Wehewuyah è il primo Angelo delle Gerarchie (e perciò i suoi «protetti» hanno tanto
spesso la fissazione di essere e di dover sembrare dei Numeri Uno o delle Prime Donne:
di detenere un primato spirituale ed esistenziale su tutti gli altri esseri umani… Che
responsabilità, che stress!) ma è interessante notare che l’iniziale del suo Nome, w, in
ebraico significhi «…e», come se il primo non fosse proprio il primo, come se il Principio di
tutto non fosse proprio qui, ma si dovesse cercare prima ancora.
Forse, di primo acchito questa notizia non vi colpirà più di tanto; ma considerate quante
energie vengono spese dalla attuale ricerca scientifica per stabilire quando e come il
nostro universo ebbe inizio; e quanto è importante, nelle religioni attuali, l’idea che Dio a
un certo punto abbia creato il mondo dal nulla; e, più in generale, quanta parte della
filosofia e della teologia occidentale sia stata dedicata all’indagine della Causa Prima.
Gli antichi preferivano un altro modo di ragionare, che a mio parere è assai più profondo e
più utile. Il Nome del primo Angelo comincia con una «…e», e il primo libro della Bibbia
inizia non con la prima lettera dell’alfabeto, aleph, ma con la seconda,beth. E nei primi
versetti, là dove parla appunto della cosiddetta creazione dell’universo, non dice affatto
che Dio a un certo punto fece tutto quanto dal nulla. «In principio Dio creò il cielo e la
terra» è una traduzione inesatta: più vicino all’originale sarebbe «Dio DIEDE FORMA al
cielo e alla terra». Cioè imparò a vederli, si accorse che c’erano e se ne formò
un’immagine, un concetto. Ma il cielo e la terra C’ERANO GIÀ. E nel seguito del racconto
della cosiddetta creazione, viene descritto come Dio (’Elohim) imparò a scorgere i mari, le
montagne, le piante, gli animali – un po’ come uno che, appena arrivato, pian piano
familiarizza con i nuovi luoghi che ha intorno a sé.
Cosa cambia per noi il sapere se Dio creò o non creò l’universo, se possiamo o non
possiamo descrivere l’inizio di tutto? Cambia moltissimo. Innanzitutto, nella voglia di
chiarire la questione dell’Origine si esprime l’ansia – tutta umana – di CAPIRE tutto.
CAPIRE, dal latino CAPERE, cioè «contenere». Ed è la voglia di ridurre, di rimpicciolire
talmente la realtà, da poterla racchiudere tutta quanta in quel piccolissimo contenitore che
è la nostra mente cosciente e razionale. Tutta la scienza occidentale, nelle sue peggiori
espressioni, mira appunto a questo – e a dimostrare, attraverso questo, che la nostra
piccolissima mente razionale possa essere più grande (non potrebbe capirlo-contenerlo,
altrimenti) dell’inizio di tutto. Bella roba! Non riusciamo a risolvere i principali problemi della
regione, del quartiere in cui abitiamo, e ci incaponiamo di voler COMPRENDERE il
principio dell’universo!
In secondo luogo (e questo è ancor più grave) nel voler attribuire tanta maestosa capacità
alla mente razionale fa capolino, evidentissimo, il timore, la voglia di mettere a tacere
quella parte non razionale della nostra mente che il linguaggio scientifico non riesce e non
riuscirà mai a descrivere: quell’area in cui si trovano gli istinti, i sentimenti, le intuizioni, le
coincidenze, le ispirazioni, delle quali si può parlare soltanto in termini analogici, poetici,
d’immaginazione. Quest’area (che la scienza e la mente razionale notoriamente
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(Adesso, per favore, non mi venite a dire che questo discorsetto è troppo difficile da
CAPIRE. Eh no! È assolutamente impossibile da CAPIRE-CAPERE nel senso che dicevo
prima. Lo si può soltanto percepire, penetrare con l’intuizione e con il cuore; e ve l’ho
scritto apposta, come piccolo esercizio per le parti non razionali del vostro io. Buona
primavera!).
La «…e», come l’abbiamo descritta nella scorsa puntata, è un tratto comune a tutti quanti
gli Angeli di queste settimane, che sono i famosi Serafini (dal 21 marzo al 30 aprile), e si
esprime in ciascuno di essi in maniera diversa. Nell’Angelo di oggi, diventa la bravura di
considerare ogni questione da un punto di vista più alto di quelli altrui: gli Yeliy’el sono
maestri nell’«e inoltre» e nel «e quindi», scorgono premesse e traggono conclusioni che
noialtri non ci sogneremmo nemmeno. Sono disperatamente «mentali», certo – come del
resto tutti i Serafini – ma che piacere ascoltarli, che lezioni d’intelligenza sanno
dare. Saraph in ebraico vuol dire «ardere»; e gli Yeliy’el sono simili alla luce di un forte
incendio. Saraph significa anche «drago»: e certamente gli Yeliy’el sono maestosi esseri a
sangue freddo (non sono rettili i draghi?), il cui cuore è enormemente lontano dalla mente,
e la cui mente può dunque dispiegare tutta la propria lucidità senza interferenze
sentimentali.
O almeno così dovrebbe essere quando va tutto bene. Avrete notato, dai ritratti, che
ciascuna Energia angelica può presentare determinati rischi, se la si adopera male: se,
cioè, i loro «protetti» la ignorano (e allora si vendica di non essere stata adoperata) o
anche se eccedono, se ne abusano.
Compito dell’angelologo – nel caso che vogliate scegliere, in futuro, questa emozionante
occupazione – non è soltanto indicare quali compiti esistenziali dovrebbero toccare a
ciascuno in base agli antichi Codici, ma anche, al tempo stesso, spiegare ogni volta che
un compito non è tutto nella vita. Un buon angelologo spiega sia come non sprecare
forzenel tentativo di raggiungere obiettivi che non ci competono, sia come imparare
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a riprender fiato, di distrarsi, una volta che ci si sia messi in marcia verso gli obiettivi
appropriati.
Ci vuole molto coraggio, senza dubbio. Uno scrittore che amo molto, Lev Tolstoj (che non
era uno Yeliy’el, ma aveva molte affinità con quest’Angelo, come spesso capita ai
romanzieri) diceva che le persone sagge devono addestrarsi al «coraggio della stupidità»:
a fare cose, cioè, dinanzi alle quali chi si ritiene più intelligente di loro scuoterebbe il capo
in segno di disapprovazione e compatimento. Fu grazie a questo coraggio che Tolstoj
scrisse, tra l’altro, Guerra e pace, non curandosi del fatto che molti suoi stimati conoscenti
lo considerassero uno scrittore finito, scioccamente smarritosi in un un progetto troppo
lungo, troppo ambizioso. Ne venne invece un capolavoro e uno dei più grandi successi
editoriali che la storia ricordi. Il coraggio della stupidità: ricordatevelo, protetti di Yeliy’el.
Lì è il segreto della vostra grandezza, oltre che della vostra armonia interiore.
Teth. Si pronuncia con la punta della lingua sul palato, un po’ più intensa della t di tango.
È il geroglifico della protezione, della solidità, del tetto, dello scudo.
Ecco anche l’ultima lettera dell’alfabeto sacro, che ancora ci restava da scoprire. È la T
di tov, «buono», «perfetto» (in geroglifico: «chi è ben protetto in se stesso, nel proprio
animo»), e anche di tameh, «impuro» (colui, cioè, da qualche bisogna proteggersi).
Sembra proprio il pittogramma di una fortezza, vista dall’alto, con il suo corridoio
d’ingresso ben munito. E nel nome di questo Angelo si combina con la lettera samekh,
anch’essa talmente difensiva! Nel ritratto è spiegato perché e con quali conseguenze: i
protetti di Seyta’el sono, da un lato, bravissimi a proteggere qualcuno; dall’altro, si sentono
isolati, radicalmente diversi dai loro contemporanei. E se provano a indagare le ragioni di
questa loro diversità, hanno facilmente la sensazione di scendere verso altre epoche
passate, proprio come nelle segrete di un castello… È come se in loro la precedente
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reincarnazione non si fosse del tutto conclusa, e ancora li chiamasse e volesse far udire le
proprie ragioni: in tal modo si esprime qui quella «…e» che, l’abbiamo visto, è una
caratteristica decisiva degli Angeli di questo periodo, i Serafini.
E, badate bene, questo riferimento al karma non è affatto una metafora, né un’interferenza
di altre tradizioni religiose. Gli Ebrei – e, a mio parere, anche gli Egizi – credevano nella
reincarnazione: perfino la Bibbia ne parla, per esempio nell’episodio dell’eroico Razis, che
mentre si uccideva per non essere catturato dai nemici «invocò il Signore della vita e dello
spirito, perché di nuovo glieli restituisse» (2 Maccabei 14,46), E perfino nel Vangelo, in
due punti indubbi:
In quel tempo Erode, il tetrarca, udì parlare della fama di Gesù, e disse ai suoi: «È
Giovanni Battista, che è resuscitato dai morti: e perciò il potere dei miracoli agisce in
questo Gesù»
Matteo 14,1
E:
Passando, vide uno nato cieco; e i suoi discepoli gli domandarono: «Rabbì, chi ha peccato
perché nascesse cieco: i suoi genitori, o lui stesso?»
Giovanni 9,1.
Infatti, come si può aver peccato prima di nascere, se non in una vita precedente? L’altro
passo, quello di Erode, documenta una particolare forma di reincarnazione, individuata
dagli Ebrei: il cosiddetto ibbur (letteralmente: «importazione»), cioè la possibilità che nell’io
di qualcuno venga ad abitare temporaneamente l’io di un defunto, che in vita non era
riuscito a fare tutto quel che si era proposto, e che perciò desidera avere ancora un
supplemento di tempo. Durante tale sua permanenza nel vivo, il defunto conferisce a
quest’ultimo anche i suoi poteri, oltre ai suoi modi di pensare, ai suoi sentimenti, spesso
addirittura ai suoi ricordi. E il vivo può anche non accorgersene, e notare soltanto di
essere molto cambiato ultimamente…
Molto interessante è l’aspetto psicologico di questa credenza dell’ibbur: ciò che ne deriva,
infatti, è che l’elemento per noi più evidente, più sicuro, più intimo d’ogni altra cosa al
mondo, il nostro concretissimo io (nostra Teth, nostra Samekh) può non essere affatto
nostro di tanto in tanto. Possiamo non essere noi, a vivere le nostre giornate. Non capita a
tutti, beninteso: solo a quelli che al proprio io non hanno mai dato il giusto valore, e che
non lo conoscono, e non sanno ascoltarlo, adoperarlo. (Quella frase di Erode era dunque
assai irrispettosa, nei confronti di Gesù). Se non ti curi della tua fortezza interiore,
insomma, è facile che qualcun altro se la pigli. Parlatene, magari, con l’Angelo di questi
giorni, e vi darà certamente ottimi consigli.
eccessiva. Quanto più alte sono le loro doti, tanto più volentieri cedono all’impulso di farsi
da parte, di non voler brillare troppo, come se non volessero che qualcuno se ne abbia a
male, o come se temessero la famigerata «invidia degli Dei». E non è difficile capire
perché: le loro doti sono tanto alte (come per esempio l’intuizione, la veggenza nei
«protetti» dell’Angelo di oggi) appunto perché il loro Ego è più piccolo di quello della
restante umanità.
Sicuramente avrete notato anche voi, osservando i vostri conoscenti, che l’Ego è il peggior
nemico della genialità: che quanto più uno si preoccupa della propria dignità,
dell’impressione che può fare agli altri, tanto meno è spontaneo, e tanto meno sa dare
libero corso a quei talenti che in lui sono racchiusi. Perciò (fateci caso d’ora in avanti) le
persone più eccelse che vi capiterà di incontrare sono anche le più umili, le più timide; e
viceversa, quando vi troverete davanti un presuntuoso, vi accorgerete di sentire emanare
da lui l’odore acuto, acido della paura – della peggiore delle paure: quella di non valere
niente.
Buona parte della gente, certo, sembra non notarlo, e la storia e la cronaca sono piene di
presuntuosi di dubbio valore che hanno riscosso grande successo. Ma anche questo ha la
sua ragione: buona parte della gente, infatti, non ama affatto e anzi teme la grandezza
autentica. Teme di essere «messa in discussione» da chi vede e sa più di loro; teme
soprattutto le cose nuove che chi sa più di loro potrebbe dire, e che cambierebbero punti
di vista e condizioni su cui quella buona parte di gente ha costruito la propria esistenza.
Perciò, A SCANSO DI COMPLICAZIONI, molti preferiscono incensare i presuntuosi.
Mi direte che numerosi psicologi sostengono proprio il contrario, e cioè che l’AUTOSTIMA
è benefica, indispensabile addirittura. E in linea generale sono d’accordo: non fosse che,
quando la si applica troppo frettolosamente, l’autostima ti porta a dar peso proprio a quelle
tue qualità che possono venir maggiormente approvate dalle persone che ti circondano –
dal capufficio, dai colleghi, dai soliti amici della domenica, dagli insegnanti ecc. E spesso
finisce per facilitarti soltanto il compito di essere un buon ingranaggio della macchina, un
membro ben integrato di una società che – diciamocelo francamente – è molto scadente,
e ha bisogno appunto di fedeli ingranaggi per rimanere tale. A questo compito, i
fiammeggianti ‘Elamiyah sono del tutto indifferenti. Li attrae troppo il piacere della propria
altezza interiore, della visuale prodigiosa che da lassù si apre loro: se ne lasciano
prendere talmente (quando sono veramente se stessi) da non curarsi più affatto
dell’approvazione altrui, NON SI VOLTANO INDIETRO, non tornano giù a raccontare
come sono bravi. La loro immagine pubblica ci rimette, sì. Ma sono felici così, e sarebbero
infelici altrimenti.
Secondo gli antichi greci, il Dio supremo se ne stava lontano dal mondo, in un suo
misterioso Aldilà, e non provava alcun interesse né per la creazione, né per noi, e
nemmeno per gli altri Dei che da lui erano stati emanati. Reggeva tutto, sì. La sua energia
continuava a discendere da lui e a impedire che l’universo scomparisse: ma di come
scendesse, e di cosa ne avvenisse, il Grande Dio non sapeva nulla, e si trovava benissimo
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così. Anche presso altri popoli, e anche in alcune correnti cristiane (gli Gnostici, per
esempio), si è configurata quest’idea del Dio lontano, e le varie configurazioni si
somigliano talmente tra loro, che gli storici delle religioni hanno stabilito il nome ufficiale di
questo fenomeno religioso: Deus otiosus, «il Dio in ozio», così lo si chiama in gergo
scientifico – e va notato che otiosus, in latino, non significa «pigro», ma più semplicemente
«uno che si prende molto tempo per sé» per fare solo quel che piace a lui.
Oltre agli Dei oziosi, alcune religioni ipotizzano anche l’esistenza di uomini a cui i cieli
hanno assegnato un otiumtutto speciale. Stanno per conto loro, anche questi, e
apparentemente non sono utili a nessuno: non inventano, non costruiscono, non curano,
non commerciano. Eppure – dice per esempio la tradizione talmudica – è proprio su una
trentina di costoro che si regge il mondo intero: nessuno li conosce e nessuno può perciò
ringraziarli, ma sono come salde colonne che impediscono al cielo di caderci addosso.
I «protetti» dell’Angelo di oggi, come avete letto nel ritratto, sono persone di questo tipo. E
vi propongo un episodio della Genesi, che di certo vi piacerà: una volta che YHWH si era
messo in mente di distruggere Sodoma (per i ben noti motivi), Abramo provò a
dissuaderlo. Uomo buono e pacifico, Abramo provava infatti molta compassione per gli
abitanti della città, che YHWH voleva massacrare.
«Ma non vorrai uccidere dei giusti insieme agli empi?» domandò Abramo a YHWH.
«Cioè?» replicò YHWH. E Abramo: «Se per esempio ci dovessero essere cinquanta giusti,
a Sodoma, distruggerai lo stesso la città?» YHWH ci riflettè e rispose: «No, se ne trovo
cinquanta non la distruggo». E Abramo: «E se ne trovassi quarantacinque?»
Abramo: «E se ne trovi quaranta? O trenta? O venti?» e così via, e YHWH ogni volta
rispondeva allo stesso modo. Abramo continuò a contrattare fino a dieci; YHWH promise
che avesse trovato dieci giusti in città, l’avrebbe lasciata stare. Al che Abramo, soddisfatto
e ottimista, salutò e se ne andò, e YHWH si diresse verso Sodoma, pensando
probabilmente «Brav’uomo, quell’Abramo. E simpatico anche.»
Di lì a poco Sodoma venne completamente distrutta, con tutti i suoi abitanti, da una
pioggia di fuoco e di zolfo. Evidentemente c’erano pochi «protetti» di Mahashiyah, in città,
o forse si erano dimenticati di esserlo.
che scopo la valenza serafinica cambia così di colpo oggi (e poi torna di nuovo, dal giorno
21, verso la mitezza,l’introversione, la dedizione disinteressata…)?
La mia impressione è che i Lelehe’el e i suoi «protetti» rappresentino,nei cieli e sulla terra,
il seguente problema, che attende ancora soluzione: come fare in modo che le enormi
energie dell’alto dei cieli fluiscano liberamente nel nostro mondo? Il mondo è
certamente troppo piccolo, fragile, per loro; l’umanità è troppo impacciata nelle sue regole
e consuetudini: se tra cieli e terra si aprissero i confini (e si stesse davvero «come in cielo,
così in terra») quaggiù si verificherebbe certamente una catastrofe. Non per nulla la
tradizione afferma che sia i Serafini, sia i Cherubini sono sempre avvolti nelle loro larghe
ali, e i loro volti non si mostrano mai quando guardano giù, giacché la luce che ne irradia
carbonizzerebbe chiunque li vedesse… Lelehe’el, in tale contesto,sembra avere il
compito di misurare il grado dell’inadeguatezza del mondo terreno al mondo divino:
i suoi «protetti» nascono per produrre crisi, e quante più ne producono, tanto più si può
star certi che il momento promesso dal Padre nostro («venga il tuo Regno») sia ancora
lontano. Per ora, quando quei suoi «protetti» hanno provato a dare il massimo di sé, han
collezionato una gran quantità di risultati sconfortanti: dallo sfacelo diretto da Hitler, alle
geniali intuizioni e teorie di Leonardo, che ai suoi tempi parvero a tutti
irrealizzabili,insensate… Verrà il giorno in cui i Lelehe’el porteranno soltanto luce e la loro
luce sarà accolta? Nell’attesa, gli altri Serafini stanno a guardare, avvolti nella loro
modestia, e cercando più in se stessi che fuori, mentre il Creatore e gli uomini di buona
volontà cercano, tentano,e rielaborano continuamente modi di risolvere questo problema
dell’evoluzione.
7 21-25 aprile
Dopo la riflessione sul rapace Lelehe’el, vi risulteranno certamente più chiari i prossimi
due Serafini, che nei loro nomi hanno in comune una K, il geroglifico del «tenere sotto
controllo». Sia l’Angelo di oggi, ’Aka’ayah, sia il successivo, Kahethe’el, somigliano ad
argini, a chiuse di canali: frenano, regolano, deviano – per fare in modo che le irruenti
energie divine trovino la loro giusta direzione. A potenziarle di nuovo, una volta che siano
ben avviate, ci penseranno poi gli Angeli della Gerarchia successiva, gli esplosivi
Cherubini.
E tra quelle energie lassù, molto tempo fa, c’eravamo anche noi. Le varie Gerarchie
angeliche, dai Serafini, giù giù verso gli Angeli lunari, delineano infatti un ben preciso
percorso lungo il quale discende, dall’infinito fino al nostro modo, tutto ciò che deve
nascere: esseri viventi, opere, avvenimenti. E nelle Gerarchie si trova perciò la risposta a
una di quelle domande che nel Catechismo non sono incluse. Il Catechismo è, come
ricorderete, il nome che comunemente si dà a quel prontuario che i cattolici studiano e, in
parte, imparano a memoria da bambini: è tutto domande e risposte, la prima è «Chi ci ha
creato?» Risposta: «Dio». Poi: «Perché ci ha creato?» Risposta: «Per conoscerlo, amarlo
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e servirlo». Poi «Chi è Dio?» Risposta: «Dio è l’Essere perfettissimo…» e così via. Manca
appunto la domanda riguardo al dove eravamo prima di venir creati – e non certo perché
gli estensori del Catechismo non lo sapessero, ma perché non si è ritenuto prudente che
certe informazioni si divulgassero troppo.
Quella prima Sfera, o Sephirah, è chiamata in ebraico Kether, che in lingua corrente
significa «la Corona», e in geroglifico raffigura appunto l’inizio del processo di
incarnazione che tutti noi abbiamo attraversato: «bisogna passare dalla K per venir
adeguatamente preparati (Th) a proseguire (R)». E l’ultimo tocco, in questa Sephirah, lo
diede l’Angelo di oggi, Kahethe’el, maestro della «modestia» serafinica, grande e risoluto
equilibratore, come potete leggere nel suo ritratto. Fu lui, a giudicare dal suo Nome, che ci
riepilogò e chiarì definitivamente la lezione dei Serafini: «Solo se sai comprenderti,
confinarti, condensarti e dirigerti (K), le energie del tuo spirito (H) avranno quello scopo
che a loro occorre (Th)». Perciò alcuni cabbalisti sostengono che la Sephirah Kether, la
Corona, sia la sede della suprema Volontà e dei suoi segreti. Tali segreti della Volontà
sono, in sostanza, due.
Il primo è che la volontà è proprio il contrario di quel che i più si immaginano che sia: è uso
pensare che «volere» sia uno sforzo, che occorra produrre volontà dal nostro animo così
come si spreme un limone… Ma niente affatto: nulla in te è più abbondante della volontà,
tutto il tuo essere è fatto di volontà della miglior specie, e ne trabocchi di continuo. E se a
volte ti sembra che te ne manchi, è solo perché hai evidentemente dimenticato le lezioni di
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Kahethe’el (d’altronde è passato tanto tempo da allora), e cioè che per rendere produttiva
la tua volontà devi semplicemente LIMITARLA. Accorgiti di quante cose vuoi in ogni
momento (migliaia), ed eliminane per ora il più possibile: riducile a dieci, tre, a una… E la
tua volontà sarà talmente potente da guidarti verso l’obiettivo, come per magia. In tale
operazione di riduzione, tieni inoltre presente che non deve esserci sforzo alcuno. È
proprio il contrario di una costrizione: stai solo rilassando una gran parte di te, smettendo
di tendere la tua volontà in tutte quelle direzioni – spesso diametralmente opposte le une
alle altre.
Il secondo segreto deriva direttamente dal primo e, in parte, lo conoscete già: che tu te ne
accorga o no, la tua volontà agisce sempre e in tutto. Nella vita ti capita infatti soltanto ciò
che tu hai semplicemente voluto. SEMPLICEMENTE: dal latino simplex, che significa
«piegato una sola volta» – cioè non spiegazzato, non ciancicato. Nella vita ti capita,
insomma, ciò che un giorno hai deciso di volere senza poi ripensarci più, senza valutare
pro e contro, o tua dignità, capacità o incapacità, e senza complicarti l’animo con
ragionamenti del tipo «devo volere quella tal cosa», «vorrei volere quell’altra cosa», «è
bene che io voglia…» – senza cioè che altre tue volizioni o non volizioni interferiscano.
Quasi sempre quel tuo semplice e potentissimo atto di volontà è durato un istante: un
lampo di chiarezza nel fluire della tua spiegazzatissima vita interiore. È stato talmente
breve che, magari, non te ne sei nemmeno accorto; ma qualche centinaia di quei flash,
ogni giorno, danno forma alla tua sorte e alla tua parte di mondo. E – naturalmente – in
quegli istanti la tua volontà era potuta essere tanto semplice e chiara, proprio perché
esprimeva direttamente ciò che tu pensi di te, ciò che tu credi (o hai accettato di credere)
di meritare o non meritare.
E dunque: ti capitano cose scadenti, deprimenti? O insignificanti, tanto che sembra non
capitarti mai nulla? Be’, Kahethe’el ti aveva avvertito di usare la K. Comprenditi, accorgiti
di te, dirigiti – ti aveva detto lassù – e con quella K proteggiti anche, da chi ti fa credere
cose sbagliate riguardo a te stesso, o dalle idee sbagliate che ti fai di te. La tua volontà
agirà sempre, sappilo, e dunque abbine cura (altra K, anche in questa parola).
Che volete farci, dimenticarsene è la cosa più naturale del mondo: quando passavamo
dalla Sephirah dei Serafini stava cominciando ad esistere soltanto la volontà (e dunque la
possibilità) che noi nascessimo. I nostri due genitori non si erano ancora conosciuti,
magari erano appena nati anche loro. E tante altre cose abbiamo dovuto imparare poi,
nelle altre Sfere, prima che alla mamma cominciassero le contrazioni…
Compito generale dei Cherubini è precisamente dare inizio alla realizzazione delle energie
destinate a nascere – e infatti il primo Cherubino, l’Angelo di oggi, ha un Nome che da
questo punto di vista è tutto un programma: Haziy’el, «l’energia spirituale (H) riceve una
sicura direzione (Z) verso quello che sarà il suo manifestarsi nel mondo (Y)». Certo, ai
livelli della Sephirah Khokmah, direzione non significa ancora indirizzo, non è qui il luogo
dove si sono cominciati a fare progetti dettagliati su quelle che sarebbero state le vostre
io venni generata;
Proverbi 8,23-30
Vi era infatti nella religione antica l’idea di una componente femminile del mondo divino,
capace di architettare, di rendere possibile la costruzione. E risaliva a una tradizione
regale egizia: nell’antico Egitto il Faraone è sì un maschio, e regna, ma a decidere chi di
volta in volta sarà Faraone è una donna, la principessa della casa reale – lei ha il potere
su chi ha potere. E la nostra parola «sapienza» (molti vostri conoscenti non lo sanno)
indica appunto la superiore capacità di sapere come adoperare praticamente le cose che
si sanno e le capacità che si hanno. Questa sapienza è appunto ciò che abbiamo ricevuto
durante il nostro soggiorno tra i Cherubini. Non per nulla, come avete letto nel ritratto, nei
giorni di Haziy’el sono nati Machiavelli e Marx, che su tale sapienza hanno strutturato le
loro opere fondamentali…
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E neanche a dirlo, questa sapienza, appunto perché ci viene impartita tanto presto e tanto
in alto, poi nella maggior parte dei casi si dimentica. Allora scende, talvolta, a cercare chi
l’ha dimenticata. Sempre nei Proverbi si legge:
Ascoltatemi…
Proverbi 1,20 ss
Proverbi 9,1
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E infatti i «protetti» di ’Aladiyah, quando sono veramente se stessi, sono generosi di ogni
loro avere. La loro grande energia terapeutica (v. la puntata 8) è anch’essa una forma di
dono di sé, che essi non possono trattenersi dal fare – e sempre con l’intento cherubinico
di orientare e riorientare, di raddrizzare, programmare e riprogrammare energie in
eccesso, come sono appunto quelle che in noi producono le malattie. E il loro Nome non è
forse «Io cresco (’L) nel dare (D)»? Per di più somiglia talmente a quello del protagonista
della celebre fiaba sulla magia dell’abbondanza, Aladino: e diventerete come Aladino
anche voi, se avrete la fortuna di incontrare uno di questi Aladiani, e di farvelo amico!
Ma se leggete attentamente il ritratto, vedrete che anche l’altro aspetto della Sapienza è
inscritto spesso nel loro destino: la delusione, per aver dato troppo e invano, per aver visto
sprecati, sottovalutati, dimenticati i loro doni. Che farci! I «protetti» di ’Aladiyah hanno, in
genere, spalle abbastanza robuste per sopportare l’amarezza, e cuore abbastanza grande
per gioire comunque – nonostante tutte le disillusioni precedenti – quando capita loro
qualcuno che sa accogliere, meritare e far fruttare la loro munificenza. Così anche voi, se
volete far felici quei Cherubini che lassù vi avevano dato lezione ed equipaggiamento,
basta che riscopriate le vie della Sapienza, vi riaccomodiate alla sua tavola e mangiate e
beviate, come dice la Bibbia. Dove ritrovarla?
Sapienza 6,12
Sono versi simbolici, certo. Ma vi garantisco che non sono affatto difficili da decifrare.
Provate.
Non tutti i Cherubini sono semplicemente generosi come ’Aladiyah. L’Angelo di questi
giorni e il successivo impersonano soprattutto l’altro aspetto della loro Gerarchia, la
durezza. Sono in un certo senso guardiani della soglia, diretti discendenti delle prime
figure angeliche che compaiono nella Bibbia – quei Cherubini, appunto, a cui YHWH
assegnò il compito di sorvegliare un importante posto di confine. Ricordate come
avvenne? YHWH aveva appena scoperto il furto dei frutti della conoscenza, era molto
indignato (almeno in apparenza) e turbato: diceva tra sé e al Dio Creatore:
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«Ecco! L’adam è diventato come uno di Noi per la conoscenza del bene e del male! Ora
bisogna impedire che stenda ancora la mano, e che prenda magari i frutti dell’Albero della
Vita: se no me mangerà, e vivrà per sempre!..»
Genesi 3,22
Era decisamente agitato, come sempre lo è YHWH quando l’uomo si evolve o rischia di
evolversi troppo. E
Scacciò dunque l’adam e pose a oriente del Gan ‘Eden i Cherubini e il bagliore della
spada che gira su se stessa, perché custodissero la via verso l’Albero della Vita.
Genesi 3,24
So cosa penserete: «È imbarazzante… Un Dio tanto insicuro, tanto geloso dei suoi divini
privilegi, tanto timoroso dell’uomo!» Ma del caratteraccio di YHWH abbiamo già parlato
altre volte. Ora richiamo la vostra attenzione su quella «spada che gira su se stessa» e
che manda una gran luce. Potete facilmente immaginare quanti tentativi siano stati fatti,
nei millenni, per interpretarla. A mio parere, quella spada che ci vieta il cammino è uno
specchio: spesso le lame erano usate come specchi, nell’antichità, e le immagini, negli
specchi, girano davvero su se stesse, e la sinistra diventa destra e viceversa… È uno
specchio affilato – una spada – e manda una gran luce: e lì è il suo segreto, è a quella
luce che tocca il compito di di abbagliare, confondere, spaventare chi vuol salire verso
l’Albero della Vita, cioè verso una fonte di conoscenza e d’energia ancor più alta
dell’Albero del Bene e del Male. Ma – l’avete già intuito – la luce che vedete in quello
specchio non può che essere la vostra, riflessa lì. E ciò sicuramente può sconvolgere la
gran maggioranza degli uomini, talmente abituati a pensare di valere poco, di non pensare
mai nulla di intelligente, e spaventati tanto spesso dai loro stessi pensieri: chi di costoro si
trovasse d’un tratto davanti a un’immagine splendente, abbagliante di se stesso, con ogni
probabilità ricadrebbe indietro sbalordito, pensando «Non sono certo io! Chissà cos’è,
chissà quale essere tremendo mi ha squadrato da lassù… Meglio stare alla larga!» E da
tempo immemorabile i Cherubini osservano da lassù questa nostra pusillanimità. Voi ne
sapete niente? Vi risuona?
Anche per questo i «protetti» dell’Angelo di oggi – ai quali tocca in sorte proprio
la vocazione della Soglia, della scoperta dell’Aldilà – si dividono in due categorie: i
felicissimi, che hanno avuto fiducia in se stessi (o meglio, non hanno avuto paura del
proprio bagliore) e hanno osato varcare qualche confine nella loro vita; e gli infelici, amari,
invidiosi, che han pensato «Be’ no, meglio di no» e sono rimasti fuori, e sperano che tanti
altri rimangano tagliati fuori, da quello specchio-spada, proprio come loro.
Sembra un albero di Natale, vero? Con le palline colorate, e i festoni… E infatti sono quasi
sicuro che l’abete natalizio sia precisamente un modellino dello ‘Ets Khayym, dell’Albero
della vita, cioè, di cui narra la Genesi. L’uso dell’abete nacque in Germania, pare, nel
Cinquecento, e certamente interpretò le memorie degli antichi culti vegetali e soprattutto
dell’Yggdrasil, l’Albero Cosmico su cui, secondo le antiche tradizioni nordiche, si reggeva
l’universo. Ma quelle sfere e quei festoni CONGIUNGONO indubbiamente l’Albero nordico
con quello della tradizione ebraica, che ha per di più la stessa funzione: reggere l’universo
intero, e in più mostrarne la dinamica, l’energetica segreta.
Certo, nell’Albero di Natale le sfere colorate sono divenute tante. Nell’Albero della vita
sono invece undici, come vedete nell’illustrazione; e sono proprio le Sephiroth: quella in
cima a tutte è Kether, dei Serafini (v. la puntata 52), quella più giù, sulla destra, è
Khokmah, dei Cherubini. Poi passeremo a quella in alto a sinistra, Binah, dei Troni, e poi
più giù. Quei «festoni» che le collegano sono in realtà canali, e sono il percorso, il gioco
dell’Oca (altro ampio argomento esoterico), che tutti abbiamo percorso per arrivare fino
alla sfera in fondo alla tutte le altre, Malkuth, ovvero «il Regno», che è il luogo dove ci
troviamo ora, la nostra dimensione terrena. Lì si arriva nascendo e da lì – anche se non
tutti sono d’accordo su questo – si risale alla fine della vita, ripercorrendo l’itinerario dal
basso in alto fino a Kether e più su ancora, dove si deciderà se restare beatamente
nell’infinito Io-non-io, o se tornare giù a fare qualche altra esperienza, in cerca di gloria, di
riscatto, o penitenza, o magari in missione. Quanto al «vivere in eterno», bisogna
intendersi: non significa vivere senza morire mai per un tempo infinito. Questo si
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chiamerebbe «vivere moltissimo» e sarete d’accordo con me che, dopo qualche secolo o
millennio, risulterebbe un po’ noioso. No: «vivere in eterno» significa vivere
NELL’ETERNO, in una dimensione che non ha il tempo, e nella quale ogni singolo attimo
è perciò infinito e aperto su tutti quanti gli infiniti. È la dimensione della contemplazione,
dell’emozione che dà la scoperta: basta un pochino di questa eternità per moltiplicare
meravigliosamente la propria crescita interiore… E questo infastidiva YHWH (o così Lui
volle far sembrare) perché a forza di crescere talmente, gli uomini sarebbero diventati ben
presto e davvero «come uno di Loro».
A proposito di Adamo e della sua compagna, forse avrete letto da qualche parte che,
secondo molti studiosi, ’Elohim all’inizio avrebbe creato un androgino – come se l’Angelo
di questi giorni gli fosse servito, in quel momento, da principale consulente. In parte, tale
ipotesi è infondata, e dipende dalla scarsa conoscenza che quei molti studiosi hanno del
testo ebraico; nelle traduzioni consuete si legge infatti:
Genesi 1,27
E siccome subito dopo nel testo si narra di un solo Adamo, si potè pensare che costui
riunisse in sé i due sessi, e che la creazione di Eva dalla costola di lui fosse stata una
specie di scissione di quel che prima era un intero. Ma, come voi sapete, ’adam in
ebraico corrente significa tutta l’umanità, tutte le femmine e tutti i maschi, il che
permette di spiegare più tranquillamente quel passo della Genesi. In parte, tuttavia, l’idea
dell’androgino originario ha una sua validità, da cercarsi un po’ più in profondità nel testo
biblico. Come ricorderete, a un certo punto l’’adam «si addormentò» (Genesi 2,21)
e DIVENNE DUE: un ’yshe una ishah, un principio maschile e un principio femminile, yang
e yin (adeptus esoror, come dissero poi gli alchimisti medievali) e dei due soltanto il
femminile vedeva nell’invisibile e guidava verso la conoscenza. Dante, nella Divina
Commedia, lo rinarra nel personaggio di Beatrice. Dopodichè, l’’adam ridivenne uno,
anche se ciò sfugge alla grande maggioranza dei lettori della Bibbia: YHWH
Genesi 3,23
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Scacciò lui solo, verso l’esistenza terrena, mentre la sua compagna esperta d’invisibile
restava in alto, dove la potrete sempre ritrovare. In alto: al di là di quel confine sorvegliato
dai Cherubini, con il loro specchio-spada… Ed ecco qui uno dei principali segreti
dell’Angelo di oggi. Vi avevo detto che i Cherubini si incaricano di progettare i vostri
dispositivi direzionali (v. la puntata 53) e il nostro sesso è appunto una delle direzioni che
la nostra energia ha cominciato a prendere uscendo dalla loro Sephirah. Quando eravamo
là, invece, tale direzione non c’era ancora: là le potenzialità yin e yang, l’’ysh e la ishah,
erano ancora equivalenti in noi. Là dovette giungere l’’adam, quando «si addormentò»
quella volta. E Yezale’el è l’Angelo in cui questa pienezza androgina si mantiene e –
notate bene – VIENE RIPROPOSTA all’umanità, all’adam. Imparare da Yezale’el, sia per i
suoi «protetti» sia per tutte le persone di buona volontà, significa appunto riscoprire quella
nostra doppia energia originaria, ed è una delle scoperte più fruttuose che possiate
compiere.
L’Angelo di oggi è specialista di etica: nella Sephirah dei Cherubini, Mebahe’el dev’essere
di certo il responsabile dei dispositivi direzionali del bene e del male. Ma, a differenza
dell’Angelo precedente, non vi conduce a una comprensione e integrazione di quelle due
direzioni, non vi mostra un po’ di male nel bene e un po’ bene nel male: non è affatto
dialettico in tal senso, bensì picchia duro. Si esprime in luil’aspetto più duro, violento,
addirittura catastrofico dei Cherubini.
YHWH li scelse come custodi della via proprio per questa loro componente minacciosa. Li
scelse anche per distruggere Sodoma –
e trasformarono la moglie di Lot in una colonna di sale solo perché, fuggendo dalla città, si
voltò un momento a guardare.
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In parte sì, è così: di per sé non esiste. Abita e agisce nella Seconda Sephirah, molto al di
sopra, cioè, del livello della nostra esistenza. Ha il compito di formare, istruire noi, ed
esclusivamente da noi dipende, perciò, la possibilità di far esistere e fruttare le
lezioni dei Cherubini nel nostro mondo. La domanda dunque va girata innanzitutto ai
«protetti» di Mebahe’el: perché FATE ESISTERE così poco i vostri Angeli nel mondo? Ci
rimettete voi, perché chi non segue il proprio Angelo è sempre piuttosto infelice, e ci
rimettiamo tutti, perché se faceste quel che avete imparato a fare lassù le cose
andrebbero molto meglio per tutti. In secondo luogo, la domanda va girata anche a noi:
perché non prendiamo un po’ di lezioni da Mebahe’el e non le mettiamo in pratica? E qui,
fate i vostri conti e rispondete ciascuno per sé.
Ma, come è noto, tra l’io cosciente (o io piccolo) e il Sé (o Io grande) non vi è contatto
razionale, non vi è un ponte che la mente riesca a spiegare o tantomeno a controllare: ed
entrano in gioco altre facoltà della nostra psiche, forme di intuizione e conoscenza tutte
speciali, che vanno dal sogno, a quel «qualcosa» che ci fa cogliere le coincidenze, agli
archetipi, e via via fino a quelli che in tutto il mondo sono chiamati Spiriti guida (e che nel
cristianesimo vengono a coincidere talvolta con i Santi, o con le anime del Paradiso, o
addirittura con gli Angioletti tradizionali). Ne consegue che i «protetti» di Hariy’el, per
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sentirsi a posto, dovrebbero dedicarsi a far funzione di Spirito guida, come secondo o
addirittura come primo lavoro? Eh sì. E ricordo con grande piacere un mio longevo
conoscente, nato ai primi di giugno di quasi novant’anni fa. Quando gli raccontai com’era il
suo Angelo, ci rifletté per qualche istante e poi disse: «Be’ sa, i primi ottantun’anni della
mia vita non sono stati gran che. Niente di brutto, beninteso, ma non mi sembrava di
essere io a viverli, o almeno non del tutto, mi capisce?.. Poi, a ottantadue, mi hanno
incaricato di dirigere il Dopolavoro. E lei non ha idea di cosa sia veramente un
Dopolavoro, in una cittadina come la nostra. Sa, lì arrivano tutte persone della mia età, e
anche di più. E ci sono tante cose che non hanno avuto, nella loro vita, o che non hanno
più: e vorrebbero averne, nel tempo che gli rimane. E me ne occupo io. Organizzo i balli,
le gite, le feste, le idee per la beneficienza. Ho tutto il tempo che voglio, non ho più
nessuno a casa, io. Faccio in modo che siano contenti e con un sacco di cose interessanti
da fare. E adesso sì, che sento di essere io, a vivere. Come ha detto che si chiama quel
mio Angelo lì?..»
Vanno decisamente dritti in Paradiso, secondo me, ma non nel senso postumo che si
intende di solito. Ci vanno nel senso che qui, sulla terra, ritrovano e realizzano le lezioni e
la via che hanno appreso lassù, e in tal modo risalgono l’Albero della vita, fino al punto
dove c’è quel tale specchio-spada: lo guardano, dicono «Be’, è ovvio, sono io quello» e
proseguono ancora la bella salita.
Ricordo che provai un certo stupore inquieto quando, raccogliendo i materiali per il mio
libro sugli Angeli, scoprii che George Stephenson, l’inventore della locomotiva, era nato
sotto il Cherubino Haqamiyah. E a colpirmi non fu tanto la coincidenza (o diciamo meglio:
la coerenza) tra l’idea di comprimere il vapore per produrre lavoro, e la principale dinamica
di quest’Angelo, che è appunto compressiva (Q e M!) e produttiva: come vedrete
sfogliando i ritratti angelici, di coincidenze-coerenze del genere ne capitano a decine per
ciascun giorno dell’anno. Mi colpì invece questa ulteriore conferma dellostrano
rapporto che (avete mai notato?) sembra esservi tra le più celebri invenzioni
tecnologiche e tante cose che avvengono nei mondi invisibili.
Stephenson realizza, nella sua invenzione, un modello meccanico di una facoltà del
suo Angelo: come se in qualche modo l’avesse VISTO, e non avendo le parole per
desciverlo, avesse usato il metallo, i numeri, i calcoli. E Alessandro Volta, che nella sua
pila RAFFIGURÒ, di fatto, il versetto «sia fatta la Tua volontà come in cielo così in terra»,
mettendo appunto in contatto un polo alto e un polo basso, e constatando che tra i due
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passava energia? E Edison, che produsse luce inserendo una resistenza in un circuito,
non mise forse in pratica la famosa frase ««si fa più festa in cielo per un peccatore che si
accorga, che non per novantanove giusti che non si accorgano di nulla»? La «festa» è la
luce, i «novantanove giusti» sono il circuito, il «peccatore» è la resistenza che,
attraversata dall’energia del circuito stesso, produce un fenomeno che il circuito di per sé
non avrebbe prodotto mai.
Non solo: anche nella scienza ci sono scoperte tanto archetipiche. Basti pensare alla
funzione dei due emisferi cerebrali, scoperta da Perry negli anni Settanta: l’emisfero destro
che non conosce limiti, e il sinistro espertissimo invece di tutto ciò che è limitato. Abbiamo
già parlato di Gesù che consigliava, ai suoi discepoli in crisi, di gettare la rete a DESTRA
della barca (v. la puntata 30). Ora, date un po’ un’occhiata allo schema dell’Albero della
Vita, e ditemi se non vi ricorda il reticolo degli elettrodi di un encefalogramma – visto dal
basso, con la Prima Sephirah che corrisponderebbe alla nuca, e l’ultima, Malkuth, alla
fronte e agli occhi. In più, sappiate che le tre linee, o assi, o «colonne» dell’Albero della
Vita hanno anch’esse una precisa funzione: quella centrale è l’equilibrio, quella di sinistra
è la «severità», e giudica e delimita, e quella di destra è la «grazia», ovvero l’abbondanza
illimitata. Come se il dottor Perry lo sapesse, o come tremila anni fa (lo schema dell’Albero
della Vita è documentato nella Genesi) lo sapessero già…
Voi che ne pensate? Forse è soltanto perché l’umanità non scopre veramente mai nulla di
nuovo, ma non fa che riscoprire-riesprimere in modi diversi ciò che sapeva già all’inizio? O
forse è perché qualche millennio fa gli uomini ne sapevano molto più di noi, al contrario di
quel che noi tutti abbiamo sempre creduto? Oppure la questione è un’altra, e ancor più
appassionante: forse la ricerca tecnologica e scientifica è anch’essa una forma di
creatività, e come tale produce risultati solo quando chi la pratica sa raggiungere una certa
intensità e altezza interiore – e da quell’altezza si vedono sempre le stesse realtà, come
chi veleggiando lungo una costa vede le stesse cose che hanno visto tanti altri lì, prima di
lui?
Nel primo caso, non resta che dire, come Salomone, «non c’è nulla di nuovo sotto il sole».
Nel secondo caso, si hanno molte ragioni in più per considerare lo studio dei testi
sacri non come una forma di archeologia, ma come una paradossale attività di scavo nel
nostro futuro – in ciò che possiamo ancora «scoprire», e che in questi testi, appunto, era
scritto già. (D’altronde, una famosa frase di Nikola Tesla, inventore geniale, era «Mia
madre mi ha insegnato a cercare ogni verità nella Bibbia»).
Nel terzo caso, diventa decisamente urgente la voglia di saperne di più su quella costa, su
quelle realtà che si vedono da una certa altezza interiore.
Con l’Angelo di oggi si entra nella terza Sephirah, chiamata Biynah – dabiyn, che in
ebraico è «il capire». Biynah, infatti, è soprattutto la fase dell’Intelligenza: B-Y-N, cioè «la
consapevolezza (B) di come si manifestino (Y) le cose create (N)». Qui dunque ognuno di
noi ha imparato a scoprire da che cosa derivi, a cosa appartenga, in che cosa sia
contenuto (B) tutto ciò che può cominciare a esistere (YN). Da qui, evidentemente, si
poteva contemplare l’intero sistema (B) dell’Albero della Vita, e gli Angeli di Biynah, i
cosiddetti Troni, te lo descrivevano nei dettagli, con precisione rigorosa: come vi ho infatti
accennato nella scorsa puntata, la «Colonna di sinistra» dell’Albero – alla quale appunto
appartiene Biynah – è quella che corrisponde al nostro emisfero cerebrale sinistro, e
perciò alla nostra esigenza di confini, delimitazioni, nette proporzioni, calcoli,
meccanismi…
Nei «protetti» dei Troni (da oggi fino al 23 luglio), quando tutto va bene, rimane assai
pronunciata questa voglia di comprendere sempre più in là, di risalire con l’intelletto dal
visibile all’invisibile. E proprio da questa voglia – e dal rifiuto di accontentarsi di ciò che
già si sa di qualcosa – deriva anche la loro proverbiale tendenza alla disobbedienza. Voi
magari noterete qui una contraddizione psicologica: siamo nella «Colonna di sinistra»,
così precisa e rigorosa, eppure queste settimane pullulano di compleanni di ribelli,
di outsider, di eretici. Ma è facilmente comprensibile, e proprio in termini di psicologia
spicciola: proprio perché nella loro mente sono talmente precisi e rigorosi, i «protetti» dei
Troni tendono a non tollerare la precisione e la rigorosità altrui. La trovano insufficiente,
approssimativa, e quanto più sono fedeli a se stessi ed estroversi, tanto più li prende la
smania di buttare all’aria i sistemi altrui, o di ignorarli totalmente, per costruire i loro
sistemi. Anche per questo, forse, sono così spesso esuli o perenni viaggiatori (Dante,
Yeats, Che Guevara, Stravinski, Hermann Hesse, la Fallaci, Garibaldi, Hemingway…):
perché in patria risultano facilmente antipatici a moltissimi. E non che vi sia nulla di male:
vi ricordate? «Lascia la casa di tuo padre, la tua patria… e va’ a cercare te stesso». Ai
cercatori spirituali l’estero fa sempre bene.
Nel nome della terza Sephirah, Biynah, compaiono le due lettere che in ebraico significano
«figlio»: BN. E infatti uno dei compiti che la tradizione attribuisce ai Troni è proprio quello
di individuare coloro che saranno i vostri genitori. Certo, è ben chiaro il senso simbolico:
dicevamo la scorsa puntata che questi Angeli ti insegnano acapire da cosa derivino le
cose, i fenomeni, i fatti del mondo, e dunque a «trovare i genitori», le origini, le cause di
tutto. Ma non avviene mai che il contenuto di un simbolo annienti la sua forma: e siete
perciò liberissimi di immaginare che, proprio quando soggiornavate in Biynah, i Troni nelle
loro maestose vesti grigio-mercurio (tale è il loro colore) scelsero insieme con voi la donna
e l’uomo da cui poi voi sareste nati, E NON SARETE LONTANI DAL VERO. Poi,
naturalmente, si sarebbe trattato di farli incontrare, conoscere, andare d’accordo quanto
bastava – ma a questo avrebbero provveduto gli Angeli di altre Sephiroth più vicine alla
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Non deducetene tuttavia che i Troni – e i loro «protetti» – siano particolarmente legati ai
valori coniugali, alle famiglie ben compatte. Tutt’altro! In primo luogo, chi ha mai detto che
occorra per forza una famiglia rispettosa delle istituzioni, per mettere al mondo un nuovo
individuo? La storia sacra è, viceversa, piena di personaggi illustri nati e cresciuti al di fuori
dei vincoli famigliari tradizionali: da Mosé, a Salomone, fino allo stesso Gesù, il cui babbo
notoriamente non era il falegname Giuseppe.
In secondo luogo, vi ho già detto della tendenza alla disobbedienza, che è specifica di
questa Sephirah. E i «protetti» dell’Angelo di oggi – disobbedientissimi! – hanno appunto
nei rapporti sentimentali e sessuali uno dei loro prediletti territori di irregolarità. Nel loro
ritratto spiego che sono portati agli scandali, cioè a creare addirittura imbarazzo con i loro
comportamenti. È male ciò? Secondo le traduzioni consuete dei Vangeli è assai
riprovevole: se avete a casa un’edizione delle Scritture potete infatti leggere questo passo
molto minaccioso:
È inevitabile che avvengano gli scandali; ma guai a colui per il quale avvengono! Sarebbe
meglio per lui che gli fosse messa al collo una macina da mulino, e che fosse gettato in
mare, piuttosto che scandalizzare uno solo di questi piccoli.
Luca 17,1-2
Se ne andava predicando. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite
da spiriti maligni e da varie infermità: Maria di Magdala, Giovanna moglie di Cusa,
amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che si aiutavano con i loro beni.
Luca 8,1-3
Notate che quella tale Giovanna era moglie – e non vedova o ex moglie –
dell’amministratore di Erode: ma seguiva Gesù, e non occorre grande perspicacia per
accorgersi che l’intento dell’evangelista, qui, era di far notare un comportamento che
chiunque all’epoca avrebbe considerato compromettente. Per non parlare poi delle critiche
dei farisei:
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Marco 2,16.
Se il Natale non fosse il 24 dicembre, Gesù potrebbe benissimo esser nato in questi giorni
di giugno, sotto l’Angelo di Superman e dei moralmente insopportabili.
Dicevamo, un paio di puntate fa, dell’attrazione che l’estero esercita sui «protetti» dei
Troni: ed era, naturalmente, un simbolo – cioè una descrizione trasparente, di cui cogli il
significato soltanto per intravvedere un altro significato più in là, e poi un altro, e un altro
ancora. Proviamo a seguire queste trasparenze. L’estero, per i Troni, è ciò che sta al di là
di un confine, e al di là di qualunque confine, e contemporaneamente al di là del Confine
– ovverosia di tutto ciò che per te può rappresentare un confine.
Ecco, tutte queste tue dimensioni hanno un Aldilà, un ESTERO, ei Troni sono maestri
nel farlo scoprire, come spiega il ritratto dell’Angelo di questi giorni, l’estremamente
creativo e curioso Lewuwiyah, i cui «protetti» ben riusciti vedono ogni QUI E ORA come
una specie di prigione da cui progettare al più presto un’evasione.
La ragione per cui i Troni sono talmente esterofili sta anche nella particolare posizione
della loro Sephirah, che costituisce appunto il confine di quello che nella Qabbalah si
chiama «il primo ‘olam», cioè il Primo Mondo o anche la Prima Eternità (‘olam in ebraico
ha infatti entrambi i significati, un po’ come la celebre parola greca Aiòn). Questa Prima
Eternità comprende le tre Sephiroth più alte nell’Albero della Vita: Kether, Khokmah e
Biynah (in angelologia: Serafini, Cherubini e Troni). È la prima propaggine, il portale
dell’energia dell’Infinito, dell’Ain Soph: in gergo cabbalistico prende il nome di ‘olam ha-
atsiluth, «Mondo dell’Emanazione», perché la si immagina come una dimensione emanata
direttamente da quell’Infinito Divino. Per tutto ciò che, nell’Albero della Vita, viene dopo di
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essa, la Prima Eternità è L’ALDILÀ SUPREMO, da cui tutto ha principio, e in cui tutto si
rivela…
ovvero L: «il crescere sempre oltre»; e la doppia W: «ciò che può precludermi la via» e
che va sciolto, risolto, compreso, superato sempre, per ritrovare il rapporto con il Primo
‘Olam.
In ebraico: Kaph. È il geroglifico del potere, del possesso, dell’afferrare, del comprendere.
Forse avrete letto da qualche parte che il Nome di Michele, il principe degli Arcangeli,
viene solitamente tradotto «Chi è come Dio?», perchémiy? in ebraico significa «chi?»
e kiy è «come». Ma forse questa interpretazione non vi ha mai convinti, e vi è sembrato
strano che un Arcangelo avesse come Nome una domanda, retorica per di più. Se così vi
è parso, mi complimento con voi: vuol dire che la vostra sensibilità è desta e sottile. Il
senso di Michele è infatti assai più profondo. Le lettere M e Y compongono, in ebraico, la
radice della parola «acqua», che in questa antichissima lingua ha soltanto il plurale –
MYM (pronuncia: maiym), «le acque». Era un plurale perché si riteneva che le acque
nell’universo fossero almeno di due tipi, come è spiegato anche nella Genesi:
Dio (’El) fece un gran vuoto che si estendeva e separò le acque le une dalle altre: quelle
che sono sotto quel vuoto, e quelle che sono sopra quel vuoto.
Genesi 1,7
Quel «vuoto» è il luogo dell’aria, della terra, del cielo, e le «acque» sono tutt’intorno:
«acque» simboliche, si intende. Le «acque», nella Bibbia, sono il simbolo di ciò che è
informe, e che disgrega, dissolve. Prima della creazione dell’universo vi erano soprattutto
tenebre e ACQUE:
la terra era informe… e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sopra le
acque.
Genesi 1,2
Nelle innumerevoli correnti di quelle acque (la tradizione ebraica non ama il mare) agiva il
caos, tutto era forse-chissà, tutto diventava niente, nell’insondabile profondità dei Mari,
nell’insondabile profondità dello spazio buio.
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Uno dei compiti principali dei cercatori spirituali (e tutti lo siamo un po’, anche se non tutti
si accorgono di esserlo) consiste nel ritrovare una dopo l’altra le fasi, le Sephiroth, che si
sono attraversate nell’Albero della vita. Per nascere nel nostro mondo – cioè nell’ultima
Sephirah – occorre discendere lungo i percorsi dell’Albero, e per ritrovare quel che l’Aldilà
ci ha insegnato bisognerà dunque risalire, elevandosi dapprima al di sopra dell’ultima
Sephirah, poi al di sopra della penultima, poi della terzultima e così via fino a Kether: il che
diviene, al tempo stesso, un viaggio nella nostra più profonda memoria e nelle strutture
dell’Universo.
Tutti – spiegano i cabbalisti – dovranno comunque compiere questo viaggio, dato che alla
fine della vita l’anima ritorna verso Kether; ma chi lo compie vita natural durante ha
accesso a conoscenze meravigliose, a gradi supremi di consapevolezza (del tutti simili a
quelli che Castaneda definisce «il divenire deliberatamente consapevoli») e una
dimensione vitale superiore al tempo, l’aionios bios, come è chiamata nei Vangeli, il
«vivere nell’eterno».
Nell’Angelo di oggi troviamo qualche utile consiglio, per organizzare la risalita. Avete letto
nel suo ritratto che Pehaliyah riserva ai suoi «protetti» una intensissima energia sessuale
ed erotica, e che compito dei pehaliani è sublimarla, trasformarla cioè in forme di energia
differenti, via via più spirituali e più vaste. Ma avete notato che trascendere, per
quest’Angelo, non significa affatto abbandonare. Così come in simbolo il contenuto non
abolisce mai la forma che lo esprime, allo stesso modo nella trascendenza (e in genere
nel risalire le Sephiroth durante la vita) NON OCCORRE distaccarsi mai dai livelli inferiori.
Crescere non è amputarsi qualcosa.
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E così come anche i pehaliani più evoluti conservano sempre le loro capacità seduttive,
allo stesso modo anche tutti gli altri cercatori spirituali diventano non viaggiatori scomparsi
nell’Aldilà ma intermediari, tramiti, israeli (v. la puntata 8) tra la terra e il cielo. Devono
tornare a raccontare, devono esprimersi in modo che li si capisca: devono dunque
mantenere una coesione con il linguaggio e con le menti di chi è rimasto più in basso.
Appunto perciò, nelle mappe dell’Albero della Vita, i sentieri o canali che collegano tra loro
le varie Sephiroth sono esattamente ventidue, come le lettere dell’alfabeto ebraico, e
ciascuno di essi È anche una di queste ventidue lettere. Come a dire: quanto più sali,
tanto più ti impadronisci dei poteri del linguaggio, tanto più ti accorgi di cosa sia il
linguaggio (le lettere, le parole) che usi, e dunque tanto più preciso e potente sarà il tuo
modo di comunicare con gli altri uomini. Forse anche perciò una delle caratteristiche dei
pehaliani è (e se ancora non lo è in alcuni, deve diventarlo) la ricchezza, la persuasività
del loro parlare.
Oltre che di raccontare, descrivere e magari profetare, è bene che i cercatori spirituali si
preoccupino anche di FARE – di manifestare cioè le loro superiori conoscenze anche
sotto forma di azioni estremamente concrete. Non tutte le confessioni cristiane sono
d’accordo su questo punto (tra protestanti e cattolici, per esempio, si accesero qui lunghe
dispute) ma le Scritture, su questo punto, sono chiarissime: «il Regno di Dio non sta nelle
parole, ma nei poteri» dice per esempio Paolo (Prima lettera ai Corinti 4,20). E lo
splendido Giacomo precisa:
A che serve, fratelli, se uno dice di aver la fede ma poi non fa? Credete che quella fede lo
salvi? Se un fratello o una sorella non hanno da vestire e da mangiare, e uno di voi dice
loro: «Andate in pace, a riscaldarvi e a saziarvi» ma non date loro ciò di cui hanno
bisogno, a che serve?.. Al contrario, uno potrebbe dire: tu hai la fede, ma io le cose le
faccio. Tu mi mostri la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti farò vedere cos’è la
mia fede.
Giacomo 2,14
Non chi mi dice «Signore, signore» entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi fa la volontà del
Padre mio, che è nei cieli.
Matteo 7,21
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E qui «Regno dei cieli» indica appunto quella dimensione eterna che, nella mistica
ebraica, corrispondeva alle dieci Sephiroth che, nell’Albero della vita, salgono al di sopra
dell’ultima, chiamata «il Regno» della terra.
L’Angelo di oggi ha anche il compito di porre in risalto questo aspetto della questione.
Annovera numerosi liberatori (sia veri, sia presunti tali) tra i suoi «protetti»; e, come forse
vi sarà capitato di notare tra i vostri conoscenti, capita non di rado ai nelkaeliani di sentirsi
assai nervosi e infelici, senza riuscire a spiegarsi perché, QUANDO SONO TROPPO
INDIFFERENTI AI GUAI ALTRUI. Ma se non siete nati proprio in questi giorni, o se intorno
a voi non notate nulla che richieda un vostro urgente intervento eroico, tenete presente
che la lezione di Nelka’el, valida per tutti senza eccezioni, è di cominciare ad accorgersi di
quanto ognuno di noi è prigioniero delle proprie circostanze di vita. Le «opere» e i
«poteri» di cui parlano Paolo, Giacomo e Gesù cominciano proprio da qui. Tutti noi
abbiamo moltissimo da fare, molte oppressioni da distruggere in casa nostra, nella nostra
stanza. Altra citazione utile:
Tu dici: «Sono ricco, non ho bisogno di nulla». Ma non sai di essere invece un infelice, un
miserabile, un povero, cieco, nudo.
Apocalisse 3,17.
Vi dicono nulla queste parole di diciannove secoli fa? E state pur certi che non appena
comincerete a indignarvi per le vostre personali «povertà», anche le povertà altrui vi
risulteranno molto più evidenti.
È chiaro che, seguendo questi Troni, si rischia facilmente di ritrovarsi esclusi da quella che
per i nostri contemporanei è la normalità, oppure – tutte le volte che il coraggio verrà meno
– di sentire la normalità stessa, e il nostro adeguamento ad essa, come una radicale,
bruciante sconfitta, come un tradimento di sé.
era il Progetto iniziale (che evidentemente va a rilento), che cosa avevano in mente Dio e i
suoi altissimi Angeli, quando completarono e misero in moto quest’Albero della Vita?
Provate a porre voi queste questioni alla vostra parte angelica (non potete sbagliare, è
proprio in fondo al cuore, domandate lì e sentirete la risposta, se riuscite a star zitti
interiormente) e vediamo cosa vi dice. Per quel che ne so io, dalle mie letture e
decifrazioni, la normalità che ai «protetti» dei Troni appare tanto stretta e scomoda ha
proprio il compito di far apparire, risaltare e fruttare le loro qualità, i loro aspetti migliori,
che altrimenti essi non conoscerebbero mai.
E il Progetto iniziale, a mio parere, doveva assomigliare molto a quell’immagine del Tao
che certamente conoscete: il bianco e il nero contrapposti. Come dice Mago Merlino ne La
spada nella rocciadi Disney:
Canzoncina taoista anche questa: «per ogni su c’è sempre un giù, per ogni quadrato c’è
sempre un cerchio, per ogni alto c’è sempre un basso…» E Mago Merlino prosegue
raccomandando al suo pupillo Semola (il futuro re Artù) di puntare in alto, di «non essere
una mediocrità»: questo è il gioco, gli spiega, prova e vedrai, e ricorda:
Cioè: chi non risica non rosica, e letteralmente «se non fai la tua puntata, non ti diverti!»
Credo che il mago avesse ragione, tanto più che in quel punto del film si era nel pieno
dell’iniziazione di Semola (ricordate? Erano sott’acqua, trasformati in pesci) e Merlino gli
stava rivelando, come deve fare ogni buon iniziatore, i segreti di tutto. Avevano dunque in
mente un gioco, lassù, quando si misero all’opera? Direi di sì, e mi sa che da millenni si
stiano appassionando e divertendo non poco, e noi potremmo fare lo stesso, se ce ne
accorgessimo più di frequente.
Il 14 luglio è, come ben sapete, la festa della Rivoluzione Francese; il 4 luglio è la festa
della Rivoluzione americana. Due rivoluzioni «protette» dai Troni, e tutt’e due alla fine del
Settecento. Non solo, ma il 4 luglio cade proprio sotto Nelka’el, l’Angelo dei liberatori: e gli
americani, con la loro rivoluzione, si liberarono dal dominio inglese; mentre il 14 luglio è
sotto l’Angelo della realizzazione dei desideri di molti, e decisamente la presa della
Bastiglia fu una rivendicazione popolare, contro i privilegi di pochi.
Sono un po’ troppe queste coincidenze, per far pensare a un semplice caso della sorte. E
in realtà, alla fine del Settecento vi erano numerose correnti e sette (la massoneria
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Emerge qui, invece, quello strano filone esoterico della politica occidentale, a cui sono
stati dedicati tanti studi interessanti negli ultimi anni. C’è l’elemento cabbalistico
settecentesco in America, e ci sono anche le correnti oscure della Germania hitleriana, e
l’elemento templare nella Russia sovietica – in quel KGB che dagli anni Settanta ha
controllato segretamente l’Urss, ha salvato la Russia dal completo sfacelo e ora la sta
guidando, sempre più apertamente. Per quanto i benpensanti di tutto l’Occidente si
facciano un obbligo di considerare l’esoterismo come una congerie di vecchie
superstizioni, va riconosciuto che le ragioni di buona parte della nostra storia vadano
cercate anche lì. E questo è un bene o un male?
ma Gesù, avendo saputo che stavano per venire a prenderlo e farlo re, si ritirà di nuovo
sulla montagna, da solo.
Giovanni 6,15.
(È ovvio che a questo punto qualcuno potrebbe farmi notare che ci sono degli Stati
millenari nei quali la politica utilizza la spiritualità per reggersi: il Vaticano, il Tibet. Sono
certamente fenomeni interessanti, e non mi attira l’idea di aver ragione contro qualcuno.
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Ma per conto mio, preferisco chi esplora l’invisibile per conto suo, nella sua libertà
individuale).
Ed eccolo qua, un campione assoluto di libertà individuale, l’Angelo dei Robin Hood,
Khahewuyah. E dire «libertà», in questo caso, può risultare riduttivo, può magari far
pensare a un ideale, a un valore universalmente riconosciuto, come quelli che piacciono ai
Nelka’el: ma questo Trono non si lascia imbrigliare in nulla del genere. La sua libertà
somiglia piuttosto un avventuroso arbitrio, fieramente indifferente a tutto che gli uomini
sono abituati ad approvare o biasimare. Non ha neppure bisogno della disobbedienza dei
La’awiyah – cioè di una qualche obbedienza alla quale contrapporsi, e dalla quale dunque
dipendere in qualche modo (si sa che i ribelli rimarrebbero disoccupati, se non ci fossero
tirannie ed oppressioni).
E non si pone nessun dovere programmatico, ai differenza dei Kaliy’el, che mettono subito
da parte le loro sregolatezze quando si tratta di intervenire in qualche emergenza.
Macchè: Khahewuyah è sregolato e basta, e quando i suoi «protetti» aiutano qualcuno nei
guai, ci si può tranquillamente aspettare che lo derubino cinque minuti dopo… E tutto ciò,
senza né scrupolo né rimorso. Nei vecchi codici di Angelologia gli si attribuisce addirittura
la capacità di «far assimilare ai suoi protetti le cattive azioni che hanno commesso, perché
non abbiano a subirne conseguenze karmiche» (*): cioè nessun fio da pagare, né in
questa vita, né nelle prossime!
A questo riguardo vi racconto un fatto personale: nell’inverno del ’97 stavo terminando un
mio libro, I maestri invisibili; ci avevo lavorato per due anni, e nell’ultimo periodo mi ci ero
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impegnato talmente da non trovare nemmeno più un momento per salvare, né tantomeno
per stampare quello che scrivevo. E tre giorni prima della consegna alla casa editrice, il
dischetto (allora si usavano i dischetti) mi si smagnetizzò. Andò tutto perduto. Ero
disperato. Trecento pagine! Passai una giornata tremenda, e il mattino dopo ricominciai a
scriverlo daccapo. Ottenni dal redattore un paio di settimane in più, e due settimane dopo
consegnai le nuove trecento pagine, molto migliori della stesura perduta, e il libro andò
benissimo. Non è un vero peccato non poter fare così MOLTO SPESSO, anche in altri
campi delle nostre esperienze? Khahewuyah sa come riuscirci. Chiedeteglielo.
La prossima volta che capitate a Firenze, andate a visitare il Battistero, davanti al Duomo.
Ci sarà sicuramente un po’ di coda, ma vale la pena. Una volta entrati, guardate in alto, e
nella cupola li vedrete tutti quanti: Serafini, Cherubini, Troni e Dominazioni e poi tutti gli
altri, con sotto le loro scritte – come per gli ospiti in televisione, solo che nel Battistero le
scritte sono in latino. Noterete che le Dominationes hanno un tono azzurrino, e accanto a
loro le Potestates (le Potestà) hanno un tono un po’ più intenso, quasi blu. Sono appunto
i colori tradizionali di queste due Gerarchie angeliche, che nell’Albero della Vita si
trovano in posizione simmetrica: le Dominazioni sulla Colonna di destra – quella
dell’abbondanza, della grazia – e le Potestà sulla Colonna di sinistra – quella della
riflessione accurata, della razionalità, del giudizio rigoroso. Sono entrambe azzurre proprio
perché, oltre che simmetriche, hanno la medesima funzione: insegnano, a chi dovrà
nascere, il CORAGGIO. Ciascuna lo fa, naturalmente, a suo modo.
La Quarta Sephirah, quella appunto delle Dominazioni, si occupa del coraggio di usare i
propri talenti, di precisare i propri desideri (di «non fare sconti a Dio», come usa dire una
mia cara amica) e di non lasciarsi opprimere dai propri umori cupi o dalle circostanze
negative – e non per nulla il primo Angelo delle Dominazioni è proprio Nithihayah, che
pone ai suoi protetti un’unica scelta: o abbracciano la difficilissima ed entusiasmante
carriera di strega (nel senso migliore del termine) o per tutta la vita si sentiranno inutili e
assurdi. La Quinta Sephirah, quella delle Potestà, si occupa invece del coraggio di vedere
e affrontare i propri difetti, di rifiutare le illusioni su se stessi e sugli altri.
Quanto all’azzurro, ne ho scoperto il senso soltanto poco tempo, conversando con un altro
mio caro amico, Maurizio Zanolli, pittore, filosofo, autore di una originalissima teoria dei
colori (vi consiglio caldamente di andare a vedere i suoi spettacoli): secondo Maurizio, i
colori sono uno dei linguaggi dell’uomo e della natura al contempo, e probabilmente
anche di Dio; sono come lettere, e in tutto ciò che ci circonda formano parole ben chiare,
dimodoché chi impara a conoscerli può cominciare a dialogare con tutto ciò che lo
circonda, e farsi raccontare che cosa tutto significhi, e che cosa – inconsapevolmente di
solito – abbiano voluto dire a se stessi gli uomini usando certi colori invece di altri.
«Magnifico! E l’azzurro?» gli ho domandato. «L’azzurro» mi ha risposto (e Maurizio non si
intende di Qabbalah) «è la risolutezza, la decisione, l’assunzione di responsabilità.
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Guarda tu stesso: che cosa vedi di azzurro, intorno a te? Decifra.» Ho provato a decifrare,
e ho constatato che ha ragione. Mi sono sempre piaciute molto le teorie che trovano
conferma OVUNQUE POSI LO SGUARDO.
I concetti di bene e di male, a questo livello dell’Albero della Vita, cominciano dunque a
diventare un po’ più comprensibili a noi tutti: non vi sono più i paradossi che avevamo
visto nelle Sfere superiori – e ciò perché con la Quarta Sephirah si entra in un altro ‘Olam,
in un’altra Dimensione, più vicina a noi. La prima Dimensione, vi ricordate, era quella
delle Emanazioni (v. la puntata 63) e lassù il nostro intelletto doveva compiere notevoli
balzi logici, per potersi orientare; questa nuova Dimensione è invece lo ‘Olam ha-Beriah,
«l’Eone della Creazione», in cui tutto ciò che dovrà nascere o avvenire comincia ad
assumere davvero le proprie forme.
Qui, energie che fino a poco prima potevano ancora diventare chiunque o qualsiasi cosa
cominciano a diventare qualcuno o qualcosa: qui si verificano quindi le prime scelte vere
e proprie – chi o cosa diventare e, di conseguenza, chi o cosa NON diventare. E le scelte
non vennero fatte soltanto dall’alto, ma in qualche misura vi partecipammo anche noi:
venne richiesto il nostro parere, e appunto perciò venimmo forniti, qui, di coraggio, perché
di questa qualità vi è assoluto bisogno quando si prendono decisioni che riguardano la
propria vita. E il guerriero (da non confondere con il soldato) non è forse colui che deve
continuamente decidere? Ecco dunque questi quattro marziali istruttori, che certamente si
incaricarono di assisterti in quell’emozionante periodo della TUA creazione.
«Tra qualche tempo» ti dissero, più o meno, «comincerai la tua fase di atterraggio su
quella Sfera che vedi laggiù, chiamata mondo umano… Non possiamo esattamente dirti
quando sarà, un po’ perché è un dettaglio, questo, ancora da chiarire, e un po’ perché noi
siamo in un ‘Olam, e ‘Olam significa anche Eternità, cioè Assoluto Presente, atemporalità.
Ma, presto o tardi, là ti aspetteranno e inevitabilmente (anche se non se ne renderanno
conto) si aspetteranno da te grandi cose, cose nuove. Dio sa quanto ne abbiano bisogno,
di cose nuove, laggiù, con tutti i guai sempre uguali che combinano da migliaia di anni! E
anche noi contiamo molto su di te. Perciò ascolta bene: più su Serafini, Cherubini e Troni ti
hanno istruito sul possibile, noi ti parleremo del necessario. Alcune cose sono necessarie,
altre no. E il modo più semplice per riconoscere le prime tra le seconde, è porsi sempre un
po’ più in alto di quell’io che tu là sarai, e preoccuparti non solo di te ma di molti…»
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«Ma come!» potresti aver obiettato tu a questo punto. «Adesso devo cominciare a
diventare me stesso, e voi mi dite che devo restare più grande di me? Devo scendere in
quella Sfera umana o no?» «Certo» fu probabilmente la risposta, «ma proprio questo è il
punto. Ti troverai bene laggiù, e sarai fiero e saremo fieri di te, se con una parte di te sarai
soltanto te stesso, e con l’altra sarai ancora un po’ qui in alto: sarai soltanto te stesso
nel prendere le tue decisioni e nell’agire, e sarai ancora quassù nei moventi delle tue
decisioni. Allora tutto andrà bene. A proposito, sai cos’è, esattamente, il bene e in che
cosa si distingue dal male? Ora te lo spieghiamo…»
E te lo spiegavano.
Tra il primo e il secondo ‘Olam c’è anche un luogo segreto, a cui ho già accennato
fuggevolmente qua e là. È la Sephirah Da‘ath, cioè la Sfera della Conoscenza. Come
vedete dall’illustrazione, si trova proprio sul confine tra le due Dimensioni, sull’asse
centrale: ed evidentemente una posizione importantissima, eppure pochi ne parlano; in
alcune raffigurazioni dell’Albero è segnata appena, talvolta con una circonferenza
tratteggiata, e in altre manca del tutto.
È infatti un punto molto delicato: lì cresce lo ‘Ets ha-Da‘ath, «l’Albero della conoscenza»
del bene e del male, che pose tanti problemi al Dio-Signore, all’adam e a tutti i teologi
d’Occidente e del vicino Oriente. Lì YHWH aveva posto il suo tabù, lì giunse la ishah, e
poco più sopra – tra i Cherubini – fu posto il Guardiano della soglia, con il compito di
vietare all’umanità l’accesso a un’immagine complessiva dell’Albero della Vita… È un
luogo traumatico, insomma.
E non per nulla il senso di giustizia caratterizza gli Angeli della Quarta Sephirah, e fa sì
che almeno tre di essi (l’Angelo di ieri, Ha’a’iyah; l’Angelo di questi giorni, Yerathe’el; e
l’ultimo delle Dominazioni, Washariyah) siano grandi cacciatori e castigatori di colpevoli:
nessuno sa vedere le colpe altrui meglio di chi senta in se stesso una qualche colpa
profonda… «Ci vuole un ladro per acchiappare un ladro», dicono gli anglosassoni! È come
se davvero sulla Quarta Sephirah (e anche sulla sua gemella, la Quinta, come vedremo)
pesasse più che su tutte le altre il ricordo di quella prima violazione di un comando divino.
E il coraggio che le Dominazioni insegnano può essere interpretato, a sua volta, sia come
il coraggio che occorse all’adam, quando venne scacciato dall’Eden e si incamminò verso
la sua esistenza terrena, sia anche come il coraggio che occorre a chiunque voglia risalire,
attraverso la Sephirah Da‘ath, verso quel Cherubino-guardiano eaffrontare la sua spada-
specchio (v. la puntata 55). In entrambi i sensi, secondo la Qabbalah, la Conoscenza
richiede un coraggio molto speciale. È più rassicurante, più facile, rassegnarsi a non
conoscere, e anche le Scritture lo confermano: scrive, per esempio, Salomone
35
Qoheleth 1,18
C’è bisogno di spiegare perché? La ricerca di Da‘ath non sfida soltanto i divieti, la gelosia,
l’invidia anche, di YHWH, ma irrita inevitabilmente anche la maggioranza degli uomini.
Dice Don Juan, il maestro di Castaneda:
Credi forse di poter convincere i tuoi simili ad affrontare queste prove? Si metterebbero a
ridere e si farebbero beffe di te, e i più aggressivi ti picchierebbero a morte. E non perché
non ti credano… Nel profondo di ogni essere umano c’è una consapevolezza ancestrale,
viscerale…
Tutti gli uomini sanno un po’, tutti sono passati dalle dieci Sfere, e hanno serbato
frammenti e bandoli di Da‘ath in fondo ai loro pensieri: ma HANNO PAURA di ricordare e
di ritrovarli, e la paura rende facilmente feroci. Il coraggio che le Dominazioni vi hanno
insegnato è anche quello di fronteggiare e di ignorare tale ferocia, e di non restarne
contagiati, quando cominciate anche voi a ricordare.
Vi sembra esagerato l’Angelo di questi giorni? Con quella sua passione per la
distruzione, che spinge i suoi «protetti» più coerenti a non risparmiare nemmeno le
proprie opere: periodicamente le mandano in frantumi con uno strano senso di
liberazione… Ma nel corso di questo blog avete già avuto modo di vedere molte altre
categorie angelico-umane decisamente strane, e di certo vi sarete abituati a non farvi
intimidire dai paradossi, bensì a riflettere e a trovare la chiave per interpretarli.
חס ד
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KHESED è senza dubbio una delle qualità più difficili da esercitareoggi in Occidente, e
non tanto perché vi sia negli Occidentali una qualche congenita taccagneria, ma perché
da troppo tempo (da
un secolo e mezzo o giù di lì) la nostra civiltà è sulla difensiva: nell’Ottocento eravamo
padroni e sfruttatori di troppa parte del mondo e, quel che è peggio, ci sforzavamo troppo
di ignorare questo fatto (provate per curiosità a scorrere le opere di Freud o Jung, e a
cercarvi qualcosa che riguardi il rapporto tra l’ansia nevrotica e il colonialismo: non vi
troverete un solo accenno!
Come se la nuova psicologia ritenesse del tutto innocuo per la psiche il fatto che le nazioni
progredite vivessero ferocemente a spese di decine di milioni di neo-schiavi…). E per di
più attorno al 1850 cominciò a fermentare il comunismo, che mostrava come anche in
casa nostra la neo-schiavitù fosse ormai diventata la condizione di tutto.
Da allora cominciò a ispessirsi il nostro guscio, e divenne ben presto una Samek
titanica e angosciatissima. APPUNTO PERCIÒ l’Angelo di oggi appare, oggi, talmente
esagerato e pericoloso: non perché lo sia davvero di per sé, ma perché
inconsapevolmente, quasi istintivamente ormai, vi proiettiamo tutte quelle nostre paure
occidentali. Così l’energia più limpida di Khesed può sembrare e DIVENTARE ai nostri
occhi, e nelle vite dei suoi protetti più celebri, una potenza distruttiva, catastrofica…
In ciò, Reyiy’el è parente stretto di Pehaliyah (v. la puntata 64): in entrambi, molto dipende
infatti dalla sublimazione del desiderio. Quanto più sanno deviare la loro
intensissima libido dalle sue consuete forme di soddisfazione inviduale a obiettivi più
generali, tanto più aumenta il loro coraggio e si amplia il loro campo d’azione. Avete visto,
nel ritratto, quali nomi compaiano tra i nati in questi giorni: il taxista-eroe di Taxi Driver, che
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come ricorderete è vergine, benché l’idea del sesso lo assedi di continuo; e il colonnello
Lawrence, il fautore dell’indipendenza araba, di cui la maggior parte dei biografi
sottolineano la castità, compensata da una passione addirittura spietata per l’esercizio
fisico; e si potrebbe aggiungere un altro colonnello famoso, Dragutin Dmitrievic, che tra il
1904 e il 1914 fu il deus ex machina dell’indipendenza serba, e – guardacaso – era nato
solo a due giorni di distanza da Lawrence, ed era anche lui, pare, rigorosissimamente
casto, oltre che incredibilmente coraggioso…
Nel caso di Reyiy’el, dunque, l’interpretazione geroglifica di Khesed può subire una
leggera modifica, diventando: «l’impegno (KH) che occorre per frenare (Samek) le mie
intense pulsioni e trasformarle in generosi doni(D) per i molti». Sapete dunque,
eventualmente, cosa consigliare a qualche vostro amico Reyiy’el che abbia sogni di gloria
non ancora realizzati.
Nell’Angelo di questi giorni, Khesed assume aspetti che oggi definiremmo borghesi: la
fedeltà alle istituzioni, alle regole, il disciplinato svolgimento delle proprie mansioni,
l’attaccamento alla famiglia, alla casa. Solo che – a differenza di quel che avviene nella
mente dei borghesi attuali – i «protetti» di ’Omae’el intendono tutti questi solidi elementi
dell’esistenza come un modo per trascendere se stessi: non pensano cioè «ecco, tutto
questo è mio», bensì «ecco, a tutto questo, al mio lavoro, alla mia famiglia, alla mia casa
io sento di appartenere: non mi importa gran che di me, e se dovessi dedicarmi a me
stesso sprofonderei nella noia…
Qui invece sono al servizio degli altri: ’Omae’el, aleph-waw-mem: io sono la Mem che li
avvolge, la Waw che custodisce la soglia, l’Aleph dell’energia che attraverso di me vivifica
tutti i miei». È decisamente un modo luminoso di intedere quello che alla maggioranza
di noi sembra la routine quotidiana. E ho la netta impressione che le tante e celebri
infelicità che assillano i nostri borghesi (e sulle quali, com’è noto, è stata costruita la
psicologia europea) dipendano, in larga misura, proprio da un rapporto insufficiente con
’Omae’el, dall’incapacità di ascoltare – o meglio, di ricordare – il suo insegnamento.
Certo, le infelicità degli omaeliani dipendono anche dal compagno di vita che si sono
scelti. A molte persone, avere un omaeliano in casa fa senz’altro comodo, ma a lungo
andare può risultare noioso. Altri non tollerano i suoi impulsi materni o paterni. Altri ancora
sono irritati dal suo amore per la disciplina, dalla sua resistenza a ciò tutto che è nuovo o
strano… E qui si apre un interessante aspetto dell’angelologia: le compatibilità
individuali tra i «protetti» dei diversi Angeli.
E lo lascio a voi, come esercizio di angelologia applicata: a vostro parere, con chi
potrebbe trovare la felicità domestica un ’Omae’el? Secondo me, certamente non con
uno delle quattro Dominazioni guerriere che abbiamo visto nelle scorse settimane, e
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nemmeno con i «maghi» di Nithihayah. Sconsigliati anche i Troni, tutti quanti: troppo
disobbedienti, troppo estroversi! Molto meglio i Cherubini, e anche i Serafini (escluso il
rapace Lelehe’el). Tra gli Angeli lunari, ottime le unioni con Damabiyah e Yabamiyah; tra
gli Arcangeli, con Harakhe’el; tra i Principati, buone probabilità di riuscita affettiva con tutti
meno che con il viaggiatore Niyitha’el; tra le Virtù, perfetta l’unione con Sa’aliyah, assai
difficili quelle con gli altri; mentre tra le Potestà, gli unici con cui può funzionare sono i
«protetti» di Raha‘e’el e di Yeyaze’el. Ma questo, solo secondo me. E a proposito, voi, con
le qualità del vostro Angelo, con chi potreste trovarvi benissimo? Fate ipotesi.
Dicevamo, nella scorsa puntata, della ricerca delle compatibilità individuali e intime tra i
«protetti» dei Settantadue Angeli. Se proprio non riuscite a individuare il vostro compagno
angelico ideale, chiedete consiglio a un Lakabe’el:i «protetti» dell’Angelo di oggi sanno
sempre tutto, capiscono tutto, traggono conclusioni riguardo a tutto e non solo si
assumono molto volentieri la responsabilità di indicare al loro prossimo cosa sia meglio o
peggio fare, ma lo guidano anche, e gli organizzano la vita, se li lascia fare.
La differenza tra i Lakabe’el e i Washariyah è che i primi sono anche molto pieni, e i
secondi sono vuoti – ed entrambi nel senso migliore del termine. I Lakabe’elsono pieni (e
alle persone superficiali possono sembrare molto pieni di sé) perchétraggono solamente
da sé stessi le forze, le idee, gli ideali di cui hanno inevitabilmente bisogno per esercitare
il loro Khesed, la loro «Generosità», sottoforma di assunzione di responsabilità per conto
altrui. I Washariyah sono invece come lenti di cristallo perfettamente trasparenti, tanto
più utili agli altri quanto meno contengono o portano su di sé.
Un lakabeliano potrebbe intrattenervi per ore, per esporvi le sue personalisse opinioni e
ciò che da esse consegue. Se conversate invece con un washariano, la quasi totalità degli
argomenti riguardererà certamente voi e non lui: e se insisterete per sapere qualcosa di
più di come vive, di cosa pensa, di cosa gli piace, vi racconterà di suoi ricordi famigliari,
dei suoi legami, o di cose ha letto, visto, udito – di altre persone e di opere altrui,
insomma, fedelissimo sempre al suo compito di lente che mostra, ingradisce, mette a
fuoco e null’altro.
Sono due modi contrapposti di donare se stessi: traetene la lezione che sempre
occorre trarre dalle descrizioni di Angeli, domandandovi in tutta sincerità «Mi piacciono?
Posso capire il loro modo di essere? Li stimo?» Se la risposta è «sì», va tutto bene e che,
da questo lato dell’orizzonte zodiacal-angelico, potete stare tranquilli. Se invece storcete il
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naso davanti alle qualità di questi due, o un lakabeliano o un washariano non vi sono per
niente simpatici, vuol dire che avete ancora molto da imparare su come essere
pienamente o vuotamente voi stessi, sul come e quando darvi o non darvi importanza,
oltre che naturalmente sul come assumervi volentieri ed efficacemente responsabilità.
vi dicevo nella scorsa puntata; e mi pare dunque un buon momento per ricapitolare alcuni
temi essenziali del nostro blog, specialmente per quel che riguarda il «vedere» le
Gerarchie e l’imparare da esse. Stiamo descrivendo (da quasi un anno ormai) quelle che
secondo l’Angelologia sono le diverse forme assunte dall’Energia cosmica che entra
nel nostro mondo umano e lo vivifica: gli Angelologi chiamano queste forme «Angeli»,
pensano che siano Settantadue, e le immaginano come porte e portatori di vere e proprie
correnti di talenti e di occasioni.
Quanto più conosci questi «Angeli», tanto più li potrai assecondare e far fruttare nella tua
vita: a cominciare dal tuo Angelo personale, connesso a te dal tuo giorno di nascita (dalla
porta, cioè, che non per caso scegliesti per venire al mondo) e per continuare poi con tutti
gli altri settantuno. Quanto più numerosi sono gli Angeli che impari a conoscere, tanto
migliori diventano i tuoi rapporti con il prossimo. Impari infatti che cosa puoi o non puoi
aspettarti dalle persone, valutando i loro talenti angelici. Impari ad aiutarle, per quanto
possibile, richiamando la loro attenzione su quei loro talenti e sulle molte occasioni che
avrebbero se li assecondassero.
Via via che scopri e componi – come fossero tessere di un mosaico – le Verità parziali dei
vari Angeli, ti accorgi infatti che il tuo mondo interiore si amplia, ed è una sensazione
splendida: cominci a considerare il tuo io non più come un territorio da difendere dagli altri,
ma come un tuo strumento, adoperato in questa vita da un Io più grande – e solo in
questo Io più grande cominci a identificarti. Più piccoli di prima cominciano ad apparirti i
tuoi problemi, conflitti e difetti; e assai più grandi, invece, le tue aspirazioni, i tuoi sogni, i
tuoi ideali. Cresce la tua consapevolezza di te e della realtà, e questa crescita di
consapevolezza va di pari passo con la riscoperta di quelle strutture e sorgenti di sapienza
che la Qabbalah raffigura nelle Sephiroth.
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È davvero come se l’Albero della Vita crescesse in te. E dove la scoperta di quelle Verità
angeliche è frenata (e tutti hanno tali zone bloccate, opache: tutti trovano incomprensibile
qualche Angelo…), là si nascondono i principali tesori: là puoi scoprire cioè, con un po’ di
pazienza, tue resistenze, tue ferite da guarire, tue domande non ancora affrontate, che
fino a oggi ti avevano fatto apparire certe Verità, certe persone, certe situazioni, certi
settori, insomma, del mondo come ostili o a te vietati. E sono appunto quei settori
impersonati dall’Angelo che non riesci ancora a capire. Riflettici meglio, chiedi aiuto a
Washariyah, l’Angelo-lente, e apri anche quelle porte.
Con l’impetuoso Angelo di oggi ha inizio la Quinta Sephirah, color azzurro scuro, chiamata
in ebraico Gheburah, che propriamente significa «la Forza dei grandi uomini». Ghibor in
ebraico è «l’eroe», ghebir è «il capo». Gheburah, nel ciclo d’istruzione che tutti noi
abbiamo attraversato prima di nascere, è il luogo che compensa la generosità,
l’altruismo della Sephirah precedente, Khesed. In Geburah abbiamo imparato la forza
centripeta, indispensabile all’esercizio dei nostri talenti nel mondo.
E ciò vale naturalmente anche riguardo ai corpi altrui: anche il rispetto, la stima che posso
provare per gli altri dipendono da ciò che avevo appreso nella Quinta Sephirah. E
viceversa l’opprimere il prossimo, l’ignorare il valore altrui, la ripugnanza per l’intimità,
l’incapacità di provare gioia nel contatto con i nostri simili (o con alcune razze dei nostri
simili) sono altrettanti sintomi delle carenze esistenziali di chi ha troppo dimenticato questa
tappa della formazione prenatale. E non so cosa ne pensiate voi, ma a me pare proprio
che a moltissimi l’analisi dei vari Angeli di Geburah offra l’occasione di un fruttuoso
esame di coscienza e di condotta: ai troppo buoni, per esempio.
Quella che alcuni chiamano eccessiva bontà è infatti, spesso, la tendenza a compiacere
gli altri, ad adeguarsi, a sottomettersi; sconfina facilissimamente nella codardia, e la
codardia si esprime non soltanto nel rapporto con gli altri, ma anche e soprattutto nel
rapporto con se stessi: con le proprie idee, con la propria forza di volontà, con il proprio
impegno, che illanguidiscono pateticamente. Ed è utile, lo studio di Geburah, anche ai
tiepidi, ai frigidi, nei quali si nasconde spesso molto egoismo (vi è infatti un’enorme
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Ciò che sarebbe diventato il nostro spirito ha ricevuto qui la voglia di salire sempre più
in alto, e di irradiarsi, nel mondo, in un’area sempre più vasta: e nella nostra vita, questa L
del nostro spirito si sarà certamente manifestata dapprima sottoforma di brama di
promozione, carriera, successo, e poi – se nulla l’ha potuta fermare – il suo estendersi è
destinato a puntare sempre più in alto e lontano, verso quelle sfere più spirituali di cui
parlano mistici e cabbalisti. Dunque, se notate che qualcosa vi manca nel vostro L-H-KH
corporeo, mentale o spirituale, è proprio qui, da Lehekhiyah, che dovete tornare a cercare.
Per rintracciarlo sapete bene come si fa: risalire l’Albero della Vita dritti dritti fino a
raggiungere lo ‘Olam della Creazione (v. la puntata 70), là girate a sinistra, arrivate nella
Sfera di Geburah, e poi chiedete…
Ovviamente sto parlando del tutto sul serio: la settimana prossima sarà giusto un anno
che discutiamo di Qabbalah e vi sarete ormai familiarizzati con questo tono un po’ da
fantascienza, un po’ da caccia al tesoro, che è sì simbolico, ma non astratto, e che non
richiede fede negli Angeli, ma curiosità, riflessione e voglia di esperienze reali. Se
richiedesse fede, vi avrei suggerito di invocare Lehekhiyah, per ottenerne i favori, e poi di
star seduti o inginocchiati in attesa di riceverne un segnale, o magari di vederlo apparire,
con le sue grandi ali blu.
Invece si tratta proprio di salire, di farsi strada lungo il tragitto dell’Albero, riconquistando
uno dopo l’altro i suoi vari gradi di consapevolezza… e non c’è bisogno né di invocazioni e
nemmeno di immaginarsi l’Angelo di oggi come una figura autonoma, separata da voi:
Lehekhiyah, infatti, È GIÀ tutto quanto in quel vostro ascendere, ed è appunto con il vostro
ascendere che gli parlate e formulate – magari senza accorgervene – le vostre richieste
d’aiuto.
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Se di fede si può trattare, qui, è semmai e soltanto della vostra fede in voi stessi.
E subito dopo l’Angelo dell’ascesa, ecco oggi Kawaqiyah, l’Angelo del sesto-settimo
grado, la guida esperta dei passaggi difficili, carico di chiodi, ganci e corde. Se
Lehekhiyah era l’ottimismo alpinistico, lo slancio indispensabile (e si pensi a quanto di
quello slancio vi fu, in forma cupa e tragica, nell’assalto dell’11 settembre), Kawaqiyah è la
chiara consapevolezza del pericolo, e la prudenza che spinge non a fermarsi ma ad
affrontare anche i più impossibili speroni di roccia con tutte le necessarie precauzioni.
Noterete che oggi, il 13, questi due Angeli coincidono, come due facce di una stessa
medaglia: per chi è nato oggi, ciò significa (ricordate? V. la puntata 6, sulle Cuspidi
angeliche) che fino ai 38-40 anni la sua energia prevalente sarà quella di Kawaqiyah, e poi
diverrà quella di Lehekhiyah; mentre per chi vuol meditare su questi due volti della Quinta
Sephirah, significa che, semplicemente, uno non sta senza l’altro: salgono insieme,
davanti a voi – quando volete salire – indicandovi la via.
Sono certo che vi scoprirete molte più cose di quanto non sia avvenuto alla prima lettura,
e che soprattutto riconoscerete molti suggerimenti di ulteriore riflessione, che la prima
volta non avevate notato. Kawaqiah e Lehekhiyah vi daranno sicuramente una mano, su
questi pendii e strapiombi. Un ultimo consiglio: non abbiate fretta, da un lato, e
dall’altro sappiate che non si arriva mai! C’è soltanto la via, la si può solo percorrere,
non è mai finita in passato e non finisce, proprio come la vita.
Naturalmente, non solo i Nomi angelici ma tutti i nomi e le parole ebraiche sono composti
da lettere che ne descrivono esattamente il significato. E riguardo alla M, vale proprio la
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pena di citare qui il più celebre dei nomi biblici, ADAM: il cosiddetto primo uomo, che
solitamente ci si immagina nudo e perplesso nel Paradiso terrestre. In ebraico, invece,
ADAM non indicava affatto un singolo uomo, e nemmeno un maschio: significava, nel
linguaggio corrente, «tutta l’umanità». Ma il suo senso vero, geroglifico, è più profondo.
Adam si scrive in ebraico ’DM (nella grafia antica non vengono indicate le vocali):
l’apostrofo, ’, è la lettera aleph, che si pronuncia come l’h di «io ho», e che in geroglifico
significa «il principio, l’energia, le potenzialità». DM, in geroglifico, significava invece «ciò
che si ramifica all’interno di una M» cioè all’interno di uno spazio limitato. ’DM è dunque
«l’energia, la potenzialità che si dirama al di qua di un limite», ed è una splendida
definizione della nostra MENTE COSCIENTE, del nostro io ordinario. Questo rappresenta
appunto, nella Bibbia, l’ADAM. Non per nulla si dice che «chiuse gli occhi» quando da
esso uscì Eva, che in ebraico è ’iSHAH, e significa «la potenzialità di chi conosce
l’invisibile». Ne deriva dunque che Adamo non era affatto un uomo maschio ed Eva non
era una donna? Esattamente. Sono due elementi della tua psiche: il tuo conscio e ilsuper-
conscio. O se preferite: la Mente e il tuo Elemento Spirituale. E tutte le volte che «chiudete
gli occhi» e superate la vostra M per vedere al di là, è Eva che vede: è la vostra ’iSHAH.
1. MEM
Non è la prima lettera dell’alfabeto ebraico, ma è bene cominciare da qui, tanto più che
l’Angelo di oggi ha la memcome iniziale del suo Nome. Il Nome, negli Angeli, è
importantissimo: è come la formula chimica di un elemento, dice tutto ciò che un Angelo è
e che può fare – appunto perché le lettere dell’ebraico antico sono geroglifici, hanno cioè
ciascuna un ben preciso significato.
Questo Nome spiega un fondamentale segreto: tu puoi uscire (ND) da un tuo blocco o
limite (M) solo quando lo vedi. E vederlo è già aver cominciato a superarlo. Non avviene
sempre così? Per anni non arrivi ad ammettere un tuo difetto: e perciò esso ti rovina la
vita. Poi trovi il coraggio di guardarlo: è doloroso, certo, è umiliante, ed è triste dover
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riconoscere d’aver perso tante opportunità a causa di quel tuo limite. Ma se finalmente
l’hai visto, è perché stai cominciando a diventare più grande di esso, e hai già visto che
la tua via continua più in là.
A quel punto, non chiuderti di nuovo nella mem: non fare come se non avessi capito. Va’
oltre. Sùperati, allontanati da te – da ciò che fino a quel momento avevi creduto di essere.
37 24-29 settembre
Aleph. Si traslittera con un apostrofo: ’ . È una lettera muta: indica soltanto l’aprirsi della
bocca per pronunciare ben chiara una sillaba. È il geroglifico dell’unità, del principio, della
po-tenzialità, di un’immensa energia ancora da utilizzare.
Abbiamo già parlato di come sono composti i Nomi angelici? Provvedo subito, tanto più
che l’Angelo di questi giorni, ’ANiY’eL, capita proprio a proposito. Ciascuno di questi Nomi
è composto di cinque consonanti, di cui le prime tre indicano le specifiche qualità o
funzioni dell’Angelo. L’elenco completo dei triletteri angelici si trova cifrato nel libro
dell’Esodo, cap.14, versetti 19,20,21, che descrivono il passaggio del Mar Rosso:
19. … E l’Angelo di Dio, che precedeva la carovana di Israele, cambiò di posto e dal
davanti passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò indietro.
20. Venne così a trovarsi tra le file degli Egizi e la carovana di Israele. La nube era buia
per gli uni, mentre per gli altri illu- minava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli
altri per tutta la notte.
21. Allora Mosè protese la mano sul mare. E il Signore,durante tutta la notte, risospinse il
mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto. Le acque si divisero.
di costruire, di portare nel mondo cose nuove; mentre gli Angeli in –yah hanno come loro
dote generale la voglia di conoscere, esplorare, comprendere, raffigurare ciò che già
esiste. Ne consegue che i protetti del nostro odierno ’Anyi’el saranno tipi
fondamentalmente pratici e inventivi. Ma – dato che ’aniy in ebraico vuol dire «io» – ne
consegue anche che tra i significati del nome ’Aniy’el vi è anche: «il mio io è il Dio
creatore». Possibile? Non è esagerato? Francamente no. Rifletteci un poco, e poi vi dirò
quel che ne so.
I geroglifici che formano la parola ’ANIY, «io» (in ebraico ’NY), significano: «la mia energia
(aleph) diventa reale (N) quando si vede (Y)». Il che significa che il nostro io è quel che noi
riusciamo a manifestare della nostra energia vitale. E il Nome di ’ANIY’EL ci ricorda
che l’Energia fondamentale e l’origine di ogni Energia è in quell’aspetto di Dio che viene
chiamato ’EL, ’Elohiym. È ciò che intendono quei numerosi mistici che, dopo tante ricerche
ed esperienze, arrivano a sostenere che Dio è nell’uomo. Per esempio Gesù: «io sono nel
Padre e il Padre è in me» (Giovanni 14,10), o Dante, che conosceva bene la Qabbalah,
quando alla fine della Commedia dice della luce di Dio:
«Nostra effigie» vuol dire immagine dell’io (’ANIY), «viso» vuol dire «la mia capacità di
vedere»; e notate anche quel «’l», proprio lì, non certo casuale! «Beh» potrebbe obiettare
qualche vostro amico, «tanto io non ci credo, perché sono ateo e non credo che Dio
esista». Ma questo, se permettete, è un modo un po’ ottuso di considerare la questione.
Agli antichi non importava il verbo «credere» come lo intendiamo noi; agli antichi, e agli
antichi ebrei soprattutto, importava conoscere e sapere di cosa si stesse parlando. Così,
anche il Nome divino ’EL non è un qualcosa in cui credere, come tanti usano oggi, a
scatola chiusa; ma è anch’esso una formula precisa.
In geroglifico, ’EL significa: «Quell’Energia (aleph) che cresce ed è sempre più in là (L)».
Quel che noi chiamiamo Dio creatore è dunque, in origine, il DIVENIRE, il GIUNGERE
SEMPRE OLTRE, in ogni tua possibile direzione – e non certo un Vecchio dalla Barba
Bianca.
accorgi che c’è, non appena ci fai caso. E, naturalmente, ti accorgi che c’è anche in te: è
ciò che in te viene dopo. La tua via che aspetta che la scopra e la percorra. Le tue
prossime opere e possibilità. Le scoperte che farai. Queste creano il tuo mondo, oggi
come allora. E ’ANIY’EL è appunto lì a rammentartelo.
Kheth. Un’aspirata dura, come il ch tedesco. È il geroglifico del lavoro, dello sforzo;
dell’equilibrio di forze e dell’impegno che occorre per raggiungerlo; dell’esistenza
elementare, e della ten- sione continua con la quale la si mantiene. Kheth è anche
l’immagine della legge, della sapienza cioè che con lunga fatica i saggi sono arrivati a
formulare, e la necessità che in essa si esprime.
–yah: un esploratore, dunque; infatti i suoi protetti vogliono conoscere le ombre più oscure
dell’animo umano, sia negli altri, sia anche in se stessi – e scoprire in quelle ombre il
senso. «Perché il male? Perché l’orrore? Perché il caos?»: queste sono le loro domande
principali. Non vi è Legge autentica, che non sia nata dal coraggio di questi«perché?». E
non vi sono leggi, negli Stati o nelle religioni, che un buon Kha‘amiyah non possa
cambiare, migliorare, rifondare, grazie appunto alle sue coraggiose scoperte. Non per
nulla, in ebraico, KHQQ vuol dire «dare leggi» e KHQR vuol dire «esplorare»: radici quasi
identiche, ed entrambe con quella KHETH all’inizio.
Per tale suo rapporto con la Legge, quest’Angelo è inoltre particolarmente vicino al Dio
YAHWEH, a cui lo lega il suo Nome, e ne riflette l’aspetto forse più drammatico e
contradditorio. YAHWEH, nella Bibbia, è appunto il Dio dei divieti, delle leggi, delle prove
terribili. Potete verificarlo facilmente: nelle versioni ufficiali del Vecchio Testamento, il Dio
’ELOHIM viene sempre tradotto «Dio» e YAHWEH viene tradotto«il Signore Dio», o
semplicemente «il Signore». Guardate un po’ cosa fa veramente YAHWEH, «il Signore»
appunto: vieta all’uomo l’albero della conoscenza, provoca il Diluvio (ed è
’ELOHIM, «Dio», a salvare Noè), opprime Caino, abbatte la Torre di Babele, indurisce il
cuore del Faraone e provoca immensi guai in Egitto, dà infinite prescrizioni e castighi… e
fatalmente gli uomini gli disobbediscono. Difficile trovare in tutte le storie sacre un Dio più
frustrato e, al tempo stesso, più perdutamente innamorato di quegli uomini che gli si
ribellano! È come se davvero, in YAHWEH, legislazioni ed esplorazioni andassero di pari
passo. La libertà umana lo affascina, come un problema impossibile può affascinare un
filosofo: sembra addirittura che faccia apposta a dare divieti, per gustare la vertiginosa
emozione del vederli violare. In realtà, YAHWEH ha un segreto che solo gli iniziati
conoscono: è un Dio INIZIATORE. Pone regole e limiti, proprio perché l’uomo impari ad
andare oltre; minaccia punizioni, proprio perché l’uomo impari ad essere coraggioso. Gesù
lo spiega un paio di volte (agli iniziati appunto): «si fa più festa in cielo per un peccatore
che si accorga, che non per novantanove giusti che non si accorgano di nulla» e «i peccati
di questa donna le vengono perdonati, perché lei ha molto amato; chi invece ha poco da
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In ebraico: Resh. È il geroglifico dell’aprire e del fluire, o viaggiare, o volare; e anche del
pensiero umano, che scopre, progetta, procede.
Dopo l’Angelo Kha‘amiya, che insegna a esplorare coraggiosamente i territori oscuri, ecco
qua l’Angelo Raha‘e’el, che aiuta ad affrontare e a sciogliere la paura. Spesso, leggendo i
72 ritratti, avrete l’impressione di scoprire una dopo l’altra le tessere di un mosaico, e di
scorgere in quel mosaico un volto (un solo volto) che via via si forma. Ed è davvero così:
quel volto formato dai tratti dei 72 Angeli è ciò che una psicologo chiamerebbe il tuo Sé,
cioè la totalità della tua personalità. E dal modo in cui intendi i vari Angeli, puoi dedurre
quali aspetti della tua personalità hai già cominciato a sviluppare e quali no: se la
descrizione di un Angelo ti è immediatamente chiara, se vi riconosci qualcosa di te o di
persone a te note, la facoltà a cui quell’Angelo presiede sono già attive in te; se invece, in
uno di questi ritratti angelici, trovi qualcosa di oscuro, di troppo contradditorio, vuol dire
semplicemente che le facoltà lì descritte sono ancora nascoste, dentro di te, e attendono
che tu le scopra. Questa idea della totalità composita è comune a molte tradizioni: dal Tao
all’atman degli Hindu – di cui si legge, in una Upanishad:
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“Chi per esempio riconosca: «Io sono Brahma!» diventa questa Totalità, e neppure gli Dei
potranno impedirgli di diventarlo, perché allora egli diventa anche l’atman (il Sé) degli
stessi Dei. Ma chi adori una divinità diversa dal suo atman, pensando: «Quella è una cosa
e io un’altra» è uno che non sa…”
Vale pari pari anche per l’Angelologia. Così, mi raccomando, non fate l’errore di qualche
vostro amico ingenuo, che si figura il proprio Angelo e gli Angeli in genere come esseri
alati, diversi da lui. Tu li sei, scoprili e abituati a riconoscerti in loro, a esserli: per usare il
geroglifico di questa puntata, abituati a diventare la resh degli Angeli, a farli fluire
attraverso di te, nella tua vita quotidiana. La resh intesa in questo modo ha un posto
importantissimo nella mistica ebraica: è il centro, la chiave del nome Israele, che
solitamente viene riferito a un popolo storico, ma che in realtà è anche, o può diventare
anche il tuo nome. In ebraico è scritto così:
ישראל
YS-R-’L. E ’ysh significa: «individuo», «io concreto», e ’l (’El), già lo sapete, «Dio
creatore». La resh è il ponte, il punto di passaggio: è un Israele chi sa di poter lasciare
fluire l’energia divina nel e attraverso il suo io. È lo stesso concetto che compare nel
termine latino pontifex, «il costruttore di ponti»: solo che nella tradizione latina
ilpontifex era ed è una carica gerarchica. Per te, invece, se non hai paura della resh, può
diventare una realtà quotidiana.
Nel ritratto dell’Angelo Raha‘e’el compare questo termine, che richiede qualche
spiegazione, perché è un concetto strano per noi, troppo audace: indica un’energia che
permette al contempo di curare e di recitare. Era infatti convinzione degli antichi (ma, io
credo, ancor oggi condivisibile appieno) che le doti del medico e quelle dell’attore fossero
talmente simili tra loro da far supporre che avessero una medesima origine. Anche i greci
erano dell’idea che il teatro curasse – attraverso una katharsis, una «purificazione» cioè
dei sentimenti negativi, che avveniva negli spettatori e riequilibrava il loro spirito. Si
riteneva che la catarsi agisse soprattutto durante la rappresentazione delle tragedie; ma,
ancora oggi, a tutti sono noti anche i benefici effetti dei comici, specialmente di quelli più
spietati, che mostrandoci le nostre nevrosi, ossessioni, errori esistenziali e aiutandoci a
riderne, non fanno nulla di diverso da un medico o da un analista che ci aiuti a prendere le
distanze dai nostri comportamenti sbagliati. E viceversa, ogni medico sa bene quanto
contino nelle sue terapie la suggestione, il tono di voce, il camice – l’aspetto insomma
spettacolare della sua professione. Nell’angelologia, in ogni caso, gli Angeli che
«proteggono» (incoraggiano cioè nei loro protetti) la professione medica, sono
puntualmente gli stessi che «proteggono» anche chi recita o parla in pubblico – e dunque
anche i politici e i sacerdoti. E a proposito, faccia attenzione chi ne dispone! Ogni dote che
possediamo per nascita e che trascuriamo si vendica, intralciandoci in vario modo, e
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Yod è anche il geroglifico del creare, nel senso più pratico e più letterale di questo
termine:creo viene dal latino, e vuol dire «concreto una res», una cosa; trasformo, cioè,
un’idea, un pensiero in una realtà visibile, durevole. Non per nulla vi è una yod all’inizio del
nome di Yahweh: nei primi due capitoli della Genesi si narra che ’Elohim («Dio») concepì
le forme del mondo e dell’umanità, dopodiché Yahweh («il Signore»), «plasmò l’umanità
con la polvere del suolo» (Genesi 2,7). E il Nome di Yahweh corrisponde a questo talento
creativo: i geroglifici che lo compongono sono
YHWH. La H è, come vedremo, il geroglifico della vita e dell’invisibile: YAH vuol dire
dunque «io creo, rendo visibile la vita ancora invisibile». La W è invece il geroglifico del
nodo, del blocco: dunque il Nome intero di YHWH viene a significare:
«Io rendo visibile la vita invisibile e la blocco nella forma che le ho dato».
Proprio come fa un artista nell’ultimare un’opera, o uno scienziato nel fissare una formula,
una legge. Nell’Angelo di questi giorni, Yeyaze’el, la yod è addirittura raddoppiata e
seguita da una Z, il geroglifico del mirare dritto a un obiettivo: il Nome raffigura un
insopprimibile desiderio di creare (o di crearsi), di far apparire (o di apparire), e una
magnifica determinazione nel seguire il proprio talento. Vi piace? Pensate all’Energia di
Yeyaze’el, tutte le volte che vorrete fare qualcosa di bello, che piaccia a moltissimi, e
provate a chiedergli il coraggio, la Z, senza cui la creatività rischia di disperdersi, di
ripiegarsi su se stessa.
In ebraico: Zain. Ha il suono della s di rosa. È il geroglifico della freccia che vola verso il
bersaglio; del raggio di sole che percorre milioni di miglia per scintillare su uno specchio;
dello sguardo che coglie un dettaglio. Zain è tutto ciò che tende a uno scopo: vuole,
conosce, e conquista cose o persone, op-pure sfugge e libera da una costrizione.
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10.’YSH
Qualche puntata fa, parlando di Israele, ho accennato al fatto che ’ysh in ebraico
significa «individuo», «io concreto»; e in un’altra puntata dicevo che Eva, nel testo
originale, viene chiamata ’ishah. Penso sia interessante sapere il perché di questi nomi. In
tante altre lingue, per scoprire perché una parola sia scritta in un certo modo occorre
risalire alla sua storia, alle lingue più antiche da cui quella parola deriva; in ebraico non
occorre: le parole si spiegano da sé, le loro lettere rivelano il loro senso – e
immancabilmente se ne ottiene una piccola lezione di filosofia e di psicologia. Così, i
geroglifici della parola ’ysh ci mostrano che il suo autentico significato è: «colui che ha
l’energia (’ , aleph) di conoscere (SH) le cose visibili (Y)» o anche: «colui che sa ricondurre
alle cose visibili ciò che conosce».
’Ysh è insomma la nostra parte più razionale, che crede in ciò che vede (e che vede
soltanto ciò in cui crede). Mentre ’ishah (che in ebraico corrente significa «la compagna»)
ha altre doti. Si scrive:
12.ADAMAH
Per tornare alla lettera H, vi segnalo un punto importante della Bibbia, che nelle traduzioni
va inesorabilmente perduto e anzi produce spesso equivoci: la parola «suolo».Yahweh,
dice la Genesi, «plasmò l’umanità con la polvere del suolo»; poi decretò che l’umanità
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dovesse «lavorare il suolo con il sudore della fronte». Vi leggiamo anche che Caino
era «un servo del suolo» (e ciò fa ritenere a molti che fosse un contadino); e anche Noè,
dopo il Diluvio, fu «lavoratore del suolo». E uno splendido profeta scriveva: «Non sono un
profeta: sono un lavoratore del suolo, ad esso mi sono dedicato fin dalla mia
giovinezza» (Zaccaria 13,5). Di certo avrete intuito che non può trattarsi, qui, di semplice
agricoltura. La parola che viene tradotta «suolo» è infatti in ebraico ’adamah, e indica un
concetto vertiginoso. Il significato di ’adam lo conoscete già: è la conoscenza, o la mente,
così come essa può agire al di qua dei propri limiti. La ’adamah è appunto ciò che vi è al di
là di quei limiti: sono i territori che alla nostra mente (’adam) sono ancora invisibili (H). È il
tuo, il nostro Aldilà, di cui la Tavola Ermetica dice: «Il caso non esiste: è solo il nome che
si dà alle leggi che ancora non si conoscono». Da questo Aldilà, da una H, dunque,
vengono plasmate l’umanità e la nostra mente cosciente.
E Adamo, Caino, Noè,Zaccaria lavoravano per conquistare lembi di questa ’adamah.
Soltanto lì noi possiamo continuare a crescere. Lì conduce ogni passo in avanti della
nostra evoluzione: a una H che ti si rivela, e di là della quale la ’adamahcontinua poi ad
estendersi sempre nuova, sempre in attesa.
In ebraico: Kaph. È il geroglifico del potere, del possesso, dell’afferrare, del comprendere.
Forse avrete letto da qualche parte che il Nome di Michele, il principe degli Arcangeli,
viene solitamente tradotto «Chi è come Dio?», perchémiy? in ebraico significa «chi?»
e kiy è «come». Ma forse questa interpretazione non vi ha mai convinti, e vi è sembrato
strano che un Arcangelo avesse come Nome una domanda, retorica per di più. Se così vi
è parso, mi complimento con voi: vuol dire che la vostra sensibilità è desta e sottile. Il
senso di Michele è infatti assai più profondo. Le lettere M e Y compongono, in ebraico, la
radice della parola «acqua», che in questa antichissima lingua ha soltanto il plurale –
MYM (pronuncia: maiym), «le acque». Era un plurale perché si riteneva che le acque
nell’universo fossero almeno di due tipi, come è spiegato anche nella Genesi:
Dio (’El) fece un gran vuoto che si estendeva e separò le acque le une dalle altre: quelle
che sono sotto quel vuoto, e quelle che sono sopra quel vuoto.
Genesi 1,7
Quel «vuoto» è il luogo dell’aria, della terra, del cielo, e le «acque» sono tutt’intorno:
«acque» simboliche, si intende. Le «acque», nella Bibbia, sono il simbolo di ciò che è
informe, e che disgrega, dissolve. Prima della creazione dell’universo vi erano soprattutto
tenebre e ACQUE:
la terra era informe… e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sopra le
acque.
Genesi 1,2
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Nelle innumerevoli correnti di quelle acque (la tradizione ebraica non ama il mare) agiva il
caos, tutto era forse-chissà, tutto diventava niente, nell’insondabile profondità dei Mari,
nell’insondabile profondità dello spazio buio.
E perché, precisamente, è così importante sapere ciò, come dicevo all’inizio? Semplice:
perché se lo sai, comincia a esistere e a essere vero per te. È un annuncio, un seme: ti
giunge e comincia a dar frutto, se il terreno è buono e pronto. Vi è qui uno di quei segreti
che rendono così appasionante la scoperta di certe vie mistiche e religiose: insegnandoti,
creano in te le condizioni perché ciò che ti insegnano avvenga. Guarire, superare il
passato, aprirti al nuovo e alla creatività: ora sai che si può e che certi esseri (Arcangeli
addirittura) son pronti ad aiutarti in tal senso. Immaginali, percepiscili, e agiranno. Prova.
serve a nulla ed è anzi dannoso negarlo, o volerlo eliminare. Non porta niente di buono
pensare, come molti teologi illustri, che il Male sia soltanto l’assenza o l’ignoranza del
Bene – e che dunque non abbia un’esistenza sua propria. No: ben più proficuo è rendersi
conto che c’è, in ognuno, un aspetto malvagio, dannoso, frenante, una waw che ti blocca
e vuol produrre guai. Solo se hai il CORAGGIO di saperlo – e di guardare bene i tuoi
errori, e limiti, e difetti ed elementi oscuri – puoi sperare di superarli; solo se non ti permetti
mai di pensare di essere tutto nella luce, puoi trovare in te una dialettica, una possibilità di
futuro. Non si dice forse che il medico che si ritiene infallibile uccide il paziente? E Gesù,
quando un giovanotto gli si rivolse chiamandolo «buon maestro», rispose: «Perché mi
chiami buono? Nessuno è buono eccetto Dio» (da cui il celebre modo di dire. «nessuno è
perfetto»). L’Angelo di questi giorni lo mostra bene, ponendo nel suo Nome le
due waw come ostacolo indispensabile alla vera crescita, al trionfo, simboleggiato dal
geroglifico L.
In ebraico: Lamed. È una delle tracce più evidenti dell’influsso egizio sulla lingua ebraica.
Come l’ureo che ornava il copricapo dei faraoni, la lamed è il geroglifico dell’ampliarsi,
dell’estendersi intorno e verso l’alto: come il sole o la notte che salgono dall’orizzonte. È il
divenire, il rivelarsi, e anche il guardare oltre, e il trasmettere ad altri ciò che si è visto al
di là.
È proprio il contrario della cupa Waw. La lettera Lamed esprime la certezza (o, se
preferite, la forza di credere) che vi sia un oltre, e nuove possibilità, nuovi mondi da
scoprire: nel tuo domani, e dentro di te, e anche negli altri. Nell’Angelo di questi giorni
questa certezza o fede è tutta quanta estroversa: il verbo yel, in ebraico, significa «farsi
udire», cioè confidare che nel cuore degli altri si desti qualcosa, quando ci si rivolge loro, e
che grazie a quel destarsi, nel comunicare con loro il tuo cuore si ampli, la tua vita
risplenda più intensa. Non per nulla è l’Angelo di chi ha
bisogno di un pubblico. C’è poi, nel Nome di Yelahiyah, la bella H, il geroglifico di ciò che è
ancora invisibile: non per nulla in questi giorni nacque anche Colombo, che riuscì a
convincere una reggia e una ciurma sgomenta avarcare l’oceano e a scoprire un nuovo
continente. La L, in ebraico, è la lettera del cuore (lev); della fiamma (lehava); dell’andare
verso qualcosa (le): Lekh-lekha! Sono le parole che il Dio Signore disse ad Abramo, in
quel passo straordinario della Genesi:
(Genesi 12,1)
Andare «verso se stessi» vuol dire dunque andare via, oltre tutto ciò che finora ti ha
limitato: smettere di identificarsi attraverso una patria, i parenti, i genitori, e scoprire la
propria identità ben sapendo che sarà sorprendente. Da questo passo della Genesi la
tradizione ebraica trae, come è noto, la convinzione che il popolo eletto sia nato da
Abramo per volere del Dio Signore. Ma voi sapete già quello speciale segreto: che il
«popolo eletto» è chiunque impari a essere se stesso, nel proprio io e nell’infinita
scoperta della propria anima. Usate la Lamed! Occorre davvero imparare a non averne
paura.
Quanti significati in questo geroglifico! Ma è ben comprensibile: la forza creatrice che esso
indica è, essenzialmente, quella che nel nostro linguaggio scientifico si chiama
COESIONE – ovverosia ciò che tiene unite le molecole di un corpo. È chiaro che nella
creazione del mondo i doni della samekh furono utilissimi; utilissimi lo sono anche nella
vita sociale: in ogni nazione, religione, gruppo, famiglia ecc. la coesione è elemento
fondamentale – e infatti l’Angelo di questi giorni ha magnifiche capacità coesive, aiuta ad
essere splendidi genitori e dirigenti. Al tempo stesso, si esprime nella samek la capacità di
individuare i limiti di una questione, di un problema: e, dunque, di non lasciarsene
travolgere o preoccupare più del necessario. È samek anche la capacità di individuare e
custodire un segreto (seter, in ebraico); e di organizzare un discorso in modo coerente
(sefer, in ebraico, è «libro»). È samek anche una fortezza, un luogo protetto; e così pure
una prigione. È samek la fine, il punto estremo (soph, in ebraico: molto vicino,
incidentalmente, alla nostra parola «soffitta») e il sapere che qualcosa dovrà comunque
finire prima o poi. Insomma, è un geroglifico quantomai pratico, realistico, razionale. E
appunto perciò entra nel principale Nome di Dio: ’Ayn-Soph, ovvero il «senza-fine» –
senza contorni, senza tratti, senza un fuori, senza il senza. ’Ayn-Soph è quel volto (senza
volto) di Dio che è al di là di tutti i suoi aspetti, al di là di tutti i Nomi che l’idea della Divinità
assume in tutte quante le religioni del mondo, tutte bellissime, tutte limitate. È quel Dio che
hanno in mente la maggior parte di coloro che si definiscono atei, appunto perché non si
accotentano di ciò che le tradizioni dicono del divino. Ed è, altresì, quel Dio per il quale ti
sembra a volte che credere in tutte le religioni del mondo sia la cosa più giusta da fare,
proprio perché sono tutte quante modi di avvicinarsi all’’Ayn-Soph. Pochi mi capiscono (e
alcuni si risentono, anche) quando in tutta sincerità mi capita di dirlo: «Io credo in tutti gli
Dei». Tanta gente tiene infatti alla propria samek religiosa più che ai propri sentimenti. Voi,
che ne pensate?
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Si trascrive come uno spirito aspro:‘. Ayin. Un tempo doveva essere un netto suono
gutturale, come la h di «Manhattan»; oggi la sua pronuncia tende ad assomigliare sempre
più a quella dell’aleph. È il geroglifico dell’apparenza esteriore e ingannevole, del sentito
dire, dei rumori confusi, e anche del nulla, del vuoto e di tutto ciò che è perverso e
malvagio.
sh. In ebraico: Shin. Talvolta, per esempio in Yisra’el, Israele, si pronuncia come la s di
«sale». Secondo alcuni rappresentava l’arco che scocca la freccia, secondo altri uno
specchio illumi-nato da fiaccole. È il geroglifico del desiderare, dello slancio, della ricerca
di un nuovo orizzonte.
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A mio avviso, Shin è anche e soprattutto il geroglifico della conoscenza. Talmente netta è
la sua somiglianza con il geroglifico egizio che significava «conoscere»: una stella con tre
raggi rivolti verso l’alto! E connesse con il conoscere e l’apprendere sono molte parole
ebraiche che iniziano con shin:shaal, domandare; shevil, sentiero; shir, poesia; sekhel,
intelligenza… e anche la parola più importante di questo nostro blog, e in genere di tutte le
esplorazioni spirituali: shem, il Nome.
Nella sua interpretazione geroglifica, shem verrebbe a significare: «ciò che si conosce
(SH) di un argomento, di una determinata area (M)» o anche «tutto (M) ciò che si può
conoscere (SH)» di qualcuno o qualcosa. È insomma un termine vicinissimo, sia nel senso
sia nella forma, al greco skhema, «la forma, la configurazione» di qualcosa. E avete mai
pensato a quanto sono importanti i Nomi, nella scoperta dei mondi invisibili? Come le note
per la musica. Degli Angeli, dei volti di Dio, delle dimensioni e dei significati dell’Aldilà noi
non possiamo far altro che trovare i Nomi, e fare in modo che i Nomi siano precisi:
altrimenti non ne abbiamo nulla, soltanto stati d’animo, aspirazioni vaghe – che, tra l’altro,
quanto più sono vaghe, tanto più suscitano aggressività… l’avete notato? Chi non sa
indicare con precisione qualche suo argomento di fede, o chi non ha ben chiaro che cosa
indichino i Nomi usati nella sua religione, diventa ben presto intollerante, prepotente. Non
avete mai incontrato persone del genere?
Quanto al dare nomi precisi sia all’invisibile, sia ai significati dei fatti e delle cose visibili,
l’Angelo di questi giorni è insuperabile: i suoi «protetti» sono geni della chiarezza, filosofi
innati, e non tanto cercatori quanto scopritori di verità. Secondo la Bibbia, tale genialità è
certamente una dote divina: ’Elohim diede forma all’universo pronunciando i Nomi di ciò
che intendeva creare («Disse: Sia la luce! E la luce fu» ecc.). E l’umanità, fatta a immagine
e somiglianza di Elohim, aveva questa dote innata, mentre YHWH no. Narra infatti la
Bibbia:
YHWH condusse dall’’adam tutti i tipi di animali e d’uccelli, per vedere come li avrebbe
chiamati: in qualunque modo l’’adam avesse chiamato ogni essere vivente, quello sarebbe
dovuto essere il suo nome. E l’’adam impose i nomi…
(Genesi 2,19)
«Ecco, sono un unico popolo, hanno una lingua sola! Questo è l’inizio, il principio della
loro opera e, così come sono ora, nulla di ciò che progetteranno di fare sarà impossibile,
per loro! Scendiamo dunque, e confondiamo la loro lingua, così che non si capiscano più
gli uni con gli altri…»
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Genesi 11,6
Dell’Angelo di questi giorni, Miyhe’el (MYH-’L), conoscete già tutte le lettere. Provate a
interpretarlo da soli, a far emergere voi stessi il suo ritratto dall’Aldilà celeste.
H: l’invisibile…
Non esistono infatti interpretazioni giuste, assolute: la natura delle lettere geroglifiche è
simbolica, e un simbolo è sempre vivo, si evolve: appena ti sembra di essere riuscito a
spiegarlo, esso comincia già a indicarti qualcos’altro più in là. E tutti i simboli
crescono insieme a te: ne superi continuamente le interpretazioni, proprio perché anche
tu, mentre ci pensi, giorno dopo giorno superi te stesso – e questa è la ragione per cui
solo tu puoi valutare la misura in cui hai compreso qualcosa dell’invisibile.
D’altronde succede anche con il visibile: così, per esempio, la prima volta che ho provato a
interpretare il mio nome (Igor, in lettere ebraiche YGR) come un geroglifico, l’ho inteso
come «colui che rende visibili cose e persone straniere» e ciò perché GR è il geroglificio
dello «straniero» a quel tempo io ero uno studioso di letterature dell’Europa orientale,
stavo traducendo Guerra e pace ecc. Qualche anno dopo, l’interpretazione è diventata:
«colui che rende visibili cose lontane, di altre epoche» perché mi ero appassionato di
Sacre Scritture. Poi GR ha incominciato a riferirsi, per me, agli Spiriti Guida e alle
Gerarchie celesti. Curiosamente, Igor nella tradizione russa (quella è la mia origine) è il
nome dell’esule, di chi si trova tra stranieri, come l’omonimo principe.
Insomma, vedete bene che passeggiate possono farvi fare queste antichissime lettere. E
dunque dicevamo: Miyhe’el, MYH. Cosa state scoprendo (tenendo anche conto dei celebri
nati in questo periodo, citati nel ritratto angelico: Lutero, Voltaire…)? Magari che il Nome
può anche significare: «Se arrivo a comprendere la realtà in cui vivo, mi si apre
l’invisibile», oppure «Io sono il grembo in cui l’invisibile diventa visibile», o altro ancora…
Con oggi ha inizio – e durerà fino al 22 dicembre – una serie di ritratti angelici vicinissimi
tra loro: una vera e propria «famiglia», che copre tutto il segno del Sagittario. Per nessun
altro segno zodiacale avviene qualcosa di simile: è anzi raro che due Angeli dello stesso
segno si somiglino. Qui invece, con i cosiddetti Principati (così si chiamano i prossimi sei
Angeli), assisteremo a un variare del medesimo tema esistenziale, di un medesimo
atteggiamento verso il prossimo e verso se stessi: ed è appunto il Castello. O almeno così
lo chiamo io, dato che nel nome del primo Principato, Wehewu’el, compaiono quelle tre
lettere:
che non solo significano, ma raffigurano anche (come in un pittogramma) due torri e un
qualche splendido segreto nascosto, inaccessibile, racchiuso da esse. Come un castello
su un monte. E i «protetti» dei Principati sono proprio così o, meglio, sembrano aver posto
questa condizione allo svolgimento dei loro compiti nel mondo: «Nessuno deve sapere
quanto di bello, di grande, di nobile ho in me. Nessuno deve poter vedere i veri tesori del
mio cuore, le vere profondità della mia anima… Solo io». Il che non significa che siano
chiusi, schivi: tutt’altro! Ma quanto più sono estroversi, tanto più recitano, e recitando si
proteggono. Io li immagino come signori medievali, che ogni tanto scendono a
passeggiare, ad agire, a donare nella valle, e non vedono l’ora di risalire in cima alla loro
torre, dove soltanto loro hanno acceso, e dove sono – soltanto lì – veramente se stessi.
Qual è il loro segreto? Modestia? Aristocratico disprezzo? Timidezza?
Niente del genere, a quel che ne ho potuto comprendere finora. La mia opinione è che
appartengano a un tipo particolare di persone, molto evolute, che han cominciato a
cercare in se stessi una forma di identità più alta, più grande del semplice «io». Per
moltissimi altri, l’«io» non c’è ancora: si accontentano di appartenere a un
qualche«noi» (nazione, squadra, azienda, famiglia, religione, razza…); per molti altri
l’«io» è un punto di arrivo, e riuscire a essere se stessi è una grande conquista. Per
i «protetti» dei Principati l’io è una porta, una HE, l’inizio di una via. E sono impazienti di
avventurarsi più in là. E li annoia, li infastidisce, li opprime ciò che nella gente è un «noi»,
e anche ciò che nel loro prossimo è semplice accettazione e soddisfazione
dell’«io» soltanto. I Principati, del resto, sono gli Angeli della bellezza (Dante, nel pieno
rispetto della Qabbalah, li colloca nel terzo cielo del Paradiso, quello di Venere) e la
bellezza, come sapete, è sempre quel qualcosa di più che si coglie nelle forme, e che
supera le forme stesse…
È facile capire perché: la M sono i confini del corpo, e il sangue si distribuisce e fluisce (D)
dappertutto, all’interno del corpo stesso. A sua volta, questo DAM, «sangue che palpita»,
è immagine della mente cosciente, la cui estensione (M) è infatti simile a un grande corpo
invisibile, che include tutte le realtà che tu conosci: in quelle realtà la tua mente è, vive,
giunge, dà e riceve vita. E ’ADAM è appunto la particolare energia con cui una
determinata mente sa essere e agire.
Da questo antico significato del «sangue» deriva una delle più celebri norme di due grandi
religioni mediterranee: il divieto di nutrirsi del sangue degli animali. Come sapete, tra gli
Ebrei e tra gli Islamici, è legge che la macellazione di animali avvenga per
dissanguamento: polli, ovini, bovini vengono cioè sgozzati con un taglio rapido e profondo
(e la morte è rapida), e le loro carni vengono poi ulteriormente mondate da residui di
sangue. Sono state tentate numerose interpretazioni di quest’uso, da quella antropologica
che presume un qualche antico tabù, a quella psicobiologica, secondo la quale nel sangue
si troverebbe la memoria delle emozioni dell’animale (incluso il terrore davanti al
macellatore) e chi se ne nutre, le assimila… Ma il motivo è un altro, a mio avviso. Il passo
in cui questo divieto viene pronunciato per la prima volta, nella Bibbia, è il seguente – e a
guardar bene è un po’ più sorprendente di quel che sembra:
Tutto ciò che si muove e ha vita potrà servirvi da cibo: vi do tutto ciò… Ma non dovete
nutrirvi della carne che ha nel suo principio vitale il sangue, di quella no: perché questo
sangue vostro, che è principio vitale di ciascuno di voi, chiederò che venga restituito a me.
Genesi 9,4
Notate che non è precisato «carne di animale». Dio proibì qui dunque anche il
cannibalismo? È molto improbabile che vi fosse bisogno di vietare una cosa tanto
innaturale, a quei tempi. Il passo va inteso in senso più ampio, e soprattutto simbolico:
puoi «mangiare», assimilare ogni «carne», ogni forma; leggi qualsiasi libro, assimila e godi
ogni opera d’arte, impara dalle azioni con cui ciascuno ha dato forma alla propria vita, ma
non credere di poter «mangiare», assimilare anche il DAM, la mente cosciente, l’identità di
qualcuno. Non puoi: tu sei tu e sarai sempre e soltanto tu, e non qualcun altro. Non
COPIARE gli altri. Non vivere la loro vita, non nutrirti dei loro modi di capire ma solo di ciò
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che hanno capito. E naturalmente, NON FARTI MANGIARE. Non lasciare cioè che altri ti
annientino, ti tolgano il tuo «sangue che palpita» e i suoi diritti. Quel tuo «sangue» è una
cosa tra te e Dio, e basta. Non per nulla, nell’espressione «Dio creò l’uomo a sua
immagine» la parola che viene tradotta «immagine» è in ebraicodemuth, che deriva
direttamente da DAM.
Poi vi fu, lo sapete, un celeberrimo violatore di questo precetto: Gesù, che nell’ultima cena
chiese ai discepoli di «mangiarlo»: «Questa è la mia carne, questo è il mio sangue,
mangiatene e bevetene tutti». Cioè: diventate me, e io sarò felice. Fu, all’epoca, un
tremendo sacrilegio, compiuto naturalmente in segreto – e se il Sinedrio l’avesse saputo, il
processo a Gesù sarebbe stato assai più rapido: l’avrebbero lapidato seduta stante. Ma
Gesù amava dare scandalo, e aveva sue ragioni profondissime e straordinariamente belle,
per osare tanto.
E qui veniamo a quella che alla maggior parte delle persone sembra la principale
obiezione all’Angelologia: «Ma se dal mio giorno di nascita dipende il compito che ho da
svolgere in questa vita, vuol dire che non sono libero! No, no, grazie: preferisco decidere
da me cosa voglio fare o non fare». Ma, in realtà, come obiezione non è gran che.
In secondo luogo, nell’antica Angelologia il giorno di nascita non viene visto come la
CAUSA di quel che seguirà nella vita, ma solamente come una parte di un intero. È un po’
come nell’analisi del sangue, dell’iride o del capello: esamino una parte di te, per vedere
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come stai e in che direzione sta andando il tuo fisico – senza che da ciò derivi che la tua
goccia di sangue, i colori del tuo iride o la struttura di un tuo capello siano la CAUSA del
tuo stato di salute. Gli antichi, per individuare le direzioni della tua crescita esistenziale,
decisero di analizzare allo stesso modo la composizione energetica del tuo giorno di
nascita, e questo per una ragione precisa e assai interessante: per invitarti a pensare alla
tua esistenza da un punto di vista più alto e più ampio di quello del tuo io consueto,
oggetto di innumerevoli condizionamenti e inquietudini. Vieni via da lì (dice l’Angelologia,
un po’ come fu detto ad Abramo: «Va’ verso te stesso, via dal tuo paese…») e immagina
come ti vedresti e come ti giudicheresti se guardassi a tutta quanta la tua vita DAL
LUOGO DOV’ERI PRIMA DI VENIR CONCEPITO. Non importa se tu, per eccesso di
materialismo o per carenza di fantasia, credi che prima di venire al mondo non ci fosse
ancora nulla di te: quel punto di vista pre-natale, pre-tutto, può esistere se lo vuoi, e può
diventare importantissimo proprio per la scoperta della tua libertà. Lì eri libero e scegliesti
proprio quel giorno, per entrare nel mondo. Perché? Non ti accontenterai di pensare che
sia stato soltanto un caso. Quel giorno aveva particolari direzioni, vettori, che portano
verso determinate mete – come dimostrano le vite di tanta altra gente che vi nacque.
Forse dovevi fare quel tipo di esperienze e di conquiste; forse volevi farle; o forse il mondo
aveva bisogno che qualcuno le facesse, e tu dicesti: «Va bene»…
Cosa risulta da questo modo di pensare a te stesso? Proprio l’opposto di una limitazione
della tua libertà personale. D’un tratto, ti ritrovi ad avere due Io: uno che laggiù nel mondo
di tutti ha una missione da compiere (e, nota bene, una volta che abbia cominciato a
occuparsene, è per il resto totalmente libero di fare quel che gli pare), e un altro Io più
grande, che ti vede dall’alto. Vi ricordate la puntata su Israele, YSH-R-’eL? YSH è il tuo io
piccolo, al lavoro; ’eL è l’Aldilà del mondo visibile; e la R è quel tuo Io più grande, che
guarda, conversando intanto con il suo Angelo.
L’Angelo di questi giorni e il successivo hanno, nei loro Nomi, raddoppiamenti di lettere:
qui sono due MEM e, francamente, non è un buon segno. Le doppie non lo sono mai,
secondo la tradizione: indicano un ECCESSOdell’energia simboleggiata, e gli eccessi
procurano sempre problemi. Si pensi, per esempio, a Babele, in ebraico BBL, il nome cioè
che fu dato alla famosa torre DOPO il crollo (Genesi 11,9). Il geroglifico BL indicava «una
dimora (B) che cresce (L)»: bello di per sé, dà un’idea di abbondanza, di sviluppo, di
grande futuro. Ma il raddoppiamento della B servì a indicare appunto che qualcosa lì andò
storto: le proporzioni della dimora non erano giuste, vi era eccesso, e la sua sorte fu
segnata.
Quanto alla doppia M dell’Angelo ‘Imami-yah, conviene che i suoi protetti si rimbocchino le
maniche, come spiegato nel ritratto: avranno a che fare con recinti alti e spessi il doppio di
quelli del resto dell’umanità. Ma che ne sarebbe dell’umanità stessa, se qualcuno non
avesse il coraggio di vedere, denunciare, affrontare quei recinti? In più, nel geroglifico
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n. In ebraico: Nun. È il geroglifico delle cose prodotte, create, e del successo nel produrle.
Lo si può definire anche il geroglifico di ciò che ORMAI si è realizzato, di ciò che hai GIA’
davanti a te, e che dunque non parla più alla tua voglia di scoprire, al tuo bisogno di sfide,
alle energie della tua crescita. E infatti è la lettera che si incontra più raramente nei nomi
dei protagonisti della Bibbia, e mai nei nomi di Dio. Intendiamoci: non è che sia male poter
contare su qualcosa di solido e comodo (noakh), compiacersi dei propri beni (nekhes),
concedersi un po’ di tranquillità (nakhath). Ma in chiunque abbia intrapreso una ricerca
spirituale tutto ciò può facilmente generare un pochino d’inquietudine, e anche di noia. I
cercatori di verità sono infatti sempre in cammino (da Abramo a Gesù) e hanno, sì, l’ideale
di una Terra Promessa, che in ebraico si chiama Canaan (KN‘N), ma quel che a loro piace
e importa più di tutto è il viaggio che occorre compiere per raggiungerla. «Le volpi hanno
tane, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo»… Pensate per esempio a Mosè,
che dopo aver viaggiato per più di quarant’anni per raggiungere Canaan, decise alla fine
di non entrarci e se ne andò altrove – nessuno sa dove – mentre il suo popolo giungeva
alla meta. Pensate a Siddharta. E chi è l’unico patriarca con la Nun? Nientemeno che
Noè. In ebraico è Noakh (NKH) e significa proprio «la tranquillità», «il riposo». Bel riposo –
direte voi, – nel bel mezzo di cataclisma! Intorno a lui il mondo intero veniva dissolto dalla
furia delle acque, l’arca veniva trascinata di qua e di là dalle correnti, in uno sconfinato
orizzonte vuoto, e lui era Noakh, e si riposava in se stesso? Eh sì, proprio quello era il
senso misterioso del suo nome. Il sapiente sa conservare in se stesso un luogo di calma,
una dimensione salda, anche in mezzo alla tempesta. Vi ricordate quell’episodio
evangelico in cui Gesù «dormiva su un cuscino», a poppa di una barca sbatacchiata dalla
tempesta? (Marco 4,38). Quella era una citazione della storia di Noè, oltre che una bella e
strana immagine del modo in cui Gesù si comportò durante la sua difficilissima vita
pubblica. Ecco un buon modo spirituale di cercare, coltivare, apprezzare la Nun.
th. In ebraico: Thaw. Si pronunciava come il th inglese; oggi, nell’uso corrente, è una
semplice t. È il geroglifico del compi-mento, della perfezione, di ciò che è divenuto appieno
se stesso e può perciò comunicarsi all’esterno; della reciprocità, anche, della simpatia.
Qualche mese fa, nel blog della scorsa stagione, avevamo visto che in ebraico «arca»
èthebah, e che in realtà significava non un tipo di natante bensì «la parola». Noè si costruì
un suo linguaggio – solo suo, e fatto soltanto di parole utili, fertili, sensate – e ciò gli
permise e permette ancor oggi a chiunque di affrontare (e di produrre anche) grandi
cambiamenti senza lasciarsene né sgomentare né travolgere. Noè imparò dunque a
ridefinire il suo mondo, a coglierne appieno il senso (T), e guardacaso il nome ebraico
della T, Thaw, deriva da Thot, il Dio egizio della scrittura e della parola. Ridefinendo il
mondo, Noè vi creò un suo spazio, una sua «dimora» (questo è il significato della B, come
vedremo alla prossima puntata), ma questa dimora era troppo diversa dal mondo stesso,
perché potesse trovarvi posto: in tal modo, la costruzione di quel suo linguaggio-cosmo-
dimora produsse il superamento, l’annientamento del mondo di cui prima d’allora Noè era
riuscito ad accontentarsi, e gli aprì la via verso il nuovo, ancora invisibile (H). Il geroglifico
T ha questo genere di poteri. È anche l’iniziale della parola TORAH, letteralmente «legge,
sistema, teoria», con la quale si indicano i primi cinque libri della Bibbia, il Pentateuco. E in
geroglifico Torah (TWRH) significa: «la TH conduce oltre gli ostacoli (W) verso l’invisibile
(H)», di nuovo. Tutto sta nel come si vuole intendere questo condurre: secondo moltissimi,
vuol dire che in quel libro c’è la verità, e che perciò lo si deve onorare come un oggetto
sacro. Secondo altri, me incluso, significa che nella Bibbia si parla di una via che porta
molto lontano, e che lì si impara ad apprezzare questo genere di vie, che portano sempre
un po’ più in là (TH) di quel che altri ti hanno insegnato, e di quel che avevi capito fino a
qualche minuto fa.
B come Betlemme, Beyt-lekhem, «la Casa del Pane». B come ben-’adam, «Figlio
dell’uomo», espressione che Gesù usa spesso nei Vangeli e sulla quale i teologi
disputavano già da prima d’allora, perché compariva anche nei discorsi divini ai profeti: per
esempio,
allora uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi
disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti…»
Ezechiele 2,2
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Esaminiamo questo ben-’adam, credo sia importante. I più ritengono che sia soltanto un
modo di dire tradizionale, ma mi sono abituato da un pezzo a diffidare di chi afferma che
qualcosa nella Bibbia sia un «nient’altro che…».’Adam, sapete già cosa significa in realtà:
l’orizzonte della nostra mente cosciente. E ben (in ebraico BN) in geroglifico è «ciò che
una famiglia (B) fa nascere (N)», il nuovo che in essa si crea. E, come vedete, il gioco è
già fatto, il senso è chiaro: gli uomini, in generale, sono ’adam, il livello evolutivo da essi
raggiunto è il loro ’adam, il loro modo di pensare, parlare, capire è il loro ’adam, e la
maggior parte di essi se ne accontenta. Ma può avvenire che alcuni vedano
questo ’adam come una casa in cui sono nati, e in cui essi rappresentano appunto la
novità, la N dalla quale partire verso altri orizzonti. E questi sono nella Bibbia i cosiddetti
«profeti»: coloro che non sono soltanto l’’adam, ma da esso si evolvono, vanno avanti e
vedono le cose del mondo da un punto di vista diverso, ulteriore. La maggioranza dei
teologi è convinta che Gesù usasse l’espressione «Figlio dell’uomo» riferendola
esclusivamente a se stesso – e così anche l’altra espressione che egli usa spesso, «Figlio
di Dio». Ma il Vangelo li smentisce. Avete mai letto passi come questi:
(Giovanni 6,45)
cioè tutti in futuro saranno beni-’adam, protagonisti di un più alto stadio evolutivo; e
(Giovanni 1,12).
Da cosa dipende tale possibilità? Da te. Credo sia questo il senso principale sia della
Festa sia dell’Angelo di questi giorni: MBH, «la MEM e la BETH si aprono verso l’invisibile,
verso il futuro». Buon Natale, e auguro a tutti che sia ilvostro Natale personalissimo, una
volta per tutte.
tensione tra la Phe e la Waw, ma il loro Angelo agisce per tutti e in tutti – tanto quanto gli
altri suoi settantuno Colleghi. Ho già accennato a ciò in una puntata, mesi fa, ma credo sia
utile tornare sul tema, e approfondirlo un pochino.
Avrete certamente sentito dire e magari letto l’esortazione «ama il prossimo tuo come
stesso». Non date retta a chi ve la spiega come un’ingiunzione ad amare tutti: figurarsi se
si può amare a comando! Provate invece a considerarla sul serio, e per ciò che dice
davvero. Tu ami e odi il prossimo così come ami e odi te stesso: è così, sempre, proprio
perché il tuo prossimo (cioè chi ti trovi accanto, chi vedi per strada, in mezzo all’altra
gente) è veramente te stesso. È un aspetto di te che ancora non hai ben capito, e che
perciò ti colpisce tanto quando lo vedi in un altro. E quell’altra famosa frase dei Vangeli:
«ama il tuo nemico»? Vale lo stesso anche lì: il tuo nemico si rivelerà,
puntualissimamente, il tuo amico migliore e più utile, proprio perché ciò che vedi e detesti
in lui è un aspetto di te che oggi ti occorre urgentemente riconoscere. Perciò il tuo nemico
ha litigato con te: ti esorta (senza saperlo, e dunque disinteressatamente) ad aprire gli
occhi su te stesso. E lo strano consiglio «se uno ti colpisce su una guancia, tu porgi
l’altra»? Non mettetelo in pratica alla lettera: va capito, e non obbedito ottusamente. Qui
non è questione di guance. Vuol dire invece: se uno colpisce un aspetto, una Phe, un
volto che TU RITIENI DI AVERE, E IN CUI ORA TI IDENTIFICHI, è perché occorre che tu
scopra il tuo altro volto, che da troppo tempo tenevi nascosto a te stesso. Ebbene, i nostri
settantadue Angeli sono appunto i tuoi settantadue volti: e – spiega l’Angelologia – se ti
riconosci in ciascuno di essi, e se capisci, dalle facoltà di ciascun Angelo, come usare tutti
i tuoi volti al meglio, hai una sorte invidiabilissima. Se invece in qualcuno di essi non ti
vedi, vuol dire che corri il rischio che prima o poi la realtà o qualche provvidenziale nemico
ti diano uno schiaffo proprio lì.
Possibile?
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Secondo me, sì. Io penso che tutte le nostre sensazioni di amarezza, angoscia,
inquietudine, e anche tutti i nostri disturbi psicologici, piccoli e grandi, abbiano alla loro
origine qualche grande talento inespresso – e, naturalmente, anche la mancanza di
CORAGGIO che ci ha spinti a non esprimerlo. Soffriamo tutti, insomma, di un insufficiente
rapporto con Nemamiyah. E se ammiriamo gli individui che invece hanno saputo brillare,
se ne facciamo i nostri eroi, i nostri idoli, e sentiamo di amarli di quello strano amore che si
chiama popolarità, è precisamente perché – anche qui – stiamo sempre amando il
prossimo come noi stessi, e amiamo in loro certi tratti che in realtà avvertiamo anche in
noi, anche se non oseremmo mai confessarlo. (Per la stessa ragione, certo, capita di
provare per persone di successo un odio non meno strano di quell’amore: e quell’odio
altro non è che amore travisato).
Ma – direte voi – chi proprio non ha coraggio, chi è stato troppo ferito, oppresso, deluso
dalla gente e dalla sorte, che può farci?
Secondo me, può fare moltissimo, a partire da qualsiasi istante della sua vita (e i primi
giorni dell’anno fanno proprio al caso). Ha davanti a sé molte Mem? No, non le hai
mai davanti a sé. Le ha alle spalle: sono i coni d’ombra proiettati dalle sue sconfitte
passate. E non appena se ne accorga, ricorra agli Arcangeli. Ve ne parlavo qualche
puntata fa: gli Arcangeli (che nelle Gerarchie dei 72 vanno dal 1 gennaio al 9 febbraio)
sono distruttori inesorabili del passato. Lo polverizzano e se lo portano via come un
turbine di vento. Dovete solo aiutarli un pochino, e nelle prossime puntate vi darei
volentieri qualche consiglio al riguardo.
un modo di percepire la realtà assai diverso da quello a cui ricorriamo di solito. Di solito,
nella realtà noi guardiamo e vediamo soprattutto i contorni delle cose. Spigoli, angoli, limiti.
Ma i contorni delle cose sono il PASSATO delle cose stesse: sono, appunto, i limiti entro
cui il passato le ha costrette. Un albero, dopo varie traversie del suo passato, è diventato
una sedia, o un tavolo, o magari un burattino, perché così l’hanno tagliato. Allo stesso
modo anche voi siete diventati i tali o i tal’altri, perché così ha voluto il vostro passato. Ora,
invece, proviamo a guardare il mondo in modo arcangelico: focalizzando l’attenzione non
sui contorni, ma solo sui colori. E non su un colore soltanto, ma su tutti. Proviamo a
vedere nel mondo i colori e basta. Uno, due, tre, via!
È difficile? Sì, è vero. Dà una leggera vertigine e subito si torna a guardare i contorni. È
una grazia troppo intensa, concessa da quella Madonna di Gerona: è tutto TROPPO
BELLO, se si guardano i colori soltanto. Non c’è più niente di brutto. E tutto diventa
terribilmente, vertiginosamente ADESSO, qui e ora: sia le cose, sia le persone, sia anche
tu. Ecco, quella vertigine è precisamente la soglia dalla quale un Arcangelo può
cominciare a parlarvi (non con le parole, s’intende: anche le parole sono contorni. Gli
Esseri celesti parlano solo con i contenuti, con i colori dei significati).
Chi sa un po’ di neurologia, avrà certamente intuito che in questo esperimento dei colori si
manovra l’equilibrio tra emisfero sinistro (che vede appunto i contorni) ed emisfero destro
(che vede i contenuti). Ed è proprio così. È lo stesso esperimento che fece Gesù con i
discepoli che pescavano poco, quando disse «Buttate le reti A DESTRA della barca e
troverete» (Giovanni 21,6). Fecero infatti una pesca notevole, aprendo gli occhi a destra.
Riprovate, quando avrete un problema, un dubbio, e provate a reggere alla vertigine.
trasformare il piombo del tuo passato in oro, e adoperare quest’oro nel presente, occorre
che tu entri in quella «dimensione H», e ciò richiede due cose.
Innanzitutto, bisogna che tu diventi davvero la R (vi ricordate di IsRaele?). Bisogna cioè
che tu la smetta, una buona volta, di identificarti con il tuo passato o con il tuo presente.
Tu non sei né i tuoi errori passati, né ciò che oggi sai di te. Tu sei una porta e una via, sei
libero, pronto a trasformarti in ciò che ancora non puoi sapere.
In secondo luogo, bisogna che Qualcuno ti aiuti. Chiamalo Angelo, chiamalo Dio, o Spirito
Guida. Non sai chi è, sai solo che è in te, da qualche parte un poco più in alto di quella
sensazione di libertà che abbiamo chiamato R. E questo Qualcuno comincia ad agire
esattamente nel momento in cui ti senti così libero, e smette quando torni a identificarti in
ciò che sai già.
ts. In ebraico: Tsade. La z sorda di «zio». È il geroglifico del cambiamento: del punto in cui
qualcosa (una vicenda, un periodo, una vita, una dimensione) si risolve, finisce, e
comincia ad assumere un nuovo significato, o nuove direzioni. Come una strada che
giunge a un bivio.
Nel ritratto dell’Angelo di questi giorni si parla della Tsade come immagine dell’istmo, e poi
della meravigliosa energia dell’infanzia. Riguardo al potere degli Arcangeli di distruggere il
passato, aggiungo qui un riferimento alle Scritture: Isacco, Yitskhaq, deriva dal verbo
«ridere», in ebraico tsakhaq. E ciò perché Isacco fu irresistibilmente connesso, da sempre,
con le risate. Suo padre Abramo rise di nascosto, quando Dio (’Elohim) gli annunciò che
gli sarebbe nato un figlio: Abramo infatti aveva allora novantanove anni e sua moglie Sara
ne aveva novanta. «Stavolta ’Elohim l’ha proprio sparata grossa» pensò suppergiù il
vecchio, «si è mai sentita una cosa del genere?» (cfr. Genesi 17,17). ’Elohim non ci fece
caso. Di lì a poco venne anche il Signore (YHWH) a ripetergli quell’annuncio: gli apparve
sotto forma di tre individui, decisamente arcangelici, e mentre questi tre discorrevano con
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Abramo, Sara ascoltò di nascosto e, questa volta, fu lei a ridere sentendo parlare di sua
una gravidanza imminente. YHWH, più nervoso di ’Elohim, si risentì un poco. Il passo è
bellissimo:
YHWH disse ad Abramo: «Perché Sara ride? C’è forse qualcosa di impossibile a
YHWH?..» Allora Sara negò: «Non ho riso!» perché aveva un po’ paura. Ma Lui disse: «Sì,
ha riso eccome».
Genesi 18,13
YHWH tenne il broncio per un po’, ma poi lasciò correre. E un anno dopo, Sara scese quel
nome, Yitskhaq («Colui che fa apparire il riso») proprio in memoria di quel momento:
Genesi 21,6
La vicenda è tenera e buffa, e contiene un altro segreto fondamentale per non lasciarsi
bloccare dal proprio passato: riuscire a riderne, come Abramo e Sara seppero ridere dei
loro lunghissimi anni di sterilità. E voi certamente sapete perché si ride, e qual è la
profonda natura dell’impulso comico: è lo STUPORE. Si ride di ciò che ti sorprende. E ciò
che ti sorprende è sempre, infallibilmente l’ACCORGERTI di qualcosa che prima non
sapevi, non credevi, non ritenevi possibile. Dovete sapere che moltissimi rimangono
perennemente bloccati dal loro passato, proprio perché hanno paura di accorgersi di
essere diversi da quel che si erano convinti di essere. Hanno paura, perché pensano che
sia un’emozione troppo forte. Non sanno, nessuno gliel’ha detto, che quell’emozione è
molto forte, sì, ma produce il riso – e il riso è bellissimo. È una manifestazione di libertà
(chi ride di una cosa, ride di quella cosa, e al contempo di se stesso, e degli altri, e di tutto:
è libero, in quel riso), e ora voi lo sapete, a differenza di quei moltissimi.
Il problema è: quale Legge? Dove è scritta? Un ebreo risponderebbe: nella Bibbia, nei 613
comandamenti dati da Mosè! Un arabo direbbe: nel Corano! E arabi ed ebrei sanno che
quella loro Legge è scritta sia sul Libro, sia nel cuore di ogni uomo. Un cristiano avrebbe
qualche esitazione, un po’ perché è raro che conosca i suoi Libri Sacri, e un po’ perché se
ripensa ai famosi dieci comandamenti (che sarebbero poi i primi dieci di quei 613) si
accorge inevitabilmente di non averli rispettati gran che. Non pronunciare il nome di Dio
invano; Non desiderare la roba d’altri; Non uccidere (senza alcun comma che permetta
l’uccisione di animali)… Per non parlare poi di quel che i Vangeli dicono di fare o non fare:
Non giurare fedeltà a nessuno; non chiamare nessuno sulla terra «padre»; non fare come
gli ipocriti che vanno a pregare nei templi, ma prega da solo e senza che nessuno lo
sappia; non preoccuparti del domani… E anche Gesù garantisce che questa è Legge,
scritta nel cuore di ogni uomo.
«Sì, ma» obbietterebbe qualsiasi cristiano, «gli altri fanno tutti queste cose, e io devo
smettere, io solo? E devo magari insegnare anche ai miei figli a smettere, il che
sicuramente causerebbe loro problemi enormi?» (Tra i comandamenti di Gesù c’è anche
«Non fatevi chiamare sacerdoti, non fatevi chiamare maestri», Matteo 23,8.10, e come la
metteremmo con la scuola e il catechismo?). Ammetterete che non è un problema di poco
conto.
E altro non è che un nuovo aspetto di quella possibilità di staccarsi dal passato, della
quale gli Arcangeli sono i portatori. Gli altri a cui ci si adegua, e ai quali si obbedisce più
che alle Leggi della propria religione, sono anch’essi passato. Ci si adegua a loro perché
in passato si è sempre fatto così: così facevano i genitori, i nonni, i bisnonni. Già, ma qui la
vostra eventuale voglia di essere liberi viene posta davanti a una scelta dura: puoi
veramente togliere dalla tua vita tutti i ganci, i difetti, i traumi del tuo passato, solo se hai il
coraggio di cercare, chiarire e seguire la tua Legge, quella che senti nel cuore, e non
quella a cui sei stato addestrato. Se no, il Nome di Umabe’el può anche assumere un altro
significato: WMB, «ciò che ti lega (W) è il tuo lasciarti avvolgere (M) dalle regole della tua
casa e della tua patria (B)». E la punizione, spesso, è davvero quella di restare muti, come
il sacerdote Zaccaria: muti dentro, con il cuore messo a tacere, e magari verbosi fuori, ma
senza che le tue parole dicano mai veramente qualcosa di tuo, di nuovo, di vero.
Via, lontano! Yehehe’el, YHH-’EL: «i miei occhi (Y) si aprono su mondi nuovi, su perenni
scoperte (HH)». Se il mutismo di cui parlavamo nella scorsa puntata è punizione
frequentissima per chi rimane attaccato al passato, ciò che annunciano invece Yehehe’el
e i due Arcangeli seguenti è la ricompensa promessa a chi prova a diventare libero.
Prospettive sconosciute, di cui oggi puoi sapere soltanto che non ne sai nulla: OGGI non
ne sai nulla. E non perché qualche divieto te lo impedisca, ma perché così come sei oggi
non lo potresti sapere comunque, non le vedresti, nemmeno se le avessi davanti agli
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occhi. Sei ancora troppo opaco, troppo al di qua di ciò che sarai domani: il che è del tutto
normale, dato che la tua anima sta crescendo a considerevole velocità. Domani ne vedrai
un po’ di più, esplorerai una prima H: e magari sarà proprio nelle persone che già conosci,
che già ami, nei luoghi in cui vivi, nelle cose di tutti i giorni… ma era una bellezza, una
radianza, un senso che fino a ieri non avevi notato mai. E più in là, anche domani, avrai
un’altra H: saprai per certo, cioè, che il giorno seguente ti attenderanno altre sorprese
luminose, altro stupore.
Sempre che, naturalmente, non ti spaventino quelle innumerevoli H nel tuo futuro. Una
certa banalità popolare raccomanda di non «lasciare la strada vecchia per la nuova»
appunto perché non si sa cosa ti aspetti più oltre. È la ragione principale per cui i libri di
storia sono così noiosi: sempre gli stessi errori dei popoli, sempre gli stessi disastri e le
stesse servitù, proprio per la paura dell’ignoto. E anche il Nome dell’Arcangelo di oggi può
rivelarsi, allora, una punizione: «Io guardo (Y) e non vedo nulla (H), nulla di nulla (HH)»
perché ho paura di non vedere più quel che vedevo prima. Conoscete qualcuno che dice o
pensa così? La stessa banalità popolare lo conforta: «Chi si contenta gode» – ma non
conosco nessuna attività umana, pubblica o privata (soprattutto privata) in cui questo
proverbio si dimostri giusto.
Giuda obiettò che quell’unguento valeva almeno trecento denari e che sarebbe stato
meglio venderlo e dare il ricavato ai poveri, invece di adoperarlo a quel modo. Potete
facilmente immaginare, da questa obiezione, che tipo fosse Giuda: severo, rigoroso,
imbronciato, scarso di sorrisi, acido anche, ed evidentemente molto deciso a far colpo su
Gesù – con conseguente gelosia per quella donna che gli si avvicinava troppo. Gesù
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rispose una frase che a molti suona strana: «Lasciatela fare… I poveri li avete sempre con
voi. Me, non mi avete sempre».
E il significato di questa frase è ancor più sorprendente se si considera che (ne abbiamo
tanto parlato nella scorsa stagione) tutte le volte che Gesù nei Vangeli dice «io», sta
parlando del tuo «io» più grande. Dunque voleva dire che il tuo «io» più grande va
trattato bene? Che se ami il prossimo come te stesso, sia tu sia il tuo prossimo avrete
ottimo vantaggio dal fatto che tu impari a spendere per te stesso?
Non vedo altra interpretazione possibile. E d’altra parte Gesù era molto rimproverato, ai
suoi tempi, perché spendeva troppo in feste:
Gli dicevano: «Perché i discepoli di Giovanni digiunano spesso, e così pure quelli dei
farisei, mentre i tuoi mangiano e bevono tanto?» Gesù rispose: «Potete far digiunare gli
amici dello sposo, quando lo sposo è con loro?»
Luca 5,33
Gesù era dunque assertore d’un atteggiamento verso la ricchezza, che oggi molti
chiamerebbero «spreco» e altri, più saggiamente, «abbondanza». I suoi «miracoli»
alimentari sono celeberrimi: Cana, le moltiplicazioni dei pani. Che straordinaria
abbondanza e generosità! La sua esortazione a fidarsi della provvidenza, come i gigli e gli
uccelli, lascia sgomenti oggi come duemila anni fa. Non aveva il tabù del denaro, e io
credo fosse proprio perché poteva parlare del suo «io» come se fosse il tuo. Non aveva –
e insegnava a non avere – quella che Carlos Castaneda chiama «importanza personale».
Non pensava a se stesso come a forziere, ma come a una porta aperta. Chi si è liberato
dal passato è precisamente così (e appunto perciò Gesù aveva troncato tanto nettamente
con la famiglia): trova, ottiene, dà, confida, chiede, riceve, trova, ottiene, dà e via dicendo.
E ciò vale, naturalmente, per tutte le forme di ricchezza – anche, ad esempio, per la
ricchezza di sentimenti, di idee, di creatività, di conoscenza. Di certo si vive e si fa vivere
molto meglio, così. Ma per arrivarci, sapete già qual è la condizione: bisogna staccarsi dal
passato, da ciò che troppe volte hai visto fare a troppi altri.
P.S. Un consiglio di lettura, riguardo al principio dello spreco: Il limite dell’utile, di Georges
Bataille, ed. Adelphi. Ai «protetti» di ‘Anawe’el piacerà di sicuro.
Ed ecco in questi giorni l’ultimo degli Arcangeli, Mekhiy’el: l’ultimo, naturalmente, in senso
evolutivo, la tappa finale di quei modi di liberarsi dal passato, che avevamo cominciato a
esaminare a Capodanno. Conduce verso la Gerarchia dei cosiddetti Angeli Lunari (dal 9
febbraio al 21 marzo, secondo le corrette «mappe» zodiacali), e compito generale degli
Angeli Lunari sarà, come vedremo, favorire la concretizzazione delle energie e dei progetti
celesti nel mondo degli uomini.
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Vedremo anche cosa ciò propriamente significhi, dal punto di vista della psicologia antica:
ma Mekhiy’el può già servirci da introduzione, da annunciatore. Come spiega il ritratto, è
l’Angelo della politica: i suoi «protetti» hanno il dono di poter volare alti al cospetto dei
contemporanei, indicando direzioni, calcolando e spiegando i mezzi per percorrerle. Si
riconosce bene, in Mekhiy’el, quella che gli Egizi chiamavano la HEKA e che i dizionari
traducono «magia»: ma era qualcosa di più, era il potere di togliere ogni distanza tra il dire
e il far avvenire qualcosa. Era un dono degli iniziati, che nei Libri delle Piramidi, nel Libro
egiziano dei morti, si esprime nella frase «io faccio sempre quello che voglio», attribuita a
colui che, appunto, grazie all’iniziazione si è liberato dal suo passato e ha trasformato tutto
il suo «piombo» personale in «oro».
È un’onnipotenza tutta speciale: pensateci! Quanti dei vostri conoscenti sanno ciò che
vogliono davvero? E intendo dire: ciò che sono loro stessi a volere, e non il loro passato o
gli altri. E quanti hanno il coraggio di focalizzare ciò che vogliono, al punto da poterlo dire,
anche soltanto a se stessi, senza nessun dubbio? E soprattutto: quanti sanno che, in
realtà, TUTTI FANNO e FANNO AVVENIRE SEMPRE QUELLO CHE VOGLIONO, ma
non hanno il coraggio di accorgersene, di ammetterlo? Di certo, tutti quelli che sono
ancora immersi a tal punto nel loro passato, da dire «io» a sproposito. Ebbene, il
«protetto» di Mekhiy’el è chi si trova già oltre: conosce il potere della propria
attenzione, e delle parole con cui può descrivere ciò che essa scorge. È libero
nell’usarla, non si illude, non si inganna: vede il possibile, e ne coglie le vie. Al tempo
stesso, le sue energie svincolate dal passato sono talmente ampie, che non potrà mai
accontentarsi di esercitare questo suo potere solamente per se stesso: troppo ovvio,
troppo poco! Avrà bisogno di tanti, di masse. Ed ecco le ragioni per cui, nel nostro
linguaggio attuale, Mekhiy’el può venir presentato anche come l’Angelo della politica.
Certo, non di tanti politici che conoscete, e che sono semplici amministratori, sepolti sotto
valanghe inestricabili di passato (di errori, guai, compromessi, doveri passati). In queste
puntate stiamo parlando soltanto in termini ideali, archetipici.
Il «porto», nel Nome di Damabiyah, è nelle lettere M e B: madre e padre, casa e famiglia,
le norme e le istituzioni esistenti. La nave che dovrebbe, potrebbe salpare è nella D, che –
ricordate? – è il geroglifico del diramarsi, dell’abbondanza che si dona a molti. DMB può
essere la formula di chi, ampliandosi, donandosi agli altri, sa scoprire porti nuovi; oppure di
chi, pur avendo tanto da dare, non riesce a uscire di casa. È precisamente il bivio dinanzi
al quale stanno (e vi aspettano SEMPRE) tutti quanti gli Angeli Lunari, i donatori di
circostanze, di occasioni.
Nel culto popolare degli Angeli (ben documentato già ai tempi di Gesù, e fiorentissimo poi
nel Medioevo) vi era la convinzione che, se uno sa pronunciare bene il Nome di un
qualsiasi Angelo, e conosce i suoi giorni di reggenza, e in quei giorni prova a recitare
all’Angelo una preghiera o invocazione, e se riesce a recitarla con tutto il cuore e senza
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distrarsi, può poi dire a voce alta un suo desiderio e (di nuovo l’HEKA) l’Angelo gli
concederà entro 24 ore occasioni splendide di realizzarlo. Occasioni, notate bene! Un
incontro, un’intuizione, un ricordo improvviso, un’ispirazione precisissima – ma anche
molto rapida, come sempre lo sono le occasioni migliori. E solo chi sarà abbastanza bravo
da afferrarla al volo, vedrà il suo desiderio realizzato.
Molti dicono ancor oggi che sia vero; io, dalle esperienze mie e altrui, so che le probabilità
di successo di questa tecnica sono abbastanza alte la prima volta, e calano poi
notevolmente – soprattutto perché, a partire dalla seconda volta, il nervosismo con cui ci si
guarda intorno in attesa dell’occasione impedisce di vederla. Ma non è questo il punto
principale. Ben più interessante è il modo in cui Damabiyah, il primo degli Angeli Lunari, ti
insegna quali saranno, sempre di nuovo, e comunque, le forze che ti impediscono di
scorgere e cogliere le tue occasioni. M e B! Tanto che penso sia più utile, prima di tentare
l’invocazione all’Angelo, approfondire un po’ le proprie M e B, in modo da sapere dove
NON guardare quando cercherete.
Tipi duri, i «protetti» dell’Angelo di questi giorni: sono quelli che gli americani chiamano
ibullshit-detectors, capaci di riconoscere immediatamente e a colpo sicuro le ipocrisie, le
menzogne e (quel che forse essi detestano più di tutti) i difetti di cui siamo già ben
consapevoli ma che per pigrizia, indifferenza o debolezza non cominciamo mai ad
eliminare. E dura, e connessa al nascondere, è anche la lettera Qoph, che svetta al centro
del Nome di Manaqe’el. È l’iniziale di Qabbalah:
che nel linguaggio corrente significa sia «tradizione» sia «accoglienza», e in geroglifico «il
tenere e preservare (Q) in luogo opportuno (B) tutto ciò che conduce in alto (L), verso
l’aldilà (H)». È altresì l’iniziale di Caino, in ebraico QYN, che in geroglifico significa «Chi
domina (Q) l’aspetto (Y) delle cose (N)». E qui bisogna proprio che vi racconti un segreto
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di Caino, patriarca assai vicino, in realtà, sia alla Qabbalah sia a qualsiasi forma di
teologia coraggiosa. Caino viene solitamente ricordato come il primo assassino, come il
capostipite dei malviventi, ma non fu affatto così. Vero è che non sopportava suo fratello
Abele, e che lo uccise: ma chi era, o meglio chi è in ogni epoca Abele? Il suo nome era
HBL, in geroglifico: «rendo invisibile (H) in luogo protetto (B) ciò che conduce in alto», e il
libro della Genesiprecisa che era un «pastore», uno che tiene a bada le greggi. Era il
prediletto del Dio-Signore, di YHWH, che sempre sembra amare chi tiene a bada gli altri.
Caino invece, come sapete (v. la puntata 12), era un appassionato della ’adamah, dei
nuovi territori della conoscenza: e quel fratello-pastore lo opprimeva, lo deprimeva, lo
frenava… esattamente come in ciascuno di noi un ereditario bisogno di sicurezza, di
conformismo, di sottomissione alla pastorizia opprime gli slanci del nostro desiderio di
crescere. E ben presto Caino eliminò Abele, il che tutti dobbiamo fare in noi stessi,
se vogliamo scoprire qualcosa di più di quel che ci è stato insegnato da pastori,
preti, professori e da altri abeli del genere. Questi stessi abeli ci hanno spiegato che poi
Caino si pentì e Dio lo castigò, ma anche questo è falso. Secondo le versioni consuete,
dopo il fratricidio Caino disse a YHWH:
Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono! Ecco, tu mi scacci da questo suolo e
io dovrò nascondermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi
incontrerà mi potrà uccidere.
Genesi 4,14
Ed è più o meno ciò che l’Inquisizione voleva che Galileo (un celeberrimo Manaqe’el)
dichiarasse pubblicamente. Ma è una traduzione sbagliata. In realtà il testo qui dice:
Troppo grande è la mia disobbedienza, perché si possa purificare! Ecco, tu mi vieti ora
l’’adamah, ma da te io mi nasconderò sempre, e fuggendo continuerò a esistere
nell’’adamah, io, zoppo! E mi uccida pure, chi mi incontri!
Una risposta fiera, combattiva, specialmente se tiene presente che «zoppo» sia nella
Genesi sia in altre tradizioni antiche, era sinonimo di «iniziato». E YHWH ne rimase
perplesso, e disse fra sé la famosa frase:
«Se anche lo dovessero uccidere, questo Caino si rialzerà sette volte più forte!..» E
YHWH mise un segno su Caino, perché chiunque lo trovasse non lo potesse colpire.
Genesi 4,15
Prese atto, cioè, del coraggio di Caino e della sua pericolosità per l’ordine costituito, e
preferì fare in modo che non lo colpisse, perché le persecuzioni non rendessero i Caini
ancor più forti e coraggiosi di quel che già erano. Poi, nel mondo, quel «segno» si perse e
i Caini colpiti e bruciati sul rogo furono molti. Ma fortunatamente non sono mai mancati del
tutto.
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Nella scorsa puntata dicevo che Galileo (nato un 15 febbraio) ERA un celeberrimo
Manaqe’el. Anche nei ritratti angelici uso spesso così il verbo «essere», e voi sapete già
perché: gli Angeli di cui parla la Qabbalah sono Energie, e in questo mondo l’unico modo
per comunicare con loro è appunto esserle, farle essere nella propria esistenza.
Il che non significa che la nostra immagine tradizionale degli Angioletti custodi che ci
stanno accanto sia sbagliata. Tutte le tradizioni religiose sono giuste, nel senso che
descrivono tutte – in termini simbolici – qualche autentica realtà spirituale. E tutte le
tradizioni religiose, inoltre, hanno quella nobiltà che deriva loro dall’essere molto antiche.
Anche la suggestiva immagine consueta degli Angeli (che per alcuni versi somiglia molto
all’’Ay‘a’el di questi giorni) è antichissima. Le sue origini vanno cercate addirittura in Egitto:
all’epoca delle Piramidi si riteneva infatti che ciascun uomo fosse accompagnato sempre
da un suo KA, da uno «spirito» protettore e in qualche modo incaricato di sorvegliare la
sua condotta.
Il KA era raffigurato, nei geroglifici egizi, come due braccia alzate (molto simili alle due ali
dei nostri Angioletti) e così come tanti di noi credono che dopo la nostra morte l’Angioletto
ci restituisca al Mittente, allo stesso modo gli Egizi insegnavano che il nostro Ka presenzia
al giudizio che subiamo nell’Aldilà – la psicostasìa, o «pesatura del cuore», nella quale si
decide se l’uomo debba essere premiato o punito per come ha vissuto. A questa base
egizia si fuse poi, nell’Occidente cristiano, l’immagine greca delle Nikai, delle
«annunciatrici» che, si diceva, precedevano i messageri incaricati di portare le notizie belle
(operavano insomma ciò che oggi chiameremmo precognizioni) e venivano appunto
raffigurate con lunghe vesti bianche e larghe ali.
Grazie all’influsso delle Nikai l’Angelo prese appunto il nome di Angelo – dal
greco aggelos, «messaggero», mentre nella tradizione ebraica si chiamava «inviato»
(malakh) o anche «individuo» (’ysh).
Un altro contributo importante alla nostra immagine tradizionale degli Angeli venne anche
dalle culture ancestrali europee, nelle quali molti animali erano ritenuti MAESTRI
dell’uomo, o sue guide soccorrevoli (si pensi agli animali magici delle nostre fiabe): ed
evidentemente la vitalità di questo sostrato animistico spiega perché non sembri mai
strano a nessuno che gli Angeli – certamente superiori a noi sulla scala evolutiva – siamo
esseri IBRIDI, in parte umani e in parte uccelli. Tutte cose bellissime, e profonde ma,
ripeto, DIVERSE da quell’idea di Angelo come Energia che può esistere e agire con la tua
cooperazione.
Tale differenza è segnalata anche nei Nomi degli Angeli della Qabbalah. Quelle immagini
alate, antichissime e contemporanee, attribuiscono tutte quante agli Angeli, in un modo o
nell’altro, un corpo – sottile, eterico, spirituale quanto si vuole ma pur sempre un corpo. E
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guardacaso, l’unica lettera dell’alfabeto ebraico che non compare mai nei Nomi dei nostri
Settantadue è proprio la Ghimel:
g. In ebraico: Ghimel. Una g sempre dura. È il geroglifico della gola,e più in ge-nerale del
corpo fisico, considerato come involucro dell’organismo e canale dell’anima.
Mentre l’Arcangelo Gabriele (il GBWR di ’EL, «l’eroe, l’uomo forte di Dio») porta
orgogliosamente la sua G proprio perché le «missioni» di cui è incaricato riguardano tanto
spesso i meravigliosi misteri del corpo umano, la fecondazione soprattutto, come ben
sapete.
L’Angelo di questi giorni dona quell’«energia terapeutica» di cui abbiamo già parlato (v. la
puntata 8), e che può manifestarsi con successo sia nella professione medica sia nell’arte
dello spettacolo. Dona anche la voglia di scoprire e far scoprire cose nuove, e una
notevole dose di naturale fortuna. Nient’altro. Tra i Settantadue, è perciò uno degli Angeli
più semplici da vivere: richiede, in pratica, un’unica scelta precisa ai suoi «protetti» –
curare o recitare – e per il resto li lascia nella più completa indeterminatezza. Come se
dicesse: «Per far fruttare il vostro talento, voi non avete bisogno di nulla: né dell’amore, né
dell’amicizia, né di una qualche disciplina… Il che non significa che dobbiate fare a meno
di queste cose: potete prenderne, conquistarle, imporvele, se vi va, ma sappiate che solo
la vostra professione o arte potrà darvi energia, energia abbondantissima, mentre in ogni
altro aspetto della vostra vita, in ogni altro rapporto sarete voi a dare, come un recipiente
stracolmo che comunica con altri il cui contenuto sia inferiore».
È una forma di libertà, o più precisamente di tempo totalmente libero. Ed è il riflesso di una
delle idee più avventurose della Qabbalah: lo tsimtsum, che significa «contrazione». Per
poter creare il mondo – dicevano alcuni qabbalisti medievali – Dio dovette contrarsi:
dovette lasciare nell’universo un luogo libero, in cui la Sua presenza non arrivasse, perché
lì potesse cominciare a esistere qualcosa di diverso da Lui. Ciò
avvenne all’inizio (era il modo in cui quei maestri immaginavo il Big Bang, con otto secoli
d’anticipo) e continuò ad avvenire poi: il Dio-Signore, dopo aver proibito d’assaggiare i
frutti della conoscenza, si allontanò; e così pure dopo aver raccomandato a Caino di
lasciar in pace Abele… e così via, fino al Calvario, dove Gesù, morendo, gridò «Perché mi
hai abbandonato?» L’evoluzione, secondo le Scritture, è punteggiata di tsimtsum, di tempi
e spazi esistenziali lasciati vuoti, perché in essi avvenga qualcosa che NON È in Dio – e
ogni volta, guarda caso, si tratta di un gran passo avanti dell’umanità. Secondo voi,
PERCHÉ?
Secondo me, è un modo che Dio ha di esercitare l’uomo a essere come Lui. Libero dal
bisogno e dal dovere. Certo, gli insegna questa libertà con grande cautela, come si fa con
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i bambini, quando si prova a lasciarli soli per un po’, a mandarli a comprare qualcosa da
soli, o a far prendere loro qualche piccola decisione. Ma lo scopo è che crescano e
arrivino davvero, tra qualche tempo (secoli, millenni) a far da sé, in uno tsimtsum sempre
più ampio. «Imparate a essere perfetti come il Padre vostro che è nei cieli» diceva Gesù
(Matteo 5,48) e qui, evidentemente, voleva essere preso proprio alla lettera.
D’altronde, fateci caso: nell’Angelo di questi giorni (o negli Angeli dei Re, di cui parleremo
il 6 marzo) lo tsimtsumè molto evidente, ma anche negli altri Angeli ce n’è un bel po’.
Alcuni, come Manaqe’el, Umabe’el o Yahehe’el, non richiedono nulla che riguardi il
rapporto con il denaro (per i loro «protetti», cioè, la riuscita o la non riuscita in questo
campo non sarà mai un fatto determinante: qui, sono liberi); altri, come ’Ay ‘a’el o
‘Anawe’el non richiedono nulla che riguardi amicizia e amore (e qui si situa dunque il
loro tsimtsum); altri ancora, come gli Angeli dei Re, di cui riparleremo il 6 marzo, non
chiedono proprio nulla di nulla. E vi propongo un argomento di riflessione: a mio parere,
proprio in ciò di cui un Angelo non fa menzione ai suoi «protetti» io credo che vi sia il
luogo più importante, il principale alambicco del laboratorio d’una vita, dove solo la libertà
– per chi ha il coraggio di servirsene in modo creativo – apre prospettive radicalmente
nuove. Voi che ne pensate?
Quando ero ancora all’inizio dei miei studi di Angelologia c’erano molti Angeli di cui mi
sembrava di non aver capito gran che, e Ra’aha’el era uno di questi. Mi sembrava troppo
strano, e improbabile, che le persone nate dal 1° al 6 marzo dovessero veramente
ritrovare cose smarrite o persone perdute di vista, per sentirsi felici e realizzate. E quella
volta fu un’esperienza, a farmi intendere meglio. Avevo parlato di quest’Angelo a una sua
«protetta» (che saluto caramente, se mi sta leggendo), le avevo spiegato quel che
dicevano i Codici antichi: che Ra’aha’el dona un forte, combattivo, meticoloso senso di
giustizia, e che il modo migliore per usarlo era appunto ritrovare ciò che si è perso, e
capire in che modo e perché lo si è perso, e che se lei si fosse impegnata in questo ne
avrebbe avuto notevole fortuna, e così via. Ma, non essendone convinto io stesso, non
riuscii nemmeno a convincerne lei, ed ebbe la netta impressione che fossero tutte
sciocchezze.
La rividi qualche mese dopo e mi raccontò, divertita e contenta, quel che le era successo
nel frattempo:
«Un po’ di tempo fa» disse «stavo facendo pulizia nel nostro box, e da uno scaffale è
caduta una busta: c’erano dentro altre buste. Be’ – ho pensato, – si vede che qualcuno
l’ha messa qui per qualche buona ragione, e che qui deve stare. Ma poi mi è venuta la
curiosità di vedere cosa conteneva, ed erano le lettere di mio marito e della sua
amante…»
«Eh sì. Allora ho pensato: gli faccio subito una scenata. Ma poi no – mi sono detta, –
vediamo prima come stanno davvero le cose. E ho cominciato a seguire mio marito, ho
fatto anche due foto mentre entrava in casa di quella lì, e alla fine, una sera, gli ho messo
davanti la situazione con tutte le prove, e gli ho detto pari pari: «Io mi tengo la casa,
d’accordo?» senza alzar la voce né altro…»
«E lui?»
«E lui niente, abbiamo chiuso, ma la storia non è finita. Neanche tre settimane dopo, stavo
aspettando l’autobus e vedo che arriva…» (e qui fece un bellissimo sorriso) «vedo che
arriva, come dire, insomma… Io ho avuto un solo grande amore in vita mia, e non era mio
marito, ma quest’altro.»
«Sì. Mi ha vista, ci siamo seduti alla fermata, abbiamo cominciato a parlare… Erano anni
che non lo rivedevo. Abbiamo perso non so quanti autobus, mentre parlavamo lì. E
adesso abitiamo insieme da un mese.»
È una bella storia, a mio parere. Niente di cabbalistico in senso stretto, ma comunque mi
fu utile. Lì cominciai – tutto a un tratto – ad accorgermi di come, per esempio, Pasolini (5
marzo) ritrovasse e aiutasse a ritrovare ciò che le culture italiane avevano perduto nei loro
matrimoni sbagliati; e del «divorzio» a cui Gorbaciòv (2 marzo) cominciò a guidare la
Russia; e tante altre esperienze ancora. La parte empirica dell’Angelologia è infatti
importantissima, in quanto aspetto visibile di un invisibile. Grazie ancora a quella mia cara
amica, per l’aiuto!
Due puntate fa dicevo che Dio, ogni tanto, sembra «contrarsi» e lasciare spazio libero
all’uomo. Nell’Angelo di questi giorni la «contrazione» è completa: Yabamiyah non
richiede nulla di nulla e – come dicono gli antichi Codici (*) – dà tutto. «Che pacchia!»
direte magari voi. Ma provate a domandare a qualche vostro conoscente nato dal 6 al 10
marzo. Se conosce già abbastanza se stesso, vi risponderà che non è affatto piacevole
essere uno «il cui sguardo (Y) penetra (B) e abbraccia (M) tutto quanto»: tutto, i pregi e i
difetti di chiunque, il senso, i limiti, l’importanza (sempre relativa!) di qualunque cosa. Vede
tutto, comprende tutto, e appunto perciò nulla gli interessa davvero. Guarda gli altri che
desiderano, sperano, si illudono, lottano; e può facilmente aiutarli, se è di buon cuore – ma
sa per certo che non gli è dato di provare le emozioni che essi provano, così come noi non
riusciremmo più a ritrovare quel terrore d’una nota sul diario o quella gioia d’una lode, che
avevamo conosciuto alle elementari.
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D’altra parte, è lecito porsi qui il problema: perché il mondo è stato creato e diretto
talmente male dalla Divinità, da richiedere alle creature umane di porvi rimedio? Dio e i
suoi Angeli non potevano rifinirlo meglio, dotarlo – che so – di qualche dispositivo di
sicurezza, di una qualche valvola psichica o spirituale che impedisse la produzione di
cattiverie? E (cosa quantomai scoraggiante) le nostre grandi religioni non forniscono, a
questo riguardo, nessun chiarimento significativo: non spiegano né perché i Cieli
permisero Auschwitz o Nagasaki, né perché in quelle occasioni gli Hayiya’el non riuscirono
a impedire l’orrore. Possibile che sia stata colpa SOLTANTO dell’uomo?
Io, da quel che ho letto, decifrato, pensato in questi anni, credo che veramente Dio e gli
Angeli non abbiano potuto fare più di così. Sanno bene – a mio parere – che questo non è
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Nel giudicarla, non abbiate fretta. So bene che, così come l’ho esposta, può apparire fin
troppo elementare, ingenua. Ma consideratela in termini simbolici, come segnale che vi
indica un territorio «hayaeliano» della vostra psiche: quello da dove proviene il SENSO
delle cose che fai e puoi fare ogni giorno, la RAGIONE del bene e del male che tu hai il
potere di compiere e riconoscere. Nel ritenerti coautore di una creazione ancora
incompleta vi è una fonte enorme di voglia di vivere e di agire, di salute, di creatività,
quale sarebbe difficile trovare altrove, nel mondo così com’è ora.
Gli Ebrei, ai tempi di Mosè, sapevano benissimo cosa fossero e cosa rappresentassero le
mummie: il simbolo di ciò che attende, il bozzolo da cui sta per nascere la farfalla. Così
io credo siano tutte le nostre domande, specialmente quelle a cui per ora non sembra
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possibile trovare una risposta. E l’Angelo di questi giorni, come forse avrete letto nel
ritratto, è anche l’Angelo dell’aprirsi alla rivelazione, e dello spazio della rivelazione, che
circonda e avvolge tutto il mondo noto all’uomo.