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Il fantasma sonoro (Sintesi di Storia del Teatro e dello Spettacolo)

LEZIONE INTRODUTTIVA

Nel teatro greco si rinarravano i miti collettivi attraverso il canto, la danza, il dire ritmato. Il coro era la
collettività, il portatore dei miti e stimolava l’attore a rinarrare in voce, facendosene protagonista, il
percorso di espiazione dolorosa degli eroi. Il coro ricantava le antiche storie da cui aveva origine l’azione
tragica e rimandando i miti al corpo attoriale, informava la collettività su ciò che la voce recitante sarebbe
andato a vivere in poetica “sofferenza tragica”. La voce dava cosi corpo al fantasma evocato: diveniva la
porta che consentiva l’avvento di un corpo che “invasava” altri corpi per farsi fantasma teatrale e cioè
collettivo, corale. La tecnica retorica del mascheramento, su cui il teatro si fonda, nel caso della tragedia,
finge un dolore, un’impresa tracotante, affinché l’assemblea tutta se ne distacchi e se ne liberi (catarsi
della quale parla Aristotele riferendosi al teatro). La tragedia appare come il corpo rituale che dà voce
all’oscuro portandolo alla luce; costringe e concentra il mito nello spazio circolare dell’assemblea,
facendolo passare per lo spazio risonante della cavità orale. L’onda sonora, cosi emessa dalla voce, si
rivela in grado di curvare lo spazio-tempo, creando un recinto nell’emiciclo sonoro, un recinto rituale che
sospende il tempo quotidiano per mostrare l’extra quotidiano.

Una circolarità atta a designare un impatto tra la voce e lo spazio la si ritrova anche nella O elisabettiana,
dove la scena era spoglia e la parola era chiamata a far emergere la corporeità dalle immagini che
andava a designare. La voce rendendosi corpo percepibile nel palco-prua, trasporta l’assemblea verso i
mondi “detti”. L’onda sonora, articolata dalla sapienza attoriale crea un gioco di rimandi e rifrazioni che
non è solo racconto, ma ipnotica attrazione nello scenario evocato e ciò che la mente immagina finisce
per solidificarsi nel corpo vocale emesso dall’attore: il dire, l’ascoltare sul piano sensoriale prevalgono sul
vedere. E’ in questo meccanismo che la voce si fa parola ricca di immagini, riconfigurando lo spazio in una
nuova dimensione tangenziale (secondaria) al reale, imponendo una microfrattura che si porta verso
un’altra realtà possibile, una realtà in grado di deviare anche il percorso della morte. E’ il caso del Re Lear di
Shakespeare, la scena in cui Edgar, figlio del duca di Gloucester (Glaaster), travestito da contadino,
accompagna il padre accecato (ignaro di chi lo accompagni) nella campagna di Dover, affinché il padre
possa raggiungere la scogliera e da lì porre fine alla sua vita. Edgar col potere della parola, in una tessitura
ipnotica motivata dall’amore, simulerà le scogliere e perfino il mugghio del mare, il gracchiare dei corvi,
convincendo il padre a “precipitarsi” dall’alto di un piccolo dosso della radura. La menzogna etica posta
in atto da Edgar è forse l’esempio più lucido di come la voce recitante possa costruire mondi, deviare il
percorso della realtà percepibile, porsi come una sorta di voce angelica, salvifica.

L’ekfrasis, la descrizione verbale di uno scenario ricco di immagini già di per sé necessario
nell’impianto del teatro elisabettiano, viene qui a raddoppiarsi, affinché i sensi del cieco restano
imbrigliati nella descrizione salvifica del figlio; un raddoppiamento percettivo che il pubblico è chiamato a
raccogliere come compresenza di due mondi, due realtà illusorie: le scogliere dipinte dalla voce di Edgar e la
radura, scenario dell’azione dei personaggi. Si può quasi dire che la cecità di Gloucester chiama il pubblico a
espandere le capacità immaginifiche della percezione uditiva. Il “suono in maschera”, espressione di solito
adoperata per definire l’articolazione dell’emissione dei fiati nella cavità orale, viene qui quasi a definirsi
quale mascheramento del suono, consapevole artificio messo in atto allo scopo di costruire o indicare porte
d’accesso verso zone la cui natura, di norma, ci sfugge nell’esperienza quotidiana. L’atto di volontà che
pone in essere l’emissione sonora viene così inteso non solo come comunicazione, ma come atto che,
consapevolmente, altera la percezione dello spazio in cui avviene. E il processo non coinvolge solo colui che
ascolta, ma anche colui che enuncia.

La voce designa uno scenario; questo scenario tende in qualche modo a relazionarsi con altri fenomeni
percettivi, così che l’udito si fa vista olfatto, tatto. È il caso del frammento del Re Lear. Uno scenario così
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veicolato non è un’astrazione, ma è una sostanza fisica!! La voce richiama visioni e memorie di sensazioni
collegate alla percezione acustica. Ronconi, a questo proposito, parla di più e diverse percezioni a seconda
degli spettatori. La vibrazione è particolare per ciascun individuo e non parliamo necessariamente di parola
finita, di senso compiuto, ma di una parola che è prima di tutto suono. È come se l’attore in teatro
alterasse il reale consapevolmente e si ponesse quale una sorta di Prometeo, che devia la percezione
quotidiana già acquisita. A teatro la consapevolezza di trovarsi in atto di percezione visiva rende ancora più
forte la percezione sonora. La parola-suono, deviando la percezione, fa emergere il suo statuto di doppio,
andando oltre ciò che si vede, e si pone come svelamento coscienziale. Ha luogo allora la “bilocazione”,
uno spiazzamento che determina un meccanismo percettivo che supera il limite visivo. Ma qui non si parla
solo di parola–suono articolato; basti citare gli spettacoli che affidano all’espressione corporea la vibrazione
che sconvolge lo stato di quiete. È il caso del cosiddetto teatro-immagine, con a caposcuola Bob Wilson: il
corpo non agisce per mostrare o ‘farsi vedere’, bensì per dire l’indicibile; il suono si configura come silenzio
nel quale il corpo si fa puro codice primario, alfabeto di un dire lento, solenne, profondo. Quando in un
testo drammatico troviamo questa tensione, in cui la parola designa il corpo e viceversa, avvertiamo che
ciò che l’ha istituito non è l’atto della scrittura ma i corpi che ne hanno prodotto, in origine, la visione. Il
resto, come dice con sublime chiarezza Carmelo Bene, è “morto orale”.

Lezione I

In molte religioni la voce salmodiante invoca l’avvento divino, un canto che richiama la risposta
dell’uditorio, il quale rispondeva all’unisono (cioè in un unico suono). In questo modo la voce salmodiante
diventa corpo sacro. La voce si ha con la dilatazione e la contrazione del mantice diaframmatico, esso è
pure l’atto rituale, l’atteggiamento che la collettività assume affinché l’avvento religioso si manifesti, il
mantice diaframmatico non porta fuori solo l’aria, nel canto unisono espira la cultura. L’anima della
collettività stessa. Il mantice ha sede nel tronco, come il battito cardiaco che garantisce la vita all’uomo.
Antonin Artaud definì l’attore l’atleta del cuore e dopo di lui, Decroux collocò nel tronco la sede
dell’espressione corporea. Tutto il corpo è coinvolto nella fonazione. Il suono risiede nel corpo stesso dove
la bocca è lo strumento. Viene da pensare agli geroglifici (ancora una volta un richiamo ad Artaud), una
scrittura costituita da icone che si ricodificano in suoni. Il geroglifico si assume, in quest’ottica, quale atto di
convenzione collettiva: una comunità attribuisce a un segno, a una postura corporea, un suono quale atto
costitutivo di appartenenza. L’accostamento tra il corpo geroglifico e la glossolàlia (produrre
volontariamente un linguaggio senza significato) designa uno spazio in cui la comunicazione si configura
come il dire in tutte le sue possibili varianti, una fonazione prossima alle origini dell’uso umano della voce,
dove c’è la libera scoperta del poter dire più che il dire finito. Quindi possiamo dire che la voce è
fondamentale per il teatro.

Richard Scheckner definisce la cavità orale come cavità teatrale primaria. La struttura geometrica della
cavità teatrale ha origine dall’onda sonora causata dall’emissione vocale. I primi teatri di pietra erano
eretti intorno alla voce. Gli antichi teatri erano costruiti in modo da non disperdere il suono, su una
superficie in pendio, utilizzando rocce non porose in grado di restituire i suoni gravi non direttamente
percepiti dall’orecchio nell’emissione diretta. Si tratta di un uso raffinato, attento, che non perdesse
l’intera gamma dei suoni, stabilendo quel principio di cui parla appunto Scheckner, di stretta connessione
tra cavità orale e cavità teatrale. La voce vive nella spazialità in cui si esprime, essa cerca una sorta di
equilibrio, tra l’emissione del suono e il recinto sonoro del teatro che la accoglie. Nel teatro di pietra
l’attore sa che la sua voce ha bisogno di essere portata affinché colpisca direttamente i corpi di chi ha vicino
e produca la rifrazione sui gradini di roccia; una sorta di ritorno che consente all’attore di scegliere l’altezza
del tono che vuole raggiungere.
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Nella tragedia greca la voce è altisonante, accanto all’attore c’è il coro che funge da risposta ed eco sonoro.
L’altisonanza diviene così un’onda lunga che si rinfrange nella curva teatrale, essa produce una
curvatura, una sorta d’arco teso in cui l’intera collettività vibra in una sola voce. Il flatus affettivo emesso
dall’attore si fa urlo moderato di un dolore di antica radice che viene come scacciato in un frenos
estroverso, tracotante: il frenos del capro sacrificato a Dioniso. Il dolore emesso in voce avvolge l’intera
comunità che così si riconosce parte di esso.

Traccia dell’altezza dei registri e del volume dell’emissione sonora resta, quale impronta del corpo
dell’attore, nei testi; l’altisonanza prodotta nella cavea greca persiste nell’andamento melico (degli
accompagnamenti) e metrico della drammaturgia dei grandi classici. Quello che siamo definire iubris si fa,
nel testo, canto spudorato dei propri sentimenti e dei conflitti che ne derivano. La vibrazione sonora
contenuta nel testo è segno di una forte cultura antropologica. Questi segni sono sparsi nei testi
attraverso la retorica. In ogni testo c’è un registro sonoro e ogni lingua ha il suo modello prosodico (che
attiene cioè a quantità sillabica e ritmo) e quindi, il traduttore deve restituire alla voce attorica le
coordinate del registro originale.

I tragici francesi del 17° secolo riprodussero la metrica alessandrina. In Italia invece risalta Alfieri dove i
suoi versi sono costituiti da endecasillabi che hanno una sonorità aspra, ed è una riscrittura più che una
traduzione. Carmelo Bene, che pone la parola sempre come nuovo dire, un ridire che non è traduzione,
“tradurre è tradire”, per dirla come Bene “è una parodia”. Il genere tragico porta il segno di Diderot che nel
Nipote di Rameau chiama l’imitazione degli accenti della passione, grido animale che giunge fino
all’opera italiana. E’ un susseguirsi di metriche e meliche, dove ciò che conta è il grido animale, che
esplode in scene di delirio. Due esempi forti del dire tragico sono: l’Antignone di Sofocle e la riscrittura di
Alfieri. È nota la sensibilità ai problemi di allestimento di una tragedia, che Alfieri manifesta in una lettera a
Verri, e quanto egli desse importanza a che si mantenesse alto il tono tragico, per evitare di cadere nel
ridicolo. Nei due testi c’è la sequenza della catastrofe finale, si manifesta con Creonte, questi porterà il
personaggio in un angoscioso conflitto con la rassegnazione degli eventi.

Lezione II

La voce ipnotica

Nel tempo del “teatro senza teatro”, quel tempo che non solidifica l’onda sonora in un’architettura
teatrale, ma in uno spazio-tempo provvisorio, precario come ad esempio una piazza, il teatro è affidato al
corpo nomade, al giullare, il quale è narratore di vicende note a tutti ed è per questo che ha bisogno di un
repertorio adattabile ad ogni luogo, il repertorio mitico che attraversa l’intero continente europeo e che
narra delle crociate e dei cicli eroici di cavalieri e paladini. Il giullare costruisce un uso retorico della voce
usando anche assonanze. È una tecnica di suggestione ipnotica basata sul battito sonoro, la cui vibrazione
crea la sensazione di un movimento infinito. La sostanza del senso ipnotico è far rivivere un sogno a occhi
aperti attraverso l’ascolto che si fa strada annebbiando gli altri sensi. I testi cui i giullari facevano
riferimento per la costruzione del repertorio, erano costituiti da formulari di temi con la ricorrenza di parole
chiave aventi funzione mnemonica. I presenti dello spettacolo giullaresco non subiscono l’ascolto di un
materiale prodotto e chiuso in un tempo precedente, partecipano a un dire che si manifesta loro nel suo
farsi, anzi avvertono di essere partecipi della costruzione del racconto sonoro. Nel territorio contemporaneo
si potrebbe spiegare meglio il concetto prendendo per esempio l’opera di Bob Dylan, Blowing in the Wind
costruita sulla tecnica dell’assonanza ipnotica, come a dire che la voce galleggiante del vento si fa quasi
richiamo rituale all’affettività collettiva, risposta lirica ai foschi scenari evocati in tutta la canzone. Un altro
esempio è Yellow Submarine dei Beatles che galleggia nel mare collettivo dei sogni comuni. Si tratta di un
felice squilibrio tra pensabile e vissuto, tra immaginabile e reale, un qualcosa che ci fa pensare alla
dinamica dei sogni.
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La voce del gioco/il gioco della voce

Con il termine voce non si intende la fase terminale del suono emesso dalla cavità orale. Il processo del dire
innesca un meccanismo che coinvolge l’intera dinamica del corpo. C’è uno stretto legame tra l’oscillazione
del corpo e l’oscillazione del suono. Se indaghiamo sulla natura della voce nel periodo del “teatro senza
teatro”, scopriamo che la voce ipnotica del giullare è accompagnata da un armamento gestuale destinato
a rafforzare il senso. Il dire del giullare è accompagnato da posture poste ai limiti del possibile costruendo
un sistema che è al tempo stesso giocoleria della voce e del corpo. E’ il territorio di riferimento, ad esempio,
di Dario Fò e, in particolare, del suo testo/spettacolo mobile, dinamico, provvisorio, in definitiva nomade:
Mister Buffo. Sono numerose le testimonianze sull’uso del corpo acrobatico: a partire ad esempio dal vaso
del Pronomos conservato al Museo Archeologico di Napoli. Una tecnica consolidata che mescola
l’evoluzione sonora, a quella corporea è quella del lazzo che consiste in un gioco comico che l’attore
adopera per coinvolgere il pubblico. I preziosi canovacci dell’Improvvisa che ci sono pervenuti numerosi, ne
conservano ampia traccia. E’ un ribaltamento delle gerarchie, in cui alto e basso coincidono nel momento in
cui si svela da un lato la precarietà dell’umano, dei suoi limiti, e da un lato si svela la potenzialità creativa
del gioco. Il corpo, cosi come la voce, nello scomporre il flusso del dire e dell’agire, rivela ed esalta
l’eccezionalità dell’emissione vocale e del movimento. Il funambolismo vocale recita la consapevolezza del
percorso che compie l’aria fino a essere emessa. E’ come giocare con la paura del dire dichiarandone la
difficoltà. Basti ricordare l’incipit dell’opera beniana Macbeth Horror Suite. Carmelo Bene recita lo
sgomento del suo corpo sorpreso e invaso da parole e suoni, che sembrano provenire dagli archivi sonori
del tempo, due enormi armadi dai quali fluttuano suoni inattesi che egli prova a riprodurre, balbettare,
attraverso una maschera facciale serrata in una smorfia di ironico stupore e dolore. Il dire viene così
manifestato come l’inizio di un complesso processo di alfabetizzazione del suono.

Laboratorio sonoro. Per la voce ipnotica prendiamo in considerazione un famoso gioco giullaresco: il Detto
del Gatto Lupesco, si nota oltre alle continue assonanze, aventi funzione ipnotica, il richiamo alla cinesica
delle posture atte ad accompagnare la recitazione. Una sorta di richiamo al raccoglimento riflessivo che
l’errante propone ai presenti prima di accompagnarli nella fantasmagoria del suo viaggio. Per il paragrafo il
gioco della voce prendiamo in considerazione il manuale minimo dell’attore di Dario Fo e Dell’arte
rappresentativa, premeditata ed all’improvviso di Andrea Perrucci. Nel primo caso c’è l’uso del grammelot
(emissione di suoni senza senso, ma simili a parole o discorsi reali, allo scopo di ottenere un effetto comico o
farsesco), nel secondo presenta molte maschere.

Parlare senza parola. “Grammelot” è un termine di origine francese, coniato dai comici dell’arte e
maccheronizzato dai veneti che dicevano “gramlotto”. Grammelot significa il gioco onomatopeico di un
discorso, articolato arbitrariamente, ma in grado di trasmettere, con l’apporto di gesti, ritmi e sonorità
particolari, un intero discorso compiuto. La prima forma di grammelot la eseguono i bambini con la loro
fantasia quando fingono di fare discorsi chiarissimi con farfugliamenti. Un esempio è una favola di Esopo, la
favola del corvo e dell’aquila. Prima inquadratura: l’aquila vola per il cielo disegnando larghi giri. Seconda
inquadratura all’improvviso scorge in mezzo al gregge un piccolo agnello zoppicante. Terza inquadratura:
volteggia largo, si getta in picchiata, va giù come un razzo, afferra con gli artigli il povero agnello e se lo
porta via. Quarta: il contadino accorre urlando, lancia sassi il cane abbaia, ma ormai l’aquila è lontana.
Quinta: sul ramo di un albero c’è un corvo che, vedendo com’è facile acchiappare agnelli, decide di
catturarne uno più grasso dicendo che non è fesso come l’aquila. Così, si butta sulla pecora, ma si rende
conto che è faticoso portarla via, sente il contadino urlare, il cane abbaia. Sbatte le ali spaventato ma la
pecora non si solleva, cerca di liberarsi, ma non ci riesce. E’ tardi ormai, arriva il pastore che lo colpisce con
legnate, il cane gli salta addosso, l’addenta e lo sgozza. Per eseguire un racconto in grammalot bisogna
possedere una specie di bagaglio degli stereotipi sonori e tonali più evidenti di una lingua e aver chiari il
ritmo e le cadenze proprie dell’idioma a cui si vuole alludere. Prendiamo una koinè pseudo-siciliani-
calabrese e su questa sequenza di sonorità costruiamo un grammelot. Quale punti fissi o cardini dobbiamo
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tener presenti per la realizzazione? Prima di tutto informare il pubblico del tema che si intende svolgere, a
ciò bisogna aggiungere elementi chiave che caratterizzino, attraverso gesti e suoni i caratteri specifici
dell’aquila e il corvo, ovviamente non si possono esporre dialoghi al completo, ma solo accennarli; farli
indovinare. Quanto più c’è semplicità e chiarezza nei gesti che accompagnano il grammelot, tanto più è
possibile la comprensione del discorso. Ricapitolando: suoni onomatopeici, gestualità pulita ed evidente,
timbri, ritmi, coordinazione e soprattutto una grande sintesi. Altro mezzo importante per farsi intendere è
l’uso corretto della gestualità. Ad esempio, nel momento in cui si allude al volo, nella fase drammatica in
cui, nelle vesti del corvo si cerca di risalire, ci si pone di profilo rispetto al pubblico che sta in sala perché è
importante che si disegni lo sforzo del soggetto nel battere le ali.

Lezione III

Il mascheramento consapevole

“Facciamo che io ero…” dice, ancor oggi un bambino a un altro per indicare il ruolo da assumere in un
gioco. Il tempo verbale scelto, l’imperfetto che designa un’azione nel suo farsi, in un passato indeterminato,
finisce per indicare, nel linguaggio infantile, il tempo della finzione; il tempo del gioco. Segnalo, cosi un atto
che decide regole e convenzioni che, affinché funzionino, bisogna che siano da tutti accettate. La
suggestione della metafora grammaticale deriva in qualche modo da Victor Turner, l’antropologo autore di
Antropologia della performance, il quale, per indicare le regole e le convenzioni che fondano il patto che dà
luogo al rito, parla di modo “congiuntivo”, un modo che segnala la “possibilità”, un “se” che si oppone al
modo “indicativo” della percezione del quotidiano. Cioè un meccanismo che rende possibile vedere ciò che
non è dato vedere e credibile ciò che non è dato credere. Questo meccanismo è definito “mascheramento
consapevole”. Perché il meccanismo funzioni è necessaria che la consapevolezza sia condivisa. La
trasformazioni della voce, l’uso di una maschera, le posture più strane se iscritte in un atto di convenzione
comune, verranno da tutti percepite come naturali. L’espressione” la voce in maschera”, l’assumiamo qui
capovolgendola in “mascheramento della voce”. Non esistono regole certe per l’uso di registri vocali nel
momento in cui l’attore è chiamato a dar luogo a un “mascheramento consapevole”. Al fine di costruire un
laboratorio sonoro è utile guardare ad alcuni testi che archiviano, con evidenza, i registri vocali in esso
contenuti. L’Amleto di Shakespeare è da questo punto di vista un prezioso documento. Il principe danese si
dichiara apertamente consapevole della tecnica attorca e quale “scribacchino (scrittore da strapazzo) di
farse” in qualche modo esperto dell’arte drammaturgica. Se Amleto non desse luogo a un mascheramento
consapevole, la sua intera strategia attendista che lo porta a continue verifiche sulla natura degli
interlocutori crollerebbe dinanzi all’urgenza di un azione “tracotante”. L’elemento interessante è dato
dall’artificio della “follia simulata” stabilita come tale nella percezione del pubblico e offerta come
statuto del suo umore agli altri personaggi, Orazio escluso. Ne deriva un registro sonoro del “dire”
inevitabilmente ricco, molteplice. Un indubbio apice dimostrativo si rende evidente al finire del famoso
monologo del “To be or not to be”, nel momento in cui Amleto dichiara al pubblico, all’apparire in scena
di Ofelia, il cambio di registro che sta per innescare: “Fate silenzio ora! La bella Ofelia!”. L’elemento
ostensivo evidente in quel “la bella Ofelia” costituisce la cesura che segnala al pubblico il ritorno al
mascheramento consapevole, alla follia simulata. Amleto vuole risultare folle al cospetto di Ofelia, che egli
avverte essere ambasciatrice, sia pure ignara, delle trame di Re Claudio e lo scopo viene raggiunto: “Ciò che
emetteva un suono armonioso, da ora un suono discordante, stridulo, stonato “(Ofelia) Shakespeare qui
sembra voler affidare alle parole di Ofelia, l’archiviazione del registro sonoro, opportuno a esprimere la
“follia smisurata” di Amleto. Ovviamente tutto il dramma è disseminato dei salti d’umore recitati dal
principe. Quello che conta ricordare è che con l’Amleto, il teatro occidentale raggiunge la piena maturità
nel costruire la drammaturgia attorica del doppio, la partitura di un “dire” che affronta il chiaroscuro della
coscienza moderna. Non è un caso che sulla prova d’attore richiesta dal personaggio shakespeariano, sulla
complessità dei suoi registri vocali si siano misurati innovatori della scena moderna: da Garrick a Carmelo
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Bene. Quella di Diderot è la prima riflessione sulla difficile gestione della diade attore/personaggio. Il
paradosso che dà il titolo all’opera risiede, appunto, nel problema di fornire il massimo della verità
possibile, apprendendo a nascondere e a simulare la verità di se stessi, del proprio sentire.

La menzogna etica

Gloucester (Glaaster) ha l’impressione che Edgar abbia cambiato la sua voce. E la sua considerazione ci
segnala, al tempo stesso, la natura dell’infingimento vocale adoperato da Edgar, e che i suoi sensi sono
totalmente concentrati sull’ascolto. Questo frammento di King Lear è un esempio forte di “menzogna
etica”.

La voce cambiata, mascherata di Edgar è chiamata a mutare i luoghi: il ripidissimo pendio figurato dalla sua
descrizione apre un conflitto con la sensibilità dell’incedere del padre che sente invece di camminare su una
strada piana. L’effetto è comico, come sarà comico il balzo verso un precipizio inesistente che Gloucester
compirà certo di porre fine alla sua vita. Con la sua giocoleria vocale, Edgar produrrà non solo un riso
salutare che alleggerisce i registri cupi del dramma ma produrrà anche un effetto salvifico, riuscendo con
l’inganno a non far suicidare il vecchio duca. La voce salvifica, la menzogna etica finirà così per
trasfigurare lo spazio. Ciò che il senso dell’udito propone alla vista, è un conflitto che svela la percezione
sensoriale quale zona-limite fra stati di coscienza e la voce mascherata diviene il terminale che svela i
mondi percepibili. La voce che a teatro dovrebbe affermare una presenza, un “io sono”, gioca la partita
della precarietà, rivelando l’instabilità del “dove”. Un altro esempio, ancora di Shakespeare è La Tempesta,
dove la voce mantica di Prospero, guidata dal suo libro che gli concede il governo degli spiriti della natura,
inscena mondi con un chiaro fine pedagogico. Ma il viaggio immaginario che il duca di Milano compie da
mago lo stanca, come accade al funambolo quando è in equilibrio, e cosi, infatti, chiede ai presenti di poter
interrompere il gioco. Una volta compiuta la missione salvifica del teatro dell’incanto Prospero
/Shakespeare chiede che la magia si trasferisca nell’applauso liberatorio e nel respiro affettivo
dell’assemblea e che la sua voce possa abbandonare la narrazione fantasiosa e distaccarsi quindi dalla
gestione “crudele” del doppio. L’intera tessitura de La Tempesta sembra designare la parabola della
parola teatrale quale “menzogna etica” nel teatro shakespeariano. La voce a teatro può simulare la
morte perché fondi la vita, può inscenare tempeste perturbanti che preparano il ritorno a uno stato di
quiete. Che la voce di Prospero influenzi l’intera narrazione del gioco teatrale ben lo intese Eduardo De
Filippo nella sua Tempesta riscritta in un napoletano pseudo secentesco. Egli diede voce a tutti o
personaggi, archiviando le sue bravure vocali. La scelta del napoletano seicentesco è condizionata
dall’andamento prosodico e dai lemmi propri del Basile di Pentamerone, un similseicentesco che Eduardo
ascrive all’esperienza fatta da giovanissimo in alcune ferteé appunto seicentesche. La libertà inventiva della
lingua permette a Edoardo si allontanarsi con evidenza dal modello shakespeariano, per significare, in una
sorta di canto infantile, il senso della libertà avvertito da Calibano quando decide la sua ribellione.
“Calibano..cu na funa…è arrivato ncopp a luna!”, nella riscrittura eduardiana il gioco infantile
dell’assonanza concede ali salvifiche anche alla bestia figlio di una strega. Luca De Filippo ha riproposto
quest’opera per la riapertura del Teatro San Ferdinando, in un lavoro di ricerca di una voce pura per il
teatro, una voce antiborghese, in grado di recuperare la gioia infantile del gioco teatrale, lo statuto
fondante della menzogna etica appunto. Con Shakespeare i modi di enunciazione della voce fanno i conti
con gli stati e gli strati della coscienza: una tessitura di suoni e parole non più ostensiva, ma vibrazione che
rimanda a un sottointeso che solo l’attore è in grado di svelare. Non c’è più il mito, in cui conoscenza
collettiva sorregge il ritmo del dire, come nei giullari del teatro senza teatro, ma la descrizione di una
solitudine.
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Lezione IV

Nel teatro del 900 si ha il Caos Sonoro. Quando ciò accade entriamo nella “soggettività” della percezione di
ascolto, inizialmente sentiamo un brusio, poi frammenti di frasi distinte. Si tratta della voce della
moltitudine dell’uomo. Pirandello fa dire al suo protagonista: “Vorrei, ora, che il mio silenzio si chiudesse del
tutto intorno a me!”. Per Pirandello, lo spazio del silenzio d’ascolto viene indicato come luogo di ospitalità
per le voci della follia degli umani. Per la tragedia greca, si espandeva al massimo del canto della voce
unica; nella contemporaneità, la solitudine della voce vive l’assenza di un agorà; la voce diviene una sorta di
raggelata memoria; di un calore vitale perduto, che si disperde nella folla. La folla indica una pluralità di
elementi pensanti in continuo. Quindi vediamo che non c’è più una voce unica, se vi è mai stata ma una
voce che dà vita a un caos dell’essere confuso. (Es: Come un viaggiatore in un treno che coglie e sente gli
altri, che agiscono indipendentemente da lui; parlano; alludono a pensieri, che egli può intuire, ma
comunque separati da lui, ascoltatore occasionale). Lo spazio del teatro si fa rappresentazione dei
“fantasmi sonori” che affollano l’ascolto. Quindi gli attori non hanno più un ruolo meccanico, ma devono
far emergere l’essere. Pirandello, in “Effetti di un Sogno Interrotto”, parla di un viaggiatore che alberga in
una villa, ed ogni notte viene svegliato dalle voci provenienti da un dipinto, le voci di due amanti. Il flusso
della vita bloccato nel dipinto è avvertito dal viaggiatore come un essere dinamico, che è stato bloccato in
una forma, ma il suo io rifiuta di fermarsi. Come se Pirandello volesse coprire una molteplicità di suoni, di
voci, che sono costrette a “dire” per manifestarsi; ma questo dire non include la natura del loro essere.
L’essere non trova la sua misura nelle parole, ma nei silenzi, nelle occasioni improvvise (come il “no”
strozzato dal dolore di una madre, improvvise risate, un padre logorroico che frena la sua angoscia
(riferendoci a Sei personaggi in cerca di autore). Questo emerge dalla folla: forme di coscienza “cadute” in
un corpo, la cui condizione naturale non si risolve, e costrette, quindi, a una tortura che li spinge a
rivelare il “non detto”. La tortura del padre costretto a estraniarsi dalla vita e “dice” perché non riesce a
viverla, svelando il conflitto irrisolto. Infatti, il padre porta in scena il disagio dell’attore, che in questo
caso è ascoltatore che deve rappresentarlo, perché il personaggio non può essere mascherato sulla scena
da chi non conosce i percorsi “non detti”. Voce e anima sono legate tra loro. Il palcoscenico diventa luogo
dove una voce artificiata deve dar corpo alla verità di un vissuto, che è altrove. Quindi, l’attore deve
pronunciare le parole con naturalezza e far trasparire la coscienza che l’origine delle parole era altrove.
L’attore deve restituire vita avendo il senso dell’origine dell’autore. Il suono in quel testo costituisce il
nodo centrale nella pratica o nella teoria del 900. Il “non detto” inaugura la complessità d’uso della voce
attorica, che si pone in attenzione a denotare un percorso interiore.

Alle soglie della glottide. Esiste una differenza tra voce articolata (in parole) e suono vocale igneo

Nell’ultima fase della sua attività Carmelo Bene lavora sempre più sulla voce come persistenza e
permanenza. Su questo duplice registro imposta anche il magma sonoro del Macbeth Horror Suite, il suo
giocare di rimando con il Macbeth verdiano. Non si può non ricordare che la tensione della costruzione
drammaturgica dell’opera verdiana (in relazione con Shakespeare) è la tensione al delirio. Un delirio
esasperato. Su questo Carmelo Bene lavora a un processo di sostituzione: cioè quel delirio che la voce
attorica non può dire, perché nulla si può dire oltre quello, fa emergere un materiale igneo (di fuoco) che si
trasforma nella voce e nel suono venuti a sostituire una voce (impossibile nel senso di voce articolata).
Carmelo Bene supera il concetto di “voce articolata”, (cioè di voce costruita sul senso e che produce senso).
Da qui il parlare di vibrazioni anziché di voci. E’ evidente che il suo corpo, attraverso il suono, con il quale
si confronta e che emette sembra appartenere ad esso per dannazione, fatalità: siamo di fronte
all’intuizione del “farsi dire”. Il maelstrom sonoro non ha più, al centro, il soggetto enunciante, che esprime
la volontà dell’esistenza, attraverso la pienezza del dire; ha solo lo sgomento dell’essere attraversato
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dolorosamente dal dire. Questa caratteristica diventa, in C. Bene, una specie di marchio, che riguarda
ossessivamente l’oscenità del considerare la parola come traghetto, un suono psicopompo quale quello che
richiama i morti dall'Aldilà. La parola (attoriale) è un’espressione difficile e dolorosa (e in questo si evince
come la lezione artaudiana sia entrata nella pelle di Carmelo Bene) la parola è il corpo che si ricostruisce
tentando di denunciare il suo senso attraverso un suono. Pensiamo al gioco di rimandi delle voci animali
del Macbeth Horror Suite: è come se il punto di partenza di questo percorso, fosse in qualche misura
“naturale”. C. Bene immerge la propria voce nel repertorio di voci della natura, come voci tra le voci. E’ una
sorta d’infanzia della voce; voce del vento, degli animali, dell’aria. A denunciare che il corpo è il vero
scenario e che il territorio che stiamo per attraversare è il tentativo di “fonare” l’immagine. Ma, dentro
questa immagine (che poi è anche l’impriting sonoro lasciato dal materiale shakespeariano) interviene la
voce del delirio. Questo è il materiale sonoro che s’insinua tra le pieghe della voce sottratta, che dichiara
l’artificio, ma può dichiarare anche il dolore del dire attraverso uno scenario di vibrazioni musicali. Del resto
(si noti la scena del fantasma di Banquo) ci sono momenti in cui Bene non utilizza il libretto verdiano, ma il
verso shakespeariano; battendo nelle spaziature, nei silenzi, nel ritmo che gli detta la partitura. È una sorta
di conflitto tra materiali e al tempo stesso gioco di rifrangenze. “La vita non è che un’ombra che cammina”:
la voce è un’ombra che ci rifrange e, in qualche modo, l’intera struttura della cassa armonica è, appunto,
una disperata affermazione di esistenza, che ha consapevolezza dell’assenza. Il dolore del dire è, allo
stesso tempo, l’impulso a dire. Bene utilizza un doppio canale di uscita della voce: il collarino e il microfono
esterno. Attraverso quest’ultimo l’attore, in qualche modo, riesce a far fluire il flusso sonoro; a far vivere la
dignitosa esistenza del soggetto enunciante e a dar luogo a quella cromaticità estesa, che lo
contraddistingue, e che nessun altro attore del 900 è stato capace di raggiungere. In chiave attorica, questa
prassi avvicina Bene ai grandi tenori. Attraverso il collarino, invece, la voce rimane bloccata alle soglie della
glottide; nel territorio proprio del farsi dire, del dire altro; nella zona dei “fantasmi sonori”, delle “voci di
dentro”. Da qui, la vibrazione del corpo che si fa corda.

L’operazione di Bene avviene in un recinto che non è neutro: la scatola televisiva dichiarata
nell’allestimento, che è anche il recinto visivo da cui provengono i suoni. Ai lati del nero fondale sono
collocati degli armadi, veri e propri archivi sonori da cui provengono materiali o suoni; e un vento, anch’esso
di vibrazione sonora; una sorta di presenza dell’esterno. Con uno scricchiolio, una rumoristica a limite
dell’infantile (l’Horror suite, appunto) che dichiara il set teatrale e televisivo come stanza dell’ombra,
stanza mentale. Non a caso ci sono pochissimi primi piani e domina il piano totale che denuncia la
dimensione di scatola del set. L’occhio esterno può soltanto entrare strettamente sul “primissimo” del
volto quando questo cerca di dire senza riuscire a produrre se non un conato. Quando si apre il flusso
enunciante si allarga anche l’inquadratura. È ingabbiata la voce; è ingabbiata l’immagine. Come il
primissimo piano della chiostra dentale denuncia, all’inizio, la durezza dell’impatto con il dire, il totale
denuncia la durezza dell’impatto con la visione. Carmelo Bene adopera l’occhio televisivo come occhio
organico, come parte di un corpo. Abbiamo a che fare qui con un suono espanso che non è principale
funzione uditiva, con la ricerca di un’altezza di hertz che superi gli hertz di ascolto e che finisca col
riprodurre la vibrazione del farsi dire, che attraversi gli organi uditivi del percettore stesso. Nella
riproduzione in video è l’intero corpo televisivo a farsi terminale di questa risonanza. Mentre a teatro
l’autore-attore-regista mette tutti nella scatola sonora e stabilisce il livello di hertz al quale la vibrazione
deve avvenire, con il mezzo televisivo, egli sa bene che lo spettatore distante potrà con la gestione del
volume sottrarsi alla vibrazione o potrà non avere un sistema hi-fi adeguato. Per tali ragioni Carmelo Bene
spezza all’interno della sua scatola sonora questo rapporto di vibrazioni. È consapevole che la scatola
lascerà e archivierà un suono, che questa vibrazione già depositata nel verso shakespeariano prima, e nella
musica verdiana poi, andrà a depositarsi nella sua partitura corporea e vocale. Voce postuma e al tempo
stesso nascitura. Senso della fine ma al tempo stesso di inizio. Carmelo Bene qui ci propone quello che è,
quello che senza pudori e con forza dice di essere: un capo d’opera. In definitiva il lavoro che Carmelo Bene
esegue sulle altezze sonore, sulla voce, anche per quel che riguarda il ricco lavoro di incisioni audio è in
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qualche modo uno studio sulla natura. L’artista sa bene che le altezze, i gravi, le accelerazioni non sono mai
casuali. Si muovono in un ordine preordinato. Il suono, la vibrazione che ne emerge sembra avere la
“sensibilità” per un’opera che ha da persistere. Sa bene di lasciare un suono che è una parola nuova. Ma
sono tante le riflessioni che si possono fare, si pensi all’abbagliante biancore che fa emergere la carnagione
dei personaggi, in pochi, ma mirati momenti, ad esempio, nella scena del commiato di Lady Macbeth,
quand’ella dice al consorte “sei pallido!”, Macbeth sembra proprio avere un viso pallido. Del resto, Bene
accentua questo elemento anche nel Pinocchio, a sottolineare il corpo inorganico che vive di sola voce, un
corpo di legno, svuotato, che si riempie di suoni. Nel Macbeth, invece, le armature sembrano quasi
delimitare il perimetro esterno entro il quale si annida l’ombra che viene vibrata dall’ombra della voce. Il
sublime sta nella consapevolezza dell’esistenza di una voce che si apre, di un corpo che avviene, che ci lascia
in pausa sgomenta sulle soglie del silenzio. Il tutto con la crudeltà rigorosa di una partitura, di un’ossessione
che arriva al dettaglio.

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