essere qui l’influsso della rifor­
ma e della Controriforma con la loro polemica teologica, che
ha dato un’impostazione erronea a tutta quanta la questione
e che ha influito non solo sulla teologia occidentale, ma anche
su quella orientale. I protestanti, richiamandosi alla struttura
ecclesiale del secolo apostolico e nell’erronea aspirazione a
ripristinarla integralmente anche ai nostri giorni, sopprimen­
do la forza della storia, vogliono far ritornare indietro que-
st’ultima di duemila anni. In nome di questa utopia reaziona­
ria, si rigetta completam ente la gerarchia, e il suo stesso
sorgere viene considerato talvolta come un peccato storico e
come un impoverim ento o un isterilirsi dello Spirito (R.
Sohm). Al contrario, i cattolici, in nome della storia successi­
va della chiesa con il suo sistema gerarchico, rigettano di fatto
il secolo apostolico nella sua originalità, trovandovi i linea­
menti ad esso impropri dell’epoca successiva. Essi vi rinven­
gono un sistema gerarchico piuttosto sviluppato, compreso il
prim ato rom ano. Q uesta idea ha ricevuto un’espressione
codificata nel dogma tridentino, secondo cui tutti i sacramen­
ti sono stati istituiti da Cristo; e, in particolare, l’imposizione
delle mani gerarchica è eseguita dagli apostoli, che hanno
ricevuto il carisma episcopale da Cristo. E in tal senso viene

L on d on 1937, 85-123. L ’o p p o sto p u n to di vista, usuale n ei m anuali d ogm ati­


ci, è esp resso in m o d o p articolarm en te risoluto da T r o i t s k i j , Saggi. A ll’e ­
strem o o p p o sto si trova R . S o h m , ch e ritiene il gerarchism o istituzion ale un
distaccarsi e una cad u ta dal cristian esim o d elle origini.
400 La Sposa dell’Agnello

interpretata la «successione apostolica» (certam ente, con l’ap­


plicarla, innanzi tutto, al prim ato dell’apostolo Pietro e dei
suoi successori sulla cattedra di Rom a); questa dottrina è stata
di recente fissata nel concilio Vaticano (1869-1870). La stessa
dottrina tridentina (ad eccezione soltanto del prim ato rom a­
no) ha trionfato pure nella teologia orientale, essendo stata
inclusa nella Confessione ortodossa. E qui l’episcopato ha
cominciato a riconoscersi come successore degli apostoli nel
senso romano, vale a dire i vescovi sono ritenuti in un certo
modo i portatori della pienezza del carisma apostolico, e ciò è
ormai applicato non solo all’unico sommo sacerdote rom ano,
ma anche a tutto quanto l’episcopato in generale. In tal modo,
il «cristianesimo delle origini» viene di fatto sminuito nella
propria originalità da parte di tutta la chiesa gerarchica, m en­
tre quest’ultima viene negata dal protestantesimo in nome del
«cristianesimo delle origini». Ne risultano tanto un erroneo
antigerarchismo nel protestanesim o, quanto un’esagerazione
dell’universalità storica del cristianesimo gerarchico. Non sa­
rebbe meglio sia per l’uno che per l’altra, invece di lacerare la
storia della chiesa in due parti incompatibili, sottom ettersi
umilmente alla realtà storica, quale determinazione della vo­
lontà di Dio, e accettare il fatto che la chiesa del «cristianesimo
delle origini», come pure la successiva chiesa gerarchica, è la
medesima, identica, unica chiesa apostolica? E appunto que­
sta identità che conviene, innanzi tutto, comprendere ed esser­
ne coscienti dogm aticam ente. Che cosa, nel presente caso,
può significare questa indubbia diversità, accanto ad una al­
trettanto indubbia unità e autoidentità della chiesa?
Secondo la dottrina neotestam entaria, la chiesa, come
corpo mistico del Cristo, tempio dello Spirito e sposa dell’A ­
gnello, è la Divinoumanità, eterna e storica, celeste e terre­
stre, divina e creaturale, nell’unione, secondo la terminologia
del concilio di Calcedonia, delle due nature in Cristo. A
salvaguardia di questa idea di chiesa, sta tutta la cristologia e
tutta la pneumatologia ecclesiale. In altre parole, la chiesa è
la Sofia: la Sofia divina e la Sofia creaturale nella loro unione
(e tale unione non è un mescolarsi, ma soltanto un essere
penetrato e pervaso da parte della vita creaturale dai raggi
La chiesa 401

della Divinità, è il loro «sinergismo»). La Divinità, o Sofia, è


trascendente alla creazione, e, nello stesso tempo, è ad essa
immanente. La Sofia è il noumeno, tò ò'vxoog ov, das Ding ari
sich (= la cosa in sé) della creazione, che, nondimeno, conser­
va il suo proprio aspetto empirico o storico: il mondo fenome­
nico. E questa unione dell’increaturalità e della creaturalità,
della noumenicità e della fenomenicità, è caratteristica della
chiesa, come il Divino nel creaturale, come l’essere di Dio
eterno e immutabile nel mondo tem porale, creato dal «nulla».
Ciò che è divino, è immutabile ed eterno; ciò che è creaturale,
è tem porale e storico. In questo senso, la chiesa, ancora una
volta, è il sinergismo che unisce il cielo e la terra.
Da ciò segue che la chiesa, quale Divinoumanità, è essen­
zialmente storica e che nel suo aspetto creaturale essa appar­
tiene alla storia. In essa sussiste un dato-di-fatto primordiale,
che è nel contem po pure un dato-da-compiere. Tutto ciò che è
um ano, è storico, empirico, fenomenico, ma con questo, dal
punto di vista ontologico, esso non è affatto vuoto, non è privo
di un contenuto ontologico. E alla luce di questo radicale
storicismo, inseparabile dall’ontologismo noumenico, che va
compresa la vita della chiesa, quale storia ecclesiale.
Ne risulta pertanto che nessun avvenimento della vita
ecclesiale e nessuna sua forma o istituzione possono essere
compresi al di fuori della storia, come se fossero privi di sangue
e di carne, e venissero isolati dallo spazio e dal tempo. Anche
l’unigenito Figlio di Dio nel proprio essere umano, e di conse­
guenza storico, è stato ad essa collegato. La concretezza stori­
ca, che appartiene all’essere fenomenico, non è un biasimo o
un danno, ma la form a indispensabile dell’essere, al di fuori
della quale esso finirebbe nel nulla. Ma sarebbe la stessa cosa,
se esso venisse svuotato del proprio contenuto essenziale
(«Mandi il tuo spirito, sono creati... togli loro il tuo spirito,
m uoiono e ritornano nella loro polvere», Sai 104,30.29).
Ciò che è divino e ciò che è umano, senza separarsi né
confondersi, sono presenti nella Divinoumanità, ma nello
stesso tem po ciò che è um ano, in tutti i suoi aspetti storici e in
tutti i suoi stati fenomenici, non è mai adeguato al proprio
fondam ento divino, né lo esprime integralm ente: esso è

M
402 La Sposa dell’Agnello

relativo e lim itato, quantunque da tale fondam ento non sia


mai separato e non ne sia vuoto. I fenomeni sono le manifesta­
zioni di ciò che è noumenico, della sua vita in noi. Questi con­
cetti generali sulla correlazione esistente tra ciò che è noume­
nico e ciò che è fenom enico12 devono essere evidenziati nella
dottrina sulla chiesa, quale Divinoumanità nella sua storia. E
da ciò, innanzi tutto, segue che la chiesa da noi conosciuta e a
noi manifesta appartiene essa pure alla storia, in quanto è sol­
tanto attraverso queste porte che noi, dal nostro essere creatu­
rale e um ano, possiam o uscire verso il m ondo spirituale, il
mondo della grazia, il mondo divino. Nell’essere empirico del­
la chiesa, nelle sue forme, non vi è nulla che non appartenga
alla storia, che sia di per se stesso assoluto ed eterno. Esso è
necessariamente congiunto e quasi saldato all’eternità divina,
ma non la contiene completam ente, e perciò nella propria fe­
nomenicità non è ad essa adeguato. Tale è il realismo mistico
della chiesa, il suo simbolismo, con tutta l’indissolubile salda­
tura tra l’eterno e il tem porale. La chiesa ha un suo proprio
Urgrund (= fondam ento, ragione primaria) divino, rispetto a
cui sono applicabili tutte le negazioni dell’ecclesiologia apofa-
tica, negazioni che si congiungono però a tutto l’approccio ca-
tafatico riguardo alla fenomenologia ecclesiale. E in quest’ul-
tima che si fa l’esperienza esistenziale della vita divina e la san­
tità si automanifesta.
Pertanto la chiesa, come società, istituzione, organizza­
zione, la chiesa «visibile» o empirica, non coincide compieta-
m ente con la chiesa, quale Divinoumanità, sua profondità
noumenica, quantunque ad essa sia collegata, su di essa sia
fondata, e da essa sia pervasa. Se ci si può dom andare se
esiste una ecclesia extra ecclesiam, vale a dire un’ecclesialità
che sia al di fuori o accanto all’esistente organizzazione
ecclesiale, allora a maggior ragione ci si può e ci si deve
chiedere: esiste una Ecclesia supra o intra ecclesiasl Le chiese

12 Q u esti co n cetti gen erali so n o p resen ti nella filosofia antica, m a in


tem pi recenti essi so n o stati riproposti n ella filosofia di K an t, ch e p erò n e ha
d ato u n ’in terp reta zio n e n ello spirito d elF em p irism o scettico e non ha sfrutta­
to p ien a m en te tutta la p rofond ità d ella sua propria dottrina.
La chiesa 403

rap p resen tan o la fenom enologia della «chiesa», sono la


«chiesa visibile», sono in generale la «chiesa» manifesta nella
realtà em pirica, e, in questo senso, sono l’invisibile nel
visibile. Il visibile ha dei limiti esterni, appartiene alla storia,
ma entro questi limiti si manifesta l’«invisibile», cioè l’essere
nuomenico. E in tal senso le chiese sono l’unità indivisibile e
inconfondibile tra ciò che appartiene al mondo e alla storia, il
«visibile», e ciò che è oltre il loro confine, l’«invisibile». La
chiesa ha pertanto un essere simbolico nel mondo, è come il
divino nell’um ano, l’invisibile nel visibile, è come la Divinou­
manità. Ma in questo stesso senso, la «chiesa» e le chiese nel
loro reciproco rapporto rappresentano l’unico e universale
sacramento di tutti i sacramenti, l’onnisacramento, contenen­
te il mistero della chiesa stessa. Di solito, il sacramento viene
definito come quell’azione, con cui sotto una forma visibile è
comunicato un dono invisibile, il dono della grazia, e, di
conseguenza, è come l’invisibile nel visibile, il noumenico nel
fenomenico; e tuttavia a ciascun sacramento è inerente una
sua specificazione, un suo dono peculiare, che viene elargito
appunto da questo sacramento e in questa forma. Nondime­
no, bisogna sempre ricordare che i confini precisi di questo
dono, come pure in particolare i confini della sua azione, non
possono essere fissati. Alcuni sacramenti sono conferiti per
tutta la vita: tali il battesimo e la cresima, e, in un certo senso,
il matrimonio e l’ordine. E inoltre, ogni sacramento rivela e
schiude una via verso la profondità, verso l’essere noumeni-
co, e con ciò stesso risulta nella propria azione indeterminabi­
le e inesauribile. C ’è una specie di incommensurabilità tra la
forza interna del sacramento e il suo segno visibile e la sua
specificazione, così che anche la stessa diversità dei sacra­
menti è relativa e, per così dire, pragmatica, in quanto «vi
sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio» e «tutte
queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera,
distribuendole a ciascuno come vuole» (IC or 12,6.11). E
sebbene dal concilio tridentino sia stato fissato come dogma
che i sacramenti sono sette, né più né meno, questa formula
dogmatica non può certam ente sopprimere tutta l’inesauribi­
le abbondanza dei doni spirituali, e, in specie, di quelli
404 La Sposa dell’Agnello

sacramentali, che sono conferiti dalla chiesa. È sufficiente


ricordare tutta l’instabilità del numero dei sacramenti nella
storia,13 come pure la presenza, accanto ai sacramenti (sacra­
menta]), di azioni misteriose e sacre, i sacramentali (sacra-
mentalia), che nella teologia sono considerati come dei sacra­
menti di secondo grado, sminuiti nella realtà e nel significato
rispetto ai sacramenti in senso proprio. Tuttavia, già con la
loro stessa presenza, essi testimoniano l’impossibilità di limi­
tare o di esaurire con la misura dei sette sacramenti le azioni
di grazia da parte della chiesa, azioni che restano incommen­
surabili nella loro essenza, in quanto «lo Spirito soffia dove
vuole» e «Dio dà lo Spirito senza misura» (Gv 3,8.34).
Tutto questo ci porta alla conclusione generale che alla
base di tutti i diversi sacramenti e sacramentali si trova il
sacramento di tutti i sacramenti, l’onnisacramento o il sacra­
mento universale, che è la stessa chiesa, quale Divinoumani­
tà, quale attuale incarnazione e attuale pentecoste dello
Spirito nella loro forza perm anente. E questo onnisacramen-
to, non avendo di per sé alcun confine, si compie nel mondo e
nell’um anità al di sopra di tutto il mondo e di tutta l’umanità,
e ora e sempre e nei secoli dei secoli, poiché inalterabile è la
potenza dell’incarnazione e imprescindibile è la venuta nel
m ondo dello Spirito Santo. La chiesa è il mistero del mondo,
mistero che si rivela come i sacramenti. Perciò la definizione
più generale di sacramento è l’azione manifesta della chiesa
nell’uomo. L ’uomo è e il tempio e l’altare e il sacerdote e
colui che sacrifica e colui che riceve l’offerta. La chiesa
stessa, quale onnisacram ento, non è un’istituzione speciale,
come sono tutti i sacramenti particolari, ma essa è, da una
parte, un evento sacro, l’evento del disegno primordiale di
Dio, «delFadempimento (= dell’economia) del mistero, na­
scosto da secoli nella mente di Dio» (Ef 3,9), e, dall’altra, è la
sola realtà, altissima della Divinoumanità, realtà da Cristo

13 B isogn a in oltre ricordarsi d elle oscillazion i nel co m p u to d ei sacra­


m en ti (per e s ., la tonsura o p rofession e m onastica era n ella ch iesa antica
inclusa nel nu m ero d ei sacram enti, m en tre non vi ritroviam o il m atrim on io).
La chiesa 405

rivelata espressam ente nell’ultima cena. La chiesa è la testi­


m onianza sacramentale dell’incarnazione, e l’istituzione del
sacramento dell’eucaristia ne è la manifestazione o attestazio­
ne. Il mistero della chiesa e il suo onnisacramento precedono i
sacramenti e ne sono il fondamento: essa è il noumeno dei
sacramenti, che, rispetto ad essa, sono come i suoi fenomeni. I
sacramenti in rapporto aH’onnisacramento della chiesa hanno
un significato derivato, ne sono l’istituzione storica, quantun­
que abbiano un fondam ento divino nella Divinoumanità.
Q uanto è stato detto costituisce una base sufficiente per
poter com prendere quel fatto storico, del tutto indiscutibile,
per cui i sacramenti sorgono nella vita della chiesa in tempi
diversi, come sue istituzioni. Con ciò, in nessun modo, sono
sminuite la loro forza e la loro efficacia, ma si elimina la
finzione dogmatica, stabilita per la chiesa cattolica dal conci­
lio di Trento, e fatta propria in seguito anche dalla teologia
orientale, per cui appunto tutti i sacramenti sono stati istituiti
personalmente e direttam ente da Cristo e da lui sono stati
consegnati attraverso i santi apostoli alla successione aposto­
lica. Di questa teoria, rispetto alla maggioranza dei sacra­
m enti, non è possibile trovare alcuna conferma sia nella
parola di Dio che nella storia della chiesa. I sacramenti sono
istituiti dalla chiesa in tempi diversi, alcuni prima, altri più
tardi. Su ciò si basa la discussione sulla differenza tra i
sacramenti «evangelici» e i sacramenti «non-evangelici»: que­
sti ultimi poi, soltanto per questa unica ragione, non sono
riconosciuti tali dal protestantesim o.14 Si potrebbe persino
dire che, malgrado l’esistenza della «frazione del pane», del
battesimo e dell’imposizione delle mani da parte degli apo­
stoli, la chiesa primitiva non conosce i sacramenti in quel
senso canonico, quale viene ad essi attribuito attualm ente,

14 È ev id en te co m e nella n eg a zio n e p rotestan te dei sacram enti n o n ­


eva n g elici d om in i ap p u nto la dottrina cattolico-rom an a, secon d o cui i sacra­
m en ti au ten tici so n o stati istituiti da C risto stesso , altrim enti essi n on son o
sacram enti. Il p ro testa n tesim o assu m e in tegralm en te questa im postazione
d el p rob lem a e , se b b en e negh i la dottrina cattolica, ne con d ivid e a m od o suo
la lim itatezza.
406 La Sposa dell’Agnello

come risulta evidente, innanzi tutto, dal fatto dell’assenza in


essa di una gerarchia a tre gradi, in qualità di ministri istituiti
dei sacramenti. Tutto ciò avviene in un secondo tem po. La
chiesa apostolica possiede e distribuisce i carismi dello Spirito
Santo, per così dire, direttam ente, senza il tram ite speciale
della gerarchia. Una tale concezione della chiesa antica si
manifesta pure sino ai nostri giorni nel fatto che il battesimo
può essere amministrato anche dai laici, in virtù del sacerdo­
zio regale universale. Il fatto generale di una certa differenza
tra il cristianesimo delle origini e la chiesa posteriore, fatto
che non è possibile negare, possiede un enorm e significato di
principio, perché in esso quasi si svela, affiora alla superficie
la natura della chiessa, quale onnisacramento o sacramento
universale, che di per sé ha soltanto una rivelazione derivata
nei sacramenti. La verità più im portante, derivante da questo
fatto, è che l’organizzazione gerarchico-sacramentale non è la
manifestazione adeguata o assoluta della chiesa, dal che
viene pure stabilita una certa sua relatività. Questa relativiz-
zazione non sminuisce affatto tutta la forza e tutta la portata
della chiesa, quale istituzione gerarchico-canonica, e non fa
vacillare la divinità di questa istituzione nella storia, ma senza
dubbio testimonia una certa non coincidenza tra la chiesa
noumenica o mistica e la sua manifestazione istituzionale. E
ciò, tutto sommato, significa che la forza della chiesa può
estendersi, o meglio, non può non estendersi oltre i termini
della chiesa istituzionale: ecclesia extra ecclesias. Ciò significa
altresì che l’elargizione dei doni divini, la Pentecoste ecclesia­
le, non è limitata dai «sette» sacramenti e da essi non è affatto
esaurita, ma può avere anche altre vie non sacramentali, cosa
che mai è stata negata nella chiesa sin dai tempi apostolici.
La gerarchia sorge sin dai tempi più antichi in relazione
all’amministrazione dei sacramenti, e, innanzi tutto, all’am­
ministrazione dell’eucaristia. Ovviamente, non si può am­
m ettere che questa origine sia l’opera o il risultato solamente
di una causalità storica o di una comodità pratica, e non
invece di un’istituzione divina. Il carattere storico della gerar­
chia non la relativizza in misura tale da privarla di questa
istituzionalità da parte di Dio rispetto alla storia. E più
La chiesa 407

corretto dire che la gerarchia congiunge in sé ambedue questi


tratti caratteristici. A ppartenendo alla storia nella propria ori­
gine strum entale, e, in questo senso, derivando iure fiumano o
historico, essa ha su di sé il sigillo e l’impronta della volontà
divina, sussiste pure ex iure divino, dato che l’una cosa non
contraddice l’altra. Q uesta sua duplice radice si riflette pure
sui singoli lineamenti del suo essere storico, sulle sue pretese e
sulle sue prerogative. Il prim ordiale ministero sacerdotale o
«liturgico» della gerarchia nell’amministrazione dei sacramen­
ti si accom pagna al far proprie alcune prerogative derivate,
risultanti dalle necessità della vita pratica della comunità e del­
l’organizzazione ecclesiale; e inoltre tali prerogative acquista­
no una specie di portata o significato sacramentale. Sorgono
tratti nuovi del ministero gerarchico, tratti che vengono intesi
quali speciali doni carismatici, collegati alla funzione basilare
della gerarchia. Così sorge pure la dottrina sul charisma verita-
tis, da cui gradualmente si sviluppa la dottrina sull’infallibilità
singola del papa di Roma in occidente, o quella sull’infallibilità
collettiva dell’episcopato in oriente. Parallelamente a ciò, nel­
la storia hanno origine complesse relazioni canoniche tra le
singole chiese locali e i loro capi gerarchici. In occidente ciò
conduce alla rivendicazione da parte della cattedra di Roma di
una diretta e universale giurisdizione su tutto il mondo cristia­
no; in oriente, invece, allo sviluppo del complesso sistema dei
reciproci rapporti canonici entro i confini dell’unica conciliari­
tà (o collegialità) ecclesiale. Q ui, l’influsso dello ius huma-
num , la forza della storia, si manifesta ovviamente con notevo­
le vigore, a meno che non si dogmatizzi il presente ordine ca­
nonico secondo il modello di Roma.
Il carattere della chiesa, come pluriunità conciliare, come
corpo di Cristo, e quello della gerarchia, come sacerdozio
regale universale, canonicamente organizzato, dal punto di
vista dogmatico risultano essere incrollabili. Tuttavia, con­
tem poraneam ente allo sviluppo di un sano gerarchismo, si
nota altresì una certa malsana clericalizzazione, tanto nella
dottrina dogmatica sulla chiesa, quanto anche nella prassi
ecclesiale. Nel determ inare il posto e il ruolo della gerarchia
si smarrisce la debita misura. I vescovi, come pure gli altri
408 La Sposa dell’Agnello

gradi dell’ordine del sacerdozio, sono equiparati a Dio, a


Cristo, agli apostoli (in s. Ignazio di Antiochia, il Teoforo); si
stabilisce la finzione dogmatica sulla continuità della succes­
sione apostolica da parte della gerarchia in tutta la chiesa,
quantunque gli esempi addotti, e pure non indiscutibili,
riguardino soltanto casi singoli (Tertulliano, s. Ireneo di
Lione, s. Policarpo di Smirne). Compaiono formule ambigue
tali da portare o ad un papism o singolo, oppure ad un
papismo collettivo, come in s. Cipriano: ecclesia in episcopo,
sebbene, d ’altra parte, si abbia anche episcopus in ecclesia. Il
concentrarsi da parte delle chiese attorno al vescovo per
l’autodifesa nella lotta contro gli scismi e le eresie, accanto a
buoni risultati, porta anche ad una certa ipertrofia del gerar-
chismo sacramentale, congiunta ad un’alterazione dell’equili­
brio ecclesiale; e sul risultato di questo sviluppo storico si
radica la convinzione comune che la chiesa sia appunto
un’organizzazione gerarchica, adeguata al corpo del Cristo e
che in sé lo realizza sino in fondo. La gerarchia stessa, in
quanto ha il potere delle chiavi, cioè la forza dei sacramenti,
è a sua volta equiparata alla chiesa (la quale identificazione si
radica altresì nell’uso abituale del termine: in tale uso si
identifica, in modo incontrastato, la chiesa con la gerarchia,
come la pars prò foto, o, per lo m eno, come il capo, anziché
tutto il corpo vivente). Da qui deriva una serie di ulteriori
conclusioni in direzione della clericalizzazione del concetto di
chiesa. Com pare l’idea della «vicarietà» gerarchica da parte
della gerarchia, secondo cui i vescovi sono i «luogotenenti»
del Cristo in terra. I poteri gerarchico-sacramentali si trasfor­
mano in poteri mistico-organici, per analogia con la dottrina
sul Cristo, quale «capo della chiesa». Tuttavia, bisogna ricor­
darsi ferm am ente della differenza che qui si ha. Cristo non è
il capo in un corpo, a cui il capo stesso appartiene, come una
parte, quantunque la più im portante, ma è precisamente il
capo della chiesa: «Cristo è il capo del corpo, cioè della
chiesa» (Col 1,18); «Dio Padre ha costituito Cristo su tutte le
cose a capo della chiesa» (Ef 1,22); «Cristo è il capo della
chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo» (Ef 5,23), vale a
dire è il Salvatore della stessa chiesa. Qui si parla non di un
La chiesa 409

capo e neppure di una suprem azia, quasi gerarchica, in


quanto tutto ciò sarebbe insufficiente a determinare il luogo
del Cristo nella chiesa: lui è questo stesso corpo nella sua
unità. L ’abuso delle idee di «luogotenenza, vicarietà» del
C risto nell’episcopato si basa anche sul fatto che, nella
dottrina relativa al sommo sacerdozio del Cristo, egli viene
chiamato sommo Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek,
oppure semplicemente il Pontefice.15 Ma se il «ministero»
sommo sacerdotale del Cristo conferisce in realtà un fonda­
m ento al sacerdozio o ordine sacro neotestam entario, in
nessun modo però esso si identifica in un senso tale, come se
il Cristo risultasse essere il primo sommo sacerdote nella serie
del sacerdozio successivo. Egli non è affatto in tal senso il
prim o, né si trova all’interno di una serie, come uno tra i
molti, quantunque sia l’iniziatore di questa serie (in un modo
analogo viene compresa nella teologia romana la serie gerar­
chica, proveniente da Cristo attraverso Pietro, quale vicarius
Christi). Il ministero sommo sacerdotale del Cristo trascende
il sacerdozio neotestam entario, e, in un certo senso, non
meno di quello veterotestam entario. Esso è realm ente il
fondam ento del sacerdozio neotestam entario, il quale però
non è affatto una vicarietà del Cristo, ma soltanto un’istitu­
zione ecclesiale, certo, dotata della forza del Cristo. Purtrop­
po ciò è stato direttam ente contraddetto dalle definizioni dei
concili Fiorentino e V aticano,16 nelle quali si afferma che il
sommo sacerdote di Roma verum Christi vicarium esse. Ma
questa stessa iperbole gerarchica applicata a tutto l’episcopa­
to la si ritrova già presente nei primi scrittori, cominciando da
s. Ignazio di Antiochia, il Teoforo, nelle Costituzioni aposto­
liche, in s. Ambrogio di Milano e in altri, sebbene ancora non
come una formula dogmatica decisiva, ma piuttosto come
una spiegazione retorica di tutta l’importanza del ministero
episcopale nella chiesa. Purtroppo questa stessa formula,

15 N ella p regh iera recitata dal sacerd ote durante l’inno dei cherubini:
« ... e ti costitu isti nostro P on tefice».
16 D S 1307-1309, 3065.
410 La Sposa dell’Agnello

probabilmente non senza influssi latini, è stata altresì inserita


nella Confessione ortodossa (parte I, 58) e nei manuali
dogmatici (per esempio, quello del m etropolita Macario, t.
II, par. 174).
Se si attribuisce un pieno significato dogmatico al pensie­
ro secondo cui il Cristo ha dei vicari, o uno solo, nella
persona del papa di Rom a, o in num ero indeterm inato, nella
persona dei vescovi della chiesa d’oriente, allora la gerarchia
risulta essere celeste-terrestre, una specie di scala tra il cielo e
la terra. Questa idea ha come suo fine di esaltare la gerarchia
terrestre, avendola unita a quella celeste, ma mediante ciò
viene sminuito il significato autentico del capo del corpo, del
Cristo, che, ripetiam o ancora una volta, non è il capo in un
corpo (e ad un tale capo si può in m isura grandissima
paragonare la gerarchia), ma il capo, da cui, grazie a cui, e in
cui sussiste il corpo, il corpo del Cristo. «Non sapete che i
vostri corpi sono m em bra di Cristo?» (IC or 6,15); «voi siete
corpo di Cristo» (IC o r 12,27), e dal capo «tutto il corpo
riceve sostentam ento e coesione per mezzo di giunture e
legami, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio»
(Col 2,19), poiché «il corpo è quello in Cristo» (Col 2,17),
«dal quale tutto il corpo...» (E f 4,16).17 Evidentem ente,
riguardo alla supremazia del Cristo nel corpo della chiesa,
non è proprio il caso di parlare di successione né di qualsivo­
glia luogotenenza-vicarietà. Si può dire che ciò è una di
quelle esagerazioni retoriche, che, qualora sia assunta alla
lettera, porta ad equivoci, per non dire apertam ente che
porta ad errori, ad una divinizzazione della gerarchia, anzi ad
una esaltazione settaria, cosa che costituisce la mistica incon­
sapevole del papismo: vicarius Christi, il Cristo in terra. E
precisamente contro una tale inclusione del Dio-Uomo nella

17 II p ara g o n e d el C risto co n il cap o e d ella ch iesa con il su o corp o nella


parola di D io , co m e è facile n otare, acquista nei diversi casi un du p lice senso:
in alcuni ca si, e s so in ten d e indicare il sign ificato cen trale e con funzioni
d irettive del ca p o n ella vita d el corp o e di tu tte le su e m em bra; in altri casi
in v ece, tale p a ra g o n e sign ifica ch e il C risto, in q u an to ca p o , d efinisce e
co n tien e in sé il c o rp o , è la sua vita.
La chiesa 411

storia, con la confusione dei diversi piani dell’essere, di


quello noumenico e di quello empirico, il Signore ha detto:
«Allora se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o: E là, non
ci credete» (Mt 24,23; Me 13,21; Le 17,23).
Nondimeno, l’idea di vicarius Christi è così inaccettabile
che gli stessi suoi creatori a dire il vero non la impiegano in
m aniera coerente, abbandonandola come se si trattasse di un
ornam ento retorico o di un’iperbole. Ma accanto ad essa, più
esattam ente in sostituzione di essa, viene posta u n ’altra
formula, che suona più verosimile: i vescovi sono i successori
degli apostoli. Nella chiesa romana questa formula è stata
ristretta e, nello stesso tem po, concretizzata, nel senso che il
successore autentico e diretto di tutti gli apostoli nella perso­
na di Pietro è il vescovo di Roma, attraverso cui è collegata e
confermata la successione apostolica di tutto l’episcopato.18
Nella chiesa d’oriente a questa formula paradossale, ma ben
definita, si oppone l’idea più indistinta e storicamente più
difficile da provare sulla successione apostolica di tutto l’epi­
scopato. E evidente che, a differenza di Roma, qui si suppo­
ne che tutti gli apostoli nei vari luoghi abbiano ordinato dei
successori a se stessi, e che questa ordinazione, la quale
continua fino ai nostri giorni, rappresenti la cosiddetta «suc­
cessione apostolica». A ttraverso di essa è come se fossero
imposte le mani dei soli apostoli su tutti i vescovi, e attraverso
questa unica e universale imposizione delle mani sorge l’epi­
scopato in solidum (s. Cipriano), in quanto indivisibile e
unico nella propria fonte e avente tutta la forza in ognuno dei
membri. Questo pensiero sull’origine della gerarchia diretta­
m ente da Cristo (infatti, perché sia coerente bisogna appli­
carlo a tutta quanta la gerarchia, e non al solo episcopato)
può essere accettato soltanto in forma generale, vale a dire in
nessun caso né nel senso della vicarietà del Cristo e neppure

18 C o m e è n o to , il con cilio V atican o non ha d ato una d efin izion e più


precisa a p ro p o sito d ell'ep isco p a to , e q u esto punto resta pertanto d ogm atica­
m e n te a n co ra non ch ia rito. Si può sp erare ch e q u esta reticen za risulti
salu tare per una futura chiarifica.
412 La Sposa dell’Agnello

nel senso di una diretta successione apostolica, come si ha


nelle due varianti di questa idea, in quella romana e in quella
orientale. Tale vicarietà il Signore non l’ha istituita né per
l’apostolo Pietro (la qual cosa è un abuso nell’esegesi di Mt
16,18-19), né per tutto il gruppo o collegio apostolico. La
gerarchia nella forma attuale è stata istituita dalla chiesa, e,
in questo senso, quantunque appunto solo in questo senso, è
un’istituzione storica. Ciò significa che la chiesa, quale corpo
del Cristo, mosso dallo Spirito Santo, ha assunto questa
istituzione nello sviluppo e nell’attuazione del principio ge-
rarchico-organico, ad essa inerente.19 Questa struttura gerar-
chico-organica della chiesa va compresa in tutta la sua pienez­
za, cioè non solo dal lato dell’organizzazione gerarchica, ma
anche dal lato di quel legame organico, di cui l’Apostolo ha
detto: «Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di
crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal
quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante
la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria
di ogni m em bro, riceve forza per crescere in modo da edifica­
re se stesso nella carità» (Ef 4,15-16). Questo pensiero può
essere espresso così: la gerarchia nel corpo del Cristo è non
tanto un potere, quanto una funzione e un servizio o ministe­
ro, che sussistono accanto ad altre funzioni e ad altri servizi.
Perciò, innanzi tutto, bisogna accettare che in questo senso la
chiesa tutta, dall’alto al basso, è gerarchica: infatti dal primo
tra gli apostoli è stato detto: «Anche voi venite impiegati
come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale,
per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a
Dio, per mezzo di Gesù C risto... Voi siete la stirpe eletta, il
sacerdozio, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquista­
to...» (lP t 2,5-9). Soltanto dal principio di un sacerdozio
regale universale, di un gerarchismo di tutta quanta la chiesa,

19 C f. il saggio di V .A .P . L e b e d e v , «La gerarchia nel cristian esim o


prim itivo: sua o rig in e» , in E n ciclo p ed ia teo lo g ica o rto d o ssa , t. V i l i , 673-686.
U n p u n to di v ista o p p o sto c o n c e r n e n te la sua o rig in e è stato esp resso
n e ll’a rtico lo di I.P . T r o i t z k i j , «La gerarchia», in E n ciclo p ed ia teologica
ru ssa, t. V I, 255-264.
La chiesa 413

si può intendere e accogliere pure la diversità delle funzioni


gerarchiche ed evitare quell’esagerazione, grazie alla quale si
insinua l’assolutismo clericale, e la chiesa viene spaccata in
due parti: quelli che governano e quelli che sono governati, i
docenti e i discenti, coloro che comandano e coloro che
obbediscono. Al fine di giustificare appunto una tale conce­
zione, sorgono le finzioni dogm atiche della vicarietà del
C risto, come pure quelle della «successione apostolica»,
come il potere e l’organizzazione del potere, nonostante la
diretta testimonianza del Signore: «Sorse anche una discus­
sione, chi di loro poteva essere considerato il più grande. Egli
disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il
potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però
non sia così: ma chi è il più grande tra voi diventi come il più
piccolo e chi governa come colui che serve”» (Le 22,24-26).
Non attraverso l’istituzione del prim ato di Pietro, né attraver­
so quella del prim ato apostolico dell’episcopato, bensì attra­
verso il servizio, che è determ inato dal ruolo di ognuno nella
chiesa, dalla parola di Dio viene indicata la norma basilare
del sacerdozio universale, come l’autentica «successione apo­
stolica» nella chiesa, con cui è minato e scalzato sul nascere
l’assolutismo clericale o l’«episcopato monarchico», come
manifestazioni del gerarchismo ecclesiale. Ovviamente, qui si
tratta non di negare o di sminuire i diritti e i doveri del
sacerdozio gerarchico, ma di una corretta sua interpretazio­
ne, che esclude l’idea di una qualsiasi «vicarfetà», come
potere di Cristo sulla chiesa, anziché di un servizio della
chiesa nella sua collegialità. Il gerarchismo veterotestam enta­
rio, sebbene esista entro i confini del popolo eletto, del
popolo di Dio, ha un carattere molto più rigido e legale di
quello neotestam entario. Tale gerarchismo sorge, in realtà,
come una diretta istituzione da parte di Dio, come una legge
data sul Sinai. M ediante esso è istituita la chiesa veterotesta­
m entaria, e non sorge nella chiesa e attraverso la chiesa,
come avviene nel Nuovo Testam ento. La concezione romana
della gerarchia, quale vicarietà, e fatta propria anche dalla
chiesa d ’o rien te, si avvicina con il proprio «giuridismo»
all’ordinam ento veterotestam entario. Lo stesso sacerdozio
414 La Sposa dell’Agnello

veterotestam entario nella persona di Aronne e dei suoi figli


ha origine in virtù di un comando diretto di Dio, comando
che segrega la tribù di Levi per il servizio mediante il rivesti­
mento delle vesti sacre, la presentazione delle offerte nella
tenda e l’unzione con il sangue delle vittime. «Consacrerò la
tenda del convegno e l’altare. Consacrerò anche Aronne e i
suoi figli, perché siano miei sacerdoti» (Es 29,44).
Per analogia con quello veterotestam entario, è stato pure
compreso il sacerdozio neotestam entario, quale istituzione
legittima, e l’istitutore in questo caso è il Cristo stesso (e da
ciò proviene l’idea di una vicarietà legittima). Con ciò stesso,
il sacerdozio neotestam entario diventa antitetico a quello
secondo l’ordine di Melchisedek, «che è senza padre, senza
m adre, senza genealogia» (Eb 7,3), quantunque poi lo si
proclami «secondo l’ordine di Aronne». Ma «se la perfezione
fosse stata possibile per mezzo del sacerdozio levitico - sotto
di esso il popolo ha ricevuto la legge - che bisogno c’era che
sorgesse un altro sacerdote alla m aniera di Melchisedek, e
non invece alla maniera di Aronne?» (Eb 7,11). Il sacerdozio
neotestam entario sussiste per la forza del Cristo, forza confe­
rita dallo Spirito Santo, ma esso non è ereditario a partire dal
Cristo, quale suo sommo Sacerdote alla maniera di Aronne,
dietro al quale esso emerge nell’idea della vicarietà, o quella
del Cristo o quella degli apostoli, le quali tra di loro si
fondono e confluiscono in un’unica successione universale.
Al contrario, esso sussiste m ediante una certa identificazione
con il Cristo nel suo servizio di sommo sacerdote in virtù della
Divinoumanità del Cristo. Non solo il sommo sacerdozio del
Cristo, ma anche tutto quanto il sacerdozio neotestam entario
è stato dato «alla m aniera di Melchisedek», cioè ad immagine
del Cristo. Questo servizio è stato dato in virtù della Divinou­
manità della chiesa: esso non è un’istituzione, ma la stessa
realtà suprem a, quale sacerdozio regale universale. In effetti,
al fine di poter organizzare questo sacerdozio universale,
anche la chiesa neotestam entaria possiede una certa istituzio­
ne, che è sorta nella storia sotto forma dei vari gradi gerarchi­
ci, con l’episcopato al suo vertice. Nondim eno, la gerarchia
sorge solamente in conseguenza del sacerdozio universale, in
La chiesa 415

cui si esprime la Divinoumanità, quale sacerdozio del Cristo.


Esso è la condizione prima dell’episcopato, e non il contrario;
e l’episcopato non è la gerarchia suprema, che produce se
stessa sul fondam ento della vicarietà, alla maniera di A ron­
ne. La successione dell’imposizione delle mani, imprecisa­
mente chiamata «successione apostolica», è l’immagine del­
l’esistenza di una gerarchia già sorta e sussistente, ma questa
gerarchia non conosce né un proprio Aronne né la tribù di
Levi, ma sorge «senza stirpe, senza progenie». Per volontà di
Dio, secondo le vie ignote della storia della chiesa, una volta
sorta, la gerarchia sussiste, essendosi appunto conservata
sotto una tale forma. Essa rappresenta, in quanto istituzione,
per così dire, la spina dorsale dell’organismo ecclesiale, ma
questa stessa spina dorsale, che sorregge il corpo, appartiene
al corpo e da esso è generata. In una parola, lo schema del
sacerdozio veterotestam entario è il seguente: l’essere stesso
della chiesa è determ inato dalla presenza del tempio (o della
tenda) e del sacerdozio, che viene sancito da Dio, quale
istituzione sacra, «alla maniera di Aronne». Prima il sacerdo­
zio e poi la chiesa. Lo schema del sacerdozio neotestam enta­
rio è invece del tutto opposto: esso non viene istituito, ma
deriva dal sacerdozio di Cristo e appartiene alla sua Divinou­
m anità, la quale è poi la chiesa. La sua istituzione si manife­
sta come la realizzazione storica di questo principio, come
l’assunzione di una sua form a, e a testimonianza di ciò la
gerarchia a tre gradi (o più esattam ente, a quattro gradi,
includendovi i laici) compare nella storia non sin dall’inizio,
ma soltanto nel secolo postapostolico. L’idea di una vicarietà,
quale interpretazione veterotestam entaria della gerarchia
neotestam entaria, pone tutta la forza di quest’ultima sulla
successione istituita: il conferimento del potere ad un nuovo
ordine di A ronne e, attraverso di esso, ad una nuova tribù di
Levi, direttam ente dal Cristo o indirettam ente tram ite gli
apostoli. Con ciò stesso, questi determ inati uomini sono
costituiti al di sopra del popolo di Dio, sono segregati da
esso, come sacerdoti sono al di sopra di coloro che non hanno
sacerdozio e ad esso sono estranei; essi sono i santificatori di
ciò che non è sacro, sono come un qualcosa che è stato
416 La Sposa dell’Agnello

conferito al corpo ecclesiale dall’alto, e non invece dall’inter­


no. A ciò si contrappone l’idea neotestam entaria del popolo
di Dio, del sacerdozio regale, che è il sacerdozio di Cristo e
che, in quanto tale, appartiene innanzi tutto alla chiesa tutta
quanta, quale corpo del Cristo. Prima la chiesa, e poi la
gerarchia, e non il contrario. La chiesa, in quanto corpo del
Cristo e tempio dello Spirito Santo, è la pienezza, da cui
emana altresì il servizio o ministero gerarchico.
Da ciò che è stato detto, il significato della gerarchia nella
chiesa non solo non viene sminuito, ma viene anzi esaltato, in
quanto riceve un’interpretazione che scaturisce dalla vita
stessa della chiesa, quale D ivinoum anità, cioè dalla sua
sofianicità. Con questa interpretazione si superano non solo il
giuridismo veterotestam entario e romano, ma anche l’occa­
sionalismo, secondo cui la gerarchia è recepita come un’ap­
pendice esterna, quantunque frutto della grazia, alla chiesa,
com e, nonostante tutto, una specie di deus ex machina,
m entre in realtà la chiesa è gerarchica in tutta la propria
estensione; e la gerarchia è soltanto la manifestazione orga­
nizzata di questa gerarchicità, che è l’essere stesso della
chiesa, e non solo un’istituzione.
Conviene soffermarsi sulla forma di questa istituzione,
forma che di solito viene definita quale «successione apostoli­
ca» (lasciando da parte la «vicarietà del Cristo», una conce­
zione questa chiaram ente incompatibile e inadeguata). In
quale preciso senso è necessario comprendere e accogliere
questa «successione apostolica», la sua forza e i suoi confini?
Prima di tutto, essa è una consegna o «tradizione» nel senso
più ampio, la quale sgorga dagli apostoli. Questa consegna o
tradizione include non solo le istruzioni date ai santi apostoli
da Gesù Cristo nello Spirito Santo (At 1,2), ma anche in
generale tutta quanta la vita della chiesa, vita che è incomin­
ciata dalla Pentecoste, con la sua profondità misteriosa e
insondabile. Questa vita in Cristo, per opera dello Spirito
Santo sin da allora non si è mai interrotta, né mai si interrom ­
perà, in quanto tale, poiché «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi
e sempre» (Eb 13,8). Q uesta autoidentità della vita ecclesia­
le, in quanto fondata sull’unità e sulla continuità della tradi-
La chiesa 417

zione, si esprime anche esteriormente nelle istituzioni eccle­


siali, che tuttavia rappresentano soltanto una manifestazione
secondaria di questa unità della tradizione. Per questa ragio­
ne sarebbe inutile cercare lungo tutte le epoche della storia, e
in particolare durante l’età apostolica, delle istituzioni di
origine posteriore, anche se di una durata indefinita.
E ciò si riferisce specialmente all’imposizione apostolica
delle m ani, quale modo di comunicare determ inati doni
gerarchici di grazia. L ’imposizione delle mani la si riscontra
già nell’Antico Testam ento, non solo nel rito della consacra­
zione di una vittima da sacrificare (Lv 3,2; 4,4; 8,14; 16,21;
Nm 8,12), ma anche nell’imposizione delle mani da parte di
Mosè, per comando di Dio, su Giosuè, figlio di Nun, «uomo
in cui è lo Spirito» (Nm 27,18-23). Negli Atti degli Apostoli,
l’imposizione delle mani da parte degli apostoli ha luogo in
occasione dell’elezione dei sette diaconi (At 6,6) e in quella
della discesa del dono dello Spirito Santo nella Samaria
(8.17); vi è l’imposizione delle mani da parte di Anania su
Saulo perché riacquisti la vista e sia ricolmo di Spirito Santo
(9.17), come pure quella su Barnaba e Saulo al momento
della loro segregazione dagli altri profeti e dottori della
comunità di Antiochia («per l’opera alla quale li ho chiama­
ti»): «e allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro
le mani e li accomiatarono. Essi dunque, inviati dallo Spirito
Santo, discesero a Seleucia...» (13,1-4); e, infine, vi è l’impo­
sizione delle mani da parte dell’apostolo Paolo sui dodici
uomini di Efeso, discepoli di Giovanni: «e non appena Paolo
ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e
parlavano in lingue e profetavano» (19,6). Ciò è tutto quanto
risulta dagli Atti degli Apostoli. Da questo elenco è chiaro
come l’imposizione delle mani non fosse un rito ben determi­
nato, impiegato per uno scopo ben definito, per comunicare
appunto questo o quell’altro dono di grazia ad alcune perso­
ne. Benché generalm ente tale dono consista nell’effusione
dello Spirito Santo, esso è però privo di una propria specifica­
zione sacramentale: qui abbiamo e una specie di sacramento
della cresima, compiuto mediante l’imposizione delle mani
(nella Samaria e ad Efeso), e una guarigione (quella di Paolo

BIBLIOTECA
PONT. ATENEO S. ANSELMO
418 La Sposa dell’Agnello

dalla cecità), e la segregazione di Paolo e di Barnaba per un


servizio particolare, e la consacrazione dei sette diaconi per il
loro servizio; inoltre, nel numero di coloro che impongono le
mani, accanto agli stessi apostoli, incontriamo Anania, un
«discepolo» degli apostoli, mentre nel numero delle persone
sulle quali sono state imposte le mani, vi è lo stesso Paolo
insieme a Barnaba. Tutti questi dati non perm ettono affatto
di vedervi il rito dell’imposizione gerarchica delle mani, come
se sin d’allora essa continuasse ininterrottam ente nella «suc­
cessione apostolica».20
In base a quanto detto, si può concludere che il secolo
apostolico non conosce ugualmente né la posteriore gerarchia
a tre gradi, che è sopravvenuta soltanto nel corso del secondo
secolo, né il rito dell’imposizione delle mani da parte degli
apostoli, rito inteso a comunicare un dono gerarchico ben
determ inato e a innalzare a un grado gerarchico. D ’altronde,
se poi si cercasse quest’ultimo, allora l’imposizione delle
mani da parte degli apostoli è più probabile che possa venire
interpretata come l’elevazione appunto a un quarto grado,
quello del laicato santificato dalla grazia, del sacerdozio
regale universale, dell’ingresso pieno nella chiesa (a cui
corrisponde, nel suo significato, il sacramento della cresima).
A ciò si avvicinano soprattutto i casi avvenuti nella Samaria e
ad Efeso.21

20 U n a certa indiretta con ferm a di tale c o n c e z io n e , q u an tu n q u e chiara­


m en te in su fficien te, la si ritrova n el testo p osteriore di lT m 4,14: «N on
trascurare il d o n o spirituale ch e è in te e ch e ti è stato co n ferito , per
indicazioni di p ro feti, con l’im p osizion e d elle m ani da parte del co lleg io dei
p resbiteri» ( = . . . ò ì a Jtpo<pT]Ti'ag (x e x à è j t i d é a e c o g t w v x e i q o j v t o O j i q e o ò u t e -
( h 'o v ; altra lezion e: ... to ti J tQ E o ò u T É Q o u , « ... in vista d el p resb iterato»). C osì
pure lT m 5,22: «N on aver fretta di im porre le m ani ad alcu n o». Si tratta di
una con ferm a d e ll’esisten za g en erale d e ll’im p o sizio n e d elle m ani, e d ’altra
parte q u esto testo non ne d eterm in a u lteriorm en te il se n so più im m ed iato. E
la sua stessa ab itu ale in terp retazion e nel se n so di u n ’im p o sizio n e sacram en ­
tale d e lle m ani nel sa cram en to d e ll’ord in e è in terven u ta, per così dire,
so lta n to in virtù di u n ’attrazion e storica.
21 M a p ersin o in q u est’u ltim o ca so , l’im p osizion e d elle m ani non era la
reg o la g e n e r a le , c o m e risulta, per e s ., dalla con version e del cen tu rion e
C o rn elio (A t 10,47; 11,15) o da q u an to avven n e ad A n tio ch ia (A t 11,23-24).
La chiesa 419

Pertanto, se anche si può nella tradizione diretta della


chiesa apostolica ricercare le fondamenta della «successione
apostolica», ciò è possibile solo in senso generalissimo; e non
tanto nel senso di una gerarchia articolata, quanto nel senso
di un sacerdozio universale, consegnato alla chiesa neotesta­
m entaria. Le mani degli apostoli sono distese nell’atto del­
l’imposizione su tutti quanti i cristiani, quale sacerdozio
universale, quantunque tocchino spiritualmente ciascuno a
modo suo. Per la gerarchia dei diversi gradi, questo contatto
si attua nel sacramento dell’ordine sacro; per i laici invece nel
sacramento della cresima, che è parimenti in grado di elevarli
alla dignità del sacerdozio universale. L ’ingresso in esso
segna la possibilità di accedere ai sacramenti, e prima di tutto
all’eucaristia. Tale ingresso nel sacerdozio universale viene
prodotto dall’imposizione delle mani del vescovo in occiden­
te, m entre in oriente, quantunque direttamente dalle mani
del sacerdote, lo si compie però mediante il miron consacrato
dal vescovo, grazie a cui anche qui la cresima resta il sacra­
m ento amministrato dal vescovo, per analogia con l’ordina­
zione gerarchica. La differenziazione posteriore dell’imposi­
zione delle mani da parte degli apostoli, la quale si compie
nel sacramento dell’ordine sacro a tre gradi, non ci deve
nascondere la prim ordiale amorficità di questo atto. Erronea­
mente si pensa che attualm ente la «successione apostolica»
sia propria soltanto dell’episcopato, da solo oppure insieme
al clero, e che pertanto non si estenda affatto a tutto quanto il
corpo ecclesiale. Al contrario, questo carisma è altrettanto
universale quanto i carismi della Pentecoste, e mentre questi
ultimi sono diversi, uno solo invece è lo Spirito.
Il segregarsi e il formarsi della gerarchia sono collegati,
come è stato sopra indicato, all’istituzione del rito dei sacra­
m enti e, in particolare, a quello della divina eucaristia.
Q uest’ultim a poi, essendo stata direttam ente istituita dal
C risto, nella chiesa prim itiva resta liturgicamente ancora
senza una sua forma definitiva, tanto nel modo di compierla,
quanto anche rispetto a coloro che la compiono. Essa è
chiamata semplicemente la «frazione del pane», e tale «fra­
zione del pane» compare immediatamente dopo la penteco-
420 La Sposa dell’Agnello

ste (At 2,42; cf. A t 20,7). (Questa stessa assenza di una sua
forma definitiva, sfociante persino nell’indisciplinatezza bia­
simata dagli apostoli, è attestata in ICor 11,20-22). Nella
parola di Dio non vi è neppure un’indicazione precisa riguar­
do a chi compie l’eucaristia o al suo ministro, in quanto
investito di una determ inata posizione gerarchica. Rivolgen­
dosi ai cristiani di Corinto, e per di più nel tem po della
propria assenza, l’apostolo Paolo diceva loro: «Il calice della
benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con
il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse
comunione con il corpo di Cristo?» (IC or 10,16). Queste
notizie sono com pletate dal quadro che ritroviamo nella
Didaché o Dottrina dei dodici apostoli: in essa sono conserva­
ti i tratti della fluidità primordiale del rito liturgico da parte
del ministro, in quanto ivi lo spezzare del pane è compiuto e
dagli evangelisti e dai predicatori e dai profeti. La convinzio­
ne che l’eucaristia debba essere compiuta dal vescovo, e in
generale dalla gerarchia, comincia a cristallizzarsi a partire
dal secondo secolo, ed essa rappresenta l’oggetto specialmen­
te dell’insistente predicazione di s. Ignazio di Antiochia, il
Teoforo, evidentem ente come se si trattasse di un qualcosa
ancora nuovo e non indiscutibile; ciò che viene d’altronde
conferm ato dall’incertezza, in lui stesso presente, di una
definizione teologica dei vari gradi gerarchici. In seguito,
questa incertezza comincia a cedere il posto all’idea dell’e­
sclusiva successione apostolica da parte della gerarchia e a
quella del significato speciale e centrale di quest’ultima nella
chiesa, sino a giungere alle parole di s. Cipriano: episcopus in
ecclesia e ecclesia in episcopo. Ma proprio da questo processo
del sorgere e dello sviluppo storico dell’episcopato, risulta
evidente come quest’ultimo diventi innanzi tutto l’organo del
compiersi legittimo e secondo una sua forma ben definita
deH’eucaristia. Ciò è la potestas clavium (o, in generale, la
potestas sacramentalis), da cui, come da un germ e, si sviluppa
tutto quanto il sistema episcopale-gerarchico. E ovvio come
una tale form a ben definita del sacrificio eucaristico sia
indispensabile e risulti benefica lungo le strade della storia
ecclesiale. Essa, come ogni altra autodeterm inazione della
La chiesa 421

chiesa, si compie per l’azione dello Spirito Santo, che dirige


la chiesa. Perciò il fatto dell’origine relativamente tarda della
gerarchia non deve fornire un pretesto o dar adito ad affer­
mazioni antigerarchiche, che tendono a far ritornare arbitra­
riamente la chiesa al suo ordinam ento primitivo, come è
dell’utopismo reazionario di un immaginario «cristianesimo
delle origini» nel protestantesimo. Quest’ultimo, con il prete­
sto della libertà del cristianesimo primitivo, può a modo suo
attuare una clericalizzazione della chiesa non meno di quella
che può essere realizzata dall’ordinamento gerarchico. Tutto
sommato, l’ipertrofia del gerarchismo, collegata a particolari­
tà di questa o di quell’altra epoca storica (e in specie, alla
nostra epoca), è un fatto accidentale, e non appartiene
affatto all’essere sostanziale della chiesa.
Pertanto, l’origine stessa della gerarchia è collegata al
compiersi regolare dei sacram enti, e, in primo luogo, al
sacramento dell’eucaristia, che è il «memoriale» istituito dal
Signore stesso «finché egli venga» (IC or 11,26), quale ouyxe-
cpakxiiooig xf|g okr\q oixovom'ag xóòe tò [xuaxfiQiov, quale
ricapitolazione della nostra salvezza.22 Il sorgere della gerar­
chia è collegato ad una forma ben definita del compiere il
sacramento dell’eucaristia, e tuttavia il sacramento dell’euca­
ristia esisteva anteriorm ente e indipendentem ente da detta
forma ben definita. Fin dall’inizio, la «frazione del pane» è
stata compiuta dalla chiesa nella persona del presidente, non
istituito appositam ente e a vita per questo, ma, evidentemen­
te, preindicato per il presente caso dalla propria autorità
personale o dalla propria posizione ecclesiale. Nella coscien­
za com une prim a veniva la chiesa, quale assemblea dei
credenti. A ppunto questo pensiero è espresso in At 2,42,
dove si parla per la prima volta dell’eucaristia neotestam enta­
ria: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apo­
stoli e nell’unione fraterna (xfj xoivcovuji), nella frazione del
pane e nelle preghiere». Il carattere comunitario («koinoni-

22 T eodoro S t u d i t a , A n tirr. 1 a d v. Ic o n o m a c h o s, P G X C IX , 2 4 0 C.
422 La Sposa dell’Agnello

co») o conciliare del compiersi dell’eucaristia, in misura


notevole sbiaditosi nella coscienza posteriore, secondo gli
Atti degli Apostoli è prim ordiale, e, anzi, lo stesso cristalliz­
zato ordine gerarchico dell’azione comunitaria è posteriore e
derivato.23 Bisogna sempre tenere presente che l’eucaristia,
quantunque sia, secondo il conto attuale, uno dei «sette»
sacramenti, per la sua importanza è però molto più di ciò:
essa è il sacramento dei sacramenti, il sacramento centrale
della chiesa. Nella coscienza posteriore, dapprima nella chie­
sa occidentale, e principalmente nel protestantesim o, l’euca­
ristia si è trasform ata nel sacramento della comunione, persi­
no con la diretta negazione del suo significato, quale sacrifi­
cio. Q uest’ultimo è in ogni caso sminuito dal fatto che essa
viene intesa in un duplice modo: come sacrificio e come
comunione, cioè come due azioni, quantunque tra di loro
collegate, e non invece come un unico atto complesso. (Q ue­
sto tratto caratteristico della teologia occidentale è altresì
accolto in una certa misura dalla teologia orientale).
La santa eucaristia, data dal Signore quale «mio memo­
riale», è innanzi tutto, in sensu realissimo, la forza dell’incar­
nazione di D io,24 è la Divinoumanità che si attua e che
perm ane, includente tutti quanti nella propria umanità: «Poi­
ché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo
solo: tutti infatti partecipiam o dell’unico pane» (IC or 10,17).

23 D o m G r e g o r y D ix nei su o saggio «T h e Idea o f thè “ C hurch” in thè


P rim itive L itu rgies», n ella raccolta The P arish C o m m u n io n , L on d on 1938,
dim ostra g iu sta m en te q u esta «clericalizzazion e» p osteriore d eireu caristia.
24 Q u esto p en siero vien e esp r esso , a m o d o su o , da D i o n i g i A rf.o p a g i -
t a , il fo n d a to re d ella p osteriore d ottrin a d ella ch iesa sui sacram enti. Egli
m ette in risalto l’eu ca ristia, a u v a |t g eurtouv xoivcovi'a, qu ale t e / . e t ( I ) v t e m e t t i ,
il m istero d ei m isteri, il sacram en to d ei sacram enti, il loro coron am en to.
« P erch é c iò ch e è co m u n e an ch e agli altri sacram en ti gerarchici vien e
a p p licato p rin cip alm en te ad essa ( = all’eu caristia)? P erch é, a causa d ei doni
da D io d erivanti e o p eran ti, essa è la con su m azion e ( t e / . e i 'o j o i $ ) rispetto alla
p artecip azion e agli altri sim b oli gerarchici. In fatti, è quasi im p ossib ile ch e si
com p ia un qualsiasi sacram ento gerarch ico, q ualora la divin issim a eucaristia
non sa n tifich i, a co n clu sio n e di ogn i b en ed izio n e (sa n tifica zio n e), il san tifica­
to con il con d u rlo verso l’U n o , e m ed ian te il d o n o , da D io c o n c e sso , dei
sacram enti op eran ti non ne realizzi la co m u n io n e con D io » ( D e ecclesiastica
hierarch ia, III, I; P G III, 424 C -425 A ) .
La chiesa 423

La divina eucaristia è il perm anere del Cristo nel mondo, è il


suo rapporto con il m ondo, malgrado la sua ascensione:
«Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo»
(Mt 28,20), per mezzo dello Spirito Santo, inviato da lui nel
mondo da presso il Padre: «Io pregherò il Padre ed egli vi
darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sem­
pre, lo Spirito di verità... Non vi lascerò orfani, ritornerò da
voi» (Gv 14,16-18), quantunque questo rimanere sia miste­
rioso: «Il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete,
perché io vivo e voi vivrete» (Gv 14,19). Tale misterioso
rimanere del Cristo nel mondo mediante la divina eucaristia25
durerà «finché egli verrà», allorché al «memoriale» misterio­
so subentreranno e la nuova venuta del Signore e il nostro
rimanere con lui: «e così saremo sempre con il Signore» (lT s
4,17). Perciò la comunione con i santi misteri del Cristo,
comunione che è offerta ai credenti, non è ancora tutto ciò
che per noi significa l’eucaristia, come il divino «tutto è
compiuto» (cf. Gv 19,30), come l’incarnazione di Dio immo­
lata e perm anente. Essa è il sacramento dei sacramenti, è il
loro fondam ento, m entre la sua forza che compie tutto ciò è
la Pentecoste, la venuta nel mondo dello Spirito Santo, il
quale «vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi
ho detto» (Gv 14,26): «in memoria di me» (elg tf|v è|if|v
àvà|!vri 0iv) e «vi ricorderà» (iOTOnvf)OEi i)|iàg) sono tra di
loro in una diretta correlazione, che si esprime nel fatto che la
«frazione del pane» compare nella vita della chiesa soltanto
dopo la pentecoste, come il compiersi della Divinoumanità.
Pertanto, la divina eucaristia, quale fondamento di tutti i
sacramenti, era sin dall’inizio, nel secolo apostolico, esclusi­
vam ente ciò che essa è: la realizzazione del corpo della
chiesa, come corpo del Cristo; e perciò essa era per eccellen­
za non gerarchica, bensì conciliare, comunitaria. Come mai

25 E sso p erò non è esau rien te, in q u an to c ’è altresì il rim anere d iretto di
C risto nel m o n d o m ed iante il san gu e da lui effu so sulla croce e che resta in un
m on d o ancora non trasfigurato (cf. il m io saggio: «Il santo G raal», in P ut',
Paris 1932).
424 La Sposa dell’Agnello

questa conciliarità (sobornost’) ha ceduto il posto, già a


cominciare dal secondo secolo, al gerarchismo, che, pur non
sopprimendola, può però nasconderla? A ciò deve risponde­
re la storia della chiesa. Per quest’ultima, tale passaggio o
transizione rimane sino ad ora un enigma storico per l’assen­
za di sufficienti dati di fatto. (E ciò rende facile agli uni
postulare dogmaticamente la prim ordialità della gerarchia, e
agli altri interpretare dogmaticamente la sua comparsa, come
il peccato originale della chiesa storica, il decadere della
spiritualità). In ogni caso, già in s. Ignazio di Antiochia, il
Teoforo, osserviamo il postulato della gerarchia, come l’or­
gano delle azioni sacramentali: «Deve essere ritenuta autenti­
ca soltanto quella eucaristia che sia compiuta dal vescovo
oppure da colui a cui egli stesso abbia concesso ciò... non è
consentito senza il vescovo né battezzare né compiere l’agape
(= la cena dell’am ore)».26
Nondimeno, risulta comprensibile da dove sia sorta que­
sta esigenza di un’organizzazione ben definita della vita
eucaristica, della gerarchia e dei riti liturgici. La divina
eucaristia è il sacramento che deve possedere le garanzie
ecclesiali della propria «autenticità», a differenza dell’estasi
falsa ed emotiva e dell’eccitazione anticonciliare e non comu­
nitaria («montanistica»). L’eucaristia non poteva restare il
patrimonio dei «profeti», ma è diventata il servizio dei sacer­
doti. «La comunione e la frazione del pane», la koinonia
come eucaristia, ha dovuto m ettere in risalto i cristalli gerar­
chici, che si sono in seguito impressi sull’intero sistema
gerarchico. Per il sacramento è appunto caratteristico l’invisi­
bile nel visibile, il dono della grazia, concesso in relazione ad
un segno visibile; ed è a quest’ultimo che si riferisce un
ministro ben definito.
Questo tratto caratteristico non risultava però applicabile
nella stessa misura al battesimo, sebbene anch’esso sia stato
istituito dal Signore, in quanto «sacramento evangelico».

26 I g n a z i o d ’A n t io c h ia il T eo fo ro , Ep. Smyrn. VII, V ili; cf. Ep.


Philad. IV.
La chiesa 425

Esso sino ai nostri giorni resta in misura molto maggiore il


sacramento del sacerdozio universale (quantunque le parole
del Signore siano state rivolte direttam ente al gruppo aposto­
lico, che, evidentem ente, rappresenta tutti i cristiani). Con la
comparsa e il consolidam ento della gerarchia eucaristica,
certo anche il battesim o è risultato regolato da quest’ulti-
ma;27 tuttavia, la sua amministrazione, adempiute certe ri­
chieste, resta tuttora, in caso di necessità, accessibile anche ai
laici (senza alcuna differenza di sesso, per lo meno nell’orto­
dossia). Sotto questo aspetto, il battesimo è il primo tra i
sacramenti: esso genera in Cristo il battezzato e lo introduce
nella chiesa, come nel corpo del Cristo, ed esso stesso è
un’eccezione tra tutti e «sette» i sacramenti, in quanto è il
sacramento dei laici. Questa eccezione è straordinariam ente
significativa: essa non è solo una condiscendenza o tolleranza
rituale e disciplinare, bensì una viva testimonianza dello stato
primordiale e tuttora pre-gerarchico del sacerdozio universa­
le del popolo di Dio, sacerdozio da cui ancora non si è
distinta la gerarchia in vista dell’azione sacramentale. Ma è
del tutto naturale e inevitabile che la gerarchia, essendo
comparsa come il segno dell’eucaristia «autentica», tale pote­
re esclusivo di compierla l’abbia esteso anche agli altri sacra­
menti, secondo il loro sorgere o il loro strutturarsi storica­
mente. Sarebbe strano immaginarsi che abbiano potuto sussi­
stere, una accanto all’altra, non una sola, bensì diverse
gerarchie: una per compiere l’eucaristia, un’altra per ammini­
strare il battesim o, una terza per conferire la cresima, ecc. La
gerarchia, una volta sorta, è diventata l’organo di ogni azione
sacram entale in genere, così che le stesse definizioni di
chiesa, che sono dapprim a comparse - cosa questa assai
caratteristica - nei «libri simbolici» del protestantesim o qua-
si-antigerarchico, e da qui introdotte nelle formule delle altre
confessioni, indicano tra i segni essenziali della chiesa i
ministri legittimi dei sacramenti (ministerium o sacerdotium).

27 I g n a z i o d ’A n t io c h ia il T e o fo ro, Ep. Smyrn. VII, V ili; cf. Ep.


Philad. IV.
426 La Sposa dell’Agnello

Giunti a questo punto, non considereremo i singoli sacra­


menti nella loro storia e nel loro fondam ento biblico-patristi-
co; ciononostante possiamo constatare l’esistenza di differen­
ze nell’origine di ciascuno di essi. Essi sorgono nella storia
non sin dagli inizi (secondo il mito tridentino), ma gradual­
mente: alcuni prima, altri dopo. Essi si differenziano e nel
loro significato e nel loro uso: alcuni sono ripetibili (la
comunione, la penitenza, l’unzione degli infermi, persino il
matrimonio), altri riguardano soltanto determ inate persone o
determ inate situazioni (l’ordine sacro, il m atrimonio, la pro­
fessione monastica). Alcuni possono essere ricondotti alla
diretta istituzione da parte del Cristo (il battesimo, la comu­
nione, e, sino ad un certo grado, la penitenza), altri non
godono di questo privilegio (la cresima, il m atrimonio, l’ordi­
ne sacro, l’unzione degli infermi). Quindi, anche rispetto al
significato dei singoli sacramenti, non dobbiamo giudicare
astrattam ente, contandoli come delle unità uguali tra di loro
e formanti un determ inato num ero sacro, il sette, ma dobbia­
mo ritenerli come una certa concretezza spirituale, come un
organismo spirituale, che è composto di organi differenti;
inoltre, loro fondam ento comune è l’eucaristia, quale sacra­
mento dei sacramenti, sacramento dell’incarnazione e della
Pentecoste, sacram ento della Divinoumanità. In relazione
con ciò, bisogna pure constatare come sia del tutto evidente il
fatto che limitare o esaurire il numero dei sacramenti a sette,
come è stato fatto nella teologia latina, e in seguito accettato
in quella ortodossa («né più né meno»), non è possibile né
storicamente (il numero «sette» per i sacramenti viene fissato
in oriente e in occidente soltanto a partire dai secoli XII e
X III), né di fatto, in quanto la sfera generale della vita
sacramentale è più ampia dei sette sacramenti, e comprende
il campo indeterm inato delle azioni sacramentali (sacrameli-
talia).28

28 T ra q u e ste a zion i sacram en tali alcu n e (la tonsu ra o p ro fessio n e


m o n a stica , il fu n erale) furono in izialm en te in clu se nel n u m ero d ei sacram en ­
ti, altre non p o sso n o non esservi in clu se (la b en ed izio n e d e ll’acqua p er il
La chiesa 427

La caratteristica comune, propria di tutti i sacramenti e di


molti sacramentali, consiste nel fatto che attraverso essi è
concessa la grazia. Un sacramento, compiuto legittimamente
da parte della chiesa, contiene la garanzia dell’autenticità e
dell’oggettività di questo dono. In questo senso esso è un’a­
zione divina, collegata ad un certo segno visibile, ex opere
operato', e, in relazione con questa elargizione, ha luogo pure
la sua assimilazione m ediante lo sforzo personale, ex opere
operantis. In questo duplice atto: ex opere operato e ex opere
operantis si esprime una forma particolare del sinergismo,
propria della ricezione dei sacramenti: il dono divino della
grazia è liberam ente e in misura differenziata assimilato,
oppure esso non è affatto assimilato, da chi lo riceve.29
Da questo carattere sinergico del sacramento viene sop­
presso quell’aspetto magico, che talvolta è attribuito al sacra­
m ento da chi non vi riconosce la libera assimilazione del dono
della grazia. In effetti, non sempre quest’ultimo si ha contem ­
poraneam ente alla ricezione del sacramento (come nei casi dei
sacramenti amministrati ai bambini: il battesimo, la cresima,
la comunione dei bambini). Nondimeno, anche ivi esso ha già
luogo nel suo atto iniziale, quantunque in pienezza sia riman­
dato o sia esteso ad un tempo successivo. Ma la stessa cosa si
può dire, in generale, anche a proposito dell’azione dei doni
della grazia elargiti nei sacramenti: tali doni sono dati simulta­
neam ente, al m om ento della ricezione del sacramento, e la

b a ttesim o , la co n sa cra zio n e di una ch iesa, d elle ic o n e , e c c .). A l con trario,


n elP im p overita vita m istica d el m ond o p rotestan te, il num ero dei sacram enti
è stato rid otto e lim ita to , per cui si p roduce un nu ovo d issen so tra i cristiani,
il cui sign ificato d o g m a tico vien e però talvolta esagerato.
29 N o n è forse a ttestato q u esto sin ergism o, applicato al sacram ento del
co rp o e d el san gu e di C risto, da quanto l’a p ostolo P aolo scrive ai fed eli di
C orinto? «O gn i v o lta infatti ch e m angiate di q u esto pane e b e v ete di q u esto
ca lice, voi an n u nziate la m orte d el Signore finché egli ven ga. P erciò ch iu n ­
q ue in m o d o in d eg n o m angia il pane o b ev e il calice del S ign ore, sarà reo del
corp o e d el san gu e d el S ign ore. C iascun o, p ertan to, esam ini se stesso e poi
m angi di q u esto p an e e b eva di q u esto calice; perché chi m angia e b eve
in d eg n a m en te, sen za ricon oscere il corp o d el S ign ore, m angia e b e v e la
propria co n d a n n a . È per q u esto ch e tra voi ci so n o m olti am m alati e in ferm i,
e un b u on n u m ero so n o m orti» (IC o r 11,26-30).
428 La Sposa dell’Agnello

loro azione divina è rapida come un lampo. Tuttavia, la


ricezione e l’assimilazione di questa azione avvengono gene­
ralmente durante tempi lunghi e indeterm inati, in base alla
libertà umana, e, propriam ente parlando, lungo tutta la vita,
in quanto il battesimo, la cresima, l’ordine sacro, il matrimo­
nio, sono dei sacramenti non ripetibili, bensì sono amministra­
ti una sola volta, e vanno persino oltre i confini della vita nella
stessa eternità.
In questo senso, il dono del sacram ento, sebbene abbia
una sua natura particolare e specifica, da essa né è limitato né
è determ inato, ma si estende a tutto l’essere dell’uomo,
trasfigurandolo e dirigendolo. Non vi è alcun sacramento, la
cui azione non si propaghi direttam ente o indirettam ente a
tutta quanta la vita dell’uomo. I diversi sacramenti sono
n ien t’altro che dei torrenti, attraverso cui scorre l’unica
acqua della vita, la grazia divina. Perciò una scala quantitati­
va, la pienezza del loro num ero, non la si può qui applicare
linearmente e direttam ente, nel senso: «quanto più, tanto
meglio», poiché, oltre ad un opus operatum, vi è altresì un
opus operantis, il modo differenziato di ricevere e di assimila­
re il dono della grazia, vale a dire di nuovo è in azione il
sinergismo.
La precisione delle istituzioni sacramentale-gerarchiche,
come pure quella dei doni dei diversi sacramenti, di per sé
non significa ancora tale stessa precisione della ricezione di
questi doni e del loro frutto. La possibilità della grazia deve
altresì diventare una realtà nella vita dell’uomo. Dio dona e
l’uomo accoglie. Da qui deriva la possibilità di casi, come
quello di cui è stato protagonista il centurione Cornelio, su
cui lo Spirito Santo si effuse ancor prima del battesimo (At
10,44-47): «Avevo appena cominciato a parlare, quando lo
Spirito Santo scese su di loro, come in principio era sceso su
di noi» (A t 11,15). E in questa Pentecoste personale, ancor
prima del battesim o, era stata recepita la pienezza dei doni
della grazia, concessi nei sacramenti.
La chiesa 429

3. I C O N F IN I D E L S A C R A M E N T A L IS M O

Nel nostro tem po la chiesa è innanzi tutto intesa come


un’organizzazione sacramentale-gerarchica, come il tesoro
dei doni di grazia, concessi nei sacramenti, come la potestas
clavium o potere sacramentale. Con ciò si effettua una tacita
identificazione tra questo potere e la chiesa stessa, la quale
perciò nel linguaggio popolare non di rado viene equiparata
alla gerarchia. Non sminuendo affatto tutto l’infinito valore
del dono dell’organizzazione sacramentale, dobbiamo nondi­
meno dire che una tale identificazione è illecita e che non
corrisponde alla verità della rivelazione. È certo che la chiesa
ha in realtà istituito una tale organizzazione e la contiene, ma
da essa non viene affatto limitata né esaurita. Noi già lo
sappiamo dalla dottrina neotestam entaria sulla chiesa (vedi
sopra). La chiesa, come organismo mistico, come Divinouma­
nità, è il noum eno, che pone il fondamento dell’organizzazio­
ne sacramentale-giuridica. Non si può negare la sua necessità e
il suo significato, senza cadere nello scisma e nell’eresia, e così
diventare pneumatomachi o quaccheri. La chiesa, come teso­
ro di tutti i doni di grazia, è il dato-di-fatto a tutti accessibile.
Questa è la via, istituita da Dio, della vita di grazia. Non ci si
può esaltare su di essa, né montanisticamente renderla sogget­
tiva con il subordinarla di fatto alle conquiste personali. Non la
si può parimenti negare in nome della libertà personale, cioè
deH’individualismo. Bisogna rendere la dovuta venerazione
alle istituzioni della chiesa. E tuttavia non bisogna pensare che
con i «sette» sacramenti, «né più né meno», si esaurisca la
forza della chiesa e la sua azione in noi.30

30 Cf. A g o s t i n o : « ... p o sse tam en h om in em non ìn terposito h om in e


d iv in itu s aliq u id a e e ip e r e , e x e m p lo su o IohanneS testatu r et tot sancti
antequam D e i F ilius h o m o fieret, et posteaq u am resurrexit et ascen dit in
eo elu m , centum viginti h o m in es sim ul con gregati eran t, quos nullo h om in e in
terra m anum im p o n en te, de c o e lo v en ien s Spiritus Sanctus im plevit (A c t. I,
15 et II, 1-4) e t co n stitu to iam ord in e E c clesia e, cen tu rion em C ornelium ante
ipsum b a p tism u m , a n te im p o sitio n em m an u s, cum eis qui secu m erant
eo d e m Spiritu S an cto rep letu m , P etrus ipse miratus est (Id. X , 44). N em o
ergo a c c ip itsin e dante: sed q u od p ertin et ad B aptism i san ctitatem , adest D eu s
q u i det, et h o m o q u i a ccipiat, siv e p e r se ipsu m don an te D eo , siv e p e r
430 La Sposa dell’Agnello

Di quali doni dello Spirito si parla in ICor 12 (immediata­


mente dopo la narrazione dell’istituzione della divina eucari­
stia nel capitolo precedente)? C ertam ente dei doni della
grazia; ma forse anche di quelli sacramentali? No, non di quelli
sacram entali, in quanto si può dubitare che ci fosse una
ragione per parlare dei sacramenti istituiti dalla chiesa aposto­
lica. E a quali sacramenti corrispondono i doni dello Spirito, di
cui qui si parla, doni quali «il linguaggio della sapienza, il
linguaggio di scienza, la fede, il dono di far guarigioni, il potere
dei miracoli, il dono della profezia, il dono di distinguere gli
spiriti, la varietà delle lingue, l’interpretazione delle lingue»
(IC or 12,8-10)? E c’è forse nella chiesa una gerarchia, a cui
potrebbe essere attribuita la dispensazione di tali doni? E a
quali gradi gerarchici può essere attribuita questa istituzione
da parte di Dio «nella chiesa» degli apostoli, dei profeti, dei
maestri, degli operatori di miracoli, di coloro che possiedono i
doni di far guarigioni, i doni di assistenza, i doni delle lingue
(cf. IC or 12,28-30)? Inoltre questo elenco non è esaustivo, ma
indica solo la diversità dei doni, dei servizi, delle azioni e delle
manifestazioni dello Spirito, che «è uno solo». Tutte queste
manifestazioni resistono a qualsiasi regolamentazione sacra­
m entale, che collegherebbe «doni invisibili ad un segno ester­
no». Riguardo a questi doni, principio-guida è quello secondo
cui «lo Spirito soffia dove vuole» (Gv 3,8), poiché «Dio dà lo
Spirito senza misura» (Gv 3,14). La non regolarità è la legge di
tali manifestazioni dello Spirito, e in esse abbiamo la composi­
zione sinergica del sacramento: il dono di Dio e la sua ricezio­
ne. Tuttavia, il potere di questa elargizione non è sacramental­
m ente affidato a nessuno: esso resta nelle mani di Dio, quale
Pentecoste diretta e perdurante.
Se si pone questo fatto in relazione con i «servizi o
ministeri» di Cristo, esso allora si riferisce non al servizio
«sommo sacerdotale», ma all’ispirazione regale e profetica:

an gelu m , siv e p e r h o m in em sa n ctu m , sicut per P etru m , sicut p er Ioh an n em ;


sive per h om in em in iq u u m ...» ( C on tro epist. P a rm en ia n i, II, c. X V ; P L
X L III, 76).
l a chiesa 431

«Lo Spirito del signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha


consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto
annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a
proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigio­
nieri, a proclamare l’anno di misericordia del Signore» (Is
61,1-2). «In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me,
compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché
io vado al Padre» (Gv 14,12). Questi doni non-sacramentali si
trovano in possesso della chiesa profetica e regale,31 non di
quella gerarchica. È la forza del Cristo, manifestatasi nell’u­
m anità del Cristo, ed è il soffio dello Spirito Santo, che
illumina con le lingue profetiche i profeti scelti dallo Spirito
Santo. Questo aspetto della vita della chiesa resiste sia ad una
descrizione sia ad una regolamentazione, ed esso determina
un suo contenuto specifico. Da questo soffio dello Spirito è
segnata tutta la vita della chiesa primitiva: essa è il mistero
particolare del cristianesimo delle origini. Ma dallo stesso
soffio sono segnati pure tutti i tempi eroici e tutte le conquiste
più alte dello spirito cristiano nella storia della chiesa, nell’a­
scetismo, nel magistero, nella creatività, in tutte quelle opera
supererogatoria, che non rientrano nelle misurate forme sacra-
mentali-gerarchiche. Abbiamo qui, quantunque non un sacra­
m ento, nel senso specifico del term ine, l’azione sacramentale
dell’ispirazione della libertà, ispirazione che si trova espressa­
mente protetta dalla proibizione dell’Apostolo: «Non spegne­
te lo Spirito, non disprezzate le profezie» (lT s 5,19-20). «Lo
Spirito Santo procura tutti i benefici: effonde le profezie,
istituisce i sacerdoti, dona la sapienza agli ignoranti, trasforma
i peccatori in teologi, dà tutta la sua forma all’ordinam ento
della chiesa».32 Il profetismo è la dinamica, è il movimento
nella vita della chiesa; il gerarchismo invece è la statica, è la
sua spina dorsale.
L ’«acquisto dello Spirito Santo», cioè il profetizzare, «è il

31 S u ll’in stau razion e di C risto R e nel m o n d o , quale attu azion e d el suo


m inistero reg a le, v ed i L ’A g n e llo d i D io , Paris 1933, c. V , 3.
32 U fficio d ella santa P e n te c o ste , ai vespri (traduzione di suor M aria,
del m o n a stero russo U sp en sk ij di R o m a ).
432 La Sposa dell'Agnello

fine della vita cristiana» (s. Serafino di Sarov). Le illumina­


zioni ispirate, riprodotte nelle opere degli uomini spirituali,
sono le prove di questo profetizzare neotestam entario, così
come le conquiste creative dello spirito cristiano sono a loro
volta le prove della compartecipazione della chiesa al servizio
regale di Cristo. Lo Spirito soffia qui in modo non ristretto e
non legato ai term ini dell’organizzazione ecclesiale. Qui
opera quella profondità della chiesa, la quale resta oltre i suoi
confini: le barriere della chiesa storica non arrivano sino al
cielo. Con ciò si dà ragione dell’essere speciale della chiesa,
come realtà ecclesiale, la quale non dipende e non è regolata
dalla gerarchia. Questa è la chiesa una sancta, quale incarna­
zione sempre attuantesi e quale Pentecoste sempre perduran­
te, efficace presenza di Dio nel m ondo e nell’uomo, la Sofia
divina, come chiesa «invisibile», cioè trascendente ogni iden­
tificazione, la cui azione si manifesta visibilmente, come
mistero che si rivela. A ppunto questo mistero della chiesa,
questa chiesa una sancta, è quella forza profetica, che anche
ai nostri giorni testimonia l’unità dell’um anità del Cristo e
trascina le chiese a ritornare all’unica «chiesa», a integrare
l’unità ecclesiale dell’incarnazione e della Pentecoste, a supe­
rare nelle diverse confessioni lo spirito del confessionalismo,
che sostituisce l’unità ecumenica con il provincialismo eccle­
siale. Tale provincialismo ecclesiale pone la «geno-ecclesia»
come la «mono-ecclesia», e al posto della chiesa una sancta
m ette la confessione, m ette quel genoteismo, che sia nell’A n­
tico Testam ento sia negli stadi infimi della coscienza religiosa
ha sostituito il monoteismo autentico.
Esiste pertanto una Ecclesia supra ecclesias, l'una sancta
quale fondam ento delle multae ecclesiolae. È evidente come
questa idea non rientri tutto sommato nel concetto di chiesa
intesa soltanto come un insieme di organizzazioni gerarchi­
che, le quali possono risultare smem brate e possono tra di
loro disputare a proposito della loro realtà o sostanzialità.
Pur riconoscendo tutto il valore relativo e pragmatico di
queste divisioni, dobbiamo nondimeno considerarle alla luce
di quell’unità metaempirica e noumenica della chiesa, unità
che sussiste nel suo aspetto profetico-regale, ma che invita
La chiesa 433

all’unione sacramentale-gerarchica. La chiesa con questo suo


aspetto è contem poraneam ente rivolta sia alla contemplazio­
ne del cielo sia al punto estremo della storia, a quell’orizzonte
dove cielo e terra si toccano. Ed è per questa via celeste­
terrestre, la via divinoumana della venuta dello Spirito Santo,
che il Cristo verrà di nuovo nella sua gloria.
Questo carattere universale della chiesa, quale corpo del
Cristo, corpo com prendente tutti gli uomini, è confermato
altresì dal fatto che il Cristo, secondo la sua stessa parola, nel
giudizio finale giudica tutte le genti (Mt 25), e in tutti coloro
che sono giudicati, come fondam ento per il giudizio, testimo­
nia la sua propria persona, vale a dire la loro partecipazione
al corpo del Cristo. Qui i confini dell’umanità, compartecipe
del Cristo, si delineano ancor più ampi che l’insieme di tutte
le confessioni cristiane. E le altre immagini della chiesa: la
donna vestita di sole, la sposa e il corpo del Cristo, non sono
affatto correlative alle diverse «confessioni di fede», ma si
riferiscono all'uno sancta.33

4. L a g r a z ia

Il concetto di grazia, quantunque stia al centro della


dottrina sulla chiesa, non ha tuttavia quella chiarezza e quella
stabilità che naturalm ente ci si aspetterebbe, né dal punto di
vista term inologico,34 né da quello teologico. Una definizione
generalissima di grazia la collega all’azione di Dio nell’uomo,
e, in questo senso, la grazia è un dono soprannaturale, la
forza e le azioni divine nella vita della creatura, e, in quanto
tale, essa è un dono libero della misericordia di Dio: grada
gratis data (s. Agostino). La teologia, generalmente parlan-

33 È da notare co m e n ell’A p o ca lisse le «sette ch iese» , ed alcune tra di


esse (q u elle di P ergam o, di Tiatira e di Sardi) so n o m arcate da peccati gravi,
e di carattere p ersin o d ottrin ario, sian o u gu alm en te an n overate tra le ch iese,
fann o cio è parte d ell'u no san cta di carattere sovracon fession ale.
34 N e lla s. Scrittu ra si p o sso n o con tare non m en o di se tte diversi
sign ificati di q u esto term in e (cf. K a t a n s k i j , L a d o ttrin a, 39ss).
434 La Sposa dell’Agnello

do, preferisce impegnarsi sulle questioni particolari, concer­


nenti gli aspetti e gli usi della grazia, piuttosto che trattare di
essa secondo la sua sostanza; e inoltre nella teologia occidenta­
le la dottrina sulla grazia ha attratto l’attenzione molto di più di
quanto sia avvenuto nella teologia orientale.35 Su questo
punto sono state elaborate numerose distinzioni e classifica­
zioni, aventi prevalentem ente un carattere pragmatico. U n’e­
laborazione di principio di ciò che si può chiamare l’ontologia
della grazia è rimasta in misura notevole in ombra. La nostra
attenzione invece si concentrerà prevalentem ente appunto su
una tale ontologia della grazia, e precisam ente sulla sua
comprensione sofiologica. Nella dottrina sulla grazia si distin­
guono naturalm ente due aspetti: l’invio della grazia da parte
della forza divina e la ricezione della grazia da parte della
creatura. Il legame tra di loro, come pure i frutti di questa
correlazione, insieme al suo fondam ento e al suo fine ultimo,
devono diventare l’oggetto della comprensione teologica (più
precisamente, di quella sofiologica).
La dottrina sulla grazia nel sistema della teologia dogma­
tica occupa in generale un posto strano. Dapprima sono
esposte la teologia, la cristologia e la pneumatologia, persino
l’ecclesiologia e la dottrina sui sacramenti. E poi, come se
provenisse dal deserto, compare la dottrina sulla grazia, al di
sopra di tutto ciò e senza collegamento organico, come se la
grazia in generale esistesse accanto a tutto ciò. In particolare,
risulta non chiarita la correlazione esistente tra la dottrina sui
sacramenti, quale comunicazione istituita di determinati doni
di grazia, e la dottrina sulla grazia in generale, come se essa
esistesse indipendentem ente e accanto a questi doni. E se tra
l’uno e l’altro settore sussiste un certo legame, allora questo
legame rimane così impercettibile che resiste perfino ad una
sua precisa definizione. Si può soltanto dire che la grazia in
genere è come se fosse il presupposto dei singoli atti di grazia,
atti che sono i sacramenti. Questi ultimi sono qualcosa di

35 V ed i le o sservazion i nella raccolta The D octrin e o f G ra ce, pubblicata


dalla C o m m i s s i o n e t e o l o g i c a d e l l a C o n f e r e n z a d i L o s a n n a , ( 1 9 2 7 ) .
La chiesa 435

particolare rispetto al generale, e con ciò stesso il significato


dei sacramenti, quali vie normali, ma non uniche dell’elargi­
zione della grazia, viene limitato e perde ormai la propria
unicità ed esclusività, che ad essi di fatto si attribuisce nella
teologia. La grazia, seppure è possibile definirla ricorrendo
alla terminologia sacram entaria, è il sacramento dei sacramen­
ti, è l’azione sacramentale della chiesa stessa, quale Divinou­
m anità, quale corpo del Cristo, in cui vive lo Spirito Santo. Ma
questo «sacramento» sui generis non ha né un segno visibile né
ministri speciali: esso è la via della comunicazione di Dio, in
cui i diversi sacramenti sono soltanto punti isolati o episodi
singoli. Lo Spirito soffia dove vuole e come gli pare. La grazia
riguarda perciò non la chiesa istituzionale, ma la chiesa misti­
ca. Quindi la dottrina sulla grazia non rientra nella dottrina
sulla chiesa, quale istituzione esteriore e canonica.
Sulla soglia stessa della dottrina sulla grazia, ecco venirci
incontro la distinzione, piuttosto inattesa, tra grazia «natura­
le» e grazia «soprannaturale». Questa distinzione basilare e
di principio, la più essenziale per il concetto stesso di grazia,
di solito è trattata come chiara e comprensibile da se stessa,
m entre proprio qui si trova l’impostazione stessa della pro­
blem atica.36 Non è difficile vedere come tra la grazia, quale
dono della vita divina, che viene comunicata alla vita della
creatura, e la grazia naturale, come un certo debitum della
natura (per il corpo, la salute; per l’anima, le sue capacità,
ecc.) esista una differenza radicale. La prima appartiene alla
vita divina, la seconda alla vita della creatura. Invece di

36 N ella teo lo g ia o ccid en ta le, il criterio è l’idea del d eb itu m n atu rae,
vale a dire di ciò ch e è proprio alla natura in q u an to tale per la creazion e;
m entre q u an to oltrep assa ciò riguarda la grazia (v e d i, per e s ., J. P o h l e ,
L eh rb u ch d e r D o g m a tik , t. II, B d. II, Paderborn 1921, 2 9 8 ), com e «das
sp e c ifis c h e P rinzip d e s a b so lu t ù b ern atiirlich en in der C reatur» ( = «il
p rin cip io d e ll’a sso lu to sop ran n atu rale n ella creatu ra») ( M . I . S c h e e b e n ,
H a n d b u ch d e r k ath olisch en D o g m a tik , Freiburg im B reisgau 1925, II, 250).
Il m etr o p o lita M a c a r i o ( T eo lo g ia d o g m a tica o rto d o s s a , San P ietroburgo
1895, II, 249) d istin gue tra grazia naturale, «com e i d on i di D io ch e crean o le
co se naturali», e grazia soprannaturale: «tutti i doni di D io , com u nicati in
m o d o sprannaturale in aggiunta ai doni d ella natura».
436 La Sposa dell’Agnello

parlare della grazia naturale, bisogna parlare direttamente


della creaturalità, e non solo del suo essere extradivino, bensì
del suo fondamento divino, in virtù del quale noi viviamo, ci
muoviamo ed esistiamo (cf. A t 17,28). Questo divino nel-
l’extradivino, questa forza di Dio nella creazione, è la Sofia
creaturale, la base ontologica di tutto quanto esiste. Questo è
il m ondo, come Sapienza di Dio che si manifesta nella
creazione. Questa è l’immagine di Dio nell’uomo, il microco­
smo, che collega a Dio tutta quanta la creazione. Questo è il
mondo delle incorporee potenze angeliche, questa è tutta la
pienezza della creazione, questo è il «molto buono».
Da qui è altresì possibile attribuire l’azione della Provvi­
denza di Dio alla Sapienza di Dio in actu, che custodisce e diri­
ge l’essere del mondo. In una parola, questa è la vita propria
della creazione, vita salvaguardata da Dio. Si può pure dire
che questa è l’azione della Sofia divina nella Sofia creaturale,
nella loro identità e nella loro distinzione, nel loro legame reci­
proco. Questo legame non si interrom pe e non cessa mai, per­
ché altrimenti crollerebbero le fondam enta e le giunture del­
l’essere, poste incrollabilmente da Dio, creatore e onnipoten­
te. «Dio solo ne (= della Sapienza) conosce la via, lui solo sa
dove si trovi, perché volge lo sguardo fino alle estremità della
terra, vede quanto è sotto la volta del cielo» (Gb 28,23-24).
Della categoria della grazia «naturale», a dire il vero, la
teologia non sa che farsene, e tale grazia «naturale» soddisfa
soltanto le necessità in una classificazione di scuola. Ma in
realtà essa deve occupare il posto che le appartiene, come il
ricettacolo (èxiiayeiov) della grazia divina, come il presuppo­
sto della capacità della creatura alla sua ricezione. Tra l’esse­
re «naturale», cioè creaturale, e la grazia soprannaturale si
deve ontologicamente stabilire una correlazione positiva, al
di fuori della quale la grazia sarebbe un deus ex machina, una
violenza ontologica sulla creatura, e non la sua elevazione al
proprio A rchetipo o Immagine prima. La creatura nella
propria sofianicità contiene l’immagine o impronta del princi­
pio divino del suo essere, essa attende e brama la pienezza di
questa sua Immagine prima, di questa sua «gloria», che le è
data nell’azione di grazia. In tal modo, mediante la distinzio-
La chiesa 437

ne tra grazia naturale e grazia soprannaturale, si esprime in


realtà la reciproca relazione esistente tra la Sofia divina e la
Sofia creaturale, tra la Divinità e il mondo lungo le vie della
divinizzazione di quest’ultimo. La grazia stessa, nelle diverse
sue form e, è quella divinizzazione o glorificazione della
creatura, o, ciò che è lo stesso, la sua sofianizzazione.
La presenza della grazia «naturale» rappresenta una pre­
condizione indispensabile per ricevere la grazia nel senso
proprio del term ine. Tale presenza presuppone nella creatura
quella conformità alla Divinità, conformità che si attua nella
divinizzazione di grazia. La «grazia naturale» è quell’umanità
in cui sono comprese l’immagine e la somiglianza di Dio. In
questa sua somiglianza con Dio, l’uomo è stato chiamato alla
Divinoumanità, che è l’unione delle due nature in Cristo, e
quindi essa si estende a tutta quanta l’umanità, che ha la
«grazia naturale», la sofianicità in quanto è stata creata, e che
riceve la vita divina nel Cristo per opera dello Spirito Santo.
La grazia non è un qualcosa di apposito e di supplementare
accanto all’incarnazione e alla pentecoste, è la stessa Divi­
noum anità in actu, realizzata quale divinizzazione, in un
modo molteplice e multiforme. Tutte le specie di grazia e le
sue forme di elargizione hanno soltanto questa destinazione e
questo contenuto: innalzare la creatura alla divinizzazione,
imprimere l’immagine della Divinità nella somiglianza crea­
turale. Al di fuori di questa correlazione, nell’assenza della
«grazia naturale», vale a dire della conformità della creazione
al suo C reatore, tale impronta sarebbe una presenza ontolo­
gica altrettanto impossibile, quanto la trasformazione di una
scimmia in un angelo o di una pietra in un uomo. La grazia, e
ciò non va mai dimenticato, presuppone il sinergismo tra la
libertà creaturale e l’azione divina. Essa non solo è concessa,
ma anche è ricevuta dalla creatura: humanum capax divini. E
in quanto la Divinoumanità è nel creato la chiesa, la grazia si
identifica con quest’ultima. La chiesa è la vita di grazia, lo
stesso stato di grazia, la divinizzazione che si sta attuando.
All’immagine creaturale di Dio nella sua «grazia natura­
le» è propria la perfezione, il «molto buono». Tale immagine
apre alla vita divinoumana, alla ricezione della «grazia» nel
438 La Sposa dell’Agnello

senso proprio del term ine, ma anche nella propria creaturali-


tà essa già possiede la compiutezza e la pienezza dell’immagi­
ne di Dio. Ad essa, in quanto tale, non è propria la deficienza
dello status naturae purae, che avrebbe bisogno per il proprio
essere di una specie di donum superaddìtum supernaturale,
come insegna la teologia latina. Secondo quest’ultima, sola­
mente attraverso l’aggiunta di un tale dono, sorge per l’uomo
lo status iustitiae originalis. Ma l’uomo nella propria creatura-
lità si trova già in statu integritatis, già si trova conforme alla
Sofia creaturale, come al suo proprio principio, e in virtù di
esso si apre alla divinizzazione di grazia. La teologia cattolica
sminuisce senza alcuna necessità questa pienezza della natura
pura nella sua sofianicità. Essa considera il primo uomo come
insufficiente e doppiam ente composto: sin dal principio egli
sarebbe costituito da una sostanza naturale-bestiale, oberata
dal peso della carne, e da un supplem entare dono di grazia,
soprannaturale e sovraumano, donum superaddìtum, tale da
controbilanciare questa deficienza. In altre parole, in sé,
nella propria creaturalità, egli non è ancora un uomo, ma si fa
uomo soltanto m ediante una certa azione dall’esterno, di un
deux ex machina\ e anzi questo dono si è da lui allontanato a
causa del peccato originale.37
Con questa dottrina si afferma l’abisso invalicabile esi­
stente tra la creazione, in quanto tale, in statu naturae purae,
e la sua Immagine prima divina, a cui è accessibile la parteci­
pazione alla vita divina. L ’uomo naturale resta chiuso alla
grazia, a meno che la sua natura non si apra ad essa con
un’apposita azione di Dio attraverso il donum superadditum,
e inoltre questo super risulta essere una specie di violazione

37 D a l papa P io V so n o state con d an n ate le segu en ti tesi di M ich ele


B aio: « H u m a n a e n a tu rae su b lim atio et ex a lta tio in con sortiu m d ivin ae
naturae d eb ita fuit in tegritati prim ae co n d itio n is, et proinde naturalis dicen-
da e st, et non supernaturalis» (21); «Integritas prim ae creation is non fuit
indebita h u m an ae naturae ex a lta tio , sed naturalis eiu s con d itio» (26) ( D S
1921.1926). Il papa C lem en te X I ha con d an n ato q u esta tesi di P a s c a s i o
Q u e s n e l : «G ratia A d a m i est seq u ela creation is et erat debita naturae sanae
et integrae» (35) ( D S 2435).
La chiesa 439

della natura um ana, benché si tratti di una violazione salvifi­


ca. Ontologicamente rimane incomprensibile la stessa possi­
bilità di questo d on u m su peradditu m , data quell’estraneità
alla vita divina, che è propria dell’uomo in stata naturae
p u rae. Tutto somm ato, qui l’uomo costituisce una specie di
paradosso: creato in una forma animale e corruttibile, egli
im m ediatam ente viene chiamato al superamento soprannatu­
rale (e, in quanto tale, anche contronaturale) di essa: l’azione
della grazia è diretta non a divinizzare l’uomo, ma a corregge­
re e a completare la sua stessa natura, e soltanto dopo tale
correzione si apre la via alla sua divinizzazione di grazia. Con
ciò, senza alcuna necessità e senza un fondamento sufficiente
(in quanto l’immediata dottrina biblica sulla creazione del­
l’uomo ad immagine di Dio non fornisce affatto una base per
una tale riflessione), alla dottrina sulla grazia viene aggiunto
un secondo piano: si distingue appunto un dono di grazia
fuori dalla creazione dell’uomo, come una condizione per
ricevere un tale dono dopo la creazione; in altre parole, si
distingue tra la grazia della creazione e la grazia della diviniz­
zazione. Con questo raddoppiam ento si introduce una com­
plicazione ulteriore nella dottrina cattolica sulla grazia. Tale
complicazione è espressa nella distinzione tra gratia creata e
grada increata, nel riconoscimento di due specie di doni di
grazia. Precisamente si afferma che, se la grazia è divina, e da
essa è conferito il dono dello Spirito Santo, allora la capacità
della creatura a recepire questo dono è determ inata da un
altro dono santificante, apposito e creaturale,38 il quale è un
legame, un vin culu m , la gratia unionis. In Cristo, ciò corri­
sponde all’unione ipostatica delle due nature, ma nella crea­
tura si attua attraverso la «grazia creaturale». Essa, da una
parte, è distinta da Dio, ma nello stesso tempo lo congiunge
alla creazione, così che «la creatura diventa il tempio santo di
Dio».39 Dobbiamo innanzi tutto esaminare questa distinzione

38 STh I, q. 4 3 , a. 3.
39 J. v a n d e r M e e r s c h , « G ràce», in DThC V I, 2, 1609: «La gràce
san ctifiante est d o n c une réalité d istin cte de D ie u , cré é e , infuse et inh éren te
440 La Sposa dell’Agnello

tra grazia increata e grazia creata, che senza dubbio la


teologia cattolica non ha sufficientemente chiarita dal punto
di vista della sua essenza ontologica e ha prevalentemente
considerato dal punto di vista del suo significato pratico
(quale grazia preparatoria e perfezionante, quale mezzo e
quale fine). Che cosa indica questo strano concetto di grafia
creata, che, pur essendo distinta da Dio, nello stesso tempo,
attraverso il proprio valore m ediatorio, attua il lumen gra-
tiael Che cosa è questa non-partecipazione-di-Dio,40 questo
essere non-divino-divino? Questo concetto trova il proprio
posto nel corpo generale della dottrina cattolica sulla grazia.
Esso si basa sulla distinzione e sulla contrapposizione tra
l’essere naturale e l’essere soprannaturale o di grazia. La
relazione tra di loro esistente è pensata sul tipo di un’azione
meccanica, di un deus ex machina, di una certa violenza
ontologica. La grazia rappresenta qualcosa più «del dovuto»
rispetto all’essere naturale, e questo già sin dalla creazione
dell’uomo. L ’uomo naturale, in quanto tale, in statu naturae
purae, neppure compare nel mondo con questa sua propria
deficienza; e pertanto la stessa natura pura rimane solamente
un concetto astratto, che non ha di per sé un’applicazione

en l’à m e ...» , «u n e participation de la nature d ivin e», e ssen d o «u n e réalité


d istin cte de D ieu » e «produite par lui».
40 V ed i S c h e e b e n , H a n d b u c h , II, 374. D a una p arte, lo S p irito S an to è
«inhabitans et unitus per gratiam »; d all’altra, è «inform ans anim am et uniens
Spiritum Sanctum cum illa» (ivi). La «grazia creata» è in d isp en sa b ile, perché
«senza di essa la grazia increata non p u ò né esercitare tutta la sua piena
in flu en za, né essere p en sa ta, in q u an to collegata o rgan icam en te e vitalm en te
con l’anim a» (p. 3 8 2 ). La prim a ha un carattere accid en tale (gratia accidenta-
lis), la seco n d a un carattere sostan ziale (gratia su bstan tialis) (p. 383). Cf.
T o m m a s o d ’A q u i n o , S T h r'-IIac, q. 109; q. 110, a. 3; q. I l i , a. 1. A lla
d istin zion e tra gra tia increata e gratia creata so n o p arallele ulteriori classifica­
zioni: gratia o p era n s et co operan s, p ra e ven ien s et su bsequ en s (cf. q. I l i , a. 2­
3; q. 112, a. 2 ). Cf. B o n a v e n t u r a d a B a o n o r e g i o , D istin ctio n es, 2 6, a. 1,
q. 2, ad 1: «D ire ch e lo Spirito S an to è la sostanza d el d o n o , non significa
esclu d ere il d o n o creato; al con trario, significa in clu d erlo ... A v e r e lo Spirito
Santo sign ifica av ere una proprietà (h a b itu s), che ci assicura la sua c o n o sc en ­
za , e q uesta proprietà è il d on o d ella grazia creata». P ertan to, «la gràce
in créée su p p o se la gràce créée com m e le principe d es actes qui la m etten t en
notre p o ssessio n » ( J . B . T e r r i e n , L a gràce et la g io ire , Paris 1897, t. I, 118).
La chiesa 441

effettiva nella vita umana. Soltanto dopo essere stato comple­


tato con il dono soprannaturale della grazia, donum superna­
turale, e di conseguenza in statu naturae integrae, il primo
uomo, A dam o, entra nel mondo. Dopo la sua caduta, il
donum supernaturale gli è stato tolto, ed egli si trova nello
stato della natura decaduta, in statu naturae lapsae. In segui­
to, con la rinascita nel battesimo, l’uomo riceve di nuovo il
dono soprannaturale della grazia, come una nuova infusione
(infusio) della grazia,41 per i meriti acquistati da Cristo (causa
meritoria) nella sua morte in croce. In virtù di essi all’uomo
sono concessi «non solo la remissione dei peccati, ma anche
la santificazione e il rinnovamento dell’uomo interiore».42
Tutto ciò è pensato come un’azione sull’uomo senza alcun
rapporto con lui stesso, con la natura sua propria (benché,
d ’altra parte, si aggiunga: per voluntariam susceptationem
gratiae et bonorum). Ed ecco, al fine di poter stabilire questo
nesso e rinvenire un fondam ento a cui sia possibile congiun­
gere tale dono, si postula ancora un altro dono particolare,
destinato totalm ente e solamente a questa mediazione: il
lumen gratiae (Tommaso d’A quino), come pure il lumen
gloriae. Lo speciale motivo, in virtù del quale si stabilisce una
tale distanza tra la grazia increata e la grazia creata, è chiaro:
qui si ricerca quella mediazione tra la Divinità e la creatura,
senza la quale esse non possono congiungersi tra di loro, non
avendo alcun rapporto ontologico diretto. Ma ci si chiede: è
sufficiente questa mediazione? Non è qui di nuovo ripropo­
sta, mutatis m utandis, la tentazione teologica di Ario, il
quale, cercando una mediazione tra Dio e il mondo, l’ha
rinvenuta in una specie di «grazia creata» nell’idea del figlio
creato? Si capisce che una tale mediazione non media proprio
nulla, perché essa non può evitare, in un certo suo punto
estremo, il contatto diretto tra la Divinità e la creatura. Non

11 « ... u n d e in ip sa iu s tific a tio n e cu m re m iss io n e p e c c a to r u m h a e c


o m n ia sim u l in fu sa ac c ip it h o m o p e r Ie su m C h ristu m , cui in se ritu r: fid e m ,
sp e m e t c a rita te m » (C o n o . T r id ., sess. V I , e. 7; D S 1530-1531).
42 C o n c . T r id ., sess. V I, e. 7; D S 1679-1681.
442 La Sposa dell’Agnello

le resta che sfuggire a questo contatto con l’a m m u cch iare una
m ediazione a più piani. E non è forse la stessa cosa accettare
la comunicabilità diretta della grazia all’uomo, oppure com­
p lic a rla con il postulare senza alcuna necessità e senza alcun
f r u tto ancora un’altra grazia speciale, che dia la p ossib ilità di
re c e p irla ? v
In ogni caso, il concetto di grazia creata ( g r a t i a creata) e
ch ia ra m e n te contraddittorio: se questa è grazia, cioè parteci­
p a z io n e di Dio, contatto della creatura con la Divinità, allora
il discorso sul suo essere creata è fuori luogo; se essa si
rife ris c e alle forze e alle capacità naturali, non si deve parlare
d i grazia (per lo meno, nel senso soprannaturale). Tra 1 esse­
r e creaturale e la grazia divina non c’è né vi può essere niente
d i in term ed io . Q uesto stesso pensiero su un tale essere
in te rm e d io è soltanto un malinteso, che non scioglie affatto la
d iffic o ltà affiorante nella comprensione del rapporto esisten­
t e t ra Divinità e l’uomo; e le mezze misure qui non servono
p r o p r io a niente. Bisogna trasferire la questione su di un altro
p i a n o , vale a dire bisogna cercarne una comprensione sofio-
jo g ic a . ;
L a questione corretta è la seguente: in che modo 1 uomo
u ò e s s e r e capace di recepire la grazia, cioè la partecipazione
d i D i° ? Q uale principio della vita um ana lo rende atto a
i c e v e r e Dio? E quale principio invece rende la vita umana
c h i u sa a U’az‘one divina, oppure provoca in lui persino oppo-
c iz i o n e ? , .
L a capacità della partecipazione di Dio nell uomo e
i ’irn m ag>ne immagine che costituisce il fondamento
te s s o della sua essenza. Questa immagine è un invito conti-
S u o alla divinizzazione, all’attuazione della forza della Divi-
11o l irnanità, alla sofianizzazione della vita, all’identificazione
jla S °fia divina con la Sofia creaturale. Questa identifica-
• n e già si è comPiuta nella chiesa, che è il corpo del Cristo e
f J^ erripio dello Spirito Santo, la vita in Cristo per opera dello
jr jtc> Santo, la rivelazione della santa Trinità. Questa è la
te inesauribile della forza di grazia della divinizzazione,
^ ° z a che conduce l’uomo di gloria in gloria. Ciò che la
f ° o \ ° g i a cattolica definisce ricorrendo ad un concetto inven-
La chiesa 443

tato, la grazia increata, è appunto questa immagine di Dio


nell’uom o, la sua sofianicità, che lo rende aperto alla sofia­
nizzazione, m entre la gratia creata corrisponde qui alla Sofia
creaturale, con la sola differenza che quest’ultima non è un
dono apposito e concesso ad hoc, come la gratia accidentalis,
ma è l’essenza stessa dell’uomo, il suo carattere intelligibile
(gratia habitualis). Proprio in virtù di questa sofianicità del­
l’uomo, della sua conformità a Dio, è possibile la deificazione
umana e l’accoglienza dello Spirito. Essa è come il loro a
priori, o precondizione ontologica. L’uomo è capace ed è
chiamato alla divinizzazione, che egli stesso invoca. Questo
suo carattere corrisponde alla grazia «naturale» o «creata»,
che giustamente va cercando, ma non là dove dovrebbe, la
teologia cattolica. La grazia - nel senso più generale di questo
concetto - è la Divinoumanità o chiesa, che già si è attuata
nell’incarnazione e nella Pentecoste. La grazia possiede innu­
merevoli modi di azione e di manifestazione, e la sofianicità
naturale della creatura costituisce la condizione generale
della sua ricezione. Anche entro i confini della Sofia creatu­
rale, nell’ambito della «grazia naturale», è possibile distin­
guere questi diversi gradi della sua azione o della sua manife­
stazione nella vita. La differenza di misura dell’ispirazione
naturale non è collegata al fattore-medium, ma corrisponde
alle condizioni della creatività, è il frutto dell’unione sinergi­
ca tra libertà e natura. Nel campo stesso della vita di grazia o
ecclesiale, questo sinergism o tra natura e grazia appare
evidente. La natura dell’uomo decaduto (status naturae lap-
sae) si è in realtà appesantita e allontanata dalla sua propria
fonte originaria, e si è offuscata nella propria sofianicità. E
opera della grazia di Dio è non solo la stessa divinizzazione
(gratia sanctificans o efficax), ma anche il risveglio di essa
nell’uomo (gratia praeparans). Si capisce che registrare que­
sto confine non è concretam ente possibile, perché tanto la
grazia preparatoria, quanto quella santificante hanno la me­
desima fonte e il medesimo contenuto: esse risvegliano e
rinnovano nell’uomo l’immagine sua propria e a lui inerente,
«rovinata dalle passioni», e lo aiutano nella lotta contro il
peccato per poter condurre un’esistenza spirituale. La soglia,
444 L a Sposa dell’Agnello

che divide la vita dell’uomo vecchio da quella dell’uomo


nuovo, è costituita appunto da tali azioni, quale la nuova
nascita o l’ingresso nella chiesa per mezzo dei sacramenti del
battesimo e della cresima. Qui l’uomo per la prima volta
riceve la forza di diventare se stesso, di manifestare la sua
propria natura. E tutta la sua vita nuova si compie sulle vie
della divinizzazione di grazia, tanto attraverso i sacramenti,
quanto anche accanto ad essi, parecchie volte e in modo
m ultiform e. La misura della grazia non conosce confini,
perché è la divinizzazione, è la D ivinoum anità che si è
attuata, è la vita in Dio, vita che possiede una profondità
inesauribile e che non ha mai termine né in questo secolo né
in quello futuro. L ’uomo stesso è il m ediatore, che comunica
tale forza di grazia a tutto il mondo, è il profeta, il re e il
sommo sacerdote della creazione, da lui condotta alla gloria,
cioè alla divinizzazione, quando «Dio sarà tutto in tutti».
Perciò assioma basilare della dottrina sulla grazia deve rima­
nere la sua inesauribilità e la sua indeterminatezza: «Il vento
(lo Spirito) soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di
dove viene e dove va» (Gv 3,8).
La grazia è la Divinoumanità attuantesi, è la chiesa in
actu. Essa è più universale di qualsiasi sua manifestazione,
tanto nei sacramenti, che ne offrono dei raggi distinti, quanto
al di fuori di essi. E già soltanto da questo segue che la chiesa,
intesa quale istituzione o organizzazione dei sacramenti, non
coincide con questo concetto più generale della vita di grazia,
e non la esaurisce. Saulo è stato chiamato da Cristo non
sacram entalm ente, ma con un’azione diretta, e il pagano
Cornelio ha avuto l’apparizione dell’angelo di Dio, mentre
Balaam, pur essendo fuori della chiesa, ha profetizzato, come
pure Melchisedek e tutti gli eroi della fede, anch’essi apparte­
nenti all’Antico Testam ento e ricolmi di grazia, di cui parla il
c. 11 della Lettera agli Ebrei.
Nella chiesa neotestam entaria la grazia non è una speciale
e apposita venuta nel mondo della forza di Dio, affinché sia
com unicata all’uom o, ma è soltanto la m anifestazione e
l’azione di questa forza, esistente già nel mondo in pienezza,
attraverso l’unione con il Cristo e la vita in lui, come pure
La chiesa 445

attraverso la venuta nel mondo dello Spirito Santo e il suo


dimorare in esso. Il tesoro della grazia, come pienezza di vita
in Cristo per opera dello Spirito Santo, non può essere
accresciuto, in quanto tale. Ma la misura della ricezione dei
suoi doni è diversa, come diversi sono gli stessi doni, benché
uno solo sia lo Spirito (cf. ICor 12,11).
Nella teologia sorge la questione: la santificazione della
grazia è data da tutta quanta la santa Trinità, oppure soltanto
dalle sue ipostasi singole? Secondo la dottrina dominante,
tale santificazione si riferisce all’azione congiunta della santa
Trinità. Così insegnano sia la teologia orientale,43 sia quella
occidentale.44 Ciò significa che la divinizzazione della creatu-

43 V ed i gli esem p i riportati dal m etropolita M acario, T eologia, t. II,


par. 165: « N e ll’op era d ella nostra san tificazione p ren d on o parte tutte le
P erson e d ella san tissim a Trinità: il P adre, il F iglio e io Spirito S an to. Q u an do
tutto è o p era to da D io attraverso G esù C risto n ello Spirito, indistinta v ed o
l’o p e r a z io n e d e l P ad re e d el F ig lio e d e llo S p irito S an to» ( B a s i l i o i l
G r a n d e , A d v e rs u s E u n o m iu m , lib. V ). «C iò ch e lo Spirito distribuisce a
ciascu n o, q u ello a ciascu n o è d ato dal Padre attraverso il V erb o: tutto ciò che
appartiene al P adre, a p p artiene anche al F iglio; perciò i d on i, elargiti dal
F iglio n ello S p irito, so n o allo stesso tem p o anche i doni d el Padre» ( A t a n a ­
s i o i l G r a n d e , D e S piritu S a n clo , e. 16).
44 Q ui si dà una certa divergenza: P e t a u (D e T rinitate, V i l i , V I, 6;
L u tetiae Parisiorum 1644) parla d ell’u n ion e d ello Spirito S an to con l’u om o
«secundum h ip o sta sim , non secu nd u m essen tiam », p oich é altrim enti essa
sareb be propria a tutte le ip ostasi (ved i la relativa critica in F . P r a t , L a
Ihéologie d e St. P a u l, Paris 1942, t. II, 359). P .B . F r a g e t , D e l'h abìtation dii
Saint E sp rit d a n s le à m es ju stes d 'a p rès la doctrin e d e St. T hom as d 'A q u in ,
Paris 1900, e A .J . A n g e r , L a d o ctrin e du co rp s m ystiq u e de Jésus C hrist,
Paris 1934, so llev a n o la q u estio n e se n elle anim e sia p resen te la Terza
ip o sta si, op p u re se a ssiem e ad e ssa , sia p resen te tutta quanta la santa Trinità.
P eta u , R a m ières, S ch eeb en e altri so sten g o n o la prim a op in io n e , m entre gli
scolastici, T o m m a so d ’A q u in o , B on aven tu ra da B agn oregio, A lb erto M a­
g n o , S u arez, i teo lo g i di Salam an ca, K leu tg cn , P esch e altri so sten g o n o ,
a ssiem e ai d u e autori su m m en zion ati, la secon d a o p in ion e.
«C u m ea d em virtus sit Patris et Filii e t Spiritus S an cti, sicut ead em
essen tia , o p o rtet q u od o m n e id quod D e u s in n ob is efficit, sit, sicut a causa
effic ie n te , sim ul a Patre et F ilio et Spiritu S an cto; verbum tam en sap ien tiae,
q u o D eu m co g n o sc im u s, n ob is a D c o im m issu m , est proprie representativum
Filii; et sim iliter am or, quo D eu m d iligim u s, est proprie representativum
Spiritus S an cti. E t sic caritas, q u ae in n ob is e s t, licet sit effectu s Patris et Filii
et Spiritus S an cti, tam en quadam sp eciali ration e dicitur esse in n ob is per
Spiritum Sanctum » (S u m m a can tra G en tiles, lib. IV , cap. X X I).
446 La Sposa dell'Agnello

ra, la Divinoumanità, si compie per l’azione triipostatica


della santa Trinità, e che la partecipazione di ciascuna iposta­
si corrisponde alle sue proprietà ipostatiche. Il Padre, quale
ipostasi che si rivela, ma che perm ane nella sua trascendenza,
invia nel mondo le due ipostasi rivelanti, il Figlio e lo Spirito
Santo, e la loro azione congiunta si compie nell’adozione
dell’uomo: «Ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv
1,12). Essendo diventati fratelli in Cristo, i figli di Dio sono
adottati insieme con il Cristo dal Padre per mezzo dello
Spirito Santo.
Affiora ancora un’ulteriore questione: tale divinizzazione
è forse un’unione ipostatica con Cristo o con lo Spirito Santo,
oppure essa è solam ente un’unione naturale, realizzatasi
attraverso l’incorporazione dell’ipostasi creaturale alla vita
divina? E evidente che è possibile soltanto un’unione natura­
le o incorporazione della natura um ana alla vita divina.
A ltrim enti, si accetterebbe la soppressione delle ipostasi
creaturali umane, e lo stato di grazia sarebbe ad immagine
dell’unione ipostatica delle nature in Cristo. Ma l’unione
dell’uomo con il Cristo, la quale è accompagnata dall’acqui-
stare in lui anche un proprio aspetto ipostatico, in nessun
modo è accompagnata dalla soppressione della propria ipo­
stasi creaturale, ma soltanto da una sua trasfigurazione e da
una sua illuminazione. Parimenti non è possibile l’unione
ipostatica dell’uomo con l’ipostasi dello Spirito Santo, come
alcuni suppongono. L’ipostasi dello Spirito Santo non si è
fatta uom o, ma soltanto umanizza, attua l’unione con il
Cristo, rende l’uomo spirituale, trasparente nella propria
essenza umana; e in modo «grazioso» inserisce la sua ipostasi
nell’amore triipostatico della santa Trinità, lo fa «dio per
grazia». U n’immagine dell’azione e dello stato di grazia
l’abbiamo, innanzi tutto, nella M adre di Dio, la quale nella
propria risurrezione e glorificazione siede in cielo «alla destra
del Figlio»; ella è l’ipostasi creaturale, che è stata innalzata e,
attraverso la grazia, associata alla vita delle tre ipostasi
divine.
Se dunque la santificazione della grazia non è e non può
essere in nessun caso l’unione ipostatica di Dio con gli
La chiesa 447

uomini, allora necessariamente essa resta l’unione naturale


delle due nature: quella divina e quella um ana, ad immagine
di quanto è stato compiuto in Cristo dallo Spirito Santo.
Questa ricezione «graziosa» della vita divina da parte dell’uo­
mo è accompagnata dalla presenza in tale vita divina anche
della sua propria ipostasi um ana. Tale è l’ipostasi della
santissima M adre di Dio, e insieme con essa tali sono in
generale tutte quante le ipostasi creaturali umane. Nella
persona della santissima M adre di Dio l’ipostasi sua propria è
ipostatizzante non solo una delle due nature nel Dio-Uom o,
ma in essa anche la natura di tutte quante le ipostasi umane.
In ciò si manifesta il suo significato, quale Madre di tutto il
genere umano. Da questa ipostaticità della natura umana
nella M adre di Dio è esclusa la possibilità di un suo assorbi­
mento da parte della Divinità, insieme con lo spegnimento
dei suoi propri raggi ipostatici nella luce del Sole divino. Ma
da questa unione naturale dell’umanità con la Divinità di
Cristo vengono svelate le vie della divinizzazione, della
ricezione cioè della vita divina nella vita umana, della sua
capacità di partecipazione di Dio. Data una tale divinizzazio­
ne, appare però im m ediatam ente una differenza fondam en­
tale: nell’unione ipostatica delle due nature in Cristo, la
natura um ana è in modo indivisibile e senza confusione
associata a tutta la pienezza della vita divina, in quanto «in lui
abita corporalm ente tutta la pienezza della Divinità» (Col
2,9), e in lui riposa ipostaticam ente lo Spirito Santo. Nell’u­
manità creaturale invece questa unione tra la natura divina e
la natura um ana, questa sua capacità di partecipazione di
Dio, si compie di forza in forza e di misura in misura. Questa
è la «vita eterna» della creatura, vita che mai si esaurisce e
che mai raggiunge la propria pienezza. In questo senso essa è
l’eternità creaturale (aeviternitas) , a differenza dell’eternità
divina (aeternitas). E già in virtù di questa sola non pienezza
dell’associazione della creatura alla vita divina, tale associa­
zione non può essere accompagnata dall’unione ipostatica
con la divinità, ma è soltanto l’unione naturale, «calcedone-
se», delle due nature in Cristo e attraverso il Cristo, in cui la
vita creaturale, la vita um ana («volontà ed energia») «segue»
448 La Sposa dell’Agnello

(é'jrstoa, secondo la definizione del VI concilio ecumenico)


quella divina, essendo da essa com penetrata di misura in
misura.
La grazia, intesa quale vita divinoumana, quantunque
non significhi per la creatura un’unione ipostatica con Dio,
nondimeno non solo non esclude un rapporto personale con
lui, ma anzi lo presuppone. La Divinità, o la vita divina,
quale oùoi'a o Sofia, è inseparabile dalle ipostasi, è eterna­
mente ipostatizzata. Perciò anche la natura creaturale, che
aspira all’unione con la vita divina, non può, per così dire,
evitare l’incontro personale con Dio, incontro che non è
l’unione ipostatica delle due nature, ma è l’incontro o l’unio­
ne delle ipostasi: quella divina e quella creaturale. Un tale
incontro e una tale unione si compiono nella vita-in-Dio e
nella preghiera. La prima di queste due collega e congiunge
l’azione di Dio nell’uomo, la vita di grazia in Dio, alla sua
fonte ipostatica: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me» (Gal 2,20); «e noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo
Gesù Cristo» (lG v 5,20 e molti altri testi). Lo stesso a
proposito dello Spirito Santo: «Lo Spirito stesso attesta al
nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8,16); «Dio ha
mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida:
A bbà, Padre!» (Gal 4,6). Similmente riguardo al Padre, al
cui cospetto il Figlio in preghiera presenta - per mezzo dello
Spirito Santo - i figli di Dio, figli dell’uomo: «Padre nostro!».
In generale, tutte quante le relazioni deH’uomo con Dio sono
personali, e questo loro carattere personale è riprodotto nella
preghiera, quale unione naturale.
Tuttavia, questo momento ipostatico della correlazione
esistente tra la creatura e il Creatore non è né unico né
esauriente. Anzi esso non caratterizza la grazia, in cui l’uomo
accoglie non tanto il Dio ipostatico, quanto la Divinità,
ricevendo da essa una forza divina. G eneralm ente parlando,
differenziato può essere il rivolgersi della creatura rispetto a
Dio: può essere non solo personale, ma anche non-personale
(ciò che viene espresso, nell’uso del termine greco, dalla
presenza o dall’assenza dell’articolo: ó 0 E Ó g oppure 0eóg).
Certam ente, anche in quest’ultimo caso la nostra relazione
La chiesa 449

con Dio non perde del tutto il suo carattere personale, che
non può essere totalm ente rimosso nel teismo; ma essa resta
priva di quella concretezza, propria di un rivolgersi alle
ipostasi singole, o alla santa Trinità, quale Dio trino e uno.
Ma accanto a questa relazione personale esiste ancora, per
così dire, un altro rivolgersi indeterminato a Dio in generale,
alla Divinità, alla Sofia. Questa stessa cosa va applicata in
misura ancora maggiore a quei casi di un rivolgersi imperso­
nale a Dio da parte di tutta la creazione di Dio, prima
dell’uomo o oltre l’uomo (per es., nel cantico dei tre giovani
nel libro del profeta Daniele 3,51-90). In questi e in altri
simili atti del rivolgersi a Dio, l’accento è posto non sulla
persona, ma sull’essenza, non sull’ipostasi di Dio, ma sulla
sua Divinità. Tale appunto è la nostra ricezione della grazia.
Q uantunque sia giusto ritenere che la grazia provenga dal
Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, dalla Monade nella
Triade e dalla Triade nella M onade, tuttavia lo stesso dono
può essere anche non ipostatizzato. È come se si trattasse di
una grazia impersonale, di un dono appunto, e non di un
D atore (e il tentativo da parte di alcuni teologi cattolici di
identificare questo dono con il D atore, lo Spirito Santo,45 con
la sua inconsistenza non fa che confermare questa verità). Se
amm ettiam o che la grazia non soltanto è data dalla Terza
ipostasi, ma che essa è la stessa Terza ipostasi, allora soppri­
miamo questa stessa ipostasi, equiparandola alla sua stessa
natura, come un dono impersonale. In quanto poi facciamo

45 « A t v ero don u m e s s e , p ersonalis est Spiritus Sancti natura, proprie-


tas, id e s t, ut A u gu stin u s exp licat, d on ab ile e s s e ... U n d e si donari p o sse,
singulare est Spiritui S a n cto, n eq u e alteri p erson ae congruat; erit actu donari
proprium eiu sd em . Proprius est ergo Sancti Spiritus iste ipse m odus; n eque
p erso n a e alteri p otest adscribi. N am si eo d em m od o dari p otest salutem
F ilius, ut om ittam m o d o P atrem ; perinde don ab ilis est Filius ac Spiritus
San ctu s, q u on iam idem est d on ab ile e s se , quod est esse Spiritum Sanctum .
H o c v ero falsum est et im pium dictu. Igitur est non solum d o n a b ile, sed
etiam d o n u m , vel p o tiu s d atu m , e o m o d o , q u o non est Pater aut Filius.
P roprio er g o , et singulari m od o Spiritus Sanctus cum iis q u os san ctos facit
co n ju n g itu r, et inest ipsis. P roinde secundum hyp ostasim , non secundum
essen tia m d u m taxat, h oc illi con ven it ( P f . t a u , D o g m . theol. I l i , de Trini tate,
lib. V i l i , c. V I).
450 La Sposa dell’Agnello

coincidere questa elargizione dei doni di grazia da parte della


natura divina o Divinità con la sola Terza ipostasi, introducia­
mo una differenziazione nella stessa unica oùoi'a divina:
risulta che essa stessa si divide e si distingue nelle singole
ipostasi. Contro una tale differenziazione delle singole ipo­
stasi, bisogna di nuovo riaffermare la consustanzialità della
santa Trinità e l’uguale partecipazione di tutte le ipostasi
divine all’unica natura divina, che è pure l’unica fonte della
grazia («delle energie»), la Sofia divina. Da questo punto di
vista, è inammissibile che un’ipostasi qualsiasi possieda ciò
che un’altra non possiede. Difatti, con ciò resta valido che
ciascuna ipostasi possiede questa unica natura in modo corri­
spondente al proprio carattere ipostatico, e alla luce di questa
differenza ipostatica si determ ina pure l’elargizione di questa
unica essenza divina. Nella Divinoumanità, quale rivelazione
della santa Trinità, è propria dello Spirito Santo l’effettuazio­
ne dei doni concessi da Dio alla creazione; è lui il dispensato­
re di quanto viene concesso da tutte le ipostasi, ma su questi
doni c’è l’impronta di tutte e tre le ipostasi (cf. IC or 12; Rm
12,6-8). Il Padre si rivela nel Figlio, e la vita in Cristo è
attuata dallo Spirito Santo: se nel Figlio è determinato il
contenuto della vita divina, allora per mezzo dello Spirito
Santo essa diventa per noi una realtà. In questo senso si può
dire che noi abbiamo il Cristo per mezzo dello Spirito Santo,
ed è per mezzo dello stesso Spirito Santo che noi siamo
adottati dal Padre. Noi non conosciamo Dio senza la sua
ipostasi, nella separazione della natura divina dalle ipostasi.
Nella nostra esperienza di grazia ciò che conosciamo più
imm ediatam ente è il volto del Cristo, del Dio-Uomo. Tutta­
via, il dono di grazia della divinizzazione non è la rivelazione
ipostatica di Dio, ma corrisponde alla natura di Dio, alla
Divinità. In altre parole, ciò è la Sofia divina, l’Archetipo o
Immagine prima celeste dell’um anità, attuantesi nella crea­
zione. L ’uomo, in quanto porta l’immagine della Sofia crea­
turale, in essa possiede la chiamata o il postulato alla diviniz­
zazione, alla sofianizzazione del proprio essere. La grazia
non è la violenza divina sulla sua natura, un qualcosa di
accidentale, di estraneo all’uom o, che potrebbe anche non
La chiesa 451

esserci, un qualcosa che è soltanto in regola con un arbitrio


benevolo. Al contrario, essa è l’attuazione di quella Divinou­
manità dell’uom o, la quale, essendo posta nella sua creazione
ad immagine di Dio, attraverso la capacità di partecipazione
di Dio da parte dell’uomo compiutasi nell’incarnazione e
nella Pentecoste, riceve questa forza in un ravvicinamento
graduale e continuo della natura divina e della natura umana
nell’uomo. Nella grazia, l’uomo riconosce e realizza il fonda­
mento del proprio essere. «Non sono più io che vivo, ma
Cristo vive in me» per mezzo dello Spirito Santo, che unisce
Dio all’uomo. La vita in Cristo è data all’uomo e nello stesso
tempo gli è concessa come un qualcosa da raggiungere; e
l’uomo è il tempio dello Spirito Santo. In tal modo, la grazia
non è un qualcosa di speciale, che è concesso all’uomo, per
così dire, accanto o oltre l’incarnazione e la Pentecoste: al
contrario, essa è il loro dono, è la Divinoumanità che si
realizza. Essa però non può attuarsi per mezzo di un unico
atto esauriente, come è avvenuto con la discesa divina nel
mondo della Seconda e della Terza ipostasi. Essa, quale
principio inesauribile ed eterno, può soltanto compiersi in
modo progressivo e multiforme, e viene concessa in doni
singoli e in manifestazioni distinte. Una via delle più impor­
tanti, in quanto è collegata a forme ben definite e ad istituzio­
ni esteriori, sono i sacramenti, ma da essi la grazia non è né
esaurita né limitata. Con questo, bisogna ancora aggiungere
che ogni dono di grazia, anche se specialmente qualificato da
un determ inato sacram ento, può aum entare, se acceso dalla
fede e dall’amore di chi lo riceve, ex opere operantis.
In tal modo, la grazia nei confronti della Divinoumanità
non è un nuovo «qualcosa», ma soltanto un «come». Le
diverse parti della dottrina sulla grazia, la sua classificazione,
ecc. costituiscono solam ente il tentativo, incompiuto e in
anticipo disperato, da parte delle scuole di esaurire e di
stabilire le vie di questa capacità di partecipazione di Dio,
quantunque ciò possa talvolta avere un certo valore pratico,
sia teologico che pastorale. Ma la natura della grazia è tale
che essa tutta quanta appartiene all’unico e universale sacra­
m ento dei sacram enti, al sacramento della chiesa. C ’è la
452 L a Sposa dell’Agnello

chiesa, non già soltanto come «comunità dei credenti», ma


come essenza, e c’è la grazia, quale manifestazione di questa
essenza.
In relazione e sul fondam ento di quanto sin qui detto, si
risolve la questione concernente la necessità della grazia nella
disputa tra l’ortodossia e il pelagianesimo. La controversia
tra Pelagio e s. Agostino ruotava attorno al problema se la
grazia fosse necessaria o meno per la salvezza. Il terreno per
questa disputa non era pronto, data l’assenza di una dottrina
generale sulla grazia nella sua stessa sostanza. Am bedue le
parti sono cadute in unilateralità analoghe. Pelagio sosteneva
con grande vigore ciò che noi sopra abbiamo considerato
come la grazia naturale, quale dono di Dio all’uomo per il
fatto della sua creazione. Questo dono consiste essenzialmen­
te nell’immagine di Dio nell’uomo, mentre la sua somiglianza
è determ inata dalla creatività umana sul fondam ento della
libertà creaturale. A fferm are la necessità della creatività
umana in base alla libertà, di per sé, non contraddice ancora
la dottrina della chiesa. La contraddirebbe piuttosto la sua
negazione, che di fatto sopprim erebbe la Divinoumanità. Il
fatto che Pelagio abbia tanto vigorosamente sostenuto la
libertà dell’uomo e il valore derivante della responsabilità e la
necessità dell’azione personale, in breve l’importanza dell’a­
scetismo, corrisponde perfettam ente alla dottrina ortodossa
sul sinergismo. L ’energia umana partecipa necessariamente
all’opera della salvezza, vale a dire all’assimilazione della
divinizzazione, anche se in un grado indebolito dal peccato
originale.46 Questo riconoscimento della capacità dell’uomo,
anche se decaduto, ad un movimento libero incontro alla

46 « N o i cred ia m o ch e l ’u o m o , d e c a d u to a causa d el p e c c a to , si è
offu scato e ha p erd u to la p erfezion e e l’im passib ilità, ma non ha perduto
q u ella natura e q u ella forza, che ha ricevu to da D io m isericord ioso. P oich é,
in caso co n trario, egli risulterebbe irragion evole, cio è non u om o: ma egli
p o ssied e la natura, con cui è stato crea to , e una forza naturale libera,
v iv en te, attiva, così ch e se co n d o natura p u ò scegliere e fare il b e n e , fuggire e
allontanarsi dal m a le ... D a ciò è ev id en te che il b en e fatto d all'u om o non può
essere un p ecca to , perch é il b en e non p u ò essere m ale» (L ettera d e i p a tria rch i
d ella C hiesa cattolica orien tale su lla f e d e o rto d o s sa , art. 14).
La chiesa 453

grazia, o della capacità di compiere un bene naturale, è un


contributo piuttosto positivo all’antropologia cristiana. Tut­
tavia nella dottrina di Pelagio (che, d’altra parte, conosciamo
soltanto dalle esposizioni polemiche di s. Agostino e dei suoi
seguaci) pare si sia perduto il senso della forza del peccato
originale nell’uomo. Di conseguenza, non si tiene bene in
vista la distanza esistente tra l’umanità dell’Adamo decaduto
e quella dell’Adam o nuovo,47 e si smarrisce il valore dell’ope­
ra redentrice di Cristo e della potenza della Pentecoste. In
generale, la dottrina di Pelagio, dati questi suoi lineamenti, ci
fa ritornare ad uno stoicismo precristiano, per cui la forza
della volontà e dell’azione umana è autosufficiente, e l’opera
di Cristo acquista un valore soltanto esemplare. Non bisogna
però dimenticare che anche la dottrina di s. Agostino soffre
nella stessa misura di unilateralità, quantunque di carattere
opposto: essa è l’antitesi del pelagianesimo, trovandosi da
esso polemicamente dipendente. Ciò riguarda prima di tutto
l’antropologia. In polemica appunto con Pelagio, s. Agostino
ha a tal punto accentuato la dottrina sul peccato originale da
renderlo onnipotente nell’uomo. Il peccato originale priva
l’uomo della libertà al bene: resta la libertà soltanto al male.
Sebbene formalmente s. Agostino si sforzi di lasciare una
parvenza di libertà, essa però in lui conserva solamente il
significato di un’emozione soggettiva. Da ciò è evidente come
venga soppresso il terreno per il sinergismo, e la grazia a dire
il vero fa violenza all’uomo, agendo su di lui invincibilmente
e inevitabilmente per mezzo di una delizia insormontabile.
Da qui e in modo conseguente, si sviluppa pure la dottrina
sulla predestinazione con il suo fatalismo, con tutte le sue
conclusioni, sino a quella per cui il Cristo è venuto soltanto
per la salvezza degli eletti (pensiero questo accettato sino in
fondo dal calvinismo). Se la tesi pelagiana nella dialettica
della dottrina sulla grazia sostiene l’autosufficienza dell’uma-

47 In m o d o p articolarm en te m arcato ciò si m anifesta in alcuni urtanti


estrem ism i antropom orfici di G iu lian o (cf. s. A g o s t i n o , C on ira lu lian u m
o p u s im p erfectu m ). C f. il saggio di S .S . B e z o b r a z o v sul p elagian esim o.
454 La Sposa dell’Agnello

nità, dato il significato soltanto ausiliare della grazia, allora


l’antitesi di s. Agostino afferma non solo l’onnipotenza della
grazia, ma anche la completa passività dell’uom o, che è
solamente materiale plastico, restando sottomesso al proprio
destino. Quantunque s. Agostino con la propria influenza
abbia contribuito più di ogni altro al rifiuto ecclesiale del
pelagianesimo, tuttavia anche la sua dottrina nei suoi eccessi
non è stata per niente accolta dalla chiesa né in oriente, dove
al suo tempo la controversia pelagiana in generale non è stata
degna di nota, e neppure in occidente. Qui nelle deliberazio­
ni dei sinodi di Cartagine (418) di Orange (529) e altri,
sebbene sia stata respinta la diminuzione del peccato origina­
le e della forza della grazia in Pelagio, non è stato però affatto
accolto integralmente l’insegnamento positivo dello stesso s.
Agostino sulla non libertà della volontà umana e sulla prede­
stinazione. Queste ultime parti deH’agostinismo hanno rice­
vuto in occidente un’accentuazione indebita nella teologia
della riforma: la dottrina sulla salvezza in Lutero e special­
mente in Calvino. Su questo punto, anche ai nostri giorni,
l’agostinismo rimane non superato.

Come eredità di questa disputa, resta il problema genera­


le sulla correlazione tra libertà e grazia e sui confini dell’azio­
ne di quest’ultima sull’uomo. Secondo le indicazioni della
parola di Dio, come pure secondo quelle della tradizione
patristica, la vita di grazia dell’uomo in tutta la sua estensione
si compie in base alla sua libera ricezione, e insieme all’azio­
ne della grazia, azione che è continua e non avente per sé
confini esterni.48 Una correlazione più precisa tra libertà e
grazia non viene affatto determ inata, e questo è comprensibi­
le, tenuto conto che questo campo è soggetto, da una parte,
alla manifestazione della libertà um ana, e, dall’altra, all’azio­
ne divina, che è inesplorabile e inesauribile. Questa correla­
zione ha il proprio principio e fondam ento nell’incarnazione

48 V ed i le corrisp on denti esp osizion i nei m anuali di d ogm atica, per e s .,


in q u ello del m etro p o lita M a c a r i o , T e o lo g ia , t. II, par. 183-199.
La chiesa 455

e nella pentecoste, quale Divinoumanità compiutasi, ed essa


fluisce nella divinizzazione che si sta attuando, quale vita
capace della partecipazione di Dio e quale possesso della
grazia da parte dell’uomo: essa ha come scopo la divinizzazio­
ne completa dell’um anità, quando Dio sarà tutto in tutti.
Essa non ha di per sé un term ine, in quanto la divinizzazione
è la vita eterna in Dio, vita che è inesauribile e infinita nei
secoli dei secoli. Essa però conserva sempre le proprie pre­
messe iniziali: non solo la differenza tra il Creatore e la
creazione, e la distanza invalicabile tra di loro, ma anche
insieme a ciò la loro correlazione libera e sinergica. La
creatura non perde se stessa, non è consumata nel fuoco
divino, non affoga nell’oceano della profondità divina, non è
annichilita davanti alla grandezza di Dio, ma rimane nella
propria autoessenza o identità creaturale, poiché è stata
posta nell’essere da Dio, e nella propria libertà essa stessa si
autopone in tale essere. Questo è il mistero dell’essere creati,
questo è l’am ore di Dio verso la creazione, a cui corrisponde
e di cui si accende l’amore della creazione verso Dio: questa è
la reciprocità dell’amore tra Dio e la creazione, reciprocità
che è altresì «sinergismo».
La natura della creatura, quantunque sia rischiarata dal­
l’autocoscienza personale, non è però sino in fondo da essa
squarciata. Tale natura rappresenta il dato-di-fatto oscuro e
ipostaticam ente non luminoso, il campo inconscio o subcon­
scio, che soltanto parzialmente e gradualmente penetra e
affiora nella vita cosciente. Perciò l’azione della grazia nel­
l’uomo non solo riguarda la coscienza, ma si compie anche al
di fuori di essa, nel campo subcosciente della vita corporale e,
in genere, naturale.49 A ciò sì riferiscono alcune immagini

49 Q u e sto p en siero è esp resso n ella preghiera di S im eon e M etafraste


d o p o la san ta co m u n io n e: «Tu ch e mi hai d ato volon tariam en te la tua carne
in c ib o . T u ch e sei fu o co e bruci gli in d egn i, non bruciare m e, m io C reatore;
m a p en etra n elle m ie m em b ra, n elle m ie giu n tu re, n elle m ie viscere e nel m io
c u o r e ... Purifica la m ia an im a, santifica i m iei p en sieri, fortifica le m ie
a rticolazion i e le m ie ossa; illum ina i m iei cin q u e sen si, inchiodam i tutto con
il tu o tim o r e ...» (trad u zion e di su or M aria).
456 La Sposa dell’Agnello

evangeliche, come quelle del granello di senape, del lievito


(Mt 13,31-33), del seme gettato dall’uomo nella terra: «Dor­
ma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce;
come, esso stesso non lo sa» (Me 4,26-28), ecc. Talvolta
questa «fiamma delie cose» o luce divina si sprigiona e affiora
alla superficie della coscienza e di sé la rischiara. Tali sono gli
stati descritti da s. Simeone il Nuovo Teologo e dagli esicasti,
la «luce taborica», la grazia m ostrata da s. Serafino di Sarov a
Motovilov. Queste illuminazioni, anche quando riguardano
l’una o l’altra ipostasi divina, il Cristo o lo Spirito Santo, di
per sé rimangono impersonali, manifestazioni della Divinità,
e non delle ipostasi divine: in questo senso, esse sono sofiani-
che, benché, si capisce, la grazia divina o Sofia non possa
essere completam ente separabile dalle ipostasi. Proprio que­
sta distinzione tra Dio, ipostasi trinitaria e triunitaria, e la
Divinità o Sofia, ha avuto principalmente in vista s. Gregorio
Palamas nella sua dottrina sulle «energie increate», che, quali
folgori della Divinità, penetrano nel mondo: queste energie,
da una parte, sono divine (e a ciò si riferisce la formula usata
da s. Gregorio Palamas, secondo cui l’energia è Dio, freóg, è
divina), e, dall’altra, sono in modo indeterm inato molteplici
o multiformi, in quanto la loro stessa ricezione da parte
dell’uomo è collegata a tutta la varietà e plurigradualità della
sua crescita spirituale. M a queste energie restano, in s.
G regorio Palam as, non ipostatiche, sono ipostaticam ente
non qualificate (e ciò si trova in parte in relazione con tutta
l’incompletezza della sua dottrina, in cui in generale non si
chiarisce la relazione esistente tra le ipostasi divine nella
santa Trinità e le energie). Tuttavia, la capacità della parteci­
pazione di Dio da parte della creatura non può essere limitata
esclusivamente a questa grazia non ipostatica. Quale sostanza
ipostatica, che ha sem pre l’essere naturale ipostatizzato,
l’uomo (come pure gli angeli) possiede necessariamente un
rivolgersi personale a Dio, per così dire, un incontro persona­
le con lui, un’accoglienza personale di Dio. È perciò impossi­
bile sopprim ere completam ente questo elem ento personale,
avendolo interam ente sostituito con l’azione subcosciente
della grazia. La grazia è accolta da una persona e in modo
La chiesa 457

personale, quantunque da questa ricezione la sua azione non


venga esaurita. Il principio personale non è sopprimibile
nella vita umana in generale, e in particolare in quel sinergi­
smo, in quell’incontro e in quella correlazione tra Dio e
l’uomo, che si compie nell’atto dell’infusione della grazia.
Qui bisogna evidenziare e collocare in un posto tutto speciale
la preghiera, quale contatto diretto e immediato tra la creatu­
ra e la Divinità, e, per così dire, quale sacramento del Nome
di Dio. La preghiera è essenzialmente un rapporto personale,
essa è diretta da una persona ad un’altra Persona, essa è
costruita su di un pronom e personale, essa è sempre persona­
le. In effetti, anche dato questo carattere personale della
preghiera, ad essa non sempre è propria un’ipostaticità ben
determ inata. La preghiera può essere rivolta non solo alle
singole ipostasi della santa Trinità o alla Trinità stessa, ma
anche a Dio in generale, cioè alla Divinità o Sofia divina. Ma
questo indica soltanto il fatto che nella coscienza dell’orante
le ipostasi divine giammai sono separate dalla natura o Sofia,
ma restano ad essa collegate. La preghiera è il caso più
semplice e più tipico dell’atto di grazia, in quanto in essa ha
luogo l’incontro o unione tra la Divinità e la creatura nel
Nome di Dio. E poiché la preghiera autentica, cioè fatta col
cuore e ardente, è sempre ascoltata, allora questo suo essere
ascoltata è la forma più semplice dell’azione di grazia. (Con­
viene aggiungere che il quadro dell’azione di grazia qui
ancora di più si allarga attraverso l’invocazione orante dei
santi, quali portatori della grazia e, in quanto tali, mediatori
della sua elargizione).
La preghiera, in quanto rivolta a Dio, possiede non
solamente un carattere personale e ipostatizzato, ma può
riferirsi ad un’ipostasi ben determinata: al Padre, al Figlio,
allo Spirito Santo, oppure alla santa Trinità. Di conseguenza,
tale preghiera, come anche la grazia in essa contenuta, è
ipostaticamente qualificata. Tale, innanzi tutto, è la preghie­
ra del Signore al Padre che è nei cieli, preghiera che il Signore
stesso ha insegnato ai suoi discepoli. In questo amm aestra­
m ento, dobbiamo distinguere non solo un certo contenuto di
questa preghiera delle preghiere, comprendente in sé tutto il
458 La Sposa dell’Agnello

nostro essere creaturale, ma anche un rivolgersi personale al


Padre, rivolgersi che testimonia la sua accessibilità alla nostra
preghiera. Lo stesso si può dire, con il medesimo grado di
evidenza, benché sotto un altro aspetto, della nostra preghie­
ra al Figlio di Dio, della «preghiera di Gesù», che ci concede
espressamente la capacità della partecipazione di Dìo e il
dono della vita di Dio. Lo stesso si può dire, ma sotto un altro
diverso aspetto, del rivolgersi orante allo Spirito Santo, che è
per noi il datore ipostaticamente trasparente della grazia di
Dio. Infine, la preghiera alla santa Trinità, per noi la più
difficile e, in quanto tale, quasi irrealizzabile, e nondimeno
assegnataci dalla chiesa, quale dilatazione particolare del
cuore orante ed elevazione di esso alle dimore supreme,
secondo la parola del Signore: «Noi (il Padre ed io) verremo
a lui e prenderem o dimora presso di lui» (Gv 14,23). La
preghiera, quale speciale azione sacramentale del Nome di
Gesù, indica principalmente l’elargizione ipostatica del dono
di grazia, e con ciò si differenzia dalla grazia dei sacramenti
con il loro carattere non ipostatico. La preghiera si rivolge ad
una persona divina o anche ad una persona creaturale (la
santissima Madre di Dio, gli angeli, i santi) con la richiesta
del dono di grazia. Certo, anche i sacramenti (e i sacram enta­
li) sono sempre accompagnati dalla preghiera, e nondimeno il
dono di grazia già possiede un suo carattere proprio, proprio
appunto del sacramento in questione. I doni sacramentali
sono non tanto l’azione diretta delle ipostasi divine, quanto la
manifestazione della forza della Divinità, o Sofia divina, che
comunica la divinizzazione alla creatura mediante la Sofia
creaturale.
Nella dottrina sui confini del sacramentalismo sorge inevi­
tabilm ente la questione relativa alla forza e all’efficacia dei
sacramenti concessi nell’«eterodossia», cioè oltre il confine
dell’ortodossia, che, essendo la chiesa dogm aticam ente e
giuridicamente non guastata, possiede in quanto tale la pie­
nezza del potere dei sacramenti, la potestas clavium. I sacra­
menti allora si compiono anche oltre i confini dell’ortodossia?
A tale questione si risponde affermativamente nella prassi
della chiesa, che riconosce certi sacram enti, amm inistrati
La chiesa 459

nell’eterodossia, irripetibili, e di conseguenza validi (il batte­


simo, la cresima, l’ordine sacro, il matrimonio). Non entran­
do nei dettagli, bisogna rilevare lo stesso principio basilare
di questo riconoscimento, perché basta ammetterlo anche in
un punto solo, e ciò è già sufficiente per porre la questione
concernente Yecclesia extra ecclesiam in tutta la sua ampiez­
za. Q uantunque sia possibile incontrare, anche ai nostri
giorni, la negazione dell’efficacia dei sacramenti oltre i con­
fini dell’ortodossia (talvolta persino in forma blasfema, co­
me la famigerata espressione: «la tavola diabolica»), tuttavia
essa è tanto incompatibile con la definizione vitale della
chiesa, che non m erita neppure di essere esaminata. La
questione verte non se i sacramenti dei non ortodossi siano
validi o meno in generale, ma soltanto quale sia questa loro
validità o efficacia. Può esserci qui un più o un meno,
oppure è possibile solo un’unica alternativa: il riconoscimen­
to della pari venerabilità di questi sacramenti, oppure la loro
totale negazione? Né l'una né l’altra soluzione nello spirito
di questa alternativa sono possibili ed entrambe sarebbero
forzate. I sacramenti sono conferiti anche al di fuori dell’or­
todossia, e anzi non solo ex opere operantis nella loro devota
ricezione da parte dei credenti, ma anche ex opere operato,
con l’elargizione della grazia divina.50 Ne consegue che è
necessario determ inare solamente il grado di questa efficacia
dei sacramenti al di fuori dell’ortodossia, quale «confessio­
ne». I sacramenti dei non ortodossi sono per essi come delle
finestre, aperte sul cielo, che è da essi accolto attraverso
appunto queste finestre. Il cielo è uno solo, si differenzia
soltanto il modo della sua ricezione. Queste diverse finestre
di fatto restano impenetrabili a tutte le altre confessioni,
quantunque attraverso di esse si contempli lo stesso cielo.

511 Q u e sto rico n o scim en to già l o si riscontra in A g o s t i n o : « N eq u e enim


sacram enta eoru m n ob is inim ica sunt quae cum illis nobis sunt com m unia:
quia non hum ana su n t, sed d ivina. Proprius eorum error auferendus est,
q u em m ale im bib eru n t, non sacram enta quae sim iliter acceperunt quae ad
paenam suam portant et h ab en t, qu an to indignius h ab en t, sed tam en ha-
bent» (E p ist. 89; P L X X X III, 312).
460 La Sposa dell’Agnello

Questa chiusura reciproca è, in una certa misura, una


chiusura disciplinare, corrispondente allo stato di disunione
delle confessioni o alla «divisione delle chiese» entro i
confini dell’unica chiesa. Ma questa disunione è anche una
certa diminuzione, tanto per tutti in generale, non potendo
adunarsi presso un unico altare, quanto in particolare per
tutti i non ortodossi, e in misura diversa, a seconda del
grado del guasto e del danno sofferti da queste confessioni.
Non abbiamo alcun mezzo per determ inare la misura di
questa diminuzione rispetto a quella pienezza, che alla
chiesa è stata data o, più precisam ente, le è stata assegnata
in presenza della sua unità universale. Non si vedono
tuttavia ostacoli di principio al fatto che si riconosca che
questi sacramenti, anche se diminuiti nell’efficacia, nondi­
meno restino dei portatori efficaci dei doni di grazia, siano
cioè salutari, in quanto uniscono coloro che li ricevono al
corpo della chiesa (certo, la ricezione di fatto di questo
dono da parte delle singole persone, opus operantis, è un
mistero del disegno di Dio). Ma questo riconoscimento di
fatto delle vie della salvezza anche oltre i confini dell’orga­
nizzazione ecclesiale, (riconoscimento tanto essenziale al
movimento «ecumenico»), ha un significato di principio di
primaria importanza. Se resta valido l’assioma secondo cui
extra ecclesiam nulla salus, allora l’idea di ecclesia evidente­
mente qui non coincide con il concetto di una determ inata
organizzazione ecclesiale, ma è più ampia e si riferisce al
corpo mistico della chiesa. La determinazione della correla­
zione esistente tra Ecclesia ed ecclesiae resta non risolta,
come irrisolto resta pure il problem a più assillante della
teologia ai nostri giorni, sebbene per risolverlo si sia
torm entato a modo suo già s. Agostino, che ha lasciato una
serie di idee-guida. Queste idee non possono in generale
essere accolte integralm ente, in quanto contengono una
serie di evidenti contraddizioni (quantunque la teologia
anche in ciò non abbia proceduto oltre lui, restando con­
sciamente o inconsciamente sotto l’influsso della sua ecce­
zionale personalità). S. Agostino parte dalla formula di s.
Cipriano per affermare che al di fuori della chiesa non può
La chiesa 461

esserci salvezza.51 Tuttavia, anch’egli non ha potuto conside­


rare questo essere fuori della chiesa un assoluto vuoto religio­
so, e ha riconosciuto che «al di fuori della chiesa» (nel senso
convenzionale e confessionale del termine) vi è la possibilità
e l’esistenza della fede in Dio, del battesimo, dei sacramenti.
Ma ciò si congiunge in lui, in un modo strano e incomprensi­
bile, alla negazione dei doni dello Spirito Santo e della
remissione dei peccati, doni e remissione che sono concessi
appunto attraverso questi sacramenti. In generale, la ricezio­
ne del sacramento risulta in lui possibile per la salvezza, come
pure per la condanna. Ma che cosa in tal caso rappresenta
questa fede che non salva, questo battesimo e questa peniten­
za che non liberano dai peccati, questa eucaristia che è
inefficace, sebbene sia valida?52 Questa radicale contraddi-

51 «E xtra ecclesia m cath olicam totum p otest praeter salu tem . P otest
h a b ere h o n o r e m , p o te st h a b ere sa era m en tu m , p o te st cantare A llelu ia ,
p o test resp on d erc A m e n , p otest E van geliu m ten ere, p otest in n om in e Patris
et Filii et Spiritus Sancti fidem et h ab ere et praedicare; sed nusquam nisi in
ecclesia ca th o lica salu tem p oterit invenire» (S erm o a d C a e s.\ P L X L III,
695). «S a lu s, inquit (C yp rian u s), extra E cclesiam non est. O u is negat? Et
id eo q u aecu m q u e ipsius E cclesia e h abentur, extra E cclesiam non valen t ad
salutem (!!). S ed aliud est non h ab ere, aliud non utiliter habere. Q ui non
h a b et, est b a p tisan du s, ut habeat; qui autem non utiliter h ab et, ut utiliter
habeat corrigendus» ( D e b a p tism o , lib. IV , c. X V II; P L X L III, 170).
« U n u s en im D e u s, una fid es, unum b ap tism a, una incorrupta cath oli­
ca E cclesia; n on in qua so la unus D e u s colitur, sed in qua sola unus D eu s pie
colitur; n ec in qua so la una fides retin etu r, sed in qua sola una fides cum
caritate retinetur; n ec in qua sola unus baptism us h abetur, sed in qua sola
unus b aptism us salubriter habetur» (C o n tro C resc .. I, c. X X IX ; P L X L III,
4 6 4 ). E c co altri testi a p rop osito d ell'im p ossib ilità dei doni d ello Spirito
S an to al di fuori d ella chiesa: «Isti au tem cum quibus agim us, vel de quibus
agim us, non sunt d esp erand i; adhuc en im sunt in co rp o re: se d non qu aeran t
S p ìritu m Sancturn, nisi in Christi corp ore cuius hab en t foris saeram entum ,
sed rem ipsam non ten en t intus cu iu s est illud saeram entum ; et id eo sibi
iudicium ed u n t et bibunt (IC or X I, 2 9 ). U n u s enim panis saeram entum est
unitatis (ib. X , 1 7 )... P roinde E cclesia catholica sola corpus est C hristi, cuius
ille caput est S alvator corporis sui (E p h . V , 23 ). Extra h oc corpus nem inem
vivificat Spiritus San ctu s (R o m . V , 5 ) ... N o n est autem particeps divinae
caritatis, qui h ostis est unitatis. N o n habent itaque Spiritum Sancturn qui
sunt extra E c c le sia m ... Q u i ergo vult habere Spiritum Sancturn, caveat foris
ab E cclesia rem a n ere, caveat in illam sim ulatus intrare» (E p ist. 185; P L
X X X III, 8 1 5 ). «Extra E cclesiam non rem ittuntur peccata» (E n ch ir. I, 65; P L
X L , 262).
462 La Sposa dell’Agnello

zione dell’ecclesiologia e dell’antropologia di s. Agostino, se


applicata al contem poraneo stato di divisione del mondo
cristiano, può condurre a conclusioni m ostruose, da cui ci si
salva o con l’incoerenza oppure limitandosi ad una semplice
chiusura del cuore verso i cristiani di tutte le altre confessioni
«eterodosse». Quando si usa il term ine «chiesa», la confessio­
ne cattolico-romana intende solamente la chiesa romana (e
immediatamente nascono confusioni non appena lo si applica,
per es., a quella ortodossa), m entre gli ortodossi hanno in vista
soltanto la chiesa ortodossa (le confessioni protestanti poi nel
loro provincialismo non pongono di solito tali questioni). Di
conseguenza, sostenere la negazione dell’efficacia dei sacra­
menti e in generale delle vie della salvezza nell’eterodossia,
non riesce neppure alla teologia rom ana;53 e, tutto sommato,
risulta impossibile sia teoreticam ente che praticam ente. Que­
sto deriva dal riconoscimento reciproco da parte delle diverse
confessioni di almeno alcuni sacramenti (il battesimo, la cresi­
ma, l’ordine sacro, il matrimonio). Per definire questa situa­
zione, bisogna inevitabilmente introdurre un riconoscimento
relativo e un non riconoscimento dei sacramenti presso gli
eterodossi, vale a dire un certo più o un certo meno (la quale
distinzione è necessario stabilirla, innanzi tutto, relativamente
alle confessioni che hanno conservato la gerarchia dell’ordina­
zione episcopale, oppure non l’hanno conservata).

53 U n ’e s p o s iz io n e d elle d iverse o p in io n i su tali q u estio n i la si può


trovare in E . D u b l a n c h y , « E g lise» , in D T h C , IV , 2, c. I l i, 2155-2175. Q ui è
possib ile riscontrare co m e id ee d om in an ti, da una p arte, la con d an n a nel
S y lla b u s d e lle se g u e n ti tesi: « H o m in es in cu iu sve religion is cu ltu viam
aetern ae salutis referire aetern am q u e salu tem assequi p ossunt» (16). «P rote-
stantism us non aliud est quam diversa verae eiu sd em christianae religion is
form a, in qua aeq u e ac in E cclesia cath olica D e o piacere datum est» (18) (D S
2916-2918). D a ll’altra p arte, il papa A lessa n d ro V i l i con d an n a l’o p in ion e
dei g ian sen isti, se co n d o cui «pagani. Iu d aei, h aeretici, aliiq ue huius gen eris
n u llum o m n in o a ccip iu n t a Iesu C h risto influxum : a d e o q u e hinc recte
in feres, in illis esse v olu n tatem nudam e t inerm em sine om ni gratia su fficien ­
ti» (D S 230 5 ). Errori analoghi so n o con d an n ati nella costitu zion e dogm atica
U nigenitus del papa C lem en te IX (29): «extra E cclesiam nulla con ced itu r
gratia» (D S 242 9 ). C f. in fin e una ten d en za del p rogetto del d ecreto del
co n cilio V atican o: «de ne point affirm er la n écessité ab solu te de la foi
cath oliq u e pour le salut» ( D u b l a n c h y , « E g lise» , 2169).
La chiesa 463

Ma bisogna dire la stessa cosa per quanto riguarda i


confini canonici e giuridici della chiesa. Nella chiesa cattoli­
co-romana, dato il suo centralismo, non vi è posto per le
distinzioni su questo terreno (benché la storia testimoni
anche qui una tale possibilità). La chiesa romana, mediante
la costituzione Pastor aeternus del concilio Vaticano, ha
eretto il cànone del primato papale nella chiesa a base dei
suoi dogmi. Nella teologia orientale esiste una stessa simile
tendenza ad attribuire ai cànoni ecclesiali un significato
uguale a quello dei dogmi, cosa che è un’evidente esagerazio­
ne. Q uantunque le determinazioni canoniche debbano avere
un fondam ento dogmatico, esse nondimeno hanno solamente
un significato applicato: i dogmi esprimono l’ontologia della
chiesa, i cànoni invece sono l’ordinam ento ecclesiale-giuridi-
co come storicamente si è venuto formando. Questo carattere
«pratico» dei cànoni rende le loro applicazioni ai casi concreti
niente affatto indiscutibili. Da qui sorge la possibilità di
divergenze canoniche e giurisdizionali bona fide entro i confi­
ni di questa o di quella chiesa locale, con tutta la loro
asprezza e dolorosità. Esse sono capaci talvolta di condurre a
non riconoscere l’efficacia dei sacramenti entro i confini di
una data giurisdizione.
In relazione ai non cristiani, è opportuna una moderazio­
ne ancora maggiore nel giudizio. Noi conosciamo, da una
parte, l’universalità dell’incarnazione e della Pentecoste, e
che la loro efficacia si estende a tutte le genti, senza alcuna
eccezione: l’um anità tutta intera è il corpo del Cristo. Ma,
nello stesso tem po, al Signore è piaciuto nascondere nell’i­
gnoranza le vie della salvezza e le sorti eterne di coloro a cui
non è stato annunciato in questo secolo il santo Vangelo e
non è stato dato il battesim o, forse neanche per colpa loro,
ma piuttosto per colpa nostra. La chiesa non giudica coloro
che sono al di fuori di essa e conserva il silenzio su di essi,
affidandoli alla misericordia di Dio. La sua attitudine pratica
nei loro confronti è solamente il dovere della predicazione:
«Am m aestrate tutte le genti, battezzandole». A ciò si riferi­
sce altresì la «predicazione di Cristo negli inferi». Mediante
ciò, i confini della chiesa e la sua forza sono determinati
464 La Sposa dell’Agnello

ancora più ampiamente, ormai oltre i confini della visibilità


della vita terrena. D iventa ancora più evidente tutta la
difficoltà e anche tutta l’inesattezza del tentativo di definire i
confini precisi della chiesa, con il fonderli e l’identificarli con
i confini dell’organizzazione ecclesiale qui in terra. Bisogna
dire che ontologicamente questi confini non esistono affatto,
perché, con il loro riconoscimento, si limiterebbe e si sminui­
rebbe la forza dell’incarnazione e dell’opera redentrice di
Cristo. Gli esistenti confini hanno un carattere non assoluto,
bensì pragmatico54. ..

54 Q ui non to cch iam o la q u estio n e assillan te e bruciante co n cern en te i


con fini can on ici n ella vita della ch iesa e le «giu risd izion i», non p erché si
neghi un loro sign ificato p ratico, ch e ch iu n q u e d eve ten ere in con sid erazion e
nella p erso n a le a u to d eterm in azion e e com p ortam en to ecclesia le, ma p erch é,
pur rico n o scen d o tutta la loro im portanza p er tale a u tod eterm in azion e e
co m p o rta m en to , ivi non è in clu so alcun ele m e n to sp eciale per la p rob lem ati­
ca d e ll’ecclesio lo g ia . I càn on i so n o le form e d e ll’ecclesia lità , non la sua
essen za , co m e pare ad alcu n i, ch e si rap p resen tan o la ch iesa alla m aniera
v eterotestam en taria.

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