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Massimiliano Ghilardi, Gianluca Pilara

La città di Roma nel disegno di riordinamento


politico e amministrativo di Giustiniano

introduzione di
Ludovico Gatto
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00173 Roma
(06) 93781065

ISBN 978–88–548–5041–5

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senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: agosto 2012


Indice

5 Introduzione (Ludovico Gatto)

PARTE I
Giustiniano e l’Occidente. Indagine storica di un’età di
trasformazioni politiche e sociali
(Gianluca Pilara)

17 Capitolo I
Aspetti politico-sociali in Italia prima dell’intervento di
Giustiniano

39 Capitolo II
L’azione militare di Giustiniano per la riconquista del
territorio occidentale

65 Capitolo III
I Bizantini in Italia

75 Capitolo IV
Organizzazione del potere civile e militare in Occidente

3
4 Indice

91 Capitolo V
Riforme economiche e riassetto sociale nel piano giuridico di
Giustiniano

PARTE II
Roma giustinianea. Fonti letterarie e testimonianze archeologiche
(Massimiliano Ghilardi)

111 Capitolo I
Premessa. Roma di Giustiniano o Roma al tempo di
Giustiniano?

121 Capitolo II
Roma al tempo delle guerre greco-gotiche nel racconto di
Procopio

177 Capitolo III


Forma urbis: fonti letterarie, contesti monumentali e dati
archeologici a confronto

205 Capitolo IV
Dopo le guerre gotiche. Pragmatica sanctio e restauri cittadini

215 Alcuni spunti bibliografici (a cura di Gianluca Pilara)


Introduzione

Il volume La città di Roma nel disegno di riordinamento politico


e amministrativo di Giustiniano, di Massimiliano Ghilardi e Gianluca
Pilara, ripercorre le fasi di un contesto urbano e politico particolare
ed interessante per Roma sotto vari aspetti. L’Urbe, infatti, nel
periodo qui preso in esame – il pieno secolo VI, per l’appunto − ha
conosciuto diversi mutamenti sotto i più distinti profili, storici
sociali culturali giuridici, offrendo a tutti gli studiosi interessati a
tali questioni un panorama ricco di informazioni utili ad
approfondimenti e a ricerche di diversa natura. La ricchezza di
conoscenze e di informazioni che questa epoca sa offrire ai cultori
delle distinte discipline è ben supportato da un’altrettanto cospicua
fruibilità di fonti letterarie antiche, legate al sistema religioso e a
quello laico, alla sfera civile e a quella ecclesiastica, al mondo
romano e a quello germanico.
Il racconto degli eventi che hanno fatto da sfondo a questo
lavoro, secondo le competenze proprie degli Autori, ha interessato
per primi gli aspetti storici a partire dall’analisi della situazione
politica italiana e romana durante il periodo di presenza germanica,
per poi affrontare gli argomenti più strettamente connessi allo
scopo della ricerca stessa; ossia la politica militare e poi economica
e sociale dell’imperatore Giustiniano (527-565), vero restauratore
dell’Impero e della romanità. La medesima attenzione rivolta da
Pilara alle questioni romane è stata successivamente rinnovata da

5
6 Introduzione

Ghilardi che, con estrema cura ed incentrandosi soprattutto sui


contesti urbanistici e monumentali, ha voluto rileggere le pagine di
storia ostrogota fino al ritorno delle armi imperiali, mettendo in
risalto il ruolo essenziale della corte di Giustiniano nella rinascita
di una identità propria della città e dei suoi abitanti attraverso una
partecipazione attiva agli eventi bellici che hanno sconvolto l’Urbe
e tutta la penisola nei lunghi diciotto anni di scontri.
Tra le caratteristiche volte a contrassegnare gli sviluppi della
drammatica vicenda gotico-bizantina, snodatasi fra gli ultimi anni
del V sino a oltre la seconda metà del VI secolo, possiamo
senz’altro rilevare fra Oriente e Occidente la costante presenza di
una reciproca incomprensione e di un’altrettanto pericolosa e
reciproca diffidenza, destinate a provocare tra i suddetti diversi
Stati, momenti sempre più frequenti di dissidio e rivalità.
Gli imperatori costantinopolitani, dopo la deposizione di
Romolo Augustolo, altro non ebbero fra i punti essenziali del loro
disegno politico, che il desiderio di realizzare una reductio ad
unum, capace di riunificare sotto le antiche e gloriose insegne di
Roma, con le terre del Bosforo, quelle costituenti l’avito nucleo
nato all’inizio attorno al Tevere. Mirando pertanto a tal fine
prioritario, essi finirono per temere e per rinvenire, anche
ingigantito, da ogni parte il moltiplicarsi di pericolosi nemici
intenti a minare il loro progetto e a rafforzare i loro contingenti
militari per mare e per terra e a preparare rovinosi conflitti, onde
ricostituire una pars Occidentis distinta e contrapposta alla
“seconda Roma” e alla sua stessa esistenza.
Così essi vollero a ogni costo scardinare il potere di Odoacre
originariamente sostenuto da Bisanzio e quindi dai medesimi
“Augusti”, destituito allorché Zenone, ovvero colui che ne aveva
consentito l’ascesa, guardò con perplessità e malcelato timore le
mosse del nuovo potentato veduto di malocchio, in quanto desideroso
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di stabilire, specie alle frontiere orientali, una demarcazione troppo


netta con le province dell’est.
Pertanto, lo stesso Zenone, determinato a liberarsi di un
potenziale e pericoloso nemico, finì per spingere verso la penisola
italiana il re degli Ostrogoti, Teoderico, con il preciso compito di
riconquistare le terre che avevano formato il primo nucleo della
potenza romana.
Ma sin dall’inizio bisogna ricordare che quell’imperatore aveva
tenuto rapporti ambigui con Odoacre, non aveva voluto riconoscere
il suo governo in Italia e sin dal principio aveva ammonito il
barbaro a riconoscere l’imperatore deposto Giulio Nepote, di tutto
desideroso meno che di riprendere un trono che non era riuscito in
alcun modo a gestire.
Peraltro sempre Zenone sospettò il magister militum di aver
concluso un patto segreto con il generale Illo, un ribelle di
nazionalità isaurica, per attizzare contro l’Oriente il bellicoso
popolo dei Rugi. Odoacre tuttavia, ritenendo ancora possibile – ma
si faceva eccessive illusioni – di poter alfine stabilire e mantenere
un rapporto corretto con i Costantinopolitani, sconfisse i nemici di
Roma e dell’Impero, trasse in catene il sovrano dei Rugi, Feba, e
fece anche di più: ovvero consegnò una parte cospicua del bottino
all’imperatore il quale fu costretto, ma solo apparentemente, a
ricredersi e persino a congratularsi per la sua completa e insperata
vittoria.
Una volta poi che, al termine di vicende intricate e torbide, fu
sconfitto il patricius utriusque miliciae, giunse il momento di
Teoderico, proveniente dalle terre della Drava e della Sava. Questi,
spinto ancora una volta da Zenone, entrò in Italia dalle Alpi
Orientali e dopo il susseguirsi di vittorie conquistò e governò la
penisola italiana in nome di Bisanzio cui lo legava una lunga
consuetudine, in quanto egli era cresciuto nella capitale d’Oriente
ove risiedette come ostaggio e ricevette un’educazione che gli
8 Introduzione

consentì di parlare bene il greco e il latino e di abbracciare più


convintamente di molti occidentali l’idea di Roma imperiale, alla
quale fu legato e che cercò a suo modo di attuare immettendovi la
linfa vitale di cui apparve dotato il suo popolo di origine
germanica.
Dopo il 500, in conseguenza della conquista di Ravenna e
soprattutto di Roma, come è più che noto, seguì un ventennio di
grandi realizzazioni teodericiane, all’interno con la ripresa
dell’edilizia e dell’urbanistica e il potenziamento dell’agricoltura, e
in politica estera con il conseguimento di promettenti successi. E
ciò bastò perché Bisanzio, in quell’occasione ancora, risultasse
scossa dal timore che l’iniziativa teodericiana fosse destinata a
sviluppare una politica imperiale antibizantina e quindi non pensò
ad altro che a contrastare e a vanificare l’azione del sovrano amalo.
Quest’ultimo da parte sua, in tal modo, non diversificandosi
molto dal suo predecessore Odoacre, cercò di attuare una nuova
forma di potere che non avrebbe avuto un’evoluzione imperiale e
che, lungi dal fondarsi sulla ricostituzione del vecchio Impero,
aveva come fine la creazione di un nuovo soggetto politico romano
e germanico, lo stesso che in qualche modo intesero realizzare, non
riuscendovi, i Longobardi e che, molto più tardi, fra l’VIII e il IX
secolo, fu finalmente ideato e consolidato da Carlo Magno.
Ma certo, se Teoderico ebbe chiaro nella mente il suo proposito
e cercò di portarlo a compimento al di là della presenza bizantina,
non riuscì a intendere con egual nitidezza l’impatto che il suo
programma poteva avere sugli eredi di Costantino e Teodosio. E
quindi se da parte orientale vi fu un intensificarsi di timori per le
singole mosse e le singole realizzazioni dei Goti, questi ultimi
furono tutto sommato convinti di riuscire ad evitare un esiziale
scontro, continuando a manifestare i loro propositi di pace e il loro
desiderio di rispettare in tutto l’Impero. Di tal convinzione infatti
possiamo essere certi, tenendo soprattutto conto delle Variae di
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Cassiodoro nelle quali una lettera dopo l’altra è costellata di intenti


pacificatori e di dichiarazioni volte a riconoscere il primato
dell’Impero, il quale rispose con l’esternazione di intenti sempre
più punitivi e bellicosi destinati a costituire la premessa dell’inevitabile
futuro conflitto.
Peraltro la riuscita più che difficile, impossibile di un simile
piano avrebbe dovuto basarsi anzitutto su un accordo organico con
la Chiesa di Roma e i suoi pontefici e in particolare con gli
esponenti dell’aristocrazia romana, con il filosofo Severino Boezio,
l’autore del De consolatione philosophiae e con il senatore
Cassiodoro che nelle già ricordate Variae e nella purtroppo perduta
Historia Gothorum esaltò gli elementi di romanità di Teoderico e
dei suoi successori, ritenendo che questi, seguendo tale
impostazione, sarebbe riuscito a salvare un accordo sempre più
pericolante.
Il sogno pacificatore dell’Amalo, tuttavia si infranse nel punto in
cui, attorno al 519, cessò l’eresia acaciana e il pontefice riunificò la
Chiesa romana con la bizantina. L’imperatore Giustino riprese
infatti con maggior vigore la precedente politica antiariana, cosa
che rese più malfidato che mai Teoderico – ecco ancora una volta
determinarsi il noto e dannoso contrappunto di sospetti incrociati –
il quale con un rapido e incauto mutamento di fronte adottò un
atteggiamento dapprima timoroso, poi sempre più avverso al
pontefice e agli elementi romani in particolare contro Boezio
processato e condannato a morte.
Pertanto ogni residua possibilità di far sopravvivere un potere
goto accanto a quello bizantino, scomparve del tutto e si profilò con
chiarezza la conclusione della vicenda che non avrebbe potuto
avere altro che un esito: ossia la guerra che per quasi un ventennio
squassò la penisola italiana e soprattutto Roma divenuta così centro
di assedi, di battaglie e di distruzioni che alla fine del conflitto
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gotico-bizantino, la videro duramente sconfitta ed enormemente


provata dal punto di vista politico ed economico, oltre che urbanistico.
Roma si rivelò in tal modo uno dei centri in cui l’insanabile
contrasto fra Goti e Bizantini raggiunse il punto maggiormente
cruento e nel volume che qui presentiamo, Massimiliano Ghilardi e
Gianluca Pilara hanno voluto ancora una volta porre l’accento sulle
alterne vicissitudini dell’Urbe in quel delicatissimo momento della
sua esistenza. La storia di Roma nei secoli del passaggio fra il
mondo antico e il Medioevo e soprattutto fra la fine del V e la
prima metà del VI secolo, è stata oggetto di ripetuti e significativi
contributi scientifici che Ghilardi e Pilara hanno tenuto presenti e
che hanno ripetutamente utilizzato, partendo dall’attenta
consultazione delle fonti.
Nel presente lavoro sia nella prima parte curata da Pilara sia
nella seconda frutto dell’impegno di Ghilardi, tornano altresì nuovi
e meno nuovi motivi connessi alla vicenda del grande sovrano goto
e a Roma soprattutto, ove si concentrarono ed esplosero i nefasti
effetti della lunga guerra iniziatasi nel 535 e terminata nel 553.
Viene posta così in evidenza la triste situazione dei cittadini
dell’Urbe, colpiti ripetutamente da ben quattro assedi, uno più
dannoso dell’altro, che finirono per compromettere in modo quasi
irreparabile il tessuto urbano sino ad allora non proprio
irrimediabilmente danneggiato dai precedenti assalti dei Visigoti
alariciani del 410 e dai Vandali di Genserico del 455.
Emerge poi con chiarezza come i guasti apportati alla più grande
città dell’Impero avrebbero potuto ampliarsi ancora a dismisura se,
grazie a provvidenziali e abili trattative qui ben sunteggiate, non si
fosse riusciti, specialmente da parte bizantina a circoscrivere e ad
evitare la distruzione totale delle mura aureliane e delle Regiones
racchiuse al loro interno.
Il susseguirsi di tante calamità è tale da rendere più timorosi e
silenziosi che mai i Romani, un tempo animati da spirito
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imprenditoriale e pieni di impeto decisionale. Per cui allorché


Pelagio riuscì a far sì che gli assalitori non infierissero vieppiù sui
buoni Quiriti, schiere numerose di cittadini, spaventati e colpiti dai
morsi della fame, abbandonarono quel che restava dell’abitato, per
recarsi verso il sud della penisola nella convinzione che lì sarebbe
stato possibile rinvenire salvezza e cibo che nella vecchia metropoli
sembrava ormai impossibile trovare.
Dopo gli ultimi eventi bellici la città s’era dunque così spopolata
che – ci ricorda Procopio – in uno dei consueti spettacoli indetti al
Circo Massimo per dare alla popolazione l’impressione che si
stesse tornando a una vita normale, i cittadini amanti delle rappre-
sentazioni ginniche e circensi, evitarono di recarsi a
quell’appuntamento, così che le gradinate del grande complesso di
solito gremite apparvero quasi vuote.
Di tal situazione grave per Roma, quasi al limite della
sopravvivenza, peraltro ci si rende conto tenendo presenti non
pochi aspetti della Pragmatica Sanctio di Giustiniano – anch’essa
più volte menzionata dagli Autori – in cui l’imperatore, anche per
consiglio del generale Narsete, cercò di venire incontro alle più
urgenti necessità della vecchia capitale, abbandonata e bisognosa di
imponenti e immediati aiuti.
Accanto a questi aspetti non circoscrivibili soltanto alla
situazione dell’Urbe e da rapportarsi, più o meno, a tutto il
territorio della penisola, ma che qui risultano ancora più ingigantiti,
nel presente studio viene presa in considerazione la situazione
critica del papato e soprattutto di alcuni vescovi della città di
Roma, in particolare di Silverio, il suddiacono figlio di papa
Ormisda, di cui i Goti si fidarono in quanto, come pontefice, aveva
cercato di lavorare d’accordo con l’elemento ariano, favorendo in
alcuni anni se non altro una possibile convivenza con i cattolici.
La sua successione sul trono di Pietro, s’era svolta in
un’atmosfera turbata dalle pressioni dei sovrani e Silverio fu eletto
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nel 533 tra vivaci e impensabili contrasti, tanto che alla sua
consacrazione si giunse addirittura con la minaccia delle armi gote,
mentre i soldati del generale Belisario, appositamente inviati da
Giustiniano, conquistarono con la loro flotta la Sicilia e il
Mezzogiorno della penisola italiana, avanzando subito dopo alla
volta del nord.
Il seguito della vicenda è ben noto e viene qui brevemente
ripercorso e soprattutto si insiste sul sospetto dei Bizantini, circa un
complotto dei Romani con i Goti di cui vittima illustre e forse
inconsapevole fu proprio Silverio che, accusato di trattare subdo-
lamente con Vitige, fu deposto e inviato a Giustiniano che incerto
sulla sua effettiva colpevolezza, dopo averlo trattenuto presso di sé
per un certo tempo lo rinviò a Roma donde, anche per le subdole
manovre di Teodora e di Antonina, la consorte del generale
Belisario, venne relegato a Ponza ove fu imprigionato e assassinato.
La materia del libro, è più che chiaro, non è nuova, ma Ghilardi
e Pilara con lucidità riescono a riprendere e ad annodare le fila di
vecchi e recenti contributi, riesaminando fonti in varie occasioni
già sceverate ma che è sempre conveniente sottoporre a nuovi
esami. E quindi anche episodi più e più volte analizzati, finiscono
quasi per acquistare un sapore di novità, accostati come sono a
questioni, personaggi e momenti differenti e significativi.
I fatti raccontati ed analizzati approfonditamente nel libro
mettono in luce le enormi difficoltà affrontate dalla città di Roma e
dai suoi abitanti durante il conflitto e soprattutto fanno emergere la
preponderante figura dell’imperatore Giustiniano, che in queste
pagine di storia diviene il punto fermo della rinascita e del
riordinamento amministrativo e politico di una realtà sociale
confusa e disgregata.
Desiderosi, dunque, di ritornare sui passi di un’indagine radicata
nelle testimonianze antiche e nelle documentazioni materiali,
Ghilardi e Pilara si sono ripromessi in questo lavoro di
Introduzione 13

approfondire determinati contesti e tentare di risolvere questioni


ancora suscettibili – nonostante i pur numerosi contributi emersi in
questi ultimi decenni – di adeguati ragionamenti e di necessarie
analisi, volendo così affrontare le numerose dinamiche storico-
politiche e topografico-monumentali di questi difficili momenti
della storia occidentale con la determinatezza di chi vuole scrutare
in ciò che è ben conosciuto elementi ancora nuovi e interessanti, e
soprattutto utili a perseguire gli scopi ultimi che il ricercatore
desidera raggiungere con il proprio impegno scientifico.
In conclusione, nella ricerca che nel volume è raccolta, Roma
appare, come dianzi accennato, il centro ove si ripercuotono eventi
di ogni tipo, svoltisi in Occidente come in Oriente e nella penisola
italiana in generale; e inoltre essa si rivela sempre come oggetto di
importanti lavori di storia. Quindi è ben vera la conclusione di chi
afferma che l’Urbe costituisca per tutti un tema incomparabile di
indagine, sempre originale e denso di felici conclusioni, soprattutto
per chi sappia avvicinarvisi con umiltà e con curiosità come hanno
fatto gli Autori in questo lavoro utile ed efficace.

LUDOVICO GATTO

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