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Franco Basaglia Il Dottore Dei Matti (Italian Edition) - Oreste Pivetta
Franco Basaglia Il Dottore Dei Matti (Italian Edition) - Oreste Pivetta
ISBN 978-88-6865-484-9
www.baldinicastoldi.it
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ORESTE PIVETTA
Franco Basaglia
il dottore dei matti
La biografia
INDICE
INTRODUZIONE
1. PSICHIATRA E RIFORMATORE
2. CAMPO SAN POLO
3. L’INVENZIONE DI GORIZIA
4. LA LUNGA MARCIA
5. LE ULTIME SFIDE
6. PRENDERE IL VOLO
7. UNA LEGGE E «OLTRE LA LEGGE»
LIBRI E ALTRO
«Io li ho visti nudi, coperti di stracci, senz’altro che un po’ di
paglia per proteggersi dalla fredda umidità del selciato sul
quale sono distesi. Li ho visti grossolanamente nutriti,
privati d’aria per respirare, d’acqua per spegnere la loro
sete, e delle cose più necessarie alla vita. Li ho visti in
balia di veri carcerieri, abbandonati alla loro brutale
sorveglianza. Li ho visti in stambugi stretti, sporchi,
infetti, senz’aria, senza luce, rinchiusi in antri dove si
temerebbe di rinchiudere le bestie feroci che il lusso
dei governi mantiene con grandi spese nelle capitali.»
Jean-Étienne Dominique Esquirol,
Des maladies mentales, 1818
L’uomo in rivolta
Il carcere fascista
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Tortorella rivendica il ruolo dei comunisti italiani, anche nel senso
della battaglia contro i manicomi, dove lo psichiatra aveva trovato
come pazienti soltanto i poveri: «…e questa era la scoperta –
semplice e vera – di una sostanza di classe». «Ma non si trattava
soltanto di questo. Chi altro se non il movimento operaio e i
comunisti avrebbero dovuto e potuto intendere la “politicità” della
questione, il rapporto tra modo di essere della società e concezione
della malattia e della salute?»
«Molte discussioni di metodo sono avvenute… intorno al
permanente tema politica-cultura, intellettuali-partiti, intellettuali-
partito comunista in special modo. Concretamente, una presenza
come quella di Basaglia segnava – al di là di lui stesso –
un’esperienza. Non più quella di una generica alleanza. Ma,
appunto, quella di una funzione dell’intellettuale come protagonista
del cambiamento e della trasformazione a partire dal suo “specifico”,
dal suo sapere e dalla connessione del suo sapere con i valori di cui
è portatore il movimento operaio se esso assume sopra di sé il
compito della fondazione di una società nuova…
«Ma gli intellettuali per proporre a se stessi e alla società una
visione nuova hanno da compiere il cammino difficilissimo che passa
verso la riconcezione del loro sapere e della loro funzione. Ecco, ad
esempio, la medicina: per prevenire la malattia e non solo per
curarla, per intendere le cause generali del male e non solo quelle
immediate…»
La medicina. All’esempio della medicina ricorre Tortorella, che ben
conosce la vicenda di Giulio A. Maccacaro, un medico, ex partigiano,
morto a 53 anni nel gennaio del 1977, morto durante una riunione di
lavoro, dicendo lui stesso la sua diagnosi: «Scusate, è proprio un
infarto giovanile». Maccacaro sostiene come la malattia possa avere
cause sociali e quanto necessario sia dunque prevenire e, per
prevenire, intervenire sugli ambienti di vita e di lavoro. Il suo
impegno non viene bene accolto dalla «corporazione»: nel 1972 il
presidente dell’Ordine dei medici di Milano lo minaccerà di
procedimento disciplinare per la relazione da lui tenuta in un
convegno scientifico sul potere e la servitù della medicina nella
società del capitale. Poco prima di morire è pronto un numero della
rivista «Sapere», che dirige, dedicato a Seveso e alla diossina: in
prima pagina il titolo Crimine di pace. Nel 1976 Maccacaro fonda il
movimento Medicina democratica.
Di nuovo Tortorella riconosce la fondatezza della riflessione e del
lavoro di Basaglia, un valore esemplare: «…la tecnica, dunque, deve
sapersi come storicamente data e in rapporto con il mondo, con la
società, con i suoi valori e disvalori… Anche qui è valsa la lezione di
Basaglia: per rimuovere il peso di tanta inerzia pseudo accademica,
che spesso nasconde soltanto una concezione mercantile del
sapere, ma anche per smascherare la miseria culturale e morale di
quelli che egli chiama gli “intellettuali smerigliati”, superatori a parole
di ogni sforzo innovatore, ma nel frattempo ben ancorati, entro la
protezione di un estremismo verbale, nella pratica più arcaica e
brutale».
La conclusione: «Ad altri spetta di dire… se in questo sforzo – e
nei suoi straordinari risultati – non gli avvenne di ignorare o di
sottovalutare esperienze culturali, forme di sapere, discipline verso
le quali, invece sarebbe stata utile una più grande attenzione…» È
come sbarazzarsi dalla polemica, accademica, psichiatria-
antipsichiatria. Per esaltare altro: «Ciò che conta alla fine sono le
cose semplici. Conta un’opera di liberazione che sta già iscritta nella
storia della società. Conta… la passione umana che ha dato senso a
una battaglia e a una vita. Perché l’umanità degli “altri”, di quelli che
egli ci ha insegnato a riconoscere come individui, egli non l’aveva
scoperta per puro bisogno di conoscenza e meno che mai per
compassionevole trasporto, ma – appunto – per amore. E stava in
questa sua fanciullesca e straordinaria bontà il segno più profondo
della sua intelligenza».
Su «l’Unità» compare anche un lungo articolo che è un primo
tentativo di biografia, da Gorizia a Parma a Trieste, di Raffaello
Misiti. Sono le esperienze più importanti a comparire, Gorizia,
Parma, Trieste, la legge, insieme con i nomi degli intellettuali che
incontrano Basaglia dove lui opera: Noam Chomsky, Ronald Laing,
Erving Goffman, Michel Foucault, Robert Castel, Thomas Szasz, per
evidenziare affinità, interessi comuni, appartenenze… Il preambolo è
illuminante. Misiti si rifà agli esordi scientifici di Basaglia, ai tempi
dell’università e di Padova, a un’attività intensa, che si specchia in
«decine di lavori scientifici pubblicati su riviste italiane e straniere
che, pur mantenendosi nell’alveo della psichiatria classica, sono spie
di una continua ricerca, di una tormentata tensione, che vogliono
comprendere, darsi ragione, vedere nelle sue verità ultime la
condizione del malato di mente; condizione inaccettabile come stato,
passaggio critico talvolta obbligato dell’esistenza, mai tuttavia punto
d’arrivo che richiede di essere classificato con la fredda
rassegnazione dell’occhio clinico dì chi è uso considerare le malattie
mentali come malattie organiche cerebrali». E già indicare lo
sguardo assolutamente nuovo di Basaglia sulla malattia. Segue la
storia di un ventennio, da Gorizia all’incarico nel Lazio.
Nell’emozione della circostanza, scrive Misiti, non riesco a dire altro.
E tuttavia, poche righe avanti, elenca i tratti fondamentali della
personalità di Basaglia: «Non si può non accennare alle sue
straordinarie qualità di uomo e di compagno prepotentemente
presenti negli incontri, nei contatti, nella consuetudine di lavoro. E
allora il ricordo è felice, perché Franco Basaglia, con il suo
entusiasmo, con una straripante vitalità e forza di coinvolgimento, ci
ha mantenuto giovani quando rischiavamo di diventare
precocemente vecchi. E tutto questo continuamente, nella
quotidianità dell’operare, con tutte le risorse di fantasia e di creatività
possibili ad ogni livello espressivo di cui l’uomo dispone o può
disporre. Viene in lui una straordinaria facoltà di accumulare un
patrimonio di saperi e poteri immediatamente socializzati e mai
irrigiditi o sclerotizzati in posizioni di certezza dogmatica». Misiti
chiude con solennità, dove il richiamo all’amicizia personale anticipa
l’elogio politico: «Con la sua morte io e tanti altri, perdiamo un amico
che ha saputo essere compagno e guida nelle lotte e nella vita; la
gente, il movimento operaio, i comunisti, il Partito, perdono un
compagno, una figura di intellettuale nuovo, non solo per i contenuti
che ha immesso nella sua battaglia politica e culturale, ma anche
per la qualità e la modalità di una militanza verificata
quotidianamente e mai sacralizzata una volta per tutte in immagini di
facciata». Intellettuale nuovo, perché i saperi conquistati sono a
disposizione e si discutono, non diventano ideologia, ma si
contestano, sperimentano, si ribaltano ed è la condizione concreta
degli uomini ad attribuirne un senso e una necessità.
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A Trieste, nella «città dei matti», continua a non esserci una via
Basaglia, a trent’anni dalla morte. «La sinistra mi dice che la via
individuata all’ex Opp è svilente per la caratura del personaggio?
D’accordo, io non voglio svilire nessuno, quindi la delibera che era
pronta non la porto neanche in giunta, anzi, la ritiro», conclude Paris
Lippi, il vicesindaco che viene da An e che presiede la Commissione
Toponomastica. A questo punto – è la sintesi che viene da
maggioranza e opposizione – non se ne fa più nulla. Almeno per altri
due anni, cioè fin quando le procedure dell’imminente censimento –
che non consentono alcuna variazione d’indirizzo dei residenti – non
si saranno concluse.
Praca Basaglia invece è a Jaguariúna, Rio de Janeiro.
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Strana storia è quella dei pazzi e strani i mezzi che nei secoli
vengono adoperati per difenderli, liberarli, guarirli, escluderli,
occultarli. Dico strana perché continuiamo a considerarla
«estranea», lontana da noi, la temiamo o la tolleriamo purché non
interferisca, ignorata e poi conosciuta grazie a un ascolto viziato
dalla paura o dalla pietà.
I pazzi vengono considerati castigati o ispirati dagli dei e quindi
giudicati ora pericolosi ora sapienti sotto mentite apparenze. Li si
può temere, ma si può averne pietà, li si incatena, ma si può
pensare anche alla loro libertà. La loro miseria non si insinua tra
l’umiliazione terrena e la gloria dei cieli, l’umiliazione per la gloria,
ma diventa ragione del disordine e quindi colpevolezza. Michel
Foucault, nel suo libro più celebre, Storia della follia nell’età classica,
coglie questo passaggio tra sedicesimo e diciassettesimo secolo,
quando il sistema del welfare, pubblico o privato, s’incarica di
estirpare il disordine. Vietato mendicare e chi è colto nelle strade a
mendicare è colpevole, la sua mendicità dimostra il rifiuto di quanto
l’assistenza pubblica e privata gli mette a disposizione. La miseria è
la pena di chi non sa vivere come gli altri, di chi non si consegna alle
regole della società dominante. La miseria «scivola da un’esperienza
religiosa che la santifica a una concezione morale che la condanna».
Al termine di questa evoluzione si incontrano le grandi case
d’internamento. È un inizio, è il primo mattone di una storia che si
glorifica anche nei manicomi.
Basaglia studia la malattia dei matti e la loro miseria. Il manicomio,
come lo trova nell’Italia degli anni Sessanta, non è un libro, è una
prova materiale della debolezza della psichiatria e dell’imperativo
che si sono imposte le pubbliche istituzioni (anche la Chiesa),
difendere la comunità dei normali, cioè di chi rispetta la norma,
impedire lo spettacolo osceno. Il manicomio è una prigione con i ferri
alle finestre, i chiavistelli, le camicie di contenzione, i legacci, la
tortura. Le gabbie e poi i farmaci.
«Ci mettevano un lenzuolo bagnato intorno alla faccia e dopo
stringevano forte, forte e ci buttavano acqua sulla faccia, roba che
restiamo morte.»
«Avevamo i letti con la rete intorno e c’erano i lucchetti parte per
parte ed io ero chiusa dentro.»
«…ci facevano l’elettroshock.»
«…eravamo tutti legati col giubbetto. Alcuni attorno agli alberi, altri
attorno alla panca e fino alla sera non ci slegavano più… Eravamo
tutti sporchi addosso. Alla sera ci slegavano e ci mettevano a letto,
legati polsi e caviglie…»
«…a me mi legavano i piedi con le cinghie di cuoio.»
Il manicomio è una delle tante prigioni, che non dovrebbero essere
prigioni. Le altre si chiamano orfanotrofi, case di riposo, cliniche. Ci
finiscono dentro malati, irrequieti, orfani, solitari, sognatori,
miserabili, combattenti, ex partigiani, artisti…
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I celestini non sono soli. «Legati mani e piedi con catene di ferro al
letto, dalle sette di sera alle sette dell’indomani: così decine e decine
di bambini passavano la notte dopo una giornata di sevizie e di
percosse in una casa di Grottaferrata, nei Castelli Romani, adibita da
una ex suora ad istituto di assistenza per minorati psichici.» Le prime
denunce risalgono alla metà degli anni Sessanta. Ma la scoperta è
del 1969, a giugno, quando la polizia fa irruzione nell’edificio e si
trova davanti «a uno spettacolo allucinante»: una trentina di bambini,
fra i tre e i dodici anni, tutti subnormali, ammucchiati come bestie sui
letti. «Quindici ragazzi, due per ogni letto, sono incatenati con le
braccia alle sponde metalliche dei letti, i piedi degli uni legati ai piedi
degli altri con robusti legacci di stoffa del tipo di quelli usati nei
manicomi per immobilizzare gli ammalati di mente sui cosiddetti letti
di contenzione, denutriti, assetati perché di proposito non veniva
dato loro da bere fin dal pomeriggio, doloranti per le percosse
quotidiane ricevute, con gli occhi devastati dal terrore…» La polizia,
che con un sotterfugio, facendosi precedere da un genitore in visita
al figlio ricoverato, riesce a entrare non annunciata nel lager di
Grottaferrata, li trova così, «in un ambiente lurido, maleodorante, nel
quale risuonano i lamenti disperati delle piccole vittime» (su «l’Unità»
del 9 giugno).
La direttrice di questo istituto, intitolato a Santa Rita, si chiama
suor Colomba, cioè Maria Diletta Pagliuca. È un ex suora, ha
cinquantanove anni quando viene arrestata e rinchiusa a Rebibbia.
In dodici anni accumula soldi e benevola attenzione, estende la sua
attività, si merita persino la benedizione del vescovo di Frascati e
una fotografia la ritrae in visita al Santo Padre. Accumula anche
denunce, ma non cambia nulla. «Protezioni forti», denunciano i
giornali. Anche di fronte alla morte di quattro ragazzi, per
broncopolmonite, costretti dopo bagni gelidi a starsene d’inverno
senza niente addosso. Come nei lager, quelli nazisti.
Quando la vicenda viene a galla, grazie all’indagine paziente e
onesta di un carabiniere, lo scandalo è nazionale, l’Italia si
commuove, Diletta Pagliuca sale a simbolo di tutte le infamie
perpetrate ai danni di poveri bambini, indifesi, perché soli, segregati,
sottratti a qualsiasi rapporto con l’esterno. Le accuse formulate a
carico della direttrice comprendono «maltrattamenti aggravati e
continuati», «gravi lesioni», l’aggravante dei «motivi per lucro»,
«truffa a enti pubblici» e «sequestro di persona». Ma le condanne
sono miti: quattro anni e qualche mese, concessione di attenuanti
generiche e assoluzione per i reati più gravi. Le «condanne» per i
piccoli ospiti, invece, sono a vita, segnati nell’infanzia da una
violenza che non così di rado perpetreranno su altri in età adulta. Il
ministro della Sanità, Ripamonti, promette che non succederà più:
una nuova legge consentirà di evitare «episodi drammatici ed
agghiaccianti» (intervista a «Il Messaggero», 21 giugno 1969). Una
circolare governativa invita i prefetti a vigilare.
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Da un’altra parte del mondo ci giunge un’altra storia, come la
citerebbe Fanon, di violenza necessaria e di violenza che libera.
Ernesto Che Guevara diventa l’icona indimenticabile del
Sessantotto. Nel 1963 Guevara scrive un saggio, La guerra di
guerriglia: un metodo: «La violenza non è patrimonio degli sfruttatori,
gli sfruttati possono impiegarla al momento giusto… La dittatura
cerca sempre di conservarsi senza troppo mostrare che usa la forza;
costringerla a togliersi la maschera, a mostrarsi con il suo vero volto
di dittatura violenta delle classi reazionarie è un fatto che
contribuisce a mostrare al popolo la sua vera natura».
Alla morte di Guevara, nel 1967, Basaglia gli dedica un articolo,
scritto con Franca Ongaro, che appare nella rivista «Che fare?» (I,
1967). In epigrafe Basaglia riporta una frase del «Che»: «Nel nostro
mondo in lotta, ogni divergenza a proposito della tattica, del metodo
d’azione per raggiungere obiettivi limitati, deve essere analizzata con
il rispetto dovuto agli apprezzamenti altrui. In quanto al grande
obiettivo strategico, la distruzione totale dell’imperialismo attraverso
la lotta, dobbiamo essere intransigenti». «La nostra realtà»: sembra
che Basaglia, anche attraverso le parole del Che, inviti ancora a
riflettere sulla consistenza delle nostre responsabilità, anche di
fronte a un obiettivo tanto vigoroso, tanto ambizioso, di liberazione.
Nell’articolo, che si intitola Il corpo del Che, Basaglia mette in
guardia dall’uso della vita di un rivoluzionario, dal tentativo di
annientarlo in oggetto di consumo, «mezzo Don Chisciotte, mezzo
Saint Just», come lo ricorda «Il Giorno», sognatore e insieme rigido
apostolo di una giustizia universale, che sa più di cielo che di terra,
«romantico», «amante del bel gesto». Con durezza paradossale
Basaglia s’augura che il corpo del Che sia mortificato, offeso,
violentato dai suoi nemici come lo fu in vita: «Vogliamo che si
continui a ritenerlo il corpo della violenza, il corpo sfacciato della
rivoluzione che continua a esistere oltre la morte finché ci sono
violenza e sopraffazione».
Basaglia ammira Fanon e ammira i rivoluzionari che in quegli anni
scuotono il mondo, comunisti e preti come Camilo Torres, che
lottano per cambiare lo stato del mondo, che prospera di
sopraffazione, diritti violati, sfruttamento, ingiustizia legittimata. Sa
benissimo che cosa possa significare rivoluzione: sa che esistono i
gulag, sa dei deportati in nome di presunte malattie mentali. Quando
in Brasile, a Belo Horizonte, gli chiedono notizie circa lo stato
dell’assistenza psichiatrica nei paesi socialisti, risponde di pensare a
una soluzione socialista all’organizzazione sociale, a una società
diversa che continui a criticare se stessa in una situazione di
rivoluzione culturale costante. A chi gli chiede di Cuba risponde di
non amare gli ospedali, neppure quelli cubani, anche se Cuba è un
Paese socialista: «Io penso che a vent’anni dalla rivoluzione
l’ospedale psichiatrico di Cuba non dovrebbe esserci più». Ma
esprime così una cautela che nasconde ancora una speranza: «Io
non voglio criticare la psichiatria cubana, penso che è molto
semplice criticare le cose se non si conosce il contesto culturale,
sociale, politico nel quale queste contraddizioni avvengono; come è
molto facile criticare i gulag sovietici anche se li critico io per primo».
Basaglia sa bene che cosa possa significare per lui, cittadino e
psichiatra italiano, rivoluzione: continuare a vivere le contraddizioni
del sistema. Più tardi, ancora in Brasile, ancora a Belo Horizonte,
ricorda la «lunga marcia attraverso le istituzioni», «per citare una
frase molto nota» dice, strategia proposta in Germania da Rudi
Dutschke, slogan e progetto chiave di una stagione almeno del
Sessantotto italiano: scuola, università, ospedali, carceri,
naturalmente manicomi, luoghi di oppressione e di manipolazione
autoritaria, che si potevano di volta in volta aggredire secondo
medesimi meccanismi di disobbedienza, di rifiuto, dell’autorità, di
emancipazione. Insiste Basaglia: «O noi accettiamo questa lunga
marcia insieme con le grandi masse che vogliono cambiare il mondo
o altrimenti la nostra sarà una lotta personale, una lotta
individualista, borghese e nient’altro».
Sempre a San Paolo, nel giugno del 1979, all’Istituto Sedes
Sapientiae, si fa avanti un giovane, che come tanti altri ripropone la
questione: se la soluzione non stia solo in un cambiamento del
sistema politico, se tutto il resto non debba accadere di
conseguenza. Altrimenti, spiega il giovane, si ricade sempre nello
stesso circolo vizioso: dalla repressione alla malattia, dalla malattia
all’ospedale, dall’ospedale alla terapia, dalla terapia al reinserimento
sociale, dal reinserimento sociale alla repressione così via. Basaglia
obietta che la società non può essere cambiata da un giorno con
l’altro: «È la storia dell’uomo, è la storia di quest’ultimo secolo…
Abbiamo visto la Rivoluzione d’ottobre, che avrebbe dovuto
cambiare il mondo…» C’è stata la rivoluzione cinese, c’è stata Cuba.
Ogni volta abbiamo sperato che la situazione di questi paesi
cambiasse. Quante illusioni, quante delusioni: «Parliamo dei
manicomi e della repressione nei nostri paesi e sappiamo che nei
paesi socialisti esistono i gulag, ci sono persone represse in senso
manicomiale, manicomi terribili e persone che non possono
esprimere il loro dissenso». Che fare, allora? Tutti a casa.
Chiudiamo il libro della speranza e torniamo tutti a casa? La risposta
di Basaglia è lunga. Dobbiamo cambiare questa società, che uccide
chi è malato. Tuttavia non possiamo cullarci nell’illusione che una
volta cambiata la società tutto s’aggiusti, che noi tutti si possa vivere
meglio di quanto viviamo oggi. «Certamente – dice Basaglia –
vivremo meglio… ma ci sarà sempre una nuova contraddizione fra
quello che siamo e quello che vorremmo essere, fra quella che è la
nostra oggettività e la nostra soggettività. L’uomo è sempre sconfitto
a questo livello: non ottiene mai di esprimere ciò che vuole». Allora,
il resto, se va bene, è ricerca di espressione, continua. Nella
sconfitta, ci può salvare la radicalità dei nostri tentativi: «Se non
avessimo questa visione, questa immaginazione di futuro sarebbe
meglio suicidarci tutti. Questa sarebbe la logica conseguenza del
pessimismo della ragione…» Al pessimismo della ragione di chi si
arrende all’impossibilità di esprimere ciò che si vuole, contrappone
l’ottimismo della pratica, del fare quotidiano perché solo così
potremo sconfiggere dittatori, militari, medici.
Con un interlocutore di qualche minuto dopo, stessa conferenza,
stessa scena, un giovane che gli parla di «rivoluzione culturale
permanente all’interno della società socialista», Basaglia dapprima
replica accettando lo stesso linguaggio: «Penso che oggi il buon
marxista si pone il problema della pratica marxista, che assume
come priorità la soggettività nella lotta quotidiana in mezzo alle
contraddizioni del capitale». Poi, concretamente, risolve la questione
invitando a «fare»: «Per esempio, se tutti gli operatori qui presenti
cominciassero a fare un lavoro di trasformazione istituzionale,
indipendentemente dal loro potere, sarebbe già un grande passo
verso la conquista del socialismo».
Qualche giorno dopo, stavolta a Rio de Janejro, gli chiedono di
libertà sessuale. C’è un abisso tra la domanda di libertà e la pseudo
libertà che il potere concede, mistificazione di libertà. Viviamo in una
società in cui ogni conquista di libertà può rovesciarsi in una nuova
oppressione: più che negare il potere cerca di usare, blandisce,
sfrutta, conquista. «Capire questo è importante, ma non significa che
dunque non si può far nulla dato che il potere recupera tutto, come
sembra pensare in questo momento una certa sinistra europea. Se
questo fosse vero dovremmo dire che le Brigate Rosse hanno
ragione, cosa che invece non è affatto vera, perché sono anch’esse
manipolate dal potere…»
È difficile in situazioni come queste trovare soluzioni giuste che
siano anche soluzioni reali. C’è sempre il pericolo di cadere in
trappola, ma dobbiamo reagire e «il nostro sforzo deve essere quello
di lasciare il discorso comunque aperto…» Una sfida, in nome della
libertà, riconoscendo che non esiste un traguardo ultimo, assoluto,
ma che bisogna continuare, lasciando «il discorso comunque
aperto», contro il pessimismo della ragione, contro «il pessimismo
degli intellettuali, che pensano che non si può far nulla, che si può
solo scrivere libri».
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«Alla fine del ’69 riuscimmo a far venire Basaglia a Parma.» Mario
Tommasini ricorda l’arrivo di Basaglia a Colorno, nel grande
manicomio ospitato dal 1873 nella reggia di Maria Luigia d’Austria e
in un’ala del convento di San Domenico.
A Parma l’amministrazione provinciale è di sinistra. Non ci sono
resistenze alla sua venuta, come testimonia Tommasini, ma non ci
sono neppure appoggio e sostegno. Indifferenza, invece, diffidenza:
la novità rompe equilibri solidi, convinzioni vecchie che nessuno mai
prova a mettere in discussione, la cultura degli amministratori
declina verso una idea assistenzialista o soltanto sembra guidata dal
desiderio di allontanare da sé un problema che si considera senza
altra soluzione al di fuori del manicomio.
Tommasini, che non sa di psichiatria, che non coltiva teorie, spirito
libero e battagliero, ispirato semplicemente dalla sua sensibilità,
dalla sua umanità, non si ferma alla porta del grande manicomio.
Entra, percorre i corridoi, attraversa i larghi cameroni. Colorno gli si
presenta, prigione senza pace per ricoverati dalle mille storie, e
racconta con concretezza ed evidenza come vanno le cose a
Colorno: «C’erano quattro medici e centosessanta infermieri per
milleduecento malati. Quale cura si poteva offrire? Si spendevano
dieci milioni in psicofarmaci, centottanta lire al giorno per il vitto –
mattina, mezzogiorno e sera, la roba più marcia veniva mandata lì –
le persone erano nude, gli stanzoni senza vetri, il riscaldamento
insufficiente». La politica si era mostrata insensibile, reticente,
l’esperienza di Gorizia era nota ma gli amministratori la
consideravano un caso lontano, una prova unica senza possibilità di
ripetizione, confusa e velleitaria. Mettere in discussione il manicomio
e la psichiatria? Negare la malattia? Confutare la scienza medica? A
Colorno come sarebbe andata? Tommasini descrive, mette assieme
quel mosaico del dolore e dell’infamia e il consiglio provinciale vota
all’unanimità «una mozione in cui si impegnava a umanizzare
l’ospedale e a dimettere chi poteva essere dimesso». Incontra altre
resistenze l’assessore provinciale, perché il manicomio è un cancro
e a tenerlo desto il cancro, per interesse, sono tanti: i medici, legati
alla vecchia cultura, paurosi di fronte a qualsiasi cambiamento, gli
infermieri perché l’ospedale psichiatrico è l’unica industria di Colorno
e dà lavoro, le famiglie degli infermieri, i fornitori che smerciano
carne e verdure marce: «L’ospedale esisteva perché c’erano i malati
e invece pareva esistere in funzione di medici e infermieri».
Tommasini sperimenta in proprio quanto Basaglia sostiene: partiti e
sindacati si occupano soltanto delle condizioni salariali del personale
infermieristico e proprio in quegli anni si passa dai turni di
ventiquattro a turni di otto ore e poi di sei, «conquiste frutto di
battaglie giuste, sacrosante, mai legate però al benessere dei
ricoverati».
I ricoverati restano al loro posto, rinchiusi, dimenticati dalla società
civile, ma nell’esistenza di alcuni di loro compare a un certo punto la
fattoria di Vigheffio, un podere e un cascinale che aprono una porta
sul mondo. A sei chilometri da Parma. Podere e cascinale sono di
proprietà dell’amministrazione provinciale. Il cascinale sarebbe
dovuto diventare istituto per handicappati gravi, ma rimane un
cascinale malandato. Tommasini intuisce che il cascinale sarebbe
potuto diventare qualche cosa di diverso da un altro reclusorio, che
potrebbe rappresentare una casa e un lavoro: «La fattoria era allora
disastrata, vuota, abbandonata da anni. Ricordo che andammo a
vederla una sera, al buio, anche con Franco e Franca Basaglia.
Sistemammo alla meglio una stanza con due brande: non c’era
l’elettricità e usavamo candele. Nessuno ne sapeva niente…» Poi
arrivano il muratore, l’imbianchino, l’elettricista. Vigheffio diventa la
casa ritrovata del partigiano Paolo Moreschi e di Martino, il
contadino, completamente sordo, venticinque anni in manicomio,
Moreschi e il contadino dimessi grazie ad un articolo della legge del
1904 (a condizione che qualcuno se ne assumesse la
responsabilità). Vigheffio diventa mese dopo mese un’azienda
agricola vera, dove altri ricoverati ritrovano un posto. «Venne l’estate
e al momento della raccolta quelle biolche resero più dei poderi
vicini… i contadini, che avevano sempre guardato la fattoria con
sospetto e con paura, cominciarono a vedere i manicomiali con altri
occhi, anzi con gran rispetto, perché si rendevano conto che
lavoravano con cognizione, curavano i pochi animali che c’erano,
tenevano pulita la casa. Da quel momento ebbe inizio tra loro una
collaborazione stretta».
La fattoria di Vigheffio prospera, viene ristrutturata: si comincia con
un investimento regionale di 140 milioni, poi s’adoperano i volontari,
prestano le loro idee e la loro manualità, la loro passione, le aziende
offrono mattoni e mattonelle, Salvarani, quello delle cucine, s’occupa
dei tetti, di rimboschire, del parco giochi per i bambini. Intanto si
aprono altri centri, si affittano appartamenti per dar casa ad altri
pazienti dimessi. Si creano cooperative di lavoro.
A Colorno, Franco Basaglia, preceduto da Antonio Slavich e da
Lucio Schittar, cerca di concludere quanto avviato a Gorizia. Per
Basaglia si aprono anche le porte dell’università. Gli affidano un
corso di igiene mentale, incarico che mantiene per otto anni: «L’aula
– come testimonia nelle sue Memorie di uno psichiatra Fabio
Visintini – era sempre affollattisima, come non lo era mai prima». Ma
resiste la diffidenza degli amministratori. Lo ricorda anche Basaglia
ai suoi ascoltatori di Rio de Janeiro: «Sono stato isolato come un
appestato. Fortunatamente avevo molti allievi che frequentavano le
mie lezioni e così spero di aver “corrotto” un bel po’ di gente».
Anche se la via è aperta, se molti malati tornano a un’esistenza
normale, nella fattoria o nelle case, Basaglia e Tommasini
continuano a ritrovarsi di fronte a un ostacolo che pare insuperabile:
la pigrizia intellettuale, le paure, il pregiudizio di un ceto politico,
anche a sinistra, che non sa scorgere il valore di un cambiamento,
che teme le novità. Quell’inerzia, a sinistra, che confina con
l’opposizione, è il cruccio di Tommasini, che ancora nel 2005, poco
prima di finire in un letto d’ospedale (muore nella primavera del
2006) scrive su «l’Unità» (19 maggio 2005) a proposito di Basaglia:
«Oggi lo celebriamo, ma mai in nessun luogo per Franco Basaglia fu
difficile lavorare come lo fu a Colorno e in Emilia Romagna…»
Tommasini rievoca un incontro a Bologna con l’assessore
regionale, comunista. Riascoltiamo le parole che l’assessore
regionale rivolge a Basaglia: «Caro professore, lei è un bravo
tecnico e sono certo che darà un grande contributo per cambiare il
modo di trattare con i malati di mente. Però lei a Bologna e in Emilia
Romagna non verrà mai a lavorare. Da noi, qui, in Emilia, sia ben
chiaro, i tecnici devono fare ciò che diciamo noi amministratori. Qui
vogliamo tecnici che siano esecutori. Lei è un uomo troppo libero.
Per questo motivo qui non la vogliamo». Sembra di ascoltare
esattamente quanto, da intellettuale e da tecnico, citando Gramsci,
Basaglia rifiutava del rapporto con il potere, rapporto che gli viene
riproposto negli stessi intollerabili termini di sudditanza,
conformismo, omologazione, da un dirigente comunista nella rossa
Bologna. Pasolini scopre, qualche anno dopo, «la funzione
conservatrice che qui ha avuto il Partito comunista», che descrive in
alcune pagine delle Lettere Luterane. È la città stessa che parla al
poeta, suo ospite trent’anni prima, oggi sorpreso dalla mortificazione
delle identità, dall’assimilazione acritica, immemore di ogni storia, di
costumi di una società consumistica, dall’esercizio in assemblee,
autogestioni, partecipazioni, di sembianze della democrazia: «Ma io
so che ciò che più di ogni altra cosa ti rende ansioso e quasi
angosciato per quanto riguarda il mio fenomeno, è il fatto che io
ponga problemi riguardanti lo sviluppo consumistico transnazionale
a una giunta comunista regionale. La quale nel risolvere quei
problemi, li accetta. E accettando quei problemi– nella pratica che è
sempre una teoria ancora non detta – essa accetta anche l’universo
che li pone: cioè l’universo della seconda e definitiva rivoluzione
borghese. Ciò che una città italiana è diventata – sia bene o sia male
– è qui accettato, assimilato, codificato. Nel momento in cui sono,
insieme, una città sviluppata e una città comunista, non solo sono
una città dove non c’è alternativa, ma sono una città dove addirittura
non c’è alterità. Prefiguro cioè l’eventuale Italia del compromesso
storico: in cui nel migliore dei casi, cioè nel caso di un effettivo
potere amministrativo comunista, la popolazione sarebbe tutta di
piccoli borghesi, essendo stati antropologicamente eliminati dalla
borghesia gli operai…»
E come se Pasolini denunciasse una cultura congelata dallo
sviluppo e dal progresso, condannata alla violenza del silenzio e del
rifiuto di fronte a ogni «alterità».
Anche Basaglia, Tommasini, i loro matti rappresentano una
«alterità». Dunque… «Non si sta in paradiso – conclude l’animoso
assessore – a dispetto dei santi. Ricordo che gli controllavano
persino le telefonate, a lui, che era in contatto con il mondo perché le
sue esperienze avevano varcato ogni confine». Si volta l’ultima
pagina: «Se ne andò. E fece bene, perché un tecnico non può
essere sottomesso a un amministratore. Se è un bravo tecnico e se
ha dignità».
La direzione passa a Ferruccio Giacanelli, che prosegue nell’opera
di de-istituzionalizzazione (come si può dire: smantellare l’istituzione,
cancellare le sue regole, abbattere le sue porte?). Colorno però
continua a ospitare i suoi malati fino agli anni Novanta.
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