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Primo Levi

il mestiere di raccontare
il dovere di ricordare

a cura di
ADA NEIGER
Nel decimo anniversario del-
la scomparsa di Primo Levi il
convegno di Trento si è propo-
sto di delineare, al di là di ogni
intento celebrativo, un profilo
rigoroso dell’artista, accostando
le voci di alcuni studiosi della sua
opera letteraria a quelle di scrit-
tori che lo hanno conosciuto 0
per i quali la lettura dei suoi testi
ha rappresentato un momento
significativo di riflessione.
Ne emerge un ritratto di Pri-
mo Levi che considera al tempo
stesso le ragioni della sua voca-
zione di scrittore, l’importanza
della sua opera nel panorama let-
terario contemporaneo ed il signi-
ficato profondo della testimonian-
za che con essa ci ha lasciato.
STUDI
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in 2022 with funding from
Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/primoleviilmesti0000unse
COMUNE DI TRENTO
SERVIZIO BIBLIOTECA E ARCHIVIO STORICO
in collaborazione con

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO

Primo Levi
1] mestiere di raccontare
il dovere di ricordare

a cura di ADA NEIGER

ATTI DEL CONVEGNO


TRENTO, 14 MaggIO 1997

do
Pi N)

Metauro Edizioni
AA.VV. Primo Levi, il mestiere di raccontare, il dovere di ricordare,
a cura di ApA NEIGER
Metauro Edizioni, 1998
STUDI 2

Copyryght © by Metauro Edizioni s.n.c.


Via Flaminia Est, Km 261,200, 61034 Fossombrone (PS)
Tel. e Fax 0721/714775 - 742133
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@ metauro.it

ISBN 88-87543-01-1

E vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,


compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Indice

Presentazione

MICAELA BERTOLDI
Primo Levi: in memoria. Il mestiere di raccontare,
il dovere di ricordare, interrogare il presente...

FERDINANDO CAMON
Primo Levi e la non-esistenza di Dio

FREDIANO SESSI
La letteratura concentrazionaria tra verità e finzione
a partire da Primo Levi

GIOVANNI TESIO
Primo Levi, scrittore di scrittura 31

ANNA MARIA CARPI


La tregua, lingua materna, lingue di babele

Massimo RIZZANTE
Dell'ibrido: osservazioni su Primo Levi 45
ALESSANDRO SCARSELLA
Il centauro e la sirena: nota su Levi e Tomasi

ERALDO AFFINATI
Primo Levi: la responsabilità della parola SY

ADA NEIGER
Il risentimento del sopravvissuto. Una riflessione
intorno a Jean Améry e Primo Levi
CARMEN COvITO
L'influenza di Primo Levi su una generazione
che non ha conosciuto fame e guerra: una testimonianza

LUCA DE ANGELIS
Se questo è scrivere.
Una nota il più possibile chiara su Primo Levi 81

MARINA BIANCHI
Il lavoro di riparazione. Il messaggio di Primo Levi
e il nostro compito, oggi

PATRICK PAULETTO
«...E sceglierai la vita... » 109

Enzo RUTIGLIANO
Canetti-Levi: la metamorfosi nel Lager 19

Indice dei nomi 127


Presentazione

Dimesso il tono ora enfatico spesso retorico che tanta parte ha


avuto in talune celebrazioni del decennale della scomparsa di Levi,
l'incontro di Trento - doveroso omaggio a un sopravvissuto all'inferno
concentrazionario che ha saputo distillare l'arte dall'orrore - si è pro-
posto di compiere una ricognizione del pianeta Levi che non percorra
sentieri già battuti. Ha voluto delineare un nitido e rigoroso profilo
dell'artista senza cedimenti a un facile sentimentalismo, senza soffer-
marsi sul gesto di Primo Levi che decide di uscire dal palcoscenico
della vita senza fornire motivazioni e senza attendere la chiamata del
buttafuori.
C'è un passo di Se questo è un uomo che ci piace qui ricordare:
«Clausner mi mostra il fondo della sua gamella. Là dove gli altri inci-
dono il loro numero e Alberto e io abbiamo inciso il nostro nome,
Clausner ha scritto:"Ne pas chercher à comprendre"». Nella
spersonalizzante istituzione del Lager molti prigionieri hanno forse
smarrito la propria identità e per questo motivo incidono il proprio
numero di matricola e non il loro nome sul recipiente del rancio. È
questo il caso del giovane Null Achtzehn / Zero Diciotto, un altro
personaggio del romanzo. Alberto invece è una creatura, tra tanti
schiavi, prigionieri, aguzzini e non-uomini che è riuscita a conservare
«Ja sua umanità [...] pura e incontaminata [perché egli non è parteci-
pe di quel] mondo di negazione». Alberto e Primo incidono il loro
nome sul fondo della gamella per ribadire l'indefettibile volontà di
proteggerela propria insidiata identità. Clausner si comporta diversa-
mente da tutti i suoi compagni di sventura e incide sulla gavetta una
frase amara, quasi un monito rivoito a se stesso a non cercare di
comprendere la mostruosa, criminale - e ai suoi occhi inspiegabile -
legge del campo di sterminio.
Gli studiosi convenuti a Trento hanno espresso un altro proposito,
quello di «Chercher à comprendre» di cercare di capire e attingendo a
quel ricco serbatoio della memoria, traboccante di dolente umanità,
che è l'opera di Levi hanno tentato di interrogarsi sul significato del
comportamento di vittime e carnefici. «Forse quanto è avvenuto non
si può comprendere, anzi non si deve comprendere, perché compren-
dere è quasi giustificare» questo il timore espresso da Levi stesso
nell'Appendice a Se questo è un uomo. Ma l'obiettivo del Convegno è
stato quello di non permettere che sulla fragile memoria umana si posi
una coltre di polvere. In una poesia del 1984 intitolata appunto Polve-
re così Levi ce la descrive,

La polvere non ha peso né suono


Né colore né scopo: vela e nega,
Oblitera, nasconde e paralizza;
Non uccide, ma spegne.

Il convegno di Trento ha voluto contribuire ad allontanare il peri-


colo che la polvere dell'oblio annebbi intelletti e cuori rinfrescando il
ricordo del passato affinché l'esercito dei morti nei campi di distruzio-
ne non sia morto invano.

Gt
MICAELA BERTOLDI
Assessora all’istruzione,
educazione permanente e biblioteche

Primo Levi: in memoria


Il mestiere di raccontare, il dovere di ricordare, interrogare il presente.....

Questo Convegno nasce come bisogno, maturato in più ambiti, di


concorrere a fare incontrare la generazione dei ragazzi di oggi con
l’esperienza e la storia individuale e collettiva che hanno intriso la
scrittura di Primo Levi.
Parlando di diversi ambiti intendevo riferirmi alla realtà dell’ Am-
ministrazione comunale e a quella dell’ Università che, in virtù delle
loro specifiche funzioni istitutive, hanno sentito il dovere di aprirsi
reciprocamente e collaborare per realizzare questo momento di rifles-
sione.
Una riflessione «in memoria», che tutto si prefigge fuorché di
essere celebrativa o ritualistica, perché quello sarebbe il peggiore modo
per avvicinarsi al discorso di Levi, quasi annullandone l’essenza.
Abbiamo voluto sottolineare (ed approfondire negli interventi dei
relatori) innanzitutto il mestiere di raccontare, quel mestiere che Levi
ha saputo svolgere in modo denso, attraverso «l’ideale realizzato di
una lingua, precisa, chiara, distinta, trasparente verso il senso e la
comunicazione», attraverso il «gusto della brevitas pregnante, del-
l'economia ed essenzialità linguistica, alieno da amplificazioni e
ridondanze» (Pier Vincenzo Mengaldo).
Della sua scrittura egli stesso disse: «La precisione e la concisione
che, a quanto mi si dice, sono il mio modo di scrivere, mi sono venute
dal mestiere di chimico [...] scrivo perché sono un chimico: il mio
vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo».
Ed è un livello di discussione interessante, che merita oltre che
un’analisi a sé, anche quell’attenzione consapevole dell’importanza
dell’intreccio fra competenze diverse, fra campi disciplinari diversi
che permettono di illuminarsi vicendevolmente.
In secondo luogo il Convegno si prefigge di mettere a fuoco il
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dovere di ricordare, quanto mai d’attualità oggi, quando in questa


società dei media l'eccedenza di informazioni, di notizie, di spot pro-
duce irradiamento di dati senza fornire chiavi interpretative, paradigmi
guida.
Fin da bambini si è immersi in un caos di input e il rischio della
superficialità delle conoscenze, della confusione, del rumore di fondo
in cui è in agguato il pericolo della semplificazione e dell’ autoritari-
smo, è rischio pesante, che sconfina con l’impossibilità di avere reale
facoltà di compiere delle scelte, poiché scarsi diventano i punti di
riferimento.
La scuola ha il compito di porre rimedio a questo rischio, dotando
di strumenti per orientarsi, per setacciare la massa delle informazioni,
per fermarsi sugli eventi storici che hanno segnato questo secolo.
Ed Auschwitz ha marchiato a sangue la storia, chiama in causa le
coscienze dei popoli, la nostra coscienza individuale. Ricordare quin-
di per non avere nessun alibi di impossibili estraneità dietro cui na-
scondersi, per sentirsi chiamati in causa e non trincerarsi dietro la
presunta non conoscenza delle efferatezze umane.
È importante infatti, io ritengo, il contributo che Levi ci ha lasciato
riportandoci quel suo dibattersi a proposito della responsabilità, della
colpa: un travaglio che l’ha condotto fino alla sua ultima decisione di
abbandonare la vita.
In Lilit egli ci ricorda: «È tipico dei regimi in cui tutto il potere
piove dall’alto e nessuna critica può salire dal basso, di svigorire e
confondere la capacità di giudizio e di creare una vasta fascia di co-
scienze grigie che sta fra i grandi del male e le vittime pure [...]».
C’è un mettere in guardia dai regimi autoritari e totalizzanti, ma
c’è anche un richiamo a quella zona grigia, in cui si situa chi sta fra i
sommersi e i salvati, chi si bilancia fra compromissioni col sistema e
slanci di autenticità.
C'è intima convinzione che non è possibile ragionare in termini
netti di chiaro e scuro, che la collocazione soggettiva di ogni persona
va continuamente ridefinita, poiché ogni persona può albergare in sé
la belva, il conflitto e deve fare i conti con una possibile zona grigia
entro di sé, senza accettare di adeguarsi ad essa.
In Levi troviamo una drammatica e sofferta critica verso ogni
logica che riduce l’uomo alla cosa, poiché, come egli dice: «Parte del
tel

nostro esistere ha sede nell’anima di chi ci accosta: ecco perché non è


umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una
cosa agli occhi dell’uomo» (Se questo è un uomo).
Egli, insieme ad Alberto e a Charles, ne fu immune, grazie all’ami-
cizia e allo scambio umano per cui seppero confermarsi mutua grati-
tudine.
In terzo luogo il Convegno si propone di interrogare il presente.
Proprio in relazione a quanto fin qui accennato, è importante la
questione dell’attualizzazione di ciò che si può apprendere dalla scrit-
tura di Primo Levi.
E se egli ha messo in guardia dall’ubriacatura del potere, dalla
cosificazione dell’umanità, dal razzismo xenofobo, allora spetta a noi
chiederci dove si annidi e quale sia analogo pericolo ai nostri giorni.
E deve rientrare a pieno titolo nella nostra vita e fra i contenuti dei
luoghi in cui si studia e ci si prepara al domani, quella ricerca di
conoscenza sulle situazioni di ingiustizia sociale, sui regimi
antidemocratici, sulle ideologie integraliste, sui metodi di segregazione
e di pulizia etnica utilizzati durante le guerre come è accaduto in Jugo-
slavia, come - sotto altre forme - accade nell' Africa dei Laghi, in
Burundi, in Ruanda o in Algeria e nei tanti paesi dove, in nome di
interessi superiori ed economici, la vita di donne e uomini e bambini
non conta nulla.
Ma anche non è possibile tralasciare la necessità di scelte di civiltà
qui ed ora, ogni volta che si pongono problemi di immigrazioni, di
profughi che arrivano in Italia, di gente che ha bisogno di aiuti e
solidarietà.
Non è affatto indifferente come ciascuno di noi si colloca di fron-
te a tutto ciò: a nessuno sarà concesso di fronte a se stesso di dire «io
non c’ero, io non sapevo, io non c'entro».
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FERDINANDO CAMON

Primo Levi e la non-esistenza di Dio

Parlerò qui oggi di Primo Levi nell'unico modo in cui mi è possibi-


le: ho sempre letto Primo Levi come testimone a carico, e nello stesso
tempo corpo del reato, delle colpe di una civiltà e di una storia da cui
veniamo, la civiltà cristiana europea. Sono andato a trovarlo, non
molte volte, non abbastanza, per rispondere a questa specie di «chia-
mata in causa» che lui con le sue opere rivolgeva. Da questi incontri è
nato un libriccino che li compendia, e che circola ormai in varie lingue
(Conversazione con Primo Levi). È il diario delle nostre conversa-
zioni sulle colpe della civiltà cristiana europea.
Come chi mi ascolta avrà già capito, parlare di Primo Levi per me
non è un'operazione letteraria, ma anzitutto morale. Quando Primo
Levi è morto, Claudio Magris scrisse che la sua opera ce la troveremo
davanti anche al momento del Giudizio Universale. Per nessun altro
scrittore del nostro tempo si può dire altrettanto. Ma non dobbiamo
credere che in quel giudizio siano imputati soltanto gli altri, le genera-
zioni precedenti, quella fascista e quella nazista, un razzismo scom-
parso, un cristianesimo scaduto. In realtà Levi apre una denuncia
attuale oggi come ieri, e forse oggi più di ieri: la denuncia dell'incom-
prensione che deriva dalla convinzione di essere, ieri dei Superuomini,
unici ad avere diritto di vita sulla terra, oggi dei super-civilizzati o dei
super-ricchi, unici a dover godere dei beni della terra.
Primo Levi è dunque il narratore della difficoltà che ha sempre
avuto l'europeo nei rapporti con l'altro. Levi incarna e denuncia il
momento in cui questo rapporto veniva risolto, su scala generale, con
la soppressione fisica dell'altro, il suo sterminio. La testimonianza di
Primo Levi era così radicale e universale da urtare continuamente
contro l'inadeguatezza e l'impotenza della parola. L'autore dice che
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non può avere giustizia per il semplice fatto che non può essere capi-
to, e non può essere capito perché non è in grado di esprimersi: per
raccontare ciò che su di lui è stato compiuto avrebbe bisogno di una
lingua nuova, che non c'è: ogni volta che per esprimere le cose del
suo mondo usa parole del nostro mondo, quelle cose diventano del
nostro mondo, smettono di essere uniche, diventano normali.
Scrive Primo Levi:

Noi diciamo 'fame', diciamo 'stanchezza', 'paura', e 'dolore', diciamo ‘inverno' e


sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano,
godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un
nuovo aspro linguaggio sarebbe nato.

Eppure, Primo Levi non ha sperimentato il male al grado massimo


in cui è stato commesso: è stato chiuso nel Lager un anno, ma già
tardi, quando la macchina militare nazista che teneva in piedi il Lager
si stava sgretolando sotto l'urto dell'Armata Rossa; ha avuto nel Lager
una posizione diversa dagli altri, e in qualche modo privilegiata: ha
potuto lavorare come chimico, e ha potuto parlare, perché si è
impossessato della lingua del potere, che nel Lager era il tedesco.
Altri, quasi tutti gli altri, han patito di più, più a lungo, più profonda-
mente. Ma proprio per questo quelli che non sono morti sono muti: li
abbiamo visti nel filmato Shoah, trasmesso dalle televisioni di tutto il
mondo qualche anno fa. Portati a rievocare la loro esperienza, non
parlano, ma svengono, si torcono, o fuggono. Non hanno parola.
Levi ce l'ha. Levi ha scritto. Levi ha sperimentato il male non al grado
massimo ma al grado massimo in cui quel male era dicibile. Levi
scrittore si pone ripetutamente il problema di due impossibilità: l'im-
possibilità di dire, e l'impossibilità di essere ascoltato e creduto.
I colloqui con Primo Levi mi hanno fatto notare la prevalenza del
motivo etico-religioso nella sua opera, un motivo sottovalutato dalla
critica. Con Levi ci si è soffermati a lungo sul diavolo nella storia,
sulla colpa di essere nati, e sulla non-esistenza di Dio. Del resto, chi
abbia letto il mio libriccino ricorderà come questi punti, fondamentali
in Levi, venivano introdotti sempre da lui. Il racconto del Lager co-
mincia con l'affermazione dell'Inferno, e termina con la negazione
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della Provvidenza. Quando non testimonia ma si ferma per giudicare,


l'autore vede davanti a sé tre realtà: il paesaggio dell'Inferno, la vita
come sogno e l'impotenza della parola. L'autore è italiano, ma non è
solo per questo che più volte cita la Divina Commedia, specialmente
l'Inferno. È anche per un'altra ragione: egli viaggia per un luogo in cui
Dio non può entrare, è bandito. Un intero popolo gli ha fatto del male,
ma tuttavia non esiste una responsabilità del popolo, perché un popo-
lo è un mare immobile, che non si scuote se non arriva il vento. Quel
vento fu Hitler. Non ero d'accordo con Primo Levi, ma lui non ha
piegato minimamente la sua convinzione. La nostra conversazione si
chiude con queste battute:

Levi: Devo dire che l'esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare
qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto.
Camon: Cioè: Auschwitz è la prova della non-esistenza di Dio?
Levi: C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. (Sul dattiloscritto, a matita,
ha aggiunto: Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo).

Ho osservato, nella edizione italiana e nelle edizioni straniere, che


il cercare e il non-trovare sono posti in una sequenza che merita at-
tenzione. È una sequenza aperta e infinita, così: «non trovo, cerco,
non trovo». La ricerca non si arresta col non-trovare, ma prosegue
all'infinito, anche dopo lo scacco.
E così, il dialogo sulle colpe, che era cominciato con la colpa di
essere nati, colpa che si estingue con la propria morte, si conclude
con l'affermazione di una colpa di Dio, e con la sua condanna a
morte, l'affermazione della sua non-esistenza, peraltro sostenuta in
modo ambiguo, con una affermazione che può essere continuamente
ritirata.
Levi aveva avuto a un certo punto la possibilità di puntare su un
altro colpevole, il popolo tedesco, ma ha tenacemente rifiutato di co-
glierla. È il punto del nostro massimo disaccordo, quando io volevo
portarlo ad ammettere una responsabilità del popolo e lui si sottrae
perché sostiene che questa è pur sempre una posizione razzistica: lui
ripiega sulla colpa del singolo, il capo. Ora, questa è esattamente la
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tesi dei colpevoli: sempre i colpevoli, man mano che venivano sco-
perti, si difendevano sostenendo che la colpa non era loro ma di chi li
comandava, e così di comando in comando, si sale sempre più in alto,
all'unico assoluto colpevole. Lentamente, questa tesi è stata abbando-
nata da tutti, anche in Germania: non è più vero che affermando la
responsabilità di un popolo si giudichi colpevole ogni membro di quel
popolo, individualmente preso, e dunque si faccia giustizia sommaria,
e perciò ingiusta: molto semplicemente si afferma una «responsabilità
collettiva» che un po' alla volta sta diventando la risposta definitiva a
questo problema.
Ma credo che qui ci fosse un limite forse consapevole, forse addi-
rittura intenzionale, nella visione di Levi: ha voluto astenersi lui dal
giudizio, non pronunciarlo mai, per portare tutti i suoi lettori a pro-
nunciarlo in sua vece. Esprimendo quel giudizio davanti a lui, non
facevo altro che pronunciare le parole che lui mi suggeriva. È stato un
momento in cui le parti si sono chiaramente rovesciate: in quelle pagi-
ne, nel testo della conversazione, i nostri nomi andrebbero invertiti, e
quel che dico io è semplicemente ciò che lui doveva dire.
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FREDIANO SESSI

La letteratura concentrazionaria tra verità e finzione


a partire da Primo Levi

Sempre più, oggi, si riflette sul senso dell’esperienza


concentrazionaria in rapporto al suo racconto; quale il legame tra te-
stimonianza, verità e scrittura? Quale la relazione tra il fatto storico e
la finzione letteraria o cinematografica? E ancora quanti sono i modi
di intendere la verità storica e la finzione?
In passato, ogni dibattito è stato impedito dalla posizione concorde
di molti ex deportati (politici ed ebrei) che tacciavano, in vario modo,
di menzogna ogni forma di memoria che non fosse frutto della «ricer-
ca storica» o della «voce di un testimone» diretto: chi ha parlato di
«crimine morale», chi di «percorso verso l'oblio» 5 Infatti, sembrava
indiscutibile l affermazione che «non esiste, non può esistere la /ette-
ratura dell’Olocausto. Auschwitz nega ogni forma letteraria così come
nega ogni sistema, ogni dottrina»?
Sono trascorsi ormai cinquant’anni dalla liberazione dei campi di
sterminio e di concentramento e la biblioteca della Shoah (così come
quelle della deportazione politica e militare) si è arricchita di studi e
testimonianze di vario spessore; ha fatto i conti con forme difiction
narrativa e filmica assai diverse tra loro (dal feuilleton americano
Holocaust, a Schindler List, o al capolavoro di Claude Lanzmann
Shoah; dal best-seller di Styron La scelta di Sophie al Libro ritrovato
di Shima Guterman, ebreo combattente nella rivolta della città di
Varsavia). Eppure, il dibattito sui modi di tenere viva la memoria del
genocidio ebraico sembra pur sempre vincolato a pregiudizi, circa la
modalità espressiva adottata o circa l'origine di colui che ne è l’auto-
re. Insomma, si ha l'impressione che soltanto il testimone sopravvis-
suto o il testimone per diritto di generazione (il figlio o il nipote 0,
ancora, il correligionario) siano autorizzati al racconto autentico (in
forma di documento, film, fumetto, saggio od opera d’arte). Come se
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si fosse garantiti che soltanto dal testimone uscito dall’inferno si otter-


rà la verità; o come se ci si dovesse tutelare da forme di riduzionismo
o revisionismo, che non assegnerebbero il giusto posto a quel tragico
passato, in verità, fardello non di un solo popolo, di una sola genera-
zione, ma dell’intera umanità.
Questa sorta di stallo in cui viene a trovarsi (non soltanto in Italia)
la questione del «diritto alla parola» e alla memoria, provoca da un
lato un effetto indesiderato sul peso che la Shoah assume nel Ventesi-
mo secolo: per molti 1’ Olocausto è e rimane un evento storico, pur
tragico (o se si vuole unico) ma con pochi legami con l’uomo contem-
poraneo (il successo di libri come quello di Goldaghen che accusa il
popolo tedesco nel suo complesso di razzismo eliminazionista ne sono
un effetto). Per altri, è soltanto un evento che ha travolto una mino-
ranza religiosa come ne sono accaduti ancora, in questo e nei secoli
precedenti.
L'effetto è in ogni caso di ridurre la portata e il valore storico e
simbolico dell'Olocausto, soprattutto nel suo rappresentare (essere)
una rottura netta e definitiva con la tradizione e con la continuità della
storia. Hannah Arendt aveva denunciato fin da subito la continuità tra
la volontà di non sapere che gli era parsa come la componente essen-
ziale dei suoi contemporanei (al tempo del nazismo) e la cecità forma-
tasi dopo la catastrofe, per la quale a tutt'oggi si tende a banalizzare
l’accaduto e a confinarlo nei meandri sempre più in ombra della me-
moria del nostro tempo".
Così si può azzardare che sia da parte ebraica che da parte non
ebraica un simile atteggiamento possa essere letto come una nuova
forma, sottile e nascosta di riduzionismo, i cui effetti sul futuro sa-
ranno certo devastanti: contro ogni affermazione diversa, la Shoah
sarà destinata a essere «un passato che passa». Prevale anche in
Italia quella «concorrenza» tra le vittime (studiata dal sociologo belga
Chaumont) che, soffermandosi più sul diritto della—alla memoria,
non affronta ancora alcune questioni cruciali: che cosa significa esse-
re testimone? e, perché il racconto della Shoah deve diventare il nodo
del passaggio al nuovo millennio?
Proprio alla luce di quanto conosciamo dell’opera di Primo Levi”,
possiamo proporre alcune considerazioni su due dei temi qui accen-
nati: verità storica/testimonianza diretta, verità storica/finzione; essi
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aprono, ci sembra, nuovi orizzonti di lettura e di ripensamento sugli


argomenti più generali cui si è data menzione (e si è aperta l’interroga-
zione) in questa premessa.

I. Il testimone Primo Levi e il ruolo della testimonianza i

Chiediamoci, subito, provocatoriamente che cosa c’è di vero e di


falso (sul piano storiografico) negli scritti di Primo Levi e cominciamo
con tre errori palesi:

Kapos: il termine tedesco deriva direttamente da quello italiano, e la pronuncia


tronca, introdotta dai prigionieri francesi, si diffuse solo molti anni dopo, divulgata
dall’omonimo film di Pontecorvo, e favorita in Italia proprio per il suo valore diffe-
renziale”.

Oggi gii storici del Museo di Auschwitz, in base ai documenti d°ar-


chivio, ci dicono che fin da subito la parola Kapo fu il risultato di
un’abbreviazione di due altri lemmi: Ka[marad] e Pol[lizei], proprio
perché il Kapo era un detenuto incaricato della disciplina all’interno di
una baracca o delle squadre di lavoro (un sorvegliante tra i detenuti).
La figura del detenuto poliziotto, collaboratore dei suoi aguzzini, ven-
ne introdotta per la prima volta a Dachau (campo matrice di molti altri
Lager nazisti e in particolare del Lager di Auschwitz), dove era in
uso il lemma Kapo con la stessa origine.
Si dirà che questa imprecisione terminologica è cosa da poco ri-
spetto al valore della testimonianza di Primo Levi. Aggiungiamo che
la seconda inesattezza, ben più gravosa di conseguenze, se paragona-
ta al senso che l’opera dello scrittore torinese assume in tutto il Nove-
cento è allo stesso modo irrilevante. Tuttavia questi segnalati, come
altri non citati, sono errori che ci possono guidare nel comprendere il
rapporto tra verità e testimonianza.

Il lager di Auschwitz era stato creato piuttosto tardi; era stato concepito fin
dall’inizio come campo di sterminio, non come campo di lavoro. Divenne campo di
n . n . . ORIO
lavoro solo verso il 1943, e soltanto in misura parziale ed in modo accessorio.

Se non fosse Primo Levi a pronunciare questo giudizio, potrem-


20

mo parlare di revisionismo storico, tendente a ridurre il ruolo che 1


Lager hanno assunto nell’universo concentrazionario nazista. Affer-
mare che Auschwitz fu fin da subito concepito come Vernichtungslager
(campo di sterminio) comporta anche un giudizio sul modello di orga-
nizzazione della procedura di sterminio e sul livello delle responsabili-
tà (giuridiche e morali) chiamate in causa; l’idea, non più accreditata
dalla ricerca storiografica, caratterizza la maggior parte delle memorie
dei sopravvissuti italiani, giunti ad Auschwitz quando lo sterminio era
già inatto.
Grazie alle ricerche di Raul Hilberg e al contributo prezioso del
gruppo di storici che lavorano al Museo statale di Auschwitz, oggi
conosciamo con precisione la storia del campo e sappiamo che come
altri luoghi di sterminio e di eliminazione non fu progettato fin dall’ini-
zio come macchina della morte. Gradualità dell’orrore, che cambia il
nostro punto di vista:

Nel 1933, nessuno tra gli esecutori poteva prevedere le misure che sarebbero
state prese nel 1938; né, nel 1938, quale forma avrebbe assunto l’impresa nel 1942.
La distruzione [degli Ebrei] fu un’operazione perseguita passo dopo passo; furono
rari i e in cui i funzionari poterono vedere lontano rispetto allo scopo o alla tappa
in Corso.

Gli stadi del processo non furono nemmeno preordinati in una


successione precisa, se è pur vero che la storia di altri Lager è diversa.
Auschwitz, all’inizio (gennaio, febbraio 1940) fu pensato e costruito
come Lager di quarantena, per prigionieri di guerra russi e per opposi-
tori polacchi, che una volta sottoposti a disinfestazione e addestra-
mento avrebbero dovuto andare a lavorare in Germania. Successiva-
mente, nel giugno del 1941, il comandante supremo delle SS Himmler
ordinò che si costruisse un campo limitrofo (Birkenau) per 100.000
prigionieri di guerra russi e un altro complesso concentrazionale per
10.000 operai detenuti venduti alla IG Farbenindustrie (Monowitz).
Così, quello che sarà il luogo di sterminio per eccellenza (Auschwitz-
Birkenau) nasce come campo per prigionieri di guerra (e tale rimane
nelle carte ufficiali della Croce rossa internazionale per tutto il 1944,
vale a dire quando Maurice Rossell, delegato di Berlino della Cri, si
recherà in visita ad Auschwitz, senza vedere e scoprire niente di anor-
21

male '°). Solo nel 1942 cominciarono gli adattamenti della «casetta
rossa» e della «casetta bianca» (due fattorie ai margini del reticolato
di Birkenau) per trasformarle in camere a gas, mentre i quattro grandi
crematori vennero costruiti tra il marzo e il giugno del 1943. A quel
tempo, il progetto di deportare prigionieri di guerra russi e oppositori
al fine di farli lavorare per l’economia di guerra del grande Reich era
stato abbandonato e il Lager era stato trasformato in campo di stermi-
nio e di lavoro!!.
Un ultimo esempio da / sommersi e i salvati:

Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di
raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi,
appunto; ma è stato un discorso «per conto terzi», il racconto di cose viste da
vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera
compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la
sua morte.

Qui l’affermazione di Primo Levi tocca un punto di insolita dram-


maticità. «Lo ripeto - dice poco indietro - non siamo noi, i superstiti, i
testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso co-
scienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie
a distanza di anni». Possiamo aggiungere che una simile riflessione
ci viene, per vie diverse, da Solzenicyn:

La materia che deve trovar posto in questa parte è sterminata. Per capirne a
fondo il folle senso e compenetrarsene bisognerebbe aver trascinato molte vite nei
Lager, proprio in quelli dove non è possibile sopravvivere, senza privilegi, neppure
a una sola condanna [...]. Per questo tutti coloro che vi hanno attinto più profonda-
mente, e li hanno più pienamente provati, sono già nella tomba e non racconteranno
nulla; nessuno, mai, racconterà più l’essenziale su quei Lager".

Nei due casi, la figura del sopravvissuto viene disgiunta da quella


del testimone autentico e invita i lettori a sottoporre a critica attenta i
testi degli ex deportati che non devono essere accolti con il semplice
rispetto. In questo senso, Primo Levi e Solzenicyn danno un contri-
buto che va oltre la loro testimonianza e colloca la loro osservazione
all’interno stesso delle condizioni per la conoscenza storiografica.
27

Ma Primo Levi, dicendo questo, non ricorda che, per Auschwitz,


disponiamo di almeno sei racconti di sommersi che hanno vissuto
in prima persona all’interno delle camere a gas e che poi sono
morti; che hanno scritto le loro memorie e la loro tragica storia
spesso usando il sangue delle vene come inchiostro.
La forza della sua affermazione resta: vale a dire la verità di ciò
che è accaduto è ancorata a un lento e graduale «divenire». Non si
pone dunque come «verità di fatto», ma come percorso verso una
possibile verità (e questa «possibile» verità in divenire non riguar-
da certo l’esistenza dello sterminio o delle strutture dello stermi-
nio, ma semmai il sentimento, le storie di ogni singolo sommerso:
sei milioni di storie).
E tuttavia, l’affermazione che non esiste la voce dei sommersi,
che il cuore dell’esperienza della distruzione sia un evento senza
testimoni, può essere contestata!?.
Del resto, nemmeno gli storici sono riusciti a raccontarci la
verità, se non attraverso un lento e lungo cammino di avvicina-
mento ai fatti. L’opera di Raul Hilberg ne è un esempio (costruita
in progressione dal 1961 a oggi e non ancora completata).
Poliakov, per fare un altro nome di rilievo, raccontando nel suo
studio del 1951, il pogrom di massa della «Notte dei cristalli», ci
fa intendere che la violenza di piazza è il primo strumento di op-
pressione che i nazisti adottano contro gli ebrei tedeschi e ci fa
pensare all’uso della violenza come regola, dall’inizio delle azioni
contro «i giudei» (1935-38) alla fine, vale a dire alla «soluzione
finale». Solo trent'anni dopo, con gli studi di S. Friedlander e di
Hilberg, scopriamo che le massime autorità del Reich (Hitler com-
preso) erano contrarie all’iniziativa del dottor Goebbels, preferen-
do alla violenza palese dei pogrom, un sistema di leggi che avreb-
bero garantito la «liberazione della Germania dagli ebrei» senza
troppo scalpore.
Dunque, non c’è un legame di necessità tra la parola del ex
deportato o dello storico e la verità dei fatti, che si costituisce
come un dato emergente da un lungo lavoro di confronto di punti
di vista, di documenti e di testimonianze. Nemmeno il senso del-
l’evento ci viene automaticamente suggerito dal racconto di un
23

testimone diretto. Quante volte, studiosi del calibro di Annette


Wieviorka!” hanno dovuto confessare noia e dispetto nel leggere
pagine di dolore e sofferenza.
Primo Levi in questo è certo unico, in quanto è stato capace di
coniugare testimonianza e racconto, dando vita a un’opera letteraria
unica nel Novecento.

2. Finzioni e verità.

Che ruolo ha la finzione nella conservazione della memoria di


quanto è accaduto all’interno dell’universo concentrazionario nazista?
Può uno scrittore non-testimone sentirsi autorizzato a prendere la
parola per dar corpo a una letteratura che abbia lo scopo di far cono-
scere e di ricordare le sofferenze degli Ebrei e di tutte le altre vittime
della «soluzione finale»?
L’opera di Primo Levi, come accade per pochi altri autori (Antelme,
Rousset, Guterman, Grossman) consente tra l’altro di aprire una stra-
da nuova per rispondere a queste domande e rappresenta un punto di
snodo nel lavoro intellettuale di chi intende praticare un’arte che di-
chiari anche ia propria appartenenza alla storia e alla società civile e
non sia unicamente fine a se stessa!”
Il lavoro di Primo Levi, sembra attraversare una doppia modalità
di stare dentro la finzione del racconto e in due fasi in apparenza ben
scandite: la prima che potrebbe concludersi con la pubblicazione di
La tregua (1963), si caratterizza per una spinta interiore a raccontare,
estranea al mestiere di scrittore, ma necessaria al reinserimento
dell’auctor nell’universo umano. Contro la parola che ferisce, espres-
sione di una violenza immane esercitata dall’uomo sull’uomo, sembra
allora possibile una parola che abbia la funzione di riannodare, seppure
provvisoriamente, i fili che legano il sopravvissuto alla comunità civi-
le. Una parola che sfugge così all'ordine dell’oppressione e che si
pone come una forma di esperienza del potere della scrittura, come
resistenza. In questo, non sembri azzardato l'avvicinamento del testo
di Levi al lavoro poetico di Paul Celaa che, dopo la catastrofe, sceglie
di continuare a scrivere in lingua tedesca: tutto il suo lavoro poetico
del dopoguerra si radicalizza intorno all'idea di una lingua capace di
24

accogliere l'avvenimento del genocidio, per non essere più la forma


espressiva dei carnefici, ma la voce che dirà la verità. (Molti anni
dopo La tregua, Primo Levi verrà invitato da Giulio Einaudi - 1983 -
a inaugurare la collana Scrittori tradotti da scrittori con la traduzio-
ne del Processo di Kafka: «da questa traduzione - scriverà - sono
uscito come da una malattia»)!
La seconda fase, spesso interpretata dagli amici sopravvissuti come
un tradimento della missione di testimone, arriva fino al grande ro-
manzo Se non ora quando? (1982). Per Primo Levi, dunque, il rac-
conto di finzione sembra essere possibile, proprio a partire da ciò che
a detta di molti lo renderebbe impossibile, se non immorale,
ingannatorio. Si tratta, forse, di proseguire nell’opera di resistenza,
ricostruendo mediante l’invenzione uno spazio comune, fuori dal cam-
po della morte, dentro la società civile. Suggerisce Parrau:

È proprio il linguaggio della finzione come espressione di libertà, che si afferma


esemplarmente nell’ opera letteraria, ed è ancora questa libertà che minaccia la so-
stanza dei regimi totalitari [...] Il potere che in tal modo converge nell’ opera appar-
tiene all’ordine del simbolico; è il potere della parola - e dunque del pensiero -
grazie alla sua indeterminazione e irriducibilità all'ordine del l'oppressione”.

Le due strade si troveranno ricongiunte nell’opera finale / som-


mersi e 1 salvati (1986), a sottolineare come questo spazio del rac-
conto sia anch'esso a rischio di autenticità/inautenticità, proprio come
la voce del testimone.
Per cogliere la portata di queste che ci sembrano acquisizioni del
testo e della produzione di Primo Levi è giusto sottolineare anche le
incertezze e le inquietudini che un simile passaggio ha posto e pone
agli intellettuali dell’immediato dopoguerra e delle nuove generazioni
(se è pur vero che pochi scrittori italiani hanno imboccato o soltanto
compreso” la strada della testimonianza, spesso tra lo scherno dei
critici che vorrebbero una letteratura autentica, prodotto dell’espe-
rienza diretta: «moglie e buoi dei paesi tuoi»!).
«Mio fratello ha inventato l’assassinio / I miei genitori il pianto
/E io il silenzio» scrive Dan Paguis ebreo rumeno fuggito da un
campo di concentramento nel 1944°?, Gli fanno eco, Jean Cayrol
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ed Elie Wiesel in modo assai imperativo.


Jean Cayrol, ex deportato di Mauthausen e scrittore (autore, tra
l’altro dei testi del famoso lungometraggio di Alain Resnais Nuit et
brouillard del 1956), a pochi anni dalla fine della guerra, pubblica un
saggio violentemente aggressivo contro coloro che «pensano di dare
una veste romanzata a ciò che si presenta come un mostro impossibi-
le da descrivere»”*. Elie Wiesel, per parte sua, quasi a trent'anni di
distanza tuona: «Una letteratura dell'Olocausto? Il termine stesso è
un controsenso. Chi non abbia vissuto la situazione non la conoscerà
mai. E chi l’ha vissuta non lo svelerà mai. Mai sul serio, mai fino in
fondo»?*
Creare un’opera d’arte a partire dalla sofferenza umana, per Wiesel
è un fatto blasfemo e persino quando la volontà di testimoniare assu-
me l’aspetto di un atto politico contro l’oblio, o nasce dal desiderio di
rendere omaggio alle vittime, rompere il silenzio è una sorta di colpa
morale per l’autore.
Cayro! giustifica la sua posizione a partire da un ragionamento
assai diverso, meno religioso, che si fonda sull’irriducibile opposizio-
ne tra verità e finzione.

C'erano degli scrittori nei campi di concentramento - scrive - ma non gli venne
mai in mente di utilizzare l’esperienza vissuta per scopi letterari. Nel 1943, mentre
eravamo reclusi, pensavamo di poter descrivere in un’opera di finzione i nostri
patimenti, ma capimmo assal ie la beffa di questo progetto. Non erava-
mo certo docili eroi da romanzo”

Quando negli anni Ottanta, l’impresa cinematografica statuniten-


se, produce Holocaust (il film diretto da Marvin J. Chomsky) il suo
successo viene interpretato da Claude Lanzmann (regista di Shoah)
come uno dei tanti mezzi per sbarazzarsi della realtà del genocidio
ebraico: «Si tratta soltanto di una finzione. Vale a dire, per essere più
precisi - poiché la realtà della Shoah costringe ogni finzione ad
autogiustificarsi - di una menzogna profonda, d’un crimine morale, di
un assassinio della memoria»””
La finzione, dunque («un buon intreccio concentrazionario, dei
carnefici, gli scheletri delle vittime, un lieve fumo giallognolo che esce
dal Crematorio, ingredienti di un futuro best-seller che farà fremere il
26

Vecchio e il Nuovo Mondo»), produce, genera, l’oblio. Parola che


induce al silenzio, alla falsificazione della verità, che snatura il dram-
ma di un’esperienza, per la quale non basta ancora il grido, ma che
rimane pur sempre dell’ordine dell’indicibile: proprietà esclusiva di
coloro che hanno vissuto nell'inferno eppure si sono salvati (i testi-
mMOni).
Shmuel Yossef Agnon (premio Nobel per la letteratura nel 1966),
evoca spesso la Shoah nei suoi racconti, ma la sua posizione è radica-
le (si veda al proposito //fuoco e la legna del 1962): quando la soffe-
renza si fa infinita, e le parole non riescono più, non possono, conso-
lare, lo scrittore deve rinunciare all’invenzione letteraria e alle parole
che utilizzava un tempo, per agire nella vita. Tsidkiya, poeta protago-
nista del racconto citato, esclama: «trasformo il sacrificio e il dolore in
una ballata!»”* e bruciando il suo poema rinuncia per sempre a scri-
vere.
Questa linea del silenzio, per fare solo un altro esempio, viene
imboccata anche da Atbert Cohen. Nel 1930 aveva pubblicato Solal e
nel 1938 Mangeclous, quando smise completamente di scrivere, ri-
prendendo il primo ciclo di Sola! solo nel 1968 con Bella del Signore,
esattamente dal punto di partenza, come se nel frattempo non fosse
accaduto niente?
Eppure, dare spazio alla finzione attraverso la forma romanzo 0
racconto, crea grandi possibilità e non solo per le ragioni sostenute da
Elisabeth Will nel suo diario da Ravensbruck, nel quale si lega la
capacità di restituzione dell’esperienza concentrazionaria e di morte
all’opera d’arte come unicum (in questo senso vicina all’esperienza
dell’inferno in terra).
Primo Levi, aiuta a cogliere almeno tre ragioni forti a favore della
fiction (e qui la sintesi del suo lavoro di scrittore ne / sommersi e
salvati sembra di grande aiuto).
In primo luogo, il dibattito che contempla una profonda rivisitazione
di ordine estetico ed etico sulla Shoah non è ancora chiuso e non
sempre i protagonisti sono i portavoce privilegiati di questa nuova
apertura. Tale dibattito, come sottolinea bene Alain Brossat, suggeri-
sce come la filosofia e l’arte non possano oggi (o non dovrebbero)
eludere «la loro affinità con l’esperienza concentrazionaria e le cata-
strofi totalitarie»””. Capire l’essere umano in condizioni estreme getta
27

luce sul presente e sul futuro e trasforma in testimoni anche coloro


che non hanno vissuto l’esperienza dello sterminio. L'esperienza dei
campi è un avvertimento. Ciò che conta non è soltanto averla vissuta
(culto della memoria), ma averla compresa, per agire di conseguenza
sul presente.
In secondo luogo, e questa è una constatazione drammatica per
Primo Levi, nel corso del tempo gli appare chiaro come il «cuore»
dell’esperienza concentrazionaria sia in realtà un evento senza testi-
moni (ne abbiamo già parlato). I veri testimoni, lo sottolinea bene
anche Solzenicyn, sono i «mussulmani», i non privilegiati, muti, sen-
za più corpo e linguaggio.
«Tutti imussulmani che vanno in gas hanno la stessa storia, 0, per
meglio dire, non hanno storia [...] la loro vita è breve ma il loro
numero sterminato; sono loro iMusulménner, isommersi, il nerbo
del campo». La verità del campo è allora il nulla, il niente che si
produce a causa della distruzione, ragione della perdita del sé,
deil’annichilimento della verità stessa:

Non si chiama ajtrimenti che così, Zero Diciotto [...] e non è più un uomo.
Quando parla, quando guarda dà l'impressione di essere vuoto interiormente, nulla
più che un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni
attaccate con un filo ai sassi, e il vento le scuote. (P. Levi, in Se questo è un uomo).

Eloquenza del silenzio dei corpi: impossibilità della testimonianza


se non a opera dei privilegiati. Corpo morto come luogo della parola
ultima, per cui Levi dirà, tanti anni dopo: «noi prendiamo la parola al
posto loro, per delega» (in / sommersi e i salvati). Un racconto,
dunque «per conto terzi», di cose «non sperimentate in proprio».
Tuttavia egli sa bene che proprio questa delega è una situazione di
fatto, per nulla legittimata da una volontà esplicita di coloro che sono
scomparsi. Niente può garantire che questa stessa delega sia in realtà
una sorta di usurpazione: «I salvati del Lager non erano i migliori, i
predestinati al bene, i latori di un messaggio». «Lo ripeto, non siamo
noi, i superstiti, i testimoni veri». Quanto basta per cogliere anche nei
testi di fiction (romanzi e racconti) il luogo da cui far parlare i som-
mersi. Ma Levi vi scopre una possibilità in più: il romanziere arriva a
toccare argomenti e azzarda considerazioni e giudizi laddove lo stori-
28

co non può nulla, se non grazie al supporto di prove documentarie.


Ecco allora apparire un’idea forte di resistenza ebraica (in Se non ora,
quando?), che la ricerca storica scoprirà solo nei recenti anni Novan-
ta. La forza della fiction, tuttavia, è e resta tale se della storia sa
cogliere il sentimento.
Soltanto così, ed eccoci alla terza ragione, la voce del testimone
«per conto terzi» può rimanere accesa per sempre; non si spegne con
la morte, condizione necessaria perché il passato dell’universo
concentrazionario nazista non passi, perché il progetto nazista non
risulti vincitore comunque nel tempo, relegando a un assoluto silenzio
(oblio) ogni misfatto.
All’uscita de / sommersi e i salvati, scrivendone la recensione per
«Alfabeta», avevo pensato che Levi con questo suo libro straordina-
rio avesse aperto un nuovo orizzonte alla letteratura e alla memoria
del Genocidio, chiudendo a se stesso la strada della vita. Mi sembrò
un pensiero tremendo. Eppure, soltanto un anno dopo la sua vita si
spegneva”.
Oggi il suo messaggio sembra piuttosto chiaro: sommerso tra i
sommersi, egli ha compiuto la sua opera di resistenza civile contro il
carnefice aprendo lo spazio a una letteratura che sappia essere espres-
sione del patire dei sommersi e delle vittime della storia. Autentica
testimonianza anche se ancorata alla fiction.

Note

' Si veda per esempio lo studio di A. ParRAU, Écrire les camps, Paris, Belin,
1995, in particolare I, III e IV parte.
° E. WIEsEL, Ebreo Oggi, Brescia, Morcelliana, 1985, p. 213.
® Si veda il saggio di D. GOLDHAGEN, / volonterosi carnefici di Hitler, Milano,
Mondadori, 1997, edito in Italia con la revisione scientifica di uno storico del CDEC
di Milano. La rivista francese «Les Temps Modernes» n. 592 del febbraio-marzo
1997 dedica in proposito un serrato dibattito al libro che secondo R. Hilberg «esa-
gera l'estensione e la profondità dell’antisemitismo tedesco, ma nello stesso tempo
minimizza due fattori che rendono assai debole la sua tesi: gli esecutori non furono
tutti tedeschi, le vittime non furono solo gli ebrei» (cit., p.4). Con questo libro
«Goldhagen ci ha lasciato l’immagine di una sorta di incubo medievale, un demone
latente nascosto nello spirito tedesco e che aspettava la sua ora per uscirne fuori
29.

con furia» (GIEAMSO)I


* A. BRrossaT, L’ épreuve du désastre, Paris, Albin Michel, 1996.
° L'edizione completa delle Opere in due volumi, pubblicata da Einaudi nel de-
cimo anniversario della morte di Levi (1997), pur contenendo alcune note sui ma-
noscritti deli’autore e alcune indicazioni sul tempo della loro composizione non può
ancora considerarsi filologicamente completa. Proprio la riflessione che proponia-
mo in questo breve scritto, mostra l’importanza di una edizione filologica, perché al
centro del lavoro di Levi c’è anche il nodo irrisolto della trasmissione della memoria
alle generazioni future.
Ba Levi, /sommersi e i salvati, in Opere, vol. II, Torino, Einaudi, 1997, p. 1024.
“Ch. , per esempio F. SEssi, La vita quotidiana ad Auschwitz, Milano, Rizzoli,
1998. Probabilmente, l'errore di Primo Levi è riconducibile alle affermazione di H.
MARSALEK in Mauthausen, Milano, La Pietra ed., 1977, p. 251.
E Levi, Arbeit Mach Frei, in Opere, vol. I, cit., p. 1120.
° R. Hiu8ero, La distruzione degli Ebrei d'Europa, a cura di F. Sessi, Torino,
Einaudi, OO SEpeSIE
° E Sessi, op. cit.; F. PiPER, T. SWIEBOCKA, Auschwitz il campo nazista della
morte, Oswiecim, Ed. Museo statale di Auschwitz-Birkenau, 1995; F. PIPER,
Arbeitseinsatz der Héiftlinge aus dem KL Auschwitz, Oswiecim, Ed. Museo sta-
tale di Auschwitz-Birkenau, 1995.
'! E. SESSI, op. cit., in particolare i cap. 1 e 6 prima parte.
>) Levi, /sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1987, p. 65.
3 Ivi, p.64.
‘4 A. SOLZENICYN, Arcipelago Gulag, Milano, Mondadori, 1975, vol. II, p. 8.
'° I sei racconti dei sommersi sono raccolti in un libro, a cura di D. CZECH e F.
PipER, Inmitten des Grauenvollen Verbrechens [Dentro un orribile segreto],
Oswiecim, ed. Musco statale Auschwitz-Birkenau, 1996. La notizia del ritrova-
mento di queste memorie, sepolte nei pressi dei crematori, cominciò a diffondersi
nel 1956. Solo oggi si dispone di un’edizione completa e filologica di ogni testo e dei
svi testi.
'° L'edizione italiana di La distruzione de gli Ebrei d’Europa, cit., oggi la più
aggiornata in commercio, fa seguito a due edizioni inglesi (1961 - 1975) due tede-
sche (1978-1994), due francesi (1989-1995). È in preparazione presso Einaudi la
nuova edizione italiana con 140 pagine di aggiunte (edizione prevista 1998).
'” Si veda, per esempio, in A. WIEVIORKA, Déportation er génocide, Paris,
Plon, 1992, in particolare la seconda parte.
'# Sulle motivazioni che spingono a un compromesso tra arte e storia, in partico-
lare con il genocidio, si veda VERCORS, Le parole, Genova, Il Melangolo, 1995.
dp Levi, in // processo di Kafka, traduzione del 1983, Torino, Einaudi, p. 253.
°° A. PARRAU, OpiaiePZ2248
TA: parte chi scrive queste riflessioni e FE Camon, solo A. Tabucchi si è espresso
a favore di una narrazione che abbia come luogo di partenza e di ritorno il genocidio
(si veda A. TABUCCHI, Dove va il romanzo, Roma, Ed. Il libro che non c’è, 1995,
pp. 8-10). Altri scrittori come A. Moravia e E. Morante si sono ancorati all'idea
che la storia non fosse traducibile sulla pagina in quanto rappresentazione della ve-
30

rità in divenire, in quanto la «trama delle parole» la rende non dicibile. Eppu-
re proprio Moravia e la Morante hanno lavorato sempre per render conto,
trovare uno spazio per ciò che è accaduto.
2 Danis Paguis (Romania 1930 - Gerusalemme 1986) è tradotto in francese e
si trova all’interno della raccolta a cura di M. ECKHART, B. ZIFFER, Chant d'Israel,
Paris, Ed. Caractères, 1984, p. 192. Il titolo del poema è Autobiografia.
2 J. CAYROL, Temoignage et littérature, «Esprit», aprile 1953, p. 575; ora
anche in Nuit et brouillard, Paris, Fayard, 1996.
RI WIESEL, Op. cit.
° J. CAYROL, op. cit., p. 577.
LI giudizio di Lanzmann si trova in S. FELMAN, Au sujet de Shoah, Paris,
Belin, 1990, p. 309.
2” R.ERRERA, La déportation comme best-seller, «Esprit», n. 12, dicembre
1969, pp. 918-921.
8 S. AGNON, cit. in «Pardès», Pensare Auschwitz, Milano, Tranchida, 1995, p.
80.
°° Qui basterà ricordare come C. WARDI professore all’ università d'Israele, ella
stessa sopravvissuta, nel suo saggio Génocide dans lafinction romanesque, Paris,
Puf, 1986, denunci l’estetizzazione della Shoah come un fatto estremamente peri-
coloso per la memoria stessa. Come non domandarsi quale futuro riservano al ri-
cordo della Shoah simili posizioni? E perché non sottolineare come la verità dentro
il racconto sia piuttosto verità in divenire (non verità di fatto), anche quando la
parola è del testimone diretto? Nessuno, probabilmente, è tutore della verità, nem-
meno gli storici che da tempo, come suggerisce R. Hilberg, ricorrono ai documenti
in volontari per ricostruire frammenti di storia.
DI BROSSAT, op. cit., p.300.
"Il riferimentoè al mio testo: La violenza rivi ssuta, «Alfabeta», n. 96 del
1987, pp. 7-8.
31

GIOVANNI TESIO

Primo Levi, scrittore di scrittura

1. Sono ormai dieci gli anni trascorsi da quel mattino dell’ 11 aprile
quando cominciò a circolare la notizia del suicidio di Primo Levi.
Notizia tanto più incredibile per uno scrittore metodico e prudente
che aveva sempre dato di sé un'immagine di solida tenuta umana e di
grande razionalità. Levi era a poco a poco diventato il testimone idea-
le della città in cui non aveva mai smesso di abitare, l’immagine
emblematica della discrezione, del lavoro preciso, della geometria,
della democrazia, del legame etico tra tecnica e scienza. E vorrei
citare in proposito, tra le tante possibili, la testimonianza di un critico
avvertito come Massimo Mila (fulminante la sua definizione di Levi
come scrittore «umorista» fatta a poche ore dalla morte)', il quale in
un articolo su Casorati scrive:

Noi sentivamo, in maniera oscura ma certissima, che in quel mondo di stupiti silenzi,
in quelle deformate figure dalle estremità enormi, si annunciava una via d’uscita ai
nostri stessi problemi, si manifestava, già in tutto realizzata e compiuta, un’esperien-
za analoga a quella con cui noi ci stavamo tirando fuori, in quegli anni, dalla triplice
insidia della retorica carducciana, dell’estetismo dannunziano, e della crepuscolare
malinconia gozzaniana [...] Ora con la pittura di Casorati e con la musica di Casella
ci pareva che finalmente venisse alla luce quell’altra anima della città assai più nostra
e più vera: l’anima di Torino europea e moderna, Torino città d’ingegneri, di tecnici
ed’operai specializzati, gente dallo sguardo chiaro e snebbiato che misura con esat-
tezza icontorni delle cose, gente dal gesto sicuro dell’artigiano che conosce l’onestà
del lavoro ben fatto, del mestiere bene appreso, dell’articolo scrupolosamente fini-
to, e che non indulge a coprire coi vapori del sentimento e delle buone intenzioni le
magagne d’una tecnica zoppicante?.

Soldati immutabilmente girovago, Lalla Romano e Natalia Ginzburg


stabilmente emigrate, Levi era diventato la figura di riferimento. Lui
più torinese di Calvino che pure sotto la Mole aveva vissuto un bel
tratto di vita. Lui più stanziale di Arpino che pure abitava dalle sue
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stesse parti. Ma d’un tratto parve che qualcosa cedesse di schianto,


anche se la notizia di quel giorno poté essere letta, lì per lì, come la
conferma di un sospetto che proprio Calvino aveva a più riprese sot-
tolineato. Torino vista come una città in cui il rischio di impazzire non
è minore che altrove. Sicché oggi, a dieci anni di distanza, la parola
«suicidio» continua a imbarazzare.
Ma poiché ogni anniversario ha senso solo se sa rompere il gesso
delle commemorazioni o delle celebrazioni (vale a dire delle occasioni
obbligate), occorre andare oltre i fragili confini dei perché superflui,
per aprire un varco che dia fiato al futuro. E perché questo accada
non importa come uno scrittore muore, in un certo senso non importa
nemmeno che sia vivo. Importa ciò che vive nella sua opera. Importa
coglierne gli avvisi, il senso di una memoria che sappia attingere al
suo passato per attraversare la fanghiglia di un presente su cui (in
tempi cosiddetti postmoderni) si può stare appiattiti come i
Muselmàinner del Lager, i prigionieri irrever-sibilmente esausti.
Nell'opera di Levi, al di là dei tanti «pettegolezzi» che si posso-
no fare sul suicidio, la vita è resistentissima. Opera viva perché i
suoi titoli fondamentali continuano ad essere letti. Viva perché la
ricerca dolorosa del dare senso all’insensato da quei titoli continua a
parlare oltre ogni umana vicissitudine (e anche oltre ogni umana
ipocrisia: ossia non nascondendo nulla dell’offesa che l’uomo può
fare all’uomo, nulla della sofferenza che costa il vivere, persino del
sopruso che gli appartiene). Ma viva soprattutto perché si tratta di
un’opera letterariamente avvertita nonostante ogni dichiarazione
prudenziale di «esiguità» teorica. E dire questo, oggi, non è così
coraggioso (criticamente, dico) come il dirlo (o l’averlo detto) negli
anni Settanta. Non ho mai pensato che fare il critico sia una missio-
ne, ma nemmeno penso che sia una professione. Se mai un accom-
pagnamento che postula, come dice Eliot, un capire «da un certo
punto di vista»?. Ma se fossi un critico di qualche peso, con tutta
l'ironia possibile, potrei attribuirmi la considerazione di Borges: «La
critica, per la sua stessa facilità di dispensare elogi, corre il rischio
d’essere profetica»*. Così, punendo il rischio di presunzione con
cui sono tentato di dirlo, rivendico alla mia critica su Levi una pic-
cola quota di precocità proprio su temi che oggi vengono sbandierati
33

come novissimi. No, non sono né nuovi né novissimi, appartengono


se mai al vizio comune e accademico di scoprire un autore ben dopo
la sua morte, con l’ordinaria prudenza dell’oggetto che si consolida
per addizioni corporative. Ho intitolato il mio intervento Primo Levi
scrittore di scrittura perché mi pareva che il titolo potesse esprimere
bene, nella sua ovvietà esponenziale, un’idea che non è dell’ultima
ora. |
Primo Levi è stato uno scrittore controtendenza. Ha faticato a
imporsi come scrittore (nonostante i molti premi che gli sono stati
assegnati), ha esordito due volte in tempi tutt'e due sospetti: prima
con Se questo è un uomo, poi con La tregua. Nel primo caso il «mul-
ticolore universo di storie» di cui parla Calvino nella Prefazione al-
l’edizione 1964 del Sentiero è smentito dal racconto di un’infezione
che può ripetersi; nel secondo caso contraddice la nascente e percussiva
avanzata del Gruppo '63, il cui obiettivo è colpire il sistema colpendo-
ne il linguaggio. Ma anche dopo continua a controtempo. Se fa l’elo-
gio del mestiere di chimico, si affida alla chimica solitaria degli appiedati
e degli inermi, se fa quella del mestiere di montatore lo fa convocando
un lavoratore che si muove solitario e randagio come un giramondo.
E se scrive delle storie «innaturali» trova un editor come Calvino che
mi pare colga, nonostante le riserve, ja costante:

Tu ti muovi in una dimensione di intelligente divagazione ai margini d'un panora-


ma culturale-etico-scientifico che dovrebbe essere quello dell’ Europa in cui vivia-
mo. Forse i tuoi racconti mi piacciono soprattutto perché presuppongono una civiltà
comune che è sensibilmente diversa da quella presupposta da tanta letteratura italia-
na°.

La cosa riguarda anche la poesia, che patisce o ha patito un


trattamento di perplessità ancor più vistose.
Eppure, che Levi sia uno scrittore di scrittura è documentato in
ogni sua affermazione, anche in quelle che sembrerebbero più lon-
tane dalla cura costante di non presumere. Sarà, quando sarà possI-
bile, la critica degli scartafacci a dirla lunga sull’officina di uno scrit-
tore di scrittura come Levi. Il poco che già esiste (e il molto che ci
darà presto Belpoliti?) ci consolerà del molto che resterà comunque
34
da fare. Io voglio per parte mia limitarmi qui ad una sola considera-
zione che riguarda Se questo è un uomo, che ho riletto per una recen-
te edizione scolastica. Siamo qui di fronte ad un’opera tanto più testi-
moniale quanto più letteraria. Il rapporto assume 1 tratti di un’equa-
zione quasi perfetta. Non ho affatto la presunzione di mostrare che
Levi è scrittore in poche parole, ma vale la pena di considerare breve-
mente i piani narrativi e la scrittura di Se questo è un uomo per riflet-
tere insieme®.

2. Se questo è un uomo nasce sotto l’urgenza di un impulso imme-


diato e violento: il bisogno di raccontare agli altri un'esperienza terrifi-
cante. In questo senso, «se non di fatto, come intenzione e come
concezione» il libro risale al giorni stessi del Lager (parole che Levi
scrive fin dalla prima edizione del libro nella pagina di premessa). Ma
il vero e proprio inizio della stesura è databile al novembre del 1945.
In dicembre Levi ottiene un lavoro alla Duco di Avigliana, ma il ritor-
no alla «normalità» è faticoso. Come ha raccontato specialmente in
Cromo, uno dei capitoli de // sistema periodico, gli viene concessa
una scrivania «in un cantuccio pieno di fracasso e di correnti d’aria e
di gente che andava e veniva con in mano stracci e bidoni», ma non
gli viene assegnato nessun «compito definito». I colleghi lo guardano
«come uno squilibrato innocuo» e lui scrive disordinatamente «pagi-
ne su pagine» di ricordi avvelenati. Se questo è un uomo cresce così
«tra le mani quasi spontaneamente, senza piano né sistema, intricato
e gremito come un termitaio» (I, pp. 570-571). Poi un incarico di
lavoro e l’incontro buono con la donna che nel settembre del 1947
diventerà sua moglie segnano il passaggio ad una seconda fase più
franca e lo scrivere «diventa un'avventura diversa, non più l’itinera-
rio doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione
e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario» (I, p.
ST2):
Molto prima che nel racconto disteso de // sistema periodico v’è
traccia di ciò nella più concisa pagina di premessa alla prima e poi alle
successive edizioni di Se questo è un uomo, dove ai due tempi psico-
logici della composizione viene associato un terzo tempo, quello
ordinatore della costruzione «su piano». Il bisogno immediato di te-
55

stimoniare - di fare «gli ‘altri’ partecipi» - crea infatti lacune e dispari-


tà strutturali che vengono risolte solo in una fase successiva dal ne-
cessario lavoro di «raccordo e di fusione» (I, p. 4). Ciò consente di
individuare tre nuclei germinali del testo, in parte compresenti, in par-
te successivi. AIl’impulso pubblico e civile del testimoniare l’offesa -
strettamente congiunto con un più privato bisogno di vincere gli spet-
tri dell’ossessione - si associa in modi progressivamente riflessi e con-
sapevoli, un’attività sempre più limpida e didascalica di interpretazio-
ne e di spiegazione, che a sua volta non può non ripercuotersi sull’or-
dinamento della materia e sulla sua scrittura.
Terminato nel dicembre del 1946 il libro viene pubblicato nel no-
vembre del 1947 dalla casa editrice torinese De Silva, diretta da Fran-
co Antonicelli, dopo essere stato respinto da più di un editore: anche
dalla Einaudi, che riparerà all'errore di valutazione solo nel 1958,
undici anni dopo, con una seconda edizione in compenso destinata a
grande fortuna. Ed è per questa circostanza che Levi lavora a rivede-
re il testo, trasformandone in più di un punto l’aspetto. Molti gli inter-
venti di grafia e di grammatica, abbastanza numerose le sostituzioni
lessicali (parole scelte con precisione definitiva), pochi i rifacimenti,
ma non esigue le aggiunte di pagine completamente nuove: alcune più
didattiche, come quella iniziale che spiega gli antefatti della partenza
da Fossoli; altre più decisamente espressive, come il ritratto struggen-
te della bambina Emilia o il colloquio con Schlome «sulla soglia della
casa dei morti» o i profili di Flesch, il traduttore riluttante, e di Chajim,
il compagno di letto, e soprattutto di Alberto, 11 «migliore amico». O
infine di un intero capitolo, il terzo, intitolato /niziazione e collocato
tra Sul fondo e Ka-Be. Poco per sconvolgere il valore testimoniale ed
espressivo della prima edizione, che resta indiscusso, ma abbastanza
per accrescerne la larghezza e l’intensità, per rafforzarne la precisione
e il senso, per consolidarne il già grande vigore di documento storico e
letterario”.

3. Aderendo all’esigenza di arginare il regime torrentizio dell’im-


pulso «immediato e violento» (primo piano narrativo), Levi cerca di
dare ordine ad una materia che chiede di essere capita. Così, all’ur-
genza prima della testimonianza impulsiva si affiancano due altre fi-
36

nalità strettamente complementari. Per un verso la consapevolezza


della testimonianza che si propone come «esemplare», ossia come
documentazione di un orrore che si può ripetere. Per altro verso la
consapevolezza di un mondo-laboratorio che serve ad una riflessione
obiettiva o il più possibile incommossa della natura umana.
La modalità «esemplare» (secondo piano narrativo) corrisponde
al proposito di inserire i fatti in una più ampia prospettiva di giudizio
e di valore, estraendone una lezione che scavalchi l'immediato e
che si proponga come riflessione di un pervertimento sempre possi-
bile. Ad essa appartiene una delle affermazioni più illuminanti della
premessa:

A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevol-


mente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo
agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati,
e non sta all'origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il
dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine
della catena sta il Lager (I, p. 3).

Il che, detto nei termini del libro ultimo e più consanguineo al


primo, / sommersi e i salvati, suona ancora più esplicito:

Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure 10


penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà
essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli (I, p.
639).

Alla seconda modalità (terzo piano narrativo) fanno riscontro altre


dichiarazioni come la seguente: «Vorremmo far considerare come il
Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza bio-
logica e sociale» (I, p. 88). E anche qui la dichiarazione trova ne /
sommersi e i salvati un’apertissima conferma:

Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il


privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale
che il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però [...]
può ben servire da «laboratorio» (I, p. 679).
Su

La prima intenzione, di testimonianza riflessa, è più documenta-


ria e appartiene soprattutto all’attività dello storico e del filosofo (0
del filosofo della storia); la seconda, di analisi specifica, è più speri-
mentale e appartiene all’ambito dello scienziato e del tecnico (e se
mai del filosofo della scienza). Ma tutt’e due vengono poi bilanciate
in Levi da una terza inclinazione, quella del moralista, che finisce
per risultare dominante (quarto piano narrativo) e che risulta soprat-
tutto evidente nella grande abilità di scorciare ritratti, di cogliere
fisionomie, di seguire i risvolti interiori di un gesto, di notarne la
cifra simbolica. Scandagliando gli abissi della contraddizione e le
frontiere più lontane dell’umana ambiguità, Levi - come i moralisti
ciassici - non rinuncia a ristabilire ogni volta un rapporto con l’uo-
mo, a cercare la chiave di una spiegazione, a imprimere il sigillo di
una legge pur sempre precaria. Un orizzonte comprensivo (lo stori-
co e il tecnico-scienziato assimilati all’ottica del moralista), che trag-
gono insieme dai fatti il minimo comune denominatore delle verità
più rischiose.
In Se questo è un uomo i quattro piani sono variamente
compresenti, con prevalenza a volte dell’uno a volte dell’altro, e
vengono diversamente giocati nel lavoro «di raccordo e di fusione»
svolto su «piano», di cui Levi stesso parla nella premessa. Un lavo-
ro di cui è facile reperire le spie linguistiche più superficiali in
connettivi del tipo «questa, di cui abbiamo detto e diremo», «come
diremo», «come altrove abbiamo detto» o simili, capaci di rivelare
a prima vista il tentativo di dare unità ad un testo nato per addizioni.
Tutto il libro, del resto, è costruito come una narrazione per
tessere. Nei diciassette capitoli che lo compongono, ogni tessera è
una unità minore del capitolo ed è più o meno ampia. A volte è di
poche righe, a volte è molto più lunga, a volte è più narrativa, a
volte più riflessiva, a volte addirittura interiettiva, a volte più
didascalica e dimostrativa, a volte (come nell’ultimo capitolo-diario,
Storia di dieci giorni) più nudamente - anche se mai esclusiva-
mente - cronachistica. Le varie tessere si dispongono nel libro, capi-
tolo per capitolo, secondo criteri di affinità, di contiguità e anche di
contrasto. Basterebbe pensare agli attacchi con l’avversativa «ma»,
ai cambi bruschi di tempo grammaticale, ai passaggi improvvisa-
38

mente comparativi tra il «passato» del Lager e il «presente» della


scrittura. Ne viene un ritmo a strappi, perfettamente aderente alla
densità drammatica del mondo che racconta. Incrociata con la va-
rietà dei piani narrativi, la varietà ritmica che la struttura rivela serve
a dare l’idea della ricchezza e della complessità con cui Se questo è
un uomo mira a testimoniare l’universo infernale della negazione e
dell’offesa.

Note

' M. MIA, // sapiente con la chiave a stella, «La Stampa», 14 aprile 1987,
poi in Id., Scritti civili, a cura di A. CAVAGLION, Torino, Einaudi, 1995, pp. 348-
350, (e ora anche nel n. 13 di «Riga», a cura di M. BeLPoLITI, Milano, Marcos y
Marcos, 1997, pp. 144-145).
2 In «La Biennale di Venezia», n.9, luglio 1952, Venezia, p.21 (macit. da A.
DRAGONE, Le arti figurative, in AA.VV., Torino 1920-1936, Torino, Edizioni Pro-
PElloNIO7OSp lO):
} T. S. ELIOT, Critici imperfetti, in Il bosco sacro, a cura di L. ANCESCHI,
Milano, Muggiani, 1946,p. 104.
4J. L. BoRGEs, Evaristo Carriego, in Tutte le opere, a cura di D. PORZIO, vol.
I, Milano, Mondadori, 1984, p.217.
°L CALVINO, // sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964, p. 8.
° Lettera del 22 novembre 1961, in I. CALVINO, / libri degli altri, a cura di G.
Tesro, Torino, Einaudi, 1991, p.382.
' Oltre al numero 13 di «Riga» già citato, il volume Primo Levi. Conversazioni
e interviste (1963-1987), Torino, Einaudi, 1997, e i due volumi delle Opere (con
Introduzione di D. DeL Giupice), Torino, Einaudi, 1997, pubblicati dopo il conve-
gno insieme con un altro volume Primo Levi: un'antologia della critica, a cura di
E. FERRERO, Torino, Einaudi, 1997.
*Tutte le citazioni (in parentesi) d’ora in avanti saranno tratte dal primo dei tre
volumi delle opere pubblicate nella collana einaudiana dell’ «Orsa» (comprendente
Se questo è un uomo, La tregua, Il sistema periodico, I sommersi e i salvati),
con Introduzione di C. Cases (L’ordine delle cose e l’ordine delle parole), Tori-
no, Einaudi, 1987.
° Per questo, il mio contributo Su alcune giunte e varianti di «Se questo è un
uomo», «Studi Piemontesi», novembre 1977, vol. VI fasc. 2, e ora in G. TEsIO,
Piemonte letterario dell’Otto-Novecento. Da Giovanni Faldella a Primo Levi,
Roma, Bulzoni, 1991, pp. 173-196.
39

ANNA MARIA CARPI

«La tregua», lingua materna, lingue di babele

«Racconto intessuto di albe gelide» definisce Levi La tregua


(p. 190)': nel racconto del 1963 la luce dominante è infatti di crepu-
scolo, fioca luce dell'alba e fioca luce delle notti bianche dell'estate
nordica. Anche il territorio non è più nettamente circoscritto da ben
visibili fili spinati ma bloccato da un «leggendario confine verso
occidente» (p. 279) che si sa che c’è ma non si vede. Come spiega
Levi nel capitolo / sognatori: «È questo il frutto più immediato
dell’esilio dello sradicamento, il prevalere dell’irreale sul reale»
(220):
Gli ozi, le pause e le peregrinazioni della 7regua avvengono in
un crepuscolo d’irrealtà senza tempo che ne fa per me il libro più
affascinante di Levi, insieme alla Chiave a stella che è il libro della
realtà per eccellenza.
Dell’irreale in cui Levi vaga tra il febbraio e l’ottobre del ‘45 con
altri esuli, dispersi, ex prigionieri, sono parte significativa le lingue,
le diverse lingue che vi si parlano, smozzicate, mutilate, ridotte al-
l’osso al pari degli uomini: russo, tedesco, italiano, polacco, rome-
no, e persino latino (recuperato da Levi per intendersi con un prete
polacco). Qua e là serpeggia anche qualche parola yiddish, la lingua
derivata dal tedesco e parlata per secoli dagli ebrei dell’ Europa orien-
tale: anche chi non la conosce ce l’ha ancora calda nell’orecchio.
I più abili di questi esuli si arrangiano passando dall’una all’altra
lingua: ma tutte suonano strane e aliene. Vengono in mente l’antico
termine «barbaro», imitativo di suoni informi e incomprensibili, ap-
plicato dai greci a chi non parlava greco, e il nome russo dei tede-
schi, nemzy, i muti.
Un mattino presto, nel bosco fuori del villaggio russo di Staryje
Doroghi, dove si vive ripiombati nella natura, come tanti Robinson
40

Crusoe, Levi s'imbatte in un tipo solitario, torso nudo, baionetta alla


cintura, «spessa maschera asiatica» (p. 280), e lo aiuta a accen-
dersi il fuoco per cucinare. Questo figlio della steppa è bloccato da
uno stupore primordiale: che «un uomo, adulto e normale, non parli
russo cioè non parli» non gli sembra vero, «il russo è così facile»,
sembra pensare, «lo parlano tutti, perfino i bambini che non cammi-
nano ancora» (p. 280). Segue una comica lezione di lingua: il mez-
zo-mongolo tenta, col dito puntato sull’oggetto, d’insegnare all’ita-
liano i nomi delle cose-base, il lessico dell’uomo neolitico, fuoco,
albero, arma.
È una scena al presente, il tempo cosiddetto «astanziale» ossia
di ciò che ci sta davanti, è una grandiosa drammatizzazione che si
distacca dal più consueto modulo narrativo di Levi - descrizione/
riflessione - e questa è a mio avviso una delle pagine più forti del
libro. Ma a mezzi di comunicazione ancor più primitivi ricorre, in
questo crepuscolo babelico, il marinaio russo della scena successi-
va, anch'essa resa al presente. Stesso bosco, stessa ora mattutina:
in mezzo a un capannello d’italiani, il giovane rievoca come ha sor-
preso e ucciso cinque tedeschi immersi nel sonno. Al contrario del-
l’altro, questo è conscio che la sua lingua non può essere capita, ma
è in preda a una basilare urgenza umana, forte come la fame - quella
di raccontare. Racconta con la mimica del viso, coi gesti del corpo,
simulando il luogo e gli oggetti, finché la narrazione trascende in una
«danza solitaria piena di fascino e d’impeto» (p. 281); è un attore
che con terribili e infantili energie trascende se stesso e il pubblico -
per risvegliarsi poi di colpo, tornare in sé, proclamare «ho finito» e
dileguarsi.
Questa gente appena uscita dalla realtà disgregante della guerra e
dei campi di sterminio, lo spettacolo ha la capacità di trasformarla in
un pubblico ossia una temporanea comunità. Una comunità si crea-
va già, una notte in una caserma di Cracovia, intorno al greco Mor-
do Nahum, geniale poliglotta, picaro insonne nel combinare affari
così come nel raccontare le sue passate avventure. Era un furfante,
dice Levi, «eppure sentivo in lui, favorito dall’uditorio, un calore
nuovo, un’umanità insospettata, singolare ma genuina, ricca di pro-
messe» (p. 184).
41

Non c’è soluzione di continuità tra la furfanteria poliglotta totalmen-


te egoistica del singolo che fa i propri affari, la quasi generosità del
singolo che a fondo perduto intrattiene gli altri coi propri racconti, e
l’estasi collettiva e totalmente disinteressata del fare tutti insieme spet-
tacolo in lingua babelica: commercio - racconto - spettacolo sono come
tre situazioni - anche linguistiche - che creano calore e si mettono
contro la morte, e nella Tregua di spettacoli se ne svolgono ben quat-
tro.
Il primo è quello di canti e danze organizzato dai russi per celebrare
la vittoria - i russi, come dice Levi, sono dotati di «un’omerica capacità
di gioia e di abbandono», di «un talento pagano, incontaminato per le
manifestazioni, le sagre, le baldorie corali» (p. 219). Il secondo sono i
film portati nel villaggio da un cinema militare itinerante, che scatenano
la più violenta immedesimazione e alla fine un incruento pandemonio
collettivo. Il terzo è lo spettacolo di rivista organizzato a metà agosto
dai romeni, e l’ultimo è lo spettacolo parodistico // naufragio degli
abulici che si prende gioco sia degli italiani naufragati su quella specie
di isola deserta che è il villaggio russo di Staryje Doroghi, sia dei russi,
cannibali della specie più innocua, con la proverbiale sveglia appesa al
collo. Era «la benefica secolare incuria russa», commenta Levi, «la
negligenza oblomoviana, che affiorava a tutti 1 livelli in quel momento
felice della loro storia» (p. 294).
Tutto si svolge nel «salone pendente» del villaggio, con la sua platea
scoscesa e sgangherata, la sua galleria soppalcata e soffocante (p. 285):
un ambiente assurdo, di quelli che si vedono solo in sogno. Il «salone
pendente» è la metafora della tregua stessa - ed è qui, quando già
s’avvicina l’inverno, il tremendo inverno russo, qui che durante una
replica del Ritorno degli abulici verrà improvviso l'annuncio che il
«leggendario confine verso occidente» si è aperto:
Venne in teatro e attraverso il teatro, e venne lungo la strada fangosa, portato da un
messaggero illustre e strano. Era notte, pioveva, nel «Salone pendente» gremito (che
altro si poteva fare alla sera prima di infilarsi fra le coperte umide?) si stava replicando //
naufragio degli abulici forse per la nona o la decima volta, (p. 296).

si vide il capocannibale, vero Deus ex machina, piombare verticalmente sul palcoscenico,


come se cadesse dal ciefo. Si strappò la sveglia dal collo, l'anello dal naso e ilcasco di penne
dal capo, e gridò con voce di tuono: - Domani si parte! (p. 297).
42

Il resto della notte passerà fra canti e balli, e soprattutto in raccon-


ti, di nuovo «raccontandoci a vicenda le avventure passate» (p. 297).
Malo spettacolo culmina, mi pare, nell’arrivo il mattino dopo di «una
straordinaria figura»: un uomo enorme che non si capisce come stes-
se dentro la Fiat 500 che l’ha portato fin lì e che sceso a terra spiega
uno smisurato mantello nero con le spalline di legno e vi si avvolge e
soverchia gli astanti di tutta la testa. Questo «messaggero celeste» è il
maresciallo Timoscenko, «l’eroe della rivoluzione bolscevica, della
Carelia e di Stalingrado» (p. 298), una specie di reincarnazione del
generale Kutusov che in Guerra e pace liberava la Russia da Napole-
one, e che parla diverse lingue, compreso l’italiano. Un grande della
storia e al tempo stesso un favoloso burattino.
Ma torniamo indietro, al punto cruciale, dove si vede che lo spet-
tacolo che unisce i pellegrini è un’azione collettiva contro la morte e al
tempo stesso un’irrealtà dentro l’irrealtà delle peregrinazioni e para-
dossalmente un addobbo gettato sull’assurdo della vita. La rivista or-
ganizzata dai romeni ha il suo numero di maggior successo nella can-
zone del Cappello a tre punte (p. 293), un popolare nonsense co-
struito da un’unica quartina:

Il mio cappello ha tre punte,


ha tre punte il mio cappèl,
se non avesse tre punte
non sarebbe il mio cappèl.

La quartina è accompagnata da un motivetto notissimo e frusto: a


ogni ripetizione una parola della quartina si elimina e sostituisce con
un gesto (ad es. la mano concava per dire cappello) sinché non rima-
ne più nulla se non la mimica, e dall’orchestra solo la «pulsazione
ipnotica di un solo tamburo» (p. 294).
Questo macabro numero è eseguito da tre figure in nero, truccate
da vecchi, con in mano dei ceri spenti, e viene accolto con un silenzio
di pietra più significativo degli applausi:

Perché? Forse perché vi si percepiva, sotto l'apparato grottesco, il fiato pesan-


te di un sogno collettivo, del sogno che vapora dall’esilio e dall’ozio, quando cessa-
no il lavoro e la pena, e nulla pone riparo fra l’uomo e se stesso; forse perché vi si
43
ravvisava l'impotenza e la nullità della nostra vita e della vita, e il profilo gobbo e
sghembo dei mostri generati dal sonno della ragione (p. 294).

Il «salone pendente» non c’è più, l’estasi scenica è sospesa. Di


colpo, il sogno collettivo di liberazione delle vittime svolazza dissennato
fra i mostri della ragione ovvero del sonno della ragione - sempre in
agguato sull’uomo - e dagli astanti quasi s’ invocano indietro il dolore e
la pena del Lager. Ridotta la comunicazione a una strofa insensata che
perde a poco a poco i pezzi, l’orchestra a un tamburo, il collettivo di
colpo si scioglie, i singoli si ritrovano al freddo, soli, ognuno abbandona-
to a se stesso con niente in mano. Il momento sembra anticipare la
conclusione del libro, il sogno ricorrente di Levi rientrato a Torino: di
essere «ai centro di un nulla grigio e torbido» e di sapere, come avviene
nei sogni, che questo è di nuovo il Lager e che «nulla era vero all’infuo-
ri del Lager» (p. 325), e di riudire «il comando dell’alba in Auschwitz,
una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, ‘Wstavac ”°» (p. 325).
Su questa parola polacca verte la poesia posta a motto della 7re-
gua; questo suono alieno spezzava ogni alba il sonno e il sogno ricor-
rente dei prigionieri di «tornare; mangiare; raccontare» - che voleva
dire anche ritrovare la propria lingua materna. «Wstavac *» era allora
la realtà, la verità; adesso torna a Levi nel sogno, col terribile senti-
mento d’orrore e di mostruosa quasi nostalgia - che «nulla era vero
all’infuori del Lager». «Era», all’imperfetto, solo perché l’imperfetto
è il tempo in cui si narrano i sogni.
Irrealtà e realtà sono in Levi i correlati di libertà, ed è una medita-
zione sulla libertà che connette La tregua a La chiave a stella, gli ex
prigionieri di Auschwitz col montatore torinese Faussone. Dice Levi
ne La chiave a stella:
Il temine libertà ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più acces-
sibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con
l'essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo
(p. 145).

I Robinson della Tregua sono sfuggiti alla mentita libertà di


Auschwitz («Il lavoro rende liberi»), al grottesco alzarsi ogni alba per
lavorare al proprio annientamento. Ora, nell’ozio - fra lingue diverse
e abborracciate, uniti di tanto in tanto da commerci, narrazioni e spet-
44
tacoli nel «salone pendente» - sono però liberi in modo irreale, crepu-
scolare, sognante, e perciò esposti agli spettri. La salvezza, la verità
che fa da antidoto al Lager, la definitio hominis non si ottiene attra-
verso il guadagno fortuito, il dilettantismo, l’accidente fantasioso, la
coralità improvvisata, la liberazione dal dolore - bensì dallo svolgere
regolarmente un mestiere che si conosce. E qui si scorge un implicito
parallelo fra 1’ «essere competenti nel proprio lavoro» (e il piacere
che ne deriva) e il ritrovarsi dell’uomo - e s’intende anche dello scrit-
tore - dentro la lingua materna, sul fido, amato, produttivo suolo della
propria lingua, e il farne barriera contro l’incubo, il «comando dell’al-
ba», la parola straniera temuta e attesa.

Note

' Cito da P. LEviI, La tregua, in Se questo è un uomo. La tregua, Torino,


Einaudi, 1989 e da La chiave a stella, Torino, Einaudi, 1991.
45

Massimo RIZZANTE

Dell'ibrido: osservazioni su Primo Levi

1. La parola «ibrido», dicono i vocabolari, è di derivazione lati-


na, anche se piuttosto incerta. Plinio, ad esempio, la utilizza nel
senso di «animale generato da incrocio». Orazio, invece, nel senso
di «persona nata da genitori di condizione o razza diversa». La
definizione di uso corrente vale come mescolanza, commistione.
Ma il termine è usato sia in campo linguistico dove significa «parola
composta di elementi di diverse lingue» sia in campo scientifico,
soprattutto in quello delle scienze naturali. In questo caso significa
«animale o vegetale generato dall’incrocio di individui di specie di-
verse o della stessa specie ma di razza o varietà diverse».
La parola «ibrido» è stata usata molte volte da Primo Levi.
Sulla natura «ibrida» della sua opera e della sua vita conservia-
mo numerose testimonianze. È lo stesso Levi, indagatore lucidissi-
mo della propria duplice storia di chimico e narratore, che ci offre la
possibilità di leggere questa parola come una parola-chiave, un tema.
Questo tema è probabilmente legato ad altri quattro anelli che
disegnano una catena, la «catena tematica» dell’opera leviana: l’im-
perfezione, l'ambiguità, l’impurità, la metamorfosi.
Non possedendo ancora una formula chimico-critica soddisfa-
cente, capace di interpretare nella sua totalità questa struttura, mi
limiterò ad alcune osservazioni su una sua parte, sull’ anello mai
mancante, l’ibrido.

2. Quest'anno Marco Belpoliti ha curato un libro dedicato al


Levi «parlatore», Primo Levi, Conversazioni e interviste 1963-
1987.
Il titolo della sua Introduzione è Io sono un centauro. Il titolo
non è ripreso da // sistema periodico né da quell' importante (im-
46

portante soprattutto nella prospettiva tematica dell’ibrido) racconto


degli inizi degli anni 60, poi incluso in Storie naturali (1966), la
Questio de Centauris , ma da un’intervista del 1966 dove Levi di-
chiara:

To sono un anfibio, un centauro (ho anche scritto dei racconti sui centauri)... IO
sono diviso in due metà. Una è quella della fabbrica, sono un tecnico, un chimico.
Un'altra, invece, è totalmente distaccata dalla prima, ed è quella nella quale scrivo,
rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti. Sono proprio
due mezzi cervelli".

Sempre quest'anno Belpoliti ha curato l’ultimo numero di «Riga»,


interamente dedicato a Levi. Nel suo saggio, che è una specie di
piccola enciclopedia portatile, alla voce «ibrido» c’è scritto:

L'argomento è centrale in Levi, che si considera lui stesso un ibrido, composto


di volta in volta, di due parti differenti; ma nella sua opera ci sono anche strani
animali, ibridi: donna-cicogna, uomo-insetto, uomo-pesce, uomo-mammifero,
controcane, personaggio-coccinella, uomo-bestia, uomo-uccello; tuttavia non si tratta
mai di mostri”.

Belpoliti si è occupato di rubricare enciclopedicamente il «bestiario»


leviano (che è quasi tutto interno a / racconti, 1996). Ora, io vorrei, a
partire da alcune prove testimoniali dell’ibrido-Levi, riflettere su certe
manifestazioni dell’ibrido, in relazione soprattutto al mondo
concentrazionario, alla narrazione del mondo concentrazionario.
Senza far cadere quell’importante indicazione di Belpoliti (indica-
zione che Belpoliti riprende dallo stesso Levi): l’ibrido non è un mo-
stro.

3. Nella Prefazione a La ricerca delle radici, sorta di antologia


personale o, come la definì Calvino recensendola, «enciclopedia»,
Levi scrive: «Poiché dispongo di imput ibridi, ho accettato volentieri
e con curiosità la proposta di comporre anch'io un’antologia persona-
le». E ancora: «Volentieri, dunque, ma con qualche riserva e con
qualche tristezza. La riserva principale nasce appunto dal mio ibridismo:
ho letto parecchio, ma non credo di stare inscritto nelle cose che ho
letto».
47

E qualche pagina dopo:

To chimico, già esperto nelle affinità fra gli elementi, mi trovo sprovveduto da-
vanti alle affinità fra gli individui; qui veramente tutto è possibile, basta pensare a
certi matrimoni improbabili e duraturi, a certe amicizie asimmetriche e feconde”.

Da queste affermazioni si comprende abbastanza bene come il


tema dell’ibrido sia una chiave gnoseologica che Levi adotta per ri-
flettere sulle sue stesse scelte e riserve. Levi ci dice che ha, per esem-
pio, accettato di scrivere un’antologia guidato dai suoi «imput ibridi».
Ma proprio il suo «ibridismo» lo spinge ad avere alcune perplessità su
questo esperimento: «ho letto parecchio, ma non credo di stare inscritto
nelle cose che ho letto».
La duplice e ibrida natura di Levi: da una paîte la «curiositas»
scientifica del chimico e del naturalista gli fa accettare la sfida, come
dire, la sfida mille volte sperimentata in laboratorio, quella contro
l'inerzia della materia; dall’altra, la saggezza del narratore, di colui
che avverte come imperativo categorico l’ autorità dell’esperienza, di
chi sente il narrare come una necessità, un bisogno primario antropo-
logico («Tornare, mangiare, raccontare») e che perciò non può iden-
tificarsi mai completamente nello scrittore né nel lettore, ma piuttosto
in colui che osserva, parla, ascolta.
In un’intervista del 1981 (l’intervistatore è Giovanni Tesio), ad
una domanda relativa all’ «umorismo» presente nelle sue opere, ma
spesso dimenticato dalla critica, Levi risponde:

Io credo proprio che il mio destino profondo (il mio pianeta direbbe Don
Abbondio) sia l’ibridismo, la spaccatura. Italiano, ma ebreo. Chimico, ma scrittore.
Deportato, ma non tanto (o non sempre) disposto al lamento e alla querela. Ecco «a
domanda risponde»: è permesso non essere sempre seri, ma qualche volta sì e
qualche volta no? secondo me è permesso, e io ne approfitto; forse è proprio que-
sto il motivo che mi fa amare Rabelais, che era un uomo molto serio, studioso, colto,
celebre medico, ma che provava gusto nel ridere e nel far ridere*.

Ciò che in questo caso mi interessa sottolineare è soprattutto una


cosa: come per Levi la natura della sua produzione letteraria «qualche
volta seria - qualche volta comica» è interpretata a partire da quello
che lui stesso chiama il suo «destino profondo», il suo pianeta:
48
l’ibridismo di chimico ma scrittore, di italiano ma ebreo, di deportato
ma anche no, di autore serio ma anche comico.
A proposito di quest’ultima manifestazione dell’ibrido aggiungerei
solo questo: che l’essere «qualche volta serio» e «qualche volta co-
mico» di Levi è una combinazione che si produce non solo in opere
diverse (la serietà, ad esempio di Se questo è un uomo contro la
comicità di molti racconti), ma anche all’interno di una stessa opera,
si tratti di un racconto concentrazionario, «naturale», fantastico 0
«fantascientifico». In questo senso la concezione ibrida che Levi ha
di se stesso e del suo modo («gli imput») di conoscere e sperimentare
il mondo, gli ha permesso, a mio avviso, di scoprire una dimensione
dell’esistenza dove orrore e comico sono inestricabilmente mescolati
(da qui anche il rapporto tra Levi e l’opera di Kafka, dove il perso-
naggio sperimenta per così dire il «comico dell’orrore», potrebbe es-
sere letto e interpretato al di là delle parole di distanziamento che Levi
stesso pronunciò all’epoca della traduzione del Processo ).
È da questo mondo dove orrore e comico si contaminano recipro-
camente che nascono i personaggi di Levi, esseri straordinariamente
ordinari e ordinariamente straordinari, sempre esemplari anche se
ritratti in situazioni mostruose, singolari, debordanti, eccezionali.

4. Fin qui alcune testimonianze autobiografiche dell’ibridismo


che Levi stesso affermava essere il suo destino, il suo pianeta e
una delle chiavi per interpretare la sua natura profonda.
Ora questa chiave autobiografica diventa chiave della condizio-
ne umana.
Ne // sistema periodico, nel primo capitolo, Argon, Levi, a
proposito del gergo ebraico-piemontese (un perfetto ibrido lingui-
stico) parlato dai suoi avi e ormai quasi del tutto scomparso affer-
ma:

Esso contiene infatti una mirabile forza comica che scaturisce dal contrasto fra il
tessuto del discorso, che è il dialetto piemontese scabro, sobrio e laconico, mai
scritto se non per scommessa, e l’incastro ebraico, carpito alla remota lingua dei
padri, sacra e solenne, geologica, levigata dai millenni come l’alveo dei ghiacciai.
Ma questo contrasto ne rispecchia un altro, quello essenziale dell’ebraismo della
Diaspora, disperso fra le «genti» (i «g6jim», appunto), teso fra la vocazione divina e
49

la miseria quotidiana dell’esistenza; e un altro ancora, ben più generale, quello insito
nella condizione umana, poiché l’uomo è centauro, groviglio di carne e di mente, di
A 5
alito divino e di polvere”.

Questo passaggio è davvero importante e troppo limpido per su-


bire un commento. Vorrei aggiungere solo un’osservazione: la visio-
ne leviana allo stesso tempo scientifico-etologica (l’uomo è comun-
que e sempre un animale) e metafisica (nel senso etimologico per il
quale la mente umana aspira comunque e sempre a superare la pro-
pria fisicità) dell’uomo procede dalla «ricerca delle radici» («Argon»
è dedicato agli antenati, alla loro lingua, all’origine della famiglia).
Laricerca delle radici ci conduce alla constatazione che alle radi-
ci la vita è contrasto (tra serio e comico, tra la quotidiana parola
dialettale e la sacra parola ebraica), impurità. Questa ricerca delle
radici (non solo famigliari, non solo linguistiche), inoltre, ci rende
sempre più radicali, ci spinge, cioè, da un lato verso il «principio»:
l’impurità e l'ambiguità umana; dall’altro ci rende capaci di esami-
nare i casi della vita, gli exempla, nella loro straordinaria, ecceziona-
le, mostruosa quotidianità, ci permette di soffermarci nella zona
ibrida, grigia dell’uomo, nel terreno friabile dove crescono invisibili
le nostre radici.

5. Anche quando parla o narra del Lager Levi usa il termine «ibri-
do».
Nel dialogo con Ferdinando Camon, ad esempio, Levi dice ad un
certo punto:

È in questo periodo - si parla della fine del ‘43, dopo Stalingrado - che si
costruisce Auschwitz, lager ibrido, anzi impero ibrido di lager: sterminio più sfrutta-
a Nava A 6
mento, anzi sterminio attraverso lo sfruttamento”.

Ibrido non è solo il Lager, ma anche l’uomo del Lager. In un


passaggio piuttosto celebre di Se questo è un uomo si può leggere:

Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione,
origine, lingua cultura e costumi e siano quivi sottoposti ad un regime di vita costan-
te, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso
50

uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e
che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la
SUONI
vita .

Nell’impero ibrido del Lager di Auschwitz la natura ibrida del-


l’animale-uomo viene sperimentata con controlli costanti e rigorosi
fino alle sue invisibili radici. Questo esperimento dell’uomo sull’uo-
mo rischiara di una luce luciferina il «fondo» dell’uomo, la sua na-
tura ibrida e la sua duplice manifestazione: da una parte la frontiera
tra il «groviglio di carne» e «la mente», la frontiera che separa la
parte animale e quella umana di un individuo diventa l’unico luogo
dove permanere, dove consistere per sopravvivere; dall’altra, la
«zona grigia», ibrida, del compromesso, della difficile distinzione
tra bene e male, diventa la regola di ogni comportamento.
Ne / sommersi e salvati, nel capitolo intitolato proprio La zona
grigia, raccontando il caso di Chaim Rumkovski, il presidente fan-
toccio del ghetto di Lédz”, Levi afferma:

Paradossalmente alla sua identificazione con gli oppressori si alterna o si affian-


ca un’identificazione con gli oppressi, poiché l’uomo, dice Thomas Mann, è una
creatura confusa; e tanto più confusa diventa, possiamo aggiungere, quanto più è
sottoposta a tensioni: allora sfugge al nostro giudizio, così come impazzisce una
bussola al polo magnetico”.

Il laboratorio-Lager è un «unicum», come ha più volte ripetu-


to lo stesso Levi, un'eccezione, etimologicamente un monstrum
(la regola del campo è l’eccezione), dove creature confuse sotto-
poste a tensioni estreme e a controlli rigorosi e metodici diventa-
no ancora più confuse e per questo possono sfuggire al nostro
giudizio razionale e morale, alla comune capacità di discernere.
Ma lo sguardo miracolosamente luciferino di Levi, in bilico tra
sospensione della morale e responsabilità di conoscere, ci riporta
sempre personaggi e situazioni esemplari, cioè storie uniche ma
con un comune ammonimento: non si dimentichi che non biso-
gna pretendere troppo dall’angelo se non vogliamo trovarci di
fronte la bestia.
SI

6. Nell’impero ibrido del Lager l’uomo-ibrido sperimenta la sua


natura di frontiera di essere animale e razionale. Ma se è proprio della
natura umana essere frontiera tra animalità e razionalità, ciò compor-
ta che i limiti dell’una e dell’altra non sono realizzabili.
In un passagio di Se questo è un uomo Primo Levi afferma:

Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è
realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è
anche una infelicità perfetta. Imomenti che si oppongono alla realizzazione di en-
trambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione
umana, nemica di ogni infinito”.

L’ibrido animale-uomo non può, dunque, né conquistare una feli-


cità perfetta né realizzare una perfetta infelicità. Proprio della condi-
zione umana è l’imperfezione.
L’imperfezione per il Levi chimico, curioso naturalista ed etologo
è data dalla corruttibilità della materia organica, da quella parte ani-
male di cui l’ibrido-uomo è composto, mentre l’ imperfezione, per il
Levi narratore, nasce dalla consapevolezza che proprio perché orga-
nicamente imperfetto e perituro l’ibrido-uomo se genera «mostri»,
questi non possono costitutivamente essere perfetti e perciò è sempre
possibile, attraverso la narrazione (narriamo perché non siamo né
angeli né bestie) donare una funzione «esemplare» anche al caso più
mostruoso.
L’imperfezione, inoltre, secondo il chimico, determina un’infelici-
tà per così dire strutturale o naturale, prodotta dal fatto che l’ibrido-
uomo può sempre cadere (o essere spinto) nell’inerzia della materia.
L’imperfezione, secondo il narratore, può invece sempre generare
una felicità che io chiamerei «affabulatoria», frutto del fatto che l’ibri-
do-uomo è sempre «Mit-mensch», co-uomo, bisognoso di narrare, di
comunicare e ansioso di ascoltare altre storie, tutte le storie e di nuo-
vo e sempre la sua storia.

Note

‘E. FapINI, Primo Levi si sente scrittore «dimezzato», «L'Unità», 4 gennaio


1966; ora in P. Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di M.
SZ

BELPOLITI, Torino, Einaudi, 1997, p, 107.


° M. BeLpOLITI, Animali, in Primo Levi, a cura di M. BELPOLITI, numero
monografico di «Riga», n. 13, Milano, 1997, p. 189.
3 LEVI, Laricerca delle radici, Torino, Einaudi, 1981, pp. VIEXII.
*G.TEsIo, Credo che il mio destino profondo sia la spaccatura,
«Nuovasocietà», n. 208, 16 gennaio 1981: ora in P. Levi, Conversazioni
e inter-
viste 1963-1987, cit., p- 1186.
pi?LEVI, Il sistema periodico, Torino, Einaudi, 1994 (1975) pid.
cr Camon, Conversazione con Primo Levi, Milano, Mondadori, 1991
(1987 )APASSÌ
DE Levi, Se questo
è un uomo, Torino, Einaudi, 1989 (1958 );DAVIS:
SP.Levi, sommersieisalvati, Torino, Einaudi, 1991 (1986), p.48.
° P.Levi, Se questo è un uomo, cit., p.14.
(O)W

ALESSANDRO SCARSELLA

Il centauro e la sirena: nota su Levi e Tomasi

L'affinità tra il racconto inserito da Primo Levi nelle Storie natu-


rali, Quaestio de Centauris, e il racconto postumo di Tomasi di
Lampedusa Lighea, ovvero La sirena, colpisce, turba, quasi stordi-
sce il lettore in cerca di emozioni novecentesche. Entrambi i racconti
sono pubblicati negli anni Sessanta: nel 1961 quello di Tomasi, nel
1967 quello di Levi; è probabile che quello di Levi discenda diretta-
mente dalle suggestioni dell’ammaliante racconto di Tomasi, propo-
nendone una reversione dal femminile (la sirena) al maschile (il
centauro). La differenza di genere nel profilo del personaggio mitolo-
gico determina una diversa angolazione narrativa; ma non basta: le
relazioni tra i due enigmatici testi non finiscono qui e forse, invitando
il lettore ad abdicare all’eroico furore che può suscitare l’esaltante
lettura, occorre mettere ordine nella mente e ricercare una logica a
monte della forte sensazione iniziale di intensa parentela tra i due
testi.
Il racconto di Tomasi è di circa ventotto pagine, la «storia natu-
rale» di Levi di dieci; tuttavia il testo di Tomasi si divide nettamente in
due parti, distaccando dalla cornice torinese e pseudoautobiografica
della prima parte il racconto fantastico vero e proprio, che è riferito
dal Senatore La Ciura e concluso dall’epilogo enunciato dalla voce
narrante. Se supponiamo che l’ipotesto della Quaestio de Centauris
(racconto a una voce) sia dunque la Lighea (racconto a cornice, quin-
di a due voci), il modello narrativo va più propriamente identificato
nel racconto autobiografico di La Ciura, incorniciato dalla lunga pre-
messa e dalla breve, istantanea chiusa; così come Una storia della
mia giovinezza è sottotitolata la narrazione della Quaestio.
La struttura della Quaestio si sovrappone dunque solo sulla se-
zione centrale di testo di Lighea, sebbene le suggestioni provenienti
54

dalla cornice incidano non marginalmente sulla forma del racconto di


Levi che, secondo il titolo latino, vorrebbe essere una «quaestio»,
ossia una disputa dotta vertente non sull’esistenza dell’essere meravi-
glioso, metà uomo e metà cavallo, ma sul foraggio, l’abbeveraggio e
la riproduzione dei centauri, la cui esistenza non è quindi, ripeto,
messa in discussione, ma accettata fin dall’inizio. In effetti l'ipotesi di
partenza della disputa riproduce il rapporto con la ricerca della verità
sotteso al tipo di «dialogo platonico» che ha luogo tra il narratore di
Lighea e il Senatore La Ciura. Ma tracce incisive della tradizione
dialogica emergono anche nel racconto di Levi, secondo Mengaldo:

la forma ‘o carissimo’» nel breve discorso testamentario, particolarmente elevato di


Trachi, sarà in realtà calco, ben consono al referente culturale ‘forte’, la grecità, del
racconto, dell’6béltiste dei Dialoghi platonici '.

Bisogna ritornare veramente a Platone oppure è sufficiente riscon-


trare nella Quaestio de Centauris gli innegabili riflessi dell’universo
dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese? Se è vero che anche dal
punto di vista tematico Levi si ricollega al dialogo pavesiano Le cavalle,
che ha luogo tra Ermete Ctonio e il centauro Chirone, e rammenta
l’analogo mito della panspermia in cui tutte le specie si sarebbero
rimescolate nel fango producendo i seducenti mostri mitologici, sia in
Pavese?, che in Tomasi, che in Levi, il tema del mostro è dunque
collegato alla dimensione di una sessualità superpersonale e cosmica,
oggetto di un sapere iniziatico trasmissibile solo attraverso una paideia
di tipo dialogico. D'altra parte, infine, non è ogni racconto fantastico
un dialogo, precisamente un «dialogo degli dei e-dei morti», in cui
almeno uno dei protagonisti è la voce di un’altra dimensione? Le
congetture sul destino di Trachi il centauro attingono a notizie raccol-
te dalla «stampa», come la morte misteriosa di La Ciura è appunto
comunicata alla redazione del giornale dove lavora il protagonista:
nell’uno e nell’altro epilogo la ricostruzione dei fatti attinge ad un tipo
di fonte comunque e ancora una volta orale, solo successivamente
trasferita nella cronaca di un quotidiano:

[Trachi:] [...] si deve riconnettere a questa storia la curiosa segnalazione fatta


alla stampa dall’equipaggio di un peschereccio pugliese: di aver incontrato, al largo
55

di Corfù, «un uomo a cavallo di un delfino». La strana apparizione nuotava vigoro-


samente verso levante; i marinai le avevano dato una voce, al che l’uomo e la
groppa grigia si erano immersi, scomparendo alla vista?.

[La Ciura:] [...] Il giorno dopo, all’alba, si telefonò da Genova al giornale:


durante la notte il senatore La Ciura era caduto in mare dalla coperta del Rex che
navigava verso Napoli, e benché delle scialuppe fossero state immediatamente messe
in mare, il corpo nonera stato ritrovato”.

E si tratta in entrambi 1 casi di una supposizione, soltanto di una


supposizione inverificabile di suicidio: di una morte per acqua che
non lascia ritrovare il corpo dello scomparso. Dal punto di vista, per
così dire, narratologico Trachi, il centauro di Levi, è l’attante di un’azio-
ne che ricorre due volte nel racconto di Tomasi:

1)La sirena: si buttò nello zampillare iridato; non la vidi rica-


dere, sembrò che si disfacesse nella spuma®.
2)Il senatore: era caduto in mare.
3)Infine il centauro: l’uomo e la groppa grigia si erano immersi,
scomparendo alla vista.

Se nel racconto di Tomasi di Lampedusa lo stesso gesto di


immersione equivale a un ricongiungimento del senatore alla sua
amante semidivina di gioventù, nel racconto di Levi Trachi, con il
duplice annientamento in acqua della sua doppia natura (l’uomo e la
groppa grigia) sancisce definitivamente un destino di solitudine im-
plicito nell’origine che il narratore fissa in Colofone, antica colonia
ionica della Lidia, ma anche in senso traslato «cima» o fine, laddove
il colophon rappresenta altresì l'indicazione conclusiva ed epigrafica
di luogo, anno e editore di un testo stampato. «Dunque nato in
Colofone», come è ripetuto per due volte, il centauro Trachi confi-
gura già la propria fine nell’inizio. Una nascita ibrida che è alfa e
omega ad un tempo.
Mentre la sirena di Tomasi vive in un ambiente carico della
luce mediterranea e delle suggestioni di una inestinguibile memoria
dell’antico”, il centauro di Levi compare nella cornice prosaica della
provincia piemontese dove i vicini si chiamano De Simone e il ma-
56

niscalco (uno degli ultimi) è avvinazzato e vernacolare. Tuttavia è


singolare come entrambi, Tomasi e Levi, grandi isolati e incompresi
della narrativa italiana del Novecento, abbiano prescelto un emblema
mitologico, quello della sirena e quello del centauro (Lighea e Trachi,
«la melodiosa» e «il violento», due nomi gutturali come la loro lingua
greca classica proferita anacronisticamente al cospetto di un uditore
perturbato), per costruire l’allegoria autobiografica in cui l’ossimoro
di una metafisica del sesso si incrocia con motivazioni inconsce che
attendono un’ interpretazione che coinvolga il senso globale dell’ope-
ra e del destino dell’autore.

Note

! P.V. MENGALDO, Introduzione, in P. Levi, Opere, vol. III, Racconti e saggi,


Torino, Einaudi, 1990, p. XXX.
? C. PAVESE, Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1981, pp. 27-28.
3 Cfr. R. CESERANI, // fantastico, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 87, (dove si
indica nel mito dell’amore romantico l’elemento innovatore del tradizionale dialogo
dei morti, ma esiste un’altra strada - occorrerebbe obiettare a Ceserani - che non
porta dal dialogo lucianeo al racconto fantastico, bensì alle Operette morali di
Leopardi e a Pavese, quindi al racconto di Levi qui in oggetto).
4 P. LEVI, Opere, vol. III, cit., p. 130.
° G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Opere, Milano, Mondadori, 1993, p. 428.
° Ibidem.
? Delle numerose letture della Lighea di Tomasi (del racconto di Levi non si
può ancora dire altrettanto), cfr. di E. Grasso, Le professeur et la sirene
(Lampedusa etl'érotique de l’indisctinct), nel volume collettaneo Eros, science
et fiction, fantastique, Aix-en-Provence, Publications de 1’ Université de Provence,
1991, pp. 167-176 (l’autrice ritiene inanalizzabili sia la figura della sirena che la
struttura del racconto nel suo complesso). Sul genere ottocentesco del racconto
fantastico di suggestione archeologica e mediterranea ad un tempo (in cui il prota-
gonista è normalmente uno studioso immerso nella ricerca, il quale praticamente
femminilizza la ricerca stessa identificandola nell’oggetto di passione), cfr. invece
l'intervento di J. GUICHARDET, Arria Marcella et Gradiva: deux réves pour un
volcan, in L’île et le volcan. Formes et forces de l’Imaginaire, textes réunis par
J. Burgos et G. RUBINO, Paris, Lettres Modernes, 1996, pp. 47-60.
SH

ERALDO AFFINATI

Primo Levi: la responsabilità della parola

Primo Levi ebbe subito l’indiscutibile funzione testimoniale che


tutti compresero: ciò avvenne direttamente, per quanto riguarda i
testi concentrazionari e in modo più filtrato, nelle altre opere: rac-
conti, romanzi, poesie, interventi saggistici, le quali sembrarono, ai
lettori meno distratti, strumenti d’indagine antropologica. Perfino
quando narra di scienziati, viaggiatori e operai, Primo Levi s’inter-
roga sui codici di condotta, sui comportamenti umani. Maoggi, alla
giusta distanza storica, ci accorgiamo che i suoi libri pongono anche
altri quesiti: in particolare ci spingono a riflettere sulla responsabilità
della parola.
Nella mia triplice attività d’insegnante, giornalista e scrittore mi
sono chiesto spesso il senso da attribuire a tale concetto. Primo Levi
ha indicato una risposta che giudico decisiva, soprattutto tenendo
presente il contesto storico in cui è stata formulata. Se il linguaggio
non è un mero strumento di comunicazione, ma piuttosto il luogo
dei nostri pensieri, il centro stesso dell’orientamento vitale, il colore
della visione a cui siamo legati, allora risulta impossibile chiamarsi
fuori rispetto al fuoco dialettico che si determina ogni volta che
scriviamo o parliamo: dobbiamo necessariamente prendere posizio-
ne, o modificarla, se le conseguenze di ciò che abbiamo detto ci
spingono a farlo.
In altri termini, Primo Levi mi ha aiutato a non condividere l’at-
teggiamento di chi s’illude di poter restare libero di fronte alla parola
che ha scelto. La triste storia di questo secolo, giunto ormai alla sua
fine, dimostra quanto danno abbiano prodotto le poetiche tese a
rappresentare l’immagine dell’artista fuori dal mondo, privilegiato,
in una sua pretesa genialità, nel rapporto con il cosiddetto uomo
comune. I totalitarismi novecenteschi hanno agevolmente prospera-
58

to di fronte all’intellettuale che disdegnava l’azione storica. È come


se il nazismo, il fascismo, i regimi comunisti avessero avuto carta
bianca, non trovando l’opposizione degli spiriti che potevano op-
porsi alla barbarie, alla violenza, alla dittatura burocratica.
D'altro canto, vorrei anche sgomberare il campo da un altro equi-
voco. Quando parlo di responsabilità della parola, così come la in-
terpreto nella lettura di Primo Levi, non intendo, in senso stretto, né
la partecipazione politica, né l’impegno militante nei confronti di
un’idea. Ritengo anzi che lo scrittore debba restare indipendente
rispetto ai partiti o ai movimenti d’opinione organizzati in quanto
ogni suo pronunciamento, se poggia le basi sulla verità di una voca-
zione, o sull’autenticità di un carattere, non potrà che entrare in
contrasto con quello che tende a coagulare intorno a sé il massimo
del consenso.
La lettura de / sommersi e i salvati, che considero uno dei gran-
di libri della letteratura italiana moderna, è stata per me molto istrut-
tiva. In nessun altro luogo Primo Levi era riuscito ad andare così a
fondo nell’analisi spietata della condizione umana riuscendo a supe-
rare persino il pudore che a volte gli aveva impedito di rivelare certe
sue incertezze o fragilità. Il politico, egli ci dice, è abile nell’arte
della mediazione, del compromesso, mentre l’uomo espressivo, noi
possiamo dedurne, non può essere mai completamente condivisibile:
se lo diventa, o ciò dipende da circostanze congiunturali che non lo
riguardano, oppure ha rinunciato a qualcosa di essenziale operando
una traduzione riduttiva da se stesso.
La responsabilità della parola a cui allude Primo Levi riguarda la
continua attenzione, la perenne vigilanza nei confronti della combi-
nazione chimica che, di concerto con l'educazione culturale, deter-
mina il nostro carattere. La scrittura, così concepita, è innanzitutto
certificazione d'identità; allo stesso modo la memoria non dovrebbe
mai essere considerata quale magazzino di dati cui ricorrere in caso
necessario: se lo fosse, rischierebbe di trasformarsi in un alibi inte-
riore. Lo scrittore, vorrei aggiungere, è colui che, attraverso la sua
opera, esclama: «Io sono così! Guardatemi, non possiedo alternati-
ve». Questo non significa che egli non modifichi, impercettibilmen-
te o in modo clamoroso, la propria natura. Come potrebbe non
59

farlo? Essendo un uomo uguale agli altri, cresce, si avvicina o si


allontana rispetto al nucleo originario dal quale era partito; in base agli
incontri, alle esperienze, si trasforma in questo o quello. Non è mai
sempre lo stesso. Ciò accresce, invece che diminuire, la sua respon-
sabilità, in quanto lo obbliga ad un continuo riposizionamento, lo spinge
alla rielaborazione dei valori umani e culturali di cui dispone. L’opera
letteraria, così intesa, come un boomerang che torna a interrogarlo,
diventa uno specchio retroattivo, la voce della sua coscienza, la prova
del nove per misurare la legittimità di certe intuizioni, una sorta di
banca-dati che va aggiornata per essere tenuta in vita nell’orizzonte
delle future attese.
Lo scrittore, più di ogni altro, è quindi legato alla lente visiva che
adotta, all’interpretazione scelta, alla figura ossessiva di cui non può
fare a meno: tutto ciò senza rinunciare alla dialettica del confronto
diretto, ma praticando in ogni rapporto la via da lui ritenuta, a torto 0
ragione, più congeniale, meno evasiva, in grado di trasmettergli affet-
ti, energia di conoscenza, vitalità. Credo che le conversazioni intratte-
nute da Primo Levi insieme agli studenti, le frequenti interviste che
concedeva, i convegni ai quali partecipava, vadano considerati parte
integrante della sua opera: come i viaggi di Hemingway o la passione
per le farfalle di Nabokov, ci aiutano a riconoscerlo e incrementano
l’intensità di ciò che ha espresso.
La responsabilità della parola infatti non riguarda solo la scrittura.
Pensiamo alla scuola. L'insegnante afferma innanzitutto una presenza
in aula. Non potrebbe esserci trasmissione di pensiero, né produzione
di cultura, senza la creazione preliminare di un personaggio artificiale:
colui che assorbe su di sé, nello stesso tempo, la dimensione dell’isti-
tuzione scolastica e il gesto didattico inteso quale passaggio di testi-
mone da una generazione all’altra. Il maestro si pone come pubblico
ufficiale, diga temporale e modello umano. Responsabilità della paro-
la a scuola significa quindi consapevolezza della propria funzione:
ogni insegnante sa bene che entrerà in modo indelebile nella persona-
lità degli allievi che ha di fronte, fino al punto di poter incidere nella
fruizione che essi avranno del mondo. Con altrettanta sicurezza po-
tremmo tuttavia aggiungere che, nello spazio magnetico dell’aula, 1
camuffamenti del docente che volesse alterare, in qualsiasi direzione,
60

la propria personalità, verrebbero subito smascherati. In questo senso


considero fondamentale in Primo Levi l’elemento pedagogico, da va-
lutare non certo in modo precettistico. Tutta la sua opera ci trasmette
un’idea di «maestranza strutturale»: nella stessa impaginazione del
racconto, nella cura delle simmetrie fra personaggi, ambienti e situa-
zioni, nello studio dei rapporti logici, Levi è attento a non essere gene-
rico, astratto, allusivo, ma sempre preciso, ragionativo, diretto, nella
più bella tradizione della prosa scientifica italiana. Questo non signifi-
ca che credesse ciecamente nella risposta razionale in cui impegnava
il massimo dello sforzo esecutivo; le bestialità che vide nei campi lo
preservarono da ogni forma di neo-illuminismo. È proprio l’assoluta
funzionalità della sua prosa a far scattare nel lettore la riflessione
ulteriore: ma, se lasciamo i punti d’appoggio storici e antropologici
che lui ci ha dato per spiegare il massacro, in luogo di quello spazio
fatato in cui ci lasciano molte opere novecentesche, troviamo il vuo-
to. Dopo averci istruito, egli non vuole alterare liricamente le tristi
conclusioni cui è giunto.
Primo Levi ebbe modo di operare nel mondo della comunicazio-
ne, vivendo la fase cruciale del cambiamento tecnologico: nessuno
più di lui era sensibile alla straordinaria potenza e ai terribili rischi che
le innovazioni del progresso portano con sé. Egli sarebbe stato pronto
a ricordare innanzitutto la frequente distorta immagine che il grande
pubblico si costruisce sulla pretesa verità storica dei fatti che vengono
riportati dalle televisioni o dai giornali. Oggi assistiamo alla progressi-
va trasformazione del concetto stesso di esperienza che da reale si sta
trasformando in virtuale. Essendo sempre più schermato il rapporto
con la sfera fisico-materiale, diventa necessario lasciar filtrare, nella
nostra vita pratica, la coscienza di tale strumentalità. L'utente televisi-
vo, in particolare, e il lettore di giornali, in seconda istanza, è chiama-
to a formulare, dentro di sé, un’elaborazione critica senz’ altro supe-
riore a quella che poteva fare sino a dieci anni fa. È necessario tarare
l’informazione ricevuta non più soltanto rispetto all’orientamento di
chi l’ha trasmessa, ma anche nella finzione informatica attraverso cui
è stata concepita. Dico finzione informatica non per negare l’oggetti-
vità dei dati che ci vengono quotidianamente sottoposti dagli schermi
dei computer, bensì per sottolineare la loro accresciuta convenzionalità:
61

del resto, se lo stesso linguaggio sta acquisendo forme di contrazione


semantica adeguate ai nuovi canali comunicativi, come potremmo
dubitare che ciò non avvenga pure a livello strutturale, nei contesti dei
significati complessivi? La responsabilità della parola nel giornalista 0,
più in generale, in chi lavora nei mass-media, dovrà tradursi in una
dimostrazione di consapevolezza della natura artificiale dello strumento
adottato. Anche su questo Primo Levi ci ha dato una lezione impor-
tante.
Mostrare le proprie carte per lo scrittore, per l'insegnante, per il
giornalista significa quindi evitare di truccarle.
Come sono giunto a tali conclusioni? È stato un processo lungo e
graduale, ancora in via di progressiva definizione, quello che mi ha
portato a non credere in una letteratura di puro e semplice
intrattenimento. Al centro di tale percorso conoscitivo c’è, credo, la
composizione di Campo del sangue, il diario del mio viaggio da Vene-
zia ad Auschwitz, compiuto con mezzi di fortuna insieme a due ami-
ci, Plinio Perilli e Eusebio Ciccotti, nel luglio del 1995. Il modo in cui
è nato quel testo corrisponde pienamente alla mia idea di letteratura,
oggi. Erano anni che leggevo documenti narrativi e saggistici relativi ai
campi di concentramento nazisti e sovietici: Insieme a Primo Levi,
Robert Antelme, Tadeusz Borowski, Jorge Semprun, Tzvetan
Todorov, Aleksandr Solzenycin, Andrej Sinjavskij, Varlam Salomov
e tanti altri. A un certo punto mi sono chiesto la ragione di questa
ossessione conoscitiva: ho capito che riguardava non solo la mia per-
sona, come figlio di una donna che era riuscita a fuggire, cinquant’an-
ni prima, da un treno che la stava conducendo ai lager, e come nipote
di un uomo fucilato dai nazisti in quanto partigiano. Le riflessioni che,
di giorno in giorno, andavo facendo riguardavano ogni essere umano
perché quello che accadde nei campi di concentramento, nella sua
estremità, chiama in causa la natura stessa dell’uomo. E allora ho
voluto compiere un’azione fisica, appunto il viaggio, per rendere con-
to e rendermi conto di ciò che credevo di aver capito.
Primo Levi mi ha fatto comprendere che lo scrittore è colui che si
assume la responsabilità di prendere la parola, anche e soprattutto per
chi non può farlo. Il rapporto con l’esperienza autobiografica, in que-
sto caso, risulta obbligato, sebbene non possa essere inteso in modo
62

schematico perché la necessaria stilizzazione che la scrittura impone,


provoca uno sfalsamento fra ciò che è realmente avvenuto e ciò che
viene riportato. L'importante è che perfino quello scarto, l’antica di-
stanza fra vita e arte, non venga edulcorato, ma indichi, nella sua
forma, l'assoluta necessità di farvi ricorso.
ADA NEIGER

Il risentimento del sopravvissuto. Una riflessione intorno a


Jean Améry e Primo Levi

La storia ci rivela il ricorrente verificarsi di episodi di efferata


violenza, persecuzioni e eccidi perpetrati ai danni degli ebrei della
diaspora. Di questo passato è rimasta una traccia indelebile nella
memoria collettiva degli ebrei talché a ragione George Steiner par-
la dell’ebreo come di un individuo consapevole della sua ricono-
sciuta predestinazione al martirio, di «un uomo che guarda ai suoi
figli con un pauroso ricordo di disperazione e un presagio di future
possibilità sanguinose»!. Anche Jean Améry? è convinto che l’ebreo
s1 distingua dai suoi simili per un costante e giustificato stato di
allerta ormai connaturato in lui sicché egli è in perenne attesa di
un’imminente catastrofe”. Una catastrofe che puntualmente si è
verificata anche durante la seconda guerra mondiale e che ben presto
ha assunto le sembianze di una tragedia di immani proporzioni i
cui artefici si erano prefissati come obiettivo il sistematico stermi-
nio di tutto il popolo ebraico. Un’operazione apocalittica in parte
coronata da successo che è costata la vita a sei milioni di individui
e che ha lasciato immedicabili cicatrici non solo nell’animo di molti
sopravvissuti. Cè stato infatti chi, pur non avendo subito l’oltrag-
gio nazista, ha covato un lacerante sconforto, un sordo sentimen-
to, il rimorso per non aver condiviso la sorte dei deportati. È il
caso questo del poeta ebreo-canadese Layton che in una toccante
lirica chiede perdono al suo interlocutore, un signore impacciato,
che sulle labbra esibisce un disarmante sorriso, gentle all-forgiving
smile?, per averlo trattato villanamente, con sbrigativa impazien-
za. Layton non si è smarrito nell’infernale labirinto dove criminali
e vili umanoidi‘ riducevano i loro prig'onieri a larve e perciò ritie-
ne che il fragile individuo che tuttavia è riuscito a non soccombere
alla furia omicida dell’animalità umana (Man's creatureliness),
64

debba meritare tutta la sua indulgente comprensione. Il calvario


degli ebrei prima e durante il secondo conflitto mondiale è un ar-
gomento che ossessiona il nostro autore. In una poesia dedicata ai
propri figli egli elenca tutti i ruoli che un ebreo è stato costretto a
ricoprire nel corso della storia:

The wandering Jew: the suffering Jew / The despoiled Jew: the beaten
Jew / The Jew to burn: the Jew to gas / the Jew to humiliate / [...] The Jew
who can bejustifiably murdered because he is rich / [...] because he's poor/
The Jew whose plight engenders profound self-searchings / in certain
philosophical gentlemen who cherish him / to the degree he inspires their
shattering apergus / into the quality of modern civilization, their noble / and
eloquent thoughts on scapegoatism and unmerited agony?.

Dopo Auschwitz, oltre alla paura che da secoli li stringe d’ as-


sedio, gli ebrei devono fare i conti con un’altra emozione cupa e
insidiosa: il risentimento. La paura talvolta può essere funziona-
le perché permette alle persone che avvertono il pericolo di
sottrarvisi, il risentimento che si annida tenace e invasivo nelia
mente dell’uomo è invece espressione di personalità rose da un
astio sterile che non trova libero sfogo nei fatti, ma si crogiola in
esacerbati desideri di rivalsa e in sogni di vendetta.
Su questo oscuro desiderio che si è manifestato in due reduci
dai campi di sterminio, Jean Améry e Primo Levi, desidero in-
trattenermi.
Mentre i tedeschi alla conclusione della guerra hanno saputo
con eccezionale rapidità far sparire le macerie dimostrando in tal
modo non solo un’aspirazione all’ordine e una volontà di rico-
struzione, ma anche un autentico bisogno di rimozione del pas-
sato, gli ebrei non sono riusciti a liquidare altrettanto sbrigativa-
mente il loro recente passato*. Questo atteggiamento dei tede-
schi, la loro corta memoria che li conduce alla «negazione collet-
tiva del passato»? suggerisce ad Améry severe riflessioni su un
popolo che si è scrollato di dosso pesanti responsabilità e proce-
de senza voltarsi indietro, tutto proteso verso la propria rinascita
economica". La società non si preoccupa di offrire un adeguato
risarcimento alle vittime del conflitto, anzi le riguarda con
65

malcelata ostilità in quanto quelle vite offese rinnovano il ricor-


do di uno scomodo, vergognoso passato. Sfiduciato e angustiato
Améry si adopera con i suoi scritti affinché non venga frettolosa-
mente sepolto il ricordo della cosiddetta «eruzione del male estre-
mo» (die Eruption des radikal Bòsen in Deutschland)", cioè de-
gli orrori prodotti dal Terzo Reich. Compito difficile il suo, per-
ché le SS, quando ne avevano avuto l’opportunità, avevano di-
strutto ogni testimonianza delle loro efferate azioni. Infatti, come
ricorda Levi, sovente gli aguzzini si rivolgevano alle loro vittime
con queste parole:

In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbia-


mo vinta nei; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche
qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. Forse ci saranno sospetti,
discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi di-
struggeremo le prove insieme con voi. E quando anche qualche prova doves-
se rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi
raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagera-
zioni della propaganda alleata, e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a
voi. La storia dei Lager, saremo noi a dettarla!?.

La risposta alla manipolazione della memoria e all’indifferen-


za dei suoi contemporanei, provoca nell’intellettuale austriaco un
moto di amaro rancore. Améry dedica un intero capitolo del suo
Jenseits von Schuld und Siihne al risentimento. Diversamente da
altri pensatori concilianti e propensi al perdono, egli non accetta
l’ingiustizia e la insensibilità di cui ha dato prova la società e ri-
vendica il suo diritto al risentimento che non è da considerarsi
come un’implosione di vendetta frustrata, ma come un atto di or-
gogliosa ribellione di un individuo che non si piega alla rassegna-
zione. Il risentimento è come un involucro che isola, un guscio che
protegge l’individuo che ripiegato su se stesso risente, riproduce
gli avvenimenti. Améry confessa di praticare il risentimento per
coerenza verso se stesso e verso i suoi compagni e cioè per motivi
di salvezza personale «aus Griinden persònlichen Heilsvorhabens» '*
anche se è consapevole del fatto che il rancore non permette alla
vittima di liberarsi dal suo passato e quasi lo paralizza e gli impe-
disce ogni slancio verso il futuro!*. Il risentimento è un rovello
66

continuo, un bisogno di capire senza però nulla giustificare, una


sofferenza che non s’acquieta e che produce effetti così devastanti
che Améry ne è quasi impaurito e risolve di porre un argine al suo
dilacerante sentimento. «Ich mu8 die Ressentiments einkapseln»!.
Levi è più pacato e si muove su posizioni meno intransigenti'°
ma tuttavia ammette:

Se anch’io mi fossi visto crollare il mondo addosso; se fossi stato con-


dannato all’esilio ed alla perdita dell’identità nazionale; se anch'io fossi sta-
to torturato fino a svenire ed oltre, avrei forse imparato a rendere il colpo, e
nutrirei come Améry quei ‘risentimenti’ a cui egli ha dedicato un lungo sag-
gio pieno d’angoscia!’.

Non vuole però essere chiamato da Améry «perdonatore» e in


una lettera inviata a una comune amica scrive:

Non la considero un’offesa né una lode, bensì un’imprecisione. Non ho


tendenza a perdonare, non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di
allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori in Algeria, in Vietnam, in
Unione Sovietica, in Cile, in Argentina, in Cambogia, in Sud Africa, perché
non conosco atti umani che possano cancellare una colpa; chiedo giustizia,
ma non sono capace, personalmente, di fare a pugni né di rendere il colpo"*.

Questo è dunque Levi, un uomo pervaso dal bisogno inesauri-


bile di premere il pedale della memoria, perché «testimoniare la
natura insanabile dell’offesa che dilaga come un contagio»!? è per
lui un imperativo morale, perché come recita l’epigrafe jiddisch
del Sistema periodico, è bello raccontare i guai passati:
«Ibergekumene tsores iz gut tsu dertseyIn»°°. E infine perché la
scrittura esercita una funzione terapeutica in chi la compie.
Pesa sulla coscienza dello scrittore torinese un dissidio che gli
deriva, come ha osservato Cases?!, dalla sua natura colma di cer-
tezze positivistiche, fiduciosa e sostanzialmente ottimistica, cui si
oppone una cupa insicurezza derivatagli dalla tragica esperienza
vissuta. Pur non essendo credente (Dio rappresenta per lui un’im-
magine consolatoria in cui confluiscono le proiezioni dei bisogni
dell’uomo) egli riesce a tenere sotto controllo la componente pes-
simistica del suo carattere. Non è severo e intransigente come
67

Améry e non prova il suo invasivo rancore. L’intellettuale au-


striaco non si rassegna alla volontà dei suoi contemporanei di
archiviare ogni infausto ricordo del genocidio, al mancato risar-
cimento delle vittime e l’angoscia rinfocola nel suo animo un
improduttivo rancore. Levi, contrariamente ad Améry, pur non
deflettendo dalla sua severa e intransigente posizione di accusa-
tore dei suoi carnefici a cui non è disposto a concedere attenuan-
ti, giustificazioni e tantomeno il perdono”, cerca addirittura di
trarre profitto dalla sua singolare esperienza”. Il dolore egli lo
considera una componente ineludibile della vita: «Non si può
pensare a una vita senza confronto e senza sconfitte». Natural-
mente l’uomo si deve adoperare per sconfiggere la sofferenza e a
tal fine egli «è tenuto a combattere coi propri mezzi, senza l’aiu-
to esterno»?°. Colui che riesce a debellare il dolore «si dimostra
forte, e così facendo diventa più forte, e si arricchisce e si mi-
gliora»?°. Come l’ippocastano di corso Re Umberto che pur aven-
do le radici calpestate dalle ruote dei tram, avvelenate dal meta-
no del sottosuolo e bagnate dall’orina dei cani, riesce a vegetare
e «nel suo tardo cuore di legno / sente e gode il tornare delle
stagioni»?” similmente Levi riesce, se non proprio a provar gioia,
a cercare di trar vantaggio dalla sventura. Un esempio di questa
sua capacità di scorgere, anche negli episodi più bui della sua
esistenza, il lato positivo lo possiamo cogliere nel seguente pas-
so: «In questo senso Auschwitz mi ha dato qualcosa che è rima-
sto. Facendomi sentire ebreo, mi ha sollecitato a recuperare, dopo,
un patrimonio culturale che prima non possedevo»?.
Però con il trascorrere degli anni il disagio di Levi, posto di
fronte all’incalzare delle teorie revisioniste? e a una società che
delle vicende dei campi di annientamento poco si cura, aumenta.
Una curiosa coincidenza mi piace qui porre in rilievo. Nel
1974 lo storico Ernst Nolte pubblica Deutschland und der kalte
Krieg in cui cerca di minimizzare la gravità del genocidio del
popolo ebraico di cui si erano macchiati i nazisti e nello stesso
anno (30 novembre) Levi compone Le stelle nere, una lirica il
cui incipit è un amaro proclama: «Nessuno canti più d’amore o
di guerra»? e che si conclude con un altrettanto accorata consi-
68

derazione «E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nul-


la,/ E i cieli si convolgono perpetuamente invano»?".
Altri studiosi calcheranno le orme di Nolte e Levi, profonda-
mente indignato, perché all’amnesia collettiva dei tedeschi si ag-
giunge ora la pretesa di legittimare l’esperienza devastante della
«soluzione finale», qualificherà il loro intervento volto a trovare
giustificazioni all’operato della Germania nazista come un «laido
conato di revisionisti»?”. D’ora in avanti sarà sempre più difficile
per il nostro scrittore opporre resistenza alle implacabili bordate
della depressione.
Né Améry, né Levi riuscirono a pervenire a quelle conclusioni
cui approdò Peter Gay professore di storia alla Yale University.
Ebreo anch’egli, era riuscito a fuggire in America evitando le per-
secuzioni naziste e come racconta in un suo articolo apparso sul
«New York Times» nell’agosto del 1976 egli era stato ossessiona-
to per anni dall’odio e da sentimenti di vendetta verso la Germa-
nia. In seguito però egli aveva maturato «un atteggiamento più
discriminante, che non era di perdono e di oblio, ma di riconosci-
mento del fatto che c'erano e ci sono diverse Germanie [...]»3} e si
era rafforzato nella convinzione che «il vecchio e controverso idil-
lio tra ebrei e tedeschi non era stata una patetica vicenda totalmen-
te unilaterale».

Note

! G. STEINER, Linguaggio e silenzio, Milano, Rizzoli, 1972, p. 170.


? Jean Améry, pseudonimo di Hanns Maier, nasce nel 1912 in una fami-
glia di religione ebraica. A Vienna, sua città natale, il giovane intellettuale
partecipa agli incontri del «Wiener Kreis», collabora alla rivista «Die Briicke»,
scrive un romanzo. Nel 1940 viene arrestato e successivamente deportato nel
Lager di Gurs da cui riesce a fuggire. A Bruxelles, dove si è rifugiato, viene
nuovamente arrestato e condotto dapprima nel Lager di Breendonk nei pressi
di Anversa dove è torturato. Successivamente viene trasferito in altri Lager.
Il 15 aprile 1945, gli alleati liberano il campo di Bergen-Belsen, in cui si
trova Améry. Dopo la conclusione della guerra Améry si stabilisce a Bruxel-
les e riprende la sua attività di pubblicista e scrittore. Nel 1955 assume lo
pseudonimo di Jean Améry. Nel 1974 tenta il suicidio. Nel 1978 si toglie la
vita in un albergo di Salisburgo.
69

* «Ein Jude kann beschrieben werden als jemand, der mehr Angst,
Mifìtrauen, Verdruf hat als seine Mitbiirger, die niemals verfolgt wurden [...]
denn er erwartet mit guten Griinden jederzeit eine neue Katastrophe», J. AMéRY,
Jenseits von Schuld und Siihne, Bewdiltigungsversuche eines Ùberwiiltigten,
|JSS], Stuttgart, Klett-Cotta, 1977, p. 120.
* Israel Lazarovitch, alias Irving Layton, nasce nel 1912 a Tirgut Neamt,
un paesino rumeno nei Carpazi Orientali da genitori di origine ebraica. Dal
1913 risiede a Montreal in Canada. Autore di opere in poesia e in prosa, ha
ottenuto numerosi riconoscimenti letterari ed è stato candidato per il premio
Nobel. Negli anni Sessanta mostra vivo interesse per l’evento storico del-
l’Olocausto. «La nozione di un mondo che uccide l'innocenza, o in cui homo
homini lupus riceve un più ampio significato sociale, culturale e religioso
nelle poesie in cui Layton tratta dei crimini orribili che le cosiddette società
civilizzate hanno perpetrato contro l'umanità, in particolare quanto fu fatto
agli Ebrei europei durante la seconda guerra mondiale», B. GORIUP, /ntrodu-
zione, in I. LAYTON, /! cacciatore sconcertato. The Baffled Hunter, a cura di
B. GorJup, F. VALENTE, Ravenna, Longo, 1993, pp. 33, 35.
° I. LAYTON, Etruscan Tombs, in Fortunate Exile, Toronto, MeClelland &
Stewart, 1987, p. 164.
© «I ask pardon for my abstracted gaze,/ my impatience with your slow
speech,/ your gentle all-forgiving smile./ I did not spend my best years/ in a
concentration camp; no vile humanoid ever/ menaced me with gun and whip/
or made me slaver for crusts/ urine-soiled and stale; no officered brute made
me kneel in shit», /bidem.
"I. LAYTON, Formy Sons, Max and David, in Fortunate Exile, cit., p. 145.
8 Cfr. E. TRAVERSO, Gli ebrei e la Germania: Auschwitz e la simbiosi ebrai-
co-tedesca, Bologna, il Mulino, 1994, p. 232.
° Ibidem.
!0 «Die Leuté rannten voran im verriickten Tempo, weil sie rennen muBten.
Hinter sich zu schauen war es ihnen nicht erlaubt», J. AméRrY, Unmeisterliche
Wanderjahre, Stuttgart, Ernst Klett, p. 109.
1 J. AMÉRY, op. cit., p. 8.
!? S. WIESENTHAL, Gli assassini sono tra noi, Milano, Garzanti, 1970, ci-
tato nella Prefazione in P. Levi, Isommersi e i salvati, in Opere, a cura di M.
BeLPOLITI, vol. II, Torino, Einaudi, 1997, p. 997.
13 J. AMÉRY, op. cit., p. 100.
14 «Es [das Ressentiment] nagelt jeden von uns fest ans Kreuz seiner
zerstòrten Vergangenheit. Absurd fordert es, das irreversible solle umgekehtt,
das Ereignis unereignet gemacht werden. Das Ressentiment blockiert den
Ausgang in dié eigentlich menschliche Dimension, die Zukunft», ivi, pp. 87-
88.
lslvip. 101
!6 «È stato ad Auschwitz e non soltanto ha resistito a quell’inferno, ma
non ha nemmeno permesso che quell’inferno alterasse la sua serenità di giu-
70
dizio e la sua bontà, che gli istillasse un pur legittimo odio, che offuscasse la
chiarità del suo sguardo. Se questo è un uomo - un libro che reincontreremo
al Giudizio Universale - offre un'immagine quasi lievemente attenuata del-
l’infamia, perché il testimone Levi racconta scrupolosamente ciò che ha vi-
sto di persona e, anziché calcare le tinte sullo sterminio come pure sarebbe
stato logico e comprensibile, vi allude pudicamente, quasi per rispetto a chi è
stato annientato dallo sterminio dal quale egli, in extremis, si è salvato. E
questo l’altissimo retaggio di Levi, che lo innalza al di sopra di qualsiasi
prestazione letteraria: la libertà perfino dinanzi al male e all’orrore, lassolu-
ta impenetrabilità alla loro violenza, che non solo distrugge ma anche avve-
lena. In questa tranquilla sovranità egli incarnava la regalità sabbatica ebrai-
ca», C. MAGRIS, citato in M. Dini, S. JEsURUM, Primo Levi. Le opere e i giorni,
Milano, Rizzoli, 1992, pp. 205-206.
! P. Levi, / sommersi e i salvati, in Opere, vol. II, cit., p. 1099.
!8 Ivi, p. 1098. «In certi momenti quasi quasi mi vergogno di non provare
odio, sembra che sia prescritto, sembra che sia concepito come una mostruo-
sità uno che non riesce materialmente a mobilitarsi nel senso dell’odio. Però
è proprio così, è vero, è una mia sordità, se vogliamo, una mia amputazione
psicologica che era già nota, non so se le può servire, al tempo in cui ero
studente ed ero già allora leggendario come Primo Levi che non si arrabbia
mai. I miei compagni di scuola cristiani, al tempo delle leggi razziali, aveva-
no notato questo e me lo rimproveravano amorevolmente..Io ero indignato,
ma manifestazioni clamorose non le posseggo. Non mi succede quasi mai di
perdere il controllo. L’odio in sé, l'ho scritto e lo ripeto, a cosa serve? Si
confonde con il desiderio di giustizia, ma son due cose diverse. In sé è mal
pilotato, può portare dei danni. Ho detto per paradosso che mi vergogno di
non odiare. In realtà mi trovo abbastanza bene così», P. LEVI, Conversazione
con Paola Valabrega, in M. BeLpoLITI, a cura di, Primo Levi, Milano, Marcos
y Marcos, 1997, p.81. Levi «non è moralmente neutro, e mai lo è stato. Non
è un ‘perdonatore’ (solamente qualcuno dalla coscienza offuscata può pre-
supporre di rivendicare tale diritto nell'interesse di chi è stato ucciso), e non
è dedito, come molti credono, a un’assenza di rancore verso gli strateghi
delle atrocità e i loro seguaci», C. OzicK, /{ messaggio d’addio, in E. FERRERO,
a cura di, Primo Levi: un'antologia della critica, Torino, Einaudi, 1997, p.
160. Levi «condivide il filone ebraico della tolleranza, che insieme alla parte
migliore della cultura ebraica è preservato nella diaspora», V. DE LUCA, Tra
Giobbe e i buchi neri. Le radici ebraiche dell’opera di Primo Levi, Presenta-
zione a cura di V.E. GIUNTELLA, Napoli, Istituto Grafico Editoriale Italiano,
1991, p. 7. Cfr. inoltre G. LERNER, /sraele in crisi, parla Primo Levi, «Espres-
so», 30 settembre 1984.
‘° P. LEVI, La tregua, in Opere, vol. I, cit., p. 206.
°° P. LEVI, Il sistema periodico, in Opere, vol. I, cit., p. 739.
2! C. CASES, Ricordo di Primo Levi, in G. FOLENA, a cura di, Tre narratori.
Calvino, Primo Levi, Parise, Padova, Liviana editrice, 1989, p. 101.
TA
“ «Forse quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi non si deve
22 x . x . .

comprendere, perché comprendere è quasi giustificare» questo il timore espres-


so da Levi stesso nell’ Appendice a Se questo è un uomo.
® «Non so poi esattamente cosa pensare delle pagine di discussione con
un altro testimone-storico, Jean Améry, alias Hans Mayer, intellettuale ebreo
d’ Austria, poi resistente in Belgio, torturato e deportato ad Auschwitz, assai
più tardi suicida (come quanti intellettuali ebrei passati per analoghe espe-
rienze! Il grande poeta Paul Celan, il critico letterario Peter Szondi, il critico
d’arte Robert Klein...della cosa parla incisivamente Levi stesso alle pp. 57-
58). Io posso solo avanzare un sospetto: che le opinioni equilibrate e
illuministiche e, in certo senso, ‘ottimistiche’ di Levi non riescano a scalzare
la verità nera delle tesi tragiche e radicali di Améry», P.V. MENGALDO, Ricor-
dando con lucidità gli orrori dei Lager, in M. BeLpoLITI, a cura di, Primo
Levi, cit., p. 142.
2 Primo Levi citato in G. Pot, G. CALCAGNO, Echi di una voce perduta,
Milano, Mursia, 1992, p. 70.
© P. Levi, Vizio diforma, in Opere, vol. I, cit., p. 583.
2° Ibidem.
? P. Levi, Cuore di legno, in Ad ora incerta, in Opere, vol. II, cit., p. 554.
2% P. LEVI, Opere, vol. I, cit., p. XLIII. «Va detto che in Levi è presente
spesso una qualità non proprio predominante nella nostra letteratura, l’ umo-
rismo che decanta la gravità della cosa rappresentata. L'ironia in Levi costi-
tuisce quasi un elemento salvifico, una faccia della pietà, se non addirittura
una forma di laica religiosità. Sarei tentata di parlare di allegria sapienziale
per uno scrittore ebreo che, dichiaratamente ateo, aveva però una dimesti-
chezza grande con i libri della Bibbia, vuoi dell’ Antico, vuoi del Nuovo Te-
stamento. Talvolta anche il severo Levi si concede una risata aperta contem-
plando le bestie amate sorelle del suo mondo, come quando intona in riso di
malizia il suo ‘Pio’: “Pio bove un corno. Pio per costrizione, / Pio contro
voglia, pio contro natura, / Pio per arcadia, pio per eufemismo. / Ci vuole un
bel coraggio a dirmi pio / E a dedicarmi perfino un sonetto” », G. LAGORIO,
La memoria perenne e la poesia «Ad ora incerta», in P. FRASSICA, a cura di,
Primo Levi as Witness, Fiesole, Casalini Libri, 1990, p. 70.
2 Cfr. E. CoLotti, Primo Levi e il revisionismo storiografico, in A.
CAVAGLION, a cura di, Primo Levi. Il presente del passato, Milano, Franco
Angeli, 1991, pp. 112-118.
30 P, Levi, Le stelle nere, in Ad ora incerta, in Opere, vol. II, cit., p. 546.
i! Ibidem.
8 A. Bravo,D. JALLA, La vita offesa, Milano, Franco Angeli, 1986. «Your
horrible deaths are forgotten:/ no one speaks of them any more./ The novelty
of tattooed forearms/ wore off quickly; people now say/ your deaths are pure
invention, a spoof./ [...] That's how the wind blows. Tomorrow/ some goy
will observe you never existed/ and the Holocaust your just deserts/ for starting
wars and revolutions/ [...]», I. Layton, 7o the Victims of the Holocaust, in
UR.

Tutto sommato. Poesie 1945-1989, a cura di A. RizzARDI, Abano Terme, Piovan


Editore, 1989, p. 180.
3 P. Gay, Freud, gli ebrei e altri tedeschi. Dominatori e vittime nella
cultura modernista, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. X.
vp
CARMEN COVITO

L'influenza di Primo Levi su una generazione che non ha


conosciuto fame e guerra: una testimonianza

Non aspettatevi da me una trattazione strutturata, ampia e ric-


ca: non sono una specialista né della letteratura di Primo Levi né
della sua vita; nei miei romanzi non si può rintracciare alcuna affi-
nità con la sua scrittura; non sono neanche ebrea. Dunque, che ci
sto a fare qui? Sono venuta a rendere testimonianza. Renderò te-
stimonianza su quale e quanta influenza può aver avuto Primo Levi,
e in particolare il suo Se questo è un uomo, su una persona che
apparentemente non ha niente a che fare con la sua storia né avreb-
be, in apparenza, alcun motivo di raccogliere il suo messaggio let-
terario e civile.
Qui, in questo momento, io mi assumo l'onere di rappresentare,
in prima persona, una generazione. Sono nata nel 1948, quindi
dopo la fine della guerra; sono cresciuta in un periodo di iniziale
avvio di prosperità dell'Italia, quindi nei miei ricordi non ci sono
fenomeni di penuria grave; nella mia infanzia vivevamo una mo-
derata mancanza di benessere materiale, ma quelle ristrettezze erano
compensate da una speranza di miglioramento che la mia famiglia
condivideva con tutta l'Italia del cosiddetto «boom economico»
degli anni Sessanta. Non c'era ragione di voltarsi indietro: eppure,
ame è successo. Io credo di aver letto Se questo è un uomo non so
con esattezza quando, ma probabilmente verso i sedici anni, forse
appena uscita la seconda edizione Einaudi, quindi nel 1964-65. E
nessuno me l'aveva messo in mano esplicitamente, né la scuola,
né la famiglia: dev'essermi capitato sotto gli occhi per mia pura
ribellione...
Un piccolo episodio può rendere l'idea di quale fosse il clima
culturale in casa mia: io ho letto il Diario di Anna Frank stando in
74
piedi su una sedia, pronta a chiuderlo subito e a far finta di star
cercando qualche altro libro, perché era in uno scaffale alto della
libreria e le mie sorelle maggiori mi avevano proibito di leggerlo:
dicevano che mi avrebbe turbata. E in realtà mi turbò (potevo ave-
re circa 14 anni, allora), ma soltanto molto tempo dopo ho capito
che le mie sorelle maggiori non temevano tanto il turbamento di
tipo politico che effettivamente quel libro mi produsse rivelando-
mi tutti gli orrori del nazismo; loro, ingenue, temevano soltanto un
turbamento di tipo sessuale, legato ai risvegli sentimentali di Anna
nel rifugio segreto. Me lo avevano proibito per le ragioni sbaglia-
te, insomma: e oggi posso sorridere di quel bizzarro interdetto, ma
continuo a sentirmene offesa, perché fu imperdonabile come ogni
insulto all'intelligenza di un'adolescente.
In casa mia non si parlava, ovviamente, di sesso: ma anche su
altri argomenti si taceva. Una pesante zona di silenzio, in partico-
lare, avvolgeva la storia di mio padre: sapevo vagamente che era
stato partigiano, sapevo che era stato prigioniero di guerra, ma non
se ne parlava. Credo perciò che, dopo lo sguardo sull'abisso che
avevo avuto modo di rubare con la mia proibitissima lettura del
Diario di Anna Frank, la molla che mi spinse verso Se questo è un
uomo fu il desiderio di capire quel silenzio. Nel suo libro Levi dice
tra l'altro che ci sono stati due tipi di reazioni tra i sopravvissuti ai
campi di sterminio. Un tipo di reazione è quella appunto che ha
avuto lui: il bisogno di rendere testimonianza, l'urgenza di narra-
re, che poi nel libro dà luogo a quel bellissimo brano del sogno,
dell'incubo del ritornato che racconta, racconta, racconta e nessu-
no vuole ascoltarlo. Un altro tipo di reazione, altrettanto comune o
forse più diffusa, è invece la caduta nel silenzio, il bisogno di chiu-
dere i ricordi nel recinto protettivo della rimozione.
Come scoprii, e come cominciavo a sospettare dagli indizi rac-
colti, nel caso di mio padre era scattato esattamente questo secon-
do meccanismo. Mio padre, non essendo ebreo, ha vissuto un'espe-
rienza completamente diversa da quella raccontata da Levi; non è
stato in campo di sterminio; però è stato ad Auschwitz, nel campo
di prigionia militare. Era stato fatto prigioniero una prima volta,
credo sulla frontiera jugoslava; internato in un campo, era scappa-
/D)

to e si era unito ai partigiani. Catturato una seconda volta, fu man-


dato al campo militare di Auschwitz, dove contrasse un principio
di congelamento, e da dove poi lo liberò l'arrivo dell'esercito rus-
so. Con noi, mio padre non aveva mai detto più di qualche parola
su questa sua odissea. Soltanto in anni più tardi, a volte, casual-
mente, molto occasionalmente, tirava fuori qualche squarcio di
memoria, qualche particolare, per esempio vedendo alla televisio-
ne dei documentari mi saltava fuori in frasi come: «Sì, era proprio
così, a qualche chilometro vedevamo il fumo che usciva dal cami-
no», basta, nient'altro. Quando io ero molto piccola, però, gli capi-
tava di avere forti febbri e delirava, e spesso mi chiamava vicino a
sé, mi prendeva per mano, e allora io, bambina di quattro-cinque
anni, mi sentivo prigioniera di quest'uomo che mi teneva per mano
lamentandosi di un freddo che non c'era, e non voleva lasciarmi
andare, eppure non mi vedeva: oscuramente, sentivo che mio pa-
dre era rimasto chiuso in qualcne zona dello spazio o del tempo
molto lontana, una sacca di buio dove faceva un freddo pericolo-
so, e lui cercava di tornare usando la mia mano come guida, però
non ci riusciva. Io sentivo l'impulso di scappare, di liberarmi da
quella mano tremante che mi investiva di una responsabilità trop-
po grande per me; lo detestavo; ma avevo insieme una curiosità
bruciante: dove andava mio padre nella febbre? se non vedeva me,
che cosa stava vedendo? quel terribile freddo, quella neve di cui
balbettava, dov'erano? Questo trauma infantile, quella voglia im-
paurita di sapere e capire sono rimasti a lungo latenti nella mia
memoria e certamente poi l'intensità della mia prima lettura di Se
questo è un uomo venne di là, dal desiderio di penetrare un miste-
ro. Quando ho letto questo libro, l'impressione che ne ho avuto e
che adesso ricostruisco a posteriori, è stata talmente forte che devo
considerarlo assolutamente determinante nella formazione della
mia coscienza di individuo.
Retrospettivamente, posso distinguere diversi elementi nell'ef-
fetto che il libro di Levi ha avuto su di me, un effetto tanto più
forte quanto più era, al momento, confuso in quel tipo di ricezione
emozionale che agisce sugli strati profondi della mente e si congloba
talmente con il proprio essere che, anche se si ha l'impressione di
76

averla dimenticata, rispunta fuori automaticamente nei momenti


in cui è necessario rispondere a una crisi che avviene nella società
o nella vita personale.
Prima di tutto, ci fu l'affacciarsi sul buio, o per meglio dire su
una zona grigia della condizione umana: io, ragazza tranquilla di
un ambiente tranquillo, fui resa consapevole della stratificazione
della psiche umana e cioè del fatto, inquietante, perturbante, che
in situazioni estreme come quelle descritte da Levi può chiara-
mente emergere in ognuno di noi l'elemento darwiniano dell'esi-
stenza, il desiderio di sopraffare gli altri pur di poter trionfare nella
battaglia per la sopravvivenza. Questa consapevolezza è fonda-
mentale per sapersi orizzontare nella vita, e soprattutto permette
di giudicare se stessi prima che gli altri: applicarla significa impe-
dire a se stessi di cedere alla tentazione di essere l'animale più
forte. Questa consapevolezza me l'ha data Levi, e può riassumersi
in una sola frase del suo lucido, saggiamente spietato capitolo /
sommersi e i salvati: quando dice che una terza via tra soccombere
e dominare non esiste in campo di concentramento, ma «una terza
via esiste nella vita, dove anzi è la norma».
Ciò che Levi mi ha insegnato, con la totalità dell'esperienza
raccontata e con i suoi modi di raccontarla, è che per intraprendere
questa terza via, per vivere fuori dal Lager senza portare lo spirito
del Lager nella nostra esistenza quotidiana, è necessario non di-
menticare che essere uomini significa «qualcosa di assai mal
definibile» ma che si può identificare con qualcosa «di non corrot-
to e non selvaggio, estraneo all'odio e alla paura». Io definirei que-
sto qualcosa «rettitudine».
E un secondo elemento che sicuramente la lettura del libro di
Levi ha rafforzato in me, perché non poteva venire dal mio am-
biente di partenza se non in piccolissima misura, è proprio la retti-
tudine morale. Non intendo lodarmi, anzi, poiché nell'Italia di questi
ultimi anni il termine «morale» è stato inteso spesso come un in-
sulto, penso che darò prova di una sfacciataggine scandalosa af-
fermando che io mi riconosco animata da un'etica del lavoro e da
un'etica del rispetto degli altri che sono molto poco italiane. Non
appartengono alla tradizione cattolica. Non sono presenti neanche
TAI

nella cultura meridionale dalla quale io provengo. Sono cresciuta


in una famiglia di piccola borghesia napoletana, molto cattolica,
operosa, degnissima, dove il senso della responsabilità esisteva
ma non si appoggiava sul riconoscimento di imperativi categorici
e di un impegno dell'individuo nei confronti della società civile; la
tradizione meridionale sottolinea invece la responsabilità nei con-
fronti della propria famiglia, vista come un nucleo sociale tra altri
nuclei, isolati l'uno dall'altro e spesso separati da conflitti di inte-
resse. Questo degenere impulso alla responsabilità civica e all'in-
transigenza etica che mi ritrovo ad avere io, generalmente definito
con l'etichetta di «etica calvinista» (e il cui possesso a volte è mol-
to fastidioso, perché sarebbe molto più comodo invece rilassarsi,
scaricarsi dalle responsabilità e «tirare a campare»), credo di aver-
lo preso proprio dalla lettura di Primo Levi.
Secondo me, la capacità di trasmettere a un giovane lettore due
elementi di questa entità basterebbe ampiamente a dare a un libro
un valore formativo eccezionale. Però ce n'è ancora un altro, ed è
l'accento messo sull'importanza della ragione.
Nelle interviste e negli interventi fatti in vari periodi, Levi ha
ripetuto molto spesso che non si sentiva scrittore prima di
Auschwitz: affermava di essere nato come scrittore per riuscire a
raccontare questa storia che gli urgeva raccontare; io credo invece
che sia riuscito a raccontarla proprio perché tutto ciò che ha visto
Levi io ha filtrato attraverso un occhio che era già l'occhio di uno
scrittore, ma uno scrittore molto particolare: uno dei pochi del suo
periodo, Levi supera la dicotomia italiana classica tra la cultura
umanistica e quella scientifica, le fonde insieme, e riesce a_rac-
contare l'emozione attraverso la ragione analitica.
È questo atteggiamento a conferire la sua particolare forza alla
scrittura di Se questo è un uomo, ma lo si trova ugualmente in, per
esempio, La chiave a stella, altra opera di Levi che mi è piaciuta
molto, anche se nella mia storia personale non ha avuto natural-
mente un impatto altrettanto notevole. Il successo di Levi nel de-
scrivere una realtà al limite dell'indescrivibilità come quella del-
l'universo concentrazionario si spiega, appunto, con quello sguar-
do di tipo scientifico e umanistico insieme, cioè con l'uso di una
78

razionalità che però non è mai razionalità fredda in senso deteriore


ma fredda quanto basta per riuscire a dare un'immagine netta e
chiara di quello che c'è da raccontare.
Vorrei fare un esempio, un esempio molto semplice: ricordere-
te in Se questo è un uomo la descrizione di un gesto, un gesto che
assume una forza simbolica tale che può essere applicato in qua-
lunque situazione, ed è il gesto del Kapò che, quando vede Levi
superare l'esame di chimica, volutamente si sporca la mano di grasso
e se la pulisce sulla spalla del prigioniero; la descrizione è scarna,
quasi asettica; il gesto è apparentemente innocuo, eppure il lettore
non può non percepire la sua gravità: visivamente, in una sola im-
magine, troviamo qui riassunto tutto quello che Levi ha detto in
questo libro sulla trasformazione dell'essere umano in cosa. Ma
nella descrizione del gesto, l'abilità di scrittore di Levi dov'è? È
nel fatto che il gesto del Kapò risulta sovradeterminato, cosa che
permette all'immagine di non risultare didascalica ma puramente,
fortemente letteraria nel senso più alto della parola, perché un'im-
magine è didascalica, è predicatoria, è moralistica e quindi non
letteraria quando non ha altra giustificazione che non sia l'ideolo-
gia che vuole trasmettere, mentre qui un'altra giustificazione c'è,
ed è psicologica: il Kapò, mentre Levi sosteneva l'esame di chimi-
ca, lo ha improvvisamente visto come essere umano superiore a
lui e quindi attraverso questo gesto si vendica, si vendica su di lui
con un atteggiamento molto umano, crudelmente umano,
veristicamente umano. Un'immagine come questa resta impressa
per sempre.
Naturalmente di tutto ciò io non mi sono accorta quando avevo
sedici anni, me ne sono accorta pochi giorni fa rileggendo per la
prima volta Se questo è un uomo: e notandone la precisa costruzio-
ne letteraria. Si tratta infatti di un libro molto costruito, cosa che
per me è un pregio; per quanto a prima vista sembri composto per
semplici giustapposizioni, l'accuratezza della costruzione si nota
non soltanto nelle grandi strutture, ma anche nella microstruttura,
nell'articolazione della frase con toni che a volte sono biblici, di
andamento quasi sapienziale, e in altre zone assumono un caratte-
re puramente descrittivo; c'è un'alternanza costruttivamente molto
79

scaltra anche tra questo ritrarsi del narratore nell'impersonalità (di-


venta un «noi», diventa un narratore collettivo), e imomenti in cui
invece irrompe l'io come portatore della testimonianza personale,
marcatrice di verità. Con la scienza del poi, l'abilità di questa co-
struzione letteraria mi fa capire come e perché la prima lettura di
quest'opera abbia avuto su di me adolescente tanta forza.
È vero che, letterariamente, Levi in Se questo è un uomo forse
non ha creato dei personaggi, cosa che qualche critico gli ha rim-
proverato; ma ha creato qualcosa che secondo me ha altrettanta
importanza: ha creato dei tipi umani, talmente icastici, talmente
visibili, talmente ben caratterizzati, che possono valere in qualsia-
si momento e per sempre. Vi invito a rileggere le parti del capito-
lo / sommersi e i salvati, in cui Levi costruisce le figure di Alfred
L., Elias e Henri, questi esemplari di sommersi, scusate, volevo
dire esemplari di «salvati»: ma il mio lapsus non è casuale, perché
in realtà per me (e anche per Levi) sono questi i veri «sommersi»,
proprio questi che sono capaci di superare la selezione darwiniana
e si rivelano idonei a sopravvivere mediante l'ingiustizia e la furbi-
zia. Ecco, basta staccare dall'ambiente del campo di sterminio que-
ste descrizioni di tipi umani, il dirigente d'azienda Alfred, Elias il
forte di corpo ma demente, Henri che è invece il subdolo capace di
approfittare di ogni situazione, e ritroviamo dei modelli di uomini
che vediamo in azione oggi, nel quotidiano, nella nostra società.
E il rischioè, lo dico soprattutto ai giovani, che possiamo esse-
re noi quelli che, come i «mussulmani» del campo di sterminio,
non riusciamo a sopravvivere e veniamo sommersi: non più da
una forza di Stato come è successo nel caso dei Lager nazisti, ma
dal predominio dell'inconsistenza, dagli Henri e dagli Elias e dagli
Alfred che non si fanno scrupolo a sopraffare gli altri. Abbiamo
avuto pochi maestri di morale, in Italia, e ne scontiamo oggi le
conseguenze nella politica, nella società: ben venga quindi la
rivalutazione di Primo Levi, che tra quei pochi è stato certamente
il più profondo.
80
SI

LUCA DE ANGELIS

Se questo è scrivere
Una nota il più possibile chiara su Primo Levi

Scrivere non è un mestiere razionale. ( P. Levi a D.


AMSALLEM)

La verità? E una parola grossa. La verità, tutta la ve-


rità, nient'altro che la verità: che bel giuramento. Io
non lo presto. Non mentire, dice il Rabbi Mendel di
Kotzk, non significa dire la verità. Ebbene, la verità
non è alla mia portata. (E. WIESEL)

L’ondeggiante parola /la possiede/ il buio. (P. CELAN)

La souffrance du juste pour une justice sans triomphe


est vécue concrètement comme judaisme. (E. LÉviNas)

Mentre tentennante e con un certo disagio stendevo questi ap-


punti, mi è ritornata alla memoria quella storia narrata nel Talmud,
di quel giovane che aspirava ad entrare nella Nazione Israelitica,
al quale il Rebbe chiese: «Tu sai che essere ebreo comporta una
grande sofferenza ed un grande numero di persecuzioni?», «Sì»
rispose; «Credi di riuscire a sopportarle?» «Sì»; «Sei ben sicuro?»
«Sì»; la storia si conclude rendendo noto che la presunzione del
giovane aspirante proselito fu punita. Anche scrivere dell’opera di
Primo Levi e di certi temi credo si possa essere facilmente assaliti
da una medesima forma di inadeguatezza, di indegnità, vorrei dire
arrogante presunzione, sfacciataggine, quella che un vocabolo ebrai-
co denomina Adùtzpa . E non è un mettere le mani avanti come un
altro.
Nel testo Dello scrivere oscuro apparso su «La Stampa» 111
Dicembre 1976, compreso in L’altrui mestiere (1985) Levi soste-
neva che, poiché «la scrittura serve a comunicare», starebbe «allo
scrittore farsi capire da chi desidera capirlo». Il mestiere di scrive-
re (che non è e non può essere un mestiere normale) è «un servizio
pubblico» ed è per questo che avrebbe fatto di iutto perché il suo
lettore non andasse deluso; egli «proverebbe disagio o dolore se
non capisse riga per riga quello che io ho scritto, anzi, gli ho scrit-
82
to: infatti scrivo per lui, non per i critici né per i potenti della Terra
né per me stesso».
Primo Levi avrebbe aderito certamente alla distinzione che
Arthur Schopenhauer operò nel testo Sul mestiere dello scrittore e
sullo stile, inserito e pubblicato nei Parerga e paralipomena (1851):

Anzitutto, vi sono due tipi di scrittori: coloro che scrivono per amore
della cosa, e coloro che scrivono per scrivere. I primi hanno avuto idee oppu-
re esperienze che sembrano loro degne di essere comunicate; i secondi hanno
bisogno di denaro e perciò scrivono per denaro. Essi pensano al fine di scri-
vere. Li si può riconoscere dalla tendenza a dare ai loro pensieri la maggiore
estensione possibile e a esporre anche pensieri veri a metà, pensieri contorti,
forzati e oscillanti; di solito, essi amano il chiaroscuro per poter apparire ciò
che non sono; per questa ragione ai loro scritti mancano precisione e comple-
ta chiarezza”.

Nello stesso tempo Schopenhauer sottolineava anche come «in


fondo, l’autore inganna il lettore, appena scrive con lo scopo di
riempire la carta: egli, infatti, dà ad intendere di scrivere perché ha
qualcosa da comunicare». Tutto, insomma, in nome di un sincero
ed autentico desiderio di una comunicazione chiara e nitida di espe-
rienze («Dimenticavo di dirLe che, per scrivere, bisogna avere qual-
che cosa da scrivere» ricordava Levi rispondendo ad un giovane
lettore, egli che di esperienze da raccontare ne aveva avute fin
troppe) che Levi presuppone come essenziali nello scrittore, e che
devono essere narrate mediante uno stile scarno e asciutto; un ni-
tore scientifico, che tutti noi conosciamo, tutto votato ad un insi-
stito Èsprit de clarté, indice di un’indiscutibile onestà intellettuale
e civile, oltre che di un amore per il lettore cui voleva trasmettere
le sue vicende. Scrivere chiaro era senza dubbio il modo migliore.
Fin qui tutto troppo semplice, se non sopraggiungesse imme-
diatamente una precisazione inevitabile a complicare le cose e a
richiamare la banalità di osservazioni del genere. «Ritengo che
quando l’idea è chiara, automaticamente viene esposta anche in
un linguaggio chiaro» disse una volta Levi a Giuseppe Grassano,
Ma si può avere un’idea chiara di Auschwitz? E ancor più, parlare
di chiarezza di Auschwitz , riferendosi alla regola concentrazionaria,
83

non è qualcosa che offende? Levi infatti riconosceva che scrivere


era una sofferenza non tanto per le cose che raccontava:

non per le cose che narro. Sento talora l'insufficienza dello strumento.
Ineffabilità, si chiama, ed è una bellissima parola. Il nostro linguaggio è uma-
no, è nato per descrivere cose a dimensioni umane, (a Roberto Di Caro).

Ma Auschwitz è indicibile in sé ed è indicibile perché nessuno


è capace d'intendere ciò che Auschwitz ha detto: Auschwitz non è
formulabile in termini umani. Lucidità, precisione e tutto ciò che
pure lo stesso Levi coraggiosamente richiedeva ed invocava, si
possono pretendere sì da uno scrittore, ma non si possono preten-
dere in modo assoluto da chi invece si vorrebbe narratore di un
avvenimento - limite dell’umanità come Auschwitz. Come espri-
mere l’indicibile? L’indicibile non ha parole. Se questo è scrive-
to.
Recentemente Elie Wiesel, che appartiene ad una tradizione
diversa da Argonopoli, l'ebraismo piemontese di Levi, intrisa co-
m°’era di vividi spunti cabalistici, ad «una generazione ossessiona-
ta dallo scrupolo di ricordare tutto», nella splendida autobiografia
Tutti ifiumi vanno al mare intuiva tutte le carenze linguistiche e
confessava: «Le parole mi fanno paura. La parola che cosa è esat-
tamente: opera divina o diabolica? La parola detta e la parola scrit-
ta non riflettono la stessa esperienza. Il misticismo di cui era im-
pregnata la mia adolescenza diffidava della scrittura»?. Implicita-
mente c’era il timore ch’essa potesse deformare il messaggio:

Non hai scritto tu stesso che esistono esperienze incomunicabili? Che


certi avvenimenti non possono essere riferiti con nessuna parola; che a volte
non ci sono le parole per dire ciò che non si può tacere? Allora, come la metti
con questa contraddizione, sentiamo? E Wittgenstein, lo hai accantonato?
Non bisogna tentare di esprimere l’inesprimibile. Sentiamo come speri, scri-
vendo in una lingua ancora sconosciuta, di rivelare segreti che, per definizio-
ne, possono solo restare impenetrabili? Come speri di trasmettere verità che,
secondo le tue stesse parole si collocano sempre, e si collocheranno per sem-
pre, al di là dell’intendimento umano? Del rabbi Mendel di Kotzk si diceva
che, anche parlando, rimaneva in silenzio. Esiste un linguaggio che contenga
un silenzio «altro», un silenzio plasmato e approfondito dalla parola”.
84

L’atteggiamento di Wiesel di fronte all’insensatezza di quel-


l’evento, si concretava nell’imperiosa esigenza di dotarlo comun-
que di un significato; allo stesso modo di Levi che strenuamente
osteggiava certi atteggiamenti nichilistici: così lontano dalla paro-
la, così contro il silenzio”. Eppure col tempo crebbe non solo il
sentimento dell’irrazionalità nella scrittura, ma anche la consape-
volezza dell’indecifrabilità dell'inferno concentrazionario, di uno
scrivere senza possibilità di redenzione. Tutto questo si manifesta
accentuato particolarmente in / sommersi ed i salvati,

A distanza di anni, si può oggi bene affermare che la storia dei Lager è
stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ha scandagliato
il fondo. Chi lo ha fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione
era paralizzata dalla sofferenza e dall’incomprensione; [...] Il mondo in cui
ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era con-
forme ad alcun modello en

Si andava incontro ad una riproducibilità impossibile che Levi,


ad intermittenza, è costretto a concedere. Ora tutta la letteratura
concentrazionaria ha dovuto ammettere che nessuno è riuscito ad
esprimere ciò che è realmente successo. Cè l’incapacità della pa-
rola, tuttavia è difficile trovare tra i reduci chi, una volta iniziato,
non seguiti tormentosamente a tentare di riprodurre nella scrittura
l’universo concentrazionario, qualcuno che nello stesso tempo non
si sia reso conto anche dell’inadeguatezza del linguaggio e
dell’inenarrabilità della sua esperienza.
Nonostante i ferrei propositi poetici e la tenacia nel ricercare
un’assoluta e perspicua esattezza di ispirazione scientifica (esat-
tezza scientifica ultra, quasi non si avesse voluto tener conto di
Einstein e di Heisenberg, e dei loro principi di relatività e di
indeterminazione!) Levi non riesce a dissipare l'impressione di
certe ombre, di zone di silenzio dalle sue pagine, di una
descrivibilità inespressa ; sono anche le ammissioni di Levi stesso
a rendercene accorti. C’è di che essere d’accordo con David
Bidussa, quando osservava che:

se sul piano dell’argomentazione sembra prevalere l’ipotesi della possibile


superabilità di Auschwitz, sul piano della narrazione si afferma il paradigma
85
esattamente opposto: la sua insuperabilità. Anzi, per esser più precisi: la sua
perennità. [...] l’incontro con il mondo delle tenebre avviene più attraverso il
non detto che non attraverso la comunicazione esplicita; [...] quanto più [Levi]
si avvicina al cuore della questione, quanto più aumenta lo scarto tra ciò che
la sua scrittura comunica e ciò che la sua riflessione propone?.

Ritengo che si debba procedere su questa linea, approfonden-


do queste intuizioni, assecondando una distinta sensazione che si
ha nella lettura, e cioè di una continua tensione che sbatte contro i
limiti delle parole, tanto che la poetica di pacata chiarezza , di cui
i critici hanno tanto parlato, mi è sempre apparsa più che altro un
ideale, mentre effettivo era lo sforzo continuo di pacificazione,
un’agitazione compressa nel classicismo scientifico della parola
ridotta all’osso dallo spirito conciso ed essenziale della
stechiometria. Un’impressione del genere l’ha avuta anche Cynthia
Ozick, quando per l’ultimo lavoro di Levi, dietro l'apparente com-
postezza, sentì una detonazione inaspettata, la subitanea scossa di
una rabbia mortale che si avvicinava di più al parlare oscuro:

il cambio di tono è all’inizio muto, debole. Gradualmente, cumulativamente,


rimbombo dopo rimbombo, giunge a svelarsi, a esporsi, si può seguire il
sibilo che accompagna la miccia; verso l’ultimo capitolo la pressione è così
forte, la rabbia così immensa, che il «distacco» ha da tempo lasciato il campo
alla convulsione. Ciò che prima era trattenuto implode adesso in queste pagi-
ne. [...] Le convulsioni dell’ira hanno alterato la natura della prosa, e se
possiamo giudicare dal suicidio di Levi, anche quella dell'individuo. È inte-
ressante come quasi nessuno sia stato disposto ad ammettere che la testimo-
nianza finale di Levi era satura di una rabbia mortale, come se fosse troppo
crudele squarciare il velo dello spirito puro. Può essere crudele; ma è la stes-
sa mano di Levi che squarcia il velo e dispone la miccia".

Mi sento di aggiungere, senza tema di esprimere convincimenti


che possono risultare impopolari ed inattuali, che il processo di
beatificazione che si sta avviando nei riguardi di Primo Levi non
rende il dovuto onore alla statura della sua personalità. Certi giudi-
zi iperbolici e privi di misura sulle sue qualità letterarie, espressi
tra i fumi degli incensi, quasi si dovesse risarcirlo di qualcosa,
personalmente risultano irritanti; è certamente qualcosa che la sua
onestà non gli avrebbe permesso di accettare. Primo Levi non è
86

stato scrittore per vocazione e mentalità, e scrivere per fare lettera-


tura è sempre stato avvertito come un mestiere altrui, talora visto
con sospetto. Tuttavia, nonostante l’affermazione che il suo mo-
dello di scrittura fosse «il rapporto» fine settimanale in fabbrica, a
dispetto di questi improbabili principi di poetica, che uno scrittore
di razza non adotterebbe mai, egli ci ha regalato splendide pagine
di grande intensità poetica, perché «la poesia è una misteriosa ne-
cessità di tutti i tempi, di tutte le età e di tutte le civiltà umane»
disse tra l’altro questo strano scrittore-impiegato di fabbrica. L’im-
barazzo tuttavia che provo a ragionarne in termini letterari, ciò che
porterebbe a soffermarsi sulle troppe e provocanti ingenuità di Levi
letterato, non restituiscono intera la sua grandezza spirituale e mi
fa ritenere che Levi vada giustamente apprezzato, ma per altri
motivi, considerando almeno alcune fondamentali dissonanze. Al-
lora la sua personalissima lezione di scrittura dalle tenebre e dai
reticolati diventa riconoscibile nella sua straordinaria essenzialità;
solamente avendo ben presente che la sua scrittura nasceva in prin-
cipio dall’esigenza di testimoniare, di trasmettere un’esperienza,
di raccontare cimentandosi con l’orrore, il vuoto, il silenzio, per
ritrovare un senso nell’insensatezza delle vicende del genocidio.
Si dice questo anche per individuare i fraintendimenti e le polemi-
che senza alcun senso, come il botta e risposta con Manganelli, il
quale di Levi stigmatizzava la presunta «razionalità trionfante»
senza avere compreso il suo bisogno umano di scrivere, la sua
reale poetica. Levi rifiutava l’oscurità nella scrittura perché rifiu-
tava l’oscurità di Auschwitz.
Alla chiarezza di comandamento si affaccia la precisa sensa-
zione che la scrittura di Levi è come se avesse dovuto vincere una
forma di resistenza per affiorare dal fondo, votata come era a ri-
trarsi nel silenzio più buio, ciò che può risultare paradossale per un
uomo che ha fatto praticamente della testimonianza la vera ragio-
ne della propria esistenza. Anche in Levi è avvertibile tra le righe
un’onesta tentazione del silenzio, uno stranissimo «doloroso sen-
so del pudore» di cui parlava nella Tregua , come di pietà per se
stesso e la propria memoria, per l’uomo che ha allestito Auschwitz,
d’altronde «come si fa - si chiedeva Wiesel - a far rivivere con
87

pudore la caduta degli uomini e il tramonto degli dei?»!!. I reso-


conti dai Lager dovevano rivelare come la verità non potesse fare
a meno di una certa rattenutezza nella scrittura, di quella dose di
silenzio che deve intervenire quando le parole non esprimono nien-
te. In effetti sembra aver ragione Hannah Arendt, quando riteneva
questi testi tanto più autentici quanto meno cercavano di comuni-
care cose che mostravano sottrarsi alla comprensione e all’espe-
rienza dell’uomo”.
Chiarezza, dunque, come prima mizvà , evitando l’identità di
chiarezza con razionalità. Procedendo nella lettura del saggio Del-
lo scrivere oscuro, Levi ammette certi limiti e deve concedere qual-
cosa allo scrivere oscuro:

È evidente che una scrittura perfettamente lucida presuppone uno scri-


vente totalmente consapevole, il che non corrisponde alla realtà. [...] siamo
condannati a trascinarci dietro, dalla culla alla tomba, un Doppel/gdnger, un
fratello muto e senza volto, che pure è corresponsabile delle nostre azioni,
quindi anche delle nostre pagine [...] È un fatto contro cui non si può com-
battere: questa fonte di inconoscibilità e di irrazionalità che in ognuno di noi
alberga dev'essere accettata, anche autorizzata ad esprimersi nel suo (neces-
sariamente oscuro) linguaggio, ma non tenuta per ottima od unica fonte di
» 13
espressione .

Più oltre si procede con riferimenti che vanno al di là dei limiti


fisiologici umani di uno scrittore. Levi ricorda le urla di Giacobbe
sul mantello insanguinato di Giuseppe da lui considerate un sub -
linguaggio rozzo ed inarticolato: pur sempre «l’effabile è preferibile
all’ineffabile, la parola umana al mugolio animale», la pagina scritta
alla pagina bianca, tuttavia in queste affermazioni si intuisce tutta
la consapevolezza di certi limiti trasparenti dietro l’allucinata luci-
dità della scrittura.
Per le problematiche dell’oscurità e dell’indecifrabilità dello
scrivere Levi fa delle eccezioni che «sono da rispettarsi, perché 1]
loro ‘mugolio animale’ era terribilmente motivato». In particolare
l’eccezione era costituita da Paul Celan e la sua Lichtzwang: «luce
coatta», quel Celan «maestro dell’oscurità» con il suo linguaggio
della sofferenza, un lamento che proveniva dalle ferite immedicabili
nelle membra del popolo ebraico; quel Celan che prediligeva la
38

parola «nata dal silenzio» per il quale, dice Levi: «il discorso deve
farsi più serio e responsabile», così come deve farsi per le
rabdomanzie wieseliane del silenzio, cui si accennava.
In questa prospettiva la lucidità scientifico - cartesiana
propugnata dallo scrittore torinese doveva decisamente ridimen-
sionarsi per avviarsi a lasciare il posto ad un atteggiamento in ne-
gativo, che si trovava a fare i conti con l’ineffabilità della sua ma-
teria, con l’inefficacia dei suoi strumenti, e dunque con l’impossi-
bilità di una comunicazione adeguata, a dispetto del permanente e
rigido atteggiamento etico di Levi mirato ad una rappresentazione
che si voleva necessariamente chiara, ciò che appare come una
necessità dell’impossibile. Già è significativa l’analisi leviana di
questo caso particolare:

Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente: pene-


trarlo è impresa disperata, non solo per il lettore generico, ma anche per il
critico. L’oscurità di Celan non è disprezzo del lettore né insufficienza espres-
siva né pigro abbandono ai flussi dell’inconscio: è veramente un riflesso del
destino suo e della sua generazione, e si va addensando sempre più intorno al
lettore, stringendolo come in una morsa di ferro e di gelo, dalla cruda lucidità
di Fuga di morte (1945) al truce caos senza spiragli delle ultime composizio-
ni. Questa tenebra che cresce di pagina in pagina, fino all’ultimo disarticolato
balbettio, costerna come il rantolo di un moribondo, ed infatti altro non è. Ci
avvince come avvincono le voragini, ma insieme ci defrauda di qualcosa che
doveva essere detto e non lo è stato, e perciò ci frustra e ci allontana. Io penso
che Celan poeta debba essere piuttosto meditato e compianto che imitato. Se
il suo è un messaggio, esso va perduto nel «rumore di fondo»: non è una
comunicazione, non è un linguaggio, o al più è un linguaggio buio e monco,
qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo
saremo in punto di morte. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo
scrivere come se fossimo soli. Abbiamo una responsabilità, finché viviamo:
dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni
parola vada a segno".

George Steiner, che vorrei definire reduce imaginaire, in un bel


libro: Linguaggio e silenzio, che ha per sottotitolo Saggi sul lin-
guaggio, la letteratura e l’inumano, riteneva che la Shoah «si si-
tua al di fuori della sintassi normativa della comunicazione umana
e dentro al dominio esplicito di quella animalesca» e che - e questo
89

toccherebbe in modo importante l’atto della scrittura di Primo Levi


- «non è affatto certo che il linguaggio razionale sia fatto per trat-
tare le cose che sfuggono in modo così totale alle norme della
comunicazione umana». Con ciò, con le geniali, audaci, talora
discutibili intuizioni di Steiner relative alla filosofia del linguag-
gio, si toccherebbe il nervo dolente dei testimoni dei Lager così
come è stato espresso in modo apodittico da Elie Wiesel nel dialo-
go con Jorge Semprun «Tacere è proibito, parlare è impossibile»°.
La seconda parte dell’enunciato riferito al nostro autore, se ingenera
qualche perplessità, rappresenta tuttavia un fondamentale motivo
di riflessione per stabilire il grado di consapevolezza del nostro
autore di questo aspetto distintivo della scrittura della Shoah: loscil-
lare tra il silenzio e la parola. Lo scrittore della Shoah è, di fatto,
consapevole ab origine che esistono cose che non possono essere
dette: «suo malgrado, Primo Levi deve raccontare fatti al limite
dell’indicibile. Deve farlo per impedire un assassinio postumo della
memoria stessa dell’offesa; e perciò deve esporre la parola al gra-
ve rischio di una nuova offesa, che egli intravede nell’uso stesso di
codici inadeguati a comprendere situazioni limite»!?.
Sempre Wiesel, che pure ebbe un rapporto sostanzialmente di-
verso con le vicende dello sterminio, dichiara esplicitamente: «La
letteratura dell'Olocausto? Il termine stesso è un controsenso. Chi
non abbia vissuto la situazione non la conoscerà mai. E chi l'ha
vissuta non la svelerà mai. Mai sul serio, mai fino in fondo»'*.
Nonostante questo, l’atteggiamento di Levi - anticipo le conclu-
sioni del mio intervento - mi sembra piuttosto un’oscura, ostinata,
ossessiva ribellione al Silenzio, come Giacobbe che lotta con l’an-
gelo e con Dio e perciò viene chiamato Israele. Se tutto in quello
scrivere sembrava condurre al silenzio, a Levi tuttavia non sembrò
paradossale scrivere, ed in modo chiaro per di più, almeno nell’in-
tenzione.
La scrittura dei reduci proveniente dalle vicende
concentrazionarie è qualcosa di letterariamente diverso, diverse
sono le problematiche. Innanzitutto si può dire che in essa è senza
dubbio assai più accentuata «la necessità etica» prima che lettera-
ria (Meghnagi). È un dato di fatto inoppugnabile poi che le con-
90

venzioni e la retorica del Novecento letterario siano sempre state


percepite quali mezzi inadeguati alla rappresentazione del caos fi-
sico, morale e spirituale della realtà senza parole da rappresentare
da parte dei sopravvissuti, i quali non iniziarono a scrivere con
l’intenzione di fare delle opere letterarie, ma si trovarono inevita-
bilmente a fare letteratura scoprendo forse quanto nel silenzio del-
lo Spirito Universale niente sopravviveva e testimoniava quanto le
fragili parole forti della poesia, la vitalità e la tensione dell’arte
della scrittura.
Ma il pianeta Shoah doveva mettere in crisi l’uomo in quanto
aristotelico Zoon logon ekon ovvero «creatura della parola». Così
sottolineava la Kaufmann: «Di fronte all’orrore assoluto, davanti
all’inumano e all’impensabile trasformati in norma quotidiana, il
linguaggio ed il pensiero si sono ritrovati in una pallida impotenza
nel tradurre una realtà senza precedenti» SAI martirologio ebraico
abbisognava di un linguaggio, di un lessico, di metafore, di model-
li impossibili da reperire se non per analogie approssimative:
Auschwitz sembrava pretendere l'invenzione di un nuovo linguag-
gio e di nuovi procedimenti retorici.
L’eterogeneità peculiare dei modelli narrativi nell’opera di Levi
permette comunque di identificarne almeno due di fondamentali:
quello dantesco e quello biblico, che assai spesso si mescolano in
modo quasi naturale; oltre a quello del quotidiano, spesso
virgolettato e tale da originare effetti grotteschi, e naturalmente
quello scientifico del chimico, che evoca anche qualcosa di
faustiano, pur sempre di qualcuno che simbolicamente attenta alle
frontiere del linguaggio. Ora è «proprio perché non possiamo an-
dar oltre, perché il discorso ci fa difetto in maniera così meravi-
gliosa - o per quanto concerne i nostri argomenti: in maniera così
mostruosa - che noi sperimentiamo la certezza di un significato
divino che ci supera e che ci avvolge»? Quanto sta al di là del
mondo parla dell’uomo e parla di Dio. E sia che si tratti di Rivela-
zione o Silenzio di Dio, trattasi sempre di un idioma audacemente
spinto oltre i limiti umani. Dante, uno degli auctores di Levi, fu
poeta, ad esempio, che pose esplicitamente l’indicibilità, lincapa-
cità di parlare degnamente dell’argomento, ma non si può certa-
Si

mente dire che le sue siano manchevolezze, o che sia stato cattivo
poeta perché oscuro. Nel corso della Commedia, le parole, man
mano che ci si allontana dall’umano e ci si avvicina alla Divinità o
alla sua Assenza, diventano sempre meno adeguate al compito di
tradurre la realtà. Nel canto estremo, il XXXIII del Paradiso, egli
tramite la Grazia si è levato ad un grado di potenza intellettiva al
più alto livello raggiungibile da intelletto umano, a quel punto «il
parlar nostro cede», «cede la memoria a tanto oltraggio», ‘oltrag-
gio’ che va inteso propriamente nel suo significato etimologico: di
ciò che va oltre, che eccede le possibilità dell’uomo. È l’afferma-
zione di un oltraggio sacro, e a quest’alto intendere non corrispon-
de un iinguaggio sufficiente, ma un balbettio informe di lattante
(«Omai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch’io ricordo, che
d’un fante / che bagni ancor la lingua alla mammella») qualcosa di
simile al mugolio animale, a quel «disarticolato balbettìo» di cui
parlava Levi a proposito del celaniano «mondo da riprodurre bal-
bettando» (Die nachzustotternde Welt) e questo vieppiù si pronun-
cia il verticalismo ascendente” .Il transumanare comporta questo.
Qualcosa di simile accade per il disumanizzare; del resto «là dove
si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio» e viceversa”.
Se questo è un uomo è anche un se questo è scrivere.
Trascinato negli inferi, all’estremo della sublimità del viaggio
spirituale dantesco, Primo Levi viene iniziato alla
disumanizzazione, alla progressiva «musulmanizzazione», alla ri-
duzione degli uomini a mere larve vegetative sancita ab inirio con
la privazione del nome che perde i caratteri connotanti per diveni-
re un mero guscio, un’ineffabile K kafkiana, di quel Kafka, secon-
do Levi, dotato di «una misteriosa sensibilità che permette a certe
creature di presentire 1 terremoti». Il proprio nome nei latrati del
linguaggio gergale del Lager, il tedesco definito terzii /Imperii, tan-
to che è stato possibile a Oliver Lustig di approntare un impressio-
nante Dizionario del Lager, si deforma in un altrettanto
spersonalizzato e contabile Aéftling 174517, inciso e tatuato,
azzurrognolo come l’inchiostro per una scrittura sulle carni nel
celebre racconto la Colonia Penale. In un recente entretien, Steiner
ritornando su un suo tema privilegiato, ricordava l’idea della
92

Kabbalah secondo cui se venisse svelato il nome segreto di Dio il


mondo andrebbe in frantumi e per analogia soggiungeva: «Hitler
est ce nom caché, celui qui peut faire éclater l’univers par l’anti-
langage. Le génie de la rhétorique de Hitler, c’est la mort de notre
langage»
Nella condizione del Lager si ripropongono quelli che Curtius
definiva Unsagbarkeitstopoi ovvero i classici topoi dell’indicibilità.
Ma c’è da ribadire che quelle cose non dette detengono un peso
specifico che risulta superiore a tutto. Nelle prime pagine di Se
questo è un uomo SI legge:

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di
parole per questa offesa, per la demolizione di un uomo. In un attimo, con
intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata; siamo arrivati al fondo.
Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e
non è pensabile”.

Anche qui «il parlare cede» in un modo che non poteva essere
più evidente ed è messo in risalto dall’avvertimento del narratore;
la chiarezza e l’oscurità a questo punto non dipendevano unica-
mente da un'etica dello scrivere, e ancor meno erano vincolate da
ragioni squisitamente di stilistica letteraria.
Una delle primissime citazioni dantesche di Levi in Se questo è
un uomo, senz'altro quella più in evidenza, è questa: «Qui non ha
luogo il Santo Volto / qui si nuota altrimenti che nel Serchio».
Altrimenti detto, i demoni del Lager lo rendono cosciente che in
quel luogo infero era come se non fosse prevista la presenza di
Dio che si era ritratto dalla vista dell’uomo. Ha - Shem, il Nome,
aveva torto il Viso; il Santo Volto si era occultato, un'immagine
che Levi riprende per Shemà, la poesia proemiale di Se questo è un
uomo”°. La notte di Auschwitz era, dunque, l’eclisse di Dio (qual-
cuno ha pure detto che in quell’occasione Dio si era ucciso). Si era
nel Regno del Silenzio dove non erano ammesse interrogazioni:
«Il maresciallo dice che dovete fare silenzio, perché questa non è
una scuola rabbinica» traduce l’interprete alla folla dei traghettati,
«non cercare di capire» era «il primo detto sapienziale». Nelle ani-
me degli internati dell’universo concentrazionario si rievocò «un’an-
93
goscia atavica, quella di cui si sente l’eco nel secondo versetto
della Genesi: l’angoscia inscritta in ognuno del “tòhu vavòhu”,
dell’universo deserto e vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio,
ma da cui lo spirito dell’uomo è assente: «non ancora nato o già
spento». Storicamente:

L’ebraismo - dal momento in cui viene meno la diretta manifestazione di


Dio per bocca dei suoi profeti - è dominato dall’incombere del silenzio: un
silenzio grande, profondo, radicale, terribile, perché a tacere è l'assoluta Pa-
rola divina, per mezzo della quale, con le lettere dell’alfabeto, il mondo è
stato creato, come è scritto nell’antico Sefer Yesirah. Posta così in Dio, la
tensione fra parola e silenzio si fa estrema. [...] Il silenzio che si impone al
pensiero ebraico contemporaneo, sebbene racchiuda in sé, nella memoria,
nella nostalgia, nella speranza, ogni altro possibile silenzio, è il silenzio di
Auschwitz: un silenzio-avvenimento, silenzio degli uomini e della natura in-
differenti, silenzio dei morti, ma soprattutto silenzio di Dio, che tace di fron-
te all’orrore.

Sono riflessioni di Sergio Quinzio”5 in margine ad un testo fon-


damentale dell’ebraismo contemporaneo, nel quale si è stilata una
vera e propria fenomenologia del silenzio, sto parlando del libro di
André Neher, il cui titolo, L'esilio della parola , ricalca il concetto
di Galut hadibur tratto dallo Zohar e condensa sotto molteplici
aspetti il senso del mio intervento. A questo proposito non risulte-
rà inutile riproporre altre considerazioni di Wiesel sulla scrittura
in relazione a questo esilio della parola, all’ «eclissi della parola»
di cui parla anche Levi:

Anche la parola è esule. In altri termini: si è scavata una distanza tra la


parola e il suo contenuto. La parola non corrisponde più al significato che
contiene. Ostacoli piuttosto che riferimenti, le parole interrompono il mio
slancio. Non faccio affidamento su di loro intuendo ciò che proverò tanto
acutamente in seguito: sono troppo povere le parole umane, troppo traspa-
renti per esprimere l’Evento. Insomma, in che modo superare il dilemma: o
mente il narratore o mentono le parole. Dunque, a che scopo moltiplicare le
menzogne?”

Forse c’era anche il serpeggiante timore che le parole potessero


stancare ed usurare la verità con l’inefficacia della loro inettitudine.
94

I reduci, per complesse ma comprensibili ragioni, furono 0s-


sessionati dal ricordare, dal raccontare, da un’ansia di comunica-
zione e testimonianza, cose che, tutte le volte che Levi ebbe la
possibilità di fare, ha fatto; nondimeno vi sono pure i loro contrari:
l’impulso a dimenticare, un bisogno di oblio senza del quale, al-
meno in una certa misura, non si può vivere. Negli scrittori della
Shoah viveva il perenne ed angosciante timore di non poter resti-
tuire l’enormità dell’evento, il sentimento che la loro testimonian-
za potesse rimanere inascoltata e trascorrere nel disinteresse: la
sindrome dell’ Ancient Mariner, in quella condizione parlare e rac-
contarsi equivaleva a sopravvivere. Che poi le verità avessero un
difficile cammino era concetto che Levi aveva ben presente; eppu-
re la memoria andava difesa, protetta, salvaguardata anche dagli
attentati e dalle menzogne di negazionisti, revisionisti, banalizzatori
ed individui di tal genere, e questo bisogno Levi, come si sa, lo
problematizzò magistralmente in un capitolo di / sommersi e i sal-
vati . Tuttavia, con lo scrivere l’illuminista Primo Levi faceva l’espe-
rienza che il ricordo rielabora, corregge, precisa, offusca, allucina,
dimentica ed un milione di altre cose ancora. Cimentandosi nella
scrittura, forse, lo scrittore-testimone della Shoah dovette verifi-
carne un effetto, rilevato da uno scrittore assoluto come Peter
Handke : «Questo tremendo oblio, che pratico prendendo ininter-
rottamente appunti». Ma al reduce non importava: Mémoire
oblige.
Diversamente da Wiesel che ebbe un rapporto dichiarato e con-
sapevole con il Silenzio, Levi, con la ragione del chimico, questo
rapporto lo ha sempre misconosciuto e negato. In questo caso è la
ragione ad essere interessata. Razionalmente: c’è stato Auschwitz
quindi non esiste la Provvidenza, non esiste Dio; e tuttavia l’atei-
smo non sembra in genere l’esito più scontato. Quell’affermazio-
ne forse si sarebbe potuta rovesciare in questo modo: c’è stato
Auschwitz quindi deve esistere Dio, il Silenzio, 1’ Assenza, l’Inter-
rogazione. In questo caso si sarebbe in una dimensione di fede: il
sovraumano ed inaudito silenzio di Auschwitz da un certo punto
di vista sembra proprio presupporre Dio, e ancora la protesta, 1’ ac-
cusa, il processo”!
95

Scrittore per caso, per necessità vitale, poi per lottare con la
realtà teologica del Silenzio e con l’assenza di significato. Nella
sua professione di uomo di scienza, di laicismo e di agnosticismo
la posizione di Levi risultava ancor più difficile e disperata per il
fatto di non sapere chi si era. Non sapere che cosa significa essere
ebreo (che non poteva esser certamente ridotto ad «una piccola
anomalia allegra» come era vissuto da Levi prima della
deportazione) lasciava sprovvisti di quella minima riserva interio-
re che invece possedeva l’ebreo credente. Veniva a mancare la
consapevolezza del lato metastorico e metafisico della Notte di
Auschwitz: nessuno storico, sociologo, psicologo o chi per essi è
riuscito a spiegare l’ Evento Shoah, che non solo è irraggiungibile,
ma anche umanamente inaccettabile. Si è osservato, tra l’altro,
che gli scrittori del genocidio raramente si sono resi conto di assu-
mere non solo il ruolo degli storici, ma anche di teologi della cul-
tura, a molti sfuggì il fatto che fondamentalmente avessero non
solo udito ma anche confusamente raccontato il Silenzio di Dio,
tanto più l’ebreo, al quale Steiner ha diagnosticato a ragione il ma/
di Dio.
Il sopravvissuto di Auschwitz ricerca un significato qualsiasi
esso sia, vuole anzitutto comprendere pur nella sua paura di com-
prendere; e lo può pretendere, poiché «seul homme qui avait
reconnu le Dieu voilé peut exiger ce dévoilement» scriveva
Lévinas”.
L’Emunà, la fede vera dell’ebreo credente è definita la cono-
scenza del cieco, e lo Zohar insegna che l’esperienza del fuoco
nero, della luce nel buio è più profonda. Più che ribellarsi contro
l’oscurità con la chiarezza della ragione umana, in sé qualcosa che
sfiorava il feticismo, si trattava forse di riconoscere che di chiaro
c’era solo l’oscurità. Ma è difficile accettare la chiarezza oscura
dell’inintelligibile, quella componente paradossale così animosa
all’interno dell’ebraismo, per cui «Dio è eloquente nel silenzio con
i giusti; è silenzioso nell’eloquenza con i malvagi», come non è
facile vivere il cammino verso la redenzione come un transito at-
traverso stazioni di buio e di solitudine, auscultare una sottile voce
di silenzio, una voce di silenzio simile ad un soffio”.
96

Dopo il soggiorno negli inferi, Levi si ritrovò a dover dar corpo


- come disse egli stesso - ad «una carica narrativa patologica» a
condurre un’altra lotta disumana, volendo rappresentare
l’irrappresentabile, «con la sensazione, a volte, di stare facendo
un'opera quasi impossibile». E se la matera della Divina Comme-
dia di Dante era frutto di una potente e mirabile immaginazione
poetica, l’esperienza di Auschwitz era qualcosa di orribilmente
Vero.
Mi piace figurarmi l’atteggiamento di Primo Levi come quello
di un Wittgenstein risalito dall’ inferno, che si scaglia contro i limi-
ti del linguaggio, senza però potersi accontentare del silenzio; inoltre
quel che si può dire lo si deve dire chiaro. Levi rifiutando il suo
status di uomo di scienza sentì di dover procedere oltre quello di
cui non si può parlare, trasgredendo sì i dettami del 7ractatus, ma
non rendendosi complice dell’ Angelo dell’Oblio, che per l’ebreo
è peccato supremo. Dire dell’inadeguatezza della parola poteva al
limite essere una modalità per mantenere una forma di padronanza
su di essa, una prima distinzione da certi atteggiamenti meramente
nichilistici.
Quella di Levi è una ribellione perché la lingua indicibile va
comunque ricercata, il Silenzio deve, malgrado tutto, essere de-
scritto con le parole. Ma per questo silenzio non rimangono che le
parole della notte di fumo e di cenere, la celaniana das erschwiegene
Wort («la parola strappata al silenzio») e quasi a voler emendare il
noto assioma adorniano per cui dopo Auschwitz non si poteva più
fare poesia, Levi asseriva che «non c’è più poesia che su di
Auschwitz». In effetti era proprio quel silenzio altro plasmato e
approfondito dalla parola - cui accennava Wiesel - che doveva
essere ricercato e che rinviava alle profondità abissali consustanziali
alla parola nell' ermeneutica tradizionale ebraica. Una parola che
non avrebbe dovuto disperdere il silenzio.
E ancora, contraddittoriamente o inclusivamente, quasi a ribel-
larsi ad ogni forma di nichilismo e di scetticismo nei riguardi della
parola: «Negare che comunicare si può è falso: si può sempre»
affermava con ostinazione Levi, sempre in / sommersi e i salvati,
accanto però alle affermazioni di indecifrabilità ed impotenza nel
Ch

rendere il significato noumenico di Auschwitz, ciò che deve susci-


tare non pochi dubbi e sospetti sulla certezza e sulla sostanza del
suo scrivere chiaro. Un uomo Levi stritolato da due pulsioni
insopprimibili ed impossibili da estinguere: bisogno fisiologico di
oblio ed un'umana tensione a voler rendere e testimoniare con il
precisarsi della scrittura l’inumano, ciò che comportava oltre ai
benefici terapeutici («Spesso lo scrivere rappresenta un equiva-
lente della confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da
obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riu-
scire a liberarsene così, come è accaduto a me in anni lontani»)
anche il ripetere compulsivamente le vicende del Lager ed a rivi-
vere quella familiarità, quella vicinanza, quei nonnulla che porta-
vano alla morte. Anche in questo caso il letterato si deve chiedere
se è scrivere questo, scrivere in una simile sofferenza psichica. Un
uomo che è sopravvissuto per rivoltarsi al Silenzio, scrivendo in
nome dell’uomo e perché «il mondo conosca se stesso», con l’idea
fissa che teoricamente tutto deve essere raccontato e che «rifiutare
di comunicare è colpa». Non solo, uno scrivere il suo soggetto ed
una chiarezza comandata e impossibile.
Mi sembra di riconoscere la sua scrittura come un continuo atto
di insubordinazione dell’uomo verso il Silenzio, la sua morte qua-
le improvviso cedimento in questa sfida che comunque ha vinto,
perché Levi indiscutibilmente ci ha comunicato molto e ci ha dato
molto. «Credo che Primo Levi si sia ucciso perché era uno scritto-
re. Ne sono convinto», questo è il convincimento di Wiesel®. Il
tonfo desolante 1’ 11 Aprile in Corso Umberto I, per noi tutti è il
silenzio, la pagina bianca più opprimente; lo stesso Levi sembra
convalidare Wiesel, quando poco più avanti, parlando dell’assen-
za di lucidità nell’opera poetica del salisburghese Georg Trakl e
soprattutto di Paul Celan, gettatosi nella Senna nell’ Aprile del 1970,
considerava: «Il loro comune destino fa pensare all’oscurità della
loro poetica come ad un pre—uccidersi, a un non - voler - essere, 3
una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento»
Anche per se stesso allora ci sarebbe potuta dunque essere una
medesima impossibilità di confrontarsi ulteriormente con l’oscu-
rità e il silenzio. Attraverso modi diversi si sarebbero riprodotti
98

esiti medesimi. La difficoltà di comunicare, che si accompagnava


al senso di isolamento in cui si trovarono sovente gli scampati,
potrebbe essere intesa quale espressione di un non-voler-essere”
Il suicidio in diretta relazione con lo scrivere dunque, giacché la
sopravvivenza stessa in certi momenti è apparsa aggrappata alla
scrittura. Questo mi sembra, e sempre che le vie misteriose della
scrittura possano motivare qualcosa.
Vorrei richiamare l’attenzione su una poesia di Levi intitolata
Pio (18 maggio 1984) tratta dalla raccolta Ad ora incerta :

Pio bove un corno. Pio per costrizione,


Pio contro voglia, pio contro natura,
Pio per arcadia, pio per eufemismo.
Ci vuole un bel coraggio a dirmi pio
E a dedicarmi perfino un sonetto.
Pio sarà Lei, professore,
Dotto in greco e latino, Premio Nobel, che
Batte alle chiuse imposte coi ramicelli di fiori
In mancanza di meglio
Mentre io m’inchino al giogo, pensi quanto contento.
Fosse stato presente quando m’han reso pio
Le sarebbe passata la voglia di fare versi
E a mezzogiorno di mangiare il lesso.
O pensa che io non veda, qui sul prato,
Il mio fratello intero, erto, collerico,
Che con un solo colpo delle reni
Insemina la mia sorella vacca?
Oy gevàlt! Inaudita violenza
La violenza di farmi nonviolento”.

AI di là della godibilissima e scherzosa rivisitazione carducciana,


apparentemente innocente, ci si avvede di un senso allegorico e di
un mashal, di un significato morale che spira nel silenzio di questi
versi, riconducibile più che al ricordo alla Memoria, al risveglio
anamnestico di qualcosa di familiare: il Talmud «la miglior merce
della vita» - e lo stesso Levi ricordò a Tullio Regge come in esso ci
fosse tutto. Orbene, nel Talmud, nell'interrogarsi sulla presenza
del male, e spiegare per quale motivo vengono inflitte sofferenze
agli uomini viene istituito un paragone che ricrea la situazione del
59

«pio bove» leviano: di un padrone di casa che aveva due vacche,


una forte e l’altra debole. Ora ci si chiede: A quale si deve mettere
il giogo? Certamente a quella forte. Nella stessa maniera Dio si
comporta con il giusto (Gen. R. XXXII, 3).
Il ricorso al modello aggadico non ci fa sfuggire le fortissime
implicazioni, la fitta tessitura concettuale e allegorica riferita alla
condizione ebraica. La focalizzazione interna tradisce la
medesimazione con il bue che rifiuta la agedà, «il legamento» (il
riferimento è al sacrificio di Isacco), la prova del giogo, l'essere
un «pio bove». Se pio lo è, se lo è stato (il termine “pio” potrebbe
essere sostituito con il vocabolo ebraico hassid), lo è stato non
senza proteste, lo è stato «per costrizione», «contro voglia», «con-
tro natura» ecc. E si torna al discorso che è la vita che fa l’ebreo, è
la vita, sembra aggiungere Levi, che fa il «pio bove», che costrui-
rebbe l’uomo giusto. Levi però rifiuta questo gioco impenetrabile,
questa logica poco chiara: quante volte egli ha energicamente as-
serito che il sopravvissuto è un privilegiato e che a salvarsi ad
Auschwitz non erano stati i migliori... Oy gevalt?! grida in yiddish,
ed è una protesta con il linguaggio dei «sommersi», di coloro che
hanno raggiunto il fondo: «Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone,
non è tornato per raccontare, o è tornato muto [...] I sommersi,
anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato
[...] Parliamo noi in loro vece, per delega». Ora non si può dire
se Levi sia arrivato con il linguaggio sin dove si poteva comunica-
re Auschwitz, ma senz'altro sin dove egli poteva arrivare. Credo
che ribellarsi alla violenza dell'inintelligibile, a questa disperazio-
ne della scrittura, costituisca la grandezza autentica della persona-
lità umana di Primo Levi scrittore.
Egli si mostra tutt'altro che docile nell’inchinarsi a quel giogo,
per essere condotto per chissà quale Giustizia al mattatoio come
animale da macello. La protesta è per l’assurda elezione ad essere
un uomo giusto, pio malgré lui; protesta per l'impossibilità di es-
sere uomo come tutti gli altri, né buono, né cattivo, né pio né em-
pio. Un uomo e basta. Levi rifiutò recisamente la sofferenza come
segno di Dio, quel «tremendo privilegio» della «sua generazione e
del suo popolo», che poteva apparire come masochismo, eccessi-
100

va rimaneva la sproporzione tra privilegio e risultato.


Il Talmud dice ancora: «Kol she - enò be - hester panim enò
mehem, chiunque non è nella condizione del nascondimento di
Dio, chiunque non è testimone del silenzio, non fa parte del popo-
lo di Israele». (7b, Haghigàh Sa)”. Ma come un Giobbe soprav-
vissuto ad Auschwitz, peraltro indicato dallo scrittore nella perso-
nale antologia La ricerca delle radici quale simbolo principe della
sofferenza ingiusta, «la cui storia splendida e atroce racchiude in
sé la domanda di tutti i tempi», Primo Levi non accetta la morte
degli innocenti né l'epilogo rasserenante e provvidenziale di un’im-
possibile restituzione, per protestare con la scrittura contro l’agedà,
il silenzio nella prova soggiogante.
Certamente si è detto della fierezza dell’essere ebreo, certa-
mente si è detto dell’arte di essere ebreo, e ancora dell’onore di
essere ebreo, e con piena consapevolezza si è discusso della diffi-
coltà di essere ebreo, di sopportare le varie prove, di esserne de-
gno, di riuscire ad accettarle. Quanto è difficile essere ebreo altret-
tanto lo è essere scrittore ebreo. Ma è qualcosa di difficile anche
per chi vorrebbe semplicemente parlarne. Con ogni probabilità
l’aspirante proselito della narrazione talmudica, di cui parlavo al-
l’inizio, nella sua leggerezza non sarebbe stato consapevole di tut-
to questo, di sicuro non come l'ebreo, e anche scrittore, Primo Levi.

Note

' P. Levi, L’altrui mestiere, Torino, Einaudi, 1985, p. SI.


GI SCHOPENHAUER, Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, Milano,
Adelphi, 1993, p. 17.
Ivi, pp. 17-18.
* Si tratta di due affermazioni che si possono ritrovare nel volume a cura
di M. BeLpoLITI. Primo Levi. Conversazioni e interviste (1963 — 1987),Tori-
no, Einaudi, 1997, pp. 172-202.
° E. WieseL, Tutti i fiumi vanno al mare. Memorie. Milano, Bompiani,
1990 3pAlo
° Ivi, pp. 23-24.
” Molto bene Meghnagi precisava l’atteggiamento dello scrittore torine-
se: «[...] non possiamo sfuggire al bisogno di dare un senso a quel grido, [di
Giobbe] senza con ciò tradire la memoria dell’offesa. Arrendersi è già votar-
101

si al nihilismo, nel quale intravvede i germi stessi della negazione di ogni


principio di responsabilità umana e morale», D. MEGHNAGI, Primo Levi e la
scrittura, «Lettera internazionale», n. 51/52, (Gennaio - Giugno 1997), ma
Leuogi risale al 1989.
* P.Levi, / sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 82.
° D. Bipussa, Verbi, «Riga», n. 13 (1997), numero monografico dedicato
a Primo Levi, p. 506.
'° Articolo apparso in «The New Republic», 21 marzo 1988, adesso in
Primo Levi: un'antologia della critica, a cura di E. FERRERO, Torino, Einaudi,
o: DALSSÌ
' E. WiesEL, Un ebreo oggi, Brescia, Morcelliana, 1985, p.2
SA questo proposito Alberto Cavaglion, uno dei più attenti ed SAI ati
studiosi di Levi, ottimamente mette in rilievo alcuni caratteri fondamentali
della scrittura del silenzio: «Sul rarefarsie intensificarsi delle notazioni bio-
grafiche, su questo persistente pudore di fronte al sommo bene come al som-
mo male si dovrebbe indagare di più, poiché qui probabilmente s’annida uno
dei segreti della lingua oscura e cifrata di Se questo è un uomo [...]». Cavaglion
ha osservato come la stessa «labilità anagrafica dei personaggi di Levi» fosse
in relazione «al grado di umanità - o disumanità - percepibile nella ‘figura’
presa in esame e giudicata. Tanto più è moralmente connotata, in senso posi-
tivo o negativo, tanto meno tale figura tenderà ad assumere un volto, un nome,
insomma ad avere un'identità precisa. L’anonimato è un attributo dell’indi-
cibile, nel bene come nel male [...] Sul persistente ritrarsi davanti all’ indici-
bile, su questa che potremmo definire poetica del silenzio si potrebbero fare,
dal primo libro di Levi, infinite esemplificazioni. Che, per esempio, manchi
una CESCHIZIONE diretta e crudamente esplicita delle camere a gas e dei
crematori è un altro dettaglio che genera inquietudine e non è stato ancora,
fino ad oggi, sufficientemente sottolineato né tanto meno spiegato. Non man-
cano, in Se questo è un uomo, scene raccapriccianti (per esempio l'agonia di
Sòmogyi), ma sono scene che si arrestano sempre su una sogliae oltre non
vanno. Vi sono allusioni più o meno velate a ciò che può accadere ai compa-
gni di prigionia, ma la descrizione effettiva si ferma alle soglie dell’abominio,
nel capitolo ‘Ottobre 1944’, dove si esamina il meccanismo perverso della
‘selezione’. Davanti all’enormità della tragedia Levi-scrittore preferisce ta-
cere (non così Levi-saggista o testimone, almeno a giudicare dal suo impe-
gno successivo e dalle molte e più recenti prese di posizione contro il
revisionismo storiografico)», A. CAVAGLION, // termitaio. Primo Levi e «Se
questo è un uomo», in M. CARLÀ, L. DE ANGELIS, L'ebraismo nella letteratu-
ra italiana del Novecento, Palermo, Palumbo, 1995, pp. 108-109.
“Db Levi, L’altrui mestiere, cit, p. 50.
Vi pied:
! G. STEINER, Linguaggio e silenzio, Milano, Rizzoli, 1972, p. 59. Steiner
102

in una recensione all’edizione inglese de / sommersi e i salvati (in «The Sunday


Times», 10 Aprile 1988, ora anche in «Riga», cit., pp. 152 - 154) specificava
il convincimento dello scrittore: «la nuova marea montante di libri, film e
lavori teatrali sull’Olocausto non ne ha comunicato l'essenza, che ha
banalizzato o ambiguamente appiattito ciò che si trova al limite del dicibile,
ma che deve essere colto se si vuole che la storia umana abbia il diritto di
proseguire».
'© J. SemPRUN - E. WIESEL, Tacere è impossibile. Dialogo sull’Olocausto,
Parma, Guanda, 1996, p. 20.
” D. MEGHNAGI, 0p. cit., p. 55.
'* E. WieseL, Un ebreo oggi , cit., pp. 193 - 228.
'° E KAUFMANN, La nascita di un discorso letterario ebraico intorno alla
Shoà in Francia ed in Israele: parallelismi e dissomiglianze, «Pardès», Pen-
sare Auschwitz, Milano, Thàlassa De Paz, 1995, p. 77.
°° G. STEINER, 0p. cit., p. 57.
2! D’altronde anche Jonas nella sua risposta filosofica ad Auschwitz ri-
badiva questo, mettendo anch’egli le mani avanti: «Tutto ciò è un balbettio.
Ma anche le incomparabili parole dei grandi vati e uomini di fede, dei profeti
e dei salmisti, erano un balbettio di fronte al mistero divino [...] Di queste
mie povere parole io posso solo sperare, che non siano del tutto estranee a ciò
che dice Goethe nel Verméichmis alt-persischen Glauben : ‘e la lode che a
Dio si balbetta /lassù in cerchi su cerchi sta riunita», H. Jonas, /l concetto di
Dio dopo Auschwitz, Genova, Il Melangolo, 1993, pp. 39-40.
22) P. Levi, / sommersi e i salvati, cit., p. 76.
9)
Si veda il brevissimo articolo di Levi, Kafka: una misteriosa sensibili-
Sd

tà, «Il Tempo», 3 Luglio 1983, ora in «Riga», cit., p. 28. Sul sensus propheticus
e sulle premonizioni kafkiane cfr. G. STEINER, op. cit., pp. 68, 143. Mentre
Meghnagi nell’articolo succitato scrive: «Kafka parla prima dell’avvento del
nazismo e la sua scrittura, quando si confronta con gli abissi dell’orrore, non
può che essere evocativa, oscura mai chiara, perché nemmeno a lui era dato
percepire con chiarezza da dove sgorgava e prendeva corpo la sua parola.
[...] storicamente, la scrittura di Kafka paria sull’orlo di un abisso e nel fon-
do di quell’abisso c'è Auschwitz. Kafka prefigura nella condizione del sig.
K. il destino a cui sono esposti gli ebrei, e ogni uomo, in una situazione
limite. Nella sua febbrilità lo scrittore praghese poteva intuirlo, ma non aver-
lo chiaro, poteva dirlo senza saperlo, alla maniera degli animali da preda,
quando istintivamente sentono avvicinarsi il pericolo, ma non ne sanno l’ori-
gine», D. MEGHNAGI, op. cit., p. 55.
°° G. STEINER, Culture et barbarie , entretien avec Antoine Spire, «La
Nouvelle Revue Frangaise», Juin 1997, n. 533, p. 61.
° P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1989, PA2SI
°° «Dieu qui se voile la face n’est pas, pensons - nous, une abstraction de
103
théologien ni une image de poéte. C’est l’heure où l’individu juste ne trouve
aucun recours extérieur, où aucune institution ne le protége, où la consolation
de la présence divine dans le sentiment religieux enfantin se refuse elle aussi,
où l’individu ne peut triompher que dans sa conscience, c’est - à dire
nécessairement dans la souffrance. Sens spécifiquement juif de la souffrance
qui ne prend à aucun moment la valeur d’une expiation mystique pour les
péchés du monde. La position des victimes dans un mond en désordre, c’est-
à - dire dans un monde où le bien n’arrive pas à triompher, est souffrance.
Elle révèle un Dieu qui, renongantà toute manifestation secourable, en appelle
à la pleine maturité de l'homme responsable intégralement», E. Lévinas, Dif-
ficile Liberté, Paris, Albin Michel, 1990, p. 203.
2? P.Levi, / sommersi e i salvati, cit., p. 66.
Se) Quinzio, Le radici ebraiche del moderno, Milano, Adelphi, 1990,
pp. 155-163.
°° E. WieseL, Tutti ifiumi vanno al mare, cit., p. 168.
°° P. HANDKE, // peso del mondo, Milano, Guanda, 1981, p. 67.
Era la risposta, che è ovviamente una domanda, che Wiesel ricevette
da Rabbi Menahem - Mendel - Schneersohn di Lubavitch («Dopo Auschwitz,
come si può non credere in Dio»). Elie spiega le diversità che vi sono tra lui
ed il suo amico Primo, motivando i fondamenti del suo bisogno di credere
ancora: «si rifiuta di capire come il suo ex compagno di Buna possa conti-
nuare a definirsi credente. Perché lui, Primo, non lo è. Non vuole esserlo. Ha
visto troppe sofferenze umane (le stesse) per rompere con il passato e rifiuta-
re l’eredità di quanti le hanno subite». E ancora «avevo bisogno di Dio, Pri-
mo no» almeno così poté sembrare anche a Levi, ma le conclusioni cui giun-
gono i compagni di Buna sono pressoché identiche. Wiesel: «Auschwitz non
è concepibile né con Dio né senza Dio. Forse un giorno capirò il ruolo del-
l’uomo nel mistero che Auschwitz rappresenta, ma il ruolo di Dio non lo
capirò mai», E. WieseL, Tutti i fiumi vanno al mare, cit. pp. 100, 102. Per
quanto riguarda Levi, Ferdinando Camon ricorda come durante la revisione
del dattiloscritto vicino all’affermazione «C'è Auschwitz, quindi non può
esserci Dio» significativamente avesse integrato con la matita in questo modo:
«Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo», F. CAMON,
SITE con Primo Levi ,Parma, Guanda, 1997, p. 72.
Ùst LÉVvINAS, op. cit., p. 205.
è Il rabbino Carucci Viterbi in un »illuminante riflessione ha sviluppato
questo tema, mostrandone alcuni aspetti vitali e fondamentali: «/{{em vuol
dire muto, E/ vuol dire divinità. ‘Chi è come te tra i silenziosi che vedi l’offe-
sa e la sofferenza del popolo e taci non facendo niente” [...] Ma il termine
illem può essere letto anche alim: forte, resistente, prepotente. Dio allora
diventa Colui che si trattiene, Colui che fa violenza a Se stesso per non reagi-
re, Colui che non si affretta a punire [...] Dio non punisce immediatamente
104

perché si trattiene, forse non ha bisogno neanche di trattenersi perché non


viene intaccato dall’azione del malvagio: è dungue un muto che non deve
neanche dominare la voce perché non esca, essa non esce naturalmente. Il
mutismo e il silenzio di Dio sono dunque bifronti, in qualche modo ossimorici:
c’è l’apparente indifferenza alla sofferenza umana e c’è il trattenersi dal pu-
nire platealmente il malvagio. [...] Nel caso del malvagio la reazione di Dio
quindi non esiste, è un vero e proprio mutismo; nel caso del giusto è una
forma di comunicazione silenziosa. [...] la voce è ‘una sottile voce di silen-
zio” e Dio è nascosto; quale che sia il motivo, è nascosto e fa parte della
nostra identità l’esperienza del nascondimento di Dio», B. CARUCCI VITERBI,
Una sottile voce di silenzio, in Chi è come te fra i muti!, Milano, Garzanti,
0: pp. 75-84.
VI SEMPRUN - E. WIESEL, op. cit., p. 21.
° P. Levi, L’altrui mestiere, cit., PASSE
° Sugli aspetti soteriologici della scrittura e dello stretto rapporto di scrit-
tura in quanto salvazione-sopravvivenza si è soffermato De VOLDER in Scri-
vere e sopravvivere: «Non è impossibile che Primo Levi abbia vissuto in
modo molto concreto i limiti della comprensione umana verso la fine della
sua vita, come avvenne ad Auschwitz anni prima. Lì, il desiderio di racconta-
re l'aveva mantenuto in vita. Quasi quarant'anni dopo, aveva detto e ripetuto
tutto, gli mancava la dimensione del capire. Anche la stesura de / sommersi e
i salvati, caratterizzata da una estrema lucidità, non gli è bastata. Neppure lo
scrivere lucido gli aveva fornito la soddisfazione del capire. Quest’esperien-
za concorda in qualche modo con quella di quell’altro reduce Jean Améry, il
quale scrive che “chi raggiunge la soglia [...] a un certo puntoè costretto a
riconoscere di non capire più il mondo”. Jean Améry si suicidò nel 1978»,J
DE SO Scrivere e sopravvivere, «La Rassegna Mensile di Israel», vol.
LVI,N. - 3, Maggio - Dicembre 1989, pp. 233-243.
"poTian Ad ora incerta, Milano, Garzanti, 1984, p. 77.
* P. Levi, / sommersi e i salvati, cit., p. 28.
®° Questo riferimento talmudicol’ho incontrato nella letturadi B. CARUCCI
VITERBI, 0p. cif., p. 82.
MARINA BIANCHI

Il lavoro di riparazione
Il messaggio di Primo Levi e il nostro compito, oggi

Questo breve contributo non riguarda l'opera letteraria, ma il


messaggio contenuto nella vita stessa di Primo Levi, nel suo desti-
no di sopravvissuto combattivo ed operoso, che a sessantotto anni
sembra soccombere ad un carico arretrato e inestinto di traumi e
distruzione. Che cosa impariamo dalla sua morte? È successo qual-
cosa «a scoppio ritardato», come testimoniano gli amici che hanno
condiviso l'esperienza delle persecuzioni e poi del dopoguerra. Così
scrive ad esempio Mario Rigoni Stern il 12 aprile 1987: «a farti
chiudere gli occhi su questo mondo indifferente e venefico è stata
ia stanchezza di quella lontana stagione del 1945».
Tullia Levi, Presidente dell'Unione delle Comunità Israelitiche:

Anche nella sua ultima opera / sommersi e i salvati Primo Levi ha elevato
un tributo a chi non era riuscito a sopravvivere, ha reso omaggio ai veri mar-
tiri, a coloro che non sono sopravvissuti, sommersi dall'orrore. Ma chi ha
vissuto l'orrore dei campi si porta dietro quel ricordo che è come una malat-
tia. È successo purtroppo a tanti prima di lui.

Infine Natalia Ginzburg: «Doveva essere veramente disperato.


Il ricordo dei campi di sterminio può portare alla disperazione»?.
Dopo la guerra, dopo i bombardamenti, si avvia la «ricostruzio-
ne» delle città, delle strade, delle ferrovie, dell'economia. Ma oltre
alle morti e alle distruzioni che rientrano nella «normale violenza»
del gioco della guerra, a cui si aggiunge la novità storica del nume-
ro delle vittime civili, c'è stata, nei campi di sterminio, la distru-
zione essenziale della dignità umana. Come ricostruire, su quali
basi? Nell'immediato dopoguerra, la ricostruzione in Italia ha for-
se rimarginato anche alcune ferite profonde della distruzione uma-
106

na, come nel caso di Levi e di tutti quei sopravvissuti che si sono
rimmessi nel flusso delle cose, della rinascita, dell'azione, sempre
portando e cercando di condividere testimonianze e riflessione.
Da parte loro un lavoro di rielaborazione non è certo mancato; ma
quanti deportati e scampati, uomini e donne, adulti e bambini o
ragazzi, sono tornati senza parole in fabbrica, nei paesi, nelle fa-
miglie. I figli ora ci dicono: «non ne vuole mai parlare... Da picco-
li, non ha mai voluto dirci niente...». C'è stata, c'è ancora, la solitu-
dine dei salvati, sia di quelli che tacciono, che di quelli che hanno
preso la parola. Perché dev'essere pesante doversi sempre assume-
re l'iniziativa della verità, e fare il primo passo verso gli altri. Quanti
di noi hanno chiesto, e continuano a chiedere: «Per favore, diteci
tutto, voi che ci siete passati. Lo sappiamo che per voi è duro e
difficile ritornare a quei tempi, ma fatelo per noi, dobbiamo sape-
re»?
È mancato un lavoro di riparazione sociale che non fosse sol-
tanto rituale (anche se questo continua ad avere la sua importanza,
guai se venisse a cadere), è mancato un apprendimento collettivo
attraverso il riconoscimento delle vittime.
Il lutto, perché sia efficace, non può essere soltanto individua-
le: abbiamo bisogno di persone intorno che partecipino, che sap-
piano essere presenti, che facciano da ponte da una realtà all'altra,
che creino delle possibilità di sopravvivenza, di ricordo, di conti-
nuità. Questo tipo di lutto collettivo, che può creare una fascia di
protezione intorno alle vittime, è stato e rimane molto sporadico
ed occasionale: è un'occasione mancata per tutti di riparazione. La
riparazione è una capacità civile che si crea, si apprende, ed è in
rapporto diretto con la capacità di lutto.
È vero che la scrittura è stata per anni una forma di autoterapia,
e continua ad esserlo. In Germania, ad esempio, continuano ad
uscire opere prime, soprattutto di donne, che soltanto negli anni
più recenti sono riuscite a portare alla luce le loro memorie sui
campi di sterminio. La riparazione però è un lavoro che tocca alla
società, alla comunità locale e internazionale, ai contemporanei e
ai posteri delle vittime: fa parte delle nostre responsabilità. Nel
secondo dopoguerra sono stati fatti ad esempio in alcuni Stati in-
107
terventi di tipo legale e finanziario, di risarcimento alle vittime che
anche su questo piano rimangono ampiamente in credito. Vi sono
inoltre iniziative individuali di privati, di eredi di beni acquistati a
prezzi molto bassi da ebrei in fuga: questi eredi rifiutano oggi ciò
che i genitori hanno ottenuto grazie alle ingiustizie e alle persecu-
zioni, e si mettono alla ricerca degli antichi proprietari, o dei loro
figli, perché vogliono riparare. Questa è una forma di riparazione
molto importante, anche sul piano simbolico, della quale si scrive
e si riporta molto poco!
Da un paio d'anni mi sto documentando sulla condizione di
profugo e di rifugiato, sui diritti umani, sugli interventi di «ripara-
zione» successivi alle guerre, alle guerre civili, per il mio lavoro di
insegnamento. Leggendo dati e materiali provenienti soprattutto
dall'ONU, da AMNESTY INTERNATIONAL e dalle altre orga-
nizzazioni peridiritti umani, pensando ai campi di concentramen-
to inJugoslavia, ci si rende conto della vastità della violazione dei
diritti umani nel mondo, della diffusione della pratica della tortura
anche in Europa e dell'enorme compito di riparazione a cui è chia-
mata la nostra generazione, e che aspetta la successiva. Devono
essere Impediti la solitudine e l'abbandono delle vittime: ora che -
diversamente dagli anni Quaranta-Cinquanta - le tecniche
terapeutiche specifiche per chi ha subito prigionia, isolamento, tor-
ture, traumi sono note e sviluppate, possiamo far sì che molte vit-
time, diversamente da Primo Levi, possano essere efficacemente
aiutate. Con i mezzi scientifici maturati attraverso tante sofferen-
ze, possiamo intervenire e aiutare, qui ed ora, i bambini
traumatizzati del Ruanda, le donne violentate nella ex-Jugoslavia,
i rifugiati e le vittime delle minoranze perseguitate.
Ma la mobilitazione e la preparazione professionale degli ad-
detti ai lavori non sono sufficienti, è importante produrre tra inse-
gnanti, operatori sociali, medici, ricercatori, una cultura diffusa di
comprensione e attenzione, che consenta di aiutare in modo cor-
retto e rispettoso, sapendo che non tutte le vittime sono riconosci-
bili o identificabili.
La prevenzione di guerre e genocidi è inoltre l'obiettivo senza il
quale la sola riparazione resta un assurdo.
108

L'obiettivo e il mezzo si chiama pace, cultura della pace,


dell'interdipendenza. È molto semplice: tutto ciò che sta succe-
dendo agli altri, ha un effetto su ciascuno di noi, e ogni nostra
azione presente prepara il nostro futuro.
A questo proposito, vorrei concludere ricordando l'apporto cre-
ativo e il pensiero di Alexander Langer, che ci ha lasciato tanti
insegnamenti, indicazioni, strumenti d'azione per far fronte al no-
stro lavoro di riparazione, e alla costruzione della pace.

Note

' M. RigoNI STERN, La medusa che ci ha impietriti, «La Stampa», 14.4.1987,


citato in: Comune di Trento, Servizio Biblioteca, «Notiziario», Omaggio a
Primo Levi, Numero speciale Maggio 1997, Gli amici lo ricordano.
? G. D'avanzo, Ginzburg: l'ha ucciso il ricordo, «La Repubblica», 12-
13.4.1987, citato in: Comune di Trento, «Notiziario»,(contiene anche la cita-
zione riportata di Tullia Zevi).
109

PATRICK PAULETTO

«...E sceglierai la vita...»

Adorno come esempio d’intelligenza separata dal cuo-


re. Alta, però la separazione decide del ruolo, 1° as-
senza del cuore riduce il grado. Troppo poca unione
di questi due, nel mondo pensante attuale. L’intelli-
genza isolata, quando non genera inferni, può al mas-
simo essere capace di analizzarli; non può innalzare
una barriera di frescura contro il dolore. Possiamo
pre vedere, se il fuoco non ci distruggerà fra poco,
secoli di analisi senza fine, e sempre più raffinate e
interessanti, dell’inferno: ma un unguento contro le
ustioni lo supplicheremo inutilmente. (G.CERONETTI,
Il silenzio del corpo)

Intelligenza e cuore

Il titolo recita: «...E sceglierai la vita...»!. «...E sceglierai la


vita...» è la seconda parte, una sorta di ipercomandamento, dei
testi delle mifsvot, i precetti che gli ebrei sono tenuti ad osservare
durante l’arco di tutta la loro esistenza. La grande quantità, la pre-
cisione, l’ossessiva descrizione di ciò che è lecito o è proibito,
nulla può di fronte a queste parole del tetragramma ineffabile «...E
sceglierai la vita...»; se, cioè, c'è una vita in pericolo, compresa la
tua, trasgredirai le mie leggi, e non incorrerai in alcuna punizione.
«...E sceglierai la vita...» è una frase che spesso ha popolato i
miei pensieri, immediatamente prima o immediatamente dopo, la
lettura degli ormai molti testi riguardanti la Shoah, o i fatti e l’epo-
ca storica che la concernono.
Primo Levi è stato per tutta la sua vita un ebreo laico, che al suo
ritorno dal campo di sterminio ebbe ad affermare:«se esiste
Auschwitz, non può esistere Dio». Eppure la sua scrittura è per-
meata di questo comandamento della Torah: scegliere la vita, per
raccontare, per denunciare quell’universo che aveva tentato di ri-
durlo al di sotto della propria soglia di uomo, per trasmettere agli
altri, ai giovani, le importanti scoperte e le dolorose rivelazioni
della realtà, così come essa gli si era manifestata nella storia, af-
110

finché essi potessero partire da queste ultime, per non permettere


più a nessuno di rendere quei fatti ancora possibili.
Primo Levi diede infatti una risposta di intelligenza laica a quel-
l'inferno. Vi è un breve passo in Se questo è un uomo dove poco
dopo una selezione, a causa della quale molti dei compagni della
baracca vennero mandati nella camera a gas, un ebreo, Kuhn, ri-
volge a Dio il suo ringraziamento per averlo preservato in vita, e
Levi dice:

Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco


che ha vent'anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e
guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più a niente? Non
sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è
accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun per-
dono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere del-
l’uomo di fare, potrà risanare mai più?
Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn?.

Moderno, ma non meno sofferente Giobbe, Levi si scontra a


viso aperto contro l’ineffabile, forte solo della sua lucidità e della
linfa vitale che gli proviene dall’intelligenza, e questa sarà anche
la strada che lo condurrà alla sopravvivenza al campo, e poi al
lavoro di scrittura e lotta contro la morte che lo animerà per tutta
l’esistenza. È questo, quello dell’intelligenza, uno dei caratteri più
riconoscibili della scrittura di Primo Levi.
L'analisi della scrittura primoleviana, delle sue peculiarità, del-
la sua importanza fondamentale nella tradizione letteraria europea
di questa seconda parte del secolo è stata compiuta esaustivamente
dalla rivista «Riga»3, curata da Marco Belpoliti. Dalla sua uscita
in numero monografico dedicato a Primo Levi, così consistente
per materiali, spunti critici e collaboratori, ognuno di noi che si
accinga a parlare di Levi deve tenerne presente alcune acquisizioni,
la più importante delle quali è sicuramente il riconoscimento di
Levi come scrittore, vero e proprio autore, e non più solo
riduttivamente come memorialista o testimone. Nel mio saggio su
«Riga», che ha per titolo Lo scrittore conosce le frontiere, ho cer-
cato di individuare le tappe «iniziatiche» del percorso che Levi
visse non solo biograficamente ma, quello che più mi importava,
ll

intellettualmente, dalla sua partenza dal campo di Fossoli fino alla


conclusione del suo romanzo creativo Se non ora quando?
Se in quel saggio ad essere messi in rilievo sono stati i «luoghi
letterari» attraverso i quali l’autore espresse tali «passaggi oltre la
soglia», questa mia relazione è rivolta ad individuare, seppure an-
cora in maniera embrionale, quei nodi concettuali e quelle elabo-
razioni teoriche che dovrebbero ridare, in sintesi, quello che si
chiamerebbe «il pensiero di Levi», una sorta di filosofia possibile
e deducibile dai suo lavoro scrittorio.
Questo lavoro «filosofico» è frutto, per l'appunto, della rispo-
sta intellettuale che il nostro autore, sin dal suo primo lavoro Se
questo è un uomo, si sforzò di intraprendere. Si tratta di un’elabo-
razione intellettuale in senso etico, e di dimensioni ed aperture
sull’esterno che abbracciano tutto il campo della cultura occiden-
tale. Questo suo lavoro tenta una sintesi storico-etica delle dina-
miche scatenatesi nei decenni centrali del Novecento, e prosegue
poi analizzando gli esiti che queste trasformazioni manifestarono
nei decenni della cosiddetta postmodernità, o epoca postindustriale.
Il punto centrale si colloca allora in quel filone di riflessioni
che hanno come tema il passaggio dal mondo pre-concentrazionario
a quello che lo segue. Esposto in forma embrionale nelle prime
narrazioni, questo scandaglio della metamorfosi avvenuta in seno
all’universo concentrazionario troverà spazi sempre più espliciti
ed articolati nei lavori giornalistici e saggistici, e soprattutto nel
libro Lilità ed altri racconti, e nelle raccolte di racconti Vizio di
forma e Storie naturali, e dedicherà molta attenzione ai cambia-
menti di paradigma avvenuti nei campi della bioetica, delle tecno-
logie al servizio della società, dei modi di rapportarsi nei confronti
dei figli e della politica. Primo Levi ha registrato acutamente, e da
buon scienziato umanista, in modo completo, quali siano stati i
caratteri scomparsi del mondo pre- Auschwitz, e quali siano stati i
loro sostituti, se ve ne siano stati, o se a sostituire gli stessi fossero
stati trovati solo dei furtivi surrogati. Nella descrizione che egli fa
dell’uomo, sin dai primi libri, si nota un interesse quasi da
antropologo per quanto riguarda gli aspetti esteriori (somatici, igie-
nici, estetici) così come quelli più ristrettamente psicologici, le
112

reazioni minime e quelle condizionate dall’ambiente in cui sono


immersi.
Se ne ricava un’importante ricognizione di quello che rimane
di un uomo al momento in cui gli vengano sottratti i punti saldi
della propria identità: la cultura, il lavoro, i referenti affettivi.
È da questo momento in poi che lo sguardo di Levi si volge più
interessato, da quel momento cioè in cui l’uomo al «grado zero» (e
quindi tutti noi se ben ci pensiamo, se tentassimo di spogliarci
delle nostre sovrastrutture) è costretto a riconnotare, a sperimenta-
re la realtà che lo circonda alla ricerca, questa volta da condurre
individualmente, di una propria enciclopedia e scala di valori.
Questo induce gli uomini, paradossalmente, alla scoperta delle
categorie pure di libertà e cattività, all’assenza assoluta di possibi-
lità di scegliere la propria quotidianità. Si scoprono così le ambi-
guità nei rapporti tra gli uomini, l'impossibilità di trarne dei giudi-
zi definitivi, il manifestarsi della «zona grigia», intervallo disuma-
no tra l’esistere e il sopravvivere.
A compiere la storia non rimangono allora che le scelte di ca-
rattere individuale, quelle che, forti di un bagaglio personale di
valori e scoperte, possono al di là delle ideologie, delle deformazioni
della cultura in cui sono immerse, dei condizionamenti dettati da
una certa frenesia «mediatica», tentare analisi solide e funzionali.
Questa posizione laica, lucida, coerentemente alla ricerca di
un'etica individuale, e per questo correlata alla storia nella quale
si vive, non era certo una posizione comune nel tempo in cui Levi
cominciò a renderla manifesta nei suoi scritti. Conosciamo bene
quale fosse il fermento culturale post-bellico, quanta e quale fosse
la virulenza dello scontro ideologico e conseguentemente politico
che lo animava, e in questo sono forse da ricercarsi le ragioni di
una certa (forse desiderata) disattenzione per la lettura «filosofi-
ca» del lavoro primoleviano, sostituita da un appiattimento sui ca-
ratteri memorialistici e testimoniali che, seppure non ne abbassas-
sero il grado, non ne ridavano in senso completo ed onesto lo sfor-
zo e | pregi che il nostro autore decise di infondervi. Paradossal-
mente, oggi, il pensiero di Levi si presenta di estremo interesse ed
attualità, dal momento che proprio quelle ideologie (anche se ca-
113
Cd

muffate da filosofie) si sono dimostrate impotenti a ricollocare


quei valori e quei percorsi saltati con l'avvento dei fascismi e dello
sterminio programmato.
Senza dubbio oggi, assieme all’importanza del suo lavoro di
narrazione e documentazione di quelle che sono state le vicende
della SA0ah, possiamo parlare di Primo Levi come di quell’autore
che sin dal primo dopoguerra ne denunciò gli orrori e si inserì nel
dibattito europeo riguardo la nuova era che si stava aprendo. Un
autore di valore non minore a quello attribuito a Sartre ed a molti
altri suoi contemporanei, anche se meno esplicito, meno attento
all’esposizione sistematica ed articolata delle proprie riflessioni.
Primo Levi però aveva scelto la vita, aveva scelto cioè di rico-
noscerla in tutti gli aspetti in cui essa si manifestava, compreso
quello biologico, incluso quello della realtà e concretezza del la-
voro industriale. Se tutti noi fossimo degli scrittori di tale levatura
«per secondo mestiere», come Levi spesso amava definirsi, non
:redo che oggi ci sarebbe alcun dibattito riguardo la fine della let-
teratura, del pensiero o della filosofia, e permettetemi, neppure
riguardo un possibile superamento della dimensione quotidiana e
sensibile dell’uomo, che alcuni proiettano in un futuro molto pres-
simo nel numerico e nel post-umano.
Scrittore della crisi, o meglio della metamorfosi della cultura
causata dall’avvento dell’epoca dei fascismi, in Levi si rintraccia-
no anche altre istanze che dovrebbero essere considerate con più
attenzione. A chi ce lo descrivesse come intellettuale solitario e
schivo, si deve obbiettare che Levi non mancò mai di far pervenire
la sua voce anche sui temi dell’attualità italiana e internazionale, e
tanto più quella riguardante Israele, con la quale nei momenti di
particolare allarme seppe essere lucidamente critico e al di sopra
delle parti. AI ruolo dell’intellettuale, se per gli uomini in generale
Levi prevedeva una responsabilizzazione individuale e coraggio-
sa, egli attribuiva questi obblighi in maniera ancora più esplicita,
nel senso di un impegno a scandagliare i fatti in tutte le loro oscu-
rità, in tutte le loro sfaccettature, per ridarne poi un quadro sinteti-
co e comprensibile al pubblico.
Il suo impegno per una lingua piana ed essenziale non era certo
114

dovuto ad una sua carenza di stile o sperimentalismi, prova ne


siano i suoi commenti all’opera di Quenau, i suoi rapporti con
Calvino, il suo amore per la linguistica, ma ad una decisione che
ha il sapore politico di rendere comprensibili al maggior numero
di persone quelle riflessioni che accrescono il bagaglio esperienziale
e critico della società. Questa in nome di un'idea di intellettuale
engagé, ma indipendente, consapevole del ruolo che sta svolgen-
do e dell’importanza e influenza del proprio lavoro sulle dinami-
che della società e quindi della storia.
Levi si pose anche come un conservatore della tradizione. Un
intellettuale cioè che si mette in relazione alla cultura, anche qui in
controtendenza per la sua epoca, come curioso indagatore e poi
trasmettitore, sempre collocando in una prospettiva critica le pro-
prie acquisizioni. Vi sono, in alcuni libri come // sistema periodi-
co, La chiave a stella, solo per citarne alcuni, delle importanti le-
zioni di recupero e riflessione critica sulla tradizione, e non solo
quella ebraica, in completa assenza di quell’ermetismo e di
quell’erudizione fastidiosa tipica dei filologi, ma con il semplice
intento di infondere nei lettori, che per Levi sono sempre stati il
grande pubblico, lo stimolo a ricercare e recuperare le fondamenta
della propria identità, che egli considerava basate nella tradizione,
sia linguistica, sia rituale, sia familiare.
Sommessamente, ma con la forza di chi sceglie nella solitudine
di dedicare la propria vita intellettuale ad un progetto privo di com-
promessi (anche perché al di fuori dell’attività quotidiana, delle
necessità della vita comune, non dimentichiamo che Levi fu nella
sua vita lavorativa prima di tutto dirigente di un'industria chimi-
ca), si può senza alcuna esitazione proporre per Levi l’appellativo
di illuminista, nel senso che proprio Kant nella sua Was ist die
Aufklcirung dava del termine, e cioè di colui che aiuta l’umanità ad
uscire dalle tenebre dell’ignoranza e del fanatismo bieco e stolto.
Primo Levi è quindi uno scrittore che ha dato una risposta di intel-
ligenza all’inferno anarchico (anche nella sua codificazione nazista,
ipocrita elencazione di norme, demoniaca applicazione della vio-
lenza), razionale, ma non razionalistica, che ha scelto la dura via
di rappresentare le verità anche nelle loro forme più turpi, non
biiS

mancando di porre in evidenza come la verità, l’emeth cabalistica,


possa essere ibrida e pregna di ambiguità, lasciando ai singoli il
giudizio finale, sempre da lui richiesto.
Per comprendere meglio cosa si deve intendere per «risposta
dell’intelligenza» all’inferno, si può esaminare uno straordinario
libro come quello di Etty Hillesum, Diario 1941-1943, pubblicato
per la prima volta in Olanda solo nel 1981, e in Italia nel 1985, per
i tipi di Adelphi, dopo che dal campo di annientamento di Auschwitz
dove Etty era morta nel novembre 1943 era stato fortunosamente
preservato, e ricostruito con amore e dedizione dagli amici. Si trat-
ta di una risposta «di cuore» a quello stesso inferno che l’anno
seguente Levi sperimenterà. Una risposta di cuore nel senso di una
ricerca volta verso l’interno, spiritualmente tesa alla forza che pro-
viene dall’amore e dalla mistica. Scrive Sergio Quinzio nella quar-
ta di copertina: «Se Etty insiste a ripeterci che tutto è bello, è per-
ché un’ebraica volontà di vivere tutto fino in fondo vuole questo
per lei. Un rivestimento ideale, poetico, ricopre in lei la solida,
l’irriducibile, l’ intima forza ebraica». Perfettamente cosciente del-
l’inferno, dell’aberrazione dell'umanità che le si sta manifestan-
do, Etty accetta, con la stessa intensità di Levi, il compito di non
delegare la propria sopravvivenza interiore alla ferocia nazista, e
tenta una risposta, una risposta che sarà questa volta di «cuore».
Di origini familiari più religiose di quelle di Levi, Etty ha consue-
tudine di confrontarsi con lo spirituale, con l’ineffabile, con Dio
insomma.
Etty era stata, negli anni precedenti le persecuzioni ebraiche in
Olanda, già coinvolta in esperienze profondamente misticheggianti,
anche se sempre legate al suo interesse per la poesia di Rilke ed
Holderlin, e peri movimenti «spiritualistici» che avevano caratte-
rizzato l’epoca della sua giovinezza. Il diario di Etty è la testimo-
nianza di un’altra possibile risposta alla Shoah, fatta attraverso il
dono di sé e del proprio lavoro agli altri. Le vicende e le differenti
reazioni di Etty e di Primo Levi non devono sembrare però impos-
sibili da confrontare. Si tratta in entrambi i casi di una stessa accet-
tazione del reale, di una stessa, profonda, inesauribile ricerca di
verità, l’una appunto attraverso gli occhi dell’ intelligenza e l’altra
116

attraverso l’unguento e la forza del cuore. Si tratta insomma di una


stessa siepe, eretta a difesa del nucleo essenziale, irrinunciabile
del proprio esistere pienamente, senza compromessi né seduzioni
da parte di un’«esteriorità» che ha tolto dal suo paradigma i valori
di riferimento umano, garanzia del rispetto, certezza di diritto.
Ho cercato di seguire una piccola traccia, di scegliere tra le
righe equilibrate e sempre importanti dell’intelligenza di Levi e
del «cuore pensante» di Etty, delle ombre e delle esili impronte.
Ho cercato di estrarre dal loro dono dei pensieri che possano esse-
re riconducibili alla realtà dei nostri giorni, quali quello della laicità,
anche nel caso della sincera religiosità di Etty, del rispetto di ogni
forma di esistenza, concepito però con chiarezza, e non come, per
dirla con Finkielkraut «dei turisti in spiaggia»* , del coraggio di
non abbassare lo sguardo di fronte all’aberrazione della storia, di
confrontarsi con l’ineffabile senza perdere la propria dimensione
di uomini. Oltre a questo c’è molto di più, ed è questo il compito
che tutti noi singolarmente abbiamo l’obbligo di scoprire, ogni gior-
no, quando ci alziamo così come quando ci corichiamo e come
dice Etty:

Un barlume di eternità filtra sempre nelle mie più piccole azioni e perce-
zioni quotidiane. Io non sono sola nella mia stanchezza malattia tristezza o
paura, ma sono insieme con milioni di persone, di tanti secoli: anche questo
fa parte della vita che è pur bella e ricca di significato nella sua assurdità, se
vi si fa posto per tutto e se la si sente come un’unità indivisibile. Così, in un
modo o nell’altro, la vita diventa un insieme compiuto; ma si fa veramente
assurda non appena se ne accetta o rifiuta una parte a piacere, proprio perché
essa perde allora la sua globalità e diventa tutta quanta arbitraria, (E. HiLLEsuM,
Diario 1941-1943).

Note

1 Vuvacharetta bachaiim: in ebraico è ancora più chiaro, e cioè letteral-


mente e sceglierai nella vita. Levi si dichiarò più volte ateo, addirittura giun-
se a dire che se era potuto esistere Auschwitz, non poteva esistere Dio. Ciò
nonostante, Levi apprese a leggere la Bibbia nella lingua dei suoi padri, e
questo passo di Deuteronomio / Elleh Haddevarim (ecco le parole), cap. 30,
verso 19, non può essere passato inosservato.
Lek

2 P.Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1958, p. 116.


Il numero 13 della rivista «Riga» edita da Marcos y Marcos, Milano,
1997, è interamente dedicato a Primo Levi. Questo volume di oltre cinque-
cento pagine raccoglie interventi critici di noti e meno noti studiosi della
letteratura di Levi, e contiene inoltre una sezione di inediti leviani e una rac-
colta di interviste con l'autore.
4 A. FINKIELKRAUT ha pubblicato nel 1996 un saggio dal titolo L'Aumanité
perdue: essai sur le XX° siècle, Paris, Seuil, in cui svolge un'analisi molto
interessante sul concetto di umanità ai nostri giorni. Ii primo capitolo, dal
titolo Le dernier des justes (L'ultimo dei giusti), comincia con una citazione
da Se questo è un uomo, e più precisamente dell'episodio in cui Levi è a
colloquio con il dott. Pannwitz del laboratorio di chimica.
NO

Enzo RUTIGLIANO

Canetti-Levi: la metamorfosi nel Lager

Gianfranco Albertelli in memoriam

Soprattutto nel suo primo libro, Se questo è un uomo, Primo


Levi descrive il comportamento umano in situazioni estreme, co-
sciente del fatto che il Lager è stato, anche, una gigantesca espe-
rienza biologica e sociale come egli dice:

Vorremmo far considerare come il Lager sia stato, anche e notevolmente,


una gigantesca esperienza biologica e sociale. Si richiudano tra i fili spinati
migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e
costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile,
identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno
sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e
che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta
per la vita. (S.Q. 79).

Tuttavia questa analisi non è lo scopo principale del libro. Lo


scopo del libro è, come Levi ha detto più volte, la testimonianza.
E, comunque, in seguito, ne / sommersi e i salvati, egli ha riflettu-
to e, soprattutto, ha fornito il materiale per riflettere su che cosa
accade all’uomo in situazioni estreme giungendo alla conclusione
che in quelle situazioni l’uomo subiva una profonda metamorfosi:

c’era una disumanizzazione da entrambe le parti: da una parte subita e dal-


l’altra più o meno prescelta. [...] c’era (tra i prigionieri) una gerarchia che
cominciava dagli scopini e andava fino ai capi baracca, che in alcuni casi
passavano persino dall’altra parte. [...] La linea che divide la vittima dal car-
nefice veniva così sfumata: esistevano dei carnefici-vittima e delle vittime-
carnefici. [...] pensavamo di andare in un luogo di sofferenza in cui ci fosse
però una certa solidarietà, si facesse blocco contro i tedeschi e questo non era
quasi mai vero. (C. e /. 217).
120

Intendiamoci, qui Levi non sta parlando della complicità tra


vittime e carnefici di cui tratta, per esempio, il film della Cavani //
portiere di notte, bensì di quella che egli chiama la «zona grigia»,
una situazione di metamorfosi per la sopravvivenza che si produce
in situazioni estreme, appunto.

La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di eri-


gersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparente-
mente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si
tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in
parte attivo. (S.0Q. 39).

Di questo lavorio di adattamento Levi fornisce un esempio:

Ancora una volta siamo ai piedi della catasta. Mischa e il Galiziano alza-
no un supporto e ce lo posano con malgarbo sulle spalle. E il loro posto è il
meno faticoso, perciò essi fanno sfoggio di zelo per conservarlo: chiamano i
compagni che indugiano, incitano, esortano, impongono al lavoro un ritmo
insostenibile. Questo mi riempie di sdegno, pure già so ormai che è nel nor-
male ordine delle cose che i privilegiati opprimano i non privilegiat: su que-
sta legge umana si regge la struttura sociale del campo. (S.0Q. 50).

Ci aiuteranno a capire questa situazione descritta da Levi ma,


anche, da Bruno Bettelheim alcune categorie apprestate da Elias
Canetti nella sua trattazione sociologica del Potere in Massa e po-
tere e in Potere e sopravvivenza. Non c’è dubbio che il Lager sia
un luogo privilegiato per lo studio del potere diciamo così allo
stato puro. E, questa purezza, come ebbe a dire Pasolini, lo confi-
gura come anarchico cioè come sottratto a regole. Si esce cioè
dalle situazioni descritte da Weber come Herrschaft, cioè potere
legittimato, per entrare nell’area del Macht, potere che può fare a
meno della legittimazione, dunque di regole e cioè anarchico. In
queste situazioni Canetti sostiene che al potere, può opporsi solo
la metamorfosi (Verwandlung) cioè la trasformazione di sé nella
versione lineare della caccia per sottrarsi alla presa, di quella cir-
colare e di quella melanconica fino al lasciarsi morire.

Le metamorfosi per fuggire, per sfuggire a un nemico, sono un fatto uni-


versale: si ritrovano in miti e in fiabe diffusi per tutta la terra. Parleremo ora
124
di quattro esempi che consentono di chiarire le diverse forme assunte dalle
metamorfosi di fuga. (M.P. 414).

Noi, almeno in questa sede, non ci occuperemo delle diverse


forme assunte dalla metamorfosi di fuga, bensì solo dell’ultima,
quella che Canetti definisce melanconica e della quale egli dice:

Ci troviamo qui dinanzi al principio della situazione opposta alla mania,


cioè della melanconia. Ora che abbiamo parlato a lungo della mania, sarà
opportuno che diciamo qualcosa anche dello stato di melanconia. Esso co-
mincia quando le metamorfosi di fuga sono alla fine e tutte si sono rivelate
vane. Quando si trova nella melanconia, l’uomo è già stato raggiunto e affer-
rato. Non può più scappare. Non può più trasformarsi. Tutto ciò che si è
tentato non è servito a nulla. Ci si arrende al destino e ci si considera una
preda. In linea crescente: preda, alimento, carogna o lordura. Il processo di
svalutazione che sminuisce sempre più la persona si esprime in forma trasla-
ta come complesso di colpa. Una colpa significava originariamente che si era
in potere di un altro. // sentirsi colpevole o il sentirsi preda hanno la mede-
sima fonte. Il melanconico non vuole mangiare, e per giustificare il suo rifiu-
to dirà magari che non lo merita. Ma in realtà non vuole mangiare poiché
crede che egli stesso verrà mangiato. Se lo si costringe a mangiare, gli si fa
ricordare proprio questo: la sua bocca si volge contro di lui, è come se gli si
ponesse dinanzi uno specchio. Egli vi vede una bocca, e vede, che sarà man-
giato. Ciò che sarà mangiato è lui stesso. Ecco la punizione improvvisa e
inevitabile per il fatto d’aver sempre mangiato. In fondo si tratta qui dell’ul-
timissima metamorfosi di quella che sta alla fine di tutte le fughe, della meta-
morfosi in ciò che viene mangiato; per scamparvi, accade che tutto ciò che
vive fugga, in ogni forma che gli si offra. (M.P. 420).

Sia Levi che Bettelheim descrivono bene questa ultima versio-


ne della metamorfosi così come sì è manifestata nel Lager, sia
pure con strumenti diversi. Levi con la descrizione di coloro che
appena arrivati nel campo mettono in mostra qualcosa nel loro
atteggiamento che fa sì che l’occhio esperto dei prigionieri anziani
legga subito il destino di breve durata della loro vita.

Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si
ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e
del campo. L’esperienza ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in
questo modo durare più di tre mesi. Tutti i mussulmani che vanno in gas
122

hanno la stessa storia, 0, per meglio dire, non hanno storia; hanno seguito il
pendio fino al fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare. Entra-
ti in campo, per loro essenziale incapacità, 0 per sventura, o per un qualsiasi
banale incidente, sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi; sono
battuti sul tempo, non cominciano a imparare il tedesco e a discernere qual-
cosa nell’infernale groviglio di leggi e di divieti, che quando il loro corpo è
già in sfacelo, e nulla li potrebbe più salvare dalla selezione o dalla morte per
deperimento. La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato; sono loro,
i Muselmàinner, i sommersi, il nerbo del campo. (5.0. 81).

Le stesse indicazioni troviamo nel libro di Bettelheim // Prezzo


della vita, corredate da sostegni statistici.

La metamorfosi subita dalla maggior parte degli internati che sopravvi-


vevano nei campi può essere illustrata più chiaramente mettendo a raffronto
i «nuovi prigionieri», cioè coloro nei quali il processo di rieducazione coatta
era appena agli inizi, con gli «anziani», coloro cioè nei quali esso era quasi
compiuto. Ci serviamo dell’espressione «nuovi prigionieri» per indicare co-
loro che avevano passato nel campo un periodo appena superiore a un anno,
mentre per «anziani» intendiamo coloro che vi erano rimasti per almeno tre
anni. Per quanto riguarda questi ultimi, ciò che affermo è frutto di osserva-
zioni fatte su altri e non di scoperte fondate sulla introspezione. Per arrivare
ad ammettere una volta per tutte la possibilità di dover passare il resto della
propria vita nel campo di concentramento era naturalmente necessario un
periodo di tempo che variava da persona a persona. Alcuni vi si adattavano
abbastanza presto, altri mai, pur avendo passato nel campo perfino dieci anni,
se non di più. Quando un nuovo prigioniero arrivava, gli si diceva: «Se non
morrai entro tre settimane avrai buone probabilità di sopravvivere per un
anno; se non morrai entro i prossimi tre mesi, vivrai ancora per i successivi
tre anni». Durante il primo mese il tasso di mortalità dei nuovi venuti (com-
prese le vittime del trasporto) era in pratica superiore al 10% e probabilmen-
te vicino al 15%. Il mese successivo, se non si avevano esecuzioni in massa,
la cifra si riduceva, di solito, a metà; vale a dire, il tasso di mortalità dei nuovi
venuti nel secondo mese di internamento si aggirava intorno al 7%. Durante
il terzo mese la cifra si riduceva ancora della metà, e si aggirava perciò intor-
no al 3%. Da allora in poi (escludendo sempre le esecuzioni in massa) il tasso
mensile di mortalità per il rimanente 75% dei prigionieri cadeva all’ 1 %; poi,
per lungo tempo, non subiva variazioni di rilievo. Questa diminuzione del
tasso di mortalità era dovuta in gran parte al fatto che nel corso dei primi
mesi venivano via via eliminati tutti coloro che non potevano sopravvivere ai
rigori della vita in campo. Le persone affette da scompensi organici, come i
malati di cuore, erano già morte tutte. Lo stesso accadeva a coloro la cui
personalità era troppo rigida per poter adottare le difese e le modificazioni
necessarie: anch'esse soccombevano nel corso delle prime settimane. L’ab-
123
bassamento del tasso di mortalità era dunque l’indice tanto della sopravvi-
venza dei più forti quanto dell’aumento delle loro possibilità di sopravvivere
a mano a mano che essi imparavano ad adattarsi. Per questo stesso motivo la
diminuzione del numero dei morti era un’ottima ragione per spingere i pri-
gionieri a trasformarsi a farlo di propria iniziativa e al più presto possibile, se
volevano sopravvivere. (Bettelheim PV. 136-137).

Ma, così stando le cose, come mai i salvati si sono salvati, per-
ché alcuni sono riusciti a resistere fino alla fine pur non essendosi
adattati nel senso di acquattarsi in quella che Levi chiama la «zona
grigia» cioè in quel settore dove non vi è più differenza tra vittima
e carnefice? La zona dei preminenti dove la metamorfosi raggiun-
ge Il suo apice e il suo successo sia della sopravvivenza sia di ciò
che il sistema dei campi perseguiva: distruggere ciò che di umano
c’è nell'uomo?
In altre parole, perché sono riusciti a sopravvivere Levi,
Bettelheim, Améry?
È in Canetti e in una delle sue accezioni della metamorfosi che
troviamo la risposta.
La caparbietà di Canetti nella sua lotta contro la morte lo porta
verso la ricerca e la formulazione di una terza accezione del con-
cetto di metamorfosi questa sì vittoriosa contro la morte, quella
contenuta nel discorso di Monaco del 1976 sulla missione dello
scrittore. E tuttavia in questa ultima forma, la metamorfosi è effi-
cace a una condizione, che si rovesci nel suo contrario. Non sono
cioè le vittime che si trasformano ma colui che le salva che si
trasforma accogliendole in sé, trasformandosi in loro e così sal-
vandole dall’oblio, dando loro voce: cioè lo scrittore (Dichter). Si
tratta qui dello scrittore come custode delle metamorfosi - dice
Canetti:

Sono dunque incline a ravvisare la vera missione dello scrittore nel suo
esercizio ininterrotto della metamorfosi nel suo bisogno stringente di calarsi
nelle esperienze di uomini di ogni tipo, di tutti i tipi ma specialmente di
quelli che sono meno considerati nel far uso di questa capacità senza mai
stancarsi (C.P. 391) [...] Queste figure sono la sua molteplicità articolata e
consapevole, e siccome vivono dentro di Ini rappresentano la sua resistenza
alla morte. (C.P. 393).

Salvando coloro che non hanno voce, facendoli vivere dentro


124

di sé lo scrittore salva anche se stesso poiché l’essere interprete


trasfigura: la metamorfosi come identificazione.
A questo punto e dopo aver delineato la missione dello scritto-
re nell’esercizio ininterrotto delle metamorfosi, si comprende come
l’ultima grande fatica di Canetti sia una autobiografia, concepita
come una grande, immensa arca, nella quale Canetti imbarca tutti
coloro che ha conosciuto salvandoli dall’oblio e dalla morte. E
torniamo così all’inizio di questa relazione quando dicevamo che
lo scopo del libro di Levi Se questo è un uomo non è lo studio del
comportamento umano in una situazione estrema, bensì la testi-
monianza è lo scopo primario, il bisogno primo che si manifesta in
lui già nei primi giorni di prigionia cioè la metamorfosi identificativa
con le vittime per salvarle facendole vivere dentro di sé, promet-
tendo di rendere testimonianza.
Ma, a questo punto ci chiediamo: è possibile questa identifica-
zione senza che il Dichter rimanga egli stesso sommerso dall’enor-
me peso che lo invade sino a rimanerne annientato? È possibile
convivere con tutte le vittime dentro di sé? Con le loro storie, con
il loro ricordo?
Penso di no. E ricordo qui che sia Levi, sia Bettelheim, sia
Améry non sono riusciti a farcela e si sono dati la morte soffocati
dalle migliaia di vittime che portavano dentro di sé.

Bibliografia

P. Levi, Conversazioni e Interviste,Torino, Einaudi, 1997.


P. Levi, Se questo è un uomo,Torino, Einaudi, 1997.
E. CANETTI, Massa e potere, Milano, Adelphi, 1981.
B. BETTELHEIM, // prezzo della vita, Milano, Adelphi, 1965.
E. CANETTI, La coscienza delle parole, Milano, Adelphi, 1984.
W. Sorsky, L'ordine del terrore — Il campo di concentramento, Bari, Laterza,
IO5SÌ
INDICE DEI NOMI
127

Indice dei nomi

Aporno T. W., 109. CERONETTI G., 109.


AGNON S. Y., 26, 30 n. CESERANI R., 56 n.
ALBERTELLI G., 119. CHAUMONT M., 18.
ALIGHIERI D., 90, 96. CHomsky M. J., 25.
AMERY J., 63-66, 68 e n, 69 n, 70, CCCOmnEROl
OMNIA COHEN A., 26.
AMSALLEM D., 81. CoLLotti E., 71 n.
ANCESCHI L., 38 n. Curtius H. R., 92.
ANTELME R., 23, 61. CzecH D., 29 n.
ANTONICELLI F., 35. D’Avanzo G., 108 n.
ARENDT H., 18, 87. De AnceLIS L., 101 n.
Arpino G., 31. De Luca V., 70 n.
BeLPOLITI M., 33, 38 n, 45, 46, 52 n, De VoLper J., 104 n.
69 n, 70 n, 71 n, 100 n, 110 n. DeL Giupice D., 38 n.
BETTELHEIM B., 120-124, Di CARO R., 83.
Bipussa D., 84, 101 n. Dini M., 70 n.
Borges J. L., 32, 38 n. DRAGONE A., 38 n.
BoROWSKI T., 61. EckHART M., 30 n.
Bravo A., 71 n. EINAUDI G., 24.
BrossaT A., 26, 29 n, 30 n. EINSTEIN A., 84.
Burgos J., 56 n. ECOnNINS 323 .5nî
CaLcagno G., 71 n. ERRERA R., 30 n.
CALVINO I., 31-33, 38 n, 46, 114. FaDpINI E., 51 n.
CAMoN F., 29 n, 49, 52 n, 103 n. FELMAN S., 30 n.
CANETTI E., 119-121, 123, 124 n. FERRERO E., 38 n, 70 n, 101 n.
CarcLà M., 101 n. FINKIELKRAUT A., 117 n.
CARUCCI VITERBI B., 104 n. FoLENA G., 70 n.
CASELLA A., 31. FRANK A., 73, 74.
CASES C., 38 n, 66, 70 n. Frassica P., 71 n.
CASORATI F., 31: Freup S.,71 n, 97.
CAVAGLION A., 38 n, 71 n, 101 n. FRIEDLANDER S., 22.
Cavani L., 120. Gao
Cronis 2425988010! GiNzBURG N., 31, 105, 108 n.
CELAN P., 23, 70 n, 81, 87, 88, 97. GiunTELLA V. E., 70 n.
128

GOEBBELS P. J., 22. Norte E., 67, 68.


GoetHE J. W., 102 n. Orazio FLacco Q., 45.
GoLDHAGEN D., 18, 28 n. OZ/cHIGEN 0189:
Gorjup B., 69 n. Paguis D., 24, 30 n.
Grasso E., 56 n. PARRAU A., 24, 28 n, 29 n.
GROSSMAN D., 23. PASOLINI P. P., 120.
GUICHARDET J., 56 n. PAVESE C., 54, 56 n.
GUTERMAN S., 17, 23. PERILLI P., 61.
HANDKE P., 94, 103 n. Piper F., 29 n.
HEISENBERG W., 84. PLINIO IL VEccHIO G. S., 45.
Hemingway E., 59. RoriGegn
HiLBERg R., 20, 22, 28-30. PoLIAKOv L., 22.
HiLLesum E., 115, 116. PonTEcORVvO G., 19.
HIMMLER H., 20. Porzio D., 38 n.
HITLER TAEMIS 22409] QueneaU R., 114.
HoLDERLIN F., 115. QuinzIo S., 93, 103'n, 115.
JALLA D., 71 n. RABELAIS F., 47.
JESURUM S., 70 n. Recce T., 98.
Jonas H., 101 n, 102 n. RESNAIS A., 25.
KAFKA F., 24, 29 n, 48,91, 102 n. Rigoni STERN M., 105, 108 n.
KANT I., 114. RILKE R. M., 115.
KAUFMANN F., 90, 102 n. RIZZARDI A., 72 n.
KLEIN R., 71 n. Romano L., 31.
Lacorio G., 71 n. RosseLL M., 20.
LANGER A., 108. Rousse J., 23.
LANZMANN C., 17, 25. RuBINO G., 56 n.
LAYTON I., 63, 69 n, 71 n. RUMKOVSKI C., 50.
LEOPARDI G., 56 n. SALOMOV V., 61.
LERNER G., 70 n. SARTRE J.-P., 113.
Levi T., 105. SCHOPENHAUER A., 82, 100 n.
Lévinas E., 81,95, 103 n. SEMPRUN J., 61, 89, 102 n, 104 n.
Lustig O., 91. Sessi F., 29 n.
Magris C., 13, 70 n. SINJAVSKIJ A., 61.
MANGANELLI G., 86. SoFsky W., 124 n.
MANN T., 50. SOLZENICYN A., 21, 27, 29 n, 61.
MARSALEK H., 29 n. STEINER G., 63, 68 n, 88,91, 95,
MEGHNAGI D., 89-102. 102 n.
MEncaLpo P. V., 9, 54, 56 n, 71 n. STYRON W., 17.
Mica M,, 31, 38 n. SWIEBOCKA T., 29 n.
MORANTE E., 29 n, 30 n. SZONDI P., 70 n.
MORAVIA A., 29 n, 30 n. TABUCCHI A., 29 n.
NABOKOV V., 59. Tesio G., 38 n, 47, 52 n.
NAHuMm M,, 40 n. TimoscenNKo S. K., 42.
NEHER A., 93. Toporov T., 61.
26)

TOMASI DI LAMPEDUSA G., 53-56. WieseL E., 25, 28 n, 30 n, 81, 83, 84,
MRARTIGRO7A 87, 89, 93, 94, 96, 97, 101-104.
TRAVERSO E., 69 n. WIESENTHAL S., 69 n.
VALABREGA P., 70 n. WIEVIORKA A., 23, 29 n.
VALENTE F., 69 n. WILL E., 26.
VERCORS, 29 n. WITTGENSTEIN L., 83, 96.
WARDI C., 30 n. Zevi T., 108 n.
WEBER M., 120. ZierFerR B., 30 n.
NOTE
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Finito di stampare nel dicembre 1998
presso la tipografia Metauro Edizioni
Fossombrone (Pesaro)
Printed in Italy
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LIMI
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30098 0719
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DESIGNER INSOIÌ
%
VIA ZZI RIA
ERALDO AFFINATI
MICAELA BERTOLDI
MARINA BIANCHI
FERDINANDO CAMON
PAANINI.GAY UNIT. O7V:731
CARMEN CoviITO
LUCA DE ANGELIS
ADA NEIGER
PATRICK PAULETTO
IM ENSSVTOR IVZZANIO
IONVAOR LUI (ETTI)
ALESSANDRO SCARSELLA
FREDIANO SESSI
[GICONV ININI iINTO)

ISBN 88-87543%9 1-1

L. 14.000 i.c.

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