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EUROPA ITALIA
AGRICOLTURA
Prefazione............................................................................................. 7
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Parte seconda: L’Italia e la politica agricola comune
1) Premessa .............................................................................................. 92
PARTE I: I NEGOZIATI AGRICOLI.
2) L’Italia di fronte alla Pac ......................................................................92
3) Il primo Piano Mansholt....................................................................... 93
4) I negoziati: 1960. ................................................................................ 95
5) I negoziati: 1961 .................................................................................. 96
6) I negoziati: 1962-63 ........................................................................... 97
7) I negoziati: 1964 ................................................................................. 97
8) I negoziati: 1965. ................................................................................ 98
9) I negoziati: 1966. ............................................................................... 100
10) I negoziati: 1967-70 ......................................................................... 101
11) I negoziati: 1971-74 ......................................................................... 102
12) La posizione italiana nei negoziati agricoli: riepilogo ..................... 104
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L'azione comunitaria negli anni '70 ...................................................... 133
Sviluppi recenti ................................................................................... 136
Conclusioni ......................................................................................... 139
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Parte quinta: La politica di sviluppo rurale nel contesto delle politiche
strutturali dell’Unione Europea
II. Verso una strategia comunitaria per lo sviluppo delle regioni rurali
1. La comunicazione della Commissione sull’avvenire del
mondo rurale ............................................................................. 276
2. Sviluppo rurale e riforma dei Fondi strutturali ................................. 280
3. La riforma della Pac e lo sviluppo rurale .......................................... 283
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Prefazione
Per l’intero arco della mia vita lavorativa, durata circa 35 anni, Europa,
Italia e Agricoltura sono stati temi centrali nel mio percorso professionale.
Ciò è stato possibile non solo perché tematiche di questo genere mi hanno
occupato ancor prima che cominciasse la mia personale “avventura
europea”, ma anche perché, avendo avuto l’opportunità di lavorare, per
gran parte del mio percorso, in prossimità del “centro dell’azione”, ho
potuto realizzare la mia più grande aspirazione sul piano professionale,
l’analisi economica del settore agricolo a supporto della decisione politica.
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In questo volume ho raccolto i testi di alcune analisi realizzate nel corso
del periodo 1970-2005 e di alcune relazioni che ho avuto l’opportunità di
presentare in occasione di convegni e giornate di studio sulle
problematiche della politica agricola comune e dell’agricoltura europea,
ed in particolare di quella del Sud dell’Europa.
Nella terza parte sono incluse una serie di analisi e di relazioni sulle
difficoltà a cui è confrontata l’agricoltura nelle regioni mediterranee e
sull’azione comunitaria a favore di queste regioni, in particolare nel
quadro della politica agricola comune. Nella quarta parte sono raggruppati
alcuni testi, per la verità alquanto eterogenei, rispettivamente, sul ruolo
socioeconomico dell’agricoltura, sul mercato ortofrutticolo nell’Unione
europea, sulla dimensione economica del nuovo ampliamento a est
dell’Unione e, infine, sulla fiscalità in agricoltura nei paesi della
Comunità. Più organica è invece la parte quinta, consacrata integralmente
alla politica di sviluppo rurale nel contesto delle politiche strutturali
dell’Unione Europea.
E’ ovvio che, anche per la data in cui questi testi sono stati redatti o per
l’epoca a cui si riferiscono, la loro attualità si è col tempo affievolita. Ciò
non toglie che molti di essi possono ancora fornire qualche contenuto non
privo di interesse, sia sul piano storico che su quello conoscitivo, non
fosse altro che per meglio comprendere come si è pervenuti alla
configurazione attuale della politica agricola comune o per capire come
sono state affrontate nel tempo certe problematiche a cui l’agricoltura
europea ed italiana, in particolare, è stata o è tuttora confrontata.
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Prima parte
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Dal Memorandum Mansholt al varo delle direttive sulla
politica socio-strutturale in agricoltura
(1990)
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nettamente gli scambi intra-comunitari. Ma, per la maggior parte dei
prodotti agricoli, tali prezzi non sembrano essere stati fissati
essenzialmente in funzione dei dati economici e delle esigenze di
un'auspicabile specializzazione all'interno del mercato comune; il loro
livello è stato spesso il risultato di compromessi politici accettabili da
parte di tutti gli Stati membri. La Comunità è stata pertanto indotta a
fissare i prezzi della maggior parte dei prodotti agricoli a un livello che
risulta generalmente essere molto superiore a quello dei prezzi
normalmente praticati nelle transazioni internazionali o persino sul
mercato interno dei suoi concorrenti" (2).
Anche per quanto riguarda gli effetti sui mercati agricoli di una politica di
alti prezzi e di una garanzia illimitata di collocamento, l'analisi della
Commissione si rivela particolarmente critica ed illuminante, soprattutto
alla luce degli sviluppi ulteriori dell'agricoltura europea. Una politica di
prezzi elevati - afferma infatti la Commissione - coniugata ai progressi
scientifici e tecnici in agricoltura, determina un incremento delle rese
unitarie e quindi del volume della produzione agricola, creando od
accentuando le eccedenze produttive che già si registravano in numerosi
settori.
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Nella formulazione di una linea di politica agricola adeguata a correggere
queste disfunzioni, la Commissione scarta l'ipotesi di una terapia d'urto
consistente in una drastica riduzione dei prezzi ai produttori che avrebbe
dovuto ripercuotersi sui prezzi al consumo. Questa riduzione - ammette la
Commissione - avrebbe il vantaggio di stimolare il consumo diminuendo
al tempo stesso i costi di sostegno unitario e globale, facilitando nel
contempo gli adattamenti strutturali necessari. Essa sarebbe però
difficilmente attuabile per evidenti motivi politici e avrebbe come
conseguenza l'eliminazione dei produttori marginali, che sarebbero quelli
più duramente colpiti.
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Diagnosi e terapie che, in definitiva, non sono fondamentalmente mutate
da allora in poi e che possono riassumersi nella ricerca di un migliore
equilibrio dei mercati agricoli attraverso una politica dei prezzi più
orientata al mercato. Si sarebbe, tuttavia, dovuto attendere che la crisi
della politica agricola comune si aggravasse ulteriormente negli anni
successivi perché maturasse progressivamente, ma non senza esitazioni,
anche fra i ministri dell'agricoltura, la consapevolezza della necessità di
apportare alla politica agricola comune (Pac) gli adattamenti resisi ormai
indispensabili.
Tuttavia, è solo a partire dagli anni Ottanta che il processo di riforma della
Pac si è accelerato, di fronte all'esplosione della spesa agricola, allo
sviluppo vertiginoso delle eccedenze, alla crisi dei mercati mondiali
agricoli e al rilancio del processo di integrazione a livello comunitario.
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strutture di produzione e di commercializzazione essenzialmente
attraverso due serie di azioni:
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Le Up avrebbero dovuto avere una superficie tale da garantire
l'utilizzazione ottimale dei fattori di produzione (per es. da 80 a 120 ettari
per i cereali e da 150 a 200 bovini per l'allevamento da carne, ecc.), e
potevano essere sia il risultato dell'ingrandimento di un'unica azienda, sia
della decisione di più imprenditori agricoli d'associarsi per esercitare in
comune un'unica attività (fusione parziale).
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Attualità del Piano Mansholt
Esse hanno quindi più che altro un valore storico e simbolico in quanto
evocatrici di un'epoca in cui la Commissione Ce, il cui ruolo istituzionale
si era notevolmente rafforzato sotto la presidenza Hallstein, ha non solo
ritenuto auspicabile un profondo processo di ristrutturazione
dell'agricoltura europea, soprattutto nei paesi come l'Italia dove questi
processi non erano stati ancora avviati, ma ha anche creduto che questo
obiettivo fosse politicamente e socialmente perseguibile e che intorno ad
esso si potesse quindi realizzare un ampio consenso di tutti gli interessati.
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Anche in questo caso, ci si può certo rammaricare che non tutti gli
obiettivi iniziali enunciati da Mansholt siano stati interamente raggiunti e
che la politica socio-strutturale comune sia sempre restata piuttosto
marginale nell'ambito della politica agricola comune. Ma ciò non va
interamente addebitato ai limiti del Piano Mansholt e al suo approccio
talvolta eccessivamente illuminista ai problemi. Molte delle responsabilità
ricadono invece sui governi, sia in fase di discussione delle proposte
concrete presentate successivamente dalla Commissione, sia, soprattutto,
in fase di applicazione delle misure adottate.
E' questo soprattutto il caso del nostro paese, in astratto uno dei principali
beneficiari potenziali delle direttive socio-strutturali emanate a seguito del
Piano Mansholt, in realtà uno dei paesi che è meno riuscito ad
approfittarne sul piano dell'adeguamento delle sue strutture di produzione.
L'esperienza deludente per il nostro paese non deve tuttavia farci perdere
di vista che è anche grazie alle misure scaturite dal Piano Mansholt che in
molti paesi del nord Europa l'agricoltura ha migliorato le sue
performances nel corso degli ultimi venti anni.
Alla luce dei dibattiti e dei confronti avvenuti ad ogni livello nei paesi
della Ce, nel Parlamento europeo e nel Comitato economico e sociale, la
Commissione presentò al Consiglio, il 5 maggio 1970, cinque proposte di
direttiva, contenenti misure concrete per l'applicazione dei principi
essenziali e degli indirizzi enunciati nel Memorandum, ed una proposta
modificata di regolamento concernente le associazioni dei produttori e le
relative unioni.
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Memorandum, visto che, tra tanti dibattiti e tante prese di posizione, si
notava vistosamente proprio l'assenza del Consiglio.
Anche se nelle proposte della Commissione era del tutto scomparso ogni
riferimento alle Unità di produzione e alle Imprese agricole moderne (che
avevano destato non poche perplessità), sostituito da un generico
riferimento alle aziende agricole "destinate a svilupparsi", e anche se il
requisito fondamentale per la concessione degli aiuti non era più una
determinata superficie, ma l'elaborazione da parte dell'imprenditore di un
apposito piano di sviluppo dell'azienda, le proposte di direttiva potevano
sostanzialmente considerarsi la traduzione, sul piano normativo e con
contenuti tecnici meglio definiti e precisati, delle politiche presentate nel
Memorandum. Su tali proposte si innestava pertanto il dibattito in corso in
tutti i paesi della Ce sugli indirizzi del Piano Mansholt, ora che essi si
erano tradotti in concrete proposte operative.
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Oltre alla reticenza di alcuni paesi in merito alle proposte avanzate da
Mansholt, il problema più difficile da risolvere era diventato quello del
finanziamento di tali misure. Di questo problema si era parlato, in
particolare, in una riunione informale del Consiglio nel dicembre 1970. La
Commissione aveva proposto che le misure strutturali fossero finanziate
per metà dalla Comunità e per metà dagli Stati membri. L'Italia aveva
invece ribadito la propria posizione, già espressa in precedenti occasioni, a
favore di un'assunzione dell'onere a completo carico della Comunità.
Anche se non risolutivi, gli incontri informali che Mansholt aveva avuto
nella seconda metà del 1970 lo avevano comunque convinto che il suo
disegno di collegare le proposte prezzi per la successiva campagna con il
programma di azioni socio-strutturali avrebbe potuto avere qualche
probabilità di successo. Il 15 febbraio 1971 la Commissione presentava,
infatti, al Consiglio una comunicazione ed un progetto di risoluzione per
un nuovo orientamento della politica agricola comune.
Il progetto comprendeva una prima parte relativa alla politica dei prezzi e
dei mercati da applicare per la campagna 1971/72 e una seconda parte
relativa alla riforma strutturale dell'agricoltura europea "da effettuare
rapidamente mediante azioni comuni". La Commissione chiariva
comunque che il progetto doveva essere considerato come un tutto unico,
e sottolineava in modo molto netto l'indissolubilità del legame tra politica
dei prezzi e dei mercati e politica delle strutture. Come tale, essa
affermava perciò la necessità di una decisione congiunta nei due settori
contemporaneamente.
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Tentando di mediare tra i vari interessi nazionali in materia di prezzi
agricoli per la nuova campagna ma cercando al tempo stesso di restare
fedele agli orientamenti enunciati in precedenza, la Commissione
proponeva di lasciare immutati - rispetto a quelli della campagna
precedente - i prezzi di alcuni prodotti agricoli (grano duro, segale,
granturco, tabacco) o di aumentarli leggermente (frumento tenero e riso).
Aumenti relativamente più consistenti venivano invece proposti per il
settore della carne bovina (10% in due anni) e per il latte (5%) mentre per
lo zucchero si proponeva una politica restrittiva dei prezzi e delle quantità
suscettibili di beneficiare della garanzia di prezzo.
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Per i capi azienda di età inferiore ai 55 anni, invece, era previsto un
premio unico calcolato sulla base della superficie agricola liberata;
b) misure in favore di chi intendeva continuare l'attività agricola: per
coloro che desideravano continuare l'attività agricola la
Commissione proponeva un regime selettivo di aiuti da concedere
a condizione che essi avessero una sufficiente capacità
professionale e che per la loro azienda fosse stato approvato un
apposito piano di sviluppo. Tale piano avrebbe dovuto dimostrare
che, una volta realizzato in capo a sei anni, l'azienda in fase di
ammodernamento sarebbe stata in grado di raggiungere, per
almeno due unità di lavoro, un reddito compreso tra 10.000 e
12.500 U.c. per unità di lavoro. Le principali misure consistevano:
nell'assegnazione a queste aziende delle superfici agricole liberate;
in un aiuto finanziario (sotto forma di abbuono sul tasso interesse
del 6% al massimo) agli investimenti necessari per realizzare il
piano di sviluppo; in una eventuale garanzia per i prestiti contratti.
Criteri più favorevoli di applicazione degli aiuti erano previsti per
le regioni più sfavorite dal punto di vista delle strutture;
c) informazione e formazione professionale degli agricoltori: per
favorire questo processo di ammodernamento dell'agricoltura era
previsto un regime di incoraggiamento riguardante la formazione e
il perfezionamento di consiglieri socio-economici specializzati,
come pure il modo di tenere la contabilità nelle aziende agricole;
d) miglioramento della commercializzazione dei prodotti agricoli: in
questa materia era previsto un regime di aiuti per la fase di avvio e
per gli investimenti, in favore di categorie e unioni di produttori, in
termini di abbuoni sul tasso d'interesse del 6% al massimo;
e) limitazione della superficie agricola utilizzata: veniva
raccomandato agli Stati membri di prendere le opportune
precauzioni affinché la superficie agricola utilizzata non fosse
ulteriormente estesa;
f) politica degli aiuti nazionali: per consentire un passaggio senza
traumi al nuovo sistema, era ammesso che gli Stati membri
potessero, ancora per cinque anni, accordare entro certi limiti aiuti
transitori e nazionali ad investimenti limitati in favore di coltivatori
di età inferiore ai 55 anni che non beneficiavano di altri aiuti.
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Il difficile varo della politica socio-strutturale comune in agricoltura.
Già nella mattinata del 15, ad apertura dei lavori, si era avuto un segno
premonitore delle nubi che si addensavano all'orizzonte, con la
manifestazione inscenata da alcuni giovani agricoltori belgi contro il
commissario Mansholt, conclusasi con l'introduzione nella sala di riunione
di alcune vacche, fra il panico degli uscieri e delle segretarie.
Anche gli ambienti agricoli di quasi tutti gli altri Stati membri erano, però
in fermento ed in vigile attesa di quanto i ministri avrebbero deciso a
Bruxelles. In realtà, com'era da prevedersi, considerata la posta in gioco,
in quel Consiglio agricolo non sarebbe stato deciso nulla, o quasi, sui temi
più scottanti: prezzi agricoli e misure socio-strutturali. L'unico punto su
cui le delegazioni si erano alla fine trovate d'accordo era la necessità di
fissare al più presto i prezzi, affinché la nuova campagna per i prodotti
lattiero-caseari e la carne bovina potesse iniziare alla data prevista del 1°
aprile.
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rivalutazione dei prezzi se non fosse stata affermata con chiarezza la
volontà politica di procedere senza indugio alla realizzazione di una vera
politica comune di miglioramento delle strutture, che contemplasse un
appropriato adattamento regionale.
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quali tendevano le misure strutturali proposte da Mansholt, qualche
sorpresa suscitava invece la posizione tedesca. Per quanto, infatti, la
Germania fosse impegnata da tempo in un'azione strutturale, peraltro con
qualche successo, si pensava che anch'essa avrebbe dovuto trarre
consistenti vantaggi dalle iniziative comunitarie, avendo un'agricoltura,
come quella italiana, formata da molte piccole imprese familiari fra le
meno competitive.
Come era emerso chiaramente nel corso dei dibattiti, l'opposizione tedesca
alle proposte di Mansholt era soprattutto dettata da preoccupazioni di
carattere finanziario. Se l'Italia chiedeva una completa
"comunitarizzazione" del finanziamento delle riforme, la Germania non
era, difatti, disposta ad accollarsi oneri per piani di riforma già avviati a
livello nazionali e che a quell'epoca si credeva dovessero andare in gran
parte a vantaggio di paesi, come l'Italia, che invece poco avevano fatto e
poco dimostravano di saper fare.
In vista della stretta finale sui nuovi orientamenti della politica agricola
comunitaria, prevista per il giorno 22 marzo e successivi, data del nuovo
Consiglio agricolo, gli interessi agricoli andavano intanto accentuando la
loro pressione sul piano nazionale e sul piano comunitario, con azioni
dimostrative sui rispettivi governi e sul Consiglio, rivolte quasi
unicamente ad ottenere una rivalutazione dei prezzi più consistente di
quella proposta dalla Commissione. Anche il Parlamento europeo si era
mosso in tal senso chiedendo un aumento medio dei prezzi del 5%.
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Il Consiglio si era aperto a Bruxelles il pomeriggio del 22 marzo 1971, in
un clima di viva tensione che, il giorno dopo, sarebbe sfociata in una
imponente manifestazione di circa 80.000 agricoltori, provenienti in parte
anche dagli altri paesi delle Ce. La manifestazione avrebbe avuto momenti
di estrema violenza e negli scontri con la polizia si sarebbe avuto un
morto, numerosi feriti e gravi danni.
Alla fine, dopo 45 ore di acceso dibattito, un primo accordo globale era
stato raggiunto su una nuova proposta di risoluzione della Commissione
che, cercando di conservare lo spirito e i principi fondamentali della
proposta iniziale, recepiva alcune delle istanze avanzate nel corso del
dibattito.
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In particolare, il regime di aiuti a favore di coloro che cessavano l'attività
agricola sarebbe stato così articolato: a) un premio, non imputabile al
Feoga, calcolato in funzione della superficie agricola liberata; b)
un'indennità annua di 600 U.c. (al posto delle 1000 U.c. proposte dalla
Commissione) per gli agricoltori tra i 55 e i 65 anni che cessavano
l'attività; c) un regime di aiuti, a carico degli Stati membri, per gli
agricoltori che desideravano trasferirsi in un'attività extra-agricola, e per i
figli degli agricoltori di condizioni modeste.
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attuazione delle azioni comuni, senza che ciò significasse rimettere in
discussione le misure già decise.
Profezia, questa, che si sarebbe puntualmente avverata, non solo nel breve
ma anche nel lungo periodo.
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LA REVISIONE DELLA POLITICA AGRICOLA
COMUNE *
(Ottobre 1982)
Certo, non sono mancati in questi venti anni difficoltà serie o incidenti di
percorso più o meno gravi, talvolta attribuibili proprio a taluni aspetti della
politica agricola comune: è tuttavia riconfortante poter constatare
retrospettivamente che nessuno di essi è stato sufficiente a interrompere la
dinamica dell'integrazione europea e che si sia sempre riusciti alla fine a
ritrovare in sé la forza per reagire alle tentazioni nazionalistiche e alla
minaccia di degradazione della coesione comunitaria.
E' vero che che la politica agricola comune è conosciuta dal grande
pubblico, attraverso le cronache della stampa d'informazione, più per le
dispute a cui essa talvolta dà luogo, soprattutto in occasione delle annuali
"maratone" dei ministri del1'agricoltura sui prezzi agricoli, o per l'apparire
di qualche disfunzione nel funzionamento dei suoi meccanismi, che per i
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suoi meriti storici nella vicenda europea o per i benefici concreti che essa
arreca a milioni di agricoltori e di consumatori nella Comunità.
Due sono, a mio avviso, i punti di forza della politica agricola comune,
che hanno reso possibili tali sviluppi:
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E' significativo, a questo proposito, che malgrado le critiche di cui la
politica agricola comune è stata fatta oggetto nel tempo e malgrado le
proposte di riforma che sono state avanzate a questo riguardo, ben pochi
hanno finora messo in causa il fondamento di tali principi. Qualcuno fra i
critici più severi, ha semmai auspicato che si portasse fino alle estreme
conseguenze l'applicazione di tali principi.
Ciò non significa, beninteso, che la politica agricola comune debba restare
definitivamente imbalsamata nella sua veste originale o che non si possa
mantenerne la piena vitalità mediante l'afflusso di nuove energie, ivi
comprese quelle derivanti dalla critica costruttiva. Al contrario, è proprio
in questa flessibilità, pur nel rispetto dei principi fondamentali, che risiede
l'altro punto di forza della politica agricola comune;
Molte di queste iniziative vanno intese non soltanto come uno sforzo di
razionalizzazione e adeguamento della politica agricola comune alle nuove
esigenze che sono via via emerse dal suo interno, ma anche come la
risposta politica alle minacce di cedimento della coesione comunitaria che
sono apparse di tanto in tanto nel cielo del1'Europa.
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svantaggiate, e il collaterale sforzo di miglioramento delle organizzazioni
comuni di mercato per le produzioni mediterranee;
Alle soglie degli anni Ottanta, una nuova fase di riflessione critica si è
aperta per la politica agricola comune, come del resto per l'insieme delle
politiche comunitarie. Se è vero che in questa fase talune preoccupazioni
inerenti al funzionamento della politica agricola comune e alle
conseguenze indesiderate che esso determina possono essere apparse
talvolta predominanti, sbaglierebbe, tuttavia, chi collocasse questa
riconsiderazione critica delle diverse politiche comuni nell'ottica di un
mero ridimensionamento finanziario del ruolo della Comunità o nella
prospettiva di una lenta quanto irreversibile involuzione del processo
d'integrazione. Al contrario, come la Commissione non ha mancato di
sottolineare, si tratta più che mai di consolidare le basi della solidarietà
comunitaria e di imprimere un impulso nuovo alle politiche comuni, che
consentano alla Comunità di far fronte alle sfide degli anni Ottanta.
E' in questa ottica che vanno inseriti gli sforzi che la Commissione
conduce ormai da anni per una più rigorosa gestione della spesa pubblica
ed in particolare quella destinata al sostegno dei mercati agricoli. A questo
proposito, non si tratta tanto di tracciare limiti più o meno ristretti ed
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arbitrari, all'espansione della spesa agricola, quanto invece di garantire a
questa spesa una funzione economica che vada al di là della semplice
erogazione assistenziale.
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garanzia comunitaria verrebbe ridotta o comunque opportunamente
modificata. Si tratta,in sostanza, di attivare un meccanismo che renda in un
modo o nel1'altro i produttori partecipi dell'onere di smaltimento delle
eccedenze di produzione.
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Non è qui il caso di elencare una ad una le diverse misure che la
Commissione ha già proposto a questo riguardo o che sono già entrate in
vigore. Per l'importanza che esse rivestono per un paese come l'Italia, ci
pare tuttavia doveroso citare le recenti modifiche approvate alla normativa
che regola l'intervento comunitario nel settore del vino, nonché quelle,
ancora in discussione, nel settore degli ortofrutticoli e dell'olio di oliva.
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I limiti di garanzia e la PAC*
(Dicembre 1984 – originale in francese)
Introduzione
Nel momento stesso in cui ha dato avvio alla realizzazione della politica
agraria comune (PAC), assumendosi la responsabilità della sua gestione, la
Comunità europea ha accettato anche di addossarsi l'onere finanziario
derivante dall'applicazione delle misure in cui questa politica si
concretizza. A tale scopo è stato creato, nel 1962, un apposito strumento
finanziario, il Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia
(FEOGA).
Per quanto riguarda, invece, la politica comune dei prezzi e dei mercati
agricoli, che assorbe senza dubbio la maggior parte delle risorse
finanziarie del FEOGA (94,5% nel 1983) e persino del bilancio generale
delle Comunità (61,4% nel 1983), in linea di massima la responsabilità
finanziaria spetta interamente ed esclusivamente alla Comunità (sezione
Garanzia del FEOGA).
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Questo sistema, cui va riconosciuto il merito di aver contribuito a garantire
la sicurezza degli approvvigionamenti, a stimolare la produttività
dell'agricoltura europea e ad elevare i redditi agricoli, ha avuto peraltro
l'effetto di indurre gli agricoltori a perdere di vista, col tempo, la realtà dei
mercati e ad espandere la produzione oltre i limiti della capacità di
assorbimento del mercato stesso. Oltre ad avere uno sbocco assicurato per
la loro produzione, essi potevano contare su prezzi di sostegno garantiti,
spesso superiori ai prezzi di mercato in quanto non soggetti alle leggi della
concorrenza. A farne le spese era, tuttavia, il contribuente europeo,
chiamato a far fronte all'onere supplementare gravante sulle finanze
pubbliche in conseguenza dell'applicazione di tale sistema.
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proposito, nonché una sintesi delle principali misure equivalenti ai limiti
di garanzia, in vigore nel quadro della PAC. Nella prima parte, invece, si è
inteso fornire una serie di ragguagli d'ordine più generale, concernenti in
particolare le origini e le motivazioni del regime in oggetto, l'importanza
economica dei settori interessati, ecc.
Gli antefatti
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riforma della politica agraria comune (COM(73) 1850 def.), concernente il
periodo 1973-1978, nel quale essa avanzava tra l'altro una serie di
proposte intese a sanare gli squilibri esistenti su taluni mercati, in
particolare nel settore cerealicolo e in quello lattiero. Riguardo a
quest'ultimo, caratterizzato da persistenti e cospicue eccedenze di
produzione, il memorandum prospettava la possibilità di "un contributo
temporaneo a carico del produttore, riscosso sul latte consegnato alle
latterie e non trasferito sul consumatore". Sono tuttavia occorsi altri
quattro anni per vincere le reticenze del Consiglio e tradurre in pratica
questa idea, con l'applicazione di un "prelievo di corresponsabilità" sulle
consegne di latte alle latterie.
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tali modifiche, dal 1° luglio 1981 la corresponsabilità finanziaria dei
produttori per lo smaltimento delle rispettive eccedenze, sino ad allora
parziale, è diventata totale.
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L'obiettivo perseguito resta comunque quello di associare più direttamente
i produttori all'assunzione dell'onere derivante dall'accrescimento delle
eccedenze, evitando di ridimensionare il livello di produzione già
raggiunto dall'agricoltura europea al momento dell'istituzione dei limiti di
garanzia.
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b) riduzione degli aiuti concessi nel quadro della PAC, se la quantità
prodotta supera il limite di garanzia;
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prezzo d'intervento o di taluni contributi comunitari. Un passo decisivo nel
senso del controllo della produzione e del contenimento delle eccedenze è
stato inoltre compiuto in sede di decisioni sui prezzi per la campagna
1984-1985, con l'istituzione, nel settore lattiero-caseario, di un regime di
quote di produzione che modifica le modalità di applicazione del regime
dei limiti di garanzia vigente nel settore stesso. Benché non privo di
inconvenienti, questo provvedimento si è dimostrato praticamente
inevitabile, dal momento che in passato il Consiglio non aveva attuato una
politica dei prezzi sufficientemente restrittiva da consentire il ripristino
dell'equilibrio sul mercato lattiero-caseario.
Oltre ai limiti di garanzia veri e propri, sono in vigore, nel quadro delle
organizzazioni comuni di mercato, altre misure limitative della garanzia e
aventi un'incidenza diretta sui prezzi o sull'importo degli aiuti concessi
nell'ambito della PAC.
Altre misure restrittive sono in vigore nei settori dell'olio d'oliva, del vino,
del tabacco, del luppolo e di talune frutta sciroppate.
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Conclusioni
Negli Stati Uniti, ad esempio, la legge agraria (Farm Bill) del 1981
prevede la possibilità di imporre limiti alla superficie coltivata a cereali,
come condizione per poter beneficiare del programma di sostegno dei
prezzi. La partecipazione a tali programmi è facoltativa: agli agricoltori è
dato di scegliere tra la partecipazione al programma di riduzione delle
superfici seminate, che dà diritto al sostegno dei prezzi, e la rinuncia a
quest'ultimo, con in cambio la libertà di coltivare senza limiti di superficie.
Inoltre, sempre negli Stati Uniti, per impedire la formazione di eccedenze,
viene prelevata una tassa sui prodotti lattiero-caseari immessi in
commercio. Viene riscossa anche una seconda tassa, successivamente
rimborsata ai produttori che riducono le vendite in una determinata
misura.
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a) una disciplina di mercato basata sulla legge ferrea dei prezzi, secondo la
quale, in caso di eccedenze, l'equilibrio di mercato va ripristinato mediante
una riduzione anche sostanziale dei prezzi dei prodotti agricoli;
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Riforma della Pac e agricoltura europea
Sig. Presidente,
Signore e Signori,
Alle soglie degli anni Novanta, la politica agricola comune è entrata in una
nuova fase di riforma fondamentale dei suoi meccanismi, che è destinata
ad influenzare profondamente lo sviluppo dell'agricoltura europea lungo
tutto il corso del prossimo decennio, ma i cui effetti si faranno sentire
anche al di fuori del solo settore agricolo.
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La riforma della Pac potrà così entrare in vigore, come previsto, a partire
dalla prossima campagna. Molte delle nuove disposizioni cominceranno,
tuttavia, a produrre effetti tangibili e imporranno decisioni assai cruciali
per gli agricoltori fin dalle prossime semine d'autunno. E' quindi quanto
mai opportuno cercare di comprendere meglio sia la concezione generale
che ha ispirato la riforma che le principali innovazioni che essa introduce
non solo nel funzionamento della Pac, ma probabilmente anche nel
modello di sviluppo dell'agricoltura europea per i prossimi anni. E'
essenzialmente questo l'obiettivo che mi sono proposto con questa
relazione anche se sono consapevole che un tema di questa natura non può
essere adeguatamente sviluppato nei limiti di tempo di cui disponiamo.
Alla base della nuova riforma della PAC vi è una riflessione approfondita
della Commissione sul funzionamento di questa politica, sui problemi a
cui essa si è trovata confrontata nel corso degli anni, sulla scarsa efficacia
delle misure messe in atto, soprattutto negli anni Ottanta, per porvi
rimedio, nonché sui possibili orientamenti per gli anni a venire.
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tonnellate, generando una crescita vertiginosa degli stocks presso gli
organismi d'intervento. Questi ultimi hanno infatti superato, per la prima
volta, il livello record di 26 milioni di tonnellate, malgrado una
congiuntura internazionale tutt'altro che sfavorevole per le esportazioni
comunitarie;
59
- il mantenimento in attività di un numero sufficientemente elevato di
agricoltori, favorendo al tempo stesso una certa mobilità dei fattori di
produzione, ed in primo luogo della terra.
Vale la pena, peraltro, di rilevare che il varo di questa riforma coincide con
quella che avrebbe dovuto essere la fase finale del negoziato multilaterale
dell'Uruguay Round. Essa risente, perciò, inevitabilmente, delle
preoccupazioni che stanno alla base di questo negoziato, prima fra tutte la
necessità di favorire una maggiore liberalizzazione degli scambi e di
stabilizzare i mercati agricoli mondiali, in particolare attraverso un più
rigoroso controllo della produzione e delle sovvenzioni alle esportazioni.
60
1°) una riduzione sostanziale dei prezzi dei cereali intesa a frenare o,
piuttosto, ad invertire la perdita di competitività di questi ultimi
nell'alimentazione animale rispetto ai prodotti sostitutivi. La riduzione dei
prezzi dei cereali di circa il 30% rispetto ai livelli attuali dovrebbe
consentire un abbassamento dei costi di produzione nel settore
dell'allevamento, in particolare per quanto riguarda il settore porcino e
avicolo e in misura inferiore nell'allevamento bovino. Ciò ha motivato in
gran parte la riduzione dei prezzi istituzionali della carne bovina del 15% e
dei prezzi d'intervento del burro del 5%. Nel caso della carne bovina si è
tenuto tuttavia anche conto della necessità di non deteriorare la
competitività della carne bovina rispetto alle carni bianche concorrenti, i
cui prezzi sono destinati a diminuire a seguito della forte riduzione del
prezzo dei cereali;
61
fuori coltura dei seminativi usufruisce di un regime di compensazione per
la perdita di reddito che ne deriva.
62
- in secondo luogo, rendendo possibile l'uso per fini non agricoli
delle terre che non sia possibile utilizzare per fini di
ristrutturazione oppure incentivando le autorità locali a mantenere
le terre abbandonate in condizioni ambientali soddisfacenti;
- infine, un salto qualitativo e quantitativo nel volume delle risorse
finanziarie comunitarie che vengono mobilizzate con questa
azione. Il costo complessivo a carico del bilancio comunitario di
questa azione è infatti di 1,8 miliardi di ECU su cinque anni, vale a
dire una cifra suscettibile di interessare alcune centinaia di migliaia
di aziende a livello comunitario, di cui una quota consistente
potrebbe situarsi nel nostro paese.
63
anche per quel che attiene alle modifiche apportate alle diverse
organizzazioni comuni di mercato.
In realtà si tratta di una forma di sostegno dei redditi che, al pari del
sostegno dei prezzi, è legata al prodotto e non alla persona e quindi è a
contenuto economico e non meramente sociale, alla stessa stregua degli
aiuti concessi ai produttori di semi oleosi o di tabacco.
Mi sia consentito a questo proposito rilevare come non sempre siano stati
colti e valutati appieno, nel nostro paese, le novità ed i vantaggi relativi
che possono derivare da una riforma di questa natura per un'agricoltura
come quella italiana, formata in gran parte di piccole e medie aziende
agricole, spesso strutturalmente deboli, la cui sopravvivenza è tuttavia
necessaria per il mantenimento del tessuto socio-economico nelle regioni
rurali e la difesa del territorio.
Novità e vantaggi che vanno misurati non tanto alla luce della
continuazione dello statu quo, vale a dire del mantenimento delle
posizioni acquisite in termini di produzione e di redditi, quanto invece
dell'alternativa rappresentata dalla prosecuzione o, più probabilmente, del
rafforzamento delle misure restrittive in atto onde pervenire a risultati
comparabili a quelli che ci si attende dalla riforma in termini di
riequilibrio dei mercati.
Basti ricordare, al riguardo, che gli stabilizzatori introdotti nel 1988 hanno
già comportato una riduzione non compensata dei prezzi di sostegno dei
cereali di circa il 10% e una riduzione ancora più elevata dei prezzi al
produttore, peraltro con scarsi risultati sui livelli produttivi, per rendersi
conto di quale dovrebbe essere l'ulteriore riduzione dei prezzi necessaria
per ridurre significativamente le previste eccedenze produttive.
64
Alla luce di queste considerazioni, ho l'impressione che non sia stato
sufficientemente percepito il fatto che l'attuale riforma della politica
agricola comune, grazie ai meccanismi di compensazione per la riduzione
dei prezzi che essa prevede, anche se comporterà sacrifici tutt'altro che
irrilevanti per alcuni agricoltori - ma certamente anche vantaggi
significativi per altri - permette tuttavia di attenuare le conseguenze
negative per le aziende e le regioni meno competitive che deriverebbero
dalla prosecuzione e dal rafforzamento della politica restrittiva dei prezzi e
dei mercati in atto da alcuni anni nel quadro della Pac.
65
colturali, sul miglioramento qualitativo della produzione,
sull'ottimizzazione dei margini di redditività, ecc.
Quel che la riforma della Pac rischia dunque di mettere in crisi non è lo
sviluppo dell'agricoltura in quanto tale, ma un certo modello di sviluppo
dell'agricoltura, vale a dire il modello intensivo di produzione, che è alla
base della formazione delle attuali eccedenze produttive ed è in parte
responsabile - anche se non è certamente il solo fattore esplicativo - dei
fenomeni di degrado ambientale, abbandono del territorio e di
sfruttamento eccessivo delle risorse naturali.
Signor Presidente,
Signore e Signori,
66
sane e più compatibili con le esigenze di protezione del1'ambiente e di
salvaguardia dello spazio naturale e quindi per assicurare la piena
integrazione di questo settore nel resto dell’economia e della società.
67
Parte seconda
69
L’Italia e la politica agricola comune*
(1973)
La politica agricola comunitaria (PAC), a poco più di dieci anni dal suo
avvio, viene oggi da più parti, e sempre più insistentemente, sottoposta al
fuoco concentrico delle critiche. Anche se ne vengono riconosciuti i meriti
storici, perché ha reso politicamente possibile l’attuale stato di
avanzamento dell’integrazione europea, si fa sempre più strada, anche
all’interno delle stesse categorie agricole, nel nome delle quali quella
politica è stata decisa, la consapevolezza che gli enormi sforzi finanziari
della Cee non sono valsi finora a far conseguire gli obiettivi posti dall’art.
39 del Trattato di Roma, e cioè un equo reddito per i produttori agricoli e
condizioni soddisfacenti per i consumatori.
Le critiche alla PAC, per la verità, non sono nuove né, tanto meno, recenti.
Dacché, infatti, essa ha preso a privilegiare gli obiettivi di mercato rispetto
agli obiettivi di produzione – anteponendo una politica dei prezzi con
garanzia assoluta di smercio per taluni prodotti, ad una politica delle
strutture che contribuisse al ravvicinamento dei costi di produzione - era
già apparso chiaro che si sarebbero riprodotti a livello comunitario i
problemi di eccedenze che già si erano talvolta dovuti lamentare a livello
nazionale.
Era, infatti, inevitabile che il regime dei prezzi unici a livello comunitario,
in un contesto di costi tanto variabili come quelli che si riscontrano nelle
numerose realtà agricole comunitarie, avrebbe prodotto sprechi e rendite
di posizione a favore delle regioni più favorite, e avrebbe accentuato le
disparità dei redditi all’interno dello stesso settore agricolo.
Tutto ciò non è un’acquisizione recente, anche se, ormai si può ragionare
in termini di inoppugnabili consuntivi, anziché di pur facili profezie, come
quelle che non mancarono di essere fatte, dieci o quindici anni fa, anche
nel nostro Paese. Ne sono del resto convinti anche autorevoli esponenti
della stessa Commissione Cee che hanno chiesto ed ottenuto dal Consiglio
di aprire questo autunno un dibattito sulla PAC, in vista di una revisione
dei criteri e degli strumenti con cui essa ha operato finora.
* Working paper per la Giornata di studio “Un Programma per l’Europa” sulla
partecipazione del sistema politico, economico e sociale italiano a quello europeo
occidentale, Istituto Affari Internazionali (IAI), Roma, 22 novembre 1973.
71
Siamo, dunque, alla vigilia di una svolta nella politica agricola
comunitaria? E’ prematuro e forse azzardato darlo per scontato, anche se
una tendenza verso qualificanti indirizzi innovativi sembra ormai
irreversibile. Quel che è certo, comunque, è che ogni qualvolta a Bruxelles
si è tentato di cambiar strada nella strategia della PAC, la volontà
riformatrice si è scontrata, perdendo, con potenti interessi nazionalistici,
espressione, a loro volta, di altrettanto potenti interessi categoriali.
Il tipo di rappresentanza delle istanze agricole consentita finora nella Cee
ha anzi favorito, come vedremo, con la pressoché unanime richiesta di
ulteriori aumenti dei prezzi, la saldatura in un unico blocco, “potente come
un rullo compressore”, come è stato scritto, dei piccoli contadini, con costi
di produzione prossimi ai prezzi, e i grossi produttori, beneficiari nel
complesso di gigantesche rendite differenziali.
Oggi che il tradizionale pilastro della PAC, la politica dei prezzi e dei
mercati, sembra destinato a subire ritocchi, più o meno di rilievo, quanto
meno nelle sue modalità di esercizio, e che si profilano spostamenti di
risorse finanziarie da questo tipo di intervento verso obiettivi fino ad oggi
trascurati, come gli interventi strutturali, gli interventi per le zone sfavorite
e forse anche verso aiuti diretti al reddito degli agricoltori, come si
rifletterà questa prospettiva nel nostro Paese, a livello di linea di governo e
a livello degli atteggiamenti che assumeranno le principali organizzazioni
degli agricoltori?
E’ chiaro che una risposta a questo interrogativo non può che fondarsi su
un esame retrospettivo ed attuale delle varie posizioni e dei diversi modi di
porsi degli organismi citati di fronte alla PAC, così come è andata
delineandosi fino ad oggi.
L’Italia e la politica agricola comune
L’agricoltura è forse il settore in cui più chiaramente si rileva la debolezza
della presenza italiana a livello comunitario. Questa debolezza, che non
raramente si è configurata come una vera e propria carenza di una linea
politica lungimirante e all’altezza dei problemi posti dall’integrazione
della nostra agricoltura con quella europea più avanzata, è solo in parte il
riflesso della predominanza sul tavolo delle trattative degli interessi
agricoli della Francia di De Gaulle o del1’Olanda di Mansholt, o
dell’interesse all’apertura dei mercati da parte dell’industria tedesca ed
italiana.
In realtà, per quanto i termini della politica agricola comune siano stati fin
dall’inizio sempre accanitamente contrattati anche sulla base di interessi
politici più generali, a cui talvolta gli interessi agricoli di questo o quel
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Paese sono stati sacrificati, non v’è dubbio che il contributo del nostro
Paese alla costruzione di una politica agricola comunitaria diversa da
quella che oggi si è in procinto di revisionare, sia stato abbastanza
modesto.
Se ciò è accaduto, non è soltanto il mero risultato di un incontrollabile
esito del gioco degli interessi nazionalistici. “Inutile recriminare o
assumere atteggiamenti risentiti – ha scritto a questo proposito il portavoce
ufficiale della Comunità, l’italiano Bino Olivi - nella Comunità si ha
quello che ci si è conquistato, niente di più” (1). E l’Italia, per una serie di
errori e di leggerezze, che si accumulano dall’inizio della PAC, ha finito,
in effetti, per non avere il peso politico che pure avrebbe potuto
conquistarsi con una diversa linea di politica agricola a livello comunitario
e a livello nazionale.
Il bilancio della partecipazione italiana alla PAC, coi pochi successi ed i
molti smacchi, non tanto in rapporto alle istanze che si andavano
rivendicando, ma in rapporto alle reali esigenze di rinnovamento della
nostra agricoltura, è già stato fatto da altri e qui possiamo solo riprenderlo
per sommi capi.
Quel che ci preme, anzitutto, di porre in risalto sono le condizioni di
particolare arretratezza in cui la nostra agricoltura si trovava all’avvio
della PAC e si trova tutt’ora: arretratezza nelle strutture agrarie,
arretratezza nelle strutture di mercato, arretratezza nei livelli di
produttività, nei sistemi di conduzione, nei rapporti contrattuali.
All’avvio del Mercato Comune – ma la situazione non è sostanzialmente
cambiata da allora - l’Italia registrava, infatti, la più alta percentuale di
aziende inferiori ai dieci ettari fra tutti i sei paesi della Comunità: ben
1’84,2%, contro il 52,7% della Francia, il 65,1% dei Paesi Bassi e il
69,4% della Repubblica Federale Tedesca. Le aziende con superficie
inferiore ad un ettaro erano addirittura il 33,6% del totale.
Prevalente era la conduzione diretta (circa il 60% contro il 44% della
Francia); consistente la mezzadria (circa 1’11% contro il 2% della Francia,
mentre negli altri paesi questo rapporto contrattuale è del tutto
sconosciuto); la conduzione in affitto riguardava, invece, solo il 7,9% delle
aziende, contro il 19% della Francia, il 26% del Belgio e il 29,4% nei
Paesi Bassi.
Anche dal punto di vista delle tecniche di produzione il nostro Paese si
trovava in netto ritardo rispetto agli altri paesi membri. Il consumo dei
concimi per ettaro era infatti pari alla metà di quello francese e ad un
73
quarto di quello tedesco; il parco macchine addirittura un terzo; l’azione
divulgativa del tutto insufficiente.
Tutto ciò spiega, unitamente al concorso di fattori pedo-climatici talvolta
decisivi, la scarsità delle rese (20 q/ha per il grano, contro i circa 30 della
Francia) e il malessere di un’agricoltura estremamente squilibrata da una
regione all’altra e non idonea ad alimentare la popolazione (infatti l’Italia
era diventato il secondo paese importatore agricolo del Mercato Comune,
dopo la Germania).
Sul piano delle strutture di commercializzazione e dell’organizzazione dei
mercati interni, l’arretratezza del nostro Paese era altrettanto marcata:
modesto era l’intervento dello Stato e limitata la rete delle cooperative di
produzione e di commercializzazione. Tutto questo rendeva in partenza la
nostra agricoltura estremamente debole e del tutto indifesa di fronte al
processo di integrazione comunitaria.
Si doveva, allora, rifiutare o rinviare il processo di integrazione della
nostra agricoltura con quella degli altri paesi, solo perché ci presentavamo
in condizioni di debolezza? Certamente questa alternativa avrebbe
comportato un rallentamento nella costruzione dell’edificio comunitario
senza contare il peso dei problemi politici, economici e sociali che si
sarebbero aperti.
L’alternativa reale era, in effetti, un’altra, peraltro già emersa chiaramente
nella Conferenza di Stresa del 1958: il processo di integrazione non poteva
essere compromesso con l’isolamento dell’agricoltura, ma esso avrebbe
dovuto favorire, anzitutto, un necessario adattamento strutturale delle
agricolture più deboli, ed in particolare di quella italiana, per rimuovere o
attenuare i fattori di differenziazione delle strutture produttive e dei costi
di produzione.
La stessa politica di mercato avrebbe dovuto essere orientata al
miglioramento della produttività, più che al reddito complessivo. Tutto
questo, nel quadro di una politica regionale che attenuasse gli squilibri e di
una politica sociale che ponesse rimedio ai problemi emergenti dagli
interventi sul mercato e sulle strutture agricole.
Le cose, com’è noto, sono andate ben diversamente, tant’è vero che
mentre sono già dieci anni che la politica di mercato va avanti, solo oggi si
incominciano ad apprestare gli strumenti per gli interventi sulle strutture
agricole e solo da qualche tempo si incomincia a parlare di politica sociale
e regionale a livello comunitario.
74
Di questa situazione, particolarmente gravosa per il nostro Paese, non si
può non far carico, unitamente alla rilevanza degli interessi nazionalistici
dei nostri partner, al tipo di scelte operate dalle nostre rappresentanze in
sede comunitaria e alla carenza di una vera politica di riforma della nostra
agricoltura, sul piano nazionale.
Scontata, infatti, la necessità che l’integrazione si dovesse estendere fin
dall’inizio anche al settore agricolo, quello che non è si riusciti ad evitare è
che la PAC fosse avviata esclusivamente sul binario senza sbocchi della
politica dei prezzi. Per giunta, quando si è trattato di definire il sistema di
finanziamento della PAC, fu proprio il nostro Paese a chiedere, ottenendo
un successo di cui ancora la nostra agricoltura paga le conseguenze, di
bloccare sui 205 milioni di UC la spesa della sezione Orientamento del
Feoga, che doveva finanziare la politica delle strutture.
Dopo aver accettato, nel 1962, un regolamento finanziario che, per anni,
avrebbe condannato l’Italia a sovvenzionare i costi di smaltimento delle
eccedenze cerealicole della Francia e lattiero-casearie dell’Olanda, si è
assistito, come ha scritto Bino Olivi, ad una faticosa politica di
“rattrapage” da parte del nostro Paese, nel tentativo di recuperare
posizioni in realtà ormai compromesse.
Ma, invece di farsi portatore di una reale politica alternativa o quanto
meno integrativa di quella finanziariamente pesantissima, dei prezzi e dei
mercati, il nostro Paese ha continuato a battersi ancora per altri lunghi anni
per obbiettivi sostanzialmente limitati ed ottenuti a caro prezzo:
l’estensione dell’organizzazione comune dei mercati ai prodotti di
maggior interesse per l’Italia (ortofrutticoli, tabacco, barbabietola, olio e
vino) e la riduzione della partecipazione italiana al finanziamento della
PAC.
E’ solo nel marzo 1971, dopo una lunga e generale riflessione critica sulle
proposte di riforma strutturale dell’agricoltura contenute nel
“memorandum Mansholt”, che 1’Italia ha cominciato a puntare sulla
politica degli interventi strutturali, senza, tuttavia, mostrare di voler
modificare atteggiamento sulla politica dei prezzi e dei mercati. Il
successo non è mancato; ma il volume dei mezzi finanziari utilizzabili per
gli interventi sulle strutture è risultato fortemente condizionato e limitato
dalla scarsa disponibilità consentita da un’ancora egemone politica dei
prezzi e dei mercati.
Senza voler approfondire l’esame della partecipazione dell’Italia alla PAC,
resta, comunque, indiscutibile che, per quanto si sia posto rimedio ad
alcuni malanni che caratterizzavano soprattutto la nostra agricoltura prima
75
dell’avvio della PAC, come la instabilità dei prezzi e dei mercati,
sopravvivano ancora oggi quasi tutti i fattori di inferiorità strutturale della
nostra agricoltura rispetto a quella degli altri paesi della Cee. Solo in pochi
settori essa è, infatti, competitiva sui mercati comunitari; la maglia
poderale è ancora troppo pletorica, le strutture associative poco sviluppate;
la bilancia alimentare sempre più deficitaria, le distorsioni produttive
ancora più vistose.
In conclusione, anche se il bilancio di tale partecipazione non è fatto solo
di poste negative, quelle positive sono certamente quantitativamente e
qualitativamente modeste rispetto a quelle che potevano essere registrate a
consuntivo di dieci anni di PAC, con una diversa e più incisiva presenza
italiana a livello comunitario, senza, peraltro, che fosse necessario
assumere posizioni di esasperato nazionalismo, che qui non si vogliono
certo incoraggiare.
Il fatto è che, nemmeno sul piano interno, 1’integrazione della nostra
agricoltura nella Comunità ha stimolato quelle riforme strutturali in grado
di porla a livello delle economie agricole europee più avanzate. Si è
continuato, invece, a perseguire obiettivi settoriali senza che fosse peraltro
superata la concezione assistenzialistica e sostanzialmente paternalistica
dell’intervento pubblico in agricoltura che qualifica da sempre la nostra
politica agraria.
Anche quando qualche beneficio è stato conquistato nella trattativa
europea per la nostra agricoltura, o per una fetta di essa, spesso si son
dovuti lamentare ritardi, strozzature, imprevidenza nella fase di
utilizzazione degli strumenti e dei mezzi finanziari messi a disposizione
della Cee.
Significativo è l’esempio dei contributi messi a disposizione dalla Cee per
gli interventi strutturali in agricoltura. Un rapporto ufficiale della
Comunità rendeva noto, un anno fa, che i contributi utilizzati a questo
titolo dall’Italia entro il 1971 ammontavano, infatti, soltanto al 6% circa di
quelli messi a disposizione, contro il 34% utilizzati dall’Olanda. E’ anche
questa mancanza di immediati strumenti amministrativi di attuazione della
PAC, che ha indotto Bino Olivi a definire la partecipazione italiana alla
PAC un vero “disastro contabile”.
Fece scalpore, a questo proposito, la sferzante battuta pronunciata nel
marzo 1972 dal ministro dell’agricoltura francese Cointat, quando, alla
fine di una strenua trattativa, fu deciso, su proposta italiana, d’ampliare le
possibilità d’intervento della Cee a favore degli agricoltori più sfavoriti.
“Ma si dia pure all’Italia quello che vuole, - affermò allora il ministro
76
francese - tanto non si metteranno mai in condizioni di sfruttarlo”. Il
nostro ministro Natali si risentì, ma da allora sono passati diciotto mesi
senza che siano state ancora varate le leggi necessarie per godere dei
finanziamenti Cee.
Del resto, un concetto non dissimile esprime anche il Governatore della
Banca d’Italia, quando, nella sua ultima relazione all’Assemblea dei
partecipanti, afferma che “da parte nostra sono stati richiesti concorsi
finanziari agli organi della Comunità per promuovere l’adattamento delle
strutture produttive; ma l’insistenza con la quale abbiamo invocato quei
concorsi è stata pari alla nostra incapacità di utilizzare quelli offertici”.
Ma questa, come s’è detto, non vuole essere una rassegna di quanto l’Italia
abbia o meno ottenuto finora dalla PAC. Vogliamo invece vedere di quali
istanze si siano fatti finora portatori i nostri negoziatori della PAC a
Bruxelles; quali realtà agricole essi esprimono; quali intrecci di rapporti si
siano istituiti tra organizzazioni di categoria operanti nel settore agricolo e
gli esponenti del nostro ministero dell’agricoltura che contrattano per
l’Italia i termini della PAC.
La Cee, è stato detto, offre il quadro di un negoziato permanente. E’ chiaro
perciò che la partecipazione di ciascun paese è condizionata, oltre che da
una serie di variabili politiche interne ed esterne, anche della qualità e
dalla forza dei gruppi di pressione che riescono a farsi rappresentare a
Bruxelles, non solo negli organismi consultivi istituzionalmente previsti,
ma anche all’interno delle stesse delegazioni governative dei vari paesi.
La politica agraria, infatti - e non solo nel nostro paese - è generalmente
frutto di una composizione, più o meno riuscita, degli interessi corporativi
delle organizzazioni di categoria che egemonizzano il settore, più che di
libere scelte programmatiche finalizzate agli interessi più generali degli
stessi agricoltori e dell’intera collettività.
Questo è tanto più vero quanto più arretrate sono le condizioni strutturali
dell’agricoltura e quanto più stretto è il collegamento politico di tali
organizzazioni con i detentori delle leve della politica agraria. Due
condizioni, queste, che certo non difettano nella realtà italiana.
I gruppi di pressione agrari
La scena della politica agricola è dominata, nel nostro paese, oggi come
ieri, dall’incombente presenza di tre potentissimi gruppi di pressione: la
Confederazione nazionale dei coltivatori diretti (denominata talvolta come
“la bonomiana”, dal nome del suo fondatore ed attuale presidente Paolo
Bonomi) la Confederazione generale dell’agricoltura e la Federazione
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nazionale dei consorzi agrari. Da sole, esse monopolizzano non solo la
rappresentanza italiana nel COPA, il Comitato delle organizzazioni
professionali agricole della Cee, che rappresenta gli interessi degli
agricoltori presso gli organismi comunitari, ma anche il ruolo di
interlocutori ed ancora più di elaboratori delle linee di politica agraria da
attuare nel nostro paese o da richiedere alla Comunità.
Eppure la realtà delle organizzazioni interessate alla politica agraria è
molto più articolata di questa potente triade, di cui, peraltro, è bene
ricordarlo, uno dei pilastri, la Federconsorzi, rappresenta soprattutto alcuni
interessi economici convergenti delle altre due organizzazioni. Basti citare
l’Alleanza nazionale dei contadini, l’organizzazione di sinistra dei
lavoratori agricoli, i sindacati di categoria aderenti alle tre Confederazioni,
le stesse Confederazioni, portatrici delle istanza di tutti i lavoratori, in
quanto coinvolti nelle scelte di politica agraria, le associazioni delle
cooperative agricole, le ACLI ecc.
Tutte queste organizzazioni, per quanto abbiano espresso spesso posizioni
di avanguardia rispetto alle istanze difese dai nostri rappresentanti a
Bruxelles sia pure in nome degli agricoltori, non hanno avuto che un peso
limitato nelle scelte di politica agraria operate nel nostro Paese e sostenute
nelle trattative comunitarie.
I vari ministri dell’agricoltura, una carica di cui l’organizzazione
bonomiana conserva un monopolio pressoché esclusivo da vent’anni a
questa parte, si sono sempre preoccupati di ascoltare gli esponenti della
“triplice”, ma mai allo stesso titolo e con la stessa disponibilità hanno
sentito le altre organizzazioni. Sono gli interessi di questi tre potenti
gruppi di pressione, coalizzati nel CIRAI, proprio per unificare le loro
posizioni in materia di politica agricola, ad essere in generale rappresentati
o difesi dai nostri delegati a Bruxelles.
Non è tanto la consonanza tra la nostra delegazione ed alcuni interessi
espressi de tali gruppi che ci interessa porre in risalto. Quel che più
importa, come può rilevarsi oggi a consuntivo di dieci anni di PAC, è che
questo monopolio della rappresentanza degli interessi agricoli nel nostro
Paese non ha portato nel lungo periodo, come s’è visto, benefici duraturi e
consolidati per la nostra economia agricola.
E’ in nome loro, è in nome degli interessi immediati di gruppi di produttori
di talune derrate che vi sono rappresentati, che l’Italia si è trovata spesso a
combattere a Bruxelles battaglie di retroguardia o a contrattare i benefici
di questi con la rinuncia ad obbiettivi più ambiziosi per la nostra
agricoltura.
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Ma vediamo qual è l’atteggiamento di queste organizzazioni di fronte alla
PAC, anche al di là delle professioni di fede europeistica che pure le
accomuna.
La Coldiretti
La Confederazione nazionale dei coltivatori diretti (fondata e presieduta
come si è già detto, da Paolo Bonomi), grazie alla sua organizzazione
capillare, ai rapporti che ha con altre istituzioni ed uffici di interesse
agricolo nell’amministrazione centrale e negli enti locali, agli strumenti di
cui può disporre, all’assistenza che i suoi uffici possono fornire, vanta una
pressoché egemonica rappresentanza della categoria dei coltivatori diretti.
I collegamenti col potere politico possono essere sintetizzati nei circa 70
tra deputati e senatori che l’organizzazione fornisce attualmente al partito
di maggioranza e nella continuità di una tradizione che, salvo pochissime
interruzioni, risale al primo governo repubblicano, per cui è difficile
aspirare, nel nostro Paese, al Ministero dell’agricoltura se non si
appartiene all’organizzazione bonomiana.
Tutto ciò senza contare la moltitudine di sottosegretari, di assessori
provinciali e regionali e l’ancora più nutrita schiera di funzionari
ministeriali inseriti in posti chiave che partecipano delle scelte della
Coldiretti o che comunque si ispirano della sua linea. E’ facilmente
intuibile perciò il peso di questa organizzazione nelle decisioni di politica
agraria e di politica tout court operate nel nostro Paese. Si tratta, a giudizio
di molti osservatori, del più forte gruppo di pressione esistente nel nostro
Parlamento ed è chiaro che la sua influenza sulla politica nazionale si
estende anche oltre la sfera della politica agricola.
”Nonostante la sua mole gigantesca - ha scritto a questo proposito Claudio
Risé - la Federazione nazionale dei coltivatori diretti non è mai arrivata a
produrre un programma che rispecchiasse una visione e una
interpretazione generale dei problemi dell’agricoltura. Le rivendicazioni
avanzate, numerosissime e molto onerose per la collettività, furono però
quasi sempre di tipo assistenziale e previdenziale”. In effetti, la stessa
concezione assistenzialistica e paternalistica dell’intervento pubblico
agricoltura, che permea la nostra politica agraria di questo dopoguerra, è
di marca prettamente bonomiana.
L’agricoltura è stata e rimane, nell’ideologia bonomiana, un settore da
“proteggere” con misure protezionistiche ed alti prezzi, perché “il prezzo
dei prodotti agricoli è il salario dai contadini” e i contadini, in un sistema
che non offre lavoro alla manodopera non qualificata, non saprebbero
altrimenti dove andare.
79
“In realtà – commentava anni fa lo storico Norman Kogan, che osservava
queste cose dall’esterno - vanno ad incrementare le file di quelli che
vivono nelle “borgate” periferiche alle grandi città, perché anche i prezzi
alti e protetti non risolvono la loro situazione” (2).
Per quanto non manchino obiettivi e preoccupazioni di tutto rispetto
nell’azione programmatica di questa organizzazione, quello che le viene
da più parti rimproverato è di volerli spesso conseguire con strumenti e
metodi sbagliati.
Così, mentre l’equiparazione dei redditi degli agricoltori con i redditi delle
altre classi sociali non può non essere in cima agli obiettivi di ogni saggia
politica agraria, l’azione svolta sin qui dalla Coldiretti sembra indicare che
tale obiettivo viene perseguito, più che attraverso la via dell’efficienza
produttiva, attraverso quella del sostegno esasperato dei prezzi e del più
rigido protezionismo di tutto quello che si coltiva e si produce nella nostra
agricoltura. ”E’ chiaro che questa linea, in sede Mec – ha osservato
l’economista Francesco Forte - non poteva rappresentare una soluzione
organica valida; era una trincea arretrata che passava dietro quella del
protezionismo francese. Le magre vittorie strappate arroccandosi su di
esse sono state spesso vittorie di Pirro” (3).
Prendiamo, come esempio esemplificativo, il caso del grano.
L’Italia, come è noto, è un paese eccedentario di grano tenero e deficitario
di cereali foraggeri, nonché dei prodotti dell’allevamento, soprattutto
carne. L’aver sostenuto, come ha fatto la Coldiretti, all’unisono con la
Federconsorzi e con le organizzazioni professionali francesi, prezzi elevati
per il grano ha reso necessario stabilire prezzi elevati anche per i cereali
foraggeri, per incentivarne la coltivazione. Ma ciò si è inevitabilmente
riflesso sui costi di produzione della zootecnia e quindi sullo sviluppo di
un settore fondamentale per la nostra economia.
Il risultato di questa politica è che mentre continuiamo ad importare circa
la metà del nostro fabbisogno di cereali foraggeri, il nostro deficit
zootecnico si è vieppiù accresciuto, per di più in un contesto
inflazionistico molto spinto che trova origine anche nelle scelte di politica
agricola adottate.
La politica degli alti prezzi dei cereali, a partire da quello del grano, non
ha peraltro modificato sostanzialmente la posizione dei piccoli produttori,
mentre ha particolarmente beneficiato i grossi produttori di enormi rendite
differenziali, che spesso hanno anche significato pesanti eccedenze
produttive.
80
Non si vuole, certamente, con questo far ricadere sulla Coldiretti la
responsabilità di una scelta, quella degli alti prezzi dei cereali, che
coinvolge tutta la Comunità dall’inizio dell’avvio del mercato comune
agricolo, e che trova origine in una serie di motivazioni politiche ed
economiche.
Quel che si vuole, invece, porre in risalto è che non sempre la politica
degli alti prezzi, di cui certamente la Coldiretti è una delle assertrici più
accanite nella Comunità, si è tradotta in un beneficio reale e duraturo per
gli agricoltori, soprattutto per i piccoli e medi agricoltori, nel nome dei
quali quelle scelte venivano operate. Come nel caso dei cereali, anzi, nota
ancora Francesco Forte, “paradossalmente ai nostri esponenti delle
categorie agricole, ogni prezzo alto o più alto, anziché una sconfitta è
apparso sinora una vittoria”.
Per quanto la Coldiretti organizzi una base che in gran parte non dovrebbe
avere obiettivamente che un limitato interesse per la conservazione di una
politica dei prezzi, come quella attuata finora nella Cee, essa è invece
l’organizzazione che più di ogni altra si batte per la continuità di questa
politica, lasciandosi dietro perfino la Confagricoltura, i cui organizzati,
prevalentemente grossi produttori, hanno usufruito finora di ben più
consistenti profitti.
L’intoccabilità della politica dei prezzi in questo particolare momento
della storia della PAC viene ripetutamente affermata da tutti i principali
esponenti dell’organizzazione e nelle occasioni più diverse. ”Restiamo
convinti - scriveva un anno fa Paolo Bonomi nella rivista “La Via
Democratica” - che la politica agricola della Cee debba rimanere fondata
sulle singole organizzazioni settoriali di mercato e sul continuo
adattamento dei prezzi alle variazioni dei costi. Coerentemente, abbiamo
espresso ai nostri rappresentanti governativi a Bruxelles l’invito ad
opporsi a qualsiasi blocco dei prezzi agricoli per la campagna 1973/74”.
Il segretario generale della stessa Confederazione, Dall’Oglio, in un
incontro col Governo nel maggio 1970, affermava: “Diamo atto
innanzitutto dell’efficace azione dei nostri ministri per il completamento
della politica agricola comune. Noi sosteniamo - d’accordo con le altre
organizzazioni agricole degli altri paesi della Cee - che questa politica non
può essere mortificata”.
Con maggiore veemenza, l’on. Truzzi, vice-presidente della Coldiretti
nonché presidente della Commissione Agricoltura della Camera, al 37°
convegno dei dottori in scienze agrarie, nel dicembre 1972, minacciava:
”Se a Bruxelles si mettessero in testa di considerare la politica delle
81
strutture sostitutiva della politica dei prezzi, sappiano chiaramente che
noi della Coldiretti e molti di noi anche come politici non accetteremo mai
questa ipotesi”.
Non tutta la Coldiretti, a livello di struttura e di base, può comunque
essere identificata nelle posizioni del suo fondatore Paolo Bonomi, anche
se esse rimangono ancora quelle prevalenti. All’interno della
Confederazione va, infatti, affermandosi ed allargandosi una dialettica che
ha rotto il tradizionale monolitismo di questa organizzazione ma i cui
sbocchi ancora non si intravedono.
Si parla, a questo proposito, di imminenti modifiche ai vertici
dell’organizzazione, premessa per un rilancio della Coltivatori diretti su
posizioni meno corporative e anacronistiche, che ne hanno compromesso
il prestigio non solo agli occhi di molti iscritti, ma anche agli occhi di
autorevoli esponenti del partito di maggioranza, che ne vorrebbero oggi
una riqualificazione.
Quel che è certo è che Bonomi da oltre tre anni si trova a fronteggiare una
dissidenza interna che, per quanto ancora non eccessivamente vistosa, ha
minacciato più di una volta di aprire crepe profonde nell’edificio costruito
in 25 anni di gestione delle politica agricola nazionale.
L’esigenza di rompere con il passato, un passato fatto prevalentemente di
rivendicazioni previdenziali o comunque di natura assistenzialistica tutte
volte a mantenere i contadini sulla terra, di chiusura ad ogni iniziativa
veramente riformistica nelle campagne dovuta a tutte una serie di
pregiudiziali ideologiche e politiche, incomincia ad aprirsi un varco
nell’organizzazione bonomiana, soprattutto attraverso l’organizzazione
giovanile dei coltivatori diretti.
Ma non sembra che l’attuale gruppo dirigente della Coldiretti riesca a
mediare con sufficiente sicurezza e linearità le istanze di rinnovamento e
quelle di conservazione che improntano l’attuale momento della storia
dell’organizzazione. Si colgono, infatti, ancora troppe contraddizioni,
troppe oscillazioni, troppi legami con il passato, perché dal momento di
crisi che l’organizzazione attraversa ne nasca quella politica nuova per
l’agricoltura che molti degli stessi coltivatori diretti chiedevano a Bonomi
nella manifestazione di Piazza del Popolo del 16 aprile 1970.
Sul piano interno, si assiste così ad una Coldiretti che, almeno in un primo
momento, dà il proprio appoggio ad una coraggiosa legge di riforma dei
fondi rustici, salvo a ritirarlo in un secondo momento, mentre sul piano
comunitario, come si è visto, essa si attesta su un’intransigente difesa
dell’attuale sistema di sostegno dei prezzi, peraltro rivendicando per tale
82
sistema un correttivo legato strettamente agli andamenti dei costi. Un
sistema questo, che ignora gli effetti del progresso tecnico-scientifico e la
funzione di orientamento della produzione che va attribuita ai prezzi nella
PAC e quindi opererebbe “in senso fortemente antievolutivo oltreché
fortemente nocivo per il benessere di tutti”, come ha rilevato uno studioso
certamente non nemico dell’agricoltura, come il prof. Enzo Di Cocco.
Ed ancora: da un lato, Bonomi, forte dei suoi quindici assessori regionali
all’agricoltura, recrimina, in polemica con la Confagricoltura, contro i
“verticismi cari a troppi gruppi di pressione”, i quali “si dovranno spuntare
contro la realtà del decentramento politico regionale previsto
dall’ordinamento istituzionale del Paese, decentramento nel quale i
coltivatori ed il mondo rurale potranno dal basso far valere le esigenze di
un rinnovamento che li abbia in ogni senso quali protagonisti e partecipi, e
non oggetto di decisioni assunte sulla loro testa” (4); dall’altro, però
spinge i nostri rappresentanti a Bruxelles a richiedere continui
rafforzamenti delle barriere protezionistiche, nel settore cerealicolo e del
grano in particolare, pensando che ciò possa bastare a trattenere in
agricoltura milioni di piccoli coltivatori con un ettaro di terra.
Da una parte, si dice di accettare la “filosofia” di Mansholt di favorire la
creazione di aziende di dimensioni economiche vitali (fermo restando il
sostegno ai prezzi), dall’altra si continua a perseguire sul piano nazionale
una politica che incoraggia la persistenza di aziende piccole e arretrate,
favorendone anche la formazione.
E si potrebbe continuare: Bonomi si preoccupa legittimamente delle
conseguenze per l’agricoltura italiana e meridionale in particolare
dell’apertura delle frontiere ai prodotti agricoli degli altri paesi
mediterranei, ma nulla viene costruito sulla strada del miglioramento
qualitativo della nostre produzioni e del rafforzamento della capacità
contrattuale dei nostri produttori sui mercati interni e sui mercati esteri.
La PAC è stata così vista, e viene tuttora vista, come un surrogato o un
rafforzamento della politica agraria nazionale, improntata all’ideologia
dell’organizzazione. La politica dei prezzi è ben accetta, ma non perché
essa debba servire da orientamento della produzione, come è nello spirito
del Trattato, ma perché “il prezzo è il salario del contadino” e il salario
deve seguire i costi: in definitiva, perché gli aumenti dei prezzi per la
massa dei piccoli coltivatori rappresentano una boccata di ossigeno,
effimera ma sufficiente ad illuderli della loro vitalità. La politica delle
strutture è anch’essa ben accetta, purché rimanga intoccabile il ruolo e la
funzione della politica dei prezzi e purché sia rivolta a rafforzare le
aziende familiari.
83
Del resto, è sintomatico che la Confederazione, nel presentare propri
progetti di legge per l’attuazione delle direttive comunitarie sulle strutture,
abbia dato la priorità temporale, ma con valore politico, alla direttiva
concernente 1’indennità di cessazione agli anziani che decidono di ritirarsi
dall’attività agricola, essendo quella che “è destinata ad avere più
immediata ripercussione sociale”.
Anche le posizioni moderatamente possibiliste assunte dalla
Confederazione sul problema della revisione e dell’aggiornamento della
PAC, nel quadro dell’evoluzione della Cee e della nuova fase di
cooperazione con gli Usa, vengono di fatto ben presto sommerse dalla
preoccupazione di “riconfermare l’assoluta necessità di una permanente
difesa dell’agricoltura per la sua funzione di approvvigionatrice primaria
degli alimenti e per la sua insostituibile funzione sociale”, tenuto conto
che “si tratta di un settore che non va sacrificato all’efficientismo di altre
agricolture più fortunate” (5).
La Confagricoltura
Meno contraddittoria, più dialettica e in una certa misura più in
consonanza con le linee della PAC, ma non per questo immune da rilievi,
si è rivelata finora la posizione della Confagricoltura. A detta di molti il
ruolo della Confagricoltura nella politica agricola nazionale si sarebbe
notevolmente rivalutato negli ultimi anni, riuscendo perfino ad incrinare in
qualche occasione quel rapporto preferenziale col potere pubblico che da
sempre era stato monopolio pressoché esclusivo dell’organizzazione
bonomiana. E ciò in connessione, oltre che con l’elezione di Alfredo
Diana a capo dell’organizzazione, con una serie di scelte politiche interne
ed esterne alla Confagricoltura, che le hanno consentito di dare una
immagine ed un ruolo per molti versi rinnovato.
Uno dei fattori non secondari di questo “rilancio” di un’organizzazione
che in passato si era quasi esclusivamente qualificata come portatrice degli
interessi più retrivi della borghesia agraria nazionale, risiede proprio
nell’assunzione di un ruolo più dinamico nei confronti della politica
agricola comunitaria.
Da parte dell’organizzazione vi è, anzi, lo sforzo costante di accreditare
una concezione della PAC come di una realtà che piove sul nostro Paese
dall’alto della sovranazionalità, compiacendosi di accentuare, più che il
momento critico e partecipativo, gli effetti cogenti non solo sul nostro
apparato amministrativo, ma anche sullo stesso Parlamento nazionale.
“Secondo me - dice Diana - il Parlamento italiano non tiene sempre conto
84
della realtà comunitaria e delle conseguenze che dovrebbero derivarne
nell’adottare leggi nazionali e, soprattutto, nei finanziamenti”.
Ora, se è vero che il potere pubblico nel nostro Paese, a livello politico e a
livello amministrativo, spesso offre obiettivamente il fianco ad
osservazioni di questa fatta, è anche vero che la “vocazione” europeistica
delle Confagricoltura si spiega, oltre che con i vantaggi economici
conseguiti con la PAC, anche con i vantaggi politici derivanti da un
trasferimento dei centri decisionali dal livello nazionale, dove le decisioni
sono sottoposte in una certa misura al controllo delle altre forze politiche e
sindacali, al livello comunitario, dove il monopolio del COPA e l’assoluta
mancanza di controllo politico favoriscono spesso compromessi e scelte in
armonia soltanto con interessi settoriali e di categoria.
Il rapporto preferenziale con la Comunità piuttosto che con i centri
decisionali nazionali è, del resto, esplicitamente ammesso dagli stessi
dirigenti dell’organizzazione, i quali non nascondono di trovarsi meglio
rappresentati e ascoltati a Bruxelles piuttosto che a Roma. In particolare, è
contro il ministero dell’agricoltura, ancora egemonizzato dalla Coldiretti,
che si appuntano le critiche della Confagricoltura: “Il problema
fondamentale - dichiarava tre anni fa Diana - è e rimane una moderna
riorganizzazione del ministero dell’agricoltura senza la quale ogni
discorso è vano, ogni proposito è inutile” (6).
Il ministero dell’agricoltura viene, infatti, considerato responsabile non
solo delle numerose inadempienze dell’Italia verso la Cee in materia di
PAC, ma di essersi fatto finora portatore di una “tenace avversione, aperta
o nascosta, contro la politica agricola comunitaria in difesa di un tenace
conservatorismo contadino, che vuole sopravvivere affidandosi al buon
cuore degli altri settori produttivi e che perciò è deciso a sabotare ogni
politica di ammodernamento dell’agricoltura a livello europeo” (“Mondo
agricolo” del 25 marzo 1973).
E’ in questa stessa logica che va inserita l’ostilità della Confagricoltura
verso il decentramento regionale. A parte la comprensibile insofferenza
per l’egemonia che anche negli organismi regionali l’organizzazione
bonomiana è riuscita a conquistarsi, grazie allo stretto collegamento col
partito di maggioranza, resta ferma la preoccupazione che i nuovi
organismi si qualifichino come una moltitudine di autonomi centri
decisionali di politica agricola, difficilmente controllabili anche perché
troppo direttamente esposti alla pressione democratica.
L’ordinamento regionale viene, in effetti, accettato, ma a condizione che
l’Ente Regione “sia impostato come strumento di chiarezza e di
85
snellimento burocratico e non come elemento di confusione e di debolezza
dello Stato” (7). E per affermare ancora maggiormente il ruolo del tutto
strumentale delle Regioni, non solo rispetto allo Stato, ma rispetto alla
stessa Comunità, Diana, al Convegno dei quadri dirigenti della propria
organizzazione, nel maggio ‘70, affermava: “Vogliamo qui sottolineare la
necessità che l’inserimento delle Regioni nell’attuale struttura dello Stato
avvenga con assoluta aderenza a questa realtà d’ordine sovranazionale,
che presuppone la salvaguardia dell’unità della politica agraria nazionale
almeno su alcuni punti essenziali, come imprescindibili esigenze di
presentazione unitaria dei nostri problemi in sede europea”.
Nonostante che anche nelle posizioni della Confagricoltura di fronte alla
PAC possa rilevarsi una certa dinamica, resta indubbio che essa, al pari
della Coldiretti, porti pesantemente la responsabilità del lungo
immobilismo della PAC, o quanto meno del nostro Paese, sul binario
morto della politica dei prezzi e dei mercati.
Ciò, del resto, è comprensibile se si considera che tale politica, tramite i
meccanismi di sostegno dei prezzi, ha privilegiato finora i grossi
produttori, che sono in grado di produrre a costi minori. Sulla difesa della
politica dei prezzi, peraltro, si è riusciti a consolidare nelle campagne un
blocco agrario tra grossi produttori capitalistici e piccoli agricoltori che,
altrimenti, sarebbe da tempo entrato in crisi.
Oggi, in effetti, questo blocco minaccia di fratturarsi, nel momento in cui
si apre la prospettiva di un ridimensionamento del ruolo della politica dei
prezzi e dell’adozione di nuovi strumenti d’intervento (politica delle
strutture, integrazione diretta dei redditi, ecc.). Così, mentre vediamo
Bonomi e la sua organizzazione attestarsi ancora tenacemente sul fronte
dei prezzi e dei mercati e della difesa intransigente della barriera
protezionistica comunitaria da ogni possibile apertura verso l’esterno, la
Confagricoltura esce dalle vecchie trincee per portarsi, almeno questa è
l’impressione che dà, verso le nuove frontiere che la riflessione critica di
questi ultimi anni ha schiuso alla PAC, sicura di poter guadagnare
posizioni di vantaggio anche nel nuovo contesto.
Certo, anch’essa rigetta le critiche che in questi ultimi tempi sono state
mosse alla politica dei prezzi e considera improponibile un suo
smantellamento, ma sembra d’altra parte disposta a condividere, “salvo a
vedere quali siano le strade attraverso le quali si conseguono”, i due
obiettivi che costituiscono gli orientamenti più qualificanti della
preventivata revisione della PAC (cfr. Doc. Lav.73/7 della
Confagricoltura):
86
1. riduzione della spesa della Sezione Garanzia del FEOGA, sia per
motivi finanziari, sia per facilitare il negoziato con gli Usa, nel
quale ”soprattutto per i cereali, occorrerà pagare un prezzo”, in
termini di possibile eliminazione delle restituzioni alle
esportazioni, oppure in termini di limitazione della garanzia a certe
quote di prodotto;
2. ampliamento dell’area degli interventi diretti al sostegno dei redditi
(”pur con un pregiudizio negativo da parte della Confederazione”)
e allo sviluppo delle regioni più disagiate.
Non viene fatta nessuna menzione della politica delle strutture, in quanto
questa, con l’emanazione delle note direttive dell’aprile 1972, può ormai
considerarsi istituzionalmente inserita negli strumenti della PAC, per
quanto nel nostro Paese, col più grande disappunto della Confagricoltura,
essa sia ancora lontana dal1’aver ricevuto la prevista sanzione legislativa.
Vale la pena di rilevare, a questo proposito, come è proprio sulla più
rapida emanazione della legislazione nazionale di recepimento dei
contenuti delle direttive comunitarie sulle strutture che si è rivelata più
incalzante la pressione della Confagricoltura da un anno a questa parte.
Dopo aver contribuito, sembra in maniera determinante, alla stesura del
relativo progetto legislativo, la Confagricoltura si è dovuta scontrare su
due fronti, entrambi ostili all’indirizzo a cui il progetto è stato improntato.
Da una parte, il già lamentato “tenace conservatorismo contadino” che
allignerebbe in molti uomini di governo e soprattutto negli uomini del
ministero dell’agricoltura, e che starebbe alla base dei ritardi in atto e per
quelli che sono prevedibili. Dall’altra, l’opposizione delle regioni e della
quasi totalità delle altre organizzazioni di categoria, Coldiretti compresa,
tutte rivendicanti punti qualificanti ritenuti sacrificati nel progetto
governativo.
E’ il caso, a questo punto; perché diventi più trasparente la posizione della
Confagricoltura di fronte ai vari aspetti della PAC, di chiarire
sinteticamente la “filosofia” che sorregge le sue scelte strategiche e la sua
azione in questo momento.
Obiettivo esplicito della Confagricoltura è quello di riuscire a determinare
una concentrazione della spesa pubblica con finalità produttive in
agricoltura sulle aziende capitalistiche, postulando che esse sono le uniche
già, o potenzialmente, efficienti. Per canalizzare la spesa pubblica in loro
favore, un anno fa la Confagricoltura ha proposto l’istituzione di un
apposito pubblico registro delle imprese efficienti, cui è stato
87
contrapposto, sul versante della Coltivatori diretti, l’istituzione dell’albo
professionale degli agricoltori.
La politica governativa, nel disegno della Confagricoltura, dovrebbe
mirare ad espellere dal mercato il maggior numero possibile di aziende
non capitalistiche recuperando le restanti dentro strutture associative, che
conservino comunque sempre un ruolo subalterno.
Prevedendo la carica di tensioni sociali e politiche che tale indirizzo
finirebbe col determinare nelle campagne, la Confagricoltura non si
mostra restia ad accettare qualunque tipo di provvidenza che si volesse
disporre a favore di queste categorie: da quelle sociali, alle integrazioni
dirette di reddito, ai sussidi perché non vengano abbandonate certe zone
ritenute importanti per l’equilibrio ecologico, ecc.
Tutto ciò ad una condizione: che venga cioè, salvaguardato il criterio della
selettività degli aiuti economici a favore delle sole aziende in grado di
svilupparsi o già sviluppate, cioè delle aziende capitalistiche. Questo
spiega le pressioni della Confagricoltura perché vengano al più presto
approvati in Italia i provvedimenti di attuazione delle direttive comunitarie
sulle strutture nella forma che esse hanno finora assunto.
E spiega anche la disponibilità ad accettare una revisione delle politica dei
prezzi (cui “va restituito il ruolo naturale di strumento non risolutivo della
situazione generale dei redditi agricoli, ma importante per assicurare alle
aziende ben gestite ed organizzate un reddito comparabile”) e
l’introduzione di nuovi strumenti d’intervento nella PAC.
Le altre organizzazioni.
A questo punto, bisognerebbe soffermarsi a lungo anche sul ruolo svolto
fino ad oggi dalla Federazione dei consorzi agrari (Federconsorzi) nelle
scelte di politica agraria operate dal nostro Paese a livello nazionale e a
livello comunitario. Ce ne asteniamo, non perché tale ruolo sia
trascurabile, ma in quanto questo centro di pressione è largamente
egemonizzato dal gruppo bonomiano, di cui, anzi, rappresenta la punta più
arretrata.
Più interessante ci sembra, invece, passare in breve rassegna il fronte delle
organizzazioni di categoria che si pongono a sinistra delle tre
organizzazioni fino ad ora esaminate: Alleanza nazionale dei contadini,
Acli, Cenfac, Uci, sindacati, organizzazioni delle cooperative agricole,
ecc. Anche qui occorrerebbe mettere in luce i vari punti di affinità e di
diversità che le accomunano o le distinguono.
88
Grosso modo, tutte queste organizzazioni sono state e sono tuttora
fortemente critiche di fronte agli indirizzi della Pac e, in particolare, di
fronte alle posizioni assunte dal nostro Paese in questa materia. In
generale, è da questo fronte delle organizzazioni di categoria che
provengono le istanze più innovatrici in materia di Pac e le critiche più
severe non solo per i risultati modesti o addirittura negativi delle decisioni
assunte, ma anche per ciò che non è stato fatto dal nostro Paese sul piano
comunitario e sul piano nazionale per far progredire l’agricoltura italiana
verso livelli di efficienza più elevati e verso strutture meno deboli di
quelle attuali.
”Il protezionismo e la politica dei prezzi sulla quale si è basato il processo
di integrazione della Cee – afferma Afro Rossi, Segretario generale della
Federmezzadri Cgil – ha finito per essere una efficace azione di sostegno
per l’azienda capitalistica, per le rendite parassitarie, un autentico
disincentivo alle trasformazioni strutturali, con conseguente indebolimento
e marginalizzazione delle aziende contadine” (8). Attraverso la politica
protezionistica, secondo la segreteria della Cgil, “si è teso a saldare il
fronte rurale e a far pagare alla classe operaia il costo delle mancate
trasformazioni, in termini di disoccupazione, aumento dello sfruttamento e
del costo della vita”.
Le Acli-Terra, da parte loro, sostengono che “un regime di prezzi alti serve
principalmente ai grandi produttori e trasformatori di prodotti agricoli; non
risolve i problemi della grande massa dei contadini, danneggia i
consumatori, rallenta il processo di costruzione della Comunità europea,
mentre permangono gravi problemi di controllo democratico della
utilizzazione dei fondi comuni e viene confermata la tendenza autarchico-
protezionista della Comunità a danno dei paesi del terzo mondo” (9).
Ovviamente tutte queste organizzazioni hanno portato avanti finora, pur
senza troppo ascolto, una linea alternativa di politica agricola comunitaria
e nazionale ed oggi guardano di buon occhio alla annunciata revisione
della Pac, anche se nessuna si fa illusioni sulla possibilità di giungere ad
una svolta decisiva. Anche la loro adesione di fondo alla politica delle
strutture, decisa nell’aprile 1972 a Bruxelles, non pregiudica il loro diritto
alla critica sia sugli obiettivi che si intendono perseguire, sia sugli
strumenti e sui mezzi messi a disposizione.
Quello che mette conto di rilevare comunque, al di là delle singole
rivendicazioni di ciascuna organizzazione, è che, per quanto ampio sia
stato finora il dibattito sulla politica delle strutture e sui nuovi
orientamenti della Pac, la presenza di tutte queste organizzazioni in sede di
formazione delle decisioni di politica agricola nazionale e comunitaria è
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certamente esigua rispetto alla Confagricoltura e Coldiretti e rispetto al
peso politico che hanno nel Paese. Una riprova, questa, del rapporto
privilegiato col potere pubblico di cui godono queste due organizzazioni.
Alcune conclusioni
Quanto si è detto finora non voleva essere una rassegna organica della
partecipazione dell’Italia alla Pac e della posizione delle varie
organizzazioni di categoria di fronte all’evoluzione di questa politica.
Rappresenta, semmai, un tentativo di analisi del grado di adattamento di
queste strutture alla nuova realtà comunitaria e di ricerca delle cause della
lamentata debolezza della presenza italiana nella fase decisionale della
Pac.
L’indagine, in effetti, dovrebbe ancora mettere meglio in luce la serie di
inadempienze del nostro Paese in questa materia, che ne hanno
determinato, nella opinione pubblica europea, l’immagine di un Paese
europeista a parole ma anti-europeista nei fatti, o, nella migliore ipotesi, di
un Paese che non ha saputo giovarsi finora di quanto la Comunità ha
disposto o avrebbe potuto disporre in campo agricolo.
Si allude alla serie di violazioni dei regolamenti comunitari, che hanno
dato all’Italia il primato dei giudizi in Corte di giustizia. Si allude alla
mancata utilizzazione di decine di miliardi di UC del FEOGA per
mancanza di leggi e di programmi nazionali, ma si allude anche alla
debole presenza del nostro Paese a sostegno della politica sociale e della
politica regionale della Cee, necessari corollari di una politica agricola che
miri ad ammodernare le strutture produttive.
Quando però ci si attarda, come si è fatto, per seguire le pressioni
corporative delle nostre più grosse organizzazioni di categoria, a
combattere solo sul fronte dei prezzi, non c’è da sorprendersi che si
incominci a parlare costruttivamente di politica regionale soltanto con
l’allargamento della Comunità. Non c’è da sorprendersi, con un potere
pubblico come quelle preposto all’attuazione della politica agricola nel
nostro Paese, così fortemente condizionato dalle scelte delle tre grosse
organizzazioni di categoria, che il nostro Paese non riesca spesso a
perseguire a Bruxelles obiettivi di rinnovamento della Pac o quanto meno
una linea non soltanto funzionale ad interessi nazionalistici, ma anche ad
una visione più moderna dell’integrazione europea e degli scambi
internazionali.
90
1) “I1 Mondo”, 7 dicembre 1972
2) Norman Kogan, La politica estera italiana, Milano 1965, p. 143
3) Francesco Forte, La strategia delle riforme, Milano 1968, p. 522
4) Dichiarazioni di Paolo Bonomi del 24 aprile 1970
5) Dichiarazione di Paolo Bononi alla stampa del 27 aprile 1973
6) Alfredo Diana, Una nuova politica per una nuova agricoltura. Discorso
pronunciato all’Assemblea dei quadri dirigenti della Confagricoltura
tenutasi il 13 maggio 1970
7) Id.
8) “Azione sociale”, n. 29 del 27 luglio 1973
9) Acli, Documento della Presidenza nazionale sulle recenti decisioni in
materia di politica agricola comune, Comunicato stampa del 3 aprile 1972
91
Il ruolo dell'Italia nell’elaborazione e nell’applicazione della
politica agricola comunitaria*
(1975)
1) Premessa.
Con lo studio che presentiamo in sintesi intendiamo illustrare e soprattutto
spiegare la posizione dell’Italia nei negoziati sul mercato comune agricolo,
dalle riunioni preliminari al Trattato di Roma fino alle ultime vicende del
Mec agricolo. Si tratterà, perciò, di descrivere il ruolo svolto dall’Italia
nella costruzione della Politica agricola comune (Pac) e, nel contempo, di
indicare le principali motivazioni politiche ed economiche che stanno alla
base delle scelte effettuate, delle iniziative assunte, delle rivendicazioni
sostenute. Alla fine dello studio si tenterà di trarre un bilancio critico della
partecipazione dell’Italia alla Pac, sia in termini di influenza dell’Italia
nella elaborazione della Pac, sia in termini di vantaggi per l’agricoltura
italiana derivanti dall’appartenenza al Mec agricolo. Qui di seguito si
fornisce una sintesi del lavoro contenente alcuni elementi di base per la
discussione.
PARTE I: I NEGOZIATI AGRICOLI.
2) L’Italia di fronte alla Pac.
Durante i primi anni del mercato comune, cioè dalla sua fondazione fino
alla prima proposta di una politica agricola comune, l’atteggiamento
italiano è passato dall’entusiasmo ad una aperta ostilità. Se ne ha già un
sintomo confrontando la posizione italiana alla Conferenza di Messina del
1956 e alla conferenza di Stresa del 1958.
A Messina l’Italia, rappresentata dal ministro degli esteri, Martino, “con
un coraggio di cui si può valutare oggi l’ardimento”, come ha scritto Bino
Olivi, propose 1’integrazione economica totale, respingendo le proposte
francesi di altre comunità di settore e richiedendo il progressivo
abbassamento delle tariffe agricole e industriali.
A Stresa, invece, i negoziatori italiani, guidati dal ministro dell’agricoltura
Ferrari-Aggradi, si mostrarono molto più cauti nell’impegnare il proprio
paese in una politica comune di quanto non lo fossero stati durante i
negoziati per la messa a punto del Trattato. In quanto esportatrice netta di
*Working paper per la Tavola rotonda organizzata dall’Istituto Affari Internazionali (IAI) il 7 marzo
1975, in vista della pubblicazione del volume “La partecipazione italiana alla politica agricola
comunitaria” di Rosemary Galli e Saverio Torcasio, Bologna, 1976. La parte relativa ai negoziati
fino al 1970 rappresenta una sintesi del lavoro della Galli.
92
prodotti ortofrutticoli, l’Italia desiderava che fossero aperti i mercati dei
paesi vicini, dove contava di potersi affermare in misura ancora più
consistente. Nei settori del grano e dello zucchero, però, essa aveva
raggiunto quasi 1’autosufficienza, grazie ad una politica di sostegno che
sarebbe stato politicamente difficile se non impossibile smantellare. Ma
quello che più preoccupava gli italiani era la consapevolezza delle
deficienze strutturali della propria agricoltura rispetto a quella dei paesi
vicini.
Ferrari-Aggradi si preoccupò di mettere in luce le difficoltà di inserimento
dell’agricoltura italiana in un mercato comune. Poiché il problema
dell’agricoltura italiana era un problema di bassa produttività, egli
sosteneva, una politica comune non poteva cristallizzare la situazione di
partenza dell’agricoltura europea, ma doveva mirare a uniformare le
condizioni delle varie agricolture nazionali.
L’Italia avrebbe dunque accettato la liberalizzazione solo nei settori degli
ortofrutticoli e del riso. Negli altri settori l’inferiorità dell’agricoltura
italiana sconsigliava una rapida realizzazione del mercato unico fino a
quando non si fosse pervenuti ad una sostanziale parità con l’agricoltura
dei partners.
3) Il primo Piano Mansholt
Nel corso del 1959, la Commissione elaborò un progetto di proposte per la
realizzazione di una politica agricola comune (noto come Piano
Mansholt), che presentò prima al Parlamento europeo e al Comitato
economico e sociale e poi al Consiglio dei ministri.
Le proposte della Commissione postulavano che i problemi
dell’agricoltura non potessero essere risolti, a lungo termine, senza una
vasta trasformazione e un profondo miglioramento delle strutture agricole,
sostenuti dalla politica economica degli Stati membri e da una politica
regionale di sviluppo. A tal fine le Commissione proponeva un
coordinamento delle politiche nazionali per il miglioramento delle
strutture agricole conforme agli obiettivi della politica agraria comune. Un
apposito Fondo europeo avrebbe accordato un aiuto finanziario alle
iniziative degli Stati membri.
La politica per il miglioramento delle strutture e la politica regionale
avrebbero dovuto completarsi con una politica comune di mercato, che
mirasse alla creazione, tra i mercati agricoli degli Stati membri, di un
mercato comune che presentasse le caratteristiche di un mercato interno. Il
ravvicinamento dei prezzi avrebbe dovuto essere attuato progressivamente
ed essere completato entro sei anni.
93
Il progetto della Commissione si dilungava poi in una serie di proposte
relative all’organizzazione dei principali mercati agricoli. Una serie di
Fondi, creati per i diversi mercati e raggruppati in un Fondo agricolo
europeo di orientamento e garanzia, alimentati dai prelievi riscossi sulle
importazioni, avrebbe fornito i mezzi finanziari necessari per gli interventi
sui mercati.
Il maggior rilievo dato nel progetto di proposte alla politica di mercato
rispetto alla politica strutturale provocò in Italia e all’estero una serie di
critiche. Nel novembre 1959, ad una riunione dei ministri dell’agricoltura
invitati ad esaminare in via informale le osservazioni di Mansholt, sia il
ministro tedesco che quello italiano criticarono il contenuto delle proposte
e la mancanza di programmi strutturali comunitari.
Essi erano infatti consapevoli che la loro agricoltura non poteva competere
in un mercato comune se non si fosse fatto alcuno sforzo per raggiungere
condizioni di concorrenzialità. Gli italiani cercavano soprattutto un aiuto
dalla Comunità: le proposte della Commissione, invece, affidavano quasi
interamente l’onere delle misure strutturali ai governi nazionali.
Anche i dirigenti agricoli assunsero un atteggiamento critico di fronte alle
proposte della Commissione. Nel mese di novembre il capo della
Coldiretti, Paolo Bonomi, incontrò Mansholt, al quale espresse l’esigenza
per l’Italia di poter usufruire di un adeguato periodo di adattamento per
realizzare le modifiche strutturali necessarie alla sua agricoltura. Nel mese
di dicembre Mansholt s’incontrò col presidente della Confagricoltura,
Gaetani. Anche lui riconobbe l’esigenza di un necessario adattamento
strutturale e invitò il governo a sostenere gli sforzi degli agricoltori in
questo settore.
Mansholt deve essere stato quindi certamente consapevole
dell’opposizione italiana al progetto di proposte presentato nel novembre
del 1959. Tuttavia egli decise di ignorarla anche nello stendere le proposte
definitive che avrebbe presentato nel 1960. E ciò per varie ragioni.
Anzitutto, perché l’integrazione nel settore delle politiche di mercato si
presentava più facile da realizzare. La Commissione sapeva che sarebbe
stato impossibile negoziare una efficiente politica strutturale della
Comunità finché i francesi, i tedeschi e gli olandesi esitavano a contribuire
finanziariamente alla riforma agricola dei loro partners.
Mansholt sperava anche che lo shock della concorrenza dovuto alla
politica comune dei mercati e dei prezzi sarebbe stata di sprone ai governi
nazionali per iniziare una radicale riforma strutturale. Inoltre la
Commissione e Mansholt sapevano che l’Italia, sotto la pressione dei
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negoziati, avrebbe trovato un accordo sulla Pac, nonostante l’opposizione
iniziale dell’élite agricola. Nemmeno i loro dubbi e le loro esitazioni sulla
Pac potevano scuotere la loro certezza (e quella dell’intera classe politica)
dei vantaggi che la partecipazione alla Comunità europea avrebbe
apportato all’Italia, se non altro sul piano economico generale.
Il problema che si poneva ai diplomatici italiani all’inizio dei negoziati era
se continuare ad opporsi al progetto di proposte della Commissione o
accettarlo quale base per i negoziati. Non avendo alternative serie da
proporre, mancando sul piano nazionale di una vera politica di riforme
strutturali in agricoltura, fu scelta la seconda strada.
Ciò anche perché l’intera classe politica, compresi i dirigenti agricoli,
vedevano i vantaggi che la realizzazione del mercato comune avrebbe
potuto apportare al processo di industrializzazione del Paese. Questo
spiega perché, nonostante le riserve espresse sull’indirizzo che la Pac
andava assumendo, né i leader politici, né i dirigenti agricoli, né i gruppi
economici, ritennero opportuno mettere in pericolo l’esistenza e lo
sviluppo della Comunità in questa prima fase
4) I negoziati: 1960.
Al Consiglio dei ministri degli esteri del dicembre 1960 le esitazioni
italiane sulle proposte della Commissione sembravano del tutto
scomparse: l’Italia si offrì anzi di mitigare le preoccupazioni dei tedeschi
derivanti dal timore di un’affluenza di prodotti a buon mercato sul loro
mercato impegnandosi ad abolire le sovvenzioni governative per il
trasporto di frutta e verdura in Germania.
Il problema che in quell’occasione si poneva era però ben altro che quello
di ridurre solamente le tariffe doganali: la Commissione chiedeva infatti ai
sei paesi di sostituire completamente il sistema dei dazi doganali con
quello dei prelievi. La proposta era appoggiata dalla Francia e dall’Olanda,
mentre era osteggiata dalla Germania.
L’Italia non volle rischiare un conflitto aperto né volle annullare i
progressi verso un’unione doganale industriale dalla quale avrebbe tratto
vantaggio. Inoltre in quegli anni sembrava che un’unione economica
potesse condurre a qualcosa di più avanzato che una semplice unione
doganale: si sperava che si potesse arrivare anche ad un’unione politica,
obiettivo che gli “europeisti” del ministero degli esteri non volevano
mettere in pericolo con una loro opposizione.
In questa situazione l’Italia scelse di accettare le proposte della
Commissione quale base dei negoziati, sperando di mettere al sicuro i
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propri interessi nel corso dei negoziati. Ciò anche per un altro motivo, non
sappiamo fino a qual punto calcolato: col dare l’impressione di voler
conciliare i suoi interessi con quelli della Francia, dell’Olanda e della
Commissione ed offrendo di eliminare le riduzioni ferroviarie per
l’esportazione degli ortofrutticoli verso la Germania, l’Italia dimostrava
“buona fede” e ”spirito comunitario”, il che serviva a darle credito fra i
suoi partners.
5) I negoziati: 1961.
Nei negoziati che si svolsero durante il 1961 l’Italia svolse un ruolo
conciliatorio. Anche quando erano in gioco interessi vitali non si arrivò
mai ad una aspra opposizione alle proposte della Commissione, preferendo
la via del rinvio piuttosto che quella dell’opposizione. Non sempre però
questa tattica ebbe successo, né sempre i risultati furono i più favorevoli
per l’agricoltura italiana.
Così, venne accettato un compromesso in politica finanziaria che avrebbe
comportato un pesante onere per il tesoro italiano, senza un corrispondente
vantaggio sul piano del finanziamento comunitario dei miglioramenti
strutturali. Venne accettato il principio di un’organizzazione comune del
mercato nel settore ortofrutticolo, senza nessun specifico accordo sugli
aiuti della Comunità per l’organizzazione dei mercati italiani. Anche
l’accordo sulla politica di liberalizzazione nel settore del vino fu raggiunto
senza nessuna garanzia di migliorare in questo settore il commercio intra-
comunitario.
Questa politica conciliante guadagnò all’Italia la reputazione di essere una
ferma sostenitrice della Commissione e l’Italia riuscì a sfruttare questa
reputazione chiedendo alla Commissione molti favori nel 1962 e 1963.
All’Italia fu concesso infatti di mantenere basso il prezzo dell’orzo in
modo da poter continuare il suo programma di espansione
dell’allevamento di bestiame. Le fu concesso di finanziare il trasporto di
frutta e verdura dal sud al nord d’Italia. La Commissione inoltre propose
un’organizzazione di mercato nel settore del riso, che avrebbe
avvantaggiato essenzialmente la produzione italiana di riso. Importante fu
pure il rifiuto della Commissione di cambiare la linea essenziale di questa
organizzazione di mercato nonostante la clamorosa opposizione della
Germania e dell’Olanda. Lo stesso Mansholt fece un fermo e pubblico
apprezzamento della condotta italiana al Parlamento europeo.
96
6) I negoziati: 1962-63.
L’atteggiamento conciliatorio o tutt’al più dilatorio dei negoziatori italiani
fu mantenuto anche nei negoziati che si svolsero nel 1962-63, con i quali
furono poste le fondamenta della politica agricola comunitaria, o meglio
delle organizzazioni comuni dei mercati. C’è da tener presente, in questi
negoziati, che essi si svolgevano in un clima in cui l’unificazione politica
e l’ingresso della Gran Bretagna, obiettivi a cui l’Italia teneva
particolarmente, sembravano ancora possibili e imminenti.
Solo verso la fine del 1963, col veto della Francia all’ingresso della Gran
Bretagna, i negoziati agricoli furono sgombrati da questa variabile ed
assunsero un ritmo più sostenuto e un tono più animato. L’Italia mantenne,
però, il suo ottimismo e il suo spirito conciliatorio e, in questo spirito, si
accinse a concludere una serie di accordi, non tutti vantaggiosi per la sua
agricoltura, nel settore dei cereali, della carne bovina, dei prodotti lattiero-
caseari, del riso, degli ortofrutticoli e del vino.
7) I negoziati: 1964.
Il 1964 è 1’anno in cui l’Italia incomincia ad abbracciare quella che Bino
Olivi ha definito la “politica degli interessi”. Ciò non esclude che essa
persegua ancora una politica di conciliazione: però la stessa conciliazione
viene messa al servizio degli interessi agricoli. I delegati italiani a
Bruxelles, cioè, adottano una linea di disponibilità a sacrificare parte degli
interessi agricoli, ma solo a condizione che anche i partners siano disposti
a fare concessioni in altri settori.
L’occasione per la sperimentazione di tale linea politica fu la richiesta
della Francia di arrivare entro il 15 dicembre ad una decisione
sull’unificazione dei prezzi dei cereali, fatta sotto la minaccia di un ritiro
della sua adesione della Comunità nel caso in cui non si fosse arrivati ad
un accordo entro tale data. Per l’Italia l’unificazione del prezzo dei cereali
avrebbe comportato un abbassamento del prezzo del grano.
In base alle proposte della Commissione, era stato calcolato che la
diminuzione del reddito agricolo in Italia nel settore del grano e della
segale sarebbe stata di quasi 53 miliardi di lire. In previsione dei negoziati
su questo problema, il ministro italiano dell’agricoltura, Ferrari-Aggradi,
faceva conoscere la posizione italiana: se l’Italia doveva acconsentire
all’abbassamento del prezzo del grano nell’interesse degli altri e
nell’interesse della Comunità, allora essa avrebbe chiesto agli altri di
cedere su questioni di suo interesse.
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Le questioni sulle quali le aspettative dell’Italia erano andate deluse erano
essenzialmente tre: l’organizzazione comune dei mercati ortofrutticoli, la
libertà di movimento della manodopera nella CEE e il finanziamento degli
interventi strutturali da parte del FEOGA. Su ognuno di questi punti
l’Italia aveva ottenuto un riconoscimento ufficiale dei suoi problemi e su
ognuno le erano state fatte delle piccole concessioni; ma su ognuna di
queste questioni l’Italia non aveva ottenuto la considerazione che essa si
aspettava. L’occasione per proporle con maggior vigore veniva ora offerta
dalla richiesta francese sui cereali.
Nel settore degli ortofrutticoli 1’Italia chiedeva che venisse approvato
entro l’anno il regolamento sull’organizzazione comune del mercato a
partire dal 1° gennaio 1966, che la Commissione aveva preparato, ma che
ancora non si era riusciti ad approvare soprattutto per l’opposizione della
Germania. In materia di politica sociale l’Italia chiedeva, invece, che fosse
realizzata la libera circolazione della manodopera e che fosse rispettato il
principio della preferenza comunitaria anche nel settore della manodopera.
Più impegnative erano le richieste dell’Italia in materia di politica
finanziaria. L’Italia si rendeva infatti conto che nei due anni di
funzionamento del FEOGA, i vantaggi conseguiti erano
considerevolmente inferiori agli oneri sopportati. Sostanzialmente,
l’agricoltura più debole - quella italiana - aveva finanziato l’agricoltura più
forte - quella francese. L’Italia chiedeva perciò l’immediata revisione del
regolamento finanziario e dei criteri per sovvenzionare le esportazioni
agricole. In questo contesto i fondi della sezione “garanzia” avrebbero
dovuto essere disponibili anche per gli ortofrutticoli e per l’olio d’oliva.
In quell’occasione, 1’abilità dei negoziatori italiani fu tale che gli interessi
dell’Italia costituirono l’argomento principale dei negoziati di novembre e
dicembre. L’Italia si guadagnò, infatti, 1’appoggio francese e
l’apprezzamento delle altre delegazioni. Questo insieme di fattori,
unitamente alle buone ragioni, valse all’Italia una serie di successi
diplomatici, di cui non si aveva precedente, su molti dei punti messi in
discussione.
8) I negoziati: 1965.
Mentre il carattere dominante dei negoziati del 1964 può essere
considerato il trionfo diplomatico dell’Italia, i negoziati del giugno 1965
sulla politica finanziaria furono un fallimento. Per spiegare questo fatto
bisogna fare una netta distinzione tra gli amministratori e i diplomatici che
fino al 1965 ebbero un saldo controllo sulla gestione della posizione
italiana nei negoziati comunitari e i ministri/uomini politici che
98
rappresentarono l’Italia nelle riunioni del Consiglio dopo il 1965. Furono
questi ministri/uomini politici che fecero di ogni negoziato una pietra
miliare nella costruzione dell’«Europa».
Però, mentre gli uomini politici si proclamavano orgogliosamente eredi di
De Gasperi, i diplomatici italiani pesavano e valutavano attentamente
quali fossero gli interessi internazionali dell’Italia. Dal 1960 al 1964 fu
proprio questo aspetto “machiavellico” della diplomazia italiana che rese
possibile il progredire dello sviluppo della Comunità contemporaneamente
al riconoscimento degli interessi italiani. Erano i diplomatici, piuttosto che
gli uomini politici, ad avere il controllo della situazione italiana.
Per capire come nel giugno 1965 la posizione italiana poté cambiare così
radicalmente, passando da una posizione di apertura ad una di confronto,
bisogna tener conto del fatto che l’Italia aveva perso un brillante
diplomatico, Attilio Cattani, ritiratosi dalla scena politica, e un abile
negoziatore, Emilio Colombo, dedicatosi alla politica. Fu l’ex presidente
del Consiglio ed allora ministro degli esteri, Amintore Fanfani, a sostituire
Colombo al tavolo della conferenza di Bruxelles.
Per diversi motivi Fanfani aspirava a diventare un protagonista del
processo di integrazione politica dell’Europa, che costituiva l’obiettivo
pressoché dell’intera classe politica italiana. Andando a Bruxelles e
ponendosi al centro dell’attenzione pubblica, Fanfani stava mettendo una
seria ipoteca sulla possibilità di diventare il campione degli interessi
italiani e di assicurarsi un’immagine di abile negoziatore e di difensore
della fede europea.
Ad incoraggiare Fanfani nel suo tentativo di contrastare i francesi sulle
questioni di ordine politico, c’era il fatto che l’Italia non era ancora
soddisfatta della politica agricola comunitaria. Ancora nel giugno 1965 il
Consiglio non era giunto ad un accordo sui meccanismi per l’instaurazione
di un’organizzazione comune di mercato per gli ortofrutticoli, l’olio di
oliva, il vino e il tabacco. Non era nemmeno entrata in funzione la sezione
“Orientamento” del FEOGA. Inoltre l’Italia era diventata una grande
importatrice di prodotti alimentari, fatto che comportava enormi contributi
alla sezione “garanzia” del Fondo.
L’occasione attesa da Fanfani per guadagnare all’Italia la leadership
dell’unità europea e per ristabilire un equilibrio nella partecipazione
italiana alla Pac furono le discussioni del Consiglio del giugno 1965, che
ebbero come tema il rinnovo del regolamento finanziario. Su questo
argomento, Fanfani si cimentò in una politica di aspro confronto con la
99
Francia che degenerò in una crisi di vaste proporzioni da cui sembrava che
la costruzione europea non dovesse salvarsi.
Apparentemente la controversia tra Italia e Francia sembrava di carattere
puramente tecnico: e cioè se l’accordo finanziario dovesse essere di uno,
due o cinque anni. In realtà la controversia era molto più profonda, in
quanto Fanfani mirava non solo ad una revisione completa del
regolamento finanziario, ma anche ad un accrescimento dei poteri del
Parlamento europeo in materia di bilancio, come misura diretta a mettere
in moto 1’Europa sopranazionale.
Su questi obiettivi sperava di poter creare un fronte unito della
Commissione e dei cinque contro la Francia. Questa, tuttavia, con una
decisione clamorosa, il 1° luglio interruppe i negoziati, minacciando di
ritirarsi dalla Comunità. Nel fallimento dei negoziati una parte non
secondaria della responsabilità venne attribuita all’atteggiamento
“ricattatorio” di Fanfani e alla sua “tattica deleteria del piccolo
contrabbando diplomatico nel tentativo di far passare l’integrazione
politica dell’Europa” (L’Unità, 2 luglio 1965).
Il fallimento della linea italiana divenne più evidente ad ottobre, quando i
francesi ottennero che il pacchetto di proposte della Commissione sul
quale si era prodotta la crisi di giugno perdesse la sua iniziale unità
organica, che cioè delle questioni finanziarie si potesse discutere anche
separatamente dalle questioni politiche. ”Non c’è dubbio che gli Italiani in
quella occasione - ha scritto a questo proposito Bino Olivi – permisero
rapidamente ai francesi di ottenere questo successo capitale per i loro fini
politici”. Comunque, con il ritorno di Colombo a Bruxelles, ad ottobre,
prende di nuovo piede la linea diplomatica rispetto alla linea politica: si
ritorna, perciò, su una posizione conciliatoria, senza peraltro che ciò
significasse sacrificare gli interessi dell’agricoltura.
9) I negoziati: 1966.
Nel 1966 1’Italia si trovava nella stessa posizione del 1964, cioè con le
stesse rivendicazioni in sospeso verso la politica della Comunità. La
differenza stava nel fatto che dal 1966 si sarebbe abbandonata totalmente
la politica di conciliazione per adottare più drasticamente una “politica
degli interessi”. Questo cambiamento era dovuto soprattutto al fatto che la
posizione negoziale dell’Italia veniva ora sottoposta ad un più minuzioso
esame critico da parte di più larghi strati dell’opinione pubblica.
In questo movimento d’opinione, nel 1966, si sentivano soprattutto due
voci. Una era costituita dal forte risentimento dei gruppi agrari e
dell’opinione pubblica più disparata per il fallimento della diplomazia
100
europea a far progredire la Comunità sulla strada della sovranazionalità.
La seconda voce nasceva dalla profonda insoddisfazione per gli sviluppi
della Pac, per la mancata attuazione delle organizzazioni comuni dei
mercati nel settore degli ortofrutticoli, dello zucchero, del tabacco, dei
grassi e degli oli e per la partecipazione eccessiva dell’Italia al
finanziamento del fondo agricolo.
10) I negoziati: 1967-70.
Nel periodo 1967-70 si accentuarono le pressioni sul Governo per
assumere una posizione più aggressiva nei negoziati agricoli e per una
difesa più attiva degli interessi italiani. Le politiche degli ortofrutticoli, del
tabacco e del vino non erano ancora state completate e la politica
finanziaria pesava ancora sensibilmente sulla borsa italiana. Incombevano,
inoltre, gli accordi commerciali con la Spagna e gli altri paesi del
Mediterraneo.
Ormai la coscienza della situazione dell’agricoltura italiana nella
Comunità aveva superato l’ambito della classe politica e si era radicata nel
Paese. Non erano più soltanto i leader agricoli a premere sul ministero
dell’agricoltura, ma erano gli stessi agricoltori a scendere nelle piazze per
dimostrare la loro insoddisfazione per la politica agricola comunitaria, ed
in particolare per la politica del latte.
Questo fatto mise il governo e le forze che stavano dietro a Bonomi
nell’infelice posizione di dover difendere una politica che essi
sostanzialmente non avevano mai caldeggiato. I negoziatori italiani
riuscirono tuttavia ad assicurarsi un certo successo sulla limitazione della
partecipazione italiana al finanziamento del FEOGA, il che valse a fugare
in parte le critiche che la Pac aveva fatto nascere in Italia.
Quello che colpisce in questo periodo nella posizione italiana è il
dispendio di energie per difendere interessi spesso molto particolari, non
soltanto dell’agricoltura, ma anche dell’industria. E’ il caso delle
discussioni sulla politica degli oli da seme, o il caso delle richieste italiane
nel settore dello zucchero.
In questo settore, dove veniva prevista l’istituzione di quote di produzione
nazionali, sia l’Italia che in Germania raccomandavano un sistema elastico
che concedesse la possibilità di trasferire quote di produzione da una
fabbrica all’altra nel caso in cui queste appartenevano alla stessa impresa.
I francesi e i belgi si opponevano a questa interpretazione del sistema delle
quote, sottolineando gli effetti negativi che essa avrebbe avuto sui
produttori di barbabietole che si fossero trovati di fronte alla chiusura di
un impianto.
101
Gli italiani tuttavia insistettero sul fatto che era necessaria una certa
elasticità se si voleva che ci fosse una razionalizzazione e una
concentrazione dell’industria saccarifera in Italia. Per salvaguardare gli
interessi dei produttori l’Italia propose che a ogni governo fosse data la
possibilità di assegnare a propria discrezione il 10% della sua quota.
L’esperienza degli anni successivi avrebbe, in realtà, dimostrato che con
tale richiesta l’Italia era riuscita a salvaguardare gli interessi delle sue
industrie ma non quelle dei suoi produttori di barbabietole. Anche gli
interessi degli importatori di vitelli e di carne, fresca e congelata, ebbero
un peso di rilievo nei negoziati agricoli del 1967-68.
Negli anni successivi la posizione italiana si irrigidì sempre più per il
riconoscimento dell’organizzazione comune dei mercati a due suoi
prodotti tipici, tabacco e vino, e per il miglioramento del regolamento
sugli ortofrutticoli. Nel corso del negoziati Italia dovette ricorrere più
volte alla minaccia di non accettare più alcun impegno sugli aspetti
finanziari della Pac se non fosse stata data soluzione ai suoi problemi.
I problemi degli ortofrutticoli, del tabacco e del vino furono discussi
perfino al summit dell’Aja e le loro trattative divennero parte essenziale
degli accordi chilometrici di dicembre. Solo in questo modo gli italiani
riuscirono ad assicurarsi il regolamento di quei settori di maggior
importanza per loro. Tuttavia, a causa della necessità di spingere per gli
interessi agricoli che erano stati dimenticati, essi persero l’iniziativa della
discussione politica fra i sei.
11) I negoziati: 1971-74.
Il 1971 segna un altro punto di svolta nella storia della partecipazione
dell’Italia alla costruzione della Pac. Con la regolamentazione del settore
del vino, del tabacco, degli ortofrutticoli, del lino e della canapa,
l’organizzazione comune dei mercati poteva ormai considerarsi pressoché
completata.
Esauritasi pertanto, col 1970, la spinta rivendicativa dell’Italia rivolta ad
ottenere il diritto ad una protezione sotto l’ombrello comunitario per le sue
produzioni più tipiche, l’iniziativa italiana si indirizzava, da allora in poi,
su due direttrici: 1’una rivolta a migliorare l’efficacia delle organizzazioni
comuni di mercato per i prodotti di maggior interesse; 1’altra rivolta a
determinare un concreto avvio della politica di riforma strutturale e delle
altre politiche collaterali (politica sociale e regionale).
Questa evoluzione della posizione italiana da un arroccamento
intransigente a difesa della politica dei prezzi e dei mercati verso una
102
iniziativa più attiva sul fronte della politica di riforma delle strutture
agricole e delle politiche collaterali, si spiega alla luce del dibattito
apertosi ad ogni livello nel Paese, sui risultati deludenti della politica
agricola comunitaria.
Il dibattito aveva sostanzialmente preso le mosse dal ”Memorandum” sulla
riforma dell’agricoltura nella Cee presentato nel dicembre del 1968 alla
Commissione dal suo vicepresidente, Sicco Mansholt. Anche in
precedenza, però, non erano mancate voci di dissenso sull’orientamento
assunto dalla politica agricola comune e sulla linea seguita dai negoziatori
italiani a Bruxelles.
Sinistre e sindacati, in particolare, avevano espresso in più occasioni
pesanti riserve sulla posizione di chiusura dei rappresentanti italiani in un
puro rivendicazionismo in materia di prezzi e di mercati, sacrificando gli
obiettivi di riforma strutturale che pure erano stati chiaramente enunciati a
Stresa. Queste forze, però, non erano riuscite a conquistare un proprio
ruolo nella gestione della politica agricola dell’Italia a livello comunitario,
ancora egemonizzata dalla Coldiretti, dalla Confagricoltura e dalla
Federconsorzi.
Negli anni 1969-1970, sull’onda della riflessione critica stimolata dal
Memorandum Mansholt, si apre nel Paese un ampio e approfondito
dibattito sulla Pac e sul ruolo svolto dall’Italia, che coinvolge praticamente
tutte le forze politiche, sindacali e professionali.
Questa riflessione critica sugli sviluppi della Pac porta larghi settori del
mondo agricolo, politico e sindacale a convincersi dell’opportunità di
ricercare il miglioramento del reddito agricolo più dagli interventi sulle
strutture di produzione e di commercializzazione che non dal continuo
aumento dei prezzi. Contro ulteriori aumenti dei prezzi agricoli si
schierano, in particolare, i sindacati operai, preoccupati dei riflessi della
politica dei prezzi sui redditi dei consumatori e convinti dell’impossibilità
di risolvere i problemi dell’agricoltura senza una adeguata politica di
riforma delle strutture. Contemporaneamente viene sollecitata una politica
regionale e una politica sociale tese a rendere meno traumatiche le azioni
strutturali e a fronteggiare i problemi emergenti dall’impatto di quelle
misure con la realtà economica e sociale della nostra agricoltura.
Anche fra le organizzazioni di categoria si allarga l’area del malcontento
per i problemi rimasti insoluti con la politica comune dei prezzi e dei
mercati e si afferma, sia pure tra mille incertezze e mille contraddizioni, la
tendenza a rivalutare il ruolo della politica strutturale nella soluzione dei
problemi dell’agricoltura italiana.
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In questo contesto si incrinano certi canoni della politica agricola italiana
ed entrano in crisi certe alleanze sulle quali in passato questa politica si era
retta. I responsabili della politica italiana a Bruxelles si trovano, perciò, a
fronteggiare e a mediare una gamma più composita di spinte e
controspinte provenienti dal mondo rurale ed ora, con più forza che in
passato, anche dall’esterno del settore agricolo.
Pur nello sforzo di comporre le varie istanze, i negoziatori italiani, alleati
spesso alla Commissione, contribuiscono in maniera determinante a far
varare una politica strutturale comune, una politica per le zone più
sfavorite e una parvenza di politica regionale. Tuttavia l’accanita
resistenza dei partners, giustificata anche con l’incapacità spesso
dimostrata dall’Italia ad usufruire delle misure comunitarie, da una parte, e
la mancanza di una netta opzione dei negoziatori italiani per un
superamento della politica dei prezzi e dei mercati, dall’altra, rendono i
successi conseguiti molto più modesti di quelli che si sperava di ottenere.
12) La posizione italiana nei negoziati agricoli :riepilogo
Abbiamo analizzato la posizione italiana nei negoziati sulla Pac, ed
abbiamo distinto tre periodi:
I. dal 1958 al 1964 in cui la posizione italiana è stata dominata da ciò
che può essere chiamato lo “spirito comunitario”. Durante tale
periodo il più importante interesse dei rappresentanti italiani alla
Cee è stata la promozione del processo di integrazione,
possibilmente esteso anche alla Gran Bretagna. In nome di tale
ideale sono state accettate decisioni, come il regolamento
finanziario e i regolamenti sui cereali e sul latte, che si sarebbero
rivelate onerose o controproducenti per l’agricoltura italiana.
Una serie di altri fattori ha concorso a spingere i rappresentanti
italiani su una posizione di disponibilità verso le proposte della
Commissione e le richieste dei partners: la mancanza di valide
alternative da contrapporre; la carenza di esperienza e di
conoscenze con cui i delegati italiani si sono presentati ai
negoziati; l’erronea previsione sugli sviluppi delle nostre
importazioni agricole e quindi sulla partecipazione italiana al
finanziamento del Feoga; la scarsa presa di coscienza degli
interessi in gioco da parte delle organizzazioni professionali
agricole.
Dopo il 1963 questa posizione si è lentamente modificata a causa
della delusione sullo sviluppo della politica comunitaria in
generale, della politica agricola in particolare, e per il rendersi
104
conto che l’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune non
era imminente, che l’unità politica non era inevitabile e che la
cooperazione franco-tedesca dominava la politica comunitaria. Nel
1964 1’Italia si è imbarcata in quella che è stata chiamata “politica
di rattrapage” o “politica degli interessi”, ossia in una politica di
rivendicazione degli interessi vitali.
II. Il secondo periodo, che va dal 1965 al 1970, è il periodo in cui si
accentua da parte italiana, ma anche da parte degli altri Paesi
membri, la “politica degli interessi”. Esso è stato infatti segnato
dalla predominanza delle richieste dei gruppi di interesse nella
elaborazione della posizione italiana.
In questo periodo la posizione italiana è stata dominata
essenzialmente da due preoccupazioni: a) ridurre per quanto
possibile i contributi italiani al fondo agricolo; b) promuovere
l’integrazione dei mercati nei settori degli ortofrutticoli, del vino,
del tabacco e dell’olio d’oliva. Mentre sul primo obiettivo si sono
potuti ottenere risultati abbastanza soddisfacenti e con una relativa
facilità, più combattuto è stato il conseguimento del secondo
obiettivo.
In questo campo l’Italia si è trovata infatti a fronteggiare la ferma
opposizione alla istituzione, e soprattutto al finanziamento, di
nuove organizzazioni comuni di mercato. Per giunta i negoziati
relativi a questi prodotti si sono svolti in un contesto di “apertura”
della Comunità verso i Paesi del Mediterraneo, sicché l’interesse
italiano a un sistema di regolamentazione del mercato che
garantisse la preferenza comunitaria ai suoi prodotti tipici è stato
solo in parte salvaguardato.
III. Il terzo periodo ha connotati meno tipici dei primi due. Tant’è che
si potrebbe anche discutere sulla legittimità della sua separazione
dal secondo periodo. A partire dal 1971 si può, tuttavia,
individuare, nella posizione italiana, qualche sintomo di
evoluzione verso posizioni meno intransigenti sul fronte dei prezzi
e dei mercati e più aperte alle istanze di riforma dell’agricoltura, di
rinnovamento della Pac, di nuove forme di sostegno
dell’agricoltura, in particolare di quella più sfavorita.
In questi anni l’Italia coglie alcuni importanti successi diplomatici
e politici a Bruxelles, alleandosi spesso alle proposte della
Commissione e trovandosi di fronte alla accanita resistenza di
molti partners. A livello nazionale, tuttavia, diviene sempre più
105
evidente che, senza la mediazione di un apparato amministrativo
all’altezza dei compiti cui le decisioni assunte lo chiamano, e senza
aver rimosso gli altri ostacoli che rendono difficoltosa nel nostro
Paese la realizzazione della Pac, anche il miglior successo
diplomatico può venire vanificato sul piano operativo.
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restano da considerare altri elementi, utili ad apprezzare meglio il
contributo dell’Italia nella fase decisionale della Pac.
Anzitutto un’osservazione di fondo crediamo possa essere fatta
preliminarmente. Nonostante i successi di cui s’è detto, riteniamo che
l’apporto creativo dell’Italia alla costruzione della Pac sia stato, nell’arco
dei quindici anni, tutto sommato abbastanza modesto, quantomeno a
livello delle fondamentali scelte politiche.
Non è un mistero, del resto, che la Pac sia sostanzialmente improntata agli
indirizzi di politica agraria dominanti nel Nord-Europa. Sul piano politico,
d’altra parte, la Pac è il frutto di un compromesso tra francesi e tedeschi,
in cui gli interessi agricoli dei primi hanno trovato compensazione con gli
interessi industriali dei secondi.
Non sono queste, comunque, le colpe che si vogliono addossare alla
responsabilità italiana. Quello che si intende rimarcare è come l’Italia in
questi anni si sia trovata più spesso nella posizione di postulante che in
quella di offerente; il suo ruolo, cioè, è stato più spesso quello di
contrattare modifiche, integrazioni, eccezioni alle proposte altrui che
quello di promuovere e sostenere proprie iniziative globali.
Anche quando erano in gioco propri interessi vitali, come nel caso degli
ortofrutticoli, l’iniziativa italiana non è andata molto al di là del
rivendicarne, peraltro tardivamente, l’inserimento tra le organizzazioni
comuni dei mercati, non essendo in grado di offrire una propria proposta
di organizzazione dei mercati. Per quanto riguarda poi il contributo
italiano al varo della politica strutturale comune, c’è da dire che, per
quanto sia stato realmente decisivo, esso è intervenuto soltanto nella fase
finale e in appoggio ad una specifica iniziativa della Commissione.
Per anni, cioè, l’Italia ha sostanzialmente perso l’occasione per farsi
propugnatrice di una reale alternativa alla politica dei prezzi e dei mercati,
pur avendo chiaramente indicato a Stresa l’esigenza di un preliminare
allineamento delle condizioni strutturali della nostra agricoltura ai livelli
europei. Le stesse considerazioni possono essere fatte per la politica
regionale, solo di recente assunta come obiettivo primario al proprio
impegno, a ridosso di un’analoga iniziativa degli inglesi.
La seconda considerazione da fare è che quasi sempre le concessioni
strappate in sede di negoziato hanno avuto delle onerose contropartite a
vantaggio degli interessi dei partners. Questo è implicito in ogni
negoziato, ma nel caso dell’Italia, non sempre vi è stata una scelta felice
tra interesse da salvaguardare e contropartita da sacrificare. Spesso, infatti,
l’interesse fatto valere si è rivelato effimero o comunque inadeguato
107
rispetto al costo sopportato. In definitiva hanno finito col prevalere gli
interessi dei gruppi meglio organizzati e con maggior peso politico.
Se allargassimo la visuale al di là dell’ambito strettamente diplomatico e
fondassimo il bilancio della partecipazione dell’Italia all’elaborazione
della Pac sulla base di un più preciso apprezzamento della condotta tenuta,
il bilancio diventerebbe certamente ancora meno soddisfacente.
14) L’influenza della Pac sull’agricoltura italiana.
Il secondo livello a cui il bilancio della partecipazione dell’Italia alla Pac
può essere effettuato è quello dei benefici apportati all’agricoltura italiana
dalla politica agricola comuni. Anche sotto questo profilo non si può
ovviamente negare che l’integrazione dei mercati e la sempre maggiore
rilevanza delle decisioni comunitarie sul piano della politica agricola
hanno apportato taluni vantaggi alla nostra agricoltura.
La stabilizzazione dei prezzi e dei mercati, ad esempio, è un tipico
derivato delle misure comunitarie approntate a tale scopo. Per alcuni
prodotti l’apertura dei mercati e le misure di intervento previste dalla CEE
hanno significato nuove possibilità di sbocco commerciale e nuovi
incentivi ad estendere e a migliorare la produzione.
L’agricoltura italiana è stata, insomma, sottratta in una certa misura alla
tutela del protezionismo nazionale e sottoposta al salutare confronto con le
più avanzate agricolture europee. Questi ed altri vantaggi non sarebbero
probabilmente venuti senza l’apporto determinante della Pac.
Eppure non si può dire che l’agricoltura italiana nel suo complesso abbia
tratto consistenti benefici dalla Pac, almeno se si tengono presenti le sue
più vitali esigenze. Al di là dei progressi compiuti e dei risultati conseguiti
in questo o quel settore, durante questi quindici anni di Pac, sopravvivono
infatti pressoché immutati tutti i fattori di inferiorità strutturale della nostra
agricoltura rispetto a quella degli altri Paesi della CEE.
Solo in pochi settori essa è realmente competitiva sui mercati comunitari,
ma le sue posizioni, lungi dall’essersi consolidate, sono sottoposte al
logoramento derivante dalla concorrenza di altre agricolture. La maglia
poderale è ancora troppo pletorica, le strutture associative poco sviluppate;
la bilancia alimentare sempre più deficitaria, le distorsioni produttive
ancora più vistose.
Del resto, anche sul piano puramente contabile la partecipazione italiana
alla Pac si rivela pesantemente negativa. E’ noto, infatti, che l’Italia ha
ricevuto dal FEOGA molto meno di quanto non gli abbia versato. Per il
periodo 1962-70, per il quale è possibile fare questo confronto, la sezione
108
“Garanzia” si chiude, infatti, con un deficit per l’Italia di ben 224.977
milioni di lire, solo in parte compensato dall’attivo di 135.981 milioni di
lire della sezione “Orientamento” e dall’attivo di 0.760 milioni di lire delle
due “sezioni speciali”.
Se questo non è addebitabile alla responsabilità di nessuno, ma solo al
gioco delle variabili che influenzano la posizione dei singoli Paesi rispetto
al FEOGA, più chiara appare la responsabilità italiana nel ritardo con cui
vengono utilizzati i contributi del FEOGA per il finanziamento dei progetti
individuali di miglioramento delle strutture.
Alla fine del 1972, infatti, sulle somme accreditate all’Italia per progetti
strutturali dalla sezione Orientamento del FEOGA a carico del periodo
1965-1970, risulta utilizzato appena il 9%, contro il 19% della Francia, il
21% del Belgio e della Germania, il 36% dell’Olanda e il 53% del
Lussemburgo.
Alla stessa epoca risultava ancora da utilizzare il 22% degli stanziamenti
impegnati nel 1965, il 53% di quelli impegnati nel 1966, il 70% di quelli
impegnati nel 1967, quando l’O1anda aveva invece completamente
utilizzato i fondi stanziati nel 1965 e 1966 e ben 1’83% di quelli stanziati
nel 1967.
Del resto, anche per la “sezione Garanzia” del FEOGA l’Italia detiene il
primato negativo nell’utilizzazione dei fondi messi a disposizione degli
Stati membri della CEE. Per il 1972, ad esempio, il tasso medio mensile di
utilizzazione per l’Italia è di appena il 31,3% contro una media del 74%
negli altri Paesi della CEE, nonostante la Commissione avesse più volte
invitato le autorità italiane a modificare talune disposizioni che hanno
ostacolato il buon funzionamento del sistema.
Ma un bilancio della partecipazione dell’Italia alla Pac fondato
esclusivamente sui dati complessivi del dare e dell’avere, anche se
chiaramente passivo, è certamente deviante oltre che scarsamente
illuminante: occorrerebbe infatti conoscere anche quali imprese hanno
realmente usufruito dei contributi finanziari della CEE e quale
utilizzazione ne è stata fatta. Verrebbe, allora, alla luce un vero e proprio
sottobosco di parassitismo che si è alimentato dei soldi della CEE, ma in
definitiva anche coi soldi dei contribuenti italiani.
Una larga fetta dei versamenti della “sezione Garanzia” del FEOGA è
andata inoltre a premiare e a incentivare vere e proprie “rendite di
produttività”, vantate dalle aziende già moderne, a scapito delle aziende
minori ed invece più bisognose di sostegno. Alla luce di queste
considerazioni, il bilancio contabile apparirebbe ancora più negativo. E’
109
chiaro, però, che tali valutazioni postulano un apprezzamento degli
orientamenti assunti in questi anni dalla Pac. Noi, invece, in questa sede
vogliamo volutamente prescindere da tali apprezzamenti, e considerare la
Pac, così come si è venuta sviluppando, come un dato immodificabile del
problema.
Ebbene, anche assumendo le linee della Pac, le misure previste, gli
interventi disposti, quali vincoli esterni all’iniziativa italiana e non quali
variabili scaturite da un processo decisionale in cui tutti i Paesi membri
risultano coinvolti, il bilancio della Pac per l’Italia appare ancor più
fallimentare. Sotto questo profilo, per giunta, la responsabilità ricade
unicamente su se stessa.
Fra tutti i Paesi della CEE 1’Italia è il Paese che incontra più difficoltà non
solo nel rendere esecutive le decisioni comunitarie, ma anche
nell’avvantaggiarsi delle misure e dei mezzi finanziari che la Comunità ha
previsto, magari a vantaggio esclusivo della sua agricoltura.
Il capitolo delle inadempienze italiane, dei ritardi, delle colpevoli
omissioni, dei solenni rimbrotti alla nostra imprevidenza potrebbe essere,
anzi, tanto lungo da riempire un intero volume. E forse la materia lo
richiederebbe.
Verrebbe allora alla luce la paradossale realtà di un Paese che ha
combattuto tante battaglie a Bruxelles per ottenere vantaggi, quasi sempre
strappati in cambio di onerose contropartite, e destinati comunque ad
essere poi pressoché sistematicamente vanificati sul piano nazionale.
L’Italia si è fatta spesso segnalare a Bruxelles per le sue inadempienze e
spesso è finita come imputata sui banchi della Corte di Giustizia della Cee.
Ma la “disobbedienza comunitaria” dell’Italia non è forse nemmeno
l’aspetto più colpevole o comunque più gravoso per l’agricoltura italiana.
Più gravi delle inadempienze denunciate sono i ritardi con cui avvengono
mille adempimenti di più vasta portata quotidiana. Più importanti delle
condanne della Corte di Giustizia su questioni particolari, sono le denunce
di centinaia di migliaia di agricoltori che attendono per anni di usufruire
delle misure previste dalla CEE.
In effetti, quando si deve attendere, come accade regolarmente, anche tre o
quattro anni per usufruire di un’integrazione di prezzo sul grano duro o
sull’olio d’oliva prodotto, risulta evidente che tale misura, a prescindere
dalla sua validità economica e politica, viene a mancare al suo principale
obiettivo che è quello di un sostegno corrente del reddito del produttore.
110
Ma questo non è nemmeno l’esempio più eclatante di colpevole
negligenza italiana di fronte alla Pac. Ben più gravi sono gli esempi che si
possono portare con riferimento agli interventi previsti per il
miglioramento delle strutture di produzione, conservazione,
trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli.
Già s’è visto che al 31 dicembre 1973, l’Italia aveva utilizzato solo 1’8,6%
dei fondi accreditati dalla sezione Orientamento del FEOGA nel periodo
1962-63/70 per il finanziamento dei progetti ammissibili. Ovviamente tale
percentuale diminuirebbe ancora di più se si potessero includere anche gli
accreditamenti fatti dopo il 1970.
Ma non diverso è stato finora il destino toccato a tanti stanziamenti
straordinari disposti a favore del nostro Paese per particolari programmi di
intervento sulle strutture: 45 milioni di unità di conto concessi nel 1966
per il miglioramento delle strutture di produzione e commercializzazione
dell’olio d’oliva, a quanto sembra destinati ad interventi di mercato; altri
45 milioni di unità di conto destinati al miglioramento delle strutture di
produzione e commercializzazione degli ortofrutticoli, di cui non si
conosce la reale utilizzazione; 15 milioni di unità di conto concessi,
sempre nel 1966, per il miglioramento delle strutture tabacchicole, di cui
l’unica cosa certa è che, a distanza di quasi dieci anni, attendono ancora di
essere investiti, in mancanza di un apposito programma di intervento. E si
potrebbe continuare.
Su uno di tali programmi straordinari di intervento vogliamo soffermarci
un po’ di più per il suo valore emblematico: è quello previsto dalla CEE
nel settore agrumicolo. Come è noto, nei negoziati agricoli svoltisi alla
fine del 1969, 1’Italia ottenne dalla CEE il finanziamento di un piano di
interventi nel settore agrumicolo in cambio di talune concessioni in
materia di preferenza comunitaria.
Più precisamente, con il reg. n. 2511/ 1969, la Comunità ha previsto due
tipi di misure, alcune volte al sostegno del mercato, altre volte al
miglioramento delle strutture di produzione, commercializzazione e
trasformazione nel settore delle arance e dei mandarini, che avrebbero
dovuto porre rimedio in una certa misura alle ricorrenti crisi agrumicole
del nostro Mezzogiorno.
Le prime erano a totale carico del FEOGA. Le seconde per il 50% a carico
del FEOGA e per il 50% a carico dei bilanci nazionali. Per usufruire del
concorso del FEOGA 1’Italia avrebbe dovuto elaborare un apposito piano,
secondo le indicazioni della Commissione. Per beneficare degli aiuti
111
previsti le operazioni suddette avrebbero dovuto essere realizzate entro il
31 dicembre 1976.
Non vogliamo qui raccontare per esteso le vicende di questo piano, né
entrare nel merito delle proposte fatte, in qualche occasione giudicate
perfino “dannose” negli ambienti interessati. Quel che preme, invece,
mettere in risalto è che sono dovuti trascorrere tre anni perché fossero
completati i preliminari tecnici e burocratici di un piano che doveva
sostanzialmente porsi come provvedimento d’urgenza.
Il piano è stato infatti approvato nel febbraio 1973 dalla Commissione
CEE, ma successivamente è stato necessario un apposito provvedimento
legislativo nazionale per l’autorizzazione della spesa necessaria
all’attuazione degli interventi previsti. L’apposito disegno di legge,
presentato nel giugno 1973, è stato approvato solo un anno dopo. Come se
non bastasse, la pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale ha
richiesto altri due mesi, sicché solo dall’agosto 1974 si dispone dello
strumento legislativo necessario per gli interventi.
Nel frattempo si è pensato bene di chiedere alla CEE una proroga alla
scadenza del piano, che così è slittata al dicembre 1978. Basterà questa
proroga? A giudicare da quello che si è fatto finora, ad oltre cinque anni di
distanza dal regolamento del 1969, temiamo di no. E così la lista delle
occasioni sprecate per l’Italia si accrescerà di un altro capitolo poco
edificante.
La vicenda del piano agrumicolo, come è stato scritto (1), “ha una sua
significatività non tanto per le misure da esso predisposte quanto per
l’occasione offerta, ma (...) purtroppo non colta, di affrontare
organicamente un effettivo miglioramento del settore”.
In effetti, al di là dell’aspetto specifico della mancata o non tempestiva
utilizzazione delle risorse messeci a disposizione dalla CEE, è tutta la Pac
che ha rappresentato un’occasione mancata per la nostra agricoltura. E’
anzi questa la colpa più grave che possa farsi ricadere sulla politica agraria
nazionale degli ultimi quindici anni: assente ai suoi compiti di
rinnovamento strutturale dell’agricoltura, negligente nel promuovere e
realizzare programmi di sviluppo e di riforma nei settori chiave della
nostra economia agricola, sorda alle istanze di sviluppo delle forme
associative.
15) Le carenze della partecipazione italiana alla Pac.
Resta di chiedersi, per concludere, perché il bilancio delle Pac sia per
l’Italia, tutto sommato, così modesto. La risposta a questo interrogativo
112
non può essere univoca e, in ogni caso, va data separatamente per ciascuno
dei livelli a cui il bilancio della Pac è stato formulato.
Occorre però sgombrare preliminarmente il terreno da una osservazione
con la quale talvolta si è preteso di spiegare tutto, o pressoché tutto, con la
predominanza sul tavolo delle trattative comunitarie degli interessi agricoli
della Francia di De Gaulle e dell’Olanda di Mansholt, oppure
dell’interesse all’apertura dei mercati da parte dell’industria tedesca e
italiana.
In realtà, per quanto i termini della Pac siano stati fin dall’inizio
accanitamente contrattati anche sulla base di interessi politici generali, a
cui talvolta gli interessi agricoli di questo o quel Paese sono stati
sacrificati, non v’è dubbio che 1’elaborazione della Pac, nella fase
negoziale e nella fase tecnica, ha offerto anche al nostre Paese possibilità
che non sempre sono state colte o fatte valere con sufficiente
lungimiranza.
Non tutto quello che è accaduto, insomma, è il mero risultato di un
incontrollabile esito del gioco di interessi nazionalistici, al quale sia
estranea l’Italia o di fronte al quale essa si sia trovata impotente. “Inutile
recriminare o assumere atteggiamenti risentiti - ha giustamente affermato a
questo proposito il portavoce ufficiale della Comunità, Bino Olivi - nella
Comunità si ha quello che ci si è conquistato, niente di più”.
Ciò premesso, cerchiamo di rintracciare alle radici le ragioni che hanno
portato l’Italia a conseguire risultati così modesti dalla sua partecipazione
alla Pac, distinguendo, come in precedenza, il momento decisionale dal
momento esecutivo.
A livello di partecipazione dell’Italia all’elaborazione della Pac molti sono
i fattori esplicativi che possono essere chiamati in causa. A monte di tutti
crediamo di poter mettere un aspetto della politica economica italiana
rimasto pressoché immutato nel1’ultimo quarto di secolo, e di cui solo da
qualche tempo si sta prendendo coscienza: il ruolo subalterno affidato
all’agricoltura nel modello di sviluppo dell’economia italiana.
L’emarginazione dell’agricoltura, a livello politico, economico e culturale
ha indubbiamente pesato negativamente per l’Italia anche in sede di
negoziati agricoli comunitari. Ma c’è un secondo fattore di fondo che può
essere chiamato in causa a tale proposito: la scarsa presa di coscienza nella
classe politica, nella Pubblica Amministrazione, e per un certo periodo fra
le stesse organizzazioni professionali agricole, dell’importanza dei
problemi comunitari e di una presenza italiana ad ogni livello attiva,
qualificata e guidata da ben ponderati indirizzi politici.
113
Questo atteggiamento di “incuria” verso la CEE si è manifestato sotto
varie forme: dalla mancanza di riunioni collegiali in seno al Governo per
definire la politica da perseguire a Bruxelles alla mancanza di
coordinazione in sede nazionale tra i vari ministeri interessati alla stessa
materia e tra Roma e la nostra Rappresentanza permanente presso la CEE;
dalla scarsa preoccupazione dimostrata spesso dal Governo in occasione
della attribuzione degli incarichi in seno alla Commissione della CEE alla
impreparazione con cui ci si è avvicinati a tante attrattive.
Passando a motivazioni meno periferiche e scendendo al cuore dei
problemi, possiamo individuare nella mancanza di un piano generale, di
una politica, di un disegno strategico, da seguire nei negoziati agricoli, la
ragione più profonda della modesta partecipazione italiana alla
elaborazione della Pac.
Questo non è altro, del resto, che un riflesso della mancanza di una vera
politica agricola all’interno del Paese. Come poteva l’Italia vantare un
bilancio più soddisfacente nei negoziati agricoli quando essa non ha avuto
nemmeno un’idea precisa del proprio sviluppo economico e tanto meno di
quello agricolo?
Dove la Francia poteva vantare il modello dei mercati centralizzati e dei
fondi nazionali di intervento, e 1’Olanda il modello della stretta
collaborazione tra associazioni dei produttori e agenzie governative,
l’Italia non aveva che la disorganizzazione dei mercati nella maggior parte
dei settori e una politica agricola sostanzialmente assistenzialistica.
I Paesi che, come la Francia e l’Olanda, avevano validi modelli da
proporre, hanno potuto contribuire alla elaborazione della Pac. Senza la
guida di una politica agricola nazionale i negoziatori italiani si sono
trovati, invece, spesso disorientati e incerti nelle iniziative.
Si spiega, perciò, perché hanno potuto essere commessi facili errori di
calcolo, come accadde a Colombo e a Rumor nei negoziati del 1962 sulla
politica finanziaria. Si spiega anche perché essi si sono trovati spesso a
difendere le proposte della Commissione, senza poter proporre altre
alternative, come nei negoziati sugli ortofrutticoli e sul tabacco.
Ma quel che è grave non è soltanto che l’Italia sia giunta al filo di partenza
del processo di integrazione europea senza una vera politica agraria e in
condizioni di estrema debolezza strutturale. Questa è certamente una
carenza “storica” della nostra agricoltura che spiega la difficoltà iniziale di
adattamento agli indirizzi della Pac.
114
Quel che però è forse ancora più grave è il fatto che nemmeno il
progressivo inserimento della nostra agricoltura nella realtà europea abbia
stimolato, sul piano interno, quelle riforme in grado di porla a livello delle
agricolture europee più avanzate e, sul piano comunitario, una
partecipazione improntata alle reali esigenze della nostra agricoltura, del
resto già enunciate a Stresa, e cioè: una politica che consentisse un
adattamento strutturale delle agricolture più deboli, ed in particolare di
quella italiana, per rimuovere o attenuare i fattori di differenziazione delle
strutture produttive e dei costi di produzione; una politica dei prezzi
orientata al miglioramento della produttività; tutto questo nel quadro di
una politica regionale che attenuasse gli squilibri e di una politica sociale
che ponesse rimedio problemi emergenti dagli interventi sulle strutture
agricole.
Se sul piano comunitario è possibile far valere qualche attenuante, ciò è
meno facile sul piano della politica interna, dove intera rimane la
responsabilità di una politica agricola altrettanto fallimentare.
Tutto questo chiama in causa precise responsabilità politiche cui non si
può fare a meno di far riferimento. Anzitutto i partiti, primi fra tutti quelli
di governo ed in particolar modo la Democrazia Cristiana. Al di là dei
soggettivi apprezzamenti di schieramento, è un fatto che la gestione della
politica agricola italiana sia stata, nell’ultimo dopoguerra, un dominio
pressoché esclusivo del partito di maggioranza relativa.
Basti dire che, se si esclude una breve parentesi, durata dal 16 dicembre
1945 al 1° luglio 1946, di attribuzione del dicastero dell’agricoltura al
comunista Fausto Gullo, mai, nei 25 governi repubblicani, si è avuto il
caso di un ministro dell’agricoltura che non fosse democristiano.
D’altra parte, non solo la politica agricola, ma l’intera politica comunitaria
è stata un monopolio pressoché assoluto degli uomini politici
democristiani. E’ giusto quindi che la Democrazia Cristiana porti la parte
più gravosa di responsabilità per i nodi non sciolti della nostra agricoltura
e per quanto di fattibile e di utile non è stato fatto a livello comunitario.
E’ nella carenza della politica agricola di questo partito che possiamo
dunque individuare uno dei punti deboli della partecipazione italiana alla
Pac. Improntata ad una ideologia “ruralistica” di vecchia marca cattolica,
questa politica ha perseguito per anni 1’obiettivo di mantenere legato sulla
terra un ceto agricolo, spesso inevitabilmente destinato a rimanere assistito
perché sotto ogni limite di valida imprenditorialità.
E’ comprensibile, perciò, che una siffatta politica si conciliasse meglio con
una politica comunitaria dei prezzi e dei mercati, piuttosto che con una
115
politica di riforma delle strutture fondiarie, che avrebbe significato la
confisca di una parte di quella iniziativa nazionale gelosamente gestita in
chiave assistenzialistica e paternalistica. Del resto, il rifinanziamento nel
1971 della legge emanata nel 1965 per la formazione delle cosiddetta
“piccola proprietà coltivatrice”, non è che la riconferma di una linea
chiaramente divergente da quella, eppure sposata nello stesso anno a
Bruxelles, dell’eliminazione degli ostacoli strutturali.
Ma anche le altre forze di governo, come del resto quelle di opposizione,
non sono immuni da colpe in ordine alla politica agricola nazionale e alla
Pac.
In tutti i partiti, compresa la Democrazia Cristiana, si possono notare,
comunque, negli ultimi anni, sintomi di resipiscenza e momenti di
riflessione autocritica, da cui è sperabile l’agricoltura possa ritrarre
qualche giovamento.
Dopo i partiti, le organizzazioni professionali agricole. Le considerazioni
che possono essere fatte al riguardo non sono gran che diverse, almeno per
le grandi linee, da quelle che potrebbero farsi per i partiti. Ciò perché,
come ha osservato Bino Olivi, 1’Italia vanta le organizzazioni
professionali agricole più politicizzate d’Europa, o meglio, quelle che
mantengono più stretti rapporti con i partiti politici.
A questa regola non si sottrae pressoché nessuna delle varie organizzazioni
che vantano una rappresentanza professionale in agricoltura: la Coltivatori
Diretti, organizzazione collaterale della Democrazia Cristiana, alla quale
fornisce qualche milione di voti e una settantina, tra deputati e senatori,
oltre al 70-80% dei ministri dell’agricoltura succedutosi dal dopoguerra;
l’Alleanza Nazionale dei Contadini, l’organizzazione più importante della
sinistra, collegata soprattutto col PCI e col PSI; la Confagricoltura, che per
collocazione politica si può considerare vicina al Partito Liberale; l’UCI
(Unione Coltivatori Italiani), praticamente affiliata al PSI; e così per altre
organizzazioni.
Accanto a queste organizzazioni professionali e, sotto certi aspetti, al di
sopra di esse, è necessario collocare un’altra organizzazione che, per
quanto non strettamente professionale, ha rappresentato nelle vicende
dell’agricoltura italiana del dopoguerra uno dei più potenti gruppi di
pressione. La Federazione italiana dei consorzi agrari, praticamente
egemonizzata dal gruppo dirigente della Coltivatori Diretti e della
Confagricoltura, ma spesso portatrice di una propria linea politica, quasi
sempre esclusivamente improntata ad una logica di puro profitto
imprenditoriale.
116
E’ lontana da noi l’ambizione di descrivere il ruolo svolto da ciascuna di
queste organizzazioni nelle vicende della Pac; del resto, quando se n’è
data l’occasione, non abbiamo mancato di farvi riferimento in sede di
analisi dei vari negoziati agricoli. Anche se a rischio di una notevole
semplificazione, non possiamo però esimerci dall’individuare
nell’atteggiamento mantenuto soprattutto da talune di queste
organizzazioni di fronte all’elaborazione della Pac un altro dei punti deboli
della partecipazione italiana alla costruzione di una politica comune più
vicina ai reali interessi dell’agricoltura italiana.
Anche in questo caso occorre, comunque, distinguere vari livelli di
responsabilità, non fosse altro che per tener separati i meriti ed i demeriti
di chi ha condiviso col potere politico la responsabilità della politica
agricola nazionale e comunitaria e quelli di chi, invece, è stato tenuto alla
porta dell’una e dell’altra.
E’ di facile constatazione, infatti, che la politica agricola in Italia,
soprattutto fino alla fine degli anni Sessanta, sia stata un dominio
pressoché riservato della Coldiretti, della Confagricoltura e della
Federconsorzi, così, come non è un mistero che queste tre organizzazioni
monopolizzino ancora interamente la rappresentanza italiana nel COPA, il
Comitato delle organizzazioni professionali agricole della CEE, che
rappresenta gli interessi degli agricoltori presso gli organismi comunitari.
Del resto, per anni gli interessi di queste tre organizzazioni sono rimasti
coalizzati nel CIRAI, proprio per unificare le loro posizioni in materia di
politica agricola e per conseguire una maggiore capacità di pressione.
Ebbene, quasi tutta la storia della partecipazione italiana all’elaborazione
della Pac è da leggere in trasparenza con la storia della politica di queste
tre organizzazioni: non solo si scoprono le infinite consonanze esistenti tra
l’una e l’altra, ma si illuminano particolari piuttosto in ombra e divengono
più intellegibili le linee essenziali del disegno di politica agricola
perseguito dai negoziatori italiani a Bruxelles.
Così, il fatto che fino al 1964-65 il controllo della posizione italiana a
Bruxelles, anche in materia di Pac, sia stato in pratica quasi
esclusivamente di pertinenza del Ministero degli esteri, oltre che un
sintomo del valore politico che il governo attribuiva ai negoziati
comunitari è anche il riflesso dell’assenza, o quantomeno dello scarso
interesse, delle principali organizzazioni agricole italiane di fronte alle
decisioni comunitarie.
Quantomeno per una di esse, del resto, e cioè la Federconsorzi, la Pac,
così come si stava articolando, con la sua strumentazione di interventi sul
117
mercato nel1’ambito di una politica di alti prezzi dei cereali, rappresentava
quanto di meglio la Comunità potesse offrire. Quale detentrice della quasi
totalità delle attrezzature necessarie allo stoccaggio dei cereali, essa era
infatti divenuta, nel luglio 1962, l’organismo di intervento dello Stato
italiano per l’applicazione dei regolamenti comunitari sui cereali. E
questo, in termini economici, significava avere enormemente allargato la
sfera dei propri profitti.
Anche per la Confagricoltura, comunque, o meglio per le imprese più
moderne in essa rappresentate, la politica dei prezzi quale si stava
sviluppando a Bruxelles, offriva la possibilità di usufruire di enormi
rendite differenziali, derivanti dagli scarti di produttività esistenti rispetto
alle aziende a più alti costi, assunte a base per la fissazione dei prezzi
minimi.
E’ vero che questa organizzazione, soprattutto negli ultimi anni, si è andata
qualificando come la più strenua assertrice della Pac in Italia, ma
anch’essa si è mossa per anni quasi esclusivamente sul binario della
politica dei prezzi e dei mercati. L’intoccabilità di questa politica è stata,
anzi, uno dei principi guida della sua azione anche in tempi recenti,
quando tele politica è stata messa sotto accusa da varie parti e quando la
Pac è stata completata con la politica strutturale, la politica regionale, la
politica per le zone svantaggiate e la politica sociale.
Tutte queste forme di intervento, come del resto anche l’integrazione
diretta di reddito agli agricoltori più bisognosi, di cui si è parlato per
qualche tempo, anche se non sono mai stati cavalli di battaglia della
Confagricoltura (la politica strutturale lo è diventata, ma solo ad
approvazione avvenuta), sono ritenute ammissibili, purché non sia
intaccata la politica dei prezzi ed in ogni caso ad una condizione: che
venga rispettato, nella concessione degli aiuti economici da parte dello
Stato, un rigoroso criterio di selettività a favore delle sole aziende in grado
di svilupparsi o già sviluppate.
Per quanto riguarda la Coltivatori Diretti, si potrebbe ripetere quanto già
detto per la Democrazia Cristiana, di cui ha rappresentato non soltanto una
delle più potenti organizzazioni collaterali, ma anche una vera e propria
“centrale” ideologica in materia di politica agraria. In effetti, la stessa
concezione assistenzialistica e paternalistica dell’intervento pubblico in
agricoltura, che permea la nostra politica agraria di questo dopoguerra, è
di marca prettamente bonomiana.
L’agricoltura è stata e rimane, nell’ideologia di questa organizzazione, un
settore da “proteggere” con misure protezionistiche ed alti prezzi. Per anni
118
la preoccupazione principale di questa organizzazione è stata quella di
inserire i lavoratori agricoli, o meglio i coltivatori diretti, nel sistema di
sicurezza sociale che si andava sviluppando nel Paese, rivendicandone
successivamente la parità di trattamento previdenziale e assistenziale.
Sotto questo profilo la Coldiretti può vantare numerosi successi. Il fatto è
che, nonostante il suo peso politico ed organizzativo, la Coldiretti non ha
saputo o potuto determinare nel nostro Paese una politica agraria che, a
livello nazionale e a livello comunitario, affrontasse i nodi strutturali della
nostra agricoltura.
Certo, con i Piani Verde 1 e 2 si è fatto un notevole passo in avanti, se non
altro in termini di impegno finanziario, rispetto alla politica agraria degli
anni Cinquanta: ma anch’essi, però, si sono risolti in una serie di interventi
frammentari e dispersivi, inseriti in una logica, tutto sommato, ancora
assistenziale. Sul piano comunitario, peraltro, la Coltivatori Diretti si è
trovata spesso in trincee arretrate, a combattere, in nome di piccoli
agricoltori, battaglie di retroguardia, dietro quelle dei grandi interessi
cerealicoli-lattiero-zuccherieri europei: sostegno esasperato dei prezzi e
rigido protezionismo di tutto quello che si coltiva e si produce nella nostra
agricoltura.
Ogni accenno della Pac a battere nuove strade, oltre quella della politica
dei prezzi e dei mercati, è stato guardato con sospetto, freddezza e aperta
ostilità dai dirigenti di questa organizzazione, preoccupati di veder ridotto
il ruolo della politica dei prezzi. Questa, del resto, è stata difesa non tanto
perché debba servire da orientamento della produzione, come nello spirito
del Trattato, ma perché “il prezzo è il salario del contadino” e il salario
deve seguire i costi: in realtà, si può pensare, perché gli aumenti dei prezzi
per la massa dei piccoli coltivatori rappresentano una boccata di ossigeno,
effimera sì, ma sufficiente ad illuderli della loro vitalità.
Negli ultimi anni, comunque, il monolitismo ideologico di questa
organizzazione ha subito qualche crepa. Soprattutto ad opera
dell’organizzazione giovanile dei coltivatori diretti, è andata, infatti,
affermandosi ed allargandosi una dialettica interna che sembra voler
mettere in discussione alcuni dei canoni cui è stata improntata l’azione
politica della confederazione fin dalla sua fondazione: l’agricoltura,
settore da “assistere” e da “proteggere”; la chiusura od ogni iniziativa
veramente riformistica nelle campagne; le pregiudiziali ideologiche e
politiche per un’intesa con le altre forze professionali e sindacali operanti
in agricoltura, lo stesso collateralismo con la Democrazia Cristiana.
119
Passando ad un esame delle strozzature che, in sede nazionale, hanno
ostacolato, in questi anni, una più proficua utilizzazione delle possibilità
offerte dalla Pac alla nostra agricoltura, vari fattori possono essere
chiamati in causa.
V’è chi, guardando anche al di là dell’esperienza fornita dalla Pac, ha
ricollegato le difficoltà di applicazione delle decisioni comunitarie nel
nostro Paese ad un principio dominante nel pensiero giuridico italiano,
secondo il quale le attività amministrative ed i giudici possono applicare
solo il diritto che è stato “incorporato” nell’ordinamento giuridico
nazionale.
Da ciò è derivata la necessità di emanare leggi intese a “ratificare”
regolamenti comunitari, che negli altri Paesi sono invece direttamente
applicabili e non necessitano di ratifiche. Un’altra ragione che si può
addurre per spiegare i ritardi e le stesse inadempienze dell’Italia nella
realizzazione della Pac è il cattivo funzionamento delle strutture di
governo e di quelle amministrative nel nostro Paese.
E’ questa la strozzatura più rilevante, che impedisce la traduzione in
termini operativi entro tempi ragionevoli delle decisioni assunte a
Bruxelles. Ad essa occorrerebbe, in effetti, dedicare molto più che un
semplice accenno, se si considera che dalla rispondenza delle strutture
amministrative ai compiti postulati dalla Pac dipende, non soltanto
l’effettivo raggiungimento degli obiettivi fissati nelle decisioni
comunitarie, ma anche la possibilità di determinare a livello politico
orientamenti della Pac in direzione degli interessi della nostra agricoltura.
Non si dimentichi, infatti, che i ritardi italiani nell’applicazione delle
misure comunitarie hanno offerte spesso il destro ai nostri partner per
assumere posizioni di chiusura alle nostre istanze in materia di politica
strutturale, di politica regionale e di politica per le zone e i produttori
meno favoriti.
Accanto a questi fattori, altri se ne possono aggiungere: dalla lentezza
delle procedure parlamentari al vero e proprio boicottaggio in sede
esecutiva delle decisioni assunte in sede politica; dai conflitti di
competenza tra le varie strutture dello Stato alla vischiosità del quadro
politico; dalle difficoltà di bilancio, quando si tratta di assumere a carico
delle Stato una parte degli oneri previsti dagli interventi comunitari, alla
sopravvivenza di procedure amministrative arcaiche ed eccessivamente
formalistiche, ecc.
Quel che è certo, al di là della rilevanza di ciascuna di queste strozzature, è
che se non si sciolgono alla radice questi nodi, mille successi diplomatici e
120
politici a Bruxelles non faranno avanzare di un passo la nostra agricoltura
sulla strada dell’efficienza e il nostro Paese sulla strada dell’effettiva
integrazione con la parte più avanzata dell’Europa.
121
Terza parte
123
La politica agricola comune e il suo impatto sull'agricoltura
mediterranea*
(Palma de Mallorca, marzo 1982, originale in francese)
125
agricolo sul reddito totale è molto lontana dall'importanza
dell'occupazione agricola. Ciò si riflette anche nel reddito agricolo pro-
capite, che nella maggior parte delle regioni mediterranee è a livelli ben al
di sotto della media comunitaria.
126
della politica socio-strutturale, è stata per lungo tempo incapace di
risolvere validamente le difficoltà in gioco.
Per rendersene conto basta, ad esempio, ricordare che il PIL pro capite
nella Comunità è 2,5 volte superiore a quello del Mezzogiorno e 3 volte
superiore a quello della maggior parte delle regioni greche. È chiaro, in
queste condizioni, che la politica agricola da sola non può risolvere un
problema di tale portata e gravità, che richiede uno sforzo coordinato e
sostenuto da parte di tutte le politiche nazionali e comunitarie. È in questa
prospettiva che da alcuni anni si orienta l'azione comunitaria a favore delle
regioni mediterranee.
127
La politica agricola comune dei prezzi e dei mercati e l'agricoltura
mediterranea
128
rappresentano la differenza tra il prezzo praticato sul mercato mondiale e il
prezzo all'interno della Comunità. Inoltre, nella fase iniziale
dell'organizzazione comune dei mercati in questi settori, non era previsto
alcun tipo di intervento diretto sul mercato da parte delle autorità
pubbliche, mentre per altri prodotti, come cereali, zucchero e prodotti
lattiero-caseari, gli acquisti pubblici, che entrano in gioco quando il prezzo
di mercato scende al di sotto di un certo livello, hanno fornito un efficace
supporto ai prezzi alla produzione.
129
- il divario temporale tra l'adozione delle organizzazioni comuni di
mercato per i prodotti continentali e quella per i prodotti
mediterranei ha, inoltre, contribuito a frenare ogni tentazione di
estendere a questi ultimi una articolata regolamentazione del
mercato che, nel caso dei primi, si rivelava già da alcuni anni, non
solo molto onerosa per le finanze comunitarie, ma spesso
responsabile anche della formazione di cospicue eccedenze di
produzione. Questo, tanto più che la Comunità a Sei disponeva già
di un'eccedenza globale di ortaggi ed era molto vicina
all'autosufficienza nel caso della frutta fresca;
Ortofrutticoli
130
questo settore. Inoltre è stato introdotto un “premio di penetrazione” volto
ad agevolare gli sbocchi degli agrumi italiani sui mercati comunitari.
Vino
Olio d'oliva
131
- oppure allineare i prezzi di questi ultimi a quelli del mercato
mondiale e tutelare i produttori comunitari di olio d'oliva e di semi
oleosi attraverso un sistema di “deficiency payment”, cioè di aiuto
diretto ai produttori.
Tabacco
132
stato previsto un sistema di intervento per lo smaltimento di quantità o
qualità del prodotto che non avrebbero trovato sbocchi sul mercato.
133
Misure di mercato
134
competitivo rispetto a quello degli oli di semi e di conseguenza a frenare
la progressiva riduzione del consumo di olio di oliva.
Misure strutturali
Tra queste misure, la più importante dal punto di vista finanziario è quella
relativa al programma per l'accelerazione e l'orientamento delle operazioni
irrigue collettive nel Mezzogiorno, il cui costo a carico del FEOGA è stato
fissato in 260 milioni di UC per un periodo di 5 anni. Un importo
pressoché identico (244 milioni di ECU) è destinato a promuovere la
creazione, il riconoscimento e il funzionamento delle associazioni di
produttori e delle loro federazioni. Un altro provvedimento finanziario ed
economico particolarmente importante è quello che modifica in senso più
favorevole le condizioni di applicazione nel Mezzogiorno e nel sud della
135
Francia del regolamento n. 355/77 relativo all'azione comune per il
miglioramento delle condizioni di trasformazione e commercializzazione
di prodotti agricoli prodotti. Il costo aggiuntivo previsto a carico del
FEOGA è di 210 milioni di UC in cinque anni.
Tutte queste misure sono, inoltre, in linea con le azioni avviate dalla
Comunità all'inizio degli anni '70, con l'emanazione di tre direttive socio-
strutturali, che furono integrate nel 1975 da una direttiva sulla montagna e
le altre zone svantaggiate, in cui le regioni mediterranee dovrebbero essere
particolarmente interessate.
Sviluppi recenti
136
Alla vigilia della nuova fase che si apre per la politica agricola
mediterranea, la Commissione ha voluto ribadire, nell'ambito della sua
relazione sul mandato del 30 maggio 1980, i due grandi principi ai quali la
Comunità deve costantemente ispirarsi nel suo contributo alla ricerca di
una soluzione alle difficoltà dell'agricoltura mediterranea: equivalenza ed
equità. "L'equivalenza richiede che, conformemente ai principi
fondamentali dei Trattati, la politica agricola comune si applichi senza
determinazione ai prodotti mediterranei. L'equità impedisce che i
cambiamenti necessari portino ad un deterioramento delle condizioni di
vita di coloro che li subiscono." (1) .
(1) Relazione della Commissione sul mandato del 30 maggio 1980, COM(81)300
fin.
137
contrattuale che garantisca l'approvvigionamento al trasformatore e il
reddito al produttore. Nei settori extra-agricoli, questi programmi
dovrebbero favorire lo sviluppo del turismo, soprattutto nelle zone rurali, e
l'artigianato, facilitare l'utilizzo di nuove energie e sostenere gli sforzi di
ricerca indispensabili per lo sfruttamento ottimale delle potenzialità delle
regioni mediterranee nei vari settori.
138
impianti, l'arricchimento del raccolto, il rafforzamento dei controlli e
l'innalzamento del titolo alcolometrico.
Conclusioni
Si può certamente affermare che sono stati compiuti passi significativi non
solo verso una migliore integrazione delle regioni mediterranee nel resto
d'Europa, ma anche e soprattutto verso un rafforzamento della solidarietà
tra paesi e regioni della Comunità, che costituisce uno degli pilastri
fondamentali su cui poggia la costruzione europea.
139
Situazione e prospettive dell'agricoltura nelle regioni
mediterranee della Comunità. Possibili linee di azione.*
Febbraio 1990
(Originale in francese)
Introduzione
All'inizio degli anni '90, le preoccupazioni che sono state alla base delle
varie misure adottate in passato restano immutate, nonostante i progressi
finora compiuti in alcuni ambiti. Inoltre, nuovi elementi, di
preoccupazione o di speranza, sono apparsi in questi ultimi anni
all'orizzonte dello sviluppo economico di queste regioni che richiedono
una riflessione più ampia e che tengano conto sia dei tradizionali freni allo
sviluppo di queste regioni che dei cambiamenti in atto o prevedibili nello
scenario comunitario e internazionale.
141
Il presente rapporto tenta di soddisfare questa esigenza esaminando i
vincoli e i vantaggi dell'agricoltura nelle regioni mediterranee e
suggerendo i mezzi d'azione che sembrano attualmente più appropriati per
superare le barriere e sostenere gli sforzi di adattamento necessari.
Parte 1
142
Le debolezze strutturali dell'agricoltura mediterranea appaiono ancora più
evidenti se si fa riferimento ad altri parametri, tutti abbastanza sfavorevoli
all’agricoltura del sud della Comunità. Così, ad esempio, la superficie
media per azienda è di soli 8,3 ha per azienda al sud, mentre supera i 21 ha
per azienda al nord (2).
------------------
(2) La forte predominanza delle piccole aziende nelle regioni mediterranee
è dimostrata anche dai seguenti dati: le aziende di meno di 5 ha
rappresentano il 90% del totale in Portogallo, il 78% in Italia e Grecia, il
63% in Spagna e il 55% nel Sud della Francia.
(3) VAL: Valore aggiunto lordo; UTA: unità di lavoro annuale (a tempo
pieno).
(4) Secondo l’indagine sulle strutture agricole del 1985, si può stimare
che, per EUR-10, la sottoccupazione agricola varia dal 20 al 30% nelle
regioni mediterranee francesi, dal 30 al 40% in Grecia, dal 40 al 50%
nell'Italia centrale e meridionale, ad eccezione della Calabria e della
Sicilia, dove la sottoccupazione agricola supera il 50%. È invece inferiore
al 10% nel Benelux, nella regione parigina e in Baviera.
143
Comunque sia, i redditi agricoli nel sud sono in media molto inferiori a
quelli del nord della Comunità, in un rapporto che va da 1 a 2 e da 1 a 3 a
seconda delle regioni ma che supera 1 a 15 in alcune regioni. Inoltre, al
sud la maggior parte delle aziende agricole è concentrata nelle classi a
basso reddito, mentre al nord generalmente avviene il contrario. Sulla base
delle risultanze contabili per l'esercizio 1986/1987, è stato infatti possibile
stimare che più dei due terzi delle aziende agricole del sud avevano un
reddito inferiore alla media comunitaria, mentre al nord tale valore era
inferiore al 50%.
Questi divari di reddito sono dovuti a diversi fattori. Tra questi vanno
ricordate, in primo luogo, le strutture produttive, più favorevoli al nord che
al sud della Comunità, in particolare per le dimensioni delle aziende. Un
altro fattore, incidentalmente legato al precedente, è rappresentato
dall'eccesso di manodopera agricola che si osserva ancora nelle regioni
meridionali rispetto a quelle del nord della Comunità, nonostante un forte
esodo agricolo.
Rispetto alla Comunità nel suo insieme, il valore della produzione agricola
del Mezzogiorno rappresenta, in media, il 31,7% del totale comunitario,
ma il 44,1% per i prodotti orticoli e appena il 20,6% per i prodotti animali.
I settori tipicamente "mediterranei" sono gli agrumi e l'olio d'oliva, la cui
produzione è concentrata esclusivamente nel sud della Comunità, le piante
tessili e il tabacco, per i quali il sud fornisce rispettivamente il 91,6% e
l'86,3% del valore della produzione comunitaria. Gli altri settori
prevalentemente mediterranei sono: frutta e verdura fresca (57,9% del
totale comunitario), vino (53,8%) e carne ovina (58%). A questi va
aggiunto il frumento duro, la cui produzione resta sostanzialmente limitata
144
alle regioni meridionali della Comunità, anche se negli ultimi anni si è
assistito ad un lento spostamento verso il Nord.
145
mancanza di mobilità delle produzioni, la mancanza di formazione per gli
agricoltori, l'assenza o l'inefficienza delle reti di commercializzazione.
Quest'ultimo handicap è tanto più grave in quanto si tratta spesso di
prodotti deperibili come frutta e verdura, e per il fatto che l'agricoltore non
ha altra scelta che consegnare immediatamente i suoi prodotti ai
compratori e distributori più vicini.
146
Queste diversità riguardano non solo le strutture produttive (la dimensione
delle aziende, ad esempio, varia in media tra 4-5 ha in Grecia, Portogallo e
Mezzogiorno e 14-16 ha in media in Spagna e nel sud della Francia), ma
anche quelle del marketing (la Spagna è all'avanguardia in questo campo),
l'organizzazione dei produttori, l'integrazione dell'agricoltura nel
complesso agroalimentare, le infrastrutture disponibili, ecc. Queste
diversità si riflettono sulla competitività dell'agricoltura nelle varie regioni
mediterranee e di conseguenza sulle prospettive di sviluppo
dell'agricoltura in ciascuna di queste regioni.
Come già accennato, negli ultimi quindici anni sono state attuate a livello
comunitario diverse misure e programmi d'azione per sostenere e
incoraggiare lo sviluppo agricolo nelle regioni mediterranee. La maggior
parte di queste iniziative sono state intraprese contemporaneamente al
rinnovo degli accordi di cooperazione con i paesi del bacino del
Mediterraneo o all'apertura di negoziati per l'allargamento della Comunità
alla Spagna e Portogallo. Il loro obiettivo principale era aiutare
l'agricoltura mediterranea a prepararsi meglio ad affrontare le conseguenze
che potrebbero derivare da questi cambiamenti.
147
l'intera Comunità, la costituzione di organizzazioni di produttori e
per rafforzare il sostegno al miglioramento delle strutture per la
trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, in
particolare nelle regioni mediterranee.
148
colture, animazione socio-economica, ricerca agricola, ecc.). Le
difficoltà sono tanto maggiori quanto più si riducono i livelli di
efficienza delle strutture amministrative e dei servizi di sviluppo
agricolo;
149
l'intervento, hanno contribuito ad allontanare gli agricoltori dal
mercato e a dissuaderli dal cercare nuovi sbocchi e le necessarie
riconversioni varietali.
3. Il nuovo contesto
All'inizio degli anni '90, la questione dello sviluppo agricolo nelle regioni
mediterranee resta una questione prioritaria, sia per le autorità pubbliche
nazionali e regionali che per la Comunità. Non solo la maggior parte dei
problemi socio-strutturali che avevano giustificato l'adozione di misure
specifiche per queste regioni non hanno potuto essere risolti, ma si sono
aggiunti negli ultimi anni nuovi elementi di preoccupazione a quelli del
passato, che potrebbero rendere ancora più difficile perseguire una
migliore integrazione delle regioni mediterranee nel resto della Comunità,
in particolare per quanto riguarda l'agricoltura.
150
agricoli, che è già stata ampiamente raggiunta. Tuttavia, l'eliminazione
degli ultimi ostacoli tecnici, in particolare in campo fitosanitario e
veterinario in vista del completamento del mercato unico, può avere
conseguenze significative sugli scambi intra-comunitari e, di conseguenza,
sulla localizzazione della produzione.
151
bacino del Mediterraneo, costituiscono tanti vincoli esterni che
inevitabilmente influenzeranno non solo gli scambi, ma anche il livello di
produzione e la redditività di alcune colture nella Comunità.
- la pressione sempre più frequente esercitata dai paesi del bacino del
Mediterraneo affinché possano migliorare il loro accesso al mercato
comunitario dei prodotti agricoli, per far fronte al deterioramento della
loro competitività a seguito dell'adesione della Spagna alla Comunità e in
conseguenza della fine del periodo transitorio previsto;
Inoltre, nel suo parere sulla domanda di adesione della Turchia alla
Comunità, la Commissione ha ricordato che il completamento nel 1995
dell'unione doganale tra la Turchia e la Comunità implica la revisione del
regime commerciale applicabile ai prodotti agricoli turchi. A questo
proposito, è davvero necessario sottolineare che la produzione
mediterranea sarà la più colpita da tutti questi sviluppi?
152
Le prospettive di sviluppo della domanda per la maggior parte dei prodotti
agricoli a livello comunitario sono fortemente condizionate
essenzialmente da quattro fattori:
153
Gli usi industriali dei prodotti agricoli stanno attualmente suscitando
grandi speranze in alcuni ambienti europei. Tuttavia, senza sottovalutare le
possibilità che questo sbocco può offrire per determinati prodotti, non va
nemmeno sopravvalutata l'importanza da dare a questa forma di
smaltimento, a meno che non si sia disposti ad accettare una drastica
riduzione dei prezzi delle materie prime agricole oppure a istituire regimi
di sovvenzione molto costosi a sostegno dell'industria di trasformazione.
Comunque sia, sembra escluso che questi sbocchi possano offrire nuove
prospettive per l'agricoltura mediterranea, in quanto è soprattutto al nord
che si riscontrano le condizioni fondamentali per lo sviluppo di tali colture
e dei suoi usi (dimensione delle aziende agricole, presenza di industrie,
centri di ricerca, livello di formazione, ecc.).
154
La Comunità è globalmente deficitaria di tabacco, che importa, per circa
metà del suo fabbisogno al prezzo del mercato mondiale. Per molte
varietà, invece, ci sono problemi di commercializzazione, dovuti al fatto
che non soddisfano le preferenze dell'industria di trasformazione e i nuovi
vincoli imposti dalla lotta contro il cancro. È in corso un processo di
riconversione varietale verso le varietà più ricercate dal mercato, ma
questo processo presenta dei limiti agronomici ed economici. Inoltre, il
consumo complessivo di tabacco non dovrebbe aumentare in futuro, ma è
più probabile che diminuisca.
155
Si tratta, quindi, di un mercato in piena evoluzione, non solo in termini di
quantità interessate ai diversi tipi di trasformazione, ma anche in termini di
valorizzazione nelle forme più disparate dei diversi prodotti di base. A tale
proposito, va ricordato che dei nuovi prodotti (cosiddetti della quarta o
della quinta gamma) sono comparsi recentemente sul mercato, prodotti
che utilizzano nuove forme di confezionamento che rispondono alle
esigenze del singolo consumatore oppure delle collettività.
156
aumentare la produzione, soprattutto attraverso il miglioramento delle
rese, anche se ciò comporta un peggioramento dei prezzi e l’attivazione
delle sanzioni previste in caso di superamento delle soglie di produzione
fissate a livello comunitario.
157
Un altro esempio è quello della barbabietola da zucchero, che in molte
regioni del Mediterraneo sta scomparendo a causa della concorrenza
Nord-Sud che si esercita sia a livello agricolo che a livello di industria di
trasformazione. Anche alcune produzioni tipicamente mediterranee non
sfuggono a questo processo. Oltre al frumento duro, già citato, la cui
produzione, grazie allo sviluppo di nuove varietà, ha ormai raggiunto le
regioni del nord Europa, possiamo citare l'esempio del pomodoro e della
lavorazione degli agrumi.
158
più competitive o che possono beneficiare di migliori strutture produttive e
di commercializzazione.
159
verso una maggiore competitività (dimensione dell'azienda, rigidità dei
fattori di produzione, formazione dell'agricoltore, ecc.). Questa quota
dell'agricoltura mediterranea rappresenta attualmente una percentuale
relativamente piccola della produzione agricola finale, ma è destinata ad
aumentare in futuro. Inoltre, impiega una frazione significativa della forza
lavoro agricola totale.
Quanto alla politica dei prezzi e dei mercati, questa non può assumersi la
responsabilità di questo tipo di problemi e, comunque, non può fornire un
adeguato supporto a questo tipo di aziende, a rischio di indebolire
irrimediabilmente i progressi finora compiuti verso una maggiore
integrazione dell'agricoltura nel resto dell'economia e una migliore
competitività dell'agricoltura comunitaria.
160
maggiormente della politica agricola comune e del progresso tecnologico
in agricoltura. Questa situazione non dovrebbe cambiare in modo
significativo in futuro, anche se non sono state adottate nuove azioni
specifiche a livello comunitario.
161
b) misure volte a promuovere lo sviluppo di una politica contrattuale che
colleghi gli agricoltori alle industrie di trasformazione e comporti il
rispetto di determinati vincoli qualitativi e quantitativi;
162
L'azione comunitaria a favore delle regioni mediterranee*
1. Credo che non sia azzardato affermare che alcune delle tappe più
significative nella storia della costruzione europea e nell'evoluzione delle
diverse politiche comuni sono state segnate allorché la Comunità si è fatta
carico, a diverse riprese e sui vari piani, dei problemi inerenti alle regioni
mediterranee.
163
comunque uno dei banchi di prova più impegnativi per la credibilità
politica della Comunità all'interno e all'esterno delle sue frontiere.
Ciò è tanto più vero nella prospettiva del suo secondo ampliamento a
Grecia, Spagna e Portogallo, di cui l'ingresso della Grecia a partire dal 1°
gennaio del prossimo anno costituisce un momento particolarmente
significativo. Questo evento non sarebbe stato certamente possibile, né del
resto questi paesi lo avrebbero probabilmente ricercato, se la Comunità si
fosse presentata come una entità arroccata intorno ai suoi capisaldi di
benessere e si fosse mostrata incapace di contribuire all'inserimento delle
aree geograficamente ed economicamente emarginate nella più ampia
dinamica dello sviluppo.
Il fatto che ben tre paesi del bacino mediterraneo, aventi livello di reddito
e strutture economiche abbastanza differenti da quelli che si riscontrano
negli altri paesi della Comunità, ed in particolare in quelli continentali,
abbiano chiesto di far parte della Comunità, costituisce dunque un atto di
fede di enorme portata politica non solo negli ideali su cui è edificata
l'Europa unita, ma anche nella sua capacità di far fronte alla sfida che essi
le hanno lanciato ponendo il problema di una loro più spinta integrazione
col resto dell'Europa.
164
2. Questa panoramica non può che cominciare dalla politica dei prezzi e
dei mercati agricoli. E ciò sia perché essa è quella che storicamente si è
sviluppata per prima, sia perché essa costituisce, in assoluto, la politica
comune in cui più avanzato è lo stadio d'integrazione: ciò spiega perché
essa assorbe attualmente circa i due terzi dell'intero bilancio comunitario.
E' proprio nell'ambito delle produzioni mediterranee che sono stati adottati
meccanismi di sostegno del reddito agricolo alquanto “atipici“ nella
politica agricola comune: alludiamo, in particolare, all'integrazione di
prezzo per il grano duro e per l'olio d'oliva, che ormai datano pressoché
dall'origine del mercato comune agricolo. Si è così voluto garantire un
ricavo adeguato ai produttori di due delle coltivazioni più tipiche dell'area
mediterranea, contemperando questo obiettivo con l'esigenza di assicurare
prezzi ragionevoli ai consumatori.
E' tuttavia soltanto intorno alla fine degli anni Sessanta che sono state
adottate le organizzazioni comuni di mercato in altri settori
particolarmente vitali per l'economia agricola di molte regioni
mediterranee, ed in particolare quelle nel settore degli ortofrutticoli, del
vino e del tabacco.
165
bisogna tener conto che ciò è dovuto in parte anche alla natura di molti dei
prodotti che rientrano in questi comparti produttivi ed in particolare alle
difficoltà di stoccaggio dovute spesso alla deperibilità del prodotto.
Resta comunque il fatto che questa diversità nella struttura delle diverse
organizzazioni comuni di mercato può, malgrado gli adattamenti che sono
stati apportati nel tempo, incidere sia sul livello che sulla sicurezza dei
redditi agricoli.
Ciò non significa, beninteso, che non sia possibile o che non sia opportuno
apportare alle organizzazioni comuni dei mercati dei prodotti mediterranei
ulteriori adattamenti per renderle più efficaci. La Commissione, del resto,
ha già espresso questa esigenza soprattutto nella prospettiva di
un'amplificazione di questi problemi derivante dall'adesione alla Comunità
di tre nuovi paesi del bacino mediterraneo.
Quello che si intende dire è che esistono anche altri mezzi, oltre a quello
dell'aumento del livello dei prezzi garantiti, per migliorare e rafforzare
l'efficacia delle organizzazioni di mercato dei prodotti mediterranei. Il
recente “pacchetto mediterraneo", di cui ci occuperemo fra poco, ne offre
alcuni esempi. Inoltre si vuole fin da ora richiamare l'attenzione sul fatto
che non è possibile, di fronte alla natura e all'ampiezza dei problemi delle
regioni mediterranee, limitarsi ad agire soltanto sul volet agricolo e,
nell'ambito di quest'ultimo, soltanto sul livello dei prezzi.
166
3. In effetti, si può dire che questa sia stata fin dall’inizio la guide-line
dell’iniziativa comunitaria a favore delle regioni mediterranee.
L’attivazione della sezione “Orientamento”, a partire dal 1964, mentre
erano ancora in gestazione molte delle organizzazioni comuni dei mercati,
costituisce il primo passo nella direzione di un miglioramento della
situazione strutturale in agricoltura, condizione necessaria per consentire
alla politica dei prezzi e dei mercati di esercitare pienamente i suoi effetti
su tutte le imprese e in tutte le regioni.
Questa volontà trova, del resto, più ampia espressione nelle iniziative
assunte dalla Commissione fin dal 1967 e che sono sfociate nell'adozione,
nell’aprile del 1972, delle tre note direttive sulle strutture agricole: la
159/72 relativa all'ammodernamento delle aziende agricole; la 160/72
167
concernente l'incoraggiamento alla cessazione dell'attività agricola e alla
destinazione della superficie agricola, resa così disponibile, al
miglioramento delle strutture; la 161/72 concernente l'informazione socio-
economica e la qualificazione professionale delle persone che lavorano
nell'agricoltura.
168
Nato come strumento a vocazione generale di sostegno delle politiche
nazionali dell'occupazione, in particolare nel settore della riconversione
della manodopera e della qualificazione professionale, il Fondo sociale è
diventato, dopo la riforma del 1970, uno strumento avente in parte anche
una notevole vocazione regionale. Questa caratteristica è stata anzi sancita
dalle stesse norme che regolano l'attività del Fondo, le quali prevedono
che circa la metà delle risorse complessive del Fondo sociale siano
destinate ad operazioni nelle regioni considerate prioritarie, fra cui
rientrano appunto le regioni mediterranee.
169
Questo concetto dovrebbe trovare ulteriore applicazione in avvenire
nell'ambito delle cosiddette “operazioni integrate” mediante le quali la
Commissione si propone di concentrare l'azione dei diversi strumenti
finanziari della Comunità su alcuni problemi particolari e ben delineati
geograficamente. A questo proposito, le regioni mediterranee potrebbero
rappresentare un ambito privilegiato di intervento, come lo dimostra anche
il fatto che una delle prime azioni integrate potrebbe essere quella
attualmente allo studio, relativa alla zona di Napoli.
170
Anche se limitato al solo settore agricolo, esso si presenta come una
componente essenziale di una strategia globale nei confronti delle regioni
mediterranee della CEE. La Commissione è cosciente, infatti, che i
problemi che queste regioni debbono affrontare sono problemi non solo
agricoli ma anche di sviluppo generale che necessitano pertanto di
iniziative globali nel quadro di un'azione integrata di sviluppo economico.
Il fatto che, a breve termine, ci si sia concentrati sul volet agricolo non
deve perciò far perdere di vista il quadro d'assieme in cui tali iniziative si
inseriscono.
Non è possibile scendere qui nei dettagli di queste misure che sono state
adottate dal Consiglio nel corso del 1978 e del 1979. Limitandoci a
ricordarne gli aspetti più significativi, credo che, fra le misure di mercato,
si possono citare:
171
importo pressoché analogo (244 milioni di unità di conto) è destinato a
favorire la costituzione, il riconoscimento e il funzionamento delle
associazioni dei produttori e delle loro unioni.
È questa la sfida a cui dovrà far fronte la Comunità, ma è una sfida a cui
anche le regioni mediterranee devono adeguarsi. In quest'ottica credo che
il vostro seminario possa apportare un contributo prezioso. Come
giustamente diceva questa mattina il vostro presidente, è anche dalle
vostre mani, anzi dalle nostre mani, che dipenderà se le regioni
mediterranee e la Comunità vinceranno questa sfida o se le une e le altre
sono destinate a soccombere.
172
Problemi e prospettive dell’agricoltura meridionale
alla soglia degli anni Novanta*
Signor Presidente,
signore e signori,
Si tratta, come si vede, di una tematica piuttosto ampia che non sarà
possibile trattare in maniera esauriente in questa relazione introduttiva.
Sono sicuro tuttavia che altri partecipanti al dibattito non mancheranno di
colmare le inevitabili lacune o di sviluppare le questioni che avessi
eventualmente trascurato.
173
Ciò premesso, vorrei anzitutto ricordare brevemente quali sono i tratti
caratteristici dell'agricoltura nelle regioni meridionali, il ruolo che essa
svolge nell'economia di queste regioni, le difficoltà a cui essa si trova
confrontata.
Restando all'interno del settore agricolo, si può constatare che, con una
superficie agricola pari a un po' meno della metà del totale nazionale, e
con un'occupazione che è pari, nel settore agricolo, al 54% di quella
italiana, il Sud fornisce soltanto il 36% della produzione lorda vendibile
dell'agricoltura italiana.
174
oltre il 50% nel Nord). Nell'agricoltura del Sud predominano infatti le
colture erbacee e le colture arboree (con circa il 40% del totale ciascuna).
175
usufruiscono di analoghi vantaggi climatici e pedologici, ma che, in molti
casi, sono riuscite ad affrancarsi da vincoli strutturali, analoghi a quelle del
Mezzogiorno, grazie ad una eccellente struttura di distribuzione e
puntando sul miglioramento qualitativo della produzione.
A questo proposito, credo che non sia azzardato affermare che alcune delle
tappe più significative nella storia della costruzione europea e
nell'evoluzione delle diverse politiche comuni sono state segnate allorché
la Comunità si è fatta carico, a diverse riprese e sui vari piani, dei
problemi inerenti alle regioni mediterranee.
176
La Commissione è, in effetti, convinta che solo un rinforzamento e una
concentrazione degli strumenti di intervento disponibili a livello
comunitario ma anche nazionale e regionale, e solo un approccio
intersettoriale, possa permettere di affrontare adeguatamente questo
problema.
177
questi anni, di una serie di misure, di mercato e strutturali, che hanno
indubbiamente contribuito a migliorare sensibilmente la situazione in certi
settori produttivi e la dotazione infrastrutturale di cui l'agricoltura può
disporre in queste regioni.
Basti citare al riguardo, oltre alle misure già menzionate a favore delle
associazioni dei produttori agricoli: l'azione intrapresa, nel 1977, con
l'adozione del regolamento n. 355, destinato a favorire il miglioramento
delle condizioni di trasformazione e di commercializzazione dei prodotti
agricoli, il programma di accelerazione delle operazioni collettive di
irrigazione nel Mezzogiorno e quello inteso a migliorare le infrastrutture
rurali nelle regioni mediterranee, i programmi integrati mediterranei, ecc.
Si tratta, però, al tempo stesso, di una sfida che può risultare benefica per
l'agricoltura meridionale, nella misura in cui essa può stimolare un più
stretto collegamento tra impresa agricola e mercato, una razionalizzazione
delle strutture di produzione e dei circuiti di commercializzazione, una
valorizzazione di alcune produzioni tipiche.
178
anche attraverso il turismo, interno ed internazionale, si ha dei prodotti del
Sud, costituiscono indubbiamente, alcuni dei fattori potenziali di
affermazione e di crescita dell'agricoltura meridionale.
Per completare il quadro, va detto che nel corso della campagna 1986/87,
grazie ai meccanismi di intervento comunitario, erano state ritirate dal
mercato in Italia oltre 400 mila tonnellate di arance, una cifra questa che
corrisponde grosso modo a quattro volte circa le esportazioni italiane sui
mercati comunitari e a circa un terzo della produzione nazionale di arance.
179
1985, pari ad oltre il 90% della produzione), suscitando le comprensibili
rimostranze non solo della nostra buona massaia ma anche quelle di molti
contribuenti comunitari.
Ho voluto citare questi esempi non tanto per suscitare scalpore o per
riaprire vecchie polemiche sulle conseguenze negative per le nostre
produzioni derivanti dall'adesione della Spagna alla Comunità e dalle
concessioni accordate ad alcuni paesi del bacino mediterraneo, quanto
invece per far riflettere sulla necessità, per i produttori meridionali, di
raccogliere la sfida del mercato, procedendo a tutti quegli adattamenti
dell'offerta e alle riconversioni varietali necessari, nonché a quei
miglioramenti qualitativi, a quelle iniziative commerciali indispensabili
per mantenere e se possibile per accrescere la loro presenza, tanto sul
mercato interno che su quello internazionale.
A questo proposito, forse non si sono valutate appieno, nel nostro paese, le
conseguenze che nel settore ortofrutticolo potrà avere la soppressione,
entro il 1992, delle barriere fitosanitarie che hanno finora protetto il nostro
mercato interno dalle importazioni in provenienza dal resto della
Comunità.
180
Si tratta, d'altra parte, di accrescere il livello di competitività
dell'agricoltura meridionale, senza però trascurare il miglioramento e la
valorizzazione della qualità delle nostre produzioni tipiche. I sentieri dello
sviluppo agricolo che puntano esclusivamente all'aumento delle rese e
delle quantità prodotte si scontrano, infatti, sempre più con i problemi di
saturazione dei mercati e con i vincoli derivanti dai meccanismi di
penalizzazione delle eccedenze produttive instaurati a livello comunitario,
oltreché beninteso con le esigenze del consumatore e dell'industria di
trasformazione.
Basti citare, al riguardo, l'esempio del grano duro, sempre più eccedentario
a livello nazionale e comunitario, ma che l'Italia è costretta ad importare in
grandi quantità perché la produzione nazionale non risponde spesso alle
esigenze dell'industria pastaria nazionale né sotto il profilo della qualità
molitoria, né per quanto riguarda l'attitudine alla pastificazione. Lo
scadimento qualitativo della produzione di grano duro e l'eterogeneità
dell'offerta oltre che appesantire il mercato con eccedenze, che è difficile
smaltire, si riflette negativamente anche sul prezzo di mercato e quindi sui
redditi degli agricoltori.
181
Con questo non si vuole affermare la necessità che si debba indirizzare la
produzione meridionale esclusivamente ai segmenti di mercato
caratterizzati da prezzi e qualità elevati. Si vuole solo attirare l'attenzione
su certe potenzialità che probabilmente non sono state ancora
completamente sfruttate dagli operatori meridionali del settore enologico.
A tal fine, risulta però indispensabile creare una struttura di aziende che
sia in stretto rapporto con il mercato, che sia in grado, se necessario, di
orientare una domanda che è, quantitativamente, in calo, e che sarà sempre
più attenta ai parametri di qualità.
182
produzione all'associazione a cui appartengono, di fissare un volume
minimo di produzione da commercializzare e di controllare che queste
organizzazioni dispongono realmente della capacità necessaria per la
commercializzazione.
183
parzialmente di influenzare, resta il fatto che, come abbiamo detto,
organizzazioni dei produttori solide ed efficienti possono in parte supplire
a queste carenze del sistema distributivo meridionale.
184
Nella stessa ottica, sarebbe opportuno non restare prigionieri degli schemi
mentali che vogliono che l'agricoltura si fermi alla soglia dell'azienda
agraria, e che l'agricoltore non possa essere un imprenditore polivalente
con interessi che vadano al di là del mero momento produttivo. In realtà,
la figura dell'imprenditore agricolo è oggi in piena evoluzione. La sua
funzione non è più soltanto quella di operatore del settore primario, di
produttore cioè di beni della terra destinati all'alimentazione diretta o
all'industria agro-alimentare.
Sempre più spesso esso assume anche le vesti dell'operatore turistico (ne
fa fede lo sviluppo dell'agriturismo e del turismo rurale), del piccolo
artigiano, allorché effettua in proprio le prime trasformazioni dei prodotti
agricoli provenienti dalla sua azienda, dell'operatore commerciale con la
vendita diretta e con il superamento dell'intermediazione, e assume perfino
il ruolo di presidio ambientale e di custode del territorio.
Signor Presidente,
signore e signori,
sono queste, a mio parere, alcune delle sfide principali che l'agricoltura
meridionale deve raccogliere in questa fase particolarmente delicata non
solo per il suo sviluppo ma anche per il futuro dell'agricoltura europea.
Sono sfide tanto più impegnative in quanto il contesto economico,
commerciale e finanziario in cui i problemi dell'agricoltura mediterranea si
pongono oggi è in piena evoluzione e in quanto la politica agricola, a
livello nazionale e comunitario, è confrontata a nuove esigenze e
sottoposta a nuovi vincoli.
185
della sua produzione e il perseguimento di una sicurezza alimentare che
sembrava ancora precaria.
Significa, invece, voler affrontare i mali alla radice e non curare soltanto i
sintomi del malessere. Significa combinare obiettivi di efficienza
produttiva con quelli della salvaguardia del modello europeo di
agricoltura, basata fondamentalmente su una miriade di imprese familiari,
spesso di modeste dimensioni e confrontate ad handicap socio-strutturali
difficili da rimuovere.
186
Accanto, infatti, ad una serie di misure restrittive, che toccano la generalità
degli agricoltori, la Comunità ha rinforzato in questi ultimi anni i
dispositivi a favore delle aziende strutturalmente più deboli e di quelle più
esposte alle conseguenze negative degli sforzi di razionalizzazione che
sono richiesti all'agricoltura comunitaria in questa fase di transizione.
187
Le chiavi per vincere queste sfide stanno, certo, a Bruxelles, come taluni
ritengono, ma anche nelle sedi istituzionali competenti a livello centrale e
periferico; direi anzi che stanno soprattutto nelle vostre mani: prenderne
coscienza è già un passo in avanti decisivo, una vittoria della ragione sulla
rassegnazione e sull’inerzia, un segno promettente di progresso, una
garanzia per il vostro, anzi, per il nostro futuro.
188
Agricoltura, Mezzogiorno, Europa del 1992*
Signor Presidente,
signore e signori,
alle soglie degli anni 90 la questione dello sviluppo agricolo nelle regioni
meridionali resta una questione prioritaria, tanto per i poteri pubblici
nazionali e regionali che per la Comunità europea. Malgrado, infatti, i
numerosi progressi realizzati nel corso degli ultimi venti anni e malgrado
le numerose misure e i programmi di azione messi in atto nel corso di
questo periodo per rispondere ai problemi specifici di queste regioni,
molte delle preoccupazioni che stavano alla base di queste misure restano
ancora aperte.
Sono quindi lieto che la Giornata della Cooperazione agricola ACLI sia
consacrata a questo tema e che ciò avvenga nel quadro prestigioso della
Fiera del Levante. Per quanto mi riguarda, e nei limiti di tempo
disponibile, spero di poter apportare un modesto contributo personale a
questa riflessione che mi auguro la più ampia e la più approfondita
possibile non solo in questa sede ma anche in tutte le altre sedi competenti.
Credo che non sia necessario, soprattutto dopo la brillante relazione del
prof. De Meo, spendere molte parole per ricordare quali sono i principali
handicap ambientali, strutturali e socioeconomici ai quali è confrontata
l'attività agricola in queste regioni. Vorrei piuttosto soffermarmi su alcuni
dei fattori determinanti del nuovo contesto in cui l'agricoltura meridionale
si troverà ad operare nei prossimi anni. Questi nuovi fattori sono,
essenzialmente, i seguenti:
189
a) la saturazione dei mercati per la maggior parte dei prodotti agricoli
derivante, da una parte, dalla crescita sostenuta della produzione e delle
rese e, dall'altra, dal rallentamento quando non addirittura dalla riduzione
dei consumi. In queste condizioni, è stato necessario, soprattutto a partire
dal 1984, di riformare in profondità la politica agricola comune al fine di
adattare gli strumenti disponibili alle nuove esigenze;
190
a mano a mano che l'impatto delle misure transitorie si riduce e che
l'applicazione della politica agricola comune all'agricoltura spagnola avrà
prodotto tutti i suoi effetti, soprattutto in termini di incremento di certe
produzioni;
191
politica comunitaria delle strutture agricole; l'avviamento di una politica
regionale comunitaria; l'adozione, alla fine degli anni Settanta, di
quell'insieme di misure strutturali e di mercato che vanno sotto il nome di
"pacchetto mediterraneo" e più tardi dei "programmi integrati
mediterranei"; la recente riforma dei fondi strutturali e il raddoppio dei
mezzi finanziari disponibili, costituiscono, mi sembra, altrettanti passi
significativi non solo verso una migliore integrazione delle regioni
mediterranee col resto dell’Europa, ma, anche e soprattutto verso un
rafforzamento di quella solidarietà tra paesi e regioni della Comunità che
costituisce uno dei pilastri fondamentali su cui poggia la costruzione
europea.
192
delle mutazioni in corso nell'agricoltura europea e nel contesto generale in
cui essa dovrà operare.
Si tratta, però, al tempo stesso, di una sfida che può risultare benefica per
l'agricoltura meridionale, nella misura in cui essa può stimolare un più
stretto collegamento tra impresa agricola e mercato, una razionalizzazione
delle strutture di produzione e dei circuiti di commercializzazione, una
valorizzazione di alcune produzioni tipiche.
193
a quelle iniziative commerciali indispensabili per mantenere e se possibile
per accrescere la loro presenza, tanto sul mercato interno che su
quello comunitario.
Basti citare, al riguardo, l'esempio del grano duro, sempre più eccedentario
a livello nazionale e comunitario, ma che l'Italia è costretta ad importare in
grandi quantità perché la produzione nazionale non risponde spesso alle
esigenze dell'industria pastaria nazionale né sotto il profilo della qualità
molitoria, né per quanto riguarda l'attitudine alla pastificazione. Lo
scadimento qualitativo della produzione di grano duro e l'eterogeneità
dell'offerta oltre che appesantire il mercato con eccedenze, che è difficile
smaltire, si riflette negativamente anche sul prezzo di mercato e quindi sui
redditi degli agricoltori,
194
un terzo della produzione nazionale di arance e oltre il 90% della
produzione di mandarini.
195
organizzazioni dei produttori solide ed efficienti possono in parte supplire
a queste carenze del sistema distributivo meridionale.
196
Di queste evoluzioni, del resto, la politica agricola comune comincia a
farsi carico non solo promuovendo ed incoraggiando tali mutamenti, ma
riconoscendo anche la necessità di remunerare l'agricoltore per le funzioni
sociali che esso svolge al di là di quelle meramente produttive.
Signor Presidente,
signore e signori,
sono queste, a mio avviso, alcune delle sfide principali che l'agricoltura
meridionale deve raccogliere in questa fase particolarmente delicata non
solo per il suo sviluppo ma anche per il futuro dell'agricoltura europea.
Sono sfide tanto più impegnative in quanto il contesto economico,
commerciale e finanziario in cui i problemi dell'agricoltura mediterranea si
pongono è in piena evoluzione e in quanto la politica agricola, a livello
nazionale e comunitario, è confrontata a nuove esigenze e sottoposta a
nuovi vincoli.
Significa, invece, voler affrontare i mali alla radice e non curare soltanto i
sintomi. Significa combinare obiettivi di efficienza produttiva con quelli
della salvaguardia del modello europeo di agricoltura, basata
fondamentalmente su una miriade di imprese familiari, spesso di modeste
197
dimensioni e confrontate ad handicap socio-strutturali difficili da
rimuovere.
E' questo un atto di fede che mi sento di poter fare non solo perché sono
convinto che esistono ancora margini per un ulteriore rafforzamento della
struttura produttiva dell'agricoltura meridionale, ma anche perché sono
sicuro che esistono nel mondo agricolo, ed in particolare nelle regioni del
Mezzogiorno, le energie e le capacità necessarie per sormontare le
difficoltà che il processo di sviluppo agricolo comporta in queste regioni.
198
Parte quarta
199
Il ruolo socioeconomico dell'agricoltura e il completamento
del mercato unico
(Giugno 1992)
Testo di un articolo per il Commissario Ray MacSharry
(Originale in inglese)
È una felice coincidenza che ho voluto ricordare non solo per il suo valore
simbolico, ma anche per sottolineare lo strettissimo legame che esiste da
sempre tra lo sviluppo della politica agricola comune, da un lato, e i
progressi realizzati - ma occasionalmente anche le difficoltà incontrate -
nel processo di integrazione europea degli ultimi 30 anni, dall'altro.
201
sono stati fatti nell'ambito di riforme che a volte sono state piuttosto
dolorose per gli agricoltori europei. Ha tuttavia fornito un quadro
favorevole allo sviluppo dell'agricoltura europea e alla sua
modernizzazione, la cui mancanza renderebbe oggi molto più difficile
avanzare verso una più profonda integrazione socio-economica a livello
europeo.
202
condizioni di approvvigionamento alimentare del consumatore europeo:
non solo da una situazione di penuria a quella in cui l'autosufficienza è
stata superata da tempo per la maggior parte dei prodotti agricoli, ma
anche in termini di più ampia varietà di prodotti disponibili sul mercato, di
ragionevole aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e di una loro
maggiore stabilità.
Queste cifre danno già un quadro più chiaro del ruolo svolto
dall'agricoltura come fonte di occupazione nell'economia comunitaria.
Tuttavia esse sono ancora largamente insoddisfacenti in quanto
l'agricoltura non è un settore isolato dal resto dell'economia ma
rappresenta una parte integrante di un ben più vasto complesso
agroalimentare, a monte e a valle dell'agricoltura, di cui costituisce una
sorta di anello di mezzo.
203
È difficile giudicare con precisione l'importanza dell'intera filiera
agroalimentare, ma è vero che è molto maggiore di quella del solo settore
agricolo. Basti pensare, per dare qualche indicazione, che il solo settore
agroalimentare impiega più di 2 milioni di persone e ha una produzione
stimata in oltre 350 miliardi di ecu, che è circa il 70% superiore al valore
della produzione finale del settore agricolo, facendone così una delle
principali industrie della Comunità.
Si potrebbero citare anche altri dati a testimonianza dell'importanza
fondamentale dell'agricoltura, soprattutto se si scende dal livello
macroeconomico a quello territoriale molto più vicino alla realtà socio-
economica delle nostre aree rurali. Al di là di tutti questi parametri
statistici più o meno sofisticati, tuttavia, credo sia importante ora prendere
atto dei cambiamenti in atto del ruolo dell'agricoltura e degli agricoltori e
quindi del loro ruolo nella società.
Se in passato il ruolo essenziale, se non l'unico, che veniva riconosciuto
era quello della produzione alimentare, oggi viene sempre più riconosciuto
che l'agricoltore svolge anche il ruolo di salvaguardia dell'ambiente
naturale e che la presenza dell'uomo sulla terra è essenziale per garantire
lo sviluppo socio-economico delle nostre aree rurali.
L'agricoltore, infatti, ha sempre svolto un ruolo diretto o indiretto
nell'espletamento di questi ruoli che esulano dall'ambito strettamente
agricolo e di cui la società nel suo insieme è stata la principale
beneficiaria.
Ciò che è relativamente nuovo è la maggiore consapevolezza della sua
desiderabilità per la collettività nel suo insieme. Desiderabilità da
attribuire a questi nuovi ruoli e agli occupati in agricoltura in quanto tali e
non per una forma astratta di solidarietà con il mondo rurale.
È da questo approccio, più rispettoso della duplice funzione
dell'agricoltore nell'economia e nella società, che trae ispirazione la
riforma della politica agricola comune, alla quale ho dedicato gran parte
delle mie energie sin dall'inizio della il mio mandato.
Sono molto lieto che dopo quasi diciotto mesi di discussioni e negoziati il
Consiglio dei ministri dell'Agricoltura abbia raggiunto un accordo, nel
maggio 1992, non solo sulla linea generale delle proposte della
204
Commissione sulla riforma della PAC, ma anche sui principali strumenti e
sulle modalità che stabiliscono la direzione e la forma della politica
agricola comunitaria per il prossimo futuro.
Ritengo che questo sia lo sviluppo più importante nei 30 anni di storia
della politica agricola comune. Dopo aver analizzato tutte le possibili
opzioni per la riforma della politica agricola, la Commissione ha concluso
che un approccio equilibrato comprenderebbe controlli della produzione
per contribuire a rendere i prodotti agricoli della Comunità più
competitivi, sia sul mercato interno che internazionale, garantendo nel
contempo il mantenimento del reddito degli agricoltori attraverso una
compensazione diretta. Il Consiglio ha ora pienamente approvato questo
approccio.
Le implicazioni della decisione del Consiglio sono di ampia portata. In
primo luogo, la produzione sarà adeguata alle reali possibilità del mercato
sia dal punto di vista dei volumi richiesti che dei prezzi di vendita. In
secondo luogo, le risorse di bilancio saranno utilizzate in modo più
efficace per sostenere i redditi degli agricoltori piuttosto che per
accumulare eccedenze di produzione. In terzo luogo, gli agricoltori
saranno incoraggiati a produrre in modo più rispettoso dell'ambiente e, in
quarto luogo, la politica assicurerà ampie forniture di alimenti di alta
qualità per i consumatori comunitari a prezzi inferiori. D'altro canto, i
nostri partner commerciali internazionali devono riconoscere l'entità del
passo compiuto dalla Comunità e il suo contributo alla stabilizzazione dei
mercati internazionali.
L'introduzione di questa riforma a partire dalla campagna di
commercializzazione 1993/1994 non è solo il modo più appropriato per
garantire la competitività dell'agricoltura europea e per realizzare un
migliore equilibrio sui mercati agricoli, proteggendo nel contempo
l'equilibrio socio-economico nelle zone rurali, ma è anche essenziale per
garantire la piena integrazione di questo settore nel resto dell'economia in
un momento in cui tutti gli ostacoli residui alla libera circolazione delle
persone, dei beni e dei servizi stanno per scomparire all'interno della
Comunità. L'agricoltura, come l'intero complesso agroindustriale, potrebbe
così partecipare pienamente al modello di cambiamento e di crescita che la
205
creazione di un vero mercato unico di oltre 340 milioni di abitanti ha
innescato in questi anni.
Tuttavia, per conseguire questo obiettivo, che può essere raggiunto solo
gradualmente, restano ancora ostacoli da superare e barriere da
smantellare, al di là dei già notevoli progressi compiuti negli ultimi anni.
Nonostante la PAC abbia da tempo assicurato che gli ostacoli alla libera
circolazione dei prodotti agricoli siano molto meno significativi che per
molti prodotti industriali, quando, nel 1985, la Comunità si è posta
l'obiettivo di completare, entro il 1993, un grande mercato interno, vi
erano ancora numerosi ostacoli alle frontiere negli scambi di prodotti
agricoli.
Il Libro bianco del 1985 elencava più di 100 misure da adottare nel settore
agricolo per completare il mercato unico. Lo sforzo è stato enorme, non
solo in termini di numero di misure da adottare, ma anche per quanto
riguarda la natura di tali misure e la sensibilità politica di alcune materie, a
volte nascoste dietro la complessità tecnica di alcune misure. Oggi il
grosso di questo lavoro è stato intrapreso e restano solo poche misure da
adottare da qui alla fine dell'anno.
Uno dei più noti di questi ostacoli è senza dubbio quello degli importi
compensativi monetari (MCA) che, dalla metà degli anni Settanta, sono
stati applicati negli scambi di prodotti agricoli tra Stati membri e che
rappresentano per tale motivo una delle minacce più gravi al
completamento di un vero mercato unico di tali prodotti.
Dalla metà degli anni Ottanta, anche grazie alla maggiore stabilità delle
valute europee, sono stati compiuti notevoli progressi nell'abolizione di
questi meccanismi alle frontiere, comprese le ispezioni dettagliate e la
riscossione di alcuni dazi all'importazione o, a seconda delle circostanze,
la concessione di sussidi all'esportazione.
Al momento, solo quattro Stati membri (Regno Unito, Portogallo, Spagna
e Grecia) applicano ancora importi compensativi monetari. In vista della
scadenza del 1993, tuttavia, la Commissione ha già avanzato proposte per
l'abolizione dei restanti ICM e ne farà a breve altre per impedire
l'introduzione di nuovi.
206
Ostacoli abbastanza significativi alla libera circolazione dei prodotti
agricoli esistono, tuttavia, anche in campo veterinario e fitosanitario. Negli
ultimi anni sono state adottate diverse misure in questi campi. L'obiettivo
di tutte queste misure è sostanzialmente lo stesso: estendere la libera
circolazione dei prodotti, senza rischi per il consumatore, in un mercato
unico. Ciò è stato ottenuto in gran parte sostituendo i controlli alle
frontiere con quelli al luogo di origine e, in alcuni casi, al luogo di
destinazione.
Poiché consistono in controlli sanitari e fitosanitari, uno dei principali
ostacoli è stata l'esistenza di norme sanitarie diverse negli Stati membri sia
per il bestiame che per le piante. Uno degli obiettivi principali
dell'armonizzazione delle legislazioni nazionali, quindi, è stato quello di
elevare gli standard sanitari in tutti gli Stati membri al livello più alto
possibile, anche nel mercato interno di ciascuno Stato membro, in modo
che non vi sia praticamente più alcuna necessità di introdurre restrizioni al
commercio.
A tal fine, è stato necessario introdurre politiche comuni per il controllo
delle malattie, nonché per rafforzare i servizi veterinari e fitosanitari a
livello comunitario e nazionale. Uno degli obiettivi principali del servizio
di ispezione veterinaria negli ultimi anni è stato quello di verificare
l'attuazione in tutti gli Stati membri delle leggi che vietano l'uso di ormoni
stimolatori della crescita dell'allevamento e il rispetto, da parte di tutti i
macelli autorizzati della Comunità, delle disposizioni sanitarie imposte dal
Comunità.
In campo fitosanitario, nel 1991 è stata adottata una direttiva molto
importante relativa all'immissione sul mercato dei prodotti vegetali in vista
del completamento del mercato unico in questo settore. La misura è
fondamentale poiché stabilisce condizioni rigorose per la salute umana e la
protezione dell'ambiente e garantisce che gli stessi prodotti sani ed efficaci
per la protezione delle colture siano disponibili in tutta la Comunità.
È vero che, come mostrano questi esempi, queste misure sembrano a
prima vista piuttosto tecniche e di interesse solo per una cerchia molto
ristretta di specialisti. In realtà, tutte le misure adottate o da adottare da qui
a fine anno, in vista del completamento del mercato unico nel settore
agricolo, riguardano direttamente tutti i 340 milioni di consumatori della
207
Comunità, sia in termini di rafforzamento dei criteri che regolano la
salubrità dei prodotti alimentari che di garanzia di una più ampia scelta di
prodotti disponibili sul mercato.
208
Il mercato degli ortofrutticoli nell'Unione europea:
situazione e prospettive*
(Padova, aprile 1997)
Signor Presidente,
Signore e signori,
Dopo più di due anni di discussioni, si sono infatti conclusi qualche mese
fa i negoziati per la riforma dell'organizzazione comune di mercato degli
ortofrutticoli, che è entrata in vigore il 1° gennaio 1997. D'altra parte,
cominciano a delinearsi con più chiarezza gli scenari comunitari e
internazionali che sono destinati a influenzare l'evoluzione dei mercati e
delle politiche agricole nel corso dei prossimi anni. E' quindi possibile
inquadrare le problematiche del settore ortofrutticolo nel contesto più
ampio delle prospettive della politica agricola comune e dell'evoluzione
prevedibile delle politiche commerciali alle soglie degli anni 2000.
209
introdurre nella politica agricola comune affinché l'agricoltura europea
possa affrontare con successo le impegnative scadenze che l'attendono alle
soglie del nuovo millennio e possa, non solo mantenere il suo potenziale
produttivo e commerciale, ma sia anche in grado di partecipare
all'espansione eventuale degli scambi in un contesto internazionale che si
fa sempre più difficile.
A questo proposito, non v'è dubbio che la seconda grande sfida a cui
l'agricoltura europea si troverà confrontata nei prossimi anni è quella
dell'apertura, nel 1999, di un nuovo ciclo di negoziati multilaterali nel
quadro dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, dopo quello che è
sfociato negli accordi di Marrakech dell'aprile 1994. Anche se è ancora
prematuro prevederne l'esito, sembra abbastanza scontato che l'obiettivo di
questo nuovo round sarà quello di una ulteriore liberalizzazione degli
scambi, anche per quanto riguarda i prodotti agricoli.
210
sovvenzioni all'esportazione) dovrebbero aggiungersi quanto meno altri
due temi: le preoccupazioni agro-ambientali e la necessità di rafforzare il
disaccoppiamento tra sovvenzioni all'agricoltura e livelli produttivi, in
maniera da evitare che gli aiuti accordati a certe produzioni incoraggino
un aumento della produzione. Questa esigenza sembra essersi
ulteriormente rafforzata dopo la riforma della politica agricola americana,
decisa un anno fa e che ha appunto introdotto un disaccoppiamento
pressoché totale tra programmi di sostegno all'agricoltura e livelli di
produzione.
211
La Commissione europea prepara attualmente il proprio parere sulle
domande di adesione di questi paesi all'Unione europea, ed è prevedibile
che essa non mancherà di indicare le difficoltà che questo processo
comporta. Se tuttavia le modalità e i tempi dell'adesione restano ancora da
definire, è invece acquisita la volontà politica dei Quindici di realizzare
quanto prima possibile questo nuovo e più impegnativo allargamento ad
est dell'Unione europea.
E' vero, inoltre, che la riforma dell'o.c.m. «Frutta e legumi» è stata appena
varata e che essa è quindi destinata ad assicurare un quadro legislativo
sufficientemente stabile per diversi anni. Resta il fatto che molte delle
sfide e degli appuntamenti più impegnativi per l'agricoltura europea nel
corso del prossimo decennio coinvolgono in pieno, direttamente o
indirettamente, anche il settore ortofrutticolo.
Anche per gli ortofrutticoli, in effetti, la prima e più impegnativa sfida dei
prossimi anni sarà quella della competitività della produzione comunitaria
non solo sui mercati internazionali, ma sempre più spesso anche sullo
stesso mercato interno. Anche in questo caso si tratterà, da una parte, di
mantenere e se possibile consolidare le posizioni dell'Unione sui mercati
d'esportazione, dall'altra di competere, sul piano commerciale, con le
importazioni in provenienza dai paesi terzi. Queste ultime continueranno
ad essere sottoposte a regimi restrittivi, ma non potranno non risentire
dell'evoluzione inevitabile delle politiche commerciali verso una più
grande liberalizzazione degli scambi internazionali.
In realtà, si tratta di una sfida non del tutto nuova in quanto già oggi una
quantità non trascurabile del consumo comunitario di ortofrutticoli, freschi
e trasformati, e non solo di prodotti esotici, è soddisfatta grazie alle
importazioni in provenienza dei paesi terzi. In effetti, mentre l'Unione
europea è globalmente autosufficiente in legumi freschi, con un tasso di
auto-approvvigionamento che si aggira sul 105%, essa è largamente
deficitaria per l'insieme della frutta fresca, avendo un tasso di auto-
approvvigionamento che non supera l'85%, ma che scende ad un livello
inferiore all'80% se si includono gli agrumi.
212
La situazione varia tuttavia fortemente da uno Stato membro all'altro, da
un prodotto all'altro e persino da un anno all'altro. I paesi del nord Europa,
sono in genere deficitari in ortofrutticoli. I paesi del sud Europa sono, al
contrario, eccedentari. Occorre però relativizzare questa presentazione un
po' troppo schematica.
E ciò non solo perché due paesi del nord Europa, come il Belgio e
l'Olanda, hanno tassi di auto-approvvigionamento per l'insieme degli
ortofrutticoli di gran lunga superiori a quelli di alcuni paesi del sud
Europa, ma anche perché l'Unione europea, pur essendo autosufficiente o
addirittura eccedentaria di talune produzioni è, allo stesso tempo,
importatrice di grandi quantità di ortofrutticoli dai paesi terzi. Ciò è
perfettamente comprensibile alla luce dell'internazionalizzazione crescente
degli scambi di ortofrutticoli e delle evoluzioni delle esigenze dei
consumatori, nel corso degli ultimi trent'anni.
213
ECU (pari a circa 25 mila miliardi di lire) e ha esportato per circa 4
miliardi di ECU (pari a circa 8.500 miliardi di lire).
214
produttori comunitari dispongono, a questo proposito, di vantaggi
incontestabili: la qualità dei loro prodotti, il loro dinamismo su un mercato
in piena evoluzione, i servizi che possono associare al prodotto offerto,
ecc.
215
è relativamente stazionario, ad eccezione delle fragole, il cui consumo per
abitante è in leggero aumento.
216
relativamente lungo nelle catene del freddo e che possano essere
facilmente utilizzati per la preparazione dei pasti.
Oltre che dal miglioramento delle rese, questo aumento della produzione
di ortofrutticoli nella Comunità deriva anche dall'aumento delle superfici.
217
Esso è stato accentuato, in taluni casi, anche dall'arrivo nel settore degli
ortofrutticoli di nuovi produttori proveniente da altri settori di produzione,
ed in particolare da quelli sottoposti alle misure di limitazione della
produzione introdotti dalla riforma della politica agricola comune, i quali
si sono riconvertiti alla produzione di ortofrutticoli, considerati come un
settore più redditizio oppure meno penalizzato dalla riforma. Questo
fenomeno appare tuttavia abbastanza marginale nel quadro delle difficoltà
attuali del mercato ortofrutticolo europeo.
L'apertura dei mercati nazionali che ne risulta avrà per effetto inevitabile
una concorrenza maggiore non soltanto sul mercato dei paesi importatori,
ma anche su quello dei paesi membri esportatori, che sono stati talvolta
protetti finora da legislazioni fitosanitarie piuttosto restrittive. Questa
competitività è stata anche rafforzata, in questi ultimi anni, dalla piena
integrazione della Spagna e del Portogallo nell'Unione europea nel
mercato ortofrutticolo comunitario, integrazione che, fino a pochi anni fa,
non aveva potuto ancora realizzarsi integralmente a causa
dell'applicazione di misure transitorie negli scambi di ortofrutticoli tra
questi paesi e il resto dell'Unione europea.
218
Al di là di tutti questi fattori, tuttavia, è soprattutto l'evoluzione della
domanda che è destinata a condizionare le prospettive a medio e a lungo
termine del mercato degli ortofrutticoli nell'Unione europea.
Detto questo, e alla luce delle tendenze osservate nel corso degli ultimi
quindici anni, si possono tirare le conclusioni seguenti sulle prospettive a
medio e a lungo termine della domanda di ortofrutticoli nella Comunità:
219
stagnazione o di calo, ha conosciuto una ripresa, grazie soprattutto
allo sviluppo di nuovi prodotti a base di pomodori, determinato
dall'evoluzione della domanda e delle abitudini alimentari dei
consumatori (fast-food, piatti precotti, ecc.). Dei nuovi prodotti
continuano ad apparire sul mercato, mentre il consumo di
pomodori pelati si è in qualche misura ripreso.
220
della domanda sotto l'influenza dell'esplosione della grande distribuzione e
delle centrali di acquisto, a scapito dei mercati all'ingrosso tradizionali,
appare sempre più evidente l'esigenza di una migliore organizzazione dei
produttori di ortofrutticoli in modo da conferire al fronte della produzione
una sufficiente forza di pressione sul mercato grazie alla concentrazione
dell'offerta.
E' questa, com'è noto, una delle principali preoccupazioni che stanno alla
base della riforma del settore ortofrutticolo appena varata a livello
comunitario. La Commissione europea è infatti convinta che nel settore
ortofrutticolo, caratterizzato dalla molteplicità e varietà dei prodotti, dalla
loro deperibilità, dal peso dei piccoli produttori e dalle fluttuazioni della
produzione dovute al clima, il consolidamento delle organizzazioni dei
produttori è, non solo una necessità economica per rafforzare la posizione
dei produttori sul mercato, ma dovrebbe anche permettere la messa in atto
di un'autentica politica di commercializzazione, un adeguamento della
qualità dei prodotti in funzione delle esigenze del consumatore e quindi
una stabilizzazione del mercato ortofrutticolo.
Signor presidente,
signore e signori,
non credo che sia necessario addentrarsi a questo punto sui contenuti della
riforma dell'organizzazione comune di mercato nel settore ortofrutticolo,
tema che sarà trattato più ampiamente nelle relazioni successive. D'altra
parte, non credo che sia possibile e auspicabile affrontare in questa sede le
problematiche specifiche ai vari comparti produttivi, certo più vicine alle
preoccupazioni di coloro i quali operano in questi comparti, ma che ci
allontanerebbero dall'obiettivo che mi sono proposto con questa relazione
introduttiva: vale a dire delineare alcune delle principali sfide a cui il
mercato ortofrutticolo comunitario sarà confrontato nel corso dei prossimi
anni e indicare, al tempo stesso, alcune delle principali considerazioni che
stanno alla base della riforma.
221
13 -
1. INTRODUZIONE
Il primo maggio 2004 segna una tappa storica nel processo di integrazione europea
e di unificazione del nostro continente. Dieci nuovi paesi, in gran parte dell'Europa
centrale e orientale 1, e più di 75 milioni di loro cittadini hanno deciso di unire i loro
destini a quelli dei quindici Stati membri dell'Unione europea e dei 377 milioni di cit-
tadini che già ne fanno parte. Con l'adesione, prevista nel 2007, della Romania e
della Bulgaria, e con le altre che già si profilano all'orizzonte, i paesi del vecchio con-
tinente stanno quindi per completare quell' "unione sempre più stretta" tra i popoli
d'Europa che i padri fondatori dell'Unione europea avevano preconizzato cinquan-
t'anni fa, senza tuttavia immaginare che il loro progetto sarebbe andato così avanti e
avrebbe incontrato tanto successo.
Il passaggio da un'Europa a quindici ad un'Europa a venticinque a partire dal 1°
maggio 2004 e le solenni celebrazioni che l'hanno accompagnato hanno offerto I' oc-
casione per una presa di coscienza collettiva non solo della dimensione politica, eco-
nomica, sociale e culturale di questo ampliamento, ma anche delle attese e delle
inquietudini che questo grande evento suscita nelle opinioni pubbliche dei venticinque
paesi che fanno parte della nuova Europa.
In questo articolo, ci soffermeremo più particolarmente sulle implicazioni economiche
e sociali del nuovo ampliamento dell'Unione europea. Non bisogna tuttavia dimenti-
care che, più che da considerazioni economiche, questo processo è anzitutto mosso
da considerazioni di ordine politico di grande respiro, che sono in realtà le stesse che
hanno animato fin dall'origine il progetto di
integrazione europea: consolidare la demo-
crazia, la pace e la stabilità sul continente
europeo .
Quando, perciò, si affronta un tema come
questo è bene non perdere di vista che le
problematiche che questo ampliamento sol-
leva (che peraltro, come vedremo, sono tutte
governabili senza eccessive difficoltà),
vanno apprezzate non già alla luce della
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- 14 'ulmm,
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15 -
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- 16 ~'umwid
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Àmplli11lflJll/d fJell'@ure,pr 17 -
mente, anche in questo caso vale il principio generale della libertà di movimento di
tutti i cittadini all'interno dell'Unione. Ciò implica, peraltro, non soltanto la libera cir-
colazione dei lavoratori, ma anche il mutuo riconoscimento dei titoli di studio e delle
qualificazioni professionali, i diritti legati alla cittadinanza e il coordinamento dei
sistemi di sicurezza sociale. In questa sede, il tema più rilevante è quello della libera
circolazione dei lavoratori, e ciò sia perché è proprio questo·uno dei capitoli più sen-
sibili dei negoziati di adesione e uno dei temi più ricorrenti nel dibattito sull' impatto
economico e sociale dell'ampliamento, sia perché è proprio in questo campo che, su
domanda dell'Unione, è stata prevista una delle deroghe politicamente più rilevanti e
più mortificanti di tutto il trattato di adesione.
In effetti, a decorrere dall'adesione, i lavoratori dei nuovi Stati membri hanno, in linea
di principio, il diritto di recarsi e di risiedere in tutti gli Stati membri attuali. Questi ulti-
mi, tuttavia, hanno ottenuto una fase transitoria, che consente loro di decidere, nei
primi due anni dall'ampliamento, se applicare immediatamente la libera circolazione
dei lavoratori o adottare restrizioni per una durata massima di cinque anni, estendi-
bili a sette in caso di crisi del mercato del lavoro. l'.accordo sul periodo transitorio per
la libera circolazione dei lavoratori non mette in causa la libera circolazione delle per-
sone, ad esempio per motivi di studio o di soggiorno, ma la libera circolazione per
motivi di lavoro, in qualità di lavoratore dipendente, può subire delle restrizioni, per
un periodo massimo di sette anni . Vedremo più in là come gli Stati membri si sono
posizionati rispetto a questa possibilità che è stata loro offerta (o, per meglio dire, che
è stata da loro aspramente rivendicata per far avanzare i negoziati di adesione e per
mettersi al riparo dalle prevedibili reazioni emotive delle loro opinioni pubbliche di
fronte alla prospettiva di un'immigrazione incontrollata dai nuovi paesi membri).
Per quanto riguarda la libera circolazione dei capitali, la misura transitoria più signi-
ficativa prevista dal trattato di adesione è quella che è stata accordata alla quasi tota-
lità dei paesi dell'est europeo di poter mantenere in vigore per sette anni (12 per la
Polonia) la legislazione nazionale per l'acquisto di terreni agricoli e forestali. E ciò al
fine di frenare la corsa ali' accaparramento dei terreni agricoli di questi paesi da parte
degli investitori stranieri, anche per poter beneficiare degli aiuti della politica agrico-
la comune, ed evitare così un rincaro eccessivo e frenetico del mercato fondiario.
Restrizioni analoghe sono previste per un numero più limitato di paesi per l'acquisto
di residenze secondarie.
In materia di politica di concorrenza, vale la pena di menzionare, per il loro impatto
sulla competitività relativa delle imprese dei paesi aderenti rispetto a quella delle
imprese dei Quindici, la soppressione entro un certo numero di anni, variabile da due
a undici a seconda dei paesi e delle misure, di una serie di aiuti di Stato sotto forma
di vantaggi fiscali concessi nei paesi aderenti alle medie e piccole imprese.
Un altro capitolo in cui le misure transitorie adottate hanno una certa rilevanza eco-
227
- 18
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Àmplitmttmfd fJtJ!l~ri,pr 19 -
dei rifiuti e degli inquinamenti ambientali. Resta il fatto, tuttavia, che anche per le
misure per le quali sono stati accordati periodi transitori, permane l'obbligo di mette-
re in atto fin dalla data di adesione della legislazione di recepimento delle direttive
comunitarie in materia ambientale.
Un altro capitolo su cui vale la pena di soffermarsi è quello della politica sociale e del-
1' occupazione. In questo settore, I' acquis comunitario si compone di due tipologie d'in-
tervento. Vi è una prima area di azione, in cui l'acquis si traduce nell'applicazione di
alcune norme minimali comuni, come in materia di diritto del lavoro, salubrità e sicu-
rezza sui luoghi di lavoro, parità di trattamento tra uomini e donne sul mercato del
lavoro, sanità pubblica, ecc.Vi è poi una seconda area di azione in cui l'integrazione
delle politiche nazionali è meno avanzata e a livello comunitario ci si limita a pro-
muovere una convergenza delle politiche nazionali, come in materia di dialogo socia-
le, politica dell'occupazione e sistemi di sicurezza sociale. In questi ultimi campi, non
vi è alcun obbligo, né per i vecchi, né per i nuovi Stati membri, di conformarsi ad una
normativa comunitaria, ma solo un importante ma generico obbligo di coordinare le
rispettive politiche in maniera da inquadrarle in un contesto europeo quanto più omo-
geneo possibile. E' chiaro che l'assenza di un quadro comunitario vincolante - assen-
za dovuta alla reticenza degli Stati membri ad accettare una cessione di sovranità in
questi campi - in materie come le politiche dell'occupazione o i sistemi di sicurezza
sociale, accresce in una certa misura il rischio di "dumping sociale" che le organiz-
zazioni sindacali temono dopo il nuovo ampliamento.
Ci sembra utile chiudere questa rassegna con due notazioni. La prima riguarda le dis-
posizioni relative all'entrata in vigore dell'accordo di Schengen, la seconda in merito
all'entrata in vigore dell'Euro nei nuovi Stati membri e al rispetto delle disposizioni
relative all'unione economica e monetaria e, in particolare, al Patto di stabilità e cre-
scita.
Per quanto riguarda I' acquis di Schengen, questo fa parte integrante dell' acquis comu-
nitario e, come tale, è stato ripreso integralmente dai nuovi Stati membri ed è vinco-
lante fin dalla data di adesione.Tuttavia, la partecipazione alla "zona Schengen" da
parte dei nuovi Stati membri, che implica la soppressione dei controlli alle frontiere
interne dell'Unione, è soggetta alla verifica, da parte delle istituzioni comunitarie, del
rispetto dei requisiti necessari per l'applicazione di tutte le parti dell' acquis in que-
stione. Ciò non potrà avvenire che dopo aver messo in piedi e consolidato un effica-
ce sistema di controllo delle frontiere esterne dell'Unione allargata, che dovrebbe
impedire un afflusso incontrollato di immigrati proveniente dai paesi confinanti con
l'Unione (quali la Federazione russa e l'Ucraina). I controlli alle frontiere interne con
la Repubblica ceca, l'Ungheria, la Polonia e la Slovacchia dovrebbero invece scom-
parire dal 2006. Per aiutare i nuovi Stati membri a mettere in piedi delle strutture effi-
caci di controllo, il trattato di adesione prevede la concessione ai nuovi paesi aderen-
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- 20 'umw>!
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25 -
Questa posizione estremamente prudente, per non dire di chiusura, dei paesi dell'U-
nione di fronte alla libertà di movimento dei lavoratori provenienti dall'Est, se è facil-
mente comprensibile sul piano emotivo e per ragioni politiche, non ha pressoché alcun
fondamento razionale ed è addirittura controindicata sul piano economico soprattutto
se essa dovesse prorogarsi nel tempo. Il contributo demografico dell'immigrazione è
infatti indispensabile alla crescita in Europa. Non bisogna peraltro dimenticare che i
lavoratori immigrati dall'est hanno livelli di educazione e di formazione più alti rispet-
to a quelli che provengono da paesi del sud est asiatico e del Nord Africa e general-
mente superiori alla media nei rispettivi paesi d'origine. Una prospettiva, questa, più
inquetante per i paesi di origine, minacciati da una fuga di cervelli, che per i paesi di
destinazione, che hanno invece bisogno di energie nuove.
L'esperienza dei precedenti ampliamenti, le indagini sulla propensione ad emigrare
verso l'Ovest effettuate nei paesi aderenti e tutte le analisi macroeconomiche effettua-
te finora a questo riguardo - anche senza tener conto delle misure restrittive adottate
nel frattempo dalla quasi totalità dei quindici - sono infatti abbastanza concordanti
nel ridimensionare il rischio che i paesi dell'Unione siano invasi, nei prossimi anni, da
un'immigrazione selvaggia, insostenibile per le loro economie.
Cominciamo dal più recente di questi studi, realizzato dalla Fondazione europea per
il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che ha sede a Dublino. Esso rile-
va che solo I' 1% della manodopera dei paesi aderenti, vale a dire circa 220.000 lavo-
ratori all'anno, ha manifestato l'intenzione di emigrare verso la UE-15 nei cinque anni
successivi all'adesione. Ciò equivale ad un potenziale di emigrazione di circa 1, 1
milioni di persone su cinque anni, potenziale che peraltro potrebbe non necessaria-
mente tradursi in un'emigrazione effettiva. Peraltro, occorre osservare che oggi l'U-
nione accoglie circa 1,5 milioni di immigrati in provenienza dai paesi terzi al di fuori
dei paesi aderenti e circa 1 milione di cittadini dei paesi dell'est.
Anche l'adesione della Spagna e del Portogallo, nel 1986, aveva suscitate analoghe
apprensioni, essendo anche questi paesi dei paesi a basso reddito. Infatti, dopo l'a-
desione, i flussi di emigrazione netti da questi paesi sono stati praticamente inesisten-
ti nella seconda metà degli anni Ottanta. Questa tendenza è rimasta più o meno inva-
riata anche dopo l'abolizione delle restrizioni ali' emigrazione imposte per un periodo
transitorio di sette anni, che oltretutto è coincisa con la recessione dei primi anni '90.
Secondo le stime del Consorzio per l'integrazione europea, che non tengono conto
delle misure transitorie adottate dalla quasi totalità dei governi dei quindici, 335 mila
persone (pari allo O, 1% della popolazione attuale dell'UE) arriverebbero nell'UE-15
dopo l'introduzione della libera circolazione della manodopera. li livello dei salari non
è in realtà il solo fattore che occorre prendere in conto allorché ci si interroga su even-
tuali movimenti migratori. Altri fattori - l'attaccamento al luogo d'origine, i legami
familiari, il peso delle tradizioni, la paura dell'incognito - giocano in senso inverso. In
235
- 26
molti di questi paesi è già difficile fare spostare la popolazione all'interno del paese.
Come poter pensare realisticamente che essi si precipiteranno in massa alle frontiere
all'indomani del 1° maggio? D'altra parte, la situazione dell'occupazione nei paesi
europei in questa fase congiunturale non dovrebbe incitare molti a espatriare.
La Commissione, dal canto suo, sulla base di studi di economisti indipendenti, stima il
flusso annuo di lavoratori migranti in provenienza all'est a una cifra variabile tra 70
e 150 mila persone, anche se il primo anno potrebbero essere dell'ordine di 250 mila,
come effetto di una regolarizzazione di fatto di persone che si trovano già sul territo-
rio comunitario.
Ovviamente, il fenomeno dovrebbe principalmente interessare i paesi e le regioni del-
l'UE che confinano con i nuovi Stati membri. Ciò spiega il carattere più restrittivo della
moratoria settennale adottata da questi paesi.
Queste previsioni, che convergono largamente con quelle di altri organismi di ricerca,
vanno apprezzate anche alla luce dell'invecchiamento della società europea e del fab-
bisogno di manodopera, qualificata e non, che si avverte già in alcune aree dell'U-
nione. Non bisogna, infine, dimenticare che lo sviluppo economico atteso per i pros-
simi anni nei paesi aderenti costituirà un freno decisivo all'emigrazione della forza
lavoro da questi paesi.
236
27 -
seguenti ragioni:
La maggior parte degli scambi bilaterali di prodotti agricoli tra la UE a 15 e i paesi
aderenti sono già stati ampiamente liberalizzati nel corso degli ultimi anni (tramite i
cosiddetti accordi doppio-zero e doppio-profitto). A questo riguardo è interessante
sottolineare che i paesi candidati all'adesione nel loro insieme hanno registrato una
forte crescita delle loro importazioni nette di prodotti agricoli provenienti dalla UE nel
corso degli ultimi dieci anni;
L'incremento produttivo atteso da qui al 2010 nei nuovi Stati membri sarà in parte
assorbito dall'aumento dei consumi alimentari indotti dall'aumento vistoso dei redditi
pro-capite previsto nei prossimi anni;
L'impatto dell'allineamento dei prezzi agricoli nei paesi aderenti sui livelli dei prezzi
nell'Unione dovrebbe essere contenuto dal momento che la convergenza dei prezzi si
è già in parte realizzata negli ultimi dieci anni;
Le strutture di commercializzazione e i livelli qualitativi della produzione agricola sono
ancora alquanto carenti in molti dei nuovi paesi aderenti rispetto a quelli prevalenti
nell'Unione a 15.
Nel complesso, la Commissione europea stima che i nuovi Stati membri dovrebbero
accrescere le loro possibilità di esportazione verso il resto dell'Unione soprattutto per
il pollame e i cereali foraggeri mentre dovrebbe aumentare il loro fabbisogno di
importazione di prodotti lattiero-caseari, di prodotti dell'industria alimentare, di orto-
frutticoli e di carni, in particolare di maiale.
7. I COSTI DELL'AMPLIAMENTO
Una delle maggiori preoccupazioni suscitate dalla prospettiva del nuovo ampliamen-
to ad est dell'Unione europea, soprattutto nel corso degli anni Novanta, è quella della
possibile esplosione del bilancio comunitario a seguito dell'ampliamento.
Oggi , queste preoccupazioni sono in larga parte fugate, anche alla luce delle deci-
sioni assunte per finanziare l'ampliamento e delle misure adottate, in particolare per
quanto riguarda gli aiuti previsti dalla politica agricola comune, per limitarne l'impat-
to finanziario.
Per quanto riguarda, anzitutto, il periodo 2004-2006, coperto da decisioni già adot-
tate, il fabbisogno complessivo di spesa per l'ampliamento è stato stimato sui seguen-
ti livelli:
9,9 miliardi di Euro nel 2004, pari al 9,6% del bilancio UE-25
12,6 miliardi di Euro nel 2005, pari al 12,0% del bilancio UE-25
14, 9 miliardi di Euro nel 2006, pari al 14,0% del bilancio UE-25.
Negli anni successivi il costo dell'ampliamento dovrebbe progressivamente aumenta-
re (e infine stabilizzarsi) per effetto, in particolare, dell'incremento dei trasferimenti
derivanti dalla politica agricola comune, che verranno integralmente livellati su quelli
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- 28
versati nel resto dell'Unione solo nel 2013. Ovviamente, non bisogna dimenticare che
anche i nuovi paesi parteciperanno al finanziamento di questi costi aggiuntivi attra-
verso il sistema delle risorse proprie. A questo riguardo vale anzi la pena di menzio-
nare il fatto che, per evitare che alcuni di essi si ritrovino, fin dalla data di adesione,
nella scomoda posizione di contributore netto al bilancio comunitario, è stato neces-
sario prevedere, nell'atto di adesione, delle disposizioni particolari che evitino, per i
paesi interessati, che essi ricevano dal bilancio comunitario meno di quanto essi vi
debbono versare nel quadro del regime delle risorse proprie.
Non esistono al momento stime ufficiali sui costi dell'ampliamento dopo il 2006. Quel
che è certo, tuttavia, è che i costi dell'ampliamento dovrebbero restare anche nei pros-
simi anni entro limiti compatibili con i massimali di spesa già in vigore nell'Unione a
quindici, in termini di percentuale del reddito nazionale lordo. A questo riguardo, vale
la pena di ricordare che la Commissione ha presentato, nel febbraio 2004, un impor-
tante documento sulle prospettive politiche e finanziarie dell'Unione allargata per il
periodo 2007-20133.
Alla luce delle priorità politiche e delle ambizioni che essa propone di fissare per l'U-
nione allargata, ma tenendo allo stesso tempo conto della difficoltà di far accettare
dagli Stati membri un aumento sostanziale delle risorse destinate al bilancio dell'U-
nione, in un periodo di forti pressioni sulle finanze pubbliche, la Commissione propo-
ne un quadro finanziario per il periodo 2007-2013 su livelli relativamente contenuti.
Gli stanziamenti d'impegno totali dovrebbero infatti passare (a prezzi costanti) da
120,7 miliardi di Euro nel 2006 o 158,5 miliardi di Euro nel 2013, vole o dire
dall' 1,09% all' 1, 15% del reddito nazionale lordo dell'Unione. Malgrado questo leg-
gero aumento percentuale della speso, generato in gran porte dagli accresciuti fabbi-
sogni per la competitività e la coesione, in un'Unione allargata, esse resterebbero al
di sotto del "tetto" in vigore per le risorse proprie dell'Unione o 15 (già fissato
all'l ,24% del reddito nazionale lordo).
In particolare, la dotazione complessiva dei fondi strutturali per il periodo 2007-2013
dovrebbe essere di circa 336 miliardi di Euro, di cui circa la metà andrebbe ai paesi
e alle regioni dell'UE o 15 e l'altro metà alle aree depresse dei nuovi paesi (all'inizio,
52% dei fondi ai paesi UE- 15 e 48% ai 1O nuovi aderenti, percentuali destinate ad
invertirsi nel 2013).
In questo contesto, può essere interessante accennare agli effetti prevedibili dell'am-
pliamento sui trasferimenti dei fondi strutturali o favore delle nostre regioni meno svi-
luppate (quelle che rientrano nel cosiddetto "Obiettivo 1" o cui è destinato circa il 78%
dello dotazione complessiva dei fondi strutturali nel periodo 2007-2013).
Come attualmente, le regioni dell'Obiettivo 1 dopo il 2007 saranno quelle il cui PIB
per abitante è inferiore al 75% della medio comunitario. l'Unione o 27 (quindi dopo
l'adesione della Romania e della Bulgaria, nel 2007) ne avrà circo 80. Sulla base dei
238
ÀmpUdllltJllfd 8eU'fwr~ 29 -
dati per il 2001, per quanto riguarda l'Italia, la Basilicata dovrebbe superare la soglia
del 75% della media comunitaria . Tuttavia, per questa regione come per un'altra ven-
tina che si trovano nelle stesse condizioni e per le quali il PIB per abitante sarebbe
rimasto inferiore al 75% senza l'ampliamento ("effetto statistico dell'ampliamento") la
Commissione propone il mantenimento di un aiuto transitorio e degressivo fino al
2013. Peraltro, un ammortizzatore analogo, seppure meno vantaggioso, ma sempre
transitorio, è previsto per le regioni, come la Sardegna, che uscirebbero dall'Obietti-
vo 1 per effetto del miglioramento obiettivo del loro reddito ("arricchimento naturale") .
Gli effetti dell'ampliamento sarebbero relativamente più consistenti per altri paesi del-
l'Unione a quindici, come la Francia o la Spagna, che rischiano di veder amputati in
maniera molto più drastica i trasferimenti dei fondi strutturali di cui essi hanno bene-
ficiato finora.
Il dibattito su queste proposte, ed in particolare sulle nuove prospettive finanziarie per
l'Unione allargata, rischia tuttavia di farsi aspro nei prossimi due anni, dal momento
che già alcuni capi di governo, ed in particolare quelli dei sei principali paesi contri-
butori netti, hanno fatto chiaramente intendere di non essere disposti ad andare al di
là della percentuale che oggi viene effettivamente utilizzata per finanziare l'Unione,
vale a dire poco più dell' 1%.
E' chiaro che se così fosse, gran parte del programma politico dell'Unione per il pros-
simo decennio dovrebbe essere ridimensionato ma cio' equivarrebbe praticamente ad
una resa dell'Unione di fronte alle sfide che l'attendono ed in primo luogo a quello
della competitività dell'economia europea e di una maggiore coesione nell'Unione
ampliata, una resa che segnerebbe il declino progressivo del progetto europeo nel
momento stesso in cui questo sembra aver raggiunto l'apice del suo successo.
NOTE
1) Dei dieci nuovi Stati membri dell'Unione, quattro sono paesi dell'Europa centrale (Polonia, Ungheria,
Repubblica Ceca e Slovacchia), tre sono ex-Repubbliche sovietiche (Estonia, Lettonia, Lituania), una face-
va parie dell'ex-Repubblica di Jugoslavia (la Slovenia) e due sono isole del Mediterraneo (Cipro e Malta).
2) "An Agenda fora Growing Europe: Making the EU Economie System Deliver", Report of on lndepen-
dent High-Level Study Group established on the initiative of the President of the European Commission,
più noto come " Rapporto Sopir" dal nome dell'economista belga che ha presieduto l'apposito gruppo di
lavoro, luglio 2003. Il rapporto è staio recentemente pubblicato in Italia da "Il Mulino" .
3) Commissione delle Comunità europee, Costruire il nostro awenire comune. Sfide e mezzi finanziari
dell'Unione allargata 2007-2013, COM(2004) 101 definitivo, 10 febbraio 2004.\®
239
SAVERIO TORCASIO
Fiscalità e agricoltura
nei paesi della Comunità europea
1 - GENERALITA
Pochi altri campi d'indagine che abbiano attinenza con l'agricoltura eu-
ropea sono altrettanto inesplorati quanto quello dell'assetto e del peso della
fiscalità in agricoltura nei paesi della CEE. Non che tale soggetto non abbia
destato l'interesse degli studiosi, delle istituzioni comunitarie, o degli uomi-
ni politici. Al contrario, numerosi sono quelli che hanno cercato di avventu-
rarsi su questo terreno accidentato o che hanno quanto meno posto, sul
piano scientifico, economico o politico, il problema di una più approfondita
conoscenza del ruolo della politica fiscale nel contesto delle politiche agri-
cole nazionali e comunitaria e delle conseguenze per lo sviluppo e la com-
petitività delle rispettive agricolture che possono derivare dall'esistenza di
regimi fiscali spesso assai divergenti da uno Stato membro all'altro.
Vale la pena di rilevare a questo riguardo che fin dai primi anni dell'u-
nificazione dei prezzi e dei mercati agricoli, e cioè praticamente fin dal
1967, la Commissione delle Comunità europee si è interessata allo studio
comparativo della fiscalità in agricoltura, promuovendo uno studio sui regi-
mi fiscali concernenti l'impresa agricola e l'imprenditore agricolo nei paesi
della CEE a Sei [6], studio che peraltro non perviene ad alcuna conclusione
sul diverso grado di pressione fiscale nella Comunità.
Più recentemente, la Commissione ha intrapreso un vasto studio sul
ruolo, l'importanza e l'incidenza economica delle spese pubbliche in favore
dell'agricoltura negli Stati membri della Comunità (ivi comprese la fiscalità
e la sicurezza sociale in agricoltura) , i cui risultati si attendono con grande
interesse ma che, temiamo, non sarà sufficiente a districare la complessa
problematica della fiscalità in agricoltura e a tirare conclusioni significative
sul diverso grado di pressione fiscale a cui l'agricoltura è sottoposta nei di-
versi Stati membri.
Il perché di questa situazione si può riassumere in due concetti:
1) malgrado taluni sforzi di armonizzazione nel settore fiscale a livello
comunitario, che restano comunque del tutto localizzati, e pressoché limitati
alle imposte più direttamente collegate agli scambi (ad es.: IVA, talune acci-
se, ecc.) , i regimi fiscali nazionali presentano non poche difformità non solo
di aliquote e di modalità di applicazione, ma anche di _struttura;
241
192 Saverio Torcasio
Osservati nel loro insieme i sistemi fiscali dei paesi membri della CEE
presentano a prima vista non poche analogie. Queste sono peraltro più pro-
nunciate per quel che riguarda le imposte sugli scambi, in considerazione
della loro particolare importanza per la libera circolazione delle merci e l'in-
staurazione dell'Unione doganale, condizioni essenziali per l'esistenza di un
vero mercato unico. In tutti gli Stati membri si ritrovano, in effetti, pratica-
mente le stesse grandi categorie fiscali: imposte sul reddito, tanto delle per-
sone fisiche che delle persone giuridiche, imposte sul capitale o sul patrimo-
nio, imposte sulla spesa o sugli scambi. D'altra parte, pressoché ovunque le
imposte dello Stato sono completate da imposte locali, che fanno capo ai
vari enti territoriali esistenti nei diversi paesi membri (Linder, regioni, con-
tee, province, comuni, ecc.) . Nell'ambito, poi, delle imposte sugli scambi,
primeggia dappertutto l'imposta sul valore aggiunto, che da alcuni anni vie-
ne peraltro applicata su una base imponibile uniforme in tutti gli Stati
membri: misura, quest'ultima, che si è resa necessaria non solo per conside-
razioni di neutralità fiscale, ma anche per raggiungere un altro importante
obiettivo, quello cioè di dotare la Comunità di risorse proprie.
Al di là, tuttavia, di queste analogie di facciata, un'analisi più minuziosa
dei diversi regimi fiscali nella CEE fa apparire l'esistenza di numerose e pro-
fonde differenze, sia per quanto riguarda l'importanza relativa di ciascuna
tipologia d'imposta nel contesto del prelievo fiscale complessivo, sia per
quanto riguarda le modalità di applicazione delle diverse imposte. Perfino
imposte che a prima vista potrebbero sembrare analoghe o che portano ad-
dirittura lo stesso nome sono talvolta notevolmente diverse tra loro. In ef-
fetti, anche se non pochi progressi verso il ravvicinamento dei regimi fiscali
degli Stati membri sono stati compiuti in questi 25 anni di vita del Mercato
comune, il bilancio dell'armonizzazione fiscale all'interno della Comunità è
ancora relativamente modesto, e ciò essenzialmente per due ragioni [3]:
242
Fiscalità e agricoltura nella CEE 193
243
194 Saverio Torcasio
TAB. - Struttura del prelievo obbligatorio globale e pressione fiscale nella CEE
(1) Incidenza del prelievo fiscale globale (totale imposte + contributi sociali obbligatori) sul
prodotto interno lordo ai prezzi di mercato.
(2) Per il Lussemburgo, anno 1978; per l'Irlanda, anno 1979.
Fonte: elaborazioni su dati EuRO STAT.
244
Fiscalità e agricoltura nella CEE 195
245
196 Saverio Torcasio
1 Questa analisi sarà limitata alla Comunità a Nove non disponendo di elementi sufficienti
sulla fiscali tà in Grecia. Questo paese, come si ricorderà, ha aderito alla Comunità dal
1.1.198 1.
246
Fiscalità e agricoltura nella CEE l 97
In tutti gli Stati membri i redditi agricoli rientrano nel campo d'applica-
zione dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, al pari dei redditi pro-
venienti da altre attività. Da questo punto di vista, dunque, niente differen-
zia il reddito agricolo dagli altri redditi. Tuttavia esistono notevoli differen-
ze tra Stati membri sulla maniera di determinare il reddito imponibile. A
questo proposito, si è soliti distinguere nella Comunità due gruppi di paesi,
a seconda che la tassazione dei redditi agricoli richieda o meno, come nor-
ma generale, la tenuta di una contabilità d'impresa [15; 16]. Al primo grup-
po appartengono i Paesi Bassi, il Regno Unito e la Danimarca, al secondo, i
restanti: una ripartizione questa, che, non a caso, riproduce quella tra paesi
con più solide strutture di produzione e commercializzazione in agricoltura,
e quelli a strutture relativamente più deboli. In questi ultimi, in effetti, la
tenuta di una contabilità per fini gestionali costituisce ancora una rara ecce-
zione, sicché la tassazione dei redditi agricoli avviene prevalentemente su
base forfettaria. Anche all'interno di questo gruppo, tuttavia le disparità di
regime da un paese all'altro sono piuttosto ampie.
Va anzitutto rilevato che solo in Italia e in Irlanda l'imposizione del red-
dito agricolo avviene su base pressoché esclusivamente forfettaria: in Fran-
cia, nella Repubblica federale di Germania, nel Belgio e nel Lussemburgo,
invece, pur restando il regime forfettario la forma prevalente di imposizione
dei redditi agricoli, una quota non del tutto trascurabile e peraltro crescente
delle imprese agricole, è tassata in base al reddito effettivo, risultante dalla
tenuta di una contabilità. È il caso, in genere, delle imprese che realizzano
redditi superiori a una certa soglia, ma pressoché ovunque possono accede-
re a questo regime - onde beneficiare eventualmente di taluni vantaggi fi-
scali che esso offre - anche le altre imprese.
In Francia, ad esempio, su 1,2 milioni di imprese agricole, un terzo paga
le imposte sul reddito agricolo; di queste, circa 30.000 (pari al 2,5% del
247
198 Saverio Torcasio
totale) sono tassate sulla base del reddito effettivo, le restanti 3 70.000 sulla
base di un reddito figurativo, calcolato in funzione del reddito medio unita-
rio, fissato annualmente per le diverse produzioni agricole, e di altri criteri
obiettivi (superficie, quantità prodotta, natura giuridica dell'impresa, ecc.).
Nella Repubblica Federale di Germania le imprese agricole obbligate dal
fisco a tenere una contabilità rappresentano circa 1'8% del totale; tuttavia
possono optare per l'imposizione su base reale anche altre imprese che ten-
gono volontariamente una contabilità; a questo proposito sono previste talu-
ne esemplificazioni per le piccole imprese. Vale, peraltro, la pena di rilevare
che, anche se teoricamente il regime forfettario rappresenta la forma di tas-
sazione dei redditi agricoli più diffusa, nella Repubblica federale di Germa-
nia, di fatto è scarsamente applicato, o viene applicato in modo tale che
esso non ha alcun vero impatto fiscale: basti dire, al riguardo, che nell'eser-
cizio 1981-1982, ben il 76,3% delle imprese agricole a pieno tempo nella
Repubblica federale di Germania non ha pagato l'imposta sul reddito oppu-
re ha pagato un'imposta inferiore a 100 DM (circa 60.000 LIT).
In Belgio, le imprese tassate sulla base del reddito desunto da una con-
tabilità si aggirano sul 5% del totale: d'altra parte, una complessa procedu-
ra di concertazione tra organizzazioni professionali e amministrazione fiscale
è prevista annualmente al fine di pervenire alla fissazione forfettaria del red-
dito lordo e del reddito imponibile per tipologia d'impresa.
Irlanda e Italia presentano non poche analogie sotto il profilo della tas-
sazione dei redditi agricoli; in entrambi i paesi, infatti, non solo il regime
forfettario copre la quasi totalità delle imprese agricole, ma esso è anche
applicato sulla base di coefficienti catastali di reddito periodicamente rivalu-
tati. Va peraltro osservato che in Irlanda l'introduzione di una tassa sui red-
diti agricoli è ancora relativamente recente: essa risale, infatti, al 1974, e
cioè ali' anno successivo alla sua adesione alla Comunità, in connessione col
sensibile miglioramento dei redditi agricoli registrato nei primi anni di ap-
partenenza alla Comunità. Il campo di applicazione di questo regime, limi-
tato all'inizio ad una fascia ristretta di agricoltori, è stato in seguito progres-
sivamente ampliato fino a comprendervi oltre un quarto della totalità delle
imprese agricole.
È chiaro che la grande predominanza dei regimi di imposizione forfetta-
ria dei redditi agricoli in tutti questi paesi fa dell'agricoltura un settore fi-
scalmente privilegiato, rispetto agli altri settori, anche se è vero che non
sempre imposizione forfettaria significa implicitamente sottotassazione del
reddito agricolo. Tuttavia, la tendenza che si riscontra in molti di questi
paesi lascia pensare che in futuro la tassazione sulla base dei redditi effettivi
assumerà un ruolo sempre più rilevante: e ciò, non solo per ragioni pretta-
mente fiscali, ma anche e forse soprattutto perché diventa sempre più diffi-
cile condurre una politica agricola nell'ignoranza dei redditi individuali de-
gli agricoltori.
A questo riguardo, come abbiamo già detto, la situazione è del tutto
diversa nei tre paesi membri della Comunità in cui la tassazione dei redditi
agricoli richiede, come norma generale, la tenuta di una contabilità: si trat-
248
Fiscalità e agricoltura nella CEE l 99
ta, come è noto, della Danimarca, del Regno Unito e dei Paesi Bassi.
In questi paesi, non solo l'agricoltura è pienamente assimilata sotto il
profilo fiscale agli altri settori d'attività, salvo leggeri adattamenti della nor-
mativa, ma è anche possibile, per questa ragione, far beneficiare gli agricol-
tori degli stessi vantaggi fiscali (detassazione, esenzioni fiscali in caso di
reinvestimento, ecc.) di cui usufruiscono gli altri settori.
249
200 Saverio Torcasio
vante da queste imposte, dal 1961 fino all'adesione della Danimarca alla
Comunità, nel 1973, lo Stato versava agli agricoltori un sussidio che com-
pensava di fatto l'onere delle imposte fondiarie che questi versavano alle
contee. Dal 1978 è stata, peraltro, reintrodotta, sia pure su scala più ridotta,
una misura pressoché analoga: tuttavia i ristorni dello Stato, invece di essere
versati agli agricoltori, alimentano un fondo destinato alla promozione com-
merciale dei prodotti agricoli. Vale la pena, peraltro, di segnalare l'utilizza-
zione per fini di politica economica generale che è stata fatta nel 1980 e nel
1981 di un'apposita tassa fondiaria, a vantaggio dello Stato, pari allo 0,7%
del valore del terreno: essa è stata infatti temporaneamente introdotta allo
scopo di neutralizzare, almeno in parte, la spinta sulla dinamica dei redditi
agricoli esercitata dalla svalutazione della corona danese nel novembre del
1979.
Anche le imposte sui trasferimenti fondiari tra vivi o per successione
ereditaria possono essere relativamente importanti, soprattutto in periodi di
rapida inflazione, come l'attuale: questo spiega perché la relativa legislazio-
ne ha subito non pochi adattamenti in diversi Stati membri durante gli ulti-
mi anni, in genere al fine di attenuare l'impatto negativo di queste imposte
sulla mobilità fondiaria. Così, nel Regno Unito, nel 1982 sono state esonera-
te dalle imposte relative alle vendite o alla cessione tra vivi le plusvalenze
fondiarie derivanti dall'aumento dei prezzi intervenuto dopo il 6 aprile
1982. Anche in Danimarca queste imposte sono state ridotte negli ultimi
anni ed attualmente non colpiscono che le vendite effettuate durante i primi
8 anni dell'acquisto [14].
Su un altro piano, è il caso, peraltro, di rilevare la presenza di un'impo-
sta patrimoniale in cinque Stati membri della Comunità (la RF di Germa-
nia, la Danimarca, la Francia, il Lussemburgo e i Paesi Bassi). L'ultima, in
ordine di tempo, ad introdurre questo tipo di imposta è la Francia, che l'ha
adottata su un piano generale, ivi comprese le terre agricole, a partire dal 1°
gennaio 1982 (1 % per un patrimonio inferiore a 12 milioni di FF, e 1,5%
al di là di questa cifra). Considerando che, a seguito dell'introduzione di
tale imposta, alcuni proprietari imprenditori potrebbero essere indotti a
vendere le loro terre per pagare le imposte, il governo ha istituito un appo-
sito organismo per negoziare gli acquisti di terreni dagli attuali proprietari.
In base alla classificazione del Sistema europeo dei conti economici inte-
grati (SEC) [12], vengono comprese fra le imposte indirette sulla produzio-
ne e sulle importazioni: le imposte generali sugli affari, di cui l'IVA è di
gran lunga la più importante, le imposte di fabbricazione, le imposte sui
consumi, le tasse di bollo, di registro e una serie di altre imposte di minore
importanza.
Anche se le imposte sui consumi possono avere una grande influenza
sull'agricoltura, sia quando colpiscono i prodotti agricoli (ad es. accise sul
250
Fiscalità e agricoltura nella CEE 201
251
202 Saverio Torcasio
252
Fiscalità e agricoltura nella CEE 203
TAB. 2 - Struttura delle entrate della sicurezza sociale nella CEE (in % del totale)
Contributi sociali
Contributi
Altre entrate
Stati membri pubblici
dei dati delle persone correnti
correnti
di lavoro protette
1975
BR Deutschland 44,2 24,1 27,4 4,3
France 58,2 19,2 19,4 3,2
Italia 72,9 10,5 13,4 3,2
Nederland 40,0 33 ,8 17,0 9,2
Belgique/Belgie 43,1 19,6 30,7 6,6
Luxembourg 37,1 24,2 31,1 7,6
United Kingdom 37,4 15,9 39,4 7,3
Ireland 22,8 11,8 62,1 3,3
Danmark 11,0 1,6 84,4 3,0
EUR-9 48,3 19,9 26,9 4,9
1981
BR Deutschland 38,3 26,0 32,5 3,2
France 56,0 22,6 18,5 2,9
Italia 56,7 13,3 27,7 2,3
Nederland 35,4 32,1 19,9 12,6
Belgique/Belgie 42,4 18,3 35,8 3,5
Luxembourg 34,0 22,6 34,3 9,1
United Kingdom 33,0 15,4 43,3 8,3
Ireland 24,2 11,2 63,4 1,2
Denmark 10,0 2,1 83,1 4,8
EUR-9 42,5 21,1 31,6 4,8
Fonti: EuROSTAT.
253
204 Saverio Torcasio
sidua essendo coperta per un quinto da contributi dello Stato e per i quat-
tro quinti dalla solidarietà degli altri settori.
Contrariamente a quello che si potrebbe ritenere, quest'ultima non è
tuttavia una caratteristica esclusiva della situazione italiana. In Francia, ad
esempio, gli altri settori economici e il Fondo nazionale di solidarietà con-
tribuivano nel 1976 per il 45% al finanziamento della legislazione sociale a
favore degli imprenditori agricoli (47% nel 1980). D'altra parte, in tutti i
paesi in cui il finanziamento della sicurezza sociale agricola avviene preva-
lentemente mediante lo strumento impositivo, e in particolare in Danimar-
ca, è lecito supporre che si operi implicitamente un certo trasferimento in-
tersettoriale di risorse a vantaggio dell'agricoltura, nella misura in cui la ca-
pacità contributiva di quest'ultima o la fiscalità effettiva in agricoltura sia
inferiore a quella degli altri settori. Questa considerazione ci induce, per al-
tri versi, a ridimensionare la portata effettiva del fenomeno in quei paesi,
come la Francia e l'Italia, in cui i trasferimenti intersettoriali assumono a
prima vista una dimensione quantitativa più rilevante. Senza voler nulla to-
gliere al valore economico e sociale di questa manifestazione di solidarietà,
sta di fatto che, a parità di capacità contributiva degli agricoltori e dei lavo-
ratori dell'industria, e a parità delle prestazioni sociali usufruite dagli uni e
dagli altri, lo scarto nello sforzo contributivo tra le due categorie sociali,
che appare oggi in tali paesi veramente macroscopico, si ridurrebbe in ma-
niera consistente. Lo dimostra, tra l'altro, uno studio recente realizzato in
Francia dalla Mutualité Sociale Agricole e inteso a determinare appunto lo
sforzo contributivo reale degli agricoltori rispetto ai salariati del regime ge-
nerale postulando per i primi un reddito di parità e uno sforzo contributivo
equivalente (10].
Per l'insieme delle prestazioni fruite dai diversi organismi di sicurezza
sociale nel 1981, tale studio, i cui risultati vanno comunque presi con una
certa cautela, è arrivato alla conclusione che lo sforzo contributivo effettivo
degli agricoltori francesi si situa in una forcella compresa tra il 74 e 1'82%
di quello dei lavoratori salariati, se si tiene conto del reddito di lavoro ri-
spettivo.
Per quanto riguarda il sistema di sicurezza sociale per i lavoratori agri-
coli, questo è assimilato al regime generale dei salariati in Belgio, nella Re-
pubblica federale di Germania e in Irlanda, assume una configurazione di-
stinta in Francia e in Italia, mentre è grosso modo analogo a quello degli
imprenditori agricoli e dell'insieme della popolazione nei Paesi Bassi e in
Danimarca.
In questo contesto, vale peraltro la pena di rilevare che la contribuzione
dei salariati agricoli al finanziamento del proprio sistema di sicurezza sociale
variava nel 1976 dall'8% in Francia (contro il 25% dovuto a questo titolo
dagli imprenditori agricoli), al 10% in Danimarca (nessun contributo da
parte degli imprenditori agricoli è previsto in questo paese), al 20% nel Re-
gno Unito (contro il 52%), al 30% _nella Repubblica federale di Germania
(contro il 42%), al 44% nei Paesi Bassi (contro il 47% versato dagli agri-
coltori indipendenti).
254
Fiscalità e agricoltura nella CEE 205
Da questo abbiamo detto fin qui sull'assenza in tutti gli Stati membri di
una fiscalità propriamente agricola, sulla molteplicità e sulla diversità degli
strumenti fiscali utilizzati e degli enti percettori, sulla necessità di tener con-
to dell'insieme del sistema fiscale e parafiscale, appaiono già evidenti le dif-
ficoltà che occorre sormontare per pervenire alla determinazione di un indi-
ce sintetico che esprima l'incidenza della pressione fiscale in agricoltura nei
diversi Stati membri della Comunità. Se, però, a ciò si aggiunge che le stati-
stiche fiscali esistenti in molti paesi non consentono il più delle volte di di-
stinguere tra gettito fiscale proveniente dall'agricoltura e quello proveniente
dagli altri settori, ci si rende conto _che spesso non di «difficoltà» si tratta,
ma di vera e propria impossibilità. E il caso di notare che, a questo propo-
sito, l'Italia costituisce una rara eccezione, grazie in particolare ai lavori del
Cristofaro [9; 11] che hanno permesso di dare una notevole trasparenza alla
fiscalità nel settore agricolo e consentono, sia pure entro certi limiti, di
comparare la pressione fiscale in agricoltura con quella degli altri settori
economici. Un calcolo analogo a quello che il Cristofaro effettua annual-
mente per l'agricoltura italiana non è tuttavia possibile per tutti gli altri pae-
si della Comunità, per le ragioni che abbiamo più volte indicato, ed in par-
ticolare per l'assenza di statistiche fiscali dettagliate. Quando, peraltro, dalle
analisi relative ad un solo paese si passa ai confronti tra più paesi un margi-
ne complementare di prudenza si rende necessario se si vogliono evitare
conclusioni affrettate e distorsioni ottiche, a cui i risultati ottenuti potrebbe-
ro facilmente condurre.
Anzitutto, le statistiche fiscali, per quanto esse possano essere perfezio-
nate, non consentono di mettere in luce l'importanza relativa degli esoneri e
degli sgravi d'imposta, in particolare per quanto riguarda le imposte sul
reddito e sul patrimonio, attribuibili, ad esempio a misure di carattere eco-
nomico o sociale, temporanee o permanenti, oppure alla situazione familiare
dei contribuenti. In queste condizioni, rilevava lo studio già citato della
Commissione CEE [6], «anche se esistesse una ripartizione precisa e com-
pleta delle entrate fiscali provenienti dal settore agricolo, questi dati non
sarebbero sufficienti a dare una fisionomia esatta di questo settore e a si-
tuarlo con precisione tra gli altri settori della produzione nazionale».
In secondo luogo, non occorre dimenticare che, come abbiamo già vi-
sto, esiste un'elevata correlazione tra tassi di pressione fiscale complessiva e
capacità contributiva media dei soggetti d'imposta (o redditi medi indivi-
duali) nei diversi Stati membri, e, all'interno di uno stesso Stato membro,
probabilmente tra pressione fiscale e capacità contributiva dei diversi settori
economici. Tutto questo porta a credere, dunque, che almeno nel lungo pe-
riodo la pressione fiscale in agricoltura tenda ad essere più elevata nei paesi
ad agricoltura «più ricca» e meno elevata negli altri senza che se ne possa
necessariamente dedurre che la prima sia discriminata rispetto alla seconda.
255
206 Saverio Torcaszo
256
Fiscalità e agricoltura nella CEE 207
TAB. 3 - Struttura del prelievo pubblico e pressione fiscale in agricoltura in alcuni paesi della
CEE
RU IT FR IRL DK RFG
1975
}
Imposte sul reddito agricolo 38,5 17,2 n.d. n.d.
34,4 13,7
Imposte sul patrimonio
}
27,8 59,4 n.d. n.d.
14,9
Imposte sulla produzione 5,9 6,7 9,6 n.d. n.d.
Totale imposte 72,2 41,1 28,6 86,2 n.d. n.d.
Contributi sociali obbLgatori 27,8 58,9 71 ,4 13,8 n.d. n.d.
Totale imposte + contributi
sociali obbligatori 100,0 100,0 100,0 100,0
Pressione fiscale (1 ) % 15,2 5,1 10,7 4,2 n.d. n.d.
1980
}
Imposte sul reddito agricolo 38,6 25,9 42 ,5 16,7(2)
41 ,9 9,2
}
Imposte sul patrimonio 24,9 39,4 31 ,9 16,2
17 ,4
Imposte sulla produzione 7,2 8,2 23,7 24,0 1,7
Totale imposte 70,7 50,1 26,6 89,0 98,6 34,6
Contrib uti sociali obbligatori 29,3 49,9 73 ,4 11,0 1,4 65,4
Totale imposte + contributi
sociali obbligatori 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0
(1) Incidenza del prelievo fiscale globale (imposte + contributi sociili obbligatori) sul valore
aggiunto lordo dell'agricoltura ai prezzi di mercato.
(2) Anno 1979.
Fonti: per l'Italia [9; 11] ; per gli altri paesi, nostre elaborazioni o stime.
257
208 Saverio Torcasio
Summary
Riferimenti bibliografici
258
Fiscalità e agricoltura nella CEE 209
259
Parte quinta
261
La politica di sviluppo rurale nel contesto delle politiche
strutturali dell’Unione europea*
(2005)
262
I. Le politiche strutturali nel Trattato di Roma e i successivi
adattamenti
Il Trattato firmato a Roma, il 25 marzo 1957, dai sei paesi fondatori della
Comunità economica europea (Francia, Italia, Germania, Belgio, Olanda e
Lussemburgo) è ancora oggi, nonostante le modifiche che vi sono state
apportate nel corso degli anni e nonostante i successivi e ripetuti
ampliamenti della Comunità europea, la base su cui poggia l’intera
costruzione comunitaria.
263
la realizzazione di un’unione doganale che comportasse
l’abolizione dei dazi doganali e delle restrizioni agli scambi fra
gli Stati membri, nonché l’adozione di una tariffa doganale
comune per le importazioni dai paesi terzi,
Quest’ultimo, tuttavia, oltre al già citato Fondo sociale europeo, che può
considerarsi l’antesignano di quelli che sono diventati in seguito i fondi
strutturali della Comunità europea, prevedeva anche l’istituzione di una
Banca europea per gli investimenti, destinata a facilitare l’espansione
economica “equilibrata e senza scosse” della Comunità, che di fatto è stata
per lungo tempo lo strumento finanziario prevalente dell’azione
comunitaria a favore delle regioni più deboli.
264
attendere quasi venti anni perché la Comunità si doti di una propria
politica regionale e oltre trent’anni anni perché sia creato un Fondo di
coesione a livello comunitario.
In effetti, mentre negli anni Settanta la Pac assorbiva oltre il 70% del
bilancio comunitario e i Fondi strutturali appena il 5%, oggi il costo della
Pac è sceso sotto il 50%, mentre quello delle politiche strutturali ha
superato il 30% delle spese complessive. Questa tendenza è peraltro
destinata a proseguire nei prossimi anni.
Alla politica agricola comune sono dedicati ben dieci articoli del Trattato
CEE. In nessuno di essi, tuttavia, si fa menzione espressamente della
necessità di mettere in piedi delle misure che contribuiscano alla
265
razionalizzazione e al rafforzamento delle strutture di produzione oppure
al miglioramento delle strutture di trasformazione e commercializzazione
in agricoltura.
266
eterogenea di progetti individuali di investimento nell’ambito delle
aziende agricole, o di miglioramento delle strutture di trasformazione e
commercializzazione dei prodotti agricoli oppure al finanziamento di
infrastrutture agricole, senza però che che questi progetti si inquadrassero
necessariamente in una logica di programmazione settoriale o territoriale.
Nel 1972, dopo quasi tre anni di aspre discussioni, vengono adottate le
prime tre direttive socio-strutturali che gettano le basi di una sia pur
ancora embrionale politica strutturale comune in agricoltura. Queste tre
direttive rispondevano, rispettivamente, a tre obiettivi principali:
Vale la pena di osservare che questo deciso passo in avanti verso una
politica strutturale comunitaria nell’ambito della Pac, oltre che alla
pressione politica di paesi come l’Italia che avevano tutto da guadagnare
dall’avvio di una politica comunitaria in un settore come quello delle
strutture agricole in cui l’Italia era particolarmente debole, era anche
dovuto alla consapevolezza, che incominciava a farsi strada anche negli
altri paesi, che l’unificazione della politica dei prezzi e dei mercati
realizzata fino ad allora non poteva da sola rimediare alle disparità
esistenti in seno all’agricoltura europea e che, anzi, queste disparità erano
destinate ad accentuarsi in mancanza di interventi correttivi.
267
Al di là del loro impatto effettivo, che è stato in realtà piuttosto limitato
rispetto alle attese, quanto meno in Italia, sia per la ristrettezza delle
risorse finanziarie disponibili, sia per una serie di problemi nella fase di
applicazione in sede nazionale, tutte queste misure avevano come
obiettivo di rimediare agli inconvenienti di una politica agricola dei prezzi
e dei mercati applicata in modo uniforme sul territorio comunitario ma di
cui soltanto le regioni più sviluppate e le aziende agricole più efficienti
riuscivano effettivamente ad avvantaggiarsi.
Il periodo iniziale, che va dal dal 1960 al 1971, è quello in cui l’azione
del Fondo sociale è stata meno incisiva: anzitutto perché i finanziamenti –
principalmente destinati alla reinserzione professionale dei lavoratori
disoccupati – venivano versati a posteriori, vale a dire dopo che i progetti
erano già stati realizzati e quindi dopo che erano già stati finanziati a
livello nazionale; in secondo luogo, perché i paesi che maggiormente ne
beneficiavano erano proprio quelli che più degli altri disponevano già di
strutture di formazione o di perfezionamento nonché di risorse finanziarie
proprie. Non deve quindi sorprendere se il Fondo sociale europeo, che era
stato creato per aiutare soprattutto l’Italia, nel corso di questo periodo ha
di fatto soprattutto aiutato la Germania (questa ha infatti ottenuto il 43,5%
delle risorse contro il 37% dell’Italia).
268
effetti negativi sull’occupazione della messa in atto di una politica
comune, come ad esempio la politica agricola o industriale. L’incisività
del Fondo ha tuttavia risentito negativamente della eccessiva dispersione
degli interventi su tutto il territorio comunitario.
Una nuova riforma fu operata nel 1983 per rendere la gestione del
Fondo ancora più rigorosa e per rafforzarne l’efficacia anche alla luce dei
cambiamenti intervenuti nel frattempo sul mercato del lavoro e
all’esplosione della disoccupazione giovanile. In particolare, fu deciso che
i giovani avrebbero dovuto ormai rappresentare almeno il 75% dei
beneficiari complessivi del Fondo. Venne inoltre rafforzata la capacità
redistributiva del Fondo sociale, imponendo che una frazione consistente
del Fondo stesso (il 44,5%) fosse destinato ad alcune delle regioni in
ritardo di sviluppo soprattutto nei paesi mediterranei e in Irlanda. Infine,
nella scelta dei progetti da finanziare, venne data la priorità a quelli che si
inserivano in programmi integrati che coinvolgevano anche altri strumenti
finanziari comunitari e ai progetti più innovativi.
Nel complesso, come si vede, gli sviluppi del Fondo sociale nel corso del
periodo che va dalla sua creazione al 1988 sono in gran parte dettati non
solo dalla preoccupazione di accrescerne l’efficacia e di adattarlo alle
priorità dettate dai cambiamenti sul mercato del lavoro, ma anche e
soprattutto dalla volontà di rimediare ai deficit strutturali in materia di
occupazione, soprattutto nelle regioni meno sviluppate della Comunità, in
altri termini, di accrescere l’impatto strutturale e regionale dei suoi
interventi. Si dovrà, tuttavia, aspettare la riforma del 1988 perché
quest’ultima preoccupazione fosse ancora più efficacemente presa in
conto.
269
industriali in declino, e contribuendo perciò a quello “sviluppo armonioso
delle attività economiche nell’insieme della Comunità” che era iscritto a
chiare lettere fra gli obiettivi primordiali della Comunità economica
europea.
Anche se, come abbiamo già detto, si è dovuto aspettare il 1975 per la
creazione di un apposito “Fondo regionale di sviluppo”, la Commissione
europea, che è l’istituzione incaricata di applicare il Trattato e a cui spetta
il diritto esclusivo di proporre le varie misure, fin dai primi anni
dall’entrata in vigore del Trattato, si è data da fare per elaborare una
politica ad hoc che si occupasse specificatamente del problema degli
squilibri regionali nella Comunità.
270
monetaria nella Comunità ampliata, basata tra l’altro su un
sistema di parità fisse tra le loro monete e sulla messa in comune
delle loro riserve monetarie. I capi di Stato e di governo erano
infatti coscienti che l’esistenza di squilibri strutturali e regionali
all’interno della Comunità avrebbe potuto incidere sulla
realizzazione di questa unione economica e monetaria;
In secondo luogo, l’imminente ampliamento della Comunità, e
più particolarmente l’adesione dell’Irlanda e del Regno Unito,
avrebbe accentuato le disparità regionali, che erano già marcate
nella Comunità a Sei. Basti ricordare al riguardo che il reddito pro-
capite del Regno Unito era inferiore del 15% alla media
comunitaria, mentre quello irlandese era addirittura inferiore del
40% alla media comunitaria;
Infine, un ruolo determinante giocò anche la pressione politica
esercitata dal Regno Unito per la creazione di un Fondo di
sviluppo regionale. Una misura, questa, che, nelle valutazioni del
governo britannico, avrebbe dovuto consentire al Regno Unito di
essere uno dei principali beneficiari dei trasferimenti del nuovo
fondo regionale a favore delle regioni più deboli.
In realtà, a causa delle turbolenze sul mercato dei cambi nel corso del
1973 – che portarono alla creazione del cosiddetto “serpente monetario” e
alla fluttuazione libera della lira e della sterlina – l’obiettivo della
realizzazione, a partire dal 1973, dell’unione economica e monetaria
venne momentaneamente accantonato. Di questo deterioramento della
situazione risentì anche la creazione del Fondo regionale, il quale, da una
dotazione iniziale triennale prevista in 2,5 miliardi di Unità di conto passò
a quella di 1,3 miliardi di Unità di conto, e la cui costituzione, dopo una
lunghissima battaglia al Consiglio dei ministri della CEE, avvenne solo
nel marzo del 1975. Va tuttavia osservato che le risorse finanziarie del
Fondo regionale sono progressivamente aumentate dal momento della sua
creazione e superano attualmente i 21 miliardi di euro (pari al 18,3% del
bilancio comunitario).
271
strumento di rafforzamento dell’efficacia dell’azione comunitaria, ma è
anche indispensabile che tutte le altre politiche comuni, da quella agricola
a quella sociale, concorrano al conseguimento della riduzione degli
squilibri regionali. Per la Commissione, in effetti, la politica regionale
non poteva non essere una politica globale, vale a dire una politica che
investisse tutte le altre politiche e tutti gli altri attori, a livello nazionale e
comunitario. Anche se questo è stato l’orientamento che si è sempre più
affermato nel corso degli anni, è tuttavia difficile poter affermare che
questo obiettivo sia stato pienamente raggiunto fino ad oggi.
272
quanto per la prima volta l’obiettivo di rafforzare la coesione economica e
sociale all’interno della Comunità veniva sancito nel Trattato.
273
complessiva della struttura e delle regole di funzionamento dei Fondi a
finalità strutturale con l’obiettivo di precisare e razionalizzare le loro
missioni nonché di accrescerne l’efficacia e di assicurare la coordinazione
degli interventi tra di loro e con quelli degli altri strumenti finanziari
esistenti. Questa riforma è stata adottata nel 1988 e di essa parleremo più
in là.
1
Il Trattato sull’Unione europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il
1° novembre 2003, istituisce l’Unione europea, che riposa su tre pilastri:
- la Comunità europea al posto della Comunità economica europea. Questo
cambiamento di denominazione consacra l’estensione delle competenze della
Comunità europea dalla dimensione puramente economica alla dimensione sociale,
ambientale e regionale;
- la cooperazione intergovernativa in materia di politica estera e di sicurezza comune
(PESC);
- la cooperazione di polizia in materia penale (GAI = Giustizia e Affari interni).
274
europea e che siano rispettate le identità e le prerogative regionali
e locali.
Bibliografia
275
II. Verso una strategia comunitaria per lo sviluppo delle
regioni rurali
Questo spiega perché nel 1984 furono introdotte delle quote di produzione
nel settore lattiero-caseario, il più eccedentario, vale a dire delle soglie di
produzione, superate le quali venivano applicate delle pesanti penalità
aventi una evidente finalità dissuasiva. A partire dal 1986 sono state
peraltro introdotte anche per gli altri prodotti agricoli sistemi di
limitazione della produzione (quantità massimali garantite, stabilizzatori
della spesa per il sostegno dei mercati, introduzione di una “disciplina di
bilancio” intesa a limitare l’evoluzione della spesa agricola, ecc.) ed è
stata messa in atto una politica restrittiva dei prezzi di sostegno decisi
nell’ambito della politica agricola comune, che in passato erano stati
invece rivalutati annualmente.
276
generale, la manodopera agricola in eccesso non avrebbe potuto più essere
facilmente assorbita dagli altri settori produttivi.
E’ proprio per definire una strategia comunitaria di fronte alla sfida che
le prospettive di sviluppo delle regioni rurali rappresentavano per la
Comunità e la sua coesione, che la Commissione europea ha condotto nel
1988 un’analisi approfondita di questo problema e ha trasmesso al
Parlamento europeo e al Consiglio una comunicazione sul futuro del
mondo rurale.
277
La concezione della Commissione in materia di sviluppo rurale si ispira a
tre principi fondamentali:
o la necessità di promuovere la coesione economica e sociale in
una Comunità ampliata e con forti disparità regionali;
o la necessità di favorire l’indispensabile adattamento
dell’agricoltura europea alla realtà dei mercati agricoli, e al
tempo stesso di accompagnarne con misure adeguate i
cambiamenti;
o la necessità di proteggere l’ambiente e mantenere il patrimonio
naturale della Comunità.
278
dell’energia e a sviluppare l’utilizzazione di energie rinnovabili (biomassa,
sole, vento, ecc.).
279
2. Sviluppo rurale e riforma dei Fondi strutturali
Questa riforma, destinata ad essere applicata per gli interventi previsti per
il periodo 1989-1993, si fonda sull’applicazione di quattro principi
fondamentali di funzionamento dei fondi strutturali, che sono ancora oggi
alla base delle politiche strutturali comunitarie:
280
meglio adattati alle realtà locali e alle esigenze delle diverse
regioni;
Il principio di addizionalità vale a dire l’esigenza che gli aiuti
comunitari si aggiungano agli interventi nazionali e non li
sostituiscano. In altri termini, gli aiuti comunitari non debbono
avere come conseguenza di ridurre gli interventi strutturali degli
Stati membri.
281
Ulteriori adattamenti al funzionamento dei Fondi strutturali sono stati
introdotti per il periodo 1994-1999. L’impianto generale è rimasto tuttavia
quello deciso nel 1988, anche se vale la pena di segnalare l’inclusione di
un nuovo obiettivo (l’obiettivo 6: “sviluppo delle regioni a scarsissima
densità di popolazione”) istituito dall’Atto di adesione dell’Austria, della
Finlandia e della Svezia, le quali sono entrate nell’Unione europea a
partire dal 1995. Più interessante è invece segnalare un nuovo raddoppio
dei mezzi finanziari disponibili per i Fondi strutturali rispetto al
quinquennio precedente e un’ulteriore concentrazione delle risorse
destinate alle regioni in ritardo di sviluppo, vale a dire quelle dell’obiettivo
1.
282
nuovi paesi dell’Europa centrale e orientale, il proseguimento della
riforma della politica agricola comune e l’ulteriore semplificazione e
concentrazione degli interventi strutturali.
Ragioni interne:
283
Ragioni esterne:
a) una forte riduzione dei prezzi di sostegno dei cereali e della carne
bovina in maniera da avvicinarli ai prezzi mondiali di questi
prodotti;
b) l’introduzione di nuove misure di limitazione della produzione
(per i seminativi, il cosiddetto set aside, o messa fuori coltura di
una parte della superficie destinata a queste colture);
c) l’introduzione di una serie di aiuti compensativi ai produttori per
le riduzioni di prezzo previste nel settore dei cereali e della carne
bovina.
284
disposizione mezzi finanziari di gran lunga superiori a quelli del passato.
E qui vogliamo fare riferimento non solo alle misure di accompagnamento
sopra menzionate, ma anche agli stessi aiuti compensativi ai produttori che
hanno forse avuto sull’obiettivo della coesione economica e sociale un
impatto ancora maggiore di quello delle stesse misure di
accompagnamento. La ragione è molto semplice: l’introduzione di questi
aiuti ha frenato l’espulsione di manodopera dal settore agricolo e ha
assicurato un’iniezione di risorse esterne che ha contribuito alla
sopravvivenza delle attività economiche in molte regioni rurali.
La riforma della Pac del 1992 costituisce una tappa importante verso
l’elaborazione di una strategia comunitaria a favore del mondo rurale
anche per un’altra ragione. Per la prima volta, infatti, appare evidente la
consapevolezza che, oltre al ruolo tradizionale di produttore di alimenti,
l’agricoltore adempie anche un ruolo di protezione dell’ambiente e del
territorio e che la presenza dell’uomo sulla terra è una condizione
indispensabile per assicurare lo sviluppo socio-economico delle regioni
rurali (ruolo “multifunzionale” dell’agricoltura).
285
o l’introduzione del principio di eco-condizionalità nel
pagamento degli aiuti ai produttori. In base a questo principio,
gli Stati membri possono condizionare il pagamento degli aiuti
concessi nel quadro della Pac al rispetto di determinati criteri
agro-ambientali e fissare le sanzioni da applicare in caso di
mancato rispetto di tali criteri;
o la possibilità, accordata agli Stati membri, di modulare entro
certi limiti i pagamenti diretti per azienda in funzione della
manodopera impiegata nell’azienda o della situazione
economica generale dell’azienda;
o la riallocazione delle economie realizzate dagli Stati membri
che si avvalgono di queste misure al finanziamento
aggiuntivo della politica di sviluppo rurale nello Stato
membro interessato.
286
Bibliografia
287
III. L’assetto della politica di sviluppo rurale nel contesto
delle politiche strutturali dell’Unione europea per il periodo
di programmazione 2000-2006.
288
commercializzazione dei prodotti agricoli e silvicoli e sostegno
all’economia delle zone rurali;
289
conseguiti grazie agli interventi strutturali nel periodo di
programmazione precedente.
290
Mediante le azioni innovatrici del FESR la Commissione sosterrà nuove
idee non ancora sfruttate appieno nei seguenti 3 campi d'azione:
I principi generali alla base dei vari Fondi strutturali sono rimasti invariati
rispetto a quelli già in vigore. Tuttavia, sono stati precisati o rafforzati tutti
i principi di funzionamento dei Fondi strutturali ed in particolare i
seguenti: a) programmazione degli aiuti, b) partenariato tra un massimo di
parti interessate, c) addizionalità dell'aiuto europeo rispetto alle
sovvenzioni nazionali.
Programmazione
La programmazione è uno degli elementi essenziali delle riforme dei
Fondi strutturali del 1988 e del 1993 e resta al centro della riforma del
1999. Essa consiste nell'elaborare programmi di sviluppo pluriennali e
viene realizzata mediante un processo di decisione partenariale, in più fasi,
fino all'assunzione delle azioni da parte dei responsabili di progetti
pubblici o privati.
Secondo le disposizioni del regolamento generale sui Fondi strutturali, il
periodo interessato è di 7 anni per tutti gli obiettivi (2000-2006), contro i
cinque anni in precedenza, tuttavia con possibili adattamenti sulla base di
una valutazione intermedia (entro fine 2003).
La fase della programmazione vera e propria è preceduta da una serie di
decisioni assunte dalla Commissione in ottemperanza alle disposizioni
contenute nei regolamenti relativi ai Fondi strutturali e allo sviluppo
rurale:
o Definizione delle zone ammissibili agli obiettivi 1 e 2 dei Fondi
strutturali;
291
o Fissazione degli orientamenti prioritari degli interventi strutturali;
Una volta che questa fase è conclusa, gli Stati membri e le regioni
presentano alla Commissione europea le proprie proposte in materia di
piani di sviluppo e riconversione, che si fondano sulle priorità nazionali e
regionali e tenendo conto degli orientamenti definiti a livello comunitario.
All’elaborazione di questi piani partecipano le parti economiche e sociali,
nonché altri enti riconosciuti. Tali piani contengono, tra l’altro:
una descrizione precisa della situazione attuale della regione
(divari, ritardi, potenziale di sviluppo);
una descrizione della strategia più appropriata per raggiungere gli
obiettivi fissati;
indicazioni sull'utilizzo e la forma del contributo finanziario dei
Fondi previsti.
292
I documenti di programmazione concernenti l'obiettivo 1 sono
generalmente QCS articolati in PO, ma si può fare ricorso ai DOCUP in
caso di programmazione per importi inferiori a 1 miliardo di euro. Per
l'obiettivo 2, si tratta sempre di DOCUP. Per contro, il tipo di documento
di programmazione concernente l'obiettivo 3 è a discrezione delle regioni
e degli Stati membri. I dettagli dei programmi (denominati “complementi
di programmazione”) sono decisi in modo autonomo dalle autorità
nazionali e regionali. Questi documenti non vengono negoziati con la
Commissione, che ne viene comunque informata. Essi consentono alle
rispettive autorità di dare avvio ai progetti in base a modalità proprie
(bandi di gara per la presentazione di progetti, la costruzione di
infrastrutture, ecc.). A questo punto inizia la fase operativa.
293
3. Le risorse e la gestione finanziaria dei Fondi strutturali
294
La cosiddetta “riserva di efficacia ed efficienza” è un nuovo elemento di
motivazione per i beneficiari finali. Il 4% degli stanziamenti assegnati a
ciascuno Stato membro va infatti a costituire fino al 2003 una riserva che è
stata ripartita, nel corso del 2004, tra programmi più efficaci ed efficienti
sulla base delle proposte di ciascuno Stato membro alla Commissione
fondate su indicatori di sorveglianza definiti dallo Stato membro.
Impegni
o la Commissione effettua il primo impegno annuale dei crediti
necessari al momento dell’adozione del documento di
programmazione
o la Commissione effettua gli impegni successivi entro il 30 aprile di
ogni anno
o la Commissione disimpegna automaticamente le quote di impegno
non pagate alla scadenza del secondo anno successivo a quello
dell’impegno (la cosiddetta regola “n+2” che ha contribuito in
maniera significativa all’utilizzazione nei tempi previsti delle
risorse dei Fondi strutturali comunitari).
Pagamenti
295
o il saldo del 5% è pagato alla conclusione del programma, previa
trasmissione e approvazione da parte della Commissione di tutti i
documenti richiesti.
Dei massimali specifici più bassi di quelli sopra indicati sono previsti per
gli investimenti nelle imprese (rispettivamente 35% e 15% per le regioni
dell’obiettivo 2). Ciò significa che la quota restante è a carico delle
autorità nazionali o regionali, tenendo presente che il costo totale
ammissibile non rappresenta mai il 100% della spesa di realizzazione di
un progetto, in quanto il promotore di un progetto deve anche lui
assumersi l’onere del finanziamento di una parte del costo totale del
progetto.
Come s’è detto, nell'ambito del nuovo regolamento sui Fondi strutturali,
gli Stati membri designano per ogni programma un'«autorità di gestione»,
i cui compiti, oltre alla selezione dei progetti da finanziare, riguardano la
realizzazione, la regolarità della gestione e l'efficacia del programma
(raccolta di dati statistici e finanziari, elaborazione e invio alla
Commissione dei rapporti annuali di esecuzione, organizzazione della
valutazione intermedia).
296
di gestione. I rapporti di valutazione devono essere messi a disposizione
del pubblico.
Gli Stati membri e la Commissione stipulano un contratto finanziario con
il quale la Commissione si impegna a versare stanziamenti d'impegno
annuali sulla base dei documenti di programmazione approvati. Ciascuno
Stato membro designa quindi per ogni programma un'autorità di
pagamento che funge da intermediario tra i beneficiari finali e la
Commissione. L'autorità di pagamento sorveglia l'andamento e la
conformità rispetto alle norme comunitarie delle spese dei beneficiari
finali, in collaborazione con l'autorità di gestione. Il trasferimento effettivo
di fondi (stanziamenti di pagamento) dell'Unione agli Stati membri
avviene all'atto del rimborso da parte della Commissione delle spese
effettive dei beneficiari finali vistate e certificate dalle autorità di
pagamento.
Il maggiore decentramento della gestione dei programmi implica il
miglioramento dei dispositivi di controllo, di competenza degli Stati
membri. La Commissione verifica direttamente l'efficacia dei sistemi
istituiti, che sono di competenza dell'autorità di gestione e dell'autorità di
pagamento. Il 5% delle spese relative ad un programma dev'essere
verificato in dettaglio tramite ad esempio controlli in loco ed audit
finanziari. Qualora vengano constatate irregolarità, gli Stati membri sono
tenuti ad apportare rettifiche finanziarie tramite l'annullamento, totale o
parziale, dei finanziamenti assegnati alle operazioni in questione. Dei
fondi resi disponibili, quelli a carico degli Stati membri possono essere
riutilizzati, mentre quelli assegnati dalla Commissione vengono detratti e
non sono riutilizzabili
Come s’è visto, con le decisioni assunte a Berlino nel quadro dell’Agenda
2000, è nata una nuova politica di sviluppo rurale, che ha l’ambizione di
diventare il “secondo pilastro” di una politica agricola comune rinnovata.
297
Un’impostazione plurisettoriale e integrata dell’economia
rurale al fine di salvaguardare il patrimonio rurale;
La flessibilità degli aiuti allo sviluppo rurale, basata sulla
sussidiarietà e favorevole al decentramento, alla consultazione a
livello regionale e locale e al partenariato;
La trasparenza nell’elaborazione e nella gestione dei programmi,
a partire da una normativa semplificata e più facilmente
accessibile.
298
Le misure che privilegiano lo sviluppo del territorio nelle zone rurali sono
essenzialmente le seguenti:
o Il finanziamento di infrastrutture in zone rurali
o Il finanziamento dei servizi essenziali per l’economia e la
popolazione rurale
o L’ammodernamento e lo sviluppo dei villaggi
o La diversificazione delle attività agricole al fine di creare attività
alternative all’agricoltura, come l’artigianato, il turismo, ecc.
o La remunerazione delle funzioni ricreative nelle zone rurali.
299
Le altre misure di sviluppo rurale sono finanziate dal Feoga-
orientamento nelle regioni dell’obiettivo 1 e dal Feoga-garanzia al
di fuori delle regioni dell’obiettivo 1.
300
A. I programmi orizzontali di sviluppo rurale
301
Il periodo di programmazione è di sette anni (2000-2006). I piani debbono
contenere una serie di elementi comuni (una descrizione della situazione
economica di partenza, la strategia proposta e le priorità proposte, la stima
dei risultati attesi, ecc.). Vale la pena, inoltre, di segnalare che tutti gli
interventi a favore dello sviluppo rurale debbono obbligatoriamente
includere una serie di misure agro-ambientali.
Bibliografia
- Commission européenne: La réforme de la politique structurelle
http://europa.eu.int/comm/agriculture/publi/cap_en.pdf
- Commission européenne : La réforme de la politique agricole commune
http://europa.eu.int/scadplus/leg/fr/lvb/l60002.htm
- Commissione europea : Sostegno alla sviluppo rurale
http://europa.eu.int/scadplus/leg/it/lvb/l60026.htm
- Commissione europea: Disposizioni generali sui Fondi strutturali
http://europa.eu.int/scadplus/leg/it/lvb/l60014.htm
Commissione europea: Politiche strutturali 2000-2006, Lussemburgo,
2000
http://europa.eu.int/comm/regional_policy/sources/docgener/guides/
compare/refo_it.pdf
302
IV. La riforma della politica di coesione e della politica di
sviluppo rurale per il periodo di programmazione 2007-
2013
Alla luce di questa premessa e delle sfide alle quali l’Unione si trova
confrontata, la Commissione indica le seguenti priorità per i prossimi
cinque anni:
303
Riportare l’Europa sulla strada della prosperità a lungo
termine. Il problema più urgente a cui deve far fronte oggi
l’Europa è infatti rappresentato dal ristagno dell’economia e dalla
disoccupazione. Si tratta dunque di rilanciare l’economia,
perseguendo l’obiettivo della creazione di nuovi e migliori posti di
lavoro attraverso una crescita più elevata. Questo obiettivo può
essere più facilmente raggiunto creando, dopo una moneta comune,
uno spazio educativo europeo e uno spazio europeo della ricerca;
Fra tutti questi obiettivi strategici, la priorità politica è quello della crescita
e dell’occupazione, come previsto dalla cosiddetta “strategia di Lisbona”,
vale a dire della strategia decisa a Lisbona nel marzo 2000, che mira a fare
dell’Unione europea la zona più competitiva a livello mondiale da qui al
2010. Ciò non significa che gli altri obiettivi siano meno importanti ma
soltanto che la crescita è essenziale per la loro realizzazione.
304
Una condizione di successo di questa strategia è che non solo le istituzioni
comunitarie, ma anche i parlamenti nazionali, i governi, i partner sociali,
la società civile a tutti i livelli lavorino di concerto e condividano queste
priorità. L’importanza di questo sforzo comune è messo in luce fin dal
titolo della comunicazione presentata dalla Commissione nel gennaio
2005, che è, appunto: Europa 2010: un partenariato per il rinnovamento
europeo.
Tali priorità sono state definite alla luce del bilancio dei risultati delle
politiche strutturali ma tenendo conto allo stesso tempo delle grandi sfide
che attendono l’Unione nei prossimi anni e dell’esigenza di rendere più
semplice e trasparente il quadro delle priorità. Esse sono inoltre il frutto di
un ampio dibattito non solo a livello istituzionale, ma anche con i partner
sociali, a livello centrale e periferico.
305
nel loro insieme di quasi il 3% all’anno in termini reali, contro un tasso
medio di circa il 2% nel resto dell’Unione.
306
sfida senza precedenti per la competitività e la coesione interna
dell’Unione: con l’ampliamento, le disparità socio-economiche sono
raddoppiate e la media del PIB pro-capite dell’Unione è diminuito del
12,5%. Nello stesso tempo, l’Unione nel suo insieme deve affrontare
l’acuirsi di nuovi problemi socio-economici, quali il rallentamento
della crescita, l’accelerazione del processo di ristrutturazione del
sistema produttivo, a seguito della mondializzazione dei mercati e
della liberalizzazione degli scambi, l’invecchiamento della
popolazione, ecc.
Nel marzo del 2000, i capi di Stato e di governo, riuniti a Lisbona nel
quadro del Consiglio europeo, hanno lanciato una strategia che mira a
fare dell’Europa, entro il 2010, l’economia fondata sulla conoscenza la
più competitiva e la più dinamica al mondo. Al Consiglio europeo di
Göteborg nel giugno 2001, la strategia di Lisbona è stata estesa alla
protezione dell’ambiente e alla realizzazione di un modello di sviluppo
più sostenibile. La politica di coesione non solo deve integrare gli
obiettivi di Lisbona e di Göteborg, ma deve anche diventare uno
strumento essenziale per la realizzazione di tali obiettivi.
307
sarebbe la Basilicata. D’altra parte, la Sardegna uscirebbe
“naturalmente” dalle regioni dell’obiettivo “Convergenza” ed
entrerebbe invece nell’obiettivo “Competitività regionale e
occupazione” (phasing in) in quanto il suo reddito pro-capite
sarebbe superiore al 75% della media comunitaria nell’Unione a
15. Resterebbero cosi nell’obiettivo “Convergenza” soltanto la
Puglia, la Campania, la Calabria e la Sicilia.
Abbiamo già rilevato, nel paragrafo 1 di questo capitolo, che una delle
priorità politiche principali dell’Unione per il periodo 2007-2013 è quello
di rafforzare l’impegno dell’Europa nel campo della solidarietà e della
giustizia sociale. Questa priorità si declina in due grandi assi d’intervento:
o Il primo è quello della “Coesione per la crescita e l’occupazione”
di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo;
o Il secondo è stato battezzato “Gestione sostenibile e protezione
delle risorse naturali” e comprende le azioni nel campo
dell’agricoltura, della pesca e dell’ambiente. Di esso ci
occuperemo in questo paragrafo.
308
A questa nuova aggregazione delle azioni comunitarie nel campo della
“solidarietà e giustizia sociale” si accompagna peraltro un cambiamento
nella nomenclatura di bilancio, che è stata adattata alle nuove priorità
politiche sopra definite.
La riforma della Pac del 2003, che è entrata in vigore all’inizio del 2005,
anticipa, in una certa misura, le nuove priorità politiche dell’Unione per i
prossimi anni. Infatti, essa intende raggiungere gli obiettivi di
competitività, solidarietà e migliore integrazione delle preoccupazioni
ambientali e divenire così una tappa fondamentale nella strategia di
Lisbona e Göteborg. Tale riforma comporta essenzialmente:
309
Misure a favore della qualità alimentare: aiuti agli agricoltori
che partecipano a regimi aventi come finalità il miglioramento
della qualità dei prodotti agricoli e alimentari;
Rispetto delle norme: aiuti agli agricoltori ad adattarsi alle norme
europee in materia di ambiente, protezione veterinaria e
fitosanitaria, benessere animale, ecc.;
Sostegno ai giovani agricoltori: miglioramento del regime di
sostegno all’installazione dei giovani agricoltori;
Rafforzamento delle misure agro-ambientali: aumento dei tetti
di partecipazione finanziaria alla messa in atto di misure agro-
ambientali (85% nelle zone dell’obiettivo 1 e 60% nelle altre
zone);
Instaurazione di un sistema di consulenza in agricoltura:
creazione di un sistema di consulenza agli agricoltori sulla
conduzione della terra e dell’azienda.
Per quanto riguarda il periodo post-2006, in linea con gli orientamenti dei
Consigli europei di Lisbona e di Göteborg ma anche nella logica delle
conclusioni della seconda Conferenza sul mondo rurale che ha avuto luogo
a Salisburgo nel novembre 2003, la nuova politica di sviluppo rurale si
concentrerà su tre obiettivi principali:
Accrescere la competitività del settore agricolo mediante il
sostegno alla ristrutturazione (ad esempio, aiuti agli investimenti
per i giovani agricoltori, misure di informazione e promozione,
ecc.);
Migliorare l’ambiente e le zone rurali mediante un sostegno alla
gestione dei suoli, alla forestazione all’attività agricola nelle zone
svantaggiate, ecc.;
Migliorare la qualità della vita nelle zone rurali e promuovere la
diversificazione delle attività economiche mediante misure che
interessino il settore agricolo e altre attività nelle regioni rurali (ad
esempio, riorientamento qualitativo della produzione, qualità degli
alimenti, restauro dei villaggi, ecc.).
310
Un contributo essenziale alla gestione sostenibile delle risorse naturali
dovrebbe anche venire da una politica ambientale rinnovata rafforzata.
2
Ad esempio, mentre le spese del FEOGA-Garanzia sono rimborsate sulla base di
dichiarazioni mensili da parte degli Stati membri, le spese per il FEOGA-
Orientamento sono articolate in un pre-finanziamento iniziale, dei pagamenti
intermedi e un pagamento finale. Inoltre, mentre il FEOGA-Garanzia rimborsa le
spese effettivamente sostenute mese per mese, i crediti del FEOGA-Orientamento
sono sottoposti alla regola “N + 2”, cioè i crediti impegnati in un anno debbono
essere pagati entro la fine dell’anno N+2, altrimenti saranno automaticamente
disimpegnati (e quindi perduti definitivamente).
311
Questo Fondo si alimenterebbe delle risorse per lo sviluppo rurale
proveniente dalle due sezioni del FEOGA, oltre che dalle risorse
provenienti dalla “modulazione” (vale a dire dalla riduzioni degli aiuti
diretti per le aziende di maggiori dimensioni), ma avrebbe anche un chiaro
valore simbolico e sarebbe destinato a giocare un ruolo crescente in
avvenire. Le azioni del primo pilastro sarebbero finanziate da un nuovo
Fondo: il Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAG).
Per garantire una maggiore trasparenza, una maggiore efficacia e una più
grande responsabilizzazione per l’utilizzazione dei fondi comunitari, è
previsto un rafforzamento del sistema di controllo, di valutazione e di
rendiconto da parte delle autorità nazionali e regionali. In particolare, gli
Stati membri dovranno dimostrare in che misura gli obiettivi quantitativi
definiti nei loro programmi sono stati realizzati e la coerenza con le altre
politiche dell’Unione, in particolare la politica di coesione.
Competitività (asse 1)
Per questo asse, le misure sono ripartite in tre gruppi:
- risorse umane (formazione professionale, giovani
agricoltori, consulenza aziendale, ecc.)
312
- capitale fisico (investimenti agricoli, infrastrutture agricole,
trasformazione e commercializzazione, ecc.)
- qualità (promozione della qualità degli alimenti, aiuti per il
rispetto delle norme, ecc.).
e. LEADER
313
2004, le sue proposte in merito alla pianificazione delle risorse nessarie
per far fronte agli impegni finanziari che ne scaturiscono. Tali proposte
hanno fatto oggetto di ulteriori specificazioni nel luglio 2004 e di alcune
correzioni tecniche, dovute alla revisione delle previsioni di crescita
dell’economia, nel mese di aprile 2005.
314
La maggior parte di questo incremento della spesa comunitaria è
attribuibile alla voce “Coesione per la crescita e l’occupazione” che
assume un rilievo decisivo in una Comunità da poco allargata ai paesi
dell’Europa centrale e orientale. Gli stanziamenti di impegno previsti per
questo capitolo di spesa passerebbero da 37,8 miliardi di euro nel 2006 a
quasi 50,1 miliardi di euro nel 2013, con un incremento di quasi un terzo
(a prezzi costanti) in sette anni.
315
In mancanza di un accordo su un congruo aumento delle risorse destinate
al bilancio comunitario, l’Unione europea si vedrebbe obbligata:
o A ridurre i suoi sforzi in termini di aiuto ai paesi terzi e in primo
luogo ai paesi in via di sviluppo;
o A ridurre il sostegno allo sviluppo rurale, mancando perciò uno
degli obiettivi chiave della riforma della Pac;
o A ridurre drasticamente il sostegno alla coesione negli attuali Stati
membri;
o A sottrarsi agli impegni già presi in materia di politica di vicinato e
di prosecuzione del processo di ampliamento dell’Unione.
Bibliografia
316