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Ottica di particelle cariche

Lamberto Duò – Alberto Brambilla

Appunti per il corso di “Struttura della Materia: Principi e Applicazioni”

Corso di Laurea in Ingegneria Fisica

Sommario

Introduzione pag. 2
Principi fondamentali per il trasporto degli elettroni pag. 2
La deflessione elettrostatica pag. 3
Teorema di Liouville e Legge di Helmholtz-Lagrange pag. 5
Emittanza e sua conservazione pag. 9
Diaframmi e vignettatura pag. 9
Lenti elettrostatiche pag. 11
Parametri caratteristici delle lenti spesse pag. 11
Lenti cilindriche pag. 14
Lenti cilindriche a tre elementi pag. 18
Aberrazioni pag. 20
Aberrazione geometrica pag. 20
Aberrazione cromatica pag. 24
Esempio di progettazione di una lente pag. 25
Effetto termoionico pag. 29
Spettrometria di elettroni pag. 35
Spettrometro a deflessione elettrostatica pag. 36
Ottimizzazione e pre-ritardo pag. 38
Analizzatore emisferico pag. 40
Rivelatori di particelle pag. 43
Rivelazione diretta pag. 43
Rivelazione di elettroni secondari pag. 44
Bibliografia pag. 49

a.a. 2016-17
Ultimo agg.: Novembre 2016

1
- Introduzione

Nel capitolo “Interazione radiazione-materia” si è considerato come i fotoni e gli elettroni


interagiscono con la materia. Mentre per i fotoni è noto che non ci sono particolari requisiti
“ambientali” affinché essi si propaghino nelle vicinanze del materiale che si vuole studiare (cioè i
fotoni si propagano in pratica senza attenuazione nell’atmosfera), abbiamo altresì visto come, per gli
elettroni, l’ambiente circostante il materiale debba invece essere controllato in termini di pressione,
il che esige che gli esperimenti con fasci di elettroni siano condotti in condizioni di vuoto, con tutta
una serie di requisiti sperimentali conseguenti.
La successiva questione che si pone è quella riguardante la manipolazione di un fascio di
fotoni o di elettroni, sia per trasportarlo dalla relativa sorgente fino al campione di materiale da
studiare sia invece per “prelevare” fotoni o elettroni che vengono da esso emessi per portarli dove
essi vengono analizzati (tipicamente in energia, vedi capitolo “Introduzione alle Spettroscopie
elettroniche”) in modo da poter appunto realizzare un esperimento di spettroscopia elettronica.
Mentre per quanto riguarda i fotoni vengono realizzati dei sistemi ottici il cui funzionamento si basa
su principi che vi sono già piuttosto noti, per lo meno nell’intervallo di lunghezze d’onda del visibile,1
per gli elettroni tali principi vi devono essere ancora illustrati.
Nel presente capitolo ci vogliamo quindi occupare di quest’ultimo aspetto, che va tipicamente
sotto il nome di “Ottica di particelle cariche” (charged-particle optics).2 Essa ha, come si capisce
chiaramente dal suo stesso nome, notevoli analogie con l’ottica geometrica. Vale la pena di notare
che la problematica non è soltanto di interesse spettroscopico ma concerne, anche, sia gli acceleratori
di particelle (per esempio: i sincrotroni dove degli elettroni circolano, a velocità relativistiche, in
orbite chiuse ad anello con lo scopo di emettere fasci di fotoni per utilizzi appunto spettroscopici;
oppure le macchine, sempre ad anello, come quelle dei laboratori del CERN di Ginevra, dove
circolano protoni o ioni pesanti per esperimenti di fisica nucleare o di fisica delle particelle) sia i
microscopi elettronici (per esempio microscopi elettronici a scansione – Scanning electron
microscope, SEM – o microscopi elettronici a trasmissione – Transmission electron microscope,
TEM – con i quali è oggi possibile ottenere risoluzioni spaziali dell’ordine del nanometro), allargando
di fatto ad una vasta gamma di applicazioni i concetti che illustreremo.

- Principi fondamentali per il trasporto degli elettroni

Dal punto di vista dei principi fondamentali, per capire come manipolare, tramite una forza,
una particella carica (che abbia, per esempio, carica elettrica q e velocità v rispetto al sistema di
riferimento utilizzato), la chiave di volta è chiaramente data dall’espressione della cosiddetta forza di
Lorentz: F  q ( E  v  B ) .3 Per poter manipolare un fascio di particelle cariche risulta quindi
indispensabile utilizzare campi elettrici (E) e/o magnetici (B). Vi è però una differenza sostanziale
tra il contributo elettrico e quello magnetico della forza, dato che quest’ultimo dipende anche da v.
Quindi, per una data situazione di campi E e B per una particella, a “bassa” velocità prevarrà il
contributo elettrico, mentre ad “alta” velocità prevarrà quello magnetico.4
Per comprendere meglio il significato di “bassa” o “alta” velocità, può essere qui utile stabilire
un valore “elevato” del modulo del campo (per E e per B), che non va inteso come il massimo assoluto
ottenibile con la tecnologia oggi a disposizione, ma che sia invece il “massimo” (“max”) campo
sperimentalmente utilizzabile in modo semplice per un’applicazione in un sistema di ottica

1
Concettualmente, nel range dei raggi UV e X la situazione fisica è del tutto analoga. Ciò che invece cambia
significativamente sono le tecniche, le procedure e i materiali che si devono utilizzare.
2
Chiaramente i principi, che illustreremo per gli elettroni, sono validi anche per qualunque altro tipo di particelle cariche,
per esempio ioni.
3
Nel seguito indicheremo in grassetto un vettore e in corsivo il suo modulo in modo che, per esempio, sia: | |. La
sola eccezione è quella che il simbolo E indicherà l’energia cinetica della particella e non il modulo del campo elettrico.
4
Escludendo chiaramente il caso in cui B e v siano paralleli, dove questo contributo è sempre nullo.

2
elettronica.5 Per quanto riguarda il campo elettrico, tale valore potrebbe orientativamente essere
fissato in |E“max”| = 105 V/m.6 Analogamente si potrebbe fissare |B“max”| = 10–2 T.7 Una volta stabiliti
questi due valori (|E“max”| e |B“max”|), ci chiediamo quale sia il modulo della velocità (v0) della
particella8 per cui i due contributi elettrico e magnetico alla forza di Lorentz siano uguali (in modulo).
E
Si ottiene: v0  "max" = 107 m/s. Ciò significa che con questi campi, per valori del modulo v della
B"max"
velocità della particella tali che v < v0 prevarrà il contributo elettrico, mentre per il caso v > v0 prevarrà
quello magnetico.
Si può ora associare alla velocità v0 = 107 m/s il relativo valore dell’energia cinetica (E0):
E 0  mv 02 2 .9 Nel caso (per noi interessante!) in cui la particella carica sia un elettrone (cioè con
massa m = 9 x 10-31 kg), si trova che: E0 ≈ 300 eV. Questo valore risulta compreso nell’intervallo
energetico di interesse per le spettroscopie elettroniche (che, come detto nel capitolo “Interazione
radiazione-materia”, è circa 10 ÷ 1000 eV). Quindi possiamo sostanzialmente dire che, in questo
range energetico, entrambi i contributi (elettrico e magnetico) della forza di Lorentz sarebbero
utilizzabili per guidare opportunamente il fascio elettronico. La situazione è molto diversa per i casi,
già citati, in cui fasci di elettroni vengono usati nei sincrotroni (dove hanno energie dell’ordine del
GeV) o in applicazioni di microscopia elettronica (dove si utilizzano elettroni con energie di
10 ÷ 100 keV). In entrambe queste situazioni il solo campo elettrico non è in grado di esercitare forze
sufficienti e bisogna necessariamente utilizzare anche campi magnetici.
Si è appena visto che, per l’intervallo energetico di interesse per le spettroscopie elettroniche,
sia un campo elettrico sia uno magnetico sarebbero in linea di principio adeguati per realizzare sistemi
di ottica elettronica. Dal punto di vista dell’implementazione, invece, l’utilizzo dei campi magnetici
causa molti inconvenienti rispetto a quello di campi elettrici:
- Data la necessità di avere campi con intensità variabile, in modo da poter regolare la forza, è
necessario utilizzare degli elettromagneti, costituiti da avvolgimenti dove, come abbiamo già visto
nel cap. “Introduzione alle proprietà magnetiche della materia”, il campo B è proporzionale alla
corrente che circola. Essi sono in genere caratterizzati dall’avere grosse dimensioni, masse elevate
(dovute sia ai materiali magnetici sia agli avvolgimenti) e forti dissipazioni energetiche (per effetto
Joule sugli avvolgimenti).10
- Come è noto, i campi magnetici sono difficili da schermare; ciò può produrre delle difformità tra il
campo atteso in una data posizione per una determinata configurazione magnetica di progetto e il
valore effettivo del campo, che può essere influenzato da un altro magnete posto nelle vicinanze,
creando delle proprietà di focalizzazione non ottimizzate.
Per questi motivi in applicazioni spettroscopiche in genere si utilizzano esclusivamente campi
elettrici (statici). Nel seguito ci concentreremo quindi su questi ultimi.

5
Questa quantificazione è piuttosto arbitraria ma può risultare utile per fissare le idee (cioè gli ordini di grandezza).
6
Per produrre un tale campo bisogna per esempio applicare, a due armature di un condensatore piano a facce parallele
distanti tra esse 1 cm, una differenza di potenziale di 103 V. Va notato che, ancorché questo valore sia molto inferiore alla
rigidità dielettrica dell’aria secca (che è di circa 2÷3 MV/m), in ogni caso il problema non si porrebbe, dato che per poter
permettere agli elettroni di propagarsi bisogna essere in vuoto, come discusso nel capitolo “Interazione radiazione-
materia”.
7
Se confrontato, per esempio, con il valore di B ottenuto nel magnete descritto nel capitolo “Introduzione alle proprietà
magnetiche della materia”, questo campo è di due ordini di grandezza inferiore.
8
Nell’ipotesi che essa sia perpendicolare a B.
9
Questa velocità v0, ancorché certamente “elevata”, è piccola rispetto alla velocità della luce c. Quindi possiamo
sicuramente operare in un’approssimazione non relativistica (esprimendo cioè nel modo appena scritto la relazione tra E0
e v0) cosa che faremo in tutto il seguito del capitolo.
10
Bisogna ricordare che il tutto deve stare in vuoto, complicando ulteriormente la situazione.

3
- La deflessione elettrostatica

Per comprendere il principio fisico che regola il funzionamento di un sistema ottico basato su
campi elettrostatici, consideriamo un condensatore a facce piane e parallele le cui armature siano
costituite, invece che da lastre continue, da griglie che possono essere attraversate da un elettrone,
come schematizzato in Fig.1. Nel caso (comune) in cui il condensatore abbia carica totale nulla (cioè
+ q sulla griglia di destra e – q sull’altra) il campo è nullo in tutto lo spazio tranne che all’interno del
condensatore, dove è uniforme. In conseguenza di ciò, il potenziale elettrostatico (V) è quindi
uniforme in tutti i punti a sinistra dell’armatura sinistra (con un dato valore) e in tutti quelli a destra
dell’armatura di destra (con un valore diverso). Risulta cioè che il moto dell’elettrone è rettilineo
uniforme sia a sinistra che a destra del condensatore, mentre all’interno del condensatore è accelerato
(e la traiettoria è parabolica). Per fissare le idee, in riferimento alla Fig.1, diciamo che il potenziale
elettrostatico sull’armatura sinistra del condensatore (cioè dal lato dove entra l’elettrone, con velocità
v1) vale V1, mentre su quella destra (dove questo esce con velocità v2) vale V2 (per esempio con V2
> V1). 11

Figura 1. Legge di Snell dell’elettrostatica.

Consideriamo le componenti delle velocità dell’elettrone in direzione parallela ( v // ) e perpendicolare


( v ), rispettivamente, alle armature del condensatore. È evidente che, mentre il campo non agisce
sulle componenti parallele (in modo che v 2 //  v1 // ), per le componenti perpendicolari si avrà:
v2   v1 . Definiti ora, come illustrato in Fig.1, gli angoli 1 e 2 , si può scrivere: v1//  v1 sin 1 e
v 2 //  v 2 sin 2 . Dall’uguaglianza delle due componenti parallele della velocità si ottiene quindi la
relazione: v1 sin1  v2 sin2 . A livello qualitativo, si può dedurre che essendo, in questo caso,
v2   v1 sarà anche v2  v1 , in modo che sin 2  sin 1 , come illustrato in Fig.1.12 Per la sua
analogia con la Legge di Snell dell’ottica geometrica (o della rifrazione),13 questa relazione prende a
volte il nome di Legge di Snell dell’elettrostatica. Dal confronto formale tra le due, si nota che il ruolo
dell’indice di rifrazione dei due mezzi nella Legge di Snell viene qui giocato dalla velocità
dell’elettrone a monte e a valle del condensatore. Ora, è utile esprimere la legge in relazione

11
Qui la scelta dei simboli è un po’ sfortunata, ma non si può fare altrimenti. Nel seguito bisogna stare quindi attenti a
non confondere il modulo della velocità (v) con il potenziale elettrostatico (V).
12
Come semplice riferimento mnemonico, può essere utile ricordarsi che, per particelle con carica negativa, quanto più è
grande V, tanto più è grande v! Se la carica è positiva le cose sono invece invertite.
13
Detti n1 e n2 rispettivamente gli indici di rifrazione di due mezzi in contatto tramite una superficie, e e gli angoli
che i raggi delle onde piane incidente e rifratta formano rispettivamente con la normale in un dato punto della superficie
(analogamente alla definizione data in Fig.1), la legge di Snell si esprime con: sin sin .

4
all’energia cinetica dell’elettrone (E) invece che alla sua velocità. Ricordando la definizione di E, si
ha che E  v ; si può quindi scrivere:
E1 sin1  E2 sin2 .
Quanto visto fa intuire come, concettualmente, in completa analogia ad un sistema ottico, una lente
elettrostatica possa essere costituita da due griglie metalliche a forma di guscio, una interna all’altra
(a formare appunto un condensatore), a cui viene applicata una differenza di potenziale ΔV, come
mostrato in Fig.2.

E≠0 E≠0

E=0

ΔV

Figura 2. Lente elettrostatica formata da due griglie metalliche a guscio


(bent metallic nets) poste a differenza di potenziale V (da Luth).

- Teorema di Liouville e Legge di Helmholtz-Lagrange

Nel paragrafo precedente abbiamo visto come, per un singolo elettrone,14 l’angolo che la sua
velocità forma rispetto all’asse ottico (asse perpendicolare alle armature del condensatore) a valle di
una lente dipende dall’energia cinetica.
Siamo ora interessati a capire come la dimensione (spot size) e la divergenza angolare di un
fascio di elettroni cambino in funzione dell’energia cinetica. Vogliamo cioè studiare le proprietà
dell’insieme di particelle che costituiscono il fascio. A questo proposito è utile un teorema di
meccanica lagrangiana formulato da Joseph Liouville15 nel 1838, che prende appunto il suo nome. È
risaputo dalla dinamica che la posizione e la velocità di una particella, che si muove sotto l’azione di
forze note, è conosciuta in tutti gli istanti di tempo se si determinano la sua posizione e la sua velocità
in un dato istante. L’idea è che si possa costruire uno spazio a 6 dimensioni (3 dimensioni spaziali e
3 di velocità o, meglio, di quantità di moto) dove in ogni istante un punto rappresenta sia la posizione
r sia la quantità di moto p di una particella. Questo spazio è detto “spazio delle fasi”16 ed è indicato
come (r,p). Similmente a quanto succede per lo spazio reale (cioè quello tridimensionale delle
posizioni, r), le “traiettorie” delle particelle nello spazio delle fasi sono note se si conoscono sia le
loro “posizioni” nello spazio delle fasi stesso ad un certo istante sia la natura delle forze agenti su di
esse. È quindi evidente che, in questo spazio, in un dato istante di tempo ogni particella è rappresentata
da un punto, che si muove nel tempo. Ne risulta che un fascio di particelle darà invece origine ad una
“nuvola” di punti in movimento nello spazio delle fasi.

14
Chiaramente l’analisi presentata vale anche per un fascio di elettroni che “partono” dallo stesso punto con lo stesso
angolo (cioè un fascio con dimensione nulla e divergenza nulla, vedi oltre).
15
Joseph Liouville, oltre che avere dato questo teorema, è famoso storicamente per avere per primo pubblicato i lavori di
un geniale matematico di nome Évariste Galois e averne riconosciuto la grande importanza.
16
Lo spazio delle fasi è stato introdotto da Willard Gibbs nel 1901. In realtà lo spazio delle fasi per N particelle ha 6N
dimensioni in modo che tutto il sistema sia rappresentato da un solo punto. Noi preferiamo utilizzare lo spazio a 6
dimensioni che impropriamente chiamiamo ancora “spazio delle fasi”.

5
Il teorema di Liouville (che non dimostriamo) dice che, per un insieme di particelle (che
costituiscono un fascio) soggette solo a forze conservative,17 la densità di punti nello spazio delle
fasi resta costante nel tempo, cioè il volume occupato dal fascio nello spazio delle fasi resta costante.
Se, come faremo nel seguito, ci limitiamo a trattare sistemi ottici caratterizzati da simmetria
cilindrica (dove l’asse z del cilindro è l’asse ottico) allora lo spazio delle fasi (r,p) si riduce ad essere
bidimensionale, cioè un piano (R, pR). In Fig.3 sono indicate per un punto (r,p) nello spazio delle fasi,
separatamente, le rappresentazioni in coordinate cilindriche per lo spazio (reale) r (Fig.3a) e per
quello p (Fig.3b). Qui si evidenzia il significato geometrico di R (distanza della particella dall’asse
ottico z) e di pR (quantità di moto della particella in direzione perpendicolare a pz).18 In questo caso
particolare, il teorema assicura che il volume del fascio (che è diventato un’area) si conserva nel piano
(R, pR) sotto l’azione di forze conservative. Da un punto di vista pratico, risulta però molto più utile
una rappresentazione dove, al posto di pR, si utilizza l’angolo R (Fig.3b) dato da R = arctan( pR / pz),
che rappresenta la direzione della velocità della particella rispetto all’asse z. In tal modo, utilizzando
il piano (R,R) si ha quindi una comoda rappresentazione diretta della posizione e dell’angolo formato
dalla velocità della particella (entrambi rispetto all’asse z, dato che pz è parallela a z).

Figura 3. Rappresentazione in coordinate cilindriche dei vettori r e p.

La questione da porsi ora è quella di come evolve il fascio nello spazio (R,R), dato che esso
non è regolato dal teorema di Liouville, non essendo questo lo spazio delle fasi.19 Si può iniziare, per
semplicità, a pensare ad una regione dove non c’è campo (field free). Consideriamo un oggetto O
circolare di raggio x1 (per esempio una sorgente monocromatica di elettroni, con energia cinetica
E1),20 posto perpendicolarmente all’asse z e con il centro nella sua origine, come mostrato (nello
spazio reale) in Fig.4.21 Supponiamo di inserire a valle della sorgente (cioè a destra,22 per esempio ad
una coordinata z = L) una fenditura (detta pupilla) in modo che, partendo da un estremo (x1) della
sorgente e raggiungendo un analogo estremo della fenditura, si possa definire un angolo 1 come
mostrato in Fig.4.

17
Va ricordato che, per campi E e B statici, la forza di Lorentz è conservativa.
18
Si noti che valgono le relazioni: R  x 2  y 2 e p R  p x2  p 2y rispettivamente.
19
Diciamo che lo sforzo che dobbiamo compiere per capire come si comporta il fascio in questo nuovo spazio (che, come
abbiamo detto, non è lo spazio delle fasi) è più che compensato dalla immediatezza geometrica di questa rappresentazione.
20
In Fig.4 la rappresentazione è data nel piano (z, x) ma, data la simmetria cilindrica, quella (z, y) sarebbe equivalente.
21
In Fig.4 l’oggetto O è proprio la sorgente. In altri casi (per esempio Fig.5) è invece una semplice apertura (window)
illuminata da una sorgente posta a sinistra (a monte).
22
In questa trattazione le particelle si muoveranno sempre da sinistra verso destra, in sistemi a simmetria cilindrica.

6
Figura 4. Posizionamento di una pupilla in un sistema ottico.

Prima di proseguire con questo ragionamento dobbiamo fare un breve intermezzo per
richiamare alcune nozioni che vi sono già note dall’ottica geometrica. La prima è che tutte le
trattazioni che faremo nel seguito sono valide in un’approssimazione (detta parassiale) in cui gli
angoli ( ) che le velocità delle particelle formano con l’asse ottico sono “piccoli”.23 La seconda
(anch’essa un’approssimazione) è che la distanza tra pupilla e oggetto sia sempre grande rispetto alla
dimensione stessa dello oggetto (cioè, con riferimento alla Fig.4: L >> x1). In questo modo si avrà che
l’angolo 1 con cui la sorgente “vede” la pupilla non dipende da quale punto della sorgente si
consideri, come illustrato in Fig.5. L’angolo 21, definito così in modo univoco, è detto appunto
divergenza (angolare) del fascio (mentre 1 è detto semidivergenza, pencil angle). La fenditura
mostrata sia in Fig.4 che in Fig.5 serve quindi per definire la divergenza del sistema ottico.24

Figura 5. Una pupilla (pupil) determina la divergenza di un fascio elettronico


proveniente da un oggetto, qui identificato da una finestra (window) (da Moore).

Possiamo tornare ora all’analisi di come evolve, nel piano (R,R), il fascio in assenza di
campo. Il sistema che consideriamo, analogo a quello di Fig.4, è riportato nella parte in alto di Fig.6.
Gli infiniti raggi possibili del fascio sono tutti quelli che soddisfano (nel piano dell’oggetto, z = zO)
le due condizioni: R  x1 e R  1 , dove x1 e 1 rappresentano il raggio e la semidivergenza,
rispettivamente, del fascio, in modo che la distribuzione di posizioni ed angoli sia uniforme, cioè il
numero di raggi per unità di area (R,R) è costante (illuminazione uniforme). Tra essi, nella parte in
alto di Fig.6 se ne mostrano solo alcuni particolari (indicati da 1 a 9)25 che partono dall’oggetto
raggiungendo una lente deflettente posta in z = L, fino a formare l’immagine nel piano z = zI. Nella
parte in basso della Fig.6 sono invece mostrate le varie rappresentazioni del fascio nel piano (R,R)

23
“Piccoli” vuol dire che vale l’approssimazione: sin (attenzione che  deve essere espresso in radianti!
1 rad ≈ 57°). Per intenderci: per  = 15°, ⁄sin 1.01, cioè l’approssimazione vale entro l’1%.
24
In riferimento alla Fig.5 si nota che: tan ⁄ . Per l’approssimazione parassiale deve quindi essere: L >> xp. In
questa approssimazione si ha quindi: tan ⁄ .
25
Il criterio con cui sono stati scelti questi raggi è quello di prendere tre punti della sorgente (il centrale, R = 0, e i due
estremi, R = ± x1) e da ciascuno di essi spiccare tre raggi (il centrale, R = 0, e i due estremi, R = ± 1, cioè corrispondenti
alla semidivergenza). In realtà si può vedere dalla Fig.6 che i soli raggi 1-3-7-9 sarebbero sufficienti a fornire i vertici per
costruire l’area interamente occupata dal fascio nello spazio (R,R).

7
per diversi valori di z. Nel piano z = zO si vede che il fascio riempie un’impronta rettangolare (di area
4x11) i cui vertici sono dati dai raggi 1-3-7-9. Nella regione che si trova a sinistra della lente (z < L),
come già detto in riferimento alla Fig.1, non vi è campo. Scegliendo un punto all’interno di questa
regione, si vede che, durante la loro propagazione, i raggi mantengono tutti il proprio angolo R ma
modificano in generale la loro posizione R.26 Il risultato di tale fenomeno è quello di una specie di
rotazione (in senso orario) con distorsione dell’impronta, che diventa quindi un parallelogramma. Se
si confronta l’impronta, per esempio, in z = PF1 con quella in z = zO,27 si nota che lo spostamento
verso destra per il raggio 1 è uguale allo spostamento verso sinistra per quello 3, in modo che le due
aree triangolari tratteggiate risultino uguali. Ciò implica che il parallelogramma ha la medesima area
del rettangolo iniziale.28 Andando ulteriormente a destra (per esempio z = L–)29 il parallelogramma
risulta ancora più “ruotato” e distorto; ad esso si possono di nuovo applicare tutti gli argomenti appena
detti. Possiamo quindi concludere che, a causa del fatto che lungo ciascun raggio si ha R = cost,30
l’area dell’impronta di un fascio nel piano (R,R) si conserva in assenza di campo. In altre parole, se
il campo è nullo in tutti i punti, si conserva il prodotto tra la dimensione e la divergenza del fascio.

Figura 6. In alto: una sorgente (oggetto) posta in zO viene focheggiata nella posizione zI (immagine)
tramite una lente. I numeri da 1 a 9 indicano alcune particolari traiettorie (raggi). In basso:
rappresentazione del fascio nel piano (R,R) per diversi valori di z. L- e L+ rappresentano
rispettivamente due piani appena a sinistra e a destra della lente (da Granneman-Van Der Wiel).
Nell’attraversare la lente elettrostatica (cioè la zona dove c’è il campo) posta in z = L, le
particelle varieranno la propria energia cinetica E e anche il proprio angolo (R), in modo tale che,
secondo la legge di Snell, per ciascuna di esse si avrà: sin √ cost. In approssimazione
parassiale, questa relazione diventa: √ cost e generalizza (tramite una sostituzione formale

26
Solo i raggi 2-5-8 non cambiano la R nel loro percorso, avendo R = 0.
27
Le notazioni PF1 e PF2 indicano i piani focali (vedi seguito).
28
La base e l’altezza del parallelogramma sono rispettivamente, 2x1 e 21; l’area (base • altezza) resta dunque 4x11.
29
La notazione z = L– indica il punto appena a sinistra di z = L (appena a monte della lente). Dualmente è per z = L+.
30
Qui e nel seguito, cost significa costante rispetto a z.

8
→ √ ) la conservazione di R, che vale se il campo è sempre nullo, dato che in tal caso
E = cost. Ciò significa che quando il fascio attraversa zone dove vi è un campo elettrostatico, la
quantità che si conserva sarà il prodotto tra i) la sua dimensione, ii) la sua divergenza e iii) la radice
della sua energia. Come conseguenza, nell’attraversare la lente (cioè una zona di spazio dove c’è un
campo elettrico) l’area dell’impronta del fascio nel piano (R,R), cioè il prodotto dimensione per
divergenza, non si conserva e, per un dato z, sarà tanto minore quanto maggiore è l’energia del fascio
in quella sezione. Confrontando quindi, in Fig.6, la situazione del fascio in partenza dall’oggetto
(z = zO, dove l’energia del fascio è pari a E1) e quella all’immagine (z = zI, dove l’energia del fascio è
pari a E2) troveremo:
x11 E1  x22 E2 .31
Questa uguaglianza, che chiaramente è una conseguenza diretta del teorema di Liouville, prende
anche il nome di legge di Helmholtz-Lagrange. In relazione alla Fig.6, dove per esempio si è
considerato E2 > E1 (cioè una lente accelerante), si avrà quindi: x22 < x11, in modo che l’area
dell’impronta del fascio sull’immagine (4x22) sia più piccola di quella sull’oggetto.32 Dato che il
campo è nullo anche per tutti i punti con z > L, le aree dell’impronta del fascio in z = L+ e in z = PF2
sono uguali a quella in z = zI e l’impronta “ruota” anche qui in senso orario al crescere di z,
distorcendosi.
In Fig.6, oltre agli angoli 1 e 2, viene evidenziato l’angolo α2 che il raggio 2 e,
analogamente, il raggio 8 formano con l’asse ottico a valle della lente. Tale angolo α2 viene chiamato
angolo del fascio (beam angle). Esso viene definito come l’angolo che i raggi centrali (cioè quelli a
metà della divergenza) presi dai punti posti all’estremo dell’immagine formano appunto con l’asse
ottico. Chiaramente, è possibile definire un beam angle (α1) anche a monte dell’elemento ottico. In
Fig.6 esso non viene indicato dato che in questo caso si ha α1 = 0.33

Emittanza e sua conservazione


Vogliamo ora soffermarci sull’analisi di una grandezza rilevante nel caratterizzare un fascio
di particelle (fotoni, elettroni, ecc.). Si tratta dell’emittanza (ε) che è definita come il prodotto
dell’energia del fascio (E) per la sua sezione (S, in direzione perpendicolare all’asse ottico) per
l’angolo solido di emissione (Ω), misurato in steradianti sr. In riferimento alla Fig.5, dove si possono
considerare circolari (data la simmetria cilindrica) sia l’oggetto (window)21 sia la pupilla, si ha:34
S1   x12 . L’angolo solido Ω1 dipende da 1: esso è definito come il rapporto tra l’area della calotta
sferica (tratteggiata, in rosso), determinata dai due raggi (tratteggiati) che originano dal punto
dell’oggetto sull’asse ottico e intercettano gli estremi della pupilla, e il quadrato del raggio della
calotta stessa. In approssimazione parassiale (cioè per L >> xp), il raggio della calotta è ≈ L e la sua
area   x 2p , in modo che: Ω1   x 2p L2 . Considerando la nota 24, si conclude che: Ω1   12 . Si può
quindi scrivere:  1  E1 S1 Ω1  E1  x12  12   x12 12  2 E1 , dove solitamente si usa come unità di
misura (sr mm2 eV). Ricordando la Legge di Helmholtz-Lagrange sulle caratteristiche di un fascio
all’oggetto (1) e all’immagine (2), si può concludere che:
1   2

31
Questa relazione può alternativamente essere ricavata utilizzando lo spazio (R, pR), considerando che R = x e pR = mvR,
dove sin ∝ √ . Partendo dal teorema di Liouville, espresso nella forma , si ottiene infatti
la legge di Helmholtz-Lagrange appena trovata.
32
Nel caso particolare di Fig.6 si nota sia una minore dimensione (x2 < x1) sia una minore divergenza (2 < 1)
dell’immagine rispetto all’oggetto.
33
Risulta evidente che tutte (e sole) le volte che il beam angle è nullo l’impronta del fascio nel piano (R, R), in
corrispondenza dell’oggetto (o dell’immagine), è data da un rettangolo.
34
Come fatto in precedenza, nel caso specifico di grandezze riferite all’oggetto indichiamo per tutte il pedice 1, mentre
utilizziamo il pedice 2 per quelle relative all’immagine.

9
cioè, l’emittanza di un sistema ottico si conserva,35 rendendo perciò importante e utile tale grandezza.
In generale, è difficile realizzare un fascio con “piccola” emittanza dato che bisogna far sì che esso
abbia, per una data energia, piccola dimensione e piccola divergenza. Tuttavia in talune applicazioni
(per esempio negli acceleratori, tipo sincrotroni) quello della piccola emittanza è un requisito
indispensabile.

Diaframmi e vignettatura
Nei paragrafi precedenti abbiamo considerato uno schema generale di un sistema ottico
costituito da oggetto, pupilla (o diaframma), lente e immagine, e abbiamo definito la divergenza ( )
e l’angolo del fascio (α) dell’oggetto (1) e dell’immagine (2), come indicato in Fig.7.36 Nel caso in
cui l’oggetto irraggi uniformemente (entro la propria dimensione e la propria divergenza, che è
definita dalla pupilla), nelle approssimazioni (di piccoli angoli) menzionate, segue che anche
l’immagine (entro la propria divergenza) è uniformemente illuminata. In questa situazione possiamo
dire che tutti i raggi emessi dalla sorgente arrivano all’immagine. Se invece, come mostrato in Fig.8,
una seconda pupilla (o apertura) viene interposta tra la lente e l’immagine, si può creare un artefatto
che causa un’illuminazione non uniforme dell’immagine. Tale effetto, noto come vignettatura
(vignetting), fa sì che i raggi emessi non giungano tutti all’immagine, rendendo meno luminosa la sua
parte periferica.37 Questo fenomeno, deleterio per la ricostruzione corretta di un’immagine, può essere
evitato se la seconda pupilla viene inserita nel punto dove si forma l’immagine della (prima) pupilla,
cioè in corrispondenza della sezione image pupil in Fig.7.

Figura 7. Sistema ottico con sorgente e pupilla: sono mostrate le rispettive immagini (da Moore).
L’utilizzo di una seconda pupilla a volte può essere necessario, mantenendo costante
l’intensità totale del fascio parassiale, per schermare i raggi spuri causati da deflessioni non parassiali
ai bordi delle lenti o dalla presenza di aberrazioni (vedi oltre). In altri casi invece la seconda pupilla
viene utilizzata, riducendo l’intensità totale del fascio, laddove questo vada “immaginato” in un
sistema ottico (per esempio un analizzatore o un rivelatore) con un’emittanza inferiore rispetto
all’oggetto: tipicamente, per una data energia del fascio all’immagine, ci può infatti essere una
limitazione sulla sua dimensione e/o sulla sua divergenza. In questi casi, tramite il corretto
posizionamento della seconda pupilla in corrispondenza dell’immagine della prima pupilla (vedi
anche Fig.19) o tramite l’utilizzo di opportuni sistemi ottici dedicati (che non discuteremo qui), la
necessaria riduzione dell’emittanza può essere ottenuta con la minima riduzione di intensità del
fascio, senza creare vignetting.

35
Per questo motivo la legge di Helmholtz-Lagrange viene anche chiamata teorema dell’emittanza.
36
In Fig.7 viene anche mostrata l’immagine della pupilla (image pupil) collocata nel punto dove il raggio che interseca
l’asse ottico in corrispondenza della pupilla, si trova di nuovo ad intersecarlo.
37
La riduzione del numero di raggi che arrivano all’immagine rispetto a quelli che partono dall’oggetto implica una
riduzione dell’intensità (intensity) totale del fascio. Nel caso di Fig.8, la riduzione di intensità non è accompagnata da
riduzione dell’emittanza (dato che energia, dimensione e divergenza del fascio non variano). Il fascio non è quindi
ottimizzato dato che, a parità di emittanza, si potrebbe avere un’intensità maggiore.

10
Figura 8. L’uso di una seconda pupilla (in una posizione non corrispondente all’immagine della prima
pupilla) può ridurre l'intensità del fascio, creando vignetting (da Moore)
- Lenti elettrostatiche

Si è già accennato in precedenza che, concettualmente, le lenti elettrostatiche funzionano in modo


simile alle lenti ottiche, a patto di sostituire l’indice di rifrazione (n) con il modulo della velocità (v)
dell’elettrone.
La principale differenza è che, mentre n varia in modo molto brusco tra l’esterno e l’interno
della lente, per la velocità della particella la variazione è continua nella zona dove c’è il campo. In
generale quindi, le lenti elettrostatiche vanno trattate come lenti “spesse”: la loro dimensione assiale
(cioè lo “spessore” dove si ha variazione di velocità) è comparabile alle distanze focali.
Una lente ideale è un dispositivo che esercita una forza centrale attrattiva, sulla particella,
proporzionale alla distanza R (come una forza elastica) tra la particella stessa e l’asse ottico del
sistema (che, in generale, coincide con il suo asse di simmetria). Conseguentemente, la lente ideale è
capace di focheggiare tutte le particelle emesse da un punto (o fenditura) sorgente all’ingresso (a
monte) della lente in un punto (o fenditura) all’uscita (a valle) della lente, indipendentemente
dall’angolo iniziale delle velocità delle particelle rispetto all’asse ottico. Anche le lenti però (come
tutto il resto nella vita!) non sono ideali, dato che in pratica la forza è lineare con R solo in una regione
limitata intorno all’asse ottico. Perciò, le particelle che entrano nella lente con angoli grandi vengono
“immaginate” con notevoli aberrazioni (vedi oltre).

1’

P P

Figura 9. Schema di una lente spessa (da Sette).

11
Parametri caratteristici delle lenti spesse

Dall’ottica geometrica è noto che, nelle lenti spesse, ci sono due piani (e due punti) principali
(non uno soltanto, come capita nelle lenti sottili), e due distanze focali diverse (anziché uguali) a
monte e a valle della lente. In Fig.9 è mostrato uno schema di una lente spessa (zona grigia). Se si
considera il raggio 1 parallelo all’asse ottico ed entrante nella lente, si vede che questo la attraversa
ed esce intersecando l’asse ottico nel punto PF2,38 che è quindi un fuoco della lente. Consideriamo
ora un raggio che emerge dalla lente parallelamente all’asse ottico sul prolungamento del raggio 1.
Seguendo a ritroso questo raggio, si vede la traiettoria del raggio 2, che interseca l’asse ottico in PF1,
che è quindi l’altro fuoco della lente. Ora, facendo proseguire i raggi 1 e 2 all’interno della lente con
le stesse direzioni che hanno all’esterno (sia a destra che a sinistra, come evidenziato dalle linee
tratteggiate in Fig.9), si trova che essi si intersecano nei punti indicati con R1 e R2. Da essi si trovano
poi i punti principali (P1 e P2) e i piani principali (π1 e π2), come indicato.39 Dalla Fig.9 si nota che,
invece di considerare il percorso vero che i raggi 1 e 2 compiono all’interno della lente, è possibile
ottenere lo stesso risultato immaginando che essi: i) proseguano diritti all’interno della lente, come
se la lente non ci fosse, fino al piano π1 (nel punto R1, nell’esempio di Fig.9); ii) si portino poi dal
relativo punto del piano π1 fino al corrispondente punto del piano π2 (cioè da R1 a R2 nel caso di Fig.9)
muovendosi parallelamente all’asse ottico come se i piani π1 e π2 fossero spazialmente coincidenti;
iii) si muovano successivamente dal piano π2 come se fossero di nuovo all’esterno della lente.40
Da quanto detto, la costruzione dell’immagine per un dato oggetto può quindi avvenire in
generale secondo la rappresentazione mostrata in Fig.10, dove i raggi indicati con 1 e 2 sono della
stessa tipologia di quelli della Fig.9, cioè, a monte (sinistra) della lente, rispettivamente parallelo
all’asse ottico e passante per il fuoco PF1. In Fig.10 sono indicate (con le lettere minuscole) le distanze
di oggetto e fuoco PF1 dal piano π1 (con p e f1, rispettivamente) e quelle di immagine e fuoco PF2 dal
piano π2 (con q e f2, rispettivamente). Da tale costruzione si può scrivere, sfruttando le proprietà dei
triangoli simili:
f1 P1S1 f PR
 e 2 2 2.
p R1S1 q S2 R 2
Sommando membro a membro e ricordando che R 1S1  S2 R 2 si trova:
f1 f 2 P1S1 P2 R 2 P1S1  P2 R 2 R1S1 f f
      1 ; cioè: 1  2  1 .41
p q R1S1 S2 R 2 R1S1 R1S1 p q
Tale equazione è nota come formula di Gauss delle lenti spesse. Alternativamente, si può esprimere:
p  f1  zO PF1 e q  f 2  z I PF2 in modo che dalla formula di Gauss si ottiene:
f1 f2
  1. Da questa si ottiene l’equazione:
f1  zO PF1 f 2  z I PF2
f1 f 2  f1 zI PF2  f1 f 2  f 2 zO PF1  f1 f 2  f1 zI PF2  f 2 zO PF1  zO PF1  zI PF2 . Semplificando si ottiene:
zO PF1  zI PF2  f1 f 2 , da cui, in conclusione:  p  f1 q  f 2   f1 f 2 .
Tale equazione è invece nota come formula di Newton delle lenti spesse.

38
PF sta per punto focale.
39
Si può verificare che la posizione dei punti e dei piani principali all’interno della lente è una caratteristica intrinseca
della lente stessa e prescinde dalla scelta di quale distanza dall’asse ottico abbia il raggio 1 (si veda per esempio il raggio
1’, in blu).
40
Detto in altro modo, si può immaginare che se P1R1 fosse un oggetto, allora P2R2 sarebbe la sua immagine per la lente
in esame, con magnificazione +1 (cioè diritta e di uguale dimensione). Come detto, tutto va cioè come se i piani π1 e π2
fossero otticamente coincidenti, pur essendo spazialmente separati.
41
Si noti che, nel caso particolare in cui f1 = f2 = f, si ritrova l’equazione delle lenti sottili: 1 p  1 q  1 f .

12
Figura 10. Rappresentazione schematica della costruzione dell'immagine di un oggetto posto in posizione zO
e di dimensione x1; l’immagine è posta in posizione zI, ha dimensione x2 e risulta invertita (da Sette).

La trattazione qui svolta è di validità generale per tutti i sistemi ottici. In particolare, per le
lenti elettrostatiche ciò che si verifica è che i due piani π1 e π2 risultano sempre invertiti. Lo schema
che utilizzeremo sarà quindi quello di Fig.11. Dato che è piuttosto scomodo riferire alcune grandezze
(p e f1) rispetto al piano π1 e altre (q e f2) rispetto a quello π2, si utilizza solitamente un piano comune
a tutte, rispetto al quale si definiscono le distanze con simboli maiuscoli: P, Q, F1 e F2, come mostrato
in Fig.11.42 Le relazioni tra le grandezze maiuscole e quelle minuscole forniscono: P  F1  p  f1 e
Q  F2  q  f 2 . La formula di Newton diventa quindi: P  F1 Q  F2   f1 f 2 .

Figura 11. Schema di riferimento per una lente elettrostatica (da Granneman-Van Der Wiel).
In questo sistema, si definisce la magnificazione lineare (M) come il rapporto tra la dimensione
dell’immagine e quella dell’oggetto: M  x2 x1 , che risulta negativa dato che l’immagine è
invertita.43 Sfruttando i due triangoli simili che formano l’angolo 22 rispetto all’asse ottico, si può

42
Anche se qualunque piano può svolgere questa funzione, generalmente si utilizza (e nel seguito si farà sempre così)
come riferimento il piano di simmetria (cioè quello al centro della gap, vedi oltre).
43
Risulta cioè che x2 < 0 se x1 > 0. In Fig.11, considerando come positiva la x quando si trova al di sopra dell’asse z,
siamo proprio in questo caso.

13
x2 z PF F  Q f 2  q
scrivere:  I 2  2  . Analogamente, usando i due triangoli simili che formano
x1 z2 PF2 f2 f2
x f1
l’angolo 21 rispetto all’asse ottico, si trova: 2  . Quindi risulta che:
x1 f1  p
f q f1
M  2  .
f2 f1  p
La magnificazione angolare (m) è invece definita come il rapporto tra la divergenza
all’immagine e quella all’oggetto: m  22 21 , anch’essa negativa.44 Dall’analisi di Fig.11,
x
utilizzando i due triangoli che hanno come cateto x1, si ha: 22  tan 22  1 (> 0) e
f2
x1 2 f p
21  tan 21  , in modo da risultare < 0. In tal modo si ha che: 2  1 . Analogamente,
f1  p 21 f2
22 f1
utilizzando i due triangoli che hanno come cateti x2 si ottiene:  . Riassumendo, si può
21 f2  q
f p f1
quindi scrivere: m  1  .
f2 f2  q

f1
Dai risultati trovati rispettivamente per M e m si trova quindi che: M m  .
f2
Una diversa espressione per il prodotto M m può anche essere dedotta dalla Legge di
Helmholtz-Lagrange: x11 E1  x22 E2 . Infatti, ricordando le definizioni date sopra per M e m, si

può scrivere: M m  E1 . Si può quindi sintetizzare che: M m  f1  E1


. Il significato di questa
E2 f2 E2
espressione è che il prodotto delle magnificazioni lineare e angolare è fissato dal rapporto tra le
distanze focali della lente, il quale è a sua volta stabilito dalla radice del rapporto tra le energie delle
particelle a monte e a valle della lente.

Lenti cilindriche
La geometria di lente elettrostatica più utilizzata per focheggiare particelle cariche con energia
nell’intervallo che va da qualche eV fino a molti keV è quella costituita da due elettrodi cilindrici
metallici coassiali polarizzati in modo che gli elettroni abbiano, a monte e a valle, le energie cinetiche
(rispettivamente E1 e E2) desiderate o imposte dal progetto della lente.
Le proprietà ottiche di tali lenti dipendono dai diametri interni (D) dei cilindri,45 dalla
spaziatura (gap, G) che vi è fra di essi e, come abbiamo già visto, dal rapporto (E1/E2) che vi è tra le
energie cinetiche delle particelle trasportate. In particolare, le proprietà scalano proporzionalmente a
D, quindi tutte le dimensioni caratteristiche delle lenti cilindriche vengono date in unità di D.46
Se la gap è molto grande (G > 0.5 D), le proprietà della lente diventano sensibili anche allo
spessore (quindi anche al diametro esterno) delle pareti cilindriche. Inoltre, in questa situazione
eventuali campi esterni (generati per esempio da altri elementi ottici posti nelle vicinanze) possono
penetrare all’interno della lente, a causa di un mancato effetto di schermo, facendone variare il

44
Rispetto alla Fig.11, 21 si ottiene (come indicato) con una rotazione in senso orario rispetto all’origine degli angoli,
(parallela all’asse ottico); per convenzione questa è negativa (come si fa di solito con gli angoli). Partendo dalla stessa
origine degli angoli, 22 si ottiene anch’essa con una rotazione oraria; la convenzione che si utilizza per l’immagine è
però opposta rispetto a quella per l’oggetto, dando quindi una 22 positiva.
45
In taluni casi essi possono essere anche diversi tra loro, anche se ciò non capita frequentemente.
46
Se ci sono diversi diametri, le dimensioni sono date generalmente in unità del diametro maggiore.

14
comportamento. Si verifica cioè una dipendenza dai parametri che diventa difficile controllare e causa
quindi una possibile non riproducibilità nel comportamento della lente. Per questo motivo si evita
sempre di trovarsi in questo tipo di condizione. Una situazione che si incontra molto comunemente è
quella per cui G = 0.1 D.
Abbiamo visto appena sopra che il rapporto E1/E2 concorre a determinare le proprietà di una
lente elettrostatica. È intuitivo capire che, per una data differenza di potenziale tra i due cilindri che
costituiscono la lente, il rapporto E1/E2 dipende, per esempio, dall’energia (E1) con cui gli elettroni
entrano nella lente.47 In tal modo si ha che in generale i parametri focali di tale lente non sono fissati
univocamente dal modo in cui vengono polarizzati i due cilindri ma variano in ragione dell’energia
iniziale degli elettroni. Cioè, elettroni con diverse energie cinetiche all’ingresso “vedono” una lente
diversa. Questa situazione (poco soddisfacente) può invece essere resa non ambigua da una
convenzione che solitamente viene utilizzata nell’ottica elettronica; essa si basa sul fatto che il
potenziale elettrostatico V (così come l’energia potenziale elettrostatica U), essendo una funzione di
stato, è definito a meno di una costante additiva, che può essere scelta arbitrariamente. La
convenzione, a cui si faceva riferimento, è quella di fissare tale costante in modo che il potenziale
abbia valore nullo (V = 0) in un punto dove l’energia cinetica dell’elettrone è anch’essa nulla (E = 0).
Data la relazione U = – eV, risulta che, per V = 0, anche U = 0. È noto che l’energia totale (Etot)
dell’elettrone si può esprimere come Etot = E + U; quindi, usando la convenzione detta, nei punti dove
E è nulla anche Etot è nulla. Siccome, come si è già notato, il sistema è conservativo, l’energia totale
è sempre costante: quindi se c’è un punto dove essa è nulla, allora si può dire che si ha sempre
Etot = E + U = 0. Quindi, con la scelta convenzionale della costante per V, si può scrivere:
E =  U = eV.48 Risulta quindi che: E1/E2 = V1/V2.49
Allo scopo di illustrare il principio di funzionamento di una lente cilindrica, in Fig.12 è
mostrata (a tratto continuo) la traiettoria di una particella (qui si ipotizzano delle particelle con carica
q > 0 in modo che, con la convenzione adottata, sia V ≤ 0 sempre) nella quale V2 < V1, così che il
campo tra i due cilindri sia orientato come mostrato dal vettore E. Utilizzando la solita convenzione,
si ha E =  U =  qV; ciò implica che E2 > E1, cioè v2 > v1. Si nota che, lontano dalla gap (dove il
campo è ormai nullo), le traiettorie sono rettilinee e 2 < 1, coerentemente con la Legge di Snell.
In definitiva, sulla base delle convenzioni sopra citate, chiameremo lente accelerante una lente
tale per cui E2 > E1, cioè v2 > v1: se q > 0, ciò implica che V2 < V1, mentre se q < 0, dovrà
necessariamente risultare V1 < V2. A questo punto, per la lente decelerante valgono tutte le relazioni
inverse.
In Fig.12 sono mostrate (tratteggiate) le linee equipotenziali50 vicino alla gap. Una particella
che, muovendosi verso destra, entra nella lente (per esempio nel punto 1) avrà un’accelerazione
(parallela al campo, cioè perpendicolare alla linea equipotenziale) pari ad ain, dove per un angolo
piccolo, cioè in approssimazione parassiale, possiamo dire che la componente tangenziale parallela
all’asse ottico z (ain,z) fa aumentare il modulo della sua velocità mentre quella radiale (ain,R) la accelera
verso l’asse della lente. In uscita dalla lente (per esempio nel punto 2) l’accelerazione aout ha una
componente tangenziale (aout,z) che fa ancora aumentare il modulo della velocità e una radiale (aout,R)
orientata invece verso l’esterno.

47
Detta – e la carica dell’elettrone e ΔV = V2 – V1 la differenza di potenziale tra i due cilindri, si ha che: E2  E1  eV
cioè se ∆ 0 allora ; risulta quindi che il rapporto E2 E1  E1  eV  E1 è funzione (oltre che di ΔV) anche
di E1.
48
Dato che l’energia cinetica deve sempre essere positiva o nulla (E ≥ 0), ciò implica che, per particelle con carica
negativa, sia sempre V ≥ 0. In pratica, utilizzando la convenzione detta, l’elettrone si trova sempre in zone dello spazio a
potenziale positivo (o al più nullo, dove avrà velocità nulla).
49
Ciò implica che si possa scrivere: M m  f1 f 2  E1 E2  V1 V2 . Ciò significa che la distanza tra un piano focale
e il corrispondente piano principale (cioè la f) è maggiore dal lato della V maggiore. In Fig.11, dove per esempio si ha
f1 > f2, sarà V1 > V2.
50
Queste linee si ottengono dalle superfici equipotenziali facendone una sezione nel piano (z, x) o (z, y).

15
Figura 12. Principio di funzionamento di una lente cilindrica rispetto a particelle di carica positiva. I
prolungamenti della traiettoria (tratteggiati in rosso) che intersecano il piano di simmetria a distanze R1 e R2
dall’asse ottico, servono per indicare il filling factor, vedi oltre (da Granneman-Van Der Wiel).
Quindi, mentre tangenzialmente vi è sempre un effetto accelerante, radialmente ci sono due
effetti qualitativamente opposti in ingresso e in uscita dalla lente. A livello quantitativo però i due
effetti non si compensano. Osservando infatti la distribuzione delle linee equipotenziali nella gap, si
nota che esse si addensano al crescere di R. Ricordando che il campo va come il gradiente di V, ciò
implica che, per un dato z in un intorno della gap, esso è maggiore lontano dall’asse ottico. Per un
dato raggio l’effetto dominante è quindi quello in ingresso, dato che la particella entra, nella zona
dove c’è campo, sempre in una posizione più lontana dall’asse rispetto a quando ne esce (come si
vede dalla traiettoria mostrata in Fig.12). Inoltre, l’effetto convergente è complessivamente maggiore
per traiettorie inizialmente lontane dall’asse rispetto a traiettorie prossime all’asse. In totale, quindi,
l’effetto della lente è quello di focheggiare.

Figura 13. Andamento del potenziale sull’asse ottico, cioè per R = 0, in una lente cilindrica a due
elementi (da Harting-Read).
La Fig.13 mostra il risultato del calcolo dell’andamento del potenziale sull’asse ottico (cioè
per R = 0) in una lente cilindrica a due elementi (con G/D = 0.1), i cui potenziali sono posti
rispettivamente a V1 e V2, dove si vede che la zona di variazione del potenziale (cioè di campo non
16
nullo) in direzione assiale si estende in pratica per un intervallo di z pari a 2D (cioè D su entrambi i
lati della gap). Ciò significa che un ulteriore elemento ottico può essere posto (a monte o a valle della
gap) a una distanza minima dalla gap pari a 2D se non si vuole perturbare il comportamento della
lente adiacente. Per calcolare le proprietà ottiche di una lente si devono considerare le equazioni
fondamentali dell’elettrostatica in forma locale: E  V (conservatività del campo) e   E    0
(legge di Gauss, dove ρ è la densità di carica di volume ed ε0 la costante dielettrica nel vuoto51).
Combinando le due si ottiene, come noto, l’equazione di Poisson:  2V     0 . Trascurando le
interazioni elettrone-elettrone (cioè descrivendo la lente come se essa fosse percorsa da un elettrone
alla volta)52 si ha che ρ = 0, e l’equazione da risolvere si riduce al caso, molto più semplice,  2V  0
nota come equazione di Laplace.
La soluzione dell’equazione di Laplace, con le opportune condizioni al contorno (poste dalla
geometria della lente e dal valore dei potenziali sui due elementi cilindrici), permette il calcolo
dell’andamento del potenziale nei vari punti dello spazio (come mostrato per esempio in Fig.13 lungo
la linea R = 0, cioè l’asse z). Una volta nota la V(z,R), si può risolvere, in linea di principio,
l’equazione del moto F   e E  e  V  m a (m è la massa dell’elettrone) e trovare, per date
condizioni iniziali (zin, Rin, in)53 la traiettoria di ciascun elettrone, determinando quindi le proprietà
focali della lente. In pratica, il computo è relativamente agevole nel limite di approssimazione
parassiale (cioè per raggi che sono vicini all’asse nella regione della gap, anche se possono essere
distanti da esso nelle regioni field free) e in riferimento alle traiettorie rettilinee “asintotiche” (cioè
valutate dove il campo è nullo, quindi a qualche D di distanza a monte e a valle, sull’asse ottico, dal
centro della lente).54 In questi limiti, si trovano generalmente già tabulate le proprietà focali delle più
comuni lenti, che possono quindi essere utilizzate nella progettazione di vari sistemi ottici (vedi oltre).
Volendo rimuovere invece questi vincoli, per determinare le proprietà delle lenti si possono utilizzare
pacchetti software in grado di tracciare i raggi (ray tracing) calcolando le singole traiettorie delle
particelle. Pur essendo più flessibili nel poter descrivere geometrie non convenzionali e più accurati
nei risultati forniti, essi sono però di utilizzo meno immediato rispetto alle tabelle poiché richiedono
una conoscenza abbastanza accurata dello strumento software che si utilizza (senza menzionare il
costo più elevato!) e implicano una maggiore difficoltà di comprensione “fisica” dei risultati.
Tornando ai dati che si trovano in forma già tabulata, in Fig.14 è mostrata una tipica tabella
riassuntiva che fornisce, per una lente con G/D = 0.1, i valori (in unità di D) delle distanze focali (f1,
f2, F1, e F2) in funzione di V2/V1.55 Una prima analisi di congruità di questi dati si può condurre
verificando la relazione f 2 f 1  V2 V1 : per esempio, per V2 V1  4 si ha: f 2 f1  4.91 / 2.46  2

51
Dato che il fascio si propaga in “vuoto” (vedi Capitolo “Interazione radiazione-materia”) si usa la costante dielettrica
nel vuoto.
52
Non trascurare ρ significherebbe invece considerare un regime di interazione elettrone-elettrone noto come “carica
spaziale”. In questo caso, che noi non considereremo, la descrizione diventa molto più complicata, dato che il moto di un
elettrone dipende da quello di tutti gli altri. Chiaramente, se i fasci di elettroni che attraversano la lente sono molto intensi
(cioè se le particelle sono mediamente “vicine” l’una all’altra), l’approssimazione ρ ≈ 0 non è più legittima e il moto di
un elettrone viene effettivamente a dipendere da quello di tutti gli altri. In questo caso si fa in genere un’ipotesi iniziale a
priori di come la carica elettronica è distribuita nello spazio (cioè si ipotizza un certo andamento della ρ) e poi si itera una
procedura per la quale, ad ogni passaggio, si ottiene il potenziale associato a tale ρ e si determina il moto delle cariche a
fronte di tale potenziale, ottenendo così la nuova distribuzione di ρ (che sarà in generale diversa da quella ipotizzata
inizialmente). La nuova ρ viene quindi posta come ipotesi iniziale per il passaggio successivo. La procedura prosegue
fino ad ottenere (fissando dei margini di incertezza, dato che il metodo è approssimato) una ρ coerente con quella
ipotizzata all’inizio dell’ultima iterazione (da cui il nome di approccio “autoconsistente”, self-consistent).
53
Tra le condizioni iniziali da specificare non vi è vin poiché, una volta nota la V(z,R), anche la v è nota, dato che, con la
solita convenzione, si ha: mv 2 2  eV .
54
Mentre in generale vicino alla gap l’energia della particella non è nota, per le traiettorie “asintotiche” si sa che l’energia
iniziale è E1 = eV1, e quella finale E2 = eV2.
55
In realtà, nella tabella i valori di V2/V1 sono sempre > 1 (lente accelerante). Il comportamento della lente decelerante si
ottiene operando semplicemente un’inversione dell’indice 1 (ingresso) con l’indice 2 (uscita).

17
, in accordo con quanto atteso.56 Una modalità alternativa (grafica invece che tabellare) di
rappresentare le proprietà della stessa lente è fornita in Fig.15a. Su questi grafici si possono rilevare
due aspetti:
i) in corrispondenza, per esempio, del valore V2/V1 = 8 Lente cilindrica a 2 elementi, D2 = D1, G/D = 0.1
è mostrata, al di sopra dell’asse delle ascisse, una linea verticale
V 2 /V 1 f1 f2 F1 F2
tratteggiata la cui lunghezza è pari a (F1 ― f1); questa stessa
1.2 178.38 195.41 186.72 186.68
riga (con la medesima lunghezza) è riportata anche al di sotto 1.4 50.55 59.81 55.02 54.96
dell’asse, per evidenziare che f 2  F2  F1  f1 ; ciò implica 1.6 25.16 31.83 28.34 28.25
1.8 15.70 21.06 18.24 18.12
che f1  f 2  F1  F2 . Con riferimento alla Fig.11, questa 2.0 11.05 15.63 13.21 13.07
situazione si può ottenere solo se i piani principali π1 e π2 sono 2.2 8.39 12.44 10.28 10.14
tra loro invertiti,57 cosa che abbiamo già detto essere una 2.4 6.69 10.37 8.41 8.24
2.6 5.54 8.93 7.12 6.94
proprietà generale per le lenti elettrostatiche; 2.8 4.71 7.88 6.18 5.99
ii) si può anche verificare che F1 > f1, mentre F2 < f2. 3.0 4.09 7.08 5.48 5.27
Come mostrato in Fig.15b, queste due condizioni possono 3.5 3.07 5.74 4.31 4.07
essere ottenute solo se il piano di simmetria (symmetry plane) 4.0 2.46 4.91 3.60 3.33
5.0 1.77 3.95 2.78 2.48
si trova a destra di π1. Anche questa situazione è 6.0 1.39 3.42 2.34 2.00
generalizzabile e implica che i piani principali si trovino 8.0 1.00 2.84 1.87 1.47
sempre dallo stesso lato del piano di simmetria, in particolare 10.0 0.80 2.54 1.62 1.19
58
dal lato a potenziale minore, dato che V2 > V1. 12.0 0.68 2.36 1.48 1.00
14.0 0.60 2.24 1.38 0.87
Una volta noti i parametri focali della lente, è possibile 16.0 0.54 2.15 1.30 0.78
calcolare algebricamente (cioè facilmente) le caratteristiche 18.0 0.49 2.09 1.25 0.70
dell’immagine per un dato oggetto. Se, per esempio, l’oggetto 20.0 0.46 2.05 1.21 0.64
si trova in posizione P rispetto al piano di simmetria (con 25.0 0.39 1.97 1.13 0.52
30.0 0.35 1.93 1.09 0.44
dimensione 2x1 e divergenza 21), dalla formula di Newton 35.0 0.32 1.91 1.05 0.37
(scritta rispetto al piano di simmetria) P  F1 Q  F2   f1 f2 , 40.0 0.30 1.90 1.03 0.32
50.0 0.27 1.90 0.99 0.25
f f
si ottiene: Q  F2  1 2 , che fornisce la Q (P); si determina 60.0 0.25 1.92 0.97 0.19
P  F1 70.0 0.23 1.94 0.95 0.14
80.0 0.22 1.97 0.94 0.10
cioè la posizione dell’immagine. Si trovano inoltre: 90.0 0.21 2.00 0.93 0.07
f1 f F P
M  e m 1  1 ; si determinano cioè sia la Figura 14. Tabella dei parametri focali
F1  P Mf 2 f2 di una lente a due cilindri con G/D=0.1,
(semi)dimensione dell’immagine x2  Mx1 , sia la sua dove D1=D2=D (da Harting-Read).

(semi)divergenza 2  m1 .

56
Detto in altre parole, delle prime tre colonne in tabella, una è superflua.
57
Viceversa, se i piani non fossero invertiti, si avrebbe: f1  f2  F1  F2 , come si può intuire dalla Fig.10.
58
Il fatto che in Fig. 11 il piano di simmetria sia posto (erroneamente) tra i piani 1 e 1 non inficia in alcun modo i
risultati che ne sono conseguiti.

18
Figura 15. a) Rappresentazione grafica dei parametri focali di una lente a due cilindri. Si noti che anche la
parte di grafico sottostante l’asse delle ascisse (riferita cioè a F2 e f2) ha ordinate positive. Tutte le distanze
focali sono quindi positive. b) Posizionamento del piano di simmetria (symmetry plane) di una lente rispetto
ai piani principali.

Lenti cilindriche a tre elementi


Per ottenere gli effetti di focheggiamento desiderati, è chiaramente possibile usare più lenti
cilindriche disposte in serie. Se le lenti in questione sono abbastanza vicine, i campi elettrici si
sovrappongono ed occorre trattarle come un’unica lente.
Un’estensione, in questo senso, delle lenti cilindriche a due elementi che sono state finora
descritte consiste nel realizzare una lente cilindrica a tre elementi. La configurazione più interessante
di tale tipo di lente è quella simmetrica, schematizzata in Fig.16, per la quale sia impostato V1 = V3.
Tale tipo di lente elettrostatica è detta lente einzel.
Tipicamente occorre che l’elemento centrale, di lunghezza L, sia più corto di due diametri
(cioè L< 2D) per avere le sovrapposizioni dei campi elettrici presenti vicino alle due gap (anche in
questo caso tipicamente si pone G/D = 0.1).
Il fatto che la lente sia simmetrica si riflette anche nei parametri focali. Infatti, essendo f1 ⁄f2 =
V1 ⁄V3 = 1, si ha che f1 = f2 e quindi anche F1 = F2 . Le lenti einzel producono quindi il
focheggiamento del fascio senza cambiare l’energia cinetica delle particelle tra posizione dell’oggetto
e posizione dell’immagine.
A seconda invece del rapporto tra le tensioni dei cilindri più esterni (1 e 3) e quello centrale
(2), è possibile avere una lente cosiddetta “accelerante” (nel caso sia V2 >V1 , cioè nel caso in cui
l’elettrone venga prima accelerato, poi decelerato) o “decelerante” (se vale V2 <V1 , viceversa rispetto
al caso precedente)59.

59
Per quanto detto questo tipo di lente non cambia l’energia; i termini “accelerante” e “decelerante” non sono quindi
corretti ma servono solo per definire cosa succede tra il primo e il secondo elettrodo della lente.

19
A = L +G

V1 V2 V3
D

G L G
Figura 16. Schema di una lente cilindrica a tre elementi di tipo simmetrico.
Per comprendere meglio il funzionamento della lente einzel, si possono esplorare le due
modalità di utilizzo sfruttando un programma di ray tracing.60 Si consideri una lente con G/D = 0.1
e A/D = 1, dove A = L+G (si veda la Fig.16).
i) Modalità “accelerante”, con V2 ⁄V1 = 7. Le tabelle danno i parametri focali (espressi in unità
di D, come faremo sempre da qui in poi) f = 1.53 e F = 1.09.
Ponendo, per esempio, P = 2.6, si ha Q = 2.64. Ponendo infine V1 = 10 V e V2 = 70 V, si
ottengono le traiettorie schematizzate in Fig.17a). Sono in particolare tracciate le traiettorie di 11
elettroni (curve blu), che compongono un fascio di divergenza totale 2ϑi = 10°, partendo da una
sorgente puntiforme. Sono inoltre riportati i profili di alcune superfici equipotenziali (curve verdi),
dalle quali si vede come i campi parzialmente si sovrappongano nella zona tra le due gap. La
posizione dell’immagine risulta essere a Q = 2.57, in buon accordo con le tabelle.

Figura 17. Risultato del ray-tracing per un fascio di elettroni in una lente einzel di tipo: a) “accelerante”;
b) “decelerante”.

ii) Modalità “decelerante”, con V2 ⁄V1 = 0.1. I parametri focali risultano essere f = 1.36 e
F = 1.25.
Ponendo P = 2.6, si ha Q = 2.62 (particamente uguale al caso precedente). Ponendo infine
V1 = 10 V e V2 = 1 V, si ottengono le traiettorie schematizzate in Fig.17b). Sono tracciate le traiettorie
di 11 elettroni (curve blu) con le medesime condizioni del caso “accelerante”. Sono inoltre riportati i
profili di alcune superfici equipotenziali (curve verdi). La posizione dell’immagine risulta essere a
Q = 1.68, quindi in questo caso non c’è affatto un buon accordo con le tabelle. Inotlre, si vede
chiaramente che l’immagine non è più puntiforme.

60
Il programma utilizzato si chiama SIMION. Si può visitare il relativo sito web www.simion.com, dove è disponibile
una versione dimostrativa.

20
Le deviazioni di quanto ottenuto dalle simulazioni rispetto alla teoria saranno meglio
comprese dopo aver discusso, nella prossima sezione, delle cosiddette aberrazioni.

- Aberrazioni

I sistemi ottici elettronici possono presentare, come tutti i sistemi ottici, effetti di aberrazioni.
Fino a ora la trattazione che abbiamo svolto è stata condotta con due ipotesi: i) quella di soddisfare
l’approssimazione parassiale e ii) assumendo che i fasci di particelle cariche siano monoenergetici.
Solitamente però, nessuna di queste assunzioni è del tutto corretta; ciò dà origine, rispettivamente, i)
alle aberrazioni geometriche e ii) alle aberrazioni cromatiche. Oltre a questi contributi “intrinseci”
alle aberrazioni, vi possono essere anche aberrazioni “estrinseche” di origine meccanica (causate da
imperfezioni dovute a disallineamenti o inaccuratezze nelle lavorazioni dei componenti) e/o di origine
elettrica (dovute a fluttuazioni dei potenziali di bias o a variazioni locali della funzione lavoro del
metallo). Un ulteriore contributo “intrinseco” alle aberrazioni in un sistema di ottica elettronica che
verrà qui solo accennato, noto come carica spaziale (vedi nota 52), è dovuto al fatto che un fascio di
particelle cariche presenta una interazione elettrostatica (repulsiva) tra le particelle stesse. Il
fenomeno della carica spaziale, che chiaramente non è presente in un sistema ottico per fotoni, tende
in modo naturale a fare aumentare la dimensione del fascio durante la sua propagazione nel sistema
ottico producendo quindi delle aberrazioni, con effetti tanto maggiori quanto più elevata è la sua
densità di carica.61
In generale, nella pratica risulta che nei sistemi di ottica elettronica le aberrazioni sono più
evidenti che nell’ottica geometrica,62 con il risultato che l’immagine non riproduce fedelmente
l’oggetto. Se si escludono le applicazioni di ottica elettronica per la microscopia elettronica e per i
rivelatori sensibili alla posizione, non è però di solito necessario che l’immagine riproduca fedelmente
l’oggetto ma ci si può limitare a far sì che i vari contributi all’aberrazione totale non accrescano
eccessivamente la dimensione complessiva dell’immagine rispetto alla situazione ideale senza
aberrazioni.
Nel seguito discuteremo brevemente le aberrazioni geometriche e quelle cromatiche, che
rappresentano spesso i contributi maggiori al fenomeno delle aberrazioni nei sistemi di ottica delle
particelle cariche.

Aberrazione geometrica
La Fig.18 mostra schematicamente la formazione dell’immagine per una semplice lente (di
diametro D), nel caso in cui l’approssimazione parassiale non sia del tutto valida (cioè la
semidivergenza 1 non sia piccola). Si nota cioè che, per una data posizione sull’asse ottico
dell’oggetto puntiforme (posto sul piano dell’oggetto, object plane) la posizione dell’immagine
dipende, oltre che dai parametri caratteristici della lente, anche dall’angolo ± (con  ≤ 1) che
ciascuna coppia di raggi forma con l’asse ottico. In particolare, si nota che, mentre per angoli  piccoli
(raggi parassiali) l’immagine si forma nel piano immagine (image plane) determinato con
l’approssimazione parassiale, per angoli  crescenti essa si forma via via sempre più vicino alla lente.
Come conseguenza, l’oggetto puntiforme viene ricostruito nel piano immagine non più come un
punto ma come un disco di raggio pari a Δrg; questa lunghezza è appunto detta aberrazione
geometrica (g).

61
Le aberrazioni da carica spaziale possono quindi essere trascurate se i fasci non sono troppo densi, cosa che spesso
succede nella rivelazione di elettroni. Nelle sorgenti invece questo effetto va spesso considerato.
62
La ragione principale di questa situazione è dovuta al fatto che i fattori di riempimento (filling factor, vedi oltre) sono
intrinsecamente maggiori che per l’ottica dei fotoni, rendendo spesso significativo in particolare l’effetto delle aberrazioni
geometriche.

21
Figura 18. Formazione dell'immagine in una lente, in presenza di aberrazione
geometrica; è indicato il disco di minima confusione (disc of least confusion, da Moore).

Chiaramente, Δrg è una funzione (crescente) di 1 e viene solitamente espressa in termini di


un sviluppo in serie di potenze di : rg  a1  b12  c13  d14  e15 ..., dove i coefficienti a, b,
c, d, e,…, sono costanti.63
Essendo il sistema focheggiante al primo ordine, il termine lineare in 1 è nullo (a = 0). Si
può inoltre dimostrare che, in sistemi con simmetria assiale (cioè cilindrica) come quelli che abbiamo
finora considerato, nello sviluppo di Δrg i termini di ordine pari sono nulli (b = d = 0), quindi il primo
termine non nullo è dato da c13 .
L’aberrazione geometrica Δrg, nel caso particolare di un oggetto puntiforme posto sull’asse
ottico della lente (come rappresentato in Fig.18), è detta aberrazione sferica. Nel limite di angoli
abbastanza piccoli (cioè per 1 < 1),64 il termine in 15 risulta generalmente trascurabile e si può
quindi scrivere: rg  c13 , dove c, detto coefficiente di aberrazione del terzo ordine, è desumibile
dalle tabelle (similmente ai parametri focali). Tenendo conto che, come discusso a proposito di
Fig.12, l’angolo 1 di ingresso alla lente è legato all’angolo 2 in uscita dalla lente tramite la legge
di Snell, è chiaro che Δrg possa essere espresso in funzione di 2 anziché di 1.
Un parametro utile per stabilire se gli angoli 1 e 2 siano sufficientemente piccoli da
giustificare l’approssimazione rg  c13 è rappresentato dal cosiddetto fattore di riempimento
(filling factor), η. Per definire η immaginiamo che le traiettorie nelle zone field free della lente
(traiettorie asintotiche), sia dal lato dell’oggetto sia da quello dell’immagine, proseguano in modo
rettilineo fino ad intersecarne il piano di simmetria (nel centro della gap) a distanza R1 e R2,
rispettivamente, dall’asse ottico, come illustrato in Fig.12. Il filling factor è allora definito
(percentualmente) come il più elevato tra i due rapporti 2R1/D e 2R2/D. In questo senso il parametro
adimensionale η indica quindi quanto la lente venga “riempita” dal fascio.65
L’applicazione pratica del filling factor consente di stabilire come regola di massima che, nei
casi in cui η < 50%, lo sviluppo di Δrg può essere arrestato al primo termine non nullo in 1, ottenendo
quindi: rg  c13 . In queste situazioni il rapporto 2Δrg/D che si ottiene è dell’ordine di qualche %.
Se invece η > 50%, nello sviluppo andrebbero presi in considerazione anche i termini di ordine
superiore 15 (e magari 17 ).

63
Per motivi dimensionali è evidente che essi sono delle lunghezze.
64
Ricordiamo che 1 è espresso in radianti. Quindi, pur se l’approssimazione parassiale non è del tutto valida (vedi nota
24), è generalmente vero che 1 < 1.
65
Nel caso di Fig.12, η = 100 (2R1/D)%, dato che R1 > R2.

22
Nel caso invece più generale di oggetti (e immagini) non assiali, anche altri tipi di aberrazioni
geometriche devono essere considerate, quali (alcune fanno paura solo a nominarle!): coma, curvatura
di campo, distorsione, astigmatismo. A parte quest’ultima, che non può essere messa in relazione
all’aberrazione sferica, possiamo dire che nel caso in cui oggetto e immagine abbiamo entrambi
dimensioni inferiori a circa 5% D, è ancora possibile utilizzare lo sviluppo al terz’ordine con il
medesimo coefficiente per stimare il complesso delle aberrazioni geometriche.
In linea di massima quindi, le condizioni stabilite per l’utilizzo della rg  c13 con il valore
di c tabulato (cioè η < 50% e dimensioni di oggetto e immagine < 5% D) vanno rispettate se non si
vogliono produrre aberrazioni eccessivamente elevate.
Tornando al caso di oggetto puntiforme posto sull’asse, si può vedere dalla Fig.18 che la
minima dimensione dell’immagine si forma in un punto a monte del piano immagine (parassiale).
Questa dimensione è data dal raggio di un disco, detto disco di minima confusione (disc of least
confusion), che si può dimostrare essere sempre pari a Δrg/4.66 È quindi evidente che, se il piano
immagine viene spostato dalla sua posizione parassiale a questa nuova posizione, si ha una importante
riduzione delle aberrazioni geometriche pari ad un fattore 4. Nella pratica, essendo spesso la posizione
del piano immagine vincolata,67 per sfruttare questa proprietà invece che spostare il piano immagine
si fanno variare un po’ i potenziali in modo da spostare il disco di minima confusione fino a farlo
coincidere con il piano immagine desiderato.

Figura 19. Effetto del posizionamento di una pupilla nel primo fuoco di una lente elettrostatica (da Moore).
Nel caso di oggetti non puntiformi, da quanto già detto è chiaro che le maggiori aberrazioni
avvengono per i punti fuori dall’asse. L’aberrazione dipende dal valore dell’angolo massimo che un
raggio emesso dal bordo dell’oggetto o dell’immagine (cioè dal punto più lontano dall’asse) forma
con l’asse stesso. In Fig.19 si vede che, in ingresso alla lente, questo angolo è dato da (α1 + 1), cioè
dalla somma di angolo del fascio e di semidivergenza.68 Mentre l’evoluzione della divergenza del
fascio nel percorso ottico è regolata dalla legge di Helmholtz-Lagrange, per l’angolo α non ci sono
restrizioni fisiche sul suo andamento. Siccome spesso, come abbiamo già detto, l’immagine di una
lente è usata come oggetto per la lente successiva, è importante, per non fare crescere troppo le
aberrazioni lungo il percorso ottico, cercare di limitare il più possibile il beam angle α2 in uscita da
una lente. Un modo semplice di contenere il valore di α2 è quello di inserire una pupilla nel piano
focale PF1 (cioè a sinistra della lente), come mostrato in Fig.19. In questo modo l’immagine della

66
Mentre il raggio del disco di minima confusione è solo funzione di Δrg, la sua posizione dipende dalla particolare lente;
quindi non se ne può dare un’espressione generale.
67
Per esempio in un sistema ottico l’immagine di una lente diventa l’oggetto di una lente successiva.
68
Questa circostanza era già stata evidenziata a proposito della Fig.7, dove sono indicati i massimi angoli (α1 + 1 ) e
(α2 + 2 ).

23
pupilla va all’infinito e il relativo valore di α2 va quindi a zero, indipendentemente dal valore di α1.
La dimensione di tale pupilla verrà poi stabilita sulla base dell’emittanza del fascio.
Un aspetto interessante delle aberrazioni geometriche riguarda le lenti cilindriche a tre
elementi. Nel caso di lenti simmetriche (einzel), in cui i tre elementi hanno potenziali V1, V2 e V1
rispettivamente, abbiamo accennato come lo stesso comportamento parassiale si possa ottenere, per
opportuni valori del rapporto V2/V1, sia accelerando gli elettroni tra il primo e il secondo elettrodo e
poi rallentandoli tra il secondo e il terzo (cioè con V2/V1 > 1, modo detto “accelerante”) sia facendo
il viceversa (cioè con V2/V1 < 1, modo detto “decelerante”). In Fig.20 è mostrata una lente einzel (con
elemento centrale di lunghezza pari al diametro D e con G/D = 0.17) in cui, con opportuna scelta dei
rapporti tra i potenziali (V2/V1 = 12.1 e V2/V1 = 0.045, rispettivamente) si trovano le stesse proprietà
di focheggiamento al primo ordine: in entrambi i casi, partendo dalla sorgente (posta a distanza 2D a
sinistra del piano di simmetria), si ottiene l’immagine parassiale a distanza 2D a destra del piano di
simmetria. In realtà per angoli 1 non sufficientemente piccoli si vede però che, mentre le traiettorie
riferite alla lente “accelerante” creano un’immagine con una piccola aberrazione Δrg nel piano
immagine parassiale, la lente “decelerante” crea aberrazioni molto maggiori. Va notato però che
queste maggiori aberrazioni non sono causate da un maggior filling factor per la lente decelerante;
infatti, per entrambi i modi di Fig.20, si ha η ≈ 60%.69
Da ciò si deduce che nell’utilizzare una lente einzel la modalità da realizzare è sempre quella
“accelerante” in modo da ridurre le aberrazioni geometriche.

Figura 20. Percorsi degli elettroni in una lente einzel operante sia in modalità "accelerante" sia "decelerante". I
segmenti tratteggiati evidenziano come il filling factor sia lo stesso per l'utilizzo in entrambe le modalità, sebbene
siano visibili le notevoli differenze dovute all’azione dell’aberrazione geometrica. Si faccia attenzione al fatto che,
per meglio evidenziare gli angoli, è stata usata una scala verticale espansa (di un fattore 2.5) rispetto a quella
orizzontale (da Granneman-Van der Wiel).

Aberrazione cromatica
Come accennato sopra, questa aberrazione si presenta quando il fascio non è monoenergetico.
Per discutere tale effetto consideriamo quindi un fascio di particelle con energia media E e
una dispersione energetica data da ± ΔE. Abbiamo già visto che le proprietà di focalizzazione
dipendono dal rapporto tra le energie cinetiche delle particelle a monte e valle di una lente. Per un
fascio non monoenergetico questo rapporto varia a seconda dell’energia iniziale della particella (vedi

69
Dalla Fig.20 è altresì chiaro come, a parità di filling factor, le traiettorie “vere” per la lente “decelerante” arrivino molto
più vicino ai cilindri (nella zona del piano di simmetria) di quanto non facciano quelle relative alla lente “accelerante”.
Ciò determina il forte aumento delle aberrazioni.

24
nota 47). Ne consegue che le particelle con energie nel range ± ΔE “vedranno” lenti con differenti
proprietà.70 In questo senso le lenti rappresentano elementi che, pur non essendo realmente dispersivi,
discriminano le energie. In altre parole, partendo dal medesimo oggetto, esse creano un’immagine in
posizioni diverse in funzione dell’energia iniziale.
In riferimento alla Fig.21, consideriamo per esempio due elettroni di energia, rispettivamente,
E1 (pari all’energia media, traiettoria verde) ed E1’ = E1 + ΔE (con ΔE > 0, pari all’energia massima,
traiettoria blu)71 che incidono su di una lente con lo stesso angolo 1 (pari alla semidivergenza del
fascio), partendo da un oggetto puntiforme (punto P) posto sull’asse. Dopo avere attraversato la lente,
essi avranno rispettivamente energia E2 ed E2’ = E2 + ΔE e si muoveranno con due angoli diversi (2
e 2’) rispetto all’asse ottico, intersecandolo quindi in due punti immagine non coincidenti (Q e Q’).72
Come risultato si avrà che, sul piano immagine parassiale in corrispondenza di Q, invece che essere
puntiforme l’immagine sarà aberrata cromaticamente (cr), con una dimensione Δrcr. Per un dato 1,
la dimensione risulterà tanto maggiore quanto maggiore sarà il valore di ΔE.

Figura 21. Rappresentazione schematica dell'azione dell'aberrazione cromatica.

Quantitativamente, nel limite (comunemente soddisfatto) di ΔE << E (in modo cioè che valga
l’approssimazione 2'  2 ),73 si può scrivere (in ottica parassiale):
 rcr  QQ' tan  2'  QQ'  2'  QQ'  2 . Per gli elettroni con energia iniziale E1 (e finale E2) vale

l’equazione di Helmholtz-Lagrange per le lenti nella forma M m  E1 E2  V1 V2 . Ricordando la


V1 V2
definizione di m, possiamo da essa scrivere la relazione: 2  1 , che permette di esprimere
M
QQ' V1
Δrcr in funzione della semidivergenza del fascio all’ingresso della lente, 1:  rcr  1 .
M V2
Mentre, come già detto, il punto Q e il valore di M si possono, per esempio, desumere dalle tabelle
una volta noto (per un dato G/D e una data posizione dell’oggetto P) il valore di E1/E2 = V1/V2, per
E ' E  E eV1  E
trovare il punto Q’ va invece considerato il rapporto 1  1  . Le proprietà focali
E2' E2  E eV2  E
di questa lente sono quindi quelle relative al nuovo rapporto tra i potenziali (coincidente con il

70
In sostanza, se la solita convenzione sul potenziale si applica agli elettroni di energia E (cioè quelli con l’energia media)
essa non può essere anche applicata agli elettroni del fascio che hanno energia diversa da E.
71
Indichiamo qui con il primo (’) le grandezze che si riferiscono alla lente per cui non si può applicare la solita
convenzione sui potenziali.
72
Essendo l’elettrone più energetico meno deviato dalla lente, si avrà che 2’ < 2, cioè Q’ sarà a destra di Q in Fig. 21.
73
In pratica, si considerano le due traiettorie che arrivano in Q e Q’ come parallele.

25
rapporto tra le energie E1’/E2’),74 che è noto una volta dato il valore di ΔE.75 In questo modo è quindi
possibile fornire una stima quantitativa dell’aberrazione cromatica.

- Esempio di progettazione di una lente

Si considera il problema di produrre l’immagine (dell’apertura) di una sorgente di particelle


cariche in un punto desiderato (che per esempio può essere l’ingresso di un analizzatore, di cui si
parlerà a breve).
Il sistema ottico sarà costituito da una lente cilindrica a due elettrodi, della quale sono dati i
seguenti parametri di progetto: V1 = 100 V (elettrodo lato oggetto), V2 = 10 V (elettrodo lato
immagine); r1 = 1.0 mm (dimensione dell’apertura che rappresenta l’oggetto), r2 = 0.5 mm
(dimensione desiderata dell’immagine);  = 10 cm (distanza oggetto-immagine); 2 = 0.14 rad = 8°
(semidivergenza all’immagine), 2 = 0 (beam angle nullo in uscita). Queste informazioni permettono
di cominciare a disegnare la lente, come mostrato in Fig.22. In particolare, in questa figura la
posizione della gap è solo indicativa (infatti non conosciamo ancora la distanza dell’oggetto dall’asse
di simmetria della lente).
V1 V2

r1


Figura 22. Primo schema della lente a due elettrodi.
I parametri forniti rivelano, in particolare, che la lente richiesta deve essere decelerante, con
rapporto V2/V1 = 0.1. Inoltre la magnificazione lineare risulta M = r2/r1 =  0.5 (il segno meno viene
dal fatto che la lente è, come noto, invertente).
Per completare la progettazione della lente bisogna ora ricavare, a partire dai parametri dati,
quelli ulteriormente necessari. Per prima cosa occorre ottenere i parametri focali della lente, i quali
sono tipicamente ricavabili da opportune tabelle. Si trovano di solito tabulati, però, i parametri relativi
alle sole lenti acceleranti. Ciò dipende dal fatto che è possibile, tramite poche operazioni, risalire da
questi a quelli delle corrispondenti lenti acceleranti, nelle quali il rapporto tra i potenziali nella
posizione dell’oggetto e in quella dell’immagine è l’inverso di quello della lente decelerante cui ci si
riferisce. Sostanzialmente, questo corrisponde a considerare un “inverso temporale” della lente
decelerante che si vuole progettare, nel quale le particelle partono dall’immagine e vanno a formare
l’oggetto. Indicheremo i parametri relativi alla lente “invertita” (quella accelerante) con un apice: il
rapporto tra i potenziali sarà quindi, in questo caso, V’2/V’1 = 10.
Considerando il rapporto tra gap e diametro pari a G/D = 0.1, si ottengono dalle tabelle (si
veda la Fig.14) i seguenti parametri focali – in unità del diametro D – per la lente invertita
(accelerante): f’1 = 0.8, f’2 = 2.54, F’1 = 1.62, F’2 = 1.19.
Ora è possibile ottenere i parametri focali per la lente decelerante semplicemente con uno
scambio di indici. Vale cioè: f1 = f’2 = 2.54, f2 = f’1 = 0.8, F1 = F’2 = 1.19, F2 = F’1 = 1.62. Le

74
Per gli elettroni con energia iniziale E1’ (e per tutti quelli con energia iniziale diversa da E1), non vale la solita
convenzione sui potenziali, come già detto, e quindi risulta che E1’/E2’ ≠ V1/V2. Per questi elettroni la lente si comporta
come si comporterebbe una lente (per cui valga la convenzione) con potenziali V1’ = V1 + ΔE/e e V2’ = V2 + ΔE/e, in
modo che E1’/E2’ = V1’/V2’.
75
Operativamente, per il rapporto V1’/V2’ (che in genere è di poco diverso da V1/V2), si possono estrapolare, per esempio
dalle tabelle, i nuovi parametri focali della lente, in modo da trovare il valore di Q’ nota la posizione dell’oggetto P’ (che
coincide con P). Si veda l’esempio di progettazione di una lente.

26
posizioni dei fuochi e dei piani principali ottenute sulla base di questi parametri sono riportate in
Fig.23 (dove la posizione della gap è ancora indicativa).
F1 F2
V1 V2

r1

f1  f
Ogg 22 2 
11 Imm
Figura 23. Schema della lente cilindrica con i punti focali e i piani principali.
Similmente vale poi P = Q’, Q = P’ ed evidentemente M = 1/M’. Si ha perciò che, per la lente
invertita, deve valere M’ = -2, a cui corrisponderà un’opportuna coppia P’, Q’. Partendo dalle
equazioni delle lenti, si può per esempio scrivere:
f '1 f '
M' = ⇒ P' = F'1 1
F'1 P' M'
da cui si ricava P’ = 2.02 (sempre in unità di D). Analogamente si potrà scrivere:
F'2 Q'
M' = ⇒ Q' =F'2 f '2 M'
f '2
da cui Q’ = 6.27.
Riassumendo, sarà infine: P = Q’ = 6.27; Q = P’ = 2.02; M =  0.5. Da queste relazioni si
ricava poi che  = P + Q = 8.29 D = 10 cm, come da specifica. Infine si ottiene D = 1.21 cm, per cui
la gap vale G = 0.12 cm.
Inoltre, la richiesta di avere angolo di fascio
nullo in uscita implica che va posizionata una
pupilla nel primo fuoco. Per dimensionare r 1 rp
1
quest’ultima, ci si può riferire allo schema mostrato
in Fig.24.
In particolare vale rp = (P  F1) D 1. Il
valore di 1 è però fissato dalla legge di Helmoltz- P - F1
Lagrange, poiché si ha ϑ1 r1 V1 = ϑ2 r2 V2 e tutti gli Figura 24. Schema per ricavare la semidivergenza
altri parametri sono fissati. Infine si ricava quindi iniziale in funzione dei parametri della pupilla.
r2 V2
ϑ1 = r1
ϑ2 V1
= 0.022 rad = 1.26°. Si ottiene da qui anche la magnificazione angolare, che risulta
m = 2/1 = 6.36. Si può infine calcolare la dimensione richiesta per la pupilla, pari a
rp = (P  F1) D 1 = 1.3 mm.
Con questo sono noti tutti i parametri costruttivi necessari per realizzare la lente, come da
progetto. Il risultato finale è riportato nella Fig.25. In quest’ultima sono tracciati anche due raggi che
passano per i fuochi della lente: quello (rosso) che esce orizzontalmente dalla sorgente passa per il
secondo fuoco; quello (blu) che, uscito dalla sorgente, passa dal primo fuoco, arriva poi orizzontale
all’immagine.

27
V1 F1 F2 V2
rp
r1 r2

Ogg Pupilla 22


 
1 1 Imm

Figura 25. Schema finale della lente progettata. Per facilitare la visione dei dettagli, la proporzioni tra le
diverse lunghezze non sono state rispettate.
Si può approfondire l’analisi del progetto di questa lente prendendo in considerazione le
aberrazioni.
1) Aberrazioni geometriche
Consideriamo solo il coefficiente c di aberrazione del terzo ordine nella divergenza: ∆
. Anche tale coefficiente si può trovare tabulato per le lenti di tipo accelerante. In particolare, per
la lente invertita (accelerante) che si sta considerando, si trova: c’ = 20 D = 24.2 cm.
Per la lente invertita si ottiene quindi: ∆ ′ . Si noti il riferimento alla divergenza
nell’immagine 2, e non a quella nell’origine reale del fascio (oggetto). Risulta ∆ 0.067cm.
Ora, invertire la lente corrisponde di fatto a invertire la magnificazione lineare. Quindi, per
ottenere l’aberrazione geometrica è sufficiente proiettare all’indietro la corrispondente aberrazione
calcolata per la lente invertita: ∆ ∆ 0.33 mm. Percentualmente, questo corrisponde a un
allargamento dell’immagine pari a rg/r2 = 0.67 = 67 %.
Come noto, è possibile “mitigare” l’effetto dell’aberrazione cromatica cambiando
leggermente le tensioni delle lenti, in modo da portare il cerchio di minima confusione nel piano
dell’immagine. Poiché il raggio del cerchio di minima confusione è rg/4, si può ottenere infine
rg,min  17 %.
2) Aberrazioni cromatiche
Per una tipica sorgente di elettroni, quale per esempio un filamento che emette per effetto
termoionico, si può avere E  0.3 eV. Poiché si sceglie, come già discusso, un riferimento per
l’energia degli elettroni tale che per essi sia sempre E = eV, dovremo considerare questo fatto nella
valutazione dei parametri focali da usare. Infatti, la scelta dei parametri focali era basata sul rapporto
V2/V1 = 0.1 della lente da realizzare. Tenendo conto delle aberrazioni cromatiche, tale rapporto varierà
come segue (per il E positivo; il risultato per l’altro caso sarà analogo):
V2 V2 + ΔE⁄e
⟶ = 0.103,
V1 V1 + ΔE⁄e
cioè sarà del 3 % maggiore che nel caso ideale. La lente invertita, che è stata usata per i calcoli, avrà
di conseguenza un rapporto V’2/V’1 = 1/0.103 = 9.7, a cui corrispondono chiaramente parametri focali
leggermente diversi rispetto a quanto considerato. Le tabelle non danno, solitamente, variazioni così
dettagliate dei possibili valori dei rapporti di potenziale; tuttavia, supponendo ragionevolmente che i
parametri varino linearmente con i potenziali (almeno per piccole variazioni) è possibile fornire una
stima dei nuovi parametri focali (già ricalcolati per la lente reale). In particolare, facendo riferimento
alla tabella in Fig.14, si selezionano i parametri focali per i rapporti di tensione noti superiore e
inferiore a quello da stimare (10 e 8, rispettivamente, in questo caso). Si valuta poi il rapporto
incrementale dei diversi parametri, a cui corrisponde il coefficiente angolare di una retta nello spazio
(rapporto di tensioni, parametro) su cui giacciono tutti i possibili valori intermedi di tale parametro.
Si prende poi il punto della retta corrispondente al valore V2/V1 che interessa (9.7 in questo caso). Il
risultato di questa procedura per i quattro parametri focali è riportato nella Tabella 1.

28
V’2/V’1 f’1 f’2 F’1 F’2
10 0.8 2.54 1.62 1.19
8 1 2.84 1.87 1.47
Differenza 2 -0.2 -0.3 -0.25 -0.28
Coeff. angolare -0.1 -0.15 -0.125 -0.14
9.7 0.83 2.59 1.66 1.23
Tabella 1. Stima dei parametri focali in presenza di aberrazione geometrica.
Riassumendo, i parametri focali per la lente in presenza delle aberrazioni cromatiche
considerate sono: f1cr = 2.59, f2cr = 0.83, F1cr = 1.23, F2cr = 1.66, già riferiti alla lente reale, dove
l’apice cr ricorda che sono i parametri calcolati in presenza delle aberrazioni cromatiche.
In generale si avranno quindi i nuovi valori Pcr e Qcr per le posizioni di oggetto e immagine.
Naturalmente la posizione dell’oggetto rimane invariata: Pcr = P = 6.27 D. A ciò corrisponde,
considerati gli altri parametri, una magnificazione lineare pari a:

cr f 1cr
M = = 0.51,
F 1cr P cr
da cui possiamo ricavare la nuova posizione dell’immagine: Qcr = F2cr – Mcrf2cr = 2.07 D. Cioè
l’immagine risulta spostata della quantità Q = Qcr – Q = 0.6 mm, che a sua volta corrisponde a
rcr/r2 = 0.17 = 17 %.
In conclusione, le aberrazioni geometriche e cromatiche pesano all’incirca ugualmente sulle
prestazioni di questa lente, producendo un’aberrazione complessiva data dalla somma degli effetti:
r/r2  34 %.
Da ultimo, valutiamo il filling factor  della lente. Come discusso in precendenza,  può
essere calcolato come rapporto tra il raggio del fascio all’altezza del centro della gap e il raggio della
lente. Se tale valore fosse maggiore del 50%, le abberrazioni geometriche reali sarebbero in realtà
superiori a quanto stimato nel calcolo precedente (occorrerebbe cioè considerare anche termini di
ordine 15, o superiori, nel calcolo delle aberrazioni).
La Fig.26 può aiutare nello sviluppare il calcolo per il lato sinistro della lente (si ricava il
corrispondente sx). La massima distanza dei raggi dall’asse ottico, al centro della lente, è:
α +ϑ P
rmax = (1 + 1)P. Da questo si può ricavare: ηsx = 100 1 ⁄ 1 .
D 2

2 1
r1 1 1
 1 +1
rmax
P - F1 F1
P
Figura 26. Schema per il calcolo del filling factor nel lato sinistro della lente.

Per eseguire il conto, occorre calcolare l’angolo di fascio 1. In particolare vale:
1 = r1/(P  F1)D = 0.016 rad = 0.92°. Si ottiene infine sx = 48%, valore di poco entro il limite
desiderato.
Per il calcolo del filling factor dx nella parte destra della lente si procede in modo analogo:
α +ϑ Q
ηdx = 100 2 ⁄ 2 . Questo calcolo è ancora più facile, poiché il posizionamento della pupilla
D 2
garantisce che 2 = 0.

29
Si ottiene in questo caso dx = 56%. Questo valore è di poco superiore a quello calcolato per
il lato sinistro e va quindi scelto come valore di riferimento del filling factor della lente:  = 56%.
Siamo quindi di poco oltre il limite del 50 % che si desiderava rispettare, il che può essere
ancora ritenuto accettabile. Volendo, si può invece ripetere il calcolo delle aberrazioni geometriche
inserendo le correzioni di ordine superiore nella divergenza, una volta stabiliti i corrispondenti
coefficienti di aberrazione. Una possibile alternativa è rappresentata dai già citati programmi di ray-
tracing. L’elevato grado delle prestazioni di calcolo oggi disponibili permette di ottenere previsioni
molto precise, comprendenti gli effetti delle possibili aberrazioni, anche con sistemi decisamente più
complessi rispetto alla singola lente elettrostatica.

- Effetto termoionico

Per capire come e perché un fascio di particelle cariche (in particolare, di elettroni) sia in
generale non monocromatico (o, equivalentemente, non monoenergetico), dando quindi origine ad
effetti di aberrazione cromatica in un sistema di ottica elettronica, bisogna risalire al modo in cui esso
viene creato.
Ci possono essere molti modi per generare un fascio di elettroni, da iniettare poi in un sistema
ottico-elettronico, ma quello di gran lunga più utilizzato, per la sua semplicità, è quello in cui un
materiale solido viene riscaldato ad elevate temperature (tipicamente 2000÷3000 °C). In questa
situazione esso emette degli elettroni, tramite un fenomeno noto come emissione termoionica o effetto
termoionico.76

Figura 27. a) Schema di un apparato sperimentale per generare un fascio di elettronic per
effetto termoionico. b) Andamento della corrente termoemessa in funzione della tensione
tra anodo e catodo, a diverse temperature del catodo (da Sette).

Nel seguito vogliamo quindi studiare le basi fisiche dell’emissione termoionica. In Fig.27a è
schematizzato un apparato per la generazione termoionica di un fascio di elettroni da parte di un
materiale. Nella parte sinistra si vede (in basso nel cerchio, che viene disegnato per indicare la parte
di apparato sperimentale che deve stare in vuoto) una piastra, del materiale da cui si vuole
termoemettere il fascio elettronico, posta in prossimità (cioè in contatto termico) di una resistenza, a
forma di filamento. Quando quest’ultimo viene riscaldato, per effetto Joule, dal passaggio di una
corrente (tramite un’opportuna differenza di potenziale applicata ai suoi capi) anche la piastra si

76
L’effetto termoionico è chiamato anche, da una minoranza (pignola) di scienziati, effetto termoelettronico.

30
scalda, ad una temperatura T.77 Un’altra piastra è poi mostrata (in alto nel cerchio) in vicinanza
(tipicamente qualche millimetro) della prima. Il circuito mostrato sulla parte destra di Fig.27a
permette di applicare una differenza di
potenziale ΔV regolabile, tra la piastra del 
materiale che termoemette (a potenziale
minore, catodo) e l’altra piastra (a potenziale
maggiore, anodo). In questo modo è possibile 1
estrarre gli elettroni emessi per effetto
termoionico dal materiale che si sta studiando, 0
misurandone la corrente I che incide livello
sull’anodo. di vuoto
In Fig.27b è mostrata la tipica

caratteristica I(ΔV) per questo processo, a
diverse temperature del catodo (T1 < T2 < T3).
Si nota che, nell’intervallo di temperature
considerate (T1÷T3), per ΔV minore di un certo  potenziale
*
valore ΔV , la corrente I non dipende dalla chimico
temperatura del materiale. Questo regime è
noto come carica spaziale,78 dato che qui la
corrente I non è limitata dalla quantità di
elettroni termoemessi dal materiale, ma fondo della
dall’interazione repulsiva tra gli stessi elettroni f() banda di valenza
79
nella regione di spazio tra catodo e anodo. 1 1/2 0
Quando invece ΔV > ΔV * la corrente dipende Figura 28. Schema interpretativo della spiegazione
anche dalla temperatura del catodo e le curve dell'effetto termoionico.
per diverse temperature si separano.80 Al
crescere ulteriore di ΔV, si arriva ad un punto in cui la corrente raggiunge un valore di saturazione
(Isat) che cresce al crescere di T. Il motivo di ciò è dovuto al fatto che, in questo caso, il campo elettrico
è sufficientemente elevato da estrarre tutti gli elettroni termoemessi dal catodo, la cui corrente è tanto
maggiore quanto maggiore è la sua temperatura. A livello quantitativo la massima densità di corrente
emessa jsat (per unità di superficie di catodo) può tipicamente arrivare a valori di circa 1 A/cm2.
Come schematizzato in Fig.28 per un metallo, la spiegazione dell’effetto termoionico sta nel
fatto che, a temperature elevate, una piccola coda della distribuzione di Fermi-Dirac f (ε) per gli
elettroni di valenza può avere un’energia (ε, misurata rispetto al fondo della banda di valenza)
sufficiente a superare il livello di vuoto (ad energia ε0), sfuggendo alla barriera di potenziale
rappresentata dalla sua funzione lavoro (  ). In pratica, in queste condizioni gli elettroni “evaporano”
dal metallo. Per spiegare il fenomeno della emissione termoionica consideriamo la distribuzione di
1
Fermi-Dirac f ( )     kBT , dove μ è il potenziale chimico del metallo e kB la costante di
e 1
Boltzmann. Come detto, per poter essere termoemesso, un elettrone deve avere energia ε ≥ ε0. Se ne

77
Se il materiale che si studia è un metallo, è più semplice far scorrere direttamente al suo interno la corrente, senza
necessità di ulteriori filamenti.
78
Si tratta dello stesso regime accennato a proposito delle aberrazioni. In questo regime si può mostrare che la variazione
di corrente I  V 3 2 . Il fatto che, per ΔV = 0 V, I sia nulla o (come invece mostrato in Fig.27b) positiva dipende dal
confronto tra le funzioni lavoro del catodo e dell’anodo: ϕcat < ϕan o ϕcat > ϕan , rispettivamente (vedi capitolo “Introduzione
alle spettroscopie elettroniche”).
79
In questo regime accade quindi che, a causa del basso campo elettrico, solo una parte degli elettroni termoemessi dal
catodo arrivino sull’anodo; il resto, dopo l’emissione, ritorna sul catodo a causa appunto dell’interazione repulsiva con
gli altri elettroni termoemessi presenti nella regione tra catodo e anodo.
80
In realtà è la curva per T = T1 che si separa dalle altre due. Per separare la curva per T = T2 e quella per T = T3 si deve
ulteriormente aumentare V.

31
deduce che deve valere la condizione (ε―μ) ≥ (ε0―μ) =  . Tenendo conto dei tipici valori di  nei
metalli (circa nel range 4÷5.5 eV), ci si rende conto che, anche a temperature molto elevate, vale
sempre che (ε―μ) » kBT.81 Ciò significa che, per gli elettroni termoemessi, il termine +1 al
denominatore della f (ε) si può trascurare rispetto all’esponenziale, in modo che risulti
1
f ( )     kBT  e    kBT . Come mostrato in Fig.28, chiamando ε1 l’energia, rispetto al livello di
e
vuoto, dell’elettrone che “evapora”, abbiamo che    0   1        1 . Da ciò possiamo scrivere
       1 in modo che f ( )  e     k T  e     k T  e   k T e   k T . Quindi, la f (ε) dipende
B 1 B B 1 B

dall’energia ε1 in modo proporzionale a e   k T , come nella distribuzione di Maxwell-Boltzmann.


1 B

Nel seguito andiamo a calcolare la jsat (T), cioè il prodotto tra il numero di elettroni che
nell’unità di tempo escono (cioè vengono termoemessi) da una superficie unitaria di metallo ad una
data temperatura T e il modulo della loro carica (e).
Quando abbiamo introdotto, nello studio del modello di Sommerfeld, le proprietà del gas di
Fermi per un metallo di volume V, 82 abbiamo visto che la densità di stati (disponibili) nello spazio k
(cioè il numero di stati in un Δk unitario) è costante e pari a V/8π3 (senza contare lo spin). Includendo
lo spin e indicando con n(k) la densità di stati disponibili, abbiamo quindi n(k) = V/4π3. Quindi, il
numero di stati disponibili in un volumetto infinitesimo dk = dkx dky dkz è pari a
n(k) dk = (V/4π3) dkx dky dkz.
Per il conto che ci apprestiamo a condurre è più comodo utilizzare la quantità di moto p invece
di k. Tra queste due grandezze, come sappiamo, vale la relazione k  p   2 p h . Riassumendo:
V 2 dp x 2 dp y 2 dp z V 8 3 2V  
n k d k   dp dp dp  d p  n p  d p , dove il simbolo 
4 3 h 4 3 h 3
x y z
h h h3
indica il fatto che viene così definita la densità degli stati (disponibili) nello spazio p, il cui valore è
quindi n(p) = 2V/h3. Se il volume di spazio occupato dal metallo è unitario (in modo che V = 1 con la
propria unità di misura) si ottiene n(p) = 2/h3. In questo modo, n(p) dp rappresenta il numero degli
stati disponibili, per unità di volume del metallo, con quantità di moto compresa tra
p = pxux + pyuy + pzuz e (p + dp), mentre n(p) dp f (ε) rappresenta quello dei relativi stati occupati
(cioè il numero di elettroni).
Immaginiamo che il metallo sia costituito da un parallelepipedo (di volume unitario) con i lati
orientati lungo gli assi cartesiani x, y e z. Consideriamo una superficie unitaria di parallelepipedo
orientata, per esempio, perpendicolarmente rispetto all’asse x. Nell’unità di tempo essa verrà
raggiunta da tutti (e soli) quegli elettroni che, avendo quantità di moto compresa tra p e (p + dp), si
trovano ad una massima distanza da essa (lungo l’asse x) pari a vx,83 dove vx = px /m è la componente
in direzione x della velocità di tali elettroni e m la loro massa. Ricordando la definizione di n(p) e
tenendo conto che questi elettroni sono contenuti inizialmente in un volume di metallo pari a vx (dato
che l’area è unitaria), possiamo concludere che il loro numero è pari a n(p) dp f (ε) vx.
Nel caso di particella libera e indipendente (cioè trascurando, rispettivamente, l’interazione
dell’elettrone sia con gli ioni del reticolo sia con gli altri elettroni di valenza) l’energia ε è solo
p2 p 2  p 2y  pz2 p 2  pz2 p2
cinetica, quindi:    x  x  y , dove si è indicato con  x  x il contributo
2m 2m 2m 2m
all’energia cinetica associato al moto in direzione x. Dall’espressione trovata per ε, si può dedurre

81
Anche alla temperatura T = 5000 K (alla quale tutti i metalli sarebbero abbondantemente liquidi – la più elevata
temperatura di fusione tra i metalli è quella del tungsteno W, pari a circa 3410 °C) si ha che kBT < 0.5 eV; sarebbe cioè
circa un ordine di grandezza inferiore rispetto a  .
82
Attenti che qui V è un volume mentre ΔV è una differenza di potenziale!
83
Questa affermazione si comprende facilmente se si pensa che in un tempo pari a 1 s questi elettroni percorrono, in
direzione x, una distanza pari a vx.

32
d d 2 px
che  x   vx . Questo ci permette di scrivere
dp x dp x 2m
2 d 2
np d p f   v x  3
dp x dp y dpz f    3 dp y dpz f   d .
h dpx h
Se ipotizziamo che tutti gli elettroni che raggiungono la superficie del metallo vengano poi
emessi (vedi oltre), allora abbiamo tutti gli ingredienti per valutare la jsat (T): bisogna moltiplicare la
precedente quantità per e ed integrarla sia su tutti i possibili valori di py e pz (che sono compresi tra
―∞ e +∞)84 sia sull’energia, con la condizione, già detta, che ε ≥ μ+  . Quindi abbiamo:
2e   
jsat  3    dp y dp z f   d .
h    
Per svolgere il calcolo iniziamo dall’integrale su ε, applicando il cambio di variabile (già
definito sopra)  1        e ricordando l’approssimazione vista per f (ε). Si ha
   1
 
p 2y  p z2
 f   d  e e d 1 . Come fatto per ε, possiamo scrivere 1  1x 
k BT k BT
e notando
  0 2m
che, per una data coppia py e p z, si ha dε1 = dε1x, si ottiene:
p 2y  p z2  p 2y  p z2
   1   
 1x  

e d 1  e   k BT e   k BT e
k BT 2 mk B T k BT 2 mk B T
.
0   0
Riassumendo, si ha:

 p2y pz2
   
2e 
jsat  3 k BTe kBT  e 2mkBT dpy  e 2mkBT dpz . Ciascuno
h  
dei due integrali è del tipo gaussiano
 

e dx  2  e x dx   ,
2 2
x
quindi ciascuno dà
 0

 2mk BT . Perciò:
 
2e  4 me k B2 2  k BT
jsat  3 k BTe k BT
 2mk BT  T e . Si
h h3
ottiene quindi l’equazione (nota come equazione di


Richardson-Dushman) jsat  AT e 85
, dove si è 2 k BT

indicata con A la costante (detta di Richardson)


4 mek B2 A A
A 3
 120 2 2  1.2 x 106 2 2 .
h cm K m K Figura 29. Rappresentazione grafica della
Come detto sopra, questa equazione è stata trovata legge di Richardson-Dushman e confronto
con i dati sperimentali per Cu, Ag e Au. Si
nell’ipotesi che tutti gli elettroni che raggiungono la
noti che il rapporto jsat/T2 è espresso in
superficie del metallo vengano poi emessi. Senza entrare A cm-2 K-2 (da Sette).
nel dettaglio ci limitiamo a notare che in realtà, per effetti
quantistici, andrebbero considerati fenomeni di riflessione alla superficie anche per elettroni con

84
La proiezione di p sugli assi py e pz può anche essere negativa, per cui il limite inferiore è ―∞.
85
Il fisico britannico Owen Richardson, dopo la scoperta dell’elettrone nel 1897 da parte di J. J. Thomson, suo tutor,
iniziò a lavorare sull’argomento che lui stesso chiamò “emissione termoionica”. Richardson ricevette nel 1928 il premio
Nobel per la fisica “per il suo lavoro sul fenomeno termoionico e specialmente per la scoperta della legge che porta il suo
nome”.

33
energia ε > μ+  , che fanno diminuire la jsat proporzionalmente alla probabilità di trasmissione e che
possono far variare A da materiale a materiale rispetto alla determinazione di Richardson.
L’equazione trovata prevede che la quantità jsat /T 2 sia proporzionale ad e  k T , in modo che
B

j 
ln sat2   . Per un confronto sperimentale, quindi, un modo comodo di rappresentare i dati è
T k BT
quello di mostrare l’andamento di ln (jsat /T 2) in funzione di 1/T, che secondo la previsione teorica
dovrebbe fornire un comportamento rettilineo con pendenza negativa (dato che  e kB sono entrambi
positivi). I dati sperimentali per i metalli nobili (Cu, Ag, Au) sono mostrati in questa forma in Fig.29,
dove si vede effettivamente l’andamento atteso. Da queste misure è possibile ricavare i valori di  e
A per i vari metalli, come mostrato nella tabella di Fig.30. Da essa si nota come per i metalli nobili
anche l’accordo quantitativo sia ottimo, dato che i valori misurati di A sono molto vicini a quelli
dedotti teoricamente.86 Dalla tabella si deduce che l’accordo è buono anche per gli alcalini (per
esempio Cs) e per altri metalli (per esempio Ni).
Per renderci conto di come la temperatura sia determinante nel fenomeno dell’emissione
termoionica, consideriamo un metallo con una  = 4.5 eV (che è un valore comune, come si vede
anche dalla tabella di Fig.30). Considerando, per esempio, una temperatura T = 2000 K si trova un
jsat = 2.1 x 10―3 A/cm2, mentre per T = 3000 K si ottiene jsat = 32 A/cm2, cioè una densità di corrente
di ben 4 ordini di grandezza maggiore. Quindi, per emettere in modo significativo il metallo deve
stare a temperature molto elevate. I metalli candidati ad essere “buoni” termoemettitori devono quindi
avere temperature di fusione (Tfusione) elevate, come per esempio hanno il tungsteno (W,
Tfusione = 3700 K), il tantalio (Ta, Tfusione = 3300 K) o il molibdeno (Mo, Tfusione = 2900 K). Tra essi il
più utilizzato come emettitore è appunto il W.

Materiale A [A cm-2 K-2] Funzione lavoro  [eV]


Cu 110 4.5
Ag 107 4.3
Au 100 4.25
Mo 50-115 4.2
W 20-60 4.5
Ni 120 4.5
Cs 160 1.8
Th su W 60 2.6 [ Th = 3.5 eV]
Ba su W 1.5 1.56 [ Ba = 2.7 eV]
Cs su W 3.2 1.36 [ Cs = 2.1 eV]
LaB6 29 2.7
BaO 0.01 1-1.2
Figura 30. Elenco dei parametri A e  dell'equazione di Richardson relativi ad alcuni materiali. Il
fatto che il valore di A, in alcuni casi, sia compreso in ampi intervalli è dovuto alla forte dipendenza
dell’emissione dalle condizioni superficiali, che possono variare molto a parità di materiale.
Alternativamente, è possibile orientarsi su materiali che hanno una bassa funzione lavoro, in
modo da emettere già a temperature ridotte. Ciò ha il notevole pregio di generare fasci di elettroni
maggiormente monocromatici, dato che la dispersione energetica ΔE è proporzionale all’energia
termica kBT,87 riducendo così l’entità delle aberrazioni cromatiche. Inoltre, una minore temperatura
del materiale permette generalmente di avere migliori condizioni di pressione. Su questa strada, sono
stati prodotti filamenti di tungsteno (W) ricoperti superficialmente da sottili strati di metalli alcalini,
sfruttando il fatto che questi ultimi hanno valori di  piuttosto bassi, cioè 2÷3 eV. In particolare, nel

86
Come già sappiamo, l’ipotesi di elettroni liberi del modello di Sommerfeld, è abbastanza verificata da questi metalli.
87
Tipicamente la larghezza energetica a metà altezza (full width at half maximum, FWHM) è data da: ΔEFWHM ≈ 5 kBT.

34
caso in cui lo strato sottile che ricopre il W sia di torio (Th), si trovano valori di  di circa 2.5 eV
senza far decrescere in modo significativo la A sperimentale88 (Fig.30). Alternativamente si utilizzano
materiali (che non sono metalli) tipo esaboruro di lantanio (LaB6) o ossido di Bario (BaO) che hanno
intrinsecamente bassa  ma che hanno valori di A più bassi (specialmente il BaO) rispetto a quelli
tipici dei metalli.
In Fig.31 è mostrato un grafico semilogaritmico, con linee sperimentali per diversi materiali,
del valore di jsat in funzione di 1/T (in °C). Se, tanto per fissare le idee, si vuole vedere a che
temperatura un dato materiale emette una jsat = 1 A/cm2 (che è un valore tipico per un
termoemettitore) si trovano valori via via inferiori andando da W, a Th/W (strato sottile di Th su W),
a LaB6, fino a BaO, anche se per quest’ultimo la temperatura è soltanto estrapolata dato che il relativo
valore di A è così basso da non rendere in pratica ottenibili tale valore di jsat.
In conclusione a questo paragrafo vale la pena notare che, storicamente, il fatto che
l’interpretazione del fenomeno dell’emissione termoionica, come abbiamo detto, fosse del tutto
compatibile con una distribuzione energetica di Maxwell-Boltzmann per gli elettroni di valenza (cioè
una distribuzione “classica”) risultò un notevole ostacolo alla comprensione che la corretta
distribuzione fosse invece quella quantistica di Fermi-Dirac.

Figura 31. Rappresentazione su scala semilogaritmica dell’andamento di jsat in funzione


di 1/T (da Yoshimura).

- Spettrometria di elettroni

Finora abbiamo concentrato la nostra attenzione su fasci di elettroni sostanzialmente


monocromatici da inviare su di un materiale che si vuole studiare in modo spettroscopico, in
88
Una ridotta A significa minore corrente emessa, per una data , rispetto alla legge di Richardson-Dushman.

35
esperimenti di tipo electron-in. Nelle applicazioni spettroscopiche però, un altro importante utilizzo
inerente il trasporto di particelle cariche è l’analisi energetica (nel senso di energia cinetica), cioè
“spettrale”, degli elettroni emessi da un materiale eccitato in esperimenti di tipo electron-out (per
esempio spettroscopie di perdita di energia, Auger, di fotoemissione, ecc.). In questi casi, come
abbiamo visto nel capitolo “Interazione radiazione-materia”, il fascio in uscita è “bianco” (cioè
fortemente non monocromatico) e bisogna trovare un modo per studiare appunto la distribuzione
energetica degli elettroni uscenti. Per fare ciò si utilizzano gli spettrometri (o analizzatori di energia)
che sono elementi ottici dispersivi.
Schematizzando, ci sono tipicamente due classi di analizzatori: quelli che non usano campi
elettromagnetici e quelli che li usano.
Non usare campi elettromagnetici vuol dire discriminare l’energia cinetica E degli elettroni
tramite la loro diversa velocità v. Abbiamo già visto che un elettrone accelerato da fermo da una
differenza di potenziale pari a 103 V (raggiungendo cioè una E = 1 keV, che è una tipica energia
utilizzata nella spettroscopia elettronica) raggiunge una v ≈ 107 m/s. Quello che di solito si misura in
questa tipologia di analizzatori è il cosiddetto tempo di volo (time of flight, TOF), cioè il tempo che
una particella impiega a percorrere una certa lunghezza L, in uno spettrometro detto appunto a tempo
di volo. Se, a titolo di esempio, si prende una L = 1 m (che è già piuttosto elevata) il tempo di volo τ
dell’elettrone nell’analizzatore è dato da: τ = L/v = 10-7 s = 100 ns. Supponiamo di avere l’obiettivo
di discriminare due elettroni, con energia intorno ad 1 keV, che abbiano ΔE = 1 eV.89 Vogliamo
capire che tipo di relazione pone questo vincolo sul rapporto Δv/v, dove Δv è la differenza di velocità
tra i due elettroni. Dalla relazione /2 si trova da cui si può scrivere la relazione
approssimata (dato che ΔE è “piccola”)  E  mvv  2 E v v , dove si è sfruttata la relazione
mv  2 E v . In tal modo si ha v v  E 2E .90 Analogamente si deduce che la separazione
temporale Δτ tra gli istanti in cui i due elettroni arrivano in fondo allo spettrometro (ipotizzando che
essi partano nello stesso momento) può essere espressa come      v v  5 x 10  4 , 91 che dà
Δτ = 5 x 10-11 s = 50 ps. Ciò significa che serve una elettronica di controllo con una banda passante
di almeno 20 GHz, che è un requisito piuttosto severo.92 Inoltre, l’ipotesi di poter stabilire l’istante di
partenza degli elettroni è soddisfatta solo se si usa una sorgente di tipo impulsato. Questo tipo di
analizzatore quindi non potrà essere utilizzato con sorgenti che emettono in modo continuo. Queste
due limitazioni rendono pertanto poco frequente l'utilizzo di questo tipo di spettrometro per
applicazioni spettroscopiche, salvo che per sorgenti (come ad esempio i sincrotroni) che siano già
impulsate naturalmente.
Gli spettrometri che utilizzano campi elettromagnetici funzionano in modo dinamico (cioè
con campi variabili nel tempo) o statico. Quelli di tipo dinamico non sono generalmente usati in
spettroscopia elettronica (mentre sono per esempio utilizzati nella spettrometria di massa). Quelli
statici invece funzionano o come un filtro passa-alto o come un filtro passa-banda.
Nello spettrometro con filtro passa-alto c’è una barriera di potenziale (costituita da una griglia
o un’apertura) posta tra il campione e un rivelatore di elettroni (collettore) che viene polarizzata con
una tensione negativa (cioè decelerante per gli elettroni, rispetto al campione) variabile. La corrente
sul collettore è data dall’integrale delle particelle con energia superiore all’energia della barriera.93
Al ridursi del potenziale ritardante la corrente cresce. Per ottenere la distribuzione energetica degli
elettroni bisogna quindi differenziare la corrente rispetto al potenziale ritardante. Un tale spettrometro

89
Ciò significa avere una risoluzione relativa ΔE/E = 10-3, o dualmente un potere risolutivo E/ΔE = 103. Queste
prestazioni sono piuttosto modeste considerando che oggi, con spettrometri a deflessione elettrostatica, si riescono a
raggiungere valori di E/ΔE = 105.
90
In sostanza il fatto che v vada come E causa la presenza del fattore ½ nell’espressione della Δv/v.
91
Qui è stato tralasciato un segno meno che a rigore andrebbe messo, data la proporzionalità inversa tra τ e v. Infatti
/ per cui si ottiene e infine ∆ / ∆ / .
92
Chiaramente la banda aumenta ulteriormente se si vuole maggiore risoluzione.
93
In linea di principio si tratta dello stesso schema che si utilizza per la misura dell’effetto fotoelettrico.

36
ha il pregio di essere semplice ma non è in grado di permettere buone performance in termini di
risoluzione relativa (ΔE/E).
La tipologia più utilizzata di analizzatore per spettroscopia elettronica è quindi quella passa-
banda con campi elettrici statici.94 Le geometrie utilizzate sono quelle piana, cilindrica o sferica.
Quest’ultima, nella versione semisferica, è quella attualmente più diffusa.

Figura 32. Spettrometro a deflessione elettrostatica: parametri significativi, traiettoria di alcuni


elettroni, linee di forza del campo. a) Piano disperdente. b) Piano non disperdente (da Granneman-
Van der Wiel).
Spettrometro a deflessione elettrostatica
Per discutere le proprietà generali di uno spettrometro a deflessione elettrostatica,
consideriamo il caso generale (cioè indipendente dal tipo di geometria) mostrato in Fig.32. Nel
pannello superiore (a) è mostrata la vista dello spettrometro nel piano disperdente (quello cioè in cui
vi è focheggiamento). In questo piano (x plane) la coordinata radiale x è parallela ai piani delle
fenditure (fenditura d’ingresso - entrance slit - e fenditura d’uscita - exit slit), come indicato.95 Nel
pannello inferiore (b) è mostrata la vista dello spettrometro nel piano (z plane) non disperdente (quello
cioè in cui non vi è focheggiamento).96 In Fig.32(a) sono mostrate le linee di forza del campo elettrico
(electric field), parallele ad x, e alcune traiettorie relative ad elettroni che entrano tutti nel centro della
fenditura d’ingresso (x1 = 0). In particolare, si vedono due gruppi di traiettorie: quelle a tratto
continuo, che sono relative ad un’energia E0 e semidivergenza Δα97 e quelle tratteggiate, relative ad
un’energia E1 (con E1 < E0 nell’esempio di Fig.32, dove la minore energia causa una maggiore
deflessione dei raggi) con la medesima semidivergenza. In ciascuno dei due gruppi, essendo il sistema

94
Come già detto all’inizio di questo capitolo, l’uso di campi magnetici viene se possibile evitato.
95
Essa risulta quindi perpendicolare alla coordinata curvilinea della traiettoria media (traiettoria centrale) degli elettroni
(vedi oltre).
96
La coordinata z nel pannello (a) è perpendicolare al piano del disegno.
97
Si vedono cioè tre raggi: quello centrale (che, nel caso particolare mostrato, ha α = 0, cioè velocità di ingresso
perpendicolare alla relativa fenditura, anche se nel caso generale, che discuteremo oltre, il raggio centrale può essere
caratterizzato da un α qualunque) e i due con angoli ± Δα rispetto a quello centrale.

37
focheggiante (almeno al primo ordine), i tre raggi si incontrano nel piano della fenditura d’uscita
formando l’immagine del centro della fenditura d’ingresso (oggetto). A causa della diversa energia
in ingresso però, la deflessione subita dai due gruppi è diversa e l’immagine alla fenditura d’uscita
viene formata in due punti diversi della coordinata x2. Per gli elettroni di energia E0 l’immagine si
forma in x2 = 0. Ciò significa che per elettroni di tale energia (e solo per essi) il sistema coniuga il
centro della fenditura d’ingresso nel centro della fenditura d’uscita. Questa energia particolare è detta
energia di passo (pass energy) dello spettrometro.98 Per gli elettroni di energia E1 l’immagine si forma
invece in un punto a distanza Δx2 dal centro della exit slit. Le traiettorie mostrate in Fig.32(b),
caratterizzate da una semidivergenza Δβ, risultano invece rettilinee, non essendoci campo elettrico
(cioè focheggiamento) in direzione z.99
La risoluzione energetica relativa ΔE/E dello spettrometro (dove ΔE è la larghezza energetica
– risoluzione assoluta – degli elettroni che emergono dalla sua fenditura d’uscita ed E = E0 è la sua
pass energy) dipende da vari fattori di tipo geometrico: dagli angoli di semidivergenza in ingresso Δα
e Δβ, rispettivamente nel piano disperdente e in quello non disperdente, dall’ampiezza w1 e w2 delle
fenditure d’ingresso e d’uscita rispettivamente (nel piano disperdente), dalla loro altezza h (nel piano
non disperdente)100 e infine dalla lunghezza del percorso del raggio centrale lungo la coordinata
curvilinea nel piano disperdente. Per capire quantitativamente come è strutturata questa dipendenza,
partiamo da un raggio centrale che abbia in ingresso x1 = z1 = 0, α qualunque, β = 0, E = E0 e in uscita
x2 = 0.101 Ci chiediamo ora con che coordinata Δx2 emerga dal piano della fenditura d’uscita un
elettrone che abbia condizioni iniziali leggermente diverse, date da: Δx1, Δz1, α + Δα, Δβ,
E = E0 + ΔE. Per rispondere alla domanda, si può sviluppare Δx2 in serie di Taylor ai primi ordini
rispetto alle variabili indicate. Prima di scrivere lo sviluppo è bene notare che:
- x2   0 per tutti gli α, dato che il sistema ottico focheggia al primo ordine, come indicato in
Fig.32(a);
- x2    0  0 e x2 z1 z1  0  0 poiché, al primo ordine, piccole variazioni di angolo (β) e
posizione (z1) nel piano non disperdente, rispetto al raggio centrale, non hanno influenza su Δx2;102
- tutti termini associati alle derivate seconde miste (come, per esempio,  2 x2 x1  ) risultano
quantitativamente trascurabili.
Lo sviluppo può quindi essere scritto come:
x x 1  2 x2  1  3 x2 3 1  2 x2 1  2 x2
x2  2 x1  2 E    2
         2
 z1 2 , dove i
x1 E 2  2
 3! 
3
 2 
2
2 z1 2

termini al primo ordine in α, β e z1 e quelli al secondo ordine misti sono omessi essendo nulli o
trascurabili, per quanto discusso sopra. Il termine in (Δα)3 è stato incluso (in parentesi quadre) dato
che con alcune geometrie di spettrometro il sistema focheggia anche al secondo ordine, annullando
quindi il termine in (Δα)2. Invece, per i sistemi in cui il termine in (Δα)2 non è nullo, il termine in
(Δα)3 risulta sempre trascurabile.
Senza entrare in eccessivi dettagli, possiamo dire che la risoluzione ΔE/E risulta proporzionale
al Δx2 appena scritto, tramite un coefficiente 1/L, dove L è la lunghezza della traiettoria centrale. In
x x L
questo modo si può scrivere che 2  2  . Sostituendo questa derivata nell’espressione di Δx2,
E E E

98
Essendo, per la traiettoria centrale alla pass energy E0, il campo elettrico sempre perpendicolare alla velocità, l’energia
rimane costante. L’elettrone emerge quindi dal piano della fenditura ancora con energia E0.
99
Anche in questo caso la traiettoria centrale si riferisce a β = 0.
100
Qui per semplicità si considera la stessa altezza h per entrambe le fenditure.
101
Quest’ultima condizione è causata dal fatto che x1 = 0 ed E = E0. Essendo il sistema focheggiante, queste due
condizioni sono sufficienti a garantire che x2 = 0, come si vede in Fig.32a per tutti i raggi con x1 = 0 e E = E0.
102
In pratica, variando sia β sia z1 all’ingresso, l’elettrone emergerà in un punto diverso della fenditura d’uscita che però,
al primo ordine, conserva x2 (pur facendo variare z2).

38
considerando che si può porre x2 x1  1 103 e indicando, come detto, con w1, w2 e h il massimo
valore possibile di Δx1, Δx2 e z1, rispettivamente, si ottiene, isolando il termine ΔE/E:
2
E  w1  w2   h  104
  C    C     C h   , dove i quattro coefficienti adimensionali
2 2
 Cw 
E  L  L
1  2 x2 1  2 x2 L  2 x2
sono definiti come: Cw = 1, C  , C  e C  , rispettivamente.105
2 L 
h
2 L  2 2
2 z1 2

Una volta definita la lunghezza caratteristica L, i quattro coefficienti C (tutti positivi o nulli) sono
fissati dalla geometria dello spettrometro.106

Ottimizzazione e pre-ritardo
Dal punto di vista sperimentale, è di interesse la possibilità di mantenere la risoluzione
energetica di uno spettrometro entro un certo limite superiore. Spesso, infatti, si desidera poter
distinguere elettroni del fascio che hanno energie poco differenti tra loro. Tale discriminazione
energetica è alla base delle tecniche sperimentali note come spettroscopie elettroniche, che saranno
discusse nel prossimo capitolo. Va in generale considerato che una risoluzione energetica molto
spinta (cioè un piccolo valore di E) porterà a selezionare frazioni del fascio elettronico via via più
piccole, cioè popolate da meno elettroni. Una riduzione significativa della risoluzione energetica
potrebbe quindi portare a un’intensità (numero di fotoni/cm2s, si veda il capitolo “Interazione
radiazione-materia”) molto bassa del fascio selezionato, impedendo di fatto di realizzare, in alcuni
casi, gli esperimenti. Sarà quindi opportuno ricercare un giusto compromesso tra una risoluzione
sufficientemente piccola e un’intensità abbastanza elevata.
Se si prende in considerazione l’espressione della risoluzione relativa E/E riportata poco
sopra, appare chiaro che la risoluzione E varia, per un certo spettrometro di caratteristiche fissate,
in modo lineare con l’energia di passo E degli elettroni nell’analizzatore. Ciò implica che la E possa
essere migliorata ritardando il fascio prima che questo entri nello spettrometro e diminuendo,
contestualmente, la pass energy degli elettroni. Per realizzare tale ritardo si usano delle opportune
ottiche dette, appunto, di preritardo.107
L’ottica di preritardo, quindi, serve in primo luogo a portare gli elettroni che si vogliono
analizzare dall’energia cinetica con la quale vengono emessi dal campione fino all’energia di passo
E0 voluta. Ne consegue che la risoluzione energetica dello spettrometro potrà essere scritta come (per
semplicità si è preso w1 = w2 = w):
  2w  h 
2

  C    C     Ch   .
2 2
E  E0 Cw 
  L   L  

103
Per quanto appena visto, la derivata è in pratica la definizione di magnificazione lineare (Δx2/Δx1 = M), quindi in
generale si può scrivere x 2 x1  M . Dato però che l’energia resta costante nello spettrometro, si ha che Mm = 1, dove
m è la magnificazione angolare. L’ottimizzazione dei parametri dello spettrometro (ottenuta tramite il posizionamento
relativo delle slit di ingresso e uscita, cioè dell’oggetto e dell’immagine – vedi oltre) conduce alla situazione M = m = 1.
104
Vale la pena notare che l’apparente incongruenza sui segni (tutti i termini tranne w1 andrebbero con il segno negativo)
è assorbita dal fatto che tutte le Δ che compaiono (inclusa la E) hanno il doppio segno; quindi tutti i termini si sommano
poiché contribuiscono ad aumentare (cioè “peggiorare”) la risoluzione.
105
Nel caso in cui, come spesso accade, si usa L per indicare una grandezza caratteristica dello spettrometro diversa dalla
lunghezza della traiettoria centrale, ma ad essa proporzionale (per esempio, per una geometria sferica, il suo raggio), i
coefficienti variano di conseguenza e Cw può non avere valore unitario, motivo per cui lo si mantiene come parametro.
106
Ricordiamo che, se il termine in Cα risulta nullo (per simmetria), il relativo termine va sostituito con C'  3 , dove
1  3 x2 .
C' 
3! L  3
107
In linea di principio, tali ottiche potrebbero equivalentemente essere usate anche per preaccelerare il fascio, con
l’obiettivo di poter scegliere senza alcun vincolo la pass energy.

39
L’analisi di quest’ultima espressione suggerisce che la diminuzione della risoluzione
energetica E del fascio possa essere ottenuta non solo ritardandolo fino a una E0 sufficientemente
piccola, ma anche diminuendo i termini in parentesi quadra, che dipendono dalle caratteristiche
geometriche dello spettrometro.
In primo luogo, si osserva che la risoluzione può essere migliorata se si aumenta L, cioè se si
aumentano le dimensioni fisiche dell’analizzatore. Per ovvie ragioni questo approccio è possibile solo
entro certi limiti. Infatti, la realizzazione di strumenti compatti permette che questi ultimi siano più
facilmente collocabili in un laboratorio, oltre a garantire una migliore accuratezza nelle tolleranze
delle lavorazioni meccaniche necessarie per la costruzione dello strumento e per tutti gli allineamenti
tra diverse parti dello strumento o tra esso e altri strumenti ad esso adiacenti (per esempio la sorgente
del fascio di elettroni o di fotoni). Alternativamente, si potrebbero ridurre le dimensioni w e h delle
fenditure e gli angoli di divergenza  e  in ingresso. Appare chiaro, tuttavia, che un’eccessiva
riduzione in tal senso porterebbe sia le dimensioni delle fenditure sia gli angoli di divergenza in
ingresso a divenire sensibilmente inferiori alla sezione e alla divergenza del fascio, con una
conseguente significativa riduzione della sua intensità.
È chiaro come un certo valore della somma contenuta in parentesi quadra possa essere ottenuto
con diverse possibili combinazioni dei singoli termini. Ognuna di tali combinazioni produrrà una
diversa intensità del fascio trasmesso dall’analizzatore. In particolare, ci sarà una combinazione dei
parametri w, h,  e , che, a pass energy fissata (cioè a parità di risoluzione), darà la massima
intensità. Tale procedura di aggiustamento dei parametri è parte del processo di ottimizzazione dello
spettrometro. Senza entrare in ulteriori dettagli, si può verificare che, negli spettrometri che
focheggiano al primo ordine, queste condizioni di lavoro si ottengono quando i tre termini relativi ai
coefficienti Cw, Cα e Cβ hanno sostanzialmente lo stesso peso. Il termine relativo a Ch ha di solito un
peso molto inferiore agli altri e si può trascurare. Ciò implica che la dimensione h possa essere
sensibilmente maggiore della w senza perdere in risoluzione.
A titolo esemplificativo, se si fosse nelle condizioni in cui il termine in Cw risulta dominante,
la strategia di ottimizzazione prevedrebbe di ridurre le fenditure e aumentare le accettanze angolari,
in modo tale da accrescere il peso dei termini in Cα e Cβ, portando così il sistema nelle condizioni di
massima intensità.
Si è quindi visto che una prima fase della procedura di ottimizzazione porta a fissare il peso
relativo dei singoli fattori presenti nella parentesi quadra dell’espressione di E. Una volta fissato
tale peso relativo, l’ottimizzazione consisterà nel valutare, data una certa E, quale combinazione tra
valore della pass energy e valore del termine complessivo in parentesi quadra fornisca la massima
intensità.
In particolare, si supponga di passare da una certa pass energy E0 a una inferiore , in modo
che / (con k > 1). Fissato il valore di E desiderato, alla pass energy E0 corrisponderà un
certo valore del termine in parentesi quadra. La riduzione di E0 di un fattore k permetterà di aumentare
tale termine in modo proporzionale. In particolare, la dimensione w delle fenditure108 potrà essere
aumentata dello stesso fattore k e ciascuno degli angoli Δα e Δβ di un fattore k , mantenendo quindi
il peso relativo di ciascun termine, come stabilito nella prima fase di ottimizzazione. In termini
dell’emittanza   ES   , si ha allora che: l’energia è stata ridotta di un fattore k, la sezione è stata
aumentata del medesimo fattore k (essendo aumentato uno dei due lati della fenditura), l’angolo solido
(proporzionale al quadrato della divergenza, si veda il paragrafo “Emittanza e sua conservazione”) è
stato anch’esso aumentato del fattore k. Nel complesso l’emittanza (e quindi l’intensità, che è ad essa
proporzionale) è perciò aumentata del fattore k.109 Questa conclusione dimostra che è conveniente,
quindi, diminuire il più possibile la pass energy e aumentare il termine in parentesi quadra.

108
Come detto, trascuriamo il termine che contiene l’altezza h delle fenditure.
109
Nota bene: si stanno confrontando le emittanze di due fasci elettronici in condizioni diverse, non l’emittanza all’interno
del medesimo fascio, che invece si conserva.

40
Naturalmente, tale aumento è limitato dall’area di campione che emette e dagli angoli di divergenza
in ingresso dello spettrometro.
La scelta di diminuire la pass energy tramite un’ottica di preritardo che precede uno
spettrometro ottimizzato è quindi in generale positiva. Tuttavia, vi sono alcune limitazioni
intrinseche. In primo luogo, se il fascio arriva all’analizzatore con un’energia troppo bassa si possono
avere problemi di stabilità legati a campi non perfettamente schermati, con particolare riferimento a
quelli magnetici: il campo magnetico terrestre, per esempio, può avere effetti visibili sulle traiettorie
reali delle particelle. Inoltre, aumenta la sensibilità nei confronti sia delle aberrazioni dovute alla
carica spaziale (le particelle cariche sono più lente e quindi interagiscono per un tempo più lungo
all’interno del sistema ottico) sia di quelle geometriche, poiché si è visto che per non perdere intensità
occorre accettare angoli di divergenza maggiori. Nella pratica, i valori minimi a cui si può portare la
E0 sono dell’ordine di 1 eV.
Infine, è opportuno osservare che l’intensità del fascio emesso da una sorgente alle diverse
energie cinetiche dipende di fatto dalla tipologia di processo fisico che avviene per la generazione
degli elettroni a tali energie. Ciò implica che, in generale, non sia sempre vero che la richiesta
migliore, dal punto di vista sperimentale, sia quella di avere la minima risoluzione E. Infatti, vi sono
tipicamente due modalità sperimentali che sono utilizzate nelle misure spettroscopiche di fasci di
elettroni: nel primo caso, la E0 viene mantenuta costante per qualunque E iniziale, ottenendo di
conseguenza una situazione in cui E rimane costante durante l’esperimento; nel secondo caso, si
sceglie di mantenere costante la risoluzione relativa E/E, mentre la E0 varia durante l’esperimento.
Le ragioni, i vantaggi e gli svantaggi di queste due modalità sperimentali saranno discussi in dettaglio
nel capitolo “Introduzione alle Spettroscopie Elettroniche”.

Analizzatore emisferico
Tra le varie geometrie esistenti (piana, sferica, cilindrica) di spettrometro a deflessione
elettrostatica, quella di gran lunga più utilizzata oggi è quella sferica schematizzata in Fig.33, in
particolare quella emisferica (cioè quella in cui l’angolo al centro Φ del settore sferico è pari ad un
angolo piatto).

Figura 33. Schema di uno spettrometro a deflessione elettrostatica a simmetria sferica (da
Granneman-Van der Wiel).
In generale, nella geometria sferica (indipendentemente dal valore di Φ) il focheggiamento è
bidimensionale; avviene cioè sia nel piano della deflessione, sia in quello ad esso perpendicolare. Le
proprietà ottiche generali di queste lenti elettrostatiche sono tali che un oggetto O posto
simmetricamente sul prolungamento della traiettoria centrale (tratteggiato in Fig.33, di raggio R0) in
ingresso allo spettrometro viene coniugato parassialmente in un’immagine I anch’essa posta
simmetricamente sul prolungamento del raggio centrale in uscita dallo spettrometro, in modo che la
congiungente dei punti centrali di O e di I passi sempre per il centro C dei settori sferici concentrici

41
della lente, indipendentemente dal valore di Φ, come mostrato in Fig.33. Questa proprietà è nota come
regola di Barber.
Come di consueto, le proprietà focali sono caratterizzate dalla presenza di due piani focali e
due principali. Tenendo conto che l’energia di ingresso della particella è uguale all’energia in uscita,
dato che il campo elettrico è nullo all’esterno dei settori sferici e perpendicolare al raggio centrale al
loro interno (Fig.33), si ha che f1 = f2 = f e che F1 = F2 = F.110 In questo modo la formula di Newton
della lente si può scrivere come: P'  F Q'  F   f 2 , dove P’ e Q’ sono rispettivamente la distanza
di O dalla sezione d’ingresso e di I e da quella di uscita della lente, come mostrato in Fig.33.
Dal punto di vista elettrostatico lo spettrometro (a parte gli effetti di bordo) è un condensatore
sferico in cui il modulo del campo elettrico è proporzionale a r2. Quindi, fissata la geometria (cioè i
raggi interno R1 ed esterno R2 delle due armature sferiche), la pass energy E0 che si vuole stabilire
per il raggio centrale [con r  R0  R1  R2  2 ] determina i potenziali V1 e V2 a cui vengono poste le
due armature.111
Come accennato, l’angolo Φ più comunemente utilizzato è pari a 180° (geometria emisferica)
poiché esso fornisce la situazione geometricamente più compatta, in quanto le direzioni del fascio in
ingresso e in uscita sono le stesse (pur avendo versi opposti), come mostrato in Fig.34.

Figura 34. Schema di un analizzatore emisferico (da Granneman-Van der Wiel).


Per la regola di Barber si ha quindi che, ponendo l’oggetto proprio all’ingresso della lente emisferica,
l’immagine si viene a formare esattamente all’uscita della lente stessa.112 In questa situazione (che è
quella sempre utilizzata) si ha che M = 1 e m = 1. Per determinare l’espressione della risoluzione, si
può quindi utilizzare quanto trovato precedentemente. Definendo la lunghezza caratteristica L = R0 e
considerando la risoluzione come ΔEFWHM, cioè la larghezza energetica a metà altezza (full width at
half mamimum) del profilo in uscita per un fascio in ingresso perfettamente monocromatico di energia
E0, si ha che i coefficienti C hanno i seguenti valori: Cw = ½, Cα = ½, Cβ = 0 (dato che il sistema
focheggia lungo β anche al secondo ordine, come detto) e Ch = 1/16.

110
In particolare, si trova che f = R0 /sinΦ e che F = R0 cotΦ, con R0 raggio centrale (vedi oltre).
111
In pratica, partendo dalla relazione V1  V2  Q  1  1  , dove Q (>0) è la carica sull’armatura interna del
4 0  R1 R2 
condensatore, si trova Q. Da questa si ricava l’espressione del modulo del campo elettrico
Q 40 r 2  V1  V2  R1 R2 r 2 R2  R1  . Il campo elettrico in r = R0 può essere scritto anche come ―F(R0)/e, dove F(R0)
è il modulo della forza elettrica in R0 sulla carica ―e dell’elettrone. Dall’equazione del moto circolare uniforme
F R0   mv02 R0  2E0 R0 (dove E0 è la pass energy e v0 è la relativa velocità degli elettroni) si ottiene .
112
Per quanto visto prima, in questa situazione si ha che P’ e Q’ diventano entrambi nulli, mentre f e F vanno all’infinito.

42
Data l’esiguità del termine Ch e considerando il caso (frequente) di fenditure di ingresso e di uscita di
E FWHM w 1
uguali dimensioni (w1 = w2 = w), si arriva quindi all’espressione:    2 .
E 2R 2 0 0

In Fig.35 è mostrata, a titolo esemplificativo, una foto con le principali caratteristiche (incluso
il costo approssimato!) di un grosso ed efficiente spettrometro disponibile sul mercato.113 Le fenditure
(slit) di dimensioni minori di questo spettrometro misurano w = 0.1 mm. Per queste slit, il primo
termine della risoluzione relativa vale quindi circa 0.1/(2 x 225) = 2 x 10-4. Corrispondentemente, il
valore minimo della semidivergenza è Δα = 1° = 1.7 x 10-2 rad, che fornisce un contributo alla
risoluzione relativa pari a 1.5 x 10-4. In questo modo si ha che ΔEFWHM/E0 = 3.5 x 104, con i due
contributi che hanno circa lo stesso valore. Con una pass energy E0 = 20 eV si ottiene una
ΔEFWHM = 7 meV, che è pari al miglior risultato tabulato in Fig.35 per la modalità XPS. Se, come in
questo caso, i due contributi (spaziale e angolare) alla risoluzione sono abbastanza simili, si può
esprimere la massima deviazione di un raggio dal raggio centrale (wm, che si realizza a metà del
percorso nell’analizzatore, vedi Fig.34) come: wm ≈ R0 Δα.114 Nelle condizioni descritte sopra ciò
fornisce wm ≈ 4 mm. Considerando che, tipicamente, negli spettrometri emisferici si ha che
(R2R1)/R0 ≈ 50%, si ottiene, per
R0 = 225 mm, che
R2R1 = 112.5 mm. In queste
condizioni il filling factor  è
certamente molto piccolo (circa il
3%). Di fatto, anche se le stime
appena fornite si riferiscono alle
minime fenditure e divergenze
dello spettrometro, in diverse
situazioni sperimentali (cioè con
valori superiori delle fenditure e
delle divergenze) le
caratteristiche degli spettrometri
in uso sono tali che il valore di 
risulti sempre ben al di sotto del
riferimento del 50%.
Figura 35. Foto e caratteristiche principali di un analizzatore emisferico
oggi disponibile sul mercato.

- Rivelatori di particelle

Con il termine rivelatore di particelle (particle detector) si indica uno strumento in grado di
rivelare la presenza di una particella. La categoria dei rivelatori di particelle è molto vasta; qui ci
limiteremo a dare alcune informazioni su un numero ristretto di dispositivi (però molto diffusi) adatti
a rivelare elettroni e fotoni, con energie fino all’ordine del keV.
Una distinzione tra le diverse tecniche disponibili si può fare prendendo in considerazione i possibili
modi in cui la rivelazione può essere effettuata, che sono tipicamente due:

113
Si tratta di uno spettrometro denominato Phoibos 225 (dove il 225 indica il valore di R0 in millimetri) prodotto dalla
ditta tedesca SPECS (www.specs.de).
114
Per visualizzare come possa essere ottenuta questa approssimazione, si immagini di “raddrizzare” lo spettrometro,
cosicché la traiettoria centrale diventi una retta. In tali condizioni, il segmento di tale retta che va dalla fenditura in ingresso
fino al centro dell’analizzatore forma, insieme alla massima deviazione dal raggio centrale wm, un triangolo rettangolo
nel quale l’angolo opposto al cateto di lunghezza wm è . La relazione trigonometrica tra queste grandezze sarà quindi
 
w  R0 sin(  )  R0  , che differisce poco da quella considerata nel testo.
m 2 2

43
1. le particelle vengono rivelate direttamente;
2. vengono rivelati elettroni secondari emessi da una superficie illuminata da un fascio primario
(di elettroni o di fotoni).

Nel seguito discuteremo più in dettaglio queste modalità, in relazione al funzionamento dei
diversi rivelatori.

Rivelazione diretta
Un semplice rivelatore di elettroni che appartiene a questa categoria è noto come Faraday
cup. Concettualmente, è costituita da un piccolo cilindro metallico, collegato a massa attraverso un
amperometro. Questo cilindro raccoglie le particelle che le vengono indirizzate sopra e disperde le
cariche accumulate verso massa attraverso l’amperometro. Ciò permette quindi di mettere
direttamente in relazione questa corrente con il numero di particelle cariche che hanno colpito la
superficie nell’unità di tempo.
Dal punto di vista pratico, la Faraday cup è realizzata a forma di piccolo vaso cilindrico
(sostanzialmente una coppa, da cui il nome), come mostrato in Fig.36. Questa geometria permette di
ottimizzare l’efficienza di raccolta per un fascio elettronico, che è tipicamente caratterizzato da una
certa dispersione angolare. Inoltre, gli elettroni che penetrano all’interno della coppa avranno la
possibilità, urtando le pareti, di produrre anche elettroni secondari. Questi ultimi possono a loro volta
essere rivelati, aumentando il segnale raccolto, pur mantenendo una proporzionalità con il numero di
cariche in arrivo: è quindi desiderabile che gli elettroni secondari non fuoriescano dalla Faraday cup
una volta generati. Per ottenere questi risultati, si realizzano tipicamente cilindri con lunghezza pari
ad almeno 5 diametri interni.

Figura 36. Esempi di Faraday cup (viste in sezione, da Moore).


Infine, altri accorgimenti progettuali possono essere sfruttati per migliorare ulteriormente le
prestazioni o per esigenze specifiche. Per esempio, la Faraday cup di Fig.36(a) ha il fondo inclinato,
per impedire la diffusione all’indietro degli elettroni secondari; quella di Fig.36(b) ha una coppia di
griglie all’ingresso, opportunamente polarizzate, con lo stesso scopo; infine, quella di Fig.36(c) è
formata da una coppia di cilindri coassiali e viene usata tipicamente per l’allineamento di un fascio
elettronico.
Dal punto di vista quantitativo, il limite inferiore al segnale che può essere raccolto da una
Faraday cup è dato solo dalla sensibilità dell’amperometro. Questo limite è dell’ordine del pA (o
frazioni di pA) in strumentazione considerata ordinaria (nel senso che si trova in commercio con
facilità). Per esempio, per una corrente misurata I = 10-12 A vuol dire, in prima approssimazione e
10-12 C/s
trascurando i secondari, che il fascio di elettroni deve portare: -19 = 107 elettroni/s. Questo
10 C/elettrone
è un valore piuttosto elevato e non sempre è disponibile un fascio elettronico così intenso.
Un’applicazione possibile della Faraday cup, oltre che come strumento per l’allineamento di
un fascio di elettroni, può essere quella di rivelatore in uno spettrometro di massa, dove si trova
frequentemente.

44
Rivelazione di elettroni secondari
In generale, è necessario abbandonare l’uso della Faraday cup (cioè una rivelazione
“passiva”) quando le correnti da misurare scendono sotto limiti troppo bassi, tipicamente sotto i 1014
A. In questo caso, la rivelazione “attiva” (cioè amplificata) di elettroni secondari permette di
aumentare il segnale fino a livelli misurabili. Il rivelatore viene indicato con il nome generico di
electron multiplier. Si può ottenere la moltiplicazione di elettroni secondo due possibili approcci: i)
uso di una struttura discreta; ii) uso di una struttura continua.

Figura 37. (a) Schema di un moltiplicatore a dinodi, con relativo circuito elettronico. Si
noti che in questo caso la polarizzazione sarebbe adatta a moltiplicare cariche positive
(da Moore). (b) Foto di un moltiplicatore smontato; le dimensioni sono di alcuni
centimetri (BURLE industries).
i) La prima tipologia prevede che il moltiplicatore di elettroni sia costituito da una serie di
elementi (elettrodi) acceleranti, che sono detti “dinodi”, come schematizzato in Fig.37.
Il funzionamento del moltiplicatore discreto è il seguente: all’impatto con il primo dinodo,
l’elettrone cede la propria energia cinetica, provocando l’emissione di altri elettroni. Questi ultimi
vengono accelerati da una differenza di potenziale dell’ordine di 100 V rispetto al dinodo successivo,
dove un nuovo impatto produce, per ciascun elettrone che arriva, un’ulteriore emissione di elettroni,
con lo stesso meccanismo, così che ciascun elettrone emesso in un punto della catena produca, nel
punto successivo, più di un elettrone.
Un tipico coefficiente di moltiplicazione, per una d.d.p di 100 V, è 3. Questo vuol dire che, se
si utilizza una catena di 10 dinodi, è possibile “trasformare” un elettrone del fascio primario in 310 
106 elettroni in uscita. Mettendo 20 dinodi questo valore supera 109 elettroni in uscita per ciascun
elettrone primario. Si parla quindi tipicamente di “valanga” (avalanche) di elettroni. Aumentando la
d.d.p si aumenta anche il coefficiente di moltiplicazione k (pari al numero di secondari emessi per
elettrone), ottenendo in generale un guadagno pari a kn, dove n è il numero di dinodi. Questo
andamento è esemplificato in Fig.38, dove k è indicato come Secondary Electron Emission.

45
La corrente in uscita può essere raccolta
in modo analogico (quindi continuo: è la cosa più
semplice) oppure digitale (impulsato).
Quest’ultima modalità, oltre ad offrire una
maggiore sensibilità di misura, permette anche,
in linea di principio, di ottenere misure risolte in
tempo. Tuttavia, il tempo tipico per
l’attraversamento del rivelatore è dell’ordine dei
10 ns, il che non permette risoluzioni temporali
significative.
Dal punto di vista dei materiali usati per
la realizzazione dei dinodi, la richiesta è
innanzitutto di avere un’elevata funzione lavoro.
Ciò infatti permette di sopprimere l’emissione Figura 38. Coefficiente di emissione di secondari (k
termoionica dai dinodi (che si scaldano per il nel testo) in funzione della d.d.p. tra i dinodi
bombardamento elettronico), la quale non fa (specifiche moltiplicatore Restek).
parte del segnale da misurare. Si usano per esempio leghe di Cu-Be che subiscono anche opportuni
trattamenti superficiali; naturalmente si tratta di solito di tecnologie proprietarie dei singoli produttori.
Lo svantaggio relativo di questa scelta è la necessità di accelerare notevolmente le particelle tra un
dinodo e l’altro ed eventualmente di pre-accelerarle in ingresso al rivelatore. Tuttavia, come si è visto,
con differenze di potenziale dell’ordine di 300 V si arriva già alle massime efficienze possibili.
Una possibile applicazione del moltiplicatore di elettroni a dinodi è il fotomoltiplicatore, che
è un rivelatore di fotoni. In questo caso, il primo passaggio della catena consiste in un processo di
fotoemissione causato dal fotone che deve essere rivelato. L’elettrone così prodotto fa partire la
valanga che porterà poi alla misura del segnale.
ii) La seconda tipologia è, nella sostanza, simile alla prima. Tuttavia, il rivelatore è composto
da un unico dinodo che forma un canale lungo e stretto, come schematizzato nella Fig.39. Si parla in
questo caso di Channel Electron Multiplier (CEM), termine che viene di solito abbreviato in
channeltron.
L’ingresso e l’uscita del channeltron vengono indicati come testa e coda, rispettivamente. Tra
questi due punti viene mantenuta una differenza di potenziale di qualche kV. I guadagni tipici che si
ottengono sono dell’ordine di 108 elettroni in uscita per elettrone in ingresso (vedi Fig.40). Il
channeltron deve quindi essere realizzato in un materiale tale da poter sostenere tale d.d.p., senza
correnti parassite rilevanti tra testa e coda. La parte esterna del canale è realizzata tipicamente in vetro
o ceramica, mentre la superficie interna è un semiconduttore, con caratteristiche simili alle superfici
dei dinodi, di cui abbiamo già parlato. Si noti la forma incurvata del channeltron, usata per non far
uscire gli elettroni secondari prodotti nei vari punti del canale.
La modalità di utilizzo del channeltron per la rivelazione di elettroni è tipicamente quella
impulsata, poiché in questo caso occorre avere un’alta tensione (positiva) sulla coda, dove è collegata
l’elettronica di acquisizione. La modalità impulsata prevede la presenza di un condensatore che
disaccoppia il channeltron dal sistema di raccolta del segnale, evitando che quest’ultimo debba
trovarsi tutto ad alta tensione, con evidenti complicazioni operative.

46
Figura 39. Schema di un Channel Electron Multiplier, con relativo circuito elettronico, disposto
per la rivelazione di elettroni. In alto a destra è riportata la foto di un piccolo CEM.

Figura 40. a) Guadagno e b) tasso di conteggio (in 105 conteggi per secondo) in funzione della tensione
applicata, per un tipico channeltron in commercio (da sito web Dr. Sjuts).
Il channeltron è uno strumento davvero molto diffuso, si trova per esempio nella maggioranza
degli analizzatori per spettroscopia di fotoemissione.
Troviamo un approccio simile a quello dei CEM anche nelle cosiddette Micro Channel Plates
(MCP), le quali sono costituite da matrici fatte di moltissimi canali che sono sostanzialmente dei
channeltron di dimensione laterale micrometrica (hanno un diametro dell’ordine di 10-100 m) e
molto corti, dell’ordine del millimetro (contro i centimetri che caratterizzano i channeltron, vedi
Fig.39). In questo modo, per esempio, una MCP della dimensione di 10 cm2 può ospitare fino a circa
107 canali. La Fig. 41 riporta, in sezione, lo schema di una MCP. I piani superiori e inferiori sono
mantenuti a una d.d.p. elevata anche in questo caso.

47
Figura 41. Schema della sezione di una micro channel plate (in questo caso
utilizzata per il rilevamento diretto di raggi X).
Il guadagno di una MCP è decisamente molto inferiore a quello di un channeltron, essendo
dell’ordine di 104 (contro i 108 tipici dei channeltron). Per ovviare a questo problema si possono
mettere due o più MCP in serie. La Fig.42 esemplifica il caso di due MCP poste in serie in una
configurazione detta “Chevron”. Si noti il fatto che i micro-canali sono inclinati, per minimizzare il
numero di elettroni secondari retrodiffusi.

Figura 42. Schema di due MCP in serie in configurazione "Chevron".


I vantaggi delle MCP sono sostanzialmente due: in primo luogo, i tempi di risposta sono
inferiori ai 100 ps, quindi almeno due ordini di grandezza minori che nei channeltron; in secondo
luogo, è possibile conoscere dove, spazialmente, è arrivata una particella.
Quest’ultima possibilità, in particolare, rende fattibile la realizzazione di misure multicanale,
che sono estremamente interessanti. Se si considera un esperimento di fotoemissione, è noto che gli
elettroni in uscita dal campione sono emessi ad angoli diversi e con un certo spettro di energie
cinetiche E. Se si volesse analizzare specificamente gli elettroni emessi a un certo angolo e a una data
E, si dovrebbero eseguire numerose misure diverse. Se si riuscisse invece a misurare queste grandezze
contemporaneamente, si potrebbe guadagnare molto tempo o, alternativamente, si riuscirebbe ad
acquisire dati con maggiore statistica. La Fig.43 mostra come un approccio del genere possa
permettere, ad esempio, la misura contemporanea di elettroni a energie diverse che, nel caso specifico
di questo analizzatore a piani paralleli (praticamente un condensatore piano), vengono proiettati a
distanze diverse nel piano del rivelatore. Come si vede dal disegno, la fenditura in uscita

48
dall’analizzatore è assente e il suo ruolo di selezione energetica (per il quale verrebbe selezionato un
valore dell’energia per volta, cioè lo spettro energetico sarebbe acquisito in serie) è assunto dalla
MCP utilizzata in combinazione con un collettore sensibile alla posizione di arrivo della particella
(position sensitive collector). In questo secondo caso, tutte le particelle che arrivano con diverse
energie saranno rivelate, contemporaneamente, in posizioni diverse. Lo spettro energetico viene cioè
acquisito in parallelo e non vi è una scansione in energia.

Figura 43. Rivelatore multicanale su analizzatore a piani paralleli (da Granneman-Van der Wiel).
L’approccio multicanale è oggi frequentemente utilizzato, in particolare nelle misure di
fotoemissione a raggi UV che hanno lo scopo di studiare la struttura a bande dei solidi. Senza entrare
nel dettaglio dell’argomento, tali studi richiedono la misura contemporanea della E di un elettrone e
del suo vettore d’onda k. Questo si può ottenere, tramite un’acquisizione parallela, grazie all’uso di
un rivelatore MCP a valle di un analizzatore emisferico.

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- Bibliografia

Luth: H. Lüth, Solid Surfaces, Interfaces and Thin Films, 4th ed., Springer 2001.

Moore: J. Moore, C.C. Davis, M.A. Coplan, Building Scientific Apparatus, 3rd ed. Westview Press
2002.

Granneman-Van Der Wiel: E.H.A Granneman and M.J. Van Der Viel, Transport, dispersion and
detection of electrons, ions and neutrals, in Handbook on Synchrotron Radiation, Vol. 1, edited by
E.E. Koch, North-Holland Publishing Company 1983.

Sette: D. Sette, M. Bertolotti, Lezioni di fisica: Elettromagnetismo, ottica, Masson 1998.

Harting-Read: E. Harting and F. H. Read, Electrostatic lenses, Elsevier 1976.

Yoshimura: N. Yoshimura, Vacuum Technology: Practice for Scientific Instruments, 1st ed., Springer
2008.

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