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Appunti di
Introduzione alla Fisica
Nucleare e Subnucleare
a.a. 2018/19
2018
Indice
1 Preambolo 11
1.1 I costituenti fondamentali della materia . . . . . . . . . . . . 12
1.2 Elementarietà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
1.3 Le interazioni fondamentali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
1.4 Simmetrie e leggi di conservazione . . . . . . . . . . . . . . . 17
1.5 La sperimentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
1.6 Unità di misura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19
3 I raggi cosmici 51
3.1 Alcune caratteristiche dei raggi cosmici . . . . . . . . . . . . . 53
3.2 Meccanismi d’accelerazione alla Fermi . . . . . . . . . . . . . 56
4 Il nucleo atomico 61
4.1 Nomenclatura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64
4.2 Tabella dei nuclidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65
4.3 Proprietà del nucleo atomico . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67
4.3.1 Masse dei nuclei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67
4.3.2 Misura di masse nucleari con metodi spettrometrici . . 68
4.3.3 Misura di masse nucleari tramite reazioni nucleari . . 71
4.3.4 Abbondanza degli elementi . . . . . . . . . . . . . . . 74
4.3.5 Spin dei nuclei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 76
4.3.6 Parità e nuclei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79
4.3.7 Forze nucleari e dimensioni dei nuclei . . . . . . . . . 80
4.3.8 Modello a goccia e formula di Weizsäcker . . . . . . . 89
4.3.9 Momenti elettrici e magnetici dei nuclei . . . . . . . . 97
5
4.3.10 Misure dei momenti elettrici e magnetici dei nuclei . . 106
4.3.11 Isospin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108
4.3.12 Ricapitolando . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112
6
8.8 Reazioni dirette . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 258
8.9 Reazioni di risonanza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259
7
13.5 I risultati della diffusione profondamente anelastica . . . . . . 369
18 -* Mesoni 389
19 Barioni 391
19.1 Produzione e rivelazione di barioni . . . . . . . . . . . . . . . 391
19.2 -* Multipletti barionici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 395
19.3 -* Masse dei barioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 395
19.4 -* Momenti magnetici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 395
19.5 -* Decadimenti semileptonici dei barioni . . . . . . . . . . . . 395
19.6 Limiti del concetto di quark costituenti . . . . . . . . . . . . 395
8
25 Particelle e termodinamica nell’universo primordiale 447
27 Esercizi 465
27.1 Esercizi da inserire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 465
27.2 Esercizi Capitolo 2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 465
27.2.1 Esercizio 2 1: Massimo potenziale ottenibile da una
configurazione Crockroft Walton . . . . . . . . . . . . 465
27.3 Esercizi Capitolo 4 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 465
27.3.1 Esercizio 4 1: Spin del protone . . . . . . . . . . . . 465
27.4 Esercizi Capitolo 5 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 466
27.4.1 Esercizio 5 1: Decadimento α del plutonio . . . . . . 466
27.5 Esercizi Capitolo 6 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 467
27.5.1 Esercizio 6 1: Convertitore termoelettrico a plutonio 467
27.5.2 Esercizio 6 2: Radon in una ambiente chiuso . . . . . 468
27.5.3 Esercizio 6 3: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 470
27.5.4 Esercizio 6 4: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 471
27.5.5 Esercizio 6 5: Intensità di un fascio di neutroni in
funzione della distanza dalla sorgente . . . . . . . . . 473
27.5.6 Esercizio 6 6: Vita media del 239 Pu . . . . . . . . . . 474
27.5.7 Esercizio 6 7: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 475
27.5.8 Esercizio 6 8: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 477
27.5.9 Esercizio 6 9: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 478
27.5.10 Esercizio 6 10: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 479
27.6 Esercizi Capitolo 7 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 480
27.6.1 Esercizio 7 1: Variabili di Mandelstam . . . . . . . . 480
27.6.2 Esercizio 7 2: Sezione d’urto in funzione del para-
metro d’urto ”b” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 481
27.6.3 Esercizio 7 3: Fattore di forma elastico per un nucleo 483
27.6.4 Esercizio 7 4: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 484
27.7 Esercizi Capitolo 13 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 485
27.7.1 Esercizio 13 1: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 485
27.7.2 Esercizio 13 2: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 486
27.7.3 Esercizio 13 3: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 487
9
499
K 537
L 539
10
Capitolo 1
Preambolo
11
costituenti le molecole (atomi) e gli atomi (nuclei ed elettroni atomici), si
muovono, nelle strutture che costituiscono, con velocià tipicamente molto
inferiori a quella della luce nel vuoto e le energie cinetiche che caratterizza-
no tali moti sono molto inferiori agli equivalenti energetici delle masse delle
strutture coinvolte. Ciò vale per lo più anche per i componenti dei nuclei, i
nucleoni, all’interno dei nuclei stessi.
I costituenti delle particelle adroniche (quark e gluoni) si muovono invece a
velocià molto alte, prossime a c, e le energie cinetiche che caratterizzano il
loro moto sono dell’ordine o maggiori agli equivalenti energetici delle loro
masse, per cui non si può prescindere da un approccio relativistico nel de-
scriverne la fenomenologia.
Compendi e richiami di alcuni fondamentali argomenti propedeutici, e lo
svolgimento completo di alcuni calcoli relativi ad argomenti trattati, sono
presentati in appendice allo scopo di non appesantire il filo conduttore.
12
tiva. Nel 1931, sempre Dirac, concluse che le nuove strutture previste dalla
sua equazione andavano interpretate come elettroni che si muovessero a ri-
troso nel tempo, ovvero equivalentemente, come delle nuove particelle che si
muovono nel solito modo, rispetto al tempo, ma posseggono carica elettrica
opposta a quella dell’elettrone, essendo per il resto uguali a quest’ultimo.
Vennero chiamate positroni, o anche anti-elettroni. Queste nuove particelle,
anzi anti-particelle 3 , furono scoperte l’anno successivo da Anderson, e quin-
di da Blackett e Occhialini fra i prodotti delle interazioni dei raggi cosmici4
con l’atmosfera terrestre.
Il concetto di antiparticella si estese anche alle altre particelle note o via via
previste, trovando costante riscontro nella loro individuazione sperimentale
(l’antiprotone fu ad esempio scoperto da Segrè e Chamberlain nel 1955).
Oggi si assume che ad ogni particella sia associata un’antiparticella (talvolta
le due coincidono, come nel caso del fotone, ad esempio), e inoltre un’anti-
particella è caratterizzata dall’avere massa, spin e vita media uguali, carica
elettrica, momento magnetico, numero barionico, leptonico o altro numero
quantico uguali in valore assoluto ma di segno opposto rispetto alla particella
associata. Il positrone è la sola antiparticella ad avere un nome specifico, per
il resto vengono indicate dal prefisso ”anti”. Il simbolo utilizzato per indicare
un’antiparticella è solitamente lo stesso che designa la corrispondente parti-
cella, ma con una barretta posta sopra il simbolo. Non è casuale l’analogia
con l’indicazione di una quantità complessa coniugata, data la coniugazione
fra la funzione d’onda associata a una particella e quella associata alla sua
antiparticella.
Pauli, nel 1930, postulò l’esistenza di un’ulteriore particella, chiamata poi
neutrino, allo scopo di conciliare il rispetto delle leggi di conservazione di
energia, impulso e momento angolare, con gli allora recenti risultati dello
studio del decadimento β.
Nei decenni successivi, con l’avvento e il successivo sviluppo degli accele-
ratori di particelle, si trovò che protoni e neutroni sono i due membri più
leggeri di una numerosa famiglia di particelle dette adroni. Ad oggi se ne
conoscono più di 200 e come fu per gli atomi, possono essere classificati in
gruppi caratterizzati da propietà simili.
Apparve dunque chiaro che essi non potessero essere considerati costituenti
fondamentali della materia e fu verso la fine degli anni ”60 del 20o secolo
che col modello a quark si riuscı̀ a mettere ordine in questo zoo di adroni.
Ogni adrone può essere descritto come un’opportuna combinazione di due o
tre quark.
Un’idea schematica delle scale dimensionali che caratterizzano le diverse ge-
rarchie della struttura della materia allo stato attuale delle conoscenze è
3
Per antiparticelle e Dirac si veda: P.A.M. Dirac, Theory of electrons and positrons,
Nobel Lecture, Dec. 12, 1933
4
Si veda il paragrafo 9.4
13
Figura 1.1: Illustrazione delle scale dimensionali tipiche del mondo atomico,
nucleare e subnucleare
14
famiglie, secondo alcune loro caratteristiche comuni.
1.2 Elementarietà
È importante chiarire quale sia il criterio con cui stabilire che un sistema
fisico osservato è un oggetto elementare, cioè privo di struttura interna e che
si comporta a tutti gli effetti come un punto materiale, nel senso che non
può assorbire energia dall’esterno trasformandola in energia interna. Tutta
l’energia trasferita dall’esterno a una particella elementare si deve quindi
ritrovare come energia cinetica di quest’ultima. Se il sistema ha gradi di
libertà interni, parte dell’energia trasferita può eccitarli, per cui l’energia
cinetica associata al moto del baricentro del sistema non dà conto di tutta
l’energia trasferita.
Nel mondo microscopico valgono le leggi della meccanica quantistica, per
cui l’energia dei gradi di libertà interni di una particella non si distribuisce
in modo continuo, ma può assumere solo una serie discreta di valori, E0 ,
E1 , E2 , ... Quindi per mettere in luce l’esistenza di gradi di libertà interni e
determinare di conseguenza l’eventuale natura composita di una particella,
si deve trasferire un’energia almeno pari alla soglia Es = E1 − E0 . Sondando
la particella con energie inferiori ad Es , essa si comporta a tutti gli effetti
come elementare. Per questo motivo lo studio della struttura interna delle
particelle richiede energie sempre più elevate.
Conseguenza inevitabile di questo è anche che il carattere elementare di
una particella non può essere definitivamente dimostrato sperimentalmente:
quanto si può affermare è soltanto che fino ad una certa scala d’energia la
particella in esame si comporta come una particella elementare.
In base a queste considerazioni è possibile stabilire che una particella non
è elementare anche senza essere in grado di osservarne i componenti, sem-
plicemente sulla base della sua capacità di assorbire energia per eccitazione
dei modi interni.
15
una forma di interazioni elettromagnetiche che legano gli atomi a formare
molecole.
Secondo l’attuale modo di vedere, le interazioni fra particelle sono media-
te dallo scambio di bosoni vettori, particelle con spin 1. Essi sono i fotoni
per l’interazione elettromagnetica, i gluoni per le interazioni forti, i bosoni
W+ , W− e Z0 per le interazioni deboli. I diagrammi in figura 1.2 mostrano
esempi di interazioni fra due particelle tramite lo scambio di bosoni vettori;
leptoni e quark sono rappresentati da linee dritte, i fotoni da linee ondulate,
i gluoni da linee ad elica, i bosoni vettori dell’interazione debole da linee
tratteggiate. A ognuna di queste interazioni è associata una tipologia di
16
virtuali, prodotti intermedi di vita brevissima che si manifestano in processi
d’urto. Da ciò discende il brevissimo raggio d’azione dell’interazione debole.
Essendo invece il fotone privo di massa, ne deriva un raggio d’azione infinito
per l’interazione elettromagnetica.
I gluoni hanno massa nulla come i fotoni, ma mentre questi ultimi non tra-
sportano carica elettrica, i gluoni traportano invece carica di colore. Essi
quindi interagiscano fra loro e ciò conduce a una riduzionew del loro raggio
d’azione efficace sino a valori compatibili con le dimensioni tipiche di un
componente del nucleo, protone o neutrone, detto genericamente nucleone.
Il corto raggio d’azione delle interazioni debole e forte, unitamente alla so-
stanziale neutralità elettrica della materia, quando non perturbata, fa so-
stanzialmente sı̀ che nuclei e particelle possano essere considerati alla stregua
di sistemi fisici isolati, per i quali valgono quindi le varie leggi di conserva-
zione.
Oltre alla parità viene poi introdotto un operatore C che tiene conto di
un’ulteriore importante simmetria e che trasforma le particelle nelle rispet-
tive antiparticelle e viceversa. Esso viene chiamato coniugazione di carica
in quanto la trasformazione di una particella nella propria antiparticella im-
17
plica il conseguente cambiamento del segno della carica.
Agli autostati di C è abbinato un numero quantico detto C-parità che si
conserva per ogni interazione o trasformazione che risulti simmetrica rispet-
to a C.
Un’ulteriore tipo di simmetria discende poi dal fatto che certi gruppi, o mul-
tipletti, di particelle si comportano praticamente allo stesso modo rispetto
all’interazione forte o a quella debole. Particelle appartenenti a tali mul-
tipletti possono essere viste e descritte alla stregua di diversi stati di una
stessa particella. Per caratterizzare questi stati si introducono due ulteriori
tipi di numeri quantici detti rispettivamente isospin forte e isospin debole, e
anche per essi valgono delle leggi di conservazione. L’isospin forte è talvolta
detto anche spin isotopico o spin isobarico.
1.5 La sperimentazione
Gli esperimenti in fisica nucleare e delle particelle sono effettuati, tranne
poche eccezioni, utilizzando gli acceleratori di particelle. Il loro sviluppo e
costruzione costituiscono di per sè una branca importantissima della scienza
e della tecnologia moderne e nel prossimo capitolo si delineeranno le carat-
teristiche di alcuni di essi.
La sperimentazione in fisica nucleare e delle particelle può essere suddivisa
secondo due filoni fondamentali: quello delle misure di scattering (urto e
diffusione) e quello delle misure spettroscopiche.
18
Lo studio dei prodotti delle reazioni di diffusione o dei decadimenti richiede
di poter individuare/rivelare questi prodotti. Nel caso essi siano elettrica-
mente carichi la loro rivelazione si attua sfruttando l’interazione fra essi e
sostanze in forma gassosa, liquida, costituite da solidi amorfi o cristallini.
Queste interazioni danno luogo in tali materiali a segnali elettrici o elettro-
ottici che vengono sfruttati allo scopo.
La rivelazione di particelle elettricamente neutre si effettua indirettamente,
per il tramite di particelle cariche secondarie urtate e diffuse dalle prime
entro i materiali rivelatori.
L’insieme dei fenomeni che hanno luogo entro questi ultimi determinando la
produzione di segnali elettrici o ottici in funzione anche delle tipologie dei
materiali stessi e dei fenomeni fisici interessati, saranno oggetto di un capi-
tolo successivo. Per ora si tenga presente che le informazioni che si possono
direttamente desumere in merito a particelle e nuclei coinvolti in interazioni
e decadimenti concernono: il loro numero; le coordinate spaziali delle suc-
cessive posizioni da essi occupate lungo le traiettorie percorse e talvolta i
tempi associati, ottenendo cosı̀ le velocità; le energie cinetiche possedute e/o
frazioni di esse; le curvature delle traiettorie in campi elettrici e/o magnetici,
da cui si possono dedurre gli impulsi e conoscendo già le velocità anche le
masse; le orientazioni dei loro momenti angolari; ... .
Un fattore importantissimo è rappresentato dalle caratteristiche di efficienza
e risoluzione di questi sistemi di rivelazione, che determinano la precisione e
l’accuratezza con cui le osservabili fisiche indicate possono essere misurate 6 .
19
Una quantità che spesso ricorre è la costante di Boltzmann kB
E(1kg) = 1kg · c2 ∼
= 9 · 1016 kg (m/s) ∼
2
= 9 · 1016 J (1.3)
∼ 1/(1.602 · 10−19 ) eV, ne segue:
Poichè 1J =
9 · 1016
1kg · c2 ∼
= ∼
= 5.62 · 1035 eV (1.4)
1.602 · 10−19
da cui infine
1kg ∼
= 5.62 · 1035 eV/c2 (1.5)
Le masse me dell’elettrone ed mp del protone8 che valgono rispettivamente
circa 9.109 · 10−31 kg e circa 1.673 · 10−27 kg, possono essere quindi espresse
7
Vedi Appendice D
8
Per un elenco aggiornato dei valori delle masse delle particelle e rispettivamente dei
nuclei si vedano: C. Patrignani et al., ”The Review of Particle Physics (2016)” Chin.
Phys. C40 100001 (2016), [http://www-pdg.lbl.gov]; e Jagdish K.Tuli, ”Nuclear Wallet
Cards 7th edition” April 2005, Brookhaven National Laboratory, US National Nuclear
Data Center, [http://www.nndc.bnl.gov/chart/]
20
come circa 0.511 MeV/c2 e circa 938.27 MeV/c2 ; la massa mn del neutrone
vale circa 1.675 · 10−27 kg, ovvero 939.56 MeV/c2 .
~ = h/2π ∼
= 1.055 · 10−34 J · s ∼
= 6.582 · 10−22 MeV · s (1.7)
µ = q~/2M (1.8)
con q il valore assoluto della carica elettrica della particella ed M la sua mas-
sa. Si considerano usualmente il magnetone di Bohr µB (q = e ed M= me ),
il magnetone nucleare µN (q = e ed M= mp ).
√
Ricordando anche che c = 1/ 0 µ0 , la costante di struttura fine è
e2 ∼ 1
α= = . (1.9)
4π0 ~c 137.036
21
Capitolo 4
Il nucleo atomico
61
La constatata durezza del nucleo lo portò poi a proporne un’immagine strut-
turale naif ma per molti versi estremamente realistica, in cui lo si immagina
come costituito da un raggruppamento di sferette quasi rigide (nucleoni), a
massimo impacchettamento, da cui la forma che tende ad una sfera all’au-
mentare del numero A di nucleoni, di volume direttamente proporzionale
ad A, per cui il raggio R di questa ”sfera” risulta proporzionale alla radice
cubica del volume e di conseguenza anche ad A1/3 :
1
R(A) = r0 A 3 (4.1)
62
√
Figura 4.1: Relazione tra Z e ν, tratta dall’articolo originale di Moseley
[Phil. Mag. 27(1914) 703].
63
4.1 Nomenclatura
Il nucleo di un generico atomo X è convenzionalmente indicato con A Z X, con
Z il numero atomico dell’atomo X ed A il numero di nucleoni contenuti nel
suo nucleo. Il numero N di neutroni è N = (A − Z). Un nucleo può anche
essere indicato specificando il numero dei suoi neutroni come: A Z XN . Ogni
diversa combinazione di Z e N , o Z e A, è detta nuclide.
La determinazione sperimentale di Z si attua per via chimica, per il tramite
ad esempio di misure di spettromeria atomica o grazie alla legge di Mose-
ley, rilevando la frequenza della riga caratteristica per l’emissione di raggi X.
Dato inoltre che il nucleo atomico si presenta come un sistema fisico le-
gato soggetto alle leggi della meccanica quantistica, cosı̀ come per gli atomi
anch’esso è caratterizzato da un numero discreto di stati detti livelli ener-
getici nucleari. Il livello corrispondente alla minima energia del sistema è
detto livello fondamentale, altrimenti è detto livello eccitato.
Un nucleo in uno stato eccitato è detto isomero del proprio stato fondamen-
tale.
64
4.2 Tabella dei nuclidi
Le proprietà sistematiche delle varie specie nucleari si possono visualizza-
re ricorrendo ad una rappresentazione che correla il numero Z di protoni
col numero N di neutroni. Si ottiene cosı̀ un diagramma (figura 4.2) in cui
65
su quella intermedia quelli con A dispari (Z pari ed N dispari o viceversa),
su quella inferiore i nuclei con Z ed N entrambi pari.
Nel successivo paragrafo 4.3.8 si vedrà come ciò possa essere descritto dalla
formula semiempirica di Weizsäcker per il calcolo delle masse dei nuclei.
66
Un nucleo A Z X è detto stabile se sopravvive indefinitamente nel tempo, insta-0
bile se invece si trasforma spontaneamente in un’altra specie nucleare A Z0 X
mediante un processo di decadimento.
Il valore Z0 in corrispondenza del minimo di M (A,Z) è il numero atomico
dell’isobaro più stabile della particolare sequenza analizzata.
L’esame sistematico delle varie specie nucleari in funzione di A e Z mostra
alcune regolarità che si sono rivelate utili nello studio della struttura nuclea-
re e delle forze in gioco. I nuclei con A pari, ad esempio, hanno da uno a tre
isotopi stabili, quelli con A dispari invece, uno solo; i nuclei con Z (N ) pari
hanno almeno due isotopi (isotoni) stabili, quelli con Z (N ) dispari non ne
hanno mai più di due.
Le regolarità individuate non hanno carattere di assolutezza e valgono solo
per la gran parte dei nuclei che costituiscono una determinata famiglia nu-
cleare.
Lo studio delle abbondanze isotopiche relative dei vari nuclei nei materiali
che compongono la Terra, i meteoriti, il Sole e le altre stelle (si veda il para-
grafo 4.3.4), mostra la presenza di massimi in corrispondenza ad 42 He2 , 168 O8 ,
40 Ca , 118 Sn, 88 Sr , 89 Y , 90 Zr , 138 Ba , 139 La , 140 Ce , e 208 Pb
20 20 50 50 50 50 82 82 82 82 126 ,
che è un’evidenza del fatto che le specie nucleari caratterizzate da numeri Z
o N appartenenti alla sequenza
Z, N = 2, 8, 20, 50, 82, 126 (4.5)
posseggono proprietà particolari che ne giustificano la grande abbondanza
nell’universo. Sempre dall’analisi sistematica delle specie nucleari si desume
che i nuclei della sequenza (4.5) hanno il massimo numero di isotopi stabili.
Per queste e altre proprietà che si vedranno in seguito i numeri della sequenza
(4.5) sono detti numeri magici e per evidenziarli dagli altri valori di Z o N
li si indica solitamente con l’aggiunta di un asterisco (Z ∗ , N ∗ ).
67
in quanto, in tal caso, il processo violerebbe il principio di conservazione
dell’energia. La quantità
B = c2 ∆M (A, Z) (4.8)
Si definisce quindi l’energia media B/A = −B/A di legame per un nucleone
in un nucleo A
Z X come
2 2
= −∆M (A, Z)c = [Zmp + (A − Z)mn − M (A, Z)]c
B
A (4.9)
A A
Questa quantità è stata misurata per un gran numero di nuclei stabili e
mostra
delle caratteristiche interessanti. Per i nuclei più leggeri (A . 20),
B/A oscilla significativamente crescendo nel contempo rapidamente con A,
per poi saturare raggiungendo un massimo di poco inferiore a 9 MeV in
corrispondenza ad A = 56, un isotopo del ferro.
Per valori di A maggiori, B/A diminuisce molto lentamente e per un ampio
intervallo di specie nucleari, dal carbonio all’uranio, si mantiene prossima
a circa 8 MeV. Queste caratteristiche hanno importanti implicazioni sulla
natura della forza nucleare e sulla struttura dei nuclei. Si deduce ad esempio
che se si scaricano circa 8 MeV di energia cinetica in un nucleo, trasferendoli
tutti ad un suo nucleone, questo dovrebbe potersi svincolare dal legame della
forza che lo trattiene nel nucleo e uscirne libero.
68
Figura 4.5: Energia media di legame per nucleone B/A, per la gran parte
dei nuclei stabili.
69
Figura 4.6: Schema di uno spettrometro di massa a deflessione;
originariamente il rivelatore consisteva in una lastra fotografica.
70
Figura 4.7: Spettrometro di massa in configurazione di Nier-Johnson.
Si tenga presente che i valori della masse ottenibili con le tecniche qui cita-
te forniscono, per la precisione, le masse di ioni che non sono stati sempre
completamente spogliati di tutti gli elettroni dell’atomo originario, per risa-
lire quindi all’effetiva massa del nucleo corrispondente bisogna tener conto
delle masse di tutti gli elettroni ancora legati allo ione al momento della sua
selezione con lo spettrometro e delle energie di legame di tali elettroni.
71
In una tipica reazione nucleare si hanno due nuclei che si combinano per
formarne un terzo, più eventuali residui e a seconda che il processo determini
un rilascio d’energia, o richieda un apporto iniziale d’energia per aver luogo,
la reazione si dirà esotermica o endotermica. La differenza fra la somma delle
masse dei nuclei interagenti e la massa del nucleo risultate, tutte moltiplicate
per c2 , è detta Q−valore della reazione ed è chiaramente Q > 0 per reazioni
esotermiche e Q < 0 per reazioni endotermiche.
Si veda ad esempio una reazione del tipo
a + A −→ b + B (4.11)
e si supponga di conoscere già con una ben definita precisione le masse ma ,
mA e mb di a, A e b. Lo scopo è dedurre la massa mB di B. Si supponga
qui inoltre che le energie cinetiche in gioco siano tali da non richiedere la
corretta e completa trattazione relativistica, permettendo quindi l’approccio
classico approssimato nel tener conto delle conservazioni dell’energia totale
e dell’impulso nel sistema del laboratorio (SL), che sottintende il nucleo A
inizialmente a riposo.
Dette Et,i ed Et,f le energie totali disponibili nei canali di ingresso e finale
della reazione 4.11, si ha
Et,i = Ek,a + ma c2 + mA c2
(4.12)
E
t,f = Ek,b + Ek,B + mb c2 + mB c2
dove Ek,j ed mj rappresentano rispettivamente energia cinetica e massa
della j−ma particella o nucleo. La conservazione dell’energia totale richiede
∆E = Et,i − Et,f = 0, da cui si ottiene
Ek,a − (Ek,b + Ek,B )
mB = + ma + mA − mb
c2
Ek,a − Ek,b mB vB 2
= − + ma + mA + mb (4.13)
c2 2c2
2 h
2
i
= 2 2 Ek,a − E k,b + (m a + mA + −m b ) c
2c + vB
che permette di esprimere mB in funzione di quantità note o comunque mi-
surabili sperimentalmente con lo studio della reazione 4.11.
Dalla figura 4.8 si può ricostruire la cinematica classica della reazione 4.11
nel Sistema del Laboratorio e per la conservazione dell’impulso si ha
px,B = pa − pb cosϑ
(4.14)
p = pb senϑ
y,B
72
Figura 4.8: Due corpi in due corpi nel Sistema del Laboratorio.
n + 1 H −→ 2 H + γ (4.15)
73
approssimazione affermare che l’energia di legame di 2 H coincida con l’ener-
gia del fotone γ dello stato finale della reazione 4.15, sommata all’energia
cinetica di rinculo del deutone9
2
Eγ2
B H = Eγ + (4.17)
2M2 H c2
Eγ
mn ' M2 H − M1 H + (4.18)
c2
L’energia del fotone γ emesso può essere dedotta dalla misura della sua
lunghezza d’onda λγ con notevole precisione e ciò conduce a
2π~c
Eγ = ' 2.224521 MeV (4.19)
λγ
La conoscenza dei valori precisi delle masse di protone e deutone per altre
vie permette quindi di ottenere, per la massa del neutrone
Per la misura di precisione delle masse di molti isotopi, sia stabili che insta-
bili, si possono dunque combinare misure di energia in reazioni nucleari con
misure di spettrografia di massa.
74
Figura 4.9: Abbondanza degli elementi nel sistema solare in funzione del
loro numero di massa A, normalizzati all’abbondanza del silicio (Si) assunta
come 106 .
75
che ne modificano l’entità e i rapporti.
Questi dati concernono comunque poco più del 4% circa di quanto dovrebbe
costituire l’universo, ovvero la cosiddetta materia barionica.
J~ assume valori pari a un multiplo intero di unità di ~ per nuclei con A pari
e a un multiplo semi-intero di unità di ~ per nuclei con A dispari.
Ogni livello nucleare è caratterizzato dal proprio momento angolare totale J~
che in conseguenza dell’isotropia dello spazio è una quantità che si conserva,
per cui l’operatore quantistico che lo rappresenta commuta con l’Hamilto-
niana e di conseguenza il suo valore può sempre essere determinato assieme
a quello dell’energia del livello. Spesso in letteratura ci si riferisce allo ”spin”
di un nucleo intendendo il suo momento angolare totale J, ~ e non S. ~
Ogni misura di J~ dá risultati coerenti con le regole illustrate e ciò costi-
tuisce una delle ragioni che hanno portato ad escludere gli elettroni quali
componenti dei nuclei. Si trova infatti ad esempio che 2 H, 6 Li, 14 N11 hanno
tutti spin pari ad ~, quindi in accordo con la regola su indicata, avendo un
numero pari di nucleoni componenti. Se tali nuclei fossero costituiti da pro-
toni ed elettroni, il numero dei costituenti sarebbe dispari per rendere conto
della loro carica elettrica, e conseguentemente il loro spin totale sarebbe un
11
Fu F. Rasetti nel 1929 che con studi sullo spettro Raman della molecola 14 N2 mostrò
che il nucleo 14 N è un bosone, quindi costituito da un numero pari di fermioni.
76
multiplo dispari di ~/2, contrariamente all’evidenza sperimentale.
h
∆p ∼ ∼ 4.14 × 10−7 MeV s m−1 (4.23)
∆x
Si ottiene quindi, detta me la massa dell’elettrone, una grezza stima della
sua energia totale nel nucleo sfruttando la corretta formula relativistica
2
Etot = p2e c2 + m2e c4 (4.24)
e assumendo che il suo impulso pe nel nucleo sia dell’ordine di quanto appena
trovato per l’incertezza ∆p. Sostituendo e ricordando che c ' 3 × 108 m/s
e che me ' 0.51 MeV/c2 , si ha
77
al decadimento β, che sono al massimo dell’ordine di alcuni MeV.
Lo spin dello stato eccitato di un nucleo può, per i modi in cui si combina-
no entrambi le tipologie di contributi, differire dal valore che caratterizza lo
stato fondamentale del nucleo stesso; un qualunque effetto può modificare lo
spin di un multiplo intero di ~, quindi se gli spin di un nucleo differiscono fra
stati eccitati e stato fondamentale dello stesso nucleo, lo fanno per multipli
interi di ~.
La maggior parte delle misure di spin nucleari si basa sulla cosiddetta quan-
tizzazione spaziale del momento angolare. Assegnata una direzione di rife-
rimento, quale può essere ad esempio quella di un campo elettrico o magne-
tico esterno al nucleo, il momento angolare J~ del nucleo potrà orientarsi
nello spazio soltanto secondo (2J + 1) diverse direzioni, rispetto a quel-
la di riferimento assegnata. La componente dello spin lungo la direzione
di riferimento in ognuno di questi stati vale m~, dove m, detto numero
quantico magnetico, è un intero o un semi-intero qualsiasi della sequenza
−J, −J + 1, ..., +J − 1, +J.
Per un nucleo, la gran parte degli effetti osservabili dovuti allo spin sono
legati al suo momento magnetico12 . Le (2J + 1) possibili orientazioni del
momento magnetico di un nucleo rispetto a un campo magnetico di riferi-
mento danno luogo a (2J + 1) diversi valori energetici che possono essere
osservati e misurati in svariati modi: studiando la struttura iperfina degli
spettri atomici, o gli spettri rotazionali di molecole biatomiche composte
da atomi uguali, per le quali lo spin determina in modo univoco l’intensità
relativa delle righe spettrali, o mediante spettroscopia delle microonde.
Sperimentalmente si trova che tutti i nuclei con Z ed N pari, e quindi anche
A pari, hanno J = 0, mentre non è cosı̀ per i nuclei con A pari ma Z e N
dispari. I nuclei stabili dispari-dispari sono solo quattro, 2 H, 6 Li, 10 B e 14 N.
Altri quattro hanno vita media molto lunga, dell’ordine dei milioni di anni,
40 K, 50 V, 138 La e 176 Lu; quest’ultimo, con vita media di 3.78 × 1010 anni, è
utilizzato nella datazione delle meteoriti ed è fra l’altro il nucleo col maggior
valore di spin: J = 7.
Per la gran parte dei nuclei i valori dello spin sono piccoli, di valore intero
compreso fra J = 1 e J = 7 per i nuclei dispari-dispari, e di valore semi-
intero compreso fra J = 1/2 e J = 9/2 per i nuclei con A dispari. Questo
indica una caratteristica dell’interazione fra nucleoni che si manifesta come
loro tendenza a ”posizionarsi” nel nucleo in modo da ridurre, per quanto
possibile, lo spin totale risultante, e ricorda quanto fanno gli elettroni di un
atomo nel riempire le shell atomiche.
12
Si veda il paragrafo ??
78
4.3.6 Parità e nuclei
Si ricordino dapprima, senza dimostrazione, alcune proprietà della parità.
Nel caso di un potenziale centrale, quindi descritto da una funzione pari,
anche la relativa Hamiltoniana è pari e le funzioni d’onda degli stati asso-
ciati hanno parità definita P = (−1)` .
Più generalmente si trova che se l’Hamiltoniano di un sistema è pari allora
la parità delle funzioni d’onda degli stati associati è definita.
In conseguenza di ciò si possono misurare contemporaneamente l’energia E
di uno stato, in particolare di un livello nucleare, e la sua parità P , che può
valere +1 o −1, e tale parità si conserva nel tempo se tutte le interazioni
sono pari, ovvero conservano esse stesse la parità.
Per uno stato puro, ovvero a parità definita, la densità di probabilità è sem-
pre pari.
Un vettore è una quantità dispari, nel senso che cambia verso se si cambia
il segno di tutte le sue componenti. Uno pseudovettore è una quantità con
le stesse proprietà di rotazione di un vettore, ma che non cambia verso se si
cambia il segno di tutte le sue componenti, come avviene ad esempio per il
prodotto vettoriale, quindi è pari.
L’impulso e l’operatore quantistico associato sono quantità con caratteristi-
che vettoriali, quindi ”dispari”
∂ ∂
p~ (−~r) = −~
p (~r) , =− (4.26)
∂ (−~r) ∂ (~r)
79
J può infatti corrispondere a diversi valori del momento angolare orbitale
L. Essendo questo associato a una parità positiva per L pari e negativa per
L dispari, ne risulta che si possono avere eventuali mescolanze fra momenti
angolari orbitali o solamente con L pari o solamente con L dispari.
Si consideri ad esempio il deutone 2 H: esso è costituito da un protone e un
neutrone legati, il suo stato fondamentale ha un’energia di legame di circa
2.225 MeV, un momento angolare totale pari a J = 1, con i due nucleoni
in uno stato di tripletto con S = 1 e di conseguenza ha momento angolare
orbitale L = 0 (onda S), come si deduce dalla misura del suo momento
di dipolo magnetico, pari a 0.857 µN , che corrisponde circa alla somma di
quelli del protone e del neutrone. Siccome però si trova sperimentalmen-
te che il deutone ha anche un momento non nullo di quadrupolo elettrico,
pari a 2.82 × 10−31 m2 /e, ciò significa che il suo stato fondamentale non
può essere considerato un puro stato in onda S, che sarebbe sfericamente
simmetrico e quindi compatibile con un momento di quadrupolo elettrico
nullo13 , ma dovrà essere una mescolanza con altri momenti angolari orbita-
li. Per rispondere a quali possano essere questi ultimi che concorrono allo
stato fondamentale del deutone si consideri che deve valere
J~ = L
~ +S
~ , con ~ = 1 e J~ = 1
S (4.27)
80
suo interno il campo elettrico non è coulombiano e non dipende da 1/r2 .
La causa di questi effetti è essenzialmente quantistica: per il teorema di
Gauss il campo elettrico nella regione ”classicamente” fuori dal nucleo do-
vrebbe coincidere con quello generato da una carica puntiforme pari a Ze e
posizionata in O, pertanto un’orbita elettronica classica di raggio maggiore
di r non dovrebbe essere perturbata né in forma né in energia. Il livello
energetico dell’orbitale atomico dipende in realtà dall’andamento del poten-
ziale in tutto lo spazio, che determina anche la funzione d’onda.
Si calcolino quindi gli spostamenti dei livelli indotti da una carica nucleare
Ze supposta, per semplicità, uniformemente distribuita in una sfera di rag-
gio R.
La carica contenuta in una sferetta di raggio r < R è
r3
q (r) = Ze , con q (R) = Ze (4.28)
R3
Di conseguenza il campo elettrico è
Ze
Ee (r) = esternamente al nucleo (r > R)
4π0 r2
(4.29)
q (r) Ze r
Ei (r) = 2
= internamente al nucleo (r ≤ R)
4π0 r 4π0 R3
e l’energia potenziale elettrica eV (r) è
−Ze2
eV (r) = esternamente al nucleo (r > R)
4π0 r
(4.30)
Ze2 r2
eV (r) = eV0 + internamente al nucleo (r ≤ R)
8π0 R3
con V0 determinato dalla condizione di continuità del potenziale in r = R:
81
Ze2 Ze2
eV (r) = eV0 + =− (4.31)
8π0 R 4π0 R
da cui l’espressione del potenziale per r < R
!
Ze2 3 r2
eV (r) = − − (4.32)
4π0 R 2 2R2
Siccome si sa che le dimensioni lineari di un atomo sono circa 104 ÷ 105 volte
maggiori di quelle del suo nucleo, si può affermare che la funzione d’onda
atomica si estende quasi del tutto all’esterno della zona occupata dal nucleo,
e si può quindi calcolare l’effetto, supposto piccolo, della distribuzione non
puntiforme della carica nucleare, con un approccio perturbativo.
Detta ψE0 (~x) la funzione d’onda dell’elettrone atomico corrispondente al
livello imperturbato di energia E0 , calcolato cioè per un atomo con nucleo
puntiforme e posizionato in O, la pertubazione energetica è data da
Z Z
∗ 2
∆E = ψE 0
(~x) e∆V (r) ψE0 (~x) d3 x = ψE 0
(~x) e∆V (r) d3 x (4.33)
82
Ricordando che E0 = −Z 2 e2 /(8π0 a), si ottiene
2
= 4 ZR
∆E
E (4.37)
0 5 a
Scegliendo un atomo idrogenoide molto pesante, con Z = 82 come il piombo,
per cui R ∼ 8 × 10−15 m ed a ∼ 0.53 × 10−10 m, si ottiene
∆E −4
E ' 10
0
ovvero un effetto molto piccolo anche per l’onda S, la cui funzione d’onda
non si annulla in O, e del tutto trascurabile per le altre onde (P , D, ...), la
cui funzione d’onda è nulla in O.
Questo suggerisce un modo per come attuare la misura sperimentale di
questo effetto, che consiste nel rilevare per un atomo la frequenza ν =
(EP − E0 ) /~ dei raggi X emessi in transizioni da onda P a onda S e con-
frontarla con quanto calcolato per il corrispondente atomo idrogenoide con
nucleo supposto puntiforme.
Per rendere l’entità dell’effetto maggiore, e quindi permettere una misura
più significativa, dalla 4.37 si vede che si può lavorare su tre termini, ma già
scegliendo un atomo come il piombo si è fatto quanto possibile per accresce-
re i primi due Z ed R, e nonostante ciò si ottiene un risultato al limite della
rilevabilità. Rimane il raggio a di Bohr dell’atomo che può essere opportu-
namente ridotto se per un tempo sufficientemente lungo si riesce a legare
all’atomo una particella carica negativamente, più pesante dell’elettrone,
che si vada a posizionare su orbite idrogenoidi. Il muone negativo µ− è un
candidato ideale allo scopo in quanto possiede le stesse caratteristiche dell’e-
lettrone in termini di spin e carica elettrica, ha una massa mµ circa 200 volte
superiore a quella me dell’elettrone e dopo essere stato catturato dall’atomo
e prima di decadere, vive abbastanza a lungo da poter dar luogo alle tran-
sizioni richieste. Quest’ultima condizione si può stimare semiclassicamente
tenendo conto che fissato Z, il periodo medio di un’orbita idrogenoide del
µ− scala, rispetto a quella elettronica equivalente, come me /mµ , in quanto
cosı̀ fanno anche le dimensioni lineari delle nuove orbite idrogenoidi. Queste
risultano dunque circa 200 volte inferiori alle corrispondenti per gli elettroni
e si può di conseguenza quasi del tutto trascurare anche l’effetto schermante
della carica del nucleo da parte degli elettroni atomici presenti.
I risultati sperimentali, corrispondenti a salti del muone fra i livelli ato-
mici, concernono l’emissione e la rivelazione di fotoni piuttosto energetici,
dell’ordine di frazioni del MeV, quindi raggi γ. Il calcolo dell’effetto non
può dunque più essere condotto con tecniche perturbative, data l’entità, in
quanto le funzioni d’onda vengono modificate sostanzialmente e il calcolo
preciso dell’energia dei livelli richiede di risolvere direttamente l’equazione
di Schrödinger corrispondente nel potenziale modificato. Per una stima del-
l’entità si può comunque osservare che essendo E0H ' 10 eV l’energia tipica
83
d’un livello elettronico dell’idrogeno, l’energia dei corrispondenti livelli muo-
nici EµH , che scala in modo equivalente ai raggi orbitali, è proporzionale a
Z 2 E0H mµ /me , che calcolata per Z = 82 risulta di ∼ 10 MeV. Le variazioni
energetiche associate ai γ rivelati costituiscono quindi frazioni importanti
delle energie dei livelli stessi.
Lo studio delle differenze fra i valori dei livelli energetici reali, misurati
Figura 4.12: Spettri X di isotopi muonici del Ferro. Si vedono i due picchi
delle transizioni 2p3/2 1s1/2 e 2p1/2 1s1/2 per i muoni, la prima con intensità
doppia della seconda. Lo shift in energia della transizione è dello 0.02% fra
un isotopo e il successivo, rispetto a valori dell’ordine di 10−6 ottenibili con
elettroni equivalenti. [E.B. Shera et al., Phys. Rev. C 14 (1976) 731]
84
di nell’ipotesi di dimensioni nucleari finite, fornisce stime dei raggi R delle
distribuzioni di carica nucleari coerenti con la forma
Oltre al muone vi sono anche altri candidati possibili alla cattura come
pione, Kaone, antiprotone, Sigma, ecc., e il sistema dopo la loro cattura,
almeno finchè la particella catturata si mantiene su orbitali con alti valori di
n, si comporta a tutti gli effetti come un atomo di idrogeno (atomo mesico,
atomo antiprotonico, ...) il cui nucleo ha carica Ze, quindi emette raggi X
in risposta alla cascata della particella verso orbitali con n inferiore.
Nel caso in cui le particelle in orbita idrogenoide sentano l’interazione forte,
e ciò avviene col procedere del processo a cascata verso livelli con n sem-
pre minore, bisogna considerare che non appena la loro funzione d’onda si
sovrappone sensibilmente al nucleo, cresce moltissimo la probabilità di una
reazione fra esse e il nucleo stesso, e se tale probabilità supera quella delle
transizioni radiative i livelli si allargano con conseguente scomparsa della ra-
diazione X associata. L’interruzione delle serie a un dato valore di n, con il
conseguente spostamento e allargamento dei livelli, dà informazioni sull’in-
terazione fra la particella e il nucleo e sul raggio d’azione di tale interazione,
oltre che sulla massa ridotta della particella catturata. Si ottengono in tal
modo informazioni sulla distribuzione in un nucleo di tutti i suoi componen-
ti, compresi i neutroni, e i risultati sono sempre coerenti con una dipendenza
da A1/3 .
85
nucleo non collassi sotto l’azione della forza nucleare.
Il comportamento della forza nucleare percepita da un nucleone in moto
verso il centro del nucleo può dunque essere grezzamente schematizzato co-
me dovuto a una energia potenziale della forma di una buca quadrata come
descritto in figura 4.13 Per sondare gli effetti del potenziale nucleare a di-
Figura 4.13: Energia potenziale nucleare a buca quadrata con core repulsivo
in funzione della distanza r dal centro del nucleo. L’estensione radiale del
core repulsivo è indicato da δ R.
86
in quanto, per R < r < r0min , l’energia potenziale V (r) sarebbe superiore ad
E0 e ciò condurrebbe alla condizione assurda di un’energia cinetica negativa
per tale protone. Se tuttavia si considerano neutroni di energia equivalente
e tale da non dover tenere conto del core repulsivo per r . δ, questi dovreb-
bereo essere in grado di penetrare nel nucleo. Questo portò a pensare che
87
Natura delle forze nucleari e dimensioni dei nuclei 3
"Z Z ∞ #
1 R
2
EC = r Ei2 (r) dr + r 2
Ee2 (r) dr (4.39)
2 0 R
15
Questi nuclei presentano ugual numero di interazioni n − p, ma diversi numeri di
interazioni p − p ed n − n.
88
con Ei (r) ed Ee (r) date dalle 4.29, per cui
(Ze)2 (Ze)2
"Z #
R r4 Z ∞
dr
1 1
EC = dr + = + =
8π0 0 R6 R r2 8π0 5R R
(4.40)
2 2
3 (Ze) 3 (Ze)
= =
20π0 R 5 4π0 R
3 e2 h 2 i 3 e2 Z
∆EC = Z − (Z − 1)2 ' (4.41)
20π0 R 10π0 R0 A1/3
I modi d’indagine fin qui descritti per lo studio delle dimensioni dei nuclei,
supponendo comunque che essi siano delle strutture spazialmente simme-
triche che tendono a una forma sferica al crescere del numero di massa A,
si basano essenzialmente su proprietà e caratteristiche strutturali dei nuclei
stessi.
Più oltre si vedranno anche altri approcci, legati a processi di diffusione di
proiettili sia carichi che neutri da parte dei nuclei.
89
largamente compensata dagli importanti chiarimenti forniti dalla modellisti-
ca nucleare nell’analisi e interpretazione dei risultati sperimentali: i modelli
nucleari, anche se spesso fra loro contradditori e mutuamente inconciliabili,
si completano parzialmente a vicenda e forniscono premesse per una pos-
sibile sintesi delle conoscenze acquisite che dovrebbe basarsi sull’opportuna
applicazione delle interazioni fondamentali fra quark.
Ogni modello nucleare si fonda su una più o meno accentuata idealizzazione
della realtà allo scopo di individuare, in uno schema teorico semplificato, gli
elementi fisici essenziali per interpretare una certa classe di risultati speri-
mentali. La schematizzazione da cui trae origine il modello implica inevi-
tabilmente la ricerca di un opportuno compromesso fra l’esigenza del rigore
matematico e la realistica opportunità di procedere a semplificazioni, anche
drastiche, quando fisicamente giustificabili.
90
di un nucleo: un contributo di volume BV (A) che ha carattere universale
e assicura la debole dipendenza da A e Z di B/A per le diverse specie
nucleari, e un contributo Bi (A, Z) articolato su caratteristiche specifiche dei
vari nuclidi, cioè
• le dimensioni finite del nucleo, per cui i nucleoni delle regioni peri-
feriche sono meno legati di quelli localizzati nella regione più centrale;
91
nucleo, applicando il teorema di Gauss si ha, detto Φ(Er0 ) il flusso del-
la componente radiale Er0 del campo elettrico attraverso la superficie
S(r0 ) = 4πr02
Z r0
Q(r0 ) 1
Er0 = 02
= 4πρZ−1 (r00 )r002 dr00 (4.45)
4π0 r 4π0 r02 0
si ha:
!
(Z − 1) e r2
VC (r) =
3− 2 con r ≤ R0
4π0 2R0 R0 (4.49)
(Z − 1)e
VC (r) = con r > R0
4π0 r
In base alle 4.48 e 4.49, la 4.47 diventa:
3 Z(Z − 1) e2 Z(Z − 1)
BC (A, Z) = = bC (4.50)
5 4π0 R0 A1/3
3 (Ze)2
5 4π0 R0
92
ma che al tempo stesso, perchè ci sia repulsione fra cariche, bisogna
che ce ne siano almeno due, quindi per Z = 1 il termine di potenziale
che ”indebolisce” l’energia di legame di un nucleo deve annullarsi, e
ciò si ottiene sostituendo Z(Z − 1) a Z 2 .
(N − Z)2 (A − 2Z)2
Bsim (A, Z) = bsim = bsim (4.51)
A A
93
• Lo studio sistematico delle masse nucleari mostra che i nuclei sono più
stabili quando posseggono un numero pari di protoni e/o di neutroni.
Questo viene interpretato come un accoppiamento a doppietti sia dei
protoni che dei neutroni, in funzione di come si accoppiano i loro mo-
menti orbitali e di spin a formare il momento angolare totale J di un
nucleo. Empiricamente si tiene conto di ciò ponendo
δ(A, Z)
Bac (A, Z) = bac (4.52)
A
L’analisi fenomenologica delle sequenze isobariche suggerisce di porre
δ(A, Z) = −1 se N e Z sono entrambi pari, δ(A, Z) = 0 se N e Z sono
l’uno pari e l’altro dispari, o viceversa, e δ(A, Z) = +1 se N e Z sono
entrambi dispari. Per tener conto di ciò si può anche scrivere
(−1)N + (−1)Z
Bac (A, Z) = −bac (4.53)
2A
Tornando ora al termine dell’energia di volume BV (A), lo si esprime come
una funzione lineare del numero di massa A
BV (A) = bV A (4.54)
cosicchè il contributo di volume dell’energia media per nucleone, bV =
BV (A)/A, risultando indipendente da A, rappresenti l’indispensabile termi-
ne costante dell’energia media di legame, senza il quale la debole dipendenza
da A (per A ≥ 12)) osservata per b(A, Z) non sarebbe giustificabile.
Si ottiene quindi, per l’energia di legame dei nuclei atomici, la seguente
formula semi-empirica:
B0 (A, Z) = BV (A) + BS (A) + BC (A, Z) + Bsim (A, Z) + Bac (A, Z) =
Z(Z − 1) (A − 2Z)2 δ(A, Z)
= bV A + bS A2/3 + bC 1/3
+ bsim + bac
A A A
(4.55)
Un best-fit con questa relazione sui dati sperimentali permette di ottenere
i valori dei cinque parametri bV , bS , bC , bsim e bac . Qui di seguito sono
riportati i valori di uno di tali best-fit:
bV = −15.56 MeV
bS = +17.23 MeV
bC = +0.697 MeV (4.56)
bsim = +19.1 MeV
bac = +135.0 MeV
94
Figura 4.15: Illustrazione del contributo dei vari termini della formula di
Weizsäcker all’energia media di legame per un nucleone in un nucleo, in
funzione del numero di massa A.
L’attendibilità media dei risultati forniti dalla 4.57 è di circa 2 MeV, tranne
che in corrispondenza ai valori di A e Z per i quali si fanno sentire forti
effetti di chiusura degli strati.
In figura 4.15 è illustrata l’entità dei diversi contributi all’energia media di
legame per un nucleone in un nucleo presenti nella 4.55; in figura 4.16 è ripor-
tato il risultato di un fit, sempre utilizzando la formula di Weizsäcker 4.55,
sull’insieme dei valori delle energie di legame medie per nucleone. Si veda
ora che se nella 4.57 si pone
−1/3 + 4b −1
α = bC A
sim A
β = bC A −1/3
+ 4bsim + mn − mp (4.58)
γ = b + b A−1/3 + b
V S sim + mn
essa diventa
δ(A, Z)
M (A, Z) = αZ 2 − βZ + γA + bac (4.59)
A
esprimendo la massa dei nuclei come una funzione quadratica di Z, per valo-
ri fissati di A. Con valori dispari di A si ha un unico andamento parabolico
per M (Z); per valori pari di A si trova che le masse dei nuclei pari-pari e
dispari-dispari si distribuiscono su due parabole traslate verticalmente, con
95
Figura 4.16: Fit con la formula di Weizsäcker sull’insieme dei valori delle
energie di legame medie per nucleone, dei nuclei con valore pari di A (dalla
compilazione di Mattauch, Thiele e Wapstra, Nuc. Phys. 67(1965) 1). Sono
evidenziati i numeri magici.
96
lare valore di A, stabili rispetto al decadimento β.
Si è cosı̀ ritrovato quanto evidenziato sperimentalmente dalla tabella dei nu-
clidi e descritto nel precedente paragrafo 4.2.
Per chiarire l’importanza e l’utilità della formula di Weizsäcker è anche ne-
cessario sottolinearne i limiti che contribuiscono a definirne anche gli effettivi
ambiti di applicabilità.
L’ipotesi sulla base della quale si sono ottenuti alcuni termini considera il
nucleo come sostanzialnente sferico, e questo non permette di tener conto
dei termini non nulli di quadrupolo elettrico che si osservano per svariati
nuclei.
Risultati in merito alla saturazione della forza di coesione fra i nucleoni in
un nucleo e alla loro repulsione a breve range 17 , mettono in evidenza che
non basta tener conto del principio di esclusione di Pauli come fatto.
Le considerazioni sul ruolo che momento angolare orbitale e spin dei nucleo-
ni hanno sul carattere repulsivo della forza, sono puramente qualitative e
semiclassiche.
Si osservi poi che il filo conduttore che conduce a tale formula consiste
sostanzialmente nell’assimilare il nucleo atomico a una specie di goccia di li-
quido, ma le predizioni che ne conseguirebbero per descrivere moti collettivi
rotazionali e/o vibrazionali non coprono la panoramica dei fenomeni osser-
vati, o comunque non li descrivono in modo completo e soddisfacente.
L’approccio è stato ed è comunque utile nel descrivere la stabilità dei nuclei
rispetto al decadimento α, alla fissione e al decadimento β.
97
Per i momenti magnetici le cose sono simili con l’eccezione del momento di
ordine zero, il monopolo magnetico, che sembra non esistere, e quindi non
vi sono contributi di momento magnetico proporzionali a 1/r2 .
Con l’elettromagnetismo si è visto come calcolare i diversi momenti di mul-
tipolo elettrici e magnetici e la stessa strategia può essere adottata per i
momenti di un nucleo, tenendo però conto che si ha a che fare in tal caso
con un soggetto che va trattato quantisticamente, per cui i momenti di mul-
tipolo diventeranno delle osservabili per le quali si possono calcolare i valori
d’aspettazione associati ai diversi stati di un nucleo. Questi valori d’aspet-
tazione dovranno naturalmente esssere poi direttamente confrontabili con i
valori sperimentali misurati.
98
parità dispari devono essere nulli, quindi il dipolo elettrico, il quadrupolo
magnetico, l’ottupolo elettrico, ... .
L’evidenza sperimentale dell’assenza di momenti di dipolo elettrici per i
nuclei, porta dunque a concludere che le forze nucleari conservano la parità.
Il fatto che a meno di possibili piccole influenze dovute all’interazione debole
che può introdurre nell’Hamiltoniana termini che non conservano la parità,
gli stati nucleari abbiano parità definita, è però di per sè una condizione solo
sufficiente all’annullarsi dei momenti di multipolo elettrico d’ordine dispari;
si può infatti provare che il momento di dipolo elettrico di un nucleo si
annulla anche se tutti i moti interni soddisfano l’inversione temporale.
Si vedano ora i primi tre momenti di multipolo nucleari non nulli, che sono
quelli significativi dal punto di vista sperimentale.
• Il momento di monopolo elettrico corrisponde, come già osservato, alla
carica nucleare netta Ze.
• Il successivo momento non nullo è il momento di dipolo magnetico
µ. Considerando una corrente I che si sviluppa lungo una traiettoria
piana circolare di area A, si vede che gli è associato un momento
magnetico di modulo |~ µ| = IA e se la corrente è dovuta a una particella
di massa M e carica e che ruota con velocità di modulo v su una
traiettoria circolare di raggio r, con periodo T = 2πr/v, allora
ev evr e ~
|~
µ| = πr2 = = |`| (4.61)
2πr 2 2M
con ~` il momento angolare classico. Quantisticamente si definisce ope-
rativamente l’osservabile momento magnetico come corrispondente alla
massima componente di ~`, per cui si può scrivere la forma quantistica
di µ sostituendo ` nella 4.61, col suo valore d’aspettazione relativo alla
direzione lungo la quale la sua proiezione è massima, ovvero pari ad
m` ~ con m` = +`
e~
µ = ` (4.62)
2M
con ` numero quantico del momento angolare orbitale.
La quantità e~/2M è detta magnetone elementare e nel caso atomico
si pone M = me , ottenendo il magnetone di Bohr µB , mentre nel caso
nucleare si pone M = mp , ottenendo il magnetone nucleare µN .
Il fatto che µN /µB 1 giustifica che in molte circostanze gli effetti
derivanti dal magnetismo atomico siano preponderanti rispetto a quelli
del magnetismo associato ai nuclei.
La 4.62 può essere utilmente scritta come
µ = g` ` µN (4.63)
99
I nucleoni posseggono, come visto, anche un momento angolare intrin-
seco di spin cui è associato un momento magnetico intrinseco, che non
ha analogo classico, ma che può essere scritto in una forma simile alla
4.63
µ = gs s µ N (4.64)
con s = 1/2 e gs il cosiddetto fattore di spin, che dalla soluzione
dell’equazione di Dirac dovrebbe coincidere con 2, nell’ipotesi di par-
ticelle puntiformi, quindi prive di struttura interna.
Ciò è molto ben verificato per l’elettrone, mentre i valori misurati
sperimentalmente su nucleoni liberi sono
Nuclide µ (µN )
n −1.9130418
p +2.7928456
2H (D) +0.8574376
17 O −1.89379
57 Fe +0.09062293
57 Co +4.733
93 Nb +6.1705
100
superiore a 6 magnetoni nucleari.
Nel 1937 Schmidt elaborò un modello per predire i valori dei momenti
magnetici di dipolo dei nuclei, basato sull’idea che il contributo preva-
lente sia dovuto al nucleone spaiato, suggerito da una regolarità abba-
stanza generale desumibile dai dati per i nuclei con A dispari. Questi
possono infatti essere visti come composti da una parte costituita da
uno ”strato” completo di nucleoni con spin appaiati, più un nucleone
spaiato. Lo strato completo contiene necessariamente un numero pari
di neutroni e protoni ed è quindi ragionevole pensare che non possieda
né momento angolare né momento magnetico. Aggiungendo a questo
strato un nucleone di momento angolare ` e spin 1/2, lo spin totale
del nucleo risulta pari ad ` ± 1/2. In base al modello vettoriale ~` ed ~s
si combinano per formare J, ~ acquisendo ognuno e indipendentemente
un moto di precessione attorno a J. ~ Il momento magnetico lungo la
~
direzione di J è allora, in magnetoni nucleari
~` · J~ ~s · J~
µ J = g` + gs = Jg` (4.65)
J J
s2 = `2 + J 2 − 2~` · J~
~` · J~ ` (` + 1) + J (J + 1) − s (s + 1)
=
J2 2J (J + 1)
e analogamente per ~s · J~ /J 2 . Sostituendo si ottiene
J (J + 1) + s (s + 1) − ` (` + 1)
gJ = gs +
2J (J + 1)
(4.66)
J (J + 1) + ` (` + 1) − s (s + 1)
+ g`
2J (J + 1)
1
µJ = gs + ` g` (4.67)
2
e per J = ` − 1/2
1 2` − 1 (` + 1) (2` − 1)
µJ = − gs + g` (4.68)
2 2` + 1 2` + 1
101
Combinando le due espressioni si ha
1
µJ = J g` ± (gs − g` ) (4.69)
2` + 1
con il segno ” + ” che vale per J = ` + 1/2. Nelle figure 4.16 e 4.17 sono
riportati i valori sperimentali per µJ , confrontati con i risultati forniti
dalla formula (4.67) che individua le cosiddette ”curve di Schmidt”. Si
nota che queste non riproducono con precisione i valori sperimentali
che si trovano comunque compresi nella fascia di valori da esse deli-
mitata, e ciò non deve sorprendere, dato il carattere grossolano del
modello.
102
Figura 4.17: Valori di gJ e linee di Schmidt per nuclei con numero dispari
di protoni.
103
Figura 4.18: Valori di gJ e linee di Schmidt per nuclei con numero dispari
di neutroni.
104
tenendo conto della presenza di un eventuale nucleone spaiato, detto
anche di valenza, che si muova in prossimità della superficie di un core
quasi sferico costituito dagli altri A − 1 nucleoni accoppiati, quindi a
distanza R = R0 A1/3 dal centro, il che porta a stimare il momento di
quadrupolo come
|eQ| ≤ e R02 A2/3 (4.72)
Calcolando |eQ| si trova che esso varia da circa 6 × 10−30 e·m2, per i
nuclei leggeri, fino a circa 50 × 10−30 e·m2 per i nuclei più pesanti.
Introducendo il barn, con 1 b = 10−28 m2, si trova quindi che i valori
calcolati secondo il semplice modello proposto soddisfano la condizione
0.06 e · b ≤ |eQ| ≤ 0.5 e · b.
Le misure sperimentali mostrano che molti nuclei hanno valori di |eQ|
compresi entro questo intervallo, nonostante ve ne siano alcuni, soprat-
tutto fra le terre rare, che se ne discostano anche significativamente,
indicando che in quei casi il modello a nucleone spaiato singolo non
riesce a spiegare i grandi valori misurati per il momento di quadrupolo
elettrico. Quindi se ne deduce che l’assunzione che i nuclei siano
costituiti da un core a simmetria sferica di nucleoni appaiati, più un
eventuale nucleone spaiato, non è valida per tutti i nuclei; in certi casi
anche il ”core” pu`o presentarsi con una simmetria non sferica. Nella
tabella che segue sono riportati i valori dei momenti di quadru-polo
di alcuni nuclei nel loro stato fondamentale.
Nuclide Q (barn)
2 H (D) +0.00288
17 O −0.02578
59 Co +0.40
63 Cu −0.209
133 Cs −0.003
161 Dy +2.4
179 Lu +8.0
209 Bi −0.37
105
4.3.10 Misure dei momenti elettrici e magnetici dei nuclei
Nei nuclei ci sono quindi neutroni e protoni in movimento che danno luogo
a densità di massa, di carica e di correnti. Nell’ipotesi che i campi elettrici
e magnetici esterni in cui un nucleo si può trovare non perturbino le sue
distribuzioni interne di cariche e correnti, l’energia globale del nucleo dipen-
de anche dall’interazione dei suoi momenti elettrici e magnetici con questi
campi esterni.
I campi esterni elettrici e magnetici possono essere quelli dovuti agli elettro-
ni dell’atomo e/o della molecola cui il nucleo appartiene, o altri prodotti ad
hoc.
I campi magnetici dovuti agli elettroni atomici sono orientati lungo la dire-
zione del momento angolare totale dell’atomo. Anche il momento angolare e
il momento magnetico del nucleo sono orientati lungo una stessa direzione,
che per le note prescrizioni quantistiche derivanti dal rispetto del principio
di indeterminazione non potrà però mai allinearsi esattamente alla prece-
dente.
Campi magnetici ad hoc possono essere generati e controllati dagli speri-
mentatori, ma non superano intensità massime dell’ordine di poche decine
di Tesla; quelli generati dagli elettroni atomici sono noti con minor preci-
sione, ma possono essere molto più intensi. Le energie d’interazione con i
momenti elettrici e magnetici nucleari perturbano i livelli di atomi e/o mole-
cole generando la cosiddetta struttura iperfine delle linee spettrali atomiche
o molecolari, spiegata da W. Pauli nel 1924 e la cui analisi sperimentale
permette appunto di effettuare misure dei momenti nucleari.
Misure del momento dn di dipolo elettrico del neutrone danno un limite su-
periore (dn /e) < 3 × 10−28 m, con e la carica elementare.
I valori dei momenti di quadrupolo elettrico misurati per i nuclidi sono
compresi fra i +8 barn del 176 Lu e −1.0 barn del 123 Sb. Introducendo la
quantità
Q
Qrid = (4.73)
Ze hRi2
detta momento di quadrupolo ridotto e dove hRi è una sorta di raggio medio
della distribuzione di carica, si agevola il confronto fre le entità delle defor-
mazioni nucleari in funzione dei diversi numeri di massa.
Osservando in figura 4.19, la distribuzione dei momenti di quadrupolo elet-
trico ridotto di nuclei con A dispari, graficati in funzione del valore di N , si
nota che il Qrid dei nuclei con Z dispari e N pari dipende essenzialmente dal
numero di protoni, mentre quello dei nuclei con Z pari ed N dispari dipende
in segno dal numero di protoni e in valore assoluto dal numero di neutroni.
Inoltre Qrid cambia bruscamente valore tra coppie di nuclei adiacenti a nu-
clei con valori di Z ed N espressi da: Z ∗ , N ∗ = 2, 8, 20, 50, 82, 126 ,
ovvero i numeri magici già incontrati nel paragrafo 4.2.
106
Figura 4.19: Qrid di nuclei con A dispari in funzione di N . Il tratto continuo
interpola i dati misurati, di cui è mostrato solo un sottoinsieme.
107
4.3.11 Isospin
Come si vedrà più avanti gli esperimenti di diffusione su nuclei a bassa ener-
gia hanno messo in evidenza la stretta somiglianza tra le forze neutrone −
protone e quelle protone − protone, cosı̀ come anche l’analisi delle proprietà
dei nuclei speculari, quali 3 H ed 3 He, 7 Li e 7 Be, ...
Le forze coulombiane sono diverse nei nuclei speculari, ma a parte questo i
livelli energetici di nuclei speculari mostrano una considerevole somiglianza,
come si osserva nelle figure 4.20 e 4.21.
I nuclei speculari con N = Z ± 1 hanno oltretutto masse molto simili,
Figura 4.20: Livelli energetici dei nuclei speculari 7 He, 7 B, e 7 Li, 7 Be.
3 (2Z + 1) e2
∆M = (4.74)
5 4π0 R0 A1/3
108
Figura 4.21: Livelli energetici dei nuclei speculari 9 Li, 9 C, e 9 Be, 9 B.
109
Figura 4.22: Livelli energetici dei nuclei 6 He, 6 Li, 6 Be.
ferenze residue e la traslazione globale quasi rigida dei livelli di 148 O6 a valori
superiori rispetto a quelli di 146 C8 , sono spiegabili con i diversi contributi
coulombiani all’energia per i due nuclei.
Livelli energetici equivalenti a quelli di 146 C8 e 148 O6 sono presenti anche
nell’isobaro 147 N7 , che possiede però anche altri livelli che non trovano cor-
rispondenza con quelli dei due nuclei adiacenti. Si può distinguere fra stati
di tripletto e stati di singoletto.
Questi multipletti di stati mostrano una chiara analogia formale con i multi-
pletti degli accoppiamenti di spin. Protone e neutrone possono quindi, come
suggerito da Heisenberg nel 1932, essere visti come due diversi stati di una
medesima entità, il nucleone, e formano un doppietto di isospin (I = 1/2),
per le cui terze componenti si pone
(
protone: I3 = +1/2
(4.75)
neutrone: I3 = −1/2
110
Figura 4.23: Livelli energetici dei nuclei speculari 14 C e 14 O .
6 8 8 6
qN = 1/2 + I3 (4.77)
111
Si ricordi comunque che l’isospin è un numero quantico adimensionale.
La trattazione formale dell’isospin corrisponde cosı̀ a quella del momento
angolare per cui si può ad esempio avere il caso di una coppia protone-
neutrone in uno stato di isospin totale pari ad 1 o a 0.
La terza componente dell’isospin è additiva e per un nucleo si ha
X Z −N
I3nucleo = I3nucleoni = (4.78)
2
Questo aiuta nel descrivere gli stati simili che compaiono in figura 4.23 asse-
gnando rispettivamente I3 = −1, al nucleo 146 C8 , e I3 = +1, al nucleo 148 O6 :
il loro isospin non può quindi essere minore di I = 1, per cui gli stati in
questi nuclei appartengono necessariamente a un tripletto di stati simili nei
nuclei 146 C8 , 147 N7 e 148 O6 . Siccome però la terza componente I3 dell’isospin di
14 N è pari a 0, ne deriva che questo nucleo può possedere stati addizionali
7 7
con isospin I = 0.
L’azoto 147 N7 è il più stabile isobaro con A = 14 e quindi il suo stato fonda-
mentale è necessariamente un singoletto di isospin, perchè se non fosse cosı̀
14 C dovrebbe possedere uno stato analogo che però, per la minor repulsione
6 8
coulombiana, dovrebbe essere a un’energia inferiore e quindi più stabile.
In figura 4.23 non sono mostrati stati con I = 2, che dovrebbero in linea
di principio avere stati analoghi in 145 B9 e 149 F5 . Questi nuclei sono però
molto instabili e i loro livelli stanno oltre il limite energetico mostrato in
figura 4.23.
Gli isobari di A = 14 sono nuclei in cui l’effetto dell’energia coulombiana
non è particolarmente intenso. L’influenza dell’energia coulombiana cresce
al crescere del numero atomico Z, perturbando sempre più le caratteristiche
di simmetria di isospin.
4.3.12 Ricapitolando
Di solito a questo punto si passa alla presentazione e discussione dei modelli
di struttura nucleare quali quello a gas di Fermi, o a shell, ..., per mostrare
come essi ben spieghino molti risultati sperimentali degli studi a bassa e
media energia sui nuclei.
Qui, con un approccio simile a quello seguito nel testo di Povh et al., e
Si vedano i capp. ... e ... .
19
112
sostanzialmente più coerente con le attuali conoscenze sulle caratteristiche
dell’interazione forte e delle sue manifestazioni nucleari, si preferisce riman-
dare la discussione e presentazione di tali argomenti a dopo l’aver trattato
quanto concerne la fisica delle particelle e in particolare le interazioni forti
e la struttura dei nucleoni.
Del resto il concetto veramente importante che per ora è sufficiente ritene-
re, come risultato delle evidenze sperimentali sinora illustrate in merito ai
nuclei atomici e alla loro struttura, è il fatto che essi costituiscono sistemi
legati di nucleoni, carichi e neutri, gli uni di massa pressochè uguale a quel-
la degli altri, che essendo fermioni ubbidiscono al principio di esclusione e
interagiscono con una forza che presenta caratteristiche di brevissimo range
manifestando saturazione.
Inoltre le regolarità individuate, come ad esempio quelle associabili all’emer-
gere in diverse situazioni dei cosiddetti ”numeri magici”, fanno pensare che
tali nucleoni siano organizzati nei vari nuclei su livelli energetici secondo uno
schema in parte mutuabile da quello che spiega la struttura atomica, con la
differenza che mentre nell’atomo il potenziale che determina la struttura dei
livelli è quello dovuto alla carica elettrica dei protoni concentrata nel nucleo,
nel caso del nucleo il potenziale è quello determinato dall’insieme degli stessi
nucleoni del nucleo che si muovono dunque in esso soggetti al potenziale che
essi stessi determinano.
113
Capitolo 6
Tre anni dopo il 1896, anno in cui Bequerel scoprı̀ la radioattività, si osservò
che il rateo di decadimento di una sostanza radioattiva pura decresce, col
passare del tempo, in accordo con un andamento esponenziale decrescente.
Ci vollero altri anni per assodare che la radioattività è un fenomeno che
coinvolge ogni singolo atomo di una certa sostanza, e non il campione di
sostanza radioattiva in quanto tale nella sua interezza.
Un’ulteriore paio d’anni furono quindi necessari per convincersi che il deca-
dimento radioattivo di un atomo è un processo intrinsecamente statistico, e
che sostanzialmente gli atomi di una sostanza, anche radioattivi, ”non in-
vecchiano”. È quindi impossibile predire quando uno specifico atomo deva
decadere e ciò conduce naturalmente alla legge di tipo esponenziale decre-
scente col tempo.
Considerando processi che coinvolgono grandi numeri di atomi li si può trat-
tare alla stregua di variabili continue e supposto un sistema costituito da un
gran numero di atomi radioattivi, la legge di decadimento fornisce il numero
medio di atomi del sistema ad un qualsiasi istante successivo.
I primi a formulare e applicare coerentemente la legge che descrive il deca-
dimento di sostanze radioattive furono Rutherford e Soddy nel 1902.
173
Supposto di avere inizialmente un numero molto grande N (0) di atomi di
una singola sostanza radioattiva, che ogni singolo decadimento radioattivo
sia indipendente da tutti gli altri e considerando il numero residuo N (t) di
atomi di tale sostanza ad un istante successivo t alla stregua di una variabile
continua, dalla legge del decadimento si ha che la diminuzione −dN di atomi
nell’intervallo di tempo dt sarà data da
− dN (t) = λN (t)dt (6.1)
Integrando quest’equazione tenendo conto del numero N (0) di atomi presenti
all’istante iniziale, si ha
N (t) = N (0)e−λt (6.2)
L’inverso della costante di decadimento, τ = 1/λ è detto vita media in
quanto costituisce effettivamente il tempo medio < t > di vita degli atomi.
Si osservi infatti che se
λN (t) λN (0)e−λt
= = λe−λt (6.3)
N (0) N (0)
rappresenta la funzione di distribuzione statistica dei tempi di vita di ogni
atomo della sostanza radioattiva, si ha, per il loro tempo medio < t > di
vita Z ∞
1
< t >= tλe−λt dt = = τ (6.4)
0 λ
Si utilizza spesso anche il cosiddetto tempo di dimezzamento della sostanza
radioattiva, definito come il tempo T1/2 necessario a far ridurre alla metà il
numero di atomi rispetto a quelli presenti inizialmente
N (0)
N (T1/2 ) = N (0)e−T1/2 /τ = da cui
2
T1/2
= λ T1/2 = ln 2 =⇒ T1/2 = τ ln2 ' 0.693147 · τ (6.5)
τ
Il numero o rateo di decadimenti nell’unità di tempo, detto anche attività
A(t) della sostanza radioattiva, si ottiene dalle 6.1 e 6.2:
dN (t)
A(t) =
= λN (t) = λN (0)e−λt (6.6)
dt
ed è chiaramente anch’esso una funzione decrescente col tempo, dato che al
suo trascorrere il numero di atomi non ancora decaduti e che possono quindi
decadere, cala.
L’unità di misura internazionale dell’attività è il Becquerel (Bq)1 , corrispon-
dente a 1 disintegrazione al secondo. È ancora molto usato anche il Curie
(Ci), corrispondente a 3.7 · 1010 Bq.
1
Antoine Henri Becquerel condivise con Pierre e Maria Curie il Nobel per la fisica nel
1903 ”in riconoscimento degli straordinari servizi che ha reso con la sua scoperta della
radioattività spontanea”.
174
Figura 6.1: Decadimento d’una sostanza radioattiva con tempo di dimez-
zamento T1/2 = 140 giorni. La tangente a N (t) nel punto d’ascissa t = 0,
interseca l’asse t nel punto di valore τ.
1 Ci = 3.7 × 1010 Bq
175
6.2 Decadimento radioattivo di più sostanze
Una sostanza radioattiva può come detto decadere in un’altra anch’essa ra-
dioattiva e in tal caso le due si dicono in relazione genetica, con la prima
chiamata genitore e la seconda figlia. Ciò può estendersi a molte ”genera-
zioni”.
Si supponga di avere al tempo t = 0, N1 (0) ed N2 (0) atomi delle sostanze
radioattive (1) e (2), in relazione genetica. Se ne vogliono trovare le quan-
tità N1 (t) ed N2 (t) presenti nel generico istante t successivo. La sostanza
176
e per ogni suo atomo decaduto se ne forma uno della sostanza (2). Il numero
di atomi della sostanza (2) quindi varia per due ragioni: da un lato dimi-
nuisce per i decadimenti spontanei degli atomi della sostanza (2), dall’altro
cresce per effetto della formazione di atomi della sostanza (2) come prodotto
del decadimento di atomi della sostanza (1). La variazione totale risultante
è quindi:
dN2
= λ1 N1 − λ2 N2 (6.9)
dt
con λ1 e λ2 le costanti di decadimento delle due sostanze.
Per una terza sostanza derivante dal decadimento di (2) si ha, in modo
analogo:
dN3
= λ2 N2 − λ3 N3 (6.10)
dt
e cosı̀ via.
Considerando k diverse generazioni in cascata si ha un sistema di k equazioni
differenziali che può essere risolto ponendo:
N1 = a11 e−λ1 t
N = a e−λ1 t + a e−λ2 t
2 21 22
(6.11)
. . . . . . . . . . . .
Nk = ak1 e−λ1 t −λ2 t
+ ak2 e + ... + akk e−λk t
λi−1 λ1 λ2 ...λi−1
aij = ai−1,j = a11 (6.12)
λi − λj (λ1 − λj )(λ2 − λj )...(λi − λj )
177
atomi. Applicando direttamente le 6.11, 6.12 e 6.13 si ha, procedendo fino
alla terza generazione
N1 (t) = N1 (0)e−λ1 t
λ1 −λ1 t −λ2 t
N (t) = N (0) e − e
2 1
λ2 − λ1
e−λ1 t e−λ2 t
N3 (t) = N1 (0)λ1 λ2 + +
(λ2 − λ1 )(λ3 − λ1 ) (λ3 − λ2 )(λ1 − λ2 )
e−λ3 t
+
(λ1 − λ3 )(λ2 − λ3 )
(6.14)
Si consideri ora l’andamento col tempo delle attività di due sostanze ra-
dioattive, un genitore (1) e una sostanza figlia (2), di una stessa catena
λ1
radioattiva N1 (t) −→ N2 (t) e si determini l’istante t∗1,2 in cui le due attività
combaciano.
Ciò implica, in base alla 6.6
178
Figura 6.3: Ratei di decadimento di particelle figlie con probabilità di
decadimento minore o maggiore di quella di uno stesso genitore.
λ1
N2 (t) ∼
= N1 (0) e−λ2 t (6.19)
λ1 − λ2
il che mostra come in questo caso, per tempi t > tmax , la sostanza figlia
(2) proceda decadendo sostanzialmente secondo la propria costante di
decadimento λ2 , quindi secondo la propria vita media τ2 .
λ1
N2 (t) ∼
= N1 (0) e−λ1 t (6.20)
λ2 − λ1
che mostra come in questo caso la sostanza figlia (2) proceda deca-
dendo sostanzialmente secondo la costante di decadimento λ1 della
sostanza genitore, quindi secondo la vita media τ1 .
Ciò risulta comprensibile riflettendo sul fatto che essendo lento il rateo
di decadimento della sostanza (1) rispetto a quello della sostanza (2),
lo è anche quello di formazione della sostanza (2), che però decade poi
rapidamente subito dopo essersi formata.
179
Figura 6.4: Esempio di una serie radioattiva con tre membri, di cui all’inizio
è presente solo il genitore, l’ultimo è stabile e quello intermedio ha una vita
media cinque volte superiore a quella del genitore
λ2
A2 (t) = λ2 N2 (t) ∼
= A1 (t) (6.21)
λ2 − λ1
3. Supponendo ora λ1 << λ2 , dalla 6.21 e sempre per tempi t > tmax ,
si ha A2 (t) ∼
= A1 (t), individuando quello che viene detto un equilibrio
transiente fra le attività degli elementi (1) e (2), con un rapporto
sostanzialmente costante fra esse: A2 /A1 ∼ = λ2 /(λ2 − λ1 ) ∼
= 1.
180
da cui:
A1 (t) ∼
= A1 (0) (6.23)
A2 (t) ∼
= A1 (0) 1 − e−λ2 t
Si è quindi in presenza di un’attività molto piccola e quasi costante
A1 (t). L’attività A2 (t) tende all’equilibrio per tempi t >> λ−1
2 , quan-
do e−λ2 t → 0 e A2 (t) → A1 (0), quindi in regime di quasi saturazione,
ovvero di quasi equilibrio (Figura 6.5).
L’effettivo equilibrio richiederebbe d’altronde dN1 (t)/dt = 0, e riestendendo
anche al caso di una generica catena radioattiva con k decadimenti successivi,
ciò implicherebbe l’uguaglianza di tutte le attività
A1 (t) = A2 (t) = A3 (t) = ... = Ak (t) (6.24)
Questa condizione non può però essere effettivamente raggiunta in quanto
l’avere dN1 (t)/dt = 0 significherebbe che la sostanza genitore è stabile, con
λ1 = 0 e τ1 = ∞. È d’altronde possibile conseguire una condizione tanto
più prossima a quella dell’effettivo equilibrio quanto più lentamente decade
la sostanza genitore rispetto ad ogni sostanza figlia della catena radioattiva.
In tal caso, col crescere del tempo t, si tende alla condizione
N1 (t)λ1 = N2 (t)λ2 = N3 (t)λ3 = ... = Nk (t)λk (6.25)
detta di equilibrio secolare. Essa risulta infatti applicabile soltanto quan-
do un materiale, contenente tutti i prodotti di decadimento provenienti da
una sostanza genitore, è stato lasciato indisturbato per un tempo sufficien-
temente lungo da permettere il conseguimento della suddetta condizione di
equilibrio.
L’equilibrio può essere raggiunto anche nel caso in cui la sostanza genitore
venga prodotta nel tempo con un rateo di produzione Q uguale al suo rateo
di decadimento λN (t). Un caso del genere si può avere ad esempio bom-
bardando un campione di sostanza i cui nuclei siano stabili, con un fascio
di particelle che inducano un numero di trasmutazioni su Q atomi/s verso
un elemento radioattivo che poi decada con una costante λ. Questo proce-
dimento è in pratica utilizzato per produrre elementi radioattivi sfruttando
ad esempio neutroni provenienti da reattori o fasci di particelle prodotti in
acceleratori.
La variazione del numero N (t) di nuclei radioattivi presenti si ottiene dal
bilanciamento fra il rateo Q di formazione e il rateo −λN (t) di decadimento:
dN (t)
= Q − λN (t) (6.26)
dt
che se Q = cost., si può riscrivere ridefinendo e quindi separando le variabili:
d[Q − λN (t)]
= −λdt (6.27)
Q − λN (t)
181
Figura 6.5: Equilibri asintotici fra ratei di produzione e attività.
Q
Q − λN (t) = [Q − λN (0)] e−λt =⇒ N (t) = 1 − e−λt (6.28)
λ
che rappresenta un andamento a saturazione, tipico dei casi in cui formazione
e decadimento sono in competizione. In figura 1.9 sono schematicamente
illustrati l’attività A(t) ≡ λN (t), o rateo di decadimento radioattivo, e la
variazione temporale del numero di nuclei genitori dN (t)/dt per un sistema
con un rateo di formazione di Q atomi/s. 2
182
età. Una roccia che al momento della sua formazione contenesse ad esempio
una certa quantità di uranio, ha accumulato nel tempo trascorso, elio pro-
dotto dal decadimento dell’uranio. Ogni atomo di 238 U che si trasforma in
206 Pb emette infatti otto particelle α, ovvero otto nuclei di elio, che se non
e ancora
NG (t1 ) = NG (t0 ) e−λ(t1 −t0 ) (6.30)
da cui
1 NG (t0 ) 1 NF (t1 )
∆t ≡ t1 − t0 = ln = ln 1 + (6.31)
λ NG (t1 ) λ NG (t1 )
Noti quindi la costante di decadimento λ del nucleo genitore, misurabile in
laboratorio, e il rapporto attuale fra abbondanza di nuclei genitori e figli, si
ottiene l’età del campione in studio con una precisione dipendente da quella
3
La molecola di elio è monoatomica ed è sostanzialmente la più piccola fra tutte le
molecole, quindi, unitamente alla piccola massa, questo spiega la maggior facilità per l’elio
di sfuggire da materiali in cui sia presente o sia stato assorbito, sfruttando i micro-difetti
strutturali dei materiali stessi.
183
con cui è nota λ e dalla statistica di conteggio per NG ed NF .
Nelle relazioni 6.29 e 6.30 sono implicite delle assunzioni che devono essere
accuratamente verificate prima di applicare la relazione 6.31 alla determi-
nazione dell’età di un campione. La 6.29 assume infatti, come detto, che
NF (t0 ) = 0, e anche che nel tempo intercorso dalla formazione del campione
fino ad oggi non si siano verificati fenomeni che hanno portato a modificare
il numero totale di atomi presenti, variando il rapporto genitori/figli, se non
per quanto dovuto al processo di decadimento radioattivo.
La 6.30 assume che la variazione di NG dipenda soltanto dal decadimento
e che quindi, non vengano introdotti ulteriori atomi genitori né da altri, di-
versi e concomitanti, fenomeni di decadimento né da reazioni nucleari, come
ad esempio quelle inducibili da raggi cosmici.
che diventa
I rapporti NF (t1 )/NF 0 (t1 ) e NG (t1 )/NF 0 (t1 ) possono essere misurati in la-
boratorio ma resta sempre incognito il rapporto isotopico NF (t0 )/NF 0 (t0 ).
Avviene che minerali che cristallizzano secondo una comune origine dovreb-
bero mostrare uguali età e anche uguali rapporti isotopici NF (t0 )/NF 0 (t0 ),
anche se in essi il numero NG (t0 ) degli stessi atomi genitori può essere molto
diverso, ad esempio per la diversa composizione chimica.
184
Supponendo corretta quest’ipotesi ci si attende al momento della misura, ov-
vero al tempo t1 , di osservare minerali con diversi rapporti NF (t1 )/NF 0 (t1 )
e NG (t1 )/NF 0 (t1 ), corrispondenti ad una medesima coppia di valori ∆t e
NF (t0 )/NF 0 (t0 ).
Questa ipotesi può essere analizzata graficando NF (t1 )/NF 0 (t1 ) rispetto a
NG (t1 )/NF 0 (t1 ): per svariati minerali la 6.34 mostra infatti una dipenden-
za lineare fra i rapporti, con pendenza data da eλ(t1 −t0 ) − 1 e intercetta
linearità della regressione sui punti sperimentali suffraga l’ipotesi che non vi
185
siano state perdite di nuclei genitori o figli.
Le rocce terrestri superficiali più vecchie datate con tali metodi hanno un’età
di 4.374×109 ±0.006·109 anni e sono costituite da granuli di zircone scoperti
in Australia, nella regione di Jack Hills, nel 2013. Il risultato, compatibile
con l’età dei frammenti di meteoriti più antichi analizzati, suggerisce che la
crosta terrestre si sia formata circa 100 milioni di anni dopo il gigantesco
impatto che potrebbe aver dato origine alla Luna.
Per datazioni di campioni più giovani, come quelli di materiali di tipo orga-
nico, il metodo che fa uso dell’isotopo radioattivo 14 C del Carbonio è il più
utilizzato.
Una struttura organica vivente assorbe anidride carbonica, CO2 , e il con-
tenuto in carbonio di quest’ultima è costituito quasi interamente da 12 C
(98.89%), mescolato ad una piccola percentuale di 13 C (1.11%).
Il 14 C radioattivo, che decade β − in 14 N con una vita media τ = 8267 an-
ni, è continuamente formato negli strati alti dell’atmosfera per effetto della
cattura, da parte dell’azoto atmosferico, dei neutroni termici quali prodotti
secondari del bombardamento dei raggi cosmici. L’equilibrio dinamico che si
instaura fra produzione e decadimento, supposti stabili la struttura chimica
e in densità media dell’atmosfera, oltrechè il flusso di raggi cosmici che la
investe, mantiene costante la concentrazione di 14 C nell’atmosfera stessa.
Il 14 C cosı̀ prodotto con un rateo Q(14 C), reagisce con l’ossigeno per dare
anidride carbonica 14 CO2 che viene riutilizzata dalle piante durante la foto-
sintesi clorofilliana.
Con questo meccanismo il 14 C si trasferisce quindi nei composti organici e
attraverso la catena alimentare è presente in ogni struttura vivente secondo
un preciso rapporto (abbondanza isotopica), pari a circa 1.3 atomi di 14 C
ogni 1012 atomi di 12 C. Tutta la materia vivente è dunque leggermente ra-
dioattiva in funzione del suo contenuto di 14 C.
Supposto che il rateo di produzione di 14 C da parte dei raggi cosmici si man-
tenga relativamente costante4 , ne consegue che la materia organica, se vive
sufficientemente a lungo, raggiunge l’equilibrio del suo contenuto di 14 C con
quello dell’atmosfera
14 C
dN
14
14
14
=0 =⇒ Q C =λ C N C (6.35)
dt
e tramite il metabolismo lo mantiene sino alla morte, momento a partire
dal quale smette di assumere 14 C e quindi di essere in equilibrio, per il suo
4
Nella realtà il livello di 14 C in atmosfera è variato significativamente nel tempo, sia
per motivi naturali che ”umani”, come ad esempio nel secolo scorso a causa soprattutto
degli esperimenti con ordigni nucleari. Questo rende necessario ricorrere a metodi comple-
mentari, che affiancano e complementano quello del radiocarbonio, per ottenere affidabili
datazioni (M.J.Aitken, ”Science-based dating in archaeology” Longman, 1990; Aitken
al., ”Chronometric Dating in Archaeology” Springer US, 1997)
186
contenuto, con il 14 C atmosferico. Dal momento della morte dell’organismo
il suo contenuto di 14 C decresce quindi secondo la legge del decadimento
radioattivo.
Si può dunque determinare l’età di un campione organico a partire dal mo-
mento della morte dell’organismo cui esso è appartenuto, misurando l’atti-
vità per grammo di carbonio in esso contenuto, detta attività specifica (Asp ),
e confrontandola con l’attività specifica del carbonio atmosferico, pari a cir-
ca 0.23 Bq/g, ovvero 13.8 disintegrazioni/g al minuto.
Detto t0 il tempo della morte dell’organismo, e t1 il tempo della misura, si
ha, per l’età ∆t = (t1 − t0 ) del campione
Asp 14
C, t1 = Asp 14
C, t0 e−λ(t1 −t0 ) (6.36)
da cui:
1 Asp 14 C, t0
∆t ≡ (t1 − t0 ) = ln (6.37)
λ Asp (14 C, t1 )
I metodi di datazione che sfruttano l’attività danno affidamento fino a tempi
sostanzialmente non superiori a 7 × τ , quindi con il 14 C si possono ottenere
datazioni di una certa attendibilità fino a tempi inferiori a circa 6 × 104 y.
Si può fare ancor meglio utilizzando la tecnica della spettrometria di massa
187
188
27.5.2 Esercizio 6 2: Radon in una ambiente chiuso
Una sala teatrale con pavimento e soffitto quadrati di 10 m di lato e pareti
alte 4 m, non è stata aerata per molti giorni. Misurando in essa l’attività
per unità di volume del 222 Rn si trova il valore di 100 Bq/m3 .
Soluzione:
N1 (t) λ1 = N2 (t) λ2
-1
dove l’indice ”1” rappresenta 238 U e l’indice ”2” il 222 Rn, con λ1 = τ1 '
-1
4.5 × 109 y (pari a circa 1.41912 × 1017 s), e λ2 = τ2 ' 3.8 d.
Ricordando poi che l’attività A2 (t) del 222 Rn è definita come
A2 (t) = λ2 N2 (t)
si ha immediatamente
468
N1 (t) A2 (t) 4 × 104
ρ238 U = = ' atomi/m3
5.4 5.4 × λ1 5.4 × 7.04662 × 10−18
cioè ρ238 U ' 1.0512 × 1021 atomi/m3 , che essendo pari a 238.05 g la massa
di una mole di 238 U, equivale a circa 0.42 g/m3 .
27.5.4 Esercizio 6 4:
Si ha un preparato costituito da una miscela di due diverse sostanze radioat-
tive completamente indipendenti l’una dall’altra e si misura sperimentalmen-
te la distribuzione dei tempi d’attesa fra la rivelazione di due suoi successivi
prodotti di decadimento. Si suppone che la misura sia stata eseguita con
un sistema di rivelazione molto efficiente ma non in grado di riconoscere i
prodotti di decadimento di una sostanza da quelli dell’altra.
Si delinei nell’ambito di quali ipotesi e come si potrebbe in pratica cercare
di risalire ai valori delle vite medie τ1 e τ2 e delle abbondanze iniziali N1 (0)
e N2 (0) delle due diverse sostanze radioattive che compongono la miscela
che costituisce il preparato.
Soluzione:
si ha:
τ1 τ2 ; τ1 ' τ2 ' τ ; τ1 τ2
(sp)
Si indichi con N∗ (ti ) il numero di eventi raccolti nell’i−mo canale dell’i-
stogramma sperimentale, compreso tra gli istanti ti e ti + ∆t.
- Si cominci con l’analizzare il secondo caso: τ1 ' τ2 ' τ e si consideri il
logaritmo naturale di N∗ (t)
469
h i
lnN∗ (t) = ln N1 (0) e−t/τ1 + N2 (0) e−t/τ2
h i
' ln N1 (0) e−t/τ + N2 (0) e−t/τ
(27.8)
= ln{et/τ [N1 (0) + N2 (0)]}
t
= − + ln [N1 (0) + N2 (0)]
τ
che mostra una dipendenza quasi lineare di lnN∗ (t) da t.
(sp)
Ponendo in scala semilogaritmica N∗ (ti ) si nota che il suo profilo dovrebbe
poter essere approssimato da un andamento rettilineo con pendenza −1/τ
e intercetta sull’asse delle ordinate pari a ln [N1 (0) + N2 (0)].
Effettuando quindi un ”fit a retta” si riescono a stimare τ ' τ − 1 ' τ2
e la somma [N1 (0) + N2 (0)] delle abbondanze iniziali, ma non le singole
abbondanze N1 (0) e N2 (0).
- Si supponga ora che sia τ2 τ1 .
In tal caso ci si aspetta che per tempi t τ1 la legge di decadimento sia
dominata dai prodotti di decadimento della sostanza 2, come si vede anche
in figura ... h i
(sp)
Se quindi si effettua un fit sui valori di ln N∗ (ti ) per valori di t τ1 ,
ovvero per t ≥ t0 con t0 τ1 , si dovrebbe ottenere una legge
(f it) (f it) (f it)
N2 (t) = N2 (0) e−t/τ2
470
Figura 27.1: A sinistra, in scala linare, gli andamenti di N1 (t), N2 (t) e la
loro somma, nell’ipotesi che N1 (0) = 10, N2 (0) = 40, τ1 = 10 e τ2 = 10; a
destra lo stesso in scala semi-logaritmica.
471
Capitolo 5
Le specie nucleari oggi note sono circa 3300 1 : 254 sono i nuclidi naturali
stabili, 85 quelli naturali instabili, i restanti sono radionuclidi prodotti arti-
ficialmente. Degli 85 nuclidi naturali instabili 32 sono ritenuti primordiali,
mentre gli altri si sono formati attraverso reazioni e decadimenti nucleari
spontanei nel corso dei miliardi di anni di vita dell’universo.
L’uranio 238
92 U è il nucleo con i valori maggiori di A e Z spontaneamente pre-
sente in natura. I nuclidi con Z > 92, detti transuranici, sono tutti prodotti
artificialmente.
Tutti gli elementi transuranici e una parte di quelli suburanici sono natu-
ralmente instabili rispetto all’emissione di nuclei di elio 42 He (radioattività
α), rispetto all’emissione di elettroni e− o positroni e+ (radioattività β), e
all’emissione di radiazione elettromagnetica (radioattività γ).
A questi tre tipi di decadimento si aggiunge la fissione spontanea dell’iso-
topo 238
92 U, scoperta da K.Petrzhak e G.Flerov nel 1940, che consiste nella
scissione del nucleo di uranio in due frammenti nucleari di massa confronta-
bile.
La radioattività naturale fu casualmente scoperta da H.Bequerel nel 1896
con l’osservazione di raggi fortemente penetranti, spontaneamente emessi
dal minerale di uraninite picea (pechblenda), individuati per l’impressione
da essi prodotta in lastre fotografiche, tramite l’eccitazione per fluorescenza
di gas, oltre che per la ionizzazione dell’aria che provocavano 2 .
Utilizzando come indicatore il potere ionizzante 3 , si individuarono tre di-
versi tipi di radiazioni, fino ad allora sconosciute e molto diverse fra loro,
che furono contraddistinte dalle lettere α, β e γ.
I nuclei stabili sono raccolti in una banda piuttosto stretta sul piano (Z; N )
del grafico della tabella dei nuclidi, come mostrato in figura 5.1.
1
Paragrafo 4.2, Tabella dei nuclidi.
2
Si vedano le prime tecniche di misura della radioattività con elettroscopi ed
elettrometri, che hanno anche permesso l’individuazione dei raggi cosmici ... .
3
Il potere ionizzante di una radiazione è legato al numero di coppie elettrone-ione che
tale radiazione produce interagendo con gli atomi del materiale che attraversa.
115
Il decadimento radioattivo spontaneo è un fenomeno sostanzialmente indi-
pendente dal tipo di emissione che produce. Nel caso di un decadimento
in due corpi esso consiste nella disintegrazione spontanea del nucleo di un
atomo, detto genitore che si trasforma in un più stabile nucleo figlio, più un
residuo.
Se anche il nucleo figlio ed eventualmente anche il residuo sono radioattivi il
processo continua con decadimenti a catena fino all’ottenimento di prodotti
stabili.
Figura 5.1: Carta dei nuclidi: i quadrati neri nel piano (Z, N ) indicano i
nuclei della ”valle di stabilità”.
116
5.1 Generalità sulla radioattività, ovvero sui de-
cadimenti nucleari
Un nucleo A
Z X si dice stabile rispetto al decadimento
n
A−A0 Ai
X
A
ZX −→ Z−Z 0 X + Zi b (5.1)
i=1
Pn Pn
con i=1 A
i = A0 e i=1 Z
i = Z 0 , se risulta negativa la differenza fra le
masse
n
∆Mb (A, Z) = MX (A, Z) − MX (A − A0 , Z − Z 0 ) −
X
Mb (Ai , Z i ) (5.2)
i=1
117
In alcuni casi si osserva la cosiddetta emissione ritardata di neutroni o di
protoni, che hanno però luogo sempre immediatamente a ridosso dell’emis-
sione di un elettrone, o di un positrone (o di una cattura K), conseguenti a
un decadimento β.
Per alcuni nuclei pesanti si ha Eα (A, Z) > 0, ed è quindi energeticamente
possibile l’emissione spontanea di particelle α da parte di quei nuclei pesanti.
La grande energia di legame del nucleo di elio, pari a circa 28.3 MeV, rende
inoltre la sua emissione da un nucleo pesante particolarmente favorevole, da
un punto di vista energetico, rispetto a quella di altri frammenti nucleari
leggeri.
118
una brillante applicazione della meccanica quantistica, come si vedrà nei
paragrafi 5.2, 5.2.2 e in Appendice C.
119
5.2 Radioattività α
Fu Rutherford nel 1909 a scoprire che la radiazione α è costituita da nuclei
di elio: egli fece decadere sotto vuoto una sostanza radioattiva che emetteva
particelle α e analizzando poi il contenuto dell’ambiente originariamente
vuoto trovò presenza di elio.
Il decadimento α rappresenta quindi la disintegrazione di un nucleo genitore
in un nucleo figlio e un nucleo di elio
A A−4
ZX −→ Z−2 Y +42 He (5.6)
e può essere considerato come una fissione spontanea del nucleo genitore (si
veda il paragrafo 5.7) in due nuclei figli con masse fortemente asimmetriche.
Esso è sostanzialmente dovuto all’azione concomitante delle forze nucleari e
di quelle elettromagnetiche.
La sua importanza cresce al crescere del numero di massa A, in quanto la re-
pulsione coulombiana, dipendendo da Z 2 , cresce più rapidamente della forza
di legame nucleare che dipende approssimativamente da A solo per nuclei
leggeri per poi saturare al crescere di A.
Il motivo per cui un nucleo scelga il decadimento α per liberarsi sponta-
neamente di carica elettrica va ricercato nel fatto che la particella α è una
struttura molto stabile e fortemente legata, ha quindi un’energia di massa
equivalente sensibilmente inferiore alla somma delle energie di massa dei suoi
componenti presi singolarmente. Se quindi si definisce spontaneo un proces-
so di decadimento che porti una struttura a una riduzione della propria
massa con la maggior possibile trasformazione di questa in energia cinetica,
e si desidera nel contempo che il prodotto emesso nel decadimento sia il più
leggero possibile, allora la particella α è un ottimo candidato.
Per alcuni nuclei molto pesanti c’è la possibilità energetica dell’emissione
spontanea anche di altri nuclei leggeri, quali 8 Be o 12 C, ma la probabilità è
cosı̀ bassa da rendere sperimentalmente non rilevabile il processo.
120
che viene detto Q−valore del decadimento e coincide con l’energia a disposi-
zione della disintegrazione. Le energie in gioco sono tali da permettere, con
buona approssimazione, l’utilizzo delle formule non relativistiche; le energie
cinetiche del nucleo figlio e della particella α sono quindi
1 2 1
Ek,Y = MY vY , Ek,α = Mα vα2 (5.9)
2 2
con ~vY e ~vα le velocità del nucleo figlio e della particella α. Avendo supposto
il nucleo genitore a riposo, la conservazione dell’impulso implica che nucleo
figlio e particella α si muovano secondo due versi opposti
Mα
MY ~vY = −Mα ~vα da cui, vY = vα (5.10)
MY
e quindi:
2
1 2 + 1 M v2 = 1 M Mα 1
Ek,Y + Ek,α = M Y vY 2 α α vα + Mα vα2 =
2 2 Y MY 2
1 Mα
= Mα vα2 +1
2 MY
Mα
da cui, Ek,Y + Ek,α = Ek,α + 1 = Qα (5.11)
MY
e ancora
MY Mα
Ek,α = Qα ed Ek,Y = Ek,α (5.12)
Mα + MY MY
Non potendo essere negativa l’energia cinetica della particella α emessa nel
decadimento, ne deriva come prevedibile che questo, per aver luogo, deve
necessariamente essere un processo esotermico, ovvero
∆M ≥ 0 e Qα ≥ 0 (5.13)
Nel caso di nuclei pesanti, con A 1, la gran parte dell’energia liberata dal
decadimento diventa energia cinetica della particella α. Dalla seconda delle
5.12 si ottiene infatti
Mα
Ek,Y = Ek,α Ek,α (5.14)
MY
A−4 4
Ek,α ≈ Qα , Ek,Y ≈ Qα (5.15)
A A
che permettono una rapida stima dell’energia rilasciata nel decadimento,
nota che sia Qα .
121
Trattandosi di un decadimento in due corpi osservato nel sistema del centro
di massa del nucleo genitore, l’energia cinetica espressa dalla prima delle 5.12
e il modulo della velocità della particella α emessa nel decadimento, dovreb-
bero assumere entrambi un unico valore.
Accurate misure in proposito hanno tuttavia evidenziato una struttura fi-
ne negli spettri energetici delle particelle α emesse da materiali radioattivi
per diversi possibili Q−valori. Le particelle α più energetiche sono prodotte
da sole, mentre quelle meno energetiche sono sempre accompagnate dalla
concomitante emissione di fotoni. Questo concorre a suggerire la presenza
nei nuclei di livelli energetici e di una sottostante struttura di stati discreti.
In tal caso quindi un nucleo genitore, decadendo α, può trasformarsi nello
stato fondamentale di un nucleo figlio emettendo una particella α di energia
corrispondente all’intero Q−valore disponibile, o può prima decadere in uno
∗
stato eccitato A−4
Z−2 Y del nucleo figlio emettendo una particella α di ener-
gia inferiore all’intero Q−valore. Il nucleo figlio eccitato risultante potrà
Figura 5.3: Struttura dello spettro di emissione α del torio 228 Th.
Questo tipo di processo avviene raramente nei nuclei pari-pari, dato il loro
ridotto Q−valore. Nei nuclei pari-dispari e dispari-dispari invece, è meno
probabile che il nucleone spaiato prenda parte al processo di formazione del-
la particella α, per cui ha una maggior probabilità di trovarsi in un livello
eccitato del nucleo figlio Y, dopo il decadimento α.
122
Figura 5.4: Spettro α del torio 228 Th [Asaro & al., Phys. Rev. 92 (1953)
1495]. L’area di ogni picco è proporzionale al rateo di decadimento per
l’energia ad esso associata.
La struttura fine dello spettro può essere determinata dalla misura del-
le energie cinetiche delle diverse particelle α osservate in un particolare
decadimento, confrontata con il corrispondente Q−valore disponibile.
Qα ≈ Ek,α + Eγ (5.17)
La misura diretta delle energie dei fotoni γ associati conferma quindi l’esi-
stenza nel nucleo di una struttura a stati energetici discreti.
Talvolta si osserva l’emissione di particelle α con energie maggiori di quelle
corrispondenti alla transizione tra i due livelli fondamentali dei nuclei geni-
tore e figlio, ed è dovuta a decadimenti che avvengono a partire da livelli
eccitati del nucleo genitore.
L’analisi sistematica dei risultati sperimentali provenienti da decadimenti α
mostra che la vita media τα = 1/λα dei nuclei α−instabili varia su un’inter-
vallo amplissimo di valori, da un massimo di circa 1010 anni fino a circa 10−7
secondi, per oltre 24 ordini di grandezza; le corrispondenti energie Eα delle
particelle emesse variano da alcuni MeV fino a circa 10 MeV. I nuclidi a vita
123
media più breve emettono quindi particelle α più energetiche, e viceversa.
Sempre dai dati sperimentali si deduce che la probabilità di decadimento α
Figura 5.5: Vita media verso l’energia per α emesse da nuclei pari-pari
[I.Perlman, A.Ghiorso, G.T.Seaborg, Phys. Rev. 75 (1949) 1096].
124
Figura 5.6: Dipendenza del tempo di dimezzamento T1/2 dall’inverso della
radice quadrata del Q−valore, per i decadimenti α di alcune catene isotopi-
che. Sono sovrapposte le previsioni secondo Geiger-Nuttal ed è in evidenza
il comportamento del Po. (Andreyev et al., Phys. Lett. B 734 (2014) 203)
5
Si veda l’Appendice C
6
Il legame fra tempo di dimezzamento T1/2 e vita media τ è dato nel paragrafo 6.1
125
5.2.1 Soglia di instabilità
Si vuole ora individuare per quali valori di A e Z il decadimento α sia
energeticamente possibile, tenendo conto del fatto che in ogni decadimento
una parte dell’energia di massa del genitore è convertita in energia cinetica
dei prodotti del decadimento.
Dato che la massa di un nucleo equivale alla somma delle masse dei nucleoni
costituenti meno l’energia totale di legame divisa per c2 , e dato che nel
decadimento α i nucleoni non cambiano natura, si ha che il decadimento
può aver luogo soltanto se accompagnato da un aumento dell’energia di
legame per nucleone nei prodotti finali, rispetto al nucleo genitore.
Analizzando l’andamento dell’energia media di legame per nucleone hBi ≡
|B/A| in funzione di A, come mostrata in figura 4.5, ed essendo il 56 Fe il
nuclide più stabile, ciò è possibile soltanto nella regione dove ∂hBi/∂A < 0
e contemporaneamente A > 60.
Il Q−valore del decadimento α espresso dalla 5.8 può essere scritto in termini
delle energie medie di legame per nucleone hBiX,Y,α dei nuclei coinvolti
Q ≡ [M (A, Z) − M (A − 4, Z − 2] − Mα ] c2 =
(5.20)
= A (hBY i − hBX i) − 4 (hBY i − hBα i) > 0
Q = costante
126
Il decadimento α è quindi energeticamente possibile anche per nuclei con
A < 200, ma siccome i decadimenti α con Q < 4 MeV sono caratterizzati
dall’avere vite medie cosı̀ lunghe da renderli praticamente inosservabili, si
può affermare che i nuclei con A < 200 sono essenzialmente nuclei stabili
rispetto all’emissione α.
127
L’energia potenziale del sistema nella sua interezza può allora essere rappre-
sentata come l’energia del sistema ”particella α + nucleo figlio” considerati
come due sottosistemi nucleari separati.
Ci si riferisca ad esempio al decadimento
209 205
83 Bi −→ 81 Tl + 42 He + 3.14 MeV (5.22)
128
In figura 5.8 è indicata anche la distanza rc ' 75 fm, che classicamente
coincide con quella di massimo avvicinamento possibile al nucleo di tallio
da parte di una particella α di energia cinetica Ek = Qα , ovvero pari al
Q−valore del decadimento analizzato, per cui
2ZT l e2
rc = (5.24)
4π0 Qα
Il parametro rc viene anche detto raggio esterno della barriera.
Per quanto concerne il potenziale totale sentito dalla particella α, all’ester-
no del nucleo si può assumere che coincida con quello coulombiano repulsivo
che tende a 0 per r → ∞.
All’interno del nucleo, per distanze inferiori ad rs , la particella sentirà il po-
tenziale attrattivo delle forze nucleari ma fino a un valore di r ≈ δ < rs , al
di sotto del quale perde significato l’ipotesi di immaginare la particella α co-
me una struttura dotata di una propria individualità entro il nucleo genitore.
129
Figura 5.9: Schema dell’andamento del potenziale globale sentito da una
particella α.
dove G, detto fattore di Gamow vale, per energie non troppo alte
Ze2 −1/2 vα
G' ∼ Ek,α con, βα = (5.26)
0 ~cβα c
130
Qα rs rc G τexp τth
(MeV) (fm) (fm) (s) (s)
238 U → 234 Th 4.27 8.52 60.7 0.53 2.0 ×1017 3.3 ×1017
92 90
(234
90 Th →
234 Pa
91 → 234 U)
92
234 U → 230 Th 4.86 8.49 53.3 0.51 1.1 ×1013 1.1 ×1013
92 90
230 U → 226 Ra 4.77 8.45 53.1 0.51 3.5 ×1012 3.9 ×1012
90 88
226 Ra → 222 Rn 4.87 8.41 50.9 0.50 7.4 ×1010 7.4 ×1010
88 86
222 Rn → 218 Po 5.59 8.37 43.3 0.46 4.8 ×105 4.2 ×105
86 84
218 Po → 214 Pb 6.11 8.33 38.7 0.43 2.6 ×102 1.6 ×102
84 82
(214
82 Pb →
214 Bi
83 → 214 Po)
84
214 Po
84 → 210 Pb
82 7.84 8.28 30.1 0.36 2.3 ×10−4 1.1 ×10−4
(210
82 Pb →
210 Bi
83 → 210 Po)
84
210 Po → 206 Th 5.41 8.24 43.7 0.47 1.7 ×107 5.8 ×105
84 82
È straordinario il livello con cui questa teoria semplice è in accordo con i ri-
sultati sperimentali, ricordando che copre scale temporali che vanno dall’età
della Terra che è di circa 1.45 × 1017 s, fino a tempi dell’ordine di 10−4 s.
La discrepanza maggiore si ha nel caso del 210 84 Po, che avendo un numero di
neutroni magico (126) corrisponde a una shell chiusa.
131
5.3 Approccio perturbativo ai decadimenti
Il decadimento α è quindi dovuto all’effetto tunnel attraverso la barriera
coulombiana del nucleo e alle forze nucleari che permettono l’aggregazione
stabile, entro la materia nucleare e per un sufficiente lasso di tempo, dei
nucleoni che costituiscono una particella α. Gli altri tipi di decadimenti nu-
cleari possono invece essere visti come l’effetto di perturbazioni agenti sugli
stati in cui si trovano le strutture che poi decadono, e se tali perturbazioni
sono abbastanza piccole rispetto alle energie che caratterizzano gli stati di
partenza, allora se ne può dare una trattazione abbastanza generale che ora
verrà delineata, prima di passare alla trattazione dei decadimenti β e γ.
2π 0 2
λ= Mf i ρ(Ef ) (5.27)
~
7
Per la sua derivazione si veda ad esempio E. Gozzi, ”Notes on Quantum Mechanics
with Examples of Solved Problems” Cap. 12)
132
con l’elemento di matrice dell’operatore di transizione M0 espresso da
D E Z
M0f i = ψf Φ0 ψi = ψf∗ Φ0 ψi dV (5.28)
La densità degli stati finali dipende da due contributi, lo stato finale rag-
giunto dal nucleo dopo il decadimento e la ”radiazione” emessa durante il
decadimento. Si consideri dapprima lo stato finale del nucleo.
La soluzione dell’equazione di Schrödinger per il potenziale Φ indipendente
dal tempo fornisce gli stati stazionari del nucleo ψa (~r).
La funzione d’onda dipendente dal tempo per lo stato in questione è
133
Il problema può essere affrontato in modo rigoroso ottenendo la distribuzio-
ne dei livelli energetici dalla trasformata di Fourier di e−t/2τa 8 . Risulta in
tal caso che la probabilità di osservare il sistema in un intorno energetico
compreso fra E ed E + dE, in prossimità del valore energetico Ea , è data da
dE
P (E)dE ∝ (5.32)
(E − Ea )2 + Γ2a /4
dove Γa = ~/τa è detta larghezza dello stato a. In pratica ciò si risolve nel
fatto che una qualunque misura dell’energia di un tale stato non è assolu-
tamente detto che fornisca il valore Ea , anche se esso rappresenta il valor
medio di più misure effettuate. La larghezza Γa quantifica l’impossibilità
di determinare con precisione l’energia dello stato a, e ciò è intrinseco nella
natura di tale fenomeno, non frutto di limitazioni tecniche nell’effettuazione
della misura stessa. Si osservi che geometricamente Γa corrisponde alla lar-
ghezza a metà altezza della curva che rappresenta P (E), come in figura 5.10??.
P (E) è proporzionle a quella che vien detta detta funzione di distribuzione
Lorentziana o di Cauchi, o ancora di Breit-Wigner, e si noti che ha la stessa
forma analitica della funzione che descrive i fenomeni di risonanza.
Parlare di transizioni fra diversi stati per un sistema, anche se questi non
sono caratterizzati da valori esatti e univocamente definiti di energia, è co-
munque possibile purchè le larghezze di tali stati siano piccole a confronto
delle differenze fra i valori medi di energia che caratterizzano ognuno degli
8
Si veda in Appendice ??
134
stati stessi.
Gli stati di interesse nucleare sono caratterizzati da vite medie τ tipicamen-
te superiori a 10−12 s, corrispondenti a larghezze Γ < 10−10 MeV. Gli stati
nucleari a breve vita media che vengono popolati durante gli ordinari pro-
cessi di decadimento, e anche in molte reazioni nucleari, hanno separazioni
energetiche dell’ordine di 10−3 MeV o superiori. È dunque molto improba-
bile che determinando l’energia di uno stato nucleare finale raggiunto dopo
un processo di decadimento tramite ad esempio la misura dell’energia delle
radiazioni emesse, la sovrapposizione energetica fra le distribuzioni di due
diversi stati finali a e b possa generare confusione nel riconoscere lo stato
finale effettivamente raggiunto come risultato del decadimento.
È in tal caso ragionevole parlare di stati discreti pseudo-stazionari e con-
Figura 5.11: Se le larghezze di due stati instabili sono piccole rispetto alla
loro separazione energetica, come in a), i due stati sono ben riconoscibili;
se invece i due stati si sovrappongono e si mescolano come in b), allora non
posseggono funzioni d’onda ben distinte l’una dall’altra.
cludere che essi non contribuiscono alla densità degli stati finali in quanto
uno solo di essi può essere raggiunto in un ben determinato processo di de-
cadimento. In tal caso le ”radiazioni” emesse sono le sole a contribuire alla
densità ρ(Ef ) degli stati.
Senza entrare nello specifico del tipo di decadimento, in generale si vede
che considerando soltanto la probabilità di formazione di uno stato nucleare
di energia Ef , vanno prese in considerazione tutte le possibili radiazioni di
energia Ei − Ef .
Tale radiazione può essere emessa in qualsiasi direzione e in qualsiasi stato
di polarizzazione, e se consiste di particelle dotate di spin, allora questo può
avere qualsiasi possibile orientazione.
135
Questo modo di contare gli stati finali accessibili permette di ottenere la
densità degli stati.
Φ0ba
ψa −→ ψa + ψb (5.33)
Eb − Ea
e il sistema inizialmente nello stato a ha una probabilità proporzionale a
|Φ0ba |2 di trovarsi poi nello stato b. Si considera questo come un decadimento
dallo stato a allo stato b.
La connessione fra l’effettiva probabilità di decadimento per un sistema co-
stituito da un grande numero di nuclei e quanto sopra descritto per la proba-
bilità (microscopica) di decadimento di un singolo nucleo, implica che ogni
nucleo del sistema macroscopico decada emettendo radiazioni in modo asso-
lutamente indipendente da tutti gli altri, compresi quelli a lui spazialmente
più vicini. Quest’ipotesi è fondamentale per poter confrontare le costanti di
decadimento misurate con quelle calcolate.
136
5.4 Radioattività β
I meccanismi che coinvolgono elettroni e nucleo di uno stesso atomo sono sva-
riati e qui si accenna dapprima alla conversione interna, per poi soffermarsi
più ampiamente sul decadimento β.
Ek,e = E ∗ − Be (5.34)
137
shell K, ma lo sia per elettroni delle shell L o M di quel nucleo.
Dopo l’emissione dell’elettrone per conversione interna avviene tipicamente
che un elettrone di una shell meno legata dello stesso atomo cada a riem-
pire la posizione lasciata libera nella shell più interna, con la concomitante
emissione di un raggio X caratteristico del salto energetico effettuato.
In base a quanto descritto si desume che lo spettro d’emissione di elettroni
per conversione interna deve essere ”discreto”.
5.4.2 Decadimento β
138
Nelle misure sui decadimenti β le uniche particelle che venivano osservate
come prodotti di decadimento erano elettroni o positroni assieme al cor-
rispondente nucleo figlio; ciò aveva condotto inizialmente a pensare che si
trattasse di un processo di disintegrazione in due corpi, come il decadimento
α. In tal caso, applicando qui la corretta forma relativistica della conser-
vazione dell’energia nel sistema del centro di massa del nucleo X genitore,
per l’energia totale Ee dell’elettrone si dovrebbe avere, come mostrato nella
relazione 5.68 del paragrafo 5.6
2 c2 + m2 c2 − M 2 c2
MX e Y
Ee =
2MX
e di conseguenza, per l’energia cinetica Ek,e dell’elettrone
2 c2 + m2 c2 − M 2 c2
MX e Y
Ek,e = − me c2
2MX
Ci si attendeva, in base a quest’ipotesi e come nel caso del decadimento α,
che il prodotto più leggero del decadimento, l’elettrone o il positrone, rac-
colta la gran parte dell’energia a disposizione del decadimento la mostrasse
in uno spettro discreto con un unico valore, un picco ben definito centrato
attorno ad Ek,e .
Gli spettri misurati di emissione β hanno invece un andamento continuo,
a partire da un valore minimo, compatibile con zero, fino ad annullarsi in
corrispondenza ad un valore massimo che entro le precisioni sperimentali,
corrisponde ad Emax ∼ = Ek,e . Quando gli spettri β furono osservati per le
prime volte ci fu anche la tentazione di mettere in discussione la validità di
un principio che fino ad allora era apparso fermo e incrollabile, ovvero la
conservazione dell’energia per un sistema fisico isolato9 , e un nucleo durante
il tempo necessario al suo decadimento β, può senz’altro essere considerato
come un sistema fisico perfettamente isolato.
Se inoltre il decadimento β fosse proprio in due soli corpi nello stato finale,
ciò implicherebbe che neppure il momento angolare totale del nucleo genitore
sarebbe conservato nel decadimento. Siccome infatti il numero di nucleoni,
fermioni con spin semi-intero pari ad ~/2, resta invariato fra nucleo genito-
re e figlio, indipendentemente da qualsiasi possibile variazione di momento
angolare orbitale che deve oltretutto necessariamente essere pari ad un mul-
tiplo intero di ~, il fatto che nello stato finale ci sia un elettrone, che è anche
un fermione con spin pari ad ~/2, implica che il momento angolare non si
conserverebbe se il decadimento β avvenisse secondo le
A
ZX −→ A
Z+1 Y + e− , A
ZX −→ A
Z−1 Y + e+
(5.35)
A
ZX + e−
K −→
A
Z−1 Y
9
Niels Bohr fu per un pó uno dei più ferventi sostenitori di quest’ipotesi!
139
Figura 5.13: Spettro continuo dell’energia degli e− emessi nel decadimento
β − del bismuto (210
83 Bi).
140
con zero.
Uno dei compiti di questa particella era anche di garantire la conservazione
del momento angolare nel decadimento β, e da ciò consegue che deve essere
un fermione con momento angolare di spin pari ad ~/2.
Le caratteristiche dedotte per questa particella, a meno della massa, la fan-
no in un certo qual modo assomigliare a un neutrone, ed è per questo che E.
Fermi la chiamò neutrino, indicata dalla lettera ν. In capitoli successivi si ri-
prenderà approfondendolo, il filo cronologico dalla formulazione dell’ipotesi
dell’esistenza del neutrino, introducendo altre sue interessanti e importanti
proprietà, e analizzandone soprattutto la connessione con quanto concerne
l’interazione debole.
Qui di seguito si vedranno più specificamente alcuni fatti direttamente con-
nessi con la fenomenologia del decadimento β nucleare.
Grazie all’introduzione del neutrino le 5.35 si possono intanto più corretta-
mente scrivere come
A
ZX −→ A
Z+1 Y + e− + ν (5.36a)
A A
ZX −→ Z−1 Y + e+ + ν (5.36b)
A
ZX + e− −→ A
Z−1 Y + ν (5.36c)
che però, come si vedrà nel paragrafo 9.5, non è ancora la forma definitiva-
mente corretta.
n → p + e− + ν e (5.37)
141
Figura 5.14: Sequenza isobarica del rutenio 101 Ru
44
p → n + e+ + νe (5.38)
101 Pd → 101 Rh + e+ + νe
46 45
101 Rh
45 → 101 Ru
44 + e+ + νe
Si considerino ora i nuclei con numero di massa A pari. Sempre per quan-
to visto nei paragrafi 4.2 e 4.3.8, in questo caso le sequenze isobariche
si dispongono secondo due diversi andamenti parabolici, uno per i nuclei
dispari-dispari e uno, separato del doppio dell’energia di accoppiamento
2|Bac (A, Z)| nella formula di Weizsäker, per i nuclei pari-pari.
Capita spesso che soprattutto per valori di A > 70 vi sia più di un isobaro
β−stabile. Si considerino come esempio gli isobari con A = 106.
142
Figura 5.15: Sequenze isobariche del Palladio 106 Pd
46
143
consistente, alla funzione d’onda del nucleo, permettendo che un protone
di questo e l’elettrone si combinino per formare un neutrone e un neutrino
secondo la
p + e− → n + νe (5.39)
Questa reazione si presenta prevalentemente in nuclei pesanti per i quali
il raggio nucleare è maggiore e l’estensione radiale degli orbitali atomici è
minore. Solitamente gli elettroni catturati provengono dall’orbitale più in-
terno, K appunto, la cui funzione d’onda ha la massima sovrapposizione
spaziale con la zona occupata dal nucleo. Similmente al processo di conver-
sione interna, la cattura di un elettrone dall’orbitale K ingenera la successiva
cascata, nella vacanza da lui lasciata, di un altro elettrone dell’atomo prove-
niente da orbitali più esterni, quindi a energie più elevate, con la conseguente
emissione di caratteristici raggi−X.
Questo processo è energeticamente in competizione col decadimento β + ,
come si può vedere ad esempio nel caso del 40 19 K, di cui in figura 5.16 è ri-
portato lo schema dei livelli. Il 4019 K è un isotopo naturale con abbondanza
dello 0.0117 % che può decadere β − verso il livello fondamentale del 4020 Ca,
con probabilità dell’89.25 % e un Q-valore di 1.311 MeV. Ma esso può an-
che, con probabilità del 10.55 %, dar luogo a una cattura K con successiva
emissione di fotoni da 1.460 MeV verso il livello fondamentale di 40 18 Ar. La
residua probabilità di decadimento β + , sempre verso 4018 Ar, è pari a circa
0.001 % e l’energia di 483 keV a disposizione di positrone e neutrino tiene
conto della frazione, pari a 1.022 MeV, necessaria a creare la coppia e+ e− .
Per quanto concerne le vite medie caratteristiche dei decadimenti dei nuclei
β−instabili, τβ = 1/λβ , i loro valori spaziano fra circa 1016 anni e circa 10−3
secondi, con la massima energia d’emissione E0 variabile da alcune frazioni
di MeV fino a circa 7 MeV.
La costante di decadimento β va circa come la quinta potenza dell’energia
144
rilasciata (legge di Sargent)
1
λβ = ∝ E5 (5.40)
τβ
e dipende sia dalle caratteristiche del nucleo genitore che da quelle del nucleo
figlio.
Non vi sono casi di due isobari contigui che siano β−stabili, anche se tal-
volta uno dei due ha vita media cosı̀ lunga da poter essere a tutti gli effetti
considerato stabile. Un ben noto esempio è il 40 K che decadendo sia β −
che β + , si trasforma in altri isobari per i quali entra in competizione anche
la cattura K. I prodotti stabili del decadimento del 40 K sono 40 Ar e 40 Ca,
rappresentando un caso di due nuclei stabili con uguale numero di massa A,
come si vede in figura 5.16.
La scelta del 40 K come esempio non è casuale, infatti esso contribuisce con-
siderevolmente all’esposizione radioattiva di tutte le strutture biologiche: il
potassio è un elemento essenziale nella trasmissione dei segnali nervosi e la
sua concentrazione nel corpo umano è tale da far sı̀ che esso costituisca circa
il 16% della radiazione naturale cui siamo mediamente esposti.
I nuclidi β−instabili con emissione di positroni hanno tutti Z < 80.
145
identificata come rappresentante le transizioni permesse e le altre come rap-
presentanti diversi livelli di transizioni proibite. Una teoria del decadimento
146
λβ = 1/τβ di decadimento ad essi associate, l’interazione che li governa deve
essere debole.
Questa conclusione condusse Fermi a postulare l’esistenza di una nuova for-
za che fosse responsabile dei decadimenti β. Essa è stata chiamata forza
debole ed è a breve raggio d’azione, dato che è efficace soltanto all’interno
dell’ambiente nucleare. La bassissima intensità di questa forza è quindi re-
sponsabile delle lunghe vite medie osservate nei decadimenti β. In termini
di intensità relative, assunta come pari ad 1 quella della forza forte, si ha
rispettivamente 10−2 per l’elettromagnetica, 10−5 per la debole e 10−39 per
la gravitazionale.
Cosı̀ come nel caso dell’interazione elettromagnetica, il ridotto valore del-
l’intensità d’accoppiamento della forza debole permette dunque di affrontare
con tecniche perturbative la formulazione di una teoria del decadimento β.
Si è visto che all’interno dei nuclei non vi possono essere, stabilmente pre-
senti, elettroni (dimensioni nuclearei, modello Rutherford, ecc. ecc.), e con-
seguentemente si deduce che gli elettroni emessi durante il decadimento β
non possono provenire dal nucleo ma devono essere stati prodotti nel mo-
mento del decadimento. Questa sequenza è abbastanza analoga a quanto
avviene nelle transizioni atomiche, in cui i fotoni non pre-esistono all’inter-
no degli atomi ma sono prodotti al momento delle transizioni. Cosı̀ come
la transizione in un atomo può essere capita come indotta, ad esempio, da
un’interazione di dipolo, e quindi calcolata utilizzando la teoria delle per-
turbazioni, similmente il decadimento β può essere capito come dovuto alla
debole forza rappresentata dall’Hamiltoniano di interazione debole.
Il calcolo della probabilità λβ di transizione per unità di tempo, e della for-
ma dello spettro energetico delle particelle emesse nel processo, può quindi
essere affrontato come fatto da Fermi13 , con tecniche perturbative e utiliz-
zando la Regola d’Oro n. 2. Anche se i risultati ottenuti da Fermi sono poi
stati superati da sviluppi successivi e infine dalla teoria elettrodebole 14 di S.
Glashgow, A. Salam e S. Weinberg, è molto istruttivo riproporlo qui in una
forma semplificata utilizzata dallo stesso Fermi in ”Nuclear Physics” The
University of Chicago Press (1950).
La teoria di Fermi dell’interazione debole è sostanzialmente una teoria di
campo in cui l’Hamiltoniano d’interazione è un operatore agente sui campi
fermionici tramite assorbimento o emissione di fermioni.
13
E. Fermi, Tentativo di una teoria dei raggi β, Nuovo Cimento 11 (1934) 1-19.
14
Citare il paragrafo dove ne parlerò ...
147
due onde piane di impulsi rispettivamente p~e e p~ν
pe ·~
i~ r/~ pν ·~
i~ r/~
ψe = Ne e , ψν = Nν e (5.41)
148
L’espressione per la probabilità d’emissione include anche un fattore ”co-
stante” g 2 che rappresenta l’intensità dell’accoppiamento che dà luogo al-
l’emissione e gioca il ruolo di una costante universale per la quale si trova
sperimentalmente
Tenendo quindi conto di tutto quanto detto e usando la Regola d’Oro n.2 si
ha, per la probabilità d’emissione
2π dn
(|ψe (O)| |ψν (O)| |M| g)2 (5.46)
~ dE
con dn/dE la densità energetica degli stati finali e O che come detto, indica
il ”punto in cui avviene” il decadimento, assunto come il centro di massa del
nucleo genitore.
Le funzioni d’onda ψ sono normalizzate sul volume V in modo che
1
Z
ψ ∗ ψ dτ = 1 , per cui: N=√ (5.47)
V V
e
1 1
ψe = √ e i~pe ·~r/~ , ψν = √ e i~pν ·~r/~ (5.48)
V V
Ha senso dire che il nucleo è posizionato in ~r = 0 solo se ψ cambia poco
sulle dimensioni del nucleo stesso.
Per valori dell’impulso p tipici dei decadimenti β, il ”passo” con cui si hanno
sensibili variazioni di ψ è dato da λ = ~/p ' 10−13 m, quindi grande se
confrontato con le dimensioni nucleari, dell’ordine di 10−14 m, cui sono estesi
gli integrali che compaiono nell’elemento di matrice. Ha quindi abbastanza
senso considerare il nucleo in buona approssimazione ”puntiforme” in ~r = 0.
In tal caso le 5.48 si riducono a
1 1
ψe (O) = √ , ψν (O) = √ (5.49)
V V
Si consideri ora la densità degli stati finali. Il numero dn0 di stati d’on-
da piana con valore dell’impulso compreso fra p e p + dp, considerando la
particella dovunque in V è 16
dn0 V p2 dp
dp = (5.50)
dp 2π 2 ~3
quindi si ha, per dn
149
con dpe dpν = J dpe dE, essendo ”J” lo Jacobiano che trascurando l’energia
di rinculo del nucleo rispetto alle energie di elettrone e neutrino, e assumendo
nulla la massa del neutrino, mν = 0, può essere calcolato partendo dalla
relazione E = cpν + Ee , ottenendo17 J = 1/c. Quindi:
dn p2e p2ν
= V 2 dpe (5.52)
dE 4π 4 ~6 c
In base quindi alla 5.46 si ottiene la probabilità d’emissione per unità di
tempo P pν , pe dpe in funzione della sola variabile misurata, cioè l’impulso
pe dell’elettrone
2
2π 1 p2e p2ν V 2 dpe
P (pν , pe ) dpe = |M| g (5.53)
~ V 4π 4 ~6 c
Sempre nell’ipotesi mν = 0 si ha anche, detta Etot l’energia totale a dispo-
sizione nello stato finale del decadimento, che coincide praticamente quasi
con l’estremo superiore Ee,max della distribuzione in energia degli elettroni
emessi: Eν = pν c = Etot − Ee , da cui: pν = (Etot − Ee ) /c, che sostituito dá,
per la probabilità d’emissione
g 2 |M|2
P (pe ) dpe = (Etot − Ee )2 p2e dpe (5.54)
2π 3 ~7 c3
q
Esprimendo infine pe,max dalla Ee,max = m2 c4 + p2e,max c2 ' Etot , si ha:
g 2 |M|2
q q 2
P (pe ) dpe = m2 c4 + p2e,max c2 − m2 c4 + p2e c2 p2e dpe
2π 3 ~7 c3
(5.55)
che rappresenta sostanzialmente la distribuzione dello spazio delle fasi nel
decadimento a tre corpi in cui la massa del nucleo residuo è molto maggiore
di quella dell’elettrone, la cui massa è a sua volta molto maggiore di quella
del neutrino.
Per trovare ora la vita media τβ bisogna integrare su tutti i possibili valori
di pe
g 2 |M|2
Z pe,max q 2
1 q
λβ = = m2 c4 + p2e,max c2 − m2 c4 + p2e c2 p2e dpe
τβ 2π 3 ~7 c3 0
(5.56)
Dalla misura della vita media τβ si può quindi ottenere il valore del prodotto
fra la costante d’accoppiamento e l’elemento di matrice g |M|.
Per risolvere l’integrale conviene ridefinire gli impulsi in unità di mc, renden-
do cosı̀ esplicita la dipendenza dalla massa dell’elettrone e ottenendo le due
∂pe ∂pe
1 ∂pe
∂E = 1
17 ∂p ∂E
J = e =
∂pν ∂pν
0 1 c
∂pe ∂E c
150
quantità η = pe / (mc) ed η0 = pe,max / (mc), tramite le quali si riesprime
l’integrale della 5.56, chiamandolo F (η0 ):
1 g 2 |M|2 m5 c4
= F (η0 ) (5.57a)
τβ 2π 3 ~7
Z η0 q q 2
F (η0 ) = 1 + η02 − 1 + η2 η 2 dη (5.57b)
0
Integrando la 5.57b si ottiene
1 1 3 1 5 1q
q
F (η0 ) = − η0 − η0 + η0 + 2 2
1 + η0 ln η0 + 1 + η0
4 12 30 4
(5.58)
1 1 1 1q
= − η0 − η03 + η05 + 1 + η02 senh−1 η0
4 12 30 4
Sviluppando il logaritmo e ottenendo termini con potenze di η0 che cancel-
lano quelli delle potenze inferiori a η07 nell’espressione per F (η0 ), si indivi-
duano quindi per F (η0 ) le seguenti forme limite :
1 5
η0 1 : F (η0 ) −→ η (5.59a)
30 0
2 7
η0 1 : F (η0 ) −→ η (5.59b)
105 0
Nella prima, relativa ai decadimenti β in cui Etot ≈ Ee,max è abbastanza
maggiore di me c2 , la vita media dipende dunque dalla quinta potenza di
Etot , in accordo con le osservazioni di Sargent.
Le approssimazioni fatte finora sono un pó drastiche, sia per quanto concer-
ne l’elemento di matrice che per le funzioni d’onda dell’elettrone o positrone
emessi. Considerare queste ultime delle semplici onde piane porta infatti a
trascurare l’interazione coulombiana fra l’elettrone o il positrone e il nucleo.
Per tenerne conto si introduce, nell’espressione integranda per ottenere λβ ,
un fattore f (±Z, η0 ) dipendente dal nucleo e dall’energia dell’elettrone. La
funzione integrata risultante dipende anch’essa da Z e si scrive F (±Z, ηo ),
che per piccoli valori di Z si riduce alla F (±Z, ηo ) ≈ F (ηo ) introdotta
sopra. Si ha quindi per λβ
1 g 2 m5 c4
λβ = = |M|2 F (±Z, ηo ) (5.60)
τβ 2π 3 ~7
151
Dalla 5.60, ricordando la 5.55, si può ottenere la forma dello spettro d’e-
missione β, come mostrato da Fermi.
In figura 5.18 sono mostrate le diverse forme delle distribuzioni d’impulso
di e− ed e+ nei decadimenti β del rame.
64
29 Cu → 64
30 Zn + e− + ν e
64 64
29 Cu → 28 N i + e+ + νe
Si noti come, nell’ipotesi fatta che la massa del neutrino sia nulla (ν = 0),
152
dove C (Z, pe ) include tutte le costanti e anche la dipendenza dalla carica Z
del nucleo. Si ha quindi
s
I (pe )
= (Ee,max − E) (5.62)
p2e C (Z, pe )
153
5.5 Radioattività γ
Un nucleo può avere a disposizione molti stati eccitati e la gran parte di
quelli a energia d’eccitazione più bassa sono interpretabili teoricamente, al-
meno da un punto di vista qualitativo.
In figura 5.20 sono schematicamente illustrati i livelli energetici di un nucleo
pari-pari con A ≈ 100. Al di sopra dello stato fondamentale vi sono stati
154
de l’uso della teoria dei campi quantizzati della radiazione elettromagnetica,
di cui si utilizzeranno qui alcuni risultati rimandando a corsi successivi per
la loro deduzione.
Si può descrivere il fenomeno ricorrendo allo sviluppo in serie di una sovrap-
posizione di diversi termini multipolari, ognuno con la propria caratteristica
distribuzione angolare. La radiazione elettrica di dipolo, quadrupolo, ot-
tupolo, ecc. è indicata con E1, E2, E3, ecc.; similmente la corrispondente
radiazione multipolare magnetica è indicata con M1, M2, M3, ecc.
La conservazione del momento angolare e della parità, caratteristiche dell’in-
terazione elettromagnetica, determinano quali multipolarità siano permesse
nella transizione: un fotone di multipolarità E` ha momento angolare ` e
parità (−1)` , un fotone di multipolarità M` ha momento angolare ` e parità
(−1)`+1 . In tabella 5.1 sono riportate alcune regole di selezione per transi-
zioni elettromagnetiche con le quali si può costruire un insieme di transizioni
permesse quali ad esempio quelle in tabella 5.2. In una transizione Ji → Jf
155
la stessa probabilità di una transizione elettrica E(` + 1). Una transizione
3+ → 1+ , ad esempio, è in linea di principio una miscela di E2, M3 ed E4,
ma risulta facilmente dominata dal contributo E2. Una transizione 3+ → 2+
consiste usualmente in una miscela di M1 ed E2 ed E4, ancche se sono pos-
sibili transizioni transizioni M3, E4 ed M5.
In una serie di stati eccitati 0+ , 2+ , 4+ , il decadimento più probabile consi-
ste in yna cascata di transizioni E2 del tipo 4+ → 2+ → 0+ , e non in una
singola transizione E4 del tipo 4+ → 0+ .
La vita media di uno stato eccitato e la distribuzione angolare della radia-
zione elettromagnetica emessa costituiscono delle ”firme” della multipolarità
delle transizioni, che a loro volta rivelano spin e parità dei livelli eccitati del
nucleo.
La probabilità di decadimento dipende fortemente anche dall’energia: per
radiazione di multipolarità ` essa è infatti proporzionale ad Eγ2`+1 .
L’energia d’eccitazione di un nucleo può talvolta essere anche trasferita a un
elettrone di un orbitale atomico tramite un processo detto conversione inter-
na, in cui si immagina coinvolto un fotone virtuale, che non abbia dunque le
restrizioni sui possibili stati di polarizzazione di un fotone reale; esso diviene
un processo rilevante in transizioni per le quali risulta soppressa l’emissione
γ, come nel caso di alta multipolarità o bassa energia d’eccitazione, e il nu-
cleo coinvolto è pesante, per cui cresce la probabilità di una sovrapposizione
spaziale non trascurabile fra le funzioni d’onda del nucleo e degli elettroni
atomici.
La transizione 0+ → 0+ non può aver luogo tramite l’emissione di un fo-
tone, se quindi un nucleo è in uno stato eccitato 0+ , e anche tutti i suoi
livelli eccitati più bassi sono del tipo 0+ , come per 16 O o 40 Ca, allora il suo
decadimento dovrà procedere in modo diverso. Ciò può ad esempio avvenire
per conversione interna, con l’emissione di due fotoni o se energeticamente
permesso, con l’emissione di una coppia e+ e− . La conservazione della parità
vieta la conversione fra due livelli con J = 0 e parità opposte.
La vita media di uno stato nucleare eccitato varia tipicamente fra 10−9 e
10−15 s, che corrispondono a stati con larghezze inferiori a 1 eV.
Gli stati che possono decadere soltanto attraverso transizioni a bassa energia
e alta multipolarità hanno vite medie considerevolmente più lunghe. Essi
sono detti isomeri e vengono indicati con una m in apice al simbolo dell’ele-
mento. Un esempio estremo di isomero è il secondo stato eccitato di 110 Ag,
con energia d’eccitazione di 117.7 keV e J P = 6+ . Esso si diseccita attraver-
so una transizione M4 nel primo stato eccitato (1.3 keV; 2− ), in quanto un
decadimento diretto verso lo stato fondamentale 1+ è ancor più improbabile,
e la vita media τ di 110 Agm è pari a 339 giorni.
156
terna. In tal caso la vita media di quello stato eccitato è inferiore a quanto
previsto dal solo processo di decadimento radiativo, dato che le probabilità
di decadimento si sommano
λtot = λγ + λc (5.63)
157
5.6 Cinematica relativistica del decadimento in due
corpi
I decadimenti nucleari finora studiati coinvolgono spesso strutture figlie
emesse da un nucleo genitore con energie simili o superiori agli equivalenti
energetici delle masse delle particelle figlie stesse. Questi casi vanno quindi
trattati secondo il corretto approccio relativistico, come del resto sarà ne-
cessario con i decadimenti di singole particelle.
Riferendosi ai concetti riportati in Appendice D, si analizza ora il decadi-
mento di una struttura o particella genitore in due strutture o particelle
figlie, ovvero il decadimento in due corpi, che è anche la forma più semplice
di reazione.
Si consideri il decadimento di una particella di massa M inizialmente a ri-
poso rispetto a un osservatore inerziale solidale col sistema del laboratorio
(SL), che in questo caso coincide con quello del centro di massa (CM), e
siano m1 ed m2 le masse delle particelle figlie. Il quadri-impulso della par-
ticella genitore è quindi P = (M c, 0, 0, 0), e indicati con p1 = E1 /c, p~1 e
p2 = E2 /c, p~2 i quadri-impulsi delle particelle figlie, la conservazione del
quadri-impulso richiede che sia
P = p1 + p2 da cui, p~2 = −~
p1 (5.64)
Per cui nel sistema (CM) le due particelle figlie sono emesse in direzioni
opposte con impulsi di uguale modulo. Si può dunque omettere il pedice
nell’impulso e la conservazione dell’energia assume la forma
q q
E1 + E2 = m21 c4 + |~
p |2 c2 + p |2 c2 = M c2
m22 c4 + |~ (5.65)
p |2 si ha
quadrando nuovamente ed estraendo |~
q q
M c2 − m21 c4 + |~
p |2 c2 = m22 c4 + |~
p |2 c2
2 2
M 4 c2 + m1 − m2 m1 + m2 c2 + 2M 2 c2 m1 − m2 m1 + m2 =
= 4M2 m21 c2 + |~
p |2
2 2
m1 + m2 c2 − 2M 2 m21 c2 − 2M 2 m22 c2
M 4 c2 + m1 − m2
|~
p = |2 =
4M 2
2 2 = 2 2
M 4 c2 + m1 − m2 m1 + m2 c2 − M 2 m1 + m2 c2 − M 2 m1 − m2 c2
4M 2
158
da cui infine:
rh
2 ih 2 i
M 2 c − m1 − m2 c M 2 c − m1 + m2 c
|~
p|= (5.66)
2M
valida soltanto se
M ≥ m1 + m2 (5.67)
che implica la possibilità per una particella di decadere soltanto se la sua
massa supera la somma delle masse dei prodotti del decadimento. Se dunque
la massa di una particella supera la somma delle masse di altre due particel-
le, allora essa sarà instabile e potrà di conseguenza decadere in quelle due
particelle figlie, a meno che il decadimento non sia interdetto dal rispetto di
qualche legge di conservazione quale quella della carica, del momento ango-
lare, ecc. Quella ora espressa è quindi una condizione necessaria, ma non
sufficiente, all’avvenire di un particolare decadimento.
Va anche osservato che sia gli impulsi che le energie delle particelle figlie
sono fissati dalla massa della particella genitore. Ciò invece non vale nel
caso di decadimento in più di due particelle figlie: in tal caso l’impulso di
una particella figlia può assumere qualsiasi valore compreso fra 0 e un certo
valore massimo determinato dalle masse delle particelle coinvolte.
Tornando al decadimento in due corpi, le energie delle particelle figlie si
ottengono dalla 5.65. Quadrando per E1 ed E2
E1 + E2 = M c2 =⇒ E2 = M c2 − E1
q
da cui: M c2 − E 1 = E12 − m21 c4 + m22 c4 + m22 c4
e quadrando: M 2 c4 − 2E1 M c2 = m22 c4 − m21 c4
da cui infine:
M 2 c2 + m21 c2 − m22 c2
E1 =
e similmente,
2M
(5.68)
M c + m22 c2 − m21 c2
2 2
E2 =
2M
Si noti anche che non c’è una direzione preferita per l’emissione della parti-
cella figlia, e il decadimento è quindi isotropo. Se però si sceglie la direzione
di uno qualsiasi dei due prodotti del decadimento, ad esempio tramite il
posizionamento di un rivelatore, allora la direzione d’emissione dell’altro
159
risulta fissata dalla conservazione dell’impulso e come detto i prodotti del
decadimento si muovono back-to-back nel sistema di riferimento del centro
di massa del genitore.
Nel caso in cui le due particelle figlie abbiano masse identiche, m1 = m2 = m,
come ad esempio nel decadimento K0 → π + + π − , le formule 5.68 si sem-
due particelle figlie date da E1 = E2 = M c2 /2 ,
plificano con le energie delle √
e l’impulso dato da |~ p | = c M 2 − 4m2 /2.
Si possono ora in primo luogo calcolare gli angoli che gli impulsi delle due
particelle figlie fanno con l’asse z e l’uno rispetto all’altro, in funzione del-
l’impulso p~ della particella genitore. A tale scopo è interessante affrontare il
160
problema senza l’uso diretto delle trasformazioni di Lorentz, partendo dalla
conservazione energia-impulso
q q
E = E1 + E2 = m21 c4 + p21 c2 + m22 c4 + p22 c2 (5.73)
161
5.7 Fissione nucleare
La fissione nei nuclei pesanti fu scoperta sperimentalmente da O. Hahn e
F. Strassman nel 1938 quando constatarono che bombardando uranio con
neutroni si ottenevano come prodotti nuclei di masse approssimativamente
simili alla metà di quella dell’uranio bombardato; il fenomeno fu subito dopo
giustificato teoricamente da L. Meitner e O. Frish18 .
Oltre alla fissione indotta si ha anche fissione spontanea quando, senza in-
tervento dall’esterno, un nucleo genitore si spezza spontaneamente in due
nuclei figli approssimativamente della medesima massa. Calcoli basati sulla
formula semiempirica di Weizsäcker prevedono come si vedrà che il massi-
mo guadagno in energia si ha quando i due frammenti hanno esattamente la
stessa massa, ma sperimentalmente si trova che questa configurazione risulta
poco probabile. In figura 5.21 si vede ad esempio la distribuzione in massa
dei frammenti di fissione del 254100 Fm.
Distribuzioni di questo tipo sono caratteristiche, oltre che delle fissioni spon-
tanee, anche dei casi di fissioni indotte dall’urto di neutroni termici, mentre
invece le fissioni indotte da urti di particelle molto energetiche conducono
a distribuzioni di prodotti con masse che sono fra loro molto più simili.
La distribuzione in massa dei frammenti di fissione non ha inoltre sempre
162
un’andamento ”liscio” come quello mostrato in figura e per alcuni nuclei
fissionabili evidenzia delle irregolarità marcate che sono dovute alla intima
struttura a shell dei nuclei stessi, come ad esempio mostrato in figura 5.22.
Un esempio che mostra la natura decisamente asimmetrica dei frammenti è
238 145 90
92 U → 57 La + 35 Br + 3n (5.76)
processo a vita media molto lunga che rilascia un’energia di circa 154 MeV
sotto forma di energia cinetica dei prodotti di fissione.
Come visto dalla tabella dei nuclidi, i nuclei pesanti sono ricchi in neutroni
e questo dá conseguentemente luogo a prodotti di fissione anch’essi ricchi
in neutroni, assieme ad alcuni neutroni liberi. I prodotti di fissione sono
solitamente fuori dalla linea di stabilità per decadimento β e quindi dan-
no tipicamente luogo a successive fasi di decadimento. Il 145 57 La decade con
tre stadi successivi nell’isotopo β−stabile 145
60 Nd, liberando un’energia di 8.5
MeV sotto forma di energia cinetica degli elettroni e dei neutrini emessi.
Nonostante si trovi che la probabilità di fissione spontanea aumenta al cre-
scere di A, essa resta comunque un processo piuttosto raro: il rateo di fissione
spontanea per 238 −24 s−1 , mentre il rateo di
92 U è ad esempio di soli 3 × 10
decadimento α per lo stesso isotopo è pari a 5 × 10−18 s−1 , ovvero circa
1.7 × 106 volte più intenso. Nel caso del 254 100 Fm mostrato in figura 5.21,
anche se più pesante, il rateo di decadimento α è circa 1.7 × 103 volte su-
periore a quello di fissione. La fissione diviene il processo di decadimento
163
dominante soltanto per gli elementi più pesanti, con A ≥ 270.
Un’interpretazione oltre che qualitativa anche quantitativa del processo di
fissione può essere ottenuta basandosi sul modello, formulato nel 1939 con
ragionamenti classici da N. Bohr e J.A. Wheeler19 , secondo il quale un nucleo
è immaginato come costituito da una goccia di liquido di nucleoni, incom-
primibile, detto anche liquido di Fermi. Si tratta ovviamente di un liquido
”speciale”: per una goccia di liquido usuale, ad esempio, le condizioni di
equilibrio sono determinate dall’azione repulsiva delle forze coulombiane e
da quella attrattiva delle forze di tensione superficiale; nel liquido di Fermi
queste ultime danno luogo al termine di energia di superficie nell’equazione
semiempirica di Weizsäker che che avendo lo stesso segno di quello coulom-
biano contribuisce invece a ridurre e non ad aumentare il legame nucleare.
Si studi quindi, sulla base del modello a goccia, il problema della fissione di
un nucleo genitore con numero di massa A ed energia di legame B(A, Z), in
due frammenti con numeri di massa simili, ξA e (1 − ξ)A rispettivamente. Si
supponga inoltre che anche i protoni si distribuiscano sui due frammenti in
modo proporzionale alla massa. Dette B1 (ξA, ξZ) e B2 [(1 − ξ)A, (1 − ξ)Z)
le energie di legame dei due frammenti, e B12 (A, Z; ξ) la loro somma
164
bC = +0.697 MeV, si ottiene Q ' 180 MeV. Nonostante l’ampia esotermi-
cità del processo la probabilità di fissione spontanea per 238
92 U è bassissima,
con una vita media superiore a 106 anni, e ciò in quanto il sistema deve su-
perare un’elevata barriera di potenziale affinchè la fissione possa aver luogo.
Per ottenere una seppur grossolana valutazione dell’entità della barriera,
0 e2 (Z/2)2
Eint = (5.80)
2r0 (A/2)1/3
con r0 espresso dalla 4.50. Per 238 0
92 U si ha ad esempio Eint ' 249 MeV.
Il valore limite dell’energia per r → 0 coincide ovviamente con Q, dato
0 −Q e
dalla 5.79. L’altezza della barriera risulta quindi pari a ∆Ebf = Eint
la condizione di instabilità per il sistema è espressa da
0
∆Ebf = Eint −Q ≤ 0 (5.81)
165
che per quanto visto, assumendo ξ = 1/2, equivale a
Z 2 /A & 59 (5.82)
166
La deformazione produce una variazione dell’energia di legame del nucleo.
Detta quindi B∗ (A, Z) l’energia del nucleo perturbato si ha che se la diffe-
renza
∆B∗ (A, Z) = B(A, Z) − B∗ (A, Z) (5.87)
x2 + y 2 z2
3Ze
ρZ (~
r) = 2
per, + ≤1
4πab b2 a2 (5.89)
ρ (~ x2 + y 2 z2
Z r) = 0 per, + >1
b2 a2
Calcolando quindi le energie di superficie e coulombiana del nucleo deformato
si ottiene
con 1/2
1 R0 a + a2 − b2
β () = ln
C
2 (a2 − b2 )1/2 a − (a2 − b2 )1/2
! (5.91)
1 b2 1 a2 b b
β () = + arcos
S
2 1/2
2 R0 2 R02 (a2 − b2 ) a
167
Supposto ragionevolmente piccolo il parametro di deformazione, si possono
sviluppare in serie le 5.91, fermandosi al primo termine non nullo in potenze
di
1
βC () ' 1 − 2
5 (5.92)
2
βS () ' 1 + 2
5
∗
ottenendo quindi per ∆B (A, Z)
" #
∗ 1 Z2
∆B (A, Z) ' 2 A2/3 2bS − bC MeV (5.93)
5 A
Z2
. 49.4 (5.95)
A
La condizione espressa che è soddisfatta per nuclei con Z ≤ 116 e A ≤ 270,
assicura l’esistenza della barriera di potenziale ed è chiaramente più reali-
stica della 5.82. Per nuclei con Z 2 > 49.4 A la fissione spontanea diventa
quindi sempre più probabile per cui se ne può prevedere un alto rateo.
1 Z2
−2/3
Q = ∆B A, Z; ξ = = ' bS A2/3 1 − 21/3 + bC 1 − 2
2 A1/3
!
Z2
' 0.26 A2/3 − 17.2 MeV
A
(5.96)
La condizione ∆B (A, Z; ξ = 1/2) > 0, per cui i due frammenti di fissione
danno luogo a una configurazione energeticamente più stabile rispetto al
nucleo genitore, è dunque soddisfatta per Z 2 > 17.2 A. Mettendo assieme
quanto ottenuto si individua una regione della tabella dei nuclidi, definita
dalla relazione 17.2 A . Z 2 . 49.4 A, in cui benchè la configurazione sferica
del nucleo genitore risulti stabile per piccole perturbazioni, comunque la sua
168
fissione in due frammenti uguali è energeticamente favorevole.
Una deformazione di ampiezza sufficiente può dunque condurre il nucleo
al limite della scissione e la sua forma è in tal caso compatibile con una
configurazione di equilibrio instabile per spostarlo dalla quale anche di una
quantità infinitesima, è sufficiente un lavoro infinitesimo d’ordine superiore.
L’energia minima E0 necessaria per portare un nucleo dalla configurazione
iniziale ”a” a quella finale ”f”, illustrate in figura 5.25, è detta energia critica
di fissione, e può essere espressa come
!
Z2 A
E0 = BS (A) β0 (ζ) con, ζ = (5.97)
A Z2 0
per cui esiste una deformazione critica della ”goccia” che massimizza ∆B∗ (A, Z)
e si trova essere in corrispondenza di
169
espellendo il neutrone, spezzandosi in due o più frammenti, o trasformandosi
nell’isotopo stabile del nucleo bersaglio. La fissione nucleare è dunque un
processo in competizione con la diffusione elastica e anelastica di neutroni e
con il processo di cattura radiativa.
E ∗ = c + sn = E0 (5.101)
Data la grande massa dei nuclei bersaglio, rispetto a quella del neutrone, si
ha En0 ' c e di conseguenza dalla 5.101 si ottiene
En0 = E0 (A + 1, Z) − sn (A + 1, Z) (5.102)
∗
AX A+1 (0)
Z Z X E0 (A + 1, Z) sn (A + 1, Z) En
(MeV) (MeV) (MeV)
238 U 239 U ∗
92 92 5.7 4.8 0.9
235 U 236 U ∗
92 92 5.2 6.5 −1.3
234 U 235 U ∗
92 92 5.0 5.3 −0.3
232 Th 233 Th ∗
90 90 6.9 5.0 1.9
In tabella sono riportati i valori di En0 per alcuni nuclei pesanti calcolati con
la 5.102; i valori di E0 sono stati calcolati tramite la 5.97 e la 5.99. Valori
negativi di En0 indicano che i relativi nuclei non hanno soglia di fissione e
possono quindi essere fissionati anche dalla cattura di neutroni termici, la
cui energia cinetica è quindi irrilevante ai fini del processo.
170
Si osservi che nella condizione 17.2 A . Z 2 . 49.4 A, il nucleo genito-
re potrebbe fissionare anche per effetto tunnel attraverso la barriera, ma
la probabilità, come discusso parlando del decadimento α, è estremamente
bassa data la grande massa del frammento; conseguentemente risulta molto
lunga la vita media di questo processo, e quindi bassissimo il suo rateo.
171
Appendice J
Antineutrino elettronico
Il primo neutrino ad essere rivelato direttamente fu, come detto, l’antineutri-
no elettronico ν e , scoperto da Cowan, Reines e collaboratori nel 1956 presso
il reattore nucleare di Savannah River. I reattori nucleari rappresentano le
più intense sorgenti di (anti)neutrini elettronici disponibili sulla Terra, e li
producono con uno spettro continuo che si estende fino ad alcuni MeV di
energia. Il flusso è proporzionale alla potenza del reattore e quello di Savan-
nah River, nel Sud Carolina (USA), aveva una potenza di 0.7 GW. Esso fu
scelto in quanto disponeva di un locale massicciamente protetto, situato sot-
toterra, a una dozzina di metri dal ”core” del reattore, garantendo un flusso
di antineutrini ν e pari a circa Φ = 1017 m−2 s−1 sul volume del bersaglio.
Gli antineutrini elettronici possono essere rivelati tramite il processo beta
inverso, la cui sezione d’urto è però estremamente piccola, anche se a bassa
energia cresce col quadrato di quest’ultima
2
Eν
+ −47
σ ν e + p → e + n ≈ 10 m2 (J.1)
MeV
531
Figura J.1: Schema del principio di selezione degli eventi per l’apparato di
misura dell’esperimento di Savannah River.
532
Figura J.2: Schema dell’apparato di misura per dell’esperimento di
Savannah River.
n +108 Cd → 109
Cd∗ → 109
Cd + γ (J.2)
Il dispositivo era approntato in modo tale che il raggiò γ emesso dal cadmio
sarebbe stato rivelato 5 µs dopo i raggi γ emessi dall’annichilazione del po-
sitrone, se fossero stati prodotti effettivamente dal neutrino.
Un disegno dell’intero apparato è riportato in figura J.2 La riduzione del
flusso dei raggi cosmici conseguente alla localizzazione sotterranea dell’espe-
rimento e l’accurato disegno delle strutture di schermatura, furono fattori
essenziali alla sua riuscita. Il controllo delle condizioni di misura e l’analisi
accurata dei risultati permisero d’affermare che il rateo W = 3 ± 0.2 eventi
all’ora non fosse dovuto a cause di fondo ma fosse effettivamente ascrivibile
agli eventi cercati, fornendo cosı̀, a distanza di 25 anni dall’ipotesi di Pauli,
la prima evidenza sperimentale diretta di rivelazione di un (anti)neutrino.
Antineutrino muonico
Il successivo neutrino fu scoperto nel 1962 presso l’acceleratore di protoni
AGS di Brookhaven.
L’idea di produrre fasci intensi di neutrini sfruttando intensi fasci di protoni
533
Figura J.3: Schema dell’apparato per l’esperimento a Brookhaven.
π + → µ+ + ν
(J.3)
π − → µ− + ν
534
calcoli preliminari si stabilı̀ che la sua massa attiva doveva essere di almeno
10 tonnellate. A quel tempo ciò portò ad escludere una camera a bolle e si
optò per la tecnica della camera a scintilla (spark chamber), inventata nel
1955 da M. Conversi ed A. Gozzini e perfezionata nel 1959 da S. Fukui e S.
Myamoto.
Un elemento di una camera a scintilla consiste in una coppia di piastre me-
talliche affacciate parallelamente una all’altra e separate da uno spessore
di pochi millimetri, riempito da un’opportuna miscela gassosa, che viene
reso sensibile applicando alle due piastre una tensione che generi un inten-
so campo elettrico dell’ordine di circa 1 MV m−1 , immediatamente dopo il
passaggio di una o più particelle. La scarica elettrica che ne risulta è spa-
zialmente localizzata lungo il tragitto che la particella ha effettuato entro il
gas ionizzandolo e si presenta come una scintilla luminosa fotografabile.
Il rivelatore approntato per l’esperimento di Lederman, Schwartz e Stein-
berger consisteva di dieci moduli, ognuno con nove camere a scintilla. Le
piastre erano in alluminio dello spessore di 2.5 cm ognuna, quadrate di lato
pari a 110 cm, per una massa totale di 10 tonnellate.
Le fotografie scattate durante l’esposizione del rivelatore ai fasci di neutrini
furono analizzate alla ricerca delle reazioni
ν + n → µ− + p e ν + p → µ+ + n (J.4)
ν + n → e− + p e ν + p → e+ + n (J.5)
535
Capitolo 7
Processi d’urto
a + b −→ c + d (7.1)
189
I bersagli utilizzati possono essere sotto forma solida, liquida, gassosa o come
detto, costituire a loro volta fasci di particelle accelerate, come negli anelli
ad accumulazione.
190
Similmente a quanto si ha in ottica, il legame fra intensità di particelle dif-
fuse, energia del fascio incidente e angoli di diffusione, fornisce informazioni
sulla distribuzione spaziale del bersaglio.
Quanto più piccola è la dimensione dell’estensione spaziale del bersaglio,
tanto maggiori sono le energie cinetiche richieste alle particelle del fascio
incidente, per ottenerne una buona risoluzione spaziale. Se infatti λ = λ/2π
è la lunghezza d’onda di de Broglie di una particella con impulso p, si ha
~
√2mE
per Ek mc2
~ ~c k
λ= = q ≈ (7.3)
p 2mc2 Ek + Ek2 ~c ~c
≈ per Ek mc2
Ek E
Per ottenere una ragionevole risoluzione spaziale di strutture fisiche con
dimensioni lineari ∆x servono lunghezze d’onda dello stesso ordine di gran-
dezza: λ ≈ ∆x. Tenendo conto del principio di indeterminazione si ha, per
gli impulsi corrispondenti delle particelle dei fasci incidenti
~ ~c 200 MeV · fm
p & , pc & ≈ (7.4)
∆x ∆x ∆x
Si deduce da ciò che per risolvere spazialmente le tipiche dimensioni nuclea-
ri, che sono di alcune unità di fm, servono fasci di particelle con impulsi di
alcune decine di MeV/c.
I singoli nucleoni, come si vedrà, hanno dimensioni lineari dell’ordine di 0.8
fm, e per risolverli spazialmente servono quindi fasci di particelle con impulsi
maggiori a 100 MeV/c. Volendo invece risolvere spazialmente i quark, costi-
tuenti dei nucleoni, servono fasci di particelle con impulsi di molti GeV/c.
In figura 7.2 è illustrata la corrispondenza fra energia cinetica, impulso e
lunghezza d’onda di de Broglie per alcune particelle: γ, e, µ, p, α.
In un processo anelastico
a + b −→ b∗ + a0
↓ (7.5)
c + d
191
Figura 7.2: Corrispondenza fra energia cinetica, impulso e lunghezza d’onda
ridotta di de Broglie per un certo numero di particelle.
192
7.1 Sezioni d’urto: introduzione operativa
dN dNa dNa0 d
Na − Na0
= − = (7.6)
dt dt dt dt
193
Si supponga ancora che il bersaglio si presenti macroscopicamente come una
lastra di spessore costante ∆z e che tutte le particelle del fascio incidano
ortogonalmente su una faccia planare della lastra bersaglio, provenendo lun-
go traiettorie parallele che individuano un volume di forma sostanzialmente
cilindrica di cui A rappresenta l’area della sezione retta, di forma non ne-
cessariamente circolare.
In queste ipotesi il numero dNa /dt di particelle proiettile incidenti nell’unità
di tempo, ovvero il flusso Φa di particelle incidenti, sarà dato da
dNa
= Φa = na va A (7.7)
dt
Quanto detto delinea una geometria dell’urto illustrata in figura 7.3, in cui
l’asse di simmetria, indicato con z, è parallelo ed equiverso alla velocità ~va
di ogni particella incidente, ed è quindi ortogonale alla faccia planare che il
bersaglio macroscopico offre al fascio stesso.
Per proseguire bisogna tener conto di cosa significhi l’interagire fra una
194
particella incidente può potenzialmente interagire, è dato da
Nb = nb A ∆z (7.8)
195
Ricordando che la probabilità che qualcosa abbia luogo si esprime anche
come rapporto tra casi favorevoli e casi possibili si ha, in base alla 7.9 e
individuando con dN i casi favorevoli di diffusione dovuta a interazione fra
particelle incidenti e bersaglio in un certo intervallo dt di tempo, e con dNa
i casi possibili nello stesso intervallo di tempo
dN 1 dN 1
σb = = (7.12)
dNa nb ∆z dNa δs
2
Si vedano ad esempio i risultati riportati in ... .
3
L’ordine di grandezza delle tipiche sezioni d’urto per l’interazione fra neutrini e materia
è di 10−48 m2 , ovvero 10−20 barn.
196
Sezione d’urto d’interazione
La sezione d’urto d’interazione efficace non dipende principalmente dalla
geometria del processo d’urto coinvolto, ma piuttosto dalla forma, dall’in-
tensità e dal raggio d’azione del potenziale d’interazione in gioco.
Essa può essere determinata dalla misura del tasso di reazione se sono noti
il flusso delle particelle incidenti e la densità areale dei centri di diffusione,
come espresso dalla 7.11.
Lunghezza di attenuazione
Si consideri ora il problema che sorge quando si ha la necessità di valutare
l’intensità residua di un fascio incidente su un bersaglio spesso. Si supponga
di avere un fascio di intensità iniziale I0 incidente su un bersaglio spesso di
densità ρ kg×m−3 . Sia z la lunghezza del percorso compiuto dalle particelle
del fascio penetrate nel bersaglio e si voglia determinare l’intensità residua
I (z) del fascio in funzione di z. Si consideri un generico spessore infinitesimo
di bersaglio compreso fra z e z + dz e sia dRi il numero totale di interazioni
per unità di tempo fra particelle del fascio e centri diffusori del bersaglio
nello spessore dz. La corrispondente variazione dell’intensità del fascio sarà
dunque dI (z) = −dRi .
Detta come in precedenza A l’area della sezione del bersaglio ortogonale alla
direzione z, il flusso di particelle incidenti del fascio attraverso essa è dato
da
I (z)
ϕb (z) =
A
Ricordando il significato di sezione d’urto totale σT ot si ha quindi
I (z)
dI (z) = −dRi = −σT ot ϕb (z) dNb = −σT ot nb A dz
A
da cui
dI (z)
= −nb σT ot dz
I (z)
e infine
I (z) = I0 e−nb z σT ot
(7.15)
197
Si definisce quindi la cosiddetta ”lunghezza di attenuazione” Latt come la
distanza percorsa dal fascio nel bersaglio, dopo la quale l’intensità del fascio
stesso si è ridotta di un fattore 1/e,
1
Latt = (7.16)
nb σT ot
Luminosità
Un’altra grandezza utile è la ”luminosità” L, definita come il numero di urti
potenziali nell’unità di tempo fra le particelle di un fascio incidente e i centri
diffusori di un bersaglio, ovvero la quantità Φa δs . Dalla 7.11 si ha
1 dN
L = Φa δs = (7.17)
σ b dt
per cui la luminosità ha le dimensioni dell’inverso di un’area per l’inverso di
un tempo: [L] = [m]−2 [s]−1 .
Nel caso si tratti non di un fascio collidente contro un bersaglio fisso ma
dell’interazione di due fasci, costituiti da successivi pacchetti di particelle4
equispaziati e portati a collidere l’uno contro l’altro in un anello di accumu-
lazione la cui circonferenza sia lunga C, si definisce la luminosità secondo il
seguente ragionamento: si supponga vi siano k pacchetti di particelle, cir-
colanti ognuno con velocità di modulo v, e si indichino rispettivamente con
Na ed Nb i numeri di particelle presenti nei pacchetti circolanti in un verso
e nel verso opposto. Opportuni campi magnetici li portano a collidere in un
particolare punto della traiettoria circolare un numero pari a (k v)/C volte
al secondo. La luminosità risulta quindi essere
(Na Nb k v)/C
L = (7.18)
A
dove A rappresenta l’area della sezione retta del volume d’intersezione dei
fasci in corrispondenza della zona in cui avviene l’urto.
Naturalmente la luminosità aumenta al migliorare della focalizzazione dei
fasci entro un’area A che in questo caso appunto diminuisce in corrispon-
denza della zona d’interazione.
Si definisce anche la luminosità integrata come
Z
Lint = L dt (7.19)
198
Sperimentalmente si osserva in pratica sempre soltanto una frazione dei pro-
dotti di tutte le interazioni che hanno luogo fra particelle incidenti e bersagli,
e ciò per svariati motivi, spesso anche legati a difficoltà tecniche nel riuscire
ad osservare contemporaneamente i prodotti di reazione emessi in ogni pos-
sibile direzione, o ad esempio per motivi di indisponibilità finanziaria a poter
disporre strumenti di rivelazione adeguati in modo tale da coprire contempo-
raneamente tutte le possibili direzioni d’emissione dei prodotti di reazione.
La luminosità è nondimeno un parametro qualificante fondamentale delle
macchine acceleratrici.
dσ(E, ϑ, ϕ)
con, in coord. polari sferiche dΩ = senϑ dϑdϕ (7.21)
dΩ
199
in cui si è qui evidenziata anche la dipendenza dall’energia in gioco nel canale
d’ingresso della reazione stessa
dσ
Z
σT ot = p
d~ (7.25)
f p
d~
200
Sezione d’urto invariante
Il sistema di riferimento naturale per un processo d’urto è quello del centro
di massa delle particelle che interagiscono, e può non coincidere col sistema
di riferimento in cui si effettua la misura.
Le caratteristiche di un processo non devono del resto dipendere dal parti-
colare sistema di riferimento scelto per la misura, infatti la sezione d’urto
è definita sostanzialmente come una superficie ortogonale alla direzione del
moto delle particelle incidenti, ed è quindi un invariante relativistico.
Ricordando le leggi di trasformazione delle variabili dal sistema del labora-
torio al sistema del centro di massa, come riportato in Appendice D.1, si può
esprimere la sezione d’urto differenziale in funzione di variabili invarianti.
Le componenti dell’impulso si trasformano come indicato dalla D.23 e quindi
d~p non è un invariante, come non lo è d~ pk , mentre invece lo sono d~ p⊥ e
dσ. 1/2
Il rapporto d~ pk /E è invariante, essendo (E/c) = p2⊥ + p2k + m2 c2 ,
β pk
dp0k = γ dpk − β dE = γ dpk 1− =
E
(7.27)
γE − βγ pk E0
= dpk = dpk
E E
Di conseguenza la sezione d’urto invariante
dσ
E (7.28)
p
d~
è indipendente dal sistema di riferimento scelto per effettuare la misura.
201
7.2 Invarianti cinematici
Si introducono ora alcuni concetti fondamentali per il corretto approccio
relativistico allo studio dei fenomeni d’urto.
I trivettori saranno indicati con la freccia, e il loro modulo ponendoli entro
barre verticali, per distinguerli dai quadrivettori.
La massa m di un sistema fisico, quale un insieme di particelle, è spesso detta
massa invariante, anche se l’aggettivo ”invariante” è pleonastico dato che la
massa, essendo una proprietà intrinseca del sistema fisico, è necessariamente
invariante5 .
La sua espressione matematica è semplice solo per particelle fra loro ”non
interagenti”. In tal caso, per n particelle di energie Ei e impulsi p~i , si ha
v !2 !2
u n n
1 q
1 u X X
m = 2 E 2 − p~ 2 c2 = 2 t Ei − p~i (7.29)
c c i=1 i=1
s = m2 ≥ 0 (7.31)
Ricordando ora che il sistema del centro di massa (CM) è definito come
quello in cui risulta nullo l’impulso totale del sistema, si ottiene in esso
n
!2
1
Ei∗
X
2
s = m = 4 (7.32)
c i=1
202
Figura 7.5: Sistema di due particelle non interagenti.
a + b −→ c + d + e + ... (7.35)
ricordando che stati eccitati di una particella vanno considerati come parti-
celle diverse.
Tipicamente la durata dell’interazione, ovvero dell’urto, è cosı̀ breve da po-
terla considerare come trascurabile e in tal caso l’urto è visto come ”istanta-
neo”, il che permette di assumere come ”libere” sia le particelle dello stato
iniziale che quelle dello stato finale.
Nel seguito si considereranno i due sistemi di riferimento del centro di mas-
sa (CM) e del laboratorio (SL) introdotti in precedenza, ricordando che il
secondo coincide con quello in cui prima dell’urto, una delle due particelle
o nuclei, detta bersaglio, è a riposo mentre l’altra, detta proiettile, si muove
verso il bersaglio. Si indichi con a il proiettile e siano ma , p~a ed Ea ri-
spettivamente la sua massa, il suo impulso e la sua energia; sia dunque b il
bersaglio di massa mb . L’espressione per s calcolata nel (SL) è
1
2 2m E
2 2 2 b a
s = 4
Ea + mb c − p a c = m2a + m2b + (7.36)
c c2
203
Se dunque l’energia del proiettile è molto maggiore degli equivalenti energe-
tici delle masse sia del proiettile stesso che del bersaglio, si può approssimare
la 7.36 con
2mb Ea
s ' , per Ea ma c2 , mb c2 (7.37)
c2
Nelle figure 7.6 a) e b) sono illustrati gli stati iniziali del sistema fisico a + b
nel (SL) e rispettivamente nel (CM).
Nel caso in cui durante l’urto abbia luogo la produzione di particelle a
Figura 7.6: a) Sistema del Laboratorio (LS); b) sistema del centro di massa
(CM).
E + E∗ 2
∗ 2
2E ∗
a b
s = ≈ (7.38)
c2 c2
essendo naturalmente E ∗ ma c2 ed E ∗ mb c2 . L’energia totale a
disposizione nel (CM) è quindi proporzionale all’energia cinetica delle par-
ticelle collidenti ed è anche tutta disponibile per la produzione di nuove
particelle; nel (SL) invece solo una parte di tale energia è disponibile per la
produzione di nuove particelle, dovendo conservarsi anche l’impulso totale.
Si consideri ora un urto con due soli corpi nello stato finale
a + b −→ c + d (7.39)
204
le cui variabili cinematiche per gli stati iniziale e finale sono mostrate in
figura 7.7, sia per il sistema del laboratorio (LS) che per quello del centro di
massa (CM).
Si osservi che nel (CM) i valori assoluti degli impulsi prima e dopo l’urto
205
Similmente per u
1 h i
u ≡ (Ed − Ea )2 − (~
pd − p~a )2 c2
c4
(7.43)
1 h
2 2 2
i
= 4 (Ec − Eb ) − (~
pc − p~b ) c
c
1 1
s ≡ (pa + pb )2 = (pc + pd )2
c2 c2
1 1
t ≡ 2 (pa − pc )2 = (pb − pd )2 (7.44)
c c2
1 1
u ≡ 2 (pa − pd )2 = (pb + pc )2
c c2
Inoltre vale
t ≤ 0 , u ≤ 0 (7.46)
Nel caso in cui le velocità in gioco siano molto alte e si possano quindi tra-
scurare in prima approssimazione i contributi delle masse ai quadri-impulsi,
si ha
1 2pa · pb 2pc · pd
s ≡ 2 (pa + pb )2 ≈ 2
≈
c c c2
1 2pa · pc 2pb · pd
t ≡ 2 (pa − pc )2 ≈ − 2
≈ − (7.47)
c c c2
1 2pa · pd 2pb · pc
u ≡ 2 (pa − pd )2 ≈ − ≈ −
c c2 c2
Se contrariamente a quanto visto finora in questo paragrafo si considera un
sistema di particelle fra loro interagenti, si constata immediatamente che
la sua energia totale non coincide con la somma delle energie delle singo-
le particelle (E 6= ni=1 Ei ) in quanto il campo responsabile dell’interazione
P
206
7.3 Cinematica per urti di particelle leggere su
particelle massive
Nei prossimi paragrafi si tratteranno sezioni d’urto e si comincerà col caso
di particelle leggere, elettroni o muoni, contro bersagli massivi, nucleoni o
nuclei. Si richiama quindi la trattazione cinematica relativistica specifica
che permette di descrivere queste tipologie di interazioni.
207
Figura 7.8: Interazione elastica fra un elettrone e un nucleo.
segue che
p · P = p0 · P 0 (7.57)
Tipicamente in questo tipo di interazioni si rivela soltanto l’elettrone diffuso
e non la particella di rinculo. In tal caso si utilizza quindi la relazione
p · P = p0 · p + P − p0 = p0 p + p0 P − m2e c2
(7.58)
E M c2 = E 0 E − p~ · p~ 0 c2 + E 0 M c2 − m2e c4 (7.60)
E M c2 ' E 0 E (1 − cosϑ) + E 0 M c2
ovvero
E
E0 ' (7.61)
E
1+ (1 − cosϑ)
M c2
L’energia di rinculo trasferita al bersaglio di massa M corrisponde alla dif-
ferenza E − E 0 . Nel caso di diffusione elastica la relazione fra energia E 0 e
208
Figura 7.9: E 0 /E in funzione di ϑ per diffusione elastica di elettroni su nuclei
con A = 1 e A = 50.
angolo ϑ di diffusione è quindi biunivoca, mentre ciò non vale nel caso di
diffusione anelastica.
Dalla 7.61 si deduce che l’energia di rinculo del bersaglio cresce al cresce-
re del rapporto fra la cosiddetta massa relativistica E/c2 dell’elettrone e
la massa M del bersaglio, in accordo con quanto si ottiene dall’approccio
classico alla diffusione.
In figura 7.9 è riportato l’andamento di E 0 /E rispetto all’angolo ϑ di diffu-
sione, per elettroni di energia relativamente bassa (0.5 GeV) e relativamente
alta (10 GeV), incidenti su nuclei con A = 1 e A = 50. Per E = 0.5 GeV,
nel caso di urto su nuclei con A = 50, si ha (E − E 0 )/E ' 0.02.
209
Appendice D
Richiami di Relatività
ristretta
503
x0 = ct, x1 = x, x2 = y, x3 = z ≡ x0 , ~x .
x · y = xµ yµ = x0 y 0 − x1 y 1 − x2 y 2 − x3 y 3 (D.3)
xµ = gµν xµ e xµ = g µν xµ (D.4)
x · y = g µν xµ yν = gµν xµ y ν (D.5)
504
Le trasformazioni di Lorentz correlano anche le singole componenti del qua-
drivettore energia-impulso di una particella fra due diversi sistemi inerziali
S ed S 0 : 0
E E
=γ − βpz
c c
p0x = px
(D.9)
p 0 =p
y y
E
p0z = γ pz − β
c
Similmente a quanto visto per le coordinate, presi due quadrivettori energia-
impulso, p = p0 , p~ e q = q 0 , ~q , di due diversi sistemi fisici, o particelle,
505
p
da cui, ricordando che E = p |2 c2 + m2 c4 ,
|~
q
Ek = E − mc2 = mc2 (γ − 1) = p |2 c2 + m2 c4 − mc2
|~ (D.16)
e ancora q
Ek2 + 2mc2 Ek
c p~ = (D.17)
Considerando ora:
dE 1 2 c2 c2
= p 2 2 2pc = p = p (D.18)
dp p | c + m2 c4
2 |~ E mγc2
si ottiene:
p
dE = dp =⇒ dE = v dp (D.19)
mγ
506
t = t0 = 0
00 0
x = γ(x − βxk )
x0k = γ(xk − βx0 ) (D.21)
x 0⊥ = ~x⊥
~
2 −1/2
dove β = |~v | /c, γ = 1 − β , xk è la componente di x nella direzione
2
di ~v , per cui ~xk = (~x · ~v ) ~v /v , e ~x⊥ = ~x − ~xk .
In questo caso la trasformazine di Lorentz è definita da tre soli parametri,
ovvero le tre componenti di ~v . Se i due sistemi di riferimento fossero anche
ruotati uno rispetto all’altro si sarebbe nel caso più generale in cui la tra-
sformazione dipende da sei parametri tre dei quali sarebbero gli angoli di
Eulero.
Come già visto precedentemente la trasformazione di Lorentz inversa dal
sistema accentato a quello non accentato si ottiene sostituendo nelle D.21 i
termini accentati con i non-accentati e cambiando il segno della velocità
0 00
x = γ(x + βxk )
xk = γ(x0k + βx00 ) (D.22)
x⊥ = ~x 0⊥
~
Si introducono ora due variabili molto utili per l’analisi dei fenomeni dina-
mici relativistici. La prima è la rapidità, definita come
1 E + cpk
y = ln
2 E − cpk
(D.24)
1 1 + cpk /E cpk
= ln = arctanh = arctanh (βL )
2 1 − cpk /E E
e che risulta più appropriata della componente longitudinale 1 βL = cpk /E
della velocità, in quanto ha il vantaggio di essere additiva per variazioni lon-
gitudinali della velocità. Una particella con rapidità y in un definito sistema
inserziale presenta cioè una rapidità pari ad y + dy in un sistema di riferi-
mento che si muove con rapidità dy nella direzione −z, rispetto al sistema
di riferimento originale, come si può dedurre dalla formula relativistica di
addizione delle velocità.
1 ~=β
Dalla D.13 si ha: β ~L + β
~⊥ .
507
Nella fisica sperimentale delle particelle e degli ioni a energie relativisti-
che si utilizza comunemente un’altra grandezza, legata alla rapidità e detta
pseudorapidità, indicata con η e definita come
ϑ
η = −ln tg (D.25)
2
dove ϑ è l’angolo compreso fra il tri-impulso p~ della particella e la direzione
positiva dell’asse del fascio incidente. Solitamente la distribuzione dei pro-
dotti di reazione in funzione dell’angolo polare varia molto e bruscamente
in prossimità dei piccoli angoli in avanti e dei grandi angoli all’indietro, ri-
ferendosi alla pseudorapidità anzichè all’angolo polare si hanno andamenti
più dolci.
La pseudorapidità può essere espressa in funzione del tri-impulso ottenendo
!
1 |~
p| + pk pk
η = ln = arctgh (D.26)
2 |~
p| − pk |~
p|
da cui
F~ = mγ~a + mγ 3 ~a · β~ β~ (D.29)
La forza agente risulta quindi la somma di due termini, uno parallelo all’ac-
celerazione e uno parallelo alla velocità. Non si può dunque definire alcuna
508
Figura D.1: Pseudorapidità η in funzione dell’angolo polare ϑ.
da cui
F~ · β~
~a · β~ = (D.30)
mγ 3
che sostituita in D.29 dà
F~ − F~ · β~ β~ = mγ~a (D.31)
509
510
Appendice E
Diffusione Compton
511
si ha, indicando con un apice le grandezze riferite ai valori successivi all’urto
Eγ + Ee = Eγ 0 + Ee0 (E.1)
Eγ = hν Eγ 0 = hν 0
hν hν 0
pγ = pγ 0 =
c c
Detta me la massa dell’elettrone si ha poi
q
Ee = me c 2
Ee0 = (pe0 c)2 + (me0 c2 )2
512
da cui
2hνme c2 − 2hν 0 me c2 = 2h2 νν 0 (1 − cosϑ)
che diviso per (2hνν 0 me c) diventa
c c h
− = (1 − cosϑ)
ν0 ν me c
ovvero quanto cercato
h
λ0 − λ = (1 − cosϑ) (E.7)
me c
osservando che h/me c ha le dimensioni di una lunghezza e viene detta lun-
ghezza d’onda Compton λC dell’elettrone.
Si ricordi che la deduzione della E.7 ha richiesto l’approssimazione di con-
siderare l’elettrone atomico urtato come ”libero”, prescindendo dalla sua
effettiva energia di legame, ciò può essere però ritenuto plausibile solo se
si tratta di un elettrone delle shell più esterne dell’atomo in questione. Se
il fotone urta invece uno degli elettroni più interni, molto più fortemente
legati all’atomo, allora esso comunica efficacemente l’impulso non solo all’e-
lettrone urtato, ma all’intero atomo. Sostituendo di conseguenza nella E.7
la massa me con quella dell’intero atomo si ha che la differenza (λ0 − λ)
diventa irrisoria, rendendo di fatto non apprezzabile l’effetto, e ciò spiega
la presenza nello spettro della riga a frequenza maggiore, a fianco di quella
dovuta all’effetto Compton.
513
514
Appendice F
Si consideri un’interazione che dia luogo a uno stato finale in tre corpi, di
masse m2 , m3 ed m4 , come una reazione o un decadimento 1 → 2 + 3 + 4 ,
quale ad esempio
n → p + e− + ν e oppure, K + → π− + π+ + π+ (F.1)
Contrariamente al caso dello stato finale in due corpi, per il quale nel siste-
ma del CM i prodotti hanno un’energia fissata, per uno stato finale in tre
corpi questi presentano uno spettro di energie nel CM.
Pensando ad esempio a un decadimento, siano m1 c2 l’energia della particella
madre a riposo nel CM, p~i gli impulsi ed Ei le energie, con i = 2, 3, 4, delle
tre particelle dello stato finale.
Fra queste variabili vi sono dei vincoli derivanti dal rispetto dei principi di
conservazione e l’assegnazione delle masse implica che le energie siano deter-
minate dagli impulsi. Le nove componenti degli impulsi devono soddisfare
tre condizioni per la conservazione dell’impulso totale, 4i=2 p~i = 0, e una
P
515
Un modo per definire utilmente il set di variabili è di partire dalla conser-
vazione del quadri-impulso nel sistema del CM
p1 = p2 + p3 + p4 (F.2)
relazione che lega le energie delle particelle prodotte con l’angolo fra le di-
rezioni di due di esse. Essendo −1 ≤ cosϑ ≤ +1 ne deriva che E2 è anche
compreso fra un valore massimo e uno minimo, dati da
m21 + m22 − m23 − m24 c2 − 2E3 E4 /c2
E2,max/min = ±
2m1
q q (F.6)
(E3 /c)2 − m23 c2 (E4 /c)2 − m24 c2
±
m1
Per l’analisi cinematica dei decadimenti in tre corpi si introducono delle
quantità invarianti simili alle variabili di Mandelstam e definite come
La regione fisica del processo di decadimento in tre corpi nel piano (s23 , s34 )
è detta diagramma di Dalitz e l’analisi della distribuzione degli eventi di
decadimento in tale diagramma permette di studiare le interazioni tra le
particelle finali e l’eventuale produzione di risonanze.
516
Figura F.1: Diagramma di Dalitz per lo stato finale in tre corpi relativo
0
al caso π + K p a 3 GeV. Per la conservazione del quadri-impulso i punti
rappresentativi degli eventi risultano confinati entro la zona grigia.
517
7.4 La sezione d’urto di Rutherford: approccio
classico
Si consideri la deflessione di particelle cariche incidenti su un nucleo di carica
totale Ze. Si supponga che le sole interazioni fra le particelle del fascio e
il nucleo siano di tipo elettromagnetico, senza quindi l’intervento di intera-
zioni forti come era invece stato per l’originale esperimento di Rutherford,
Geiger e Mardsen. In quel caso un fascio di particelle α emesse da una
sorgente radioattiva veniva fatto incidere su bersagli realizzati con sottili
fogli d’oro e dopo le deflessioni subite, le particelle α venivano osservate e
contate tramite i lampi di fluorescenza che provocavano su un piccolo scher-
mo di solfuro di zinco accoppiato a un microscopio, come in figura 7.10.
Le particelle del fascio potrebbero quindi essere costituite da elettroni o da
210
Z1 = 1), collimate lungo la direzione dell’asse z, come mostrato in figu-
ra 7.11. Il problema ha quindi una simmetria cilindrica in cui z è l’asse di
simmetria. Si ipotizzi anche che la condizione m M sia tale da poter
trascurare, dopo l’urto, il rinculo di M che quindi permarrà praticamente
fermo in SL come se avesse massa ∞. Nel caso della misura originale di
Rutherford il rapporto fra le masse di proiettile e bersaglio è pari a circa
2 × 10−2 .
211
forze siano repulsive, ovvero che le cariche di proiettile e bersaglio abbiano
segno concorde, per cui il proiettile può ad esempio essere un positrone o un
muone positivo.
Applicando le conservazioni di momento angolare ed energia si ha che a di-
stanza ∞ il momento angolare e l’energia valgono rispettivamente, mvb ed
mv 2 /2, mentre nel punto A di massimo avvicinamento valgono mvA l ed
mvA2 /2 + Z Z e2 / (4π l). Quindi
1 2 0
lvA 2Z1 Z2 e2
b= , v 2 = vA
2
+ (7.62)
v 4π0 ml
Si ponga
2Z1 Z2 e2 Z1 Z2 e 2
l0 = = (7.63)
4π0 mv 2 4π0 Ek
che fissata Ek = mv 2 /2, corrisponde al punto di massimo avvicinamento pos-
sibile A∗ per un urto centrale, per il quale è cioè b = 0. In A∗ è ovviamente
vA∗ = 0. Si ha dunque
l0
v 2 = vA
2
+ v2 (7.64)
l
Nel caso d’urto centrale la particella di carica Z1 e si avvicina al diffusore
lungo l’asse z fino alla distanza minima l0 corrispondente al punto A∗ e poi
inverte il moto risultando diffusa a un angolo π. Dalle relazioni precedenti
si ha
b2 l0 l0
2
vA = 2 v2 , 2
vA =v 2
1− , 2
b =l 2
1− (7.65)
l l l
e dalle proprietà geometriche dell’iperbole
ϕ
l = b cotg (7.66)
2
che sostituito nella terza delle 7.65 dà
ϕ l0 ϕ
cotg2 − cotg − 1 = 0 (7.67)
2 b 2
ϕ
Moltiplicando la 7.67 per sen2 e ricordando che
2
ϕ ϕ ϕ ϕ
senϕ = 2 sen cos , e cosϕ = cos2 − sen2
2 2 2 2
si ha
l0 = 2 b cotgϕ (7.68)
Le relazioni fra gli angoli ϑ e ϕ desumibili dalla figura 7.11 danno
ϑ
ϑ + 2ϕ = π , da cui: cotgϕ = tg (7.69)
2
212
e dalle 7.63 e 7.68 si ottiene
Z1 Z2 e2 ϑ
b (ϑ) = cotg (7.70)
8π0 Ek 2
che è la relazione cercata.
Si indichi con n0 il numero di particelle del fascio incidente che a distanza
praticamente infinita dal centro diffusore attraversano l’unità di superficie
del piano (x, y) nell’unità di tempo, ottenendo dN = 2πn0 bdb per le par-
ticelle che sempre nell’unità di tempo, attraversano l’anello circolare fra b
e b + db. Supponendo ora che il numero di particelle si conservi, che cioè
quelle incidenti siano anche tutte e sole quelle diffuse, e considerando quelle
diffuse nell’angolo solido compreso fra ϑ e ϑ+dϑ si ha, differenziando la 7.70
Z Z e2 ϑ Z1 Z2 e 2 dϑ
1 2
|db (ϑ)| = d cotg = (7.71)
8π0 Ek 2 8π0 Ek 2 sen2 ϑ/2
dove si prende il valore assoluto per tener conto del fatto che ϑ diminuisce
all’aumentare di b.
Sostituendo ora in dN
!2
Z1 Z2 e2 cotgϑ/2
dN (ϑ) = 2π n0 dϑ (7.72)
8π0 Ek 2 sen2 ϑ/2
213
Rutherford,
!2
dσ (ϑ) 1 dN (ϑ) Z1 Z2 e2 cotgϑ/2
= = =
dΩ n0 dΩ (ϑ) 8π0 Ek 2 senϑ sen2 ϑ/2
!2
Z1 Z2 e2 cosϑ/2
= = (7.73)
8π0 Ek 2 sen3 ϑ/2 · 2 senϑ/2 cosϑ/2
!2
Z1 Z2 e2 1
=
16π0 Ek sen4 ϑ/2
Z1 Z2 e2 ϑ0
r0 = cotg (7.74)
8π0 Ek 2
214
L’osservazione sperimentale delle deviazioni a grandi angoli nella sezione
d’urto differenziale misurata, confrontata con quanto previsto per diffusione
da bersagli puntiformi, permette di stimare r0 . Una valutazione dei risultati
non può naturalmente prescindere dal tener conto anche delle dimensioni
finite del proiettile.
Si consideri la classica misura di Rutherford, con fasci di particelle α inci-
denti su un bersaglio di 197 Au; l’energia delle particelle α da decadimento
radioattivo utilizzate raggiungeva valori massimi di poco inferiori agli 8 MeV,
insufficienti a far sı̀ che anche nelle condizioni geometriche di massimo pos-
sibile avvicinamento l0 al nucleo bersaglio, cioè con parametro d’urto b = 0,
potesse essere l0 ' r0 . Rutherford questo lo aveva intuito e pensava giusta-
Figura 7.13: dσ(ϑ)/dΩ della reazione α +197 Au, per ϑ = 60o a energie
crescenti. Oltre 27 MeV i dati si scostano dall’andamento coulombiano.
Dalla 7.74 si stima r0 . [Eisberg & Porter, Rev.Mod.Phys. 33 (1961) 190]
215
coulombiana.
Al crescere dell’energia le particelle α avrebbero dovuto infatti spingersi cosı̀
vicine al nucleo da sentire efficacemente gli effetti dell’interazione nucleare,
oltre a quelli puramente coulombiani.
Una verifica sperimentale richiedeva ovviamente di poter disporre di acce-
leratori in grado di produrre particelle α di energie crescenti fino e oltre a
quelle di soglia per l’effetto, come mostrato in figura 7.13.
Figura 7.14: Dipendenza del rateo di diffusione dal quadrato del numero
atomico Z del bersaglio. L’andamento conferma le previsioni della formula
di Rutherford.
216
da 8 MeV, che è circa la massima ottenibile da sorgenti, si ha che tutte le
particelle α incidenti con un parametro d’urto b ≤ 14 e che vengono deviate
oltre 90o sono una frazione pari a 7.5 × 10−5 del totale, e si tratta di una
quantità cospicua, giustificabile solo con l’ipotesi che vi siano nel bersaglio
centri diffusori solidi e compatti. Si guardi ad esempio al caso di diffusione
Figura 7.15: Dipendenza del rateo di diffusione dall’energia cinetica per par-
ticelle α incidenti su un bersaglio sottile. L’andamento conferma le previsioni
della formula di Rutherford.
217
Figura 7.16: Dipendenza da ϑ del rateo di diffusione per un sottile bersaglio
d’oro. L’andamento conferma le previsioni della formula di Rutherford.
Figura 7.17: Dipendenza dallo spessore del bersaglio del rateo di diffusione.
L’andamento lineare suffraga l’ipotesi del modello atomico di Rutherford.
218
angolo totale N ϑm , come frutto di successive diffusioni a piccolo angolo, ne
sono quindi necessarie circa N 2 .
Se si osserva il numero di particelle diffuse a un angolo prefissato ϑ > 1o
in corrispondenza a diversi valori dello spessore ∆z del foglio di materiale
bersaglio, ci si aspetta√che la probabilità di osservare particelle diffuse vari
proporzionalmente a ∆z per effetto delle diffusioni multiple, mentre do-
vrebbe invece variare proporzionalmente a ∆z nel caso di diffusioni singole,
e ciò semplicemente in quanto la probabilità di subire singole deviazioni a
grande angolo cresce in modo direttamente proporzionale al numero dei pos-
sibili bersagli in grado di produrre tali deviazioni, come si vede chiaramente
dai dati sperimentali in figura 7.17.
219
7.5 Approccio quantistico al concetto di sezione
d’urto
Il tasso di reazioni, fissate l’intensità del fascio incidente e la densità di centri
diffusori nel bersaglio, dipende dalle proprietà del potenziale d’interazione e
dal numero di stati finali accessibili alla reazione.
Il potenziale d’interazione può venir descritto tramite l’operatore Hamilto-
niano Hint . In una reazione il ruolo di questo potenziale è di trasformare
la funzione d’onda ψi dello stato iniziale del sistema, nella funzione d’onda
dello stato finale del sistema, ψf .
Il corrispondente elemento della matrice di transizione, detto anche ampiez-
za di probabilità per la transizione, è dato da
Z
ψf∗ Hint ψi dV
Mf i = ψf Hint ψi
= (7.75)
220
dedotta in Appendice D, si ha per la densità ρ (E 0 ) degli stati finali nell’in-
tervallo energetico dE 0
dn(E 0 ) 4π p02 V
ρ(E 0 ) = = (7.79)
dE 0 v 0 (2π~)3
Il collegamento fra tasso di reazione, elemento della matrice di transizione
e densità degli stati finali è dato dalla seconda regola d’oro di Fermi ccome
per i decadimenti, dove il loro tasso è legato all’elemento della matrice di
transizione e alla densità dei possibili stati finali.
Essa esprime qui il tasso di reazione W 7 per particella bersaglio (centro di
diffusione) e per particella del fascio incidente, quindi la quantità
dN (E)/dt
W = (7.80)
Nb Na
dove si è esplicitata, per le particelle del fascio che hanno interagito, l’even-
tuale dipendenza dall’energia E in gioco nel canale d’ingresso della reazione.
Sostituendo quindi in base alle 7.10 e 7.77 si ottiene
dN (E)/dt σ va
W = = (7.81)
Nb Na V
Di conseguenza si ha, per la sezione d’urto
2π
σ= |Mf i |2 ρ(E 0 ) V (7.82)
~ va
Se si conosce il potenziale d’interazione la 7.82 permette quindi di calcolare
la sezione d’urto σ. Altrimenti si possono utilizzare i valori misurati della
sezione d’urto σ e l’equazione 7.82 per calcolare l’elemento di matrice Mf i .
7
Il tasso di reazioni è stato introdotto nel paragrafo 7.1
221
7.6 La sezione d’urto di Rutherford: approccio
quantistico
Si affronta ora il calcolo quantistico della sezione d’urto differenziale per
l’interazione coulombiana fra una particella incidente puntiforme di carica
Z1 e e un bersaglio anche puntiforme di carica Z2 e.
Si supponga, come nell’approccio classico, di non tener conto degli spin delle
particelle interagenti e si supponga nuovamente che il bersaglio abbia massa
cosı̀ grande se confrontata, a meno di c2 , con le energie cinetiche dei proiet-
tili incidenti, da poterne trascurare il rinculo. In tal caso si può utilizzare
il tri-impulso e se Z2 e è piccolo, dunque se Z2 α ' Z2 /137 1, il che equi-
vale a dire che il potenziale agente non è troppo intenso, ci si trova nelle
condizioni di poter applicare l’approssimazione perturbativa di Born. In tal
caso l’effetto del potenziale a distanza ∞ è trascurabile e quindi le particelle
del fascio incidente, nei loro stati iniziale e finale, sono praticamente con-
siderabili come libere; le funzioni d’onda che le rappresentano sono quindi
autofunzioni dell’impulso, cioè onde piane
1 1
pi , ~r) = √ ei~pi ·~r/~
ψi (~ , pf , ~r) = √ ei~pf ·~r/~
ψf (~ (7.84)
V V
Le difficoltà eventualmente connesse alla normalizzazione delle funzioni d’on-
da possono essere superate considerando un opportuno volume finito V , che
sia sufficientemente grande rispetto alla zona direttamente coinvolta nel pro-
cesso d’urto tanto da poter confondere gli stati di energia discreta presenti
in esso con un quasi continuo di stati. Le dimensioni di V devono essere
inoltre tali da comprendere anche materia e strutture circostanti il volume
strettamente legato al processo d’interazione, cosı̀ da poter considerare uno
schermaggio conseguente efficace della carica Z2 e del bersaglio verso ogni
particella incidente/deflessa oltre una certa distanza. Il risultato finale non
deve inoltre dipendere da tale volume V .
Preso un fascio di particelle incidenti con densità na particelle per unità di
volume e scelto come detto sufficientemente grande il volume d’integrazione,
si ha per la condizione di normalizzazione
Na
Z
pi , ~r)|2 dV = na V
|ψi (~ con V = (7.85)
V na
dove Na rappresenta la totalità delle particelle a del fascio che hanno inciso
sul bersaglio. V è quindi un ben preciso volume di normalizzazione che va
opportunamente scelto per ogni singolo fascio incidente; si indichino con
R ∝ V 1/3 le dimensioni lineari caratterizzanti tale volume.
In accordo con la relazione 7.81 si ha che il tasso W di interazioni è dato
dal prodotto della sezione d’urto σ con il modulo va della velocità di ogni
particella incidente, diviso per il volume V . Applicando quindi la regola
222
d’oro di Fermi
σ va 2π dn
= W = |hψf |Hint | ψi i|2 (7.86)
V ~ dEf
densità nello spazio delle fasi degli stati finali possibili è data da
pf |2 V
4π |~
pf |) =
dn (|~ d |~
pf | (7.87)
(2π~)3
va 2π pf |2 V d |~
|~ pf |
dσ = |hψf |Hint | ψi i|2 3 dΩ (7.88)
V ~ (2π~) dEf
Per energie molto alte delle particelle incidenti si può porre va ' c e anche
|~
pf | ' Ef /c, da cui
dσ V 2 Ef2
= |hψf |Hint | ψi i|2 (7.89)
dΩ 4π 2 c4 ~4
L’Hamiltoniano d’interazione per una particella incidente di carica Z1 e ha
in questo caso la forma Hint = Z1 e · Φ (r), con
Z2 e
Φ (r) = (7.90)
4πo r
223
L’elemento della matrice di transizione è quindi
Z1 Z2 e2 e−i~pf ·~r/~ ei~pi ·~r/~
Z
hψf |Hint | ψi i = M (~
pf , p~i ) = d3 x =
4π0 V r
(7.91)
Z1 Z2 e 2 ei~q·~r/~
Z
= d3 x = M (~q)
4π0 V r
dove ~q = p~i −~
pf è l’impulso trasferito. Si ha: |~
pf | = |~
pi | = |~
p|, e (1 − cosϑ) =
2
2 sen ϑ/2, quindi
ϑ
|~q|2 = |~
pi |2 + |~
pf |2 − 2 |~
pi | |~ p|2 (1 − cosϑ) = 4 |~
pf | cosϑ = 2 |~ p|2 sen2
(7.92)
2
Si calcola l’integrale nella 7.91 passando a coordinate polari8 e si ottiene
ei~q·~r/~
Z 2 Z ∞
~
d3 x = 4π senx dx (7.94)
r q 0
L’integrando mostra infinite oscillazioni della medesima ampiezza, quindi
l’integrale non converge. Per ottenere qualcosa di sensato bisogna definirlo
in modo da tener conto del significato fisico del problema. L’origine del-
la divergenza risiede nel fatto che per il potenziale si è usato l’andamento
proporzionale ad r−1 fino a distanza ∞, ma come si è già osservato ciò non
ha significato fisico in quanto, indipendentemente dalle dimensioni dell’ap-
parato sperimentale, vi sarà sempre una distanza a partire dalla quale le
strutture fisiche presenti schermano il potenziale. Quindi bisogna tenerne
conto facendo in qualche modo tendere a zero il potenziale molto più rapi-
damente di r−1 , oltre una opportuna distanza R ∝ V 1/3 che al termine del
calcolo verrà fatta tendere ad ∞.
Si realizza ciò considerando un potenziale di tipo Yukawa, ovvero della for-
ma Φ (r) = e−λr /r, dove λ ∼ 1/R rappresenta una quantità piccola che si
farà alla fine tendere a 0. Si ha cosı̀
Z ∞
1 ∞ h (i−λ)x
Z i
−λx
e senx dx = e − e−(i+λ)x dx =
0 2i 0
(7.95)
1 1 1 1 1
=− + = con, lim =1
2i i − λ i + λ 1 + λ2 λ→0 1 + λ2
8
Si prende come angolo polare α quello fra ~
q ed ~r e:
iqr cosα
2π π ∞
ei~q·~r/~
Z Z Z Z
2e ~
d3 x = dϕ senα dα r dr =
r 0 0 0
r
iqr cosα
Z 1 Z ∞ Z ∞ (7.93)
2e ~ ~
eiqr/~ − e−iqr/~ dr =
= 2π d (cosα) r dr = 2π r
−1 0
r 0
iqr
2 Z ∞
~
= 4π senx dx posto, x = qr/~.
q 0
224
Si ottiene dunque, per l’elemento della matrice di transizione
2
Z1 Z2 e 2 Z1 Z2 e2 ~2
~
M (~q) = 4π = (7.96)
4π0 V |~q| 0 V |~q|2
Fattore di forma
Si veda ora la trattazione quantistica nel caso in cui si consideri la carica
diffondente Z2 e non puntiforme ma distribuita con simmetria sferica. Il
potenziale, conglobando in esso anche la carica Z1 e della particella incidente,
è esprimibile come
Z1 Z2 e 2 ρ (~r 0 )
Z
0
Φ (~r) = d~r (7.100)
4π0 |~r − ~r 0 |
Z
0
con ρ ~r d~r 0 = 1, ricordando che |~r − ~r 0 | è invariante per traslazione,
e dove l’integrale si intende esteso a tutto il volume V 0 contenente le cariche
225
bersaglio.
~ = ~r − ~r 0 ,
La matrice di transizione diventa in questo caso, ponendo D
Z1 Z2 e 2 ρ (~r 0 )
Z Z
q ·~
i~ r/~ 0
M (~q) = e d~r d~r
4π0 V |~r − ~r 0 |
(7.101)
~
Z1 Z2 e 2 ei~q·D/~ ~
Z Z
0
ρ ~r 0 ei~q·~r /~ d~r 0
= dD
4π0 V D
Essa è quindi espressa come prodotto di tre fattori: il secondo corrisponde
al primo dei due integrali e come visto, vale 4π (~/ |~q|)2 ; il terzo, indicato
con F (~q), coincide con la trasformata di Fourier della distribuzione della
densità di carica elettrica
i~q · ~r 0
Z
0 0
F (~q) = ρ ~r e ~ d~r (7.102)
9
Il motivo è nella natura quantistica del fenomeno. Clasicamente si possono definire
contemporaneamente l’impulso p ~ e il parametro d’urto b. Quantisticamente fissare v =
vz equivale all’aver anche fissato vx = vy = 0. Non si possono quindi più definire le
componeneti delle coordinate nel piano (x, y), ovvero il parametro d’urto b che altro non
è se non un vettore su tale piano. Fissata quindi la velocità ~v , sono ammessi tutti i valori
del parametro d’urto, quindi anche quelli per cui è b < l0 , corrisponenti a ϑ > ϑ0 .
226
7.7 Sezioni d’urto e spin
Da Bettini, pagg. 15 ÷ 18: ”c” e ~.
Finora si è trascurato il ruolo dello spin, sia dei proiettili che dei bersagli,
nel determinare lo spazio delle fasi. Al crescere delle energie verso valori
relativistici, bisogna tenerne conto.
Si consideri la sezione d’urto di un generico processo
a+b → c+d
nel sistema del centro di massa CM, e siano Ea ed Eb le energie di a e b
nel canale d’ingresso, Ec ed Ed quelle nel canale d’uscita; l’energia totale è
quindi E = Ea + Eb = Ec + Ed . Siano p~i = p~a = −~ pb e p~f = p~c = −~ pd gli
impulsi iniziale e finale.
Si considerino fascio e bersaglio non polarizzati e non sia misuri l’eventuale
stato di polarizzazione dei prodotti finali.
Per determinare la sezione d’urto bisogna, in tal caso, sommare su tutti i
possibili stati finali di spin e mediare su tutti quelli possibili iniziali.
Ricordando che l’espressione per la sezione d’urto ottenuta prescindendo dai
gradi di libertà dovuti agli spin è
n
1 d3 pi
Z
|Mf i |2 (2π)4
Y
σ=
3
2Ea 2Eb β~a − β~b i=1 (2π) 2Ei
n n
! !
p~i − P~
X X
3
δ Ei − E δ (7.105)
i=1 i=1
si ottiene quindi
dσ 1 1 pf
|Mf i |2
X X
= (7.106)
dΩf 2Ea 2Eb β~a − β~b init f inal
(4π)2 E
~b = βa + βb = pi + pi pi E
~
βa − β =
Ea Eb Ea Eb
si ha
dσ 1 1 pf X X
= |Mf i |2 (7.107)
dΩf (8π)2 E 2 pi init f inal
Mediando su tutti i diversi stati iniziali di spin si ottiene la somma dei
loro valori divisa per il numero di diversi stati di spin. Detti sa ed sb gli
spin delle particelle nel canale d’ingresso, le molteplicità di spin sono allora
rispettivamente 2sa + 1 e 2sb + 1 , per cui si ha in definitiva
dσ 1 1 pf 1
|Mf i |2
X X
= 2 E2 p (7.108)
dΩf (8π) i (2sa + 1) (2sb + 1) init f inal
227
7.8 La sezione d’urto di Mott
Si può verificare che tener conto anche dello spin porta, per la sezione d’urto
da diffusione coulombiana, a un risultato, detto sezione d’urto di Mott che
trascurando il rinculo del nucleo bersaglio, per l’interazione elettrone-nucleo
si scrive
dσM ott (ϑ) dσRuth (ϑ) 2ϑ
2
= 1 − β sen (7.109)
dΩ dΩ 2
Al crescere della velocità del proiettile la sezione d’urto di Mott cala dunque
più rapidamente di quella di Rutherford, con l’angolo ϑ di diffusione. Nei
casi fortemente relativistici, in cui β = v/c → 1, si ha
228
Figura 7.19: Diffusione a π radianti.
229
7.9 Misure dei fattori di forma (elettrici)
La misura delle sezioni d’urto al variare di |~q|, che equivale a cambiare l’an-
golo ϑ o l’energia delle particelle incidenti, e quindi |~ p|, permette di ricavare
i valori dei fattori di forma per gli stessi valori di |~q|.
Interpolando i dati si può ricavare F ~q 2 come funzione continua, e inver-
Le informazioni sul fattore di forma, quindi nello spazio degli impulsi, so-
230
no invece desumibili direttamente dai risultati sperimentali. R. Hofstadter
condusse, a partire dal 1953, un’intensa campagna di misure di diffusione di
elettroni su nuclei e nucleoni che gli valse il Nobel per la Fisica nel 1961.
In figura 7.20 una delle prime misure di sezione d’urto differenziale elastica
effettuata con elettroni da 420 MeV incidenti su un bersaglio di 12 C; la li-
nea tratteggiata è il risultato del calcolo effettuato immaginando onde piane
incidenti su una distribuzione sferica e omogenea di carica con superficie
diffusa, in approssimazione di Born, mentre invece la linea continua è il ri-
sultato di un fit sui dati sperimentali basato su un approccio in phase-shift
analysis 10 . Si notino la sensibile diminuzione del valore della sezione d’urto
al crescere di ϑ, proporzionale al termine 1/ |~q |4 e l’andamento diffrattivo,
con un minimo posizionato a ϑ ≈ 51◦ , associato al fattore di forma.
Nella tabella che segue sono riportati i fattori di forma calcolati per alcune
specifiche forme analitiche della distribuzione di carica e in figura 7.21 ne
sono illustrati gli andamenti.
λ
≈ senϑmin (7.114)
R
10
Si veda il capitolo ... su reazioni nucleari ... .
231
Figura 7.21: Alcuni fattori di forma per specifiche distribuzioni di carica. La
diffusione da oggetti con la superficie più nettamente definita produce, come
per la diffrazione della luce da una fenditura, un ben definito andamento di
massimi e minimi diffrattivi per il fattore di forma.
232
non ci sono zone vuote nei nuclei, come invece avviene per gli atomi, almeno
alla scala dimensionale d’indagine di elettroni di queste energie che risolvono
dimensioni dell’ordine di 10−15 m.
Inoltre il raggio quadratico medio della distribuzione di carica dei nuclei ri-
sulta crescere con A come R = R0 A1/3 , con R0 ' 1.2 fm, concordemente
a quanto trovato con altri metodi. Interessanti risultati vengono anche da
233
Figura 7.23: Sezione d’urto differenziale per π + da ∼ 270 MeV/c, su 12 C e
40 Ca [C.H.Q. Ingram, Meson-Nuclear Phys. 1979, AIP Conf. proc. 54].
do con i valori dei raggi nucleari attesi in base alla relazione R = R0 A1/3 ,
e anche i rapporti tra i valori angolari dei minimi per i due diversi bersagli
scalano come i raggi dei due nuclei. Per i nuclei medio pesanti con A & 20,
la densità di carica che permette i migliori fit su molti dati sperimentali ha,
come mostrato in figura 7.24, un andamento compatibile con la forma di
Woods-Saxon 11 , in figura 7.25
ρ0
ρ (r) = (7.116)
1 + e(r−R)/a
11
R.D. Woods, D.S. Saxon, ”Diffuse surface optical model for nucleon-nuclei scattering”
Phys.Rev. 95(1954) 577.
234
Figura 7.24: Distribuzione radiale di carica, misurata per alcuni nuclei.
dove a è un parametro che tiene conto dello spessore della superficie nu-
cleare, e ρ0 ' 0.17 nucleoni/fm3 è una costante di normalizzazione che
rappresenta la densità nucleonica media in un nucleo. La distribuzione di
235
tempo la propria forma, dove ”rapidamente” va inteso su una scala tempo-
rale dell’ordine dei 10−23 s.
236
Capitolo 8
Reazioni nucleari
Le prime reazioni nucleari indotte sono state prodotte nel laboratorio di Ru-
therford utilizzando particelle α da sorgenti radioattive. In alcuni di questi
primissimi esperimenti le particelle α, come s’è visto, semplicemente rim-
balzavano elasticamente sui nuclei bersaglio. Nel corso di altri esperimenti
Rutherford fu in grado di osservare la modificazione o ”trasmutazione” di
specie nucleari come nella seguente reazione studiata nel 1919
α +14 N → 17
O+p (8.1)
p +7 Li → 4
He + α (8.2)
X (a, b) Y (8.3)
237
nel loro stato fondamentale, anelastica se Y o b o entrambi sono in uno stato
eccitato.
Talvolta a e b sono la stessa particella ma la reazione produce un ulteriore
nucleone nel canale d’uscita, espulso dal nucleo X per effetto dell’urto; que-
sto meccanismo di reazione è detto di knockout.
Vi sono reazioni di trasferimento in cui uno o più nucleoni vengono scam-
biati fra proiettile e bersaglio, come nel caso in cui un deutone incidente si
trasforma in un protone o in un neutrone in uscita con la cessione di un
neutrone o di un protone al bersaglio X per trasformarlo in Y.
Le reazioni possono essere classificate anche in base al meccanismo che le
governa. Le reazioni di trasferimento appartengono ad esempio alle cosid-
dette reazioni dirette, nel corso delle quali solo pochi nucleoni, tipicamente
del bersaglio, prendono effettivamente parte al processo, con la restante par-
te dei nucleoni del bersaglio che svolgono un ruolo di sostanziali spettatori
passivi.
Questo tipo di reazioni porta alla rimozione o all’inserimento di singoli nu-
cleoni, permettendo di studiare direttamente la struttura a shell dei nuclei.
C’è poi l’altro caso estremo, detto meccanismo del nucleo composto, in cui
proiettile e bersaglio si fondono per un breve lasso di tempo durante il pro-
cesso, ripartendosi completamente l’energia disponibile prima che il sistema
cosı̀ costituito, detto appunto nucleo composto, si disecciti emettendo uno o
più nucleoni in un modo che ricorda l’evaporazione di una molecola da un
liquido caldo.
Fra questi due casi estremi trovano posto le cosiddette reazioni di risonanza,
nel corso delle quali il proiettile forma col bersaglio uno stato quasi-legato
prima dell’emissione del prodotto leggero della reazione.
238
ticelle del canale d’ingresso col momento angolare orbitale dei prodotti dei
canali d’uscita delle reazioni, deducibili da misure delle loro distribuzioni
angolari. Si può cosı̀ risalire agli spin degli specifici stati nucleari.
La conservazione della parità permette, noto il momento angolare orbitale
dei prodotti di reazione, tramite la regola (−1)` e dalla conoscenza degli altri
valori di parità, di risalire alle parità incognite degli eventuali stati eccitati.
Dove Ek indica le energie cinetiche per le quali a basse energie si può utiliz-
zare l’approssimazione non relativistica.
Si definisce il Q−valore di una reazione analogamente a quanto fatto per i
decadimenti radioattivi
239
Figura 8.1: Sezioni d’urto.
240
Figura 8.2: Geometria base di una reazione a + X → Y + b.
pa = pb cosϑ + pY cosξ
(8.6)
0 = pb senϑ + pY senξ
241
Figura 8.3: Ek,b verso Ek,a per la reazione 3 H (p, n)3 He. Nel riquadro è
evidenziata la zona di non biunivocità.
242
Figura 8.4: Ek,b verso Ek,a per la reazione 14 C(p, n)14 N . Nel riquadro la
zona di non biunivocità.
mb ma ma mb
r
Q = Ek,b 1 + − Ek,a 1 + −2 Ek,a Ek,b cosϑ (8.12)
mY mY mY mY
243
Figura 8.5: Ek,b verso Ek,a per le reazioni 3 He(n, p)3 H e 14 N (n, p)14 C.
A rigori questa procedura non è corretta in quanto nel termine a destra del-
l’uguaglianza compare anche mY , spesso si possono però ottenere risultati
sufficientemente accurati sostituendo ad mY il valore intero che ne rappre-
senta il numero di massa, e ciò in particolare se si hanno risultati di misure
effettuate a ϑ = 900 , per cui si annulla l’ultimo termine della 8.12.
Se la reazione conduce a stati eccitati del nucleo risultante Y, allora il
Q−valore deve tenerne conto
mY c2 + Eecc
m∗Y = (8.14)
c2
Solitamente il valore massimo osservato sperimentalmente per Ek,b corri-
sponde al caso della reazione con nucleo finale Y nello stato fondamentale,
per cui dalla 8.12 si può ottenere Q0 . I valori via via inferiori di Ek,b corri-
spondono agli stati eccitati per i quali si possono dedurre Eecc e Qecc dalle
misure di Ek,b .
244
8.4 Diffusione da potenziale nucleare
Della diffusione da potenziale coulombiano si è detto in paragrafi precedenti,
ora si tratta della diffusione da potenziale nucleare.
Data l’intensità dell’interazione non ci si trova nelle condizioni per poter
sfruttare la teoria delle perturbazioni e non si pu‘o dunque applicare l’ap-
prossimazione di Born.
Usando proiettili con energie sufficientemente alte però, la loro lunghezza
d’onda di De Broglie λ = h/p può risultare inferiore alle dimensioni nucleari
tipiche da pensare di utilizzare un approccio di tipo ”ottico”, confortati in
questo dal fatto che le sezioni d’urto sperimentali elastiche mostrano forti
analogie con gli andamenti tipici dei fenomeni diffrattivi ottici da parte di
un disco opaco.
In ottica la diffrazione da un bordo netto produce una figura di massimi e
minimi il cui primo minimo si presenta a un’angolo ϑ tale che senϑ ' λ/R,
con R il raggio del disco. I successivi minimi si presentano quasi ugualmente
spaziati e i massimi intermedi calano d’ampiezza al progredire di ϑ.
Un nucleo può assorbire efficacemente nucleoni incidenti, per cui ha senso
l’analogia con un disco opaco. Nel caso di proiettili carichi bisogna tener
conto della concorrenza fra meccanismi d’interazione coulombiana e nuclea-
re. Per osservare la diffusione elastica di nucleoni nella forma dif f rattiva
bisogna quindi riuscire ad eliminare gli effetti coulombiani e ciò può essere
ottenuto in due modi. Il primo consiste nell’utilizzare proiettili privi di ca-
rica elettrica come i neutroni, che però sentono la forza nucleare.
Le sezioni d’urto differenziali in questi casi mostrano dei minimi sempre
superiori a zero, in quanto la superficie nucleare non è equiparabile a un
bordo netto, ma piuttosto a una struttura diffusa. Per ridurre gli effetti
coulombiani con proiettili carichi si ricorre a due passi successivi, il primo
dei quali consiste nell’utilizzare proiettili di energia sufficiente a contrastare
la barriera coulombiana, onde permettere il raggiungimento di piccoli va-
lori di massimo avvicinamento fra proiettile e bersagli; quindi si osservano
in particolare gli andamenti ad angoli grandi, dove la sezione d’urto cou-
lombiana decresce molto e rapidamente. Uno dei risultati della diffusione
elastica di nucleoni su nuclei è la determinazione dei raggi nucleari; anche
se i valori ottenuti dipendono in una certa misura dal modello di potenzia-
le utilizzato per descrivere l’interazione, si ottiene comunque che i risultati
sono generalmente consistenti con l’ipotesi che per un nucleo simmetrico si
possa considerare una forma sferica con raggio espresso dalla R = R0 A1/3 ,
con R0 ' 1.25 fm.
Una diffusione anelastica coulombiana implica che il nucleo, dopo l’intera-
zione, viene lasciato in una condizione eccitata a carico di parte dell’energia
cinetica del proiettile e anche quest’ultimo potrebbe essere in una condizione
d’eccitazione, dopo l’urto.
Se in questi casi si misura la distribuzione in energia delle particelle diffuse
245
Figura 8.6: In alto la rappresentazione della diffrazione della luce prodotta
da una piccola apertura circolare; in basso quella prodotta da un piccolo
disco opaco circolare (Atlas of Optical Phenomena 1962).
246
Figura 8.7: Figura di diffrazione prodotta da luce incidente su un foro circo-
lare. L’andamento è calcolato per una lunghezza d’onda dieci volte superiore
al diametro dell’apertura circolare. I minimi hanno intensità zero.
247
8.5 Diffusione in onde parziali
Si illustra ora un approccio che permette di dedurre espressioni per le sezioni
d’urto confrontabili con quelle sperimentali, di utilità anche negli studi a
energie superiori, comprese quelle per lo studio della struttura a quark dei
nucleoni e degli adroni in genere.
Si consideri un fascio di particelle incidenti lungo l’asse z di un sistema
di riferimento (x, y.z) e si supponga di avere un centro diffusore di massa
≈ ∞ posizionato nell’origine del sistema di riferimento. Si assuma di poter
rappresentare ogni particella del fascio incidente come un’onda piana eikz
con impulso di modulo p = ~k, e le particelle in uscita siano rappresentate
da onde sferiche.
L’analisi del problema diventa quindi più agevole se si esprime l’onda piana
incidente anch’essa come sovrapposizione di onde sferiche
∞
X
ψinc = A eikz = A i` (2` + 1) j` (kr) P` (cosϑ) (8.15)
`=0
P0 (cosϑ) = 1
P1 (cosϑ) = cosϑ
1 (8.16)
P2 (cosϑ) = 3 cos2 ϑ − 1
2
ecc. .....
248
un’area circolare efficace (sezione d’urto) pari a πλ2 .
Per ~ ≤ ` ≤ 2~ la sezione d’urto risulta un anello circolare di raggio interno
λ, raggio esterno 2λ, e area 3πλ2 .
Si può dunque immaginare di suddividere l’area d’interazione in zone, ognu-
na corrisponente a un definito valore di momento angolare ` e di area
249
quindi generalmente associate anche particelle provenienti da diffusioni ane-
lastiche.
Le diffusioni determinate da una specifica causa d’interazione costituiscono
quello che vien detto un definito canale di reazione. Alcuni canali di reazione
possono essere chiusi per le particelle interagenti, se ad esempio non ci sono
abbastanza energia e/o momento angolare disposizione.
Per tener conto delle conseguenti variazioni nelle onde parziali uscenti di
ordine `−mo si introduce un coefficiente complesso ηell nel termine d’onda
uscente eikr nell’equazione 8.20 che diventa
∞
A X h i
ψinc = i`+1 (2` + 1) e−i(kr−`π/2) − η` ei(kr−`π/2) P` (cosϑ) (8.21)
2kr `=0
250
Nel caso di interazione esclusivamente elastica |ηell | = 1 e convenzionalmen-
te si pone η` = e2iδ` , dove δ` rappresenta lo sfasamento dell’onda parziale
di ordine `. In questo caso |1 − η` |2 = 4 sen2 δ` , e
∞
X
σdif = 4πλ2 (2` + 1) sen2 δ` (8.27)
`=0
Definendo la sezione d’urto di reazione σr come quella che tien conto di tutti
i possibili canali di reazione tranne di quello elastico, per esprimerla bisogna
considerare il rateo con cui le particelle diffuse scompaiono dal canale con un
particolare numero d’onda k partendo dalla 8.21. Si considera praticamente
la differenza fra corrente entrante e corrente uscente ottenendo
" ∞ 2
|A|2 ~ X
|jinc | − |jout | = (2` + 1) i`+1 ei`π/2 P` (cosϑ)
4mkr2
`=0
∞ 2 #
X
`+1 i`π/2
− (2` + 1) i η` e P` (cosϑ) (8.28)
`=0
251
e
σr = π (bmax + λ)2 (8.32)
da cui
σT ot = 2π (bmax + λ)2 (8.33)
per cui la sezione d’urto totale vale il doppio della sezione d’urto geo-
metrica. È un effetto ”non classico” e può essere capito sempre tenendo
in considerzione la zona d’”ombra” prodotta dal nucleo bersaglio che
però non può limitarsi ad assorbire ma deve appunto anche diffrangere
entro la zona d’ombra.
Questi risultati possono essere utilizzati per indagare la struttura dei nuclei:
si ipotizza una forma di potenziale d’interazione e si risolve la corrispondente
equazione di Schrödinger nella regione d’interazione 0 ≤ r ≤ R, imponendo
condizioni di continuità agli estremi. Si può cosı̀ trovare η` e provare a
valutare la plausibilità della forma scelta per il potenziale dal confronto con
i dati sperimentali per σdif e σr .
252
si può ragionevolmente pensare al nucleo come un buon assorbitore di neu-
troni incidenti, almeno in un certo intervallo di energie.
Sperimentalmente si osserva che la sezione d’urto totale per neutroni su nu-
clei pesanti a partire da alcune decine di MeV è sostanzialmente costante al
crescere delle energie fino ai valori più alti, come mostrato nelle figure 8.9
e 8.10. Dal valore misurato della sezione d’urto totale si può quindi otte-
Figura 8.9: Sezione d’urto totale di reazione per neutroni su 12C, 28Si, 56Fe,
90Zr e 208Pb. Le curve sono fit con previsioni di modello ottico.
nere R ' (bmax + λ) che a meno delle ”dimensioni” del neutrone incidente
rappresenta l’estensione radiale della distribuzione di materia del nucleo che
sente l’interazione forte. Anche in questo caso, al variare di A, si trova che
vale
R = R0 A1/3 (8.34)
253
Figura 8.10: Sezioni d’urto totali n-nucleo per impulsi maggiori di 5 GeV/c
[G.V. Bochman et al., Phys.Lett. 33B (1970) 222].
254
Alle energie considerate gli elettroni hanno lunghezze d’onda molto inferio-
ri alle dimensioni nucleari esplorate, sono sostanzialmente puntiformi, per
cui la distribuzione di carica nucleare va pensata associata ai ”centri” dei
protoni del nucleo; nell’interazione forte fra neutroni e nucleo invece, oltre
che le dimensioni non più trascurabili della sonda neutronica, cui bisogna
pensare associato un opportuno fattore di forma, bisogna considerare anche
le dimensioni fisiche finite di ogni singolo nucleone. Tutto ciò concorre alle
differenze ottenute nei due casi. Naturalmente, al crescere dell’energia dei
255
Figura 8.12: Spettro della diffusione di elettroni da 495 MeV/c su 12C, a
65.4o nel (SL).
256
grafo seguente.
Nel caso in cui non si possano trascurare le dimensione finite dei proiettili,
i dati per le sezioni d’urto fra nuclei proiettile, con numero di massa AP e
nuclei bersaglio, con numero di massa AB , mostrano comunque una propor-
1/3 1/3
zionalità con il termine (AP + AB ), coerentemente con l’assumere, tanto
per il proiettile quanto per il bersaglio che le loro dimensioni siano compa-
1/3
tibili con una forma sferica di raggio R ' R0 Ai , con R0 & 1.3 fm, quindi
maggiore di quanto trovato negli altri casi, dipendendo ciò dal fatto che un
nucleo non va visto effettivamente come una sfera dalla superficie a bordo
netto, ma piuttosto a bordo esteso e ”sfumato”, ad esempio come descritto
dalla distribuzione di Wood-Saxon.
a + X → C∗ → Y + b (8.36)
257
la redistribuzione dell’energia cinetica del proiettile fra i nucleoni del nu-
cleo composto avvenga in modo sostanzialmente ”termico”, con conseguente
”perdita di memoria” del processo di formazione. Il successivo decadimento
sarà quindi governato pevalentemente da processi statistici.
Un esempio interessante è riportato nello schema di figura 8.13 dove si vede
come uno stesso nucleo composto possa essere ottenuto con diversi canali
d’ingresso e possa produrre diversi canali di reazione. Il modello del nucleo
composto dá buoni risultati nella descrizione di reazioni a bassa energia, fra
i 10 MeV e i 20 MeV, per le quali la probabilità che la particelle incidente
sfugga dal sistema prima di essersi sostanzialmente ”termalizzata” con esso
è bassa. Per lo stesso motivo la sua efficacia cresce al crescere del numero
di massa A dei nuclei bersaglio.
Da quanto detto si decuce anche che data la casualità delle interazioni che
determinano la formazione di un nucleo composto, l’emissione dei prodotti
di decadimento debba essere sostanzialmente isotropa, con una distribuzione
angolare quindi uniforme nel sistema del CM, come confermato dai risultati
sperimentali.
Se peraltro il proiettile ha un numero di massa non trascurabile rispetto al
bersaglio, il momento angolare trasferito al nucleo composto durante l’urto
può essere notevole e conseguentemente la distribuzione angolare delle parti-
celle emesse dal suo decadimento ne risente con una preferenza per direzioni
ortogonali a quella dell’asse del momento angolare trasferito.
Data l’analogia evaporativa si può dedurre che il numero delle particelle
emesse da un nucleo composto cresca con l’energia e che la sezione d’urto
abbia una forma pressochè Gaussiana.
I tempi caratteristici d’evoluzione di un processo con formazione di un nucleo
composto sono abbastanza lenti, dell’ordine di 10−16 ÷ 10−18 s.
258
un’interaziine ”diretta” fra il nucleone incidente e uno o comunque solo po-
chissimi fra i nucleoni del bersaglio.
Questa condizione, detta appunto reazione diretta, è quindi in un certo senso
opposta a quella che conduce al nucleo composto, e oltretutto vede probabili
urti fra i nucleoni incidenti e i nucleoni più periferici dei nuclei bersaglio.
I meccanismi del nucleo composto e delle reazioni dirette possono ovviamen-
te contribuire entrambi a una certa reazione e diventa in tal caso importante
e interessante capire come distinguere i due contributi.
Un’altra caratteristica delle reazioni dirette è il loro tempo di attuazione,
dell’ordine di 10−22 s, quindi da quattro a sei ordini di grandezza inferiore
rispetto al caso del nucleo composto. Anche le distribuzioni angolari dei
prodotti di reazione sono diverse nei due casi, caratterizzate da picchi defi-
niti nel caso delle reazioni dirette.
Una reazione anelastica può procedere secondo entrambi le vie, con una for-
te dipendenza dall’energia del proiettile, come avviene ad esempio con la
reazione di stripping del deutone X(d, n)Y, una reazione di trasferimento in
cui un singolo protone viene trasferito dal proiettile al bersaglio.
L’altra reazione di stripping del deutone X(d, p)X’ è invece più facile che
proceda per via ”diretta” in quanto l’”evaporazione” di un protone da un
nucleo composto risulta inibita dalla barriera coulombiana.
La reazione X(α, n)Y difficilmente procede invece per via diretta in quanto
richiede il trasferimento di ben tre nucleoni su stati di valenza di un nucleo
bersaglio, che è un processo molto poco probabile.
Un’applicazione importante delle reazioni di trasferimento di singola parti-
cella, specialmente d, p) e (d, n), concerne lo studio degli stati eccitati a breve
vita media per confrontarne le caratteristiche con le previsioni del ”modello
a shell”.
Lo studio delle reazioni di pickup in cui il proiettile cattura un nucleone al
nucleo bersaglio, come ad esempio (p, d), fornisce informazioni sugli stati di
singola particella.
259
condizione simmetrica; risultano stabili rispetto all’emissione di particelle e
le loro vite medie sono molto più lunghe, come ad esempio per i decadimenti
γ, per cui sono caratterizzati da ”larghezze” molto inferiori. Uno stato con
vita media di 10−12 s ha ad esempio una larghezza di circa 10−3 eV, quindi
molto inferiore alla tipica spaziatura fra stati legati contigui. Questo ren-
de plausibile trattare questi stati alla stregua di stati discreti caratterizzati
ognuno da una propria funzione d’onda.
Fra questi due estremi si individua quella che vien detta regione di riso-
nanza, caratterizzata da livelli discreti con alta probabilità, e quindi sezione
d’urto, di formarsi e larghezze piuttosto ridotte in quanto presentano solita-
mente due soli modi di decadimento disponibili, ovvero la re-emissione della
particella incidente o l’emissione di fotoni γ.
Il comportamento delle sezioni d’urto in prossimità dei valori d’energia ca-
ratteristici di tali livelli viene descritto con andamenti risonanti del tipo
Breit-Wigner, come in 5.32.
Le reazioni di cattura radiativa mostrano una tipica struttura di risonanza,
come per lo spettro in figura 8.14.
260
Capitolo 9
261
ogni deviazione sulle traiettorie delle particelle del fascio, Thomson fù in
grado di determinare sia la velocità che il rapporto carica/massa di queste
particelle. Questo rapporto risultò enormemente maggiore che per ogni altro
ione conosciuto, indicando quindi o che la carica elettrica posseduta dalle
particelle dei raggi catodici era molto grande, o che la loro massa era molto
piccola. Alcune evidenze indirette facevano propendere per la seconda ipo-
tesi. Thomson chiamò corpuscoli tali particelle. Più tardi furono chiamati
elettroni che era il nome coniato sei anni prima da G.J. Stoney per indicare
l’unità fondamentale di carica elettrica.
Thomson congetturò correttamente che gli elettroni sono costituenti fonda-
mentali degli atomi; siccome però gli atomi sono oggetti globalmente neutri,
e di massa molto maggiore degli elettroni, sorse il problema di spiegare come
veniva compensata la loro carica elettrica e come il grosso della massa fosse
distribuito in ogni atomo.
Thomson stesso immaginò che in un atomo gli elettroni fossero sospesi in un
pesante amalgama carico positivamante, come le uvette nel panettone. Que-
sto modello fù però definitivamente confutato dai risultati dell’esperimento
di diffusione di Rutherford, trattato nel paragrafo 7.4, che mostrò come la
carica positiva e la gran parte della massa di ogni atomo sono concentrate
in un piccolo core, detto poi nucleo, posto al centro dell’atomo stesso. Fu
Rutherford a chiamare protone il nucleo dell’atomo più leggero, l’idrogeno.
Nel 1914 N. Bohr propose un modello per l’atomo di idrogeno consistente in
un singolo elettrone orbitante attorno a un protone, sottoposto alla mutua
forza di attrazione elettrica fra la propria carica e quella di segno opposto del
protone. Utilizzando una versione primitiva di teoria quantistica Bohr era in
grado di calcolare lo spettro dell’idrogeno e l’accordo con i dati sperimentali
era a dir poco spettacolare. Divenne quindi naturale supporre che i nuclei
degli atomi pesanti fossero composti da più protoni legati assieme, con un
ugual numero di elettroni orbitanti attorno. Sfortunatamente l’atomo im-
mediatamente più pesante dell’idrogeno, l’elio, pur possedendo due elettroni
ha una massa quasi pari a quella di quattro idrogeni, e il litio, con tre elet-
troni, ha una massa che è circa sette volte maggiore di quella dell’idrogeno.
Il dilemma che si era cosı̀ venuto a creare fu infine risolto nel 1932, quando
Chadwick, come visto nel paragrafo 1.1, scoprı̀ il neutrone. In tal modo si
capı̀ che il nucleo di elio contiene due protoni assieme a due neutroni, il litio
ha quattro neutroni nel nucleo, assieme a tre protoni, ecc. Con la scoperta
del neutrone si può considerare chiuso il periodo pionieristico della fisica
delle particelle. In quell’anno si era convinti che la materia fosse costituita
da protoni, elettroni e neutroni, anche se erano già stati gettati i semi di tre
grandi idee che avrebbero dominato il periodo intermedio della fisica delle
particelle, fra il 1930 e il 1960: il mesone di Yukawa, il positrone di Dirac e
il neutrino di Pauli. Prima di parlare di questi va però introdotto un altro
fondamentale soggetto, il fotone.
262
9.2 Il fotone (1900-1924)
Per certi aspetti il fotone è decisamente una particella moderna, in quanto
ha più caratteristiche in comune con la W e la Z, che sono state scoperte
nel 1983, che con elettrone, protone e neutrone. È inoltre arduo individuare
univocamente quando e da chi il fotone sia stato effettivamente ”scoperto”,
anche se sono abbastanza chiare le tappe fondamentali. Il primo contributo
fu di Plank nel 1900, ed è legato alla sua spiegazione dello spettro del corpo
nero per la radiazione elettromagnetica emessa da un oggeto caldo. La mec-
canica statistica, che aveva permesso di conseguire ottimi risultati nel capire
altri processi termici, dava risultati privi di senso quando applicata ai campi
elettromagnetici, conducendo in particolare, alla cosiddetta catastrofe ultra-
violetta che prediceva assurdamente che dovesse essere infinita la potenza
totale irradiata da un corpo nero ideale in equilibrio termico con l’ambiente.
Plank trovò che si poteva evitare la catastrofe ultravioletta, e riprodurre
bene i dati sperimentali, se si assumeva che la radiazione elettromagnetica
fosse quantizzata e costituita da pacchetti d’energia
E = hν (9.1)
h ∼
= 6.626 · 10−34 J s ∼
= 4.136 · 10−15 eV s (9.2)
E ≤ hν − w (9.3)
263
immediata derivazione ma contiene un’implicazione straordinaria: l’energia
massima che un elettrone emesso può possedere è indipendente dall’intensità
della radiazione incidente e dipende soltanto dalla sua frequenza. Fasci di ra-
diazione più intensi producono soltanto maggiori intensità di elettroni emes-
si, ma sempre delle stesse energie. Contrariamente alla buona accoglienza
che aveva avuto l’idea di Plank, quella di Einstein incontrò un’ostilità dif-
fusa che si protrasse per circa una ventina d’anni, e ciò poichè i suoi quanti
di luce, oggi detti fotoni, in qualche modo riprendevano l’idea Newtoniana
del modello corpuscolare della luce. E il superamento, nel diciannovesimo
secolo, della teoria cospuscolare con il modello ondulatorio della radiazione
elettromagnetica, trionfante nelle equazioni di Maxwell, appariva a molti in-
conciliabile con questa resurrezione di un corpuscolo di luce. Basti pensare
ad esempio a quanto scrisse Millikan nel suo articolo ”A direct photoelectric
determination of Plank ’h’” del 1916 (Physical Review 7: 355-388): ”Ein-
stein’s photoelectric equation ... appears in every case to predict exactly
the observed results. ... Yet the semi-corpuscular theory by which Einstein
arrived at his equation seems at present to be wholly untenable”. Ciò che
λ0 = λ + λc (1 − cosϑ) (9.4)
h
λc = (9.5)
mc
la cosiddetta lunghezza d’onda Compton della particella bersaglio di mas-
sa m. È quanto si ottiene trattando relativisticamente (conservazione di
energia-impulso) la luce incidente come un’ipotetica particella di massa nul-
la ed energia data dalla formula di Plank, che urta elasticamente il bersaglio
264
di massa m, come in figura 9.2. Questa evidenza sperimentale diretta e
incontrovertibile ha risolto i dubbi residui provando che la radiazione elet-
tromagnatica, su scala sub-atomica, si comporta alla stregua di particelle
chiamate fotoni, come suggerito nel 1926 dal chimico G. Lewis, e indicate
con la lettera γ, in base alla già esistente denominazione raggi gamma.
Anche se inizialmente ”osteggiato” il fotone ha poi trovato una propria na-
turale collocazione in una teoria quantistica di campo, offrendo una nuova e
completa prospettiva delle interazioni elettromagnetiche. In elettrodinamica
classica si ascrive la mutua repulsione fra due elettroni al campo elettrico
che li circonda e ogni elettrone, al tempo stesso, contribuisce e risponde
al campo. In una teoria di campo quantistica il campo elettrico è invece
quantizzato sotto forma di fotoni e si può immaginare l’interazione fra due
elettroni come costituita da un flusso di fotoni continuamente emessi e as-
sorbiti dai due elettroni.
La stessa cosa si immagina avvenga per ogni tipo di interazione non di con-
tatto, ovvero quelle che classicamente si interpretano come mediate da un
campo e che secondo la nuova visione, sono considerate come mediate da
uno scambio di particelle che altro non sono se non i quanti del campo. Per
l’elettrodinamica il mediatore è appunto il fotone, nel caso dell’interazione
gravitazionale si ipotizza che possa esistere un mediatore detto gravitone,
ancora non rivelato, nonostante i notevoli progressi nella rivelazione di onde
gravitazionali con i recenti1 risultati del 2015.
Dicendo che ogni interazione è mediata da uno scambio di particelle non ci
si riferisce a un fenomeno puramente cinematico.
Forti di questa nuova idea si può quindi formulare un modello di atomo più
sofisticato di quanto sinora considerato, attribuendo il legame fra elettroni
e protoni al mutuo scambio di fotoni fra essi. Il risultato mostra comunque
che in tal caso il nuovo approccio non dá sostanzialmente risultati diversi o
migliori di quello ”classico”, che considera responsabile del legame atomico
il campo coulombiano standard assieme ad un certo numero di accoppia-
menti magnetici di dipolo. Le sole differenze sostanziali sono evidenti nei
casi in cui si considerano il cosiddetto Lamb shift e il momento magneti-
co anomalo dell’elettrone2 . Questo è sostanzialmente dovuto al fatto che
in una condizione di stato legato come quella che caratterizza un atomo e i
suoi elettroni, il numero di fotoni continuamente scambiati è cosı̀ grande3 da
smussare praticamente quelle che sarebbero le asperità quantistiche presen-
tate da un campo caratterizzato dallo scambio di pochi fotoni, come avviene
ad esempio nel caso dell’effetto Compton dove il fotone coinvolto è uno solo
1
B.P.Abbott et al., ”Observation of Gravitational Waves from a Binary Black Hole
Merger” Physical Review Letters 116 (2016) 061102
2
W.E. Lamb, jr. e R.C. Retherford, ”Fine Structure of the Hydrogen Atom by a
Microwave Method” Physical Review 72 (1947) 241-243.
3
Si può inoltre ragionevolmente supporre che tali fotoni siano di diverse frequenze e di
fase qualsiasi ...
265
e quindi gli effetti quantistici non vengono annegati o diluiti.
266
potesse essere sbagliata. In quegli anni erano però iniziate estese e sistema-
tiche campagne di misurazioni e fra il 1936 e il 1937 due gruppi indipendenti
di ricercatori, C.D. Anderson e S. Neddermeyer da un lato, J.C. Street ed
E.C. Stevenson dall’altro, utilizzando come sistemi di rivelazione camere a
nebbia, avevano individuato delle particelle cariche, diverse da quelle già
conosciute, che sembravano avere la giusta massa e che si pensò potessero
essere i mesoni di Yukawa cercati. Indagini più approfondite su queste nuove
particelle mostrarono però rapidamente alcune discrepanze con quanto ci si
attendeva: le masse misurate erano, anche se non di molto, significativamen-
te inferiori alle previsioni e la loro vita media era decisamente superiore al
previsto. Fondamentali furono però i risultati ottenuti a Roma nel 1946 da
M. Conversi, E. Pancini e O. Piccioni4 che provarono quanto ”debolmente”
queste nuove particelle interagissero con i nuclei atomici, contrariamente a
quanto ci si sarebbe attesi nel caso esse fossero appunto i mediatori delle
forze nucleari.
Il rompicapo fù infine risolto quando, nel 1947, C.F. Powell, G. Occhialini
e C. Lattes, analizzando emulsioni fotografiche esposte a raggi cosmici dopo
essere state portate in quota, sia in cima a montagne che a bordo di speciali
palloni aerostatici, scoprirono che di particelle di massa intermedia nei raggi
cosmici ce n’erano di due tipi che essi chiamarono π , il pione, e µ, il muone.
Il mesone di Yukawa era il pione π, prodotto copiosamente nella parte più
alta dell’atmosfera, ma che si disintegra ben prima di raggiungere il suolo,
data la sua breve vita media, decadendo spesso con l’emissione appunto di
muoni µ che invece, data anche la maggior vita media, costituiscono la gran
parte della radiazione cosmica che raggiunge il suolo terrestre.
Il muone aveva quindi giocato il ruolo dell’impostore, nella storia della ri-
cerca del mesone di Yukawa e come vedremo lo si può considerare piuttosto
come una versione pesante dell’elettrone: è un altro membro della famiglia
dei leptoni.
267
p
una corrispondente soluzione con energia negativa, E = − p~ 2 c2 + m2 c4 .
Questo avrebbe significato, data la naturale tendenza di ogni sistema fisico
ad evolvere verso una progressiva diminuzione dell’energia, che l’elettrone
in questione dovrebbe precipitare verso stati a energia sempre più negativa,
irradiando oltretutto nel corso del processo una quantità infinita d’energia.
Per venire in soccorso della sua equazione Dirac propose una soluzione che
era tanto più brillante quanto più appariva difficilmente plausibile: egli po-
stulò che tutti gli stati a energia negativa fossero già riempiti da un mare di
elettroni. Immaginando questo mare esteso ovunque e perfettamente uni-
forme, non dovrebbe esercitare alcuna forza netta su nulla e sarebbe quindi
plausibile non accorgersi della sua presenza. Dirac invocò quindi il principio
d’esclusione di Pauli, secondo il quale due elettroni non possono occupare
contemporaneamente il medesimo stato, per giustificare il fatto che gli elet-
troni che osserviamo sono confinati in stati di energia positiva. Ma se cosı̀
fosse cosa succederebbe nel momento in cui si fornisse ad uno degli elettroni
del mare un’energia sufficiente a portarlo nella regione degli stati a energia
positiva? L’assenza dell’elettrone dalla sua ”locazione” nel mare verrebbe
vista e interpretata come una carica positiva netta in quella stessa locazione
e l’assenza della sua attesa energia negativa verrebbe vista come un’energia
positiva netta. Di conseguenza un buco nel mare si comporta come un’ordi-
naria particella carica positivamente e di energia positiva.
Inizialmente Dirac sperò che questi ”buchi” potessero essere protoni, ma
apparve presto chiaro che essi avrebbero dovuto avere una massa corrispon-
dente a quella degli elettroni, ovvero circa 1836 volte più leggera di quella
di un protone. Siccome non erano allora note particelle con tali caratteri-
stiche la teoria di Dirac appariva in difficoltà, ma quello che sembrava un
difetto nel 1930 si trasformò in un trionfo nel 1932, quando C. Anderson5 ,
rapidamente confermato da P. Blackett e G. Occhialini, scoprı̀ il positrone 6 ,
particella di carica positiva, uguale in valore assoluto a quella dell’elettrone
e di massa pari a quella dell’elettrone. Molti fisici però continuavano ad
essere turbati al pensiero che ci si dovesse considerare ”immersi” in un mare
infinito di elettroni invisibili, e negli anni ”40, E. Stuckelberg e R. Feynman
fornirono un’interpretazione molto più semplice e al tempo stesso forte degli
stati a energia negativa: per loro si trattava di una nuova diversa particella,
il positrone appunto, di energia e carica elettrica positiva opposta a quella
dell’elettrone. Si erano cosı̀ brillantemente superate le difficoltà inerenti nel
5
C. Anderson, ”The positive electron” Phys. Rev. 43 (1933) 491.
6
È interessante osservare che nel 1929 lo scienziato russo D. Skobeltsyn, utilizzando
una camera a nebbia per studiare la radiazione γ nei raggi cosmici, aveva notato tracce
di particelle che si comportavano come elettroni tranne per il fatto di curvare la loro
traiettoria in un campo magnetico in verso opposto rispetto agli elettroni, ma non fu
in grado di trovare una spiegazione. Similmente e sempre nel 1929, C-Y. Chao, allora
al Caltech, osservò, senza dar seguito alla cosa, alcuni risultati anomali che indicavano
la possibile presenza di particelle simili all’elettrone, ma di carica opposta, studiando
l’interazione fra raggi γ e piombo.
268
Figura 9.3: Scoperta del positrone. Fotografia di Anderson della traccia
prodotta in camera a nebbia da una particella carica. Il numero di ”goccio-
line” di nebbia per unità di lunghezza della traccia è compatibile con quello
che produrrebbe un elettrone; data l’orientazione del campo magnetico B ~
di intensità pari a 1.5 T in cui era immersa la camera, l’orientazione della
curvatura della traccia è compatibile con una particella di carica positiva
proveniente dal basso, come si desume dal fatto che il raggio di curvatura è
minore nella parte alta dell’immagine dopo che la particella ha attraversato,
rallentando, uno spessore orizzontale di 6 mm piombo.
269
il neutrone, in cui la caratteristica di ”anti” non può essere evidenziata dal
possedere carica elettrica di segno opposto, si trova in tali casi che sono altri
numeri quantici caratterizzanti la particella a farsi carico di definire la carat-
teristica di ”anti”. Per il neutrone, ad esempio, anche se globalmente neutro
esso possiede una struttura interna carica, dovuta ai propri quark, come si
vedrà, che mostra una distribuzione prevalentemente positiva al centro e in
prossimità della superficie e negativa nella zona intermedia, oltre ad avere
un momento di dipolo magnetico intrinseco non nullo. Per l’antineutrone n
queste caratteristiche hanno segno opposto.
Nella fisica delle particelle vale un principio generale, detto crossing symme-
try per il quale se una certa reazione
A + B −→ C + D
ha luogo, allora anche la reazione inversa, come pure ogni altra reazione
ottenuta portando una o più delle particelle coinvolte dal lato opposto della
freccia e trasformandole nella loro antiparticella, può aver luogo. Quindi
possono avvenire ad esempio:
C + D −→ A + B
A −→ B + C + D
A + C −→ B + D
C + D −→ A + B
che tecnicamente è comunque una conseguenza del principio del bilancio det-
tagliato7 . Ed effettivamente, come si vedrà, i calcoli relativi a queste diverse
reazioni sono praticamente gli stessi ed esse possono essere considerate come
diversi modi di vedere uno stesso processo fondamentale.
C’è comunque un’attenzione fondamentale da tener sempre presente, e cioè
che il principio di conservazione dell’energia può vietare una reazione altri-
menti permessa: ad esempio la A −→ B + C + D non può aver luogo se la
massa di A è inferiore alla somma delle masse delle altre tre; se la somma
delle masse di A e C è inferiore a quella delle masse di B e D, allora la
A + C −→ B + D può aver luogo soltanto se l’energia cinetica nel cana-
le d’ingresso supera una certa opportuna ”soglia minima”. Questo significa
dunque che una certa reazione inversa può essere dinamicamente permessa
ma risultare cinematicamente non attuabile.
È difficile che si possano esagerare la potenza e l’eleganza di questo fonda-
mentale principio di crossing symmetry. Si veda ad esempio la diffusione
Compton, che in base ad esso corrisponde esattamente all’annichilazione di
un elettrone e un positrone con la conseguente produzione di una coppia di
fotoni
7
Si veda ad esempio: A.N. Gorban, ”Detailed balance in micro- and macrokinetics and
micro-distinguishability of macro-proceses” Results in Physics 4 (2014) 142.
270
γ + e− −→ γ + e−
e− + e+ −→ γ + γ
n → p+ + e− + ν (9.7)
271
si tratta di una particella che non ha lasciato traccia alcuna nell’emulsione,
e che quindi deve essere elettricamente neutra.
Era a quel punto naturale, o per lo meno economico in termini concettuali,
supporre che si trattasse nuovamente del neutrino di Pauli
π → µ+ν (9.8)
Poco dopo la pubblicazione dell’articolo contenente l’immagine riportata in
figura 9.2, il gruppo di Powell ne pubblicò altri con immagini ancor più
intriganti, come quella riportata nella successiva figura 9.4, dove è visibile
anche il successivo decadimento del muone. Lo studio successivo e appro-
fondito dei decadimenti muonici permise di capire, a partire dal 1949 che la
particella carica figlia del decadimento del muone è un elettrone cui, dato lo
spettro energetico continuo dedotto per tale muone, si suppose si accompa-
gnino almeno due particelle elettricamente neutre, data l’assenza di tracce
ad esse ascrivibili in tutte le immagini analizzate. Sempre per motivi di
economia concettuale era naturale supporre si trattasse di due neutrini, per
cui il decadimento del muone appariva come
µ → e + 2ν (9.9)
Anche la conservazione del momento angolare impone che vi siano almeno
tre particelle nel canale di decadimento del muone, ma ciò non era ancora
ben compreso per la difficoltà sperimentale di rivelare e assegnare quindi
univocamente gli spin ai prodotti dei decadimenti. Quindi all’inizio ci si
basava sostanzialmente sul principio di conservazione dell’energia, per argo-
mentare. Il decadimento del pione dava invece luogo a muoni di energia ben
272
definita, il che confermava che si trattasse di un genuino decadimento in due
corpi.
Nel 1950 si era dunque raggiunta un’inoppugnabile evidenza teorica dell’e-
sistenza dei neutrini, senza essere però ancora mai riusciti a rivelarli spe-
rimentalmente in modo diretto. Uno scettico avrebbe potuto congetturare
che il neutrino non fosse altro che un artificio di calcolo, una particella pura-
mente ipotetica la cui sola funzione fosse salvare il principio di conservazione
dell’energia. Non lasciava traccia alcuna e non se ne era mai visto un decadi-
mento, anzi non si era ancora mai visto ”nulla” prodotto da un neutrino. La
ragione di ci o è che i neutrini interagiscono in modo estremamente debole
con la materia: un neutrino di media energia potrebbe facilmente attraver-
sare indenne, senza interagire, uno spessore di mille anni luce di piombo!
Per avere una certa probabilità di rivelarne è quindi necessaria una sorgente
estremamente intensa. L’esperimento decisivo fu effettuato nel 1950 presso
il reattore nucleare di Savannah River, nella Carolina del Sud. C.L. Cowan
ed F. Reines approntarono un grande serbatoio d’acqua e cercarono evidenza
della reazione β inversa
ν + p+ → n + e+ (9.10)
Il calcolo del flusso di neutrini che avrebbero attraversato il loro rivelatore
dava un valore pari a 5 × 1013 particelle al secondo per cm2 . Nonostante
questa straordinaria intensità essi prevedevano di poter rilevare da due a tre
eventi ogni ora. Per realizzare la misura essi misero a punto un ingegnoso
metodo per identificare il positrone emesso e i risultati forniti dai loro dati
permisero d’ottenere una conferma non ambigua dell’esistenza del neutrino8 .
273
ma trovò che non ha luogo, deducendo da questo risultato che neutrino e
antineutrino sono due particelle distinte9 .
Il risultato di Davis non giunse totalmente inatteso, in quanto già nel 1953
Kanopinski e Mahamoud avevano introdotto una bella e semplice regola
per determinare quale reazione fosse possibile e quale no, del tipo di quelle
rappresentate in 9.11 e in 9.12. Assegnando un numero leptonico L = +1
a elettrone, muone e neutrino, L = −1 a positrone, muone positivo e an-
tineutrino ed L = 0 a tutte le altre particelle, e supponendo una legge di
conservazione del numero leptonico, si ha che in ogni processo fisico che
coinvolga un sistema, la somma di tutti i numeri leptonici del sistema prima
dell’attuarsi del processo deve uguagliare la somma di tutti i numeri lep-
tonici del sistema trasformato dopo il processo. Secondo questa regola la
reazione 9.10 di Cowan-Reines risulta permessa (L = −1 prima e dopo), ma
la reazione 9.12 di Davis è proibita (L = −1 a sinistra, ed L = +1 a destra).
Equivalentemente il decadimento dei pioni carichi 9.8 dovrebbe essere
π − → µ− + ν
π + → µ+ + ν
µ− → e − + ν + ν
µ+ → e + + ν + ν
µ− Y→ e− + γ (9.13)
benchè questo processo sia consistente sia con la conservazione della carica
che con quella del numero leptonico. Nell’ambito della fisica delle particelle,
e non solo, vale una famosa regola empirica, generalmente attribuita a R.
9
Questa conclusione non è inoppugnabile come potrebbe sembrare, infatti la 9.12 po-
trebbe essere proibita a causa dello stato di spin di ν invece che dal fatto che ν 6= ν. Ci
sono infatti due possibili modelli detti neutrino di Dirac, secondo cui ν 6= ν, e neutrino
di Majorana, secondo cui ν e ν sono due stati di una stessa particella. Su quet’ultimo si
tornerà più avanti supponendo per ora che valga il modello di Dirac.
10
Più avanti si introdurrà un’ulteriore proprietà, detta elicità, che definisce il carattere
sinistrorso del neutrino o destrorso dell’antineutrino, associata all’antiparallelismo o al
parallelismo fra spin e quantità di moto.
274
Feynman, secondo la quale qualunque cosa non sia esplicitamente proibita,
è allora assolutamente obbligatoria. In base a ciò l’assenza del canale di
decadimento µ → e + γ suggerisce l’esistenza di una legge di conservazione
del carattere muonico. Tra la fine degli anni ”50 e l’inizio dei ”60 si individuò
la risposta corretta immaginando vi fossero due diversi tipi di neutrini, uno
associato all’elettrone, νe , e uno associato al muone, νµ . Associando a questo
punto un numero muonico Lµ = +1 al µ− e al νµ , e un numero muonico Lµ =
−1 a µ+ e ν µ , e nel contempo un numero elettronico Le = +1 ad e− e a νe , e
un numero elettronico Le = −1 a e+ e ν e , e rendendo più raffinata la regola
di conservazione facendola valere separatamente ma contemporaneamente
sia per il numero leptonico che per quello muonico, si riescono a giustificare
sia i processi di decadimento permessi che quelli proibiti. Il decadimento β
del neutrone diventa in definitiva
n → p+ + e− + ν e (9.14)
π − → µ− + ν µ (9.15a)
π + → µ+ + νµ (9.15b)
e quelli dei muoni diventano
µ− → e− + ν e + νµ (9.16a)
µ+ → e+ + νe + ν µ (9.16b)
Si era detto, parlando del decadimento dei pioni carichi, che appariva natu-
rale e concettualmente economico assumere che la particella neutra emessa
fosse la stessa che nel decadimento β nucleare, ma è risultato essere scorret-
to, pur essendo ”quasi giusto”.
La prima prova sperimentale dell’ipotesi che vi siano due diversi tipi di
neutrino, e della conseguente validità della conservazione indipendente dei
numeri leptonici e muonici fu ottenuta nel 1962, a Brookhaven, da L. Leder-
man, M. Schwartz e J. Steinberger11 , utilizzando antineutrini provenienti
dal decadimento del π − . Utilizzando un totale di 1014 antineutrini essi
riuscirono a identificare 29 volte la reazione attesa
ν µ + p+ → µ+ + n (9.17)
ν µ + p+ → e+ + n (9.18)
11
G. Danby et al., ”Observation of High-Energy Neutrino Reactions and the Existence
of Two Kinds of Neutrinos” Phys. Rev. Lett. 9 (1962)36.
275
L’esistenza di un’unico tipo di neutrino implicherebbe, per la seconda rea-
zione 9.18, un rateo sostanzialmente equivalente a quello della 9.17. L’ef-
fettuazione dell’esperimento richiese di affrontare formidabili problemi di
schermaggio, risolti utilizzando circa 13.5 metri di spessore d’acciaio pro-
veniente dallo smantellamento di una nave, per garantire con la precisione
necessaria che solo antineutrini attraversassero il bersaglio.
I neutrini hanno una massa piccolissima, tanto che senza una effettiva ra-
gione, li si è spesso considerati come privi di massa. Ciò permetteva di
semplificare molto le equazioni, ma è sbagliato; i neutrini hanno massa, an-
che se non se ne conoscono i valori, comunque decisamente inferiori alla
massa dell’elettrone. Si è inoltre congetturato, e anche sperimentalmente
provato grazie ai dati dell’esperimento OPERA12 , svoltosi presso i Labora-
tori Nazionali del Gran Sasso, che un neutrino di un certo tipo, viaggiando
su lunghe distanze, abbia il tempo di ”convertirsi” in un neutrino di un’altro
tipo e poi tornare ad essere il neutrino del tipo originario e cosı̀ via, dando
luogo ad un fenomeno che vien detto di oscillazione del neutrino. Questo
interessante fonomeno verrà riconsiderato più avanti.
Quanto finora visto ha permesso di accrescere a otto diversi soggetti gli
elementi della famiglia dei leptoni: l’elettrone, il muone, i loro rispettivi
neutrini e le corrispondenti quattro antiparticelle, come indicato in tabella.
I leptoni sono caratterizzati dal non sentire gli effetti dell’interazione forte.
Sul fronte dei leptoni le cose apparvero stabilizzate fino al 1976 e quindi è ora
opportuno approfittarne per riprendere il filo della fenomenologia che coin-
volge le particelle che invece sentono gli effetti dell’interazione forte, ovvero
mesoni e barioni, detti globalmente adroni.
12
N. Agafonova et al., ”Observation of a first ντ candidate in the OPERA experiment
in the CNGS beam” Phys. Lett. B691 (2010) 138
276
9.6 Particelle strane (1947-1960)
Per un breve periodo nel 1947 sembrò che i maggiori problemi inerenti la
fisica delle particelle elementari fossero ormai stati risolti. Dopo una lunga
caccia al muone, credendolo la particella di Yukawa, infine il pione era stato
trovato e riconosciuto; era stato trovato il positrone di Dirac, e il neutrino
di Pauli era finalmente largamente accettato come membro della ”famiglia”.
Il ruolo del muone permaneva un enigma in quanto appariva come un ele-
mento ”non necessario” allo schema che si era venuto costituendo, tanto da
spingere I. Rabi a pronunciare la famosa frase ”ma chi lo ha ordinato?”, ma
nell’insieme sembrava che il grosso del lavoro fosse stato fatto.
Questa condizione confortevole non durò però a lungo, nel dicembre dello
stesso anno G.D. Rochester e C.C. Butler pubblicarono13 la fotografia in
camera a nebbia mostrata in figura 9.5 nella quale si vede l’effetto di raggi
cosmici entranti dal lato superiore sinistro che investono uno strato di piom-
bo dal quale, fra le altre cose, emerge una particella neutra la cui presenza è
rivelata dai suoi due prodotti carichi di decadimento, che hanno dato luogo
a due tracce a forma di ”V” rovesciata nella parte inferiore destra dell’im-
magine. Analisi accurate delle tracce fotografate permisero di riconoscere
le due particelle cariche come una coppia di pioni, π + e π − . Si era dunque
trovata una particella neutra con massa non inferiore al doppio di quella del
pione, e dopo un pó di incertezza sul nome da assegnarle14 fu chiamata K 0 ,
kaone
K 0 → π+ + π− (9.19)
Nel 1949 Brown e collaboratori pubblicarono la fotografia riprodotta in
figura 9.6 che mostra il decadimento di un kaone carico in tre pioni carichi
K + → π+ + π+ + π− (9.20)
I kaoni si comportano per certi aspetti come se fossero dei ”pioni” pesanti,
e quindi la famiglia dei mesoni fu estesa comprendendoli. Nel seguito furono
poi scoperti molti altri mesoni: η, φ, ω, ρ, ... .
Un’altra particella neutra di tipo ”V” fu scoperta dal gruppo di Anderson
al Cal Tech. La fotografia era simile a quella della scoperta del K + in
figura 9.6, ma questa volta i prodotti di decadimento furono riconosciuti
come un protone p+ e un pione negativo π − . Ciò significava che questa
particella era di massa maggiore rispetto al protone e venne chiamata Λ:
Λ → p+ + π − (9.21)
13
G.D. Rochester e C.C. Butler, ”Evidence for the existence of new unstable elementary
particles” Nature 160 (1947) 855.
14
Il kaone neutro fu dapprima chiamato V 0 , poi θ0 ; il kaone positivo K + fu invece
inizialmente chiamato τ + e soltanto nel 1956 ci si convinse definitivamente che K 0 e K +
erano due versioni della stessa particella base.
277
Figura 9.5: Fotografia stereoscopica della prima evidenza del decadimento
del K 0 in camera a nebbia.
È chiaramente per noi una fortuna che ciò non avvenga, anche se sembra
non violare alcuna legge fisica nota al 1938 (la conservazione del numero lep-
tonico avrebbe dovuto attendere il 1953), in quanto in caso contrario tutti
gli atomi si disintegrerebbero.
Per tener conto della stabilità del protone E. Stückelberg propose di in-
trodurre un’ulteriore legge di conservazione di quello che fu poi chiamato
278
Figura 9.6: Tracce in emulsione fotografica della prima evidenza del
decadimento in 3 pioni carichi del K + (Nature 163 (1949) 82).
279
per la quale si ha A = +2 prima e dopo. Il protone, essendo il barione di
massa inferiore, non ha quindi possibilità di decadere in alcunchè di più leg-
gero, se il numero barionico deve conservarsi, ed ecco in tal modo spiegata la
sua stabilità. Considerando la conservazione del numero barionico alla luce
del decadimento descritto dalla 9.21 si deduce che anche la Λ va considerata
un barione. Negli anni successivi furono scoperti molti altri barioni, Σ, Ξ,
∆, ... .
Contrariamente a quanto si trovava valere per barioni e leptoni, non c’e-
ra alcuna evidenza di leggi di conservazione per i mesoni: nei decadimenti
dei pioni scompare un mesone, nel decadimento della Λ è invece creato un
mesone. È in un certo qual modo per la sorpresa con cui le caratteristiche
peculiari di questi fenomeni furono accolte che i nuovi barioni e mesoni che le
mostravano furono globalmente detti particelle strane. Va inoltre ricordato
che le evidenze sperimentali che stavano dando tutte queste novità venivano
dall’interazione di raggi cosmici con bersagli quali gas o assorbitori pesanti
in camere a nebbia o emulsioni fotografiche. Soltanto nel 1952, con la rea-
lizzazione del primo moderno acceleratore di particelle, il proto-sincrotrone
Cosmotron di Brookhaven, fu possibile cominciare a disporre di fasci di par-
ticelle abbastanza energetici e intensi da produrre particelle strane, e non
solo, in laboratorio e in quantità crescente e adeguata ad affrontare gli studi
delle loro caratteristiche e proprietà. C’era però qualcosa in più, rispetto al
fatto che fossero giunte ”inaspettate”, che rendeva le nuove particelle sco-
perte strane, ed era legato al fatto che come osservato da A. Pais e altri, il
meccanismo coinvolto nella loro produzione sembrava essere estraneo al loro
decadimento. Detto con linguaggio moderno, le particelle strane sono pro-
dotte dalla forza forte, ovvero la stessa che tiene coesi i nuclei, ma decadono
per intervento della forza debole, quella che causa anche il decadimento β.
280
Nel dettaglio dello schema proposto da Pais ciò implicava che le particelle
srane fossero sempre prodotte a coppie, secondo il cosiddetto meccanismo di
produzione associata.
L’evidenza sperimentale di ciò era ancora lontana dal conseguimento di un
quadro chiaro e completo quando, nel 1953, M. Gell-Mann e K. Nishijima
trovarono un modo semplice, elegante e per come si è sviluppato di straordi-
naria efficacia, per implementare e sviluppare l’idea di Pais. Essi assegnaro-
no ad ogni particella una nuova proprietà, che Gell-Mann chiamò stranezza,
indicata con S, che cosı̀ come la carica elettrica, il numero leptonico e il
numero barionico, sia conservata in ogni interazione forte ma diversamente
dalle altre citate, non si conservi nelle interazioni deboli. Con un’interazione
pione-protone si possono ad esempio produrre due particelle strane
π − + p+ → K + + Σ −
→ K 0 + Σ0 (9.24)
→ K0 + Λ
π − + p+ Y→ π + + Σ−
Y→ π 0 + Λ (9.25)
Y→ K 0 + n
Λ → p+ + π −
Σ+ → p+ + π 0 (9.26)
→ n + π0
281
e fotoni non sentono infatti gli effetti dell’interazione forte e ad essi non si
applica il concetto di stranezza.
Il giardino che sembrava cosı̀ ordinato nel 1947 era dunque cresciuto svilup-
pandosi in una giungla tale che nel 1960 la fisica adronica appariva in una
condizione di ”caos”. La moltitudine di particelle fortemente interagenti era
divisa in due grandi famiglie, barioni e mesoni, e i membri di ogni famiglia si
distinguevano per carica elettrica, stranezza e massa, ma non si intravvede-
va un quadro organico che armonizzasse tutto ciò. La situazione ricordava
un pò quanto, quasi un secolo prima, aveva coinvolto la chimica negli anni
che avevano preceduto l’introduzione, da parte di Mendeleev, della tavola
periodica degli elementi. Nel 1960 le particelle elementari attendevano la
loro ”tavola periodica”, che mettesse ordine nell’apparente caos.
più leggeri trovano sistemazione in una struttura esagonale con due di essi
posti al centro. Il modo con cui sistemare i due barioni centrali è arbitrario
15
Murray Gell-Mann, ”The eightfold way: a theory of strong interaction symmetry”
Report CTLS-20 (1961), California Institute of Technology, Pasadena; M. Gell-Mann, Y.
Ne’eman, ”The eightfold way: a review with a collection of reprints” 1964, Benjamin
Pub.
282
e qui si sceglie di porre il membro neutro del tripletto, la Σ0 , al di sopra
del singoletto, la Λ. Questo gruppo è detto ottetto barionico. Particelle di
ugual carica elettrica sono con questo schema allineate secondo rette paralle,
una per ogni stato di carica Q, con valori di Q rispettivamente crescenti di
un’unità da sinistra a destra fra Q = −1 e Q = +1. Particelle di ugual
stranezza sono invece allineate secondo rette orizzontali, una per ogni valore
di stranezza S, con valori di S rispettivamente decrescenti di un’unità dal-
l’alto in basso fra S = 0 ed S = −2 .
Gli otto mesoni più leggeri riempiono uno schema esagonale simile che rap-
presenta il cosiddetto ottetto mesonico pseudo-scalare. Anche in questo caso
283
Figura 9.10: Decupletto barionico.
284
Figura 9.11: Fotografia e diagramma dell’evento che mostra il decadimento
della particella Ω− in una foto della camera a bolle BNL 80-in [Barnes et
al., ”Observation of a hyperon with strangeness minus three” Phys. Rev.
Lett. 12 (1964) 204].
285
Figura 9.12: Esempi di nonetti mesonici etichettati con notazione
spettroscopica.
Con ciò basta l’utilizzo della semplice aritmetica per costruire il decupletto
barionico e l’ottetto mesonico. Per il decupletto barionico si ha quanto ri-
portato in tabella 8.1. Si osservi che vi sono dieci combinazioni possibili di
tre quark. L’insieme di tre quark u produce una particella di carica Q = +2
286
Tabella 9.1: Il decupletto barionico
qqq Q S Barione
uuu 2 0 ∆++
uud 1 0 ∆+
udd 0 0 ∆0
ddd −1 0 ∆−
uus 1 −1 Σ∗+
uds 0 −1 Σ∗0
dds −1 −1 Σ∗−
uss 0 −2 Ξ∗0
dss −1 −2 Ξ∗−
sss −1 −3 Ω−
287
Tabella 9.2: L’ottetto mesonico
qq Q S Mesone
uu 0 0 π0
ud 1 0 π+
du −1 0 π−
dd 0 0 η
us 1 1 K+
ds 0 1 K0
su −1 −1 K−
0
sd 0 −1 K
ss 0 0 ? → η0
quark determina immediatamente che gli antimesoni siano parte dello stesso
supermultipletto dei mesoni: ad esempio la coppia ud è l’antiparticella della
du e viceversa.
Per ora non si è parlato dell’ottetto barionico e del come si possano mettere
assieme terne di quark per ottenere otto barioni in quanto, sebbene la proce-
dura sia abbastanza diretta, richiede comunque alcune precisazioni sul come
trattare gli spin. Ci si limiti ad osservare che se partendo dal decupletto si
eliminano i tre spigoli relativi ai casi dei tre quark identici, uuu, ddd ed sss,
e si raddoppia il centro, dove i tre quark sono tutti diversi, uds, si ottengono
esattamente gli otto stati dell’ottetto barionico, con la clausola che alcune
combinazioni non ci sono e una compare due volte.
Quindi tutti i supermultipletti della via dell’ottetto emergono naturalmen-
te dal modello a quark. Si ha che le stesse combinazioni di quark possono
costituire particelle diverse: la ∆∗ e il p sono entrambi costituite da due
quark u e un quark d; π + e ρ+ sono entrambi costituite dalla coppia ud, e
cosı̀ via. Si tratta in effetti di stati eccitati della stessa struttura, come ad
esempio nel caso di un atomo di idrogeno che può mostrare differenti livelli
energetici del sistema elettrone/protone. Il fatto che le differenze energeti-
che fra tali livelli siano molto piccole, dell’ordine degli eV, paragonate agli
equivalenti energetici della massa dell’atomo, dell’ordine del GeV, conduce
a individuare la struttura eccitata sempre come ”idrogeno”. Nel caso dei
sistemi di quark invece, le differenze in energia fra i successivi livelli di stato
legato sono cosı̀ ampie da spingere a considerare i diversi stati come effettive
diverse entità, ovvero particelle. Si potrebbe quindi pensare di riuscire, in
linea di principio, a costruire un numero infinito di adroni con soli tre quark.
Si osservi però che alcune strutture sono completamente escluse dal modello
a quark, ad esempio un barione con stranezza S = 1 o con carica Q = −2,
non vi sono infatti combinazioni di terne di quark che possano produrre que-
sti valori, che possono essere ottenuti con terne di anti-quark che in tal caso,
costituiscono però anti-barioni. Non si possono avere neppure mesoni con
288
carica Q = +2, mentre c’è il barione ∆++ , o mesoni con stranezza S = −3,
mentre c’è il barione Ω− . Questo tipo di particelle ”esotiche” metterebbe in
crisi profonda tutto il quadro che via via si è delineato, e per questo motivo
sono state e talvolta sono ancora, oggetto di indagine sperimentale. Finora
non se ne è avuta evidenza.
289
traversare quasi indenne o con trascurabili deviazioni il bersaglio, mentre
una piccola quantità di esse viene diffusa nettamente all’indietro. Questo
testimonia del fatto che la carica del protone risulta essere concentrata entro
il protone stesso in piccoli grumi particolarmente ”duri”, similmente a come
i risultati di Rutherford indicavano per la carica positiva di un atomo, con-
centrata nel suo nucleo, come si desume dai risultati riportati in figura 9.15,
dove la scala in ordinate è logaritmica e la linea tratteggiata mostra cosa
ci si attenderebbe da una distribuzione uniforme di carica nel nucleo (a)
o nel protone (b). Lo scostamento raggiunge i tre ordini di grandezza per
gli angoli maggiori. I dati nel caso del protone risultano compatibili con la
290
riore numero quantico detto colore, e con tre diverse possibilità dette rosso,
verde e blu. È quindi sufficiente che per costruire un barione si prendano tre
quark ognuno di un colore diverso. Ciò permise quindi di superare il pro-
blema posto dal principio d’esclusione. L’ipotesi dell’introduzione del colore
potrebbe sembrare un semplice trucco e molti inizialmente la considerarono
come l’ultima trovata del modello a quark, ma in seguito risultò che l’intro-
duzione del colore è stata straordinariamente fruttuosa.
Il termine colore non ha nulla a che vedere con la normale caratteristica
cromatica cui siamo abituati, rosso, verde o blu sono delle semplici etichette
utilizzate per indicare tre diversi valori di una nuova proprietà che i quark
possiedono assieme alla carica e al sapore. Un quark rosso trasporta un’u-
nità di carica rossa, zero unità di carica verde e zero unità di carica blu, e
cosı̀ via. La terminologia colore presenta inoltre una simpatica e particolare
caratteristica: nel senso che suggerisce una caratterizzazione straordinaria-
mente semplice delle combinazioni di quark che la natura effettivamente
propone
291
Ciò che diede una positiva scossa al modello a quark non fu però la confer-
ma sperimentale di alcuna di queste cose ma invece una scoperta del tutto
inattesa, ovvero la scoperta del mesone ψ. Esso fu osservato la prima volta
dal gruppo di C.C. Ting a Brookhaven nell’estate del 1974, ma Ting vol-
le essere sicuro dei risultati e ricontrollarli accuratamente prima di rendere
nota la scoperta, cosa che fece nel novembre dello stesso anno, contempora-
neamente al gruppo di Burton Richter che nel frattempo aveva individuato
lo stesso mesone a SLAC17 . I due gruppi pubblicarono contemporaneamente
chiamando però Ting con la lettera J e Burton Richter con la ψ il nuovo
mesone, che oggi è universalmente noto come J/ψ. La J/ψ è un mesone
elettricamente neutro, di massa pari circa al triplo di quella del protone (e
ciò toglie quindi valore all’originaria accezione del nome ”mesone”) e di vita
media straordinariamente lunga, ovvero circa 10−20 s18 , se confrontata con
quelle tipiche, dell’ordine di 10−23 s, degli adroni in questo stesso intervallo
di valori di massa. La J/ψ vive dunque circa 1000 volte più a lungo di
qualunque altra particella a lei confrontabile e questo era chiaramente un
segno di quella che viene tipicamente detta ”nuova fisica”, da cui l’accezione
di ”rivoluzione” per il fermento scientifico che ciò determinò nel novembre
del 1974.
Nel corso dei mesi che seguirono la reale natura della J/ψ fu oggetto di un
vivace dibattito e la spiegazione vincente venne dal modello a quark, secon-
do il quale la J/ψ è uno stato legato di una coppia quark e anti-quark di
nuovo sapore, il quarto, detto charm e indicato con c: J/ψ = (cc).
L’idea di un quarto sapore era già venuta alcuni anni prima a Bjiorken e
Glashow ma sulla base di un’osservazione estetico/simmetrica legata al fatto
che a quel tempo si conoscevano quattro leptoni (e, νe , µ, νµ ), e soltanto
tre quark (u, d, s), e quindi sembrava ”opportuno” che la natura mostras-
se un’equivalente simmetria fra i suoi componenti principali leptonici e i
quark. Alcuni anni più tardi Glashow, Iliopoulos e Maiani19 fornirono degli
argomenti tecnicamente inoppugnabili a supporto del fatto che ci si doveva
attendere l’esistenza di un quarto sapore, a complemento di quelli estetico
intuitivi originali dettati da un ”desiderio di simmetria”. Tutto ciò comun-
que sembra giocare sempre più a favore dell’opportunità derivante dal non
trascurare eventuali parallelismi o simmetrie fra ”mondo leptonico” e ”mon-
do dei quark”.
La cosa importante è comunque che nel momento in cui la J/ψ è stata
scoperta il modello a quark era pronto e in attesa di fornire una corretta
spiegazione della novità, e si trattava oltretutto di una spiegazione carica
di implicazioni. Un quarto quark significava infatti tutta una serie di nuovi
17
Citare Frascati ... e articolo Lederman-Zavattini.
18
La vita media della J/ψ oggi accettata è di 7.2 × 10−21 s e la sua massa di 3.096916
GeV/c2 .
19
S.L. Glashow, J. Iliopoulos, L. Maiani, ”Weak Interactions with Lepton-Hadron
Symmetry” Phys. Rev. D 2 (1970) 1285
292
barioni e mesoni portatori del nuovo sapore charm e alcuni fra questi sono
mostrati in figura 9.16. Si osservi poi che la stessa J/ψ non presenta una
già nel 1975, come mostrato in figura 9.17, seguite poi dalla Ξc = usc e dalla
Ωc = ssc. I primi mesoni charmati, D0 = cu e D+ = cd furono scoperti nel
1976, seguiti l’anno successivo dal mesone strano-charmato Ds+ = cs. Queste
scoperte stabilirono oltre ogni ragionevole dubbio l’identità della J/ψ come
coppia cc e cosa ancor più importante, il modello a quark era diventato un
paradigma imprescindibile e un prezioso strumento concettuale predittivo.
La storia comunque continua, in quanto nel 1975 è stato anche scoperto un
nuovo leptone, il τ , vanificando quella che era stata fino ad allora la simme-
293
Figura 9.17: Evidenza sperimentale dell’esistenza di un barione ”charmato”
Λ+ 0 +
c . Esso decade troppo rapidamente in Λ + π per lasciare una traccia
rilevabile, ma è evidente il successivo decadimento della Λ0 .
294
legati, per cui sembra che non possano esserci barioni o mesoni col sapore
top. Si tratta quindi apparentemente della sola possibilità di avere un quark
isolato e ”nudo”.
295
Z 0 . I valori da loro misurati per le masse erano
21
si veda il paragrafo ...
296
9.12 Urti e risonanze
Come si è visto, l’individuazione di picchi o di risonanze negli spettri o negli
andamenti di sezioni d’urto, e la loro opportuna descrizione e interpretazio-
ne, costituiscono uno dei punti cardine delle attività sperimentali in fisica
nucleare e delle particelle.
Si riprende ora il problema considerando come esempio quello dell’urto fra
pioni π e protoni p o deutoni d (bersagli di idrogeno o di deuterio) nel si-
stema del laboratorio (SL), e si suppone di misurare le sezioni d’urto di
produzione di nuove particelle in funzione dell’energia dei pioni del fascio
incidente, o dell’angolo polare ϑ di diffusione rispetto alla direzione z paral-
lela alla velocità di avvicinamento dei proiettili al bersaglio. I pioni che non
interagiscono proseguono lungo la traiettoria che hanno seguito per avvici-
narsi al bersaglio.
Misurando ad esempio la sezione d’urto di produzione di pioni a diversi an-
goli ϑ, è intuitivo capire che il numero di quelli semplicemente diffusi dalle
interazioni col bersaglio dovrebbe diminuire al crescere dell’angolo ϑ di dif-
fusione, se non altro per la conservazione della quantità di moto totale che
nel (SL) è sempre diretta in avanti lungo z.
In generale la sezione d’urto dipende sia da ϑ che dall’energia Eπ della
particella incidente nel sistema del laboratorio: σ = σ (ϑ, Eπ ). I risulta-
ti sperimentali per l’interazione fra pioni e protoni o deutoni mostrano, in
figura 9.20, un andamento delle sezioni d’urto lentamente variabile per ener-
gie Eπ superiori a pochi GeV, che presenta però dei picchi in corrispondenza
di valori caratteristici di Eπ , vi sono cioè valori dell’energia delle particelle
incidenti in corrispondenza dei quali la sezione d’urto aumenta anche signi-
ficativamente rispetto al suo andamento prima e dopo tali valori.
I picchi nella sezione d’urto di figura 9.20 e in altre simili, per la loro forma
caratteristica sono detti risonanze e sono interpretati come evidenza della
produzione di nuove particelle (di massa definita e con ben definiti numeri
quantici), non presenti prima dell’urto, che poi decadono. La prima osser-
vazione sperimentale fu di E. Fermi e collaboratori23 .
Per capire meglio quanto affermato si consideri l’urto elastico
π+ + p → π+ + p (9.31)
in cui le due particelle nello stato finale si trovano in uno stato cinematico
diverso da quello iniziale; come detto se il processo è puramente elastico ci
si aspetta che la maggior parte delle particelle diffuse vada ”in avanti” e con
un valore ”piccolo” di ϑ. Se però nell’urto parte dell’energia a disposizio-
ne dá luogo alla produzione di una nuova particella ”X” che poi decade in
π + + p (π + + p → X → π + + p), è ragionevole che i prodotti di questo
23
H. L. Anderson, E. Fermi, E. A. Long, and D. E. Nagle, ”Total Cross Sections of
Positive Pions in Hydrogen.” Phys. Rev. 85 (1952) 936.
301
Figura 9.20: Sezioni d’urto elastica e totale per le reazion π + p e π + d
in funzione della quantità di moto del pione. La scala centrale riporta la
√
corrispondente energia s disponibile nel sistema del (CM). Il primo picco
pronunciato per l’interazione π + p, centrato a 1.232 GeV/c2 , corrisponde
alle risonanze ∆.
302
decadimento, pur nel rispetto della conservazione della quantità di moto,
vengano emessi senza conservare un particolare ricordo della direzione ini-
ziale di provenienza del pione incidente. In conseguenza di ciò i prodotti di
decadimento avranno probabilità non trascurabili di essere emessi ad angoli
qualunque, in particolare anche grandi, e fissatone uno ci si aspetta quindi
di osservare un aumento del numero di particelle diffuse a quell’angolo, ri-
spetto al caso della diffusione senza formazione della particella X, e quindi
un aumento del valore della sezione d’urto corrispondente, man mano che
l’energia del pione incidente si avvicina a quella che consente la produzione
della particella X di massa pari a quella disponibile nel centro di massa della
reazione, divisa per il quadrato della velocità della luce.
Quello ora descritto è un modo diretto per la ricerca di stati adronici eccitati
che viene detto anche formazione.
Nel caso dell’interazione qui considerata la produzione delle particelle osser-
vate è mediata dalle interazioni forti. Tali particelle sono inoltre altamente
instabili e hanno quindi una vita media molto breve; dalle misure speri-
mentali si osserva che i prodotti del loro decadimento sembrano provenire
direttamente dal cosiddetto ”vertice d’interazione primario”, ovvero dal pic-
colissimo volume in cui ha effettivamente avuto luogo l’urto fra il pione e il
protone o il deutone bersaglio. Le vite medie stimate per tali risonanze sono
dell’ordine di 10−24 s, il che indica che anche il loro decadimento è mediato
dalle interazioni forti. Fra le risonanze in questione vi sono la ∆− , la ∆0 ,
la ∆+ e la ∆++ , che sono stati eccitati dei nucleoni. Di esse si riparlerà nel
paragrafo 12.1, trattando delle interazioni profondamente anelastiche.
Per quanto anche visto nel paragrafo 5.6 e in appendice D, l’energia E di
una particella di massa m e quantità di moto p~ è data da
E 2 = |~
p|2 c2 + m2 c4 (9.32)
Et2 = |~
pt |2 c2 + M 2 c4 (9.33)
303
fisiche che dipendono dal sistema di riferimento nel quale sono calcolate. La
massa di una particella non dipende invece dal sistema di riferimento, ma è
una caratteristica propria della particella e costituisce per essa un invariante
relativistico24 . Quindi la differenza
E 2 − |~
p|2 c2 = m2 c4 (9.35)
Et2 − |~
pt |2 c2 = M 2 c4 (9.36)
Questo permette dunque di risalire alla massa M di una particella che sia
decaduta in altre particelle di cui si conoscano energia e quantità di moto.
Tornando al caso studiato più sopra della produzione di una risonanaza ∆
nell’urto π + p, si ha che questa decade in una coppia (π, p). Misurando le
quantità di moto p~π e p~p delle due particelle
q figlie se ne possono ottenere le
p
energie: Eπ = pπ c + mπ c e Ep = pp c + m2p c4 . Si ha quindi
2 2 2 4 2 2
(Eπ + Ep )2 − (~
pπ + p~p )2 c2 = m2∆ c4 (9.37)
(Eπ + Ep )2 = M 2 c4 (9.38)
Eπ + Ep = m∆ c2 (9.39)
ne deriva immediatamente: M = m∆ .
Se quindi si conoscono i parametri cinematici del sistema di N particelle
prodotte ad esempio dal decadimento di un’altra particella, allora si può
sempre calcolare la massa invariante di quest’ultima.
Se N = 2 come per il caso della ∆ e si suppone di effettuare un esperi-
mento in cui si osservano molti eventi con due particelle nello stato finale,
esse potrebbero essere il risultato del decadimento di una particella di massa
M oppure no. Nel primo caso la loro ”massa invariante” dovrà essere pari
a M c2 , altrimenti dovrà coincidere con un valore qualsiasi compreso fra 0
e l’energia complessiva Et disponibile nello stato iniziale (canale d’ingresso
24
Il concetto di massa si applica effettivamente soltanto agli stati stazionari, ovvero agli
autostati dell’Hamiltoniana, in quanto soltanto onde monocromatiche posseggono una ben
determinata frequenza.
304
della reazione o del decadimento).
Se si dispone quindi di numerosi eventi misurati di questo tipo si può calco-
lare la massa invariante per ogni coppia di particelle.
La massa invariante si può naturalmente calcolare anche per più di due par-
ticelle nello stato finale e costruire quindi un ”istogramma” delle frequenze
con cui si presentano certi valori di massa invariante. Si ottiene in tal modo
un grafico nel quale sono riportati in ascisse i possibili valori di massa inva-
riante e in ordinate il numero di volte in cui si sono trovati questi valori.
Può naturalmente succedere che molti eventi siano casuali in quanto le par-
ticelle rivelate e considerate potenziali figlie di una particella più pesante,
non avendo in realtà alcuna relazione l’una con l’altra, danno origine a masse
invarianti di valore casualmente compreso tra 0 e la massima energia disponi-
bile, quindi vi saranno anche casi di ottenimento casuale del valore di massa
invariante corrispondente a quello della particella decaduta. Vi saranno però
anche i casi in cui la massa invariante assumerà il valore corrispondente a
quello della particella che decadendo ha dato origine a quello specifico stato
finale, proprio perchè dovuti al corretto e coerente abbinamento delle parti-
celle rivelate. Il grafico che si ottiene ha quindi generalmente l’aspetto di un
fondo continuo, dovuto agli eventi casuali, sul quale si elevano alcuni picchi
in corrispondenza delle ascisse associate alle masse invarianti delle particelle
madri; esso viene detto distribuzione o anche spettro in massa invariante e
in figura 9.21 ne è riportato un esempio tratto dalle misure effettuate con
√
l’esperimento CMS ad LHC, per urti fra protoni con un’energia s = 7
TeV nel centro di massa, rivelando coppie µ+ µ− nel canale d’uscita, e per
una luninosità integrata di 40 pb−1 ; sono evidenti i picchi relativi a svariate
particelle/risonanze quali ad esempio la η, la ρ, la Φ, la J/ψ, la Z.
I picchi nella distribuzione di massa invariante sono detti risonanze e ricor-
dando quanto detto nel paragrafo 5.3, si possono descrivere gli andamenti
delle sezioni d’urto in prossimità di tali picchi, e quindi dei corrispondenti
valori di massa invariante, come la sovrapposizione fra un andamento conti-
nuo che tenga conto del fondo casuale, con un andamento risonante descritto
dalla cosiddetta formula di Breit-Wigner 25
4πλ2 (2J + 1) Γ2 /4
σ (E) = h i (9.40)
(2sa + 1) (2sb + 1) (E − ER )2 + (Γ2 /4)
305
Figura 9.21: Sul fondo continuo si osservano numerosi picchi corrispondenti
alle masse di altrettante particelle che decadono in coppie µ+ µ− . L’entità del
fondo generalmente decresce al crescere dell’energia, in quanto la probabilità
di osservare coppie casuali di alta massa invariante è minore rispetto a quella
di osservarne di bassa massa invariante.
Tornando ora all’esempio scelto, si osservi che non tutti gli stati eccita-
ti adronici sono ottenibili con esperimenti di formazione, e ciò in quanto
potrebbero essere necessari flussi incidenti di intensità praticamente non
raggiungibili per poter osservare le strutture cercate. Questo è ad esempio
il caso di risonanze prodotte in interazioni (π + π), come il mesone ρ0 che
306
ha una massa di 776 MeV/c2 . Particelle come la ρ0 vengono prodotte effi-
cientemente in reazioni che coinvolgono la produzione di molti pioni nei loro
stati finali. Si consideri ad esempio la reazione
π− + p → π+ + π− + n (9.41)
π − + p → ρ0 + n (9.42)
seguito da
ρ0 → π + + π − (9.43)
Chiaramente in tal caso i due pioni risultanti del decadimento della ρ0 re-
stano fra loro correlati e di conseguenza, sperimentalmente, la ρ0 può essere
individuata nello stato finale graficando lo spettro di massa invariante del
sistema π + π − .
307
308
Capitolo 10
Caratteristiche e numeri
quantici delle particelle
E 2 − p2 c2
m2 = (10.1)
c4
In figura 10.1 è riportato lo schema dell’apparato che Burfening, Gardner
e Lattes utilizzarono nel 1949 per misurare le masse di pioni prodotti dal
ciclotrone di Berkeley1 . Nella camera a vuoto del ciclotrone erano opportu-
1
Burfening et al, Physical Revue 75 (1949) 382-387.
309
Figura 10.1: Apparato per la misura della massa dei pioni prodotti dal
ciclotrone di Berkeley.
310
molto veloce. Le prime misure effettuate con tali caratteristiche furono quel-
le di O. Chamberlain e collaboratori nel 19502
Essi utilizzarono il fascio di fotoni γ da 340 MeV prodotti dall’elettro-
sincrotrone di Berkeley mandandoli a incidere su un bersaglio di paraffina,
quindi ricco di protoni, producendo pioni tramite la reazione
γ + p → π+ + n (10.4)
Erano stati quindi posti due rivelatori a scintillatore plastico paralleli, uno di
fronte all’altro, costituendo quello che viene detto un telescopio di rivelatori
a fianco del bersaglio in paraffina e si cercavano i pioni che attraversavano
lo scintillatore più prossimo al bersaglio per poi fermarsi nel secondo e suc-
cessivo scintillatore. I pioni positivi cosı̀ fermati nel secondo rivelatore non
venivano assorbiti dai nuclei del materiale dello stesso e decadevano quindi
praticamente a riposo secondo il canale dominante
π + → µ+ + νµ (10.5)
µ+ → e+ + νe + ν µ (10.6)
311
agli scintillatori plastici, allo scopo di selezionare particelle che avessero at-
traversato lo scintillatore più vicino al bersaglio di paraffina prima di rag-
giungere il secondo scintillatore. Un circuito di ”gate” permise quindi di
stabilire l’eventuale presenza di un secondo e successivo segnale, provenien-
te dal secondo scintillatore con un ritardo compreso tra 0.5 µs e 2.5 µs, che
indicasse l’avvenuto decadimento del muone µ. Il soddisfacimento di tutte
queste condizioni confermò l’identità della particella proveniente dal bersa-
glio di paraffina e incidente sul telescopio di scintillatori, come quella di un
pione positivo π + .
I segnali prodotti dal secondo scintillatore, dopo essere stati ritardati di
0.5 µs, erano inviati ad un oscilloscopio il cui ”trigger” era dato dal segnale
fornito dal circuito di coincidenza veloce.
Il segnale fornito dal circuito di ”gate”, se presente, determinava l’accensione
di una lampadina situata presso lo schermo dell’oscilloscopio che in tal caso
veniva prontamente fotografato. Le immagini dello schermo mostravano in
questo caso due impulsi consecutivi, il primo dovuto all’arrivo del pione π e
il secondo al suo decadimento. Tali segnali risultavano ben separati con una
risoluzione temporale inferiore a 22 ns.
Furono raccolti in totale 554 eventi con una distribuzione che come ci si
attendeva, aveva forma esponenziale decrescente e che permise di stimare
per la vita media un valore pari a τ = 26.5 ± 1.2 ns.
Il valore attualmente accettato per la vita media dei pioni carichi è
π+ + d → p + p
(10.8)
p + p → π+ + d
312
stessa energia, si possono trascurare i fattori comuni, inclusa l’energia. Si
ha quindi
dσ pf 1
|Mf,i |2
X
(a + b → c + d) ∝ (10.9)
dΩ pi (2sa + 1) (2sb + 1) f,i
in cui la somma è estesa a tutti gli stati di spin, iniziali e finali. Gli impulsi
iniziale e finale sono diversi nei due processi, ma poichè l’energia è la stessa
l’impulso iniziale in un caso coincide con l’impulso finale nell’altro caso. Nel
caso di assorbimento si può dunque porre pi = pπ e pf = pp , mentre nel caso
di produzione sarà pf = pπ e pi = pp . Si ottiene dunque, per il processo di
assorbimento
dσ + pp 1 1X
π +d→p+p ∝ |Mf,i |2 (10.10)
dΩ pπ (2sπ + 1) (2sd + 1) 2 f,i
dσ pπ 1
|Mf,i |2
X
p + p → π+ + d ∝ 2 (10.11)
dΩ pp (2sp + 1) f,i
|Mf,i |2 = |Mi,f |2
X X
(10.12)
f,i f,i
Con questo risultato e ricordando che gli spin di protone e deutone sono
rispettivamente sp = 1/2 e sd = 1, si ha infine
313
10.4 La parità dei pioni
Per determinare la parità del π − si procede osservando la sua cattura a
riposo su nuclei di deuterio.
π− + d → n + n (10.14)
314
mesico è quindi sostanzialmente quella del pione. Lo stato finale consiste in
due fermioni identici che devono essere antisimmetrici rispetto allo scambio
dell’uno con l’altro. Se i due neutroni sono in uno stato di singoletto di spin,
che è antisimmetrico per lo scambio degli spin, allora il momento angolare
orbitale deve essere pari e viceversa se i due neutroni sono in uno stato di
tripletto. Quindi esplicitando sono possibili gli stati 1 S0 , 3 P0,1,2 , 1 D2 , ...
Il momento angolare totale finale deve però coincidere con quello iniziale,
ovvero con J = 1 e questo lascia una sola scelta possibile per lo stato in cui
si possono trovare i due neutroni, ovvero 3 P1 , la cui parità è negativa. Se
quindi la reazione 10.14 ha luogo, allora la parità del π − è negativa.
Panofsky e collaboratori verificarono, nel 1951, che la reazione 10.14 ha ef-
fettivamente luogo, e che la sua sezione d’urto non è soppressa, per cui si
deduce che la parità intrinseca del π − è negativa.
Per essere sicuri che si tratti di un pione neutro bisogna però poter stabi-
lire che è una particella pseudo-scalare, cosı̀ come i due pioni carichi. In
proposito si sfruttano le condizioni di simmetria imposte dalle conservazioni
del momento angolare, della parità e dalla statistica di Bose-Einstein cui un
bosone, quale effettivamente è un mesone, deve ubbidire.
Il procedimento seguito non è importante solo per il π 0 ma anche in quanto
delinea come si operi in altri casi simili, come ad esempio per il bosone di
Higgs.
Si comincia col mostrare che lo spin di una particella che decade in due
fotoni non può essere pari ad 1, essendo proibiti sia il caso J P = 1+ che il
caso J P = 1− .
Il tutto risulta più semplice lavorando nel sistema CM del centro di massa.
L’elemento di matrice M va scritto utilizzando le tre quantità vettoriali di-
sponibili: l’impulso ~q nel CM e le polarizzazioni trasverse dei fotoni ~e1
ed ~e2 . Con esse bisogna costruire una quantità che combinata con la po-
larizzazione S~ del π 0 , formi uno scalare: si tratta quindi di un vettore V
~,
P
se J = 1 − ~ P
o di un vettore assiale (pseudo-vettore) A, se J = 1 . +
315
scambio dei fotoni, essendo questi due particelle identiche di Bose, ovvero
devono essere simmetrici rispetto allo scambio
Non c’è però modo di costruire uno pseudo-vettore che soddisfi a queste
condizioni, per cui lo spin del π 0 non può essere pari a 1.
Nel seguito si limiterà l’analisi alle possibilità più semplici, ovvero J P = 0−
e J P = 0+ , trascurando possibili maggiori valori dello spin. Si possono
quindi individuare una combinazione scalare e una pseudo-scalare possibili,
per i vettori e per gli pseudo-vettori
Si può provare che la direzione normale al piano definito dagli impulsi di una
coppia tende ad avere la stessa direzione della polarizzazione del fotone che
ha originato quella coppia. Di conseguenza l’angolo ϕ fra le due direzioni
normali ai due piani associati alle due coppie tende ad essere 0 per uno
scalare e π/2 per uno pseudo-scalare.
I fattori di forma sono funzioni delle masse invarianti m1 e m2 delle due
coppie. Nel 1955 si provò che aS e aP differiscono solo per il segno, essendo
4
Si veda ...
316
positivi nel caso scalare, con la funzione di distribuzione dei valori di ϕ data
da
dN
∝ 1 ± ai (m1 , m2 ) cos2ϕ (10.20)
dϕdm1 dm2
con i = S o P .
Un esperimento condotto nel 1962 in camera a bolle raccolse 112 eviden-
ze della reazione 10.19, da cui si ottennero i valori dei fattori di forma sia
nell’ipotesi scalare che in quella pseudo-scalare. L’analisi statistica dei dati
favorı̀ l’ipotesi pseudo-scalare con una significatività di 3.3 deviazioni stan-
dard, quindi l’dentificazione della particella denominata π 0 quale un pione,
come i due partner carichi π + e π − .
317
Capitolo 11
Diffusione elastica su
nucleoni
` + N → `0 + X (11.1)
319
Figura 11.1: Urto anelastico leptone-nucleone: (a) considerando le particelle
coinvolte; (b) secondo il più semplice modello a quark componenti. Qui il
tempo scorre da sinistra verso destra.
320
il fenomeno considerando soltanto il tri-impulso trasferito, ma bisogna
utilizzare il quadrato del quadri-impulso Lorentz-invariante trasferito
EE 0
2
q2 = p − p0 = 2m2e c2 − 2 p| p~ 0 cosϑ
2
− |~ ≈
c
(11.3)
−4EE 0 ϑ
≈ 2
sen2
c 2
Per evitare di lavorare con quantità negative si introduce
Q2 = −q 2 (11.4)
2ϑ
σ punt. = σM ott 1 + 2τ tg (11.6)
spin 1/2 2
con
Q2
τ = (11.7)
4M 2 c2
La presenza del fattore 2τ può essere abbastanza ben capita conside-
rando che l’elemento della matrice d’interazione deve essere proporzio-
nale al momento magnetico del nucleone bersaglio, e quindi ad 1/M ,
e al campo magnetico prodotto in prossimità del nucleone stesso du-
rante la fase dell’urto che integrato sul tempo, risulta proporzionale
1
Si veda ad esempio l’Appendice B di: ”The structure of the nucleon”, A.W. Thomas
W.Weise, Wiley-VCH, 2001.
321
alla deflessione subita dall’elettrone, dunque all’impulso trasferito Q.
Queste quantità compaiono dunque elevate al quadrato nell’espressio-
ne della sezione d’urto.
Il termine magnetico nella 11.6 risulta quindi grande per grandi va-
lori del quadri-impulso trasferito Q e per grandi angoli ϑ di diffusio-
ne. Questo contributo determina dunque una minor rapidità nella
riduzione del valore della sezione d’urto al crescere degli angoli ϑ ri-
spetto a quanto prevede la sola interazione elettrica e ne risulta una
distribuzione più isotropa dei prodotti diffusi.
322
importanza. In tal caso GE coincide con la carica elettrica del nu-
cleone bersaglio, normalizzata alla carica elementare e, e GM coincide
con il momento magnetico µ del nucleone bersaglio, normalizzato al
magnetone nucleare. I valori limite sono
GpE Q2 = 0 = 1 GnE Q2 = 0 = 0
(11.11)
GpM Q2 = 0 = 2.793 GnM Q2 = 0 = −1.913
Figura 11.2: Rapporto fra la sezione d’urto misurata e quella di Mott cal-
colata, in funzione di tg2 ϑ/2 per un valore del quadrato del quadri-impulso
trasferito pari a Q2 = 2.5 GeV2 /c2 .
323
modo simile da Q2 , calando, al suo crescere, in modo ben descritto
da un’approssimazione con fattore di forma dipolare, come si vede in
figura 11.3, ricordando anche quanto riportato in figura 7.21.
µN GpM Q2 µN GnM Q2
GpE 2
Q ≈ ≈ ≈ Gdip Q2
µp µn
!−2 (11.12)
dip
2
Q2
con, G Q = 1+
0.71 (GeV /c2 )
324
carica che decresce esponenzialmente
ottiene
dip Q2
2 2 dG 12 2
hr idip = −6~ Q2 =0 = a2 ' 0.66 fm
dQ2 (11.14)
q
da cui, hr2 idip ' 0.81 fm
Misure precise dei fattori di forma che tengono conto di piccole devia-
zioni dalla parametrizzazione dipolare per piccoli valori di Q2 danno,
per il raggio di carica del protone
q
hr2 ip ' 0.879 fm (11.15)
325
Figura 11.4: Rapporto tra il fattore di forma magnetico normalizzato e il
fattore di forma dipolare per il protone in funzione di Q2 .
326
Figura 11.5: Spettro energetico di elettroni con energia iniziale E = 246
MeV, diffusi a 148.5o da un sottile bersaglio di H2 O.
327
nergia necessaria a strappare il nucleone dal nucleo.
Dall’allargamento della distribuzione, rispetto al picco elastico dovuto ai
protoni quasi liberi dell’idrogeno, si deduce che il nucleo non è un ogget-
to ”statico” costituito da nucleoni in ben definite posizioni. I nucleoni si
comportano piuttosto come particelle ”quasi libere” che si muovono un po’
in tutte le direzioni, restando nel contempo confinati entro il volume che
caratterizza il nucleo stesso, ed è questo loro movimento entro il nucleo che
determina le differenze cinematiche rispetto a quanto sarebbe invece pre-
vedibile immaginando ogni nucleone in una posizione stabile e ben definita
entro il volume del nucleo5 .
Per capire meglio il fenomeno si immagini un nucleone di massa M , lega-
to in un nucleo da un’energia potenziale nucleare efficace di intensità S e
in moto entro il nucleo con un impulso P~ tale da non doverlo considerare
relativistico. L’energia di legame di tale nucleone nel nucleo è quindi pari
ad S − P~ 2 /2M . Trascurando le interazioni residue con gli altri nucleoni
e l’energia cinetica del resto del nucleo si consideri l’urto di un elettrone su
questo nucleone.
5
Quest’osservazione è alla base delle ipotesi che portano al modello a gas di Fermi per
un nucleo. Si veda in proposito anche il paragrafo 23.
328
dato da
P~ 02 P~ 2
! !
0
ν = E−E = Ep0 − Ep = Mc + 2
− Mc + 2
−S
2M 2M
2 (11.17)
P~ + ~q P~ 2 ~q 2 2 |~q| P~ cosα
= − +S = +S+
2M 2M 2M 2M
~q 2
ν0 = +S (11.18)
2M
329
Impulsi di Fermi PF e valori del potenziale medio efficace S per alcu-
ni nuclei. Le incertezze sono dell’ordine di 5 MeV/c per PF e di 3 MeV per S.
PF (MeV/c) 169 221 235 249 260 254 260 265 265
S (MeV) 17 25 32 33 36 39 42 42 44
330
Figura 11.7: Fattori di forma elettrici per π e K in funzione di Q2 .
331
332
Capitolo 12
Diffusione profondamente
anelastica
333
Figura 12.1: Bersaglio fisso e gli spettrometri magnetici da 8 GeV e da 20
GeV che gli potevano ruotare attorno, utilizzati negli anni ”60 a SLAC dagli
esperimenti di diffusione profondamente anelastica che fornirono la prima
evidenza diretta dei quark.
alcune centinaia di (GeV/c)2 . Tra la fine degli anni ”90 e i primi anni del
21o secolo si è sperimentato presso il collider HERA a DESY dove fasci di
elettroni o positroni venivano fatti circolare e incrociare fasci di protoni da
920 GeV circolanti in senso opposto. L’estensione cosı̀ ottenuta della regione
cinematica di interazione arrivava fino a valori di Q2 di alcune unità × 104
(GeV/c)2 .
Le proprietà fondamentali della struttura a quark e gluoni sono state comun-
que stabilite in base agli esperimenti effettuati a SLAC e verranno discusse
nel presente capitolo. Gli esperimenti successivi hanno permesso un’analisi
più dettagliata e un’ampia verifica della QCD (Quantum Cromo-Dynamics),
la teoria delle interazioni forti.
334
per elettroni incidenti su protoni (idrogeno ...), esplorando successivi inter-
valli di energia di diffusione tramite uno spettrometro magnetico 1 . Oltre
allo stretto picco dovuto alla diffusione elastica, scalato di un fattore 15, si
osservano altri picchi a energie inferiori e associati ad eccitazioni anelasti-
che del protone. Questi picchi corrispondono a stati eccitati nel nucleone
detti risonanze nucleoniche. L’esistenza di questi stati eccitati è già di per
sè un’indicazione del fatto che il nucleone è un sistema fisico composto da
sottostrutture.
Indicando con W la massa invariante di questi stati, la si può calcolare dal-
la conoscenza dei quadri-impulsi q del fotone virtuale scambiato e P del
protone incidente in base alla
tenendo conto di quanto riportato nel paragrafo 7.2 sugli invarianti cinema-
tici. La quantità ν, definita come
Pq
ν = (12.2)
M
1
W. Bartel et al., Phys. Lett B28 (1968) 148
335
è un invariante di Lorentz.
Il protone bersaglio
è a riposo nel sistema di riferimento del laboratorio (SL)
per cui: P = M c, 0 e q = ((E − E 0 ) /c, ~q). Calcolando nel sistema del
~
laboratorio l’energia trasferita dal fotone virtuale fra l’elettrone e il protone
si ha dunque
ν = E − E0 (12.3)
336
La risonanza ∆+ decade in uno dei due modi
∆+ → p + π 0
(12.5)
∆+ → n + π +
fusione
p di elettroni in condizioni cinematiche caratterizzate dall’essere W ,
Q /c e ν/c2 molto superiori alla massa M di un nucleone, si parla di dif-
2
337
l’energia E 0 dell’elettrone diffuso, ecc., siano anche univocamente fissate.
Essendo W = M , dalla 12.1 si ha
2M ν − Q2 = 0 (12.6)
si ha
2M ν − Q2 > 0 (12.7)
In questo caso la formula di Rosenbluth 11.10 è sostituita dalla sezione d’urto
∗
d2 σ dσ ϑ
= W2 Q2 , ν + 2W1 Q2 , ν tg2 (12.8)
dΩdE 0 dΩ M ott 2
Anche per questa espressione il secondo termine contiene il contributo del-
l’interazione magnetica.
I primi esperimenti di diffusione profondamente anelastica condotti presso
l’acceleratore di SLAC, utilizzarono come si è detto, elettroni con un’energia
massima di 25 GeV.
Le sezioni d’urto doppiamente differenziali per l’interazione fra elettroni e
protoni (idrogeno) d2 σ/dΩdE 0 , misurate all’angolo azimutale ϑ = 4o in fun-
zione di W e per diversi valori dell’energia E del fascio incidente, compresi
tra 4.5 GeV e 20 GeV, sono mostrate in figura 12.5.
Ogni sezione d’urto copre diversi intervalli di valori di Q2 , crescenti al cre-
scere dell’energia E degli elettroni del fascio, da 0.06 < Q2 < 0.09 (GeV/c2 )
fino a 1.45 < Q2 < 1.84 (GeV/c2 ).
Si noti che la sezione d’urto, nella zona caratterizzata dalle risonanze, cala
rapidamente al crescere di E e Q2 , mentre invece la diminuzione è meno pro-
nunciata per i valori di W che caratterizzano la zona continua dello spettro,
oltre la regione delle risonanze.
Il comportamento per energie superiori a quelle della regione delle risonanze
destò una certa sorpresa: il rateo di conteggi era significativamente superiore
rispetto a quanto ci si poteva attendere, confrontandolo sia con quello della
diffusione elastica che con quello associato alla formazione delle risonanze
∆. In figura 12.6 è mostrato l’andamento del rapporto
, ∗
d2 σ dσ
(12.9)
dΩdE 0 dΩ M ott
338
Figura 12.5: Sezioni d’urto per la reazione di diffusione anelastica e − p con
produzione di più adroni nello stato finale, per diversi valori di E e Q2 in
funzione di W .
elastica.
Si ha dunque che nel caso di diffusione profondamente anelastica le funzioni
di struttura W1 e W2 sono pressochè indipendenti dal quadrato dell’impulso
trasferito Q2 , fissato che sia il valore della massa invariante W .
Per meglio discutere e analizzare questi risultati è ora utile introdurre due
ulteriori quantità Lorentz invarianti e adimensionali:
Pq Lab. E0 Q2 Q2
y ≡ = 1− ed x ≡ = (12.10)
Pp E 2P q 2M ν
339
Figura 12.6: Sezione d’urto misurata, normalizzata a quella di Mott, per la
diffusione e − p in funzione di Q2 per diversi valori di massa invariante W .
2M ν − Q2 = 0 =⇒ x = 1 (12.11)
La notazione utilizzata nella 12.8 per la sezione d’urto differenziale ha più che
altro valore storico e didattico e usualmente, al posto delle due funzioni di
struttura W1 Q2 , ν e W2 Q2 , ν , si utilizzano le due corrispondenti funzioni
di struttura adimensionali
F1 x, Q2 = M c2 W1 Q2 , ν
(12.13)
F2 x, Q2 = νW2 Q2 , ν
340
Riesprimendo la sezione d’urto 12.8 in termini di x, y, Q2 , F1 ed F2 si ha
d2 σ 4πα2 ~2 1 − y My
= − F2 x, Q2 + y 2 F1 x, Q2 (12.14)
dQ2 dx Q4 x 2E
Figura
R1
12.7: Funzione di struttura F2 del protone in funzione di x. Si ha
0 F2 (x) dx ' 0.14 .
341
detta relazione di Callan-Gross2 , e in figura 12.8 è mostrato il rapporto
2xF1 /F2 in funzione di x. Entro le incertezze sperimentali il rapporto è pra-
342
sono appunto detti partoni. Oggi i partoni carichi sono identificati con i
quark e quelli elettricamente neutri con i gluoni, ovvero i quanti di campo
dell’interazione forte.
Immaginare il protone come un insieme, ovvero un fiotto, di ”partoni” in-
dipendenti, ognuno in movimento grosso modo nella stessa direzione del
protone nella sua interezza, equivale a considerare il tri-impulso dell’adrone
ripartito fra i partoni che lo compongono, e permette di descrivere l’inte-
razione fra elettrone e protone ad alta energia come la somma incoerente
delle interazioni fra l’elettrone e i singoli partoni del protone, intesi come
liberi; queste interazioni possono oltretutto essere considerate alla stregua di
diffusioni elastiche. Queste approssimazioni sono ragionevoli se la durata di
ogni interazione fotone-partone3 è sufficientemente breve da poter trascurare
le mutue interazioni fra i partoni stessi. Quella ora descritta è sostanzial-
343
Con quest’approssimazione e assumendo sia di poter trascurare la massa
del partone sia che valga Q2 M 2 c2 , si ha un’interpretazione diretta del
significato della variabile di scala di Bjorken prima definita, x = Q2 /2M ν.
Essa corrisponde alla frazione di quadri-impulso del protone trasportata dal
partone colpito. Il processo di diffusione profondamente anelastica e− − p
può quindi essere visto come l’interazione tra un fotone virtuale che nel ”SL”
ha quadri-impulso q = (ν/c, ~q) e un partone di quadri-impulso xP .
Si ribadisce che questa interpretazione del significato di x vale soltanto nel-
l’ambito dell’approssimazione impulsiva e quindi esclusivamente se si tra-
scurano l’impulso trasverso e le masse dei partoni, dunque in un sistema di
riferimento ”molto veloce” rispetto all’osservatore.
Spesso, come sistema di riferimento che soddisfi queste condizioni, si sceglie
il cosiddetto riferimento di Breit 4 (figura 12.9 b), nel quale il fotone non
trasferisce alcuna energia (q0 = 0) e rispetto al quale x costituisce la frazio-
ne di tri-impulso del partone.
La risoluzione spaziale associata a una diffusione profondamente anelastica è
quella associata alla lunghezza d’onda ridotta λ del fotone virtuale scambia-
to. Si tratta di una quantità non Lorentz-invariante e che dipende quindi dal
sistema di riferimento. Nel sistema del laboratorio, per il quale è q0 = ν/c,
si ha
~ ~c ~c 2M x~c
λ = = p 2 ≈ = (12.16)
|~q| ν +Q c 2 2 ν Q2
Nel caso in cui ad esempio si abbia x = 0.1 e Q2 = 4 GeV/c2 , si ottiene nel
SL: λ ' 10−17 m.
Nel riferimento di Breit la relazione si semplifica in
~ ~
λ = = p 2 (12.17)
|~q| Q
344
momento magnetico, isospin, ecc.) a partire dai numeri quantici di tali co-
stituenti. A questo proposito servono per cominciare almeno due tipi di
quark che sono stati chiamati ”u” (up) e ”d” (down). I quark sono fermioni
di spin 1/2 e in un modello a quark ingenuo si può immaginare che i loro
spin si combinino per fornire lo spin 1/2 del nucleone. In base a questo
modello un nucleone è composto da almeno 3 quark. Un protone contiene
due quark ”up” e un quark ”down”, un neutrone due quark ”down” e un
quark ”up”, secondo lo schema indicato in tabella.
u d p n
(uud) (udd)
345
Il processo descritto è analogo a quello di produzione di coppie virtuali
elettrone-positrone nel campo coulombiano e le coppie di quark e antiquark
coinvolte sono dette quark del mare. I loro numeri quantici si bilanciano
con valore medio nullo per ogni coppia e non alterano pertanto quelli del
nucleone derivanti dai quark di valenza. Data la loro carica elettrica essi
risultano però in qualche modo visibili nel corso dei processi di diffusione
profondamente anelastica. Le frazioni x di impulso di ogni nucleone da essi
trasportate sono comunque molto piccole.
Oltre ai quark u e d, nelle coppie che costituiscono il ”mare” si trovano anche
altri tipi di quark, e corrispondenti anti-quark, e se ne tratterà con maggior
dettaglio in seguito. Qui li si indica soltanto, ricordando che i diversi tipi di
quark sono individuati da quelli che vengono chiamati sapori; i sapori indi-
viduati comprendono, oltre ai citati u (up) e d (down), anche s (strange), c
(charm), b (bottom) e t (top). Questi quark possono essere raggruppati in
doppietti, detti famiglie o generazioni, secondo i valori crescenti delle loro
rispettive masse 5
! ! !
u c t
.
d s b
I quark della riga superiore hanno numero di carica zq = +2/3, quelli della
riga inferiore hanno numero di carica zq = −1/3. Le masse dei quark c, b
e t hanno valori cosı̀ grandi che essi giocano un ruolo minore o trascurabile
negli esperimenti a bersaglio fisso, dati i relativamente bassi valori di Q2 in
tali casi ottenibili.
346
di valenza ”d”, quindi
Z 1 Z 1
uv (x)dx = 2 , dv (x)dx = 1 (12.19)
0 0
con q (x) = qv (x) + qs (x) per i quark ”u” e ”d”, e q (x) = qs (x), per i quark
”s” (strani) del mare. In un nucleone gli anti-quark sono invece presenti solo
fra i quark del mare.
347
mediamente ”zero” e quindi si ha qs (x) = qs (x). Si supponga che le distri-
buzioni dei quark ”s” nel protone e nel neutrone siano identiche, e quindi
sps (x) = sns (x), e anche che siano uguali i contributi al ”mare” dei due quark
leggeri ”u” e ”d”, per cui us (x) = ds (x) (ma ciò vale solo approsimati-
vamente). Dato il relativamente grande valore della massa del quark ”s”,
fluttuazioni in coppie quark/anti-quark per questo sapore hanno una minor
probabilità di presentarsi e si ha quindi us (x) > ss (x).
Sommando i contributi pesati su zq2 di tutti i quark del mare si può definire
la quantità
S (z) = 10 us (x) + 2 ss (x) (12.25)
Figura 12.10: Rapporto tra F2n ed F2p in funzione di x per misure con fasci
di muoni da 90 e da 280 GeV.
6
P.Amaudruz et al., Nucl. Phys. B371 (1992) 3, M. Arneodo et al., Phys. Rev. D50
(1994) 1
348
il protone composto da due quark di valenza ”u” e un quark di valenza
”d”, si può assumere che le loro distribuzioni siano legate dalla relazione
uv (x) = 2 dv (x).
Se il contributo dei quark del mare diviene trascurabile, ovvero S (x) =
0, allora il rapporto F2n /F2p dovrebbe valere 2/3, indipendentemente da x.
Si vede però che in relatà il rapporto tende ad 1 per x → 0 e decresce
con x fino a valori prossimi a 1/4 per x → 1. L’interpretazione di questo
comportamento è che per piccoli valori di x la distribuzione S (x) dei quark
del mare ha valori maggiori di quelle dei due quark di valenza e quindi
il valore del rapporto è prevalentemente dovuto all’ultimo termine, sia del
numeratore che del denominatore della 12.26.
Al tendere di x ad 1 la situazione si rovescia, in quanto i quark del mare
non giocano più un ruolo rilevante e trascurando nella 12.26 sia S (x) che
dv (x), rispetto a uv (x), si ottiene il valore 1/4. La distribuzione dei quark
”d” diminuisce il proprio valore con x più rapidamente di quanto non faccia
quella dei quark ”u”, e questo implica che rilevanti contributi dell’impulso
totale di un protone siano trasportati dai quark ”u”, e viceversa lo siano dai
quark ”d” in un neutrone.
Si consideri ora invece la differenza tra le funzioni di struttura del protone
e del neutrone
1 2
F2p (x) − F2n (x) = x· (uv (x) − dv (x)) + us (x) − ds (x) (12.27)
3 3
Tale differenza è una distribuzione pura di quark di sola valenza se e soltanto
se il ”mare” è simmetrico rispetto ai due sapori leggeri di quark, ovvero se
us (x) = ds (x) e quindi il contributo dei quark del mare si riduce. I risultati
mostrati in figura 12.11 provengono sempre dai dati ottenuti con i fasci di
muoni che hanno fornito i dati della figura precedente, e mostrano l’anda-
mento di F2p − F2n in funzione di x (cerchi vuoti riferiti alla scala in ordinate
sulla destra). La distribuzione mostra un massimo in prossimità di x ≈ 1/3,
e va a zero sia per x → 0 che per x → 1. Questo comportamento suffra-
ga l’assunzione precedente secondo cui, per piccoli valori di x, il contributo
principale alle funzioni di struttura viene dai quark del mare, ma appare
azzardato dedurre, dal fatto che anche per valori alti di x la distribuzione si
riduce a valori molto piccoli, che possa essere un solo quark a trasportare la
maggior parte dell’impulso del nucleone.
L’andamento osservato è stato spesso interpretato come il risultato di tre
quark di valenza ognuno dei quali trasporta in media 1/3 dell’impulso del
nucleone, unitamente al fatto che la distribuzione netta che ne risulterebbe
verrebbe poi ”addolcita” dall’effetto del moto di Fermi dei quark nel nu-
cleone. Questa interpretazione è però scorretta! Come si mostrerà più oltre
i quark trasportano soltanto il 50% circa dell’impulso di un nucleone; le
distribuzioni uv (x) e dv (x) presentano entrambi un massimo circa in corri-
spondenza del valore x ' 0.17, e il massimo di (F2p − F2n ) in prossimità di
349
Figura 12.11: I cerchi pieni, riferiti alla scala in ordinate a sinistra, rap-
presentano la funzione di struttura F2N per un ”nucleone medio”; i cerchi
vuoti riferiti alla scala in ordinate a destra rappresentano la differenza tra
funzione di struttura di ”p” e ”n”, in funzione dello scaling x di Bjorken.
x = 1/3 deriva accidentalmente dai diversi modi in cui queste due distribu-
zioni dipendono da x.
Dividendo per x entrambi i membri della 12.27 e poi integrando sempre
rispetto ad x, si ha
Z 1 Z 1h
1 1 2 i
SG = [F2p (x) − F2n (x)] dx = (2 − 1) + us (x) − ds (x) dx
0 x 3 3 0
(12.28)
Quando us (x) = ds (x), l’ultimo termine va a zero e si ha SG = 1/3. Questa
rappresenta la regola di somma di Gottfried. La determinazione sperimentale
del valore dell’integrale fornisce tuttavia
Da ciò si conclude che ds (x) > us (x) e che quindi il ”mare” di quark/anti-
quark non è simmetrico rispetto ai sapori dei due quark più leggeri.
Si veda ora cosa si deduce per la funzione di struttura di quello che può essere
definito una sorta di ”nucleone medio”. Esso è rappresentativo dei casi in
cui si analizzano urti su bersagli isoscalari, come ad esempio il deuterio, in
cui il numero di quark ”u” coincide con quello dei quark ”d”. La funzione di
350
struttura del ”nucleone medio” come definita dalla relazione 12.21, risulta
F2p + F2n 5 X 1
F2N (x) = = x [q (x) + qs (x)] + x [ss (x) + ss (x)]
2 18 q=d,u 9
5 X 1
= x [q (x) + qs (x)] − x · ss (x)
18 q=d,u,s 3
(12.30)
Dato che i quark ”s” compaiono in questo caso soltanto nel mare, ne consegue
che l’ultimo termine della 12.30 è piccolo e quindi, con buona approssima-
zione, F2N è dato dal primo termine, corrispondente al prodotto di x con la
somma sulle distribuzioni di tutti i quark e il termine 5/18 che corrisponde
approssimativamente alla media quadratica della carica dei quark ”u” e ”d”
in unità di e2 .
L’integrale di F2N è esteso su tutti i valori d’impulso dei quark, pesati con
le loro funzioni di distribuzione e i valori quadratici medi delle cariche dei
quark. Ne consegue che l’integrale dovrebbe fornire il valore di 5/18 , te-
nendo conto che l’impulso del nucleone sia praticamente trasportato per la
sua totalità dai costituenti carichi, ovvero i quark. Quando tuttavia si ef-
fettua l’integrazione, ad esempio sui dati mostrati in figura 12.11, si ottiene
soltanto Z 1
5
F2N (x) dx ≈ 0.55 · (12.31)
0 18
Questo risultato, approssimativamente indipendente dai valori di Q2 e ν,
mostra che i quark trasportano in realtà soltanto il 55% circa dell’impulso
di ogni nucleone.
Un’ipotesi che spiega questo risultato, assieme a quelli dell’interazione fra
neutrini e nucleoni, è che non tutti i partoni del nucleone si accoppiano col
campo elettromagnetico e/o con quello debole e che quindi in un nucleone
ci siano anche oggetti diversi dai quark, elettricamente neutri, sensibili so-
lo all’interazione forte e che trasportano il restante 45% circa dell’impulso
totale del nucleone. Questo ha rappresentato l’inizio della Cromodinamica
Quantistica (QCD), la teoria di campo che descrive l’interazione forte e le
particelle neutre coinvolte sono identificate con i quanti del campo, i gluoni.
351
Figura 12.12: Confronto tra le funzioni di struttura F2N del nucleone me-
dio misurate per diffusione anelastica di µ e di ν. Sono mostrate anche le
distribuzioni dei quark di valenza, xF3 (x), e degli anti-quark q(x) del mare.
Dalla conservazione della carica e dell’elicità che valgono entrambi per l’in-
terazione debole, ne consegue che neutrini e antineutrini si accoppiano di-
versamente con i diversi tipi di quark e anti-quark. Queste differenze però
si cancellano non appena si considera la funzione di struttura 12.30 del nu-
cleone medio.
Si ha quindi, per la funzione di struttura F2 nel caso di neutrini incidenti
Xh i
F2ν,N (x) = x · qf (x) + q f (x) (12.32)
f
18
F2 ν,N (x) ' F2 e,N (x) (12.33)
5
352
Se ne conclude che le assegnazioni delle frazioni di carica zu = +2/3 per il
quark ”u”, e zd = −1/3 per il quark ”d”, sono corrette.
353
Figura 12.13: Confronto fra risultati di diffusione alla Rutherford su nucleo
(a), e su protone (b). Le linee tratteggiate mostrano cosa ci si attendereb-
be se la carica positiva fosse uniformemente distribuita sull’intero volume
dell’atomo (a), o del protone (b).
8
Per i dati del grafico (a) di figura 12.13 si veda Phil. Mag. XXI (1911) 669; per quelli
del grafico (b) si veda Phys. Lett. B46 (1973) 471.
354
13.4 Effetti nucleari nella diffusione profondamen-
te anelastica
Le energie tipiche della fisica nucleare, ovvero quelle di legame, sono del-
l’ordine di alcuni MeV, e gli impulsi tipici, ovvero l’impulso di Fermi, sono
dell’ordine di 250 MeV/c. Si tratta di valori molti ordini di grandezza al
di sotto di quelli degli impulsi Q tipicamente trasferiti negli esperimenti di
diffusione utilizzati per studiare le funzioni di struttura dei nucleoni. Ci si
può dunque attendere che le funzioni di struttura siano sostanzialmente le
stesse sia per la diffusione su nucleoni liberi che su nucleoni legati nei nuclei,
tranne naturalmente che per gli effetti cinematici dovuti al moto di Fermi
dei nucleoni nel nucleo. In pratica, sperimentalmente, si osserva però una
certa influenza del mezzo nucleare circostante sulle distribuzioni in impulso
osservate per i quark. Il fenomeno è stato chiamato effetto EMC, dal nome
della collaborazione che lo scoprı̀ nel 19831 .
In figura 13.9 sono mostrati i dati dell’esperimento NMC con muoni al CERN
1
J.J. Aubert et al., Phys. Lett. B123 (1983) 275
367
e di un esperimento a SLAC, per quanto concerne il rapporto fra le funzio-
ni di struttura per nucleone di 4 He, carbonio e calcio rispetto al deuterio.
Quest’ultimo è solo debolmente legato e i suoi protone e neutrone possono
368
13.5 I risultati della diffusione profondamente ane-
lastica
Ricapitolando i principali risultati degli studi sulla diffusione leptoni-nucleoni:
• L’osservazione dei picchi quasi elastici nelle sezioni d’urto per l’intera-
zione anelastica e− − nucleo, ha rivelato la presenza dei nucleoni quali
componenti dei nuclei.
369
Capitolo 17
Gli stati adronici legati piu' semplici sono costituiti da coppie di quark e
antiquark pesanti, quali cc e bb che dato l’elevato valore della loro massa,
possono essere trattati con approccio non relativistico. Essi vengono deno-
minati quarkonia.
Il modo di trattare questi stati prende spunto da stati legati quali l’atomo
di idrogeno e il positronio, in cui pero' l’interazione che determina l’esistenza
dello stato legato e' quella elettromagnetica. A questo proposito si rammen-
tano ora alcune caratteristiche di tali strutture.
me Mp
m = ' 0.511 MeV/c2 (17.2)
me + M p
379
risultano da
α2 mc2
En = − (17.3)
2n2
L’energia di legame dello stato fondamentale (n = 1) dell’atomo di idrogeno
è pari ad E1 = −13.6 eV. Il raggio di Bohr rb è dato da
~c
rb = ' 0.53 × 105 fm (17.4)
αmc2
Le interazioni spin-orbita e spin-spin, che determinano rispettivamente le
cosiddette struttura fine e iperfine rimuovono la degenerazione dei livelli
energetici principali (figura 17.1). Le correzioni di struttura fine all’anda-
mento del tipo 1/n2 dei livelli energetici principali sono dell’ordine di α2
e quelle iperfini dell’ordine di α2 (µp /µe ), essendo µi il momento di dipolo
magnetico della particella ”i”. La notazione nlj indica gli stati per i quali si
tiene conto degli effetti di struttura fine. I numeri quantici del momento an-
golare orbitale, ` = 0, 1, 2, 3 vengono anche denominati s, p, d, f. Il numero
quantico j è il momento angolare totale dell’elettrone ~j = ~l + ~s. Gli effetti
di struttura iperfine vengono descritti tramite un ulteriore numero quantico
f che descrive il momento angolare totale dell’atomo incluso il contributo ~i
dello spin del protone: f~ = ~j + ~i.
380
idrogeno, mentre l’accoppimento spin-spin è molto maggiore, essendo il mo-
mento magnetico µe dell’elettrone circa 650 volte superiore a quello µp del
protone.
La massa ridotta del positronio fa sı̀ che le energie di legame valgano circa la
metà di quelle corispondenti dell’idrogeno mentre il raggio di Bohr vale circa
il doppio. La maggior intensità dell’accoppiamento spin-spin fa sı̀ che per
il positronio sia meno evidente, nello spettro energetico, la gerarchia fra gli
effetti di struttura fine e iperfine che invece appare per l’atomo di idrogeno
(figura 17.1), in quanto le interazioni spin-orbita e spin-spin hanno per il
positronio intensità simili.
Per il positronio i numeri quantici rilevanti sono quindi quello quantico prin-
cipale n, il momento angolare orbitale L, lo spin totale S e il momento an-
golare totale J.
S può assumere valore 0 (singoletto) o 1 (tripletto), con J che ubbidisce alla
disuguaglianza triangolare |L − S| ≤ J ≤ L + S.
La notazione utilizzata per indicare gli stati del positronio è n2S+1 LJ ed il
momento angolare orbitale viene rappresentato dalle maiuscole S, P, D, F.
Elettrone e positrone possono annichilirsi e di conseguenza il positronio ha
una vita media finita con decadimento prevalente in 2 o 3 fotoni, in funzione
dello spin 0 o 1.
L’ampiezza di decadimento in 2 fotoni dello stato 11 S0 è data da
4πα2 ~3
Γ 11 S0 → 2γ = |ψ (0) |2 (17.5)
m22 c
17.1 Il charmonio
Il charmonio è uno stato legato cc e la nomenclatura con cui si indicano i suoi
stati è simile a quella utilizzata per il positronio (le differenze sono dovute a
motivi storici!). Il numero quantico principale è dato da nqq = N + 1, con
N il numero di nodi della funzione d’onda radiale.
Un modo per produrre coppie cc è dalla conversione di un fotone virtua-
le generato da un urto e+ e− a energie nel CM comprese nell’intervallo fra
3 GeV e 4.5 GeV. Variando nell’intervallo indicato le energie dei fasci di
381
elettroni collidenti si ottiene l’andamento sperimentale della sezione d’ur-
to, mostrato in figura 17.3 in cui si evidenziano picchi associati a risonanze
che rappresentano diversi stati del charmonio. Se il processo avviene con
lo scambio di un fotone virtuale, come in questo caso, allora possono esse-
re creati soltanto stati con numeri quantici J P = 1− e quello a più bassa
energia è lo stato 13 S1 , chiamato J/ψ, con massa di 3.097 GeV/c2 ; si sono
rivelate risonanze con masse fino a 4.4 GeV/c2 . Gli stati del charmonio sono
382
instabili e decadono prevalentemente in adroni per il tramite dell’interazio-
ne forte. In analogia al caso atomico o al positronio, gli stati eccitati del
charmonio possono emettere fotoni decadendo in stati a energie inferiori. I
fotoni emessi possono essere rivelati con apparati costituiti ad esempio da
cristalli di NaI(Tl)1 che con opportuna tassellatura coprano l’intero angolo
solido attorno al volume di reazione, detti anche rivelatori 4π. In figura 17.3
Figura 17.3: Spettro dei fotoni emessi dal decadimento di ψ(23 S1 ), misurato
dal rivelatore Crystal Ball. Nel diagramma le linee continue rappresenta-
no transizioni di dipolo elettrico con cambio di parità, quelle tratteggiate
transizioni di dipolo magnetico con conservazione della parità.
è mostrato cosa la Crystal Ball ha rivelato dello stato eccitato ψ(23 S1 ) del
charmonio: lo spettro di emissione γ è piuttosto ricco con evidenza di 8
righe fra 100 MeV e 700 MeV. Le righe più intense sono quelle associate alle
1
Come ad esempio la ”Crystal Ball” utilizzata presso lo Stanford Linear Accelerator
Center con l’acceleratore SPEAR a partire dal 1979, e in seguito utilizzata a DESY per
esperimenti sulla fisica del quark ”b”, per tornare infine nel 1996 negli USA, presso l’AGS
del Brookhaven National Laboratory.
383
transizioni di dipolo elettrico che ubbidiscono alle regole di selezione ∆L = 1
e ∆S = 0. Si riescono ad osservare anche le transizioni di dipolo magnetico,
benchè più deboli di quelle di dipolo elettrico, dato che per stati cc l’intera-
zione spin-spin è significativamente più intensa che nel caso atomico, dove
la distanza fra le due particelle interagenti è molto maggiore (circa di un
fattore 105 ).
Si ricordi che l’apparente semplicità degli stati del quarkonio sono una di-
retta conseguenza dei grandi valori delle masse dei quark charm e bottom,
per cui quark e antiquark si muovono prevalentemente nell’ambito del po-
tenziale a breve range, con velocità ben al di sotto di valori relativistici.
384
energetici, questo risultato sperimentale suggerisce che anche il potenziale
dell’interazione forte, come quello elettromagnetico, deve essere di tipo cou-
lombiano alle distanze più piccole, ovvero per n = 1, 2.
Ciò è in accordo con quanto previsto dalla QCD che predice un potenziale
fra quark che a corte distanze va come 1/r.
Il fatto però che per il charmonio non vi sia degenerazione fra gli stati
23 S e 13 P , come invece nel positronio, evidenzia che il potenziale non può
per l’interazione fra quark, considerarsi puramente coulombiano, anche alle
distanze più piccole. Ricordando che i quark non sono sperimentalmente os-
servati come particelle libere, si può assumere il potenziale costituito da due
componenti, una di tipo coulombiano dominante alle distanze minori, cui si
somma un termine linearmente crescente con la distanza di separazione fra i
quark che prevale alle distanze maggiori; questo giustifica anche il fatto che
i quark siano confinati negli adroni. Si può dunque scrivere il potenziale fra
quark come
4 αs (r)~c
V (r) = − + kr (17.6)
3 r
con i comportamenti asintotici V (r → 0) ∝ 1/r e V (r → ∞) ∝ ∞ . Il
fattore 4/3 deriva dal fatto che i quark possono esistere in tre stati di colore.
Il termine d’accoppiamento forte αs (r) non è costante, come invece quello
analogo per il caso elettromagnetico, ma dipende dalla separazione r fra i
partoni e diminuisce al diminuire della distanza fra essi. Questa risulta una
conseguenza diretta della QCD e si manifesta con la cosiddetta proprietà
di libertà asintotica per l’interazione forte, per cui si possono considerare i
quark alla stregua di particelle semi-libere quando la separazione fra essi è
molto piccola, come discusso nel caso della diffusione profondamente anela-
stica. In figura 17.5 sono illustrati l’andamento delle linee per un campo di
tipo dipolare e per uno derivante da un termine del tipo kr, che dá luogo a
385
una configurazione in cui le linee di campo si raggruppano in un ”tubo di
flusso”. Le linee di forza tra i quark appaiono ”stirate” e l’energia associa-
ta al campo cresce linearmente all’aumentare della distanza fra i quark. La
quantità k, assunta costante, determina sostanzialmente l’energia del campo
per unità di lunghezza e viene detta tensione della stringa. I livelli ener-
getici del charmonio non dipendono però soltanto dal potenziale ma anche
dai termini cinetici dell’Hamiltoniana che contengono la massa incognita mc
del quark charm. Una stima grezza delle quantità incognite αs , k ed mc
può essere ottenuta dal fit sui livelli energetici principali degli stati cc con
l’equazione di Schrödinger non-relativistica contenente un potenziale della
forma 17.6. Valori tipici per questi fit danno
αs ≈ 0.15 ÷ 0.25
k ≈ 1 GeV/fm
mc ≈ 1.5 GeV/c2
386
Si noti che mc è la massa del quark costituente c, ovvero la massa efficace
del quark nello stato legato2 , e che la costante d’accoppiamento nel charmo-
nio è da 20 a 30 volte superiore a quella elettromagnetica di struttura fine,
α ' 1/137. Dalla figura 19.3 si desume che le dimensioni lineari r della J/ψ,
lo stato 13 S1 del charmonio, sono circa pari a 0.4 fm, ovvero cinque ordini
di grandezza inferiori a quelle del positronio.
Per una descrizione più completa dei livelli energetici bisogna tener conto
anche dei contributi al potenziale derivanti dagli accoppiamenti spin-orbita
e spin-spin.
387
specifica soglia che permetta la formazione di due nuovi quark che separan-
dosi contribuiranno a costituire il nuovo adrone.
Se ad esempio in un processo di diffusione profondamente anelastica si ha
l’espulsione di un quark da un adrone, come schematizzato in figura 17.7,
dove l’adrone è un generico mesone, il tubo di flusso di colore (stringa) che
si forma fra questo quark e il sistema adronico residuo si rompe quando rag-
giunge una lunghezza dell’ordine di 1÷2 fm, convertendo nel punto di rottura
l’energia della tensione della stringa in una coppia quark-antiquark che se-
paratamente si attaccano alle estremità rotte della stringa, generando due
adroni cromaticamente neutri. Questo è il processo detto di adronizzazione.
388
Capitolo 22
La forza nucleare
421
22.2 Analogia atomico-molecolare
Idealmente si vorrebbe poter interpretare il potenziale nucleone-nucleone in
termini della dinamica delle interazioni fondamentali fra quark. Non si è
ancora in grado di farlo ma si può ragionare per analogia. In figura 22.5
è schematicamente illustrato l’andamento radiale del potenziale nucleone-
nucleone cosı̀ come dedotto dalla gran messe di dati forniti dallo studio di
interazioni elastiche p-p e n-p. È evidente la somiglianza col potenziale agen-
te fra due atomi, con una componente repulsiva a distanze compatibili con
la sovrapposizione spaziale delle due strutture e una attrattiva a distanze
maggiori che poi diminuisce al crescere di queste.
Ragionando dunque per analogia col caso delle strutture atomiche e mole-
colari, si immagina che i quark giochino il ruolo degli elettroni. Vi sono in
tal caso alcune possibilità quali interazioni di tipo ”ionico”, di tipo ”van der
Waals” o di tipo ”covalente”.
La prima tipologia può essere subito scartata per il caso nucleare, in quanto
richiederebbe il ”prestito a lungo termine” di un quark da un nucleone ad un
altro nucleone e ciò non è compatibile con le intense forze di confinamento
che caratterizzano l’interazione fra quark in un nucleone.
429
Anche la seconda tipologia va scartata in quanto lo scambio di una coppia
di gluoni che ne conseguirebbe da luogo a un contributo troppo debole per
giustificare l’effettiva interazione nucleare a distanze intermedie.
Rimane dunque la forma di legame covalente che nel caso nucleare dovrebbe
corrispondere a una forma di compartecipazione di un singolo quark tra due
diversi nucleoni. Questi devono tuttavia restare cromaticamente neutri du-
rante la forma di interazione descritta, per cui il quark compartecipato da un
nucleone deve essere dello stesso colore di quello compartecipato dall’altro
nucleone. L’effetto di ciò, essendoci tre possibili diversi stati di colore, è di
ridurre la forza che ne consegue al punto che questo solo meccanismo non è
in grado di giustificare la profondità osservata per il potenziale nucleare. Si
tenga però presente che in aggiunta ai tre quark di valenza, in un nucleone
vi sono anche fluttuazioni di coppie quark-antiquark del mare, e nel caso in
cui tali coppie siano cromaticamente neutre potranno anch’esse essere com-
partecipate fra due nucleoni, contribuendo all’interazione. Risulta anzi che
il loro contributo è maggiore rispetto a quello di singoli quark. I più leggeri
fra questi di-quark sono i pioni π, il cui scambio fra nucleoni costituisce il
grosso della parte attrattiva della forza nucleare.
In linea di principio la repulsione a breve range potrebbe essere imputata
allo scambio di di-quark (mesoni) più pesanti eventualmente in differenti
stati di spin totale. Dai dati sperimentali emergono molti candidati mesoni-
ci possibili, in accordo con le predizioni del modello a quark, e ogni scambio
risulta responsabile di uno specifico contributo al potenziale totale nucleone-
nucleone. Modelli che tengono conto di alcuni di questi possibili scambi sono
in grado di fornire eccellenti fit dei dati ottenuti da esperimenti di diffusione
nucleone-nucleone. Questi modelli di scambio bosonico sono però di tipo
”semi-fenomenologico”, non in grado quindi di fornire una spiegazione fon-
damentale della parte repulsiva.
Nel caso di due atomi legati in una stessa molecola, la parte repulsiva a bre-
vi distanze è dovuta al principio d’esclusione di Pauli. Considerando infatti
che normalmente gli elettroni dei due atomi occupano i livelli energetici più
bassi possibili, si ha che se i due atomi si avvicinano, come nel caso di un
urto, e quindi le due nuvole elettroniche iniziano a sovrapporsi spazialmente,
allora alcuni degli elettroni che le popolano, dovendo ubbidire al principio
d’esclusione, vengono forzatamente eccitati a livelli energetici superiori e ciò
non può che avvenire a carico di una frazione dell’energia cinetica disponi-
bile nel canale d’ingresso; è questo che genera l’effetto repulsivo a distanze
ridotte.
Anche i quark di un sistema di due nucleoni ubbidiscono al principio d’esclu-
sione, per cui la funzione d’onda che descrive quei 6 quark deve necessaria-
mente essere anti-simmetrica. Il numero di quark che possono occupare lo
stato a più bassa energia, con ` = 0, senza violare il principio di Pauli è però
pari a 12, in quanto i quark coinvolti si differenziano su tre possibili diversi
430
stati di colore, su due diversi possibili stati di spin e su due diversi possibili
stati di isospin (quark up e quark down). La parte di spin-isospin della
funzione d’onda completa deve dunque essere simmetrica in quanto la parte
legata al colore è antisimmetrica e quella spaziale, per ` = 0, è simmetrica.
Si ha perciò che il principio d’esclusione non limita, per quanto concerne la
funzione d’onda spaziale, la possibilità che i 6 quark costituenti due nucleoni
possano occupare il livello energetico più basso (` = 0); di conseguenza la
ragione della presenza del ”core” repulsivo va cercata altrove.
Si osservi che l’energia potenziale cresce se tutti i 6 quark restano nello stato
con ` = 0 mantenendo gli spin allineati; si confronti ad esempio la massa
della risonanza ∆(1232), i cui tre quark componenti hanno gli spin allineati,
con quella del generico nucleone, più leggero di circa 295 MeV/c2 , in cui una
coppia di quark componenti si trova nella condizione di spin antiparalleli.
Nel caso dei 6 quark, se quando i due nucleoni si ”sovrappongono” restano
tutti nello stato con ` = 0, è chiaro che il numero di coppie di quark con spin
paralleli è maggiore rispetto al considerare i nucleoni singolarmente, e quindi
l’energia potenziale del sistema aumenta; si trova che l’aumento, per ogni
coppia in più di quark con spin paralleli, equivale a metà della differenza in
energia fra la massa della ∆ e quella del nucleone.
È d’altronde ragionevole che il sistema di due nucleoni cerchi spontanea-
mente di minimizzare questo contributo alla propria energia massimizzando
il numero di coppie di quark con spin anti-paralleli, ma ciò entra in compe-
tizione con l’esigenza che la parte di spin-sapore della funzione d’onda sia
completamente simmetrica, se tutti i 6 quark restano nello stato con ` = 0.
Si trova che il contributo energetico può essere ridotto se almeno una coppia
di quark si pone nello stato con ` = 1. L’energia d’eccitazione necessaria a
questo è però confrontabile con la diminuzione dell’energia di appaiamento
di spin che si ottiene, quindi in ogni caso l’energia potenziale del sistema
di due nucleoni aumenta se essi tendono verso una grande sovrapposizione
spaziale mutua.
La repulsione che si osserva a brevi distanze è dunque conseguenza sia del-
l’aumento dell’energia dovuta agli appaiamenti di spin che dell’eccitazione
di coppie di quark a stati con ` = 1.
La forza nucleare viene anche detta ”interazione forte residua”, intenden-
do come ”interazione forte” tout court quella che interviene fra i quark
all’interno di ogni nucleone.
431
Figura 22.6: Lo stato dei quark per due nucleoni fortemente sovrapposti. In
un’approssimazione non adiabatica si trova che domina la configurazione b
che diviene però sempre meno importante all’allontanarsi reciproco dei due
nucleoni.
432
Figura 22.7: Introduzione dell’articolo di Yukawa.
433
Supponendo come caso limite che il bosone sia emesso a velocità c, nel-
l’intervallo di tempo ∆t concessogli dal principio di indeterminazione può
percorrere la distanza
~
a0 = c∆t = (22.12)
mc
che coincide con la cosiddetta lunghezza d’onda Compton λ del bosone di
massa m e che tende ad ∞ per m → 0, coerentemente col fatto che il raggio
d’azione dell’interazione elettromagnetica risulti infinito. Ne consegue che
i due nucleoni possono interagire se la loro distanza mutua r è inferiore ad
a0 , e non interagiscono o interagiscono debolmente se r > a0 , che definisce
quindi il raggio d’azione delle forze nucleari.
Assumendo, per quanto visto in precedenza e noto dai dati sperimentali,
ragionevolmente pari a circa 1.4 · 10−15 m il valore di λ e quindi del raggio
d’azione a0 della forza nucleare, si ottiene per m:
Si prosegue ora sulla scia di Yukawa per individuare la forma del potenziale
cercato. Nel caso dell’interazione elettromagnetica fra due cariche uguali
q, l’energia potenziale del campo nelle zone di spazio non occupate dalle
5
Si veda l’immagine in figura 9.2
6
Si veda il paragrafo 9.3
434
cariche elettriche, espressa da UC (r) = q 2 /4π0 r, è soluzione dell’equazione
differenziale di Laplace nel caso statico
∇2 UC (r) = 0 (22.14)
Ci si può quindi chiedere come modificare la 22.14 quando le forze fra due
sorgenti del campo sono caratterizzate da un raggio d’azione finito. La
modifica più intuitiva consiste nell’aggiungere una costante che tenda a zero
quando il raggio d’azione dell’interazione tende all’infinito, che per motivi
dimensionali sia inversamente proporzionale al quadrato di una lunghezza e
di segno tale da generare un potenziale che si annulli all’infinito. L’ultima
condizione, come si vedrà, richiede una costante definita negativa, per cui è
opportuno scriverla come l’opposto del quadrato di qualcosa. La conseguente
modifica dell’equazione di Laplace porta alla
∇2 − µ2 U (r) = 0
(22.15)
d2
y(r) − µ2 y(r) = 0 (22.17)
dr2
che ha come integrale generale
Per evitare che y(r) diverga, per r → ∞ bisogna porre c1 = 0. Posto poi
c0 = −g 2 /4π si ottiene l’espressione dell’energia potenziale di Yukawa
g 2 e−r/a0
UY (r) = − (22.19)
4π r
che come il potenziale coulombiano diverge per r → 0, ma tende asintoti-
camente a zero molto più rapidamente al crescere della distanza fra i due
nucleoni, oltre il valore della lunghezza d’onda Compton a0 del pione π.
La quantità g, omogenea a una carica elettrica, è detta carica mesonica e
αX = g 2 /4π~c rappresenta la costante d’accoppiamento7 tra i nucleoni e il
7
Si trova che g ha in generale una dipendenza dall’impulso del mesone scambiato.
435
cosiddetto campo mesonico, similmente a come α = e2 /4π0 ~c rappresenta
la costante d’accoppiamento tra gli elettroni e il campo elettromagnetico o
fotonico.
Espressioni più raffinate del potenziale nucleone-nucleone, ottenibili nell’am-
bito della teoria mesonica delle interazioni nucleari, tengono conto dell’esi-
stenza dei tre tipi di pioni (π + , π 0 , π − ) e come accennato nel paragrafo pre-
cedente, di altri mesoni più pesanti e delle loro proprietà di simmetria, che
determinano la scelta del termine di sorgente del campo mesonico, assente
nell’equazione di Klein-Gordon qui dedotta e risolta, oltre che dell’indipen-
denza delle forze nucleari dalla carica elettrica.
Si ricordi comunque che l’interazione nucleare è in realtà il complicato effetto
risultante di come agiscono le interazioni forti fondamentali fre le distribu-
zioni di quark, costituenti e del mare, all’interno dei due nucleoni.
436
Capitolo 26
La stretta trama che collega la fisica nucleare e l’astrofisica risale agli anni
”30 quando Bethe, Weizsäcker e altri cercarono di tracciare un equilibrio
quantitativo tra l’energia emessa dal Sole e l’energia che potrebbe essere
liberata dalle reazioni nucleari allora conosciute, anche se era stato Edding-
ton nel 1920 ad aver intuito che la fonte di produzione di energia nelle stelle
fosse la fusione nucleare.
Le basi della moderna astrofisica furono tuttavia poste da Fred Hoyle1 verso
la fine degli anni ”40 del 20o secolo. Il programma di ricerca da lui proposto
richiese il trattamento di una rilevante quantità di osservazioni astronomi-
che, lo studio della dinamica dei plasmi nell’interno delle stelle e calcoli sulle
sorgenti d’energia basate sulla conoscenza di sezioni d’urto per reazioni nu-
cleari, misurate in laboratorio. L’evoluzione stellare e la formazione degli
elementi sarebbero state affrontate assieme.
L’abbondanza osservata degli elementi deve essere spiegabile tramite un pro-
cesso di sintesi degli stessi sia nella fase iniziale di creazione dell’universo che
per effetto delle reazioni nucleari che hanno luogo all’interno delle stelle, co-
stituendo quindi un test decisivo di consistenza per i modelli di evoluzione
stellare.
Le stelle si originano dalla contrazione gravitazionale di polveri e gas pre-
senti nel cosmo. Questa materia base è costituita pressochè soltanto da
idrogeno ed elio primordiali. La contrazione determina un riscaldamento
della parte centrale della stella nascente e quando temperatura e pressione
sono sufficientemente alte da rendere possibile la fusione nucleare, comincia
a prodursi radiazione la cui pressione associata contrasta l’ulteriore contra-
zione della stella.
Dal teorema del viriale per la forza gravitazionale si deduce che la tem-
1
F. Hoyle. Mon. Not. R. Astro. Soc. 106 (1946) 343; F. Hoyle, Astrophys. J. Suppl.
1 (1954) 121.
457
peratura della stella diminuisce andando dal suo centro verso la superficie
esterna e questo significa che a qualsiasi distanza dal centro della stella, ma
sempre restando al suo interno, l’energia cinetica media di un atomo è pari
alla metà della sua energia potenziale. L’energia prodotta all’interno del-
la stella dalle reazioni nucleari è trasportata verso la superficie della stella
stessa dalla radiazione prodotta, e la materia costituente la stella non è si-
gnificativamente rimescolata da tale processo. La composizione chimica di
una stella cambia significativamente, durante la sua esistenza, nella regione
del suo ”core”, dove hanno luogo le reazioni nucleari che la alimentano.
Una stella in equilibrio produce, tramite reazioni nucleari, tanta energia
quanta ne irradia. La condizione d’equilibrio è quindi fortemente dipenden-
te dal rateo delle reazioni di fusione. L’energia può essere prodotta fondendo
assieme nuclei leggeri e risulta particolarmente efficiente in un processo in
cui fondendo isotopi dell’idrogeno si ottiene 4 He, dato che la differenza fra
l’energia di legame per nucleone di quest’ultimo, pari a 7.07 MeV e quella
degli isotopi dell’idrogeno è particolarmente grande, come si ricava dal gra-
fico che riproduce l’andamento dell’energia media di legame per un nucleone
in un nucleo, in figura 26.1.
Prima di riprendere il discorso sulla sintesi degli elementi è opportuno af-
frontare e capire come procede il processo di fusione nucleare.
Z1 Z2 e 2
UC = (26.1)
4π0 (R1 + R2 )
458
Figura 26.1: Energia media di legame per nucleone B/A, per la gran parte
dei nuclei stabili.
ha
Z1 Z2 e 2
UC =
1/3 1/3
(26.2)
4π0 R0 A1 + A2
459
barriera coulombiana, e ciò ha luogo nella formazione di una stella grazie
all’intervento dell’interazione gravitazionale che ”confina” e favorisce il ”ri-
scaldamento”. Si può stimare la temperatura necessaria affinchè la fusione
possa aver luogo in una stella secondo quanto detto, ricordando il valore
della costante kB di Boltzmann (kB = 8.61673324 × 10−11 MeV K−1 ), da
cui
4.8
T ' ' 5.6 × 1010 K (26.3)
kB
che è però un valore molto superiore a quello tipicamente presente all’interno
della maggior parte delle stelle che è dell’ordine di 107 ÷ 108 K. Fu proprio
questo semplice risultato che portò molti a rifiutare inizialmente l’idea di A.
Eddington che l’energia delle stelle provenisse da reazioni di fusione nucleare
al loro interno. Questo fatto rappresenta oltretutto anche uno degli ostacoli
maggiori da superare per riuscire ad ottenere la fusione controllata in un
reattore.
Le reazioni di fusione hanno in realtà luogo a temperature inferiori a quella
stimata e ciò grazie alla combinazione di due fatti.
460
cooperazione tra questi due effetti che favorisce la fusione nucleare in
una stella.
Tenendo conto che molte sezioni d’urto nucleari a bassa energia mostrano un
andamento tipicamente proporzionale all’inverso dell’energia cinetica E del
proiettile, e ricordando il ruolo dell’effetto tunnel, si può scrivere la sezione
d’urto di fusione come
1/2
EG
1 −
σab (E) = S (E) e E (26.8)
E
dove S (E) è una funzione lentamente variabile di E che esprime i dettagli
dei meccanismi nucleari dell’interazione. 2
Sostituendo la 26.5 e la 26.8 nella 26.7 si ha, per il rateo delle reazioni di
fusione per unità di volume
" r #
E EG
s 3/2 Z ∞ − −
8 1
kT E
Rab = na nb S (E) e dE (26.9)
πmr kT 0
Il fatto che S (E) sia lentamente variabile con E implica che il ruolo domi-
nante nell’integrando sia svolto dal termine esponenziale e ne risulta che il
2
L’assunzione di lenta variabilità per S (E) implica ad esempio che si esclude la presenza
di risonanze.
461
termine Maxwelliano, calante con E, si combina con quello crescente con E
dovuto all’effetto tunnel, dando luogo ad un massimo nell’integrando, detto
picco di Gamow, in corrispondenza al valore
1/3
1
E = E0 = EG (kT )2 (26.10)
4
Il processo di fusione può quindi aver luogo in corrispondenza del ristretto
intervallo di energie E0 ± ∆E0 , con
4
∆E0 = √ E 1/6 (kT )5/6 (26.11)
21/3 3 G
come mostrato in figura 26.2. Nel caso di due protoni che si fondono alla
462
Il deuterio si fonde quindi con altro idrogeno e produce 3 He
2
1
1H + 21 H → 3
2 He + γ + 5.49 MeV (26.13)
Infine due nuclei di 3 He si fondono e formano 4 He
2 2
3
2 He +32 He → 4
2 He +2 1
1H + 12.86 MeV (26.14)
463
Dato il valore di T tutta la materia all’interno del Sole è ionizzata e costitui-
sce un plasma. I positroni prodotti annichilano nel plasma con gli elettroni
presenti rilasciando un’ulteriore energia di 1.02 MeV, per cui l’energia totale
prodotta in ogni ciclo del tipo 26.15 ammonta a 26.72 MeV. Bisogna anche
tener però conto che ogni neutrino che sfugge nello spazio porta via media-
mente un’energia pari a 0.26 MeV. Ne risulta quindi che per ogni protone
coinvolto nella catena PP-I vengono mediamente irraggiati 6.55 MeV.
La catena PP-I non è però la sola, vi sono altri cicli di fusione che con-
tribuiscono all’energia prodotta in una stella e di cui si tratterà più oltre,
accennando alla nucleosistesi degli elementi nelle stelle.
464