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Nel capitolo precedente, è stato messo in luce che la questione di come i confini si
manifestano è strettamente legata a quella, parallela, di come vengono percepiti e
rappresentati. Inoltre, ho già accennato al fatto che la contemporaneità è caratterizzata dal
proliferare di frontiere escludenti, e in molti casi militarizzate, costruite per marcare le
distanze tra stati più ricchi ed altri più poveri. In questo secondo capitolo, analizzo le
strategie narrative messe in atto, più o meno consciamente, dagli Stati-nazione occidentali
per portare avanti una tale gestione politica. Pertanto, quella che presento, ripercorrendo
alcuni studi di Fassin e Balibar, è un’operazione di decostruzione e storicizzazione di
questo fenomeno. Si tratta di ripercorrere i passi celati che hanno portato il mondo
cosiddetto sviluppato a costruire la propria identità in termini di negazione, e
all’occorrenza eliminazione, dell’altro. Parlo di passi celati perché, nel contesto di
un’universalizzazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, a seguito dei drammatici eventi
della Seconda Guerra Mondiale, non potendosi svolgere alla luce del sole senza
ripercussioni sulla legittimità stessa delle istituzioni, queste operazioni sono state
accompagnate da una narrazione ambivalente del sistema democratico e della
cittadinanza. Ciò che ne deriva è la costruzione di una gerarchia di accesso a diritti e
risorse, in base alla quale si delineano tipi umani di prima o seconda classe. Data l’estrema
evidenza di una tale dinamica all’interno della gestione dei flussi migratori, questi ultimi
assumono uno spazio di rilievo all’interno della riflessione. Tuttavia, dal momento che
questi fanno capo ad un modus operandi ben più ampio, accanto all’analisi delle frontiere
esterne, il discorso affronta anche il tema delle “frontiere interne”, in base alle quali
esistono anche cittadini di prima o seconda categoria. Infine, dopo aver districato l’insieme di
queste problematiche, e aver quindi ricondotto l’universalità dei diritti umani alla
limitatezza della sua produzione storica, concludo l’argomentazione con un appello al
futuro. Riprendo la nozione arendtiana di “diritto ai diritti” e la assumo come criterio da
cui partire per istituire, nell’orizzonte della globalizzazione, forme di cittadinanza e di
democrazia più includenti.
In realtà, a lungo queste due discipline hanno avuto la tendenza a studiare il politico in
termini di struttura e funzione. Tuttavia, sul finire del secolo scorso, si può riscontrare uno
slittamento di analisi dall’ambito dell’organizzazione all’oggetto politico stesso.
Conseguentemente, l’istituzione politica, nella sua manifestazione pratica, ha perso di
integrità e coerenza interna e, ricondotta alla temporalità, è invece emersa come causa e
conseguenza di dinamiche socio-politiche inevitabilmente contestuali. Gli esiti di una tale
operazione epistemologica sono indubbiamente rilevanti. Re-inserire nella dinamica
storica istituzioni oggi rappresentate come date, immutabili e coronate da un’aura di
astrazione, permette di svelarne le ambiguità alla base, i fondamenti espliciti e quelli celati.
Scopo di questa operazione è quello di rendere evidenti, oltre alle conseguenze, anche le
reali responsabilità di un tale operare.
Dando una definizione di “democrazia”, Fassin parla di “sistema politico di uscita dal
politico” (Fassin, 2014). Per quanto in-logica possa apparire - come, tra l’altro, sottolinea
anche Balibar riprendendo a inizio testo la nozione di “paradosso democratico” di Chantal
Mouffe - tale definizione è senza dubbio indicativa dell’inadeguatezza di un tale
ordinamento rispetto alle problematiche odierne.
A questo punto ritengo utile fare una breve precisazione prima di continuare. Critiche alla
democrazia come alla cittadinanza sono spesso respinte attraverso il riferimento a
totalitarismi, all’assenza totale di libertà e rappresentanza popolare che li caratterizza,
sottintendendo così l’impossibilità di assumerli come alternativa. Grosso modo si tratta
della stessa dinamica che si innesta quando, ponendosi di contro al sistema capitalista, ci si
ritrova a discutere di comunismo. Tuttavia, riprendendo Geertz in Mondo globale, mondi
locali, “il nostro modo di pensare deve cambiare se vogliamo dire qualcosa di utile su
questo mondo” (1999, p. ??): pensare per alternative non può dunque più essere inteso in
termini di semplici opposizioni binarie. Dunque, evidenziare contraddizioni e
manchevolezze nei sistemi democratici e nell’istituzione della cittadinanza/e, tanto care al
mondo occidentale, non significa rinnegare le conquiste, in termini di emancipazione e
diritti, che hanno attraversato la storia europea negli ultimi secoli, bensì ricondurle al loro
contesto di produzione ed esplicitarne la limitatezza.
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Il termine venne coniato nel 1989 dall’economista John Williamson per descrivere un insieme di dieci direttive di
natura economica da destinare alla ripresa dell’America latina dalla crisi degli anni ’80. L’insieme di questo pacchetto
divenne a breve paradigmatico delle politiche di sviluppo rivolte a tutti i paesi del Terzo mondo. Tuttavia, in questa
seconda riformulazione, assunse direttive di stampo nettamente liberista.
categoria di cittadinanza. La conseguente formazione di una “cittadinanza passiva”,
mancando di partecipazione diretta, produce quindi una sensazione di de-
responsabilizzazione del singolo e della comunità nei confronti del politico. Non a caso,
dove il rapporto tra comunità e politica non si traduce in termini di partecipazione attiva,
esso prende le forme della rappresentanza. E questo pone, a sua volta, la seguente
domanda:
se la comunità politica funziona come un “club” nel quale si può essere ammessi e dal quale ci si può veder
rifiutato l’accesso, ci si deve domandare come i “membri di diritto” siano stati cooptati, come abbiano
stabilito le regole di ammissione e come si traduca la loro partecipazione attiva nella preservazione di quelle
regole. […] Tutto ciò vuol dire che è la comunità che esclude, non soltanto nella forma di regole e procedure
burocratiche, ma anche nella forma di un consenso dei suoi membri. (Balibar, 2012, p. 102).
Come Fassin, dunque, benché in altri termini, anche Balibar si richiama alla volontà e al
pensiero dei membri come strumento di possibile ampliamento dell’orizzonte pratico dei
diritti. Prospettiva, quest’ultima, diametralmente opposta a quanto le dinamiche del
presente suggeriscono. Ciò che si riscontra mostra infatti la tendenza a rappresentare il
diritto su un piano astratto, incorporato dalle istituzioni e di difficile accesso.
Il filosofo francese decostruisce questa dinamica a partire da alcune riflessioni sul mondo
greco. Parte dalla definizione aristotelica di regime politico democratico come implicante
la sovranità dei suoi cittadini. “Sarebbe contradditorio, dice Aristotele, che il potere non
appartiene in ultima istanza a coloro a beneficio dei quali è istituito” (id., p. 26). Così
dicendo, sotto il nome di politèia, teorizza un’assoluta identità tra la comunità dei cittadini
e la sfera del potere. Riguardo a ciò, tuttavia, è opportuno sottolineare come questa totale
corrispondenza, caratterizzata dalla circolazione dei poteri e dal reciproco riconoscimento
delle parti come pari, fosse possibile all’interno della pòlis greca solo a patto di una pesante
restrizione dei membri della comunità stessa. L’inclusione assumeva quindi carattere
universale e intensivo a fronte di un’estensiva pratica di esclusione. Difatti, è questa
l’istituzione politica alla quale le moderne costituzioni democratiche dicono di richiamarsi.
A questo punto, sempre in Cittadinanza, Balibar si chiede quanto di questo nucleo fondante
si è riproposto all’interno delle successive forme di sovranità popolare? Che forme ha
assunto? E soprattutto, nel contesto della globalizzazione odierna, in che senso è possibile
parlare di reciprocità tra comunità di cittadini e potere politico? Per districare tali quesiti
diviene utile fornire una traduzione del termine politéia. Quest’ultima è intesa da Balibar in
termini di “costituzione di cittadinanza”. Così, già da questo primo appunto, è possibile
dedurre il carattere processuale di questa categoria. Dalle poléis greche ad oggi, inutile
dirlo, le forme di cittadinanza sono mutate notevolmente. Per esempio, mentre al tempo di
Aristotele si poteva parlare di “costituzione materiale”, fondata sull’interazione -
eventualmente conflittuale - tra le parti, la modernità prolifera di “costituzioni formali”,
dove la sovranità è subordinata a norme fondamentali metagiuridiche. La tensione già
inerente al concetto di politéia, ossia “il […] differenziale di attività e passività - presente
anche all’interno della polis sottoforma di quelli che Rancière chiama i ‘senza parte’ - o di
democrazia e oligarchia, non è stata in alcun modo risolta dalla teoria delle costituzioni
moderne, ma piuttosto portata a un livello superiore” (Id). Infatti, le esigenze di reciprocità
sono ora totalmente subordinate a quelle di ordine pubblico, volte a regolare il conflitto
sociale. “È necessario comprendere che la cittadinanza, in quanto idea politica, comporta
indubbiamente un riferimento alla comunità, tuttavia, non può avere la sua essenza nel
consenso dei suoi membri”(Id). Questo sarebbe infatti possibile solo presupponendo la
comunità come in sé omogenea, cosa che nei fatti, poiché irreale, non può che produrre
alienazione.
Un’ulteriore distinzione fondamentale tra le forme di esclusione messe in atto nel contesto
greco e quelle adottate nel contesto globalizzato della modernità è da ricercarsi a livello
dei criteri adottati in termini di inclusione o esclusione. Questo perché queste regole hanno
una ricaduta decisiva sulle forme che tali “eterotopie” - per prendere in prestito il termine
di Foucault - o “spazi altri”, esterni, prendono. Per esempio, poiché oggi gli individui non
possono essere esclusi – almeno esplicitamente – sulla base del loro status o origine
sociale, essi devono esserlo “in quanto tipi umani diversi dagli altri”. Dunque appare
come “l’universalità trascendentale della specie e la funzione discriminante e
discriminatoria delle differenze antropologiche non sono incompatibili ma costituiscono
due facce dello stesso discorso” (Id).
Nel tentativo di dare un volto umano a queste pratiche di esclusione, riporto qui di seguito
alcuni casi di studio proposti da Fassin - si tratta dei risultati di una ricerca svolta tra il
1998 e il 2001 nel comune di Seine-Saint-Denis in Francia. Un primo esempio è centrato
sulle soggettività migranti. Non a caso, la figura dello straniero, liminale e altra, proprio in
quanto elemento di conflitto (nell’ampia accezione qui data da Balibar) e quindi di
disturbo dell’ordine costituito, è oggi costantemente marginalizzata, dai suoi primi
contatti con il mondo europeo finanche a seguito dell’eventuale inclusione formale.
Dunque, dopo aver approcciato il tema delle “frontiere interne”, e aver così costatato che
quella costituita è una “semi-cittadinanza”, rimarco il carattere classista di questi
dispositivi riferendo di un secondo case study, relativo questa volta alla gestione dei sussidi
per cittadini con difficoltà economiche.
La costruzione di quelle che abbiamo chiamato “eterotopie”, spazi altri e preferibilmente
lontani in cui lo stato e i suoi membri -nella forma del consenso e della tolleranza-
trasferiscono categorie di individui e di pensiero considerate scartabili, avviene tramite
quelli che Fassin chiama “dispositivi di frontiera”. Egli ne identifica tre diverse tipologie.
Questa dinamica è a mio avviso ben spiegata da Fassin nella sua ricerca sull’evoluzione
della politica francese in materia migratoria dal secondo dopoguerra agli anni Novanta.
Infatti, egli afferma che mentre, con la Convenzione di Ginevra del 1951, si riconosce
formalmente il diritto d’asilo a chiunque avesse anche solo il timore di essere perseguitato
(per ragioni politiche, etniche o religiose che siano), i dati mostrano come il numero di
permessi effettivamente accettati, che consisteva nel 95% delle richieste nei primi anni
Cinquanta, scende al 5% negli anni Settanta. Questo perché, mentre negli anni Cinquanta
la situazione economica interna legittimava la figura del migrante come forza lavoro,
successivamente, il mutamento di interessi alla base delle politiche francesi muta - in
negativo - il valore attribuito a tale categoria legale. In tempi più recenti, con
l’introduzione negli anni Novanta della clausola umanitaria (in base alla quale è possibile
ottenere il permesso di soggiorno solo se affetti da una malattia terminale che non può
essere curata nel paese di origine), la categoria del migrante cambia nuovamente. A questo
punto, non è più la sua capacità produttiva a garantirgli l’accesso a risorse socio-politiche
oltre che economiche, bensì la sua condizione di essere in fin di vita.
Questa dinamica porta il paradosso democratico alle sue estreme conseguenze. Il migrante
umanitario può e potrà infatti vedersi riconosciuto come cittadino -e quindi come soggetto
dotato di diritti- solo ed esclusivamente in quanto moribondo, e per di più solo per un
lasso di tempo determinato -fino alla guarigione o fino al decesso per malattia. Il corpo
diviene così, continua l’autore, ultimo spazio di emancipazione. Di emancipazione
parziale, però, concessa con reticenza e soggetta a costante minaccia di revoca.
Quando Fassin parla del potere di “respingere nella morte”, tuttavia, a mio modo di
vedere, si riferisce non solo al rifiuto di accesso. Difatti, durante la procedura di
veridizione al richiedente è imposta una doppia prova, oggettiva e soggettiva. Dopo aver
fornito già in un primo momento tutte le informazioni necessarie, questi è obbligato a
riprodurre il tutto sotto forma di narrazione diretta. È in questa fase che si costruisce la
soggettività del richiedente come vittima, che gli si impone il senso di vergogna, che gli si
chiede di mettersi a nudo -nel doppio senso di svelarsi completamente e di ridursi a mera
esistenza biologica. Queste condizioni, pegno da pagare pur di essere ammessi, dovranno
poi essere reiterate anche in seguito. Mai gli sarà riconosciuta una cittadinanza a pieno
titolo.
Conclusione
In un contesto tale, parlare di cittadinanza e di diritti in termini universalistici non può che
essere fuorviante. Balibar propone piuttosto la nozione di “semi-comunità di semi-
cittadini”, proprio a sottolineare l’insicurezza degli stessi relativamente ai propri diritti e al
loro riconoscimento. A tal proposito l’autore riconduce le richieste cittadine di un
indurimento delle restrizioni, per esempio in ambito migratorio - oggi dilaganti -,
all’esigenza di sentirsi assicurati contro la discriminazione e il degrado di cui temono
anch’essi d’esser vittima (2012, p. 104). Non a caso, “con la fine della guerra fredda e
l’affermazione della globalizzazione finanziaria, la paura sociale cambia campo: non sono
più i capitalisti che hanno paura della rivoluzione, ma sono gli operai che hanno paura
della disoccupazione e della concorrenza degli immigrati” (id., p. 76). In ciò si esprime “la
finitezza dei movimenti insurrezionali”: anch’essi, in quanto proponenti proprie gerarchie
e regole di esclusione, limitano il conflitto esclusivamente alla propria causa.
Indipendentemente dalle lotte emancipatrici portate avanti da intere categorie di
individui, secondo questo schema, categorie di esclusi saranno costantemente riprodotte e,
nel quadro di un presunto universalismo dei diritti umani, prenderanno la forma di esseri
umani imperfetti o anormali.
Nell’opera di Balibar, leggiamo che di fronte alla stringente necessità di liberarsi da questo
drammatico meccanismo, Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo avanza l’idea di un
“diritto ai diritti” universale. Claude Lefort, in modo simile, parla della necessità di
un’”invenzione continua della democrazia”, come “precauzione contro il
depotenziamento del polo conflittuale messo in atto da un’astrazione del diritto” (Id). Da
“un’idea di potere costituito, si passa così a un’idea di potere costituente: si tratta della
capacità attiva di rivendicare dei diritti in uno spazio pubblico, o meglio ancora,
dialetticamente, della possibilità di non essere escluso(a) dal diritto di battersi per i propri
diritti” (Id). Dunque, tale riflessione si inscrive non tanto “sull’istituzione della cittadinanza
ma sulla cittadinanza come accesso e come insieme di procedure di accesso” (Id).
Si tratta quindi di andare oltre la netta distinzione tra natura e istituzione -opposizione
caratterizzante il pensiero occidentale da Aristotele ad Agamben -, tra spazio privato e
spazio pubblico, dove la prima è posta come presupposto della seconda. Ciò che si auspica
è una cittadinanza che non sia immaginata, astratta, ma che risulti tuttavia da uno sforzo
di immaginazione. Piuttosto che costruirsi sulla base di una categoria di natura presunta
tale, essa deve - o meglio dovrebbe - costantemente cercare di abbracciare nella sua
definizione la molteplicità di realtà che va via via incontrando. Ciò permetterebbe per
esempio di svincolare il politico da un costante rimando alla territorialità come forma di
autolegittimazione, operazione portata allo stremo dai moderni nazionalismi e
regionalismi. Ed è in questa direzione che Balibar muove quando afferma che “alcune
questioni concrete come il diritto di circolazione e di residenza hanno una portata
determinante nell’evoluzione del concetto di cittadino stesso” (2012, p. 110).