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Primo Levi o la persistenza del trauma concentrazionario

Sophie Nezri-Dufour

To cite this version:


Sophie Nezri-Dufour. Primo Levi o la persistenza del trauma concentrazionario. Dire i traumi
dell’Italia del Novecento. Dall’esperienza alla creazione letteraria e artistica, Franco Cesati, 2020.
�hal-02864032�

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Quaderni della Rassegna
170.
DIRE I TRAUMI DELL’ITALIA DEL NOVECENTO
Dall’esperienza alla creazione letteraria e artistica

A cura di
Maria Pia De Paulis, Viviana Agostini-Ouafi,
Sarah Amrani, Brigitte Le Gouez

Franco Cesati Editore


Il volume è stato pubblicato con il contributo del laboratorio di ricerca LECEMO
(Les Cultures de l’Europe Méditerranéenne Occidentale) - EA 3979 - dell’Università
Sorbonne Nouvelle-Paris 3.

ISBN 978-88-7667-822-6

© 2020 proprietà letteraria riservata


Franco Cesati Editore
via Guasti, 2 - 50134 Firenze

In copertina: Masaccio, Cacciata dei progenitori dall’Eden, 1424-1425, Cappella


Brancacci, chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze, particolare.

Cover design: ufficio grafico Franco Cesati Editore.

www.francocesatieditore.com - email: info@francocesatieditore.com


INDICE

Maria Pia De Paulis, Introduzione p. 11

In limine: approcci teorici ai traumi novecenteschi » 21


Maria Pia De Paulis, Dal silenzio alla parola: questioni e forme per dire
il trauma » 23

I. Soldati e scrittori: il trauma della Grande Guerra » 51


Margherita Pastore, Giani Stuparich: vivere e raccontare la guerra » 53

Alfredo Luzi, «Quando morir mi parve unico scampo». Il trauma della


guerra nella poesia di Clemente Rebora » 69

Francesca Golia, «Io qua scrivo come si fa la guerra». Fallimento e


utopia nel calvario di Lorenzo Viani  » 81

II. Le scritture-testimonianza. Il trauma del fascismo e della Seconda


guerra mondiale » 99
Stefano Magni, Racconti di fuoriusciti. Gli intellettuali dissidenti all’estero
parlano del fascismo » 101

Fulvio Senardi, Umberto Saba: ebraismo, anti-ebraismo, Olocausto » 119

7
François Rastier, Testimoniare contro il trauma. Primo Levi e lo stile sobrio
come impegno etico e politico » 131

Sophie Nezri-Dufour, Primo Levi o la persistenza del trauma concentrazionario » 149

Adelia Lucattini, Trauma, poliglossia e costruzione della soggettività in


Deviazione di Luce d’Eramo » 159

III. Mediazioni terapeutiche del trauma. Resilienza e tabù » 173


Alessandro Portelli, Sull’orlo del genocidio: i due giorni dei deportati ebrei
romani al Collegio Militare di piazza della Rovere » 175

Emilia Héry, Oltre l’empatia. Le prime performance di Fabio Mauri » 195

Chiara Nannicini-Streitberger, Illustrare la memoria del Lager: l’esempio di


Aldo Carpi » 207

Nathalie Galesne, Marocchinate: memorie dolenti » 221

Sarah Amrani, L’oltraggio della guerra. La Ciociara di Alberto Moravia » 237

Patrizia Gabrielli, «Da bambina mi trovai adulta». Bombardamenti, trauma


e rielaborazione nelle “scritture bambine” » 251

IV. Scritture traumatizzate e ricerca memoriale » 267


Domenico Scarpa, Memoria come ricerca. Nascite e rinascite di Primo Levi » 269

Francesca Belviso, «Per un po’ m’illusi di aver cacciato i fantasmi».


La scrittura post-traumatica di Lidia Beccaria Rolfi » 283

Peter Kuon, Tracce del trauma: le testimonianze scritte di sopravvissute


italiane dei Lager e della Shoah » 299

Viviana Agostini-Ouafi, Traumi e resilienza nelle testimonianze narrative


della Seconda guerra mondiale: tre casi toscani a confronto » 317

8
Spunti per una conclusione e un’apertura » 335
Brigitte Le Gouez, L’ombra lunga del secolo breve. Dalle macerie dei traumi
alla costruzione di una memoria condivisa » 337

Quaderno di illustrazioni » 345


Notizie sugli autori » 363
Indice dei nomi » 371

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Sophie Nezri-Dufour

PRIMO LEVI O LA PERSISTENZA DEL TRAUMA CONCENTRAZIONARIO

Nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto


era breve vacanza o inganno dei sensi,
sogno…
Primo Levi, La tregua, 1963

Nella sua presentazione del 1965 de La tregua, Primo Levi non esitava a evo-
care la soddisfazione e il piacere provati nel rielaborare letterariamente le sue
esperienze, anche difficili. La scrittura era diventata un’esperienza che desiderava
ormai ripetere. Apparente fonte di liberazione e di ottimismo, strumento di so-
pravvivenza e di ricreazione, essa sembrava recargli, almeno nei primi tempi, una
reale sensazione di libertà e di felicità:

L’esperienza dello scrivere, del creare dal nulla, del cercare e trovare la pa-
rola giusta, del fabbricare un periodo equilibrato ed espressivo era stata per
me troppo intensa e felice perché non desiderassi ritentare la prova. Avevo
ancora molte cose da narrare; non più cose tremende, fatali e necessarie, ma
avventure allegre e tristi, paesi sterminati e strani, imprese furfantesche dei
miei innumerevoli compagni di viaggio, il vortice multicolore e affascinante
dell’Europa del dopoguerra, ubriaca di libertà e insieme inquieta1.

Sedici anni dopo Se questo è un uomo, le ambizioni letterarie de La tregua sem-


bravano difatti allontanarsi alquanto dall’urgenza che avvertiva Primo Levi all’in-
domani della guerra di testimoniare anzitutto l’orrore vissuto.
In apparenza più sereno e meno tormentato ne La tregua, più attento allo sti-
le e al contenuto ricreativo e accattivante del suo racconto, Primo Levi desiderò

1
Primo Levi, Presentazione, in Id., La tregua, Torino, Einaudi, 1965, pp. 9-10.

149
Sophie Nezri-Dufour

proseguire il racconto interrotto alla liberazione di Auschwitz in una prospettiva


letteraria leggermente modificata: ormai non avrebbe più scritto per fini esclusiva-
mente etici e storici, ma perché aveva anche scoperto il piacere e il benessere of-
ferti dalla ricreazione letteraria di un universo suscettibile di essere così dominato
e controllato, a differenza di quello subìto di Auschwitz.
L’evoluzione letteraria di Primo Levi sembrò allora rispecchiare una presa
di distanze di fronte all’esperienza traumatica di Auschwitz; rimandava in realtà
a un bisogno vitale di libertà e di “vacanze” e illustrava un’evoluzione psicolo-
gica caratteristica: Primo Levi non voleva più incarnare – e in un certo modo
“essere” – solo un ex deportato, una vittima e un testimone. Desiderava anche
mostrare che era diventato, attraverso la scrittura, uno scrittore a pieno titolo:
un individuo liberato dai propri traumi. Scrivere si presentava ormai a lui come
un’opportunità di rinascere alla vita, di reinserirsi realmente nella collettività
degli uomini liberi.
In questo senso, La tregua rinvia a un tentativo di liberazione: quello della
vittima che reintegra il tempo e la Storia e tenta l’avventura della scrittura e di un
certo oblio.
La tregua è difatti un vero racconto picaresco in cui la dimensione tragica è vo-
lutamente attenuata. Sopravvivere e testimoniare non sembrano più rinviare, come
in Se questo è un uomo, a un bisogno urgente e biologico: in questo romanzo, Levi
cerca di allontanarsi fisicamente e letterariamente da Auschwitz, universo infernale
nel quale non desidera più rimanere sia mentalmente che letterariamente. È del
resto l’idea essenziale che sembra emergere dalle sue interviste di allora: «– Con
l’esperienza dei lager, allora, tutto finito? – Ah, sì, neanche una parola, più niente.
Quello che dovevo dire l’ho detto tutto. Completamente finito»2.
La sua evoluzione letteraria sembrava dunque riferirsi a un vero e proprio
riflesso di sopravvivenza e a una scelta esistenziale.
Il nostro proposito sarà però quello di dimostrare che, malgrado quel tentativo
di distanziamento letterario ed esistenziale di fronte a una realtà troppo difficile da
sopportare, i libri successivi di Primo Levi si caratterizzano per una decantazione
del dolore solo apparente, in cui la realtà concentrazionaria è, malgrado le appa-
renze, onnipresente.
Così, nel 1983, quando Primo Levi pubblica il suo vero primo romanzo, Se non
ora, quando?, il piacere provato nell’elaborazione di questo racconto di finzione
fu immenso e sembrò lasciar pensare a una vittoria della scrittura sull’incubo di
Auschwitz. Ma l’esaltazione dell’Avventura, al centro del racconto, non esprime in
fin dei conti che il desiderio di Primo Levi di fuggire ad ogni costo, proprio perché
non smettono di assillarlo i ricordi di una realtà subìta e dolorosa, creando una

2
Intervista realizzata da Pier Mario Paoletti, Sono un chimico, scrittore per caso, in Il Giorno,
7 agosto 1963.

150
Primo Levi o la persistenza del trauma concentrazionario

serie di situazioni dipendenti unicamente dalla sua fantasia e dai suoi fantasmi.
Dichiarava a questo proposito:

Scrivere di cose viste è più facile che inventare, e meno felice. È uno scrivere-
descrivere: hai una traccia, scavi nella memoria […], riordini i reperti […],
poi prendi una sorta di macchina fotografica mentale e scatti. […] Scrivere
un romanzo è diverso, è un superscrivere: non tocchi più terra, voli, con tutte
le emozioni, le paure e gli entusiasmi del pioniere in un biplano di tela […].
La prima sensazione, destinata a ridimensionarsi in seguito, è quella di una
libertà sconfinata, quasi licenziosa. […] Tutta la terra è tua, anzi, il cosmo; e
se il cosmo ti è stretto, te ne inventi un altro che faccia al caso tuo3.

Scrivendo Se non ora, quando?, Primo Levi aveva anche il desiderio di propor-
re personaggi ebrei all’opposto di quelli di Se questo è un uomo: partigiani ebrei in
lotta eroica contro il nemico tedesco, apparivano prima di tutto come personaggi
di epopea e non come le vittime di una realtà infernale e assurda, tremendamente
tragica.
In questo romanzo, l’immaginario presenta così un ideale di vita e un modello
di esistenza ebraica che l’autore avrebbe naturalmente preferito vivere: i suoi eroi
sono veri e propri “picaros” che, a differenza di lui, hanno potuto uscire da una
logica di morte e di esclusione legata alla loro identità, affrontando liberamente
il tempo e la Storia, resistendo al nemico nazista. Tramite la partenza e il viag-
gio, hanno simbolicamente vissuto un’esperienza difficile ma liberatrice: quella del
combattimento, della dignità e della libertà individuale.
Se non ora, quando? è dunque un romanzo che non permette, se non solo in
apparenza, a Primo Levi di riscattarsi da una realtà umana e personale troppo pe-
sante: quella dell’esclusione e della persecuzione; ma rinvia, contemporaneamente,
a un’esperienza che l’autore rimpiange implicitamente di non aver potuto vivere.
Primo Levi stesso aveva sentito in modo più o meno confuso di aver realizzato
un transfert psicologico e letterario sui suoi personaggi; evocando la figura centrale
del suo romanzo, Mendel, che appare sotto molti aspetti come un suo alter ego
romanzesco, aveva dichiarato: «Mendel è un sintomo di quello che si doveva fare
e che io stesso avrei fatto, ad averne avuto la capacità»4.
Così, come notato da Ettore Singer, l’immaginario in Primo Levi sembra sem-
pre legato a una realtà profondamente tragica. Giorgio Mario Bergamo pensava
da parte sua, basandosi appunto sul romanzo Se non ora, quando?, che l’opera di
Primo Levi, se sembra progredire verso un immaginario liberatorio, è in realtà la

3
Primo Levi, Scrivere un romanzo, in L’altrui mestiere, in Id., Opere, Torino, Einaudi, 1990,
III, pp. 741-742.
4
Intervista realizzata da Walter Mauro, Quel volto eroico dell’ebraismo, in Il Messaggero
Veneto, 12 settembre 1982.

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Sophie Nezri-Dufour

continuazione logica di un discorso che rinvia inesorabilmente all’esperienza pri-


mordiale dell’autore: l’esclusione e la deportazione5.
Quando si riconsidera difatti l’insieme della sua opera, numerosi indizi tendo-
no a indicare che se Primo Levi desidera, in modo consapevole o no, liberarsi da
un passato troppo doloroso tramite la scrittura e la fantasia, la presenza della sua
esperienza concentrazionaria non risalta per questo in modo meno costante.
Se ci si interessa da più vicino a La tregua, ad esempio, che appare come il libro
della rinascita, ci si rende conto in realtà che la morte circoscrive il racconto. La
tregua si apre sulla figura sconvolgente di Hurbinek, e finisce su un’altra visione
molto pessimista e disperata: l’incubo dei superstiti di ritorno a casa loro e di cui
nessuno ascolta la terribile testimonianza6.
Inoltre, mentre si potrebbe considerare Se non ora, quando? come un romanzo
psicologicamente redentore e consolatorio, ci si rende conto che il protagonista,
Mendel, rimane fino alla fine della sua epopea estremamente pessimista e dispe-
rato. Fin dall’inizio del romanzo, confida emblematicamente: «Mi chiamo Mendel
che sta per Menachém, che vuol dire “consolatore”, ma non ho mai consolato
nessuno». E alla fine dichiara ancora: «Mi chiamo il Consolatore e non consolo
nessuno, neppure me stesso»7.
La tristezza e il malessere che lo caratterizzano fin dall’inizio non sono scomparsi:

Mendel si sentiva disorientato […] una pedina di un gioco gigantesco e cru-


dele. Forse da sempre, una pedina da sempre, da quando era rimasto disperso
[…]; credi di prendere una decisione e invece segui il destino che qualcuno
ha già scritto8.

È ancora lui – l’alter ego romanzesco di Primo Levi – che ritroviamo in una
situazione insieme assurda e tragica che, simbolicamente, chiude il romanzo:

Mendel […] riuscì a vedere che il giornale, costituito da un solo foglio, porta-
va un titolo in corpo molto grande, di cui non capì il significato. Quel giornale
era del martedì 7 agosto 1945, e recava la notizia della prima bomba atomica
lanciata su Hiroshima9.

L’angoscia e la morte sembravano difatti aver pervaso in modo diffuso l’o-


pera di Primo Levi: l’esperienza concentrazionaria aveva profondamente segnato

5
Ettore Singer, Parigi onora Primo Levi, in La Stampa, 17 gennaio 1988; Giorgio Mario
Bergamo, Se non ora, quando?, in Il Gazzettino, 11 maggio 1982.
6
Primo Levi, La tregua, in Id., Opere, Torino, Einaudi, 1987, I, pp. 226-230, pp. 422-423.
7
Id., Se non ora, quando?, in Id., Opere, Torino, Einaudi, 1988, II, pp. 189 e 484.
8
Ivi, p. 509.
9
Ivi, p. 514.

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Primo Levi o la persistenza del trauma concentrazionario

l’autore senza che egli ne fosse necessariamente consapevole. Si potrebbe dire in


questo senso che il suo primo racconto, Se questo è un uomo, appare a posteriori
come il racconto “primordiale” e fondatore dei suoi scritti successivi. Alberto Ca-
vaglion definiva Primo Levi uno scrittore «unius libris»10, l’autore di un solo libro
scritto nel 1946-1947, in parte rielaborato nel 1955-1957, diluito in seguito in una
gamma varia d’interventi posteriori (Il sistema periodico, Lilìt, ecc.), per essere in
fin dei conti ricomposto e adattato, nel 1986, attraverso I sommersi e i salvati.
Sembra che attraverso variazioni formali e stilistiche, Primo Levi non abbia mai
smesso di scrivere lo stesso libro. Perciò sarebbe interessante realizzare un’analisi
testuale globale suscettibile di far risaltare le ricorrenze semantiche e tematiche che
illustrerebbero eventualmente le ossessioni e i traumi dell’autore.
Jane Nystedt ha dimostrato che numerose parole chiave di Se questo è un
uomo ricompaiono sistematicamente nei racconti che Levi scrisse in seguito11: tra
i settecentocinquantadue vocaboli che tutti i racconti di Levi hanno in comune,
un numero impressionante si riferisce emblematicamente alla prima esperienza
dell’autore: il Lager e l’universo della morte, anche se il tema predominante, come
ne La chiave a stella, Vizio di forma o Storie naturali, sembra apparentemente di-
staccarsene12.
I vocaboli legati alla paura e all’angoscia – provate in modo parossistico ad Au-
schwitz – sono pure onnipresenti nei racconti di Primo Levi qualunque sia il conte-
nuto o l’argomento evocato: il vocabolo «paura» ricorre centonovantacinque volte
nell’opera; «pericolo» centootto volte; «angoscia» cinquantuno volte; «minaccia»
quarantacinque volte; «orrore» quarantatré volte; «timore» trentadue volte; «ribrez-
zo» venticinque volte; «terrore» ventiquattro volte; «disperazione» ventitré volte13.
Così, in un racconto lontano in apparenza dall’esperienza concentrazionaria
come La chiave a stella, la parola «paura» compare trentasette volte, così spesso
come «ponte», termine legato direttamente al tema del racconto e che riccorre
trentotto volte. È di solito Faussone, alter ego romanzesco di Levi, che prova que-
sta paura. Una paura violenta che può essere scritta con tanta pregnanza solo da un
individuo che ha conosciuto le radici del terrore: «Mi ha preso la paura, che è una
gran brutta bestia, e credo che peggio che in quel momento non l’ho mai avuta»14,
spiega Faussone.

10
Alberto Cavaglion, Primo Levi e Se questo è un uomo, Torino, Loescher, 1993, p. 8.
11
Jane Nystedt, Le opere di Primo Levi viste al computer. Osservazioni stilolinguistiche,
Stockholm, Almiqist & Wiksell International, 1993, p. 33.
12
Si citerà come esempio la parola «tedesco» che ricorre nell’opera in prosa dell’autore sette-
centosei volte; «ebreo» quattrocentoottantatré volte; «Lager» quattrocentocinquanta volte; «prigio-
niero» duecentocinquantanove volte; «morte» trecentosette volte; «Auschwitz» duecentodiciotto
volte; «strage» cinquantuno volte; «suicida/suicidio» ventitré volte. Ivi, pp. 39 e 70.
13
Ivi, p. 71.
14
Primo Levi, La chiave a stella, in Id., Opere, cit., II, p. 62.

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Sophie Nezri-Dufour

Inoltre, le parole che si riferiscono alla notte e, simbolicamente, alla morte,


abbondano anche nell’opera di Primo Levi, che si tratti di racconti legati alla re-
altà concentrazionaria come di libri apparentemente ottimisti come Se non ora,
quando?: il termine «notte» compare quattrocentocinquantatré volte; l’aggetti-
vo «nero» duecentodiciotto volte; «buio» e «oscurità» centotrentaquattro volte;
«nebbia» sessantacinque volte; «ombra» settantanove volte; «tramonto» quaranta
volte; «tenebra» quattordici volte15.
La molteplicità di questi vocaboli, presenti in ognuno dei racconti dell’autore,
rispecchia indirettamente i numerosi traumi del nostro autore: la Notte è l’allego-
ria della deportazione, del terrore, ma anche dell’esclusione e della vergogna.
Altre ossessioni si manifestano del resto attraverso la ricorrenza di formule
molto caratteristiche, specchio dello stato d’animo generale dell’autore, martoriato
dal suo soggiorno ad Auschwitz. Nell’evocare ne La tregua il suo ritorno dal Lager
scriveva difatti: «Sentivamo fluirci per le vene, insieme col sangue estenuato, il
veleno di Auschwitz […]. Ci sentivamo vecchi di secoli, oppressi da un anno di
ricordi feroci, svuotati e inermi»16.
La stessa riflessione, formulata con un tono identico, ricompare in Se non ora,
quando?; riguarda in modo caratteristico l’alter ego Mendel: «Era stanco della
guerra e della vita e sentiva corrergli per le vene […] il sangue pallido della stirpe
da cui sapeva di discendere»17. Perciò era «oppresso [da una] stanchezza vecchia
di mille anni»18. Al pari di Primo Levi e dei suoi compagni superstiti, Mendel si
sente terribilmente vecchio, tanto la sua esperienza della guerra e della persecuzio-
ne è stata profonda e traumatizzante:

Se gli avessero chiesto quanti anni aveva, e se avesse voluto rispondere in pie-
na sincerità, come avrebbe dovuto rispondere? Ventotto anni sui documenti
[…], ma sulla schiena una montagna, più di Noè e di Matusalemme19.

Certe idee assillanti di Levi, nate senza alcun dubbio dalla sua esperienza della
deportazione, invadono così la sua opera. Si citerà come esempio una frase em-
blematica e ricorrente, che rispecchia l’inconscio tormentato dell’autore: «guerra
è sempre». Ne La tregua, è il personaggio del greco Mordo Nahum, la cui filosofia
pessimista segnò profondamente Levi, che non smette di ripetere che «guerra è
sempre», mentre la speranza nell’avvenire sembra rinascere presso gli altri super-
stiti. Egli non sembra credere in un avvenire migliore, ma piuttosto nella costanza
del male e della sofferenza:

15
Jane Nystedt, Le opere di Primo Levi viste al computer, cit., pp. 53, 66, 68.
16
Primo Levi, La tregua, cit., p. 421.
17
Id., Se non ora, quando?, cit., p. 205.
18
Ivi, p. 389.
19
Ivi, p. 212.

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Primo Levi o la persistenza del trauma concentrazionario

La sua vita era stata di guerra, e considerava vile e cieco chi rifiutasse il suo
universo di ferro. Era venuto il Lager per entrambi: io lo avevo percepito
come un mostruoso stravolgimento, una anomalia laida della mia storia e del-
la storia del mondo; lui, come una triste conferma di cose notorie. «Guerra è
sempre», l’uomo è lupo all’uomo: vecchia storia20.

Questo universo di guerra e «di ferro», che ritroviamo anche ne Il sistema pe-
riodico («[Sandro], oscuramente, sentiva il bisogno di prepararsi (e di prepararmi)
a un avvenire di ferro»21), caratterizza ugualmente la visione che Levi ha dell’esi-
stenza. E in Se non ora, quando? Mendel ha lo stesso stato d’animo particolarmente
cupo, sorprendentemente di Mordo Nahum: «La guerra sarebbe durata sempre;
la morte, la caccia, la fuga non sarebbero finite mai; mai la neve avrebbe cessato di
cadere, mai sarebbe venuto giorno»22.
Anche il giovane partigiano polacco Edek, amaro e fortemente segnato dalla
guerra, fa lo stesso discorso in Se non ora, quando?, un discorso che riprende paro-
la per parola quello del Greco de La tregua: «La guerra non finirà mai. Da questa
guerra nascerà un’altra guerra, e sarà guerra sempre»23.

Pur accumulando lungo la sua opera un materiale letterario eterogeneo, l’auto-


re sembrò rimanere inestricabilmente legato al sostrato tematico dell’esilio e dell’e-
sclusione. Sperimentando modi di scrittura vari per mezzo della sua fantasia, Levi
alternò diversi tipi di racconti a partire da Se questo è un uomo per approdare, al
termine del suo viaggio, ad un’opera che riprende, prolunga e chiude il discorso,
forse incompleto, di quel primo libro. Se questo è un uomo subì in fin dei conti una
lunga erranza di quarant’anni prima di ottenere un seguito e un termine esplicito
nel discorso finale de I sommersi e i salvati.
Riferendosi a Levi, Irving Howe aveva giustamente spiegato che gli scrittori
sopravvissuti ai Lager provano il bisogno di continuare a vivere con quell’espe-
rienza che li ha segnati per sempre. Anch’egli notava che tornano su questo tema a
più riprese, talvolta ossessivamente, prigionieri della Storia e costretti a obbedire a
quell’urgenza che li sollecita interiormente24.
Ora, quella sua analisi non può che ricordarci la paura provata da Levi di rima-
nere, come Kafka, prigioniero dei suoi traumi e delle sue angosce. Ripeteva spesso
che era per lui un vero lavoro e sforzo mentale tentare di avere del mondo una

20
Primo Levi, La tregua, cit., p. 256.
21
Id., Il sistema periodico, in Id., Opere, cit., I, p. 469.
22
Id., Se non ora, quando?, cit., p. 277.
23
Ivi, p. 410.
24
Irving Howe, How to write about the Holocaust, in «The New York Review of Book», 28
marzo 1985, p. 9.

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Sophie Nezri-Dufour

visione razionale, superare le proprie angosce e rifiutare di rimanere invischiato nel


mondo stralunato del Lager25.
Il suo timore fu in parte giustificato poiché il suo tentativo di superare la sua
esperienza concentrazionaria fu, in fin dei conti, vana. Nel suo ritorno alla testimo-
nianza storica, Levi espresse la paura che il suo itinerario letterario avesse tradito
in parte l’autenticità della testimonianza. Il piacere della scrittura, che lo aveva
accompagnato nel suo desiderio di effettuare un viaggio ristrutturante e psicologi-
camente benefico, aveva forse, secondo lui, degradato il suo “messaggio” iniziale.
I sommersi e i salvati si presentò dunque non solo come une ripresa della pri-
ma testimonianza elaborata nel 1947, ma anche come una verifica e un’indagine
storica destinata a far risaltare la verità di Auschwitz con la massima chiarezza e
sincerità. Dopo un lungo percorso eminentemente artistico, Levi preferì rinviare il
suo lettore a dati oggettivi, storici e scientifici, incitato, in modo quasi masochista
e schizofrenico, a mettere il suo discorso anteriore alla prova della verità. Scriveva
a questo proposito:

È certo che l’esercizio (in questo caso, la frequente rievocazione) mantiene il


ricordo fresco e vivo, allo stesso modo come si mantiene efficiente un musco-
lo che viene spesso esercitato; ma è anche vero che un ricordo troppo spesso
evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in
una forma collaudata dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che
si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese26.

Da anni Levi preparava quello studio storico (I sommersi e i salvati) che dove-
va proseguire il discorso interrotto quarant’anni prima. Già nel 1982, confidava a
Oreste del Buono:

[Scrivendo Se non ora, quando?] non era proprio una vacanza forzata, non
era un vuoto assoluto; in realtà avevo cominciato una serie di saggi sul Lager.
Un’analisi della mia esperienza dal punto di vista di quarant’anni dopo. Un
modo di riconsiderare la mia vita27.

I sommersi e i salvati mise così fine al lungo vagabondaggio letterario levia-


no. Sintomaticamente, il ciclo della sua opera si richiuse su un ritorno al discorso
iniziale: il capitolo I sommersi e i salvati, presente in Se questo è un uomo – e che
doveva inizialmente dare il nome al primo racconto dell’autore28 – riannodò il filo

25
Intervista realizzata da Luciano Genta, Così ho rivissuto “il processo” di Kafka, in Tuttolibri,
9 aprile 1983.
26
Primo Levi, I sommersi e i salvati, in Id., Opere, cit., I, pp. 663-664.
27
Intervista realizzata da Oreste del Buono, Questo ebreo me lo sono inventato io, in
«L’Europeo», 5 luglio 1982, p. 83.
28
Gabriella Poli-Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e con-

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Primo Levi o la persistenza del trauma concentrazionario

di un discorso interrotto solo in apparenza per essere definitivamente sviluppato


nel 1986. Levi dichiarava a questo proposito, un anno prima della sua morte:

[Ne I sommersi e i salvati] osservo con una grossa rete d’ingrandimento, per
così dire, alcuni temi già accennati in Se questo è un uomo. […] Sono passati
molti anni, non invano, e ho molto pensato su questo argomento: fa parte di
un certo mio modo di vivere riferirmi per tutte le mie esperienze posteriori a
quella mia esperienza fondamentale29.

Lo stesso anno, ispirandosi ai versi tratti da The Rime of the Ancient Mariner di
Coleridge che simbolicamente appaiono in epigrafe de I sommersi e i salvati30, Levi
evocava il persistere della sua angoscia nata dalla persecuzione:

«A un’ora incerta quell’agonia ritorna». Ogni tanto. Non è che io ci viva, den-
tro questo mondo. Altrimenti non avrei scritto La chiave a stella, non avrei
messo su famiglia, non farei tante cose che mi piacciono. Ma è vero che, ad
un’ora incerta, queste memorie ritornano. Sono un recidivo31.

Primo Levi sembrava non aver smesso di cercare una risposta e un placarsi alla sua
angoscia di individuo escluso e oppresso: «Se questo è un uomo è un libro di dimensio-
ni modeste», egli spiegava. «Ma come animale nomade, ormai da quarant’anni si lascia
dietro una traccia lunga e intricata»32. Il suo viaggio letterario non doveva dunque fini-
re con un nòstos liberatore e redentore, ma con un ritorno definitivo verso l’universo
concentrazionario. Il trauma di Auschwitz doveva così perdurare inesorabilmente:

Come Rumkomski […] dimentich[iamo] la nostra fragilità essenziale […]


dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del
recinto stanno i signori della guerra, e che poco lontano aspetta il treno33.

versazioni con Primo Levi, Milano, Mursia, 1992. Nel progetto dell’autore, I sommersi e i salvati
doveva essere il titolo del suo primo libro. Ma Franco Antonicelli, suo primo editore, era stato
colpito dalla forza dell’espressione «se questo è un uomo» inserita nella poesia in epigrafe. Suggerì
così a Levi di modificare il titolo.
29
Intervista realizzata da Gianni Milani, Al chimico va stretta la memoria del Lager, in «Piemonte
Vip», marzo 1986, p. 19.
30
Primo Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 651: «Since then, at an uncertain hour,/ That
agony returns:/ And till my ghastly tale is told/ This heart within me burns», S.T. Coleridge, The
Rime of Ancient Mariner, vv. 582-585. Nel 1984, Primo Levi si era già ispirato a Coleridge intito-
lando la sua raccolta di poesie: Ad ora incerta («at an uncertain hour», in Id., Opere II, cit.). Questa
raccolta annunciava I sommersi e i salvati.
31
Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta, cit.
32
Primo Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 790.
33
Ivi, p. 444.

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