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Come enuncia il primo articolo della Costituzione Italiana, l’Italia è una repubblica democratica
fondata sul lavoro.
Il principio laborista espresso egregiamente sin dalle prime righe della nostra legge fondamentale,
pone il lavoro in una condizione centrale all’interno del nostro Paese, in cui esso è concepito come
un dovere, in quanto costituisce quel contributo che ogni individuo, titolare di diritti inviolabili, ha il
dovere di dare, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, alla società ma
contemporaneamente, come cita l’articolo quattro, un diritto, in quanto strumento attraverso cui i
cittadini acquisiscono mezzi per la sussistenza. “Il diritto al lavoro - spiega Valerio Onida, eminente
giurista, membro della Corte Costituzionale e Presidente della stessa - significa che l’ordinamento
sociale deve preoccuparsi di fornire un assetto complessivo ai rapporti economici che risponda ai
principi costituzionali”. Pertanto, devono essere promosse le condizioni per cui ognuno possa
aspirare a svolgere una attività o una funzione che contribuisca tanto al progresso della società
quanto al proprio benessere: il che include produrre leggi e tutele adeguate.
Tuttavia, quelle leggi e tutele che oggi sono alla base della Costituzione del nostro Paese e del suo
Statuto dei lavoratori, legge n. 300, sono state introdotte solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, a
seguito della caduta del fascismo e l’entrata in vigore della Costituzione il primo gennaio del 1948.
Fino ad allora la condizione lavorativa, costantemente descritta anche nelle opere letterarie è
sempre stata al centro di numerose discussioni in quanto il lavoro, oggi diritto e dovere del cittadino,
non può e non deve portare al decesso dello stesso. Il cambiamento di prospettiva è certamente da
collegare ai mutati punti di vista che oggi, almeno sulla Carta Costituzionale, dovrebbero tener conto
della dignità umana e considerare il lavoratore in quanto persona e non in diretta proporzionalità a
quanto guadagno produce. Insomma, tra un guadagno maggiore in una condizione precaria e un
guadagno minore in una condizione stabile, ogni azienda dovrebbe necessariamente scegliere il
guadagno minore per salvaguardare il proprio operaio e scongiurare quegli avvenimenti che
caratterizzavano il mondo del lavoro industrializzato sin dai primi anni del Novecento.
Come testimoniano i testi dei primi decenni XX secolo, la condizione che ciascun operaio era
costretto a vivere, non avrebbe mai risposto alle norme che oggi vigono in Italia. Nell’autunno del
1873 e in quello del 1874, lo storico Franchetti aveva perlustrato le province continentali del
Mezzogiorno per verificare di persona una realtà che si sosteneva fosse conosciuta meglio dai
viaggiatori stranieri che dalla classe dirigente italiana. Ne aveva tratto la convinzione della necessità
di allargare il campo delle conoscenze mediante un’inchiesta parlamentare. Nel 1876 compì dunque
con lo storico Sonnino un secondo viaggio, questa volta in Sicilia in cui indagava con maggiore
attenzione lo sfruttamento del lavoro minorile nelle miniere di zolfo: grazie all’osservazione diretta,
ma anche a testimonianze raccolte sul campo, gli autori documentarono le condizioni di vita dei
ragazzi lavoratori, i cosiddetti “carusi”. Ma le documentazioni storiche, presenti anche nelle opere
letterarie di alcuni autori, continuarono a testimoniare questi soprusi anche negli anni successivi
quando Pirandello si cimentò, così come aveva fatto il suo compaesano Verga, nella documentazione
romanzata della condizione lavorativa nelle miniere mediante il personaggio di Ciàula, il quale, così
come il Rosso Malpelo di Verga, era un escluso in un ambiente già di per sé escluso e considerato in
relazione al suo profitto. (Basti ricordare che Malpelo veniva considerato dalla sua famiglia solo
quando rincasava con lo stipendio.)
Il lavoro, ora alla base del nostro Stato, ancora oggi, è sempre più indirizzato ai fini del guadagno in
accordo con ciò che Verga, Pirandello e altri autori del XX secolo avevano già prefigurato. Il profitto
non può guidare le scelte, ma in un mondo in cui il plus guadagno supera in ambito di importanza
l’alienazione dell’operaio, ciò non avviene. L’aspirazione utopica della Costituzione si tradisce
autonomamente in quanto non solo non vi sono impieghi a sufficienza per garantire a tutti il diritto e
implicitamente il dovere, al lavoro, ma soprattutto i lavori proposti non garantiscono una
retribuzione tale da garantire una vita dignitosa come cita l’articolo 36.
La gig economy è uno degli esempi più evidenti e il lavoro nero, poiché costituito da finti contratti e
partite iva, è una violazione di quei diritti per cui si è lottato nei secoli, quali la tutela del lavoratore
come individuo assieme al suo riguardo alla retribuzione e al rispetto dei limiti della fatica (orari,
riposo settimanale, ferie).