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il mestiere di raccontare
il dovere di ricordare
a cura di
ADA NEIGER
Nel decimo anniversario del-
la scomparsa di Primo Levi il
convegno di Trento si è propo-
sto di delineare, al di là di ogni
intento celebrativo, un profilo
rigoroso dell’artista, accostando
le voci di alcuni studiosi della sua
opera letteraria a quelle di scrit-
tori che lo hanno conosciuto 0
per i quali la lettura dei suoi testi
ha rappresentato un momento
significativo di riflessione.
Ne emerge un ritratto di Pri-
mo Levi che considera al tempo
stesso le ragioni della sua voca-
zione di scrittore, l’importanza
della sua opera nel panorama let-
terario contemporaneo ed il signi-
ficato profondo della testimonian-
za che con essa ci ha lasciato.
STUDI
Digitized by the Internet Archive
in 2022 with funding from
Kahle/Austin Foundation
https://archive.org/details/primoleviilmesti0000unse
COMUNE DI TRENTO
SERVIZIO BIBLIOTECA E ARCHIVIO STORICO
in collaborazione con
Primo Levi
1] mestiere di raccontare
il dovere di ricordare
do
Pi N)
Metauro Edizioni
AA.VV. Primo Levi, il mestiere di raccontare, il dovere di ricordare,
a cura di ApA NEIGER
Metauro Edizioni, 1998
STUDI 2
ISBN 88-87543-01-1
Presentazione
MICAELA BERTOLDI
Primo Levi: in memoria. Il mestiere di raccontare,
il dovere di ricordare, interrogare il presente...
FERDINANDO CAMON
Primo Levi e la non-esistenza di Dio
FREDIANO SESSI
La letteratura concentrazionaria tra verità e finzione
a partire da Primo Levi
GIOVANNI TESIO
Primo Levi, scrittore di scrittura 31
Massimo RIZZANTE
Dell'ibrido: osservazioni su Primo Levi 45
ALESSANDRO SCARSELLA
Il centauro e la sirena: nota su Levi e Tomasi
ERALDO AFFINATI
Primo Levi: la responsabilità della parola SY
ADA NEIGER
Il risentimento del sopravvissuto. Una riflessione
intorno a Jean Améry e Primo Levi
CARMEN COvITO
L'influenza di Primo Levi su una generazione
che non ha conosciuto fame e guerra: una testimonianza
LUCA DE ANGELIS
Se questo è scrivere.
Una nota il più possibile chiara su Primo Levi 81
MARINA BIANCHI
Il lavoro di riparazione. Il messaggio di Primo Levi
e il nostro compito, oggi
PATRICK PAULETTO
«...E sceglierai la vita... » 109
Enzo RUTIGLIANO
Canetti-Levi: la metamorfosi nel Lager 19
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MICAELA BERTOLDI
Assessora all’istruzione,
educazione permanente e biblioteche
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FERDINANDO CAMON
non può avere giustizia per il semplice fatto che non può essere capi-
to, e non può essere capito perché non è in grado di esprimersi: per
raccontare ciò che su di lui è stato compiuto avrebbe bisogno di una
lingua nuova, che non c'è: ogni volta che per esprimere le cose del
suo mondo usa parole del nostro mondo, quelle cose diventano del
nostro mondo, smettono di essere uniche, diventano normali.
Scrive Primo Levi:
Levi: Devo dire che l'esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare
qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto.
Camon: Cioè: Auschwitz è la prova della non-esistenza di Dio?
Levi: C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. (Sul dattiloscritto, a matita,
ha aggiunto: Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo).
tesi dei colpevoli: sempre i colpevoli, man mano che venivano sco-
perti, si difendevano sostenendo che la colpa non era loro ma di chi li
comandava, e così di comando in comando, si sale sempre più in alto,
all'unico assoluto colpevole. Lentamente, questa tesi è stata abbando-
nata da tutti, anche in Germania: non è più vero che affermando la
responsabilità di un popolo si giudichi colpevole ogni membro di quel
popolo, individualmente preso, e dunque si faccia giustizia sommaria,
e perciò ingiusta: molto semplicemente si afferma una «responsabilità
collettiva» che un po' alla volta sta diventando la risposta definitiva a
questo problema.
Ma credo che qui ci fosse un limite forse consapevole, forse addi-
rittura intenzionale, nella visione di Levi: ha voluto astenersi lui dal
giudizio, non pronunciarlo mai, per portare tutti i suoi lettori a pro-
nunciarlo in sua vece. Esprimendo quel giudizio davanti a lui, non
facevo altro che pronunciare le parole che lui mi suggeriva. È stato un
momento in cui le parti si sono chiaramente rovesciate: in quelle pagi-
ne, nel testo della conversazione, i nostri nomi andrebbero invertiti, e
quel che dico io è semplicemente ciò che lui doveva dire.
17
FREDIANO SESSI
Il lager di Auschwitz era stato creato piuttosto tardi; era stato concepito fin
dall’inizio come campo di sterminio, non come campo di lavoro. Divenne campo di
n . n . . ORIO
lavoro solo verso il 1943, e soltanto in misura parziale ed in modo accessorio.
Nel 1933, nessuno tra gli esecutori poteva prevedere le misure che sarebbero
state prese nel 1938; né, nel 1938, quale forma avrebbe assunto l’impresa nel 1942.
La distruzione [degli Ebrei] fu un’operazione perseguita passo dopo passo; furono
rari i e in cui i funzionari poterono vedere lontano rispetto allo scopo o alla tappa
in Corso.
male '°). Solo nel 1942 cominciarono gli adattamenti della «casetta
rossa» e della «casetta bianca» (due fattorie ai margini del reticolato
di Birkenau) per trasformarle in camere a gas, mentre i quattro grandi
crematori vennero costruiti tra il marzo e il giugno del 1943. A quel
tempo, il progetto di deportare prigionieri di guerra russi e oppositori
al fine di farli lavorare per l’economia di guerra del grande Reich era
stato abbandonato e il Lager era stato trasformato in campo di stermi-
nio e di lavoro!!.
Un ultimo esempio da / sommersi e i salvati:
Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di
raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi,
appunto; ma è stato un discorso «per conto terzi», il racconto di cose viste da
vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera
compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la
sua morte.
La materia che deve trovar posto in questa parte è sterminata. Per capirne a
fondo il folle senso e compenetrarsene bisognerebbe aver trascinato molte vite nei
Lager, proprio in quelli dove non è possibile sopravvivere, senza privilegi, neppure
a una sola condanna [...]. Per questo tutti coloro che vi hanno attinto più profonda-
mente, e li hanno più pienamente provati, sono già nella tomba e non racconteranno
nulla; nessuno, mai, racconterà più l’essenziale su quei Lager".
2. Finzioni e verità.
C'erano degli scrittori nei campi di concentramento - scrive - ma non gli venne
mai in mente di utilizzare l’esperienza vissuta per scopi letterari. Nel 1943, mentre
eravamo reclusi, pensavamo di poter descrivere in un’opera di finzione i nostri
patimenti, ma capimmo assal ie la beffa di questo progetto. Non erava-
mo certo docili eroi da romanzo”
Non si chiama ajtrimenti che così, Zero Diciotto [...] e non è più un uomo.
Quando parla, quando guarda dà l'impressione di essere vuoto interiormente, nulla
più che un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni
attaccate con un filo ai sassi, e il vento le scuote. (P. Levi, in Se questo è un uomo).
Note
' Si veda per esempio lo studio di A. ParRAU, Écrire les camps, Paris, Belin,
1995, in particolare I, III e IV parte.
° E. WIEsEL, Ebreo Oggi, Brescia, Morcelliana, 1985, p. 213.
® Si veda il saggio di D. GOLDHAGEN, / volonterosi carnefici di Hitler, Milano,
Mondadori, 1997, edito in Italia con la revisione scientifica di uno storico del CDEC
di Milano. La rivista francese «Les Temps Modernes» n. 592 del febbraio-marzo
1997 dedica in proposito un serrato dibattito al libro che secondo R. Hilberg «esa-
gera l'estensione e la profondità dell’antisemitismo tedesco, ma nello stesso tempo
minimizza due fattori che rendono assai debole la sua tesi: gli esecutori non furono
tutti tedeschi, le vittime non furono solo gli ebrei» (cit., p.4). Con questo libro
«Goldhagen ci ha lasciato l’immagine di una sorta di incubo medievale, un demone
latente nascosto nello spirito tedesco e che aspettava la sua ora per uscirne fuori
29.
rità in divenire, in quanto la «trama delle parole» la rende non dicibile. Eppu-
re proprio Moravia e la Morante hanno lavorato sempre per render conto,
trovare uno spazio per ciò che è accaduto.
2 Danis Paguis (Romania 1930 - Gerusalemme 1986) è tradotto in francese e
si trova all’interno della raccolta a cura di M. ECKHART, B. ZIFFER, Chant d'Israel,
Paris, Ed. Caractères, 1984, p. 192. Il titolo del poema è Autobiografia.
2 J. CAYROL, Temoignage et littérature, «Esprit», aprile 1953, p. 575; ora
anche in Nuit et brouillard, Paris, Fayard, 1996.
RI WIESEL, Op. cit.
° J. CAYROL, op. cit., p. 577.
LI giudizio di Lanzmann si trova in S. FELMAN, Au sujet de Shoah, Paris,
Belin, 1990, p. 309.
2” R.ERRERA, La déportation comme best-seller, «Esprit», n. 12, dicembre
1969, pp. 918-921.
8 S. AGNON, cit. in «Pardès», Pensare Auschwitz, Milano, Tranchida, 1995, p.
80.
°° Qui basterà ricordare come C. WARDI professore all’ università d'Israele, ella
stessa sopravvissuta, nel suo saggio Génocide dans lafinction romanesque, Paris,
Puf, 1986, denunci l’estetizzazione della Shoah come un fatto estremamente peri-
coloso per la memoria stessa. Come non domandarsi quale futuro riservano al ri-
cordo della Shoah simili posizioni? E perché non sottolineare come la verità dentro
il racconto sia piuttosto verità in divenire (non verità di fatto), anche quando la
parola è del testimone diretto? Nessuno, probabilmente, è tutore della verità, nem-
meno gli storici che da tempo, come suggerisce R. Hilberg, ricorrono ai documenti
in volontari per ricostruire frammenti di storia.
DI BROSSAT, op. cit., p.300.
"Il riferimentoè al mio testo: La violenza rivi ssuta, «Alfabeta», n. 96 del
1987, pp. 7-8.
31
GIOVANNI TESIO
1. Sono ormai dieci gli anni trascorsi da quel mattino dell’ 11 aprile
quando cominciò a circolare la notizia del suicidio di Primo Levi.
Notizia tanto più incredibile per uno scrittore metodico e prudente
che aveva sempre dato di sé un'immagine di solida tenuta umana e di
grande razionalità. Levi era a poco a poco diventato il testimone idea-
le della città in cui non aveva mai smesso di abitare, l’immagine
emblematica della discrezione, del lavoro preciso, della geometria,
della democrazia, del legame etico tra tecnica e scienza. E vorrei
citare in proposito, tra le tante possibili, la testimonianza di un critico
avvertito come Massimo Mila (fulminante la sua definizione di Levi
come scrittore «umorista» fatta a poche ore dalla morte)', il quale in
un articolo su Casorati scrive:
Noi sentivamo, in maniera oscura ma certissima, che in quel mondo di stupiti silenzi,
in quelle deformate figure dalle estremità enormi, si annunciava una via d’uscita ai
nostri stessi problemi, si manifestava, già in tutto realizzata e compiuta, un’esperien-
za analoga a quella con cui noi ci stavamo tirando fuori, in quegli anni, dalla triplice
insidia della retorica carducciana, dell’estetismo dannunziano, e della crepuscolare
malinconia gozzaniana [...] Ora con la pittura di Casorati e con la musica di Casella
ci pareva che finalmente venisse alla luce quell’altra anima della città assai più nostra
e più vera: l’anima di Torino europea e moderna, Torino città d’ingegneri, di tecnici
ed’operai specializzati, gente dallo sguardo chiaro e snebbiato che misura con esat-
tezza icontorni delle cose, gente dal gesto sicuro dell’artigiano che conosce l’onestà
del lavoro ben fatto, del mestiere bene appreso, dell’articolo scrupolosamente fini-
to, e che non indulge a coprire coi vapori del sentimento e delle buone intenzioni le
magagne d’una tecnica zoppicante?.
Note
' M. MIA, // sapiente con la chiave a stella, «La Stampa», 14 aprile 1987,
poi in Id., Scritti civili, a cura di A. CAVAGLION, Torino, Einaudi, 1995, pp. 348-
350, (e ora anche nel n. 13 di «Riga», a cura di M. BeLPoLITI, Milano, Marcos y
Marcos, 1997, pp. 144-145).
2 In «La Biennale di Venezia», n.9, luglio 1952, Venezia, p.21 (macit. da A.
DRAGONE, Le arti figurative, in AA.VV., Torino 1920-1936, Torino, Edizioni Pro-
PElloNIO7OSp lO):
} T. S. ELIOT, Critici imperfetti, in Il bosco sacro, a cura di L. ANCESCHI,
Milano, Muggiani, 1946,p. 104.
4J. L. BoRGEs, Evaristo Carriego, in Tutte le opere, a cura di D. PORZIO, vol.
I, Milano, Mondadori, 1984, p.217.
°L CALVINO, // sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964, p. 8.
° Lettera del 22 novembre 1961, in I. CALVINO, / libri degli altri, a cura di G.
Tesro, Torino, Einaudi, 1991, p.382.
' Oltre al numero 13 di «Riga» già citato, il volume Primo Levi. Conversazioni
e interviste (1963-1987), Torino, Einaudi, 1997, e i due volumi delle Opere (con
Introduzione di D. DeL Giupice), Torino, Einaudi, 1997, pubblicati dopo il conve-
gno insieme con un altro volume Primo Levi: un'antologia della critica, a cura di
E. FERRERO, Torino, Einaudi, 1997.
*Tutte le citazioni (in parentesi) d’ora in avanti saranno tratte dal primo dei tre
volumi delle opere pubblicate nella collana einaudiana dell’ «Orsa» (comprendente
Se questo è un uomo, La tregua, Il sistema periodico, I sommersi e i salvati),
con Introduzione di C. Cases (L’ordine delle cose e l’ordine delle parole), Tori-
no, Einaudi, 1987.
° Per questo, il mio contributo Su alcune giunte e varianti di «Se questo è un
uomo», «Studi Piemontesi», novembre 1977, vol. VI fasc. 2, e ora in G. TEsIO,
Piemonte letterario dell’Otto-Novecento. Da Giovanni Faldella a Primo Levi,
Roma, Bulzoni, 1991, pp. 173-196.
39
Note
Massimo RIZZANTE
To sono un anfibio, un centauro (ho anche scritto dei racconti sui centauri)... IO
sono diviso in due metà. Una è quella della fabbrica, sono un tecnico, un chimico.
Un'altra, invece, è totalmente distaccata dalla prima, ed è quella nella quale scrivo,
rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti. Sono proprio
due mezzi cervelli".
To chimico, già esperto nelle affinità fra gli elementi, mi trovo sprovveduto da-
vanti alle affinità fra gli individui; qui veramente tutto è possibile, basta pensare a
certi matrimoni improbabili e duraturi, a certe amicizie asimmetriche e feconde”.
Io credo proprio che il mio destino profondo (il mio pianeta direbbe Don
Abbondio) sia l’ibridismo, la spaccatura. Italiano, ma ebreo. Chimico, ma scrittore.
Deportato, ma non tanto (o non sempre) disposto al lamento e alla querela. Ecco «a
domanda risponde»: è permesso non essere sempre seri, ma qualche volta sì e
qualche volta no? secondo me è permesso, e io ne approfitto; forse è proprio que-
sto il motivo che mi fa amare Rabelais, che era un uomo molto serio, studioso, colto,
celebre medico, ma che provava gusto nel ridere e nel far ridere*.
Esso contiene infatti una mirabile forza comica che scaturisce dal contrasto fra il
tessuto del discorso, che è il dialetto piemontese scabro, sobrio e laconico, mai
scritto se non per scommessa, e l’incastro ebraico, carpito alla remota lingua dei
padri, sacra e solenne, geologica, levigata dai millenni come l’alveo dei ghiacciai.
Ma questo contrasto ne rispecchia un altro, quello essenziale dell’ebraismo della
Diaspora, disperso fra le «genti» (i «g6jim», appunto), teso fra la vocazione divina e
49
la miseria quotidiana dell’esistenza; e un altro ancora, ben più generale, quello insito
nella condizione umana, poiché l’uomo è centauro, groviglio di carne e di mente, di
A 5
alito divino e di polvere”.
5. Anche quando parla o narra del Lager Levi usa il termine «ibri-
do».
Nel dialogo con Ferdinando Camon, ad esempio, Levi dice ad un
certo punto:
È in questo periodo - si parla della fine del ‘43, dopo Stalingrado - che si
costruisce Auschwitz, lager ibrido, anzi impero ibrido di lager: sterminio più sfrutta-
a Nava A 6
mento, anzi sterminio attraverso lo sfruttamento”.
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione,
origine, lingua cultura e costumi e siano quivi sottoposti ad un regime di vita costan-
te, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso
50
uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e
che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la
SUONI
vita .
Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è
realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è
anche una infelicità perfetta. Imomenti che si oppongono alla realizzazione di en-
trambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione
umana, nemica di ogni infinito”.
Note
ALESSANDRO SCARSELLA
Note
ERALDO AFFINATI
The wandering Jew: the suffering Jew / The despoiled Jew: the beaten
Jew / The Jew to burn: the Jew to gas / the Jew to humiliate / [...] The Jew
who can bejustifiably murdered because he is rich / [...] because he's poor/
The Jew whose plight engenders profound self-searchings / in certain
philosophical gentlemen who cherish him / to the degree he inspires their
shattering apergus / into the quality of modern civilization, their noble / and
eloquent thoughts on scapegoatism and unmerited agony?.
Note
* «Ein Jude kann beschrieben werden als jemand, der mehr Angst,
Mifìtrauen, Verdruf hat als seine Mitbiirger, die niemals verfolgt wurden [...]
denn er erwartet mit guten Griinden jederzeit eine neue Katastrophe», J. AMéRY,
Jenseits von Schuld und Siihne, Bewdiltigungsversuche eines Ùberwiiltigten,
|JSS], Stuttgart, Klett-Cotta, 1977, p. 120.
* Israel Lazarovitch, alias Irving Layton, nasce nel 1912 a Tirgut Neamt,
un paesino rumeno nei Carpazi Orientali da genitori di origine ebraica. Dal
1913 risiede a Montreal in Canada. Autore di opere in poesia e in prosa, ha
ottenuto numerosi riconoscimenti letterari ed è stato candidato per il premio
Nobel. Negli anni Sessanta mostra vivo interesse per l’evento storico del-
l’Olocausto. «La nozione di un mondo che uccide l'innocenza, o in cui homo
homini lupus riceve un più ampio significato sociale, culturale e religioso
nelle poesie in cui Layton tratta dei crimini orribili che le cosiddette società
civilizzate hanno perpetrato contro l'umanità, in particolare quanto fu fatto
agli Ebrei europei durante la seconda guerra mondiale», B. GORIUP, /ntrodu-
zione, in I. LAYTON, /! cacciatore sconcertato. The Baffled Hunter, a cura di
B. GorJup, F. VALENTE, Ravenna, Longo, 1993, pp. 33, 35.
° I. LAYTON, Etruscan Tombs, in Fortunate Exile, Toronto, MeClelland &
Stewart, 1987, p. 164.
© «I ask pardon for my abstracted gaze,/ my impatience with your slow
speech,/ your gentle all-forgiving smile./ I did not spend my best years/ in a
concentration camp; no vile humanoid ever/ menaced me with gun and whip/
or made me slaver for crusts/ urine-soiled and stale; no officered brute made
me kneel in shit», /bidem.
"I. LAYTON, Formy Sons, Max and David, in Fortunate Exile, cit., p. 145.
8 Cfr. E. TRAVERSO, Gli ebrei e la Germania: Auschwitz e la simbiosi ebrai-
co-tedesca, Bologna, il Mulino, 1994, p. 232.
° Ibidem.
!0 «Die Leuté rannten voran im verriickten Tempo, weil sie rennen muBten.
Hinter sich zu schauen war es ihnen nicht erlaubt», J. AméRrY, Unmeisterliche
Wanderjahre, Stuttgart, Ernst Klett, p. 109.
1 J. AMÉRY, op. cit., p. 8.
!? S. WIESENTHAL, Gli assassini sono tra noi, Milano, Garzanti, 1970, ci-
tato nella Prefazione in P. Levi, Isommersi e i salvati, in Opere, a cura di M.
BeLPOLITI, vol. II, Torino, Einaudi, 1997, p. 997.
13 J. AMÉRY, op. cit., p. 100.
14 «Es [das Ressentiment] nagelt jeden von uns fest ans Kreuz seiner
zerstòrten Vergangenheit. Absurd fordert es, das irreversible solle umgekehtt,
das Ereignis unereignet gemacht werden. Das Ressentiment blockiert den
Ausgang in dié eigentlich menschliche Dimension, die Zukunft», ivi, pp. 87-
88.
lslvip. 101
!6 «È stato ad Auschwitz e non soltanto ha resistito a quell’inferno, ma
non ha nemmeno permesso che quell’inferno alterasse la sua serenità di giu-
70
dizio e la sua bontà, che gli istillasse un pur legittimo odio, che offuscasse la
chiarità del suo sguardo. Se questo è un uomo - un libro che reincontreremo
al Giudizio Universale - offre un'immagine quasi lievemente attenuata del-
l’infamia, perché il testimone Levi racconta scrupolosamente ciò che ha vi-
sto di persona e, anziché calcare le tinte sullo sterminio come pure sarebbe
stato logico e comprensibile, vi allude pudicamente, quasi per rispetto a chi è
stato annientato dallo sterminio dal quale egli, in extremis, si è salvato. E
questo l’altissimo retaggio di Levi, che lo innalza al di sopra di qualsiasi
prestazione letteraria: la libertà perfino dinanzi al male e all’orrore, lassolu-
ta impenetrabilità alla loro violenza, che non solo distrugge ma anche avve-
lena. In questa tranquilla sovranità egli incarnava la regalità sabbatica ebrai-
ca», C. MAGRIS, citato in M. Dini, S. JEsURUM, Primo Levi. Le opere e i giorni,
Milano, Rizzoli, 1992, pp. 205-206.
! P. Levi, / sommersi e i salvati, in Opere, vol. II, cit., p. 1099.
!8 Ivi, p. 1098. «In certi momenti quasi quasi mi vergogno di non provare
odio, sembra che sia prescritto, sembra che sia concepito come una mostruo-
sità uno che non riesce materialmente a mobilitarsi nel senso dell’odio. Però
è proprio così, è vero, è una mia sordità, se vogliamo, una mia amputazione
psicologica che era già nota, non so se le può servire, al tempo in cui ero
studente ed ero già allora leggendario come Primo Levi che non si arrabbia
mai. I miei compagni di scuola cristiani, al tempo delle leggi razziali, aveva-
no notato questo e me lo rimproveravano amorevolmente..Io ero indignato,
ma manifestazioni clamorose non le posseggo. Non mi succede quasi mai di
perdere il controllo. L’odio in sé, l'ho scritto e lo ripeto, a cosa serve? Si
confonde con il desiderio di giustizia, ma son due cose diverse. In sé è mal
pilotato, può portare dei danni. Ho detto per paradosso che mi vergogno di
non odiare. In realtà mi trovo abbastanza bene così», P. LEVI, Conversazione
con Paola Valabrega, in M. BeLpoLITI, a cura di, Primo Levi, Milano, Marcos
y Marcos, 1997, p.81. Levi «non è moralmente neutro, e mai lo è stato. Non
è un ‘perdonatore’ (solamente qualcuno dalla coscienza offuscata può pre-
supporre di rivendicare tale diritto nell'interesse di chi è stato ucciso), e non
è dedito, come molti credono, a un’assenza di rancore verso gli strateghi
delle atrocità e i loro seguaci», C. OzicK, /{ messaggio d’addio, in E. FERRERO,
a cura di, Primo Levi: un'antologia della critica, Torino, Einaudi, 1997, p.
160. Levi «condivide il filone ebraico della tolleranza, che insieme alla parte
migliore della cultura ebraica è preservato nella diaspora», V. DE LUCA, Tra
Giobbe e i buchi neri. Le radici ebraiche dell’opera di Primo Levi, Presenta-
zione a cura di V.E. GIUNTELLA, Napoli, Istituto Grafico Editoriale Italiano,
1991, p. 7. Cfr. inoltre G. LERNER, /sraele in crisi, parla Primo Levi, «Espres-
so», 30 settembre 1984.
‘° P. LEVI, La tregua, in Opere, vol. I, cit., p. 206.
°° P. LEVI, Il sistema periodico, in Opere, vol. I, cit., p. 739.
2! C. CASES, Ricordo di Primo Levi, in G. FOLENA, a cura di, Tre narratori.
Calvino, Primo Levi, Parise, Padova, Liviana editrice, 1989, p. 101.
TA
“ «Forse quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi non si deve
22 x . x . .
LUCA DE ANGELIS
Se questo è scrivere
Una nota il più possibile chiara su Primo Levi
Anzitutto, vi sono due tipi di scrittori: coloro che scrivono per amore
della cosa, e coloro che scrivono per scrivere. I primi hanno avuto idee oppu-
re esperienze che sembrano loro degne di essere comunicate; i secondi hanno
bisogno di denaro e perciò scrivono per denaro. Essi pensano al fine di scri-
vere. Li si può riconoscere dalla tendenza a dare ai loro pensieri la maggiore
estensione possibile e a esporre anche pensieri veri a metà, pensieri contorti,
forzati e oscillanti; di solito, essi amano il chiaroscuro per poter apparire ciò
che non sono; per questa ragione ai loro scritti mancano precisione e comple-
ta chiarezza”.
non per le cose che narro. Sento talora l'insufficienza dello strumento.
Ineffabilità, si chiama, ed è una bellissima parola. Il nostro linguaggio è uma-
no, è nato per descrivere cose a dimensioni umane, (a Roberto Di Caro).
A distanza di anni, si può oggi bene affermare che la storia dei Lager è
stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ha scandagliato
il fondo. Chi lo ha fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione
era paralizzata dalla sofferenza e dall’incomprensione; [...] Il mondo in cui
ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era con-
forme ad alcun modello en
parola «nata dal silenzio» per il quale, dice Levi: «il discorso deve
farsi più serio e responsabile», così come deve farsi per le
rabdomanzie wieseliane del silenzio, cui si accennava.
In questa prospettiva la lucidità scientifico - cartesiana
propugnata dallo scrittore torinese doveva decisamente ridimen-
sionarsi per avviarsi a lasciare il posto ad un atteggiamento in ne-
gativo, che si trovava a fare i conti con l’ineffabilità della sua ma-
teria, con l’inefficacia dei suoi strumenti, e dunque con l’impossi-
bilità di una comunicazione adeguata, a dispetto del permanente e
rigido atteggiamento etico di Levi mirato ad una rappresentazione
che si voleva necessariamente chiara, ciò che appare come una
necessità dell’impossibile. Già è significativa l’analisi leviana di
questo caso particolare:
mente dire che le sue siano manchevolezze, o che sia stato cattivo
poeta perché oscuro. Nel corso della Commedia, le parole, man
mano che ci si allontana dall’umano e ci si avvicina alla Divinità o
alla sua Assenza, diventano sempre meno adeguate al compito di
tradurre la realtà. Nel canto estremo, il XXXIII del Paradiso, egli
tramite la Grazia si è levato ad un grado di potenza intellettiva al
più alto livello raggiungibile da intelletto umano, a quel punto «il
parlar nostro cede», «cede la memoria a tanto oltraggio», ‘oltrag-
gio’ che va inteso propriamente nel suo significato etimologico: di
ciò che va oltre, che eccede le possibilità dell’uomo. È l’afferma-
zione di un oltraggio sacro, e a quest’alto intendere non corrispon-
de un iinguaggio sufficiente, ma un balbettio informe di lattante
(«Omai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch’io ricordo, che
d’un fante / che bagni ancor la lingua alla mammella») qualcosa di
simile al mugolio animale, a quel «disarticolato balbettìo» di cui
parlava Levi a proposito del celaniano «mondo da riprodurre bal-
bettando» (Die nachzustotternde Welt) e questo vieppiù si pronun-
cia il verticalismo ascendente” .Il transumanare comporta questo.
Qualcosa di simile accade per il disumanizzare; del resto «là dove
si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio» e viceversa”.
Se questo è un uomo è anche un se questo è scrivere.
Trascinato negli inferi, all’estremo della sublimità del viaggio
spirituale dantesco, Primo Levi viene iniziato alla
disumanizzazione, alla progressiva «musulmanizzazione», alla ri-
duzione degli uomini a mere larve vegetative sancita ab inirio con
la privazione del nome che perde i caratteri connotanti per diveni-
re un mero guscio, un’ineffabile K kafkiana, di quel Kafka, secon-
do Levi, dotato di «una misteriosa sensibilità che permette a certe
creature di presentire 1 terremoti». Il proprio nome nei latrati del
linguaggio gergale del Lager, il tedesco definito terzii /Imperii, tan-
to che è stato possibile a Oliver Lustig di approntare un impressio-
nante Dizionario del Lager, si deforma in un altrettanto
spersonalizzato e contabile Aéftling 174517, inciso e tatuato,
azzurrognolo come l’inchiostro per una scrittura sulle carni nel
celebre racconto la Colonia Penale. In un recente entretien, Steiner
ritornando su un suo tema privilegiato, ricordava l’idea della
92
Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di
parole per questa offesa, per la demolizione di un uomo. In un attimo, con
intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata; siamo arrivati al fondo.
Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e
non è pensabile”.
Anche qui «il parlare cede» in un modo che non poteva essere
più evidente ed è messo in risalto dall’avvertimento del narratore;
la chiarezza e l’oscurità a questo punto non dipendevano unica-
mente da un'etica dello scrivere, e ancor meno erano vincolate da
ragioni squisitamente di stilistica letteraria.
Una delle primissime citazioni dantesche di Levi in Se questo è
un uomo, senz'altro quella più in evidenza, è questa: «Qui non ha
luogo il Santo Volto / qui si nuota altrimenti che nel Serchio».
Altrimenti detto, i demoni del Lager lo rendono cosciente che in
quel luogo infero era come se non fosse prevista la presenza di
Dio che si era ritratto dalla vista dell’uomo. Ha - Shem, il Nome,
aveva torto il Viso; il Santo Volto si era occultato, un'immagine
che Levi riprende per Shemà, la poesia proemiale di Se questo è un
uomo”°. La notte di Auschwitz era, dunque, l’eclisse di Dio (qual-
cuno ha pure detto che in quell’occasione Dio si era ucciso). Si era
nel Regno del Silenzio dove non erano ammesse interrogazioni:
«Il maresciallo dice che dovete fare silenzio, perché questa non è
una scuola rabbinica» traduce l’interprete alla folla dei traghettati,
«non cercare di capire» era «il primo detto sapienziale». Nelle ani-
me degli internati dell’universo concentrazionario si rievocò «un’an-
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goscia atavica, quella di cui si sente l’eco nel secondo versetto
della Genesi: l’angoscia inscritta in ognuno del “tòhu vavòhu”,
dell’universo deserto e vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio,
ma da cui lo spirito dell’uomo è assente: «non ancora nato o già
spento». Storicamente:
Scrittore per caso, per necessità vitale, poi per lottare con la
realtà teologica del Silenzio e con l’assenza di significato. Nella
sua professione di uomo di scienza, di laicismo e di agnosticismo
la posizione di Levi risultava ancor più difficile e disperata per il
fatto di non sapere chi si era. Non sapere che cosa significa essere
ebreo (che non poteva esser certamente ridotto ad «una piccola
anomalia allegra» come era vissuto da Levi prima della
deportazione) lasciava sprovvisti di quella minima riserva interio-
re che invece possedeva l’ebreo credente. Veniva a mancare la
consapevolezza del lato metastorico e metafisico della Notte di
Auschwitz: nessuno storico, sociologo, psicologo o chi per essi è
riuscito a spiegare l’ Evento Shoah, che non solo è irraggiungibile,
ma anche umanamente inaccettabile. Si è osservato, tra l’altro,
che gli scrittori del genocidio raramente si sono resi conto di assu-
mere non solo il ruolo degli storici, ma anche di teologi della cul-
tura, a molti sfuggì il fatto che fondamentalmente avessero non
solo udito ma anche confusamente raccontato il Silenzio di Dio,
tanto più l’ebreo, al quale Steiner ha diagnosticato a ragione il ma/
di Dio.
Il sopravvissuto di Auschwitz ricerca un significato qualsiasi
esso sia, vuole anzitutto comprendere pur nella sua paura di com-
prendere; e lo può pretendere, poiché «seul homme qui avait
reconnu le Dieu voilé peut exiger ce dévoilement» scriveva
Lévinas”.
L’Emunà, la fede vera dell’ebreo credente è definita la cono-
scenza del cieco, e lo Zohar insegna che l’esperienza del fuoco
nero, della luce nel buio è più profonda. Più che ribellarsi contro
l’oscurità con la chiarezza della ragione umana, in sé qualcosa che
sfiorava il feticismo, si trattava forse di riconoscere che di chiaro
c’era solo l’oscurità. Ma è difficile accettare la chiarezza oscura
dell’inintelligibile, quella componente paradossale così animosa
all’interno dell’ebraismo, per cui «Dio è eloquente nel silenzio con
i giusti; è silenzioso nell’eloquenza con i malvagi», come non è
facile vivere il cammino verso la redenzione come un transito at-
traverso stazioni di buio e di solitudine, auscultare una sottile voce
di silenzio, una voce di silenzio simile ad un soffio”.
96
Note
tà, «Il Tempo», 3 Luglio 1983, ora in «Riga», cit., p. 28. Sul sensus propheticus
e sulle premonizioni kafkiane cfr. G. STEINER, op. cit., pp. 68, 143. Mentre
Meghnagi nell’articolo succitato scrive: «Kafka parla prima dell’avvento del
nazismo e la sua scrittura, quando si confronta con gli abissi dell’orrore, non
può che essere evocativa, oscura mai chiara, perché nemmeno a lui era dato
percepire con chiarezza da dove sgorgava e prendeva corpo la sua parola.
[...] storicamente, la scrittura di Kafka paria sull’orlo di un abisso e nel fon-
do di quell’abisso c'è Auschwitz. Kafka prefigura nella condizione del sig.
K. il destino a cui sono esposti gli ebrei, e ogni uomo, in una situazione
limite. Nella sua febbrilità lo scrittore praghese poteva intuirlo, ma non aver-
lo chiaro, poteva dirlo senza saperlo, alla maniera degli animali da preda,
quando istintivamente sentono avvicinarsi il pericolo, ma non ne sanno l’ori-
gine», D. MEGHNAGI, op. cit., p. 55.
°° G. STEINER, Culture et barbarie , entretien avec Antoine Spire, «La
Nouvelle Revue Frangaise», Juin 1997, n. 533, p. 61.
° P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1989, PA2SI
°° «Dieu qui se voile la face n’est pas, pensons - nous, une abstraction de
103
théologien ni une image de poéte. C’est l’heure où l’individu juste ne trouve
aucun recours extérieur, où aucune institution ne le protége, où la consolation
de la présence divine dans le sentiment religieux enfantin se refuse elle aussi,
où l’individu ne peut triompher que dans sa conscience, c’est - à dire
nécessairement dans la souffrance. Sens spécifiquement juif de la souffrance
qui ne prend à aucun moment la valeur d’une expiation mystique pour les
péchés du monde. La position des victimes dans un mond en désordre, c’est-
à - dire dans un monde où le bien n’arrive pas à triompher, est souffrance.
Elle révèle un Dieu qui, renongantà toute manifestation secourable, en appelle
à la pleine maturité de l'homme responsable intégralement», E. Lévinas, Dif-
ficile Liberté, Paris, Albin Michel, 1990, p. 203.
2? P.Levi, / sommersi e i salvati, cit., p. 66.
Se) Quinzio, Le radici ebraiche del moderno, Milano, Adelphi, 1990,
pp. 155-163.
°° E. WieseL, Tutti ifiumi vanno al mare, cit., p. 168.
°° P. HANDKE, // peso del mondo, Milano, Guanda, 1981, p. 67.
Era la risposta, che è ovviamente una domanda, che Wiesel ricevette
da Rabbi Menahem - Mendel - Schneersohn di Lubavitch («Dopo Auschwitz,
come si può non credere in Dio»). Elie spiega le diversità che vi sono tra lui
ed il suo amico Primo, motivando i fondamenti del suo bisogno di credere
ancora: «si rifiuta di capire come il suo ex compagno di Buna possa conti-
nuare a definirsi credente. Perché lui, Primo, non lo è. Non vuole esserlo. Ha
visto troppe sofferenze umane (le stesse) per rompere con il passato e rifiuta-
re l’eredità di quanti le hanno subite». E ancora «avevo bisogno di Dio, Pri-
mo no» almeno così poté sembrare anche a Levi, ma le conclusioni cui giun-
gono i compagni di Buna sono pressoché identiche. Wiesel: «Auschwitz non
è concepibile né con Dio né senza Dio. Forse un giorno capirò il ruolo del-
l’uomo nel mistero che Auschwitz rappresenta, ma il ruolo di Dio non lo
capirò mai», E. WieseL, Tutti i fiumi vanno al mare, cit. pp. 100, 102. Per
quanto riguarda Levi, Ferdinando Camon ricorda come durante la revisione
del dattiloscritto vicino all’affermazione «C'è Auschwitz, quindi non può
esserci Dio» significativamente avesse integrato con la matita in questo modo:
«Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo», F. CAMON,
SITE con Primo Levi ,Parma, Guanda, 1997, p. 72.
Ùst LÉVvINAS, op. cit., p. 205.
è Il rabbino Carucci Viterbi in un »illuminante riflessione ha sviluppato
questo tema, mostrandone alcuni aspetti vitali e fondamentali: «/{{em vuol
dire muto, E/ vuol dire divinità. ‘Chi è come te tra i silenziosi che vedi l’offe-
sa e la sofferenza del popolo e taci non facendo niente” [...] Ma il termine
illem può essere letto anche alim: forte, resistente, prepotente. Dio allora
diventa Colui che si trattiene, Colui che fa violenza a Se stesso per non reagi-
re, Colui che non si affretta a punire [...] Dio non punisce immediatamente
104
Il lavoro di riparazione
Il messaggio di Primo Levi e il nostro compito, oggi
Anche nella sua ultima opera / sommersi e i salvati Primo Levi ha elevato
un tributo a chi non era riuscito a sopravvivere, ha reso omaggio ai veri mar-
tiri, a coloro che non sono sopravvissuti, sommersi dall'orrore. Ma chi ha
vissuto l'orrore dei campi si porta dietro quel ricordo che è come una malat-
tia. È successo purtroppo a tanti prima di lui.
na, come nel caso di Levi e di tutti quei sopravvissuti che si sono
rimmessi nel flusso delle cose, della rinascita, dell'azione, sempre
portando e cercando di condividere testimonianze e riflessione.
Da parte loro un lavoro di rielaborazione non è certo mancato; ma
quanti deportati e scampati, uomini e donne, adulti e bambini o
ragazzi, sono tornati senza parole in fabbrica, nei paesi, nelle fa-
miglie. I figli ora ci dicono: «non ne vuole mai parlare... Da picco-
li, non ha mai voluto dirci niente...». C'è stata, c'è ancora, la solitu-
dine dei salvati, sia di quelli che tacciono, che di quelli che hanno
preso la parola. Perché dev'essere pesante doversi sempre assume-
re l'iniziativa della verità, e fare il primo passo verso gli altri. Quanti
di noi hanno chiesto, e continuano a chiedere: «Per favore, diteci
tutto, voi che ci siete passati. Lo sappiamo che per voi è duro e
difficile ritornare a quei tempi, ma fatelo per noi, dobbiamo sape-
re»?
È mancato un lavoro di riparazione sociale che non fosse sol-
tanto rituale (anche se questo continua ad avere la sua importanza,
guai se venisse a cadere), è mancato un apprendimento collettivo
attraverso il riconoscimento delle vittime.
Il lutto, perché sia efficace, non può essere soltanto individua-
le: abbiamo bisogno di persone intorno che partecipino, che sap-
piano essere presenti, che facciano da ponte da una realtà all'altra,
che creino delle possibilità di sopravvivenza, di ricordo, di conti-
nuità. Questo tipo di lutto collettivo, che può creare una fascia di
protezione intorno alle vittime, è stato e rimane molto sporadico
ed occasionale: è un'occasione mancata per tutti di riparazione. La
riparazione è una capacità civile che si crea, si apprende, ed è in
rapporto diretto con la capacità di lutto.
È vero che la scrittura è stata per anni una forma di autoterapia,
e continua ad esserlo. In Germania, ad esempio, continuano ad
uscire opere prime, soprattutto di donne, che soltanto negli anni
più recenti sono riuscite a portare alla luce le loro memorie sui
campi di sterminio. La riparazione però è un lavoro che tocca alla
società, alla comunità locale e internazionale, ai contemporanei e
ai posteri delle vittime: fa parte delle nostre responsabilità. Nel
secondo dopoguerra sono stati fatti ad esempio in alcuni Stati in-
107
terventi di tipo legale e finanziario, di risarcimento alle vittime che
anche su questo piano rimangono ampiamente in credito. Vi sono
inoltre iniziative individuali di privati, di eredi di beni acquistati a
prezzi molto bassi da ebrei in fuga: questi eredi rifiutano oggi ciò
che i genitori hanno ottenuto grazie alle ingiustizie e alle persecu-
zioni, e si mettono alla ricerca degli antichi proprietari, o dei loro
figli, perché vogliono riparare. Questa è una forma di riparazione
molto importante, anche sul piano simbolico, della quale si scrive
e si riporta molto poco!
Da un paio d'anni mi sto documentando sulla condizione di
profugo e di rifugiato, sui diritti umani, sugli interventi di «ripara-
zione» successivi alle guerre, alle guerre civili, per il mio lavoro di
insegnamento. Leggendo dati e materiali provenienti soprattutto
dall'ONU, da AMNESTY INTERNATIONAL e dalle altre orga-
nizzazioni peridiritti umani, pensando ai campi di concentramen-
to inJugoslavia, ci si rende conto della vastità della violazione dei
diritti umani nel mondo, della diffusione della pratica della tortura
anche in Europa e dell'enorme compito di riparazione a cui è chia-
mata la nostra generazione, e che aspetta la successiva. Devono
essere Impediti la solitudine e l'abbandono delle vittime: ora che -
diversamente dagli anni Quaranta-Cinquanta - le tecniche
terapeutiche specifiche per chi ha subito prigionia, isolamento, tor-
ture, traumi sono note e sviluppate, possiamo far sì che molte vit-
time, diversamente da Primo Levi, possano essere efficacemente
aiutate. Con i mezzi scientifici maturati attraverso tante sofferen-
ze, possiamo intervenire e aiutare, qui ed ora, i bambini
traumatizzati del Ruanda, le donne violentate nella ex-Jugoslavia,
i rifugiati e le vittime delle minoranze perseguitate.
Ma la mobilitazione e la preparazione professionale degli ad-
detti ai lavori non sono sufficienti, è importante produrre tra inse-
gnanti, operatori sociali, medici, ricercatori, una cultura diffusa di
comprensione e attenzione, che consenta di aiutare in modo cor-
retto e rispettoso, sapendo che non tutte le vittime sono riconosci-
bili o identificabili.
La prevenzione di guerre e genocidi è inoltre l'obiettivo senza il
quale la sola riparazione resta un assurdo.
108
Note
PATRICK PAULETTO
Intelligenza e cuore
Un barlume di eternità filtra sempre nelle mie più piccole azioni e perce-
zioni quotidiane. Io non sono sola nella mia stanchezza malattia tristezza o
paura, ma sono insieme con milioni di persone, di tanti secoli: anche questo
fa parte della vita che è pur bella e ricca di significato nella sua assurdità, se
vi si fa posto per tutto e se la si sente come un’unità indivisibile. Così, in un
modo o nell’altro, la vita diventa un insieme compiuto; ma si fa veramente
assurda non appena se ne accetta o rifiuta una parte a piacere, proprio perché
essa perde allora la sua globalità e diventa tutta quanta arbitraria, (E. HiLLEsuM,
Diario 1941-1943).
Note
Enzo RUTIGLIANO
Ancora una volta siamo ai piedi della catasta. Mischa e il Galiziano alza-
no un supporto e ce lo posano con malgarbo sulle spalle. E il loro posto è il
meno faticoso, perciò essi fanno sfoggio di zelo per conservarlo: chiamano i
compagni che indugiano, incitano, esortano, impongono al lavoro un ritmo
insostenibile. Questo mi riempie di sdegno, pure già so ormai che è nel nor-
male ordine delle cose che i privilegiati opprimano i non privilegiat: su que-
sta legge umana si regge la struttura sociale del campo. (S.0Q. 50).
Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si
ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e
del campo. L’esperienza ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in
questo modo durare più di tre mesi. Tutti i mussulmani che vanno in gas
122
hanno la stessa storia, 0, per meglio dire, non hanno storia; hanno seguito il
pendio fino al fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare. Entra-
ti in campo, per loro essenziale incapacità, 0 per sventura, o per un qualsiasi
banale incidente, sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi; sono
battuti sul tempo, non cominciano a imparare il tedesco e a discernere qual-
cosa nell’infernale groviglio di leggi e di divieti, che quando il loro corpo è
già in sfacelo, e nulla li potrebbe più salvare dalla selezione o dalla morte per
deperimento. La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato; sono loro,
i Muselmàinner, i sommersi, il nerbo del campo. (5.0. 81).
Ma, così stando le cose, come mai i salvati si sono salvati, per-
ché alcuni sono riusciti a resistere fino alla fine pur non essendosi
adattati nel senso di acquattarsi in quella che Levi chiama la «zona
grigia» cioè in quel settore dove non vi è più differenza tra vittima
e carnefice? La zona dei preminenti dove la metamorfosi raggiun-
ge Il suo apice e il suo successo sia della sopravvivenza sia di ciò
che il sistema dei campi perseguiva: distruggere ciò che di umano
c’è nell'uomo?
In altre parole, perché sono riusciti a sopravvivere Levi,
Bettelheim, Améry?
È in Canetti e in una delle sue accezioni della metamorfosi che
troviamo la risposta.
La caparbietà di Canetti nella sua lotta contro la morte lo porta
verso la ricerca e la formulazione di una terza accezione del con-
cetto di metamorfosi questa sì vittoriosa contro la morte, quella
contenuta nel discorso di Monaco del 1976 sulla missione dello
scrittore. E tuttavia in questa ultima forma, la metamorfosi è effi-
cace a una condizione, che si rovesci nel suo contrario. Non sono
cioè le vittime che si trasformano ma colui che le salva che si
trasforma accogliendole in sé, trasformandosi in loro e così sal-
vandole dall’oblio, dando loro voce: cioè lo scrittore (Dichter). Si
tratta qui dello scrittore come custode delle metamorfosi - dice
Canetti:
Sono dunque incline a ravvisare la vera missione dello scrittore nel suo
esercizio ininterrotto della metamorfosi nel suo bisogno stringente di calarsi
nelle esperienze di uomini di ogni tipo, di tutti i tipi ma specialmente di
quelli che sono meno considerati nel far uso di questa capacità senza mai
stancarsi (C.P. 391) [...] Queste figure sono la sua molteplicità articolata e
consapevole, e siccome vivono dentro di Ini rappresentano la sua resistenza
alla morte. (C.P. 393).
Bibliografia
TOMASI DI LAMPEDUSA G., 53-56. WieseL E., 25, 28 n, 30 n, 81, 83, 84,
MRARTIGRO7A 87, 89, 93, 94, 96, 97, 101-104.
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NOTE
NOTE
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NOTE
NOTE
Finito di stampare nel dicembre 1998
presso la tipografia Metauro Edizioni
Fossombrone (Pesaro)
Printed in Italy
illimh
na hOllsco ile Ga
LIMI
olaiste
30098 0719
3 1111
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MICAELA BERTOLDI
MARINA BIANCHI
FERDINANDO CAMON
PAANINI.GAY UNIT. O7V:731
CARMEN CoviITO
LUCA DE ANGELIS
ADA NEIGER
PATRICK PAULETTO
IM ENSSVTOR IVZZANIO
IONVAOR LUI (ETTI)
ALESSANDRO SCARSELLA
FREDIANO SESSI
[GICONV ININI iINTO)
L. 14.000 i.c.