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Segneri Paolo (Nettuno 1624 - Roma 1694) e altri predicatori post-tridentini.

L’importanza della
predicazione per il rinnovamento della Chiesa e la centralità in essa dell’insegnamento delle sacre
Scritture vennero ristabilite con ben due decreti dal Concilio di Trento (1545-1563). La
preoccupazione per un’adeguata preparazione all’annuncio della Parola di Dio, dichiarata
praecipuum episcoporum munus, mise in moto una ricerca di retorica sacra che portò la
predicazione alla conquista di un posto ufficiale nella repubblica delle lettere, tanto che persino un
poeta come >Marino volle misurarsi con il genere nelle sue Dicerie sacre (1614).
La fioritura della retorica tridentina coincise con l’abbandono del sermo modernus, scolastico e
medievale, a favore di una parola che facesse leva sull’emotività del fedele. La svolta era stata
determinata dall’Ecclesiastes sive de ratione concionandi (1535) di Erasmo da Rotterdam, che
rifiutava la sterilità del metodo argomentativo e dialettico della predicazione precedente,
propugnando una parola più vicina alla lezione dei Padri della Chiesa, che conciliasse teologia e
spiritualità in un discorso unitario. Questa indicazione fu fatta propria da san Carlo Borromeo nelle
Instructiones praedicationis Verbi Dei, emanate nel 1573 per la Diocesi di Milano, che,
accompagnate da pubblicazioni favorite dal santo, fecero scuola, ispirando un vero e proprio atelier
di sacra oratoria. L’eloquenza tridentina si avvalse anche della ripresa rinascimentale delle retoriche
classiche, che, avvalorate dal magistero agostiniano del De doctrina christiana, offrirono al
predicatore gli strumenti per una comunicazione efficace e persuasiva della Parola di Dio. Nei
trattati di retorica sacra dell’epoca l’inventio è fondata sui luoghi topici, la struttura segue le
partitiones oratoriae (inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio), e l’obiettivo consiste nei tre
officia oratoris (movere, docere, delectare), tra cui il movere appare il privilegiato. L’omiletica
volle e seppe beneficiare del potere delle arti, identificando sapienza ed eloquenza, così che l’arte
della persuasione fu posta al servizio di Dio, impiegata per insegnare i fondamenti della fede.
La centralità delle sacre Scritture per la predicazione sostanzia il De praedicatore Verbi Dei (1585)
di Giovanni Botero (Bene Vagienna 1544 - Torino 1617), un trattato omiletico eccentrico rispetto a
quelli coevi, perché affida la ricerca della materia alle sacre Scritture, da cui trae le citazioni che
offrono gli argomenti per affrontare i principali temi della vita cristiana. Tutto il IV libro è dedicato
alle citazioni scritturali raggruppate secondo tematiche predicabili: gli esempi sono impiegati come
fonte di inventio al posto dei luoghi topici, gli officia del concionatore sacro sono per Botero docere
e permovere, ma «neutrum sine eloquentiae copiis obiri praestarique potest».
Le sacre Scritture contengono la loro stessa autenticazione: in teoria non hanno bisogno di essere
elaborate, anzi sono esse stesse ad autenticare la parola del predicatore. Per questo il loro impiego
in brevi o ampie citazioni è essenziale alla predicazione e le prediche che ci sono giunte dall’età
post-tridentina e barocca ne testimoniano un impiego tanto insistito da suscitare, a distanza di secoli
e in assenza di documentazione sulla pratica omiletica, qualche dubbio sulla reale possibilità di
essere intese dai fedeli. La Bibbia all’epoca era un libro difficile da usare. Dal momento che i
volgarizzamenti erano stati vietati (definitivamente nel 1596, ma absque licentia già dal 1559), il
predicatore cattolico non doveva entrare in questioni controversistiche. Poteva citare la Bibbia solo
in latino anche per predicare ad un pubblico che non lo conosceva.
Come le sacre Scritture fossero un presupposto della predicazione è verificabile dalle prediche di
uno dei padri conciliari che inaugurò con successo la storia moderna del genere, il francescano
Cornelio Musso (Piacenza 1511-1574). Formatosi a Padova alla lezione di >Bembo, pubblicò
numerosi volumi di prediche in volgare nella seconda metà del Cinquecento, che, riedite e persino
tradotte, mostrarono le straordinarie possibilità persuasive di una lingua letteraria posta al servizio
dell’annuncio sacro. Suo intento era seguire le orme degli «eloquentissimi Padri latini e greci, che
sono stati trombe dell’Evangelio per l’universo». Ciascuna predica è organizzata in un disegno
unitario ispirato dal Vangelo della giornata, focalizzata su un argomento centrale (per esempio per il
Natale il tema è la pace, per la resurrezione di Lazzaro è la conoscenza di sé, per l’ottava di Pasqua
è il beneficio della Risurrezione di Cristo). Il tema è sviluppato con il ricorso a supporti scritturali,
per cui vengono citati molti passi biblici integrati in un unico discorso. L’interpretazione è storica e
morale, talvolta anche allegorica, ma mai troppo spinta o elaborata. Le citazioni, riportate in latino,

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servono più come autorità, convalidate anche nella stampa dal rimando bibliografico a margine.
Non sempre il riferimento biblico si risolve in citazione, a volte riassume una vicenda, un fatto,
un’espressione. La figura di Cristo è centrale e intorno ad essa si svolge l’annuncio, per cui la
frequenza maggiore di riferimenti è ai Vangeli, alle lettere di Paolo e agli Atti, poiché ne supportano
le parole e la loro interpretazione. Dall’Antico Testamento appaiono citazioni da tutti i libri,
maggiormente dai Salmi e dai libri sapienziali.
Il francescano Francesco Panigarola (Milano 1548 - Asti 1594), il predicatore più rinomato
all’epoca, allora definito il «cigno» dell’eloquenza italiana, nel Modo di comporre una predica
indica la Bibbia come essenziale per trovare i concetti che provano la proposizione su cui si deve
incentrare una predica. Suggerisce al predicatore di usare le concordanze, le tavole delle materie, i
commenti, le catene auree e i rosari di argomenti. In effetti ogni predica di P. o porta in testa il
versetto che costituisce il centro della predica (prediche quadragesimali) o annuncia fin dal prologo
i versetti del Vangelo del giorno su cui si incentrerà l’orazione. Sebbene nel suo successivo trattato
Il predicatore (1609) dichiari fin dall’avvio che la parola divina ha tanta virtù ed efficacia da non
necessitare di aiuti esterni, P. applica i principi elocutivi tratti da un’opera alla moda come il De
elocutione di Demetrio Falereo alle necessità oratorie e scrittorie di un ecclesiastico italiano
dell’epoca. Nelle prediche l’uso della sacre Scritture è massiccio: vengono citate in continuazione,
sempre in latino. Viene ripreso come un refrain o l’intero versetto con cui l’omelia inizia, o solo
qualche sua parola, e ad esso sono aggiunte altre citazioni dalla Bibbia, in particolare dai Salmi.
Allo stesso modo vengono citate in latino frasi dai Padri, dai commenti biblici, dai testi conciliari.
Sono tutte autorità che, intercalate in latino nel testo volgare, attribuiscono autorevolezza e
solennità al testo omiletico. Spesso la citazione ripetuta sortisce un effetto sonoro di martellamento.
Nel vastissimo Arte di predicar bene del teatino Paolo Aresi (Cremona 1574 - Tortona 1644), uno
dei più diffusi trattati omiletici dell’epoca, l’inventio è costruita su una casistica minuta fondata
sulla dottrina e sulla sacra Scrittura. La Bibbia è considerata «arma propria del predicatore», che
dovrebbe vergognarsi di parlare lungo tempo senza nominarla. A. mette in guardia da un uso
intellettualistico: il predicatore deve «cavarne qualche documento per frutto degli ascoltanti acciò
che pasca non solo l’intelletto, ma eziandio l’affetto». Il teatino si mostra ben cosciente dei
problemi che l’impiego della Bibbia comportava nei tempi della proibizione dei volgarizzamenti.
Autorizza perciò l’uso delle traduzioni per far comprendere meglio il testo latino, ma con la cautela
di non chiamare scritturali i sensi ricavati dalla traduzione, perché derivati dall’interprete e non dal
testo sacro, e di non impiegare il volgarizzamento per sostenere posizioni diverse da quelle della
Vulgata. Egli dubita anche della validità del testo ebraico e greco perché non emendati dalla Chiesa
cattolica. Sull’interpretazione dei sensi reconditi e dei misteri nascosti sotto la veste letterale, A.
consiglia molto rigore, raccomandando sempre l’interpretazione letterale e di evitare quella mistica,
che considera, in conformità con i decreti tridentini, assai pericolosa, e condanna la
spregiudicatezza di alcuni interpreti che vogliono creare concetti senza una buona intelligenza delle
Scritture. Tuttavia egli disapprova anche una troppo stretta restrizione al nudo senso letterale,
perché «altra cosa è scrivere sopra la Scrittura ed altra il favellar al popolo, al cui palato molte volte
quei sensi così secchi poco aggradiscono». Ogni interpretazione allegorica che può sostenersi con
l’autorità dei Padri o un altro luogo della Scrittura può essere giustificata.
A. dedica una corposa parte del suo trattato ai modi di trovare materia predicabile formando
concetti sopra la sacra Scrittura. È questa la modalità di costruire i concetti predicabili, di cui una
delle prime forme può essere considerata la Selva dei concetti scritturali di Giulio Cesare Capaccio,
uscita a Napoli nel 1594 e poi a Venezia nel 1600 (seconda parte). Scelti versetti biblici sono
sviluppati da Capaccio, costruendo una collezione di materia predicabile a cui i predicatori
potevano facilmente attingere anche grazie alle minuziose tavole delle materie. Anche per A. un
concetto si forma accumulando, con l’aiuto delle concordanze, molte autorità (citazioni) atte al
proposito della predica, per poi ponderarle scegliendo le più opportune. Occorre rilevare da esse «la
midolla de’ secreti misteri nascosta sotto la scorza delle sue semplici parole», in un procedimento di
amplificazione esegetica più che di invenzione metaforica. Divenne questa una moda del secolo a

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cui pochi predicatori si sottrassero. A metà Seicento >Tesauro offrì nel Cannocchiale aristotelico
una definizione famosa del concetto predicabile: «un’arguzia leggiermente accennata dall’ingegno
divino, leggiadramente svelata dall’ingegno umano, e rifermata con l’autorità di alcun santo
scrittore», intendendo per esso la combinazione arguta di una frase scritturale con un’applicazione
metaforica.
La moda concettista nel Seicento si fuse con quella impresistica generando una modalità di
predicazione che elaborava una similitudine suggerita da un passo scritturale, da cui si ricavavano
insegnamenti morali e spirituali. La descrizione dell’oggetto, su cui era costruito il parallelo,
rendeva la predica dilettevole per l’impiego di molte informazioni derivate dal mondo naturale, con
notizie sorprendenti e meravigliose giunte dallo sviluppo delle nuove scienze. Ogni impresa ha un
motto scritturale che riassume il senso di tutta la predica e giustifica il traslato a cui si rapporta un
mistero della fede o la lode di un santo o un episodio della vita di Cristo o della storia della
salvezza. L’unità della predica e la sua struttura non sono più date dal versetto evangelico ma dal
referente metaforico, con le sue qualità. Questa modalità di predicare fu favorita anche dal successo
delle Dicerie sacre di Marino, che infatti abbinano unità di forma e di materia, fondandosi sulla
«perpetua continovazione d’una metafora sola».
La predica era così diventata un’occasione culturale. Il predicatore portava in pulpito gli
argomenti più peregrini, le novità del sapere, faceva le funzioni di un divulgatore in tutti i campi
della conoscenza, dalle scienze naturali alla medicina, dalla letteratura alla geografia, dalla storia
all’antiquaria. Nel tentativo di adeguarsi ai gusti e ai canoni letterari coevi, la predicazione
(almeno in Italia) tendeva a conglobare, sotto l’insegna del meraviglioso e del nuovo, tutto il
sapere. S. nella sua reazione alla predicazione precedente accusa il predicatore di voler comparire
«or filosofo, or fisico, or legista, or alchemizzatore, or astrologo, or notomista, ed or tutto questo
insieme», e non sbagliava. Questa moda favorì la letterarietà del discorso omiletico, in cui
centrale era il traslato e la sacra Scrittura serviva da supporto, come si vede nelle Dicerie Sacre di
Marino e nelle prediche di Emanuele Orchi. Tra i pochi che si sottrassero a questa moda,
esemplare il cappuccino Gerolamo Mautini (Narni 1563 - Roma 1632), predicatore apostolico, le
cui prediche trovavano forza proprio nell’uso delle sacre Scritture e nel modello evangelico, di cui
seguiva la sobrietà. Il tema è sempre tratto dalla pericope del Vangelo del giorno, la parte centrale
ne è la spiegazione, immagini metaforiche e exempla sono tratti da Antico e Nuovo Testamento.
Siccome suo obiettivo era la riforma dei costumi dei prelati, le citazioni sono usate con intento
morale e sono accompagnate dalla spiegazione delle singole parole e dalla penetrazione del senso
esatto del dettato biblico.
Fu proprio S., che riteneva Mautini «esemplare dei predicatori di tutto il mondo», a segnare una
svolta nelle modalità omiletiche, abbandonando la predicazione concettista ed intellettualistica
per una più intensa parola spirituale, anche se quella moda si protrasse fino al primo Settecento.
La predicazione di S. rinnovò il genere e fu esemplare perché ritornava ai Padri e ai classici, si
distaccava dall’enfasi lussureggiante dell’oratoria precedente poggiandosi sull’esattezza della
lingua e sulla forza espressiva, usando l’introspezione e la fantasia per sondare l’animo umano e
costruire situazioni narrative che potessero costituire un insegnamento morale. Anch’egli prende
il via dal versetto del giorno, ma al modo concettista sostituisce la narrazione. Cristo è figura
centrale, ne racconta la vita, ne commenta i detti. Le citazioni non sono abbondanti, perché, come
scrive nella prefazione del Quaresimale, le molte citazioni «mal si adattano alla capacità
popolare». Dichiara di preferire il senso letterale a quello mistico e critica certe interpretazioni
«curiose sì, ma sregolate e stravolte, che di là passano a trionfar poi sui pergami con applauso
sensibilissimo, benché ingiusto». Sebbene le interpretazioni brillanti abbiano successo, egli opta
per «imitar Gesù, il qual mai si curò di tirar i popoli al cielo per altra strada che per la regia di
ragioni veraci». Le verità della dottrina sono accompagnate nelle sue prediche da indicazioni
morali, avvalorate da argomentazioni bibliche più che da citazioni, per cui sono usate soprattutto
figure ed episodi edificanti (a cui abbina anche racconti dai classici). L’impegno di S., che si
esplicò anche nella predicazione nelle zone rurali, riportò lo stile omiletico al modello

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ciceroniano, sempre coltivato dai gesuiti, che ridiede alla predicazione una parola meno inventiva
ma più evangelica, ragione della sua fama duratura.

Edizioni
MUSSO CORNELIO, Prediche fatte in diuersi tempi et in diuersi luoghi, G. Giolito de’ Ferrari,
Venezia 1554-1560; PANIGAROLA FRANCESCO, Modo di comporre una predica, P.G. Pontio,
Milano 1584; BOTERO GIOVANNI, De praedicatore Verbi Dei, Chaudière, Parigi 1585; MUSSO
CORNELIO, Delle prediche quadragesimali, Giunti, Venezia 1586-1587; PANIGAROLA FRANCESCO,
Prediche, G.B. Ciotti, Venezia 1592; CAPACCIO GIULIO CESARE, Della selva dei concetti scritturali,
B. Barezzi e G. Peluso, Napoli 1594 e S. Combi, Venezia 1600; PANIGAROLA FRANCESCO, Delle
prediche quadragesimali, Meietti, Venezia 1597; PANIGAROLA FRANCESCO, Il predicatore, B.
Giunti e G.B. Ciotti e Compagni, Venezia 1609; ARESI PAOLO, Arte di predicar bene, B. Giunti e
G.B. Ciotti e Compagni, Venezia 1611; MAUTINI GIROLAMO, Prediche fatte nel palazzo apostolico,
Stamperia Vaticana, Roma 1622; ARESI PAOLO, Imprese sacre con triplicati discorsi illustrate ed
arricchite, P. Pontio e F.B. Piccaglia, Milano 1621 e P.G. Calenzano e E. Viola, Tortona 1630-1635;
ORCHI EMANUELE, Prediche quaresimali, Giunti-Baba, Venezia 1650; EMANUELE TESAURO, Il
cannocchiale aristotelico, Zavatta, Torino 1670; SEGNERI PAOLO, Quaresimale, P. Baglioni,
Venezia 1679.

Studi
RUSCONI ROBERTO, Predicatori e predicazione (secoli XI-XVIII), in C. VIVANTI (a cura di),
Intellettuali e potere. Storia d’Italia. Annali 4, Einaudi, Torino 1981, pp. 995-1012; BOLZONI LINA,
Oratoria e prediche, in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana. Le forme del testo, Einaudi,
Torino 1984, vol. II, pp. 1041-1174; FUMAROLI MARC, L’âge de l’éloquence. Rhétorique et «res
literaria» de la Renaissance au seuil de l’époque classique [1980], Albin Michel, Paris 1994;
FABRIS RINALDO, Uso della Bibbia nella predicazione dal Concilio di Trento alla fine del Settecento,
in G. MARTINA S.J. - U. DOVERE (a cura di), La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento,
EDB, Roma 1996; ARDISSINO ERMINIA, Rassegna di studi sulla predicazione post-tridentina e
barocca (1980-1996), «Lettere Italiane», XLIX, 1997, pp. 481-517; FRAGNITO GIGLIOLA, La Bibbia
al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), il Mulino,
Bologna 1997; G. INGEGNERI (a cura di), La predicazione cappuccina nel Seicento, Istituto storico
dei Cappuccini, Roma 1997; ZARDIN DANILO, Bibbia e letteratura religiosa in volgare nell’Italia
del Cinque-Seicento, «Annali di Storia Moderna e Contemporanea», IV, 1998, pp. 593-614; GIOMBI
SAMUELE, Libri e pulpiti. Letteratura, sapienza e storia religiosa nel Rinascimento, Carocci, Roma
2001; BATTISTINI ANDREA, Tra l’istrice e il pavone. L’arte della persuasione nell’età di Carlo e
Federico Borromeo, «Studia Borromaica», XXI, 2007, pp. 21-40; IDEM, Forme e tendenze della
predicazione barocca, in M.L. DOGLIO - C. DELCORNO (a cura di), La predicazione nel Seicento, il
Mulino, Bologna 2009, pp. 23-49.

Sui singoli predicatori


POZZI GIOVANNI, Saggio sullo stile dell’oratoria sacra nel Seicento esemplificata sul P. Emmanuele
Orchi, Istituto storico dei Cappuccini, Roma 1954; ARDISSINO ERMINIA, Il Barocco e il sacro. La
predicazione del teatino Paolo Aresi tra letteratura, immagini e scienza, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 2003; BATTISTINI ANDREA, Le risorse di un predicatore gesuita: Giulio Mazarini,
in M. HUNZ - R. RIGHI - D. ZARDIN (a cura di), I Gesuiti e la «Ratio studiorum», Bulzoni, Roma 2004,
pp. 139-158; LAURENTI GINO, «Il Predicatore» di Francesco Panigarola tra letteratura e retorica
sacra del tardo Cinquecento, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», DCXII, 2008, pp. 399-
434; FABRIS LAURA, Francesco Panigarola, un’oratoria del «docere», in E. ARDISSINO - E. SELMI
(a cura di), Poesia e retorica del sacro tra Cinquecento e Seicento, Edizioni Dell’Orso, Alessandria
2010, pp. 421-434; M.L. DOGLIO - C. DELCORNO (a cura di), Predicare nel Seicento, il Mulino,
Bologna 2011; GIRARDI MARIA TERESA, «L’arte compiuta del viver bene». L’oratoria sacra di

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Cornelio Musso (1511-1574), ETS, Pisa 2012; M.L. DOGLIO - C. DELCORNO (a cura di), Prediche e
predicatori nel Seicento, il Mulino, Bologna 2013; F. GHIA - F. MEROI (a cura di), Francesco
Panigarola, Predicazione, filosofia e teologia nel secondo Cinquecento, Olschki, Firenze 2013.

ERMINIA ARDISSINO

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