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PER IL SESTO CENTENARIO DELLA MORTE DI GIOTTO: Giotto a Napoli e gli avanzi di

pitture nella Cappella Palatina Angioina


Author(s): R. Filangieri
Source: Archivio Storico Italiano , 1937, Vol. 95, No. 2 (362) (1937), pp. 129-145
Published by: Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.

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PER IL SESTO CENTENARIO DELLA MORTE DI GIOTTO

Giotto a Napoli e. gli avanzi


di pitture nella Cappella Palatina Angioin

Già sessantenne, quando già da molti anni era su


« grido » nella pittura, Giotto, cedendo ad un invito
« savio », trasferiva la sua dimora a Napoli per rapprese
le sue ultime due grandi opere pittoriche, oggi dolorosa
scomparse.
Le fonti storiche del periodo napoletano della vita del
sommo artista, già in massima parte note agli storici del
l'arte1, furono riassunte con sana critica da Fausto Nicolini
nel suo dotto commento alla lettera di Pietro Summonte a
Marcantonio Michiel2. In guisa che, sui punti fondamentali,

1 H. W. Schulz, Denkmaeler der Kunst des Mìttelalters in Un


terilalien, Dresden 1860, IV, doc. 406; C. Minieri Riccio, Saggio di
codice diplomatico, Napoli, 1879, II, i, 16 ; Genealogia dì Carlo II
d'Angiò, in Archivio storico napoletano, VII, 676; G. Filangieri di
Satriano, Documenti per la storia delle arti, ecc., Napoli 1891, V,
319 sg. ; M. Camera, Annali delle Due Sicilie, Napoli 1860, ii, 162
sg., 367 sg., 416 sg. ; W. Rolfs, Geschichte der Malerei Neapels,
Leipzig, 1910, pp. 47 sg. ; A. Venturi, La Pittura del Trecento,
Milano, 1907; A. de Rinaldis, Santa Chiara, Napoli 1920, passim;
R. Van Marle, The development of the Italian school of painting,
The Haque 1923-1928, voi. V.
2 F. Nicolini, L'arte napoletana del Rinascimento e la'lettera di
P. Summonte a M. A. Michiel, Napoli 1925, pp. 178-190.

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13° R. Filangieri

non molto c'è dato di aggiungere a quanto è già acquisito alla


storia.

Tuttavia, prima di render conto degli ultimi ritrovamenti


di Castel Nuovo, non sarà inutile di riesaminare le fonti per
trarne, in rapporto alle vicende dell'arte in Napoli dopo la
partenza del Maestro, quei corollari che meglio potranno il
luminare il nostro argomento.
È già noto quel che ci dicono i registri della Cancelleria
angioina: l'8 dicembre 1328 il Maestro è già a Napoli e gli
viene assegnato uno stipendio; il 20 gennaio 1330 il Re gli
concede un privilegio di familiarità; dal 13 settembre 1329 al
5 gennaio 1330 egli è sicuramente protomaestro delle pitture
che si eseguono nelle cappelle della reggia; il 16 marzo 1332
il Re lo gratifica di una somma di danaro ; il 26 aprile suc
cessivo gli assegna una provvigione di 12 once d'oro all'anno3.
L'ultima notizia della sua dimora a Napoli è probabilmente
quella di una vertenza giudiziaria che il Maestro insieme
con un notaio di nome Amico avrebbe avuto nel 1332 o nel
x333 contro un tal Giovanni da Pozzuoli4.
Altro gruppo di testimonianze rileviamo presso i contem
poranei o presso gli scrittori posteriori di cose d'arte.
È noto il passo del Petrarca nell'Itinerarium Syriacum,
ove egli indica al viaggiatore la famosa cappella regia an
gioina « in qua — dice — conterraneus olim meus, pictor
nostri aevi princeps, magna reliquit manus et ingenii monu
menta » 6. E pure noto è quanto Lorenzo Ghiberti attestò nei
suoi Commentari, cioè che Giotto « molto egregiamente di

3 Archivio di Stato di Napoli, Cancelleria Angioina, reg. 1328. B,


f. 367, mancante (cit. in repert. Vincenti-Sicola, voi. 10, f. 119);
reg. 274, f. 20; reg. 2S5, f. 213; reg. 287, f. 227; reg. 286, f. 74.
4 Arch. St. Nap., De Lellis, Notamenta, voi IV bis, f. 972.
5 F. Petrarca, Itìneriarum Syriacum, pr. G. Lumbroso, Memo
rie italiane del buon tempo antico, Torino, Loescher, 1889.

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La dimora di Giotto a Napoli 131

pinse la sala del re Uberto (sic) de uomini famosi e nel


castello dell'Uovo »
Meno esatto è quello che si legge in quell'antico notiziario
noto col nome di Libro di Antonio Billi, dove si attribuiscono
a Giotto gli affreschi di Santa Chiara e quelli dell'Incoronata
e si narra la storiella per la quale il pittore, invitato dal Re
a rappresentare il Regno, avrebbe dipinto un asino imbastato
nell'atto di mostrar desiderio di un basto nuovo che gli stava
dinanzi, allegoria del popolo napoletano sempre desideroso di
mutar sovrano7.
Le stesse notizie furono ripetute dall'Anonimo Gaddia
no, con l'aggiunta che il Maestro avrebbe rappresentato in
Santa Chiara l'Apocalisse, aiutato in ciò da Dante, che, ban
dito da Firenze, si sarebbe trovato in quel tempo a Napoli8.
Pietro Summonte, nella citata lettera al Michiel, con
fermò la totale spettanza a Giotto delle pitture di Santa
Chiara e della Cappella di Castel Nuovo e di alcune piccole
tavole di soggetto sacro, che la regina Sancia avrebbe lascia
to al monastero delle Clarisse0.
Il Vasari, oltre a ripetere tutto quel che avevano detto il
Ghi'berti, l'autore del Libro del Billi e l'Anahàmo Gaddiano,
scrisse che Giotto sarebbe stato inviato a Napoli da Carlo
Duca di Calabria in seguito a richiesta del Re, il quale voleva
affidargli la decorazione pittorica di Santa Chiara ; che in
questa chiesa il Maestro avrebbe rappresentato l'Apocalisse
e le istorie del vecchio e del nuovo Testamento; che avrebbe
indi dipinta la cappella di Castel dell'Ovo, e che nella sala
degli uomini famosi avrebbe eseguito l'autoritratto. Ci regala

6 L. Ghiberti, Commentari, pr. C. Frey, Vita di L. Ghiberti,


Berlino, 1886.
7 C. von Fabriczy, in Arch. stor. ital., serie V, T. VII (1891),
p. 3£8 e sg.
8 C. von Fabriczy, in Arch. stor. ita!.., cit., p. 357.
9 F. Ntcolini, op. cit., p. 159.

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132 R. Filangieri

infine un aneddoto : avendogli detto il Re per giuoco di volerlo


creare « il primo uomo di Napoli », egli avrebbe spiritosa
mente risposto di esserlo già, perchè alloggiato a Porta Reale,
che era uno degli ingressi della città dalla parte della reggia10.
Che la venuta di Giotto a Napoli abbia rapporto con la
permanenza del Duca di Calabria a Firenze nel tempo che egli
ne tenne la Signoria (1326-1327) è possibile. Tanto più che
Giotto eseguì il ritratto del Duca genuflesso davanti alla
Vergine in Palazzo Vecchio11. Non è però esatto che il Duca
stesso lo abbia inviato al padre, perchè il Maestro cominciò
a percepire il suo stipendo in Napoli soltanto col i° dicem
bre 1328, quando cioè il Duca era già morto.
Ciò però non esclude che l'invito a Giotto di recarsi a
Napoli possa essergli stato rivolto dal Duca nel 1327 e che
egli abbia potuto aderirvi con un ritardo, che non sarebbe stato
minore di un anno.
Dei due grandi cicli di pitture eseguiti da Giotto in
Napoli, è molto probabile che quello di Santa Chiara fosse
stato iniziato prima di quello di Castel Nuovo. Difatti, men
tre il Maestro, come ho detto, era già a Napoli il 1° dicem
bre 1328, non prima del 13 febbraio 1329 il Re ordinò le
pitture della Cappella Palatina di Castel Nuovo ed il com
pimento di quelle della « Cappella segreta », e non prima
del 5 agosto successivo fu fatto il primo pagamento per tali
opere u.
Delle pitture di Santa Chiara che, secondo il Vasari,
sarebbero state il movente della chiamata di Giotto, unica
fonte è il Libro del Billi, dal quale han tratto l'Anonimo Gad
diano e poi il Summonte ed il Vasari.
Se non è da escludersi che in queste pitture fossero state
rappresentate scene dell'Apocalisse, è favola certamente che

10 G. Vasari, Le vite, ediz. Milanesi, Firenze 1906, I, 389.


11 G. Vasari, op. cit., loc. cit., n. 4 del Milanesi.
18 Arch. St. Nap., Cane, angioina, reg. 285, f. 213.

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La dimora di Giotto a Napoli 133

Dante ne abbia personalmente ispirata la concezione e gui


data l'iconografia. Non egli, già morto da vari anni, ma sol
tanto il divino poema potette, se mai, ispirare il pennello di
Giotto.

Il Vasari, oltre che dell'Apocalisse, parla delle istorie


del Vecchio e del Nuovo Testamento, ciò clie lascia dubitare
al Nicolini che egli abbia confuso questo col ciclo pittorico
rappresentato nella Cappella Palatina. Sembra tuttavia poco
probabile che il Vasari non abbia veduto o almeno avuto si
curo referto di quelle pitture, che furono distrutte soltanto
nel secolo XVIII.

Circa l'ubicazione di questi affreschi, con ottime argo


mentazioni sostiene il Nicolini che esse adornassero il gran
dioso coro delle monache, che sorge dietro l'abside della
chiesa. Il Summonte parla infatti della « ecclesia delle Mo
nache », mentre che la chiesa vera e propria era officiata dai
frati, e dice la prima essere « tutta pinctata di sua mano », ciò
che non è possibile si riferisca alla chiesa grande, di cui
l'enorme superficie di mura non potè essere tutta dipinta da
Giotto, il quale nei quattro anni che passò a Napoli attese an
cora ad altre opere di mole.
È quindi nel grandioso coro delle Monache, dove ancora
si vedono le pareti scompartite per accqgliere numerose isto
rie, che Giotto compose un ampio ciclo di pitture. Queste nella
prima metà del Settecento un ignorante reggente della chie
sa, il Barrionuovo, fece vandalicamente ricoprire di stucchi
e vi fece narrare da modestissimi penndlli le istorie della
Vergine.
Le pitture della grande Cappella della reggia, che il Re
avrebbe ordinate per remissione dei peccati del Duca, hanno
una larga documentazione e gli autorevoli attestati del Pe
trarca e del Summonte ia. Da quest'ultimo sappiamo che esse

13 La cappella palatina fu iniziata da Carlo II nel 1307 (la prima


notizia della fabbrica è del 18 settembre di quell'anno) ; fu continuata

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134 R. Filangieri

rappresentavano « lo Testamento vecchio e nuovo » e che al


tempo di Ferrante I d'Aragona « un suo consigliero, poco bon
iodice di cose simili, extimandole poco, fe' dar nuova tunica
ad tutte quelle mura; lo che — soggiungeva il chiaro uma
nista — dispiacque e dispiace anco oggi ad tutti quelli che
hanno alcun iudicio »

Le indagini fatte durante i recenti lavori di restauro


della cappella hanno meglio spiegato il perchè della distru
zione di questi dipinti. Nel catastrofico terremoto del 4 di
cembre 1456, la parte superiore della parete meridionale della
cappella dovette o crollare o più probabilmente esser ridotta in
tale stato da dovere esser demolita. Certo è che è stata rin
venuta la muratura dalle chiavi degli archetti dei fìnestroni
in su intieramente ricostruita con conci di tufo del tipo ado
perato nella ricostruzione aragonese del Castello. Nello stesso
tempo i fìnestroni gotici originari sono stati trovati aperti
nelle chiavi da larghe fenditure e tutti murati a fabbrica
piena. Da ciò appar chiaro che una buona parte delle pitture
giottesche soggiacque alla rovina del terremoto, mentre che
la muratura dei vani dei fìnestroni creò nelle pareti lacune in
mezzo ai dipinti. E non è improbabile che altri danni avesse
prodotto agli affreschi qualche parziale caduta d'intonaco. Il
cattivo consiglio seguito da Ferrante, al quale allude il Sum
monte, non dico che abbia una giustificazione, ma trova al
meno una spiegazione in questo grave dissesto statico pro
dotto dal terremoto.
La decorazione della grande cappella non fu terminata da
Giotto, perchè in un apodissario del 6 dicembre 1333, ed an
cora in un ordine dato a.i tesorieri il 30 luglio 1336, si parla

da Roberto dopo la morte del padre (5 maggio 1309), che nel suo
testamento glie ne aveva dato incarico. L'ultimo pagamento di cui è
notizia è del 26 marzo 13ri (Arch. St. Nap., Cane, ang., reg. 167,
f. 371 t. ; reg. 197, f. 274).
14 F. Nicolini, op. cit., p. 159 sg.

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La dimora di Giotto a Na-poli 135

della pittura che ancora si andava facendo in q,uella cap


pella 1o. Sotto la prima di tali date probabilmente, sotto la
seconda sicuramente, Giotto non era più a Napoli ; ed è chiaro
che furono i suoi aiuti che terminarono l'opera.
Fra le opere di cui è notizia nel rendiconto presentato il
20 marzo 1331 da Giovanni Preposito, castellano di Castel
Nuovo ed amministratore delle opere che si facevano nella
reggia, vi è una cona che Giotto dipingeva nella propria casa
per ordine del Re. Di questo dipinto non è più traccia. Nello
stesso rendiconto infine si parla del compimento della decora
zione pittorica di un'altra cappella della reggia, detta la
« cappella segreta », ugualmente affidata a Giotto, che di tutte
queste opere è detto frothomagìster™.
Questa cappella, detta altrimenti «parva», non esiste
più, essendo stata distrutta nella totale trasformazione del
Castello attuata da Alfonso I d'Aragona verso la metà del
secolo XV. Essa stava accanto all'appartamento reale17; e
non è da confondersi nè con la cappella di San Martino,
eretta soltanto nel 1334 presso la grande Cappella, nè con la
cappella del parco (caffella jardeni) e forse neanche con
una delle due cappelle affrescate da Montano d'Arezzo nel
1305, salvo che non si voglia ammettere che quel pittore al
meno una l'avesse soltanto iniziata e che Giotto l'avesse com
piuta, oppure che fossero quei dipinti andati distrutti .nel
l'incendio del 131718,

15 Arch. St. Nap., Cane, ang., reg. 293, f. 392 ; reg. 310, f. 131.
16 Arch. St. Nap., Cane, ang., reg. 285, f. 213.
17 Arch. St. Nap., Cang. ang., reg. 209, f. 337 ; reg. 310, f. 222 t. ;
reg. 209, f. 174.
18 R. Filangieri, Rassegna critica delle fonti per la storia di Castel
Nuovo, in Arch. stor. napol., LXI, (1936), p. 41 dell'estratto. Il
Nicolini (op. cit., 188) identifica una delle cappelle ove dipinse Montano
di Arezzo con la grande cappella, l'altra con la cappella segreta. Se
quest'ultima ipotesi è poco probabile, la prima non è ammissibile,
perchè la costruzione della grande cappella non fu iniziata prima
del 1307, cioè due anni dopo che Montano aveva eseguito le pitture.

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136 A'. Filangieri

L'altra opera importante del Maestro in Castel Nuovo


fu la decorazione della Grande Sala angioina. Questa sala, co
struita da re Roberto accanto alla Cappella Palatina, sostituì
nella funzione di sala maggiore del Castello l'antica Saia del
Tinello, che nel 1317 in seguito all'incendio era stata trasfor
mata in appartamento della Duchessa di Calabria. La nuova
sala, che occupava un'area molto più limitata di quella della
•esìstente Gran Sala aragonese, doveva essere da poco terminata
quando Giotto, stando al Ghiberti, vi rappresentò, giusta uno
schema decorativo abbastanza comune nei castelli medioevali,
un ciclo eroico con immagini di illustri personaggi della mi
tologia e della storia.
La laconica notizia del Ghiberti è confermata e precisata,
salvo che per la paternità giottesca, da nove sonetti riportati
in vari codici fiorentini, ciascuno dei quali celebra uno degli
eroi rappresentati nella Sala10. Essi erano : Ercole, Achille,
Paride, Ettore, Enea, Salomone, Sansone, Alessandro e Ce
sare. E ciascuno di essi aveva accanto la propria eroina:
Deianira, Polissena, Elena, Andromaca, Didone, la Regina
di Saba, Dalila, Rosana e Cleopatra.
Il Vasari ripete che questi affreschi erano opera di Giot
to ; anzi dice che in uno degli eroi egli avrebbe rappresentato
sè stesso20.
L'epoca in cui la grande sala era stata certamente termi
nata ,(132-8), corrispondente con la venuta di Giotto a Na
poli, e la testimonianza del Ghiberti c'inducono a ritenere
assai verisimile che il Re avesse affidato al Maestro, che

19 Questi sonetti, scoperti dal Novati (Istoria di Patroclo e d'In


sidonia, Torino 1888, p. xi sg.) furono illustrati dal De Blasiis (Im
magini di uomini famosi in una sala di Castel Nuovo attribuiti a Giotto,
in Napoli Nobilissima, IX (1900), 65). Vedi P. Schubring, Uomini
famosi, in Repertorium f. Kunstwiss., XXIII, 424.
20 G. Vasari, ed. Milanesi, i, 390 sg.

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La dimora di Giotto a Napoli 137

lavorava nella contigua cappella, anche la decorazione della


maggiore sala della reggia.
Queste pitture anch'esse sparvero in una con la sala, co
me lo stesso Vasari attesta, quando Alfonso d'Aragona dovè
farla abbattere per fare erigere nello stesso luogo da Gu
glielmo Sagrera una sala molto più ampia e maestosa (1452).
Dal solo Ghiberti sappiamo che Giotto avrebbe dipinto
anche in Castel dell'Ovo. Ma poiché il nome di quel castello
è citato dopo la Sala di Castel Nuovo (il quale non è nomi
nato) si è generalmente ritenuto che lo scultore fiorentino avesse
confuso l'un castello con l'altro, come altresì spiegerebbe
l'assonanza dei nomi. Ma, stando alla lettera del passò citato,
parrebbe doversi intendere che, oltre che nella Sala di Castel
Nuovo, egli avesse dipinto anche in Castel dell'Ovo.
Nessun dipinto è ora in quel castello che possa attribuirsi
a Giotto. Non è però totalmente da escludersi che per adornare
qualche salja dei reali appartamlenti o di una delle due cap
pelle che vi erano il Re si fosse servito dell'opera dell'illustre
fiorentino.

Neanche è più traccia delle piccole tavole con immagini


di santi che, giusta quanto riferisce il Summonte, sarebbero
state portate dalla regina Sancia in Santa Chiara quando,
morto il marito, ella si dedicò a vita religiosa. Il Nicolini ri
tiene che due di esse potrebbero identificarsi con due tavole
giottesche che vide il Cavalcasene, una delle quali rappre
sentava una santa con un libro tra le mani, l'altra un santo
vescovo francescano col manto messo a gigli, che era eviden
temente San Ludovico d'Angiò Vescovo di Tolosa, fratello
di re Roberto21.
Di tutte le altre opere ora superstiti, che furono un tempo
legate al nome del Maestro, nessuna purtroppo è sua. Negli

21 Crowe e Cavalca selle, Storia della pittura in Italia, Firenze,


Le Monnier 1886, I, 546 sg. ; Nicolint, op. cit., 185 sg.

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138 R. Filangieri

affreschi dell'Incoronata, in quelli di Santa Chiara e di San


Lorenzo, la critica moderna ha dovuto necessariamente esclu

dere l'opera sua. Ed i modesti avanzi della decorazione pitto


rica della Cappella Palatina di Castel Nuovo, da poco venuti
alla luce, che pure le fonti documentali legano al suo nome,
neppure potremo attribuire alla sua mano.
Un'avversa fortuna pare incombesse sulla vasta e magni
fica fioritura d'arte che Giotto aveva prodotto sul suolo di
Napoli : ora le forze della natura, ora le trasformazioni edi
lizie rese necessarie dal progredire dei tempi, ora la pura e
semplice ignoranza degli uomini, hanno annientato ogni cosa.
E cosi è venuto a mancarci quasi per intiero l'ultimo capitolo
della vita artistica di quel sommo. E di grande interesse sa
rebbe stato invero di conoscere, dopo che la sua piena matu
rità si era rivelata nella cappella degli Sorovegni, nelle
« vele » di Assisi, nelle cappelle dei Peruzzi e dei Bardi, quel
che egli, ricco di esperienza, di anni e di onori, potè offrire
al Re mecenate e che riscosse la calda ammirazione del Pe
trarca.

Se però le opere della sua mano sono tutte perdute, tracce


dell'arte sua ancora sopravvivono nelle pitture dei suoi seguaci
nella seconda metà del Trecento. Gli affreschi dei Sacramenti
nell'Incoronata, che sono i più importanti che quel secolo ci
abbia tramandato, e che furono un tempo attribuiti allo stesso
Giotto, sono invece, come attesta il Summonte, opera di suoi
discepoli.
Ma dobbiamo accettare senza riserva l'attestato del Sum
monte? Molto si è scritto su questi dipinti, e chi vi ha ricono
sciuto un'arte prevalentemente giottesca, come il Fraschetti,
chi, come il Venturi e lo Schubring, vi ha veduto l'opera di
senesi, chi, come il Berenson, un pittore locale, tal Roberto
d'Oderisio, chi infine, come il De Rinaldis, vi ha più esatta
mente riconosciuto eclettici artisti napoletania.

22 S. Fraschetti, Gli affreschi dei Sacramenti nella Incoronata,

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La dimora di Giotto a Na-poli 139

Tali divergenze di giudizi sono perfettamente spiegabili,


in quanto figure ispirate a modelli giotteschi non vi mancano,
mentre, e forse prevalentemente, uno spirito narrativo più
umano e un certo senso decorativo li collegano più all'arte
senese. Ma nè fiorentini nè senesi li dipinsero.
Similmente il grande affresco del refettorio dei monaci
in Santa Chiara, più giottesco nella maestosa figura centrale
del Redentore, tende invece all'arte senese nelle più dolci e
serene figure di santi che gli stanno ai lati e in quelle più pic
cole dei principi angioini supplici ai loro piedi. Sempre nella
stessa chiesa più giottesca è la Pietà della quarta cappella a
destra, mentre che più senese è la Madonna della terza cappella
dal lato opposto.
Quando furono eseguiti tutti questi dipinti e quegli altri
dello stesso periodo che ancora si veggono nelle altre chiese
di Napoli, i grandi maestri non esistevano più, ma essi vi
avevano lasciato una cospicua eredità.
In uno dei citati documenti angioini è scritto che Giotto,
protomaestro nelle opere di pittura di Castel Nuovo, aveva la
collaborazione « diversorum magistrorum tam pictorum quam
manualium et manipulorum » 23.i Furono questi aiuti che, par
tito il Maestro, mandarono a compimento la grande cappella
e la cappella segreta, ove lavorarono almeno fino al 1336.
Oltre alle opere del Maestro, alle quali essi avevano col
laborato, di altri cospicui modelli essi disponevano, dovuti a
Montano d'Arezzo, a Pietro Cavallini, a Simone Martini, che
la pittura romana e quella senese avevano rappresentato sulle

in Flegrea, a. ii, voi. II, 410 sgg. ; A. Venturi, La Pittura del Tre
cento cit., 638 sg. ; P. Schubring, Die Frescken der Incoronata in
Neapel, in Repertorium f. Kunstwiss., XXIII, 345 sgg. ; Berenson,
A panel 0/ R. Oderisi, in Art in America, i, fase. i ; A. de Rinal
dis, Santa Chiara, cit., p. 207.
23 Arch. St. Nap., Cane, ang., reg. 285, f. 213 sg.

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140 R. Filangieri

ampie pareti della chiesa di Donnaregina e in altre chiese, in


freschi e tavole.
L'educazione artistica ricevuta direttamente dai maestri,
nella quale si rifletteva la varietà delle scuole, la varietà dei
modelli stessi, ai quali essi secondo il bisogno attingevano
elementi iconografici, non potevano che generare una produ
zione eclettica.

Delle tre principali correnti, la giottesca non ebbe molta


fortuna : i napoletani in genere non sentirono la maestosa so
lennità delle semplici composizioni di quel grande, ma si
orientarono volentieri alla ridente espressione ed alla ricchezza
decorativa della pittura senese. Non riuscirono però neanche a
rendere tutta la grazia ingenua dell'arte di Duccio e dei suoi
seguaci, perchè nella loro coltura fondamentalmente eclettica
là contaminazione dei tre stili e delle tre concezioni artistiche è
quasi un fatto costante.
Quest'arte, oltre che nei freschi e nelle tavole, ebbe largo
riflesso nella miniatura? e vari codici, alcuni dei quali assai
pregevoli, tuttora ne fanno testimonianza, primo fra tutti
forse quello degli Statuti dell'Ordine del Santo Spirito della
Biblioteca Nazionale di Parigi, alluminato presso la corte an
gioina nel 1352.
Poco sappiamo di questi discepoli napoletani, o collabora
tori, o seguaci, di Giotto e degli altri grandi maestri di quel
tempo. Il Summonte parla di un tal Farina (evidentemente so
prannome), che avrebbe eseguito i perduti affreschi della cap
pella di San Ludovico al Duomo.
Mentre Giotto era a Napoli, il pittore napoletano Pietro
Orimina [de Aurimina) dipingeva la cappella del Parco di
Castel Nuovo24.

24 Arch. St. Nap., reg. 1328, B, f. 135 t., cit. in Repert. Vincenti
Sicola, voi. 10, f. 118.

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La dimora di Giotto a Napoli

Un altro Orimina, Cristofaro, alluminatore, verso la metà


del secolo, miniava la celebre bibbia angioina di Nicola d'Alife,
che ora si conserva nel Seminario di Malines *.
Altri alluminatori alla corte di Roberto erano Luca da
Spoleto e Giovanni di Ypres 20.
Roberto d'Oderisio, che ottenne la familiarità da Carlo III
di Durazzo il io febbraio 1382, ci ha lasciato soltanto una
pala d'altare col Crocifisso nella chiesa di San Francesco in
Eboli, ove si rivela artista assai povero e ben impari al valore
delle pitture dell'Incoronata, che gli furono attribuite
Accanto a questi napoletani lavoravano anche pittori to
scani. Tra questi sono noti Andrea Vanni da Siena e Nicola
di Tommaso da Firenze. Il primo dipinse il quadro della Ma
donna nel santuario di Casaluce nel T355 ed una Annum
ziazione tuttora esistente nella omonima chiesa di Aversa.
Era familiare di Giovanna 128.
Dell'altro possediamo un trittico firmato e datato 1371
nella chiesa di Sant'Antonio Abate
Qualche napoletano si recò anche fuori del Regno, come
quel Pietro da Napoli che dipinse una Madonna con santi
nell'Ospedale di Santa Chiara in Pisa negli anni 1402-1405 ®°.
Tutte queste reciproche interferenze contribuirono ad un
sempre maggiore eclettismo della pittura a Nìapoli.
Le pitture rinvenute nel 1928 nella cappella palatina di

25 F. Forcellini, Un ignoto pittore napoletano del secolo XIV, in


Arch Stor. napol., XXXV (1910), 544.
26 R. Caggese, Roberto d'Angiò, II, 368.
21 Berenson, op. cit. ; Rolfs, op. cit., 62 sgg.
28 Rolfs, Geschichte der Malerei Neapels, cit., p. 63.
29 L. Salazar, La chiesa di S. Antonio abate, in Napoli nobilis
sima, Napoli 1905, XIV, 54 ; Rolfs, op. cit., 67 ; Venturi, La Pit
tura del Trecento cit., p. 776.
30 Nicolini, op. cit., 194 sg. ; Rolfs, op. cit., 72 sg.

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142 A'. Filangieri

Castel Nuovo non sono che resti importanti di una parte se


condaria della sua decorazione pittorica, e precisamente quella
delle strombature degli altissimi e sottili finestroni gotici.
Essendo stati questi finestroni murati in seguito al terre
moto del 1456, quando verso il 1470 re Ferrante fece asportare
dalle pareti della cappella gli affreschi di Giotto, questi resti
di pitture si trovavano già chiusi nella fabbrica e potettero così
giungere fino a noi.
Ciascuna di queste strombature è partita da un solco lon
gitudinale in due fasce, oltre la sottile cornice che reggeva le
vetrate. Le fasce esterne son decorate della solita imitazione
musiva cosmatesca, quale vediamo nella cappella degli Scro
vegni e in San Francesco d'Assisi, mentre che le interne son
messe a decorazione vegetale stilizzata. Soltanto nell'ampio ed
unico finestrone biforo, che si apre in fondo all'abside, ap
pare una decorazione di fogliame, ove è già un certo senso
naturalistico che par quasi preludere al Rinascimento. La
stessa decorazione troviamo, alcuni decenni più tardi, nelle
pitture dell'Incoronata.
Ma l'elemento interessante di questi resti sono i meda
glioni che ricorrono in ciascuna fascia delle strombature, ori
ginariamente in numero di circa dieci da ogni lato e per cia
scuna fascia. Essi sono inscritti in cornici esagone oppure
quadrilobate o polilobate con inflessioni in alcuni lobi, e vi
sono rappresentate per lo più teste, ed a volte, alternatamente
con quelle, armi angioine.
Le teste rappresentano, alcune santi e profeti, altre con
tutta probabilità ritratti di personaggi della Corte.
Le armi sono a loro volta alternate, di Francia (di
azzurro seminato di gigli d'oro) e di Gerusalemme (di ar
gento alla croce potenziata d'oro).
La varietà di stile e di tecnica che si riscontra nei vari
medaglioni dà la nozione precisa della molteplicità dei già
documentati collaboratori di Giotto, il quale evidentemente

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La dimora di Giotto a Napoli 143

affidava loro i compiti secondari; e dà ancora la sicurezza che


essi non erano per lo più usciti dalla sua 'bottega, ma erano stati
raccolti iin Napoli stessa, certamente fra' migliori che in quel
tempo coltivassero in questa città l'arte del pennello.
Una disamina stilistica di queste figure, sotto tale aspetto,
non è priva d'interesse.
Per rendere più facile l'identificazione dei finestroni, darò
loro un numero; chiamerò cioè, I, II e III i tre che stanno a de
stra di chi entra, cominciando dalla porta e terminando al
l'arco trionfale ; IV chiamerò quello che è a destra nell'abside,
V il grande ed unico finestrone biforo in fondo, VI quello a
sinistra nell'abside, VII infine quello davanti all'arco trionfale
a sinistra.
Nel IV finestrone, nella fascia interna a destra in alto,
è una testa di santo, nimbata, salva dalla bocca in su, con
chiome a grosse ciocche fiammeggianti, dipinta frettolosamente
a grossi tocchi, che rivela una spiccata aderenza alla forte
maniera del Cavallini. Ciò ci lascia supporre che uno dei
collaboratori del maestro romano in Donnaregina abbia qui
collaborato con Giotto.
Ugualmente notevole è un'altra testa di santo, nel fine
strone I a destra in basso, appena abbozzata ma di una vivace
e nobile espressione, che si ricollega alla medesima corrente ar
tistica.
Un notevole gruppo di tali teste è dipinto a tratti marcati e
con rapida maniera, con l'intento di dare maggiore evidenza a
figure che dovevano esser viste a distanza. Tali sono i sei meda
glioni superstiti del VII finestrone, i quali appartengono tutti
ad una stessa mano, caratteristica nel marcare le sopracciglia
e gli orli delle palpebre e nel segnare rughe a ventaglio ne
gli angoli esterni degli occhi, come nel trattare le barbe e
le chiome a pennellate lunghe e sottili, lievemente ondeggianti.
Ed i visi hanno una espressione un po' dura, sopratutto i due
vecchi profeti che stanno in basso.

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144 R. Filangieri

I,n' uno dei medaglioni dello stesso finestrone è la testa di


una giovane donna (in mezzo a sinistra), che potrebbe essere
il ritratto di una delle principesse angioine.
Di altro pennello più espressivo, ma della stessa maniera,
sono un'altra testa superstite, e neanche integra, del I fine
strane e le due teste che stanno entro l'archetto del II.
Ancora di altra mano, migliore delle precedenti per un
più forte senso realistico, e visibilmente vicina all'arte del
Maestro, è la mutila testa di giovane che è in alto a sinistra
nel finestrone IV.
Un altro gruppo di figure rivela invece la mano usa ad
alluminare codici. Uno sfumato più delicato nel volto, U|na
maggiore cura nelle chiome e nelle barbe, fatte a sottilissimi
tratti, appare nei due medaglioni bassi del finestrone IV, ove
sono rappresentati due giovani santi.
Alla stessa maniera si avvicinano la testa di un giovane
monaco ,n'el finestrone II, in centro a sinistra, e le due teste in
basso del finestrone III, una delle quali è in parte distrutta.
Entrambe queste ultime sembrano rappresentare la stessa per
sona, un personaggio dal viso lungo, con barba ed ampia ber
retta in capo, i cui caratteri iconografici molto si avvicinano
a quelli a noi noti di re Roberto.
Mesno belle, anzi un po' goffe e convenzionali, sono le teste
superstiti della grande bifora centrale.
Le più belle fra tutte sono invece quelle del finestrone VI,
ove le teste, che sono appena due, in alto, sono forse le più
vicine all'arte del Maestro. In esse alla nobiltà dell'espressio
ne, rivelatrice di una mano erudita, si unisce una tecnica più
raffinata, un fare più garbato.
Tutte queste figure rispecchiano la molteplicità e i dispa
rati valori artistici dei collaboratori di Giotto a Napoli. Un
chiaro influsso dell'arte di lui è assai spesso presente a questi
artefici raccogliticci ; ma altri influssi traspaiono dall'opera
loro : quelli della loro educazione artistica già prima compiuta

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La dimora di Giotto a Napoli 145

sui modelli romani e senesi, che da pochi lustri erano stati


creati in Napoli.
Se questi dipinti essi rappresentarono quando Giotto era
ancora presente, oppure nel periodo in cui, lui partito, compi
rono l'opera (1333-1336), è cosa che ha poca importanza. Inte
ressante invece è il vedere in quale maniera elementi icono
grafici e prassi tecnica aiiano filtrati dagli am'miaelstramenti
personali 0 dalle opere, sia di Giotto che degli altri grandi
maestri che lo avevano preceduto, nell'arte dei pittori indigeni,
collaboratori o seguaci di quelli.
Un po' la cultura artistica formatasi sulle opere esistenti,
un po' le collaborazioni prestate e i contatti occasionali, e con
ciò il patere maggiore >0 mlilnòre di assimilazione e l'elevazione
spirituale, creavano in questi artefici personalità artistiche
eclettiche e spesso profondamente differenziate le une dalle
altre.

Non si ebbero così sul suolo meridionale della penisola


vere propaggini nè di una scuola cavalliniana, nè idi una scuola
senese, nè, e meno ancora, di una scuola giottesca; ma forme,
ispirazioni, accenti di tutte e tre queste scuole saltano fuori
qua e là in tutta la vasta produzione pittorica del mezzogiorno,
dall'Incoronata e da Santa Chiara di Napoli, da Santa Chiara
di Nola, dalla cripta di Irsina, da Santa Caterina di Galatina.
Reminiscenze giottesche appaiono dunque nella pittura
napoletana, e per oltre un secolo ancora, ma esse non predo
minano, nè sono fra le più sentite.

R. Filangieri.

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