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25 marzo 1973: in questo giorno legno ferro e cartapesta, sono stati il simbolo di un processo di
liberazione per tutti coloro che soffrivano le condizioni di vita del manicomio.
400 i pazienti che hanno accompagnato la presentazione di questa opera d’arte blu come il cielo e con
la forma di un cavallo in nome ed in riferimento al defunto cavallo del manicomio, Marco, egli
trasportava la biancheria ed i rifiuti alle strutture esterne al manicomio, uno, dunque, dei pochi
invecchiando, dovette essere mandato al macello, ma, su richiesta dei pazienti, il cavallo fu adottato
Questa statua alta oltre 3 metri, non è semplicemente un'opera d'arte, ma il simbolo di un'esperienza
Il lungimirante Franco Basaglia invitò un gruppo di persone : uno scultore, un regista, un insegnante,
un fotografo ed altri, a trascorrere un periodo in manicomio, questi uomini, avulsi da tutto cio’ che
la struttura manicomiale rappresentava, hanno vissuto per quasi due mesi nell'ospedale di San
Giovanni e sono riusciti ad organizzare un grande gruppo di pazienti per creare un'opera collettiva.
L'idea iniziale, in realtà, era quella di costruire una casa di cartone che potesse coinvolgere il maggior
numero possibile di pazienti e che potesse ricordare qualcosa di intimo e nel quale sentirsi al sicuro,
poi, una donna calabrese emigrata a New York tornata in patria e ricoverata a Trieste, stava
disegnando un cavallo, ella, con quattro linee divise il corpo del cavallo in sei scomparti e in ognuno
disegnò una cosa: un vaso di fiori, un'oca, una pentola, una casa, un albero e un Pinocchio. Ed ecco
scultore e Giuliano Scabia, scrittore, regista e professore di teatro, ecco che prese vita il reparto P.
Per due mesi tutti sono stati spinti a scrivere, a partecipare, a disegnare ed a raccogliere storie. Nasce,
quindi, grazie a Vittorio, la prima pedana: 20 cm di legno semplice dove ogni uomo, anche il piu’
impacciato, inizia a recitare e dalle sette del mattino alle cinque del pomeriggio tutti,
consuetudine, ogni sera fa il giro di tutti i reparti distribuendo i volantini che disegnano la sintesi delle
giornate.
Inizia così il sovvertimento della disciplina asburgica degli uffici dell’economato, perché istituire un
laboratorio significa disporre di beni merceologici non compatibili con acquisti regolamentari e non
di certo in linea con il fabbisogno della struttura. A quel tempo uno stampato, il fabbisogno appunto,
permetteva la richiesta e l’acquisto di generi diversi necessari alla manutenzione della struttura.
Questo era solo era uno dei tanti simboli di una gerarchia istituzionale perché qualunque richiesta
doveva essere firmata e cofirmata dal direttore, persino l’approvvigionamento di biancheria intima
,visto che i pazienti non potevano utilizzare nulla appartenente a se stessi, era acquistata
dall’economo.
Molte furono le critiche da parte della gestione che evidenziò il superamento di ogni tollerabile misura
nella costruzione di un laboratorio pluriartistico. Per la prima volta ci si trovò a stilare all’interno del
fabbisogno, liste di spazzolini da denti, porta saponi, biglietti dell’autobus o del cinema, farine e cibi
per i primi esperimenti di preparazione culinaria nei reparti, il tutto per la creazione di quelle che poi
furono le prime comunità autonome a sostentamento della vita quotidiana dei primi dimessi e in più
quantità industriali di cartone, pennelli, viti stoffe e pian piano le spese si orientarono sempre piu’
verso la necessità della persona, un mondo, fino a quel momento annientato e sottoposto
all’idea che questo potesse finire, spaventati perché era l’unica vita che conoscevano. C’era un uomo
ad esempio, Zoran, molto miope, somigliava profondamente a Bertol Brecht e lui ripeteva sempre
che a San Giovanni c’erano matti veri e che forse era da incoscienti pensare che si potesse vivere
altrove e che solo pochi, come lui, sarebbero potuti uscire. C’era anche Bertocchi aveva poco più di
quarant’anni e non possedeva la capacità di articolare le parole, utilizzava sono suoni gutturali era
stato elettrizzato dall’arrivo degli artisti era il primo ogni mattina ad arrivare.
Strano pensare che tutti i degenti abbiano costruito un cavallo senza mai toccarlo, hanno costruito un
cavallo con una pancia piena di desideri. Era una limpida domenica di marzo e per la prima volta
Marco cavallo tentò di uscire dal laboratorio, ma era troppo grande e le porte erano troppo piccole
tutti aspettavano quel momento e non si capiva come sarebbe potuto uscire perché non entrava dalla
veranda, non dalla lavanderia e si cominciò a muoverlo avanti indietro all’interno di del reparto P
come per anni avevano fatto i malati e allora furono fatti saltare gli infissi e tra calcinacci e mattoni
uscì Marco cavallo accompagnato da 400 pazienti. La grande opera si fermò tra gli alberi del giardino
e chissà quanti, in quel momento, videro in quel gigante di cartapesta un vero animale che aveva
lottato e si era ferito. Cadde il primo muro non solo fisico, ma anche gerarchico e ci si fermò in piazza
unità d’Italia e alla fine nella scuola elementare di San Vito fino a sera.
Sono passati più di quarant’anni e quel cavallo porta ancora con sé i sogni, le aspirazioni e i desideri
di tutti coloro che hanno rivoluzionato la storia della psichiatria. Molti non ci sono più ed è stata così
forte l’unione e la necessità di puntare alla ‘’persona’’, tanto da cancellare lo stesso manicomio.
Marco cavallo esiste ancora: un gigantesco cavallo azzurro in giro per le mostre, i mercati, ha il colore
del cielo, del mare, della libertà. Marco cavallo ha denunciato la miseria all’interno dei manicomi, la
mancanza chiara di qualunque tipo di prospettiva per il dimesso e quindi l’impossibilità di essere
dimesso, ha fatto leva sulla mancanza di lavoro, di strutture, sulle condizioni disagiate degli
infermieri, ha sollevato l’inattualità di una legge che danni impediva la cura, di una legge che viveva
Marco cavallo porta con se non solo i racconti commoventi del coma insulinico e dell’elettroschok, i ricordi
di uomini rinchiusi come animali, uomini che la società definiva alienati ed impossibili da riabilitare, ma parla
anche di pazienti che tornano alla vita, pazienti che riacquistano le loro menti, il senso di autonomia e la
dignità.
Attualmente la statua originale non è più visibile nella piazza principale del complesso dell'Ospedale
Marco Cavallo, un cavallo blu costruito nel 1973 dallo scultore Vittorio Basaglia con i pazienti
dell'Ospedale Psichiatrico di Trieste, è diventato oggi il simbolo della libertà, della ribellione e dei
diritti umani, ha abbattuto i muri del manicomio di Trieste con la forza fisica dei ‘’matti’’ e la forza
Basaglia ed i suoi collaboratori appartenevano ad una generazione del dopoguerra, una generazione
antifascista, che aveva a cuore i diritti umani ed era sconvolta dalla violenza, dallo squallore, dal
totale disprezzo e dal deliberato ripudio dell'umanità dei suoi internati. Basaglia interpretava la
l’essenzialità, di stabilire un rapporto con il singolo paziente indipendentemente dall'etichetta con cui
quell'individuo era stato definito. Egli ispiro’ cio’ che è il movimento di Psichiatria Democratica e
portò l'impegno politico della riforma della salute mentale ad un nuovo limite, collegandosi e
diventando punto di raccolta per più ampie proteste sociali arrivando, nel 1978, alla Legge 180, che
portò, sebbene il processo abbia richiesto circa 20 anni per essere completato, alla chiusura di tutti gli
ospedali psichiatrici in Italia. E’ un errore pero’ confondere la chiusura dei manicomi con l'abbandono
dei pazienti, poiché il manicomio stesso era arrivato ad esemplificare una cultura dell'abbandono. In
Italia, la chiusura manicomiale, segnò non una fine, ma l’inizio della rivoluzione dell'assistenza alla
salute mentale, segno’ la creazione di un nuovo terreno sul quale il manicomio, come inteso in
precedenza, poteva essere superato, dove la follia non sarebbe scomparsa, ma poteva essere affrontata
e dove gli ex pazienti potevano ritrovare la loro umanità, riavere la loro vita e tornare ad essere
persone. Basaglia ha creduto fortemente negli aspetti terapeutici e liberatori del lavoro ed ha fatto
largo uso di cooperative come veicoli per il reinserimento degli ex pazienti nella società. Per tutto il
tempo, ha sottolineato la necessità di aprire e mantenere un dialogo tra il mondo interno e quello
esterno, in modo che il mondo esterno riconoscesse l'ospedale psichiatrico come prte di se con la
prospettiva di stabilire una connessione tra un'istituzione che cerca di riabilitare le persone e una