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MARCO CAVALLO: BLU COME IL CIELO, COME IL MARE, COME LA LIBERTA’

Scritto da Nancy Fazzini – Classe I Anno Musicoterapia

25 marzo 1973: in questo giorno legno ferro e cartapesta, sono stati il simbolo di un processo di

liberazione per tutti coloro che soffrivano le condizioni di vita del manicomio.

400 i pazienti che hanno accompagnato la presentazione di questa opera d’arte blu come il cielo e con

la forma di un cavallo in nome ed in riferimento al defunto cavallo del manicomio, Marco, egli

trasportava la biancheria ed i rifiuti alle strutture esterne al manicomio, uno, dunque, dei pochi

residenti autorizzati a lasciare regolarmente i locali della struttura manicomiale. Purtroppo,

invecchiando, dovette essere mandato al macello, ma, su richiesta dei pazienti, il cavallo fu adottato

dall'ippodromo della città dove trascorse il resto della sua vita.

Questa statua alta oltre 3 metri, non è semplicemente un'opera d'arte, ma il simbolo di un'esperienza

rivoluzionaria che ha cambiato la storia della psichiatria e ‘’dell’uomo’’.

Il lungimirante Franco Basaglia invitò un gruppo di persone : uno scultore, un regista, un insegnante,

un fotografo ed altri, a trascorrere un periodo in manicomio, questi uomini, avulsi da tutto cio’ che

la struttura manicomiale rappresentava, hanno vissuto per quasi due mesi nell'ospedale di San

Giovanni e sono riusciti ad organizzare un grande gruppo di pazienti per creare un'opera collettiva.

L'idea iniziale, in realtà, era quella di costruire una casa di cartone che potesse coinvolgere il maggior

numero possibile di pazienti e che potesse ricordare qualcosa di intimo e nel quale sentirsi al sicuro,

poi, una donna calabrese emigrata a New York tornata in patria e ricoverata a Trieste, stava

disegnando un cavallo, ella, con quattro linee divise il corpo del cavallo in sei scomparti e in ognuno

disegnò una cosa: un vaso di fiori, un'oca, una pentola, una casa, un albero e un Pinocchio. Ed ecco

che prese forma Marco Cavallo.


Anche se la risposta dei pazienti non fu immediata, sotto la direzione di Vittorio Basaglia, pittore e

scultore e Giuliano Scabia, scrittore, regista e professore di teatro, ecco che prese vita il reparto P.

Per due mesi tutti sono stati spinti a scrivere, a partecipare, a disegnare ed a raccogliere storie. Nasce,

quindi, grazie a Vittorio, la prima pedana: 20 cm di legno semplice dove ogni uomo, anche il piu’

impacciato, inizia a recitare e dalle sette del mattino alle cinque del pomeriggio tutti,

indipendentemente dalle patologie, si riuniscono in una condivisione d’empatie. Vittorio, come

consuetudine, ogni sera fa il giro di tutti i reparti distribuendo i volantini che disegnano la sintesi delle

giornate.

Inizia così il sovvertimento della disciplina asburgica degli uffici dell’economato, perché istituire un

laboratorio significa disporre di beni merceologici non compatibili con acquisti regolamentari e non

di certo in linea con il fabbisogno della struttura. A quel tempo uno stampato, il fabbisogno appunto,

permetteva la richiesta e l’acquisto di generi diversi necessari alla manutenzione della struttura.

Questo era solo era uno dei tanti simboli di una gerarchia istituzionale perché qualunque richiesta

doveva essere firmata e cofirmata dal direttore, persino l’approvvigionamento di biancheria intima

,visto che i pazienti non potevano utilizzare nulla appartenente a se stessi, era acquistata

dall’economo.

Molte furono le critiche da parte della gestione che evidenziò il superamento di ogni tollerabile misura

nella costruzione di un laboratorio pluriartistico. Per la prima volta ci si trovò a stilare all’interno del

fabbisogno, liste di spazzolini da denti, porta saponi, biglietti dell’autobus o del cinema, farine e cibi

per i primi esperimenti di preparazione culinaria nei reparti, il tutto per la creazione di quelle che poi

furono le prime comunità autonome a sostentamento della vita quotidiana dei primi dimessi e in più

quantità industriali di cartone, pennelli, viti stoffe e pian piano le spese si orientarono sempre piu’

verso la necessità della persona, un mondo, fino a quel momento annientato e sottoposto

all’omologazione, alla totalizzazione gerarchica.


In tutto questo alcuni pazienti nonostante odiassero il manicomio erano ambiguamente preoccupati

all’idea che questo potesse finire, spaventati perché era l’unica vita che conoscevano. C’era un uomo

ad esempio, Zoran, molto miope, somigliava profondamente a Bertol Brecht e lui ripeteva sempre

che a San Giovanni c’erano matti veri e che forse era da incoscienti pensare che si potesse vivere

altrove e che solo pochi, come lui, sarebbero potuti uscire. C’era anche Bertocchi aveva poco più di

quarant’anni e non possedeva la capacità di articolare le parole, utilizzava sono suoni gutturali era

stato elettrizzato dall’arrivo degli artisti era il primo ogni mattina ad arrivare.

Strano pensare che tutti i degenti abbiano costruito un cavallo senza mai toccarlo, hanno costruito un

cavallo con una pancia piena di desideri. Era una limpida domenica di marzo e per la prima volta

Marco cavallo tentò di uscire dal laboratorio, ma era troppo grande e le porte erano troppo piccole

tutti aspettavano quel momento e non si capiva come sarebbe potuto uscire perché non entrava dalla

veranda, non dalla lavanderia e si cominciò a muoverlo avanti indietro all’interno di del reparto P

come per anni avevano fatto i malati e allora furono fatti saltare gli infissi e tra calcinacci e mattoni

uscì Marco cavallo accompagnato da 400 pazienti. La grande opera si fermò tra gli alberi del giardino

e chissà quanti, in quel momento, videro in quel gigante di cartapesta un vero animale che aveva

lottato e si era ferito. Cadde il primo muro non solo fisico, ma anche gerarchico e ci si fermò in piazza

unità d’Italia e alla fine nella scuola elementare di San Vito fino a sera.

Sono passati più di quarant’anni e quel cavallo porta ancora con sé i sogni, le aspirazioni e i desideri

di tutti coloro che hanno rivoluzionato la storia della psichiatria. Molti non ci sono più ed è stata così

forte l’unione e la necessità di puntare alla ‘’persona’’, tanto da cancellare lo stesso manicomio.

Marco cavallo esiste ancora: un gigantesco cavallo azzurro in giro per le mostre, i mercati, ha il colore

del cielo, del mare, della libertà. Marco cavallo ha denunciato la miseria all’interno dei manicomi, la

mancanza chiara di qualunque tipo di prospettiva per il dimesso e quindi l’impossibilità di essere

dimesso, ha fatto leva sulla mancanza di lavoro, di strutture, sulle condizioni disagiate degli
infermieri, ha sollevato l’inattualità di una legge che danni impediva la cura, di una legge che viveva

ancor prima della costituzione e che aveva necessità di essere riformata.

Marco cavallo porta con se non solo i racconti commoventi del coma insulinico e dell’elettroschok, i ricordi

di uomini rinchiusi come animali, uomini che la società definiva alienati ed impossibili da riabilitare, ma parla

anche di pazienti che tornano alla vita, pazienti che riacquistano le loro menti, il senso di autonomia e la

dignità.

Attualmente la statua originale non è più visibile nella piazza principale del complesso dell'Ospedale

Psichiatrico Provinciale, ma è stata ricreata una copia in bronzo.

Marco Cavallo, un cavallo blu costruito nel 1973 dallo scultore Vittorio Basaglia con i pazienti

dell'Ospedale Psichiatrico di Trieste, è diventato oggi il simbolo della libertà, della ribellione e dei

diritti umani, ha abbattuto i muri del manicomio di Trieste con la forza fisica dei ‘’matti’’ e la forza

ideologica che riecheggia la rivoluzione di Franco Basaglia.

Basaglia ed i suoi collaboratori appartenevano ad una generazione del dopoguerra, una generazione

antifascista, che aveva a cuore i diritti umani ed era sconvolta dalla violenza, dallo squallore, dal

totale disprezzo e dal deliberato ripudio dell'umanità dei suoi internati. Basaglia interpretava la

malattia mentale come un problema socio-politico e sosteneva, con fermezza, la necessità,

l’essenzialità, di stabilire un rapporto con il singolo paziente indipendentemente dall'etichetta con cui

quell'individuo era stato definito. Egli ispiro’ cio’ che è il movimento di Psichiatria Democratica e

portò l'impegno politico della riforma della salute mentale ad un nuovo limite, collegandosi e

diventando punto di raccolta per più ampie proteste sociali arrivando, nel 1978, alla Legge 180, che

portò, sebbene il processo abbia richiesto circa 20 anni per essere completato, alla chiusura di tutti gli

ospedali psichiatrici in Italia. E’ un errore pero’ confondere la chiusura dei manicomi con l'abbandono

dei pazienti, poiché il manicomio stesso era arrivato ad esemplificare una cultura dell'abbandono. In

Italia, la chiusura manicomiale, segnò non una fine, ma l’inizio della rivoluzione dell'assistenza alla

salute mentale, segno’ la creazione di un nuovo terreno sul quale il manicomio, come inteso in
precedenza, poteva essere superato, dove la follia non sarebbe scomparsa, ma poteva essere affrontata

e dove gli ex pazienti potevano ritrovare la loro umanità, riavere la loro vita e tornare ad essere

persone. Basaglia ha creduto fortemente negli aspetti terapeutici e liberatori del lavoro ed ha fatto

largo uso di cooperative come veicoli per il reinserimento degli ex pazienti nella società. Per tutto il

tempo, ha sottolineato la necessità di aprire e mantenere un dialogo tra il mondo interno e quello

esterno, in modo che il mondo esterno riconoscesse l'ospedale psichiatrico come prte di se con la

prospettiva di stabilire una connessione tra un'istituzione che cerca di riabilitare le persone e una

società che accoglie e che desidera la riabilitazione.

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