Sei sulla pagina 1di 319

Saverio Torcasio EUROPA ITALIA AGRICOLTURA

Saverio Torcasio EUROPA ITALIA AGRICOLTURA


InIn questo
questo volume
volume sono sono raccolti
raccoltii testi
i testi
di di alcune
alcune analisi
analisi
realizzate
realizzate dall’autore nelcorso
dall’autore nel corsodeldel periodo
periodo 1970-2005
1970-2005 e di e di
alcunerelazioni
alcune relazioni che
che egli
egliha
haavuto
avuto l’opportunità di presentare
l’opportunità di presentare
in occasione di convegni e giornate
in occasione di convegni e giornate di studio di studio sullesulle
problematiche della politica agricola
problematiche della politica agricola comune (Pac) comune (Pac) e e
dell’agricoltura europea.
dell’agricoltura europea.

Dal Piano Mansholt all’Agenda 2000


Il volume si compone di venti capitoli raggruppati in cinque

Dal Piano Mansholt all’Agenda 2000


Il parti.
volume si compone
La prima è dedicatadi ad
venti capitoli
alcuni raggruppati
sviluppi significativi in cinque
della
parti. La corso
Pac nel primadel è dedicata ad alcuni
periodo citato. sviluppi
La seconda significativi
riproduce i testidella
Pac nel corso
di alcuni lavoridel periodo
relativi citato.
al ruolo La seconda
dell’Italia riproduce ie testi
nell’elaborazione Saverio Torcasio
dinella
alcuni lavori
messa relativi
in atto dellaal ruolo
Pac, dell’Italia
a metà nell’elaborazione
degli anni Settanta. e Saverio Torcasio
nella messa in atto della Pac, a metà degli anni Settanta.
Nella terza parte sono incluse una serie di analisi e di
relazioni
Nella terzasulle difficoltà
parte sono aincluse
cui è una
da sempre confrontata
serie di analisi e di
l’agricoltura nelle regioni mediterranee e sull’azione
relazioni sulle difficoltà a cui è da sempre confrontata
comunitaria a favore di queste regioni.
l’agricoltura nelle regioni mediterranee e sull’azione
comunitaria
Nella quartaa parte
favoresono
di queste regioni.
EUROPA ITALIA
ruolo
Nella
socioeconomico
quarta parte
ortofrutticolo
raggruppati alcuni testi relativi al
dell’agricoltura,
sono raggruppati
nell’Unione europea, alcuni
al
alla testi
mercato
relativi al
dimensione
EUROPA ITALIA
AGRICOLTURA
ruolo
economica socioeconomico
ortofrutticolo
parte
del nuovo ampliamento
fiscalità in agricoltura
quinta è
nell’Unione
consacrata
dell’agricoltura,
nei paesieuropea,
alla politica di sviluppo
al e mercato
a est dell’Unione
della Comunità.
alla Infine,
rurale
alla
la
dimensione
nel
AGRICOLTURA
economica del nuovo ampliamento a est dell’Unione e alla
contestoindelle
fiscalità politiche strutturali
agricoltura nei paesidell’Unione Europea. Infine, la
della Comunità.
parte quinta è consacrata alla politica di sviluppo rurale nel
Anche se, col tempo, questi testi hanno ovviamente perso di
contesto
attualità,delle
moltipolitiche
di essistrutturali
possono dell’Unione
ancora fornire Europea.
qualche
contenuto non privo di interesse, sia sul piano storico che su
Dal Piano Mansholt
Anche
quellose,conoscitivo,
col tempo, non questifosse
testi hanno
altro cheovviamente
per meglioperso di all’Agenda 2000
attualità,
comprendere molti
come di si essi possono
è pervenuti ancora fornire
alla configurazione qualche
attuale
contenuto nonagricola
della politica privo di interesse,
comune sia sul
e a quali piano
sfide essa storico
ha dovutoche su
Dal Piano Mansholt
far fronte
quello nel tempo per
conoscitivo, nonsopravvivere,
fosse altro assieme
che alla
perstessa
meglio all’Agenda 2000
costruzione europea.
comprendere come si è pervenuti alla configurazione attuale
della politica agricola comune e a quali sfide essa ha dovuto
Saverio Torcasio è stato, per più di venti anni, funzionario della
far fronteGenerale
Direzione nel tempo per della
Agricoltura sopravvivere,
Commissione assieme alla
europea. Dal stessa
1991
costruzione
al 2003 è europea.
stato responsabile dell’unità “Analisi quantitative,
previsioni, statistiche e studi” della stessa Direzione Generale.
Saverio
Saverio Torcasio
Torcasio èè stato,
stato, per
per più
più didi venti
venti anni,
anni, funzionario
funzionario della
della
Direzione
Direzione Generale
Generale Agricoltura
Agricoltura della
della Commissione
Commissione europea.
europea. Dal
Dal 1991
1991
al
al 2003
2003 èè stato
stato responsabile
responsabile dell’unità
dell’unità “Analisi
“Analisi quantitative,
quantitative,
previsioni,
previsioni, statistiche
statistiche ee studi”
studi” della
della stessa
stessa Direzione
Direzione Generale.
Generale.
Saverio Torcasio

EUROPA ITALIA
AGRICOLTURA

Dal Piano Mansholt


all’Agenda 2000
Indice

Prefazione............................................................................................. 7

Parte prima: Sviluppi della politica agricola comune

Dal Memorandum Mansholt al varo delle direttive sulla


politica socio-strutturale in agricoltura.................................... 11
Il nuovo orientamento della politica dei prezzi e dei mercati. ................. 11
Le proposte sul miglioramento delle strutture di produzione e di
commercializzazione................................................................... 14
Attualità del Piano Mansholt .................................................................. 17
Dal Memorandum Mansholt alle proposte di direttiva sulle
strutture....................................................................................... 18
Il difficile varo della politica socio-strutturale comune in
agricoltura................................................................................... 23

La politica agricola comune: Problemi e prospettive ....................... 29

La revisione della politica agricola comune ...................................... 39

I limiti di garanzia e la PAC................................................................. 47


Introduzione ........................................................................................... 47
Parte I: Origini e motivazioni dei limiti di garanzia .............................. 49
Gli antefatti ............................................................................................ 48
I limiti di garanzia: una esigenza sempre più impellente
per la Comunità. ......................................................................... 50
I limiti di garanzia: strumento di pianificazione dell'agricoltura
europea?....................................................................................... 51
Criteri adottati per la fissazione dei limiti di garanzia ........................... 51
Settori in cui si applicano i limiti di garanzia ......................................... 52
Modalità di applicazione dei limiti di garanzia ....................................... 52
Conseguenze dei limiti di garanzia sul volume della produzione ........... 53
Altre misure dirette a limitare la garanzia sui prodotti agricoli ............... 54
Importanza economica dei settori soggetti ai limiti di garanzia
o a misure equivalenti .................................................................. 54
Conclusioni .............................................................................................. 55

Riforma della Pac e agricoltura europea ............................................ 57

3
Parte seconda: L’Italia e la politica agricola comune

L’Italia e la politica agricola comune................................................... 71


Premessa: Verso una revisione della politica agricola comune? ............. 71
L’Italia e la politica agricola comune ...................................................... 72
I gruppi di pressione agrari ...................................................................... 77
La Coldiretti ............................................................................................. 79
La Confagricoltura ................................................................................... 84
Le altre organizzazioni ............................................................................. 88
Alcune conclusioni ................................................................................... 90

Il ruolo dell'Italia nell’elaborazione e nell’applicazione della politica


agricola comunitaria

1) Premessa .............................................................................................. 92
PARTE I: I NEGOZIATI AGRICOLI.
2) L’Italia di fronte alla Pac ......................................................................92
3) Il primo Piano Mansholt....................................................................... 93
4) I negoziati: 1960. ................................................................................ 95
5) I negoziati: 1961 .................................................................................. 96
6) I negoziati: 1962-63 ........................................................................... 97
7) I negoziati: 1964 ................................................................................. 97
8) I negoziati: 1965. ................................................................................ 98
9) I negoziati: 1966. ............................................................................... 100
10) I negoziati: 1967-70 ......................................................................... 101
11) I negoziati: 1971-74 ......................................................................... 102
12) La posizione italiana nei negoziati agricoli: riepilogo ..................... 104

PARTE II – ELEMENTI PER UN BILANCIO DELLA PAC


13) Influenza dell’Italia sulla PAC ....................................................... 106
14) L’influenza della Pac sull’agricoltura italiana ................................ 108
15) Le carenze della partecipazione italiana alla Pac. .......................... 112

Parte terza: Agricoltura mediterranea e politica agricola comune

La politica agricola comune e il suo impatto sull'agricoltura


mediterranea........................................................................................ 125
L'agricoltura nell'economia delle regioni mediterranee ........................ 125
Specificità e problemi dell'agricoltura mediterranea ............................. 126
La politica agricola comune dei prezzi e dei mercati e l'agricoltura
mediterranea ............................................................................... 128

4
L'azione comunitaria negli anni '70 ...................................................... 133
Sviluppi recenti ................................................................................... 136
Conclusioni ......................................................................................... 139

Situazione e prospettive dell'agricoltura nelle regioni


mediterranee della Comunità. Possibili linee di azione.................... 141
Introduzione ......................................................................................... 141
Agricoltura mediterranea: quale futuro? .............................................. 142
1. Panoramica dell'agricoltura mediterranea ....................................... 142
2. Panoramica delle misure adottate in passato a favore
dell'agricoltura mediterranea. .................................................. 147
3. Il nuovo contesto ............................................................................ 150
4. L’evoluzione della domanda .......................................................... 152
5. Possibilità di sviluppo dell'agricoltura nelle regioni
mediterranee .......................................................................... 156
6. Alcune linee guida per il futuro .................................................... 159

L'azione comunitaria a favore delle regioni mediterranee............... 163

Problemi e prospettive dell’agricoltura meridionale alla


soglia degli anni Novanta......................................................... 173

Agricoltura, Mezzogiorno, Europa del 1992..................................... 189

Parte quarta: Agricoltura Ampliamento Fiscalità

Il ruolo socioeconomico dell'agricoltura e


il completamento del mercato unico ...................................... 201

Il mercato degli ortofrutticoli nell'Unione europea:


situazione e prospettive............................................................. 209

La dimensione economica del nuovo ampliamento


dell'Unione europea.................................................................. 223

Fiscalità e agricoltura nei paesi della Comunità europea ................ 241

5
Parte quinta: La politica di sviluppo rurale nel contesto delle politiche
strutturali dell’Unione Europea

I. Le politiche strutturali nel Trattato di Roma e i successivi


adattamenti
1. Il Trattato di Roma e le politiche strutturali ..................................... 263
2. L’avvio della politica socio-strutturale in agricoltura ....................... 265
3. Il consolidamento del Fondo sociale europeo ................................... 268
4. Il varo della politica regionale ........................................................... 269
5. La coesione economica e sociale, nuovo traguardo delle politiche
strutturali .................................................................................... 272

II. Verso una strategia comunitaria per lo sviluppo delle regioni rurali
1. La comunicazione della Commissione sull’avvenire del
mondo rurale ............................................................................. 276
2. Sviluppo rurale e riforma dei Fondi strutturali ................................. 280
3. La riforma della Pac e lo sviluppo rurale .......................................... 283

III. L’assetto della politica di sviluppo rurale nel contesto delle


politiche strutturali dell’Unione europea per il periodo di
programmazione 2000-2006.

1. Le politiche strutturali dell’Unione europea nel periodo


2000- 2006 ................................................................................ 288
2. I principi generali e le modalità di funzionamento dei Fondi
strutturali ................................................................................... 291
3. Le risorse e la gestione finanziaria dei Fondi strutturali.................... 294
4. La nuova politica di sviluppo rurale .................................................. 297
5. Il finanziamento della politica di sviluppo rurale................................299
6. La programmazione degli interventi di sviluppo rurale a livello
comunitario, nazionale e regionale .............................................300

IV. La riforma della politica di coesione e della politica di sviluppo


rurale per il periodo di programmazione 2007- 2013

1. Le priorità politiche dell’Unione per i prossimi anni ........................ 303


2. Le priorità della politica di coesione per il periodo 2007-2013 ........ 305
3. Le priorità della politica di sviluppo rurale nel contesto
delle nuove priorità politiche dell’Unione europea .................... 308
4. La nuova politica di sviluppo rurale a partire dal 2007 ..................... 311
5. Le prospettive finanziarie per il periodo 2007-2013........................... 313

6
Prefazione

Per l’intero arco della mia vita lavorativa, durata circa 35 anni, Europa,
Italia e Agricoltura sono stati temi centrali nel mio percorso professionale.

E’ a temi come questi che ho potuto dedicarmi fin dall’inizio di questo


percorso ed è su temi come questi che ho avuto il privilegio di poter
fornire un sia pur modesto contributo di analisi e di informazione, in
particolare durante i ventotto anni passati nei servizi della Commissione
europea.

Ciò è stato possibile non solo perché tematiche di questo genere mi hanno
occupato ancor prima che cominciasse la mia personale “avventura
europea”, ma anche perché, avendo avuto l’opportunità di lavorare, per
gran parte del mio percorso, in prossimità del “centro dell’azione”, ho
potuto realizzare la mia più grande aspirazione sul piano professionale,
l’analisi economica del settore agricolo a supporto della decisione politica.

Questo mi ha consentito, non soltanto di assistere da vicino, ma anche di


contribuire in qualche misura agli sviluppi e ai grandi mutamenti della
politica agricola comune nel corso dell’ultimo quarto del secolo scorso:
dal “pacchetto mediterraneo” del 1978 alla riforma Fischler del 2003,
passando per i differenti “bilanci” della politica agricola comune (PAC)
degli anni Ottanta, gli “stabilizzatori” del 1988, la riforma Mac Sharry del
1992 e l’«Agenda 2000» del 1999.

Avendo vissuto “in diretta” questa lunga avventura dell’«adattamento» e


in seguito della «riforma» in profondità della PAC, ho potuto con più
facilità darne conto nelle rassegne pubblicate annualmente nel volume
dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) “L’Italia nella politica
internazionale” e nel rapporto dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria
(INEA) “Annuario dell’Agricoltura Italiana”. Queste rassegne sono state
raccolte recentemente in tre volumi dal titolo “La politica agricola comune
tra revisione e riforme. Il ruolo dell’Italia (1975-2000)”.

7
In questo volume ho raccolto i testi di alcune analisi realizzate nel corso
del periodo 1970-2005 e di alcune relazioni che ho avuto l’opportunità di
presentare in occasione di convegni e giornate di studio sulle
problematiche della politica agricola comune e dell’agricoltura europea,
ed in particolare di quella del Sud dell’Europa.

I venti capitoli di cui si compone questo volume sono raggruppati in


cinque parti, più sulla base delle affinità tematiche che per organicità dei
testi che le compongono. Nella prima parte, in effetti, sono raccolti alcuni
testi relativi a taluni sviluppi significativi della politica agricola comune,
mentre nella seconda parte è ripreso il contenuto di due working paper
relativi al ruolo dell’Italia nell’elaborazione e nella messa in atto della
politica agricola comune.

Nella terza parte sono incluse una serie di analisi e di relazioni sulle
difficoltà a cui è confrontata l’agricoltura nelle regioni mediterranee e
sull’azione comunitaria a favore di queste regioni, in particolare nel
quadro della politica agricola comune. Nella quarta parte sono raggruppati
alcuni testi, per la verità alquanto eterogenei, rispettivamente, sul ruolo
socioeconomico dell’agricoltura, sul mercato ortofrutticolo nell’Unione
europea, sulla dimensione economica del nuovo ampliamento a est
dell’Unione e, infine, sulla fiscalità in agricoltura nei paesi della
Comunità. Più organica è invece la parte quinta, consacrata integralmente
alla politica di sviluppo rurale nel contesto delle politiche strutturali
dell’Unione Europea.

E’ ovvio che, anche per la data in cui questi testi sono stati redatti o per
l’epoca a cui si riferiscono, la loro attualità si è col tempo affievolita. Ciò
non toglie che molti di essi possono ancora fornire qualche contenuto non
privo di interesse, sia sul piano storico che su quello conoscitivo, non
fosse altro che per meglio comprendere come si è pervenuti alla
configurazione attuale della politica agricola comune o per capire come
sono state affrontate nel tempo certe problematiche a cui l’agricoltura
europea ed italiana, in particolare, è stata o è tuttora confrontata.

N. B. In vari testi riprodotti in questo volume si fa riferimento all’unità di conto (UC) e


all’unità di conto europea (UCE). Il controvalore di queste unità di conto in lire italiane
è cresciuto sensibilmente nel tempo, essenzialmente a causa del deprezzamento
progressivo della lira. A titolo indicativo: nel 1972, una UC valeva circa 631 lire
italiane; nel 1978 una UCE valeva 1.100 lire; alla fine del 1980 l’UCE valeva circa
1.200 lire; nel 1990 l’UCE si aggirava intorno a 1.540 lire italiane. Come è noto, la
parità euro/lira è stata fissata come segue: 1 euro=1.936,27 lire.

8
Prima parte

Sviluppi della politica agricola comune

9
Dal Memorandum Mansholt al varo delle direttive sulla
politica socio-strutturale in agricoltura

(1990)

Al di là dei risultati concreti che quel documento sarebbe riuscito a


conseguire negli anni successivi, il Memorandum sulla riforma
dell'agricoltura nella CEE, presentato dalla Commissione al Consiglio nel
dicembre 1968 (1), più noto come Piano Mansholt, dal nome del vice-
presidente della Commissione e responsabile degli affari agricoli,
l'olandese Sicco Mansholt, segna una svolta storica nel processo evolutivo
della politica agricola comune.

Per la prima volta, infatti un documento ufficiale della Commissione


affronta in chiave fortemente critica lo sviluppo della politica agricola
comune, i problemi che essa lasciava irrisolti, quelli che essa aveva
determinato negli ultimi anni, proponendo una linea alternativa di politica
agricola, basata su un nuovo orientamento della politica dei prezzi e dei
mercati e puntando soprattutto su un radicale programma di
miglioramento delle strutture di produzione e di commercializzazione, la
cui realizzazione avrebbe dovuto essere accompagnata da misure di
politica sociale e regionale.

Il nuovo orientamento della politica dei prezzi e dei mercati.

Anche se il Piano Mansholt è soprattutto noto per le proposte, talvolta


piuttosto avveniristiche, in materia di ammodernamento delle aziende
agricole e per essere all'origine dell'attuale politica socio-strutturale
comune in agricoltura, la sua attualità è forse ancora maggiore per quel
che riguarda la diagnosi e le terapie proposte per curare le disfunzioni
della politica dei prezzi e dei mercati apparse già nel corso degli anni
Sessanta.

La Commissione partiva dalla considerazione che la politica dei prezzi e


dei mercati, privilegiata fino ad allora dalla Comunità, non solo non era
riuscita a risolvere le difficoltà fondamentali dell'agricoltura e a migliorare
le sorti della popolazione agricola, ma aveva determinato insanabili
squilibri nei mercati ed oneri insostenibili per la collettività.

"L'instaurazione di prezzi unici - afferma la Commissione – ha certo


consentito di abolire le barriere tra i mercati nazionali e di aumentare

11
nettamente gli scambi intra-comunitari. Ma, per la maggior parte dei
prodotti agricoli, tali prezzi non sembrano essere stati fissati
essenzialmente in funzione dei dati economici e delle esigenze di
un'auspicabile specializzazione all'interno del mercato comune; il loro
livello è stato spesso il risultato di compromessi politici accettabili da
parte di tutti gli Stati membri. La Comunità è stata pertanto indotta a
fissare i prezzi della maggior parte dei prodotti agricoli a un livello che
risulta generalmente essere molto superiore a quello dei prezzi
normalmente praticati nelle transazioni internazionali o persino sul
mercato interno dei suoi concorrenti" (2).

Una politica dei prezzi di questa natura - ammette la Commissione - ha


certamente contribuito ad aumentare il reddito degli agricoltori, ma non ha
tuttavia consentito loro di recuperare il divario che li separa dalle categorie
socio-professionali comparabili. Un altro inconveniente della politica dei
prezzi e dei mercati, si legge nel documento, è rappresentato da un sistema
di intervento sul mercato caratterizzato da un sostegno quantitativamente
illimitato e da prezzi garantiti particolarmente elevati.

Tale sistema costituisce un incoraggiamento al mantenimento delle


aziende marginali e pertanto un freno alla divisione del lavoro nel settore
agricolo su scala comunitaria e quindi all'ammodernamento
dell'agricoltura. Esso non consente perciò di migliorare il reddito dei
piccoli produttori mentre offre invece ad alcuni agricoltori, tra quelli più
competitivi, una vera e propria situazione di rendita.

Anche per quanto riguarda gli effetti sui mercati agricoli di una politica di
alti prezzi e di una garanzia illimitata di collocamento, l'analisi della
Commissione si rivela particolarmente critica ed illuminante, soprattutto
alla luce degli sviluppi ulteriori dell'agricoltura europea. Una politica di
prezzi elevati - afferma infatti la Commissione - coniugata ai progressi
scientifici e tecnici in agricoltura, determina un incremento delle rese
unitarie e quindi del volume della produzione agricola, creando od
accentuando le eccedenze produttive che già si registravano in numerosi
settori.

Eccedenze che non possono più trovare degli sbocchi su un mercato


mondiale saturo e che, quando gli sbocchi esistono, possono essere
smaltite solo ad un costo estremamente oneroso per le finanze comunitarie
e sottraendo risorse nazionali ad altri obiettivi socioeconomici prioritari.
"E' pertanto fondamentale adottare per il futuro una nuova posizione nel
settore dei prezzi agricoli", conclude a questo proposito la Commissione.

12
Nella formulazione di una linea di politica agricola adeguata a correggere
queste disfunzioni, la Commissione scarta l'ipotesi di una terapia d'urto
consistente in una drastica riduzione dei prezzi ai produttori che avrebbe
dovuto ripercuotersi sui prezzi al consumo. Questa riduzione - ammette la
Commissione - avrebbe il vantaggio di stimolare il consumo diminuendo
al tempo stesso i costi di sostegno unitario e globale, facilitando nel
contempo gli adattamenti strutturali necessari. Essa sarebbe però
difficilmente attuabile per evidenti motivi politici e avrebbe come
conseguenza l'eliminazione dei produttori marginali, che sarebbero quelli
più duramente colpiti.

Di fronte a questa scelta, la Commissione preferisce invece orientarsi


verso una soluzione più pragmatica che consiste nel combinare una
strategia a lungo termine mirante a questi obiettivi con aggiustamenti
annuali più limitati della politica dei prezzi e dei mercati in vista di un
ritorno ad una situazione più soddisfacente dei mercati agricoli. A questo
fine, la Commissione auspica che venga restituita ai prezzi la loro vera
funzione economica consistente nell'orientare la produzione in funzione
della domanda e dell'offerta.

"Nei prossimi anni - propone infatti la Commissione - la politica dei prezzi


potrebbe ispirarsi ai seguenti principi: per quanto si riferisce ai prodotti
per i quali esistono eccedenze strutturali, la pressione sui prezzi è
permanente e il loro aumento sembra escluso per il momento. Sarà
possibile solo a decorrere dal momento in cui, tenuto conto degli scambi
commerciali, la domanda risultante dall'evoluzione della popolazione e dei
redditi avrà superato il livello dell'offerta. Per gli altri prodotti, saranno
possibili aumenti di prezzo nella misura in cui lo consentirà l'evoluzione
della domanda" (3).

Abbiamo voluto soffermarci su queste valutazioni e su queste proposte,


forse fra le meno note del Piano Mansholt, non tanto perché esse siano
state realmente decisive negli sviluppi successivi della politica agricola
comune, quanto per mostrare che, fin dalla fine degli anni Sessanta, vale a
dire a distanza di pochi anni dall'introduzione della politica agricola
comune e all'indomani dell'unificazione dei prezzi e dei mercati, la
Commissione aveva lucidamente individuato gli inconvenienti provocati
dal sistema di sostegno dell'agricoltura da poco messo in atto a livello
comunitario, indicando al tempo stesso le terapie più appropriate per
correggere tali disfunzioni.

13
Diagnosi e terapie che, in definitiva, non sono fondamentalmente mutate
da allora in poi e che possono riassumersi nella ricerca di un migliore
equilibrio dei mercati agricoli attraverso una politica dei prezzi più
orientata al mercato. Si sarebbe, tuttavia, dovuto attendere che la crisi
della politica agricola comune si aggravasse ulteriormente negli anni
successivi perché maturasse progressivamente, ma non senza esitazioni,
anche fra i ministri dell'agricoltura, la consapevolezza della necessità di
apportare alla politica agricola comune (Pac) gli adattamenti resisi ormai
indispensabili.

Tuttavia, è solo a partire dagli anni Ottanta che il processo di riforma della
Pac si è accelerato, di fronte all'esplosione della spesa agricola, allo
sviluppo vertiginoso delle eccedenze, alla crisi dei mercati mondiali
agricoli e al rilancio del processo di integrazione a livello comunitario.

Le proposte sul miglioramento delle strutture di produzione e di


commercializzazione.

Ancora più articolate e più radicalmente innovative sono le misure


proposte dal Piano Mansholt per il miglioramento delle strutture di
produzione e di commercializzazione in agricoltura. Esse non vanno
interpretate soltanto come uno strumento, considerato all'epoca
indispensabile, per l'ammodernamento dell'agricoltura europea, ma anche
come una condizione necessaria per consentire alle imprese agricole che
sarebbero emerse da questo processo di beneficiare appieno dei vantaggi
della politica di sostegno dei prezzi e dei mercati.

"La politica dei prezzi e dei mercati - affermava a questo proposito la


Commissione - ( ... ) potrà certamente condurre a una maggiore
specializzazione e razionalizzazione, contribuendo così maggiormente ad
elevare il livello generale di prosperità nella CEE. Tuttavia, ciò sarà
possibile unicamente a condizione che le strutture produttive e soprattutto
le struttura aziendali, vengano confacentemente adeguate; in caso
contrario, il mercato unico agricolo porrà vari problemi a quegli
agricoltori che, per le strutture delle loro aziende, non potranno adattarvisi,
né tanto meno trarne beneficio" (4).

Per assicurare un equo reddito e migliori condizioni di vita in agricoltura,


contribuendo al tempo stesso al migliore equilibrio dei mercati e ad
un'integrazione più stretta dell'agricoltura nel sistema economico generale,
la Commissione riteneva necessaria una profonda trasformazione delle

14
strutture di produzione e di commercializzazione essenzialmente
attraverso due serie di azioni:

1. Una prima serie di azioni si collocava a livello delle strutture


agricole e avrebbe dovuto comportare essenzialmente due tipologie
di misure: anzitutto, un complesso molto differenziato di misure
rivolte a determinare una netta diminuzione delle persone occupate
in agricoltura. A tal fine, agli agricoltori più anziani avrebbe
dovuto essere offerta un'indennità annua complementare di reddito
in cambio della quale essi avrebbero cessato l'attività agricola,
liberando così le terre che essi avevano utilizzato finora; d'altro
lato, avrebbero dovuto essere prese misure "importanti e
convergenti" per costituire imprese agricole di sufficienti
dimensioni economiche, mettendo a loro disposizione le superfici
necessarie a condizioni accettabili e mediante un'attiva politica
fondiaria.

2. La seconda serie di azioni si collocava a livello dei mercati per


migliorarne il funzionamento e adeguare meglio l'offerta alla
domanda:
- al primo posto la Commissione metteva una politica "prudente"
dei prezzi agricoli, i cui effetti sarebbero stati tanto più incisivi
quanto più le aziende agricole sarebbero state sensibili alle
indicazioni date dal mercato;
- in secondo luogo, la Commissione riteneva che tali obiettivi
sarebbero stati più facilmente raggiungibili grazie ad una netta
riduzione delle superfici coltivate;
- infine, altre misure avrebbero dovuto tendere ad una migliore
informazione degli agricoltori, trasformatori e distributori, a una
maggiore disciplina dei produttori e a una certa concentrazione
dell'offerta. A questo fine veniva auspicata la costituzione di
associazioni professionali a livello europeo alle quali avrebbero
dovuto essere affidate delle responsabilità in questo campo.

Oltre che enunciare degli orientamenti generali in materia di riforma della


politica agricola comune, la Commissione formulava anche delle proposte
più circostanziate per la messa in atto di questo ambizioso programma
battezzato "Programma Agricoltura 80" . Per permettere agli agricoltori di
procedere più speditamente all'ammodernamento delle strutture produttive
era prevista, in particolare, la costituzione di "Unità di produzione" (Up) e
di "Imprese agricole moderne" (Iam) che avrebbero beneficiato di apposite
misure di incoraggiamento.

15
Le Up avrebbero dovuto avere una superficie tale da garantire
l'utilizzazione ottimale dei fattori di produzione (per es. da 80 a 120 ettari
per i cereali e da 150 a 200 bovini per l'allevamento da carne, ecc.), e
potevano essere sia il risultato dell'ingrandimento di un'unica azienda, sia
della decisione di più imprenditori agricoli d'associarsi per esercitare in
comune un'unica attività (fusione parziale).

Le Iam rappresentavano uno stadio ancora più avanzato


dell'organizzazione produttiva dell'agricoltura, dovendo garantire redditi e
condizioni di vita soddisfacenti e rispondere a criteri più rigorosi in
materia di manodopera, che non le Up. Nel caso di costituzione delle Iam
per fusione tra più aziende, queste, a differenza delle Up, avrebbero
dovuto mettere in comune l'insieme dei fattori di produzione (terre,
bestiame e attrezzature) e non solo la terra (fusione completa).

Altre misure erano previste in vista dell'obiettivo di una riduzione di circa


5 milioni di ettari della superficie coltivata. La Commissione proponeva
inoltre una serie di azioni per il miglioramento delle strutture di mercato e
di commercializzazione, sollecitando nel contempo il Consiglio ad
adottare un regolamento concernente le associazioni dei produttori e le
loro unioni.

Nel Programma non mancavano peraltro alcune misure di carattere sociale


(borse di studio a favore dei figli degli agricoltori, formazione
professionale, pensionamento anticipato, ecc.) anch'esse parzialmente
finanziate dalla Comunità. Un notevole rilievo veniva dato, infine, alle
azioni di politica regionale miranti alla creazione di posti di lavoro
alternativi nelle regioni di esodo agricolo. Questa, anzi, veniva considerata
"una delle condizioni indispensabili della realizzazione della riforma delle
strutture agrarie".

I principi sui quali si sarebbe dovuto fondare l'attuazione del Programma


erano i seguenti: l'appoggio e la partecipazione del mondo agricolo; una
differenziazione regionale delle misure; una attuazione a livello nazionale
in armonia con le indicazioni comunitarie; una partecipazione finanziaria
della Comunità, limitata al 50% per le spese di carattere sociale, per le
spese concernenti la riduzione della superficie coltivata e per la spese
relative al miglioramento delle strutture di produzione, e al 30% per le
spese rivolte al miglioramento delle strutture di commercializzazione.

16
Attualità del Piano Mansholt

A distanza di oltre venti anni dalla loro elaborazione, molte di queste


proposte appaiono oggi senza dubbio anacronistiche o quanto meno
improntate ad un eccessivo ottimismo quanto alla capacità di orientare
dall'alto i processi di adeguamento delle strutture di produzione e di
commercializzazione dell'agricoltura europea e i flussi intersettoriali di
manodopera nelle regioni rurali.

Esse hanno quindi più che altro un valore storico e simbolico in quanto
evocatrici di un'epoca in cui la Commissione Ce, il cui ruolo istituzionale
si era notevolmente rafforzato sotto la presidenza Hallstein, ha non solo
ritenuto auspicabile un profondo processo di ristrutturazione
dell'agricoltura europea, soprattutto nei paesi come l'Italia dove questi
processi non erano stati ancora avviati, ma ha anche creduto che questo
obiettivo fosse politicamente e socialmente perseguibile e che intorno ad
esso si potesse quindi realizzare un ampio consenso di tutti gli interessati.

Al di là, comunque, di certi eccessi e di quelle che oggi possono apparire


come delle ingenuità politiche oltre che delle misure controindicate sul
piano economico e sociale (come ad esempio un massiccio esodo agricolo
o la fissazione di soglie minime perché un'azienda possa considerarsi
moderna), resta il fatto che il Piano Mansholt aveva, sin dal 1968, messo il
dito sulle piaghe dell'Europa Verde, piaghe che si sarebbero aperte
ulteriormente nei dieci anni successivi prima che si decidesse di correre
finalmente ai ripari.

Molti degli stessi rimedi suggeriti a quell'epoca per curare le disfunzioni


della politica dei prezzi e dei mercati restano peraltro ancora validi, come
ad esempio la necessità che i prezzi agricoli ritrovino il loro vero ruolo
economico, che è quello di meglio orientare la produzione in funzione
della situazione di mercato.

Ma il Piano Mansholt è soprattutto all'origine della politica socio-


strutturale comune in agricoltura, considerata giustamente necessaria non
solo per favorire il processo di ammodernamento dell'agricoltura europea
e quindi il suo più stretto inserimento nel sistema economico generale, ma
anche per rafforzare l'efficacia della politica dei prezzi e dei mercati
rispetto all'obiettivo di un miglioramento del reddito degli agricoltori.

17
Anche in questo caso, ci si può certo rammaricare che non tutti gli
obiettivi iniziali enunciati da Mansholt siano stati interamente raggiunti e
che la politica socio-strutturale comune sia sempre restata piuttosto
marginale nell'ambito della politica agricola comune. Ma ciò non va
interamente addebitato ai limiti del Piano Mansholt e al suo approccio
talvolta eccessivamente illuminista ai problemi. Molte delle responsabilità
ricadono invece sui governi, sia in fase di discussione delle proposte
concrete presentate successivamente dalla Commissione, sia, soprattutto,
in fase di applicazione delle misure adottate.

E' questo soprattutto il caso del nostro paese, in astratto uno dei principali
beneficiari potenziali delle direttive socio-strutturali emanate a seguito del
Piano Mansholt, in realtà uno dei paesi che è meno riuscito ad
approfittarne sul piano dell'adeguamento delle sue strutture di produzione.

L'esperienza deludente per il nostro paese non deve tuttavia farci perdere
di vista che è anche grazie alle misure scaturite dal Piano Mansholt che in
molti paesi del nord Europa l'agricoltura ha migliorato le sue
performances nel corso degli ultimi venti anni.

Dal Memorandum Mansholt alle proposte di direttiva sulle strutture

Nel presentare al Consiglio dei ministri della Ce il Memorandum sulla


riforma dell'agricoltura europea, la Commissione aveva auspicato che
intorno ad esso si sviluppasse un ampio scambio di vedute e un ampio
dibattito in seno allo stesso Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato
economico e sociale, nonché alle stesse organizzazioni agricole. L'invito,
almeno per quanto riguarda una parte delle sedi istituzionali chiamate in
causa, non mancò di essere ascoltato in tutti i paesi della Comunità.

Alla luce dei dibattiti e dei confronti avvenuti ad ogni livello nei paesi
della Ce, nel Parlamento europeo e nel Comitato economico e sociale, la
Commissione presentò al Consiglio, il 5 maggio 1970, cinque proposte di
direttiva, contenenti misure concrete per l'applicazione dei principi
essenziali e degli indirizzi enunciati nel Memorandum, ed una proposta
modificata di regolamento concernente le associazioni dei produttori e le
relative unioni.

Con tale iniziativa la Commissione si proponeva implicitamente di


stringere i tempi della riforma dell'agricoltura europea, mettendo il
Consiglio di fronte alla necessità di pronunciarsi sugli indirizzi del

18
Memorandum, visto che, tra tanti dibattiti e tante prese di posizione, si
notava vistosamente proprio l'assenza del Consiglio.

Anche se nelle proposte della Commissione era del tutto scomparso ogni
riferimento alle Unità di produzione e alle Imprese agricole moderne (che
avevano destato non poche perplessità), sostituito da un generico
riferimento alle aziende agricole "destinate a svilupparsi", e anche se il
requisito fondamentale per la concessione degli aiuti non era più una
determinata superficie, ma l'elaborazione da parte dell'imprenditore di un
apposito piano di sviluppo dell'azienda, le proposte di direttiva potevano
sostanzialmente considerarsi la traduzione, sul piano normativo e con
contenuti tecnici meglio definiti e precisati, delle politiche presentate nel
Memorandum. Su tali proposte si innestava pertanto il dibattito in corso in
tutti i paesi della Ce sugli indirizzi del Piano Mansholt, ora che essi si
erano tradotti in concrete proposte operative.

Mentre in Italia e negli altri paesi ferveva il dibattito e si andavano meglio


precisando le posizioni dei vari schieramenti sul fronte della politica di
riforma delle strutture agricole, il vice-presidente della Commissione Ce,
Sicco Mansholt, andava tessendo le trame di una delicata operazione di
diplomazia, ricca di contatti informativi, a livello europeo, dal cui esito
dipendeva il successo della linea che, dal Memorandum del 1968, si
snodava attraverso le proposte di direttiva presentate nel maggio del 1970
per perdersi in un futuro che ancora si presentava assai incerto.

Nonostante gli auspici di Mansholt, il dibattito in corso non aveva, infatti,


ancora minimamente toccato il Consiglio dei ministri della Ce. Sordo ad
altre esigenze, nel settembre 1970 il Consiglio aveva invece sollecitato la
Commissione a presentare al più presto delle proposte per i prezzi agricoli
da applicare nella campagna 1971/72, dal momento che essi erano rimasti
pressoché congelati ormai da tre campagne.

Mansholt non aveva, però, rinunciato al suo disegno di mettere il


Consiglio di fronte alla necessità di un'assunzione di responsabilità per
l'attuazione di una riforma dell'agricoltura europea e l'avvio di una politica
socio-strutturale comune. A questo scopo aveva cercato abilmente di far
leva sull'esigenza espressa da numerosi paesi membri di una rivalutazione
dei prezzi di sostegno per la nuova campagna per ottenere
contemporaneamente un consenso dei ministri dell'agricoltura dei Sei
sull'avvio di una politica strutturale e sociale comune in agricoltura.

19
Oltre alla reticenza di alcuni paesi in merito alle proposte avanzate da
Mansholt, il problema più difficile da risolvere era diventato quello del
finanziamento di tali misure. Di questo problema si era parlato, in
particolare, in una riunione informale del Consiglio nel dicembre 1970. La
Commissione aveva proposto che le misure strutturali fossero finanziate
per metà dalla Comunità e per metà dagli Stati membri. L'Italia aveva
invece ribadito la propria posizione, già espressa in precedenti occasioni, a
favore di un'assunzione dell'onere a completo carico della Comunità.

Olandesi e tedeschi non erano sembrati, però, molto disponibili ad


accrescere il loro contributo per il finanziamento della sezione
Orientamento del Feoga. La Francia che, dal canto suo, aveva adottato da
tempo misure nazionali del tipo di quelle proposte da Mansholt, si
mostrava piuttosto riluttante a sottrarre risorse dalla sezione Garanzia del
Feoga, essendo la principale beneficiaria della politica di sostegno dei
prezzi.

Quasi tutti i paesi, però, esprimevano l'esigenza di una rivalutazione dei


prezzi, anche se talvolta tali esigenze erano contrastanti tra loro. Solo
l'Italia, anche per ragioni tattiche, non si attestava a difesa degli aumenti
dei prezzi, ma anzi si mostrava restia ad accettare aumenti generalizzati in
assenza di un accordo sulle proposte di Mansholt sul varo di una politica
socio-strutturale comune.

Anche se non risolutivi, gli incontri informali che Mansholt aveva avuto
nella seconda metà del 1970 lo avevano comunque convinto che il suo
disegno di collegare le proposte prezzi per la successiva campagna con il
programma di azioni socio-strutturali avrebbe potuto avere qualche
probabilità di successo. Il 15 febbraio 1971 la Commissione presentava,
infatti, al Consiglio una comunicazione ed un progetto di risoluzione per
un nuovo orientamento della politica agricola comune.

Il progetto comprendeva una prima parte relativa alla politica dei prezzi e
dei mercati da applicare per la campagna 1971/72 e una seconda parte
relativa alla riforma strutturale dell'agricoltura europea "da effettuare
rapidamente mediante azioni comuni". La Commissione chiariva
comunque che il progetto doveva essere considerato come un tutto unico,
e sottolineava in modo molto netto l'indissolubilità del legame tra politica
dei prezzi e dei mercati e politica delle strutture. Come tale, essa
affermava perciò la necessità di una decisione congiunta nei due settori
contemporaneamente.

20
Tentando di mediare tra i vari interessi nazionali in materia di prezzi
agricoli per la nuova campagna ma cercando al tempo stesso di restare
fedele agli orientamenti enunciati in precedenza, la Commissione
proponeva di lasciare immutati - rispetto a quelli della campagna
precedente - i prezzi di alcuni prodotti agricoli (grano duro, segale,
granturco, tabacco) o di aumentarli leggermente (frumento tenero e riso).
Aumenti relativamente più consistenti venivano invece proposti per il
settore della carne bovina (10% in due anni) e per il latte (5%) mentre per
lo zucchero si proponeva una politica restrittiva dei prezzi e delle quantità
suscettibili di beneficiare della garanzia di prezzo.

Quanto alle proposte di ammodernamento dell'agricoltura, che


rappresentava la parte più qualificante del progetto di risoluzione, queste
riprendevano, con alcuni ritocchi ed alcune integrazioni, le proposte di
direttiva presentate all'inizio di maggio dell'anno precedente.
Notevolmente diverso era, però, il valore politico delle nuove proposte,
essendo Mansholt, con le sue iniziative, riuscito abilmente a legare “in
maniera indissolubile”, come dichiarava, il problema dei prezzi con quelle
delle strutture.

Il Consiglio, a questo punto, non avrebbe più potuto tranquillamente


occuparsi soltanto dei prezzi e rinviare sine die le riforme strutturali. "La
Commissione non si è sottratta alle sue responsabilità - scriveva Mansholt
dopo la presentazione delle proposte - e la parola spetta ora al Consiglio.
Anch'esso deve assumere ora le sue responsabilità: ne dipende la sorte
degli agricoltori".

Il programma di misure che la Commissione sottoponeva al Consiglio per


l'approvazione era così articolato:

a) misure in favore di chi desiderava lasciare l'attività agricola: allo


scopo di favorire la mobilità della terra, in modo da renderla
disponibile per coloro che desideravano ingrandire la propria
azienda, veniva previsto un regime di aiuti a vantaggio dei
coltivatori, a condizione che essi avessero cessato la loro attività e
avessero accettato di cedere i loro terreni o per l'ammodernamento
di altre aziende o per usi non agricoli. A questo riguardo, la
Commissione proponeva un'indennità annua per un importo
minimo di 1.000 U.c. per i capi azienda a titolo principale di 55
anni e oltre di età, e, in taluni casi, per i lavoratori della stessa età
che lavoravano con questi e che avessero cessato la loro attività.

21
Per i capi azienda di età inferiore ai 55 anni, invece, era previsto un
premio unico calcolato sulla base della superficie agricola liberata;
b) misure in favore di chi intendeva continuare l'attività agricola: per
coloro che desideravano continuare l'attività agricola la
Commissione proponeva un regime selettivo di aiuti da concedere
a condizione che essi avessero una sufficiente capacità
professionale e che per la loro azienda fosse stato approvato un
apposito piano di sviluppo. Tale piano avrebbe dovuto dimostrare
che, una volta realizzato in capo a sei anni, l'azienda in fase di
ammodernamento sarebbe stata in grado di raggiungere, per
almeno due unità di lavoro, un reddito compreso tra 10.000 e
12.500 U.c. per unità di lavoro. Le principali misure consistevano:
nell'assegnazione a queste aziende delle superfici agricole liberate;
in un aiuto finanziario (sotto forma di abbuono sul tasso interesse
del 6% al massimo) agli investimenti necessari per realizzare il
piano di sviluppo; in una eventuale garanzia per i prestiti contratti.
Criteri più favorevoli di applicazione degli aiuti erano previsti per
le regioni più sfavorite dal punto di vista delle strutture;
c) informazione e formazione professionale degli agricoltori: per
favorire questo processo di ammodernamento dell'agricoltura era
previsto un regime di incoraggiamento riguardante la formazione e
il perfezionamento di consiglieri socio-economici specializzati,
come pure il modo di tenere la contabilità nelle aziende agricole;
d) miglioramento della commercializzazione dei prodotti agricoli: in
questa materia era previsto un regime di aiuti per la fase di avvio e
per gli investimenti, in favore di categorie e unioni di produttori, in
termini di abbuoni sul tasso d'interesse del 6% al massimo;
e) limitazione della superficie agricola utilizzata: veniva
raccomandato agli Stati membri di prendere le opportune
precauzioni affinché la superficie agricola utilizzata non fosse
ulteriormente estesa;
f) politica degli aiuti nazionali: per consentire un passaggio senza
traumi al nuovo sistema, era ammesso che gli Stati membri
potessero, ancora per cinque anni, accordare entro certi limiti aiuti
transitori e nazionali ad investimenti limitati in favore di coltivatori
di età inferiore ai 55 anni che non beneficiavano di altri aiuti.

Per quanto riguardava il contributo finanziario comunitario alle spese di


esecuzione di tali azioni, la partecipazione comunitaria era fissata al 50%
in media degli oneri totali, con possibilità di un maggior concorso per le
spese effettuate nelle regioni meno favorite.

22
Il difficile varo della politica socio-strutturale comune in agricoltura.

Riuniti a Bruxelles il 15 e il 16 febbraio 1971, i sei ministri


dell'agricoltura, presente Sicco Mansholt, avevano risolto senza troppe
difficoltà alcuni problemi settoriali di mercato iscritti all'ordine del giorno.
Ben presto, però, si erano trovati ad abbordare il grosso scoglio
rappresentato dalle proposte della Commissione relative al nuovo
orientamento della politica agricola comunitaria.

Già nella mattinata del 15, ad apertura dei lavori, si era avuto un segno
premonitore delle nubi che si addensavano all'orizzonte, con la
manifestazione inscenata da alcuni giovani agricoltori belgi contro il
commissario Mansholt, conclusasi con l'introduzione nella sala di riunione
di alcune vacche, fra il panico degli uscieri e delle segretarie.

Anche gli ambienti agricoli di quasi tutti gli altri Stati membri erano, però
in fermento ed in vigile attesa di quanto i ministri avrebbero deciso a
Bruxelles. In realtà, com'era da prevedersi, considerata la posta in gioco,
in quel Consiglio agricolo non sarebbe stato deciso nulla, o quasi, sui temi
più scottanti: prezzi agricoli e misure socio-strutturali. L'unico punto su
cui le delegazioni si erano alla fine trovate d'accordo era la necessità di
fissare al più presto i prezzi, affinché la nuova campagna per i prodotti
lattiero-caseari e la carne bovina potesse iniziare alla data prevista del 1°
aprile.

Il ministro tedesco Ertl, in particolare, spinto dagli agricoltori del suo


paese, non aveva nascosto la sua indisponibilità a tergiversare sui prezzi,
arrivando perfino ad affermare che, in mancanza di un accordo entro il 1°
aprile, il suo governo sarebbe stato obbligato a prendere delle misure
nazionali in favore degli agricoltori del suo paese.

Anche Lardinois, ministro olandese dell'agricoltura, si era schierato contro


la Commissione sostenendo di dare la precedenza assoluta alle decisioni
sui prezzi agricoli; il che significava, in sostanza, rompere quel legame
organico che Mansholt aveva cercato faticosamente di istituire tra prezzi e
strutture.

Su posizioni diametralmente opposte si era invece attestata la delegazione


italiana, guidata dal ministro dell’agricoltura Lorenzo Natali. Essa si era
infatti strenuamente opposta ad ogni ingiustificato aumento del livello dei
prezzi agricoli, soprattutto per quei prodotti per cui la Ce era già
eccedentaria. In ogni caso, si era dichiarata contraria a qualunque

23
rivalutazione dei prezzi se non fosse stata affermata con chiarezza la
volontà politica di procedere senza indugio alla realizzazione di una vera
politica comune di miglioramento delle strutture, che contemplasse un
appropriato adattamento regionale.

I francesi, e in modo più discreto i belgi, avevano assunto una posizione


intermedia, vicina alle proposte della Commissione. I contrasti nascevano
sia dalla diversità di interessi in ordine alla cosiddetta "gerarchia" dei
prezzi (cioè alla relazione tra i prezzi dei vari prodotti), sia soprattutto in
ordine al rapporto da istituire tra interventi sui prezzi e interventi sulle
strutture. Se si esclude l'Italia, infatti, la cui legislazione agraria era del
tutto carente sul piano delle riforme di struttura quando non si muoveva
addirittura in senso opposto alle proposte di Mansholt, quasi tutti gli altri
paesi della Ce avevano da tempo affrontato, e talvolta risolto, sul piano
nazionale i problemi di struttura, sicché mal si adattavano all'idea di dover
finanziare le riforme altrui.

Maggiore interesse i ministri di questi paesi prestavano invece


all'adeguamento dei prezzi di sostegno, sia per i più immediati vantaggi
economici che si attendevano da una decisione di questo genere, sia per le
benemerenze politiche che avrebbero così potuto acquisire presso le
masse agricole del proprio paese. Il 16 febbraio i ministri si erano lasciati
con poche idee in comune, e con alle spalle una prima tornata di confronti
che lasciava prevedere per il futuro un "serio scontro" secondo
l'espressione del presidente di turno, il francese Michel Cointat.

Non più concludente doveva rivelarsi la riunione del Consiglio dell'8 e 9


marzo, nonostante i precedenti sforzi diplomatici delle varie cancellerie
tendenti ad avvicinare i diversi punti di vista. In realtà, dopo un primo
esame del problema "prezzi", le divergenze in questo campo erano
sembrate meno gravi di quel che si temeva. Ancora in alto mare, invece,
era la trattativa sulle misure socio-strutturali.

Su questo fronte del negoziato, l'Italia, rivelatasi più conciliante sulle


proposte "prezzi", conservava infatti la sua posizione di intransigenza sul
collegamento tra i due volets delle proposte della Commissione,
ritrovandosi praticamente sola a fianco di Mansholt nel contrastare
l'opposizione dei tedeschi, ed in parte degli olandesi, ad una riforma delle
strutture agricole su scala comunitaria.

Se l'opposizione dell'Olanda era facilmente comprensibile, dal momento


che la sua agricoltura si avvicinava più di ogni altra agli standard verso i

24
quali tendevano le misure strutturali proposte da Mansholt, qualche
sorpresa suscitava invece la posizione tedesca. Per quanto, infatti, la
Germania fosse impegnata da tempo in un'azione strutturale, peraltro con
qualche successo, si pensava che anch'essa avrebbe dovuto trarre
consistenti vantaggi dalle iniziative comunitarie, avendo un'agricoltura,
come quella italiana, formata da molte piccole imprese familiari fra le
meno competitive.

Come era emerso chiaramente nel corso dei dibattiti, l'opposizione tedesca
alle proposte di Mansholt era soprattutto dettata da preoccupazioni di
carattere finanziario. Se l'Italia chiedeva una completa
"comunitarizzazione" del finanziamento delle riforme, la Germania non
era, difatti, disposta ad accollarsi oneri per piani di riforma già avviati a
livello nazionali e che a quell'epoca si credeva dovessero andare in gran
parte a vantaggio di paesi, come l'Italia, che invece poco avevano fatto e
poco dimostravano di saper fare.

In realtà, come l'esperienza degli anni successivi avrebbe dimostrato,


sarebbe stata proprio la Germania ad essere paradossalmente la principale
beneficiaria di fatto delle direttive socio-strutturali che sarebbero state
emanate l'anno successivo. Ma a quell'epoca nessuno avrebbe osato
credere ad una tale ipotesi.

Per contemperare, comunque, le esigenze tedesche d'un rialzo dei prezzi


con le esigenze italiane d'un avvio delle riforme strutturali, il ministro
tedesco Ertl aveva presentato al Consiglio una contro-risoluzione che,
prescindendo dal problema dei prezzi, cercava di agganciare il problema
del varo della politica socio-strutturale allo sviluppo della politica
economica generale della Ce, ed in particolare alla realizzazione
dell'unione economica e monetaria. Tuttavia i tempi e soprattutto le
modalità di finanziamento del piano, prevalentemente a carico degli Stati
membri, erano così poco soddisfacenti che il tentativo incontrò la netta
opposizione della delegazione italiana.

In vista della stretta finale sui nuovi orientamenti della politica agricola
comunitaria, prevista per il giorno 22 marzo e successivi, data del nuovo
Consiglio agricolo, gli interessi agricoli andavano intanto accentuando la
loro pressione sul piano nazionale e sul piano comunitario, con azioni
dimostrative sui rispettivi governi e sul Consiglio, rivolte quasi
unicamente ad ottenere una rivalutazione dei prezzi più consistente di
quella proposta dalla Commissione. Anche il Parlamento europeo si era
mosso in tal senso chiedendo un aumento medio dei prezzi del 5%.

25
Il Consiglio si era aperto a Bruxelles il pomeriggio del 22 marzo 1971, in
un clima di viva tensione che, il giorno dopo, sarebbe sfociata in una
imponente manifestazione di circa 80.000 agricoltori, provenienti in parte
anche dagli altri paesi delle Ce. La manifestazione avrebbe avuto momenti
di estrema violenza e negli scontri con la polizia si sarebbe avuto un
morto, numerosi feriti e gravi danni.

La questione "prezzi" era stata affrontata per prima e su di essa si era


potuto trovare, già nel primo giro di tavolo, con minori difficoltà del
previsto, un'intesa su un'ipotesi di accordo. Ben presto, però era venuto al
pettine il nodo delle "strutture" su cui le divergenze erano rimaste più
rigide. Superate le opposizioni pregiudiziali, la discussione si era
concentrata ancora una volta sulla questione del finanziamento. Si trattava
di decidere, in particolare, sulla misura del concorso della Comunità,
sull'opportunità di prevedere un periodo transitorio e di procedere per
tappe, sulla possibilità di superare fin dall'inizio il limite di bilancio di 285
milioni di U.c. fissato per la sezione "Orientamento" del Feoga.

L'Italia si era dichiarata nettamente contraria ad ogni limitazione della


partecipazione finanziaria della Comunità e ad ogni articolazione per
tappe del programma di interventi strutturali, ma in più occasioni si era
trovata del tutto isolata o, al più, al fianco della sola Commissione. La
discussione si era protratta per quattro giorni, conoscendo momenti di viva
tensione, con la minaccia incombente di una crisi dell'intera costruzione
comunitaria.

Alla fine, dopo 45 ore di acceso dibattito, un primo accordo globale era
stato raggiunto su una nuova proposta di risoluzione della Commissione
che, cercando di conservare lo spirito e i principi fondamentali della
proposta iniziale, recepiva alcune delle istanze avanzate nel corso del
dibattito.

Per i prezzi venivano previsti aumenti leggermente superiori a quelli


proposti dalla Commissione, ma generalmente inferiori al tasso
d'inflazione registrato nella maggior parte degli Stati membri, salvo per i
prodotti animali. Per quanto riguardava invece, le azioni comuni previste
per l'ammodernamento delle strutture agricole, che rappresentavano la
parte più qualificante della decisione, esse si orientavano nella direzioni
indicata dalla Commissione, ma con alcuni ritocchi ed alcuni elementi di
novità, tutti piuttosto deludenti per chi si attendeva una maggiore
partecipazione della Comunità.

26
In particolare, il regime di aiuti a favore di coloro che cessavano l'attività
agricola sarebbe stato così articolato: a) un premio, non imputabile al
Feoga, calcolato in funzione della superficie agricola liberata; b)
un'indennità annua di 600 U.c. (al posto delle 1000 U.c. proposte dalla
Commissione) per gli agricoltori tra i 55 e i 65 anni che cessavano
l'attività; c) un regime di aiuti, a carico degli Stati membri, per gli
agricoltori che desideravano trasferirsi in un'attività extra-agricola, e per i
figli degli agricoltori di condizioni modeste.

Per quanto riguardava le misure in favore di coloro che avrebbero


continuato l'attività agricola, queste ricalcavano sostanzialmente le
proposte della Commissione: l'obiettivo di un reddito di 10.000 - 12.000
U.c. per unità di lavoro, fissato per le imprese in grado di svilupparsi,
veniva però sostituito con un più generico riferimento al "reddito di lavoro
almeno comparabile con quello di cui beneficiano le attività non agricole
della regione".

L'abbuono del tasso di interesse per i prestiti contratti per il finanziamento


del piano di sviluppo aziendale veniva inoltre abbassato dal 6% al 5%. Le
altre misure approvate riprendevano più o meno integralmente le proposte
della Commissione. Dove il compromesso finale si discostava
maggiormente dalle proposte della Commissione era sulla partecipazione
del Feoga al finanziamento delle misure ammesse. Mentre, infatti la
Commissione aveva proposto una partecipazione al 50%, e l'Italia si era
battuta per ottenere una copertura integrale delle spese, in nome del
principio della solidarietà finanziaria, il compromesso finale prevedeva
una partecipazione finanziaria della Comunità limitata al 25% delle spese
imputabili.

L'Italia, comunque, otteneva che, per quanto riguardava le misure a favore


di coloro che desideravano cessare l'attività agricola, la partecipazione
della Comunità potesse arrivare al 65% (contro il 75% previsto
inizialmente). Il Consiglio si riservava, inoltre, di decidere se portare al
65% la partecipazione del Feoga anche per le altre misure, ma solo in
alcuni casi particolari e per alcune regioni sfavorite della Comunità.

I fondi utilizzabili per il finanziamento comunitario delle misure strutturali


venivano indicati nei residui di stanziamento della sezione Orientamento
del Feoga e nella disponibilità annuale della sezione, pari a 285 milioni di
U.c., a decorrere dal 1° gennaio 1972. Infine veniva previsto, al termine di
un periodo di quattro anni di attuazione, un riesame delle modalità di

27
attuazione delle azioni comuni, senza che ciò significasse rimettere in
discussione le misure già decise.

Il ministro Natali, a conclusione della faticosa "maratona", si dichiarava


"non interamente e completamente soddisfatto" sottolineando che su due
punti importanti le decisioni prese erano inferiori alle speranze: il livello
delle indennità annue agli agricoltori anziani che abbandonavano l'attività
(600 U.c. al posto di 1.000), e la percentuale del finanziamento
comunitario, per le altre azioni. Anche il presidente del Consiglio,
Colombo, commentava prudentemente gli accordi di Bruxelles,
sottolineando che si trattava di "un primo passo, più timido di quanto noi
italiani auspicavamo, nella direzione giusta".

Nel complesso, però, i commenti della stampa tendevano ad esaltare la


"vittoria italiana a Bruxelles" con un'enfasi certamente sproporzionata alla
portata dei risultati conseguiti, ma da cui traspariva un compiacimento, più
che altro morale, per essere stati, come ormai non accadeva da molto
tempo, protagonisti vincenti di una pagina di storia della politica agricola
comunitaria.

A freddo, però, molti commenti non nascondevano né la modestia del


successo italiano sul piano dei vantaggi economici conseguiti, né la
rilevanza dei costi pagati in cambio di tali risultati, né, infine, la
preoccupazione che l'agricoltura italiana, per la sua impreparazione ad
accogliere le riforme di struttura, si sarebbe trovata, ancora una volta, per
lo meno nel breve periodo, a finanziare le riforme che già gli altri paesi
attuavano per proprio conto.

Profezia, questa, che si sarebbe puntualmente avverata, non solo nel breve
ma anche nel lungo periodo.

(1) Commissione Ce, Memorandum sulla riforma dell'agricoltura nella


Comunità Economica Europea, COM (68) 1000, del 18 dicembre 1968.
(2) Commissione Ce, id.
(3) Commissione Ce, id.
(4)Commissione Ce, id.

28






29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
LA REVISIONE DELLA POLITICA AGRICOLA
COMUNE *
(Ottobre 1982)

Anche se la ricorrenza non è stata marcata da alcuna celebrazione


ufficiale, è un fatto non privo di importanza storica e di significato politico
nella vicenda europea che la politica agricola comune abbia compiuto
quest'anno i suoi primi vent'anni di esistenza. E', infatti, nel lontano
gennaio dell'anno 1962, ad appena quattro anni dall'entrata in vigore del
Trattato istitutivo della Comunità economica europea, che sono state
adottate le prime organizzazioni comuni dei mercati agricoli e il primo
regolamento finanziario, vere pietre maestre non solo della politica
agricola comune in quanto tale, ma anche dell'intera costruzione europea.

Ripercorrendo nella memoria questi ultimi venti anni di vita della


Comunità, non si può fare a meno di concludere che lo stadio raggiunto
dal processo di integrazione europea non sarebbe quello che oggi è, che la
consapevolezza dell'opportunità di proseguire su questa strada non
avrebbe probabilmente fatto tanti adepti, all'interno ma anche all'esterno
delle primitive frontiere comunitarie, se la politica agricola comune non
avesse agito da fattore trainante di tutta la dinamica comunitaria.

Certo, non sono mancati in questi venti anni difficoltà serie o incidenti di
percorso più o meno gravi, talvolta attribuibili proprio a taluni aspetti della
politica agricola comune: è tuttavia riconfortante poter constatare
retrospettivamente che nessuno di essi è stato sufficiente a interrompere la
dinamica dell'integrazione europea e che si sia sempre riusciti alla fine a
ritrovare in sé la forza per reagire alle tentazioni nazionalistiche e alla
minaccia di degradazione della coesione comunitaria.

E' vero che che la politica agricola comune è conosciuta dal grande
pubblico, attraverso le cronache della stampa d'informazione, più per le
dispute a cui essa talvolta dà luogo, soprattutto in occasione delle annuali
"maratone" dei ministri del1'agricoltura sui prezzi agricoli, o per l'apparire
di qualche disfunzione nel funzionamento dei suoi meccanismi, che per i

*Articolo per la rivista “Il Ponte” a firma di Poul Dalsager, Commissario


all’Agricoltura)

39
suoi meriti storici nella vicenda europea o per i benefici concreti che essa
arreca a milioni di agricoltori e di consumatori nella Comunità.

Chi sa tuttavia guardare al di là dell'effimero, chi sa discernere l'essenziale


dall'accessorio, chi non dimentica le difficoltà obiettive che esistono nel
comporre a livello comunitario divergenze di interesse, di concezione e di
approccio ai problemi che appaiono talvolta insormontabili, dovrebbe
convenire che la politica agricola comune ha arrecato in questi venti anni
un contributo fondamentale allo sviluppo dell'agricoltura europea, al
miglioramento dei redditi e del tenore di vita delle popolazioni rurali, alla
sicurezza degli approvvigionamenti alimentari e alla stabilità dei prezzi al
consumo: e questo in un mondo percorso da violente tensioni sui mercati
internazionali e da ricorrenti fasi di penuria e di eccedenza.

Va ascritto al coraggio e alla lungimiranza degli Stati membri, alla


determinazione delle istituzioni comunitarie, ed in particolare della
Commissione, nonché, beninteso, al sostegno del mondo agricolo, l'aver
percorso in venti anni tanta strada sulla via del1'integrazione delle diverse
politiche agricole nazionali esistenti prima della progressiva introduzione
di una politica agricola comune.

Questo processo è da tempo pressoché completo per quanto riguarda la


politica dei prezzi e dei mercati agricoli, tant'è che si potrebbe ormai
affermare che in questo settore la politica comune ha praticamente
sostituito del tutto le politiche nazionali. Per varie ragioni che non è qui
possibile esaminare, esso è invece ad uno stadio meno avanzato, ma non
per questo meno dinamico, nel settore della politica socio-strutturale,
necessario corollario della politica dei prezzi e dei mercati.

Due sono, a mio avviso, i punti di forza della politica agricola comune,
che hanno reso possibili tali sviluppi:

- da una parte, l'esistenza di alcuni principi fondamentali, rimasti immutati


nel tempo, sui quali la politica agricola si regge fin dalle origini: quello
dell'unicità dei prezzi e dei mercati, quello della libertà degli scambi e
della preferenza comunitaria e quello della solidarietà finanziaria. Essi
costituiscono i veri assi portanti della politica agricola comune, da cui
discendono tutte le misure e tutti gli strumenti che sono stati messi in atto
per conseguire gli obiettivi che il Trattato fissa alla politica agricola
comune.

40
E' significativo, a questo proposito, che malgrado le critiche di cui la
politica agricola comune è stata fatta oggetto nel tempo e malgrado le
proposte di riforma che sono state avanzate a questo riguardo, ben pochi
hanno finora messo in causa il fondamento di tali principi. Qualcuno fra i
critici più severi, ha semmai auspicato che si portasse fino alle estreme
conseguenze l'applicazione di tali principi.

Nessuno, però, a quanto ci consta, a parte gli antagonisti dichiarati


dell'integrazione europea, si è spinto fino al punto di proporne
realisticamente la completa soppressione e la costruzione su nuove basi
della politica agricola comune. Chi lo facesse non dovrebbe, infatti,
dimenticare che non si tratta tanto di "reinventare" una nuova politica
agricola comune conforme magari ai propri convincimenti o agli interessi
di questa o di quella parte in causa, ma piuttosto di avanzare una proposta
politica capace di raccogliere intorno a sé i consensi necessari perché essa
si traduca in una realtà concreta a livello comunitario.

Ciò non significa, beninteso, che la politica agricola comune debba restare
definitivamente imbalsamata nella sua veste originale o che non si possa
mantenerne la piena vitalità mediante l'afflusso di nuove energie, ivi
comprese quelle derivanti dalla critica costruttiva. Al contrario, è proprio
in questa flessibilità, pur nel rispetto dei principi fondamentali, che risiede
l'altro punto di forza della politica agricola comune;

- il secondo atout della politica agricola comune è infatti proprio quello di


essere stata più volte sottoposta, in questi anni, a quegli adattamenti,
miglioramenti o correzioni di rotta, che si sono resi necessari per
rinforzarne l'efficacia, per tener conto dei cambiamenti intervenuti nel
contesto generale in cui essa si trovava ad operare, e perché no, per evitare
il rischio di naufragio sugli scogli più pericolosi.

Molte di queste iniziative vanno intese non soltanto come uno sforzo di
razionalizzazione e adeguamento della politica agricola comune alle nuove
esigenze che sono via via emerse dal suo interno, ma anche come la
risposta politica alle minacce di cedimento della coesione comunitaria che
sono apparse di tanto in tanto nel cielo del1'Europa.

Questo processo di adattamento della politica agricola comune si è mosso


finora essenzialmente lungo due direttrici di fondo:

- da una parte, messa in atto di una politica socio-strutturale in agricoltura,


e di una serie di misure ad hoc, in particolare a favore delle regioni più

41
svantaggiate, e il collaterale sforzo di miglioramento delle organizzazioni
comuni di mercato per le produzioni mediterranee;

- dall'altra, la lotta per frenare l'espansione patologica di talune produzioni,


non soltanto largamente eccedentarie a livello comunitario, ma anche di
difficile collocamento sui mercati internazionali.

Alle soglie degli anni Ottanta, una nuova fase di riflessione critica si è
aperta per la politica agricola comune, come del resto per l'insieme delle
politiche comunitarie. Se è vero che in questa fase talune preoccupazioni
inerenti al funzionamento della politica agricola comune e alle
conseguenze indesiderate che esso determina possono essere apparse
talvolta predominanti, sbaglierebbe, tuttavia, chi collocasse questa
riconsiderazione critica delle diverse politiche comuni nell'ottica di un
mero ridimensionamento finanziario del ruolo della Comunità o nella
prospettiva di una lenta quanto irreversibile involuzione del processo
d'integrazione. Al contrario, come la Commissione non ha mancato di
sottolineare, si tratta più che mai di consolidare le basi della solidarietà
comunitaria e di imprimere un impulso nuovo alle politiche comuni, che
consentano alla Comunità di far fronte alle sfide degli anni Ottanta.

Questo è vero, in particolare, per gli adattamenti e i miglioramenti che la


Commissione ritiene necessari per quanto riguarda la politica agricola
comune. In effetti, a venti anni dalla sua nascita, è comprensibile che la
politica agricola comune debba essere sottoposta ad una salutare revisione,
che tenga conto sia dell'evoluzione del settore agricolo sia della nuova
realtà del contesto economico generale.

La politica agricola comune, che è stata concepita e messa


progressivamente in atto in un periodo di crescita economica senza
precedenti, si trova infatti oggi ad operare in un contesto profondamente
segnato dalla crisi energetica, dal rallentamento o addirittura dalla
flessione dello sviluppo economico, dalla crescita della disoccupazione e
dall'instabilità monetaria. Tutti fattori questi che, se da una parte rendono
più che mai indispensabile la massimizzazione degli sforzi per rilanciare
l'attività produttiva, impongono anche una sagace utilizzazione delle
limitate risorse disponibili.

E' in questa ottica che vanno inseriti gli sforzi che la Commissione
conduce ormai da anni per una più rigorosa gestione della spesa pubblica
ed in particolare quella destinata al sostegno dei mercati agricoli. A questo
proposito, non si tratta tanto di tracciare limiti più o meno ristretti ed

42
arbitrari, all'espansione della spesa agricola, quanto invece di garantire a
questa spesa una funzione economica che vada al di là della semplice
erogazione assistenziale.

La Commissione ritiene che solo inquadrando in una prospettiva a medio e


lungo termine l'evoluzione probabile dell'offerta e della domanda di
prodotti agricoli, sia possibile prendere le decisioni più consone alle nuove
esigenze odierne. Ciò non significa necessariamente assumere il "mercato"
ad arbitro del destino degli otto milioni di lavoratori che nella Comunità
traggono prevalentemente il loro reddito dal1'agricoltura.

Proprio nella difficile congiuntura che conosce attualmente il mercato del


lavoro, la Comunità non può infatti ignorare che oggi, ancor più che ieri,
le alternative al1'attività agricola o a taluni orientamenti produttivi sono
limitate, se non inesistenti, e ciò, in particolar modo, proprio in talune
regioni meno favorite.

Ma questo non può nemmeno significare la dissociazione completa, al


riparo della protezione comunitaria, tra mercato ed attività produttiva, tra
fabbisogno e disponibilità, tra possibilità di collocamento e livello di
produzione. Oggi più che mai non è possibile fare astrazione da questi
vincoli: e ciò anche perché è proprio come risultato di un'eccessiva
divaricazione tra queste variabili che si sono venute a creare nel tempo
situazioni veramente insostenibili, tanto dal punto di vista finanziario che
da quello del semplice buon senso.

La Commissione non pretende di imporre dall'alto il giusto equilibrio tra


queste diverse entità. Essa ritiene infatti che appartenga a ciascun
produttore e all'insieme degli operatori agricoli di determinare il livello di
produzione che essi considerano più appropriato. Quello che essa ha però
il dovere di fare in una situazione come l'attuale, è di contribuire a rendere
i produttori agricoli più consapevoli della realtà del mercato; una realtà
che la garanzia illimitata di collocamento e di prezzo da parte degli
strumenti di intervento comunitari ha talvolta fatto probabilmente del tutto
dimenticare.

E' in questo spirito che la Commissione ha proposto, e il Consiglio ha


adottato, una serie di "obiettivi di produzione", inseriti in una prospettiva
quinquennale, per le principali produzioni eccedentarie (cereali, latte,
colza, ortofrutticoli trasformati): essi vanno intesi non come una
limitazione artificiale della produzione agricola, né come una forma di
pianificazione dall'alto, bensì come il livello di produzione oltre il quale la

43
garanzia comunitaria verrebbe ridotta o comunque opportunamente
modificata. Si tratta,in sostanza, di attivare un meccanismo che renda in un
modo o nel1'altro i produttori partecipi dell'onere di smaltimento delle
eccedenze di produzione.

Meccanismi di questo genere già esistevano da tempo nel settore dello


zucchero e in quello del latte: quello che la Commissione ha proposto è
stato dunque di rinforzarne l'efficacia e di estenderli ad altri settori
eccedentari o che minacciano di diventarlo; e ciò non solo per mantenere
entro limiti ragionevoli l'onere a carico del bilancio comunitario, ma
anche, nel presupposto che essi possano avere effetti dissuasivi
sull'espansione incontrollata della produzione.

La Commissione non si è però limitata a questa iniziativa, ma ha indicato


anche una serie di orientamenti e ha formulato una serie di proposte che
dovrebbero costituire la base per l'adeguamento della politica agricola
degli anni futuri.

Anzitutto, la Commissione è del parere che occorre ridare spazio


all'utilizzazione interna dei cereali comunitari, in particolare di quelli
destinati all'alimentazione animale, che è oggi meno competitiva a causa
della crescente importazione a basso prezzo di prodotti sostitutivi ad alto
contenuto proteico (manioca, crusca, residui del granturco, ecc.).

Per raggiungere questo obiettivo, occorre agire contemporaneamente su


due fronti: da una parte, riducendo progressivamente il divario esistente
fra i prezzi comunitari e quelli applicati dai principali concorrenti della
Comunità sul mercato mondiale; dal1'altra promuovendo accordi con i
paesi terzi fornitori, affinché, nel corso del periodo di allineamento dei
prezzi, quanto meno non vengano superati gli attuali livelli
d'importazione.

Il risultato di questa manovra, che toccherà prevalentemente le grandi


aziende cerealicole specializzate in cereali, dovrebbe essere quello di
ridurre i costi di produzione nel settore dell'allevamento zootecnico e
quindi di rendere più competitiva la produzione animale della Comunità,
rispetto a quella dei paesi terzi.

In secondo luogo occorre apportare alle misure attualmente previste nel


quadro delle diverse organizzazioni comuni di mercato tutti quegli
adattamenti che si rendono necessari alla luce dell'esperienza acquisita e in
funzione di una loro più grande efficacia.

44
Non è qui il caso di elencare una ad una le diverse misure che la
Commissione ha già proposto a questo riguardo o che sono già entrate in
vigore. Per l'importanza che esse rivestono per un paese come l'Italia, ci
pare tuttavia doveroso citare le recenti modifiche approvate alla normativa
che regola l'intervento comunitario nel settore del vino, nonché quelle,
ancora in discussione, nel settore degli ortofrutticoli e dell'olio di oliva.

Un altro elemento qualificante dell'azione comunitaria in questa fase della


politica agricola comune è la migliore considerazione dei problemi di
reddito che possono porsi nell'attuale congiuntura economica, in
particolare per quanto riguarda i piccoli produttori agricoli. E' in
quest'ottica che la Commissione ha ritenuto essenziale prevedere la
possibilità di misure intese a sostenere i redditi, soprattutto dei piccoli
produttori (ad esempio nel settore del latte e delle carni bovine).

La Commissione è infine del parere che occorra proseguire lo sforzo di


miglioramento strutturale dell'agricoltura comunitaria già intrapreso, in
particolare nelle regioni meno favorite, e che occorra anzi intensificarlo,
concentrando i mezzi disponibili in rapporto al maggiore fabbisogno. A tal
fine, non soltanto verranno quanto prima sottoposte a revisione le misure
strutturali che giungono a scadenza, ma verranno anche lanciati appositi
programmi integrati di sviluppo per le regioni mediterranee che si
avvarranno del concorso congiunto dei diversi strumenti finanziari della
Comunità.

A questo insieme di iniziative e di misure se ne aggiungono altre intese, in


particolare, ad assicurare un controllo più severo della qualità dei prodotti
ed un rafforzamento della disciplina degli aiuti nazionali al settore
agricolo, onde evitare che essi provochino un indebolimento delle
politiche comunitarie.

Certo, nel formulare tali proposte e tali orientamenti, la Commissione è


cosciente di non allontanarsi fondamentalmente dal cammino tracciato in
questi venti anni di politica agricola comune, anche se certe innovazioni se
ne distaccano in maniera significativa. Essa è tuttavia convinta che non sia
possibile sconvolgere i meccanismi della politica agricola comune, senza
minare dalle fondamenta l'intera costruzione comunitaria. Del resto, ciò
non sarebbe nemmeno auspicabile, tenuto conto che essa ha
sostanzialmente raggiunto gli obiettivi che le sono stati assegnati dal
Trattato di Roma, che si tratti della sicurezza alimentare, del
soddisfacimento dei bisogni dei consumatori, dei progressi della
produttività e della crescita del reddito degli agricoltori.

45
I limiti di garanzia e la PAC*
(Dicembre 1984 – originale in francese)

Introduzione

Nel momento stesso in cui ha dato avvio alla realizzazione della politica
agraria comune (PAC), assumendosi la responsabilità della sua gestione, la
Comunità europea ha accettato anche di addossarsi l'onere finanziario
derivante dall'applicazione delle misure in cui questa politica si
concretizza. A tale scopo è stato creato, nel 1962, un apposito strumento
finanziario, il Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia
(FEOGA).

In linea di massima, la responsabilità finanziaria relativa alla politica


comune delle strutture agrarie incombe in parte alla Comunità (nella
fattispecie, alla sezione Orientamento del FEOGA) e in parte agli Stati
membri. Sin dall'inizio, essa è sempre stata soggetta a restrizioni,
concepite per tenere sotto controllo l'evoluzione della spesa comunitaria in
questo settore.

Per quanto riguarda, invece, la politica comune dei prezzi e dei mercati
agricoli, che assorbe senza dubbio la maggior parte delle risorse
finanziarie del FEOGA (94,5% nel 1983) e persino del bilancio generale
delle Comunità (61,4% nel 1983), in linea di massima la responsabilità
finanziaria spetta interamente ed esclusivamente alla Comunità (sezione
Garanzia del FEOGA).

Tralasciando il settore dello zucchero che, da quando è stata istituita


l'organizzazione comune di mercato, è soggetto ad un regime particolare,
che pone limiti quantitativi all'applicazione dei meccanismi di sostegno
dei prezzi e dei mercati, la responsabilità finanziaria della Comunità non è
stata quasi mai sottoposta a restrizioni quantitative di rilievo. In caso di
sovrapproduzione o di difficoltà di smercio, ad esempio, i produttori di
numerose derrate hanno la possibilità di conferire agli organismi
d'intervento nazionali a ciò designati i quantitativi che non hanno trovato
sbocco sul mercato, senza alcuna limitazione individuale o collettiva. Gli
organismi d'intervento, da parte loro, sono tenuti ad acquistare la totalità
dei quantitativi consegnati, ad un prezzo fissato annualmente per l'insieme
della Comunità, il cosiddetto prezzo di intervento.

* Comunità Europee, Europa Verde, n. 207, 1 -1985

47
Questo sistema, cui va riconosciuto il merito di aver contribuito a garantire
la sicurezza degli approvvigionamenti, a stimolare la produttività
dell'agricoltura europea e ad elevare i redditi agricoli, ha avuto peraltro
l'effetto di indurre gli agricoltori a perdere di vista, col tempo, la realtà dei
mercati e ad espandere la produzione oltre i limiti della capacità di
assorbimento del mercato stesso. Oltre ad avere uno sbocco assicurato per
la loro produzione, essi potevano contare su prezzi di sostegno garantiti,
spesso superiori ai prezzi di mercato in quanto non soggetti alle leggi della
concorrenza. A farne le spese era, tuttavia, il contribuente europeo,
chiamato a far fronte all'onere supplementare gravante sulle finanze
pubbliche in conseguenza dell'applicazione di tale sistema.

Nonostante le modifiche apportate ad alcune organizzazioni comuni di


mercato, negli ultimi anni questo problema ha assunto proporzioni tali da
costituire una minaccia per il futuro stesso della PAC, se non addirittura
dell'intera Comunità, al punto che ci si è dovuti arrendere alla necessità di
ricondurre gradualmente gli agricoltori a misurarsi, più che in passato, con
la realtà dei mercati agricoli. In questo intento, ai produttori è stato
addossato, in tutto o in parte, l'onere supplementare derivante dal
superamento di determinati massimali di produzione, precedentemente a
carico del bilancio comunitario.

Questi massimali, stabiliti in funzione sia della situazione e delle


prospettive di sviluppo dei mercati, sia del grado di autosufficienza
auspicato, sono denominati "limiti di garanzia". Semplici valori indicanti
il volume di produzione al di là del quale subentra la corresponsabilità
finanziaria dei produttori, essi non si configurano affatto come contingenti
di produzione, né equivalgono ad una limitazione dei quantitativi per i
quali si esercita la responsabilità finanziaria della Comunità (quantitativi
ammessi all'intervento, aiuti contemplati dalla PAC, ecc.).

L'imposizione di limiti di garanzia per numerose produzioni agricole


rappresenta una delle principali innovazioni introdotte negli ultimi anni
nel quadro della PAC. Ci è parso quindi utile fare il punto della situazione
con riferimento all’applicazione di questo regime nei vari settori di
produzione, tracciando nel contempo un quadro riassuntivo delle
disposizioni giuridiche su cui si fonda.

Il lettore troverà, nella seconda parte del presente fascicolo (1), un


compendio generale delle decisioni e delle misure adottate finora a questo
-----------
(1) Per la sua natura più tecnica questa seconda parte non è riprodotta in questo volume.

48
proposito, nonché una sintesi delle principali misure equivalenti ai limiti
di garanzia, in vigore nel quadro della PAC. Nella prima parte, invece, si è
inteso fornire una serie di ragguagli d'ordine più generale, concernenti in
particolare le origini e le motivazioni del regime in oggetto, l'importanza
economica dei settori interessati, ecc.

Gli antefatti

Nella storia della politica agraria comune, le eccedenze di produzione


rappresentano un fenomeno tutt'altro che recente. Già negli anni 1956-
1960, ad esempio, il tasso di auto-approvvigionamento della Comunità dei
Sei raggiungeva il 104% per lo zucchero e il 101% per il burro. Ma la
produzione agricola ha avuto, in numerosi settori, uno sviluppo assai più
rapido del consumo soprattutto nel corso degli anni '70, a motivo sia delle
più avanzate tecnologie sia dei meccanismi di sostegno istituiti nel
contesto della PAC.

La Comunità, divenuta più che autosufficiente per la maggior parte delle


produzioni agricole principali, si è trovata nella condizione di dover
smerciare sui mercati interni ed internazionali, a costi sempre più elevati,
una quantità crescente di prodotti agricoli comunitari. Ad aggravare tale
situazione hanno contribuito gli impegni assunti dalla Comunità nel
quadro dei suoi rapporti commerciali e in virtù di accordi con paesi terzi,
specie quelli in via di sviluppo, per l'importazione di determinati
quantitativi di prodotti agricoli, la cui riduzione comporterebbe problemi
d'ordine politico o di politica commerciale.

La Commissione non ha aspettato che il problema raggiungesse le


proporzioni e la gravità odierne per presentare proposte atte a porre
rimedio ad una situazione già critica negli anni '70 e, soprattutto, a
prevenirne il deterioramento. E' interessante ricordare, ad esempio, che già
nel memorandum del 1968 sulla riforma dell'agricoltura nella CEE (noto
come "piano Mansholt"), la Commissione raccomandava una serie di
misure a breve e a medio termine, volte a conseguire un maggiore
equilibrio dei mercati del latte, dello zucchero, dei grassi e degli
ortofrutticoli. Alcune di esse sono state applicate, con esito positivo, sin
dall'inizio degli anni '70, mentre altre sono rimaste inoperanti, o perché
non adottate dal Consiglio, o perché inadeguate alla gravità della
situazione.

Nell'ottobre del 1973, in seguito al primo ampliamento della Comunità, la


Commissione ha quindi dovuto presentare un nuovo memorandum sulla

49
riforma della politica agraria comune (COM(73) 1850 def.), concernente il
periodo 1973-1978, nel quale essa avanzava tra l'altro una serie di
proposte intese a sanare gli squilibri esistenti su taluni mercati, in
particolare nel settore cerealicolo e in quello lattiero. Riguardo a
quest'ultimo, caratterizzato da persistenti e cospicue eccedenze di
produzione, il memorandum prospettava la possibilità di "un contributo
temporaneo a carico del produttore, riscosso sul latte consegnato alle
latterie e non trasferito sul consumatore". Sono tuttavia occorsi altri
quattro anni per vincere le reticenze del Consiglio e tradurre in pratica
questa idea, con l'applicazione di un "prelievo di corresponsabilità" sulle
consegne di latte alle latterie.

I limiti di garanzia: una esigenza sempre più impellente per la


Comunità.

La necessità di porre un freno all'espansione della produzione nei settori


agricoli eccedentari è diventata pressante all'inizio degli anni '80. Quello
che in origine era un problema puramente economico e finanziario si è
trasformato in un problema politico non indifferente. In effetti, di fronte
alla crescente difficoltà di smaltire le eccedenze a costi ragionevoli ci si è
resi conto che continuare ad offrire ai produttori una garanzia assoluta per
un volume di produzione illimitato sarebbe stato economicamente
aberrante, oltre che impossibile sul piano finanziario. Inoltre,
nell'imminenza del secondo ampliamento della Comunità e del rilancio
della costruzione europea, è sembrato indispensabile per la riuscita
dell'impresa dare prova di una sana gestione delle risorse disponibili, nel
rispetto del principio di solidarietà finanziaria su cui poggia la Comunità.

In questa prospettiva la Commissione ha raccomandato, dapprima nella


sua comunicazione al Consiglio del 5 dicembre 1980 (COM(80) 800 def.),
e quindi nella relazione sul mandato del 30 maggio 1980 (COM(81) 300
def.), di introdurre tra i meccanismi della PAC il principio secondo cui i
produttori devono sostenere, in tutto o in parte, l'onere derivante dal
superamento di un determinato volume di produzione, da stabilirsi
essenzialmente in funzione della domanda interna della Comunità e degli
scambi con i paesi terzi.

Un esempio illuminante di questa tendenza al rafforzamento della


corresponsabilità dei produttori è costituito dalle modifiche apportate nel
1981 all'organizzazione comune del mercato dello zucchero, settore nel
quale è stato sempre applicato un regime di contingentamento della
produzione, limitativo della garanzia offerta ai produttori. Per effetto di

50
tali modifiche, dal 1° luglio 1981 la corresponsabilità finanziaria dei
produttori per lo smaltimento delle rispettive eccedenze, sino ad allora
parziale, è diventata totale.

I limiti di garanzia: strumento di pianificazione dell'agricoltura


europea?

Nel promemoria dell'ottobre 1981 sui nuovi orientamenti per l'agricoltura


europea (COM(81) 608 def.), che integra la relazione sul mandato del 30
maggio, la Commissione ha precisato il contesto e le condizioni che
possono giustificare una limitazione della garanzia accordata ai produttori.
Pur sottolineando la necessità di inquadrare tutte le decisioni in materia in
una prospettiva di evoluzione a medio termine dell'agricoltura europea, la
Commissione ha tenuto a precisare che non si tratta assolutamente di
pianificare d'autorità il volume di produzione più opportuno, bensì di
fissare, per i prodotti in eccedenza, un obiettivo di produzione
corrispondente al quantitativo limite oltre il quale subentra la
corresponsabilità finanziaria del produttore. In seguito si è preferito usare,
a scanso di equivoci, il termine "limite di garanzia" anziché "obiettivo di
produzione", concetto, quest'ultimo, che si presta facilmente a malintesi.

Criteri adottati per la fissazione dei limiti di garanzia

In concreto, non esiste una formula matematica che consenta di


determinare ragionevolmente il livello dei limiti di garanzia per i vari
settori di produzione. Benché ai fini di questa operazione sia impossibile
prescindere da alcuni elementi fondamentali, comuni a tutti i settori (entità
della produzione, evoluzione prevedibile della domanda interna,
possibilità di espansione delle esportazioni sul mercato mondiale, ecc.), i
criteri da seguire all'atto pratico per la fissazione dei limiti di garanzia
devono essere sufficientemente elastici perché si possa tener conto delle
caratteristiche di ciascun settore.

Nel settore lattiero-caseario, ad esempio, il parametro inizialmente


adottato dal Consiglio per la limitazione della garanzia prevedeva che il
tasso d'incremento delle consegne di latte non superasse quello del
consumo interno della Comunità, che allora si aggirava intorno allo 0,5%
l'anno. Nel settore cerealicolo era stato inizialmente fissato un obiettivo di
produzione di 130 milioni di t, da raggiungersi nel 1988, nell’ipotesi che le
esportazioni rimanessero costanti e che la domanda addizionale fosse
soddisfatta con la produzione comunitaria e non con prodotti di
sostituzione importati.

51
L'obiettivo perseguito resta comunque quello di associare più direttamente
i produttori all'assunzione dell'onere derivante dall'accrescimento delle
eccedenze, evitando di ridimensionare il livello di produzione già
raggiunto dall'agricoltura europea al momento dell'istituzione dei limiti di
garanzia.

Settori in cui si applicano i limiti di garanzia

Gli orientamenti delineati finora hanno trovato per la prima volta


espressione concreta nelle decisioni relative ai prezzi agricoli per la
campagna 1982-1983. In questa occasione sono stati fissati, mediante
modifica dei regolamenti di base o con un regolamento adottato
appositamente, limiti di garanzia per i seguenti settori: cereali diversi dal
frumento duro, latte, concentrato di pomodoro, pomodori interi pelati,
colza e ravizzone.

A decorrere dalla campagna 1984-1985, il regime dei limiti di garanzia è


stato esteso al frumento duro, alle uve secche e al girasole. Inoltre, il
regime applicabile ai prodotti trasformati a base di pomodori è stato
modificato ed esteso ad altri prodotti.

Giova altresì rammentare che, in sede di decisioni sui prezzi per la


campagna 1984-1985, il Consiglio non solo ha approvato gli orientamenti
in materia di limiti di garanzia enunciati dalla Commissione nel
documento COM(83) 500 del 28 luglio 1983, i quali ricalcano nelle linee
fondamentali le proposte precedenti, ma ha anche sottolineato
“l'opportunità di introdurre tali strumenti nelle organizzazioni dei mercati
in cui esistono o possono verificarsi eccedenze di produzione, o in cui si
registra un rapido aumento delle spese”.

Modalità di applicazione dei limiti di garanzia

Le modalità con cui vengono applicati i limiti di garanzia variano a


seconda dei prodotti. Ad esempio, per l'applicazione dei limiti possono
essere seguiti i metodi sotto indicati:

a) “maggiorazioni” più ridotte del prezzo indicativo o del prezzo


d’intervento, qualora la produzione superi un determinato quantitativo
globale;

52
b) riduzione degli aiuti concessi nel quadro della PAC, se la quantità
prodotta supera il limite di garanzia;

c) limitazione ad un determinato quantitativo globale degli aiuti versati nel


quadro della regolamentazione del mercato;

d) partecipazione dei produttori, per mezzo di un prelievo, agli oneri


relativi allo smaltimento delle eccedenze (o al costo delle esportazioni
nette);

e) assegnazione di quote a livello nazionale o aziendale.

Di fatto, tutte queste modalità sono state variamente sperimentate


nell'ambito delle diverse organizzazioni di mercato. La soluzione di cui al
punto a), ad esempio, è attualmente praticata nei settori dei cereali, della
colza-ravizzone e del girasole ed è stata adottata dal Consiglio in sede di
decisioni sui prezzi comuni dei cereali e del latte per la campagna 1983-
1984; il sistema di cui al punto b) è stato applicato per la prima volta nel
1984 per il concentrato di pomodoro, ma si estende anche ad altri prodotti
trasformati a base di pomodori e alle uve secche trasformate.

Le modalità di cui al punto c) trovano applicazione nel settore del cotone;


il prelievo di corresponsabilità, istituito nel 1977 per il latte, corrisponde al
criterio di cui al punto d); le quote di cui al punto e) sono operanti nel
settore dello zucchero sin dall'entrata in vigore della relativa
organizzazione dei mercati ed attualmente si applicano anche alla
produzione lattiero-casearia.

Conseguenze dei limiti di garanzia sul volume della produzione

E' ancora prematuro stendere un bilancio degli effetti esplicati sulla


produzione dal regime dei limiti di garanzia. Non va tuttavia dimenticato
che lo scopo precipuo di questo regime consiste, come già osservato in
precedenza, nell'addossare ai produttori la totalità o una parte dell'onere
relativo allo smaltimento dei quantitativi eccedenti il limite di garanzia e
non nel limitare d'autorità la produzione.

E' tuttavia evidente che, a medio termine, i limiti di garanzia avranno


probabilmente l'effetto di frenare l'espansione delle produzioni
effettivamente o potenzialmente eccedentarie. Già in passato, infatti,
l'applicazione di questo regime ha comportato, in conseguenza del
superamento del limite di garanzia, una riduzione talvolta sostanziale del

53
prezzo d'intervento o di taluni contributi comunitari. Un passo decisivo nel
senso del controllo della produzione e del contenimento delle eccedenze è
stato inoltre compiuto in sede di decisioni sui prezzi per la campagna
1984-1985, con l'istituzione, nel settore lattiero-caseario, di un regime di
quote di produzione che modifica le modalità di applicazione del regime
dei limiti di garanzia vigente nel settore stesso. Benché non privo di
inconvenienti, questo provvedimento si è dimostrato praticamente
inevitabile, dal momento che in passato il Consiglio non aveva attuato una
politica dei prezzi sufficientemente restrittiva da consentire il ripristino
dell'equilibrio sul mercato lattiero-caseario.

Altre misure dirette a limitare la garanzia sui prodotti agricoli

Oltre ai limiti di garanzia veri e propri, sono in vigore, nel quadro delle
organizzazioni comuni di mercato, altre misure limitative della garanzia e
aventi un'incidenza diretta sui prezzi o sull'importo degli aiuti concessi
nell'ambito della PAC.

Il regime vigente nel settore dello zucchero, ad esempio, comporta


garanzie di prezzo e di smercio differenziate sulla base di quote di
produzione assegnate alle singole aziende. Come contropartita delle
garanzie di cui beneficiano, bieticoltori e zuccherieri sono tenuti ad
assumersi una corresponsabilità per l'onere relativo allo smaltimento delle
eccedenze di zucchero. Nel settore del cotone, l'aiuto alla produzione è
limitato ad un quantitativo prestabilito annualmente per l'insieme della
Comunità.

Altre misure restrittive sono in vigore nei settori dell'olio d'oliva, del vino,
del tabacco, del luppolo e di talune frutta sciroppate.

Importanza economica dei settori soggetti ai limiti di garanzia o a


misure equivalenti

Le varie forme di limitazione della garanzia (limiti veri e propri e misure


equivalenti) riguardano complessivamente il 40% circa del valore della
produzione finale dei settori retti da un'organizzazione comune di mercato
(il 46% se si include il vino, riguardo al quale sono all'esame del Consiglio
misure analoghe) e circa i due terzi delle spese del FEOGA Garanzia per il
1983 (71% includendo il settore vitivinicolo).

54
Conclusioni

La limitazione delle garanzie offerte agli agricoltori nel quadro della


politica agraria comune è diventata, negli ultimi anni, un vero e proprio
imperativo economico, prima ancora che politico o finanziario. I
mutamenti intervenuti nell'agricoltura e nell'economia in generale da
quando è stata avviata la politica agraria comune sono troppi e troppo
importanti per non essere recepiti sul piano politico e tradursi in un
corrispondente aggiornamento della PAC, indispensabile per la sua stessa
esistenza. L'imposizione di "limiti di garanzia" per numerose produzioni
agricole rappresenta, come si è detto, uno dei risultati salienti del processo
di adattamento della politica agraria comune, che la Commissione porta
avanti da quattro anni.

Non è soltanto la Comunità ad orientarsi in questo senso: misure analoghe


di limitazione delle garanzie o di contenimento della produzione agricola
sono state adottate, negli ultimi tempi, da molti dei principali paesi
produttori, costretti a far fronte, al pari della Comunità, ad un crescente
squilibrio tra la domanda e l'offerta di prodotti agricoli.

Negli Stati Uniti, ad esempio, la legge agraria (Farm Bill) del 1981
prevede la possibilità di imporre limiti alla superficie coltivata a cereali,
come condizione per poter beneficiare del programma di sostegno dei
prezzi. La partecipazione a tali programmi è facoltativa: agli agricoltori è
dato di scegliere tra la partecipazione al programma di riduzione delle
superfici seminate, che dà diritto al sostegno dei prezzi, e la rinuncia a
quest'ultimo, con in cambio la libertà di coltivare senza limiti di superficie.
Inoltre, sempre negli Stati Uniti, per impedire la formazione di eccedenze,
viene prelevata una tassa sui prodotti lattiero-caseari immessi in
commercio. Viene riscossa anche una seconda tassa, successivamente
rimborsata ai produttori che riducono le vendite in una determinata
misura.

Nel Canada, il settore lattiero-caseario è regolato da un regime di quote


che consente di proporzionare la produzione alla domanda, la cui entità è
determinata in anticipo. Insomma, gli esempi in materia non mancano. In
effetti, per arginare la produzione agricola - necessità impellente per la
maggior parte dei grandi paesi produttori - esistono soltanto due metodi
validi dal punto di vista economico:

55
a) una disciplina di mercato basata sulla legge ferrea dei prezzi, secondo la
quale, in caso di eccedenze, l'equilibrio di mercato va ripristinato mediante
una riduzione anche sostanziale dei prezzi dei prodotti agricoli;

b) una disciplina amministrativa diretta a limitare le garanzie concesse ai


produttori o a tenere sotto controllo i quantitativi offerti.

Negli ultimi anni la Comunità si è orientata verso la seconda soluzione,


decidendo di porre un limite alla garanzia dei prezzi, di cui i produttori
hanno fruito per anni in misura illimitata. Si è trattato di una scelta
difficile, le cui conseguenze saranno forse assai dolorose per una parte
degli interessati. Va tuttavia tenuto presente che la soluzione alternativa,
consistente nel ristabilire l'equilibrio dei mercati mediante una drastica
riduzione dei prezzi di sostegno, sarebbe stata ancora più ingrata per i
produttori.

56
Riforma della Pac e agricoltura europea

(Venezia, 9 ottobre 1992)

Sig. Presidente,

Signore e Signori,

da quando, trent'anni fa, essa è stata progressivamente messa in atto, la


politica agricola comune ha subito delle modificazioni assai profonde, al
fine di adattarla alle mutazioni che si sono prodotte tanto all'interno del
settore agricolo che nel contesto socio-economico generale.

Questi cambiamenti non debbono sorprendere se si considera che la


politica agricola comune è stata concepita in un periodo nel quale l'Europa
era ancora deficitaria per numerosi prodotti agricoli e ad un'epoca in cui le
preoccupazioni inerenti alla sicurezza alimentare delle nostre popolazioni,
dopo le penurie degli anni difficili del dopoguerra, erano ancora
particolarmente vive. E', d'altra parte, assai probabile che, senza i
successivi adattamenti che sono stati introdotti nel funzionamento della
politica agricola comune, non soltanto questa politica non avrebbe potuto
sopravvivere così a lungo, ma anche la costruzione europea non avrebbe
potuto fare tanti progressi.

Alle soglie degli anni Novanta, la politica agricola comune è entrata in una
nuova fase di riforma fondamentale dei suoi meccanismi, che è destinata
ad influenzare profondamente lo sviluppo dell'agricoltura europea lungo
tutto il corso del prossimo decennio, ma i cui effetti si faranno sentire
anche al di fuori del solo settore agricolo.

Dopo circa diciotto mesi di negoziato, i ministri dell'agricoltura dei Dodici


sono infatti pervenuti, nei mesi scorsi, ad un accordo sugli obiettivi e sulle
linee direttrici della riforma della Pac, nonché sugli adattamenti da
apportare all'attuale assetto normativo di questa politica, sia per quanto
riguarda le principali organizzazioni comuni di mercato che le misure di
accompagnamento ritenute necessarie. A livello comunitario e nazionale,
d’altra parte, sono in fase di approntamento o sono già stati adottati gli
strumenti legislativi e operativi necessari alla messa in atto delle decisioni
assunte.

57
La riforma della Pac potrà così entrare in vigore, come previsto, a partire
dalla prossima campagna. Molte delle nuove disposizioni cominceranno,
tuttavia, a produrre effetti tangibili e imporranno decisioni assai cruciali
per gli agricoltori fin dalle prossime semine d'autunno. E' quindi quanto
mai opportuno cercare di comprendere meglio sia la concezione generale
che ha ispirato la riforma che le principali innovazioni che essa introduce
non solo nel funzionamento della Pac, ma probabilmente anche nel
modello di sviluppo dell'agricoltura europea per i prossimi anni. E'
essenzialmente questo l'obiettivo che mi sono proposto con questa
relazione anche se sono consapevole che un tema di questa natura non può
essere adeguatamente sviluppato nei limiti di tempo di cui disponiamo.

Alla base della nuova riforma della PAC vi è una riflessione approfondita
della Commissione sul funzionamento di questa politica, sui problemi a
cui essa si è trovata confrontata nel corso degli anni, sulla scarsa efficacia
delle misure messe in atto, soprattutto negli anni Ottanta, per porvi
rimedio, nonché sui possibili orientamenti per gli anni a venire.

Le conclusioni principali di questa riflessione possono così sintetizzarsi:

1) malgrado le misure adottate negli ultimi anni per scoraggiare la


formazione e la crescita delle eccedenze produttive, le garanzie offerte dai
meccanismi di sostegno dei prezzi e dei mercati nel quadro dell'attuale
politica agricola comune favoriscono la crescita della produzione ad un
ritmo notevolmente superiore alle possibilità di assorbimento da parte del
mercato, con la conseguente crescita degli stocks all'intervento e con
l'aggravarsi delle tensioni sui mercati internazionali per la conquista dei
pochi mercati solvibili ancora disponibili;

2) oltre che dalla modesta crescita della domanda globale, questa


situazione è anche determinata dalla scarsa competitività dei prodotti
agricoli comunitari tanto sui mercati mondiali che sul mercato interno.
L'esempio più emblematico, a questo riguardo, è quello dei cereali, la cui
produzione aumenta tendenzialmente di circa 4 milioni di tonnellate
all'anno nella Comunità mentre il consumo interno decresce al ritmo di 1 a
2 milioni di tonnellate all'anno a causa della concorrenza dei prodotti
sostitutivi utilizzati nell'alimentazione animale (panelli di soia, manioca,
gluten di mais, ecc.).

Queste tendenze si sono tradotte, nella scorsa campagna, in una


produzione di cereali che ha superato le 180 milioni di tonnellate, mentre
il consumo interno non ha nemmeno raggiunto le 140 milioni di

58
tonnellate, generando una crescita vertiginosa degli stocks presso gli
organismi d'intervento. Questi ultimi hanno infatti superato, per la prima
volta, il livello record di 26 milioni di tonnellate, malgrado una
congiuntura internazionale tutt'altro che sfavorevole per le esportazioni
comunitarie;

3) un sistema di sostegno correlato con i quantitativi prodotti, qual è


quello che è stato finora in vigore nel quadro della PAC, incoraggia
l'aumento della produzione e di conseguenza l'intensificazione dei metodi
di produzione. Oltre che pesare negativamente sull'equilibrio dei mercati
agricoli, questo processo è fonte di problemi ambientali crescenti e di uno
sfruttamento eccessivo delle risorse naturali;

4) un sostegno al reddito fondato quasi esclusivamente sulle garanzie di


prezzo è ampiamente proporzionale al volume della produzione e,
pertanto, concentra la quota sostanziale del sostegno sulle aziende più
grandi e più intensive. Esso non consente, pertanto, di ridurre le attuali
disparità all'interno del settore agricolo, quando non è esso stesso
all'origine dell'aggravarsi delle disparità.

E' essenzialmente da questa diagnosi che è partita la riflessione della


Commissione sull'individuazione delle possibili strategie di politica
agricola adeguate alle esigenze dell'agricoltura europea negli anni
Novanta.

Questa strategia mira essenzialmente al perseguimento dei seguenti


obiettivi:

- un migliore equilibrio dei mercati agricoli, attraverso un più efficace


controllo della produzione e una più incisiva azione sulla domanda;
- una maggiore competitività dell'agricoltura europea, sia sui mercati
interni che sui mercati internazionali, mediante una decisa azione sui
prezzi che consenta di stimolare la crescita dei consumi, sviluppando nel
contempo, su una sana base economica, la produzione agricola per scopi
non alimentari;
- una estensivizzazione dei metodi di produzione sia per contribuire al
contenimento delle eccedenze che per garantire la salvaguardia
dell'ambiente;
- una certa redistribuzione del sostegno a favore delle imprese agricole più
deboli onde evitare fenomeni di abbandono del territorio e contribuire allo
sviluppo socio-economico delle regioni rurali;

59
- il mantenimento in attività di un numero sufficientemente elevato di
agricoltori, favorendo al tempo stesso una certa mobilità dei fattori di
produzione, ed in primo luogo della terra.

Vale la pena, peraltro, di rilevare che il varo di questa riforma coincide con
quella che avrebbe dovuto essere la fase finale del negoziato multilaterale
dell'Uruguay Round. Essa risente, perciò, inevitabilmente, delle
preoccupazioni che stanno alla base di questo negoziato, prima fra tutte la
necessità di favorire una maggiore liberalizzazione degli scambi e di
stabilizzare i mercati agricoli mondiali, in particolare attraverso un più
rigoroso controllo della produzione e delle sovvenzioni alle esportazioni.

Al di là tuttavia di questa coincidenza, e indipendentemente dall'esito di


questo negoziato, la nuova fase di riforma della Pac risponde anzitutto,
come s'è visto, a preoccupazioni di carattere interno, ed in primo luogo
all'esigenza di rafforzare l’efficacia dell'attuale politica agricola comune,
sia in termini di riequilibrio dei mercati agricoli che di difesa dei redditi
degli agricoltori e di rafforzamento della competitività dell’agricoltura
europea. Al tempo stesso essa cerca di favorire, come si è detto, metodi di
produzione più rispettosi dell'ambiente e di evitare fenomeni di abbandono
del territorio che pregiudicherebbero le possibilità di sviluppo nelle
regioni rurali.

Questa molteplicità di obiettivi, alcuni dei quali vanno ben al di là


dell'ambito tradizionale della politica agricola, non poteva essere
perseguita né con la continuazione della politica in atto, vale a dire con un
rafforzamento della politica restrittiva dei prezzi e dei mercati, che
avrebbe duramente penalizzato le aziende e le regioni di produzione meno
competitive, né attraverso misure di contenimento volontario della
produzione, come quelle già in vigore, la cui efficacia sarebbe stata assai
modesta rispetto all'ampiezza degli squilibri di mercato in atto e
soprattutto rispetto a quelli previsti per i prossimi anni.

Da qui la necessità di ricorrere ad un pacchetto articolato di misure di


riforma che comprendesse sia un riorientamento generale delle principali
organizzazioni comuni di mercato che una serie di misure di
accompagnamento intese a favorire i necessari adattamenti dell'agricoltura
europea.

Come è noto, gli strumenti a cui si fa ricorso per il conseguimento dei


suddetti obiettivi nel quadro della riforma della Pac sono essenzialmente i
seguenti:

60
1°) una riduzione sostanziale dei prezzi dei cereali intesa a frenare o,
piuttosto, ad invertire la perdita di competitività di questi ultimi
nell'alimentazione animale rispetto ai prodotti sostitutivi. La riduzione dei
prezzi dei cereali di circa il 30% rispetto ai livelli attuali dovrebbe
consentire un abbassamento dei costi di produzione nel settore
dell'allevamento, in particolare per quanto riguarda il settore porcino e
avicolo e in misura inferiore nell'allevamento bovino. Ciò ha motivato in
gran parte la riduzione dei prezzi istituzionali della carne bovina del 15% e
dei prezzi d'intervento del burro del 5%. Nel caso della carne bovina si è
tenuto tuttavia anche conto della necessità di non deteriorare la
competitività della carne bovina rispetto alle carni bianche concorrenti, i
cui prezzi sono destinati a diminuire a seguito della forte riduzione del
prezzo dei cereali;

2°) delle efficaci misure di gestione dell'offerta e di controllo della


produzione, quale strumento essenziale per il conseguimento di un
migliore equilibrio dei mercati agricoli. Fra queste misure, quella che è
destinata a giocare un ruolo essenziale è il nuovo regime di ritiro dei
seminativi dalla produzione, che dovrebbe consentire di diminuire
sensibilmente le eccedenze produttive nel settore cerealicolo. La maggiore
efficacia del nuovo regime di ritiro dei seminativi dalla produzione
rispetto agli attuali regimi annuali e pluriannuali deriverebbe dal fatto che
la messa fuori coltura di una parte della superficie a seminativi
(inizialmente il 15%) costituirebbe una condizione essenziale per
beneficiare delle compensazioni previste per la riduzione dei prezzi
istituzionali.

Il nuovo regime diventerebbe così praticamente obbligatorio, almeno per


le aziende che superino la soglia di produzione di 92 tonnellate di cereali,
vale a dire, nel caso italiano, per meno del 3% della totalità dei produttori
di cereali. L'obiettivo è infatti quello di sottoporre a questo regime, e cioè
di far partecipare allo sforzo di limitazione della produzione, proprio le
aziende che più contribuiscono alla crescita della produzione e quindi alla
formazione delle eccedenze, obiettivo, questo irrealizzabile con qualunque
regime volontario di ritiro dei seminativi dalla produzione;

3°) il terzo strumento previsto dalla riforma è rappresentato


dall'introduzione di una serie di aiuti compensativi ai produttori per le
riduzioni di prezzo previste nel settore dei cereali e della carne bovina.
Tali aiuti dovrebbero consentire una compensazione integrale della perdita
di reddito derivante dalla riduzione dei prezzi istituzionali. Anche la messa

61
fuori coltura dei seminativi usufruisce di un regime di compensazione per
la perdita di reddito che ne deriva.

Onde favorire metodi di produzione più estensivi, gli aiuti compensativi


sono in parte sganciati dalla produzione effettiva oppure, come nel caso
dell'allevamento bovino, sono concessi nei limiti di determinati livelli di
densità degli allevamenti rispetto alle superfici foraggere disponibili.

Accanto a queste misure di riforma delle organizzazioni comuni di


mercato, sono state adottate una serie di misure integrative che sono
destinate a giocare un ruolo decisivo per il futuro dell'agricoltura europea.
Si tratta, essenzialmente, di tre tipi di azione:

a) un ambizioso programma d'azione agro-ambientale, il cui costo a carico


della Comunità è stimato a circa 1,8 miliardi di ECU su cinque anni. Esso
prevede, in particolare:
- un sistema di aiuti destinato ad incoraggiare gli agricoltori ad
utilizzare metodi di produzione meno inquinanti e meno dannosi
per l'ambiente, riducendo in maniera significativa l'uso di concimi,
di pesticidi. ecc., nonché le forme intensive di allevamento;
- un regime di aiuti inteso ad assicurare il mantenimento e la
conservazione dello spazio naturale nelle regioni rurali;
- un regime di aiuti per la messa a riposo dei terreni per un periodo
ventennale e per fini ambientali (costituzione di riserve, creazione
di parchi naturali, ecc.);

b) un rilancio della politica forestale della Comunità, in particolare


attraverso un miglioramento degli attuali incentivi per gli investimenti
forestali e delle compensazioni previste per le perdite di reddito derivanti
dalla riconversione verso la forestazione. L'obiettivo è, da una parte,
quello di evitare l'abbandono delle terre meno fertili, con il conseguente
rischio di erosione del suolo, e, dall'altra, di offrire agli agricoltori una
possibilità di diversificazione delle loro fonti di reddito, contribuendo al
tempo stesso alla riduzione del deficit di legname della Comunità;

c) un nuovo e più efficace regime di prepensionamento degli agricoltori


più anziani, che comporta alcuni cambiamenti fondamentali rispetto al
regime in vigore:
- anzitutto, un deciso riorientamento verso la ristrutturazione
aziendale dell'uso delle terre resesi disponibili sia da parte di un
successore, sia da parte di altri agricoltori;

62
- in secondo luogo, rendendo possibile l'uso per fini non agricoli
delle terre che non sia possibile utilizzare per fini di
ristrutturazione oppure incentivando le autorità locali a mantenere
le terre abbandonate in condizioni ambientali soddisfacenti;
- infine, un salto qualitativo e quantitativo nel volume delle risorse
finanziarie comunitarie che vengono mobilizzate con questa
azione. Il costo complessivo a carico del bilancio comunitario di
questa azione è infatti di 1,8 miliardi di ECU su cinque anni, vale a
dire una cifra suscettibile di interessare alcune centinaia di migliaia
di aziende a livello comunitario, di cui una quota consistente
potrebbe situarsi nel nostro paese.

Si tratta, come si vede, di una riforma destinata ad incidere profondamente


non solo sul settore agricolo in quanto tale, ma anche sui settori a monte e
a valle dell'agricoltura, sulla qualità dei prodotti alimentari, sulla
salvaguardia dell'ambiente naturale, sul modo di produrre e in una certa
misura anche sullo stesso ruolo dell'agricoltura e degli agricoltori
nell'economia e nella società.

A questo riguardo, vale la pena di sottolineare che, mentre in passato il


ruolo essenziale, se non il solo, che era riconosciuto agli agricoltori era
quello della produzione di alimenti, oggi si va sempre più affermando la
consapevolezza che l'agricoltore adempie anche un ruolo di protezione
dell'ambiente e che la presenza dell'uomo sulla terra è una condizione
indispensabile per assicurare lo sviluppo socio-economico delle regioni
rurali.

In realtà, da sempre l'agricoltore adempie, direttamente o indirettamente,


questi ruoli, di cui beneficia la società nel suo insieme. Ciò che è
relativamente nuova, è, in effetti, la presa di coscienza più generalizzata
dell'interesse collettivo a riconoscere queste funzioni e a remunerarle in
quanto tali, e non in nome di una solidarietà astratta col mondo rurale.

Può sembrare un cambiamento da poco, ed invece si tratta di un enorme


salto qualitativo che, sono convinto, continuerà a produrre i suoi frutti sul
piano degli orientamenti delle politiche agricole e delle politiche di
sviluppo rurale negli anni a venire.

E' a questo approccio più rispettoso della doppia funzione dell'agricoltore


nel1'economia e nella società che si ispira la riforma della politica agricola
comune, non solo per ciò che riguarda le misure di accompagnamento, ma

63
anche per quel che attiene alle modifiche apportate alle diverse
organizzazioni comuni di mercato.

A questo proposito è bene chiarire un malinteso assai diffuso che si è


creato intorno alla riforma, in particolare nel nostro paese, e che tende a
presentare gli aiuti compensativi previsti dalla riforma per le riduzioni di
prezzo come puramente sociali e quindi gli agricoltori come degli assistiti.

In realtà si tratta di una forma di sostegno dei redditi che, al pari del
sostegno dei prezzi, è legata al prodotto e non alla persona e quindi è a
contenuto economico e non meramente sociale, alla stessa stregua degli
aiuti concessi ai produttori di semi oleosi o di tabacco.

Uno dei principali tratti caratteristici di questa riforma è infatti


rappresentato proprio dal riorientamento della politica agricola comune
verso un sostegno dell'agricoltura, da realizzare in misura crescente
attraverso aiuti diretti ai produttori, indipendenti in parte dai livelli
produttivi, e non più soltanto attraverso il sostegno dei prezzi, come è
accaduto finora.

Mi sia consentito a questo proposito rilevare come non sempre siano stati
colti e valutati appieno, nel nostro paese, le novità ed i vantaggi relativi
che possono derivare da una riforma di questa natura per un'agricoltura
come quella italiana, formata in gran parte di piccole e medie aziende
agricole, spesso strutturalmente deboli, la cui sopravvivenza è tuttavia
necessaria per il mantenimento del tessuto socio-economico nelle regioni
rurali e la difesa del territorio.

Novità e vantaggi che vanno misurati non tanto alla luce della
continuazione dello statu quo, vale a dire del mantenimento delle
posizioni acquisite in termini di produzione e di redditi, quanto invece
dell'alternativa rappresentata dalla prosecuzione o, più probabilmente, del
rafforzamento delle misure restrittive in atto onde pervenire a risultati
comparabili a quelli che ci si attende dalla riforma in termini di
riequilibrio dei mercati.

Basti ricordare, al riguardo, che gli stabilizzatori introdotti nel 1988 hanno
già comportato una riduzione non compensata dei prezzi di sostegno dei
cereali di circa il 10% e una riduzione ancora più elevata dei prezzi al
produttore, peraltro con scarsi risultati sui livelli produttivi, per rendersi
conto di quale dovrebbe essere l'ulteriore riduzione dei prezzi necessaria
per ridurre significativamente le previste eccedenze produttive.

64
Alla luce di queste considerazioni, ho l'impressione che non sia stato
sufficientemente percepito il fatto che l'attuale riforma della politica
agricola comune, grazie ai meccanismi di compensazione per la riduzione
dei prezzi che essa prevede, anche se comporterà sacrifici tutt'altro che
irrilevanti per alcuni agricoltori - ma certamente anche vantaggi
significativi per altri - permette tuttavia di attenuare le conseguenze
negative per le aziende e le regioni meno competitive che deriverebbero
dalla prosecuzione e dal rafforzamento della politica restrittiva dei prezzi e
dei mercati in atto da alcuni anni nel quadro della Pac.

Al contrario, infatti, dei precedenti tentativi di riforma, basati sulla


riconduzione dell'attività agricola ad una pura logica di mercato, ma
essenzialmente attraverso riduzioni lineari e non compensate dei prezzi di
sostegno, che avrebbero alla lunga comportato l'uscita dal settore delle
aziende meno competitive e quindi un'espulsione massiccia di
manodopera agricola, soprattutto nei paesi del sud dell'Europa, l'attuale
riforma dovrebbe quanto meno garantire il mantenimento di un numero
adeguato di agricoltori sulla terra, anche se ciò non significa impedire una
certa mobilità dei fattori di produzione o frenare i necessari processi di
adattamento dell'agricoltura alla realtà dei mercati agricoli.

L'esigenza di orientare l'attività produttiva in funzione della domanda, non


solo in termini quantitativi ma anche in termini qualitativi, diventa anzi
ancora più viva in un contesto in cui il prezzo sarà sempre più funzione
della situazione di mercato e sempre meno determinato dal sostegno
fornito attraverso la politica agricola comune.

Anche la preoccupazione che questa riforma della politica agricola


comune possa comportare un rallentamento se non addirittura un arresto
del progresso tecnologico in agricoltura, che è all'origine dei progressi
spettacolari di produttività che sono stati registrati in questo settore negli
ultimi trent'anni, mi sembra largamente ingiustificata.

Infatti, anche nel caso in cui le misure destinate a contenere la produzione,


anche attraverso il ritiro dei seminativi dalla produzione, abbiano
pienamente successo, resta l'esigenza di ricercare, a livello aziendale e di
settore, nuovi sentieri di sviluppo per l'agricoltura europea. Questi non
potranno però più essere esclusivamente fondati sul perseguimento di rese
sempre più elevate, come è accaduto finora, ma dovranno probabilmente
anche puntare sull'uso più razionale delle risorse disponibili, sulla
riduzione dei costi di produzione, sull'adeguamento delle tecniche

65
colturali, sul miglioramento qualitativo della produzione,
sull'ottimizzazione dei margini di redditività, ecc.

Quel che la riforma della Pac rischia dunque di mettere in crisi non è lo
sviluppo dell'agricoltura in quanto tale, ma un certo modello di sviluppo
dell'agricoltura, vale a dire il modello intensivo di produzione, che è alla
base della formazione delle attuali eccedenze produttive ed è in parte
responsabile - anche se non è certamente il solo fattore esplicativo - dei
fenomeni di degrado ambientale, abbandono del territorio e di
sfruttamento eccessivo delle risorse naturali.

Questo modello di sviluppo necessita di essere riconsiderato, non solo a


livello macroeconomico e aziendale, ma anche a livello della ricerca e
sperimentazione, della formazione e della divulgazione. Questa esigenza
comporta, in effetti, una vera e propria "rivoluzione culturale" non solo nel
mondo agricolo, ma anche da parte di quanti - studiosi, ricercatori,
divulgatori, ecc. - sono chiamati ad assistere e ad orientare gli agricoltori
in questa delicata fase di transizione.

Ciò non significa, beninteso, che l'attuale modello di sviluppo debba


necessariamente essere sostituito con un unico modello alternativo che si
applichi indiscriminatamente a tutte le nove milioni di aziende agricole
che compongono il panorama produttivo comunitario. Al contrario, sono
del parere che, in avvenire più che per il passato, bisognerà diffidare delle
formule prefabbricate destinate ad assicurare la redditività delle aziende
agricole e che invece ciascuna di esse debba ricercare autonomamente il
modello di sviluppo che più le si addice, tenuto conto delle proprie
caratteristiche strutturali, del contesto in cui opera, delle risorse umane e
materiali di cui dispone, ecc.

Signor Presidente,
Signore e Signori,

la messa in atto progressiva di questa riforma a partire dalla campagna


1993/94 rappresenta indubbiamente una sfida impegnativa sia per il
mondo agricolo e per l'intero complesso agro-alimentare europeo che per
la stessa amministrazione pubblica, a livello nazionale e comunitario.

Vincere questa sfida rappresenta, tuttavia, non solo la condizione


essenziale per assicurare la competitività dell'agricoltura europea e un
migliore equilibrio dei mercati agricoli, ma anche la strada più appropriata
per ricondurre lo sviluppo dell'agricoltura europea su basi economiche più

66
sane e più compatibili con le esigenze di protezione del1'ambiente e di
salvaguardia dello spazio naturale e quindi per assicurare la piena
integrazione di questo settore nel resto dell’economia e della società.

67
Parte seconda

L’Italia e la politica agricola comune

69
L’Italia e la politica agricola comune*
(1973)

Premessa: Verso una revisione della politica agricola comune?

La politica agricola comunitaria (PAC), a poco più di dieci anni dal suo
avvio, viene oggi da più parti, e sempre più insistentemente, sottoposta al
fuoco concentrico delle critiche. Anche se ne vengono riconosciuti i meriti
storici, perché ha reso politicamente possibile l’attuale stato di
avanzamento dell’integrazione europea, si fa sempre più strada, anche
all’interno delle stesse categorie agricole, nel nome delle quali quella
politica è stata decisa, la consapevolezza che gli enormi sforzi finanziari
della Cee non sono valsi finora a far conseguire gli obiettivi posti dall’art.
39 del Trattato di Roma, e cioè un equo reddito per i produttori agricoli e
condizioni soddisfacenti per i consumatori.
Le critiche alla PAC, per la verità, non sono nuove né, tanto meno, recenti.
Dacché, infatti, essa ha preso a privilegiare gli obiettivi di mercato rispetto
agli obiettivi di produzione – anteponendo una politica dei prezzi con
garanzia assoluta di smercio per taluni prodotti, ad una politica delle
strutture che contribuisse al ravvicinamento dei costi di produzione - era
già apparso chiaro che si sarebbero riprodotti a livello comunitario i
problemi di eccedenze che già si erano talvolta dovuti lamentare a livello
nazionale.
Era, infatti, inevitabile che il regime dei prezzi unici a livello comunitario,
in un contesto di costi tanto variabili come quelli che si riscontrano nelle
numerose realtà agricole comunitarie, avrebbe prodotto sprechi e rendite
di posizione a favore delle regioni più favorite, e avrebbe accentuato le
disparità dei redditi all’interno dello stesso settore agricolo.
Tutto ciò non è un’acquisizione recente, anche se, ormai si può ragionare
in termini di inoppugnabili consuntivi, anziché di pur facili profezie, come
quelle che non mancarono di essere fatte, dieci o quindici anni fa, anche
nel nostro Paese. Ne sono del resto convinti anche autorevoli esponenti
della stessa Commissione Cee che hanno chiesto ed ottenuto dal Consiglio
di aprire questo autunno un dibattito sulla PAC, in vista di una revisione
dei criteri e degli strumenti con cui essa ha operato finora.
* Working paper per la Giornata di studio “Un Programma per l’Europa” sulla
partecipazione del sistema politico, economico e sociale italiano a quello europeo
occidentale, Istituto Affari Internazionali (IAI), Roma, 22 novembre 1973.

71
Siamo, dunque, alla vigilia di una svolta nella politica agricola
comunitaria? E’ prematuro e forse azzardato darlo per scontato, anche se
una tendenza verso qualificanti indirizzi innovativi sembra ormai
irreversibile. Quel che è certo, comunque, è che ogni qualvolta a Bruxelles
si è tentato di cambiar strada nella strategia della PAC, la volontà
riformatrice si è scontrata, perdendo, con potenti interessi nazionalistici,
espressione, a loro volta, di altrettanto potenti interessi categoriali.
Il tipo di rappresentanza delle istanze agricole consentita finora nella Cee
ha anzi favorito, come vedremo, con la pressoché unanime richiesta di
ulteriori aumenti dei prezzi, la saldatura in un unico blocco, “potente come
un rullo compressore”, come è stato scritto, dei piccoli contadini, con costi
di produzione prossimi ai prezzi, e i grossi produttori, beneficiari nel
complesso di gigantesche rendite differenziali.
Oggi che il tradizionale pilastro della PAC, la politica dei prezzi e dei
mercati, sembra destinato a subire ritocchi, più o meno di rilievo, quanto
meno nelle sue modalità di esercizio, e che si profilano spostamenti di
risorse finanziarie da questo tipo di intervento verso obiettivi fino ad oggi
trascurati, come gli interventi strutturali, gli interventi per le zone sfavorite
e forse anche verso aiuti diretti al reddito degli agricoltori, come si
rifletterà questa prospettiva nel nostro Paese, a livello di linea di governo e
a livello degli atteggiamenti che assumeranno le principali organizzazioni
degli agricoltori?
E’ chiaro che una risposta a questo interrogativo non può che fondarsi su
un esame retrospettivo ed attuale delle varie posizioni e dei diversi modi di
porsi degli organismi citati di fronte alla PAC, così come è andata
delineandosi fino ad oggi.
L’Italia e la politica agricola comune
L’agricoltura è forse il settore in cui più chiaramente si rileva la debolezza
della presenza italiana a livello comunitario. Questa debolezza, che non
raramente si è configurata come una vera e propria carenza di una linea
politica lungimirante e all’altezza dei problemi posti dall’integrazione
della nostra agricoltura con quella europea più avanzata, è solo in parte il
riflesso della predominanza sul tavolo delle trattative degli interessi
agricoli della Francia di De Gaulle o del1’Olanda di Mansholt, o
dell’interesse all’apertura dei mercati da parte dell’industria tedesca ed
italiana.
In realtà, per quanto i termini della politica agricola comune siano stati fin
dall’inizio sempre accanitamente contrattati anche sulla base di interessi
politici più generali, a cui talvolta gli interessi agricoli di questo o quel

72
Paese sono stati sacrificati, non v’è dubbio che il contributo del nostro
Paese alla costruzione di una politica agricola comunitaria diversa da
quella che oggi si è in procinto di revisionare, sia stato abbastanza
modesto.
Se ciò è accaduto, non è soltanto il mero risultato di un incontrollabile
esito del gioco degli interessi nazionalistici. “Inutile recriminare o
assumere atteggiamenti risentiti – ha scritto a questo proposito il portavoce
ufficiale della Comunità, l’italiano Bino Olivi - nella Comunità si ha
quello che ci si è conquistato, niente di più” (1). E l’Italia, per una serie di
errori e di leggerezze, che si accumulano dall’inizio della PAC, ha finito,
in effetti, per non avere il peso politico che pure avrebbe potuto
conquistarsi con una diversa linea di politica agricola a livello comunitario
e a livello nazionale.
Il bilancio della partecipazione italiana alla PAC, coi pochi successi ed i
molti smacchi, non tanto in rapporto alle istanze che si andavano
rivendicando, ma in rapporto alle reali esigenze di rinnovamento della
nostra agricoltura, è già stato fatto da altri e qui possiamo solo riprenderlo
per sommi capi.
Quel che ci preme, anzitutto, di porre in risalto sono le condizioni di
particolare arretratezza in cui la nostra agricoltura si trovava all’avvio
della PAC e si trova tutt’ora: arretratezza nelle strutture agrarie,
arretratezza nelle strutture di mercato, arretratezza nei livelli di
produttività, nei sistemi di conduzione, nei rapporti contrattuali.
All’avvio del Mercato Comune – ma la situazione non è sostanzialmente
cambiata da allora - l’Italia registrava, infatti, la più alta percentuale di
aziende inferiori ai dieci ettari fra tutti i sei paesi della Comunità: ben
1’84,2%, contro il 52,7% della Francia, il 65,1% dei Paesi Bassi e il
69,4% della Repubblica Federale Tedesca. Le aziende con superficie
inferiore ad un ettaro erano addirittura il 33,6% del totale.
Prevalente era la conduzione diretta (circa il 60% contro il 44% della
Francia); consistente la mezzadria (circa 1’11% contro il 2% della Francia,
mentre negli altri paesi questo rapporto contrattuale è del tutto
sconosciuto); la conduzione in affitto riguardava, invece, solo il 7,9% delle
aziende, contro il 19% della Francia, il 26% del Belgio e il 29,4% nei
Paesi Bassi.
Anche dal punto di vista delle tecniche di produzione il nostro Paese si
trovava in netto ritardo rispetto agli altri paesi membri. Il consumo dei
concimi per ettaro era infatti pari alla metà di quello francese e ad un

73
quarto di quello tedesco; il parco macchine addirittura un terzo; l’azione
divulgativa del tutto insufficiente.
Tutto ciò spiega, unitamente al concorso di fattori pedo-climatici talvolta
decisivi, la scarsità delle rese (20 q/ha per il grano, contro i circa 30 della
Francia) e il malessere di un’agricoltura estremamente squilibrata da una
regione all’altra e non idonea ad alimentare la popolazione (infatti l’Italia
era diventato il secondo paese importatore agricolo del Mercato Comune,
dopo la Germania).
Sul piano delle strutture di commercializzazione e dell’organizzazione dei
mercati interni, l’arretratezza del nostro Paese era altrettanto marcata:
modesto era l’intervento dello Stato e limitata la rete delle cooperative di
produzione e di commercializzazione. Tutto questo rendeva in partenza la
nostra agricoltura estremamente debole e del tutto indifesa di fronte al
processo di integrazione comunitaria.
Si doveva, allora, rifiutare o rinviare il processo di integrazione della
nostra agricoltura con quella degli altri paesi, solo perché ci presentavamo
in condizioni di debolezza? Certamente questa alternativa avrebbe
comportato un rallentamento nella costruzione dell’edificio comunitario
senza contare il peso dei problemi politici, economici e sociali che si
sarebbero aperti.
L’alternativa reale era, in effetti, un’altra, peraltro già emersa chiaramente
nella Conferenza di Stresa del 1958: il processo di integrazione non poteva
essere compromesso con l’isolamento dell’agricoltura, ma esso avrebbe
dovuto favorire, anzitutto, un necessario adattamento strutturale delle
agricolture più deboli, ed in particolare di quella italiana, per rimuovere o
attenuare i fattori di differenziazione delle strutture produttive e dei costi
di produzione.
La stessa politica di mercato avrebbe dovuto essere orientata al
miglioramento della produttività, più che al reddito complessivo. Tutto
questo, nel quadro di una politica regionale che attenuasse gli squilibri e di
una politica sociale che ponesse rimedio ai problemi emergenti dagli
interventi sul mercato e sulle strutture agricole.
Le cose, com’è noto, sono andate ben diversamente, tant’è vero che
mentre sono già dieci anni che la politica di mercato va avanti, solo oggi si
incominciano ad apprestare gli strumenti per gli interventi sulle strutture
agricole e solo da qualche tempo si incomincia a parlare di politica sociale
e regionale a livello comunitario.

74
Di questa situazione, particolarmente gravosa per il nostro Paese, non si
può non far carico, unitamente alla rilevanza degli interessi nazionalistici
dei nostri partner, al tipo di scelte operate dalle nostre rappresentanze in
sede comunitaria e alla carenza di una vera politica di riforma della nostra
agricoltura, sul piano nazionale.
Scontata, infatti, la necessità che l’integrazione si dovesse estendere fin
dall’inizio anche al settore agricolo, quello che non è si riusciti ad evitare è
che la PAC fosse avviata esclusivamente sul binario senza sbocchi della
politica dei prezzi. Per giunta, quando si è trattato di definire il sistema di
finanziamento della PAC, fu proprio il nostro Paese a chiedere, ottenendo
un successo di cui ancora la nostra agricoltura paga le conseguenze, di
bloccare sui 205 milioni di UC la spesa della sezione Orientamento del
Feoga, che doveva finanziare la politica delle strutture.
Dopo aver accettato, nel 1962, un regolamento finanziario che, per anni,
avrebbe condannato l’Italia a sovvenzionare i costi di smaltimento delle
eccedenze cerealicole della Francia e lattiero-casearie dell’Olanda, si è
assistito, come ha scritto Bino Olivi, ad una faticosa politica di
“rattrapage” da parte del nostro Paese, nel tentativo di recuperare
posizioni in realtà ormai compromesse.
Ma, invece di farsi portatore di una reale politica alternativa o quanto
meno integrativa di quella finanziariamente pesantissima, dei prezzi e dei
mercati, il nostro Paese ha continuato a battersi ancora per altri lunghi anni
per obbiettivi sostanzialmente limitati ed ottenuti a caro prezzo:
l’estensione dell’organizzazione comune dei mercati ai prodotti di
maggior interesse per l’Italia (ortofrutticoli, tabacco, barbabietola, olio e
vino) e la riduzione della partecipazione italiana al finanziamento della
PAC.
E’ solo nel marzo 1971, dopo una lunga e generale riflessione critica sulle
proposte di riforma strutturale dell’agricoltura contenute nel
“memorandum Mansholt”, che 1’Italia ha cominciato a puntare sulla
politica degli interventi strutturali, senza, tuttavia, mostrare di voler
modificare atteggiamento sulla politica dei prezzi e dei mercati. Il
successo non è mancato; ma il volume dei mezzi finanziari utilizzabili per
gli interventi sulle strutture è risultato fortemente condizionato e limitato
dalla scarsa disponibilità consentita da un’ancora egemone politica dei
prezzi e dei mercati.
Senza voler approfondire l’esame della partecipazione dell’Italia alla PAC,
resta, comunque, indiscutibile che, per quanto si sia posto rimedio ad
alcuni malanni che caratterizzavano soprattutto la nostra agricoltura prima

75
dell’avvio della PAC, come la instabilità dei prezzi e dei mercati,
sopravvivano ancora oggi quasi tutti i fattori di inferiorità strutturale della
nostra agricoltura rispetto a quella degli altri paesi della Cee. Solo in pochi
settori essa è, infatti, competitiva sui mercati comunitari; la maglia
poderale è ancora troppo pletorica, le strutture associative poco sviluppate;
la bilancia alimentare sempre più deficitaria, le distorsioni produttive
ancora più vistose.
In conclusione, anche se il bilancio di tale partecipazione non è fatto solo
di poste negative, quelle positive sono certamente quantitativamente e
qualitativamente modeste rispetto a quelle che potevano essere registrate a
consuntivo di dieci anni di PAC, con una diversa e più incisiva presenza
italiana a livello comunitario, senza, peraltro, che fosse necessario
assumere posizioni di esasperato nazionalismo, che qui non si vogliono
certo incoraggiare.
Il fatto è che, nemmeno sul piano interno, 1’integrazione della nostra
agricoltura nella Comunità ha stimolato quelle riforme strutturali in grado
di porla a livello delle economie agricole europee più avanzate. Si è
continuato, invece, a perseguire obiettivi settoriali senza che fosse peraltro
superata la concezione assistenzialistica e sostanzialmente paternalistica
dell’intervento pubblico in agricoltura che qualifica da sempre la nostra
politica agraria.
Anche quando qualche beneficio è stato conquistato nella trattativa
europea per la nostra agricoltura, o per una fetta di essa, spesso si son
dovuti lamentare ritardi, strozzature, imprevidenza nella fase di
utilizzazione degli strumenti e dei mezzi finanziari messi a disposizione
della Cee.
Significativo è l’esempio dei contributi messi a disposizione dalla Cee per
gli interventi strutturali in agricoltura. Un rapporto ufficiale della
Comunità rendeva noto, un anno fa, che i contributi utilizzati a questo
titolo dall’Italia entro il 1971 ammontavano, infatti, soltanto al 6% circa di
quelli messi a disposizione, contro il 34% utilizzati dall’Olanda. E’ anche
questa mancanza di immediati strumenti amministrativi di attuazione della
PAC, che ha indotto Bino Olivi a definire la partecipazione italiana alla
PAC un vero “disastro contabile”.
Fece scalpore, a questo proposito, la sferzante battuta pronunciata nel
marzo 1972 dal ministro dell’agricoltura francese Cointat, quando, alla
fine di una strenua trattativa, fu deciso, su proposta italiana, d’ampliare le
possibilità d’intervento della Cee a favore degli agricoltori più sfavoriti.
“Ma si dia pure all’Italia quello che vuole, - affermò allora il ministro

76
francese - tanto non si metteranno mai in condizioni di sfruttarlo”. Il
nostro ministro Natali si risentì, ma da allora sono passati diciotto mesi
senza che siano state ancora varate le leggi necessarie per godere dei
finanziamenti Cee.
Del resto, un concetto non dissimile esprime anche il Governatore della
Banca d’Italia, quando, nella sua ultima relazione all’Assemblea dei
partecipanti, afferma che “da parte nostra sono stati richiesti concorsi
finanziari agli organi della Comunità per promuovere l’adattamento delle
strutture produttive; ma l’insistenza con la quale abbiamo invocato quei
concorsi è stata pari alla nostra incapacità di utilizzare quelli offertici”.
Ma questa, come s’è detto, non vuole essere una rassegna di quanto l’Italia
abbia o meno ottenuto finora dalla PAC. Vogliamo invece vedere di quali
istanze si siano fatti finora portatori i nostri negoziatori della PAC a
Bruxelles; quali realtà agricole essi esprimono; quali intrecci di rapporti si
siano istituiti tra organizzazioni di categoria operanti nel settore agricolo e
gli esponenti del nostro ministero dell’agricoltura che contrattano per
l’Italia i termini della PAC.
La Cee, è stato detto, offre il quadro di un negoziato permanente. E’ chiaro
perciò che la partecipazione di ciascun paese è condizionata, oltre che da
una serie di variabili politiche interne ed esterne, anche della qualità e
dalla forza dei gruppi di pressione che riescono a farsi rappresentare a
Bruxelles, non solo negli organismi consultivi istituzionalmente previsti,
ma anche all’interno delle stesse delegazioni governative dei vari paesi.
La politica agraria, infatti - e non solo nel nostro paese - è generalmente
frutto di una composizione, più o meno riuscita, degli interessi corporativi
delle organizzazioni di categoria che egemonizzano il settore, più che di
libere scelte programmatiche finalizzate agli interessi più generali degli
stessi agricoltori e dell’intera collettività.
Questo è tanto più vero quanto più arretrate sono le condizioni strutturali
dell’agricoltura e quanto più stretto è il collegamento politico di tali
organizzazioni con i detentori delle leve della politica agraria. Due
condizioni, queste, che certo non difettano nella realtà italiana.
I gruppi di pressione agrari
La scena della politica agricola è dominata, nel nostro paese, oggi come
ieri, dall’incombente presenza di tre potentissimi gruppi di pressione: la
Confederazione nazionale dei coltivatori diretti (denominata talvolta come
“la bonomiana”, dal nome del suo fondatore ed attuale presidente Paolo
Bonomi) la Confederazione generale dell’agricoltura e la Federazione

77
nazionale dei consorzi agrari. Da sole, esse monopolizzano non solo la
rappresentanza italiana nel COPA, il Comitato delle organizzazioni
professionali agricole della Cee, che rappresenta gli interessi degli
agricoltori presso gli organismi comunitari, ma anche il ruolo di
interlocutori ed ancora più di elaboratori delle linee di politica agraria da
attuare nel nostro paese o da richiedere alla Comunità.
Eppure la realtà delle organizzazioni interessate alla politica agraria è
molto più articolata di questa potente triade, di cui, peraltro, è bene
ricordarlo, uno dei pilastri, la Federconsorzi, rappresenta soprattutto alcuni
interessi economici convergenti delle altre due organizzazioni. Basti citare
l’Alleanza nazionale dei contadini, l’organizzazione di sinistra dei
lavoratori agricoli, i sindacati di categoria aderenti alle tre Confederazioni,
le stesse Confederazioni, portatrici delle istanza di tutti i lavoratori, in
quanto coinvolti nelle scelte di politica agraria, le associazioni delle
cooperative agricole, le ACLI ecc.
Tutte queste organizzazioni, per quanto abbiano espresso spesso posizioni
di avanguardia rispetto alle istanze difese dai nostri rappresentanti a
Bruxelles sia pure in nome degli agricoltori, non hanno avuto che un peso
limitato nelle scelte di politica agraria operate nel nostro Paese e sostenute
nelle trattative comunitarie.
I vari ministri dell’agricoltura, una carica di cui l’organizzazione
bonomiana conserva un monopolio pressoché esclusivo da vent’anni a
questa parte, si sono sempre preoccupati di ascoltare gli esponenti della
“triplice”, ma mai allo stesso titolo e con la stessa disponibilità hanno
sentito le altre organizzazioni. Sono gli interessi di questi tre potenti
gruppi di pressione, coalizzati nel CIRAI, proprio per unificare le loro
posizioni in materia di politica agricola, ad essere in generale rappresentati
o difesi dai nostri delegati a Bruxelles.
Non è tanto la consonanza tra la nostra delegazione ed alcuni interessi
espressi de tali gruppi che ci interessa porre in risalto. Quel che più
importa, come può rilevarsi oggi a consuntivo di dieci anni di PAC, è che
questo monopolio della rappresentanza degli interessi agricoli nel nostro
Paese non ha portato nel lungo periodo, come s’è visto, benefici duraturi e
consolidati per la nostra economia agricola.
E’ in nome loro, è in nome degli interessi immediati di gruppi di produttori
di talune derrate che vi sono rappresentati, che l’Italia si è trovata spesso a
combattere a Bruxelles battaglie di retroguardia o a contrattare i benefici
di questi con la rinuncia ad obbiettivi più ambiziosi per la nostra
agricoltura.

78
Ma vediamo qual è l’atteggiamento di queste organizzazioni di fronte alla
PAC, anche al di là delle professioni di fede europeistica che pure le
accomuna.
La Coldiretti
La Confederazione nazionale dei coltivatori diretti (fondata e presieduta
come si è già detto, da Paolo Bonomi), grazie alla sua organizzazione
capillare, ai rapporti che ha con altre istituzioni ed uffici di interesse
agricolo nell’amministrazione centrale e negli enti locali, agli strumenti di
cui può disporre, all’assistenza che i suoi uffici possono fornire, vanta una
pressoché egemonica rappresentanza della categoria dei coltivatori diretti.
I collegamenti col potere politico possono essere sintetizzati nei circa 70
tra deputati e senatori che l’organizzazione fornisce attualmente al partito
di maggioranza e nella continuità di una tradizione che, salvo pochissime
interruzioni, risale al primo governo repubblicano, per cui è difficile
aspirare, nel nostro Paese, al Ministero dell’agricoltura se non si
appartiene all’organizzazione bonomiana.
Tutto ciò senza contare la moltitudine di sottosegretari, di assessori
provinciali e regionali e l’ancora più nutrita schiera di funzionari
ministeriali inseriti in posti chiave che partecipano delle scelte della
Coldiretti o che comunque si ispirano della sua linea. E’ facilmente
intuibile perciò il peso di questa organizzazione nelle decisioni di politica
agraria e di politica tout court operate nel nostro Paese. Si tratta, a giudizio
di molti osservatori, del più forte gruppo di pressione esistente nel nostro
Parlamento ed è chiaro che la sua influenza sulla politica nazionale si
estende anche oltre la sfera della politica agricola.
”Nonostante la sua mole gigantesca - ha scritto a questo proposito Claudio
Risé - la Federazione nazionale dei coltivatori diretti non è mai arrivata a
produrre un programma che rispecchiasse una visione e una
interpretazione generale dei problemi dell’agricoltura. Le rivendicazioni
avanzate, numerosissime e molto onerose per la collettività, furono però
quasi sempre di tipo assistenziale e previdenziale”. In effetti, la stessa
concezione assistenzialistica e paternalistica dell’intervento pubblico
agricoltura, che permea la nostra politica agraria di questo dopoguerra, è
di marca prettamente bonomiana.
L’agricoltura è stata e rimane, nell’ideologia bonomiana, un settore da
“proteggere” con misure protezionistiche ed alti prezzi, perché “il prezzo
dei prodotti agricoli è il salario dai contadini” e i contadini, in un sistema
che non offre lavoro alla manodopera non qualificata, non saprebbero
altrimenti dove andare.

79
“In realtà – commentava anni fa lo storico Norman Kogan, che osservava
queste cose dall’esterno - vanno ad incrementare le file di quelli che
vivono nelle “borgate” periferiche alle grandi città, perché anche i prezzi
alti e protetti non risolvono la loro situazione” (2).
Per quanto non manchino obiettivi e preoccupazioni di tutto rispetto
nell’azione programmatica di questa organizzazione, quello che le viene
da più parti rimproverato è di volerli spesso conseguire con strumenti e
metodi sbagliati.
Così, mentre l’equiparazione dei redditi degli agricoltori con i redditi delle
altre classi sociali non può non essere in cima agli obiettivi di ogni saggia
politica agraria, l’azione svolta sin qui dalla Coldiretti sembra indicare che
tale obiettivo viene perseguito, più che attraverso la via dell’efficienza
produttiva, attraverso quella del sostegno esasperato dei prezzi e del più
rigido protezionismo di tutto quello che si coltiva e si produce nella nostra
agricoltura. ”E’ chiaro che questa linea, in sede Mec – ha osservato
l’economista Francesco Forte - non poteva rappresentare una soluzione
organica valida; era una trincea arretrata che passava dietro quella del
protezionismo francese. Le magre vittorie strappate arroccandosi su di
esse sono state spesso vittorie di Pirro” (3).
Prendiamo, come esempio esemplificativo, il caso del grano.
L’Italia, come è noto, è un paese eccedentario di grano tenero e deficitario
di cereali foraggeri, nonché dei prodotti dell’allevamento, soprattutto
carne. L’aver sostenuto, come ha fatto la Coldiretti, all’unisono con la
Federconsorzi e con le organizzazioni professionali francesi, prezzi elevati
per il grano ha reso necessario stabilire prezzi elevati anche per i cereali
foraggeri, per incentivarne la coltivazione. Ma ciò si è inevitabilmente
riflesso sui costi di produzione della zootecnia e quindi sullo sviluppo di
un settore fondamentale per la nostra economia.
Il risultato di questa politica è che mentre continuiamo ad importare circa
la metà del nostro fabbisogno di cereali foraggeri, il nostro deficit
zootecnico si è vieppiù accresciuto, per di più in un contesto
inflazionistico molto spinto che trova origine anche nelle scelte di politica
agricola adottate.
La politica degli alti prezzi dei cereali, a partire da quello del grano, non
ha peraltro modificato sostanzialmente la posizione dei piccoli produttori,
mentre ha particolarmente beneficiato i grossi produttori di enormi rendite
differenziali, che spesso hanno anche significato pesanti eccedenze
produttive.

80
Non si vuole, certamente, con questo far ricadere sulla Coldiretti la
responsabilità di una scelta, quella degli alti prezzi dei cereali, che
coinvolge tutta la Comunità dall’inizio dell’avvio del mercato comune
agricolo, e che trova origine in una serie di motivazioni politiche ed
economiche.
Quel che si vuole, invece, porre in risalto è che non sempre la politica
degli alti prezzi, di cui certamente la Coldiretti è una delle assertrici più
accanite nella Comunità, si è tradotta in un beneficio reale e duraturo per
gli agricoltori, soprattutto per i piccoli e medi agricoltori, nel nome dei
quali quelle scelte venivano operate. Come nel caso dei cereali, anzi, nota
ancora Francesco Forte, “paradossalmente ai nostri esponenti delle
categorie agricole, ogni prezzo alto o più alto, anziché una sconfitta è
apparso sinora una vittoria”.
Per quanto la Coldiretti organizzi una base che in gran parte non dovrebbe
avere obiettivamente che un limitato interesse per la conservazione di una
politica dei prezzi, come quella attuata finora nella Cee, essa è invece
l’organizzazione che più di ogni altra si batte per la continuità di questa
politica, lasciandosi dietro perfino la Confagricoltura, i cui organizzati,
prevalentemente grossi produttori, hanno usufruito finora di ben più
consistenti profitti.
L’intoccabilità della politica dei prezzi in questo particolare momento
della storia della PAC viene ripetutamente affermata da tutti i principali
esponenti dell’organizzazione e nelle occasioni più diverse. ”Restiamo
convinti - scriveva un anno fa Paolo Bonomi nella rivista “La Via
Democratica” - che la politica agricola della Cee debba rimanere fondata
sulle singole organizzazioni settoriali di mercato e sul continuo
adattamento dei prezzi alle variazioni dei costi. Coerentemente, abbiamo
espresso ai nostri rappresentanti governativi a Bruxelles l’invito ad
opporsi a qualsiasi blocco dei prezzi agricoli per la campagna 1973/74”.
Il segretario generale della stessa Confederazione, Dall’Oglio, in un
incontro col Governo nel maggio 1970, affermava: “Diamo atto
innanzitutto dell’efficace azione dei nostri ministri per il completamento
della politica agricola comune. Noi sosteniamo - d’accordo con le altre
organizzazioni agricole degli altri paesi della Cee - che questa politica non
può essere mortificata”.
Con maggiore veemenza, l’on. Truzzi, vice-presidente della Coldiretti
nonché presidente della Commissione Agricoltura della Camera, al 37°
convegno dei dottori in scienze agrarie, nel dicembre 1972, minacciava:
”Se a Bruxelles si mettessero in testa di considerare la politica delle

81
strutture sostitutiva della politica dei prezzi, sappiano chiaramente che
noi della Coldiretti e molti di noi anche come politici non accetteremo mai
questa ipotesi”.
Non tutta la Coldiretti, a livello di struttura e di base, può comunque
essere identificata nelle posizioni del suo fondatore Paolo Bonomi, anche
se esse rimangono ancora quelle prevalenti. All’interno della
Confederazione va, infatti, affermandosi ed allargandosi una dialettica che
ha rotto il tradizionale monolitismo di questa organizzazione ma i cui
sbocchi ancora non si intravedono.
Si parla, a questo proposito, di imminenti modifiche ai vertici
dell’organizzazione, premessa per un rilancio della Coltivatori diretti su
posizioni meno corporative e anacronistiche, che ne hanno compromesso
il prestigio non solo agli occhi di molti iscritti, ma anche agli occhi di
autorevoli esponenti del partito di maggioranza, che ne vorrebbero oggi
una riqualificazione.
Quel che è certo è che Bonomi da oltre tre anni si trova a fronteggiare una
dissidenza interna che, per quanto ancora non eccessivamente vistosa, ha
minacciato più di una volta di aprire crepe profonde nell’edificio costruito
in 25 anni di gestione delle politica agricola nazionale.
L’esigenza di rompere con il passato, un passato fatto prevalentemente di
rivendicazioni previdenziali o comunque di natura assistenzialistica tutte
volte a mantenere i contadini sulla terra, di chiusura ad ogni iniziativa
veramente riformistica nelle campagne dovuta a tutte una serie di
pregiudiziali ideologiche e politiche, incomincia ad aprirsi un varco
nell’organizzazione bonomiana, soprattutto attraverso l’organizzazione
giovanile dei coltivatori diretti.
Ma non sembra che l’attuale gruppo dirigente della Coldiretti riesca a
mediare con sufficiente sicurezza e linearità le istanze di rinnovamento e
quelle di conservazione che improntano l’attuale momento della storia
dell’organizzazione. Si colgono, infatti, ancora troppe contraddizioni,
troppe oscillazioni, troppi legami con il passato, perché dal momento di
crisi che l’organizzazione attraversa ne nasca quella politica nuova per
l’agricoltura che molti degli stessi coltivatori diretti chiedevano a Bonomi
nella manifestazione di Piazza del Popolo del 16 aprile 1970.
Sul piano interno, si assiste così ad una Coldiretti che, almeno in un primo
momento, dà il proprio appoggio ad una coraggiosa legge di riforma dei
fondi rustici, salvo a ritirarlo in un secondo momento, mentre sul piano
comunitario, come si è visto, essa si attesta su un’intransigente difesa
dell’attuale sistema di sostegno dei prezzi, peraltro rivendicando per tale

82
sistema un correttivo legato strettamente agli andamenti dei costi. Un
sistema questo, che ignora gli effetti del progresso tecnico-scientifico e la
funzione di orientamento della produzione che va attribuita ai prezzi nella
PAC e quindi opererebbe “in senso fortemente antievolutivo oltreché
fortemente nocivo per il benessere di tutti”, come ha rilevato uno studioso
certamente non nemico dell’agricoltura, come il prof. Enzo Di Cocco.
Ed ancora: da un lato, Bonomi, forte dei suoi quindici assessori regionali
all’agricoltura, recrimina, in polemica con la Confagricoltura, contro i
“verticismi cari a troppi gruppi di pressione”, i quali “si dovranno spuntare
contro la realtà del decentramento politico regionale previsto
dall’ordinamento istituzionale del Paese, decentramento nel quale i
coltivatori ed il mondo rurale potranno dal basso far valere le esigenze di
un rinnovamento che li abbia in ogni senso quali protagonisti e partecipi, e
non oggetto di decisioni assunte sulla loro testa” (4); dall’altro, però
spinge i nostri rappresentanti a Bruxelles a richiedere continui
rafforzamenti delle barriere protezionistiche, nel settore cerealicolo e del
grano in particolare, pensando che ciò possa bastare a trattenere in
agricoltura milioni di piccoli coltivatori con un ettaro di terra.
Da una parte, si dice di accettare la “filosofia” di Mansholt di favorire la
creazione di aziende di dimensioni economiche vitali (fermo restando il
sostegno ai prezzi), dall’altra si continua a perseguire sul piano nazionale
una politica che incoraggia la persistenza di aziende piccole e arretrate,
favorendone anche la formazione.
E si potrebbe continuare: Bonomi si preoccupa legittimamente delle
conseguenze per l’agricoltura italiana e meridionale in particolare
dell’apertura delle frontiere ai prodotti agricoli degli altri paesi
mediterranei, ma nulla viene costruito sulla strada del miglioramento
qualitativo della nostre produzioni e del rafforzamento della capacità
contrattuale dei nostri produttori sui mercati interni e sui mercati esteri.
La PAC è stata così vista, e viene tuttora vista, come un surrogato o un
rafforzamento della politica agraria nazionale, improntata all’ideologia
dell’organizzazione. La politica dei prezzi è ben accetta, ma non perché
essa debba servire da orientamento della produzione, come è nello spirito
del Trattato, ma perché “il prezzo è il salario del contadino” e il salario
deve seguire i costi: in definitiva, perché gli aumenti dei prezzi per la
massa dei piccoli coltivatori rappresentano una boccata di ossigeno,
effimera ma sufficiente ad illuderli della loro vitalità. La politica delle
strutture è anch’essa ben accetta, purché rimanga intoccabile il ruolo e la
funzione della politica dei prezzi e purché sia rivolta a rafforzare le
aziende familiari.

83
Del resto, è sintomatico che la Confederazione, nel presentare propri
progetti di legge per l’attuazione delle direttive comunitarie sulle strutture,
abbia dato la priorità temporale, ma con valore politico, alla direttiva
concernente 1’indennità di cessazione agli anziani che decidono di ritirarsi
dall’attività agricola, essendo quella che “è destinata ad avere più
immediata ripercussione sociale”.
Anche le posizioni moderatamente possibiliste assunte dalla
Confederazione sul problema della revisione e dell’aggiornamento della
PAC, nel quadro dell’evoluzione della Cee e della nuova fase di
cooperazione con gli Usa, vengono di fatto ben presto sommerse dalla
preoccupazione di “riconfermare l’assoluta necessità di una permanente
difesa dell’agricoltura per la sua funzione di approvvigionatrice primaria
degli alimenti e per la sua insostituibile funzione sociale”, tenuto conto
che “si tratta di un settore che non va sacrificato all’efficientismo di altre
agricolture più fortunate” (5).
La Confagricoltura
Meno contraddittoria, più dialettica e in una certa misura più in
consonanza con le linee della PAC, ma non per questo immune da rilievi,
si è rivelata finora la posizione della Confagricoltura. A detta di molti il
ruolo della Confagricoltura nella politica agricola nazionale si sarebbe
notevolmente rivalutato negli ultimi anni, riuscendo perfino ad incrinare in
qualche occasione quel rapporto preferenziale col potere pubblico che da
sempre era stato monopolio pressoché esclusivo dell’organizzazione
bonomiana. E ciò in connessione, oltre che con l’elezione di Alfredo
Diana a capo dell’organizzazione, con una serie di scelte politiche interne
ed esterne alla Confagricoltura, che le hanno consentito di dare una
immagine ed un ruolo per molti versi rinnovato.
Uno dei fattori non secondari di questo “rilancio” di un’organizzazione
che in passato si era quasi esclusivamente qualificata come portatrice degli
interessi più retrivi della borghesia agraria nazionale, risiede proprio
nell’assunzione di un ruolo più dinamico nei confronti della politica
agricola comunitaria.
Da parte dell’organizzazione vi è, anzi, lo sforzo costante di accreditare
una concezione della PAC come di una realtà che piove sul nostro Paese
dall’alto della sovranazionalità, compiacendosi di accentuare, più che il
momento critico e partecipativo, gli effetti cogenti non solo sul nostro
apparato amministrativo, ma anche sullo stesso Parlamento nazionale.
“Secondo me - dice Diana - il Parlamento italiano non tiene sempre conto

84
della realtà comunitaria e delle conseguenze che dovrebbero derivarne
nell’adottare leggi nazionali e, soprattutto, nei finanziamenti”.
Ora, se è vero che il potere pubblico nel nostro Paese, a livello politico e a
livello amministrativo, spesso offre obiettivamente il fianco ad
osservazioni di questa fatta, è anche vero che la “vocazione” europeistica
delle Confagricoltura si spiega, oltre che con i vantaggi economici
conseguiti con la PAC, anche con i vantaggi politici derivanti da un
trasferimento dei centri decisionali dal livello nazionale, dove le decisioni
sono sottoposte in una certa misura al controllo delle altre forze politiche e
sindacali, al livello comunitario, dove il monopolio del COPA e l’assoluta
mancanza di controllo politico favoriscono spesso compromessi e scelte in
armonia soltanto con interessi settoriali e di categoria.
Il rapporto preferenziale con la Comunità piuttosto che con i centri
decisionali nazionali è, del resto, esplicitamente ammesso dagli stessi
dirigenti dell’organizzazione, i quali non nascondono di trovarsi meglio
rappresentati e ascoltati a Bruxelles piuttosto che a Roma. In particolare, è
contro il ministero dell’agricoltura, ancora egemonizzato dalla Coldiretti,
che si appuntano le critiche della Confagricoltura: “Il problema
fondamentale - dichiarava tre anni fa Diana - è e rimane una moderna
riorganizzazione del ministero dell’agricoltura senza la quale ogni
discorso è vano, ogni proposito è inutile” (6).
Il ministero dell’agricoltura viene, infatti, considerato responsabile non
solo delle numerose inadempienze dell’Italia verso la Cee in materia di
PAC, ma di essersi fatto finora portatore di una “tenace avversione, aperta
o nascosta, contro la politica agricola comunitaria in difesa di un tenace
conservatorismo contadino, che vuole sopravvivere affidandosi al buon
cuore degli altri settori produttivi e che perciò è deciso a sabotare ogni
politica di ammodernamento dell’agricoltura a livello europeo” (“Mondo
agricolo” del 25 marzo 1973).
E’ in questa stessa logica che va inserita l’ostilità della Confagricoltura
verso il decentramento regionale. A parte la comprensibile insofferenza
per l’egemonia che anche negli organismi regionali l’organizzazione
bonomiana è riuscita a conquistarsi, grazie allo stretto collegamento col
partito di maggioranza, resta ferma la preoccupazione che i nuovi
organismi si qualifichino come una moltitudine di autonomi centri
decisionali di politica agricola, difficilmente controllabili anche perché
troppo direttamente esposti alla pressione democratica.
L’ordinamento regionale viene, in effetti, accettato, ma a condizione che
l’Ente Regione “sia impostato come strumento di chiarezza e di

85
snellimento burocratico e non come elemento di confusione e di debolezza
dello Stato” (7). E per affermare ancora maggiormente il ruolo del tutto
strumentale delle Regioni, non solo rispetto allo Stato, ma rispetto alla
stessa Comunità, Diana, al Convegno dei quadri dirigenti della propria
organizzazione, nel maggio ‘70, affermava: “Vogliamo qui sottolineare la
necessità che l’inserimento delle Regioni nell’attuale struttura dello Stato
avvenga con assoluta aderenza a questa realtà d’ordine sovranazionale,
che presuppone la salvaguardia dell’unità della politica agraria nazionale
almeno su alcuni punti essenziali, come imprescindibili esigenze di
presentazione unitaria dei nostri problemi in sede europea”.
Nonostante che anche nelle posizioni della Confagricoltura di fronte alla
PAC possa rilevarsi una certa dinamica, resta indubbio che essa, al pari
della Coldiretti, porti pesantemente la responsabilità del lungo
immobilismo della PAC, o quanto meno del nostro Paese, sul binario
morto della politica dei prezzi e dei mercati.
Ciò, del resto, è comprensibile se si considera che tale politica, tramite i
meccanismi di sostegno dei prezzi, ha privilegiato finora i grossi
produttori, che sono in grado di produrre a costi minori. Sulla difesa della
politica dei prezzi, peraltro, si è riusciti a consolidare nelle campagne un
blocco agrario tra grossi produttori capitalistici e piccoli agricoltori che,
altrimenti, sarebbe da tempo entrato in crisi.
Oggi, in effetti, questo blocco minaccia di fratturarsi, nel momento in cui
si apre la prospettiva di un ridimensionamento del ruolo della politica dei
prezzi e dell’adozione di nuovi strumenti d’intervento (politica delle
strutture, integrazione diretta dei redditi, ecc.). Così, mentre vediamo
Bonomi e la sua organizzazione attestarsi ancora tenacemente sul fronte
dei prezzi e dei mercati e della difesa intransigente della barriera
protezionistica comunitaria da ogni possibile apertura verso l’esterno, la
Confagricoltura esce dalle vecchie trincee per portarsi, almeno questa è
l’impressione che dà, verso le nuove frontiere che la riflessione critica di
questi ultimi anni ha schiuso alla PAC, sicura di poter guadagnare
posizioni di vantaggio anche nel nuovo contesto.
Certo, anch’essa rigetta le critiche che in questi ultimi tempi sono state
mosse alla politica dei prezzi e considera improponibile un suo
smantellamento, ma sembra d’altra parte disposta a condividere, “salvo a
vedere quali siano le strade attraverso le quali si conseguono”, i due
obiettivi che costituiscono gli orientamenti più qualificanti della
preventivata revisione della PAC (cfr. Doc. Lav.73/7 della
Confagricoltura):

86
1. riduzione della spesa della Sezione Garanzia del FEOGA, sia per
motivi finanziari, sia per facilitare il negoziato con gli Usa, nel
quale ”soprattutto per i cereali, occorrerà pagare un prezzo”, in
termini di possibile eliminazione delle restituzioni alle
esportazioni, oppure in termini di limitazione della garanzia a certe
quote di prodotto;
2. ampliamento dell’area degli interventi diretti al sostegno dei redditi
(”pur con un pregiudizio negativo da parte della Confederazione”)
e allo sviluppo delle regioni più disagiate.
Non viene fatta nessuna menzione della politica delle strutture, in quanto
questa, con l’emanazione delle note direttive dell’aprile 1972, può ormai
considerarsi istituzionalmente inserita negli strumenti della PAC, per
quanto nel nostro Paese, col più grande disappunto della Confagricoltura,
essa sia ancora lontana dal1’aver ricevuto la prevista sanzione legislativa.
Vale la pena di rilevare, a questo proposito, come è proprio sulla più
rapida emanazione della legislazione nazionale di recepimento dei
contenuti delle direttive comunitarie sulle strutture che si è rivelata più
incalzante la pressione della Confagricoltura da un anno a questa parte.
Dopo aver contribuito, sembra in maniera determinante, alla stesura del
relativo progetto legislativo, la Confagricoltura si è dovuta scontrare su
due fronti, entrambi ostili all’indirizzo a cui il progetto è stato improntato.
Da una parte, il già lamentato “tenace conservatorismo contadino” che
allignerebbe in molti uomini di governo e soprattutto negli uomini del
ministero dell’agricoltura, e che starebbe alla base dei ritardi in atto e per
quelli che sono prevedibili. Dall’altra, l’opposizione delle regioni e della
quasi totalità delle altre organizzazioni di categoria, Coldiretti compresa,
tutte rivendicanti punti qualificanti ritenuti sacrificati nel progetto
governativo.
E’ il caso, a questo punto; perché diventi più trasparente la posizione della
Confagricoltura di fronte ai vari aspetti della PAC, di chiarire
sinteticamente la “filosofia” che sorregge le sue scelte strategiche e la sua
azione in questo momento.
Obiettivo esplicito della Confagricoltura è quello di riuscire a determinare
una concentrazione della spesa pubblica con finalità produttive in
agricoltura sulle aziende capitalistiche, postulando che esse sono le uniche
già, o potenzialmente, efficienti. Per canalizzare la spesa pubblica in loro
favore, un anno fa la Confagricoltura ha proposto l’istituzione di un
apposito pubblico registro delle imprese efficienti, cui è stato

87
contrapposto, sul versante della Coltivatori diretti, l’istituzione dell’albo
professionale degli agricoltori.
La politica governativa, nel disegno della Confagricoltura, dovrebbe
mirare ad espellere dal mercato il maggior numero possibile di aziende
non capitalistiche recuperando le restanti dentro strutture associative, che
conservino comunque sempre un ruolo subalterno.
Prevedendo la carica di tensioni sociali e politiche che tale indirizzo
finirebbe col determinare nelle campagne, la Confagricoltura non si
mostra restia ad accettare qualunque tipo di provvidenza che si volesse
disporre a favore di queste categorie: da quelle sociali, alle integrazioni
dirette di reddito, ai sussidi perché non vengano abbandonate certe zone
ritenute importanti per l’equilibrio ecologico, ecc.
Tutto ciò ad una condizione: che venga cioè, salvaguardato il criterio della
selettività degli aiuti economici a favore delle sole aziende in grado di
svilupparsi o già sviluppate, cioè delle aziende capitalistiche. Questo
spiega le pressioni della Confagricoltura perché vengano al più presto
approvati in Italia i provvedimenti di attuazione delle direttive comunitarie
sulle strutture nella forma che esse hanno finora assunto.
E spiega anche la disponibilità ad accettare una revisione delle politica dei
prezzi (cui “va restituito il ruolo naturale di strumento non risolutivo della
situazione generale dei redditi agricoli, ma importante per assicurare alle
aziende ben gestite ed organizzate un reddito comparabile”) e
l’introduzione di nuovi strumenti d’intervento nella PAC.
Le altre organizzazioni.
A questo punto, bisognerebbe soffermarsi a lungo anche sul ruolo svolto
fino ad oggi dalla Federazione dei consorzi agrari (Federconsorzi) nelle
scelte di politica agraria operate dal nostro Paese a livello nazionale e a
livello comunitario. Ce ne asteniamo, non perché tale ruolo sia
trascurabile, ma in quanto questo centro di pressione è largamente
egemonizzato dal gruppo bonomiano, di cui, anzi, rappresenta la punta più
arretrata.
Più interessante ci sembra, invece, passare in breve rassegna il fronte delle
organizzazioni di categoria che si pongono a sinistra delle tre
organizzazioni fino ad ora esaminate: Alleanza nazionale dei contadini,
Acli, Cenfac, Uci, sindacati, organizzazioni delle cooperative agricole,
ecc. Anche qui occorrerebbe mettere in luce i vari punti di affinità e di
diversità che le accomunano o le distinguono.

88
Grosso modo, tutte queste organizzazioni sono state e sono tuttora
fortemente critiche di fronte agli indirizzi della Pac e, in particolare, di
fronte alle posizioni assunte dal nostro Paese in questa materia. In
generale, è da questo fronte delle organizzazioni di categoria che
provengono le istanze più innovatrici in materia di Pac e le critiche più
severe non solo per i risultati modesti o addirittura negativi delle decisioni
assunte, ma anche per ciò che non è stato fatto dal nostro Paese sul piano
comunitario e sul piano nazionale per far progredire l’agricoltura italiana
verso livelli di efficienza più elevati e verso strutture meno deboli di
quelle attuali.
”Il protezionismo e la politica dei prezzi sulla quale si è basato il processo
di integrazione della Cee – afferma Afro Rossi, Segretario generale della
Federmezzadri Cgil – ha finito per essere una efficace azione di sostegno
per l’azienda capitalistica, per le rendite parassitarie, un autentico
disincentivo alle trasformazioni strutturali, con conseguente indebolimento
e marginalizzazione delle aziende contadine” (8). Attraverso la politica
protezionistica, secondo la segreteria della Cgil, “si è teso a saldare il
fronte rurale e a far pagare alla classe operaia il costo delle mancate
trasformazioni, in termini di disoccupazione, aumento dello sfruttamento e
del costo della vita”.
Le Acli-Terra, da parte loro, sostengono che “un regime di prezzi alti serve
principalmente ai grandi produttori e trasformatori di prodotti agricoli; non
risolve i problemi della grande massa dei contadini, danneggia i
consumatori, rallenta il processo di costruzione della Comunità europea,
mentre permangono gravi problemi di controllo democratico della
utilizzazione dei fondi comuni e viene confermata la tendenza autarchico-
protezionista della Comunità a danno dei paesi del terzo mondo” (9).
Ovviamente tutte queste organizzazioni hanno portato avanti finora, pur
senza troppo ascolto, una linea alternativa di politica agricola comunitaria
e nazionale ed oggi guardano di buon occhio alla annunciata revisione
della Pac, anche se nessuna si fa illusioni sulla possibilità di giungere ad
una svolta decisiva. Anche la loro adesione di fondo alla politica delle
strutture, decisa nell’aprile 1972 a Bruxelles, non pregiudica il loro diritto
alla critica sia sugli obiettivi che si intendono perseguire, sia sugli
strumenti e sui mezzi messi a disposizione.
Quello che mette conto di rilevare comunque, al di là delle singole
rivendicazioni di ciascuna organizzazione, è che, per quanto ampio sia
stato finora il dibattito sulla politica delle strutture e sui nuovi
orientamenti della Pac, la presenza di tutte queste organizzazioni in sede di
formazione delle decisioni di politica agricola nazionale e comunitaria è

89
certamente esigua rispetto alla Confagricoltura e Coldiretti e rispetto al
peso politico che hanno nel Paese. Una riprova, questa, del rapporto
privilegiato col potere pubblico di cui godono queste due organizzazioni.
Alcune conclusioni
Quanto si è detto finora non voleva essere una rassegna organica della
partecipazione dell’Italia alla Pac e della posizione delle varie
organizzazioni di categoria di fronte all’evoluzione di questa politica.
Rappresenta, semmai, un tentativo di analisi del grado di adattamento di
queste strutture alla nuova realtà comunitaria e di ricerca delle cause della
lamentata debolezza della presenza italiana nella fase decisionale della
Pac.
L’indagine, in effetti, dovrebbe ancora mettere meglio in luce la serie di
inadempienze del nostro Paese in questa materia, che ne hanno
determinato, nella opinione pubblica europea, l’immagine di un Paese
europeista a parole ma anti-europeista nei fatti, o, nella migliore ipotesi, di
un Paese che non ha saputo giovarsi finora di quanto la Comunità ha
disposto o avrebbe potuto disporre in campo agricolo.
Si allude alla serie di violazioni dei regolamenti comunitari, che hanno
dato all’Italia il primato dei giudizi in Corte di giustizia. Si allude alla
mancata utilizzazione di decine di miliardi di UC del FEOGA per
mancanza di leggi e di programmi nazionali, ma si allude anche alla
debole presenza del nostro Paese a sostegno della politica sociale e della
politica regionale della Cee, necessari corollari di una politica agricola che
miri ad ammodernare le strutture produttive.
Quando però ci si attarda, come si è fatto, per seguire le pressioni
corporative delle nostre più grosse organizzazioni di categoria, a
combattere solo sul fronte dei prezzi, non c’è da sorprendersi che si
incominci a parlare costruttivamente di politica regionale soltanto con
l’allargamento della Comunità. Non c’è da sorprendersi, con un potere
pubblico come quelle preposto all’attuazione della politica agricola nel
nostro Paese, così fortemente condizionato dalle scelte delle tre grosse
organizzazioni di categoria, che il nostro Paese non riesca spesso a
perseguire a Bruxelles obiettivi di rinnovamento della Pac o quanto meno
una linea non soltanto funzionale ad interessi nazionalistici, ma anche ad
una visione più moderna dell’integrazione europea e degli scambi
internazionali.

90
1) “I1 Mondo”, 7 dicembre 1972
2) Norman Kogan, La politica estera italiana, Milano 1965, p. 143
3) Francesco Forte, La strategia delle riforme, Milano 1968, p. 522
4) Dichiarazioni di Paolo Bonomi del 24 aprile 1970
5) Dichiarazione di Paolo Bononi alla stampa del 27 aprile 1973
6) Alfredo Diana, Una nuova politica per una nuova agricoltura. Discorso
pronunciato all’Assemblea dei quadri dirigenti della Confagricoltura
tenutasi il 13 maggio 1970
7) Id.
8) “Azione sociale”, n. 29 del 27 luglio 1973
9) Acli, Documento della Presidenza nazionale sulle recenti decisioni in
materia di politica agricola comune, Comunicato stampa del 3 aprile 1972

91
Il ruolo dell'Italia nell’elaborazione e nell’applicazione della
politica agricola comunitaria*
(1975)

1) Premessa.
Con lo studio che presentiamo in sintesi intendiamo illustrare e soprattutto
spiegare la posizione dell’Italia nei negoziati sul mercato comune agricolo,
dalle riunioni preliminari al Trattato di Roma fino alle ultime vicende del
Mec agricolo. Si tratterà, perciò, di descrivere il ruolo svolto dall’Italia
nella costruzione della Politica agricola comune (Pac) e, nel contempo, di
indicare le principali motivazioni politiche ed economiche che stanno alla
base delle scelte effettuate, delle iniziative assunte, delle rivendicazioni
sostenute. Alla fine dello studio si tenterà di trarre un bilancio critico della
partecipazione dell’Italia alla Pac, sia in termini di influenza dell’Italia
nella elaborazione della Pac, sia in termini di vantaggi per l’agricoltura
italiana derivanti dall’appartenenza al Mec agricolo. Qui di seguito si
fornisce una sintesi del lavoro contenente alcuni elementi di base per la
discussione.
PARTE I: I NEGOZIATI AGRICOLI.
2) L’Italia di fronte alla Pac.
Durante i primi anni del mercato comune, cioè dalla sua fondazione fino
alla prima proposta di una politica agricola comune, l’atteggiamento
italiano è passato dall’entusiasmo ad una aperta ostilità. Se ne ha già un
sintomo confrontando la posizione italiana alla Conferenza di Messina del
1956 e alla conferenza di Stresa del 1958.
A Messina l’Italia, rappresentata dal ministro degli esteri, Martino, “con
un coraggio di cui si può valutare oggi l’ardimento”, come ha scritto Bino
Olivi, propose 1’integrazione economica totale, respingendo le proposte
francesi di altre comunità di settore e richiedendo il progressivo
abbassamento delle tariffe agricole e industriali.
A Stresa, invece, i negoziatori italiani, guidati dal ministro dell’agricoltura
Ferrari-Aggradi, si mostrarono molto più cauti nell’impegnare il proprio
paese in una politica comune di quanto non lo fossero stati durante i
negoziati per la messa a punto del Trattato. In quanto esportatrice netta di
*Working paper per la Tavola rotonda organizzata dall’Istituto Affari Internazionali (IAI) il 7 marzo
1975, in vista della pubblicazione del volume “La partecipazione italiana alla politica agricola
comunitaria” di Rosemary Galli e Saverio Torcasio, Bologna, 1976. La parte relativa ai negoziati
fino al 1970 rappresenta una sintesi del lavoro della Galli.

92
prodotti ortofrutticoli, l’Italia desiderava che fossero aperti i mercati dei
paesi vicini, dove contava di potersi affermare in misura ancora più
consistente. Nei settori del grano e dello zucchero, però, essa aveva
raggiunto quasi 1’autosufficienza, grazie ad una politica di sostegno che
sarebbe stato politicamente difficile se non impossibile smantellare. Ma
quello che più preoccupava gli italiani era la consapevolezza delle
deficienze strutturali della propria agricoltura rispetto a quella dei paesi
vicini.
Ferrari-Aggradi si preoccupò di mettere in luce le difficoltà di inserimento
dell’agricoltura italiana in un mercato comune. Poiché il problema
dell’agricoltura italiana era un problema di bassa produttività, egli
sosteneva, una politica comune non poteva cristallizzare la situazione di
partenza dell’agricoltura europea, ma doveva mirare a uniformare le
condizioni delle varie agricolture nazionali.
L’Italia avrebbe dunque accettato la liberalizzazione solo nei settori degli
ortofrutticoli e del riso. Negli altri settori l’inferiorità dell’agricoltura
italiana sconsigliava una rapida realizzazione del mercato unico fino a
quando non si fosse pervenuti ad una sostanziale parità con l’agricoltura
dei partners.
3) Il primo Piano Mansholt
Nel corso del 1959, la Commissione elaborò un progetto di proposte per la
realizzazione di una politica agricola comune (noto come Piano
Mansholt), che presentò prima al Parlamento europeo e al Comitato
economico e sociale e poi al Consiglio dei ministri.
Le proposte della Commissione postulavano che i problemi
dell’agricoltura non potessero essere risolti, a lungo termine, senza una
vasta trasformazione e un profondo miglioramento delle strutture agricole,
sostenuti dalla politica economica degli Stati membri e da una politica
regionale di sviluppo. A tal fine le Commissione proponeva un
coordinamento delle politiche nazionali per il miglioramento delle
strutture agricole conforme agli obiettivi della politica agraria comune. Un
apposito Fondo europeo avrebbe accordato un aiuto finanziario alle
iniziative degli Stati membri.
La politica per il miglioramento delle strutture e la politica regionale
avrebbero dovuto completarsi con una politica comune di mercato, che
mirasse alla creazione, tra i mercati agricoli degli Stati membri, di un
mercato comune che presentasse le caratteristiche di un mercato interno. Il
ravvicinamento dei prezzi avrebbe dovuto essere attuato progressivamente
ed essere completato entro sei anni.

93
Il progetto della Commissione si dilungava poi in una serie di proposte
relative all’organizzazione dei principali mercati agricoli. Una serie di
Fondi, creati per i diversi mercati e raggruppati in un Fondo agricolo
europeo di orientamento e garanzia, alimentati dai prelievi riscossi sulle
importazioni, avrebbe fornito i mezzi finanziari necessari per gli interventi
sui mercati.
Il maggior rilievo dato nel progetto di proposte alla politica di mercato
rispetto alla politica strutturale provocò in Italia e all’estero una serie di
critiche. Nel novembre 1959, ad una riunione dei ministri dell’agricoltura
invitati ad esaminare in via informale le osservazioni di Mansholt, sia il
ministro tedesco che quello italiano criticarono il contenuto delle proposte
e la mancanza di programmi strutturali comunitari.
Essi erano infatti consapevoli che la loro agricoltura non poteva competere
in un mercato comune se non si fosse fatto alcuno sforzo per raggiungere
condizioni di concorrenzialità. Gli italiani cercavano soprattutto un aiuto
dalla Comunità: le proposte della Commissione, invece, affidavano quasi
interamente l’onere delle misure strutturali ai governi nazionali.
Anche i dirigenti agricoli assunsero un atteggiamento critico di fronte alle
proposte della Commissione. Nel mese di novembre il capo della
Coldiretti, Paolo Bonomi, incontrò Mansholt, al quale espresse l’esigenza
per l’Italia di poter usufruire di un adeguato periodo di adattamento per
realizzare le modifiche strutturali necessarie alla sua agricoltura. Nel mese
di dicembre Mansholt s’incontrò col presidente della Confagricoltura,
Gaetani. Anche lui riconobbe l’esigenza di un necessario adattamento
strutturale e invitò il governo a sostenere gli sforzi degli agricoltori in
questo settore.
Mansholt deve essere stato quindi certamente consapevole
dell’opposizione italiana al progetto di proposte presentato nel novembre
del 1959. Tuttavia egli decise di ignorarla anche nello stendere le proposte
definitive che avrebbe presentato nel 1960. E ciò per varie ragioni.
Anzitutto, perché l’integrazione nel settore delle politiche di mercato si
presentava più facile da realizzare. La Commissione sapeva che sarebbe
stato impossibile negoziare una efficiente politica strutturale della
Comunità finché i francesi, i tedeschi e gli olandesi esitavano a contribuire
finanziariamente alla riforma agricola dei loro partners.
Mansholt sperava anche che lo shock della concorrenza dovuto alla
politica comune dei mercati e dei prezzi sarebbe stata di sprone ai governi
nazionali per iniziare una radicale riforma strutturale. Inoltre la
Commissione e Mansholt sapevano che l’Italia, sotto la pressione dei

94
negoziati, avrebbe trovato un accordo sulla Pac, nonostante l’opposizione
iniziale dell’élite agricola. Nemmeno i loro dubbi e le loro esitazioni sulla
Pac potevano scuotere la loro certezza (e quella dell’intera classe politica)
dei vantaggi che la partecipazione alla Comunità europea avrebbe
apportato all’Italia, se non altro sul piano economico generale.
Il problema che si poneva ai diplomatici italiani all’inizio dei negoziati era
se continuare ad opporsi al progetto di proposte della Commissione o
accettarlo quale base per i negoziati. Non avendo alternative serie da
proporre, mancando sul piano nazionale di una vera politica di riforme
strutturali in agricoltura, fu scelta la seconda strada.
Ciò anche perché l’intera classe politica, compresi i dirigenti agricoli,
vedevano i vantaggi che la realizzazione del mercato comune avrebbe
potuto apportare al processo di industrializzazione del Paese. Questo
spiega perché, nonostante le riserve espresse sull’indirizzo che la Pac
andava assumendo, né i leader politici, né i dirigenti agricoli, né i gruppi
economici, ritennero opportuno mettere in pericolo l’esistenza e lo
sviluppo della Comunità in questa prima fase
4) I negoziati: 1960.
Al Consiglio dei ministri degli esteri del dicembre 1960 le esitazioni
italiane sulle proposte della Commissione sembravano del tutto
scomparse: l’Italia si offrì anzi di mitigare le preoccupazioni dei tedeschi
derivanti dal timore di un’affluenza di prodotti a buon mercato sul loro
mercato impegnandosi ad abolire le sovvenzioni governative per il
trasporto di frutta e verdura in Germania.
Il problema che in quell’occasione si poneva era però ben altro che quello
di ridurre solamente le tariffe doganali: la Commissione chiedeva infatti ai
sei paesi di sostituire completamente il sistema dei dazi doganali con
quello dei prelievi. La proposta era appoggiata dalla Francia e dall’Olanda,
mentre era osteggiata dalla Germania.
L’Italia non volle rischiare un conflitto aperto né volle annullare i
progressi verso un’unione doganale industriale dalla quale avrebbe tratto
vantaggio. Inoltre in quegli anni sembrava che un’unione economica
potesse condurre a qualcosa di più avanzato che una semplice unione
doganale: si sperava che si potesse arrivare anche ad un’unione politica,
obiettivo che gli “europeisti” del ministero degli esteri non volevano
mettere in pericolo con una loro opposizione.
In questa situazione l’Italia scelse di accettare le proposte della
Commissione quale base dei negoziati, sperando di mettere al sicuro i

95
propri interessi nel corso dei negoziati. Ciò anche per un altro motivo, non
sappiamo fino a qual punto calcolato: col dare l’impressione di voler
conciliare i suoi interessi con quelli della Francia, dell’Olanda e della
Commissione ed offrendo di eliminare le riduzioni ferroviarie per
l’esportazione degli ortofrutticoli verso la Germania, l’Italia dimostrava
“buona fede” e ”spirito comunitario”, il che serviva a darle credito fra i
suoi partners.
5) I negoziati: 1961.
Nei negoziati che si svolsero durante il 1961 l’Italia svolse un ruolo
conciliatorio. Anche quando erano in gioco interessi vitali non si arrivò
mai ad una aspra opposizione alle proposte della Commissione, preferendo
la via del rinvio piuttosto che quella dell’opposizione. Non sempre però
questa tattica ebbe successo, né sempre i risultati furono i più favorevoli
per l’agricoltura italiana.
Così, venne accettato un compromesso in politica finanziaria che avrebbe
comportato un pesante onere per il tesoro italiano, senza un corrispondente
vantaggio sul piano del finanziamento comunitario dei miglioramenti
strutturali. Venne accettato il principio di un’organizzazione comune del
mercato nel settore ortofrutticolo, senza nessun specifico accordo sugli
aiuti della Comunità per l’organizzazione dei mercati italiani. Anche
l’accordo sulla politica di liberalizzazione nel settore del vino fu raggiunto
senza nessuna garanzia di migliorare in questo settore il commercio intra-
comunitario.
Questa politica conciliante guadagnò all’Italia la reputazione di essere una
ferma sostenitrice della Commissione e l’Italia riuscì a sfruttare questa
reputazione chiedendo alla Commissione molti favori nel 1962 e 1963.
All’Italia fu concesso infatti di mantenere basso il prezzo dell’orzo in
modo da poter continuare il suo programma di espansione
dell’allevamento di bestiame. Le fu concesso di finanziare il trasporto di
frutta e verdura dal sud al nord d’Italia. La Commissione inoltre propose
un’organizzazione di mercato nel settore del riso, che avrebbe
avvantaggiato essenzialmente la produzione italiana di riso. Importante fu
pure il rifiuto della Commissione di cambiare la linea essenziale di questa
organizzazione di mercato nonostante la clamorosa opposizione della
Germania e dell’Olanda. Lo stesso Mansholt fece un fermo e pubblico
apprezzamento della condotta italiana al Parlamento europeo.

96
6) I negoziati: 1962-63.
L’atteggiamento conciliatorio o tutt’al più dilatorio dei negoziatori italiani
fu mantenuto anche nei negoziati che si svolsero nel 1962-63, con i quali
furono poste le fondamenta della politica agricola comunitaria, o meglio
delle organizzazioni comuni dei mercati. C’è da tener presente, in questi
negoziati, che essi si svolgevano in un clima in cui l’unificazione politica
e l’ingresso della Gran Bretagna, obiettivi a cui l’Italia teneva
particolarmente, sembravano ancora possibili e imminenti.
Solo verso la fine del 1963, col veto della Francia all’ingresso della Gran
Bretagna, i negoziati agricoli furono sgombrati da questa variabile ed
assunsero un ritmo più sostenuto e un tono più animato. L’Italia mantenne,
però, il suo ottimismo e il suo spirito conciliatorio e, in questo spirito, si
accinse a concludere una serie di accordi, non tutti vantaggiosi per la sua
agricoltura, nel settore dei cereali, della carne bovina, dei prodotti lattiero-
caseari, del riso, degli ortofrutticoli e del vino.
7) I negoziati: 1964.
Il 1964 è 1’anno in cui l’Italia incomincia ad abbracciare quella che Bino
Olivi ha definito la “politica degli interessi”. Ciò non esclude che essa
persegua ancora una politica di conciliazione: però la stessa conciliazione
viene messa al servizio degli interessi agricoli. I delegati italiani a
Bruxelles, cioè, adottano una linea di disponibilità a sacrificare parte degli
interessi agricoli, ma solo a condizione che anche i partners siano disposti
a fare concessioni in altri settori.
L’occasione per la sperimentazione di tale linea politica fu la richiesta
della Francia di arrivare entro il 15 dicembre ad una decisione
sull’unificazione dei prezzi dei cereali, fatta sotto la minaccia di un ritiro
della sua adesione della Comunità nel caso in cui non si fosse arrivati ad
un accordo entro tale data. Per l’Italia l’unificazione del prezzo dei cereali
avrebbe comportato un abbassamento del prezzo del grano.
In base alle proposte della Commissione, era stato calcolato che la
diminuzione del reddito agricolo in Italia nel settore del grano e della
segale sarebbe stata di quasi 53 miliardi di lire. In previsione dei negoziati
su questo problema, il ministro italiano dell’agricoltura, Ferrari-Aggradi,
faceva conoscere la posizione italiana: se l’Italia doveva acconsentire
all’abbassamento del prezzo del grano nell’interesse degli altri e
nell’interesse della Comunità, allora essa avrebbe chiesto agli altri di
cedere su questioni di suo interesse.

97
Le questioni sulle quali le aspettative dell’Italia erano andate deluse erano
essenzialmente tre: l’organizzazione comune dei mercati ortofrutticoli, la
libertà di movimento della manodopera nella CEE e il finanziamento degli
interventi strutturali da parte del FEOGA. Su ognuno di questi punti
l’Italia aveva ottenuto un riconoscimento ufficiale dei suoi problemi e su
ognuno le erano state fatte delle piccole concessioni; ma su ognuna di
queste questioni l’Italia non aveva ottenuto la considerazione che essa si
aspettava. L’occasione per proporle con maggior vigore veniva ora offerta
dalla richiesta francese sui cereali.
Nel settore degli ortofrutticoli 1’Italia chiedeva che venisse approvato
entro l’anno il regolamento sull’organizzazione comune del mercato a
partire dal 1° gennaio 1966, che la Commissione aveva preparato, ma che
ancora non si era riusciti ad approvare soprattutto per l’opposizione della
Germania. In materia di politica sociale l’Italia chiedeva, invece, che fosse
realizzata la libera circolazione della manodopera e che fosse rispettato il
principio della preferenza comunitaria anche nel settore della manodopera.
Più impegnative erano le richieste dell’Italia in materia di politica
finanziaria. L’Italia si rendeva infatti conto che nei due anni di
funzionamento del FEOGA, i vantaggi conseguiti erano
considerevolmente inferiori agli oneri sopportati. Sostanzialmente,
l’agricoltura più debole - quella italiana - aveva finanziato l’agricoltura più
forte - quella francese. L’Italia chiedeva perciò l’immediata revisione del
regolamento finanziario e dei criteri per sovvenzionare le esportazioni
agricole. In questo contesto i fondi della sezione “garanzia” avrebbero
dovuto essere disponibili anche per gli ortofrutticoli e per l’olio d’oliva.
In quell’occasione, 1’abilità dei negoziatori italiani fu tale che gli interessi
dell’Italia costituirono l’argomento principale dei negoziati di novembre e
dicembre. L’Italia si guadagnò, infatti, 1’appoggio francese e
l’apprezzamento delle altre delegazioni. Questo insieme di fattori,
unitamente alle buone ragioni, valse all’Italia una serie di successi
diplomatici, di cui non si aveva precedente, su molti dei punti messi in
discussione.
8) I negoziati: 1965.
Mentre il carattere dominante dei negoziati del 1964 può essere
considerato il trionfo diplomatico dell’Italia, i negoziati del giugno 1965
sulla politica finanziaria furono un fallimento. Per spiegare questo fatto
bisogna fare una netta distinzione tra gli amministratori e i diplomatici che
fino al 1965 ebbero un saldo controllo sulla gestione della posizione
italiana nei negoziati comunitari e i ministri/uomini politici che

98
rappresentarono l’Italia nelle riunioni del Consiglio dopo il 1965. Furono
questi ministri/uomini politici che fecero di ogni negoziato una pietra
miliare nella costruzione dell’«Europa».
Però, mentre gli uomini politici si proclamavano orgogliosamente eredi di
De Gasperi, i diplomatici italiani pesavano e valutavano attentamente
quali fossero gli interessi internazionali dell’Italia. Dal 1960 al 1964 fu
proprio questo aspetto “machiavellico” della diplomazia italiana che rese
possibile il progredire dello sviluppo della Comunità contemporaneamente
al riconoscimento degli interessi italiani. Erano i diplomatici, piuttosto che
gli uomini politici, ad avere il controllo della situazione italiana.
Per capire come nel giugno 1965 la posizione italiana poté cambiare così
radicalmente, passando da una posizione di apertura ad una di confronto,
bisogna tener conto del fatto che l’Italia aveva perso un brillante
diplomatico, Attilio Cattani, ritiratosi dalla scena politica, e un abile
negoziatore, Emilio Colombo, dedicatosi alla politica. Fu l’ex presidente
del Consiglio ed allora ministro degli esteri, Amintore Fanfani, a sostituire
Colombo al tavolo della conferenza di Bruxelles.
Per diversi motivi Fanfani aspirava a diventare un protagonista del
processo di integrazione politica dell’Europa, che costituiva l’obiettivo
pressoché dell’intera classe politica italiana. Andando a Bruxelles e
ponendosi al centro dell’attenzione pubblica, Fanfani stava mettendo una
seria ipoteca sulla possibilità di diventare il campione degli interessi
italiani e di assicurarsi un’immagine di abile negoziatore e di difensore
della fede europea.
Ad incoraggiare Fanfani nel suo tentativo di contrastare i francesi sulle
questioni di ordine politico, c’era il fatto che l’Italia non era ancora
soddisfatta della politica agricola comunitaria. Ancora nel giugno 1965 il
Consiglio non era giunto ad un accordo sui meccanismi per l’instaurazione
di un’organizzazione comune di mercato per gli ortofrutticoli, l’olio di
oliva, il vino e il tabacco. Non era nemmeno entrata in funzione la sezione
“Orientamento” del FEOGA. Inoltre l’Italia era diventata una grande
importatrice di prodotti alimentari, fatto che comportava enormi contributi
alla sezione “garanzia” del Fondo.
L’occasione attesa da Fanfani per guadagnare all’Italia la leadership
dell’unità europea e per ristabilire un equilibrio nella partecipazione
italiana alla Pac furono le discussioni del Consiglio del giugno 1965, che
ebbero come tema il rinnovo del regolamento finanziario. Su questo
argomento, Fanfani si cimentò in una politica di aspro confronto con la

99
Francia che degenerò in una crisi di vaste proporzioni da cui sembrava che
la costruzione europea non dovesse salvarsi.
Apparentemente la controversia tra Italia e Francia sembrava di carattere
puramente tecnico: e cioè se l’accordo finanziario dovesse essere di uno,
due o cinque anni. In realtà la controversia era molto più profonda, in
quanto Fanfani mirava non solo ad una revisione completa del
regolamento finanziario, ma anche ad un accrescimento dei poteri del
Parlamento europeo in materia di bilancio, come misura diretta a mettere
in moto 1’Europa sopranazionale.
Su questi obiettivi sperava di poter creare un fronte unito della
Commissione e dei cinque contro la Francia. Questa, tuttavia, con una
decisione clamorosa, il 1° luglio interruppe i negoziati, minacciando di
ritirarsi dalla Comunità. Nel fallimento dei negoziati una parte non
secondaria della responsabilità venne attribuita all’atteggiamento
“ricattatorio” di Fanfani e alla sua “tattica deleteria del piccolo
contrabbando diplomatico nel tentativo di far passare l’integrazione
politica dell’Europa” (L’Unità, 2 luglio 1965).
Il fallimento della linea italiana divenne più evidente ad ottobre, quando i
francesi ottennero che il pacchetto di proposte della Commissione sul
quale si era prodotta la crisi di giugno perdesse la sua iniziale unità
organica, che cioè delle questioni finanziarie si potesse discutere anche
separatamente dalle questioni politiche. ”Non c’è dubbio che gli Italiani in
quella occasione - ha scritto a questo proposito Bino Olivi – permisero
rapidamente ai francesi di ottenere questo successo capitale per i loro fini
politici”. Comunque, con il ritorno di Colombo a Bruxelles, ad ottobre,
prende di nuovo piede la linea diplomatica rispetto alla linea politica: si
ritorna, perciò, su una posizione conciliatoria, senza peraltro che ciò
significasse sacrificare gli interessi dell’agricoltura.
9) I negoziati: 1966.
Nel 1966 1’Italia si trovava nella stessa posizione del 1964, cioè con le
stesse rivendicazioni in sospeso verso la politica della Comunità. La
differenza stava nel fatto che dal 1966 si sarebbe abbandonata totalmente
la politica di conciliazione per adottare più drasticamente una “politica
degli interessi”. Questo cambiamento era dovuto soprattutto al fatto che la
posizione negoziale dell’Italia veniva ora sottoposta ad un più minuzioso
esame critico da parte di più larghi strati dell’opinione pubblica.
In questo movimento d’opinione, nel 1966, si sentivano soprattutto due
voci. Una era costituita dal forte risentimento dei gruppi agrari e
dell’opinione pubblica più disparata per il fallimento della diplomazia

100
europea a far progredire la Comunità sulla strada della sovranazionalità.
La seconda voce nasceva dalla profonda insoddisfazione per gli sviluppi
della Pac, per la mancata attuazione delle organizzazioni comuni dei
mercati nel settore degli ortofrutticoli, dello zucchero, del tabacco, dei
grassi e degli oli e per la partecipazione eccessiva dell’Italia al
finanziamento del fondo agricolo.
10) I negoziati: 1967-70.
Nel periodo 1967-70 si accentuarono le pressioni sul Governo per
assumere una posizione più aggressiva nei negoziati agricoli e per una
difesa più attiva degli interessi italiani. Le politiche degli ortofrutticoli, del
tabacco e del vino non erano ancora state completate e la politica
finanziaria pesava ancora sensibilmente sulla borsa italiana. Incombevano,
inoltre, gli accordi commerciali con la Spagna e gli altri paesi del
Mediterraneo.
Ormai la coscienza della situazione dell’agricoltura italiana nella
Comunità aveva superato l’ambito della classe politica e si era radicata nel
Paese. Non erano più soltanto i leader agricoli a premere sul ministero
dell’agricoltura, ma erano gli stessi agricoltori a scendere nelle piazze per
dimostrare la loro insoddisfazione per la politica agricola comunitaria, ed
in particolare per la politica del latte.
Questo fatto mise il governo e le forze che stavano dietro a Bonomi
nell’infelice posizione di dover difendere una politica che essi
sostanzialmente non avevano mai caldeggiato. I negoziatori italiani
riuscirono tuttavia ad assicurarsi un certo successo sulla limitazione della
partecipazione italiana al finanziamento del FEOGA, il che valse a fugare
in parte le critiche che la Pac aveva fatto nascere in Italia.
Quello che colpisce in questo periodo nella posizione italiana è il
dispendio di energie per difendere interessi spesso molto particolari, non
soltanto dell’agricoltura, ma anche dell’industria. E’ il caso delle
discussioni sulla politica degli oli da seme, o il caso delle richieste italiane
nel settore dello zucchero.
In questo settore, dove veniva prevista l’istituzione di quote di produzione
nazionali, sia l’Italia che in Germania raccomandavano un sistema elastico
che concedesse la possibilità di trasferire quote di produzione da una
fabbrica all’altra nel caso in cui queste appartenevano alla stessa impresa.
I francesi e i belgi si opponevano a questa interpretazione del sistema delle
quote, sottolineando gli effetti negativi che essa avrebbe avuto sui
produttori di barbabietole che si fossero trovati di fronte alla chiusura di
un impianto.

101
Gli italiani tuttavia insistettero sul fatto che era necessaria una certa
elasticità se si voleva che ci fosse una razionalizzazione e una
concentrazione dell’industria saccarifera in Italia. Per salvaguardare gli
interessi dei produttori l’Italia propose che a ogni governo fosse data la
possibilità di assegnare a propria discrezione il 10% della sua quota.
L’esperienza degli anni successivi avrebbe, in realtà, dimostrato che con
tale richiesta l’Italia era riuscita a salvaguardare gli interessi delle sue
industrie ma non quelle dei suoi produttori di barbabietole. Anche gli
interessi degli importatori di vitelli e di carne, fresca e congelata, ebbero
un peso di rilievo nei negoziati agricoli del 1967-68.
Negli anni successivi la posizione italiana si irrigidì sempre più per il
riconoscimento dell’organizzazione comune dei mercati a due suoi
prodotti tipici, tabacco e vino, e per il miglioramento del regolamento
sugli ortofrutticoli. Nel corso del negoziati Italia dovette ricorrere più
volte alla minaccia di non accettare più alcun impegno sugli aspetti
finanziari della Pac se non fosse stata data soluzione ai suoi problemi.
I problemi degli ortofrutticoli, del tabacco e del vino furono discussi
perfino al summit dell’Aja e le loro trattative divennero parte essenziale
degli accordi chilometrici di dicembre. Solo in questo modo gli italiani
riuscirono ad assicurarsi il regolamento di quei settori di maggior
importanza per loro. Tuttavia, a causa della necessità di spingere per gli
interessi agricoli che erano stati dimenticati, essi persero l’iniziativa della
discussione politica fra i sei.
11) I negoziati: 1971-74.
Il 1971 segna un altro punto di svolta nella storia della partecipazione
dell’Italia alla costruzione della Pac. Con la regolamentazione del settore
del vino, del tabacco, degli ortofrutticoli, del lino e della canapa,
l’organizzazione comune dei mercati poteva ormai considerarsi pressoché
completata.
Esauritasi pertanto, col 1970, la spinta rivendicativa dell’Italia rivolta ad
ottenere il diritto ad una protezione sotto l’ombrello comunitario per le sue
produzioni più tipiche, l’iniziativa italiana si indirizzava, da allora in poi,
su due direttrici: 1’una rivolta a migliorare l’efficacia delle organizzazioni
comuni di mercato per i prodotti di maggior interesse; 1’altra rivolta a
determinare un concreto avvio della politica di riforma strutturale e delle
altre politiche collaterali (politica sociale e regionale).
Questa evoluzione della posizione italiana da un arroccamento
intransigente a difesa della politica dei prezzi e dei mercati verso una

102
iniziativa più attiva sul fronte della politica di riforma delle strutture
agricole e delle politiche collaterali, si spiega alla luce del dibattito
apertosi ad ogni livello nel Paese, sui risultati deludenti della politica
agricola comunitaria.
Il dibattito aveva sostanzialmente preso le mosse dal ”Memorandum” sulla
riforma dell’agricoltura nella Cee presentato nel dicembre del 1968 alla
Commissione dal suo vicepresidente, Sicco Mansholt. Anche in
precedenza, però, non erano mancate voci di dissenso sull’orientamento
assunto dalla politica agricola comune e sulla linea seguita dai negoziatori
italiani a Bruxelles.
Sinistre e sindacati, in particolare, avevano espresso in più occasioni
pesanti riserve sulla posizione di chiusura dei rappresentanti italiani in un
puro rivendicazionismo in materia di prezzi e di mercati, sacrificando gli
obiettivi di riforma strutturale che pure erano stati chiaramente enunciati a
Stresa. Queste forze, però, non erano riuscite a conquistare un proprio
ruolo nella gestione della politica agricola dell’Italia a livello comunitario,
ancora egemonizzata dalla Coldiretti, dalla Confagricoltura e dalla
Federconsorzi.
Negli anni 1969-1970, sull’onda della riflessione critica stimolata dal
Memorandum Mansholt, si apre nel Paese un ampio e approfondito
dibattito sulla Pac e sul ruolo svolto dall’Italia, che coinvolge praticamente
tutte le forze politiche, sindacali e professionali.
Questa riflessione critica sugli sviluppi della Pac porta larghi settori del
mondo agricolo, politico e sindacale a convincersi dell’opportunità di
ricercare il miglioramento del reddito agricolo più dagli interventi sulle
strutture di produzione e di commercializzazione che non dal continuo
aumento dei prezzi. Contro ulteriori aumenti dei prezzi agricoli si
schierano, in particolare, i sindacati operai, preoccupati dei riflessi della
politica dei prezzi sui redditi dei consumatori e convinti dell’impossibilità
di risolvere i problemi dell’agricoltura senza una adeguata politica di
riforma delle strutture. Contemporaneamente viene sollecitata una politica
regionale e una politica sociale tese a rendere meno traumatiche le azioni
strutturali e a fronteggiare i problemi emergenti dall’impatto di quelle
misure con la realtà economica e sociale della nostra agricoltura.
Anche fra le organizzazioni di categoria si allarga l’area del malcontento
per i problemi rimasti insoluti con la politica comune dei prezzi e dei
mercati e si afferma, sia pure tra mille incertezze e mille contraddizioni, la
tendenza a rivalutare il ruolo della politica strutturale nella soluzione dei
problemi dell’agricoltura italiana.

103
In questo contesto si incrinano certi canoni della politica agricola italiana
ed entrano in crisi certe alleanze sulle quali in passato questa politica si era
retta. I responsabili della politica italiana a Bruxelles si trovano, perciò, a
fronteggiare e a mediare una gamma più composita di spinte e
controspinte provenienti dal mondo rurale ed ora, con più forza che in
passato, anche dall’esterno del settore agricolo.
Pur nello sforzo di comporre le varie istanze, i negoziatori italiani, alleati
spesso alla Commissione, contribuiscono in maniera determinante a far
varare una politica strutturale comune, una politica per le zone più
sfavorite e una parvenza di politica regionale. Tuttavia l’accanita
resistenza dei partners, giustificata anche con l’incapacità spesso
dimostrata dall’Italia ad usufruire delle misure comunitarie, da una parte, e
la mancanza di una netta opzione dei negoziatori italiani per un
superamento della politica dei prezzi e dei mercati, dall’altra, rendono i
successi conseguiti molto più modesti di quelli che si sperava di ottenere.
12) La posizione italiana nei negoziati agricoli :riepilogo
Abbiamo analizzato la posizione italiana nei negoziati sulla Pac, ed
abbiamo distinto tre periodi:
I. dal 1958 al 1964 in cui la posizione italiana è stata dominata da ciò
che può essere chiamato lo “spirito comunitario”. Durante tale
periodo il più importante interesse dei rappresentanti italiani alla
Cee è stata la promozione del processo di integrazione,
possibilmente esteso anche alla Gran Bretagna. In nome di tale
ideale sono state accettate decisioni, come il regolamento
finanziario e i regolamenti sui cereali e sul latte, che si sarebbero
rivelate onerose o controproducenti per l’agricoltura italiana.
Una serie di altri fattori ha concorso a spingere i rappresentanti
italiani su una posizione di disponibilità verso le proposte della
Commissione e le richieste dei partners: la mancanza di valide
alternative da contrapporre; la carenza di esperienza e di
conoscenze con cui i delegati italiani si sono presentati ai
negoziati; l’erronea previsione sugli sviluppi delle nostre
importazioni agricole e quindi sulla partecipazione italiana al
finanziamento del Feoga; la scarsa presa di coscienza degli
interessi in gioco da parte delle organizzazioni professionali
agricole.
Dopo il 1963 questa posizione si è lentamente modificata a causa
della delusione sullo sviluppo della politica comunitaria in
generale, della politica agricola in particolare, e per il rendersi

104
conto che l’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune non
era imminente, che l’unità politica non era inevitabile e che la
cooperazione franco-tedesca dominava la politica comunitaria. Nel
1964 1’Italia si è imbarcata in quella che è stata chiamata “politica
di rattrapage” o “politica degli interessi”, ossia in una politica di
rivendicazione degli interessi vitali.
II. Il secondo periodo, che va dal 1965 al 1970, è il periodo in cui si
accentua da parte italiana, ma anche da parte degli altri Paesi
membri, la “politica degli interessi”. Esso è stato infatti segnato
dalla predominanza delle richieste dei gruppi di interesse nella
elaborazione della posizione italiana.
In questo periodo la posizione italiana è stata dominata
essenzialmente da due preoccupazioni: a) ridurre per quanto
possibile i contributi italiani al fondo agricolo; b) promuovere
l’integrazione dei mercati nei settori degli ortofrutticoli, del vino,
del tabacco e dell’olio d’oliva. Mentre sul primo obiettivo si sono
potuti ottenere risultati abbastanza soddisfacenti e con una relativa
facilità, più combattuto è stato il conseguimento del secondo
obiettivo.
In questo campo l’Italia si è trovata infatti a fronteggiare la ferma
opposizione alla istituzione, e soprattutto al finanziamento, di
nuove organizzazioni comuni di mercato. Per giunta i negoziati
relativi a questi prodotti si sono svolti in un contesto di “apertura”
della Comunità verso i Paesi del Mediterraneo, sicché l’interesse
italiano a un sistema di regolamentazione del mercato che
garantisse la preferenza comunitaria ai suoi prodotti tipici è stato
solo in parte salvaguardato.
III. Il terzo periodo ha connotati meno tipici dei primi due. Tant’è che
si potrebbe anche discutere sulla legittimità della sua separazione
dal secondo periodo. A partire dal 1971 si può, tuttavia,
individuare, nella posizione italiana, qualche sintomo di
evoluzione verso posizioni meno intransigenti sul fronte dei prezzi
e dei mercati e più aperte alle istanze di riforma dell’agricoltura, di
rinnovamento della Pac, di nuove forme di sostegno
dell’agricoltura, in particolare di quella più sfavorita.
In questi anni l’Italia coglie alcuni importanti successi diplomatici
e politici a Bruxelles, alleandosi spesso alle proposte della
Commissione e trovandosi di fronte alla accanita resistenza di
molti partners. A livello nazionale, tuttavia, diviene sempre più

105
evidente che, senza la mediazione di un apparato amministrativo
all’altezza dei compiti cui le decisioni assunte lo chiamano, e senza
aver rimosso gli altri ostacoli che rendono difficoltosa nel nostro
Paese la realizzazione della Pac, anche il miglior successo
diplomatico può venire vanificato sul piano operativo.

PARTE II – ELEMENTI PER UN BILANCIO DELLA PAC


13) Influenza dell’Italia sulla PAC
Volendo cercare di trarre un bilancio di questi quindici anni di
partecipazione dell’Italia alla Pac, occorre distinguere per lo meno due
livelli a cui tale bilancio può essere tratto: il livello decisionale, ossia
dell’elaborazione politica, e il livello operativo, ossia della messa in
pratica delle decisioni assunte.
Visto nel suo complesso e tenendo conto delle richieste avanzate
dall’Italia, il bilancio della Pac non appare carente di decisioni ed indirizzi
che vanno incontro alle esigenze espresse dai rappresentanti italiani.
Quanto ad iniziative assunte su richiesta italiana per venire incontro alle
difficoltà apportate all’agricoltura italiana dall’unificazione dei mercati;
quanto a compensazioni strappate in nome della debolezza delle nostre
strutture agrarie; quanto ad eccezioni più o meno transitorie consentiteci in
cambio di concessioni su altre questioni, crediamo, anzi, che il bilancio
italiano dei negoziati agricoli possa vantare molte poste all’attivo.
Si possono citare, a questo proposito, a titolo indicativo: il sistema di
sostegno dei redditi mediante forme di “deficiency payments” applicato al
grano duro, all’olio d’oliva e, in una certa misura, al tabacco; la riduzione
dei prelievi per i cereali foraggeri introdotti in Italia; il periodo transitorio
di sette anni (rispetto ai cinque proposti dalla Commissione) per consentire
la ristrutturazione del settore bieticolo-saccarifero nel nostro Paese; i piani
di riconversione varietale degli agrumi e di ristrutturazione del settore del
tabacco. Tutto questo senza contare i successi politici conseguiti in materia
di politica strutturale, di politica regionale e di politica sociale.
L’elenco dei successi della diplomazia italiana in materia di Pac potrebbe
essere, in effetti, abbastanza nutrito e tale da apparire, nel complesso,
soddisfacente, o quanto meno non del tutto carente, soprattutto se tenuto
conto dei vincoli politici e istituzionali da cui risultano condizionati i
negoziati, agricoli e non, a livello comunitario.
A prescindere, però, dalla verifica dei reali profitti tratti da quelle decisioni
- che è il secondo livello a cui il bilancio della Pac deve essere fatto -

106
restano da considerare altri elementi, utili ad apprezzare meglio il
contributo dell’Italia nella fase decisionale della Pac.
Anzitutto un’osservazione di fondo crediamo possa essere fatta
preliminarmente. Nonostante i successi di cui s’è detto, riteniamo che
l’apporto creativo dell’Italia alla costruzione della Pac sia stato, nell’arco
dei quindici anni, tutto sommato abbastanza modesto, quantomeno a
livello delle fondamentali scelte politiche.
Non è un mistero, del resto, che la Pac sia sostanzialmente improntata agli
indirizzi di politica agraria dominanti nel Nord-Europa. Sul piano politico,
d’altra parte, la Pac è il frutto di un compromesso tra francesi e tedeschi,
in cui gli interessi agricoli dei primi hanno trovato compensazione con gli
interessi industriali dei secondi.
Non sono queste, comunque, le colpe che si vogliono addossare alla
responsabilità italiana. Quello che si intende rimarcare è come l’Italia in
questi anni si sia trovata più spesso nella posizione di postulante che in
quella di offerente; il suo ruolo, cioè, è stato più spesso quello di
contrattare modifiche, integrazioni, eccezioni alle proposte altrui che
quello di promuovere e sostenere proprie iniziative globali.
Anche quando erano in gioco propri interessi vitali, come nel caso degli
ortofrutticoli, l’iniziativa italiana non è andata molto al di là del
rivendicarne, peraltro tardivamente, l’inserimento tra le organizzazioni
comuni dei mercati, non essendo in grado di offrire una propria proposta
di organizzazione dei mercati. Per quanto riguarda poi il contributo
italiano al varo della politica strutturale comune, c’è da dire che, per
quanto sia stato realmente decisivo, esso è intervenuto soltanto nella fase
finale e in appoggio ad una specifica iniziativa della Commissione.
Per anni, cioè, l’Italia ha sostanzialmente perso l’occasione per farsi
propugnatrice di una reale alternativa alla politica dei prezzi e dei mercati,
pur avendo chiaramente indicato a Stresa l’esigenza di un preliminare
allineamento delle condizioni strutturali della nostra agricoltura ai livelli
europei. Le stesse considerazioni possono essere fatte per la politica
regionale, solo di recente assunta come obiettivo primario al proprio
impegno, a ridosso di un’analoga iniziativa degli inglesi.
La seconda considerazione da fare è che quasi sempre le concessioni
strappate in sede di negoziato hanno avuto delle onerose contropartite a
vantaggio degli interessi dei partners. Questo è implicito in ogni
negoziato, ma nel caso dell’Italia, non sempre vi è stata una scelta felice
tra interesse da salvaguardare e contropartita da sacrificare. Spesso, infatti,
l’interesse fatto valere si è rivelato effimero o comunque inadeguato

107
rispetto al costo sopportato. In definitiva hanno finito col prevalere gli
interessi dei gruppi meglio organizzati e con maggior peso politico.
Se allargassimo la visuale al di là dell’ambito strettamente diplomatico e
fondassimo il bilancio della partecipazione dell’Italia all’elaborazione
della Pac sulla base di un più preciso apprezzamento della condotta tenuta,
il bilancio diventerebbe certamente ancora meno soddisfacente.
14) L’influenza della Pac sull’agricoltura italiana.
Il secondo livello a cui il bilancio della partecipazione dell’Italia alla Pac
può essere effettuato è quello dei benefici apportati all’agricoltura italiana
dalla politica agricola comuni. Anche sotto questo profilo non si può
ovviamente negare che l’integrazione dei mercati e la sempre maggiore
rilevanza delle decisioni comunitarie sul piano della politica agricola
hanno apportato taluni vantaggi alla nostra agricoltura.
La stabilizzazione dei prezzi e dei mercati, ad esempio, è un tipico
derivato delle misure comunitarie approntate a tale scopo. Per alcuni
prodotti l’apertura dei mercati e le misure di intervento previste dalla CEE
hanno significato nuove possibilità di sbocco commerciale e nuovi
incentivi ad estendere e a migliorare la produzione.
L’agricoltura italiana è stata, insomma, sottratta in una certa misura alla
tutela del protezionismo nazionale e sottoposta al salutare confronto con le
più avanzate agricolture europee. Questi ed altri vantaggi non sarebbero
probabilmente venuti senza l’apporto determinante della Pac.
Eppure non si può dire che l’agricoltura italiana nel suo complesso abbia
tratto consistenti benefici dalla Pac, almeno se si tengono presenti le sue
più vitali esigenze. Al di là dei progressi compiuti e dei risultati conseguiti
in questo o quel settore, durante questi quindici anni di Pac, sopravvivono
infatti pressoché immutati tutti i fattori di inferiorità strutturale della nostra
agricoltura rispetto a quella degli altri Paesi della CEE.
Solo in pochi settori essa è realmente competitiva sui mercati comunitari,
ma le sue posizioni, lungi dall’essersi consolidate, sono sottoposte al
logoramento derivante dalla concorrenza di altre agricolture. La maglia
poderale è ancora troppo pletorica, le strutture associative poco sviluppate;
la bilancia alimentare sempre più deficitaria, le distorsioni produttive
ancora più vistose.
Del resto, anche sul piano puramente contabile la partecipazione italiana
alla Pac si rivela pesantemente negativa. E’ noto, infatti, che l’Italia ha
ricevuto dal FEOGA molto meno di quanto non gli abbia versato. Per il
periodo 1962-70, per il quale è possibile fare questo confronto, la sezione

108
“Garanzia” si chiude, infatti, con un deficit per l’Italia di ben 224.977
milioni di lire, solo in parte compensato dall’attivo di 135.981 milioni di
lire della sezione “Orientamento” e dall’attivo di 0.760 milioni di lire delle
due “sezioni speciali”.
Se questo non è addebitabile alla responsabilità di nessuno, ma solo al
gioco delle variabili che influenzano la posizione dei singoli Paesi rispetto
al FEOGA, più chiara appare la responsabilità italiana nel ritardo con cui
vengono utilizzati i contributi del FEOGA per il finanziamento dei progetti
individuali di miglioramento delle strutture.
Alla fine del 1972, infatti, sulle somme accreditate all’Italia per progetti
strutturali dalla sezione Orientamento del FEOGA a carico del periodo
1965-1970, risulta utilizzato appena il 9%, contro il 19% della Francia, il
21% del Belgio e della Germania, il 36% dell’Olanda e il 53% del
Lussemburgo.
Alla stessa epoca risultava ancora da utilizzare il 22% degli stanziamenti
impegnati nel 1965, il 53% di quelli impegnati nel 1966, il 70% di quelli
impegnati nel 1967, quando l’O1anda aveva invece completamente
utilizzato i fondi stanziati nel 1965 e 1966 e ben 1’83% di quelli stanziati
nel 1967.
Del resto, anche per la “sezione Garanzia” del FEOGA l’Italia detiene il
primato negativo nell’utilizzazione dei fondi messi a disposizione degli
Stati membri della CEE. Per il 1972, ad esempio, il tasso medio mensile di
utilizzazione per l’Italia è di appena il 31,3% contro una media del 74%
negli altri Paesi della CEE, nonostante la Commissione avesse più volte
invitato le autorità italiane a modificare talune disposizioni che hanno
ostacolato il buon funzionamento del sistema.
Ma un bilancio della partecipazione dell’Italia alla Pac fondato
esclusivamente sui dati complessivi del dare e dell’avere, anche se
chiaramente passivo, è certamente deviante oltre che scarsamente
illuminante: occorrerebbe infatti conoscere anche quali imprese hanno
realmente usufruito dei contributi finanziari della CEE e quale
utilizzazione ne è stata fatta. Verrebbe, allora, alla luce un vero e proprio
sottobosco di parassitismo che si è alimentato dei soldi della CEE, ma in
definitiva anche coi soldi dei contribuenti italiani.
Una larga fetta dei versamenti della “sezione Garanzia” del FEOGA è
andata inoltre a premiare e a incentivare vere e proprie “rendite di
produttività”, vantate dalle aziende già moderne, a scapito delle aziende
minori ed invece più bisognose di sostegno. Alla luce di queste
considerazioni, il bilancio contabile apparirebbe ancora più negativo. E’

109
chiaro, però, che tali valutazioni postulano un apprezzamento degli
orientamenti assunti in questi anni dalla Pac. Noi, invece, in questa sede
vogliamo volutamente prescindere da tali apprezzamenti, e considerare la
Pac, così come si è venuta sviluppando, come un dato immodificabile del
problema.
Ebbene, anche assumendo le linee della Pac, le misure previste, gli
interventi disposti, quali vincoli esterni all’iniziativa italiana e non quali
variabili scaturite da un processo decisionale in cui tutti i Paesi membri
risultano coinvolti, il bilancio della Pac per l’Italia appare ancor più
fallimentare. Sotto questo profilo, per giunta, la responsabilità ricade
unicamente su se stessa.
Fra tutti i Paesi della CEE 1’Italia è il Paese che incontra più difficoltà non
solo nel rendere esecutive le decisioni comunitarie, ma anche
nell’avvantaggiarsi delle misure e dei mezzi finanziari che la Comunità ha
previsto, magari a vantaggio esclusivo della sua agricoltura.
Il capitolo delle inadempienze italiane, dei ritardi, delle colpevoli
omissioni, dei solenni rimbrotti alla nostra imprevidenza potrebbe essere,
anzi, tanto lungo da riempire un intero volume. E forse la materia lo
richiederebbe.
Verrebbe allora alla luce la paradossale realtà di un Paese che ha
combattuto tante battaglie a Bruxelles per ottenere vantaggi, quasi sempre
strappati in cambio di onerose contropartite, e destinati comunque ad
essere poi pressoché sistematicamente vanificati sul piano nazionale.
L’Italia si è fatta spesso segnalare a Bruxelles per le sue inadempienze e
spesso è finita come imputata sui banchi della Corte di Giustizia della Cee.
Ma la “disobbedienza comunitaria” dell’Italia non è forse nemmeno
l’aspetto più colpevole o comunque più gravoso per l’agricoltura italiana.
Più gravi delle inadempienze denunciate sono i ritardi con cui avvengono
mille adempimenti di più vasta portata quotidiana. Più importanti delle
condanne della Corte di Giustizia su questioni particolari, sono le denunce
di centinaia di migliaia di agricoltori che attendono per anni di usufruire
delle misure previste dalla CEE.
In effetti, quando si deve attendere, come accade regolarmente, anche tre o
quattro anni per usufruire di un’integrazione di prezzo sul grano duro o
sull’olio d’oliva prodotto, risulta evidente che tale misura, a prescindere
dalla sua validità economica e politica, viene a mancare al suo principale
obiettivo che è quello di un sostegno corrente del reddito del produttore.

110
Ma questo non è nemmeno l’esempio più eclatante di colpevole
negligenza italiana di fronte alla Pac. Ben più gravi sono gli esempi che si
possono portare con riferimento agli interventi previsti per il
miglioramento delle strutture di produzione, conservazione,
trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli.
Già s’è visto che al 31 dicembre 1973, l’Italia aveva utilizzato solo 1’8,6%
dei fondi accreditati dalla sezione Orientamento del FEOGA nel periodo
1962-63/70 per il finanziamento dei progetti ammissibili. Ovviamente tale
percentuale diminuirebbe ancora di più se si potessero includere anche gli
accreditamenti fatti dopo il 1970.
Ma non diverso è stato finora il destino toccato a tanti stanziamenti
straordinari disposti a favore del nostro Paese per particolari programmi di
intervento sulle strutture: 45 milioni di unità di conto concessi nel 1966
per il miglioramento delle strutture di produzione e commercializzazione
dell’olio d’oliva, a quanto sembra destinati ad interventi di mercato; altri
45 milioni di unità di conto destinati al miglioramento delle strutture di
produzione e commercializzazione degli ortofrutticoli, di cui non si
conosce la reale utilizzazione; 15 milioni di unità di conto concessi,
sempre nel 1966, per il miglioramento delle strutture tabacchicole, di cui
l’unica cosa certa è che, a distanza di quasi dieci anni, attendono ancora di
essere investiti, in mancanza di un apposito programma di intervento. E si
potrebbe continuare.
Su uno di tali programmi straordinari di intervento vogliamo soffermarci
un po’ di più per il suo valore emblematico: è quello previsto dalla CEE
nel settore agrumicolo. Come è noto, nei negoziati agricoli svoltisi alla
fine del 1969, 1’Italia ottenne dalla CEE il finanziamento di un piano di
interventi nel settore agrumicolo in cambio di talune concessioni in
materia di preferenza comunitaria.
Più precisamente, con il reg. n. 2511/ 1969, la Comunità ha previsto due
tipi di misure, alcune volte al sostegno del mercato, altre volte al
miglioramento delle strutture di produzione, commercializzazione e
trasformazione nel settore delle arance e dei mandarini, che avrebbero
dovuto porre rimedio in una certa misura alle ricorrenti crisi agrumicole
del nostro Mezzogiorno.
Le prime erano a totale carico del FEOGA. Le seconde per il 50% a carico
del FEOGA e per il 50% a carico dei bilanci nazionali. Per usufruire del
concorso del FEOGA 1’Italia avrebbe dovuto elaborare un apposito piano,
secondo le indicazioni della Commissione. Per beneficare degli aiuti

111
previsti le operazioni suddette avrebbero dovuto essere realizzate entro il
31 dicembre 1976.
Non vogliamo qui raccontare per esteso le vicende di questo piano, né
entrare nel merito delle proposte fatte, in qualche occasione giudicate
perfino “dannose” negli ambienti interessati. Quel che preme, invece,
mettere in risalto è che sono dovuti trascorrere tre anni perché fossero
completati i preliminari tecnici e burocratici di un piano che doveva
sostanzialmente porsi come provvedimento d’urgenza.
Il piano è stato infatti approvato nel febbraio 1973 dalla Commissione
CEE, ma successivamente è stato necessario un apposito provvedimento
legislativo nazionale per l’autorizzazione della spesa necessaria
all’attuazione degli interventi previsti. L’apposito disegno di legge,
presentato nel giugno 1973, è stato approvato solo un anno dopo. Come se
non bastasse, la pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale ha
richiesto altri due mesi, sicché solo dall’agosto 1974 si dispone dello
strumento legislativo necessario per gli interventi.
Nel frattempo si è pensato bene di chiedere alla CEE una proroga alla
scadenza del piano, che così è slittata al dicembre 1978. Basterà questa
proroga? A giudicare da quello che si è fatto finora, ad oltre cinque anni di
distanza dal regolamento del 1969, temiamo di no. E così la lista delle
occasioni sprecate per l’Italia si accrescerà di un altro capitolo poco
edificante.
La vicenda del piano agrumicolo, come è stato scritto (1), “ha una sua
significatività non tanto per le misure da esso predisposte quanto per
l’occasione offerta, ma (...) purtroppo non colta, di affrontare
organicamente un effettivo miglioramento del settore”.
In effetti, al di là dell’aspetto specifico della mancata o non tempestiva
utilizzazione delle risorse messeci a disposizione dalla CEE, è tutta la Pac
che ha rappresentato un’occasione mancata per la nostra agricoltura. E’
anzi questa la colpa più grave che possa farsi ricadere sulla politica agraria
nazionale degli ultimi quindici anni: assente ai suoi compiti di
rinnovamento strutturale dell’agricoltura, negligente nel promuovere e
realizzare programmi di sviluppo e di riforma nei settori chiave della
nostra economia agricola, sorda alle istanze di sviluppo delle forme
associative.
15) Le carenze della partecipazione italiana alla Pac.
Resta di chiedersi, per concludere, perché il bilancio delle Pac sia per
l’Italia, tutto sommato, così modesto. La risposta a questo interrogativo

112
non può essere univoca e, in ogni caso, va data separatamente per ciascuno
dei livelli a cui il bilancio della Pac è stato formulato.
Occorre però sgombrare preliminarmente il terreno da una osservazione
con la quale talvolta si è preteso di spiegare tutto, o pressoché tutto, con la
predominanza sul tavolo delle trattative comunitarie degli interessi agricoli
della Francia di De Gaulle e dell’Olanda di Mansholt, oppure
dell’interesse all’apertura dei mercati da parte dell’industria tedesca e
italiana.
In realtà, per quanto i termini della Pac siano stati fin dall’inizio
accanitamente contrattati anche sulla base di interessi politici generali, a
cui talvolta gli interessi agricoli di questo o quel Paese sono stati
sacrificati, non v’è dubbio che 1’elaborazione della Pac, nella fase
negoziale e nella fase tecnica, ha offerto anche al nostre Paese possibilità
che non sempre sono state colte o fatte valere con sufficiente
lungimiranza.
Non tutto quello che è accaduto, insomma, è il mero risultato di un
incontrollabile esito del gioco di interessi nazionalistici, al quale sia
estranea l’Italia o di fronte al quale essa si sia trovata impotente. “Inutile
recriminare o assumere atteggiamenti risentiti - ha giustamente affermato a
questo proposito il portavoce ufficiale della Comunità, Bino Olivi - nella
Comunità si ha quello che ci si è conquistato, niente di più”.
Ciò premesso, cerchiamo di rintracciare alle radici le ragioni che hanno
portato l’Italia a conseguire risultati così modesti dalla sua partecipazione
alla Pac, distinguendo, come in precedenza, il momento decisionale dal
momento esecutivo.
A livello di partecipazione dell’Italia all’elaborazione della Pac molti sono
i fattori esplicativi che possono essere chiamati in causa. A monte di tutti
crediamo di poter mettere un aspetto della politica economica italiana
rimasto pressoché immutato nel1’ultimo quarto di secolo, e di cui solo da
qualche tempo si sta prendendo coscienza: il ruolo subalterno affidato
all’agricoltura nel modello di sviluppo dell’economia italiana.
L’emarginazione dell’agricoltura, a livello politico, economico e culturale
ha indubbiamente pesato negativamente per l’Italia anche in sede di
negoziati agricoli comunitari. Ma c’è un secondo fattore di fondo che può
essere chiamato in causa a tale proposito: la scarsa presa di coscienza nella
classe politica, nella Pubblica Amministrazione, e per un certo periodo fra
le stesse organizzazioni professionali agricole, dell’importanza dei
problemi comunitari e di una presenza italiana ad ogni livello attiva,
qualificata e guidata da ben ponderati indirizzi politici.

113
Questo atteggiamento di “incuria” verso la CEE si è manifestato sotto
varie forme: dalla mancanza di riunioni collegiali in seno al Governo per
definire la politica da perseguire a Bruxelles alla mancanza di
coordinazione in sede nazionale tra i vari ministeri interessati alla stessa
materia e tra Roma e la nostra Rappresentanza permanente presso la CEE;
dalla scarsa preoccupazione dimostrata spesso dal Governo in occasione
della attribuzione degli incarichi in seno alla Commissione della CEE alla
impreparazione con cui ci si è avvicinati a tante attrattive.
Passando a motivazioni meno periferiche e scendendo al cuore dei
problemi, possiamo individuare nella mancanza di un piano generale, di
una politica, di un disegno strategico, da seguire nei negoziati agricoli, la
ragione più profonda della modesta partecipazione italiana alla
elaborazione della Pac.
Questo non è altro, del resto, che un riflesso della mancanza di una vera
politica agricola all’interno del Paese. Come poteva l’Italia vantare un
bilancio più soddisfacente nei negoziati agricoli quando essa non ha avuto
nemmeno un’idea precisa del proprio sviluppo economico e tanto meno di
quello agricolo?
Dove la Francia poteva vantare il modello dei mercati centralizzati e dei
fondi nazionali di intervento, e 1’Olanda il modello della stretta
collaborazione tra associazioni dei produttori e agenzie governative,
l’Italia non aveva che la disorganizzazione dei mercati nella maggior parte
dei settori e una politica agricola sostanzialmente assistenzialistica.
I Paesi che, come la Francia e l’Olanda, avevano validi modelli da
proporre, hanno potuto contribuire alla elaborazione della Pac. Senza la
guida di una politica agricola nazionale i negoziatori italiani si sono
trovati, invece, spesso disorientati e incerti nelle iniziative.
Si spiega, perciò, perché hanno potuto essere commessi facili errori di
calcolo, come accadde a Colombo e a Rumor nei negoziati del 1962 sulla
politica finanziaria. Si spiega anche perché essi si sono trovati spesso a
difendere le proposte della Commissione, senza poter proporre altre
alternative, come nei negoziati sugli ortofrutticoli e sul tabacco.
Ma quel che è grave non è soltanto che l’Italia sia giunta al filo di partenza
del processo di integrazione europea senza una vera politica agraria e in
condizioni di estrema debolezza strutturale. Questa è certamente una
carenza “storica” della nostra agricoltura che spiega la difficoltà iniziale di
adattamento agli indirizzi della Pac.

114
Quel che però è forse ancora più grave è il fatto che nemmeno il
progressivo inserimento della nostra agricoltura nella realtà europea abbia
stimolato, sul piano interno, quelle riforme in grado di porla a livello delle
agricolture europee più avanzate e, sul piano comunitario, una
partecipazione improntata alle reali esigenze della nostra agricoltura, del
resto già enunciate a Stresa, e cioè: una politica che consentisse un
adattamento strutturale delle agricolture più deboli, ed in particolare di
quella italiana, per rimuovere o attenuare i fattori di differenziazione delle
strutture produttive e dei costi di produzione; una politica dei prezzi
orientata al miglioramento della produttività; tutto questo nel quadro di
una politica regionale che attenuasse gli squilibri e di una politica sociale
che ponesse rimedio problemi emergenti dagli interventi sulle strutture
agricole.
Se sul piano comunitario è possibile far valere qualche attenuante, ciò è
meno facile sul piano della politica interna, dove intera rimane la
responsabilità di una politica agricola altrettanto fallimentare.
Tutto questo chiama in causa precise responsabilità politiche cui non si
può fare a meno di far riferimento. Anzitutto i partiti, primi fra tutti quelli
di governo ed in particolar modo la Democrazia Cristiana. Al di là dei
soggettivi apprezzamenti di schieramento, è un fatto che la gestione della
politica agricola italiana sia stata, nell’ultimo dopoguerra, un dominio
pressoché esclusivo del partito di maggioranza relativa.
Basti dire che, se si esclude una breve parentesi, durata dal 16 dicembre
1945 al 1° luglio 1946, di attribuzione del dicastero dell’agricoltura al
comunista Fausto Gullo, mai, nei 25 governi repubblicani, si è avuto il
caso di un ministro dell’agricoltura che non fosse democristiano.
D’altra parte, non solo la politica agricola, ma l’intera politica comunitaria
è stata un monopolio pressoché assoluto degli uomini politici
democristiani. E’ giusto quindi che la Democrazia Cristiana porti la parte
più gravosa di responsabilità per i nodi non sciolti della nostra agricoltura
e per quanto di fattibile e di utile non è stato fatto a livello comunitario.
E’ nella carenza della politica agricola di questo partito che possiamo
dunque individuare uno dei punti deboli della partecipazione italiana alla
Pac. Improntata ad una ideologia “ruralistica” di vecchia marca cattolica,
questa politica ha perseguito per anni 1’obiettivo di mantenere legato sulla
terra un ceto agricolo, spesso inevitabilmente destinato a rimanere assistito
perché sotto ogni limite di valida imprenditorialità.
E’ comprensibile, perciò, che una siffatta politica si conciliasse meglio con
una politica comunitaria dei prezzi e dei mercati, piuttosto che con una

115
politica di riforma delle strutture fondiarie, che avrebbe significato la
confisca di una parte di quella iniziativa nazionale gelosamente gestita in
chiave assistenzialistica e paternalistica. Del resto, il rifinanziamento nel
1971 della legge emanata nel 1965 per la formazione delle cosiddetta
“piccola proprietà coltivatrice”, non è che la riconferma di una linea
chiaramente divergente da quella, eppure sposata nello stesso anno a
Bruxelles, dell’eliminazione degli ostacoli strutturali.
Ma anche le altre forze di governo, come del resto quelle di opposizione,
non sono immuni da colpe in ordine alla politica agricola nazionale e alla
Pac.
In tutti i partiti, compresa la Democrazia Cristiana, si possono notare,
comunque, negli ultimi anni, sintomi di resipiscenza e momenti di
riflessione autocritica, da cui è sperabile l’agricoltura possa ritrarre
qualche giovamento.
Dopo i partiti, le organizzazioni professionali agricole. Le considerazioni
che possono essere fatte al riguardo non sono gran che diverse, almeno per
le grandi linee, da quelle che potrebbero farsi per i partiti. Ciò perché,
come ha osservato Bino Olivi, 1’Italia vanta le organizzazioni
professionali agricole più politicizzate d’Europa, o meglio, quelle che
mantengono più stretti rapporti con i partiti politici.
A questa regola non si sottrae pressoché nessuna delle varie organizzazioni
che vantano una rappresentanza professionale in agricoltura: la Coltivatori
Diretti, organizzazione collaterale della Democrazia Cristiana, alla quale
fornisce qualche milione di voti e una settantina, tra deputati e senatori,
oltre al 70-80% dei ministri dell’agricoltura succedutosi dal dopoguerra;
l’Alleanza Nazionale dei Contadini, l’organizzazione più importante della
sinistra, collegata soprattutto col PCI e col PSI; la Confagricoltura, che per
collocazione politica si può considerare vicina al Partito Liberale; l’UCI
(Unione Coltivatori Italiani), praticamente affiliata al PSI; e così per altre
organizzazioni.
Accanto a queste organizzazioni professionali e, sotto certi aspetti, al di
sopra di esse, è necessario collocare un’altra organizzazione che, per
quanto non strettamente professionale, ha rappresentato nelle vicende
dell’agricoltura italiana del dopoguerra uno dei più potenti gruppi di
pressione. La Federazione italiana dei consorzi agrari, praticamente
egemonizzata dal gruppo dirigente della Coltivatori Diretti e della
Confagricoltura, ma spesso portatrice di una propria linea politica, quasi
sempre esclusivamente improntata ad una logica di puro profitto
imprenditoriale.

116
E’ lontana da noi l’ambizione di descrivere il ruolo svolto da ciascuna di
queste organizzazioni nelle vicende della Pac; del resto, quando se n’è
data l’occasione, non abbiamo mancato di farvi riferimento in sede di
analisi dei vari negoziati agricoli. Anche se a rischio di una notevole
semplificazione, non possiamo però esimerci dall’individuare
nell’atteggiamento mantenuto soprattutto da talune di queste
organizzazioni di fronte all’elaborazione della Pac un altro dei punti deboli
della partecipazione italiana alla costruzione di una politica comune più
vicina ai reali interessi dell’agricoltura italiana.
Anche in questo caso occorre, comunque, distinguere vari livelli di
responsabilità, non fosse altro che per tener separati i meriti ed i demeriti
di chi ha condiviso col potere politico la responsabilità della politica
agricola nazionale e comunitaria e quelli di chi, invece, è stato tenuto alla
porta dell’una e dell’altra.
E’ di facile constatazione, infatti, che la politica agricola in Italia,
soprattutto fino alla fine degli anni Sessanta, sia stata un dominio
pressoché riservato della Coldiretti, della Confagricoltura e della
Federconsorzi, così, come non è un mistero che queste tre organizzazioni
monopolizzino ancora interamente la rappresentanza italiana nel COPA, il
Comitato delle organizzazioni professionali agricole della CEE, che
rappresenta gli interessi degli agricoltori presso gli organismi comunitari.
Del resto, per anni gli interessi di queste tre organizzazioni sono rimasti
coalizzati nel CIRAI, proprio per unificare le loro posizioni in materia di
politica agricola e per conseguire una maggiore capacità di pressione.
Ebbene, quasi tutta la storia della partecipazione italiana all’elaborazione
della Pac è da leggere in trasparenza con la storia della politica di queste
tre organizzazioni: non solo si scoprono le infinite consonanze esistenti tra
l’una e l’altra, ma si illuminano particolari piuttosto in ombra e divengono
più intellegibili le linee essenziali del disegno di politica agricola
perseguito dai negoziatori italiani a Bruxelles.
Così, il fatto che fino al 1964-65 il controllo della posizione italiana a
Bruxelles, anche in materia di Pac, sia stato in pratica quasi
esclusivamente di pertinenza del Ministero degli esteri, oltre che un
sintomo del valore politico che il governo attribuiva ai negoziati
comunitari è anche il riflesso dell’assenza, o quantomeno dello scarso
interesse, delle principali organizzazioni agricole italiane di fronte alle
decisioni comunitarie.
Quantomeno per una di esse, del resto, e cioè la Federconsorzi, la Pac,
così come si stava articolando, con la sua strumentazione di interventi sul

117
mercato nel1’ambito di una politica di alti prezzi dei cereali, rappresentava
quanto di meglio la Comunità potesse offrire. Quale detentrice della quasi
totalità delle attrezzature necessarie allo stoccaggio dei cereali, essa era
infatti divenuta, nel luglio 1962, l’organismo di intervento dello Stato
italiano per l’applicazione dei regolamenti comunitari sui cereali. E
questo, in termini economici, significava avere enormemente allargato la
sfera dei propri profitti.
Anche per la Confagricoltura, comunque, o meglio per le imprese più
moderne in essa rappresentate, la politica dei prezzi quale si stava
sviluppando a Bruxelles, offriva la possibilità di usufruire di enormi
rendite differenziali, derivanti dagli scarti di produttività esistenti rispetto
alle aziende a più alti costi, assunte a base per la fissazione dei prezzi
minimi.
E’ vero che questa organizzazione, soprattutto negli ultimi anni, si è andata
qualificando come la più strenua assertrice della Pac in Italia, ma
anch’essa si è mossa per anni quasi esclusivamente sul binario della
politica dei prezzi e dei mercati. L’intoccabilità di questa politica è stata,
anzi, uno dei principi guida della sua azione anche in tempi recenti,
quando tele politica è stata messa sotto accusa da varie parti e quando la
Pac è stata completata con la politica strutturale, la politica regionale, la
politica per le zone svantaggiate e la politica sociale.
Tutte queste forme di intervento, come del resto anche l’integrazione
diretta di reddito agli agricoltori più bisognosi, di cui si è parlato per
qualche tempo, anche se non sono mai stati cavalli di battaglia della
Confagricoltura (la politica strutturale lo è diventata, ma solo ad
approvazione avvenuta), sono ritenute ammissibili, purché non sia
intaccata la politica dei prezzi ed in ogni caso ad una condizione: che
venga rispettato, nella concessione degli aiuti economici da parte dello
Stato, un rigoroso criterio di selettività a favore delle sole aziende in grado
di svilupparsi o già sviluppate.
Per quanto riguarda la Coltivatori Diretti, si potrebbe ripetere quanto già
detto per la Democrazia Cristiana, di cui ha rappresentato non soltanto una
delle più potenti organizzazioni collaterali, ma anche una vera e propria
“centrale” ideologica in materia di politica agraria. In effetti, la stessa
concezione assistenzialistica e paternalistica dell’intervento pubblico in
agricoltura, che permea la nostra politica agraria di questo dopoguerra, è
di marca prettamente bonomiana.
L’agricoltura è stata e rimane, nell’ideologia di questa organizzazione, un
settore da “proteggere” con misure protezionistiche ed alti prezzi. Per anni

118
la preoccupazione principale di questa organizzazione è stata quella di
inserire i lavoratori agricoli, o meglio i coltivatori diretti, nel sistema di
sicurezza sociale che si andava sviluppando nel Paese, rivendicandone
successivamente la parità di trattamento previdenziale e assistenziale.
Sotto questo profilo la Coldiretti può vantare numerosi successi. Il fatto è
che, nonostante il suo peso politico ed organizzativo, la Coldiretti non ha
saputo o potuto determinare nel nostro Paese una politica agraria che, a
livello nazionale e a livello comunitario, affrontasse i nodi strutturali della
nostra agricoltura.
Certo, con i Piani Verde 1 e 2 si è fatto un notevole passo in avanti, se non
altro in termini di impegno finanziario, rispetto alla politica agraria degli
anni Cinquanta: ma anch’essi, però, si sono risolti in una serie di interventi
frammentari e dispersivi, inseriti in una logica, tutto sommato, ancora
assistenziale. Sul piano comunitario, peraltro, la Coltivatori Diretti si è
trovata spesso in trincee arretrate, a combattere, in nome di piccoli
agricoltori, battaglie di retroguardia, dietro quelle dei grandi interessi
cerealicoli-lattiero-zuccherieri europei: sostegno esasperato dei prezzi e
rigido protezionismo di tutto quello che si coltiva e si produce nella nostra
agricoltura.
Ogni accenno della Pac a battere nuove strade, oltre quella della politica
dei prezzi e dei mercati, è stato guardato con sospetto, freddezza e aperta
ostilità dai dirigenti di questa organizzazione, preoccupati di veder ridotto
il ruolo della politica dei prezzi. Questa, del resto, è stata difesa non tanto
perché debba servire da orientamento della produzione, come nello spirito
del Trattato, ma perché “il prezzo è il salario del contadino” e il salario
deve seguire i costi: in realtà, si può pensare, perché gli aumenti dei prezzi
per la massa dei piccoli coltivatori rappresentano una boccata di ossigeno,
effimera sì, ma sufficiente ad illuderli della loro vitalità.
Negli ultimi anni, comunque, il monolitismo ideologico di questa
organizzazione ha subito qualche crepa. Soprattutto ad opera
dell’organizzazione giovanile dei coltivatori diretti, è andata, infatti,
affermandosi ed allargandosi una dialettica interna che sembra voler
mettere in discussione alcuni dei canoni cui è stata improntata l’azione
politica della confederazione fin dalla sua fondazione: l’agricoltura,
settore da “assistere” e da “proteggere”; la chiusura od ogni iniziativa
veramente riformistica nelle campagne; le pregiudiziali ideologiche e
politiche per un’intesa con le altre forze professionali e sindacali operanti
in agricoltura, lo stesso collateralismo con la Democrazia Cristiana.

119
Passando ad un esame delle strozzature che, in sede nazionale, hanno
ostacolato, in questi anni, una più proficua utilizzazione delle possibilità
offerte dalla Pac alla nostra agricoltura, vari fattori possono essere
chiamati in causa.
V’è chi, guardando anche al di là dell’esperienza fornita dalla Pac, ha
ricollegato le difficoltà di applicazione delle decisioni comunitarie nel
nostro Paese ad un principio dominante nel pensiero giuridico italiano,
secondo il quale le attività amministrative ed i giudici possono applicare
solo il diritto che è stato “incorporato” nell’ordinamento giuridico
nazionale.
Da ciò è derivata la necessità di emanare leggi intese a “ratificare”
regolamenti comunitari, che negli altri Paesi sono invece direttamente
applicabili e non necessitano di ratifiche. Un’altra ragione che si può
addurre per spiegare i ritardi e le stesse inadempienze dell’Italia nella
realizzazione della Pac è il cattivo funzionamento delle strutture di
governo e di quelle amministrative nel nostro Paese.
E’ questa la strozzatura più rilevante, che impedisce la traduzione in
termini operativi entro tempi ragionevoli delle decisioni assunte a
Bruxelles. Ad essa occorrerebbe, in effetti, dedicare molto più che un
semplice accenno, se si considera che dalla rispondenza delle strutture
amministrative ai compiti postulati dalla Pac dipende, non soltanto
l’effettivo raggiungimento degli obiettivi fissati nelle decisioni
comunitarie, ma anche la possibilità di determinare a livello politico
orientamenti della Pac in direzione degli interessi della nostra agricoltura.
Non si dimentichi, infatti, che i ritardi italiani nell’applicazione delle
misure comunitarie hanno offerte spesso il destro ai nostri partner per
assumere posizioni di chiusura alle nostre istanze in materia di politica
strutturale, di politica regionale e di politica per le zone e i produttori
meno favoriti.
Accanto a questi fattori, altri se ne possono aggiungere: dalla lentezza
delle procedure parlamentari al vero e proprio boicottaggio in sede
esecutiva delle decisioni assunte in sede politica; dai conflitti di
competenza tra le varie strutture dello Stato alla vischiosità del quadro
politico; dalle difficoltà di bilancio, quando si tratta di assumere a carico
delle Stato una parte degli oneri previsti dagli interventi comunitari, alla
sopravvivenza di procedure amministrative arcaiche ed eccessivamente
formalistiche, ecc.
Quel che è certo, al di là della rilevanza di ciascuna di queste strozzature, è
che se non si sciolgono alla radice questi nodi, mille successi diplomatici e

120
politici a Bruxelles non faranno avanzare di un passo la nostra agricoltura
sulla strada dell’efficienza e il nostro Paese sulla strada dell’effettiva
integrazione con la parte più avanzata dell’Europa.

1) Gian Giacomo Dell’Angelo, La riorganizzazione del mercato


ortofrutticolo, Svimez, 1974.

121
Terza parte

Agricoltura mediterranea e politica agricola comune

123
La politica agricola comune e il suo impatto sull'agricoltura
mediterranea*
(Palma de Mallorca, marzo 1982, originale in francese)

L'agricoltura nell'economia delle regioni mediterranee

Nonostante gli sforzi di industrializzazione compiuti negli ultimi decenni,


l'agricoltura svolge ancora un ruolo importante nell'economia delle regioni
mediterranee. Per alcune di esse, l'agricoltura è addirittura la principale
fonte di occupazione, se non di reddito. Così, ad esempio, la manodopera
agricola rappresenta, in media, il 27% degli occupati attivi nelle regioni
del Mezzogiorno, ovvero più del triplo della media comunitaria (8,2% nel
1977). Ma questo livello viene superato in molte di queste regioni, come
Molise, Basilicata o Puglia, in cui l'attività agricola occupa dal 30 al 40%
della popolazione attiva. L'occupazione agricola è molto importante anche
in alcune regioni mediterranee della Francia, come la Corsica, la
Linguadoca e il Midi-Pirenei, che impiegano una forza lavoro agricola che
è la metà della media comunitaria.

Come spesso accade, l'importanza dell'occupazione agricola nelle regioni


mediterranee riflette i fenomeni di sottoccupazione, che in queste regioni
raggiunge livelli significativi. Così, ad esempio, la sottoccupazione
colpisce circa 860.000 agricoltori delle regioni del Mezzogiorno (ovvero
circa il 60% di tutte le aziende agricole di queste regioni). Quest'ultimo è
importante anche nella maggior parte delle regioni mediterranee francesi
(dal 25 al 50% del totale).

L'importanza relativa dell'agricoltura in queste regioni è dimostrata anche


dalla quota considerevole del reddito complessivo derivante da questo
settore: infatti, mentre il settore “agricoltura, silvicoltura e pesca” fornisce
a livello comunitario solo il 4% circa del prodotto interno lordo, il reddito
agricolo è da 3 a 4 volte superiore nella maggior parte delle regioni
mediterranee. Ma, ovviamente, a causa della bassa produttività, dei livelli
di sottoccupazione e delle strutture produttive meno favorevoli che
caratterizzano l'agricoltura in queste regioni, la proporzione del reddito

* Relazione presentata alla 8 a Udienza parlamentare europea pubblica del


Consiglio d’Europa “Problemi dell’agricoltura mediterranea – Contributo delle
tecnologie”, Palma de Mallorca, 23 e 24 marzo 1982.

125
agricolo sul reddito totale è molto lontana dall'importanza
dell'occupazione agricola. Ciò si riflette anche nel reddito agricolo pro-
capite, che nella maggior parte delle regioni mediterranee è a livelli ben al
di sotto della media comunitaria.

Se prendiamo come indicatore del reddito il valore aggiunto lordo per


unità di lavoro-anno, possiamo ad esempio notare che questo è, nelle
regioni mediterranee, a livelli inferiori al 75% della media comunitaria,
ma difficilmente raggiunge il 30% nelle regioni come il Molise o la
Basilicata, dove l'attività agricola gioca un ruolo fondamentale. L'adesione
della Grecia alla Comunità dal 1° gennaio 1981 ha inoltre accresciuto
l'importanza relativa dell'agricoltura nell'economia delle regioni
mediterranee. Un terzo della popolazione attiva greca è infatti impiegato
nell'agricoltura, ovvero quattro volte la media comunitaria, ma in diverse
regioni, come Peloponneso, Tessaglia e Macedonia, occupa più della metà
della popolazione attiva e fornisce più di un terzo del prodotto regionale.

Specificità e problemi dell'agricoltura mediterranea

Come dimostrato da altre relazioni presentate nell'ambito di questa 8a


Audizione del Consiglio d'Europa, l'agricoltura mediterranea è
caratterizzata da una serie di particolarità e di problemi specifici che
contribuiscono a rendere la sua situazione ancora più precaria e il suo
sviluppo più difficile. In generale, non si tratta solo di handicap naturali e
strutturali, ma anche di difficoltà socio-economiche, rigidità negli
orientamenti produttivi, assenza di attività alternative all'interno del settore
agricolo e al di fuori di questo, ecc.

Senza pretendere di elencarli tutti qui, possiamo tuttavia affermare che


questi diversi fattori pongono l'agricoltura mediterranea in condizioni di
partenza relativamente meno favorevoli rispetto a quelle della maggior
parte delle regioni continentali. Questa situazione si riflette sull'efficacia
della politica agricola comune in queste regioni, e in particolare della
politica dei prezzi e dei mercati, poiché quest'ultima necessita di adeguate
strutture di produzione e di commercializzazione per poterne dispiegarne
meglio gli effetti, il che non è il caso della maggior parte delle regioni
mediterranee.

Inoltre, va riconosciuto che la politica agricola comune, per molteplici


ragioni, dovute in particolare al ritardo con cui le organizzazioni comuni
di mercato sono state applicate ai prodotti mediterranei, alle debolezze dei
meccanismi di sostegno previsti da alcune di esse e al ruolo marginale

126
della politica socio-strutturale, è stata per lungo tempo incapace di
risolvere validamente le difficoltà in gioco.

Se, invece, confrontiamo questa situazione con i vantaggi che le regioni


più ricche della Comunità hanno potuto trarre dalla PAC, per la natura
della loro produzione (cereali, latte e zucchero) e per la natura delle
organizzazioni comuni dei mercati, ci si può anche chiedere se la politica
dei prezzi e dei mercati non abbia essa stessa contribuito all'aumento delle
disparità tra le regioni mediterranee e quelle continentali.

A ciò si aggiunga il fatto che l'agricoltura mediterranea si è trovata più


direttamente esposta alle conseguenze della progressiva apertura e delle
condizioni preferenziali del mercato comunitario accordate ai prodotti
agricoli dei paesi del bacino del Mediterraneo, in particolare a seguito
dell'adozione da parte della Comunità, nei primi anni '70, dell'approccio
globale mediterraneo. Possiamo quindi concludere che i problemi
dell'agricoltura mediterranea non sono solo di origine interna, cioè legati
alle proprie specificità, ma anche di origine esterna, cioè derivanti da
alcuni aspetti delle politiche comunitarie.

Abbiamo così brevemente abbozzato i problemi agricoli delle regioni


mediterranee. Sarebbe però arbitrario isolare completamente il problema
dello sviluppo agricolo di queste regioni dal problema più generale del
loro sviluppo economico. Infatti, se è vero che l'agricoltura svolge un
ruolo essenziale in queste regioni, bisogna anche riconoscere che il
problema dello sviluppo a cui sono confrontate le regioni mediterranee è,
ovviamente, un problema agricolo, ma è anche un problema di sviluppo
complessivo della loro economia.

Per rendersene conto basta, ad esempio, ricordare che il PIL pro capite
nella Comunità è 2,5 volte superiore a quello del Mezzogiorno e 3 volte
superiore a quello della maggior parte delle regioni greche. È chiaro, in
queste condizioni, che la politica agricola da sola non può risolvere un
problema di tale portata e gravità, che richiede uno sforzo coordinato e
sostenuto da parte di tutte le politiche nazionali e comunitarie. È in questa
prospettiva che da alcuni anni si orienta l'azione comunitaria a favore delle
regioni mediterranee.

127
La politica agricola comune dei prezzi e dei mercati e l'agricoltura
mediterranea

Come altre politiche comuni, la politica agricola comune si è basata per


lungo tempo sull'assioma che l'instaurazione di un mercato unico di vaste
dimensioni e l'adozione di una politica uniforme dei prezzi e dei mercati
nella Comunità avrebbe determinato la naturale riduzione delle differenze
regionali esistenti al suo interno. L'apertura delle frontiere avrebbe dovuto,
infatti, avere ripercussioni notevoli sulla specializzazione produttiva delle
diverse regioni secondo le proprie particolari vocazioni e quindi sul tenore
di vita dei produttori.

I problemi dell'agricoltura nelle regioni mediterranee avrebbero così


trovato una soluzione quasi spontanea per l'allargamento del mercato delle
sue produzioni più tipiche; questo, tanto più che, dal punto di vista dei
suoi orientamenti produttivi, questi ultimi erano complementari piuttosto
che concorrenti con le agricolture del nord Europa. Se, quindi, questi
fossero stati portati a diventare i fornitori privilegiati dell'Europa di
cereali, latte e carne, niente avrebbe potuto essere più naturale che
aspettarsi un fenomeno simile dal lato delle regioni mediterranee per
quanto riguarda le loro specifiche vocazioni: in particolare frutta e ortaggi,
agrumi, vino, olio d'oliva.

Questa filosofia è quella che è rimasta a lungo predominante in materia di


politica agricola comune, e più in particolare per quanto riguarda la
politica dei prezzi e dei mercati che, fin dall'inizio, ne è stata la
componente principale. Ciò si riflette ancora più chiaramente
nell'organizzazione comune dei mercati di alcuni prodotti mediterranei, in
particolare vino, frutta e verdura.

Nel caso di questi prodotti, infatti, la preoccupazione principale, non solo


della Comunità, ma anche dei principali paesi produttori, è stata quella di
liberalizzare al più presto gli scambi all'interno del mercato comune per
poter beneficiare dei vantaggi naturali e delle condizioni climatiche di cui
godono le regioni mediterranee rispetto alle regioni continentali. Questa
liberalizzazione avrebbe dovuto essere accompagnata da norme sulla
qualità dei prodotti e incoraggiarne il miglioramento.

Dal punto di vista della protezione esterna, data l'opportunità di mantenere


determinati flussi commerciali con i paesi terzi, questa avrebbe dovuto
essere assicurata esclusivamente da dazi doganali fissi, mentre in altri
settori, ad esempio, quello dei cereali, erano previsti prelievi variabili , che

128
rappresentano la differenza tra il prezzo praticato sul mercato mondiale e il
prezzo all'interno della Comunità. Inoltre, nella fase iniziale
dell'organizzazione comune dei mercati in questi settori, non era previsto
alcun tipo di intervento diretto sul mercato da parte delle autorità
pubbliche, mentre per altri prodotti, come cereali, zucchero e prodotti
lattiero-caseari, gli acquisti pubblici, che entrano in gioco quando il prezzo
di mercato scende al di sotto di un certo livello, hanno fornito un efficace
supporto ai prezzi alla produzione.

In conclusione, per due dei settori produttivi più importanti per


l'agricoltura mediterranea (vino e settore ortofrutticolo), il regime di
mercato previsto dalla politica agricola comune si è ispirato al più liberale
articolo 40 del Trattato, quello delle regole comuni di concorrenza, mentre
il commercio con i paesi terzi è stato ostacolato solo da dazi doganali
bassi. Tutti gli altri settori, invece, hanno beneficiato, dall'avvio della PAC,
di regimi più o meno "interventisti" e più o meno "protezionisti" per la
produzione interna.

A parte l'esagerata importanza attribuita alla liberalizzazione degli scambi


come elemento fondamentale dell'organizzazione comune dei mercati,
diversi fattori politici ed economici hanno contribuito a determinare tale
concezione. Tra questi:

- la difficoltà di organizzare i mercati della maggior parte dei


prodotti mediterranei secondo lo schema previsto per i prodotti con
la massima garanzia. Così, ad esempio, nel caso di frutta e verdura,
essendo questi prodotti per lo più deperibili, è difficile o quasi
impossibile garantirne la conservazione su larga scala e a lungo
termine, come nel caso dei cereali o dello zucchero. Inoltre, non
esiste un vero mercato mondiale per la maggior parte di questi
prodotti;

- la frammentazione dell'offerta e l'enorme molteplicità dei


prodotti, delle varietà e delle qualità, costituiscono altrettante
difficoltà aggiuntive per un'efficiente organizzazione del mercato,
in particolare nel caso dell'ortofrutta e del vino;

- un altro fattore che ha giocato un ruolo determinante a questo


riguardo è l'assenza, a livello nazionale, di una vera organizzazione
di mercato in questo settore prima della messa in atto della PAC,
che contrasta ad esempio con la situazione esistente, e che è molto
più favorevole in tutti Stati membri, per i produttori di cereali;

129
- il divario temporale tra l'adozione delle organizzazioni comuni di
mercato per i prodotti continentali e quella per i prodotti
mediterranei ha, inoltre, contribuito a frenare ogni tentazione di
estendere a questi ultimi una articolata regolamentazione del
mercato che, nel caso dei primi, si rivelava già da alcuni anni, non
solo molto onerosa per le finanze comunitarie, ma spesso
responsabile anche della formazione di cospicue eccedenze di
produzione. Questo, tanto più che la Comunità a Sei disponeva già
di un'eccedenza globale di ortaggi ed era molto vicina
all'autosufficienza nel caso della frutta fresca;

- infine, la determinazione dei principali paesi importatori del nord


Europa a mantenere e sviluppare i tradizionali flussi commerciali
con i paesi del bacino del Mediterraneo.

Ortofrutticoli

Date queste preoccupazioni e le caratteristiche del mercato ortofrutticolo, i


principali obiettivi perseguiti dalle prime normative di mercato in questo
settore sono stati il miglioramento dell'offerta attraverso l'emanazione di
standard di qualità comuni e quello della sua razionalizzazione stimolando
l’organizzazione economica e professionale dei produttori. Queste prime
misure, che ancora oggi costituiscono degli elementi fondamentali
dell'organizzazione comune di mercato in questo settore, furono integrate
verso la fine degli anni '60 da un sistema di intervento sul mercato e di
restituzioni all'esportazione per i nove prodotti ritenuti più importanti per
il reddito dei produttori e per i quali possono esserci difficoltà a trovare
sbocchi sui mercati (1). Il regime di intervento ha introdotto la possibilità,
al verificarsi di una situazione eccedentaria, di intervenire in modo
flessibile grazie al meccanismo di ritiro da parte delle associazioni di
produttori, la cui creazione è stata incoraggiata e sovvenzionata.

Parallelamente è stato avviato un programma d'azione volto alla


riconversione varietale degli agrumi di qualità inferiore e al miglioramento
delle strutture di produzione, trasformazione e commercializzazione in

(1) Si tratta, più precisamente, dei seguenti prodotti: cavolfiori e


pomodori, per ortaggi; pesche, pere, mele, uva da tavola, arance,
mandarini, limoni, per la frutta.

130
questo settore. Inoltre è stato introdotto un “premio di penetrazione” volto
ad agevolare gli sbocchi degli agrumi italiani sui mercati comunitari.

Vino

Un approccio più o meno simile è stato seguito per la regolamentazione


del mercato del vino, altro prodotto di grande importanza per le regioni
mediterranee. Nel corso degli anni '60, infatti, tale regolamento era
essenzialmente incentrato sul miglioramento della qualità delle
produzioni, sulla progressiva apertura delle frontiere all'interno della
Comunità, sulla redazione dei bilanci previsionali e sull'istituzione di un
catasto vitivinicolo.

Solo nel 1970 questo regime è stato integrato da un sistema di prezzi e di


intervento, da norme relative alla produzione e al controllo dei vigneti,
nonché da un regime relativo agli scambi con i paesi terzi. Anche in questo
caso si tratta di un regime molto flessibile, i cui principali meccanismi di
sostegno del mercato entrano in gioco solo in condizioni economiche
particolarmente difficili.

Olio d'oliva

L’organizzazione comune del mercato oleario è stata fin dall'inizio, dal


punto di vista del produttore, più strutturata e più soddisfacente. Questo
settore ha interessato, nella Comunità a 6, circa un milione di famiglie,
tutte localizzate in Italia. In questo caso è stato possibile tenere conto di
una serie di fattori propri a questa coltura: a) l'importanza regionale del
settore, sia dal punto di vista economico che sociale; b) l'assenza di
alternative all'olivicoltura nella maggior parte delle regioni in cui è
concentrata la produzione di olive, c) la situazione deficitaria di olio
d'oliva nella Comunità; d) la crescente concorrenza esercitata dagli oli di
semi, sia dal punto di vista dei prezzi al consumo, sia dal punto di vista
delle abitudini alimentari.

Di fronte a tale situazione, erano disponibili due soluzioni per strutturare


l'organizzazione comune dei mercati nel settore dei grassi, e dell'olio
d'oliva. In particolare:
- proteggere la produzione comunitaria di olio d’oliva e di burro
attraverso una tassa sugli oli vegetali e marini (compresa la
margarina ) volta a ridurre il divario di prezzo con i prodotti
concorrenti;

131
- oppure allineare i prezzi di questi ultimi a quelli del mercato
mondiale e tutelare i produttori comunitari di olio d'oliva e di semi
oleosi attraverso un sistema di “deficiency payment”, cioè di aiuto
diretto ai produttori.

E’ la seconda soluzione che è stata adottata all'inizio dell'organizzazione


comune del mercato dei grassi. Va tuttavia ricordato che questa opzione è
tornata ad essere rilevante in vista dell'adesione della Spagna alla
Comunità. Lo strumento volto a garantire un reddito equo ai produttori di
olio d'oliva è l'aiuto alla produzione concesso agli olivicoltori sulla base
della produzione di olio. L'organizzazione comune dei mercati è inoltre
accompagnata da un sistema d'intervento che consente ai produttori che
non hanno trovato sbocchi sul mercato di percepire un prezzo d'intervento.

Di conseguenza, il produttore è sicuro di poter contare almeno su un


importo equivalente al prezzo d'intervento, più l'aiuto alla produzione ma,
in generale, quando vende il suo prodotto sul mercato, riceve, in linea di
principio, un importo complessivo maggiore. In realtà, si è scoperto che
l'aiuto alla produzione, a causa delle difficoltà amministrative di gestione
di tale sistema nello Stato membro più interessato, veniva spesso pagato
con anni di ritardo, il che riduceva notevolmente la funzione economica di
tale misura.

Tabacco

Un altro settore produttivo di particolare importanza per alcune regioni


mediterranee e per il quale è stato adottato un sistema misto di
organizzazione comune dei mercati (ossia un regime di intervento
combinato con un regime di “deficiency payment”) è il tabacco.
L'obiettivo perseguito dall'organizzazione comune dei mercati in questo
settore era infatti quello di garantire un reddito adeguato a quasi 120.000
tabacchicoltori della Comunità senza, tuttavia, impedire alle industrie
manifatturiere di approvvigionarsi di tabacco greggio da produttori esteri,
dato che la Comunità ha un forte deficit di tabacco.

Il principale strumento previsto a tal fine è la concessione di un premio


agli acquirenti di tabacco comunitario corrispondente alla differenza tra il
prezzo comunitario e il prezzo del tabacco importato da paesi terzi. Lo
scopo di questi premi è di garantire una certa preferenza per il tabacco
comunitario rispetto al tabacco importato, nonché la garanzia del
pagamento ai produttori di un prezzo il più vicino possibile a un prezzo
indicativo e consentire ai produttori di realizzare un reddito equo. Inoltre è

132
stato previsto un sistema di intervento per lo smaltimento di quantità o
qualità del prodotto che non avrebbero trovato sbocchi sul mercato.

Grazie a questo insieme di misure è stato possibile mantenere il prezzo di


acquisto del tabacco comunitario al livello dei prezzi del mercato
internazionale. Non è stato quindi necessario introdurre alle frontiere
alcuna protezione diversa dalla tariffa doganale comune, che è stata
peraltro progressivamente rivista al ribasso a favore dei paesi in via di
sviluppo, grandi produttori di tabacco.

L'azione comunitaria negli anni '70

I problemi delle regioni mediterranee, ed in particolare quelli del loro


sviluppo agricolo, hanno assunto una nuova dimensione politica ed
economica negli anni '70, e in particolare a partire dal 1975. Infatti, da un
lato, la Comunità ha potuto rendersi conto non solo che le misure già
adottate nell'ambito della politica agricola comune dei prezzi e dei mercati
erano insufficienti e talvolta inefficaci di fronte ai problemi dell'agricoltura
mediterranea, ma anche che il divario tra queste regioni e le regioni
continentali rischiava di allargarsi ulteriormente se non si fossero adottate
iniziative appropriate il prima possibile.

D'altra parte, in un momento in cui la Comunità stava intraprendendo la


strada di una più ampia e profonda cooperazione con i paesi del bacino del
Mediterraneo, compreso il settore agricolo, si è dovuto fare i conti con una
recrudescenza del problema derivante dalle concessioni commerciali e
tariffarie a favore di questi paesi. Infatti, trattandosi in particolare di
prodotti di cui le regioni mediterranee erano i principali produttori
all'interno della Comunità, tali accordi rischiavano di accentuare ancora di
più le difficoltà strutturali e commerciali alle quali l'agricoltura delle
regioni mediterranee doveva far fronte.

Per evitare, da un lato, un rallentamento della politica estera mediterranea


e, dall'altro, per facilitare l'integrazione delle regioni mediterranee nel
resto d'Europa, la Comunità ha intrapreso, a metà degli anni '70, un’azione
di grande rilievo a favore di queste regioni, azione che è tuttora in corso e
che mobilita in modo convergente i vari strumenti finanziari della
Comunità. Per quanto riguarda più in particolare la politica agricola
comune, l'azione comunitaria si è sviluppata sia sul fronte della politica
dei mercati che su quello delle misure strutturali.

133
Misure di mercato

In questo quadro, miglioramenti importanti sono stati adottati


nell'organizzazione comune dei mercati dei prodotti più importanti per le
regioni mediterranee (in particolare frutta e verdura, vino, olio d'oliva).
Ciò, con l'obiettivo di razionalizzare la produzione, incentivare i consumi,
sostenere meglio il reddito dei produttori nonché migliorare l'efficacia
della preferenza comunitaria, evitando al contempo di favorire la
formazione di nuove eccedenze strutturali e aumentare eccessivamente la
protezione esterna, che avrebbero creato difficoltà nelle relazioni della
Comunità con i paesi terzi. Più precisamente, nel settore degli
ortofrutticoli freschi, sono state adottate misure adeguate al fine, da un
lato, di incoraggiare ulteriormente la costituzione di organizzazioni dei
produttori e, dall'altro, di migliorare la preferenza comunitaria.

Ma è soprattutto nel settore dei prodotti ortofrutticoli trasformati che sono


state introdotte le novità più importanti. Le misure adottate per alcuni di
essi (ortofrutticoli surgelati o conservati, succhi di frutta, derivati del
pomodoro, pesche e prugne) mirano a rafforzare la protezione esterna,
incoraggiare la trasformazione, sostenere il reddito degli agricoltori e la
promozione delle esportazioni verso i mercati dei paesi terzi.

Tra queste misure, la più importante è la concessione di aiuti per la


trasformazione di alcuni prodotti ortofrutticoli tipici delle regioni
mediterranee (in particolare i pomodori), a condizione che le imprese di
trasformazione si impegnino a corrispondere ai produttori del prodotto
fresco un prezzo minimo e che i rapporti tra le due parti si basino su
regolari contratti di fornitura.

Questo aiuto, che attualmente corrisponde, per i pomodori, a circa un terzo


del valore del prodotto finito, è destinato a consentire all'industria
comunitaria di mantenere un prezzo competitivo rispetto ai prezzi praticati
dai paesi terzi per i prodotti trasformati, garantendo nel contempo
un'adeguata remunerazione ai produttori di prodotti freschi. Questa misura
è diventata così efficace in pochi anni che il suo costo ammonta
attualmente a circa 550 milioni di UCE all'anno, ovvero il 4% della spesa
del FEOGA-Garanzia.

Un altro settore il cui regime di mercato ha subito una profonda revisione


durante la seconda metà degli anni '70 è stato quello dell'olio d'oliva. La
novità più importante del nuovo regime consiste nell'introduzione di un
regime di aiuti al consumo volto a rendere il prezzo dell'olio di oliva più

134
competitivo rispetto a quello degli oli di semi e di conseguenza a frenare
la progressiva riduzione del consumo di olio di oliva.

Ma è nel settore vitivinicolo che i regolamenti di base, adottati nel 1970,


hanno subito gli adeguamenti più radicali e che i meccanismi di intervento
sono diventati più diversificati. In effetti, non solo sono state ampliate le
possibilità di intervento, sotto forma di aiuti all'ammasso privato di vino
da tavola e mosto d'uva, ma sono stati anche introdotti aiuti all'utilizzo dei
mosti, volti a migliorare la concorrenza dei mosti prodotti nella CEE e
l'aiuto al travaso, il cui scopo è aiutare i viticoltori a sgomberare i tini alla
vigilia della vendemmia.

Inoltre, all'inizio della campagna si può decidere una distillazione


preventiva, con l'obiettivo di svuotare il mercato dei vini mediocri, nonché
una distillazione eccezionale nel caso in cui tutte le altre misure si
rivelassero insufficienti. Come rimedio estremo al persistere di una
situazione di debolezza dei prezzi, per il vino da tavola in questione può
essere fissato un "prezzo minimo" che implica il ricorso a una nuova
distillazione e il divieto di qualsiasi transazione commerciale al di sotto di
tale prezzo. Come si vede, si tratta di una vera e propria rivoluzione
rispetto al regime piuttosto lassista delle prime regole di mercato nel
settore vitivinicolo.

Misure strutturali

Ancora più importanti, almeno finanziariamente, sono le misure strutturali


che fanno parte di quello che spesso viene chiamato il "pacchetto
Mediterraneo". Esse ruotano attorno a una serie di azioni pluriennali il cui
costo complessivo ammonta a circa 1500 milioni di ECU.

Ovviamente non è possibile elencarle tutte qui. Ci limitiamo quindi a


ricordare quelle che ci sembrano più significative.

Tra queste misure, la più importante dal punto di vista finanziario è quella
relativa al programma per l'accelerazione e l'orientamento delle operazioni
irrigue collettive nel Mezzogiorno, il cui costo a carico del FEOGA è stato
fissato in 260 milioni di UC per un periodo di 5 anni. Un importo
pressoché identico (244 milioni di ECU) è destinato a promuovere la
creazione, il riconoscimento e il funzionamento delle associazioni di
produttori e delle loro federazioni. Un altro provvedimento finanziario ed
economico particolarmente importante è quello che modifica in senso più
favorevole le condizioni di applicazione nel Mezzogiorno e nel sud della

135
Francia del regolamento n. 355/77 relativo all'azione comune per il
miglioramento delle condizioni di trasformazione e commercializzazione
di prodotti agricoli prodotti. Il costo aggiuntivo previsto a carico del
FEOGA è di 210 milioni di UC in cinque anni.

Infine, possiamo citare, come esempio di azione a livello di una zona,


conformemente con l'approccio globale al problema dello sviluppo delle
regioni mediterranee auspicato dalla Commissione, l'adozione di un
regolamento volto al miglioramento delle infrastrutture rurali nelle regioni
mediterranee. Si tratta, infatti, di andare oltre l'ambito strettamente
agricolo per agire sull'intero territorio, nell'ottica del miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro degli agricoltori e delle loro famiglie.

Tutte queste misure sono, inoltre, in linea con le azioni avviate dalla
Comunità all'inizio degli anni '70, con l'emanazione di tre direttive socio-
strutturali, che furono integrate nel 1975 da una direttiva sulla montagna e
le altre zone svantaggiate, in cui le regioni mediterranee dovrebbero essere
particolarmente interessate.

Inoltre, va ricordato che è nel 1975 che viene creato lo strumento


finanziario a vocazione regionale per eccellenza, ovvero il Fondo Europeo
di Sviluppo Regionale e che anche il Fondo Sociale è diventato nel
frattempo, dopo la riforma del 1970, uno strumento con un carattere
regionale molto marcato.

Così, non solo l'azione comunitaria a favore delle regioni mediterranee ha


potuto contare su risorse molto maggiori rispetto a quelle provenienti dai
soli fondi agricoli, ma è stato anche possibile inserire queste azioni in una
prospettiva più ampia: quella di un approccio intersettoriale ai problemi di
sviluppo delle regioni mediterranee che, come si è già detto, sono per loro
natura problemi di sviluppo in senso lato e non solo problemi agricoli.

Sviluppi recenti

Nonostante i progressi negli anni '70, il problema agricolo delle regioni


mediterranee all'inizio degli anni '80 è ancora di attualità. Ciò è dovuto,
da un lato, agli attuali sviluppi in termini di nuovi orientamenti per la
politica agricola comune e alle conseguenze che questi potrebbero avere
per l'agricoltura mediterranea, e dall'altro alla prospettiva di un
aggravamento di alcuni problemi a seguito dell’allargamento della
Comunità.

136
Alla vigilia della nuova fase che si apre per la politica agricola
mediterranea, la Commissione ha voluto ribadire, nell'ambito della sua
relazione sul mandato del 30 maggio 1980, i due grandi principi ai quali la
Comunità deve costantemente ispirarsi nel suo contributo alla ricerca di
una soluzione alle difficoltà dell'agricoltura mediterranea: equivalenza ed
equità. "L'equivalenza richiede che, conformemente ai principi
fondamentali dei Trattati, la politica agricola comune si applichi senza
determinazione ai prodotti mediterranei. L'equità impedisce che i
cambiamenti necessari portino ad un deterioramento delle condizioni di
vita di coloro che li subiscono." (1) .

Inoltre, proseguendo il suo approccio globale allo sviluppo delle regioni


mediterranee, la Commissione intende presentare al Consiglio, entro la
fine del 1982, programmi mediterranei a medio termine che
comprenderanno azioni sul reddito, sul mercato, sulla produzione e sulle
strutture. Per quanto riguarda più in particolare il settore agricolo, che
nonostante tutto resta il più importante, la Commissione ritiene che
l'obiettivo debba puntare all'«equivalenza, negli effetti della PAC, tra le
regioni della Comunità, tenendo conto della loro stessa natura» (2).

Per quanto riguarda le azioni relative al mercato, la Commissione prevede,


in questa fase:

- l'incentivazione della produzione e la massima ricerca delle


possibili complementarità (nuove varietà di frutta e ortaggi,
rimboschimento di una vasta area di terreno);

- una politica di "label" privilegiando la produzione "naturale";

- misure di incentivazione dei consumi;

- migliore applicazione della preferenza comunitaria e una più


efficace politica di esportazione.

Nel campo delle strutture, l'obiettivo sarà, in particolare, una migliore


organizzazione della professione agricola, rafforzando le strutture di
commercializzazione, incoraggiando l'insediamento dell'industria
agroalimentare vicino alle fonti di produzione agricola nonché una politica

(1) Relazione della Commissione sul mandato del 30 maggio 1980, COM(81)300
fin.

(2) Programmes méditerranéens, Lignes d'action, COM(81)637 fin.

137
contrattuale che garantisca l'approvvigionamento al trasformatore e il
reddito al produttore. Nei settori extra-agricoli, questi programmi
dovrebbero favorire lo sviluppo del turismo, soprattutto nelle zone rurali, e
l'artigianato, facilitare l'utilizzo di nuove energie e sostenere gli sforzi di
ricerca indispensabili per lo sfruttamento ottimale delle potenzialità delle
regioni mediterranee nei vari settori.

Per realizzare questi programmi, la Comunità ha mobilitato tutti i mezzi e


tutti i fondi a sua disposizione: FEOGA, in particolare la sezione
«Orientamento», Fondo regionale, Fondo sociale, Banca europea per gli
investimenti e altri strumenti finanziari. Questo insieme di azioni, secondo
la Commissione, dovrebbe consentire alle regioni mediterranee di avviare
un processo di recupero tanto più giustificato e urgente in quanto la
Comunità deve far fronte a responsabilità ancora maggiori a causa del suo
allargamento a sud e della nuova dimensione che il problema delle regioni
mediterranee assumerà nel quadro di una Comunità allargata.

È in questa prospettiva, ma non solo per questa, che la Commissione ha


già trasmesso al Consiglio, lo scorso ottobre, una nuova serie di proposte
volte a modificare e a rafforzare le organizzazioni di mercato nel settore
del vino, dei prodotti ortofrutticoli e dell’olio d’oliva.

Per quanto riguarda quest'ultimo settore, tenuto conto della situazione


largamente eccedentaria in cui si troverà la Comunità a seguito
dell'adesione della Spagna, la Commissione ha elaborato una strategia
globale i cui elementi essenziali sono i seguenti:

- introduzione di un meccanismo di smaltimento delle eccedenze di


olio d'oliva salvaguardando il reddito degli attuali produttori,
modificando il regolamento sugli aiuti al consumo, in modo da
garantire che il rapporto tra i prezzi dell'olio d'oliva e quelli dei
semi oleosi concorrenti a livello di consumo non superi 2:1;

- negoziati con i paesi terzi interessati, volti a garantire l'attuale


equilibrio tra il consumo di olio d'oliva e quello di altri grassi;

- eventuale introduzione di una tassa sugli oli vegetali, da definire


sulla base degli esiti delle azioni sopra indicate.

Nel settore vitivinicolo, la Commissione propone una revisione del


meccanismo di intervento al fine di consentire, in particolare, la
distillazione preventiva obbligatoria in caso di vendemmia abbondante.
Altre misure sono previste anche per quanto riguarda la limitazione degli

138
impianti, l'arricchimento del raccolto, il rafforzamento dei controlli e
l'innalzamento del titolo alcolometrico.

Nel settore ortofrutticolo, la Commissione propone di rafforzare l'azione


delle associazioni di produttori, nonché il controllo in termini di standard
di qualità. Si propone inoltre di migliorare il sistema di intervento in caso
di crollo dei prezzi e di rafforzare e adeguare le misure previste dal piano
di ristrutturazione del settore agrumicolo, in vigore dal 1969, in modo da
renderlo più efficace e più direttamente orientato alle esigenze delle
regioni in cui è necessario un aiuto comunitario.

Conclusioni

Abbiamo così passato in rassegna i principali sviluppi della politica


agricola comune per quanto riguarda i prodotti mediterranei dalla sua
messa in atto in poi. È difficile valutare l'impatto di questa politica
sull'agricoltura mediterranea, soprattutto perché la maggior parte delle
misure adottate sono relativamente recenti e i loro risultati possono essere
valutati solo a lungo termine. Inoltre, è quasi impossibile isolare l'effetto
specifico della PAC da tutti i fattori che incidono sullo sviluppo regionale
dell'agricoltura (fattori naturali, infrastrutture socioeconomiche, strutture
produttive e di commercializzazione, politiche nazionali, ecc.).

Si può certamente affermare che sono stati compiuti passi significativi non
solo verso una migliore integrazione delle regioni mediterranee nel resto
d'Europa, ma anche e soprattutto verso un rafforzamento della solidarietà
tra paesi e regioni della Comunità, che costituisce uno degli pilastri
fondamentali su cui poggia la costruzione europea.

Nonostante tutti questi sforzi, è tuttavia certo che la problematica delle


regioni mediterranee continuerà a rimanere uno dei banchi di prova più
rivelatori per la credibilità politica della Comunità dentro e fuori i suoi
confini, in particolare nel quadro di una Comunità allargata ai tre nuovi
paesi del bacino del Mediterraneo. È su questo fronte che si giocheranno
in avvenire le partite decisive per il futuro dell'integrazione europea.

139
Situazione e prospettive dell'agricoltura nelle regioni
mediterranee della Comunità. Possibili linee di azione.*
Febbraio 1990
(Originale in francese)

Introduzione

La questione dello sviluppo agricolo nelle regioni mediterranee della


Comunità è stata sollevata a più riprese negli ultimi vent'anni a livello
comunitario. Numerose sono le misure e i programmi d'azione posti in
essere in questo periodo, nell'ambito delle varie politiche comuni e in
particolare della politica agricola comune (PAC), per rispondere ai
problemi specifici che queste regioni devono affrontare sia nel settore
agricolo che con riferimento alla loro economia nel suo complesso.

All'inizio degli anni '90, le preoccupazioni che sono state alla base delle
varie misure adottate in passato restano immutate, nonostante i progressi
finora compiuti in alcuni ambiti. Inoltre, nuovi elementi, di
preoccupazione o di speranza, sono apparsi in questi ultimi anni
all'orizzonte dello sviluppo economico di queste regioni che richiedono
una riflessione più ampia e che tengano conto sia dei tradizionali freni allo
sviluppo di queste regioni che dei cambiamenti in atto o prevedibili nello
scenario comunitario e internazionale.

Questa riflessione è già stata avviata dalla Commissione quando si


interrogava sul futuro delle regioni svantaggiate nel contesto
dell'attuazione dell'Atto unico e del completamento del mercato unico. Ne
è derivata anche una profonda riforma dei fondi strutturali comunitari e un
aumento delle risorse finanziarie a loro disposizione.

Per quanto riguarda, tuttavia, l’agricoltura, un'analisi approfondita delle


prospettive di sviluppo delle produzioni mediterranee nel contesto attuale
e prevedibile dei mercati agricoli non è stata ancora effettuata. La maggior
parte delle analisi svolte in questo campo risalgono, infatti, alla metà degli
anni '70, cioè ad un'epoca in cui molti nuovi fattori che oggi giocano un
ruolo determinante per lo sviluppo agricolo di queste regioni non erano
ancora presenti.

* Rapporto interno alla Direzione Generale Agricoltura della Commissione


Europea

141
Il presente rapporto tenta di soddisfare questa esigenza esaminando i
vincoli e i vantaggi dell'agricoltura nelle regioni mediterranee e
suggerendo i mezzi d'azione che sembrano attualmente più appropriati per
superare le barriere e sostenere gli sforzi di adattamento necessari.

Esso è diviso in due parti: la prima, di natura orizzontale, fornisce una


panoramica dei problemi, degli sviluppi attuali e delle possibili linee
d'azione a livello comunitario. La seconda, di carattere più settoriale,
approfondisce la situazione e le prospettive dell'agricoltura nelle regioni
mediterranee nei principali settori produttivi (Questa seconda parte, per la
sua ampiezza, è omessa in questa pubblicazione).

Parte 1

Agricoltura mediterranea: quale futuro?

1. Panoramica dell'agricoltura mediterranea

In assenza di una più fine delimitazione e dei necessari dati statistici, si


può definire "agricoltura mediterranea" quella delle regioni PIM per
l'Italia e la Francia (1), nonché tutta l'agricoltura spagnola, portoghese e
greca.

Sebbene giustificata da molte ragioni economiche e agronomiche, questa


delimitazione ha qui solo un valore illustrativo. Inoltre, un'eventuale
modifica di tale delimitazione non rischia di portare a cambiamenti
sostanziali nelle analisi che seguono e nelle conclusioni che se ne possono
trarre.

Nel complesso, le regioni mediterranee, così definite, rappresentano il


42,6% della superficie agricola utilizzata (SAU) della Comunità dei
Dodici ma solo il 31,7% della produzione agricola finale della Comunità,
mentre la forza lavoro agricola raggiunge in queste regioni il 64,2% e il
numero di aziende agricole supera il 65% del totale per EUR-12.
----------------
(1) In Italia, le regioni PlM comprendono il Mezzogiorno, la Liguria, la
Toscana, l'Umbria, le Marche, il Lazio, oltre a parte della regione Emilia-
Romagna. In Francia, le regioni PIM comprendono Aquitania, Midi-
Pirenei, Linguadoca-Rossiglione, Provenza - Alpi - Costa Azzurra,
Corsica, nonché i dipartimenti della Drôme e dell'Ardèche.

142
Le debolezze strutturali dell'agricoltura mediterranea appaiono ancora più
evidenti se si fa riferimento ad altri parametri, tutti abbastanza sfavorevoli
all’agricoltura del sud della Comunità. Così, ad esempio, la superficie
media per azienda è di soli 8,3 ha per azienda al sud, mentre supera i 21 ha
per azienda al nord (2).

Analogamente, la produzione agricola finale è di circa 10.000 ECU per


azienda nelle regioni mediterranee, mentre nelle regioni settentrionali
supera i 40.000 ECU. Gli scarti in termini di reddito agricolo (valore
aggiunto lordo per unità di lavoro) sono anch’essi assai marcati. Infatti, il
VAL/UTA (3) è in media di 9.000 ECU nelle regioni meridionali, mentre
supera i 17.000 ECU nel nord.

Il divario effettivo è probabilmente maggiore alla luce delle seguenti due


considerazioni:

- va anzitutto ricordato che il concetto di reddito agricolo adottato, e che


peraltro è l'unico per il quale sono disponibili dati a livello regionale,
comprende, tra l'altro, la remunerazione del fattore lavoro che è più
importante in agricoltura al sud, mentre i consumi intermedi (che sono più
importanti al nord) sono detratti;

- in secondo luogo, va sottolineato che la nozione di unità di lavoro annua


utilizzata in questa analisi per misurare l'input di lavoro utilizzato nelle
aziende agricole impedisce di tenere conto della sottoccupazione agricola
(o disoccupazione nascosta) che è ancora significativa nelle regioni
mediterranee (4).

------------------
(2) La forte predominanza delle piccole aziende nelle regioni mediterranee
è dimostrata anche dai seguenti dati: le aziende di meno di 5 ha
rappresentano il 90% del totale in Portogallo, il 78% in Italia e Grecia, il
63% in Spagna e il 55% nel Sud della Francia.
(3) VAL: Valore aggiunto lordo; UTA: unità di lavoro annuale (a tempo
pieno).
(4) Secondo l’indagine sulle strutture agricole del 1985, si può stimare
che, per EUR-10, la sottoccupazione agricola varia dal 20 al 30% nelle
regioni mediterranee francesi, dal 30 al 40% in Grecia, dal 40 al 50%
nell'Italia centrale e meridionale, ad eccezione della Calabria e della
Sicilia, dove la sottoccupazione agricola supera il 50%. È invece inferiore
al 10% nel Benelux, nella regione parigina e in Baviera.

143
Comunque sia, i redditi agricoli nel sud sono in media molto inferiori a
quelli del nord della Comunità, in un rapporto che va da 1 a 2 e da 1 a 3 a
seconda delle regioni ma che supera 1 a 15 in alcune regioni. Inoltre, al
sud la maggior parte delle aziende agricole è concentrata nelle classi a
basso reddito, mentre al nord generalmente avviene il contrario. Sulla base
delle risultanze contabili per l'esercizio 1986/1987, è stato infatti possibile
stimare che più dei due terzi delle aziende agricole del sud avevano un
reddito inferiore alla media comunitaria, mentre al nord tale valore era
inferiore al 50%.

Questi divari di reddito sono dovuti a diversi fattori. Tra questi vanno
ricordate, in primo luogo, le strutture produttive, più favorevoli al nord che
al sud della Comunità, in particolare per le dimensioni delle aziende. Un
altro fattore, incidentalmente legato al precedente, è rappresentato
dall'eccesso di manodopera agricola che si osserva ancora nelle regioni
meridionali rispetto a quelle del nord della Comunità, nonostante un forte
esodo agricolo.

Anche la composizione della produzione agricola gioca un ruolo


importante. Lo stesso vale per gli handicap dovuti alla topografia e alla
natura del suolo. Invece le disparità di produttività per la stessa coltura e
per zone di produzione comparabili non sono determinanti, in quanto
spesso al sud si osservano rese per ettaro paragonabili, se non superiori, a
quelle del nord della Comunità.

Una delle caratteristiche dell'agricoltura mediterranea è la forte


predominanza delle produzioni vegetali. Queste rappresentano, infatti, i
due terzi della produzione agricola finale, mentre la produzione animale
occupa il restante terzo. Nelle regioni settentrionali questa situazione è
esattamente capovolta.

Rispetto alla Comunità nel suo insieme, il valore della produzione agricola
del Mezzogiorno rappresenta, in media, il 31,7% del totale comunitario,
ma il 44,1% per i prodotti orticoli e appena il 20,6% per i prodotti animali.
I settori tipicamente "mediterranei" sono gli agrumi e l'olio d'oliva, la cui
produzione è concentrata esclusivamente nel sud della Comunità, le piante
tessili e il tabacco, per i quali il sud fornisce rispettivamente il 91,6% e
l'86,3% del valore della produzione comunitaria. Gli altri settori
prevalentemente mediterranei sono: frutta e verdura fresca (57,9% del
totale comunitario), vino (53,8%) e carne ovina (58%). A questi va
aggiunto il frumento duro, la cui produzione resta sostanzialmente limitata

144
alle regioni meridionali della Comunità, anche se negli ultimi anni si è
assistito ad un lento spostamento verso il Nord.

Il settore di gran lunga più importante per l'agricoltura mediterranea è


l'ortofrutta fresca: da solo esso rappresenta un quarto del valore della
produzione agricola finale. Anche il settore dei cereali fornisce un
contributo elevato al valore totale della produzione agricola nelle regioni
mediterranee (11%). Una situazione analoga si registra nel settore del vino
(9,2%).

Anche la produzione animale gioca un ruolo non trascurabile ma, come


abbiamo già notato, la sua quota è notevolmente inferiore rispetto alle
regioni settentrionali, ad eccezione della carne ovina. È importante,
inoltre, aggiungere che, anche se possono sembrare relativamente
marginali per l’insieme delle regioni mediterranee, anche altre produzioni
possono svolgere un ruolo determinante nell'economia di alcune di esse: è
il caso, ad esempio, dell'olio d’oliva, del tabacco, del cotone.

La specializzazione dell'agricoltura mediterranea verso la produzione


vegetale e più in particolare verso alcune di esse, deriva sia dalle
condizioni climatiche temperate di cui godono queste regioni, sia dalle
caratteristiche agronomiche e pedologiche. I fattori strutturali giocano
anch’essi un ruolo decisivo.

A tal proposito, non va dimenticato che circa il 75% della superficie


agricola di queste regioni si trova in zone montane o sfavorite (1) e che, a
causa di vincoli climatici e agronomici (alte temperature, mancanza di
acqua, condizioni sfavorevoli naturali, ecc.), in molte aree non esistono
vere alternative a determinati tipi di produzione. È il caso, ad esempio,
degli ulivi, ma talvolta anche dei vigneti o del grano duro. Questo,
ovviamente, riduce le possibilità di riconversione verso altre colture e le
possibilità di adeguamento dell'offerta ai cambiamenti del mercato, a
meno che la produzione non venga completamente abbandonata.

Tra gli altri elementi di rigidità socio-strutturale che gravano


sull'agricoltura delle regioni mediterranee, si possono ricordare in
particolare: le ridotte dimensioni fisiche ed economiche delle aziende
agricole, spesso associate ad un'eccessiva frammentazione, la quasi totale
------------
(1) Le zone montane o disagiate rappresentano circa l'80% della superficie
agricola del Mezzogiorno, il 78% in Grecia, il 76% in Portogallo, il 62%
in Spagna e circa il 60% nel Mediterraneo meridionale della Francia.

145
mancanza di mobilità delle produzioni, la mancanza di formazione per gli
agricoltori, l'assenza o l'inefficienza delle reti di commercializzazione.
Quest'ultimo handicap è tanto più grave in quanto si tratta spesso di
prodotti deperibili come frutta e verdura, e per il fatto che l'agricoltore non
ha altra scelta che consegnare immediatamente i suoi prodotti ai
compratori e distributori più vicini.

A tutti questi fattori, propri dell'agricoltura, vanno aggiunti quelli che


riguardano il contesto economico generale in cui si svolge l'attività
agricola in queste regioni: ritardo nello sviluppo economico, ridotte
alternative occupazionali non agricole, mancanza di servizi pubblici,
infrastrutture insufficienti, distanza dai mercati di consumo, ecc.

Il clima resta una risorsa importante dell'agricoltura mediterranea, non


solo perché generalmente favorevole a produzioni che necessitano di
molto soleggiamento, ma anche per la possibilità che offre di praticare la
produzione in bassa stagione o, comunque, prima che nel resto della
Comunità. Tuttavia, l'importanza di questo fattore non deve essere
sopravvalutata.

L'esperienza dimostra, infatti, che, a determinate condizioni, l'agricoltura


può liberarsi da questo vincolo, in particolare grazie alla coltivazione sotto
vetro, molto sviluppata nel nord Europa. Al riguardo è sufficiente
ricordare che i Paesi Bassi da soli hanno esportato nel 1987 circa il 57%
delle esportazioni totali comunitarie di pomodori (compreso il commercio
intracomunitario).

Non va inoltre dimenticato che il vantaggio climatico può essere


ampiamente neutralizzato dalla mancanza di acqua, fenomeno abbastanza
diffuso nel sud della Comunità, sia per l'assenza di precipitazioni, sia per
le difficoltà di sviluppo dell'irrigazione.

Finora si è posto l'accento soprattutto sulle caratteristiche comuni


all'agricoltura in tutte le regioni mediterranee (clima, topografia,
orientamento della produzione agricola, ecc.). Non va però dimenticato
che il sud della Comunità non è una regione omogenea, né dal punto di
vista agricolo né da quello del contesto generale in cui si colloca. Se
osserviamo più da vicino l'agricoltura di queste regioni, possiamo infatti
osservare una grande diversità non solo tra gli Stati membri, ma anche
all'interno di ciascuno Stato membro.

146
Queste diversità riguardano non solo le strutture produttive (la dimensione
delle aziende, ad esempio, varia in media tra 4-5 ha in Grecia, Portogallo e
Mezzogiorno e 14-16 ha in media in Spagna e nel sud della Francia), ma
anche quelle del marketing (la Spagna è all'avanguardia in questo campo),
l'organizzazione dei produttori, l'integrazione dell'agricoltura nel
complesso agroalimentare, le infrastrutture disponibili, ecc. Queste
diversità si riflettono sulla competitività dell'agricoltura nelle varie regioni
mediterranee e di conseguenza sulle prospettive di sviluppo
dell'agricoltura in ciascuna di queste regioni.

2. Panoramica delle misure adottate in passato a favore dell'agricoltura


mediterranea.

Come già accennato, negli ultimi quindici anni sono state attuate a livello
comunitario diverse misure e programmi d'azione per sostenere e
incoraggiare lo sviluppo agricolo nelle regioni mediterranee. La maggior
parte di queste iniziative sono state intraprese contemporaneamente al
rinnovo degli accordi di cooperazione con i paesi del bacino del
Mediterraneo o all'apertura di negoziati per l'allargamento della Comunità
alla Spagna e Portogallo. Il loro obiettivo principale era aiutare
l'agricoltura mediterranea a prepararsi meglio ad affrontare le conseguenze
che potrebbero derivare da questi cambiamenti.

Tralasciando un certo numero di misure più specifiche, sia di mercato sia


di natura strutturale, le azioni a favore dell'agricoltura mediterranea si
possono articolare attorno a tre assi principali:

1) le misure che fanno parte del “Pacchetto Mediterraneo” presentato dalla


Commissione nel 1977, e comprendente due parti:
• una componente "mercato", comprendente misure volte a
migliorare l’organizzazione del mercato di alcuni prodotti
mediterranei (ortofrutticoli, vino, olio d'oliva), tra cui quelle
relative all'introduzione di un regime di aiuti per taluni
ortofrutticoli trasformati (in particolare concentrato di pomodoro,
pomodori pelati, succo di pomodoro e pesche sciroppate),
l'introduzione di aiuti al consumo di olio d'oliva e misure volte a
migliorare la preferenza comunitaria nel settore degli ortofrutticoli
freschi;
• una componente "strutture", comprendente misure volte al
miglioramento delle infrastrutture rurali nelle regioni mediterranee,
per accelerare il programma irriguo nel Mezzogiorno, per
incoraggiare, con misure aggiuntive a quelle già in vigore per

147
l'intera Comunità, la costituzione di organizzazioni di produttori e
per rafforzare il sostegno al miglioramento delle strutture per la
trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, in
particolare nelle regioni mediterranee.

2) Le modifiche apportate tra il 1981 e il 1983 alle organizzazioni dei


mercati ortofrutticoli e vitivinicoli in vista dell'allargamento della
Comunità a Spagna e Portogallo, per garantire che tale allargamento
avvenga senza danni troppo gravi per questi settori sensibili
dell’agricoltura comunitaria e dell’agricoltura mediterranea in particolare
(modifica dell'«acquisito comunitario»). Tra le misure adottate si
ricordano in particolare:
- il rafforzamento dell'azione delle associazioni di produttori e il
miglioramento del sistema di intervento in caso di crollo dei
prezzi, per quanto riguarda gli ortofrutticoli,
- introduzione della distillazione preventiva obbligatoria all'inizio
della campagna al fine di ridurre le eccedenze nel settore
vitivinicolo.

3) L'adozione nel 1985 del Regolamento 2088/85 che istituisce i


Programmi Integrati Mediterranei (PIM), con l'obiettivo di contribuire, in
vista dell'adesione di Spagna e Portogallo alla Comunità, alla
modernizzazione dell'economia e in particolare dell'agricoltura in Grecia,
nonché in alcune regioni della Francia e dell'Italia. Nell'ambito di questi
programmi di sviluppo integrato, che si avvalgono di tutti gli strumenti
finanziari strutturali comunitari, un posto speciale è stato riservato allo
sviluppo dell'agricoltura praticamente in tutti i PIM finora approvati.

È estremamente difficile valutare i risultati di questi programmi e di queste


misure sull'agricoltura mediterranea e sull'economia di queste regioni.
Inoltre, nel caso dei PIM, l'attuazione di molti di essi non è nemmeno
iniziata o è così recente da rendere impossibile una valutazione anche
provvisoria di tali misure.

Tuttavia si possono fare le seguenti considerazioni generali:

• in particolare nel caso dei PIM, l'esperienza dimostra che gli


interventi finalizzati alla realizzazione delle infrastrutture non
incontrano particolari difficoltà e stanno procedendo come
previsto. D'altra parte, le azioni che implicano iniziative
individuali o misure innovative incontrano spesso difficoltà di
avviamento o sono del tutto assenti (es. introduzione di nuove

148
colture, animazione socio-economica, ricerca agricola, ecc.). Le
difficoltà sono tanto maggiori quanto più si riducono i livelli di
efficienza delle strutture amministrative e dei servizi di sviluppo
agricolo;

• le misure che prevedono il cofinanziamento nazionale incontrano


spesso difficoltà, a causa dei problemi di bilancio che tali misure
sollevano negli Stati membri meno prosperi. Gli incentivi alla
creazione e al funzionamento di organizzazioni di produttori del
settore ortofrutticolo hanno consentito la creazione, in molti settori,
di queste nuove strutture in passato praticamente assenti. Possono
svolgere un ruolo essenziale nell'agevolare l'integrazione delle
aziende agricole nel mercato, dato che il loro scopo è, in
particolare, quello di favorire la concentrazione dell'offerta e la
regolarizzazione dei prezzi, nonché quello di fornire mezzi tecnici
adeguati per il confezionamento e la commercializzazione dei
prodotti. In realtà, si è scoperto che, non solo poche delle
organizzazioni dei produttori create nelle regioni mediterranee
assolvono in modo soddisfacente tutte queste missioni, ma alcune
di esse non soddisfano nemmeno le condizioni fondamentali per
essere riconosciute come tali.

• il regime di aiuti alla trasformazione di alcuni ortofrutticoli ha


contribuito al mantenimento e allo sviluppo della produzione in
questione. A seguito della comparsa di eccedenze di produzione, è
stato tuttavia necessario rallentare l'aumento della produzione
introducendo soglie di garanzia o quote;

• Il regolamento (CEE) 355/77 si è rivelato uno strumento essenziale


per migliorare le strutture di trasformazione e commercializzazione
nel settore agricolo, non solo per il sud ma anche per il nord della
Comunità. Tuttavia, il sud non è stato l'unico a beneficiarne.
Infatti, dalla sua adozione, le regioni mediterranee hanno ricevuto
un volume di crediti di circa 1,2 miliardi di ecu, vale a dire meno
della metà dei crediti complessivi concessi nel periodo per la
Comunità nel suo insieme.

• Le misure di mercato adottate negli anni hanno mostrato


un'efficacia piuttosto disomogenea e spesso insufficiente alla luce
dell'effettivo sostegno delle produzioni mediterranee interessate e
soprattutto della scarsa protezione esterna concessa a tali
produzioni. D'altra parte, alcune misure, come ad esempio

149
l'intervento, hanno contribuito ad allontanare gli agricoltori dal
mercato e a dissuaderli dal cercare nuovi sbocchi e le necessarie
riconversioni varietali.

3. Il nuovo contesto

All'inizio degli anni '90, la questione dello sviluppo agricolo nelle regioni
mediterranee resta una questione prioritaria, sia per le autorità pubbliche
nazionali e regionali che per la Comunità. Non solo la maggior parte dei
problemi socio-strutturali che avevano giustificato l'adozione di misure
specifiche per queste regioni non hanno potuto essere risolti, ma si sono
aggiunti negli ultimi anni nuovi elementi di preoccupazione a quelli del
passato, che potrebbero rendere ancora più difficile perseguire una
migliore integrazione delle regioni mediterranee nel resto della Comunità,
in particolare per quanto riguarda l'agricoltura.

Questi nuovi fattori sono essenzialmente i seguenti:

a) la saturazione dei mercati agricoli e la comparsa di eccedenze strutturali


crescenti sia sul mercato comunitario che a livello mondiale, a seguito di
un aumento della produzione molto più sostenuto rispetto all'evoluzione
della domanda solvibile. In queste condizioni, dal 1984 è stato necessario
riformare in profondità la politica agricola comune per adeguare gli
strumenti a disposizione alle nuove esigenze.

In questo contesto, la maggior parte dei prodotti mediterranei è stata


oggetto di una politica dei prezzi ancora più restrittiva rispetto a tutti i
prodotti agricoli, nonché di meccanismi di regolazione dell'offerta che
limitano direttamente o indirettamente le possibilità di ulteriore sviluppo
della produzione (grano duro, olio d'oliva, vino, tabacco, semi oleosi,
frutta e verdura, carne ovina, ecc.).

Per quanto riguarda, inoltre, le produzioni più tipicamente continentali


(colture in pieno campo e produzioni animali), l'agricoltura mediterranea
si confronta sia con le conseguenze dirette dell'applicazione di misure
volte a un migliore equilibrio dei mercati agricoli, sia con la concorrenza
delle regioni di produzione più competitive, situate nel nord della
Comunità;

b) il completamento del mercato unico. La competizione tra produttori e


regioni di produzione è già relativamente avanzata all'interno
dell'agricoltura europea, grazie alla libera circolazione dei prodotti

150
agricoli, che è già stata ampiamente raggiunta. Tuttavia, l'eliminazione
degli ultimi ostacoli tecnici, in particolare in campo fitosanitario e
veterinario in vista del completamento del mercato unico, può avere
conseguenze significative sugli scambi intra-comunitari e, di conseguenza,
sulla localizzazione della produzione.

La conseguente completa apertura dei mercati nazionali porterà


inevitabilmente ad una maggiore concorrenza non solo sui mercati dei
paesi importatori, ma anche su quelli dei paesi esportatori, talvolta tutelati,
fino ad oggi, da normative fitosanitarie e veterinarie piuttosto restrittive. È
il caso, ad esempio, del settore ortofrutticolo, in cui il fenomeno più
eclatante dovrebbe essere l'apertura del mercato italiano alle importazioni
dalla Spagna, a seguito dell'eliminazione delle barriere fitosanitarie che
finora hanno protetto questo mercato.

c) la fine del periodo transitorio per Spagna e Portogallo e la progressiva


integrazione di questi due Stati membri nell'organizzazione comune dei
mercati dei prodotti più sensibili per le altre regioni mediterranee (in
particolare ortofrutticoli, vino, olio di oliva, ecc.). Al riguardo, non va
dimenticato che l'impatto dell'adesione di Spagna e Portogallo sui mercati
di questi prodotti sensibili è stato finora praticamente neutralizzato dalle
disposizioni previste dal Trattato sia in fase transitoria (ortofrutta), sia in
materia di "standstill" (olio d'oliva), sia, infine, in termini di gestione del
mercato (vino).

La maggior parte di queste disposizioni scadono, tuttavia, all'inizio degli


anni '90 o si stanno avvicinando alla loro naturale scadenza. Questo
significa che l'impatto dell'allargamento della Comunità a Spagna e
Portogallo sull'agricoltura delle altre regioni mediterranee comincerà a
farsi sentire solo nei prossimi anni, man mano che l'impatto delle misure
transitorie diminuisce e l’applicazione della PAC all'agricoltura spagnola
avrà espletato tutti i suoi effetti, soprattutto in termini di aumento di certe
produzioni.

d) l’evoluzione nelle relazioni internazionali della Comunità. La Comunità


è sempre più impegnata nel processo di liberalizzazione del commercio
mondiale di prodotti agricoli e di apertura dei suoi mercati ai prodotti di
paesi terzi. Queste tendenze dovrebbero intensificarsi nei prossimi anni e
dovrebbero avere ripercussioni significative sull'agricoltura europea nel
corso degli anni 90. La progressiva riduzione del sostegno all'agricoltura,
l'eliminazione di alcuni ostacoli tecnici agli scambi, le concessioni che la
Comunità accorda ai suoi partner, in particolare ai paesi ACP e a quelli del

151
bacino del Mediterraneo, costituiscono tanti vincoli esterni che
inevitabilmente influenzeranno non solo gli scambi, ma anche il livello di
produzione e la redditività di alcune colture nella Comunità.

In molti casi, i prodotti mediterranei sono al centro di questo processo di


progressiva apertura del mercato comunitario. Lo stesso vale per le
controversie commerciali che sempre più oppongono la Comunità ad
alcuni paesi terzi, e per le quali spesso le regioni mediterranee ne
subiscono le conseguenze (soia, pomodori, pasta, vino, ecc.). Infine, altri
due fattori, che possono incidere anche sull'agricoltura delle regioni
mediterranee vanno citati in tale contesto:

- la pressione sempre più frequente esercitata dai paesi del bacino del
Mediterraneo affinché possano migliorare il loro accesso al mercato
comunitario dei prodotti agricoli, per far fronte al deterioramento della
loro competitività a seguito dell'adesione della Spagna alla Comunità e in
conseguenza della fine del periodo transitorio previsto;

- la prospettiva di un ulteriore allargamento della Comunità verso sud.

In entrambi i casi, inoltre, la Commissione ha già avviato il processo di


revisione delle relazioni commerciali della Comunità con alcuni di questi
paesi. Così, nella sua comunicazione del novembre 1989 "Verso una
rinnovata politica mediterranea", la Commissione ha affermato, tra l'altro,
la sua volontà di mantenere o migliorare l'accesso di questi paesi al
mercato comunitario.

Inoltre, nel suo parere sulla domanda di adesione della Turchia alla
Comunità, la Commissione ha ricordato che il completamento nel 1995
dell'unione doganale tra la Turchia e la Comunità implica la revisione del
regime commerciale applicabile ai prodotti agricoli turchi. A questo
proposito, è davvero necessario sottolineare che la produzione
mediterranea sarà la più colpita da tutti questi sviluppi?

4. L’evoluzione della domanda

Le prospettive di evoluzione della produzione sono ormai strettamente


legate alla prevedibile evoluzione della domanda. Ciò vale, in particolare,
per le produzioni agricole nelle regioni mediterranee.

152
Le prospettive di sviluppo della domanda per la maggior parte dei prodotti
agricoli a livello comunitario sono fortemente condizionate
essenzialmente da quattro fattori:

a) il fattore demografico, che contrariamente al passato, non costituisce


più, soprattutto in alcuni Stati membri, un elemento dinamico
particolarmente significativo nello sviluppo del consumo complessivo di
prodotti alimentari. Per il prossimo decennio, infatti, si stima che la
popolazione della Comunità dei Dodici dovrebbe crescere ad un tasso
dello 0,2% annuo, mentre nel periodo 1960-80 è cresciuta ad un tasso
prossimo allo 0,7% annuo;

b) il miglioramento del potere d'acquisto dei consumatori. Questo fattore


ha svolto un ruolo decisivo in passato nell'aumento del consumo
individuale di prodotti agricoli nella Comunità. Attualmente ha
un'importanza relativamente minore, ad eccezione, tuttavia, di alcune
regioni e di alcune fasce della popolazione a reddito più basso. Questo
fattore influenza tuttavia le variazioni qualitative della domanda osservate
nel settore alimentare.

c) i livelli di consumo individuale già molto elevati e ormai prossimi alla


saturazione fisiologica;

d) i cambiamenti nelle abitudini dei consumatori, dettati o da cambiamenti


negli stili di vita, o da preoccupazioni dietetiche e sanitarie, o
dall'influenza esercitata dall'industria di trasformazione e dalla
distribuzione.

Alla luce di quanto sopra, è facile comprendere il rallentamento del tasso


di aumento del consumo di prodotti alimentari che si osserva da alcuni
anni nella Comunità, come del resto in tutte le economie sviluppate. È
significativo al riguardo che nella Comunità il consumo umano pro-capite
di cereali e patate sia in calo dall'inizio degli anni '50 e che il consumo
pro-capite di carne sia aumentato dell'1,2% annuo dal 1973 (ma dello
0,6% annuo dal 1980), mentre dal 1958 al 1973 era cresciuto ad un tasso
del 2,5% annuo.

Le prospettive a medio termine per il settore dei mangimi sono inoltre


abbastanza deludenti per quanto riguarda i cereali, mentre sono più
favorevoli per quanto riguarda i semi oleosi e le colture proteiche, che la
Comunità importa per la maggior parte da paesi terzi a dazi ridotti.

153
Gli usi industriali dei prodotti agricoli stanno attualmente suscitando
grandi speranze in alcuni ambienti europei. Tuttavia, senza sottovalutare le
possibilità che questo sbocco può offrire per determinati prodotti, non va
nemmeno sopravvalutata l'importanza da dare a questa forma di
smaltimento, a meno che non si sia disposti ad accettare una drastica
riduzione dei prezzi delle materie prime agricole oppure a istituire regimi
di sovvenzione molto costosi a sostegno dell'industria di trasformazione.

Comunque sia, sembra escluso che questi sbocchi possano offrire nuove
prospettive per l'agricoltura mediterranea, in quanto è soprattutto al nord
che si riscontrano le condizioni fondamentali per lo sviluppo di tali colture
e dei suoi usi (dimensione delle aziende agricole, presenza di industrie,
centri di ricerca, livello di formazione, ecc.).

Per quanto riguarda, più in particolare, i principali prodotti di interesse


delle regioni mediterranee, le prospettive di sviluppo della domanda
possono essere valutate come segue.

Il consumo di vini di qualità nella Comunità procede lentamente o è


relativamente stabile. D'altra parte, il consumo di vini da tavola è
fortemente diminuito negli ultimi quindici anni e dovrebbe continuare a
diminuire nei prossimi anni. Gli usi domestici non sovvenzionati sono
infatti passati da 105 milioni di hl all'inizio degli anni '80 a 96 milioni di hl
nel 1988 e dovrebbero attestarsi intorno agli 85 milioni di hl entro il
1995/96.

Il consumo comunitario di olio d'oliva è geograficamente concentrato nei


tre principali paesi produttori (Italia, Spagna e Grecia). In questi paesi
prevediamo un mantenimento o un leggero calo dei consumi, in
particolare in Spagna. In questo Stato membro, infatti, la competitività
dell'olio d'oliva rispetto agli oli concorrenti potrebbe deteriorarsi a partire
dal 1991, quando il mercato spagnolo dei semi oleosi non sarà più isolato
dal mercato mondiale da regole che esistevano prima dell'adesione e che
sono state estese fino alla fine del 1990 (“stand-still“). In alcuni paesi del
nord iniziano a dare i loro frutti le azioni di promozione dell'olio d'oliva e
si rileva un aumento dei consumi. Inoltre è stato relativamente facile
esportare recentemente una certa quantità di olio d'oliva verso i paesi terzi.

Per quanto riguarda il frumento duro, il consumo è in costante calo dalla


metà degli anni '70 e non si prevede un'inversione di tendenza, tanto più
che la qualità della produzione è notevolmente peggiorata negli ultimi
dieci anni.

154
La Comunità è globalmente deficitaria di tabacco, che importa, per circa
metà del suo fabbisogno al prezzo del mercato mondiale. Per molte
varietà, invece, ci sono problemi di commercializzazione, dovuti al fatto
che non soddisfano le preferenze dell'industria di trasformazione e i nuovi
vincoli imposti dalla lotta contro il cancro. È in corso un processo di
riconversione varietale verso le varietà più ricercate dal mercato, ma
questo processo presenta dei limiti agronomici ed economici. Inoltre, il
consumo complessivo di tabacco non dovrebbe aumentare in futuro, ma è
più probabile che diminuisca.

Gli ortofrutticoli sono il settore principale per l'agricoltura mediterranea.


Data la sua eterogeneità, è importante, inoltre, esaminarla più in dettaglio.
Per quanto riguarda, anzitutto, gli agrumi, il consumo complessivo di
arance (fresche e trasformate) è progredito in maniera spettacolare: da 3,3
milioni di t nel 1975 a 12 milioni di t nel 1987. Tale crescita è imputabile
unicamente all'aumento del consumo di succhi, in quanto il consumo di
arance fresche è relativamente stabile.

La crescita del consumo di succo d'arancia si basa quasi esclusivamente


sulle importazioni di succo concentrato, a prezzi molto bassi, in particolare
dal Brasile e dagli Stati Uniti. Il consumo di limoni è stabile, mentre è in
aumento quello dei piccoli agrumi, ad eccezione però dei mandarini, il cui
consumo sta praticamente scomparendo gradualmente.

Nonostante il miglioramento del tenore di vita, l'evoluzione delle abitudini


alimentari e l'allargamento della gamma di prodotti offerti ai consumatori,
il consumo di frutta fresca nella Comunità è rimasto fermo negli ultimi
quindici anni intorno ai 60 kg/testa. D'altra parte, il consumo pro-capite di
verdure fresche è aumentato di circa il 10-15% nel periodo. Tuttavia, a
differenza della frutta, il grado di auto-approvvigionamento comunitario in
questo settore supera l'autosufficienza.

La domanda è relativamente stazionaria per la frutta trasformata. E’ invece


in aumento per le verdure surgelate o pronte al consumo. Questo sviluppo
è dovuto alla ricerca del consumatore di una maggiore varietà di prodotti
conservati preparati e pronti per l'uso. A ciò si aggiunge il crescente
interesse del consumatore per un migliore equilibrio nutrizionale nonché
la necessità di disporre di prodotti che possano essere facilmente
conservati per un periodo relativamente lungo e che possano essere
facilmente utilizzati per la preparazione dei pasti.

155
Si tratta, quindi, di un mercato in piena evoluzione, non solo in termini di
quantità interessate ai diversi tipi di trasformazione, ma anche in termini di
valorizzazione nelle forme più disparate dei diversi prodotti di base. A tale
proposito, va ricordato che dei nuovi prodotti (cosiddetti della quarta o
della quinta gamma) sono comparsi recentemente sul mercato, prodotti
che utilizzano nuove forme di confezionamento che rispondono alle
esigenze del singolo consumatore oppure delle collettività.

5. Possibilità di sviluppo dell'agricoltura nelle regioni mediterranee

Da quanto precede risulta che, in generale, le possibilità di sviluppo


dell'agricoltura sono relativamente limitate in tutta la Comunità ed in
particolare nelle regioni mediterranee. Questa conclusione non significa
che l'agricoltura europea non possa migliorare le sue prestazioni sia in
termini di produttività e reddito, sia in termini di livelli di produzione.
Tuttavia, il modello di sviluppo agricolo seguito in passato dall'agricoltura
europea, che puntava principalmente sull'aumento dei volumi di
produzione, non è più adeguato al nuovo contesto in cui l'agricoltura deve
operare oggi.

La situazione eccedentaria in cui si trova la maggior parte dei mercati


agricoli, non solo a livello comunitario ma anche a livello mondiale, il
rallentamento della domanda solvibile che contrasta con il continuo
aumento delle rese, il deterioramento dei redditi agricoli nonostante
l'esplosione della spesa per il sostegno dei mercati, costituiscono altrettanti
fattori che consigliano di esplorare nuovi percorsi di sviluppo agricolo e di
valorizzazione della produzione.

Nell'attuale e prevedibile contesto dei mercati agricoli, è infatti importante


che gli agricoltori comunitari diano priorità alla qualità piuttosto che alla
quantità, alla riduzione dei costi di produzione piuttosto che all'aumento
dei consumi intermedi, alla razionalizzazione della gestione e alla ricerca
di nuovi mercati piuttosto che ripiegare sugli sbocchi istituzionali
(interventi, ritiri, ecc.).

Tali modifiche, unitamente alle misure di mercato e di natura socio-


strutturale, adottate negli ultimi anni al fine di facilitare l'adeguamento
dell'agricoltura europea alle nuove esigenze, possono offrire un margine
sufficiente per garantire uno sviluppo agricolo ancora relativamente
sostenuto anche senza che questo risultato sia ottenuto attraverso un
aumento della produzione. È probabile, tuttavia, che la maggior parte delle
aziende più efficienti preferirà continuare a perseguire l'obiettivo di

156
aumentare la produzione, soprattutto attraverso il miglioramento delle
rese, anche se ciò comporta un peggioramento dei prezzi e l’attivazione
delle sanzioni previste in caso di superamento delle soglie di produzione
fissate a livello comunitario.

Tale scelta potrebbe essere dettata o dalla mancanza di alternative colturali


e dalla necessità di valorizzare al massimo le risorse disponibili, oppure
dall'esistenza di margini di guadagno ancora relativamente elevati per le
aziende agricole più efficienti. Così, ad esempio, nel settore dei cereali si
può stimare che circa il 90% delle aziende cerealicole comunitarie sarebbe
in grado di far fronte a una riduzione del prezzo dei cereali fino al 15%,
senza che il loro reddito diventi negativo.

Per le aziende agricole meno efficienti, tuttavia, i margini di profitto sono


relativamente inferiori, o addirittura nulli. Infatti, a differenza del passato,
quando il sostegno dei prezzi era previsto a livello dei costi di produzione
dell'azienda marginale, che assicurava la sopravvivenza di tutte le aziende
comunitarie, in futuro il sostegno dei prezzi potrebbe diventare
insufficiente a coprire i costi di produzione delle aziende meno efficienti.

Queste aziende sarebbero tanto più marginalizzate nei settori con


stabilizzatori poiché quelli più efficienti continuerebbero a sviluppare la
loro produzione. Ciò si traduce in una doppia pressione sui prezzi che
accelererà il processo di ristrutturazione in corso e che si tradurrà, in molti
casi, nel puro e semplice abbandono della produzione nelle aziende più
fragili dal punto di vista della loro competitività o delle loro strutture di
produzione.

Questo fenomeno è destinato ad interessare ampiamente le regioni


mediterranee della Comunità, in particolare nei settori produttivi per i
quali sono in concorrenza con le regioni settentrionali della Comunità (ad
esempio, la produzione animale, le colture a pieno campo, ecc.). Si tratta,
peraltro, di un processo già avviato, ma destinato ad intensificarsi in futuro
man mano che aumenteranno le pressioni sui prezzi e che il processo di
ristrutturazione si accelererà.

Da tempo assistiamo a uno spostamento verso il nord della produzione,


che trova in queste regioni condizioni più favorevoli rispetto al sud per
svilupparsi. È il caso, ad esempio, dei prodotti lattiero-caseari, della carne
bovina, dell'allevamento suino e dell'allevamento di pollame. Questo vale
anche per la maggior parte dei cereali, compreso il frumento duro, che un
tempo era limitato alle regioni tradizionali dell'Europa meridionale.

157
Un altro esempio è quello della barbabietola da zucchero, che in molte
regioni del Mediterraneo sta scomparendo a causa della concorrenza
Nord-Sud che si esercita sia a livello agricolo che a livello di industria di
trasformazione. Anche alcune produzioni tipicamente mediterranee non
sfuggono a questo processo. Oltre al frumento duro, già citato, la cui
produzione, grazie allo sviluppo di nuove varietà, ha ormai raggiunto le
regioni del nord Europa, possiamo citare l'esempio del pomodoro e della
lavorazione degli agrumi.

Per quanto riguarda, anzitutto, il pomodoro, accanto al mantenimento e


allo sviluppo significativo di tale produzione in alcune regioni
settentrionali (in particolare nel Benelux), si segnala anche lo spostamento
verso nord che si osserva all'interno di alcuni Stati produttori, come come
l'Italia, grazie, tra l'altro, a migliori strutture produttive e commerciali e a
una maggiore integrazione con le catene distributive e l'industria di
trasformazione.

L'esempio degli agrumi, e in particolare delle arance, è ancora più


paradossale. Infatti, grazie alle importazioni a basso prezzo di succhi
concentrati, in particolare dal Brasile e dagli Stati Uniti, i Paesi Bassi sono
diventati i principali operatori del settore dei succhi d'arancia all'interno
della Comunità, per un volume di produzione ed esportazione che supera,
in equivalente fresco, l'intera produzione dei tre principali Stati membri
produttori di arance (Spagna, Italia e Grecia).

Alla luce di quanto sopra, è evidente che il margine disponibile per un


incremento della produzione agricola nelle regioni mediterranee è
piuttosto contenuto, in particolare nei settori in cui è destinata ad
aumentare la concorrenza tra aziende agricole o tra regioni di produzione.
Un fenomeno simile a quello appena descritto per la Comunità nel suo
insieme e per i prodotti cosiddetti "continentali" (produzioni animali e
seminativi) è probabile che si verifichi all'interno della regione
mediterranea per quanto riguarda le produzioni più specifiche di queste
regioni.

Le aziende agricole e le regioni produttive meno efficienti dell'Europa


meridionale si trovano ad affrontare una doppia sfida: da un lato, la
concorrenza delle regioni produttive del nord Europa, in termini di
prodotti continentali; dall'altro, la concorrenza, nel campo della
produzione mediterranea, da altre aziende e regioni di produzione del sud

158
più competitive o che possono beneficiare di migliori strutture produttive e
di commercializzazione.

Questi fenomeni non sono di per sé negativi in quanto consentono una


migliore allocazione della produzione agricola comunitaria e
contribuiscono a rafforzare la competitività dell'agricoltura europea.
Possono, tuttavia, superare rapidamente la fase di aggiustamento
fisiologico se assumono una portata tale da costituire una minaccia per
l'equilibrio socioeconomico delle regioni interessate e per la coesione a
livello comunitario.

Da problema puramente settoriale, il problema dello sviluppo agricolo


nelle regioni mediterranee più esposte a queste minacce diventa così un
problema di sviluppo complessivo della loro economia. Pertanto, le
soluzioni da considerare devono necessariamente andare oltre il quadro
agricolo e mobilitare tutti i mezzi disponibili per attivare un processo
endogeno di sviluppo socio-economico in queste regioni.

6. Alcune linee guida per il futuro

Come abbiamo già notato, il problema dello sviluppo agricolo nelle


regioni mediterranee non è solo un problema settoriale, come spesso
accade in altre regioni comunitarie alle prese con le difficoltà di
adeguamento dell'agricoltura alle nuove esigenze imposte dalla realtà dei
mercati agricoli. Nel sud della Comunità, infatti, alle difficoltà proprie
dell'agricoltura, che per i motivi già indicati sono più gravi che nel resto
della Comunità, si aggiungono quelle derivanti dal contesto socio-
economico in cui si inserisce l'agricoltura.

Sarebbe quindi inconcepibile, e comunque destinata al fallimento, l'idea


che i problemi dell'agricoltura mediterranea possano essere affrontati solo
dal punto di vista della politica agricola. Senza trascurare l'importanza
delle azioni prettamente "agricole", il problema dell'arretratezza dello
sviluppo economico in queste regioni richiede uno sforzo convergente e
sostenuto di tutte le politiche e di tutti i mezzi d'azione in grado di
contribuire alla soluzione di questo problema, sia a livello comunitario che
a livello nazionale e regionale.

Per quanto riguarda, in particolare, l'agricoltura, dobbiamo essere


consapevoli del fatto che una parte non trascurabile dell'agricoltura
mediterranea è e rimarrà inesorabilmente fuori mercato, a causa dei
vincoli socio-strutturali che impediscono qualsiasi processo evolutivo

159
verso una maggiore competitività (dimensione dell'azienda, rigidità dei
fattori di produzione, formazione dell'agricoltore, ecc.). Questa quota
dell'agricoltura mediterranea rappresenta attualmente una percentuale
relativamente piccola della produzione agricola finale, ma è destinata ad
aumentare in futuro. Inoltre, impiega una frazione significativa della forza
lavoro agricola totale.

La risposta a questo tipo di problema non può essere solo di natura


agricola ma deve consistere soprattutto nell'incentivare attività alternative
all'agricoltura, in vista sia dell'abbandono dell'attività agricola, sia del suo
esercizio come attività complementare ad una attività principale al di fuori
dell'agricoltura (part-time). Anche la politica socio-strutturale non può
cambiare radicalmente la situazione per questo tipo di agricoltura.

Quanto alla politica dei prezzi e dei mercati, questa non può assumersi la
responsabilità di questo tipo di problemi e, comunque, non può fornire un
adeguato supporto a questo tipo di aziende, a rischio di indebolire
irrimediabilmente i progressi finora compiuti verso una maggiore
integrazione dell'agricoltura nel resto dell'economia e una migliore
competitività dell'agricoltura comunitaria.

Ciò non significa che queste aziende debbano essere totalmente


abbandonate dalle autorità pubbliche o che la politica agricola debba
ignorarle. Non bisogna tuttavia perdere di vista che queste aziende
agricole sono quelle che finora hanno beneficiato meno della PAC e che lo
stesso accadrà anche in futuro se non si mettono in atto azioni ben mirate
alla natura del problema e se si pensa di intervenire solo nel settore
agricolo.

È inoltre probabile che la sopravvivenza di questa agricoltura non sia


realmente in pericolo, in quanto spesso essa si caratterizza come
agricoltura di sussistenza, o orientata al mercato locale, mercato che resta
generalmente anche al di fuori dei grandi canali distributivi, dove la
concorrenza è più feroce.

L'agricoltura mediterranea, però, non è costituita solo da piccolissime


aziende agricole che sono e saranno destinate a rimanere fuori mercato nel
senso ampio del termine. Anche se in numero inferiore, esistono anche
aziende agricole di grandi e medie dimensioni orientate al mercato che,
pertanto, probabilmente rimarranno competitive anche nel contesto di
un'ulteriore apertura del mercato e di un'ulteriore riduzione del sostegno
all'agricoltura. Queste aziende sono quelle che finora hanno beneficiato

160
maggiormente della politica agricola comune e del progresso tecnologico
in agricoltura. Questa situazione non dovrebbe cambiare in modo
significativo in futuro, anche se non sono state adottate nuove azioni
specifiche a livello comunitario.

Invece, particolare attenzione dovrebbe essere prestata alle aziende


agricole di medie dimensioni, nelle quali l'attività agricola è esercitata
come attività principale, che rischiano di essere fragilizzate dagli
aggiustamenti in corso nell'agricoltura europea nonché dai prevedibili
mutamenti nel contesto economico e normativo delineati nel paragrafo 3
di questo rapporto. Si tratta generalmente di aziende la cui redditività
economica rischia di indebolirsi in futuro, essendo le più esposte alle
conseguenze di questi cambiamenti.

Va tuttavia sottolineato sin dall'inizio che, anche in questo caso, non si


tratta affatto di proteggere gli agricoltori dai rischi che possono derivare
dall'evoluzione della competitività relativa dell'agricoltura tra settori e
regioni produttrici. Qualsiasi azione in questa direzione può sembrare, nel
breve termine, una risposta adeguata ad alcune preoccupazioni circa la
sopravvivenza di un'agricoltura meno competitiva. A lungo termine,
tuttavia, un simile approccio non solo si rivela inefficace nel garantire la
redditività di questo tipo di agricoltura, ma contraddice anche l'obiettivo di
migliorare la competitività dell'agricoltura comunitaria.

Un'altra considerazione fondamentale da fare è che non devono


necessariamente essere moltiplicate le azioni comunitarie esistenti. Si
tratta piuttosto di aumentare l'efficacia delle azioni esistenti e, se
necessario, di adattarle in modo da garantirne un'applicazione adeguata e
sufficientemente ampia, soprattutto nelle regioni che ne hanno più
bisogno, tra le quali le regioni mediterranee sono al primo posto.

Resta il fatto che l'azione comunitaria a favore delle regioni mediterranee


potrebbe diventare più efficace non solo se le preoccupazioni inerenti allo
sviluppo dell'agricoltura mediterranea fossero prese in conto in modo più
sistematico in tutte le misure in corso, ma anche se si volessero rafforzare
alcune linee di azione in ambiti finora un po' trascurati, ma che possono
giocare un ruolo decisivo in futuro.

Tali linee di azione potrebbero essere, a titolo esemplificativo, le seguenti:

a) misure per promuovere la qualità dei prodotti agricoli, in particolare nei


cereali, ortofrutticoli, vino, olio d'oliva, tabacco;

161
b) misure volte a promuovere lo sviluppo di una politica contrattuale che
colleghi gli agricoltori alle industrie di trasformazione e comporti il
rispetto di determinati vincoli qualitativi e quantitativi;

c) l'adozione, a livello comunitario, di regolamenti quadro che favoriscano


lo sviluppo delle interprofessioni;

d) il proseguimento con gli adeguamenti necessari alla luce dell'esperienza


dei programmi di formazione degli informatori agricoli, purché questi
ultimi siano effettivamente impiegati per le mansioni per cui sono stati
formati;

e) finanziamento di progetti pilota nei settori innovativi (riconversione,


nuove colture, nuove tecniche di produzione, ambiente e agricoltura, ecc.)
e in quello dell'informazione e dell'assistenza tecnico-economica alle
aziende agricole;

f) incoraggiamento alla costituzione e gestione di una rete di servizi di


sviluppo agricolo destinati ad aiutare gli agricoltori nelle loro scelte
economiche o ad accrescere il loro potere contrattuale nei confronti di altri
settori produttivi;

g) attuazione di un programma comunitario per lo scambio di esperienze


tra gruppi di agricoltori o capi di organizzazioni professionali a livello
locale, accompagnato da visite in loco, al fine di fornire agli agricoltori
referenze che possano facilitare il perseguimento di una più grande
efficacia dei metodi di produzione;

h) rafforzamento dell'azione a favore delle organizzazioni di produttori e


delle cooperative che soddisfano le condizioni richieste, in particolare
mediante il finanziamento della realizzazione e diffusione di studi e analisi
sul miglioramento dei metodi di produzione e di gestione, sul
miglioramento della qualità dei prodotti, della situazione e delle
prospettive dei mercati agricoli, ecc.;

i) creazione di reti di informazione sia a livello comunitario che nazionale


e regionale che consentano agli agricoltori di accedere alle informazioni
sugli orientamenti e le decisioni di politica agricola, le tendenze del
mercato, gli sviluppi tecnici nell'agricoltura, ecc.

162
L'azione comunitaria a favore delle regioni mediterranee*

(Bruxelles, aprile 1980 )

1. Credo che non sia azzardato affermare che alcune delle tappe più
significative nella storia della costruzione europea e nell'evoluzione delle
diverse politiche comuni sono state segnate allorché la Comunità si è fatta
carico, a diverse riprese e sui vari piani, dei problemi inerenti alle regioni
mediterranee.

L'estensione dell'organizzazione comune dei mercati agricoli ai prodotti


mediterranei; il varo di una politica delle strutture agricole e, in questo
contesto, l'adozione di una direttiva sull'agricoltura di montagna e delle
altre zone svantaggiate nonché, più recentemente, l'adozione di
quell'insieme di misure strutturali e di mercato che vanno sotto il nome di
“pacchetto mediterraneo"; l'avviamento, infine, di una politica regionale
comunitaria, costituiscono, mi sembra, altrettanti passi significativi non
solo verso una migliore integrazione delle regioni mediterranee col resto
dell'Europa, ma anche e soprattutto verso un rafforzamento di quella
solidarietà tra paesi e regioni della Comunità che costituisce uno dei
pilastri fondamentali su cui poggia la costruzione europea.

Si è trattato, è vero, di un processo che è apparso a volte lento e faticoso, e


che peraltro non può ancora considerarsi del tutto concluso. E' difficile,
tuttavia, immaginare oggi una Comunità priva della sua dimensione
mediterranea, sia sul piano geografico che su quello delle politiche comuni
attraverso cui essa si esprime. L'Europa di fronte alla quale ci troveremmo
in tal caso potrebbe forse apparire economicamente più omogenea e quindi
con squilibri territoriali meno accentuati, ma è certo che la Comunità
avrebbe allora fallito il primo degli obiettivi che ci si era prefissi al
momento della sua costituzione, e cioè la promozione di “uno sviluppo
armonioso delle attività economiche nell'insieme della Comunità“ (come
previsto dall’art. 2 del Trattato CEE).

Anche se a seguito del primo ampliamento della Comunità, la dimensione


e la localizzazione dei problemi territoriali di sviluppo hanno assunto una
più ampia e diversa configurazione, il fronte mediterraneo è stato e resta

* Relazione a un seminario sui problemi dell’agricoltura nelle regioni


mediterranee

163
comunque uno dei banchi di prova più impegnativi per la credibilità
politica della Comunità all'interno e all'esterno delle sue frontiere.

Ciò è tanto più vero nella prospettiva del suo secondo ampliamento a
Grecia, Spagna e Portogallo, di cui l'ingresso della Grecia a partire dal 1°
gennaio del prossimo anno costituisce un momento particolarmente
significativo. Questo evento non sarebbe stato certamente possibile, né del
resto questi paesi lo avrebbero probabilmente ricercato, se la Comunità si
fosse presentata come una entità arroccata intorno ai suoi capisaldi di
benessere e si fosse mostrata incapace di contribuire all'inserimento delle
aree geograficamente ed economicamente emarginate nella più ampia
dinamica dello sviluppo.

Il fatto che ben tre paesi del bacino mediterraneo, aventi livello di reddito
e strutture economiche abbastanza differenti da quelli che si riscontrano
negli altri paesi della Comunità, ed in particolare in quelli continentali,
abbiano chiesto di far parte della Comunità, costituisce dunque un atto di
fede di enorme portata politica non solo negli ideali su cui è edificata
l'Europa unita, ma anche nella sua capacità di far fronte alla sfida che essi
le hanno lanciato ponendo il problema di una loro più spinta integrazione
col resto dell'Europa.

Raccogliendo questa sfida, la Comunità, dal canto suo, ha assunto una


coraggiosa opzione politica in favore di un ampliamento della sua base
territoriale e della partecipazione dei diversi popoli alla costruzione
dell'Europa, nella piena consapevolezza che questa impresa richiederà
tuttavia un rafforzamento ulteriore della sua coesione e delle sue strutture.

Ma la Comunità certamente non sarebbe stata altrettanto credibile se non


avesse cominciato da tempo ad affrontare i problemi che si pongono, già
nella sua attuale configurazione geografica, nelle regioni mediterranee del
suo territorio.

Quale è stata l'azione comunitaria nei confronti delle regioni mediterranee,


ed in particolare in favore della loro agricoltura, è quello che cercherò
appunto di delineare per sommi capi in questa relazione. Essa non ha certo
l'ambizione di apportare una risposta esauriente e dettagliata su tutte le
iniziative comunitarie che sono state assunte a questo riguardo, ma vuole
soltanto fornire il quadro d'assieme entro cui esse possono essere collocate
onde meglio apprezzarne la funzione e la portata.

164
2. Questa panoramica non può che cominciare dalla politica dei prezzi e
dei mercati agricoli. E ciò sia perché essa è quella che storicamente si è
sviluppata per prima, sia perché essa costituisce, in assoluto, la politica
comune in cui più avanzato è lo stadio d'integrazione: ciò spiega perché
essa assorbe attualmente circa i due terzi dell'intero bilancio comunitario.

E' proprio nell'ambito delle produzioni mediterranee che sono stati adottati
meccanismi di sostegno del reddito agricolo alquanto “atipici“ nella
politica agricola comune: alludiamo, in particolare, all'integrazione di
prezzo per il grano duro e per l'olio d'oliva, che ormai datano pressoché
dall'origine del mercato comune agricolo. Si è così voluto garantire un
ricavo adeguato ai produttori di due delle coltivazioni più tipiche dell'area
mediterranea, contemperando questo obiettivo con l'esigenza di assicurare
prezzi ragionevoli ai consumatori.

Come è noto, questo sistema consente, infatti, di mantenere un livello


moderato dei prezzi al consumo, pur garantendo al produttore un livello di
reddito che gli dovrebbe permettere di proseguire la sua attività in regioni
in cui le alternative economiche e produttive sono piuttosto scarse.

Sempre nel settore cerealicolo, occorre peraltro ricordare che


l’unificazione dei prezzi apportata dall’organizzazione comune dei mercati
è stata temperata mediante una “regionalizzazione” dei prezzi
d’intervento, proprio allo scopo di tener conto della maggiore o minore
“perifericità” delle diverse zone di produzione.

E' tuttavia soltanto intorno alla fine degli anni Sessanta che sono state
adottate le organizzazioni comuni di mercato in altri settori
particolarmente vitali per l'economia agricola di molte regioni
mediterranee, ed in particolare quelle nel settore degli ortofrutticoli, del
vino e del tabacco.

Se si esclude quest'ultimo settore, per il quale l'intervento comunitario


garantisce una certa sicurezza di collocamento e di prezzo ai produttori, è
stato più volte lamentato che, soprattutto per quanto riguarda il vino e gli
ortofrutticoli, il livello di garanzia che le rispettive organizzazioni comuni
di mercato assicurano ai produttori non è certo comparabile con quello di
cui usufruiscono certe colture continentali (ad esempio: latte, cereali e
zucchero).

Il che, a mio avviso, può essere difficilmente contestabile, anche se


occorre aggiungere che la situazione è molto migliorata nel tempo. Inoltre

165
bisogna tener conto che ciò è dovuto in parte anche alla natura di molti dei
prodotti che rientrano in questi comparti produttivi ed in particolare alle
difficoltà di stoccaggio dovute spesso alla deperibilità del prodotto.

Resta comunque il fatto che questa diversità nella struttura delle diverse
organizzazioni comuni di mercato può, malgrado gli adattamenti che sono
stati apportati nel tempo, incidere sia sul livello che sulla sicurezza dei
redditi agricoli.

Per la Commissione, il problema non può però essere risolto


semplicemente con un adeguamento del livello di garanzia di cui
usufruiscono le produzioni mediterranee. Senza contare i vincoli tecnici e
finanziari che si frappongono al raggiungimento di tale obiettivo,
l'esperienza dimostra che sono proprio le garanzie troppo forti concesse a
taluni prodotti che hanno generato quegli squilibri strutturali dei mercati e
della relativa spesa, che oggi minacciano di soffocare l'intera politica
agricola comune e le possibilità di sviluppo delle altre politiche comuni.

In un contesto, peraltro, come quello delle regioni mediterranee, in cui le


strutture di produzione, di trasformazione e di commercializzazione
frenano la penetrazione dei prodotti mediterranei nelle altre regioni della
Comunità, non è pensabile di risolvere i problemi dello sviluppo agricolo
agendo soltanto sulla leva dei prezzi garantiti.

Ciò non significa, beninteso, che non sia possibile o che non sia opportuno
apportare alle organizzazioni comuni dei mercati dei prodotti mediterranei
ulteriori adattamenti per renderle più efficaci. La Commissione, del resto,
ha già espresso questa esigenza soprattutto nella prospettiva di
un'amplificazione di questi problemi derivante dall'adesione alla Comunità
di tre nuovi paesi del bacino mediterraneo.

Quello che si intende dire è che esistono anche altri mezzi, oltre a quello
dell'aumento del livello dei prezzi garantiti, per migliorare e rafforzare
l'efficacia delle organizzazioni di mercato dei prodotti mediterranei. Il
recente “pacchetto mediterraneo", di cui ci occuperemo fra poco, ne offre
alcuni esempi. Inoltre si vuole fin da ora richiamare l'attenzione sul fatto
che non è possibile, di fronte alla natura e all'ampiezza dei problemi delle
regioni mediterranee, limitarsi ad agire soltanto sul volet agricolo e,
nell'ambito di quest'ultimo, soltanto sul livello dei prezzi.

166
3. In effetti, si può dire che questa sia stata fin dall’inizio la guide-line
dell’iniziativa comunitaria a favore delle regioni mediterranee.
L’attivazione della sezione “Orientamento”, a partire dal 1964, mentre
erano ancora in gestazione molte delle organizzazioni comuni dei mercati,
costituisce il primo passo nella direzione di un miglioramento della
situazione strutturale in agricoltura, condizione necessaria per consentire
alla politica dei prezzi e dei mercati di esercitare pienamente i suoi effetti
su tutte le imprese e in tutte le regioni.

È interessante notare, a questo proposito, che anche se all'inizio era


previsto pressoché esclusivamente il finanziamento di progetti individuali,
il regolamento di base del Feoga-Orientamento (il 17/64) prevedeva già
una priorità per i progetti organici finalizzati allo sviluppo regionale: un
obiettivo, questo, ancor meglio messo a fuoco con la riforma del 1970 del
Feoga-Orientamento che ha introdotto il finanziamento di azioni comuni
volte a realizzare gli obiettivi economico-sociali menzionati nell'articolo
39 del Trattato CEE ed in particolare il superamento delle “disparità
strutturali e naturali fra le diverse regioni”. Come è noto, questo secondo
campo d'azione della sezione “Orientamento” del Feoga ha assunto un
peso crescente nel tempo fino ad assorbire pressoché totalmente le risorse
dell'intera sezione “Orientamento”.

Un secondo rilievo che mi sembra interessante a questo proposito, è il


fatto che è proprio con riferimento a due prodotti tipicamente
mediterranei, il tabacco e gli agrumi, che sono stati varati nella seconda
metà degli anni 60 dei programmi di azione specifici volti al
miglioramento delle strutture di produzione e di commercializzazione; il
primo, relativo al tabacco, con regolamento CEE n. 130 del 26 luglio
1966; il secondo, noto come “piano agrumi”, con regolamento CEE n.
2511 del 9 dicembre 1969.

Essi mi sembrano significativi, non tanto per la portata delle misure


previste o per le esemplarità dell'effettiva applicazione di queste, quanto
invece per la volontà che essi denotano, già all'epoca in cui furono
emanati, di affrontare alla radice, sia pure limitatamente a due settori
produttivi, alcuni dei nodi strutturali che ne condizionano lo sviluppo e la
stessa sopravvivenza economica.

Questa volontà trova, del resto, più ampia espressione nelle iniziative
assunte dalla Commissione fin dal 1967 e che sono sfociate nell'adozione,
nell’aprile del 1972, delle tre note direttive sulle strutture agricole: la
159/72 relativa all'ammodernamento delle aziende agricole; la 160/72

167
concernente l'incoraggiamento alla cessazione dell'attività agricola e alla
destinazione della superficie agricola, resa così disponibile, al
miglioramento delle strutture; la 161/72 concernente l'informazione socio-
economica e la qualificazione professionale delle persone che lavorano
nell'agricoltura.

Anche se queste direttive hanno necessariamente una portata più generale,


è chiaro che esse avrebbero dovuto avere un impatto più rilevante proprio
nelle regioni più bisognose di adattamenti socio-strutturali, ed in
particolare in quelle mediterranee. Purtroppo, però, per una serie di ragioni
il cui esame esula dai limiti di questa relazione, è proprio nei due paesi
comprendenti regioni mediterranee che l'applicazione di queste direttive si
è rivelata più problematica, sicché è da prevedersi che la loro efficacia in
queste regioni sarà alla fine più ridotta di quanto non si era sperato.

Alla luce di questa situazione e dell'esperienza acquisita in questi anni, la


Commissione ha comunque proposto un anno fa al Consiglio una serie di
adattamenti delle direttive di base, intese a migliorare la loro rispondenza
alle esigenze strutturali dell'agricoltura dei paesi membri ed in particolare
a quelle delle regioni mediterranee.

Maggiore rispondenza alle necessità e alle possibilità delle regioni


mediterranee dovrebbe trovare la direttiva sull'agricoltura di montagna e di
altre zone svantaggiate adottate dal Consiglio il 28 aprile 1975. Essa
comporta diversi elementi innovativi della politica agricola comune, che
costituiscono una delle ragioni non secondarie del ritardo con cui è stata
adottata, quali: l'istituzione di un sistema di aiuti diretti al reddito, la
possibilità di diversificazione regionale della politica di riforme strutturali,
l'adozione di un regime speciale di aiuti nazionali agli investimenti per le
aziende che non sono in grado di realizzare un piano di sviluppo ai sensi
della direttiva159/72, ecc.

4. Tutte le azioni che abbiamo finora delineato si iscrivono nel quadro


della politica agricola comune ma abbiamo anche detto che la
problematica delle regioni mediterranee, essendo una problematica di
sviluppo globale, necessita un approccio intersettoriale. È in quest'ottica
che si collocano gli altri interventi comunitari a favore delle regioni
mediterranee ed in particolare quelli del Fondo sociale e del Fondo
europeo di sviluppo regionale.

168
Nato come strumento a vocazione generale di sostegno delle politiche
nazionali dell'occupazione, in particolare nel settore della riconversione
della manodopera e della qualificazione professionale, il Fondo sociale è
diventato, dopo la riforma del 1970, uno strumento avente in parte anche
una notevole vocazione regionale. Questa caratteristica è stata anzi sancita
dalle stesse norme che regolano l'attività del Fondo, le quali prevedono
che circa la metà delle risorse complessive del Fondo sociale siano
destinate ad operazioni nelle regioni considerate prioritarie, fra cui
rientrano appunto le regioni mediterranee.

Lo strumento finanziario a vocazione regionale per eccellenza è,


comunque, il Fondo europeo di sviluppo regionale entrato in funzione nel
1975 dopo una gestazione durata parecchi anni. Esso si presenta
essenzialmente, non come l'espressione di un’autonoma politica di
riequilibrio regionale, decisa e gestita a livello comunitario, ma come un
supporto delle politiche regionali esistenti nei vari paesi membri, di cui
però promuove il coordinamento a livello comunitario.

Con la riforma del Fondo regionale intervenuta dopo il primo triennio


sperimentale di attività, la Commissione ha tuttavia cercato di riservare
una quota delle disponibilità complessive del Fondo regionale ad azioni
specifiche di sviluppo regionale da intraprendere ad iniziativa e sotto la
responsabilità della Comunità. Questo obiettivo è stato in parte raggiunto
con la creazione di un'apposita sezione, in seno al Fondo regionale, non
soggetta a ripartizione preventiva tra gli Stati membri e perciò chiamata
“fuori quota”.

Vale la pena sottolineare, in questa sede, l'interesse di questo aspetto


particolare del Fondo regionale in quanto è proprio in questo contesto che
la Commissione ha presentato alla fine del 1979 una serie di proposte di
azioni comunitarie in taluni settori più direttamente toccati dalla crisi ed in
alcune regioni, in cui i problemi di sviluppo regionale sono più acuti.

Quella che qui ci interessa menzionare più particolarmente riguarda lo


sviluppo delle piccole e medie imprese nelle regioni mediterranee, francesi
e italiane, soprattutto in vista dell'ampliamento. Essa è ugualmente volta a
promuovere in questa regioni l'innovazione industriale, a sviluppare
l'artigianato e a valorizzare le possibilità di sviluppo turistico e può
dunque considerarsi un esempio tipico di approccio intersettoriale ai
problemi dello sviluppo delle regioni mediterranee.

169
Questo concetto dovrebbe trovare ulteriore applicazione in avvenire
nell'ambito delle cosiddette “operazioni integrate” mediante le quali la
Commissione si propone di concentrare l'azione dei diversi strumenti
finanziari della Comunità su alcuni problemi particolari e ben delineati
geograficamente. A questo proposito, le regioni mediterranee potrebbero
rappresentare un ambito privilegiato di intervento, come lo dimostra anche
il fatto che una delle prime azioni integrate potrebbe essere quella
attualmente allo studio, relativa alla zona di Napoli.

5. I problemi delle regioni mediterranee, ed in particolare quelle del loro


sviluppo agricolo, hanno acquisito una nuova dimensione politica ed
economica a partire dalla metà degli anni 70 in concomitanza con l'avvio
di una serie di accordi globali di cooperazione con alcuni paesi del bacino
mediterraneo di cui il volet agricolo costituiva un elemento fondamentale.

Il problema nasceva dal fatto che le concessioni commerciali e tariffarie


che tali accordi prevedevano per i prodotti agricoli di questi paesi
rischiavano di accentuare ulteriormente le difficoltà strutturali e di mercato
di fronte alle quali si trovava l'agricoltura delle regioni mediterranee della
Comunità. A causa, infatti, della similarità delle produzioni, erano proprio
su queste ultime che ricadeva l'onere principale delle concessioni fatte.

E’ in questo periodo che vengono rafforzati e migliorati alcuni dispositivi


di sostegno delle produzioni mediterranee della CEE ed altri vengono
adottati a questo fine. Si ricordano in particolare: l'adeguamento del
“premio di penetrazione” a favore delle arance e dei mandarini e
l'istituzione di un analogo premio per i limoni; il miglioramento della
preferenza comunitaria per gli ortofrutticoli freschi e trasformati;
l'adozione di un prezzo minimo per le importazioni di concentrato di
pomodoro; la generalizzazione del premio di trasformazione per le arance
e i limoni destinati ad essere trasformati in succhi; l'adozione di una sorta
di clausola di salvaguardia per l'importazione di vino dai paesi del
Maghreb, ecc.

E’ in questo contesto, nonché in quello più ampio del dibattito apertosi in


Consiglio alla fine del 1975 sul “bilancio della politica agricola comune”,
che si colloca la riflessione d'assieme sui problemi delle regioni
mediterranee da cui è scaturito il cosiddetto “pacchetto mediterraneo”
presentato dalla Commissione nel dicembre 1977.

170
Anche se limitato al solo settore agricolo, esso si presenta come una
componente essenziale di una strategia globale nei confronti delle regioni
mediterranee della CEE. La Commissione è cosciente, infatti, che i
problemi che queste regioni debbono affrontare sono problemi non solo
agricoli ma anche di sviluppo generale che necessitano pertanto di
iniziative globali nel quadro di un'azione integrata di sviluppo economico.
Il fatto che, a breve termine, ci si sia concentrati sul volet agricolo non
deve perciò far perdere di vista il quadro d'assieme in cui tali iniziative si
inseriscono.

Come è noto, il “pacchetto mediterraneo” comporta una serie di misure


che mirano, da una parte, al miglioramento delle organizzazioni dei
mercato dei prodotti di maggior interesse per le regioni meridionali
(ortofrutticoli, vino, olio, ecc.) e, dall'altra, al miglioramento delle strutture
agricole, in un'accezione che non è più soltanto aziendale, com’era in
precedenza, ma anche territoriale.

Non è possibile scendere qui nei dettagli di queste misure che sono state
adottate dal Consiglio nel corso del 1978 e del 1979. Limitandoci a
ricordarne gli aspetti più significativi, credo che, fra le misure di mercato,
si possono citare:

- le disposizioni relative agli ortofrutticoli trasformati, che


instaurano, a condizioni che al produttore della materia prima
venga corrisposto un prezzo minimo, un regime di aiuti
all'industria conserviera per una serie di prodotti (concentrati di
pomodoro, pomodori pelati, succhi di pomodoro, pesche sciroppate
e prugne secche);

- le disposizioni relative agli ortofrutticoli freschi che, oltre alle


innovazioni introdotte per favorire la costituzione delle
organizzazioni di produttori e potenziarne le funzioni, comportano
il miglioramento della preferenza comunitaria;

- l'introduzione, infine, di un aiuto al consumo all'olio di oliva


destinato appunto ad agevolare lo smercio dell'olio d'oliva prodotto
nella Comunità.

Fra le misure strutturali, la più rilevante sul piano finanziario è quella


relativa al programma di accelerazione e orientamento delle operazioni
collettive di irrigazioni nel Mezzogiorno, il cui costo a carico del Feoga è
stato fissato a 260 milioni di unità di conto per un periodo di 5 anni. Un

171
importo pressoché analogo (244 milioni di unità di conto) è destinato a
favorire la costituzione, il riconoscimento e il funzionamento delle
associazioni dei produttori e delle loro unioni.

Un altro provvedimento particolarmente rilevante sul piano finanziario ed


economico è quello che modifica in senso più favorevole le condizioni di
applicazione nel Mezzogiorno e nel Midi della Francia del regolamento n.
355/77, relativo ad un'azione comune per il miglioramento delle
condizioni di trasformazione e di commercializzazione dei prodotti
agricoli. Il costo supplementare previsto a carico del Feoga è di 210
milioni di unità di conto in 5 anni. Non è possibile, infine, non citare,
come esempio di intervento sul territorio e a conferma di quell'approccio
globale postulato dalla Commissione, l'adozione di un regolamento inteso
a migliorare le infrastrutture rurali nelle regioni mediterranee.

6. Alla fine di questo rapido excursus sull'azione comunitaria nei confronti


delle regioni mediterranee, qualcuno potrebbe pensare che io abbia voluto
dare un quadro idilliaco o quantomeno rassicurante della situazione. Se
così fosse, vorrei correggere questa impressione, ribadendo che, malgrado
tutte le iniziative che sono state assunte a livello mediterraneo, che
peraltro mi sembrano numerose e ragguardevoli, il problema dello
sviluppo di queste regioni deve continuare a restare, anche in avvenire,
uno degli obiettivi prioritari della Comunità.

Usando un linguaggio che ha del militaresco, ma che mi sembra efficace


in questa occasione, direi anzi che è proprio sul fronte mediterraneo che si
giocheranno in avvenire le partite decisive per il futuro dell'integrazione
europea. Soprattutto nella prospettiva del suo ampliamento a sud, o la
Comunità riesce a risolvere il problema dell'integrazione di queste regioni
con il resto dell'Europa, oppure essa perderà col tempo la sua vitalità e la
sua funzione di aggregazione economica e politica dei popoli d'Europa,
diluendosi in una zona di libero scambio, come ne esistono tante nel
mondo.

È questa la sfida a cui dovrà far fronte la Comunità, ma è una sfida a cui
anche le regioni mediterranee devono adeguarsi. In quest'ottica credo che
il vostro seminario possa apportare un contributo prezioso. Come
giustamente diceva questa mattina il vostro presidente, è anche dalle
vostre mani, anzi dalle nostre mani, che dipenderà se le regioni
mediterranee e la Comunità vinceranno questa sfida o se le une e le altre
sono destinate a soccombere.

172
Problemi e prospettive dell’agricoltura meridionale
alla soglia degli anni Novanta*

(Lamezia Terme, febbraio 1990)

Signor Presidente,
signore e signori,

ho accettato volentieri l'invito a presentare, in questa circostanza, una


panoramica dell'agricoltura meridionale, dei problemi a cui essa è
confrontata, delle prospettive che è possibile delineare alla luce delle
tendenze in atto nell'agricoltura europea e degli sviluppi della politica
agricola comune.

Si tratta, come si vede, di una tematica piuttosto ampia che non sarà
possibile trattare in maniera esauriente in questa relazione introduttiva.
Sono sicuro tuttavia che altri partecipanti al dibattito non mancheranno di
colmare le inevitabili lacune o di sviluppare le questioni che avessi
eventualmente trascurato.

Del resto, non è mia ambizione, in questa sede, abbordare in maniera


sistematica tutti i diversi aspetti di questa vasta tematica, ma
semplicemente fornire alcuni spunti di riflessione per un approfondimento
ulteriore, e per avviare un ampio e costruttivo confronto di idee su un
problema di così vitale interesse per l'avvenire delle nostre regioni. È in
questo spirito che va interpretata la mia presenza ai vostri lavori odierni.

Essa non è dettata soltanto dall'esigenza che avvertiamo sempre più a


livello comunitario di dialogare con i nostri interlocutori a livello
nazionale e regionale, di informare i destinatari delle decisioni assunte a
Bruxelles, di chiarire meglio le motivazioni e gli obiettivi perseguiti. Essa
è dettata anche dalla volontà di mantenere uno stretto contatto con la realtà
economica e sociale che sta alla base delle scelte di politica agraria, di
restare in ascolto delle preoccupazioni che essa esprime, di mediarne, ove
possibile, le aspirazioni.

* Relazione a un convegno del Partito Socialista Italiano sui problemi di


sviluppo dell’economia meridionale

173
Ciò premesso, vorrei anzitutto ricordare brevemente quali sono i tratti
caratteristici dell'agricoltura nelle regioni meridionali, il ruolo che essa
svolge nell'economia di queste regioni, le difficoltà a cui essa si trova
confrontata.

Indubbiamente l'industrializzazione, che ha interessato negli ultimi


trent'anni, in misura peraltro assai disparata, molte regioni meridionali,
insieme all'esodo agricolo e all’avvento del terziario, hanno ridotto
sensibilmente l'importanza relativa dell'agricoltura nelle regioni
meridionali.

Tuttavia, questa rappresenta ancora una fetta consistente dell'economia di


queste regioni. L'agricoltura fornisce infatti ancora l'8-9% della ricchezza
prodotta nel Mezzogiorno, ma oltre l'11% in alcune regioni, come la
Puglia e la Basilicata. In Calabria essa fornisce circa l'8% del reddito, ma
questo non significa che l'agricoltura svolga in questa regione un ruolo
secondario o che la Calabria si avvicini agli standard dei paesi
economicamente più avanzati.

Significa soltanto che in Calabria, come del resto in altre regioni


meridionali, quelli che genericamente si chiamano "servizi" hanno assunto
un ruolo decisivo, ma che non esiterei a definire anomalo, nell'economia
locale, con punte che oltrepassano il 60% del reddito prodotto. Che il
settore agricolo rappresenti per il Mezzogiorno un elemento tuttora
trainante dell'economia, lo dimostrano soprattutto le cifre
sull'occupazione.

Malgrado, infatti, un esodo agricolo massiccio nel corso degli ultimi


trent'anni, l'agricoltura meridionale occupa quasi 1,3 milioni di unità
lavorative, vale a dire il 20% del totale degli occupati nel Mezzogiorno,
con punte che vanno fino al 28% in Basilicata e il 24% in Puglia e
Calabria.

Restando all'interno del settore agricolo, si può constatare che, con una
superficie agricola pari a un po' meno della metà del totale nazionale, e
con un'occupazione che è pari, nel settore agricolo, al 54% di quella
italiana, il Sud fornisce soltanto il 36% della produzione lorda vendibile
dell'agricoltura italiana.

Questa situazione è dovuta, oltre che ad una minore produttività


dell'agricoltura meridionale, anche al peso relativamente modesto che
occupa la zootecnia nell'agricoltura meridionale (appena il 20%, contro

174
oltre il 50% nel Nord). Nell'agricoltura del Sud predominano infatti le
colture erbacee e le colture arboree (con circa il 40% del totale ciascuna).

Malgrado i notevoli progressi realizzati in taluni settori e in certe zone di


produzione, lo sviluppo dell'agricoltura nel Sud è stato, negli ultimi venti
anni, sensibilmente inferiore a quello del Centro e soprattutto del Nord-
Italia. Anche per quanto riguarda lo sviluppo agricolo si evidenzia,
dunque, un dualismo territoriale che, non a caso, riproduce il dualismo che
si osserva per lo sviluppo economico nel suo insieme. Tra il 1970 e il
1988, la produzione lorda vendibile del Sud è aumentata infatti del 21,4%,
a prezzi costanti, contro il 25,8% nel Centro Italia e il 34% nel Nord.

Al di là, comunque, di questo dualismo interno, quello che importa


mettere in evidenza è la relativa fragilità dell'apparato produttivo
meridionale tanto nei confronti del Nord-Italia, che rispetto agli standard
prevalenti nel resto dell'Europa. Nel Mezzogiorno, ad esempio, la
superficie media per azienda è di appena 5 ha, contro una media di circa
15 ha nella Comunità, di 27 ha in Francia, per non parlare dei 65 ettari, in
media, in Gran Bretagna.

Quel che è peggio, contrariamente a quanto accade in quasi tutto il resto


dell'Europa, nel Sud, la superficie media per azienda decresce col tempo,
invece che aumentare. Si aggrava, cioè il fenomeno della polverizzazione
e della frammentazione aziendale, caratteristica marcata dell'agricoltura
italiana, e non solo nel Sud.

A questa debolezza delle strutture di produzione, si aggiunge quella delle


strutture di trasformazione, la mancanza di efficienti canali di
commercializzazione, la carenza di organizzazioni dei produttori, la
rigidità degli indirizzi colturali, la scarsa integrazione del settore agricolo
nel più vasto complesso agro-industriale, per finire con le insufficienti
strutture di assistenza tecnica e, più in generale, con la carenza di servizi
per lo sviluppo agricolo. Si tratta di deficienze troppo note perché sia il
caso di insistervi, in questa sede.

Mi premeva, tuttavia, mettere in evidenza, in questa breve analisi


introduttiva che, nel suo complesso, l'agricoltura meridionale soffre di
alcuni handicap socio-strutturali e di alcune strozzature organizzative che
sono tanto più controproducenti quanto più si intensificano gli scambi e
quanto più aspra diventa la competizione con altre aree di produzione.
Vale la pena, a questo proposito, ricordare che il Mezzogiorno si trova
sempre più in concorrenza con altre regioni mediterranee, le quali

175
usufruiscono di analoghi vantaggi climatici e pedologici, ma che, in molti
casi, sono riuscite ad affrancarsi da vincoli strutturali, analoghi a quelle del
Mezzogiorno, grazie ad una eccellente struttura di distribuzione e
puntando sul miglioramento qualitativo della produzione.

Avremo occasione di tornare più in là su questo tema. Prima però di


addentrarci in questa problematica, vorrei darvi una panoramica
dell'azione comunitaria a favore delle regioni meridionali e, in particolare,
per quanto riguarda il settore agricolo, nel corso degli ultimi venti anni.

A questo proposito, credo che non sia azzardato affermare che alcune delle
tappe più significative nella storia della costruzione europea e
nell'evoluzione delle diverse politiche comuni sono state segnate allorché
la Comunità si è fatta carico, a diverse riprese e sui vari piani, dei
problemi inerenti alle regioni mediterranee.

L'estensione dell'organizzazione comune dei mercati agricoli ai prodotti


mediterranei; il varo di una politica comunitaria delle strutture agricole;
l'avviamento di una politica regionale comunitaria; l'adozione, alla fine
degli anni Settanta, di quell'insieme di misure strutturali e di mercato che
va sotto il nome di "pacchetto mediterraneo" e più tardi dei "programmi
integrati mediterranei"; la recente riforma dei fondi strutturali e il
raddoppio dei mezzi finanziari disponibili, costituiscono, mi sembra,
altrettanti passi significativi non solo verso una migliore integrazione delle
regioni mediterranee col resto dell'Europa, ma, anche e soprattutto verso
un rafforzamento di quella solidarietà tra paesi e regioni della Comunità
che costituiscono uno dei pilastri fondamentali su cui poggia la
costruzione europea.

È in quest'ottica che vanno inquadrati gli interventi comunitari a sostegno


dell'agricoltura nelle regioni mediterranee. Una delle idee-guida
dell'azione comunitaria a questo riguardo è stata la convinzione che
sarebbe un errore isolare totalmente il problema dello sviluppo agricolo di
queste regioni dal problema più generale del loro sviluppo economico.

In effetti, anche se, come abbiamo visto, l'agricoltura gioca in queste


regioni un ruolo essenziale, bisogna riconoscere che il problema di
sviluppo al quale esse sono confrontate è, certo, un problema agricolo, ma
è anche e soprattutto un problema di sviluppo globale della loro economia.
La politica agricola comune può dunque apportare un contributo non
indifferente allo sviluppo di queste regioni, ma non può, da sola, risolvere
problemi di questa ampiezza e di questa natura.

176
La Commissione è, in effetti, convinta che solo un rinforzamento e una
concentrazione degli strumenti di intervento disponibili a livello
comunitario ma anche nazionale e regionale, e solo un approccio
intersettoriale, possa permettere di affrontare adeguatamente questo
problema.

Per quanto riguarda, in particolare, la politica agricola comune, questa si è


sforzata, fin dalla sua nascita, di tener conto delle specificità
dell'agricoltura mediterranea. È, in effetti, per alcune produzioni
tipicamente mediterranee, come l'olio d'oliva, il grano duro e il tabacco,
che sono stati adottati meccanismi particolari di sostegno del reddito degli
agricoltori, che tengono conto delle caratteristiche di queste produzioni e
della mancanza di alternative colturali.

Per quanto riguarda un altro settore, che gioca un ruolo determinante


nell'agricoltura delle regioni mediterranee, quello ortofrutticolo, oltre che
garantire attraverso il meccanismo dell'ammasso un reddito minimo al
produttore per le quantità che non trovano mercato, la regolamentazione
comunitaria ha come obiettivi di stimolare il miglioramento qualitativo
dell'offerta e l'organizzazione economica e professionale dei produttori.

D'altra parte, si è cercato di migliorare le strutture di produzione, di


trasformazione e di commercializzazione che, come abbiamo detto,
frenano spesso la penetrazione dei prodotti mediterranei sul mercato delle
altre regioni comunitarie. Si tratta, per la verità, di obiettivi che, in molte
regioni e per molti prodotti, restano ancora piuttosto lontani.

Prima, però, di mettere un causa l'insufficienza degli interventi comunitari,


occorrerebbe vedere se in casa nostra abbiamo fatto tutto il necessario per
applicare pienamente la regolamentazione comunitaria, per accedere ai
mezzi finanziari messi a nostra disposizione e per far funzionare
realmente certe strutture, come le organizzazioni dei produttori, finanziate
dalla Comunità.

L'esempio forse più emblematico a questo riguardo è il cosiddetto "piano


agrumi", varato oltre venti anni fa dalla Comunità, ma che, per ragioni che
sarebbe troppo lungo approfondire in questa sede, ha dato finora scarsi
risultati in termini di riconversione varietale dei nostri agrumi di qualità
inferiore.

Al di là, comunque, di questi casi estremi, resta il fatto che l'agricoltura


mediterranea, ed in particolare quella del Mezzogiorno, ha usufruito, in

177
questi anni, di una serie di misure, di mercato e strutturali, che hanno
indubbiamente contribuito a migliorare sensibilmente la situazione in certi
settori produttivi e la dotazione infrastrutturale di cui l'agricoltura può
disporre in queste regioni.

Basti citare al riguardo, oltre alle misure già menzionate a favore delle
associazioni dei produttori agricoli: l'azione intrapresa, nel 1977, con
l'adozione del regolamento n. 355, destinato a favorire il miglioramento
delle condizioni di trasformazione e di commercializzazione dei prodotti
agricoli, il programma di accelerazione delle operazioni collettive di
irrigazione nel Mezzogiorno e quello inteso a migliorare le infrastrutture
rurali nelle regioni mediterranee, i programmi integrati mediterranei, ecc.

Ma non è tanto di questo che vorrei parlarvi in questa occasione, quanto


invece delle sfide, vecchie e nuove, che l'agricoltura mediterranea, ed in
particolare quella del nostro Mezzogiorno, deve raccogliere e se possibile
superare in questo primo scorcio degli anni Novanta.

La prima, e la più impegnativa, viene dal mercato. Si tratta, infatti, non


soltanto di adeguare l'offerta agricola alle esigenze quantitative e
soprattutto qualitative della domanda, ma anche di riuscire a mantenere e,
se possibile ad accrescere la presenza delle produzioni meridionali sul
mercato interno e internazionale. Tutto questo, per di più, in un contesto di
crescente apertura dei mercati, di liberalizzazione degli scambi e di
sfrenata competizione tra produttori e regioni di produzione.

Si tratta certamente, come si è detto, di una sfida impegnativa per


l'agricoltura meridionale, che è rimasta per lungo tempo piuttosto
impermeabile ai mutamenti che si sono verificati in questi anni sul
mercato, sia per quanto riguarda il consumo dei prodotti alimentari allo
stato fresco, sia per quanto attiene i prodotti destinati alla trasformazione
industriale.

Si tratta, però, al tempo stesso, di una sfida che può risultare benefica per
l'agricoltura meridionale, nella misura in cui essa può stimolare un più
stretto collegamento tra impresa agricola e mercato, una razionalizzazione
delle strutture di produzione e dei circuiti di commercializzazione, una
valorizzazione di alcune produzioni tipiche.

L'aumento dei consumi nel settore ortofrutticolo, la riscoperta e il


diffondersi della cosiddetta "dieta mediterranea", la più grande sensibilità
del consumatore alla genuinità degli alimenti, la migliore conoscenza che,

178
anche attraverso il turismo, interno ed internazionale, si ha dei prodotti del
Sud, costituiscono indubbiamente, alcuni dei fattori potenziali di
affermazione e di crescita dell'agricoltura meridionale.

Non bisogna tuttavia dimenticare che le regioni meridionali non sono le


sole a poter offrire certe produzioni e a soddisfare certe esigenze del
consumatore. In un mercato europeo sempre più aperto e in cui le restanti
barriere agli scambi stanno per scomparire, esse si trovano infatti sempre
più in competizione con altre regioni di produzione, all'interno e
all'esterno della Comunità, che beneficiano di analoghi vantaggi climatici
e sovente anche di una migliore organizzazione commerciale.

Al riguardo, il caso degli agrumi, e in particolare delle arance, mi sembra


abbastanza emblematico. I dodici paesi della Comunità hanno importato,
nel 1987, oltre 2 milioni di tonnellate di arance allo stato fresco, di cui
circa 1,2 milioni di tonnellate in provenienza da altri paesi comunitari
(soprattutto Spagna, Italia e Grecia) e il resto in provenienza da paesi terzi
(soprattutto Israele, Marocco e Africa del Sud).

Ebbene, le esportazioni italiane sui mercati comunitari non hanno


raggiunto le 100 mila tonnellate, una cifra, questa, che non è solo
largamente inferiore alle importazioni in provenienza dal Marocco ma
anche a quelle provenienti dallo stesso Sud Africa, un paese che non
beneficia di particolari vantaggi tariffari per il suo accesso al mercato
comunitario, e che dista circa 10.000 chilometri dai mercati del Nord
Europa.

Per completare il quadro, va detto che nel corso della campagna 1986/87,
grazie ai meccanismi di intervento comunitario, erano state ritirate dal
mercato in Italia oltre 400 mila tonnellate di arance, una cifra questa che
corrisponde grosso modo a quattro volte circa le esportazioni italiane sui
mercati comunitari e a circa un terzo della produzione nazionale di arance.

La situazione è ancora più critica per i mandarini, per i quali le


esportazioni italiane sono scese dalle 20 mila tonnellate circa nel 1976 a
meno di 5 mila tonnellate nel 1987, su una produzione che ha fluttuato, in
questo periodo, tra le 180 e le 290 mila tonnellate. Poiché anche il
consumo interno di questo prodotto si è sensibilmente ristretto, per effetto
dell'evoluzione delle preferenze del consumatore verso altri tipi di frutta, i
ritiri dal mercato, vale a dire nella maggior parte dei casi la distruzione
pura e semplice del prodotto, hanno interessato quantità che hanno
raggiunto in talune annate livelli sbalorditivi (quasi 250 mila tonnellate nel

179
1985, pari ad oltre il 90% della produzione), suscitando le comprensibili
rimostranze non solo della nostra buona massaia ma anche quelle di molti
contribuenti comunitari.

Ho voluto citare questi esempi non tanto per suscitare scalpore o per
riaprire vecchie polemiche sulle conseguenze negative per le nostre
produzioni derivanti dall'adesione della Spagna alla Comunità e dalle
concessioni accordate ad alcuni paesi del bacino mediterraneo, quanto
invece per far riflettere sulla necessità, per i produttori meridionali, di
raccogliere la sfida del mercato, procedendo a tutti quegli adattamenti
dell'offerta e alle riconversioni varietali necessari, nonché a quei
miglioramenti qualitativi, a quelle iniziative commerciali indispensabili
per mantenere e se possibile per accrescere la loro presenza, tanto sul
mercato interno che su quello internazionale.

A questo proposito, forse non si sono valutate appieno, nel nostro paese, le
conseguenze che nel settore ortofrutticolo potrà avere la soppressione,
entro il 1992, delle barriere fitosanitarie che hanno finora protetto il nostro
mercato interno dalle importazioni in provenienza dal resto della
Comunità.

Non si tratta di esorcizzare un nuovo spauracchio esterno. Si tratta soltanto


di prendere atto che la competizione tra regioni produttrici rischia di
accentuarsi anche sul nostro mercato interno, finora restato al riparo dalla
concorrenza esterna, grazie appunto ad una serie di misure protettive che
sarà sempre più difficile mantenere nella prospettiva di una più spinta
liberalizzazione degli scambi all'interno della Comunità, in vista
dell'orizzonte 1992.

La seconda sfida che l'agricoltura meridionale deve raccogliere e superare


viene dall'interno dello stesso settore agricolo. Si tratta, infatti, non solo,
come abbiamo detto, di produrre per il mercato. Si tratta anche di riuscire
a produrre e vendere a prezzi competitivi, di migliorare le tecniche di
produzione e di raccolta, di contenere i costi di produzione, di superare
l'handicap rappresentato dalla polverizzazione dell'offerta grazie allo
sviluppo di efficienti strutture associative e all'effettiva operatività delle
organizzazioni dei produttori, non solo come organismi preposti ai ritiri
dal mercato ma anche e soprattutto come strumenti di concentrazione
dell'offerta, di valorizzazione della produzione e di commercializzazione
di quest'ultima.

180
Si tratta, d'altra parte, di accrescere il livello di competitività
dell'agricoltura meridionale, senza però trascurare il miglioramento e la
valorizzazione della qualità delle nostre produzioni tipiche. I sentieri dello
sviluppo agricolo che puntano esclusivamente all'aumento delle rese e
delle quantità prodotte si scontrano, infatti, sempre più con i problemi di
saturazione dei mercati e con i vincoli derivanti dai meccanismi di
penalizzazione delle eccedenze produttive instaurati a livello comunitario,
oltreché beninteso con le esigenze del consumatore e dell'industria di
trasformazione.

Basti citare, al riguardo, l'esempio del grano duro, sempre più eccedentario
a livello nazionale e comunitario, ma che l'Italia è costretta ad importare in
grandi quantità perché la produzione nazionale non risponde spesso alle
esigenze dell'industria pastaria nazionale né sotto il profilo della qualità
molitoria, né per quanto riguarda l'attitudine alla pastificazione. Lo
scadimento qualitativo della produzione di grano duro e l'eterogeneità
dell'offerta oltre che appesantire il mercato con eccedenze, che è difficile
smaltire, si riflette negativamente anche sul prezzo di mercato e quindi sui
redditi degli agricoltori.

Un altro settore in cui il miglioramento qualitativo, anche se a scapito di


una diminuzione delle rese, può contribuire al rilancio della produzione
meridionale è quella del vino. Nel Sud si produce, infatti, il 54% della
produzione vinicola nazionale: dal punto di vista quantitativo si potrebbe
dunque affermare senza tema di smentite, che la viticoltura nazionale ha il
suo baricentro nel Sud.

Tuttavia, soltanto il 2,6% della produzione vinicola del Sud è classificata


come vino DOC, contro oltre il 17% nelle regioni del Centro-Nord. Per
tradizione, forse più che per vocazione, il Sud ha infatti una tipologia di
prodotto indirizzato quasi esclusivamente ai vini da tavola e da taglio, con
basso valore aggiunto, e con scarsa capacità di penetrazione sui mercati
extra-regionali.

In questo quadro, sembra importante porsi l'obiettivo di un miglioramento


qualitativo del prodotto, in maniera che questo non sia più indirizzato
esclusivamente alla distillazione, al mercato locale o alla
commercializzazione allo stato sfuso, ma che possa invece rivolgersi ad
una precisa tipologia di consumatore, da conoscere prima nelle sue
preferenze e nei suoi gusti e che si sappia, comunque, raggiungere al
momento della vendita.

181
Con questo non si vuole affermare la necessità che si debba indirizzare la
produzione meridionale esclusivamente ai segmenti di mercato
caratterizzati da prezzi e qualità elevati. Si vuole solo attirare l'attenzione
su certe potenzialità che probabilmente non sono state ancora
completamente sfruttate dagli operatori meridionali del settore enologico.
A tal fine, risulta però indispensabile creare una struttura di aziende che
sia in stretto rapporto con il mercato, che sia in grado, se necessario, di
orientare una domanda che è, quantitativamente, in calo, e che sarà sempre
più attenta ai parametri di qualità.

Analogo discorso potrebbe farsi per il settore oleicolo e per la produzione


agrumaria, che abbiamo già avuto occasione di menzionare. In entrambi i
casi, del resto, sono già operanti azioni comunitarie, nazionali e regionali,
che talvolta usufruiscono anche del concorso degli stessi produttori,
miranti ad incoraggiare il miglioramento qualitativo della produzione e,
nel caso degli agrumi, la riconversione varietale verso qualità più ricercate
dal mercato.

Sono, d'altra parte, probabilmente note le campagne promozionali per il


consumo dell'olio d'oliva, soprattutto nei paesi nordici, che la Comunità ha
lanciato da alcuni anni e che saranno probabilmente intensificate
all'avvenire, anche nei principali paesi produttori, dove il consumo
dell'olio d'oliva è minacciato dalla concorrenza degli oli di semi.

Anche nel settore degli agrumi, la Commissione ha proposto recentemente


di introdurre un finanziamento comunitario, pari al 60% della spesa, a
beneficio delle organizzazioni di produttori, per il varo di campagne
promozionali a favore del consumo e del miglioramento qualitativo degli
agrumi.

Per far fronte a missioni di questo genere occorre, tuttavia, che le


organizzazioni dei produttori superino lo stadio piuttosto primario in cui
molte di esse si trovano, si attrezzino adeguatamente ed affrontino il
mercato, oltre che sovraintendere passivamente alla distruzione della
produzione, prima ancora di ricercare attivamente un mercato.

Di fronte alle nuove necessità delle catene di distribuzione, raggruppare un


potenziale produttivo di dimensioni adeguate rappresenta una condizione
essenziale per la loro riuscita. Ecco perché la Commissione ha proposto,
contemporaneamente, di rafforzare i criteri di riconoscimento delle nuove
organizzazioni dei produttori nel settore degli agrumi, di rendere
obbligatorio l'impegno, per gli associati, di apportare la totalità della loro

182
produzione all'associazione a cui appartengono, di fissare un volume
minimo di produzione da commercializzare e di controllare che queste
organizzazioni dispongono realmente della capacità necessaria per la
commercializzazione.

La terza sfida da vincere, per l'agricoltura meridionale, è quella del


miglioramento dei canali distributivi e delle strutture di
commercializzazione, nonché della concentrazione dell'offerta, necessaria
per superare il frazionamento della produzione e soddisfare le esigenze
dell'industria e della grande distribuzione.

È noto, in effetti, che l'incapacità di un'offerta polverizzata, come quella


del Mezzogiorno, nonché priva di qualsivoglia coordinazione atta ad
assicurare preventivamente quantità, qualità e tempi di rifornimento,
costituisca oggi la più grossa remora all'inserimento sui mercati
internazionali di molti prodotti meridionali, ed in primo luogo di quelli
orticoli.

Ne fa fede il fatto che, mentre il Mezzogiorno rappresenta il 60% della


produzione orticola nazionale, il suo contributo all'esportazione non
supera il 40% del totale nazionale. È invece proprio l'efficienza dei canali
distributivi e il loro inserimento nei grandi circuiti commerciali europei
che, per molti prodotti, fa la forza dell'agricoltura in altre regioni
mediterranee della Comunità e di quella dei paesi del Nord Europa, anche
in settori, come quello ortofrutticolo, in cui, apparentemente, il Sud
dovrebbe partire vincente.

Le disfunzioni del mercato ortofrutticolo meridionale - ma il discorso


potrebbe estendersi anche ad altri prodotti, come il vino e l'olio - non solo
riducono i margini di guadagno per i produttori, senza peraltro accrescere
la competitività delle produzioni meridionali, ma sono in parte anche
responsabili dello scarso interesse per il miglioramento qualitativo della
produzione.

In effetti, una struttura di commercializzazione, essa stessa precaria e


polverizzata, rappresenta spesso un diaframma pressoché impenetrabile tra
il mondo della produzione e il mercato reale, senza contare che
caratteristiche di questo genere non permettono di acquisire segmenti di
mercato quantitativamente e qualitativamente elevati.

Se è difficile, nel breve e medio termine, modificare una situazione di


questo genere, che peraltro il settore agricolo non è in grado che

183
parzialmente di influenzare, resta il fatto che, come abbiamo detto,
organizzazioni dei produttori solide ed efficienti possono in parte supplire
a queste carenze del sistema distributivo meridionale.

La quarta ed ultima sfida con cui l'agricoltura meridionale deve


confrontarsi è quella della diversificazione produttiva, della flessibilità
degli indirizzi colturali, della ricerca di nuove forme di valorizzazione
delle risorse disponibili dal clima, all'ambiente, al territorio.

È in questo contesto che si colloca il recupero e la valorizzazione di alcune


nostre produzioni tradizionali, abbandonate in gran parte nel corso degli
ultimi decenni, ma che possono assumere oggi un ruolo non del tutto
trascurabile come fonte complementare di reddito, dalle leguminose alle
piante tessili e officinali, dall'allevamento ovino e caprino al rilancio della
frutta in guscio. È ugualmente in questo contesto che può collocarsi la
sperimentazione di colture alternative a quelle tradizionali, che si adattino
al nostro clima e ai nostri suoli e che rispondano ad una domanda effettiva
del mercato, in particolare da parte dell'industria di trasformazione.

A questo proposito, vorrei citare due recenti proposte della Commissione


che vanno in questa direzione, oltre a quelle già in vigore. La prima è
quella relativa all'introduzione di una serie di misure intese a favorire
l'utilizzazione non alimentare dei prodotti agricoli. Fra le misure proposte
figura il finanziamento di progetti di dimostrazione, in partecipazione con
l'industria di trasformazione interessata, per lo sviluppo di un certo
numero di colture alternative che potrebbero trovare un habitat favorevole
proprio nelle regioni mediterranee.

Fra le colture suscettibili di beneficiare di tali misure vorrei menzionare il


sorgo, il kenaf, il lupino amaro, ecc. La seconda proposta riguarda
l'introduzione di un regime di aiuti comunitari per incoraggiare la
produzione di alcuni cereali minori, come il miglio, la scagliola e il grano
saraceno, di cui la Comunità è deficitaria e che potrebbero costituire una
fonte supplementare di reddito nei territori meno vocati ad altre colture.

Al di là, comunque, di questi esempi e delle possibilità reali che essi


offrono per l'agricoltura meridionale, quel che mi premeva sottolineare era
l'esigenza di rompere, laddove è possibile, l'immobilismo di certi indirizzi
colturali, di cogliere tutte le opportunità che una riconversione o una
diversificazione produttiva può eventualmente offrire, di uscire, insomma,
dagli orizzonti ristretti di un'agricoltura tradizionale e sovente
monocolturale.

184
Nella stessa ottica, sarebbe opportuno non restare prigionieri degli schemi
mentali che vogliono che l'agricoltura si fermi alla soglia dell'azienda
agraria, e che l'agricoltore non possa essere un imprenditore polivalente
con interessi che vadano al di là del mero momento produttivo. In realtà,
la figura dell'imprenditore agricolo è oggi in piena evoluzione. La sua
funzione non è più soltanto quella di operatore del settore primario, di
produttore cioè di beni della terra destinati all'alimentazione diretta o
all'industria agro-alimentare.

Sempre più spesso esso assume anche le vesti dell'operatore turistico (ne
fa fede lo sviluppo dell'agriturismo e del turismo rurale), del piccolo
artigiano, allorché effettua in proprio le prime trasformazioni dei prodotti
agricoli provenienti dalla sua azienda, dell'operatore commerciale con la
vendita diretta e con il superamento dell'intermediazione, e assume perfino
il ruolo di presidio ambientale e di custode del territorio.

Di queste evoluzioni, del resto, la politica agricola comincia a farsi carico


non solo promuovendo ed incoraggiando tali mutamenti, ma riconoscendo
anche la necessità di remunerare l'agricoltore per le funzioni sociali che
esso svolge ai di là di quelle meramente produttive.

Signor Presidente,
signore e signori,

sono queste, a mio parere, alcune delle sfide principali che l'agricoltura
meridionale deve raccogliere in questa fase particolarmente delicata non
solo per il suo sviluppo ma anche per il futuro dell'agricoltura europea.
Sono sfide tanto più impegnative in quanto il contesto economico,
commerciale e finanziario in cui i problemi dell'agricoltura mediterranea si
pongono oggi è in piena evoluzione e in quanto la politica agricola, a
livello nazionale e comunitario, è confrontata a nuove esigenze e
sottoposta a nuovi vincoli.

Da alcuni anni, in effetti, la politica agricola comune è in una fase di


profondi cambiamenti non tanto e non solo perché era necessario che essa
si adattasse ai cambiamenti intervenuti nell'agricoltura europea e sul
mercato comunitario e internazionale, dei prodotti agricoli.

Allorché la politica agricola comune è stata messa in atto, all'inizio degli


anni Sessanta, la Comunità doveva importare una parte dei suoi fabbisogni
alimentari e poteva dunque fissarsi come obiettivi realistici un aumento

185
della sua produzione e il perseguimento di una sicurezza alimentare che
sembrava ancora precaria.

Oggi la situazione è profondamente modificata, non solo a livello


comunitario, ma anche a livello mondiale. Lo scenario del mercati agricoli
mondiali è dominato infatti da eccedenze crescenti per molte produzioni,
frutto di un'evoluzione della produzione molto più dinamica di quella della
domanda, o quanto meno di quella solvibile.

La Comunità è diventata esportatrice netta per la maggior parte dei


prodotti agricoli, grazie anche ai meccanismi di sostegno delle
esportazioni previste nel quadro della PAC, e ciò ha generato conflitti
commerciali, sempre più frequenti e sempre più virulenti con i nostri
principali concorrenti sui mercati mondiali. D'altra parte, i prezzi e i
redditi agricoli sono crollati sotto il peso di crescenti eccedenze
invendibili, malgrado un aumento vertiginoso delle spese per il sostegno
dei mercati agricoli.

È essenzialmente per risanare questa situazione, per ritrovare un più stretto


collegamento tra produzione agricola e mercato, per assicurare la
competitività dell'agricoltura europea in un contesto internazionale sempre
più difficile che è stata avviata da alcuni anni a questa parte la riforma
della politica agricola comune.

Essa ha come obiettivi essenziali di sensibilizzare maggiormente gli


agricoltori ai segnali che vengono dal mercato, di favorire l'integrazione
dell'agricoltura nel sistema economico generale, di ristabilire un miglior
equilibrio dei mercati agricoli, di rompere la spirale perversa "crescita
della produzione/riduzione dei prezzi e dei redditi agricoli".

Ciò non significa, come molti temono, ed altri auspicano, abbandonare


l'agricoltura alle sole leggi del mercato, anche se non è nemmeno
concepibile fare dell'agricoltura un settore perennemente assistito e sempre
più dipendente dall'intervento pubblico.

Significa, invece, voler affrontare i mali alla radice e non curare soltanto i
sintomi del malessere. Significa combinare obiettivi di efficienza
produttiva con quelli della salvaguardia del modello europeo di
agricoltura, basata fondamentalmente su una miriade di imprese familiari,
spesso di modeste dimensioni e confrontate ad handicap socio-strutturali
difficili da rimuovere.

186
Accanto, infatti, ad una serie di misure restrittive, che toccano la generalità
degli agricoltori, la Comunità ha rinforzato in questi ultimi anni i
dispositivi a favore delle aziende strutturalmente più deboli e di quelle più
esposte alle conseguenze negative degli sforzi di razionalizzazione che
sono richiesti all'agricoltura comunitaria in questa fase di transizione.

Si tratta, perciò, da un lato, di ridurre il livello di sostegno per le imprese


agricole che ne hanno meno bisogno e, dall'altro, di accrescere le risorse
destinate a favorire il miglioramento strutturale e la diversificazione della
produzione e delle attività rurali, ad attenuare gli squilibri sociali o
regionali, ad incoraggiare la ricerca e ad incentivare la creazione di servizi
di sviluppo che aiutino gli agricoltori per le loro scelte economiche,
nonché ad adattare le pratiche agronomiche ai condizionamenti imposti
dalla tutela dell'ambiente. Si tratta, in una parola, di riorientare la politica
agricola comune verso un tipo di sostegno che sia più selettivo e che possa
avvalersi di strumenti diversificati in funzione della molteplicità degli
obiettivi perseguiti.

È in questo contesto che va oggi inquadrata la problematica dello sviluppo


agricolo nelle regioni meridionali. È un contesto che potrebbe apparire,
per certi versi, meno favorevole che nel passato, quando la soluzione dei
problemi di queste regioni poteva ancora essere concepita in termini di
trasferimenti finanziari a favore delle regioni mediterranee o di
miglioramento delle dotazioni infrastrutturali di cui queste dispongono.

È invece un contesto da cui le regioni meridionali possono trarre


ugualmente profitto non tanto e non solo in termini di rientri finanziari ma
anche e soprattutto in termini di miglioramento dell'efficienza
dell'agricoltura, di salvaguardia del reddito delle imprese economicamente
e strutturalmente più deboli, di valorizzazione delle risorse locali, di
sviluppo economico e sociale, di riduzione degli squilibri territoriali.

La Comunità può svolgere un ruolo decisivo a questo riguardo. La


promozione di "uno sviluppo armonioso delle attività economiche
nell'insieme della Comunità" costituisce, anzi, uno degli obiettivi
fondamentali che il Trattato assegna alla costruzione europea.

Sarebbe tuttavia utopistico e fondamentalmente illusorio ritenere che la


Comunità possa far fronte, da sola, a sfide di questa portata o che possa
sostituirsi all’iniziativa dei singoli e delle istituzioni, a livello nazionale,
regionale e locale.

187
Le chiavi per vincere queste sfide stanno, certo, a Bruxelles, come taluni
ritengono, ma anche nelle sedi istituzionali competenti a livello centrale e
periferico; direi anzi che stanno soprattutto nelle vostre mani: prenderne
coscienza è già un passo in avanti decisivo, una vittoria della ragione sulla
rassegnazione e sull’inerzia, un segno promettente di progresso, una
garanzia per il vostro, anzi, per il nostro futuro.

188
Agricoltura, Mezzogiorno, Europa del 1992*

(Bari, Settembre 1990)

Signor Presidente,
signore e signori,

alle soglie degli anni 90 la questione dello sviluppo agricolo nelle regioni
meridionali resta una questione prioritaria, tanto per i poteri pubblici
nazionali e regionali che per la Comunità europea. Malgrado, infatti, i
numerosi progressi realizzati nel corso degli ultimi venti anni e malgrado
le numerose misure e i programmi di azione messi in atto nel corso di
questo periodo per rispondere ai problemi specifici di queste regioni,
molte delle preoccupazioni che stavano alla base di queste misure restano
ancora aperte.

Peraltro, ai ben noti problemi socio-strutturali che ostacolano da sempre il


processo di sviluppo agricolo in queste regioni si sono aggiunti, in questi
ultimi anni, nuovi elementi di preoccupazione che rendono opportuna una
riflessione d'insieme che tenga conto non solo dei freni tradizionali allo
sviluppo agricolo di queste regioni ma anche dei cambiamenti in corso o
prevedibili nello scenario nazionale, comunitario e internazionale.

Sono quindi lieto che la Giornata della Cooperazione agricola ACLI sia
consacrata a questo tema e che ciò avvenga nel quadro prestigioso della
Fiera del Levante. Per quanto mi riguarda, e nei limiti di tempo
disponibile, spero di poter apportare un modesto contributo personale a
questa riflessione che mi auguro la più ampia e la più approfondita
possibile non solo in questa sede ma anche in tutte le altre sedi competenti.

Credo che non sia necessario, soprattutto dopo la brillante relazione del
prof. De Meo, spendere molte parole per ricordare quali sono i principali
handicap ambientali, strutturali e socioeconomici ai quali è confrontata
l'attività agricola in queste regioni. Vorrei piuttosto soffermarmi su alcuni
dei fattori determinanti del nuovo contesto in cui l'agricoltura meridionale
si troverà ad operare nei prossimi anni. Questi nuovi fattori sono,
essenzialmente, i seguenti:

* Relazione alla Giornata della Cooperazione agricola ACLI – Fiera del


Levante – Bari, settembre 1990

189
a) la saturazione dei mercati per la maggior parte dei prodotti agricoli
derivante, da una parte, dalla crescita sostenuta della produzione e delle
rese e, dall'altra, dal rallentamento quando non addirittura dalla riduzione
dei consumi. In queste condizioni, è stato necessario, soprattutto a partire
dal 1984, di riformare in profondità la politica agricola comune al fine di
adattare gli strumenti disponibili alle nuove esigenze;

b) il completamento del mercato interno comunitario entro la fine del


1992. In realtà, la competizione tra produttori e regioni di produzione è già
abbastanza avanzata, in seno all’agricoltura europea, grazie alla libera
circolazione dei prodotti agricoli in gran parte realizzata in questo settore.
Non sono quindi da attendersi sviluppi particolarmente sconvolgenti da
questo evento.

Tuttavia, l’eliminazione delle ultime barriere tecniche agli scambi, in


particolare nel settore fitosanitario e veterinario, in vista del
completamento del mercato unico, può avere conseguenze tutt’altro che
trascurabili sugli scambi intra-comunitari e di conseguenza sulla
localizzazione della produzione agricola. La completa apertura dei mercati
nazionali che ne risulta accrescerà inevitabilmente la concorrenza non solo
sui mercati dei paesi importatori, ma anche su quelli dei paesi esportatori
che sono stati talvolta protetti, finora, da legislazioni fitosanitarie e
veterinarie piuttosto restrittive.

E’ il caso, ad esempio, del settore ortofrutticolo, per il quale uno dei


fenomeni più vistosi attesi per i prossimi anni dovrebbe essere l’apertura
del mercato italiano alle importazioni in provenienza dalla Spagna, a
seguito dell’eliminazione delle barriere fitosanitarie che hanno finora
protetto il nostro mercato;

c) la fine del periodo transitorio per la Spagna e il Portogallo e la


progressiva integrazione di questi due Stati membri nell'organizzazione
comune del mercati per alcuni dei prodotti più sensibili per le altre regioni
mediterranee (ortofrutticoli, vino, olio d'oliva, ecc.). A questo riguardo,
non bisogna perdere di vista che l'incidenza dell'adesione della Spagna e
del Portogallo sui mercati di questi prodotti sensibili è stata finora in gran
parte neutralizzata dalle disposizioni previste dal trattato di adesione.

La maggior parte di queste disposizioni transitorie giungeranno tuttavia


presto a scadenza. Ciò significa che 1'incidenza dell'ampliamento della
Comunità alla Spagna e al Portogallo sull'agricoltura delle altre regioni
mediterranee non comincerà a farsi sentire che nel corso dei prossimi anni,

190
a mano a mano che l'impatto delle misure transitorie si riduce e che
l'applicazione della politica agricola comune all'agricoltura spagnola avrà
prodotto tutti i suoi effetti, soprattutto in termini di incremento di certe
produzioni;

d) l'evoluzione delle relazioni internazionali della Comunità. La Comunità


è pienamente impegnata nel processo di liberalizzazione degli scambi
mondiali dei prodotti agricoli e di apertura dei mercati ai prodotti
provenienti dai paesi terzi. Queste tendenze dovrebbero continuare nel
corso dei prossimi anni e dovrebbero avere delle ripercussioni non
trascurabili sull'agricoltura europea nel corso degli anni 90.

La riduzione progressiva del sostegno all'agricoltura, la soppressione di


certe barriere tecniche agli scambi, le concessioni commerciali che la
Comunità accorda ai suoi partner, in particolare ai paesi in via di sviluppo,
potranno influenzare non soltanto gli scambi, ma anche il livello di
produzione e la redditività di certe colture nella Comunità, e quindi anche
nelle regioni mediterranee.

Si è voluto mettere l'accento su questi nuovi fattori di preoccupazione per


l'agricoltura meridionale non tanto per riaprire vecchie polemiche o
alimentare il pessimismo quanto invece per sottolineare come i
tradizionali handicap socio-strutturali e le strozzature organizzative di cui
soffre l'agricoltura meridionale sono tanto più controproducenti quanto più
si intensificano gli scambi e quanto più aspra diventa la competizione con
altre aree di produzione.

Da qui la necessità di agire con ancora maggiore determinazione,


coinvolgendo tutti gli attori interessati a questo processo ed in primo luogo
gli stessi agricoltori, perché si rimuovano gli ostacoli allo sviluppo
agricolo delle regioni meridionali o, quanto meno, quelli su cui l'uomo può
avere un'influenza reale.

Per quanto la riguarda, la Comunità non ha mai trascurato di attribuire a


questo problema la dovuta importanza. A questo proposito, credo anzi che
non sia azzardato affermare che alcune delle tappe più significative nella
storia della costruzione europea e nell'evoluzione delle diverse politiche
comuni sono state segnate allorché la Comunità si è fatta carico, a diverse
riprese e sui vari piani, dei problemi inerenti alle regioni mediterranee.

L'estensione dell'organizzazione comune dei mercati agricoli ai prodotti


mediterranei tenendo conto delle peculiarità di questi ultimi; il varo di una

191
politica comunitaria delle strutture agricole; l'avviamento di una politica
regionale comunitaria; l'adozione, alla fine degli anni Settanta, di
quell'insieme di misure strutturali e di mercato che vanno sotto il nome di
"pacchetto mediterraneo" e più tardi dei "programmi integrati
mediterranei"; la recente riforma dei fondi strutturali e il raddoppio dei
mezzi finanziari disponibili, costituiscono, mi sembra, altrettanti passi
significativi non solo verso una migliore integrazione delle regioni
mediterranee col resto dell’Europa, ma, anche e soprattutto verso un
rafforzamento di quella solidarietà tra paesi e regioni della Comunità che
costituisce uno dei pilastri fondamentali su cui poggia la costruzione
europea.

E' in quest'ottica che vanno inquadrati gli interventi comunitari a sostegno


dell'agricoltura nelle regioni meridionali. Una delle idee-guida dell'azione
comunitaria a questo riguardo è la convinzione che sarebbe un errore
isolare totalmente il problema dello sviluppo agricolo di queste regioni dal
problema più generale del loro sviluppo economico. In effetti, anche se
l'agricoltura gioca in queste regioni un ruolo essenziale, bisogna
riconoscere che il problema di sviluppo al quale esse sono confrontate è,
certo, un problema agricolo, ma è anche e soprattutto un problema di
sviluppo globale della loro economia.

La politica agricola comune può dunque apportare un contributo non


indifferente allo sviluppo di queste regioni, ma non può, da sola, risolvere
problemi di questa ampiezza e di questa natura. La Commissione è, in
effetti, convinta che solo un rinforzamento e una concentrazione degli
strumenti di intervento disponibili a livello comunitario, ma anche a
livello nazionale e regionale, e solo un approccio intersettoriale, possono
permettere di affrontare adeguatamente questo problema.

Non è tuttavia mia intenzione, in questa sede, ripercorrere le linee di


intervento dell'operatore pubblico, ed in particolare della Comunità, a
favore dell'agricoltura meridionale e, più in generale, dello sviluppo socio-
economico di queste regioni. Del resto, probabilmente ciò ha già fatto o
farà l'oggetto di altre relazioni a questo convegno.

Vorrei invece cogliere questa occasione e approfittare della presenza di


tanti operatori del mondo agricolo meridionale per passare in rivista quelle
che, a mio avviso, rappresentano le sfide, vecchie e nuove, che
l'agricoltura mediterranea, ed in particolare quella del nostro Mezzogiorno,
deve raccogliere e se possibile vincere in questo decennio, anche alla luce

192
delle mutazioni in corso nell'agricoltura europea e nel contesto generale in
cui essa dovrà operare.

La prima, e la più impegnativa, viene dal mercato. Si tratta, infatti, non


soltanto di adeguare l'offerta agricola alle esigenze quantitative e
qualitative della domanda, ma anche di riuscire a mantenere e, se
possibile, ad accrescere la presenza delle produzioni meridionali sul
mercato interno e internazionale. Tutto questo, per di più, in un contesto di
crescente apertura dei mercati, di liberalizzazione degli scambi e di
sfrenata competizione tra produttori e regioni di produzione.

Si tratta certamente di una sfida impegnativa per l'agricoltura meridionale,


che è rimasta per lungo tempo piuttosto impermeabile ai mutamenti che si
sono verificati in questi anni sul mercato, sia per quanto riguarda il
consumo di prodotti alimentari allo stato fresco, sia per quanto attiene i
prodotti destinati alla trasformazione industriale.

Si tratta, però, al tempo stesso, di una sfida che può risultare benefica per
l'agricoltura meridionale, nella misura in cui essa può stimolare un più
stretto collegamento tra impresa agricola e mercato, una razionalizzazione
delle strutture di produzione e dei circuiti di commercializzazione, una
valorizzazione di alcune produzioni tipiche.

L'aumento dei consumi nel settore ortofrutticolo, la riscoperta e il


diffondersi della cosiddetta "dieta mediterranea", la più grande sensibilità
del consumatore alla genuinità degli alimenti, la migliore conoscenza che,
anche attraverso il turismo, interno ed internazionale, si ha dei prodotti del
Sud, costituiscono indubbiamente alcuni dei fattori potenziali di
affermazione e di crescita dell'agricoltura meridionale.

Non bisogna tuttavia dimenticare che le regioni meridionali del nostro


paese non sono le sole a poter offrire certe produzioni e a soddisfare certe
esigenze del consumatore. In un mercato europeo sempre più aperto e in
cui le restanti barriere agli scambi stanno per scomparire, esse si trovano
infatti sempre più in competizione con altre regioni di produzione.
all'interno e all'esterno della Comunità, che beneficiano di analoghi
vantaggi climatici e sovente anche di una migliore organizzazione.
commerciale.

E' dunque imperativo, per i produttori meridionali, raccogliere la sfida del


mercato, procedendo a tutti quegli adattamenti dell'offerta e alle
riconversioni varietali necessarie, nonché a quei miglioramenti qualitativi,

193
a quelle iniziative commerciali indispensabili per mantenere e se possibile
per accrescere la loro presenza, tanto sul mercato interno che su
quello comunitario.

La seconda sfida che l'agricoltura meridionale deve raccogliere e superare


viene dall'interno dello stesso settore agricolo. Si tratta, infatti, non solo di
produrre per il mercato. Si tratta anche di riuscire a produrre e vendere a
prezzi competitivi, di migliorare le tecniche di produzione e di raccolta, di
contenere i costi di produzione, di superare l'handicap rappresentato dalla
polverizzazione dell'offerta grazie allo sviluppo di efficienti strutture
associative e all'effettiva operatività delle organizzazioni dei produttori,
non solo come organismi preposti ai ritiri dal mercato ma anche e
soprattutto come strumenti di concentrazione dell'offerta, di valorizzazione
della produzione e di commercializzazione di quest'ultima.

Si tratta, d'altra parte, di accrescere il livello di competitività


dell'agricoltura meridionale, senza però trascurare il miglioramento e la
valorizzazione della qualità delle nostre produzioni tipiche. I sentieri dello
sviluppo agricolo che puntano esclusivamente all'aumento delle rese e
delle quantità prodotte si scontrano, infatti, sempre più con i problemi di
saturazione dei mercati e con i vincoli derivanti dai meccanismi di
penalizzazione delle eccedenze produttive instaurati a livello comunitario,
oltreché beninteso con le esigenze del consumatore e dell'industria di
trasformazione.

Basti citare, al riguardo, l'esempio del grano duro, sempre più eccedentario
a livello nazionale e comunitario, ma che l'Italia è costretta ad importare in
grandi quantità perché la produzione nazionale non risponde spesso alle
esigenze dell'industria pastaria nazionale né sotto il profilo della qualità
molitoria, né per quanto riguarda l'attitudine alla pastificazione. Lo
scadimento qualitativo della produzione di grano duro e l'eterogeneità
dell'offerta oltre che appesantire il mercato con eccedenze, che è difficile
smaltire, si riflette negativamente anche sul prezzo di mercato e quindi sui
redditi degli agricoltori,

Un altro settore in cui il miglioramento qualitativo, anche se a scapito di


una diminuzione delle rese, può contribuire al rilancio della produzione
meridionale è quella del vino. Analogo discorso potrebbe farsi per il
settore oleicolo e per la produzione agrumaria. A questo riguardo vale
forse la pena di ricordare che in certi anni i ritiri dal mercato, vale a dire
nella maggior parte dei casi, la distruzione pura e semplice del prodotto,
grazie ai meccanismi di intervento comunitario, hanno rappresentato circa

194
un terzo della produzione nazionale di arance e oltre il 90% della
produzione di mandarini.

Peraltro è il caso di sottolineare che in alcuni di questi settori sono già


operanti azioni comunitarie, nazionali e regionali, che talvolta
usufruiscono anche del concorso degli stessi produttori, miranti ad
incoraggiare il miglioramento qualitativo della produzione e, nel caso
degli agrumi, la riconversione varietale verso qualità più ricercate dal
mercato.

La terza sfida da vincere, per l'agricoltura meridionale, è quella del


miglioramento dei canali distributivi e delle strutture di
commercializzazione, nonché di concentrazione dell'offerta, necessario per
superare il frazionamento della produzione e soddisfare le esigenze
dell'industria e della grande distribuzione.

E' noto, in effetti, che 1'incapacità di un'offerta polverizzata, come quella


del Mezzogiorno, nonché priva dei necessari strumenti organizzativi atti
ad assicurare quantità, qualità e tempi di rifornimento richiesti dai canali
distributivi, costituisca oggi la più grossa remora all'inserimento sui
mercati, nazionali e comunitari, di molti prodotti meridionali, ed in primo
luogo di quelli orticoli.

E' invece proprio l'efficienza dei canali distributivi e il loro inserimento


nei grandi circuiti commerciali europei che, per molti prodotti, fa la forza
dell'agricoltura di altre regioni mediterranee e di quella dei paesi del Nord
Europa, anche in settori, come quello ortofrutticolo, in cui, a priori, il Sud
dovrebbe partire vincente.

Le disfunzioni del mercato ortofrutticolo meridionale, ma il discorso


potrebbe estendersi anche ad altri prodotti, come il vino e l'olio, non solo
riducono i margini di guadagno per i produttori, senza peraltro accrescere
la competitività delle produzioni meridionali, ma sono in parte anche
responsabili dello scarso interesse per il miglioramento qualitativo della
produzione.

In effetti. una struttura di commercializzazione, essa stessa precaria e


polverizzata, rappresenta spesso un diaframma pressoché impenetrabile tra
il mondo della produzione e il mercato reale, impedendo che i segnali del
mercato raggiungano il produttore. Se è difficile, nel breve e medio
termine, modificare una situazione di questo genere, che peraltro il settore
agricolo non è in grado che parzialmente di influenzare, resta il fatto che

195
organizzazioni dei produttori solide ed efficienti possono in parte supplire
a queste carenze del sistema distributivo meridionale.

La quarta sfida con cui l'agricoltura meridionale deve confrontarsi è quella


della diversificazione produttiva, della flessibilità degli indirizzi colturali,
della ricerca di nuove forme di valorizzazione delle risorse disponibili, dal
clima all'ambiente al territorio.

E' in questo contesto che si colloca il recupero e la valorizzazione di


alcune nostre produzioni tradizionali, abbandonate in gran parte nel corso
degli ultimi decenni, ma che possono assumere oggi un ruolo non del tutto
trascurabile come fonte complementare di reddito, dalle leguminose alle
piante tessili e officinali, dall'allevamento ovino e caprino al rilancio della
frutta in guscio.

E' ugualmente in questo contesto che può collocarsi la sperimentazione di


colture alternative a quelle tradizionali, che si adattino al nostro clima e ai
nostri suoli e che rispondano ad una domanda effettiva del mercato.

Al di là, comunque, di questi esempi e delle possibilità reali che tali


produzioni possono offrire all'agricoltura meridionale, quel che mi preme
sottolineare è l'esigenza di rompere, laddove è possibile, l'immobilismo di
certi indirizzi colturali, di cogliere tutte le opportunità che una
riconversione o una diversificazione produttiva può eventualmente offrire,
di uscire, insomma, dagli orizzonti ristretti di un'agricoltura tradizionale e
sovente monocolturale.

Nella stessa ottica, sarebbe opportuno non restare prigionieri di schemi


mentali che vogliono che l'agricoltura si fermi alla soglia dell'azienda
agraria e che l'agricoltore non possa essere un imprenditore polivalente,
con interessi che vadano al di là del mero momento produttivo.

In realtà, la figura dell'imprenditore agricolo è oggi in piena evoluzione.


La sua funzione non è più soltanto quella di operatore del settore primario,
di produttore cioè di beni della terra destinati all'alimentazione diretta o
all'industria agro-alimentare. Sempre più spesso esso assume anche le
vesti dell'operatore turistico (ne fa fede lo sviluppo dell'agriturismo e del
turismo rurale), del piccolo artigiano, allorché effettua in proprio le prime
trasformazioni dei prodotti agricoli provenienti dalla sua azienda,
dell'operatore commerciale con la vendita diretta e con il superamento
dell'intermediazione, e assume perfino il ruolo di presidio ambientale e di
custode del territorio.

196
Di queste evoluzioni, del resto, la politica agricola comune comincia a
farsi carico non solo promuovendo ed incoraggiando tali mutamenti, ma
riconoscendo anche la necessità di remunerare l'agricoltore per le funzioni
sociali che esso svolge al di là di quelle meramente produttive.

Signor Presidente,
signore e signori,

sono queste, a mio avviso, alcune delle sfide principali che l'agricoltura
meridionale deve raccogliere in questa fase particolarmente delicata non
solo per il suo sviluppo ma anche per il futuro dell'agricoltura europea.
Sono sfide tanto più impegnative in quanto il contesto economico,
commerciale e finanziario in cui i problemi dell'agricoltura mediterranea si
pongono è in piena evoluzione e in quanto la politica agricola, a livello
nazionale e comunitario, è confrontata a nuove esigenze e sottoposta a
nuovi vincoli.

Da alcuni anni, in effetti, come si è ricordato, la politica agricola comune è


in una fase di profondi cambiamenti non solo perché era necessario che
essa si adattasse ai cambiamenti intervenuti nell'agricoltura europea e sul
mercato comunitario e internazionale dei prodotti agricoli, ma anche per
assicurare la competitività dell'agricoltura europea in un contesto
internazionale sempre più difficile, per ritrovare un più stretto
collegamento tra produzione agricola e mercato, per rendere più efficace il
sostegno pubblico all'agricoltura.

La riforma della politica agricola comune ha infatti come obiettivi


essenziali di sensibilizzare maggiormente gli agricoltori ai segnali che
vengono dal mercato, di favorire l'integrazione dell'agricoltura nel sistema
economico generale, di ristabilire un migliore equilibrio dei mercati
agricoli, di rompere la spirale perversa "crescita della
produzione/riduzione dei prezzi e dei redditi agricoli". Ciò non significa,
come molti temono, ed altri auspicano, abbandonare l'agricoltura alle sole
leggi del mercato, anche se non è nemmeno concepibile fare
dell'agricoltura un settore perennemente assistito e sempre più dipendente
dall'intervento pubblico.

Significa, invece, voler affrontare i mali alla radice e non curare soltanto i
sintomi. Significa combinare obiettivi di efficienza produttiva con quelli
della salvaguardia del modello europeo di agricoltura, basata
fondamentalmente su una miriade di imprese familiari, spesso di modeste

197
dimensioni e confrontate ad handicap socio-strutturali difficili da
rimuovere.

Accanto, infatti, ad una serie di misure restrittive che toccano la generalità


degli agricoltori, la Comunità ha rinforzato in questi ultimi anni i
dispositivi a favore delle aziende strutturalmente più deboli e di quelle più
esposte alle conseguenze negative degli sforzi di razionalizzazione che
sono richiesti all'agricoltura comunitaria in questa fase di transizione.

E' in questo contesto che va oggi inquadrata la problematica dello sviluppo


agricolo nelle regioni meridionali. E’ un contesto che potrebbe apparire,
per certi versi meno favorevole che nel passato, quando la soluzione dei
problemi di queste regioni poteva ancora essere concepita prevalentemente
in termini di trasferimenti finanziari a favore delle regioni mediterranee o
di miglioramento delle dotazioni infrastrutturali di cui queste dispongono.

E' invece un contesto da cui le regioni meridionali possono trarre


ugualmente profitto non tanto e non solo in termini di rientri finanziari ma
anche e soprattutto in termini di miglioramento dell'efficienza
dell'agricoltura, di salvaguardia del reddito delle aziende economicamente
e strutturalmente più deboli, di valorizzazione delle risorse locali, di
sviluppo economico e sociale, di riduzione degli squilibri territoriali.

E' questo un atto di fede che mi sento di poter fare non solo perché sono
convinto che esistono ancora margini per un ulteriore rafforzamento della
struttura produttiva dell'agricoltura meridionale, ma anche perché sono
sicuro che esistono nel mondo agricolo, ed in particolare nelle regioni del
Mezzogiorno, le energie e le capacità necessarie per sormontare le
difficoltà che il processo di sviluppo agricolo comporta in queste regioni.

198
Parte quarta

Agricoltura Ampliamento Fiscalità

199
Il ruolo socioeconomico dell'agricoltura e il completamento
del mercato unico
(Giugno 1992)
Testo di un articolo per il Commissario Ray MacSharry
(Originale in inglese)

Il 1992 segnerà probabilmente una svolta nella costruzione dell'Europa.


Non solo tutti i lavori preparatori per l'instaurazione, il 1° gennaio 1993,
del grande mercato interno si concluderanno entro la fine del 1992, ma
anche quest'anno la Comunità avrà compiuto un ulteriore fondamentale
passo nella sua storia ponendosi obiettivi più ambiziosi: quelli di
realizzare l'unione economica e monetaria e, a più lungo termine, di creare
un'unione politica più stretta tra i cittadini europei. Oggi, dunque, siamo
sulla soglia di una nuova era, rivolta verso nuove frontiere: quelle
dell'Europa del 2000.

Il 1992, però, rappresenta anche un anniversario della costruzione


dell'Europa. Un anniversario, certo, che non sarà segnato da celebrazioni
ufficiali ma la cui importanza non può passare inosservata: l'introduzione,
esattamente 30 anni fa, dei primi regolamenti riguardanti quello che
ancora oggi resta l'esempio più emblematico di una vera politica comune
che la Comunità ha ideato negli ultimi 30 anni, vale a dire la politica
agricola comune (PAC).

È una felice coincidenza che ho voluto ricordare non solo per il suo valore
simbolico, ma anche per sottolineare lo strettissimo legame che esiste da
sempre tra lo sviluppo della politica agricola comune, da un lato, e i
progressi realizzati - ma occasionalmente anche le difficoltà incontrate -
nel processo di integrazione europea degli ultimi 30 anni, dall'altro.

In un momento in cui la Comunità Europea si prepara ad affrontare la


nuova sfida rappresentata dalla costruzione di un'Europa sempre più
integrata e dall'instaurazione di un'autentica Unione Europea, vale la pena
ricordare il contributo decisivo che la PAC ha dato ai progressi finora
raggiunti in quest'area e il ruolo determinante che ha svolto nello sviluppo
di una forma di agricoltura che risponde alle esigenze di un mercato
sempre più ampio e sempre più esigente.

La PAC, ovviamente, ha anche dato origine a una serie di inconvenienti e


di problemi, nonché a numerosi tentativi per superarli o prevenirli che

201
sono stati fatti nell'ambito di riforme che a volte sono state piuttosto
dolorose per gli agricoltori europei. Ha tuttavia fornito un quadro
favorevole allo sviluppo dell'agricoltura europea e alla sua
modernizzazione, la cui mancanza renderebbe oggi molto più difficile
avanzare verso una più profonda integrazione socio-economica a livello
europeo.

I progressi realizzati dall'agricoltura comunitaria negli ultimi 30 anni sono


stati davvero straordinari. Dall'inizio degli anni Sessanta il settore agricolo
ha perso più della metà della sua forza lavoro ma allo stesso tempo ha
aumentato la propria produzione di oltre il 50% in termini di volume.

Nessun altro settore dell'economia rivendica un aumento così spettacolare


della produttività. Per questo le carenze alimentari sono un ricordo del
passato, tanto che da alcuni anni scorte abbondanti e sempre crescenti di
generi alimentari, per i quali non c'è mercato, ci creano seri problemi
economici e finanziari, per non citare le controversie commerciali con i
maggiori paesi esportatori sui mercati mondiali.

Gli stessi agricoltori sono stati i primi a soffrire a causa di questo


successo. Nonostante le misure di sostegno al reddito introdotte
nell'ambito della PAC, i redditi agricoli, pur essendo migliorati
sensibilmente fino alla metà degli anni Settanta, sono poi diminuiti o
peggiorati sotto la pressione delle eccedenze in continuo aumento nella
maggior parte delle aree di produzione.

L'industria, sia a monte che a valle dell'agricoltura, ha contribuito e


contemporaneamente ha beneficiato di questo processo di
razionalizzazione e modernizzazione dell'agricoltura europea, non solo
fornendo strumenti e mezzi di produzione sempre più efficienti, ma
diventando via via il principale sbocco della produzione agricola dal
momento in cui vengono lavorati circa tre quarti della produzione,
aumentando così il valore aggiunto del settore agroalimentare.

La Comunità, nella sua qualità di secondo esportatore mondiale di prodotti


agricoli, ha occupato una posizione significativa sul mercato mondiale
svolgendo un ruolo della massima importanza nel soddisfare il fabbisogno
alimentare dei meno abbienti e nel prevenire la fame nel mondo.

Questi sviluppi hanno avuto ripercussioni anche sui consumatori europei.


La politica agricola comune e la libera circolazione dei prodotti agricoli
all'interno del mercato comune hanno completamente alterato le

202
condizioni di approvvigionamento alimentare del consumatore europeo:
non solo da una situazione di penuria a quella in cui l'autosufficienza è
stata superata da tempo per la maggior parte dei prodotti agricoli, ma
anche in termini di più ampia varietà di prodotti disponibili sul mercato, di
ragionevole aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e di una loro
maggiore stabilità.

Anche se la sua importanza economica è diminuita sensibilmente negli


ultimi 30 anni, in particolare in conseguenza della forma abbastanza
avanzata di industrializzazione che ha caratterizzato lo sviluppo
economico della Comunità sin dal dopoguerra e dell'esplosione
relativamente più recente del settore dei servizi, resta il fatto che
l'agricoltura è ancora un settore chiave nell'Europa di oggi.

Eppure, a giudicare dall'entità del contributo dell'agricoltura al prodotto


interno lordo (PIL) della Comunità (non superiore a circa il 3%), si
potrebbe concludere che l'agricoltura svolge un ruolo del tutto marginale
nell'economia comunitaria. È vero che in alcuni Stati membri, come
la Grecia e l'Irlanda, l'agricoltura rappresenta oltre il 10% del PIL. In altri,
invece, come Regno Unito e Germania (pre-unificazione), la cifra è
inferiore al 2%.

In realtà, l'importanza economica dell'agricoltura nella Comunità supera di


gran lunga quella rappresentata da questo solo parametro. Per cominciare,
va tenuto presente che quasi 9 milioni di lavoratori nella Comunità
praticano l'agricoltura come occupazione principale, corrispondente a circa
il 7% della forza lavoro totale (contro, ad esempio, il 3% negli Stati Uniti).
In Grecia, invece, questa cifra raggiunge il 25%, in Portogallo il 17% e in
Irlanda il 16% (ma nel Regno Unito solo il 2%). Va aggiunto che il
numero totale di persone che lavorano nelle aziende agricole, anche per un
periodo limitato durante l'anno, supera i 17 milioni per la Comunità nel
suo insieme.

Queste cifre danno già un quadro più chiaro del ruolo svolto
dall'agricoltura come fonte di occupazione nell'economia comunitaria.
Tuttavia esse sono ancora largamente insoddisfacenti in quanto
l'agricoltura non è un settore isolato dal resto dell'economia ma
rappresenta una parte integrante di un ben più vasto complesso
agroalimentare, a monte e a valle dell'agricoltura, di cui costituisce una
sorta di anello di mezzo.

203
È difficile giudicare con precisione l'importanza dell'intera filiera
agroalimentare, ma è vero che è molto maggiore di quella del solo settore
agricolo. Basti pensare, per dare qualche indicazione, che il solo settore
agroalimentare impiega più di 2 milioni di persone e ha una produzione
stimata in oltre 350 miliardi di ecu, che è circa il 70% superiore al valore
della produzione finale del settore agricolo, facendone così una delle
principali industrie della Comunità.
Si potrebbero citare anche altri dati a testimonianza dell'importanza
fondamentale dell'agricoltura, soprattutto se si scende dal livello
macroeconomico a quello territoriale molto più vicino alla realtà socio-
economica delle nostre aree rurali. Al di là di tutti questi parametri
statistici più o meno sofisticati, tuttavia, credo sia importante ora prendere
atto dei cambiamenti in atto del ruolo dell'agricoltura e degli agricoltori e
quindi del loro ruolo nella società.
Se in passato il ruolo essenziale, se non l'unico, che veniva riconosciuto
era quello della produzione alimentare, oggi viene sempre più riconosciuto
che l'agricoltore svolge anche il ruolo di salvaguardia dell'ambiente
naturale e che la presenza dell'uomo sulla terra è essenziale per garantire
lo sviluppo socio-economico delle nostre aree rurali.
L'agricoltore, infatti, ha sempre svolto un ruolo diretto o indiretto
nell'espletamento di questi ruoli che esulano dall'ambito strettamente
agricolo e di cui la società nel suo insieme è stata la principale
beneficiaria.
Ciò che è relativamente nuovo è la maggiore consapevolezza della sua
desiderabilità per la collettività nel suo insieme. Desiderabilità da
attribuire a questi nuovi ruoli e agli occupati in agricoltura in quanto tali e
non per una forma astratta di solidarietà con il mondo rurale.
È da questo approccio, più rispettoso della duplice funzione
dell'agricoltore nell'economia e nella società, che trae ispirazione la
riforma della politica agricola comune, alla quale ho dedicato gran parte
delle mie energie sin dall'inizio della il mio mandato.
Sono molto lieto che dopo quasi diciotto mesi di discussioni e negoziati il
Consiglio dei ministri dell'Agricoltura abbia raggiunto un accordo, nel
maggio 1992, non solo sulla linea generale delle proposte della

204
Commissione sulla riforma della PAC, ma anche sui principali strumenti e
sulle modalità che stabiliscono la direzione e la forma della politica
agricola comunitaria per il prossimo futuro.
Ritengo che questo sia lo sviluppo più importante nei 30 anni di storia
della politica agricola comune. Dopo aver analizzato tutte le possibili
opzioni per la riforma della politica agricola, la Commissione ha concluso
che un approccio equilibrato comprenderebbe controlli della produzione
per contribuire a rendere i prodotti agricoli della Comunità più
competitivi, sia sul mercato interno che internazionale, garantendo nel
contempo il mantenimento del reddito degli agricoltori attraverso una
compensazione diretta. Il Consiglio ha ora pienamente approvato questo
approccio.
Le implicazioni della decisione del Consiglio sono di ampia portata. In
primo luogo, la produzione sarà adeguata alle reali possibilità del mercato
sia dal punto di vista dei volumi richiesti che dei prezzi di vendita. In
secondo luogo, le risorse di bilancio saranno utilizzate in modo più
efficace per sostenere i redditi degli agricoltori piuttosto che per
accumulare eccedenze di produzione. In terzo luogo, gli agricoltori
saranno incoraggiati a produrre in modo più rispettoso dell'ambiente e, in
quarto luogo, la politica assicurerà ampie forniture di alimenti di alta
qualità per i consumatori comunitari a prezzi inferiori. D'altro canto, i
nostri partner commerciali internazionali devono riconoscere l'entità del
passo compiuto dalla Comunità e il suo contributo alla stabilizzazione dei
mercati internazionali.
L'introduzione di questa riforma a partire dalla campagna di
commercializzazione 1993/1994 non è solo il modo più appropriato per
garantire la competitività dell'agricoltura europea e per realizzare un
migliore equilibrio sui mercati agricoli, proteggendo nel contempo
l'equilibrio socio-economico nelle zone rurali, ma è anche essenziale per
garantire la piena integrazione di questo settore nel resto dell'economia in
un momento in cui tutti gli ostacoli residui alla libera circolazione delle
persone, dei beni e dei servizi stanno per scomparire all'interno della
Comunità. L'agricoltura, come l'intero complesso agroindustriale, potrebbe
così partecipare pienamente al modello di cambiamento e di crescita che la

205
creazione di un vero mercato unico di oltre 340 milioni di abitanti ha
innescato in questi anni.
Tuttavia, per conseguire questo obiettivo, che può essere raggiunto solo
gradualmente, restano ancora ostacoli da superare e barriere da
smantellare, al di là dei già notevoli progressi compiuti negli ultimi anni.
Nonostante la PAC abbia da tempo assicurato che gli ostacoli alla libera
circolazione dei prodotti agricoli siano molto meno significativi che per
molti prodotti industriali, quando, nel 1985, la Comunità si è posta
l'obiettivo di completare, entro il 1993, un grande mercato interno, vi
erano ancora numerosi ostacoli alle frontiere negli scambi di prodotti
agricoli.
Il Libro bianco del 1985 elencava più di 100 misure da adottare nel settore
agricolo per completare il mercato unico. Lo sforzo è stato enorme, non
solo in termini di numero di misure da adottare, ma anche per quanto
riguarda la natura di tali misure e la sensibilità politica di alcune materie, a
volte nascoste dietro la complessità tecnica di alcune misure. Oggi il
grosso di questo lavoro è stato intrapreso e restano solo poche misure da
adottare da qui alla fine dell'anno.
Uno dei più noti di questi ostacoli è senza dubbio quello degli importi
compensativi monetari (MCA) che, dalla metà degli anni Settanta, sono
stati applicati negli scambi di prodotti agricoli tra Stati membri e che
rappresentano per tale motivo una delle minacce più gravi al
completamento di un vero mercato unico di tali prodotti.
Dalla metà degli anni Ottanta, anche grazie alla maggiore stabilità delle
valute europee, sono stati compiuti notevoli progressi nell'abolizione di
questi meccanismi alle frontiere, comprese le ispezioni dettagliate e la
riscossione di alcuni dazi all'importazione o, a seconda delle circostanze,
la concessione di sussidi all'esportazione.
Al momento, solo quattro Stati membri (Regno Unito, Portogallo, Spagna
e Grecia) applicano ancora importi compensativi monetari. In vista della
scadenza del 1993, tuttavia, la Commissione ha già avanzato proposte per
l'abolizione dei restanti ICM e ne farà a breve altre per impedire
l'introduzione di nuovi.

206
Ostacoli abbastanza significativi alla libera circolazione dei prodotti
agricoli esistono, tuttavia, anche in campo veterinario e fitosanitario. Negli
ultimi anni sono state adottate diverse misure in questi campi. L'obiettivo
di tutte queste misure è sostanzialmente lo stesso: estendere la libera
circolazione dei prodotti, senza rischi per il consumatore, in un mercato
unico. Ciò è stato ottenuto in gran parte sostituendo i controlli alle
frontiere con quelli al luogo di origine e, in alcuni casi, al luogo di
destinazione.
Poiché consistono in controlli sanitari e fitosanitari, uno dei principali
ostacoli è stata l'esistenza di norme sanitarie diverse negli Stati membri sia
per il bestiame che per le piante. Uno degli obiettivi principali
dell'armonizzazione delle legislazioni nazionali, quindi, è stato quello di
elevare gli standard sanitari in tutti gli Stati membri al livello più alto
possibile, anche nel mercato interno di ciascuno Stato membro, in modo
che non vi sia praticamente più alcuna necessità di introdurre restrizioni al
commercio.
A tal fine, è stato necessario introdurre politiche comuni per il controllo
delle malattie, nonché per rafforzare i servizi veterinari e fitosanitari a
livello comunitario e nazionale. Uno degli obiettivi principali del servizio
di ispezione veterinaria negli ultimi anni è stato quello di verificare
l'attuazione in tutti gli Stati membri delle leggi che vietano l'uso di ormoni
stimolatori della crescita dell'allevamento e il rispetto, da parte di tutti i
macelli autorizzati della Comunità, delle disposizioni sanitarie imposte dal
Comunità.
In campo fitosanitario, nel 1991 è stata adottata una direttiva molto
importante relativa all'immissione sul mercato dei prodotti vegetali in vista
del completamento del mercato unico in questo settore. La misura è
fondamentale poiché stabilisce condizioni rigorose per la salute umana e la
protezione dell'ambiente e garantisce che gli stessi prodotti sani ed efficaci
per la protezione delle colture siano disponibili in tutta la Comunità.
È vero che, come mostrano questi esempi, queste misure sembrano a
prima vista piuttosto tecniche e di interesse solo per una cerchia molto
ristretta di specialisti. In realtà, tutte le misure adottate o da adottare da qui
a fine anno, in vista del completamento del mercato unico nel settore
agricolo, riguardano direttamente tutti i 340 milioni di consumatori della

207
Comunità, sia in termini di rafforzamento dei criteri che regolano la
salubrità dei prodotti alimentari che di garanzia di una più ampia scelta di
prodotti disponibili sul mercato.

208
Il mercato degli ortofrutticoli nell'Unione europea:
situazione e prospettive*
(Padova, aprile 1997)

Signor Presidente,
Signore e signori,

desidero anzitutto ringraziare il Comitato organizzatore, ed in particolare


l'amico Lucio Bonamano, per avermi invitato a partecipare a questo
Convegno. Esso ha luogo in un momento ed in una regione quanto mai
propizi per avviare una riflessione approfondita non solo sulla situazione e
sui problemi del mercato degli ortofrutticoli nell'Unione europea, ma
anche sulle prospettive e sulle sfide a cui esso si troverà confrontato negli
anni a venire.

Dopo più di due anni di discussioni, si sono infatti conclusi qualche mese
fa i negoziati per la riforma dell'organizzazione comune di mercato degli
ortofrutticoli, che è entrata in vigore il 1° gennaio 1997. D'altra parte,
cominciano a delinearsi con più chiarezza gli scenari comunitari e
internazionali che sono destinati a influenzare l'evoluzione dei mercati e
delle politiche agricole nel corso dei prossimi anni. E' quindi possibile
inquadrare le problematiche del settore ortofrutticolo nel contesto più
ampio delle prospettive della politica agricola comune e dell'evoluzione
prevedibile delle politiche commerciali alle soglie degli anni 2000.

A questo proposito, vale la pena di rilevare che, a cinque anni dall'avvio


della riforma della politica agricola comune, di cui la riforma
dell'organizzazione comune di mercato nel settore degli ortofrutticoli
costituisce una delle ultime tappe, sta per aprirsi una nuova fase di
riflessione sui possibili sviluppi della politica agricola comune, alla luce
delle nuove e numerose sfide che l'agricoltura europea dovrà affrontare nel
breve e medio termine.

In effetti, anche se il bilancio delle riforme messe in atto finora, ed in


primo luogo quella relativa ai seminativi, è globalmente positivo, sia in
termini di miglioramento dell'equilibrio dei mercati agricoli, che in termini
di rafforzamento della competitività della produzione comunitaria sui
mercati interni e internazionali nonché di miglioramento e stabilizzazione
dei redditi agricoli, la Commissione europea ha ritenuto fin da ora
necessario avviare una riflessione sugli adattamenti che è necessario

209
introdurre nella politica agricola comune affinché l'agricoltura europea
possa affrontare con successo le impegnative scadenze che l'attendono alle
soglie del nuovo millennio e possa, non solo mantenere il suo potenziale
produttivo e commerciale, ma sia anche in grado di partecipare
all'espansione eventuale degli scambi in un contesto internazionale che si
fa sempre più difficile.

Malgrado i miglioramenti già realizzati, quella della competitività sui


mercati internazionali resta infatti la prima grande sfida a cui l'agricoltura
europea dovrà far fronte nel prossimo decennio. Grazie anche alle
sovvenzioni accordate nel quadro della politica agricola comune,
l'agricoltura europea è diventata col tempo un'agricoltura sempre più
esportatrice. Nel 1995 essa ha esportato prodotti agricoli e alimentari per
più di 40 miliardi di ECU (pari a circa 80.000 miliardi di lire).

La sfida per i prossimi anni è quella di preservare questa capacità


esportatrice, in un contesto in cui le sovvenzioni all'esportazione sono
destinate a ridursi drasticamente. Ciò è possibile soltanto se si riduce
ulteriormente lo scarto tra prezzi comunitari e prezzi mondiali, che resta
ancora elevato per molti settori produttivi, malgrado le riduzioni degli
ultimi anni.

E' in questa direzione che è intenzionata ad orientarsi la Commissione


europea anche se resta ancora da definire in che modo e in che misura è
possibile compensare una riduzione ulteriore dei prezzi comunitari. E ciò
non soltanto perché è necessario giustificare meglio, nei confronti del
resto della società, le sovvenzioni al settore agricolo, ma anche perché gli
aiuti compensativi, che rappresentano ormai più della metà della spesa
agricola, dovranno essere accordati secondo modalità che siano
compatibili con gli obblighi derivanti dagli accordi internazionali.

A questo proposito, non v'è dubbio che la seconda grande sfida a cui
l'agricoltura europea si troverà confrontata nei prossimi anni è quella
dell'apertura, nel 1999, di un nuovo ciclo di negoziati multilaterali nel
quadro dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, dopo quello che è
sfociato negli accordi di Marrakech dell'aprile 1994. Anche se è ancora
prematuro prevederne l'esito, sembra abbastanza scontato che l'obiettivo di
questo nuovo round sarà quello di una ulteriore liberalizzazione degli
scambi, anche per quanto riguarda i prodotti agricoli.

Ai tre vincoli introdotti dall'accordo di Marrakech (riduzione del sostegno


interno, riduzione della protezione alla frontiera e riduzione delle

210
sovvenzioni all'esportazione) dovrebbero aggiungersi quanto meno altri
due temi: le preoccupazioni agro-ambientali e la necessità di rafforzare il
disaccoppiamento tra sovvenzioni all'agricoltura e livelli produttivi, in
maniera da evitare che gli aiuti accordati a certe produzioni incoraggino
un aumento della produzione. Questa esigenza sembra essersi
ulteriormente rafforzata dopo la riforma della politica agricola americana,
decisa un anno fa e che ha appunto introdotto un disaccoppiamento
pressoché totale tra programmi di sostegno all'agricoltura e livelli di
produzione.

Una spinta aggiuntiva alla liberalizzazione degli scambi agricoli


internazionali dovrebbe anche venire dalla moltiplicazione degli accordi
regionali aventi come obiettivo, a medio o a lungo termine, la creazione di
zone di libero scambio o la messa in atto di un'unione doganale, all'interno
delle quali tutti i prodotti o una parte di essi possano circolare liberamente.

L'Unione europea non solo è partecipe di questo processo, ma è anche uno


dei principali motori di questa dinamica. La volontà di affermare la
presenza dell'Unione sulla scena mondiale e di rafforzare sempre più i
legami che la uniscono a molte regioni limitrofe (come i paesi del bacino
mediterraneo) o anche geograficamente molto lontane (come l'America
Latina o il Sud Africa) costituisce anzi una delle sfide principali che essa
si è impegnata a raccogliere in questo scorcio di secolo.

In quest'ottica, vale la pena di ricordare, in particolare, che la Conferenza


euro-mediterranea di Barcellona, del dicembre 1995, ha affermato la
volontà dei partecipanti di realizzare, entro il 2010, una zona di libero
scambio euro-mediterranea, che copra l'essenziale degli scambi, ivi
compresi la maggior parte dei prodotti agricoli. Infine, non va dimenticata
la creazione, a partire dal 1° gennaio 1996, di un'unione doganale tra
l'Unione europea e la Turchia, da cui sono per il momento esclusi i
prodotti agricoli, ma che in avvenire potrebbe estendersi anche a questi
prodotti.

L'altra grande sfida per l'agricoltura europea nel prossimo decennio è


quella dell'ampliamento dell'Unione europea ai paesi dell'Europa centrale
e orientale che hanno presentato una domanda di adesione. Anche in
questo caso, è ancora prematuro tentare di delineare le modalità e le
condizioni in cui questo nuovo ampliamento potrà concretamente
realizzarsi.

211
La Commissione europea prepara attualmente il proprio parere sulle
domande di adesione di questi paesi all'Unione europea, ed è prevedibile
che essa non mancherà di indicare le difficoltà che questo processo
comporta. Se tuttavia le modalità e i tempi dell'adesione restano ancora da
definire, è invece acquisita la volontà politica dei Quindici di realizzare
quanto prima possibile questo nuovo e più impegnativo allargamento ad
est dell'Unione europea.

E' in questo contesto più generale in piena evoluzione che occorre


collocare qualunque riflessione sulle prospettive di evoluzione a medio e a
lungo termine del mercato ortofrutticolo comunitario. E' vero, infatti, che
quest'ultimo ha le sue specificità che lo distinguono dagli altri settori
produttivi.

E' vero, inoltre, che la riforma dell'o.c.m. «Frutta e legumi» è stata appena
varata e che essa è quindi destinata ad assicurare un quadro legislativo
sufficientemente stabile per diversi anni. Resta il fatto che molte delle
sfide e degli appuntamenti più impegnativi per l'agricoltura europea nel
corso del prossimo decennio coinvolgono in pieno, direttamente o
indirettamente, anche il settore ortofrutticolo.

Anche per gli ortofrutticoli, in effetti, la prima e più impegnativa sfida dei
prossimi anni sarà quella della competitività della produzione comunitaria
non solo sui mercati internazionali, ma sempre più spesso anche sullo
stesso mercato interno. Anche in questo caso si tratterà, da una parte, di
mantenere e se possibile consolidare le posizioni dell'Unione sui mercati
d'esportazione, dall'altra di competere, sul piano commerciale, con le
importazioni in provenienza dai paesi terzi. Queste ultime continueranno
ad essere sottoposte a regimi restrittivi, ma non potranno non risentire
dell'evoluzione inevitabile delle politiche commerciali verso una più
grande liberalizzazione degli scambi internazionali.

In realtà, si tratta di una sfida non del tutto nuova in quanto già oggi una
quantità non trascurabile del consumo comunitario di ortofrutticoli, freschi
e trasformati, e non solo di prodotti esotici, è soddisfatta grazie alle
importazioni in provenienza dei paesi terzi. In effetti, mentre l'Unione
europea è globalmente autosufficiente in legumi freschi, con un tasso di
auto-approvvigionamento che si aggira sul 105%, essa è largamente
deficitaria per l'insieme della frutta fresca, avendo un tasso di auto-
approvvigionamento che non supera l'85%, ma che scende ad un livello
inferiore all'80% se si includono gli agrumi.

212
La situazione varia tuttavia fortemente da uno Stato membro all'altro, da
un prodotto all'altro e persino da un anno all'altro. I paesi del nord Europa,
sono in genere deficitari in ortofrutticoli. I paesi del sud Europa sono, al
contrario, eccedentari. Occorre però relativizzare questa presentazione un
po' troppo schematica.

E ciò non solo perché due paesi del nord Europa, come il Belgio e
l'Olanda, hanno tassi di auto-approvvigionamento per l'insieme degli
ortofrutticoli di gran lunga superiori a quelli di alcuni paesi del sud
Europa, ma anche perché l'Unione europea, pur essendo autosufficiente o
addirittura eccedentaria di talune produzioni è, allo stesso tempo,
importatrice di grandi quantità di ortofrutticoli dai paesi terzi. Ciò è
perfettamente comprensibile alla luce dell'internazionalizzazione crescente
degli scambi di ortofrutticoli e delle evoluzioni delle esigenze dei
consumatori, nel corso degli ultimi trent'anni.

Nel passato, in effetti, in mancanza di mezzi adeguati di conservazione, gli


scambi interregionali di ortofrutticoli erano limitati ai prodotti non
immediatamente deperibili. Da molto tempo, tuttavia, grazie allo sviluppo
dei trasporti e dei mezzi di conservazione, gli scambi di ortofrutticoli,
anche a lunga distanza, si sono fortemente sviluppati ben al di là delle
frontiere nazionali e addirittura continentali.

La mondializzazione degli scambi di ortofrutticoli non è più limitata ai


soli prodotti esotici o tropicali, ma interessa sempre più anche i prodotti
delle regioni temperate. Malgrado la loro distanza, anche i paesi temperati
dell'emisfero australe (Australia, Nuova Zelanda, Africa del Sud, Cile,
ecc.) sono sempre più presenti sui mercati comunitari.

Questa evoluzione corrisponde in gran parte a quella delle abitudini


alimentari del consumatore. Da una parte, in effetti, il consumatore
europeo vuole allargare la gamma dei prodotti alimentari a sua
disposizione. D'altra parte, esso esige un approvvigionamento permanente
in ortofrutticoli durante tutto l'anno e non soltanto durante il periodo di
produzione nella sua regione. Questo spiega in parte perché l'Unione
europea è una grande importatrice di ortofrutticoli anche per i prodotti per
i quali essa è globalmente autosufficiente o eccedentaria.

L'Unione europea è, in effetti, non soltanto uno dei principali produttori di


ortofrutticoli al mondo, ma anche il primo importatore mondiale di
ortofrutticoli. Nel 1995 essa ha importato l'equivalente di 12 miliardi di

213
ECU (pari a circa 25 mila miliardi di lire) e ha esportato per circa 4
miliardi di ECU (pari a circa 8.500 miliardi di lire).

La bilancia commerciale del posto «ortofrutticoli » è dunque fortemente


negativa per l'Unione europea nel suo insieme, per un importo che è stato
nel 1995 di circa 8 miliardi di ECU. Gli ortofrutticoli rappresentano, in
effetti, il principale comparto per le importazioni agricole dell'Unione
europea e quello che ha il maggior peso sul deficit della sua bilancia
agricola.

Il saldo negativo per la voce « ortofrutticoli » è peraltro in crescita,


essendo passato da meno di 6 miliardi di ECU nel 1989 a oltre 8 miliardi
di ECU nel 1995. Globalmente, per il periodo 1989-1995, le importazioni
extra comunitarie di ortofrutticoli sono aumentate del 42% in volume e del
35% in valore. Le esportazioni extra CE, in compenso, sono aumentate del
52% in volume e del 22% in valore.

Questa tendenza all'aumento delle importazioni di ortofrutticoli dai paesi


terzi non sembra destinata ad invertirsi nel corso dei prossimi anni. E ciò
per varie ragioni. Anzitutto occorre ricordare che, a livello mondiale, si
osserva una tendenza di fondo verso una progressione consistente della
produzione a fronte di un aumento più moderato dei consumi. Dovrebbero
quindi accentuarsi i rischi di eccedenze crescenti a livello mondiale,
soprattutto per la frutta.

In questa situazione, sarà inevitabile che i pochi mercati solvibili che


saranno ancora disponibili facciano l'oggetto di attenzioni particolari da
parte di tutti i paesi esportatori. E' il caso, in particolare, del mercato
comunitario, che si presenta come uno dei più interessanti, vuoi perché
esso rappresenta un potere di acquisto elevato, vuoi perché i prezzi
nell'Unione europea sono generalmente remunerativi, vuoi perché
l'Unione europea, come abbiamo visto, importa già oggi una quantità
crescente del suo fabbisogno di ortofrutticoli.

In secondo luogo, la messa in atto dell'accordo di Marrakech, anche se la


diminuzione dei prezzi d'entrata e dei dazi doganali che ne deriva non
dovrebbe creare problemi rilevanti ai produttori comunitari di
ortofrutticoli, ad eccezione forse del settore delle mele e delle pere,
implica comunque una certa riduzione della preferenza comunitaria.

E' evidente che, in seguito all'accordo, la concorrenza sarà più intensa,


tanto sul mercato comunitario quanto sui nuovi mercati di esportazione. I

214
produttori comunitari dispongono, a questo proposito, di vantaggi
incontestabili: la qualità dei loro prodotti, il loro dinamismo su un mercato
in piena evoluzione, i servizi che possono associare al prodotto offerto,
ecc.

Onde garantire che essi possano pienamente usufruire di queste


potenzialità, la Commissione verificherà peraltro che le conclusioni
dell'Uruguay Round vengano pienamente applicate dai partner
dell'Unione, particolarmente l'accesso ai loro mercati. Il rafforzamento
della competitività della produzione comunitaria è dunque realmente una
delle sfide maggiori per l'avvenire. Questo spiega perché esso rappresenta
uno degli obiettivi centrali della riforma dell'o.c.m. ortofrutticoli.

Indipendentemente dalle sfide esterne, anche le tendenze in atto e gli


sviluppi prevedibili della produzione e dei consumi nell'Unione europea
comportano dei fattori di rischio per l'avvenire del mercato ortofrutticolo
comunitario. Vale quindi la pena di soffermarsi su questi differenti aspetti,
a cominciare dall'evoluzione dei consumi.

L'Unione europea ha consumato, nel 1994, circa 45 milioni di tonnellate di


legumi, 25 milioni tonnellate di frutta fresca e più di 11 milioni di
tonnellate di agrumi allo stato fresco. Rapportata ad una popolazione di
350 milioni di abitanti, ciò equivale ad un consumo medio di 128 kg di
legumi, 71 kg di frutta fresca e 31 kg di agrumi per anno e per abitante. Si
tratta, beninteso, di cifre indicative, in quanto il consumo per abitante di
ortofrutticoli varia considerevolmente non solo da uno Stato membro
all'altro, ma anche a seconda del reddito del nucleo familiare, l'età del
consumatore e le abitudini alimentari di ciascun individuo.

Per quanto riguarda le tendenze a lungo termine, bisogna constatare che,


malgrado il miglioramento del livello di vita, dell'evoluzione delle
abitudini alimentari e dell'ampliamento della gamma dei prodotti offerti ai
consumatori, il consumo di frutta fresca nell'Unione europea (agrumi
esclusi) stagna intorno ai 70 kg a testa da una quindicina di anni. La frutta
più consumata è rappresentata dalle mele e dalle pere, con un consumo
individuale che si situa, globalmente, intorno ai 34 kg all'anno.

Il consumo di frutta a nocciolo (albicocche, ciliegie, pesche, nettarine e


prugne) è aumentato leggermente nel corso degli ultimi quindici anni, ma
la crescita si è rallentata da qualche anno. Il consumo di frutta esotica è
dominato dalle banane : esso è in leggero aumento. Quello dell'altra frutta

215
è relativamente stazionario, ad eccezione delle fragole, il cui consumo per
abitante è in leggero aumento.

Il consumo per abitante di legumi freschi è aumentato di circa il 10-15%


nel corso degli ultimi quindici anni. In particolare, si osserva una
diminuzione del consumo individuale di patate, una certa stabilità del
consumo di pomodori consumati allo stato fresco e una progressione di
quello degli altri legumi, in particolare le insalate, le carote e i funghi.
Tuttavia, nel corso degli ultimi anni si osserva una riduzione del consumo
di ortofrutticoli nell'Unione europea come conseguenza della crisi
economica e della caduta dei consumi.

Per quanto riguarda gli agrumi, il consumo globale di arance (fresche e


trasformate) ha progredito in maniera spettacolare: da 3,3 milioni di
tonnellate nel 1975 a più di 12 milioni di tonnellate nel 1990. Questa
crescita è tuttavia imputabile unicamente all'aumento del consumo di
succhi, mentre il consumo di arance fresche è relativamente stazionario.
Vale peraltro la pena di rilevare che la crescita del consumo di succhi di
arance è stata pressoché esclusivamente sostenuta dalla crescita
vertiginosa delle importazioni di succhi concentrati, a basso prezzo,
soprattutto dal Brasile e dagli Stati Uniti. Il consumo di limoni è stabile,
mentre quella degli altri agrumi è in aumento, ad eccezione, tuttavia, dei
mandarini, il cui consumo è praticamente in via di sparizione.

Un discorso a parte meritano gli ortofrutticoli trasformati. Mentre nel


passato soltanto le eccedenze di produzione rispetto ai bisogni immediati
del consumatore erano utilizzati per la trasformazione, oggi numerose
colture sono prodotte per i soli bisogni dell'industria di trasformazione.

Una filiera specifica a questo settore, avente delle caratteristiche proprie e


che ha determinato una interpenetrazione crescente del mondo agricolo e
del mondo industriale, si è così sviluppata nel tempo, sotto l'impulso
dell'evoluzione della domanda e delle esigenze del consumatore.

Questa evoluzione è determinata da numerosi fattori: generalizzazione del


lavoro femminile, cambiamenti nelle abitudini alimentari, un ruolo più
grande delle attività legate al tempo libero, ecc. Tutte queste ragioni
possono essere riassunte con la ricerca di una più grande diversità di
prodotti conservati elaborati e di una più grande facilità nella preparazione
dei pasti. A tutto questo va aggiunto l'interesse crescente del consumatore
per un migliore equilibrio nutrizionale nonché la necessità di disporre di
prodotti che possano essere facilmente stoccati durante un periodo

216
relativamente lungo nelle catene del freddo e che possano essere
facilmente utilizzati per la preparazione dei pasti.

Un ruolo importante nell'evoluzione della domanda di ortofrutticoli


giocano anche i cambiamenti che si registrano nel settore della
trasformazione e della distribuzione. A questo riguardo, è il caso di
ricordare che il settore della distribuzione nell'Unione europea ha subito
un importante processo di concentrazione che concerne tanto gli
approvvigionamenti che le vendite.

Questo ha provocato, soprattutto nei paesi del Nord Europa, una


diminuzione del numero di dettaglianti accompagnata da un aumento della
superficie media di vendita e un aumento dell'importanza del self-service.
I grandi distributori importano direttamente una parte crescente dei loro
bisogni. Essi possono quindi imporre le loro condizioni ai fornitori e
richiedere, ad esempio, che i prodotti vengano confezionati in maniera che
essi possano essere messi direttamente in vendita nei supermercati.

D'altra parte, l'industria agro-alimentare comunitaria che, in molti settori,


ha per molto tempo conservato un carattere semi-artigianale, è anch'essa
soggetta ad un processo accelerato di razionalizzazione e concentrazione.
Questo processo, come quello che interessa il settore distributivo e della
trasformazione, tende ad attenuare, se non ad eliminare i legami che
esistono molto spesso a livello locale, regionale o nazionale tra la
produzione agricola, la sua commercializzazione e la sua trasformazione.

I gruppi commerciali o industriali che operano nel settore alimentare


avranno sempre più tendenza ad agire in una visione multinazionale, tanto
nella scelta della localizzazione delle unità operative che nella scelta dei
loro fornitori. Questa tendenza sarà anche favorita dall'eliminazione dei
residui ostacoli agli scambi intra-comunitari, a seguito della realizzazione
del « grande mercato » all'interno dell'Unione europea e dalla
liberalizzazione progressiva degli scambi a livello internazionale.

Il mercato degli ortofrutticoli nell'Unione europea è entrato, a partire dal


1992, in una fase di incertezza e di forte variabilità, o addirittura di crisi
profonda per certe produzioni, caratterizzata da una produzione in
aumento, da consumi che non mostrano segni di dinamismo e da prezzi
alla produzione spesso in forte ribasso.

Oltre che dal miglioramento delle rese, questo aumento della produzione
di ortofrutticoli nella Comunità deriva anche dall'aumento delle superfici.

217
Esso è stato accentuato, in taluni casi, anche dall'arrivo nel settore degli
ortofrutticoli di nuovi produttori proveniente da altri settori di produzione,
ed in particolare da quelli sottoposti alle misure di limitazione della
produzione introdotti dalla riforma della politica agricola comune, i quali
si sono riconvertiti alla produzione di ortofrutticoli, considerati come un
settore più redditizio oppure meno penalizzato dalla riforma. Questo
fenomeno appare tuttavia abbastanza marginale nel quadro delle difficoltà
attuali del mercato ortofrutticolo europeo.

Un altro fattore che è destinato ad accrescere la competitività tra


produttori e regioni di produzione è rappresentato dal completamento del
mercato unico a partire dal 1° gennaio 1993 all'interno dell'Unione
europea. In effetti, l'eliminazione delle ultime barriere tecniche, in
particolare nel settore fitosanitario, che ne consegue, può avere delle
conseguenze non trascurabili sugli scambi intra-comunitari e quindi sulla
localizzazione della produzione.

L'apertura dei mercati nazionali che ne risulta avrà per effetto inevitabile
una concorrenza maggiore non soltanto sul mercato dei paesi importatori,
ma anche su quello dei paesi membri esportatori, che sono stati talvolta
protetti finora da legislazioni fitosanitarie piuttosto restrittive. Questa
competitività è stata anche rafforzata, in questi ultimi anni, dalla piena
integrazione della Spagna e del Portogallo nell'Unione europea nel
mercato ortofrutticolo comunitario, integrazione che, fino a pochi anni fa,
non aveva potuto ancora realizzarsi integralmente a causa
dell'applicazione di misure transitorie negli scambi di ortofrutticoli tra
questi paesi e il resto dell'Unione europea.

Infine, un ultimo elemento destinato ad influenzare, all'avvenire, la


situazione di approvvigionamento in ortofrutticoli dell'Unione europea è
rappresentata dall'evoluzione delle relazioni internazionali dell'Unione
europea. Quest'ultima, come abbiamo già detto, è in effetti sempre più
impegnata nel processo di liberalizzazione degli scambi mondiali di
prodotti agricoli e di apertura dei suoi mercati ai prodotti provenienti dai
paesi terzi.

La riduzione progressiva del sostegno all'agricoltura, la soppressione di


certe barriere tecniche agli scambi, le concessioni commerciali che
l'Unione europea sarà indotta ad accordare ai suoi partner, in particolare a
quelli del bacino mediterraneo, costituiscono altrettanti fattori esterni
destinati ad influenzare non soltanto gli scambi, ma anche il livello di
produzione e la redditività degli ortofrutticoli nell'Unione europea.

218
Al di là di tutti questi fattori, tuttavia, è soprattutto l'evoluzione della
domanda che è destinata a condizionare le prospettive a medio e a lungo
termine del mercato degli ortofrutticoli nell'Unione europea.

A questo proposito, occorre anzitutto sottolineare che i consumi alimentari


per abitante in tutti i paesi occidentali hanno raggiunto livelli prossimi alla
saturazione fisiologica. D'altra parte, il fattore demografico,
contrariamente al passato, non costituisce più, soprattutto in certi Stati
membri, un elemento di dinamismo particolarmente significativo
nell'evoluzione del consumo globale di prodotti alimentari. Per il prossimo
decennio, in effetti, si stima che la popolazione dell'Unione europea a
Quindici dovrebbe accrescersi ad un tasso dello 0,4% all'anno, mentre nel
periodo 1960-80 essa ha progredito ad un ritmo vicino allo 0,7% all'anno.

Detto questo, e alla luce delle tendenze osservate nel corso degli ultimi
quindici anni, si possono tirare le conclusioni seguenti sulle prospettive a
medio e a lungo termine della domanda di ortofrutticoli nella Comunità:

- per quanto riguarda gli agrumi, anche se il consumo di succo di


agrumi dovesse continuare ad aumentare come nel passato, non
sembra che la continuazione di questo fenomeno possa avere
un'incidenza significativa né sulle prospettive di sviluppo della
produzione comunitaria, né sugli scambi con i paesi terzi, al di
fuori di quelli con il Brasile e con gli Stati Uniti, fornitori
tradizionali di succhi di agrumi a basso prezzo. E questo
soprattutto a causa dei problemi di adeguatezza qualitativa della
produzione comunitaria e di competitività della produzione
brasiliana e americana sul mercato comunitario;

- le mele, le pesche e le pere sono confrontate a dei problemi di


saturazione dei mercati, a causa sia dei livelli di produzione troppo
elevati che di un'evoluzione non sufficiente dinamica, se non in
regressione, della domanda. Questo non impedisce, come abbiamo
già visto, che l'Unione europea importi dai paesi terzi delle grandi
quantità di certi ortofrutticoli e in particolare di mele, soprattutto
fuori stagione;

- per i pomodori allo stato fresco, il consumo è relativamente


stabile intorno ai 4 milioni di tonnellate all'anno e non dovrebbe
registrare cambiamenti spettacolari nei prossimi anni. Al contrario,
il consumo di pomodori trasformati, dopo un periodo di

219
stagnazione o di calo, ha conosciuto una ripresa, grazie soprattutto
allo sviluppo di nuovi prodotti a base di pomodori, determinato
dall'evoluzione della domanda e delle abitudini alimentari dei
consumatori (fast-food, piatti precotti, ecc.). Dei nuovi prodotti
continuano ad apparire sul mercato, mentre il consumo di
pomodori pelati si è in qualche misura ripreso.

Si tratta quindi di un mercato in espansione, ad eccezione del


concentrato di pomodoro, il cui consumo ristagna da alcuni anni;
per gli altri ortaggi freschi la situazione è caratterizzata, nel lungo
termine, da un certo dinamismo tanto della produzione che del
consumo, in particolare per quanto riguarda i peperoni, le insalate,
le carote, i fagiolini e i cavolfiori. Tuttavia, nel corso degli ultimi
anni anche il consumo di questi ortaggi è stazionario o addirittura
in regresso, in relazione con la crisi economica e il calo
generalizzato dei consumi;

- il mercato dei legumi trasformati è in piena evoluzione,


soprattutto a causa dei cambiamenti nelle abitudini dei
consumatori. Non sembra dunque irrealistico attendersi una
prosecuzione trend di consumo in aumento sul lungo termine;

- la domanda di frutta trasformata è, a seconda del prodotto, vuoi


stazionaria, vuoi in aumento, ma ad un ritmo molto moderato;

- infine, il consumo umano di legumi secchi è in diminuzione


costante nella maggior parte degli Stati membri, ad eccezione
tuttavia del Regno Unito, dove esso è aumentato sensibilmente nel
corso degli ultimi anni.

In conclusione, le prospettive di evoluzione della domanda di ortofrutticoli


nell'Unione europea sembrano piuttosto mitigate, a breve e a medio
termine, ad eccezione di qualche prodotto, che mostra un'evoluzione più
favorevole, a condizione tuttavia che la diminuzione del consumo,
osservato negli ultimi anni, sia un fenomeno transitorio e che non si
prolunghi nei prossimi anni. Al contrario, la produzione di ortofrutticoli
dovrebbe continuare a crescere in alcuni dei comparti produttivi che già
oggi sono confrontati a problemi di squilibrio dei mercati. Parallelamente,
come abbiamo già visto, dovrebbe accentuarsi la competizione tra regioni
e paesi produttori sia sul mercato interno che sul mercato internazionale.

Di fronte a queste sfide e ad un processo di concentrazione progressiva

220
della domanda sotto l'influenza dell'esplosione della grande distribuzione e
delle centrali di acquisto, a scapito dei mercati all'ingrosso tradizionali,
appare sempre più evidente l'esigenza di una migliore organizzazione dei
produttori di ortofrutticoli in modo da conferire al fronte della produzione
una sufficiente forza di pressione sul mercato grazie alla concentrazione
dell'offerta.

E' questa, com'è noto, una delle principali preoccupazioni che stanno alla
base della riforma del settore ortofrutticolo appena varata a livello
comunitario. La Commissione europea è infatti convinta che nel settore
ortofrutticolo, caratterizzato dalla molteplicità e varietà dei prodotti, dalla
loro deperibilità, dal peso dei piccoli produttori e dalle fluttuazioni della
produzione dovute al clima, il consolidamento delle organizzazioni dei
produttori è, non solo una necessità economica per rafforzare la posizione
dei produttori sul mercato, ma dovrebbe anche permettere la messa in atto
di un'autentica politica di commercializzazione, un adeguamento della
qualità dei prodotti in funzione delle esigenze del consumatore e quindi
una stabilizzazione del mercato ortofrutticolo.

Signor presidente,
signore e signori,

non credo che sia necessario addentrarsi a questo punto sui contenuti della
riforma dell'organizzazione comune di mercato nel settore ortofrutticolo,
tema che sarà trattato più ampiamente nelle relazioni successive. D'altra
parte, non credo che sia possibile e auspicabile affrontare in questa sede le
problematiche specifiche ai vari comparti produttivi, certo più vicine alle
preoccupazioni di coloro i quali operano in questi comparti, ma che ci
allontanerebbero dall'obiettivo che mi sono proposto con questa relazione
introduttiva: vale a dire delineare alcune delle principali sfide a cui il
mercato ortofrutticolo comunitario sarà confrontato nel corso dei prossimi
anni e indicare, al tempo stesso, alcune delle principali considerazioni che
stanno alla base della riforma.

L'obiettivo principale di questa riforma è proprio quello di aiutare e di


incoraggiare i produttori dell'Unione a raccogliere e soprattutto a vincere
queste sfide. Sono convinto che anche i produttori italiani di ortofrutticoli
sapranno cogliere le opportunità che la riforma offre loro e che essi non si
troveranno impreparati di fronte ai possibili sviluppi del mercato
ortofrutticolo nel corso dei prossimi anni. Contribuire ad avviare una
riflessione a questo proposito sarebbe già un buon risultato per me e per
gli organizzatori di questo convegno.

221
13 -

L'allargamento de/l'Unione Europea a 25 stati pone problemi nuovi ai cittadini e offre


opportunità straordinarie di sviluppo economico-sociale e culturale

LA DIMENSIONE ECONOMICA DEL NUOVO


AMPLIAMENTO DELL'UNIONE EUROPEA*
Saverio Torcasio

1. INTRODUZIONE
Il primo maggio 2004 segna una tappa storica nel processo di integrazione europea
e di unificazione del nostro continente. Dieci nuovi paesi, in gran parte dell'Europa
centrale e orientale 1, e più di 75 milioni di loro cittadini hanno deciso di unire i loro
destini a quelli dei quindici Stati membri dell'Unione europea e dei 377 milioni di cit-
tadini che già ne fanno parte. Con l'adesione, prevista nel 2007, della Romania e
della Bulgaria, e con le altre che già si profilano all'orizzonte, i paesi del vecchio con-
tinente stanno quindi per completare quell' "unione sempre più stretta" tra i popoli
d'Europa che i padri fondatori dell'Unione europea avevano preconizzato cinquan-
t'anni fa, senza tuttavia immaginare che il loro progetto sarebbe andato così avanti e
avrebbe incontrato tanto successo.
Il passaggio da un'Europa a quindici ad un'Europa a venticinque a partire dal 1°
maggio 2004 e le solenni celebrazioni che l'hanno accompagnato hanno offerto I' oc-
casione per una presa di coscienza collettiva non solo della dimensione politica, eco-
nomica, sociale e culturale di questo ampliamento, ma anche delle attese e delle
inquietudini che questo grande evento suscita nelle opinioni pubbliche dei venticinque
paesi che fanno parte della nuova Europa.
In questo articolo, ci soffermeremo più particolarmente sulle implicazioni economiche
e sociali del nuovo ampliamento dell'Unione europea. Non bisogna tuttavia dimenti-
care che, più che da considerazioni economiche, questo processo è anzitutto mosso
da considerazioni di ordine politico di grande respiro, che sono in realtà le stesse che
hanno animato fin dall'origine il progetto di
integrazione europea: consolidare la demo-
crazia, la pace e la stabilità sul continente
europeo .
Quando, perciò, si affronta un tema come
questo è bene non perdere di vista che le
problematiche che questo ampliamento sol-
leva (che peraltro, come vedremo, sono tutte
governabili senza eccessive difficoltà),
vanno apprezzate non già alla luce della

* L'albatros, Anno V, numero 3, Luglio-Settembre 2004

223
- 14 'ulmm,

situazione esistente nei paesi aderenti al


momento della loro adesione, ma piutto-
sto alla luce dei possibili sviluppi politici,
economici e sociali a cui essi potrebbero
oggi essere confrontati se non fosse stata
loro offerta, fin dall'inizio, una prospetti-
va di democrazia, di sviluppo e di soli-
darietà da parte dell'Unione europea. Ci
si renderà conto così più facilmente che
il costo del non-ampliamento sarebbe
oggi probabilmente di gran lunga supe-
riore ai costi, tutto sommato modesti, che questo ampliamento comporta, tanto più se
l'Unione saprà trarre pienamente vantaggio delle opportunità che esso le offre. Basti
pensare al prezzo pagato per sedare militarmente la violenza etnica nei Balcani e a
quello della ricostruzione in questa regione per convincersene.

2. LA PREPARAZIONE ALL'AMPLIAMENTO DA PARTE DEI PAESI ADERENTI


Negli ultimi dieci anni, anche nella prospettiva della loro adesione all'Unione euro-
pea, i paesi candidati all'adesione hanno realizzato una serie di riforme economiche
e sociali che hanno favorito la crescita economica e consentito loro di passare pro-
gressivamente da un'economia pianificata ad un' economia di mercato.
D'altra parte, l'Unione europea, consapevole della sfida che l'integrazione di questi
paesi rappresentava e dei rischi a cui essa andava incontro senza una preparazione
adeguata di questo ampliamento, ha anch'essa dato un impulso determinante alla
preparazione di questi paesi all'adesione, sia mettendo in atto una ambiziosa strate-
gia di preadesione, rivolta a fornire assistenza e a promuovere gli investimenti nei
paesi candidati, sia imponendo delle condizioni particolarmente rigorose perché que-
sti paesi potessero aderire all'Unione.
A questo proposito, vale la pena di ricordare che il Consiglio europeo di Copenaghen
ha concluso, nel 1993, che "l'adesione avrà luogo non appena un paese associato
sarà in grado di assumere gli obblighi connessi adempiendo le condizioni economi-
che e politiche richieste". Esso ha anche definito i criteri di ammissione all'UE che
restano tutt'ora in vigore per le future adesioni (i cosiddetti "criteri di Copenaghen"),
vale a dire:
La stabilità istituzionale a garanzia della democrazia;
Il principio di legalità;
Il rispetto dei diritti umani;
Il rispetto e la tutela delle minoranze;
Un' economia di mercato efficiente e la capacità di far fronte alle pressioni concorren-

224
15 -

ziali e alle forze di mercato all'interno dell'Unione;


La capacità dei paesi candidati di assumersi gli obblighi di tale appartenenza, com-
presa l'adesione agli obiettivi di un'unione politica, economica e monetaria.
Tali disposizioni sono state ulteriormente rafforzate dal Consiglio europeo di Madrid,
il quale ha dichiarato che ciascun paese candidato deve adeguare le strutture ammi-
nistrative per consentire il corretto recepimento della normativa UE a livello nazionale
e la sua corretta attuazione attraverso opportune strutture amministrative e giudizia-
rie, indispensabili per far regnare la fiducia reciproca che è il presupposto dell'ade-
sione all'UE.
I progressi compiuti da ciascun paese candidato in questi campi e il rispetto di questi
criteri hanno fatto oggetto di un continuo ed occhiuto monitoraggio da parte della
Commissione persino dopo la firma dei Trattati di adesione, awenuta ad Atene il 16
aprile 2003. E i risultati sono stati pari all'impegno che questi paesi hanno profuso in
questo sforzo titanico, al punto che il presidente della Commissione europea, Romano
Prodi, non ha esitato a parlare a questo proposito di una "marcia epica", di una "rivo-
luzione silenziosa e paziente che ha trasformato interamente la struttura statale, poli-
tica ed economica di questi paesi", di uno sforzo immane per "trasporre in legisla-
zione nazionale tutta la massa di norme e leggi comunitarie che noi abbiamo svilup-
pato in diversi decenni".
E' forse proprio da questo dato di fatto che occorre partire per meglio essere in grado
di apprezzare le implicazioni economiche e sociali di questo ampliamento. Certo, i
paesi aderenti hanno un reddito pro-capite spesso di gran lunga inferiore a quello
medio dell'Unione (in media, di ben il 54% inferiore, anche se Cipro, Malta e la Slo-
venia superano il reddito medio pro-capite della Grecia e quello della Repubblica
Ceca e dell'Ungheria non è di molto inferiore a quest'ultimo) . Si tratta, tuttavia, di
paesi con un'economia in forte espansione, che stanno realizzando uno sforzo note-
vole di modernizzazione delle infrastrutture e dell'amministrazione e che dispongono
di un potenziale di risorse umane spesso altamente qualificate e fortemente motivate.
L'immagine del parente povero che si awicina con soggezione alla dimora del ricco
padrone di casa è quindi quanto di più stereotipico e inverosimile si possa immagi-
nare per descrivere questo passaggio storico dall'UE a 15 all'UE a 25. L'allargamen-
to consentirà di fugare presto qualunque residua ambiguità dovesse ancora sussistere
a questo proposito.

3. LE CONDIZIONI PREVISTE PER L'ADESIONE DEI NUOVI PAESI MEMBRI


li principio fondamentale che sta alla base di questo come degli altri ampliamenti del-
l'Unione è l'adozione integrale da parte dei nuovi Stati membri del cosiddetto" acquis"
comunitario, vale a dire dell'insieme delle disposizioni previste dai trattati, della legis-
lazione e degli atti adottati in applicazione di questi trattati nonché degli accordi inter-

225
- 16 ~'umwid

nazionali firmati dall'Unione. Il


tutto si traduce in un insieme di atti
che occupano oltre 80.000 pagine
della Gazzetta Ufficiale dell'Unio-
ne europea . Tutti i dieci nuovi Stati
membri hanno dunque dovuto non
soltanto accettare tale "acquis",
ma anche adottare entro tempi
relativamente ristretti le disposizio-
ni nazionali nonché mettere in
piedi le strutture amministrative
necessarie per rendere esecutivo
questo insieme di norme, accordi, impegni già in vigore nell'Europa dei Quindici.
Tuttavia, per un numero ristretto di disposizioni e per un periodo limitato nel tempo,
sono state previste delle misure transitorie che derogano alle disposizioni generali, sia
a richiesta dei paesi candidati, sia non di rado a richiesta dell'Unione. E ciò, essen-
zialmente, al fine di dare un po' più di tempo ai paesi aderenti per adeguarsi alla nor-
mativa comunitaria laddove ciò non è stato materialmente possibile entro i tempi
imposti dal calendario politico della firma del trattato di adesione oppure per consen-
tire all'Unione di attutire gli effetti non desiderati dell'applicazione di alcune disposi-
zioni delle politiche comuni nei primi anni successivi all'adesione. Vale la pena, inol-
tre, di ricordare che è stata prevista nei trattati di adesione una sorta di "ammortiz-
zatore" addizionale che consente a ciascun paese dell'Unione allargata di essere
autorizzato a prendere delle misure di salvaguardia, entro un periodo massimo di tre
anni dalla data di adesione, in caso di difficoltà gravi di un settore dell'attività eco-
nomica o che possano determinare grave perturbazione nella situazione economica
di una data area.
Se ne deduce che, a parte le disposizioni transitorie a cui abbiamo già accennato e
che verranno riassunte a grandi linee qui di seguito, le quattro libertà che stanno alla
base del mercato interno (libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e
dei servizi) si applicano integralmente anche ai nuovi paesi membri a partire dalla
data di adesione. Cio' vale, in particolare, per la libera circolazione delle merci, una
sfida, questa, particolarmente difficile per i paesi aderenti, se si considera che ciò ha
comportato non solo un impegno notevole sul piano legislativo, ma anche la creazio-
ne o l'adattamento delle strutture techiche ed amministrative nazionali necessarie per
la corretta applicazione della normativa comunitaria. In quest'ultima area sono infat-
ti pochissime e di scarso rilievo economico le misure transitorie previste per alcuni pro-
dotti e alcuni paesi aderenti.
Alquanto diversa è la situazione relativa alla libera circolazione delle persone. Ovvia-

226
Àmplli11lflJll/d fJell'@ure,pr 17 -

mente, anche in questo caso vale il principio generale della libertà di movimento di
tutti i cittadini all'interno dell'Unione. Ciò implica, peraltro, non soltanto la libera cir-
colazione dei lavoratori, ma anche il mutuo riconoscimento dei titoli di studio e delle
qualificazioni professionali, i diritti legati alla cittadinanza e il coordinamento dei
sistemi di sicurezza sociale. In questa sede, il tema più rilevante è quello della libera
circolazione dei lavoratori, e ciò sia perché è proprio questo·uno dei capitoli più sen-
sibili dei negoziati di adesione e uno dei temi più ricorrenti nel dibattito sull' impatto
economico e sociale dell'ampliamento, sia perché è proprio in questo campo che, su
domanda dell'Unione, è stata prevista una delle deroghe politicamente più rilevanti e
più mortificanti di tutto il trattato di adesione.
In effetti, a decorrere dall'adesione, i lavoratori dei nuovi Stati membri hanno, in linea
di principio, il diritto di recarsi e di risiedere in tutti gli Stati membri attuali. Questi ulti-
mi, tuttavia, hanno ottenuto una fase transitoria, che consente loro di decidere, nei
primi due anni dall'ampliamento, se applicare immediatamente la libera circolazione
dei lavoratori o adottare restrizioni per una durata massima di cinque anni, estendi-
bili a sette in caso di crisi del mercato del lavoro. l'.accordo sul periodo transitorio per
la libera circolazione dei lavoratori non mette in causa la libera circolazione delle per-
sone, ad esempio per motivi di studio o di soggiorno, ma la libera circolazione per
motivi di lavoro, in qualità di lavoratore dipendente, può subire delle restrizioni, per
un periodo massimo di sette anni . Vedremo più in là come gli Stati membri si sono
posizionati rispetto a questa possibilità che è stata loro offerta (o, per meglio dire, che
è stata da loro aspramente rivendicata per far avanzare i negoziati di adesione e per
mettersi al riparo dalle prevedibili reazioni emotive delle loro opinioni pubbliche di
fronte alla prospettiva di un'immigrazione incontrollata dai nuovi paesi membri).
Per quanto riguarda la libera circolazione dei capitali, la misura transitoria più signi-
ficativa prevista dal trattato di adesione è quella che è stata accordata alla quasi tota-
lità dei paesi dell'est europeo di poter mantenere in vigore per sette anni (12 per la
Polonia) la legislazione nazionale per l'acquisto di terreni agricoli e forestali. E ciò al
fine di frenare la corsa ali' accaparramento dei terreni agricoli di questi paesi da parte
degli investitori stranieri, anche per poter beneficiare degli aiuti della politica agrico-
la comune, ed evitare così un rincaro eccessivo e frenetico del mercato fondiario.
Restrizioni analoghe sono previste per un numero più limitato di paesi per l'acquisto
di residenze secondarie.
In materia di politica di concorrenza, vale la pena di menzionare, per il loro impatto
sulla competitività relativa delle imprese dei paesi aderenti rispetto a quella delle
imprese dei Quindici, la soppressione entro un certo numero di anni, variabile da due
a undici a seconda dei paesi e delle misure, di una serie di aiuti di Stato sotto forma
di vantaggi fiscali concessi nei paesi aderenti alle medie e piccole imprese.
Un altro capitolo in cui le misure transitorie adottate hanno una certa rilevanza eco-

227
- 18

nomi ca è quello dell' agricolture


Anche in questo caso, esse sono sta!::
introdotte su richiesta dell'Unione e ci::
per sbloccare i negoziati di adesion::
che rischiavano altrimenti di avvitars
pericolosamente intorno al tema scot-
tante del costo dell'estensione imme-
diata ed integrale della politica agrico-
la comune (PAC) ai nuovi paesi ade-
renti. Lo dimostra il fatto che è toccate
ai capi di Stato e di governo dipanare
questa matassa accogliendo la proposta della Commissione di un'applicazione pro-
gressiva dei pagamenti diretti previsti dalla PAC agli agricoltori dei paesi aderenti . Le
soluzione convenuta, sia pure a malavoglia per ciò che riguarda i paesi beneficiari
prevede che i pagamenti diretti agli agricoltori di questi paesi aumentino progressi-
vamente dal 25% del livello percepito nel resto dell'Unione nel 2004, al 30% nel 2005
e così via fino a raggiungere il 100% nel 2013. Tuttavia, i nuovi Stati membri hanne
la facoltà di integrare, entro certi limiti, gli aiuti comunitari con una quota nazionale.
Anche se dettate principalmente da considerazioni di bilancio, queste disposizion i
dovrebbero contenere entro limiti politicamente e socialmente accettabili gli effetti spe-
requativi che potrebbero determinare nei paesi aderenti trasferimenti di reddito così
rilevanti ad una sola categoria sociale, quella degli agricoltori.
Sempre nel settore agricolo sono previste numerose altre misure transitorie aventi perè
una rilevanza più limitata rispetto a quella della misura già menzionata. Inoltre, diver-
se misure transitorie sono ugualmente previste, sempre per un periodo limitato, per
quanto riguarda la disciplina in materia veterinaria e fitosanitaria, che gioca un ruolo
importante sulla libera circolazione dei prodotti agricoli e sulla salubrità della nostra
alimentazione. In nessun caso, tuttavia, le disposizioni transitorie accordate sono di
natura tale da avere come effetto un incremento del rischio per la salute del cittadino
nell'Unione allargata. Non va dimenticato, a questo riguardo, che, a parte queste
deroghe transitorie, i paesi aderenti sono tenuti ad applicare fin dalla data di adesio-
ne gli standard comunitari in materia di sicurezza alimentare, standard il cui rispetto
ha implicato uno sforzo di adeguamento notevole della legislazione e delle strutture di
controllo nei paesi aderenti.
Un discorso analogo può farsi per le norme in materia ambientale. E' vero, infatti, che
anche in questo caso, per dare ai paesi aderenti un tempo sufficiente per conformar-
si ad alcuni requisiti imposti dalla legislazione comunitaria, in particolare nei settori
che richiedono ingenti investimenti, sono stati concessi dei periodi transitori per l'at-
tuazione di specifiche misure ambientali, soprattutto nel settore delle risorse idriche,

228
Àmplitmttmfd fJtJ!l~ri,pr 19 -

dei rifiuti e degli inquinamenti ambientali. Resta il fatto, tuttavia, che anche per le
misure per le quali sono stati accordati periodi transitori, permane l'obbligo di mette-
re in atto fin dalla data di adesione della legislazione di recepimento delle direttive
comunitarie in materia ambientale.
Un altro capitolo su cui vale la pena di soffermarsi è quello della politica sociale e del-
1' occupazione. In questo settore, I' acquis comunitario si compone di due tipologie d'in-
tervento. Vi è una prima area di azione, in cui l'acquis si traduce nell'applicazione di
alcune norme minimali comuni, come in materia di diritto del lavoro, salubrità e sicu-
rezza sui luoghi di lavoro, parità di trattamento tra uomini e donne sul mercato del
lavoro, sanità pubblica, ecc.Vi è poi una seconda area di azione in cui l'integrazione
delle politiche nazionali è meno avanzata e a livello comunitario ci si limita a pro-
muovere una convergenza delle politiche nazionali, come in materia di dialogo socia-
le, politica dell'occupazione e sistemi di sicurezza sociale. In questi ultimi campi, non
vi è alcun obbligo, né per i vecchi, né per i nuovi Stati membri, di conformarsi ad una
normativa comunitaria, ma solo un importante ma generico obbligo di coordinare le
rispettive politiche in maniera da inquadrarle in un contesto europeo quanto più omo-
geneo possibile. E' chiaro che l'assenza di un quadro comunitario vincolante - assen-
za dovuta alla reticenza degli Stati membri ad accettare una cessione di sovranità in
questi campi - in materie come le politiche dell'occupazione o i sistemi di sicurezza
sociale, accresce in una certa misura il rischio di "dumping sociale" che le organiz-
zazioni sindacali temono dopo il nuovo ampliamento.
Ci sembra utile chiudere questa rassegna con due notazioni. La prima riguarda le dis-
posizioni relative all'entrata in vigore dell'accordo di Schengen, la seconda in merito
all'entrata in vigore dell'Euro nei nuovi Stati membri e al rispetto delle disposizioni
relative all'unione economica e monetaria e, in particolare, al Patto di stabilità e cre-
scita.
Per quanto riguarda I' acquis di Schengen, questo fa parte integrante dell' acquis comu-
nitario e, come tale, è stato ripreso integralmente dai nuovi Stati membri ed è vinco-
lante fin dalla data di adesione.Tuttavia, la partecipazione alla "zona Schengen" da
parte dei nuovi Stati membri, che implica la soppressione dei controlli alle frontiere
interne dell'Unione, è soggetta alla verifica, da parte delle istituzioni comunitarie, del
rispetto dei requisiti necessari per l'applicazione di tutte le parti dell' acquis in que-
stione. Ciò non potrà avvenire che dopo aver messo in piedi e consolidato un effica-
ce sistema di controllo delle frontiere esterne dell'Unione allargata, che dovrebbe
impedire un afflusso incontrollato di immigrati proveniente dai paesi confinanti con
l'Unione (quali la Federazione russa e l'Ucraina). I controlli alle frontiere interne con
la Repubblica ceca, l'Ungheria, la Polonia e la Slovacchia dovrebbero invece scom-
parire dal 2006. Per aiutare i nuovi Stati membri a mettere in piedi delle strutture effi-
caci di controllo, il trattato di adesione prevede la concessione ai nuovi paesi aderen-

229
- 20 'umw>!

ti di un aiuto finanziario, pari a 858,3 milioni di euro per il periodo 2004-2006.


Per quanto riguarda l'unione economica e monetaria, i paesi aderenti hanno accetta·
to e messo in atto fin dalla data di adesione l'acquis comunitario in questo campo, iv·
comprese le disposizioni relative al Patto di stabilità e crescita. Tuttavia, essi non sene
tenuti - in realtà, non sono autorizzati - ad introdurre l'euro fino a quando le condi-
zioni previste dai trattati per poter aderire all'euro non siano state accertate in manie-
ra formale. Cio' non significa che i nuovi Stati membri non siano tenuti a rispettare
fin dalla data di adesione, il Patto di stabilità e crescita, le condizioni per la parteci-
pazione all'euro essendo ancora più restrittive. In particolare, si applicano ai nuov
Stati membri le restrizioni e le procedure sui "deficit eccessivi" previste per tutti gli Stat'
membri (riduzione del deficit di bilancio al di sotto del 3% del PIL, rapporto tra debi-
to pubblico e PIL inferiore al 60%, ecc.}. Tuttavia nessuna sanzione si applica ai nuov·
paesi finché questi restano al di fuori della zona euro, benché essi possano perdere
l'accesso al Fondo di coesione se non si conformano agli obiettivi fissati nei loro pro-
grammi di convergenza.
Resta aperta la questione della data di adesione all'euro. A questo riguardo, vale le
pena di ricordare che, a parte le già menzionate condizioni sul debito pubblico e su
disavanzo di bilancio, l'adesione all'euro richiede altre condizioni, tra cui: l'applica-
zione corretta, per almeno due anni, del meccanismo dei tassi di cambio (rispetto de·
margini di fluttuazione senza svalutazioni); la realizzazione di un grado elevato di sta-
bilità dei prezzi e tassi d'interesse vicini alla media dell'UE, la conditio sine qua nor
essendo un grado sufficiente di convergenza reale sostenibile. Alla luce di queste pre-
messe, l'adozione dell'euro non dovrebbe awenire prima del 2007, anche se alcun·
dei nuovi Stati membri (ed in particolare i paesi baltici} hanno già mostrato una deci-
sa volontà di entrare al più presto nella zona euro, mentre altri, per poter trarre pro-
fitto della maggior libertà di manovra di cui dispongono finché non aderiscono all' eu-
ro, sembrano piuttosto decisi a riportare a dopo il 201 O il loro ingresso nella zone
euro.

4. L'IMPATTO ECONOMICO DELL'AMPLIAMENTO: UNO SGUARDO D'ASSIEME


Pochi altri eventi della vita comunitaria hanno fatto oggetto di tante analisi d'impattc
e di tanti approfondimenti quanto il nuovo ampliamento ad est dell'Unione europea.
Ciò si spiega facilmente se si considera l'apprensione con cui i governi, le istituzioni e
l'opinione pubblica europea hanno vissuto - e in parte continuano a vivere - I' am-
pliamento dell'Unione ai paesi dell'est europeo, soprattutto nel corso degli anni '90 .
Mentre, infatti, è apparso chiaro, fin dall'inizio che, per le ragioni politiche che abbia-
mo già evocato, l'Unione non potesse non raccogliere la sfida che questi paesi le lan-
ciavano con la loro domanda di adesione, più incerte sono apparse per molto tempo
le prospettive e le modalità dell'integrazione di questi paesi nel resto dell'Unione.

230
21 -

Anche i governi più propensi all'in-


gresso di questi paesi nell'Unione
hanno, infatti, avuto qualche esita-
zione di fronte all'integrazione di
paesi con un ritardo economico così
vistoso rispetto al resto dell'Unione o
alla prospettiva, vissuta come una
minaccia da larga parte dell' opinio-
ne pubblica, di un afflusso massic-
cio di immigrati provenienti dai
paesi dell'est, soprattutto alla luce
delle difficoltà di integrazione dell'ex-Germania dell'est, o infine al rischio di un
aumento vertiginoso del bilancio comunitario. Come si vedrà, la maggior parte degli
studi realizzati a questo riguardo tendono a ridimensionare le paure iniziali e hanno
probabilmente contribuito a ricondurre la percezione di questo evento su basi più rea-
listiche e più razionali, anche se le componenti emotive non sono del tutto scomparse.
Da questi studi emergono essenzialmente due conclusioni che sono così riassunte nel
recente rapporto che il gruppo di studio presieduto da André Sopir ha realizzato alla
domanda del presidente della Commissione, Romano Prodi 2 :
Anzitutto, si stima che l'ampliamento dovrebbe produrre benefici economici sia per gli
attuali Stati membri che per i paesi aderenti, purché vengano perseguite delle politi-
che nazionali adeguate e coerenti . A seconda della metodologia usata, le stime dei
benefici economici dell'ampliamento in termini di crescita cumulativa del PIL variano
tra lo 0,5% e lo 0,7% per EUR-15 nel suo insieme e tra il 6% e il 19% per i nuovi Stati
membri, nel periodo 2000-2010. Queste stime comprendono sia gli effetti statici che
gli effetti dinamici dell'integrazione. Parte di questi benefici si sono già materializzati
con lo sviluppo dell'integrazione tra i paesi aderenti e gli attuali Stati membri. In par-
ticolare, l'Ue ha già beneficiato in maniera significativa dell'apertura di nuovi merca-
ti nell'Europa centrale e orientale.
In secondo luogo, gli studi affrontano una serie di preoccupazioni che affiorano nel
dibattito politico sull'ampliamento. Fra quelli più frequentemente sollevati, vi è il rischio
di migrazioni massicce dopo l'apertura delle frontiere con i nuovi Stati membri, che
potrebbe avere come conseguenza una pressione accresciuta sul mercato del lavoro e
sui sistemi nazionali di sicurezza sociale degli attuali Stati membri, un alto costo dei
trasferimenti dal bilancio UE ai nuovi Stati membri, il rischio di delocalizzazione nei
nuovi Stati membri (ivi compreso quello degli investimenti esteri diretti) e la probabili-
tà di una drastica riduzione dei trasferimenti strutturali ai "vecchi" paesi beneficiari
dell'UE-15 a beneficio dei nuovi arrivati. Questi problemi potenziali derivano sia dalla
completa eliminazione delle residue barriere alla libertà di movimento di merci, servi-

231
- 22

zi e fattori di produzione con l'Europa allargata, sia dall'estensione delle politiche


comuni, ed in particolare della PAC e delle politiche strutturali ai nuovi Stati mem-
bri.Gli studi in questione pervengono a risultati molto differenti sia in termini di effet-
ti, sia in termini di raccomandazioni politiche. Tuttavia, nel complesso, essi tendono a
ridimensionare il rischio di effetti negativi non governabili derivanti dall'ampliamento,
quando questo non viene addirittura visto come un'occasione per accelerare e rinfor-
zare le politiche di convergenza e le riforme strutturali nell'Unione.
E' proprio su questi effetti più "settoriali" dell'ampliamento che riteniamo utile con-
centrarci nei successivi paragrafi.

5. L'AMPLIAMENTO E I RISCHI DI DELOCALIZZAZIONE DELLE IMPRESE


Per qualunque economista, non è per nulla sorprendente che, in un'economia di mer-
cato aperta qual è quella dell'Unione, le imprese abbiano tendenza a localizzarsi lad-
dove il costo dei fattori produttivi, a parità di qualità, è più basso. Questa tendenza
non solo è comprensibile sul piano microeconomico, ma è addirittura auspicabile sul
piano macroeconomico. Efficienza e competitività sul mercato globale lo esigono.
E' a questa esigenza che risponde il massiccio afflusso di investimenti nei paesi del-
1' est da parte di molte imprese europee che è già awenuto nel corso degli ultimi anni,
in particolare a causa dei bassi costi salariali di cui esse possono ancora beneficiare
in questi paesi. Non è sorprendente perciò che cadano nel vuoto gli appelli al senso
di patriottismo nazionale che, ad esempio, il cancelliere tedesco ha rivolto qualche
mese fa agli imprenditori del suo paese perché questi cessino di trasferire nei paesi
dell'est una parte dei loro investimenti .
E' quindi inevitabile che il processo di delocalizzazione delle imprese europee conti-
nui in una certa misura anche in futuro. D'altra parte, esso non si limita al solo ambi-
to europeo, ma travalica sempre più i confini del nostro continente e non riguarda più
soltanto i settori tradizionali a forte intensità di manodopera ma interessa sempre più
i settori intermedi e persino alcuni settori ad alta tecnologia. Detto questo, occorre
restare realistici e non esagerare gli effetti dell'ampliamento su questo fenomeno.
Anzitutto, va detto che l'apertura dei mercati dell'Europa dell'est è in gran parte già
awenuta intorno alla metà degli anni '90. La maggior parte delle delocalizzazioni
legate ali' ampliamento è quindi già awenuta e il bilancio è tutt'altro che negativo per
l'Unione europea a quindici. In dieci anni gli scambi commerciali tra l'Unione e i paesi
dell'est europeo sono stati moltiplicati per quattro con un saldo largamente positivo per
i quindici. Il governo francese, ad esempio, stima a 180 000 il numero di occupati che
sono stati preservati o creati in Francia grazie agli accordi di libero scambio per i pro-
dotti industriali tra la UE e i paesi dell'est.
In secondo luogo, è prevedibile che i vantaggi comparativi di questi paesi andranno
man mano scemando negli anni, con il progressivo allineamento dei prezzi e dei sala-

232
.6mplll111ftJlt@ 8oll~tJfat 23 -

ri, ivi compresi i costi della sicurezza


sociale e la fiscalità, sui livelli degli altri
paesi dell'Unione. Una prima avvisaglia di
questa perdita di attrattività potrebbe esse-
re rappresentata dalla flessione degli inve-
stimenti diretti stranieri nei paesi aderenti,
registrata per la prima volta nel 2003, e la
delocalizzazione verso paesi a costi sala-
riali ancora più bassi, come la Romania o
l'Ucraina, di certe attività che alcuni di essi
erano riusciti ad attirare negli anni prece-
denti. Lo stesso vantaggio comparativo di questi paesi rispetto ai paesi dell'Unione a
quindici va, del resto, relativizzato anche alla luce della produttività del lavoro che è
nettamente inferiore rispetto ai livelli raggiunti nel resto dell'Unione.
Anche il rispetto delle norme europee in materia di circolazione delle merci, sicurez-
za dei consumatori, standard ambientali, accesso ai mercati, ecc., contribuirà ad atte-
nuare gli scarti tra Est ed Ovest e l'impatto dell'ampliamento sulla delocalizzazione
delle imprese. D'altra parte, non va dimenticato che la delocalizzazione verso i paesi
dell'est europeo è in gran parte rivolta a soddisfare una domanda interna di questi
paesi in crescita e solo in parte rivolta ali' esportazione.
Infine, come è già accaduto in questi ultimi anni, lo stesso ampliamento potrebbe avere
come effetto di trattenere nell'Unione produzioni che rischierebbero altrimenti di esse-
re trasferite altrove. Per di più, molte volte, gli investimenti diretti stranieri si configu-
rano come investimenti addizionali indotti dalle nuove opportunità piuttosto che come
la semplice riallocazione di attività già esistenti. La stessa esperienza degli amplia-
menti precedenti mostra che l'incremento degli investimenti diretti stranieri nei nuovi
paesi membri (Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda) non è stato accompagnato da una
diminuzione parallela negli altri Stati membri. Ciò non toglie, tuttavia, che gli effetti
della delocalizzazione di alcune attività produttive verso i paesi dell'est possa rappre-
sentare un problema più acuto per le regioni di produzione più esposte a questo feno-
meno. Anche in questo caso, tuttavia, non mancano esempi che dimostrino come sia
possibile, con un'appropriata strategia di sviluppo regionale, non solo far fronte a
questa sfida ma persino uscirne più vitali e più competitivi che mai.

6. L'IMPATTO SUI FLUSSI MIGRATORI


Come abbiamo già precisato, a decorrere dalla data di adesione, i lavoratori dei
nuovi Stati membri avranno, in linea di principio, il diritto di recarsi e di risiedere in
tutti gli Stati membri attuali. Questi ultimi, tuttavia, hanno ottenuto una fase transitoria,
che consente loro di decidere, nei primi due anni dall'ampliamento, se applicare

233
- 24 'umw-k'

immediatamente la libera circolazione o adottare restrizioni per una durata massime


di cinque anni, estendibili a sette in caso di crisi del mercato del lavoro.
Purtroppo, solo l'Irlanda ha espressamente escluso restrizioni all'ingresso di lavorato·
ri in provenienza dai paesi aderenti. Anche il Regno Unito aveva preso, in un prime
momento, una posizione simile. Recentemente, tuttavia, il governo britannico ha intro·
dotto delle restrizioni sull'estensione dei benefici della sicurezza sociale ai lavorator·
immigrati che siano residenti da meno di un anno nel Regno Unito, a meno che nor
provino di avere un lavoro o non dimostrino di poter vivere senza far ricorso al soste·
gno pubblico. Questa misura fa seguito alle campagne di stampa sui rischi di un'in·
vasione di immigrati dell'est.
Una posizione analoga è stata assunta dai paesi scandinavi (Svezia e Finlandia)
dalla Danimarca e dall'Olanda, che avevano anche loro annunciato in un prime
tempo una totale libertà di circolazione per i lavoratori in provenienza dall'est euro·
peo.
Francia, Belgio, Spagna, Portogallo e Grecia applicheranno delle restrizioni per i
periodo biennale iniziale e si riservano di decidere alla scadenza del periodo bien-
nale.
Infine, Germania e Austria, cioè i due paesi confinanti e più direttamente esposti, e
che già oggi accolgono 1'80% dei lavoratori provenienti dai paesi dell'est, si avvar-
ranno dell'intera moratoria settennale per la transizione alla fase di piena libertà di
movimento.
L'Italia, da parte sua, ha deciso anch'essa, proprio alla vigilia dell'adesione dei nuovi
paesi, di avvalersi della moratoria di due anni prevista dal trattato di adesione, fis-
sando in 20.000 unità la quota di cittadini neocomunitari ai quali sarà consentito l'ac-
cesso al mercato del lavoro subordinato nel nostro paese per l'anno 2004. Questa
cifra potrebbe essere rivista all'insù, se necessario, nel 2005 o già nel corso del 2004.
Essa non tiene conto dei lavoratori autonomi, per i quali non è prevista alcuna restri-
zione alla libera circolazione.
Ovviamente, questo atteggiamento largamente restrittivo alla libera circolazione
immediata dei lavoratori provenienti dai paesi dell'Est da parte dei paesi dell'Unione
non suscita l'entusiasmo né dei governi, né dei cittadini dei paesi interessati. Essi si
sentono tanto più delusi in quanto, nel corso dei negoziati di adesione, i rappresen-
tanti di molti paesi membri avevano escluso misure restrittive alla libertà di movimen-
to al momento dell'adesione. E' evidente che i cittadini di questi paesi vivano con una
certa frustrazione questo evento storico e che la credibilità dell'Unione ai loro occhi
venga fortemente compromessa. Del resto, bisogna ammettere che, dal 1° maggio
scorso, vi sono cittadini che, di diritto, sono cittadini comunitari, ma che di fatto sono
considerati come lavoratori extra-comunitari. Non è un granché come benvenuto per
i nuovi venuti.

234
25 -

Questa posizione estremamente prudente, per non dire di chiusura, dei paesi dell'U-
nione di fronte alla libertà di movimento dei lavoratori provenienti dall'Est, se è facil-
mente comprensibile sul piano emotivo e per ragioni politiche, non ha pressoché alcun
fondamento razionale ed è addirittura controindicata sul piano economico soprattutto
se essa dovesse prorogarsi nel tempo. Il contributo demografico dell'immigrazione è
infatti indispensabile alla crescita in Europa. Non bisogna peraltro dimenticare che i
lavoratori immigrati dall'est hanno livelli di educazione e di formazione più alti rispet-
to a quelli che provengono da paesi del sud est asiatico e del Nord Africa e general-
mente superiori alla media nei rispettivi paesi d'origine. Una prospettiva, questa, più
inquetante per i paesi di origine, minacciati da una fuga di cervelli, che per i paesi di
destinazione, che hanno invece bisogno di energie nuove.
L'esperienza dei precedenti ampliamenti, le indagini sulla propensione ad emigrare
verso l'Ovest effettuate nei paesi aderenti e tutte le analisi macroeconomiche effettua-
te finora a questo riguardo - anche senza tener conto delle misure restrittive adottate
nel frattempo dalla quasi totalità dei quindici - sono infatti abbastanza concordanti
nel ridimensionare il rischio che i paesi dell'Unione siano invasi, nei prossimi anni, da
un'immigrazione selvaggia, insostenibile per le loro economie.
Cominciamo dal più recente di questi studi, realizzato dalla Fondazione europea per
il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che ha sede a Dublino. Esso rile-
va che solo I' 1% della manodopera dei paesi aderenti, vale a dire circa 220.000 lavo-
ratori all'anno, ha manifestato l'intenzione di emigrare verso la UE-15 nei cinque anni
successivi all'adesione. Ciò equivale ad un potenziale di emigrazione di circa 1, 1
milioni di persone su cinque anni, potenziale che peraltro potrebbe non necessaria-
mente tradursi in un'emigrazione effettiva. Peraltro, occorre osservare che oggi l'U-
nione accoglie circa 1,5 milioni di immigrati in provenienza dai paesi terzi al di fuori
dei paesi aderenti e circa 1 milione di cittadini dei paesi dell'est.
Anche l'adesione della Spagna e del Portogallo, nel 1986, aveva suscitate analoghe
apprensioni, essendo anche questi paesi dei paesi a basso reddito. Infatti, dopo l'a-
desione, i flussi di emigrazione netti da questi paesi sono stati praticamente inesisten-
ti nella seconda metà degli anni Ottanta. Questa tendenza è rimasta più o meno inva-
riata anche dopo l'abolizione delle restrizioni ali' emigrazione imposte per un periodo
transitorio di sette anni, che oltretutto è coincisa con la recessione dei primi anni '90.
Secondo le stime del Consorzio per l'integrazione europea, che non tengono conto
delle misure transitorie adottate dalla quasi totalità dei governi dei quindici, 335 mila
persone (pari allo O, 1% della popolazione attuale dell'UE) arriverebbero nell'UE-15
dopo l'introduzione della libera circolazione della manodopera. li livello dei salari non
è in realtà il solo fattore che occorre prendere in conto allorché ci si interroga su even-
tuali movimenti migratori. Altri fattori - l'attaccamento al luogo d'origine, i legami
familiari, il peso delle tradizioni, la paura dell'incognito - giocano in senso inverso. In

235
- 26

molti di questi paesi è già difficile fare spostare la popolazione all'interno del paese.
Come poter pensare realisticamente che essi si precipiteranno in massa alle frontiere
all'indomani del 1° maggio? D'altra parte, la situazione dell'occupazione nei paesi
europei in questa fase congiunturale non dovrebbe incitare molti a espatriare.
La Commissione, dal canto suo, sulla base di studi di economisti indipendenti, stima il
flusso annuo di lavoratori migranti in provenienza all'est a una cifra variabile tra 70
e 150 mila persone, anche se il primo anno potrebbero essere dell'ordine di 250 mila,
come effetto di una regolarizzazione di fatto di persone che si trovano già sul territo-
rio comunitario.
Ovviamente, il fenomeno dovrebbe principalmente interessare i paesi e le regioni del-
l'UE che confinano con i nuovi Stati membri. Ciò spiega il carattere più restrittivo della
moratoria settennale adottata da questi paesi.
Queste previsioni, che convergono largamente con quelle di altri organismi di ricerca,
vanno apprezzate anche alla luce dell'invecchiamento della società europea e del fab-
bisogno di manodopera, qualificata e non, che si avverte già in alcune aree dell'U-
nione. Non bisogna, infine, dimenticare che lo sviluppo economico atteso per i pros-
simi anni nei paesi aderenti costituirà un freno decisivo all'emigrazione della forza
lavoro da questi paesi.

6. L'IMPATTO DELL'AMPLIAMENTO SULL'AGRICOLTURA


l'ampliamento ai 1O nuovi Stati membri aumenterà di circa il 30% la superficie agri-
cola utilizzata nell'Unione a quindici (pari a circa 38 milioni di ettari). Tuttavia, la pro-
duzione globale nell'Unione a venticinque aumenterà solo del 10-20%, a seconda del
prodotto, per la maggior parte dei prodotti agricoli. Il valore aggiunto dell'agricoltu-
ra aumenterà addirittura solo del 6%.
La differenza tra il potenziale di produzione - espresso dalla superficie - e il redditc
da esso generato illustra abbastanza bene la più bassa intensità produttiva e la più
ridotta redditività dell'agricoltura nei nuovi Stati membri.
Malgrado i buoni risultati realizzati nella fase preparatoria all'ampliamento, degl:
sforzi addizionali notevoli nel settore agricolo e in quello delle industrie agro-alimen-
tari sono ancora necessari in questi paesi per aumentare la competitività delle produ-
zioni agricole, ed in particolare delle produzioni animali. Ci vorrà dunque ancore
molto tempo prima che il potenziale produttivo agricolo di questi paesi possa essere
integralmente sfruttato.
La messa in atto della PAC in questi paesi e il sostegno che essi riceveranno attraver-
so le misure di sviluppo rurale dovrebbero facilitare il processo di ristrutturazione de
settore agro-alimentare. Tuttavia, globalmente, gli effetti dell'ampliamento sull' equili-
brio dei mercati agricoli nell'Unione allargata dovrebbero essere, nel medio periodo
relativamente modesti. E ciò, oltre che per i fattori già menzionati, anche per le

236
27 -

seguenti ragioni:
La maggior parte degli scambi bilaterali di prodotti agricoli tra la UE a 15 e i paesi
aderenti sono già stati ampiamente liberalizzati nel corso degli ultimi anni (tramite i
cosiddetti accordi doppio-zero e doppio-profitto). A questo riguardo è interessante
sottolineare che i paesi candidati all'adesione nel loro insieme hanno registrato una
forte crescita delle loro importazioni nette di prodotti agricoli provenienti dalla UE nel
corso degli ultimi dieci anni;
L'incremento produttivo atteso da qui al 2010 nei nuovi Stati membri sarà in parte
assorbito dall'aumento dei consumi alimentari indotti dall'aumento vistoso dei redditi
pro-capite previsto nei prossimi anni;
L'impatto dell'allineamento dei prezzi agricoli nei paesi aderenti sui livelli dei prezzi
nell'Unione dovrebbe essere contenuto dal momento che la convergenza dei prezzi si
è già in parte realizzata negli ultimi dieci anni;
Le strutture di commercializzazione e i livelli qualitativi della produzione agricola sono
ancora alquanto carenti in molti dei nuovi paesi aderenti rispetto a quelli prevalenti
nell'Unione a 15.
Nel complesso, la Commissione europea stima che i nuovi Stati membri dovrebbero
accrescere le loro possibilità di esportazione verso il resto dell'Unione soprattutto per
il pollame e i cereali foraggeri mentre dovrebbe aumentare il loro fabbisogno di
importazione di prodotti lattiero-caseari, di prodotti dell'industria alimentare, di orto-
frutticoli e di carni, in particolare di maiale.

7. I COSTI DELL'AMPLIAMENTO
Una delle maggiori preoccupazioni suscitate dalla prospettiva del nuovo ampliamen-
to ad est dell'Unione europea, soprattutto nel corso degli anni Novanta, è quella della
possibile esplosione del bilancio comunitario a seguito dell'ampliamento.
Oggi , queste preoccupazioni sono in larga parte fugate, anche alla luce delle deci-
sioni assunte per finanziare l'ampliamento e delle misure adottate, in particolare per
quanto riguarda gli aiuti previsti dalla politica agricola comune, per limitarne l'impat-
to finanziario.
Per quanto riguarda, anzitutto, il periodo 2004-2006, coperto da decisioni già adot-
tate, il fabbisogno complessivo di spesa per l'ampliamento è stato stimato sui seguen-
ti livelli:
9,9 miliardi di Euro nel 2004, pari al 9,6% del bilancio UE-25
12,6 miliardi di Euro nel 2005, pari al 12,0% del bilancio UE-25
14, 9 miliardi di Euro nel 2006, pari al 14,0% del bilancio UE-25.
Negli anni successivi il costo dell'ampliamento dovrebbe progressivamente aumenta-
re (e infine stabilizzarsi) per effetto, in particolare, dell'incremento dei trasferimenti
derivanti dalla politica agricola comune, che verranno integralmente livellati su quelli

237
- 28

versati nel resto dell'Unione solo nel 2013. Ovviamente, non bisogna dimenticare che
anche i nuovi paesi parteciperanno al finanziamento di questi costi aggiuntivi attra-
verso il sistema delle risorse proprie. A questo riguardo vale anzi la pena di menzio-
nare il fatto che, per evitare che alcuni di essi si ritrovino, fin dalla data di adesione,
nella scomoda posizione di contributore netto al bilancio comunitario, è stato neces-
sario prevedere, nell'atto di adesione, delle disposizioni particolari che evitino, per i
paesi interessati, che essi ricevano dal bilancio comunitario meno di quanto essi vi
debbono versare nel quadro del regime delle risorse proprie.
Non esistono al momento stime ufficiali sui costi dell'ampliamento dopo il 2006. Quel
che è certo, tuttavia, è che i costi dell'ampliamento dovrebbero restare anche nei pros-
simi anni entro limiti compatibili con i massimali di spesa già in vigore nell'Unione a
quindici, in termini di percentuale del reddito nazionale lordo. A questo riguardo, vale
la pena di ricordare che la Commissione ha presentato, nel febbraio 2004, un impor-
tante documento sulle prospettive politiche e finanziarie dell'Unione allargata per il
periodo 2007-20133.
Alla luce delle priorità politiche e delle ambizioni che essa propone di fissare per l'U-
nione allargata, ma tenendo allo stesso tempo conto della difficoltà di far accettare
dagli Stati membri un aumento sostanziale delle risorse destinate al bilancio dell'U-
nione, in un periodo di forti pressioni sulle finanze pubbliche, la Commissione propo-
ne un quadro finanziario per il periodo 2007-2013 su livelli relativamente contenuti.
Gli stanziamenti d'impegno totali dovrebbero infatti passare (a prezzi costanti) da
120,7 miliardi di Euro nel 2006 o 158,5 miliardi di Euro nel 2013, vole o dire
dall' 1,09% all' 1, 15% del reddito nazionale lordo dell'Unione. Malgrado questo leg-
gero aumento percentuale della speso, generato in gran porte dagli accresciuti fabbi-
sogni per la competitività e la coesione, in un'Unione allargata, esse resterebbero al
di sotto del "tetto" in vigore per le risorse proprie dell'Unione o 15 (già fissato
all'l ,24% del reddito nazionale lordo).
In particolare, la dotazione complessiva dei fondi strutturali per il periodo 2007-2013
dovrebbe essere di circa 336 miliardi di Euro, di cui circa la metà andrebbe ai paesi
e alle regioni dell'UE o 15 e l'altro metà alle aree depresse dei nuovi paesi (all'inizio,
52% dei fondi ai paesi UE- 15 e 48% ai 1O nuovi aderenti, percentuali destinate ad
invertirsi nel 2013).
In questo contesto, può essere interessante accennare agli effetti prevedibili dell'am-
pliamento sui trasferimenti dei fondi strutturali o favore delle nostre regioni meno svi-
luppate (quelle che rientrano nel cosiddetto "Obiettivo 1" o cui è destinato circa il 78%
dello dotazione complessiva dei fondi strutturali nel periodo 2007-2013).
Come attualmente, le regioni dell'Obiettivo 1 dopo il 2007 saranno quelle il cui PIB
per abitante è inferiore al 75% della medio comunitario. l'Unione o 27 (quindi dopo
l'adesione della Romania e della Bulgaria, nel 2007) ne avrà circo 80. Sulla base dei

238
ÀmpUdllltJllfd 8eU'fwr~ 29 -

dati per il 2001, per quanto riguarda l'Italia, la Basilicata dovrebbe superare la soglia
del 75% della media comunitaria . Tuttavia, per questa regione come per un'altra ven-
tina che si trovano nelle stesse condizioni e per le quali il PIB per abitante sarebbe
rimasto inferiore al 75% senza l'ampliamento ("effetto statistico dell'ampliamento") la
Commissione propone il mantenimento di un aiuto transitorio e degressivo fino al
2013. Peraltro, un ammortizzatore analogo, seppure meno vantaggioso, ma sempre
transitorio, è previsto per le regioni, come la Sardegna, che uscirebbero dall'Obietti-
vo 1 per effetto del miglioramento obiettivo del loro reddito ("arricchimento naturale") .
Gli effetti dell'ampliamento sarebbero relativamente più consistenti per altri paesi del-
l'Unione a quindici, come la Francia o la Spagna, che rischiano di veder amputati in
maniera molto più drastica i trasferimenti dei fondi strutturali di cui essi hanno bene-
ficiato finora.
Il dibattito su queste proposte, ed in particolare sulle nuove prospettive finanziarie per
l'Unione allargata, rischia tuttavia di farsi aspro nei prossimi due anni, dal momento
che già alcuni capi di governo, ed in particolare quelli dei sei principali paesi contri-
butori netti, hanno fatto chiaramente intendere di non essere disposti ad andare al di
là della percentuale che oggi viene effettivamente utilizzata per finanziare l'Unione,
vale a dire poco più dell' 1%.
E' chiaro che se così fosse, gran parte del programma politico dell'Unione per il pros-
simo decennio dovrebbe essere ridimensionato ma cio' equivarrebbe praticamente ad
una resa dell'Unione di fronte alle sfide che l'attendono ed in primo luogo a quello
della competitività dell'economia europea e di una maggiore coesione nell'Unione
ampliata, una resa che segnerebbe il declino progressivo del progetto europeo nel
momento stesso in cui questo sembra aver raggiunto l'apice del suo successo.

NOTE
1) Dei dieci nuovi Stati membri dell'Unione, quattro sono paesi dell'Europa centrale (Polonia, Ungheria,
Repubblica Ceca e Slovacchia), tre sono ex-Repubbliche sovietiche (Estonia, Lettonia, Lituania), una face-
va parie dell'ex-Repubblica di Jugoslavia (la Slovenia) e due sono isole del Mediterraneo (Cipro e Malta).
2) "An Agenda fora Growing Europe: Making the EU Economie System Deliver", Report of on lndepen-
dent High-Level Study Group established on the initiative of the President of the European Commission,
più noto come " Rapporto Sopir" dal nome dell'economista belga che ha presieduto l'apposito gruppo di
lavoro, luglio 2003. Il rapporto è staio recentemente pubblicato in Italia da "Il Mulino" .
3) Commissione delle Comunità europee, Costruire il nostro awenire comune. Sfide e mezzi finanziari
dell'Unione allargata 2007-2013, COM(2004) 101 definitivo, 10 febbraio 2004.\®

Le Foto riguardano la cerimonia dell'Unione Europea, svoltasi nel Castello di Dublino il


1 maggio 2004.

239
SAVERIO TORCASIO

Fiscalità e agricoltura
nei paesi della Comunità europea

1 - GENERALITA

Pochi altri campi d'indagine che abbiano attinenza con l'agricoltura eu-
ropea sono altrettanto inesplorati quanto quello dell'assetto e del peso della
fiscalità in agricoltura nei paesi della CEE. Non che tale soggetto non abbia
destato l'interesse degli studiosi, delle istituzioni comunitarie, o degli uomi-
ni politici. Al contrario, numerosi sono quelli che hanno cercato di avventu-
rarsi su questo terreno accidentato o che hanno quanto meno posto, sul
piano scientifico, economico o politico, il problema di una più approfondita
conoscenza del ruolo della politica fiscale nel contesto delle politiche agri-
cole nazionali e comunitaria e delle conseguenze per lo sviluppo e la com-
petitività delle rispettive agricolture che possono derivare dall'esistenza di
regimi fiscali spesso assai divergenti da uno Stato membro all'altro.
Vale la pena di rilevare a questo riguardo che fin dai primi anni dell'u-
nificazione dei prezzi e dei mercati agricoli, e cioè praticamente fin dal
1967, la Commissione delle Comunità europee si è interessata allo studio
comparativo della fiscalità in agricoltura, promuovendo uno studio sui regi-
mi fiscali concernenti l'impresa agricola e l'imprenditore agricolo nei paesi
della CEE a Sei [6], studio che peraltro non perviene ad alcuna conclusione
sul diverso grado di pressione fiscale nella Comunità.
Più recentemente, la Commissione ha intrapreso un vasto studio sul
ruolo, l'importanza e l'incidenza economica delle spese pubbliche in favore
dell'agricoltura negli Stati membri della Comunità (ivi comprese la fiscalità
e la sicurezza sociale in agricoltura) , i cui risultati si attendono con grande
interesse ma che, temiamo, non sarà sufficiente a districare la complessa
problematica della fiscalità in agricoltura e a tirare conclusioni significative
sul diverso grado di pressione fiscale a cui l'agricoltura è sottoposta nei di-
versi Stati membri.
Il perché di questa situazione si può riassumere in due concetti:
1) malgrado taluni sforzi di armonizzazione nel settore fiscale a livello
comunitario, che restano comunque del tutto localizzati, e pressoché limitati
alle imposte più direttamente collegate agli scambi (ad es.: IVA, talune acci-
se, ecc.) , i regimi fiscali nazionali presentano non poche difformità non solo
di aliquote e di modalità di applicazione, ma anche di _struttura;

RIVISTA DI ECONOMIA AGRARIA/ a. XXXIX, n. 1, marzo 1984

241
192 Saverio Torcasio

2) in tutti gli Stati membri è praticamente impossibile isolare fiscalmen-


te l'agricoltura: troppe imposte sono comuni a tutti gli altri contribuenti ed
è dunque difficile determinare, attraverso le statistiche fiscali di cui si dispo-
ne, la parte delle entrate fiscali che provengono dal settore agricolo, come
del resto quelle che provengono da qualunque altro settore.
Così stando le cose, il nostro più modesto obiettivo in questa sede è
anzitutto quello di offrire al lettore interessato una rapida panoramica sui
regimi fiscali in agricoltura nei paesi della CEE. A conclusione di questo la-
voro cercheremo tuttavia di dare un quadro, sia pure incompleto, dell'inci-
denza della fiscalità in agricoltura in diversi Stati membri della Comunità.
Prima, però, di abbordare più da vicino la fiscalità in agricoltura ci pare
utile fornire un quadro d'assieme dei sistemi fiscali nella CEE e dare qual-
che indicazione sul livello e sull'evoluzione della pressione fiscale complessi-
va nei diversi Stati membri.

2 - DIVERSITÀ E ANALOGIE DEI SISTEMI FISCALI NELLA CEE

Osservati nel loro insieme i sistemi fiscali dei paesi membri della CEE
presentano a prima vista non poche analogie. Queste sono peraltro più pro-
nunciate per quel che riguarda le imposte sugli scambi, in considerazione
della loro particolare importanza per la libera circolazione delle merci e l'in-
staurazione dell'Unione doganale, condizioni essenziali per l'esistenza di un
vero mercato unico. In tutti gli Stati membri si ritrovano, in effetti, pratica-
mente le stesse grandi categorie fiscali: imposte sul reddito, tanto delle per-
sone fisiche che delle persone giuridiche, imposte sul capitale o sul patrimo-
nio, imposte sulla spesa o sugli scambi. D'altra parte, pressoché ovunque le
imposte dello Stato sono completate da imposte locali, che fanno capo ai
vari enti territoriali esistenti nei diversi paesi membri (Linder, regioni, con-
tee, province, comuni, ecc.) . Nell'ambito, poi, delle imposte sugli scambi,
primeggia dappertutto l'imposta sul valore aggiunto, che da alcuni anni vie-
ne peraltro applicata su una base imponibile uniforme in tutti gli Stati
membri: misura, quest'ultima, che si è resa necessaria non solo per conside-
razioni di neutralità fiscale, ma anche per raggiungere un altro importante
obiettivo, quello cioè di dotare la Comunità di risorse proprie.
Al di là, tuttavia, di queste analogie di facciata, un'analisi più minuziosa
dei diversi regimi fiscali nella CEE fa apparire l'esistenza di numerose e pro-
fonde differenze, sia per quanto riguarda l'importanza relativa di ciascuna
tipologia d'imposta nel contesto del prelievo fiscale complessivo, sia per
quanto riguarda le modalità di applicazione delle diverse imposte. Perfino
imposte che a prima vista potrebbero sembrare analoghe o che portano ad-
dirittura lo stesso nome sono talvolta notevolmente diverse tra loro. In ef-
fetti, anche se non pochi progressi verso il ravvicinamento dei regimi fiscali
degli Stati membri sono stati compiuti in questi 25 anni di vita del Mercato
comune, il bilancio dell'armonizzazione fiscale all'interno della Comunità è
ancora relativamente modesto, e ciò essenzialmente per due ragioni [3]:

242
Fiscalità e agricoltura nella CEE 193

a) tutti gli Stati membri tengono a mantenere intatta la propria sovrani-


tà tributaria in quanto essa costituisce uno degli elementi essenziali della lo-
ro sovranità nazionale;
b) è estremamente difficile eliminare le disparità attinenti alla struttura
dei regimi fiscali e alla ripartizione del gettito fiscale tra le diverse imposte,
in quanto esse sono imputabili a cause profonde difficilmente rimuovibili
(differenze nelle strutture economiche e sociali, differenze di concezione sul
ruolo dell'imposta in generale o su quello di un tributo in particolare, diffe-
renze di mentalità, complessità degli attuali regimi fiscali, ecc.).
È per queste ragioni che la Commissione CEE, -rinviando ad uno stadio
più maturo dell'integrazione europea l'obiettivo di una più ampia armoniz-
zazione fiscale, tanto per quel che riguarda la struttura che le aliquote delle
imposte, si limita per ora a proporre più realisticamente una serie di misure
puntuali intese a far avanzare il processo di armonizzazione fiscale lungo
due direttrici prioritarie [3]: nel settore delle imposte indirette, soppressione
delle frontiere fiscali, mediante l'eliminazione delle imposte all'importazio-
ne, della detassazione delle esportazioni e dei controlli alle frontiere intraco-
munitarie, nel settore delle imposte dirette, ravvicinamento degli oneri fiscali
delle imprese affinché la fiscalità non incida in modo troppo diverso da un
paese all'altro sui costi di produzione, sulla localizzazione degli investimenti
e sulla redditività dei capitali investiti, e si possa cosl instaurare una concor-
renza equa tra le imprese nei diversi Stati membri.
Ma qual' è, oggi, la struttura del prelievo impositivo e il livello di pres-
sione fiscale nell~ CEE, e quale evoluzione si è registrata al riguardo negli
ultimi 10 anni? E possibile, d'altra parte, limitare questa analisi ai soli pre-
lievi fiscali o non è invece necessario estenderla anche ai prelievi parafiscali,
ed in particolare a quelli derivanti dal finanziamento della sicurezza sociale,
visto che le conseguenze economiche della parafiscalità sono spesso estre-
mamente simili, per non dire intimamente legate a quelle della parafiscalità?
In effetti, poiché un'analisi limitata alle sole imposte non consente compara-
zioni valide tra gli Stati, date le diverse modalità di finanziamento della si-
curezza sociale (imposte o contributi), crediamo più opportuno fornire nella
tabella 1 la composizione per grandi aggregati, del prelievo obbligatorio
globale, comprensivo delle imposte e dei contributi sociali effettivi, nonché
un indicatore della pressione fiscale, misurata come rapporto tra il prelievo
obbligatorio totale e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato.
Come si desume da tale tabella, il prelievo obbligatorio globale presenta
notevoli differenze di struttura tra uno Stato membro e l'altro, anche se al-
cune di esse si sono sensibilmente attenuate tra il 1971 e il 1980. L'imposi-
zione indiretta, di cui l'IVA costituisce di gran lunga la principale espressio-
ne, era la forma di imposizione prevalente nel 1971 in quattro Stati membri
su nove (RF di Germania, Francia, Italia e Irlanda): nel 1980 solo in due di
essi la fiscalità indiretta continuava a fornire la quota prevalente delle entra-
te tributarie (Francia e Irlanda). Nel frattempo, a seguito di un vistoso au-
mento dell'aliquota normale dell'IVA, intervenuto nella primavera del 1979,
il Regno Unito si era peraltro aggiunto alla lista, mentre la Repubblica fede-

243
194 Saverio Torcasio

TAB. - Struttura del prelievo obbligatorio globale e pressione fiscale nella CEE

RFG FR IT PB BEL LUX RU IRL DK


1971

Imposte indirette sulla


produzione e sulle
importazioni 35,8 42,7 39,1 27,5 34,5 30,4 41,8 59,1 40,2
Imposte correnti sul
reddito e sul patrimonio 32,1 19,0 20,3 35,1 33,0 39,3 41,7 30,3 55,8
Imposte in conto capitale 0,2 0,6 0,6 0,6 1,0 0,3 2,0 1,5 0,3
Totale imposte 68,1 62,3 60,0 63,2 68,5 70,0 85,5 90,9 96,3
Contributi sociali
obbligatori 31,9 37,7 40,0 36,8 31,5 30,0 14,5 9,1 3,7
Totale imposte +
contributi sociali
obbligatori 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0
Pressione fiscale (1 ) 34,9 35,0 28,2 42 ,3 36,8 34,3 35,7 32,7 44,5
1980 (2)

Imposte indirette sulla


produzione e sulle
importazioni 30,8 35 ,1 29,8 24,4 25,8 26,8 42,1 48,1 40,4
Imposte correnti sul
reddito e sul patrimonio 32 ,6 20,5 32,8 35,0 42,3 43,8 39,4 36,3 57,3
Imposte in conto capitale 0,2 0,5 0,2 0,5 0,8 0,2 0,5 0,4 0,4
Totale imposte 63 ,6 56,1 62,8 59,9 68,9 70,8 82,0 84,8 98,1
Contributi sociali
obbligatori 36,4 43 ,9 37,2 40,1 31,1 29,2 18,0 15,2 1,9
Totale imposte +
contributi sociali
obbligatori 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0
Pressione fiscale (1) 39,0 42,4 34,7 47,0 45,3 50, 1 37,3 33,6 45 ,5

(1) Incidenza del prelievo fiscale globale (totale imposte + contributi sociali obbligatori) sul
prodotto interno lordo ai prezzi di mercato.
(2) Per il Lussemburgo, anno 1978; per l'Irlanda, anno 1979.
Fonte: elaborazioni su dati EuRO STAT.

rale di Germania e l'Italia ne erano uscite. Mette conto, a questo riguardo,


sottolineare il grande balzo che ha registrato in Italia il gettito delle imposte
sul reddito delle persone fisiche tra il 197 1 e il 1980: dal 16,1% al 27,6%
del prelievo obbligatorio globale; un livello, quest'ultimo ormai non molto
lontano dalla media comunitaria e pari comunque al doppio di quello che si
registra in Francia. È questo, in primo luogo, il risultato di una deliberata
volontà politica: c'è tuttavia da chiedersi quanta parte di questo fenomeno
non sia anche dovuta all'inflazione galoppante degli anni '70, tenuto conto

244
Fiscalità e agricoltura nella CEE 195

che l'inflazione determina indirettamente un aumento della pressione fiscale


sui redditi soprattutto per effetto della progressività dell'imposta.
Un altro paese in cui si è registrato un consistente aumento del peso
relativo delle imposte sul reddito delle persone fisiche è il Belgio (dal 25%
al 36,4% del prelievo obbligatorio totale), ma questo fenomeno ha interes-
sato sia pure in misura minore tutti gli Stati membri, salvo la Danimarca. È
il caso, tuttavia di rilevare che è proprio in Danimarca che tale imposta as-
sume la dimensione più rilevante (ben il 54 % del prelievo obbligatorio glo-
bale). Ciò è in parte dovuto anche al fatto che in questo paese, contraria-
mente a quello che accade negli altri Stati membri, il finanziamento della
sicurezza sociale avviene pressoché esclusivamente mediante imposta: il pe-
so dei contributi sociali obbligatori, già esiguo nel 1971 (3,7% del prelievo
obbligatorio globale), si era infatti ulteriormente dimezzato nel 1980.
È proprio nel settore degli oneri sociali che le disparità tra Stati membri
sono in effetti più marcate: si va, infatti, dall'l,9% del prelievo fiscale glo-
bale in Danimarca, al 43,9% in Francia, passando per il 18% del Regno
Unito, il 31 % del Belgio, il 37,2% dell'Italia e il 36,4% della Repubblica
federale di Germania.
Tuttavia, è solo prendendo in esame i dati sulla pressione fiscale com-
plessiva (incidenza delle imposte e contributi sociali effettivi sul PIL), che i
confronti tra Stati membri diventano più significativi, viste, appunto, le di-
verse modalità di finanziamento della sicurezza sociale. Anche sotto questo
profilo le disparità sono molto sensibili da uno Stato all'altro. Lo scarto
massimo tra le pressioni fiscali globali è registrato nel 1971 tra l'Italia e la
Danimarca (rispettivamente 28,2% e 44,5%) e nel 1980 tra l'Irlanda e il
Lussemburgo (34,7% contro il 50,1 %). La pressione fiscale è aumentata,
nel periodo considerato, in tutti gli Stati membri, ed in particolare nel Be-
nelux, Francia, Italia e Repubblica federale di Germania. L'attuale assetto
della pressione fiscale riflette perciò da vicino la situazione relativa dei red-
diti individuali medi nei vari paesi membri: una constatazione, questa, pie-
namente conforme con la teoria della tassazione in funzione della capacità
contributiva dei diversi soggetti.

3 - L'AGRICOLTURA NEL CONTESTO DEI SISTEMI FISCALI E DELLE POLITICHE


AGRICOLE NAZIONALI

Le disparità di struttura del prelievo obbligatorio globale nei diversi Sta-


ti membri, su cui ci siamo appena soffermati, assumono un rilievo ancora
più evidente se dallo sguardo d'insieme sull'economia nel suo complesso si
passa ad un esame più analitico del settore agricolo. In effetti, mentre può
ragionevolmente supporsi che l'assetto fiscale di un paese rifletta pressoché
esclusivamente opzioni di politica fiscale, la fiscalità in agricoltura riflette il
più delle volte anche o prevalentemente opzioni di politica agricola. Ciò
non significa, beninteso, che, dal punto di vista fiscale, l'agricoltura costitui-
sca un regno a sé stante rispetto al resto dell'economia, i cui sudditi siano

245
196 Saverio Torcasio

sottoposti a reglilll atipici e del tutto avulsi dal contesto fiscale in cm s1


collocano. Al contrario, non mancano esempi nella Comunità che provano
come, di fronte al fisco, l'attività agricola possa ~ssere equiparata in tutto e
per tutto a qualunque altra attività economica. E in questa direzione, anzi,
che vanno orientandosi, sia pure con lentezza e non ,senza difficoltà, i regi-
mi fiscali per l'agricoltura in molti paesi della CEE. E questo unicamente il
risultato della necessità per le autorità fiscali di riempire sempre più le casse
dello Stato e delle collettività locali? Riteniamo di no. A determinare questa
tendenza hanno probabilmente concorso anche altri fattori. Anzitutto la
presa di coscienza sempre più diffusa, in un contesto congiunturale partico-
larmente difficile quale quello che attraversiamo da alcuni anni, della neces-
sità di una sempre maggiore «equità fiscale», tra contribuenti e tra le diver-
se attività economiche. In secondo luogo, e soprattutto, la consapevolezza
che una più spinta integrazione dell'agricoltura nel resto dell'economia, po-
stulata tanto dagli stessi agricoltori che dalle autorità di governo, in partico-
lare nei paesi aventi più solide strutture di produzione, passa anche per
l'abbandono di ogni forma di assistenzialismo, ivi compresi, se necessario,
anche taluni privilegi e talune deroghe fiscali di cui gode ancora l'agricoltu-
ra in molti paesi.
Ma qual è, appunto, in termini più concreti, la posizione dell'agricoltura
di fronte all'autorità fiscale nei diversi Stati membri della Comunità? 1 Sotto
questo profilo, un tratto accomuna praticamente tutti gli agricoltori europei:
se si eccettuano, infatti, talune imposte o contributi, in prevalenza locali,
più strettamente connessi con l'attività agricola (imposte fondiarie sui terre-
ni non edificati in Francia, contributi di bonifica in Italia, ecc.), in nessuno
Stato membro esiste oggi una fiscalità o anche una sola imposta che possa
dirsi specificamente agricola.
Ciò è del resto comprensibile se si considera che fare sopportare agli
agricoltori delle imposte particolari sarebbe non solo socialmente ingiusto,
ma anche contrario ai principi costituzionali dell'eguaglianza davanti alla
legge. A questo riguardo, l'ultimo e forse unico esempio nella CEE di impo-
sta in apparenza tipicamente agricola è costituito dall'imposta sul reddito
dominicale dei terreni, in applicazione in Italia fino al 31 dicembre 1973. In
realtà, a ben guardare, si trattava di un'imposta facilmente assimilabile alle
altre imposte sul reddito, che colpiscono la generalità dei contribuenti, an-
che se, per ragioni di facilità di applicazione essa si basava sul reddito do-
minicale dei terreni.
Al di là, tuttavia, del tratto comune che abbiamo appena indicato, la
fiscalità in agricoltura nei paesi della CEE appare, come abbiamo già detto,
ancora più diversificata che non la struttura della fiscalità nel suo comples-
so. In effetti, se è vero che non esiste, salvo qualche eccezione, una fiscalità
tipicamente agricola, è anche vero che, all'interno di un determinato sistema

1 Questa analisi sarà limitata alla Comunità a Nove non disponendo di elementi sufficienti

sulla fiscali tà in Grecia. Questo paese, come si ricorderà, ha aderito alla Comunità dal
1.1.198 1.

246
Fiscalità e agricoltura nella CEE l 97

fiscale applicabile all'insieme dell'economia, il trattamento fiscale del settore


agricolo può esercitarsi mediante una miriade di misure e disposizioni di
deroga, esenzione, sgravio d'imposta, semplificazione dei diversi regimi, ecc.
che possono modificare profondamente l'assetto della fiscalità nel settore
agricolo rispetto al resto dell'economia.
Non rientra, evidentemente, fra gli obiettivi di questo articolo di descri-
vere sia pure sommariamente né la struttura del sistema impositivo in agri-
coltura nei diversi Stati membri della Comunità, né le sue principali modali-
tà applicative. Ci proponiamo, invece, di gettare qui di seguito, soltanto
qualche sprazzo di luce su questo vasto terreno di analisi prendendo in con-
siderazione ciascuna delle quattro grandi categorie fiscali in cui si è soliti
distinguere il prelievo obbligatorio globale, prima di vedere in che misura è
possibile misurare concretamente la pressione fiscale in agricoltura nei di-
versi Stati membri della Comunità.

4 - LE IMPOSTE SUL REDDITO AGRICOLO

In tutti gli Stati membri i redditi agricoli rientrano nel campo d'applica-
zione dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, al pari dei redditi pro-
venienti da altre attività. Da questo punto di vista, dunque, niente differen-
zia il reddito agricolo dagli altri redditi. Tuttavia esistono notevoli differen-
ze tra Stati membri sulla maniera di determinare il reddito imponibile. A
questo proposito, si è soliti distinguere nella Comunità due gruppi di paesi,
a seconda che la tassazione dei redditi agricoli richieda o meno, come nor-
ma generale, la tenuta di una contabilità d'impresa [15; 16]. Al primo grup-
po appartengono i Paesi Bassi, il Regno Unito e la Danimarca, al secondo, i
restanti: una ripartizione questa, che, non a caso, riproduce quella tra paesi
con più solide strutture di produzione e commercializzazione in agricoltura,
e quelli a strutture relativamente più deboli. In questi ultimi, in effetti, la
tenuta di una contabilità per fini gestionali costituisce ancora una rara ecce-
zione, sicché la tassazione dei redditi agricoli avviene prevalentemente su
base forfettaria. Anche all'interno di questo gruppo, tuttavia le disparità di
regime da un paese all'altro sono piuttosto ampie.
Va anzitutto rilevato che solo in Italia e in Irlanda l'imposizione del red-
dito agricolo avviene su base pressoché esclusivamente forfettaria: in Fran-
cia, nella Repubblica federale di Germania, nel Belgio e nel Lussemburgo,
invece, pur restando il regime forfettario la forma prevalente di imposizione
dei redditi agricoli, una quota non del tutto trascurabile e peraltro crescente
delle imprese agricole, è tassata in base al reddito effettivo, risultante dalla
tenuta di una contabilità. È il caso, in genere, delle imprese che realizzano
redditi superiori a una certa soglia, ma pressoché ovunque possono accede-
re a questo regime - onde beneficiare eventualmente di taluni vantaggi fi-
scali che esso offre - anche le altre imprese.
In Francia, ad esempio, su 1,2 milioni di imprese agricole, un terzo paga
le imposte sul reddito agricolo; di queste, circa 30.000 (pari al 2,5% del

247
198 Saverio Torcasio

totale) sono tassate sulla base del reddito effettivo, le restanti 3 70.000 sulla
base di un reddito figurativo, calcolato in funzione del reddito medio unita-
rio, fissato annualmente per le diverse produzioni agricole, e di altri criteri
obiettivi (superficie, quantità prodotta, natura giuridica dell'impresa, ecc.).
Nella Repubblica Federale di Germania le imprese agricole obbligate dal
fisco a tenere una contabilità rappresentano circa 1'8% del totale; tuttavia
possono optare per l'imposizione su base reale anche altre imprese che ten-
gono volontariamente una contabilità; a questo proposito sono previste talu-
ne esemplificazioni per le piccole imprese. Vale, peraltro, la pena di rilevare
che, anche se teoricamente il regime forfettario rappresenta la forma di tas-
sazione dei redditi agricoli più diffusa, nella Repubblica federale di Germa-
nia, di fatto è scarsamente applicato, o viene applicato in modo tale che
esso non ha alcun vero impatto fiscale: basti dire, al riguardo, che nell'eser-
cizio 1981-1982, ben il 76,3% delle imprese agricole a pieno tempo nella
Repubblica federale di Germania non ha pagato l'imposta sul reddito oppu-
re ha pagato un'imposta inferiore a 100 DM (circa 60.000 LIT).
In Belgio, le imprese tassate sulla base del reddito desunto da una con-
tabilità si aggirano sul 5% del totale: d'altra parte, una complessa procedu-
ra di concertazione tra organizzazioni professionali e amministrazione fiscale
è prevista annualmente al fine di pervenire alla fissazione forfettaria del red-
dito lordo e del reddito imponibile per tipologia d'impresa.
Irlanda e Italia presentano non poche analogie sotto il profilo della tas-
sazione dei redditi agricoli; in entrambi i paesi, infatti, non solo il regime
forfettario copre la quasi totalità delle imprese agricole, ma esso è anche
applicato sulla base di coefficienti catastali di reddito periodicamente rivalu-
tati. Va peraltro osservato che in Irlanda l'introduzione di una tassa sui red-
diti agricoli è ancora relativamente recente: essa risale, infatti, al 1974, e
cioè ali' anno successivo alla sua adesione alla Comunità, in connessione col
sensibile miglioramento dei redditi agricoli registrato nei primi anni di ap-
partenenza alla Comunità. Il campo di applicazione di questo regime, limi-
tato all'inizio ad una fascia ristretta di agricoltori, è stato in seguito progres-
sivamente ampliato fino a comprendervi oltre un quarto della totalità delle
imprese agricole.
È chiaro che la grande predominanza dei regimi di imposizione forfetta-
ria dei redditi agricoli in tutti questi paesi fa dell'agricoltura un settore fi-
scalmente privilegiato, rispetto agli altri settori, anche se è vero che non
sempre imposizione forfettaria significa implicitamente sottotassazione del
reddito agricolo. Tuttavia, la tendenza che si riscontra in molti di questi
paesi lascia pensare che in futuro la tassazione sulla base dei redditi effettivi
assumerà un ruolo sempre più rilevante: e ciò, non solo per ragioni pretta-
mente fiscali, ma anche e forse soprattutto perché diventa sempre più diffi-
cile condurre una politica agricola nell'ignoranza dei redditi individuali de-
gli agricoltori.
A questo riguardo, come abbiamo già detto, la situazione è del tutto
diversa nei tre paesi membri della Comunità in cui la tassazione dei redditi
agricoli richiede, come norma generale, la tenuta di una contabilità: si trat-

248
Fiscalità e agricoltura nella CEE l 99

ta, come è noto, della Danimarca, del Regno Unito e dei Paesi Bassi.
In questi paesi, non solo l'agricoltura è pienamente assimilata sotto il
profilo fiscale agli altri settori d'attività, salvo leggeri adattamenti della nor-
mativa, ma è anche possibile, per questa ragione, far beneficiare gli agricol-
tori degli stessi vantaggi fiscali (detassazione, esenzioni fiscali in caso di
reinvestimento, ecc.) di cui usufruiscono gli altri settori.

5 - LE IMPOSTE SUL PATRIMONIO

È evidentemente impossibile fornire, in questa sede, un quadro esau-


riente della moltitudine di imposte, nazionali e locali, che si fanno abitual-
mente rientrare fra le imposte cosiddette «sul patrimonio». È proprio in
questo settore, infatti, che la variabilità nel tempo e nello spazio è più gran-
de: si tratta talvolta di imposte percepite secondo modalità diverse non solo
da un anno all'altro e da un paese all'altro, ma anche, all'interno di uno
stesso paese, da un comune all'altro o da un dipartimento territoriale all'al-
tro. Esse assumono tuttavia un'importanza decisiva per la fiscalità agricola
nella maggior parte dei paesi membri della Comunità. Ad esempio, in Fran-
cia, si stima che le sole imposte fondiarie forniscono quasi i due terzi delle
entrate tributarie globali provenienti dal settore agricolo, e il peso relativo
di queste imposte è peraltro cresciuto notevolmente negli ultimi anni, anche
per effetto dell'aumento del valore locativo dei terreni agricoli derivante
dall'inflazione. In Olanda, invece, le imposte fondiarie, da cui peraltro sono
esclusi i terreni agricoli, hanno perso via via di importanza nel corso degli
anni '70, fino a scomparire quasi del tutto: questa situazione deriva però
anche dal fatto che l'agricoltura olandese è oberata, per altri versi, dai con-
tributi da versare alle associazioni responsabili della gestione delle acque e
dell'energia idraulica, e da oneri rilevanti per quanto riguarda la manuten-
zione delle dighe.
Le imposte fondiarie giocano un ruolo determinante anche in Irlanda,
dove esse rappresentano attualmente oltre la metà dell'intero gettito tributa-
rio dell'agricoltura: tali imposte hanno infatti fornito nel 1980 entrate fiscali
per 40 milioni di IRL, una cifra pari a circa il 10% del reddito familiare
agricolo stimato (remunerazione del lavoro familiare e interessi sul capitale
investito) [8]. Va detto, peraltro, che le imposte fondiarie costituivano, in
Irlanda, la sola fonte significativa di entrate tributarie provenienti dall'agri-
coltura prima dell'introduzione, nel 1974, della tassa sui redditi agricoli: il
suo gettito è peraltro pressocché triplicato tra il 1975 e il 1980, suscitando
vive reazioni nel mondo agricolo.
Anche in Danimarca le imposte fondiarie forniscono una parte essenzia-
le delle entrate fiscali delle contee e dei comuni in cui è suddiviso il territo-
rio amministrativo dello Stato [7]; ciò è dovuto in particolare al fatto che la
base imponibile è costituita sostanzialmente dal valore commerciale del ter-
reno, determinato in base alla sua utilizzazione effettiva o all'importo del-
1' affitto pagato. Allo scopo tuttavia di ridurre l'onere per l'agricoltura deri-

249
200 Saverio Torcasio

vante da queste imposte, dal 1961 fino all'adesione della Danimarca alla
Comunità, nel 1973, lo Stato versava agli agricoltori un sussidio che com-
pensava di fatto l'onere delle imposte fondiarie che questi versavano alle
contee. Dal 1978 è stata, peraltro, reintrodotta, sia pure su scala più ridotta,
una misura pressoché analoga: tuttavia i ristorni dello Stato, invece di essere
versati agli agricoltori, alimentano un fondo destinato alla promozione com-
merciale dei prodotti agricoli. Vale la pena, peraltro, di segnalare l'utilizza-
zione per fini di politica economica generale che è stata fatta nel 1980 e nel
1981 di un'apposita tassa fondiaria, a vantaggio dello Stato, pari allo 0,7%
del valore del terreno: essa è stata infatti temporaneamente introdotta allo
scopo di neutralizzare, almeno in parte, la spinta sulla dinamica dei redditi
agricoli esercitata dalla svalutazione della corona danese nel novembre del
1979.
Anche le imposte sui trasferimenti fondiari tra vivi o per successione
ereditaria possono essere relativamente importanti, soprattutto in periodi di
rapida inflazione, come l'attuale: questo spiega perché la relativa legislazio-
ne ha subito non pochi adattamenti in diversi Stati membri durante gli ulti-
mi anni, in genere al fine di attenuare l'impatto negativo di queste imposte
sulla mobilità fondiaria. Così, nel Regno Unito, nel 1982 sono state esonera-
te dalle imposte relative alle vendite o alla cessione tra vivi le plusvalenze
fondiarie derivanti dall'aumento dei prezzi intervenuto dopo il 6 aprile
1982. Anche in Danimarca queste imposte sono state ridotte negli ultimi
anni ed attualmente non colpiscono che le vendite effettuate durante i primi
8 anni dell'acquisto [14].
Su un altro piano, è il caso, peraltro, di rilevare la presenza di un'impo-
sta patrimoniale in cinque Stati membri della Comunità (la RF di Germa-
nia, la Danimarca, la Francia, il Lussemburgo e i Paesi Bassi). L'ultima, in
ordine di tempo, ad introdurre questo tipo di imposta è la Francia, che l'ha
adottata su un piano generale, ivi comprese le terre agricole, a partire dal 1°
gennaio 1982 (1 % per un patrimonio inferiore a 12 milioni di FF, e 1,5%
al di là di questa cifra). Considerando che, a seguito dell'introduzione di
tale imposta, alcuni proprietari imprenditori potrebbero essere indotti a
vendere le loro terre per pagare le imposte, il governo ha istituito un appo-
sito organismo per negoziare gli acquisti di terreni dagli attuali proprietari.

6 - L'IVA E LE ALTRE IMPOSTE SULLA PRODUZIONE

In base alla classificazione del Sistema europeo dei conti economici inte-
grati (SEC) [12], vengono comprese fra le imposte indirette sulla produzio-
ne e sulle importazioni: le imposte generali sugli affari, di cui l'IVA è di
gran lunga la più importante, le imposte di fabbricazione, le imposte sui
consumi, le tasse di bollo, di registro e una serie di altre imposte di minore
importanza.
Anche se le imposte sui consumi possono avere una grande influenza
sull'agricoltura, sia quando colpiscono i prodotti agricoli (ad es. accise sul

250
Fiscalità e agricoltura nella CEE 201

vino), sia quando si riferiscono ai mezzi tecnici di cui l'agricoltura si avvale


(ad es. esenzione dalle imposte sui carburanti per uso agricolo, oppure dalle
tasse sul gas per il riscaldamento delle serre in Olanda), in questa sede ci
limiteremo all'imposta sul valore aggiunto (IVA), che fornisce, in media, ol-
tre '!Il quarto delle entrate tributarie dei paesi della Comunità.
E soprattutto in materia di IVA, come si è detto, che il bilancio dell' ar-
monizzazione fiscale a livello comunitario è globalmente più positivo [3]. In
effetti, da una parte, nel 1967 l'adozione delle prime due direttive IVA ha
permesso di estendere questa imposta a tutti gli Stati membri, in sostituzio-
ne dei precedenti sistemi di imposta a cascata, fonte di gravi inconvenienti
negli scambi. Dall'altra, un nuovo progresso sulla via dell'armonizzazione è
stato compiuto nel 1977 con l'adozione, da parte del Consiglio, della VI
Direttiva IVA sulla base imponibile uniforme di questa imposta.
L'articolo 25 di questa direttiva prevede la facoltà per gli Stati membri
di applicare ai produttori agricoli un regime forfettario tendente a compen-
sare l'onere fiscale da essi sopportato sull'acquisto dei beni e servizi utilizza-
ti nell'attività produttiva, senza che essi siano sottoposti agli obblighi previ-
sti per il regime normale d'imposta. Sette Stati membri (Paesi Bassi, Irlan-
da, Francia, Lussemburgo, RF di Germania, Belgio e Italia) si sono avvalsi
di questa facoltà; due (Regno Unito e Danimarca) vi hanno invece total-
mente rinunciato.
Laddove, comunque, il regime normale non è di per sé obbligatorio, è
prevista la possibilità di optarvi volontariamente, oppure di optare per un
regime semplificato di IVA in agricoltura (Francia), ovvero ancora di optare
per il regime previsto per le piccole imprese (RF di Germania). Per quanto
riguarda il meccanismo di compensazione forfettaria degli oneri a monte,
soltanto la Francia ha scelto il versamento diretto della compensazione da
parte del tesoro pubblico su domanda annuale dell'agricoltore forfettario,
che deve presentare gli attestati richiesti; gli altri sei Stati membri hanno
scelto invece dei meccanismi di recupero degli oneri a monte attraverso
l'acquirente dell'agricoltore. Nel primo caso il recupero dell'imposta è ritar-
dato nel tempo, nel secondo è contestuale alla vendita: questo spiega, forse,
perché in Francia solo la metà delle imprese agricole sono rimaste nel regi-
me forfettario, mentre in Italia e Irlanda esse sono la quasi totalità, e la
stragrande maggioranza negli altri paesi. Un altro fattore che può influire
sull'uso delle facoltà opzionali previste per gli agricoltori forfettari è senza
dubbio il tasso di compensazione forfettaria applicato nei diversi Stati mem-
bri, tasso che varia attualmente non solo da paese a paese, ma anche da
prodotto a prodotto in connessione peraltro con la variabilità delle aliquote
di IVA.
Una sottocompensazione degli oneri a monte, nella misura in cui essa è
individuabile, può infatti incitare gli agricoltori forfettari a optare per il re-
gime normale di IVA che consente di recuperare l'integralità degli oneri a
monte. Al contrario, una sovracompensazione dell'onere IVA sugli acquisti
dell'agricoltura può assimilarsi ad una sovvenzione occulta a questo settore
e causare dunque una distorsione nelle condizioni di concorrenza per gli

251
202 Saverio Torcasio

scambi agricoli. Occorre tuttavia riconoscere a questo proposito che non


sempre è possibile individuare un tasso equo di compensazione forfettaria,
in quanto i dati macroeconomici relativi ai soli agricoltori forfettari necessa-
ri per un tale calcolo non sono in genere disponibili. D'altra parte, come è
possibile dissipare interamente il sospetto che il regime forfettario possa ce-
lare qualche vantaggio economico per coloro che vi fanno ricorso, allorché
esso si applica anche ad imprese di una certa dimensione, che sono obbliga-
te alla tenuta di una contabilità d'impresa, vuoi per la loro natura giuridica,
vuoi per altre esigenze fiscali, come ad esempio, nel caso dell'imposta sul
reddito delle persone fisiche in Olanda?
Sarà forse anche per queste ragioni che la Commissione CEE, in un suo
recente rapporto al Consiglio sul regime forfettario di IVA in agricoltura
[4] propone una serie di adattamenti di questo regime, in particolare per
quanto riguarda la restrizione del suo campo di applicazione, onde assicura-
re che esso sia limitato ai soli produttori che incontrino obiettivamente delle
difficoltà per l'applicazione del regime normale o semplificato d'IVA, e per
quanto riguarda il tasso di compensazione da utilizzare, affinché questo ri-
fletta il più possibile il gravame d'imposta che pesa realmente sugli acquisti
dell'agricoltore forfettario.

7 - LA SICUREZZA SOCIALE IN AGRICOLTURA

Come abbiamo già avuto modo di precisare, un'analisi comparativa della


pressione fiscale in agricoltura nei diversi Stati membri della CEE non può
unicamente basarsi sulla presa in considerazione delle imposte che colpisco-
no l'agricoltura, ma deve essere estesa anche al contributo dell'agricoltura al
finanziamento dei sistemi di sicurezza sociale in favore degli agricoltori e
dei salariati agricoli che vengono applicati nella Comunità. E ciò in conside-
razione del fatto che, a seconda dei paesi, il finanziamento della sicurezza
sociale può avvenire, prevalentemente, mediante contributi dei datori di la-
voro e dei lavoratori, come nella maggior parte degli Stati membri, oppure
mediante il bilancio dello Stato, ossia essenzialmente mediante il sistema tri-
butario come in Danimarca e in Irlanda (cfr. tab. 2): è chiaro, in queste
condizioni che qualunque confronto basato sull'incidenza relativa di una so-
la imposta o anche di tutte le imposte nel loro insieme sull'agricoltura non
potrebbe che dare risultati parziali. Detto questo, vedremo in questo para-
grafo le principali caratteristiche dei diversi sistemi di sicurezza sociale in
agricoltura nella CEE.
In generale, anche per la sicurezza sociale relativa agli imprenditori agri-
coli come per certe imposte che gravano su questo settore, può farsi una
prima distinzione tra due gruppi di paesi: da una parte quelli in cui gli agri-
coltori contribuiscono al sistema generale di sicurezza sociale e ricevono le
stesse prestazioni al pari degli altri soggetti; dall'altra, quelli in cui, invece,
esiste un sistema di sicurezza sociale specifico per l'agricoltura, che talvolta

252
Fiscalità e agricoltura nella CEE 203

TAB. 2 - Struttura delle entrate della sicurezza sociale nella CEE (in % del totale)

Contributi sociali
Contributi
Altre entrate
Stati membri pubblici
dei dati delle persone correnti
correnti
di lavoro protette

1975
BR Deutschland 44,2 24,1 27,4 4,3
France 58,2 19,2 19,4 3,2
Italia 72,9 10,5 13,4 3,2
Nederland 40,0 33 ,8 17,0 9,2
Belgique/Belgie 43,1 19,6 30,7 6,6
Luxembourg 37,1 24,2 31,1 7,6
United Kingdom 37,4 15,9 39,4 7,3
Ireland 22,8 11,8 62,1 3,3
Danmark 11,0 1,6 84,4 3,0
EUR-9 48,3 19,9 26,9 4,9

1981
BR Deutschland 38,3 26,0 32,5 3,2
France 56,0 22,6 18,5 2,9
Italia 56,7 13,3 27,7 2,3
Nederland 35,4 32,1 19,9 12,6
Belgique/Belgie 42,4 18,3 35,8 3,5
Luxembourg 34,0 22,6 34,3 9,1
United Kingdom 33,0 15,4 43,3 8,3
Ireland 24,2 11,2 63,4 1,2
Denmark 10,0 2,1 83,1 4,8
EUR-9 42,5 21,1 31,6 4,8

Fonti: EuROSTAT.

funziona su base mutualistica. Al primo gruppo di paesi appartengono il


Belgio, la Danimarca, l'Irlanda, i Paesi Bassi, il Regno Unito; al secondo
gruppo la Francia, l'Italia, la Repubblica federale di Germania e il Lussem-
burgo.
Va subito detto che questa classificazione non permette di tirare di per
sé alcuna conclusione valida né sulla «qualità» delle prestazioni ricevute dai
diversi organismi preposti alla sicurezza sociale nei vari Stati membri, né
sullo «sforzo contributivo» richiesto all'agricoltura. Per quanto riguarda
quest'ultimo aspetto, più facilmente quantificabile, uno studio realizzato su
incarico della Commissione CEE mostra infatti che l'agricoltura contribuiva
nel 1976 al finanziamento della sicurezza sociale degli imprenditori agricoli
per il 40% del suo costo totale, in Belgio, per lo 0,1 % in Danimarca, per il
35 % nella Repubblica federale di Germania, per il 19,2% in Francia, per il
76,5% nei Paesi Bassi e per il 32,2% nel Regno Unito. L'Italia non era
coperta da tale studio, ma da altre fonti è possibile dedurre che all'epoca lo
sforzo contributivo dell'agricoltura italiana si aggirava sull'8,5% del costo
complessivo della sicurezza sociale per gli imprenditori agricoli, la quota re-

253
204 Saverio Torcasio

sidua essendo coperta per un quinto da contributi dello Stato e per i quat-
tro quinti dalla solidarietà degli altri settori.
Contrariamente a quello che si potrebbe ritenere, quest'ultima non è
tuttavia una caratteristica esclusiva della situazione italiana. In Francia, ad
esempio, gli altri settori economici e il Fondo nazionale di solidarietà con-
tribuivano nel 1976 per il 45% al finanziamento della legislazione sociale a
favore degli imprenditori agricoli (47% nel 1980). D'altra parte, in tutti i
paesi in cui il finanziamento della sicurezza sociale agricola avviene preva-
lentemente mediante lo strumento impositivo, e in particolare in Danimar-
ca, è lecito supporre che si operi implicitamente un certo trasferimento in-
tersettoriale di risorse a vantaggio dell'agricoltura, nella misura in cui la ca-
pacità contributiva di quest'ultima o la fiscalità effettiva in agricoltura sia
inferiore a quella degli altri settori. Questa considerazione ci induce, per al-
tri versi, a ridimensionare la portata effettiva del fenomeno in quei paesi,
come la Francia e l'Italia, in cui i trasferimenti intersettoriali assumono a
prima vista una dimensione quantitativa più rilevante. Senza voler nulla to-
gliere al valore economico e sociale di questa manifestazione di solidarietà,
sta di fatto che, a parità di capacità contributiva degli agricoltori e dei lavo-
ratori dell'industria, e a parità delle prestazioni sociali usufruite dagli uni e
dagli altri, lo scarto nello sforzo contributivo tra le due categorie sociali,
che appare oggi in tali paesi veramente macroscopico, si ridurrebbe in ma-
niera consistente. Lo dimostra, tra l'altro, uno studio recente realizzato in
Francia dalla Mutualité Sociale Agricole e inteso a determinare appunto lo
sforzo contributivo reale degli agricoltori rispetto ai salariati del regime ge-
nerale postulando per i primi un reddito di parità e uno sforzo contributivo
equivalente (10].
Per l'insieme delle prestazioni fruite dai diversi organismi di sicurezza
sociale nel 1981, tale studio, i cui risultati vanno comunque presi con una
certa cautela, è arrivato alla conclusione che lo sforzo contributivo effettivo
degli agricoltori francesi si situa in una forcella compresa tra il 74 e 1'82%
di quello dei lavoratori salariati, se si tiene conto del reddito di lavoro ri-
spettivo.
Per quanto riguarda il sistema di sicurezza sociale per i lavoratori agri-
coli, questo è assimilato al regime generale dei salariati in Belgio, nella Re-
pubblica federale di Germania e in Irlanda, assume una configurazione di-
stinta in Francia e in Italia, mentre è grosso modo analogo a quello degli
imprenditori agricoli e dell'insieme della popolazione nei Paesi Bassi e in
Danimarca.
In questo contesto, vale peraltro la pena di rilevare che la contribuzione
dei salariati agricoli al finanziamento del proprio sistema di sicurezza sociale
variava nel 1976 dall'8% in Francia (contro il 25% dovuto a questo titolo
dagli imprenditori agricoli), al 10% in Danimarca (nessun contributo da
parte degli imprenditori agricoli è previsto in questo paese), al 20% nel Re-
gno Unito (contro il 52%), al 30% _nella Repubblica federale di Germania
(contro il 42%), al 44% nei Paesi Bassi (contro il 47% versato dagli agri-
coltori indipendenti).

254
Fiscalità e agricoltura nella CEE 205

8 - UN TENTATIVO DI ANALISI COMPARATIVA DELLA PRESSIONE FISCALE IN


AGRICOLTURA IN ALCUNI PAESI DELLA CEE

Da questo abbiamo detto fin qui sull'assenza in tutti gli Stati membri di
una fiscalità propriamente agricola, sulla molteplicità e sulla diversità degli
strumenti fiscali utilizzati e degli enti percettori, sulla necessità di tener con-
to dell'insieme del sistema fiscale e parafiscale, appaiono già evidenti le dif-
ficoltà che occorre sormontare per pervenire alla determinazione di un indi-
ce sintetico che esprima l'incidenza della pressione fiscale in agricoltura nei
diversi Stati membri della Comunità. Se, però, a ciò si aggiunge che le stati-
stiche fiscali esistenti in molti paesi non consentono il più delle volte di di-
stinguere tra gettito fiscale proveniente dall'agricoltura e quello proveniente
dagli altri settori, ci si rende conto _che spesso non di «difficoltà» si tratta,
ma di vera e propria impossibilità. E il caso di notare che, a questo propo-
sito, l'Italia costituisce una rara eccezione, grazie in particolare ai lavori del
Cristofaro [9; 11] che hanno permesso di dare una notevole trasparenza alla
fiscalità nel settore agricolo e consentono, sia pure entro certi limiti, di
comparare la pressione fiscale in agricoltura con quella degli altri settori
economici. Un calcolo analogo a quello che il Cristofaro effettua annual-
mente per l'agricoltura italiana non è tuttavia possibile per tutti gli altri pae-
si della Comunità, per le ragioni che abbiamo più volte indicato, ed in par-
ticolare per l'assenza di statistiche fiscali dettagliate. Quando, peraltro, dalle
analisi relative ad un solo paese si passa ai confronti tra più paesi un margi-
ne complementare di prudenza si rende necessario se si vogliono evitare
conclusioni affrettate e distorsioni ottiche, a cui i risultati ottenuti potrebbe-
ro facilmente condurre.
Anzitutto, le statistiche fiscali, per quanto esse possano essere perfezio-
nate, non consentono di mettere in luce l'importanza relativa degli esoneri e
degli sgravi d'imposta, in particolare per quanto riguarda le imposte sul
reddito e sul patrimonio, attribuibili, ad esempio a misure di carattere eco-
nomico o sociale, temporanee o permanenti, oppure alla situazione familiare
dei contribuenti. In queste condizioni, rilevava lo studio già citato della
Commissione CEE [6], «anche se esistesse una ripartizione precisa e com-
pleta delle entrate fiscali provenienti dal settore agricolo, questi dati non
sarebbero sufficienti a dare una fisionomia esatta di questo settore e a si-
tuarlo con precisione tra gli altri settori della produzione nazionale».
In secondo luogo, non occorre dimenticare che, come abbiamo già vi-
sto, esiste un'elevata correlazione tra tassi di pressione fiscale complessiva e
capacità contributiva media dei soggetti d'imposta (o redditi medi indivi-
duali) nei diversi Stati membri, e, all'interno di uno stesso Stato membro,
probabilmente tra pressione fiscale e capacità contributiva dei diversi settori
economici. Tutto questo porta a credere, dunque, che almeno nel lungo pe-
riodo la pressione fiscale in agricoltura tenda ad essere più elevata nei paesi
ad agricoltura «più ricca» e meno elevata negli altri senza che se ne possa
necessariamente dedurre che la prima sia discriminata rispetto alla seconda.

255
206 Saverio Torcaszo

La stessa considerazione può del resto estendersi anche ai confronti in-


tersettoriali.
Un terzo elemento di prudenza nei confronti tra Stati membri deriva dal
fatto che, come abbiamo visto, in qualche caso lo Stato rimborsa parzial-
mente o integralmente, sotto forme diverse, alcune imposte (ad es. in Dani-
marca le imposte fondiarie versate alle collettività locali) . In generale, poi,
più o meno tutti i paesi accordano una serie di vantaggi fiscali all'agricoltu-
ra, mediante deroghe alla normativa generale o mediante legislazioni specia-
li, che si traducono, di fatto, in una perdita netta delle entrate fiscali e che,
come tale, andrebbe dedotta dalle entrate fiscali complessive provenienti dal
settore agricolo.
Detto questo e prendendo i risultati ottenuti soprattutto come ordini di
grandezza, presentiamo, qui di seguito, una nostra stima della pressione fi-
scale globale in agricoltura in sei paesi membri della Comunità, espressa in
termini di incidenza relativa del prelievo obbligatorio globale (imposte +
contributi sociali obbligatori) sul valore aggiunto lordo dell'agricoltura ai
prezzi di mercato nel 1975 e nel 1980.
Come si vede da tale tabella, la pressione fiscale in agricoltura sarebbe
attualmente di gran lunga meno elevata in Italia che negli altri paesi consi-
derati. Peraltro, malgrado l'incremento relativo della pressione fiscale in Ita-
lia tra il 1975 e il 1980 (dal 5,1 % all'8,5 % ) lo scarto con gli altri paesi si
sarebbe nel frattempo accresciuto, in quanto la fiscalità negli altri paesi
avrebbe subito una dinamica molto più accentuata: è il caso, in particolare,
dell'Irlanda, dove la pressione fiscale in agricoltura sarebbe quasi triplicata
tra il 1975 e il 1980 e della Francia, dove essa sarebbe passata dal 10,7% al
16,1 %. In Irlanda l'incremento della pressione fiscale nel periodo conside-
rato può essere attribuito essenzialmente a tre fattori concomitanti: l'intro-
duzione, nel 1974, di una tassa sui redditi agricoli, il cui gettito ha assunto
una dimensione considerevole in questi ultimi anni; la continua espansione
delle entrate derivanti dalle imposte fondiarie, che sono quasi triplicate tra
il 1975 e il 1980; la flessione anche in valore assoluto, tra il 1975 e il 1980,
del valore aggiunto lordo ai prezzi di mercato dell'agricoltura, che costitui-
sce il denominatore della frazione attraverso cui si perviene al calcolo della
pressione fiscale.
In Francia, invece, l'incremento della pressione fiscale in agricoltura è
essenzialmente dovuto all'aumento del volume dei contributi provenienti dal
settore agricolo e destinati al finanziamento del sistema di sicurezza sociale
in agricoltura.
La pressione fiscale in agricoltura sarebbe sostanzialmente analoga nel
Regno Unito e nella Repubblica Federale di Germania (intorno al 19% ),
mentre sarebbe di gran lunga più elevata in Danimarca (poco meno del
28 % ).
Nel complesso, dunque, i risultati empirici ottenuti sembrano sostanzial-
mente concordare con le enunciazioni teoriche che avevamo formulato in
precedenza.
In particolare, sembra essere grosso modo confermata la tesi che ad

256
Fiscalità e agricoltura nella CEE 207

TAB. 3 - Struttura del prelievo pubblico e pressione fiscale in agricoltura in alcuni paesi della
CEE

RU IT FR IRL DK RFG
1975

}
Imposte sul reddito agricolo 38,5 17,2 n.d. n.d.
34,4 13,7
Imposte sul patrimonio
}
27,8 59,4 n.d. n.d.
14,9
Imposte sulla produzione 5,9 6,7 9,6 n.d. n.d.
Totale imposte 72,2 41,1 28,6 86,2 n.d. n.d.
Contributi sociali obbLgatori 27,8 58,9 71 ,4 13,8 n.d. n.d.
Totale imposte + contributi
sociali obbligatori 100,0 100,0 100,0 100,0
Pressione fiscale (1 ) % 15,2 5,1 10,7 4,2 n.d. n.d.

1980

}
Imposte sul reddito agricolo 38,6 25,9 42 ,5 16,7(2)
41 ,9 9,2
}
Imposte sul patrimonio 24,9 39,4 31 ,9 16,2
17 ,4
Imposte sulla produzione 7,2 8,2 23,7 24,0 1,7
Totale imposte 70,7 50,1 26,6 89,0 98,6 34,6
Contrib uti sociali obbligatori 29,3 49,9 73 ,4 11,0 1,4 65,4
Totale imposte + contributi
sociali obbligatori 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Pressione fiscale ( 1) % 18,6 8,5 16, 1 11,1 27,7 18,9

(1) Incidenza del prelievo fiscale globale (imposte + contributi sociili obbligatori) sul valore
aggiunto lordo dell'agricoltura ai prezzi di mercato.
(2) Anno 1979.
Fonti: per l'Italia [9; 11] ; per gli altri paesi, nostre elaborazioni o stime.

agricoltura «plU ricca» e con migliori strutture produttive corrisponde una


pres~ione fiscale relativamente più elevata.
E sufficiente questa constatazione per affermare che, per questo solo fat-
to, gli avicoltori nei paesi a fiscalità più pesante sono automaticamente «pe-
nalizzati» rispetto a quelli a fiscalità relativamente più blanda? Sarebbe az-
zardato affermarlo. E ciò, non solo perché, come abbiamo detto, la pressio-
ne fiscale nei vari paesi dipende anche dalla capacità contributiva dei diver-
si soggetti, ma anche per un'altra ragione essenziale che non va dimenticata:
il prelievo fiscale, in effetti, non è che una fase dell'azione pubblica com-
plessiva, l'altra essendo rappresentata dall'erogazione delle risorse cosi pr~-
levate e dalla prestazione dei servizi di cui rappresenta il corrispettivo. E
soltanto tenendo conto di entrambi le poste di questo bilancio che è possi-
bile situare in termini relativi i contribuenti di un paese rispetto a quelli
degli altri paesi [13]. Questo discorso dovrebbe valere, in particolare, per il
prelievo fiscale in agricoltura e per i trasferimenti che lo Stato e gli altri enti
pubblici operano a favore di questo settore.
È difficile dare una dimostrazione rigorosa di questa tesi, e ciò anche

257
208 Saverio Torcasio

perché le informazioni sulla spesa pubblica in agricoltura nei diversi Stati


membri sono, per ora, altrettanto carenti che quelli sulla fiscalità in agricol-
tura.
Sulla base, tuttavia, delle stime della Commissione CEE per l'anno 1977
relative alle spese nazionali complessive a favore del settore agricolo (ivi
compreso il finanziamento pubblico della sicurezza sociale in agricoltura)
[2], è possibile, ad esempio, constatare che le spese nazionali per persona
attiva in agricoltura sono relativamente inferiori nei paesi a più basso tasso
di fiscalità in agricoltura (Italia e Irlanda), mentre sono più elevate nel
gruppo di paesi a più forte pressione fiscale in agricoltura (Regno Unito,
Francia, Repubblica Federale di Germania e Danimarca) .
Senza voler dare a questo confronto un eccessivo valore probatorio, re-
sta il fatto che una pressione fiscale relativamente più elevata in paesi come
la Danimarca o la Germania non ha impedito all'agricoltura di questi paesi
di consolidarsi e di affermarsi sempre più mentre una fiscalità agricola ri-
dotta in paesi come l'Italia e l'Irlanda non pare abbia prodotto effetti parti-
colarmente vistosi sulla competitività delle rispettive agricolture.
Che il livello di efficienza dell'agricoltura e, perché no, della politica
agricola nei diversi Stati ~embri sia commisurato anche al livello di pressio-
ne fiscale in agricoltura? E un'ipotesi su cui varrebbe forse la pena indaga-
re.

Summary

Taxation and Agriculture in EEC Countries


Despite the politica! and economie significance of the subject, little is known
about comparative levels of fiscal pressure in EEC member countries. On the one
hand the fiscal regimes applied to agriculture in the Community are heterogeneous;
on the other, it is impossible to isolate the tax revenues deriving from agriculture.
This paper reviews the fiscal regimes in agriculture in the different member coun-
tries, including those concerning social security. Finally, the results of a comparative
analysis of fiscal pressure in agriculture in six member countries are presented.

Riferimenti bibliografici

[1] COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE : Conseguenze per il settore agricolo


del diverso grado di integrazione tra politica agraria comune e altre politiche co-
munitarie, in La situazione dell'agricoltura nella Comunità - Relazione 1982,
Lussemburgo, 1983.
[2] COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE: La situazione dell'agricoltura nella
Comunità - Relazione 1980, Lussemburgo, 1981.
[3] COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE: Rapporto sulle prospettive di conver-
genza dei regimi fiscali nella Comunità, Supplemento 1/80 al «Bollettino delle
Comunità Europee».

258
Fiscalità e agricoltura nella CEE 209

[ 4] COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE: Proposte di miglioramento e di adat-


tamento dei regimi applicati da taluni Stati membn· nel quadro del regime comu-
ne forfettario dei produttori agricoli, COM (83) 435 def., Bruxelles, 12 .7.1983 .
[5] CoMMISSION DES CoMMUNAUTÉS EuROPÉENNES: Inventaires des impots, Bru-
xelles, 1981.
[6] CoMMISSION DES CoMMUNAUTÉS EuROPÉENNES: Régime fiscal des exploitations
agricoles et imposition de l'exploitation dans !es pays de la CEE, Informations
internes sur l'agriculture, n. 27, juin 1968.
[7] CoMMISSION OF THE EuROPEAN CoMMUNITIES: Factors in/luencing ownership,
tenancy, mobility and use of farmland in Denmark, Information on agriculture,
n. 73, Luxembourg, 1982 .
[8] CoMMISSION OF THE EuROPEAN CoMMUNITIES: Factors in/luencing ownership,
tenancy, mobility and use of farmland in lreland, Information on agriculture, n.
84, Luxembourg, 1982.
[9] A. CRISTOFARO: L'agricoltura nel sistema fiscale italiano , relazione al XXX
Convegno di studi della SrnEA, Trento, 27-28 ottobre 1983.
[10] Financement de la protection sociale agricole: l'e/fort contributi/ des exploitants,
«Bulletin d'information de la mutualité agricole», n. 328, septembre 1983.
[11] INEA: Annuario dell'agricoltura italiana, Roma, varie annate.
[12] ISTITUTO STATISTICO DELLE COMUNITÀ EUROPEE: Sistema europeo dei conti
economici integrati, Lussemburgo, 1981.
(13] G . MONTAGNIER: 1957 - 1982: les fiscalités nationales vingt-cinq ans après, «Re-
vue trimestrielle de droit européen», n. 4, octobre-decembre 1982 .
(14] OECD, COMMITEE FOR AGRICULTURE: «Review of agricultural policies in OECD
member countries», 1980-1982 , Paris, 1983.
[15] R. PARSCHE, G . SPANAKIS: Die Einkommensbesteuerung der naturlichen Perso-
nen in den EG - Partnerliindern unter besonderer Berucksichtigung der fur die
Landwirtschaft geltenden Regelungen, IFO, Miinchen, 1978.
[16] P. PINON: A genera! review of direct agricultural taxation in the member states
of the Community, in Farm Financing and agricultural taxation in the Communi-
ty, Centre for European Agricultural Studies, Wye College, Ashford, Kent,
1982.

259
Parte quinta

La politica di sviluppo rurale nel contesto delle politiche


strutturali dell’Unione Europea

261
La politica di sviluppo rurale nel contesto delle politiche
strutturali dell’Unione europea*
(2005)

*Corso integrativo di Economia agraria, Università degli Studi di


Cassino, Sede di Terracina - Facoltà di Economia

262
I. Le politiche strutturali nel Trattato di Roma e i successivi
adattamenti

1. Il Trattato di Roma e le politiche strutturali

Il Trattato firmato a Roma, il 25 marzo 1957, dai sei paesi fondatori della
Comunità economica europea (Francia, Italia, Germania, Belgio, Olanda e
Lussemburgo) è ancora oggi, nonostante le modifiche che vi sono state
apportate nel corso degli anni e nonostante i successivi e ripetuti
ampliamenti della Comunità europea, la base su cui poggia l’intera
costruzione comunitaria.

Con questo Trattato, i paesi fondatori intendevano porre le fondamenta di


un’unione sempre più stretta fra i popoli europei, che li mettesse al riparo
da nuovi conflitti dopo le due sanguinose guerre mondiali che li avevano
visti contrapposti e che permettesse di promuovere il loro progresso
economico e sociale, eliminando le barriere che dividevano l’Europa.

Con il Trattato di Roma veniva istituita una Comunità Economica Europea


(CEE), i cui compiti venivano così definiti nell’articolo 2 del Trattato:

“La Comunità ha il compito di promuovere, mediante l’instaurazione di


un mercato comune e il graduale ravvicinamento delle politiche
economiche degli Stati membri,

 uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme


della Comunità,
 un’espansione continua ed equilibrata,
 una stabilità accresciuta,
 un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e
 più strette relazioni fra gli Stati che ad essa partecipano”.

Ai fini del raggiungimento di questi obiettivi, venivano anche indicati gli


strumenti d’azione di cui la Comunità doveva progressivamente dotarsi
(articolo 3 del Trattato) e che, fatte salve le modifiche apportate
successivamente, costituiscono ancor oggi la base giuridica delle varie
politiche comuni messe in atto dall’entrata in vigore del Trattato ad oggi.
In questa sede, vale la pena di menzionare, in particolare:

263
 la realizzazione di un’unione doganale che comportasse
l’abolizione dei dazi doganali e delle restrizioni agli scambi fra
gli Stati membri, nonché l’adozione di una tariffa doganale
comune per le importazioni dai paesi terzi,

 l’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle


persone, delle merci, dei servizi e dei capitali fra gli Stati membri,

 l’instaurazione di una politica comune nel settore


dell’agricoltura,

 la messa in atto di misure intese a garantire che la concorrenza


non sia falsata nel mercato comune,

 la coordinazione delle politiche economiche degli Stati membri,

 la creazione di un Fondo sociale europeo, allo scopo di


migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori e di
contribuire al miglioramento del loro tenore di vita.

La messa in atto di politiche strutturali comuni, vale a dire di politiche


che agissero sulle strutture economiche e sociali al fine di favorire uno
sviluppo più dinamico e più equilibrato tra i vari paesi membri e,
all’interno di questi, tra le varie regioni, non figura espressamente tra gli
strumenti di azione della Comunità previsti dal Trattato di Roma.

Quest’ultimo, tuttavia, oltre al già citato Fondo sociale europeo, che può
considerarsi l’antesignano di quelli che sono diventati in seguito i fondi
strutturali della Comunità europea, prevedeva anche l’istituzione di una
Banca europea per gli investimenti, destinata a facilitare l’espansione
economica “equilibrata e senza scosse” della Comunità, che di fatto è stata
per lungo tempo lo strumento finanziario prevalente dell’azione
comunitaria a favore delle regioni più deboli.

Questa preoccupazione è peraltro ancora più evidente dalle dichiarazioni


di intenti che sono contenute nel preambolo al Trattato di Roma, laddove i
firmatari del Trattato si dichiarano ansiosi “di rafforzare l’unità delle loro
economie e di assicurarne lo sviluppo armonioso riducendo le disparità
fra le differenti regioni e il ritardo di quelle meno favorite”. Ciò
malgrado, questa preoccupazione non si traduce in una conseguente e
parallela investitura della Comunità di specifiche competenze in questo
campo, al di là di quelle, piuttosto generiche, sopra indicate. Bisognerà

264
attendere quasi venti anni perché la Comunità si doti di una propria
politica regionale e oltre trent’anni anni perché sia creato un Fondo di
coesione a livello comunitario.

Tutto questo non deve affatto sorprendere se si considera che la messa in


atto di ogni politica comune implica una cessione di sovranità dagli Stati
membri alla Comunità e che questa cessione è stata spesso ostacolata dalla
comprensibile volontà degli Stati membri di conservare il più possibile le
proprie politiche nazionali.

Nel caso delle politiche strutturali, d’altra parte, il bisogno di un approccio


comunitario, all’epoca della firma del Trattato di Roma, non era ancora
apparso in tutta la sua urgenza sia perché si pensava che l’unione doganale
avrebbe permesso di per sé una “espansione continua ed equilibrata”, sia
perché è proprio nel campo delle politiche strutturali che vi erano le
resistenze maggiori per passare da politiche nazionali ad una politica
comune.

Si aggiunga a tutto questo che, in genere, le politiche strutturali sono


politiche redistributive, cioè politiche che implicano dei trasferimenti di
risorse dai paesi più ricchi ai paesi meno abbienti e si comprenderà meglio
il travagliato avvio e il faticoso affermarsi delle politiche strutturali a
livello comunitario.

2. L’avvio della politica socio-strutturale in agricoltura

Fin dall’inizio, la Politica agricola comune (Pac) ha assunto un ruolo


predominante, anche in termini finanziari, fra le varie politiche comuni.
Questa situazione non è fondamentalmente cambiata fino ad oggi, anche
se, col tempo, il peso della Pac sul bilancio comunitario è andato
riducendosi proprio per effetto del parallelo incremento dello sforzo
finanziario della Comunità nel campo delle politiche strutturali.

In effetti, mentre negli anni Settanta la Pac assorbiva oltre il 70% del
bilancio comunitario e i Fondi strutturali appena il 5%, oggi il costo della
Pac è sceso sotto il 50%, mentre quello delle politiche strutturali ha
superato il 30% delle spese complessive. Questa tendenza è peraltro
destinata a proseguire nei prossimi anni.

Alla politica agricola comune sono dedicati ben dieci articoli del Trattato
CEE. In nessuno di essi, tuttavia, si fa menzione espressamente della
necessità di mettere in piedi delle misure che contribuiscano alla

265
razionalizzazione e al rafforzamento delle strutture di produzione oppure
al miglioramento delle strutture di trasformazione e commercializzazione
in agricoltura.

L’articolo 39, tuttavia, dopo avere indicato le finalità della politica


agricola comune (incremento della produttività, miglioramento del tenore
di vita della popolazione agricola, stabilizzazione dei mercati, sicurezza di
approvvigionamento, ecc.), precisa che

“Nell’elaborazione della politica agricola comune e dei metodi speciali


che questa può implicare, si dovrà considerare:
a) il carattere particolare dell’attività agricola che deriva dalla
struttura sociale dell’agricoltura e dalle disparità strutturali e
naturali fra le diverse regioni agricole,
b) la necessità di operare gradualmente gli opportuni adattamenti,
c) il fatto che, negli Stati membri, l’agricoltura costituisce un
settore intimamente connesso all’insieme dell’economia”.

La politica agricola comune ha preso avvio nel 1962 con la progressiva


unificazione dei prezzi dei prodotti agricoli nei vari Stati membri e la
messa in piedi di organizzazioni comuni dei mercati per la quasi totalità
dei prodotti agricoli. Il finanziamento delle misure di sostegno
dell’agricoltura introdotte nel quadro della Pac è assicurato dal bilancio
comunitario attraverso uno specifico fondo creato a questo fine nel 1964:
il FEOGA (Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e di Garanzia).

Il FEOGA si compone di due sezioni: la sezione “Garanzia”, di gran


lunga la più importante sul piano finanziario, e la sezione
“Orientamento”. La sezione “Garanzia” finanzia le spese che potremmo
definire “correnti”, cioè quelle per il sostegno dei prezzi e dei mercati
agricoli (acquisto delle eccedenze da parte dei cosiddetti “organismi di
intervento sui mercati”, stoccaggio, aiuti ai produttori o ai trasformatori,
restituzioni all’esportazione sui mercati mondiali, ecc.). La sezione
“Orientamento” è invece più esplicitamente destinata al finanziamento di
progetti di investimento ed al sostegno degli adattamenti strutturali in
agricoltura.

In realtà, una vera politica socio-strutturale in agricoltura a livello


comunitario non è esistita fino al 1972. Fino a questa data, infatti, l’azione
della Comunità in questo campo si è limitata ad un semplice
coordinamento delle misure strutturali degli Stati membri. Il FEOGA-
Orientamento, dal canto suo, si è limitato a finanziare una moltitudine

266
eterogenea di progetti individuali di investimento nell’ambito delle
aziende agricole, o di miglioramento delle strutture di trasformazione e
commercializzazione dei prodotti agricoli oppure al finanziamento di
infrastrutture agricole, senza però che che questi progetti si inquadrassero
necessariamente in una logica di programmazione settoriale o territoriale.

Nel 1972, dopo quasi tre anni di aspre discussioni, vengono adottate le
prime tre direttive socio-strutturali che gettano le basi di una sia pur
ancora embrionale politica strutturale comune in agricoltura. Queste tre
direttive rispondevano, rispettivamente, a tre obiettivi principali:

o incoraggiare l’ammodernamento delle aziende agricole in grado


di restare sul mercato e di fornire un reddito adeguato ai loro
titolari;
o favorire la cessazione dall’attività agricola degli agricoltori che
non disponevano di aziende aventi le potenzialità economiche
adeguate;
o migliorare l’informazione socio-economica e le qualificazioni
professionali delle persone che lavoravano in agricoltura.

Vale la pena di osservare che questo deciso passo in avanti verso una
politica strutturale comunitaria nell’ambito della Pac, oltre che alla
pressione politica di paesi come l’Italia che avevano tutto da guadagnare
dall’avvio di una politica comunitaria in un settore come quello delle
strutture agricole in cui l’Italia era particolarmente debole, era anche
dovuto alla consapevolezza, che incominciava a farsi strada anche negli
altri paesi, che l’unificazione della politica dei prezzi e dei mercati
realizzata fino ad allora non poteva da sola rimediare alle disparità
esistenti in seno all’agricoltura europea e che, anzi, queste disparità erano
destinate ad accentuarsi in mancanza di interventi correttivi.

Questa preoccupazione è ancora più esplicita nella direttiva


sull’agricoltura di montagna e di talune zone svantaggiate adottata nel
1975 e trova la sua più chiara espressione nell’adozione, nel 1978, del
cosiddetto “pacchetto mediterraneo”. La prima prevedeva la
concessione di aiuti agli agricoltori che si trovano ad operare in zone
svantaggiate, ed in particolare di montagna, e nelle quali l’abbandono
dell’attività agricola poteva comportare un rischio di degrado del territorio
e di desertificazione rurale. Il secondo aveva come scopo di migliorare la
situazione dell’agricoltura nelle regioni mediterranee della Comunità, ed
in particolare nel Mezzogiorno d’Italia.

267
Al di là del loro impatto effettivo, che è stato in realtà piuttosto limitato
rispetto alle attese, quanto meno in Italia, sia per la ristrettezza delle
risorse finanziarie disponibili, sia per una serie di problemi nella fase di
applicazione in sede nazionale, tutte queste misure avevano come
obiettivo di rimediare agli inconvenienti di una politica agricola dei prezzi
e dei mercati applicata in modo uniforme sul territorio comunitario ma di
cui soltanto le regioni più sviluppate e le aziende agricole più efficienti
riuscivano effettivamente ad avvantaggiarsi.

3. Il consolidamento del Fondo sociale europeo

Il Fondo sociale europeo (FSE) è il Fondo strutturale più antico e il


principale strumento finanziario attraverso cui viene messa in atto la
politica sociale dell’Unione europea e in particolare la politica
dell’occupazione. Esso è stato creato dallo stesso Trattato di Roma con il
compito di “promuovere, all’interno della Comunità, le possibilità di
occupazione e la mobilità geografica e professionale dei lavoratori”. Il
Fondo sociale ha subito numerosi adattamenti tra il 1957 e il 1988, anno
nel quale, come vedremo più in là, tutti i fondi strutturali comunitari sono
stati sottoposti ad una radicale riforma.

Il periodo iniziale, che va dal dal 1960 al 1971, è quello in cui l’azione
del Fondo sociale è stata meno incisiva: anzitutto perché i finanziamenti –
principalmente destinati alla reinserzione professionale dei lavoratori
disoccupati – venivano versati a posteriori, vale a dire dopo che i progetti
erano già stati realizzati e quindi dopo che erano già stati finanziati a
livello nazionale; in secondo luogo, perché i paesi che maggiormente ne
beneficiavano erano proprio quelli che più degli altri disponevano già di
strutture di formazione o di perfezionamento nonché di risorse finanziarie
proprie. Non deve quindi sorprendere se il Fondo sociale europeo, che era
stato creato per aiutare soprattutto l’Italia, nel corso di questo periodo ha
di fatto soprattutto aiutato la Germania (questa ha infatti ottenuto il 43,5%
delle risorse contro il 37% dell’Italia).

Con la riforma del 1971, il Fondo sociale europeo ha assunto una


dimensione più comunitaria, sia in termini di volume delle risorse
comunitarie disponibili, sia nel senso che i progetti da finanziare venivano
d’ora in poi scelti prevalentemente con criteri comunitari e non più
soltanto nazionali. D’altra parte, il sistema del rimborso ad operazione
conclusa è stato sostituito da un sistema di pagamenti in corso d’opera.
Infine, la gamma degli interventi è stata estesa a nuovi campi di azione e,
in particolare, agli interventi che si rendevano necessari per rimediare agli

268
effetti negativi sull’occupazione della messa in atto di una politica
comune, come ad esempio la politica agricola o industriale. L’incisività
del Fondo ha tuttavia risentito negativamente della eccessiva dispersione
degli interventi su tutto il territorio comunitario.

A questo inconveniente si è cercato di ovviare con le modifiche


introdotte nel 1977 e nel 1978, a seguito della creazione nel 1975 del
Fondo regionale, modifiche rivolte soprattutto al fine di concentrare una
parte delle risorse totali disponibili sui problemi d’occupazione nelle
regioni in ritardo di sviluppo.

Una nuova riforma fu operata nel 1983 per rendere la gestione del
Fondo ancora più rigorosa e per rafforzarne l’efficacia anche alla luce dei
cambiamenti intervenuti nel frattempo sul mercato del lavoro e
all’esplosione della disoccupazione giovanile. In particolare, fu deciso che
i giovani avrebbero dovuto ormai rappresentare almeno il 75% dei
beneficiari complessivi del Fondo. Venne inoltre rafforzata la capacità
redistributiva del Fondo sociale, imponendo che una frazione consistente
del Fondo stesso (il 44,5%) fosse destinato ad alcune delle regioni in
ritardo di sviluppo soprattutto nei paesi mediterranei e in Irlanda. Infine,
nella scelta dei progetti da finanziare, venne data la priorità a quelli che si
inserivano in programmi integrati che coinvolgevano anche altri strumenti
finanziari comunitari e ai progetti più innovativi.

Nel complesso, come si vede, gli sviluppi del Fondo sociale nel corso del
periodo che va dalla sua creazione al 1988 sono in gran parte dettati non
solo dalla preoccupazione di accrescerne l’efficacia e di adattarlo alle
priorità dettate dai cambiamenti sul mercato del lavoro, ma anche e
soprattutto dalla volontà di rimediare ai deficit strutturali in materia di
occupazione, soprattutto nelle regioni meno sviluppate della Comunità, in
altri termini, di accrescere l’impatto strutturale e regionale dei suoi
interventi. Si dovrà, tuttavia, aspettare la riforma del 1988 perché
quest’ultima preoccupazione fosse ancora più efficacemente presa in
conto.

4. Il varo della politica regionale

La politica regionale è senza dubbio la politica strutturale per eccellenza


fra le politiche comunitarie. Essa ha come obiettivo proprio quello di
contribuire alla riduzione degli squilibri di sviluppo delle varie regioni
a livello nazionale e comunitario, favorendo l’aggiustamento strutturale
delle regioni in ritardo di sviluppo e la riconversione delle regioni

269
industriali in declino, e contribuendo perciò a quello “sviluppo armonioso
delle attività economiche nell’insieme della Comunità” che era iscritto a
chiare lettere fra gli obiettivi primordiali della Comunità economica
europea.

Anche se, come abbiamo già detto, si è dovuto aspettare il 1975 per la
creazione di un apposito “Fondo regionale di sviluppo”, la Commissione
europea, che è l’istituzione incaricata di applicare il Trattato e a cui spetta
il diritto esclusivo di proporre le varie misure, fin dai primi anni
dall’entrata in vigore del Trattato, si è data da fare per elaborare una
politica ad hoc che si occupasse specificatamente del problema degli
squilibri regionali nella Comunità.

Diversi documenti e rapporti al riguardo sono stati preparati e pubblicati


tra il 1962 e il 1970 a sostegno della tesi che fosse necessario dotare la
Comunità di una propria politica regionale a coronamento e a sostegno
delle varie politiche regionali messe in atto a livello nazionale. E’ tuttavia
solo al Vertice dei capi di Stato e di governo di Parigi dell’ottobre 1972
che fu fatto un passo decisivo, sul piano politico, verso il varo di una
politica regionale comunitaria.

Il Vertice di Parigi, a cui partecipavano per la prima volta i capi di Stato e


di governo del Regno Unito, Irlanda e Danimarca, la cui adesione alla
Comunità europea sarebbe entrata in vigore il 1° gennaio 1973, si
concluse, tra l’altro, con un accordo politico in materia di politica
regionale articolato su tre punti: a) il riconoscimento dell’elevata priorità
da accordare all’obiettivo di rimediare agli squilibri strutturali e regionali
nella Comunità; b) la volontà comune degli Stati membri di coordinare le
loro politiche regionali; c) l’impegno di creare un Fondo di sviluppo
regionale destinato a correggere gli squilibri regionali principali nella
Comunità ampliata e, “in particolare, quelli risultanti da una predominanza
agricola, dalle mutazioni industriali e da una sotto-occupazione
strutturale”.

Questa improvvisa accelerazione nella realizzazione di un consenso


politico sulla necessità del varo di una politica regionale a livello
comunitario può spiegarsi essenzialmente sulla base di tre ordini di
considerazioni:
 Anzitutto, va tenuto presente che, parallelamente a queste decisioni
sulla politica regionale, il Vertice di Parigi aveva affermato la
volontà di realizzare, per tappe successive, già a partire dal 1973
ed entro il 31 dicembre 1980 al più tardi, un’unione economica e

270
monetaria nella Comunità ampliata, basata tra l’altro su un
sistema di parità fisse tra le loro monete e sulla messa in comune
delle loro riserve monetarie. I capi di Stato e di governo erano
infatti coscienti che l’esistenza di squilibri strutturali e regionali
all’interno della Comunità avrebbe potuto incidere sulla
realizzazione di questa unione economica e monetaria;
 In secondo luogo, l’imminente ampliamento della Comunità, e
più particolarmente l’adesione dell’Irlanda e del Regno Unito,
avrebbe accentuato le disparità regionali, che erano già marcate
nella Comunità a Sei. Basti ricordare al riguardo che il reddito pro-
capite del Regno Unito era inferiore del 15% alla media
comunitaria, mentre quello irlandese era addirittura inferiore del
40% alla media comunitaria;
 Infine, un ruolo determinante giocò anche la pressione politica
esercitata dal Regno Unito per la creazione di un Fondo di
sviluppo regionale. Una misura, questa, che, nelle valutazioni del
governo britannico, avrebbe dovuto consentire al Regno Unito di
essere uno dei principali beneficiari dei trasferimenti del nuovo
fondo regionale a favore delle regioni più deboli.

In realtà, a causa delle turbolenze sul mercato dei cambi nel corso del
1973 – che portarono alla creazione del cosiddetto “serpente monetario” e
alla fluttuazione libera della lira e della sterlina – l’obiettivo della
realizzazione, a partire dal 1973, dell’unione economica e monetaria
venne momentaneamente accantonato. Di questo deterioramento della
situazione risentì anche la creazione del Fondo regionale, il quale, da una
dotazione iniziale triennale prevista in 2,5 miliardi di Unità di conto passò
a quella di 1,3 miliardi di Unità di conto, e la cui costituzione, dopo una
lunghissima battaglia al Consiglio dei ministri della CEE, avvenne solo
nel marzo del 1975. Va tuttavia osservato che le risorse finanziarie del
Fondo regionale sono progressivamente aumentate dal momento della sua
creazione e superano attualmente i 21 miliardi di euro (pari al 18,3% del
bilancio comunitario).

La creazione del Fondo europeo di sviluppo regionale (più noto come


“Fondo regionale”) non costituisce tuttavia che un tassello e, per molto
tempo, forse nemmeno il più incisivo, non solo delle politiche strutturali
comunitarie, ma persino della stessa politica regionale comunitaria. In
effetti, sin dalla sua creazione la Commissione ha tenuto a precisare che il
Fondo regionale costituisce solo uno strumento, seppure importante, della
politica regionale comunitaria. Non solo, infatti, è ugualmente importante
promuovere il coordinamento delle politiche regionali nazionali quale

271
strumento di rafforzamento dell’efficacia dell’azione comunitaria, ma è
anche indispensabile che tutte le altre politiche comuni, da quella agricola
a quella sociale, concorrano al conseguimento della riduzione degli
squilibri regionali. Per la Commissione, in effetti, la politica regionale
non poteva non essere una politica globale, vale a dire una politica che
investisse tutte le altre politiche e tutti gli altri attori, a livello nazionale e
comunitario. Anche se questo è stato l’orientamento che si è sempre più
affermato nel corso degli anni, è tuttavia difficile poter affermare che
questo obiettivo sia stato pienamente raggiunto fino ad oggi.

5. La coesione economica e sociale, nuovo traguardo delle


politiche strutturali

Abbiamo visto finora come la preoccupazione di mettere in atto politiche e


strumenti di intervento che favorissero quello “sviluppo armonioso” e la
riduzione degli squilibri regionali e territoriali preconizzati dai padri
fondatori della Comunità costituisce uno dei fattori principali di
rafforzamento delle politiche strutturali nella Comunità, soprattutto a
partire dagli anni Settanta.

Fino al 1986, tuttavia, nonostante la creazione del Fondo regionale e le


modifiche apportate agli altri Fondi per accentuarne la valenza regionale,
il quadro istituzionale entro cui la politica strutturale della Comunità si
collocava non era fondamentalmente cambiato dalla firma del Trattato di
Roma, che costituiva ancora la sola base giuridica per ogni successiva
iniziativa in questo campo.

L’adozione, nel 1986, di una revisione fondamentale del Trattato di Roma,


che va sotto il nome di “Atto Unico”, rappresenta una tappa decisiva nella
presa in conto delle disparità regionali e territoriali da parte della
Comunità. In effetti, con l’Atto Unico veniva tra l’altro inserito nel
Trattato CEE un nuovo titolo, il titolo V, intitolato “Coesione economica
e sociale”. In esso, per la prima volta in maniera così netta, veniva
affermata la volontà di sviluppare e proseguire l’azione della Comunità
volta a rafforzare la sua coesione economica e sociale, ed in particolare
l’azione mirante a “ridurre il divario tra le diverse regioni ed il ritardo
delle regioni meno favorite”.

Anche se, sul piano operativo, la portata di questa innovazione può


apparire piuttosto limitata in quanto essa non si traduceva in immediate
modifiche concrete negli strumenti di cui la Comunità disponeva per le
sue politiche strutturali, essa aveva tuttavia un rilievo politico evidente, in

272
quanto per la prima volta l’obiettivo di rafforzare la coesione economica e
sociale all’interno della Comunità veniva sancito nel Trattato.

Due sono le ragioni principali di questa evoluzione:

o da una parte, gli Stati membri erano diventati sempre più


consapevoli che, con l’adesione della Grecia nel 1981 e della
Spagna e del Portogallo nel 1986, gli squilibri regionali
all’interno della Comunità allargata si sarebbero aggravati;
o dall’altra, la Commissione, ma anche molti Stati membri, erano
ansiosi di mettere in atto politiche di accompagnamento che
potessero temperare gli effetti negativi sulla coesione economica
e sociale che potevano derivare dalla realizzazione, entro il 1992,
di un grande mercato unico senza frontiere interne, in cui
potessero circolare liberamente le persone, le merci, i servizi e i
capitali, obiettivo che a 25 anni dalla firma del Trattato di Roma
non era stato ancora realizzato e che era considerato ormai come
la priorità politica di maggiore rilevanza per l’inizio degli anni
Novanta.

Vale la pena di sottolineare che l’inclusione della coesione economica e


sociale nel Trattato CEE non prefigura una nuova politica comune e non
va nemmeno confusa con la politica regionale che pure ha come obiettivo
specifico quello della riduzione degli squilibri regionali. In effetti, il
rafforzamento della coesione economica e sociale va perseguito, non solo
con la politica regionale, che ne è uno degli strumenti principali, ma anche
con le altre politiche comuni, dalla politica agricola alla politica sociale,
dalla politica dei trasporti alla nuova politica ambientale, introdotta e
sancita dallo stesso Atto Unico.

La coesione economica e sociale esprime infatti la solidarietà tra gli Stati


membri e le regioni della Comunità europea e ha come obiettivo di
favorire lo sviluppo equilibrato e sostenibile, la riduzione del divario
strutturale tra regioni e paesi e le pari opportunità tra le persone. La
coesione si concretizza in una pluralità di interventi finanziari,
segnatamente da parte dei Fondi strutturali, ma va anche al di là delle
politiche strutturali, integrando anche dimensioni culturali, ambientali,
ecc.

Oltre ad includere nel Trattato il Fondo europeo di sviluppo regionale che


era stato creato nel 1975, e a dare alla Comunità più ampie competenze nel
campo della politica sociale, l’Atto Unico getta le basi per una riforma

273
complessiva della struttura e delle regole di funzionamento dei Fondi a
finalità strutturale con l’obiettivo di precisare e razionalizzare le loro
missioni nonché di accrescerne l’efficacia e di assicurare la coordinazione
degli interventi tra di loro e con quelli degli altri strumenti finanziari
esistenti. Questa riforma è stata adottata nel 1988 e di essa parleremo più
in là.

Grazie al Trattato di Maastricht del 1993, che istituisce l’Unione


europea1, la politica di coesione economica e sociale è stata
definitivamente istituzionalizzata nel Trattato che istituisce la Comunità
europea, accanto all’Unione economica e monetaria e al mercato unico,
che erano stati nel frattempo realizzati. E’ significativo, peraltro, rilevare
tre novità di rilievo rispetto alle disposizioni introdotte con l’Atto Unico
che rafforzano ulteriormente la politica di coesione:

o innanzitutto, per la prima volta, le zone rurali vengono


esplicitamente menzionate nel Trattato come aree di interesse
prioritario della politica di coesione, anche se esse si situano al di
fuori delle regioni in ritardo di sviluppo;

o in secondo luogo, la decisione di creare, entro il 31 dicembre


1993, un Fondo di coesione, destinato a sostenere le economie dei
quattro Stati membri in cui il PIL per abitante non raggiungeva il
90% della media comunitaria, vale a dire: la Grecia, il Portogallo,
la Spagna e l’Irlanda. Il contributo del Fondo di coesione sarebbe
stato limitato alla realizzazione di progetti nel settore
dell’ambiente e in quello delle reti transeuropee nel settore delle
infrastrutture dei trasporti;

o infine, l’istituzione, a partire dal 1994, di un nuovo organo


consultivo delle istituzioni comunitarie: il Comitato delle regioni,
costituito dai rappresentanti degli enti locali e regionali
dell’Unione europea. Il suo ruolo è quello di garantire che questi
enti abbiano voce in capitolo nel processo decisionale dell’Unione

1
Il Trattato sull’Unione europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il
1° novembre 2003, istituisce l’Unione europea, che riposa su tre pilastri:
- la Comunità europea al posto della Comunità economica europea. Questo
cambiamento di denominazione consacra l’estensione delle competenze della
Comunità europea dalla dimensione puramente economica alla dimensione sociale,
ambientale e regionale;
- la cooperazione intergovernativa in materia di politica estera e di sicurezza comune
(PESC);
- la cooperazione di polizia in materia penale (GAI = Giustizia e Affari interni).

274
europea e che siano rispettate le identità e le prerogative regionali
e locali.

Nel frattempo, il Consiglio europeo di Edimburgo (dicembre 1992) aveva


deciso di destinare alla politica di coesione circa 200 miliardi di ECU (ai
prezzi del 1997) per il periodo 1994-1999, ossia un terzo del bilancio
comunitario. I Fondi strutturali erano stati inoltre integrati da un nuovo
strumento finanziario di orientamento della pesca (SFOP). L’insieme dei
quattro Fondi strutturali sono stati sottoposti a una nuova riforma nel
1999. Anche di questa riforma parleremo in dettaglio più in là.

Bibliografia

- The European Commission: “The Common Agricultural Policy


explained”
http://europa.eu.int/comm/agriculture/publi/capexplained/cap_en.pdf
- Organizzazioni comuni dei mercati agricoli: introduzione
http://europa.eu.int/scadplus/leg/it/lvb/l11047.htm
- Pascal Fontaine “L’Europa in dodici lezioni”
http://europa.eu.int/abc/12lessons/index_it.htm
- L’Unione europea in sintesi
http://europa.eu.int/abc/index_it.htm
- Fondo Europeo di Sviluppo Regionale
http://europa.eu.int/scadplus/leg/it/lvb/l60015.htm
- Fondo sociale europeo
http://europa.eu.int/comm/employment_social/esf2000/index-fr.htm

275
II. Verso una strategia comunitaria per lo sviluppo delle
regioni rurali

1. La comunicazione della Commissione sull’avvenire del mondo


rurale

Gli anni Ottanta hanno segnato una svolta radicale nell’agricoltura


europea e nella politica agricola comune. Da una parte, infatti, i mercati
per la maggior parte dei prodotti agricoli hanno conosciuto eccedenze
produttive crescenti anche in settori, come ad esempio quello dei cereali,
che erano stati finora deficitari, generando un’esplosione della spesa per il
sostegno dei mercati agricoli.

Dall’altra, la Comunità si è trovata di fronte all’esigenza di adottare delle


misure che consentissero di limitare le eccedenze produttive e porre allo
stesso tempo un freno anche alla crescita eccessiva della spesa agricola.
Tutto questo avveniva peraltro in un contesto economico generale poco
favorevole che rendeva ancora più stringente l’esigenza di uso più
razionale delle risorse disponibili.

Questo spiega perché nel 1984 furono introdotte delle quote di produzione
nel settore lattiero-caseario, il più eccedentario, vale a dire delle soglie di
produzione, superate le quali venivano applicate delle pesanti penalità
aventi una evidente finalità dissuasiva. A partire dal 1986 sono state
peraltro introdotte anche per gli altri prodotti agricoli sistemi di
limitazione della produzione (quantità massimali garantite, stabilizzatori
della spesa per il sostegno dei mercati, introduzione di una “disciplina di
bilancio” intesa a limitare l’evoluzione della spesa agricola, ecc.) ed è
stata messa in atto una politica restrittiva dei prezzi di sostegno decisi
nell’ambito della politica agricola comune, che in passato erano stati
invece rivalutati annualmente.

Tutte queste riforme, se da una parte erano dettate dalla necessità di


risanare i mercati agricoli e contenere la spesa a carico del bilancio
comunitario, non potevano dall’altra non suscitare preoccupazioni e forti
resistenze nel mondo agricolo. La stessa Commissione europea, del resto,
era consapevole che tali misure avrebbero inevitabilmente contribuito ad
accelerare il processo di ristrutturazione dell’agricoltura europea in atto da
molti anni e avrebbe potuto aggravare la situazione economica e sociale
delle regioni rurali più esposte ai rischi di abbandono dell’attività agricola.
Tanto più che, contrariamente al passato, e vista la situazione economica

276
generale, la manodopera agricola in eccesso non avrebbe potuto più essere
facilmente assorbita dagli altri settori produttivi.

E’ proprio per definire una strategia comunitaria di fronte alla sfida che
le prospettive di sviluppo delle regioni rurali rappresentavano per la
Comunità e la sua coesione, che la Commissione europea ha condotto nel
1988 un’analisi approfondita di questo problema e ha trasmesso al
Parlamento europeo e al Consiglio una comunicazione sul futuro del
mondo rurale.

La presentazione di questo documento, che contiene non solo i risultati di


tale analisi, ma anche la definizione degli orientamenti e delle azioni da
intraprendere a favore del mondo rurale, oltre che un gesto politico di
apertura alle preoccupazioni del mondo agricolo in una fase
particolarmente difficile, rappresenta una tappa importante nella
definizione di una strategia comunitaria per lo sviluppo delle regioni
rurali.

Il punto di partenza della riflessione della Commissione è un’analisi


approfondita delle trasformazioni in atto e prevedibili del mondo rurale,
inteso come l’insieme delle regioni e delle zone al di fuori dei grandi
centri urbani e delle aree più densamente industrializzate, e quindi non
solo le aree coltivate e gli spazi naturali, ma anche i piccoli centri urbani, i
villaggi, i borghi, ecc. Nella nozione di mondo rurale rientrano perciò, non
solo l’agricoltura, ma anche l’artigianato, le piccole e medie industrie, il
commercio, i servizi e tutto il tessuto economico e sociale che queste
attività determinano nelle regioni rurali.

Da alcuni decenni – osserva la Commissione – il mondo rurale europeo


subisce trasformazioni profonde: la ristrutturazione del settore agricolo,
con la riduzione dell’occupazione in agricoltura, la diversificazione
dell’economia rurale, con la crescita delle attività extra-agricole, l’esodo
rurale che minaccia di desertificazione molte regioni, con effetti deleteri
sulla conservazione dell’ambiente naturale, ecc.

La riforma della politica agricola comune, anche se solo in parte


responsabile di questi cambiamenti – ammette la Commissione – accentua
la consapevolezza della loro esistenza. Per questo motivo, conclude la
Commissione, “la promozione dello sviluppo rurale inteso a mantenere, e
in certi casi a ristabilire l’equilibrio indispensabile, è diventato una
necessità per la società europea”.

277
La concezione della Commissione in materia di sviluppo rurale si ispira a
tre principi fondamentali:
o la necessità di promuovere la coesione economica e sociale in
una Comunità ampliata e con forti disparità regionali;
o la necessità di favorire l’indispensabile adattamento
dell’agricoltura europea alla realtà dei mercati agricoli, e al
tempo stesso di accompagnarne con misure adeguate i
cambiamenti;
o la necessità di proteggere l’ambiente e mantenere il patrimonio
naturale della Comunità.

La strategia comunitaria di fronte ai problemi del mondo rurale parte,


inoltre, da una constatazione: non esiste una politica unica o una politica
specifica per far fronte ai diversi problemi del mondo rurale. D’altra parte,
il ruolo della Comunità non può che essere complementare a quello delle
autorità locali e regionali e all’iniziativa dei più diretti interessati. Poiché
la Comunità dispone già di molte possibilità di intervento per sostenere e
promuovere lo sviluppo rurale nel quadro delle varie politiche comuni, la
prima cosa da fare è di esaminare l’insieme dei dispositivi esistenti e di
adeguarli ed integrarli per un’azione più incisiva e coerente.

Tale impostazione, auspicata dalla Commissione, presuppone non solo


nuove misure dirette e mirate allo sviluppo rurale, ma anche un
orientamento generale favorevole allo sviluppo rurale di tutte le
politiche comuni o programmi d’azione aventi un’incidenza sull’avvenire
del mondo rurale, restando inteso che le soluzioni ai problemi delle regioni
rurali devono necessariamente superare il quadro prettamente agricolo e
tener conto di tutti gli aspetti del mondo rurale (approccio integrato allo
sviluppo rurale).

La riforma della politica agricola comune – ritiene la Commissione – va


proseguita e vanno introdotti nei suoi meccanismi e nelle misure di
sostegno quegli adattamenti alle condizioni regionali e locali che si
rendono necessari. La Commissione sottolinea, inoltre, l’esigenza di
migliorare i servizi di sostegno alle aziende agricole, in particolare in
materia di gestione e di marketing, e preannuncia una politica di qualità
dei prodotti agricoli, per attuare a livello comunitario una coerente
politica dei marchi e delle denominazioni di origine. Azioni più specifiche
a favore delle regioni rurali sono anche previste nel settore forestale ed in
quello della protezione dell’ambiente. Infine, la Commissione propone di
potenziare l’azione intesa a promuovere l’utilizzazione razionale

278
dell’energia e a sviluppare l’utilizzazione di energie rinnovabili (biomassa,
sole, vento, ecc.).

Anche le politiche regionali e sociali devono essere adeguate, per tener


maggiormente conto dei problemi inerenti allo sviluppo delle regioni
rurali (stimolare le iniziative locali, al di fuori dei grandi poli di sviluppo,
mantenere un tessuto educativo di qualità in ambiente rurale, diversificare
l’offerta di servizi alle imprese, ecc.).

Un capitolo importante dell’iniziativa comunitaria è costituito anche dalle


nuove azioni a favore delle piccole e medie imprese in ambiente rurale
(ammodernamento delle attività produttive, rafforzamento delle
infrastrutture finanziarie, promozione del turismo rurale, ecc.). La
Commissione auspica, infine, lo sviluppo di nuove tecnologie
d’informazione e di telecomunicazione nelle regioni rurali ed una
maggiore partecipazione di queste ultime ai programmi di ricerca e di
sviluppo.

Più che per le sue ripercussioni concrete che questa comunicazione ha


avuto sulle varie politiche comuni, essa assume un grande valore politico
nella definizione di una strategia comunitaria per lo sviluppo delle regioni
rurali nella Comunità. In effetti, per la prima volta, i problemi dello
sviluppo economico e sociale di queste regioni assumevano un carattere di
priorità nell’agenda politica comunitaria in quanto si riconosceva che lo
spazio rurale assolve funzioni vitali per tutta la società, oltre a quelle di
produzione (mantenimento dell’equilibrio ecologico, luogo di riposo o di
svago, ecc.).

Inoltre, per la prima volta veniva affermata con vigore la necessità di un


coordinamento e di un rafforzamento delle varie misure a disposizione
delle regioni rurali, la cui efficacia era stata in passato limitata dalla
eccessiva dispersione dei mezzi finanziari e dalla mancanza di una
strategia d’insieme. Infine, veniva sancito il principio che un vero sviluppo
delle regioni rurali non poteva che essere uno sviluppo integrato, vale a
dire uno sviluppo che coinvolgesse non solo l’agricoltura e le altre attività
economiche, ma anche il miglioramento delle condizioni di vita, la
disponibilità di servizi adeguati, la protezione dell’ambiente, ecc. E’
essenzialmente a questi principi che la politica di sviluppo rurale si ispira
ancora attualmente.

279
2. Sviluppo rurale e riforma dei Fondi strutturali

Anche se, come abbiamo già visto, le esigenze e le possibilità di azione


della Comunità a favore del mondo rurale vanno ben oltre le politiche
strutturali, è ovvio che quando si deve affrontare un problema di
ristrutturazione agricola e di diversificazione economica, le politiche
strutturali hanno una grande importanza.

La grande dispersione degli stanziamenti dei fondi strutturali in una


molteplicità di progetti, spesso privi di un legame coerente tra loro, e una
certa mancanza di coordinamento e di convergenza tra gli interventi dei
fondi hanno ostacolato, in passato, l’efficacia delle politiche strutturali
della Comunità. E’ per questa ragione che è stata decisa, all’inizio del
1988, una riforma fondamentale di tutti i Fondi strutturali esistenti a
quell’epoca (Fondo regionale, Fondo sociale e FEOGA-Orientamento). La
riforma comporta un cambiamento di metodo, un migliore coordinamento
e una concentrazione geografica più spinta e funzionale dei mezzi
finanziari disponibili, nonché il raddoppio dei mezzi finanziari disponibili.

Questa riforma, destinata ad essere applicata per gli interventi previsti per
il periodo 1989-1993, si fonda sull’applicazione di quattro principi
fondamentali di funzionamento dei fondi strutturali, che sono ancora oggi
alla base delle politiche strutturali comunitarie:

 Il principio di programmazione degli aiuti. Esso si traduce


nell’elaborazione e nell’adozione di programmi di sviluppo
pluriannuali, a livello regionale o nazionale a seconda delle
competenze, nei quali si debbono inquadrare in maniera organica e
coerente gli interventi comunitari dei diversi Fondi. L’approccio
per singoli progetti seguito fino ad allora viene perciò
completamente abbandonato;
 Il principio di concentrazione degli aiuti sia attraverso una
delimitazione dei territori suscettibili di beneficiare degli interventi
strutturali, sia mediante l’individuazione di una gamma limitata di
obiettivi economici e sociali da perseguire, onde evitare una
dispersione costosa e inefficace degli interventi;
 Il principio di partenariato, vale a dire l’associazione delle
autorità regionali e locali, oltre che di quelle nazionali, alla
definizione delle priorità di sviluppo, alla messa in atto dei
programmi, al controllo della gestione e alla valutazione dei
risultati. E questo per assicurare che gli interventi strutturali siano

280
meglio adattati alle realtà locali e alle esigenze delle diverse
regioni;
 Il principio di addizionalità vale a dire l’esigenza che gli aiuti
comunitari si aggiungano agli interventi nazionali e non li
sostituiscano. In altri termini, gli aiuti comunitari non debbono
avere come conseguenza di ridurre gli interventi strutturali degli
Stati membri.

Nel quadro della riforma del 1988 e conformemente al principio di


concentrazione, sono stati fissati cinque obiettivi prioritari per i Fondi
strutturali, e sono stati successivamente definite le regioni o le zone a cui
questi obiettivi si applicano:

 Obiettivo n. 1: promuovere lo sviluppo e l’adattamento


strutturale delle regioni in cui lo sviluppo è in ritardo;
 Obiettivo n. 2: riconvertire le regioni gravemente colpite dal
declino industriale;
 Obiettivo n. 3: lottare contro la disoccupazione di lunga
durata;
 Obiettivo n. 4: facilitare l’inserimento professionale dei
giovani;
 Obiettivo n. 5a: accelerare l’adattamento delle strutture
agrarie;
 Obiettivo n. 5b: promuovere lo sviluppo delle zone rurali.

Come si vede, lo sviluppo delle regioni rurali è contemplato


esplicitamente nell’obiettivo 5b introdotto nella riforma del 1988. Per
evitare una eccessiva dispersione dei fondi disponibili per il
perseguimento di questo obiettivo, sono state individuate delle zone di
intervento prioritario su cui concentrare i mezzi finanziari disponibili (57
regioni o zone, in totale, equivalenti al 17,3% del territorio e al 5,1% della
popolazione comunitaria).

Le zone di intervento ai sensi dell’obiettivo 5b si situavano al di fuori


delle regioni che rientrano nel quadro dell’obiettivo 1. Tuttavia, poiché la
maggior parte delle regioni in cui lo sviluppo è in ritardo sono regioni
rurali per eccellenza, anche le regioni di cui all’obiettivo 1 beneficiavano
direttamente di misure di sostegno a favore dello sviluppo rurale. Nelle
regioni non comprese né nell’obiettivo 1, né nell’obiettivo 5b, infine,
l’intervento comunitario a favore dello sviluppo rurale era meno diretto e
sistematico.

281
Ulteriori adattamenti al funzionamento dei Fondi strutturali sono stati
introdotti per il periodo 1994-1999. L’impianto generale è rimasto tuttavia
quello deciso nel 1988, anche se vale la pena di segnalare l’inclusione di
un nuovo obiettivo (l’obiettivo 6: “sviluppo delle regioni a scarsissima
densità di popolazione”) istituito dall’Atto di adesione dell’Austria, della
Finlandia e della Svezia, le quali sono entrate nell’Unione europea a
partire dal 1995. Più interessante è invece segnalare un nuovo raddoppio
dei mezzi finanziari disponibili per i Fondi strutturali rispetto al
quinquennio precedente e un’ulteriore concentrazione delle risorse
destinate alle regioni in ritardo di sviluppo, vale a dire quelle dell’obiettivo
1.

Un altro sviluppo interessante da segnalare, in questo contesto, è il


moltiplicarsi, nel corso degli anni Novanta, delle cosiddette “iniziative
comunitarie” a finalità regionale o settoriale. Si tratta, in sostanza, di
programmi di azione rivolti a delle problematiche specifiche d’interesse
comunitario intrapresi all’iniziativa della Commissione, al di fuori delle
aree di azione già coperte dalle varie politiche comuni, ma da realizzare
col concorso attivo degli Stati membri. Il finanziamento delle iniziative
comunitarie rientra comunque nell’ambito dei vari Fondi strutturali.

Nel periodo 1994-1999 sono state finanziate 13 iniziative comunitarie, in


particolare, in materia di cooperazione transfrontaliera (Interreg II),
occupazione (Occupazione-NOW, Occupazione-Horizon, ecc.), sviluppo
rurale (Leader II), competitività delle piccole e medie imprese (PMI),
rivitalizzazione delle zone urbane fortemente degradate (Urban),
riconversione delle zone siderurgiche (Resider II), ecc. Nel periodo di
programmazione 2000-2006 le iniziative comunitarie sono state ridotte a
quattro: Interreg III (cooperazione transfrontaliera); Leader + (sviluppo
rurale); Equal (cooperazione transnazionale in materia di lotta alla
discriminazione sul mercato del lavoro) e Urban (rivitalizzazione
economica e sociale delle città).

L’attuale assetto delle politiche strutturali e di coesione, che si applica al


periodo di programmazione 2000-2006, è il frutto di una nuova riforma
adottata a Berlino, nel marzo 1999, dai capi di Stato e di governo, nel
quadro di un accordo politico più ampio sulle principali questioni
sull’agenda comunitaria alle soglie dell’anno 2000 (da qui il nome di
“Agenda 2000” sotto cui queste decisioni sono note): il sistema di
finanziamento dell’Unione europea, il volume complessivo e la
ripartizione delle risorse finanziarie da destinare alle politiche comuni, la
messa in atto di strumenti d’intervento atti a preparare l’adesione dei

282
nuovi paesi dell’Europa centrale e orientale, il proseguimento della
riforma della politica agricola comune e l’ulteriore semplificazione e
concentrazione degli interventi strutturali.

La riforma dei Fondi strutturali del 1999 ha soprattutto mirato a


semplificare il sistema di intervento comunitario e a decentralizzarne la
gestione in direzione delle autorità nazionali e regionali ma anche di una
serie di attori privati, in particolare dei partner sociali, a fianco di queste
ultime. E ciò anche al fine di consentire una più grande flessibilità degli
interventi, una migliore aderenza agli obiettivi perseguiti e l’adozione di
progetti più innovativi.

3. La riforma della Pac e lo sviluppo rurale

All’inizio degli anni Novanta la politica agricola comune (Pac) è entrata in


una nuova fase di riforma radicale dei suoi meccanismi che hanno
profondamente condizionato lo sviluppo dell’agricoltura europea nel corso
degli ultimi quindici anni ed i cui effetti non potevano non influenzare
anche lo sviluppo complessivo delle regioni rurali.

Le ragioni di questa riforma sono essenzialmente di due tipi:

 Ragioni interne:

o ristabilire un migliore equilibrio dei mercati agricoli, in


particolare nel settore dei cereali e della carne bovina, settori
ancora alle prese con crescenti eccedenze produttive,
difficilmente smaltibili sul mercato interno o sui mercati
internazionali;
o incoraggiare metodi di produzione meno intensivi, che non solo
contribuiscono alla formazione di eccedenze, ma sono anche
fonte di problemi ambientali crescenti e di uno sfruttamento
eccessivo delle risorse naturali;
o realizzare una certa redistribuzione del sostegno a favore delle
imprese agricole più deboli, onde evitare fenomeni di
abbandono del territorio e contribuire allo sviluppo socio-
economico delle regioni rurali;

283
 Ragioni esterne:

o contribuire alla liberalizzazione degli scambi agricoli e alla


stabilizzazione dei mercati agricoli mondiali, attraverso un più
rigoroso controllo della produzione e delle sovvenzioni
all’esportazione, condizione indispensabile per sbloccare i
negoziati multilaterali sull’Uruguay Round, che si erano
inceppati proprio sul dossier agricolo.

La riforma della Pac adottata nel 1992 si basa essenzialmente su tre


elementi:

a) una forte riduzione dei prezzi di sostegno dei cereali e della carne
bovina in maniera da avvicinarli ai prezzi mondiali di questi
prodotti;
b) l’introduzione di nuove misure di limitazione della produzione
(per i seminativi, il cosiddetto set aside, o messa fuori coltura di
una parte della superficie destinata a queste colture);
c) l’introduzione di una serie di aiuti compensativi ai produttori per
le riduzioni di prezzo previste nel settore dei cereali e della carne
bovina.

Accanto a queste misure di riforma delle organizzazioni comuni di


mercato, sono state adottate una serie di misure di accompagnamento
destinate a concorrere al perseguimento degli obiettivi sopra indicati. Si
tratta essenzialmente di tre tipi di azione:

o un programma d’azione agro-ambientale che prevede, in


particolare, un sistema di aiuti destinati ad incoraggiare gli
agricoltori ad utilizzare metodi di produzione meno inquinanti,
riducendo in maniera significativa l’uso di concimi, di
pesticidi, ecc.
o un rilancio della politica forestale della Comunità, attraverso
un miglioramento degli incentivi per gli investimenti forestali
in vigore e delle compensazioni previste per la perdita di
reddito derivanti dalla riconversione verso la forestazione;
o un nuovo e più incitativo regime di pre-pensionamento degli
agricoltori più anziani volto anche ad incoraggiare l’uso delle
terre resesi disponibili per ingrandire le aziende limitrofe.

Con la riforma della Pac del 1992 la politica di sviluppo rurale si


arricchisce, come si vede, di nuovi strumenti, aventi peraltro a

284
disposizione mezzi finanziari di gran lunga superiori a quelli del passato.
E qui vogliamo fare riferimento non solo alle misure di accompagnamento
sopra menzionate, ma anche agli stessi aiuti compensativi ai produttori che
hanno forse avuto sull’obiettivo della coesione economica e sociale un
impatto ancora maggiore di quello delle stesse misure di
accompagnamento. La ragione è molto semplice: l’introduzione di questi
aiuti ha frenato l’espulsione di manodopera dal settore agricolo e ha
assicurato un’iniezione di risorse esterne che ha contribuito alla
sopravvivenza delle attività economiche in molte regioni rurali.

La riforma della Pac del 1992 costituisce una tappa importante verso
l’elaborazione di una strategia comunitaria a favore del mondo rurale
anche per un’altra ragione. Per la prima volta, infatti, appare evidente la
consapevolezza che, oltre al ruolo tradizionale di produttore di alimenti,
l’agricoltore adempie anche un ruolo di protezione dell’ambiente e del
territorio e che la presenza dell’uomo sulla terra è una condizione
indispensabile per assicurare lo sviluppo socio-economico delle regioni
rurali (ruolo “multifunzionale” dell’agricoltura).

In realtà, da sempre l’agricoltore adempie, direttamente o indirettamente,


questi ruoli, di cui beneficia la società nel suo insieme. Ciò che è
relativamente nuova è, in effetti, la presa di coscienza più generalizzata
dell’interesse collettivo a riconoscere queste funzioni e a remunerarle in
quanto tali, e non in nome di una solidarietà astratta col mondo rurale. Può
sembrare un cambiamento da poco, ed invece si tratta di un enorme salto
qualitativo che sta alla base di tutti i successivi sviluppi della politica
agricola e della politica di sviluppo rurale negli ultimi quindici anni.

La riforma della politica agricola comune ha segnato un’altra tappa


fondamentale con le decisioni assunte a Berlino nel marzo 1999, nel
quadro dell’Agenda 2000. Esse hanno riguardato tanto numerose
organizzazioni comuni di mercato (cereali, semi oleosi, latte, carne bovina
e vino) che la politica di sviluppo rurale vera e propria.

In questa sede, di questa riforma ci interessa soprattutto menzionare due


aspetti importanti per il rafforzamento e l’affermarsi di una vera politica di
sviluppo rurale nell’Unione europea:

 da una parte, l’adozione di alcune misure orizzontali per l’insieme


delle organizzazioni comuni dei mercati che concorrono al
raggiungimento degli obiettivi che sono propri della politica di
sviluppo rurale. Si tratta essenzialmente delle misure seguenti:

285
o l’introduzione del principio di eco-condizionalità nel
pagamento degli aiuti ai produttori. In base a questo principio,
gli Stati membri possono condizionare il pagamento degli aiuti
concessi nel quadro della Pac al rispetto di determinati criteri
agro-ambientali e fissare le sanzioni da applicare in caso di
mancato rispetto di tali criteri;
o la possibilità, accordata agli Stati membri, di modulare entro
certi limiti i pagamenti diretti per azienda in funzione della
manodopera impiegata nell’azienda o della situazione
economica generale dell’azienda;
o la riallocazione delle economie realizzate dagli Stati membri
che si avvalgono di queste misure al finanziamento
aggiuntivo della politica di sviluppo rurale nello Stato
membro interessato.

 Dall’altra, l’adozione di alcune disposizioni riguardanti l’insieme


delle misure previste per sostenere lo sviluppo rurale e cioè:
o l’unificazione in un unico testo legislativo di tutte le misure a
favore dello sviluppo rurale;
o la semplificazione delle normativa vigente;
o un maggiore coinvolgimento delle autorità nazionali e
regionali nell’elaborazione, messa in atto e controllo dei
programmi (conformemente al principio di sussidiarietà);
o la modifica dei criteri di ammissibilità concernenti le zone
svantaggiate per meglio incorporare gli obiettivi ambientali
nella politica di sviluppo rurale;
o l’inclusione di apposite disposizioni per assicurare una
maggiore coerenza tra le misure di sviluppo rurale e gli
altri dispositivi della politica agricola comune, in modo da
evitare sovrapposizioni.

Peraltro, è stato deciso che le misure di sviluppo rurale saranno finanziate


dal Feoga-Orientamento per le regioni dell’obiettivo 1 e dal Feoga-
Garanzia al di fuori di queste regioni. Grazie a questo insieme di misure e
al parallelo consolidamento delle risorse finanziarie disponibili per la
politica di sviluppo rurale, a partire da queste decisioni, è valso l’uso di
parlare della politica di sviluppo rurale come del “secondo pilastro” della
politica agricola comune, il “primo pilastro” essendo rappresentato dal
sostegno diretto ai produttori agricoli e dalle misure di mercato in vigore
nel quadro della politica agricola comune (soprattutto, stoccaggio,
restituzioni alle esportazioni, ecc.).

286
Bibliografia

- Commissione europea: “Il futuro del mondo rurale”, Bollettino delle


Comunità europee, Supplemento 4/88
- Commissione europea: Evoluzione e futuro della politica agricola
comune, Bollettino delle Comunità europee, Supplemento 5/91
- Commissione europea : Agenda 2000: Per un’Unione più forte e più
ampia, Bollettino dell’Unione europea, Supplemento 5/97
- European Commission: The Common Agricultural Policy explained
http://europa.eu.int/comm/agriculture/publi/cap_en.pdf

287
III. L’assetto della politica di sviluppo rurale nel contesto
delle politiche strutturali dell’Unione europea per il periodo
di programmazione 2000-2006.

Come si è già visto, le politiche strutturali dell’Unione europea per il


periodo 2000-2006 sono state definite nel vertice dei capi di Stato e di
governo che ha avuto luogo a Berlino, sotto presidenza tedesca, nel marzo
1999. Per quanto riguarda la politica di sviluppo rurale, ulteriori modifiche
sono state introdotte nel quadro della nuova riforma della politica agricola
comune che è stata decisa nel luglio 2003, in occasione della revisione a
metà percorso della riforma adottata nel contesto della cosiddetta “Agenda
2000”. In questo capitolo, cercheremo di esaminare più da vicino come
funziona attualmente la politica di sviluppo rurale nel quadro più ampio
delle politiche strutturali dell’Unione, partendo proprio da queste ultime.

1. Le politiche strutturali dell’Unione europea nel periodo 2000-


2006

Prima di entrare nel merito, converrà ricordare che per la realizzazione


delle politiche strutturali, l’Unione europea dispone attualmente di quattro
Fondi strutturali, a cui si aggiungono altri strumenti finanziari che
concorrono direttamente o indirettamente al perseguimento dello stesso
obiettivo (Fondo di coesione, Banca europea degli investimenti, Feoga-
sezione Garanzia, ecc.).

I Fondi strutturali propriamente detti sono attualmente i seguenti:

 il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale ( FESR ), che


contribuisce essenzialmente ad aiutare le regioni in ritardo sul
processo di sviluppo, in fase di riconversione economica o con
difficoltà strutturali;

 il Fondo Sociale Europeo ( FSE ), che interviene principalmente


nell'ambito della strategia europea per l'occupazione;

 il Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e Garanzia


( FEAOG ), sezione "Orientamento", che contribuisce allo
sviluppo e all'adeguamento strutturale delle zone rurali in ritardo
sul processo di sviluppo tramite il miglioramento dell'efficienza
delle strutture di produzione, trasformazione e

288
commercializzazione dei prodotti agricoli e silvicoli e sostegno
all’economia delle zone rurali;

 lo Strumento Finanziario di Orientamento della Pesca


( SFOP ), che sostiene i mutamenti strutturali del settore della
pesca.

Il Fondo di coesione, pur essendo indubbiamente un Fondo a spiccata


finalità strutturale, che ha anzi come obiettivo specifico proprio il
rafforzamento della coesione economica e sociale nell’Unione europea,
con la riforma del 1999, è stato tenuto separato dalle disposizioni comuni
applicabili all’insieme dei Fondi strutturali sopra menzionati ed è
sottoposto ad una propria disciplina specifica. Il Fondo di coesione è
destinato ad aiutare i paesi meno ricchi: i dieci nuovi Stati membri, entrati
nell’Unione europea il 1° maggio 2004, nonché la Grecia, il Portogallo, la
Spagna e, fino alla fine del 2003, l’Irlanda.

Per rafforzare l'efficacia delle azioni strutturali, il regolamento (CE) n.


1260/1999 prevede una riduzione del numero di obiettivi da 7 nel periodo
1994-1999 a soli 3 obiettivi prioritari per il periodo 2000-2006:
 L' obiettivo 1 intende promuovere lo sviluppo e l'adeguamento
strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo (definite come quelle
il cui prodotto interno lordo pro capite è inferiore al 75% della
media comunitaria). Tale obiettivo riguarda inoltre le regioni
ultraperiferiche (Dipartimenti francesi d'oltremare, Azzorre,
Madera e isole Canarie) e le zone interessate dal precedente
obiettivo 6 (zone a bassa densità di popolazione), creato in seguito
all'atto di adesione dell'Austria, della Finlandia e della Svezia. Il
22,2% circa della popolazione totale dell'Unione è interessata dalle
misure adottate nel quadro di tale obiettivo.

In Italia, le regioni dell’obiettivo 1 sono: la Campania, la Puglia, la


Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna. Gli Abruzzi non
fanno più parte delle regioni dell’obiettivo 1 avendo un reddito
pro-capite superiore al 75% della media comunitaria. In compenso,
il Molise rientra nella lista delle regioni che beneficiano di un
sostegno transitorio e decrescente previsto dalla regolamentazione
attuale, in vista di una soppressione degli aiuti ai sensi
dell’obiettivo 1 a partire dal 2007. Gli aiuti transitori decrescenti
sono destinati ad evitare una brusca interruzione del sostegno
finanziario dei Fondi strutturali e mirano a consolidare i risultati

289
conseguiti grazie agli interventi strutturali nel periodo di
programmazione precedente.

 L' obiettivo 2 contribuisce a favorire la riconversione economica


e sociale delle zone con difficoltà strutturali diverse da quelle
ammissibili all'obiettivo 1, siano esse industriali, rurali, urbane o
dipendenti dal settore della pesca. Tale obiettivo riunisce i
precedenti obiettivi 2 e 5b e altre zone che registrano problemi di
diversificazione economica. Esso riguarda globalmente le zone in
fase di mutazione economica, le zone rurali in declino, le zone
dipendenti dalla pesca che si trovano in una situazione di crisi e i
quartieri urbani in difficoltà. Il massimale di popolazione
comunitaria ammissibile è stato fissato al 18% (per l’Italia, al
13%). Anche per l’obiettivo 2 la normativa applicabile per il 2000-
2006 prevede un sostegno transitorio per alcune zone (“phasing
out”). Essendo definite a livello comunale e spesso addirittura
sub-comunale, non è ovviamente possibile dare una lista completa
di queste zone nè per l’Italia nel suo insieme, nè per la sola
regione Lazio.

 L' obiettivo 3 riunisce tutte le azioni rivolte ad ammodernare i


sistemi di formazione e a promuovere l’occupazione. Questo
obiettivo interessa l’intero territorio dell’Unione europea ad
eccezione delle regioni che rientrano nell’obiettivo 1 nelle quali
questo tipo di misure è già contemplato dai programmi di sviluppo
regionale. Tale obiettivo riprende i precedenti obiettivi 3 e 4.

I nuovi regolamenti prevedono inoltre una riduzione del numero di


iniziative comunitarie, che dalle 13 del periodo 1994-1999 scendono a 4
per il periodo 2000-2006. Le nuove iniziative sono, come si è visto,:

 INTERREG III , il cui obiettivo è promuovere la cooperazione


transfrontaliera, transnazionale e interregionale;
 LEADER+ , che promuove lo sviluppo rurale;
 EQUAL , che prevede nuove strategie di lotta contro ogni forma di
discriminazione e ineguaglianza nell'accesso al mercato del lavoro;
 URBAN II , che favorisce la rivitalizzazione economica e sociale
delle città e dei quartieri in crisi.

290
Mediante le azioni innovatrici del FESR la Commissione sosterrà nuove
idee non ancora sfruttate appieno nei seguenti 3 campi d'azione:

 l'economia regionale fondata sulla conoscenza e sull'innovazione


tecnologica;
 eEuropa-Regio: la società dell'informazione al servizio dello
sviluppo regionale;
 l'identità regionale e lo sviluppo rurale.

2. I principi generali e le modalità di funzionamento dei Fondi


strutturali

I principi generali alla base dei vari Fondi strutturali sono rimasti invariati
rispetto a quelli già in vigore. Tuttavia, sono stati precisati o rafforzati tutti
i principi di funzionamento dei Fondi strutturali ed in particolare i
seguenti: a) programmazione degli aiuti, b) partenariato tra un massimo di
parti interessate, c) addizionalità dell'aiuto europeo rispetto alle
sovvenzioni nazionali.
Programmazione
La programmazione è uno degli elementi essenziali delle riforme dei
Fondi strutturali del 1988 e del 1993 e resta al centro della riforma del
1999. Essa consiste nell'elaborare programmi di sviluppo pluriennali e
viene realizzata mediante un processo di decisione partenariale, in più fasi,
fino all'assunzione delle azioni da parte dei responsabili di progetti
pubblici o privati.
Secondo le disposizioni del regolamento generale sui Fondi strutturali, il
periodo interessato è di 7 anni per tutti gli obiettivi (2000-2006), contro i
cinque anni in precedenza, tuttavia con possibili adattamenti sulla base di
una valutazione intermedia (entro fine 2003).
La fase della programmazione vera e propria è preceduta da una serie di
decisioni assunte dalla Commissione in ottemperanza alle disposizioni
contenute nei regolamenti relativi ai Fondi strutturali e allo sviluppo
rurale:
o Definizione delle zone ammissibili agli obiettivi 1 e 2 dei Fondi
strutturali;

291
o Fissazione degli orientamenti prioritari degli interventi strutturali;

o Ripartizione indicativa per Stato membro, per obiettivo e per


iniziativa comunitaria delle dotazioni dei Fondi strutturali;
o Ripartizione per Stato membro della dotazione del Feoga-garanzia
per le misure di sviluppo rurale non comprese negli obiettivi 1 e 2;

o Adozione del regolamento di applicazione delle misure di sviluppo


rurale nonché del regolamento di transizione.

Una volta che questa fase è conclusa, gli Stati membri e le regioni
presentano alla Commissione europea le proprie proposte in materia di
piani di sviluppo e riconversione, che si fondano sulle priorità nazionali e
regionali e tenendo conto degli orientamenti definiti a livello comunitario.
All’elaborazione di questi piani partecipano le parti economiche e sociali,
nonché altri enti riconosciuti. Tali piani contengono, tra l’altro:
 una descrizione precisa della situazione attuale della regione
(divari, ritardi, potenziale di sviluppo);
 una descrizione della strategia più appropriata per raggiungere gli
obiettivi fissati;
 indicazioni sull'utilizzo e la forma del contributo finanziario dei
Fondi previsti.

Ogni Stato membro discute quindi con i servizi della Commissione i


contenuti dei piani, la loro compatibilità con gli orientamenti e le priorità
definiti a livello comunitario, la coerenza tra le varie misure, la
ripartizione delle risorse nazionali e comunitarie da destinare alla loro
realizzazione, ecc.
Quando le parti hanno raggiunto un accordo complessivo, la Commissione
adotta i piani e i conseguenti programmi, eventualmente modificati per
tener conto delle osservazioni della Commissione, versando agli Stati
membri un anticipo per consentire l’avvio dei programmi. I piani
approvati dalla Commissione sono denominati Quadri comunitari di
sostegno (QCS) oppure Documenti unici di programmazione
(DOCUP) a seconda che richiedono o meno un’ulteriore decisione della
Commissione per l’attuazione dei programmi.

292
I documenti di programmazione concernenti l'obiettivo 1 sono
generalmente QCS articolati in PO, ma si può fare ricorso ai DOCUP in
caso di programmazione per importi inferiori a 1 miliardo di euro. Per
l'obiettivo 2, si tratta sempre di DOCUP. Per contro, il tipo di documento
di programmazione concernente l'obiettivo 3 è a discrezione delle regioni
e degli Stati membri. I dettagli dei programmi (denominati “complementi
di programmazione”) sono decisi in modo autonomo dalle autorità
nazionali e regionali. Questi documenti non vengono negoziati con la
Commissione, che ne viene comunque informata. Essi consentono alle
rispettive autorità di dare avvio ai progetti in base a modalità proprie
(bandi di gara per la presentazione di progetti, la costruzione di
infrastrutture, ecc.). A questo punto inizia la fase operativa.

Per ciascun programma, gli Stati membri designano un’«autorità di


gestione» responsabile della selezione dei progetti e un’«autorità di
pagamento» preposta alla certificazione delle spese e alla presentazione
delle domande di rimborso alla Commissione. L’autorità preposta alla
gestione di un programma seleziona i progetti più consoni in funzione
delle finalità di quest’ultimo e informa i candidati della propria scelta. Le
organizzazioni prescelte possono allora avviare il progetto, che deve
essere obbligatoriamente ultimato entro il termine definito nel programma.
Partenariato
La nuova regolamentazione vede confermata l'impostazione fondata sul
partenariato, il quale viene esteso alle autorità regionali e locali, alle parti
socio-economiche e ad altri organismi competenti. I partner intervengono
in ogni fase, sin dall'approvazione del piano di sviluppo.
Addizionalità
Secondo questo principio, gli aiuti europei devono aggiungersi agli aiuti
nazionali e non sostituirli. Gli Stati membri devono mantenere, per ogni
obiettivo, le loro spese pubbliche almeno allo stesso livello del periodo
precedente.
Tra il 2000 e il 2006 il livello geografico di controllo dell'addizionalità è
semplificato. Per l'obiettivo 1 si tratta dell'insieme delle regioni
ammissibili, per gli obiettivi 2 e 3 dell'intero paese. Inoltre, gli Stati
membri debbono fornire alla Commissione le informazioni necessarie
all'atto dell'adozione dei programmi, a metà e a fine periodo.

293
3. Le risorse e la gestione finanziaria dei Fondi strutturali

Nel periodo 2000-2006 l’Unione dei Quindici fruirà di una dotazione


complessiva di 213 miliardi di euro a titolo degli strumenti strutturali (di
cui 18 miliardi per il Fondo di coesione e 195 miliardi per gli altri
strumenti). Inoltre, nel quadro dell’adeguamento delle prospettive
finanziarie dell’Unione europea, a questo importo si aggiungeranno un
contributo di 22 miliardi di euro previsto nell’ambito degli aiuti pre-
adesione, nonché 22 miliardi di euro per investimenti strutturali a favore
dei nuovi Stati membri per il periodo 2004-2006. Questa dotazione
complessiva di circa 257 miliardi di euro rappresenta approssimativamente
il 37% del bilancio comunitario previsto sino al 2006.
Per rafforzare l'efficacia degli stanziamenti impegnati per le regioni in
ritardo di sviluppo, il regolamento prevede una concentrazione
significativa delle risorse a favore dell'obiettivo 1. La ripartizione tra gli
interventi è la seguente (nell’Unione dei Quindici):
 69,7% della dotazione globale all'obiettivo 1, cioè 135,9 miliardi di
euro;
 11,5% della dotazione globale all'obiettivo 2, cioè 22,5 miliardi di
euro;
 12,3% della dotazione globale all'obiettivo 3, cioè 24,05 miliardi di
euro;
 0,5% della dotazione globale allo SFOP al di fuori dell'obiettivo 1,
cioè 1,1 milliardi di euro.
 5,35% della dotazione globale alle iniziative comunitarie, cioè
10,43 miliardi di euro;
 0,65% della dotazione globale alle azioni innovatrici e alle misure
di assistenza tecnica, cioè 1,27 miliardi di euro.

La partecipazione dei Fondi strutturali varia in funzione degli interventi:


 Il FESR partecipa al finanziamento degli obiettivi 1 e 2 nonché
delle iniziative INTERREG e URBAN.
 Il FSE partecipa al finanziamento degli obiettivi 1, 2 e 3, nonché
dell'iniziativa EQUAL.
 Il FEOGA, sezione "orientamento" partecipa al finanziamento
dell'obiettivo 1 e dell'iniziativa LEADER+.
 Lo SFOP partecipa essenzialmente al finanziamento dell'obiettivo
1.

294
La cosiddetta “riserva di efficacia ed efficienza” è un nuovo elemento di
motivazione per i beneficiari finali. Il 4% degli stanziamenti assegnati a
ciascuno Stato membro va infatti a costituire fino al 2003 una riserva che è
stata ripartita, nel corso del 2004, tra programmi più efficaci ed efficienti
sulla base delle proposte di ciascuno Stato membro alla Commissione
fondate su indicatori di sorveglianza definiti dallo Stato membro.

Per il periodo 2000-2006, l’Italia ha a disposizione un importo


complessivo di 32,7 miliardi di Euro (pari al 14% del totale comunitario).
Di questi, 24,4 miliardi di euro (pari al 74,7%) per l’obiettivo 1; 2,7
miliardi di euro (pari all’8,4%) per l’obiettivo 2 ; 4,1 miliardi di euro (pari
al 12,6%) per l’obiettivo 3 e 1,3 miliardi di euro (pari al 4%) per le
iniziative comunitarie.
La gestione della spesa per i fondi strutturali è una gestione annuale e
prevede una fase di impegno e una fase di pagamento. Essa è articolata
come segue:

Impegni
o la Commissione effettua il primo impegno annuale dei crediti
necessari al momento dell’adozione del documento di
programmazione
o la Commissione effettua gli impegni successivi entro il 30 aprile di
ogni anno
o la Commissione disimpegna automaticamente le quote di impegno
non pagate alla scadenza del secondo anno successivo a quello
dell’impegno (la cosiddetta regola “n+2” che ha contribuito in
maniera significativa all’utilizzazione nei tempi previsti delle
risorse dei Fondi strutturali comunitari).

Pagamenti

o la Commissione versa un acconto del 7% della partecipazione


totale dei Fondi strutturali all’atto dell’approvazione del
programma. Tale acconto deve essere rimborsato alla
Commissione, in mancanza di spese dichiarate, entro 18 mesi;
o successivamente, la Commissione effettua i pagamenti relativi alle
spese effettivamente pagate e certificate dallo Stato membro;

295
o il saldo del 5% è pagato alla conclusione del programma, previa
trasmissione e approvazione da parte della Commissione di tutti i
documenti richiesti.

Il contributo dei Fondi strutturali è un contributo a fondo perduto. Il tasso


d’intervento varia a seconda degli obiettivi:
o per l’obiettivo 1: massimo il 75% del costo totale ammissibile (o,
eccezionalmente, 80% negli Stati membri nei quali interviene il
Fondo di coesione e 85% nelle regioni ultraperiferiche e nelle isole
periferiche greche)
o per gli altri obiettivi: massimo 50% del costo totale ammissibile.

Dei massimali specifici più bassi di quelli sopra indicati sono previsti per
gli investimenti nelle imprese (rispettivamente 35% e 15% per le regioni
dell’obiettivo 2). Ciò significa che la quota restante è a carico delle
autorità nazionali o regionali, tenendo presente che il costo totale
ammissibile non rappresenta mai il 100% della spesa di realizzazione di
un progetto, in quanto il promotore di un progetto deve anche lui
assumersi l’onere del finanziamento di una parte del costo totale del
progetto.

Come s’è detto, nell'ambito del nuovo regolamento sui Fondi strutturali,
gli Stati membri designano per ogni programma un'«autorità di gestione»,
i cui compiti, oltre alla selezione dei progetti da finanziare, riguardano la
realizzazione, la regolarità della gestione e l'efficacia del programma
(raccolta di dati statistici e finanziari, elaborazione e invio alla
Commissione dei rapporti annuali di esecuzione, organizzazione della
valutazione intermedia).

Sono inoltre creati dei «comitati di sorveglianza» che rientrano sempre


nelle competenze degli Stati membri. Presieduti da un rappresentante
dell'autorità di gestione, tali comitati assicurano un'attuazione efficace e di
qualità delle azioni strutturali.
Si mantengono i tre tipi di valutazione esistenti (ex ante, intermedia e ex
post), ma la riforma stabilisce precisamente a chi incombono. La
valutazione ex ante spetta alle autorità competenti degli Stati membri;
l'autorità di gestione effettua, in collaborazione con la Commissione e
prima del 31 dicembre 2003, la valutazione intermedia del programma da
essa gestito; infine, la valutazione ex post è di competenza della
Commissione europea, in collaborazione con lo Stato membro e l'autorità

296
di gestione. I rapporti di valutazione devono essere messi a disposizione
del pubblico.
Gli Stati membri e la Commissione stipulano un contratto finanziario con
il quale la Commissione si impegna a versare stanziamenti d'impegno
annuali sulla base dei documenti di programmazione approvati. Ciascuno
Stato membro designa quindi per ogni programma un'autorità di
pagamento che funge da intermediario tra i beneficiari finali e la
Commissione. L'autorità di pagamento sorveglia l'andamento e la
conformità rispetto alle norme comunitarie delle spese dei beneficiari
finali, in collaborazione con l'autorità di gestione. Il trasferimento effettivo
di fondi (stanziamenti di pagamento) dell'Unione agli Stati membri
avviene all'atto del rimborso da parte della Commissione delle spese
effettive dei beneficiari finali vistate e certificate dalle autorità di
pagamento.
Il maggiore decentramento della gestione dei programmi implica il
miglioramento dei dispositivi di controllo, di competenza degli Stati
membri. La Commissione verifica direttamente l'efficacia dei sistemi
istituiti, che sono di competenza dell'autorità di gestione e dell'autorità di
pagamento. Il 5% delle spese relative ad un programma dev'essere
verificato in dettaglio tramite ad esempio controlli in loco ed audit
finanziari. Qualora vengano constatate irregolarità, gli Stati membri sono
tenuti ad apportare rettifiche finanziarie tramite l'annullamento, totale o
parziale, dei finanziamenti assegnati alle operazioni in questione. Dei
fondi resi disponibili, quelli a carico degli Stati membri possono essere
riutilizzati, mentre quelli assegnati dalla Commissione vengono detratti e
non sono riutilizzabili

4. La nuova politica di sviluppo rurale

Come s’è visto, con le decisioni assunte a Berlino nel quadro dell’Agenda
2000, è nata una nuova politica di sviluppo rurale, che ha l’ambizione di
diventare il “secondo pilastro” di una politica agricola comune rinnovata.

I principi di base della nuova politica di sviluppo rurale sono i seguenti:

 La plurifunzionalità dell’agricoltura, vale a dire il suo ruolo


polivalente al di là della semplice produzione di derrate agricole e
alimentari. Ciò implica il riconoscimento e l’incentivazione della
gamma di servizi offerti dagli agricoltori;

297
 Un’impostazione plurisettoriale e integrata dell’economia
rurale al fine di salvaguardare il patrimonio rurale;
 La flessibilità degli aiuti allo sviluppo rurale, basata sulla
sussidiarietà e favorevole al decentramento, alla consultazione a
livello regionale e locale e al partenariato;
 La trasparenza nell’elaborazione e nella gestione dei programmi,
a partire da una normativa semplificata e più facilmente
accessibile.

Una delle principali innovazioni di questa politica è il metodo adottato,


volto ad una maggiore integrazione dei diversi interventi al fine di
assicurare lo sviluppo armonioso di tutte le zone rurali dell’Unione. La
panoplia di misure di cui si avvale la nuova politica di sviluppo rurale
(composta da 22 misure) si articola intorno a due grandi assi di intervento:

 Assicurare un futuro sostenibile all’agricoltura europea, in


particolare attraverso un miglioramento della sua competitività e
una riduzione dell’impatto ambientale dell’attività agricola;

 Potenziare l’economia locale delle zone rurali, in particolare


attraverso un miglioramento delle infrastrutture e la promozione di
attività alternative all’agricoltura.

Le misure che rientrano nel primo gruppo mettono al centro dell’azione


l’agricoltura, quelle del secondo gruppo hanno invece di mira soprattutto
lo sviluppo del territorio.

Le misure rivolte all’agricoltura sono essenzialmente le seguenti:


o Le misure rivolte al miglioramento dell’efficacia delle aziende
agricole (investimenti nelle aziende agricole, opere di
miglioramento fondiario, avviamento di servizi alla gestione
agricola, formazione professionale, ecc.)
o La diversificazione delle attività agricole al fine di creare attività
complementari all’agricoltura, come l’agriturismo
o La remunerazione dell’agricoltore per la cura dello spazio naturale
e del paesaggio
o Il sostegno alla silvicultura
o Gli aiuti che vengono dati agli agricoltori che sottoscrivono
impegni agro-ambientali per un periodo minimo di cinque anni.

298
Le misure che privilegiano lo sviluppo del territorio nelle zone rurali sono
essenzialmente le seguenti:
o Il finanziamento di infrastrutture in zone rurali
o Il finanziamento dei servizi essenziali per l’economia e la
popolazione rurale
o L’ammodernamento e lo sviluppo dei villaggi
o La diversificazione delle attività agricole al fine di creare attività
alternative all’agricoltura, come l’artigianato, il turismo, ecc.
o La remunerazione delle funzioni ricreative nelle zone rurali.

5. Il finanziamento della politica di sviluppo rurale

Tutte le azioni di sviluppo rurale sono cofinanziate dalla Commissione


europea (tramite il Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia –
FEOGA) e dagli Stati membri. Tuttavia, per varie ragioni, che attengono
essenzialmente all’esigenza, espressa da alcuni Stati membri, di sottoporre
anche l’evoluzione delle spese per lo sviluppo rurale alla stessa disciplina
che è applicabile alle spese per il sostegno dei mercati agricoli, le quali
sono finanziate dal Feoga-garanzia, le misure di sviluppo rurale sono
essenzialmente finanziate dal Feoga-garanzia al di fuori delle regioni
dell’obiettivo 1 e dal Feoga-orientamento nelle regioni dell’obiettivo 1.

In linea di massima, si può dire che, contrariamente al passato, quando la


politica strutturale era l’appannaggio esclusivo del Feoga-orientamento,
oggi la politica di sviluppo rurale è prevalentemente finanziata tramite il
Feoga-garanzia, ad eccezione, tuttavia di alcune delle misure di sviluppo
rurale che riguardano le regioni dell’obiettivo 1 dei Fondi strutturali
(regioni in ritardo di sviluppo). Questa situazione piuttosto singolare è
tuttavia in corso di essere modificata per il periodo di programmazione
2007-2013, come vedremo nel capitolo IV.

Più in dettaglio, il finanziamento delle misure di sviluppo rurale si articola


come segue:

 Le quattro misure dette di accompagnamento della Pac (misure


agroambientali, prepensionamento, imboschimento, indennità
compensativa nelle zone svantaggiate e in quelle soggette a vincoli
ambientali) sono cofinanziate dalla sezione “garanzia” del
FEOGA;
 L’iniziativa LEADER + è finanziata dalla sezione “orientamento”
del FEOGA;

299
 Le altre misure di sviluppo rurale sono finanziate dal Feoga-
orientamento nelle regioni dell’obiettivo 1 e dal Feoga-garanzia al
di fuori delle regioni dell’obiettivo 1.

Le risorse finanziarie del Feoga destinate allo sviluppo rurale per il


periodo 2000-2006 ammontano complessivamente a circa 49,5 miliardi di
euro, di cui 32 miliardi provenienti dalla sezione “garanzia” e 17,5
miliardi di euro dalla sezione “orientamento”. Di questo importo
complessivo, 27,9 miliardi di euro (pari al 56% del totale disponibile)
sono stati attribuiti alle regioni dell’obiettivo 1. Ciò dimostra il forte
legame tra la politica di sviluppo rurale con le priorità della politica di
coesione economica e sociale.

Tuttavia, di questi 49,5 miliardi di euro, soltanto il 10% circa concerne


delle misure di sviluppo rurale non legate all’attività strettamente agricola
(diversificazione verso il turismo e l’artigianato, servizi, sviluppo dei
villaggi), mentre la maggior parte dei fondi disponibili (23,4 miliardi di
euro, pari al 47% delle risorse complessive delle due sezioni del Feoga)
concernono le quattro misure di accompagnamento sopra menzionate.

Vale peraltro la pena di osservare che le risorse del Feoga-orientamento


nelle regioni dell’obiettivo 1 non sono state fissate preventivamente a
livello comunitario, ma sono il frutto della ripartizione delle risorse
complessive per l’insieme dei Fondi strutturali che ciascuno Stato membro
ha proposto alla Commissione (entro l’inizio del 2000) tra i diversi Fondi
strutturali nei piani di sviluppo relativi a questo obiettivo.

6. La programmazione degli interventi di sviluppo rurale a livello


comunitario, nazionale e regionale

La programmazione degli interventi destinati a sostenere lo sviluppo


rurale è una condizione ritenuta essenziale per garantire un approccio
globale ai problemi e assicurare una maggiore coerenza degli interventi.
Abbiamo visto, in precedenza che questo principio si applica all’insieme
delle politiche strutturali e che esso è stato ulteriormente rafforzato con la
riforma dei fondi strutturali del 1999. In questa sede, ci occuperemo più da
vicino delle modalità concrete con cui la programmazione viene applicata
per quanto riguarda le misure di sviluppo rurale. A questo fine, si possono
distinguere tre tipi di programmi:

300
A. I programmi orizzontali di sviluppo rurale

I programmi “orizzontali” vengono così definiti perché possono


intervenire su tutto il territorio della Comunità, al livello geografico che
ciascuno Stato membro ritiene più adeguato. Essi riguardano le azioni
sostenute dal Feoga-garanzia (ad eccezione, quindi, delle misure sostenute
dal Feoga-orientamento, nelle regioni dell’obiettivo 1, e dell’iniziativa
LEADER+ su tutto il territorio comunitario).

B. I programmi di sviluppo rurale nelle regioni dell’obiettivo 1

Come si è già detto, nelle regioni di cui all’obiettivo 1, le misure di


sviluppo rurale diverse dalle misure di accompagnamento della riforma
della Pac sono cofinanziate dal Feoga-orientamento. I relativi programmi
debbono assumere la forma di programmi operativi (PO) destinati allo
sviluppo rurale, che peraltro vanno obbligatoriamente integrati nei
programmi di sviluppo regionale che le regioni interessate debbono
presentare per l’insieme degli interventi strutturali in ciascuna regione

C. I programmi di sviluppo rurale nelle regioni di cui all’obiettivo


2

Nelle regioni di cui all’obiettivo 2 (zone con difficoltà strutturali


localizzate in regioni diverse da quelle di cui all’obiettivo 1) le zone rurali
interessate sono caratterizzate da difficoltà particolari di riconversione.
Oltre alle risorse del Feoga-garanzia per le misure di sviluppo rurale, esse
ricevono il sostegno di due Fondi strutturali: il Fondo regionale e il Fondo
sociale. Per la programmazione in queste zone, gli Stati membri possono
scegliere tra due opzioni:
o Integrare le misure di sviluppo rurale nei programmi
regionalizzati dell’obiettivo 2;
o Inserirle nei programmi orizzontali di sviluppo rurale (cfr.
Punto A). In quest’ultimo caso, tuttavia, sono previste delle
disposizioni per facilitare il coordinamento di queste
misure con gli interventi degli altri Fondi strutturali.

La fase della programmazione vera e propria per le misure di sviluppo


rurale inizia con la preparazione, da parte delle autorità nazionali o
regionali, dei propri piani e programmi, conformemente alla tipologia
sopra specificata, e con la trasmissione degli stessi, da parte delle autorità
nazionali, alla Commissione previa consultazione delle autorità e
organizzazioni competenti a livello territoriale.

301
Il periodo di programmazione è di sette anni (2000-2006). I piani debbono
contenere una serie di elementi comuni (una descrizione della situazione
economica di partenza, la strategia proposta e le priorità proposte, la stima
dei risultati attesi, ecc.). Vale la pena, inoltre, di segnalare che tutti gli
interventi a favore dello sviluppo rurale debbono obbligatoriamente
includere una serie di misure agro-ambientali.

La Commissione valuta in seguito i piani proposti in funzione della loro


coerenza. Sulla base di tali piani, essa mette a punto con le autorità
nazionali i documenti di programmazione in materia di sviluppo rurale e li
approva nei sei mesi successivi alla presentazione dei piani stessi. A
seguito dell’approvazione dei documenti di programmazione da parte della
Commissione, le autorità degli Stati membri (nazionali o regionali)
invitano tutti i soggetti potenzialmente interessati (generalmente attraverso
avvisi di gara resi pubblici) a presentare i loro progetti, nel quadro dei
programmi di sviluppo approvati. La selezione dei progetti per il
finanziamento spetta esclusivamente alle autorità nazionali o regionali
competenti.

Una volta che i progetti sono stati selezionati a livello nazionale o


regionale, questi possono essere realizzati dai promotori. Successivamente
all’avvio dei progetti, lo Stato membro e la Commissione provvedono
insieme alla sorveglianza delle azioni in corso di realizzazione. Sulla base
di questa sorveglianza e della valutazione ex-ante che è servita da base alla
preparazione dei piani, i programmi dovranno essere oggetto di una
valutazione intermedia e di una valutazione ex post realizzate da esperti
indipendenti sotto la responsabilità dello Stato membro.

Bibliografia
- Commission européenne: La réforme de la politique structurelle
http://europa.eu.int/comm/agriculture/publi/cap_en.pdf
- Commission européenne : La réforme de la politique agricole commune
http://europa.eu.int/scadplus/leg/fr/lvb/l60002.htm
- Commissione europea : Sostegno alla sviluppo rurale
http://europa.eu.int/scadplus/leg/it/lvb/l60026.htm
- Commissione europea: Disposizioni generali sui Fondi strutturali
http://europa.eu.int/scadplus/leg/it/lvb/l60014.htm
Commissione europea: Politiche strutturali 2000-2006, Lussemburgo,
2000
http://europa.eu.int/comm/regional_policy/sources/docgener/guides/
compare/refo_it.pdf

302
IV. La riforma della politica di coesione e della politica di
sviluppo rurale per il periodo di programmazione 2007-
2013

La politica di coesione e la politica di sviluppo rurale si trovano oggi alla


vigilia nuove importanti riforme i cui contenuti precisi ed i cui mezzi
finanziari non sono stati ancora decisi, ma di cui si conoscono già i
contorni e gli elementi essenziali. Tali riforme dovrebbero entrare in
vigore a partire dal 2007 e dovrebbero interessare il periodo di
programmazione che va fino al 2013. Esse si inseriscono nel contesto più
generale delle priorità politiche dell’Unione per i prossimi anni e del
rilancio del progetto europeo in una fase ricca di realizzazioni ma al tempo
stesso dominata dall’incertezza sul futuro.

1. Le priorità politiche dell’Unione per i prossimi anni

All’indomani del suo insediamento, nel gennaio 2005, la nuova


Commissione europea, presieduta dal portoghese Manuel Barroso, ha
presentato un’importante comunicazione in cui essa delinea gli obiettivi
strategici dell’Unione europea per il periodo 2005-2009. Essi non si
differenziano sostanzialmente dalle priorità politiche per il periodo 2007-
2013 che la precedente Commissione, presieduta da Romano Prodi, aveva
indicato in un documento strategico presentato circa un anno prima sulle
sfide e sui mezzi finanziari necessari per l’Unione allargata nel periodo
2007-2013.

Il punto di partenza della Commissione è la presa di coscienza del


sentimento di indifferenza, se non di ostilità, verso la costruzione europea
che si va diffondendo in ampi strati dell’opinione pubblica europea, e che
è testimoniata anche dalla scarsa partecipazione alle elezioni europee del
giugno 2004. I motivi di questa scarsa fiducia sono molteplici: lenta
crescita economica, acuita sensazione di insicurezza economica e
personale, timore di perdita della propria identità, ecc. La Commissione
ritiene necessario reagire a questa tendenza mostrando in maniera più
chiara e convincente il contributo determinante che l’Unione può
apportare alla soluzione di questi problemi e la legittimità delle sue
decisioni.

Alla luce di questa premessa e delle sfide alle quali l’Unione si trova
confrontata, la Commissione indica le seguenti priorità per i prossimi
cinque anni:

303
 Riportare l’Europa sulla strada della prosperità a lungo
termine. Il problema più urgente a cui deve far fronte oggi
l’Europa è infatti rappresentato dal ristagno dell’economia e dalla
disoccupazione. Si tratta dunque di rilanciare l’economia,
perseguendo l’obiettivo della creazione di nuovi e migliori posti di
lavoro attraverso una crescita più elevata. Questo obiettivo può
essere più facilmente raggiunto creando, dopo una moneta comune,
uno spazio educativo europeo e uno spazio europeo della ricerca;

 Mantenere e intensificare l’impegno dell’Europa nel campo


della solidarietà e della giustizia sociale. Si tratta, non soltanto di
rafforzare la coesione economica e sociale dell’Unione europea
allargata, ma anche di assicurare la solidarietà con le generazioni
future, attraverso uno sviluppo sostenibile, e di far progredire la
tutela dei diritti fondamentali e la lotta contro la discriminazione;

 Migliorare in modo concreto e tangibile la qualità della vita dei


cittadini europei attraverso nuove misure dirette ad aumentare
la loro sicurezza e a facilitare il loro accesso alla giustizia. Ciò
non potrà realizzarsi che con un’azione congiunta a livello europeo
ed implica, in particolare, la difesa della sicurezza personale dei
cittadini europei di fronte alla criminalità e al terrorismo, la
prevenzione dei rischi legati alle calamità naturali, alle crisi
ambientali e sanitarie, ai trasporti e all’energia, il riconoscimento e
la difesa dei diritti fondamentali, ecc.;

 Rafforzare la voce e il ruolo dell’Unione quale partner


mondiale. Ciò implica una presenza più forte dell’Unione sulla
scena economica internazionale, la necessità che questa parli con
una sole voce – e a questo proposito la creazione della figura di
ministro degli Affari esteri dell’Unione prevista dalla nuova
Costituzione europea sarebbe un passo in avanti – la messa in atto
di una politica di vicinato con i paesi limitrofi, la promozione di
uno sviluppo sostenibile a livello mondiale, ecc.

Fra tutti questi obiettivi strategici, la priorità politica è quello della crescita
e dell’occupazione, come previsto dalla cosiddetta “strategia di Lisbona”,
vale a dire della strategia decisa a Lisbona nel marzo 2000, che mira a fare
dell’Unione europea la zona più competitiva a livello mondiale da qui al
2010. Ciò non significa che gli altri obiettivi siano meno importanti ma
soltanto che la crescita è essenziale per la loro realizzazione.

304
Una condizione di successo di questa strategia è che non solo le istituzioni
comunitarie, ma anche i parlamenti nazionali, i governi, i partner sociali,
la società civile a tutti i livelli lavorino di concerto e condividano queste
priorità. L’importanza di questo sforzo comune è messo in luce fin dal
titolo della comunicazione presentata dalla Commissione nel gennaio
2005, che è, appunto: Europa 2010: un partenariato per il rinnovamento
europeo.

Fra le condizioni di successo, vale la pena peraltro di indicare la necessità


che il quadro di bilancio pluriennale che dovrà essere fissato nelle
prospettive finanziarie per il periodo 2007-2013 fornisca mezzi adeguati
perché l’Unione europea possa mantenere i suoi impegni, quali la
competitività, la coesione e la gestione sostenibile delle risorse, in
un’Unione allargata, ma avendo di mira una gestione efficace e rigorosa
delle risorse.

2. Le priorità della politica di coesione per il periodo 2007-2013

Nel quadro della definizione delle priorità politiche dell’Unione europea


per il periodo 2007-2013, la Commissione ha anche indicato con maggiore
precisione quali dovrebbero essere a suo avviso le priorità per la politica di
coesione per il prossimo periodo di programmazione. Tali priorità sono
state enunciate per sommi capi nella stessa comunicazione del febbraio
2004 sulle prospettive finanziarie per il periodo 2007-2013 e definite, con
più precisione, nel terzo rapporto sulla coesione economica e sociale,
adottato ugualmente nel febbraio 2004.

Tali priorità sono state definite alla luce del bilancio dei risultati delle
politiche strutturali ma tenendo conto allo stesso tempo delle grandi sfide
che attendono l’Unione nei prossimi anni e dell’esigenza di rendere più
semplice e trasparente il quadro delle priorità. Esse sono inoltre il frutto di
un ampio dibattito non solo a livello istituzionale, ma anche con i partner
sociali, a livello centrale e periferico.

Nell’insieme dell’Unione europea, le disparità di reddito e di occupazione


tra le varie regioni si sono ridotte nel corso degli ultimi dieci anni. Dal
1994 in poi, data alla quale i Fondi strutturali sono stati rinforzati, il PIL
(Prodotto interno lordo) per abitante nelle regioni dell’obiettivo 1 si è
complessivamente avvicinato alla media comunitaria. Tra il 1994 e il
2001, in particolare, il PIL per abitante è cresciuto in queste regioni prese

305
nel loro insieme di quasi il 3% all’anno in termini reali, contro un tasso
medio di circa il 2% nel resto dell’Unione.

Tuttavia, l’ampiezza della convergenza verso la media comunitaria varia


fortemente da una regione all’altra: essa è stata particolarmente vistosa nei
quattro paesi che hanno beneficiato del Fondo di coesione (Spagna,
Portogallo, Grecia e Irlanda), mentre nelle altre regioni dell’obiettivo 1 la
convergenza è meno marcata, se non addirittura in regresso, come nel
Mezzogiorno d’Italia, anche a causa del rallentamento della crescita
economica a livello nazionale.

Il caso più emblematico è quello dell’Irlanda, che al momento della sua


adesione all’Unione aveva un reddito pro-capite inferiore del 40% alla
media comunitaria e che ha oggi il reddito pro-capite più elevato
dell’Unione (a parità di potere di acquisto) dopo il Lussemburgo,
superando la media comunitaria del 17,6%. Questo non è soltanto il frutto
della politica di coesione comunitaria, che ha comunque giocato un ruolo
importante in Irlanda e negli altri paesi della coesione, ma anche di una
politica nazionale fortemente orientata alla crescita.

Malgrado la convergenza globale del PIL per abitante verso la media


dell’Unione europea nelle regioni in ritardo di sviluppo, lo scarto resta
ancora troppo grande per una Unione che si vuole più coesa. Al riguardo,
basti dire che in 29 regioni, che rappresentano il 13% della popolazione
complessiva dell’Europa dei Quindici, il PIL per abitante (a parità di
potere di acquisto) nel 2001 (ultimo anno per cui i dati sono disponibili)
era inferiore ai due terzi della media comunitaria.

Queste regioni si situano soprattutto in Grecia, in Portogallo, nel sud della


Spagna e nel Mezzogiorno d’Italia, ma comprendono anche sei regioni
dell’est della Germania. Ma i problemi strutturali, dovuti ad esempio ai
problemi di declino industriale, interessano anche altre regioni in cui il
reddito pro-capite è più elevato. Non si può quindi affermare che il
bisogno di una politica di coesione nell’Unione si sia affievolito. Tanto più
se si tengono presenti le due grandi sfide di fronte alle quali si trova oggi
confrontata la politica di coesione per gli anni a venire:

A. La necessità di una coesione rinforzata in una Comunità


ampliata

L’ampliamento dell’Unione a 25 Stati membri, che ha preso l’avvio il


1° maggio 2004, e in seguito a 27 o più Stati membri, rappresenta una

306
sfida senza precedenti per la competitività e la coesione interna
dell’Unione: con l’ampliamento, le disparità socio-economiche sono
raddoppiate e la media del PIB pro-capite dell’Unione è diminuito del
12,5%. Nello stesso tempo, l’Unione nel suo insieme deve affrontare
l’acuirsi di nuovi problemi socio-economici, quali il rallentamento
della crescita, l’accelerazione del processo di ristrutturazione del
sistema produttivo, a seguito della mondializzazione dei mercati e
della liberalizzazione degli scambi, l’invecchiamento della
popolazione, ecc.

B. La necessità di perseguire con più efficacia e determinazione la


strategia di Lisbona e di Göteborg

Nel marzo del 2000, i capi di Stato e di governo, riuniti a Lisbona nel
quadro del Consiglio europeo, hanno lanciato una strategia che mira a
fare dell’Europa, entro il 2010, l’economia fondata sulla conoscenza la
più competitiva e la più dinamica al mondo. Al Consiglio europeo di
Göteborg nel giugno 2001, la strategia di Lisbona è stata estesa alla
protezione dell’ambiente e alla realizzazione di un modello di sviluppo
più sostenibile. La politica di coesione non solo deve integrare gli
obiettivi di Lisbona e di Göteborg, ma deve anche diventare uno
strumento essenziale per la realizzazione di tali obiettivi.

Alla luce di questo bilancio e di queste sfide, ma anche nell’intento di


rendere più semplice e trasparente il quadro delle priorità della politica di
coesione, la Commissione ha proposto le seguenti tre priorità per la
politica di coesione per il periodo di programmazione 2007-2013 (priorità
che sostituiscono gli attuali obiettivi):

 Convergenza. Ciò implica che lo sforzo maggiore sia indirizzato


verso gli Stati membri e le regioni meno sviluppati dell’Unione
allargata. Questo obiettivo concernerà, in primo luogo, le regioni il
cui PIB per abitante è inferiore al 75% della media comunitaria.
Esso svolgerà quindi un ruolo essenziale soprattutto nei nuovi Stati
membri in cui si registrano divari di sviluppo senza precedenti
nella storia dell’Unione. Tuttavia, poiché a seguito
dell’ampliamento la media comunitaria si è abbassata del 12,5%,
per evitare che alcune regioni ancora in ritardo di sviluppo,
nell’Europa dei 15, vengano penalizzate da questo “effetto
statistico”, è previsto un aiuto temporaneo a queste regioni
(phasing out) per aiutarle a completare il processo di convergenza.
In Italia, la sola regione interessata a questo regime transitorio

307
sarebbe la Basilicata. D’altra parte, la Sardegna uscirebbe
“naturalmente” dalle regioni dell’obiettivo “Convergenza” ed
entrerebbe invece nell’obiettivo “Competitività regionale e
occupazione” (phasing in) in quanto il suo reddito pro-capite
sarebbe superiore al 75% della media comunitaria nell’Unione a
15. Resterebbero cosi nell’obiettivo “Convergenza” soltanto la
Puglia, la Campania, la Calabria e la Sicilia.

 Competitività regionale e occupazione. I programmi che


riguardano questo obiettivo copriranno gli altri Stati membri e
regioni (cioè le regioni attualmente coperte dagli obiettivi 2 e 3)
vale a dire quelle aree che hanno esigenze di adeguare il loro
apparato produttivo ai cambiamenti economici in corso o attesi per
i prossimi anni (ristrutturazione a seguito della mondializzazione,
invecchiamento della popolazione, ecc.) e di migliorare la loro
competitività in un mondo che cambia. Per assicurare una
maggiore efficacia delle azioni comunitarie, gli interventi
dovrebbero concentrarsi su un numero limitato di priorità politiche
correlate all’agenda di Lisbona e di Göteborg;

 Cooperazione territoriale europea sotto forma di programmi


transfrontalieri e transnazionali. In questo obiettivo rientrano le
azioni attualmente coperte dalle iniziative comunitarie
INTERREG, URBAN, EQUAL e LEADER +.

Queste innovazioni e queste priorità si riflettono anche nella stessa


denominazione della nuova politica di coesione che è stata infatti
ribattezzata “Coesione per la crescita e l’occupazione”.

3. Le priorità della politica di sviluppo rurale nel contesto delle


nuove priorità politiche dell’Unione europea

Abbiamo già rilevato, nel paragrafo 1 di questo capitolo, che una delle
priorità politiche principali dell’Unione per il periodo 2007-2013 è quello
di rafforzare l’impegno dell’Europa nel campo della solidarietà e della
giustizia sociale. Questa priorità si declina in due grandi assi d’intervento:
o Il primo è quello della “Coesione per la crescita e l’occupazione”
di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo;
o Il secondo è stato battezzato “Gestione sostenibile e protezione
delle risorse naturali” e comprende le azioni nel campo
dell’agricoltura, della pesca e dell’ambiente. Di esso ci
occuperemo in questo paragrafo.

308
A questa nuova aggregazione delle azioni comunitarie nel campo della
“solidarietà e giustizia sociale” si accompagna peraltro un cambiamento
nella nomenclatura di bilancio, che è stata adattata alle nuove priorità
politiche sopra definite.

Prima di vedere più da vicino come questi cambiamenti si rifletteranno


sulla nuova politica di sviluppo rurale per il periodo 2007-2013, va
ricordato che la politica agricola (Pac) è stata oggetto, nella seconda metà
del 2003, di una nuova riforma che ha profondamente rivoluzionato
l’assetto che questa aveva avuto finora.

La riforma della Pac del 2003, che è entrata in vigore all’inizio del 2005,
anticipa, in una certa misura, le nuove priorità politiche dell’Unione per i
prossimi anni. Infatti, essa intende raggiungere gli obiettivi di
competitività, solidarietà e migliore integrazione delle preoccupazioni
ambientali e divenire così una tappa fondamentale nella strategia di
Lisbona e Göteborg. Tale riforma comporta essenzialmente:

 Una notevole semplificazione delle misure di sostegno del


mercato e dei regimi di sostegno diretto agli agricoltori, con
l’introduzione di un aiuto unico completamente svincolato dal tipo
e dai livelli di produzione (il cosiddetto decoupling del sostegno
all’agricoltura, conosciuto anche come “disaccoppiamento”);
 Un ulteriore rafforzamento dello sviluppo rurale, e quindi il
consolidamento dello sviluppo rurale come “secondo pilastro”
della Pac, mediante l’estensione del campo di applicazione della
politica di sviluppo rurale e il trasferimento di fondi dal sostegno
del mercato allo sviluppo rurale grazie alle riduzioni progressive
nei regimi di sostegno diretto alle aziende agricole più grandi
introdotte dalla riforma (“degressività” o“modulazione”);
 Un meccanismo di disciplina finanziaria in linea con la decisione
del Consiglio europeo di fissare un tetto per la spesa per il
sostegno del mercato e il sostegno diretto tra il 2007 e il 2013.

L’estensione del campo di applicazione degli strumenti di sviluppo rurale


ha soprattutto come obiettivo di aiutare gli agricoltori ad affrontare le
nuove sfide derivanti dall’evoluzione del settore agricolo e dagli sviluppi
della Pac. Le nuove disposizioni introdotte nella politica di sviluppo rurale
con la riforma della Pac del giugno 2003 comprendono, in particolare:

309
 Misure a favore della qualità alimentare: aiuti agli agricoltori
che partecipano a regimi aventi come finalità il miglioramento
della qualità dei prodotti agricoli e alimentari;
 Rispetto delle norme: aiuti agli agricoltori ad adattarsi alle norme
europee in materia di ambiente, protezione veterinaria e
fitosanitaria, benessere animale, ecc.;
 Sostegno ai giovani agricoltori: miglioramento del regime di
sostegno all’installazione dei giovani agricoltori;
 Rafforzamento delle misure agro-ambientali: aumento dei tetti
di partecipazione finanziaria alla messa in atto di misure agro-
ambientali (85% nelle zone dell’obiettivo 1 e 60% nelle altre
zone);
 Instaurazione di un sistema di consulenza in agricoltura:
creazione di un sistema di consulenza agli agricoltori sulla
conduzione della terra e dell’azienda.

La riforma del 2003 ha accentuato la complementarietà tra il primo e il


secondo pilastro della Pac: il primo pilastro offre un sostegno agli
agricoltori, che saranno liberi di produrre in funzione della domanda del
mercato; il secondo pilastro sostiene invece l’agricoltura in quanto
fornitrice di beni pubblici, quali la difesa dell’ambiente e del paesaggio,
nonché lo sviluppo delle zone rurali.

Per quanto riguarda il periodo post-2006, in linea con gli orientamenti dei
Consigli europei di Lisbona e di Göteborg ma anche nella logica delle
conclusioni della seconda Conferenza sul mondo rurale che ha avuto luogo
a Salisburgo nel novembre 2003, la nuova politica di sviluppo rurale si
concentrerà su tre obiettivi principali:
 Accrescere la competitività del settore agricolo mediante il
sostegno alla ristrutturazione (ad esempio, aiuti agli investimenti
per i giovani agricoltori, misure di informazione e promozione,
ecc.);
 Migliorare l’ambiente e le zone rurali mediante un sostegno alla
gestione dei suoli, alla forestazione all’attività agricola nelle zone
svantaggiate, ecc.;
 Migliorare la qualità della vita nelle zone rurali e promuovere la
diversificazione delle attività economiche mediante misure che
interessino il settore agricolo e altre attività nelle regioni rurali (ad
esempio, riorientamento qualitativo della produzione, qualità degli
alimenti, restauro dei villaggi, ecc.).

310
Un contributo essenziale alla gestione sostenibile delle risorse naturali
dovrebbe anche venire da una politica ambientale rinnovata rafforzata.

4. La nuova politica di sviluppo rurale a partire dal 2007

La politica di sviluppo rurale per il periodo di programmazione 2007-2013


non è stata ancora decisa a livello comunitario. Tuttavia, la Commissione
ha già presentato, nel luglio 2004, le proposte legislative che dovrebbero
governarla a partire dal 2007. Esse sono ancora in corso di discussione
nelle varie istanze comunitarie, ed in particolare in seno al Consiglio dei
ministri dell’agricoltura dei Venticinque. Fatta salva qualche modifica non
di eccessivo rilievo di tali proposte in sede di decisione finale, gli
orientamenti e gli strumenti principali della nuova politica di sviluppo
rurale non dovrebbero differenziarsi sostanzialmente dalle proposte iniziali
della Commissione, che cercheremo di riassumere in questo paragrafo.

a. Creazione di un nuovo Fondo per lo sviluppo rurale

Abbiamo visto, in precedenza, che il finanziamento della politica di


sviluppo rurale è attualmente assicurato sia dal FEOGA-Garanzia che dal
FEOGA-Orientamento, a seconda della natura delle misure e della regione
interessata. Questa dicotomia si riflette negativamente sulla gestione e sul
controllo delle varie misure, in quanto le disposizioni vigenti al riguardo
sono sensibilmente diverse da una sezione all’altra del FEOGA 2. Inoltre,
essa aumenta in maniera considerevole l’onere amministrativo per gli Stati
membri e per la Commissione oltre a ridurre la coerenza, la trasparenza e
la visibilità della politica di sviluppo rurale.

Per evitare questi inconvenienti, la Commissione propone di inserire tutte


le misure di sviluppo rurale (secondo pilastro della Pac) in un quadro
finanziario e di programmazione unico, grazie alla creazione di un
apposito Fondo per lo sviluppo rurale (FEASR – Fondo europeo agricolo
di sviluppo rurale).

2
Ad esempio, mentre le spese del FEOGA-Garanzia sono rimborsate sulla base di
dichiarazioni mensili da parte degli Stati membri, le spese per il FEOGA-
Orientamento sono articolate in un pre-finanziamento iniziale, dei pagamenti
intermedi e un pagamento finale. Inoltre, mentre il FEOGA-Garanzia rimborsa le
spese effettivamente sostenute mese per mese, i crediti del FEOGA-Orientamento
sono sottoposti alla regola “N + 2”, cioè i crediti impegnati in un anno debbono
essere pagati entro la fine dell’anno N+2, altrimenti saranno automaticamente
disimpegnati (e quindi perduti definitivamente).

311
Questo Fondo si alimenterebbe delle risorse per lo sviluppo rurale
proveniente dalle due sezioni del FEOGA, oltre che dalle risorse
provenienti dalla “modulazione” (vale a dire dalla riduzioni degli aiuti
diretti per le aziende di maggiori dimensioni), ma avrebbe anche un chiaro
valore simbolico e sarebbe destinato a giocare un ruolo crescente in
avvenire. Le azioni del primo pilastro sarebbero finanziate da un nuovo
Fondo: il Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAG).

b. Elaborazione di un documento comunitario strategico

Per garantire che la programmazione dello sviluppo rurale sia conforme


agli obiettivi prioritari che essa persegue, la Commissione propone che
venga adottato a livello comunitario un documento comunitario preparato
dalla Commissione, che servirà di base alle strategie e programmi
nazionali e regionali di sviluppo rurale per l’intero periodo. Tale
documento strategico conterrebbe degli obiettivi chiaramente definiti, alla
luce delle priorità dell’Unione, ma anche un rafforzamento degli obblighi
di controllo e di rendiconto dei risultati dei programmi nazionali e
regionali di sviluppo rurale. Tuttavia, verrebbe lasciato un più ampio
margine di manovra agli Stati membri nella gestione delle risorse destinate
alle varie misure all’interno di ciascun asse prioritario;

c. Realizzazione dei programmi

Per garantire una maggiore trasparenza, una maggiore efficacia e una più
grande responsabilizzazione per l’utilizzazione dei fondi comunitari, è
previsto un rafforzamento del sistema di controllo, di valutazione e di
rendiconto da parte delle autorità nazionali e regionali. In particolare, gli
Stati membri dovranno dimostrare in che misura gli obiettivi quantitativi
definiti nei loro programmi sono stati realizzati e la coerenza con le altre
politiche dell’Unione, in particolare la politica di coesione.

d. Assi di intervento e misure

Come abbiamo detto, la futura politica di sviluppo rurale sarà articolata


intorno a tre assi tematici: competitività, gestione delle terre/ambiente,
economia rurale in senso largo.

 Competitività (asse 1)
Per questo asse, le misure sono ripartite in tre gruppi:
- risorse umane (formazione professionale, giovani
agricoltori, consulenza aziendale, ecc.)

312
- capitale fisico (investimenti agricoli, infrastrutture agricole,
trasformazione e commercializzazione, ecc.)
- qualità (promozione della qualità degli alimenti, aiuti per il
rispetto delle norme, ecc.).

 Gestione delle terre/ambiente (asse 2)


Per l’asse 2, le misure sono ripartite in due gruppi:
- utilizzazione sostenibile delle terre agricole (zone sfavorite
e di montagna, misure agro-ambientali, ecc.)
- utilizzazione sostenibile delle terre a foreste
(rimboschimento, agro-silvicultura, ecc.).
Tutti i programmi di sviluppo rurale dovranno contenere
obbligatoriamente delle misure agro-ambientali. Inoltre, è previsto che le
misure a favore delle zone sfavorite vengano riviste alla luce di una nuova
delimitazione, più obiettiva, di queste zone.

 Economia rurale in senso lato (asse 3)


Le misure previste in questo ambito sono articolate in due gruppi:
- qualità della vita (rinnovamento dei villaggi, protezione e
conservazione del patrimonio rurale, formazione
professionale, servizi di base per la popolazione rurale nel
suo insieme, ecc.)
- diversificazione economica (diversificazione verso le
attività non agricole, incoraggiamento delle attività
turistiche, conservazione e gestione del patrimonio
naturale, ecc.).

I programmi di sviluppo rurale dovrebbero perseguire tutti e tre gli


obiettivi in tutti gli Stati membri, ma la scelta dell’ordine di importanza tra
gli obiettivi dovrebbe essere decisa a livello locale in funzione dei bisogni
concreti di ciascuna regione.

e. LEADER

Il modello Leader sarà proseguito e consolidato a livello comunitario.


Anzi, le azioni di tipo Leader dovranno essere comprese in ciascun
programma di sviluppo rurale a livello nazionale e regionale.

5. Le prospettive finanziarie per il periodo 2007-2013

Parallelamente alla definizione degli obiettivi strategici e delle priorità


politiche per i prossimi anni, la Commissione ha presentato, nel febbraio

313
2004, le sue proposte in merito alla pianificazione delle risorse nessarie
per far fronte agli impegni finanziari che ne scaturiscono. Tali proposte
hanno fatto oggetto di ulteriori specificazioni nel luglio 2004 e di alcune
correzioni tecniche, dovute alla revisione delle previsioni di crescita
dell’economia, nel mese di aprile 2005.

Le proposte della Commissione riflettono, da una parte, le ambizioni


politiche sopra enunciate, e dall’altra, la consapevolezza che non sarebbe
né economicamente, né politicamente consigliabile di accentuare la già
forte pressione sulle finanze pubbliche con richieste eccessive e
difficilmente accettabili dagli Stati membri.

In altri termini, la Commissione ha cercato di fare una proposta realistica,


ben sapendo che è proprio sul finanziamento del bilancio comunitario da
parte degli Stati membri si sarebbe giocata la partita più difficile.
“Affidare all’Unione una serie di obiettivi e negarle poi le risorse
necessarie – scrive la Commissione nel suo documento – significherebbe
condannarla alla critica giustificata dei cittadini che non vedono realizzate
le loro legittime aspettative”.

Il punto di partenza della proposta della Commissione è il tetto degli


stanziamenti già decisi per il 2006, ultimo anno delle prospettive
finanziarie in corso. Nel 2006 il tetto degli stanziamenti di impegno in
un’Unione a 25 membri è già stato fissato a 118,0 miliardi di Euro (ai
prezzi del 2004), mentre il tetto per i crediti di pagamento è stato fissato a
114,7 miliardi di euro, pari all’1,08% del reddito nazionale lordo
dell’Unione nel suo insieme.

Questo livello è al di sotto dello 0,16% rispetto al tetto massimo delle


risorse proprie dell’Unione in percentuale del reddito nazionale lordo, tetto
che è dell’1,24%. In altri termini, la spesa comunitaria nel 2006 sarà
inferiore di circa 17 miliardi di euro rispetto al tetto massimo ammissibile
senza modificare l’attuale regolamentazione sul sistema di finanziamento
dell’Unione.

Per il periodo 2007-2013, la Commissione non ha proposto di aumentare il


massimale delle risorse proprie comunitarie (1,24% del RNL) ma di
utilizzare solo in minima parte il margine ancora disponibile e di passare
dall’1,08% del reddito nazionale lordo nel 2006 a un tasso medio di
dell’1,14% sull’intero periodo, vale a dire da uno stanziamento
complessivo di 114,7 miliardi di Euro nel 2006 a uno stanziamento di
145,3 miliardi di euro nel 2013.

314
La maggior parte di questo incremento della spesa comunitaria è
attribuibile alla voce “Coesione per la crescita e l’occupazione” che
assume un rilievo decisivo in una Comunità da poco allargata ai paesi
dell’Europa centrale e orientale. Gli stanziamenti di impegno previsti per
questo capitolo di spesa passerebbero da 37,8 miliardi di euro nel 2006 a
quasi 50,1 miliardi di euro nel 2013, con un incremento di quasi un terzo
(a prezzi costanti) in sette anni.

Un’evoluzione di questa ampiezza della spesa per le politiche di coesione,


associata ad una sia pur lieve flessione della spesa per il sostegno dei
mercati agricoli e per i regimi di sostegno diretto agli agricoltori,
consentirebbe di correggere e addirittura invertire lo squilibrio a favore
dell’agricoltura che ha caratterizzato il bilancio comunitario per quasi
cinquant’anni.

In effetti, nel 2013 la spesa agricola (senza lo sviluppo rurale)


rappresenterebbe appena il 26,7% della spesa comunitaria complessiva
(contro più del 70% negli anni Ottanta), mentre la spesa per la coesione
(senza lo sviluppo rurale, che rientra d’ora in poi nella rubrica di spesa
“Preservazione e gestione delle risorse naturali”) rappresenterebbe il
31,6% del totale, cioè un importo di gran lunga superiore a quello
dell’agricoltura.

Il dibattito che si è aperto su queste proposte della Commissione non è


tuttavia molto promettente. In effetti, già alcuni capi di Stato e di governo,
ed in particolare quelli dei sei principali contributori netti al bilancio
comunitario (Francia, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Austria e
Svezia) hanno affermato nella maniera più categorica di non essere
disposti ad andare al di là della percentuale del reddito nazionale che oggi
viene effettivamente utilizzata per finanziare l’Unione, vale a dire poco
più dell’1%.

In realtà, la Commissione ha già dimostrato che un tetto fissato intorno


all’1%, non solo non consentirebbe di attuare le nuove priorità per gli anni
a venire, ma non consentirebbe nemmeno di realizzare gli impegni del
Consiglio in materia di pagamenti agricoli da qui al 2013,
pregiudicherebbe il progressivo inserimento della politica di coesione nei
dieci nuovi Stati membri e metterebbe in pericolo i livelli attuali di spesa
per le altre politiche comuni (in particolare, politica regionale e sociale).

315
In mancanza di un accordo su un congruo aumento delle risorse destinate
al bilancio comunitario, l’Unione europea si vedrebbe obbligata:
o A ridurre i suoi sforzi in termini di aiuto ai paesi terzi e in primo
luogo ai paesi in via di sviluppo;
o A ridurre il sostegno allo sviluppo rurale, mancando perciò uno
degli obiettivi chiave della riforma della Pac;
o A ridurre drasticamente il sostegno alla coesione negli attuali Stati
membri;
o A sottrarsi agli impegni già presi in materia di politica di vicinato e
di prosecuzione del processo di ampliamento dell’Unione.

Riusciranno queste considerazioni, avanzate dalla Commissione nel suo


documento, a convincere gli Stati membri più riottosi a incrementare in
media dello 0,5% del reddito nazionale lordo la partecipazione finanziaria
degli Stati membri al finanziamento del bilancio comunitario? Niente è più
incerto. Si dovrà probabilmente attendere la fine del prossimo mese di
giugno per avere una risposta definitiva a questo quesito. Intanto, come
abbiamo visto, le politiche strutturali dell’Unione si accingono ad essere
sottoposte a revisioni sostanziali, senza tuttavia che a questo stadio si
conoscano con certezza i mezzi finanziari di cui esse disporranno per il
periodo che va dal 2007 al 2013.

Bibliografia

- Commissione europea: Al servizio delle regioni, Lussemburgo, 2004


http://europa.eu.int/comm/regional_policy/sources/docgener/presenta/
working2004/working2004_it.pdf
- Commission européenne: De nouvelles perspectives pour le
développement rural de l’UE, Luxembourg, 2004
- Commission européenne : Développement rural dans l’Union
européenne, Luxembourg, 2004
- Commissione europea : Costruire il nostro avvenire comune. Sfide e
mezzi finanziari dell’Unione allargata 2007-2013
http://europa.eu.int/eur-lex/lex/LexUriServ/site/fr/com/2004/
com2004_0101fr01.pdf
-Commissione europea: Un nuovo partenariato per la coesione,
convergenza, competitività, cooperazione. Terza relazione sulla coesione
economica e sociale
http://europa.eu.int/comm/regional_policy/sources/docoffic/official/
reports/cohesion3/cohesion3_it.htm
- Commissione europea: La nuova politica di coesione a partire dal
2007,Inforegio, 2004

316

Potrebbero piacerti anche