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Pensare l'infosfera di Luciano

Floridi
Teoria Dell'informazione
Universita degli Studi Roma Tre
14 pag.

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Pensare l’Infosfera: La filosofia come design concettuale

Capitolo 1: Che cosa è una domanda filosofica?


La Filosofia altro non è che la passione per il sapere e per il capire. L’obiettivo di Floridi è comprendere la
natura stessa della Filosofia e il metodo filosofico che è alla base di essa al giorno d’oggi. Di fatto, siamo di
fronte a una riflessione filosofica sulla filosofia stessa. Fare una “buona filosofia” significa anzitutto saper
fare domande giuste al momento giusto e saper offrire, in risposta ad esse, risposte corrette. Per riprendere le
parole di Kant, diremmo che “fare filosofia” equivale a “sapere aude”, ma anche a “quaerere et sapere
aude”.
Al pari di un computer, che col tempo necessita di essere periodicamente riavviato per poter mantenere
prestazioni accettabili ed evitare di imbattersi in inutili “perdite di memoria”, anche la Filosofia, al giorno
d’oggi, ha la necessità di riavviarsi: il mondo potrebbe stare attraversando una rivoluzione (ricordiamo che la
rivoluzione digitale è ancora in atto), ma il discorso filosofico potrebbe rimanerne distaccato o addirittura
all’oscuro. Un suo riavvio, in tal senso, appare inevitabile quanto strettamente necessario. Le tecnologie
digitali non solo modificano il modo in cui interagiamo col mondo, bensì ci aprono nuovi orizzonti sul modo
in cui lo comprendiamo e ci rapportiamo con esso, così come il modo in cui ci concepiamo e interagiamo tra
noi.
Sono sostanzialmente tre, ci dice Floridi, le rivoluzioni che, attraversando secoli di storia, hanno modificato
il nostro bagaglio culturale, influenzando il nostro modo di confrontarci col mondo circostante e di porci
continuamente domande, in altre parole di “fare filosofia”:
1) La Rivoluzione copernicana, a seguito della quale la cosmologia eliocentrica ha rimosso la Terra e
dunque l’umanità dal centro dell’Universo;
2) La Rivoluzione darwiniana, la quale ha mostrato come tutte le specie animali, compreso l’uomo, si
siano evolute nel corso del tempo da progenitori comuni attraverso la selezione naturale,
spodestando di fatto l’umanità dal centro del regno biologico;
3) La Rivoluzione digitale, ancora in atto, la quale, con l’invenzione dei primi computer negli anni
Cinquanta del secolo scorso e con – soprattutto – l’invenzione di Internet, ha permesso un radicale
mutamento nella concezione di chi siamo, facendoci capire che non siamo entità isolate, quanto
piuttosto agenti informazionali interconnessi, che condividono un ambiente globale costituito da
informazioni che chiamiamo infosfera. Se gli eroi delle prime due rivoluzioni furono rispettivamente
Copernico, Galilei e Darwin, Freud, l’eroe della terza rivoluzione è senza dubbio Alan Turing.
Ci troviamo sul punto di affrontare, ci dice lo stesso Floridi, una “quarta rivoluzione”, durante la quale il
nostro comportamento intelligente si trova chiamato a confrontarsi con quello di artefatti ingegneristici che si
adattano in modo sempre più efficace e articolato alle dinamiche dell’infosfera. Il tema centrale che sembra
animare la ricerca filosofica in merito alla “quarta rivoluzione” che si profila all’orizzonte risiede proprio
nell’indagine inesauribile dei possibili risvolti che le tecnologie dell’informazione e l’IA possono assumere
in un futuro più o meno lontano.
Torniamo al rebooted di cui, abbiamo detto, necessita la Filosofia. Una volta riavviata, occorre chiedersi: che
cos’è una domanda filosofica?
Partiamo, per rispondere a questo complesso ma apparentemente semplice quesito, dall’analisi di un testo
pubblicato nel 1912 da Russell, dal titolo I problemi della filosofia: in questo breve testo, Russell dichiara
esplicitamente di volersi concentrare maggiormente sulle domande di natura epistemologica, relative quindi
alla natura della conoscenza, piuttosto che sulle domande di natura metafisica, relative alla natura della
realtà.

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Di fatto, nel corso della sua dissertazione filosofica, Russell propone una serie di “domande fondamentali”,
di cui Floridi si ripropone di fornire un’interpretazione in cui:
I. Non si distinguono problemi filosofici e domande filosofiche, considerando queste ultime come
formulazioni linguistiche dei primi;
II. Si distinguono, invece, domande e risposte filosofiche da domande e risposte dei filosofi,
intendendo queste ultime come “casi degenerati” delle prime;
III. Si condivide la posizione di Russell, per cui all’analisi delle domande deve seguire un’adeguata
sintesi delle risposte.
Le domande – aggiunge Floridi – possono essere analizzate sotto numerosi punti di vista: ci si può
concentrare sulla loro morfologia e definirle, in relazione ad essa, filosofiche o esistenziali, ad esempio.
Domande del tipo: Che cos’è la verità? Chi sono? Dio esiste? Ci può essere Giustizia? Rappresentano
domande filosofico-esistenziali di natura socratica, in ragione della forma classica del “tì esti…” alla quale si
riferiscono. Di fatto, ad una più attenta analisi, vediamo come la specificità filosofica delle domande
socratiche risiede nei loro temi, in ciò che esse trattano piuttosto che nella loro morfologia.
Per estensione possiamo dire che esse affrontano temi e contenuti intrinsecamente filosofici dai quali anche
le domande rilevanti suscitate acquistano valenza filosofica. Due fattori fondamentali nella loro definizione,
oltre ai contenuti filosofici che le qualificano, sono l’ambito e la rilevanza che esse assumono. Per lungo
tempo, un approccio filosofico che combinasse morfologia, semantica, ambito e rilevanza è stato al servizio
di secoli e secoli di dissertazione filosofica. In questo senso, Floridi si ripropone l’obiettivo di proporci un
ulteriore approccio possibile, che possa aiutarci meglio a chiarire cosa siano e cosa non siano le domande
filosofiche oggi.
Tale approccio, ci dice Floridi, sembra esserci suggerito dal funzionamento stesso di una Macchina di
Turing: così come Turing ci ha fornito una chiara analisi di che cosa sia un algoritmo, allo stesso modo
Floridi propone un approccio investigativo che tenga conto della complessità di tutti i problemi
computazionali, esaminando la quantità e la qualità delle risorse necessarie per risolverli. Ciò richiede,
ovviamente, di considerare la quantità di tempo o di spazio richiesta.
In tal senso, l’approccio orientato alle risorse ci permette di studiare le domande filosofiche considerando e
quantificando le risorse richieste per fornire loro risposta. Secondo Floridi, in altre parole, la natura dei
problemi può essere studiata concentrandosi sul genere di risorse richieste in linea di principio per risolverli.
A questo punto, in base a tale tipo di approccio, possiamo definire tre tipi di domanda:
1) Domande empiriche, che richiedono cioè risposte empiriche, basate sull’esperienza;
2) Domande logico-matematiche, che richiedono cioè informazioni logico-matematiche come
risposta;
3) Domande che non sono né empiriche né logico-matematiche, oppure che sono una
combinazione delle due tipologie.
Le prime due tipologie sono domande chiuse in linea di principio, mentre le domande filosofiche, che
spesso rientrano nella terza tipologia, sono domande aperte in linea di principio. Le domande filosofiche
sono domande alle quali è impossibile rispondere in chiave empirica o logico-matematica per mezzo di
osservazioni o calcoli; sono in linea di principio aperte in quanto risultano aperte al disaccordo informato,
razionale e onesto, anche dopo aver fornito delle risposte. Di fatto, le domande filosofiche, in quanto aperte
al disaccordo, si pongono a metà strada tra le domande empiriche e logico-matematiche e i puri “sofismi e
illusioni”. È evidente, d’altra parte, come ci sia ampio margine tra questi due estremi opposti.
A questo punto è arrivato il momento di difendere la natura aperta delle domande filosofiche da quattro
differenti obiezioni. Consideriamo la prima:
“Non ci sono domande aperte”

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Se infatti si accetta in linea di principio che sia possibile rispondere alle domande solo facendo ricorso a
informazioni empiriche o logico-matematiche, ne consegue allora che tutto il resto sia solo confusione da
ridurre o astrusità da eliminare. Questo sembrerebbe essere il destino di tutti i problemi filosofici: alcuni
scompariranno, altri dimostreranno di essere semplici interrogativi scientifici camuffati. È questo il
cosiddetto “incendio à la Hume”, proprio degli scettici. L’idea stessa di filosofia come dissoluzione dei
propri problemi come pseudo-problemi è stata ripresa anche dal noto fisico e matematico Stephen Hawking.
Di fatto, l’idea sostenuta da Hawking, per cui per secoli questioni “chiuse” erano state delegate al campo di
indagine proprio della filosofia, salvo poi essere affrontate dagli sviluppi inevitabili della scienza, ci serve
per rispondere alla prima obiezione: se riteniamo, infatti, le domande filosofiche come domande chiuse,
allora la filosofia è morta da un pezzo – ci dice Floridi – poiché ha delegato il compito di rispondere a tali
domande a una forma di indagine che possa offrire le corrette risorse empiriche e logico-matematiche, vale a
dire la scienza.
Ma è evidente che, nella sua essenza, qualsiasi domanda filosofica sia aperta al disaccordo informato,
razionale e onesto: anche la stessa domanda “Che cos’è la filosofia?” appare, in questi termini, una domanda
filosofica. Chiedersi se esistano domande autenticamente aperte è di per sé una domanda filosofica in quanto
aperta. Porre domande è un processo che si alimenta da sé e che prima o poi finisce per sfociare nella
filosofia. L’auto-riflessività risulta essere l’arma migliore di cui disponiamo per rispondere alla prima
obiezione.
Le domande filosofiche sono aperte in linea di principio al disaccordo informato, razionale e onesto, come
abbiamo visto. Esse, però, sono altrettanto chiuse in relazioni a ulteriori domande. L’insieme delle
domande empiriche o logico-matematiche, invece, risulta chiuso al disaccordo e aperto in relazione a
ulteriori domande.
A questo punto subentra la seconda obiezione: se le domande filosofiche sono aperte dal punto di vista delle
risorse richieste per soddisfarle, ma chiuse rispetto a ulteriori quesiti, allora si potrebbe dire che ci troviamo
di fronte ad un’inflazione di domande filosofiche, in altre parole:
“Ci sono troppe domande aperte”
Troppe domande sarebbero quindi considerate filosofiche dal momento che sono aperte. Tuttavia, è possibile
argomentare sostenendo a ragione che una domanda non è filosofica semplicemente a causa del suo
argomento: le domande non devono essere intellettuali, difficili o profonde per essere filosofiche. Questo è
un pregiudizio culturale. Le domande filosofiche, al pari di quelle empiriche e logico-matematiche, sono
caratterizzate da una grande varietà di livelli differenti di valore, importanza, serietà, rilevanza ecc.
D’altra parte, sarebbe un errore pensare che le domande fondamentali o ultime siano domande che appaiono
prima o dopo nel tempo, all’inizio quindi o alla fine di una serie di domande. Le domande ultime, che
coincidono con quelle prettamente filosofiche, sono quelle domande le cui risposte sono più determinanti
nella capacità di generare una cascata di ulteriori domande e risposte ad altre domande nella rete. Esse sono
considerate come attrattori, nell’accezione della teoria dei sistemi: domande e risposte meno importanti nel
sistema di domande tendono nel tempo a evolvere verso domande ultime.
Possiamo quindi definire ora le domande filosofiche come domande aperte al disaccordo informato,
razionale e onesto, ultime – nel senso che sono più determinanti nel generare molteplici domande (e
risposte) a partire da esse – e chiuse in relazione a ulteriori interrogazioni.
Ecco allora che sorge la terza obiezione: essa riguarda le risorse disponibili per rispondere alle suddette
domande filosofiche. In altre parole:
“Non si può rispondere alle domande aperte”
Occorre in tal senso notare che le domande filosofiche possono consistere in dubbi filosofici. Per risolverli,
le sole risorse disponibili sono dichiarate insufficienti. In altri termini, diciamo che non possiamo rispondere

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a domande sulla natura della cosa in sé. La conclusione è che le domande filosofiche restano aperte poiché in
linea di principio non vi è un modo per fornire loro risposta, dato che non disponiamo delle risorse
informazionali adeguate. Si potrebbe pensare che non sia possibile rispondere alle domande aperte in quanto
ogni risposta va bene, il che implica che non vi sia alcuna risposta veramente corretta. Tuttavia, se le
domande filosofiche – in quanto aperte al disaccordo – fossero tali, la Filosofia di per sé sarebbe impossibile,
ma la Filosofia sappiamo che è possibile eccome.
Occorre quindi sottolineare un presupposto fondamentale per aggirare il nodo dell’obiezione che gli scettici
muovono nei confronti delle domande filosofiche: affermare, cioè, che “la Filosofia è realmente interessata
alla realtà, ma non per scoprire fatti nuovi intorno ad essa, quanto per migliorare la comprensione di quel che
già sappiamo.” [Dummett]
La Filosofia così intesa deve implicitamente delegare ad altre discipline il compito di produrre gli elementi
da analizzare e indagare, ponendo in un flusso potenzialmente inesauribile domande filosofiche intorno ad
essi.
Di fatto, spesso rispondiamo di default alle nostre domande filosofiche, magari solo implicitamente o in
modo acritico, attraverso le nostre pratiche quotidiane, le nostre scelte, i nostri stili di vita, le nostre credenze
e convinzioni. Le risorse che in questo caso vengono adottate per rispondere a domande filosofiche che
hanno il solo compito di aiutarci a comprendere meglio ciò che già sappiamo includono il proprio retroterra
culturale, il linguaggio, la religione, l’arte, le pratiche sociali, i ricordi del passato, le aspettative riguardo al
futuro, la propria intelligenza emotiva e le esperienze trascorse. Tutto ciò altro non è che il complesso delle
nostre risorse noetiche, le uniche in grado di fornire risposta a risorse empiriche e logico-matematiche che
hanno il compito di delimitare lo spazio in cui vengono formulate le domande filosofiche.
Inevitabilmente, con il mondo che diventa, a mano a mano, più complicato, investito dalla rivoluzione
digitale e dalla “quarta rivoluzione” dell’infosfera, anche le domande filosofiche sono aumentate, e con esse
si è ampliato lo spazio che divide l’empirico e il logico-matematico: siamo di fronte a domande che nascono
a partire dalla nascita e dallo sviluppo di nuove scienze (es. le neuroscienze), di nuove sfide (dalla privacy
all’ambiente) e di paradigmi culturali più inclusivi (dalla secolarizzazione al multiculturalismo).
Possiamo ora affinare ulteriormente la nostra definizione di domanda filosofica:
Una domanda filosofica è una domanda aperta al disaccordo informato, razionale e onesto, ultima, nel
senso che essa è più determinante per generare nuove domande e risposte, chiusa in relazione a ulteriori
interrogazioni, delimitata da risorse empiriche e logico-matematiche tali da richiedere risorse noetiche
per ricevere risposte.
Consideriamo ora un’ultima obiezione. Essa riguarda il contesto all’interno del quale le domande filosofiche
vengono formulate. In altre parole, si considerano “cattive” domande filosofiche tutte quelle domande che
vengono formulate nel contesto o per lo scopo sbagliati. Di qui la quarta e ultima obiezione:
“Le domande aperte sono indiscriminate”
Possiamo risolvere tale assunto dicendo che tutte quelle domande filosofiche che consideriamo “cattive” o
sbagliate sono quelle domande assolute, vale a dire tutte quelle domande che sono state formulate senza il
minimo riguardo nei confronti del Livello di Astrazione (LdA), il contesto al quale diventa possibile fornire
loro risposta. Il tentativo di cercare qualcosa di incondizionato equivale al naturale, ma profondamente
sbagliato, tentativo di analizzare un sistema – come la realtà in sé per Kant – indipendentemente da qualsiasi
specificazione del LdA al quale l’analisi è svolta.
In tal senso, i dibattiti filosofici appaiono spesso generati dalla mancanza o dall’incomprensione del corretto
LdA al quale le domande aperte dovrebbero essere formulate.
Possiamo ora – finalmente – fornire la definizione completa di ciò che Floridi ritiene essere, ad oggi, una
domanda filosofica:

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Una domanda filosofica è una domanda aperta al disaccordo informato, razionale e onesto, ultima, nel
senso che essa è determinante per generare nuove domande e risposte, chiusa in relazione a ulteriori
interrogazioni, delimitata da risorse empiriche e logico-matematiche tali da richiedere risorse noetiche
per ricevere risposte al corretto livello di astrazione.
A questo punto appare inevitabile constatare come un tempo molte domande che ora giudichiamo
scientifiche, vale a dire chiuse al disaccordo, erano un tempo considerate domande filosofiche: la Filosofia è
stata fonte di nuove e rinnovate domande aperte generate dalla storia dell’umanità, dal suo sviluppo, dalle
sue scoperte o invenzioni, da nuovi artefatti semantici o da nuove risposte a domande empiriche o logico-
matematiche e così via. La Filosofia è come un cuore pulsante che attraversa un ciclo di sistole e diastole, di
contrazioni e dilatazioni, di deleghe e nuove assunzioni di problemi e soluzioni. Essa opera secondo cicli,
piuttosto che in linea retta. La sua evoluzione è misurata in base al numero di risposte accumulate a domande
aperte, risposte che per loro stessa natura restano aperte a un ragionevole disaccordo.
È quindi opportuno concepire la Filosofia come uno studio tempestivo e non senza tempo delle domande
aperte. Essa necessita di interagire con problemi aperti, rimanendo attenta a non perdere di vista la loro
rilevanza nel lungo periodo e il loro orientamento verso scopi specifici.
Attraverso la storia, la Filosofia ha progressivamente identificato classi di problemi empirici e logico-
matematici e domande chiuse, e ha pertanto delegato a nuove discipline la loro disamina.
In Filosofia non occorre verificare né calcolare. Essa “non fa osservazioni sue proprie né conduce
esperimenti autonomi”. [Dummett] Il suo metodo è il design concettuale, vale a dire l’arte di identificare e
chiarire le domande aperte e disegnare, proporre e valutare risposte convincenti e chiarificatrici.

Capitolo 2: Che cosa è una risposta filosofica?


Partiamo col definire cosa sia un “livello di astrazione”: dobbiamo partire dicendo che una sua corretta
definizione, innanzitutto, gioca un ruolo chiave nella gestione di qualsiasi processo informativo e dunque del
modo in cui sviluppiamo la nostra filosofia dell’informazione, ivi compresa la nostra etica dell’informazione.
Cos’è essenzialmente un LdA?
Il metodo dei livelli di astrazione (o più semplicemente metodo di astrazione) proviene dalla
modellizzazione della scienza, dove le variabili presenti in un modello corrispondono agli osservabili nella
realtà.
Per questo, definiamo un LdA come un insieme di variabili-osservabili, ciascuno con un proprio definito
insieme di valori o risultati. Ciascun LdA, in questo modo, rende possibile una determinata analisi –
prendendo quindi in considerazione determinate variabili e i corrispondenti osservabili nella realtà – di un
sistema. I risultati di tale analisi costituiscono il modello del sistema. Chiaramente, un sistema può essere
descritto sulla base di molteplici LdA, e quindi può possedere uno spettro di differenti modelli.
Come detto un LdA è un insieme di variabili. In particolar modo, esso è un insieme di variabili tipizzate,
ovvero di variabili – simboli che possono stare in un luogo di un referente sconosciuto o mutevole – che
possono contenere soltanto una determinata tipologia di dati. Gli osservabili, che in qualsiasi LdA corretto
corrispondono alle variabili che lo costituiscono, altro non sono che variabili tipizzate interpretate, vale a
dire considerate unitamente all’affermazione di quale siano le caratteristiche del sistema che esse
rappresentano.
Possiamo quindi ora fornire una definizione più completa di LdA: un insieme di variabili tipizzate,
contenenti cioè solo una determinata tipologia di dati, interpretate sotto forma di osservabili nella
realtà. Un insieme di LdA, a sua volta, costituisce un’interfaccia.
Variabili  Variabili tipizzate  Variabili tipizzate interpretate = Osservabili  LdA (+LdA)  Interfaccia

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Il metodo di astrazione consisterebbe quindi nel formalizzare il modello di analisi del sistema adottando i
termini appena introdotti. Ovviamente, i LdA possono essere intrecciati, separati o sovrapposti. Un caso
particolare è quello in cui un LdA ne include al suo interno un altro. La chiara indicazione del livello di
astrazione, oltre a qualificare il livello (e quindi le variabili e gli osservabili considerati) al quale un sistema
viene analizzato evita possibili fraintendimenti che possono incorrere all’interno del dibattito filosofico e
inoltre consente e ammette il pluralismo senza precipitare nel relativismo.
Possiamo sintetizzare dicendo che un LdA, con l’insieme dei risultati (e quindi il modello) che esso produce
durante l’analisi di un sistema, ci fornisce un quadro delle proprietà che il sistema soddisfa a quel livello di
astrazione. Ciò significa che alcune di queste proprietà mutano valore. Ogni mutamento nel sistema
corrisponde così a un mutamento di stati, e viceversa. Quanto più basso è il livello di astrazione, tanto più
dettagliati sono i mutamenti osservati e tanto più elevato è il numero degli elementi dello stato richiesti per
esprimere il mutamento. Ogni mutamento corrisponde a una transizione da uno stato ad un altro, transizione
che può essere deterministica o non-deterministica.
Un sistema di transizioni comprende quindi un insieme (non vuoto) S di stati e una famiglia di operazioni,
chiamate transizioni su S. Ogni transizione può ricevere input e produrre output ma, in ciascun caso, porta il
sistema da uno stato ad un altro, formando una relazione su S. Tale transizione può essere influenzata
dall’ambiente, e allora la chiameremo esterna, o non esserlo, e in quel caso la chiameremo interna.
Ovviamente, la transizione su S che modella il sistema dipende direttamente dal LdA scelto.
Possiamo ora definire, sulla base dei concetti definiti in precedenza di LdA, di modello e di sistema, cosa si
intenda per teoria in filosofia dell’informazione: una teoria comprende almeno un LdA e un modello. Il
LdA consente alla teoria di analizzare il sistema in esame generando un modello (insieme di risultati
generati dalle variabili tipizzate del LdA), in grado a sua volta di identificare alcune proprietà del
sistema a un dato LdA.
LdA  genera  Modello  che identifica  Proprietà  attribuite al  Sistema = Teoria
Una teoria impegna sé stessa ontologicamente attraverso la scelta di un determinato LdA; allo stesso tempo,
adottando un LdA, una teoria impegna sé stessa all’esistenza di determinati tipi di osservabili che
caratterizzano il sistema e che costituiscono il LdA di partenza. Attraverso il modello, invece, la teoria
impegna sé stessa all’esistenza dei corrispondenti esemplari (manifestazioni) degli osservabili considerati.
Applichiamo ora i criteri ontologici di LdA, di modello di astrazione, di sistema e questa idea ciclica di
teoria che ne deriva per considerare due temi cruciali per la filosofia dell’informazione: il tema della
presenza nello spazio (la telepresenza) e nel tempo (identità diacronica).
Anzitutto, osserviamo come alcuni dei temi classici della filosofia tradizionale possono essere ripensati in
termini di telepresenza: gli esempi includono l’azione a distanza, la semantica dei mondi possibili, compresi
come disponibilità e accessibilità di spazi differenti da quello reale; la tensione tra apparenza e realtà e le
conseguenti sfide scettiche; il problema mente-corpo ecc. La presenza è, d’altra parte, un fenomeno
polimorfico e un concetto polisemantico. La tradizionale concezione di presenza è ben conosciuta a partire
dai lavori di Lombard e Ditton (1997), e si compone di tre fondamentali passaggi:
1) La presenza viene ridotta a un particolare tipo di percezione;
2) Il tipo di percezione viene specificato cognitivamente come un determinato tipo di esperienza;
3) Il determinato tipo di esperienza viene qualificato semanticamente come una percezione di contenuti
che non riesce a essere al contempo una percezione della propria natura tecnologicamente
mediata.
Ci si può riferire a 1-3 nei termini di un modello della presenza inteso come fallimento epistemico. Le radici
del modello FE sono filosoficamente cartesiane e culturalmente mass-mediatiche. Il carattere cartesiano del
modello lo si evince dalla sua volontà di intendere la presenza in termini epistemici, mentre la sua mass-
medialità ne rappresenta una diretta conseguenza. Di fatto, il modello del fallimento epistemico promuove
una comprensione della presenza in quanto fallimento cartesiano nel riconoscere la natura

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tecnologicamente mediata delle esperienze fatte da un agente epistemico. Esso finisce per catalogare
come presenza una molteplicità di fenomeni radicalmente differenti altrimenti ampliamente irrelati, finendo
per fornirci una tensione irrisolta tra la comprensione soggettiva del singolo e la comprensione sociale della
presenza. Viene automatico chiedersi a questo punto: la telepresenza è un’esperienza personale e privata
oppure qualcosa reso possibile solo attraverso l’interazione sociale?
Vediamo ora i limiti di tale modello di telepresenza: innanzitutto, adottando una prospettiva antropocentrica,
tipicamente cartesiana, il modello non prende in esame l’analisi dei casi di presenza di agenti artificiali.
Inoltre, il modello FE offre una comprensione meramente negativa della presenza, e ciò è destinato a
risultare insoddisfacente: non basta definire la “destra” come “non-sinistra”, come “destra” inteso in termini
negativi, per comprendere cosa sia realmente “destra”. Per lo stesso motivo, il modello FE non può definire
propriamente l’assenza.
Proprio puntando l’attenzione sull’assenza, però, possiamo acquisire una prospettiva migliore sulla presenza
e pertanto guadagnare una posizione privilegiata per inquadrare importanti questioni etiche. Da questo
momento in poi il metodo dei livelli di astrazione entra in scena in quanto strumento essenziale per i nostri
scopi.
Concentrarsi sull’assenza ha l’immediato vantaggio di chiarire che parlare di presenza in mancanza di
riferimenti è totalmente privo di senso. Qualcosa è presente solo in relazione a un osservatore e soltanto a un
certo livello di astrazione. Attraverso un LdA, inteso come un’interfaccia dinamica, l’osservatore ha accesso
all’ambiente. In questo modo, la presenza di determinati elementi a, b e c in un dato spazio di osservazione è
riscontrabile soltanto individuando la loro presenza all’interno degli spazi di astrazione creati dai differenti
LdA adottati. In questo caso, diremo che a, b e c sono presenti in un dato spazio di osservazione (e quindi in
dati spazi di astrazione) solo e solo se essi sono:
1) Fonti dinamiche di azione/interazione o cambiamento;
2) Portatori statici di proprietà;
3) Entrambe le cose, 1) e 2).
In questo modo, attraverso tale modello che chiameremo modello dell’osservazione riuscita, consideriamo
la presenza alla stregua del valore di una variabile tipizzata di un LdA. Naturalmente, essere assenti è non
essere in alcun modo tale valore.
Estendiamo ora il campo di analisi del modello dell’osservazione riuscita alla telepresenza: in questo caso
i due spazi di astrazione, generati da LdA1 e LdA2, andranno contenuti rispettivamente in uno spazio locale
di osservazione (SLO) e in uno spazio remoto di osservazione (SRO).
Diremo quindi che:
Una x osservabile a un dato LdA in uno spazio locale di osservazione (SLO) è anche telepresente in
uno spazio remoto di osservazione (SRO) se e solo se x è anche osservabile in (SRO) a un dato LdA.
Si noti che, in questo caso, SLO e SRO devono essere differenti. Attraverso il modello dell’osservazione
riuscita abbiamo quindi a disposizione un netto criterio di demarcazione tra ciò che conta e ciò che non
conta come telepresenza. Tale modello, oltre ad introdurre, dopo aver correttamente definito cosa sia
telepresente e cosa no, numerosi strumenti concettuali per definire la telepresenza, ci offre lo spunto per
trattare due importanti questioni etiche legate alla filosofia dell’informazione, quali la pornografia virtuale e
la privacy informazionale.
Al giorno d’oggi, siamo posti a confronto con un nuovo contesto etico, in cui teleagenti e telepazienti
interagiscono in ambienti conformati in modo tecnologico. I nuovi scenari ci chiedono di creare un nuovo
strumentario concettuale. Ad esempio, dobbiamo partire dal considerare che, per quanto riguarda il campo
della pornografia virtuale, gli attuali agenti artificiali di conversazione erotica non sono fantascienza. Parte
del successo dei mondi virtuali online è certamente legato alla loro pornografia interattiva. Questo, è
evidente, ci sta obbligando a riconsiderare i nostri assunti etici consolidati. Adottando un LdA rivolto al

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paziente – piuttosto che all’agente – appare evidente come il fatto che gli enti con cui l’agente interagisce
siano virtuali diventi irrilevante; al contempo, tale prospettiva ci permetterebbe di capire meglio come un
livello crescente di interazione renda ancora più probabile e seria la tendenza della pornografia virtuale a
“traviare e corrompere” l’utente.
Ad ogni modo, è opportuno ora fare una precisazione in merito al modello dell’osservazione riuscita
esaminato: rendere uno spazio remoto (di osservazione) disponibile dal punto di vista epistemico in chiave
locale è differente dall’essere presenti in quello spazio remoto (di osservazione) come enti. Tale problema
inerente alla tele-epistemica risiede nell’erronea confusione tra: l’osservazione di successo di x non solo in
SLO, ma anche in SRO, da parte di uno stesso LdA; l’osservazione di successo di x in SLO da parte di
qualche y che è presente in SRO. Dobbiamo quindi guardarci bene dal non confondere la tele-epistemica
con la telepresenza.
Arriviamo ora all’analisi della seconda questione etica di rilevanza nell’ambito della filosofia
dell’informazione: il concetto di privacy informazionale. Essa viene ancora oggi discussa in chiave
topologica, vale a dire in termini di spazi. Il diritto alla privacy informazionale può essere inteso come un
diritto esclusivo alla proprietà e all’utilizzo delle proprie informazioni, in altre parole la proprietà di uno
spazio informazionale. Da ciò discende la concezione metaforica della violazione della privacy
informazionale come violazione di domicilio. La privacy viene così intesa come la protezione dell’unicità e
dell’identità personali. Viene abbattuta l’incongruenza tra spazi privati e pubblici: l’osservato aspira a
conservare la propria integrità di ente informazionale anche quando si trova in uno spazio interamente
pubblico.
In conclusione, possiamo considerare la pornografia virtuale come una presenza anteriore: in questo caso un
ente è presente anteriormente in uno spazio remoto in quanto osservato con successo a un determinato LdA
in SRO. Consideriamo, invece, il caso della privacy informazionale come una presenza posteriore: un ente è
presente posteriormente in uno spazio locale se è osservato con successo da un determinato LdA in SLO.
Affrontiamo per ultimo un ulteriore tema classico della filosofia, in termini di astrazione: l’identità
diacronica, ovvero un tipo particolare di presenza nel tempo. Il tema riguardante l’ identità diacronica si
intreccia inevitabilmente, nel contesto della rivoluzione digitale e dell’informazione, con alcuni problemi
classici riguardanti l’identità personale. Viene inevitabile da chiedersi: siamo gli stessi online rispetto a
quelle che sono le nostre identità nel mondo reale? La libertà di costruire le nostre identità personali
online non è più libertà di anonimato resa nota dalla celebre striscia umoristica di Peter Steiner, in cui un
cane, scrivendo un’e-mail al computer, confessa a un altro cane che “in Internet, nessuno sa che sei un cane”.
Oggi, se uno agisce o è un cane, probabilmente Facebook, Google, o quantomeno qualche agenzia di
sicurezza ne è al corrente. Milioni di persone ci guardano online. Possiamo fare del nostro meglio, però, per
mostrare agli altri chi potremmo o vorremmo essere: in tal senso l’esperienza onlife è un po’ come la
“creazione del pensiero degli altri”, ma con noi come coautori. La vita umana sta diventando sempre più una
questione di esperienza onlife, la quale ridefinisce limiti e opportunità nello sviluppo delle nostre identità,
nella loro presa di consapevolezza e nella loro comprensione sia personale che collettiva. Ovviamente, se si
vuole affrontare il tema relativo alle questioni inerenti all’identità onlife occorre ancora una volta specificare
l’interfaccia (LdA) rilevante necessaria per risolvere tali questioni. Le domande relative all’identità
attraverso il tempo e circostanze differenti sono domande orientate a un fine: fintantoché tali domande
saranno poste in termini assoluti, non meriteranno di certo di essere prese sul serio.

Capitolo 3: La filosofia come design concettuale


Nella storia della Filosofia vi sono alcuni crocevia critici: uno di questi è rappresentato dal dogma platonico,
attraverso la cui formulazione il filosofo greco mise in atto una vera e propria distinzione tra episteme
(conoscenza teorica) e techné (conoscenza pratica), insistendo così nel fondare la nostra comprensione della
conoscenza umana su un approccio orientato all’utente, favorendo in ultima istanza una ricezione passiva
e mimetica dell’informazione. Ovviamente, questa concezione filosofica della conoscenza ha finito per

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influenzare per secoli il lavoro epistemologico. Oggigiorno, riscontriamo che in molti ambiti accademici si
accettano, come impostazione predefinita, il primato della conoscenza-che sulla conoscenza-di o sulla
conoscenza-come, della teoria sulla pratica; il dogma platonico ha poi trovato come alleata quella
percezione del mondo basata sul what you see is what you get (WYSIWYG) “ciò che vedi è ciò che ottieni”,
e in parte dal fatto che lo stesso dogma platonico abbia dato forma al quadro in cui si è sviluppata
un’ulteriore riflessione sulla natura della conoscenza. Episteme e techné non hanno ancora, ad oggi, celebrato
un vero e proprio matrimonio filosofico, nonostante la rivoluzione scientifica le abbia rese quantomeno
“amanti”. Evidentemente ogni utente che abbia mai avvertito il bisogno di saperne di più di una tecnologia
senza limitarsi al suo utilizzo, senza limitarsi – come direbbe Platone – alla sua “fruizione passiva”, in breve
chiunque sia coinvolto nell’attività di creare, perfezionare, trasmettere o acquisire informazioni deve aver
recepito, a un certo punto, che le nostre intuizioni più profonde sulla natura della realtà risiedono nelle nostre
interazioni pratiche e creative con la realtà stessa. Occorre in tal senso abbandonare la prospettiva passiva,
mimetica, orientata all’utente (passivo), riguardo al modo in cui generiamo la conoscenza del mondo, e
unire le nostre forze per favorire lo sviluppo di un approccio orientato al costruttore in filosofia
dell’informazione. Attenzione però: il nostro modello costruttivista dovrà prendere le distanze dall’idealismo
romantico e dal costruttivismo postmoderno; occorrerà essere radicalmente moderati: dobbiamo seguire e
identificare la via mediana, a metà strada tra il dogma platonico e il costruttivismo postmoderno,
perseguendo quella via che definisce la Filosofia come “design del mondo”. La conoscenza, in questo senso,
iscrive come il mondo sia. Tale radicale cambiamento di prospettiva, come detto, non può essere perseguito
da una sola persona: occorre istituire un movimento filosofico che abbracci il trascendentalismo di Kant e il
pragmatismo di Peirce per istituire poi un nuovo modello costruttivista per la filosofia dell’informazione.
Per Platone esistono tre arti per ogni tipo di artefatto: quella che ne fa uso (l’utente), quella che lo
realizzerà (il costruttore) e quella che lo imiterà (il pittore). L’utente – nella proposta platonica –
costituisce il metro di misura nella valutazione dell’artefatto, per individuare le proprietà funzionali e le
caratteristiche d’uso. Il costruttore è ridotto a imitatore di prima classe del mondo delle idee, a imitatore
primo della creazione di Dio. La linea netta di demarcazione tra utenti e costruttori ha permesso allo stesso
Platone di tracciare un definitivo distacco tra buoni e cattivi, tra filosofi e sofisti.
Evidentemente, la concezione platonica di netta divisione tra conoscenza di fruizione e conoscenza di
costruzione appare, al giorno d’oggi, impropria e sbagliata: è difficile seguire Platone quando ritiene che gli
utenti conoscano il loro iPhone meglio della Apple, almeno senza aggiungere una serie di qualificazioni; così
come appare impossibile essere d’accordo con lui quando reputa che gli utenti di Wikipedia conoscano le
informazioni a cui hanno accesso meglio di coloro che le hanno effettivamente generate per primi.
In Platone sembra dunque che:
- Ciò che realmente conta sia soltanto il modo in cui l’informazione viene usata e sostenuta contro
il reale e autentico referente;
- Che il dogma della conoscenza dell’utente richieda:
1) Una forma di realismo esterno all’informazione;
2) Una qualche teoria che spieghi il nostro accesso potenzialmente privo di rumore di fondo di
tale informazione.
Domandiamoci ora: al giorno d’oggi, c’è una concreta alternativa alla filosofia dell’informazione
platonica?
La risposta è Sì. La concezione alternativa ci è offerta da una filosofia costruzionista dell’informazione.
Questa si basa sulla tradizione della conoscenza del costruttore, che a sua volta affonda le proprie radici in
alcuni filoni della filosofia aristotelico-scolastica. In tal senso, conoscere un fenomeno, un artefatto o, nel
nostro caso, conseguire un’informazione ed essere in grado di renderne conto significa essere capaci di
produrre e riprodurre tale fenomeno, artefatto o informazione, al fine di migliorarli. La mimesis,
l’imitazione, deve essere quindi sostituita dalla poiesis, dalla creazione di materiale informativo.

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Oggi è per noi possibile fare un passo in avanti rispetto alla concezione di conoscenza aristotelica: possiamo
intendere la conoscenza come la capacità di detenere l’informazione che le cose stiano in un certo modo e di
rendere conto del perché stiano in quel modo. Possiamo conoscere – così come sosteneva secoli fa lo stesso
Francis Bacon – in quanto soggetti epistemici, soltanto ciò che facciamo in quanto costruttori originari. Non
esiste alcun mondo delle idee. Il costruzionismo ritiene così che la conoscenza sia acquisita attraverso la
creazione del corretto genere di artefatti semantici o di modellizzazione dell’informazione. Anche Hobbes fu
dello stesso avviso di Bacon, per certi aspetti.
Abbiamo quindi delineato il punto di partenza per formulare una teoria costruzionista dell’informazione:
occorre ora comprendere come essa possa svilupparsi.
Innanzitutto, bisogna indicare quali siano i cardini di una filosofia costruzionista dell’informazione, in altre
parole, di una filosofia intesa come “design concettuale”. Essi sono:
1) Minimalismo;
2) Metodo dei livelli di astrazione;
3) Costruzionismo.
Un modello minimalista che considera l’informazione come un costrutto dell’utente delinea tre criteri per
orientare tale scelta:
I) Controllabilità;
II) Eseguibilità;
III) Prevedibilità.
Un modello minimalista è controllabile quando le sue caratteristiche possono essere deliberatamente
modificate; un modello minimalista è eseguibile solo se i suoi meccanismi concettuali possono essere
descritti; un modello minimalista è anche prevedibile solo se rispetta, in linea di principio, i due criteri
precedentemente descritti. Dati questi tre fondamentali criteri se ne aggiunge un altro, che conferisce
rilevanza al modello minimalista:
IV) Relazionalità.
Problemi e modelli non sono mai assolutamente minimalisti, ma sempre connessi con lo spazio del
problema sollevato dalla questione filosofica. Secondo l’approccio minimalista, la trattabilità di un
problema filosofico è funzione dei tre criteri sopra delineati. Il minimalismo può essere considerato una
questione di rapporti inferenziali e allo stesso tempo un metodo economico connesso con il rasoio di
Ockham, ma che non deve essere confuso con esso: quest’ultimo incrementa la chiarezza e l’eleganza,
mentre il minimalismo, con i suoi criteri di controllabilità, eseguibilità, prevedibilità e relazionalità offre i
presupposti per selezionare problemi e modelli (minimalisti) relativi a una specifica questione (filosofica). Il
minimalismo affonda quindi la sua definizione su due assunti fondamentali: il problema cui si cerca di
dare risposta secondo i criteri che abbiamo visto prima è collocato nello spazio, e al tempo stesso il modello
utilizzato per individuare una risposta a tale problema, sia esso concettuale, virtuale o fisico, è
preferibilmente dinamico.
Avendo già analizzato il metodo di analisi dei livelli di astrazione, passiamo a considerare il costruzionismo.
L’approccio costruzionista parte da due linee guida fondamentali e imprescindibili: occorre capire come
scegliere un problema da affrontare e delineare un metodo per osservarlo ed esaminarlo. Il costruzionismo si
pone al cuore dell’approccio orientato alla conoscenza del costruttore, anziché dell’utente. Al pari del
minimalismo e del metodo dei livelli di astrazione, anch’esso affonda le sue radici sia nella tradizione
filosofica, sia nelle teorie e pratiche computazionali.
Secondo la tradizione filosofica della conoscenza del costruttore:
1) Si può conoscere soltanto ciò che si costruisce, e pertanto
2) Non si può conoscere l’autentica natura della realtà in sé.

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Il metodo costruzionista, partendo da questi due assunti fondamentali, consta dei seguenti principi:
- Principio della conoscenza: soltanto ciò che può essere costruito può essere conosciuto;
- Principio della costruttibilità: le ipotesi di lavoro (ciò che non può essere direttamente costruito, e
quindi conosciuto) sono investigate da modelli concettuali basati su tali ipotesi;
- Principio della controllabilità: i modelli devono essere controllabili;
- Principio della conferma: qualsiasi conferma o confutazione dell’ipotesi concerne il modello, non il
sistema modellato;
- Principio di economia: quanto minori sono le risorse utilizzate nei modelli concettuali tanto meglio
è.
Il costruzionismo ci suggerisce che, data una teoria, questa viene eseguita e testata in un modello. Poiché si
costruisce un modello, si può anche controllarlo. Inoltre, è possibile fornire un numero infinito di modelli
con differenti strutture interne, pur ottenendo lo stesso comportamento. Da ciò deriva l’ultimo principio:
- Principio della dipendenza dal contesto: l’isomorfismo tra simulato e simulazione è soltanto
locale, non globale.
Dal punto di vista costruzionista, la conoscenza risulta essere un processo di modellizzazione, che dà forma
alla realtà per renderla intellegibile, entro un processo di costante revisione. A differenze delle teorie
mimetiche, estremamente dispendiose dal punto di vista ontologico, il modello costruzionista è economico,
in quanto cerca di impiegare il numero minore possibile di risorse in questo processo continuo e ininterrotto
di modellizzazione. Esso, inoltre, non afferma niente sulla realtà in sé, rendendo la possibilità di incorrere in
errori meno probabile.

Capitolo 4: Cinque lezioni filosofiche


Quando ci si approccia allo studio del lascito filosofico di Turing, ci si può imbattere in due rischi: da un
lato, quello di ridurlo al suo celebre test, dall’altro quello di diluirlo in una narrazione onnicomprensiva della
realtà. In entrambi i casi finiremmo per non identificare i contributi fondamentali lasciati in eredità da
Turing, i quali hanno senza dubbio influenzato il nostro discorso filosofico contemporaneo e possono tutt’ora
orientarne lo sviluppo futuro. Partendo dallo studio del contributo filosofico fornito da Turing, possiamo
definire:
1) Il modo in cui il lavoro di Turing sul metodo dei livelli di astrazione può insegnarci a porre
domande filosofiche;
2) Quali sono, oggi, le domande filosofiche più urgenti;
3) L’influenza di Turing nel dare forma alla nostra nuova antropologia filosofica, quella che è stata in
precedenza definita come quarta rivoluzione.
La quarta rivoluzione riguarda dunque il settore della filosofia che si occupa di investigare la natura
concettuale e i principi base dell’informazione, inclusi dinamica, utilizzo e forme di sapere di questa, e
dell’elaborazione e applicazione delle metodologie computazionali e basate sull’informazione ai problemi
filosofici.
Partiamo ora dal primo punto: occorre innanzitutto fissare il livello di astrazione, ovvero stabilire come
porre domande filosofiche.
Turing è stato il primo a capire l’importanza cruciale di esprimere il corretto LdA a cui le domande
(filosofiche) in questione possono e devono essere poste. C’è voluto il genio di Turing per portare alla luce la
necessità di essere chiari, nel formulare domande, circa il proprio livello di astrazione adottato. Il suo
contributo è stato essenzialmente quello di rendere chiaro come anche le domande filosofiche e concettuali
possano ricevere risposta solo fissando il LdA a cui avrebbe senso ricevere risposta. Ciò è riscontrabile ed è
uno dei più durevoli e significativi contributi forniti dal suo celebre test (Test di Turing).

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Il secondo punto è il seguente: occorre concentrarsi sui problemi più importanti, ovvero stabilire quali
domande filosofiche porre.
La filosofia, intesa come design concettuale, potrebbe e anzi dovrebbe rivelarsi estremamente utile per poter
affrontare i problemi oggigiorno più urgenti, permettendo così di forgiare nuove idee, teorie, prospettive e,
più in generale, la cornice intellettuale (frame) che può essere usata per comprendere e gestire le questioni
di fondo che risultano, ad oggi più pressanti. Quali idee, teorie, prospettive e, più in generale, quale cornice
intellettuale (frame) dovrebbero disegnare i filosofi nel presente e nell’immediato futuro? E ancora, quali
questioni filosofiche dovrebbero affrontare? La risposta a queste domande sarebbe impossibile senza il
lascito di Turing, poiché esso ordisce la trama concettuale a cui si intessono i nostri problemi più importanti
e urgenti. Nella società dell’informazione globale, la maggior parte delle sfide cruciali è legata alle
tecnologie dell’informazione e della comunicazione: viviamo, in questo senso, all’interno di un’infosfera
nella quale, dietro i problemi più rilevanti, esiste spesso una Macchina di Turing.
Passiamo ora al terzo punto: occorre sviluppare una nuova antropologia filosofica, ovvero con quale
prospettiva affrontare le questioni filosofiche.
Come abbiamo visto, tre rivoluzioni hanno avuto grande impatto sia estroverso che introverso, modificando
rispettivamente la nostra comprensione del mondo esterno e il modo in cui interagiamo tra noi. Con
Copernico e Galilei, la cosmologia eliocentrica ha rimosso la Terra e quindi tutta l’umanità dal centro
dell’universo. Darwin ha mostrato che tutte le specie viventi si sono evolute nel corso del tempo a partire da
progenitori comuni attraverso la selezione naturale, spodestandoci, di fatto, dal centro dell’ecosistema
biologico. Freud ci ha mostrato che la mente è anche inconscia e soggetta a meccanismi difensivi di
repressione che non possiamo controllare, spodestandoci – addirittura – dal centro del nostro personale
“ecosistema” razionale e cognitivo. Con la quarta rivoluzione, avviata da Turing, abbiamo iniziato a
percepire che qualcosa di realmente significativo e profondo è accaduto nella vita umana a seguito della
rivoluzione del computer; nel presente, stiamo lentamente accettando l’idea che non siamo enti isolati e
unici, quanto piuttosto organismi informazionali (inforgs) reciprocamente connessi e parte di un ambiente
costituito da informazioni (infosfera) che noi stessi contribuiamo a costruire.
Eccoci arrivati al quarto punto: occorre definire una nuova filosofia dell’informazione, ovvero come dare
senso al mondo contemporaneo.
In tal senso, sarebbe eccessivo sostenere che Turing sia a fondamento o persino al principio di una nuova
filosofia dell’informazione; tuttavia, è innegabile che, al pari del contributo offerto da Shannon e Weaver, a
Turing va riconosciuto il merito di aver richiamato l’attenzione della filosofia sul mondo dell’informazione
e sulla sua dinamica. In tal senso, possiamo sostenere che lo sviluppo di nuove idee filosofiche appaia simile
al processo di innovazione economica: la filosofia dell’informazione intesa sotto forma di design
concettuale può presentare sé stessa come un paradigma innovativo in grado di inaugurare un ambito di
riflessione estremamente ricco. Essa cerca di ampliare i confini della nostra comprensione filosofica
fornendo nuove metodologie innovative per affrontare i problemi più rilevanti del nostro tempo. In tale
prospettiva, l’informazione è diventata un concetto filosofico tanto significativo e fondamentale quanto
quelli di Essere, conoscenza, vita, intelligenza, significato, Bene o Male, tutti concetti cruciali con i quali
intrattiene rapporti di interdipendenza. Anche i concetti che implicano la nozione di informazione o che
entrano in relazione con essa risultano poveri, se l’informazione non è correttamente definita. Questo è il
motivo per cui la filosofia dell’informazione può spiegare e guidare il processo di costruzione del nostro
ambiente intellettuale. La filosofia dell’informazione, in altre parole, grazie alle sue capacità di
costruzione, concettualizzazione e semantizzazione, consente all’umanità di dare senso al mondo e di
costruirlo – insieme – responsabilmente.
E infine, ecco il quinto e ultimo punto: occorre definire una nuova antropologia filosofica, ovvero la
formazione del capitale semantico.
C’è una specificità dell’essere umano, un tratto che segnala la sua unicità: il fatto di dare significato e senso
alle cose, alla realtà che ci circonda e ci riguarda, così come a noi stessi. Per questo motivo, il capitale

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semantico – il complesso di significati che attribuiamo alle cose che ci circondano e a noi stessi – è il
capitale più prezioso che possediamo: è il terreno su cui si radicano le nostre vite o la condizione
trascendentale ultima. La caratteristica fondamentale e necessaria che qualsiasi capitale semantico deve
preservare è la coerenza. L’indice di semantizzazione povera o inefficace risiede proprio nella presenza di
contraddizioni o incongruenze, nell’assenza parziale o totale di coerenza. Ciò assume particolare
importanza nell’ambito delle attuali società dell’informazione, in cui la moltiplicazione delle fonti di
informazione produce un accumulo esponenziale ma spesso disorganico di dati, non sempre suscettibile di
tradursi in una vera e propria crescita del capitale semantico. La formazione di tale capitale è un compito che
ci definisce come esseri umani e comporta inevitabilmente dei rischi che incidono sulla capacità di
comprensione del nostro mondo e di noi stessi. Individuiamo almeno cinque tipologie di rischi possibili:
a) La perdita di capitale semantico: è il caso, ad esempio, delle fake news;
b) La presenza di capitale semantico improduttivo;
c) La presenza produttiva di capitale semantico che si rivela sottoimpiegato;
d) La presenza produttiva di capitale semantico che si rivela mal impiegato;
e) La presenza di capitale semantico che si svaluta nel tempo.
Data la sua natura “basata sui dati”, la gestione complessiva del materiale semantico è da sempre dipesa
dalle tecnologie dell’informazione. Il digitale stesso sta generando nuove forme di capitale semantico che
sarebbero altrimenti impossibili. Il capitale semantico non è più solo analogico, ma in misura crescente
digitale, e non più generato unicamente da agenti umani.

Conclusioni
Oggigiorno, il mondo stesso ha fortemente bisogno di conoscenza filosofica e di disegnare nuove idee. La
filosofia è necessaria per creare le nostre società dell’informazione, per dare forma ai nuovi ambienti digitali
in cui milioni di persone trascorrono sempre più tempo e, in ultima istanza, per ripensare ciò che possiamo
definire come progetto umano. Si tratta di una questione etica o, meglio, di una questione di ambientalismo
etico digitale: la filosofia deve occuparsi da vicino delle profonde trasformazioni ingenerate dalle ICT nel
modo in cui comprendiamo il mondo, quindi la nostra epistemologia e metafisica, e conferiamo ad esso un
significato, quindi la nostra semantica. Ciò vale anche per il modo in cui comprendiamo noi stessi e per il
modo in cui interagiamo e gestiamo le nostre relazioni. Tutto ciò, in ultima istanza, incide sul nostro pensiero
socioeconomico, politico e giuridico. Abbiamo urgentemente bisogno, quindi, di approcciarci a una filosofia
intesa sotto forma di design concettuale, abbandonando qualsiasi tipo di metafisica assolutistica, a favore di
un approccio volto a chiarire il livello di astrazione al quale la domanda sollevata può ricevere effettivamente
risposta.

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