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James Hillman

Saggio su Pan
Traduzione di Aldo Giuliani

Adelphi eBook
TITOLO ORIGINALE:

An Essay on Pan
 
 
Quest’opera è protetta
dalla legge sul diritto d’autore
È vietata ogni duplicazione,
anche parziale, non autorizzata
 
 
Prima edizione digitale 2015
 
 
© 1972 JAMES HILLMAN

© 1977 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO


www.adelphi.it

ISBN 978-88-459-7627-8
SAGGIO SU PAN
Socrate: O caro Pan, e voi altre divinità di
questo luogo, datemi la bellezza interiore
dell’anima e, quanto all’esterno, che esso
s’accordi con ciò che è nel mio interno.
PLATONE, Fedro, 279 b
 
Un apprezzamento adeguato dell’effettiva
importanza dell’incubo, dapprima da
parte del mondo culturale, e poi del
pubblico in generale, avrebbe a mio
avviso conseguenze, insieme scientifiche
e morali, che non è esagerato definire
eccezionali. Si tratta qui di mettere in
questione addirittura il vero significato
della religione stessa.
ERNEST JONES, On the Nightmare, 1931
I

Il ‘ritorno alla Grecia’

Molto si è scritto in termini filosofici, estetici e culturali


per giustificare il ‘ritorno alla Grecia’. Tutti noi abbiamo
guardato alla Grecia cercandovi la gloria del passato, la
perfezione, la bellezza formale e la lucidità dello spirito. E
ad essa ci siamo rivolti anche quando siamo andati alla
ricerca delle ‘origini’, poiché è in Grecia che la nostra
cultura ebbe inizio. Ma qui ci rivolgiamo alla Grecia per
ricercarvi una comprensione psicologica: qui tenteremo di
capire che cosa è questa ‘Grecia’ che tanto attrae la psiche
e che cosa la psiche vi trova.
Quando la visione dominante che tiene assieme un
periodo della cultura si incrina, la coscienza regredisce in
contenitori più antichi, cercando fonti di sopravvivenza che
offrano anche fonti di rinascita. I critici hanno ragione
quando vedono il ‘ritorno alla Grecia’ come un regressivo
desiderio di morte, come una fuga dai conflitti
contemporanei nelle mitologie e nelle speculazioni di un
mondo fantastico. Ma guardar indietro rende possibile
andare avanti, perché il guardar indietro ravviva la fantasia
dell’archetipo del fanciullo, fons et origo, il quale è sia il
momento dell’inerme debolezza sia il dischiudersi futuro.
‘Rinascimento’ (rinascita) sarebbe una parola priva di
significato senza l’implicita dissoluzione, la morte stessa da
cui quella rinascita proviene. I critici non colgono la
validità e la necessità della regressione. Essi non colgono
neppure la necessità di una regressione che sia
peculiarmente ‘greca’.
La nostra cultura mostra due vie alternative di
regressione, alle quali è stato dato il nome di ellenismo ed
ebraismo; esse rappresentano le alternative psicologiche
della molteplicità e dell’unità. Le vediamo nei momenti
critici della storia occidentale, ad esempio al tempo del
declino di Roma che accompagnò Costantino nel
cristianesimo (tale era il nuovo nome dell’ebraismo).
Vediamo di nuove le due alternative al tempo del
Rinascimento e della Riforma, quando l’Europa meridionale
ritornò all’ellenismo e l’Europa settentrionale all’ebraismo.
L’ebraismo riafferma il monoteismo della coscienza
egoica. Questa via è appropriata quando la coscienza di
un’epoca o di un individuo sente che per la sua
sopravvivenza ha soprattutto bisogno di un modello
archetipico di eroismo e unità. Le prime immagini di Cristo
erano un composto del militaresco Mitra e del muscoloso
Ercole, e la conversione di Costantino, che volse infine il
corso degli eventi contro il politeismo classico, fu
annunziata da una visione marziale che egli ebbe prima di
partire per la battaglia. Similmente, l’ebraismo della
Riforma, pur con la sua tolleranza per la protesta, la
varietà, e le scissioni, è archetipicamente ispirato dalla
fantasia di una unificata energia eroica; l’individuo è
concepito come un’indivisa unità di responsabilità armata,
ritto davanti a Dio, faccia a faccia in un incontro primario.
Oggi la via monocentrica viene seguìta ogni volta che
cerchiamo di risolvere una crisi nell’anima per mezzo della
psicologia dell’io, ogni qualvolta tentiamo di ‘riformare’.
La psiche in crisi ha, ovviamente, anche altre fantasie. Le
molte dell’ellenismo e l’una dell’ebraismo non sono le
uniche soluzioni al dilemma patologico della psiche. C’è la
fuga nel futurismo e nelle sue tecnologie, la conversione
all’Oriente e all’interiorità, il farsi primitivi e naturali, c’è
l’ascesa spirituale e l’abbandono del mondo in una totale
trascendenza. Ma queste alternative sono meno autentiche.
Sono semplicistiche; trascurano la nostra storia e i diritti
che le sue immagini hanno su di noi; inoltre, sollecitano a
rifuggire l’avversità invece che ad approfondirla munendola
di un retroterra culturale e di una struttura differenziata.
Le fanta-scienze e le fantasie della scienza,
l’insegnamento da parte di indiani americani o di maestri
orientali – per brillanti e saggi che essi siano – non ci
aiutano a ricordare la nostra storia immaginale occidentale,
le vere immagini che agiscono nelle nostre anime.
Frustrando la nostra tradizione immaginale, essi ce ne
allontanano ancor di più. E allora le vie alternative
all’ebraismo e all’ellenismo operano come rimozioni,
estendendo ulteriormente la mancanza d’anima a cui i loro
messaggi avrebbero potuto porre rimedio. L’ebraismo non
riesce a fronteggiare l’attuale dilemma semplicemente
perché è esso stesso troppo ben radicato, troppo identico
alla nostra visione del mondo: c’è una Bibbia nella stanza
da letto di ogni giovane nomade, dove molto meglio
figurerebbe l’Odissea. Nella tradizione conscia del nostro io
non troviamo nessun rinnovamento, ma solo rinforzo per le
aride abitudini di una mente monocentrica che cerca di
tenere assieme il suo universo con sermoni colpevolizzanti.
Ma l’ellenismo porta la tradizione dell’immaginazione
inconscia; la complessità politeistica greca allude alle
nostre complicate e inesplorate situazioni psichiche.
L’ellenismo favorisce il rinnovamento offrendo un più ampio
spazio e un’altra specie di benedizione all’intera gamma di
immagini, sentimenti e strani princìpi morali che sono le
nostre vere nature psichiche. Essi non hanno bisogno
d’esser liberati dal male se non li immaginiamo già
dall’inizio come maligni.
Se nella nostra disintegrazione non possiamo mettere
tutti i nostri pezzi in un’unica psicologia egoica
monoteistica, o non riusciamo più a illuderci con il
futurismo progressivo o il primitivismo naturale che un
tempo funzionavano così bene, e se abbiamo bisogno di una
complessità che sia pari alla nostra raffinatezza, allora ci
rivolgiamo alla Grecia. «Nessun’altra mitologia a noi nota –
evoluta o primitiva, antica o moderna – può vantare un
grado di complessità e sistematicità tanto elevata quanto
quella greca».1 La Grecia fornisce un modello policentrico
che è il frutto del politeismo più riccamente elaborato di
tutte le culture,2 e così può contenere il caos delle
personalità secondarie e degli impulsi autonomi di una
disciplina, di un’epoca, o di un individuo. Questa varietà
fantastica offre alla psiche multiformi fantasie atte a
riflettere le sue molte possibilità.
Dietro e dentro tutta la cultura greca – nell’arte, nel
pensiero e nell’azione – c’è il suo sfondo mitico
policentrico. Questo era il mondo psichico immaginale da
cui venne quella «gloria che fu la Grecia». Questo sfondo
mitico era forse meno legato al rituale e agli effettivi culti
religiosi che non le mitologie di altre culture superiori. In
altre parole, il mito greco serve meno specificamente come
una religione e più generalmente come una psicologia,
operando nell’anima in pari tempo come lo stimolo e il
differenziato contenitore della straordinaria ricchezza
psichica dell’antica Grecia.
Ma la ‘Grecia’ alla quale noi ci volgiamo non è letterale;
essa comprende tutti i periodi dal minoico all’ellenistico,
tutte le località dall’Asia Minore alla Sicilia. Questa ‘Grecia’
rimanda ad una regione psichica storica e geografica, ad
una Grecia fantastica o mitica, ad una Grecia interiore della
mente che è soltanto indirettamente connessa con la
geografia e la storia effettive – talché queste perdono allora
il loro valore: «…prima del Romanticismo, la Grecia era
soltanto un museo abitato da gente priva di qualsiasi
interesse».3 Petrarca, che nel secolo quattordicesimo si
adoprò più di chiunque altro per riportare in vita la
letteratura classica, non sapeva leggere il greco.
Winckelmann che, nel diciottesimo, più d’ogni altro si batté
per riportare in vita il classicismo e che inventò il moderno
culto della Grecia, non vi mise mai piede e con ogni
probabilità non ebbe mai occasione di vedere l’originale di
una delle grandi sculture greche. Né vi andarono Racine,
Goethe, Hölderlin, Hegel, Heine, Keats, e neppure lo stesso
Nietzsche. Nondimeno essi tutti ricostituirono la ‘Grecia’
nelle loro opere. Byron è l’assurda – e fatale – eccezione.
Ovviamente, la lingua e la letteratura greca erano
conosciute durante quei secoli, Socrate era venerato, si
copiava la statuaria, l’architettura e la metrica, ma pochi si
recarono nella Grecia empirica e raramente si arrivava a
consultare i testi greci originali. Era l’«immagine
emotivamente carica della Grecia» che dominava.4 E questa
immagine ha mantenuto la sua carica d’emozione per
mezzo di un corpo ininterrotto di miti (i ‘miti greci’ e la
metafora ‘Grecia’), permanendo nella coscienza dai tempi
post-ellenici fino ad oggi.
La ‘Grecia’ permane come un paesaggio interiore
piuttosto che come un paesaggio geografico, come una
metafora del regno immaginale che ospita gli archetipi
sotto forma di Dei. Possiamo perciò leggere tutti i
documenti e i frammenti del mito rimasti dall’antichità
anche come resoconti o testimonianze dell’immaginale.
L’archeologia diventa archetipologia, più che una storia
letterale essa rivela le eterne realtà dell’immaginazione, e
ci parla di ciò che è in atto ora nella realtà psichica.
Il ritorno alla Grecia non è né ad un tempo storico nel
passato né ad un tempo immaginario, ad una utopica Età
dell’Oro che fu o può ancora ritornare. La ‘Grecia’, al
contrario, ci offre una possibilità per correggere le nostre
anime e la psicologia per mezzo di luoghi e persone
immaginali invece che di date e personaggi storici, ci
delinea uno spazio piuttosto che un tempo. Noi usciamo
completamente dal pensiero temporale e dalla storicità, e
muoviamo verso una regione immaginale, un differenziato
arcipelago di ubicazioni, dove gli Dei sono e non quando
essi furono o saranno.
Possono nascere delle dispute sulla Grecia come fatto e
come fantasia, poiché la cultura storica e letteraria
considera tradizionalmente la sua Grecia in termini
letterali, e ciascuna generazione di studiosi si diletta a
smascherare la fantasiosa interpretazione dei fatti
perpetrata dalla generazione precedente. In verità, sembra
evidente che la Grecia interiore dell’immaginazione
esercita un’influenza sulle prospettive della filologia
classica – una disciplina così assorta in ciò che è sepolto,
nel frammento, nelle vestigia, in radici e origini
sconosciute, in miti e Dei, da risultare particolarmente
soggetta all’influenza degli archetipi nella organizzazione e
interpretazione dei suoi ‘fatti’. Gli Dei sembrano dar
battaglia precisamente in questo campo, e a causa di quella
passione archetipica le lingue morte, che difficilmente
potrebbero provare in modo razionale la loro pertinenza in
un’epoca come la presente, sono tenute in vita dalla psiche
stessa a causa della loro importanza per l’immaginazione. E
appunto per questo il presente saggio prende spunto dalla
vita e dagli studi di un grande filologo: Wilhelm Roscher.
Noi ritorniamo alla Grecia allo scopo di riscoprire gli
archetipi della nostra mente e della nostra cultura.5 La
fantasia ritorna laggiù per diventare archetipica.
Arretrando nel mitico, in quello che è non-fattuale e non-
storico, la psiche può reimmaginare quelle che sono le sue
difficili situazioni fattuali e storiche da un diverso e più
vantaggioso punto di vista. La Grecia diventa una serie di
specchi di ingrandimento in cui la psiche può riconoscere le
sue persone e i suoi processi in configurazioni più ampie
del naturale e che tuttavia toccano la vita delle nostre
personalità secondarie.
La scelta di Pan quale nostra guida per il ritorno alla
Grecia immaginale è storicamente corretta. Infatti è stato
detto che il grande Dio Pan morì quando Cristo divenne il
sovrano assoluto. Leggende teologiche li descrivono in
opposizione inconciliabile, e il conflitto dura tuttora,
giacché la figura del Diavolo non è altro che Pan visto
attraverso l’immaginazione cristiana.
La morte dell’uno significò la vita dell’altro, in un
contrasto che vediamo vividamente riflesso nelle rispettive
iconografie, specialmente se si considerano le loro parti
‘inferiori’: l’uno nella grotta, l’altro sul Monte; l’uno ha la
musica, l’altro la Parola; Pan ha zampe pelose, piede
caprino, è fallico; Gesù ha gambe spezzate, piedi trafitti, è
agenitale.
Le implicazioni del contrasto Pan-Gesù si presentano irte
di difficoltà per il singolo. Come accostarsi all’uno senza
sopraffare l’altro, in modo che il tentativo di rientrare nel
mondo della fantasia naturale non divenga il culto
satanistico d’un Aleister Crowley? Non possiamo
sbarazzarci della storia cristiana; ma ciò ci porta a vedere il
mondo di Pan come una idealizzata liberazione, o come
qualcosa di pagano, demoniaco, che, nel linguaggio
moderno, diventa ‘inferiore’, ‘istintuale’, ‘inconscio’. Il
modo in cui ciascun individuo reagisce al richiamo di Pan
ed è guidato da lui in Grecia dipende interamente dalla sua
civilizzata coscienza cristiana, come se la nostra sola
possibilità di attraversare il ponte implicasse che ci
lasciamo alle spalle i pregiudizi che uccisero Pan.
Rafael Lopez-Pedraza ha mostrato nel suo The Tale of
Dryops and the Birth of Pan, pubblicato su «Spring» (1976),
che il rapporto con Pan, e perciò con il campo immaginale
che chiamiamo ‘mito’ e ‘Grecia’, ha inizio nel rapporto che
l’individuo ha con le manifestazioni di Pan nell’ambito della
propria esperienza privata, cioè, negli atteggiamenti e nelle
reazioni a cose quali lo stupro, la masturbazione, il panico,
l’incubo, la malia delle ninfe e i fenomeni di Pan che
considereremo più oltre. Questi sono i modi attraverso cui
oggi Pan arriva a noi, psicologicamente. Essi sono perciò le
vie del ‘ritorno’, dell’epistrofe, all’immaginazione. E ci
dicono che il ritorno alla Grecia non è un estetismo
romantico o simbolista. Ma, piuttosto, una discesa nella
caverna.
II

Roscher: la vita, l’opera e il contributo alla psicologia

Wilhelm Heinrich Roscher era figlio del famoso


economista della vecchia scuola storica tedesca Wilhelm
G.F. Roscher, al quale le enciclopedie dedicano tuttora più
spazio che a suo figlio. Roscher senior fu uno dei fondatori
della scuola storica di economia politica, che ebbe la sua
parte nello sviluppo della Germania moderna sotto
Bismarck. Roscher junior nacque a Gottinga il 12 febbraio
1845; tre anni più tardi la sua famiglia si trasferì a Lipsia.
Qui frequentò il Nikolai Gymnasium e la scuola di St. Afra
presso Meissen, passò poi agli studi classici per tre
semestri a Gottinga e, nel 1869, ritornato a Lipsia, vi
ricevette il suo dottorato.
Durante la seconda metà del secolo diciannovesimo,
Lipsia fu uno dei principali centri di attività scientifica e
culturale della Germania. La sua importanza, oltre che
all’espansione economica, è legata alla sua crescita come
centro editoriale e al fatto d’esser stata scena di nuove
realizzazioni architettoniche, tra cui il suo famoso museo
d’arte. Robert Schumann e Richard Wigner avevano
studiato a Lipsia, come più tardi vi studiò Pavlov; Theodor
Mommsen vi aveva una cattedra, mentre nelle scienze
mediche c’erano His per l’anatomia, Flechsig per la ricerca
cerebrale, Strümpell per la neurologia, e Wunderlich, uno
dei rinnovatori della medicina tedesca, l’uomo al quale
dobbiamo i fondamenti della termometria clinica. Ostwald
svolse il suo lavoro in chimica fisica a Lipsia, che era anche
la città dove Fechner aveva il suo laboratorio. Si può dire
che la psicofisica ha inizio con Fechner, come la psicologia
sperimentale ha inizio con Wundt, il quale a Lipsia nel 1878
fondò il suo istituto che, ben presto, doveva diventare
l’agognato santuario degli studenti americani di psicologia.
Questa era Lipsia, il retroterra intellettuale della gioventù
e maturità di Roscher, a sua volta pioniere della ricerca e
infaticabile accumulatore di dati secondo lo stile del secolo
diciannovesimo. Soltanto oggi possiamo vedere come i
risultati che egli ottenne in filologia non fossero affatto
inferiori a quelli dei suoi contemporanei nelle scienze
naturali. A lui più che a qualsiasi altro filologo classico va il
merito di aver riunito in un corpus unico il materiale mitico
e religioso del mondo antico, preparando il terreno per lo
studio scientifico del mito e del simbolo.
Tra i suoi amici all’università di Lipsia c’erano Friedrich
Nietzsche ed Erwin Rohde, il filologo noto soprattutto per
aver scritto Psiche: Culto delle anime e fede
nell’immortalità presso i Greci. Con essi Roscher fondò il
Club di Filologia. Roscher e Rohde viaggiarono insieme in
Italia, e Roscher visitò la Grecia e l’Asia Minore nel 1873-
74. Nel 1876 sposò Eveline Koller, la quale, come è detto
nel necrologio di Roscher sulla «Neue Zürcher Zeitung»
(Zweite Morgenblatt, 20 marzo 1923) era una svizzera
originaria di Herisau. Ebbero tre bambini. L’unico figlio
maschio di Roscher (ancora un Wilhelm) e suo genero
prestarono servizio durante la guerra 1914-18 sul fronte
occidentale; e Roscher trovava consolazione nelle sue
ricerche all’angoscia per la loro sorte e per la guerra che
suo padre aveva da molto tempo previsto. Viene descritto di
indole mite e raccolta, ancora in età avanzata al suo tavolo
di lavoro per tutta la durata del giorno, dall’alba al
tramonto.
La sua carriera pubblica fu esclusivamente quella di
insegnante. Insegnò i classici nella sua vecchia scuola di St.
Afra per undici anni, quindi fino ai sessant’anni (1905)
insegnò al Gymnasium a Wurzen. Percorse i vari gradi del
sistema scolastico secondario: Oberlehrer, Oberstudienrat,
Konrektor, Rektor, Geheimrat. I benefìci di tutto il suo
sapere andarono agli allievi nell’equivalente del nostro
liceo. Questo sottolinea una differenza tra la nozione
selettiva di istruzione propria del continente europeo e
quella democratica americana. Rivela anche una differenza
riguardo al ruolo dei classici tra la fine del secolo scorso e
la seconda parte di questo secolo. Roscher visse altri
diciotto anni dopo essere andato in pensione, e morì all’età
di settantotto a Dresda il 7 marzo 1923.
Roscher dedicò la maggior parte della sua vita di studioso
ad una enciclopedia, il titolo della quale in italiano
suonerebbe Lessico generale della mitologia greca e
romana (Ausführliches Lexikon der griechischen und
römischen Mythologie). La pubblicazione ebbe inizio nel
1884, ed era stata completata sotto la direzione di Roscher
fino alla lettera ‘T’ quando egli morì. Ciascuno dei suoi
nove tomi contiene circa milleseicento colonne in caratteri
minuscoli (corpo 8) che, se ristampate oggi, darebbero
almeno dodicimila pagine. Va aggiunto che gli articoli, non
tutti di mano di Roscher anche se tutti preparati sotto la
sua supervisione, sono scritti quasi stenograficamente,
abbreviando e condensando tutto il possibile. Il Lexikon
non si limita ad esaminare l’intero corpus degli autori
classici, ma passa in rassegna la letteratura posteriore,
istituisce confronti, offre commenti, ed è inoltre riccamente
illustrato, avendo Roscher una sicura padronanza dell’arte,
dell’architettura e dei reperti archeologici connessi al suo
argomento. L’opera è tuttora basilare e preziosa; una
recente ristampa anastatica dell’edizione completata da
Ziegler, in dieci volumi, è apparsa presso l’editore Olms di
Hildesheim. Il Lexikon continua a fornire la materia per
innumerevoli articoli sulla mitologia, ed è un indispensabile
punto di riferimento bibliografico. Gran parte delle ricerche
precedenti di Roscher e quelle da lui compiute
contemporaneamente alla compilazione del Lexikon –
Apollon und Mars (1873), Juno und Hera (1875), Hermes
der Windgott (1878), Die Gorgone und Verwandtes (1879),
Nektar und Ambrosia (1878), Selene und Verwandtes
(1890) come anche le sue opere su Pan – sono state in
seguito inserite nell’edizione definitiva del Lexikon.
Come risulta evidente dai titoli, Roscher aveva un
particolare interesse per la mitologia comparata, che nelle
opere più tarde estese oltre le fonti greche e romane.
Vediamo così, ad esempio nel suo studio sull’incubo, che
Roscher si occupa di testi bizantini, delle ricerche
psicologiche del suo tempo sul sonno e i sogni, e si
sofferma su materiali di altre mitologie e tradizioni
dell’Europa settentrionale e dell’Asia. Nel 1897 esaminò il
ruolo del cane e del lupo nella escatologia dei greci,
tentando di scoprire dei nessi tra le idee religiose su questi
animali nell’antichità classica e il problema del lupo
mannaro e della cinantropia e licantropia. Pubblicò scritti
su questi argomenti prima del 1900, anno in cui apparve la
sua monografia sull’incubo, quando egli aveva
cinquantacinque anni. In seguito fu affascinato da soggetti
più astratti: la numerologia nella medicina greca, i numeri
sette, nove e quaranta, e il concetto di un immaginario
punto mediano, l’omphalos o ombelico del mondo, un tema
ricorrente nella mitologia greca, romana e semitica. Scrisse
anche su questi ultimi argomenti. Riconosciamo nei suoi
scritti un modello biografico che, muovendo dallo studio
delle singole personificazioni archetipiche degli Dei,
attraverso l’interesse per le forze psicologiche più
terrificanti (incubo, sessualità, lupo mannaro, licantropia),
arriva a soggetti che sono tipici della coscienza del senex e
appartengono al regno di Saturno: i numeri e l’idea del
centro.
Ma Roscher fu più che un lessicografo ed enciclopedista.
La sua mente scovò aspetti insoliti nelle sue materie,
andando oltre l’elemento storico e filologico. Il suo sapere
fu, in certo modo, toccato dalle correnti romantiche che
scorrevano nel razionalismo di fine secolo riscaldandolo e
nutrendo in esso nuove sorprendenti forme di vita, la più
importante delle quali fu la psicologia dell’inconscio.
L’opera di Roscher in mitologia fa parte delle fonti della
psicologia del profondo così come l’opera di Tylor, Frazer
ed altri antropologi del tempo, o l’opera dei Grimm e degli
studiosi del folklore, o – lungo un’altra linea – quella dei
contemporanei di Roscher in campo medico: Charcot,
Bernheim e Freud. L’esplorazione dello sfondo della mente
razionale, sia con l’indagine rigorosa sulla dissociazione
isterica e le usanze di pensiero dei popoli primitivi, sia con
la ricerca linguistica, mitologica e archeologica sulle
credenze del passato, venne a culminare in quella che è
oggi la psicologia dell’inconscio. Il concetto di archetipo in
Jung si basa sulle prove accumulate da queste varie
discipline.
Se vediamo soltanto una delle intrecciate radici
dell’opera di Jung – ad esempio, Freud o Bleuler o i primi
esperimenti di associazione wundtiana, o il giovanile
interesse per la parapsicologia e l’occultismo, oppure i
problemi della teologia cristiana e delle sue eresie
(alchimia) – rischiamo di non cogliere molti altri aspetti di
quello che è il retroterra della moderna psicologia del
profondo. Inoltre, poiché la moderna psicologia del
profondo stava emergendo per mezzo di queste nuove
discipline (psichiatria, antropologia e folklore, spiritismo,
studio comparato delle religioni e delle mitologie),
dobbiamo leggere la loro storia anche dal punto di vista
psicologico. Nelle loro ipotesi e nelle loro scoperte esse non
descrivevano semplicemente materiale tratto dai loro
rispettivi campi, ma parlavano anche di quella che presto
sarebbe stata chiamata la psicologia dell’inconscio.
Queste opere pionieristiche, perciò, oltre che costituire il
retroterra storico della loro discendenza moderna nella
psichiatria, antropologia e mitologia ‘scientifiche’,
contengono anche un fermento psicologico, ravvisabile
nell’irragionevole dilatazione di molte delle loro ipotesi ben
al di là di quello che oggi sarebbe consentito dai ‘fatti’. Non
biasimeremo quindi Roscher per aver gettato così lontano
la sua rete né per alcuni degli strani pesci che catturò. Gli
studi classici di questo secolo hanno imposto dure
restrizioni critiche alla filologia del secolo diciannovesimo,
mettendo in questione il suo metodo e le sue prove,
dubitando delle sue conclusioni e, peggio ancora,
deridendo le sue ambizioni. La moderna filologia
accademica condanna il troppo vasto raggio d’azione delle
ipotesi di Roscher, e soprattutto disapprova lo studio
comparato dei motivi, che, al contrario, è un principio
basilare della psicologia del profondo e un metodo
fondamentale impiegato in tutte le indagini psicoanalitiche
da Róheim fino a Neumann. Gli accademici insistono sulle
competenze specifiche: un mito, un motivo, una figura
debbono essere studiati entro il loro contesto storico,
culturale, testuale, linguistico, economico, formale,
sociologico, e così via, ed è cosa esecrabile confrontare un
motivo o una figura mitica con quelli di un altro periodo,
area o cultura, oppure considerare un mito, un motivo o
una figura come rilevanti soprattutto per la psiche umana e
la sua immaginazione.
Per la psicologia del profondo, tuttavia, i temi e i
personaggi della mitologia non sono semplici oggetti di
conoscenza. Essi sono realtà viventi dell’essere umano, che
esistono come realtà psichiche in aggiunta e, forse, anche
precedentemente alla loro manifestazione storica e
geografica. La psicologia del profondo si rivolge alla
mitologia non tanto per imparare sugli altri nel passato,
quanto per comprendere noi stessi nel presente. L’indagine
di Roscher sul Pan classico in relazione all’incubo
contemporaneo ne è un ottimo esempio.
Il trattamento accademico del mito in termini di
competenze specifiche si risolve in una pletora di teorie del
mito e in spiegazioni erronee. Ciascuno di noi se ne è viste
offrire molte. È quasi impossibile oggi ascoltare la
narrazione di un mito senza dover sopportare
simultaneamente al racconto una interpretazione del suo
significato. Preminente tra i vari errori di lettura è la
semplificazione. La complessità di un mitema, o di uno dei
suoi personaggi, è presentata come la descrizione di un
processo sociale, economico o storico, o come la
testimonianza pre-razionale di un certo assunto filosofico o
di un insegnamento morale. I miti sono considerati come
esposizioni metaforiche (e primitive) di scienza naturale,
metafisica, psicopatologia o religione. Così facendo, però, si
dimentica che prima di ognuna di queste applicazioni del
significato mitico c’è il mito stesso e l’effetto puro e
semplice che esso produce nell’anima umana, la quale,
innanzitutto, creò il mito e, in seguito, lo perpetuò
abbellendolo; e l’anima ancora ri-sogna questi temi nella
sua fantasia, nelle sue strutture di comportamento e
pensiero. L’approccio primario al mito deve quindi essere
psicologico, perché la psiche è sia la sua fonte originaria
sia il suo contesto perennemente vivo. Qui, tuttavia, un
approccio psicologico non significa uno scambio
semplificato di termini, metafore esotiche usate per far
circolare concetti fin troppo ovvi, il grande reso piccino per
facilitare l’applicazione.
Un approccio psicologico quale io lo intendo non significa
interpretazione psicologica. Non significa portare il mito
nel dipartimento della psicologia o in una scuola di analisi
del profondo, preparando una nuove serie di riduzioni
psicologiche eguali nella loro angustia a quelle
semplificazioni dipartimentali (dissimulate sotto
presuntuosi tecnicismi) che voglio qui contestare. Come il
mito appartiene più alla theoria che alla pragmatica, così la
sua comprensione appartiene all’esegesi e all’ermeneutica,
non all’interpretazione.
Un approccio psicologico significa quel che dice il suo
nome: una via psichica al mito, una connessione con il mito
che procede attraverso l’anima, includendo specialmente la
sua bizzarra fantasia e la sua sofferenza (psicopatologia),
un disvelare ed estrarre l’anima riconoscendole importanza
mitica e viceversa. Infatti è soltanto quando la psiche si
riconosce come una messa in scena di mitemi che può
‘comprendere’ il mito, sicché una esegesi psicologica del
mito ha inizio con l’esegesi di se stessi, con il ‘fare anima’.
E, reciprocamente: soltanto quando il mito è ricondotto
nell’anima, soltanto quando il mito assume importanza
psicologica diviene una realtà vivente, necessaria per la
vita, e cessa d’essere un artificio letterario, filosofico o
religioso. La filologia è inserita in questo processo come
parte dell’approccio psicologico; in quale altro mondo
potremmo avvicinarci alla realtà mitica se non
immergendoci nel suo campo, nei contesti che la nutrono,
nelle immagini che essa ha esibito nel corso della storia?
Ma la filologia nell’approccio psicologico diventa un metodo
per fare anima invece d’essere soprattutto un metodo di
conoscenza. Per la rivivificazione terapeutica della psiche e
la rinascenza del mito – due processi inseparabili che
possono anche coincidere – riuscire a capire quello che
sappiamo è altrettanto importante quanto il conoscere.
Il valore della filologia non va perciò giudicato soltanto
per il contributo che dà all’intelletto ma anche per il
contributo che dà all’immaginazione. Questo dovrebbe
essere tenuto in mente quando si legge Roscher.
Idealmente i due tipi di contributi dovrebbero sommarsi
l’uno all’altro, ma spesso i moderni filologi classici vedono
le esorbitanti fantasie dei loro predecessori come
insufficienze intellettuali. E non vedono che il contrario sta
accadendo in loro stessi: la povertà della fantasia, le
ingenuità psicologiche, la grande aridità emotiva che
accompagna le loro imprese intellettuali rivelano
insufficienze immaginali non meno gravi. Quando questo
succede, noi lettori non dovremmo chiudere seccati i testi
eruditi, ma imparare invece come leggerli. Leggiamoli
perciò come parte dell’approccio psicologico, sia
sperimentando l’effetto che i dati intellettuali producono
sull’immaginazione sia riconoscendo il fantasma
immaginativo entro cui l’autore organizza e mediante cui
implicitamente interpreta i dati. Poco importa chi sia ad
occuparsi del mito e quanto poco immaginativo sia
l’approccio: il mondo immaginale viene toccato e
riecheggia in ciò che viene detto. Non possiamo toccare il
mito senza che esso ci tocchi a sua volta.
Anche se possiamo avere dei dubbi sulla natura
speculativa della filologia del secolo diciannovesimo, e
rimproverarle quel suo gusto per l’avventura a cui
difficilmente si arrischierebbe lo spirito raffinato e scettico
– e forse cinico – oggi prevalente nel campo, non dobbiamo
dimenticare che gli psichiatri, gli archeologi, gli etnologi e i
mitografi della fine del secolo erano sospinti da una
tremenda passione. Essi non erano soltanto degli scienziati.
Né la loro pulsione era semplice ossessione per il sapere
che, attraverso il sapere, mirava all’autorità, e di lì
all’eminenza e al potere. Per loro tramite sembra aver fatto
irruzione nel nostro tempo qualcos’altro, una sorta di
intuizione, di domanda essenziale sulla natura delle
profondità dell’uomo.
Oppure la loro era una ricerca degli Dei perduti? Forse il
fascino delle profondità sconosciute indicava qualcosa di
più dell’umanesimo laico delle loro intenzioni,
raggiungendo quelle dimensioni impersonali e inumane
dell’anima dove figure selvagge, pagane e mitiche ancora
eccitavano e attiravano i loro devoti, sia pure dissimulati
sotto l’abito accademico di un sapere imparziale. La
psicologia può apprezzare i risultati degli studiosi di là dal
loro immediato significato letterale; noi consideriamo la
loro passione per la scoperta come governata dagli
archetipi. Come gli alchimisti, gli esploratori e i crociati
che, nei secoli precedenti, consideravano anch’essi
letteralmente le loro attività e le loro mete, i ricercatori del
secolo diciannovesimo non erano impegnati soltanto nella
‘ricerca scientifica’ ma anche in una ricerca psicologica in
un nuovo territorio del ‘profondo’.
Queste profondità erano proiettate, come diremmo oggi,
sul remoto passato, sulla mitologia, su strane e oscure tribù
e usanze esotiche, sulle popolazioni contadine e le loro
credenze, e sull’alienazione mentale. La minuziosa
esplorazione di ciascuna di queste aree culturali è anche
una minuziosa esplorazione degli oscuri recessi della
personalità umana, dove essa si mescola con lo sfondo
impersonale della vita al suo livello ‘primitivo’ nell’infanzia
del pensiero e del linguaggio, dell’uomo e della società. La
minuziosità di Roscher, come quella di Frazer o di Cook o di
Kraepelin in psichiatria, va vista soprattutto come un
tentativo, mosso da forti pressioni, di circoscrivere le
profondità dell’uomo, di tracciare una mappa di quello che
è stato chiamato l’inconscio. Come Evans a Creta o
Schliemann a Troia, essi erano spinti dai fantasmi privati
dell’immaginazione a riscoprire un mondo immaginale. Pur
lavorando in modo scientifico, equilibrato e razionale,
queste torreggianti figure professionali della fine del
secolo, con la loro imponente produzione scritta, con le loro
sistematizzazioni e la loro fame di lavoro reintrodussero
nella coscienza occidentale quello che ne era stato escluso
dopo il Rinascimento: l’immaginale e il suo potere nella
vita. La loro ricerca condusse al riconoscimento che l’uomo
non era soltanto occidentale, moderno, laico, civilizzato e
ragionevole, ma anche primitivo, arcaico, mitico, magico e
pazzo. Paradossalmente, essi utilizzarono i metodi più
avanzati della ragione per stabilire la realtà dell’irrazionale
– o di quello che doveva essere chiamato l’irrazionale a
causa della ristretta definizione di ragione determinata dal
positivismo, dal meccanicismo e dall’utilitarismo del secolo.
Se la psichiatria dell’epoca non produsse nuove cure per
la follia a dispetto (o a causa) del suo zelo classificatorio,
neppure la storia della religione, la linguistica,
l’antropologia e gli studi classici risvegliarono i moribondi
rituali e le sopite credenze di altre creature o
trasformarono questi aspetti in noi. Ma una cura, un
risveglio ebbero nondimeno luogo sotto forma di
ricostruzione della coscienza occidentale, che, con la
riscoperta della funzione immaginale dell’anima, poté
cessare di identificarsi con la sua precedente unilaterale
struttura psichica. La mente con un io al suo centro aveva
perduto i suoi ormeggi; le cose si stavano scomponendo e,
mentre il secolo si approssimava alla sua fine, la psichiatria
scoprì la schizofrenia. Un nuovo relativismo era ora
disponibile: esistevano altri miti oltre la Bibbia, altri Dei
oltre Cristo, altri popoli oltre quelli bianchi e, dentro
ciascun individuo, c’erano altri tipi di coscienza con diverse
intenzioni e valori.
Roscher, a quanto sembra, non si propose con la sua
opera di accelerare questo processo di disintegrazione.
Tutto il contrario. Egli si lamentava, nella sua Prefazione
del 1908 al Volume III, 1 («Nabaiothes-Pasicharea») del
Lexikon, dello «scarso favore del presente» per un’opera
come la sua. Vedeva intorno a sé «un progressivo distacco
da ciò che un tempo aveva costituito il fondamento della
nostra istruzione e cultura superiori, cioè l’antichità
classica, il Rinascimento e i classici nazionali della
letteratura e dell’arte». Questi erano per lui il baluardo
contro l’«abisso della barbarie». Ma egli non vide che,
sebbene il suo metodo fosse ragionato e ordinato, il
materiale era l’Olimpo stesso, o meglio, l’intero corpo del
politeismo antico alla cui resurrezione dedicò l’opera della
sua vita. Per più di duemila anni il giudeo-cristianesimo si
era impegnato a rimuovere questo passato pagano che ora,
grazie a Roscher, si trovava comodamente raccolto in un
Lexikon. Si direbbe quasi che il suo intelletto non avesse
nessuna idea dei possibili effetti che tutto ciò poteva
produrre sull’immaginazione. Come un distaccato
naturalista che si dedichi a raccogliere materiali fissili,
Roscher aveva coscienziosamente messo assieme (e reso
disponibile per chiunque volesse usufruirne) la materia
capace di provocare esplosioni psichiche non meno
dinamiche per il destino della cultura. La giovanile amicizia
di Roscher con Nietzsche non fu perciò un caso; essi
fondarono assieme qualcosa di più di un Club di Filologia.
Tuttavia l’uso che Roscher fa della mitologia per
difendere la cultura è ancora valido, anche se non proprio
nel modo che lui intendeva. Noi ritorniamo alle radici
mitiche non solamente per conoscere i classici, ma anche
per la realtà psicologica che costituisce il loro contesto. In
questa realtà il mito è decisivo, e l’immaginazione
politeistica che Roscher catalogò sistematicamente vi
svolge un ruolo che è uguale a quello della ragione e del
sentimento. La difesa della cultura non sta perciò tanto nel
rafforzare l’ordine razionale, nell’estendere il dominio del
sentimento umano, quanto piuttosto nell’esplorare
l’immaginale e nel tracciarne mappe. Noi dobbiamo
conoscere le sottostrutture archetipiche che governano le
nostre reazioni; dobbiamo riconoscere gli Dei e i miti in cui
siamo impigliati. Se manca questa consapevolezza, il nostro
comportamento diviene interamente mitico e la coscienza
una illusione. Quando Cristo era il mito operante, era
sufficiente conoscere le sue forme tipiche e quelle del
Diavolo. Per la nostra riflessione disponevamo della
struttura cristiana. Ma adesso che questo singolo modello
di coscienza si è dissociato nelle radici multiple che
giacevano assopite sotto di esso e che ci sono presentate
dalla mitologia, per andare avanti abbiamo bisogno della
riflessione mitologica sui nostri modelli di reazioni, sui
nostri atteggiamenti e sulle nostre fantasie.
Sebbene Roscher fosse contemporaneo di Freud (nato
undici anni più tardi, nel 1856), la sua opera, come quella
di altri pionieri, differisce per un aspetto sostanziale da
quella dei grandi psicologi Freud e Jung, i quali fanno
anch’essi parte di questa linea culturale in virtù della loro
prodigiosa produzione, del metodo filologico, del coraggio
speculativo – e della comune preoccupazione per la cultura.
Freud e Jung sapevano che stavano scrivendo di se stessi,
anche quando discutevano di Mosè e di Giobbe. Poteva
Roscher fare altrettanto concependo Pan o una delle altre
figure da lui elaborate come un ‘problema suo personale’?
Questa sorta di identificazione – e distanza – psicologica
non era possibile neppure per Nietzsche, mentre gli altri
contemporanei in antropologia, storia delle religioni,
psicopatologia e mitologia, ancora si beavano nell’illusione
cartesiana che la loro opera e la loro psicologia potessero
essere tenute distinte. Essi erano ancora portati dalla
fantasia di soggetto e oggetto. Le scienze umane, come la
scienza naturale, si riservano un diritto psicologico
inalienabile alla ‘fantasia oggettiva’, per mezzo della quale i
ricercatori riescono ancora a difendersi dalla possibilità
che la ricerca insegni loro qualcosa anche su se stessi, oltre
che sul materiale studiato.
Sfortunatamente i pionieri combinarono troppo
letteralmente l’infanzia del pensiero e del linguaggio,
dell’uomo e della società. Essi credevano che l’infanzia
effettiva dell’uomo (Freud), del linguaggio (Max Müller), o
della cultura nei primitivi o nell’antichità o in archeologia
avrebbe rivelato la chiave. Essi erano ancora vittime di una
fantasia delle ‘origini della specie’ e, inoltre, scambiavano
l’uno con l’altro, con eccessiva facilità a livello letterale, il
bambino, il primitivo, il mitico e il folle. Questa
intercambiabilità ha provocato una incalcolabile confusione
nei confronti del cosiddetto pensiero primitivo,
dell’infanzia, dell’aberrazione mentale, e anche nei riguardi
del mito. Essi non si resero sufficientemente conto che le
loro attività culturali erano anche psicologiche, e che le
origini e l’infanzia che stavano cercando di elaborare erano
anche psicologiche, cioè ‘bambino’ e ‘origine’ e ‘primitivo’
quali fattori psichici che esistono ben prima dell’intelletto
razionale che esegue la ricerca, e che, forse, sono a priori
in esso. Costoro credevano di star studiando dei soggetti ‘là
fuori’ negli scavi archeologici, nei pazienti dei manicomi,
nei testi classici, mentre invece nello stesso tempo stavano
studiando il soggetto ‘dentro di noi’, cercavano il bambino
primordiale del livello immaginale, della psiche, il cui modo
psichico di percezione ci offre le origini archetipiche
all’interno della scienza stessa. Così questi ricercatori al
culmine estremo del loro sapere stavano preparando il suo
crollo. Infatti le forze immaginali verso cui avevano
indirizzato le loro ricerche (sia in antropologia e in
psichiatria sia nella religione classica) finirono per mettere
in questione l’uomo civilizzato, razionale e adulto
dell’Illuminismo, il suo metodo e persino la sua mente.
L’Ephialtes di Roscher è un pezzo del processo che minò il
secolo diciannovesimo e aprì la strada all’uomo irrazionale
del ventesimo.
III

Il sogno nel 1900

Ephialtes è una monografia che potrebbe a buon diritto


far parte delle opere sui sogni esaminate da Freud con
tanta cura nella prima sezione della sua rivoluzionaria
Traumdeutung. Non poteva ovviamente esservi
menzionata, poiché i due lavori furono pubblicati a pochi
mesi di distanza l’uno dall’altro. Al volgere del secolo, il
sogno era un argomento che interessava molti altri oltre a
Freud. Il secolo diciannovesimo vide una vera e propria
inondazione di scritti sul sogno, specialmente in Francia e
in Germania e negli stessi Stati Uniti. La letteratura di
questo periodo può essere suddivisa in genere in tre tipi,
indicanti i tre distinti approcci al sogno allora comuni.
Il primo approccio era materialistico; esso sosteneva che
il sogno era una eco nella mente di eventi fisiologici nel
corpo. Le immagini del sogno erano la traduzione
psicologica di eventi fisici. La ricerca indagò le origini
fisiche dei sogni nelle sensazioni di freddo, umidità, ecc.,
nelle percezioni subliminali e dimenticate, nel gas
esilarante; inoltre, furono compiute ricerche sugli stati
fisiologici che accompagnano l’attività onirica al fine di
scoprire la base del sogno negli eventi somatici. Questo
punto di vista ritorna ancora oggi quando attribuiamo un
sogno a qualcosa che abbiamo mangiato, a un tardo stimolo
televisivo o a delle coperte troppo pesanti. Esso è presente
anche a livelli più elaborati, per esempio quando
ipotizziamo che i correlati fisiologici degli stati onirici
(modelli elettrici dell’attività cerebrale, mutamenti neuro-
ormonali o circolatori) siano le condizioni necessarie e
sufficienti dei sogni.
Il secondo punto di vista era razionalistico. Esso
sosteneva che il sogno non aveva alcun senso, essendo una
sorta di intorbidamento delle funzioni mentali che
interveniva quando queste si rilassavano durante il sonno,
come pezzi di un mosaico che si rompe mancando il
cemento coesivo della volizione e dell’associazione conscie.
Talché i sogni erano simili alla pazzia, un guazzabuglio
privo di significato e composto di frammenti che non
dicevano qualcosa di più della persona che li sognava, ma
di meno. Non erano perciò un argomento degno di seria
considerazione, e men che mai di ricerca scientifica.
Il terzo, il punto di vista romantico, lo troviamo
soprattutto nelle opere di poeti, scrittori e pensatori con
una inclinazione mistica – Novalis, Gerard de Nerval,
Coleridge, Schubert, come ha mostrato A. Béguin.6 La
visione romantica riflette in un linguaggio poetico e
filosofico la più antica visione dell’uomo arcaico e
dell’uomo tradizionale secondo la quale durante il sogno la
mente o l’anima è aperta alle potenze occulte. Il sogno era
una via di comunicazione con gli Dei; nel sonno la psiche
vagava, riceveva intuizioni e messaggi, poteva incontrare i
defunti nell’al di là, e i sogni erano perciò una fonte di
ispirazione e di conoscenza, e possedevano una reale
importanza per la persona.
Uno dei grandi risultati di Freud fu quello di mescolare –
in una brillante teoria – questi tre modi contemporanei di
illuminare la vita onirica. In accordo con i razionalisti, egli
sostenne che il sogno non aveva senso, prima facie. Era in
effetti un controsenso al livello manifesto, mostrando segni
di dissociazione, distorsione e condensazione simili a quelli
presenti nei prodotti della mente malata. Tuttavia, come i
romantici, egli pensò che il sogno poteva essere decifrato;
conteneva un messaggio personale con un significato per il
sognatore ed era una via regia per ‘un altro mondo’,
l’inconscio. Egli accettò in parte anche la posizione dei
materialisti, poiché individuò lo scopo fondamentale del
sogno nella psicofisiologia del sonno (fattore di protezione)
e la sua origine primaria negli stimoli somatici (tensioni
sessuali).
La teoria di Freud, con la sua insuperabile eleganza, aprì
nuove prospettive e nel contempo ne eclissò delle altre,
soprattutto quella sperimentale e fisiologica. Durante i
cinquant’anni seguìti a Freud, pressoché tutta la
letteratura sul sogno è stata opera di psicoanalisti. I nuovi
romantici erano gli interpreti professionali dei sogni,
mentre il tipo di ricerca sul sogno portato avanti nei
laboratori psicologici prima di Freud si ridusse ad una
percentuale minima della letteratura sui sogni.
L’interpretazione del sogno prese il sopravvento sulla
ricerca sul sogno. Oggi, gli approcci alternativi che Freud
unì stanno comparendo di nuovo, e mentre la teoria
freudiana appare in declino, non riuscendo più a tenere
assieme con coerenza razionale l’elemento mistico e quello
materiale, c’è la tendenza a lasciare la stanza dell’analista
per ritornare nel laboratorio come luogo di ricerca sul
sogno. Forse siamo di nuovo in attesa di una nuova sintesi,
simile a quella compiuta da Freud nel 1900, capace di
combinare assieme le attuali interpretazioni del sogno
come manifestazione di un substrato archetipico della
personalità.
Lo studio di Roscher suggerisce un movimento in questa
direzione, poiché egli mette insieme fantasia ed esperienza
fisica, sogno e reazioni corporee, scoprendo dietro di esse
la figura di Pan. L’archetipo si esprime come un modello di
comportamento (panico e incubo) e come un modello di
immagini (Efialte, Pan e il suo seguito). In altre parole,
l’opera di Roscher suggerisce anche un metodo di indagine
psicosomatica basato sulla psicologia archetipica. Tali
indagini assegnerebbero, come fa Roscher, un posto
primario ai modelli della fantasia quali sono precisamente
descritti dalla mitologia.
Perciò la sua piccola monografia, apparentemente
soltanto uno studio mitologico, è un’opera parallela alla
Traumdeutung di Freud in quanto offre una via di
approccio al sogno che è diversa da quella del lavoro
onirico elaborata da Freud. Roscher va più a fondo, anche
se è meno apertamente psicologico, poiché il suo approccio
agli eventi onirici attraverso Pan non si arresta alla
psicodinamica personale. Pan non può essere ricondotto a
nessun complesso della propria vita personale; non lo si
può giustificare con una spiegazione psicologica. La
differenza tra Roscher e Laistner e quella che infine
divenne la tradizione freudiana della teoria del sogno può
chiarire meglio questo punto.
L’approccio di Roscher all’incubo è alquanto diverso da
quello seguìto nell’opera di Ludwig Laistner. Roscher lo
critica e sviluppa le sue idee in contrasto con Laistner.
Ernest Jones, tuttavia, nell’indice analitico del suo libro
sull’incubo7 si riferisce a Laistner trentun volte (a Freud
venticinque, a Roscher tredici). Anche se alcune parti
dell’opera di Jones furono pubblicate già nel 1910 e 1912,
egli ebbe tempo a sufficienza per utilizzare lo studio di
Roscher sullo stesso tema, sicché la fiducia riposta da Jones
in Laistner, e la divergenza fra Roscher e Laistner,
sottolineano due differenti punti di vista sul sogno ancora
oggi operanti.
Laistner (3 novembre 1845-22 marzo 1896) cominciò
studiando teologia, si dedicò quindi al campo degli studi
germanici e curò otto edizioni delle opere di Goethe a
Stoccarda. I suo interessi erano rivolti soprattutto ai miti e
alla grammatica tedeschi; si occupò del folklore, di favole,
di figure mitiche greche e di altre tradizioni europee, tra
cui le Mittagsfrauen e altri demoni meridiani. Le sue idee
sull’incubo sono espresse nel suo libro Das Rätsel der
Sphinx [L’enigma della Sfinge: Fondamenti della storia di
un mito], Berlin, 1889, in due volumi. Si tratta soprattutto
di una ricerca sul rapporto tra i sogni da una parte e il
folklore e le favole dall’altra. Dice Jones di quest’opera: «In
essa egli prese le caratteristiche cliniche dell’incubo e con
straordinaria ingegnosità ne riconobbe la presenza in una
larghissima serie di miti. A quel tempo (1889) ovviamente
non si sapeva nulla degli strati inconsci della mente, per cui
oggi la sua opera ha soprattutto un valore di ordine
casistico. In parte a causa di certe difficoltà filologiche,
l’opera di Laistner venne indebitamente trascurata dai
mitologi, e tuttavia prima del tentativo di Freud essa può
essere considerata forse il tentativo più serio di porre la
mitologia su una base naturalisticamente intelligibile»
(Jones, p. 73).
Sembrerebbe che la vera differenza tra Roscher e
Laistner sia ancora presente in psicologia, e non soltanto
per ciò che riguarda l’interpretazione dell’incubo. Roscher
rimprovera a Laistner il tentativo, non riuscito, di elevare il
sogno «e in particolare l’incubo, a essenziale e
fondamentale principio di tutta la mitologia». Per Laistner,
come per Freud e poi per Jones, mito e religione poggiano
su una base psicologica naturalistica. Laistner sottolinea il
carattere erotico di questi sogni, similmente a Freud e
Jones che in seguito arriveranno a ridurre tutta la mitologia
e la religione ai meccanismi psicologici connessi con la
sessualità. Roscher, dal canto suo, è innanzitutto un
mitologo che si rifiuta di ridurre il mitico ai processi intra-
personali.
Anche quando fa uso dei sofismi razionalistici del suo
tempo, anche se non è consapevole del proprio stile
associazionistico di pensiero, e sebbene dia solo dei
tentativi di spiegazione e non dimostri di conoscere il suo
contemporaneo Dilthey e l’importanza della
‘personificazione’, Roscher, con ogni probabilità, avrebbe
condiviso quell’atteggiamento verso il sogno e il mito che è
rappresentato, sia pure in modi diversi e in un’altra epoca,
da Jung, Kerényi ed Eliade. Mito e religione non sono
riducibili ai sogni, ma quelli e questi hanno la loro origine
in qualcosa di transpersonale, in una realtà che non è
personalmente umana, anche se è umana in senso
archetipico. Mito e religione sono aspetti sui generis della
vita, se non anche della natura. Così come la sessualità è
una funzione sui generis della psiche (e non la psiche un
derivato della sessualità), lo stesso vale per l’attività
onirica, la creazione mitica, e le funzioni religiose. Parlano
l’una dell’altra, ma non sono intercambiabili. I loro racconti
sono miti e le loro reciproche connessioni sono frutto di
analogie, e non conseguenza d’una comune radice. La loro
base non è naturalistica, come vorrebbe Jones, perché la
natura è essa stessa una metafora; perciò per comprendere
il sogno dobbiamo parlare come esso parla, non in concetti
naturali, ma in immagini. Di conseguenza la nostra
metafora fondamentale in questo saggio, sia nella
trattazione sul sogno sia in quella su Pan, non è ‘naturale’,
ma ‘immaginale’.
IV

Pan, il Dio-capro della natura

La tesi di Roscher, in breve, è che il demone dell’incubo


nell’antichità è il grande Dio Pan nell’una o l’altra delle sue
numerose forme, e che l’esperienza del demone dell’incubo
allora era simile a quella riferita nella psichiatria e
psicologia del suo tempo. Dopo aver stabilito questo punto,
Roscher si arresta. Ma noi possiamo andar oltre, e
concludere che Pan è tuttora vivo, anche se lo
sperimentiamo soltanto attraverso dei disturbi
psicopatologici, poiché gli altri suoi modi di manifestarsi
sono andati perduti nella nostra cultura.
Possiamo perciò prevedere la sua presenza nello studio
dello psicoterapeuta, dove, in verità, non mancano
testimonianze della sua apparizione.8 Questa conclusione si
accorda con una tesi che sono venuto sviluppando in
numerose pubblicazioni e che si trova riassunta nel mio
The Myth of Analysis:9 gli Dei rimossi ritornano come
nucleo archetipico dei complessi sintomatici. L’esempio lì
elaborato è quello di Dioniso e l’isteria. La relazione di
Crono-Saturno con gli aspetti paranoici della depressione e
di Ermes-Mercurio con quello che attualmente chiamiamo
comportamento schizoide debbono ancora essere studiati
con la medesima cura. La chiarificazione di tali relazioni
rappresenta un momento di un compito molto più vasto,
quello cioè di esplorare la psicopatologia in termini di
psicologia archetipica. Questa psicologia implica, tra le
molte altre cose, lo studio della mitologia quale materia
indispensabile nella formazione degli psicoterapeuti. La
monografia di Roscher su Efialte, che collega la mitologia e
la patologia già nel titolo, potrebbe allora valere come testo
base di esercizi per la didattica.
A causa della natura satiresca-caprigrla-fallica di Pan, sia
l’angoscia panica dell’incubo sia i suoi aspetti erotici
possono esser sussunti sotto un’unica e medesima figura.
Nella trattazione cui Roscher lo sottopone, Pan non è una
immagine proiettata, una sorta di complesso
psicopatologico creato dalla fantasia per esprimere
angoscia sessuale. La sua è una realtà mitica. Sebbene
Roscher rimanga a volte vittima della visione razionalistico-
materialistica del sogno presentata da Börner (secondo cui
l’esperienza di Pan è provocata da coperte di pelo caprino e
da dispnea), nondimeno questa ‘spiegazione’ dell’incubo è
ancora fondata sull’epifania di Pan, che rimane sempre una
vivida realtà nelle pagine di Roscher. Malgrado gli
occasionali tentativi di compromesso con i suoi tempi, che
lo portano a ridurre il Dio a una ragionevole spiegazione
medica, l’idea basilare che si ricava dallo scritto è l’unità di
mitologico e patologico.
L’indipendenza di Pan dalla semplificazione che riduce la
sua realtà a un derivato di disturbi nel sonno emerge con la
massima chiarezza quando Roscher discute il panico e
l’incubo negli animali. Qui Roscher dimostra d’esser
consapevole di quello che è il livello istintuale dell’incubo, e
in particolare della sua sessualità. Vediamo nel suo scritto
la stessa lotta con il ‘problema sessuale’ che stava
emergendo in quel tempo in molti psicologi suoi
contemporanei: Havelock Ellis, Auguste Forel, Ivan Bloch e,
ovviamente, Freud; per non parlare dell’opera di pittori e
scrittori che alla fine del secolo stavano riscoprendo il
fallico satiro caprino negli strati più profondi delle pulsioni
dell’uomo e che, come fece Freud con Edipo e Roscher con
Pan, espressero le loro visioni interiori nelle configurazioni
del mito greco. Patricia Merivale nel suo bel libro su Pan10
ha riunito un impressionante assortimento di esempi della
devozione tributata a Pan dal secolo diciannovesimo, il
periodo letterario che, essa dice, vide il suo massimo
rigoglio. Pan, per inciso, è stata la figura greca favorita
dalla poesia inglese; in termini statistici, egli distanzia i
suoi rivali più prossimi (Elena, Orfeo e Persefone) di due a
uno.
Il mito greco pose Pan come Dio della natura. Il
significato di questo termine ‘natura’ è stato ricondotto a
non meno di sessanta differenti nozioni, sicché l’uso che qui
faremo di ‘natura’ deve essere individuato a partire dalle
qualità associate con Pan, dalla sua descrizione, dalla sua
iconografia e dal suo stile di comportamento. Tutti gli Dei
avevano degli aspetti naturali e potevano essere trovati
nella natura, e questo ha indotto taluni a concludere che
l’antica religione mitologica era essenzialmente una
religione naturale, il cui trascendimento da parte del
cristianesimo significò soprattutto la repressione del
rappresentante della natura, Pan, che ben presto divenne il
Diavolo dai piedi di capro. Per specificare quella che è la
natura di Pan dobbiamo vedere in che modo Pan la
personifica, sia nella sua figura sia nel suo ambiente, che è
nel contempo un paesaggio interiore e una metafora, e non
semplice geografia. Il suo luogo originario, l’Arcadia, è una
località tanto fisica che psichica. Le «oscure caverne» dove
lo si poteva incontrare (si pensi all’Inno orfico a Pan) furono
dilatate dai neoplatonici11 fino a indicare i recessi materiali
in cui risiede l’impulso, gli oscuri fori della psiche da cui
nascono desiderio e panico.
Il suo habitat nell’antichità, come quello delle sue più
tarde forme romane (Fauno, Silvano) e dei suoi compagni,
era sempre costituito da forre, grotte, fonti, boschi e luoghi
selvaggi; mai da villaggi, mai dagli insediamenti coltivati e
cintati dei civilizzati; santuari in caverne, non templi
edificati. Egli era un Dio dei pastori, un Dio di pescatori e
cacciatori, un vagabondo privo persino della stabilità
derivante dalla genealogia. I lessicografi del mito indicano
almeno venti origini di Pan.12 Suo padre è di volta in volta
Zeus, Urano, Crono, Apollo, Odisseo, Ermes, o la
compagnia dei pretendenti di Penelope; il suo è perciò uno
spirito che può sorgere veramente in qualsiasi luogo, frutto
di molti movimenti archetipici o di generazione spontanea.
Una tradizione gli dà come padre Etere, la tenue sostanza
che è invisibile eppure ubiqua, e il cui nome indicava
anticamente il cielo luminoso o il tempo associato con l’ora
del meriggio (si veda più avanti) di Pan. Ma se Pan è così
diffuso e spontaneo, perche attribuirgli un’origine? Questa
linea venne seguìta da Apollodoro (Framm. 44 b) e da
Servio nel suo commento alle Georgiche di Virgilio.
Certamente la sua ascendenza materna è oscura. Il
racconto che ci viene dato nell’Inno omerico a Pan, ripreso
da Kerényi in Dei ed eroi della Grecia, mostra Pan
abbandonato alla nascita da sua madre, una ninfa dei
boschi, ma avvolto in una pelle di lepre da suo padre Ermes
(l’esser generato da Ermes mette in rilievo l’elemento
mercuriale presente nello sfondo di Pan), il quale portò il
bambino sull’Olimpo dove fu accolto da tutti (pan) gli Dei
con gioia. Soprattutto Dioniso ne fu felice.
Questo racconto situa Pan entro una specifica
configurazione. Innanzitutto, essere avviluppato nella pelle
della lepre, un animale particolarmente sacro ad Afrodite, a
Eros, al mondo bacchico e alla luna, implica che egli è
avvolto in queste associazioni.13 Il suo primo indumento sta
a significare la sua iniziazione nel loro universo; egli è stato
adottato da quelle strutture di coscienza. In secondo luogo,
il fatto che suo protettore sia Ermes conferisce alle azioni
di Pan un aspetto ermetico. Esse celano dei messaggi. Sono
modi di comunicazione, connessioni che significano
qualcosa. In terzo luogo, la gioia di Dioniso esprime la
simpatia che c’è tra di loro. Questi Dei, perciò, formano il
fascio archetipico entro cui Pan è inserito e dove, in
particolare, possiamo presumere che venga costellato.
Su questi mitologemi – «il bambino abbandonato»,
«avvolto in una pelle animale» e «gradito agli Dei» – si può
meditare a lungo. La loro esegesi, quale emerge se viviamo
i loro significati nelle nostre vite, può dirci molto sul nostro
comportamento in carattere con Pan durante i momenti di
debolezza e smarrimento (abbandono), e anche sulla nostra
luxuria erotica: infatti, dentro il piccolo pegno d’amore che
un tempo era la lepre, è celata l’incolta selvatichezza di
Pan. Ciò che all’inizio è soffice si fa ruvido e sotto la
pelliccia del coniglio sta in agguato il capro. Tuttavia gli
Dei guardano con favore a questo nostro bambino dai piedi
caprini; essi lo considerano come un dono per il divino;
ciascuno di loro scopre di avere una affinità con lui; Pan li
riflette tutti.
In quanto Dio di tutta la natura, Pan personifica per la
nostra coscienza ciò che è completamente soltanto
naturale, il comportamento nel suo corso massimamente
naturale. Il comportamento il cui corso è naturale è, in un
certo senso, divino; è un comportamento che trascende il
giogo umano degli scopi: è interamente impersonale,
oggettivo, inesorabile. La causa di un tale comportamento è
oscura; nasce repentinamente, spontaneamente. Come la
genealogia di Pan è oscura, così è l’origine dell’istinto.
Definire l’istinto come un meccanismo scatenante innato, o
parlarne come di uno spirito ctonio, un urgere della natura,
esprime in oscuri concetti psicologici quelle oscure
esperienze che un tempo sarebbero state attribuite a Pan.
Prima di tutto dobbiamo ricordare che l’esperienza di Pan
sfugge al controllo del soggetto volitivo e della sua
psicologia egoica. Anche dove la volontà è più disciplinata e
l’io massimamente risoluto, e sto pensando qui agli uomini
in battaglia, Pan appare, determinando attraverso il panico
l’esito della mischia. Due volte nell’antichità (a Maratona e
contro i Celti nel 277 a.C.) Pan apparve e i Greci
conquistarono la vittoria. Egli veniva commemorato con
Nike. La fuga panica è una reazione protettiva anche se
nella sua cecità il risultato può essere la morte in massa.
L’aspetto protettivo della natura che appare in Pan si rivela,
oltre che nella sua affinità con i pastori, o nella radice (pan)
di ‘pastore’, ‘pastorale’ e pabulum (nutrimento), anche nel
suo ruolo nel seguito di Dioniso, dove Pan porta lo scudo
del Dio nella marcia verso l’India.14
Nella favola di Eros e Psiche raccontata da Apuleio, Pan
protegge Psiche dal suicidio. Sconsolata, senza amore,
negato l’aiuto divino, l’anima è presa dal panico. Psiche si
butta nel fiume che la rifiuta. In quello stesso momento di
panico, Pan compare con il suo altro lato riflessivo, Eco, e
persuade l’anima su alcune verità naturali. Pan è al tempo
stesso distruttore e preservatore, e i due aspetti appaiono
alla psiche in stretta prossimità. Quando siamo presi dal
panico noi non sappiamo mai se non si tratti del primo
movimento con cui la natura si appresta a elargirci, se
siamo capaci di udire l’eco della riflessione, una nuova
visione di se stessa.
Come dice R. Herbig nella sua monografia,15 questo Dio è
sempre un capro, il capro sempre una forza divina. Pan non
è ‘rappresentato’ da un capro, né il capro è ‘sacro’ a Pan;
piuttosto, Pan è il Dio-capro, e questa configurazione di
natura-animale qualifica la natura personificandola come
qualcosa di irsuto, fallico, errante e caprigno. Questa
natura di Pan non è più uno spettacolo idillico per l’occhio,
un certo luogo dove passeggiare o dove si desidera
ritornare in cerca di dolcezza. La natura, in quanto è Pan, è
calda e opprimente, è l’odore forte del suo pelo caprino, è
la sua erezione, come se la forza arbitraria e imprevedibile
e l’inquietante mistero della natura fossero sintetizzati in
quest’unica figura.
L’«unione di Dio e capro» – la frase è tratta da La nascita
della tragedia di Nietzsche – significò per il mondo post-
nietzscheano il modo dionisiaco di coscienza e la finale
malata follia del suo promulgatore. Ma sebbene Nietzsche
stesse palesemente parlando del Dio-capro, «nella biografia
di Nietzsche» scrive Jung16 «c’è la prova irrefutabile che il
Dio che egli aveva veramente in mente era in realtà
Wotan».17 Perciò, tentando di comprendere l’unione di Dio e
capro, che, come dice la Merivale,18 è «il fermo punto focale
delle mie ricerche», dobbiamo evitare di confonderla con il
Dioniso di Nietzsche, sul cui sfondo c’era il Wotan
germanico. Nietzsche, tuttavia, penetra un enigma
dell’esistenza caprina (e ve ne sono molti, giacché qui non
consideriamo il capro del senex e il capro espiatorio e il
capretto dionisiaco e la capra-nutrice), quando egli parla
dell’orrore della natura e dell’orrore dell’esistenza
individuale. Il capro solitario è infatti sia l’Unicità che
l’isolamento, una maledetta esistenza nomadica in luoghi
deserti, che il suo appetito rende sempre più deserti, e il
suo canto, «tragedia». Questo non è il pingue e alticcio Pan
di certa statuaria o l’elfo col piffero che chiamiamo Peter o
il «profondo sé emotivo» del Pan di D.H. Lawrence, ma il
Pan dell’Inno omerico che nella traduzione rinascimentale
di Chapman è detto «leane and lovelesse». La lascivia,
quindi, è secondaria, e la fertilità anche; nascono dal
disseccato desiderio della natura solitaria, di uno che è
sempre un bambino abbandonato e che in innumerevoli
accoppiamenti non forma mai una coppia, non cambia mai
completamente il piede fesso con la zampa di coniglio. Può
rallegrare gli Dei, ma non riesce mai a salire all’Olimpo; si
accoppia, ma non si sposa mai; fa musica, ma le Muse sono
con Apollo.
Per afferrare Pan come natura dobbiamo prima essere
afferrati dalla natura, sia ‘là fuori’ in una campagna deserta
che parla con suoni e non con parole, sia ‘dentro di noi’, in
una reazione improvvisa. (Questo Pan è stato ricreato,
meglio che da ogni altro, da D.H. Lawrence). Inquietante
come l’occhio del capro, la natura ci raggiunge nelle
esperienze istintuali che Pan personifica. Ma parlare di
‘personificazione’ è ingiusto verso il Dio, giacché implica
che l’uomo fa gli Dei e che la natura è un impersonale e
astratto campo di forze, così come la concepisce il
pensiero. Laddove la forma demoniaca di Pan trasforma il
concetto ‘natura’ in un immediato choc psichico.
La tradizione filosofica occidentale, fin dai suoi inizi nei
presocratici e nell’Antico Testamento, ha mantenuto un
pregiudizio contro le immagini (phantasia) preferendo loro
le astrazioni del pensiero. Nel periodo che ha inizio con
Cartesio e l’Illuminismo, durante il quale la
concettualizzazione mantenne il predominio, la tendenza
della psiche a personificare venne sdegnosamente respinta
come antropomorfismo. Uno dei principali argomenti
contro il modo mitico di pensiero sosteneva che esso
procede per immagini, che sono soggettive, personali,
sensuose. Ciò va evitato soprattutto nell’epistemologia,
nelle descrizioni della natura. Personificare voleva dire
pensare animisticamente, primitivamente, pre-logicamente.
I sensi ingannano; immagini che vogliano ritrasmettere la
verità sul mondo debbono essere purificate dei loro
elementi antropomorfici; le sole persone dell’universo sono
le persone umane. Nondimeno l’esperienza di Dei, eroi,
ninfe, demoni, angeli e potenze, di luoghi e cose sacri,
come persone precede in realtà il concetto di
personificazione. Non siamo noi che personifichiamo, sono
le epifanie che giungono a noi come persone.
Precisamente questo impariamo da Roscher, a dispetto di
lui stesso. Roscher, come i suoi contemporanei (per
esempio Ameling a proposito della personificazione),
tendeva a concepire Pan come un’espressione composita
delle qualità grezze e paurose della natura, proprio come le
sue affascinanti ninfe erano visioni della delicata, leggiadra
e lirica seduttività della natura. Ma il quadro concettuale di
Roscher, mutuato dalla psicologia empirica associazionista
(le idee sono fasci di percezioni sensoriali), non si accorda
con ciò che egli scoprì nelle effettive descrizioni empiriche
dei demoni dell’incubo. Questi non sono un ri-montaggio di
qualità terrorizzanti, personificazioni post hoc di sensazioni
provocate dalle coperte del letto. Sono persone
vividamente reali.
Dilthey insistette che la personificazione era essenziale
per la comprensione umanistica a differenza della
spiegazione scientifica, il cui metodo richiede
concettualizzazione e definizione. Lou Andreas-Salomé,
seguendo Dilthey, sollecitò Freud a mantenere questo
procedimento che è essenziale per il progresso della
psicoanalisi come psicologia umanistica invece che
scientifica. Jung fondò la sua psicologia sugli archetipi che,
sebbene descrivibili concettualmente, sono sperimentali e
persino chiamati come persone. Jung, infine, andò contro la
tendenza del suo tempo difendendo le immagini quali dati
primari della psiche e quindi prendendo queste immagini al
loro sensuoso livello emotivo, per quei fenomeni empirici
che esse sono, e non per delle personificazioni di idee
astratte. Il linguaggio onirico (come dimostra l’incubo), il
linguaggio delirante e allucinatorio, il linguaggio popolare –
parlano in termini di persone. Lo stesso deve fare una
psicologia che voglia parlare della psiche in quello che è il
suo vero discorso. Il movimento di Jung, che tende a un
allontanamento dai concetti astratti e a un accostarsi alla
persona sensibile, corrisponde, come abbiamo visto più
indietro, al movimento dall’intelletto all’immaginazione,
che è popolata di tangibili immagini sensoriali. Perciò la
monografia di Roscher, mettendo in rilievo la persona di
Pan, contribuisce in un altro modo ancora a quella
riscoperta dell’immaginale che prese il nome di psicologia
dell’inconscio, e una delle cui essenziali deviazioni
metodologiche dalla filosofia e dalla scienza è data dal suo
linguaggio basato sulla personificazione.
Un grido percorse la tarda antichità: «Pan, il grande, è
morto!» narra Plutarco nel Tramonto degli oracoli; tuttavia
il detto è divenuto esso stesso oracolare, fino a significare
molte cose per molte persone in molti tempi. Una cosa fu
annunciata: la natura era stata privata della sua voce
creativa. Essa non era più una forza indipendente e vivente
di generatività. Ciò che aveva avuto anima, la perdette; o
andò perduta la connessione psichica con la natura. Morto
Pan, anche Eco morì; non potemmo più catturare coscienza
riflettendo entro i nostri istinti. Questi avevano perduto la
loro luce e caddero facilmente nell’ascetismo, seguendo
come un gregge senza ribellione istintuale il loro nuovo
pastore, Cristo, con i suoi nuovi mezzi di direzione. La
natura cessò di parlarci – oppure non fummo più capaci di
udirla. La persona di Pan il mediatore, come un etere che
avviluppava invisibile tutte le cose naturali di significato
personale, di lucentezza, era scomparsa. Le pietre
divennero soltanto pietre – gli alberi, alberi; le cose, i
luoghi e gli animali non erano più questo Dio o quello, ma
diventarono ‘simboli’ o si disse che ‘appartenevano’ a
questo o a quel Dio. Quando Pan è vivo allora anche la
natura lo è, ed è colma di Dei, talché lo strido della civetta
è Atena e il mollusco sulla riva è Afrodite. Questi pezzi di
natura non sono semplicemente attributi o proprietà. Sono
gli Dei nelle loro forme biologiche. E dove trovare gli Dei
meglio che nelle cose, nei luoghi e negli animali che essi
abitano, e come partecipare ad essi meglio che attraverso
le loro concrete rappresentazioni naturali? Ogni cosa che
veniva mangiata, odorata, calpestata o spiata era una
presenza sensuale dotata di rilevanza archetipica. Una
volta che Pan è morto, la natura può essere controllata
dalla volontà del nuovo Dio, l’uomo, modellato ad immagine
di Prometeo o Ercole, che crea da essa e l’inquina senza
alcun turbamento morale. (Ercole, che per primo ripulì il
mondo naturale di Pan, combinando l’istinto con la propria
forza di volontà, non si fermò per togliere di mezzo le
carcasse smembrate lasciate a putrefarsi dopo le sue
civilizzatrici imprese creative. Lui si avvia a grandi passi
verso la prossima impresa, e verso la pazzia che lo aspetta
alla fine). Quando l’umano perde la connessione personale
con la natura personificata e l’istinto personificato,
l’immagine di Pan e l’immagine del Diavolo si mescolano.
Pan non morì mai, dicono molti commentatori di Plutarco,
egli venne rimosso. Perciò, come è stato affermato più
indietro, Pan ancora vive, e non soltanto
nell’immaginazione letteraria. Egli vive nel rimosso che
ritorna, nelle psicopatologie dell’istinto che si fanno avanti,
come indica Roscher, innanzitutto nell’incubo e nelle
qualità erotiche, demoniache e paniche ad esso associate.
L’incubo quindi offre veramente la chiave per riavvicinare
la natura per noi perduta e morta. Nell’incubo la natura
rimossa ritorna, così vicina, così reale che non possiamo
non reagire ad essa naturalmente, divenendo cioè
interamente fisici, posseduti da Pan, gridando per avere
luce, conforto, contatto. La reazione immediata è
l’emozione demoniaca. Siamo ricondotti all’istinto
dall’istinto.
V

‘Istinto’

Come molti termini psicologici che usiamo


quotidianamente – anima, umano, emozione, spirito,
coscienza, sentimento – istinto è più una metafora, anche
se in vesti concettuali, che un concetto. Forse è un’idea nel
senso originario di questo termine, che rimandava a un
‘vedere’; sicché per mezzo di questa parola ‘istinto’
possiamo vedere certi tipi di comportamento, sia
guardandoli come osservatori che indagandoli,
prendendone visione dall’interno, come partecipanti. Si è
versato molto inchiostro, e latte, sull’istinto; alcuni lo
considerano una sorta di intelligenza primordiale che sa
sulla vita più di quello che noi riusciremo mai ad
apprendere; per altri è l’opposto dell’intelligenza, qualcosa
di meccanico e di arcaico, privo di qualsiasi possibilità di
trasformazione. Ad esso è stato attribuito il meglio e il
peggio della natura umana – e questo ci dà lo spunto per
quello che sarà qui il nostro approccio. Infatti se Pan è il
Dio della natura ‘dentro di noi’, allora egli è il nostro
istinto. Inoltre, giacché tutti gli Dei partecipano della
natura e hanno le loro mimesi nella natura umana, nei
nostri modi di fantasia, di pensiero e di comportamento,
evidentemente Pan non è tutto l’istinto, così come non è
tutti gli Dei. Quali aspetti dell’istinto egli sia, con quali
aspetti della natura abbia affinità, lo si può discernere
soltanto studiando la sua fenomenologia.
Una delle principali linee di pensiero sostiene che il
comportamento istintuale è caratterizzato in misura
preminente dalla coazione, da quella che è stata chiamata
la «reazione del tutto o nulla». Oltre i processi biologici
primari – tropismi, ingestione ed eliminazione,
riproduzione, sviluppo cellulare, divisione e morte, eccetera
– la vita animale come comportamento si muove
automaticamente tra i due poli dell’avvicinamento e della
ritirata. Nel corso dei secoli è stata continuamente
avanzata l’idea di una fondamentale polarità del ritmo
organico. Una sola e medesima idea archetipica circa il
ritmo della vita naturale è presente in quelle coppie
chiamate in tempi diversi e da diversi teorici:
accessus/recessus, attrazione/repulsione, Lust/Unlust,
diastole/sistole, introversione/estroversione,
coazione/inibizione, fusione/separazione, tutto/nulla, ecc.
Sotto il dominio dei «meccanismi scatenanti innati» (come
l’istinto viene ora spesso chiamato), i modelli di
avvicinamento e ritirata diventano coatti, indifferenziati,
irriflessi.
Le due opposte posizioni verso l’istinto – secondo cui esso
è intelligente o non lo è – sono state combinate nella teoria
di Jung. Egli descrive due estremi del comportamento
istintuale: nell’uno abbiamo un modello di comportamento
coatto e arcaico; nell’altro le immagini archetipiche. Sicché
l’istinto agisce e nello stesso tempo forma un’immagine
della sua azione. Le immagini fanno scattare le azioni; le
azioni sono modellate sulle immagini. Perciò ogni
trasformazione delle immagini incide sui modelli di
comportamento, talché ciò che facciamo nella nostra
immaginazione possiede rilevanza istintuale. Agisce sul
mondo, come ritenevano gli alchimisti, i mistici e i
neoplatonici, ma non esattamente nel modo magico in cui
essi credevano. Poiché le immagini appartengono allo
stesso continuum dell’istinto (e non sono sublimazioni di
quest’ultimo), le immagini archetipiche sono parti della
natura, e non semplicemente delle fantasie soggettive
‘nella mente’. La figura di Pan rappresenta la coazione
istintuale e nel contempo offre il mezzo mediante il quale la
coazione può essere modificata attraverso l’immaginazione.
Agendo sull’immaginazione, partecipiamo alla natura
‘dentro di noi’. Il metodo di questa azione, tuttavia, non è
così semplice come potrebbe sembrare, poiché non si tratta
soltanto di un’attività della mente o della volontà conscie,
anche se queste vi hanno la loro parte. La modificazione del
comportamento coatto richiede un’altra funzione psichica,
che discuteremo più avanti in relazione agli amori di Pan.
Per cominciare, osserviamo più da vicino la coazione.
Incontriamo la coazione in rapporto a Pan già nell’Inno
orfico (Taylor), dove gli viene dato per due volte
l’appellativo di «fanatico», e nell’Inno omerico (Chapman)
leggiamo che egli si inerpica sempre più in alto «e non si
arresta mai». La stessa esaltata coazione appare nel
comportamento che gli è attribuito: panico, stupro – e
incubo.
I poli di sessualità e panico, che possono passare
repentinamente l’uno nell’altro o attivarsi a vicenda,
rivelano gli estremi più crassamente coatti di attrazione e
repulsione. In quest’ultimo caso fuggiamo ciecamente nel
più grande scompiglio; nel primo, ci slanciamo altrettanto
ciecamente sull’oggetto col quale vorremmo copulare. Pan,
come signore della natura ‘dentro di noi’, governa le
reazioni sessuali e di panico, ed è ubicato in questi estremi.
La sua auto-divisione è descritta dall’Inno omerico nelle
sue due ‘regioni’ – nevose e dirupate cime montane e dolci
vallate (e caverne) – e mitologicamente nel Pan fallico che
insegue e nella ninfa in fuga nel panico. Appartengono
entrambe allo stesso modello archetipico e sono i suoi
nuclei. Questi due fuochi del comportamento di Pan,
rappresentanti l’intrinseca ambivalenza dell’istinto,
appaiono anche nella sua immagine, commentata già da
Platone nel Cratilo, 408 c, che è rozza, rustica, sporca di
sotto, levigata e provvista di corna spirituali di sopra. Pure,
malgrado tutta la sua naturalità, Pan è un mostro. È una
creatura che non esiste nel mondo naturale. La sua natura
è completamente immaginale, e dobbiamo perciò intendere
anche l’istinto come una forza immaginale e non concepirlo
letteralisticamente alla maniera della scienza naturale o di
una psicologia che fondi se stessa sulla scienza o su una
meta-biologia. Paradossalmente, le pulsioni più naturali
sono non-naturali, e la più istintualmente concreta delle
nostre esperienze è immaginale. È come se l’esistenza
umana, persino al suo livello vitale di base, fosse una
metafora. Se il comportamento psicologico è metaforico,
allora per comprenderlo dobbiamo guardare a quelle che
sono le metafore dominanti della psiche. Ciò significa che
occupandoci delle sue immagini archetipiche possiamo
apprendere sulla psicologia dell’istinto altrettanto che
mediante la ricerca fisiologica, animale e sperimentale.
VI

Panico

Occorre a questo punto dire qualcosa sulla natura della


paura. Che sia una cosiddetta emozione primaria è stato
sostenuto dagli psicologi già al tempo di san Tommaso e di
Cartesio e viene tuttora confermato da fisiologi e biologi
specialisti del comportamento animale. Cannon la pone tra
le quattro reazioni fondamentali da lui investigate, e per
Lorenz è uno dei quattro complessi pulsionali fondamentali.
Il tradizionale approccio occidentale alla paura è
negativo. In accordo con gli atteggiamenti del nostro io
eroico, la paura, come molte altre emozioni e le loro
immagini, è considerata innanzitutto un problema morale
da superarsi con coraggio, come avrebbe detto Emerson, o
con il «coraggio di essere» in un’«età dell’angoscia», come
ha detto Tillich. La paura esiste per essere affrontata e
vinta dall’eroe nel suo cammino verso la virilità, e
l’incontro con la paura ha un ruolo preminente nelle
cerimonie iniziatiche. La valutazione psicologica della
paura, d’altra parte, tende ad essere pregiudicata, se non
del tutto impedita, dall’atteggiamento morale che siamo
soliti adottare quando riflettiamo sulla psiche. Talmente
radicato è l’approccio morale agli eventi psicologici che la
psicologia ha dovuto rivolgersi alla fisiologia e allo studio
degli animali per trovare una via sgombra da moralismi.
In fisiologia, pur essendo noti gli effetti protettivi della
paura, questa emozione è considerata generalmente o una
concomitante dei modelli istintuali di fuga oppure un
tutt’uno con questi stessi modelli bloccati o trattenuti entro
l’organismo.
Questa inibizione del comportamento motorio unitamente
ad una accresciuta e prolungata eccitazione dell’organismo
(sistema nervoso vegetativo e attivazione neuro-ormonale-
chimica) corrisponde all’angoscia. In breve, il panico si
presenta con due facce: vissuto esternamente in rapporto
ad uno stimolo e chiamato paura; trattenuto dentro in
assenza di stimoli accertati e chiamato angoscia. La paura
ha un oggetto; l’angoscia ne è priva. Può esservi paura
panica, una sorta di fuga precipitosa, ad esempio; può
esservi angoscia panica come in un sogno. In entrambi i
casi l’esito può essere la morte. Rapporti clinici
psicoanalitici e psicosomatici, come anche le ricerche sui
sogni e gli studi antropologici (ad esempio, sulla morte
vudù) forniscono esempi di quelle che possono essere le
fatali conseguenze dell’angoscia.
Possiamo distinguere il sogno d’angoscia dall’incubo nel
senso classico. L’incubo classico è la terrificante visitazione
da parte di un demone che opprime forzatamente il
sognatore paralizzandolo, mozzandogli il respiro, e la
liberazione giunge attraverso il movimento. Il sogno
d’angoscia è meno preciso: non c’è demone, né dispnea, ma
è presente la stessa inibizione del movimento.19 Un
prototipo letterario del sogno d’angoscia, che mette in
rilievo una inibita peculiarità di movimento, è quello
descritto nell’Iliade, XXII, 253-258:
…Come nel sogno
Talor ne sembra con lena affannata
Uom, che fugge, inseguir, né questi ha forza
D’involarsi, né noi di conseguirlo;
Così né d’Achille aggiunger puote Ettorre,
Né questi a quello dileguarsi.

Alcuni teorici dell’emozione utilizzerebbero il sogno


d’angoscia come riprova del loro punto di vista secondo il
quale l’angoscia è paura inibita, un modello di fuga
mantenuto entro l’organismo, quasi che l’istinto fosse
diviso in due parti: azione ed emozione. Durante il sogno
d’angoscia, essendo l’azione impedita, l’emozione diviene
più intensa. L’angoscia, nei sogni o in altre situazioni,
rimane in questa prospettiva positivistica e
comportamentale una sorta di reazione sostitutiva,
secondaria e inadeguata. Potessimo prendere le armi
contro il mare delle minacce incombenti, non staremmo poi
così male.
La filosofia esistenzialista contemporanea dà
dell’angoscia, dello spavento o dell’Angst una
interpretazione più caricata e sgradevolmente eccessiva.
L’Angst rivela la fondamentale situazione ontologica
dell’uomo, il suo legame col non-essere, cosicché tutta la
paura non è propriamente terrore della morte, ma del nulla
su cui è fondato tutto l’essere. La paura diventa così il
riflesso nella coscienza di una realtà universale.
Il buddismo va ancora oltre: la paura è ben più di un
fenomeno soggettivo, umano. Tutto il mondo è in preda alla
paura: alberi, pietre, ogni cosa. E il Buddha è colui che
redime il mondo dalla paura. Di qui l’importanza della
mudra (mimica delle mani), del ‘non-temere’, che non è
semplicemente un segno di conforto sibbene di totale
redenzione del mondo dal suo ‘timore e tremore’, dalla
soggezione all’Angst. Il perfetto amore di Buddha, secondo
le parole dei Vangeli, «scaccia la paura».
Mescolando ulteriormente i contesti, possiamo dire che il
mondo della natura, il mondo di Pan, è in un continuo stato
di panico subliminale e al tempo stesso in un continuo stato
di eccitazione sessuale subliminale. Così come il mondo è
opera di Eros, tenuto assieme dalla sua forza cosmogonica
e carico di quel desiderio libidico che è Pan, secondo una
visione archetipica riproposta recentemente da Wilhelm
Reich – così il suo altro lato, il panico, messo in luce dal
Buddha, fa parte della medesima costellazione. Di nuovo,
torniamo a Pan e ai due estremi dell’istinto. Brinkmann ha
già sottolineato il fallimento di tutte le teorie del panico che
tentano di occuparsene sociologicamente, psicologicamente
o storicamente e non in quelli che sono i suoi veri termini. I
termini giusti, dice Brinkmann, sono mitologici. Dobbiamo
seguire la via indicata da Nietzsche, la cui indagine su vari
tipi di coscienza e di comportamento attraverso Apollo e
Dioniso può essere estesa a Pan. Allora il panico non
sarebbe più considerato un meccanismo fisiologico di
difesa o una reazione inadeguata o un abaissement du
niveau mental, ma sarebbe invece visto come la giusta
risposta al numinoso. La fuga precipitosa diviene perciò
una breccia, fuori dalla protetta sicurezza nelle «misteriose
e selvagge regioni dell’esistenza elementare». Il panico
esisterà sempre perché è radicato nella natura umana
come tale. Perciò anche per governarlo, dice Brinkmann,
bisognerà seguire un procedimento rituale e mitologico di
gesti e musica. (Vengono in mente le cornamuse in
battaglia e il fatto che lo strumento di Pan in molte
raffigurazioni non è una siringa, ma una tromba).20
L’enumerazione dei vari tipi di panico animale, quale
Roscher ci presenta, sposta in effetti la discussione dal
livello propriamente umano e psicologico in senso ristretto
verso ipotesi più universali, come quelle offerte dagli
esistenzialisti, dai buddisti e dalla psicologia archetipica
che si manifesta in Pan. Se accettiamo le testimonianze
riportate da Roscher che descrivono il terrore di Pan come
una forma di infezione psichica che colpisce tanto l’uomo
che gli animali, allora verosimilmente ci troviamo di fronte
a un evento archetipico che trascende la psiche soltanto
umana, situando così il panico dell’incubo in un profondo
regno di esperienza istintuale che l’uomo condivide quanto
meno con gli animali. Con gli alberi, le pietre e il cosmo in
generale questa partecipazione rimane oggetto di
speculazione. Se il panico negli animali non è
sostanzialmente diverso dal panico nell’uomo e se il panico
è alla radice dell’incubo, allora l’ipotesi dell’incubo
formulata da Jones non è sufficiente. Infatti, neppure il più
coraggioso dei freudiani ha esteso l’universalità del
complesso edipico e del rimosso desiderio/paura
dell’incesto al di là del pastore fino al gregge. Le ipotesi
psicologiche di Freud si arrestano al mondo umano (anche
se la sua metapsicologia di Eros ci sollecita nella direzione
che stiamo qui seguendo). Roscher invece si spinge oltre
l’umano in una più vasta area di fenomeni panici.
L’ipotesi di Freud/Jones spiega l’incubo
intrapsichicamente: il desiderio rimosso ritorna sotto forma
di angoscia demoniaca. Ma Roscher apre la strada verso
una prospettiva mitologica: il demone istiga sia il desiderio
sia l’angoscia. Essi non si convertono l’uno nell’altra per
opera della censura e della meccanica idrostatica, che
provocano l’ingorgo della libido e la distorsione onirica
secondo la seguente formula:
 
«L’intensità della paura è proporzionale alla colpa dei
desideri incestuosi rimossi che ricercano una gratificazione
immaginaria, e la cui controparte fisica è un orgasmo –
spesso provocato da una masturbazione involontaria. Se il
desiderio non fosse in uno stato di rimozione, non vi
sarebbe paura, e ne risulterebbe un semplice sogno
erotico» (Jones, p. 343).
 
Da questo siamo indotti a credere che l’incubo è morboso,
il risultato di una psiche difettosa, e a liquidare la faccenda
con una parodia reichiana di una più antica idea: il perfetto
orgasmo scaccia la paura.
Il punto di vista che stiamo elaborando in questo saggio,
fissando il fuoco su Pan e sul ruolo che gli spetta
nell’incubo, tiene conto di molti dei fenomeni riferiti anche
da Jones, ma vede in essi delle prove in favore di una
diversa ipotesi. L’angoscia non è un effetto secondario
dovuto a sessualità subliminale, bensì l’angoscia e il
desiderio sono nuclei gemelli dell’archetipo di Pan.
Nessuno dei due è primario. Essi sono le qualificazioni
sensuose dei più astratti poli dell’istinto che si muove tra
tutto/nulla, accessus/recessus, Lust/Unlust.
Jones stesso porta prove a sostegno dell’idea che sembra
contraddire la sua stessa formula. Come Roscher, anch’egli
si richiama a Börner (Jones, p. 46):
 
«A volte sentimenti voluttuosi sono accoppiati con quelli
di Angst; specialmente nel caso di donne, le quali spesso
credono che il demonio notturno abbia copulato con loro
(come nei processi alle streghe). Gli uomini hanno
sensazioni analoghe dovute alla pressione esercitata sui
genitali, che il più delle volte è seguìta da emissione
seminale».
 
E p. 49:
 
«In questo contesto è importante rammentare che
durante la veglia gli attacchi di Angst sono sovente
accompagnati da un tratto voluttuoso per cui spesso nel
corso dell’attacco si ha una emissione reale, un fenomeno
questo sul quale hanno richiamato l’attenzione per primi
Loewenfeld nel caso di uomini, e Janet nel caso di donne».
 
Dopo Jones e gli autori a cui si riferisce, come è noto, una
prodigiosa energia è stata dedicata alla ricerca delle
correlazioni tra la sessualità fisiologica e l’attività onirica.
Oggi, dall’osservazione in laboratorio di sognatori umani,
sappiamo che le erezioni del pene vanno e vengono
ritmicamente durante il sogno secondo la curva dell’attività
onirica. Ma queste ricerche, invece di facilitare la
comprensione del rapporto tra sessualità e attività onirica,
ci hanno inequivocabilmente convinto che il campo è più
complesso di quel che avevano contemplato Jones e Freud.
Il rapporto tra il contenuto manifesto di un sogno e
l’eccitazione sessuale fisiologica (o la sua assenza), le sottili
distinzioni psicologiche e fisiologiche nelle emissioni
notturne, la periodicità del ritmo sessuale (psichico e
somatico), le qualità della sessualità psichica in rapporto a
specifiche costellazioni archetipiche (cioè, se la fantasia
direttrice è apollinea, priapica, narcisistica, ecc.), la
relazione tra la fisiologia dell’angoscia e la psicologia della
rimozione, infine: che cosa è la rimozione e che cosa è un
orgasmo ‘adeguato’ – questi enigmi rimangono senza
risposta come sempre. Non possono certamente venir
risolti con semplificazioni psicodinamiche derivate da
teorie che non affrontano la psiche nella sua complessità.
Sia l’angoscia sia la sessualità sono termini che coprono
una gamma immensamente diversificata di esperienze.
Queste parole, inoltre, denotano esperienze che non sono
soltanto azioni o reazioni ma anche metafore per situazioni
di coscienza governate da fantasie archetipiche. In effetti le
azioni e le reazioni fanno esse stesse parte di un modello
metaforico e hanno significato all’interno di quel modello,
in quanto esprimono qualcosa che è sempre qualificato
sensuosamente, ben più di quel che è coperto dalle
definizioni di angoscia e sessualità. Uno di questi modelli
metaforici è fornito da Pan. Ponendo l’angoscia, la paura o
il panico su questo sfondo, probabilmente non risolveremo
il ‘che cos’è la paura?’, domanda vaga se non priva di
senso, ma potremmo avvicinarci alla comprensione di certi
tipi di esperienza per i quali usiamo quella parola e rendere
così più precisa l’intenzionalità della paura.
Jung, nelle sue inedite Seminar Notes, discute in alcuni
punti il problema della paura, e vede in essa una legittima
via da seguire. Egli sembra voler dire che si va dove si è
spaventati, non però come l’Eroe al solo scopo di affrontare
il drago e vincerlo. La paura, in quanto è uno dei modelli
istintuali di comportamento, in quanto partecipa della
«saggezza del corpo», per usare l’espressione di Cannon, ci
offre una connessione con la natura (Pan) eguale alla fame,
alla sessualità o all’aggressione. La paura, come l’amore,
può diventare un richiamo per la coscienza; si incontra
l’inconscio, l’ignoto, il numinoso e incontrollabile restando
in contatto con la paura, che eleva dal cieco panico
istintuale del gregge al sagace, astuto, riverente sgomento
del pastore.
Quando Jung disse che dobbiamo imparare di nuovo ad
aver paura, egli raccolse il filo dell’Antico Testamento –
l’inizio della sapienza è la paura del Signore – e lo torse in
un modo nuovo. Adesso la saggezza è quella del corpo che
entra in connessione col divino, come il panico con Pan, con
la stessa intensità descritta nelle visioni sessuali dei Santi.
Infatti dove c’è panico, lì c’è anche Pan. Quando l’anima è
presa dal panico, come nella storia del suicidio di Psiche,
Pan si rivela con la saggezza della natura. Essere senza
paura, privi di angosce, invulnerabili al panico,
significherebbe perdita dell’istinto, perdita di connessione
con Pan. I senza paura hanno i loro scudi; essi hanno
interpretazioni che prevengono gli imprevisti, difese
sistematiche per tenere a bada il modello della sorpresa.
In altre parole, prendendo in prestito lo stile delle
formulazioni di Jones: panico e paranoia possono rivelare
una proporzione inversa: quanto più siamo suscettibili al
panico istintuale, tanto meno sono efficaci i nostri sistemi
paranoici. Inoltre, come primo corollario, la dissoluzione di
ogni sistema paranoico scatenerà panico; come secondo
corollario, le asserzioni psicoanalitiche sulla paranoia e la
paura dell’omosessualità possono essere ampliate al di là
dell’erotico fino ad includere l’altro nucleo implicito
nell’archetipo di Pan, il panico; e, come terzo corollario,
ogni complesso che sia causa di panico non è stato
integrato in una spiegazione e non dovrebbe esserlo;
perciò, ogni complesso che produca panico è la via regia
per smantellare la difese paranoiche. Questa è la via
terapeutica della paura. Conduce fuori dalle mura della
città, in aperta campagna, la campagna di Pan.
Il panico, soprattutto di notte quando la cittadella
s’oscura e l’eroico io dorme, è una diretta participation
mystique alla natura, un’esperienza fondamentale,
addirittura ontologica, del mondo vivo immerso nel terrore.
Gli oggetti diventano soggetti; essi si animano di vita
mentre noi siamo paralizzati dalla paura. Quando
l’esistenza viene sperimentata attraverso i livelli istintuali
di paura, aggressione, fame o sessualità, le immagini
assumono una propria irresistibile vitalità. L’immaginale
non è mai tanto vivido come quando siamo legati
istintualmente con esso. Il mondo vivo è, ovviamente,
animismo; che questo mondo vivente sia divino e
immaginato per mezzo di diversi Dei dotati di attributi e
caratteristiche è panteismo politeistico. Che paura,
spavento e orrore siano naturali è saggezza. Secondo
Whitehead «natura viva» significa Pan, e le impennate
paniche aprono una porta verso questa realtà.
VII

Pan e la masturbazione

L’articolo di Roscher su Pan nel Lexikon dice che Pan


inventò la masturbazione. Roscher si richiama agli Amores
di Ovidio, I, 5, 1 e 26 e a Catullo, 32, 3 e 61, 114. Ma la
fonte principale è Dione Crisostomo (ca. 40-112 d.C.), il
quale nella sua sesta orazione rimanda alla testimonianza
di Diogene. (Diogene era il filosofo greco della scuola cinica
del quale si dice che si masturbasse in pubblico).
Una seconda e indiretta connessione tra Pan e la
masturbazione viene ricavata da Jones mediante l’analisi
etimologica di mare (discussa anche da Roscher), ‘quello
che schiaccia’ o l’opprimente demone notturno (night-
fiend) conservatosi nel termine nightmare (incubo). Jones
vede nei significati della radice MR «una inconfondibile
allusione all’atto della masturbazione» (p. 332). L’insieme
delle informazioni che abbiamo sulla masturbazione ce la
presentano come una pratica assai diffusa sia storicamente
sia antropologicamente. Sappiamo anche che è presente in
alcuni animali superiori (non soltanto in cattività) e che
nella biografia di una persona si estende dalla prima
infanzia fino alla senilità, precede, cioè, l’inizio delle altre
attività genitali e spesso dura per molto tempo dopo che
queste sono cessate. Negli adulti la masturbazione si svolge
parallelamente al cosiddetto comportamento sessuale,
senza mai esserne un mero sostituto. Viene scoperta
spontaneamente (da animali, neonati e bambini piccoli);
inoltre, è l’unica attività sessuale eseguita da soli.
Considerando il rapporto tra la figura mitica e l’atto
psicologico, è opportuno mettere subito da parte le solite
semplificazioni riduttive che tentano di spiegare le oscurità
di una associazione psico-mitologica in termini di senso
comune. Qui non abbiamo a che fare semplicemente con
l’erompere di un impulso sessuale che si presenta nella
solitudine a cacciatori, pescatori e guardiani di armenti;
non stiamo semplicemente mitologizzando ciò che
fantastichiamo sulle abitudini sessuali dei pastori durante
la loro sosta pomeridiana; né questa associazione di Pan
con la masturbazione è un altro modo per affermare che il
diabolico e inumano capro nell’uomo avrà il suo sfogo non
importa come. Piuttosto, l’assegnazione della
masturbazione a Pan è psicologicamente appropriata,
persino necessaria, poiché la masturbazione fornisce un
paradigma per quelle esperienze che chiamiamo istintuali
in cui coazione e inibizione si congiungono. La psicologia
della masturbazione rende più precise le idee a cui
abbiamo accennato in precedenza circa i due poli del
comportamento istintuale.
Come ho chiarito più dettagliatamente in altra sede,21 la
masturbazione congiunge due aspetti dello spettro
istintuale: da una parte l’impulso; dall’altra la coscienza
morale e la fantasia che accompagnano e deviano l’impulso.
Abbiamo a lungo confuso la vergogna che accompagna la
masturbazione con una proibizione sociale, cioè con una
autorità interiorizzata. Abbiamo a lungo ritenuto che la
masturbazione fosse immorale perché non serve nessuno
scopo esteriore visibile. Biologicamente, non promuove la
procreazione, perciò deve essere ‘innaturale’;
emotivamente, non favorisce i rapporti, quindi deve essere
‘autoerotica’ e contraria agli affetti; socialmente, non porta
la libido nel nesso sociale, perciò deve essere anomica,
schizoide, addirittura suicida. I nostri modi di considerarla
sono stati mutuati esclusivamente dal punto di vista della
civiltà, cosicché anche la nostra comprensione della sua
inibizione è derivata dal medesimo punto di vista.
L’inquietudine introspettiva, i sentimenti di colpa, il
conflitto psicologico, in breve i fenomeni inibenti della
coscienza morale sono considerati come nient’altro che la
voce di un’autorità che proibisce, un super-io.
Il contrario di questo punto di vista tenta di affrancare la
masturbazione dalla proibizione che la reprime, rendendola
libera di seguire il Pan dei romantici nel piacere sfrenato,
ma trascura il fattore della coscienza morale e
dell’inibizione che, in questo caso, è sui generis, parte della
coazione stessa, l’altra sua faccia. (Anche gli incalliti
criminali sessuali, quelli, cioè, imprigionati per stupro,
ripetuto adescamento di bambini, assassinii a sfondo
sadico, provano sentimenti di colpa e si sentono la
coscienza turbata nei confronti della masturbazione [!],
come si riferisce nel lavoro dei successori di Kinsey
all’Indiana Institute. La colpa sembra altrettanto insita
nella masturbazione quanto la stessa coazione). L’approccio
liberato alla masturbazione per lo meno non la condanna
come psicologicamente regressiva (appropriata per il
giovane, ma non per gli adulti). Ma questo approccio rende
l’attività psicologicamente insignificante. Privata della sua
fantasia, vergogna e conflitto, la masturbazione diviene
nient’altro che fisiologia, un meccanismo innato di sollievo
senza importanza per l’anima.
Questa nozione ampiamente sostenuta e il suo rovescio
fisiologico semplificano sia la masturbazione sia Pan.
Insieme formano un nesso di opposti in cui il momento
dell’inibizione è forte quanto la coazione. Questi opposti di
Pan appaiono nell’attività stessa: sia che ci allontaniamo
impauriti dalla masturbazione, pervasi di vergogna o di
fantasie che ci terrorizzano, sia che passiamo furtivamente
dalla paura al coraggio eccitando i nostri genitali. La
masturbazione allevia l’angoscia – ma la causa anche, ad un
altro livello. La paura del malocchio veniva affrontata, e in
alcune società lo è tuttora, per mezzo della manipolazione
genitale o quanto meno di segni genitali. Non respingiamo
la paura toccando la sessualità, propiziando in tal modo
Pan, il quale inventò sia la masturbazione che il panico.
Nota bene: la sessualità che scaccia la paura non è il coito,
cioè la connessione con un altro, o anche con un animale,
ma la masturbazione.
Inoltre, il fattore fantastico di Pan appare nelle
configurazioni del suo ambiente, nello spogliarsi della
natura, nell’acqua, nelle grotte e nel clamore di cui è
amante (come anche il suo silenzio), nella sua danza e
musica, nella sua frenesia; il fattore della coscienza morale
si manifesta nella vergogna e in ciò che i nostri concetti
chiamano le ‘leggi di natura’, la ritmica autoinibizione della
sessualità. L’autoinibizione umana è meno evidente che
negli animali, la cui periodicità sessuale è chiaramente
marcata. La nostra è più sottile, più psichica, e
probabilmente è riflessa innanzitutto nella fantasia e nella
base archetipica della coscienza morale. Se l’inibizione qui
non fosse un archetipo, radicato in quella stessa struttura
psicoide che è la nostra sessualità, da dove deriverebbero
le proibizioni sull’incesto e le altre leggi sessuali?
Quando consideriamo la masturbazione, perciò, teniamo
in mente il suo significato psicologico. Se gli eventi
psicologici hanno la loro base in dominanti archetipiche,
allora il comportamento è sempre dotato di significato, e
quanto più il comportamento è archetipico (istintuale),
tanto più deve essere significativo in senso primordiale.
Vedere la regressione e non il significato è una cecità che la
terapia non può permettersi. La psicologia dell’inconscio ha
stabilito almeno un assioma: il senso è nel comportamento
stesso; non è dato dalla coscienza al comportamento. Atti
da noi compiuti che sono regressivamente molto lontani
dalla coscienza, come la masturbazione, possono essere al
servizio di scopi diversi da quelli dell’orientamento conscio.
Possono essere privi di senso per il nostro intelletto umano
e nello stesso tempo essere archetipicamente significativi.
In questo caso, la masturbazione è governata dal Dio-
capro della natura, che ‘la inventò’, ed è una sua
espressione. Questa affermazione mitologica dice che la
masturbazione è un’attività istintuale, naturale, inventata
dal capro per il pastore; dice inoltre che la masturbazione
possiede significato ed è sanzionata dalla divinità. In
quanto appartiene a un Dio, l’attività è una mimesi del Dio,
lo evoca e lo fa apparire nel corpo concreto. La
masturbazione è un mezzo per attivare Pan. Stranamente,
D.H. Lawrence non se ne rese conto. Anche lui, che pure
era il più vicino a Pan fra tutti i moderni,22 tuttavia scrisse
violentemente contro la masturbazione. La repressione
della masturbazione però non uccide soltanto Pan come
coazione, ma anche la fantasia di Pan e la vergogna di Pan,
le complicazioni inibitorie che accompagnano la
masturbazione e sono parte integrante di essa. La
repressione della masturbazione come atto fisico è anche la
repressione della sue controparti psichiche. E quando
questa repressione ha inizio, la battaglia sulla
masturbazione diviene una disputa teologica interiore che
echeggia il rifiuto e la riforma giudaico-cristiana della
natura ‘dentro di noi’. Nella nostra cultura, vale la pena di
rammentarlo, la masturbazione è attribuita a Onan, il quale
fu colpito a morte da Dio, e non a Pan che era egli stesso un
Dio.
Riassumendo: la masturbazione può essere compresa
autonomamente e dall’interno del suo modello archetipico;
non va condannata né come comportamento surrogatorio
per carcerati e pastori, né come comportamento regressivo
per gli adolescenti, né come ritorno periodico di fissazioni
edipiche, né, infine, come coazione fisiologica priva di
senso che va inibita mediante quelle corrispondenti
proibizioni che sono i rapporti personali, la religione e la
società. Nello stesso modo in cui la masturbazione ci
connette con Pan come capro, ci connette anche con la sua
altra metà, la partie supérieure della funzione istintuale:
l’autocoscienza. In quanto è l’unica attività sessuale
eseguita da soli, non possiamo giudicarla semplicemente in
funzione del servizio che rende alla specie o alla società.
Invece di fissarci sul suo ruolo inutile per la civiltà e la
procreazione all’esterno, potremmo riflettere sulla sua
utilità per la cultura e la creatività all’interno.
Intensificando l’interiorità con la gioia – e col conflitto e la
vergogna, e ravvivando la fantasia, la masturbazione,
benché priva di scopo per la specie o la società, reca
tuttavia piacere genitale, fantasia e colpa all’individuo
come soggetto psichico. Essa sessualizza la fantasia, porta
il corpo alla mente, intensifica l’esperienza della coscienza
morale e conferma la possente realtà della psiche
introvertita – non fu, infatti, inventata per il solitario
pastore che suona il suo zufolo nei vuoti spazi dei nostri
paesaggi interiori e che ricompare quando siamo
abbandonati alla solitudine? Costellando Pan, la
masturbazione riporta la natura e la sua complessità
nell’opus contra naturam del ‘fare anima’.
VIII

Lo stupro

Come la masturbazione, lo stupro è un comportamento


psicologico e merita perciò attenzione psicologica. Come la
masturbazione e il panico, anch’esso esemplifica il rapporto
tra mitologia e patologia, il tema che è al centro di questo
saggio. Parte del complesso dello stupro è una avversione
emotiva ad esso; è una violazione, una trasgressione, un
orrore. Una indagine su questo argomento evocherà quindi
la medesima avversione che è insita nel modello
archetipico. Il tema stesso agisce su di noi come uno stupro
bloccando la nostra soggettività in rapporto a esso. Lo
stupro diventa un argomento chiuso, non c’è nulla da
discutere; è ciò che è. La psicologia preferisce tenerlo a
distanza, anche come soggetto di dissertazione; quando
non può proprio evitarlo, lo affronta servendosi di elaborate
scappatoie concettuali, come ‘sadismo’ o ‘aggressione’. È
necessario uscire dalla psicologia e rivolgersi verso spiriti
letterari (per esempio, Genet) per trovare la disponibilità e
l’intelligenza necessarie per osservare
fenomenologicamente lo stupro.
Per cominciare: lo stupro è appartenuto all’esistenza
umana e divina da molto prima che la psicologia entrasse
sulla scena per spiegarlo. Perciò non dobbiamo aspettarci
troppo dalla psicologia; le sue considerazioni possono
avvalersi soltanto della gracile tradizione di poche
generazioni confinate in una cultura angusta,
prevalentemente nordica, occidentale ed ebraico-
protestante. Per di più, oltre alla generale inadeguatezza
della psicologia a trattare i grandi temi archetipici, vi è la
specifica lacuna nei riguardi dello stupro, come se
l’astensione della psicologia dall’indagine la tenesse al
riparo da un orrore. (Altre azioni criminali e altri atti
sessuali ricevono un’attenzione molto maggiore). I cinque
volumi del Grinstein,23 con quarantamila voci, ne dedicano
soltanto quattro, per di più marginali, allo stupro. La
visione classica della psicoanalisi collega lo stupro alle
fantasie libidiche infantili di un genitore stuprante o ad una
fantasia di onnipotenza che ha come oggetto lo stupro del
genitore. Gli junghiani hanno ampliato questo punto di
vista con l’idea della madre fallica in cui la sessualità è
unita all’aggressione secondo l’immagine del verro
uroborico. Vorrei abbandonare questa tediosa tradizione
psicologica e introdurre l’argomento da un punto di vista
nuovo.
Se la masturbazione è ‘sanzionata dalla divinità’, se è
inventata da un Dio, allora lo stupro ha un fondamento
ancora più saldo della divinità poiché lo stupro di ninfe e
mortali – e di un Dio da parte di un altro – è una figura
corrente nella mitologia greca. Lo stupro non è specifico di
Pan, però è caratteristico di Pan e, come vedremo nella
sezione che segue, è il suo primo modo di manifestarsi con
le figure femminili, che provoca la loro fuga e la sua
frustrazione. (I suoi tentativi di stupro non sono diretti
soltanto verso ninfe; c’è Dafni il pastorello, che, raccontano
alcuni, fu attaccato mentre prendeva lezioni di musica da
Pan, e ci sono le capre con cui Pan copula in varie posizioni,
ritratte in sigilli preziosi e nella statuaria).
Un’ermeneutica neoplatonica direbbe che lo stupro delle
ninfe esprime l’essenza immediata, diretta e risoluta della
divinità nel regno degli avvenimenti naturali. Lo stupro
rivela la necessità coatta che sta dietro e dentro ogni forma
di generazione. Quanto più si è vicini al mondo della natura
materiale, tanto più il potere divino si manifesterà in forma
sessuale e coatta. Lo stupro è il paradigma della
penetrazione e fecondazione divina del resistente mondo
della materia. Gli stupri della mitologia, perciò, dovrebbero
venir considerati a un livello non letterale, ed essere
percepiti come un’allegoria teo-filosofica.
Ora, la ‘depravazione’ del mito, o quella che chiamiamo la
sua psicopatologia, ha turbato a lungo gli esegeti. Gli
apologeti della religione classica dovettero difendersi
dall’accusa di corruzione morale gettata su di loro
soprattutto dai cristiani (che, almeno a partire da Eusebio,
videro il diavolo in Pan). La difesa neoplatonica del mito fu
la più elaborata, coerente e intellettuale; raggiunse l’acme
della sua perspicacia psicologica nella filosofia orfica
dell’Italia rinascimentale.24 Nondimeno, il neoplatonismo è
una difesa. Giustifica. Spiega. La masturbazione non
sarebbe veramente masturbazione, ma un’espressione
simbolica di qualcosa d’altro affine all’auto-generazione. Il
neoplatonismo si serve di un metodo ermeneutico che ci è
stato reso familiare da Freud: il manifesto è soltanto la
copertura di un significato latente che è più vero, più reale
e più liberante delle apparenze psicopatologiche
(sintomatiche). Lo stesso vale per lo stupro; questo modo di
esegesi non accetta la psicopatologia come un modo
essenziale della vita psicologica. Questo tuttavia è
precisamente quanto dice il mito.
Possiamo cogliere un aspetto essenziale del rapporto tra
mitologia e patologia se ci rendiamo conto che il
comportamento patologico è una rappresentazione mitica,
la mimesis di un modello archetipico. Dopo tutto, questo è
ciò che ci disse Freud ‘scoprendo’ il complesso di Edipo:
scoprì che la psicopatologia è la messa in atto di un mito.
Nel caso dello stupro, il modello archetipico rappresentato
è precisamente uno di quelli che sono stati condannati
dagli altri archetipi dominanti la nostra coscienza, che
hanno bandito come rinnegati sia Pan sia lo stupro.
La seconda fondamentale questione in questo rapporto
rovescia la prima: la mitologia è necessariamente
patologica (descrittiva di psicopatologia) perché altrimenti
non potrebbe parlare dell’anima quale essa è.
Diversamente la mitologia sarebbe ‘soltanto mito’, una
sorta di religione idealizzata (quale la tradizione tedesca ha
spesso tentato di rendere il mondo greco, pagando in tal
modo un prezzo terrificante nella psicopatologia). La
mitologia privata delle sue ‘depravazioni morali’ diverrebbe
una religione libresca, una interpretazione o una
rivelazione ispirata di dogmi etici e non la continua
espressione dell’esperienza umana in cui sono
inevitabilmente incorporati dei modelli patologici. Sicché
sembra che il mito condoni lo stupro perché è uno di quegli
eventi che debbono essere raffigurati da ogni sistema che
sia adeguato a quello che è il vero ambito dell’anima.
Dove sta allora la differenza tra il vostro o il mio stupro e
uno stupro da parte delle figure del mito? Se il mito spiega
(e sanziona) la patologia, allora una imitatio Dei significa
anche stupro. La differenza sta tutta nel contesto in cui
vengono compiuti? Accettando questo punto di vista,
produciamo una separazione tra sacro e secolare, e
ritorniamo con i neoplatonici. Vedremmo la copula di capri
con donne in un tempio egizio (quale è riferita da Erodoto)
a un livello sacro, rituale. Ma questo non fa altro che
accentuare la psicopatologia dello stupratore nel vicolo.
Dove sono oggi i contesti rituali per trasporre le
rappresentazioni mitiche dal secolare al rituale?
Come risposta, sono state ideate nuove forme di
psicoterapia, e vi sono culti e sette di streghe, come quella
guidata da Aleister Crowley, che era dedicata a Pan e,
secondo la versione dello stesso Crowley, comprendeva lo
stupro.25 Ma esse rimangono secolari; da soli, infatti, non
siamo in grado di far rivivere gli Dei. Pan deve essere
presente prima del culto in suo nome. Queste non sono
perciò rappresentazioni mitiche, ma costruzioni mitiche. In
un certo senso viene messa in atto più verità mitica nel
vicolo che nei templi siciliani di Crowley o in un laboratorio
di psicodrammi californiano dove si eseguono danze
paniche.
Se non questi tentativi esterni, allora forse il sogno e la
fantasia e l’immaginazione delle arti possono trasporci nel
mondo mitico dove valgono altre leggi e dove lo stupro è
appropriato. Questa soluzione dice che possiamo fare
qualsiasi cosa ‘dentro di noi’, ma non metterla in atto ‘là
fuori’. Il sacro e mitico diventa ora intrapsichico e mentale,
mentre il secolare diviene comportamento. Tale soluzione ci
riconduce da un’altra parte. Questa volta ritorniamo alla
posizione cartesiana e alla sua separazione radicale di
mente e materia. Ma lo scopo dichiarato di questo saggio è
quello di seguire Pan mantenendo uniti, inseparabili il
‘dentro di noi’ e il ‘là fuori’.
Una quarta soluzione direbbe che ciò che è patologia
nelle strade è tale anche nella mente. Ciò che facciamo
nell’immaginazione ha per l’anima le stesse conseguenze
del mettere in atto. Adesso ritorniamo nella situazione
cristiana, dove guardare una donna con lussuria è lo stesso
e altrettanto peccaminoso che l’azione esterna. La fantasia
è presa del tutto alla lettera.
È chiaro che la questione rimane insolubile finché
insistiamo che comportamento e fantasia sono due regni
differenti. Questo scisma produce tutti gli altri: tra secolare
e sacro, tra ‘dentro di noi’ e ‘là fuori’, tra mitologia e
patologia. Perciò il primo passo per risolvere il particolare
problema dello stupro è quello di riconoscere il più ampio
errore che gli sta dietro. Questo errore può essere corretto
ricordando che il comportamento è anche fantasia e la
fantasia anche comportamento, e questo sempre.
Ciò significa, primo, che la fantasia è anche fisica; è un
modo di essere nel mondo. Non possiamo essere nel mondo
fisico senza manifestare nello stesso tempo e in ogni
momento una struttura archetipica. Non possiamo
muoverci o parlare o sentire senza con ciò mettere in atto
una fantasia. Le nostre fantasie non stanno soltanto nella
mente; esse sono anche il nostro comportamento. Secondo,
l’unione di fantasia e comportamento significa che non
esiste nessun comportamento puro od oggettivo come tale.
Il comportamento non dovrebbe mai essere preso a quello
che è il suo livello, letteralmente. Esso è sempre guidato da
processi immaginali e li esprime. Il comportamento è
sempre metaforico e richiede un approccio ermeneutico
allo stesso modo che la più bizzarra fantasticheria della
visione mistica.
Queste osservazioni possono liberare il termine
‘psicopatologia’ dal dover servire due padroni, quello
legittimo della psicologia e quello parassitario della morale.
I criteri morali di comportamento fanno parte dell’etica,
della legge e della religione, ma questi sono campi che non
dovrebbero influenzare le prospettive della psicopatologia,
i cui giudizi sul comportamento sono determinati non tanto
da dove, con chi e quali azioni avvengono quanto piuttosto
dal come esse avvengono. Diveniamo più psicopatologici
quando non cogliamo, in questo o quel segmento della
nostra vita, il fantasma presente in quello che stiamo
facendo o il fatto che ciò che stiamo fantasticando sta
avvenendo fisicamente, anche se in modo sottile e indiretto.
Invece prendiamo le cose alla lettera, e la metafora,
l’elemento che mantiene la vita psicologicamente intatta, si
spezza. Come esempi estremi abbiamo, da una parte, la
fantasia al suo livello letterale nelle allucinazioni e nei
deliri; dall’altra, il comportamento letterale chiamato
psicopatia o disturbo comportamentale, di cui lo stupro è a
volte considerato un sintomo. Diventiamo meno
psicopatologici quando possiamo ripristinare
l’apprezzamento metaforico di ciò che avviene. La terapia
parla a questo riguardo di «insight psicologico»,
intendendo con ciò la riconnessione della fantasia con il
comportamento e la dissoluzione del letteralismo attraverso
il potere dell’insight. Poiché la legge, l’etica e la religione
tendono a considerare il comportamento con quello stesso
letteralismo che secondo la psicologia è all’origine della
psicopatologia, questi campi non debbono sovrapporsi ai
nostri – anzi, i loro giudizi nascono dallo stesso letteralismo
psicopatologico del comportamento che essi giudicano. (Ho
già trattato dell’inevitabile conflitto tra la psicologia e i
campi succitati parlando del suicidio, e anche in quel caso
l’accento era sulla prospettiva metaforica da dare al
comportamento).
La psicologia è perciò obbligata a considerare lo stupro
sempre come metaforico, anche il tuo e il mio, anche per la
strada. Questa premessa è già un atto terapeutico poiché vi
è già affermata l’unità di fantasia e comportamento. Anche
in strada c’è sempre un rituale che si svolge nel
comportamento e qualcosa di sacro permane sempre in
tutto ciò che è profano. La trasposizione che abbiamo
cercato è una trasposizione nella nostra visione delle cose,
una trasposizione psicologica che ci consenta di vedere
l’unità di fantasia e comportamento. Non abbiamo perciò
bisogno di costruire messe in scena letterali e di chiamarle
rituali. Questo saggio è appunto un tentativo di operare
quella trasposizione della nostra visione. Vedendo Pan
dentro il comportamento nel panico, nella masturbazione e
nello stupro, restituiamo sia il Dio alla vita, sia la vita al
Dio.
Quando manca questa visione del Dio nel comportamento,
lo stupro diventa soltanto psicopatologia. Come ho
mostrato in opere precedenti, quando perdiamo di vista
Eros nell’analisi, l’erotismo del transfert diviene soltanto
nevrosi; senza Saturno e Dioniso, depressione e isteria si
riducono a diagnosi psichiatriche. Perdiamo di vista che,
pur essendo sofferenze, esse appartengono a un modello
più ampio. In ciascuna di queste situazioni lo spirito
moderno ha visto piuttosto la patologia che non la
psicologia, dimenticando che la malattia fa parte del
significato. Il pathos è parte della psyche e ha il suo logos.
Il patologico, per quanto costrittivamente distorto e
concretistico, non di meno partecipa al ‘fare anima’. Di ciò i
neoplatonici erano consapevoli. Essi compresero che le
storie mitiche avevano dei significati per l’anima e che
perciò questo valeva per tutte le parti delle storie,
comprese le loro bizzarre depravazioni, gli orrori che sono
immaginativamente essenziali per le storie, ma che oggi
chiamiamo psicopatologici.
Ricordiamoci che l’orrore archetipico dello stupro
colpisce anche questa sua discussione. La migliore prova a
conferma degli effetti dell’orrore archetipico è la
repressione legale dello stupro. Negli Stati Uniti,
generalmente, né l’emissione seminale né l’effettiva
penetrazione della vagina rientrano nella sua definizione.
La giustapposizione forzata dei genitali è sufficiente per far
scattare il potere della magistratura. Ma c’è di più: esiste
uno stupro puramente legale (statutario), come ad esempio
un rapporto sessuale con un minore consenziente, o una
visita ginecologica compiuta da un medico o una anestesia
generale da parte di un dentista (senza che sia presente
una terza persona). Non sono frivolezze. La pena di morte
per stupro che include lo stupro statutario è ancora in
vigore in alcune zone degli Stati Uniti. Questo spostamento
dell’orrore in sottigliezze legali non sessuali rientra in una
lunga tradizione di repressione, che risale all’epoca
coloniale. In Pennsylvania, ad esempio, già nel 1700 i negri
venivano castrati per tentato stupro (di bianche).
Mettiamo l’orrore dello stupro entro la costellazione di
Pan. Innanzitutto, Pan insegue le ninfe, cioè, lo stupro ha
come obbiettivo una forma di coscienza indefinita ancora
ubicata nella natura ma non incarnata personalmente.
Questa coscienza è ancora soltanto-naturale, proprio come
soltanto-naturale è la pulsione di Pan. La ninfa è ancora
attaccata ad alberi, fonti, caverne, esili fantasmi, foschia;
essa è casta, natura ancora intatta, una vergine (si veda più
avanti, «Le ninfe di Pan»). Pan porta il corpo, un corpo
caprino. Egli impone la realtà sessuale della generazione
fisica a una struttura di coscienza che non ha una vita fisica
personale, la cui vita è tutta ‘là fuori’ nella natura
impersonale. L’assalto di Pan trasforma repentinamente la
natura in istinto. Lo stupro ne fa qualcosa di intimo. Lo
stupro la porta ‘dentro di noi’ da ‘là fuori’. L’impersonale
penetra dal basso nella parte più segreta del corpo,
portando una consapevolezza dell’impersonale sotto la
forma di un’esperienza personale.
Come tale, lo stupro è un orrore perché è una
trasgressione archetipica. Fa incrociare a forza due
strutture irrelate di coscienza, la cui distanza l’una
dall’altra è espressa nel linguaggio degli opposti:
vecchia/giovanotto, fanciulla/vecchio, vergine/libertino,
bianca/negro, indigeno/straniero, soldato/borghese,
padrone/schiavo, bella/bestia, classe dominante/classe
subalterna, barbaro/civilizzato. Ma la trasgressione è anche
una connessione tra queste due strutture. Lo stupro situa la
pulsione del corpo verso l’anima in una metafora concreta.
Spinge l’anima alla concretezza. Mette forzatamente fine
alla divisione tra comportamento e fantasia, violando la
privilegiata distanza dell’anima che vorrebbe vivere la vita
attraverso la riflessione e la fantasia. Interpretare la forza e
la trasgressione presenti nello stupro come aggressione è
archetipicamente errato. L’aggressione è insignificante
nella costellazione di Pan. I suoi assalti e i nostri stupri, che
li imitano, non sono aggressioni; sono coazioni. Non sono
propriamente attacchi per distruggere l’oggetto ma
esprimono piuttosto un bisogno convulso di possederlo.
Il linguaggio dello stupro parla in genere di deflorazione,
il cui paradigma è Persefone, la quale coglieva fiori quando
fu afferrata da Ade. Anche la deflorazione deve essere
presa metaforicamente, non stiamo infatti parlando della
rottura dell’imene di vergini reali, ma della coscienza
fiorita che viene penetrata e della sua morte. Ben pochi
stupri vengono compiuti su vere vergini, e tuttavia nella
fantasia tutte sono vergini, si tratti di sorelle, figlie o
monache, di compagne di scuola o di anziane cameriere. Il
fantasma della deflorazione e della verginità appare
insieme con lo stupro. Empiricamente questa associazione
ha poco senso; dal punto di vista psicodinamico è una
elaborazione secondaria e non essenziale; ma
archetipicamente l’associazione di stupro e verginità è
necessaria perché dimostri che il comportamento è
governato dal fantasma di Pan e delle ninfe. Da una parte
l’intatto, cioè una coscienza priva di sensi corporei;
dall’altra colui che tocca, il tattile corpo sensuoso. Tatto,
contatto, connessione – questo è cruciale per la metafora
che si sofferma in tal modo sul linguaggio del corpo. Pan,
che a volte è detto l’invisibile, è non di meno contemplato
in modo quanto mai fisico come stupratore. È detto il
sussultante, sfrontato, rozzo, feroce, zotico, sudicio, irsuto,
nero Pan. Tali erano gli epiteti latini di Pan.26
La paura dello stupratore nero e primitivo esisteva nella
coscienza occidentale da molto prima che la Pennsylvania
venisse fondata. Se, come è stato detto, una paura sessuale
è all’origine psicologica della repressione dei negri, e se
Pan è stato immaginato come niger, instabilis, lubricus,
rusticus, brutus, nudus, nocturnus, eccetera, non è allora la
perdita di Pan una delle fonti archetipiche dei mali della
nostra società?
La legge ha fatto propria la fantasia ninfa-Pan
preoccupandosi di proteggere le ninfette e le donne
anestetizzate e proiettando lo stupratore nel palpamento
del medico che visita. Dal punto di vista legale, lo stupro
non è necessariamente né coito né eiaculazione. Questi
aspetti essenziali dell’atto sessuale non definiscono lo
stupro legalmente. Anche la legge riconosce in modo
sinistro che lo stupro è qualcosa che va oltre la sessualità
concreta. La vera trasgressione è la connessione a livello
genitale di due strutture di esistenza umana dotate di
differente status ontologico.
Pan lo stupratore è un potenziale entro ogni impulso
sessuale. Ogni erezione può scatenarlo, implicando un
bisogno di deflorazione psichica. Come psicologi dobbiamo
anzitutto vedere questo fatto prima di accusarlo o di
difenderlo. Una certa necessità della psiche può convertire
un impulso in una fantasia di stupro, o persino produrre
una fantasia di stupro senza eccitazione sessuale. È in atto
un tentativo di trasgressione, un tentativo di passare da un
livello a un altro, portando sesso e morte a una parte
dell’anima che è completamente refrattaria a questo tipo di
consapevolezza.
Pan lo stupratore verrà evocato da quegli aspetti
verginali della coscienza che non sono fisicamente reali,
che sono ‘privi di contatto’, distanti dai sensi. Sentimenti e
pensieri che rimangono nebulosi e sfuggenti, che sono
ancora freddi, remoti, riflessivi richiameranno su di sé lo
stupro. Saranno continuamente assaliti da concretismi. Le
pure riflessioni verranno stuprate e ancora stuprate allo
scopo di essere immesse nel comportamento. Lo stupratore
che insegue la vergine è un altro modo di esprimere il
comportamento in cerca della fantasia che acquieti la sua
coazione. La repulsione della vergine è un altro modo di
esprimere la paura che la fantasia ha del comportamento
fisico. Ma la violazione della vergine è inevitabile in tutti i
casi in cui ci siano confini eccessivamente rigidi tra
fantasmi troppo remoti dal corpo e fantasmi totalmente
immersi nel corpo. È allora che la metafora concreta della
‘forzata giustapposizione genitale’ viene costellata ri-
unendo fantasia e comportamento.
L’idea psicodinamica della compensazione esprimerebbe
questa idea dicendo che il concreto ci viene addosso – come
stupro, panico, o incubo – quando la coscienza è troppo
eterea, effimera. Il concreto compensa la distanza dalla vita
fisica, rappresentata in un paradigma concentrato dai
genitali. Ma la psicodinamica, nel suo tentativo di riportare
gli eventi nella psiche, li riconduce in realtà soltanto nell’io.
Si dice che questi orrori (stupro, panico, incubo) sono la
conseguenza di qualcosa di sbagliato compiuto dall’io.
L’irruzione del potere numinoso diviene niente altro che un
meccanismo psichico per correggere l’io. Le spiegazioni in
termini di compensazione dimenticano che l’esperienza è
del tutto transpsicologica. Essa giunge con le qualità del
numinoso.
Tuttavia, l’accento che la psicodinamica mette sul
concreto non è privo d’importanza se lo consideriamo
fenomenologicamente, lasciando da parte la teoria degli
opposti in equilibrio. Dal punto di vista fenomenologico,
stupro, panico e incubo mettono a disagio la coscienza con
la loro concretezza, e perciò ci colpiscono sempre come
psicopatologici: gli eventi sono talmente letterali! Di nuovo,
la psicopatologia non sta in ciò che accade ma nel come,
nella metafora concreta dell’avvenimento. Stupro, panico e
incubo sono appropriati dove l’angoscia e la sessualità sono
prese concretamente, talché la psiche è già divenuta una
vittima, catturata, oppressa, privata della sua libertà.
L’orrore è già iniziato.
Tuttavia, dalla prospettiva della coscienza della ninfa lo
stupro sarà sempre un orrore. È archetipicamente
autentico e perciò anche questo orrore è significativo e non
soltanto una pudibonda resistenza e un sintomo d’angoscia.
L’orrore mette in guardia. Tenta di mantenere intatta una
struttura di coscienza. La coscienza riflessiva corre il
pericolo di essere sopraffatta (vergewaltigt = «stuprata» in
tedesco) e violata (viol = stupro in francese) da quello
stesso mondo fisico che essa riflette. La coscienza riflessiva
si ritira. Questo è il suo movimento naturale, poiché anche
la riflessione è istintuale (si veda, più avanti, «Le ninfe di
Pan»). Per mantenere libera la sua struttura riflessiva,
questo aspetto della coscienza deve fare in modo che
quell’incubo che è la natura non prenda il sopravvento e la
ricopra. Il lato d’incubo della natura è il soffocante e
oppressivo concretismo espresso dagli epiteti di Pan e
nell’esperienza di Efialte.
Ma il concretismo è presente in ogni domanda letterale
che poniamo a qualcuno, in ogni frecciata fatta di consigli
realistici, in ogni penetrante interpretazione su come vivere
e che cosa fare. Noi stupriamo e siamo stuprati non solo
sessualmente. Il sessuale è soltanto una metafora che
esprime il movimento ‘dal di sotto’ (riduttivamente) per
penetrare nell’intimità personale di qualcuno in una
maniera rude e ‘soltanto naturale’. Niente costella queste
trasgressioni di confine più delle innocenti domande poste
dall’ambigua mente ninfica.
Il concretismo oscura la luce e blocca il movimento della
fantasia. In questa prospettiva, la deflorazione non significa
penetrazione e trasformazione ma un’anima in pezzi. In
questa prospettiva, si deve a tutti i costi mantenere intatta
una purezza di luce riflessiva, poiché essa dà la libertà di
allontanarsi dall’oppressione della natura e la capacità di
immaginare la vita e non di viverla e basta.
IX

Le ninfe di Pan

Più indietro abbiamo esposto succintamente l’idea di Jung


riguardo alla trasformazione dell’istinto mediante
l’immaginazione. Abbiamo visto che la coazione istintuale e
l’immagine fantastica facevano parte dello stesso
continuum. E si accennava al fatto che la trasformazione
della coazione non può prodursi mediante i soli sforzi della
mente e della volontà. Esse non sono concepite nello stesso
continuum come avviene per la pulsione archetipica e la
sua immagine archetipica, che sono intrinsecamente
connesse.
Sotto questo riguardo il mito può essere paragonato
all’alchimia. Nell’alchimia la trasformazione dello zolfo
coatto richiede una sostanza uguale ad esso (tale sostanza
è il sale, e l’operazione avviene mediante il mercurio,
un’inafferrabile sostanza psichica che è il vero strumento
della trasformazione); la mente e la volontà dell’operatore
hanno un ruolo sussidiario rispetto agli effetti di una
sostanza sull’altra. Parimenti nelle trasformazioni illustrate
dal mito, è richiesto un mitologema uguale a Pan. Un
assioma della trasformazione psichica è: il simile cura il
simile.
Prima di procedere, debbo qualificare l’idea della
trasformazione nel mito affrettandomi ad aggiungere che il
nostro compito, qui, non è quello di fornire un’istruzione
morale. Non c’è nulla di ‘sbagliato’ in Pan, nell’istinto, nella
coazione, e simili, che debba essere corretto dalla
trasformazione. Piuttosto si può dire che il mito descrive
dei fondamentali processi soggettivi in cui sono insite delle
trasformazioni. Siamo in errore se vediamo queste
trasformazioni come dei perfezionamenti morali, come
progressi di un qualsiasi tipo. Sicché parlare della ‘cura’
della coazione è, da una parte, una nozione terapeutica
implicante un miglioramento; ma, dall’altra, ‘cura’ significa
soltanto passare da una forma di afflizione a un’altra.
Sforziamoci per quanto è possibile di tener distinta la
nozione nucleare di trasformazione dai suoi rivestimenti
interpretativi, alcuni edulcorati come ‘crescita’ e
‘progresso’, altri più amari, come ‘perdita’ e ‘decadenza’.
Se un assioma della trasformazione psichica è «il simile
cura il simile», è molto difficile che possiamo determinare
la trasformazione a un certo livello operando a un livello
diverso. Ovviamente, zolfo e sale sono opposti, e la cura
viene, come si sarebbe compiaciuto di far osservare
Eraclito, attraverso gli opposti. Ma gli opposti sono dentro
la stessa classe e allo stesso livello. Le sostanze alchemiche
sale, mercurio e zolfo sono metafore allo stesso livello
psicoide; e così è anche per i mitologemi. Perciò una
trasformazione della coazione non è un problema della
coscienza che agisce sull’inconscio, perché essi sono
opposti di due classi diverse, similmente alla volontà che
agisce sull’immaginazione, al super-io che agisce sull’es, o
alla mente che agisce sul corpo. La mente può agire sulla
mente, e il corpo sul corpo, sicché per trasformare eventi di
natura immaginale saremo obbligati a rimanere entro un
campo immaginale.
Inoltre, affinché la trasformazione si verifichi a livello
istintuale, il processo deve essere naturale; deve essere
come dicevano gli alchimisti: la natura ama e gode la
natura e nello stesso tempo la natura trasforma la natura.
Gli opposti debbono essere della stessa classe e deve
esservi un’affinità tra di essi. In alchimia sol ama luna, e
fuoco e acqua si abbracciano. In mitologia Pan ha bisogno
delle ninfe.
Abbiamo visto ripetutamente come Pan si divida tra cime
montuose e grotte, tra clamore e musica, tra zampe pelose
e corna spirituali, tra panico e stupro. Un altro esempio,
più immaginativo e attraente, è quello di Pan e le sue
compagne, le ninfe. Infatti un Dio e la sua compagna
descrivono le due componenti principali di un complesso
archetipico. E se la verità più nobile del pensiero
psicologico (Jung) come anche della filosofia mitica e
mistica27 è l’identità degli opposti, allora non solo i nuclei
gemelli nella natura di Pan sono uno e il medesimo, ma
anche Pan e le ninfe sono necessariamente richiesti poiché
sono uno e il medesimo.
La spiegazione etimologica e ‘naturale’ che Roscher dà
delle ninfe28 ne fa delle personificazioni di quei filamenti e
banchi di nebbia sospesi sulle valli, le pareti montane e le
sorgenti, che velano le acque e danzano sopra di esse. E, in
effetti, Omero29 dice che proprio lì vivono le ninfe. (Nello
stesso volume del Lexikon alla voce Ninfe, Bloch respinge
l’ipotesi di Roscher sostenendo che la parola nella
mitologia greca non significa altro che «fanciulla fatta», o
«signorina», in quanto deriva dal gonfiarsi come fa un
bocciolo, e perciò è affine al nostro ‘nubile’, ma non a
‘nebuloso’). W.F. Otto nel suo capitolo sulle ninfe30 è
d’accordo che la parola significhi fanciulla o sposa, tuttavia
le riconnette miticamente in primo luogo ad Artemide e al
sentimento greco dell’Aidos, vergogna, una modesta
timidezza, un quieto e rispettoso sgomento entro la natura
e verso la natura. Egli descrive questo sentimento come il
polo opposto alla soverchiante convulsività di Pan (dio
dell’epilessia). Le ninfe appartengono allo stesso paesaggio
della nostra natura interiore di cui fa parte Pan.31
Chi sono queste ninfe del mito, questi amori di Pan? Per
cominciare, molte non avevano nome; queste ‘impersone’
rivelano al livello dell’oggetto-pulsione l’impersonalità della
pulsione. Lo stesso potere invisibile e aspecifico che istiga
gli stupri di Pan le oggettivizza nella sconosciuta e
indistinta ninfa. Tra quelle con un nome c’è Siringa, una
naiade che, fuggendo il suo assalto sessuale, si trasformò in
una canna dalla quale Pan ricavò i suoi zufoli. Sebbene sia
forse il più famoso di tutti i suoi amori, Siringa riceve
scarsa attenzione da parte dei filologi, per i quali la favola
non è altro che una tarda spiegazione mitologizzante della
siringa di Pan. Prima di occuparci della storia di Siringa e
del disinteresse della filologia, lasciamo sfilare le ninfe.
Un’altra era Pitis, una ninfa del pino. Pan porta spesso
una corona di pino o un serto fatto d’abete, e la pigna
appare sovente insieme a Dioniso, quale ‘simbolo di
fertilità’, come la chiama un prediletto eufemismo
interpretativo per via della sua forma e dei suoi molti semi.
Ma qui il pino è femminile, e riflette Dioniso in un altro
modo, poiché la mescolanza di pino e vino nella retsina
esprime una coniunctio. D.H. Lawrence amplificò a proprio
modo Pitis, sperimentando Pan attraverso il pino, con la
sua ‘irta’, pungente ruvidezza; non la confortevole ombra
sul pendio d’una collina fantasticata da Roscher, evocante
l’amadriade della Grecia bucolica, ma l’aggressiva
mascolinità del pellerossa nell’opera di Lawrence Pan in
America. Il pino come Pan, come maschio, ribadisce la tesi
orfica che gli opposti sono identici, Pan e le ninfe sono uno.
Vi sono, per esempio, statue femminili di Pan e dipinti e
bassorilievi in cui Pan appare assieme a un ermafrodito.32
Un terzo amore di Pan era Eco, che abbiamo già
incontrato nella favola di Eros e Psiche di Apuleio. Anche in
questo caso Pan rimase frustrato, poiché Eco non ha corpo,
non ha una propria esistenza sostanziale. Nel rapporto con
Pan essa non era che lui stesso ritornato su se stesso, una
ripercussione della natura che riflette se stessa. (Nel caso
di Narciso, che Eco amò, è Narciso che la rifiuta
preferendole le gioie della propria riflessione).
La riflessione sembra essere lo scopo quanto più
procediamo nell’elenco dei suoi amori. Infatti un’altra fu
Eufeme, nutrice delle Muse. Lei e Pan ebbero insieme un
figlio, Krotos, che, in quanto fratello di latte delle Muse, era
solito giocare con loro. Il nome Eufeme significa ‘gentile
nel parlare’, ‘buona reputazione’, ‘silenzio religioso’. Da
questa radice abbiamo ‘eufemismo’, cioè il buon uso delle
parole in cui il maligno e il malaugurato è trasformato da
un buon nome. L’uso appropriato dell’eufemismo nutre le
Muse. Esso sta alla radice della trasformazione della natura
in arte. Mediante l’immaginazione è possibile dare altre
forme alle maligne e ripugnanti sventure della natura. Se le
Muse hanno questa connessione con Pan per il fatto di
succhiare al seno della sua controparte, Pan è in rapporto
con le Muse attraverso questa stessa controparte, la cui
discrezione nell’uso del linguaggio è l’oggetto della
pulsione sessuale di Pan.
Infine, quella che rivela pienamente l’intenzione di Pan è
Selene, dea della Luna. (La sua intera configurazione e suo
figlio Museo e i legami di quest’ultimo con Orfeo e con i
misteri eleusini sono richiamati dalla storia di Pan e Selene,
ma occuparsene richiederebbe una monografia a parte su
Selene, che Roscher per altro scrisse). Ma dobbiamo
sottolineare queste caratteristiche di Selene: la sua
insuperabile bellezza; il suo occhio che vedeva tutte le cose
che succedono di sotto; il suo governo della mestruazione,
l’ordinato ritmo dell’istinto femminile; il suo dono della
rugiada, la rinfrescante umidità; il suo rapporto con
l’epilessia e la guarigione; il velo che la manteneva
parzialmente celata, indiretta; la torcia che essa portava e
il luminoso diadema di cui era adorna; l’oscura caverna da
cui sorgeva e nella quale si ritirava.
Per la sua conquista della luna, si racconta che Pan
dovette dissimulare le sue parti nere e irsute sotto un
bianco vello. Questo è il linguaggio dell’alchimia,
corrispondente al movimento verso l’albedo della coscienza
lunare. Ciò che è resistente alla luce, indistinto e coatto,
natura sofferente nell’ignoranza, diviene bianco e riflessivo,
capace di vedere che cosa accade nella notte. Il bianco
vello non arresta Pan dal procedere nella sua conquista.
L’imbiancamento non è una askesis del capro. Non è che
ora Pan sa e perciò non agisce, ma l’azione, diventando
bianca, si fa riflessiva e così la connessione con Selene
(selas = luce come quella di una torcia che brilla nella
notte) è stata resa possibile. Il simile cura il simile: Pan,
divenendo come Selene, è già connesso con lei.
Né questa favola dice che la coscienza lunare di Selene
rifletté Pan e quindi lo deviò. Al contrario, la seduzione ha
luogo. La coscienza lunare può venir travolta da un Pan;
può essere presa da convulsioni e cadere nel panico,
svenire e subire un collasso.33
Lo stato lunare è particolarmente vulnerabile da Pan,
proprio come Pan è particolarmente attratto da esso. È
quanto già abbiamo visto riguardo allo stupro. E qui è
ribadito, giacché Pan produce la sua impressione più vivida
come Efialte in sogni che tradizionalmente appartengono
alla Luna, dove quella che compare negli incubi è
soprattutto la sua natura demoniaca femminile. Pan era
uno degli Dei direttamente associati con la follia periodica
[lunacy], così come le ninfe erano una causa di pazzia
(nympholeptoi).
Se adesso ritorniamo a Siringa vediamo che sebbene
questa favola sia una tarda invenzione, una semplice
elaborazione coscientemente letteraria, nondimeno il suo
modello è autenticato dalla sua similarità con le altre
favole. È come se l’invenzione del mitologo fosse
preformata dall’archetipo di Pan e della ninfa per narrarci
in una ulteriore versione il rapporto tra Pan, frustrazione e
riflessione. Il fatto che una favola sia tarda non significa
che possieda minor perspicuità psicologica e meno valore
mitico. Le origini e la fonte del mito sono altrettanto nella
psiche di oggi quanto in quella del passato. La primordialità
archetipica non deve essere confusa con l’antichità storica.
Nella favola di Siringa, Pan insegue la possibilità della
riflessione, che, attraverso il continuo indietreggiare,
trasforma nel proprio strumento. La musica della Siringa è
l’auto-coscienza che inibisce e trasforma la coazione.
Invece dello stupro sulla riva del fiume, c’è un malinconico
zufolio, canto e danza. La coazione, tuttavia, non è
sublimata ma espressa in e attraverso un’altra immagine,
poiché anche canto e danza sono istintuali. Mediante la
siringa il clamore che Pan ama diviene musica, il tumulto
un passo misurato; i modelli si elaborano; c’è spazio,
distanza e aria, come il mormorio del vento nel pino. Come
Eco, che fornisce la ricettività femminile dell’orecchio e del
ricordo – e la memoria è la Madre di tutte le Muse – la
musica che esce dalle canne di Pan offre una fantasia
cogitabonda che inibisce la coazione. La coazione sessuale
di Pan sembra tutta diretta verso il fine della riflessione,
giacché egli non è prevalentemente un Dio padre, la sua
discendenza essendo mitologicamente insignificante. La
sua generatività è di un altro tipo.
Queste favole ci dicono che la natura istintuale stessa
brama ciò che la renderebbe consapevole di sé. Nessun
nuovo principio viene introdotto, nessun correttivo della
coazione è imposto da sopra o da fuori a quella che è la
configurazione di Pan. Egli cerca un intangibile altro polo –
una semplice canna, un suono, un’eco, la pallida luce, la
nutrice della musa – una soccorrevole consapevolezza
nell’oscurità della sessualità concretistica e del panico. Pan
ci dice che il più forte desiderio della natura ‘dentro di noi’
(e forse anche ‘là fuori’) è di unirsi con se stessa nella
consapevolezza, un’idea che abbiamo già visto prefigurata
nella masturbazione e nella coscienza morale. L’altro che
Pan insegue così costrittivamente non è altro che lui stesso
riflesso, trasposto in un’altra tonalità.
Se Pan contiene un tipo elementare di riflessione, allora
possiamo presumere di trovarla anche nel complesso delle
sue immagini e non esemplificata soltanto nelle ninfe. E
questo è precisamente quel che troviamo. Oltre alla musica
e alla danza, vi sono le sue attività difensive e protettive.
Oltre al legame di Nike con Atena – avere Penelope per
madre e/o Ulisse per padre, come è narrato da alcune
tradizioni, già implica Atena – c’è il seme di Ermes (o Zeus,
Apollo, Crono, Urano, Etere, od Odisseo, ciascuno dei quali
presenta una modalità di spirito riflessivo), che è la sua
origine. Inoltre, c’è il motivo del suo levarsi con i primi
albori, la sua presenza nelle pitture vascolari insieme con
l’alba, l’emergere della luce diurna.
Forse più significativo di tutte queste immagini di
coscienza riflessiva è il fatto che Pan appare nelle
rappresentazioni dell’arte assai sovente come un
osservatore.34 Sta ritto, o seduto o appoggiato o chino, in
mezzo ad eventi ai quali non partecipa ma dove è invece un
fattore soggettivo di attenzione vitale. Wernicke dice che
egli serve a risvegliare l’interesse dello spettatore come se,
quando osserviamo una pittura con Pan nello sfondo, noi
fossimo il Pan che osserva.
Pan l’osservatore ci si rivela con la massima icasticità in
quelle immagini in cui appare con la mano alzata sulla
fronte, che scruta le lontananze: Pan il ‘lungimirante’,
‘dalla vista acuta’, il pastore che marca il gregge, all’erta,
vigile. Nell’intensità fisica di Pan c’è un’attenzione fisica,
una coscienza caprina. La coscienza non è olimpica,
sebbene sia un’espressione di quel superiore distacco. La
sua riflessione è in rapporto con il gregge, la
consapevolezza identica con i segnali fisici della natura
‘dentro di noi’. La riflessione è nell’erezione, nella paura,
una consapevolezza che è legata alla natura, come le ninfe
lo sono ai loro alberi e ruscelli, cieca, e però intuitiva,
lungimirante e profetica. Pan è riflesso completamente nel
corpo, nel corpo come strumento, come quando danziamo,
nel corpo che Lawrence presentò con la metafora del
pellerossa. È una coscienza che si muove circospetta nella
saggezza della paura attraverso i luoghi deserti dei nostri
paesaggi interiori, dove non sappiamo che direzione
prendere, senza un sentiero, il nostro giudizio fondato
soltanto sui sensi, senza mai perdere il contatto con il
gregge dei riottosi complessi, delle piccole paure e delle
piccole eccitazioni.
La coscienza corporea è della testa, ma fuori della testa,
lunatica e tuttavia come lo spirito nelle corna. Non è
mentale e calcolatrice; è una riflessione, ma né dopo e
neppure durante l’evento (alla maniera di Atena). È
piuttosto la maniera in cui un atto viene compiuto,
appropriata, economica, uno stile di danza. Come Pan è uno
con le ninfe, così la sua riflessione è una sola cosa con il
comportamento stesso. Invece di un soggetto epistemico
che conosce, c’è la fede animale della pistis, salda sulle
gambe come un capro. La via di Pan può ancora essere
‘làsciati guidare dalla natura’, anche dove la natura ‘là
fuori’ è scomparsa. La natura ‘dentro di noi’ può
egualmente essere seguìta, anche attraverso le città e i
luoghi civilizzati, poiché il corpo ancora dice ‘sì’ o ‘no’, ‘non
in questo modo, in quello’, ‘aspetta’, ‘corri’, ‘lascia andare’,
oppure ‘vai, questo è il momento’.
Che cosa potremmo desiderare dalla profezia più di
questa immediata consapevolezza corporea di come,
quando e che cosa fare? Perché chiedere grandi visioni di
redentori e crolli di civiltà; perché credere che la profezia
arrivi con una lunga barba e una voce tonante? Questo è
troppo facile, sono dichiarazioni troppo rumorose e chiare.
Il profeta è anche una visione interiore, una funzione del
microcosmo, sicché la profezia può risuonare non più forte
di una intuizione di paura o di un flusso di desiderio.
Plutarco situò il suo racconto sulla morte di Pan in una
discussione che aveva come tema il silenzio degli oracoli
nel tardo mondo antico ormai pervaso di cristianesimo. Con
la morte di Pan, scomparvero anche le fanciulle che
esprimevano liberamente le verità naturali, poiché la morte
di Pan significa anche la morte delle ninfe. E mentre Pan si
trasformò nel diavolo cristiano, le ninfe divennero streghe e
la profezia divenne stregoneria. I messaggi di Pan nel corpo
diventarono richiami del diavolo, e ogni ninfa che evocasse
tali richiami non poteva essere altri che una strega.
Il tipo di coscienza di Pan è intrinsecamente mantico, dal
fondamento in su, per così dire. (Ritorneremo su questo
tema nel capitolo seguente). Fu da Pan che Apollo apprese
l’arte prima di subentrare a Temi a Delfo.35 Le ninfe
suscitano uno sfrenato entusiasmo, che è insieme
ninfolessia e dono profetico. La ninfa Erato era prophetis
nell’oracolo arcadico di Pan, e Dafni, il pastorello amato da
Pan, era promantis nel più antico di tutti gli oracoli delfici,
quello di Gaia.36 Molti sono coloro che le ninfe hanno reso
folli o beneficiato di poteri mantici. Anche Pan e le ninfe
avevano perciò la loro parte in un tipo speciale di mantica,
quella terapeutica. Le sorgenti e le località salubri per i
convalescenti avevano il loro spiritus loci, di solito una
ninfa. Secondo Bloch, le ninfe portavano la guarigione, la
pazzia e la profezia agendo sulla fantasia. Come dice Otto,37
le ninfe sono preformazioni delle muse. Le ninfe eccitano
l’immaginazione, e ancora ci rivolgiamo alla natura
(istintuale in noi o visibile là fuori) per eccitare
l’immaginazione.
Non c’è accesso alla mente della natura se manca la
connessione con la mente naturale della ninfa. Ma quando
la ninfa è diventata una strega e la natura un morto campo
oggettivo, ciò che abbiamo è una scienza naturale priva di
una mente naturale. La scienza escogita altri metodi per
divinare la mente della natura, e il fattore ninfico diventa
una variabile irregolare che va esclusa. Gli psicologi a
questo punto parlano del problema di Anima dello
scienziato. Ma la ninfa continua a operare nella nostra
psiche. Quando facciamo della magia naturale, crediamo in
metodi di cura naturali e diveniamo nebulosamente
sentimentali in rapporto all’inquinamento e alla
conservazione della natura, quando ci affezioniamo a
particolari alberi, angoli e vedute, quando cerchiamo di
cogliere dei significati nel soffiare del vento o ci rivolgiamo
agli oracoli in cerca di conforto – allora la ninfa sta
compiendo la sua opera.
La ninfa nell’anima moderna ha prodotto il moderno culto
di Pan; se Pan viveva vividamente nell’immaginazione
letteraria, specialmente del secolo diciannovesimo, lo
stesso valeva allora per la ninfa. Possiamo vedere quella
recrudescenza di Pan interamente come un prodotto
dell’immaginazione ninfica, uno stile Anima di coscienza
che restava sospesa in un nubile non-ancora e nell’orrore
della sessualità, negli svenimenti, nelle fughe
nevrasteniche nel sistema nervoso vegetativo della
brumosa Inghilterra vittoriana di Elizabeth Barrett
Browning. Essa descrisse il suo primo rapimento in Pan
quando era ancora una ninfetta di undici o dodici anni.38
In ogni ninfa c’è Pan, in ogni Pan una ninfa. Rozzezza e
timidezza vanno assieme. Non possiamo essere toccati da
Pan senza fuggire nello stesso tempo da lui e riflettere su di
lui. Le nostre riflessioni sulla nostra impersonale, oscena,
laida sessualità, e il godimento che ne traiamo, sono echi in
noi della ninfa. La ninfa ancora ci fa sentire scossi e lascivi.
E allorché i sentimenti e le fantasie caprigne erompono nel
mezzo dei sogni diurni, Pan è stato di nuovo evocato da una
ninfa.
In ciascuna delle storie di Pan e delle ninfe, compresa
quella della sua nascita – giacché Driope, sua madre
nell’Inno omerico, era una ninfa dei boschi –, la ninfa fugge
nel panico da Pan. Ora, Pan non è il solo che faccia fuggire
le ninfe. La fuga è essenziale per il comportamento ninfico.
Pensiamo agli inseguimenti di Zeus e Apollo ed Ermes.
Domandiamoci quindi che cosa accade qui veramente; che
cosa significa questo modello archetipico di fuga? Poiché
«tutti gli Dei sono interni» e poiché il mito è continuamente
in atto al livello mitico della nostra esistenza, allora anche
questa fuga della ninfa si svolge come un processo nelle
zone boscose e spopolate dell’anima.
Mettiamo le coazioni (panico e stupro) di Pan insieme
all’oggetto femminile della sua coazione. Riassumiamo il
rapporto tra istinto e inibizione. Si credeva che Pan stesso
fosse in preda al panico quando gli animali fuggivano, e che
questa visione del panico di Pan gettasse il mondo nel
terrore. È come se Pan fosse egli stesso una vittima degli
incubi, delle convulsioni epilettoidi e dell’orrore di cui era
portatore. Il Dio è ciò che esso fa; il suo aspetto è la sua
essenza. In un’unica e medesima natura è compreso sia il
potere della natura sia la paura di quel potere.
Discutendo del panico abbiamo detto che la paura è un
richiamo alla coscienza. Le ninfe esibiscono questa paura
nella loro fuga panica. In tal modo esse mostrano una delle
vie della natura, la fuga, che è anche una delle quattro
reazioni istintuali primarie descritte da Lorenz.
Psicologicamente, la fuga diviene riflessione (reflexio), il
ripiegarsi all’indietro e via dallo stimolo, per riceverlo
indirettamente attraverso la luce della mente. Come Jung
disse a proposito di quest’istinto:
«Reflexio è un volgersi verso l’interno, con il risultato
che, invece di un’azione istintiva, si hanno una successione
di contenuti o stati derivati che possono essere chiamati
riflessione o deliberazione. Talché al posto dell’atto coatto
compare un certo grado di libertà…
«La ricchezza della psiche umana e la sua caratteristica
essenziale sono probabilmente determinate da questo
istinto riflessivo. La riflessione rimette in scena il processo
di eccitazione e trasforma lo stimolo in una serie di
immagini che, se l’impeto è sufficientemente forte, vengono
riprodotte in una certa forma di espressione. Questo può
avvenire direttamente, ad esempio, nel discorso, o apparire
sotto forma di pensiero astratto, di rappresentazione
teatrale o di condotta etica; o ancora, in un’impresa
scientifica o in un’opera d’arte.
«Attraverso l’istinto riflessivo, lo stimolo viene più o meno
interamente trasformato in un contenuto psichico, cioè
diviene un’esperienza: un processo naturale viene
trasformato in un contenuto conscio. La riflessione è
l’istinto culturale par excellence...».39
Qui Jung ha concettualizzato il mitema archetipico
dell’inseguimento di Pan e della fuga della ninfa. La storia
raccontata dalla fantasia concettuale di Jung è la stessa che
è detta dalla fantasia immaginativa delle favole. In
ambedue c’è la trasformazione della natura in riflessione,
in espressione, arte e cultura (le Muse). In ambedue, il
fondamento di questa trasformazione è il potere delle
immagini liberato dalla reazione di fuga. In un certo senso,
la cultura ha inizio nella coazione di Pan e nella fuga da lui.
Ma per non attribuire troppo alla riflessione – giacché da
sola è sterile40 – dobbiamo sforzarci di mantenere la
riflessione vicino al suo prototipo, la paura. È lì che
coscienza e cultura sono radicate istintualmente. Quando la
riflessione è radicata nella paura, noi riflettiamo per
sopravvivere. Non si tratta più soltanto di fantasticherie
mentali o di conoscenza.
Sottolineando l’importanza del complesso paura-fuga-
riflessione stiamo deliberatamente diminuendo il consueto
ruolo preminente dell’amore nella creazione di cultura.
Eros non ricerca la riflessione nello stesso modo coatto di
Pan. Al contrario, l’amore tende a ripudiare la riflessione
che impedisce il suo corso; l’amore vuole essere cieco.
Anche quando il suo oggetto è Psiche, come nella favola di
Apuleio, c’è una netta differenza tra Eros e Dioniso da una
parte, e Pan dall’altra. Le loro somiglianze sono evidenti e il
loro raggruppamento (con Afrodite e Arianna, con satiri e
sileni, conigli e capretti, pino, vite ed edera, eccetera) nelle
rappresentazioni mitiche e allegoriche è abbastanza
familiare. Le differenze sono meno familiari.
Per cominciare. Pan è attivo, le ninfe passive; le menadi
sono attive rispetto alla tenebrosa calma di Dioniso. Inoltre,
Eros non è propriamente una figura naturale ma piuttosto
un daimon. Egli è sovente alato con genitali poco
pronunciati, mentre Pan è spesso un capro col membro
eretto. La metafora di Eros è meno concreta, meno fisica; le
sue intenzioni ed emozioni sono diverse per qualità e locus
fisico. In antitesi con gli inseguimenti di Pan, non vi sono
storie di questo tipo (con l’eccezione di quella raccontata
da Apuleio) fra i suoi amori. Egli è solitamente l’agens, non
l’agonista. Sia in Eros sia in Dioniso, la coscienza psichica
sembra essere presente e attiva (menadi, Psiche, Arianna),
mentre in Pan l’istinto è sempre in cerca di anima.
Un modo per esaminare questo gruppo è quello di seguire
la tradizione che pone Eros e Pan nel seguito di Dioniso,
come sussidiari di quel cosmo. Una lunga tradizione di
pitture murali e vascolari mostrano Eros e Pan che lottano,
per il divertimento del circolo dionisiaco.41 Il contrasto tra
quell’armonioso giovinetto che è Eros e l’irsuta goffaggine
del rustico e panciuto Pan, con la vittoria di Eros, fu
moralizzato per dimostrare il miglioramento dell’amore
rispetto al sesso, dell’eleganza rispetto allo stupro, del
sentimento rispetto alla passione. Inoltre, la vittoria di Eros
su Pan poteva essere allegorizzata filosoficamente per
significare che l’Amore conquista Tutto.
Questa opposizione io la vedo anche in termini di amore
contro panico, ma non nel senso cristiano dell’amore che
vince la paura. Il problema qui non è quello di stabilire chi
vince e chi è vinto e le morali che si possono derivare da
questa vittoria, ma la contesa tra la via di Pan e la via
dell’amore. La morte di Pan coincise con ogni probabilità
con l’ascesa dell’amore (il culto di Cristo); forse, il
riconoscimento di Pan quale dominante psichica implica
una diminuzione dei tributi che paghiamo all’amore, si
tratti di Eros, Cristo o Afrodite.
L’amore non ha posto nel mondo di panico, masturbazione
e stupro di Pan e nella sua caccia delle ninfe. Queste non
sono storie d’amore; non sono favole di sentimenti e
rapporti umani. La danza è rituale, non una coppia che si
muove assieme; la musica è quella degli inquietanti flauti
dai toni mediterranei, non un canto d’amore. Siamo
completamente fuori del cosmo di Eros, e c’è invece
sessualità e paura. È forse per questo che siamo tanto
turbati dalla masturbazione e dallo stupro. Per essi non c’è
posto in un mondo d’amore. Quando sono giudicati dalla
prospettiva dell’amore, diventano patologici.
Arriviamo perciò all’inevitabile conclusione che il regno
dell’amore non include tutti i fattori istintuali presenti
nell’uomo, proprio come la figura di Eros è soltanto quella
di un Dio tra molti. Eros non fornisce appropriate
immagini-guida per quelle aree del nostro comportamento
che sono governate da Pan. Ostinarsi a giudicare il nostro
comportamento-Pan alla luce dell’amore perpetua la
repressione delle qualità istintuali e l’inimicizia verso la
natura con effetti inevitabilmente psicopatologici. La lotta
tra Eros e Pan, e la vittoria di Eros, continuano ad umiliare
Pan ogni volta che diciamo che lo stupro è inferiore al
rapporto, la masturbazione inferiore alla copula, l’amore
migliore della paura, il capro più brutto della lepre.
Infine, quelle nuove visioni che ricaviamo dal rapporto tra
Pan e le ninfe possono correggere l’idea cristiana di Pan
come Dio di sfrenata sessualità pagana che va controllato
dalle proibizioni giudaico-cristiane attraverso l’amore o la
legge. Se le ninfe e Pan sono uno, allora non è necessaria
nessuna proibizione. Una inibizione è già presente nella
coazione stessa. Perciò la passione sessuale, oltre a essere
sacra in sé, è un aspetto della riflessione, come non si
stancò di dire Lawrence. Il desiderio animale porta con sé
la propria vergogna e la propria pietà.
«…negli Dei compositi la tensione tra castità e passione o
tra penitenza e piacere, che viene in generale ricollegata al
conflitto tra cristianesimo e paganesimo, si rivelava una
fase insita nel paganesimo stesso».42
X

Spontaneità-sincronicità

L’ora di Pan era sempre il meriggio. In quel momento egli


appariva nell’impeto e nel fulgore del mezzogiorno, facendo
sussultare uomo e animale di un cieco terrore. Tutto ciò
sembra aver ben poco a che fare con l’incubo. Ma forse
dobbiamo considerare il culmine meridiano, lo zenit del
giorno, come il punto più alto della potenza naturale, che
costella sia la forza vitale sia il suo opposto, la necessaria
caduta da quell’altezza. È il misterioso momento in cui io e
la mia ombra siamo uno. Il mezzogiorno come la
mezzanotte è un momento di transizione e, come la
mezzanotte, l’alba e il tramonto, una radice di
orientamento primordiale per quello che potremmo
chiamare l’orologio simbolico. Questi sono i momenti in cui
il tempo si arresta, in cui l’ordinata processione dei
momenti si disgrega. Così certe cose debbono essere fatte
prima del canto del gallo all’alba, o del rintocco della
mezzanotte, o prima che cali la notte. In questi momenti il
tempo viene percorso da qualcosa di straordinario,
qualcosa che è oltre l’ordine abituale. Appaiono le
Mittagsfrauen, o gli spiriti a mezzanotte – si veda, al
confronto, la visione dell’eternità al meriggio di Nietzsche
nel suo Così parlò Zarathustra. Questo è il momento in cui
il momento stesso conta, dove il momento è separato da
prima e dopo, senza legge, diventa una qualità, una
costellazione delle forze nell’aria, senza continuità e perciò
senza relazione con lo «…squallido tempo / Che prima e
dopo si stende».43
Tale è l’irrelatezza di Pan, e dell’aspetto spontaneo della
natura. È semplicemente così com’è, là dove si trova; non il
risultato di eventi, non con un occhio al loro esito;
precipitoso, disattento, brutale e diretto, così nel terrore
come nel desiderio. Questo è il significato della spontaneità
dell’istinto: tutta la vita nel momento della propagazione o
tutta la morte nel panico del gregge. Possiamo trovare
varie spiegazioni a questo comportamento. Possiamo
scoprire che la spontaneità è ‘causata’ da più profonde
leggi di autoconservazione e di sopravvivenza della specie.
Possiamo vedere dietro questi eventi subitanei un più
ampio modello ecologico, e constatare che fanno parte di
una rete più vasta di condizioni tra loro interconnesse.
Possiamo pensare che i salti quantici e il principio di
discontinuità siano operanti anche negli esseri umani e
negli animali (e non soltanto nella fisica). Oppure, possiamo
concettualizzare la spontaneità in termini di codici genetici
innati che si attivano entro un ciclo temporale innato.
Anche la spontanea allegria dei capretti, le capriole degli
agnelli e l’erezione del pastore o il suo misterioso spavento
sono sperimentati come eventi istantanei e irrelati. La
spontaneità rimane un’esperienza e un’idea che, per
definizione, non è possibile inserire in ordinati sistemi di
spiegazione. Per definizione, non può essere spiegata.
Spontaneità significa qualcosa di autogenerantesi, non
prevedibile, non ripetibile. Sebbene abbia tutto l’aspetto di
un fenomeno naturale, nondimeno non rientra nel campo
della scienza naturale così come la scienza è definita
attualmente. Trovare leggi dello spontaneo sarebbe una
contraddizione in termini; questi eventi infatti sono infidi,
irregolari, senza legge. Perciò, considerare gli eventi
spontanei come eventi casuali che possono essere
diagrammati sulle tabelle di Fisher confonde le categorie
tra quantità e qualità. Casuale è un concetto quantitativo;
spontaneo è qualitativo e significativo, e allude a quella che
Whitehead chiamava «importanza». C’è emozione con la
spontaneità. Essa significa una libertà radicale.
Ponendo Pan come sfondo per la spontaneità, stiamo
suggerendo un approccio agli eventi spontanei per mezzo
della psicologia archetipica. Cerchiamo il principio che li
governa, la loro dominante archetipica, per immaginarli
meglio psicologicamente, e anche per comprendere meglio
psicologicamente la lunga storia delle difficoltà che hanno
impedito di accettare e concepire tali eventi. Pan non li
spiega ma può offrire una via per ottenere nuove visioni.
Il panico spontaneo che nasce dalla calma meridiana
riappare in un’altra configurazione, quella del coboldo, o
spiritello, anch’esso causa, a detta di Roscher, di panico e
incubo. E anche questo essere ha una connotazione
sessuale: è fallico, uno gnomo, fertile, insieme fausto e
terribile. Herbert Silberer (probabilmente l’allievo di Freud
più ricco di talento e di audacia, le cui profonde idee
psicologiche sull’alchimia, l’immaginazione attiva e i sogni
non valsero a salvarlo dal suicidio) studiò gli eventi
‘accidentali’ in relazione al coboldo. La sua opera è una
delle prime indagini psicologiche nello sfondo archetipico
del caso, o dei cosiddetti fenomeni acausali.
Silberer attribuì gli eventi casuali all’apparizione
spontanea di queste figure di coboldi. Possiamo
considerarli come una sorta di Augenblicks Götter, di «Dei
momentanei», secondo la formula di Usener; oppure
immaginarli come il daimon che d’improvviso ammoniva
Socrate, o come la ‘personificazione’ (si veda sopra) di un
evento autonomo che operi similmente ad una entità che
attraversa il nostro sentiero. Jung considerò questi eventi
in parte come complessi psichici, in parte come demoni
spettali.44 Soprattutto, egli riconobbe appieno la loro
naturale autenticità.
Oggi indichiamo queste esperienze per mezzo di concetti
quali presentimento, intuizione, sentimento misterioso, o
persino profezia, nel senso menzionato più sopra. E la
parapsicologia parla di un sesto senso che l’uomo condivide
con gli animali. Questi concetti non ci fanno fare molti
progressi. Rimaniamo ancora all’ipotesi sentimentale di un
livello di consapevolezza, distribuito ovunque c’è vita
istintuale, che echeggia questa vita in improvvisi segnali.
Il mito ha espresso quest’idea con lo smembramento di
Eco. Nella favola di Dafni e Cloe di Longo, Eco venne
lacerata dai pastori di Pan (per averlo rifiutato), e le sue
membra cantanti furono disperse in tutte le direzioni.
Diciamo perciò che Pan parla in questi pezzi echeggianti di
informazione che nei momenti di spontaneità presentano la
consapevolezza che la natura ha di se stessa. Perché si
verifichino in questo momento e non in quello, perché siano
così frammentari, insignificanti e persino falsi – sono tutti
interrogativi che dovranno essere esplorati mediante la
mitologia dello spontaneo piuttosto che per mezzo di
metodi empirici e logici. È soltanto penetrando più a fondo
nella natura di Pan (e delle ninfe) che potremo
comprendere meglio queste manifestazioni che sembrano
voler restare disconosciute ed evanescenti, mezze burle e
mezze verità, e in pari tempo strettamente legate a forti
emozioni. Ma l’approccio alla loro irregolarità dovrebbe
essere ermeneutico e non soltanto sistematico.
Jung lavorò sia sistematicamente sia ermeneuticamente
sugli eventi casuali in rapporto con i problemi della
sincronicità. Questo termine si riferisce alle coincidenze
significative di eventi psichici e fisici di cui non può essere
data nessuna spiegazione soddisfacente mediante le usuali
categorie di causalità, spazio e tempo. Jung considerò la
sincronicità un principio uguale agli altri tre, come questi,
una parte della natura. Egli scoprì che gli eventi
sincronistici si verificano prevalentemente quando sono
impegnati i livelli istintuali (emozionali, archetipici,
simbolici) della psiche.
Pan non può essere identificato con tutta l’emozione, con
tutti gli archetipi. Ma quando si verifica una coincidenza
significativa che ha un carattere prettamente sessuale o
scatena panico, o si riferisce al suo tempo (meriggio e
incubo), o al suo paesaggio, e ai suoi attributi, o all’umore
delle sue ninfe, allora è a lui che dovremmo guardare per
vedere quello che succede. A maggior ragione, Pan può
avere un ruolo nella sincronicità, in generale, giacché
questo Dio, similmente alla sincronicità, connette la natura
‘dentro di noi’ con la natura ‘là fuori’. Ancora una volta, la
fantasia concettuale della sincronicità secondo Jung e la
fantasia immaginaria di Pan dicono la stessa cosa.
Se il principio della sincronicità è un altro modo di
parlare di Pan, allora possiamo forse anche capire perché
chiunque si occupi di quel campo della spontaneità che è
chiamato parapsicologia divenga un rinnegato dal punto di
vista dell’ordine civilizzato degli uomini razionali. Come la
sincronicità è il diabolico quarto principio, così Pan è
l’ombra diabolica della nostra dominante Trinità
archetipica. L’integrazione della parapsicologia nella
scienza e nella psicologia rispettabili richiederebbe perciò
una rivalutazione di Pan e una visione dell’istinto e della
natura a partire dalla sua prospettiva. Finché questo non
sarà fatto, la parapsicologia tenderà ad essere respinta
sulla sua ombra: un campo di sentimentalismi e religione
naturale, qualcosa che è nel contempo comico, non degno
di fiducia, oscuro e lunatico.
XI

Guarire la nostra pazzia

Il Dio che porta la pazzia può anche liberarci da essa. Il


simile cura il simile. Tuttavia, quanta poca attenzione è
stata dedicata a Pan in tutti gli scritti sulla malattia
mentale! Pan era una delle poche figure nella mitologia
greca alla quale era direttamente attribuito il disturbo
mentale.45 Leggiamo in Roscher che Sorano riteneva Pan
responsabile sia della mania che dell’epilessia; nel nostro
linguaggio moderno potremmo dire che Pan regna sui
nostri stati ipomaniacali, specialmente quelli con coazioni
sessuali e attività ipermotoria, e sugli attacchi improvvisi
che sconvolgono l’intera persona, si tratti di panico,
angosce, incubi o operazioni mantiche (glossolalia).
Usando la metafora psicoide, genetica, possiamo dire che
Pan domina al livello più profondo della nostra frenesia e
della nostra paura. Ma al tempo stesso Pan guarisce a
questo livello, e vi sono affinità tra Pan e Asclepio
attraverso gli attributi della musica, del fallo, della visione
d’incubo e della visione mantica. Sia Pan sia Asclepio
guariscono per mezzo di sogni. Per opera delle ninfe,
particolari località risanano e benedicono. Abbiamo visto
inoltre che Pan soccorre Psiche in preda alla disperazione;
similmente egli libera la prigioniera Cloe nella favola di
Longo.
A questo punto dovremmo forse rileggere la preghiera di
Platone a Pan citata a epigrafe in questo saggio. La
preghiera è pronunziata da Socrate in un dialogo il cui
oggetto principale (molto dibattuto) è il giusto modo di
parlare dell’eros e della pazzia. Il dialogo si conclude con
Pan e ha inizio sulla riva ombrosa di un fiume nei pressi
d’una località sacra alle ninfe. Socrate si sdraia lì, a piedi
nudi. Cominciando a parlare, Socrate accenna, com’è sua
abitudine, al fatto di star ancora lottando con la massima
«conosci te stesso» e con il proprio senso d’ignoranza circa
la propria vera natura.
Poi alla fine viene la preghiera con il suo appello alla
bellezza interiore, che porrebbe fine all’ignoranza, giacché
nella psicologia platonica la visione della vera natura delle
cose determina la vera bellezza. Pan, quindi, è il Dio capace
di conferire quel particolare tipo di consapevolezza di cui
Socrate ha bisogno. È come se Pan fosse la risposta alla
domanda apollinea sulla conoscenza di sé.
Che cos’è questa consapevolezza e in che modo la si
ottiene? Abbiamo visto ripetutamente che Pan è Dio sia
della natura ‘dentro di noi’ che della natura ‘là fuori’. Come
tale, Pan è la configurazione che fa da ponte e impedisce a
queste riflessioni di scindersi in metà sconnesse, divenendo
così il dilemma di una natura priva di anima e di un’anima
senza natura, la materia oggettiva là fuori e i processi
mentali soggettivi dentro di noi. Pan, e le ninfe, tengono
insieme natura e psiche. Essi dicono che gli eventi istintuali
sono riflessi nell’anima; dicono che l’anima è istintuale.
Ogni istruzione, ogni religione, ogni terapia che non
riconosca l’identità di anima e istinto quale è presentata da
Pan, preferendo un lato all’altro, insulta Pan e non
guarisce. Non possiamo far nulla per l’anima senza
riconoscerla come natura ‘dentro di noi’ e non possiamo far
nulla per l’istinto se non teniamo a mente che esso ha una
propria fantasia, una propria riflessione e intenzioni
psichiche. L’identità dei nuclei gemelli di Pan, siano essi
visti come comportamento e fantasia, coazione e inibizione,
sessualità e panico, o il Dio e le sue ninfe, significa che
psiche e istinto sono in ogni momento inseparabili. Ciò che
facciamo al nostro istinto, lo facciamo anche alle nostre
anime.
Questa idea, se considerata in tutta la portata dei motivi
mitologici e del comportamento di Pan, è gravida di
conseguenze. Significa che la conoscenza di sé riconosce la
presenza di Pan nelle caverne più oscure della psiche e che
egli appartiene a quest’ultima. Significa inoltre che la
conoscenza di sé riconosce che l’‘errore’ di Pan e le sue
‘depravazioni morali’ appartengono anch’esse all’anima.
Questa nuova visione, che dà al capro quanto gli è dovuto,
può portare quella bellezza per la quale Socrate prega. E,
riconoscendo Pan in tutta la sua pienezza, Pan può dare la
benedizione che Socrate cerca, dove interno ed esterno
sono una sola cosa.
La preghiera di Socrate a Pan è oggi ancora più attuale.
Non possiamo infatti ripristinare un rapporto armonioso
con la natura semplicemente limitandoci a studiarla. E
sebbene la nostra preoccupazione maggiore sia ecologica,
non potremo venirne a capo soltanto mediante l’ecologia.
L’importanza della tecnologia e della conoscenza scientifica
per proteggere i processi naturali è fuori discussione, ma
una parte del campo ecologico la natura umana, nella cui
psiche dominano gli archetipi. Se Pan viene represso nella
psiche, natura e istinto non potranno che andare in malora
quali che siano i nostri sforzi a livello razionale per
mantenere le cose a posto. Se si vuole restaurare,
conservare e promuovere la natura ‘là fuori’, anche la
natura ‘dentro di noi’ deve essere restaurata, conservata e
promossa precisamente in eguale misura. In caso contrario,
le nostre percezioni della natura esterna, le azioni che
compiamo su di essa e le nostre reazioni ad essa,
continueranno a mostrare come in passato gli stessi
straziati eccessi di inadeguatezza istintuale. Senza Pan le
nostre buone intenzioni di correggere gli errori passati
finiranno soltanto per perpetrarli in altre forme.
La rieducazione del cittadino nei riguardi della natura
non può fermarsi al livello della coscienza ninfica, col suo
riverente timore e la sua mitezza. Il rispetto per la vita non
è sufficiente, e persino l’amore umilia Pan, sicché il
cittadino non può essere rieducato mediante i modi che ci
sono familiari. Tutti hanno inizio con Pan morto. La
rieducazione dovrà cominciare almeno in parte dal punto di
vista di Pan, poiché dopo tutto è il suo mondo quello per il
quale siamo così intensamente turbati. Ma il mondo di Pan
include masturbazione, stupro, panico, convulsioni e incubi.
La rieducazione del cittadino nei riguardi della natura non
potrà perciò prescindere da un rapporto interamente nuovo
con quegli ‘orrori’ e ‘depravazioni morali’ e ‘pazzia’ che
fanno parte della vita istintuale dell’anima del cittadino.
Tutto questo ci riconduce all’incubo e al lato orripilante
dell’anima istintuale che esso rende manifesto. Le
perplessità di Socrate sulla propria natura all’inizio del
Fedro (230 a) vertono sullo stesso punto. Egli riflette sulla
propria somiglianza con Tifone, uno strapotente e
demoniaco gigante da cui dipendono eruzioni vulcaniche,
tempeste e terremoti sotterranei, «la personificazione del
potere distruttivo della natura».46 Il «conosci te stesso» nel
Fedro ha inizio per Socrate con la visione dell’aspetto
demoniaco della natura.
L’incubo rivela questo aspetto, par excellence. Sicché lì
potrebbe avere inizio la rieducazione guaritrice poiché è lì
che l’anima istintuale è più reale. Jones ci ricorda che la
«vividezza degli incubi supera di gran lunga quella dei
sogni ordinari» (p. 71). Roscher e Laistner osservarono
entrambi la stessa cosa, e Jones (ibid.) cita altri che hanno
sottolineato questa realtà:
 
«Il grado di coscienza durante il parossismo di un incubo
è perciò molto maggiore che in qualsiasi altro sogno… In
effetti non so davvero come un individuo potrebbe
convincersi che la visione che si produce durante il
parossismo di un incubo non sia reale…» (J. Waller).
«I deliri che l’accompagnano sono forse i fenomeni più
straordinari dell’incubo; si imprimono nella mente con tale
forza che, anche durante la veglia, ci riesce impossibile non
considerarli reali…» (R. Macnish).
 
Da questo tipo di esperienza Jones ricava la sua tesi
principale, riassunta nella seconda epigrafe all’inizio del
saggio: la vividezza dell’esperienza dell’incubo ha dato
origine alla credenza nella realtà oggettiva di demoni e Dei
personificati: l’incubo è la base empirica della religione.
Ovviamente, per Jones, sotto l’esperienza manifesta vi sono
dinamismi personali psico-sessuali, sicché la forza della sua
visione del rapporto tra l’incubo e la realtà degli Dei risulta
irrimediabilmente frenata dalla teoria alla quale egli la
aggioga. L’orrore e l’effetto guaritore dell’incubo si
producono perché esso è una rivelazione non della
sessualità come tale, bensì della fondamentale natura
dell’uomo che in quanto essere sessuale è tutt’uno con
l’essere animale, con l’istinto, e perciò tutt’uno con la
natura. La visione panica dell’uomo dice che anche l’uomo
è pura natura, e che anche in lui risiedono le eruzioni
vulcaniche, gli attacchi e i tifoni distruttivi. Questa realtà
non può rimaner confinata in concetti astratti. La metafora
della natura è concreta e formata. Essa deve essere
assaporata, sentita, contemplata nella concreta, realissima
esperienza di pelo e zoccoli. Dobbiamo essere paralizzati e
soffocati da questa realtà, come se vi fosse qualcosa di
eufemistico nella coscienza che è sempre in fuga
dall’‘orrore’. Questa esperienza sensoriale era un tempo, e
lo è tuttora, la visione di Pan nelle sue varie forme
d’incubo. Così, in verità, Roscher e Laistner e Jones,
ciascuno a suo modo, sono nel giusto attribuendo immenso
significato all’incubo. Il suo potere numinoso richiede
un’idea altrettanto soverchiante: attraverso l’incubo si
rivela la realtà del Dio naturale.
NOTE

1
G.S. Kirk, Myth, Its Meaning and Function in Ancient and
Other Cultures, Cambridge University Press, Cambridge,
1970, p. 205.
2
G. van der Leeuw, Phänomenologie der Religion, Tübingen,
1933 (trad. it. Fenomenologia della Religione, Torino,
1975).
3
Robert Weiss, The Renaissance Discovery of Classical
Antiquity, Blackwell, Oxford, 1969, p. 140.
4
J.M. Osborn, Travel Literature and The Rise of Neo-
Ellenism in England, «Bulletin of the New York Public
Library», 67 (1963), p. 300.
5
B. Snell, The Discovery of Mind, Harper Torchbook, New
York, 1960, pp. 258-61 (trad. it. La cultura greca e le origini
del pensiero europeo, Torino, 1963).
6
A. Béguin, L’âme romantique et le rève, Paris, 1937 (trad.
it. L’anima romantica e il sogno, Milano, 1967).
7
E. Jones, On the Nightmare, Hogarth, London. 1931.
8
Per due esempi di Pan nell’analisi junghiana, si vedano: R.
Michel, Die Gestalt des Pan und Träume der Gegenwart,
Diss. Karl G. Jung-Institut, Zürich, s.d. e R. Blomeyer, Die
Konstellierung der Gegenüberstellung beim Auftauchen
archetypischer Träume, «Zeitschrift Analyt. Psychol. u.i.
Grenzgebiete», III. 1, Berlin, 1971 (trad. it. L’attivazione del
controtransfert nei sogni archetipici, «Rivista di Psicologia
Analitica», vol. III. n. 1, 1972).
9
J. Hillman, The Myth of Analysis, North Western University
Press, Evanston, 1972, Parte III.
10
Patricia Merivale, Pan the Goat-God; His Myth in Modern
Times, Cambridge, Harvard, 1969.
11
Si veda Thomas Taylor the Platonist, Selected Writings, a
cura di Kathleen Raine e G.M. Harper, Princeton University
Press. 1969, pp. 225, 297 sgg.
12
Roscher scrisse uno studio a parte su questo argomento,
Die Sagen von der Geburt des Pan.
13
Si veda J. Lavard, The Lady of the Haye, London, 1944, pp.
212-220.
14
Cfr. la voce Pan di Roscher, Lexikon, col. 1388-90, per i
riferimenti classici a Pan il Guerriero.
15
R. Herbig, Pan - Der Griechische Bocksgott, Frankfurt,
1949.
16
C.G. Jung, Collected Works, Routledge and Kegan Paul,
London, vol. XI, par. 28. Nelle note successive le Collected
Works saranno indicate con le iniziali C.W.
17
Cfr. il mio Dionysos in Jung’s Writings, «Spring», 1972,
N.Y./Zürich, Spring Publications, 1972.
18
Op. cit., p. 226.
19
Una raccolta di questi sogni si trova in M. Weidhorn, The
Anxiety Dream in Literature from Homer to Milton,
«Studies in Philology», 64, pp. 65-82, University of North
Carolina, 1967.
20
D. Brinkmann, Neue Gesichtspunkte zur Psychologie der
Panik, «Schweiz. Zeitschrift f. Psychol.», 3, 1944, pp. 3-15.
21
J. Hillman, Toward the Archetypal Model of the
Masturbation Inhibition, «J. Analyt. Psichol.», 11, 1, 1966,
ora in Loose Ends, Zürich, 1975.
22
Vedi P. Merivale, op. cit.
23
A. Grinstein, Index of Psychoanalytic Writings, I.U.P., N.Y.,
1960.
24
Si veda E. Wind, Pagan Mysteries in the Renaissance,
Harmondsworth, 1967 (trad. it. Misteri pagani nel
Rinascimento, Adelphi, Milano, 1971).
25
Vedi Merivale, op. cit., pp. 122 sgg.
26
J.B. Carter, Epitheta Deorum, in Roscher, Lexikon, VIII.
27
E. Wind, «Pan and Proteus», op. cit. (trad. it. cit., p. 235).
28
Lexikon, Pan, col. 1392 sgg.
29
Odissea, VI, 123.
30
W.F. Otto, Die Musen, Darmstadt, 1945.
31
Sulla ninfa interiore, il suo fascino e i suoi pericoli, si veda
Emma Jung, «The Anima as an Elemental Being», in
Animus and Anima, N.Y./Zürich, Spring Publications, 19694;
e inoltre, C.W., vol. XIII, parr. 179 sgg., 215 sgg.
32
Su Pan nell’arte, si veda il saggio di Wernicke nel Lexikon
di Roscher.
33
Tutte modalità tipiche di Pan, secondo E.R. Dodds, The
Greeks and the Irrational, Boston, Beacon, 1977 (trad. it. I
greci e l’irrazionale, La Nuova Italia, 1959).
34
Wernicke, op. cit., elenca tre colonne di esempi.
35
Si veda la voce di Bloch sulle ninfe nel Lexikon.
36
Pausania 10, 5, 5.
37
W.F. Otto, op. cit., sulle Ninfe e le Muse.
38
Merivale, op. cit., p. 81. Un altro incontro di un vittoriano
con una ninfa è descritto nel saggio di Clifford Allen The
Problem of John Ruskin, «International Journal of
Sexology», 4, pp. 7-14, 1950.
39
C.G. Jung, C.W., vol. VIII, parr. 241-43.
40
Vedi il mio The Myth of Analysis, cit., Parte I.
41
Wernicke, op. cit., col. 1457, e Herbig, op. cit., p. 32.
42
Wind, op. cit., p. 204 (trad. it. cit., p. 251).
43
T.S. Eliot, Burnt Norton (trad. it. Quattro quartetti,
Garzanti, Milano, 1959, p. 23).
44
C.W., vol. VIII, parr. 570-600.
45
Dodds, op. cit., p. 79 e nota 1; cfr. G. Rosen, Madness in
Society, Routledge, London, 1968, pp. 77 sgg.
46
Schmidt, Typhoeus, Typhon, in Roscher, Lexikon, V, col.
1426.

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