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LA FEDE ALLA PROVA

Introduzione

La tradizione della Chiesa pone sotto l’autorità dell’Apostolo Giacomo una lettera che porta il suo
nome. Le sue esortazioni possono aiutarci a scorgere l’accendersi di una luce di speranza. Nell’elenco
del Nuovo Testamento la lettera di Giacomo occupa il primo posto tra le Lettere cattoliche e presenta
alcune particolarità: accenna poco a Dio (16 volte) e alla figura di Gesù, mancano gli insegnamenti
riguardanti la morale familiare. Lo scritto si compone di 108 versetti, suddivisi in 5 capitoli ed il suo
scopo principale è di carattere morale. Giacomo con questa lettera vuole opporsi ad un cristianesimo
fatto solo di parole. Non esistono però indizi sufficienti per indicare i destinatari ed il luogo nella
quale fu scritta la lettera; anche l’identità dell’autore resta incerta perché nel Nuovo Testamento
vengono menzionati diversi personaggi che portano il nome “Giacomo”: due Apostoli (Giacomo il
maggiore e Giacomo il minore) ed un fratello del Signore, presentato come una colonna della Chiesa
di Gerusalemme. La lettera fu attribuita a quest’ultimo alla fine del II secolo d.C.. In questo scritto
Giacomo vuole indicare un cammino di perfezione per il cristiano; vuole mostrare la praticabilità del
cristianesimo attraverso un itinerario di fede, accennando anche alle prove che toccano la fede, messa
sotto esame da molteplici tentazioni e fragilità. È indirizzata anche a credenti che vivono la fede con
semplicità e fedeltà nelle relazioni quotidiane. Credere è affidarsi in tutta libertà e con gioia al disegno
provvidenziale di Dio. La fede è “la risposta dell’uomo alla Rivelazione di Dio”, è “lasciarsi afferrare
dalla verità che è Dio, una verità che è Amore”. Il mondo dove viviamo sembra però incapace di
accogliere il messaggio che la fede cristiana propone, spesso ci si interroga: Dio dov’è? Perché è
silenzioso? Perché non interviene? Molti ritengono di poter vivere come se Dio non esistesse,
credendo di poter scegliere quali insegnamenti del Vangelo accogliere e quali invece rifiutare. La fede
non è messa alla prova solo da fattori esterni, ma anche da interrogativi, dubbi, incertezze che si
annidano nel cuore di ogni credente indebolendolo.

Prima sezione

1. Chi è Dio
Ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, Creatore della luce.
Giacomo parlando di Dio lo presenta nell’atto del donare a tutti con semplicità e senza condizioni.
Mette in risalto l’amorevolezza e la gratuità di Dio, pronto a sgombrare il campo dal dubbio che
serpeggiava all’interno della comunità cristiana.

Dio dona a tutti con semplicità e senza condizioni


È un Padre ricco di benevolenza per tutti i suoi figli e non fa preferenze. Dio non fa discriminazioni,
è disinteressato e generoso nell’amore. L’esempio di Gesù ci assicura che la nostra preghiera fatta
con fede è esaudita: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi
chiede riceve, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto”.

Dio scegli e i poveri agli occhi del mondo


Giacomo non si limita a descrivere l’agire di Dio, ma rivela qual è la logica del suo comportamento
generoso: la scelta per i poveri, gli ultimi, i piccoli a cui promette il suo Regno. La scelta dei poveri
appare come una iniziativa libera e una elezione gratuita di Dio, dettata dall’amore; come la chiamata
a far parte del suo popolo che l’uomo accoglie come segno della sua fedeltà. Nel suo agire Dio chiama
i poveri a far parte del suo popolo, rivolgendo le sue preferenze ad essi che accolgono la sua
rivelazione; essi si rivelano “ricchi nella fede”. Dio ama l’uomo in maniera appassionata, spingendosi
fino alla gelosia e lo chiama alla comunione con sé attraverso il suo Figlio Gesù. L’Apostolo Paolo
riprende questo tema dicendo che Dio ha scelto quello che è debole per il mondo per confondere i
forti e ridurre a nulla le cose che sono. Il criterio dell’agire di Dio è quindi opposto a quello che la

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nostra società propone: ciò che per gli uomini è sicurezza o ricchezza, per Dio non conta nulla.
La gratuità del dono nel cristiano il tema del dono diviene rivelatore dell’accoglienza della parola
di Dio. Il modo di donare di Dio è opposto al nostro modo di dare, segnato dall’interesse e dal
guadagno, dal calcolo e dalla valutazione preventiva dell’incremento di capitale o di autostima. Il
tema della gratuità viene richiamato anche da Benedetto XVI in una delle sue encicliche. L’azione
del cristiano deve essere animata da un grande spirito di carità e di servizio, questo significa donare
all’altro uno sguardo fraterno, compiere un gesto d’amore, rivolgere una parola di saluto.

Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno.
Dio non può essere ritenuto responsabile delle tentazioni che assalgono l’uomo; per sua natura egli è
buono e ha fatto ogni cosa buona e bella; egli è l’autore del bene, il padrone ed il custode della vita
dell’uomo, in lui non c’è nessuna possibilità e volontà di male. “Ciò che esce dall’uomo è quello che
rende impuro l’uomo”.

Le passioni che attraggono e seducono


Il messaggio di Giacomo è rivolto ai cristiani di ogni tempo affinché riflettano sulla presenza del male
nella loro vita e nella storia degli uomini e imparino a resistere alle tentazioni. “Ciascuno piuttosto è
tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono; poi le passioni concepiscono e
generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte. Non ingannatevi, fratelli
miei carissimi.” La presenza del male nel mondo è inevitabile e combattere contro di esso è una lotta
impari; il mal fa parte della condizione dell’uomo sulla terra e non potrà mai essere sconfitto, al
massimo sarà possibile tentare di arginarlo. L’origine del male non è in Dio, ma nell’uomo che si
chiude nel suo amore e non riesce più a ritrovare nella sua esistenza quei legami di bontà che lo
uniscono al Creatore, né ascoltare quelle parole che nascono da un cuore pieno di amore. La chiusura
verso Dio si ripercuote nel rapporto con se stesso, con i propri simili e con l’intero creato.

2. Chi è il cristiano
Giacomo considera cristiani tutti quelli che amano il Signore nostro Gesù Cristo con amore
incorruttibile. Tre definizioni del cristiano:

Primizia delle sue creature


L’immagine di cui si serve per definire il cristiano è presa dal mondo contadino e dalla tradizione
religiosa del popolo di Israele: il cristiano è “una primizia delle sue creature”. Il vocabolo “primizia”
contiene in sé l’idea di inizio, di un qualcosa a livello ancora embrionale che è destinato a crescere.
Le primizie sono i nuovi frutti del primo raccolto che il contadino si appresta a mietere, dopo aver
gettato il seme e lavorato il terreno; sono il segno della benedizione di Dio e dell’abbondanza
fiduciosa del raccolto. Le primizie sono i primi frutti che la terra ha prodotto, poca cosa rispetto alla
quantità che si prevede di mietere. Il cristiano è una primizia di una lunga schiera di credenti pronti a
testimoniare la loro fede nel “Signore della gloria”.

Generati per mezzo della parola di verità


Il verbo “generare” richiama l’immagine della nascita, il suo significato si può estendere al
sacramento del Battesimo nel quale gli uomini sono generati alla vita divina. Giacomo poi descrive
l’origine del peccato e la generazione a opera di Dio: all’origine del peccato c’è l’inganno della
seduzione, all’inizio della seconda c’è l’intervento libero e gratuito di Dio che ci ha generati “per
mezzo della parola di verità”. L’azione di Dio libera l’uomo dai legami della colpa. San Paolo presenta
la vita cristiana come una nuova nascita, il dono della vita nuova in Cristo. L’autore della nostra
salvezza è Dio, ci ha salvati mostrandoci il suo amore e la sua infinita misericordia. Il luogo della
generazione non è più il grembo materno, ma il fonte battesimale.

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Il bel nome che è stato invocato su di voi
Giacomo sta muovendo rimproveri ai ricchi che con il loro comportamento dimostrano di non tenere
in nessun conto la fede nel “Signore della gloria”, anzi con le loro prevaricazioni sono di cattivo
esempio ai credenti, per lo più di umili condizioni, e gettano il discredito sull’intera comunità. Nel
nostro contesto il richiamo al nome di Gesù diviene un dono “noi non ci facciamo cristiani”. Possiamo
considerare il fatto di diventare cristiani come un’azione passiva, poiché è Dio che agisce per primo,
e ci chiede di mostrare nella nostra vita, giorno dopo giorno, la nostra nuova identità. Con il Battesimo
ci unisce a tanti fratelli e sorelle che condividono la stessa fede nel Signore Gesù e portano il suo
nome. Noi tutti portiamo un nome e con esso siamo conosciuti e amati, il nome ci identifica e permette
che il nostro ricordo non si sbiadisca nel tempo. Anche Dio ci conosce per nome e ci fa suoi figli, ci
prende per mano per condurci lungo le strade della vita. Il sostantivo “cristiani” deriva da Cristo, che
è la traduzione greca della parola ebraica “Messia” e significa “Unto”. I cristiani sono consacrati
attraverso l’unzione dello Spirito Santo per continuare la sua opera “Essere cristiani vuol dire:
provenire da Cristo, appartenere a cristo”. Vi è dunque un profondo legame tra il nome che riceviamo
nel Battesimo e il nome che è invocato su di noi, il segno che Dio ci conosce e stabilisce con noi una
comunicazione: siamo proprietà di Cristo. Anche il popolo di Israele si considerava “proprietà” di
Dio, questo era un titolo onorifico che indicava la sua particolare condizione di popolo scelto dal
Signore. Con il Battesimo i cristiani sono diventati la “nazione santa, popolo che Dio si è acquistato”.
Il Battesimo è una prima tappa della risurrezione e della vita senza fine.

Il cristiano e la cultura della vita tutto ciò che ha inizio sulla terra prima o poi è destinato a finire,
come l’erba che germoglia, al mattino fiorisce e alla sera è secca. Nel battesimo l’essere umano riceve
il dono di una vita nuova, per una esistenza piena di grazia e di amore, che lo rende capace di entrare
in relazione personale che Dio Padre e Creatore, non solo una volta, ma per tutta l’eternità. Nella sua
libertà l’uomo ha la possibilità di chiudersi nel rifiuto di questo dono con il peccato. La Sacra Scrittura
paragona il peccato a una seconda morte, dalla quale solo l’intervento di Dio può strapparci. Peccato
e verità si oppongono nella vita del cristiano fino a identificare due diversi stili di vita. Il frutto del
peccato è la rottura del rapporto con Dio; “la parola di verità” ci invita a fissare lo sguardo su Gesù
“via, verità e vita”. Il cristiano è chiamato a operare nel mondo affinché si affermi la cultura della
vita; essere discepoli di Cristo significa proprio emanciparsi e liberarsi dai condizionamenti della
cultura della morte, nella quale le verità non ha nessun valore.

3. Il valore delle prove


Le prove della fede Giacomo si rivolge ai destinatari usando l’appellativo “miei fratelli”; altre
volte li designa con “fratelli miei carissimi”, oppure solo con “fratelli”. Probabilmente si tratta della
comunità a cui egli è legato da un sincero vincolo di affetto, rafforzato dalla fede e dalla carità che
viene dal Signore. Questo legame di fraternità ha la sua radice in Cristo e si rafforza nell’ascolto
docile della sua parola.

Considerate perfetta letizia ogni sorta di prove


La perfetta letizia è un modo di vedere e considerare le prove con uno sguardo di fede; è un dono di
Dio, ma insieme, è anche il frutto di una ricerca e di una unione con lui. Le prove hanno un valore
educativo insostituibile, verificano la saldezza e la fermezza della fede. Infatti la fede si rafforza
attraverso le prove, acquista saldezza e consistenza, supera tentennamenti e dubbi. Il cristiano deve
tendere alla coerenza, alla corrispondenza tra quello che professa con le labbra e quello che mette in
pratica ogni giorno. Il cristiano è consapevole che la sua vita sarà sottoposta alle prove, ma non per
questo la sua fede dovrà indebolirsi.

La corona della vita, che il Signore ha promesso a quelli che lo amano


Giacomo dice “Beato l’uomo che resiste alla tentazione, perché dopo averla superata, riceverà la
corona della vita, che il Signore ha promesso a quelli che lo amano”. Egli proclama “beato l’uomo

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che davanti alla prova non ha ceduto alla tentazione: riceverà la corona di gloria che non appassisce”.
La corona era concessa ai vincitori delle gare come simbolo di successo e di gloria. L’Apostolo Paolo
fa ricorso alla medesima metafora.
Amare Dio significa dare a Lui il primo posto, non dividere questo primato con nessun altro; questo
amore non è un sentimento passeggero, dettato da uno slancio emotivo o da una sensazione di
benessere spirituale, ma trova sorgente e motivo di crescita nelle varie difficoltà della vita. Il Signore
promette la felicità e la beatitudine eterna nel Regno dei cieli a coloro che sono poveri in spirito, miti,
umili, operatori di pace.

Il frutto delle prove nella riflessione di Giacomo le prove sono occasione di verifica della fede nel
Signore.

La perseveranza nelle prove


Le prove scardinano questo schema e mettono a nudo la nostra concezione di Dio, ci spogliano di
tante incrostazioni riguardo al suo volto. Davanti alle prove che la vita ci consegna, siano esse grandi
o piccole, percepiamo un senso di impotenza e di smarrimento, di solitudine e di sconforto. Ogni
prova è una ferita inferta al nostro amor proprio, provoca la nostra pazienza e la nostra capacità di
sopportazione, ci fa sentire deboli e fragili, svela il senso del limite che avevamo trascurato pensando
di riuscire in ogni impresa. Le preoccupazioni legate al futuro possono generare una situazione di
incredulità nella quale la persona, prima che affidarsi a Dio, si appoggia in cerca di sicurezza su se
stessa, sulle sue competenze e sulle risorse economiche, su chi offre aiuto chiedendo un prezzo da
pagare. Giacomo ci invita a guardare non solo alle prove nelle quali possiamo cadere, ma considerare
anche quelle che si riflettono su di noi. Il Signore ci invita a non sottrarci alle prove, ma a guardare
in faccia, ad affrontarle sapendo che non sono più grandi delle nostre forze e non possono schiacciarci
sotto il loro insopportabile peso. Se ci chiudiamo nel nostro ambiente, se non usciamo dall’egoismo,
sperimenteremo soltanto la prova della frustrazione personale.

La perfetta letizia
Essa rimanda all’esperienza spirituale di Francesco d’Assisi. È proprio dall’esperienza pasquale
dell’incontro con Cristo crocifisso che Francesco ha sperimentato in tutta la sua vita, la sorgente della
perfetta letizia. Per spiegare il significato di questa perfetta letizia si serve di un esempio e narra la
condizione disagiata di due viandanti stremati dalla fatica e intirizziti dal gelo. Per 4 volte dice a frate
Leone di scrivere che la perfetta letizia non consiste nei miracoli operati, nella comprensione delle
lingue e dei segreti delle coscienze, nella conoscenza del corso delle stelle e delle virtù delle piante e
di tutti gli elementi della natura e neppure nel saper predicare bene tanto da convertire gli infedeli. Il
Signore Gesù è la fonte e la ragione della vera letizia; san Francesco d’Assisi proclamerà nelle Lodi
all’Altissimo “Tu sei gaudio e letizia”. Nei momenti di tentazione e di prova ha il coraggio di restare,
in questa condizione di solitudine, povero davanti a Dio; non esita ad abbracciare la Croce e ad
accettare la sua divina volontà, portando nel suo corpo i segni della passione di Cristo. Dalla perfetta
letizia nasce in ciascuno di noi una condizione di serenità interiore, di pace in ogni situazione, anche
nei momenti e nelle opere più faticose e dolorose.

La gioia
Non ci può essere letizia senza gioia. La gioia non è un sentimento di breve durata, una condizione
di allegria o di spensieratezza che aiuta a dimenticare problemi e difficoltà per qualche istante. Per il
cristiano la vera gioia è diversa, è il dono che il Signore risorto ha fatto ai suoi discepoli insieme alla
pace apparendo la sera di Pasqua nel chiuso del Cenacolo e sconfiggendo le loro paure. La persona
che vuole bene a qualcuno è pronta a soffrire a vantaggio di chi ama e la ragione della sua disponibilità
sta nell’amore, amando in maniera gratuita sperimenta una gioia grande, profonda e perfetta. “Dio
ama chi dona con gioia”.

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4. La pazienza del cristiano
Le prove infondono nel cristiano l’attitudine virtuosa della pazienza. La pazienza diviene il primo
dono che la fede vagliata e purificata dalle prove produce in noi, affinché siamo perfetti e integri
quando si manifesterà il Signore Gesù.

La pazienza delle prove la pazienza è un atteggiamento e una virtù cristiana poco praticata; anche
il sostantivo ha smarrito molto del suo significato originario, assumendo una connotazione negativa:
indica sopportazione silenziosa, passiva, assenza di reazione. Nel Primo Testamento la pazienza è
attesa dell’intervento di Dio; si configura come un’attesa coraggiosa e tenace del Signore, assume il
valore di resistenza e sopportazione nei confronti del mondo che si oppone al Vangelo di Gesù. Nel
mondo greco la sorgente della pazienza risiede nelle capacità dell’uomo; nel mondo ebraico il
credente non trova in sé la forza di resistere, ma essa gli viene da Dio. Nel Nuovo Testamento la
pazienza è coraggio e fermezza nell’affrontare le prove a cui la fede è sottoposta, fino all’effusione
del sangue nel martirio; contando sull’aiuto di Dio, il cristiano non viene meno nella fedeltà al Signore
in quanto sorretto dallo Spirito Santo.

La pazienza dell’attesa “Siate dunque costanti fratelli fino alla venuta del Signore. Guardate
l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finchè abbia ricevuto le prime e le
ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è
vicina”. La pazienza è definita makrothymìa, che letteralmente significa “grandezza d’animo”; in
riferimento a Dio indica due atteggiamenti: il primo è il tempo che egli dona all’uomo in attesa della
sua conversione, il secondo indica la sua grandezza di cuore e la sua misericordia verso i peccatori.
La pazienza è la capacità di saper aspettare il compimento. Giacomo propone ai suoi lettori l’esempio
dell’agricoltore che, dopo aver seminato, attende pazientemente che cada la pioggia dal cielo e bagni
la terra, affinché il seme dia il suo frutto. Egli sa che una volta gettato il seme, deve aspettare che
passino settimane prima che possa vedere l’esito del proprio lavoro; la sua attesa sarà sempre
accompagnata dalla certezza che una volta deposto nel terreno il seme spunterà e darà frutto.
L’appello di Giacomo è dettato dalla pazienza “Rinfrancate i vostri cuori perché la venuta del Signore
è vicina”. La pazienza è la virtù che si oppone all’affanno e all’ansia che segnano la nostra vita, alla
perdita di fiducia e allo smarrimento, alla ricerca di mezzi per alleviare il dolore. Gesù è la vera
presenza di Dio nel mondo, una presenza salvatrice, che porta a compimento le speranze antiche e
dona agli uomini la salvezza. Giobbe è il protagonista dell’omonimo libro della Bibbia e viene
presentato come il modello dell’uomo giusto e saggio che, messo alla prova, non è venuto meno nella
sua fede, non ha rinnegato Dio. Il cristiano non deve attendersi di essere ricompensato con benefici
economici per la sua pazienza, bensì sperare come premio i beni eterni promessi dal Signore.

Il cristiano e la pazienza Molti Padri della Chiesa e autori spirituali hanno dedicato le loro opere
al tema della pazienza e della perseveranza nelle prove; Cipriano, vescovo di Cartagine, morto
martire, afferma “L’origine e la grandezza della pazienza hanno Dio per autore”. La società in cui
viviamo ci appare sempre più incapace di vivere una ritualità alla base della quale c’è il senso
dell’attesa. Fino a pochi decenni fa, la preparazione alle grandi feste cristiane era preceduta da novene,
penitenze e preghiere per giungere meglio predisposti alla loro celebrazione in chiesa e in famiglia.
Purtroppo questo sentimento di attesa è smarrito, tutto viene vissuto nella frenesia dell’ultimo
momento. Quando non si è più capaci di attesa, diviene inevitabile lamentarsi di tutto e di tutti. Il
cristiano deve essere vigilante in attesa del ritorno del Signore, perché non conosce né il giorno né
l’ora in cui tornerà. “Vero paziente è colui che indifferentemente tutto accetta con animo grato dalla
mano di Dio; anzi lo ritiene un vantaggio grande, poiché non c’è cosa, per quanto piccola, che passi
senza ricompensa presso Dio”.

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5. Ascoltare la parola di Dio
Il cristiano è uno che ascolta e che accoglie la parola di Dio, è uno che mette in pratica la parola
appresa.

Ognuno sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all’ira.


Le virtù che devono caratterizzare il cristiano sono: fermezza, pazienza, serenità nel giudizio, ricerca
del bene, lotta contro il male. Queste virtù umane diventano cristiane nel momento in cui la loro
finalizzazione è per la “gloria di Dio”. Non sempre una comunicazione rapida favorisce l’ascolto, il
rumore continua ad assediare la vita delle nostre città, mentre la ricerca del silenzio rischia di smarrirsi
sotto il peso di un ritmo incalzante di impegni e di messaggi. La base necessaria per esercitare
l’ascolto vicendevole è il silenzio, senza di esso chi ascolta non può distinguere le parole che
giungono e farle riecheggiare nel suo animo. “Silenzio e ascolto si richiamano reciprocamente. Il
silenzio è l’inizio dell’ascolto, ma l’ascolto a poco a poco ci rende a sua volta silenziosi, fa tacere in
noi quello che ci impedisce di sentire, a cominciare dal rumore della nostra agitazione permanente”.
L’ascolto non è un atteggiamento automatico, richiede esercizio e volontà, capacità di accoglienza a
partire da ciò che viene detto. L’ira è nemica della carità e della giustizia, dell’attenzione solidale del
fratello e del cammino verso la santità.

Liberatevi da ogni impurità e da ogni eccesso di malizia. Accogliete la parola che è stata piantata in
voi.
Il cristiano è chiamato a liberarsi non solo dall’irascibilità, ma anche dall’impurità e dalla malizia, la
sua esistenza dovrà brillare per lo splendore e il candore per essere pronto ad accogliere la parola di
Dio. “Liberatevi” vuol dire abbandonare qualcosa a cui siamo legati, quegli atteggiamenti che ci
incatenano. “Togliete via il lievito vecchio per essere pasta nuova, poiché siete azzimi”.
“Accogliete” significa fare spazio e ospitare, allargare i paletti della propria tenda, permettere a
qualcuno di entrare nella propria casa; in questo verbo è presente la dimensione affettiva; l’estraneo
non è più forestiero, diviene una persona conosciuta. Il cristiano deve ospitare la parola che viene da
Dio come un dono che esige spazio interiore, ove metterla in pratica con disponibilità. Giacomo invita
ad accogliere con “docilità” la parola; questo vuol dire avere un cuore semplice e puro, uno sguardo
limpido e sereno, un’esistenza coerente con la scelta di seguire Cristo Fatta il giorno del Battesimo.
La prontezza nell’ascoltare e nel parlare, il non cadere nella trappola dell’ira, la pazienza e la
pacatezza nei rapporti fraterni dimostrano che il battezzato ha abbandonato li idoli per servire il Dio
vivente. La parola è comunicazione di Dio, è una parola potente e creatrice, rivela chi è Dio e all’uomo
la sua grandezza e dignità. Nel Nuovo Testamento l’immagine ci porta a riconoscere che il seme
piantato è la parola di Dio. Numerose parabole hanno come soggetto il seme che il seminatore esce a
seminare in un campo. Il granello di senape è il più piccolo di tutti i semi, “ma quando viene seminato,
cresce e diviene più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli possono
fare il nido alla sua ombra”.

Esecutori della parola di Dio dopo l’ascolto e l’accoglienza, il discepolo di Gesù è chiamato a
mettere in pratica la parola che ha ascoltato e a costruire la sua casa su questo solido fondamento
capace di resistere ai venti e alle piogge violente.

Siate quelli che mettono in pratica la parola di Dio


Il cristiano che ascolta la parola di Dio senza tradurla in gesti concreti di carità è paragonato a un
uomo che si illude e si inganna, convinto di avere la coscienza a posto; in realtà assomiglia a un uomo
che si contempla allo specchio. Le prime volte si sofferma con molta attenzione, con il passare del
tempo l’abitudine e la fretta prendono il sopravvento ed egli dedica sempre meno tempo a guardare
il suo volto riflesso oppure a controllare il suo aspetto.

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Non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi
L’esteriorità diviene il pericolo da cui guardarsi, spesso è dettata dalla fretta e dall’urgenza di
intervenire, in profondità può nascondere una instabilità e una incapacità a eseguire e ordinare i propri
impegni, a definire il ritmo della propria giornata, a rendere operoso il tempo che Dio ci dona. La
fretta nasconde l’impazienza e la mancanza di amore verso se stessi, gli altri e il Signore. Ogni attesa
equivale a una perdita di tempo e di denaro, gli incontri devono essere consumati in breve tempo, a
scapito della profondità e della sincerità delle relazioni. La persona che ha accolto in maniera
superficiale e frettolosa la parola di Dio assomiglia al terreno pietroso e pieno di erbe infestanti, si
lascia soffocare dalle preoccupazioni, dalle ricchezze e dai piaceri della vita e trascura il messaggio
di Dio. Dimenticare la propria immagine significa sostituire al vero Dio una sua immagine sbiadita,
una copia imperfetta, ma anche trascurare la grandezza della propria origine, poiché l’uomo è fatto a
immagine e somiglianza di Dio. La parola del Signore si comporta come uno specchio nel quale
ciascuno può riflettersi e scoprire la verità.

6. Mettere in pratica la parola di Dio

La parola ascoltata e accolta chiede di essere realizzata nell’operosità della vita. La parola di Dio è
stabile nei cieli ed insegna i suoi comandi

Lo sguardo sulla legger perfetta, la legge della libertà


Giacomo aveva definito la parola di Dio “parola di Verità”; “parola che può portare alla salvezza. Ora
è la legger perfetta, la legge della libertà, “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio
cammino”. “Nei tuoi decreti è la mia delizia, non dimenticherò la tua parola”. La legge del Signore
diviene “nel contempo rivelativa e normativa”. Chi la mette in pratica è paragonato a un costruttore
che si affatica sotto il sole per realizzare il suo fabbricato. Chi ascolta la parola del Signore si deve
comportare nello stesso modo; è la parola ad indicargli l’inizio della sua fatica, il percorso da seguire
e la meta da raggiungere: la sanità e la comunione con Dio. Ascoltare e mettere in pratica la parola di
Dio è un’opera che richiede impegno, concentrazione, riflessione attenta, calma interiore e dedizione,
costanza nella fatica, sacrificio e impegno. Il metodo della Lectio Divina è un utile percorso per
avvicinarsi alla parola del Signore, leggerla con frutto e trasformarla in preghiera. Per il cristiano,
verità, salvezza e libertà non sono idee o concetti filosofici sui quali esprimere opinioni: la verità non
è l’opposto della falsità e dell’errore, la salvezza non consiste in una prospettiva salutista; la libertà
non è la liberazione dell’oppressione; sono una persona: Gesù di Nazaret.

Il valore della legge


Siamo abituati a considerare il valore normativo della legge; essa ci obbliga a fare qualcosa, oppure
contiene divieti e restrizioni. La legge non ammette trasgressioni. Nella cultura contemporanea,
l’uomo è libero quando ha trovato in sé, nella sua ragione, la fonte del suo agire; la libertà
dell’individuo non accetta vincoli e restrizioni se non quelli del rispetto dell’altro. Nelle nostre società
si sta affermando un clima di confusione tra diritti e doveri dell’individuo e diritti e doveri della
persona. La persona si definisce a partire dalla relazione con i fratelli; l’individuo si descrive sempre
in opposizione agli altri, le sue richieste sono quasi sempre poste per affermare la sua autonomia dalla
comunità che impedisce l’affermazione della sua personalità. L’individuo si distanzia dai principi di
comunione e di unità che regolano la vita della comunità, mettendo in discussione il principio
dell’autorità che la guida. Per un cristiano la libertà non è mai liberazione da obblighi e imposizioni,
è una libertà che promuove la vita, vince il male là dove si annida, sconfigge l’orgoglio e l’egoismo,
afferma il bene. Giacomo offre una nuova definizione della legge. Agire in conformità alla legge della
libertà significa adempiere “la legge regale”, la legge data dal Re, il Signore Gesù che ha percorso la
strada per salire sulla croce e allargare le sue braccia per amare tutti gli uomini come il cammino
verso l’esaltazione e la regalità. L’amore è perfezione.

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L’ascoltatore che mette in pratica la parola di Dio
L’ascolto e la meditazione della parola di Dio è un impegno che va atteso e preparato con cura,
sapendo che al centro non ci sono le nostre attese e i nostri bisogni, ma c’è Dio. All’attesa si devono
unire la pazienza e la perseveranza di chi intraprende un’opera con il vico desiderio di portarla a
compimento con l’aiuto del Signore; il desiderio di poter gustare questo dono e condividerlo giorno
dopo giorno; la gratitudine di chi riceve un regalo dall’alto; Gesù è la parola, il Verbo di Dio che si è
fatto carne. Il tempo donato a Dio tornerà a noi con effetti benefici, ci porterà serenità, gioia e luce
interiore.

Il primo passo dell’itinerario: l’attenzione


L’itinerario proposto da Giacomo prende avvio con l’attenzione che si deve prestare alla voce di Dio;
segue l’ascolto pronto della sua parola; il terzo passo è la meditazione; il successivo grado consiste
nel metterla in pratica; l’ultimo passo conduce all’esercizio della memoria, alla preghiera e alla lode
per i benefici operati dal Signore. Comprendere il valore dell’attenzione significa lottare contro i
pensieri che sorgono nella nostra mente e allentano la nostra concentrazione, spostandola verso un
altro oggetto d’indagine.

Il secondo passo dell’itinerario: l’ascolto


Ascolto attento e profondo, sincero e umile della parola di Dio. Per il cristiano l’ascolto è fecondo
quando è frutto della fede, l’esito di una lunga frequentazione della Bibbia. L’ascolto richiama il
fermarsi attento e paziente, libero da ogni superficialità dinnanzi alla parola di Dio, che va ascoltata
con calma, va compresa in ogni sua sillaba. Ascoltare significa accoglier Dio; il luogo dove esercitare
l’ascolto è il cuore. L’ascolto attento di Dio aiuta a vincere i nostri limiti e le nostre fragilità. Il punto
di arrivo dell’ascolto è la capacità di amare nelle verità; la vittoria su se stessi, sul proprio egoismo,
sulle proprie chiusure. Il cristiano si deve mostrare capace di ascolto gratuito.

Il terzo passo dell’itinerario: la mediazione


Le parole udite si fissano nel cuore e ritornano continuamente nella riflessione: se una parola o una
breve frase ci colpisce la ricordiamo per tutta la giornata. La meditazione è un esercizio che richiede
dedizione.

Il quarto passo dell’itinerario: l’azione


Mettere in pratica la parola di Dio; Giacomo attribuisce a questa esortazione il significato di uno
studio attento. Il cristiano che si accosta al testo sacro non si deve limitare, pertanto, a leggerlo oppure
ad ascoltarlo frettolosamente, ma deve approfondirne il significato, meditarlo, lasciando che la sua
vita sia illuminata dalla parola di Dio. Mettere in pratica la parola significa obbedire ad essa, far sì
che il compimento della volontà del Signore sia il desiderio del credente e la sorgente del suo amore
e della libertà. L’obbedienza è il coronamento dell’ascoltare, il frutto del dialogo intriso di amore tra
Dio e l’uomo, il traguardo a cui conduce la fede; modello di ogni obbedienza è Cristo, che si è umiliato
fino alla morte di croce.

Il quinto passo dell’itinerario: la memoria


L’ultimo passo dell’itinerario di ascolto della parola si collega all’esercizio della memoria. Per la
Bibbia lo smemorato è la persona indaffarata che si occupa contemporaneamente di più cose, senza
di riuscire a venire a capo di nulla, il suo modo di fare è segnato dalla fretta, dal disordine e da uno
stato di permanente agitazione. Comportandosi frettolosamente non riesce a dare importanza alle sue
parole e alle sue azioni, per questo si dimentica subito cosa deve fare, con la sua mente non riesce a
concentrarsi su nulla ma, preso dall’ansia, si illude di riuscire a controllare ogni cosa. La nostra società
è definita senza memoria, preoccupata del presente e proiettata verso un futuro incerto da costruire.
La memoria costringe a volgere lo sguardo al passato con serenità al fine di comprendere il presente
e illuminare il futuro; il cristiano sa che tale capacità in lui è generata dallo Spirito Santo, fonte di

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sapienza. La testimonianza del cristiano sarà sempre caratterizzata dalla gratitudine e dalla lode per
la fedeltà e la grandezza della misericordia del Signore, dal ringraziamento per la sua bontà e
dall’impegno di fissare nel cuore e nella mente il cammino compiuto dai suoi servi. In questo modo
memoria e preghiera si fondono in un unico atteggiamento eucaristico e diventano espressioni di
supplica, grido di intercessione, canto e lode, contemplazione delle meraviglie compiute dal Creatore.

Seconda sezione

1. La comunità di Giacomo
L’obiettivo qui si sposta sul rapporto tra il discepolo di Gesù e la comunità cristiana. Giacomo
scrivendo la sua lettera si rivolge ai credenti che vivono nella diaspora e avvertono l’importanza e la
fatica di costruire rapporti di fraternità; essi hanno ben viva la consapevolezza di essere il popolo
nuovo che Dio si è scelto e ha chiamato a proclamare la sua misericordia. Emergono però dei tratti
che sono poco coerenti con le esigenze della vita cristiana: credenti esitanti, indecisi, incapaci di fare
del bene, tentati dal peccato, che non riescono a dominare le proprie passioni, che preferiscono
lasciarsi dominare dall’invidia, che si reputano maestri saggi, che non sanno controllare le parole e
che giudicano con arroganza e superficialità.

Il dubbioso, l’indeciso, l’instabile


Giacomo descrive tre tipologie di membri della comunità che contrastano con il volto del cristiano
che è andato componendo. La persona dubbiosa è fragile davanti alle prove della vita; ha l’animo
doppio, simile all’onda del mare che il vento spinge verso la riva e la risacca fa tornare indietro. La
persona dubbiosa che Giacomo ha descritto, corrisponde al ritratto di uno dei membri della comunità:
è una persona che si interroga su qualunque argomento, eterna ricercatrice, sempre insicura e
insoddisfatta; è esitante e oscillante nei giudizi. Assomiglia a una barca abbandonata e trasportata dal
mare. Non getta mai l’ancora della nave in Dio. L’indeciso è paragonato a una persona che vuole
amare contemporaneamente due cose opposte. È l’uomo dalle due anime, in perenne contraddizione
con se stesso; al suo dire non corrisponde mai il fare, è incapace di amare Dio con tutto il suo cuore.
La figura dell’indeciso si avvicina a quella dell’instabile. L’instabilità rende l’uomo tormentato dai
suoi dubbi, incapace di raggiungere la felicità. Nessuno però può sfuggire completamente al dubbio,
ma nemmeno alla fede. Il cristiano è chiamato a costruire la sua esistenza, la sua casa, sulla solida
roccia che è Cristo Signore.

L’orante che invoca sapienza


Per Giacomo l’atteggiamento che si oppone al dubbio risiede nella ricerca della sapienza. La sapienza
è dono da chiedere a Dio. Il libro della Sapienza custodisce un esempio per ottenerla.

Il povero e il ricco
Costituiscono il secondo gruppo di fedeli che si trova nella comunità, in continuo conflitto tra loro. Il
povero è il fratello di umili condizioni che conduce un’esistenza precaria, è la persona che è
sottomessa a chi è potente e non osa lamentarsi della sua umile condizione. La Bibbia parla della
condizione di povertà riferendosi anche ai fratelli d’Israele ridotti in schiavitù, ma questi confidano
in Dio. Il ricco invece indica non solo colui che possiede ricchezze, ma anche chi è potente e temuto,
invidiato dai cittadini. L’immagine del ricco contrapposto al povero costituisce un motivo ricorrente
nella Bibbia. La ricchezza però rischia di rivelarsi effimera e di breve durata, per questo Giacomo la
paragona al fiore del prato che al mattino si presenta in tutto il suo splendore, ma alla sera è appassito
sotto i raggi del sole. Giacomo mette in guardia i fedeli dal rischio di basare la propria sicurezza sulla
ricchezza.

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Gli orfani e le vedove
Nel popolo di Israele gli orfani e le vedove erano le categorie che non avevano nessuna tutela sociale,
vivevano dell’elemosina e della generosità delle persone buone, spesso erano vessate dai potenti e
vittime di ingiuste oppressioni. Giacomo rivela l’urgenza di soccorrere le vedove e gli orfani. Visitare
gli orfani e le vedove, soccorrere i malati, significa accorgersi della loro presenza nella vita della
comunità e comprendere il bisogno di prestare il necessario aiuto.

I malati
Un posto particolare viene occupato dai malati, membri a pieno titolo della Chiesa. Benché non sia
specificata la loro malattia, essa sicuramente costituisce un impedimento grave, fino al punto che
questi credenti sono costretti a disertare l’assemblea riunita per la celebrazione eucaristica, oppure
versano in grave pericolo di vita. L’unzione di malati con olio è accompagnata dalla preghiera che
viene compiuta nel nome del Signore dai ministri della Chiesa. Accanto ai credenti si incontrano
fedeli dalla fede incerta e debole, che non riescono o non vogliono comprendere l’incoerenza dei loro
comportamenti, spingendosi fino a costruire una religiosità e una morale a propria misura.

2. Combattere i favoritismi personali


Il primo pericolo è rappresentato dai favoritismi che privilegiano un credente rispetto a un altro
fratello, con la prospettiva di trarre beneficio dal rapporto particolare che si creerà. Il secondo pericolo
è generato dalla contrapposizione tra fede e opere. Infine il terzo rischio che minaccia la comunità
cristiana è individuato nel cattivo uso della lingua, nella maldicenza, nella chiacchiera inconcludente
e insipiente. La fede del cristiano deve essere immune dai favoritismi personali. Il Signore non guarda
l’apparenza come fa l’uomo che si lascia catturare dall’esteriorità. Dio agisce in modo opposto
rispetto alla logica che prevale nel mondo: il mondo guarda l’apparenza, esalta la potenza e la
ricchezza; egli volge lo sguardo sull’umile, su chi si affida a lui rinunciando agli appoggi umani.
L’Apostolo Paolo aveva messo in guardia i cristiani di Corinto dal pericolo delle discriminazioni, il
suo appello a lottare contro i favoritismi personali si richiamava alla comunione e alla prassi
eucaristica.

Il ricco vestito lussuosamente


Alla categoria dei ricchi non appartengono solo coloro che possiedono beni me denaro, ma quanti
assumono un comportamento in contrasto con lo spirito di fraternità e con il precetto della carità,
abusano della loro posizione sociale per opprimere i poveri e defraudarne il giusto salario,
guadagnando in modo illecito. La loro arroganza li porta a vantarsi della loro condizione e a
dimenticare il precetto della carità; per difendere i loro privilegi e i loro guadagni sono disposti a
utilizzare ogni mezzo, anche illecito. Nella categoria dei ricchi ci sono anche coloro che si
comportano in maniera arrogante e presuntuosa.

Il povero con un vestito logoro


Le discriminazioni e le preferenze tra le persone generano rivalità e contese in ogni comunità, nella
società e nella Chiesa; sono “il segno e il frutto di una mentalità ammalata”. I favoritismi e i privilegi
di un gruppo o di un singolo individuo rispetto alla collettività indeboliscono il diritto di ogni persona
a partecipare alla vita della comunità, ostacolano la possibilità di realizzare le sue aspirazioni a
un’esistenza dignitosa e offuscano la luminosità del messaggio evangelico. Nella comunità ecclesiale
i favoritismi si presentano in maniera più sottile e ambigua.

La legge dell’amore La fede in Gesù, la pazienza nelle prove e la saldezza nei dubbi non
ammettono favoritismi personali. Cedere sarebbe un modo per accogliere la logica del mondo.
Chiunque bussa alla porta della nostra casa, non ha importanza se ricco o povero, dovrebbe
riconoscere in ogni nostra parola e azione l’amore di Dio per le sue creature e la stessa compassione
che Gesù ha mostrato alle folle che accorrevano a lui da ogni luogo. Misericordia significa possedere

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un cuore grande, capace di accoglienza e di comprensione, di compassione e di solidarietà fraterna.
È l’atteggiamento che permette agli uomini di incontrarsi tra loro attorno a quel valore che è l’uomo
stesso, con la dignità e il rispetto che gli sono dovuti in quanto creatura plasmata dal divino Creatore.

3. Non contrapporre fede e opere


La fede ha bisogno di tradursi in gesti di amore fraterno e di giustizia sociale. Il rischio è che tutto
scivoli verso la superficialità e l’apparenza, nella fretta di voler esibire a qualsiasi prezzo un
comportamento senza anima. Le opere del cristiano sono il frutto delle verità e della fede e
dell’autenticità dell’ascolto nella parola del Signore.

La fede se non è seguita dalle opere è morta La contrapposizione tra fede e opere dà luogo a un
serrato dibattito all’interno della comunità; si scontrano due fazioni: coloro che sostengono di poter
dimostrare la fede senza le opere e quelli che affermano la necessità che la fede si traduca in gesti
concreti di carità.

Il difensore
Giacomo introduce il confronto tra 3 personaggi e il primo di questi è il difensore. La fede esige la
concretezza dell’azione come prova della sua verità, senza opere non serve a nulla, è imperfetta,
assomiglia a una fiamma spenta che un uomo dovrebbe accendere allo scopo di illuminare il locale
dove si trova. “Così anche la fede se non è seguita dalle opere in se stessa è morta”. Il Signore conosce
le molteplici forme di povertà degli uomini, condivide i bisogni e le necessità dei suoi fratelli. È la
fede che permette di riconoscere Cristo ed è il suo stesso amore che spinge a soccorrerlo ogni volta
che si fa nostro prossimo nel cammino della vita.

L’accusatore
“Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò
la mia fede” “Non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità”. La tesi di Giacomo
si rivela di grande attualità per interpretare il nostro vissuto; dietro la separazione tra fede e opere si
può nascondere la tendenza a non voler vedere i poveri, limitandosi a mostrare verso di essi un
sentimento di compassione e di vicinanza puramente verbale. Oggi i poveri sono sempre in aumento,
vivono in situazioni di bisogno e bussano alle porte della comunità cristiana in cerca di aiuto.

L’interpellante
Giacomo inserisce nella discussione un terzo personaggio. “Insensato, vuoi capire che la fede senza
le opere non ha valore?” La sua posizione non ha consistenza, è un puro esercizio di retorica; l’esito
di un ragionamento che lo allontana dall’insegnamento di Gesù e lo condanna alla sterilità.

L’esempio di Abramo e di Raab


“Abramo non fu forse giustificato per le sue opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare?” La
fede agiva insieme alle opere di lui, e per le opere la fede divenne perfetta. E si compì la scrittura che
dice: Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia; ed egli fu chiamato amico di Dio.
Nell’accogliere e nel lasciarci educare dal dono della fede non dobbiamo preoccuparci dei nostri
meriti, Dio chiama in maniera assolutamente libera. Invita a guardare la figura di Raab, prostituta che
aveva dato ospitalità a degli esploratori. Questa donna ottenne così la salvezza dal Dio di Israele.

Aver cura della propria fede


È la prima azione da compiere. Gli apostoli la consideravano come una questione di quantità; al
contrario Gesù afferma che è questione di qualità. Il granello di senape è il più piccolo di tutti i semi.
Molti riducono la fede alle verità appese da piccoli durante il cammino di preparazione ai sacramenti,
altri la riducono alle nozioni apprese durante lo studio, oppure la ritengono un compendio di norme
di comportamento morale. Una simile considerazione la riduce a una semplice considerazione teorica.

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La fede invece si accresce attraverso la parola, l’esercizio e la preghiera.

Dimensione pubblica della fede


La fede per sua natura richiede di essere vissuta e messa in pratica in maniera visibile e concreta. È
riconoscere Dio come centro dell’esistenza, è conoscere il Padre e lasciarsi avvolgere dallo Spirito
Santo, lasciare che Cristo viva in noi. Attraverso la sua condotta il cristiano offre la sua testimonianza
di fedeltà al Signore nella povertà e nella fraternità, nella libertà e nella pazienza, nella santità della
vita. La fede richiede di essere comunicata e quindi non può essere un atto privato.

Custodire la memoria della fede


Ogni esercizio della memoria comporta l’esigenza di volgere lo sguardo lungo tre direttrici: verso il
passato, il presente e il futuro. L’esercizio della memoria chiama in causa non solo la dimensione
intellettiva, ma anche la nostra sfera affettiva e relazionale. Implorare la grazia del perdono significa
riconoscersi fragili e peccatori, bisognosi della misericordia di Dio. Donare il perdono è anche una
grossa responsabilità. L’esercizio della memoria e il ricordo del dono della fede infonde in ciascuno
la saggezza per comprendere il presente e unificare la vita dell’uomo. Il Signore vuole insegnarci
l’amore per la vita e farci comprendere che ogni vita è preziosa ai suoi occhi e al nostro sguardo. Il
Signore ci trasmette il dono del coraggio, speranza, fedeltà e dedizione, ci sollecita a percorrere la
strada della santità. La Chiesa ha bisogno di credenti formati alla scuola del Vangelo, forti e pazienti,
umili e lieti, operatori di misericordia e costruttori di pace.

4. Il controllo della lingua


Terzo grande male della comunità cristiana: l’uso incontrollato delle parole e l’incapacità di tenere a
freno la lingua. Giacomo desidera che il discepolo sappia testimoniare la fede nel Signore con un
linguaggio semplice, limpido, capace di attrarre per la sua esemplarità.

Non siate in molti a fare da maestri esorta i fedeli a non considerarsi maestri. Nella Chiesa nessuno
si candida per esserlo o si proclama tale; prima di tutto si è chiamati da Cristo a percorrere il cammino
del discepolato, a seguire il suo esempio e a imparare da lui lo stile del servizio. Il nostro modo di
vivere esalta l’apparenza, il potere e l’esteriorità. Si preferisce evitare di correggere se stessi lasciando
sopravvivere i propri difetti, affidarsi al giudizio degli altri, anziché scegliere personalmente. Alcune
regole per fondare la nostra vita: agire nascosto, quasi segreto, invece dell’apparire, la semplicità
invece della doppiezza, il servizio umile anziché il potere e la grandezza. Ognuno è chiamato a
svolgere questa missione, seguendo l’esempio lasciatoci dal Signore. La carità è la legge regale che
Giacomo ha raccomandato di mettere in pratica.

La lingua è un membro piccolo che può vantarsi di grandi cose i tanti presunti maestri che Giacomo
vede alzarsi dall’assemblea e prendere il diritto di parola mostrano tutta la loro abilità nell’arte
oratoria. L’uomo perfetto si mostra capace di controllare le sue parole e i suoi atti, i sentimenti del
suo animo, le passioni che si agitano nel suo cuore e i pensieri che si aggirano nella sua mente, non
si vanta delle sue azioni, evita discussioni inutili e inconcludenti, le polemiche sterili e pericolose.
Deve saper controllare la lingua e le proprie parole. Chi si pone al servizio del Signore deve essere
mite con tutti, capace di insegnare, paziente, dolce nel rimproverare quelli che gli si mettono contro.

Il controllo della lingua


La lingua, benché sia una piccolissima parte del corpo umano, è in grado di causare grandi mali e può
vantarsi di aver provocato divisioni, liti, conflitti. Come un fuoco non controllato può incendiare una
grande foresta, così la lingua se non ben controllata dalla forza della volontà, può vantarsi di grandi
cose. Ogni cristiano è chiamato a vigilare sulle sue parole, perché è facile passare dalla lode a Dio ad
offendere il suo nome santo. “Un albero che vive porta i suoi frutti, e anche la vostra fede si attinge
il nutrimento da sane e profonde radici influenzerà la vostra esistenza giornaliera e determinerà il

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vostro stile di vita in famiglia e con il prossimo, nella comunità dei fratelli in Cristo, nella società”.

Per una verifica del nostro linguaggio il cristiano, attraverso il dono dello Spirito Santo, è diventato
figlio di Dio ed erede della vita eterna, partecipa pienamente della vita di Cristo ed è una cosa sola
con lui, quale membro del suo corpo. La parola è lo strumento umano per eccellenza che mette in
relazione tra loro gli uomini, che permette di comunicare messaggi, sentimenti, reazioni; l’uso della
parola esprime la profonda realtà di ogni essere umano. Quando lo stile di vita è l’amore, la gratuità,
il dono , non c’è nessuno spazio per l’ira e la maldicenza.

5. Le ferite dell’orgoglio
L’orgoglio si può trasformare in arroganza e provoca guerre e liti, presunzione e superbia, giunge a
escludere Dio dalla propria vita. Nell’elenco dei vizi capitali l’orgoglio è indicato anche come
superbia ed occupa il primo posto, precedendo avarizia, invidia, lussuria, golosità, pigrizia o accidia.
L’orgoglio annienta ogni cosa. L’umiltà è la virtù che si oppone all’orgoglio, insegna a valutare con
rettitudine, a non nutrire sentimenti di grandezza. L’orgoglioso e il superbo vogliono acquistare la
propria autonomia e indipendenza da lui, sono incapaci di attendere il suo intervento. “Finchè sei
superbo non puoi conoscere Dio”. Gesù nel Vangelo denuncia il comportamento orgoglioso e
presuntuoso dei farisei che si compiacevano di essere onorati dal popolo.

La prima ferita: guerre e liti l’orgoglio ha piantato i suoi semi nei cuori e nelle esistenze dei membri
della comunità e ora sono germogliati, molti credenti hanno accolto i suoi frutti. L’esito perverso
dell’invidia lo si può vedere in Abele che uccide suo fratello Caino. Dio ama tutti e per questo anche
i cristiani devono cercare di amare tutti. Si tratta di un compito difficile ma “l’amore di Dio è
veramente perfetto” soltanto in colui che “ascolta la sua parola”. Non solo che provoca guerre e liti,
ma anche chi le subisce deve ricostruire la riconciliazione e la pace.

La seconda ferita: vivere come se Dio non esistesse una seconda ferita nella comunità è data dal
comportamento di quei credenti che pensano di costruire la propria vita dividendola in due blocchi:
da un lato l’atteggiamento religioso, dall’altro l’attività profana. Giacomo è preoccupato che si
instauri tra i credenti uno stile di vita che esclude ogni riferimento a Dio. L’essere umano non può
pensare di restringere il senso della sua vita alla fruizione dei beni del creato in maniera egoistica.
Troppe volte ci comportiamo pensando a noi stessi, impostiamo il nostro modo di vivere come se Dio
non ci fosse e non avesse mai rivolto la sua parola di amore. Dobbiamo riuscire a distaccarci dai beni
terreni per poter conseguire il tesoro inesauribile nei cieli. I beni di questo mondo non devono essere
la fine a cui tendere, ma solo mezzi e strumenti, per raggiungere il vero fine, la vita beata.

La terza ferita: l’ingiustizia sociale è sempre provocata dall’orgoglio. “Le vostre ricchezze sono
marce e i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme”. La loro ricchezza si trasformerà in miseria e il
fuoco eterno li consumerà, di loro non resterà traccia. Tra le colpe di cui i ricchi sono macchiati,
Giacomo colloca al primo posto l’avidità e l’accumulo di beni, come fonte di sicurezza per la propria
vita e per il proprio status sociale; al secondo posto la prepotenza con la quale hanno defraudato il
giusto compenso ai lavoratori dei loro campi. Il terzo peccato è l’ingordigia e la mollezza del loro
comportamento: agendo in questo modo hanno offerto un esempio di spreco del denaro e di mancanza
di carità verso i poveri. Gesù non ha demonizzato la ricchezza, ma la falsa salvezza che può dare.
“Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio”.

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Terza sezione

1. Amore per Dio, amore per il mondo


L’amore per il mondo è nemico di Dio? vivere secondo lo spirito del mondo significa riaprire le
ferite dell’orgoglio e lasciarsi prendere dall’invidia e dalle rivalità, dall’ingiustizia e dal desiderio di
possesso. Non è possibile alcun compromesso: o si ama il mondo e si è nemici di Dio oppure
viceversa. Il Signore ci ama così tanto da non ammettere rivali, per questo bisogna fare questa
decisione. Il mondo per Giovanni ha una connotazione negativa, è l’insieme di tutte le forze che sono
sottoposte al potere del maligno e si oppongono a Cristo. Chi segue la logica del mondo si rifiuta di
credere in Gesù, di riconoscerlo come figlio di Dio. Non dobbiamo amare il mondo; Dio ha mandato
suo figlio perché il mondo si salvi per mezzo di Lui. Il mondo diviene la palestra nella quale
apprendere ad amare l’uomo per amare Dio. Cristo vuole che i suoi discepoli siano luce del mondo,
perché facciano luce a tutti quelli che sono nelle case.

Regole per la revisione della vita cristiana personale e comunitaria

Ritorno a Dio
I profeti avevano denunciato le infedeltà del popolo di Israele. Le considerazioni di Giacomo si
trasformano in un pressante appello a ritornare a Dio sulla strada della fedeltà e dell’amore. Le ferite
da curare sono quelle provocate dalle infedeltà e dalle tentazioni che il mondo abilmente riversa nel
nostro animo, oppure al desiderio di amare qualcuno mancando a una promessa di fedeltà. I regali
che i coniugi oppure gli amici si scambiano manifestano il dono di sé che caratterizza ogni rapporto,
la loro funzione è quella di rendere chi è lontano in quel momento presente allo sguardo e all’affetto.
I cristiani devono portare il messaggio di questo amore all’uomo del nostro tempo, spesso chiuso
nell’indifferenza. Bisogna resistere al diavolo, avversario di Dio, bisogna opporsi alle sue strategie e
ai suoi intrighi, non bisogna cedere alle sue proposte. Il cristiano deve svestire i panni
dell’autosufficienza e dell’arroganza, della fiducia nella ricchezza e negli idoli, per ritrovare in sé la
dimensione della povertà e dell’umiltà del cuore.

Ritorno a se stessi
Il ritorno alla dimensione della propria interiorità racchiude in sé la presa di coscienza della propria
situazione di peccato. La memoria è il luogo necessario del discernimento, in cui il passato, anche se
amaro, diviene nutrimento per il futuro. Purificare la memoria significa rimuovere le cause che hanno
generato molteplici ferite e colpe nella storia personale e comunitaria. Gesù ricorda che la vera
formalità non è quella esteriore, ma è quella del cuore, rammenta che la legge di Dio non è fatta da
una serie di precetti caricati sulle spalle, ma è una legge che aiuta l’uomo a vivere nella libertà e nella
verità. Il cuore lontano da Dio è un cuore impuro, appartiene a chi non segue la legge del Signore, né
agisce con rispetto e lealtà. È da questo cuore cattivo che escono i vizi e le cattive inclinazioni, che
sviliscono la purezza. L’educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore.

Ritorno al prossimo
“Non dite male gli uni degli altri, fratelli”. Il credente che scredita i fratelli getta fango sulla loro
condotta, si innalza a giudice dei loro comportamenti, commette un grave peccato, perché si
sostituisce a Dio “legislatore e giudice”. Con la maldicenza non si rende un servizio alla verità e alla
carità, ma le si impedisce di affermarsi, si piega Dio ai propri scopi facendo passare per i suoi giudizi
ciò che invece è calunnia. Le parole di Giacomo ci invitano a riflettere sulla qualità della nostra
preghiera e a interrogarci se essa è davvero espressione della nostra fede, della fiducia in Dio, della
reciprocità e della vicinanza ai nostri fratelli, sia nelle ore tristi, come in quelle liete.

2. Due sapienze a confronto


Sapienza che viene da Dio e sapienza che viene dal mondo: due logiche opposte e incompatibili, due

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stili di vita antitetici l’uno all’altro. Non a caso nella lettera di Giacomo il brano dedicato alla sapienza
si trova al centro dello scritto. La sapienza che viene dall’alto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole,
piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera.

Sapienza e mitezza Giacomo assume come punto di partenza delle sue riflessioni una domanda,
in parte presupponendo di conoscere già la risposta: “Chi tra voi è saggio e intelligente?” La domanda
ci costringe a riflettere se il nostro modo di vivere è dettato dalla sapienza e dalla capacità di valutare
con attenzione fatti e parole alla luce del messaggio evangelico. La vera sapienza non è acutezza e
profondità di pensiero, non è una nuova teoria, ma ha un aspetto profondamente pratico e concreto.
Giacomo afferma che essa viene dall’alto, la sua funzione è legata alla vita e alla capacità di giudicare.
La sapienza è un bene superiore alla ricchezza e alla prudenza, il fedele la desidera come consigliera,
amica, sposa. Il cristiano è chiamato a mostrare la sapienza che Dio gli dona attraverso la coerenza
tra il suo dire e il suo fare, quello che si vede è una condotta bella, non tanto in senso estetico o
morale, ma in quanto esemplare, degna di ammirazione e di lode, improntata a saggezza e mitezza.

La sapienza che viene dal mondo il credente che abbraccia la mentalità del mondo sceglie ciò che
è terreno, il suo sguardo non sa elevarsi verso l’alto, a malapena riesce a scorgere il sentiero stretto e
tortuoso su cui procedere, Dio non è più presente nei suoi pensieri, non è più il punto di riferimento
delle sue azioni, all’amore e al dono preferisce i miraggi dell’egoismo e dell’orgoglio. Il secondo
aggettivo che qualifica la sapienza mondana lascia intravedere un sistema di valori fondato su ciò che
è materiale, visibile, concreto. La terza caratteristica della sapienza mondana richiama l’ostilità a Dio:
è diabolica, la sua forza sta nella divisione dell’uomo da se stesso, dagli altri, da Dio e
nell’opposizione a tutto ciò che è luminoso, puro, gratuito. Senza ricerca della verità anche la vita del
cristiano diviene sterile e inefficace.

La sapienza che viene dall’alto è pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni
frutti, imparziale e sincera. Nell’elenco delle qualità che la sapienza possiede Giacomo aggiunge la
misericordia; anche questa caratteristica ha la sua origine in Dio, ricco di bontà verso tutte le creature.
La sapienza che viene dall’alto è imparziale e sincera, non ammette nessun favoritismo, né parzialità
di giudizio; si tiene lontana da ogni forma di ipocrisia e di doppiezza, perché Dio vede nell’intimo e
conosce i segreti nascosti del cuore dell’uomo, non lascerà impunito chi si è allontanato da lui.

Il cristiano: sapiente e mite, beato e felice il cristiano è chiamato ad assumere come documento
fondamentale del suo essere discepolo la pagina delle beatitudini del Vangelo e a guardare a Gesù
come al maestro che vive in prima persona il messaggio che annuncia. La sapienza è il primo requisito
assegnato in quest’ultima descrizione del cristiano, non è il frutto dell’intelligenza, ma della verità e
della carità attinta dal cuore stesso di Dio. “Il sapere non è mai solo opera dell’intelligenza”. La
mitezza ci è proposta da Gesù nella pagina evangelica delle beatitudini: mite è la persona che rifiuta
la logica della violenza e pone in Dio ogni sua attesa. Gesù stesso è il maestro mite e umile di cuore
che abbraccia la logica dell’amore e del servizio. Sa Paolo raccomanda di mettere in pratica la virtù
della mitezza, che è uno dei frutti dello Spirito Santo e all’interno della comunità cristiana è il criterio
fondante per le relazioni fraterne. La mitezza di Gesù è una scelta interiore, radicale, che qualifica il
tipo del suo rapporto con gli altri. La mitezza di Gesù è perfetta, la nostra si costruisce faticosamente
giorno dopo giorno tra lentezze, entusiasmi, sconfitte e asprezze e sprazzi della serenità. La nostra
mitezza deve crescere fino a raggiungere la misura piena che è Cristo, fino a diventare buona, bella,
beata e felice. Bisogna fare opere di pace e per farle bisogna mettersi alla scuola della “sapienza che
viene dall’alto”.

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