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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA

Dipartimento di Lettere – Lingue, Letterature e Civiltà antiche e moderne

Corso di Laurea Magistrale


in
LETTERE

La figura e la memoria di Yitzhak Rabin,


vista dalla stampa italiana

RELATORE LAUREANDO

Emanuela Costantini Maila Turrioni

matricola 102472

Anno Accademico 2020-2021


INDICE

Introduzione. Il senso della memoria p. 5

Capitolo 1. La vita: sabre, soldato, politico, martire p. 11


1.1 Le origini p. 11
1.2 Il Palmach p. 12
1.3 La carriera militare p. 19
1.4 Ambasciatore a Washington p. 23
1.5 La missione politica p. 27
1.6 Soldato di pace p. 42

Capitolo 2. Rabin sulla stampa italiana liberale p. 48


2.1 Israele e la stampa moderata p. 48
2.2 La repressione dell’intifada p. 55
2.3 Rabin premier: un nuovo scenario p. 58
2.4 La morte di una speranza p. 63
2.5 La memoria tradita p. 65

Capitolo 3. Rabin sulla stampa italiana di sinistra p. 70


3.1 La sinistra italiana e Israele p. 70
3.2 L’intifada: Rabin il falco p. 72
3.3 Rabin premier del dialogo p. 75
3.4 La morte: Rabin la colomba p. 79
3.5 La memoria mitizzata p. 84

Capitolo 4. Il sogno infranto p. 88


4.1 Il fondamentalismo religioso contro la pace p. 88
4.2 Il processo di pace dopo Oslo p. 96
4.3 Il fallimento del processo di pace p. 102

Conclusione. Oltre la memoria p. 108

Bibliografia p. 115
INTRODUZIONE
Il senso della memoria

I vuoti di oblio non esistono.


Nessuna cosa umana può essere
cancellata completamente e al
mondo c’è troppa gente perché
certi fatti non si risappiano:
qualcuno resterà sempre in vita per
raccontare. E perciò nulla può mai
essere “praticamente inutile”,
almeno non a lunga scadenza1.
Hanna Arendt

Da dieci anni vivo in Israele con la mia famiglia e ogni anno a novembre ogni figlio
è tornato a casa con un compito da svolgere insieme ai genitori: un questionario dettagliato
a cui rispondere con precisione, con particolari doviziosi, con aneddoti e dando fondo a ogni
traccia di memoria su un preciso argomento. Dove eri tu quando Rabin è morto? Quanti anni
avevi? Come hai saputo la notizia del suo assassinio? Cosa hai fatto quando lo hai saputo?
Cosa hai pensato? Cosa ne pensi ora? Secondo te perché è avvenuto?
Tutte queste informazioni, dopo essere state raccolte, venivano condivise in classe e
poi messe in comune in una grande celebrazione nel cortile della scuola, a cui erano invitate
a partecipare tutte le famiglie, fatta di rielaborazioni teatrali, danze, canti, proiezioni di
filmati, discorsi delle autorità.
I miei figli, senza essere israeliani né ebrei, sanno tutto di Yitzhak Rabin. Conoscono
la sua famiglia, la sua carriera militare, i suoi trionfi, le sue scelte politiche, la sua decisa
convinzione che fosse possibile costruire la pace in Medio Oriente, i tentativi di vivere in
pace con i nemici di sempre. Conoscono a memoria il testo della canzone della pace che
cantò la sera in cui fu ucciso e ricordano anche alcune frasi dei suoi discorsi più famosi;
conoscono il suo viso di quando era un giovane ufficiale in uniforme, come quello di anziano
primo ministro; conoscono il timbro della sua voce.
La percezione che avemmo, fin dall’inizio della nostra esperienza in Galilea, è che
nella figura di Yitzhak Rabin si condensino passato e futuro di questa nazione, vittoria e

1
H. ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 239.

5
fallimento, speranza e disillusione. In altre parole mi fu chiaro che per comprendere l’identità
complicata di questo popolo e questa terra in cui mi trovavo a vivere c’era un passaggio
obbligato: cercare di capire il paradosso di una nazione che rimpiange per decenni il suo più
grande eroe mentre consegna il proprio futuro a coloro che lo disprezzavano quando era
ancora in vita2.
La memoria di Rabin in Israele ha il sapore amaro del sogno infranto. La sua morte
segna un prima e un dopo, tale che assurge a evento storico fondamentale e imprescindibile
tra i memorabilia di questo giovane stato. Impossibile non pensare immediatamente che
anche l’Italia ha vissuto con Aldo Moro il trauma di un primo ministro assassinato; di un
omicidio politico efferato e inspiegabile, di un leader visionario ucciso da quelli del suo
stesso popolo.
Non ricordo però di aver mai commemorato, nel tempo della scuola e neanche dopo,
gli anni di piombo o le stragi di mafia che hanno insanguinato il Paese con i miei insegnanti
o con i miei genitori. L’ho studiato sui libri e ho visto nei telegiornali alcune rituali
commemorazioni istituzionali che si risolvono spesso in deposizioni di ghirlande di fiori nei
luoghi delle tragedie. Penso che la nostra incapacità di trasmettere la memoria dei fatti che
formano la coscienza collettiva del popolo italiano sia alla base del disinteresse di tutta una
generazione di giovani del nostro paese verso la politica, del loro distacco da un campo di
azione e di studio che oggi sentono distante: non li riguarda e non li tocca.
Invece, dal quel 4 novembre 1995 ogni anno, in Israele, si è celebrato fino a cinque
anni fa, il Giorno del ricordo di Yitzhak Rabin (‫ )יום הצ'כרון ל'צחק רב'ן‬per tenere viva in una
maniera molto efficace la memoria del primo ministro assassinato. Il giorno della memoria
di Yitzhak Rabin venne istituito dal parlamento israeliano due anni dopo l’omicidio del
premier come parte di una legge commemorativa approvata nel 1997. Secondo la legge tale
ricorrenza si doveva tenere ogni anno il dodicesimo giorno di chesvan, il giorno
dell’assassinio di Rabin secondo il calendario ebraico (la data è variabile secondo il
calendario gregoriano). Questa giornata nazionale della memoria doveva essere celebrata da
tutte le istituzioni statali, in ogni base dell’esercito delle forze di difesa israeliane e in tutte
le scuole di ogni ordine e grado. La bandiera israeliana doveva essere abbassata a mezz’asta
e sulla tomba del premier ucciso si svolgeva ogni anno sul Monte Herzl una cerimonia
funebre con le più alte cariche dello stato. Le scuole avrebbero dovuto, secondo la legge,
osservare questa memoria ricordando l’opera di Yitzhak Rabin attraverso attività che

2
cfr. I. GREENBERG, Yitzahk Rabin and the ethic of jewish power, Clal, New York, 1995.

6
sottolineassero l’importanza della democrazia in Israele e il pericolo che la violenza
rappresenta per la società e per il Paese3.
La legge prevedeva che tale ricorrenza si celebrasse per almeno venti anni dalla data
della morte del primo ministro. Nei venti anni che sono seguiti a quel fatidico 4 novembre,
ogni 12 di chesvan è stato in effetti l’occasione per ricordare a tutti gli israeliani la storia
della vita di un eroe dello Stato d’Israele, i trionfi, i valori, il sacrificio, ma anche un modo
per riaffermare, nelle coscienze forse offuscate da un ritualismo spesso stanco di tante
manifestazioni di cordoglio nazionale, il significato profondo della memoria secondo la
tradizione e l’identità ebraiche.
Martin Buber scriveva: «Noi ebrei siamo una comunità basata sul ricordo. Il comune
ricordo ci ha tenuto uniti e ci ha permesso di sopravvivere»4. Il concetto di memoria è molto
diverso nel pensiero ebraico rispetto al nostro modo occidentale di concepirlo. Anche in
quella parte di società estremamente secolarizzata dell’Israele di oggi; tanto più in quella
religiosa.
Il verbo zachar (‫)זכור‬, nelle sue varie forme, ricorre nella Bibbia ben 222 volte, e ha
come soggetto nella maggior parte dei casi Israele o Dio (su entrambi infatti incombe la
memoria). Il concetto di ricordare trova il suo completamento in quello di segno opposto:
dimenticare. Al popolo ebraico viene ingiunto di ricordare e al tempo stesso viene anche
imposto di non dimenticare. Nelle ultime parole di congedo, Mosè raccomanda al popolo:
«Ricorda i giorni del tempo antico, medita gli anni lontani. Interroga tuo padre e te lo
racconterà, i tuoi vecchi e te lo diranno»5.
La letteratura rabbinica, interpretando questo verso della Bibbia, afferma che la memoria,
custodita di generazione in generazione, è l’antidoto più potente contro la morte,
rappresentando una volontà di non abbandonare nel nulla le tracce di ciò che è già trascorso.
Nell’ebraismo il passato non è qualcosa di sorpassato, privo di utilità, ma al contrario
costituisce un valido aiuto per affrontare la vita6.
Non a caso Rashi7, considerato uno dei più autorevoli commentatori ebrei della
Bibbia, nel suo commento interpreta il passaggio: “medita gli anni lontani” non tanto come

3
Parlamento Israeliano – Sito istituzionale [https://www.knesset.gov.il/laws/special/heb/rabinlaws2.htm],
Dlibera traduzione personale, consultato il 07 giugno 2021.
4
M. BUBER, Discorsi sull’ebraismo, Gribaudi, Milano, 1996, p.58.
5
Deuteronomio, 32, 7.
6
Y. H. YERUSHALMI, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Giuntina, Firenze, 2011, pp.54-58.
7
RASHI, acronimo di RABBI SHLOMO YITZHAQI (1040-1105), studioso della Torah e autore di un commento al
Talmud e alla Bibbia ebraica (Tanach).

7
“gli anni dei secoli trascorsi” ma piuttosto come “gli anni delle future generazioni”, nella
convinzione che il futuro sarà tanto migliore quanto meno si dimenticheranno le lezioni del
passato8. Ma cosa devono ricordare gli ebrei e in che modo? È la tradizione orale il punto di
riferimento della storia di ogni ebreo, lo spazio in cui si colloca la propria dimensione
esistenziale, il tempo privilegiato in cui passato, presente e futuro si fondono e coesistono
nella memoria.
Ricordare non è quindi semplicemente evocare un evento passato: trasmettere un
ricordo non solo lo custodisce, ma lo riporta a nuova vita, lo potenzia rimettendolo nel
circolo della narrazione. Grazie a questo rapporto sempre dinamico con il tempo, il popolo
ebraico errante nel mondo, lontano dalla terra di Israele e dal tempio, ha sviluppato una
coscienza storica profonda e un forte senso della memoria collettiva, creando alcuni «santuari
del tempo», come vengono definiti dal filosofo Abraham Heshel9, che possono essere
osservati e celebrati ovunque e la cui osservanza ha permesso all’ebraismo di preservarsi
dall’estinzione e non essere assorbito dalle culture dominanti10.
Si può così comprendere perché nel vocabolario ebraico, non ci sia la parola storia.
La si prende in prestito dalle lingue greca e latina. Ma il significato della parola historia ha
soprattutto l’accezione di ricerca, indagine. Nella Tradizione ebraica, la parola chiave per
fissare gli eventi è zachor, ricorda. Il significato è completamente diverso.
Elie Wiesel11 afferma che la storia ebraica si svolge al presente e influisce sulla nostra
vita e sul nostro ruolo nella società: «Nella storia ebraica tutti gli avvenimenti sono collegati,
è raccontandoli al presente, alla luce di certe esperienze di vita e di morte, che si possono
comprendere. Le storie che noi raccontiamo non iniziano con la nostra; si inseriscono nella
memoria, che è la tradizione vivente del popolo ebraico. Le storie che noi raccontiamo sono
quelle che noi stiamo vivendo»12. A partire dalla distruzione del tempio, il popolo ebraico ha
sviluppato una tradizione orale capace di trasformare il ricordo in memoria viva e
trasmetterlo alla generazione successiva che lo custodisce e lo trasmette a sua volta: «Non
esistono libri migliori dei figli istruiti nella Torah»13.

8
RASHI, Shabbat, 85b.
9
ABRAHAM JOSHUA HESHEL (1907-1972), rabbino e filosofo polacco naturalizzato statunitense.
10
A. J. HESHEL, Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, trad. di L. Mortara e E. Mortara Di Veroli,
Garzanti, Milano, 2018.
11
ELIEZER WIESEL (1928-2016), scrittore, giornalista, saggista, filosofo, attivista per i diritti umani, rumeno
naturalizzato statunitense, vincitore nel 1986 del Premio Nobel per la Pace.
12
E. WIESEL, Célébration biblique. Personaggi biblici attraverso il Midrash, Giuntina, Firenze, 2007.
13
Talmud Babilonese, Bavà Batrà 116 a.

8
È per questo che in Israele, ogni evento importante, che lascia un segno nella
collettività, che cambia la società, che scuote le coscienze, diventa un memoriale, un luogo
di trasmissione del ricordo. Questo vale per le feste religiose e per le ricorrenze laiche. Per
questi motivi, il ricordo perpetuato di un uomo che ha dato la vita per il suo paese, ha
suscitato in me grande ammirazione e stupore: verso la figura di un politico d’altri tempi
(irreprensibile, onesto, autorevole) ma anche verso un popolo che, al di là di tutto quello che
si può pensare a proposito della sua relazione con il popolo palestinese, è stato fin qui capace
di conservarne la memoria.
Fin qui, dicevo, perché, scaduti i venti anni dall’assassinio, di quel lavoro di
trasmissione restano oggi solo cerimonie ritualizzate che tendono a confinare quel fatto in
una dimensione passata, là dove non può riprendere vita per tornare a interrogare le
coscienze di ciascuno sul tempo presente.
Quest’anno ricorrevano 25 anni da quel momento così determinante per la storia di
Israele, da quella notte in cui il sogno di Rabin è stato spezzato. Oggi il Paese vive una realtà
difficile, in cui si ripresentano ancora odio, sgomento e terrore per l’ennesima guerra che ha
mietuto vittime ebree e palestinesi. Il clima di violenza che si era diffuso all’interno della
società israeliana alla vigilia dell’omicidio di Rabin sembra riapparire oggi con le stesse
forme, le stesse espressioni verbali, le stesse manifestazioni di rabbia. Come se, in poco
tempo, il ricordo di quel sacrificio che interrogava ogni israeliano sul suo atteggiamento
verso l’altro da sé, fosse evaporato. Proprio in questi giorni il capo dello Shin Bet (servizio
di sicurezza interno dello Stato di Israele) ha dichiarato:

Recentemente abbiamo riscontrato un serio aumento e una radicalizzazione di discorsi violenti e incitanti, in
particolare sui social media; affermazioni che potrebbero essere interpretate da gruppi o individui come
incoraggiamento o consenso ad attività violente che potrebbero minacciare singoli individui. I politici, i leader
dell’opinione pubblica, le figure religiose e gli educatori di tutto lo spettro politico devono parlare chiaramente
contro qualsiasi violenza. È nostro dovere esprimerci con un appello chiaro e deciso per l’immediata cessazione
del discorso istigante e violento. La responsabilità di frenare le esternazioni ricade sulle spalle di tutti noi. Ci
stiamo avvicinando sempre più al 1995, ai mesi prima dell’assassinio di Rabin 14.

Questo lavoro, a partire dal venticinquesimo anniversario dall’omicidio di Yitzhak


Rabin, per mano di un fanatico fondamentalista, si propone di analizzare l’azione e la visione
politica dello statista, il suo impatto sulla società israeliana e, attraverso la nostra stampa,

14
E. FABIAN, Shin Bet head in rare warning: Stop violenting discourse now, someone will get hurt, in «The
Times of Israel», libera traduzione personale, 5 giugno 2021.

9
anche sull’opinione pubblica italiana, in un momento storico come quello attuale, in cui
Israele affronta una situazione di vuoto politico e confusione istituzionale senza precedenti15.
Abbiamo voluto studiare, in modo particolare, il diverso approccio che due
importanti settori della stampa italiana, quella di ispirazione liberale e quella più
dichiaratamente di sinistra, hanno dato nel corso degli anni e nelle diverse congiunture
storiche, alla figura politica di Yitzhak Rabin e in modo particolare quale lettura abbiano
dato della sua morte e delle conseguenze di questo evento sul processo di pace in Medio
Oriente. L’obiettivo era anche quello di cogliere, attraverso l’analisi che le maggiori testate
hanno proposto del profilo di Rabin, i cambiamenti e l’evoluzione del suo itinerario politico
e umano per dimostrare come la vita di Yitzhak Rabin sia uno specchio che rivela da
qualsiasi angolazione lo si osservi, l’immagine del suo paese.
In questo senso si potrebbe affermare che Yitzhak Rabin, la sua storia, il suo volto,
il suo percorso, sono Israele:

Se mi dessero quell’ingrato compito di scegliere una sola immagine dei 50 anni dell’esistenza di Israele,
un’immagine che sia il riassunto del volto del paese, avrei scelto il momento che nessun israeliano può
dimenticare: 4 novembre 1995. Yitzhak Rabin sul palco, davanti ad una folla di migliaia di persone canta la
canzone della pace. Lo vidi poco lontano, e per me questo è il volto di Israele. Non solo perché il tragitto della
sua vita si è fermato nei punti cardinali della storia israeliana, dalla storica scuola agricola Kaduri, il Palmach,
i convogli che aprivano la strada verso Gerusalemme assediata, la guerra dei Sei giorni, Entebbe, fino alla firma
degli accordi di pace con i palestinesi e con la Giordania; davvero la catena del DNA dell’israelianità! Perché
nel suo volto di un bellissimo ragazzo d’oro, con i lineamenti del sabre mitico, abbiamo letto qualcosa che non
apparteneva alla nostra esperienza storica. Come cresce questo sabre, come invecchia, l’ideale e il miracolo si
intrecciano lentamente nel suo quotidiano, nella trama della realtà e del tempo. L’abbiamo visto, il giovane
idealista, fallire negli intrighi della politica e nella tentazione del denaro, abbiamo osservato come con una
mossa stupefacente, lui torna e si rinnova, cambiando opinioni, superando il suo credo temprato nelle battaglie
e nel sangue. Lì in quella sera di sabato, quando eravamo a cantare insieme a lui quella canzone e lo abbiamo
ammantato d’amore, abbiamo pensato che lui ci portasse la vita. Quel momento racchiudeva la forza e la
debolezza di Israele e dell’ebraismo dall’alba del mondo, la vitalità e il coraggio di superare le paure, di
rigenerarsi continuamente. Ma celava anche il tetro fanatismo che attende in agguato nel buio, dentro di noi
con la pistola in mano16.

15
Nel momento in cui scrivo lo Stato di Israele si trova nella difficoltà “permanente” di formare un governo
stabile dopo che ben quattro tornate elettorali non hanno prodotto una maggioranza parlamentare abbastanza
chiara e solida da consentire ad una coalizione governativa di assumere l’onere di governare il paese.
16
D. GROSSMAN, La terra dei padri. Il deserto è fiorito ma non siamo allegri., in «La Repubblica», 30 aprile
1998.

10
CAPITOLO 1
LA VITA: SABRE, SOLDATO, POLITICO, MARTIRE

1.1 Le origini

Itzhak Rabin nacque da genitori immigrati in Israele dalla Russia zarista, dove la
popolazione ebraica era costretta a vivere nella cosiddetta “zona di residenza”, ed era spesso
vittima dei cosiddetti “pogrom”, ovvero delle spedizioni punitive organizzate dagli altri
abitanti del luogo, sobillati dal governo che desiderava incanalare verso l’intolleranza
religiosa e l’odio etnico la protesta dei contadini e degli operai sottoposti a dure condizioni
di vita. Nelle varie ondate di pogrom morirono molte migliaia di ebrei, centinaia di migliaia
furono feriti e mutilati.
Il padre Nehemiah Robichov nacque a Sidrovitch, vicino Kiev. All’età di dieci anni
il piccolo Nehemiah si trovò con la responsabilità di mantenere la famiglia a causa della
morte del padre. A diciotto anni emigrò negli Stati Uniti d’America, dove entrò a far parte
di un circolo di intellettuali ebrei che propagandavano tra gli immigrati idee socialiste e
sioniste e sognavano di realizzare le loro aspirazioni politiche nella comunità ebraica
residente in Palestina. Come racconterà molti anni dopo il figlio Itzhak in una intervista,
Nehemiah fu molto impressionato dalla società americana e dai suoi valori: «Sono stato
cresciuto con i racconti di mio padre sugli Stati Uniti. Diceva sempre che era il paese in cui
aveva imparato il significato della libertà e in cui aveva assaporato il gusto dell’educazione,
e dove esistevano organizzazioni che si battevano per i diritti dei lavoratori»17.
Nel 1917 Nehemiah decise di cambiare il suo cognome in Rabin e raggiunse la
Palestina arruolandosi nella Legione Ebraica18, che combatté nella Prima guerra mondiale
per l’esercito britannico.
La madre, Rosa Cohen, nacque nella città di Mogilev, nell’attuale Bielorussia, da una
famiglia molto religiosa e totalmente ostile al sionismo. Alla morte prematura della mamma
Rosa venne mandata a vivere con lo zio Mordechai Ben Hillel HaCohen, convinto sionista
e antireligioso, che successivamente si trasferì anche lui in Palestina fuggendo dai pogrom.
Rosa decise allora di studiare alla scuola cristiana contro il volere del padre, iniziando a
interessarsi alla situazione della classe operaia. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre rifiutò di

17
R. SLATER, Rabin, 20 years later, Kotarim International Publishing, Tel Aviv, 2015, p.20.
18
La Legione Ebraica fu il nome assegnato a cinque battaglioni dei Royal Fusiliers dell’esercito britannico,
composti interamente da volontari ebrei, che operarono durante la Prima Guerra Mondiale.

11
iscriversi al partito comunista, ed essendo per questo spiata dalla polizia bolscevica, decise
di emigrare. Si imbarcò così come crocerossina su una nave da guerra che la portò in
Palestina. Qui, dopo aver vissuto un breve periodo con alcuni parenti a Gerusalemme, decise
di unirsi ai pionieri che fondavano kibbutz19 intorno al lago di Tiberiade. Cominciò ad
identificarsi con le aspirazioni del Yishuv, la comunità ebraica presente sul territorio prima
della creazione dello Stato di Israele, in una terra politicamente ambigua e confusa, dove
ebrei e arabi lavoravano fianco a fianco. La comunità ebraica era piccola: nel 1881 gli ebrei
residenti in Palestina erano circa 25.000, ma nel 1900 crebbero fino a 100.000, per poi
aumentare ancora più rapidamente dopo la Dichiarazione Balfour. Questo documento è, di
fatto, una lettera, scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord
Rothschild il 2 novembre 1917, referente della comunità ebraica inglese e rappresentante del
movimento sionista, con la quale il governo britannico affermava di guardare con favore alla
creazione di una «dimora nazionale per il popolo ebraico»20 in Palestina, allora facente parte
dell’Impero Ottomano. Fu a partire da questo documento che nacquero i primi conflitti e il
confronto con il nazionalismo arabo. A complicare ulteriormente la situazione durante gli
anni del dopoguerra contribuì notevolmente la presenza britannica, con il mandato affidato
dalla Lega delle Nazioni nel 1920. Sebbene la dichiarazione Balfour sembrasse incoraggiare
l’immigrazione, la politica inglese cambiò rapidamente direzione, ostacolando o rallentando
l’entrata di nuovi ebrei in Palestina.
Nehemiah e Rosa si conobbero intorno al 1920, proprio mentre iniziavano i primi
scontri con le tribù arabe, tramite lo zio Mordechai, diventato nel frattempo un importante
uomo politico. Nehemiah entrò nel nuovo comitato di difesa e venne addestrato all’uso delle
armi, mentre Rosa si occupava di diritti dei lavoratori. Dopo il matrimonio si stabilirono a
Haifa dove Nehemiah lavorava come dirigente della compagnia elettrica e Rosa per
l’Haganah, l’organizzazione paramilitare ebraica nata in quegli anni per difendere gli
insediamenti dagli attacchi degli arabi palestinesi. Nel 1923 si trasferirono a Tel Aviv, poco
dopo la nascita del loro primogenito Yitzhak, cui seguirà due anni dopo l’arrivo di Rachel.
Rosa era fonte di grande ispirazione per i propri figli: combatteva per i propri princìpi
e per i diritti dei lavoratori, nonostante le precarie condizioni di salute dovute ad una grave
forma di cardiopatia. In particolar modo si impegnò nelle campagne organizzate per favorire

19
Il Kibbutz (eb: ‫ )קיבוץ‬è una forma associativa volontaria di lavoratori, basata su regole rigidamente egualitarie
e sul concetto di proprietà collettiva, la cui comparsa risale all’inizio del XX secolo.
20
M. LEVINE, The Balfour Declaration: A Case of Mistaken Identity, The English Historical Review, 107/422,
gennaio 1992, pp.54-77.

12
il diritto allo studio per i figli dei lavoratori agricoli. Nel 1924 fu tra i fondatori della Beit
HaChinuch le Yaldei Ovdim (Casa per l’educazione dei figli dei lavoratori), dove anche il
piccolo Yitzhak studierà dai sei ai tredici anni. La scuola non aveva l’obiettivo di formare
intellettuali o imprenditori, ma lavoratori che, completata la loro formazione, potessero
andare nei vari kibbutz, colonizzare la terra e stabilire una presenza ebraica nel maggior
numero possibile di aree del Paese, obiettivi questi comuni al movimento sionista e a quello
dei lavoratori. La scuola non si proponeva soltanto di supplire alla mancata educazione, ma
trasmetteva ai ragazzi una ideologia, una direzione e un modello per le loro esperienze future.
La scuola era organizzata secondo il principio dell’autogestione attraverso un comitato
studentesco; accoglieva solo proletari e sperimentava un metodo che integrasse lo studio con
l’esperienza lavorativa. Ricordando gli anni trascorsi in quella scuola Rabin affermò: «Oggi
sono sicuro che, quegli anni dell’infanzia, sebbene non ci fossero molte comodità, furono
straordinari. Ho sviluppato senso di responsabilità nei confronti del lavoro, il mio amore per
il paesaggio e la terra, e un sentimento di cameratismo»21. Gli eroi di Rabin bambino erano
lavoratori della terra, operai, allevatori. Le uniche figure militari allora conosciute erano gli
inglesi e non erano considerate esattamente un modello da imitare, perché trattavano gli ebrei
come coloni nativi di una remota colonia dell’impero britannico. Per questo il ragazzo
pensava al suo futuro come agricoltore, non certo come soldato e tanto meno come politico.
Yitzhak crebbe così in una famiglia socialista, libera da qualsiasi condizionamento
religioso, sebbene credesse profondamente nel giudaismo come spinta positiva, elemento
unificatore per la comunità e aiuto nella difesa del Yishuv.
Dopo la scuola elementare la mamma insistette perché Yitzhak studiasse nella scuola
Givat HaShlosha, situata all’interno di un kibbutz e con il già menzionato indirizzo agricolo,
dove però, è importante notare che si studiava anche la lingua araba. In questi anni insieme
all’immigrazione ebraica, cresceva la violenza araba. Per questo l’Haganah incominciò ad
organizzarsi autonomamente, potendo contare sempre meno sull’appoggio britannico e
sebbene male equipaggiata, crebbe forte e consapevole dei propri obiettivi. Proprio in
seguito alle frequenti rivolte, il governo britannico creò la Commissione Peel, dal nome del
suo presidente, Lord William Peel. Nel 1937 l’organismo propose un primo piano di
spartizione del territorio palestinese per la costituzione di due stati, uno ebraico e l’altro
arabo.

21
R. SLATER, Rabin, 20 years After, cit., p.35.

13
La proposta prevedeva la concessione agli ebrei della Valle di Jezrel e la Galilea con
uno sbocco sul mare, mentre gli arabi avrebbero avuto tutto il resto della Palestina.
Gerusalemme sarebbe stata costituita area internazionale e unita alla costa mediterranea
tramite un corridoio. La popolazione ebraica, sebbene divisa da varie fazioni al suo interno,
accettò la proposta, che fu invece categoricamente rifiutata dagli arabi, i quali iniziarono una
pressante attività terroristica che colpì, tra l’altro, anche la scuola di Givat HaShlosha con
vari atti di sabotaggio, che obbligarono la dirigenza a diverse chiusure e riaperture della
struttura. In questi periodi Rabin venne mandato a lavorare nel kibbutz Ginnosar, sul lago di
Tiberiade. Gli inglesi, a questo punto iniziarono a reprimere le rivolte arabe nel sangue,
soprattutto dopo l’assassinio del commissario britannico per il distretto della Galilea Lewis
Yelland Andrews, il 26 settembre 1937.

1.2 Il Palmach

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale la comunità ebraica residente in


Palestina vide nell’esercito britannico la prima forza in campo in grado di difenderla dai
tedeschi, ma essendo la guerra ancora lontana, la percepì allo stesso tempo come un nemico
del Yishuv. Nel 1938 gli inglesi infatti annunciarono un provvedimento, detto Libro Bianco
(White Paper), che avrebbe permesso l’ingresso di 15.000 immigrati all’anno per i successivi
cinque anni, al termine dei quali l’immigrazione ebraica in Palestina sarebbe stata impedita.
Questa decisione implicava evidentemente una rinuncia ai contenuti della Dichiarazione
Balfour, che invece incoraggiava l’arrivo di immigrati ebrei. Tale posizione ambigua da
parte inglese spinse l’Haganah ad aprire campi di addestramento per formare un proprio
esercito autonomo, aperti anche agli adolescenti che frequentavano in quel momento le
scuole superiori, come Yitzhak Rabin, che nel 1937 iniziò a frequentare la Kadoorie
Agricultural High School. Qui il giovane Yitzhak venne formato per poter essere ammesso
alle più prestigiose università, ma continuò nello stesso tempo l’addestramento militare sotto
il comando di Yigal Allon22.
Si diplomò con il massimo dei voti e vinse una borsa di studio che gli offrì
l’opportunità di studiare in America; ma fu proprio in questo momento che iniziò per lui
l’esperienza più importante e che segnò per sempre la sua vita: l’esordio tra le file del

22
Yigal Allon (1918-1980), politico israeliano e primo ministro dal 26 febbraio 1969 al 17 marzo 1969, dopo
essere stato comandante del Palmach e generale delle Forze di difesa israeliane.

14
Palmach. Il Palmach (abbreviazione di Plugot Mahas, ovvero “Compagnie d’Attacco”) era
la sezione paramilitare della Haganah, fondata per assistere le forze britanniche nella
pianificata invasione di Siria e Libano, all’epoca dominate dalle forze francesi del regime di
Vichy. Esperti britannici addestrarono i soldati del Palmach e li equipaggiarono con armi di
piccolo calibro e con esplosivi. I britannici ne ordinarono lo smantellamento nel 1942, dopo
la battaglia di El-Alamein, ma continuò ad operare clandestinamente autofinanziandosi
inviando i soldati a lavorare nei Kibbutz. Ogni Kibbutz ospitava un plotone del Palmach e lo
riforniva di cibo, alloggi e materiale. In cambio il plotone difendeva il kibbutz ed eseguiva
lavori agricoli. Il programma di addestramento combinato militare-agricolo unito
all’educazione ai valori sionisti per tutti i giovani fra i 18 e i 20 anni si chiamava Ach’shara
Meguyeset, cioè “Addestramento Reclutamento”.

Per molti israeliani, la figura di Yitzhak Rabin è strettamente identificata con il Palmach e il
Palmach è identificato con la figura di Yitzhak Rabin. Infatti, per molti sabre23, il triplice
concetto di Sabre-Palmach-Rabin forma un legame triangolare che non può essere separato. Nel
tempo, una intera mitologia è stata creata che unisce questi tre concetti indissolubilmente e, come
ogni mito, anche questo è passato sopra le ambiguità e le controversie che hanno coinvolto
l’organizzazione Palmach in generale, e i combattenti del Palmach nello specifico24.

La figura di Yitzhak Rabin, in effetti, appare esattamente come l’archetipo del Sabre:
figlio di halutzim (pionieri) che hanno fatto aliyah (ritorno) dalla diaspora per diventare
l’elite fondatrice del pre-stato Yishuv; studente alla scuola agricola per preparare un futuro
negli insediamenti agricoli fondati sui principi collettivi; guerriero impavido nel Palmach,
dove raggiunse la vetta della gerarchia militare grazie al suo coraggio leggendario e
all’esperienza nel combattimento.
L’ascesa di Rabin attraverso i vari livelli del Palmach fu rapidissima. Cominciò come
membro giovanile della squadra che si occupava delle linee telefoniche nel 1941 e nel 1948,
quando fu fondato lo stato d’Israele e il Palmach smantellato, aveva raggiunto il grado di
ufficiale responsabile delle operazioni sul fronte del Negev sotto il comando diretto del
comandante generale Yigal Allon.
Nel maggio del 1945 terminò la Seconda guerra mondiale, ma diversamente da
quanto si aspettavano i dirigenti del Yishuv, la politica britannica sull’immigrazione ebraica
in Palestina non cambiò, nonostante le pressioni americane per concedere a migliaia di
sopravvissuti all’Olocausto di rifugiarsi nei territori palestinesi sotto il Mandato Britannico.

23
Sabre (eb: ‫ )צבר‬è il termine ebraico per definire, senza distinzione di genere, una nuova generazione di ebrei,
nati in Israele. La parola deriva dal vocabolo ebraico “tzabar”, nome del fico d’India.
24
R. SLATER, Rabin, 20 years After, cit., p.120.

15
I rifugiati che si accalcano alle porte della Palestina vennero catturati e collocati in campi di
detenzione. Per questo il Yishuv, ancora sconvolto dall’aver appreso le atrocità della Shoah,
decise di istituire una organizzazione che si occupasse dell’immigrazione illegale. Questa
organizzazione, chiamata Mosad Le-Aliyat Bet25, si divideva in tre settori: il primo si
occupava dell’individuazione dei rifugiati in Europa e ne organizzava il viaggio verso
Israele; il secondo era incaricato di trovare i mezzi marini, imbarcare i rifugiati e condurli
verso la costa palestinese; il terzo, in cui militava Rabin, era dislocato sulle coste e aveva il
compito di scortare gli immigrati alle loro destinazioni e allo stesso tempo combattere contro
il blocco operato dagli inglesi. Il fine ultimo per cui il Palmach veniva impiegato non era
avviare ostilità contro l’esercito britannico, ma offrire aiuto ai fratelli della diaspora provati
dalla persecuzione.
Fu durante una di queste operazioni militari che Yitzhak conobbe Leah Schlossberg,
sua futura moglie. Leah veniva da una famiglia yekke (ebrei di origine tedesca) che fecero
aliyah dopo l’ascesa al potere di Hitler.
Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite approvarono il Piano di Ripartizione26 e il
Yishuv si ritrovò ad affrontare una guerra per la quale non era assolutamente preparato.
L’indagine condotta da Ben Gurion27 nella primavera del 1946 per testare il sistema di difesa
aveva rivelato una grave carenza nella preparazione ad affrontare una guerra reale e concluse
che occorressero almeno due anni per pianificare un confronto militare su larga scala. Il
giorno seguente all’approvazione del Piano di Ripartizione il Supremo Comitato Arabo28
dichiarò la mobilitazione generale e numerose rivolte esplosero in Gerusalemme, a Tel Aviv
e in tutto il territorio. La mappa della ripartizione, sebbene più generosa territorialmente
rispetto a quello che gli ebrei avevano proposto, poneva enormi problemi di ordine pubblico
e legati alle infrastrutture: tre quarti del territorio era composto dall’arido deserto del Neghev
ed era accessibile unicamente attraverso l’attraversamento di insediamenti arabi o beduini;
Jaffa, confinante con Tel Aviv, fu dichiarata enclave araba; Gerusalemme era accessibile
solo attraverso territori assegnati agli arabi, sebbene fosse stata dichiarata zona

25
Il Mosad LeAliyah Bet, (eb: ‫מוסד לעלייה ב‬, letteralmente: Istituzione per l’immigrazione B), era un ramo
dell’Haganah durante il Mandato Britannico della Palestina, che operava per facilitare l’immigrazione ebraica
in Palestina in violazione alle regolamentazioni imposte dal governo britannico.
26
Il Piano di Ripartizione della Palestina fu approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 19
novembre 1947 (Risoluzione 181). Propone la partizione del territorio palestinese fra due Stati, uno ebraico,
l’altro arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale.
27
David Ben Gurion (1886-1973), politico israeliano, fondatore di Israele e prima persona a ricoprire la carica
di primo ministro del suo Paese.
28
Il Supremo Comitato Arabo fu fondato nel 1936 durante la Grande rivolta araba in Palestina ed è stato
l’organo politico centrale della comunità araba di Palestina. Fu dichiarato fuorilegge dai britannici nel 1937.

16
internazionale per la sua importanza religiosa e amministrata dall’ONU; Gush Etzion era
un’enclave ebraica all’interno dei confini dello Stato Arabo; la maggior parte della Galilea
era fuori dai territori assegnati agli ebrei nonostante fosse abitata principalmente da ebrei e
sarebbero rimasti arabi molti insediamenti ebraici tra cui Safed, una delle città sante per la
religione ebraica.
Con questo quadro della situazione, compito del Palmach era garantire la sicurezza
dei territori creati per raggiungere gli insediamenti, continuamente attaccati dagli arabi,
soprattutto nel territorio del Negev e a Gerusalemme. Per riuscire in questa impresa vennero
reclutati tutti i riservisti e la manodopera in grado di costruire le necessarie infrastrutture per
collegare gli insediamenti e formate nuove unità operative. Le unità che operavano su
Gerusalemme erano coordinate sotto il comando di Rabin. Allo scoppio della guerra le forze
arabe cercarono subito di impedire l’accesso a Gerusalemme e di tagliare le vie di
comunicazione tra le città ebraiche. Alla fine di marzo riuscirono ad interrompere del tutto
la vitale via di collegamento tra Tel Aviv e Gerusalemme, dove viveva circa un sesto della
popolazione ebraica palestinese. L’Haganah decise allora di passare ad una strategia più
offensiva e riuscì ad approvvigionarsi di armi provenienti dalla Cecoslovacchia mentre, dopo
molti fallimenti, iniziò ad elaborare il cosiddetto piano Dalet29.
Ufficialmente tale piano prevedeva solo la difesa dei confini dello Stato Israeliano
futuro e la neutralizzazione delle basi dei possibili oppositori, ma molti storici30 sono
concordi nell’affermare che il piano era in realtà una giustificazione per azioni violente usate
come pressione psicologica per convincere i palestinesi ad abbandonare spontaneamente i
loro insediamenti lungo il territorio assegnato allo Stato di Israele. Con l’Operazione
Nachson, prima fase del Piano Dalet, l’Haganah proseguì i suoi attacchi ai combattenti arabi
mimetizzati da civili e aprì temporaneamente la strada per Gerusalemme. Alcuni di questi
villaggi lungo la strada per la città vennero attaccati e demoliti e la popolazione fu costretta
a fuggire. Le unità sotto il comando di Rabin vennero impiegate in moltissime operazioni e
dopo il fallimento della conquista di Gerusalemme nel maggio del 1948, il battaglione si
trovò in condizioni fisiche e psicologiche precarie per la mancanza di cibo, la stanchezza e
le numerose perdite. È in questi giorni difficili che nacque lo Stato d’Israele, con la

29
Il Piano Dalet fu stilato da Israel Ben Moshe Pasternak con l’obiettivo di assumere il controllo delle zone
dello Stato ebraico e difenderne le frontiere. Si proponeva inoltre la conquista del controllo delle zone di
insediamento e di concentrazione ebraiche situate al di fuori delle frontiere dello Stato ebraico contro le forze
arabe.
30
W. KHALIDI, Plan Dalet: Master Plan for the conquest of Palestine, Journal of Palestine Studies, XVIII/69,
1988, pp.4-37.

17
proclamazione da parte di David Ben Gurion il 14 maggio, per gli ebrei il 5 Iyyan 5708 e la
conseguente fine del Mandato Britannico.
Il nuovo stato venne rapidamente riconosciuto dall’Unione Sovietica, dagli Stati
Uniti e dalle altre nazioni che facevano parte della neonata Assemblea delle Nazioni Unite.
Nei giorni successivi gli eserciti di Libano, Siria, Iraq, Egitto e Giordania invasero il
neocostituito stato, aiutati da volontari dall’Arabia Saudita, dalla Libia e dallo Yemen.
Entrambe le parti nei mesi seguenti incrementarono il numero di truppe mobilitate, ma il
vantaggio di Israele crebbe continuamente come risultato del coinvolgimento progressivo
dell’intera società israeliana, accresciuta dall’afflusso mensile di circa 10 mila trecento
immigrati.
Nel maggio del 1948 era nata anche ufficialmente l’IDF (Israel Defence Force) che
riassorbiva Haganah, Palmach e Irgun31. L’IDF cercò di resistere agli eserciti arabi e impedì
loro di distruggere i principali insediamenti ebraici, ma perse il controllo di Gerusalemme.
Nei successivi mesi le forze israeliane respinsero a nord l’esercito siriano e a sud quello
egiziano. Nell’estate del 1948 l’offensiva israeliana si fece pressante e l’IDF conquistò Lidda
e Ramle e poi Ramallah e Latrun. In un secondo tempo con l’Operazine Dekel gli ebrei
conquistarono anche Nazareth e l’intera bassa Galilea, da Haifa al lago di Tiberiade. Con
una serie di successive operazioni Israele respinse gli eserciti arabi e rafforzò le proprie
frontiere. Intanto Ben Gurion dispose, senza esitazioni, lo smembramento del Palmach. In
aperto dissenso con questa decisione, molti importanti esponenti del Palmach lasciarono
l’IDF.
Non Rabin, che continuò invece il suo lavoro di organizzazione del corso di comando
del primo battaglione dell’IDF. Il resto della sua vita dimostrò come l’esperienza nel
Palmach avesse segnato in modo indelebile la personalità e la visione politica di Yitzhak
Rabin. L’aver perso tante giovani vite sotto il suo comando impresse un profondo senso di
prudenza e responsabilità in ogni decisione che coinvolgesse vite umane. Ne abbiamo una
testimonianza diretta nel discorso che da Primo Ministro pronunciò al Congresso degli Stati
Uniti il 26 Luglio del 1994, alla firma degli accordi di pace con il Regno Ascemita di
Giordania:

31
Irgun (eb: ‫)ארגון‬, letteralmente Organizzazione. Termine utilizzato per riferirsi all’Organizzazione Militare
Nazionale (eb: ‫ארגון צבאי לאומי‬, Irgun Tzvai Leumi), che fu un gruppo paramilitare operante in tutto il periodo
del mandato britannico giudicato terrorista dalla Gran Bretagna e anche da numerose organizzazioni ebraiche,
considerato responsabile di diversi attentati. La sua adesione all’ideologia del Sionismo revisionista lo pone
secondo alcuni come progenitore del moderno partito israeliano Likud.

18
Caro Re Hussein, domani tornerò a Gerusalemme, la capitale dello Stato d’Israele e cuore del popolo
ebraico. Lungo la strada per Gerusalemme ci sono hulk arrugginiti di metallo, bruciati, silenziosi e muti.
Sono i resti dei convogli che quarantasei anni fa portarono cibo e medicine nella città di Gerusalemme,
devastata dalla guerra e assediata. Per molti cittadini israeliani, la loro storia è quella dell’eroismo, parte
della nostra leggenda nazionale. Per me e per i miei compagni d’armi, ogni pezzo di metallo freddo che
giace lì sul ciglio della strada è un ricordo amaro. Ricordo, come se fosse proprio ieri, i giovani morti
in questi scheletri di auto arrugginiti. Le loro grida di dolore risuonano ancora nelle mie orecchie e vedo
ancora nell’occhio della mia mente il sangue che fuoriesce dai loro corpi. Il silenzio mortale che seguì
mi perseguita ancora. Me li ricordo. Ero il loro comandante in guerra. Per loro questa cerimonia è
arrivata troppo tardi. Ciò che resta sono i loro figli, i loro compagni, i loro nipoti. E io -militare I.D.
numero 30743, generale in pensione delle forze di difesa israeliane- oggi mi considero un soldato
nell’esercito della pace. Io, che ho mandato truppe nel fuoco della guerra e soldati incontro alla morte,
io dico a voi, Vostra Maestà, il Re di Giordania, e dico a voi, nostri amici americani: oggi ci stiamo
imbarcando in una battaglia che non ha morti e feriti, sangue e angoscia. Questa è l’unica battaglia che
è un piacere condurre: la battaglia della pace32.

Pronunciò queste parole non potendo immaginare cosa gli sarebbe accaduto solo
sedici mesi più tardi.

1.3 La carriera militare

Lo Stato d’Israele raggiunse infine la sua indipendenza attraverso una guerra


sanguinosa lunga diciassette mesi, pagando il prezzo di seimila vite di cittadini ebrei, circa
l’1% della popolazione del Yishuv, e lasciando un esercito esausto e angosciato per la
situazione di estrema incertezza sul fronte della sicurezza dei confini dovuta all’ostilità di
tutti i paesi limitrofi che, all’indomani del conflitto, disposero immediatamente un blocco
navale verso la costa israeliana, opposero un rifiuto categorico a qualsiasi relazione
diplomatica col nuovo stato, proibirono il transito nel canale di Suez e diedero inizio ad una
feroce campagna terroristica.
Nel 1951 Israele approvò la Legge del Ritorno (Hok ha-Shvut) con cui, abrogando le
norme fissate nel White Paper dalle autorità britanniche in termini di immigrazione, si
garantiva la cittadinanza israeliana ad ogni persona di discendenza ebraica del mondo, che
si trasferisse in Israele e accettasse di compiere il servizio militare. In seguito a questo
provvedimento la popolazione dello stato arrivò nel 1951 a 1,5 milioni.
Intanto Rabin iniziò un nuovo percorso nell’IDF, diventando stretto collaboratore di
Haim Laskov, veterano dell’Haganah incaricato da Ben Gurion di riorganizzare e unificare
il nuovo esercito. Rabin dovette migliorare il suo inglese, studiare la terminologia militare,
strategia e tecniche di pianificazione operativa, predisporre piani per ogni possibile

32
Y. RABIN, Speech to the United States Congress, in “I, 30743, Yitzhak Rabin”, Washington, 26 luglio 1994.

19
situazione militare e testare la preparazione delle truppe. Nel 1956 venne nominato
comandante del fronte Nord, rimanendo quindi ai margini della Campagna del Sinai lanciata
da Israele in collaborazione con Francia e Inghilterra all’indomani della nazionalizzazione
del Canale di Suez da parte dell’Egitto di Nasser.
Nel 1960 si recò in visita negli Stati Uniti dove venivano addestrate alcune truppe
scelte dell’esercito israeliano e rimase colpito dalla dimensione delle forze armate
americane, dalla loro organizzazione, dall’uso di mezzi tecnologici sofisticati e in particolar
modo dall’utilizzo della deterrenza come strategia militare. Essa consisteva nell’attuare
comportamenti minacciosi che dissuadessero il nemico dall’intenzione di attaccare,
convincendolo che tale mossa risulterebbe più dannosa per chi la compie che per chi la
subisce, a causa delle possibili ritorsioni a cui andrebbe incontro. In un discorso pronunciato
poco dopo il suo ritorno affermò:

È necessario usare l’arma della deterrenza per poter mantenere uno stile di vita normale nelle
zone di confine, ciò è vitale per la sicurezza di Israele. L’IDF dovrebbe cercare di evitare il più
possibile scontri con i siriani e adottare una politica di deterrenza che darebbe alla nazione la
sicurezza necessaria senza pagare il prezzo di essere coinvolta in un combattimento. È preferibile
dimostrare capacità di usare la forza che dover assestare il colpo33.

Nel 1962 il nuovo Primo ministro Levi Eshkol34 lo nominò Capo di stato maggiore e
venne promosso Tenente Generale, il grado più alto dell’esercito israeliano. Aveva
quarant’anni. In questo momento i confini dello stato sembravano tranquilli. La sua
maggiore preoccupazione veniva dall’Egitto, la più potente tra le nazioni arabe, sebbene
momentaneamente coinvolta in un conflitto nello Yemen. A Nord la Siria cercava
continuamente pretesti per scontri a fuoco che convincessero l’alleato egiziano ad attaccare
il nemico comune, non essendo essa stessa in grado di fronteggiare l’esercito israeliano.
Nel 1963 Israele completò il National Water Carrier, un progetto idrico che
prevedeva il trasporto di acqua del Giordano dal nord del Paese, fino alle aride regioni del
sud. Gli stati arabi decisero di sabotare il programma deviando il fiume in territorio siriano.
Molti atti terroristici vennero compiuti in tal senso e si susseguirono le ritorsioni israeliane.
Solo nel 1966 si contarono 93 incidenti sul confine. Nel 1966, a causa di un raid fallimentare
nel villaggio giordano di Samu, Rabin rassegnò le dimissioni, che vennero però
immediatamente respinte dal premier. Si trattava di una rappresaglia per l’attacco compiuto
da terroristi palestinesi sul confine, in cui morirono tre soldati israeliani. L’obiettivo era

33
Intervista rilasciata al quotidiano Maariv, 18 dicembre 1962.
34
Levi Eshkol (1895-1969), politico israeliano, tra i padri fondatori dello Stato d’Israele. Ricoprì l’incarico di
primo ministro dal 16 giugno 1963 al 26 febbraio 1969.

20
unicamente la distruzione delle case dei terroristi che abitavano nel villaggio, ma gli
israeliani si imbatterono casualmente in alcune truppe giordane e ne nacque un terribile
scontro a fuoco in cui morirono sedici militari giordani e uno israeliano e molti furono feriti,
insieme a tre civili. Il caso suscitò molta indignazione nell’opinione pubblica israeliana.
Intanto Rabin era sempre più preoccupato per la crescente potenza acquisita dalla
macchina da guerra egiziana, costruita negli ultimi anni grazie all’acquisto di armamenti
dall’Unione Sovietica. Per questo dispose immediatamente lo stato d’allerta all’apprendere
la notizia che l’Egitto aveva iniziato a mobilitare l’esercito nel Sinai. Pur non credendo che
Nasser35 fosse intenzionato a muovere guerra contro Israele, Rabin decise di rinforzare le
truppe dislocate al confine egiziano. Lo Stato maggiore era convinto che si trattasse di una
guerra psicologica di logoramento, anche perché l’Egitto aveva ancora 500.000 soldati
impegnati nello Yemen. Intanto Nasser chiese l’evacuazione delle forze militari delle
Nazioni Unite stanziate sul Sinai, richiamò le truppe dallo Yemen e iniziò una propaganda
che, inneggiando al nazionalismo arabo, istigava la popolazione araba palestinese all’odio
verso il nemico sionista.
A questo punto Rabin e il suo staff decisero di cambiare strategia. All’interno dello
Stato Maggiore alcuni spinsero per una guerra preventiva che distruggesse le forze armate
egiziane prima di un loro attacco. Rabin era molto indeciso: vedeva l’entrata in guerra come
un suo fallimento personale e sperava ancora di riuscire ad evitarla consapevole anche che i
danni che le forze armate avrebbero potuto subire sarebbero state enormi. Cercò di prendere
tempo per preparare adeguatamente le truppe. Il 23 maggio Nasser chiuse lo stretto di Tiran,
unico accesso per le navi dirette al porto israeliano di Eilat36. Questo venne considerato
inequivocabilmente una dichiarazione di guerra.
In questo momento Rabin, gravato dalla responsabilità di una decisione che pesava
unicamente sulle sue spalle, ebbe un crollo psicofisico da stress, che lo rese incapace di
continuare a gestire l’emergenza. Il suo medico personale lo obbligò a concedersi 24 ore di
riposo per paura di un imminente crollo nervoso. La sua assenza per un giorno intero, unita
al disastroso discorso alla nazione tenuto in radio dal primo ministro Eshkol, provocarono
nella popolazione un senso di incertezza e di sfiducia nelle istituzioni, per vincere il quale

35
Gamal Abdel-Nasser (1918-1970), politico e militare egiziano, secondo Presidente della Repubblica
egiziana, dal 23 giugno 1956 al 28 settembre 1970.
36
Eilat è una città dello Stato di Israele sulle rive del Mar Rosso e parte del deserto meridionale del Neghev.

21
venne nominato ministro alla difesa il generale Moshe Dayan37, eroe della campagna del
Sinai. Accertata l’intenzione degli alleati occidentali di non intervenire in appoggio a Israele
in un eventuale conflitto, Rabin e Dayan elaborarono una strategia che prevedeva un piano
d’attacco per conquistare Gaza e il Sinai, riaprire lo stretto di Tiran e respingere l’esercito
egiziano.

La nostra preoccupazione principale era che non fosse importante chi avrebbe fatto la prima
mossa, il nostro primo atto avrebbe dovuto essere quello di sferrare un colpo devastante contro
il corpo principale della forza nemica. Era necessario un grande risultato da parte nostra nel giro
di poche ore, un giorno o i primi giorni, affinché ciò avesse il suo effetto sullo spirito combattivo
dell’altra parte. Era necessaria una vittoria nei cieli, sia per schiacciare rapidamente l’aviazione
nemica che per lasciare liberi i nostri aerei in modo che potessero assistere le forze terrestri e
marittime38.

L’esercito israeliano si trovò dunque impegnato su tre fronti: il Sinai, Gerusalemme


occupata dalle forze giordane e il confine nord con Siria e Libano. Il 5 giugno l’aviazione
israeliana lanciò un attacco a sorpresa contro l’aviazione egiziana, annientandola quasi
completamente a terra (Operazione Focus). La stessa sorte toccò nelle ore successive
all’aviazione siriana. Inoltre, appena terminato il primo attacco aereo, Israele diede il via alle
operazioni di terra (Operazione Lenzuolo Rosso) entrando nella striscia di Gaza e nella
penisola del Sinai. La Giordania, che aveva segretamente firmato un trattato di mutua difesa
con l’Egitto, decise di attaccare a Gerusalemme Ovest e Tel Aviv, ma non ottenne grandi
risultati, per la reazione dell’aviazione israeliana e delle brigate corazzate che entrano a
Gerusalemme e in Cisgiordania. Come Rabin dichiarò in seguito:

Fino alla fine, non ci furono errori reali. Intendo errori che avrebbero potuto influenzare il
risultato dell’intera campagna. È vero che lungo il percorso sono stati commessi piccoli errori,
ma è quasi incredibile che una guerra di questa dimensione e di questo ritmo possa essere
combattuta con così pochi errori. Tutto ciò fu dovuto all’eccellenza del comando a tutti i livelli39.

Il giorno 7 giugno la vittoria israeliana apparve netta su tutti i fronti. I giordani


decisero di ripiegare e chiedere trattative per un cessate il fuoco. Rabin e Dayan decisero
dunque di rompere gli indugi ed entrare nella Città Vecchia di Gerusalemme, evitando danni
alla città santa. Questo fu il punto emotivamente più alto del conflitto, sigillato nella
memoria della popolazione israeliana dalla famosa foto dei tre generali, Rabin, Dayan e

37
Moshe Dayan (1915-1981), generale e politico israeliano, quarto Capo di stato maggiore delle Forze di difesa
israeliane.
38
Y. RABIN, Intervista rilasciata al quotidiano Maariv, 2 giugno 1972.
39
A. RABINOVITCH, The Battle of Jerusalem, Jewish Publication Society of America, Philadelphia 1972, pp.
66-67.

22
Narkiss, che entravano in trionfo nella città appena conquistata. Rabin descrisse quel
momento come «l’apice della mia vita»40.

Penso che, se ci può essere qualcosa per un essere umano che può essere chiamato la
realizzazione di un sogno, questo è quello che ho provato allora quando mi sono avvicinato al
Muro. Per un ragazzo ebreo nato a Gerusalemme, cresciuto in Palestina, che è riuscito a vedere
la creazione di uno stato ebraico, che comandò una brigata nel ’48 e non riuscì a liberare il Muro,
che diciannove anni dopo divenne capo di stato maggiore, e poi come capo di stato maggiore è
stato in grado di realizzare la liberazione del Muro, chi può desiderare di più?41.

La guerra continuò fino alla conquista delle alture del Golan il 9 giugno. Le ostilità
cessarono il 10 giugno e Israele vide la propria estensione geografica quadruplicata,
capovolgendo a proprio favore la situazione politica nel Vicino oriente, con effetti anche nei
rapporti internazionali tra le grandi potenze. La speranza di Israele fu allora che gli stati arabi
avessero a quel punto la necessità di ricercare una stabilità e una pace duratura.

L’euforia della vittoria ha preso l’intera nazione. Eppure tra i soldati stessi si osserva un
fenomeno curioso. Non possono gioire con tutto il cuore. Il loro trionfo è rovinato dal dolore e
dallo shock, e c’è qualcuno che non può gioire affatto. Gli uomini in prima linea hanno visto con
i propri occhi non solo la gloria della vittoria ma anche il suo prezzo: i loro compagni sono caduti
accanto a loro, immersi nel sangue. E so che il terribile prezzo pagato dal nemico ha commosso
profondamente anche molti dei nostri uomini. È perché né la sua formazione, né la sua esperienza
hanno mai abituato il popolo ebraico ad esultare nella conquista e nella vittoria, che le accolgono
con sentimenti così contrastanti?42.

La Guerra dei Sei Giorni trasformò Rabin in un eroe nazionale e in un simbolo di


speranza e lo rese un leader acclamato, pronto per il salto nel mondo della politica.

1.4 Ambasciatore a Washington

Nella nazione si respirava ora una nuova aria di orgoglio patriottico e un senso di
autosufficienza, ma il sogno di una pace duratura era ancora molto lontano. Rabin era
convinto che in questo momento Israele dovesse rafforzare la propria supremazia militare e
contemporaneamente manifestare agli stati arabi le proprie intenzioni pacifiche per attestarsi
come la forza più rilevante del Medio Oriente. Dopo l’intenso periodo bellico Rabin volle
ritirarsi dalla vita militare, il suo desiderio era quello di trascorrere un tempo negli Stati
Uniti. Già prima della guerra si era proposto al premier Eshkol come nuovo ambasciatore a

40
The Jerusalem Post, 9 ottobre 1967.
41
M. BEN SHAUL, Generals of Israel, Hadar Publishing House, New York 1996, p.24.
42
Y. RABIN, Discorso all’Università Ebraica di Gerusalemme, 28 giugno 1967, in occasione del conferimento
del Dottorato Honoris Causa per il servizio offerto alla nazione durante la guerra.

23
Washington. Eshkol inizialmente non vide bene la presenza di un militare come diplomatico
proprio durante la crisi provocata negli USA dalla guerra del Vietnam. Il suo timore era che
questa presenza potesse in qualche modo danneggiare l’immagine di Israele come nazione
pacifica nel momento in cui si faceva più forte l’esigenza di rafforzare il legame con la
superpotenza americana. Dopo il conflitto Eshkol cambiò opinione e, a soli 46 anni, Yitzhak
Rabin venne nominato ambasciatore a Washington. Come diplomatico Rabin ritenne
fondamentale consolidare il prestigio ottenuto da Israele nella Guerra dei Sei Giorni e coltivò
nel suo cuore il desiderio profondo di dare il suo contributo alla costruzione della pace in
Medio Oriente.
Il 31 marzo il presidente Lindon Johnson43 parlò alla nazione annunciando che non
si sarebbe ricandidato alla presidenza nella prossima tornata elettorale. Il Paese era in gravi
difficoltà a causa delle proteste contro la guerra del Vietnam e delle discriminazioni razziali.
Nel 1968 a Rabin parve di assistere ad un pericoloso declino degli USA: la prova, secondo
lui, era il fallimento americano nello smascherare il piano sovietico di invasione della
Cecoslovacchia44. Assistette con molta preoccupazione all’inestricabile confusione in cui
versava l’esercito americano in Vietnam, un conflitto che assorbiva le risorse del Paese e
distoglieva l’attenzione della politica dalla difficile situazione interna, ma anche dai
problemi del Medio Oriente.
Rabin fu un ambasciatore atipico: poco amante del protocollo, incapace di usare un
linguaggio formale, poco abile nell’uso fluido della lingua inglese. Inoltre, tradizionalmente
gli ambasciatori israeliani guardavano alla comunità ebraica americana come al sostegno
chiave per lo stato ebraico, ma nel suo caso l’approccio iniziale fu molto distaccato e privo
della consueta familiarità, forse a causa del suo essere sabre e non un immigrato, come i
membri della comunità ebraica statunitense. Secondo Rabin gli Stati Uniti non
comprendevano fino in fondo quanto il resto del mondo dipendesse da loro e non condivise
la politica isolazionista dell’amministrazione Johnson. Fu per questo che iniziò a prendere
contatti con alcuni influenti gruppi sociali che mai nessun ambasciatore israeliano aveva mai
interpellato prima: uomini di Chiesa, vertici militari, membri dell’ala destra della politica.
Continuò la sua collaborazione con le comunità ebraiche ma meno assiduamente rispetto ai

43
Lyndon Baines Johnson (1908-1973), 36° presidente degli Stati Uniti d’America dal 1963 al 1969.
44
L’invasione del Patto di Varsavia della Cecoslovacchia, ufficialmente nota come Operazione Danubio, fu
un’invasione congiunta nel territorio della Repubblica Socialista Cecoslovacca da parte di cinque paesi (Unione
Sovietica, Repubblica Democratica Tedesca, Polonia, Bulgaria e Ungheria) avvenuta nella notte tra il 20 e il
21 agosto 1968.

24
suoi predecessori, preferendo concentrarsi nella ricerca di quei settori potenti della società
americana per troppo tempo trascurati.
Il suo programma di relazioni con il governo statunitense si propose tre principali
obiettivi: il primo fu quello di ottenere maggiore assistenza economica e militare; il secondo
fu convincere gli USA del pericolo rappresentato dalla penetrazione dell’Unione Sovietica
in Medio Oriente; il terzo fu persuadere il governo americano della convergenza di interessi
tra Israele e gli USA in Medio Oriente e stimolare un loro intervento nelle dispute con gli
stati arabi. Rabin trovò immediatamente difficoltà a relazionarsi con l’incaricato alle
relazioni con il Medio Oriente dell’amministrazione Johnson, Parker Hart45, ex ambasciatore
in Turchia che aveva vissuto la maggior parte della propria carriera diplomatica nel mondo
arabo. Sperò di ottenere maggiori risultati con l’amministrazione Nixon, che aveva promesso
in campagna elettorale di voler passare ad una politica estera non più aggressiva ma basata
sulla negoziazione. Il segretario di stato di Nixon, William Rogers46 venne incaricato di
preparare un piano di pace che risolvesse definitivamente il conflitto arabo-israeliano.
Il conflitto in quel momento era caratterizzato dalla guerra di attrito fra Egitto e
Israele. Molti erano stati gli attacchi aerei egiziani in territorio israeliano e il governo di
Golda Meir47 si trovava combattuto sulla opportunità o meno di rispondere a tali
provocazioni con altrettante incursioni in territorio egiziano per il timore delle reazioni di
USA e URSS. La posizione di Rabin in proposito fu chiara: Israele doveva reagire
prontamente per mettere fine alla guerra e provocare la reazione delle potenze alleate. Dopo
i raid israeliani l’Urss intervenne in favore dell’Egitto rifornendolo di armamenti e a questo
punto entrambe le parti accettarono il cessate il fuoco mediato dagli USA. Israele rifiutò però
categoricamente il Piano Rogers che prevedeva il ritorno agli arabi dei territori conquistati
nella Guerra dei Sei Giorni in cambio del riconoscimento da parte degli stati arabi dello Stato
d’Israele e della sicurezza dei confini. Rabin ritenne tale proposta offensiva e inaccettabile
perché limitava le possibilità israeliane di negoziazione. Accettò però il cessate il fuoco in
cambio della promessa di un maggiore sostegno economico e militare da parte americana
allo stato ebraico.

45
Parker Thompson Hart (1910-1997), diplomatico statunitense. Nel 1965 Lyndon Johnson lo nomina
Assistente del Segretario di Stato per gli affari riguardanti il Vicino Oriente e il Sud-Est Asiatico.
46
William Pierce Rogers, (1913-2001), 50° Segretario di Stato degli Stati Uniti sotto la Presidenza Nixon che
non esercitò reale influenza sulle decisioni di politica estera americana essendo stato rapidamente soppiantato
dal consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger.
47
Golda Meir (1898-1978), quarto premier di Israele (1969-1974) e prima donna a guidare il governo del suo
Paese.

25
Dopo il fallimento delle relazioni con Rogers, il punto di riferimento di Rabin per le
questioni diplomatiche diventò Henry Kissinger48 di cui condivise la visione politica. I due
erano concordi nel ritenere fondamentale l’obiettivo di tenere Mosca lontana dal Medio
Oriente e Kissinger fu abile nel convincere Rabin che per ottenere questo risultato fosse
fondamentale che gli USA intrattenessero relazioni più strette con i paesi arabi.
L’ambasciatore però considerò accettabile tale strategia solo a fronte di una forma di
compensazione in termini di supporto militare e politico.
Nel settembre 1970 Rabin giocò un ruolo chiave nel fare da tramite tra
l’amministrazione Nixon e il proprio governo durante la crisi giordana. Il re Husayn49, in
questo frangente, temette a ragione il crescente potere assunto dalle organizzazioni
palestinesi presenti nel suo territorio. Diversi tentavi di ucciderlo fallirono. I terroristi
palestinesi dirottarono alcuni aerei occidentali annunciando che tali atti erano dimostrazioni
per impartire una lezione agli americani, a causa del loro duraturo appoggio a Israele e dopo
aver rilasciato gli ostaggi, gli aerei vennero fatti esplodere per dimostrazione nel deserto
giordano davanti alle telecamere di tutto il mondo, provocando l’ira del re. Husayn dichiarò
allora la legge marziale e attaccò i quartieri generali delle organizzazioni palestinesi ad
Amman e anche i campi profughi, senza fare distinzioni fra civili e guerriglieri.
Alla luce di questi eventi il governo siriano cercò di intervenire a favore della
guerriglia palestinese e mandò i suoi carri armati verso il confine giordano. Re Husayn si
trovò costretto a chiedere l’aiuto americano per prevenire l’attacco. A questo punto Kissinger
decise di non intervenire direttamente ma di chiedere tramite Rabin l’intervento israeliano.
Israele mandò dunque i suoi caccia ad eseguire voli a bassa quota sul convoglio dei carri
armati siriani diretti verso la Giordania in segno di avvertimento. La Siria presto ordinò loro
di ritirarsi. Israele era così intervenuto con successo in un conflitto interno arabo, in
rappresentanza degli USA, tramite la sola minaccia della violenza. Questo evento provocò
l’ammirazione nei confronti del diplomatico israeliano da parte dei governi di entrambi i
paesi e la stampa ne celebrò ripetutamente le doti di negoziatore, sebbene dai metodi un po'
rozzi.
L’ultima crisi che Rabin si trovò a gestire come diplomatico fu causata
dall’abbattimento da parte israeliana di un jet civile libanese che sorvolava il deserto del

48
Henry Kissinger (1923), politico e diplomatico statunitense di origine ebraica tedesca e membro del Partito
repubblicano. Consigliere per la sicurezza nazionale e Segretario di stato durante le presidenze di Richard
Nixon e Gerald Ford tra il 1969 e il 1977.
49
Husayn ibn Talal (1935-1999), re del Regno Hascemita di Giordania dal 1952 al 1999.

26
Sinai occupato. Nei giorni precedenti si erano susseguite voci su un possibile attacco
terroristico arabo verso un obiettivo israeliano. Per questo l’avvicinarsi del velivolo libanese
provocò subito allarme e, non avendo ricevuto risposta ai tentativi di contattarlo, si decise
infine per l’abbattimento. Dei 113 passeggeri a bordo, solo cinque sopravvissero. Israele
insistette sul fatto che non aveva modo di sapere della presenza a bordo di civili e che esso
volava in direzione della centrale nucleare di Dimona, ma nonostante le giustificazioni,
l’opinione pubblica internazionale fu pervasa da un’ondata di indignazione nei confronti di
Israele. Rabin, non potendo giustificare l’errore delle forze aeree israeliane di fronte al
governo americano, pretese le dimissioni del capo di stato maggiore, David Eleazar, e del
capo delle forze aeree, Benjamin Peled, senza le quali avrebbe rassegnato le dimissioni dal
corpo diplomatico. Il suo ultimatum venne ignorato in virtù del fatto che il suo mandato era
in scadenza e il suo ritorno previsto in ogni caso. Rabin lasciò così Washington nel marzo
del 1973.

1.5 La missione politica

Mentre Rabin era ancora ambasciatore negli USA, sebbene allo scadere del suo
mandato, in Israele molti già speculavano sul suo futuro ruolo politico al ritorno in patria.
Molti giornali lo indicavano già nel ’69 come nuovo Ministro dell’educazione, sebbene non
fosse ancora iscritto ufficialmente a nessun partito politico. L’anno successivo venne
indicato come sicuro successore di Moshe Dayan al Ministero della Difesa, venne proposto
inoltre per il Ministero per lo Sviluppo prima e poi per il Ministero di Giustizia. In realtà,
solo nel gennaio 1973 Rabin annunciò ufficialmente che intendeva candidarsi alle prossime
elezioni politiche che si sarebbero tenute in ottobre per il rinnovo della Knesset, il
parlamento israeliano, nelle fila del Partito Laburista. Rabin sperava di ottenere un seggio in
parlamento per continuare a dare il suo contributo, seppur non più in prima linea, al suo
Paese. Il sistema elettorale israeliano è di tipo proporzionale: ogni partito presenta una lista
di candidati ai 120 seggi che compongono il parlamento. Gli elettori non sono chiamati
dunque a scegliere direttamente uno specifico candidato, il loro voto va a una lista. Ogni
formazione politica sarà poi rappresentata in parlamento proporzionalmente ai voti ottenuti.
Nella lista presentata dal suo partito Rabin era ventesimo; un posto alla Knesset dunque per
lui era praticamente certo. Iniziò la sua campagna elettorale con grande entusiasmo quando,
inaspettatamente, scoppiò la Guerra del Kippur.

27
Nei mesi precedenti l’intelligence israeliana aveva ripetutamente segnalato sia gli
spostamenti di truppe egiziane nel Sinai, che le loro esercitazioni nei pressi del confine;
contemporaneamente truppe siriane si muovevano sulle Alture del Golan. La leadership
militare israeliana sottovalutò superficialmente tali segnali ritenendo l’esercito egiziano
ancora troppo poco equipaggiato per poter sostenere un attacco e i siriani incapaci di
imbarcarsi in una guerra contro Israele senza l’alleato egiziano. Gli eserciti arabi avevano
pianificato invece un attacco a sorpresa da sferrare nella festività ebraica dello Yom Kippur,
che prevede tradizionalmente che l’intero Paese si fermi per 25 ore, compresi i mezzi di
comunicazione e tutte le attività commerciali, fatta eccezione per una minima sezione dei
servizi di emergenza. È un giorno in cui non solo gli ebrei osservanti, ma anche la maggior
parte di quelli secolarizzati digiunano e si astengono da qualunque lavoro. L’intero traffico
veicolare del Paese risulta bloccato e anche molti militari lasciano le basi per restare a casa.
Per tutti questi motivi, è il giorno in cui Israele è militarmente più vulnerabile, con gran parte
delle sue forze smobilitate. Sebbene avvisati anche da fonti provenienti dal governo giordano
e dall’alto comando egiziano di un imminente attacco congiunto, le Forze di Sicurezza
Israeliane non ritennero necessario prendere precauzioni. «Undici allarmi di guerra sono stati
inviati a Israele in settembre, da fonti ben informate. Ma Zvi Zamir continuava a insistere
che la guerra non sarebbe stata una scelta araba. Neanche gli avvertimenti di re Husayn
servirono a diradare i suoi dubbi»50. In seguito Zamir avrebbe amaramente commentato che
«semplicemente, non ci sembrava fossero capaci di farlo»51.
La strategia militare israeliana prevedeva un attacco preventivo a fronte
dell’imminenza di un attacco nemico, e si basava sull’affidabilità dei servizi segreti che si
presumeva potesse dare per certa un’invasione non più tardi di 48 ore prima dell’attacco. In
questo caso però si decise di non colpire per primi per evitare che venisse attribuita ad Israele
la responsabilità del conflitto in sede internazionale. Per l’esercito egiziano fu
sorprendentemente facile attraversare il Canale di Suez e nonostante la controffensiva, sul
fronte egiziano l’esercito israeliano subì una pesante sconfitta, aggravata da ingenti perdite
umane e da evidenti contrasti tra i generali in campo. Anche per Yitzhak Rabin, come per il
resto della nazione, fu uno shock terribile: sebbene consultato dal primo Ministro a causa
dei suoi trascorsi militari e diplomatici, si trovò a dover assistere impotente e passivo alla
tragedia che incombeva sul Paese. I suoi tentativi di offrire collaborazione al comando

50
I. RABINOVITCH, Yitzhak Rabin: Soldier, Leader, Statesman, Yale University Press, London 2017, p.56.
51
Ivi, p.57.

28
militare vennero rifiutati. Accettò dunque di aiutare il ministro delle finanze Sapir52 che
necessitava di una figura pubblica, preferibilmente un ex leader militare che godesse di
prestigio presso la popolazione, per guidare una raccolta fondi per garantire contributi per il
prestito di guerra oltre le somme che sarebbero state raccolte obbligatoriamente.
Dopo le iniziali pesanti sconfitte, le forze armate israeliane riuscirono a contenere la
situazione e ad impedire ulteriori avanzamenti delle truppe nemiche su entrambi i fronti. Sul
fronte egiziano l’esercito israeliano riprese il controllo del canale di Suez e prese il controllo
della strada che collega Il Cairo e Suez, tagliando l’unica via di rifornimento all’esercito
egiziano. Il segretario di stato americano Kissinger capì allora che la situazione era propizia
per gli Stati Uniti, che si proposero subito come mediatori, certi della obbedienza di Israele
e con l’intenzione di strappare l’Egitto all’influenza sovietica.

Kissinger aveva spinto Israele durante la guerra a colpire forte, anche più forte di quanto fosse
prima capace, per dimostrare al mondo la propria superiorità militare. Eppure, quando gli
israeliani cominciarono a sbaragliare gli egiziani, elaborò un affrettato cessate il fuoco che
avrebbe lasciato agli egiziani intatta la propria dignità. Israele, in breve, ne sarebbe uscita quasi
vittoriosa, ma lontana dal trionfo53.

La guerra costò tra i 9 e 10 bilioni di dollari e lasciò i cittadini con ingenti debiti, un
aumento vertiginoso dei prezzi e l’inflazione fuori controllo. Ma furono le perdite umane a
devastare pesantemente la società: 2.526 morti in battaglia e 7.500 feriti sono un bilancio
che pesava come un macigno sul futuro della nazione. Molti cittadini pensarono di lasciare
il Paese, molti ufficiali dell’IDF si dimisero e crebbe sempre più l’indignazione popolare,
amplificata dai mezzi di comunicazione, per l’impreparazione dimostrata dal sistema
difensivo nonostante gli avvertimenti dell’intelligence.
Kissinger intanto si recò in Medio Oriente per preparare una conferenza di pace che
stabilizzasse l’area attraverso una soluzione che soddisfacesse tutte le parti in causa. La
conferenza si svolse a Ginevra a partire dal 21 dicembre 1973 e coinvolse Israele, Egitto e
Giordania, ma non la Siria, concludendosi con un accordo firmato il 18 gennaio 1974 con
cui Israele accettò di ritirarsi dalla riva occidentale del Canale di Suez e dalla sua posizione
su quella orientale ad una distanza di quindici miglia dal canale. L’Egitto accettò invece di
limitare la sua presenza militare sulla riva orientale ed entrambi accettarono la presenza di
un contingente delle Nazioni Unite nella zona neutra tra i due schieramenti.

52
Pinchas Sapir (1906-1975), politico israeliano. Ha ricoperto l’incarico di ministro delle Finanze nei periodi
1963-68 e 1969-74 e quello di ministro del Commercio e dell’Industria nei periodi dal 1955-1965 e 1970-1972.
53
I. RABINOVITCH, Yitzhak Rabin: Soldier, Leader, Statesman, cit., p.60.

29
Nelle successive elezioni, rimandate a dicembre a causa del conflitto, Rabin venne
eletto alla Knesset. La coalizione guidata dal Partito Laburista aveva perso cinque seggi, ma
deteneva ancora la maggioranza. Il Likud, cioè il partito nazionalista liberale di destra, di
Menachem Begin54 ne ebbe invece sette in più. La protesta dilagò nel Paese, soprattutto tra
i reduci. Golda Meir impiegò ben due mesi per riuscire a formare un governo in cui Rabin
venne chiamato a svolgere l’incarico di Ministro del Lavoro. Si trattava di un ministero
considerato prestigioso e il ruolo che ricopriva gli consentì la partecipazione a tutte le
discussioni del governo, comprese quelle concernenti gli affari militari e quelli diplomatici.
Il suo proposito era quello di studiare soluzioni che permettano all’economia di reggere
nonostante il Paese fosse quasi costantemente in stato d’emergenza, con un gran numero di
lavoratori costretti alla mobilitazione.
In aprile la protesta si riaccese a causa della pubblicazione del rapporto della
Commissione Agranat, incaricata di investigare sulle responsabilità delle Forze di Difesa
Israeliane nel sottovalutare i pericoli per il territorio nazionale durante il preludio della
Guerra dello Yom Kippur. La raccomandazione principale della commissione riguardava il
licenziamento di quattro alti ufficiali dell’intelligence militare, ma scagionava da ogni
responsabilità il Ministro della Difesa Dayan e il Primo Ministro Meir. Ma la protesta
divampò in tutto il Paese costringendo Golda Meir alle dimissioni.
Il Partito laburista si trovò ora a dover scegliere se andare a nuove elezioni, rischiando
di consegnare il Paese alla destra del Likud, o tentare la formazione di un nuovo governo
individuando un nuovo leader in grado di tenere insieme la coalizione e dare nuova
credibilità all’esecutivo. Si puntò per questo ruolo delicato sul leader del partito e Ministro
delle Finanze Sapir, che però declinò l’incarico e indicò come suo candidato Yitzhak Rabin.
Il suo unico avversario per l’incarico di premier era Shimon Peres55. Il duello tra i due per la
leadership fu acceso e non privo di colpi bassi, tra cui la pubblicazione sulla stampa di un
rapporto sulla assenza per malattia di Rabin durante la Guerra dei Sei Giorni, che ne mise in
dubbio la solidità mentale. La campagna denigratoria nei suoi confronti non gli impedì di
vincere le primarie, sebbene furono in pochi a credere alla possibilità per lui di formare un
governo duraturo56.

54
Menachem Wolfovitch Begin (1913-1992), politico israeliano, primo ministro dal 1977 al 1983. Insignito
del Premio Nobel nel 1978.
55
Shimon Peres (1923-2016), politico israeliano, Presidente di Israele dal 2007 al 2014. Primo ministro nei
periodi 1984-1986 e 1995-1996. Ha ricoperto anche gli incarichi di ministro della difesa, dei trasporti, delle
finanze.
56
R. SLATER, Rabin, 20 years After, cit., p.235.

30
Nel suo discorso pronunciato subito dopo l’annuncio della vittoria affermò:

I figli delle generazioni fondatrici sono maturati. Non possiamo che essere sensibili alle opinioni
di altri paesi e dobbiamo soprattutto tenere conto del nostro amico, gli Stati Uniti, ma innanzi
tutto dobbiamo salvaguardare le nostre esigenze nazionali, anche se i nostri amici non
comprendono tutto ciò che facciamo. Lo Stato d’Israele non appartiene solo ai suoi abitanti, ma
anche a milioni di ebrei in tutto il mondo. I suoi confini spirituali e tradizionali e la sua influenza
devono estendersi oltre i suoi limiti fisici. Nessuno dovrebbe sottovalutare il fatto che c’è una
crisi di governo in Israele; d’altro canto nessuno dovrebbe commettere l’errore più grave di
pensare che ciò comporti una debolezza nazionale. In una democrazia forte e sana come la nostra,
possiamo scrollarci di dosso le debolezze politiche e salire verso nuovi e più alti obiettivi57.

La nomina a Primo Ministro incaricato era ancora solo metà della battaglia che Rabin
doveva affrontare, l’obiettivo successivo era riuscire a formare una squadra di governo con
cui ottenere la fiducia della maggioranza del parlamento, potendo contare al momento solo
su 51 voti della sua coalizione e 3 della Lista Araba tradizionalmente schierata con i laburisti.
Il Partito Religioso Nazionale che in altre circostanze aveva appoggiato i governi di centro
sinistra, in questo caso spinse per un governo di unità nazionale che coinvolgesse anche il
Likud di Begin. In questa difficile situazione, a rendere ancora più complicato il lavoro di
mediazione di Rabin, si inserì la visita ufficiale in Israele di Kissinger, venuto a promuovere
la firma di un accordo con la Siria. La posizione israeliana fu risolutamente quella di rifiuto
di qualsivoglia trattativa fino a che Assad58 non avesse consegnato nelle mani di Kissinger
una lista dei prigionieri israeliani ancora detenuti in Siria dalla guerra del Kippur. Dopo
molte pressioni la lista venne recapitata a febbraio, consentendo la ripresa dei negoziati fino
alla firma del cessate il fuoco con la Siria il 31 maggio.
Subito dopo Rabin annunciò la formazione del suo governo il 3 giugno 1974. Nella
sua lista dei ministri si trovò costretto per motivi di equilibrio all’interno della coalizione, ad
inserire Shimon Peres, principale nemico all’interno del suo partito, come Ministro della
Difesa. Lo fece, come scrisse nel 1979, «con il cuore pesante. Fu un errore di cui mi sarei
pentito e il cui prezzo avrei pagato per intero»59.
Yitzhak Rabin fu un tipo di leader nuovo per la sua nazione: fu il primo nato in
Israele, il primo nato nel ventesimo secolo, il primo interamente educato nel Paese, il primo
proveniente dall’esercito e non dalla politica. Nel suo discorso di insediamento alla Knesset,
il 3 giugno 1974 disse:

57
Ivi, pp.229-230.
58
Hafiz al-Assad (1930-2000), politico e militare siriano, Presidente della Siria dal 1971 fino alla morte nel
2000.
59
D. GOLDSTEIN -Y. RABIN, The Rabin Memoirs, University of California Press, Berkley 1979, p.189.

31
Qualcosa è successo nel paese dalla guerra dello Yom Kippur. Anche se abbiamo ottenuto una
delle nostre più grandi vittorie in guerra, molti di noi hanno il cuore profondamente turbato. C’è
una valida ragione per questo: le aspettative ingiustificate che sono svanite con la guerra e il
dolore per la perdita di vite umane. Ma non c’è nulla che giustifichi il prolungamento di questa
sensazione di depressione. Dobbiamo scrollarci dalla mente il nostro sconforto. Se guardiamo a
noi stessi, vediamo che qui non siamo in una Valle di lacrime60.

Nonostante gli accordi firmati con Egitto e Siria, permase nel Paese una paura
incontrollata della guerra e una forma di insoddisfazione in quanti avrebbero preferito
affrontare questa nuova fase post bellica con un governo di unità nazionale. Per Rabin questa
soluzione non era concretamente praticabile perché certamente il Likud avrebbe rigettato
qualunque proposta di accordo di pace con gli arabi. Uno dei primi provvedimenti del nuovo
esecutivo fu la riforma dell’IDF: lavorando fianco a fianco con il ministro della difesa Peres,
Rabin elaborò un piano triennale di riorganizzazione delle forze armate, reso possibile
soprattutto grazie agli aiuti americani. L’altro fronte su cui il primo ministro si concentrò fu
ovviamente il risanamento economico del Paese. Per questo scopo Rabin rifiutò ogni
soluzione che comportasse un aumento della disoccupazione o urtasse in qualche modo
contro i suoi principi socialisti di tutela dei lavoratori. Decise quindi di approvare la
svalutazione della moneta israeliana del 43%. Inoltre temette che la dipendenza israeliana
dagli aiuti esteri avrebbe compromesso la sua capacità di resistere alle pressioni
internazionali per cedere i territori occupati nei conflitti.
Quando le misure economiche iniziarono ad avere una ricaduta concreta sulla vita
dei cittadini, il governo dovette affrontare un’ondata di scioperi in tutto il Paese. Come
socialista Rabin simpatizzava per il movimento dei lavoratori e riconosceva il loro diritto di
manifestare, ma provava disappunto perché i suoi concittadini non accettavano di compiere
i necessari sacrifici per il bene della nazione: «Il nostro futuro economico dipende dal fatto
che ogni individuo faccia incondizionatamente il suo lavoro come fa un soldato. In questo
abbiamo fallito»61. La questione certamente più scottante per il premier però era ancora la
trattativa diplomatica con gli stati arabi. Rabin fu il primo politico israeliano ad affermare
chiaramente che Israele avrebbe dovuto scendere a compromessi per ottenere una pace
duratura. Al contrario il Partito Religioso Nazionale62, che si era unito al governo, spingeva
per annettere la West Bank, in cui si trovano molti luoghi biblici che evocano il legame con

60
R. SLATER, Rabin, 20 years After, cit., p.237.
61
Ivi, p.239.
62
Il Partito Nazionale Religioso (eb: ‫ מפלגה דתית לאומית‬Miflaga Datit le’Umit) è stato un partito politico
israeliano religioso, sionista e nazionalista di estrema destra, membro di ogni governo di coalizione dal 1992.

32
la terra, ma sebbene avesse bisogno dei seggi dell’NRP per conservare la maggioranza
parlamentare, non si lasciò condizionare dalle loro pressioni.
Rabin era disposto a rinunciare ad alcuni insediamenti e a concedere parte dei
territori, ma si oppose fermamente alla creazione di uno stato palestinese nella West Bank,
rifiutò il ritorno ai confini precedenti alla Guerra dei Sei giorni e soprattutto escluse di poter
negoziare con la guerriglia palestinese. La sua strategia fu quella di trattare con l’Egitto e
con re Husayn per limitare il potere di Arafat63 e dell’OLP64 e proseguì con loro trattive
segrete anche dopo che i paesi arabi conferirono ufficialmente all’OLP il mandato di
negoziare il futuro della West Bank perché non volle in nessun modo incoraggiare il
riconoscimento internazionale dell’OLP e anche perché considerava Arafat un volgare
assassino: «Odio ciò che rappresenta, quando vedo le atrocità che lui e la sua organizzazione
svolgono. Egli rappresenta per me tutto ciò che è male e un concetto, una filosofia, che è in
contraddizione con l’esistenza stessa di questo paese»65.

Il mio punto di partenza è che la questione palestinese non è, come la descrivono alcuni, il cuore
stesso del conflitto arabo-israeliano. A mio parere, il problema principale del conflitto arabo-
israeliano è la natura delle relazioni tra gli stati arabi e Israele. Solo gli stati arabi detengono la
chiave per risolvere il conflitto perché hanno la forza, la capacità e il potere di raggiungere
accordi politici e, in ultima analisi, un accordo di pace. Hanno anche il potere di decidere per
una direzione diversa da quella della guerra66.

Le sue posizioni crearono un dibattito vivace nel governo, nel parlamento e in tutto
il Paese. In particolare all’interno dell’esecutivo il suo avversario principale fu Peres con il
quale si trovò in disaccordo su tutto: politica sugli insediamenti, negoziati di pace, economia.
L’unico elemento unificante fu la lotta senza tregua al terrorismo. Sebbene l’IDF fosse in
grado di contenere gli attacchi terroristici sul suolo israeliano, i cittadini israeliani all’estero
restavano invece vulnerabili, come dimostrerò chiaramente il caso Entebbe. Il 27 giugno
1976 un gruppo di terroristi palestinesi dirottò un aereo della Air France facendolo atterrare
a Entebbe, in Uganda, un Paese ostile a Israele governato dal feroce dittatore Idi Amin.
Rabin e il suo governo furono obbligati a scegliere se trattare con i terroristi per la
liberazione degli ostaggi, che erano in buona parte cittadini israeliani, o autorizzare
un’operazione militare che avrebbe avuto scarse possibilità di riuscita. I terroristi chiesero

63
Yasser Arafat (1929-2004), presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, dal 1996 sino
alla morte ricopre la carica di presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese.
64
Organizzazione per la Liberazione della Palestina è un’organizzazione politica palestinese, considerata dalla
Lega araba a partire dal 1974 la legittima rappresentante del popolo palestinese.
65
Y. RABIN, Intervista rilasciata al quotidiano Yediot Aharonot, 26 luglio 1974.
66
Ibid.

33
in cambio del rilascio dei passeggeri, la liberazione di 53 prigionieri dalle prigioni di Francia,
Israele, Svizzera, Germania Ovest e Kenia e rilasciarono, su richiesta di Idi Amin, 47 ostaggi
tra donne, bambini e malati. Israele accettò di negoziare non vedendo opzioni militari
possibili in un contesto territoriale ostile e molto lontano dal suolo israeliano sebbene Rabin
avesse comunque incaricato le forze speciali di elaborare un piano per un intervento armato.
Il giorno stesso della scadenza dell’ultimatum il piano venne presentato e, sebbene il
suo fallimento avrebbe comportato certamente la caduta del governo, Rabin si assunse
interamente la responsabilità di autorizzare il blitz. L’Operazione Entebbe si concluse con
la liberazione e il rientro di tutti gli ostaggi. Il bilancio fu di 4 israeliani morti per le ferite
riportate durante il salvataggio, di cui 3 ostaggi e il comandante dell’operazione di terra, il
tenente colonnello Yonatan Netanyahu67, altri 3 ostaggi e 5 soldati feriti, tutti i terroristi
uccisi. La crisi di Entebbe fu un successo personale di Rabin che sollevò il morale del Paese
e il prestigio di Israele nel mondo per la preparazione e l’esecuzione perfette di una impresa
militare al limite dell’impossibile.
Alla fine del 1976 sembrò che la situazione internazionale fosse tranquilla: Israele
era al culmine della sua potenza militare, i confini erano tranquilli, la guerra civile in Libano
che preoccupava gli osservatori israeliani sembrava volgere al termine e stava per entrare in
carica un nuovo presidente degli Stati Uniti che prometteva un nuovo impulso alla
diplomazia in Medio Oriente. Anche le nuove elezioni politiche si avvicinavano e
sembravano non esserci impedimenti ad una nuova candidatura di Rabin. Ombre
sull’operato del governo iniziarono però ad addensarsi quando il ministro dell’Interno
Avraham Ofer venne accusato di corruzione, accusa che in pochi giorni lo avrebbe spinto al
suicidio. Negli stessi giorni anche Asher Yadlin, Governatore della Banca d’Israele, venne
condannato per corruzione ed evasione fiscale. Il partito che aveva predicato una severa
moralità socialista era ora stigmatizzato come il partito di Ofer e Yadlin e la sua immagine
pubblica ne risultò molto compromessa. Rabin, come previsto, vinse le primarie.
A marzo volò a Washington per incontrare Nixon, ma il viaggio che avrebbe dovuto
conferirgli prestigio e popolarità in vista delle elezioni, finì per essere la causa della sua
caduta politica. Durante la visita si scoprì infatti che sua moglie Leah era ancora titolare di
due conti presso la National Bank di Washington dai tempi dell’incarico all’ambasciata e la
notizia venne pubblicata con molto risalto dal quotidiano Haaretz. Sebbene l’ammontare del
credito fosse esiguo (2.000 dollari) ed evidente che l’esistenza di tali conti fosse dovuta

67
Fratello di Benjamin Netanyahu, futuro leader del Likud e Premier (1996-1999 e 2009-2021).

34
principalmente ad un errore tecnico, i Rabin stavano infrangendo la legge. In quel tempo
Israele aveva rigide normative sulla valuta estera: quando viaggiava all’estero un israeliano
poteva portare solo 450 dollari. Possedere dollari su un conto bancario all’estero senza il
permesso del Tesoro era un reato punibile fino a tre anni di reclusione e prevedeva una multa
di tre volte superiore all’importo della valuta estera detenuta illegalmente, questo
ovviamente per impedire il deposito di fondi all’estero al fine di evitarne la tassazione. Rabin
scelse di condividere la responsabilità dell’accaduto con sua moglie, ma il giudice decise di
infliggere solo una multa al Primo Ministro e rinviare invece a giudizio la moglie. Contro il
parere dei suoi collaboratori che lo invitarono a rinviare ogni decisione e lasciare che fosse
la moglie ad assumersi la colpa dell’accaduto, Rabin giunse ad una decisione irrevocabile:

Non potevo più rimanere il candidato del partito alla Presidenza del Consiglio. Come aveva
dimostrato l’esperienza dei giorni precedenti, la gravità del reato si prestava a una vasta gamma
di interpretazioni. Ma io avevo commesso un reato e, sebbene il Procuratore Generale lo
considerasse una violazione tecnica, ho sentito che avrei dovuto rispondere personalmente e
privatamente, e ciò richiedeva coerenza e coraggio. Gli amici hanno cercato di dissuadermi dal
compiere passi fatali, ma un uomo è sempre realmente solo in questi momenti. E da solo, io e la
mia coscienza, siamo giunti a tre decisioni interconnesse: avrei ritirato la mia candidatura a
premier, avrei condiviso la piena responsabilità con Leah e avrei cercato di dimettermi dal mio
incarico di Primo Ministro, in modo che il candidato del Partito Laburista potesse occupare il
posto fino alle elezioni68.

Rabin annunciò dunque le sue dimissioni in una intervista televisiva di quindici


minuti. A soli 40 giorni dalle elezioni generali la notizia fu uno shock per la nazione. Per il
Primo Ministro fu il giorno più triste di una carriera che aveva attraversato 30 anni di vita
pubblica e conosciuto molti momenti di trionfo. Con il suo gesto però, Rabin conquistò la
simpatia di tutto il Paese. Il partito lo inserì al numero 20 della lista dei candidati al
Parlamento, lo stesso di quando aveva corso per la prima volta. A casa Rabin arrivarono
quasi 2000 lettere di solidarietà e centinaia di telefonate. Tutti ricevettero una risposta ma
Yitzhak Rabin decise di rimanere lontano dai riflettori dei media nella speranza che il danno
subìto alla sua reputazione potesse essere solo temporaneo. Il 17 maggio 1977 il Likud di
Begin vinse le elezioni, ottenendo 43 seggi alla Knesset contro i 32 della coalizione laburista
(19 in meno rispetto al 1973) guidata da Shimon Peres.
Il 17 settembre 1978 il Primo Ministro Begin firmò gli accordi di Camp David
insieme al presidente egiziano Anwar al-Sadat69 dopo dodici giorni di negoziati segreti. Si

68
R. SLATER, Rabin, 20 years After, cit., pp. 286-287.
69
Muhammad Anwar al-Sadat (1918-1981), politico e militare egiziano, terzo Presidente della Repubblica
egiziana dal 1970 al 1981, anno del suo assassinio.

35
trattò di due distinti accordi: uno per la pace in Medio Oriente e uno per la stipula di un
trattato di pace tra Egitto e Israele. Concretamente il primo accordo si propose di istituire
una autorità autonoma in Cisgiordania e a Gaza in attuazione della Risoluzione 242 del
Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mentre il secondo prevedeva il ritiro dell’esercito
israeliano dal Sinai e l’evacuazione dei civili, ottenendo in cambio normali relazioni
diplomatiche, il libero passaggio attraverso il Canale di Suez e la diminuzione della presenza
militare egiziana sul Sinai. Gli accordi portarono alla ratifica del trattato di pace tra Israele
e Egitto l’anno successivo.
Nell’agosto 1979 vennero pubblicate le Memorie di Rabin che divennero subito un
caso politico a causa delle parole sprezzanti dell’ex premier nei confronti di Shimon Peres70
che suscitano grande disapprovazione all’interno del Partito Laburista. Rabin infatti
descrisse Peres come «costantemente e instancabilmente tentando la sovversione politica.
Sentiva che tutti mezzi erano leciti nella sua ricerca di vincere la premiership. Non solo ha
cercato di minare me, ma l’intero governo, confidando nella vecchia massima bolscevica
che “peggiore è la situazione, meglio è per Peres. Diffuse bugie e falsità e distrusse il Partito
Laburista, incoronandosi così come leader dell’opposizione71.» Alle primarie del 1980 Peres
infatti trionfò con il 70% dei voti, ma non riuscì a vincere le elezioni nazionali per un soffio.
Nel 1982 Israele iniziò la guerra in Libano trasferendo tre divisioni nel Libano
meridionale per sradicare le basi dell’OLP che aveva lanciato incessantemente razzi
katyusha sui centri abitati nel nord del Paese. L’obiettivo della campagna militare nei piani
di Begin era di istituire una zona di sicurezza di 25 km, eliminare le basi dell’OLP e stabilire
un nuovo ordine politico più favorevole nei confronti di Israele. Il 28 agosto però Begin si
dimise improvvisamente senza dare alcuna spiegazione. Il Likud scelse Yitzhak Shamir72, il
Ministro degli Esteri, come suo successore alla leadership del partito. Le nuove elezioni
portarono ad una sostanziale parità tra gli schieramenti, costringendo le forze politiche a
trovare un accordo per formare un governo di unità nazionale. Shamir e Peres accettarono
dunque di condividere il governo del Paese per quattro anni con un sistema di rotazione:
Peres sarebbe stato primo ministro nei primi due anni, Shamir nei due successivi.
Rabin venne nominato ministro della Difesa. Peres avrebbe voluto mettere subito fine
all’occupazione del Libano che durava ormai da 27 mesi, ma Rabin preferì iniziare il ritiro

70
D. GOLDSTEIN -Y. RABIN, The Rabin Memoirs, cit., pp.534-535.
71
Y. RABIN, Pinkas Sherut, Maariv Books, Tel Aviv, pp.534-35.
72
Yitzhak Shamir (1915-2011), politico israeliano esponente del Likud. Primo ministro dal 1983 al 1984 e poi
dal 1986 al 1992.

36
solo dopo aver siglato un accordo di sicurezza e procedere ad un rientro delle truppe graduale
in sei mesi:

Non voglio essere il poliziotto del Libano. Non sono affari di Israele. Israele non è stato creato
per servire come poliziotto della regione. Abbiamo chiarito che la nostra decisione unilaterale
non è collegata a quello che fanno i siriani. Vogliono rimanere in Libano? Che restino. So che
chi mette piede in Libano affonda nella sua palude. Se vogliono questo, che si divertano pure.
Noi vogliamo una cosa sola: che non si avvicinino ai nostri confini. Questo è tutto73.

Una nuova crisi stava però per esplodere. Infatti, sebbene a metà degli anni settanta
i palestinesi fossero riusciti a tenere alta l’attenzione internazionale sulla loro situazione e
ottenendo la promessa di una piena autonomia con gli accordi di Camp David, a metà degli
anni Ottanta si videro accantonati nell’agenda delle relazioni internazionali e anche i fratelli
arabi dimostravano ormai scarso entusiasmo per la loro causa. Nello stesso tempo la
popolazione araba palestinese si sentiva frustrata da venti anni di occupazione israeliana che
li aveva in qualche modo costretti ad adottare abitudini israeliane, acquistare prodotti
israeliani, indossare abiti israeliani e persino parlare ebraico. Cresceva sempre più potente il
desiderio di affrancarsi da Israele, di rendersi capaci di forgiare le proprie istituzioni
nazionali secondo il proprio carattere.
Ciò che accadde tra i palestinesi nel dicembre 1987 apparve a molti osservatori come
qualcosa di manovrato o organizzato, è molto probabile che fosse invece l’esplosione
spontanea di una rabbia a lungo repressa ed esplosa in quel momento in manifestazioni di
massa violente, che affondavano le radici in anni di attesa impaziente di un cambiamento.
La scintilla che portò all’esplosione della rivolta fu l’incidente in cui un camion israeliano
travolse due taxi collettivi nel campo profughi di Jabaliyya, uccidendo quattro persone
palestinesi. Due giorni prima un israeliano era stato pugnalato a morte al mercato di Gaza,
perciò i palestinesi non lessero l’episodio di Jabaliyya come un incidente, ma come una
rappresaglia. Migliaia di persone in lutto che tornavano dai funerali si diressero verso un
avamposto dell’IDF e iniziarono a lanciare pietre e bottiglie contro i soldati che cercarono
inutilmente di disperdere la folla. La violenza dilagò rapidamente in tutti i campi profughi.
Era iniziata l’Intifada74.
Non si trattò della solita sommossa. Migliaia di persone, moltissimi minorenni,
parteciparono alle dimostrazioni, sostenute da altre migliaia a casa. Inizialmente, per Rabin

73
R. SLATER, Rabin, 20 years After, cit., pp.325-326.
74
Intifada è un termine arabo che significa “sussulto”, ma nella fattispecie “sollevazione”. Il termine è entrato
nell’uso comune per indicare le rivolte arabe che a partire dal dicembre 1987, si propongono di metter fine
all’occupazione israeliana in Palestina.

37
e i suoi collaboratori queste dimostrazioni non sembrarono così diverse da quelle che si erano
verificate nei territori occupati negli ultimi due decenni e ritennero che si sarebbero spente
certamente nel giro di pochi giorni75. Rabin non vide dunque motivi per spostare il suo
viaggio programmato negli Stati Uniti, dove doveva firmare un protocollo d’intesa sulla
fornitura di attrezzature di fabbricazione israeliana al governo americano. Insieme al Capo
di Stato Maggiore decise di rinforzare le truppe di pattugliamento a Gaza per proteggere le
strade dal lancio di pietre e Molotov. L’IDF si dimostrò palesemente incapace di far fronte
agli eventi e il bilancio delle vittime palestinesi (311 nel primo anno di rivolte) provocò una
forte indignazione nell’opinione pubblica internazionale (anche grazie alla costante presenza
di telecamere che riprendevano i combattimenti), che vide in questo fronteggiarsi di due
schieramenti tanto diversamente equipaggiati una sorta di sfida tra novelli Davide e Golia,
questa volta a parti invertite.
Rabin decise di lasciare aperti i campi profughi e non impose alcun coprifuoco, né
sentì il bisogno di tentare di isolare i manifestanti da quella che percepiva come la
maggioranza silenziosa dei palestinesi che, secondo lui, disprezzava i rivoltosi e desiderava
solamente condurre una vita normale76. Ma questa volta la sua visione non corrispondeva
alla realtà. Per alcuni giorni, grazie anche all’aumento dei soldati impiegati, non ci furono
vittime, ma la settimana successiva furono gli arabi israeliani ad insorgere, a partire da
Nazareth per continuare in molte altre città e villaggi. Circa 170.000 arabi rifiutarono inoltre
di andare al lavoro solidarizzando con gli insorti. I leader israeliani attribuirono la colpa dei
disordini a elementi esterni (OLP, Iran, Siria). Nessuno realizzò che gli eventi erano
spontanei e che la rivolta era nelle mani dei palestinesi locali.
Rabin minacciò una risposta militare più intensa, ma questo era precisamente
l’obiettivo dei leader della rivolta che volevano riportare la causa palestinese all’attenzione
internazionale. Riferendo alla Knesset il 23 dicembre relativamente all’uso della violenza da
lui autorizzato per sedare le insurrezioni, Rabin affermò:

Possono sparare per colpire i leader dei disordini e i lanciatori di bombe incendiarie,
possibilmente alle gambe, dopo che sparando in aria non siano riusciti a disperdere la sommossa.
Come ministro della difesa ho la responsabilità della vita e della sicurezza dei soldati e della
polizia di frontiera, ed è mio dovere dare loro i mezzi per proteggersi77.

75
R. SLATER, Rabin, 20 years After, cit., p.330.
76
Ivi, p.332.
77
ivi, p.337.

38
La strategia cambiò ancora a gennaio del 1988: i leader delle proteste vennero espulsi
da Israele e vennero adottate misure repressive e punizioni collettive nei campi profughi
della Striscia di Gaza e in quelli più critici della Cisgiordania, oltre all’introduzione del
coprifuoco. Il tentativo di Rabin fu quello di limitare i morti tra i palestinesi attraverso l’uso
di mezzi di dissuasione, non potendo però escludere l’uso della forza fisica per sottomettere
i manifestanti. Si diffuse tra i media internazionali un’immagine di Rabin come di un leader
brutale e crudele.
Il 9 marzo dichiarò alla TV israeliana:

Per quanto riguarda l’Intifada, dopo tre mesi ci troviamo di fronte a un genere di problema con
cui non abbiamo mai dovuto confrontarci prima. È il problema della violenza di una popolazione
che è sotto il nostro controllo, che non agisce nell’ambito del terrorismo, con l’eccezione dei
cocktails Molotov. È molto facile risolvere i classici problemi militari. È molto difficile fare i
conti con 1,4 milioni di palestinesi abitanti nei territori che usano violenza sistematica senza armi
e che non vogliono il nostro governo. Il nostro obiettivo è riportare la calma, non cerchiamo una
soluzione politica. Il problema persiste perché nel gestire un’intera popolazione non possiamo
utilizzare i mezzi principali dell’IDF (aviazione, corpi corazzati, artiglieria); al massimo i soldati
possono usare le loro pistole. Ci vorrà tempo78.

L’Intifada fu uno spartiacque fondamentale nell’evoluzione dei rapporti fra Israele


e i palestinesi. Fino a questo momento Rabin e gli altri politici israeliani erano stati
fermamente contrari a negoziare con qualsiasi leader palestinese. Prima della rivolta il
Partito Laburista riteneva che la soluzione più opportuna al conflitto fosse la cosiddetta
“Opzione giordana”, ovvero il ritorno di porzioni sostanziali della Cisgiordania al Regno
Hascemita di Husayn in cambio di un trattato di pace israelo-giordano.
Sfumata questa possibilità, Rabin dovette cominciare a cercare una leadership araba
palestinese con cui negoziare e iniziò colloqui segreti per tentare di spingere ad indire
elezioni generali nei territori, che potessero produrre figure autorevoli con cui negoziare per
tenere l’OLP fuori da ogni accordo. Gli Stati Uniti del Presidente Bush e il Presidente
egiziano Mubarak fecero pressioni per l’inizio di negoziati ufficiali, ma nel gennaio 1990
Shamir dichiarò pubblicamente che “una grande Aliyah ha bisogno di un grande Israele”,
lasciando intendere che Israele stesse progettando di ampliare il suo programma di
insediamenti popolandoli con i nuovi arrivi previsti dalla Russia post sovietica. Questa
dichiarazione suscitò la reazione indignata degli Stati Uniti e preparò una nuova opportunità
per Rabin di riprendersi il centro della scena. La sua popolarità crebbe in modo inversamente
proporzionale a quella del governo di cui fa parte. Come ministro della difesa aveva guidato

78
ivi, pp.341-342.

39
il Paese in uno dei periodi più controversi della sua storia: aveva realizzato il ritiro delle
truppe dal Libano e aveva represso l’Intifada, conquistandosi quella reputazione che un
tempo apparteneva a Moshe Dayan: con lui il Paese si sentiva al sicuro.
Nella primavera 1990 il Segretario di Stato americano James Baker 79 compì un
grande sforzo diplomatico per trovare una formula accettata da tutte le parti in causa, che
avrebbe fatto scegliere a Israele, Egitto e Stati Uniti i delegati palestinesi chiamati a
riprendere i colloqui di pace. Il governo fu molto diviso al suo interno: il Labour accettò la
proposta americana, mentre Shamir e il suo partito rimasero su posizioni di intransigente
ostruzionismo. Shamir ritenne che, respingendo la proposta americana, avrebbe sì messo in
grave pericolo la tenuta del governo di unità nazionale, ma avrebbe certamente conquistato
il favore dell’elettorato. A causa dei malumori provocati dalla scelta del primo ministro,
quest’ultimo decise addirittura il licenziamento del ministro delle Finanze Peres, con la
motivazione di aver minato il governo, ottenendo in questo modo le dimissioni di tutti i
ministri laburisti.
Il presidente Chaim Herzog80 affidò allora a Peres l’incarico di formare un nuovo
governo. La sua maggioranza era molto risicata e il premier incaricato cercò dunque di
convincere i piccoli partiti religiosi ad aggiungersi alla coalizione concedendo finanziamenti
alle scuole religiose. Nonostante questo Peres fallì nel suo tentativo. L’impresa riuscì invece
a Shamir. Nel Paese intanto esplosero massicce manifestazioni di protesta contro il
mercanteggiare delle poltrone e venne chiesta a gran voce una riforma elettorale che
impedisse ai partiti piccoli di tenere in ostaggio quelli grandi. Mentre Shamir iniziava il suo
nuovo mandato, il partito laburista decise di introdurre un nuovo sistema per scegliere il suo
prossimo leader basato sul modello americano: non sarebbero stati più solo i membri del
comitato centrale ad eleggere il candidato premier, ma tutti i membri registrati del partito.
Il nuovo governo Shamir persistette nella sua politica della linea dura verso i
palestinesi ed espanse ulteriormente gli insediamenti nei territori occupati, mentre l’Intifada
proseguì oltre i confini della West Bank e di Gaza. Nel gennaio del 1991 Israele rischiò di

79
James Addison Baker III, (Huston 28 aprile 1930), politico statunitense, appartenente al partito repubblicano,
per due volte capo dello staff prima sotto l’amministrazione Reagan e poi negli ultimi mesi di presidenza di
G.H.W. Bush. È stato Segretario del Tesoro durante il secondo mandato Reagan e Segretario di Stato durante
l’amministrazione Bush.
80
Chiaim Herzog (1918-1997) militare e politico israeliano, presidente dello Stato di Israele nel decennio 1983-
1993.

40
essere il bersaglio delle vendette di Saddam Hussein durante la Guerra del Golfo81, essendo
raggiungibile dai missili Scud in dotazione all’Iraq. Dopo la guerra Bush sperò che, forte
della vittoria ottenuta, potesse esserci un barlume di speranza nel far risorgere i negoziati
sepolti per risolvere la questione arabo-israeliana. Nonostante le resistenze della destra
israeliana, Baker riuscì ad organizzare una conferenza di pace alla quale i delegati palestinesi
avrebbero partecipato all’interno della delegazione giordana e ad ottenere che tra loro non ci
sarebbero stati esponenti dell’OLP. La Conferenza di Madrid dell’ottobre 1991 non portò
nessun risvolto significativo alla situazione mediorientale ma fu un evento storico in quanto
tutte le parti si ritrovarono per la prima volta sedute attorno a un tavolo.
A febbraio 1992 si svolsero le primarie del Partito Laburista, vinte da Rabin con il
40.59% dei voti. In questi anni il Paese era molto cambiato: era diventato una moderna
società dei consumi, il commercio era raddoppiato, 35 nuovi paesi avevano instaurato
relazioni diplomatiche tra cui Cina, Russia e India, e dall’89 al 92 erano arrivati circa
400.000 immigrati. Tutti questi fattori facevano pensare che il Likud, che aveva governato
in questi anni di boom, avrebbe trionfato anche nelle prossime elezioni. Per vincere, Rabin
aveva bisogno di 55 seggi. Impostò la sua campagna elettorale mostrandosi come l’uomo
capace di conciliare il processo di pace con la fermezza sulla sicurezza nazionale. Promise
di reindirizzare le risorse del Paese non più verso i nuovi insediamenti, ma per incentivare
l’occupazione e rafforzare l’economia. La vittoria di Rabin del 24 giugno fu schiacciante. Il
partito laburista ottenne da solo 44 seggi, la nuova formazione di sinistra Meretz alleata di
coalizione ne ottenne 12, il Likud solo 32. Scrisse il New York Times:

Il vero vincitore è stato il pragmatismo e il grande perdente l’ideologia senza compromessi.


Anche se il campo della pace può aver vinto, un vero dibattito sulla pace non è mai entrato in
campagna elettorale. E mentre l’ala destra estrema ha chiaramente perso terreno, i maggiori
guadagni sono stati al centro e non a sinistra. Alla fine, il Likud ha consumato il suo consenso
attraverso un’erosione crescente della fiducia pubblica che abbia la visione, la coesione,
l’integrità e la competenza per mantenere il paese in funzione. Per molti israeliani, l’ideologia
ha portato anni di pietre e bombe incendiarie nella rivolta palestinese; il timore profondo che il
netturbino della strada araba a Tel Aviv non sia l’uomo laborioso che probabilmente è, ma
piuttosto un terrorista pronto a tirare fuori un coltello; l’incubo che questa sarà la settimana in
cui il proprio figlio militare non tornerà dalla Cisgiordania. Queste persone stanche dicono che
se bisogna rinunciare a qualche terra per la pace, va bene; che se fermare un nuovo insediamento
a Gaza significa poter costruire una clinica di riabilitazione dalla droga ad Ashdod, anche va
bene82.

81
La Guerra del Golfo (2 agosto 1990- 28 febbraio 1991) è il conflitto che oppose l’Iraq ad una coalizione di
35 stati sotto l’egida dell’ONU e guidata dagli Stati Uniti, che si proponeva di restaurare la sovranità
dell’emirato del Kuwait, dopo che era stato invaso e annesso all’Iraq.
82
C. HABERMAN, New York Times, 24 giugno 1992.

41
1.6 Soldato di pace
La vittoria laburista venne accolta con ottimismo in tutto il mondo. Il mandato
ricevuto dagli elettori fu un chiaro segnale per Rabin che occorreva portare il Paese su nuove
strade, accelerare il processo di pace e rivitalizzare l’economia. Si era appena aperta una
finestra di opportunità grazie alla fine della Guerra Fredda, all’allentamento della minaccia
sovietica sull’Occidente e alla sconfitta irachena nella Guerra del Golfo. Eppure quella
finestra non poteva restare aperta per sempre. Gli Stati arabi stavano cercando di acquisire
armi nucleari e solo questo bastava a dover spingere Israele a cercare di porre fine al conflitto
arabo-israeliano il più rapidamente possibile.
Il 9 luglio Rabin annunciò di aver messo insieme la coalizione di governo: il Partito
Laburista avrebbe governato con Meretz83 e Shas84, con l’appoggio esterno dei partiti arabi,
per un totale di 67 seggi alla Knesset. Peres venne nominato ministro degli Esteri e Vice
primo ministro. Nonostante Rabin si mostrasse molto disponibile a riprendere i negoziati sia
con la Siria che con i palestinesi, non riuscì ad ottenere nessun progresso rilevante. Al
contrario, nei territori occupati si faceva sempre più popolare l’organizzazione Hamas, un
gruppo islamico di resistenza fondato dallo sceicco Ahmad Yasin a Gaza nel 1988 come
ramo della Fratellanza Musulmana, che chiedeva una guerra santa per liberare l’intera
Palestina dalla morsa di Israele. Hamas si rese protagonista di numerosi attentati contro
soldati israeliani e Rabin si trovò spesso costretto ad assumere provvedimenti repressivi nei
confronti dei miliziani.
Intanto negli USA Bill Clinton85 era diventato il nuovo presidente. Rabin si mosse in
parlamento per cercare di abolire la legge del 1986 che impediva contatti con l’OLP e
autorizzò informalmente incontri segreti tra rappresentanti palestinesi e israeliani. Il
professore universitario israeliano Yair Hirschfeld e il ricercatore Ron Pundak vennero
autorizzati ad iniziare una serie di colloqui privati con il tesoriere dell’OLP Abu Ala.
Nessuno venne informato di questa trattativa che proseguì rapidamente, mentre quella
ufficiale in corso a Washington restava bloccata. Inaspettatamente sembrò che al di fuori dei
circuiti ufficiali entrambe le parti fossero disposte ad un compromesso. Israele voleva

83
Meretz (eb: ‫ )מרצ‬è un partito politico israeliano di sinistra di ispirazione laica, sionista e socialdemocratica,
fondato nel 1992.
84
Shas (eb: ‫ )ש''ס‬è un partito politico israeliano, fondato nel 1984, che rappresenta principalmente gli ebrei
ultraortodossi sefarditi e mizrahi (provenienti dall’Europa occidentale e dai paesi arabi, distinti dagli
ashkenaziti provenienti dall’Europa orientale), in gran parte immigrati nei primi dieci anni dopo l’indipendenza
d’Israele.
85
William Jefferson Clinton, 42° presidente degli Stati Uniti d’America dal 1993 al 2001.

42
ovviamente mantenere quanti più territori possibile per proteggere i coloni in Cisgiordania
e Gaza e impedire ai terroristi di attaccare obiettivi israeliani. L’OLP voleva che Israele
accettasse la creazione di uno Stato palestinese e ritirasse immediatamente tutte le truppe di
occupazione. Le parti sembrarono però disposte a scendere a compromessi: Israele era
disposto a concedere l’autogoverno e un ritiro graduale delle proprie truppe, mentre l’OLP
accettò una conclusione graduale dell’occupazione.
A maggio venne disposto un piano preliminare di dichiarazione di principio che
avrebbe dovuto fungere da base per un eventuale accordo. Per accelerare il percorso l’OLP
propose che l’accordo prevedesse solo il ritiro da Gaza, concedendo l’autonomia ai 750.000
residenti, lasciando indietro la Cisgiordania. Gli israeliani sembrarono accettare il
compromesso. Rabin mandò a questo punto dei diplomatici ufficialmente incaricati a Oslo
per verificare la possibilità concreta di un accordo e nel momento in cui questi tornarono con
un parere positivo, il primo ministro accettò di rivedere le sue posizioni in merito alla
possibilità di dialogare con Arafat, anche perché aveva perso fiducia nei leader palestinesi
locali che non erano stati in grado di tenere testa ad Hamas e non avevano sufficiente autorità
sulla popolazione per dichiarare la fine della guerra. Nessuno, in questo momento, nemmeno
gli Stati Uniti erano a conoscenza delle trattative. Peres si recò ad Oslo per firmare una
dichiarazione di principi con Mahmud Abbas86 e subito dopo volò a Washington per
informare Warren Christopher87 sugli sviluppi e chiedere aiuto per convincere il Marocco e
altri Stati arabi ad instaurare relazioni diplomatiche con Israele, visto il prossimo reciproco
riconoscimento tra Israele e OLP. Fu a questo punto che il mondo cominciò a sapere.
L’accordo che Rabin presentò al suo Paese prevedeva infine il ritiro delle forze
israeliane da alcune aree della Striscia di Gaza e della Cisgiordania che sarebbero diventate
autogovernate attraverso la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese. Tale governo
sarebbe durato cinque anni, durante i quali sarebbe stato negoziato un accordo permanente.
Inoltre le due parti si accordarono per un mutuo riconoscimento: Israele riconosceva l’OLP
come legittimo rappresentante del popolo palestinese, mentre l’OLP riconosceva il diritto ad
esistere dello Stato d’Israele e rinunciava al terrorismo e all’intento di distruzione di Israele.
Per assicurare che i palestinesi potessero governarsi in base a principi democratici, si
sarebbero dovute svolgere elezioni politiche libere per eleggere un consiglio con funzioni

86
Mahmud Abbas, conosciuto anche come Abu Mazen, è attualmente Presidente dell’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina e dell’Autorità Nazionale Palestinese.
87
Warren Minor Christopher (1925-2011), politico e diplomatico statunitense. 63° Segretario di Stato degli
Stati Uniti dal 20 gennaio 1993 al 17 gennaio 1997.

43
amministrative, diplomatiche e di difesa, ma senza giurisdizione sugli insediamenti
israeliani. L’accordo prevedeva inoltre una cooperazione economica tra le due parti e di
sviluppo della regione, ma tralasciò volutamente le questioni più spinose, quelle cioè relative
allo statuto di Gerusalemme, alla situazione dei rifugiati palestinesi, agli insediamenti
israeliani, alla sicurezza e ai confini. Rabin acconsentì alla firma dell’accordo ma non ne
era entusiasta, soprattutto per il ruolo di Arafat che avrebbe preferito estromettere e che
incontrò per la prima volta faccia a faccia solo il giorno della firma degli accordi alla
presenza del Presidente degli Stati Uniti, davanti alle telecamere delle televisioni di tutto il
mondo convenute a Washington per immortalare quello che, tutti ritennero un evento storico
che avrebbe dovuto cambiare per sempre la storia geopolitica del Medio Oriente88.
In questa occasione Rabin pronunciò il suo discorso più famoso, rimasto impresso
nella memoria di quanti guardavano con speranza a quel 13 settembre 1993:

Siamo venuti da Gerusalemme, l’antica ed eterna capitale del popolo ebraico. Siamo venuti da
una terra tormentata e addolorata. Siamo venuti da un popolo, una casa, una famiglia, che non
ha conosciuto un solo anno, un solo mese, in cui le madri non abbiano pianto i loro figli. Siamo
venuti per cercare di mettere fine alle ostilità in modo che i nostri figli, i figli dei nostri figli, non
debbano più sperimentare il doloroso costo della guerra, della violenza e del terrore. Siamo
venuti per tutelare le loro vite e alleviare il cordoglio e i ricordi dolorosi del passato, per sperare
e pregare per la pace. Lasciate che dica a voi, palestinesi, che siamo destinati a vivere insieme
sullo stesso suolo, sulla stessa terra. Noi, soldati tornati dalle battaglie macchiate dal sangue; noi,
che abbiamo visto i nostri parenti e amici uccisi davanti ai nostri occhi; noi, che abbiamo
partecipato ai loro funerali e non possiamo guardare negli occhi i loro familiari; noi, che siamo
venuti da una terra dove i genitori seppelliscono i figli; noi, che abbiamo combattuto contro di
voi, palestinesi, noi vi diciamo oggi a voce alta e chiara: basta col sangue e le lacrime. Basta.
Non abbiamo desideri di vendetta… non nutriamo odio nei vostri confronti. Noi, come voi, siamo
gente… gente che vuole costruire una casa, piantare un albero, amare, vivere al vostro fianco
con dignità, in affinità, come esseri umani, come uomini liberi. Noi diamo oggi un’occasione
alla pace, e vi diciamo ancora “basta”. Preghiamo che arrivi il giorno in cui noi tutti diremo addio
alle armi89.

A questo primo accordo, ne seguirà un secondo, detto Oslo 2, per ampliare


l’autogoverno palestinese, includendo Betlemme, Hebron, Jenin, Nablus, Qalqilya,
Ramallah e altri villaggi, prevedendo inoltre il ritiro delle forze israeliane e la costituzione
di un passaggio sicuro per i palestinesi che viaggiano tra Gaza e la Cisgiordania. Gli accordi
sollevarono nei due popoli un’ondata di speranza sulla fine delle violenze e tutto il mondo

88
R. SLATER, Rabin, 20 years After, cit., p.439.
89
Y. RABIN, Address by Prime Minister Yitzhak Rabin upon signing the Israeli-Palestinian Declaration of
Principles, Washington D.C., 13 settembre 1993, Rabin Center Archives.

44
applaudì ai passi coraggiosi compiuti in direzione della pace, tanto che Rabin, Peres e Arafat
vennero insigniti del Premio Nobel per la pace90.

In occasione della consegna dell’onorificenza Rabin affermò:

Signore e signori, siamo nel bel mezzo della costruzione della pace. Gli architetti e gli ingegneri
di questa impresa sono impegnati nel loro lavoro perfino mentre ci ritroviamo qui stasera,
costruendo la pace strato dopo strato, mattone dopo mattone, trave dopo trave. Il lavoro è
difficile, complesso, impegnativo. Gli errori potrebbero far crollare l’intera struttura e far cadere
il disastro su di noi. E quindi siamo determinati a fare bene il lavoro, nonostante il bilancio del
terrorismo omicida, nonostante i nemici fanatici e sleali. Perseguiremo la via della pace con
determinazione e con fortezza. Non molleremo. Non ci arrenderemo. La pace trionferà su tutti i
nostri nemici, perché l’alternativa è la più cupa per tutti noi. E prevarremo.
Vinceremo perché consideriamo la costruzione della pace una grande benedizione per noi e per
i nostri figli dopo di noi. La consideriamo una benedizione per i nostri vicini di tutte le parti e
per i nostri partner in questa impresa: Stati Uniti, Russia, Norvegia e tutta l’umanità.
Ci svegliamo la mattina ora come persone diverse. All’improvviso, la pace. Vediamo la speranza
negli occhi dei nostri figli. Vediamo la luce nei volti dei nostri soldati nelle strade, negli autobus,
nei campi. Non dobbiamo deluderli. Non li deluderemo91.

Con la firma dell’accordo e il riconoscimento dei palestinesi come entità nazionale,


erano ormai mature le condizioni per un accordo di pace con la Giordania. Le relazioni con
il regno giordano erano cresciute negli anni attraverso gli incontri segreti tra Re Husayn e il
primo ministro israeliano, grazie anche all’apporto degli Stati Uniti. La firma venne siglata il
26 ottobre 1994 nel deserto tra Aqaba e Eilat, e fissò definitivamente i confini tra i due stati.
In Israele però non tutti approvavano la politica di Rabin. La destra religiosa e il
Likud iniziarono una violenta campagna di opposizione volta a screditare personalmente
Rabin e a mostrare gli Accordi di Oslo come una rinuncia ai territori occupati nelle guerre e
una capitolazione di fronte al nemico. Si susseguirono violenti raduni in cui i manifestanti
esibivano raffigurazioni del premier Rabin in uniforme nazista o al centro del mirino di una
pistola. A luglio un cospicuo gruppo di manifestanti guidati da Benjamin Netanyahu92,
inscenò un finto corteo funebre portando in trionfo una bara recante l’immagine del primo
ministro, atto ritenuto pericoloso ed eversivo, tanto che il capo della sicurezza interna Carmi
Gillon chiese all’esponente del Likud di moderare la retorica delle proteste, cosa che il
politico si rifiutò di fare. Alcuni rabbini legati al movimento dei coloni arrivarono a definire

90
Nobel Peace Prize, onorificenza di valore mondiale attribuita annualmente a coloro che si sono distinti per
l’impegno in favore della pace mondiale. Il premio è stato istituito dal testamento di Alfred Nobel del 1895 ed
è stato assegnato per la prima volta nel 1901.
91
Y. RABIN, Address by Prime Minister Yitzhak Rabin upon receiving the Nobel Peace Prize, Oslo 10 dicembre
1994, Rabin Center Archives.
92
Benjamin Netanyahu, uomo politico israeliano, attuale primo ministro e leader del Likud.

45
Rabin un Din Rodef93. Secondo la legge, tale persona può (o secondo alcuni deve) essere
uccisa da qualunque spettatore, dopo essere stata redarguita e avvisata e aver rifiutato di
desistere dal suo proposito94, supponendo che le sue concessioni all’autorità palestinese
avessero messo in pericolo la vita degli ebrei negli insediamenti.
Il clima di tensione nel Paese era molto alto. Rabin e Peres decisero di tentare di
rassicurare i propri sostenitori per infondere fiducia nella popolazione rispetto ai
cambiamenti, attraverso incontri pubblici che avvicinassero le istituzioni alla gente. Il primo
incontro fu fissato per il 4 novembre in Piazza Re di Israele, oggi Piazza Yitzhak Rabin, a
Tel Aviv. In questa occasione, alla folla che lo acclamava, Rabin proclamò quello che
passerà alla storia come il suo ultimo discorso:

Ho sempre creduto che la maggior parte delle persone voglia la pace, sia disposta ad assumersi
dei rischi per la pace. E voi, venendo a questo raduno, insieme ai tanti che non sono convenuti
qui, provate che la gente vuole veramente la pace e si oppone alla violenza. La violenza sta
minando le fondamenta stesse della democrazia israeliana. Deve essere condannata, denunciata
e isolata. Quella non è la via dello Stato d’Israele. Le controversie possono sorgere in una
democrazia, ma la decisione deve essere presa attraverso elezioni democratiche, come accadde
nel 1992, quando ci fu dato mandato di fare quello che stiamo facendo, e di continuare a farlo 95.

La manifestazione terminò alle 21:30. Rabin scese la scalinata diretto verso


l’automobile che lo attendeva, ma prima di poterla raggiungere venne colpito alla schiena
da due proiettili esplosi da Yigal Amir. Amir era un colono ebreo di 25 anni di origine
yemenita, studente di Giurisprudenza alla Bar-Ilan University e militante in un piccolo
gruppo sionista e di estrema destra chiamato Eyal.
Alle 23:15, nonostante i tentativi del personale medico di salvargli la vita, Yitzhak
Rabin morì all’Ichilov Hospital. Nella tasca della sua giacca venne rinvenuto un foglio
macchiato di sangue con il testo della canzone popolare israeliana Shir LaShalom, che aveva
cantato sul palco pochi istanti prima del suo assassinio, che da questo momento divenne il
simbolo di una pace macchiata dal sangue di chi più di ogni altro l’aveva cercata.

93
Din Rodef (eb: ‫)דין רודף‬, nella legge ebraica tradizionale (Halakah, eb: ‫)הלכה‬, significa: “colui che insegue
un altro per ucciderlo”.
94
“E questi sono quelli che bisogna salvare anche con le loro vite (cioè uccidere il trasgressore): uno che
insegue il suo compagno per ucciderlo” (Talmud Babilonese, Trattato Sanhedrin 73a).
95
Y. RABIN, Address by Prime Minister Yitzhak Rabin at a Peace Rally, Tel Aviv, 4 novembre 1995, Rabin
Center Archives.

46
‫ שיר לשלום‬Canzone per la pace
‫תנו לשמש לעלות‬ Lasciate sorgere il sole
,‫לבוקר להאיר‬ che accenda il mattino,
‫הזכה שבתפילות‬ La più pura tra le preghiere
.‫אותנו לא תחזיר‬ non ci riporterà indietro.

‫מי אשר כבה נרו‬ Colui la cui candela fu spenta


,‫ובעפר נטמן‬ E fu sepolto nella polvere,
‫בכי מר לא יעירו‬ Un pianto amaro non lo risveglierà
.‫לא יחזירו לכאן‬ E non lo riporterà indietro.

‫איש אותנו לא ישיב‬ Nessuno ci risponderà


,‫מבור תחתית אפל‬ dal fondo di una fossa scura,
‫כאן לא יועילו‬ Qui non ti aiuterà
‫לא שמחת הניצחון‬ né la gioia della vittoria
.‫ולא שירי הלל‬ e neppure canti di lode.

‫ רק שירו שיר לשלום‬,‫לכן‬ Per questo cantate una canzone per la pace
‫אל תלחשו תפילה‬ Non bisbigliate una preghiera
‫מוטב תשירו שיר לשלום‬ È meglio cantare una canzone di pace
.‫בצעקה גדולה‬ a voce alta.

‫תנו לשמש לחדור‬ Lasciate che il sole penetri


.‫מבעד לפרחים‬ Attraverso i fiori.
,‫אל תביטו לאחור‬ Non guardate indietro,
.‫הניחו להולכים‬ Lasciate andare chi ci ha lasciato.

,‫שאו עיניים בתקווה‬ Alzate con speranza gli occhi,


‫לא דרך כוונות‬ Ma non attraverso i mirini dei fucili
‫שירו שיר לאהבה‬ Cantate una canzone per l'amore
.‫ולא למלחמות‬ e non di guerra.

- ‫אל תגידו יום יבוא‬ Non dite: "Verrà, un giorno!" -


!‫הביאו את היום‬ Fatelo venire quel giorno!
‫כי לא חלום הוא‬ Perché non è un sogno
‫ובכל הכיכרות‬ Ed in tutte le piazze della città
!‫הריעו רק שלום‬ Celebrate solo la pace!

‫ רק שירו שיר לשלום‬,‫לכן‬ Per questo cantate una canzone per la pace
‫אל תלחשו תפילה‬ Non bisbigliate una preghiera
‫מוטב תשירו שיר לשלום‬ È meglio cantare una canzone di pace
.‫בצעקה גדולה‬ a voce alta.

47
CAPITOLO 2
RABIN SULLA STAMPA ITALIANA LIBERALE

2.1 Israele e la stampa moderata

Israele è stato, per la stampa italiana, un argomento di grande interesse sin da quel
fatidico 14 maggio 1948, quando David Ben Gurion proclamò la nascita di questo nuovo
Stato. Da subito le vicende mediorientali si intrecciarono con la difficile situazione nazionale
chiamata ad affrontare gli innumerevoli problemi del secondo dopoguerra. Tutti i giornali
italiani offrirono commenti, ricostruzioni storiche e analisi delle questioni politiche
internazionali legate alla presenza dello Stato ebraico, sottolineando in modo particolare il
ruolo delle grandi potenze e invocando la pace per una regione e un popolo estremamente
provato dalla guerra e dalla persecuzione.
«La Stampa» di Torino fu tra i giornali italiani che dedicarono maggiore attenzione
e spazio a Israele. «Diretto da Giulio De Benedetti, il quotidiano della Fiat era espressione
di una sinistra moderata, figlia della cultura politica liberal-socialista e azionista, erede della
battaglia antifascista laica e riformista»96. Il giornale torinese espresse sin dall’inizio la
propria vicinanza al nuovo Stato, dando voce a una sinistra non comunista, tradizionalmente
attenta alla questione ebraica e all’antisemitismo. Dalle sue colonne Luigi Salvatorelli
sostenne decisamente il ruolo dell’ONU nella risoluzione del nodo mediorientale,
sostenendo che dovesse agire concretamente per non abbandonare a sé stessi arabi ed ebrei:

Gli Arabi hanno un innegabile diritto sulla Palestina, loro terra. Ma anche gli Ebrei, immigrati in quella che
pure era stata per millenni, la terra loro, vi hanno acquistato diritti non meno sacri: quello della necessità per
un popolo atrocemente perseguitato, di una terra di rifugio; quello del loro stabilimento compiuto in base ad
atti internazionali riconosciuti da tutti; quello, infine e soprattutto, del meraviglioso lavoro di civiltà da essi
compiuto nella terra già d’Israele. C’è uno stato di fatto, che è anche uno stato di diritto. Solo un pazzo potrebbe
oggi pensare a cacciar gli Ebrei dalla Palestina, o a chiuder loro colà le porte in faccia. Gli Ebrei stabilitisi in
Palestina hanno diritto di rimanervi; e nei limiti di capacità del territorio ad essi riconosciuto, non si vede come
si potrebbe legittimamente proibire l’afflusso ulteriore di loro connazionali. Altrettanto assurdo sarebbe negare
a questa comunità – che è, per riconoscimento internazionale un popolo, e di fatto uno Stato – il diritto di
autogoverno. Di qui la necessità di spartizione della Palestina […]. Nelle condizioni presenti […] l’intervento
internazionale s’impone immediatamente. […] L’ONU deve affrontarlo integralmente, pena l’abdicazione 97.

96
A. TARQUINI, 1968. Un anno dalla guerra dei sei giorni, venti dalla nascita di Israele in Italia racconta
Israele1948-2018, a cura di M. TOSCANO, Viella,2018.
97
L. SALVATORELLI, Palestina in fiamme, in «La Nuova Stampa», 25 dicembre 1947.

48
Tutti gli interventi, in questa prima fase iniziale, erano dominati da preoccupazioni
contingenti (il problema dell’immigrazione, la spartizione territoriale, gli interessi
economici nella regione) e non c’era in essi alcuna tensione morale. Inoltre si tendeva ad
evitare il confronto con il recente passato antisemita dell’Italia, anche a causa delle tensioni
della guerra fredda e della durezza della lotta politica in Italia nei primi anni del dopoguerra.
«La Stampa» pubblicò anche una serie di articoli di Paolo Monelli in cui si proponeva
un quadro della situazione del Vicino Oriente molto preoccupante, si confermava l’ostilità
verso gli inglesi, che accomunava arabi ed ebrei, si riportavano pesanti critiche alla Gran
Bretagna (di immobilità di fronte alla guerra), si ribadiva l’ostilità degli arabi palestinesi alla
spartizione e l’intenzione dell’Agenzia ebraica di non abbandonare la realizzazione del
sogno di essere uno stato nazionale: «Questa benedetta spartizione della Palestina in due
stati […] in pratica esiste di già. C’è una Palestina araba, e c’è una Palestina ebrea»98.
In generale l’inizio del conflitto israelo-palestinese venne seguito con attenzione,
ma attraverso le chiavi di lettura della guerra fredda. Arabi ed ebrei rimanevano per lo più
sullo sfondo di un contesto fatto di interessi che andavano oltre i loro99. Le tradizioni, i valori,
il legame con la terra d’Israele presenti nella tradizione religiosa e culturale ebraica, l’opera
pluridecennale del sionismo nella regione e il peso della Shoah sulla coscienza dell’Europa
non costituivano argomenti di primo piano100; al contrario non mancavano accenni alla
collaborazione dei leader arabi palestinesi con le potenze dell’Asse durante la seconda guerra
mondiale e alla fuga dalla regione, variamente motivata, di parte della popolazione araba.
L’immagine di Israele proposta dai giornali italiani si riferiva comunque ad un
quadro politico e militare in rapida evoluzione. La decisione dell’ONU del 29 novembre
1947, come si è visto, aveva dato vita ad una guerra civile. Agli inizi del 1948 la situazione
degli ebrei appariva difficile. La nascita di Israele, immediatamente seguita dall’invasione
da parte di forze libanesi, siriane, irachene, transgiordane ed egiziane, l’evoluzione della
guerra che mostrava un futuro per Israele, portarono ad una progressiva scoperta della
società israeliana. La stampa liberale italiana quindi, all’inizio della sua esistenza, dedicò
un’attenzione rilevante allo Stato di Israele, senza arrivare però ad una riflessione
approfondita sul significato della nascita di uno Stato ebraico in Palestina. La lotta degli
ebrei per Israele venne vista come un proseguimento della lotta contro il fascismo e per la

98
P. MONELLI, I guai della Palestina, in «La Nuova Stampa», 11 aprile 1948.
99
A. GUERRIERO, Le ragioni degli arabi, in «Corriere della Sera», 22 maggio 1948.
100
A. GUERRIERO, Le ragioni degli ebrei, in «Corriere della Sera», 20 maggio 1948.

49
libertà e l’autodeterminazione di tutti i popoli, auspicando una convivenza pacifica tra arabi
ed ebrei, visti da molti anche come fattore di modernizzazione di una realtà arcaica come
quella mediorientale101.
Negli anni successivi il Medio Oriente fu al centro del dibattito politico nazionale,
soprattutto in relazione alla questione dei rapporti con il mondo arabo, in modo particolare
dopo la crisi di Suez del ’56. La nascita della Repubblica Araba Unita, l’abbattimento della
monarchia irachena e il conseguente intervento americano in Libano e britannico in
Giordania furono seguiti con particolare attenzione e finirono per rinvigorire le polemiche
sugli indirizzi di politica estera e sul cosiddetto neoatlantismo102.
Grande curiosità suscitarono le corrispondenze da Gerusalemme di Vittorio Segre
per il «Corriere della Sera», che offrirono ai lettori uno spaccato completo del piccolo Stato
ebraico. Segre raccontò le contraddizioni della società, le suggestioni evocate da
Gerusalemme, l’assurdità dei confini che segavano la città in due, il dinamismo con cui si
progettavano e realizzavano infrastrutture e soprattutto attribuì un significato che
oltrepassava i confini mediorientali alla decisione del governo israeliano di rendere giustizia
alle vittime del massacro di Kafr Qasim103:

La ragione prima della creazione dello Stato ebraico era stata di servire da rifugio ai perseguitati, di aprire un
luogo di giustizia a chi non l’aveva. Nessuna ragione di Stato, di odio politico o di zelo militare poteva perciò
giustificare un incidente attraverso il quale un popolo di “vittime” rischiava di trasformarsi in un popolo di
persecutori. […] Riacquistata l’indipendenza politica, non solo Israele è responsabile delle sue azioni collettive,
ma la giustizia e la moralità di Gerusalemme sono diventate delle misure molto significative della giustizia e
della moralità del popolo ebraico tutto intero104.

Anche «La Stampa», attraverso i reportages di Francesco Rosso descrisse Israele


come uno stato caratterizzato da una struttura economica, politica e sociale che sfuggiva a
ogni definizione e in cui «proprietà privata, cooperativismo, collettivismo integrale e
centralismo statale coesistevano e prosperavano in buona armonia»105.

101
S. DE FEO, La via Veneto di Tel Aviv, in «L’Europeo», 3 aprile 1949.
102
Con questo termine, coniato dal ministro degli Esteri Giuseppe Pella, si indicava il nuovo corso che,
secondo alcuni, avrebbe dovuto intraprendere la politica estera italiana alla luce dei cambiamenti avvenuti
nell’assetto internazionale. Relativamente al Medio Oriente i fautori di tale indirizzo politico spingevano
affinché l’Italia svolgesse un ruolo mediatore tra il mondo sviluppato e i paesi arabi affacciati sul Mediterraneo
con l’intenzione di giocare un ruolo determinante in politica internazionale e nel bacino del Mediterraneo.
103
Si trattò di una strage avvenuta nel villaggio arabo di Kafr Qasim situato sulla linea verde (a quel tempo il
confine di fatto tra Israele e Cisgiordania giordana) il 29 ottobre 1956. Fu responsabilità della polizia di
frontiera israeliana (Magav), che uccise civili arabi di ritorno dal lavoro durante un coprifuoco di cui non erano
a conoscenza, imposto all’inizio della giornata alla vigilia della guerra del Sinai. In totale morirono 48 persone,
di cui 19 uomini, 6 donne e 23 bambini di età compresa tra 8 e 17 anni.
104
R.A. SEGRE [Vittorio Dan Segre], Israele ha pagato lealmente il tragico zelo dei suoi soldati, in «Corriere
della Sera», 30 ottobre 1958, p.9.
105
F. ROSSO, Funzione civile dell’esercito nella singolare vita d’Israele, in «La Stampa», 5 aprile 1958, p.3.

50
Dopo la Guerra dei Sei Giorni il sostegno che Israele aveva riscosso tra i moderati
italiani dal 1948 vacillò, perché cambiò la percezione che l’opinione pubblica internazionale
aveva del Paese: per la prima volta, da piccolo paese in guerra per difendere la propria
esistenza, agli occhi di molti Israele si trasformò in uno Stato aggressore. Alla fine della
guerra del giugno 1967, gli israeliani occupavano tutto il Sinai, la striscia di Gaza, le alture
del Golan e la Cisgiordania con Gerusalemme est. Avevano sconfitto le forze armate
dell’Egitto, della Giordania e della Siria e in sei giorni avevano modificato l’equilibrio
geopolitico della regione, rimanendo in attesa di scambiare terra in cambio di pace. E,
soprattutto, avevano conquistato un’area tre volte e mezzo più grande di Israele stesso,
abitata da oltre un milione di palestinesi106.
Nel novembre del 1967 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la
risoluzione n. 242 che sollecitò il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati e
il riconoscimento della sua sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica da parte
dei suoi vicini. Il «Corriere della Sera» e «La Stampa», come molti moderati italiani,
rimasero filoisraeliani, pur non nascondendo i limiti e le responsabilità della politica estera
dello stato ebraico e dunque trasformando un sostegno incondizionato in un’amicizia non
priva di ostacoli.
«La Stampa» dal 1968 continuò ad occuparsi di Israele attraverso gli articoli di Carlo
Casalegno, appassionato sostenitore della causa israeliana sin dalla Guerra dei Sei Giorni.
Casalegno ricordava come gli israeliani avessero raccolto immigrati da tutto il mondo e
mostrato una capacità di sviluppo fuori dal comune trasformando un deserto in una nazione
moderna e industrializzata. Raccontava con stupore di come gli stravolgimenti sociali dovuti
alla nuova situazione politica e militare non avessero intaccato la famiglia patriarcale e di
come la religione permeava di sé diversi aspetti del mondo civile107.
Alla fine degli anni sessanta il «Corriere della Sera» era diretto da Giovanni
Spadolini, giornalista e storico che si era occupato del conflitto mediorientale sin dalla
nascita di Israele. Spadolini era filoisraeliano per diversi motivi: nemico del panarabismo e
convinto anticomunista temeva l’influenza sovietica sul mondo arabo; critico della sinistra
democristiana e di alcune componenti del mondo cattolico sensibili ai rapporti col PCI; come
studioso di storia contemporanea dedicava una particolare attenzione al confronto fra il
Risorgimento italiano e quello ebraico, rappresentato naturalmente dal sionismo.

106
T.G. FRASER, Il conflitto arabo-israeliano, Bologna, il Mulino, 2014, p.90.
107
C. CASALEGNO, La famiglia all’antica è ancora solida in Israele, in «La Stampa», 1 giugno 1968, p.13.

51
Considerava Israele un Paese che, sorto sulla persecuzione, sapeva esprimere la fusione di
diverse generazioni e provenienze attraverso un processo messo continuamente in pericolo
dalla volontà degli arabi di annientarlo108.
In occasione del ventennale dello Stato ebraico, proprio sul «Corriere», Indro
Montanelli scrisse: «Non è passato nemmeno un anno da quando questo piccolo paese riempì
il mondo di stupore e di ammirazione per il coraggio, la risolutezza o l’efficienza con cui
riaffermò il suo diritto alla vita contro l’aggressione di un nemico che sembrava aver avuto
tutto dalla sua: geografia, schiacciante superiorità numerica, mezzi militari e appoggi
diplomatici»109. Montanelli raccontò ai suoi lettori la storia di un popolo da sempre in lotta
contro l’antisemitismo: dall’imperatore Tito ai cristiani, da Hitler agli inglesi e ora gli arabi.
L’unica concessione che la comunità internazionale aveva fatto a questo popolo perseguitato
era stata, secondo Montanelli, il piano di spartizione territoriale del 1947 e il riconoscimento
dello Stato nel 1948.
Per questi motivi e per il rischio dell’isolamento e dell’annientamento da parte dei
suoi vicini, Israele meritava un’attenzione costante dalla stampa liberale. Pur confermando
sempre la vicinanza a Israele non si mancò però di ricordare come gli israeliani non fossero
riusciti a costruire un vero processo di pace e questo scenario avrebbe di fatto portato l’unico
paese democratico dell’area ad alimentare il terrorismo, trasformando le conquiste ottenute
attraverso il sacrificio di generazioni, in una realtà di sangue110.
Le elezioni del 17 maggio 1977 in Israele suscitarono molti interrogativi e perplessità
relative al futuro di una pace possibile in tempi brevi. La vittoria del Likud fu un vero
terremoto politico che manifestava al mondo il cambiamento in atto nel Paese. L’ultra-destra
aveva raccolto i consensi della componente religiosa e sefardita, per lo più di origine
nordafricana, con alle spalle una lunga storia di emarginazione e di inferiorità economica,
sociale e culturale rispetto alla privilegiata componente laica e askenazita, base elettorale
della sinistra111. Igor Man, prestigiosa firma de «La Stampa» ed esperto osservatore del
Medio Oriente, definì la vittoria del Likud un «terremoto» e «una sconcertante scelta degli
elettori». Man sostenne che tale scelta elettorale avrebbe portato Israele all’isolamento

108
V. BALDACCI, Giovanni Spadolini: la questione ebraica e lo Stato d’Israele. Una lunga coerenza, Firenze,
Polistampa, 2013, pp. 51-54.
109
I. MONTANELLI, I vent’anni di Israele, in «Corriere della Sera», 2 maggio 1968, p.1.
110
P. BUGIALLI, La pace logorante di Israele, «Corriere della Sera», 3 giugno 1969, p.3.
111
S. SMOHA, Israel. Pluralism and Conflict, London-Henley, Routledge & Kegan Paul, 1978, pp.151-182.

52
internazionale a causa della distanza che i partiti socialisti del mondo avrebbero preso di
fronte a un governo Begin che così descrisse ironicamente:

Si stenta a credere che quest’uomo magro, minuto, sia stato il capo feroce e implacabile dell’Irgun. […] Parla
con voce tribunizia, venata da un sottile sarcasmo. Ringrazia i suoi collaboratori, saluta gli sconfitti. Poi, con
un volo pindarico, ricorda il diciassettesimo congresso sionista, allorché il suo maestro Jabotinsky fondò l’ala
estremista del movimento. Riviviamo, dice, lo spirito di quei grandi giorni, lo spirito del «Grande Israele».
Grida isteriche accolgono le sue parole, una attivista in maglietta arancione sviene, qualcuno si mette a suonare
il tamburo, viene issata una bandiera nazionale. C’è un clima di happening che tuttavia mette quasi paura. Per
fortuna tutto Israele non è il Likud, e la sede di questo partito estremista non è lo specchio di un Paese
democratico e responsabile112.

Sempre sul giornale torinese, Carlo Casalegno individuò la causa della sconfitta
laburista in due dati demografici molto significativi. Più della metà dei cittadini erano
giovani nati in Israele e gli ebrei orientali erano almeno un milione. Entrambe queste
categorie avevano una memoria distante dai legami che univano il Partito laburista e le
vecchie generazioni e i profughi dell’Europa orientale. Inoltre gli ebrei provenienti dai paesi
arabi erano estranei alla ideologia socialista e laica, su cui poggiava la tradizione sionista e
i giovani, con un vissuto privo dell’esperienza della diaspora e dell’antisemitismo, si
mostravano indifferenti al «messianismo quasi utopistico» dei pionieri: «Sono le leggi della
storia e della democrazia. Non si vota per riconoscenza […]. E forse si può vedere nella
caduta del Maarakh113, un aspetto positivo: Israele si sente un Paese come gli altri, impegnato
nei problemi d’oggi, meno consapevole di una «unicità» che potrebbe diventare un
condizionamento e un freno, meno vincolato alla tradizione»114.
Ma il 1977 fu anche l’anno, oltre che del traumatico passaggio della leadership del
Paese nelle mani dei falchi della destra, della storica visita del presidente del maggiore tra i
paesi arabi, l’egiziano Sadat, contro cui Israele aveva combattuto ben quattro guerre.
«L’impossibile è accaduto» scriveva il 20 novembre Vittorio Zucconi su «La Stampa». Lo
stesso giorno il quotidiano torinese ospitava in prima pagina un articolo del direttore Arrigo
Levi che auspicava un futuro di pace per i due popoli a lungo nemici ma al tempo stesso
uniti da un comune passato, non solo di morte, e dalla fede in un Dio unico:
Scialom, sala’m, arabo ed ebraico hanno in comune il saluto più bello: pace, «Sciabbat scialom», sabato di
pace, è l’augurio ebraico per la giornata del Signore. Ieri, all’uscir di sabato, poco dopo il tramonto del sole su
Gerusalemme, Anwar Sadat è giunto, dall’Egitto, nella città santa, che gli ebrei chiamano Ierushalaim, gli arabi
El Quds. Lo hanno accolto grida di «scialom». Il mondo intero è stato testimone dell’incontro, con commozione
e speranza. sarà davvero pace? C’è stata la guerra, guerra tra diritti opposti, tra popoli diversi, a lungo nemici,
ma senza più odio. Ci sarà ora pace? Nella tormentata storia millenaria l’incontro con i popoli arabi fu tra i
meno carichi di tragedie, tra i più ricchi di pacifici incontri. Altri popoli si sono scontrati – e non per una

112
I. MAN, Terremoto elettorale in Israele: vince la destra, in «La Stampa», 19 maggio 1977, pp.1-2.
113
L’alleanza elettorale del Partito laburista con il Mapam.
114
C. CASALEGNO, Israele abbandona i padri fondatori, in «La Stampa», 21 maggio 1977, p.3.

53
generazione, per secoli – e hanno ritrovato la pace. Che la ritrovino Arabi ed Ebrei, Palestinesi e Israeliani.
Abbiamo tutti tanti morti alle spalle, milioni di morti. Che si dia pace ai vivi: non abbiamo in comune lo stesso
Padre? 115.

Allo storico incontro di Gerusalemme seguì quello, molto meno fortunato, di Ismailia
il 25 dicembre. Le proposte di Begin non si dimostrarono all’altezza del grande passo
compiuto da Sadat. Il piano di pace di Tel Aviv contemplava la restituzione del Sinai e un
limitato autogoverno palestinese ma con insediamenti ed esercito israeliani in Cisgiordania
e Gaza, lasciando praticamente irrisolta la questione della sovranità. La volontà dell’Egitto
era invece quella di un ritiro completo dai territori occupati. Il processo di pace venne
ulteriormente compromesso dall’attentato dell’11 marzo a un autobus di linea sulla strada
tra Tel Aviv e Haifa che causò la morte di più di trenta civili, tra cui molti bambini. Sul
«Corriere della Sera» Dino Frescobaldi scrisse che l’attentato era andato a vantaggio di
coloro che ne erano il bersaglio e aveva pregiudicato le simpatie conquistate dalla causa
araba grazie a Sadat. La diplomazia doveva continuare ad essere l’unica strada praticabile
per arrivare alla pace, ma Israele aveva optato per la scelta di farsi giustizia da sé avviando
l’Operazione Litani116, proseguendo la politica di rappresaglia di «restituire almeno dieci
colpi sui propri vicini per ogni colpo ricevuto»117.
Nonostante tutto però non si nutrirono dubbi sui principi di convivenza civile e tutela
della persona sui quali si fondava lo stato ebraico. Come scriveva su «La Stampa» Umberto
Oddone, gli israeliani erano «il popolo più democratico del mondo e non soltanto nei propri
diretti confronti». Sia in Israele che nei territori occupati la popolazione araba, come pure le
altre minoranze, dai drusi ai circassi, godevano della massima autonomia interna e di un
trattamento improntato a una «correttezza esemplare»118.
Giuseppe Josca sul «Corriere della Sera» sottolineava invece quanto la realtà di
Israele fosse distante dal sogno di Herzl di un Israele «faro per le nazioni» e sottolineò che
lo stato ebraico aveva sì allargato i propri confini, ma non era riuscito a sbarazzarsi della
qualifica di stato-ghetto, né ad assicurarsi un’esistenza pacifica119.
Il 17 settembre 1978 gli accordi di Camp David rilanciarono una concreta prospettiva
di pace, rafforzata dal trattato tra Israele ed Egitto del marzo 1979. La volontà di proseguire
un dialogo prevalse, anche se il cammino per la pace appariva più che mai in salita.

115
A. LEVI, Scialom, Sala’m, in «La Stampa», 20 novembre 1977, p.1.
116
Nome in codice della prima invasione israeliana del Libano avvenuta il 14 marzo 1978.
117
D. FRESCOBALDI, L’errore di farsi giustizia da sé, in «Corriere della Sera», 16 marzo 1978, p.1.
118
U. ODDONE, Israele trent’anni dopo, in «La Stampa», 12 maggio 1978, p.3.
119
G. JOSCA, Israele, in «Corriere della Sera», 14 maggio 1978, pp.1-2.

54
2.2 La repressione dell’intifada

L’8 dicembre 1987 nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza scoppiò la rivolta
palestinese. Ad innescare la ribellione fu un banale incidente stradale tra un veicolo civile e
un mezzo militare israeliano, nel campo profughi di Jabalya, a Gaza, costato la vita a quattro
lavoratori palestinesi. Ma, «poiché un uomo d’affari israeliano era stato pugnalato a morte
un paio di giorni prima, corse voce che la collisione non fosse stata accidentale bensì un
gesto di vendetta»120. In realtà, vi erano dietro il malcontento e il risentimento degli abitanti
dei territori occupati per le condizioni di vita cui erano da lungo tempo costretti, nonché la
loro aspirazione frustrata all’indipendenza nazionale. Come avvenuto già nell’estate del
1982, quando l’esercito israeliano lanciò l’operazione Pace in Galilea invadendo il Libano,
la repressione nel dicembre 1987, dei primi tumulti in cui rimasero uccisi diversi palestinesi,
suscitò un’ondata di indignazione internazionale contro Israele, accusato di agire con
brutalità nei confronti dei rivoltosi, che sin dal principio avevano deciso lucidamente di non
impiegare armi da fuoco, ritenendo più proficuo contro Israele «affrontarlo con strumenti ai
quali non era abituato e per i quali non era equipaggiato; strumenti reperibili in ogni vicolo
e villaggio dei territori – sassi, mattoni, fionde con cui lanciare ciottoli e biglie metalliche.
Molti attivisti erano anche muniti di bastoni, coltelli e accette. […] I palestinesi avevano
capito che in larga misura la loro battaglia sarebbe stata vinta o persa sugli schermi delle
televisioni occidentali»121.
Anche in Italia l’opinione pubblica, nella sua grande maggioranza, parteggiò subito
con i palestinesi con i giornali che evidenziavano la disparità delle forze in campo. «La
Stampa» e il «Corriere della Sera» furono piuttosto timidi nell’affrontare l’argomento
Intifada, non mettendo mai la rivolta in prima pagina e relegandola piuttosto alle pagine
dedicate alle notizie di politica estera. La questione dell’insurrezione palestinese divenne
invece più rilevante all’indomani della clamorosa presa di posizione del leader del Partito
Socialista Italiano, Bettino Craxi, in un discorso pronunciato all’Internazionale socialista a
Madrid, in cui espresse una dura condanna nei confronti dello Stato ebraico per la sua
condotta nei territori122 e scatenando così una violenta polemica sui giornali e nel Parlamento

120
J. GELVIN, Il conflitto israelo-palestinese. Cent’anni di guerra, Torino, Einaudi, 2007, p.278.
121
B. MORRIS, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, Rizzoli, 2001, p.721.
122
«Io penso che l’Internazionale socialista dovrebbe dire con molta chiarezza che la politica dell’attuale
governo israeliano impedisce ogni prospettiva di pace, viola i diritti dei popoli, in più di una occasione ha
violato le leggi internazionali e offeso i diritti umani», in «Avanti!», 12 maggio 1988.

55
italiano123. La discussione fu talmente vivace che il leader socialista dovette chiarire la
propria posizione e lo fece attraverso una lunga intervista rilasciata ad Arrigo Levi e
pubblicata in prima pagina sul «Corriere della Sera», in cui si affrettò a precisare quali fossero
secondo lui i problemi da risolvere e secondo quali modalità nel difficile scenario
mediorientale:

Tutti sanno che Israele è una realtà che non può essere rimessa in discussione. Anche gli arabi lo sanno
perfettamente; e ciò nonostante, benché lo dicano alcune volte, e a parte la posizione dell’Egitto, non si
risolvono a compiere un atto solenne; che però molti di loro credo siano disposti a fare, purché in cambio vi
sia la disponibilità a risolvere la questione palestinese e a riconoscere l’Olp. Gli israeliani sanno benissimo,
specie dopo questi mesi di lotta in Cisgiordania, che questa lotta ha una sola guida, indipendentemente dalla
complessità dei rapporti interni all’Olp e dalle contraddizioni che esistono in questa costellazione di gruppi.
Ma gli israeliani ormai sanno che l’Olp non ha alternative nel mondo palestinese 124.

A partire dalle polemiche politiche e soprattutto dalla grande eco suscitata nel paese
dalle immagini televisive trasmesse dai telegiornali, che documentavano la repressione
israeliana delle rivolte, anche la stampa liberale si dedicò maggiormente alla rivolta
palestinese, ponendo particolarmente l’accento sulla incapacità dell’esercito israeliano di
contenere i rivoltosi e sulle difficoltà incontrate dal ministro della Difesa Rabin a trovare
una valida strategia per domarle.

Gli attivisti dell’Intifada rischiano d’ora in poi di venire arrestati e detenuti senza processo, né alcuna altra
garanzia giuridica […] Il provvedimento era stato richiesto dal ministro della Difesa Rabin e, dopo un lungo
dibattito caratterizzato dai ricorsi presentati dalla Associazione per i diritti civili in Israele, ha ricevuto infine
l’approvazione del ministro della Giustizia Meridor. Si allarga ancora di più il fossato tra lo Stato di diritto
valido per i cittadini israeliani e invece la totale sottomissione agli imperativi del regolamento militare per il
milione e settecentomila palestinesi125.
L’allora ministro della Difesa venne allora rappresentato come un cinico generale,
un duro militare senza scrupoli, pronto a qualunque compromesso etico pur di ristabilire
l’ordine.
«Rispondendo ad alcune mozioni di sfiducia dell’opposizione, il ministro della Difesa
Yitzhak Rabin ha poi aggiunto: “Non ci vergogniamo di quello che facciamo nei territori. Il
nostro esercito affronta continue provocazioni stringendo i denti e dando prova di grande
autocontrollo. Come forza di occupazione abbiamo il dovere di far rispettare la legge e di
mantenere l’ordine”»126.

123
Scontro nel Psi. Gangi accusa il segretario Craxi: «Parla come l’Olp», in «Corriere della Sera», 12 maggio
1988.
124
A. LEVI, Craxi: la mia pace per Israele, in «Corriere della Sera», 13 maggio 1988.
125
L. CREMONESI, Tallone di ferro sull’Intifada. Israele vara leggi più dure, in «Corriere della Sera», 12 agosto
1989.
126
F.A., Gli USA non spaventano Shamir, in «La Stampa», 14 febbraio 1989, p.5.

56
Era l’uomo del pugno di ferro, il falco che inaspriva progressivamente la repressione
man mano che cresceva la frustrazione per non essere riuscito fino a quel momento a fermare
la rivolta:

«Alla violenza risponderemo con la forza. Le pietre, le bottiglie molotov dei palestinesi troveranno pane per i
loro denti, non ci lasceremo intimorire». È stato un monologo rabbioso, urlato per sovrastare le voci
dell’opposizione. Alla fine, ancora prima di terminare il suo discorso e rispondere alle critiche, Rabin ha
abbandonato il podio. […] Così il Parlamento di Gerusalemme ha approvato ieri a grande maggioranza le nuove
misure da adottare contro la rivolta palestinese nei territori occupati proposte dal ministro della Difesa Rabin.
[…] Israele insomma flette i muscoli nei territori occupati, continua la politica del bastone senza neppure più
la carota e preannuncia l’inferno per i palestinesi che si ribellano. D’ora in poi i soldati potranno sparare più
liberamente127.

Pur criticando aspramente la politica di Israele verso il popolo palestinese, la stampa


moderata italiana non mancò però di sottolineare come la rivolta, pur essendo riuscita a
mettere in crisi l’organizzato apparato militare israeliano, non fosse riuscita ad ottenere a
lungo termine nessun risultato concreto:

A due anni dallo scoppio, l’intifada corre il rischio molto concreto di non sapersi rinnovare. Nata come
movimento spontaneo e imprevisto, è riuscita a scardinare gli equilibri cresciuti in venti anni di occupazione,
senza creare però un ordine alternativo. […] L’intifada è stata soprattutto il trionfo spontaneo e profondo della
rabbia cieca ed estremista contro il peso dell’occupazione, ma paradossalmente il suo maggior successo politico
fino ad oggi, si sono rivelati la decisione di re Hussein, il 31 luglio 1988, di rinunciare alla sua pretesa sulla
Cisgiordania e lo sviluppo delle ali moderate dell’Olp favorevoli al compromesso con Israele. Le pietre si sono
dimostrate più efficaci dei fucili128.

Proprio nel bel mezzo della rivolta palestinese, il governo di coalizione guidato dalla
destra di Shamir entrò in una crisi senza via d’uscita. L’intransigenza del primo ministro,
chiuso ad ogni compromesso per ottenere un accordo di pace, rischiava di compromettere la
storica amicizia di Israele con gli Stati Uniti. Il Partito Laburista non poteva accettare che
questo avvenisse e tentò di fare pressioni sul governo per un cambio di rotta. Nonostante la
sua fama di intransigente militare, l’uomo capace di ottenere un compromesso per tenere in
piedi il governo, mantenere saldi i rapporti con l’amministrazione Bush e salvare il dialogo
per la pace, agli occhi della stampa liberale italiana sembrò essere proprio Yitzhak Rabin.

L’impressione dominante è che la coalizione Likud-laboristi stia per affrontare la crisi più grave dal giorno in
cui si è formata, nel lontano 1984. In teoria dovrebbe spaccarsi; o viceversa dovrebbe spaccarsi il Likud, se
Shamir finisse per spostarsi sulle posizioni laboriste. In realtà, nessuno dei partiti israeliani vuole una crisi e
nuove elezioni: i laboristi temono di perderle, mentre Shamir teme di essere sostituito da un falco più falco di
lui. L’uomo chiave, in questa vicenda, da parte laborista è Rabin, fino a tempi recenti convinto che il suo partito
avesse un’immagine troppo «di colomba» per poter vincere le elezioni: ora però ha deciso di andare al Cairo,

127
L. CREMONESI, in «Corriere della Sera», 19 gennaio 1989.
128
L. CREMONESI, Intifada, quelle pietre più forti dei fucili, in «Corriere della Sera», 9 dicembre 1989.

57
e i suoi primi commenti dopo l’incontro con Mubarak (così come quelli egiziani) sono incoraggianti. Senza il
consenso di Rabin Peres non romperà mai la coalizione129.

Per questo entrambe le testate, «La Stampa» e il «Corriere della Sera», salutarono
molto positivamente la svolta avvenuta nel Partito laborista alla vigilia delle elezioni
politiche israeliane, allorché i delegati del partito chiamati ad eleggere il candidato premier,
si espressero in favore di Rabin, preferendolo a Shimon Peres, suo storico rivale:
«Dopo quindici anni lo scettro del partito laborista è tornato nelle mani di Yitzhak
Rabin. […] Ora i laboristi si sono spostati ancora di più verso il centro e offrono
un’alternativa a quella parte degli israeliani che sono moderatamente conservatori e che pur
volendo un governo forte non mostrano attaccamento ideologico alla Cisgiordania e a
Gaza»130.
Per entrambi i quotidiani l’elettorato di centro, di cui Rabin sembrava essere il
rappresentante più autorevole in campo, nonostante la sua fama di generale di ferro, sarebbe
stato l’ago della bilancia della prossima tornata elettorale, momento cruciale per il futuro del
Paese e di tutto il Medio Oriente.

Al posto di Shimon Peres, i grandi elettori socialisti hanno scelto Yitzhak Rabin, l’uomo che sposò la linea
dura all’inizio dell’intifada e che potrebbe raccogliere il voto dei centristi, delusi dalla politica di Shamir. Rabin
è favorevole alla restituzione di terra in cambio di pace, conservando però le alture del Golan e quella parte di
Cisgiordania ritenuta essenziale per la sicurezza di Israele; accetta gli insediamenti nelle zone vitali ma rifiuta
quelli “politici”, ritiene che il denaro investito per questi ultimi debba essere dirottato su altre priorità 131.

2.3 Rabin premier: un nuovo scenario

Per tutta la stampa internazionale, il trionfo di Rabin nelle elezioni politiche del
giugno 1992 portò con sé una ventata di nuova speranza per il futuro del Medio Oriente. Alla
vigilia della consultazione i timori di una nuova vittoria della destra o, anche peggio,
l’impossibilità in caso di una vittoria non di larga misura a formare un governo stabile,
preoccupavano non poco tutti gli osservatori. Per questo, da subito, il nuovo premier
incaricato, sembrò essere la risposta da tutti auspicata alla sete di pace e di stabilità che
Israele stava mostrando. Sulla stampa italiana liberale i ritratti che ne vennero proposti,
mostravano un uomo pragmatico e con un forte senso dello Stato i cui trascorsi come colui

129
A. LEVI, Il dilemma della pace: compromesso tra nazionalismi, in «Corriere della Sera», 19 settembre 1989.
130
E. St., Per Shamir si apre il fronte interno, in «La Stampa», 21 febbraio 1992, p.3.
131
A. FERRARI, Israele, un voto pieno di incognite, in «Corriere della Sera», 23 giugno 1992.

58
che voleva reprimere nel sangue l’Intifada, non apparivano più tanto rilevanti in un
curriculum vitae ormai quasi immacolato:

Lo chiamano “l’uomo al teflon del partito laburista”, perché su di lui anche i fallimenti maggiori sembrano
scivolare via senza lasciare traccia, fanno scalpore ma vengono presto dimenticati. […] Che cosa lo rende così
popolare? Prima di tutto la sua onestà e la lunga esperienza nell’esercito. […] Gli mancano certo la capacità
di visione politica, la fantasia per programmi di lungo periodo, che invece caratterizzano Peres. Tuttavia è
apprezzato per il suo pragmatismo, le doti di analisi fredda e disincantata. Rabin non ha carisma, non è capace
di parlare alla gente, eppure le sue proposte politiche sono sempre destinate a durare, a lasciare una traccia.
[…] Per la maggioranza della gente Rabin impersona quel grande partito di centro che non esiste sulla carta,
ma che in effetti raccoglie le destre del Ma’arak e le sinistre del Likud. […] Non è ossessionato dal passato,
non mette in guardia sull’Olocausto ogni qualvolta si presenta una difficoltà. Gli importa poco della diaspora
ebraica e di quello che dice il mondo. In questo senso è molto più israeliano che ebreo, poiché per lui Israele
rappresenta un fatto naturale, impossibile da mettere in dubbio 132.

Dal momento del conferimento del suo incarico a primo ministro, la stampa italiana
si occupò delle sue scelte politiche solo ed esclusivamente in relazione al processo di pace.
Sono gli anni della speranza, del riconoscimento reciproco fra Israele e Olp, del sogno di
una coesistenza pacifica; ma anche degli estremismi che ostacolano con i mezzi più violenti
e spesso efferati, la realizzazione della pace in Medio oriente. Il risanamento dell’economia,
il nuovo impulso dato al mercato, l’attenzione al mondo del lavoro, che furono tratti distintivi
della sua politica interna, non interessarono affatto gli osservatori internazionali, pronti
invece ad analizzare ogni mossa che aveva una ricaduta sulla trattativa con il mondo arabo.
Fu in modo particolare in occasione della crisi dei deportati palestinesi del dicembre
1992 che per la stampa internazionale, e italiana in modo particolare, la colomba tornò ad
essere falco. Mentre le trattative venivano portate avanti segretamente, di fronte alla
recrudescenza della tensione e ai gravi disordini nei territori occupati, Rabin, che aveva
mantenuto anche il ruolo di ministro della Difesa, ordinò la deportazione in Libano di 413
palestinesi, accusati di essere sostenitori del Movimento di resistenza islamica (Hamas): essi,
non accolti dal Libano, rimasero accampati nella terra di nessuno compresa fra il territorio
libanese controllato dalle forze israeliane e l’area controllata da Beirut per circa un anno
prima che il loro rientro a scaglioni in Cisgiordania e a Gaza venisse autorizzato.

Yitzhak Rabin aveva detto più volte: quello che i terroristi islamici vogliono è farmi abbandonare il processo
di pace; ma non ci riusciranno. Di fatto, però, con la deportazione in massa di palestinesi, decisa come risposta
«necessaria» all’uccisione di sei soldati d’Israele nel giro di otto giorni, il premier israeliano ha messo in crisi
il negoziato […] Rabin ha probabilmente pensato che il negoziato era comunque fermo, in attesa
dell’insediamento fra poco più di un mese del presidente Clinton. […] Questo disegno tattico può avere le sue
giustificazioni; anche non reagire con durezza agli attentati di Hamas presenta rischi mortali per il negoziato.
Ma una cosa ò la tattica, un’altra la strategia, e il generale lo sa bene. E quello che finora è mancato, nella
gestione del negoziato da parte del nuovo governo laborista, che aveva suscitato tante speranze di pace, è stato

132
L. CREMONESI, La sfida di Rabin, israeliano doc, in «Corriere della Sera», 21 febbraio 1992.

59
per l’appunto una mossa strategica di vasta portata e di rapida esecuzione: anche se sono state fatte da Israele
molte concessioni importanti133.

Per tutto l’anno si susseguirono sui mezzi di comunicazione di tutto il mondo le


immagini dei militanti espulsi senza cibo, né assistenza sanitaria, in mezzo alla neve nella
terra di nessuno. Per questo la decisione sofferta e a lungo combattuta, sotto la pressione
degli Stati Uniti, di Rabin di autorizzarne il rientro, seppur con molte condizioni, fu salutata
con grande consenso:

Rabin ha commesso un grave errore decidendo, con eccessiva grinta soldatesca, l’espulsione dei «terroristi di
Hamas». Epperò al contrario di Shamir che non si sarebbe schiodato, neanche sotto tortura, dalla decisione
presa, Rabin ha avuto l’intelligenza di far marcia indietro. Mi riesce difficile pensare che Rabin abbia letto gli
aforismi e paradossi di Oscar Wilde dove quel sublime gay scrive la coerenza essere «la suprema virtù degli
imbecilli». Ma è scontato che Rabin abbia letto Thomas Payne: «Un Paese per essere forte e rispettato non ha
bisogno di eroi quanto di uomini di buon senso»134.

Il culmine della sua popolarità arrivò certamente quando, dopo lunghe consultazioni
tenute segrete persino agli alleati storici, si giunse finalmente agli accordi di Oslo, firmati
insieme al leader dell’Olp Yasser Arafat il 13 settembre 1993. L’accordo prevedeva il
riconoscimento da parte di Israele dell’Olp come rappresentante del popolo palestinese e da
parte dell’Olp il riconoscimento a Israele del diritto ad esistere. L’annuncio del
compromesso raggiunto suscitò in Israele grandi speranze, ma anche una rabbiosa
indignazione nella destra religiosa e in quella parte di popolazione che si rifiutava di guardare
oltre la cortina di odio seminato in anni di guerre e attentati.

Per quasi vent’anni è stato un militare duro. Era capo di stato maggiore nel 1967, e fu lui, assieme a Moshe
Dayan, a condurre la guerra dei Sei giorni che portò all’occupazione della Cisgiordania, di Gaza, del Sinai e di
Gerusalemme. Era ministro della Difesa nel 1987, quando cominciò l’intifada, e disse che l’avrebbe affrontata
«con i bastoni». Una promessa mantenuta, sia pure con parziale successo. E anche da capo del governo Rabin
non ha esitato (magari sfidando le ire di Amnesty International) a bombardare, imprigionare, esiliare chiunque
sfidasse l’autorità israeliana […] Passerà del tempo prima che Rabin e Arafat riescano a superare (se mai questo
avverrà) il muro di odio che per tanti anni li ha divisi. Rabin non ha nascosto nemmeno nei giorni scorsi il suo
imbarazzo. Annunciando l’accordo alla Knesset ha detto: «Mi si stringe lo stomaco, non lo nego. Sono tuttavia
giunto alla conclusione che non esiste interlocutore palestinese al di fuori dell’Olp. È stato un nemico, lo è
ancora. Ma i negoziati si fanno col nemico»135.

Fu per tutti chiaro, quel giorno, che il primo ministro di Israele aveva dovuto
affrontare una delle battaglie più dure della sua vita da soldato. Ed era stata una battaglia
combattuta nella sua coscienza. In cui aveva dovuto sacrificare i propri sentimenti, il la
propria immagine, il passato, la popolarità, l’istinto, per un bene più grande per il suo popolo.

133
A. LEVI, La mossa strategica, in «Corriere della Sera», 19 dicembre 1992, p.1.
134
I. MAN, Rabin, l’intelligenza di far marcia indietro, in «La Stampa», 4 febbraio 1993, p.9.
135
G. JOSCA, Rabin e Arafat, due vecchi nemici uniti dalla guerra all’estremismo, in «Corriere della Sera», 13
settembre 1993, p.3.

60
Lunedì 13 settembre 1993, una data che resterà nella storia. Il mondo intero ha provato un’autentica emozione
assistendo in diretta alla stretta di mano tra Yasser Arafat, Yitzhak Rabin e Shimon Peres. […] tutti avranno
riflettuto su quanto deve essere stato difficile far toccare quelle mani tra loro. Perché un conto è firmare
documenti, prendere decisioni anche molto impegnative, storiche; altra cosa è che rappresentanti di popoli che
per decine d’anni fino a ieri, anzi fino ad oggi, hanno avuto lutti a decine di migliaia tra le proprie genti, possano
decidere di darsi la mano. Eppure c’è un giorno, come è stato il 13 settembre, nel quale i rappresentanti di
questi popoli devono dimenticare odii e rancori per cui, sicuramente un tempo avevano giurato non sarebbe
mai venuta l’ora dell’oblio e compiere un atto che contraddice quel loro antico giuramento. Quel giorno, al di
là degli effetti del breve e medio termine dell’atto compiuto, nei loro popoli si deposita il seme di una nuova
memoria. Ed è in questo seme che da oggi possiamo avere fiducia136.

Il passo successivo nella marcia verso una pacificazione della regione mediorientale
fu il trattato di pace con la Giordania. Rabin, re Hussein e il presidente Bill Clinton firmarono
la Dichiarazione di Washington il 25 luglio 1994. Essa affermava che Israele e Giordania
avevano posto fine allo stato di ostilità ufficiale e che avrebbero pertanto avviato dei
negoziati con l’obiettivo di raggiungere una «fine allo spargimento di sangue e dolore» e una
pace giusta e duratura per tutti137.

L’evolvere del conflitto mediorientale verso la pace è stato segnato, in questi ultimi anni, da un succedersi di
eventi così inaspettati e straordinari da far apparire impossibile ogni previsione ragionata sui suoi prossimi
sviluppi. Vi è tuttavia un disegno politico preciso di quanto sta accadendo, e chi lo guida è il primo ministro
israeliano Rabin. […] La strategia di Rabin ha rimosso un ostacolo dopo l’altro sulla via della pace. E il successo
forse più importante è stato di allargare in modo spettacolare il «fronte della pace» in Israele. […] Chi potrebbe
oggi tornare indietro? Rabin è molto più forte138.

Per tutti gli esperti di Medio Oriente, di conflitto ebraico-palestinese, è lui, Yitzhak
Rabin, l’autore di questo processo irreversibile. Non Arafat, capo politico non
unilateralmente riconosciuto e debole; non Peres, ministro degli Esteri, convinto sostenitore
da sempre di un dialogo con gli arabi, ma poco decisionista:

C’è chi vuol far credere, in Israele, che tutta l’operazione sia una «iniziativa personale» di Shimon Peres,
ministro degli Esteri. Alla quale il primo ministro Rabin assisterebbe dalla finestra dello scetticismo. Per chi
conosce, ancorché poco, pochissimo, Rabin riesce difficile credere a una storiella simile. Rabin è un uomo che
ha molta considerazione di sé stesso; un generale-politico che concepisce il ruolo di primo ministro in tutta la
sua valenza effettiva: la politica, specie quella grande, è il premier ad impostarla, a condurla. Figurarsi in un
caso come il presente un Rabin alla finestra sarebbe da mentecatti. Se mai si potrebbe pensare al giuoco che
gli americani chiamano del poliziotto buono-del poliziotto cattivo. Peres interpreta il primo, Rabin il secondo,
e ciò per prepararsi una non troppo difficile ritirata, qualora il progetto fallisse 139.

Per supportare ulteriormente il fronte della pace, venne conferito ai protagonisti del
cambiamento, il Premio Nobel per la Pace nel 1994. Il prestigioso riconoscimento volle

136
P. MIELI, Il seme della memoria, «Corriere della Sera», 14 settembre 1993, p.1.
137
The Washington Declaration, Israel Ministry of Foreign Affairs, 25 luglio 1994.
138
A. LEVI, Passo che allarga il fronte del dialogo. Ma il nodo da sciogliere è la Palestina, in «La Stampa»,
9 ottobre 1994, p.6.
139
I. MAN, La pace miracolo e pericolo, in «La Stampa», 29 ottobre 1993.

61
essere un appoggio della comunità internazionale e un invito ad andare avanti senza
esitazioni nel cammino che si presentava quanto mai irto di difficoltà.

Non si torna indietro. Ma è anche vero che i tre Premi Nobel, ognuno la sua parte e in circostanze diverse,
lottano per la sopravvivenza. Politica, i leaders israeliani. Fisica e politica Arafat. «La festa è triste», titola
Maariv. Gli israeliani stanno ancora piangendo gli innocenti della strage di Tel Aviv, i palestinesi piangono
tuttora, e proprio nell’anniversario dell’intifada, i fratelli uccisi dai fratelli a Gaza, nel massacro di novembre.
Non si torna indietro. Spogliati della retorica d’occasione che, tuttavia, finisce col suggestionarli sino alle
lacrime, i tre Premi Nobel sono soltanto tre (grandi) vecchi. Perciò parlano del futuro, per questo piangono sul
passato. Invece è il presente che bisogna affrontare, senza lacrime: con coraggio. Il coraggio di De Gaulle, il
coraggio di Sadat. Ma: «Da giovani siamo uomini; da vecchi, bambini» (T.B. Bavà Quamma,92). E i bambini,
si sa, spesso hanno paura140.

La parte più difficile però il primo ministro dovette affrontarla dopo gli accordi di
Oslo. Sebbene Fatah e altre fazioni facenti capo all’Olp annunciarono la loro rinuncia alle
azioni violente, tuttavia, altre formazioni più radicali, Hamas in primis, scelsero di
continuare a perseguire la violenza, scatenando una serie di attentati suicidi contro la
popolazione civile. Anche l’ultradestra radicale ebraica rispose alla politica del governo con
una serie di azioni violente contro la popolazione araba dei territori occupati. La più
clamorosa fu il massacro di Hebron ad opera di un fanatico colono che causò la morte di 125
musulmani palestinesi in preghiera. Molti convinti sostenitori della pace in Israele e
Palestina vacillarono di fronte alla scia di sangue che seguì gli accordi e che, inevitabilmente,
ebbe come conseguenza un rallentamento del dialogo e della messa in pratica dei
compromessi raggiunti.

Sapevamo che il negoziato sarebbe stato senza misericordia, ce lo hanno detto subito, del resto, i protagonisti
di questa grande avventura della Storia. «Soffriremo prima di tornare tutti a casa nostra», mi disse Arafat. E
aggiunse: «C’è troppa euforia in giro, mi tocca sorridere ma turba la mia gioia la consapevolezza che ci
attendono giorni tremendi. Tuttavia, con l’aiuto di Dio, ce la faremo». E Rabin ammonì i suoi dicendo loro che
«il prezzo della pace sarà alto ma arrendersi alle difficoltà significherebbe condannare i nostri figli a un futuro
disperato141.

Gli attentati ebbero come prima conseguenza per Rabin, un attacco durissimo e senza
precedenti da parte della destra all’opposizione:

Qualche giorno fa il premier israeliano Yitzhak Rabin ha detto che il partito di destra Likud è il miglior alleato
che i fondamentalisti di Hamas possano desiderare. Si riferiva probabilmente al fatto che dopo ogni attentato
terroristico di Hamas, il Likud scatena una campagna di protesta contro il governo e il processo di pace, e
questa propaganda amplifica enormemente l’effetto dell’attentato stesso. A sua volta Hamas è la carta migliore
nelle mani dei falchi d’Israele. […] Fra molte altre espressioni di odio, il manifesto di Hamas dice:
«Proclamiamo la guerra santa contro gli ebrei in Palestina fino a raggiungere la vittoria di Allah. Il Paese andrà
ripulito dal male e dall’iniquità dei suoi tirannici conquistatori…Per ordine del Profeta, i musulmani devono
combattere gli ebrei ovunque si trovino…La Palestina è sacro patrimonio dell’Islam fino alla fine dei tempi,
per cui nessun uomo ha il diritto di negoziare la cessione di alcuna parte di essa». Queste parole sono un dono

140
I. MAN, Un Nobel senza pace, in «La Stampa», 11 dicembre 1994, p.6.
141
I. MAN, Palestina. La pace è lenta, in «La Stampa», 12 agosto 1995, p.1.

62
dal cielo per i falchi israeliani, perché spingono la pubblica opinione del Paese a disperare della possibilità di
raggiungere un compromesso, e perché certe affermazioni, benché molto più aspre di quelle della destra
israeliana, non ne differiscono granché quanto a propagazione di sciovinismo religioso142.

Attaccato dalla destra ostile ad ogni compromesso con i palestinesi, attaccato dalla
sinistra alleata di governo per lo stallo in atto nel processo di pace, Rabin si trovò in mezzo
al fuoco incrociato di una battaglia in cui sembrò non riuscire a trovare una via d’uscita.
L’eroe della sicurezza del Paese prima, l’eroe della pace poi, venne additato come l’unico
responsabile del fallimento dell’attuazione pratica degli accordi:

Eroe nazionale, guerriero assetato di pace, socialista austero, uomo integerrimo, Rabin si è rivelato un primo
ministro tentennante quant’altri mai. Ha una repulsione fisica per Arafat e non fa nulla per nasconderla (al
contrario della controparte). Oggi un colpo di barra a destra, domani un colpo di barra a sinistra, egli regala
incessantemente concessioni agli shamiristi, pur sapendo che non riuscirà mai a convincerli che il suo progetto
di pace non ha alternative. Giorno dopo giorno aumentano gli israeliani che dalla fiduciosa partecipazione
passano all’abiura dopo aver attraversato lo scetticismo. […] e questo perché Rabin, proprio lui, l’inedito araldo
della pace, non si preoccupa di nascondere quanto detesti il cammino intrapreso, quanto si sia pentito 143.

La delusione, l’amarezza, la disillusione di quanti avevano fermamente creduto alla


fine di una guerra ingiusta, che vedeva contrapporsi due popoli entrambi vittime di ingiuste
politiche internazionali e persecuzioni, tutto si riversò sulla figura del primo ministro
accusato di attendismo e incapacità decisionale:

Il nostro primo ministro mi ha deluso, pensavo che avrebbe fatto del suo meglio per facilitare la pace. Invece
rimane passivo, non prende l’iniziativa, non blocca la crescita degli insediamenti ebraici nei territori occupati,
si lascia prendere la mano dai coloni più radicali, irradia debolezza, perde consensi e così rimane paralizzato.
[…] Il problema è che sono due leader troppo ancorati al passato. Sono stati capaci di far vivere ai nostri due
popoli il momento magico degli accordi di pace nel 1993. Ma adesso sembra proprio non riescano a gestire
l’inevitabile grigiore che ne accompagna l’applicazione quotidiana. Hanno paura proprio nel momento in cui
dovrebbero dimostrarsi più fermi. Rabin nello smantellare senza indugio le colonie e Arafat nell’arrestare in
massa gli estremisti. E dire che non ci vorrebbe molto per ridare ordine al caos. Basterebbe decidere, come
fanno i veri capi144.

2.4 La morte di una speranza

La marcia verso la pace divenne decisa, difficile ma mai interrotta, quando Rabin tornò premier nel 1992, dopo
l’inflessibile Shamir. E subito proclamò: «dobbiamo vincere quel senso di isolamento che ci ha tenuto in
ostaggio per mezzo secolo, altrimenti un giorno ci sveglieremo e ci troveremo soli». […] Come militare Yitzhak
Rabin aveva condotto Tsahal, l’esercito con la stella di David, rischiando cento volte la vita nelle conquiste di
quei territori che come politico si è impegnato a restituire ai palestinesi, in cambio della pace e della sicurezza

142
A. OZ, Gli alleati dell’odio, in «La Stampa», 15 aprile 1995.
143
I. MAN, Non basta il simbolo d’una stretta di mano, in «La Stampa», 10 aprile 1995, p.7.
144
L. CREMONESI, Sì, la pace rischia di saltare, ma è la nostra unica scelta, in «Corriere della Sera», 23 gennaio
1995, p.5.

63
per la sua gente. «Come le nostre guerre sono state lunghe, così la riconciliazione deve essere rapida», disse.
La sua corsa si è fermata a un raduno per la pace145.

Il primo ministro Yitzhak Rabin venne ucciso a Tel Aviv da un estremista di destra
ebreo che intendeva bloccare definitivamente il processo di pace in Medio Oriente.
L’attentato, senza precedenti, lasciò il Paese completamente sbigottito. Avvenne al termine
di una grande manifestazione della sinistra israeliana in favore della pace in cui Rabin, tra
l’altro, aveva fatto appello a «isolare i violenti». Si riferiva forse ai tentativi ripetuti avvenuti
nelle settimane precedenti il delitto, da parte di estremisti di destra di aggredirlo fisicamente,
tentativi che avevano costretto lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) a rendere più
strette le misure di sicurezza nei suoi confronti.

Rabin sapeva benissimo che la pace con i palestinesi era una scommessa (storica) con una duplice posta: un
futuro sereno per i figli e i figli dei figli di Israele; la sua vita. Lui non volle mai drammatizzare le minacce,
aperte e/o indirette ricevute subito dopo la sua ampia vittoria elettorale. Quando il fedele Eytan Haber, amico
vero, poliedrico tuttofare, gliene parlava, Rabin muoveva la mano con un gesto diventato abituale borbottando
«Bablett» (bazzecole) oppure da bravo soldataccio «Kishrush» (fregnacce)146.

A sparare fu un giovane di nome Yigal Amir di ventisette anni, nato in una famiglia
ortodossa residente a Herzliya, ma originaria dallo Yemen, membro attivo del movimento
politico-religioso della destra radicale israeliana che accusava Rabin di tradimento per aver
firmato gli Accordi di Oslo. Fu proprio questo aspetto, il fatto cioè che l’assassinio avvenne
per mano di un ebreo, l’elemento più lungamente dibattuto dalla stampa liberale italiana:
«Israele è unito da molte domande angosciose: come ò potuto accadere che un
israeliano, un ebreo, uccidesse il premier d’Israele? Come è possibile che i precetti biblici e
talmudici di amore per il prossimo, di rispetto per la vita («Al tirzà», non uccidere), siano
stati così stravolti da gruppi di fanatici religiosi, al punto di istigare l’atto orrendo?»147.
È proprio il fanatismo il colpevole che tutti identificano come il vero assassino del
primo ministro; quella forma esclusiva di sottomissione a una causa che spinge alla violenza
verso chi sostiene una causa diversa e che lo scrittore israeliano Amos Oz descrive come
«spesso strettamente legato a un contesto di profonda disperazione: dove le persone non
avvertono altro che disfatta, umiliazione e indegnità, ricorrono a forme svariate di violenza
disperata148».

145
G. SANTEVECCHI, Il generale che seppe vincere il passato, in «Corriere della Sera», 5 novembre 1995, p.3.
146
I. MAN, Israele, 10 anni dopo. Chi ha interesse a dimenticare Rabin?, in «La Stampa», 2 novembre 2005,
p.10.
147
A. LEVI, Un popolo, una speranza, in «La Stampa», 13 novembre, 1995, p.1.
148
A. OZ, Contro il fanatismo, tr. di E. Loewenthal, Milano, Feltrinelli, 2004, p.34.

64
Le ipotesi di complotto, il clima di incertezza e paura che serpeggiava in Israele alla
vigilia del delitto, le evidenti lacune mostrate dal servizio di sicurezza, sono tutti aspetti che
vengono certamente menzionati per dovere di cronaca ma che non destano l’attenzione che
viene invece riservata all’analisi meticolosa delle motivazioni profonde che hanno armato la
mano dell’assassino.
Per la maggior parte degli osservatori si voleva certamente, con Rabin, uccidere il
processo di pace tra popolo ebraico e popolo palestinese su cui il premier aveva speso tutta
la sua credibilità:

È stato ucciso da un israeliano (da un altro ebreo, e l’idea è quasi intollerabile), che voleva fermare,
assassinando Rabin, il processo di pace. Vi sono tuttavia in Israele forze sufficienti per portare avanti il lavoro
incompiuto di Yitzhak Rabin, per realizzare il suo sogno e i suoi valori. E vi sono ormai anche tra i palestinesi,
e nel mondo arabo, uomini politici i quali sanno che il fanatismo che ha ucciso Rabin è anche il loro nemico,
che il lutto di Israele è anche il loro lutto, e che il sogno di Rabin è anche il loro sogno, che anch’essi debbono
difendere contro tutti i fanatismi, che minacciano, forse più di ogni altra cosa, il futuro di tutta la nazione
araba149.

Non tutti gli osservatori condividono però tale impostazione. Alcuni ritengono che,
dando per scontato che il fanatismo sia comunque alla base di una violenza di tale portata,
sia piuttosto lo scontro interno alla politica israeliana, violento quanto quello col nemico
arabo, ad aver prodotto un crimine efferato ed estremo:

L’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin da parte di un integralista israeliano è stato commentato da gran
parte dei media nel mondo, soprattutto nel momento di maggiore emozione, come «un crimine contro la pace».
Che si sia trattato di un crimine, tanto odioso quanto inutile, è un fatto innegabile. Che lo sia stato tout court
«contro la pace» è assai discutibile. Esso è stato, piuttosto, la manifestazione estrema, questa sì criminale, dello
stato di guerra civile fra due opposte concezioni dello sviluppo di Israele e della pace con il mondo arabo e del
rifiuto radicale, da parte di un estremista di destra, di quella perseguita dal governo in carica 150.

Altri ancora, arrivano a scorgere, in un gesto disperato e irrazionale, l’emergere dal


passato profondo della paura recondita dell’annientamento, retaggio del mai superato trauma
della Shoah:

…quella paura che fra gli ebrei, e fra gli israeliani in particolare, è motivatamente ancestrale, e oggi più che
mai attuale, quella paura profonda che è stata e che è il motore di tutta la coraggiosa storia dello Stato di Israele.
Ma c’è un’altra paura, altrettanto plausibile, ed è quella che l’ebraismo religioso sente nella precaria esistenza
di una piccola scheggia di Occidente sempre più radicalmente laicizzato in un mare di popoli, in gran parte
poveri e ancora legati alla loro tradizione religiosa. La verità è che la Shoà, variamente esorcizzata, ancora
incombe in molte coscienze ebraiche151.

149
A. LEVI, La terra e il cuore, in «La Stampa», 6 novembre 1995, p.1.
150
P. OSTELLINO, Ma questa destra ha il diritto di «cittadinanza», in «Corriere della Sera», 6 novembre 1995.
151
S. QUINZIO, La fede accecata, in «Corriere della Sera», 7 novembre 1995, p.1.

65
Sulla stampa liberale italiana ebbero inoltre una forte eco le dichiarazioni del filosofo
ebreo francese André Glucksmann152 che affermò, a partire proprio dall’omicidio di Rabin,
l’esistenza di un «fascismo ebraico»:

La Bibbia è piena di israeliti che si uccidono tra loro. Ma ciò che può stupire è che esista un fascismo ebraico.
Ebbene, c’è e Rabin lo ha incontrato. Non capisco gli ebrei che dicono: non avremmo mai potuto immaginarlo.
Gli ebrei non fanno eccezione. […] Esistono da lungo tempo ebrei antisemiti. E la sola cosa che certi ebrei non
hanno potuto fare è di arruolarsi nelle SS naziste. Ma non è colpa loro: le SS naziste non li avrebbero voluti153.

Alla provocazione di Glucksmann furono molti intellettuali a rispondere con toni più
o meno accesi dalle pagine dei quotidiani italiani. Tutti, al di là delle proprie posizioni
politiche, ritennero l’utilizzo del termine «fascista», riferito all’estremismo da parte ebraica
in Israele, improprio e fuorviante. Particolare risalto venne dato sul «Corriere della Sera»
all’opinione di Cesare Segre154:

Parlare di fascismo ebraico è fuorviante, perché l’ideologia, pur relativa, che aveva il fascismo non ha nulla a
che fare con quanto sta accadendo in Israele. La violenza che si è scatenata contro Yitzhak Rabin è un incrocio
di fondamentalismo religioso e nazionalismo. E non tutti i nazionalismi sono necessariamente fascisti. È un
integralismo nuovo: che si può ritrovare, in questo particolare passaggio storico, in molti altri Paesi. Dal Medio
Oriente alla ex Jugoslavia. […] Per capire il significato di quanto è accaduto, dobbiamo rileggere l’attentato in
termini di un israeliano che ammazza un altro israeliano, non di un ebreo contro un altro ebreo. […] Sinora,
demonizzato o idealizzato, l’ebraismo è stato considerato quasi come una categoria metafisica. Ma questo
assassinio è la realtà. La vita quotidiana ci avverte che gli ebrei concreti si uccidono tra loro 155.

Era dunque l’integralismo il colpevole. L’integralismo che a metà degli anni novanta
mieteva vittime in tutto il mondo. Erano gli anni della guerra nella ex Jugoslavia, degli
attentati a Oklahoma City, del genocidio in Ruanda e della guerra in Cecenia.
«L’integralismo che uccide l’ebreo Rabin per mano ebrea in nome del Dio degli ebrei
è la minaccia che grava sulla fine di questo secolo. Al suo sorgere, lo spettro del secolo era
quello delle rivoluzioni. Al suo tramonto, l’integralismo modifica i connotati dei conflitti
sociali e culturali»156.
Contro questo nemico, i capi di stato di tutto il mondo si diedero appuntamento a
Gerusalemme per dare l’ultimo addio a colui che, della lotta contro gli integralismi, era
diventato una bandiera e per rilanciare la fiducia in una pace ancora possibile in un Medio
Oriente sempre più sconvolto e in balìa di estremismi che potevano esplodere ad ogni

152
André Glucksmann (1937-2015), filosofo e saggista francese protagonista della cosiddetta nouvelle
philosophie che, intorno agli anni settanta del Novecento, operò una decisa rottura col marxismo.
153
U. MUNZI, Attenti al fascismo ebraico, in «Corriere della Sera», 6 novembre 1995.
154
Cesare Segre (1928-2014) è stato un filologo, semiologo, critico letterario e accademico italiano di origine
ebraica.
155
B. STEFANELLI, È stata tradita l’eredità dell’olocausto, in «Corriere della Sera», 7 novembre 1995.
156
G. LERNER, Assassinio di fine secolo, in «La Stampa», 13 novembre 1995, p.1.

66
vibrazione di un terreno quanto mai instabile. Le esequie del primo ministro israeliano
furono inoltre un evento mediatico, per la partecipazione fisica di circa un milione di
persone, tra cui molti esponenti della politica mondiale e numerosi leader arabi che mai
prima di allora erano entrati in Israele. La cerimonia fu seguita dalle televisioni di tutto il
mondo mostrando, forse per la prima volta con questa forza, quanto il mezzo televisivo fosse
diventato negli anni, non più solo veicolo di informazioni ma anche strumento privilegiato
per la propagazione di messaggi politici:

Il funerale di Yitzhak Rabin è stata una conferenza di pace in diretta, un colloquio al vertice e all’aperto, davanti
alla salma del premier sul piazzale della Knesset, il Parlamento, condotto fra arabi, ebrei, americani ed europei
per il consumo e la consolazione di una «audience» planetaria raccolta attorno al focolare elettronico della Cnn.
[…] L’assassinio di Rabin è stata la conferma del prezzo che i profeti di pace sono sempre chiamati a pagare,
siano essi cristiani, atei, musulmani, ebrei o buddhisti. Il funerale di Rabin è stata invece l’ennesima, eppure
ancora stupefacente dimostrazione di come la comunicazione moderna, istantanea, via satellite stia cambiando
la natura dei messaggi che percorrono le antenne. E di come le telecamere non siano più semplici testimoni,
ma motori di storia. Attorno al feretro del nuovo martire della pace, tutti hanno dovuto parlare per la televisione
e in inglese, anche Hussein, anche il presidente egiziano Mubarak, e non in arabo o in ebraico, perché il mondo
intero potesse ascoltare e capire il loro messaggio politico. […] Rabin è sceso nella tomba accompagnato dalla
liturgia del nuovo ecumenismo che domina questa fine del millennio: l’ecumenismo della Cnn, della piazza
elettronica, nella quale il mondo guarda sé stesso, si specchia, si odia e si compiange157.

2.5 La memoria tradita

Da quel fatidico 4 novembre 1995 ogni anno sulla stampa italiana e mondiale si
susseguirono pagine e pagine di ricostruzioni biografiche, ipotesi di complotto sulla morte e
fantastiche ricostruzioni su un possibile diverso sviluppo degli eventi mediorientali qualora
la storia fosse andata diversamente e Rabin non avesse interrotto la sua guerra contro il
fanatismo in quella piazza di Tel Aviv.
Intorno alla memoria del grande soldato che, proprio perché tale, seppe più di ogni altro desiderare la pace e
stringere la mano al suo peggior nemico, sono cresciuti in questi anni cattedrali di lutto, libri di preghiere dei
rabbini riformati, memorie personali che scavano nella dolcezza e nella bruschezza dell’uomo, grandi
polemiche su chi sia il suo legittimo erede, e anche su quanto territorio fosse davvero disposto Yitzhak a
consegnare all’Autonomia Palestinese158.

In realtà dopo l’assassinio che sconvolse il Paese, l’opinione pubblica israeliana fu


incapace di reagire all’ondata di attentati terroristici che colpirono le città israeliane e,
complice un vuoto politico creatosi con la morte di Rabin, la paura si impadronì delle

157
V. ZUCCONI, Funerale ecumenico celebrato dalla Cnn, in «La Stampa», 7 novembre 1995, p.4.
158
F. NIRENSTEIN, Yitzhak continua a non riposare in pace, in «La Stampa», 1 novembre 1998, p.9.

67
coscienze anche di quanti, fino a poco tempo prima, si dichiaravano disposti a sacrifici e
rinunce in vista del bene supremo a cui tutti agognavano: la pace in Palestina.

I kamikaze di Hamas riusciranno dove fallirono gli assassini di Rabin? Uso deliberatamente il plurale poiché
a sparare è stato uno solo ma i mandanti di quel delitto infame sono moltissimi e tutti a piede libero, dal
momento che non si può sbattere in galera le copiose legioni dei fanatici di Heretz Israel. Poiché Hamas vuole,
assolutamente vuole, trucidare la pace è chiaro che più salirà il conto dei morti ammazzati, più atroce diverrà
la mattanza, loro stessi, i morti innocenti, potrebbero finire col «giustificare», l’alt alla lunga, e già faticosa,
marcia della pace159.

L’elezione a primo ministro di Benjamin Netanyahu il 18 giugno 1996 avvenne nello


sconcerto generale del fronte pacifista, esacerbò gli animi e portò il conflitto e la
frammentazione interna di Israele ad una situazione estrema160. Lo shock relativo alla morte
del primo ministro per mano di un cittadino israeliano, spinse indubbiamente la politica
israeliana a ripensare le forme della comunicazione, dopo le accuse rivolte particolarmente
al Likud, di aver esageratamente inasprito i toni della contestazione e di essere, in ultima
analisi, corresponsabile dell’assassinio di Rabin. Come ricordò lo scrittore Yehoshua su «La
Stampa»:

L’assassinio di Rabin rappresenta un momento altamente drammatico della storia nazionale israeliana e su di
esso viene compiuto un importantissimo lavoro di preservazione della memoria al fine di rafforzare la
democrazia tramite l’assoluta condanna non solo dell’assassinio in sé ma anche del clima denigratorio, ostile
e delegittimante che lo aveva preceduto. È quindi possibile stabilire con una certa sicurezza che in seguito alla
morte di Rabin il livello di violenza verbale della destra contro la sinistra è notevolmente calato 161.

Yehoshua sostenne inoltre che nel tempo fosse avvenuto in Israele una sorta di
processo di differenziazione tra l’atmosfera antidemocratica dei mesi che avevano preceduto
l’assassinio, e l’argomento politico che ne rappresentò il pretesto scatenante, cioè l’accordo
di Oslo, che fu il principale risultato ottenuto dall’azione politica di Rabin durante il suo
secondo mandato in qualità di capo del governo. Secondo lo scrittore israeliano tale accordo,
a distanza di anni, venne visto da molti come irresponsabile e precipitoso e fu oggetto di
critiche pesanti sia da destra che da sinistra:

Oggigiorno dunque è in atto una sorta di sdoppiamento del ricordo della figura di Rabin. L’uomo in sé suscita
affetto e simpatia e determinati periodi della sua biografia vengono ricordati con ammirazione e rispetto. […]
D’altro canto invece, alcuni rappresentanti dell’opposizione che non osano condannare apertamente Rabin
attribuiscono la paternità dell’accordo di Oslo a varie figure secondarie che avrebbero agito alle spalle del
primo ministro ponendolo poi di fronte al fatto compiuto mentre egli non era affatto convinto della bontà
dell’accordo. Da un punto di vista storico tutto ciò non corrisponde a verità. Rabin aveva decisamente il

159
I. MAN, I folli di Allah possono riuscire dove fallirono i killer di Rabin, in «La Stampa», 5 marzo 1996.
160
cfr. A. PFEFFER, Bibi. The turbulent life and times of Benjamin Netanyahu, C Hurst & Co Publishers Ltd,
2020.
161
A.B. YEHOSHUA, Rabin: i meriti e i nemici ridimensionati dalla Storia, in «La Stampa, 1 novembre 2002,
p.12.

68
controllo del proprio governo e ogni decisione veniva presa dopo che lui ne era stato informato e aveva dato il
proprio consenso162.

Oltre alle conseguenze sulla società israeliana e sulla politica dello Stato ebraico
all’indomani dell’omicidio del primo ministro, l’altro grande tema affrontato dalla stampa
italiana di ispirazione liberale fu la ricaduta di tale evento sul processo di pace. La domanda
era: l’omicidio Rabin passerà alla storia come uno degli assassini politici di cui è piena la
storia, che ottennero l’effetto opposto di quello auspicato dai loro esecutori? Rabin diventerà
un nuovo Martin Luther King, il cui assassinio promosse il processo di uguaglianza dei neri?
O magari un novello Lincoln, la cui morte non servì a ripristinare la schiavitù? Nonostante
le speranze e lo sdegno suscitato in un primo momento dalla morte del premier, che
avrebbero fatto pensare alla nascita di un grande movimento popolare a favore del processo
di pace, furono in molti a ritenere che invece la memoria di Yitzhak Rabin fosse stata tradita
proprio da chi a quell’ideale aveva rinunciato:

A distanza di tempo, l’assassinio di Yitzhak Rabin si è rivelato uno degli omicidi politici più riusciti dell’era
moderna che deve il suo successo non solo alla mano ferma del killer ma anche al popolo di Israele, il quale
ha aiutato l’assassino a promuovere la sua visione ideologica. La storia è piena di assassini politici che hanno
ottenuto l’effetto opposto di quello auspicato dai loro esecutori. […] Quello di Rabin, invece, ha realizzato il
progetto dell’assassino, Yigal Amir, e fermato il processo di pace. Ma Amir non sarebbe riuscito nella missione
senza l’elezione di Netanyahu da parte di noi cittadini. Quel Netanyahu che pochi mesi prima aveva incitato le
piazze a opporsi a Rabin e al processo di pace. Così, nella vera storia, a differenza di quella che amiamo
raccontarci, il popolo di Israele non è solo vittima ma anche partner del crimine163.

Al di là delle polemiche e del dibattito interno alla società israeliana, ciò che negli
anni è rimasto fermo, della figura e del ruolo politico di Yitzhak Rabin, è stato soprattutto il
coraggio di compiere scelte impopolari, che hanno spesso cozzato contro tradizioni e valori
stratificati in secoli di storia, nel tentativo non ideale ma condito di straordinario senso
pratico, di costruire un futuro senza guerra per le nuove generazioni.

Noi tutti l’abbiamo pianto, tornando alla vita di tutti i giorni, convinti che Rabin avesse dato la sua vita per la
pace. Sbagliammo: Rabin è caduto nella battaglia per stabilire chi siamo noi e che cos’è davvero questa
nazione. Le generazioni precedenti, è vero, concepivano le sacre tombe in terra d’Israele come segmenti
simbolici del senso dell’identità ebraica. Forse verrà un giorno in cui saranno di nuovo considerate tali. Ma per
ora i fondamentalisti ebraici hanno trasformato quei sepolcri da simbolo di identità a oscura minaccia alla
nostra identità collettiva. Sventolando le bandiere su quelle antiche tombe, questa gente non esita a far sì che
si debba scavarne di nuove. Yitzhak Rabin è morto perché ha voltato la sua schiena – e la nostra – alle tombe.
Ha scelto la vita, in linea con la Torah, che ci ordina di scegliere sempre la vita. Non santifichiamo la memoria
di Rabin, o il suo sepolcro. Piuttosto santifichiamo la vita, la giustizia, la libertà, la ragione, il realismo. È per
questi valori che Rabin è vissuto ed è morto164.

162
ibid.
163
E. KERET, Rabin 1995-2015, in «Corriere della Sera», 30 ottobre 2015, p.11.
164
A. OZ, Chi ha ucciso Yitzhak Rabin?, in «La Stampa», 24 ottobre 1996, p. 9.

69
CAPITOLO 3
RABIN SULLA STAMPA ITALIANA DI SINISTRA

3.1 La sinistra italiana e Israele

Il rapporto tra la sinistra italiana e lo Stato d’Israele è stato fin dall’inizio critico e
faziosamente allineato alle posizioni prese dall’Unione Sovietica, collocandosi, secondo la
logica internazionale dei due blocchi, in contrapposizione all’appoggio incondizionato
offerto dagli Stati Uniti al neonato Stato d’Israele all’indomani della dichiarazione di guerra
da parte degli stati arabi nel 1948.
Come ricorda Alessandra Tarquini nel suo saggio «La sinistra italiana e gli ebrei»:

Quando nacque Israele, la sinistra italiana si mostrò una convinta sostenitrice del giovane Stato che aveva
l’appoggio dell’URSS, era governato dai laburisti e presentava al mondo una sorta di modello alternativo
all’economia capitalista con i kibbutzim, le comunità agricole dove vivevano migliaia di persone. Comunisti e
socialisti ne salutarono la nascita e chiesero ai governi democristiani di riconoscerlo immediatamente. In realtà
questo entusiasmo durò poco e terminò all’inizio degli anni Cinquanta con la rottura dei rapporti fra Mosca e
Tel Aviv. Proprio allora i due principali partiti della sinistra modificarono le posizioni iniziali, in ossequio alla
politica dei sovietici165.

Peppino Caldarola, già direttore dell’Unità166 ha analizzato approfonditamente questo


sentimento di ostilità in un saggio apparso nella raccolta «Perché Israele 167» in cui afferma
che questo doppio assunto che ha da decenni pervaso la sinistra (cioè l’idea che i palestinesi
abbiano sempre ragione e Israele sempre torto), è diventato nel tempo una forma mentis, un
riflesso automatico, per trasformarsi infine in un vero e proprio tabù. Nella sua recensione
al testo Fabio Martini sulla Stampa scrive:

«Come archetipo di un certo modo di pensare, Caldarola fa riaffiorare l’illuminante «rapporto tenuto al
Comitato centrale del Pci nel febbraio 1970 da Giancarlo Pajetta, un comunista di grande personalità e
indipendenza intellettuale». Per Pajetta non ci possono essere dubbi «sul carattere coloniale di Israele» e
persino la travagliatissima nascita di uno Stato per quel popolo martoriato non deriverebbe dal diritto di un
popolo, ma anche «da una sorta di cattiva coscienza degli europei» per la Shoah. […] Il sentimento
antisraeliano della sinistra italiana si è spesso «travestito» da filoarabismo, assumendo una connotazione
talvolta ambigua: «Le varie correnti culturali della sinistra, nello schierarsi a favore dei palestinesi - scrive
Calderola- trovano alla fine il medesimo obiettivo: mettere in discussione costantemente e non sempre

165
A. TARQUINI, La sinistra italiana e gli ebrei, Il Mulino, Bologna, 2019, p.289.
166
L’Unità è un quotidiano politico italiano, fondato il 12 febbraio 1924 da Antonio Gramsci. Organo ufficiale
del Partito Comunista Italiano dal 1924 al 1991, del Partito Democratico della Sinistra dal 1991 al 1998, dei
Democratici di Sinistra dal 1998 al 2007 e del Partito Democratico dal 2015 al 2017.
167
AA.VV., Perché Israele. Appuntamento a Gerusalemme, Belforte Salomone, Livorno, 2003.

70
pubblicamente la ragione storica dell’esistenza di Israele. È questo il male oscuro della polemica, condivisibile,
contro l’occupazione dei Territori». […] Ma c’è un personaggio che opportunamente Calderola individua come
simbolo dell’ambivalenza della sinistra italiana verso Israele: Yitzhak Rabin. È proprio lui la figura che in una
certa fase sembra riconciliare la sinistra italiana con Israele, eppure l’idea che la sinistra trasmette ai militanti
corrisponde sempre più ad un’immagine retorica, lontana dalla realtà del personaggio. Infatti a mano a mano
che cresceva il mito del Premio Nobel per la Pace, si perdeva la memoria del soldato d’Israele. Ma Rabin è un
uomo di pace «che sapeva fare la guerra e la fece, quando gli toccò, con grande determinazione e capacità» e
dunque «la sua figura può indicare un molteplice modello di relazione fra sinistra e Israele. Ad una condizione:
che la sinistra accetti tutto Rabin»168.

Accettare tutto Rabin è un’operazione di restyling difficile da affrontare. Per molti anni
la stampa italiana di sinistra ha presentato di lui e del partito laburista un’immagine
controversa: la parte di Israele con cui si sarebbe potuto forse dialogare, ma che restava
comunque una parte, magari quella più illuminata, ma pur sempre una parte di quello stato
illegittimo che imponeva la propria presenza in una terra d’altri. Sebbene di Yitzhak Rabin
non si facesse menzione negli organi di stampa più vicini ai partiti di sinistra italiani nel
periodo dei suoi trionfi militari (la Guerra dei Sei Giorni sembra abbia avuto come unico
stratega e condottiero il solo Moshe Dayan, unico generale sempre al centro delle cronache),
la sua figura emergeva silenziosamente a partire dagli anni Ottanta, e in modo particolare
dalla prima guerra del Libano, anche chiamata “Operazione di pace in Galilea” (Mivtsa
Shalom HaGalil) del 1982, epoca in cui era consigliere del ministro della Difesa Ariel Sharon.
Partiti e movimenti della sinistra diedero voce al clima di forte opposizione che
l’invasione del Libano da parte israeliana aveva suscitato nell’opinione pubblica italiana. Ad
ampliare gli argomenti di discussione politica sulle pagine dei giornali contribuì non poco il
caso sollevato dall’appello contro l’invasione del Libano “Perché Israele si ritiri”, pubblicato
da Repubblica169 il 16 giugno 1982, firmato da Primo Levi170, le cui righe di esordio ebbero
un’eco dirompente: “Facciamo appello, in quanto democratici ed ebrei, perché il governo
israeliano ritiri immediatamente le sue truppe dal Libano”171. Il testo raccolse
millecinquecento adesioni. Ciò che però colpì l’opinione pubblica non fu l’analisi politica di
quel documento, ma l’inciso della prima riga: “in quanto democratici ed ebrei”. Tra i
firmatari di quel manifesto figuravano nomi quali Natalia Ginsburg, Fiamma Nirenstein,
David Meghnagi e Rita Levi Montalcini. Affermavano che “la soluzione militare” scelta da
Israele evoca “un linguaggio di triste memoria per ogni ebreo”, facendo così una storica

168
F. MARTINI, La sinistra: da sempre antisraeliana, in «La Stampa», 1 luglio 2003, p.6.
169
La Repubblica è un quotidiano italiano nato dall’iniziativa di Eugenio Scalfari nel 1976, che si colloca
nell’area della sinistra laica e riformista.
170
Primo Levi (1919-1987), scrittore italiano autore di racconti, memorie, poesie, saggi e romanzi.
171
P. LEVI, Perché Israele si ritiri, in «la Repubblica», 12 maggio 1982.

71
concessione alla retorica dei “nazi-sionisti” e dichiaravano di intervenire anche “nella
speranza di combattere i germi potenziali di un nuovo antisemitismo che si verrebbe ad
aggiungere alle vecchie e mai scomparse tendenze antiebraiche in seno alla società civile”.
Il 12 giugno 1982 Levi proseguì con una intervista a Giorgio Calcagno la sua invettiva contro
Israele:
Ho giudicato il sionismo una forza e una necessità politica. Questa gente non poteva che seguire un verbo che
aveva una forma biblica. Oggi la questione si è complicata, perché la Palestina è in un nodo geografico sotto
tensioni spaventose, costretta a una difesa costosissima e logorante, che spinge anche ad azioni temerarie o
politicamente sbagliate. Il sionismo di allora pensava a un paese contadino. Israele, oggi è diventato un paese
militare e industriale172.

In un’intervista del 24 settembre 1982 Levi commentò così la strage di Sabra e Chatila:
«Io non ho mai reazioni istintive. Se le ho, le reprimo. All’inizio, ho avuto il dubbio che fosse
davvero accaduto. Poi ho compreso che era tutto vero. Allora la strage in quei campi mi ha
ricordato da vicino quello che hanno fatto i russi a Varsavia nell’agosto del 1944: stavano
fermi sulla Vistola mentre i nazisti sterminavano i partigiani polacchi»173.
La straordinaria rapidità con cui si susseguivano notizie di guerra e di morte dal Medio
Oriente e la realtà di uno scenario politico internazionale dominato da lungo tempo dalla
guerra fredda costituirono il terreno materiale e la cornice ideale di uno scontro che si
rifletteva nel dibattito politico italiano con caratteristiche fortemente ideologiche e che ha
prodotto un processo sistematico di delegittimazione della democrazia israeliana cominciato
proprio negli anni dell’invasione del Libano e progressivamente intensificatosi,
raggiungendo il suo culmine con l’inizio dell’Intifada.

3.2 L’intifada: Rabin il falco

L’Intifada (letteralmente “risveglio, sussulto”, ma nella fattispecie “sollevazione”), suscitò


immediatamente un enorme entusiasmo sulla stampa di sinistra in Italia. La rivolta iniziò nel
dicembre 1987 con una protesta generale a Gaza e fu inizialmente definita dalle cronache
«sciopero generale» dei palestinesi. Nel primo editoriale dell’Unità dedicato alla rivolta
palestinese si prevedeva che presto sarebbe stato in gioco «il carattere democratico» e il
«prestigio civile» dello stato d’Israele. Si invitava poi il partito laburista israeliano ad

172
P. LEVI, Conversazioni e interviste, collana “Gli Struzzi” n° 486, Einaudi, 1997, pp.XIII-321.
173
A. STABILE, Sì, Israele ha passato il segno ma non è giusto parlare di nazismo, in «la Repubblica», 24
settembre 1982.

72
assumersi l’onere di far «prevalere le ragioni elementari di civiltà e di pace» su posizioni
«più cieche per brutalità e per calcolo meschino»174.
In seguito l’Intifada venne ribattezzata col nome di “rivolta delle pietre”, seguendo il
suggerimento che Pietro Folena diede alla redazione dell’Unità:

Come possono (i palestinesi) ricordare al mondo, ai giornalisti, alle potenze, che esistono e vogliono una patria?
Con l’unica cosa che hanno: le pietre. Sono loro pietre, e loro terra. E le tirano non perché credono di vincere
con le pietre: ma per ricordare a tutti che hanno il diritto a vivere. Se facessi i titoli di un giornale, per descrivere
il senso di queste proteste, titolerei: La rivolta delle pietre. È il sale della terra, indomabile, che rifiuta il dominio
della forza dell’arroganza. Non si può confondere questa protesta col terrorismo degli anni passati; e neppure
con i commando guerriglieri che di tanto in tanto-sempre meno bisogna dirlo- cercano di varcare il confine per
compiere sabotaggi e attentati. Quelle pietre sono politica e chiedono- sembrerà strano ma non lo è- una
soluzione politica175.

Furono in molti a proporre il parallelo Israele-Sudafrica / Gaza-Soweto, evocando l’idea che


la condizione dei palestinesi nei territori fosse in qualche modo assimilabile a quella dei neri
che popolavano le township del Sudafrica durante l’apartheid176. Tale immagine fece molto
presa nell’opinione pubblica grazie al suo potere persuasivo e semplificante presentato
dentro una cornice logica: c’è un’occupazione indebita, uno sfruttamento di uomini e risorse,
la repressione delle rivolte, un razzismo di fondo e infine lo spirito coloniale e
annessionistico. «Perché la santa rivolta palestinese di questo natale 1987 esplode proprio a
Gaza? Perché è a Gaza dove finzioni e velleità israeliane di un’occupazione illuminata
saltano. Gaza è il posto dove Israele e Sudafrica si toccano»177.
Fu proprio con l’inizio dell’intifada che la figura di Yitzhak Rabin come ministro della
Difesa iniziò a comparire sui giornali italiani, che all’inizio cercarono di inquadrare il
personaggio non sapendo bene dove collocarlo, se tra i buoni che cercavano un
compromesso pacifico con i palestinesi o tra i cattivi intransigenti fautori del grande Israele.
«Allora, signor ministro, ci tolga subito la più banale delle curiosità: lei è falco o colomba?
Yitzhak Rabin è infastidito dalla domanda: “Non sono un uccello. Sono un essere umano
con pregi e difetti umani. Come ministro della Difesa di Israele devo dire che più Israele è
forte, più le prospettive di pace si fanno concrete”»178.
Sempre più Rabin venne presentato come il generale dal passato glorioso che, sebbene
vantasse il merito di aver finalmente attuato il ritiro dell’esercito israeliano dal Libano,

174
G. NAPOLITANO, Appello ai democratici d’Israele, in «l’Unità», 27 dicembre 1987, editoriale.
175
P. FOLENA, La rivolta delle pietre, in «l’Unità», 19 dicembre 1992, editoriale.
176
L’apartheid era la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca del
Sudafrica e rimasta in vigore fino al 1991.
177
M. MATTEUZZI, La Cisgiordania è il Bantusan d’Israele, in «il Manifesto», 22 aprile 1988.
178
P. GUZZANTI, Colpiremo quando sarà il momento, in «la Repubblica», 1 luglio 1986.

73
mostrava tuttavia i tratti spietati di chi è abituato a combattere sul terreno insidioso dei
rapporti di forza in Medio Oriente, come lui stesso dichiarava al quotidiano la Repubblica:

Viviamo in una logica mediorientale, e tutte le diagnosi razionali possono venir cancellate in un giorno. È
sempre valida la storiella dello scorpione e della rana. Lo scorpione chiede di essere portato in groppa per
traversare un lago. La rana dice ma tu mi morderai se sali in groppa. Lo scorpione promette che non morderà,
dice che affonderebbero insieme, che sarebbe illogico, convince la rana, così la traversata comincia. Ma a un
certo punto lo scorpione morde, la rana grida che fai, sei completamente illogico, e mentre affogano insieme
lo scorpione risponde: che vuoi, siamo in Medio Oriente179.

L’Intifada lo immortalò agli occhi dell’opinione pubblica europea come il ministro che ha
dato l’ordine di picchiare i manifestanti, di spezzare braccia e gambe a chi protesta o
sciopera.

Il ministro della Difesa Rabin ha dato nuovi ordini, non sparare, ma picchiare gli agitatori. Perciò i soldati si
spingono più vicino ai manifestanti; nei corpo a corpo che ne conseguono entrano in azione i manganelli e i
calci dei fucili [...] Il ministro si dichiara soddisfatto: l’esercito è riuscito a far diminuire le manifestazioni. Con
la forza. Abbiamo dato ordini prioritari per la repressione delle violenze e delle manifestazioni più brutali,
facendo ricorso alla forza, anche alle botte. Nessuno è ancora morto per le botte 180.

La nuova tattica adottata (potenza, violenza, botte, secondo le parole del ministro della Difesa Rabin) ha dato
in effetti alcuni risultati. L’esercito ha appesantito la sua presenza nei territori occupati e ora investe i
manifestanti frontalmente, non spara più proiettili veri o di gomma quando i ragazzi lanciano pietre, l’insegue
e li bastona, con i calci dei fucili o con i lunghi manganelli di legno duro. […] I colpi vengono dati soprattutto
sulle braccia. Questo tipo di bastonatura è stata teorizzata. I militari di Tsahal non sapevano più come
controllare la rivolta. Ci scappava sempre qualche morto palestinese e la protesta cresceva. Allora si è pensato
che bastonando le mani e le braccia il numero dei lanciatori di pietre sarebbe diminuito, e, soprattutto, quel
tipo di punizione avrebbe avuto un effetto dissuasivo. Avevano ragione. Adesso non ci sono più morti, ci sono
meno manifestazioni. Ci sono, è vero, più fratture181.

L’uso della violenza per reprimere la rivolta, ne fece il bersaglio perfetto delle critiche di
chi, nella sinistra italiana, vedeva «un fattore oscuro» sulla natura democratica dello Stato
ebraico e arrivava al punto di assimilare le forme adottate per la repressione delle rivolte alle
violenze subite dagli ebrei per mano nazista:

La Intifada mette gli israeliani anche di fronte ad un interrogativo essenziale, di fondo. Forse che di fronte
all’orribile crimine di Hitler dovremmo constatare che la vittima eredita o assimila i valori del carnefice? Sono
ancora molti, in Israele, che rifiutano questo effetto della storia. Ma in questo giorno dell’indipendenza la
libertà è assai poca e gli israeliani sono prigionieri dell’oppressione e dei valori che li spingono a opprimere
un popolo che ha travolto ormai le barriere della paura182.

3.3 Rabin premier del dialogo

179
A. CAVALLARI, L’esercito non è più un mito, in «la Repubblica», 4 aprile 1985.
180
A. LIVNI, Rabin: le botte funzionano, in «la Repubblica», 21 gennaio 1988.
181
B. VALLI, Spezzategli braccia e mani, in «la Repubblica», 23 gennaio 1988.
182
Z. SHULDINER, I sogni distrutti, in «Il Manifesto», 21 aprile 1988, p.5.

74
Una vera e propria inversione di tendenza si registrò all’indomani della Guerra del Golfo,
quando il mutato scenario internazionale (l’approssimarsi del disfacimento dell’Unione delle
Repubbliche Socialiste Sovietiche, preceduto dal crollo del muro di Berlino e dalla
riunificazione della Germania, il venir meno di un equilibrio internazionale dominato
dall’antagonismo tra le due superpotenze mondiali) esplicava i suoi effetti sugli equilibri
mediorientali.

Il cambiamento dei comunisti segnò una svolta nella storia dei rapporti fra la sinistra e gli ebrei che terminò,
almeno nei suoi primi cento anni, in modo migliore rispetto a come era cominciata. Quarant’anni dopo la
nascita di Israele, autorevoli politici e noti intellettuali legati al mondo comunista dichiaravano che il sionismo
faceva parte della loro cultura politica, che Israele nasceva da una dichiarazione delle Nazioni Unite e che il
conflitto arabo-isreliano sarebbe terminato quando i suoi protagonisti si fossero reciprocamente riconosciuti183.

Lo scostamento de l’Unità dalle posizioni tenute a partire dal ’67 e almeno fino al 1990
sul conflitto mediorientale fu alquanto immediato dopo la fondazione del nuovo partito184.
Il giornale cessò di essere la voce ufficiale del PCI. Sotto la direzione di Walter Veltroni
l’inversione di marcia fu visibilissima sotto il profilo della linea generale adottata, che
tendeva a ricordare ad ogni occasione che le ragioni di Israele andavano comprese nella
stessa misura di quelle del popolo palestinese. Solidarietà a Israele venne espressa sulle
pagine de l’Unità in occasione degli attacchi missilistici iracheni sulle città israeliane da
Piero Fassino, allora responsabile per la politica internazionale del PdS185. Sulle colonne
dell’Unità trovò spazio anche un’intervista a Furio Colombo, interpellato a proposito del
libro da lui scritto e intitolato Per Israele. Colombo affermò di aver pensato a questo testo
per rendere il dovuto alle ragioni di una parte, quella israeliana, che furono volutamente
«misconosciute, omesse, dimenticate» e seguendo il «principio pratico della giustizia… che
pesa l’accusa e la difesa»186.
Il successo elettorale del Partito Laburista di Rabin nel luglio 1992 venne così salutato
con speranza e ottimismo. Si vide in lui l’uomo giusto per proseguire l’appena accennato
processo di pacificazione, anche se non si dimenticava il suo percorso politico né soprattutto
il suo atteggiamento verso la rivolta nei territori:

183
A. TARQUINI, La sinistra italiana e gli ebrei, Il Mulino, Bologna, 2019, p.277.
184
Nel 1991 avviene la trasformazione dal Partito Comunista Italiano al Partito Democratico della Sinistra.
185
P. FASSINO, Israele 1991, in «l’Unità», 23 gennaio 1991, p.2.
186
G. BOSSETTI, intervista a Furio Colombo, Non è finito l’assedio di Israele, in «l’Unità», 13 ottobre 1991,
p.2.

75
«La vittoria di Yitzhak Rabin chiude la lunga notte del dominio della destra e incoraggia
a sperare. […] Rabin, poi, non è quell’agnellino sacrificale che sembrava ieri davanti alle
telecamere: è lui, o no, quel ministro della Difesa che faceva spezzare braccia e gambe a chi
partecipava al lancio delle pietre contro le truppe con la stella di David?»187.
Si vide in lui una specie di uomo della palingenesi, uno cioè che spunta fuori regolarmente
nella storia di Israele quando Israele sta soffrendo i suoi peggiori periodi di transizione e
affida proprio a lui, uomo rude e schivo, le sue speranze di rinascita:

Come tutti i sabra israeliani, Rabin era ed è prima di tutto un pragmatico, non un sionista, non un laburista in
senso storico, ma un uomo politico che sa fin troppo bene cosa significhi cercare di impiantare uno Stato
ebraico, dunque una sorta di corpo estraneo, nel tessuto vivo del Medio Oriente moderno. Era ed è cinico e
appassionato, un politico al tempo stesso realista e spietato. Inutile nascondersi dietro un dito: se il Partito
laburista ha vinto queste elezioni è perché a guidarlo c’era lui, non Shimon Peres […] È come all’indomani
dello Yom Kippur. La sorpresa per l’Israele di oggi non è più l’aggressione armata egiziana o comunque araba,
ma l’intifada; l’intifada ha sorpreso gli stessi agguerritissimi servizi di sicurezza israeliani, al pari delle truppe
di Sadat nel lontano ’73. E a domare l’intifada è stato chiamato proprio Rabin, ministro degli interni, dopo lo
scoppio della rivolta delle pietre nei territori occupati nell’87. Rabin è l’uomo che ha dato l’ordine di spaccare
le ossa ai ragazzini che lanciavano le pietre, il ché- se non ha fermato l’intifada - l’ha resa cinicamente
governabile. Cinicamente governabile: questo è il segno della stessa politica israeliana oggi che deve conciliare
l’intransigenza dei coloni nei territori occupati, i sogni messianici dei partitucoli religiosi che credono ancora
nelle profezie bibliche, ma anche le spinte più realistiche di quanti sono ormai arrivati alla conclusione che se
Israele ha qualche possibilità di sopravvivere nel Medio Oriente di oggi è perché questa chance sta tutta in un
delicatissimo principio di equilibrio. L’equilibrio della trattativa, del negoziato. Rabin può incarnarlo questo
principio, altri no188.

La vittoria di Rabin sembrò aprire una breccia nel muro dell’oltranzismo israeliano
dunque, nonostante quello che Maurizio Matteuzzi sul Manifesto definì «il suo inquietante
curriculum», motivando così le sue affermazioni:

Il soffio di ottimismo che ci si deve imporre dopo il voto di martedì in Israele non viene tanto dalla persona di
Yitzhak Rabin né dal palmarès del partito laburista. […] Rabin si è presentato come il continuatore autentico
del migliore Likud, quello di Begin che firmò la pace di Camp David (contro l’astensione di Shamir e
l’opposizione di Sharon); l’uomo capace di riconquistare la fiducia dell’America e sbloccare il mega prestito
di dieci miliardi di dollari; il generale duro che ha liberato Gerusalemme nel ’67 e ha spezzato le braccia dei
palestinesi che tiravano le pietre dell’intifada vent’anni dopo. […] Un quadro politico congelato da tre lustri si
è sbloccato. Un fondamentalismo ideologico che non aveva nulla da invidiare a quello sciita è stato battuto da
un voto – prima ancora che da un uomo – pragmatico. Spetta ora a Rabin, qualunque sia il governo che vorrà
o potrà mettere in piedi, disinnescare il pericolo, forse lontano ma non irreale, di una guerra civile contro la
minoranza fanatizzata dei 250.000 coloni lanciati nei territori occupati189.

187
M. MONTALI, La rivoluzione di Yitzhak Rabin, in «l’Unità», 25 giugno 1992, p.11.
188
M. EMILIANI, Un pragmatico che placa le ansie di Israele. Alla ribalta quando il paese è alle strette, in
«l’Unità», 25 giugno 1992, p.11.
189
M. MATTEUZZI, La porta stretta di Rabin, in «il Manifesto», 25 giugno 1992, editoriale.

76
Da Rabin ci si aspettava dunque una svolta decisa rispetto a quella che sulle pagine
dell’Unità era stata definita «l’opera di snazionalizzazione della Cisgiordania occupata» o
«campagna di ebraicizzazione» avviata dalle destre israeliane190.
E la svolta avvenne. La notizia della ripresa dei negoziati di pace, la decisione di trattare
con l’OLP, gli accordi di Oslo ed infine la storica stretta di mano a Washington nel settembre
1993 tra Rabin e Arafat, suscitarono una ondata di ottimismo e entusiasmo tra i sostenitori
della pace e segnarono, secondo l’opinione di Andrea Barbato, anche la fine di «un contrasto
che ha lacerato le coscienze del mondo civile, suscitando passioni estreme»:

Ora il nodo potrà essere sciolto dagli storici: la grande guerra di armi, di emozioni, di parole è finita. E forse
può finire anche almeno un aspetto dell’antisemitismo, quello che pretestuosamente legava le ragioni razziali
a quelle statali, la Gerusalemme eterna a quella politica. Forse ora anche l’Olocausto ritrova il suo posto nella
nostra cultura, non più oscurato dai carri armati della stella di Davide191.

L’attenzione era tutta concentrata sui protagonisti del dialogo e raramente la stampa si
occupò della reale complessità delle trattative in corso, che affrontarono per la prima volta
nodi storici indistricabili. Nelle cronache il fulcro del problema rimase la diffidenza di
Israele nei confronti dei palestinesi, sempre in bilico tra diplomazia e terrorismo. Non si
evidenziò la divisione lacerante in seno al mondo arabo e il dibattito sembrò svolgersi solo
tra gli intransigenti che si aspettavano da Israele la restituzione immediata dei territori
occupati nel 1967 come precondizione alla trattativa, e i moderati che si consideravano
possibilisti ad una trattativa secondo la formula «territori in cambio di pace»192.
Il processo di pace subì continue interruzioni e fasi di stallo a causa degli ostacoli costruiti
dalle fazioni avverse al dialogo nel parlamento israeliano, degli attacchi terroristici che si
susseguirono nelle città israeliane per mano degli estremisti di Hamas, delle proteste dei
coloni. La crisi più grave iniziò in seguito alla decisione di Rabin di espellere 400 attivisti di
Hamas a seguito di una scia di attentati. La decisione scatenò un caso politico internazionale
e i commenti alla scelta di Rabin si espressero impietosamente attraverso l’utilizzo di termini
come «deportazione» o «esodo dei palestinesi»:

A suggerire la deportazione di massa degli integralisti di Hamas e Jihad islamica non è stato un sussulto di
destrismo. Destra e sinistra sono termini che nell’Israele di oggi perdono in fretta i loro connotati storici, come
le parole falco e colomba. Dietro la decisione del governo sospettiamo invece ci sia un pragmatismo ormai
obbligato che tenta di minimizzare il danno causato da una latenza della politica e dal prevalere di un’ottica
militare alla sopravvivenza193.

190
U. DE GIOVANNANGELI, Non si baratta la nostra terra sacra. La voce dei fondamentalisti piace all’Iran, in
«l’Unità», 18 dicembre 1992, p.11.
191
A. BARBATO, Una giornata indimenticabile, in «l’Unità», 14 settembre 1993, editoriale.
192
J. CINGOLI, Tre tavoli per negoziare la pace, in «l’Unità», 03 novembre 1991, p.3.
193
M. EMILIANI, Se vincono gli estremismi, in «l’Unità», 19 dicembre 1992, editoriale.

77
Lo stallo in cui si arenò il processo di pace destò preoccupazione e incertezza; ma fu
soprattutto il governo guidato da Rabin ad essere criticato. Repubblica ospitò sulle sue
pagine la riflessione di molti intellettuali arabi ed ebrei che coraggiosamente cercarono di
fare pressione utilizzando la loro influenza, affinché i colloqui tra le parti riprendessero.
Particolarmente critica verso Rabin e la coalizione di sinistra che sosteneva il suo governo,
fu la posizione dello scrittore David Grossman194:

Per decenni la sinistra ha investito enormi sforzi in attività e riflessioni volte verso la pace, che aveva allora
una sagoma molto ben definita; essa è riuscita a creare un’atmosfera civile che, al momento giusto, ha saputo
penetrare anche nella reticente coscienza dei politici spingendoli verso la trattativa. Ed ecco che, dopo l’accordo
di Oslo, questa sinistra è stata colta da una paralisi quasi totale. […] Com’è possibile che in tutti questi ultimi
mesi, da sinistra quasi nessuno abbia levato la voce per chiedere: cos’è che sta capitando nel negoziato, e Rabin,
dove sta mirando? […] Perché dall’altro versante si esercita su Rabin un’enorme pressione, che dà i suoi frutti
per strada, nei sondaggi, e ben presto li darà anche alle urne (e, soprattutto, nel comportamento politico e
personale del capo del governo). Mentre sul fronte della sinistra - silenzio. Una sinistra muta. […] Il modo in
cui il primo ministro ha agito agli esordi del processo di pace, è ammirevole; ma sarebbe capace di trasformarsi
radicalmente, a seconda delle esigenze della situazione? […] Quando si incominceranno a sentire voci che
impongano a Rabin di non «spuntarla» più di tanto sui palestinesi, nel corso della trattativa, di essere più
generoso, di rinunciare ai nostri impulsi aggressivi, e alla fin fine, di tenersi stretti all’intento originario del
processo di pace? O non è che forse, nel profondo del cuore, anche la sinistra liberale vuole anch’essa un po’
«spuntarla su di loro», e con ciò «dimostrare» - ma cosa? La propria fedeltà? Verso chi? Non abbiamo ancora
perso il treno, ma è proibito abbandonare il campo più decisivo della nostra vita, a Rabin da una parte e alla
destra dall’altra195.

Anche l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Rabin, Arafat e Peres, che volle
essere un emblematico incoraggiamento della comunità internazionale ad andare avanti sulla
strada del negoziato, venne raccontato sottolineando le polemiche, l’opposizione e le
tensioni che il conferimento di un riconoscimento così prestigioso aveva portato con sé:

Quella consumatasi ieri in terra norvegese è stata una «festa dimezzata» e non solo per le grida ostili degli
oltranzisti israeliani che hanno cercato in tutti i modi di oltraggiare il «terrorista» Arafat e i due «traditori
laburisti». Visti da Oslo, Arafat, Peres e Rabin appaiono come tre «capitani coraggiosi» assediati e delusi:
«assediati» dai fondamentalisti islamici di Hamas, dalla destra ultranazionalista ebraica, dai proclami
minacciosi che giungono da Damasco, e delusi dalle tante promesse di aiuti mai mantenute da parte della
comunità internazionale196.

Particolare apprensione suscitarono le azioni sempre più aggressive dell’estrema destra


israeliana, nemica potente e motivata della pace, che vedeva con terrore l’eventuale
creazione di uno stato palestinese e che Amos Oz197 definì «gente prigioniera della memoria,

194
David Grossman (Gerusalemme 1954) è uno scrittore israeliano, attivista e sostenitore del processo di pace.
Uno dei suoi tre figli, Uri, Fu ucciso da un missile anticarro durante un’operazione delle forze di difesa
israeliane nel sud del Libano.
195
D. GROSSMAN, Il nostro silenzio minaccia la pace, in «la Repubblica», 18 maggio 1995.
196
U. DE GIOVANNANGELI, Tre sfide in un Nobel, in «l’Unità», 11 dicembre 1994, p.14.
197
Amos Oz (1939-2018), è stato uno scrittore e saggista israeliano. Oltre ad essere stato autore di romanzi e
saggi, Oz è stato giornalista e docente di letteratura alla Università Ben Gurion del Negev, a Be’er Sheva.

78
ossessionata dal passato: gli oltranzisti israeliani dall’archeologia, dalla distruzione del
Tempio, dall’Olocausto, da una visione distorta e totalizzante della religione. […] È tutta
gente più occupata a compiacere i propri antenati che i propri figli»198. Abraham
Yehoshua199da parte sua interpretò così le stesse proteste: «Dietro le grida della destra vi è
il crollo del sogno della Grande Israele, vi è un atteggiamento di chiusura al mondo dei
“gentili”, visto come un’opprimente minaccia non solo alla sicurezza ma all’identità ebraica.
Costoro sono prigionieri del passato e per questo sono destinati a perdere»200.
I timori nei confronti del fanatismo religioso e dell’oltranzismo di una destra agguerrita
e violenta erano fondati. L’assassinio di Yitzhak Rabin avvenne proprio per mano di un
colono appartenente alla destra religiosa. Avvenne in occasione di una manifestazione in
favore della pace, organizzata proprio per rispondere alle aspettative di quanti attendevano
dal primo ministro e dal suo governo, una dimostrazione di coraggio e tenacia di fronte alla
sfacciata violenza dei nemici del processo di pace.

3.4 La morte: Rabin la colomba

Il 4 novembre 1995, intorno alle 21:30, nei pressi di Piazza dei Re d’Israele, il Primo
ministro Yitzhak Rabin cadde colpito da due proiettili calibro 380 ACP esplosi da una
Beretta mentre si stava dirigendo verso l’automobile di servizio, al termine di una
manifestazione in favore del processo di pace e degli accordi di Oslo. La notizia fece subito
il giro del mondo e in Italia venne data anche all’interno dei programmi trasmessi dalla
televisione in prima serata. Sui giornali italiani la parola più ricorrente fu «choc». Choc per
il paese, choc per il nemico–amico Arafat, choc per gli ebrei della diaspora, choc per
l’opinione pubblica internazionale, choc per gli Stati Uniti di Bill Clinton. Immediatamente
Rabin diventò l’eroe della pace, il martire, il capro espiatorio, colui che ha dato la sua vita
per il popolo che serviva:
Rabin aveva già inscritta nel suo nome – Isacco – l’etica del sacrificio e la volontà di farsi patriarca di un
popolo. «Se non sarò per me, chi mai sarà per me? Ma se sarò solo per me, chi mai sarò? E se non ora, quando?».
La massima di Hillel, uno dei padri dell’ebraismo, si può immaginare abbia uniformato di sé la vita intera di
Rabin come la sua azione di statista. C’è dentro l’orgoglio rischioso dell’autostima, l’urgenza del fare, la
responsabilità del fare bene per tanti. C’è dentro, per come molti hanno imparato a conoscere questa frase da
Primo Levi, il senso incombente di una tragedia, la tragedia storica e politica che sabato si è compiuta201.

198
U. DE GIOVANNANGELI, Gli estremisti prigionieri della memoria, in «l’Unità», 14 dicembre 1994, p.6.
199
Abraham Yehoshua (1936) è uno scrittore, drammaturgo e accademico israeliano.
200
U. DE GIOVANNANGELI, Ultrà sedotti dalla grande Israele, in «l’Unità», 11 dicembre 1994, p.14.
201
C. SERENI, Shalom a te mia cara Lea, in «l’Unità», 6 novembre 1995, p. 4.

79
Il ritratto storico di Rabin proposto dalla sinistra italiana era improvvisamente mutato: il
generale non era più un crudele colonizzatore, ma un brillante stratega; il ministro della
Difesa non era più lo spietato domatore dell’intifada che ha ordinato di spezzare gambe e
braccia a i bambini, ma colui che ha saputo trarre - dietro quella brutale ma necessaria
repressione - le necessarie riflessioni politiche: «Rabin l’ha fatto: con Shimon Peres ha capito
che dopo l’intifada l’unica via praticabile per dare un futuro ad Israele era la pace. E l’ha
costruita. Questo era l’uomo»202.
Anche da coloro che, da sinistra, ne avevano criticato la mancanza di coraggio,
l’atteggiamento troppo prevenuto verso i suoi interlocutori palestinesi, l’ambiguità di chi si
sospettava non credesse fino in fondo nel progetto di una pace duratura, ora è descritto come
l’uomo dal coraggio straordinario, incarnazione dell’aspirazione di ogni israeliano a vivere
in una terra senza violenza:

Abbiamo camminato insieme a lui, di fronte a lui, scorgendo in lui la nostra immagine. Dopo alcune cadute,
Rabin ha cominciato a risalire la china. Questa svolta fatta negli ultimi anni, ha significato un ritorno all’essenza
di quell’israelianità che non era sbiadita: conteneva la potenzialità per uno straordinario movimento, oltre alla
fedeltà all’interesse più intrinseco a Israele e al popolo ebraico e un coraggio eccezionale. Rabin non ha solo
cambiato i propri fondamenti politici: ha mostrato a tutti che non dobbiamo essere vittime delle nostre paure,
dei nostri pregiudizi, dell’educazione che ci è stata impartita. Si è ripreso come un leone, avendo la meglio
soprattutto su sé stesso, su un’ideologia rigida e sclerotizzata, grossolana oltre che basata sulla forza 203.

Ora, dopo la sua morte, si vede in lui il politico capace di rappresentare i valori più
profondi di un intero popolo, improvvisamente redento agli occhi del mondo insieme al suo
leader:

Volle in ogni modo credere che la pace era possibile e agì con determinazione perché dopo decenni di conflitti
e di guerre ebrei e palestinesi si riconoscessero reciprocamente e costruissero insieme le ragioni di una
convivenza necessaria a entrambi. E al tempo stesso egli era consapevole di quante inquietudini, quante
angosce, quante antiche paure quella pace suscitasse nell’animo e nella mente di un popolo, gli ebrei, segnato
nei secoli dalla sofferenza, dalla negazione, dalla diaspora, dall’Olocausto. Per questo in tutta la sua vita egli
fu straordinariamente teso a fondere le ragioni irrinunciabili di Israele e del suo popolo con i valori di
solidarietà, di fratellanza, di liberazione umana di quel sionismo socialista a cui fin da giovane aveva aderito.
[…] Rabin era un laburista che parlava ai moderati e ai conservatori. Era un laico e un socialista capace di
ascoltare le istanze del mondo religioso e da esso di farsi ascoltare. Era un militare capace di comprendere le
ragioni della società civile. Era un ebreo tanto orgoglioso della propria identità quanto consapevole della
necessità di riconoscere i valori della identità altrui204.

202
M. EMILIANI, Dalla guerra all’intesa con l’Olp, in «l’Unità», 5 novembre 1995, p.2.
203
D. GROSSMAN, Con lui è morto l’ebreo nuovo, traduzione di S. Kaminski e M. Marianetti, in «la
Repubblica», 6 novembre 1995.
204
P. FASSINO, È stato ucciso perché aveva tracciato una via irreversibile, in «l’Unità», 6 novembre 1995, p.6.

80
La sua morte viene assimilata a quella dei grandi uomini politici che subirono la stessa
sorte, quella di una morte in diretta che spezza il sogno di un cambiamento, che manda in
frantumi in un attimo le speranze che milioni di persone avevano riposto nel progetto politico
di un leader coraggioso, che si è consuma davanti agli occhi increduli di una generazione
che aveva sognato, lottato e amato per inseguire il miraggio di una svolta possibile:

Muore Rabin, ucciso a colpi di fucile. La sua morte somiglia a quella di Sadat, dei Gandhi, dei Kennedy, di
Palme, di Moro. Vengono eliminati quegli uomini politici che «possono cambiare», che sono in grado di far
fare strappi violenti ai loro Stati, alla storia dei loro popoli. Muoiono i veri riformatori, gli uomini cerniera,
coloro che, con il coraggio della politica più che con l’ardire delle parole, cambiano il corso della storia. Sono
loro i veri rivoluzionari, quelli a cui guerrafondai ed estremisti, conservatori e fondamentalisti non consentono
di vivere. Uccidere loro significa far fare, alle rivoluzioni della pace e della non violenza, un brusco salto
indietro. C’è da augurarsi, per la pace raggiunta in Palestina e per il futuro del popolo di Israele, che questa
volta la ragione e la volontà siano più forti dei colpi di fucile che hanno ucciso un grande statista, un uomo
coraggioso che si chiamava Yitzhak Rabin205.

Tutte le testate riferirono con dovizia di particolari le reazioni di sconcerto che la morte
di Rabin aveva provocato anche nel mondo arabo favorevole al processo di pace: «La
Giordania si associa al dolore di gran parte del mondo per la morte di Rabin. Sua Maestà ha
lavorato con Rabin per la pace ed ora sente nella morte del primo ministro una perdita
personale. Ecco perché vuole esprimere personalmente le sue condoglianze al popolo ed al
governo di Israele così come ai familiari del premier scomparso»206.
In termini analoghi riportarono il dolore di Arafat e quello di tutti i palestinesi che
avevano creduto a una possibile convivenza con Israele:

Sono molto addolorato e molto sconvolto per questo orrendo crimine contro uno dei leader coraggiosi di Israele
e uno degli uomini di pace. Un uomo che ha voluto la pace e che per essa ha perso la vita. Spero che avremo
la capacità tutti noi, israeliani e palestinesi, di superare questa tragedia contro il processo di pace e contro
l’intera situazione in Medio Oriente. Non sono solo le mie condoglianze ma quelle del popolo palestinese 207.

Per una vita Yitzhak Rabin ci ha combattuto come militare e ministro della Difesa negli anni della Intifada. Ma
poi ha avuto il coraggio che solo i grandi statisti posseggono: ha saputo rivedere criticamente il passato,
comprendere le ragioni del popolo palestinese, imboccare decisamente la strada della pace pur sapendo che
avrebbe scatenato la reazione di quella parte di Israele, minoritaria ma agguerrita, imbevuta di fanatismo
religioso. Era un uomo, un leader leale, onesto, a volte ostinato, ma quando l’accordo era raggiunto sapevi che
avrebbe mantenuto la parola fino in fondo. Questo era per noi palestinesi Yitzhak Rabin e per questo ci
inchiniamo alla sua memoria208.

Ma più di ogni altra considerazione, quello che impressionò gli osservatori e quanti
avevano una conoscenza non superficiale della società israeliana, fu il fatto che a colpire

205
W. VELTRONI, Il prezzo del coraggio, in «l’Unità», 6 novembre 1995.
206
U. DE GIOVANNANGELI, Arafat solo piange l’amico, in «l’Unità», 5 novembre 1995, p.5
207
Ibid.
208
U. DE GIOVANNANGELI, Noi palestinesi aiuteremo Peres e la pace. Intervista a Hanna Siniora, dirigente
OLP, in «l’Unità», 6 novembre 1995, p.5.

81
fosse stata una mano ebrea, un figlio di Israele che, come in una sorta di parricidio, aveva
colpito colui che considerava un traditore e un nemico. Perché quella di Rabin è stata per
molti una morte annunciata, che era stata già minacciata nelle piazze delle manifestazioni
dell’ultradestra, invocata da certi rabbini e sperata da alcuni coloni della Cisgiordania
timorosi di perdere la terra che avevano guadagnato e difeso.

Tutti in Israele sapevano dell’intransigenza dei coloni ebrei, del loro fanatismo messianico, del loro porsi al di
sopra delle leggi e della Storia, della loro ostilità ormai incontrollabile al processo di pace avviato con gli arabi
e coi palestinesi: ma Israele, fino alla morte di Rabin, ha rifiutato di ammettere di aver coltivato nel proprio
seno il seme dell’odio fratricida. L’odio era appannaggio dell’altro, dell’arabo, del palestinese, che da sempre
avevano ostacolato la nascita dello Stato ebraico. Col suo assassinio per mani ebraiche, Israele – si è detto – ha
perso la sua innocenza, è diventato un paese come tutti gli altri, non speciale, non al di sopra delle leggi umane,
non eletto. Caino è cittadino del mondo, anche di Israele209.

Con la morte di Rabin sembrò dunque essere calato il velo che lo stesso Israele si era
creato e dopo quarantasette anni dalla sua creazione lo stato ebraico usciva dal mito di sé,
che si era costruito in virtù della sua epopea eroica, e cominciava a conoscersi nelle sue
debolezze più intime.

Israele si specchia negli occhi di Yigal Amir e si ritrae spaventato. Poiché quegli occhi riflettono la parte di sé
che fa paura, retaggio di un passato opprimente che non può più essere esorcizzato; il fanatismo messianico,
l’odio verso tutto ciò che può opporsi al compimento della propria «missione», una visione distorta e manichea
del rapporto tra il popolo ebraico e ciò che lo circonda, una politica che trasforma l’avversario in un nemico da
linciare. […] quello di Yigal Amir e dei suoi complici è stato un duplice delitto: contro la persona del primo
ministro, ma anche contro ciò che nel corso di cinquanta anni di vita è stato alla base del sentire comune di un
popolo; la memoria dell’Olocausto. Quello ebraico è un popolo che ha perso sei milioni di vite nei campi di
sterminio nazisti. Una ferita ancora aperta. Su quel sangue era nato un giuramento: nessun ebreo deve mai
essere responsabile dell’allungamento di quella sterminata catena di morti. Questo giuramento ha rappresentato
la forza d’Israele, il suo collante morale. Quelle pallottole sparate contro Rabin hanno anche distrutto questa
certezza210.

Insieme a Rabin sembrò andarsene la incrollabile percezione che di sé avevano fino a


quel momento gli ebrei di Israele: indipendenti, fieri, uniti contro il nemico:

La vita in Israele è una vita di eterna violenza. Il paese è nato in guerra e con il terrorismo. La violenza era
parte integrante dell’essere sabra; ma forse l’israeliano non è mai riuscito a far assorbire dentro di sé questa
parte della sua identità. Se più israeliani fossero stati in grado di risolvere questa contraddizione interna, di
capire quanto era perniciosa quella forma d’intossicazione causata dall’uso della forza, allora vivremmo già da
tempo in una realtà politica e sociale differente; allora ieri, al culmine di un glorioso e solenne terzo atto in cui
Rabin sentiva l’affetto e il sostegno di gran parte del popolo israeliano, la pistola nascosta in noi fin dal primo
atto non avrebbe sparato. Rabin aspirava ad un profondo cambiamento, malgrado per tanti anni fosse stato lui
stesso parte di quella realtà di violenza e di uso della forza. Purtroppo quella violenza si è insinuata in tutti i
tessuti della nostra vita, sociale e privata. Il suo assassinio è una metastasi di quell’uso della forza, di quell’odio,
dell’abominio e della crudeltà con cui per anni ci siamo confrontati, non solo verso i nostri nemici, ma anche
verso noi stessi. Siamo giunti al punto che a volte sembra che non esista posto al mondo in cui noi israeliani
siamo detestati come nel nostro paese, per le nostre strade, spiagge e piazze. L’iniziativa di Rabin era

209
M. EMILIANI, La straordinaria eredità di Yitzhak, in «l’Unità», 31 dicembre 1995, p.12.
210
U. DE GIOVANNANGELI, Non faranno di Israele un Iran ebraico. Intervista a Abraham Yehoshua, in
«l’Unità», 12 novembre 1995, p.13.

82
sostanzialmente destinata a far sì che finisse la violenza fra noi e i nostri nemici, ma anche a curare noi stessi
da quel male che prudentemente chiamerò “sindrome israeliana”: odio interiore, costante tensione nervosa,
pulsione assassina. […] Ormai non si tratta più di una lotta nazionale fra noi e i nostri avversari: lo scopo del
processo di pace non è più l’indipendenza e l’autonomia per i palestinesi. Ora comincia la lotta per l’identità,
per il futuro e la vera indipendenza di noi, israeliani211.

Anche le esequie di Stato celebrate sul Monte Herzl a Gerusalemme, furono seguite con
grande interesse, perché si vide il Gotha del potere mondiale che appoggiava con la propria
presenza un processo di pace tanto tormentato quanto prezioso, che la morte di uno dei suoi
promotori principali avrebbe potuto compromettere o ritardare. Tra tante kippah nere, posate
in segno di lutto e di empatia anche su numerose teste non ebree e alcuni copricapi beduini,
il governo israeliano riceveva, attraverso l’omaggio reso al suo primo ministro defunto, un
eccezionale sostegno internazionale:

La rivincita postuma del premier assassinato è stato uno spettacolo senza precedenti per il Medio Oriente, e in
egual misura uno spettacolo d’altri tempi per i toni cavallereschi e le lacrime versate. […] Ho cercato invano
nelle prime file i capi della destra israeliana, quelli che non hanno saputo calmare gli animi, quando nei loro
comizi gli estremisti gridavano “A morte Rabin”. Forse erano dispersi, nascosti, tra le migliaia di personalità
presenti al funerale. Gli incoraggiamenti a proseguire il processo di pace lanciati durante la cerimonia erano
altrettante sberle per loro che lo contestano, anzi spesso lo denunciano come un tradimento. La rivincita
postuma di Rabin è stata completa212.

Tutte le testate, quelle di sinistra in modo particolare, indugiarono nel descrivere


abbigliamento, atteggiamenti e impressioni dei rappresentanti di più di ottanta paesi che
parteciparono alle esequie. Gli undici discorsi che si tennero durante il rito funebre vennero
riportati fedelmente e senza commenti da tutti i giornali, dando però un risalto maggiore a
quelli che avevano avuto un impatto emotivo più immediato e riservando solo alcuni stralci
a quelli più cerimoniosi come quello del segretario dell’ONU Butros Ghali o del primo
ministro spagnolo Felipe Gonzales che rappresentava l’Unione Europea.
Grande spazio si concesse invece alle parole commosse dei leader arabi,
straordinariamente riuniti a Gerusalemme, il presidente egiziano Mubarak e soprattutto il re
di Giordania Husayn, che aveva visto suo nonno morire assassinato a Gerusalemme, sul
Monte del Tempio, quarantaquattro anni prima, scampando lui stesso alla morte per un
soffio, e ora, ritornava nella città di cui il generale Rabin si era impossessato per piangere il
l’operatore di pace Rabin, il leader divenuto un alleato:

Hai vissuto da soldato, sei morto come un soldato, per la pace. E io credo che sia venuto il momento che tutti
noi ci esprimiamo apertamente a favore della pace, non solo qui e oggi, ma per tutto il tempo a venire.
Apparteniamo al campo della pace. Crediamo che il nostro unico Dio desideri che viviamo in pace e auspichi

211
D. GROSSMAN, Con lui è morto l’ebreo nuovo, tr. it di S. Kaminski e M.Marianetti, in «la Repubblica», 6
novembre 1995.
212
B. VALLI, La sedia vuota di Arafat, in «la Repubblica», 7 novembre 1995.

83
per noi la pace. Non restiamo in silenzio. Leviamo alta la nostra voce per proclamare il nostro impegno per la
pace per tutto il tempo a venire e diciamo a quelli che vivono nell’oscurità, che sono i nemici della luce: è qui
che stiamo, questo è il nostro campo di battaglia213.
Tutte le testate diedero enorme risalto alla assenza forzata del capo dell’Olp Arafat,
costretto per motivi di sicurezza a restare a Gaza:

Mancava però sul Monte Herzl uno dei massimi protagonisti del processo di pace: il palestinese Yasser Arafat.
La sua faccia addolorata spuntava ad ogni momento sui teleschermi. La sua voce ripeteva con insistenza
ossessiva le condoglianze per Lea, la moglie di Rabin, e per l’intero popolo israeliano, e gli auspici per un
dialogo costruttivo con Peres. Più Arafat compariva e parlava in diretta da Gaza, più ci si rendeva conto della
sua assenza sul Monte Herzl. Ed era questa una delle ragioni del senso di incertezza, che a Gerusalemme
assume spesso una consistenza atavica, probabilmente in contrasto con le tante certezze fideistiche arroccatesi
nei millenni tra chiese, moschee e sinagoghe. Incerti, contesi, sono i diritti ereditari spirituali e materiali, incerti
sono i confini concreti tra le comunità, per non parlare delle sovranità rivendicate su Gerusalemme come
capitale. L’incertezza è incrostata nelle sue mura perenni. Sul Monte Herzl c’era un ennesimo e lampante
esempio. Si celebrava la morte eroica di un combattente per la pace ma il suo principale interlocutore, senza il
quale il processo di pace si fermerebbe, era assente. Il capo palestinese che accetta il dialogo, e che per questo
rischia di fare la fine di Rabin, non può inchinarsi davanti alla sua bara, benché si trovi a un’ora di automobile
dal luogo del funerale. Per motivi di sicurezza e di opportunità la sua presenza era impossibile. Che siano stati
gli israeliani a sconsigliarlo o a non volerla, o che sia stato lo stesso Arafat a decidere di restare a casa, ha
scarsa importanza. Quell’assenza illustra la situazione. Re Hussein sì, Arafat no214.

3.5 La memoria mitizzata

Da quel 4 novembre di venticinque anni fa ogni anno la stampa italiana celebra la


memoria di Rabin attraverso il ricordo dei suoi familiari, collaboratori e testimoni del suo
assassinio. Il suo ricordo è sempre associato ad una morte eroica, ad un sacrificio estremo,
una sorta di immolazione in nome della pace. I trionfi militari nelle guerre combattute per la
terra di Israele, i compromessi politici, lo scandalo dei conti correnti, l’inimicizia con Peres,
l’odio per i nemici di Israele, la repressione delle rivolte, tutto questo ormai è dimenticato,
sepolto dal solo ricordo dell’uomo di pace, del soldato che si è battuto per un sogno, quello
di vedere i figli dei suoi figli, come recita uno dei Salmi più conosciuti215, vivere in una terra
senza guerra e in un Paese dove a governare fosse una legge di coesistenza pacifica e di
accoglienza dell’altro.
La domanda che più di ogni altra ci si pone ad ogni consultazione elettorale è se i
cambiamenti avvenuti in Israele da quel 4 novembre (la vittoria delle destre, la ripresa del

213
U. DE GIOVANNANGELI, L’abbraccio dei leader arabi, in «l’Unità», 7 novembre 1995, p.2.
214
B. VALLI, La sedia vuota di Arafat, in «la Repubblica», 7 novembre 1995.
215
«Ecco com'è benedetto l'uomo che teme il Signore. Ti benedica il Signore da Sion. Possa tu vedere il bene
di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita! Possa tu vedere i figli dei tuoi figli! Pace su Israele!» (Sal 128
(127), 4-7.

84
terrorismo, il ritiro israeliano dai territori, la costruzione del muro di separazione) abbiano
progressivamente allontanato quel sogno oppure se esso resista, magari nascosto dalla paura
che da sempre accompagna la vita di chi abita questo paese:

Dopo tre anni di tentativi da parte di Rabin e Peres di condurre il paese verso un futuro diverso, verso un tempo
di pace, è diventato evidente che la testa si protende in avanti, ma il corpo resta con i piedi ancora ben piantati
nella sabbia. Rabin in un momento ben preciso della sua vita, ha lanciato lo sguardo più avanti degli altri, ha
deciso che Israele era abbastanza forte per correre il rischio insito nel processo di pace e ha stretto la mano ad
Arafat. I suoi occhi guardavano avanti. Rabin era consapevole che il perdurare dell’occupazione e del conflitto
minacciava di minare il paese dall’interno. Aveva capito che era giunta l’ora del cambiamento e sperava che
la sua gente fosse pronta a questo passo, che lo avrebbe appoggiato. Ma Rabin non ha visto quello che gli
accadeva alle spalle. La violenza e l’odio, l’aggressività e la ferocia, da tempo divenuti i principali componenti
del rapporto fra Israele e i paesi vicini, sono filtrati tra la gente e ormai nel cuore, nel tessuto vitale d’Israele.
Nel corso della giornata, se verrà confermata la vittoria della destra, si constaterà che, per la società israeliana,
l’intervento chirurgico cominciato da Rabin probabilmente è arrivato troppo tardi216.

Gli osservatori si chiedono quale eredità politica abbia lasciato Yitzhak Rabin dato che la
sinistra israeliana fatica a riprendersi dalla ferita aperta dall’assassinio del suo leader e dalla
successiva sconfitta elettorale, determinata dalla paura che ha attanagliato l’opinione
pubblica a seguito dell’ondata di attacchi terroristici scatenata dagli integralisti palestinesi.
I corrispondenti dal Medio Oriente delle varie testate sono tutti concordi nell’affermare che
sia stato l’orrore per i civili inermi massacrati da Hamas a scatenare la reazione di chiusura
di una parte della società israeliana, quella parte che non aveva pregiudizi ideologici nei
confronti di una intesa con i palestinesi, insieme certo agli errori della sinistra israeliana che
non ha voluto o saputo inchiodare alle proprie responsabilità la destra, svelandone la
pochezza progettuale.

L’eredità di Rabin consiste nel riconoscere che non vi sono alternative al compromesso territoriale con i
palestinesi. La forza di Rabin stava nel realismo che ispirava la sua azione: lui aveva combattuto per una vita
gli arabi, e proprio perché aveva conosciuto la guerra in ogni sua piega, era stato creduto da Israele, o almeno
dalla sua maggioranza, quando aveva stretto la mano a Yasser Arafat. Il realismo aveva avuto la meglio sulle
suggestioni messianiche di cui era imbevuto il revisionismo sionista caro alla destra ebraica. Per questo era
entrato nel mirino degli oltranzisti: non perché minacciava la sicurezza d’Israele ma per aver osato intaccare
disegni espansionistici giustificati in nome della Torah. […] L’assassinio di Rabin ha traumatizzato tutto
Israele, anche la sua componente di destra. Una parte della quale ha avviato una seria autocritica per la
propaganda selvaggia fatta a suo tempo contro Rabin. Questa parte della destra ha capito di non poter cavalcare
impunemente il fanatismo nazionalreligioso ed oggi si trova di fronte alla necessità di reprimere le frange più
estreme. Con questa destra è possibile trovare un punto d’intesa. Diverso è il discorso con gli integralisti
ebraici: costoro rivendicano con orgoglio l’assassinio di Rabin e rappresentano una minaccia mortale per
Israele217.

Sono in molti a pensare che l’assassino di Rabin sia riuscito nell’intento di uccidere,
insieme al primo ministro, anche la possibilità della pace che lui aveva perseguito con

216
D. GROSSMAN, L’angoscia nel cuore, in «la Repubblica», 31 maggio 1996.
217
U. DE GIOVANNANGELI, L’eredità di Rabin non è perduta, in «l’Unità», 5 novembre 1996, p.15.

85
convinzione. Alcuni si chiedono come possano proseguire i negoziati senza la sua presenza
autorevole e rassicurante e quale sia concretamente la soluzione praticabile per risolvere il
conflitto territoriale in Palestina dopo che gli Accordi di Oslo sono stati di fatto inattuati. La
soluzione dei due stati che appariva lontana ma possibile quando Rabin era in vita, sembra
ormai tramontata e lo stallo in cui versa la trattativa non permette di individuare soluzioni
realmente attuabili.

L’ipotesi di due Stati in Palestina mi sembra definitivamente abortita. Tra le due parti s’è infatti accumulato
troppo astio. […] Era una bella idea, quella di dividere in due questa terra travagliata. […] Sono sempre più
convinto che il naufragio di quella splendida visione è dipeso soltanto dalla morte di Rabin. I grandi
cambiamenti della storia non sono solo frutto di idee nobili e rivoluzionarie ma anche di uomini in grado di
farle valere. E non si tratta di uomini necessariamente più intelligenti di altri, ma di individui in grado di
guadagnare la fiducia della propria gente. Purtroppo, personaggi di quel calibro, ammirati da tutti, come furono
appunto Rabin e Arafat in passato, non esistono più né a Tel Aviv né a Ramallah 218.

Unanime è il pensiero che, anche se non esiste una “eredità Rabin” in Israele, quanto è
accaduto abbia tramandato qualcosa e questo lascito è individuabile nella lezione
dell’assassinio di Rabin, che ha lasciato veramente il segno in ogni strato della popolazione.
La grande maggioranza degli israeliani ha oggi ben chiaro il significato dell’atto terribile
dell’uccisione di un uomo per fermare il corso della storia e la volontà di centinaia di migliaia
di persone che lo avevano scelto.
In occasione del decimo anniversario dell’omicidio David Grossman scrive su
Repubblica:

Eravamo venuti in quella piazza a esprimere sostegno, a ringraziarlo dell’opportunità che concedeva a noi e ai
nostri figli, a incoraggiare il leader che per la prima volta, dopo un’infinità di anni, non solo diceva di volere
la pace ma agiva in tal senso. Avevamo la sensazione che Rabin aprisse per noi una finestra dalla quale
all’improvviso sarebbe entrata una ventata d’aria fresca, pura, foriera di una vita migliore, in cui non saremmo
stati costretti a impugnare la spada. […] Rabin è stato ucciso e con lui si è perso anche un senso di innocenza
che ancora esisteva qua e là nello stato ebraico, la speranza di una vita normale e serena, di un’esistenza civile
senza armi, aperta, tollerante che sembrava già a portata di mano. Come speravamo, allora, quella sera, in
quella piazza, di essere vicini alla conclusione del conflitto, di essere prossimi a una nuova era, più saggia e
sensata. Come eravamo ingenui mentre l’assassino si aggirava fra noi con la pistola in tasca 219.

Certo è anche il fatto che Rabin ha permesso alla società israeliana di infrangere il tabù
del dialogo con i palestinesi e ha dato il via a un processo di presa di coscienza che ha portato
molti israeliani a riconoscere il diritto dei palestinesi a convivere con loro. Quel muro
mentale è stato abbattuto e non è stato più possibile rialzarlo.
Abraham Yehoshua, intervistato da l’Unità dieci anni dopo la morte di Rabin afferma:

218
M. HALTER, La nuova violenza allontana la pace. Il mondo torni al sogno di Rabin, in «la Repubblica», 14
ottobre 2015.
219
D. GROSSMAN, Sharon oggi segue la sua strada ma la nostra innocenza ormai è perduta, in «la Repubblica»,
4 novembre 2005.

86
Rabin poté aprire un percorso di pace proprio perché aveva trascorso gran parte della sua vita a combattere i
nemici di Israele. E da generale avveduto, prima ancora che da politico lungimirante, aveva compreso che non
sarà con la sola forza del suo esercito che Israele conquisterà pace e sicurezza e un futuro da Paese normale. È
la pace dei generali quella che un giorno, spero non lontano, israeliani e palestinesi festeggeranno insieme. Una
pace fondata sul pragmatismo, sulla constatazione pragmatica che non vi è alternativa ad una convivenza tra
due Stati e due popoli in questo lembo di terra. Questa pace avrà il segno di Yitzhak Rabin 220.

220
U. DE GIOVANNANGELI, Rabin ci ha insegnato ad abbattere i muri, in «l’Unità», 12 novembre 1995, p.7.

87
CAPITOLO 4
IL SOGNO INFRANTO

4.1 Il fondamentalismo religioso contro la pace

«La realtà è che per troppi anni, l’estremismo religioso ha potuto proclamare gli
slogan del dovere, anche della violenza per la difesa di Eretz Israel, poggiando su una sorda
condiscendenza del potere politico. E nel tempo, il fondamentalismo ha finito per apparire
uno degli strumenti manipolabili della lotta per il governo»221.
Il primo a compiere passi concreti per cercare di orientare la società israeliana perché
fosse espressione di una nazione piuttosto che di una religione fu proprio Yitzhak Rabin e,
probabilmente, questo fu tra i più forti moventi del suo assassinio. L’omicidio di Rabin, in
effetti, maturò in un ambiente in cui si intrecciavano strettamente due esigenze: quella
esterna di trovare una soluzione al conflitto con il popolo palestinese, e quella interna di
trasformare in senso democratico il sistema dei partiti politici, cristallizzati su posizioni di
contrapposizione tra «noi ebrei» e «loro arabi» e anche su una falsa distinzione tra destra e
sinistra: entrambi gli schieramenti in realtà avevano previsto fino ad allora programmi che
prevedevano avanzamenti nel processo di pace e insieme un progresso altrettanto ardito
nell’espansione territoriale. Rabin iniziò invece reali riforme interne in relazione al sistema
scolastico, alla sanità e all’occupazione, costringendo entrambi gli schieramenti a
confrontarsi in modo pragmatico con problemi attuali e a rinnovarsi222.
A partire dalla sua morte, tuttavia, ci fu un evidente regresso, tale che portò sia il
Likud che il partito laburista a schierarsi nuovamente su posizioni ideologiche. La peculiarità
di Israele consisteva, allora come oggi, nella mancata definizione netta di questo rapporto
tra interno ed esterno, vale a dire che sono assenti quattro elementi istituzionali costitutivi
delle precondizioni fondamentali di ogni paese pienamente democratico: confini territoriali
certi, estensione della piena cittadinanza a tutta la popolazione sottoposta alle leggi statali,
separazione tra stato e religione, separazione tra potere politico e potere militare. Rabin tentò
di portare avanti contemporaneamente un processo di pace e uno di democratizzazione: la

221
M. CANDITO, Non lasceremo mai la terra del Signore, in «La Stampa», 8 marzo 1994.
222
J. HILAL, I. PAPPE, Parlare con il nemico, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, pp.44-83.

88
definizione dei confini esterni di Israele fu una meta dei negoziati di Oslo e avrebbe
preparato il terreno, se il processo fosse stato concluso, per l’esclusione dei militari dalla vita
politica, per la separazione tra stato e religione, e per una discussione sui diritti dei cittadini
palestinesi in Israele:

Gli ultrareligiosi si sono radicalizzati proprio perché hanno compreso che il processo di pace era di fatto legato
all’indebolimento dello statuto della religione ebraica in Israele – ponendo fine, con il riconoscimento dei pieni
diritti politici dei palestinesi e quindi della loro religione e della loro cultura – alla discriminazione in negativo
dei palestinesi e a quella in positivo della religione ebraica. L’assassinio di Rabin ferma sia il processo di pace
sia quello di democratizzazione, in realtà inscindibili l’uno dall’altro, e solo per caso il primo ministro è ucciso
nel luogo e nella circostanza in cui pace e democratizzazione si identificano – con una folla multietnica in una
manifestazione per la pace e contro la violenza sia dei coloni che degli estremisti islamici 223.

«Gli idealisti hanno visto infrangersi davanti ai loro occhi il loro ideale». Sono le
parole con cui il noto ideologo Dan Be’eri riassunse, sul periodico dei coloni della West
Bank, «Nekudah», lo stato d’animo della destra religiosa nei mesi che seguirono la stretta di
mano tra Rabin e Arafat sul prato della Casa Bianca224. Le parole di Be’eri ritraevano alla
perfezione le passioni accese nella destra politico-religiosa dai passi diplomatici compiuti da
Rabin, passioni che alimentarono proteste di massa e che spinsero Yigal Amir e i suoi
presunti complici a premeditare la morte del primo ministro. La politica di pace di Rabin
trovò opposizione in tutta la destra israeliana e i sondaggi mostrarono a sufficienza che
buona parte della pubblica opinione la rifiutava. «Politici laici, fra cui il leader del Likud
Benjamin Netanyahu, il parlamentare del Likud Ariel Sharon e altri ancora più a destra
dichiararono ad alta voce che l’accordo con l’Olp era pericoloso per Israele»225. Ma gli
attivisti che organizzavano dimostrazioni antigovernative, che bloccavano strade e lottavano
con la polizia, che invitavano i soldati a rifiutare futuri ordini di sgombrare i territori,
provenivano quasi esclusivamente dalle file dei sionisti ortodossi: coloni religiosi nei
territori occupati e loro sostenitori nel territorio vero e proprio di Israele.
La destra religiosa israeliana è tanto un movimento religioso – una corrente
particolare e peculiare sviluppatasi all’interno dell’ebraismo – quanto una parte politica che
comprende associazioni di coloni ortodossi e la maggior parte del partito nazionale religioso.
Nel loro credo si trovano l’idea dell’imminenza della fine del mondo e la certezza che un
dominio ebraico sulla terra di Israele sia un passo indispensabile verso la redenzione finale.

223
L.L. GRINBERG, La pace dirottata. Assassinio di Rabin, democrazia e piattaforma del dopoconflitto, in
Parlare con il nemico, a cura di J. Hilal e I. Pappe, Bollati Boringhieri, 2004, p.83.
224
Jerusalem Report, Shalom, Amico., a cura di D. Horowitz, Giuntina, Firenze, p.154.
225
Ibid.

89
L’avere Israele accettato di cedere agli arabi il controllo di parte della patria ebraica metteva
in pericolo i princìpi della fede e non solo la sicurezza del Paese. Era certamente un atto
contro Dio226.
L’ideologia di quasi tutta la destra religiosa ha le sue radici nei corposi scritti di
Avraham Yitzhak Kook227, un rabbino originario della Lituania, divenuto sionista prima
della fine dell’800, approdato poi in Palestina nel 1904. Tra i febbrili movimenti politici
dell’ebraismo dell’Europa orientale di quegli anni, il sionismo fu uno dei tanti movimenti
laici, come il socialismo, che rifiutavano l’impostazione religiosa tradizionale, in quanto
incapace di metter fine alla sofferenza ebraica, e cercavano di sostituirla con un programma
politico. La maggior parte dei rabbini ortodossi disprezzavano i sionisti come eretici che
sfidavano Dio cercando di porre fine all’esilio degli ebrei dalla loro terra senza attendere la
venuta del Messia promesso dai profeti.
Per giustificare il suo sionismo Kook fuse Cabbalah228 e nazionalismo di stile
europeo in un messianismo mistico. Per Kook, il fatto che gli ebrei stessero organizzandosi
per tornare nella loro terra era la prova che la redenzione divina era realmente iniziata. I
sionisti laici, i pionieri che avevano cominciato a emigrare dall’Europa verso la patria
biblica, coltivando la terra e costruendo nuove città stavano realizzando la volontà divina
senza saperlo. Kook fornì agli ebrei ortodossi un motivo per unirsi al movimento sionista,
per cooperare con i pionieri contrari alla religione e per considerare il lavoro fisico e
l’educazione moderna come obblighi religiosi. La sua ideologia si rifaceva al misticismo
ebraico classico, ma al contempo affermava una fede ottocentesca nel progresso umano e
rivelava quella concezione fiduciosa nell’inarrestabile progredire della storia, popolare tra i
radicali di sinistra del tempo.
Nel 1921 Kook divenne il primo rabbino capo della comunità ashkenazita
(dell’Europa orientale) in Palestina, allora mandato britannico, e alcuni anni dopo fondò a
Gerusalemme una sua yeshivah (accademia rabbinica): Merkaz Harav. Dopo la sua morte
nel 1935, il suo posto venne preso dall’unico figlio, il rabbino Tzvi Yehudah Kook229, vissuto
fino al 1982. Questi privilegiò l’aspetto nazionalistico rispetto a quello universalistico della

226
cfr. L. CREMONESI, E nella biblica Samaria i coloni preparano la loro «Oas», in «Corriere della Sera», 10
marzo 1994, p.9.
227
Z. YARON, The Philosophy of Rabbi Kook, New York, Eliner Library, 1992.
228
Termine ebraico (che significa «ricezione» e parallelamente «tradizione») designante il complesso delle
dottrine esoteriche e mistiche dell'ebraismo. Le dottrine della qabbalah sono esposte in un enorme complesso
di scritti (si calcola che possano essere due o tremila), in un numero ancora maggiore di manoscritti e in un
vastissimo patrimonio di tradizioni orali. (cfr. Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, 1981).
229
Zvi Yehuda Kook (1891-1982), rabbino ed educatore, leader del movimento sionista religioso.

90
filosofia paterna. Dopo l’indipendenza di Israele (1948) i rabbini capo del nuovo stato
adottarono una «preghiera per lo stato» che definiva Israele «il primo fiore della nostra
redenzione».
Nel frattempo il sionismo religioso era diventato una minoranza di un certo peso
dentro il movimento sionista. I sionisti ortodossi, seguendo l’esempio dei loro colleghi laici,
fondarono una manciata di kibbutzim ortodossi, un sindacato, un loro sistema scolastico e
un movimento giovanile: Bnei Akivà. Nella leadership sionista e poi nel nuovo stato i loro
rappresentanti politici (che alla fine si uniranno a formare il Partito Religioso Nazionale)
erano in una posizione di costante inferiorità rispetto al movimento laburista dominante.
«Ma i sionisti religiosi soffrivano di un duplice complesso di inferiorità: da un lato
gli ebrei ultraortodossi, ancora contrari al sionismo, li consideravano di seconda classe per
quanto riguardava lo studio e l’impegno religiosi, dall’altro, come creatori dello stato essi
avevano avuto un ruolo certamente non di primo piano»230.
La filosofia di Kook non era l’unica entro il sionismo ortodosso, ma col passare del
tempo i diplomati di Merkaz Harav acquisirono sempre maggiore influenza nelle scuole
religiose e nel Bnei Akivà. La svolta si ebbe con la improvvisa, straordinaria vittoria, a opera
di Rabin, nella Guerra dei Sei giorni. Il trionfo suscitò un senso di euforia in molti israeliani,
ma per i sionisti religiosi, la gioia fu ancora più profonda: era accaduto un miracolo divino
che non poteva non accadere: il cuore della terra sacra che Dio aveva promesso ad Abramo
– Hebron, le colline di Samaria, la città vecchia di Gerusalemme – era ritornato sotto il
dominio di Israele. Non ci poteva essere segno più evidente di quella vittoria del fatto che il
cammino messianico stesse avanzando.

Poco dopo la guerra, un seguace di Kook in una riunione con i membri del governo ortodossi disse: - Credo
con perfetta fede che Iddio, benedetto Egli sia, ci abbia dato la terra per mezzo di miracoli evidenti. Egli non
ce la ritoglierà mai, perché non compie miracoli invano. L’integrità della Terra di Israele non dev’essere
soggetta alle decisioni del governo -. Più che un’affermazione di carattere politico che negava il diritto del
governo a recedere dal territorio appena conquistato, era una dichiarazione di certezze teologiche, che negava
la possibilità per il governo di cedere la terra. Ma le implicazioni politiche erano evidenti. 231

Dal punto di vista ideologico, tutte le pedine erano già sulla scacchiera, anche se
sarebbe dovuto passare un altro quarto di secolo prima che un governo israeliano decidesse
effettivamente di uscire dalla West Bank. La risposta teologica alla Guerra dei Sei giorni
divenne rapidamente un programma di azione: colonizzare i territori recentemente «liberati».

230
Jerusalem Report, Shalom Amico, Giuntina, Firenze, p.370.
231
ivi., p.374.

91
Pochi mesi dopo la guerra gruppi di coloni fondarono i kibbutzim di Kfar Etzion e di Kiryat
Arba sulle colline di Hebron. Questi insediamenti divennero la culla dell’estremismo dei
coloni che, poco prima che Rabin diventasse primo ministro nel 1974, formarono il Gush
Emunim (Blocco dei credenti) che avrebbe causato a Rabin una delle sue più cocenti
sconfitte. La politica di Rabin vietava gli insediamenti sulle colline di Samaria della west
Bank settentrionale, nella speranza di poter restituire agli arabi, nel corso di una trattativa di
pace, questa zona ad alta densità araba.
Fin dall’estate 1974 però, i capi del Gush Emunim guidarono centinaia di sostenitori
in una serie di tentativi di stabilire un insediamento ebraico presso Nablus. Ogni volta le
truppe li respinsero, finché nel dicembre 1975, non volendo arrivare allo scontro con migliaia
di sostenitori del Gush barricati in una stazione ferroviaria abbandonata di Sebastia, Rabin
acconsentì a far entrare trenta famiglie. Questa sconfitta ebbe un effetto negativo sulla futura
politica di Rabin per la West Bank e danneggiò la sua immagine di leader.
Il partito nazionale religioso abbandonò la sua tradizionale alleanza col partito
laburista e si spostò costantemente verso la destra. Nelle scuole rabbiniche del Gush i rabbini
predicavano l’integrità della terra d’Israele come principio di fede. L’ascesa al potere della
destra nel 1977 apparve un altro dono del cielo. I governi Likud di Begin e Shamir ebbero
come guida l’ideologia di Ze’ev Jabotinsky232 che sosteneva il diritto storico degli ebrei a
possedere l’intero territorio di Israele. Si impegnarono a mantenere un controllo permanente
di Israele sulla West Bank e sulla striscia di Gaza e gli insediamenti germogliarono uno dopo
l’altro, grazie a generosi aiuti del governo. Migliaia di aderenti al Gush Emunim si
trasferirono nei territori, cui dettero il nome di Yesha, l’acronimo ebraico di Giudea, Samaria
e Gaza, che significa «salvezza». Il Likud fece anche costruire dei grandi quartieri nella West
Bank, in aree limitrofe a Tel Aviv e Gerusalemme, attirandovi gli abitanti con alloggi a basso
costo.
Ma l’alleanza si rivelò più instabile del previsto. Il Gush considerò l’accordo stipulato
da Begin di restituire l’intera penisola del Sinai all’Egitto e la sua proposta di una limitata
autonomia palestinese nella West Bank un’inaccettabile rinuncia al controllo ebraico di tutta
la terra patria.
«Giudea e Samaria sono il centro dell’Israele storica, la Bibbia sta a testimoniarlo.
Nessuno potrà indurci ad abbandonarle adesso che sono tornate in mano nostra. Siamo prima

232
Ze’ev Jabotinsky (1880-1940), politico russo, tra i teorici del revisionismo sionista e fondatore
dell’Organizzazione per l’autodifesa ebraica a Odessa e tra i fondatori dell’Irgun.

92
di tutto un gruppo motivato da spinte ideologiche che si propone di perpetuare gli ideali dei
primi pionieri sionisti, ma rivendicando anche il valore della tradizione religiosa ebraica»233.
Alcuni attivisti dovettero essere espulsi con la forza dall’esercito e addirittura lo Shin
Bet scoprì un gruppo clandestino che cospirava per compiere attentati terroristici per far
saltare l’accordo di pace e interrompere il ritiro dal Sinai. I cospiratori di norma scontarono
brevi condanne dopo una serie di commutazioni della pena da parte del presidente Herzog.
Se la principale corrente della destra religiosa aveva mostrato un atteggiamento ambiguo
verso la violenza, i seguaci di Meir Kahane234 giunsero addirittura a renderla sacra.
Rabbino ortodosso nato in America, Kahane si trasferì in Israele nel 1971 e dette vita
da una teologia che rivoluzionava la fede ebraica consuetudinaria. Per lui, la reputazione di
Dio nel mondo esisteva solo in funzione della potenza ebraica. Se venivano uccisi ebrei,
sosteneva, Dio appariva debole; se essi erano forti, il potere di Dio si palesava. In un libro
del 1983 intitolato «Quaranta anni» Kahane espose la sua visione messianica. L’Olocausto,
scrisse, era stata la peggiore dissacrazione possibile del Nome di Dio, perché gli ebrei erano
stati vittime deboli. Quindi Dio aveva voluto lo Stato di Israele per provare al mondo la Sua
forza; aveva dato agli ebrei quaranta anni o «un po’ più o un po’ meno», per metterli alla
prova, perché creassero una teocrazia, «cacciassero gli arabi, purificassero il Monte del
Tempio» prima della Fine235.
Nel 1990 Kahane fu ucciso e i suoi discepoli si divisero in due gruppi: il Kahane
Chai e il Kach. Uno dei rappresentanti del Kach era Baruch Goldstein, colui che nel 1994
uccise a Hebron ventinove palestinesi in preghiera sulle tombe dei patriarchi.
Al momento in cui Yitzhak Rabin ritornò ad essere primo ministro nel giugno 1992,
si stima che 105.000 israeliani vivessero nei territori occupati e un quarto di loro apparteneva
alla cultura del Gush Emunim. Non c’era stata solo l’elezione di Rabin, fautore di un
compromesso territoriale: il partito di estrema destra Tehiya, appoggiato da molti coloni,
non era riuscito ad entrare nella Knesset e il partito nazionale religioso, praticamente per la
prima volta, rimaneva fuori dalla coalizione governativa, segno di una comunità trovatasi
improvvisamente messa ai margini.

233
L. CREMONESI, Tra i pionieri di Israele tutti Bibbia e moschetto, in «Corriere della Sera», 13 maggio 1987.
234
Meir David Kahane (1932- 1990), è stato un rabbino e politico statunitense neutralizzato israeliano.
Propositore di una linea nazionalista favorevole all’ideale della Grande Israele e alla deportazione fuori
d’Israele di tutti i palestinesi.
235
cfr. R. FRIEDMAN, The Sayings of Rabbi Kahane, in «The New York Review of Books», 13 febbraio 1986.

93
Nel 1992 il governo Rabin congelò ogni costruzione finanziata dal governo nei
territori occupati per rispondere alle priorità di spesa che aveva promesso di modificare e
che rivelavano l’intenzione di scambiare la terra con la pace. Il vero terremoto avvenne con
l’annuncio degli accordi di Oslo nel 1993. Nonostante il documento temporaneo assicurasse
che gli insediamenti sarebbero stati conservati al loro posto, non c’era garanzia reale che
sarebbe rimasto così anche dopo l’accordo definitivo. L’opposizione reagì istericamente;
fin dall’inizio i suoi capi accusarono Rabin di mettere in pericolo il paese. Diverse rabbiose
manifestazioni si verificarono a intervalli di pochi mesi nei due anni successivi, nel tentativo
di Netanyahu di forzare il governo a indire nuove elezioni, ma nemmeno con il potente
supporto dei coloni riuscì a organizzare niente di più che una campagna permanente di
pressione sul governo. A galvanizzare la protesta fu invece il terrorismo palestinese che,
secondo i coloni, dimostrava che gli accordi di Oslo non avevano originato la pace con i
palestinesi e, cosa ancora più importante, evidenziava l’incapacità del governo che non
aveva saputo proteggere i suoi cittadini.

Tra noi e gli arabi è in corso una guerra all’ultimo sangue. Non c’è alternativa: o noi o loro. E la cosa grave è
che il governo Rabin si dimostra pronto a svendere il cuore della nostra patria per una falsa pace. Spera che noi
abbandoniamo Hebron e perciò non ci garantisce una difesa adeguata dal terrorismo arabo. Ecco perché
abbiamo deciso che è tempo di agire da soli. Ci difenderemo con ogni mezzo. Attaccheremo gli arabi, gli
incuteremo terrore, li costringeremo ad andarsene236.

Molti rabbini invocarono il tradimento e istigarono alla disobbedienza anche i


soldati. Dopo la strage di Hebron compiuta da Goldstein237, il governo mise fuori legge i
movimenti Kach e Kahane Chai e arrestò molti attivisti. Mentre i negoziati tra Israele e Olp
sull’autonomia della West Bank andavano per le lunghe, nel luglio del 1995 un gruppo di
quindici rabbini sionisti della destra religiosa diffuse una dichiarazione che divise
profondamente il paese, proclamando che l’abbandono delle basi nella West Bank
significava una minaccia alla vita degli ebrei e per questo i soldati religiosi avrebbero dovuto
rifiutarsi di prendere parte a qualsiasi operazione di questo tipo.

L’ex rabbino capo Avraham Shapira ha annunciato una decisione destinata a marcare la storia di Israele: è
vietato ad ogni ebreo prendere parte allo smantellamento delle basi militari in Giudea e Samaria e consegnarle
ai gentili, quali che essi siano. Per i rabbini le basi dell’esercito israeliano equivalgono ad altrettanti
insediamenti ebraici e pertanto non possono essere sradicate dalla Terra d’Israele. «La Bibbia proibisce di
cedere insediamenti ebraici ai gentili. E sarà bene che l’esercito cerchi di non dare ordini che sarebbero in

236
L. CREMONESI, Io colono in lotta contro tutti, in «Corriere della Sera», 6 marzo 1994.
237
Il massacro di Hebron fu una strage, compiuta il 25 febbraio 1994, nella città di Hebron ad opera di Baruch
Goldstein, membro della Lega di Difesa Ebraica, che uccise 29 palestinesi in preghiera nella moschea.

94
contrasto con la coscienza dei soldati religiosi. Sarebbe drammatico se dovessero trovarsi a scegliere tra la
disciplina militare e la fedeltà ai valori etici o morali propri dell’ebraismo»238.

Altri rabbini si chiesero pubblicamente se non fosse opportuno avvisare il governo


che rischiava di essere sottoposto a processo e punito in base alla legge sul din moser che
prevede la pena di morte nel caso che un ebreo consegni altri ebrei o le loro proprietà a un
oppressore239. Altre autorità rabbiniche decretarono che Rabin, per la legge ebraica, fosse un
din rodef, un aggressore di cui è necessaria la morte per preservare quella dell’aggredito240.
Da questo mondo veniva Yigal Amir. Era un colono della West Bank che viveva con
la famiglia a Neveh Amal. Amir era studente alla Bar Ilan University, un’università alla
periferia di Tel Aviv, «che aveva come obiettivo di promuovere il massimo rendimento sia
negli studi accademici che nel sionismo religioso, ma che aveva anche una certa reputazione
di essere un focolaio di attivismo politico di destra»241. Nel corso delle udienze che portarono
alla sua incriminazione Amir diede chiare e semplicistiche giustificazioni dell’omicidio,
mettendo in dubbio la legittimità del governo, negando il diritto degli arabi cittadini
israeliani ad avere un ruolo nella democrazia israeliana, insistendo sullo «spregevole
abbandono dei coloni» da parte di Rabin, bollando come irriducibili terroristi i palestinesi di
Arafat e invocava la legge ebraica a sostegno del suo assassinio.

Non l’ho fatto per bloccare il processo di pace, perché non c’è nessun processo di pace: è un processo di guerra.
Il mio scopo era di scuotere la pubblica opinione. la gente è indifferente di fronte al fatto che qui stanno
nascendo uno stato palestinese e un esercito di terroristi a cui si danno le armi, non certo per intenti pacifici.
Chiunque pensa che i terroristi ci proteggeranno sbaglia. e, secondo la legge religiosa, quando un ebreo
consegna la sua terra e il suo popolo al nemico, uno è obbligato a ucciderlo 242.

Evidentemente siamo di fronte ad una interpretazione della halakah243, non solo


assolutamente minoritaria rispetto a tutta la vasta gamma di gruppi presenti nell’ortodossia
ebraica, ma anche in aperto contrasto con l’impostazione laica e socialista del sionismo
originario. Esula dall’intento di questo lavoro analizzare nel dettaglio l’evoluzione del
pensiero politico sionista e israeliano. Mi limito solamente a rilevare che l’esito teocratico

238
F. NIRENSTEIN, I rabbini scomunicano la pace di Rabin, in «La Stampa», 13 luglio 1995.
239
Talmud babilonese. Bava Kamma 117 a: «È vietato consegnare ai pagani un ebreo, né la sua persona né i
suoi beni, anche se è malvagio e peccatore, anche se causa angoscia e dolore ai compagni ebrei. Chi consegna
un ebreo ai pagani non ha parte nell’aldilà. È permesso uccidere un moser ovunque si trovi. È persino permesso
ucciderlo prima che abbia consegnato un compagno ebreo».
240
R. SLATER, Rabin, 20 years after, Kotarim International Publishing, 2015, p.353.
241
id., p.356.
242
Ibid.
243
Halakah (‫)הלכה‬: Letteralmente “via” nel senso di “norma di comportamento”. Indica la parte normativa della
tradizione ebraica. Si contrappone alla Haggadah (‫ )הגדה‬in quanto vincolante e pratica. Costituisce
un’ortoprassi che si applica a ogni aspetto della vita. Le varie correnti dell’ebraismo contemporaneo (ortodossi,
conservatori, riformati) si differenziano precisamente in relazione all’ermeneutica dell’halakah.

95
del Gush Emumin presenta una vera e propria teologia politica244 che, paradossalmente è
caratteristica degli stati islamici nemici giurati di Israele. Molti hanno notato che ogni
teologia politica, in quanto tale, è altrettanto nemica della democrazia da un lato e
dell’innocenza della fede dall’altro.

Ostinatamente Yigal Amir ha proclamato d’aver ucciso in nome di Dio, sorridendo. Ma la halakha non gli
concede simile motivazione, e confondere come quel perduto ragazzo ha fatto il Giudaismo con l’idolatria
della Terra è lo stesso che ridurre la Bibbia al registro del catasto. […] Ho meditato sul destino di questo nostro
popolo che è capace di sottile delicatezza, amore e aspirazione alla bellezza e alla nobiltà, e nello stesso tempo
coltiva tra la sua migliore gioventù giovani capaci di assassinare premeditatamente e a sangue freddo. Quale
di queste due anime bibliche avrà il sopravvento nel nostro popolo?245.

4.2 Il Processo di pace dopo Oslo

La morte di Rabin simboleggiò la fine degli accordi di Oslo, che di fatto non
avviarono un reale e duraturo processo di pace. Oslo II segnò teoricamente una tappa
fondamentale nel processo di pace, poiché stabilì il ritiro israeliano dai territori conquistati
nel 1967, anche se inizialmente solo dai centri principali: Jenin, Nablus, Tulkarem, Kalkilya,
Ramallah, Betlemme, esclusa parte di Hebron che essendo luogo sacro anche per gli ebrei
era nodo cruciale e questione rimandata insieme a Gerusalemme. Nel gennaio del 1996,
inoltre, le prime elezioni libere palestinesi indette grazie agli accordi di Oslo II videro il
prevalere di Al Fatah e dunque la vittoria della linea moderata di Arafat, mentre Hamas e le
altre formazioni più estremiste boicottarono il voto.
«Un milione e centomila gli aventi diritto al voto, settecento i candidati, 88 i seggi da
attribuire nel Consiglio dell’Autonomia: sono le cifre «della speranza», di un sogno di libertà
coltivato da 28 anni»246.
La morte di Rabin colpì la società civile moderata israeliana sia laica che religiosa, i
palestinesi, gli occidentali, e pose Israele di fronte a dubbi laceranti sulla propria identità,
sulla stabilità della propria democrazia, sulla sanabilità delle molteplici fratture interne –
sinistra e destra, laici, religiosi e ultrareligiosi, askenaziti ed ebrei occidentali, borghesi e

244
Assumo la categoria di teologia politica nell’accezione precisata da Massimo Borghesi, secondo cui è
necessario distinguere tra teologia della politica (riflessione etico-politica ispirata da presupposti teologici) e
teologia politica (perfetta identificazione o fusione tra teologia e politica). Cfr. M. BORGHESI, Critica della
teologia politica, Marietti, Genova, 2013.
245
I. MAN, Il sionismo dei puri e l’idolatria della terra, 28 marzo 1996.
246
U. DE GIOVANNANGELI, Sfida elettorale in 700. Scendono in campo le donne, in «L’Unità», 3 gennaio 1996,
p.14.

96
proletari, ebrei, cristiani e musulmani –, sul valore del sionismo, sulla laicità dello Stato e
sul significato e le caratteristiche dello status di ebreo.

Ma ora per fare le due paci, con l’avversario palestinese e con sé stessi, bisogna saper essere eredi del
militarismo pacifista di Yitzhak Rabin. Ormai, che la pace con i palestinesi si debba fare è in fondo accettato
da tutti: esclusa forse, tra le tante tribù d’Israele, quella nazional-religiosa, che difende la ferrea mentalità del
ghetto e della persecuzione. È la tribù di quegli ebrei che seguirono malvolentieri Mosè fuori dall’Egitto,
volgendo indietro lo sguardo verso la sicurezza della schiavitù, per la paura di guardare avanti. […] Sarà più o
meno la terra da restituire, ma pace con i palestinesi si dovrà fare: Israele non si chiuderà nella fortezza
condannata di una nuova Masada. Forse sarà quasi più difficile fare la pace fra le tribù di Israele: perché lo
«Stato degli Ebrei» di Teodoro Herzl è diventato sempre più un melting pot, uno degli Stati più multietnici e
multireligiosi della terra. Una nuova America, più che un nuovo Israele, con tanti Ebrei di ogni tipo e colore,
tanti Sefarditi, tanti Russi, tanti europei, tanti ortodossi e tanti atei e laici accaniti, e tanti arabi musulmani o
cristiani, che anch’essi litigano tra loro. E sembra che ogni comunità pretenda il proprio «partito etnico».
Quanto è difficile governare tanti ebrei «dalla dura cervice»247.

Del resto, la percezione della minaccia era motivata da continui e sanguinosi attentati
terroristici di Hamas che si intensificarono nella primavera del 1996 a ridosso delle elezioni
israeliane. Le risposte del governo Peres apparvero troppo deboli, allo stesso modo fu
screditato anche Arafat, il quale tardò a condannare il terrorismo (lo fece solo dopo molti
attentati suicidi), procedendo ad alcuni arresti, smantellando le strutture di Hamas nelle
moschee e dichiarando fuori legge i gruppi armati. In Israele tuttavia la violenza continuò a
causa delle incursioni degli hezbollah sostenuti dall’Iran e del lancio di missili contro i civili
in Galilea.
Con l’operazione militare Furore, alla fine di marzo del 1996 lo Tzahal penetrò in
Libano e si spinse sino a bombardare i quartieri sciiti di Beirut. Per errore, gli israeliani
colpirono il campo ONU a Kefar Kana, uccidendo un centinaio di civili libanesi che vi si
erano rifugiati per sfuggire ai bombardamenti. Solo alla fine di aprile Israele e Libano
giunsero ad un accordo per il cessate il fuoco. All’incertezza della situazione, alla violenza
e al trauma emotivo dell’assassinio di Rabin, gli israeliani risposero alle elezioni di maggio,
votando per Netanyahu. Il Likud vinse, sia pure con pochi voti in più dei laburisti, grazie ad
una coalizione che includeva i partiti della destra religiosa contrari al processo di pace, e
soprattutto grazie ad una campagna elettorale incentrata sul senso di paura e di minaccia alla
sicurezza e ai confini. Il processo di pace che era iniziato con gli accordi di Oslo, subì
all’inizio rallentamenti e intoppi, sino ad arrestarsi di fatto, di fronte alla recrudescenza del
terrorismo palestinese da un lato e della nuova linea dura del Likud dall’altro.

La vittoria della coalizione di destra in Israele ha posto un punto interrogativo sul futuro del processo di pace
perché la piattaforma politica del partito Likud e soprattutto dei suoi alleati mal si confà ai princìpi degli accordi

247
A. LEVI, La nuova sfida: pace tra le tribù d’Israele, in «Corriere della Sera», 17 maggio 1999.

97
già firmati, e cioè concessioni territoriali in cambio di pace. La piattaforma elettorale del futuro primo ministro
conteneva, tra l’altro, le seguenti posizioni: niente Stato Palestinese, al massimo autonomia; niente ritorno del
Golan alla Siria e abolizione della moratoria contro gli insediamenti ebrei nei territori occupati. Gli accordi di
Oslo sono un’altra cosa248.

Il nuovo governo Netanyahu confermò la priorità alla sicurezza e alla sovranità su


Gerusalemme e continuò ad espandere gli insediamenti e a costruire dentro o vicino
Gerusalemme est, violando gli accordi di pace. Sulla base dei criteri di sicurezza e
reciprocità ripresero tuttavia i colloqui con Arafat a Eretz, subito interrotti dallo scoppio di
una nuova violentissima protesta palestinese causata da un pretesto politico-religioso: il
completamento del plurisecolare tunnel di Asmoneo sottostante il Muro Occidentale, infatti,
nonostante fosse solo un passaggio turistico e non rivestisse alcun significato religioso non
toccando la zona sacra per i musulmani, venne usato dagli estremisti per fomentare la
popolazione a ribellarsi contro Israele; la protesta si estese ai territori con scontri, morti e
feriti. All’assalto di civili e militari palestinesi alla tomba di Giuseppe a Nablus, Netanyahu
rispose inviando i carri armati, i palestinesi risposero a loro volta con una rivolta sanguinosa
a Gerusalemme dopo la preghiera del venerdì alla moschea Al Aqsa.

Ci credevano poco, i palestinesi a quella fragile pace costruita, su una polveriera da Rabin e Arafat. Bastava
andare a Nablus, oppure nella striscia di Gaza, per rendersi conto che sarebbe bastato un soffio per far crollare
tutto, e rovinosamente. Adesso, con il pretesto dell’apertura del tunnel «archeologico», accanto alla spianata
delle moschee, la provocazione è diventata oltraggio, ed è esploso un conflitto sanguinoso. Scene di vera
guerra, scene che hanno perduto i connotati «romantici» dell’intifada. Allora le armi erano le pietre, adesso si
sparano pallottole di piombo ad altezza d’uomo. L’intifada era la rivolta della speranza. Le immagini che
scorrono, dall’altro ieri, davanti ai nostri occhi, sono quelle del fallimento 249.

Il processo di pace riprese comunque nel gennaio 1997, con l’accordo di Eretz su
Hebron, che prevedeva il passaggio dell’80% del territorio al controllo palestinese. Una
polizia congiunta israelo-palestinese avrebbe avuto il compito di vegliare sui luoghi santi.
La tensione tuttavia salì nuovamente quando il governo israeliano decise di proseguire la
costruzione di abitazioni a Har Homa, a sud di Gerusalemme, nella parte orientale e
musulmana della città250.
Il risorgere della questione Gerusalemme fece riesplodere il terrorismo suicida e la
violenza palestinese. Netanyahu reagì chiudendo i territori e prendendo misure di sicurezza
senza precedenti. Anche i laburisti accusarono Arafat di collusione col terrorismo e il

248
G. PICCO, Il sentiero di Netanyahu, in «la Repubblica», 12 giugno 1996.
249
A. FERRARI, Addio intifada, è la rivolta del fallimento, in «Corriere della Sera», 27 settembre 1996.
250
Tale iniziativa non era di per sé in contrasto con i due accordi di Oslo, che rimandavano la discussione sullo
status di Gerusalemme; essa comportava però l’acquisizione di terra musulmana ed era pertanto ritenuta
illegale e osteggiata, non solo dai palestinesi, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Unione europea.

98
prestigio del leader palestinese crollò al suo minimo storico. Gli incontri tra Netanyahu e
Arafat, fortemente sostenuti dall’amministrazione Clinton, si concretizzarono nonostante
tutto, nell’ottobre 1998 nell’accordo di Wye Plantation (nel Maryland) sulle modalità di
ritiro israeliano dalla West Bank. Più che un accordo, Wye apparve un compromesso
insoddisfacente, in cui Israele mantenne il 70% del controllo militare e civile, mentre il 20%
era sotto il parziale controllo palestinese e solo il 10% era totalmente gestito dai palestinesi.
A creare i problemi maggiori era la ripartizione geografica dell’area: di fatto si crearono
cinque zone separate tenute insieme da una strada chiamata «corridoio di sicurezza», mentre
le vie di accesso a città e villaggi palestinesi si snodavano con strade di aggiramento degli
insediamenti ebraici formando isole senza integrità geografica251.
Nella società israeliana sembrò prevalere il desiderio di credere a tutti i costi nella
riuscita del processo di pace e l’accordo fu accolto positivamente in modo quasi del tutto
unanime. Anche in Italia il memorandum di Wye fu salutato positivamente evocando ancora
Rabin, pur essendo un modesto compromesso faticosamente raggiunto, e in seguito a
pesantissime pressioni statunitensi:

Il principio di realtà ha avuto la meglio su ogni estremismo ideologico. A Wye Plantation sono definitivamente
tramontati i sogni di grandezza, siano essi israeliani o palestinesi: Benjamin Netanyahu ha dovuto prendere
atto che le lancette della Storia non possono essere riportate indietro. Ad imporsi è lo spirito degli accordi di
Oslo. Ciò che è accaduto innalza ancora di più la statura politica e morale dell’uomo che ha aperto la strada
alla pace e che per questo ha perso la vita: Yitzhak Rabin. Questo accordo dovrebbe essere dedicato a lui,
all’uomo che più ha creduto in una convivenza pacifica con i palestinesi e che più ha ricercato un compromesso
con gli ex nemici. L’intesa raggiunta dimostra che gli accordi di Oslo sono irreversibili252.

L’accordo di Hebron del 1997 e quello di Wye Plantation del 1988 furono passi
diplomatici concreti, ma restavano aperti numerosi problemi, quali le relazioni con la Siria
di Assad, gli attacchi degli hezbollah del Libano meridionale, il terrorismo di Hamas contro
la popolazione civile israeliana, la questione di Gerusalemme, lo status degli insediamenti, i
confini di Israele e della Palestina, il ritorno dei rifugiati e dei profughi, infine il riesplodere
dell’antisemitismo sia nel mondo musulmano che in Europa.

Da parte palestinese gli appelli di Arafat alla messa in minoranza del fondamentalismo di Hamas e degli altri
gruppi che si richiamano al Jihad furono del tutto insufficienti ed inadeguati. In seno alla società si era
determinata una spaccatura tra i moderati che sostenevano il processo di pace e gli oltranzisti ultrareligiosi
contrari a qualsiasi accordo con Israele. Da risolvere restavano poi ancora temi importanti, primo tra tutti il
ruolo dell’Autorità Palestinese, ma anche il rafforzamento della democrazia e delle istituzioni e la limitazione
dell’autoritarismo di Arafat e della corruzione della sua dirigenza politica, infine il problema delle violazioni

251
cfr. A. BERGMAN, La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei territori occupati, Torino, Einaudi, 2017,
pp.140-195.
252
U. DE GIOVANNANGELI, L’intervista: Abraham Yehoshua: «È un grande giorno, dedichiamolo a Rabin»,
in «L’Unità», 24 ottobre 1998.

99
dei diritti umani nelle carceri palestinesi. Nella gestazione dello Stato Palestinese restano una contraddizione
– al concetto di «stato» è preferito quello di «rivoluzione», ma il programma rivoluzionario non può farsi stato
– e numerosi problemi: l’accentramento dei poteri nelle mani della cerchia di Arafat e un sistema corrotto dal
clientelismo. Arafat, inoltre, ha creato un apparato pubblico mastodontico nel tentativo di far coesistere le
diverse fazioni tribali della società, ma appesantendo in tal modo la burocrazia e gravando enormemente sul
bilancio.[…] Su Arafat pesa poi la responsabilità di una mancata presa di posizione contro il terrorismo
fondamentalista: per non inimicarsi quanti nel suo popolo, in numero sempre crescente, vedono la violenza di
Hamas e del Jihad islamico per la Palestina come unica via efficace di lotta di liberazione, il leader palestinese
non frena la violenza253.

Anche la società israeliana appariva divisa. In vista delle elezioni, la campagna


elettorale del maggio 1999 si caratterizzò per gli aspri toni del confronto tra lo sfidante
laburista Ehud Barak e il primo ministro conservatore Netanyahu, con una polarizzazione
sul tema della pace e della difesa nazionale intesi come concetti inconciliabili, e con il
confronto acceso sui rapporti tra stato e religione. Il neoeletto primo ministro Barak si trovò
nella difficile situazione di una vittoria debole e pesantemente condizionata dalla
frammentazione della rappresentanza politica in parlamento, ma nel settembre 1999 riuscì
comunque a giungere ad un nuovo accordo di pace firmato a Sharm el Sheik con Arafat: il
leader palestinese si impegnò a non dichiarare unilateralmente l’indipendenza dello Stato
Palestinese, mentre il primo ministro israeliano liberò duecento prigionieri palestinesi e
successivamente fece sgombrare i circa cinquecento coloni estremisti dall’insediamento di
Maon nella West Bank.
All’inizio del 2000 Barak dovette affrontare l’intensificarsi del terrorismo hezbollah
dal Libano meridionale. Come promesso in campagna elettorale, e in assenza di proficue
trattative con la Siria, Barak iniziò unilateralmente lo sgombero di tutti i militari presenti
nella cosiddetta fascia di sicurezza presidiata dall’esercito israeliano dal 1982. Il ritiro dal
Libano, vissuto dalla destra come un pericoloso assist per gli integralisti islamici fautori della
linea dura contro Israele, e fu descritto come una precipitosa ritirata; fu invece visto con
sollievo da quanti ritenevano che la difesa della Galilea settentrionale potesse avvenire
meglio dall’interno del proprio confine che non in territorio nemico.

Oggi un immenso straripar di gioia accoglie i soldati che tornano in patria. Certo, la gioia sa d’amaro poiché
Israele è un paese di centurioni vittoriosi. «Ci stiamo ritirando con le braghe calate», è il titolo d’un giornale
popolare. E il quotidiano più diffuso: «Umiliati», titola, concludendo: «abbiamo perduto il giubbotto
antiproiettile». Invece, poiché il giubbotto era ormai una groviera, assistiamo al trionfo della ragione.
Sull’altare della quale, com’è nella Storia, vengono sacrificati innocenti e non254.

253
M. FLORES, Report sul conflitto israelo-palestinese. Prospettive per la risoluzione e la
riconciliazione,Cirpac, Siena, 2005.
254
I. MAN, Fare il tifo per la pace in Galilea, in «La Stampa», 25 maggio 2000, p.1.

100
Nel luglio del 2000 iniziarono i nuovi negoziati a tre a Camp David, tra Barak e
Arafat con la mediazione di Clinton. Pur partendo ambedue da posizioni intransigenti, Barak
si mostrò in seguito più duttile proponendo la restituzione di quasi il 90% dei territori, un
passaggio riservato alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, il rimpatrio di 10.000
rifugiati – ma non il ritorno di tutti i profughi invocato dai palestinesi – e la cessione di
Gerusalemme Est ai palestinesi. Barak non cedette però sull’incorporazione in Israele delle
colonie concentrate territorialmente vicino alla linea verde e sul controllo militare israeliano
sulla zona tra Gerusalemme e Gerico, tagliando in due il futuro stato palestinese. Israele
chiese infine il controllo sui valichi di frontiera con Egitto e Giordania, decretando dunque
una sovranità palestinese limitata.
Arafat rifiutò ogni intesa sulla offerta di Barak, ufficialmente con la motivazione che
i palestinesi non avevano partecipato alla stesura delle proposte di accordo e che gli israeliani
avevano delegato la trattativa agli Stati Uniti. Il leader palestinese, forte del sostegno degli
stati arabi e dei fedeli musulmani, non volle essere considerato debole sulla difesa dei luoghi
santi dell’Islam, di cui la Spianata delle Moschee è il terzo per importanza.

Non è facile rassegnarsi a veder sprofondare nel pantano dell’odio quella pace che, sia pure lentissimamente,
sembrava stesse per germogliare nei verdi prati del Maryland. […] I due contendenti, l’ex terrorista ammazza-
ebrei, l’ex commando ammazza-palestinesi, assicurano che gli sforzi per un accordo finale continueranno sulla
base di quel che finora s’è concordato. […] Ma se la maratona di Camp David qualcosa di buono ha prodotto
perché l’accordo non l’hanno firmato adesso, o fra 15 giorni, invece di rinviarlo a un futuro prossimo? La
risposta è brutalmente semplice: perché hanno paura. Ha paura Clinton che teme la situazione sfugga di mano
agli Stati Uniti, precipitando il Medio Oriente nel caos. Ha paura Barak: da politico sa che il fallimento
paradossalmente potrebbe aiutarlo a ricomporre i cocci del suo governo, tuttavia, da soldato serio sa bene come
sia sempre possibile, in Medio Oriente, che i fucili si mettano d’un tratto a sparare da soli. I coloni sono una
sorta di piccolo stato anarcoide, violento, annessionista, ficcato nel cuore della Palestina storica. […] Ha paura
anche il vecchio Arafat. L’ultima volta che l’ho visto a Roma, mi disse: «non li tengo più». Si riferiva ai ragazzi
della sua guardia che, in consonanza con Hamas, sferzati dall’oltranzismo mistico dello sceicco Yassin,
credono in una nuova «ma più terribile» intifada255.

I tentativi di mediazione successivi, in particolare sullo status di Gerusalemme,


comprese proposte provenienti da altri paesi come l’Egitto e la Francia, furono rifiutati da
ambo le parti e il fallimento di Camp David venne sancito, il 28 settembre 2000, dalla
provocatoria visita del leader del Likud Sharon alla Spianata delle Moschee.

Le moschee musulmane sorgono direttamente sopra il muro di cinta del tempio distrutto da Tito, il Muro del
Pianto caro all’ebraismo tradizionale. Sull’Haram el Sharif sorgono la moschea di Qubbat as Sakhra (il duomo
delle rocce) e quella detta Al Aqsa, cioè «la lontana». Ne parla il Corano: «Lode a colui che di notte trasportò
il suo servo (Maometto) dal tempio più caro e sacro (La Mecca) al tempio più lontano». La roccia che sta sotto
la cupola è proprio la vetta del monte Moria; vi ebbe luogo, secondo ebrei e cristiani il sacrificio di Isacco. I
musulmani collocano altrove quell’episodio emblematico quant’altri mai, tuttavia la Roccia per loro non è
meno sacra poiché dicono che su quella pietra si poseranno gli angeli per suonare la tromba del giudizio

255
I. MAN, Fermati dalla paura, in «La Stampa», 26 luglio 2000, p.1.

101
universale. Le scale che portano alla moschea sono delle bilance perché Dio, «quel giorno su di esse peserà le
anime dei morti. Nell’attesa del Giudizio, i morti riposano sotto la roccia nel «pozzo delle anime»256.

La cosiddetta «passeggiata» di Sharon, programmata pubblicamente, provocò


l’immediata e spontanea reazione di numerosi musulmani che attaccarono la polizia con
lanci di pietre; il giorno seguente scoppiarono disordini su vasta scala nel recinto delle
moschee e in tutta la città. Il 30 settembre la protesta si estese all’intera West Bank: era
l’inizio della cosiddetta seconda intifada, che Arafat battezzò immediatamente «intifada Al
Aqsa», dal nome della moschea presso cui iniziarono i disordini. La scelta non fu casuale,
poiché la coloritura religiosa del nome volle mobilitare sentimenti filopalestinesi in tutto il
mondo islamico e sfruttare l’emotività del tema religioso per rafforzare il nazionalismo
palestinese e incanalarlo in senso antisraeliano.

Che Barak non sia Rabin, che non ne abbia la statura né il talento, che probabilmente in Israele si stia pagando
la morte, cinque anni fa, di Rabin e la lunga regressione che ne è seguita e di cui Netanyahu fu la sinistra figura,
tutto questo è sicuro. Ma non è vero che Barak abbia voluto la ripresa della guerra. Non è vero, come si sente
dire dappertutto, che abbia volontariamente voltato le spalle allo spirito degli accordi di Oslo. La verità, la
semplice, paradossale e terribile verità è che la crisi attuale sopravviene nel preciso momento in cui, invece, il
poco carismatico Ehud Barak imbocca il cammino di concessioni politiche senza precedenti. […] Che
all’origine di tutto ci sia la provocazione di Ariel Sharon è probabile. Ma era veramente così grande, così
mostruosa, la provocazione? E come disfarsi della penosa impressione che si continua a provare nel fatto stesso
che un responsabile ebreo calpesti il suolo di una spianata delle moschee, qualcosa che i palestinesi assimilano
a un’infamia? […] È la misura di un odio antico che, c’è ragione di temere, sia ancora oggi implacabile257.

4.3 Il fallimento del processo di pace

Mentre esplodeva la seconda intifada, si rafforzò in Israele il progetto della


costruzione di una barriera di sicurezza. Dopo il ritiro dal Libano e il fallimento di Camp
David, si affermò l’idea di una pace possibile solo al prezzo di una separazione fisica con i
territori amministrati dall’Autonomia Palestinese. Il muro di separazione avrebbe dovuto
impedire qualsiasi contatto con la popolazione palestinese e eventuali infiltrazioni
terroristiche, l’annessione del maggior numero di colonie della West Bank, lo
spezzettamento dei territori in modo che il futuro stato palestinese non costituisse una
minaccia e l’assicurazione di un collegamento diretto con gli insediamenti strategici nella
Valle del Giordano.
Rispetto alla precedente scoppiata nel 1987 e conclusa nel 1993 con gli accordi di Oslo, la nuova protesta si
caratterizzò per l’uso di armi da fuoco invece che pietre, grazie al raccordo tra alcuni settori fondamentalisti e

256
I. MAN, Gerusalemme, la città della luce e del sangue, in «La Stampa», 14 agosto 2001.
B. H. LEVI, Ma la verità è che questa sfida l’hanno voluta i palestinesi, in «Corriere della Sera», 14 ottobre
257

2000, p.6.

102
la dirigenza politica palestinese, la quale non frenò il terrorismo armato. Se a parole Arafat dichiarava
pubblicamente di condannare la violenza, di fatto non solo non intervenne per reprimerla, ma arrivò ad assistere
o a schierarsi apertamente in suo favore, come accadde a Nablus in occasione della profanazione e distruzione
della tomba di Giuseppe. La seconda intifada inoltre si caratterizzò per l’appoggio attivo dei musulmani con
passaporto israeliano al Jihad. La novità radicale della seconda intifada consisteva inoltre nell’uso dei mass
media, che ancora più che nel 1987 aggregavano il consenso internazionale per la causa palestinese. Le risposte
israeliane alla violenza palestinese furono, sebbene contenute per quanto possibile all’uso della forza,
concentrate soprattutto sulle uccisioni mirate dei comandanti locali sospettati di preparare attacchi. Sotto il
profilo diplomatico il tentativo successivo fu di nuovo operato dagli Stati Uniti che promossero un incontro a
Sharm el Sheik. Le proposte di Clinton – restituzione del 95% dei territori; sovranità palestinese sulla Spianata
delle Moschee e israeliana sul Muro Occidentale e sul suolo sottostante; Gerusalemme Est capitale del futuro
stato palestinese; riconoscimento israeliano delle sofferenze inflitte al popolo palestinese dal 1948; no al ritorno
di tutti i profughi palestinesi in Israele ad eccezione di 100.000 rifugiati, mentre gli altri saranno assorbiti dallo
stato palestinese; riconoscimento formale di entrambi gli stati del diritto al ritorno dei rifugiati e dei profughi
da essi tanto invocato – furono accettate da Barak a Taba nel gennaio 2001, mentre i palestinesi opposero un
duro rifiuto su Gerusalemme e sul problema dei rifugiati e dei profughi, affossando il miglior accordo mai
offerto ad Arafat258.

Il fallimento delle trattative di pace, insieme allo scoppiare della seconda intifada e
al crescere della violenza, spostò il consenso di gran parte dell’opinione pubblica israeliana,
che accordò il proprio voto al leader del Likud, Ariel Sharon, eletto con oltre il 60% delle
preferenze. Come già nel 1996, la destra sconfisse i laburisti anche grazie ai continui attacchi
suicidi e alla sensazione che i governi di sinistra non avessero saputo garantire la sicurezza
di Israele. Infine, pesarono non poco le divisioni interne allo schieramento di sinistra che a
Barak imputava sia il fallimento del processo di pace, sia le concessioni ai partiti religiosi
nel tentativo di tenere unita la coalizione di governo.
L’intransigenza di Arafat nel respingere il piano Clinton e nel favorire in tal modo la
caduta di Barak e con essa la possibilità di un reale accordo, ebbe come conseguenza la
messa a punto della strategia dei raid mirati contro i terroristi palestinesi, cui rispose la
ripresa degli attentati suicidi. Attentati e rappresaglie si susseguirono sino a condurre,
all’inizio di aprile 2001, ad una guerra vera e propria che portò Israele a bombardare le
postazioni della guerriglia palestinese, a demolire abitazioni civili appartenenti alle famiglie
dei terroristi, e infine ad esportare il conflitto con il più grave attacco in Libano dal 1982.
Per la prima volta da Oslo, inoltre, in risposta ai lanci di missili su Sderot, Israele
rioccupò parte della striscia di Gaza. Nonostante gli appelli di Arafat al cessate il fuoco
contro gli israeliani e lo scioglimento di Al Fatah ormai fuori controllo, la violenza non si
fermò e gli Stati Uniti si convinsero ad intervenire nuovamente nell’area elaborando una
proposta per il cessate il fuoco e la ripresa delle trattative di pace. Prese così forma il piano
Michell, che prevedeva da parte israeliana la cessazione dell’espansione degli insediamenti

258
J. HALPER, Obstacles to Peace. A Re-Framing of the Palestinian-Israeli Conflict, Bethlehem, PalMap, 2004,
pp.14-15.

103
e dell’uso di armi letali, il rispetto del transito dei lavoratori palestinesi e delle linee
dell’accordo discusse a Sharm el Sheik alla fine del 2000; da parte palestinese la sospensione
dell’intifada e del terrorismo, comprese le provocazioni e la rinuncia alla propaganda
fondamentalista. L’incapacità dell’Olp di controllare la violenza estremista si manifestò
nelle immediate e violente reazioni con cui le frange radicali palestinesi accolsero il Piano
Michell.

Chi fra gli israeliani e i palestinesi si oppone a un accordo di pace basato su un doloroso compromesso è
evidentemente ossessionato da insicurezza, da un forte senso di ingiustizia, da dubbi teologici ed etici sul fatto
di rinunciare a «diritti sacri». Ma la pace, anche quella interna, non può mai basarsi sull’idea di «tutti i diritti
riservati». Fra i diritti fondamentali che ogni individuo e ogni nazione merita di esercitare liberamente dovrebbe
esserci quello elementare all’alienazione, consensuale, di alcuni dei propri diritti allo scopo di soddisfare e
assicurarsi il diritto primario a essere vivi, a vivere in pace e libertà 259.

Tra giugno e luglio 2001 un nuovo progetto di pace americano venne accettato da
Sharon e con riserva da Arafat: il piano Tenet, che non portò però ad alcuna svolta. In un
quadro generalizzato di violenti attentati suicidi e rappresaglie israeliane, dopo l’ennesimo
e gravissimo attentato in un fast food di Gerusalemme, il 10 agosto 2001 gli israeliani
scacciarono i palestinesi dalla sede dell’Anp e dell’Olp a Gerusalemme Est, l’Orient House,
issandovi la bandiera israeliana.
Alla fine del mese a Durban in Sudafrica alla conferenza ONU sul razzismo esplose
la polemica sull’equiparazione tra sionismo e razzismo, avanzata dai palestinesi e
ufficializzata nel documento finale delle organizzazioni non governative che giunsero a
parlare di Israele come stato «razzista e che pratica la pulizia etnica».

I paesi arabi e musulmani hanno cercato di resuscitare la risoluzione dell’Onu in cui il sionismo veniva definito
una forma di razzismo. La risoluzione è stata abrogata dall’assemblea generale dell’Onu nel 1991 ma ora gli
arabi sono decisi a ottenere a Durban una condanna del governo israeliano. Il testo è stato ammorbidito di
fronte alla minaccia di boicottaggio degli Stati Uniti, ma in un paragrafo viene ancora citato «il movimento
sionista, basato sulla superiorità razziale260.

L’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers di New York
ridisegnò gli equilibri geopolitici mondiali influenzando soprattutto la realtà mediorientale.
Arafat, diversamente da quanto era accaduto con la seconda guerra del Golfo, condannò
nettamente il terrorismo fondamentalista di Al Qaeda e le esultanze dei palestinesi. Di fronte
alle richieste statunitensi di cercare una soluzione pacifica, Sharon iniziò il ritiro delle truppe
dalle sei città palestinesi occupate nei mesi precedenti. Nelle settimane seguenti però, di

259
A. OZ, Questo Medio Oriente è come un film di Fellini, tr. di M. Levy, in «Corriere della Sera», 21 luglio
2000.
260
B. MAROLO, Bush affonda la conferenza sul razzismo, in «l’Unità», 28 agosto 2001.

104
fronte alle ipotesi di distensione, il terrorismo palestinese si fece ancora più violento. Anche
gli Stati Uniti e il Segretario generale dell’Onu Kofi Annan, reagirono intimando ad Arafat
di fermare il terrorismo, ma la linea politica del primo ministro israeliano mutò radicalmente
rotta. Complice l’11 settembre e la lotta ingaggiata dagli USA contro il terrorismo islamico,
in quella che per gli israeliani appariva come l’unica forma di difesa da una violenza
fondamentalista volta a cancellare qualsiasi via negoziale, all’inizio di dicembre Sharon
affrontò nuovamente la questione con la forza, bombardando il quartier generale di Arafat a
Gaza e colpendo Ramallah dove Arafat, assediato, venne lasciato sempre più solo dai
fondamentalisti che non controllava e dalla maggioranza dei palestinesi irritata dalle sue
ambivalenze.

Barcollante, incerottato, esausto Yasser Arafat riemerge forse dall’assedio di Ramallah: e con lui dovrebbe
muoversi di nuovo, sotto le macerie, la Palestina, di cui resta il simbolo se non proprio il capo. È comunque un
fremito nel paesaggio desolante: quello di una nazione della quale è stato decretato il decesso prima ancora che
diventasse sovrana. Fino a qualche giorno fa sarebbe apparso insensato scommettere un solo copeco sulla
sopravvivenza politica di Arafat; tra poche ore anche quel copeco potrebbe risultare di troppo, se un kamikaze
di Hamas o della Jihad islamica dovesse realizzare il suo sciagurato ideale e trascinare nella morte dei civili
israeliani a Gerusalemme, a Haifa, a Tel Aviv. Ma non si può restare paralizzati nell’attesa, davanti alla
disperazione e all’intransigenza. La peggiore delle tragedie offre uno spiraglio. Negli ultimi mesi sarebbe
bastato un gesto di Ariel Sharon per stroncare anche fisicamente Arafat. Ma ancora una volta il vecchio rais
sembra riprendere fiato. Come e per quanto tempo è difficile dirlo 261.

La scelta di Sharon in questo frangente fu di chiudere definitivamente i rapporti con


Arafat. La politica israeliana di annientamento della resistenza palestinese divenne sempre
più dura ed intransigente con l’operazione Scudo Difensivo262: bombardamenti massicci dei
campi profughi, controlli sulla circolazione dei mezzi di soccorso, sventramento delle case,
persino l’assedio della Basilica della Natività di Betlemme dove si erano rifugiati numerosi
civili palestinesi, tra cui sospetti terroristi. La violenza dell’esercito israeliano, la cui potenza
bellica era spropositata rispetto a quella palestinese, la sofferenza della popolazione civile
che contò numerosi morti e feriti e le immagini dei bombardamenti suscitarono
l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale. Dopo una sanguinosa estate di
attentati, mentre lo Tzahal proseguiva nell’occupazione delle principali città palestinesi nei
territori amministrati dall’ANP, parte della popolazione in Israele e membri stessi
dell’esercito condannarono la politica di Sharon e molti soldati si rifiutarono di prestare
servizio.

261
B. VALLI, Dopo l’assedio, in «la Repubblica», 29 aprile 2002.
262
L’operazione Scudo difensivo (in ebraico: ‫מבצע חומת מגן‬, Mivtza Homat Magen), è stata una operazione
militare condotta dalle Forze di difesa israeliane nel 2002, nel corso della Seconda Intifada, con l’obiettivo di
porre fine all’ondata di attacchi terroristici palestinesi.

105
Prendiamo ad esempio il patriarca Abramo. È certo lui il primo obiettore di coscienza al mondo. Pur di impedire
al Dio onnipotente di infliggere agli abitanti di Sodoma e Gomorra una punizione collettiva è pronto a essere
punito a sua volta. In cospetto di Dio, egli osa perfino alzare la voce, “Ma come? - si scandalizza Abramo –
Lasceresti che il giusto muoia assieme con lo scellerato? E se invece di un giusto soltanto, ce ne fossero magari
cinquanta?”. Alla fine è Dio a arrendersi, non l’obiettore di coscienza Abramo. La protesta dei riservisti
israeliani parte da lontano, forse addirittura dalla Bibbia263.

Ad un mese dall’inizio della guerra condotta dagli Stati Uniti e dai suoi alleati contro
l’Iraq di Saddam Hussein, su sollecitazione americana, il 30 aprile 2003 venne pubblicata la
Road Map, una proposta congiunta di USA, Russia, ONU e Unione Europea. Il documento
prevedeva la fine dell’occupazione israeliana e la creazione in tre fasi, sino al 2005, dello
stato palestinese. La fase uno avrebbe dovuto porre fine alle violenze da parte palestinese,
l’istituzionalizzazione e la democratizzazione dell’Autorità Palestinese attraverso libere
elezioni da tenersi al più presto e la fine della costituzione di nuovi insediamenti israeliani
nei territori occupati e l’inizio del ritiro. La fase due sarebbe consistita nella creazione di uno
Stato Palestinese, con monitoraggio internazionale e una prima Conferenza internazionale.
La terza fase infine prevedeva una seconda conferenza internazionale avente come oggetto
la risoluzione delle controversie sui temi dello status di Gerusalemme, del ritorno dei
rifugiati e i coloni israeliani. Arafat, di fronte alla decisa opposizione israeliana a trattare con
lui, nominò come primo ministro Abu Mazen (Mahmoud Abbas). Abbas e Sharon si
incontrarono a Gerusalemme nel luglio 2003 ed entrambi sostennero la Road Map, ma la
mancata fine degli attentati terroristici a cui seguirono dure rappresaglie israeliane, impedì
di fatto il raggiungimento degli obiettivi della prima fase del piano di pace.
L’inizio del 2004 vide uno spostamento della posizione americana, che diventò più
apertamente favorevole a quella israeliana. In particolare, il presidente americano Bush
ammise l’impossibilità della data del 2005 per la risoluzione del conflitto e la creazione dello
Stato Palestinese di fronte al perdurare delle violenze terroristiche. Nella situazione fluida
che seguì la morte di Arafat e con l’elezione di Abu Mazen (che era stato uno degli artefici
dei precedenti accordi da Oslo in poi), le parti, con il sostegno di Stati Uniti, Giordania ed
Egitto, si accordarono per partecipare ad un summit per ripristinare la Road Map. L’incontro
si concluse nel febbraio 2005 con la dichiarazione della volontà delle parti di riprendere il
cammino indicato dal piano e segnò formalmente la fine della seconda intifada.
Il ritiro dalla Striscia di Gaza e dai quattro insediamenti della West Bank cominciò il
15 agosto 2005 e, nonostante qualche incidente, la popolazione venne trasferita in pochi

263
A. BAQUIS, Obiettori d’Israele. Soldati della pace, in «La Stampa», 4 febbraio 2002.

106
giorni. Le forze armate e di polizia israeliane procedettero alla demolizione delle case dei
coloni lasciando il territorio in mani palestinesi dopo trentotto anni di occupazione.
Il completamento del ritiro secondo il Piano Sharon pose Israele in una situazione
relativamente favorevole dal punto di vista internazionale. Il ritiro da Gaza venne visto come
una prova della volontà di Israele di fare rinunce a favore della comunità palestinese che
andavano nella direzione indicata dagli accordi di pace e in particolare della Road Map. A
livello interno tuttavia, il piano di ritiro da Gaza aveva polarizzato la politica israeliana. Il
piano trovò sostegno da parte del partito laburista di Shimon Peres, ma vide la contrarietà di
una parte del Likud di Sharon e di alcuni partiti di matrice religiosa, mostrando che il
proseguimento del processo di pace trovava la ferma opposizione di una parte rilevante della
società israeliana.
Le preoccupazioni per una frattura crescente tra l’oltranzismo degli ultrareligiosi, che
si allontanavano sempre di più dal rispetto delle istituzioni, dello Stato e della democrazia,
e la società civile impegnata nella ricerca della laicità dello Stato è ancora ben espressa dalle
parole di Amos Oz:

In questi giorni il primo ministro Ariel Sharon tenta una sorta di putsch a danno della supremazia dei coloni.
Un tentativo di ripristinare l’autorità del governo eletto. Se il tentativo andasse a buon fine, il sogno dei coloni
potrebbe risentirne e quello degli israeliani laici potrebbe sorgere a nuova vita. La battaglia di Gaza non è una
battaglia tra l’esercito e i coloni, né tra falchi e colombe. No, è una battaglia tra Chiesa e Stato (per essere più
precisi, tra Sinagoga e Stato). […] In questi ultimi giorni a Gaza abbiamo assistito a quella che un domani, a
posteriori, potrebbe apparirci la prima battaglia tra Sinagoga e Stato nella storia di Israele, la prima occasione
di fare chiarezza sul significato dell’Ebraicità dell’unico Stato Ebraico. Siamo, prima e soprattutto, una
religione o una nazione?264.

264
A. OZ, Noi liberi dai coloni, in «Corriere della Sera», 20 agosto 2005.

107
CONCLUSIONE
OLTRE LA MEMORIA

Lo studio svolto mi ha permesso, a partire da una iniziale semplice curiosità, di


conoscere, approfondire e apprezzare la figura di Yitzhak Rabin e il suo ruolo nella nascita,
nella conservazione e nella storia politica dello Stato di Israele. Come ho più volte
sottolineato, nel corso della trattazione, la vicenda biografia di Rabin si svolge
specularmente alla storia del suo Paese. È il primo capo del governo nato in Israele dalla
fondazione dello Stato, ha combattuto per la sua indipendenza e ha guidato il suo esercito
nelle più importanti guerre che la nazione si è trovata ad affrontare per sopravvivere, e le ha
vinte, anzi ha trionfato, espandendo i propri confini al punto da rievocare nella memoria di
quanti tornavano in Israele dopo le tragedie del 900 europeo, le grandi battaglie vinte
dall’Israele biblico, in cui Dio stesso combatteva per il Suo popolo.
Al culmine della sua carriera militare ha lasciato l’esercito per servire il Paese come
rappresentante diplomatico e anche da ambasciatore in America ha svolto il ruolo chiave di
solidificare l’alleanza con la potenza politica e militare che aveva fino a quel momento, e
poi negli anni a venire, garantito con il suo appoggio la sopravvivenza dello Stato di Israele.
Da ministro della Difesa ha voluto attuare il ritiro dell’esercito dal Libano, mettendo fine ad
una guerra sanguinosa e ingiusta che il popolo israeliano non voleva e in cui aveva perso
molti figli, oltre che la stima a livello internazionale.
Come capo del governo ha avuto prima di tutto il merito di far sentire gli israeliani
al sicuro e garantire loro una vita dignitosa, attraverso una politica che metteva al centro non
solo la sicurezza ma anche la stabilità economica e sociale del Paese. È stato un leader vicino
alla gente, sebbene il carattere schivo non facesse di lui un carismatico oratore, e ha fatto
della trasparenza e dell’onestà un punto fermo della sua missione politica. In cima alle sue
preoccupazioni c’è stato evidentemente il tentativo di iniziare un dialogo con i nemici storici,
i palestinesi, che prima di lui Israele nemmeno riconosceva come popolo e come soggetto di
diritto. Ha speso molta della sua attività politica per costruire un futuro di pace per le
generazioni successive, iniziando una trattativa con i rappresentanti palestinesi e con gli stati
arabi vicini, arrivando a cedere loro, in cambio di una pace promessa, le terre che lui stesso
aveva combattuto per conquistare.

108
La sua morte, avvenuta per mano di un colono esponente dell’ebraismo più
fondamentalista, ha impedito la possibilità di una pace a breve termine e ha sconvolto
l’opinione pubblica israeliana, soprattutto perché, il primo omicidio politico nella storia dello
Stato di Israele è avvenuto per mano di un ebreo. La possibilità che la morte in Israele
arrivasse da dentro il popolo ebraico era, fino a quel momento considerata inverosimile e
aberrante dopo la storia di persecuzione e deportazione che gli ebrei avevano dovuto
affrontare, soprattutto dopo il terrificante shock della Shoah.
L’analisi dei quotidiani nazionali ha rivelato un interesse costante nei confronti di
Israele da parte dell’ opinione pubblica italiana e del mondo della cultura, ma le espressioni
di simpatia e di stima che erano state rivolte alla nascita del nuovo Stato, che aveva
finalmente dato una casa ad un popolo da secoli errante e disprezzato, si sono velocemente
mutate in diffidenza (quando non in aperta ostilità) all’indomani della Guerra dei Sei giorni,
in cui Israele passa, da piccolo staterello vessato da sette nemici più potenti e meglio armati,
a potenza militare vittoriosa, capace di triplicare il proprio territorio in poche mosse, creando
così la catastrofe umanitaria dei profughi palestinesi, a loro volta rifiutati anche dagli stati
cosiddetti amici. Da questo momento tutta la stampa italiana modifica la propria visione
dello Stato di Israele. La stampa di sinistra in modo particolare, anche a causa dello schierarsi
dell’URSS su posizioni apertamente filo arabe, assume una posizione spesso acriticamente
ideologizzata di inimicizia verso lo stato ebraico e i suoi esponenti, anche quando gli eventi
non lo vedono principalmente come aggressore.
L’altro elemento di grande impatto emotivo sulla stampa italiana relativamente alla
storia di Rabin e di Israele è stato lo scoppio della prima intifada. Per gli stessi motivi delle
conquiste militari del ’67, anche l’impari battaglia tra i lanciatori di pietre palestinesi e
l’esercito israeliano, produsse l’ostilità e spesso l’aperta condanna di Israele, provocando un
diffuso sentimento di biasimo e rifiuto, in questo caso anche sulla stampa più moderata.
L’orientamento negativo nei confronti di Israele è stato certamente favorito dall’aggressiva
politica militare dei governi di destra in Israele, spesso fautori, come si è visto, di
un’intransigente militarizzazione della politica, di un’audace dimostrazione di superiorità e
della indiscriminata colonizzazione dei territori occupati attraverso la politica degli
insediamenti.
Come emerge chiaramente dal nostro studio, la figura di Yitzhak Rabin è stata uno
spartiacque. Il ritiro dell’esercito dal Libano, l’interruzione della costruzione di insediamenti
nella West Bank e soprattutto il riconoscimento dell’Olp come interlocutore per un negoziato

109
di pace con i palestinesi, sono stati da subito gli elementi che hanno visto la stampa italiana
(quella di sinistra più cautamente) cambiare il proprio modo di approcciare alla questione
mediorientale e di guardare a Israele non più come un mostro fagocitante la libertà altrui, ma
piuttosto come uno stato democratico (o per lo meno il più democratico della regione),
capace di scendere a compromessi per stabilire una trattativa che produca stabilità in Medio
Oriente.
I cambiamenti storici avvenuti nel mondo alla fine degli anni ’80 hanno certamente
contribuito a scardinare i pregiudizi ideologici che condizionavano negativamente il giudizio
politico su Israele. Man mano che il dialogo tra Israele e Palestina progrediva e si
concretizzava, la figura di Yitzhak Rabin si caricava progressivamente di aspettative e
pretese di realizzazione di una impresa, che fino a pochi anni prima era considerata quasi
impossibile. I protagonisti delle trattative, in mezzo ai tentativi degli estremisti di entrambe
le parti di ostacolare con la violenza più efferata il percorso di pacificazione, erano visti
sempre più come eroi senza macchia, il cui passato, sebbene in alcuni casi ambiguo o
precedentemente biasimato, non sembrava contare più.
La morte del primo ministro israeliano sarà letta da tutta la stampa italiana in blocco
come un triste dejà vu, dove il combattente per la pace, il soldato senza macchia, il giusto,
viene abbattuto da chi, ottusamente incapace di accettare il cambiamento e le rinunce che
esso portava con sé, ha voluto porre fine al suo sogno di pace. I giornali italiani liberali e di
sinistra hanno analizzato dettagliatamente il processo avvenuto all’interno della società
israeliana, in cui è apparsa chiaramente una fortissima dicotomia tra due anime: quella che,
religiosa o laica che sia, è disposta a fare sacrifici e concessioni per ottenere la pace, e quella
che, anche qui per credo religioso o esclusivamente politico, è fondamentalista e radicale, e
insegue fino ad oggi il sogno del Grande Israele, che non ammette alcun tipo di relazione
con il nemico.
Rabin diventa così un’icona di pace, una figura mitizzata, un simbolo. Assume
l’aspetto della stella polare attorno a cui ruota da questo momento in poi la storia della
questione palestinese e del processo di pace in Medio Oriente. I primi ministri che gli
succederanno, tutti indistintamente, di destra e di sinistra, saranno giudicati in base a ciò che
aveva o avrebbe fatto Rabin. Ogni passo sarà misurato come in direzione allineata o contraria
a quella che lui aveva preso. Ogni stallo nelle trattative si condirà immancabilmente di un
what if, che vagheggia un diverso scenario se il premier assassinato fosse ancora tra noi.

110
Se nei primi mesi dopo la tragica vicenda quasi tutti gli osservatori, italiani e
internazionali, erano convinti che il gesto dell’assassino avrebbe prodotto, oltre
all’indignazione e alla rabbia, anche un nuovo movimento pacifista in nome dell’eroe
caduto, col passare del tempo, anche a causa dei continui attacchi terroristici ai danni della
popolazione civile israeliana, le speranze di un reale progresso nella pacificazione del Medio
Oriente si sono affievolite sempre più.
D’altra parte gli eredi politici di Rabin non hanno dimostrato di avere la sua stessa
forza, e tanto meno lo stesso consenso popolare per riuscire ad imporre al Paese la politica
del compromesso. La destra che si propone come baluardo di sicurezza e difesa dei valori
contro il terrorismo nemico della pace, ottiene sempre più consenso, da parte di una
popolazione impaurita e stanca di combattere.
Il processo di pace avviato coraggiosamente da Rabin e sfociato poi negli accordi di
Oslo, si è inceppato ripetutamente sulle esitazioni di una o dell’altra parte e, soprattutto, è
stato ostacolato dall’ala più oltranzista della nazione, sotto l’influenza di leader politici
xenofobi e capi religiosi fondamentalisti che istigano alla lotta in nome della volontà divina.
L’eredità di Rabin sembrerebbe oggi perduta o ridotta ad un residuo piccolo e
irrilevante. Il quadro politico in Israele è molto cambiato e il partito laburista in cui militava
Rabin ha ormai solo 6 seggi in un Parlamento che ne conta 120. La cosiddetta «questione
palestinese» è diventata essa stessa parte di uno status quo che difficilmente può essere
modificato, mancando la volontà di entrambe le parti di ricominciare una trattativa
praticamente sepolta.
Ciò che resta è una pace blindata, interrotta periodicamente da nuove tensioni tra
Israele e Hamas a Gerusalemme o al confine con la striscia di Gaza, ma anche una ferita
nelle anime della gente dei due popoli, un’inquietudine mai del tutto sopita, un odio che
brucia sotto la cenere ed è pronto a riaffiorare in ogni occasione, spesso provocata da chi, ha
interesse a soffiare su questa brace per tenere viva l’attenzione nazionale e internazionale su
una realtà, come quella provocata dal conflitto israelo-palestinese, che sembra ormai ai
margini dei grandi interessi geopolitici.
Come ho già evidenziato nel quarto capitolo, sarebbe oltremodo miope ridurre tutto
alla difficoltà di coesistenza pacifica tra ebrei e arabi, cosa che tra l’altro si vede già
stabilmente realizzata in numerose città e villaggi. La radice del conflitto va piuttosto
ricercata nella inconciliabilità, questa si insanabile, tra democrazia e fondamentalismo, che
in entrambi i casi trovano accesi sostenitori tra gli ebrei e tra gli arabi.

111
Vorrei inoltrare sgombrare il campo dall’associazione, che viene fatta spesso in modo
a dir poco superficiale tra fondamentalismo e convinta adesione ad una fede religiosa. Dopo
l’11 Settembre 2001, la retorica manichea dello scontro di civiltà tra occidente e Islam ha
evidentemente pesato anche in Israele che, per la sua alleanza storica con gli Stati Uniti e
l’altrettanto storica inimicizia con gli stati arabi, veniva ad essere l’unico stato identificato
come “occidentale” in tutto il Medio Oriente265. Evidentemente il problema non sono qui le
religioni, invece è proprio sulla nozione di Occidente che scopriamo le divergenze più
radicali. Non è la stessa cosa infatti declinarla in una forma democratica (libertà garantite,
separazione tra chiesa e stato, limiti all’uso della forza) oppure pensare di opporre
all’islamismo un equivalente fondamentalismo occidentalista (guerra preventiva,
esportazione della democrazia, demonizzazione dello straniero, ecc.)266.
Gli accordi di Abramo267 hanno mostrato che Israele oggi non è più isolato da una
buona parte del mondo arabo, con cui intrattiene oggi nuove relazioni economiche e
politiche. Lo stesso mondo arabo si presenta oggi diviso e non più legato da un nazionalismo
pan-arabista ormai superato. Persino la barriera difensiva costruita negli anni da Israele e
che tanto ha indignato il mondo all’atto della sua erezione, sembra aver funzionato nel
ridurre i nuovi episodi di terrorismo e dimostrando, secondo alcuni, che l’unica possibile
convivenza per i due popoli viene paradossalmente da una separazione.
Per contro, il clima di violenza all’interno della società israeliana, cresciuto dopo gli
accordi di Oslo e sfruttato da politici rampanti, riaffiora oggi, nonostante la lezione impartita
dall’omicidio Rabin. Proprio mentre scrivo queste pagine la stampa israeliana rilancia
allarmisticamente le parole dei responsabili della sicurezza interna di Israele che si
dichiarano preoccupati dal grave aumento di dichiarazioni violente, soprattutto sui social
media:

È stata messa esplicitamente in parallelo l’attuale esplosione di accuse disgustose di tradimento politico,
tradimento e apparente crisi politica nazionale, alle settimane e ai mesi prima che un estremista ebreo di estrema
destra, Yigal Amir, uccidesse il primo ministro Yitzhak Rabin la notte del 4 novembre 1995. […] In un atto di
incredibile irresponsabilità, poche ore dopo che Argaman aveva lanciato l’allarme, un gruppo di rabbini
nazionalisti ortodossi ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava che il governo emergente “danneggerà
le questioni più fondamentali della religione e dello stato” e metterà in pericolo gli interessi della sicurezza

265
cfr. M. BORGHESI, Il “Dio degli eserciti” e il “Papa soldato” in «30 Giorni», 3 (2003), pp. 36-37.
266
«L’Occidente, quello vero, è infatti potere che diffida del proprio potere. È questa autocoscienza che lo
rende unico, una unicità senza messianismi, senza la pretesa di rappresentare il “Dio degli eserciti”, il Dio
“irato” cifra del nuovo disordine mondiale». (Ivi, p.37).
267
Gli accordi di Abramo sono una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti,
raggiunta il 13 agosto 2020. Successivamente il termine è stato utilizzato per riferirsi agli accordi tra Israele e
gli Emirati Arabi Uniti e Bahrein. La dichiarazione ha segnato la prima normalizzazione delle relazioni tra un
paese arabo e Israele da quella della Giordania nel 1994.

112
esistenziale di Israele, e ha esortato i sostenitori a “cercare di fare di tutto affinché questo governo non si formi”.
[…] Una tale allegra fiducia che nessuno leggendo la loro dichiarazione sarebbe stato spinto a raccogliere
un’arma sarebbe sembrata spaventosamente ingenua anche senza i ricordi dell’assassinio di Rabin un quarto
di secolo fa. Sulla scia di quell’omicidio politico, compiuto da un uomo che sosteneva di credere di agire con
un qualche sostegno rabbinico e in accordo con la volontà, l’affermazione dei rabbini è oltremodo avventata 268.

Fa da contraltare all’integralismo fanatico dei rabbini citati, il commento a caldo che


scrisse all’indomani dell’omicidio di Rabin il rabbino Irving Greenberg, altrettanto
ortodosso (o forse anche di più) ma di opposte vedute:

C’è una profonda, triste ironia derivante dagli eccessi della destra politico-religiosa in Israele. Il
comportamento fanatico e violento dell'estrema destra ha creato, agli occhi del mondo, la stessa equivalenza
morale tra ebrei e arabi che la destra temeva. Il massacro di Baruch Goldstein ha spazzato via il riconoscimento
del diritto ebraico di tornare a Hebron, dove l'insediamento ebraico era stato interrotto da un pogrom
organizzato nel 1929. Ora i proiettili di Yigal Amir hanno dato credito all'affermazione che la pace è
ugualmente avversata sia da parte araba che da parte ebraica e che i pacificatori sono ugualmente condannati e
uccisi da entrambe le parti. Con le loro ideologie disumanizzanti e crudeli azioni, Goldstein, Amir e i loro
simpatizzanti hanno creato una doppia misura di chillul hashem (dissacrazione del Nome Divino e delle
persone ad esso associate). […] Sollevano la domanda pungente: i "valori ebraici distintivi" sono un eufemismo
per familismo amorale ed etica tribale? Molte persone dicono che se la distinzione ebraica significa omicidio,
allora dacci la "normalità" ebraica; l'umanesimo è più menschlich269.

Greenberg richiama l’attenzione sul dato più ovvio, eppure spesso taciuto: che niente
nuoce di più all’affermazione di una causa (in questo caso la bontà della fede ebraica) che
l’essere strumentalizzata per fini ad essa estranei.
L’apparente paralisi della situazione politica in Israele e nel Medio Oriente non può
ora impedirci, anche da osservatori privilegiati, di vedere che il grande lavoro di quella
stagione di speranza di pace spezzata dalla violenza cieca degli esaltati, ha lasciato un seme
profondo nella coscienza popolare, proprio attraverso la trasmissione di una memoria che,
ricordando il passato, si mantiene capace di immaginare un futuro diverso dal presente,
capace di perpetuare quel sogno di convivenza pacifica e magari anche di realizzarlo. Lo
testimoniano ogni anno le migliaia di persone, molte di loro giovani o giovanissime, che si
riuniscono spontaneamente a Rabin Square, teatro della tragedia di venticinque anni fa, per
ricordare quella fatidica notte. Anche quest’anno le persone convenute hanno acceso 25.000
candele. È una consuetudine nata nei giorni che seguirono l’omicidio, quando numerosi
adolescenti e giovani israeliani si riunirono per piangere e pregare nel luogo dell’assassinio
e, osservando la tradizione ebraica di accendere una candela in memoria di una persona cara
nell’anniversario della sua morte, accesero migliaia di luci, accalcandosi nella piazza fuori

268
D. HOROVITZ, When Shin Bet warns of political violence, Israel’s history requires we listen, in «The Times
of Israel», libera traduzione personale, 6 giugno 2021.
269
I. GREENBERG, Yitzahk Rabin and the ethic of jewish power, Clal, New York, 1995, p.7, libera traduzione
personale.

113
dal municipio di Tel Aviv. Quel gesto si ripete costantemente, e in modo particolare ogni 4
novembre, da parte di quella che da allora è stata chiamata “la generazione delle candele” e
che continua ancora far sentire la propria richiesta di pace.
Un sostegno alle dimostrazioni spontanee è dato anche dal Rabin Center, l’istituto
nazionale fondato dalla Knesset nel 1997 con il proposito di «portare avanti l’eredità del
defunto primo ministro, ricordare gli elementi cardine della storia di Israele per plasmare
una società e una leadership dedicate al dialogo aperto, al sionismo e alla coesione
sociale»270.
Forse il giorno dell’assassinio di Rabin non si è trasformato ancora nel giorno
dell’unità nazionale di Israele. Tuttavia resta un giorno segnato su ogni agenda e calendario
nazionale, e questo è di per sé significativo: quando un giorno è segnato è ricordato. Non
tutti i ricordi saranno identici, né tutti i discorsi avranno gli stessi contenuti; ma fino ad oggi
tutti ricordano quella pace sfiorata e mai vissuta.

Dio voglia che la scommessa della pace non venga fermata dalla sua morte e che l'accordo si dimostri
giustificato. Allora il mio nipotino di Gerusalemme di quattro anni, i cui genitori lo hanno accompagnato a
quella bara, che non capisce bene cosa sia successo, un giorno benedirà Rabin per averlo risparmiato dalle lotte
militari che hanno preceduto troppi dei migliori anni di suo padre271.

In conclusione, se guardiamo alla società israeliana oggi, vedendo le sue profonde


spaccature e confrontandole con l’Israele di 25 anni fa, realizziamo che la situazione non è
migliorata da allora. Ma questo rende ancora più importante e necessario custodire la
memoria di Yitzhak Rabin, esattamente come quella degli oltre 27000 giusti identificati dallo
Yad Vashem. Conoscere e far conoscere la vita di queste persone, la serietà delle loro scelte,
il fatto che in quel tempo si dicesse impossibile e inutile agire come loro hanno fatto, è il
maggiore argomento che si possa portare oggi in favore della speranza di pace.

Siamo noi contemporanei che determiniamo l’orizzonte dello sguardo del giusto. Lo collochiamo
esclusivamente nel passato se facciamo di lui un’icona da ammirare in lontananza. Lo facciamo rivivere se ci
permette di scoprire altri giusti in circostanze e in luoghi diversi. Renderemo il suo sguardo passivo e rivolto
all’indietro se confineremo la sua storia in un tempo che non ci appartiene più, mentre lo faremo guardare
avanti se ci porremo delle domande sulla nostra responsabilità individuale, se reagiremo di fronte a ogni
espressione del male, a ogni accenno di disumanizzazione degli esseri umani. I giusti ci hanno lasciato in
eredità il loro comportamento nei tempi oscuri, ma senza un testamento che ci possa orientare nel presente.
Dobbiamo decidere da soli272.

270
Sito istituzionale del Rabin Center [http://www.rabincenter.org.il], libera traduzione personale, consultato
il 9 giugno 2021.
271
I. GREENBERG, Yitzahk Rabin and the ethic of jewish power, Clal, New York, 1995, p.1, libera traduzione
personale.
272
G. NISSIM, Il tribunale del bene. La storia di Moshe Bejski, l’uomo che creò il Giardino dei giusti,
Mondadori, Milano, 2003, p.303.

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