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PICCOLA

TERRA
IN EQUILIBRIO
SULLE “MASIERE”
a cura di Mauro Varotto

Cierre edizioni - Antersass


Coordinamento scientifico Scout CNGEI Bassano del Grappa; Museo Etno-
Mauro Varotto grafico Canal di Brenta; Osservatorio del Paesaggio
Ideazione e ricerca del Canale di Brenta; Scuola Media “Monte Grap-
Mauro Varotto e Luca Lodatti pa” Romano d’Ezzelino; Granulati Dolomitici Pe-
Regia, fotografia, montaggio roglio Spa. Carpanè di San Nazario.
Michele Trentini
Aiuto regia E inoltre:
Marco Romano Almilani Abdelhadi, Amal Abderazzak, Amal Ab-
Post-produzione audio derrahim, Ahmad Bakrim, Anacleto Balasso, Sabri-
Roberto Fondriest, Screen Studio Trento na Battisti, Habiba Belhaid, Carolina Bellon, Ales-
Sottotitoli sandro Bisoffi, Redwan Bouhlal, Mohamed Bouida,
CMELA Centro Multimediale E-learning Maria Grazia Brusegan, Maurizio Cau, Iolanda Da
di Ateneo - Università di Padova Deppo, Cheyenne Daprà, Michela Facchini, Gianni
Traduzioni sottotitoli Fiorese, Federico Ganzer, Kader Habli, Said Habli,
Davide Papotti e Sara Ariano Eljouiri Ibrahim, Bouchaib Katimi, Diego Lazza-
rotto, Marilisa Lazzarotto, Mirco Melanco, Amal
Con la partecipazione di Meriem, Nadir Mognato, Mostafha Nazran, Danie-
Clelia Costa, Alfredo Cavalli, Antonia Bellon, Ro- la Perco, Carlo Perli, Rajeb Rachid, Filippo Romano,
meo Compostella, Claudio Lazzarotto, Giacomo Tania Rossetto, Rossella Schillaci, Annibale Salsa,
Perli, Aziz Wahbi Benito Sasso, Said Sebbar, Tommaso Sega, Giusep-
pe Taffarel, Marco Toffanin, Valeria Tramonte, Alice
E con Trentini, Umberto Trentini, Bilal Wahbi, El Habib
Nour Al Aba Abdelkader, Said Benssarrar, Ah- Wahbi, Sami Wahbi, Alberto Zandonati, Elrdaf Zi-
med Bouida, Antonio Caregaro, Angelo Chemin, lati, Mohamed Zinelabidin.
Loriano Costa, Angela Lazzarotto, Angelo Moro,
Zahra Nassih, Angela Tonin, Adam Wahbi, Amin Referenze fotografiche
Wahbi, Mohamed Wahbi, Monika Wahbi, Gabriele In copertina, primaverili versanti terrazzati della val
Zanotto Frenzela presso Valstagna in una immagine degli
anni Settanta di Sandro Brazzale (Archivio Cierre).
Si ringraziano per la collaborazione Nel booklet la foto di pag. 11 è di Guido Medici;
Cassa Rurale della Bassa Valsugana, filiale di Valsta- le foto alle pagg. 9, 17, 21 (in alto), 22, 33, 34, 35
gna; Comitato Adotta un terrazzamento in Canale e 37 sono di Marco Romano; le foto alle pagg. 23
di Brenta; Sezione CAI di Bassano del Grappa; As- e 25 sono tratte dal film Fazzoletti di terra di Giu-
sociazione Marocchina Amal Bassano del Grappa; seppe Taffarel; le foto alle pagg. 27, 31 e 32 sono di
Autorità Marocchina della Valle dell’Ourika, Ma- Michele Trentini; le foto alle pagg. 9, 14 e 21 (in
rocco; Autorità Marocchina di Settat, Marocco; Bar alto) sono di Mauro Varotto; la foto di pag. 15 è di
Pizzeria “Il Canaletto”, Oliero, Valstagna; Gruppo Aziz Wahbi.

© 2012
Cierre edizioni
via Ciro Ferrari 5, 37066 Sommacampagna, Verona
tel. 045 8581572, fax 045 8589883 www.cierrenet.it • edizioni@cierrenet.it

Antersass
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indice

05 Presentazione
di Annibale Salsa

09 In equilibrio sulle “masiere”:


il riscatto delle montagne di mezzo
di Mauro Varotto

15 Migranti nel Canale di Brenta:


altre visioni del paesaggio terrazzato
di Tania Rossetto

19 L’iniziativa “Adotta un terrazzamento”


di Luca Lodatti

23 Fazzoletti di terra: Giuseppe Taffarel


e lo sguardo neorealista sulla montagna veneta
di Mirco Melanco

24 Piccola terra. Note di regia


di Michele Trentini

30 Natura. Integrazioni. Libertà


di Marco Romano

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presentazione
di Annibale Salsa

Cadranno i casolari dei villaggi / Sulla montagna abbandonata


Uno alla volta senza rumore / I casolari delle nostre borgate.
Cespi d’assenzio, roveti selvaggi / Affonderanno le bianche radici
Ai piè di quelle mura / Spaccate dal vento e dal sole
Per suggere gli umori / Amari delle nostre lacrime / Dei nostri sudori.
Siamo dei vinti fratelli! / Un grido perduto / La chiusa di una storia dolorosa.
Torme di Silvani la sera / Usciranno dai boschi tenebrosi
Per aggirarsi sui vicoli silenziosi / Ad ascoltare le voci misteriose
Che soavi ancora, presso le soglie / Deserte delle case /
Racconteranno le favole di bimbi.
Intanto che la serpe nascosta / Dormirà sotto le pietre
Rosse dei focolari spenti / E l’ossa gialle degli Antenati
Affioreranno all’alba / Dai muretti scalzati degli orti.
Lasciate fratelli la terra dei padri / Fuggite fratelli la terra dei morti
A sudare non val più la pena / A piangere non serve più a niente.

Peyre Raina1

Un intenso grido di dolore per una montagna abbandonata. Quali i rimedi?


I registi Michele Trentini e Marco Romano sono entrati nel paese veneto
di Valstagna, nel Canale di Brenta, per documentare i nuovi segnali della
speranza.

1. Poeta occitano della Val Maira, traduzione in italiano di Franco Bronzat.

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“Governare le contaminazioni” diventa, allora, il nuovo imperativo categori-
co di un mondo globale ad elevata complessità, dove la velocizzazione delle
trasformazioni sociali e culturali genera incomprensioni sempre maggiori,
accompagnate da uno squallido corredo di intolleranze, rancori e chiusure
pseudo-identitarie. Il film documentario Piccola Terra ci trasporta al centro
di queste piccole/grandi emergenze, al confine tra l’arcaicità rassicurante del
mondo di ieri e le incertezze angoscianti del mondo di domani. Tra i due
mondi, si situa un presente indefinito e indefinibile chiamato a svolgere il
ruolo di cerniera incerta, di laboratorio sociale per la messa a punto di nuovi
scenari. Spesso, si avverte il sapore dell’incontro/scontro fra accoglienza e
ripulsa, fra ibridazioni accettate e rifiuti ancestrali. Nell’ottica della visual
anthropology affiora, nelle sequenze del film, un piccolo mondo prealpino alle
prese con profonde discontinuità rispetto al passato. Ma, nell’ambivalenza
dei ricordi di buone pratiche antiche e di fatiche secolari finalizzate alla
sopravvivenza, emerge il bisogno di ripensare la montagna quale spazio di
vita per l’uomo d’oggi.
Questa pur timida ri-antropizzazione costituisce un investimento sul “pae-
saggio culturale”, frutto dell’interazione fra uomo e natura. Poiché si tratta
di un’interazione difficile, sarebbe improprio presentarla secondo edulcorate
visioni oleografiche o romantiche. Essa, infatti, ha alimentato fatiche e lotte
incessanti di contadini intenti a contrastare l’avanzare dell’inselvatichimento
che, proprio in conseguenza dell’abbandono delle terre marginali, registra
oggi forti accelerazioni con la velocità travolgente dei mutamenti socioeco-
nomici. È il caso del recupero di una pratica antica come quella dei terrazza-
menti. La creazione di spazi aperti e limitatamente pianeggianti su territori
scoscesi ha accompagnato quell’epopea dei grandi dissodamenti della mon-
tagna sud-alpina che, dall’ovest ligure-provenzale e piemontese, si è spinta
fino all’est alpino. Le sue profonde tracce sono visibili dalla Valle d’Aosta
alla lombarda Valtellina, dalla trentina valle di Cembra al Canale di Brenta
di Valstagna. Molti sono i luoghi della Terra dove questa tecnica di dissoda-
mento ha trovato realizzazione. Non è il caso di invocare “teorie etniche” per
supportare scientificamente tali pratiche. Sono le condizioni del territorio e
dell’ambiente naturale che giustificano il ricorso a simili morfologie artifi-
ciali nelle terre alte. Il rischio di una loro scomparsa a causa dell’abbandono

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e della conseguente avanzata delle associazioni vegetali spontanee di tipo
cespugliato-arbustivo è, come si vede nel film, molto elevato. La montagna,
allora, si chiude e diventa uniforme e monotona. La biodiversità si riduce
sensibilmente per il mancato sfalcio dei prati. I muretti a secco a sostegno
dei terrazzamenti, siano essi le masiere di Valstagna o le maxée dei monti
liguri, crollano e restituiscono alla natura selvaggia il suo potere entropico.
Il lavoro di documentazione di Trentini e Romano, però, ci conduce in una
dimensione del rapporto con le “terre marginali” della montagna che sta
registrando segnali incoraggianti di una nuova presenza umana. Segni do-
cumentati del “fenomeno neorurale” sono sempre più frequenti nelle valli
meno turisticizzate delle Alpi o della dorsale appenninica. Il fenomeno non
riguarda i versanti settentrionali delle Alpi dove l’abbandono della rurali-
tà è stato assai contenuto. Nell’area austro-svizzera – inclusa l’appendice
sudtirolese – l’abbandono delle attività rurali non ha conosciuto fenomeni
di disaffezione su larga scala. L’agricoltura di montagna ha convissuto, in un
rapporto di sostanziale complementarità, con l’attività turistica. Il paesaggio
culturale, segnato dalle discontinuità degli spazi aperti (openfield), ha conti-
nuato ad esercitare un importante ruolo ecologico, oltre che estetico.
In Italia e in Francia, al contrario, la montagna rurale è stata marginalizza-
ta dalle pratiche intensive dell’agricoltura e dell’allevamento di pianura. La
“boschina” ha divorato i prati e i pascoli cancellando i segni della presenza
umana. Ma anche nella trentina val di Rabbi gli stessi autori di questo lavoro
hanno documentato l’esperienza della giovane pastora diplomata Cheyenne,
impegnata con il suo gregge a pulire i terreni incolti. In Italia, in partico-
lare, l’utilizzo delle terre alte è stato dominato da un bipolarismo perverso.
Da una parte la rinaturalizzazione, ipocritamente salutata con l’espressione
“wilderness di ritorno”. Dall’altra, una speculazione senza regole urbanisti-
che, incentrata sulle seconde case e su di un uso ludico della montagna in
puro stile “mordi e fuggi”. Da alcuni anni, tuttavia, nuovi nuclei familiari si
vanno insediando sui terreni agricoli e nelle borgate abbandonate dall’eso-
do “biblico” del secondo dopoguerra. Situazioni simili a quella descritta nel
documentario su Valstagna si ritrovano, a macchia di leopardo, in alcuni di-
stretti delle Alpi. Recuperi di terrazzamenti ed adozioni a distanza fanno ca-
polino in Liguria, dove le “fasce” disegnano ancora il profilo di un paesaggio

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dalle forti connotazioni identitarie. Giovani pastori transumanti francesi,
muniti di una qualifica professionale a livello scolastico e para-universitario,
hanno ripreso a percorrere i tratturi (drailles) tracciati dai loro più antichi
predecessori. Tante storie differenti fanno da collante a realtà diversissime
fra loro. Produzioni di formaggi tradizionali o coltivazioni di piccoli frutti di
sottobosco si alternano ad attività legate alle nuove tecnologie, a dimostra-
zione che la montagna non è soltanto agricoltura ed allevamento ma, nell’era
post-fordista, può essere anche tecnologia avanzata.
Nel film documentario sulla “piccola terra” di Valstagna risaltano con forza
le esperienze di uomini che possono essere definiti “nuovi montanari”. Non
fa differenza se si tratta di italiani provenienti da altre contrade del Veneto,
impegnati nello sfalcio e nel ripristino di case ed orti, o di una famiglia di
immigrati del Marocco decisa a portare la coltura della menta direttamente
dal Rif di Marrakech. Determinante e strategica diventa, allora, la figura del
sindaco di Valstagna nell’assecondare la volontà di rinascita del territorio ad
opera dei “forestieri”. Essa ricorda altri sindaci di frontiera, come il sindaco
di Ostana ai piedi del Monviso, che hanno avuto l’intelligenza di credere
nell’apparente utopia di una palingenesi venuta dall’esterno. Nelle valli occi-
tane del Piemonte gli esempi di questo tipo sono tanti, talvolta con qualche
incidente di percorso, come ha insegnato il film Il vento fa il suo giro di Gior-
gio Diritti (2005). Purtroppo, accade spesso che i vecchi abitanti siano disil-
lusi e rassegnati di fronte alla condizione di “vinti”, umiliati da una storia e
da una società orientate in direzioni opposte. Sono allora i nuovi arrivati, per
necessità o per passione, a dover scrivere una storia inedita fatta di reinsedia-
menti e di sfide provocatorie per gli stessi esigui abitanti originari.
Il lavoro di Trentini e Romano non è più, fortunatamente, un lavoro di “et-
nografia d’urgenza” nel documentare in extremis gli ultimi abitanti della
montagna. Al contrario, aiuta a riposizionare le nostre mappe mentali sugli
abitanti delle Alpi del futuro e a rivedere criticamente certi stereotipi sulle
identità originarie o sulle presunte tipicità.

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In equilibrio
sulle “masiere”
Il riscatto delle montagne di mezzo
di Mauro Varotto

Piccola terra è una storia di personaggi che vivono ai margini, una storia costruita
sulle pietre scartate dai costruttori1: centinaia di chilometri di masiere, muri a secco di
pietra calcarea, eretti per ricavare terre per il tabacco tra XVII e XIX secolo, sotto la
protezione del Leone di San Marco con spada sguainata e vangelo chiuso, che svela
i segreti della fortuna storica di Valstagna, piccolo borgo ai piedi dell’Altopiano di
Asiago, agli estremi confini del Veneto. Piccola terra è una scommessa sul valore di un
paesaggio che sembra non averne più, avvolto in un destino d’incuria e abbandono
solo apparentemente ineluttabili, in realtà imposti da logiche di industrializzazione
dell’agricoltura che hanno privilegiato il tabacco d’importazione e campagne senza
contadini.
Alte rese per ettaro da una parte, wilderness compensatoria dall’altra: in mezzo una
montagna “diversa”, lontana dai fondivalle operosi o da aree di alta quota strette
attorno a vette dal forte appeal turistico. Anche qui la roccia è dolomia, ma non è
“patrimonio Unesco”. Una montagna di mezzo che nel corso del Novecento è stata
progressivamente stritolata dalla tenaglia intensivizzazione-abbandono, perché i suoi
profili articolati e diagonali non si conciliano con i rettilinei della specializzazione,
della standardizzazione, della massificazione produttiva o turistica.
Fuori dai giochi, ai margini appunto. Le quattro vicende del film sono anch’esse ai
margini, sul crinale incerto che separa la normalità dalla follia (tornano nel docu-
mentario gli aggettivi “strano”, “sognatore”, “incompreso”), perché ciascuno a proprio
modo ha deciso di uscire dal gioco, dagli ingranaggi della storia, per ricominciare una
nuova, piccola storia.
Il Canale di Brenta è un microcosmo che racconta attraverso il suo paesaggio una
dicotomia economica che è comune a larga parte del mondo alpino2: il fondovalle

1. Cfr. G.P. Gri, Mauro Pascolini (a cura), Multiverso. Scarti e abbandoni, Forum, Udine 2005.
2. Cfr. W. Batzing, Le Alpi. Una regione unica al centro dell’Europa, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

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attraversato dalla superstrada Valsugana, solcato da flussi incessanti di traffico tra il
Nord e il Mediterraneo, traffico pesante nei giorni feriali, turistico e non meno “pe-
sante” nei giorni festivi, dalla Pentesilea veneta verso le montagne del nord; la cava
di Carpanè che continua ad espandersi e a mangiare la dolomia del Grappa, monte
sacro alla patria, che crescendo necessita di quantità di roccia sempre maggiori, rit-
mi di escavazione sempre più intensivi e voraci; la popolazione immigrata, carbone
necessario alla propulsione della locomotiva Nordest, che qui trova gli spazi vuoti di
case lasciate dai “vicentini nel mondo”, emigrati dalla valle verso i cinque continenti,
una soluzione abitativa comoda a portata dei capannoni dell’hinterland bassanese.
Oltre la valle come corridoio da attraversare o materia prima da consumare, ci sono
i versanti silenti, il bosco che avanza e ricopre spazi conquistati in secoli di econo-
mia agrosilvopastorale: riempie radure di prato-pascolo, occulta sentieri e mulattiere,
cancella i segni della presenza minuta e della cura capillare dell’uomo che ha reso
la montagna spazio abitato e abitabile. È un processo, questo della riforestazione
naturale, solo apparentemente compensatorio, in realtà complice del gigantismo in-
frastrutturale e produttivo che reclama crediti di carbonio per continuare a produrre
in maniera “sostenibile”, che incentiva il set-aside per bilanciare l’impatto dell’agri-
coltura intensiva, impone vincoli e aree parco in cui il mondo selvatico, con atroce
rovesciamento semantico, diventa risorsa per il tempo libero. L’homo vivens deve la-
sciare allora spazio al visitatore, l’homo videns, o mettersi al servizio dell’homo ludens e
del suo diritto allo svago. Siamo ai piedi, ma è meglio dire all’ombra, dell’Altopiano
di Asiago, una delle aree più turistiche delle Alpi: lo stock di seconde case nella co-
nurbazione turistica di Asiago-Gallio-Roana vanta numeri da primato nazionale.
Questo il contorno in cui si muovono i protagonisti di Piccola terra, che tuttavia non
vuole essere un documentario di denuncia, e racconta piuttosto che la montagna può
essere anche altro: un luogo che assume le tonalità positive di chi sta realizzando
i propri sogni riscattando territori in abbandono e caricandoli di nuovi significati,
lontani sia dalle chimere della modernizzazione che produce mondi specializzati e
vite di scarto, sia dagli elogi romantici e dagli slogan edulcoranti di paesaggi presepe
e montagne vetrina.
Piccola terra è un tributo a coloro che si ostinano ad abitare la montagna senza stra-
volgerne l’essenza, e per questo stanno nel mezzo, in equilibrio precario eppure vali-
dissimo sulle pietre a secco delle masiere, in spazi senza progetto che sono gli scarti
delle politiche di settore. Le loro traiettorie esistenziali sono piccoli capolavori di
mediazione, hanno il respiro della medietas. Vale la pena di esplicitare meglio questi
profili di mediazione, ovvero le diverse declinazioni della cura, troppe volte implicita
e disconosciuta negli uomini e nei paesaggi delle montagne di mezzo.

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Un primo livello di mediazione è quello tra esigenze e tornaconti individuali e ap-
partenenze più ampie: si gioca nel rapporto con l’intergenerazionalità, con la longue
durée dei paesaggi ereditati, tempi storici e geologici di cui i protagonisti si fanno
carico, non senza fatica, ma anche nella proiezione verso il futuro, nel costruire qual-
cosa da lasciare ai figli o ai nipoti, nel mantenere in vita quei monumenti alla fatica
pietrificata di intere generazioni. Vi è certamente una dimensione di sacrificio perso-
nale da mettere in conto, per poter recuperare e innestare l’individuo in tempi e spazi
lunghi, dilatati, rallentati, affinché producano appartenenza: attraverso la fatica e la
solidarietà si restituisce l’uomo all’umano, e si libera l’umano dal disumano3. Non è
un’operazione museale, quella che conducono i personaggi del film, di conservazione
del passato a scopo identitario, ma trasmissione di valori e saperi quotidiani, né cele-
brata né imbalsamata: saperi che fluiscono dal passato verso il futuro senza rinnegare
l’innovazione (il documentario si apre con un elicottero, si chiude con il gesto anti-
chissimo di due mani che piantano menta: sono due piani semantici che si tengo-
no insieme e insieme ibridano il significato di autoctono-straniero, locale-globale).
Innovazione significa anche possibilità che nuove mani e nuove culture diano vita e
respiro ad antiche pietre.
Un altro livello di mediazione è
dato dalla rustica socievolezza di
queste traiettorie. I versanti del-
la valle sono terre a loro modo
aperte all’ospite (non ci sono
recinzioni e cartelli minacciosi,
“Attenti al cane e al padrone”),
ma selettive, non spalancate a
chiunque, in linea con quell’in-
dividualismo comunitario che
connota da sempre le culture
alpine, in equilibrio tra l’anelito
alla libertà e il bisogno di appar-
tenenza necessario a fronteggiare le sfide di un ambiente difficile. Così chi entra deve
farlo in punta di piedi, con discrezione, perché la collaborazione o l’apertura richiedo-
no condivisione e rispetto di regole rigorose e ancestrali. In tutto il mondo i paesaggi
terrazzati sono sì prodotto di iniziative individuali (la proprietà è sempre privata) ma

3. Cfr. S. Guarnieri, Paesi Miei: nuove cronache feltrine, Il Poligrafo, Padova 1989.

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solidamente innestate in un contesto di cooperazione. Il documentario di Taffarel che
riprende i due vecchi completamente soli che lavorano alla costruzione di ciclopiche
masiere è un’evidente forzatura, in linea con la chiave di lettura tragica – da “lassù gli
ultimi” – che la voce narrante a più riprese sottolinea. Sta proprio lì, nella loro solitu-
dine innaturale e insostenibile, l’inizio della fine. I paesaggi terrazzati sono sistemi in-
tegrati, sono prodotti sociali, stanno in piedi se resiste una socialità di prossimità, una
comunità che li sostiene4. Sono destinati a soccombere se poggiano solo su iniziative
slegate di singoli, non fosse altro che per il fatto che ogni muro a secco poggia fisica-
mente sul terreno di qualcun altro, che i sistemi di raccolta e drenaggio dell’acqua sono
concatenati l’uno all’altro, che la fatica per ricostruire un muro alto fino a sette-otto
metri è qualcosa di sovrumano: non può reggere senza un accordo cooperativo, senza
un disegno condiviso, come dimostrano gli esempi virtuosi del Vallese o della bassa
Valle d’Aosta, e qui la piccola comunità degli “adottivi”. Individuo e gruppo, libertà e
appartenenza si tengono insieme necessariamente nei paesaggi terrazzati, sono mondi
che non ammettono fughe in avanti, pena il loro abbandono o la loro distruzione.
Un terzo livello di mediazione ruota attorno all’idea e al ruolo della natura, che nel
documentario assume valenze plurime: ambientale, produttiva, ricreativa. Come la
parola “terra”, che dà il titolo al documentario, anche “natura” dovrebbe essere scritta
con iniziale maiuscola e minuscola insieme. Quella dei versanti terrazzati non è la
Natura primigenia, mitizzata dall’accezione romantica di matrice urbana che esalta
le “terre dell’Orso”, una natura tanto più consacrata quanto più inselvatichita e scevra
da presenze umane: è una natura abitata e faticosamente addomesticata, di cui non
si può fare a meno, ma che è necessario controllare. Natura come spazio di continue
mediazioni, ancora una volta. Il bosco che avanza richiede intervento, cura, manu-
tenzione, così come i muri a secco, e la presenza discreta dell’uomo abitante può
essere – così come è stata spesso in passato, in epoche non caratterizzate da eccessiva
pressione demografica – un valore aggiunto anche in termini strettamente ecologici:
maggiore naturalità, in questi casi, non significa maggior valore naturalistico. Sembra
un paradosso, ma in queste “piccole terre” non c’è contraddizione tra valore ecologico,
produttivo e ricreativo: la mucca o la capra (“mediata” dalla sapiente maestria del
contadino-allevatore-abitante) fanno il bel pascolo, e pure il buon formaggio. Sono
piani che si sostengono reciprocamente, non è necessario distinguerli in spazi dedi-
cati, che alla fine si rivelano spazi poveri, spazi dis-abitati, spazi senz’anima.
Piccola terra è allora un invito a governare questa diversità attraverso un nuovo patto

4. Cfr. A. Acovitsioti-Hameau, Territori terrazzati: atto tecnico e fatto sociale, in M. Varotto, G. Sca-
ramellini (a cura), Paesaggi terrazzati dell’arco alpino - Atlante, Marsilio, Venezia 2008, pp. 19-27.

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tra città e montagna5, la rivendicazione di uno statuto per la montagna intermedia,
che favorisca la costruzione di spazi ricchi, densi, polifunzionali e polisemici che
pongano al centro l’abitante e forme di gestione locale dello sviluppo rurale. È il
mondo, auspicato da van der Ploeg6, dei “nuovi contadini” dell’Europa del futuro,
lontani dalle “logiche dell’Impero” che hanno portato alla degradazione di ambien-
ti, alla banalizzazione di paesaggi, al depauperamento dei saperi locali. In questa
montagna intermedia sempre più conta essere “montanari per scelta”7: puntare sulla
qualità (delle relazioni, degli ambienti, dei prodotti) più che sulla quantità, farsi in-
terpreti di una nuova attenzione al paesaggio, alla socievolezza e alla soddisfazione
esistenziale.
Non è un percorso facile: la montagna di mezzo resiste, sola, sul crinale difficile tra
interessi forti e pressioni semplificanti, talora in direzione ostinata e contraria al
buon senso e ad ogni logica di profitto, ricca di imperativi morali e povera di atten-
zione politica. È una montagna “fragile” e “magica” al tempo stesso: può scomparire
da un momento all’altro, ma anche far germogliare inaspettatamente nuova vita. Una
ierofania della precarietà che si sporge sull’alterità, seguendo i versi di Andrea Zan-
zotto (Zauberkraft): “Quanta mania ci fu, contrada, per / reggerti, sola in tutta la tua
siderale / forza, inattualità, demoralizzazione costituzionale / e sovrumana inerzia di
presenza / sempre più immagicata in colori linee piani - / forse a farli volare basterà
un battito di mani”8.

5. Cfr. P. Donadieu, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli,
Roma 2006.
6. Cfr. J. Douwe van der Ploeg, I nuovi contadini. Le campagne e la risposta alla globalizzazione,
Donzelli, Roma 2009.
7. Cfr. G. Dematteis (a cura), Montanari per scelta. Indizi di rinascita nella montagna piemontese,
Franco Angeli, Milano 2011; F. Corrado (a cura), Ri-abitare le Alpi. Nuovi abitanti e politiche di
sviluppo, Eidon Edizioni, Genova 2011.
8. A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999, p. 755.

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Migranti nel
Canale di Brenta
Altre visioni del paesaggio terrazzato
di Tania Rossetto

Inverno 2006, tratta ferroviaria Trento-Bassano. Ferma alla stazioncina di Carpanè-


Valstagna, in attesa di un treno per Bassano del Grappa, di ritorno dalla prima spe-
dizione esplorativa della mia ricerca feci due incontri: un’anziana signora, emigrata
dal Canale e quel giorno presente per un funerale, mi parlò della sua esperienza e
della preoccupazione per le tante abitazioni abbandonate (mi disse che i paesani suoi
conoscenti erano contenti del fatto che gli immigrati vivessero in quelle case); un
singolare turista, amante dei piccoli borghi, tornava deluso dalla visita perché, nono-
stante le segnalazioni ricevute, non riusciva a capire “cosa ci fosse di bello da vedere”
in quei luoghi (ma verificai che poco sapeva dei terrazzamenti e nulla del Museo
etnografico del Canal di Brenta). Avevo appena incontrato il mio informatore, me-
diatore e coadiutore, Aziz Wahbi, che aveva aperto molteplici prospettive di indagine
e d’incontro, in particolare presso la comunità marocchina. La valle si presentava così,
in maniera immediata, come un laboratorio dello sguardo, un luogo che pretendeva
di essere avvicinato da molteplici punti di vista: sguardi interni ed esterni, paralleli e
incrociati, confluenti e divergenti.
La montagna è da sempre considerata un paradiso dell’osservazione, uno spazio per
sua natura panoramico, quasi antitetico al labirinto visivo della città o al caleidoscopio
disorientante dell’odierna periferia diffusa. Prendendo le distanze da un facile sguardo
onnicomprendente, è però agli sguardi degli abitanti di quel territorio che occorre
rivolgersi per una comprensione che vada oltre la superficialità della visione. Esplo-
rare, cogliere e interpretare questi sguardi è stato l’obiettivo di una piccola avventura
di ricerca nell’ambito del Progetto europeo ALPTER (www.alpter.net), dedicato ai
paesaggi terrazzati dell’arco alpino: un lavoro “sul campo” che ha coinvolto cittadini
di diverse nazionalità presenti in quel momento nel territorio di due comuni della
Valbrenta, Valstagna e San Nazario. Obiettivo ultimo era quello di verificare se e in
quali termini il patrimonio storico e l’attuale situazione dei terrazzamenti del Canale
di Brenta rientrasse nel campo visivo e nel senso del luogo di questi nuovi abitanti.

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L’esigenza di interrogare i migranti, e di interrogarsi sulla rivitalizzazione sociale, ol-
tre che demografica, da essi innescata, si imponeva di fronte al fenomeno di “riempi-
mento” territoriale conosciuto dal Canale di Brenta a partire dagli anni ’90 del secolo
scorso, che ha fermato e invertito il segno della lunghissima fase di “svuotamento”
dovuta all’emigrazione e al conseguente massiccio abbandono di terreni e alloggi (tra
1921 e 1991 la popolazione all’interno della valle si è ridotta ad 1/3, l’indice d’invec-
chiamento è salito ben oltre la media provinciale, il tasso di non occupazione degli
alloggi in alcuni comuni supera il 50%). I migranti stranieri, per la maggior parte di
provenienza africana, sono intervenuti a invertire il saldo demografico negativo fino
a raggiungere incidenze considerevoli sulla popolazione residente (oltre il 15% di
residenti nel comune di San Nazario, intorno al 10% negli altri comuni della valle, di
cui quasi un terzo costituito da minori).
I migranti sono arrivati nella valle per una combinazione di fattori economici: la
relativa vicinanza ai distretti industriali del bassanese e del pedemonte vicentino e la
possibilità di accedere a soluzioni alloggiative a basso costo, grazie all’ingente patri-
monio insediativo dismesso. Presenze effimere, esperienze transitorie, sistemazioni
precarie, ma anche stabilizzazioni economiche, percorsi di ricongiungimento fami-
liare e di radicamento: l’immigrazione ha coinvolto la valle con le consuete variegate
fenomenologie. La ricerca costituiva il tentativo di entrare in contatto con queste
diversificate realtà, passando dalle situazioni estreme, come quella del temporaneo
“ghetto” di Merlo di San Nazario, dove palpabilissimo si presentava il senso di esclu-
sione e frattura nei confronti del circostante ambiente umano e fisico, fino alle vicen-
de di chi dichiarava di aver scelto la valle come luogo ideale per vivere, avviando un
progetto abitativo stabile con l’acquisto e la ristrutturazione di una casa inutilizzata
o in abbandono. Ci si proponeva di capire, in particolare, se la componente straniera
che poteva dirsi fuori dalla fase emergenziale di ricerca dei requisiti essenziali per
stabilizzare il proprio percorso migratorio (documenti, casa, lavoro), cominciasse ad
attivare anche una interiorizzazione del paesaggio della valle, e in particolare di quel-
lo terrazzato. Lo spazio che si andava riempiendo grazie a queste presenze, infatti,
non era costituito solo da case abbandonate, ma anche dai terreni per lo più degradati
sostenuti dalle vecchie masiere.
Le interviste, che venivano condotte con l’ausilio di alcune fotografie aeree e da terra
del paesaggio del Canale, hanno consentito di porsi all’interno degli osservatòri quo-
tidiani dei nuovi abitanti per sondare le peculiari declinazioni del loro sguardo sul
paesaggio materiale e simbolico della valle. Il primo impatto con la geografia della
valle, le opportunità abitative, la mobilità, il rapporto dialettico città-montagna, la
ricchezza o la povertà relazionale, il senso di marginalità o di attrattività del territo-

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rio, la fruizione originale degli spazi: erano tutti temi che emergevano nei colloqui
di ricerca tesi a cogliere la percezione del luogo da parte dei migranti. Dagli incontri
uscivano visioni originali, spunti creativi, immagini inedite, in particolare quando ad
essere messa a fuoco era la questione del patrimonio ereditato, quel paesaggio terraz-
zato che letteralmente incombe sul retaggio memoriale e l’immaginario della valle.
Come si relazionava questa componente umana del tutto nuova con i versanti terraz-
zati, problema e al contempo risorsa del Canale? Il paesaggio del Canale di Brenta
è innanzitutto un paesaggio sofferente, problematico, esso stesso posto ai margini. E
proprio qui sembrava esserci spazio per un’idea di partecipatory landscape, dove anche
le forze normalmente considerate marginali potevano trovare un nuovo, necessario
protagonismo.
Le interviste realizzate nel 2006 rivelavano una diffusa conoscenza della storia dei ter-
razzamenti: la “memoria del tabacco” un tempo coltivato sulle masiere sembrava aleg-
giare nella valle sino a raggiungere, attraverso racconti di conoscenti e vicini di casa,
gran parte dei migranti. Ciò che più sorprese allora fu che non solo si poteva trovare
presso i migranti, in maniera talvolta solo abbozzata e talaltra approfondita, la consape-
volezza del ruolo storico e della
criticità della situazione attuale
dei terrazzamenti, bensì anche
espressioni embrionali di una
possibile nuova progettualità.
“Quei gradini là? Eh, di storia,
servono come muro, no? Per-
ché se vai anche dietro qua lo
vedi: lo fanno, non so, se voglio-
no creare un po’ di terra: allora
mangiano un po’ di roccia e da
qua fanno una specie di muro.
Sopra là hanno terra, anche la
casa che hanno costruito qua
era così. La roccia era per tenere
la casa”, mi spiegava un residente marocchino. L’interiorizzazione delle modalità con
cui l’ambiente fisico è stato plasmato dall’uomo si accompagnava, per alcuni, all’espe-
rienza personale della coltivazione dell’orto in piccoli terrazzi messi a disposizione
dai proprietari. Ma il riconoscimento delle potenzialità di questi spazi produttivi/
ricreativi giungeva anche ad una proposta precisa: coltivare la menta, particolarmente
utilizzata dai marocchini, sulle superfici terrazzate. Con poche semplici parole, che

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mi sembrarono tanto sognanti quanto pragmatiche, in un salottino marocchino con
vista sulle Prealpi, si ipotizzavano già mercati di sbocco, adeguamento dell’infrastrut-
turazione dei versanti, reperimento del know-how (in Marocco e in territori d’im-
migrazione dove le comunità marocchine hanno avviato simili imprese), formazione
della manodopera.
Si parlava, concretamente, di recupero funzionale dello spazio terrazzato, ma ine-
vitabilmente il discorso tornava sul piano della relazione esistenziale con i luoghi, a
conferma del fatto che l’ambiente circostante e gli spazi verdi in particolare costi-
tuiscono un aspetto chiave dell’esperienza migratoria, ponendosi come attivatori di
memorie e di nostalgia, ma anche come promotori di un coinvolgimento profondo e
dello sviluppo di un nuovo senso di attaccamento al contesto.
Durante un’intervista, mentre si parlava di come gli abitanti stranieri avessero riatti-
vato con pratiche ricreative povere, spontanee, un tipo di frequentazione delle adia-
cenze del fiume ormai dimenticata dai locali, Aziz mi disse: “Noi viviamo il Brenta,
abbiamo un rapporto con il Brenta... perché quello che manca, quella convivenza, la
dà la Brenta, la montagna...”. L’affermazione potrebbe essere interpretata con l’idea
di una fuga, una scelta di isolamento, o di abbandono all’accoglienza immediata of-
ferta dall’ambiente fisico di fronte all’accoglienza negata dall’ambiente sociale. Alla
luce dei racconti e delle immagini emerse dall’incontro con i migranti, questa affer-
mazione fa invece pensare che gli spazi, i luoghi, i paesaggi non costituiscano solo
cornici funzionali di esistenze condotte in parallelo, e neppure scenari estetizzanti
che fanno da sfondo a immagini edulcorate di coesioni mono o multiculturali: essi
sono terreni, più o meno impervi, per uno scambio imperfetto ma concreto tra istan-
ze, percezioni e progettualità.
Piccola terra mi sembra proporre, a sua volta, un terreno propizio per questo scambio,
imperfetto ma concreto, tra punti di vista convergenti e confliggenti, senza rinunciare
a mettere in luce le difficoltà, senza rinunciare ad un messaggio fiducioso.

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Il progetto
“Adotta un
terrazzamento”
di Luca Lodatti

Due delle quattro vicende raccontate dal documentario Piccola Terra vedono come
protagonisti dei “coltivatori adottivi”, impegnati nel recupero di terreni terrazzati
in abbandono: per comprendere meglio il contesto che ha dato avvio a queste
attività è opportuno raccontare le origini dell’iniziativa denominata “Adotta un
terrazzamento”.
Il progetto “Adotta un terrazzamento” è un’iniziativa nata a Valstagna nel 2010 su
proposta dell’Università di Padova, dell’Amministrazione Comunale di Valstagna e
del Club Alpino Bassanese che si sono posti l’obiettivo di invertire la tendenza all’ab-
bandono e al degrado dei versanti terrazzati, contribuendo a rimettere in uso questo
prezioso insieme di strutture inutilizzate dando l’opportunità a chiunque ne facesse
richiesta di avere in affido un terrazzamento.
Il fenomeno dell’abbandono dei versanti coltivati a tabacco nel Canale di Brenta
risale in buona misura al secondo dopoguerra e agli anni del boom economico, che
hanno richiamato la popolazione della valle verso impieghi più redditizi e hanno
messo fine alla secolare coltivazione del tabacco. La graduale ritirata verso il basso
della manutenzione dei versanti ha prodotto una situazione di abbandono e degrado
generalizzati dei muri di sostegno, dei percorsi, dei sistemi di raccolta e deflusso
dell’acqua: a tutt’oggi oltre il 50% degli oltre 300 ettari di versante terrazzato nella
valle è abbandonato, con grande preoccupazione anche per le conseguenze in termini
di equilibrio idrogeologico, e con scarsi esiti delle iniziative di recupero e rilancio
agronomico.
L’iniziativa ha preso spunto da una prima azione spontanea di due cittadini bassane-
si, soci del locale Club Alpino, che nel corso di un’escursione sui versanti del Canale
avevano avuto l’idea di recuperare uno dei terrazzamenti in rovina che circondavano
l’Alta Via del Tabacco. Nel marzo 2009 la coppia aveva richiesto all’amministrazione
del Comune di Valstagna che gli venisse affidato un terrazzamento in abbandono
per coltivarvi un piccolo orto. La richiesta fu accolta dall’amministrazione, che mise

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a disposizione un terreno di proprietà comunale. In circa otto mesi il recupero fu
realizzato con esito positivo: venne ricostruito un muro in pietra a secco, restaurata
una vasca di raccolta dell’acqua, il campo liberato da rovi e vegetazione infestante per
essere di nuovo rimesso a coltivazione.
A partire da questo primo caso spontaneo i ricercatori del Dipartimento di Geo­grafia
dell’Università di Padova hanno ipotizzato la possibilità di un’iniziativa di “adozione”
ad una scala più ampia, seguendo l’esempio di iniziative analoghe già avviate in altre
zone per rilanciare aree rurali alpine o appenniniche marginali. L’obiettivo non era la
commercializzazione di prodotti, quanto piuttosto rimettere nuovamente a disposi-
zione terreni che i rispettivi proprietari non erano più in grado di mantenere – a cau-
sa dell’età, della distanza dovuta a dinamiche migratorie, per semplice disinteresse.
Furono avviati i contatti con le istituzioni locali (il Comune di Valstagna), il Grup-
po Terre Alte del Club Alpino Italiano e la Sezione CAI di Bassano del Grap-
pa. L’unione di questi diversi soggetti (partner scientifico, partner amministrativo
e associazione di volontariato) ha portato alla costituzione, nell’agosto 2010, di un
Comitato denominato “Adotta un terrazzamento in Canale di Brenta”, che ha dato
forma giuridica all’organizzazione del progetto.
Tale struttura gestionale si è fatta carico di promuovere l’iniziativa e di fungere da
tramite tra proprietari dei terreni e persone interessate all’adozione, individuando i
terreni abbandonati, contattando i legittimi proprietari, attivando un’apposita forma
contrattuale che tutelasse la proprietà e al tempo stesso offrisse garanzie per un uti-
lizzo quinquennale del fondo da parte degli adottivi. Il “contratto di comodato d’uso
modale” consente infatti la concessione gratuita dei terreni a fronte dell’impegno a
realizzare i lavori necessari al loro recupero e manutenzione. Le attività degli affida-
tari sono previste da un apposito regolamento, che contiene le regole di base per la
buona gestione della struttura terrazzata e la coltivazione dei terreni.
Il ruolo del comitato si è andato definendo man mano nel corso dei primi mesi di
attività: all’iniziale funzione di promozione (mediante la costruzione di un sito web
dedicato) e di coordinamento dei lavori di recupero, unita al mantenimento dei rap-
porti con i proprietari, spesso anziani o emigrati altrove, si è affiancata un’attività di
carattere più cooperativistico, orientata a coordinare tra loro i neo-coltivatori, dive-
nuti soci del Comitato, per offrire servizi di supporto alla manutenzione.
Nel lasso di tempo che va dall’ottobre 2010 alla fine del 2011 il Comitato è riuscito
a dare in affido un totale di 30 terrazzamenti. Il lavoro dei soci del Comitato ha
permesso il ritorno alla coltivazione del versante terrazzato situato a monte della
piccola contrada storica di Ponte Subiolo (dove oggi Aziz coltiva la sua menta), dei
primi terrazzamenti dell’inselvatichita val Verta, lungo l’Alta Via del Tabacco, e quel-

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li localizzati nel versante destro della val
Frenzela sopra le case Tovo (dove An-
tonia e Romeo Compostella coltivano il
proprio orto).
All’attività di recupero dei terreni ab-
bandonati hanno preso parte cittadini
provenienti non solo dalle città vicine al
Canale di Brenta (Bassano del Grappa
o Marostica), ma anche di centri urbani
più lontani (Vicenza, Mirano o addi-
rittura Venezia). A singoli coltivatori si
sono inoltre affiancati gruppi di scout
o scolaresche, che hanno trasformato i
terrazzamenti in insoliti campi base per
attività educative e ludico-ricreative,
contribuendo a loro modo alla rivita-
lizzazione dei versanti. Il movimento di
coltivazioni e di persone che si è andato
sviluppando nel corso di questo primo
anno di attività fa ben sperare su una
possibile inversione di tendenza, rispet-
to alle dinamiche di abbandono domi-
nanti fino al recente passato. Lo scorso
ottobre 2011 si è tenuta la prima “Festa
del terrazzamento”, in cui la neonata e
poliedrica comunità degli adottivi si è unita ai rappresentanti della comunità locale
in un momento conviviale, condividendo i prodotti della terra ricevuta in adozione.
Chi volesse essere aggiornato sugli sviluppi di questa avventura, o meglio ancora
volesse associarsi all’azione di sostegno della montagna del Canale di Brenta, può
richiedere attraverso il sito www.adottaunterrazzamento.org una “piccola terra” da
coltivare, oppure avviare forme di “adozione a distanza”, versando una piccola quota
annua per sostenere operazioni di pulizia e manutenzione di secolari muri a secco in
abbandono. Per tenere in vita la montagna del Canale di Brenta in fondo basta un
“clic”, perché il patrimonio terrazzato della montagna appartiene a tutti, non solo ai
montanari, e gli squilibri ambientali e sociali delle “terre alte” in abbandono prima o
poi si riverberano sulle “terre basse”.

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Fazzoletti di terra
Giuseppe Taffarel e lo sguardo
neorealista sulla montagna veneta
di Mirco Melanco

Giuseppe Taffarel (Vittorio Veneto, 1922), prolifico documentarista italiano, ha rea-


lizzato oltre trecento cortometraggi, concentrando la sua attività soprattutto nei de-
cenni Sessanta e Settanta. Si trasferisce ventenne a Roma, dove frequenta l’Accade-
mia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e artisti come Vittorio Gassman. Durante
la guerra è partigiano sulle Prealpi bellunesi/trevigiane, nelle zone che da Pian delle
Femene e dal monte Visentin giungono sino al Pian del Cansiglio, dove combatte
accanto ai compagni Emilio Vedova e Rodolfo Sonego1.
Tornato a Roma nel secondo dopoguerra, insieme a Sonego attraversa un periodo
di profonda indigenza, ma allo stesso tempo culturalmente splendido. Sono, infatti,
gli anni della rinascita culturale del neorealismo (non solo) cinematografico. Taffarel
frequenta le trattorie capitoline dove i giovani intellettuali si ritrovano in un clima
di intenso fermento creativo, mentre gli sceneggiatori più anziani (Sergio Amidei
e Cesare Zavattini) e i registi (Roberto Rossellini e Vittorio De Sica) realizzano i
loro capolavori universalmente conosciuti: Roma città aperta, Paisà, Ladri di biciclet-
te, Umberto D. Anche il documentario, subendo l’azione neorealista, cambia pelle e
autori come Michelangelo Antonioni (Gente del Po, N.U. Nettezza Urbana) o Dino
Risi (Barboni) dilatano il loro interesse sul mondo, puntando l’obiettivo sulla realtà.
Questi autori mettono a nudo un sociale scomodo; i poveri, che sotto il fascismo
non avevano avuto cittadinanza per l’immagine negativa che potevano dare della
Nazione, ora diventano il soggetto privilegiato del nuovo cinema: è il tempo del
risveglio e dello sguardo libero dai precedenti condizionamenti politici. È proprio
in questo periodo che Taffarel si forma professionalmente, lavorando sul set con il

1. Per un approfondimento sulla vita e le opere dello sceneggiatore cinematografico bellunese si


rimanda al libro, di chi scrive, L’anticonformismo intelligente di Rodolfo Sonego, Edizioni Fonda-
zione Ente dello Spettacolo, Roma 2010.

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regista veneziano Glauco Pellegrini2, noto per essere stato l’assistente del maestro
documentarista Francesco Pasinetti. Alla fine degli anni Cinquanta Taffarel è già
un regista conosciuto e stimato di film documentari: sono numerosi i cortometraggi
che realizza attraverso un contatto profondo con la realtà, anche se a differenza del
collega Vittorio De Seta3 egli entra nella dimensione privata, descrivendo i suoi per-
sonaggi nei risvolti intimi dei loro comportamenti e con una particolare attenzione
per i dettagli.
Fazzoletti di terra, girato nel 1963 nel comune di Valstagna nella valle del Brenta, è
uno dei documentari più espressivi della capacità narrativa dell’autore nel dar vita
a storie appartenenti alla realtà contadina e alle piccole comunità montane. Ben si
lega al concetto etico/morale ereditato dalla guerra partigiana: la vita si deve basare
sul principio fondamentale e sull’azione costante necessarie per il conseguimento
della giustizia sociale. Il cortometraggio di tredici minuti (e 10”) è prodotto dalla
Documento Film ed è girato nell’arco di due settimane da una troupe composta da
diciotto persone4. Racconta di una coppia di contadini, i signori Cocco, alle prese
con un lavoro assai faticoso per “inventarsi i campi da coltivare, costruendoli come
fosse una casa, spaccando la roccia, grattando la montagna”. Recita ancora la voce
narrante di Roberto Natale: “Lui ha sessant’anni e lei cinquanta. Lavorano così da
sempre, senza respiro, per guadagnare pochi palmi di terra così piccoli da essere
chiamati fazzoletti. La solitudine li ha abituati a parlare poco e anche fra loro si
capiscono a gesti, occhiate. Sanno da generazioni ormai cosa devono fare: conqui-
stare la montagna metro per metro”. Per i due realissimi protagonisti di Fazzoletti di
terra, un documentario neorealista a colori che volge la sua ricerca antropologica sul
modo di vivere e sugli aspetti sociali degli individui più umili, la miseria è un incubo
costante, assieme alla vecchiaia. Ogni giorno che passa, in quel luogo arido che nega

2. Con Glauco Pellegrini Taffarel gira nel 1949 il primo documentario italiano a colori intito-
lato Ceramiche umbre.
3. Vittorio De Seta mostra allo spettatore affreschi e panoramiche del lavoro contadino. Il re-
gista guarda da una distanza prospettica sempre funzionale al suo cinema, fondato sulla volontà
di descrivere, con accuratezza ed elevata attitudine estetica, realtà rurali e popolari.
4. I dati relativi al film sono tratti dalla testimonianza che lo stesso Taffarel ha rilasciato il 31
marzo 2011 presso la sede della Mediateca della Regione Veneto a Mestre, in occasione di un
incontro organizzato da chi scrive, docente del Laboratorio di videoscrittura, con gli studenti
del DAMS e della Magistrale SSPM dell’Università di Padova. Nei titoli di testa sono ac-
creditati: organizzazione Alberto Passanti, montaggio Giuliana Bettoja, commento Roberto
Natale, musica Egisto Macchi (Edizione Rete), fotografia Luigi Sgambati e regia di Giuseppe
Taffarel.

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tutto, l’incubo porta alla frantumazione
delle loro sicurezze e sembra riflettersi
nella raffigurazione di marito e moglie
mentre spaccano la roccia che si sgreto-
la sotto il loro duro lavoro, utilizzando
mine, piccone, mazza, martello, scalpel-
lo e tanta forza fisica.
Il documentario spiega, attraverso una
descrizione intensa ed etnograficamen-
te precisa, i passaggi che i due compio-
no per realizzare un muretto a secco che
delimiti l’area sul confine che sporge
verso il basso. Poi bisogna trovare la
terra per costruire un campo simile a
quelli che la natura offre in pianura. La
fatica, umilmente esibita dai due vec-
chi, appare sovrumana. La macchina da
presa segue ogni fase della lavorazione;
le inquadrature si fermano su piccoli
particolari, come le mani screpolate e
tagliate dei due contadini o sugli im-
pressionanti panorami che mostrano
il luogo dove si svolgono le operazioni
per la realizzazione del terrazzamento:
è uno spazio piccolo, quasi sospeso nel
vuoto, individuato dai due lavoratori sempre più in alto, là dove altri non sono arri-
vati e quindi presumibilmente un luogo dove si può ancora trovare terra sotto i rovi,
spostando le pietre e scavando in profondità.
Nonostante, parafrasando il maestro sovietico realista Dziga Vertov, “la vita sia col-
ta in flagrante”, è anche vero che il film è minuziosamente preparato. La messa in
scena e l’organizzazione del set rispettano le regole che valgono per i lungometraggi
di finzione, per cui il documentario è, in sintesi, basato su una sceneggiatura. I due
contadini si trovano a recitare se stessi, sono attori spontanei che compiono le azioni
abituali di un’intera vita, compresa quella molto particolare di fasciare le orecchie
dell’unica gallina feconda del pollaio poco prima dell’esplosione della mina, per evi-
tare che il pennuto smetta di produrre uova per lo spavento. Tanto lavoro porta alla
semina del tabacco, perché solamente il tabacco può crescere in una terra tanto po-

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vera; ma il misero guadagno finale di trenta lire l’ora appare uno smacco anche per la
voce narrante che sottolinea: «Siamo stati noi a vergognarci, per tutti».
La stessa voce narrante è impiegata da Taffarel per chiarire il suo metodo di lavoro
che ha richiesto, per un lungo periodo prima delle riprese, un’osservazione attenta e
puntigliosa dei coniugi e una piccola quanto intensa inchiesta. Così, si scopre che
la donna non si era più mossa dalla casa dopo il giorno del suo matrimonio. Alla
domanda: “Che cosa desideri di più nella vita?” la donna risponde a mezza voce:
“Dormire tre giorni di fila”. “Null’altro?” “Sì, morire”. Del marito si apprende che
si è spostato solo per andare sui monti di fronte alla loro casa, il Monte Grappa,
come soldato durante la prima guerra mondiale. L’attenta osservazione dei partico-
lari antropomorfici ritrae la vita di due persone dignitose, anche se per la coppia il
benessere è lontano da ogni speranza. Il finale drammatico del cortometraggio svela
la morte del loro unico figlio avvenuta durante la guerra partigiana. Le immagini
colgono padre e madre nell’atto di portare dei fiori sulla lapide-ricordo: lo fanno una
volta l’anno, il giorno dell’anniversario della sua morte ed è l’unico momento in cui
abbandonano i loro campi. Il figlio Pietro è stato impiccato con altri trenta ragazzi
dai nazifascisti in un viale di Bassano del Grappa il 26 settembre 1944. Le ultime
parole del documentario recitano: “All’inizio quando abbiamo avvicinato questi due
contadini mentre spaccavano le pietre li avevamo guardati solo sotto il profilo umano
ed economico, erano così isolati dal mondo che parevano al di fuori di tutto. Aveva-
mo dimenticato che anch’essi fanno parte di noi, che sono parte attiva della nostra
storia”.

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Piccola terra
Note di regia
di Michele Trentini

1. “Al Mondo”

Quando al termine di una proiezione di Cheyenne, trent’anni al Trento Filmfestival,


Mauro e Luca ci proposero di realizzare un documentario riguardante il recupero
dei campi terrazzati nel Canale di Brenta, rimasi perplesso e tergiversai. Associai
immediatamente muri a secco e terrazzamenti a qualcosa di troppo statico, di cui in
quel momento non avevo voglia di occuparmi. Nei giorni seguenti pensai tuttavia a
quante volte nel corso del tempo mi era capitato di osservare e di calpestare campi
terrazzati più o meno abbandonati lungo i versanti delle valli che ci circondano, non
ultimi quelli che qualche anno fa mi mostrò mio padre presso il paese dov’è nato.
Piccoli campetti in luoghi ripidi e brulli, che un tempo furono di mio nonno; qua e là
erano rimasti ancora vecchi filari di vigne riarse al sole, piccole vasche per la raccolta
dell’acqua dal fondo crepato e qualche rudere in pietra per il deposito degli attrezzi.
Quel paesaggio mi affascina ogni volta, ma mi procura anche un velo di malinconia
al pensiero che solo sessant’anni fa fosse curato come un giardino; e un senso di im-
potenza, perché nonostante il desiderio ricorrente di recuperarne qualcuno, mi sono
sempre mancati il tempo e la determinazione. Così giacciono nell’incuria, frequentati
per lo più da qualche lucertola. Tra i manufatti più indispensabili all’agricoltura di
montagna, terrazzamenti e muri a secco sono in un certo senso i più umili, perché
la loro presenza il più delle volte si dà per scontata, un po’ come se fossero lì da
sempre.
A inizio estate Mauro e Luca ci inviarono Fazzoletti di terra, il film di Giuseppe
Taffarel girato a Valstagna nel 1963, aggiungendo che avremmo potuto utilizzare
anche quelle immagini. La qualità della pellicola mi sorprese, così come il fatto che
qualcuno avesse girato in quell’angolo poco noto e apparentemente inospitale di
mondo un film che per alcuni versi mi ricordava i documentari di Vittorio De Seta,
un maestro. Riguardandolo più volte pensai che in un nuovo lavoro si sarebbe potuto

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dare spazio alla storia dei due vecchi coltivatori di tabacco intrecciandola con quella
dei nuovi protagonisti; quelle sequenze avrebbero mostrato le tecniche tradizionali di
costruzione dei terrazzamenti e di coltivazione del tabacco, raccontando il tramonto
di un’epoca, mentre noi avremmo potuto dedicarci a nuove storie e con maggior
ottimismo. L’idea cominciò ad entusiasmarmi.
In seguito mi parlarono del progetto e mi feci raccontare la vicenda di Aziz, uno dei
primi immigrati magrebini della valle, intenzionato ad adottare un terrazzamento e
a coltivare la menta a Valstagna. Da tempo desideravo rendere protagonisti dei miei
documentari anche cittadini originari di altri paesi e l’occasione sembrava essersi
presentata. Decisi di realizzare il film. Con Marco, con cui avevo già collaborato, ci
recammo a Valstagna. Fui subito a mio agio in quel luogo che ricordavo più angusto,
attratto dalla sua complessità e da una luminosità inattesa: un piccolo borgo vivace
sovrastato da una moltitudine di terrazzamenti semiabbandonati sul versante più
soleggiato e da un’imponente e rumorosa cava su quello opposto. Il fiume Brenta, la
ferrovia Trento-Bassano e la Statale della Valsugana attraversano notte e giorno un
tratto di valle tutt’altro che immobile e refrattario, all’ombra del più noto Altipiano
di Asiago.
Alla trattoria “Al Mondo” Mauro e Luca ci parlarono del progetto di adozione dei
terrazzamenti che stavano promuovendo e ci presentarono alcune delle persone che
avevano immaginato come protagonisti del documentario, tutte piuttosto disponi-
bili. Più tardi ci condussero ai Giaconi, un pugno di case situate a mezza costa, alle
spalle dell’abitato di Valstagna. L’imponente caseggiato dotato di decine di finestre
dagli scuri in legno logorati dal tempo, in passato dimora di almeno quaranta per-
sone, oggi ospitava solo tre anime. Non trovammo nessuno, ma ebbi l’impressione
che lì il tempo si fosse fermato: ad una parete era appeso un vecchio bilanciere per
il trasporto di secchi e sull’antico selciato era adagiato un cesto intrecciato a mano
contenente fieno; si sentì odore di stalla e alcuni gatti vennero a curiosare.
Strada facendo conoscemmo Antonia, Romeo, Aziz, Giacomo e Claudio, e mi fu
sempre più chiaro che il film avrebbe raccontato queste persone e il loro legame con
un “fazzoletto” più o meno grande di terra: una masiera, i Giaconi, le Pirche, le Man-
dre, una cava, Valstagna, il Canale di Brenta, il Marocco. Dalle loro traiettorie indi-
viduali avremmo dovuto far emergere valori e ideali possibilmente universali, mentre
la dimensione locale sarebbe stata in relazione con quella globale, in una prospettiva
tipicamente antropologica. Sulla base di queste considerazioni pensai al titolo, che
alla fine ci trovò tutti d’accordo. La nostra fascinazione per la natura, per la montagna
e soprattutto per le scelte di vita coraggiose avrebbero fatto il resto.

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2. “Qui Valstagna”

Io e Marco abbiamo trascorso molto tempo con i “protagonisti”, ad ascoltarli ed


osservarli anzitutto, spesso senza camera e registratore, condividendo con loro pro-
spettive ed esperienze. Una sera, in una cucina d’altri tempi nel cuore dei Giaconi,
Claudio e la sua famiglia ci hanno proposto di vedere la prima parte de I recuperanti:
con una famiglia d’altri tempi, un film d’altri tempi, l’atmosfera era a tratti surreale
e Rigoni Stern nell’aria. Abbiamo mangiato i muséti cucinati da Angela, la madre
di Claudio, silenziosa e caparbia come la protagonista del film di Taffarel, alla quale
somiglia incredibilmente. Nella piccola stanza semibuia dove in solitudine e silenzio
fa formaggio, Claudio ci ha confidato che ascoltando i rumori sordi e ritmati della
caseificazione ama ricordare suo padre, che gli ha tramandato quell’arte ancestrale.
Ricordo emozioni rare. Con il sole, con la pioggia e anche con la neve siamo saliti
lungo la mulattiera che conduce alle Pirche, accompagnati da Angela e Marilisa, da
Olga, la mussa, e dai cani Roll e Buck. Contemplando Valstagna dall’alto delle sue
piccole terre Claudio ci ha raccontato di non aver mai assistito al Palio delle Zattere,
perché d’estate fin da bambino è sempre rimasto lassù a far fieno.
A piedi abbiamo raggiunto più volte anche le Mandre, ruderi inghiottiti dal bosco,
un tempo proprietà dei nonni, che Giacomo ha trasformato nel suo angolo di para-
diso e che vorrebbe far conoscere anche ad altri. Ci ha confidato che in autunno ama
starsene seduto su una panchina ad osservare caprioli e camosci, ascoltando il loro
verso. Giacomo, un po’ come il vecchio Vu1, aveva la passione del “recupero” e al paese
ha preferito la solitudine dei monti: “la vita giù in basso” non gli piaceva. Giacomo
ci ha accompagnati anche dentro la cava, dove si ha l’inquietante sensazione che
proprio di fronte al versante che nei secoli è stato modellato con i terrazzamenti,
qualcuno stia sfacciatamente distruggendo la montagna, divorandosi la terra.
Abbiamo osservato la dedizione con cui Romeo e Antonia hanno sistemato la loro
masiera, assestando con pazienza le pietre del muro a secco, eliminando le radici per
evitarne il crollo, riparando la vasca per la raccolta dell’acqua e abbattendo con un
po’ di dispiacere alcune piante. Silenziosi e affiatati come i protagonisti di Fazzoletti
di terra, li ricordano nei loro gesti, ma non nelle motivazioni che li legano alla terra:
“nuovi pendolari” delle masiere, Antonia e Romeo partono da Bassano per raggiungere

1. Albino Celi, detto El Vu, è il recuperante nativo di Valstagna a cui si sono ispirati Mario
Rigoni Stern nel romanzo Le Stagioni di Giacomo ed Ermanno Olmi nel film I Recuperanti. A
lui è stato recentemente titolato, non lontano dalle Mandre, il “Sentiero del Vu” lungo una delle
linee di sbarramento della Grande Guerra.

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senza fretta il Canale di Brenta, lasciandosi alle spalle la sconfinata pianura veneta. A
conferma della loro generosità e del loro inesauribile spirito volontaristico li abbiamo
incontrati nel corso di escursioni organizzate dal CAI per ripulire i sentieri, durante
le riunioni del Comitato per l’adozione dei terrazzamenti, ma anche al Subiolo, sulla
masiera di Aziz, tanto per dare una mano. Adottare una masiera non è cosa da tutti.
A casa Wahbi Monika e Aziz ci hanno mostrato con orgoglio una stanza arredata
alla marocchina e un’altra alla ceca; che coppia affascinante e coraggiosa. È sorpren-
dente la determinazione con cui stanno dando nuova vita all’ultimo locale rimasto a
Oliero, altrimenti destinato a chiudere i battenti, coinvolgendo parenti, amici e colla-
boratori vari. Quante volte abbiamo fatto tappa al “Canaletto”, un microcosmo dove
capita di incontrare nello stesso momento anziani davanti a un’ombra e a un mazzo
di carte, ragazzi che parlano l’arabo o il francese, il Sindaco o un assessore della Lega
venuti per una pizza o per un kebab. Valstagna pulsa in quel locale.
A dicembre sono giunto nel piccolo villaggio sperduto dov’è nato Aziz, in Marocco.
A quel viaggio associo le emozioni più intense. Già presso l’aeroporto di Treviso sono
rimasto sbalordito nel vedere tante persone in coda, uomini, donne e bambini: desti-
nazione Casablanca da una parte, destinazione Tirana dall’altra. In un giorno qual-
siasi di dicembre, centinaia di persone che vivono nelle nostre città e nelle nostre valli
vanno e vengono dai loro paesi d’origine, con le valigie stipate di cose per i parenti,
e forse anche di sogni. All’aeroporto ci si rende davvero conto delle dimensioni del
fenomeno. Volare è qualcosa che mi spaventa, anzi mi angoscia, ma ho scelto di farlo
con Aziz e la sua famiglia; per loro questi sono viaggi necessari, altra cosa rispetto a
un last minute per Sharm El Sheik. Nel film ho voluto dar risalto a questo volo, più
che mai rito di passaggio, per me e per le loro esistenze italo-marocchine2. In Africa
io ed Aziz abbiamo viaggiato in assoluta libertà e in leggerezza, on the road come due
ventenni attraversando paesaggi memorabili alla ricerca della menta, dalle pianure di
Settat fino ai campi terrazzati della Valle dell’Ourika, sui monti dell’Atlante, dove
Aziz non era mai stato e dove si è commosso, perché gli è parso di essere a Valstagna,
nel suo Marocco! Quanti incontri straordinari lungo la strada. Una sera a Marrakech
ho deciso di lasciare la telecamera in auto per godermi senza filtri il fascino contur-
bante di Jema’a al-Fnaa e della Medina; ma quando ho sentito cantare e suonare
in modo così straordinario un gruppo di uomini attorniati da decine di persone ho
confidato ad Aziz che mi sarebbe piaciuto poter disporre di un po’ di quella musica.
Aziz mi ha letteralmente ordinato di recuperare la telecamera, ci avrebbe pensato lui

2. A proposito di storie di immigrati marocchini in Europa, cfr. Anna Mahjar Barducci, Italo-
marocchina, Diabasis, Reggio Emilia 2009.

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ad introdurmi in quel cerchio magico altrimenti inaccessibile. Così, in una piazza
densa di storie e di volti, che quella notte mi è parsa l’ombelico del mondo, mi è
stato possibile registrare il brano che non a caso chiude il documentario. Durante il
viaggio ho conosciuto meglio anche il piccolo Adam, che al bar mi ha insegnato i
primi rudimenti di arabo contagiandomi con la curiosità e l’irrequietezza della sua
età. Poco dopo il nostro ritorno in Italia Adam sarebbe partito per la Repubblica
Ceca dove avrebbe trascorso il Natale con il fratellino Sami e con i nonni materni: il
futuro, quello di Valstagna, è anche suo.
Nel montaggio ho dedicato estrema cura alla scelta delle poche affermazioni che
rappresentano i nostri “protagonisti”. Romeo e Antonia sono un po’ panteisti, anche
egoisti, ma nel senso buono della parola. Giacomo un bel giorno ha detto basta alla
cava, Madre Natura non lo ha fatto per rimanere là. Claudio, al quale abbiamo “rubato”
alcune parole nascondendo il microfono, non ha intenzione di svendersi al turismo
ed è capace di emozionarsi abbracciando una pianta. Aziz vuole prendersi cura di un
terrazzamento, per recuperare e per integrare. La mia principale preoccupazione è stata
quella di trovare le situazioni, i gesti e le parole per rappresentare queste persone, un
po’ meno il raccogliere immagini e inquadrature relative allo stato attuale dei terraz-
zamenti; la pellicola di Taffarel racconta magistralmente l’abbandono, anche se con
l’enfasi e la retorica della voce
fuori campo. Tuttavia, entran-
do nell’abitazione mostrata in
Fazzoletti di terra, oggi ridotta a
rudere senza tetto, e osservando
lo stato di incuria dell’anfiteatro
terrazzato che a più riprese si
vede nel film, ho pensato che
alcune immagini attuali, acco-
state a quelle di cinquant’an-
ni fa, sarebbero state efficaci.
Addentrandomi con una certa
emozione in quella selva e iner-
picandomi a fatica sui terrazzamenti ricoperti da grovigli di piante e di rami ho
avuto la percezione di come il tempo e la vegetazione avanzino inesorabilmente. Per
un momento ho anche pensato di proporre a Taffarel due passi in quella selva e di
mostrare qualche altra immagine dell’abbandono; ma ho voluto evitare di dare al film
un’impronta nostalgica e dolente, la sfida che anima questo lavoro è un’altra.
Il contrasto tra lo stile di vita di uomini che vivono a contatto con gli elementi natu-

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rali e la presenza del turismo che li sfiora, spesso non accorgendosi di loro, cattura di
frequente la mia attenzione. Lungo la Brenta rafting e kayak sono simboli di un tu-
rismo che oggi va per la maggiore, di una Valstagna più giovane, meno faticosa e più
“in basso”. Paradigmatico mi è parso anche l’incontro tra Aziz e l’emigrato originario
di Valstagna che vive in Francia: come sa essere beffardo il destino. Il valore che la
terra e i gesti ad essa legati possono avere per le persone pervade l’intero documenta-
rio ed è sicuramente tra le motivazioni che spingono Antonia e Romeo a partire da
Bassano, Giacomo e Claudio a ridare nuova vita alla “terra dei padri”, al di là di ogni
razionalità economica, e Aziz a voler mettere le mani proprio in quella terra dove la
sensazione di sentirsi straniero è dietro l’angolo.
Il montaggio, denso di analogie ma anche di contrasti, vorrebbe invitare lo spettatore
a elaborare in proprio gli stimoli proposti, anche se il rischio di perdersi è dietro
l’angolo; a questo proposito mi
pare interessante ciò che scrive
un grande del cinema: “L’autore
intende moltissime cose: descri-
vere, narrare, smascherare, in-
veire, commuovere, e se talvolta
un proposito contamina l’altro e
la chiarezza ne è compromessa,
poco male. L’arte può, non deve
essere chiara”3.
Mio padre, Umberto, ha seguito
con particolare coinvolgimento
questo mio lavoro e mi ha sug-
gerito di aprire il documentario con una citazione di Mario Rigoni Stern: “Qui Val-
stagna: parla Beppo. Valstagna è un paese sul fiume Brenta lontano dal mio dieci
minuti di volo d’aquila mentre qui indicava il comando di compagnia. Beppo, il
nostro capitano nativo di Valstagna. Pareva proprio di essere sulle nostre montagne e
sentire i boscaioli chiamarsi tra loro”4.
Sulle nostre montagne, in uno dei suoi orti, mio padre ha piantato un po’ della menta
marocchina di Aziz e ne ha conservato le sementi per coltivarla assieme a me in
primavera.
Anche per questo, ma non solo, è a lui che mi piace dedicare Piccola terra.

3. Michelangelo Antonioni, Sul cinema, Marsilio, Venezia 2004, p. 57.


4. Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Einaudi, Torino 2001, p. 11.

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Natura
Integrazioni
Libertà
di Marco Romano

Antonia e Romeo. Aziz. Giacomo. Claudio.


Cos’hanno in comune? Nulla, a prima vista. I primi sono una coppia di Bassano. Lui
ha fatto il professore di scuola, lei l’impiegata. Due persone delicate e belle come i
colori naturali e pastello della loro casa. Amano la montagna e i viaggi. L’orto della
“loro” masiera.
Aziz, emigrato dal Marocco, è a Valstagna da molti anni. Fa l’operaio in una fabbrica
e da un anno e mezzo gestisce una pizzeria. Ha un sacco di idee e di progetti, mille
contatti e cose da fare. Moglie ceca e due figli: «Nati qui. Nati qui». La sua piccola
terra oggi profuma di menta.
Giacomo per nove anni ha lavorato in cava, poi si è licenziato e ha scelto la monta-
gna. Buona parte dell’anno vive per conto suo alle Mandre. Ha una manualità da far
invidia. I lavori di muratura e gli interni del suo rifugio li ha finiti. Ora ci sono l’orto
e la legna, le api e il prato. Domani, chissà, un piccolo allevamento e un agriturismo.
Claudio fa l’operaio forestale e il contadino. È avvinghiato al passato e alla storia dei
luoghi e della famiglia come certe radici nodose e dure che si incuneano nelle rocce
e nei sassi. Vive arroccato ai Giaconi. La mamma e la sorella. Le vacche. I cani, Roll
e Buck. Olga, la mula. Gatti che spuntano ovunque. D’estate fa il fieno e la legna in
montagna, alle Pirche. Prati e boschi a picco. Odori profondi e buoni. Di terra, di
latte e vino.
Quali sono le motivazioni delle scelte di vita di persone così diverse? Perché due
come Antonia e Romeo decidono di aderire al progetto di adozione di un terraz-
zamento e iniziano a prendersi cura di un fazzoletto di terra invaso dai rovi e dal
bosco? Li abbiamo visti lavorare. Devono tagliare qualche alberello, sradicarne uno e
sistemare col cemento la vasca di raccolta dell’acqua piovana, in un angolo della ma-
siera. Legano con cura il primo albero con un nodo da roccia e Romeo inizia a segare.
Penso alla rudezza e a volte alla poca prudenza di certi tagliatori che ho visto in alta
Val di Non, in Trentino, e sorrido. Nei gesti e nelle poche parole, Antonia e Romeo

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sono animati da una sincera voglia di fare, e di fare bene. Lui taglia i piccoli alberi, lei
i rami con grosse cesoie o una seghetta. Nella masiera si muovono con metodo, ordine
e diligenza, in perfetto equilibrio tra piacere e dovere.
Dopo aver tagliato qualche piccola pianta, Romeo inizia a sradicarne una. È un la-
voro certosino ma a suo modo faticoso, dopo aver lavorato di piccone la lama del
badile si incastra tra le radici che oppongono resistenza passiva. Quelle che affiorano

bisogna tagliarle. Romeo è attento e cura ogni gesto, ogni particolare. Antonia intan-
to sradica una piantina di vite. Per trovare un varco tra le radicette usa una cazzuola.
Anche se segano, se tagliano, se sradicano, rispettano quello che eliminano, lo fanno
con riguardo.
La vite sradicata viene subito ripiantata ai piedi di un muro a secco con gesti veloci
e amorevoli. Il vento smuove le foglie sugli alberi. Tremano, danzano nell’obiettivo
della telecamera e cadono, scivolando lievi sulla terra e sul lavoro di Antonia e Ro-
meo. Lavorano all’unisono, spinti dal desiderio di prendersi cura di un angolo remoto
di terra. Di coltivarlo. Di sistemarlo. Di piantare ortaggi e fiori. Lo fanno perché il
luogo riviva assieme a loro. Con la natura. Nella natura. La cura e l’amore che met-
tono nel lavoro di orticoltori per passione ritorna loro come alimento ed energia di
ortaggi e fiori: di fagioli, pomodori, patate, radicchio. In quel cibo c’è l’energia del
sole, dell’acqua e dei loro corpi. È energia che ritorna loro alimentandoli di materia e
spirito. Ecco cos’è e dov’è il loro panteismo. Nelle foglie. Nelle radici. Nei rami. Nei
prodotti dell’orto. Nei cespugli colorati di fiori. Nel profumo di terra umida. Nei sassi.
Antonia e Romeo nel campo ci sono. Sono lì, in quel luogo e in quel momento, uniti
fra di loro, non sono altrove. Non c’è separazione. C’è unità. Di corpo, cuore e mente.

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Nella masiera. Nella natura.
Se Antonia e Romeo incarnano la pacatezza, Aziz è il movimento continuo. La
famiglia. La fabbrica. La pizzeria. Il computer e skype. Il cellulare che squilla. Una
telefonata, un sms. La macchina che va e viene lungo la strada che costeggia il fiume,
poi oltre. La gente salutata lungo la via, a piedi, in macchina, fermandosi, parlando,
discutendo, ridendo, riflettendo, ricordando, commentando, progettando, organiz-
zando, tenendo contatti, uno, tre, cinque,
sette, dieci. Anche Aziz adotta una ma-
siera, è il suo frammento di terra. Lo fa
con convinzione e determinazione per
una serie di motivi urgenti e potenti.
Primo fra tutti, dare un segno concreto e
tangibile di amore e riconoscenza verso
la terra che l’ha accolto. Per integrarsi
ancora di più con la realtà umana, socia-
le, culturale e paesaggistica di Valstagna.
Il discorso sull’integrazione è lungo e
complesso, ma vale la pena soffermarsi
almeno su una manciata di cose, per-
ché Aziz incarna la contemporaneità, il
nuovo, il futuro. È l’identità in continua trasformazione.
Abderrhamane è un amico di cinquant’anni. Non c’entra con le masiere. Dopo più di
venti in Val di Non, dove ha sposato una valligiana con cui ha cresciuto ed educato
due figli, non sa ancora definire cos’è l’integrazione. Dice che l’integrazione non si
raggiunge, non c’è un punto minimo e un punto massimo di integrazione. L’inte-
grazione va e viene, come l’identità. Dipende dal carattere, dalle giornate, da chi
frequenti, da un fatto bello o brutto che capita, dall’umore di un giorno. Integrarsi è
un’azione fluida, mobile, dinamica: è molto complicata. Aziz incarna questa mobilità
e si è certamente integrato. Il suo arricchimento sociale e culturale è in continua
espansione. Per completare se stesso e la sua integrazione decide di adottare una
masiera. La terra anche in questo caso è il luogo, lo spazio fisico, mentale, corporeo
e dell’anima in cui ritrovare se stessi, i legami e le connessioni con le proprie origini
e con la terra nuova, condividendo con i propri amici il senso di essere in un luogo:
ed è sempre terra, natura. Aziz coltiva, trapianta, innaffia, si prende cura di qualcosa.
Ancora una volta. La relazione di cura nutre, sempre. Nutre chi dà e chi riceve. La
masiera, la piccola terra adottata da Aziz, è lontana dal sonoro confuso e frammen-
tario della pizzeria, della fabbrica, delle idee e delle cose da fare. È un luogo fisico e

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dell’anima in cui stare insieme provando gioia e unità nelle piccole cose. Per ritrovare
una dimensione a misura d’uomo in uno spazio naturale fatto di elementi essenziali:
terra, erba, cespugli, alberi, vento, acqua, sole. Menta, aromi, profumi. Sensazioni.
Vita. Se un giorno nel Canale di Brenta spireranno folate di menta e chiudendo gli
occhi si percepiranno vibrazioni lontane di cembali e tamburi, il merito sarà stato
suo. Di Aziz.
Giacomo ha sperimentato il lavoro in cava. La cava che divora la montagna stritolan-
dola e fagocitandola nelle sue stesse caverne. La cava per lui è il passato. Difficile tro-
vare parole più adatte delle sue per raccontare il passaggio di stato: «Ho lavorato per
nove anni lassù. Sei qualcosa che corre avanti e indietro tutto il giorno, senza un futu-
ro. Non costruisci niente, sei un numero che corre sopra a un mezzo. Madre Natura,
secondo me, non mi ha fatto per rimanere là». Cosa aggiungere? Lassù, in solitudine,
alle Mandre, nella natura, Giacomo esprime la propria personalità e le proprie pas-
sioni attraverso la sua invidiabile manualità. Ma ha anche il gusto di accogliere, di
raccontare e spiegare il territorio, il lavoro, la storia dei luoghi. Cerca di trasmettere
il proprio sapere manuale e orale alla gente, agli escursionisti, agli studenti, ai curiosi.
A suo modo, è un educatore, un divulgatore, un trasmettitore di oralità e sapere, e lo
è sulla terra, nella natura in cui ha scelto di vivere e stare bene con se stesso. In una
casa che ha restaurato quasi da solo, con le sue mani, la sua intelligenza pratica, la
sua cultura, che significa saper pensare e saper fare. Giacomo ha ritrovato se stesso
e il senso della propria esistenza scegliendo di lasciarsi alle spalle la cava divoratrice;
ha scelto di ridare vita, decoro ed energia ad un luogo familiare che era destinato al
soffocamento e alla morte per abbandono. Tanto nella cava soffocava di polvere e
alienazione, quanto alle Mandre respira natura e libertà, libertà di lavorare a cose che
gli piacciono e che sono essenziali: falciare, fare legna, coltivare l’orto, allevare le api,
accogliere i visitatori, progettare un piccolo agriturismo e un allevamento di animali
da cortile. Basta guardare con quale ritmo tranquillo e con quale cura amorevole tra-
pianta le piantine di radicchio e allo stesso modo osserva il lavoro delle api. Ancora
una volta cura, amorevolezza, presenza mentale. Nelle azioni, nei lavori, nei gesti
di Giacomo c’è unità e concretezza, c’è appagamento: non c’è l’allontanamento e la
separazione da se stessi che generano tristezza, svuotamento e angoscia. C’è compiu-
tezza, integrazione nella natura e nel lavoro, nell’espressione e nella manifestazione
di sé. E quando ci sono questi elementi c’è la percezione della libertà, del senso solido
e buono dello stare bene in un luogo. Ancora di più se circondati, come Giacomo,
dall’energia possente dei faggi, dalla forza maestosa del loro portamento: faggi che in
autunno colorano gli occhi, i sogni, la vita.
Mi piace pensare che nelle pause di lavoro, lontano dal vociare sconnesso e privo di

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senso e dal formicolio scomposto degli esseri umani, Giacomo percepisca all’aria
aperta la forza magnetica della natura e degli elementi, ai più sconosciuta.
Certo non a Claudio. La prima volta che andiamo a filmarlo è il 10 dicembre del
2009. Ci accoglie sorridendo, poi assieme a Olga, mula silenziosa, e Roll, un pasto-
re tedesco giocherellone, si parte a piedi verso le Pirche, una località in montagna
dove Claudio taglia l’erba e la legna e conserva il fieno. Lui, Angela (la mamma) e

Marilisa (la sorella) lassù hanno una casara. Il sentiero è ripido e le continue fermate
e ripartenze veloci per piazzare la telecamera sono letali. Claudio è collaborativo al
massimo, ci aspetta e aspetta che prendiamo posizione. Alle Pirche ci sono la mam-
ma e Buck, un golden retriver schivo e adorabile. Il posto è aperto e davvero bello,
ripido e isolato come certi masi altoatesini. La cava di fronte invece è una coltellata
in pancia. Appena arrivati, Claudio e Angela ci offrono formaggio e vino fatti in
casa, sopressa di un amico, salame piccante e pane. Vegetariani sì, talebani no. Poi
iniziano le riprese.
Claudio, a parte la falciatrice e un mini cingolato per trasportare il letame, lavo-
ra come cinquant’anni fa. Usa il tagliafieno a mezzaluna e ammucchia il fieno nei
lenzuoli, e i ganci per far volare a valle i lenzuoli lungo la fune a sbalzo sono for-
celle di rami. I suoi gesti, gli sguardi e le parole esprimono un attaccamento e un
radicamento viscerali alla tradizione e alla conservazione. La difficoltà e a volte la
rabbiosa sofferenza di chi, come lui, vuole produrre poco e buono e farne ciò che
vuole. Claudio è un solitario aperto. Rivendica il diritto alla libertà e al rispetto della
sua proprietà. Cura e mantiene il territorio, a differenza di chi è noncurante, di chi è
«senza cultura». Con lui, con Angela e Marilisa, e con i loro animali, è bastato poco

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per stabilire un rapporto semplice, diretto e affettuoso, come spesso succede con le
persone impregnate di terra.
La giornata è densa: di doni, di silenzi e parole, di risate aperte. Del profumo e del
sapore del fragolino. La sensazione di aver vissuto un’esperienza particolare, lontana
anni luce dalla vita di tutti i giorni, è netta e profonda. Il ritorno a casa, alla normalità
quotidiana, è stridente, faticoso. A un centro commerciale di Trento saluto Michele.
Greggi di gente confusa rincorrono lo spreco e la finta gioia dei troppi regali di Nata-
le, a compensare il vuoto di senso e di sensi. Lassù, alle Pirche, la solitaria accettazio-
ne del lavoro e della fatica. Quaggiù, due ragazze vestite da Babbo Natale per conto
di una grande banca accalappiano clienti proponendo un gioco dove si vince sempre,
e il regalo è una pallina per l’albero, minuscola e tristissima. Ho giocato e vinto, per
solidarietà con i precari, poi alle due babbe natale ho regalato un cioccolatino per
tentare di addolcire la loro pena di fingere. Che mondi diversi e lontani! Uno denso
e concreto, l’altro sciocco e vacuo.
Di nuovo ai Giaconi, a giorni è Natale. Mungitura e formaggio. Claudio è accurato
in tutto. Nella pulizia della stalla e delle mammelle delle vacche e quando poi, in una
stanza gelida, accende il fuoco per scaldare il latte versato nella caldaia di rame. È
l’ora del formaggio. Il termometro calato nel grande recipiente è del bisnonno, è di
prima della prima guerra mondiale, è una reliquia. Tutto il locale, con gli attrezzi di
legno e le fascere del nonno, trasuda di antico. Sulla mensola della cappa del camino,
la pipa del nonno, immagini sacre, un pacchetto di nazionali del papà, lasciato lì da
anni e mai buttato. La tenacia di Claudio e il suo rispetto quasi maniacale a conserva-
re tutto così com’era non gli hanno fatto cambiare neanche gli infissi. Soffiano spifferi
letali come stilettate, ma forse, in realtà, corroborano corpo, mente e spirito. Anche
loro sono “di una volta”, sono le stesse lame di aria ghiacciata che hanno sentito il
papà, il nonno e il bisnonno.
Claudio sistema la legna nel fuoco, anche i pezzi più sottili, usando una pinza da
caminetto e una meticolosità davvero rara. È un uomo positivo, come la sorella e la
mamma. Anche le loro risate sono particolari e diverse. Sono aperte e franche, affatto
o poco condizionate da mille ed inutili menate cerebrali e da mille sovrastrutture
intellettuali di chi, in vari modi, alimenta e compensa il proprio fragile io.
Nello stanzino gelido, il suono del bastone che sbatte nella caldaia di rame è simile
a una campana, un po’ triste e quasi tibetano. Ascoltarlo da soli, la sera, per giorni,
per anni, con intorno il silenzio... È un ritmo lento, ipnotico. Affiorano le memorie,
ancora una volta antiche: di suo papà, del nonno e del bisnonno. E la magia delle
coincidenze si compie. Mentre scrivo qualche nota su un diario, si arriva a parlare
proprio di questo. «Questi sono suoni e gesti che hanno trecento, quattrocento anni»,

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dice Claudio. Silenzio, lungo. Nello stanzino, il lavandino di pietra rossa è eroso come
un cratere. La luce di un paio di lampadine proietta su una parete l’ombra gigante di
Claudio che mescola il latte. Sembra lo spirito dell’Uomo Selvatico che nella notte
dei tempi ha insegnato agli uomini a fare il formaggio. Davvero c’è un’energia antica,
quasi ancestrale. Silenzio, lungo. Il suono delle onde del latte, lo scampanare degli
strumenti di legno nel paiolo di rame. La magia delle coincidenze e l’eterno ritorno.
«In luoghi dove c’è tanta storia come questo, si provano sensazioni di continuo. Non
so a cosa sia dovuto... Può darsi che io sia strano... Io che conosco il posto, che so
quanta storia c’è, le assaporo ancora di più quelle sensazioni. Come quando entri nel
bosco e abbracci un albero. Hai mai provato quella sensazione strana? Secondo me
siamo legati a delle cose che portiamo con noi dalla notte dei tempi». Soffi di legna
che scoppietta e si consuma nel fuoco.
Claudio, quasi fermo e chiuso nel suo mondo, a suo modo è andato oltre, come Aziz:
entrambi hanno scavalcato mondi e frontiere. Claudio va oltre perché sa percepire
e perché, cosa rara, non si svende «ai soldi e all’andazzo del momento». Perché è un
essere sensibile. Perché vive quotidianamente a contatto con elementi essenziali sa-
pendone cogliere quell’energia intima e segreta, profonda, sottile e potente, che vibra
tramandandosi da milioni di anni. Credo che anche lui, come il poeta tedesco Höl-
derlin, senta che «arde ancora in noi, sia pure come sotto la cenere / una nostalgia per
i giorni dell’età prima del mondo / quando ognuno percorreva la terra come un dio /
prima che non so cosa addomesticasse l’uomo / e quando ancora lo circondavano non
mura e morto legname / ma l’anima del mondo, la sacra aura ovunque presente».

Cinque persone, cinque personaggi diversi che hanno scelto la cura. La natura. L’in-
tegrazione. Il silenzio. L’amorevolezza. La fatica e il lavoro. Forme di libertà. Libertà
di essere e pensare, di dire e di fare: «Chi vive in montagna», dice Claudio, «non è
abituato a chiedere, si arrangia. Chi vive in montagna fa quello che c’è da fare».
Cinque rivolti alla terra. Per nutrirsi nutrendola di letame. Viene dal latino laetus:
lieto, giulivo, allegro, contento;
che rallegra, piacevole, caro, gradito;
favorevole, propizio;
fertile, ricco, rigoglioso, pingue, abbondante.
Il letame nutre. Il letame fermenta e riscalda. Vive e fa vivere.
«Mescola un po’ di letame con la terra, viene bene!», dice il vecchio magrebino
alla fine. Terra davvero piccola. Terra grande e deturpata.

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piccola terra
Film realizzato nell’ambito del Progetto FSE “Paesaggi terrazzati tra eredità storica e innova-
zione” - Scuola di Dottorato in Scienze Storiche dell’Università di Padova, con il contributo di:

Dipartimento di Geografia
“G. Morandini” Comune di Valstagna
Università di Padova

Comitato Scientifico Centrale Regione del Veneto


del Club Alpino Italiano - Direzione Attività Culturali
Gruppo Terre Alte e Spettacolo

Per informazioni: piccolaterra@libero.it

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