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Introduzione
La tradizione della Chiesa pone sotto l’autorità dell’Apostolo Giacomo una lettera che porta il suo
nome. Le sue esortazioni possono aiutarci a scorgere l’accendersi di una luce di speranza. Nell’elenco
del Nuovo Testamento la lettera di Giacomo occupa il primo posto tra le Lettere cattoliche e presenta
alcune particolarità: accenna poco a Dio (16 volte) e alla figura di Gesù, mancano gli insegnamenti
riguardanti la morale familiare. Lo scritto si compone di 108 versetti, suddivisi in 5 capitoli ed il suo
scopo principale è di carattere morale. Giacomo con questa lettera vuole opporsi ad un cristianesimo
fatto solo di parole. Non esistono però indizi sufficienti per indicare i destinatari ed il luogo nella
quale fu scritta la lettera; anche l’identità dell’autore resta incerta perché nel Nuovo Testamento
vengono menzionati diversi personaggi che portano il nome “Giacomo”: due Apostoli (Giacomo il
maggiore e Giacomo il minore) ed un fratello del Signore, presentato come una colonna della Chiesa
di Gerusalemme. La lettera fu attribuita a quest’ultimo alla fine del II secolo d.C.. In questo scritto
Giacomo vuole indicare un cammino di perfezione per il cristiano; vuole mostrare la praticabilità del
cristianesimo attraverso un itinerario di fede, accennando anche alle prove che toccano la fede, messa
sotto esame da molteplici tentazioni e fragilità. È indirizzata anche a credenti che vivono la fede con
semplicità e fedeltà nelle relazioni quotidiane. Credere è affidarsi in tutta libertà e con gioia al disegno
provvidenziale di Dio. La fede è “la risposta dell’uomo alla Rivelazione di Dio”, è “lasciarsi afferrare
dalla verità che è Dio, una verità che è Amore”. Il mondo dove viviamo sembra però incapace di
accogliere il messaggio che la fede cristiana propone, spesso ci si interroga: Dio dov’è? Perché è
silenzioso? Perché non interviene? Molti ritengono di poter vivere come se Dio non esistesse,
credendo di poter scegliere quali insegnamenti del Vangelo accogliere e quali invece rifiutare. La fede
non è messa alla prova solo da fattori esterni, ma anche da interrogativi, dubbi, incertezze che si
annidano nel cuore di ogni credente indebolendolo.
Prima sezione
1. Chi è Dio
Ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, Creatore della luce.
Giacomo parlando di Dio lo presenta nell’atto del donare a tutti con semplicità e senza condizioni.
Mette in risalto l’amorevolezza e la gratuità di Dio, pronto a sgombrare il campo dal dubbio che
serpeggiava all’interno della comunità cristiana.
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nostra società propone: ciò che per gli uomini è sicurezza o ricchezza, per Dio non conta nulla.
La gratuità del dono nel cristiano il tema del dono diviene rivelatore dell’accoglienza della parola
di Dio. Il modo di donare di Dio è opposto al nostro modo di dare, segnato dall’interesse e dal
guadagno, dal calcolo e dalla valutazione preventiva dell’incremento di capitale o di autostima. Il
tema della gratuità viene richiamato anche da Benedetto XVI in una delle sue encicliche. L’azione
del cristiano deve essere animata da un grande spirito di carità e di servizio, questo significa donare
all’altro uno sguardo fraterno, compiere un gesto d’amore, rivolgere una parola di saluto.
Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno.
Dio non può essere ritenuto responsabile delle tentazioni che assalgono l’uomo; per sua natura egli è
buono e ha fatto ogni cosa buona e bella; egli è l’autore del bene, il padrone ed il custode della vita
dell’uomo, in lui non c’è nessuna possibilità e volontà di male. “Ciò che esce dall’uomo è quello che
rende impuro l’uomo”.
2. Chi è il cristiano
Giacomo considera cristiani tutti quelli che amano il Signore nostro Gesù Cristo con amore
incorruttibile. Tre definizioni del cristiano:
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Il bel nome che è stato invocato su di voi
Giacomo sta muovendo rimproveri ai ricchi che con il loro comportamento dimostrano di non tenere
in nessun conto la fede nel “Signore della gloria”, anzi con le loro prevaricazioni sono di cattivo
esempio ai credenti, per lo più di umili condizioni, e gettano il discredito sull’intera comunità. Nel
nostro contesto il richiamo al nome di Gesù diviene un dono “noi non ci facciamo cristiani”. Possiamo
considerare il fatto di diventare cristiani come un’azione passiva, poiché è Dio che agisce per primo,
e ci chiede di mostrare nella nostra vita, giorno dopo giorno, la nostra nuova identità. Con il Battesimo
ci unisce a tanti fratelli e sorelle che condividono la stessa fede nel Signore Gesù e portano il suo
nome. Noi tutti portiamo un nome e con esso siamo conosciuti e amati, il nome ci identifica e permette
che il nostro ricordo non si sbiadisca nel tempo. Anche Dio ci conosce per nome e ci fa suoi figli, ci
prende per mano per condurci lungo le strade della vita. Il sostantivo “cristiani” deriva da Cristo, che
è la traduzione greca della parola ebraica “Messia” e significa “Unto”. I cristiani sono consacrati
attraverso l’unzione dello Spirito Santo per continuare la sua opera “Essere cristiani vuol dire:
provenire da Cristo, appartenere a cristo”. Vi è dunque un profondo legame tra il nome che riceviamo
nel Battesimo e il nome che è invocato su di noi, il segno che Dio ci conosce e stabilisce con noi una
comunicazione: siamo proprietà di Cristo. Anche il popolo di Israele si considerava “proprietà” di
Dio, questo era un titolo onorifico che indicava la sua particolare condizione di popolo scelto dal
Signore. Con il Battesimo i cristiani sono diventati la “nazione santa, popolo che Dio si è acquistato”.
Il Battesimo è una prima tappa della risurrezione e della vita senza fine.
Il cristiano e la cultura della vita tutto ciò che ha inizio sulla terra prima o poi è destinato a finire,
come l’erba che germoglia, al mattino fiorisce e alla sera è secca. Nel battesimo l’essere umano riceve
il dono di una vita nuova, per una esistenza piena di grazia e di amore, che lo rende capace di entrare
in relazione personale che Dio Padre e Creatore, non solo una volta, ma per tutta l’eternità. Nella sua
libertà l’uomo ha la possibilità di chiudersi nel rifiuto di questo dono con il peccato. La Sacra Scrittura
paragona il peccato a una seconda morte, dalla quale solo l’intervento di Dio può strapparci. Peccato
e verità si oppongono nella vita del cristiano fino a identificare due diversi stili di vita. Il frutto del
peccato è la rottura del rapporto con Dio; “la parola di verità” ci invita a fissare lo sguardo su Gesù
“via, verità e vita”. Il cristiano è chiamato a operare nel mondo affinché si affermi la cultura della
vita; essere discepoli di Cristo significa proprio emanciparsi e liberarsi dai condizionamenti della
cultura della morte, nella quale le verità non ha nessun valore.
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che davanti alla prova non ha ceduto alla tentazione: riceverà la corona di gloria che non appassisce”.
La corona era concessa ai vincitori delle gare come simbolo di successo e di gloria. L’Apostolo Paolo
fa ricorso alla medesima metafora.
Amare Dio significa dare a Lui il primo posto, non dividere questo primato con nessun altro; questo
amore non è un sentimento passeggero, dettato da uno slancio emotivo o da una sensazione di
benessere spirituale, ma trova sorgente e motivo di crescita nelle varie difficoltà della vita. Il Signore
promette la felicità e la beatitudine eterna nel Regno dei cieli a coloro che sono poveri in spirito, miti,
umili, operatori di pace.
Il frutto delle prove nella riflessione di Giacomo le prove sono occasione di verifica della fede nel
Signore.
La perfetta letizia
Essa rimanda all’esperienza spirituale di Francesco d’Assisi. È proprio dall’esperienza pasquale
dell’incontro con Cristo crocifisso che Francesco ha sperimentato in tutta la sua vita, la sorgente della
perfetta letizia. Per spiegare il significato di questa perfetta letizia si serve di un esempio e narra la
condizione disagiata di due viandanti stremati dalla fatica e intirizziti dal gelo. Per 4 volte dice a frate
Leone di scrivere che la perfetta letizia non consiste nei miracoli operati, nella comprensione delle
lingue e dei segreti delle coscienze, nella conoscenza del corso delle stelle e delle virtù delle piante e
di tutti gli elementi della natura e neppure nel saper predicare bene tanto da convertire gli infedeli. Il
Signore Gesù è la fonte e la ragione della vera letizia; san Francesco d’Assisi proclamerà nelle Lodi
all’Altissimo “Tu sei gaudio e letizia”. Nei momenti di tentazione e di prova ha il coraggio di restare,
in questa condizione di solitudine, povero davanti a Dio; non esita ad abbracciare la Croce e ad
accettare la sua divina volontà, portando nel suo corpo i segni della passione di Cristo. Dalla perfetta
letizia nasce in ciascuno di noi una condizione di serenità interiore, di pace in ogni situazione, anche
nei momenti e nelle opere più faticose e dolorose.
La gioia
Non ci può essere letizia senza gioia. La gioia non è un sentimento di breve durata, una condizione
di allegria o di spensieratezza che aiuta a dimenticare problemi e difficoltà per qualche istante. Per il
cristiano la vera gioia è diversa, è il dono che il Signore risorto ha fatto ai suoi discepoli insieme alla
pace apparendo la sera di Pasqua nel chiuso del Cenacolo e sconfiggendo le loro paure. La persona
che vuole bene a qualcuno è pronta a soffrire a vantaggio di chi ama e la ragione della sua disponibilità
sta nell’amore, amando in maniera gratuita sperimenta una gioia grande, profonda e perfetta. “Dio
ama chi dona con gioia”.
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4. La pazienza del cristiano
Le prove infondono nel cristiano l’attitudine virtuosa della pazienza. La pazienza diviene il primo
dono che la fede vagliata e purificata dalle prove produce in noi, affinché siamo perfetti e integri
quando si manifesterà il Signore Gesù.
La pazienza delle prove la pazienza è un atteggiamento e una virtù cristiana poco praticata; anche
il sostantivo ha smarrito molto del suo significato originario, assumendo una connotazione negativa:
indica sopportazione silenziosa, passiva, assenza di reazione. Nel Primo Testamento la pazienza è
attesa dell’intervento di Dio; si configura come un’attesa coraggiosa e tenace del Signore, assume il
valore di resistenza e sopportazione nei confronti del mondo che si oppone al Vangelo di Gesù. Nel
mondo greco la sorgente della pazienza risiede nelle capacità dell’uomo; nel mondo ebraico il
credente non trova in sé la forza di resistere, ma essa gli viene da Dio. Nel Nuovo Testamento la
pazienza è coraggio e fermezza nell’affrontare le prove a cui la fede è sottoposta, fino all’effusione
del sangue nel martirio; contando sull’aiuto di Dio, il cristiano non viene meno nella fedeltà al Signore
in quanto sorretto dallo Spirito Santo.
La pazienza dell’attesa “Siate dunque costanti fratelli fino alla venuta del Signore. Guardate
l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finchè abbia ricevuto le prime e le
ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è
vicina”. La pazienza è definita makrothymìa, che letteralmente significa “grandezza d’animo”; in
riferimento a Dio indica due atteggiamenti: il primo è il tempo che egli dona all’uomo in attesa della
sua conversione, il secondo indica la sua grandezza di cuore e la sua misericordia verso i peccatori.
La pazienza è la capacità di saper aspettare il compimento. Giacomo propone ai suoi lettori l’esempio
dell’agricoltore che, dopo aver seminato, attende pazientemente che cada la pioggia dal cielo e bagni
la terra, affinché il seme dia il suo frutto. Egli sa che una volta gettato il seme, deve aspettare che
passino settimane prima che possa vedere l’esito del proprio lavoro; la sua attesa sarà sempre
accompagnata dalla certezza che una volta deposto nel terreno il seme spunterà e darà frutto.
L’appello di Giacomo è dettato dalla pazienza “Rinfrancate i vostri cuori perché la venuta del Signore
è vicina”. La pazienza è la virtù che si oppone all’affanno e all’ansia che segnano la nostra vita, alla
perdita di fiducia e allo smarrimento, alla ricerca di mezzi per alleviare il dolore. Gesù è la vera
presenza di Dio nel mondo, una presenza salvatrice, che porta a compimento le speranze antiche e
dona agli uomini la salvezza. Giobbe è il protagonista dell’omonimo libro della Bibbia e viene
presentato come il modello dell’uomo giusto e saggio che, messo alla prova, non è venuto meno nella
sua fede, non ha rinnegato Dio. Il cristiano non deve attendersi di essere ricompensato con benefici
economici per la sua pazienza, bensì sperare come premio i beni eterni promessi dal Signore.
Il cristiano e la pazienza Molti Padri della Chiesa e autori spirituali hanno dedicato le loro opere
al tema della pazienza e della perseveranza nelle prove; Cipriano, vescovo di Cartagine, morto
martire, afferma “L’origine e la grandezza della pazienza hanno Dio per autore”. La società in cui
viviamo ci appare sempre più incapace di vivere una ritualità alla base della quale c’è il senso
dell’attesa. Fino a pochi decenni fa, la preparazione alle grandi feste cristiane era preceduta da novene,
penitenze e preghiere per giungere meglio predisposti alla loro celebrazione in chiesa e in famiglia.
Purtroppo questo sentimento di attesa è smarrito, tutto viene vissuto nella frenesia dell’ultimo
momento. Quando non si è più capaci di attesa, diviene inevitabile lamentarsi di tutto e di tutti. Il
cristiano deve essere vigilante in attesa del ritorno del Signore, perché non conosce né il giorno né
l’ora in cui tornerà. “Vero paziente è colui che indifferentemente tutto accetta con animo grato dalla
mano di Dio; anzi lo ritiene un vantaggio grande, poiché non c’è cosa, per quanto piccola, che passi
senza ricompensa presso Dio”.
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5. Ascoltare la parola di Dio
Il cristiano è uno che ascolta e che accoglie la parola di Dio, è uno che mette in pratica la parola
appresa.
Liberatevi da ogni impurità e da ogni eccesso di malizia. Accogliete la parola che è stata piantata in
voi.
Il cristiano è chiamato a liberarsi non solo dall’irascibilità, ma anche dall’impurità e dalla malizia, la
sua esistenza dovrà brillare per lo splendore e il candore per essere pronto ad accogliere la parola di
Dio. “Liberatevi” vuol dire abbandonare qualcosa a cui siamo legati, quegli atteggiamenti che ci
incatenano. “Togliete via il lievito vecchio per essere pasta nuova, poiché siete azzimi”.
“Accogliete” significa fare spazio e ospitare, allargare i paletti della propria tenda, permettere a
qualcuno di entrare nella propria casa; in questo verbo è presente la dimensione affettiva; l’estraneo
non è più forestiero, diviene una persona conosciuta. Il cristiano deve ospitare la parola che viene da
Dio come un dono che esige spazio interiore, ove metterla in pratica con disponibilità. Giacomo invita
ad accogliere con “docilità” la parola; questo vuol dire avere un cuore semplice e puro, uno sguardo
limpido e sereno, un’esistenza coerente con la scelta di seguire Cristo Fatta il giorno del Battesimo.
La prontezza nell’ascoltare e nel parlare, il non cadere nella trappola dell’ira, la pazienza e la
pacatezza nei rapporti fraterni dimostrano che il battezzato ha abbandonato li idoli per servire il Dio
vivente. La parola è comunicazione di Dio, è una parola potente e creatrice, rivela chi è Dio e all’uomo
la sua grandezza e dignità. Nel Nuovo Testamento l’immagine ci porta a riconoscere che il seme
piantato è la parola di Dio. Numerose parabole hanno come soggetto il seme che il seminatore esce a
seminare in un campo. Il granello di senape è il più piccolo di tutti i semi, “ma quando viene seminato,
cresce e diviene più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli possono
fare il nido alla sua ombra”.
Esecutori della parola di Dio dopo l’ascolto e l’accoglienza, il discepolo di Gesù è chiamato a
mettere in pratica la parola che ha ascoltato e a costruire la sua casa su questo solido fondamento
capace di resistere ai venti e alle piogge violente.
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Non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi
L’esteriorità diviene il pericolo da cui guardarsi, spesso è dettata dalla fretta e dall’urgenza di
intervenire, in profondità può nascondere una instabilità e una incapacità a eseguire e ordinare i propri
impegni, a definire il ritmo della propria giornata, a rendere operoso il tempo che Dio ci dona. La
fretta nasconde l’impazienza e la mancanza di amore verso se stessi, gli altri e il Signore. Ogni attesa
equivale a una perdita di tempo e di denaro, gli incontri devono essere consumati in breve tempo, a
scapito della profondità e della sincerità delle relazioni. La persona che ha accolto in maniera
superficiale e frettolosa la parola di Dio assomiglia al terreno pietroso e pieno di erbe infestanti, si
lascia soffocare dalle preoccupazioni, dalle ricchezze e dai piaceri della vita e trascura il messaggio
di Dio. Dimenticare la propria immagine significa sostituire al vero Dio una sua immagine sbiadita,
una copia imperfetta, ma anche trascurare la grandezza della propria origine, poiché l’uomo è fatto a
immagine e somiglianza di Dio. La parola del Signore si comporta come uno specchio nel quale
ciascuno può riflettersi e scoprire la verità.
La parola ascoltata e accolta chiede di essere realizzata nell’operosità della vita. La parola di Dio è
stabile nei cieli ed insegna i suoi comandi
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L’ascoltatore che mette in pratica la parola di Dio
L’ascolto e la meditazione della parola di Dio è un impegno che va atteso e preparato con cura,
sapendo che al centro non ci sono le nostre attese e i nostri bisogni, ma c’è Dio. All’attesa si devono
unire la pazienza e la perseveranza di chi intraprende un’opera con il vico desiderio di portarla a
compimento con l’aiuto del Signore; il desiderio di poter gustare questo dono e condividerlo giorno
dopo giorno; la gratitudine di chi riceve un regalo dall’alto; Gesù è la parola, il Verbo di Dio che si è
fatto carne. Il tempo donato a Dio tornerà a noi con effetti benefici, ci porterà serenità, gioia e luce
interiore.
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sapienza. La testimonianza del cristiano sarà sempre caratterizzata dalla gratitudine e dalla lode per
la fedeltà e la grandezza della misericordia del Signore, dal ringraziamento per la sua bontà e
dall’impegno di fissare nel cuore e nella mente il cammino compiuto dai suoi servi. In questo modo
memoria e preghiera si fondono in un unico atteggiamento eucaristico e diventano espressioni di
supplica, grido di intercessione, canto e lode, contemplazione delle meraviglie compiute dal Creatore.
Seconda sezione
1. La comunità di Giacomo
L’obiettivo qui si sposta sul rapporto tra il discepolo di Gesù e la comunità cristiana. Giacomo
scrivendo la sua lettera si rivolge ai credenti che vivono nella diaspora e avvertono l’importanza e la
fatica di costruire rapporti di fraternità; essi hanno ben viva la consapevolezza di essere il popolo
nuovo che Dio si è scelto e ha chiamato a proclamare la sua misericordia. Emergono però dei tratti
che sono poco coerenti con le esigenze della vita cristiana: credenti esitanti, indecisi, incapaci di fare
del bene, tentati dal peccato, che non riescono a dominare le proprie passioni, che preferiscono
lasciarsi dominare dall’invidia, che si reputano maestri saggi, che non sanno controllare le parole e
che giudicano con arroganza e superficialità.
Il povero e il ricco
Costituiscono il secondo gruppo di fedeli che si trova nella comunità, in continuo conflitto tra loro. Il
povero è il fratello di umili condizioni che conduce un’esistenza precaria, è la persona che è
sottomessa a chi è potente e non osa lamentarsi della sua umile condizione. La Bibbia parla della
condizione di povertà riferendosi anche ai fratelli d’Israele ridotti in schiavitù, ma questi confidano
in Dio. Il ricco invece indica non solo colui che possiede ricchezze, ma anche chi è potente e temuto,
invidiato dai cittadini. L’immagine del ricco contrapposto al povero costituisce un motivo ricorrente
nella Bibbia. La ricchezza però rischia di rivelarsi effimera e di breve durata, per questo Giacomo la
paragona al fiore del prato che al mattino si presenta in tutto il suo splendore, ma alla sera è appassito
sotto i raggi del sole. Giacomo mette in guardia i fedeli dal rischio di basare la propria sicurezza sulla
ricchezza.
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Gli orfani e le vedove
Nel popolo di Israele gli orfani e le vedove erano le categorie che non avevano nessuna tutela sociale,
vivevano dell’elemosina e della generosità delle persone buone, spesso erano vessate dai potenti e
vittime di ingiuste oppressioni. Giacomo rivela l’urgenza di soccorrere le vedove e gli orfani. Visitare
gli orfani e le vedove, soccorrere i malati, significa accorgersi della loro presenza nella vita della
comunità e comprendere il bisogno di prestare il necessario aiuto.
I malati
Un posto particolare viene occupato dai malati, membri a pieno titolo della Chiesa. Benché non sia
specificata la loro malattia, essa sicuramente costituisce un impedimento grave, fino al punto che
questi credenti sono costretti a disertare l’assemblea riunita per la celebrazione eucaristica, oppure
versano in grave pericolo di vita. L’unzione di malati con olio è accompagnata dalla preghiera che
viene compiuta nel nome del Signore dai ministri della Chiesa. Accanto ai credenti si incontrano
fedeli dalla fede incerta e debole, che non riescono o non vogliono comprendere l’incoerenza dei loro
comportamenti, spingendosi fino a costruire una religiosità e una morale a propria misura.
La legge dell’amore La fede in Gesù, la pazienza nelle prove e la saldezza nei dubbi non
ammettono favoritismi personali. Cedere sarebbe un modo per accogliere la logica del mondo.
Chiunque bussa alla porta della nostra casa, non ha importanza se ricco o povero, dovrebbe
riconoscere in ogni nostra parola e azione l’amore di Dio per le sue creature e la stessa compassione
che Gesù ha mostrato alle folle che accorrevano a lui da ogni luogo. Misericordia significa possedere
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un cuore grande, capace di accoglienza e di comprensione, di compassione e di solidarietà fraterna.
È l’atteggiamento che permette agli uomini di incontrarsi tra loro attorno a quel valore che è l’uomo
stesso, con la dignità e il rispetto che gli sono dovuti in quanto creatura plasmata dal divino Creatore.
La fede se non è seguita dalle opere è morta La contrapposizione tra fede e opere dà luogo a un
serrato dibattito all’interno della comunità; si scontrano due fazioni: coloro che sostengono di poter
dimostrare la fede senza le opere e quelli che affermano la necessità che la fede si traduca in gesti
concreti di carità.
Il difensore
Giacomo introduce il confronto tra 3 personaggi e il primo di questi è il difensore. La fede esige la
concretezza dell’azione come prova della sua verità, senza opere non serve a nulla, è imperfetta,
assomiglia a una fiamma spenta che un uomo dovrebbe accendere allo scopo di illuminare il locale
dove si trova. “Così anche la fede se non è seguita dalle opere in se stessa è morta”. Il Signore conosce
le molteplici forme di povertà degli uomini, condivide i bisogni e le necessità dei suoi fratelli. È la
fede che permette di riconoscere Cristo ed è il suo stesso amore che spinge a soccorrerlo ogni volta
che si fa nostro prossimo nel cammino della vita.
L’accusatore
“Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò
la mia fede” “Non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità”. La tesi di Giacomo
si rivela di grande attualità per interpretare il nostro vissuto; dietro la separazione tra fede e opere si
può nascondere la tendenza a non voler vedere i poveri, limitandosi a mostrare verso di essi un
sentimento di compassione e di vicinanza puramente verbale. Oggi i poveri sono sempre in aumento,
vivono in situazioni di bisogno e bussano alle porte della comunità cristiana in cerca di aiuto.
L’interpellante
Giacomo inserisce nella discussione un terzo personaggio. “Insensato, vuoi capire che la fede senza
le opere non ha valore?” La sua posizione non ha consistenza, è un puro esercizio di retorica; l’esito
di un ragionamento che lo allontana dall’insegnamento di Gesù e lo condanna alla sterilità.
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La fede invece si accresce attraverso la parola, l’esercizio e la preghiera.
Non siate in molti a fare da maestri esorta i fedeli a non considerarsi maestri. Nella Chiesa nessuno
si candida per esserlo o si proclama tale; prima di tutto si è chiamati da Cristo a percorrere il cammino
del discepolato, a seguire il suo esempio e a imparare da lui lo stile del servizio. Il nostro modo di
vivere esalta l’apparenza, il potere e l’esteriorità. Si preferisce evitare di correggere se stessi lasciando
sopravvivere i propri difetti, affidarsi al giudizio degli altri, anziché scegliere personalmente. Alcune
regole per fondare la nostra vita: agire nascosto, quasi segreto, invece dell’apparire, la semplicità
invece della doppiezza, il servizio umile anziché il potere e la grandezza. Ognuno è chiamato a
svolgere questa missione, seguendo l’esempio lasciatoci dal Signore. La carità è la legge regale che
Giacomo ha raccomandato di mettere in pratica.
La lingua è un membro piccolo che può vantarsi di grandi cose i tanti presunti maestri che Giacomo
vede alzarsi dall’assemblea e prendere il diritto di parola mostrano tutta la loro abilità nell’arte
oratoria. L’uomo perfetto si mostra capace di controllare le sue parole e i suoi atti, i sentimenti del
suo animo, le passioni che si agitano nel suo cuore e i pensieri che si aggirano nella sua mente, non
si vanta delle sue azioni, evita discussioni inutili e inconcludenti, le polemiche sterili e pericolose.
Deve saper controllare la lingua e le proprie parole. Chi si pone al servizio del Signore deve essere
mite con tutti, capace di insegnare, paziente, dolce nel rimproverare quelli che gli si mettono contro.
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vostro stile di vita in famiglia e con il prossimo, nella comunità dei fratelli in Cristo, nella società”.
Per una verifica del nostro linguaggio il cristiano, attraverso il dono dello Spirito Santo, è diventato
figlio di Dio ed erede della vita eterna, partecipa pienamente della vita di Cristo ed è una cosa sola
con lui, quale membro del suo corpo. La parola è lo strumento umano per eccellenza che mette in
relazione tra loro gli uomini, che permette di comunicare messaggi, sentimenti, reazioni; l’uso della
parola esprime la profonda realtà di ogni essere umano. Quando lo stile di vita è l’amore, la gratuità,
il dono , non c’è nessuno spazio per l’ira e la maldicenza.
5. Le ferite dell’orgoglio
L’orgoglio si può trasformare in arroganza e provoca guerre e liti, presunzione e superbia, giunge a
escludere Dio dalla propria vita. Nell’elenco dei vizi capitali l’orgoglio è indicato anche come
superbia ed occupa il primo posto, precedendo avarizia, invidia, lussuria, golosità, pigrizia o accidia.
L’orgoglio annienta ogni cosa. L’umiltà è la virtù che si oppone all’orgoglio, insegna a valutare con
rettitudine, a non nutrire sentimenti di grandezza. L’orgoglioso e il superbo vogliono acquistare la
propria autonomia e indipendenza da lui, sono incapaci di attendere il suo intervento. “Finchè sei
superbo non puoi conoscere Dio”. Gesù nel Vangelo denuncia il comportamento orgoglioso e
presuntuoso dei farisei che si compiacevano di essere onorati dal popolo.
La prima ferita: guerre e liti l’orgoglio ha piantato i suoi semi nei cuori e nelle esistenze dei membri
della comunità e ora sono germogliati, molti credenti hanno accolto i suoi frutti. L’esito perverso
dell’invidia lo si può vedere in Abele che uccide suo fratello Caino. Dio ama tutti e per questo anche
i cristiani devono cercare di amare tutti. Si tratta di un compito difficile ma “l’amore di Dio è
veramente perfetto” soltanto in colui che “ascolta la sua parola”. Non solo che provoca guerre e liti,
ma anche chi le subisce deve ricostruire la riconciliazione e la pace.
La seconda ferita: vivere come se Dio non esistesse una seconda ferita nella comunità è data dal
comportamento di quei credenti che pensano di costruire la propria vita dividendola in due blocchi:
da un lato l’atteggiamento religioso, dall’altro l’attività profana. Giacomo è preoccupato che si
instauri tra i credenti uno stile di vita che esclude ogni riferimento a Dio. L’essere umano non può
pensare di restringere il senso della sua vita alla fruizione dei beni del creato in maniera egoistica.
Troppe volte ci comportiamo pensando a noi stessi, impostiamo il nostro modo di vivere come se Dio
non ci fosse e non avesse mai rivolto la sua parola di amore. Dobbiamo riuscire a distaccarci dai beni
terreni per poter conseguire il tesoro inesauribile nei cieli. I beni di questo mondo non devono essere
la fine a cui tendere, ma solo mezzi e strumenti, per raggiungere il vero fine, la vita beata.
La terza ferita: l’ingiustizia sociale è sempre provocata dall’orgoglio. “Le vostre ricchezze sono
marce e i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme”. La loro ricchezza si trasformerà in miseria e il
fuoco eterno li consumerà, di loro non resterà traccia. Tra le colpe di cui i ricchi sono macchiati,
Giacomo colloca al primo posto l’avidità e l’accumulo di beni, come fonte di sicurezza per la propria
vita e per il proprio status sociale; al secondo posto la prepotenza con la quale hanno defraudato il
giusto compenso ai lavoratori dei loro campi. Il terzo peccato è l’ingordigia e la mollezza del loro
comportamento: agendo in questo modo hanno offerto un esempio di spreco del denaro e di mancanza
di carità verso i poveri. Gesù non ha demonizzato la ricchezza, ma la falsa salvezza che può dare.
“Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio”.
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Terza sezione
Ritorno a Dio
I profeti avevano denunciato le infedeltà del popolo di Israele. Le considerazioni di Giacomo si
trasformano in un pressante appello a ritornare a Dio sulla strada della fedeltà e dell’amore. Le ferite
da curare sono quelle provocate dalle infedeltà e dalle tentazioni che il mondo abilmente riversa nel
nostro animo, oppure al desiderio di amare qualcuno mancando a una promessa di fedeltà. I regali
che i coniugi oppure gli amici si scambiano manifestano il dono di sé che caratterizza ogni rapporto,
la loro funzione è quella di rendere chi è lontano in quel momento presente allo sguardo e all’affetto.
I cristiani devono portare il messaggio di questo amore all’uomo del nostro tempo, spesso chiuso
nell’indifferenza. Bisogna resistere al diavolo, avversario di Dio, bisogna opporsi alle sue strategie e
ai suoi intrighi, non bisogna cedere alle sue proposte. Il cristiano deve svestire i panni
dell’autosufficienza e dell’arroganza, della fiducia nella ricchezza e negli idoli, per ritrovare in sé la
dimensione della povertà e dell’umiltà del cuore.
Ritorno a se stessi
Il ritorno alla dimensione della propria interiorità racchiude in sé la presa di coscienza della propria
situazione di peccato. La memoria è il luogo necessario del discernimento, in cui il passato, anche se
amaro, diviene nutrimento per il futuro. Purificare la memoria significa rimuovere le cause che hanno
generato molteplici ferite e colpe nella storia personale e comunitaria. Gesù ricorda che la vera
formalità non è quella esteriore, ma è quella del cuore, rammenta che la legge di Dio non è fatta da
una serie di precetti caricati sulle spalle, ma è una legge che aiuta l’uomo a vivere nella libertà e nella
verità. Il cuore lontano da Dio è un cuore impuro, appartiene a chi non segue la legge del Signore, né
agisce con rispetto e lealtà. È da questo cuore cattivo che escono i vizi e le cattive inclinazioni, che
sviliscono la purezza. L’educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore.
Ritorno al prossimo
“Non dite male gli uni degli altri, fratelli”. Il credente che scredita i fratelli getta fango sulla loro
condotta, si innalza a giudice dei loro comportamenti, commette un grave peccato, perché si
sostituisce a Dio “legislatore e giudice”. Con la maldicenza non si rende un servizio alla verità e alla
carità, ma le si impedisce di affermarsi, si piega Dio ai propri scopi facendo passare per i suoi giudizi
ciò che invece è calunnia. Le parole di Giacomo ci invitano a riflettere sulla qualità della nostra
preghiera e a interrogarci se essa è davvero espressione della nostra fede, della fiducia in Dio, della
reciprocità e della vicinanza ai nostri fratelli, sia nelle ore tristi, come in quelle liete.
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stili di vita antitetici l’uno all’altro. Non a caso nella lettera di Giacomo il brano dedicato alla sapienza
si trova al centro dello scritto. La sapienza che viene dall’alto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole,
piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera.
Sapienza e mitezza Giacomo assume come punto di partenza delle sue riflessioni una domanda,
in parte presupponendo di conoscere già la risposta: “Chi tra voi è saggio e intelligente?” La domanda
ci costringe a riflettere se il nostro modo di vivere è dettato dalla sapienza e dalla capacità di valutare
con attenzione fatti e parole alla luce del messaggio evangelico. La vera sapienza non è acutezza e
profondità di pensiero, non è una nuova teoria, ma ha un aspetto profondamente pratico e concreto.
Giacomo afferma che essa viene dall’alto, la sua funzione è legata alla vita e alla capacità di giudicare.
La sapienza è un bene superiore alla ricchezza e alla prudenza, il fedele la desidera come consigliera,
amica, sposa. Il cristiano è chiamato a mostrare la sapienza che Dio gli dona attraverso la coerenza
tra il suo dire e il suo fare, quello che si vede è una condotta bella, non tanto in senso estetico o
morale, ma in quanto esemplare, degna di ammirazione e di lode, improntata a saggezza e mitezza.
La sapienza che viene dal mondo il credente che abbraccia la mentalità del mondo sceglie ciò che
è terreno, il suo sguardo non sa elevarsi verso l’alto, a malapena riesce a scorgere il sentiero stretto e
tortuoso su cui procedere, Dio non è più presente nei suoi pensieri, non è più il punto di riferimento
delle sue azioni, all’amore e al dono preferisce i miraggi dell’egoismo e dell’orgoglio. Il secondo
aggettivo che qualifica la sapienza mondana lascia intravedere un sistema di valori fondato su ciò che
è materiale, visibile, concreto. La terza caratteristica della sapienza mondana richiama l’ostilità a Dio:
è diabolica, la sua forza sta nella divisione dell’uomo da se stesso, dagli altri, da Dio e
nell’opposizione a tutto ciò che è luminoso, puro, gratuito. Senza ricerca della verità anche la vita del
cristiano diviene sterile e inefficace.
La sapienza che viene dall’alto è pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni
frutti, imparziale e sincera. Nell’elenco delle qualità che la sapienza possiede Giacomo aggiunge la
misericordia; anche questa caratteristica ha la sua origine in Dio, ricco di bontà verso tutte le creature.
La sapienza che viene dall’alto è imparziale e sincera, non ammette nessun favoritismo, né parzialità
di giudizio; si tiene lontana da ogni forma di ipocrisia e di doppiezza, perché Dio vede nell’intimo e
conosce i segreti nascosti del cuore dell’uomo, non lascerà impunito chi si è allontanato da lui.
Il cristiano: sapiente e mite, beato e felice il cristiano è chiamato ad assumere come documento
fondamentale del suo essere discepolo la pagina delle beatitudini del Vangelo e a guardare a Gesù
come al maestro che vive in prima persona il messaggio che annuncia. La sapienza è il primo requisito
assegnato in quest’ultima descrizione del cristiano, non è il frutto dell’intelligenza, ma della verità e
della carità attinta dal cuore stesso di Dio. “Il sapere non è mai solo opera dell’intelligenza”. La
mitezza ci è proposta da Gesù nella pagina evangelica delle beatitudini: mite è la persona che rifiuta
la logica della violenza e pone in Dio ogni sua attesa. Gesù stesso è il maestro mite e umile di cuore
che abbraccia la logica dell’amore e del servizio. Sa Paolo raccomanda di mettere in pratica la virtù
della mitezza, che è uno dei frutti dello Spirito Santo e all’interno della comunità cristiana è il criterio
fondante per le relazioni fraterne. La mitezza di Gesù è una scelta interiore, radicale, che qualifica il
tipo del suo rapporto con gli altri. La mitezza di Gesù è perfetta, la nostra si costruisce faticosamente
giorno dopo giorno tra lentezze, entusiasmi, sconfitte e asprezze e sprazzi della serenità. La nostra
mitezza deve crescere fino a raggiungere la misura piena che è Cristo, fino a diventare buona, bella,
beata e felice. Bisogna fare opere di pace e per farle bisogna mettersi alla scuola della “sapienza che
viene dall’alto”.
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