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IL FOLLE
L’internamento dei malati di mente, dei disoccupati e dei vagabondi, che costituivano una minaccia
all’ordine sociale, era la risposta che venne data dalla società borghese in tutta Europa a partire dal XVII
secolo. In questo periodo le istituzioni e la gente comune non facevano alcuna differenza tra i miseri, i
vagabondi ed i matti. Gradualmente il destino del folle si confuse con quello del povero e del criminale. Di
fatto al malato di mente non veniva offerta alcuna cura, alcuna assistenza; i detenuti erano anzi picchiati o
frustati molto spesso. Il problema era comunque la gestione della devianza, presupposto per garantire un
ordinato vivere civile. A partire dalla fine del XVII secolo ebbe origine la vera assistenza dei malati di mente
per mezzo del ricovero nei comuni ospedali civili dei grandi e piccoli centri urbani. I dementi venivano
raccolti nei locali più appartati, nascosti e malsani degli ospedali insieme ad altri pazienti inguaribili, senza
medico e senza medicine, ma solamente consegnati al rozzo custode che li teneva legati al muro e li
sottoponeva a trattamenti disumani. Con il passare degli anni il costante aumento dei dementi costrinse gli
stessi ospedali a costruire al loro interno dei reparti speciali per la cura di questa malattia. Nel Settecento
sorsero nel nostro paese le prime strutture per l’esclusivo ricovero degli infermi di mente nonostante gli
Ospedali civili continuassero ad ospitarli.
I primi manicomi nel nostro paese nascono nel Settecento e particolarmente importanti furono i contributi
dell’area tosco-emiliana: Bologna 1710, Reggio Emilia 1754, Parma 1793, Lucca 1773, Firenze 1788, Siena
1818. Di tutte queste esperienze quella di Firenze, il S. Bonifacio, con il Chiarugi che nel 1789 ne dettò il
regolamento, fu senz'altro da considerarsi pilota.
Dal punto di vista strutturale, i vari governi intervennero, nella maggior parte dei casi, con il
rimaneggiamento di vecchie strutture (conventi, ville ex lebbrosari), tramite lavori di adeguamento secondo
le nuove istanze scientifiche e sanitarie. Alle migliorie degli ambienti già esistenti fecero seguito vere e
proprie realizzazioni di nuovi stabilimenti, che avevano come destinazione unica, l’internamento dei folli.
Per tutto il XIX secolo, il dibattito psichiatrico trovò nelle riviste specializzate e nelle pubblicazioni mediche
lo strumento principe della sua diffusione. La nascente scienza psichiatrica si interrogò, su tutti i problemi
connessi alla “tecnica manicomiale”, a partire da quello generale della tipologia architettonica delle
strutture manicomiali, alle soluzioni particolari da applicarsi per rendere più funzionali gli ambienti ed i
mezzi di contenzione, nonché all’applicazione di particolari terapie. I trattamenti restavano rudimentali e si
limitavano soprattutto all’isolamento con la pratica dei bagni caldi, lo stare a letto continuamente e solo in
rari casi si avevano tentativi di ergoterapia. L’ergoterapia consisteva nell’impiegare i malati in attività
lavorative all’interno del manicomio e nelle colonie agricole. Il malato si doveva infatti appassionare a
qualcosa di utile, in particolare per un lavoro manuale che lo distraesse dalle sue idee deliranti. Per molto
tempo i Manicomi si erano mantenuti con rette irrisorie grazie alla prestazione di manodopera a buon
mercato dei propri ricoverati. I manicomi sorgevano per lo più in località isolate con il pretesto, avallato
dalla scienza del tempo, che esigeva per la terapia del silenzio, la tranquillità e la salubrità del clima. Il
personale di assistenza era ridotto al minimo e costretto ad orari e prestazioni incredibili: turni di sette
giorni ininterrotti di servizio, giorno e notte, per compensi irrisori; impossibilità (e a volte proibizione) per le
donne adibite all'assistenza dei degenti di contrarre matrimonio. La psichiatria del tempo considerava il
Manicomio come il luogo di eccellenza per la cura del malto di mente. Il Manicomio tra l’Ottocento e il
Novecento divenne la sede creata ad hoc per la cura della follia. La psichiatria a differenza di altre branche
della medicina soffriva di una marcata debolezza epistemologica e terapeutica. Il Manicomio, per tanto
luogo specializzato per la terapia rappresentava l’immagine del mondo psichiatrico vulnerabile e debole. Gli
psichiatri erano impegnati a fare del Manicomio un luogo di eccellenza clinica dimenticandosi lo scopo
essenziale della psichiatria cioè l’assistenza e le cure dei malati. A partire dagli anni venti e trenta del
Novecento il termine ospedale andò a sostituire quello di manicomio, per evidenziare come la nuova
struttura sanitaria avesse carattere di cura, di assistenza e di ricerca nonché di ricovero. Dopo la caduta del
fascismo e la fine della seconda guerra mondiale, il Paese non trovò per lungo tempo la forza di modificare
l'avvilimento delle istituzioni.
A partire dal dopoguerra il trionfo del Manicomio come luogo di cura e di ricerca cominciò ad andare in crisi
in tutto il mondo industrializzato. I Manicomi furono paragonati ai campi di sterminio dove i malati di
mente venivano nascosti, segregati, non accettati come esseri umani ma trattati come oggetti ed in quanto
tali usati come cavie per compiere esperimenti al limite della tortura.
Le cure come l’elettroshock, il coma insulinico, la lobotomia hanno causato la morte nel ventesimo secolo
di oltre duecentomila pazienti ricoverati presso molti Ospedali psichiatri europei; si è trattato di un vero e
proprio sterminio.
Nel 1952 arrivarono nei Manicomi gli psicofarmaci che riuscirono a velare, a intorpidire, ad ammorbidire i
molti volti della pazzia. I trattamenti farmacologici senza un programma di riabilitazione del paziente non
avrebbero mai portato alla diminuzione del numero dei posti letti nell’OP.
IL MOVIMENTO ANTIPSICHIATRICO
Franco Basaglia, psichiatra e neurologo italiano, professore e fondatore della concezione moderna della
salute mentale, nonché riformatore della disciplina psichiatrica italiana e ispiratore della cosiddetta “legge
Basaglia”, prima presso l’Ospedale psichiatrico di Gorizia e poi presso l’Ospedale psichiatrico di Triste, iniziò
a scardinare i cancelli della psichiatria, a liberare le persone rinchiuse a togliere il duplice marchio del
pericolo e dello scandalo che leggi e costumi per secoli avevano conferito alla follia ed ai folli.
I Poveri, gli scandalosi, i pericolosi cominciarono di nuovo a vivere, a raccontare i propri sogni ad essere
persone con un nome e cognome, un indirizzo, una professione, un stato civile, un conto in banca. Erano gli
anni che precedevano la legge 180 del 1978 che porta il suo nome e che sancisce la chiusura definitiva dei
manicomi.
La sua irripetibile grandezza è stata di aver capito che la psichiatria poteva rivoluzionare la storia del malato
mentale solo se si eliminava il suo “focus” che era rappresentato dal manicomio. Il movimento
antipsichiatrico accusava la psichiatria tradizionale di curare le persone affette da alienazione mentale con
l’emarginazione e magari con la contenzione fisica e chimica dando credito alla convinzione che i malati di
mente erano incurabili. Gli Ospedali Psichiatrici sono la dimostrazione di un fallimento sanitario che non
solo non cura il malto, ma alla lunga produce cronicità; una dimostrazione evidente sono i catatonici.
Le esperienze pratiche condotte a partire dagli anni sessanta e settanta in molte regioni italiane, tutte
incentrate sull’apertura del manicomio, hanno dimostrato che era possibile un progetto di cura e di
guarigione solo se si metteva fine al manicomio. Il malato poteva guarire soltanto se ritornava alla
normalità, seguito dai servizi sanitari, sostenuto dalla famiglia e se la società si faceva carico delle sue
patologie. Il pensiero della psichiatria democratica rivendica ed ottiene la liberalizzazione del malato grazie
al superamento dell’internamento manicomiale e l’affermazione dei diritti soggettivi dello stesso,
riconoscendogli” lo status di malato” come tutti gli altri e pertanto il diritto alla diagnosi ed alla cura.
LA LEGGE 180 DEL 1978
La 180 ha affrontato la libertà il diritto alla cura del malato in modo concreto cancellando la norma
immotivata della pericolosità del malato. Il diverso per la prima volta entra nelle nostre case, ci coinvolge
come individui e come società. I percorsi per la normalità del paziente psichico, per l’inclusione sociale si
sono moltiplicati grazie al movimento democratico. La legge 180 è uno dei trattati più importanti e
innovativi di una lunga battaglia per la conquista dei diritti umani e civili nel nostro paese, che contiene
gran parte dei caratteri liberatori di una lotta contro i luoghi comuni secolari cui era avvolta la malattia
mentale.
La legge 180 è stata applicata, con esiti alterni, solo in alcune zone d'Italia. In realtà, si è dovuto attendere il
1994, anno di varo della legge finanziaria n. 724, che ha previsto la chiusura di tutti i presidi manicomiali
ancora presenti sul territorio entro il 31/12/96, data di completa applicazione della legge 180. L’Italia è,
ancora oggi, l’unico paese dove la chiusura dei manicomi è stata sancita da una legge specifica.
LA LEGGE GIOLITTI N.35 DEL 14/02/ 1904 – DISPOSIZIONI SUI MANICOMI. CUSTODIA E CURA DEGLI
ALIENATI
Il 14 febbraio del 1904 venne discussa e votata in Parlamento la legge Giolitti "Disposizione sui Manicomi e
sugli alienati". Tale legge costituisce la prima norma dello Stato unitario in materia, che sancisce
l’istituzione dei manicomi anche se di fatto esistevano da tempo. Giolitti riuscì con il suo senso pratico a
portare rapidamente in porto la legge sui manicomi, riducendola a pochi articoli per facilitarne la
discussione e togliendo tutte quelle asperità che avrebbero potuto ostacolare la sollecita approvazione.
Il primo articolo individua il campo di applicazione elencando i soggetti destinatari “quali persone che
debbono essere custodite e curate nei manicomi”. L’articolo 1 della legge del 1904 stabilisce infatti:
«Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione
mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano
essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa
denominazione, agli effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali
vengono ricoverati alienati di qualunque genere. Può essere consentita dal tribunale, sulla richiesta del
procuratore del Re, la cura in una casa privata, e in tal caso la persona che le riceve e il medico che le cura
assumono tutti gli obblighi imposti dal regolamento. Il direttore di un manicomi può sotto la sua
responsabilità autorizzare la cura di un alienato in una casa privata, ma deve darne immediatamente notizia
al procuratore del Re e all'autorità di pubblica sicurezza».
L’ammissione in manicomio degli alienati inizia con la richiesta dei parenti nell’ordine in cui sono tenuti gli
alimenti, ovvero dai tutori, protutori o curatori da chiunque altro nell’interesse degli infermi e della società.
La domanda per il ricovero in manicomio va presentata al pretore o all’autorità locale di pubblica sicurezza
firmata dal Sindaco del Comune di residenza, unito al certificato medico.
Il Tribunale Civile e Penale di competenza presa in esame la requisitoria del Pubblico Ministero e le carte
annesse alla medesima, si riunisce in Camera di Consiglio e proferisce l’eventuale decreto di ammissione
provvisoria in manicomio. In casi d’urgenza la pubblica sicurezza può ordinare il ricovero provvisorio in base
al certificato medico, ma deve obbligatoriamente riferirne entro tre giorni al Procuratore del Re,
trasmettendogli il cennato documento.
La provvisoria ammissione doveva in ogni caso esser convalidata dall’autorità giudiziaria dopo un peridio di
osservazione che non doveva mai eccedere la durata massima di un mese. La legge parla di una relazione
che il direttore doveva rilasciare esprimendo un giudizio sul malato, sulla natura e sul grado della sua
malattia. La relazione doveva essere tale da illuminare il Tribunale, non solo sulla verità dell’alienazione, ma
anche sulla coscienziosità del giudizio direttoriale, per evitare al Tribunale una ulteriore perizia. Il Tribunale
ricorreva di rado ad una perizia di controllo, ma poteva e doveva assumere tutte quelle informazioni che
credeva necessarie, soprattutto nei casi di ricovero ordinato d’urgenza.
Nell’ipotesi che venisse esclusa l’alienazione mentale, il Tribunale ordinava l’immediato licenziamento dal
manicomio e tale ipotesi poteva essere oggetto di ulteriori indagini da parte del Procuratore del Re. Questi
aveva il compito di verificare l’esistenza o meno dell’errore frutto dell’imprudenza, negligenza imperizia,
oppure del dolo esaminando i documenti presi a base per il ricovero d’urgenza, onde valutare l’opportunità
di procedere penalmente contro i responsabili. Nel 1926 poi, si aggiunse la comunicazione al Casellario
Giudiziario. Anche il "licenziamento", dopo la proposta di dimissione per guarigione, era decretata dal
Tribunale riunito in Consiglio. Infine, ma non ultimo, se non altro per le sue conseguenze, era avversato il
criterio della massima economia nelle spese da parte delle Amministrazioni Provinciali. Queste erano
obbligate a provvedere alla custodia e cura degli ammalati pericolosi o di pubblico scandalo e non di tutti i
malati mentali. Non era disposto alcun obbligo di provvedere a servizi di Igiene e profilassi mentale, o
assistenza extra-ospedaliera d'altra parte, c'era alcun obbligo di possedere o gestire in proprio alcun
Ospedale Psichiatrico.
IL REGIO DECRETO N. 615 DEL 16 AGOSTO 1909. REGOLAMENTO SUI MANICOMI E SUGLI
ALIENATI
Nel 1909 venne promulgata in Italia, una legge finalizzata alla regolamentazione degli istituti di ricovero per
malati di mente; si tratta del Regio Decreto n. 615 del 16 agosto 1909 (che recepiva il “Regolamento per
l’esecuzione della legge del 14/02/1904 n. 36 su manicomi e alienati”). La maggior parte dei manicomi
esistenti allora erano a conduzione privatistica, senza alcuna regolamentazione o controllo da parte di
organi pubblici. La norma per la prima volta regolava il complesso sistema di istituti per l'assistenza
psichiatrica in cui dovevano essere custodite e curate le persone affette da alienazione mentale.
Il Direttore rimaneva la figura centrale, con il massimo potere decisionale e il controllo diretto sul personale
medico e di assistenza. Il Direttore del manicomio era un impiegato provinciale e quindi oltre ai titoli
scientifici, doveva godere pienamente dei diritti civili e politici. Il regolamento stabiliva che la nomina
avvenisse secondo il sistema del concorso per titoli che dava maggior garanzia all’Amministrazione ed ai
concorrenti. Come avveniva in linea generale per gli altri impiegati anche per il Direttore del manicomio la
nomina definitiva doveva esser preceduta da un biennio di prova, durante il quale l’Amministrazione
poteva procedere al suo licenziamento. Questo doveva esser determinato per giusta causa ed in sede
amministrativa poteva essere impugnato dall’interessato per ottenerne l’annullamento.
Nei confronti dei malati il direttore, doveva provvedere alla loro ammissione ed al loro licenziamento.
Seguendo le norme tracciate dalla legge e dal regolamento doveva provvedere alla loro cura fisica -morale
regolare anche i rapporti con le loro famiglie e con loro amici. Per il servizio interno prestava cure, studio e
faceva sì che tutto procedesse secondo il benessere dei ricoverati, dell’igiene, della sicurezza, del decoro
dell’istituto col dovuto riguardo alle finanze provinciali. Vigilava che le funzioni tra i suoi dipendenti fossero
regolarmente distribuite affinché medici, infermieri e sorveglianti adempissero ai propri doveri,
procedendo disciplinarmente nei loro confronti in caso di inottemperanza ed eventualmente denunciandoli
all’autorità competente per omissioni o fatti penalmente rilevanti. Vigilava su tutto ciò che concerneva il
servizio economico-amministrativo. Il direttore aveva per legge la facoltà di prender parte alle sedute della
Deputazione Provinciale delle Commissioni, dei Consigli.
Agli infermieri spettava il compito di sorvegliare ed assistere i malati affinché questi non potessero nuocere
a sé ed agli altri. Dovevano curarli e per quanto possibile adibirli a quelle occupazioni indicate dai medici
perché adatte all’indole e alle attitudine di ciascun malato. Il compito dell’infermiere era un ruolo di
custode ed esecutore di ordini. Dopo un corso di qualche mese ed il superamento di un esame veniva
assunto. Il rapporto di lavoro diventava stabile solo dopo due anni di lavoro in prova e gli elementi
valutativi si limitavano alla verifica dell’attenzione (nel controllo dei malati) e nello zelo dell’attività
lavorativa. La preparazione riguardava alcuni elementi di base di psichiatria e nozioni pratiche: come sedare
una crisi, mettere le fasce di contenzione, impedire il verificarsi di fratture nel corso dell’elettroshock-
terapia.
L’articolo 2 stabilisce che l’organico dell’Ospedale abbia: un primario, un aiuto, un assistente, un infermiere
ogni 3 posti, un assistente sociale ogni 100 posti. Il medesimo articolo dispone inoltre che oltre al Direttore
vi sia un medico igienista e uno psicologo. Erano previsti miglioramenti economici ai medici, per incentivarli
nel loro lavoro così gravoso e delicato. Erano previsti inoltre dei Centri di Igiene Mentale che potevano non
dipendere dal Direttore dell’Ospedale ed avere con una propria Direzione, affidata ad un Direttore
psichiatra che poteva disporre dell’aiuto di collaboratori quali: lo psichiatra, l’assistente sociale, l’assistente
sanitaria, l’infermiere e l’ausiliario.
L’articolo 4 introduce nel nostro ordinamento per la prima volta l’istituto del ricovero volontario, dando la
possibilità all’infermo di essere ammesso volontariamente negli ospedali psichiatrici per le cure necessarie
senza per questo subire alcuna restrizione della propria libertà personale. Una volta avvenuto il ricovero
volontario, il degente si trovava in una condizione giuridica identica a quella di tutti gli altri malati, potendo
essere dimesso a seguito decisione sanitaria. Questa disposizione che consente inoltre di trasformare il
ricovero coatto in volontario, previo accertamento del consenso del paziente, rappresenta una vera
innovazione per la cura del disturbo mentale.
La legge del 1968 prevede la possibilità di cercare spontaneamente le cure; si ammette con il ricovero
volontario in strutture psichiatriche pubbliche senza correre il rischio di essere internati (come prevedeva la
legge del 1904) e senza subire la registrazione nel Casellario Giudiziario che viene definitivamente abrogato.
Si affermano nuove figure professionali volte alla cura dei disturbi mentali quali: gli psicologi, gli
psicoterapeuti, i neurologi, gli assistenti sociali secondo parametri di personale molto precisi (per esempio
1 assistente sociale ogni 100 pazienti); si creano dunque corpi di saperi apparentemente indipendenti e
neutrali rispetto al manicomio e alle sue tradizionali funzioni.
La Mariotti non abroga tutte le disposizioni in vigore, per il fatto che lascia al medico di guardia il potere di
non accettare la nuova modalità di ricovero. Segna però un passo importante per la storia del Manicomio pur
lasciando al medico di guardia la facoltà di adeguarsi alle nuove regole, di fatto fa sì che alcuni medici che
credevano nell’evoluzione dell’OP, come luogo di cura, l’applicassero correttamente anche se la maggior
parte delle realtà psichiatriche rimassero immutate.
LA LEGGE BASAGLIA DEL 13 MAGGIO 1978, N. 180. ACCERTAMENTI E TRATTAMENTI SANITARI VOLONTARI E
OBBLIGATORI
La legge “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, trova la sua causa propulsiva più
immediata come appare dagli scarni resoconti delle Commissioni parlamentari, nell’esigenza maturata in
sede politica di evitare il referendum abrogativo della vecchia normativa sui manicomi e gli alienati legge
1904 n.36. Tale circostanza ha influito indubbiamente sui tempi di emanazione; il disegno di legge
governativo del 19 aprile è stato discusso ed approvato in soli 24 giorni compreso tutti gli adempimenti
formali.
La legge disciplina gli accertamenti e trattamenti sanitari volontari ed obbligatori per malattie mentali
riuscendo a coniugare due aspetti che si presentavano contrapposti fra loro; vale a dire quella di assimilare i
malati di mente a tutti gli altri malati ponendo fine alle discriminazioni di cui i primi erano destinatari e quella
di negare la necessità di ricoveri coatti negando che la malattia mentale potesse recare in sé comportamenti
pericolosi. Le disposizioni sono volte ad eliminare il principio “custodialistico” del concetto di pericolosità
sociale della malattia mentale riducendo l’ipotesi di ricovero coattivo ai soli casi di urgenza terapeutica
motivati esclusivamente in base a considerazioni di natura medica. Attraverso il nuovo procedimento il
ricovero della malattia mentale viene introdotto esclusivamente nella sfera della Sanità e svincolato da
collegamenti con ambiti di altra natura come la sicurezza pubblica.
Secondo la norma il ricovero non può avvenire in modo indiscriminato, ma soltanto se concorrono le tre
condizioni proposte della norma stessa alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici;
non accettazione di questi da parte del paziente; impossibilità di adottare tempestive ed idonee misure
sanitarie extra ospedaliere. Si ritiene pertanto necessario per poter aver luogo il ricovero e contemporanea
presentare delle condizioni predette. La convalida del ricovero obbligatorio è previsto nel caso di alterazioni
psichiche tali da richiedere interventi terapeutici non accettati dal paziente che si trova in uno stato di
malattia tale da alterare anche la capacità critica e di rappresentazione della realtà.
La legge 180 è stata votata dalla stragrande maggioranza del Parlamento, sia per l’incalzare di un referendum
abrogativo che per il clima tragico del caso Moro, dunque in pieno terrorismo; essa rappresenta però
un’innegabile forzatura rispetto a un’ampia parte della società italiana totalmente impreparata alla chiusura
dei manicomi. Pertanto ne è derivata quell’inevitabile applicazione tuttora denunciata «a macchia di
leopardo», per cui nelle zone e nelle regioni in cui non preesistevano esperienze di lavoro di de-
istituzionalizzazione, la 180 si è trovata a essere «figlia del nulla» (Saraceno) e, per molti anni, ha continuato
a essere inapplicata.
La Magistratura dei Pupilli dal 30 luglio 1393 assunse il compito di tutelare i minorenni il cui padre fosse
morto senza nominare un tutore, per salvaguardare i loro beni e le esecuzioni testamentarie. A partire dalla
metà del XV secolo ebbe inizio la tutela degli interessi anche di muti, sordi, furiosi, mentecatti, dementi,
prodighi o dilapidatori che come i minori erano incapaci di provvedere da soli ai propri interessi. Il Magistrato
si occupava per quanto concerne l’aspetto patrimoniale dei folli e dei prodighi appartenenti a famiglie
benestanti per i quali esisteva un problema di gestione patrimoniale. Per le classi dominanti veniva richiesta
raramente da parte della famiglia la carcerazione di un congiunto folle o prodigo. Alle persone considerate
incapaci di intendere e di volere venivano tolti tutti i diritti civili compresi quelli ereditari. Era un modo da
parte dei parenti di emarginare i personaggi più scomodi dalla famiglia stessa.
I magistrati e i giudici furono i primi che a loro modo si presero cura del malato di mente. Decidevano del
loro destino con estrema cautela attenzione e con rigore ricostruivano le prove, con l’ascolto paziente di
testimoni. Era stato il diritto, l’esperienza umana e personale del giudice ad avere, per lunghi secoli, il
privilegio di interpretare e di giudicare. La figura del malato era vissuta come una minaccia alla quiete
pubblica o all’ordine costituito, quando verso il Seicento, le città ed i poteri amministrativi si organizzarono
in forme proprie di società moderna, anche l’opinione pubblica si fece più sensibile nei confronti del folle.
IL MOTUPROPRIO 1838
Il motu proprio del 1838 prevedeva che nessuno potesse essere ammesso in Manicomio senza un decreto
del Tribunale Civile e Correzionale che ne autorizzasse la custodia provvisoria. Questo decreto era
pronunziato in base ad un certificato medico in camera di consiglio. Decorso un certo periodo di tempo
dall’ammissione e dopo un periodo d’osservazione che variava fra 15 giorni ed un mese, veniva tenuto un
consulto fra il Direttore ed il Medico dell’Istituto Manicomiale per stabilire se esistesse o meno, l’alienazione
mentale del nuovo ammesso. Il risultato di tale consulto, firmato da due medici, veniva inviato al Procuratore
del Re. In seguito il Tribunale emanava il decreto di definitiva custodia, o di libera dimissione nel caso non
fosse stata riscontrata l’alienazione mentale
.
CASTELPULCI
Il Governo Granducale decise allora di acquistare la bella Villa di Castepulci situata a Scandicci, poco distante
dalla città. In occasione del colera che colpì la città di Firenze nel 1854, furono trasferiti alla Villa in via
provvisoria, una parte dei malati della provincia mentre i malati provenienti da Arezzo, Pisa e Livorno furono
traslocati al Manicomio di Siena. Il Governo della Toscana decise con il decreto del 28 dicembre del 1859 di
utilizzare Castelpulci come sede succursale permanente del Bonifazio, destinato ai dementi cronici e tranquilli
meno bisognosi di cura e di rigorosa sorveglianza. Il trasferimento avvenne in due momenti diversi: nel 1861
furono condotti 100 uomini, mentre nel 1864 fu inviata una sezione femminile.
Nel 1973 si ha la chiusura definitiva della sede succursale di Castelpulci. La villa ospitò tra le sue mura il grande
poeta Dino Campana tra il 28 gennaio del 1918 e il primo marzo del 1932, anno della morte per setticemia
primitiva acutissima. Venne sepolto nel cimitero di San Colombano e traslato per iniziativa di Bargellini e
Falqui nel 1942 nella chiesa di Badia a Settimo.
La cartella clinica del poeta è andata perduta; il resto della documentazione relativa alla gestione della Villa
è conservata presso l’archivio del San Salvi. Dopo tanti anni di completo abbandono, nel 2002 iniziarono i
lavori di ristrutturazione e dal 2012 è diventata sede unica della Scuola Superiore della Magistratura.
Nel 1891 fu inaugurato il nuovo Manicomio fiorentino intitolato alla memoria del grande alienalista Vincenzo
Chiarugi che andava a sostituire la vecchia struttura del Bonifazio. La nuova sede sorgeva in una zona
periferica della città conosciuta come San Salvi più adatta a soddisfare le esigenze di ampliamento della
struttura rispetto al centro storico. I lavori di costruzione furono affidati all’ingegnere Giacomo Roster sotto
la direzione di Tamburini.
La tipologia architettonica dell’Istituto risultava di “tipo misto”, cioè una parte era destinata ai servizi generali
ed una parte a padiglioni distaccati per sesso e tipologia di malattia. Il Manicomio venne costruito cercando
di sfruttare al meglio gli spazi interni secondo le pratiche mediche utilizzate per la cura quotidiana della
malattia mentale.
Il palazzo principale ospitava al pian terreno gli uffici sanitari, quelli dell’amministrazione e i due parlatori. Il
piano superiore era adibito all’abitazione del Direttore e del Vice-Direttore. Il fabbricato dei servizi generali
comprendeva la cucina e la dispensa al pian terreno, sul retro vi era la galleria per la distribuzione degli
alimenti ai diversi padiglioni. Il primo piano ospitava il guardaroba, mentre al secondo vi erano le abitazioni
delle suore. I malati venivano ospitati a secondo del sesso e della pericolosità sociale nei seguenti padiglioni:
Tranquilli; Infermi e Paralitici, Semiagitati, Sudici ed Epilettici, Agitati e furiosi, Pesionario e Sezione piccoli
paganti.
VERSO LA CHIUSURA
A partire dal 1959 sotto la direzione del Prof. Nistri venne applicata con successo la terapia occupazionale del
disegno. Questa terapia aiutava i malati ad esprimere tutto il loro malessere e nello stesso tempo, li stimolava
ad avere rapporti interpersonali significativi attraverso la creta e la pittura. All’interno della struttura venne
creata la Tinaia, laboratorio creativo con l’intento di sperimentare con un gruppo di degenti l'effetto di un
impegno quotidiano in attività come la ceramica, il disegno, la pittura in uno spazio diverso dal reparto ove
erano diversi anche i rapporti tra operatori e pazienti.
“
LA STANZA DI OSSERVAZIONE DELL'OSPEDALE S.CHIARA DI PISA
Le stanze di osservazione dell’Ospedale di Santa Chiara svolgevano sul territorio pisano un ruolo di prima
accoglienza per i malati internati d’urgenza affetti da disturbi psichici. La presenza di “maniaci” all’interno
dell’ospedale è testimoniata dal Regolamento del Regio Spedale di Santa Chiara del 1784. Il Regolamento
parla di alcune stanze dedicate ai deliranti presso i reparti per gli uomini. Si tratta di un luogo appartato dove
sono ospitati i soggetti deliranti e idrofobi, tenuti legati e isolati per non recare disturbo e pregiudizio agli
altri pazienti. La prima osservazione e le relative cure avvengono in queste stanze dove si decide la dimissione
del malato o il passaggio all’istituto manicomiale. Se le prime cure erogate non portano nessun beneficio i
malati considerati incurabili vengono inviati al Santa Dorotea e a partire dal 1788 al Bonifazio. I due ospedali
fiorentini diventano il passaggio naturale di tutti i malati furiosi del territorio pisano.
Nella prima fase il malato veniva accolto da un medico che si occupava della compilazione della modula
informativa; ove venivano registrati i dati personali del malato, la sua storia clinica e il suo comportamento.
In caso di accessi di violenza potevano essere usate pratiche di contenimento accompagnate dalla
somministrazione di farmaci per calmare il paziente.
Il riconoscimento dell’alienazione mentale era sempre legato a problemi di carattere economico e di gestione
degli spazi dell’Ospedale. Le amministrazioni locali spingevano i medici a fare consulti meno minuziosi e in
tempi brevi in quanto la permanenza nelle stanze di osservazione aveva un costo troppo oneroso per loro. I
malati più tranquilli venivano affidati alle cure domestiche, nei casi in cui la famiglia non era in grado di
occuparsene venivano allora rinchiusi nelle case di mendicità che erano istituti meno costosi rispetto alle
strutture manicomiali. Solo i malati più gravi quelli considerati un pericolo per la società venivano inviati in
manicomio.
- IL REPARTO FERRI
Il Ferri era la sezione giudiziaria separata dal resto dell’Ospedale civile da mura di cinta provviste di rete
metalliche altissime munite di filo spinato. L’ingresso era sbarrato da un’enorme cancello che veniva
sorvegliato giorno e notte da robusti custodi, mentre il cortile interno era riservato ai paziente per prendere
aria. L’edificio poteva contenere dalle 450 alle 500 persone ed era stato costruito secondo criteri
architettonici che ubbidivano ai principi di custodia coatta.
Il lavoro dei ricoverati aveva reso in parte autosufficiente l’Ospedale tanto che era stato possibile applicare
una retta giornaliera inferiore rispetto a quella degli altri Istituti. In un certo senso era come se gli stessi
malati si autofinanziassero. L’ergoterapia poteva trasformarsi in sistematico sfruttamento dei ricoverati. Non
a caso una delle critiche spesso rivolte a Scabia era la spregiudicatezza e una sorta di imprenditorialità
dell’assistenza psichiatrica. Intorno al manicomio gravitava un forte interesse economico in quanto ben 600
famiglie del paese vi trovavano l’unico mezzo di sostentamento.
Nel maggio del 1934 Scabia andrà in pensione all’età di settant’anni morirà pochi mesi dopo a causa di una
crisi cardiaca in una camera dell’albergo Etruria nel centro di Volterra. Volle essere sepolto nel settore del
cimitero nel quale si seppellivano i poveri dementi non reclamati dalle famiglie. Gli anni che seguirono la
morte di Scabia sono segnati da una grave crisi del manicomio un tempo così fiorente. Al manicomio che un
tempo riceveva ammalati provenienti da numerose provincie (Imperia, Porto Maurizio, Spezia, Pisa, Livorno,
Massa, Grosseto) agli inizi degli anni cinquanta gli rimasero solo Livorno e Pisa
.
DOPO SCABIA
La diminuzione dei ricoveri è stata progressiva e costante, determinata da cause diverse. La morte del
Professore Scabia aveva allontanato molta clientela dalle provincie della Liguria dove il direttore era
conosciutissimo. Venendo meno il rapporto di fiducia avevano preferito indirizzare i propri malati verso altri
manicomi più vicini, salvo costruirsene addirittura dei propri.
L’Ospedale era diventato un vero e proprio carcere dove vigeva un sistema gerarchico piramidale; il primario
impartiva gli ordini allo staff che li eseguiva e i pazienti subivano. Non c’era più nessun tipo di rapporto fra
ricoverato e infermiere, anzi quest’ultimi venivano chiamati guardie. Nel 1950 la provincia di Pisa per far
fronte ai gravi problemi economici dell’Istituto aveva proposto la costituzione di un Consorzio che legasse le
provincie di Livorno, La Spezia, Massa, Grosseto per il suo acquisto. Interpellate le relative Amministrazioni,
Livorno si dichiarò favorevole, Spezia non prese nessuna decisione, Massa e Grosseto si dichiararono contrari.
L’Ospedale di Volterra chiuse definivamente i battenti grazie alla legge Basaglia del 1978. La storia della
malattia mentale è stata raccontata nel libro graffito realizzato sul muro del reparto Ferri da parte di Nannetti
Fernando Oreste ricoverato nella sezione giudiziaria nel 1958 per oltraggio ad un pubblico ufficiale.
NANNETTI ORESTE
Nasce a Roma il 3 gennaio del 1927 da Concetta Nannetti e da padre ignoto, a sette anni è accolto in un
istituto di carità per poi passare ad una struttura per minorati psichici. Successivamente trascorre un lungo
periodo all’ospedale Forlanini di Roma per curare una grave forma di spondilite. Oreste Fernando Nannetti
fa il suo ingresso al manicomio di Volterra nel 1958, con l'accusa di oltraggio a pubblico ufficiale e per questo
confinato nel reparto giudiziario. È nella sezione giudiziaria del reparto Ferri che il Nannetti inizia il suo
capolavoro. Si firma NOF4, un acronimo del suo nome (Nannetti Oreste Fernando), dove il 4 probabilmente
è riferito ai luoghi dove è stato rinchiuso, orfanotrofio, carcere, due manicomi. Muore a Volterra il 24 gennaio
del 1944 senza aver più visto la sua città ed i parenti sempre presenti nel suo ricordo.
È nella sezione giudiziaria che il Nannetti compie il suo grande capolavoro realizzando 180 metri. Utilizzava
la fibbia della sua divisa per incidere sul muro tutto il suo mondo interiore attraverso disegni, segni e parole.
Nannetti era chiuso in un completo mutismo è il graffito rappresentava l’unico mezzo di comunicazione.
Personaggio chiave di questa storia è l’infermiere Aldo Trafeli che ha conosciuto più da vicino Nannetti e che
l’ha aiutato ad interpretare il graffito. La tecnica usata da Oreste era prima disegnare sul muro un contorno
di pagina e poi riempirlo con tutti i suoi pensieri e stati d’animo. L’opera venne scoperta per caso solo dopo
la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico e suscitò grande interesse anche da parte della critica straniera in
quanto è considerata una rappresentazioni unica dell’Art Brut.
L’opera che è stata tanto apprezzata all’estero quanto sottovalutata nel nostro paese che l’ha lasciata per
anni in un completo stato di abbandono. Nel 2010 nasce la Onlus Inclusione Graffio e Parola che ha lo scopo
di salvaguardare e musualizzare i graffiti di Nannetti che nel tempo purtroppo sono andati persi. La Onulus
è riuscita a sensibilizzare la regione Toscana che una volta scoperta l’opera ha deciso di stanziare i fondi per
il distacco e il restauro dei graffiti. Nel 2013 il graffito è stato staccato.
Nel 1901 tuttavia almeno uno dei padiglioni era già stato completato e vi furono trasferite le degenti donne
della sezione femminile, con un notevole aggravio dal punto di vista organizzativo, vista la collocazione
decentrata della nuova sede, sia rispetto all’asilo in cui erano rimasti i reparti maschili, sia rispetto
all’ospedale civile da cui dovevano muoversi giornalmente i sanitari.
I problemi organizzativi, ma soprattutto il significativo continuo aumento del numero degli internati,
indussero l’amministrazione dell’ospedale a bandire un concorso per l’assunzione di un medico alienista cui
affidare la direzione sanitaria della struttura. Vincitore del concorso fu il dottor Guido Gianni, che prese
sevizio il primo giugno 1901 e mantenne l’incarico per tre anni prima di essere costretto alle dimissioni,
poiché coinvolto in inchieste giudiziarie. L’inchiesta aveva riguardato gli abusi sessuali da parte di alcuni
medici ed infermieri nei confronti delle ricoverate. Nonostante caddero tutti i capi d’accusa, molti dubbi
continuarono ad aleggiare nell’opinione pubblica. A sostituire il dottor Gianni fu il dottor Arnaldo Pieraccini
che avrebbe ricoperto il ruolo di direttore del manicomio per quasi cinquanta anni.
Il Manicomio aretino venne costruito sopra il colle denominato del Pionta poco distante dalla stazione. La
scelta ricadde in una zona di aperta campagna non lontano dalla città, che dava però la possibilità di poter
ampliare con il tempo la struttura.
Erano state create due Colonie industriali e due Colonie agricole, dove i malati lavoravano nelle ore diurne
per fare poi ritorno a sera nei propri Reparti clinici. Gli uomini venivano impiegati nei lavori agricoli, nei
laboratorio di di sartoria, di calzoleria e di falegnameria o nei vari reparti per le pulizie interne occupati come
imbianchini, o come manovali. Le donne lavoravano alla confezione dei vestiti sia invernali che estivi dei
ricoverati, al lavaggio degli abiti e della loro riparazione, nonché alla lavorazione della paglia. Era presente:
una sala da ballo, un teatro all’aperto, un cinematografo ed una biblioteca.
Durante la direzione di Pieraccini al malato era riservato uno spazio affinché si potesse sentire libero e non
avesse la sensazione di essere rinchiuso. A tale scopo la perimetria del Manicomio era segnata da un semplice
filo spinato e lo stesso ingresso principale era aperto, segnalato simbolicamente da viali alberati. Anche i
reparti erano stati arredati con mobilio che si avvicinava a quello privato e le inferriate alle finestre erano
previste soltanto per il Reparto degli agitati. Anche per i malti più irrequieti erano consentite attività
ricreative per combattere la noia e l’inattività.
L’Ospedale aveva applicato fin dal 1906 il trattamento del no restraint che prevedeva l’abolizione dei mezzi
di contenzione per tutti i malati anche per quelli agitati. Il trattamento aveva il grande vantaggio di mantenere
il malato più tranquillo e pertanto era possibile limitare la somministrazione di sedativi e di ipnotici. L’istituto
era comunque provvisto della attrezzatura per i trattamenti di elettroschok.
Risale al 1907 l’utilizzo invece dei cosiddetti gruppi clinici che erano costituiti da pochi malati e talvolta anche
da uno solo, da affidare ad uno o più infermieri esperti, per aiutarli ad abituarsi alla vita dei reparti ed a
stimolarli all’attività del lavoro.
Altro metodo innovativo era la custodia domestica per i fatui che venne applicato con grande successo. Oltre
la custodia omofamiliare, etero familiare vi era quella mista che veniva chiamata “tipo Pieraccini” che
consisteva: “il malato doveva recarsi durante il giorno all’interno dell’istituto per svolgere le varie attività di
laboratorio, ma durante la notte e il periodo festivo veniva affidato alla famiglia”. La custodia dei fatui così
erano chiamati i pazzerelli più tranquilli, era autorizzata dalla Deputazione provinciale e veniva approvata per
i pazienti riconosciuti obbligatoriamente «malati abili» ai sensi delle vigenti disposizioni giuridiche.
All’interno del manicomio erano previsti i Servizi provinciali d’igiene e profilassi mentale, che si limitavano:
alla visita dei fatui tranquilli affidati alle famiglie, ai sordomuti ai quali era proposta un’istruzione specifica ed
a tutti i malati dimessi in esperimento per i quali erano previste visite di controllo periodiche. Oltre ai vari
reparti che ospitavano i malati a seconda della loro patologia, vi erano: il Reparto di osservazione e di vigilanza
continua per i tranquilli e per quelli agitati, il Reparto infermeria isolamento t.b.c.
Nel 1926 il Manicomio di Arezzo fu uno dei primi in Italia a trasformarsi in Ospedale neuropsichiatrico
provinciale, applicando l’assistenza medica ai pazienti con problemi al sistema nervoso. Alla fine dello stesso
anno fu costruito un Padiglione Neurologico che venne preso come esempio da altri ospedali psichiatrici. Nel
Padiglione erano presenti apparati di diagnostica e di terapia fisica. Vi era un centro di radiologia ed una sala
operatoria di neuro-chirurgia. Il Padiglione venne distrutto nel 1943 durante un bombardamento aereo che
colpì l’edificio, primo di una lunga serie che non risparmiò feriti e morti. I bombardamenti furono più di cento
e portarono la distruzione: della Colonia agricola maschile, del Panificio e dei due Reparti per i malati inquieti.
L’Istituto venne occupato e adibito ad officina per le riparazioni dei mezzi pesanti.
Il Manicomio fu costretto a chiudere temporaneamente; i malati vennero trasferiti presso il manicomio di
Siena grazie ad un accordo con il direttore Antonio D’Ormea. Il 1950 segna la fine dell’era Pieraccini che andò
in pensione all’età di ottantacinque anni ed al suo posto fu nominato Marino Benvenuti.
Il nuovo direttore nei primi anni del suo incarico si dovette occupare della ricostruzione degli edifici che erano
stati fortemente danneggiati durante i bombardamenti. Nel 1957 venne inaugurato il nuovo Padiglione
neurologico che era stato fortemente voluto da Pieraccini e che era l’orgoglio della Provincia.
Alla fine degli anni cinquanta la storia del Manicomio aretino fu segnata da un forte declino nonostante i
lavori di ristrutturazione a cui l’istituto venne sottoposto. Tanto che la provincia pensò a nuovi lavori di
ammodernamento per rendere l’Ospedale più efficiente alle nuove terapie, che la scienza del tempo
imponeva. Tale progetto non fu portato avanti poiché agli inizi degli anni sessanta i Manicomi italiani furono
coinvolti dal movimento democratico, che rivoluzionò la psichiatria e che portarono alla loro definitiva
chiusura.
Nel maggio del 1969 Bevenuti andò in pensione per limiti di età; prese il suo posto Agostino Pirella che era
stato primario anni prima dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia e condivideva le idee innovatrici del suo collega
Franco Basaglia. Il nuovo direttore si pose come primo obiettivo quello di aprire la struttura sulla base delle
esperienze mature a Gorizia. I primi provvedimenti furono rivolti a migliorare le condizioni dei ricoverati
diminuendo la somministrazione degli psicofarmaci e restituendo loro la libertà.
L’Ospedale Psichiatrico di Arezzo, insieme ad altre realtà italiane come Gorizia, Trieste, Perugia, Parma,
furono coinvolti dal movimento scientifico e politico che portò alla chiusura dei manicomi ed alla nuova legge
sulla materia. Pirella lasciò la direzione nel 1979 poiché considerava ormai conclusa la sua esperienza aretina.
Prese il suo posto Vieri Marzi che era stato il suo vice a Gorizia e fu lui ad occuparsi della delicata fase di
chiusura della struttura. L’Ospedale Psichiatrico di Arezzo fu uno dei primi a chiudere nel 1989.
I vecchi edifici del Pionta, che un tempo custodivano i malati di mente oggi ospitano alcuni uffici dell’Usl e gli
studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia. Nella Palazzina dell’Orologio sede storica della Direzione
dell’Ospedale, è conservato l’archivio storico e la biblioteca. La memoria dei più importanti edifici è ricordata
da lapidi. Nel 2001 venne fondato il Centro Franco Basaglia con lo scopo di ricordare l’ingiusta sofferenza
inflitta al malato di mente. Una statua dedicata alla memoria dei malati di mente fu collocata nel 2009
all’ingresso dell’ex ospedale psichiatrico, a 30 anni dall’approvazione della legge 180. L’iniziativa fu proposta
dal Centro di promozione per la salute "Franco Basaglia" di Arezzo.