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“Il paradosso democratico”

Nel capitolo precedente, è stato messo in luce che la questione di come i confini si
manifestano è strettamente legata a quella, parallela, di come vengono percepiti e
rappresentati. Inoltre, ho già accennato al fatto che la contemporaneità è caratterizzata dal
proliferare di frontiere escludenti, e in molti casi militarizzate, costruite per marcare le
distanze tra stati più ricchi ed altri più poveri. In questo secondo capitolo, analizzo le
strategie narrative messe in atto, più o meno consciamente, dagli Stati-nazione occidentali
per portare avanti una tale gestione politica. Pertanto, quella che presento, ripercorrendo
alcuni studi di Fassin e Balibar, è un’operazione di decostruzione e storicizzazione di
questo fenomeno. Si tratta di ripercorrere i passi celati che hanno portato il mondo
cosiddetto sviluppato a costruire la propria identità in termini di negazione, e
all’occorrenza eliminazione, dell’altro. Parlo di passi celati perché, nel contesto di
un’universalizzazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, a seguito dei drammatici eventi
della Seconda Guerra Mondiale, non potendosi svolgere alla luce del sole senza
ripercussioni sulla legittimità stessa delle istituzioni, queste operazioni sono state
accompagnate da una narrazione ambivalente del sistema democratico e della
cittadinanza. Ciò che ne deriva è la costruzione di una gerarchia di accesso a diritti e
risorse, in base alla quale si delineano tipi umani di prima o seconda classe. Data l’estrema
evidenza di una tale dinamica all’interno della gestione dei flussi migratori, questi ultimi
assumono uno spazio di rilievo all’interno della riflessione. Tuttavia, dal momento che
questi fanno capo ad un modus operandi ben più ampio, accanto all’analisi delle frontiere
esterne, il discorso affronta anche il tema delle “frontiere interne”, in base alle quali
esistono anche cittadini di prima o seconda categoria. Infine, dopo aver districato l’insieme di
queste problematiche, e aver quindi ricondotto l’universalità dei diritti umani alla
limitatezza della sua produzione storica, concludo l’argomentazione con un appello al
futuro. Riprendo la nozione arendtiana di “diritto ai diritti” e la assumo come criterio da
cui partire per istituire, nell’orizzonte della globalizzazione, forme di cittadinanza e di
democrazia più includenti.

Una riflessione sul significato delle istituzioni politiche

Nell’orizzonte europeo, parlare di confini ha negli ultimi decenni portato ad affrontare


nodi nevralgici delle società contemporanee. Contrariamente alle aspettative, infatti, come
già detto altrove, la fine della Guerra Fredda ha dato il via ad un incremento dei
dispositivi di frontiera negli stati-nazione, fenomeno accompagnato da una forte
insistenza su forme identitarie nazionalistiche o regionalistiche. Data l’estrema rilevanza
di questo fenomeno, alla luce delle ripercussioni pratiche e drammatiche che comporta
sulla vita di milioni di persone, è opportuno inquadrarlo con attenzione.
Nel prossimo capitolo mi concentrerò sui risvolti pratici e quotidiani di questo modus
operandi tramite la testimonianza di Shahram Khosravi. Anche qui di seguito non
mancheranno riferimenti empirici; tuttavia dove nel caso di Khosravi è la pratica della
persona ad assumere totale centralità, questa capitolo si sofferma invece sulla pratica
dell’istituzione. Il focus di queste riflessioni prende le mosse dalle ricerche di Fassin e
Balibar, rispettivamente, antropologo politico e filosofo politico. Nello specifico, del primo
autore ripercorro alcune considerazioni sulla democrazia come istituzione, del secondo
invece sulla cittadinanza, due questioni piuttosto interrelate.

In realtà, a lungo queste due discipline hanno avuto la tendenza a studiare il politico in
termini di struttura e funzione. Tuttavia, sul finire del secolo scorso, si può riscontrare uno
slittamento di analisi dall’ambito dell’organizzazione all’oggetto politico stesso.
Conseguentemente, l’istituzione politica, nella sua manifestazione pratica, ha perso di
integrità e coerenza interna e, ricondotta alla temporalità, è invece emersa come causa e
conseguenza di dinamiche socio-politiche inevitabilmente contestuali. Gli esiti di una tale
operazione epistemologica sono indubbiamente rilevanti. Re-inserire nella dinamica
storica istituzioni oggi rappresentate come date, immutabili e coronate da un’aura di
astrazione, permette di svelarne le ambiguità alla base, i fondamenti espliciti e quelli celati.
Scopo di questa operazione è quello di rendere evidenti, oltre alle conseguenze, anche le
reali responsabilità di un tale operare.

Dando una definizione di “democrazia”, Fassin parla di “sistema politico di uscita dal
politico” (Fassin, 2014). Per quanto in-logica possa apparire - come, tra l’altro, sottolinea
anche Balibar riprendendo a inizio testo la nozione di “paradosso democratico” di Chantal
Mouffe - tale definizione è senza dubbio indicativa dell’inadeguatezza di un tale
ordinamento rispetto alle problematiche odierne.

A questo punto ritengo utile fare una breve precisazione prima di continuare. Critiche alla
democrazia come alla cittadinanza sono spesso respinte attraverso il riferimento a
totalitarismi, all’assenza totale di libertà e rappresentanza popolare che li caratterizza,
sottintendendo così l’impossibilità di assumerli come alternativa. Grosso modo si tratta
della stessa dinamica che si innesta quando, ponendosi di contro al sistema capitalista, ci si
ritrova a discutere di comunismo. Tuttavia, riprendendo Geertz in Mondo globale, mondi
locali, “il nostro modo di pensare deve cambiare se vogliamo dire qualcosa di utile su
questo mondo” (1999, p. ??): pensare per alternative non può dunque più essere inteso in
termini di semplici opposizioni binarie. Dunque, evidenziare contraddizioni e
manchevolezze nei sistemi democratici e nell’istituzione della cittadinanza/e, tanto care al
mondo occidentale, non significa rinnegare le conquiste, in termini di emancipazione e
diritti, che hanno attraversato la storia europea negli ultimi secoli, bensì ricondurle al loro
contesto di produzione ed esplicitarne la limitatezza.

Il carattere circoscritto dei principi democratici è reso evidente dal dilagare di


disuguaglianze in tutto il mondo, non ultimo all’interno di quello occidentale. Fassin
spiega questa dinamica affermando come a fondamento delle moderne democrazie vi sia
un doppio processo di valutazione della vita. Da un lato, la vita in sé viene sacralizzata -fa
in ciò riferimento alla nozione di homo sacer, esistenza come “nuda vita”, di Agamben.
Dall’altro, le vite, intese come manifestazioni plurali e particolari dell’idea vita, esistono
sotto forma di disuguaglianze; sempre riprendendo Agamben, si può qui parlare di vite
sacrificabili e non. Dunque, se, come dice Aristotele, “la politica ha la vita come fine e la
morale come principio”, esplicitare in che modo vengano considerate alcune vite, e in che
altro modo si pensi ad altre, significa rendere manifesta l’”economia morale” di un
ordinamento politico, i suoi presupposti d’azione. Politiche e morale soggiacente vanno
infatti di pari passo e rispecchiano quanto uomini e donne di volta in volta stabiliscono
come tollerabile o meno. Ciò sottolinea il carattere geo-storicamente contestuale della
morale, la quale non a caso rimanda al concetto di intollerabilità. Così, quando Fassin parla
di “ripoliticizzare il mondo”, si appella alla necessità di porre alta la questione di cosa è
per noi occidentali tollerabile che accada, e cosa non lo è, e, poi, del perché di questa scelta.

Personalmente, trovo quest’ultimo punto di notevole rilevanza prospettica. Assumere la


morale e la tollerabilità come punto di partenza del “fare” politico, istituzionale come
anche del singolo, dona centralità all’intenzione piuttosto che alla norma. Rispetto a
quest’ultima, spesso e volentieri percepita come calata dall’alto o naturalizzata,
l’intenzionalità ha infatti il grande vantaggio di essere alla portata di ciascun individuo.
Portare alla luce la reale intenzione motrice di una qualsiasi azione, rende poi evidente la
consequenzialità tra quest’ultima e l’esito prodotto. Infine, una volta esplicitata
l’intenzione e il processo che la lega alla realtà dei fatti, il soggetto agente può finalmente
riconoscersi come portatore di tale intenzione e, a questo punto, padrone della propria
volontà, può mutarne il contenuto. In altri termini: è sul piano della tollerabilità che
bisogna lavorare per rispondere alle crisi della contemporaneità. Non si tratta di trovare
una soluzione specifica traducibile in politiche sociali determinate da applicare
universalmente -come mostra il fallimento dello “politiche di sviluppo” riconducibili al
cosiddetto Washington Consensus1. Piuttosto, si tratta di creare le condizioni di pensiero e
sensibilità tali da portare gli individui stessi ad attivarsi positivamente nei confronti dei
singoli casi. Pensare una soluzione unica e generale alla disuguaglianza globale è
strutturalmente privo di senso, se non in un’ottica di ri-produzione costante dello status
quo.

Considerazioni di analoga portata sono avanzate anche da Balibar in Cittadinanza. A suo


dire, infatti, la cittadinanza, così come esiste nella contemporaneità, soffre di un eccessivo
sbilanciamento della relazione tra costituzione e insurrezione - legame fondativo della
democrazia e del tipo di cittadinanza che essa produce - a favore del primo termine.
Tornerò a breve sulle dinamiche e implicazioni di questo binomio aporiaco. Per il
momento, è importante sottolineare come questo disequilibrio abbia significato la delega
quasi totale del potere politico alle istituzioni e, con esso, del potere di esclusione dalla

1
Il termine venne coniato nel 1989 dall’economista John Williamson per descrivere un insieme di dieci direttive di
natura economica da destinare alla ripresa dell’America latina dalla crisi degli anni ’80. L’insieme di questo pacchetto
divenne a breve paradigmatico delle politiche di sviluppo rivolte a tutti i paesi del Terzo mondo. Tuttavia, in questa
seconda riformulazione, assunse direttive di stampo nettamente liberista.
categoria di cittadinanza. La conseguente formazione di una “cittadinanza passiva”,
mancando di partecipazione diretta, produce quindi una sensazione di de-
responsabilizzazione del singolo e della comunità nei confronti del politico. Non a caso,
dove il rapporto tra comunità e politica non si traduce in termini di partecipazione attiva,
esso prende le forme della rappresentanza. E questo pone, a sua volta, la seguente
domanda:

se la comunità politica funziona come un “club” nel quale si può essere ammessi e dal quale ci si può veder
rifiutato l’accesso, ci si deve domandare come i “membri di diritto” siano stati cooptati, come abbiano
stabilito le regole di ammissione e come si traduca la loro partecipazione attiva nella preservazione di quelle
regole. […] Tutto ciò vuol dire che è la comunità che esclude, non soltanto nella forma di regole e procedure
burocratiche, ma anche nella forma di un consenso dei suoi membri. (Balibar, 2012, p. 102).

Come Fassin, dunque, benché in altri termini, anche Balibar si richiama alla volontà e al
pensiero dei membri come strumento di possibile ampliamento dell’orizzonte pratico dei
diritti. Prospettiva, quest’ultima, diametralmente opposta a quanto le dinamiche del
presente suggeriscono. Ciò che si riscontra mostra infatti la tendenza a rappresentare il
diritto su un piano astratto, incorporato dalle istituzioni e di difficile accesso.

Il filosofo francese decostruisce questa dinamica a partire da alcune riflessioni sul mondo
greco. Parte dalla definizione aristotelica di regime politico democratico come implicante
la sovranità dei suoi cittadini. “Sarebbe contradditorio, dice Aristotele, che il potere non
appartiene in ultima istanza a coloro a beneficio dei quali è istituito” (id., p. 26). Così
dicendo, sotto il nome di politèia, teorizza un’assoluta identità tra la comunità dei cittadini
e la sfera del potere. Riguardo a ciò, tuttavia, è opportuno sottolineare come questa totale
corrispondenza, caratterizzata dalla circolazione dei poteri e dal reciproco riconoscimento
delle parti come pari, fosse possibile all’interno della pòlis greca solo a patto di una pesante
restrizione dei membri della comunità stessa. L’inclusione assumeva quindi carattere
universale e intensivo a fronte di un’estensiva pratica di esclusione. Difatti, è questa
l’istituzione politica alla quale le moderne costituzioni democratiche dicono di richiamarsi.
A questo punto, sempre in Cittadinanza, Balibar si chiede quanto di questo nucleo fondante
si è riproposto all’interno delle successive forme di sovranità popolare? Che forme ha
assunto? E soprattutto, nel contesto della globalizzazione odierna, in che senso è possibile
parlare di reciprocità tra comunità di cittadini e potere politico? Per districare tali quesiti
diviene utile fornire una traduzione del termine politéia. Quest’ultima è intesa da Balibar in
termini di “costituzione di cittadinanza”. Così, già da questo primo appunto, è possibile
dedurre il carattere processuale di questa categoria. Dalle poléis greche ad oggi, inutile
dirlo, le forme di cittadinanza sono mutate notevolmente. Per esempio, mentre al tempo di
Aristotele si poteva parlare di “costituzione materiale”, fondata sull’interazione -
eventualmente conflittuale - tra le parti, la modernità prolifera di “costituzioni formali”,
dove la sovranità è subordinata a norme fondamentali metagiuridiche. La tensione già
inerente al concetto di politéia, ossia “il […] differenziale di attività e passività - presente
anche all’interno della polis sottoforma di quelli che Rancière chiama i ‘senza parte’ - o di
democrazia e oligarchia, non è stata in alcun modo risolta dalla teoria delle costituzioni
moderne, ma piuttosto portata a un livello superiore” (Id). Infatti, le esigenze di reciprocità
sono ora totalmente subordinate a quelle di ordine pubblico, volte a regolare il conflitto
sociale. “È necessario comprendere che la cittadinanza, in quanto idea politica, comporta
indubbiamente un riferimento alla comunità, tuttavia, non può avere la sua essenza nel
consenso dei suoi membri”(Id). Questo sarebbe infatti possibile solo presupponendo la
comunità come in sé omogenea, cosa che nei fatti, poiché irreale, non può che produrre
alienazione.

La categoria di esclusione, ora mostrata come inevitabilmente implicata nel processo di


costituzione della cittadinanza, risulta estremamente affine alla nozione di frontiera.
Infatti, entrambe sono pratiche politiche territorializzate, inerenti cioè l’occupazione di
uno spazio, pensato come metaforico o letterale, fisico o sociale. Inoltre, proprio in virtù di
questo riferimento spaziale, rispondono tanto alla sfera storica tanto quanto a quella
simbolica. L’esclusione, le frontiere, sono realtà pratiche, quotidiane, e parallelamente si
costruiscono e rispondono sulla base di un corpus di idee, di significati che di volta in
volta si rimodulano. Tuttavia, come Balibar sottolinea, quello che si verifica nelle società
contemporanee è un inceppo all’interno della dinamica tra questi due poli, quello
simbolico e quello storico appunto. Fenomeni contestuali vengono trasposti sul piano
dell’astrazione e vengono universalizzati. Simmetricamente, “distinzioni che
appartengono alla sfera simbolica, come differenze antropologiche di sesso, di cultura, […]
si trasformano in strumenti materiali, più o meno costringenti, per assegnare individui e
gruppi a determinati territori e regolare la loro circolazione” (Id).

Un’ulteriore distinzione fondamentale tra le forme di esclusione messe in atto nel contesto
greco e quelle adottate nel contesto globalizzato della modernità è da ricercarsi a livello
dei criteri adottati in termini di inclusione o esclusione. Questo perché queste regole hanno
una ricaduta decisiva sulle forme che tali “eterotopie” - per prendere in prestito il termine
di Foucault - o “spazi altri”, esterni, prendono. Per esempio, poiché oggi gli individui non
possono essere esclusi – almeno esplicitamente – sulla base del loro status o origine
sociale, essi devono esserlo “in quanto tipi umani diversi dagli altri”. Dunque appare
come “l’universalità trascendentale della specie e la funzione discriminante e
discriminatoria delle differenze antropologiche non sono incompatibili ma costituiscono
due facce dello stesso discorso” (Id).

Foucault si riferisce a questo fenomeno introducendo il concetto di “biopolitica”, volto a


sottolineare la centralità della natura umana come spazio in cui contendersi e riconoscersi
il diritto di appartenenza - al quale poi si richiamano tutti gli altri diritti. Nello specifico,
però, per il filosofo, la biopolitica rimanda al potere sulla condotta umana nel contesto di
una comunità di esseri viventi e quasi mai l’autore pone la questione come legata alla
produzione delle disuguaglianze - di stampo strutturalista, descrive infatti l’arte di
governo come strumento di omogeneizzazione delle vite. Tuttavia nell’ultimo capitolo de
La volontà di sapere, egli racconta il passaggio dal tradizionale al moderno come coincidente
con la sostituzione del “diritto sovrano” di “far morire e lasciar vivere” con il “bio-potere”
di “far vivere e lasciar morire” (Foucault, 2013). Parla, cioè, di un generale spostamento
“dall’uso manifesto della violenza” ad “un pervasivo uso del potere legislativo”.
Fassin prosegue sulla stessa scia di queste ultime considerazioni, parlando di “bio-
legittimità” e di “bio-disuguaglianze”, rappresentative, a questo punto, del potere di “far
vivere e respingere nella morte”. Inoltre, è da dire come una simile pratica
marginalizzante agisca, tanto sul piano intellettuale quanto su quello pratico, tramite
l’abbandono di determinate categorie di persone e la parallela negazione o omissione del
nesso tra la disuguaglianza prodotta e le pratiche politiche relative. Altrimenti,
difficilmente potrebbe spiegarsi “ciò che giustifica (e in quali termini) l’estensione della
categoria di esclusione, fino a farle abbracciare tutti i fenomeni di negazione della
cittadinanza che vanno dalla discriminazione all’eliminazione” (Balibar, 2012, p. 92).

Lungi dall’essere un mero prodotto di logiche capitalistiche, o un semplice dato di natura,


le logiche di disuguaglianza vengono così mostrate come il voltafaccia delle logiche di
legittimità. Il prefisso bio-, poi, pone il corpo - in quanto manifestazione biologica della vita
- come luogo su cui insistono queste dinamiche di inclusione ed esclusione, da un lato, e
da cui far partire rivendicazioni in termini di legittimità e uguaglianza, dall’altro. Ridotto
il senso della politica alla materia vivente, infine, quella prodotta non può che essere una
“cittadinanza biologica”. Pertanto, seguendo le prospettive di Didier Fassin, la ragione
umanitaria e i suoi sentimenti morali divengono strumenti politici di negazione del
portato sociale e politico di aspiranti cittadini, negazione compensata da un’iper-
valorizzazione del dato biologico. Il corpo viene posto al centro della relazione tra potere e
verità, viene costruito come spazio unico e ultimo di veridizione. Tuttavia, dove la parola
viene svuotata di valore, le tracce del corpo rimangono mute e prendono i significati che il
potere decide di attribuirgli. Inoltre, se “da un lato la sofferenza è il fondamento del
merito, la sua banalizzazione (ne) attenua la simpatia”(Fassin, 2014). È questo il caso delle
politiche migratorie, dove al richiedente è imposto di mostrarsi nelle forme del
drammatico e dell’eccezionale, l’eccezionalità in sé -che non a caso Agamben identifica con
la nuda vita- si costruisce in quanto norma, limitandone drasticamente le possibilità di
ingresso. È in questi termini che il potere di “respingere della morte”, come appunto lo
descrive Fassin, diviene pratica.

Nel tentativo di dare un volto umano a queste pratiche di esclusione, riporto qui di seguito
alcuni casi di studio proposti da Fassin - si tratta dei risultati di una ricerca svolta tra il
1998 e il 2001 nel comune di Seine-Saint-Denis in Francia. Un primo esempio è centrato
sulle soggettività migranti. Non a caso, la figura dello straniero, liminale e altra, proprio in
quanto elemento di conflitto (nell’ampia accezione qui data da Balibar) e quindi di
disturbo dell’ordine costituito, è oggi costantemente marginalizzata, dai suoi primi
contatti con il mondo europeo finanche a seguito dell’eventuale inclusione formale.
Dunque, dopo aver approcciato il tema delle “frontiere interne”, e aver così costatato che
quella costituita è una “semi-cittadinanza”, rimarco il carattere classista di questi
dispositivi riferendo di un secondo case study, relativo questa volta alla gestione dei sussidi
per cittadini con difficoltà economiche.
La costruzione di quelle che abbiamo chiamato “eterotopie”, spazi altri e preferibilmente
lontani in cui lo stato e i suoi membri -nella forma del consenso e della tolleranza-
trasferiscono categorie di individui e di pensiero considerate scartabili, avviene tramite
quelli che Fassin chiama “dispositivi di frontiera”. Egli ne identifica tre diverse tipologie.

Il primo momento in cui l’accesso ai diritti viene negato, nell’orizzonte di un migrante, si


colloca lungo il confine tra il Primo e il Terzo Mondo. Tramite la stipulazione di trattati
con paesi terzi, come nel caso Italia-Libia, le società contemporanee delegano a paesi
cosiddetti in via di sviluppo la gestione di una grande fetta dei flussi migratori. All’incirca
l’80% di questi individui rimane, più o meno a lungo, bloccata all’interno dei campi di
detenzione qui creati. Inoltre, da qui in avanti, anche quei pochi che riusciranno a valicare
questi muri giungendo a destinazione, continueranno a vedersi rifiutato il pieno
riconoscimento della legittimità di esistere. Sul piano giuridico, subiranno una
“differenziata amministrazione delle illegalità”; si pensi alla doppia sentenza in Francia,
per la quale sono previste due pene, la detenzione e la deportazione, per uno stesso reato.
Sul piano sociale, sarà invece quello che Khosravi chiama “confine invisibile”, nella mente
delle persone, ad agire come fattore discriminante. Tuttavia, il momento decisivo nel
processo di costruzione del migrante come connotato da un’insuperabile distanza
culturale e in cui fermamente gli si impone un pesante sentimento di vergogna e di
incondizionato riconoscimento, è indubbiamente quello in cui si presenta la richiesta
d’asilo.

Questa dinamica è a mio avviso ben spiegata da Fassin nella sua ricerca sull’evoluzione
della politica francese in materia migratoria dal secondo dopoguerra agli anni Novanta.
Infatti, egli afferma che mentre, con la Convenzione di Ginevra del 1951, si riconosce
formalmente il diritto d’asilo a chiunque avesse anche solo il timore di essere perseguitato
(per ragioni politiche, etniche o religiose che siano), i dati mostrano come il numero di
permessi effettivamente accettati, che consisteva nel 95% delle richieste nei primi anni
Cinquanta, scende al 5% negli anni Settanta. Questo perché, mentre negli anni Cinquanta
la situazione economica interna legittimava la figura del migrante come forza lavoro,
successivamente, il mutamento di interessi alla base delle politiche francesi muta - in
negativo - il valore attribuito a tale categoria legale. In tempi più recenti, con
l’introduzione negli anni Novanta della clausola umanitaria (in base alla quale è possibile
ottenere il permesso di soggiorno solo se affetti da una malattia terminale che non può
essere curata nel paese di origine), la categoria del migrante cambia nuovamente. A questo
punto, non è più la sua capacità produttiva a garantirgli l’accesso a risorse socio-politiche
oltre che economiche, bensì la sua condizione di essere in fin di vita.

Questa dinamica porta il paradosso democratico alle sue estreme conseguenze. Il migrante
umanitario può e potrà infatti vedersi riconosciuto come cittadino -e quindi come soggetto
dotato di diritti- solo ed esclusivamente in quanto moribondo, e per di più solo per un
lasso di tempo determinato -fino alla guarigione o fino al decesso per malattia. Il corpo
diviene così, continua l’autore, ultimo spazio di emancipazione. Di emancipazione
parziale, però, concessa con reticenza e soggetta a costante minaccia di revoca.

Quando Fassin parla del potere di “respingere nella morte”, tuttavia, a mio modo di
vedere, si riferisce non solo al rifiuto di accesso. Difatti, durante la procedura di
veridizione al richiedente è imposta una doppia prova, oggettiva e soggettiva. Dopo aver
fornito già in un primo momento tutte le informazioni necessarie, questi è obbligato a
riprodurre il tutto sotto forma di narrazione diretta. È in questa fase che si costruisce la
soggettività del richiedente come vittima, che gli si impone il senso di vergogna, che gli si
chiede di mettersi a nudo -nel doppio senso di svelarsi completamente e di ridursi a mera
esistenza biologica. Queste condizioni, pegno da pagare pur di essere ammessi, dovranno
poi essere reiterate anche in seguito. Mai gli sarà riconosciuta una cittadinanza a pieno
titolo.

Dunque, è possibile notare come le frontiere esterne si ripropongano anche internamente,


sotto forma di distinzioni di classe, di genere o altro. Infatti, indipendentemente da quanto
esplicitamente proclamato, il principio di pari opportunità dei cittadini non regge il
confronto con la realtà. Balibar porta ad esempio l’istruzione, considerata fondativa della
democrazia e strettamente strumentale all’uguaglianza. Estesa alle masse durante la
costituzione degli stati nazione, essa è tuttavia associata al principio meritocratico, il quale
però -non a caso figlio del pensiero liberista- finisce inevitabilmente per favorire le élite.
Dunque, “creando una gerarchia di sapere, che è anche una gerarchia di potere,
eventualmente rafforzata da altri meccanismi oligarchici, lo Stato esclude legittimamente
la possibilità per la nazione sovrana di governare se stessa”, formando cittadini di secondo
grado, il cui ruolo, se non nullo, è considerato come scarsamente rilevante.

La ridotta considerazione di alcune categorie di cittadini è resa manifesta dalla mancanza


di politiche sociali adeguate, di risposta al dilagare del precariato e della disoccupazione. È
significativo che, secondo quanto documentato da Fassin relativamente al caso francese, i
criteri morali adottati nei confronti dei “sans-papiers”, qui sopra descritti, non differiscano
di molto da quelli applicati nel caso di aiuti finanziari per fasce a basso, o nullo, reddito. In
entrambi i casi infatti, i funzionari adibiti alla valutazione delle richieste, benché affermino
di basare la propria analisi su criteri neutrali, non fanno che insistere sulla necessità del
singolo caso di mostrarsi come eccezionale, unico, estremamente urgente. Anche in questo
caso, di fatto, il doversi dimostrare degni ricettori dell’aiuto statale depotenzia la volontà e
gli strumenti di rivendicazione di questi individui, i quali, così, divengono incerti dei
propri diritti.

Conclusione

In un contesto tale, parlare di cittadinanza e di diritti in termini universalistici non può che
essere fuorviante. Balibar propone piuttosto la nozione di “semi-comunità di semi-
cittadini”, proprio a sottolineare l’insicurezza degli stessi relativamente ai propri diritti e al
loro riconoscimento. A tal proposito l’autore riconduce le richieste cittadine di un
indurimento delle restrizioni, per esempio in ambito migratorio - oggi dilaganti -,
all’esigenza di sentirsi assicurati contro la discriminazione e il degrado di cui temono
anch’essi d’esser vittima (2012, p. 104). Non a caso, “con la fine della guerra fredda e
l’affermazione della globalizzazione finanziaria, la paura sociale cambia campo: non sono
più i capitalisti che hanno paura della rivoluzione, ma sono gli operai che hanno paura
della disoccupazione e della concorrenza degli immigrati” (id., p. 76). In ciò si esprime “la
finitezza dei movimenti insurrezionali”: anch’essi, in quanto proponenti proprie gerarchie
e regole di esclusione, limitano il conflitto esclusivamente alla propria causa.
Indipendentemente dalle lotte emancipatrici portate avanti da intere categorie di
individui, secondo questo schema, categorie di esclusi saranno costantemente riprodotte e,
nel quadro di un presunto universalismo dei diritti umani, prenderanno la forma di esseri
umani imperfetti o anormali.

Nell’opera di Balibar, leggiamo che di fronte alla stringente necessità di liberarsi da questo
drammatico meccanismo, Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo avanza l’idea di un
“diritto ai diritti” universale. Claude Lefort, in modo simile, parla della necessità di
un’”invenzione continua della democrazia”, come “precauzione contro il
depotenziamento del polo conflittuale messo in atto da un’astrazione del diritto” (Id). Da
“un’idea di potere costituito, si passa così a un’idea di potere costituente: si tratta della
capacità attiva di rivendicare dei diritti in uno spazio pubblico, o meglio ancora,
dialetticamente, della possibilità di non essere escluso(a) dal diritto di battersi per i propri
diritti” (Id). Dunque, tale riflessione si inscrive non tanto “sull’istituzione della cittadinanza
ma sulla cittadinanza come accesso e come insieme di procedure di accesso” (Id).

Si tratta quindi di andare oltre la netta distinzione tra natura e istituzione -opposizione
caratterizzante il pensiero occidentale da Aristotele ad Agamben -, tra spazio privato e
spazio pubblico, dove la prima è posta come presupposto della seconda. Ciò che si auspica
è una cittadinanza che non sia immaginata, astratta, ma che risulti tuttavia da uno sforzo
di immaginazione. Piuttosto che costruirsi sulla base di una categoria di natura presunta
tale, essa deve - o meglio dovrebbe - costantemente cercare di abbracciare nella sua
definizione la molteplicità di realtà che va via via incontrando. Ciò permetterebbe per
esempio di svincolare il politico da un costante rimando alla territorialità come forma di
autolegittimazione, operazione portata allo stremo dai moderni nazionalismi e
regionalismi. Ed è in questa direzione che Balibar muove quando afferma che “alcune
questioni concrete come il diritto di circolazione e di residenza hanno una portata
determinante nell’evoluzione del concetto di cittadino stesso” (2012, p. 110).

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