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© 2012 Baldini&Castoldi s.r.l. - Milano

© 2014 Baldini&Castoldi s.r.l. - Milano

ISBN 978-88-6865-484-9

Art director Mara Scanavino


Graphic designer Alberto Lameri
In copertina © Shutterstock

www.baldinicastoldi.it

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ORESTE PIVETTA
Franco Basaglia
il dottore dei matti
La biografia
INDICE

INTRODUZIONE
1. PSICHIATRA E RIFORMATORE
2. CAMPO SAN POLO
3. L’INVENZIONE DI GORIZIA
4. LA LUNGA MARCIA
5. LE ULTIME SFIDE
6. PRENDERE IL VOLO
7. UNA LEGGE E «OLTRE LA LEGGE»
LIBRI E ALTRO
«Io li ho visti nudi, coperti di stracci, senz’altro che un po’ di
paglia per proteggersi dalla fredda umidità del selciato sul
quale sono distesi. Li ho visti grossolanamente nutriti,
privati d’aria per respirare, d’acqua per spegnere la loro
sete, e delle cose più necessarie alla vita. Li ho visti in
balia di veri carcerieri, abbandonati alla loro brutale
sorveglianza. Li ho visti in stambugi stretti, sporchi,
infetti, senz’aria, senza luce, rinchiusi in antri dove si
temerebbe di rinchiudere le bestie feroci che il lusso
dei governi mantiene con grandi spese nelle capitali.»
Jean-Étienne Dominique Esquirol,
Des maladies mentales, 1818

Le interessa più il malato o la malattia?


«Oh, decisamente il malato!»
Sergio Zavoli, Diario di un cronista, 2002

«È troppo facile all’establishment psichiatrico definire il


nostro lavoro come privo di serietà e di rispettabilità scientifica.
Il giudizio non può che lusingarci, dato che esso ci accomuna
finalmente alla mancanza di serietà e di rispettabilità da
sempre riconosciuta al malato mentale e a tutti gli esclusi.»
Franco Basaglia, L’istituzione negata, 1968
INTRODUZIONE

Il dottore nella storia

Franco Basaglia, lo psichiatra, il dottore dei matti, resta uno dei


personaggi più importanti nella storia della cultura e della società
italiana. Un personaggio che ha suscitato attorno alla propria opera
un amplissimo consenso, ma anche molte critiche, consenso e
critiche tutt’altro che esauriti, legati a una legge, la 180, ancora
conosciuta come legge Basaglia, che condusse alla chiusura dei
manicomi e che fu approvata nel 1978, pochi giorni dopo il
ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel portabagagli della
Renault rossa parcheggiata in via Caetani (e pochi giorni prima
dell’approvazione di un’altra importante ma contestata legge, quella
sull’interruzione della gravidanza).
Dopo una fortunata adolescenza a Venezia, Franco Basaglia visse
la sua storia tra l’antifascismo, le speranze del dopoguerra, lo studio,
l’avvio di una possibile carriera universitaria, la direzione degli
ospedali psichiatrici, a Gorizia, a Parma, quindi a Trieste, infine per
breve tempo a Roma. Visse all’interno dei grandi mutamenti che
coinvolsero la società e la cultura italiane, in particolare in un periodo
che s’aprì nel segno dei governi di centrosinistra e si chiuse con i
governi di solidarietà nazionale, tra grandi lotte operaie e
studentesche, tra le bombe stragiste e il terrorismo, che
contrastarono una spinta riformista, che si esaurì negli anni Ottanta
e che mai più sarà ritrovata.
Tra Gorizia e Trieste, Franco Basaglia, guidando un gruppo di
giovani psichiatri, realizzò, sperimentandola di giorno in giorno, una
radicale riforma dell’istituto manicomiale, dopo aver denunciato
l’orrore della segregazione e dei mezzi coercitivi comunemente
utilizzati o di presunti sistemi di cura (massiccio in quegli anni l’uso
dell’elettroshock, imposto con nauseante violenza). Fu una riforma
ispirata non solo a principi di umanità, ma soprattutto al
riconoscimento dei diritti del malato, della sua identità, della sua
appartenenza alla società civile, contro l’annullamento della sua
personalità, contro l’emarginazione, che negavano qualsiasi
possibilità terapeutica.
Chi vorrà leggere queste pagine non pensi di incontrare un saggio
breve sulla psichiatria o sulla storia della psichiatria, nemmeno un
bilancio su trenta e più anni della legge 180, tanto meno la ripresa di
una polemica tra psichiatria e antipsichiatria. Prima o poi s’imbatterà
nei nomi di psichiatri del passato e in quelli di antipsichiatri. Molti di
questi, gli ultimi negli anni, più vicini a noi, attori in una stagione non
troppo lontana, assai combattiva, una stagione di molti fronti e di
molti protagonisti per abbattere o rinnovare istituzioni, tra le quali il
manicomio, appunto, e poi le carceri, i brefotrofi, gli ospizi, infine gli
stessi ospedali psichiatrici giudiziari (sopravvissuti ben oltre il
secondo millennio). I nomi che ricorrono, da un secolo all’altro,
vanno, tanto per offrire la concretezza di un esempio, da Chiarugi a
Pinel, a Tuke, a Tosquelles, da Maxwell Jones a Ronald Laing e a
David Cooper.
Per quanto riguarda l’antipsichiatria dovrebbero bastare le parole
di Franco Basaglia: «Io non ho mai detto che la malattia mentale non
esiste: io critico il concetto di malattia mentale, non nego la follia, la
follia è una situazione umana. Il problema è come affrontare questa
follia, quale atteggiamento noi psichiatri dobbiamo avere di fronte a
questo fenomeno umano, come possiamo rispondere a questo
bisogno». Basaglia dunque non negò mai la malattia come
fenomeno concreto di sofferenza. Semmai denunciò il fallimento
tragico e storico di una scienza «asservita e imbrogliona» (cito
Agostino Pirella, da Il giovane Basaglia e la critica della scienza,
«Sapere» 1982), debole e rinunciataria, votata prima a elencare (il
riferimento è a Emil Kraepelin, lo psichiatra tedesco considerato il
padre delle moderne classificazioni delle patologie psichiatriche,
riordinatore della nosografia psichiatrica) e poi a reprimere (chiunque
alzi solo una mano e apra bocca per dire: «Guardate che io
sono…»), scossa solo dall’arrivo di nuovi psicofarmaci, i neurolettici
degli anni Cinquanta, le «pasticche». «Sempre, sempre con le
bende, stretti, legati; ora con la chimica», riconosce Mario Tobino, lo
scrittore psichiatra accanito oppositore della chiusura dei manicomi,
in un racconto sul «Corriere della Sera» del 1980, Psicofarmaci e
malati in libertà. Il carrellino delle cure. Anche Giovanni Jervis, che fu
compagno di Basaglia a Gorizia e poi suo severo critico, sosteneva
(confermandolo nel suo ultimo libro-dialogo con Gilberto Corbellini,
La razionalità negata, edito nel 2008 da Bollati Boringhieri) che non
si sarebbe mai potuto attribuire a Franco quell’etichetta, quel
pensiero antipsichiatrico, anche se le sue riflessioni avrebbero
potuto far nascere questo sospetto, inquinate ormai dall’estremismo
ideologico dei tempi, in particolare dopo Gorizia, nell’insistere con
tenacia sull’esigenza di combattere ogni forma di reclusione asilare,
nella critica alla psichiatria tradizionale e alla tradizione universitaria,
e poi nella stessa insistita denuncia della natura classista della
società.
Un anno prima di morire, a San Paolo del Brasile, Basaglia è
chiaro, didascalico, quando dal pubblico uno spettatore gli chiede se
la follia sia soltanto un prodotto sociale: «Se pensassi che la follia è
solo un prodotto sociale sarei ancora all’interno di una logica
positivista. Dire che la follia è un prodotto biologico oppure organico,
un prodotto psicologico o sociale, significa seguire la moda di un
determinato momento. Io penso che la follia e tutte le malattie siano
espressione delle contraddizioni del nostro corpo, e dicendo corpo,
dico corpo organico e sociale. La malattia, essendo una
contraddizione che si verifica in un contesto sociale, non è solo un
prodotto sociale, ma una interazione tra tutti i livelli di cui noi siamo
composti: biologico, sociale, psicologico…»
Alla fine, non credo sia questo stare o non stare a un polo o
all’altro di una esausta polemica culturale, inasprita da un senso
comune legato a timori e pregiudizi, la ragione per riavvicinarsi alla
figura di Franco Basaglia e alla sua storia. La sua figura è stata
spesso consegnata nella conoscenza popolare, all’immagine di
uomo e dottore buono, sensibile e caritatevole (come lo si è visto in
un recente, peraltro dignitoso, film televisivo, C’era una volta la città
dei matti, di Marco Turco), di buon utopista che ha liberato i matti,
mentre nella discussione dei dotti, è stata ridotta al profilo di
interlocutore per una schiera di pensatori, filosofi e psichiatri, legati
da parole suggestive, ma di ostica comprensione, fenomenologia o
esistenzialismo o psicopatologia, da Husserl, Heidegger, Jaspers
giungendo a Minkowski, Binswanger, Merleau-Ponty, di cui ben poco
si sa tra i lettori meno accademici (a parte qualche notizia sul
nazismo dell’autore di Essere e tempo).
Rimanendo nel campo, Basaglia, il «filosofo» (così lo chiamava
con evidente ironia, il primo maestro, il professor Giovanni Battista
Belloni, il biologista direttore della clinica di Padova), nutriva
un’autentica passione per Sartre, che varie volte aveva incontrato. Si
capisce tanta attenzione, tenendo conto del continuo lavorio attorno
al tema della libertà del filosofo francese, alla sua idea di impegno
culturale, immaginando sempre «quell’uomo condannato a essere
libero». Mi stupisce, invece, che Basaglia non abbia mai preso in
considerazione, neppure un cenno, il «rivale» algerino di Sartre,
meno riconosciuto dalla moda del tempo ma alla fine – mi sembra –
più intellettualmente longevo e per noi necessario, cioè Albert
Camus, lo «straniero», un altro isolato, emarginato, straniato, per
conseguenza delle sue origini, francese sì, di genitori francesi, ma
nato in Nordafrica.

L’uomo in rivolta

L’uomo in rivolta di Camus, la rivolta che è «secolare volontà di non


subire» nella lotta al male, «madre delle forme, sorgente di vita
vera», che «ci tiene ritti nel moto informe e furioso della storia»,
sembrerebbe offrire spunti di riflessione a un combattente come
Basaglia, che incontra invece un altro intellettuale, legato alla
vicenda algerina e alla lotta di liberazione algerina, Frantz Fanon.
Quasi coetaneo, nato nel 1925 in un’altra colonia (la Martinica), figlio
di antichi schiavi, Fanon diventa psichiatra, prima di scrivere un libro
di culto nel nostro Sessantotto, I dannati della terra. La «rivolta» è
anche di Fanon: prima individuale nella sua isola di fronte
all’arrogante presenza francese, poi collettiva in terra di Francia nella
resistenza contro il nazismo, poi nel manicomio di Blida, in Algeria,
contro la doppia condanna che colpiva gli internati, malati mentali e
colonizzati, la doppia espropriazione dei diritti.
Fanon lascia l’ospedale, per entrare nel Fnl, il Fronte nazionale di
liberazione algerino: lui, ci ricorderà Basaglia, ha potuto scegliere la
rivoluzione, noi per ragioni evidenti ne siamo impediti. Ma la rivolta
può seguire altre strade e comunque una: quella di una continua
riconsiderazione in senso etico e in senso politico del proprio lavoro,
qualunque sia la circostanza.
È un dubbio personale, quello sul mancato incontro con Camus,
quasi solo una curiosità, che conta ovviamente poco e che
soprattutto non indebolisce la certezza che Basaglia sia stato un
grande intellettuale, come si intende in genere, e cioè intellettuale in
virtù delle letture e delle frequentazioni, degli studi approfonditi, della
comprensione e dell’elaborazione. Ma credo che lo sia stato anche
in un senso ben più alto, come s’usa poco dalle nostre parti italiane,
e non solo per quanto aveva imparato da Gramsci, ma soprattutto
per quanto aveva arricchito, nel «lavoro», quel suo sapere critico di
valori morali e per quanto aveva messo in pratica. Chi vorrà leggere
questo libro, mi auguro possa capire quanto quella parola, «pratica»,
contasse per Basaglia e quanto, proprio per questa consapevolezza
di un «dover fare», egli rappresentasse la forma e la sostanza di un
intellettuale anomalo, paragonabile a pochi altri, capace di
accantonare la sua dottrina, per misurarsi con la realtà senza
approfittare di varchi ideologici, avvertendo l’esigenza di cambiare la
realtà, quando la realtà ci fa indignare, senza neppure mai tentare di
dedurre da quella «pratica» una scienza immobile e tantomeno un
inventario di regole, anche quando questo procedere aveva condotto
al «successo» (espressione estranea al vocabolario di Basaglia).
Vengono in mente le parole di don Lorenzo Milani (citate da Adele
Corradi in un libro-diario, testimonianza della sua pratica nella scuola
di Barbiana): che togliere spazio alle opere per pregare fosse una
perdita di tempo, che si dovesse anche pregare tenendo conto delle
circostanze e delle urgenze, che se vi fosse stata urgenza
bisognasse agire, infine che «sarà urgente pregare quando a tutti
sembrerà importante operare».
In questo senso mi azzardo a dire che Basaglia sia stato uno dei
grandi intellettuali del secolo passato, poco considerato in fondo.
Meraviglia, a proposito, che Pasolini, pur avendolo conosciuto a
Gorizia, ne riferisca nei suoi scritti solo due o tre volte e sempre con
una medesima, ricalcata, espressione di tre o quattro parole. Una
volta scrivendo sul settimanale «Tempo» nel 1968, a proposito di
Vietcong, definiti contadini ed «eroi». «Ho messo tra virgolette la
parola “eroi”, perché come mi ha raccontato Basaglia, nel suo
manicomio, una ricoverata ha detto che gli eroi sono un prodotto
delle società repressive» (19 ottobre 1968). Un’altra volta a
proposito di Panagulis «eroe» nella Grecia dei colonnelli, cioè nella
Grecia della spietata repressione («Tempo», 7 dicembre 1968). La
terza volta, per la morte di Jan Palach, esplicitamente ricordando il
debito accumulato: «Nel corso di questa rubrica ho voluto citare due
volte la frase di una ricoverata nel manicomio di Gorizia, diretto da
Basaglia…» («Tempo», 8 marzo 1969). Beato quel popolo che non
ha bisogno di eroi o sventurata la terra che ha bisogno di eroi, alla
maniera di Bertolt Brecht: di eroi costretti a battersi contro il male.
Si dovrebbe contare un’altra citazione di Pasolini: quando,
polemizzando con Adriano Sofri a proposito di un suo testo teatrale,
Calderòn (rifacendosi a La vita è sogno di Pedro Calderón de la
Barca, mutuandone i nomi e la tematica del sogno), definisce due
personaggi, due medici, si chiamano entrambi Manuel,
rappresentanti di una posizione «borghese gauchista», «psichiatri
alla Basaglia». Con una precisazione: «I gauchisti per anni
(“Gauchismo – si dice in Calderòn – malattia verbale del marxismo!”)
hanno fatto del Potere (chiamato Sistema) l’oggetto di un transfert:
su tale oggetto essi hanno scaricato tutte le colpe, liberando così,
per mezzo di un meccanismo estremamente arcaico, la propria
piccolo-borghese “coscienza infelice”» («Tempo», 18 novembre
1973). Non può dirsi questo per Basaglia che non può certo
condividere con quegli «psichiatri alla Basaglia» quel «transfert» e
quell’infelicità piccolo-borghese. Basaglia ironizzava sul pessimismo
degli intellettuali, esperti in legittimazione (come li definì Chomsky in
Crimini di pace), stanchi e impassibili all’idea che non si possa far
nulla se non scrivere libri, contrapponendo la convinzione che il
cambiamento parta da noi, da un modo di essere e di fare
soprattutto. L’eccentricità di Basaglia avrebbe dovuto incontrare
quella di Pasolini, affini entrambi nel rifiutare la funzione
fondamentale attribuita in ogni epoca agli intellettuali, orientare e
disciplinare le masse, tacitarne il disagio e le nevrosi, affini entrambi
nel riconoscere, su tutto, il valore della libertà.
Neppure un riferimento a Basaglia si ritrova nelle migliaia di pagine
di Italo Calvino, di un anno più giovane, cronista dei suoi tempi
(anche nel senso stretto di giornalista). Ma Calvino aveva paura
della follia, che allontanava da sé con il silenzio.

Il carcere fascista

Ci sono alcuni momenti nell’esistenza di Basaglia che andrebbero


ricordati, segnalati da un cerchio rosso. Uno di questi sta negli ultimi
mesi della guerra, tra la fine del 1944 e il 1945, quando Basaglia,
figlio di una ricca famiglia veneziana, universitario a Padova, si fa
militante antifascista, s’impegna nella propaganda, viene arrestato
per la delazione di un compagno, conosce il carcere. Conosce la
violenza del carcere, le botte in carcere, l’odore del carcere, la fame
nel carcere. Violenza odore fame che ritroverà entrando a Gorizia,
relegato in un manicomio il cui muro di cinta fa da confine con la
Jugoslavia, dopo aver deciso d’abbandonare una possibile, brillante
carriera universitaria, forse appena rallentata dai giochi accademici o
dalla diffidenza, dallo scetticismo che suscitano certe sue letture,
poco raccomandabili secondo chi vegeta tra spiritualismo e
biologismo. La scelta di Basaglia è appunto per quella «pratica», che
gli consentirà di dare un significato e un valore alla sua conoscenza
e di arricchirla. Sceglie coraggiosamente, come giovanissimo di
fronte al fascismo, la prova e il rischio di una battaglia. La affronta
subito, quando varcando la soglia di Gorizia ha la sensazione di
rivivere i giorni della galera, e intuisce che nel manicomio, come
dietro le sbarre di Santa Maria Maggiore, un’offesa totale sia recata
alla libertà e alla dignità dell’uomo, e che quindi il primo passo,
inevitabile per lui, sia restituire libertà e dignità, sapendo che non
basta aprire un varco nella cella, ma che occorre sottrarre l’uomo
alla miseria cui lo ha costretto la divisione in classi della società,
ferendo principi di eguaglianza e di giustizia. Intuisce che poco gli
valgono i libri studiati: che cosa ci faccio qui, è il primo interrogativo,
un colpo decisivo a tutte le teorie e le classificazioni della psichiatria
studiata all’università. Ma la «scelta» è netta: «Non è vero che lo
psichiatra ha due possibilità, una come cittadino e l’altra come
psichiatra. Ne ha una sola: come uomo» (citato da Maria Grazia
Giannichedda, nell’introduzione a L’utopia della realtà).
Franco Basaglia inizia la sua carriera manicomiale nei primi anni
Sessanta, la «sua» legge viene approvata nel 1978. Muore nel 1980.
Davanti a lui, dal primo ingresso in un manicomio, dopo la clinica
universitaria, giorni tumultuosi, che consumano gli ultimi slanci della
ricostruzione, il boom economico, la nascita del centro sinistra, la
grande migrazione interna, i primi bagliori del nostro Sessantotto, le
lotte operaie, Piazza Fontana e le bombe fasciste, il terrorismo,
l’oscuro attacco golpista alla democrazia, la crisi della Democrazia
Cristiana, i successi elettorali del Pci, la grande speranza di
cambiamento, il compromesso storico, il governo di solidarietà
nazionale, fino alla morte di Aldo Moro. Rinnovare è anche il
traguardo, in quei momenti, di numerosi colleghi di Basaglia, giovani
psichiatri come lui che avvertono l’arretratezza italiana (rispetto ad
altre esperienze inglesi o francesi) e come lui denunciano l’orrore dei
manicomi. Ne scrivono i giornali. Immagini drammatiche, per la
prima volta, compaiono nei giornali e nei cinegiornali e poi nei libri. Il
primo fu Gli esclusi, nel 1969, di un giornalista e fotografo
napoletano, Luciano D’Alessandro, ma le prime immagini raccolte in
un manicomio italiano, quello di Nocera Inferiore, erano comparse
dieci anni prima nel settimanale «Le Ore». Si fanno i nomi di Carlo
Manuali (a Perugia), Sergio Piro (a Nocera Superiore), Edoardo
Balduzzi (a Varese), Ferdinando Barison (a Padova), Graziella
Magherini (a Firenze). Molti esperimenti, molte novità, sulla scia del
rifiuto di uno stato di abbandono e di morte nel manicomio, di
esperienze maturate all’estero, dalla comunità terapeutica di
Maxwell Jones alla francese «politica di settore» (meno ospedale
centralizzato, più assistenza nel territorio, attraverso comunità nelle
quali il malato ritrovi cure e soprattutto legami e quindi una strada
verso una condizione di libertà).
Basaglia va oltre: il manicomio (a Trieste) lo chiude, dopo aver
progettato, sperimentato, costruito una rete di assistenza. Cancella
quel luogo «a scambio zero» dopo aver ripristinato lo «scambio» con
la città. Senza neppure una legge a suo conforto. Chiude il
manicomio, toglie di mezzo mura e sbarre e catene che annientano,
che deformano, metafora di una scienza che ha cercato di
classificare la malattia e di inventare strumenti di coercizione
conseguenti, negando l’incontro. L’incontro come occasione
consentita allo psichiatra per trovare gli elementi indispensabili ad
accompagnare verso la società un individuo che da essa è stato
respinto. Per curare un individuo, il che significa «restituirgli le sue
integre possibilità esistenziali». Non calmarlo, non sedarlo, non
addomesticarlo: restituirgli dignità e responsabilità, diritti e doveri.
Quella tra anni Sessanta e anni Settanta è una stagione di grandi
riforme. La legge 180 e la legge 194 (sull’interruzione della
gravidanza), approvate proprio pochi giorni dopo il ritrovamento del
cadavere dello statista democristiano, sono le ultime. Poi più niente
o quasi. Anzi quelle riforme subiscono via via assalti e
condizionamenti, tentativi di condizionarne o cancellarne il senso.
Ancora, oggi a trenta e più anni di distanza. Se ne avrebbe
dimostrazione, semplicemente leggendo le cronache parlamentari.
Sono decine le proposte di legge inventate e presentate per aggirare
i principi della 180. Sono offensive che confermano quanto, con il
suo lavoro, Basaglia insegna: quanto insomma non si possa dar
tregua ai mali del mondo e alla nostra eventuale aspirazione a
batterli, quanto si debba lottare perché l’impossibile possa diventare
possibile.
Questo libro è anche la rapida cronaca di un periodo storico, di
una «istituzione totale» come il manicomio e di altre «istituzioni
totali» nel corso di un ventennio del quale Basaglia sa leggere
perfettamente cultura e politica (mi chiedo ad esempio quanto vi sia
nella «sua» comunità goriziana dell’esperienza di Maxwel Jones e
quanto invece di uno spirito del tempo, solidaristico e nemico
dell’individualismo, spirito che s’esalta in quegli anni di lotte e pure di
conquiste); un ventennio nel quale sa ritrovarsi con autentico spirito
rivoluzionario, per cambiare le cose che non vanno, non certo per
costruire un nuovo potere. La sua polemica con il «potere» è
rigorosa, durissima, ma non ammette «salti» né scorciatoie. Sa di
avere davanti a sé una lunga marcia attraverso le istituzioni, che
sarà anche lenta, usa gli strumenti della democrazia, la parola, la
comunicazione, cerca alleanze, cerca di «convincere» anche i suoi
nemici. È un autentico riformista. Riformista non significa moderato.
Quando viene approvata la legge 180, si rende conto benissimo (e lo
dichiara) che ci si trova davanti ad un compromesso (affrettato
peraltro dall’incombere del referendum radicale per l’abolizione dei
manicomi), ma non lo respinge. Non respinge soprattutto il lavoro
che sta di fronte ai veri riformatori, dopo la legge.

Le voci dei tempi

Basaglia è un interlocutore che possiamo conoscere, «ascoltandolo»


ancora, come in un’immaginaria intervista o nell’immaginario
resoconto di un convegno o di un’assemblea qualsiasi, grazie ai suoi
libri, scritti insieme con Franca Ongaro, la moglie, donna
straordinaria e vicinissima alla ricerca del marito, malgrado i suoi
interessi all’inizio fossero altri e soprattutto letterari (è morta il 13
gennaio 2005 nella sua casa veneziana). Sono libri ai quali Basaglia
aveva chiamato a contribuire molti tra i suoi collaboratori e molti
intellettuali famosi all’epoca. Alcuni di questi libri, come L’istituzione
negata, assai venduti allora ma forse poco letti, ancora ci parlano,
dopo esser stati bandiera di un’epoca. Una considerazione, tra
parentesi, si potrebbe aggiungere a proposito della scrittura di
Basaglia, non agevole, di sicuro legata alle parole di quei tempi,
raramente incline alla testimonianza, che avrebbe dato magari
evidenza concreta ai termini del suo ragionare. Nessun
compiacimento, nessun tentativo di seduzione.
Le altre «voci» che riferiscono della sua esperienza sono
soprattutto quelle dei giornali: «Il Piccolo» di Trieste, «Il Gazzettino»
di Venezia, «l’Unità», il «Corriere della Sera», «La Stampa», «Il
Giorno»… Più qualche romanzo. Da Tumiati a Tobino.
Tentando di scrivere, alla fine, una biografia di Franco Basaglia ci
si accorge come egli si conceda ben poco a una biografia personale:
a parte qualcosa della sua infanzia, come le gite in macchina nella
campagna veneta, o della sua giovinezza (le amicizie, l’università,
l’antifascismo…), tutto il resto sta nel suo operare dentro e contro il
manicomio (gli intervalli potevano essere rappresentati da un viaggio
in America o da una conferenza a Londra), dentro insomma una
storia pubblica e collettiva (di privato ci sono le ragioni della famiglia,
della moglie e dei due figli, spesso «accomodate» di fronte
all’urgenza del lavoro). Questo ci dice altro di lui, della sua figura di
intellettuale anomalo: quel suo impegno totale, senza requie,
sorretto da una moralità e da una idealità che guidano all’utopia, che
non è mai sogno strampalato, ma punto d’arrivo, «sforzo per
mantenere e reinventare nelle circostanze attuali un tipo di esercizio
della politica che non confonda la necessità di cambiare, la
necessità di essere efficace e credibile, con la necessità di adattarsi
alle ingiunzioni delle nuove ideologie dominanti» (ancora una
citazione da quel numero di «Sapere», un saggio di Robert Castel, il
sociologo francese che frequentò Trieste). Utopia che diventa presto
il luogo di raccoglimento (e di autocritica), prima di una nuova
partenza.
1. PSICHIATRA E RIFORMATORE

Franco Basaglia muore il 29 agosto 1980. Ha cinquantasei anni.


Muore nel pomeriggio a Venezia. Di un male incurabile:
adenocarcinoma etmoidale con invasione della base cranica e
metastasi vertebrali. Un tumore che comincia dal naso, nelle cavità,
e finisce nel cervello. I primi sintomi li avverte in primavera: dolore
alla testa, fatica a respirare. Alla fine di maggio, tre mesi prima della
morte, di ritorno da un congresso a Berlino, si sente male. In
ospedale lo assiste Hrayr Terzian, l’amico e compagno negli anni
dell’università a Padova. Terzian è un neurologo, primo rettore
dell’Università di Verona. Di due anni più giovane, muore nel 1989.
Terzian è nel 1953 il testimone alle nozze di Franco con Franca
Ongaro, regalo di nozze le opere complete di Jean Paul Sartre.
Basaglia impara a considerare Sartre come un «maestro». Di
nessun altro pensa allo stesso modo. Il filosofo dell’esistenzialismo
ripagherà più tardi il giovane psichiatra veneziano di quella
attenzione: «A Gorizia lavorano intellettuali pratici. Ragazzi,
imparate». Intellettuale concreto. Lo dice nel 1968.

Nel 1972, in inverno, Basaglia e Sartre si incontrano per la prima


volta. Basaglia si lascia alle spalle Gorizia e Colorno. Coi matti
lavora ormai da un anno a Trieste. Al filosofo francese, Basaglia
rivolge una domanda, citando Gramsci, come si legge
nell’introduzione a Crimini di pace: «Il tecnico borghese, delegato
alla gestione delle diverse specificità professionali, può essere
considerato un intellettuale in senso gramsciano, in quanto
depositario e insieme produttore di temi e di idee che servono al
mantenimento dell’istituzione in cui opera, e di riflesso alla
sopravvivenza della propria classe e del sistema sociale in cui è
inserito. In questa prospettiva, anche alla luce dei movimenti che si
sono verificati in questi ultimi anni, da parte di tecnici che rifiutavano
la delega sociale implicita nel proprio ruolo, come vede la
problematica dell’intellettuale e del tecnico-professionale in rapporto
alla pratica istituzionale? Questo sia per quanto riguarda l’azione
nelle istituzioni in generale, che in quelle psichiatriche in cui noi
siamo più direttamente coinvolti».
Basaglia ha in mente una definizione degli intellettuali secondo
Gramsci, un «grande rivoluzionario»: «commessi». Una lunga
citazione gramsciana compare a epigrafe di Crimini di pace, una
pagina dai Quaderni del carcere, dal Quaderno 12, datata 1932: «Gli
intellettuali sono i commessi del gruppo dominante per l’esercizio
delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo
politico, e cioè: 1) del consenso spontaneo dato dalle grandi masse
della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo
sociale dominante, consenso che nasce “storicamente” dal prestigio
(e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua
posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione; 2)
dell’apparato di coercizione statale che assicura “legalmente” la
disciplina di quei gruppi che non “consentono” né attivamente né
passivamente, ma è costituito per tutta la società in previsione dei
momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso
spontaneo viene meno». Di quegli stessi anni, quel decennio
tempestoso tra i Sessanta e i Settanta, è l’edizione critica, a cura di
Valentino Gerratana, dei Quaderni del carcere, pubblicata da
Einaudi. Quasi in concomitanza con Crimini di pace, nel 1975. A
Basaglia credo non sfugga un’osservazione di Gramsci a proposito
di Freud, qualcosa che gli resta sulla natura di classe di certe
convinzioni e di certe pratiche, qualcosa che gli parla di ingiustizia
anche di fronte alla malattia, qualsiasi malattia, alla sofferenza. Dal
Quaderno 15: «…È da vedere se il freudismo necessariamente non
dovesse conchiudere il periodo liberale, che appunto è caratterizzato
da una maggior responsabilità (e senso di tale responsabilità) di
gruppi selezionati nella costruzione di “religioni” non autoritarie,
spontanee, libertarie ecc. Un soldato di coscrizione non sentirà per
le possibili uccisioni commesse in guerra lo stesso grado di rimorso
che un volontario ecc. (dirà: mi è stato comandato, non potevo fare
diversamente ecc.). Lo stesso si può notare per le diverse classi: le
classi subalterne hanno meno “rimorsi” morali, perché ciò che fanno
non le riguarda che in senso lato ecc. Perciò il freudismo è più una
scienza da applicare alle classi superiori e si potrebbe dire,
parafrasando Bourget (o un epigramma su Bourget) che l’“inconscio”
incomincia solo dopo tante decine di migliaia di lire di rendita. Anche
la religione è meno fortemente sentita come causa di rimorsi dalle
classi popolari, che forse non sono troppo aliene dal credere che in
ogni caso anche Gesù Cristo è stato crocifisso per i peccati dei
ricchi». Gramsci ricorda Paul Bourget, francese, poeta, autore a fine
Ottocento di alcuni saggi sulla psicologia e di critica letteraria e poi di
romanzi. Simpatizzante dei rivoluzionari ai tempi della Comune, si
converte poi alla monarchia, al cattolicesimo tradizionalista, s’affligge
davanti alla modernità come di fronte al marxismo. Di lui si trova
spesso citato un aforisma: «Bisogna vivere come si pensa, se no,
prima o poi, si finisce col pensare come si è vissuto». Non sempre è
consentito, come dimostra questa storia. Resta l’eco di Gramsci
nelle parole di Basaglia quando dice che, per confessarsi,
preferirebbe il prete allo psicoanalista: il prete non si fa pagare. La
psicoanalisi è una terapia di classe, seleziona i suoi malati sulla
base del censo. Ma la ragione di critica alla psicoanalisi, la ragione
più forte, è un’altra: non tocca il potere delle istituzioni, privatizza
invece il conflitto, ha come solo scopo quello di normalizzare,
recuperare, restituire al soggetto la sua capacità produttiva, da
questo punto di vista si pone al servizio del capitale. Perché, riflette
Sartre di fronte a Basaglia, in questa società guarire significa
adattare le persone ai fini che esse rifiutano, significa insegnare loro
a non contestare più, a non protestare…
«La consapevolezza – scrive Basaglia, ancora nell’introduzione a
Crimini di pace – di essere “commessi”, “funzionari” del gruppo
dominante nel proprio settore di lavoro pratico cominciò a
manifestarsi – dopo anni di polemiche a livello teorico sulla funzione
dell’intellettuale impegnato e sulla natura del suo impegno politico –
in uno scontro diretto tra ideologia e pratica, che partiva dalla
pratica. Furono cioè quelli che Sartre definisce i tecnici del sapere
pratico, gli esecutori materiali delle ideologie e dei crimini di pace da
esse legalizzati o giustificati, gli intellettuali di serie C, o i ragionieri
della scienza che cominciarono a mettere in discussione il ruolo
svolto nel proprio settore specifico, in rapporto all’ideologia
scientifica di cui erano portatori e rappresentanti nella pratica di loro
competenza: coloro cioè che affrontano problemi pratico-teorici,
traducendo l’astrazione della teoria nella pratica tradizionale.»
Risponde Sartre: «Per esempio, uno studioso americano che si
occupi della bomba atomica non è un intellettuale, bensì ciò che io
chiamo un “tecnico del sapere pratico”: diventa un intellettuale nel
momento stesso in cui comincia a interrogarsi sull’importanza della
bomba atomica e finisce col contestare il lavoro che fa; vale a dire
nel momento in cui constata la propria contraddizione, che è quella
di servirsi di tecniche che si fondano sull’universale per fini
particolari, appartenenti a un gruppo particolare». Non adattarsi per
svestire la divisa del «commesso».
Sartre sostiene ancora: «Originariamente l’intellettuale è un
prodotto dell’istituzione borghese, ma quando egli giunge a cogliere
le sue contraddizioni con forza, non gli resta che una soluzione:
gettarsi nell’illegalità, cioè assieme agli altri, gettarsi nel rifiuto e nella
contestazione dell’insieme della società che ha formato. Ciò
presuppone che egli militi per una società in cui l’intellettuale non
esisterà più, ma in cui tutti saranno contemporaneamente tecnici del
sapere pratico e manuale, per esempio come in Cina: lavorano coi
contadini, poi fanno anche un lavoro proprio. È questa, secondo me,
la situazione e l’aspirazione degli intellettuali che devono tornare alle
masse».
La Cina. Viene in mente Acheng, scrittore cinese, fuggito giovane
a Los Angeles, nella Trilogia dei re (Il Re degli alberi, Il Re dei
bambini, Il Re degli scacchi), il suo quieto ribellarsi, nell’ossequio del
dovere, alle mortificanti disposizione della rivoluzione culturale e a
dieci anni di deportazione inflittigli dal regime di Mao, nel segno delle
nuove direttive economiche. Il maestro di Acheng (il re dei bambini è
il maestro della prima scuola), alle prese in una misera aula rurale
con alunni tanto diversi, indisciplinati ma curiosi, impara a insegnare,
mettendo in discussione le certezze del proprio insegnamento. Non
dice ai bambini: studiate così e state zitti. Non obbliga al suo ordine,
come capita in qualsiasi famiglia e nella maggioranza delle aule
scolastiche. Come il maestro di Basaglia: «…quando il maestro
insegnando l’aritmetica spiega che uno più uno fa due e i bambini
più vivaci domandano perché, se il professore è stato educato nel
modo che abbiamo appena visto, non sa rispondere e impone il
silenzio. Così anche il maestro trasmette al bambino la logica del
potere e dell’oppressione. Il problema è che il maestro non sa che la
sua libertà come maestro è quella di insegnare che uno più uno può
fare non due ma tre… Forse voi state pensando che sono matto, ma
se questo è vero in matematica, e ci assicurano che lo è, a maggior
ragione è vero nei rapporti reali, che non sono certo un gioco di
somme ma un prodotto storico-sociale, per cui ciò che oggi è due,
può essere dieci domani». Critica all’ideologia come sistema,
imposto, delle idee. L’oppressione si fa sentire presto e pensa
Basaglia che la violenza con cui si esercita l’insegnamento assomigli
molto a quella del manicomio e che sia lo stesso addestramento
scolastico a non avere senso. Per quale ragione i bambini devono
iniziare la scuola a cinque anni e non a tre o a quattro anni? Non c’è
nessuna ragione, dato che ciò che il bambino apprende a cinque
anni può apprenderlo a tre e infatti nelle famiglie borghesi i bambini
iniziano la scuola sapendo leggere e scrivere, al contrario dei
bambini proletari e quindi già all’inizio, nei primi anni di vita,
dall’infanzia, c’è chi cresce dalla parte dell’oppressore e chi
dell’oppresso.
Qualche anno più avanti, quando la sua riforma è ormai legge,
durante il viaggio in Sudamerica, Basaglia incontra a San Paolo, il
22 giugno 1979, i lavoratori delle industrie chimiche e farmaceutiche.
Il tema è «salute e lavoro». La scena possiamo solo immaginarla.
Dal fondo dell’aula si alza una mano e un lavoratore domanda:
«Allora, la follia esiste nei paesi socialisti? Quale è la sua diffusione
e come si può interpretare questa follia in un Paese socialista?»
Quel mondo è diverso dal nostro, capitalista? Una speranza, che
Basaglia, forse sorridendo, nega con serenità, perché nei paesi
socialisti esiste la follia, perché questa è la condizione umana.
Subito aggiunge che una delle terapie più importanti per combattere
la follia è la libertà e quando un uomo è libero, quando ha il
possesso di se stesso e della propria vita gli è pure più facile
combattere la follia. Ancora s’illude, però: «Nel mondo socialista, da
un lato c’è più rispetto per la vita umana…» Ma subito si corregge:
«…ma, d’altro lato, se manca la possibilità di esprimersi, può
nascere un’altra follia». Per esempio, la questione del gulag («negli
ultimi anni c’è una grande polemica sui gulag sovietici, cioè sui
manicomi politici sovietici») dimostra la mancanza di libertà che
impedisce all’uomo di esprimersi, di esprimere la sua ragione. Anche
al matto si raccomanda: «Parla con la tua voce». «Io sono
comunista – termina Basaglia in quella conferenza a San Paolo del
Brasile – ma un comunista che fa autocritica, e ci sono molti che non
la fanno. In questo senso, io considero i Paesi socialisti in un modo
più critico rispetto alla valutazione che questi paesi fanno della
propria politica. Anche l’Italia la vedo criticamente, come un Paese
falsamente democratico, con il suo capitalismo per così dire
“semiselvaggio”. Verrebbe voglia di andarsene, ma non saprei dove,
perché “se non è zuppa è pan bagnato”, come si dice in italiano».
Basaglia ricorda a Sartre una sua frase che l’aveva colpito e
convinto: «Le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione
quando sono fatte», al tavolino del bar, offrendo l’aperitivo che Sartre
non avrebbe potuto bere: «Non so se si tratti di una mia proiezione,
ma mi sembra che in questa enunciazione sia presente la necessità
di vivere a mano a mano le contraddizioni che si aprono, anche se
ricorrendo a una ideologia nata originariamente come rifiuto e
negazione, senza attaccarsi alla stessa ideologia per
sopravvivere…» Basaglia spiega quindi all’intellettuale francese che
cosa è avvenuto a Gorizia: «…potremmo dire che dopo la prima fase
di denuncia pratica della funzione dell’ideologia psichiatrica, si
correva il rischio di cristallizzarsi nella nuova ideologia (la nuova
gestione buona dell’istituzione, il nuovo modello tradotto in una
nuova tecnica terapeutica) che avrebbe riproposto, anche se a un
livello diverso, la stessa logica oppressiva contro cui si era lottato. Il
secondo passo attuato è stato quello di proporre a un livello
successivo la problematica istituzionale. A passi graduali fino ad
arrivare alle dimissioni clamorose dei medici, è stato possibile
proporre praticamente il problema dell’assistenza sanitaria su un
piano a mano a mano più reale, rendendo esplicito che si trattava
soprattutto di un problema di assistenza pubblica, che gli organi
responsabili hanno sempre eluso con la complicità della psichiatria e
delle istituzioni psichiatriche». A questo punto Basaglia chiede, con
ingenuità, a Sartre se il gesto possa essere interpretato come una
rinuncia o possa essere considerato alla stregua di un intervento
valido nella strategia di lotta alle istituzioni. Sartre risponde di non
sapere: «L’unica possibilità è quella di continuare a lottare…»
L’ultimo incontro di Basaglia con Sartre risale al 1978. Lo descrive
Maria Grazia Giannichedda, che ritrae alla fine Basaglia «contento
come un ragazzo». Al tavolo di un caffè parigino, Sartre, ormai
cieco, allontana da sé l’aperitivo, quando Basaglia l’avverte che
Simone de Beauvoir si sta avvicinando a loro. Sartre muore il 15
aprile 1980, quattro mesi e mezzo prima di Franco.

Franco Basaglia è un intellettuale e un «uomo del suo tempo».


Quando per la prima volta percorre i cameroni del manicomio di
Gorizia, si pone la domanda semplice e giusta: «Che ci faccio qui?»
E una risposta la leggiamo nello stesso dialogo con Sartre: «Di
fronte al compito di rovesciare praticamente un’istituzione e insieme
l’ideologia su cui si fonda (scuola, ospedale, carcere ecc.) il tecnico
ha due possibilità: o un capovolgimento ideologico che si limita a
proporre un successivo modello di gestione, o un capovolgimento
pratico che abbia in sé elementi utopici capaci di prefigurare una
possibilità di rapporto in grado di rovesciare il segno secondo cui la
scienza e la tecnica borghese sono orientati. Ma il pericolo di questo
rovesciamento pratico è la caduta in una successiva ideologia, dato
che ci si continua a muovere sul terreno minato dell’ideologia-realtà
borghese». Contro l’ideologia? È ancora la convinzione che sia
necessario «fare» che guida Basaglia: incessantemente,
sperimentando nel cuore delle istituzioni alla prova delle vicende
umane individuali, per evitare di costruire modelli che si
ripropongano, che si stabilizzino, che diventino regola e
organizzazione.

Chi legge della morte di Basaglia e ha in mente la sua battaglia,


riconosce l’utopia, ma soprattutto quel «ben fare», ignora per lo più il
dibattito culturale, tanto sulla fenomenologia quanto sulla psichiatria
(se non tra i giovani, per la lettura «militante», nel Sessantotto, di
Ronald Laing e del suo L’Io diviso), e va alle conclusioni, a un
traguardo: la libertà, restituire la libertà. Basaglia è l’uomo che
chiude i manicomi e prima ancora immagina e realizza «condizioni
umane». L’ottimismo della pratica contro il pessimismo della ragione.
Quando l’impresa intuita sembra troppo grande, lo sostiene la
convinzione che solo così si possa cambiare il mondo, l’alternativa è
la rassegnazione, rimanere sempre schiavi dei dittatori, dei militari,
dei medici. Coltiva nel radicalismo degli obiettivi il suo riformismo.
Segna con evidenza i limiti della propria azione, ma ha coscienza di
quanto solidi possano essere i piccoli gesti. Intuisce come si possa
cominciare.
Davanti alle telecamere di Sergio Zavoli riconosce: «Io non saprei
assolutamente proporre niente di psichiatrico in un manicomio
tradizionale. In un ospedale dove i malati sono legati credo che
nessuna terapia, di nessun genere, biologica o psicologica, possa
dare giovamento a persone costrette in uno stato di sudditanza e di
cattività da chi li deve curare. Può esservi una possibilità di cura
dove essa non conosce libera comunicazione tra medico e malato?»
Poi, ancora per la telecamera di Zavoli, ricorda un proverbio
calabrese: chi non ha non è. È la traccia di un pensiero che vede il
mondo diviso in due, tra ricchi e poveri. Il manicomio diventa l’inferno
dei poveri, che siano malati o non lo siano, semplicemente irrequieti,
oltre la norma riconosciuta, diseducati dalla società e dalla miseria,
respinti dalla scuola, consumati dalla fatica e dall’indigenza, ribelli
senza appartenenza, magari pericolosi, ben sapendo, come
Basaglia non nasconde, che la pericolosità esiste, ma è dettata dalle
situazioni, da tanti fattori che vanno rimossi. Cioè, sono la storia,
individuale e collettiva, la cultura, la società, non solo la biologia, che
creano il malato e lo spingono a determinanti comportamenti:
l’escluso bussa a una porta per rientrare, talvolta in un modo che la
maggioranza non sa riconoscere e che quindi condanna,
perpetuando l’esclusione. Il medico dovrebbe cercare un rimedio al
contrasto, avvicinandosi alla malattia e prima di tutto al malato.
Come non avviene nel manicomio, che ha uno scopo: separare,
proteggendo chi sta fuori.

La notizia della morte di Franco Basaglia viene richiamata in prima


pagina dal «Corriere della Sera» del 30 agosto, un riquadro
minuscolo, a una colonna, che dice: «È morto/ a Venezia/ lo
psichiatra/ Franco Basaglia» e rimanda all’articolo a pagina tre,
chiudendo la prima colonna dell’editoriale di Leo Valiani, «Con
rigore, sino in fondo». Perché ventisette giorni prima, il 2 agosto, una
bomba nella sala d’attesa della stazione di Bologna uccide ottantasei
persone e il 29 agosto i magistrati che indagano fanno sapere che
tra i «ventidue in carcere ci sarebbero mandanti e manodopera
dell’eccidio».
«La coscienza popolare – scrive Valiani – reclama la sollecita
scoperta e l’esemplare punizione dei colpevoli della strage di
Bologna. Gli arresti, effettuati negli ultimi giorni, d’una serie di
neofascisti, in generale noti per la loro dedizione alla violenza
politica, vengono incontro alle aspettative della gente… Stavolta la
magistratura e le forze dell’ordine hanno potuto servirsi degli
strumenti che le leggi recentemente votate hanno irrobustito:
improvvise perquisizioni di case sospette, intercettazioni, infiltrazioni,
fermi, interrogatori prima della presenza del difensore e così via…»
Solo due mesi prima, il 27 giugno il Dc9 Itavia in volo da Bologna a
Palermo viene abbattuto sul mare di Ustica. Ottantuno morti in un
«gioco di guerra».
Tutti i giornali «aprono» con le notizie di Bologna. Tranne «Lotta
Continua». Una bella foto in prima pagina: alcune ragazze, alcuni
ragazzi invecchiati dalle barbe, ridono tutti. Ritratto di una
generazione, senza dire chi siano. In mezzo a loro siede Franco
Basaglia: ride anche lui, la camicia aperta, i capelli agitati all’insù.
C’è della felicità. Probabilmente insieme stanno seguendo uno
spettacolo. Magari di matti. Potrebbe essere una foto ricordo del
«movimento». Basaglia rivendica il valore di quella lotta: «Negli anni
Sessanta abbiamo visto, come in una grande fiammata, la gioventù
del mondo intero ribellarsi. In questa rivolta noi tecnici della
repressione psichiatrica eravamo presenti e abbiamo dato il nostro
appoggio a questa ribellione… Abbiamo visto… che quando il
movimento operaio prende nelle sue mani lotte rivendicative, di
liberazione anti istituzionale, questa illusione diventa realtà». La
gioventù del mondo che si ribella, come la «meglio gioventù», di cui
dà rappresentazione il film di quarant’anni dopo: una caso di pazzia,
la pazzia, il manicomio, la lotta al manicomio, la psichiatria e
l’antipsichiatria entrano a testimonianza di una stagione del
Novecento… Ideologia, contraddizioni, semplificazioni, confusione, a
risposta però di una voglia di conoscenza cui non sa rispondere
un’altra istituzione: la scuola.
«Tantissimi – si legge in un sommario a grossi caratteri su “Lotta
Continua” – lo hanno letto, tanti lo hanno conosciuto, tanti lo hanno
amato e tanti lo hanno anche odiato, perché in maniera semplice,
bonaria, ironica questo veneziano aveva ribaltato un mondo. C’era la
scienza psichiatrica ufficiale: catalogava “i matti”, discuteva
animatamente nei congressi, ogni tanto cambiava l’etichetta di una
malattia. Oggetti da studiare. C’erano poi i matti, nei manicomi: legati
o intontiti. Franco Basaglia aveva lavorato contro tutto ciò, contro la
separazione tra chi studia e chi è studiato. Era la stagione che
precedeva il Sessantotto in tutto il mondo e Basaglia era uno
scandalo. Per merito suo si parlò della norma e della devianza,
pregiudizi, meschinità si scontrarono, luoghi chiusi, perché
considerati indecenti e paurosi, vennero aperti. Franco Basaglia ha
reso concrete molte utopie. Ha fatto discutere e ha ottenuto risultati.
Forse è stato uno degli uomini più importanti nei cambiamenti di
questo Paese.»
Quando muore Basaglia, il 29 agosto, gli operai di Danzica sono in
sciopero da tempo. A loro si uniscono i minatori della Slesia e
secondo il «Corriere» «in Polonia si parla ormai di una possibile
proclamazione dello stato di emergenza». Ma c’è spazio, in alto a
destra nella pagina, per il «colore»: «Il trono/ logoro/ di Miss Italia»:
«È un’inflazione di Cinzie e di treccine alla Bo Derek, di sedici
diciassettenni scortate da padri poco apprensivi e da madri manager
grintose nelle pubbliche relazioni…»
«Basaglia è morto, forse non ha più nemici»: comincia così la
biografia che gli dedica in terza pagina il «Corriere», un articolo di
Maurizio Chierici, un giornalista che ha conosciuto, da testimone, i
manicomi, per primo Gorizia. «Basaglia è morto, forse non ha più
nemici. Ne ha avuti fin troppi quando sgobbava quindici ore al giorno
col proposito che, alle persone qualsiasi, poteva sembrare di
solidarietà verso il malato, solo una forma di pietà. Lo slegava dal
letto di contenzione, non gli imponeva l’elettrochoc, si rivolgeva a lui
con discorsi non autoritari, trattandolo con la comprensione che si
usa verso un essere umano provvisoriamente infermo. Ma la gente
senza nome non conta (o non contava) nel mondo della medicina. I
bisogni di chi sta male, fino a un recente passato, venivano a
rimorchio delle carriere e del gioco delle baronie. E chi aveva vita
comoda amministrando l’ospedale psichiatrico come una casa di
pena, capì che tale rivoluzione, trascritta in Italia sui modelli
anglosassoni e francesi, poteva essere la radice di una infinità di
guai…»
«A Gorizia – ricorda Chierici – Basaglia si guardò intorno e
scoperse che i matti ricoverati con tanto di timbro sulla carta
d’identità, diversi per sempre da chi girava fuori, erano soltanto
poveri. Affogavano i dispiaceri bevendo o si lasciavano trascinare
dalla “follia” nei momenti più duri della vita: ed erano quasi sempre
duri, in una terra di emigranti e di contadini poveri. Chi aveva due
soldi si rifugiava in clinica, i più fortunati andavano in Svizzera. Si
curavano, stavano meglio, tornavano senza timbri imbarazzanti al
solito lavoro. Per i derelitti invece non c’era speranza: se i nervi
cedevano, voleva dire la morte civile».
Continuiamo a leggere. Una sintesi giornalistica, probabilmente
scritta tra l’emozione di fronte alla notizia e la tirannia dei tempi di
lavoro, una biografia sommaria, che abbrevia le elaborazioni
culturali, esclude i dibattiti teorici, ma cerca le azioni significative,
tangibili, quelle che è più facile, immediato, narrare e comprendere.
Leggiamo: «Il proposito di Basaglia fu quello di ristabilire una specie
di eguaglianza fra i deboli con conto in banca e i deboli con le tasche
vuote. Ma può un giovane direttore di manicomio sfidare vecchie
leggi che gli attribuivano ogni responsabilità per i gesti violenti o
sbadati che il matto, provvisoriamente libero, poteva compiere?
Basaglia decise che valeva la pena di rischiare». Così, nel racconto
di Chierici, quotidianamente, con una fatica che sfida la legge,
Basaglia e chi gli sta accanto, Franca Ongaro e molti giovani medici
come Giovanni Jervis, Antonio Slavich, Agostino Pirella, Lucio
Schittar, sperimentano la liberazione dei malati: «La teoria si forma
sulla quotidianità…»
Giorno dopo giorno, «Gorizia diventa il punto di riferimento della
psichiatria avanzata d’Europa. Un’utopia che metterà radici e
modificherà (proprio come temevano i baroni e i primari favorevoli al
manicomio-ghetto) la realtà del Paese». Subito, già nel 1962, a
Gorizia, arrivano al direttore del manicomio le prime comunicazioni
giudiziarie: «Procuratori, politici o cittadini infastiditi denunciano
l’irresponsabile che lascia uscire in permesso malati di mente,
magari travolti da una crisi davanti alle vetrine dei grandi magazzini
o impazziti per strada vedendo una ragazza, come non vedono da
trent’anni…» Sepolti vivi, rinchiusi, legati ai letti, sudici. La puzza di
manicomio respinge anche il giovane psichiatra quando entra per la
prima volta negli stanzoni (casermette cintate di mattoni rossi) di
Gorizia, lasciando l’università e la clinica universitaria: una puzza
che impregna gli abiti, che se la portano con sé, le giacche di tweed
che assorbono e trattengono e che Basaglia ama e che non
abbandona.
Chierici è stato a Gorizia, con altri colleghi: «Noi arriviamo
incuriositi e col proposito di raccontare con parole divertite l’ultima
bizzarria di un medico che libera i matti. I matti, che nella cultura
media italiana, erano creature innocenti o animali feroci da temere,
da evitare. Scopriamo un medico diverso. Pallido, occhiaie profonde,
il discorso calmo, ma durissimo.
«Partecipiamo ad assemblee nelle quali ci pare di sognare. Non
riusciamo a distinguere chi sono gli ospiti e chi sono i dottori.
Lentamente ci penetra una nuova verità. Guardavamo un gruppo di
piccoli scienziati fanatici, che, con tono giacobino ed elitario, si
proponevano di dare anche ai malati la possibilità di parlare e
stabilire una reciprocità. Almeno a quei malati assopiti solo per colpa
dell’emarginazione. “Non abbiamo mai detto che non esiste la
malattia mentale, ma sosteniamo che, per i pochi pazienti affetti da
situazioni irreversibili, vi è una folla enorme che sta benissimo e ha
la sola colpa di essere povera e dimenticata.”
«A questa folla Basaglia insegna a vivere. Insegna così bene che,
ritornando a Gorizia, scopro nel portiere dell’albergo un malato,
simile a un fantasma pochi mesi prima. Passo ore a discorrere con
lui. Lo sento intervenire all’assemblea sicuro come un uomo libero.
Dice una cosa molto bella: “Non è vero che i medici hanno aperto le
porte dell’ospedale. Basaglia ha solo messo la chiave nella toppa:
noi siamo stati capaci di farla girare…”»
Ciò che si prova a Gorizia, si ripete altrove. Ma non dappertutto,
perché «il resto del Paese si scaglia contro i pericoli che le teorie
sperimentate da Basaglia a Gorizia, a Parma e a Trieste possono
rappresentare per la popolazione che non vuole guai». La
popolazione che non vuole guai: «Sono parole – testimonia Chierici
– che ho raccolto a Nocera, provincia di Salerno, ascoltando le urla
di matti legati, nudi, rapati, incapaci di stare in piedi».
Ancora un ricordo: «Una volta, in un convegno che radunava
ricercatori da ogni parte d’Europa, una paziente afferrò il microfono e
cominciò a dire cose insensate. Qualcuno si lamentò, altri
esclamarono: “Fermatela”. Allora Basaglia alzò la voce: “Stiamo
teorizzando sullo spazio da lasciare a questi emarginati e quando
una persona usa proprio lo spazio che noi le riconosciamo, ecco
vogliamo toglierglielo…”»
Alla fine: «Bisogna dirlo: il rovesciare la vecchia realtà accademica
non è servito alla sua carriera. Le porte dell’università non si sono
spalancate con entusiasmo. Medici e psichiatri daranno di lui una
definizione scientifica che noi cronisti, chiamati tanti anni fa a Gorizia
a scoprire gli orrori dei manicomi italiani, non siamo in grado di
definire…» Psichiatria, antipsichiatria? «Di Basaglia possiamo dire
un’altra cosa: ha cancellato una vergogna, molte persone devono a
lui la serenità di una vita normale, moltissime la dignità di
un’esistenza civile. Non si è arricchito, non ha avuto encomi ufficiali,
né forse li avrebbe accettati. Ha promosso l’esperienza culturale più
importante maturata in Italia negli ultimi trent’anni, senza chiedere
niente a nessuno e ricevendo troppo poco da tutti.»

«L’Unità», ancora organo del Partito comunista, s’affida all’ex


direttore, Aldo Tortorella, dirigente nazionale del partito, e a uno
psichiatra, Raffaello Misiti (all’inizio degli anni Settanta Misiti
condivide con Basaglia, con Giulio A. Maccacaro e con Gian Franco
Minguzzi, il progetto finalizzato del Cnr, «Prevenzione malattie
mentali»). Un titolo in prima pagina a cinque colonne, la notizia di
cronaca, la foto di Basaglia sorridente e il lungo testo in corsivo di
Aldo Tortorella. I titoli sono già una lettura della personalità e
dell’opera di Basaglia. In fila leggiamo, dall’occhiello: «Un
protagonista della nostra cultura. Basaglia, psichiatra e riformatore»,
e, per il ritratto di Tortorella, Un’opera di liberazione. Tortorella
comincia con una osservazione di metodo: «Franco Basaglia, assai
giustamente, tendeva a sottolineare quanto artificiose fossero certe
convenzionali separazioni tra tecnica e politica. Ma sarebbe – credo
– fargli un torto assai grave ricordarlo come chi avesse soppresso e
cancellato ogni confine e ogni specificità; sicché sopra di lui, sulla
sua vita e sull’opera sua, si possa dare un giudizio unicamente
“politico”. Tra l’altro si renderebbe un cattivo servizio anche alla
scienza; che troppo comodamente potrebbe sbarazzarsi… di questo
scomodo e inquieto innovatore. Dunque, nessuna arbitraria
sostituzione; nessuna pretesa di una qualche pesante ingerenza
entro un dibattito scientifico che resta e deve restare apertissimo…»
«Epperò – precisa Tortorella, per rimettere la foto di Basaglia al
posto giusto nella storia degli intellettuali in Italia – verso di lui vi è un
debito umano e culturale anche di chi non è del mestiere e non
pretende di dettar dall’esterno non si sa quali precetti. Il debito verso
una battaglia che ha grandemente contribuito a indicare e, anche, a
correggere una forma di degradante barbarie che fino a pochi anni fa
era tuttavia parte del modo di essere della società nostra… Una
delle accuse più correnti che veniva lanciata contro Basaglia e
contro il movimento di cui egli fu protagonista era quella di negare
l’esistenza stessa di malattie mentali: ma non di questo si trattava
quando, agli inizi degli anni Sessanta, Basaglia incominciò a lottare
attivamente, praticamente, contro la segregazione manicomiale,
fonte essa stessa di malattie più che di guarigioni e indicazione,
comunque, di un vizio sociale profondo, ancor più profondo del torto,
talora atroce, compiuto verso il malato. Qui sta la lezione umana che
oggi appare persino ovvia…
«C’è una legge nuova (anche se essa non viene applicata e non
funziona come dovrebbe).» Cattivo governo e degenerazione della
vita politica. Quando muore Basaglia il governo è quello di
Francesco Cossiga. Il socialista Aniasi è ministro della Sanità. Il
governo cadrà poco dopo: il 27 settembre 1980.

La legge 180, cosiddetta legge Basaglia, viene approvata due anni


prima, il 13 maggio 1978, quattro giorni dopo l’assassinio di Aldo
Moro, dopo cinquantacinque giorni di sequestro, recluso in un
cubicolo che i brigatisti definiscono «prigione del popolo». La legge
Basaglia, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori
(sulla Gazzetta ufficiale del 16 maggio), non deve neppure passare
in aula: basta il voto, quasi alla unanimità, della commissione
parlamentare di igiene e sanità pubblica. Non è la legge che
Basaglia avrebbe voluto. Forse Basaglia non avrebbe voluto una
«legge», che imbriglia, frena, di nuovo istituzionalizza. Basaglia sa
che non si può ragionare di vittoria e neppure di sconfitta. «Anche se
frutto di una lotta, una legge può essere solo il risultato della
razionalizzazione di una rivolta, ma può anche riuscire a diffondere il
messaggio di una pratica rendendolo patrimonio collettivo. Anche se
frutto di una lotta, una legge può provocare un appiattimento del
livello raggiunto dalle esperienze esemplari, ma può anche
diffondere e omogeneizzare un discorso creando le basi di una
azione successiva», così riflette in un libro di un anno dopo, Il
giardino dei gelsi.
Nei manicomi italiani vivono ancora recluse quasi centomila
persone.
Il 1978 è anche l’anno della solidarietà nazionale: il governo è un
monocolore democristiano, sostenuto da Pci, Psi, Pri e Psdi. Il
presidente del consiglio è Andreotti, alla Sanità siede l’ex partigiana
Tina Anselmi. Pochi giorni dopo la legge 180, passa anche la legge
194, sull’interruzione volontaria della gravidanza. Questa volta la
maggioranza è divisa: 308 voti a favore e 275 contro. Le ultime
grandi riforme. Il dibattito nella società civile è fiacco. I giornali
riferiscono in poche righe. Talvolta sulla legge 180 è addirittura il
silenzio. Il «Corriere» la cita alcuni giorni dopo e soltanto per
scriverne, subito, della «inapplicabilità». Ma succede appena
ritrovato il cadavere di Moro, ripiegato nel bagagliaio di una Renault
rossa, parcheggiata a lato del palazzo di via delle Botteghe Oscure,
la sede nazionale del Partito comunista.
La legge 180 e la legge 194 chiudono un decennio di riforme, un
decennio che si apre nel 1970, quando vengono approvate le leggi
sul divorzio, sul referendum, sullo Statuto dei lavoratori,
sull’attuazione dell’ordinamento regionale, sui termini massimi di
carcerazione preventiva. A esse seguono le leggi sul diritto del
difensore ad assistere all’interrogatorio dell’imputato, sulle lavoratrici
madri e sugli asili nido (1971); sull’obiezione di coscienza al servizio
militare e sull’ampliamento dei casi in cui è possibile la concessione
della libertà provvisoria, la cosiddetta «legge Valpreda» (1972); sul
nuovo processo del lavoro e sulla protezione delle lavoratrici madri e
disincentivazione del lavoro a domicilio (1973); sulla tutela della
segretezza e della libertà delle comunicazioni e sulla delega al
governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale
(1974); sul nuovo ordinamento penitenziario, sulla riforma del diritto
di famiglia e sulla fissazione a 18 anni della maggiore età, con
immediati effetti anche sulla composizione del corpo elettorale
(1975); sulla parità tra uomo e donna in materia di lavoro e sulla
disciplina dei suoli (1977); sulla interruzione della gravidanza, sulla
chiusura dei manicomi, la «legge Basaglia», e sull’istituzione del
servizio sanitario nazionale (1978). Una somma di atti riformatori che
non ha paragoni nella storia repubblicana.

8
Tortorella rivendica il ruolo dei comunisti italiani, anche nel senso
della battaglia contro i manicomi, dove lo psichiatra aveva trovato
come pazienti soltanto i poveri: «…e questa era la scoperta –
semplice e vera – di una sostanza di classe». «Ma non si trattava
soltanto di questo. Chi altro se non il movimento operaio e i
comunisti avrebbero dovuto e potuto intendere la “politicità” della
questione, il rapporto tra modo di essere della società e concezione
della malattia e della salute?»
«Molte discussioni di metodo sono avvenute… intorno al
permanente tema politica-cultura, intellettuali-partiti, intellettuali-
partito comunista in special modo. Concretamente, una presenza
come quella di Basaglia segnava – al di là di lui stesso –
un’esperienza. Non più quella di una generica alleanza. Ma,
appunto, quella di una funzione dell’intellettuale come protagonista
del cambiamento e della trasformazione a partire dal suo “specifico”,
dal suo sapere e dalla connessione del suo sapere con i valori di cui
è portatore il movimento operaio se esso assume sopra di sé il
compito della fondazione di una società nuova…
«Ma gli intellettuali per proporre a se stessi e alla società una
visione nuova hanno da compiere il cammino difficilissimo che passa
verso la riconcezione del loro sapere e della loro funzione. Ecco, ad
esempio, la medicina: per prevenire la malattia e non solo per
curarla, per intendere le cause generali del male e non solo quelle
immediate…»
La medicina. All’esempio della medicina ricorre Tortorella, che ben
conosce la vicenda di Giulio A. Maccacaro, un medico, ex partigiano,
morto a 53 anni nel gennaio del 1977, morto durante una riunione di
lavoro, dicendo lui stesso la sua diagnosi: «Scusate, è proprio un
infarto giovanile». Maccacaro sostiene come la malattia possa avere
cause sociali e quanto necessario sia dunque prevenire e, per
prevenire, intervenire sugli ambienti di vita e di lavoro. Il suo
impegno non viene bene accolto dalla «corporazione»: nel 1972 il
presidente dell’Ordine dei medici di Milano lo minaccerà di
procedimento disciplinare per la relazione da lui tenuta in un
convegno scientifico sul potere e la servitù della medicina nella
società del capitale. Poco prima di morire è pronto un numero della
rivista «Sapere», che dirige, dedicato a Seveso e alla diossina: in
prima pagina il titolo Crimine di pace. Nel 1976 Maccacaro fonda il
movimento Medicina democratica.
Di nuovo Tortorella riconosce la fondatezza della riflessione e del
lavoro di Basaglia, un valore esemplare: «…la tecnica, dunque, deve
sapersi come storicamente data e in rapporto con il mondo, con la
società, con i suoi valori e disvalori… Anche qui è valsa la lezione di
Basaglia: per rimuovere il peso di tanta inerzia pseudo accademica,
che spesso nasconde soltanto una concezione mercantile del
sapere, ma anche per smascherare la miseria culturale e morale di
quelli che egli chiama gli “intellettuali smerigliati”, superatori a parole
di ogni sforzo innovatore, ma nel frattempo ben ancorati, entro la
protezione di un estremismo verbale, nella pratica più arcaica e
brutale».
La conclusione: «Ad altri spetta di dire… se in questo sforzo – e
nei suoi straordinari risultati – non gli avvenne di ignorare o di
sottovalutare esperienze culturali, forme di sapere, discipline verso
le quali, invece sarebbe stata utile una più grande attenzione…» È
come sbarazzarsi dalla polemica, accademica, psichiatria-
antipsichiatria. Per esaltare altro: «Ciò che conta alla fine sono le
cose semplici. Conta un’opera di liberazione che sta già iscritta nella
storia della società. Conta… la passione umana che ha dato senso a
una battaglia e a una vita. Perché l’umanità degli “altri”, di quelli che
egli ci ha insegnato a riconoscere come individui, egli non l’aveva
scoperta per puro bisogno di conoscenza e meno che mai per
compassionevole trasporto, ma – appunto – per amore. E stava in
questa sua fanciullesca e straordinaria bontà il segno più profondo
della sua intelligenza».
Su «l’Unità» compare anche un lungo articolo che è un primo
tentativo di biografia, da Gorizia a Parma a Trieste, di Raffaello
Misiti. Sono le esperienze più importanti a comparire, Gorizia,
Parma, Trieste, la legge, insieme con i nomi degli intellettuali che
incontrano Basaglia dove lui opera: Noam Chomsky, Ronald Laing,
Erving Goffman, Michel Foucault, Robert Castel, Thomas Szasz, per
evidenziare affinità, interessi comuni, appartenenze… Il preambolo è
illuminante. Misiti si rifà agli esordi scientifici di Basaglia, ai tempi
dell’università e di Padova, a un’attività intensa, che si specchia in
«decine di lavori scientifici pubblicati su riviste italiane e straniere
che, pur mantenendosi nell’alveo della psichiatria classica, sono spie
di una continua ricerca, di una tormentata tensione, che vogliono
comprendere, darsi ragione, vedere nelle sue verità ultime la
condizione del malato di mente; condizione inaccettabile come stato,
passaggio critico talvolta obbligato dell’esistenza, mai tuttavia punto
d’arrivo che richiede di essere classificato con la fredda
rassegnazione dell’occhio clinico dì chi è uso considerare le malattie
mentali come malattie organiche cerebrali». E già indicare lo
sguardo assolutamente nuovo di Basaglia sulla malattia. Segue la
storia di un ventennio, da Gorizia all’incarico nel Lazio.
Nell’emozione della circostanza, scrive Misiti, non riesco a dire altro.
E tuttavia, poche righe avanti, elenca i tratti fondamentali della
personalità di Basaglia: «Non si può non accennare alle sue
straordinarie qualità di uomo e di compagno prepotentemente
presenti negli incontri, nei contatti, nella consuetudine di lavoro. E
allora il ricordo è felice, perché Franco Basaglia, con il suo
entusiasmo, con una straripante vitalità e forza di coinvolgimento, ci
ha mantenuto giovani quando rischiavamo di diventare
precocemente vecchi. E tutto questo continuamente, nella
quotidianità dell’operare, con tutte le risorse di fantasia e di creatività
possibili ad ogni livello espressivo di cui l’uomo dispone o può
disporre. Viene in lui una straordinaria facoltà di accumulare un
patrimonio di saperi e poteri immediatamente socializzati e mai
irrigiditi o sclerotizzati in posizioni di certezza dogmatica». Misiti
chiude con solennità, dove il richiamo all’amicizia personale anticipa
l’elogio politico: «Con la sua morte io e tanti altri, perdiamo un amico
che ha saputo essere compagno e guida nelle lotte e nella vita; la
gente, il movimento operaio, i comunisti, il Partito, perdono un
compagno, una figura di intellettuale nuovo, non solo per i contenuti
che ha immesso nella sua battaglia politica e culturale, ma anche
per la qualità e la modalità di una militanza verificata
quotidianamente e mai sacralizzata una volta per tutte in immagini di
facciata». Intellettuale nuovo, perché i saperi conquistati sono a
disposizione e si discutono, non diventano ideologia, ma si
contestano, sperimentano, si ribaltano ed è la condizione concreta
degli uomini ad attribuirne un senso e una necessità.
9

Il Partito comunista, ancora il più grande partito comunista


dell’Occidente, sembra convinto. Eppure Basaglia, a Gorizia, a
Colorno, a Trieste, prova che non è affatto facile convincere il Partito
comunista: grandi rivoluzionari hanno detto che i peggiori reazionari
stanno all’interno del partito, prigionieri delle consuetudini, di un
senso comune sfidato dalle novità, dalle paure. Franco Basaglia
ricorda, quando si presenta per una conferenza a Rio de Janeiro il
26 giugno 1979, che non fu affatto facile coinvolgere i partiti di
sinistra nella sua lotta. Ma non importa, perché Basaglia sa che non
basta parlare di psichiatria agli psichiatri e che il suo lavoro non può
limitarsi «al rapporto con i malati e con la follia». Si rende conto che
lo scontro è dannoso e che occorre smantellare poco alla volta un
sottofondo di pregiudizi che diventano certezze, di consuetudini, di
privilegi. «Noi dovevamo confrontarci con le idee della gente sulla
malattia mentale», perché se la storia della psichiatria continua a
essere storia degli psichiatri e non del popolo che soffre, anche se
con idee diverse («visioni scientifiche diverse») comunque continua
a produrre «solo nuove forme di controllo sociale». Questo Basaglia
non lo vuole e quindi cerca, con fiducia, l’incontro con «le
organizzazioni politiche che vogliono l’emancipazione del popolo»,
come racconta ai suoi ascoltatori brasiliani: «In questo modo
abbiamo ottenuto dei successi perché, dopo aver smantellato in
alcuni luoghi il manicomio, in collaborazione con la popolazione, i
sindacati, i partiti politici, è stata portata in parlamento una proposta
di legge che modificava la vecchia legge repressiva e violenta…
Oggi, in Italia, c’è una legge realmente avanzata che ha abolito il
concetto di pericolosità e l’ha sostituito con un altro concetto: le
organizzazioni mediche e sociali hanno il dovere di rispondere ai
bisogni reali della gente. È ovvio che uno schizofrenico è uno
schizofrenico, ma innanzitutto è un uomo che ha bisogno di affetto,
di denaro e di lavoro; è un uomo totale, e noi dobbiamo rispondere
non alla sua schizofrenia ma al suo essere sociale e politico». Non si
possono alzare steccati tra scienza e medicina, tra morale e politica.
Esistono gli uomini. Anche gli psichiatri sono uomini: «Non è vero
che lo psichiatra ha due possibilità, una come cittadino dello Stato e
l’altra come psichiatra. Ne ha una sola: come uomo».

10

«Il Piccolo» di Trieste, che conduce polemiche aspre quando


qualche anno prima Basaglia apre il manicomio, scrive in prima
pagina È morto Basaglia, a due colonne, e all’interno, a quattro
colonne, Ha restituito ai matti una dignità di cittadini. Quasi con
distacco. Basaglia è da dieci mesi lontano da Trieste. Ha lasciato
Trieste per assumere un nuovo incarico nel Lazio: deve coordinare i
servizi di salute mentale. L’ultima fatica.
«Il Gazzettino», il quotidiano di Venezia, in prima pagina non
nomina neppure la morte di Basaglia, un «figlio di Venezia». Bisogna
sfogliare. A pagina due, a centropagina, un titolo a due colonne su
due righe avvisa: È morto a Venezia il prof. Franco Basaglia. Poi
alcune note di cronaca: «È morto oggi alle ore 14,30, per un tumore
al cervello, nella sua abitazione veneziana a San Samuele (l’attico di
Palazzo Mocenigo), il prof. Franco Basaglia, discusso protagonista
della rivoluzione psichiatrica…» Si annuncia il funerale, domenica 31
agosto, a Ca’ Corner, sede della provincia. Sabato 30 agosto «Il
Gazzettino» torna sulla morte di Basaglia, con un articolo di Antonio
Alberto Semi (psicoanalista freudiano, pure lui veneziano, nato nel
1944). Titolo a due colonne: L’eredità di Basaglia. Conclusione: Semi
si augura che «gli psichiatri italiani conservino, dell’eredità di
Basaglia, la capacità di incidere sulla realtà e gettino, invece, le
teorie astratte…»
Molti amici ricordano Basaglia. Alcuni scrivono un breve
messaggio che i giornali riprendono: «A noi, ed a tanti suoi
compagni di lavoro e di lotta, Franco Basaglia ha mostrato come sia
possibile praticare attraverso le idee, le difficoltà, i successi e i dubbi,
la trasformazione di realtà imposte come immodificabili e naturali…
ha costruito utopie, rendendole concrete con la pratica sociale prima
che con la parola…»
A Venezia, il giorno dopo la morte, a Palazzo Balbi, lo commemora
Michele Zanetti, il democristiano, che dieci anni prima, nel 1970,
trentenne presidente della provincia di Trieste, appena eletto a capo
di una giunta democristiana, in un ristorante, a cena (c’era anche
Franca Ongaro), chiede allo psichiatra famoso e discusso di
riprendere presso il Frenocomio Civico e Ospizio, la gigantesca e
soleggiata prigione per mille e duecento internati sulla collina di San
Giovanni, il lavoro interrotto a Gorizia e a Colorno. Una nomina per
concorso, che Basaglia vince «nettamente», come spiega Zanetti.
La mia, dice Zanetti, è la riconoscenza di chi, dopo averlo
conosciuto, sa che anche le cose impossibili possono venire
realizzate se c’è onestà e chiarezza negli obiettivi, forza d’animo e
impegno indefettibile nel perseguirli.
«Così facendo – finisce Zanetti – Franco Basaglia ci ha dato la
possibilità di credere ancora alla virtù più importante nei tempi che
viviamo, tempi bui, di radicale trasformazione e di una profonda
confusione ideale: la speranza in un domani migliore da costruire
assieme, spendendo con generosità i propri talenti.» «A nome di tutti
i tuoi amici, grazie Franco, addio e riposa in pace.»

11

I tempi bui non tardano: dopo la strage alla stazione di Bologna, i


licenziamenti alla Fiat con Berlinguer, segretario del Pci, davanti ai
cancelli e la marcia dei presunti «quarantamila», capeggiati da un
«quadro», Luigi Arisio; la caduta del governo Cossiga; il terremoto in
Irpinia il 23 novembre; la nascita di Canale 5; altri colpi del
terrorismo, solo per chiudere quell’anno, il 1980. Nel 1978
presidente della Repubblica diventa Sandro Pertini. Quando visita i
paesi del terremoto, «piange con la gente davanti alle macerie» (da
un titolo del «Corriere della Sera», il 25 novembre). In televisione, il
presidente incoraggia: «Bisogna risorgere». E ammonisce: «Ma chi
ha mancato deve essere punito» (ancora dal «Corriere», il 27
novembre). Le macerie dell’Irpinia sono il finale di un ventennio che
nel suo bilancio somma progressi e fallimenti, speranze, conquiste e
tragiche cadute. Uno storico, Silvio Lanaro, il bilancio in questo
modo lo stila a proposito della legge 180, «completamente disattesa
proprio nella parte costruttiva». Pazienti gravi e pericolosi, scrive
Lanaro, «vengono scaricati sulle famiglie con conseguenze anche
tragiche, e con il risultato di colpevolizzare la legge diffondendo la
nostalgia per il manicomio, microcosmo reclusorio che permette ai
sani di distogliere lo sguardo dal pozzo orripilante della malattia
mentale». Poi ricorda, ancora tra propositi e tradimenti, la legge
sull’equo canone, il piano decennale per l’edilizia, e la legge 883 del
23 dicembre 1978, «che rade al suolo la selva delle mutue e
istituisce il servizio sanitario nazionale» e che «vede rapidamente
sepolti i suoi buoni propositi – prevenzione, approccio
epidemiologico, gratuità, efficienza degli interventi terapeutici – dal
pessimo funzionamento dei nuovi organi preposti alla tutela della
salute (le Unità sanitarie locali), il cui controllo viene ceduto ai
comuni che subito provvedono a popolarle di uomini di partito e a
utilizzarne i fondi in maniera perlomeno impropria». La legge 883
recepisce la legge 180.

12

Franco Basaglia viene ricordato di anno in anno, di decennio in


decennio. Nel 2000, vent’anni dopo la sua morte viene pubblicato il
volume che raccoglie le conferenze tenute nel corso di due viaggi in
Brasile, a San Paolo, a Rio de Janeiro, a Belo Horizonte, nel giugno
e poi a novembre del 1979. Conferenze brasiliane riprende quei suoi
discorsi appena trascritti, un dialogo vivo domanda e risposta, con
franchezza, deludendo chi magari s’aspetta il prevalere della politica
sulle ragioni del malato e sulla responsabilità del medico.
Nel 2000, «Metro», il primo caso italiano di stampa quotidiana
distribuita gratuitamente, free press, dedica una doppia pagina a
Basaglia: Basaglia e la liberazione dei matti. Dieci anni più tardi, la
sua storia, ormai raccontata in alcuni film, da Stefano Agosti, Marco
Bellocchio, Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Sergio Zavoli (con un
documentario, I giardini di Abele, nel 1967) torna in televisione con
una fiction in due puntate: C’era una volta la città dei matti. La città
dei matti è la collina di San Giovanni, a Trieste, quando ci vivevano i
matti. «L’Unità» celebra il film e dedica la copertina a Basaglia: una
grande foto e una scritta, «Lo sguardo che manca» («l’Unità», 9
febbraio 2010). «…Ecco quello che allora succedeva a Gorizia –
scrive il direttore, Concita De Gregorio, quasi riassumendo l’universo
della sofferenza – oggi succede a Bari nei centri accoglienza, a
Rosarno nei campi, nelle stazioni dove i ragazzi per divertimento
bruciano gli indiani sulle panchine. Meno Bossi e più Basaglia,
pensate che sogno. Meno ronde e più sorrisi. Meno violenza e più
pensiero. Meno lager più asili. Meno celle più ospedali. Meno urla
roche, più occhi limpidi che vedono il futuro e sanno farlo vedere,
con fatica e con dolore, anche a chi non sa guardare.» Ci mancano
quegli occhi… dalla parte di chi soffre.

13

A destra scrivono che di Basaglia si fa un mito e che la fiction


moltiplica la forza del mito. La fiction, diretta da Marco Turco, con
l’attore Fabrizio Gifuni nei panni dello psichiatra (somigliante nei tratti
del volto, nei gesti), è una ricostruzione dettagliata, precisa,
malgrado qualche inevitabile scorciatoia per necessità di sintesi e
molta semplificazione. Prima, per raccontare gli anni Sessanta e il
nostro Sessantotto fino al nuovo millennio, Marco Tullio Giordana, in
La meglio gioventù, mette in scena una storia che si drammatizza
nell’incontro di due fratelli con una ragazza «psicolabile». Una
matta? Tra Gorizia, Parma, Trieste, Basaglia stimola la «meglio
gioventù» e il racconto di quelle esperienze diventa centrale nella
narrazione di un ventennio, nei contrasti di una storia che si gira tra il
desiderio di cambiamento, individuale e collettivo, l’amara
conclusione di un Paese che riesce ancora a rivelarsi pigro, persino
immobile, senza generosità.
Marcello Veneziani, intellettuale di destra, polemizza (sulle pagine
del «Giornale»): «Non è a Franco Basaglia che dovevate dedicare
un commosso ricordo televisivo a proposito della città dei matti. Non
è a lui e alla sua generosa utopia, costata tante tragedie fra i malati
di mente e le loro famiglie, che andava dedicata una fiction
celebrativa del servizio pubblico della Rai. Ma a un dimenticato
sacerdote del sud, meridionalista concreto, che edificò dal nulla
grandiose Case della divina provvidenza per accogliere i malati di
mente e poi pensò, vent’anni prima di Basaglia, alla necessità di
superare la triste realtà dei manicomi. E studiò un progetto umano e
realistico: il villaggio postmanicomiale». Veneziani ricorda che nella
sua città, Bisceglie, c’era in centro, nel suo cuore, un manicomio,
«un grande manicomio, il più grande del sud e qualcuno – forse
malato di megalomania – diceva addirittura d’Europa». Un
manicomio, la Casa della divina provvidenza, che accoglieva
migliaia di malati, dava lavoro a migliaia di infermieri e medici e
aveva diramazioni a Foggia, Potenza, Palestrina e Guidonia. «Beh –
scrive Veneziani – io ricordo la tragedia prodotta dalla legge 180,
cosa volle dire il “liberi tutti” ordinato alla follia; quali drammi scatenò,
quanti abbandoni e solitudini, matti allo sbando, incapacità delle
strutture ospedaliere di accogliere i dementi in crisi, tormenti delle
famiglie che si trovarono a dover sopportare, spesso in condizioni di
povertà e di ignoranza, l’arrivo del famigliare pazzo. Quanti dolori
esplosero allora e non trovarono strutture pronte ad aiutarli; leggete
Mario Tobino che ebbe analoghe esperienze in manicomio da
medico. Sarebbe follia idealizzare i manicomi, ce n’erano alcuni che
erano veri lager. Nessuno rimpiange la segregazione della follia, che
fu un frutto perverso del razionalismo scientista, perché i manicomi
sono figli dei lumi e della scienza positivista. Sappiamo quanti
maltrattamenti e abusi, anche sessuali, quante speculazioni sulla
pelle dei matti. Ma la loro abolizione, insieme all’assurda teoria che
la malattia mentale non esiste, ma è frutto dei rapporti di classe e
delle condizioni socio-culturali, come sostenevano i seguaci
sessantottini di Laing, Basaglia e dell’antipsichiatria, produsse ferite
e traumi giganteschi. Di tutto questo non si racconta nella lirica
epopea di Basaglia e lo si santifica come un Liberatore. L’idea che si
potesse abolire la realtà e con la realtà la pazzia, fu la vera
aberrazione ideologica di questa perniciosa filantropia. Fu
l’egualitarismo, il comunismo applicato alla psiche; fu il delirio
dell’immaginazione al potere che si fece antipsichiatria. Di Basaglia
va riconosciuta la buona fede, il fervore ideale, ma non possono
essere cancellati i paurosi danni della legge 180 che ancora
perdurano». Infine Veneziani ci rivela chi fu il dimenticato sacerdote
del Sud, «che edificò dal nulla grandiose Case della divina
provvidenza per accogliere i malati di mente e poi pensò, vent’anni
prima di Basaglia, alla necessità di superare la triste realtà dei
manicomi. E studiò un progetto umano e realistico: il villaggio
postmanicomiale». «Si chiamava don Pasquale Uva, veniva dal mio
paese e lo chiamavano Zi’ Terrone perché proveniva dalla terra e si
definiva operaio nella vigna del Signore.» Don Uva costruisce «un
grandioso ricovero per i malati di mente del sud. Il suo modello fu
Cottolengo. Prima di condannare l’esistenza nefasta dei manicomi
dovete pensare cos’era l’Italia e in particolare il sud prima che
esistessero quelle strutture ospedaliere. I dementi vagavano per le
strade, ridotti alla fame e agli stracci, derisi e aggrediti o a loro volta
aggressivi e pericolosi. Ci vollero benemeriti come don Uva, e le
suore che lo accompagnarono, le ancelle della divina provvidenza, a
raccoglierli dalle strade e a dar loro cure, cibi, assistenza. Fu un
progresso il manicomio rispetto alla situazione precedente. Fu un
atto di pietà e di umanità, altro che segregazione. Ma don Uva capì
quanta sofferenza covava dietro quelle grate e sapeva anche
l’aspetto atroce dei manicomi. Così, dopo trent’anni di gestione degli
ospedali psichiatrici, don Uva pensò nei primi anni Cinquanta ad una
bonifica degli ospedali psichiatrici e progettò i villaggi
postmanicomiali, una struttura aperta che immettesse gradualmente
i malati nel mondo libero. Progettò così una città per i malati di
mente che avesse al suo interno azienda agricola, pascoli, stalle,
orti, vigneti e frutteti, laboratori, molini e pastifici, cinema-teatro e
caffè, circoli e sale di bigliardi, impianti sportivi. Pensò cioè di
accompagnare gradualmente i malati verso la guarigione e
l’integrazione attraverso una struttura fondata sull’ergoterapia e la
ludoterapia, il lavoro e il gioco. Al loro fianco erano previsti non
casermoni cupi e ospedali-carceri ma agili strutture di cura come
avrebbero dovuto essere i centri d’igiene mentale». Don Uva,
settantenne, muore, il suo progetto viene dimenticato. Vengono
dimenticate quelle «agili strutture di cura», che è difficile
immaginare, prigioni discrete o asili umanitari, forse come centri di
igiene mentali, quelli voluti dalla legge 180.
Veneziani ridà luce a un episodio, ma ignora tanto una storia dei
manicomi quanto la storia della psichiatria, chiari e scuri nei secoli
passati, che non sono solo di «barbari trattamenti» nei confronti di
«animali di perversa natura», «uomini accecati da Dio nella mente
per castigo delle loro colpe», «in balia del demonio», tutti comunque
«esseri irremissibilmente perduti», come denuncia uno dei maggiori
psichiatri italiani dell’Ottocento, Andrea Verga, il padre della
psichiatria italiana, a commento delle condizioni di vita negli ospizi
milanesi del Seicento (in Cenni storici sugli stabilimenti dei pazzi in
Lombardia, «Gazzetta medica di Milano», settembre 1844). Si
esaltano propositi umanitari, come se potesse esistere umanità
senza libertà, senza dignità, senza diritti, senza giustizia. E persino
senza l’alterità rispettata di ciascuno dentro una società abituata a
sacrificare i più deboli, fino alla loro esclusione.
La cattiva politica, il degrado della cultura, ridotta a calcoli di
presenza sugli schermi, cercano di «catturare» Basaglia, di
servirsene. Destra e sinistra, nel bilanciamento delle fiction televisive
(Basaglia arriva dopo Agostino, il santo presentato in due puntate).

14

Leggo in una pagina di «la Repubblica» del 10 giugno 1979, a


proposito di Bisceglie, di un giovane ricoverato in quell’ospedale
psichiatrico, dieci anni prima, per lieve insufficienza mentale, uscito
muto paralizzato e moribondo, ridotto ad un mucchio di ossa tenute
assieme dalla pelle ricoperta di pustole, escrementi e piagata
dappertutto, uscito per morire ventinovenne nell’ospedale di
Conversano. «Già due anni fa il tribunale minorile di Bari organizzò
un’irruzione all’interno dell’istituto: lo spettacolo non fu molto
dissimile da quello che, trent’anni fa, svelò al mondo le disumane
violenze dei lager nazisti.»

15

A Trieste, nella «città dei matti», continua a non esserci una via
Basaglia, a trent’anni dalla morte. «La sinistra mi dice che la via
individuata all’ex Opp è svilente per la caratura del personaggio?
D’accordo, io non voglio svilire nessuno, quindi la delibera che era
pronta non la porto neanche in giunta, anzi, la ritiro», conclude Paris
Lippi, il vicesindaco che viene da An e che presiede la Commissione
Toponomastica. A questo punto – è la sintesi che viene da
maggioranza e opposizione – non se ne fa più nulla. Almeno per altri
due anni, cioè fin quando le procedure dell’imminente censimento –
che non consentono alcuna variazione d’indirizzo dei residenti – non
si saranno concluse.
Praca Basaglia invece è a Jaguariúna, Rio de Janeiro.

16

A Roma, nel 2005, all’epoca di Veltroni sindaco, gli dedicano una


biblioteca. Antonio Debenedetti, giornalista e scrittore, scrive per il
«Corriere della Sera» la testimonianza del suo primo e unico
incontro con Basaglia. È molto bella. Il ritratto è vivo, semplice,
lascia immaginare i gesti, i saluti, le piccole cerimonie attorno al
tavolino di un caffè. Ancora il tavolino di un bar.
«“Venga a prendermi all’aeroporto di Fiumicino, parleremo in
automobile”. “Come farò a riconoscerla, professor Basaglia?
Confesso di non aver mai visto una sua fotografia”. “Abbia fiducia”
tagliò corto l’autore dell’Istituzione negata, l’opera forse più
realmente innovativa e provocatoria che sia uscita dal tormentato
grembo del Sessantotto. In quelle pagine, che raccoglievano gli
interventi dell’équipe medica dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia,
veniva espresso il rifiuto dell’istituzione manicomiale. Con quali
conseguenze, positive ma anche drammaticamente negative, si
sarebbe poi visto al lato pratico con l’applicazione della legge 180.
Poche ore dopo l’appuntamento fissato per telefono, parlando con
Trieste, ho visto venirmi incontro fra la folla dell’aerostazione un
viaggiatore d’un chic non voluto ma intonato alla perfezione con le
luci di quella mattina “sole e nuvole” del 12 ottobre 1979. Indossava
un giubbotto di velluto marrone, in mano una valigetta di cuoio
scurita dagli anni e dall’uso. “Buongiorno, professore”. “Buongiorno.
Dove ha parcheggiato l’automobile?”. Poi, come ci conoscessimo da
sempre, Franco Basaglia ha incominciato a dire, conversando
informalmente, tutto quello che a me serviva sapere. “Fin dal primo
momento, quando la giunta regionale mi ha conferito l’incarico di
coordinatore dei servizi psichiatrici del Lazio, è nata un’orgia
giornalistica. Non sono riuscito a sottrarmene, a rimanere fuori”, ha
esordito, parlando con accento inconfondibilmente veneto, questo
spericolato difensore degli oppressi che una crudele malattia
avrebbe ucciso solo pochi mesi dopo. “Tutto questo ha
drammatizzato, in senso positivo quanto negativo, la mia venuta a
Roma. Da una parte ha creato un’inspiegabile paura e dall’altra una
grande aspettativa, che sarà senza dubbio causa di delusione. Le
cose non cambieranno, come forse si aspettano i miei fans, da un
giorno all’altro. È impossibile”. Chissà se Basaglia sapeva di
condividere, con altri grandi utopisti e scommettitori sociali, la
capacità di dire le sue difficili, destabilizzanti verità come fossero
anche le tranquille verità del suo sbalordito interlocutore. Così, dopo
avermi assicurato che non avrebbe portato con sé a Roma “un
piccolo esercito di mercenari o di guerriglieri” della medicina, ha
aggiunto: “L’epoca eroica di una ubriacatura rivoluzionaria è finita.
Oggi abbiamo intorno le ceneri di un’illusione cui non ci siamo mai
affidati. Il nostro movimento è nato negli anni Sessanta, si è
scontrato con i moti di ribellione del Sessantotto e con quelli del
Settantasette. Ha sempre proceduto senza sbandamenti, cercando
di raccogliere quel tanto di reale, di praticamente vero che c’era in
quelle inquietudini e in quelle proteste”. Quando ci siamo seduti al
tavolino di un caffè, lui per bere un latte e io un bicchiere di bianco
con accompagnamento di toast (era per entrambi il pranzo),
Basaglia ha precisato: “La nostra si identifica con la rivendicazione
alla vita di una classe che è sempre stata oppressa e che invece
vuol vivere al pari degli altri. Non parlo dei matti in generale, mi
riferisco viceversa ai matti della classe operaia e del
sottoproletariato. A quelli, per capirci, che non hanno mai potuto
esprimersi: né nella pazzia né nella non pazzia… Di qui, una
considerazione. La nostra scienza troverà voce solo quando
l’oppresso troverà voce. Il lessico della scienza è fatto invece di un
alfabeto conosciuto solo da una classe. Quella, a mio parere, che fa
e fabbrica questo alfabeto. Di conseguenza crea tutti i riti e i miti
d’una scienza che opprime chi non è in possesso del suo codice”.
Congedandosi, per attendere alla ricerca d’un appartamentino dove
trasferirsi venendo nella Capitale, Basaglia mi ha ancora detto: “Si è
voluto fare di me il diavolo e l’angelo. Tutto questo è fuori luogo”.
Adesso, a venticinque anni dalla sua scomparsa, il Comune di Roma
dedicherà all’angelo appunto, alla sua memoria e alle sue utopie
scientifiche una biblioteca…»
Il colloquio, nella sintesi, è esemplare. In poche parole passa un
mondo e passa una storia del ventennio che si chiude: l’arretratezza
della nostra società, l’avventura dei movimenti, la persistenza della
divisione di classe, la fatica dell’intellettuale che si sente
materialmente responsabile.

17

A quasi trent’anni dalla scomparsa di Basaglia e a esattamente


trent’anni dalla legge Basaglia, compare un libro dalla copertina
viola, scritto da Gilberto Corbellini, storico della psichiatria, e da
Giovanni Jervis, medico psichiatra, scomparso nel 2009. Il titolo, La
razionalità negata, sembra rovesciare i contenuti del più celebre libro
di Basaglia e dei «goriziani». Jervis conosce bene Basaglia, dopo
tanto tempo trascorso proprio a Gorizia (fino alle dimissioni di
Basaglia e fino all’incarico a Reggio Emilia). Jervis racconta d’aver
incontrato Basaglia la prima volta nel 1965. Gli capiterà più avanti di
polemizzare con lui. Non risparmia le critiche. Ce ne lascia un bel
ritratto: «Parlando con lui si aveva subito l’impressione che stesse
una spanna più in alto degli altri direttori di Servizi psichiatrici.
Apparentemente scontroso, aveva una personalità che affascinava
per la sicurezza dei giudizi, lo sguardo ampio sulle cose, la
franchezza, il disprezzo per gli eufemismi. Forse perché proveniva
da una grande famiglia veneziana, si può ben dire che fosse distante
da ogni spirito piccolo borghese. Dietro alla sua comunicativa e alla
capacità di affascinare, si nascondeva però l’anima di un solitario e
si indovinava un sottofondo di malinconia. Con la moglie, una donna
di grande finezza, manteneva un legame, anche intellettuale,
estremamente stretto. Era affezionato al suo maestro, lo psichiatra
Giovanni Battista Belloni, cattedratico a Padova, con il quale
intratteneva un rapporto di continua collaborazione, tanto che lo
andava a trovare tutte le settimane…»
Volitivo, propositivo, tendeva a egemonizzare incontri e
conversazioni e la sua curiosità per le idee altrui era inizialmente
penetrante, ma poi, in genere, di breve respiro. Jervis riferisce
alcune considerazioni di un altro studioso, Stefano Mistura, il quale
ricorda che Basaglia era molto esigente, non ha mai coinvolto
nessuno a tempo parziale, chiedeva invece un impegno totale,
dimostrava d’essere sempre responsabile di tutto: «Quello dell’anti-
intellettualismo è diventato quasi un luogo comune: certo la sua
azione è stata soprattutto caratterizzata da una sperimentazione di
valore storico, più che da una coerente visione teorica; ma a lui
interessava essere testimone di una impresa pratica che riuscisse a
convincere che ciò che era ritenuto impossibile fosse invece
realizzabile». Forse Basaglia, studente, laureato, assistente,
studioso accanito, vuole costruire il suo sistema teorico, ma cede di
fronte alla malattia, di fronte alla sofferenza e all’ingiustizia, di fronte
all’accanimento delle accademie, delle istituzioni, delle
amministrazioni, costretto a riconoscere che la rivoluzione sarebbe
un miracolo e che l’unica via è piuttosto nel sapere pratico, nel
toccare con mano e risolvere un problema alla volta. Insegna
Basaglia che la strada sta nel mettere una pietra accanto all’altra e
che questo è difficile.

18

Nell’universo della dimenticanza, resta vivo il ricordo di chi ha


liberato i pazzi, i matti, i folli, i malati mentali, gli handicappati
psichici, gli idioti, schizofrenici, paranoici, fuori di testa, schizzati, tutti
pazienti, tutti esseri umani: nei giornali e nella politica, le parole
cambiano. Le parole della gente conservano una definizione: «quello
che ha chiuso i manicomi». Una definizione che trascina con sé negli
anni, accanto all’elogio, il peso delle inadempienze, cioè della
riforma che si è sempre definita incompiuta, e delle fatiche che
accompagnano la condizione del matto. Basaglia appare come il
dottore caritatevole, che ha lasciato il camice bianco, protagonista di
una generosa utopia, un missionario che tenta di abbassare l’umana
sofferenza, talvolta sconfitto dal mistero della malattia e dalla miseria
dell’amministrazione pubblica, talvolta beffato dal cammino a ritroso
intrapreso dalla società italiana. Suscita emozioni sempre più
rarefatte la scoperta di nuovi luoghi di segregazione come sono i
manicomi criminali o troppe cliniche private, «case di cura» leggiadre
di nomi rassicuranti, Villa Azzurra o Casa serena, come fossero
pensioni marine anni Sessanta, ripetendo modelli carcerari (che
sono i più economici e quindi preferiti da chi fa speculazione) e
terapie (come l’elettroshock) che la nostra sensibilità considera
dimenticate, riconsegnate però alla nostra noncuranza…
Il matto vive ancora la tragedia dell’isolamento. Spesso, non
sempre, non vive più segregato dalle mura e dai recinti ma
dall’indifferenza, che ha davvero cancellato la follia, oscurandola
senza bisogno di chiudere le porte, la follia e la pazzia sommerse
come un punto impercettibile nel marasma della cultura che domina:
il consumismo che esclude chi non consuma.
Così anche la figura di Basaglia viene travisata, anima pia, san
Francesco che cammina in mezzo alle povertà della mente. La
distorsione ipocrita gli attribuisce dannose fantasie, mentre la sua
critica sociale e la sua denuncia delle ingiustizie della società
vengono via via confinate ai margini della politica e della cultura.
Franco Basaglia non è il «commesso» di un ordine dominante, è
invece un intellettuale mai piegato di fronte alle strutture del potere,
costruisce teoria praticando i malati, il dolore, è un rivoluzionario
perché non rinuncia a sperare che la storia possa prendere un’altra
piega… Quando entra nel manicomio di Gorizia, Basaglia crede
nella libertà, che sente come il valore più forte, e vuole restituirla ai
matti, liberandoli prima di tutto dalla merda (anche la loro) che nella
miseria dei cameroni li circonda.
2. CAMPO SAN POLO

19

Venezia nel Ventennio fascista. È la città dove nasce cresce studia


Franco Basaglia, in una famiglia benestante, tra molti amici.
Franco Basaglia nasce nel 1924, l’11 marzo, figlio di Enrico e di
Cecilia Faccin, veneziana di San Martino all’Arsenale. Il ricordo di lei,
figlia di un farmacista vicentino, è di una donna intelligente, dotata di
un umorismo surreale che «ti strappava la pelle di dosso» e un
distacco assoluto da tutto, distacco dietro al quale si trincera dopo la
morte, di meningite a otto anni, della seconda figlia. In famiglia, da
parte di madre, c’è una medaglia d’oro, Giovanni Faccin, ufficiale di
carriera che l’otto settembre preferisce suicidarsi piuttosto che
consegnarsi ai tedeschi. Si spara dopo aver ottenuto garanzie per la
popolazione civile. I tedeschi non gli fanno mancare l’onore delle
armi.
La fortuna economica è dei Basaglia: riscuotono le tasse, sono la
seconda ditta in Italia appaltatrice della riscossione dei tributi, tra
Venezia e il Nord Italia. Si può risalire al trisnonno, conducente della
diligenza postale sulla tratta Thiene-Vicenza. Chi comincia a
guadagnare è il bisnonno, fattorino, poi capo e infine padrone della
«ditta».
Però «quello che ha portato la cultura ai soldi è stato mio padre»,
racconta Franco Basaglia. Rara citazione autobiografica. Franco
Basaglia scrive moltissimo, ma non si concede mai una riga, se non
per testimonianza diretta della sua battaglia.
Ha due sorelle Basaglia, lui per età sta in mezzo. Il padre è severo
e generoso, presente e premuroso, malgrado il lavoro. Con il figlio
ama viaggiare in macchina nella campagna veneta, è perito agrario
e tiene sempre in tasca un coltellino da innesti. In soffitta s’è
organizzato un laboratorio di falegnameria, costruisce giocattoli.
Ama i mobili antichi e la passione si trasmette a Franco, che visita
quando capita i mercatini d’antiquariato.
È timido il giovane Basaglia, silenzioso. Si diverte quando il padre
lo accompagna in gita sulla sua macchina, una decapottabile, auto
rara, da signori, a quei tempi. Ritto, in piedi, prende il vento. Corre la
macchina e la velocità regala un bel respiro di libertà, di fronte
all’orizzonte piatto dei campi verso la casa della Barbariga,
nell’entroterra padovano, o, al ritorno, verso il mare. Di politica in
casa, poca. La famiglia è semplicemente governativa senza
entusiasmi, per calcolo, per affari.
Franco gioca in Campo San Polo, al ginnasio frequenta il Foscarini
(un altro celebre allievo, Cesare Musatti), lo bocciano e passa al
Marco Polo (negli stessi tempi di Luigi Nono, il musicista, suo
coetaneo). Adolescente legge molto: i classici Sonzogno, quelli con
la copertina a colori. Conosce Hugo Pratt, il futuro inventore di Corto
Maltese, di tre anni più giovane, Alberto Ongaro, il futuro
romanziere, Giorgio Bellavitis, che sarà architetto. Alberto ha una
sorella, Franca. A diciassette anni Franca conosce Franco, che di
anni ne ha cinque di più. Lei ama leggere, studiare e scrivere.
Comincerà dalle storie per i bambini, poi immaginerà le parole per i
disegni dell’amico Hugo Pratt: Le avventure di Ulisse, illustrate da
Hugo Pratt, e una riduzione del romanzo Piccole donne di Louise
May Alcott escono sul «Corriere dei Piccoli» tra il ’59 e il ’63. Infine
affronterà la psichiatria, lei che non ne aveva mai saputo nulla.
Trovo una foto di Franco in quegli anni liceali, a Venezia, in strada,
tra due amici, pochi libri sotto il braccio, gli abiti eleganti dei tre,
sguardo alto e spavaldo, un bel sorriso.
Un libro, un romanzo autobiografico, dove non si inventa nulla, è la
testimonianza di un altro coetaneo o quasi (di un anno più giovane)
di Franco Basaglia. L’autore si chiama Lodovico Terzi. È
un’associazione facile: Terzi nasce nel 1925, in una famiglia ricca
quanto quella di Franco, frequenta ottime scuole, trascorre le
vacanze in splendide ville. Lo immagino spensierato ed elegante,
come Franco nella foto. Vado alla fine del libro, quando Terzi
ammette di non saper nulla di fascismo o di antifascismo,
semplicemente perché nessuno gliene aveva mai parlato. Gli era
mancata l’occasione per sapere, troppo giovane, ricco, estraneo,
sottratto alla politica (anche alla scelta partigiana) dagli affetti
familiari…
Attorno a questa «assenza» matura il racconto, Due anni senza
gloria, un titolo senza reticenze per il romanzo di una vita nei
momenti peggiori, più dolorosi e cupi, della nostra storia
novecentesca.
Lodovico Terzi interpreta una vicenda comune, quella di un
giovane richiamato alle armi a diciotto anni, quando ancora sta sui
banchi della seconda liceo, comune malgrado il privilegio di
appartenere ad una famiglia decisamente borghese di professionisti
e funzionari, certamente legata al regime fascista, senza essere
intimamente fascista. Non è forse intimamente fascista neppure lo
zio, che pure fa il segretario di Mussolini: è piuttosto, così lo
presenta Terzi, uno zelante burocrate che di concorso in concorso
sale fino alle stanze del Duce. Terzi rimane presto orfano del padre,
che muore il 23 luglio del ’43, due giorni prima della seduta del Gran
Consiglio, la seduta che vede la caduta del Duce e l’aprirsi quindi di
quel tragico biennio.
Terzi, diciottenne appunto, non ama il fascismo e ne riconosce
presto la rovinosa vicenda, capisce, anche allora, da una infinità di
segnali, appena arruolato, che la guerra sarebbe finita male. Ma non
diventa per questo antifascista, per la semplice ragione che di
antifascismo non sa proprio nulla: cresce relegato in quella famiglia,
nelle sue lussuose ville, dentro il ventennio, senza la possibilità di
conoscere un’altra Italia e una cultura diversa da quella intravista dai
banchi di un liceo di stato. L’apprendistato è lungo: i due anni di
guerra feroce che lo separano dalla pace sono, per lui, come per altri
giovani, in tante e diverse condizioni, anni di formazione, di
svelamento progressivo della realtà.
Il romanzo di Terzi mostra quel cammino e riesce a essere ritratto
di quell’Italia sofferente certo, ma soprattutto divisa, lacerata,
ambigua, di quella Italia dove si contrappongono nazifascisti e
antifascisti, convivendo gli uni e gli altri con quell’universo umano,
che Primo Levi per primo definisce la «zona grigia»: i dubbiosi, gli
apatici, i paurosi, gli opportunisti, ma non solo perché in quella zona
grigia sopravvivono anche quelli trascinati dal caso, gli altri sorpresi
dalla storia, superati, scavalcati, gli altri ancora che in quel teatro di
guerra scelgono soprattutto di difendere i propri cari, la famiglia,
secondo priorità e valori inculcati da quella stessa società che si va
disfacendo, secondo quel «familismo» caro ai sociologi che sarebbe
però difficile giudicare «immorale», riferendosi a quei tempi nella loro
durezza. Belle le pagine in cui, ad esempio, al giovane militare, che
vuol fuggire dalla caserma per combattere sui monti, giungono le
lettere della madre che gli raccomanda il rispetto di «quel profondo
senso di onore che il Papà vi ha lasciato». A distanza d’anni, ben
oltre la maturità, Terzi pensa: «Mio padre certo era un uomo d’onore,
ma, se posso dire così, di un onore normale: soltanto il re, nei tempi
passati, aveva diritto a un onore eccezionale per cui si mandavano
le ambascerie e si dichiaravano le guerre…» Oggi l’ironia, l’altro ieri,
con quelle lettere in mano, il ripensamento del diciottenne Lodovico,
che rinuncia alla diserzione.
Terzi racconta, attraverso se stesso, tormenti e contraddizioni
comuni e paure, onestamente dall’altra parte di chi seppe scegliere e
scelse la lotta antifascista a viso aperto. Racconta e lo fa in una
confessione senza ipocrisie, in una prosa che rifiuta la morale a
posteriori, e racconta anche episodi minimi, che tuttavia diventano
pennellate vive di un quadro generale, come la storiella delle
panciere di lana distribuite agli allievi ufficiali di Modena, in piena
estate, con un caldo soffocante, giusto – commenta Terzi – per
smaltire fondi di magazzino, residuo di una commessa affidata
all’amico tessitore di qualche gerarca.
Franco Basaglia non scrive di quel periodo, lui adolescente di
fronte al fascismo e alla guerra. È probabile che anche lui non
sappia. Studia, si diverte. Non gli mancano le possibilità. Le gite in
montagna. «Fino a metà pomeriggio si aggirò anche lungo tutto il
margine scosceso del pianoro, guardando nel vuoto e alle cime
attorno. Poi decise di rientrare, scendendo, stavolta, dal versante
sud; fino al lago, dove, dopo breve attesa, poté prendere l’autobus di
linea. Il tragitto, durava una mezz’ora. Nonostante gli sballottamenti
dovuti alla strada sterrata, gli riuscì di scrivere parecchi appunti.
Riguardavano quanto aveva visto quel giorno, ma ora in fondo alla
mente aveva l’eco di quanto stava accadendo fuori, nel mondo: le
grevi notizie che da alcuni giorni si erano imposte anche in quel
luogo di privilegiata e spensierata vacanza. Attraversando il paese
vide esposte nelle edicole le edizioni straordinarie: in tutte
campeggiava a caratteri cubitali la scritta: GUERRA.»
Ancora un romanzo per immaginare quei tempi, quei luoghi: di
Giuseppe Bevilacqua, Villa Gradenigo. Anche Villa Gradenigo è in
Veneto. Possiamo pensare che sia andata così, per il protagonista
del romanzo, Maurizio, diciottenne allo scoppio della GUERRA, e
per Franco di due anni più giovane, agiati studenti liceali, le ville in
campagna e in montagna: «Stava cominciando in quel momento il
giornale radio delle otto. Erano i primi bollettini dai fronti della nuova
grande guerra».

20

Franco ha la fortuna degli amici, con cui discutere, dai quali


apprendere. Non con tutti, forse. Hugo Pratt vive in una famiglia
fascista. Si sa dei suoi soggiorni in Africa Orientale. Forse con gli
Ongaro, fratello e sorella, affronta con migliore intesa il giudizio di
quegli avvenimenti e giunge anche lui alla conclusione che il
fascismo è un male per l’Italia. Forse ne parla con qualcuno più
vecchio. A Venezia l’antifascismo combatte ben prima dell’8
settembre, ben prima della guerra, si rafforza poco alla volta, fino
alla rivolta conclusiva. «Pensate che tutto è successo perché non ne
avete più voluto sapere», lascia scritto un partigiano condannato a
morte. Qualcosa i giovani come Franco Basaglia devono conoscere.
Il fascismo della repubblichina di Salò si mostra.
Dopo l’armistizio, Venezia è presidiata dai comandi nazisti e
fascisti. Molti antifascisti cadono. Nella notte tra il 7 e l’8 luglio 1944
cinque vengono fucilati, il 28 luglio la stessa sorte tocca a tredici
prigionieri politici, dopo che a Ca’ Giustinian, sede del comando
provinciale della guardia nazionale repubblicana, una bomba riduce
in macerie cinque piani dell’ala moderna del palazzo: «Là si
decidevano e ordinavano i rastrellamenti contro i patrioti e i renitenti;
là convenivano tutte le spie e gli informatori della città e della
provincia; là si torturavano gli arrestati politici e i sospetti di
terrorismo», scrive il Comitato di liberazione nazionale. Pochi giorni
dopo, il 3 agosto, per ripagare dell’uccisione di una sentinella della
marineria tedesca, allo stesso modo muoiono sette partigiani, legati
a due lampioni in Riva dell’Impero. Devono assistere alcune
centinaia di veneziani, rastrellati dalle SS. Riva dell’Impero, costruita
da Mussolini, dove era un succedersi di squeri e di imbarchi, diventa
alla Liberazione Riva dei sette martiri.
Sui muri compaiono le scritte contro i tedeschi occupanti e contro i
fascisti. Nelle buche delle lettere finiscono fogli che spiegano le
ragioni dei ribelli.
«Veneziani, l’ultimo quarto d’ora per Hitler e i traditori fascisti sta
per scoccare. Lottate con noi per la causa della Liberazione
nazionale e per lo schiacciamento definitivo del nazifascismo. La
Liberazione è vicina! Stringetevi intorno al Comitato di Liberazione
Nazionale e alle bandiere degli eroici partigiani che combattono per
la libertà d’Italia dal giogo nazifascista. Noi lottiamo per poter
garantire, attraverso la democrazia progressiva e l’unità di tutti i
partiti antifascisti, l’avvenire e la ricostruzione della nostra Patria. A
morte il fascismo! Libertà ai popoli! Viva il Fronte della Gioventù!» È
l’appello che un partigiano grida dal palcoscenico del teatro Goldoni,
mentre il pubblico assiste ad una rappresentazione di Vestire gli
ignudi di Luigi Pirandello. Vengono distribuiti volantini che incitano
alla rivolta. È la sera del 12 marzo 1945 e l’azione partigiana passa
alla storia veneziana come la «Beffa del Teatro Goldoni», che scuote
gli animi della popolazione.
Un film del 1963 di Gianfranco De Bosio, Il terrorista, con Gian
Maria Volonté, Tino Carraro, Philippe Leroy, Giulio Bosetti, descrive
una vicenda di quei giorni, subito dopo l’8 settembre: un attentato
contro i tedeschi, guidato dall’ingegnere Renato Braschi, membro
del Partito d’Azione, la rappresaglia che costa la vita a venti cittadini
veneziani, la fuga, la salvezza di un attimo grazie all’aiuto di un
medico, che si chiama Ugo Ongaro. Poi la cattura e la fine.
Basaglia si iscrive nel 1943 alla facoltà di Medicina e Chirurgia
dell’Università di Padova. L’inaugurazione di quell’anno accademico
è nella storia, perché è nella storia il discorso che il Rettore
Magnifico, Concetto Marchesi, pronuncia la mattina del 9 novembre.
«Se i rintocchi della torre del Bo non annunciano alla città il
rinnovarsi della consueta pompa accademica c’è invece qualcosa di
nuovo e di insolito, come una grande pena e una grande speranza,
che qui ci raduna ad ascoltare, più che le fuggevoli parole di un
uomo, la voce secolare di questa gloriosa università, che fa oggi
l’appello dei maestri e dei discepoli suoi…» L’ascoltano i giovani,
forse tra loro ascolta pure Basaglia. «Sotto il martellare di questo
immane conflitto – dice Concetto Marchesi – cadono per sempre
privilegi secolari e insaziabili fortune; cadono signorie, reami,
assemblee che assumevano il titolo della perennità: ma perenne e
irrevocabile è solo la forza e la potestà del popolo che lavora e della
comunità che costituisce la gente invece della casta». Pochi giorni
dopo il Magnifico Rettore scrive il suo appello alla lotta armata: «Una
generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra
Patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine; voi dovete tra quelle rovine
portare la luce di una fede, l’impeto dell’azione e ricomporre la
giovinezza e la Patria».
Franco Basaglia, con alcuni compagni, entra nella Resistenza. Fa
la staffetta tra Venezia e il Brenta. Recapita messaggi. Si muove
ancora facilmente, perché dispone di una macchina, la Topolino.
Ongaro è il primo a venir arrestato, nel 1942, mentre attacca
manifesti contro il regime. A Basaglia il carcere tocca nel novembre
del 1944. «Nero, nero, chi mi ha tradito si chiama nero/ lo credevo
un amico sincero/ in galera el me gà mandà…» Un ragazzo come
lui, finito nelle mani dei fascisti, rivela i nomi degli altri.

21

«Quando sono entrato per la prima volta in un carcere ero studente


di medicina. Lottavo contro il fascismo e sono stato incarcerato. Mi
ricordo della situazione allucinante che mi sono trovato a vivere. Era
l’ora in cui venivano portati fuori i buglioli dalle varie celle. C’era un
odore terribile, un odore di morte. Mi ricordo di aver avuto la
sensazione di essere in una sala d’anatomia mentre si dissezionano
i cadaveri. Tredici anni dopo la laurea sono diventato direttore di un
manicomio e quando vi sono entrato per la prima volta ho avuto
quella stessa sensazione. Non c’era odore di merda, ma c’era come
un odore simbolico di merda. Ho avuto la certezza che quella era
una istituzione completamente assurda, che serviva solo allo
psichiatra che ci lavorava per avere lo stipendio a fine mese. A
questa logica assurda, infame del manicomio noi abbiamo detto
no…» Lo ricorda in una delle sue conferenze brasiliane.
Basaglia può lasciare il carcere di Santa Maria Maggiore il 15
aprile 1945.
La città viene liberata il 24 aprile. Sono gli scozzesi a entrare per
primi in laguna. Hugo Pratt li accoglie indossando il kilt. «Il cielo era
coperto, nuvoloso – racconta Hugo Pratt nella circostanza di un
anniversario – e ricordo le facce contente delle persone, felici di
averla scampata, di essere ancora in vita… Eravamo tutti mescolati,
alcuni miei compagni di scuola erano nella X Mas, delle Brigate
Nere. La mia stessa famiglia era fascista… Quanto a me, ero un po’
più cinico degli altri ragazzi, meno coinvolto nella politica. In fondo
ero sempre vissuto lontano, venivo da anni di Etiopia e là
succedevano altre cose, si respirava un’atmosfera coloniale.
Insomma ero abbastanza camaleonte, allenato a difendermi…»

22

La pace, finalmente. «Usciti dalla guerra, si credeva di poter


costruire – contribuendo ciascuno nel proprio settore – un mondo
che fosse diverso da quello contro cui si era lottato, e ci si preparava
a svolgere un ruolo positivo, qualunque esso fosse, nell’edificazione
di una nuova società». Basaglia lo annota in Crimini di pace. E
ancora: «La speranza aveva avuto vita breve. Quasi subito ci si era
ritrovati, ciascuno prigioniero del proprio ruolo, cioè ciascuno
riconfermato nel proprio posto, nella propria classe: i lavoratori e il
sottoproletariato nel loro ruolo di classe oppressa, che solo
attraverso la lotta riesce ad attuare le sue conquiste; la borghesia
riconfermata nei suoi valori, nella sua legge economica, nelle sue
proprietà; i tecnici e gli intellettuali riportati – attraverso il binario della
carriera professionale – alla borghesia da cui provenivano. Nel
momento in cui ci si accingeva a costruire qualcosa che tenesse
conto dei bisogni e dei diritti di tutti i cittadini, ci si riscontrava con la
realtà della lotta di classe e con la conferma della divisione del
lavoro che manteneva intatti i ruoli e le regole del gioco. La
resistenza, come movimento popolare, veniva neutralizzata dalla
nuova classe dirigente che, a mano a mano, la svuotava del suo
significato originario di partecipazione e di consenso popolare,
facendola diventare un valore astratto, mercificato dal gruppo
dominante che, in suo nome, riproponeva la propria dominazione».
In quegli anni, tra guerra e dopoguerra, si svolge la vita
universitaria di Franco, che si laurea in medicina e chirurgia nel
1949, con una tesi su I test mentali in sub narcosi barbiturica.
L’argomento si ripete nei suoi primi scritti e interventi pubblici dopo la
laurea, quando comincia a frequentare la clinica delle malattie
nervose e mentali: Comportamenti di alcune funzioni psichiche nei
vari studi della sub narcosi barbiturica, nella rivista «Il Cervello», una
comunicazione al venticinquesimo congresso della società italiana di
Psichiatria, a Taormina nel 1952, Sull’impiego di alcune tecniche
proiettive in sub narcosi barbiturica, ancora sulla rivista «Il Cervello».
Il 1952 è l’anno in cui Basaglia consegue la specializzazione in
malattie nervose e mentali, l’anno successivo è quello del
matrimonio con Franca Ongaro.
Dopo alcuni scritti sui test del disegno nei disturbi del linguaggio, in
un titolo compare il nome di Rapaport, Sull’impiego del test di
associazione verbale secondo Rapaport in clinica psichiatrica. A
Padova, negli anni Cinquanta, anche Basaglia usa diversi test di
valutazione della personalità: quello di Rapaport integra il test di
Rorschach, l’inventore delle macchie d’inchiostro simmetriche in
bianco e nero o colorate cui dare un senso, un’interpretazione
svelando qualcosa di sé, attitudine, intelligenza, affettività,
disponibilità, anche i vuoti del proprio animo.
Proprio l’applicazione del test di Rorschach Basaglia descrive in
un articolo del 1953, Il mondo dell’incomprensibile schizofrenico
attraverso la Daseinsanalyse (per «Il giornale di Pischiatria»).
Comincia da Jaspers: «Jaspers definisce la fenomenologia lo studio
dei fenomeni psichici coscienti, tali quali il malato li presenta.
L’oggetto dello studio è dunque dato dai fenomeni liberi di contenuto
che si evidenziano negli accadimenti psichici e nel loro modo di
svolgersi; il fine di tale metodologia è l’investigazione delle
fondamentali trasformazioni del fenomeno stesso e non della
funzione che costituisce assieme al fenomeno il mondo interiore. Il
fenomeno è rappresentato infatti dalle immagini sensoriali, le
funzioni dalle operazioni; una cosa è la funzione, una cosa il suo
oggetto. La funzione psichica infatti può alterarsi mentre il suo
oggetto può rimanere intatto, così pure può alterarsi l’oggetto senza
che la funzione muti. Ciò che dunque a noi interessa è l’oggetto e
precisamente l’oggetto nel suo divenire, nel suo trasformarsi».
Basaglia ha ventinove anni e spiega così il suo avvicinarsi alla
Daseinanalyse, il metodo dell’analisi esistenziale elaborato da
Ludwing Binswanger e da Eugene Minkowski, ed è l’inizio di una
storia che seguirà per tutta la vita, qualcosa di più di un metodo
scientifico. Qualcosa che sta nella moralità del medico Basaglia. Con
un po’ di retorica si potrebbe dire: missione. Lo si capisce appena
dopo le prime righe, quando scrive: «L’importanza di questa
metodologia sta appunto nel mettere direttamente in gioco la
persona del medico che non può restare al di fuori come
esaminatore, ma deve partecipare, cercando di cogliere non il
sintomo in quanto tale, il modo nel quale esso si manifesta». Infatti:
«Jaspers afferma che non basta la descrizione del sintomo, ma tale
descrizione dovrà suscitare nell’esaminatore le sue esperienze,
qualche cosa di vissuto: solo così egli potrà vivere interamente e
intensamente la descrizione di questo sintomo». Una pagina più
avanti contro un’idea della psichiatria costruita di classificazioni,
secondo i sintomi, e di trattamenti che ne conseguono, scrive, in
modo molto semplice, che non si può fissare nulla di determinato e
statico in ciò che è estremamente dinamico come la natura umana:
«Potremo dire che una pianta, una volta seminata, cresce e non
potremo mai aspettarci delle grandi modifiche da ciò che è la legge
generale; nell’uomo non succede così poiché egli nasce, cresce e
muore, ma possiede un’altra fondamentale attività: l’intelletto con
tutte le manifestazioni a esso inerenti. Egli agirà e si esplicherà in
manifestazioni infinite e ognuna di esse sarà essenzialmente diversa
da quella di un altro uomo, pur avendo con lo stesso un elemento
fondamentale costituito dall’essere uomo e soprattutto possedendo
la stessa qualità d’istinto; e però egli si esplicherà in svariate
manifestazioni, cioè in naturità che saranno sue ed esclusivamente
sue… La patologia mentale ce ne dà un esempio. Potremo infatti
scorgere in un gruppo di ammalati dei sintomi fra loro abbastanza
simili, ma nel loro aspetto fenomenologico ed esistenziale così
dissimili da non poter sembrare rapportabili alla stessa malattia».
Cita Minkowski, l’ansioso e lo schizofrenico e le loro preoccupazioni
e le idee ipocondriache: sintomi simili, ma preoccupazioni e idee
proprio diverse perché diverso è il «fondo mentale». Nel saggio,
Basaglia descrive un caso clinico, quello di Rita, 25 anni. Diagnosi
clinica: schizoidia. Rita nelle macchie del test di Rorschack vede
rocce che cadono, sangue, un pipistrello, una statua di marmo,
nuvole, pesci, pecore, due facce di vecchi, una bestia sconosciuta,
spugne… Il resoconto è tecnico, puntiglioso. La conclusione torna a
quella ricerca della complessità contro gli schemi di chi si ferma,
senza risposte: «Mentre per la psicopatologia l’interesse per il
malato termina con l’apparire dei sintomi, in quanto è già possibile
formulare una diagnosi, per la Daseinanalyse proprio allora comincia
la sua funzione: nello sceverare detti sintomi, nel vedere cioè
l’individuo fuori del mondo, sopra il mondo…»
Basaglia non dimentica Rapaport. David Rapaport, sociologo che
indaga le basi ideologiche della comunità terapeutica dell’Henderson
Hospital, negli Usa, e comunica le sue conclusioni in un libro,
Community as a Doctor. Basaglia lo cita in un articolo del 1969,
Appunti di psichiatria istituzionale, a proposito di quattro temi, di
quattro caratteristiche, individuati nella vicenda di quella comunità:
democratizzazione, permissività, comunità di intenti, confronto con la
realtà. Cioè in una comunità, pure chiusa, vale, anche per i suoi
ospiti, un principio di eguaglianza e conta la ricchezza di un rapporto
con gli altri e con l’esterno. È una società complessa, che si disegna
secondo quelle che potrebbero essere, è auspicabile che siano, le
trame di una società «normale».
Nella clinica padovana, Basaglia è assistente del professor Giovan
Battista Belloni, sempre definito «accademico di vecchia tradizione»,
convinto fautore di un approccio strettamente organicista allo studio
delle malattie mentali. Organicista vuol dire credere che la malattia
nasca da alterazioni del cervello e che quindi il fondamento stia in
una corrispondenza anatomo-cerebrale e fisiologico-cerebrale. Lo
spiega Giovanni Jervis nel Manuale critico di psichiatria: «La
scoperta della origine sifilitica della paralisi progressiva sembrò
indicare il modello per lo sviluppo della psichiatria positivista.
Finalmente si era scoperta la natura di una malattia mentale: c’era
un germe, esso infettava il cervello, c’erano delle cause (e anche
delle colpe morali!), c’era una evoluzione, una anatomia patologica,
e c’erano conseguenze ereditarie».
Basaglia sembra incamminarsi verso una tradizionale carriera
accademica. Studia, scrive, ricerca e nella clinica padovana può
incontrare casi, cioè persone non solo sintomi da classificare, che gli
consentono di analizzare e verificare le più diverse situazioni di una
malattia. Dalla schizofrenia alla depressione, dall’anoressia agli stati
ossessivi, c’è una vasta possibilità di scelta per un giovane
ricercatore che abbia voglia di far carriera: lontano però da un
ospedale psichiatrico, da un manicomio, dagli odori, dalla sporcizia,
dalle violenze, dalle miserie di un manicomio… «Io ricordo che ero
alla clinica di Bologna e ricordo che avevamo il cortile del nostro
reparto che confinava con l’ospedale psichiatrico. Noi sentivamo le
persone urlare, pensavamo ad un mondo diverso e invece erano le
stesse persone che venivano ricoverate in clinica: quando andava
bene tornavano a casa, ma spesso andavano dall’altra parte del
cortile», ricorda in un’intervista, a cura di Francesco Bollorino e Lisa
Attolini, Nico Casagrande, che sarà uno dei giovani psichiatri di
Gorizia.
Tra il 1949 e il 1961 sono dodici gli anni che Basaglia trascorre a
Padova. Molti anni, che gli consentono di capire quale sia lo stato di
arretratezza della psichiatria italiana, ma anche di capire a quali
logiche sia piegata la ricerca universitaria. Anche la carriera
universitaria: non gli sarebbe dispiaciuto percorrere quella strada.
Che presto gli apparirà però troppo stretta: un orizzonte chiuso e
basso, oltre il quale non si intravvede l’interesse della scienza e
soprattutto il benessere di uomini, che la scienza vorrebbe curare.
Il risultato delle ricerche di Basaglia sono una gran quantità di
scritti, di pubblicazioni scientifiche, di relazioni congressuali sulle più
diverse condizioni di malattia quali poteva incontrare nella sua
pratica clinica: schizofrenia, stati ossessivi, ipocondria,
depersonalizzazione somatopsichica, depressione, sindrome
paranoide, anoressia, disturbi correlati all’abuso alcolico e altro
ancora. Sono anni in cui incomincia anche ad appassionarsi di
filosofia, studiando in particolare la fenomenologia e l’esistenzialismo
e cercando di conciliare la psicopatologia tradizionale con la
psichiatria antropofenomenologica.
Con il direttore della clinica, Basaglia continua a intrattenere un
rapporto formale di rispetto.
Belloni si presume stimi Basaglia, anche se lo avverte lontano.
Scruta i titoli dei libri sulla scrivania dell’allievo: Sartre, sicuramente,
Jaspers, Heidegger, Minkowski, Binswanger, Bleuler, Merleau-Ponty,
Cesare Musatti, i libri dello stesso Belloni. Alla fine lo chiama con
simpatia «il filosofo»: il filosofo Basaglia.
Nel 1958 Basaglia consegue la libera docenza in psichiatria.
Potrebbe continuare, verso la carriera universitaria. Ha molti dubbi.
L’accademia non promette molto, gli si presenta soprattutto come un
luogo dove si conservano gerarchie e lui è insofferente per natura,
per intelligenza, per curiosità, di fronte alle gerarchie. È proprio
Belloni a invitarlo a lasciar perdere, perché non si sarebbero aperte
concrete possibilità di successo. Anche per una questione di anni.
C’erano altri in lista prima di lui.
Assistente per dieci anni, «avevo imparato – scrive in La nave che
affonda – molte cose della logica istituzionale, cioè avevo
direttamente sperimentato come questa potesse distruggere una
persona e come ci si potesse ammalare di sindrome universitaria. A
un certo punto non ne potevo più e ho fatto in concorso per
l’ospedale psichiatrico».
Nel 1979, a Rio de Janeiro, in una conferenza, in un’aula strapiena
(erano sempre piene le aule, «Basaglia impressionava per la
potenza della sua pratica, per la sua vitalità, la vivacità del suo
pensiero non codificato, la capacità di ascoltare e di discutere, la
disponibilità a recarsi nei luoghi più lontani»), un giovane
universitario chiede allo psichiatra italiano quanto la sua esperienza
si sia riflessa nell’insegnamento della medicina e nella formazione
degli psichiatri in Italia. La risposta di Basaglia è amara, rievocando
le sue vicissitudini negli atenei italiani: «Penso che purtroppo la
nostra struttura universitaria sia una delle più reazionarie. È molto
difficile entrare nell’università, chiusa com’è dentro un recinto che
difende l’istituzione e l’insegnamento è ancora nelle mani del
vecchio potere universitario. Direi che tutto l’apprendimento reale
avviene fuori dall’università. La Società italiana di psichiatria, che è
nelle mani degli universitari, è una delle più reazionarie d’Europa e
cerca una situazione di cambiamento con metodi manipolatori e con
il riciclaggio di vecchie idee. Parla, ma non fa. Io sono entrato
nell’università tre volte e per tre volte sono stato cacciato. La prima
volta, dopo tredici anni come assistente universitario, quando ero
come si dice alla vigilia della cattedra, il professore mi dice “ascolti,
Basaglia, penso che sia meglio che lei vada a lavorare in
manicomio”. E così diventai direttore del manicomio di Gorizia. La
seconda volta, sull’onda della ribellione del Sessantotto, fui
incaricato dell’insegnamento di igiene mentale all’università di
Parma, incarico che ho esercitato per otto anni, durante i quali sono
stato isolato come un appestato. Fortunatamente avevo molti allievi
che frequentavano le mie lezioni e così spero di aver “corrotto” un
bel po’ di gente. La terza volta ho vinto il concorso nazionale per
ordinario e mi hanno proposto la cattedra di neuropsichiatria
geriatrica, con l’evidente volontà di emarginarmi. Ho preferito
rifiutare e tornare in manicomio…»
In un convegno a Mantova sulle nuove istituzioni della psichiatria,
nel dicembre del 1979, quindi pochi mesi prima di morire, un anno e
mezzo dopo l’approvazione della legge 180, Basaglia muove accuse
durissime: «L’università, da quando io mi sono laureato, ha protetto
in maniera reazionaria e fascista gli ospedali psichiatrici. Non si è
mai levata una voce, se non nei congressi, a dire che bisogna
cambiare questa legge, ma nessun professore universitario si è
sporcato una mano all’interno dei manicomi. Il professore
universitario ha sempre avuto le mani pulite, amministrando
l’insegnamento davanti ai letti d’ospedale, dicendo: questo è
schizofrenico, questo è maniaco, questo è isterico…»
Nel 1961 partecipa al concorso per la direzione dell’ospedale
psichiatrico di Gorizia, una città di caserme e di funzionari statali,
lungo un confine presidiato dai militari che si considera ancora ostile.
Di là ci sono i comunisti. Sulla stazione Transalpina campeggia
una stella rossa e la scritta: «Stiamo costruendo il socialismo».
Basaglia vince il concorso. Per la città è un normale
avvicendamento. Entra in manicomio: «Vi entrai per la prima volta
dopo tredici anni di addestramento in una clinica neuropsichiatrica
universitaria, dove avevo vissuto una lunga fase di preparazione che
avrebbe dovuto portarmi ad accettare come naturale la realtà
istituzionale di cui sarei stato responsabile». Ne racconta in pagine
dell’introduzione scritta per un libro di Maria Luisa Marsigli, La
marchesa e i demoni, pubblicato da Feltrinelli, vivace testimonianza
di molti anni trascorsi in un manicomio criminale. La marchesa era
accusata di omicidio.
«Avevo imparato che della malattia mentale si sa poco o niente e
che per questo viene per lo più definita incomprensibile. Che la
ricerca da parte degli uomini di scienza è sempre stata orientata
sulla causa della malattia, mai sul significato, perché la causa resta
invischiata nel malato, mentre il significato coinvolge il terapeuta e il
sistema di valori cui fa riferimento. Che è questo coinvolgimento
personale che il terapeuta tende a evitare, usando del suo ruolo
anziché come di uno strumento di liberazione per chi ha bisogno del
suo servizio, come un’arma di difesa che gli garantisce la distanza
necessaria a confermare la propria sovranità sull’altro.
L’addestramento alla medicina e in particolare alla psichiatria
consisteva quindi soprattutto nell’addestramento all’esplicazione di
un ruolo di potere e di prestigio, dove il sapere, la conoscenza
tecnica che avrebbe dovuto agire da presupposto al rapporto
terapeutico, si traduceva automaticamente in uno strumento (di per
sé antiterapeutico) di dominio e di distanza. Agli occhi del medico, il
malato nel momento in cui non risponde alla cura è sempre
colpevole della malattia di cui soffre, poiché mette in crisi gli schemi
di riferimento che sono l’unica sicurezza del terapeuta. Nella misura
in cui questi schemi non riescono a rispondere alla malattia e ai suoi
sintomi, è il malato responsabile di questo fallimento, mai il medico;
né i parametri cui egli si riferisce, dato che si tratta di valori codificati
e ormai indiscutibili che non hanno bisogno di trovare la loro verifica
nella realtà. Se la realtà non risponde, è la realtà che non rientra nel
quadro ed è la realtà che viene sacrificata per non smentire o
contraddire l’interpretazione che ne è stata data. Di qui l’aggressività
nei confronti di chi rappresenta implicitamente lo scacco.
«Ma a sacrificare la realtà, in questo caso, significare eliminare il
malato: o etichettandolo con giudizi di valore che non hanno niente a
che fare con una diagnosi scientifica; o liquidandolo concretamente,
facendolo trasferire dalla clinica universitaria, dove si ricoverano solo
i casi di interesse didattico, al manicomio. Secondo la classe sociale,
cioè le possibilità economiche, i malati refrattari al trattamento
vengono smistati nelle case di cura o nei manicomi.
«Anch’io, non risultando un caso sufficientemente interessante ai
fini didattici e mantenendomi in certa misura ancora refrattario
all’addestramento, sono stato smistato verso il manicomio».
Il lungo training universitario, il gioco di potere delle scuole, delle
ideologie, il mito della carriera, del prestigio pulito scientifico
neutrale, il silenzio delle biblioteche dove gli scienziati si dedicano ai
loro studi, il rispetto ossequioso dei malati intimoriti da questa
scienza, le spalle protette dal fantasma del direttore al quale si deve
deferenza e dedizione, i lavori scientifici «su un caso di trattato con»,
le comunicazioni ai congressi dove c’è sempre un pubblico disposto
ad ascoltare e a applaudire chiunque appartenga alla categoria:
questa è la piccola psichiatria universitaria dove si allevano i grandi
psichiatri, i cui risultati clinici e scientifici sono impliciti nella
definizione dell’incomprensibilità della malattia.
«Ma la grande psichiatria (come viene chiamata in gergo tecnico la
psichiatria manicomiale) è un’altra cosa e ad essa sono stati finora
riservati i più piccoli psichiatri, quelli che non sono riusciti a trovare
altre sistemazioni altrove: perché il manicomio può offrire sicurezza
protezione custodia, senza chiedere in cambio una preparazione
particolare. Il che non può non alimentare l’atmosfera di scetticismo,
cinismo, violenza che regna nelle istituzioni chiuse, dove psichiatra e
internato sembrano percorrere strade paradossalmente parallele».
Gorizia, metà di qua, metà di là, in mezzo la linea di
demarcazione. Come le mura del manicomio, che separano senza
possibilità di comunicare due mondi. A Gorizia Basaglia si trasferisce
con la famiglia, moglie due figli, Alberta e Enrico, in un appartamento
dentro il Palazzo della Provincia.
Ancora davanti ai suoi ascoltatori brasiliani, rievoca così quel
momento: «Dopo la seconda guerra mondiale l’Italia era un Paese
contadino a livello economico e culturale. Negli anni Cinquanta
cominciò un processo di cambiamento determinato dall’avvio della
società industriale e, conseguentemente, da una classe operaia
sempre più forte. Cominciarono così le lotte sindacali per un
cambiamento dell’Organizzazione dello Stato. In quegli anni
iniziammo il lavoro a Gorizia, una piccola città alla frontiera con la
Jugoslavia».

23

In quegli anni, i primi di Gorizia, è un’Italia all’apice del boom, prima


del declino tra la fine del 1963 e il 1964, prima cioè di quella che
allora si chiama «congiuntura economica», un tempo che la politica
di governo presenta come breve, occasionale, presto scavalcato. Il
«miracolo economico» è il miracolo dei consumi che crescono, dei
frigoriferi che compaiono in tante case, della Seicento, della
televisione, ma è anche la pena dell’emigrazione dal Sud e dal
Veneto di contadini poveri, semianalfabeti, verso il Nord industriale,
sradicati, privati di una propria storia, di una propria tradizione,
lontani dalla famiglia. Che cosa ne potrebbe venire? Spaesamento,
smarrimento, estraneità… Il contrario della presenza, quando
presenza significa esserci come persone dotate di senso, in un
contesto dotato di senso. È il «miracolo» di una ricchezza che non si
distribuisce, che si moltiplica nell’esportazione, che in Italia crea
squilibrio tra Nord e Sud, tra campagna e città, tra centro e periferie.
Nel 1960 un film descrive le tragedie di quei cambiamenti, il costo
del miracolo, Rocco e i suoi fratelli, di Luchino Visconti. Sono le
tragedie e i costi che sopportano i malati di Gorizia, molti sono
contadini e profughi: non reggono la prova di un nuovo paese.
Gli storici, come Guido Crainz nel suo saggio sull’Italia dal
miracolo economico agli anni Ottanta, Il paese mancato, osservano
«sperequazioni sociali e distorsioni». Si moltiplicano auto e moto, si
allungano le autostrade, quella Autostrada del Sole tra Milano e
Napoli viene inaugurata dal presidente Segni nel 1964, ma nello
stesso anno il ventidue per cento delle famiglie italiane ha cambiali
in corso, il trentasette per cento non gode di alcuna gratifica
natalizia, «Il Giorno» denuncia che a Milano e provincia mezzo
milione di persone non arriva alla licenza elementare, due milioni di
italiani sono ancora senza luce elettrica. Don Milani scrive che «la
luce elettrica a Barbiana è stata portata quindici giorni fa, ma le
cartoline di precetto hanno cominciato a portarle a domicilio fin dal
1861» e nella Lettera a una professoressa racconta di Sandro e
Gianni: «Sandro aveva 15 anni. Alto un metro settanta, umiliato,
adulto. I professori l’avevano giudicato un cretino. Volevano che
ripetesse la prima per la terza volta. Gianni aveva 14 anni. Svagato,
allergico alla lettura. I professori l’avevano sentenziato un
delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per
levarselo di torno. Né l’uno né l’altro avevano intenzione di ripetere.
Erano ridotti a desiderare l’officina. Sono venuti da noi solo perché
noi ignoriamo le vostre bocciature e mettiamo ogni ragazzo nella
classe giusta per la sua età. Si mise Sandro in terza e Gianni in
seconda. È stata la prima soddisfazione scolastica della loro povera
vita. Sandro se ne ricorderà per sempre. Gianni se ne ricorda un
giorno sì e uno no». Sandro e Gianni sembrano destinati
all’esclusione, la scuola di Barbiana forse li sottrae a quel destino
comune a molti altri ragazzi: per il cretino sono sempre aperte le
porte del manicomio, pazienza se è vittima senza colpe di uno
sviluppo disordinato, che genera lacerazioni nella società, che incita
all’individualismo, che isola i deboli, che riempie i brefotrofi, gli
ospizi, i manicomi.
L’Italia si lascia alle spalle il luglio sessanta del governo Tambroni
e della rivolta operaia. A febbraio del 1962 la Dc di Aldo Moro a
congresso decide di aprire la maggioranza al socialisti. Quasi due
anni dopo, nasce il primo governo di centrosinistra: lo guida Aldo
Moro, vicepresidente del consiglio è Pietro Nenni. Il ministero della
Sanità toccherà successivamente a due socialisti: prima Mancini e
poi Mariotti.
3. L’INVENZIONE DI GORIZIA

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«A Gorizia c’era un ospedale di cinquecento letti diretto in maniera


del tutto tradizionale, dove erano usati elettroshock e insulina, un
ospedale dominato in primo luogo dalla miseria, la stessa che
incontriamo in tutti i manicomi. Nel momento in cui vi entrammo
dicemmo no, un no alla psichiatria, ma soprattutto un no alla
miseria.» Gorizia presentata ai brasiliani.
Solo una minoranza di degenti si potrebbero definire veri malati
psichiatrici. Per il resto si tratta di vecchi alcolisti. Una donna è lì,
dopo essere stata ad Auschwitz: «…nel lager dove ero io era anche
la povera principessa Mafalda». È la voce di Carla, nelle prime
pagine dell’Istituzione negata. Carla con Basaglia diventa segreteria,
deve seguire le riunioni dei signori medici e quindi riferire sul
bollettino giornaliero e poi lei scrive anche sul Picchio, il giornale di
Gorizia, mensile.
Quasi sempre persone povere dentro nove padiglioni a due
piani… Il manicomio è il mondo degli oppressi, degli abbandonati,
degli espulsi, dei nascosti. «Il malato mentale è malato soprattutto
perché è un escluso, abbandonato da tutti; perché è una persona
senza diritti, nei confronti del quale tutto è possibile».
All’inizio Gorizia si chiama «Ospedale Psichiatrico Francesco
Giuseppe I». Viene distrutto completamente dalle bombe della
Grande Guerra. Raso al suolo. I malati se ne vanno: chi passa in
altri manicomi, chi se ne torna a casa, chi finisce non si sa dove.
Basaglia, in una delle conferenze a Rio, ricorda altre bombe di
un’altra guerra: «Era stata bombardata una piccola provincia,
Ancona, in cui c’era un manicomio. Una bomba era caduta sul
manicomio e non lo aveva distrutto, ma la maggior parte dei malati
era fuggita. Si era nel pieno delle guerra e nessuno aveva il tempo di
pensare dove stavano i matti e i non matti… c’erano problemi ben
più urgenti, altri pazzi si sparavano l’un l’altro. Dopo la guerra,
quando si tornò alla normalità, la gente cominciò a domandarsi dove
stavano i malati di mente. Molti non furono trovati, ma alla fine si
scoprì che alcuni di loro stavano vicino al manicomio, vivendo e
lavorando come qualsiasi altra persona. Questo indusse alcuni
psichiatri a pensare che il trattamento di quei malati, di quegli
internati, potesse essere fatto in modo diverso. Ma questo fatto non
ebbe alcun seguito…» La bomba devasta il manicomio di Ancona,
l’otto dicembre 1943, muoiono tre medici, quattro suore, sei
infermieri, trentadue matti. I malati scampati per una parte vengono
rinchiusi nel manicomio di Sassoferrato, per un’altra finiscono ospiti
in una scuola in città. Una scuola non è una prigione, le porte sono
aperte, non ci sono sbarre alle finestre, i malati vanno e vengono,
molti trovano da lavorare in campagna o per sgomberare macerie.
Non ci si ricorda di loro. Terapia per caso, come scrive vent’anni
dopo il direttore d’allora, Emilio Mancini.
Il manicomio di Gorizia viene ricostruito negli anni Venti, nello
stesso posto, trenta ettari, un grande parco, tanti padiglioni e una
colonia agricola per quattrocento ricoverati.
A una settimana dal suo ingresso, Basaglia incontra gli internati.

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A Gorizia, ora, si può percorrere un luogo fresco e ventilato, il parco


Basaglia, ombroso e pacifico, che nel rispetto delle memorie
patriottiche si apre da via Vittorio Veneto. Dal centro prendere dritto,
grande curva a sinistra e poi diritto ancora. Da via Vittorio Veneto
sulla destra si vede intanto una casa color ocra con i bordi rossi
cupo. È ristrutturata in mini appartamenti per ospitare matti di
passaggio. La casa era dell’economo, uno dei «poteri» che
governavano il manicomio di Gorizia. Enzo Quai nel manicomio è
infermiere per quarant’anni. Entra appena finito il militare, per
raggiungere il ventisette sicuro, la fine del mese con uno stipendio, il
posto fisso. Ne è uscito per la pensione. Uscito per modo di dire.
Abita in una villetta a schiera ai margini del parco e continua a
frequentare i matti e i laboratori, come volontario. Li vede dalla
finestra di casa. Il suo mestiere all’origine era di falegname. «Allora
c’erano seicentocinquanta ricoverati, uomini e donne rinchiusi nelle
camerate. Era un lager. E basta. Dopo il primo giorno di lavoro
pensai di non tornare più, malgrado lo stipendio. Adesso non riesco
ad allontanarmi. Il manicomio mi ha dato tutto. Il senso della vita, dei
rapporti, degli altri. Anche la dignità. Con me entrò Basaglia e
cominciammo a rompere tutto, dapprima da isolati, lui solo e pochi di
noi giovani. Basaglia contestava anche il potere degli infermieri, che
nelle camerate ne esercitavano tanto, in modo solo coercitivo,
punitivo». Il cartello «Parco Basaglia» è nuovo. Sotto corrono altri
cartelli che annunciano le attività: teatro, archivio, stamperia e
rilegatoria, falegnameria, serre, società, cooperativa eccetera. La
palazzina della direzione è degli anni Trenta, imponente, severa. È
un esercizio di potere, anche nelle forme. Camminiamo tra i vialetti:
«Questo era un padiglione di ricoveri temporanei: si entrava in
osservazione e alle spalle si chiudevano pesanti porte di ferro.
Questi altri, bassi, grigi, uno dietro l’altro sono le palazzine dei
degenti». Doppia inferriata al posto delle finestre. Da un vetro rotto
sbircio: lunghi corridoi bianchi, stretti, soffitti altissimi. Di fronte, su
due o tre piani, la casa delle suore: un cubo centrale e due
avancorpi ai lati, che danno importanza. Sotto, nell’ammezzato, le
cucine… Con sgomento: è l’ordine severo e gerarchico di un lager.
«Questo è il campo, una volta coltivato a granturco, dove Basaglia
organizzava le prime feste. Qui correvano le recinzioni. Quello è un
muro di confine con la Slovenia. Capitava che scappassero di là ed
allora erano guai diplomatici per ritrovarli. In questo spiazzo si
sistemava il brear, il tavolaccio in dialetto, attorno al quale ci
sedevamo per mangiare. Basaglia venne e fece la rivoluzione…»
Quai esita sulla parola, come in un rimorso. Ma no, fu proprio
rivoluzione, la più clamorosa in Italia. Ridare una faccia, un’anima,
persino un abito a chi s’era visto sottrarre tutto, persino uno specchio
in cui guardarsi. Proprio una rivoluzione di classe: «I nostri ricoverati
erano i poveri. I ricchi fin che avevano soldi frequentavano le cliniche
private. La diffidenza attorno era grandissima. Non ci volevano. Però
ha vinto Basaglia che era un uomo straordinario, meraviglioso,
bisognerebbe ricordarlo sempre. Ai politici non piaceva: turbava,
rompeva, non dava quiete. Il momento più difficile fu quando ci
lasciò. L’entusiasmo si calmò, ci si ritrovò un po’ immobili. Poi ci
siamo rimessi in movimento. Anche con l’ultima direzione. Ma niente
è scontato e c’è da temere che certe situazioni si ripropongano.
Chiedono sempre rivincite e rinchiudere è la medicina più facile».
Che cosa cerca invece Basaglia? «L’apertura. Aprire il manicomio.
Perché aprire il manicomio era libertà. Lasciare che la gente
entrasse e che la gente uscisse, ristabilire il passaggio con l’altra
società. Il lavoro era un mezzo, era lo scambio con l’esterno. I
ricoverati lavoravano di già e ricevevano in premio tre sigarette.
Basaglia voleva invece che il lavoro fosse vero, fosse utile e quindi
fosse retribuito. Si cominciò con le cinquecento lire: era il segno
della responsabilità.»
Nei vialetti del parco cammina ancora qualcuno. Sono i vecchi,
quelli che non hanno trovato la loro strada. Altri vanno e vengono.
Lavorano nelle cooperative, contadini o operai, frequentano gli
ambulatori, a sera possono tornare alle loro case. Il confine s’è
perso.

26

Capita che i manicomi crescano nel verde di parchi rigogliosi:


Milano, Trieste, Roma. Quando descrive il manicomio di Gorizia, che
visita qualche anno dopo l’arrivo di Basaglia, quando i cancelli sono
ormai abbattuti, Nino Vascon, giornalista della Rai, per prima cosa
misura il verde: «La comunità goriziana opera su una vasta area
verde ombreggiata di alberi secolari, sui quali sono distribuiti nove
padiglioni a due piani, i servizi, la chiesa e una fattoria agricola… Gli
ammalati sono cinquecento, gli infermieri centocinquanta, i medici
nove, più una psicologa; un cappellano, alcune religiose, assistenti
sociali e volontari completano l’organico dell’istituto. Gli ammalati
vestono abiti borghesi e non il camice grigio ancora in uso in molti
ospedali italiani, sicché ognuno è libero di mettersi addosso quello
che più gli piace secondo il suo gusto e le sue possibilità».
Ancora è il verde che colpisce il visitatore, il verde la libertà di
aggirarsi tra quei viali ombrosi. Immagini idilliache. Dov’è il
manicomio? «È raro trovare un ospedale situato in un parco così
bello, grande e ben tenuto, continuamente rallegrato dal canto di
migliaia di uccelli d’ogni specie e fa pena pensare che fino a pochi
anni fa erba, alberi, fiori, canto degli uccelli servivano a rendere
soltanto più triste la vita dei degenti. Adesso l’area è praticamente
aperta a tutti, perché al posto del così frequente: “è severamente
proibito entrare se non ecc. ecc.”, c’è un cartello che invita la gente a
far visita agli ammalati…» Far visita ai matti: quelli che urlano, si
agitano, tentano di aggredire il medico, l’infermiere, il visitatore,
persino quando ha il volto di un parente… non ci sono più. Se ne
sono andati.

27

Strana storia è quella dei pazzi e strani i mezzi che nei secoli
vengono adoperati per difenderli, liberarli, guarirli, escluderli,
occultarli. Dico strana perché continuiamo a considerarla
«estranea», lontana da noi, la temiamo o la tolleriamo purché non
interferisca, ignorata e poi conosciuta grazie a un ascolto viziato
dalla paura o dalla pietà.
I pazzi vengono considerati castigati o ispirati dagli dei e quindi
giudicati ora pericolosi ora sapienti sotto mentite apparenze. Li si
può temere, ma si può averne pietà, li si incatena, ma si può
pensare anche alla loro libertà. La loro miseria non si insinua tra
l’umiliazione terrena e la gloria dei cieli, l’umiliazione per la gloria,
ma diventa ragione del disordine e quindi colpevolezza. Michel
Foucault, nel suo libro più celebre, Storia della follia nell’età classica,
coglie questo passaggio tra sedicesimo e diciassettesimo secolo,
quando il sistema del welfare, pubblico o privato, s’incarica di
estirpare il disordine. Vietato mendicare e chi è colto nelle strade a
mendicare è colpevole, la sua mendicità dimostra il rifiuto di quanto
l’assistenza pubblica e privata gli mette a disposizione. La miseria è
la pena di chi non sa vivere come gli altri, di chi non si consegna alle
regole della società dominante. La miseria «scivola da un’esperienza
religiosa che la santifica a una concezione morale che la condanna».
Al termine di questa evoluzione si incontrano le grandi case
d’internamento. È un inizio, è il primo mattone di una storia che si
glorifica anche nei manicomi.
Basaglia studia la malattia dei matti e la loro miseria. Il manicomio,
come lo trova nell’Italia degli anni Sessanta, non è un libro, è una
prova materiale della debolezza della psichiatria e dell’imperativo
che si sono imposte le pubbliche istituzioni (anche la Chiesa),
difendere la comunità dei normali, cioè di chi rispetta la norma,
impedire lo spettacolo osceno. Il manicomio è una prigione con i ferri
alle finestre, i chiavistelli, le camicie di contenzione, i legacci, la
tortura. Le gabbie e poi i farmaci.
«Ci mettevano un lenzuolo bagnato intorno alla faccia e dopo
stringevano forte, forte e ci buttavano acqua sulla faccia, roba che
restiamo morte.»
«Avevamo i letti con la rete intorno e c’erano i lucchetti parte per
parte ed io ero chiusa dentro.»
«…ci facevano l’elettroshock.»
«…eravamo tutti legati col giubbetto. Alcuni attorno agli alberi, altri
attorno alla panca e fino alla sera non ci slegavano più… Eravamo
tutti sporchi addosso. Alla sera ci slegavano e ci mettevano a letto,
legati polsi e caviglie…»
«…a me mi legavano i piedi con le cinghie di cuoio.»
Il manicomio è una delle tante prigioni, che non dovrebbero essere
prigioni. Le altre si chiamano orfanotrofi, case di riposo, cliniche. Ci
finiscono dentro malati, irrequieti, orfani, solitari, sognatori,
miserabili, combattenti, ex partigiani, artisti…

28

«Ciascuno di noi ha una certa probabilità (crescente) di essere


giudicato malato di mente e forse ricoverato in manicomio.» Così
Giovanni Berlinguer, allora docente di medicina sociale e consigliere
provinciale del Pci a Roma, apre il suo saggio, Marxismo e
Psichiatria, pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1969. Malato di mente,
manicomio: la via è questa, Berlinguer sostiene che è facile
imboccarla. Una rivista in un numero alla fine del 1968 fa i suoi conti,
un po’ grossolani, e riferisce che in Italia i soggetti da riabilitare
sarebbero sette milioni. La rivista ha un nome rassicurante,
promettente: «La riabilitazione». Sette milioni di «anormali», nel
1968, si chiamano ancora così, psichici e fisici, comunque fuori dalla
norma: miopatici, paraplegici, spastici, subnormali, artritici gravi,
mutilati, invalidi, colpiti da affezioni senili, da disturbi locomotori e da
altre minorazioni. «Mentecatti» li si definisce ancora nell’Ottocento.
Mentecatto, «mente captus», dal latino, «preso alla mente». Un
italiano su sei. Prima ancora li si chiama, ad esempio, deboli de
cervello, locchi, mattocchi, matochine, balordi, merloche, mattarelle,
matigne, pazzi, matti da cadena, matti di tempo in tempo, alquanto
fuori di sé, destinati al ricovero, con gli storpi o i lebbrosi, con i
vecchi infermi o semplicemente con i poveri e con i ladri, quando
l’assistenza cristiana nei primi secoli del secondo millennio comincia
a mostrare la sua carità.
Mentre Berlinguer scrive Marxismo e Psichiatria, i matti ricoverati
nei manicomi sono centomila. Centomila, un numero tondo, che
ritorna… Le statistiche, i conti del passato e le previsioni
imporrebbero che i posti letti venissero raddoppiati. Ma non accade.
Siamo alla fine di un decennio particolare, che discute, contesta,
cerca di chiudere, per il momento, un’epoca: quella in cui si crede,
tutti in fondo credono, che gli anormali vadano curati, assistiti, ma
soprattutto esclusi, rinchiusi, nascosti, segregati. Per l’ordine:
rispettare o ristabilire l’ordine. Il manicomio è un luogo chiuso, dentro
contro fuori e fuori è la società. Ma è anche un ospedale dove si
pensa talvolta di curare i malati, cioè i reclusi. Lo si crede con spirito
umanitario. Purtroppo lo spirito umanitario va a rimorchio del profitto,
perché le cure qualcuno le deve pagare, e rispetta la volontà di
difesa del sistema sociale da ogni tentativo di minarne le
fondamenta.
Scrive Berlinguer: «Nel campo specifico della psichiatria e della
psicologia, che collaborano in modo sempre più stretto con le altre
attività repressive di ben maggiore rilevanza (quali la soppressione
delle libertà democratiche, il regime oppressivo della fabbrica, l’uso
politico della polizia e dell’esercito, la manipolazione delle
informazioni, l’autoritarismo scolastico ecc.), si possono distinguere
probabilmente tre linee di azione: 1) la tendenza della società ad
allontanare da sé la contraddizione, segregandola nelle istituzioni
specializzate oppure appaltandola ad un corpo speciale (medici,
psichiatri, psicologi); 2) la spinta ad accettare la distruzione della
personalità non come male, ma come prezzo inevitabile da pagare al
progresso, o persino come bene; 3) la diffusione di teorie che
mascherano la storicità del conflitto di cui è espressione non solo la
malattia psichiatrica, ma ogni altra malattia che abbia una diffusione
di massa. Potremmo descrivere sommariamente queste tre linee
intitolandole rispettivamente all’utilità delle psicopatie, agli svantaggi
della personalità, alle colpe dei disadattati».
Giovanni Berlinguer si rifà a un sociologo, Talcott Parsons, che
definisce «borghese», americano di Colorado Springs, morto a
Monaco di Baviera nel 1979. Parsons studia come si realizzi
l’equilibrio di un sistema sociale. In un libro del 1951 (Il sistema
sociale) sostiene che «dal punto di vista della stabiltà del sistema
sociale il ruolo del malato può essere meno pericoloso di altre
alternative». Meglio un uomo malato di un uomo libero. La tesi di
Parsons regge se il malato accetta tranquillamente il suo ruolo e
purché vi sia un sistema efficiente di istituzioni e di intermediari che
amministrino questa parte del meccanismo generale di controllo
sociale. Torna Berlinguer, che continua: «Dietro il rapporto
umanitario che dovrebbe essere proprio della medicina si nasconde,
quindi, molto spesso, ciò che Basaglia chiama “un rapporto di
sopraffazione di violenza fra potere e non-potere”, nel quale ad
alcune categorie di tecnici (Basaglia parla di psichiatri sociali,
psicoterapeuti, assistenti sociali, psicologi di fabbrica, sociologi
industriali ecc.) viene affidato il compito di “mistificare – attraverso il
tecnicismo – la violenza, senza tuttavia modificarne la natura;
facendo sì che l’oggetto di violenza si adatti alla violenza di cui è
oggetto, senza mai arrivare a prenderne coscienza e poter
diventare, a sua volta, soggetto di violenza reale contro ciò che lo
violenta”». È il Basaglia delle Istituzioni della violenza (da
L’istituzione negata). Far accettare «l’inferiorità sociale dell’escluso,
così come lo riusciva a fare, in modo meno subdolo e raffinato, la
definizione della diversità biologica che, per altra via, sanciva
l’inferiorità morale e sociale del diverso…»
Leggiamo ancora Berlinguer: «Questo tessuto di disumanità si
nasconde, nella pratica quotidiana, dietro un velo vaporoso e
impalpabile, ed avvolge perciò i protagonisti lasciando molte pieghe
disponibili per i buoni sentimenti e le buone azioni. Si restringe
tuttavia fino a divenire (talvolta letteralmente) una camicia di forza
nelle istituzioni psichiatriche, nei ricoveri, negli asili, il cui potere e
non-potere si contrappongono in tutta la loro crudezza. Ciò accade
in Italia in modo più esteso e aspro che altrove, per una tradizione
medioevale non ancora spenta, per l’intreccio sempre esistito (dallo
Stato Pontificio fino al regime della Dc) fra assistenza e potere, per il
disinteresse dello Stato, per la corsa al profitto che trasforma molte
attività sanitarie in affari».
Molti italiani se ne accorgono, si accorgono come la legge brutale
del profitto infranga regole giudicate inalterabili nel sistema della
cura e dell’assistenza. Regole d’umanità tradite. Scoppiano gli
«scandali». Quello dei celestini, perché nel 1966 sulle prime pagine
dei giornali si cominciano a leggere le storie del Rifugio Maria
Assunta in Cielo, aperto a Prato da padre Leonardo, inventore di un
ordine mai riconosciuto dalla Santa Sede, ma assai apprezzato dal
vescovo di Prato… I celestini sono orfani, bambini abbandonati,
bambini che passano all’archivio come «disadattati». Il «rifugio»
accoglie, per statuto, «soltanto chi, non essendo fornito di mezzi
economici, neppure modesti, e non potendo trovare ricetto altrove,
sia a se stesso abbandonato». Ne scrive in un libro Bianca Guidetti
Serra, Il paese dei celestini. Bianca Guidetti Serra, l’avvocato di
Torino, torna a quella storia molti anni dopo in un altro libro (Bianca
la rossa) e la ricorda così: «Qui era morto il giovane Santino Boccia,
orfano di madre e con il padre in ospedale psichiatrico: per
l’omissione di cure sanitarie vennero accertate responsabilità penali
e da questo episodio erano partite le indagini sul funzionamento
dell’istituto che avrebbero portato al riscontro di fatti delittuosi “in un
complesso di attività persecutorie dirette ad avvilire ed opprimere in
modo durevole la personalità delle vittime… nella coscienza e
volontà di ottenere questa durevole sottomissione”. Tralascio
particolari raccapriccianti sulle vessazioni imposte da metodi
“educativi” che, in un misto di brutalità e ignoranza, configuravano un
ambiente definito nella sentenza “allucinante e sinistro, tale da
apparire, alla luce di ogni esperienza umana, al di fuori di ogni
accettabile realtà”. Trascrivo solo, sempre dal testo della sentenza,
un episodio che sembra ritagliato dalle pagine di un feuilleton
ottocentesco, e proprio per questo più straziante: “…allorché il
pubblico ministero ebbe chiesto a Francesco se fosse vero che
Carmela costringeva i bambini a leccare il pavimento,
spontaneamente si alzò e, davanti al magistrato, si mise carponi e
cominciò a fare dei segni sul pavimento con la lingua. Chiestogli
spiegazioni rispose: Io credevo che lei mi avesse ordinato di fare dei
segni in terra, come me li faceva fare sorella Carmela».
Le denunce dei maltrattamenti nel Rifugio di padre Leonardo
risalgono ai primi anni Sessanta. Il prefetto, dopo l’inchiesta, afferma
«la funzione utilissima del Rifugio, l’opera disinteressata e
ammirevole di padre Leonardo e il rapido sviluppo che comprova la
piena validità dell’ente».
Si va a processo nel 1968, a Firenze. Bianca Guidetti Serra è
avvocato di parte civile. La prima udienza cade la mattina dell’8
novembre. Si entra nel vivo nel pomeriggio, quando viene ascoltato
Alighiero Banci, fratello Ludovico, sposato figlio del campanaro della
chiesa di Carmignano, da undici anni giardiniere e sorvegliante. È un
uomo modesto, ingenuo, intimorito. Presidente: «Ha mai percosso
qualcuno dei ragazzi?» Fratello Ludovico: «Nego nel modo più
assoluto di aver cagionato ecchimosi o contusioni ai ragazzi: nego di
averli percossi con bacchette di legno. Solo qualche scappellotto. È
vero che ho fatto leccare il pavimento in terra ai ragazzi, specie nella
cappella, ma poche volte. Talvolta, se uno parlava, gli facevo fare un
segno di croce in terra con la lingua». P.M. dottor Vigna: «A quanti
ragazzi ha fatto fare la croce in terra?» Fratello Ludovico: «A una
decina di ragazzi. Tale punizione non la davo tutte le volte che i
ragazzi parlavano, e ciò per coscienza. Del resto anch’io con la
lingua facevo le croci per terra». Presidente: «Perché?» Fratello
Ludovico: «Per devozione». Così da un resoconto dell’«Unità» del 9
novembre 1968. Depongono anche le piccole vittime, come
Domenico, otto anni: «Suor Teofila mi afferrò per un braccio e mi
picchiò con la frusta che teneva nel camerone. Mi colpì alla schiena.
Mi scappò la pipì e me la fece leccare tutta. Io piangevo, ma lei mi
teneva giù. Poi la sputai tutta».
29

I celestini non sono soli. «Legati mani e piedi con catene di ferro al
letto, dalle sette di sera alle sette dell’indomani: così decine e decine
di bambini passavano la notte dopo una giornata di sevizie e di
percosse in una casa di Grottaferrata, nei Castelli Romani, adibita da
una ex suora ad istituto di assistenza per minorati psichici.» Le prime
denunce risalgono alla metà degli anni Sessanta. Ma la scoperta è
del 1969, a giugno, quando la polizia fa irruzione nell’edificio e si
trova davanti «a uno spettacolo allucinante»: una trentina di bambini,
fra i tre e i dodici anni, tutti subnormali, ammucchiati come bestie sui
letti. «Quindici ragazzi, due per ogni letto, sono incatenati con le
braccia alle sponde metalliche dei letti, i piedi degli uni legati ai piedi
degli altri con robusti legacci di stoffa del tipo di quelli usati nei
manicomi per immobilizzare gli ammalati di mente sui cosiddetti letti
di contenzione, denutriti, assetati perché di proposito non veniva
dato loro da bere fin dal pomeriggio, doloranti per le percosse
quotidiane ricevute, con gli occhi devastati dal terrore…» La polizia,
che con un sotterfugio, facendosi precedere da un genitore in visita
al figlio ricoverato, riesce a entrare non annunciata nel lager di
Grottaferrata, li trova così, «in un ambiente lurido, maleodorante, nel
quale risuonano i lamenti disperati delle piccole vittime» (su «l’Unità»
del 9 giugno).
La direttrice di questo istituto, intitolato a Santa Rita, si chiama
suor Colomba, cioè Maria Diletta Pagliuca. È un ex suora, ha
cinquantanove anni quando viene arrestata e rinchiusa a Rebibbia.
In dodici anni accumula soldi e benevola attenzione, estende la sua
attività, si merita persino la benedizione del vescovo di Frascati e
una fotografia la ritrae in visita al Santo Padre. Accumula anche
denunce, ma non cambia nulla. «Protezioni forti», denunciano i
giornali. Anche di fronte alla morte di quattro ragazzi, per
broncopolmonite, costretti dopo bagni gelidi a starsene d’inverno
senza niente addosso. Come nei lager, quelli nazisti.
Quando la vicenda viene a galla, grazie all’indagine paziente e
onesta di un carabiniere, lo scandalo è nazionale, l’Italia si
commuove, Diletta Pagliuca sale a simbolo di tutte le infamie
perpetrate ai danni di poveri bambini, indifesi, perché soli, segregati,
sottratti a qualsiasi rapporto con l’esterno. Le accuse formulate a
carico della direttrice comprendono «maltrattamenti aggravati e
continuati», «gravi lesioni», l’aggravante dei «motivi per lucro»,
«truffa a enti pubblici» e «sequestro di persona». Ma le condanne
sono miti: quattro anni e qualche mese, concessione di attenuanti
generiche e assoluzione per i reati più gravi. Le «condanne» per i
piccoli ospiti, invece, sono a vita, segnati nell’infanzia da una
violenza che non così di rado perpetreranno su altri in età adulta. Il
ministro della Sanità, Ripamonti, promette che non succederà più:
una nuova legge consentirà di evitare «episodi drammatici ed
agghiaccianti» (intervista a «Il Messaggero», 21 giugno 1969). Una
circolare governativa invita i prefetti a vigilare.

30

«A poca distanza da Grottaferrata – descrive Giovanni Berlinguer –


sorge, per i vecchi, l’ospedale psichiatrico provinciale di Ceccano. Vi
sono due medici per 750 malati: possono visitarli sono quando
prendono una malattia infettiva, e li ricoverano in infermeria. Per il
resto i degenti stanno in 100-150 in un camerone che serve anche
da refettorio, e sebbene il regolamento prescriva 6 metri quadri a
persona, ognuno ha a disposizione un metro e mezzo. I letti sono
ammassati nelle camerate e in lunghissimi corridoi, anche privi di
finestre, e i malati non hanno lo spazio per scenderne senza passare
sul corpo del vicino. Per quaranta cinquanta degenti si ha un
gabinetto di due metri per uno. In compenso, vige ancora l’articolo
50 del Regolamento del 1936, secondo il quale ai ricoverati che
imbrattano le camere con le feci si deve praticare un clistere
evacuante due volte al giorno, in modo da privarli del pericoloso
corpo del reato. Un altro articolo, il n.34, prescrive che oggetti
sovversivi come libri, calami e penne devono stare sempre chiusi in
un armadio speciale o in un altro luogo lontano dai degenti: ad essi
non deve restare altra scelta che rimanere nei reparti col volto
inebetito, senza poter impiegare quel poco o quel molto di pensiero
che riescono ancora a mantenere. Nessuna parte d’Italia, è esente
da queste macchie, nessuna provincia è priva di istituzioni
repressive che si chiamano ospedali psichiatrici, o cronicari, o asili, o
riformatori, o istituti medico-psicopedagogici».
Giovanni Berlinguer visita l’ospedale psichiatrico di Ceccano nel
1967. Ceccano nel 1967 non è diverso da Gorizia nel 1961, a
novembre quando Franco Basaglia, a trentasette anni, diventa
direttore.
Questi sono i manicomi in Italia, regolati ancora secondo una
legge del 1904, ancora secondo una legge di inizio secolo, arrivata
tardi rispetto ad altri paesi d’Europa (in Francia accade nel 1838,
integrando la nuova specialità medica nell’ordinamento statale) e
malgrado numerosi disegni legislativi presentati sin dal 1850, ai primi
passi dell’Unità. Questo nonostante di manicomi e di matti, illustri
alienisti discutano da tempo e malgrado un esempio lontano, che
risale addirittura al 1774, quando Pietro Leopoldo di Toscana
promulga la sua «Legge sui pazzi», per il collocamento dei folli in
manicomio, affidandosi a collaboratori che ben conoscevano i
principi degli illuministi francesi e, poi, per l’attuazione delle sue
riforme, tra gli altri a Vincenzo Chiarugi, formatosi alla scuola di
medicina di Pisa (dalla quale esce nel 1780). Chiarugi viene
incaricato della cura degli ospedali fiorentini e in particolare di
redigere il regolamento dell’Ospedale di Bonifazio, dove «cento
camere ventilate e fornite di tutti comodi, ed utensili occorrenti, con
Deposito, Spogliatojo, Bagni, Corridori, Oratorio, o Coretto per
comodo di udir la Messa, e passeggi erbosi, formeranno la porzione
di fabbrica, da destinarsi ad uso di Spedale dei Dementi Uomini»
(Regolamento dei regi spedali di Santa Maria Nuova e di Bonifazio,
Firenze 1789). Altre cento camere si vedono riservate alle donne.
Per uomini e donne, dunque, si provvede a cura, assistenza, asilo:
pagano i ricchi, i poveri invece a spese della comunità, «giacché si
tratta non solo di sollievo per simili infelici, ma di un provvedimento
troppo utile, e necessario per la pubblica quiete e sicurezza». Il
Regolamento indica anche la disposizione dei malati, nei diversi
reparti, secondo le accertate condizioni.
Chiarugi li studia da vivi e da morti e si serve di tante osservazioni
per scrivere il suo trattato, Della pazzia in genere e in specie.
Trattato medico-analitico con una centuria di osservazioni (Firenze,
1793) e per sostenere che tutto il male, «Delirj» li chiama Vincenzo
Chiarugi, deriva da lesioni della sede del Sensorio comune, cioè del
cervello. L’anima è incolpevole: immutabile nella sua essenza,
inalterabile nella sua sostanza, inattaccabile da quelle affezioni, cui
va soggetta la materia, e che costituiscono le malattie. Impalpabile e
innocente.

31

Nel 1904, la legge Per la custodia e la cura dei mentecatti, undici


articoli in tutto, è il primo passo del nuovo Stato per i manicomi. Al
governo da un anno siede Giovanni Giolitti. Fino al 1904 gli istituti
dedicati al ricovero dei folli sono retti da regolamenti diversi e
indipendenti l’uno dall’altro. Le nuove «disposizioni sui manicomi e
sugli alienati» stabiliscono che il ricovero sia previsto per i soli malati
pericolosi o che diano pubblico scandalo. Recita l’articolo 1:
«Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette
per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano
pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non
siano e non possano essere convenientemente custodite o curate
fuorché nei manicomi». Recita l’articolo 2: «L’ammissione degli
alienati nei manicomi deve essere chiesta dai parenti, tutori o
protutori, e può esserlo chiunque altro nell’interesse degli infermi e
della società». Nell’interesse dell’infermo e della società. Singolare
affermazione, senza considerare la possibilità che gli interessi non
coincidano e quale interesse, nel caso, debba prevalere. L’articolo 3
si dedica alle possibili dimissioni degli «alienati guariti». All’articolo 4
si stabilisce: «Il direttore ha piena autorità sul servizio sanitario e
l’alta sorveglianza su quello economico per ciò che concerne il
trattamento dei malati»… La legge stabilisce che le spese per il
mantenimento dei malati poveri siano a carico dello Stato. I Comuni
dovranno affrontare solo quelle per l’accompagnamento del malato
fino all’ospedale psichiatrico.
La legge 1904 segnala il nostro ritardo: la professionalizzazione
dello studio e del trattamento dei folli cammina, lentamente, segue la
faticosa costruzione del nuovo Stato unitario, soffre l’ineguale
processo di industrializzazione e le diversità regionali nei modelli di
sviluppo economico. Nasce all’indomani di una grave crisi («gli anni
più neri dell’economia del nuovo Regno», secondo Gino Luzzatto,
L’economia italiana dal 1861 al 1894) e nel cuore di anni di fervore
industriale: nel periodo che va dal 1896 al 1913 (all’alba della
guerra) il prodotto interno lordo aumenta del 2,8 per cento in media
all’anno, meglio succede solo in Canada, negli Stati Uniti, in
Germania, in Svezia. L’industrializzazione crea matti: lo
sradicamento dalle campagne di plebi contadine analfabete, la
difficoltà di inserimento nella nuova realtà urbana, la durezza del
lavoro industriale, i fallimenti individuali di fronte a tali novità
colpiscono i deboli…
«Solo quando i processi economici e sociali avranno dato un avvio
al capitalismo industriale, quando si delineerà il nuovo ordine che
porta al trionfo della borghesia, la psichiatria si istituzionalizza ed
emerge un suo ruolo tecnico di tutela e di razionalizzazione della
società esistente, dei suoi antagonismi, dei suoi squilibri e delle sue
forme patologiche…»
Prima del ’60 la forte frammentazione in campo politico, legislativo
e amministrativo aveva ostacolato anche la diffusione di un dibattito
sui temi portanti della psichiatria e del manicomio, che invece era
stato largo e impegnativo in Francia e in Inghilterra dove esisteva
una sfera pubblica politica in cui le decisioni venivano portate
all’attenzione di un pubblico partecipante. Una sfera pubblica con
funzioni politiche era apparsa già agli inizi del Settecento in
Inghilterra, quando ampi strati della popolazione si trasformarono in
«pubblico raziocinante» nel momento in cui si attaccava il modo di
produzione capitalistico. Anche in Francia si rende visibile ma più
tardi, intorno alla metà del secolo, un pubblico che dibatte problemi
fortemente politici: la Rivoluzione «crea da un giorno all’altro quanto
in Inghilterra aveva avuto bisogno di una costante, secolare
evoluzione», come annota Juergen Habermas, nel suo Storia e
critica dell’opinione pubblica. In questi due paesi si forma
l’autocoscienza riflessiva della borghesia e anche i disturbi nervosi, il
sistema nervoso e quindi la stessa forza vitale diventano oggetto di
discussione pubblica. Questo manca non tanto in Germania, dove il
movimento romantico ha per i medici della psiche una funzione
illuminante, anche se limitata al campo filosofico e letterario, e
assente in quello politico, quanto e a lungo in Italia, dove, se si fa
eccezione per «Il Politecnico» di Carlo Cattaneo e per qualche
sporadico interesse verso la frenologia, la comunità scientifica
ancora fortemente divisa, frammentata, si mostra per di più poco
attenta alle novità d’oltralpe.

32

L’Italia, prima dell’unità, conta numerosi manicomi, pubblici e privati:


nel Regno delle Due Sicilie ad Aversa e a Palermo, nel Regno di
Sardegna a Torino, a Genova, a Milano (quattro «case di cura»
private), a Mantova, Brescia, Cremona, nel Granducato di Toscana a
Lucca, Siena e Firenze, a Venezia sull’isola di San Servolo per gli
uomini e nell’ospedale civile per le donne, a Reggio Emilia
nell’ospizio di San Lazzaro, Ospedali psichiatrici. Un celebre
alienista francese, Brierre de Boismont, visita quei luoghi una prima
volta nel 1830, la seconda nel 1862, un anno dopo la proclamazione
del Regno d’Italia. Scrive che «l’inferiorità relativamente a ciò che
esiste in Francia, in Inghilterra, in Germania, negli Stati Uniti è
evidente». In Italia non sorge alcun asilo modello e la maggior parte
di quegli stabilimenti gli appare costruita da «persone estranee alla
scienza delle malattie mentali».
In questa Italia a mezza strada, divisa, arretrata, dove secondo
Boismont trionfano «le rivalità di cosca e le gelosie individuali» (già
si individua il nostro «familismo amorale»?), c’è però chi raccoglie le
idee che giungono d’altri paesi e in particolare dalla Francia, perché
la Francia tra i lumi e la rivoluzione agita idee e novità e lascia libertà
alle teorie e alle pratiche di personaggi come Philippe Pinel e Jean-
Étienne Dominique Esquirol, agli albori della moderna psichiatria.
Philippe Pinel, che muore ottantenne a Parigi nel 1826, sperimenta
e riconosce la malattia mentale prima nella conduzione dell’ospedale
di Bicetre (dove viene nominato il 25 agosto 1793), negli anni della
Rivoluzione, e in seguito del grande complesso psichiatrico della
Salpêtrière, a Parigi. Si propone con metodo di curare i pazienti
psichiatrici gravi e non solo di «custodirli» prigionieri negli ospizi. Nei
suoi scritti e nel suo esercizio clinico, dimostra di credere alla
possibilità di diversi elementi terapeutici. Pensa che sia importante
costruire un rapporto personale con il malato, esercita metodi di
«terapia morale» (antesignana della psicoterapia) e forme di
ergoterapia. Non esclude mezzi più duri: le purghe, le docce
ghiacciate, i salassi, l’oppio, diete particolari… Critica il nostro
Vincenzo Chiarugi, rigido, schematico, dogmatico nelle sue
classificazioni, limitato nelle strade che concede alla cura. Libera i
reclusi dalle catene, li imprigiona nello stigma di malati mentali, li
immobilizza in un ruolo. Foucault racconta del soldato Chevingé, un
ubriacone che si credeva un generale di Napoleone. Pinel riconosce
«un’eccellente natura sotto quella irritazione». Libera dai ferri
Chevingé, annunciandogli che lo prenderà al proprio servizio,
chiedendogli tutta la fedeltà che un buon padrone può attendersi da
un domestico riconoscente. Il miracolo s’avvera. La virtù del
servitore fedele si risveglia d’un tratto in quell’animo confuso: «Mai vi
fu rivoluzione più immediata, né più completa in una mente umana…
Appena liberato, eccolo premuroso, attento». Cattivo soggetto
domato da tanta generosità, devoto al padrone anima e corpo.
Quando il popolo di Parigi tenterà di forzare le porte di Bicetre per far
giustizia dei nemici della nazione, «gli fa scudo col proprio corpo e si
espone ai colpi per salvargli la vita». Ma spiega Foucault (disilluso):
«Dunque, le catene cadono: il folle si ritrova libero. E in quel
momento recupera la ragione. O piuttosto, non è la ragione in se
stessa e per se stessa a ricomparire: sono delle specie sociali tutte
costituite che hanno sonnecchiato a lungo sotto la follia, e che si
drizzano d’un tratto, in una conformità perfetta a ciò che
rappresentano, senza alterazioni né affettazioni. Come se il folle,
liberato dall’animalità alla quale le catene lo costringevano,
raggiungesse l’umanità unicamente attraverso il tipo sociale».
Liberarsi dalle catene e dalla follia riconsegnandosi al ruolo che la
società attribuisce. «Per il soldato, sarà fedeltà e sacrificio la
ragione: Chevingé non ridiventa un uomo ragionevole, bensì un
servitore». Foucault avverte tra il medico liberatore e il soldato
rinchiuso e poi liberato per diventare servitore lo stesso rapporto che
corre tra Robinson Crusoe e Venerdì, l’uomo bianco isolato nella
natura e il buon selvaggio: non è un rapporto da uomo a uomo, ma
da padrone a servo, da intelligenza a devozione, da coraggio
riflessivo a incoscienza eroica… La storia della Bicetre ammonisce:
«Bicetre racchiude certamente dei criminali, dei briganti, degli uomini
feroci… ma contiene anche, si deve convenirne, una folla di vittime
del potere arbitrario, della tirannia delle famiglie, del dispotismo
familiare», denuncia un foglio rivoluzionario. Pinel vuole dividere i
malati dagli altri e per i primi allestire una custodia particolare. Tra i
primi, negli anni del Terrore, si nascondono aristocratici che cercano
salvezza negli stracci dei poveri, agenti segreti che complottano…
Pinel compare nelle riflessioni di Basaglia: Pinel non libera i matti,
crea per loro una nuova prigione.
Dopo Pinel si presenta l’allievo: Jean-Étienne Dominique Esquirol,
che inizia i suoi studi a Tolosa (nasce nella città dell’Alta Garonna nel
1772, muore a Parigi nel 1840) e li completa a Montpellier. Nel 1799
si trasferisce a Parigi dove lavora nell’ospedale della Salpêtrière e
diviene lo studente prediletto di Pinel. Il maestro, per aiutare l’allievo
nelle sue ricerche, mette in sicurezza la casa e il giardino in Rue de
Buffon dove Esquirol istituisce la «Maison de santè» ovvero una
casa di ricovero (privata) nel 1801 o nel 1802. L’idea di Esquirol ha
un discreto successo, tant’è che la Maison viene considerata, nel
1810, una delle tre migliori istituzioni mediche di Parigi. Nel 1805
pubblica le sue tesi dal titolo Le passioni considerate come cause,
sintomi e significati della cura in caso di infermità mentale. Esquirol,
come Pinel, crede stia nell’anima e nelle passioni che la scuotono
l’origine delle malattie mentali ed è convinto che la follia non intacca
completamente e irrimediabilmente il raziocinio del paziente.
Esquirol diventa médecin ordinaire (medico ordinario) nell’ospedale
di Salpêtrière nel 1811, subito dopo la morte di Jean-Baptiste Pussin
(1745-1811), il fidato supervisore di Pinel. Pinel sceglie Esquirol
poiché è «un medico, devoto esclusivamente allo studio delle
malattie mentali». Grazie agli anni trascorsi nella Maison de santé,
lui è l’uomo adatto a quel lavoro. Nel 1817, sotto la monarchia
restaurata dei Borboni, Esquirol, quando è solo un medico ordinario,
inizia un corso in malattie mentali nella sala da pranzo dell’ospedale
Salpêtrière: è il primo insegnamento ufficiale, istituzionale, di
psichiatria in Francia.
Esquirol, tra il 1810 e il 1818, visita alcuni manicomi nella provincia
francese e li descrive in una memoria, che invia al ministro degli
Interni. Le condizioni di vita del malato mentale si rivelano terribili.
Come spesso accade le riforme avviate a Parigi non si riflettono
nella realtà lontana della periferia. Ma quella memoria diventa il suo
programma, che ha un cuore nella certezza che i malati possano
essere curati, che i manicomi debbano essere luoghi di cura e non di
detenzione, costruiti secondo le regole e i modelli che la cura chiede,
che la psichiatria sia una disciplina della medicina, che il medico sia
la guida, al vertice di ogni manicomio.
Esquirol compie ancora un’indagine su scala nazionale, questa
volta per incarico del governo, e visita, attraverso la Francia, gli
istituti che ospitano malati mentali. Nel 1822 viene nominato
ispettore generale delle facoltà mediche e, nel 1825, direttore del
Charenton Hospice. La lunga esperienza gli consente di offrire il
proprio contributo alla legge francese nel 1838, che immagina una
sistema di protezione dove umanità e scienza si dovrebbero
incontrare nel sostegno e nella cura di quegli infelici. Ma i ritardi, che
Esquirol annota dopo i suoi viaggi agli inizi degli anni Venti, durano
dopo la riforma e qualcuno comincia a porre in discussione
l’esistenza stessa dei manicomi: in quegli asili i disgraziati rinchiusi
vengono privati del più grande dei beni, della libertà (Maximien
Parchappe, direttore dell’Asilo degli alienati della Senna inferiore che
in un libro apparso nel 1841 classifica centinaia di ricoverati
deceduti, descrivendo le manifestazioni della malattia, misurando e
soppesando il cervello, valutandone colori e pieghe, perché «è
controverso il ruolo delle alterazioni cerebrali nell’alienazione
mentale»); in quegli asili si provoca la morte dei malati e li si rende
incurabili (ancora Boismont). La critica viene intesa o fraintesa come
attacco alla giovane scienza psichiatrica e a una nuova classe
medica, che si difende, serra i ranghi allora attorno al baluardo delle
istituzioni per gli alienati.
Le voci francesi giungono in Italia. Andrea Verga, direttore a metà
dell’Ottocento del manicomio milanese della Senavra e del
Policlinico, senatore del Regno, in una pagina dell’ «Archivio Italiano
per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni
mentali», fondato con Cesare Castiglioni e Serafino Biffi, illustri
colleghi, scrive che «grande e diffusa è l’antipatia per i manicomi e
non è molto tempo che in un paese nobilissimo a noi vicino si bandì
dai giornali una crociata contro questi benemeriti Stabilimenti e
risuonò il grido non più manicomi e per poco non lo si prese sul
serio». I Benemeriti Stabilimenti restano ovunque. Jean-Pierre
Falret, diventato psichiatra sotto la guida di Pinel e di Esquirol, crea
nel 1822 a Vanves presso Parigi una grande casa di cura privata,
per lunghi anni la più famosa in Europa, e diventa in seguito direttore
(dal 1851 al 1867) della Salpêtrière. È un pioniere nello studio dei
suicidi. Falret non ha dubbi: «I malati afflitti da mentale alienazione,
qualunque sia la forma del loro delirio, e la loro posizione sociale,
non possono rimanere nella loro famiglia, sotto il triplice aspetto del
loro proprio interesse, di quello della famiglia, e della società: è
dunque indispensabile aver degli stabilimenti nei quali si possano
isolare tali malati e che ai vantaggi della sicurezza e del benessere
riuniscano le speranze della guarigione». È una conclusione che
conforta gli ortodossi (d’allora) della psichiatria ufficiale.

33

Può capitare anche il contrario, come imparano gli alienisti di due


secoli fa, visitando la colonia per alienati di Gheel. Ne scrive ancora
Esquirol (Notizie sul villaggio di Gheel): Gheel è una grossa borgata
al centro del Belgio, di circa sei settemila abitanti all’inizio
dell’Ottocento e da secoli ospita una colonia di pazzi. Nella chiesa si
conservano le reliquie di una santa, di una martire irlandese, figlia
del re. Si converte alla fede cattolica e per fuggire l’ira del padre si
rifugia in Belgio, in quel paese lontano, in compagnia di un
anacoreta. Il padre la raggiunge, cerca di piegarla alle sue ragioni,
lei si rifiuta, il padre s’infuria e le mozza la testa con un colpo di
spada. Alla scena, tra il popolo che assiste, ci sono alcuni «ossessi»
che all’orrore di quel capo che rotola a terra ritrovano la loro
serenità. Narra la leggenda.
Qualcuno grida al miracolo e pare che il miracolo si debba
ripetere. Così, a partire dal settimo secolo, si diffonde ovunque la
fama di quella martire e dei suoi miracoli. La gente accorre per
guarire. Ma non si guarisce in un colpo. Servono giorni di preghiere,
nove giorni, una novena.
Questa è la voce di Serafino Biffi: «Alcune migliaia di contadini che
trovavansi già da quelle parti o che vi si stabilirono dopo, alle abituali
occupazioni dei campi, andarono associando pur quella di ospitare
così fatti malati e di far subire le pratiche religiose che si credevano
opportune ad ottenere il favore della Santa». Per secoli comunque
Gheel rimane senza clamori una meta di pellegrinaggi. Finché nel
1803 il prefetto di Bruxelles non decide che tutti i pazzi ospiti
rinchiusi nell’ospizio della sua città vengano trasferiti in quel lembo di
terra posseduta da così ospitali contadini e benedetta da quella
santa martire. Il provvedimento prefettizio riferisce: «I pazzi erano
ammassati altre volte a Bruxelles, in un locale ristretto e malsano, i
cui incommodi bastavano per rendere incurabile la malattia che ivi
traevali. Credetti adempiere nello stesso tempo a un dovere
d’umanità e d’obbligo della mia carica, adottando, riguardo a questi
infelici, un rifugio raccomandato dai prosperi successi d’una lunga
esperienza. Informato che il comune di Gheel… era un asilo aperto a
questo genere d’infermità, dopo essermi concertato con prefetto di
quel Dipartimento ho fatto trasportare i matti dall’ospedale di
Bruxelles nel villaggio di Gheel, ove godono di una libertà che non
esclude le cure che esige il loro stato. Dei Commissari delegati dal
Consiglio generale degli ospizi vanno periodicamente sui luoghi per
verificare se verso quest’infelici si adempiano tutti gli obblighi ai quali
sono astretti da contratto gli abitanti che ne sono stati incaricati».
Esquirol, che visita la colonia nel 1821, conta cinquecento matti
ospiti nelle case del villaggio e nelle fattorie sparse nelle campagne:
«Questi infelici sono in pensione presso gli abitanti; passeggiano
liberamente nelle contrade, mangiano coi loro ospiti e dormono in
una loro casa. Se si abbandonano a qualche eccesso, si mette loro
dei ferri ai piedi, il che non li trattiene dall’uscir di casa. Questo
strano traffico è da tempo immemorabile la sola risorsa degli abitanti
di Gheel; non si è mai udito, che ne siano derivati degli
inconvenienti». Come si vive a Gheel? In mezzo alla brughiera, tra
prati e boschetti, alimenti sani, aria pura, esercizio abituale, libertà
(anche se non manca chi vigila) verso la guarigione.
La vita continua a Gheel. Una ventina d’anni dopo le disposizioni
di quel prefetto di Bruxelles, Serafino Biffi visita la colonia e racconta
di una povera famiglia di calzolaio, che si trova in casa un erculeo
marinaio matto da gran pezzo, capriccioso e facile al furore, e di una
povera vecchierella curva e mingherlina che con poche parole, in
tono di bontà e insieme di sicurezza, sa quietare quel giovane nei
suoi momenti furiosi: «…su l’istante gli faceva cadere ogni ira, come
cala una vela se improvvisamente si tace il vento». Un’altra pagina
racconta che una giovane donna affida il figlioletto in fasce a un
energumeno che agita e urla. Gli concede fiducia, lo chiama alla
responsabilità. L’uomo si acquieta.
«Nella colonia di Gheel i folli non sono soltanto elevati alla dignità
di malati, secondo la bella espressione di Esquirol e questo è merito
della scienza psichiatrica, essi non perdono affatto la loro dignità di
essere raziocinanti, perché essi non rompono del tutto con la
società, alla quale restano legati mediante tutti gli aspetti del loro
intelletto risparmiati dal male». Così Moreau de Tours (in Lettres
medicales sur le colonie d’alienè de Gheel, pubblicato nel 1945).
Jacques-Joseph Moreau (1804-1884), soprannominato «Moreau
de Tours», è uno psichiatra francese. Studia con Esquirol, e subito
dopo la laurea, seguendo una consuetudine ottocentesca,
accompagna un paziente di Esquirol in due «viaggi terapeutici»:
prima in Svizzera e in Italia, poi per tre anni in Medio Oriente (Egitto,
Nubia, Palestina, Siria, Asia Minore). In Medio Oriente conosce
l’haschisch e continua a provarne gli effetti a Parigi, in un club detto
des Haschischins che riunisce presso l’hotel Lauzun psichiatri
(Brierre de Boismont e lo stesso Esquirol), il pittore Boissard e
intellettuali e artisti in cerca di nuove sensazioni. Considera così
l’azione di sostanze sullo psichismo e, in margine a queste
attenzioni, nasce il suo libro più noto: Du haschisch et de l’aliénation
mentale (1845). Dal 1840 è a Bicétre, e lavora anche nella casa di
cura di Esquirol. Nel 1861 passa alla Salpétrière, dove rimane attivo
sino al 1884, anno della morte. A metà dell’Ottocento si pensa
all’haschisch come ad un farmaco psichiatrico.
Basaglia, in Crimini di pace, riesce a riassumere quella storia alle
sue spalle, è un giudizio che invita a meditare sulla sostanza degli
atti. Non illudetevi, dice Basaglia: «I pazzi, che Pinel aveva separato
dai delinquenti in catene, sono tuttora realmente e simbolicamente
incatenati, gli uni e gli altri in istituzioni separate, ma fondate sugli
stessi principi distruttivi; definiti e rinchiusi negli stessi giudizi di
valore che ne stabiliscono comunque la natura diversa. I pazzi
hanno ottenuto dal razionalismo illuminista la dignità di malati e i
delinquenti sono passati dall’ambito della colpa morale a quello di
una astratta giustificazione endogena – recuperati al campo
dell’indagine positivista. Ma per entrambi la realtà e la violenza
restano le stesse. Che si usi e si organizzi in modo sofisticato la
tortura; che le catene siano reali come nelle nostre istituzioni o
simboliche come nei paesi tecnicamente più sviluppati, non fa
differenza, se la finalità è sempre la tutela del gruppo dominante,
ottenuta attraverso la distruzione degli elementi che intralciano
l’ordine sociale».

34

Quando Franco Basaglia entra nel manicomio di Gorizia, la


farmacopea si è di molto arricchita: penicillina, vitamine B2 e B6,
benzedrina, desossiefedrina, sinnexyl (derivato sintetico simile alla
cannabis), acido glutamico, emetina, pilocarpina, pentotal, amital
sodico, etere, ossido di azoto.
Ma una delle pratiche più comuni si chiama elettroshock, terapia
convulsivante, «pratico metodo», la definisce alla voce psichiatria
l’enciclopedia Treccani, nell’aggiornamento del 1947.
«Mi han fatto tanti di quegli elettrosciocchi che m’han scassaa tutti
i denti de sora, dimmi se l’è giusta, ché era meglio se memà
prendeva l’ago della calza e mi sgorava fuori nelle prime settimane».
Così racconta il Felisin, ormai imbarbonito nella Milano cupa di fine
1969, «on bel matt glorios che, ogni volta che s’imbatte nel Dante,
trova modo di contargli qualcosa degli anni passati al manicomio di
Mombello». Una delle voci di un bel romanzo di Laura Pariani, a
proposito di un mondo milanese ai margini, sopraffatto forse della
modernità, testimone della sua crisi. Mi hanno fatto tanti di quegli
elettroshock che mi sono caduti i denti. Ecco perché un matto di
fronte a Basaglia, riottenuta la licenza di esprimersi, davanti
all’assemblea nella comunità di Gorizia, invoca la possibilità di
tornare a masticare. Vuole la dentiera. I miei denti, invoca.
Maria Luisa Marsigli, ricca e colta, ricoverata a Castiglione delle
Stiviere, descrive vittime e terapie: «La sera alle cinque c’è la sfilata
degli orrori nel nostro corridoio: sono le civili che vanno a letto. Le
guardo affascinata e incredula che possano esistere esseri umani
ridotte a larve. Sono croniche per le quali non c’è più speranza, le
incurabili che non hanno più nessuno che si occupi di loro, neppure i
parenti, e che non hanno più alcuna speranza di poter uscire anche
se stanno bene. È una povera umanità distrutta nell’animo e nel
corpo… Hanno tutte un aspetto senile, precocemente invecchiate da
una vita senza speranza, dal cibo scarso e inadeguato, sdentate e
incanutite. Forse sono le streghe del nostro secolo. Le streghe che
nel Medio Evo venivano torturate e bruciate, oggi subiscono
aggiornate torture sotto forma di narcotici potentissimi, costrizioni
che tolgono il respiro, l’elettroshock e forse la lobotomia…»
«Quelli che sono ammessi in manicomio appartengono a un
gruppo eterogeneo da un punto di vista sia legale sia psichiatrico: ci
arrivano persone accusate di reati specifici (alcolismo, narcotici,
tendenze pericolose o omicide). Come li si cura? Tranquillanti,
potenti calmanti e il largactil, o cloropromazina, che viene usato
come fosse una zolletta di zucchero specialmente per coloro che si
comportano in maniera strana o combinano guai. Il largactil produce
amnesia e disorientamento nei pazienti e se i dottori hanno delle
ragioni per fare apparire qualcuno insano, hanno l’arma a portata di
mano: un malato che si presenti dinnanzi al giudice di sorveglianza
sotto l’effetto del largactil non sarà né in grado di difendersi né di
parlare e darà l’impressione indubbia di non essere in grado di
intendere… L’infermiera Lucia mi ha detto stamane in un momento
di confidenza che propina il largactil alle malate per concedersi un
po’ di riposo, specialmente a quelle che l’annoiano coi loro
discorsi…»
L’inventore dell’elettroshock si chiama Ugo Cerletti. Che così
relaziona a proposito della sua scoperta durante il Congresso
internazionale di psichiatria, a Parigi, nel 1950, al capitolo Terapia
biologica: «Mi si disse un giorno che al macello di Roma si
uccidevano i maiali con la corrente elettrica. Quasi a giustificare la
mia resistenza a tentare la sperimentazione sull’uomo volli assistere
a quel genere di abbattimento. Tuttavia, potei constatare
immediatamente che i maiali non venivano uccisi dall’elettricità. Con
l’aiuto di una grande pinza, si faceva loro passare attraverso la testa
la corrente-luce (125 volts) e i maiali cadevano, rigidi, senza
coscienza, per poi entrare in convulsioni, esattamente come i cani
sui quali avevo fatto i miei esperimenti nel corso degli anni. E
durante l’incoscienza del coma epilettico l’animale veniva sgozzato.
«Avendo al macello a mia disposizione numerosi animali destinati
alla morte, feci immediatamente dei tentativi, con uno scopo opposto
a quello che mi ero fino ad allora riproposto nei miei esperimenti sui
cani. Vale a dire che non cercai più di provocare le convulsioni senza
la morte degli animali ma, al contrario, di stabilire le condizioni atte a
provocarne il decesso. In questo modo ho potuto constatare che
anche con tempi di passaggio assai lunghi (60 secondi e anche più) i
maiali non morivano, ma che dopo convulsioni più o meno gravi si
rimettevano presto, soprattutto se si era fatta loro passare la
corrente attraverso la testa.
«Queste constatazioni, ripetute in diversi modi, finirono per
convincermi dell’innocuità di dette applicazioni, e mi indussero
finalmente ad affrontare la grave responsabilità delle prove
sull’uomo. Di modo che dettai nella mia clinica le disposizioni
necessarie per le applicazioni sui malati. Ed è nel mese di marzo
1938 che, con l’assistenza del dottor Bini, provocai il primo
elettroshock su di uno schizofrenico. Una volta ripetute queste
applicazioni su diversi malati senza alcun inconveniente, e in certi
casi con miglioramenti clinici evidenti, feci una breve comunicazione
su questo nuovo metodo all’Accademia medica di Roma (1938),
dimostrandone l’applicazione su alcuni pazienti, con l’assistenza del
dottor Bini, che avevo incaricato anche di fornire qualche
precisazione sul dispositivo elettrico, allora molto semplice».
Anno 1938, fascismo, non sono state ancora approvate le leggi
razziali, non siamo lontani dalla guerra. A Londra Cerletti riferisce del
mese di marzo per il primo esperimento. In un altro scritto
autobiografico, datato 1956, indica con precisione un’altra data: 15
aprile 1938. Le pinze che si applicano alla testa sono rudimentali,
non molto diverse da quelle che toccano ai maiali: due lunghi manici
di legno e la parte terminale di ferro, s’allarga fino alla misura della
testa e si restringe per serrare. Assomigliano allo strumento
dell’elettrauto. Di poco ammodernato, negli anni Cinquanta
sessanta, l’apparecchio si presenta come una cassettina
rettangolare di legno lucido. Dimensioni: lunghezza cm 47, larghezza
cm 37, profondità cm 17. Maniglia e serratura di sicurezza. Sollevato
il coperchio, appare un pannello in metallo, con le apparecchiature di
manovra e di controllo. Su un lato, uno scomparto che contiene gli
elettrodi, da applicare sul capo del paziente, gli accessori, il cordone,
la presa di corrente. Al centro del pannello c’è uno schermo
graduato con una lancetta: è il milliamperometro, serve a misurare la
corrente durante le applicazioni. Sotto c’è un orologio, con l’indice
dei minuti, l’indice dei secondi e una scala da zero a 60: misura il
tempo di applicazione.
Ai lati dell’orologio, due manopole: la prima regola l’emissione di
corrente, che aumenta ruotando la manopola da sinistra verso
destra e diminuisce in senso inverso; la seconda manopola regola la
velocità del glissando, un termine di origine musicale per indicare la
fase in cui la corrente sale da zero al valore massimo
predeterminato. Più veloce è il glissando, più violenta è la
contrazione tonica del paziente; più lento è il glissando, più a lungo il
paziente resta cosciente. Infine ci sono due morsetti, a cui si
collegano i conduttori che partono dalla cuffia applicata al capo del
paziente. Operazioni preliminari: occorre preparare gli elettrodi della
cuffia avvolgendoli in garze bagnate con una soluzione di cloruro di
sodio; spalmare le tempie del paziente con una pasta per
elettroshock e proteggergli la bocca con un salvadenti di gomma.
Mentre l’elettricità attraversa il cervello del paziente, sul pannello
resta accesa una luce rossa. Leggo questa descrizione in un libro
degli anni Settanta, di Alberto Papuzzi, Portami su quello che canta,
cronaca di un processo contro un medico psichiatra, Giorgio Coda,
che presta la sua terribile opera nei manicomi di Torino, a Collegno e
poi a Villa Azzurra. Lo chiamano «l’elettricista» per la consuetudine
con l’elettroshock, che impone per sadismo e per punizione ai
«matti» che dovrebbe curare. Gli capita anche (e per questo viene
denunciato) di legare bambini giorno e notte al loro letto. Nel decreto
di rinvio a giudizio, si dice tra l’altro che sottopone i bambini a
«contenzioni dolorose facendoli legare al letto per intere giornate e
intere nottate e in taluni casi in periodi invernali facendoli legare
mani e piedi al termosifone acceso». «L’elettricista» rappresenta
forse l’unico caso italiano di uno psichiatra condannato per
maltrattamenti ai pazienti: cinque anni di reclusione, reato prescritto
in appello per un cavillo giuridico. Il processo si celebra nel luglio
1974. Parte civile sono alcuni ricoverati con i loro familiari,
patrocinati dall’avvocato Bianca Guidetti Serra. «La Stampa», dopo
la sentenza, il 14 luglio, commenta: «Si possono dare per concesse
tutte le argomentazioni della difesa: che non ci fosse sadismo, né ci
fosse volontà di punire anziché curare gli ammalati, nelle sevizie
inflitte. Ma alla fine resterebbe pur sempre l’interrogativo di fondo: se
sia lecito alla scienza progredire calpestando i più elementari diritti
dell’uomo». E ancora: «Il tribunale ha detto in sostanza che il
tecnico, chi opera in nome del progresso scientifico, non può
sacrificare a questo scopo tutti gli altri valori della vita: meno che mai
il rispetto della persona umana, anche se è ridotta, per usare le
parole del pubblico ministero, a poveri personaggi dalla mente e
dalla coscienza annebbiate. È la tesi sostenuta nel libro La fabbrica
della follia, che per primo aveva denunciato gli orrori del manicomio-
lager, uno spietato processo di distruzione della personalità, che
riduceva i pazienti a semplici cavie, numeri sulle pagine non sempre
senza macchia della storia della medicina. Forse per questo gli
applausi che hanno salutato la sentenza sono nati dal sentimento di
una verità elementare e profonda, che i giudici hanno saputo
raggiungere».

35

Nel 1938, marzo o aprile, a Roma, un vagabondo viene prelevato.


Accusa: è un vagabondo. Senza alcuna consapevolezza, si ritrova
legato a un lettino. Il racconto, assai vivace, è dello stesso Cerletti:
«Il 15 aprile 1938, il commissario di polizia di Roma mandò nel
nostro Istituto un individuo con la seguente nota di
accompagnamento: “S.E., trentanove anni, tecnico, residente in
Milano, arrestato nella stazione ferroviaria mentre si aggirava senza
biglietto sui treni in procinto di partire. Non sembra essere nel pieno
possesso delle sue facoltà mentali, e lo inviamo nel vostro ospedale
perché venga posto sotto osservazione”. Le condizioni del paziente
al 18 aprile erano le seguenti: lucido, ben orientato. Descrive,
usando neologismi, idee deliranti dicendo di essere influenzato
telepaticamente da interferenze sensoriali; la mimica corrisponde al
senso delle parole; stato d’animo indifferente all’ambiente, riserve
affettive basse; esami fisici e neurologici negativi; presenta cospicua
ipoacusia e cataratta all’occhio sinistro. Si arrivò a una diagnosi di
sindrome schizofrenica sulla base del suo comportamento passivo,
l’incoerenza, le basse riserve affettive, allucinazioni, idee deliranti
riguardo alle influenze che diceva di subire, i neologismi che
impiegava.
«Questo soggetto fu scelto per il primo esperimento di convulsioni
elettricamente indotte sull’uomo. Si applicarono due grandi elettrodi
alla regione frontoparietale dell’individuo, e decisi di iniziare con
cautela, applicando una corrente di bassa intensità, 80 volts, per 0,2
secondi. Non appena la corrente fu introdotta, il paziente reagì con
un sobbalzo e i suoi muscoli si irrigidirono; poi ricadde sul letto
senza perdere conoscenza. Cominciò improvvisamente a cantare a
voce spiegata, poi si calmò.
«Naturalmente noi, che stavamo conducendo l’esperimento,
eravamo sottoposti a una fortissima tensione emotiva, e ci pareva di
aver già corso un rischio notevole. Nonostante ciò, era evidente per
tutti che avevamo usato un voltaggio troppo basso. Si propose di
lasciare che il paziente si riposasse un poco e di ripetere
l’esperimento il giorno dopo. Improvvisamente il paziente, che
evidentemente aveva seguito la nostra conversazione, disse,
chiaramente e solennemente, senza alcuna parvenza della
mancanza di articolazione del discorso che aveva dimostrato fino ad
allora: “Non un’altra volta! È terribile!”
«Confesso che un simile esplicito ammonimento, in quelle
circostanze, tanto enfatico ed autorevole, fatto da una persona il cui
gergo enigmatico era stato fino a quel momento assai difficile da
comprendere, scosse la mia determinazione di continuare
l’esperimento». Ma Cerletti, in omaggio alla scienza, non si ferma: gli
elettrodi furono applicati di nuovo, questa volta somministrando una
scarica più potente: 110 volts per 0,2 secondi. Per i condannati a
morte sulla sedia elettrica la prima scarica è di cinquecento volts, la
seconda fino a mille volts. La prima scarica viene indotta per stordire
il condannato, per renderlo incosciente provocando la morte
cerebrale.
Gli avversari ricordano a Cerletti dolorose e persino tragiche
conseguenze possibili dell’elettoshock: fratture ossee, amnesie,
lesioni cerebrali. Cerletti s’interroga: in uno scritto si propone di
abbandonare il metodo, pure dopo un esito che definisce «felice»,
spera nei farmaci, nella scoperta di quelle sostanze «che si
producono nel cervello con l’accesso epilettico».
Ricovero coatto, imposizione forzata della terapia, rapporto
autoritario fra medico e paziente, equiparabile a quello fra medico e
cavie animali da laboratorio. È una catena che il paziente non riesce
a interrompere, escluso da qualsiasi possibilità di determinazione,
annichilito, annientato, il tipico tragico esempio di quella violenza
istituzionalizzata che caratterizza la cura delle malattie mentali: così
la cita Thomas S. Szasz, scienziato ungherese, emigrato negli Stati
Uniti, in un suo celebre libro, pubblicato dal Saggiatore nel 1966, Il
mito della malattia mentale, che risale in realtà al 1961
(considerazioni che Szasz espone anche in un saggio che si ritrova
in Crimini di pace).
Dopo il primo elettroshock sull’uomo, Cerletti presenta al consiglio
nazionale delle ricerche la sua relazione su: Fisiologia comparata
dell’elettroshock. Informa di aver condotto sperimentazione sui
seguenti vertebrati: carpa, rospo, rana, tartaruga, varano, boa,
omeotermi, gallo, anatra, cicogna, cigno, pinguino, coniglio, istrice,
gatto, cane, maiale, pecora, montone, scimmia.
Il mito dell’elettroshock dura a lungo. In parte sopravvive. Mentre
la sua città natale, Conegliano in provincia di Treviso, dedica
all’illustre concittadino uno dei suoi istituti scolastici più prestigiosi, la
Scuola di Enologia, ancora nel 1963, l’anno della scomparsa di
Cerletti, l’Enciclopedia Garzanti tascabile, in due volumi, alla voce
elettroshock recita ottimisticamente: «Elettroterapia per malattie
nervose e mentali che provoca violente convulsioni di tipo
epilettoide. Conferisce notevole resistenza a diversi fattori morbosi e
migliora i sintomi di varie malattie mentali». Cerletti fa dell’altro:
inventa le tute bianche per la mimetizzazione delle truppe alpine,
una spoletta a scoppio ritardato per artiglieria. È sepolto nel cimitero
di Chiavenna, vicino al padre e alla moglie Antonietta Marzolo (morta
nel 1977).
L’idea alla base dell’approccio era fondata sulle ricerche effettuate
dal premio Nobel Julius Wagner-Jauregg sull’uso di convulsioni
indotte attraverso la malaria per la cura di alcuni disturbi nervosi e
mentali – come la demenza paralitica causata dalla sifilide – nonché
sulle teorie sviluppate da Ladislas Meduna, secondo il quale la
schizofrenia e l’epilessia erano disturbi antagonisti; ricerche e teorie
che nel 1933 portarono Manfred Sakel a sviluppare la «terapia del
coma insulinico» in psichiatria.
Però non è facile stabilire chi è matto. Capita al vagabondo di
Roma, raccolto dalla polizia, finire classificato per pazzo e
sperimentare la nuova cura elettrica. Niente sappiamo della sua vita
poi. Sappiamo solo di quei giorni dell’elettroshock e di qualche
attimo prima, quando viene fermato, un disturbatore.
«I pazzi vengono definitivamente riconosciuti dagli psichiatri per il
fatto che dopo l’internamento mostrano un comportamento agitato»,
scrive Karl Kraus (in Detti e contraddetti) mezzo secolo prima. Lo
dice con chiarezza anche Basaglia (Nel manicomio aperto tornano i
cancelli, «Rinascita», il settimanale di cultura del Pci, nel 1968): la
malattia «non è soltanto espressione di uno stato morboso, ma
insieme il prodotto dell’azione distruttiva di un istituto la cui finalità
era la tutela dei sani nei confronti della follia».
Giovanni Berlinguer sostiene che le diagnosi sono poco attendibili
per varie ragioni. Per conoscerla veramente la follia bisognerebbe
«mantenerla nuda, senza la copertura di una nuova ideologia»
(ancora Basaglia su «Rinascita»). Giovanni Berlinguer comincia da
un esempio: due psichiatri dei servizi di sanità mentale di Chichester
(Inghilterra) concordano un elenco di undici diagnosi e di ventotto
sintomi di malattia mentale ed esaminano poi, l’uno separatamente
dall’altro, un centinaio di presunti malati, ma nel riconoscere il 46 per
cento dei sintomi e nel definire il 35 per cento delle diagnosi si
trovano in disaccordo.
Uno psichiatra di inizio Novecento, pubblicò, proprio nel 1904,
anno della nuova legge italiana, un libro in cui con disincanto traeva
una conclusione dalle sue esperienze: «Più che la maturità della
medicina fu una maggior sensibilità sociale che, imponendo la
creazione dei manicomi, creò anche gli alienati» (Eugenio Tanzi, nel
suo Trattato delle malattie mentali).
Carlo Levi, l’autore del celeberrimo Cristo si è fermato ad Eboli,
incontra la follia in un miserabile lembo della Sicilia, nei giorni di
Salvatore Giuliano e delle lotte per la riforma agraria. Danilo Dolci, il
sociologo triestino, conduce lo scrittore e pittore torinese nelle strade
di alcuni quartieri di Partinico, tra i poveri di Partinico: «Era ancora il
solito, tragicamente monotono spettacolo della miseria, forse più
triste perché questa era una miseria di città e perciò con un senso
maggiore di solitudine e di abbandono; singolarmente differente nei
vari quartieri a pochi passi di distanza l’uno dall’altro. C’è una zona
che si chiama Madonna, dietro il vecchio municipio, con la sua
grande piazza vuota, che è la zona dei banditi, dove gran parte degli
uomini sono nelle carceri e la diffidenza e l’orgoglio e la feroce
protesta si leggono nell’aria, nei visi chiusi delle donne, nelle porte
chiuse, nelle strade vuote. È un quartiere di vaccari, uomini pieni di
energia, spinti quindi dalla loro stessa virtù a rispondere con la
violenza all’offesa delle cose, a resistere nella maniera più
elementare, a andare con Giuliano per vivere. Spine Sante è più
squallido; sono poche strade più in là, a pochi passi dalla chiesa e
dal caffè dove ci eravamo fermati al mattino. Nuvole di bambini,
scarni e bellissimi, accoglievano Dolci al passaggio chiamandolo per
nome: – Danine, Danine – felici di dire quel nome come se
pronunciassero una formula magica. Entravamo con lui in tutte le
case e dappertutto inciampavamo nei problemi più elementari di un
mondo schiavo dei limiti della fame e della malattia; e, ancora una
volta, come tanti anni prima, fui costretto, senza volerlo, a richiamare
alla mente vecchie, quasi dimenticate nozioni di medicina. A Spine
Sante la risposta all’offesa del mondo non è il banditismo, ma più
debole e più straziante, la malattia e la follia. Le strade sono anche
qui polverose e sporche, ma nella sporcizia non ci sono residui di
cibo, né bucce d’aranci, né foglie, né torsi di cavolo, né scatole, né
ossa: i cani magri annusano con aria delusa. In poche case vivono
diciassette malati di mente dichiarati, e chissà quanti altri meno
evidenti e clamorosi. Un giovane stava seduto immobile sulla sua
sedia, la vecchia madre ce lo mostrò e provò invano a stimolarlo a
parlare; quell’apatico silenzio schizofrenico durava da anni. Davanti
a una porta, con le braccia penzoloni, stava una giovane col viso
asciutto e gli occhi spenti, tranquilla ora, ma, ci dissero i vicini,
quando è assalita dalla fame è invasa dalla furia. Entrammo in
un’altra casa dove vedemmo un uomo chiuso in una gabbia. La
piccola stanza dove viveva tutta la famiglia era stata divisa con delle
sbarre di ferro come quelle degli animali feroci, e nella gabbia
camminava avanti e indietro un giovane dal viso bestiale, dai neri
occhi terribili. Nella casa vicina il capo della famiglia stava in letto,
senza muoversi da mesi, chiuso al mondo, pieno di un’angoscia
nera, negativo. Lasciò che ci avvicinassimo al letto e si coprì come
un morto il viso col lenzuolo».
All’ingresso del manicomio di Colorno, gli studenti in medicina di
Parma, tendono uno striscione che dice: «Il figlio del ricco è esaurito,
il figlio del povero è matto».

36

Passato Tambroni, caduto dopo scioperi, manifestazioni,


manifestanti morti nelle strade, a Genova, a Reggio Emilia, a Roma,
alla presidenza del consiglio siede Amintore Fanfani. Guida un
monocolore democristiano. Tambroni s’era dimesso tuonando contro
i comunisti: «Sono sufficienti venti giorni al Partito comunista per
rovesciare la situazione in Italia, ove si presentassero situazioni
particolari». E poi, in una riunione democristiana, con una domanda
retorica: «Vi è forse qualcuno nel nostro partito che auspica un
accostamento al mondo comunista, e che si è quindi già posto su un
piano di cedimento?» (verbali della riunione Dc del 19 luglio). Il
Piano di «cedimento» condurrà al primo governo di centrosinistra,
presidente Moro, vicepresidente Nenni, solo tre anni più tardi, il 4
dicembre 1963.
Il 1961, quando Basaglia entra da direttore nel manicomio di
Gorizia, è l’anno che celebra un secolo dall’unità d’Italia. Il 1961 è
l’anno del boom economico, che declina rapidamente nella
«congiuntura», cioè nella crisi e nella rivelazione di un’Italia divisa,
classista, cresciuta in modo assai difforme, dove in media si
mangiano solo tredici chili di carne all’anno (anno 1960), ma la
televisione arriva presto a milioni di abbonati (sei milioni nel 1965). è
un Paese nel quale si migra dal Sud verso il Nord per lavorare in
fabbrica e vivere nelle «coree» e dal quale si emigra ancora verso la
Svizzera, la Germania, verso l’America. All’estero, lavorando, si
muore. Nel 1965, una valanga travolge le baracche degli operai che
stanno costruendo la diga di Mattmark: ne muoiono novanta,
cinquantatre sono italiani. L’anno prima, in autunno, una montagna
di terra precipita nel lago artificiale del Vajont, l’onda d’acqua risale a
monte e s’inabissa a valle. Duemila morti. L’Italia scopre che la sua
fortuna, la fortuna del boom, è costruita sulla rapina della natura e
sullo sfruttamento degli uomini, manodopera a basso costo che
abbandona campagne poverissime, lasciandosi alle spalle disagi di
ogni genere, creandone di nuovi. Fino al 1963 l’aumento della
produttività è costantemente superiore a quello dei salari.
I disagi di ogni genere si misurano anche nei manicomi, nelle
cliniche, negli ambulatori psichiatrici. Si diventa matti d’abbandono
nelle campagne, si diventa matti alla catena di montaggio nelle
nuove case delle periferie torinesi o milanesi. Lasciando
un’esistenza, un luogo, un ambiente per immergersi in altre
esistenze, in altri luoghi, in altri ambienti. È la storia del bravo
contadino che non sa diventare un bravo operaio, alla svelta come
vuole la fabbrica, e non sa più che farsene delle sue mani. Lo dice
Giovanni Jervis, dialogando con Basaglia e con alcuni infermieri di
Gorizia, in una pagina dell’Istituzione negata. Lo dice riflettendo sulle
difficoltà di lavoro all’esterno che incontreranno i suoi malati, ma in
questo modo ricorda a tutti quanto sia mutata la società italiana: «Io
faccio notare che c’è proprio una differenza rispetto a quello che
poteva essere venti-trent’anni fa; vent’anni fa si poteva dire “questo
malato lavora in colonia agricola, sa zappare la terra, fa il manovale
agricolo, il lavoro lo trova in una azienda agricola, fuori”; oggi la
stessa persona non trova più il posto in una azienda agricola, quindi
questo lavoro deve cambiare. Può darsi che zappare la terra sia
utile, ma non serve a reinserire un malato nel mondo esterno. Va già
meglio uno che fa il barista, eppure non credo che un barista trovi
facilmente da lavorare fuori».
La miseria produce i suoi orrori. È la miseria che ancora non si
lascia alle spalle l’Italia ai tempi di Gorizia e di Basaglia. In quegli
stanzoni sopravvivono gli ultimi, altri, a migliaia, sono sparsi in giro
per l’Italia, occultati nei vari reclusori, ma almeno qualche porta si
apre, qualcuno vede, qualcuno grida allo scandalo…
«Vedemmo che, dal momento in cui davamo risposte alla povertà
dell’internato, questi cambiava posizione totalmente, diventava non
più un folle ma un uomo con il quale potevamo entrare in relazione.
Avevamo già capito che un individuo malato ha, come prima
necessità, non solo la cura della malattia ma molte altre cose: ha
bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno di risposte
reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto
ciò di cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno. Questa
è stata la nostra scoperta. Il malato non è solamente un malato, ma
è un uomo con tutte le sue necessità. Per esempio, io ricordo che
dopo che aprimmo i padiglioni di Gorizia, nel 1963-1964, tutti ci
aspettavamo di vedere cose terribili. Cosa mai poteva accadere?
Non accadde nulla. Fu persino triste, perché eravamo pronti, pronti a
chissà cosa…» In Brasile Basaglia racconta: «Avevamo visto che, in
riunioni come questa che stiamo facendo ora, le persone si
comportavamo correttamente, chiedevano cose molto giuste,
volevano cibo migliore, possibilità di relazioni uomo-donna, tempo
libero, libertà di uscire ecc., cose che uno psichiatra nemmeno
immagina che il malato possa chiedere. Sarebbe lo stesso che in
una società fondata sul puritanesimo, una figlia chiedesse al padre
di uscire di notte. Sarebbe una cosa terribile per il padre: come potrà
sapere quando sua figlia farà ritorno a casa? Succede lo stesso con
il malato mentale: perché lo psichiatra ha sempre confuso
l’internamento del malato con la sua libertà. Quando il malato è
internato il medico è in libertà; quando l’internato è in libertà,
l’internato è il medico. Il medico non accetta questa situazione di
parità per cui o il malato viene rinchiuso o è il medico a esserlo».
Basaglia rifiuta il camice bianco. Rifiuta quell’abito che lo distingue
dai ricoverati, che lo allontana e che lui considera il simbolo di un
potere. Come se l’agente carcerario abbandonasse la divisa e
vestisse i panni del galeotto. Rompere le gerarchie. Chi entra a
Gorizia non sa riconoscere il medico, non lo distingue dall’infermiere
e un malato può apparirgli come un infermiere. Cedono le distanze.
È il primo atto. Poi spariranno i letti di contenzione, le grate, le
inferriate, i cancelli. Ma Basaglia capisce che la «distanza»
impedisce qualsiasi terapia. «Quando parliamo di miseria, quando
affrontiamo la follia in mezzo alla miseria, la persona che sta male
deve poter capire che il medico è lì per darle una mano, per aiutarla,
che non è in una situazione di potere. Invece noi dobbiamo andare
alla ricerca di una situazione di complicità e di reciprocità verso e
con il malato. È solo così che possiamo parlare di terapia. In caso
contrario possiamo parlare solo di dipendenza e di schiavitù».
Si comincia dal camice bianco: poi via le inferriate, i padiglioni si
aprono, non tutti, perché quelli dei più agitati, restano chiusi. Nel
1967 i reparti C maschile e femminile erano l’immagine della vecchia
istituzione manicomiale: popolati dai più vecchi, «ammalati sporchi,
bavosi, vocianti, pronti ad azzuffarsi per una cicca oppure silenziosi
da anni, pietrificati, che solo con il gesto della mano e il movimento
delle labbra rivelavano ancora la presenza sedimentata di immagini
e di parole».
Agostino Pirella, psichiatra a Gorizia con Basaglia, testimonia: «Il
reparto chiuso rappresenta in un certo senso la conservazione dei
rapporti gerarchici che noi consideriamo antiterapeutici,
conservazione e anche esasperazione perché riguardano non
soltanto l’équipe curante, ma proprio una gerarchizzazione nei
pazienti stessi». Ad esempio c’è il paziente che può fumarsi la sua
sigaretta fino in fondo, negandosi alle richieste degli altri. C’è un altro
paziente che fuma, ma fino a un certo punto, poi deve cedere il
mozzicone. C’è un altro paziente ancora che gusta quel mozzicone e
che lascia le ultime briciole della sigaretta ad un ultimo, in fila
tranquillo che aspetta. Questa è la gerarchia che si stabilizza anche
tra i malati. È difficile cancellarla, radicata nel profondo, tra gli ultimi
di Gorizia. Oltre il cinquanta per cento di quei ricoverati non riceve
visite, alcuni sono jugoslavi, altri non hanno famiglia, non sanno
lavorare, non hanno soldi. Abbandonati. «Sicché l’ambiente non
demeritava il titolo di fossa dei serpenti», come annota un giornalista
della Rai, Nino Vascon, autore del lungo capitolo introduttivo
all’Istituzione negata.
La fossa dei serpenti (The Snake Pit), è anche un film americano
del 1948, diretto da Anatole Litvak, tratto da un romanzo di May
Jane Ward. La fossa dei serpenti è il reparto dei malati più gravi, tra i
quali è ospitata una giovane sposa afflitta da improvvisa amnesia. È
la bellissima Olivia de Havilland, in una delle sue migliori
interpretazioni. Litvak è scrupoloso nel sottolineare alcuni aspetti: il
legame tra medico e paziente, le implicazioni sociali dell’istituzione
psichiatrica, la stupidità e la crudeltà dei sanitari, medici e infermieri.
È il primo film che rappresenta la crudeltà di quel mondo e i tentativi
di migliorarlo, di correggerne almeno le rovinose perversione.
Quando viene presentato, anche in Italia, suscita emozione e
sgomento. Altri film seguono e con loro cresce un sentimento tra la
curiosità e lo sdegno: dal Diario di una schizofrenica (1968) di Nelo
Risi; al memorabile Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) di Milos
Forman, dove Jack Nickolson fa il teppistello che si finge matto per
evitare il carcere, rompe le regole del manicomio, finisce
lobotomizzato (lobotomia, ecco la cura: recidere le connessioni della
corteccia prefrontale dell’encefalo, per trattare schizofrenia,
depressione, psicosi maniaco-depressiva) e infine viene ucciso
dall’amico indiano, impietosito dalla sua sofferenza; a Rain Man
(1988) di Barry Levinson, protagonista un malato di autismo. Ricordo
ancora Family Life (1971) del grande Ken Loach, storia di una
ragazza della piccola borghesia, che in rotta con la famiglia si rifugia
nella schizofrenia, curata con l’elettroshock, infine liberata da un
medico che riconosce in quel conflitto familiare le origini della
malattia: il medico assomiglia a Ronald Laing, di cui si legge in
quegli anni L’io diviso (per quanto pubblicato molto prima nel 1955),
che si definisce «psichiatra esistenziale», si richiama a Sartre, si
muove lungo la linea individuata da Jaspers e da Binswanger e
diventa la bandiera dell’antispichiatria. Stile secco di Loach, quasi un
documentario. E infine Si può fare (2008) di Giulio Manfredonia, nel
quale Claudio Bisio diventa, da imprenditore fallito, manager di una
cooperativa sociale e siamo ormai, tra mille difficoltà, oltre il
manicomio.

37

Le cineprese entrano anche a Gorizia, a Colorno, a Trieste. Entrano


anche i fotografi e i giornalisti. Basaglia non teme di mostrare, non
nasconde nulla, s’accorge d’aver bisogno che la gente sappia che
cosa sta avvenendo e che cosa sta cambiando dentro quelle mura,
della sofferenza e della violenza di prima, e del bisogno, sempre, di
libertà. Cerca consensi, contro le ostilità o le timidezze della politica.
Con Sergio Zavoli per la prima volta nel 1967 la televisione italiana
visita un manicomio. Assemblea di infermieri, in grigio, giacca e
cravatta. Si raccontano: la situazione degli infermieri negli ospedali
psichiatrici, come guardie carcerarie; la sottrazione dei libri, delle
sigarette, del denaro; si doveva ricorrere alle camicie di forza, alle
legature per salvaguardare gli altri; era dovere. Un delirio, si
chiamava il medico: fategli una puntura di scopolamina, stava
tranquillo due o tre ore, poi tornava quello di prima; gli parlavi? ti
dava un pugno… gli parlavi ancora, un altro pugno; e adesso?
sedativi, due o tre infermieri e sedativi; in questo ospedale mi sento
in una maniera diversa, incontrare un ricoverato nel parco, mi
sembra di essere con loro, mi sembra di essere una persona
diversa. Le resistenze sono anche all’interno. L’infermiere vede
cadere una gerarchia: non era il primo, ma neppure l’ultimo, ora
sembrano tutti uguali. L’infermiere era abituato ad alcune pratiche
molto semplici: ora gli si chiede di più, più impegno, più intelligenza,
più sensibilità.
Zavoli intervista Basaglia, che cammina, traversando il suo studio,
alle sue spalle libri e il manifesto disegnato da Hugo Pratt (quello
che compare anche sulla copertina di Che cos’è la psichiatria).
Chiede Zavoli: «Professor Basaglia, si dice che questo ospedale
rappresenti una denuncia civile più che una proposta psichiatrica».
«Ah, senz’altro sono d’accordo. Sono d’accordo. Io non saprei
proporre assolutamente niente di psichiatrico in un ospedale
tradizionale, dove gli ammalati sono legati, perché nessuna terapia
di nessun genere, terapia biologica o psicologica, può dare un
giovamento a persone costrette in una condizione di sudditanza, di
cattività nei confronti di chi le dovrebbe curare. Qualsiasi cura non
ha possibilità di successo, se manca una situazione di libera
comunicazione tra medico e malato. Io faccio sociologia? Io non so
che cosa sia la sociologia. Io faccio psichiatria o almeno credo di
farla, tenendo presente che conosco almeno due tipi di psichiatria: la
psichiatria dei ricchi e la psichiatria dei poveri. C’è un proverbio
calabrese molto interessante a questo proposito: chi non ha, non è.
Questa contraddizione, che esprime nella sua totalità le
contraddizioni della nostra società, si manifesta nella maniera più
chiara proprio nei nostri ospedali psichiatrici. Effettivamente… chi
non ha, non è. E quando una persona non ha, se disturba, malato o
meno che sia, finisce in manicomio o in carcere… Io non dico che il
malato di mente non sia pericoloso, ma dico che la sua pericolosità
dipende da moltissimi fattori. Anche la malattia mentale non posso
considerarla soltanto la conseguenza di una condizione biologica. La
malattia mentale è un insieme di fattori che determinano nel
soggetto quelle motivazioni che lo spingono a un determinato
comportamento. So che il malato può essere pericoloso, ma so che
può anche non esserlo. L’importante è vivere questo stato come si
vive qualsiasi aspetto nella nostra esistenza in maniera dialettica. In
maniera dialettica deve essere vissuta anche l’eventuale pericolosità
del malato di mente. Chi è il malato di mente? Non lo so e non lo sa
nessuno. Bisogna avvicinarsi alla malattia e avvicinarsi soprattutto al
malato. Avvicinarsi alla persona sofferente credo sia il compito
principale che trascende il ruolo semplice e banale di un medico che
ha imparato ad usare determinate tecniche. Il suo avvicinarsi deve
essere estremamente dialettico, deve essere la presa di coscienza
di una contraddizione, perché il malato stesso è espressione di una
contraddizione nostra, sia sociale che medica.»
«Le interessa più il malato o la malattia?»
«Oh, decisamente il malato.»
In quei parchi di una bellezza anacronistica, rigogliosi giardini. I
giardini dei fratelli scomodi, i giardini di Abele.
Gli infermieri sono i protagonisti delle prime scene di un altro film,
più recente, La seconda ombra (2001), di Silvano Agosti, una
biografia di Basaglia negli anni di Gorizia. Gli infermieri, l’inserviente
che gira nei padiglioni per raccogliere la biancheria sporca, le suore,
ancora gli infermieri, i medici: l’autorità che sfila. Una voce: «Così
impari chi comanda qui». Cadaveri su una carretta, come nella peste
manzoniana. Un’altra voce: «Te meto la camicia di forza se non te
sta calmo». Basaglia gira in incognito nel parco e nei corridoi. Si
presenta ai malati: «Buongiorno a tutti. Io sono il nuovo direttore. Da
oggi noi medici e infermieri siamo al vostro servizio». Replica dal
fondo: «Bale». Balle. Ancora Basaglia: «Non ho alcuna intenzione di
fare il direttore di un lager. Bisogna aprire tutte le porte
dell’ospedale». E se questi escono e ammazzano qualcuno? «È un
rischio che si corre sempre. Io sono il direttore. Mi assumo tutta la
responsabilità. Bisogna parlare con il malato per capire la malattia».
Due escono e salgono su una torre, provano il volo e cadono. Come
in Birdy. Le ali della libertà (1984), di Alan Parker. Birdy, reduce dal
Vietnam, ama gli uccelli, si chiude in una grande gabbia con loro,
vuole imparare a volare, sceglie il muro dell’ospedale psichiatrico
che lo ospita per spiccare il volo.
La maggior parte dei ricoverati inizia, con fatica, a sperimentare
spiragli di libertà. Almeno prova che un’esistenza migliore è
possibile: passeggiare nel parco, distendersi sull’erba, indossare
qualcosa di pulito, mangiare in compagnia, ballare, ridere. Dice un
anziano, con pochi denti in bocca e un sorriso dolce: «Quando
medici e infermieri con la scusa di curarmi mi torturavano, io mi
rifugiavo nella mia seconda ombra e non sentivo più niente». La
seconda ombra è il destino che ogni persona non ha vissuto e non
sta vivendo.
Nella scena finale, i malati, nella penombra, tirano giù il muro. È la
cronaca di Gorizia, il muro che cade, la liberazione…
Gorizia attrae Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, che scattano
le immagini che andranno a comporre Morire di classe (1968). Sono
i primi a Gorizia. Anche a Trieste arriveranno molti fotografi: Gian
Butturini, Uliano Lucas, Claudio Ernè, Raymond Depardon, Tiziano
Neppi, Raffaele Venturini, Alex Majoli… Con i fotografi arriva a
Gorizia, nella primavera del 1968, anche Giovanna Galli. Deve
narrare l’esperienza di quel manicomio, per un periodico cattolico,
«Rocca» della Pro Civitate Christiana di Assisi. «Ora – scrive –
Gorizia è un ospedale aperto». I catenacci non ci sono più, le
inferriate, le reti metalliche sono state gradualmente abbattute, ora i
malati passeggiano liberamente. «Ci hanno riferito testimoni oculari
che quando si è deciso di abbattere le reti, malati e medici sono
andati lì con i picconi: è stato come un togliersi le catene». La
privazione della libertà e la riconquista della libertà, sono questi i
passi che colpiscono di più l’immaginazione di chi impara a
osservare dall’esterno. Non si chiede come si guarisce o chi
guarisce. Si scopre che i ricoverati tornano liberi. «Il professor
Basaglia presentò noi di “Rocca” e i fotografi alla comunità
esponendo i motivi per cui eravamo andati lì e chiedendo il
permesso per i servizi fotografici e giornalistici». L’assemblea
discute. Rispondono tante voci: a chi serve la pubblicità, perché loro
sono ancora lì ristretti, anche se molte cose sono cambiate, che
vogliono sapere, che cosa vogliono riprendere con le loro fotografie,
come uscire da quella tomba. Giovanna Galli intervista a lungo
Basaglia. La sua vita viene coinvolta nella vita degli altri? «Sì,
altrimenti non c’è senso. Noi non portiamo il camice. Il camice è una
cosa banale, ma è come la divisa del militare per cui dico: quello è
un medico e quello è un malato, invece di dire quello è un uomo e
quello è un altro uomo». Se un malato scappa e commette un reato
è responsabile lei? «Sì. Il rischio è la situazione di reciprocità che io
do al malato e che il malato dà a me. Dal momento che io vivo nel
rischio, il malato comprende che non è una favola, ma una realtà, il
rapporto tra me e lui. È reciproco questo rapporto, perché tutte e due
stiamo dalla parte del manico. Questa è l’arte che compromette di
più il medico». Una situazione del genere non provoca nel medico
una vita ansiosa? «Terribilmente ansiosa. D’altra parte la vita val la
pena di essere vissuta fino in fondo. Dato che si vive una volta sola
è bene vivere fino in fondo e non da soli, con l’altro». La sua famiglia
risente del suo lavoro ansioso qui in ospedale? «Io coinvolgo tutti,
anche la mia famiglia. E non posso dire che faccio questo perché mi
piace. Dico che è l’unica cosa che posso fare vivendo. Se facessi un
altro mestiere lo farei alla stessa maniera…»

38

«Nell’ospedale psichiatrico in cui lavoro, anni fa era in uso un


sistema elaboratissimo per mezzo del quale l’infermiere di turno
notturno si garantiva di essere svegliato ogni mezz’ora da un malato,
per poter timbrare la sua scheda di presenza, così com’era
d’obbligo. La tecnica consisteva nell’incaricare un malato (che fra
l’altro non poteva dormire) di dividere il tabacco di una sigaretta dalle
briciole di pane che vi erano state mescolate. L’esperienza aveva
dimostrato che per questo lavoro di smistamento, occorreva appunto
mezz’ora, dopo di che il malato svegliava l’infermiere e riceveva in
premio il tabacco. L’infermiere timbrava la sua scheda (era
necessario che testimoniasse ogni mezz’ora di essere sveglio) e
riprendeva a dormire, incaricando un altro malato o lo stesso malato
di ricominciare – nuova clessidra umana – il suo lavoro alienante.»
(Le istituzioni della violenza, da L’istituzione negata).

39

Via quelle norme di una burocrazia idiota, che l’astuzia e


l’esperienza lasciano decadere nell’irresponsabilità, nell’indifferenza,
nel disimpegno. Via i corpetti, via le camicie di forza, via i camici dei
medici, via le grate. Sembra sempre che debba succedere chissà
che cosa, invece la libertà dà serenità e la vita nel manicomio ritrova
il suo equilibrio senza traumi. Non sono tutti d’accordo, gli infermieri
protestano, si sentono meno protetti, sentono che la loro autorità,
così formale o così brutale, vacilla. L’autorità rinasce invece
avvicinandosi al malato, nel colloquio, nel dialogo, prendendo
sottobraccio il malato, accompagnandolo, restituendogli dignità e
responsabilità, restituendogli un abito, uno specchio per guardarsi,
per riconoscersi, un lavoro che serve e che viene retribuito,
restituendogli il senso dell’utilità. Chiunque visiti Gorizia resta colpito
dal gran discutere. Assemblearismo, si direbbe. Assemblee dei
malati con i medici, assemblee degli infermieri, assemblee dei
medici con gli infermieri. Assemblee di tutti: la vita è scandita dalla
convocazione delle assemblee. «L’intera vita dell’ospedale è
regolata dalle riunioni», annota il giornalista Nino Vascon. «La
giornata infatti trascorre oltre che attraverso il programma
tradizionale (visita dei sanitari ai reparti, prima colazione, apertura
del bar ecc.) anche secondo il ritmo delle riunioni; direi anzi che
ormai le scadenze tradizionali della vita ospedaliera sono accidenti
secondari rispetto alle esigenze comunitarie. Le riunioni durante la
settimana sono oltre cinquanta; esse non impegnano
contemporaneamente le stesse persone, ma costringono tutti i
membri della comunità ad uno stato di continua reciproca
disponibilità. Una mattina tipo inizia alle otto e mezzo con una
riunione degli infermieri, delle suore, delle assistenti sociali e dello
staff medico. Essa termina alle nove. Dalle nove alle dieci i medici
visitano i reparti. Alle dieci inizia l’assemblea generale che dura
un’ora e un quarto. Alle undici, undici e un quarto i medici, gli
infermieri, gli assistenti sociali e i leader dei malati (spontanei,
tradizionali o improvvisati) si riuniscono per discutere l’andamento
dell’assemblea. All’una e mezzo si riuniscono gli infermieri in entrata
e in uscita di ogni reparto, a turno una volta alla settimana. Di
pomeriggio vi sono le assemblee di reparto (quotidiane per i reparti
di accettazione e per alcolisti, bisettimanali per gli altri reparti), le
riunioni dei medici, le riunioni dei comitati. La partecipazione di
visitatori a queste attività è molto frequente». Cronaca di una
giornata. Perché tante riunioni? Risponde Basaglia che non si tratta
di psicoterapia di gruppo. Le riunioni si fanno per offrire al malato,
nell’ospedale, la possibilità di fare cose diverse: andare a lavorare,
discutere, chiacchierare, ascoltare, non fare nulla del tutto. Le
riunioni si fanno anche per «creare un terreno di confronto e di
verifica reciproca». Si vuole fare in modo, spiega Basaglia, che la
vita della comunità, la vita quotidiana, non sia regolata da
un’intelligenza medica, ma sia il risultato dell’attività spontanea di
tutti coloro che partecipano a qualsiasi titolo, alla giornata
ospedaliera. Una «comunità» diventa «terapeutica», perché funziona
su principi condivisi, che non appartengono solo al vertice
dell’istituzione e che portano tutti a lavorare insieme: in questo modo
il gruppo riesce a curare se stesso e la malattia perde alcune delle
sue caratteristiche essenziali perché persino il malato più grave, il
più delirante, comincia a essere parte attiva della comunità.
Le riunioni hanno valore e peso solo nella misura in cui la
presenza di una persona è espressione di una decisione, di una
scelta fra più alternative. Allora, immaginate di concedere a un matto
la possibilità di scegliere. Non gli capitava da anni, forse da decenni,
peggio del carcerato, che almeno può decidere quanto mangiare,
quando dormire, se leggere o non leggere, se parlare e di che cosa
parlare nell’ora d’aria.
40

Non sono tutti d’accordo fuori dal manicomio. Le resistenze sono


tante, la gente, la pubblica opinione, l’amministrazione, i partiti, i
professori. La libera repubblica dei matti inquieta, ma l’esperienza
stimola. Giovani psichiatri si sperimentano, mettendo alla prova
quanto hanno studiato: Giovanni Jervis, Antonio Slavich, Agostino
Pirella, Lucio Schittar. Sono i primi collaboratori di Basaglia.
Basaglia è un meraviglioso uomo immagine. Capisce di poter
continuare solo convincendo dei progressi del suo lavoro e lasciando
a tutti la possibilità di giudicare i cambiamenti. Per questo, appunto,
subito accoglie giornalisti, fotografi, documentaristi. Apre le porte.
Non si nega. Non si stanca di rispondere, descrivere,
accompagnare.
Da Gorizia passano intellettuali attratti dalla novità. Passa
Giovanni Berlinguer, comunista, che agirà sempre perché tra il
partito e Basaglia il rapporto non si interrompa, malgrado il partito
non sempre capisca: qualcuno ha in mente manicomi accoglienti,
funzionali, crede ancora nei manicomi.
Passa anche Pasolini. Tra Basaglia e Pasolini c’è qualcosa in
comune: la personalità, il carisma, la forza nel rivolgersi agli altri, lo
sguardo verso il futuro. Ci sono idee che li uniscono: Pasolini scrive
di sradicamento delle culture popolari e di genocidio culturale, di
notti d’estate senza bagliori di lucciole, e Basaglia sa bene di una
classe dominata, divisa nell’acquisizione di valori che non le
corrispondono, strappata alla sua storia, senza che le venga
concesso di costruirne liberamente un’altra. Chi resta ai margini è la
prima possibile vittima.

41

La paura attorno a Gorizia si sgretola a volte: osservando,


scoprendo, molti alla fine si compiacciono. Però si rompono
meccanismi solidi e la burocrazia amministrativa della Provincia di
Gorizia reagisce, cominciando a intralciare. La provincia di Gorizia è
democristiana: non gradisce i matti per le strade, vede tradita la sua
idea di assistenza. L’accademia mette in discussione la validità
terapeutica, difende i vecchi metodi, le vecchie classificazioni, insiste
sulla pericolosità. Da Gorizia soffia un vento che sconvolge. Anche
se in fondo, a Gorizia, soprattutto nei primi anni di Basaglia, si ripete
quanto sta avvenendo all’estero. Si ripete senza copiare, intuendo
una finale diverso.

42

Basaglia conosce benissimo la realtà di altri paesi. Conosce


benissimo la realtà inglese: dove gli ospedali «cominciarono ad
aprirsi, la gestione cominciò ad essere differente e cambiò la
disponibilità del medico verso l’istituzione».
Nel 1961 va in Inghilterra. Nel 1962, torna insieme con Antonio
Slavich e visita la comunità terapeutica diretta da Maxwell Jones, il
Digleton Hospital di Melrose in Scozia. Maxwell Jones lavora
all’impresa dalla fine degli anni Quaranta. Nel 1952 esce in
Inghilterra il suo libro che sintetizza quell’esperienza e che cerca di
configurarla come un modello: Social Psychiatry: A Study of
Therapeutic Communities.
A Rio de Janeiro, quasi un ventennio dopo, Basaglia rievoca così
le impressioni di quel viaggio: «Ricordo di aver visto una realtà
completamente diversa da quella dei manicomi europei. All’interno
del servizio sanitario nazionale, il malato mentale era diventato un
“malato informale”, uguale a qualunque altro. Il numero degli
internati cominciava a diminuire: il mercato del lavoro richiedeva
nuove braccia; nascevano tecniche per “deistituzionalizzare” e tra
queste la comunità terapeutica; emergeva per la prima volta in modo
chiaro l’aspetto sociale della psichiatria. Questo poteva cambiare
totalmente la visione del problema psichiatrico, perché nella misura
in cui la comunità terapeutica si considera una vera comunità e dà
un significato storico-sociale al malato, il malato comincia a prendere
contatto davvero con la storia del mondo e con la storia della
società. Ma questo processo è stato di breve durata e presto i
manicomi hanno cominciato a riempirsi di nuovo…»
4. LA LUNGA MARCIA

43

Giovanni Jervis, è a Gorizia tra i giovani psichiatri vicini a Basaglia,


dal 1969 al lavoro a Reggio Emilia nei servizi provinciali non
residenziali (l’occasione di «verificare, la possibilità di un intervento
psichiatrico di tipo nuovo, in più stretto confronto con le
contraddizioni sociali e di classe, con la vita nelle amministrazioni
locali, dei partiti, dei sindacati, delle lotte politiche e civili di base»).
Scrive, nel suo Manuale critico di psichiatria (pubblicato da Feltrinelli
nel 1975) che, per quanto esperienza sempre marginale e
inevitabilmente volontaristica, la comunità terapeutica è la risposta
più efficace agli orrori e alle mistificazioni dell’ospedale psichiatrico e
scrive che la comunità di Gorizia ha saputo interpretare la propria
storia in termini politici, contribuendo a rilanciare una serie di
iniziative di assistenza psichiatrica in tutto il Paese.
Jervis, per descrivere la «comunità terapeutica», cita a lungo
l’esperienza diretta di un autore anglosassone, David Clark, che ne
visita una, s’aggira tra i corridoi, entra nelle camere, per testimoniare
infine una prima impressione di sconcerto: porte aperte, muri
scalcinati, pavimenti di incerta pulizia, in giro persone che non si
riconosce chi siano perché vestono abiti civili più o meno curati. Dice
Clark sorpreso, quasi contrariato: questo non è un manicomio,
esclama. Ma Clark poco dopo riconosce che se il visitatore si ferma
per qualche ora o per un giorno o due è presto catturato dalla vita
della comunità: «A parte le molte riunioni formali, e le riunioni
estemporanee di crisi, egli sarà partecipe alle assemblee della
comunità, che hanno una struttura piuttosto formale, con un
presidente, resoconti e verbali, e verrà chiamato a spiegare chi è e
quali sono gli interessi che lo muovono. Può essere allora
interrogato in modo diretto sul suo lavoro e provocato sui suoi motivi
per visitare la comunità. Ben presto egli si troverà accettato, gli
verranno dati dei compiti, gli saranno richieste delle opinioni, ma
verrà facilmente criticato con durezza per averle espresse. Tutto ciò
non potrà lasciarlo indifferente: nello spazio di un giorno egli sarà di
volta in volta divertito ed entusiasta, infuriato, imbarazzato,
perplesso…» Il luogo gli sembra adesso una pensione un po’
anarchica, le pareti delle camere da letto gli appaiono colorite di
manifesti, tra gli abiti appesi, mentre le radio suonano senza che
nessuno le ascolti. Vi possono essere laboratori e ateliers, si
tengono lezioni d’arte e vi sono strutture da allestire. Si parla, si
discute, ci si muove: il principale impegno di tutti sta «nel parlare e
nell’interagire» (in Social Therapy in Psychiatry, Londra 1974). Dopo
la miseria e la privazione, le tuniche carcerarie e gli abiti laceri, le
teste rapate, l’ombra dei visi scavati, il silenzio che si alterna alle urla
disperate, ricompaiono la vivacità, la varietà, il caos di quelle voci
che si confrontano si alternano si sovrappongono. Ciascuno cerca di
ritrovare se stesso. Ciascuno rivendica il diritto di essere se stesso.

44

Basaglia torna in Inghilterra nel 1964, in agosto a Londra per il primo


congresso internazionale di psichiatria sociale. Pochi i colleghi
italiani presenti. Basaglia comincia a leggere, in inglese, la sua
relazione che ha un titolo senza reticenze, quasi una provocazione:
La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di
istituzionalizzazione. Nel titolo, in una parola, distruzione, Basaglia
avverte del carattere di rottura delle sue tesi, «forte» anche per un
pubblico in molta parte anglosassone, di riformatori della psichiatria,
che stanno sperimentando da una decina d’anni la «comunità
terapeutica»: in un Paese dove nel 1948 è stato votato il National
Health Service, un servizio sanitario che garantisce a tutti il diritto
alla salute (la nostra «riforma sanitaria», trent’anni prima) e nel 1959,
è stato adottato il Mental Healt Act, che crea un sistema di
assistenza psichiatrica territoriale. Basaglia spiega però che bisogna
andare oltre la comunità terapeutica, spiega che la comunità
terapeutica e la psichiatria comunitaria sono un passaggio, sono
tappe di una faticosa evoluzione tecnico scientifica che non può
svincolarsi dalle leggi socioeconomiche che la determinano, come
sosterrà nella prefazione all’edizione italiana del saggio di Maxwell
Jones, Ideologia e pratica della psichiatria sociale, e dove rifletterà
sulla condizione italiana, giungendo a una conclusione molto chiara:
«L’errore che può derivare per paesi come il nostro in cui la
teorizzazione e i progetti si mantengono ad un’enorme distanza dalle
realizzazioni, è che il modello di Maxwell Jones venga accettato
come una nuova soluzione di carattere assoluto da sostituire
dialetticamente alla vecchia. In questo caso ciò che costituiva la
terapeuticità del modello – implicita nel processo di trasformazione in
atto in un’istituzione in cui tutti i componenti sono presi in causa, così
come i rapporti tra l’istituzione e il sistema sociale di cui è
espressione – viene a tramutarsi in un processo di adattamento alle
nuove regole da imporre, senza che ne sia verificata sul terreno
pratico la validità». Il cammino è terapeutico, è terapeutico ogni
istante in cui si mettono alla prova bisogni e realtà. Che mutano e
con questo mutamento occorre misurarsi.
A Londra Basaglia inizia la sua relazione citando un manifesto di
artisti francesi, che si firmano la «révolution surréaliste», un
manifesto rivolto ai direttori dei manicomi: «Domattina, all’ora della
visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con
questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro
confronti avete una sola superiorità: la forza» (la «Révolution
surréaliste» è la rivista fondata nel 1924 da André Breton e da
Aragon, diretta all’inizio da Pierre Naville e Benjamin Péret). Poi, in
una decina di righe, Basaglia sintetizza un secolo e mezzo di storia
psichiatria e il fallimento della psichiatria: «Quarant’anni dopo», il
riferimento è al 1925 del manifesto surrealista, «legati come gran
parte dei paesi europei a una legge antica ancora incerta tra
l’assistenza e la sicurezza, la pietà e la paura, la situazione non è
molto mutata: limiti forzati, burocrazia, autoritarismo regolano la vita
degli internati per i quali Pinel aveva clamorosamente reclamato il
diritto alla libertà. Ma la libertà di cui parlava Pinel era stata
concessa in uno spazio chiuso, messa nelle mani del legislatore e
del medico che dovevano tutelarla. Per questo, più di due secoli
dopo lo spettacolare scioglimento delle catene, regole forzate e
mortificazioni segnano ancora il ritmo della vita dei ricoveri,
richiedendone l’urgente soluzione con formule che tengano
finalmente conto dell’uomo nel suo libero porsi nel mondo».
Libero porsi nel mondo, dice Basaglia, che un istante dopo
possiamo immaginare scandisca la parola chiave del suo disegno:
«libertà». Lo psichiatra ha sinora contribuito a alzare muri e grate, a
creare un sistema ambiguo tra la terapia e la custodia, un edificio più
carcere che ospedale, che promette poco oltre la mostruosa
esistenza di un uomo «istituzionalizzato», pietrificato nei nostri
ospedali, l’uomo immobile, senza una speranza, senza un’attesa,
senza un futuro, prigioniero di quel «sistema», «costruito per il
completo annientamento» di ogni individualità, di riduzione a zero di
ogni personalità. Ogni forma di «apertura» del manicomio produce
nel malato «una graduale trasformazione del suo porsi»… Se c’è
cambiamento, riconosce Basaglia, è grazie anche ai nuovi farmaci.
Però, «se il fatalismo verso la malattia mentale poteva essere
giustificato in assenza di efficaci terapie, dopo l’avvento dell’era
farmacologica esso diventa inesplicabile se non imputando
all’attuale classe psichiatrica un ruolo determinante di
responsabilità». Poi riassume, punto per punto, i passi compiuti in tre
anni di lavoro a Gorizia: introduzione dei farmaci, grazie ai quali fu
possibile eliminare le contenzioni e distinguere tra i danni della
malattia e quelli dell’internamento; rieducazione umana e teorica del
personale; riannodamento dei legami con l’esterno; abbattimento
delle barriere fisiche; apertura delle porte secondo il sistema open
door; creazione di un Ospedale di Giorno (polemizza Basaglia:
l’edificio è pronto da un anno, mancano le autorizzazioni
dell’amministrazione); tentativo di organizzare la vita nell’ospedale
secondo i concetti di una comunità terapeutica.

45

Così sembra tutto difficile, a volte generico, a volte astratto. Ma ci


sono passi elementari, per cominciare. Ad esempio restituire un
volto ai matti, perché i matti non si possono guardare in uno
specchio, lo specchio è pericoloso, lo specchio è stato loro sottratto,
non possono pettinarsi, il pettine è pericoloso, si vestono di stracci,
forse perché un pantalone o una sottana decenti costano troppo,
forse perché in quegli stracci è la sanzione della loro malattia, il
marchio della loro diversità. I matti non possiedono nulla. I manicomi
sono pieni di pacchi bene ordinati che contengono, con tanto di
cartellino per il riconoscimento, le ultime ricchezze di un matto: un
libro, una fotografia, un gioiellino. Come nelle fotografie di un lager,
durante la guerra: le valigie dei deportati accatastate, le scarpe degli
ebrei raccolte in mucchi, gli abiti piegati e conservati, come se prima
o poi chi li indossava dovesse ripassare e riprenderseli, custoditi a
futuro uso che non verrà mai. Restituire ai matti i comodini è il
gradino d’inizio. Accanto a ogni letto un comodino, un armadietto per
conservare le «proprie cose», per riconoscere una propria storia, il
proprio passato e quindi un’identità. Ridare un comodino ai matti è
una delle prime battaglie di Basaglia.

46

Domenico Casagrande (intervistato da Francesco Bollorino e Lisa


Attolini) testimonia: quando a Gorizia cade il primo muro, c’è un
paziente che continua a girare per il cortile senza osare mai valicare
la linea, ormai solo immaginaria, di quel muro che non esiste più,
arriva, rimira quella traccia, si ferma, poco alla volta incomincia a
mettere un piede dall’altra parte, a sondare l’avventura, guardandosi
attorno, con calma, mai nella stessa giornata più di un passo, finché
s’accorge e si convince che andando oltre non succede
assolutamente nulla. L’andare oltre di quel timido malato diventa un
modo per riconquistare la libertà, è un passo di libertà, impedito
prima da un reticolato e dalla norma, durissima se una volta
eliminato l’ostacolo fisico la regola regge più forte di cemento e ferro.
Così i comodini, i tavolini, gli armadietti, le tovaglie per il pranzo,
persino i coltelli per tagliare la carne e il pane, sono un modo per
tornare alla vita normale, per ritrovare gesti, spazi, tempi di
un’umanità dimenticata. E poi parlare, riabituandosi a parlare, facile
parlare di cose concrete, del cibo, del giardino, del lavoro e delle
proprie speranze. Tornare a casa è la comune volontà dei reclusi.

47

Basaglia, davanti ai suoi ascoltatori inglesi, probabilmente perplessi,


persino ostili di fronte a quel giovane medico che minaccia di
infrangere i risultati più apprezzati, universalmente, della loro
psichiatria, aggiunge subito dopo la sua perplessità: «Luogo di
istituzionalizzazione e di alienazione indotta, l’Ospedale psichiatrico
potrebbe però rischiare di mutarsi – attraverso le nuove misure
attuate – in un altro luogo di alienazione, se è organizzato come un
mondo in sé compiuto, nel quale tutti i bisogni sono soddisfatti, come
in una gabbia d’oro». «Un ridente asilo di servi riconoscenti»: no,
non è questo che si vuole. E allora? L’aggressività individuale, far
leva sull’aggressività individuale, «che è ciò che noi psichiatri
cerchiamo per un’autentica relazione con il paziente…», per un
rapporto di tensione reciproca «che, solo, può essere in grado
attualmente di rompere i legami di autorità e di paternalismo, causa
fino a ieri di istituzionalizzazione». Ecco allora i rapporti nella
comunità, gli incontri, le discussioni, gli scontri animosi, dentro i quali
l’aggressività si esprime e grazie ai quali il malato vede definirsi uno
spazio «nato dal suo muoversi».
«In reparti ancora arredati con panche e tavoloni, dove i servizi
igienici sono per lo più contro ogni senso di dignità, il vestito
rattoppato e povero, il personale sanitario scarso in rapporto alle
esigenze terapeutiche create… il clima di libertà – argomenta
Basaglia – è tuttavia sentito in modo tale che il malato sopporta la
mancanza di questi provvedimenti, diventando complice e
collaboratore del medico nell’esigere la sua sistemazione in uno
spazio adatto alla sua umanità e alla sua malattia». La domanda
conclusiva torna alla questione fondamentale: «Riuscirà comunque il
principio di libertà a scalzare quello di autorità?»
48

L’interrogativo, rivolto allora a un gruppo di psichiatri, lo sentiremo di


frequente negli anni che seguono, nella società, nelle fila dei partiti,
soprattutto nelle scuole e nelle università, nelle piazze. Tra i
movimenti in lotta. In quella domanda si riassume il nostro breve
Sessantotto, risalendo alle prime dichiarazioni, ai primi documenti,
che ci giungono dall’altra parte del mondo, risalendo ad esempio al
manifesto di Port Huron, 1962, la dichiarazione degli Students for a
Democratic Society, degli studenti della nuova sinistra americana,
che contesta il sistema in nome della libertà, della giustizia, per un
governo retto dal popolo, del popolo, in favore del popolo. Ci sono
pagine esemplari, programmatiche, rilette alla luce di quanto si
proverà qualche anno dopo a Gorizia, anche se non si parla di
psichiatria (ma si parla soprattutto di università e di obiettivi che dalle
aule universitarie si possono proporre alla società civile):
«Consideriamo gli uomini qualcosa di infinitamente prezioso, e in
possesso di insoddisfatte capacità di ragione, libertà, amore… Noi ci
opponiamo alla depersonalizzazione che riduce gli esseri umani allo
stato di cose; le brutalità del ventesimo secolo ci hanno se non altro
insegnato che mezzi e fini sono intimamente collegati… Gli uomini
sono un potenziale inespresso di autopromozione, auto-direzione,
autoconsapevolezza, creatività… Sono la solitudine, l’estraniazione
e l’isolamento a raccontare della larghissima distanza che divide
oggi l’uomo dall’uomo».
In Italia tramonta il centrosinistra. Poco alla volta sembra che una
superficie immobile cominci ad agitarsi, si possa rompere, almeno si
increspi. Guido Crainz scrive della «sotterranea crisi delle due
chiese». Nel Pci post togliattiano e nella Dc dopo il pontificato di
Giovanni XXIII qualcosa dell’ortodossia si incrina. Nel 1965
l’onorevole Loris Fortuna presenta una proposta di legge sul
divorzio. La Chiesa si oppone, la Dc si oppone, il Pci accoglie con
timidezza. Pannella fonda la Lid, Lega italiana per il divorzio.
«L’Espresso» accoglie la notizia, scrivendo di una legge, finalmente
in parlamento, che milioni di coppie infelici attendono. Milioni di
coppie testimoniano un’attesa che respinge le certezze
democristiane e i tatticismi comunisti, confermano ad apertura di
pagina l’esistenza di una cultura che vuole e sa esprimersi oltre i
limiti confessionali, ideologici, oltre le discipline di partito, di due
partiti-chiesa. È una conseguenza di quella «sotterranea crisi», che
libera forze, opinioni, moltiplica le circostanze di dibattito. Rileggere
come il Pci e la Dc interpretano questioni vitali nella loro storia: dal
rapporto con l’Unione Sovietica alla concezione della famiglia e dei
comportamenti che si legano a quella idea di famiglia chiusa,
inalterabile, tradizionale.
Il decennio di Gorizia con Basaglia sta nel lungo film che si gira tra
Europa e Asia, Africa e America, secondo una linea di contrasto tra
libertà e oppressione: la rivolta anticoloniale, l’insurrezione di Praga
e il colpo di stato in Grecia, l’assassinio di Kennedy e le bombe
americane sul Vietnam, i golpe sudamericani e la Guerra dei sei
giorni tra Israele e i Paesi Arabi, la cacciata di Krusciov, la
Rivoluzione culturale in Cina, la protesta nei ghetti dei neri
americani… Più di tutto colpisce il movimento di quei popoli che
dall’Africa all’Asia al Sudamerica sembra alzarsi come un’onda
impetuosa contro imperialismo e colonialismo, in nome della libertà.
Basaglia legge Frantz Fanon e legge l’introduzione di Sartre ai
Dannati della terra, pubblicato in Italia da Einaudi nel 1962. La
violenza irrefrenabile delle lotte di liberazione, scrive Sartre, «non è
un’assurda tempesta né il risorgere di istinti selvaggi e nemmeno
effetto del risentimento: è l’uomo stesso che si ricompone…» «Il
colonizzato si guarisce dalla nevrosi coloniale cacciando il colono
con le armi… Da lontano noi consideriamo la sua guerra come il
trionfo della barbarie: ma essa procede da se stessa
all’emancipazione progressiva del combattente; fuga in lui e fuori di
lui – progressivamente – le tenebre coloniali». L’alternativa lasciata
al colonizzato è immaginarsi «europeo», cercare di esserlo,
protestare per inseguire quell’ambizione, desiderare la carota e
protestare, senza che nulla cambi. Sembrare come gli altri. «Se ci
fosse – scrive Sartre – un’ombra di rivendicazione nei loro piagnistei,
sarebbe quella dell’integrazione. Mica accordarla, beninteso: si
sarebbe rovinato il sistema che poggia, come sapete, sul
supersfruttamento. Ma basterà – dicevano – tener davanti agli occhi
quella carota: galopperanno. Quanto a ribellarsi, eravamo
tranquillissimi: quale indigeno cosciente si sarebbe messo a
massacrare i bei figli d’Europa al solo scopo di diventare europeo
come loro? Insomma, incoraggiavamo quelle malinconie e non ci
parve male, per una volta, attribuire il Premio Goncourt a un negro.
Era prima del ’39». Era il 1921: il premio viene assegnato a Rene
Maran, martinicano, come Fanon. Il suo romanzo si intitola Batoula,
véritable roman nègre e desta scandalo. Maran perde il lavoro di
funzionario dell’amministrazione coloniale francese.
Fanon, lo psichiatra Fanon, esalta la violenza del colonizzato
come unico antidoto alla violenza sedimentata in secoli di
colonialismo: «La violenza che ha presieduto all’assetto del mondo
coloniale, che ha ritmato instancabilmente la distruzione delle forme
sociali indigene, demolito senza restrizioni i sistemi di riferimento
dell’economia, i modi di presentarsi, di vestire, sarà rivendicata e
assunta dal colonizzato al momento in cui, decidendo di essere la
storia in atto, la massa colonizzata investirà le città proibite». Fanon,
nato in Martinica nel 1925, decide di lasciare il suo Paese dopo
l’instaurazione di una dittatura militare ispirata dal governo di Vichy.
Raggiunge le forze della Francia libera. Dopo la laurea va incontro
alle prime esperienze a Saint Alban, con Lucien Bonnafè e Francois
Tosquelles, due innovatori (Tosquelles è spagnolo, comunista,
fuggito in Francia dopo la condanna a morte inflittagli dal regime del
dittatore Franco; lui e Bonnafè, partigiani entrambi, combattono
contro i nazisti). Nel 1954 Fanon accetta di lavorare nell’ospedale di
Blida-Joinville, città a sud di Algeri, dove entra in contatto con il
Fronte di liberazione algerino. Nel clima politico dei primi anni della
lotta di liberazione, Fanon opera una critica della psichiatria
manicomiale europea, che gli appare come uno strumento di
istituzionalizzazione del colonizzato del tutto funzionale all’ordine
imposto nelle colonie.
I Dannati della terra è uno dei libri del Sessantotto. Di Fanon
colpiscono la brillante carriera e poi la rinuncia in nome della rivolta
al fianco del Fronte di Liberazione nazionale algerino, quando lascia
l’ospedale di Blida-Joinville, riconoscendo in quelle condizioni,
condizioni di colonialismo, lui nero della Martinica al fianco di
nordafricani in stato di oppressione, il fallimento della psichiatria o
l’impossibilità della psichiatria: «Se la psichiatria è la tecnica medica
che ha per scopo di porre l’uomo in grado di non sentirsi più
estraneo al suo ambiente, devo affermare che l’arabo,
permanentemente estraniato nel suo Paese, vive in uno stato di
assoluta spersonalizzazione. Lo Statuto dell’Algeria? Una
disumanizzazione sistematica…» La lettera di dimissioni di Fanon
dall’incarico di medico capo dell’Ospedale psichiatrico di Blida-
Joinville, risale al 1956. «…Fanon – spiega Basaglia in un articolo
che rimanda al “problema della gestione”, pubblicato in una rivista
francese e in seguito in appendice all’Istituzione negata (dove viene
ampiamente citata in francese la lettera di dimissioni di Fanon) –
chiarisce la sua posizione di psichiatra politicizzato, realizzando che
il rapporto tra medico e malato (così come il rapporto tra bianco e
negro, cioè tra chi detiene il potere e chi di potere non ne ha) rimane
sempre un rapporto istituzionale in cui i ruoli sono definiti dal
sistema. Il massimo cui può condurre la sua azione è il riformismo e
il perfezionismo tecnico di una istituzione che offre – in cambio della
conferma della dipendenza del malato – la “guarigione” ed il
reinserimento sociale in una realtà, quella stessa realtà che Fanon
definisce “disumanizzazione sistematica”.»
Fanon può scegliere la rivoluzione, per abbandonare qualcosa che
con la sua stessa opera, con la sua stessa compromissione,
potrebbe giustificare. Noi ne siamo impediti: «La nostra realtà –
conclude invece Basaglia – è ancora continuare a vivere le
contraddizioni del sistema che ci determina, gestendo un’istituzione
che neghiamo, facendo un atto terapeutico che rifiutiamo, negando
che la nostra istituzione – diventata per la nostra stessa azione
un’istituzione dalla violenza sottile e mascherata – non continui ad
essere solo funzionale al sistema; tentando di resistere alle lusinghe
delle sempre nuove ideologie scientifiche in cui si tende a soffocare
le contraddizioni che è nostro compito rendere sempre più esplicite;
consapevoli di ingaggiare una scommessa assurda nel voler far
esistere dei valori mentre il non diritto, l’ineguaglianza, la morte
quotidiana dell’uomo sono eretti a principi legislativi».

49
Da un’altra parte del mondo ci giunge un’altra storia, come la
citerebbe Fanon, di violenza necessaria e di violenza che libera.
Ernesto Che Guevara diventa l’icona indimenticabile del
Sessantotto. Nel 1963 Guevara scrive un saggio, La guerra di
guerriglia: un metodo: «La violenza non è patrimonio degli sfruttatori,
gli sfruttati possono impiegarla al momento giusto… La dittatura
cerca sempre di conservarsi senza troppo mostrare che usa la forza;
costringerla a togliersi la maschera, a mostrarsi con il suo vero volto
di dittatura violenta delle classi reazionarie è un fatto che
contribuisce a mostrare al popolo la sua vera natura».
Alla morte di Guevara, nel 1967, Basaglia gli dedica un articolo,
scritto con Franca Ongaro, che appare nella rivista «Che fare?» (I,
1967). In epigrafe Basaglia riporta una frase del «Che»: «Nel nostro
mondo in lotta, ogni divergenza a proposito della tattica, del metodo
d’azione per raggiungere obiettivi limitati, deve essere analizzata con
il rispetto dovuto agli apprezzamenti altrui. In quanto al grande
obiettivo strategico, la distruzione totale dell’imperialismo attraverso
la lotta, dobbiamo essere intransigenti». «La nostra realtà»: sembra
che Basaglia, anche attraverso le parole del Che, inviti ancora a
riflettere sulla consistenza delle nostre responsabilità, anche di
fronte a un obiettivo tanto vigoroso, tanto ambizioso, di liberazione.
Nell’articolo, che si intitola Il corpo del Che, Basaglia mette in
guardia dall’uso della vita di un rivoluzionario, dal tentativo di
annientarlo in oggetto di consumo, «mezzo Don Chisciotte, mezzo
Saint Just», come lo ricorda «Il Giorno», sognatore e insieme rigido
apostolo di una giustizia universale, che sa più di cielo che di terra,
«romantico», «amante del bel gesto». Con durezza paradossale
Basaglia s’augura che il corpo del Che sia mortificato, offeso,
violentato dai suoi nemici come lo fu in vita: «Vogliamo che si
continui a ritenerlo il corpo della violenza, il corpo sfacciato della
rivoluzione che continua a esistere oltre la morte finché ci sono
violenza e sopraffazione».
Basaglia ammira Fanon e ammira i rivoluzionari che in quegli anni
scuotono il mondo, comunisti e preti come Camilo Torres, che
lottano per cambiare lo stato del mondo, che prospera di
sopraffazione, diritti violati, sfruttamento, ingiustizia legittimata. Sa
benissimo che cosa possa significare rivoluzione: sa che esistono i
gulag, sa dei deportati in nome di presunte malattie mentali. Quando
in Brasile, a Belo Horizonte, gli chiedono notizie circa lo stato
dell’assistenza psichiatrica nei paesi socialisti, risponde di pensare a
una soluzione socialista all’organizzazione sociale, a una società
diversa che continui a criticare se stessa in una situazione di
rivoluzione culturale costante. A chi gli chiede di Cuba risponde di
non amare gli ospedali, neppure quelli cubani, anche se Cuba è un
Paese socialista: «Io penso che a vent’anni dalla rivoluzione
l’ospedale psichiatrico di Cuba non dovrebbe esserci più». Ma
esprime così una cautela che nasconde ancora una speranza: «Io
non voglio criticare la psichiatria cubana, penso che è molto
semplice criticare le cose se non si conosce il contesto culturale,
sociale, politico nel quale queste contraddizioni avvengono; come è
molto facile criticare i gulag sovietici anche se li critico io per primo».
Basaglia sa bene che cosa possa significare per lui, cittadino e
psichiatra italiano, rivoluzione: continuare a vivere le contraddizioni
del sistema. Più tardi, ancora in Brasile, ancora a Belo Horizonte,
ricorda la «lunga marcia attraverso le istituzioni», «per citare una
frase molto nota» dice, strategia proposta in Germania da Rudi
Dutschke, slogan e progetto chiave di una stagione almeno del
Sessantotto italiano: scuola, università, ospedali, carceri,
naturalmente manicomi, luoghi di oppressione e di manipolazione
autoritaria, che si potevano di volta in volta aggredire secondo
medesimi meccanismi di disobbedienza, di rifiuto, dell’autorità, di
emancipazione. Insiste Basaglia: «O noi accettiamo questa lunga
marcia insieme con le grandi masse che vogliono cambiare il mondo
o altrimenti la nostra sarà una lotta personale, una lotta
individualista, borghese e nient’altro».
Sempre a San Paolo, nel giugno del 1979, all’Istituto Sedes
Sapientiae, si fa avanti un giovane, che come tanti altri ripropone la
questione: se la soluzione non stia solo in un cambiamento del
sistema politico, se tutto il resto non debba accadere di
conseguenza. Altrimenti, spiega il giovane, si ricade sempre nello
stesso circolo vizioso: dalla repressione alla malattia, dalla malattia
all’ospedale, dall’ospedale alla terapia, dalla terapia al reinserimento
sociale, dal reinserimento sociale alla repressione così via. Basaglia
obietta che la società non può essere cambiata da un giorno con
l’altro: «È la storia dell’uomo, è la storia di quest’ultimo secolo…
Abbiamo visto la Rivoluzione d’ottobre, che avrebbe dovuto
cambiare il mondo…» C’è stata la rivoluzione cinese, c’è stata Cuba.
Ogni volta abbiamo sperato che la situazione di questi paesi
cambiasse. Quante illusioni, quante delusioni: «Parliamo dei
manicomi e della repressione nei nostri paesi e sappiamo che nei
paesi socialisti esistono i gulag, ci sono persone represse in senso
manicomiale, manicomi terribili e persone che non possono
esprimere il loro dissenso». Che fare, allora? Tutti a casa.
Chiudiamo il libro della speranza e torniamo tutti a casa? La risposta
di Basaglia è lunga. Dobbiamo cambiare questa società, che uccide
chi è malato. Tuttavia non possiamo cullarci nell’illusione che una
volta cambiata la società tutto s’aggiusti, che noi tutti si possa vivere
meglio di quanto viviamo oggi. «Certamente – dice Basaglia –
vivremo meglio… ma ci sarà sempre una nuova contraddizione fra
quello che siamo e quello che vorremmo essere, fra quella che è la
nostra oggettività e la nostra soggettività. L’uomo è sempre sconfitto
a questo livello: non ottiene mai di esprimere ciò che vuole». Allora,
il resto, se va bene, è ricerca di espressione, continua. Nella
sconfitta, ci può salvare la radicalità dei nostri tentativi: «Se non
avessimo questa visione, questa immaginazione di futuro sarebbe
meglio suicidarci tutti. Questa sarebbe la logica conseguenza del
pessimismo della ragione…» Al pessimismo della ragione di chi si
arrende all’impossibilità di esprimere ciò che si vuole, contrappone
l’ottimismo della pratica, del fare quotidiano perché solo così
potremo sconfiggere dittatori, militari, medici.
Con un interlocutore di qualche minuto dopo, stessa conferenza,
stessa scena, un giovane che gli parla di «rivoluzione culturale
permanente all’interno della società socialista», Basaglia dapprima
replica accettando lo stesso linguaggio: «Penso che oggi il buon
marxista si pone il problema della pratica marxista, che assume
come priorità la soggettività nella lotta quotidiana in mezzo alle
contraddizioni del capitale». Poi, concretamente, risolve la questione
invitando a «fare»: «Per esempio, se tutti gli operatori qui presenti
cominciassero a fare un lavoro di trasformazione istituzionale,
indipendentemente dal loro potere, sarebbe già un grande passo
verso la conquista del socialismo».
Qualche giorno dopo, stavolta a Rio de Janejro, gli chiedono di
libertà sessuale. C’è un abisso tra la domanda di libertà e la pseudo
libertà che il potere concede, mistificazione di libertà. Viviamo in una
società in cui ogni conquista di libertà può rovesciarsi in una nuova
oppressione: più che negare il potere cerca di usare, blandisce,
sfrutta, conquista. «Capire questo è importante, ma non significa che
dunque non si può far nulla dato che il potere recupera tutto, come
sembra pensare in questo momento una certa sinistra europea. Se
questo fosse vero dovremmo dire che le Brigate Rosse hanno
ragione, cosa che invece non è affatto vera, perché sono anch’esse
manipolate dal potere…»
È difficile in situazioni come queste trovare soluzioni giuste che
siano anche soluzioni reali. C’è sempre il pericolo di cadere in
trappola, ma dobbiamo reagire e «il nostro sforzo deve essere quello
di lasciare il discorso comunque aperto…» Una sfida, in nome della
libertà, riconoscendo che non esiste un traguardo ultimo, assoluto,
ma che bisogna continuare, lasciando «il discorso comunque
aperto», contro il pessimismo della ragione, contro «il pessimismo
degli intellettuali, che pensano che non si può far nulla, che si può
solo scrivere libri».

50

Si può fare. Il Sessantotto è anche chiedere di fare, di agire: «Un


comune denominatore sociale del movimento è fuori discussione,
ma è anche certo che psicologicamente questa generazione sembra
dappertutto caratterizzata dal semplice coraggio, da una
sorprendente volontà di agire e da una non meno sorprendente
fiducia nella possibilità del cambiamento», scrive Hannah Arendt.
Agire è anche occupare le aule universitarie, a Milano, Torino,
Roma, Trento, chiedendo riforme: piani di studi riformati, luoghi di
partecipazione, conoscere e discutere le finalità della ricerca,
rompere il rapporto burocratico, interrompere la gerarchia che
consente a un «barone» di gestire l’insegnamento come una
proprietà, smantellare l’autoritarismo accademico. Di fronte
all’università, contro le istituzioni, contro l’autoritarismo che è il modo
centrale attraverso il quale si rappresenta quella società capitalista
(«capitalismo», «capitalista» sono le parole chiave) sembra di
ascoltare la stessa lingua e le stesse risposte, di contrapposizione
netta, di negazione dei bisogni più elementari, di rifiuto del dialogo,
di salvaguardia di un ordine, ricorrendo allo strumento più ovvio: la
forza della polizia. E a uno strumento anche più efficace: l’elusione
dei problemi, che certifica la sordità e l’inadeguatezza di quello che
si può definire un ceto dirigente, tra politica, amministrazione,
cultura, università, ancorato ai propri privilegi, incapace di vedere o
almeno intuire i cambiamenti, attestato su una linea difensiva di
conservazione. Neppure furbo. Negando ogni elementare spazio di
contestazione, alla fine alimenta un tragico equivoco. Come spiega
Guido Crainz: «Di fronte ad autorità accademiche e statali che
dichiaravano illegali le più elementari forme di lotta, l’illegalità tende
sempre più ad essere assunta – nelle posizioni estreme,
inevitabilmente egemoni in questo clima – come elementare difesa
della libertà. E la democrazia parlamentare è letta come pura
apparenza, quasi maschera di uno stato sostanzialmente
autoritario». Se è illegale l’assemblea, l’illegalità diventa luogo di
libertà.
La «lunga marcia» mette in fila le istituzioni: scuole, università, le
fabbriche, la polizia che malmena gli studenti, la magistratura che li
persegue, la stampa che spesso li diffama (colpiscono le rare
eccezioni a una visione terroristica delle proteste universitarie
dispensata dai maggiori quotidiani italiani, a cominciare dal «Corriere
della Sera»), la Chiesa, la famiglia, naturalmente l’ospedale e
naturalmente, tra gli ospedali, l’ospedale psichiatrico, il manicomio,
luoghi sempre d’ordine, di regole imposte e mai discusse, d’autorità,
di gerarchia. Si occupano fabbriche e scuole, si occupa anche il
manicomio. In un reportage da Bologna, dall’università dove è stato
invitato per i suoi servizi sulla «condizione sanitaria» nelle fabbriche,
Giorgio Bocca racconta su «Il Giorno» il suo incontro con gli iscritti di
medicina: «Una studentessa: lei ci ha parlato degli operai che
invecchiano precocemente, si ammalano, si nevrotizzano e di come
il sistema produttivo li spinge ai margini della società. Noi andiamo
negli ospedali e sappiamo come sono trattati gli ammalati delle
mutue, i vecchi… ma mi dica: cosa potrò fare io laureata
specializzata per curarli in modo serio se non è concesso a me e alla
scienza in genere di indagare, di prevenire, di intervenire sulle cause
del male?
«Uno studente: Al tuo “che fare?” io risponderei: fare. Io ed altri
abbiamo deciso di impostare una ricerca sulla nevrosi operaia.
Faremo il possibile, interrogheremo gli operai fuori dalle fabbriche.
Se c’è una medicina al servizio dei padroni, ebbene ci sarà anche la
nostra al servizio di chi lavora…
«Altro studente: Ci chiedono di essere degli specializzati sordi e
muti che tagliano, cuciono, danno pillole, senza fare domande
indiscrete, senza chiedere il perché e il percome sociale dei mali».
Interviene anche un giovane professore: «Io vedo il movimento
come una verifica compiuta a vent’anni di distanza dalla guerra
partigiana. Essa dice che i problemi non risolti allora tornano sul
tavolo. L’Italia della conservazione, del privilegio, degli integrati e dei
rassegnati, che in varie gradazioni ha accettato l’immobilismo, si
rende conto in questi giorni che la partita è di nuovo aperta…»
Il giornalista, che è stato partigiano, si rivolge agli studenti con
giudizi duri, persino provocatori: «Avanguardia piccolo borghese e
corporativa». Vede lontano, Bocca: «Il pericolo operaio non c’è più.
Sotto di voi il vuoto». Il vuoto sotto un’avanguardia piccolo borghese
e corporativa.

51

Nel lavoro a Gorizia, Basaglia sperimenta l’incertezza della follia,


sperimenta che non tutti i matti sono matti, che i violenti sono pochi e
che la violenza nasce da condizioni di sopraffazione, che i matti
precipitati in fondo al pozzo del manicomio sono poveri, disoccupati,
alcolisti, orfani, abbandonati, solitari. «Il problema è che noi siamo
poveri», dice la madre di Angelo, immagine di una miseria colta dalla
cinepresa di Stefano Agosti in un film che dà scandalo, Matti da
slegare, del 1974.
Basaglia sperimenta il perché e il percome sociale dei mali, un
universo del disagio circoscritto dietro le sbarre di un manicomio,
gente privata dei propri diritti, persino della propria umanità, come
nessuna ragione al mondo potrebbe giustificare, spogliata con la
complicità di una scienza medica che non capisce o che stenta a
capire e che costruisce la propria legittimità sulla base di
classificazioni, di definizioni, di misure. Dice una volta Basaglia: un
conto è se io chiamo pellagra la malattia di chi vive solo di polenta,
un conto se la chiamo miseria. In un caso la cura può essere
qualche pastiglia, se dico «miseria» si potrebbe pretendere altro,
magari si potrebbe pensare alla rivolta. Che cosa è la pellagra?
Dopo i primi sintomi (eritema, diarrea, tremori), intervengono disturbi
psichici che iniziano con ipocondria, depressione e portano a gravi
stati confusionali con allucinazioni visive, agitazione e delirio: la vera
demenza pellagrosa. Malattia mentale, infine, da fame antica, però.
«Vogliamo – dice chiaro Basaglia al suo pubblico americano – che
la medicina esprima qualcosa che va oltre il corpo, qualcosa che sia
espressione del sociale, qualcosa che prenda in considerazione
l’organizzazione nella quale viviamo. Io non penso che l’uomo sia
fatto esclusivamente di psicologico o esclusivamente di un corpo
biologico. Non credo nemmeno, d’altra parte, che sia fatto solo di
sociale. Credo che l’uomo sia il risultato di una integrazione di tutti
questi livelli e, prendendo in considerazione tutti questi fattori, noi
medici dobbiamo essere allo stesso tempo biologi, psicologi,
sociologi. Se non succede questo saremo sempre dei torturatori dei
malati.»

52

Il movimento degli studenti giunge non di rado a invadere gli


ospedali e diffonde ovunque la critica serrata all’ideologia ufficiale
della medicina. Insiste in particolare su un tema sino ad allora
trascurato: le cause sociali della malattia e quindi la centralità di una
prevenzione capace di intervenire sugli ambienti di lavoro e di vita.
Con forzature populistiche, certo: «La malattia non viene per caso.
Ci si ammala a lavorare in fabbrica, con i ritmi che non lasciano
respirare, i turni di notte, il cottimo che impone all’operaio di rischiare
le mani o la pelle sotto la pressa per procurare maggiori profitti al
padrone». Ma anche con la capacità di avviare inchieste reali, in
fabbriche e quartieri, in collegamento con i settori più sensibili del
movimento sindacale. Proprio in questo campo le conseguenze
saranno di grande rilievo. è lo stesso Bruno Trentin allora segretario
della Fiom, a riconoscerlo, rivendicando nel «secondo biennio
rosso», 1968-1969, l’affermazione di una «cultura dei diritti del
lavoratore in quanto persona». E al primo punto della piattaforma
contrattuale, che «apre» l’autunno caldo, i metalmeccanici scrivono,
con la riduzione dell’orario a quaranta ore settimanali, aumenti
salariali uguali per tutti: in nome di un egualitarismo fondato sul
riconoscimento del «valore dell’uomo», che non può essere
evidentemente in vario modo distribuito. è uguale per tutti e sarebbe
un argomento caro a Basaglia. Nelle richieste sindacali e nelle lotte
cresce il peso delle rivendicazioni riguardanti l’ambiente di lavoro e
viene progressivamente abbandonata l’impostazione prima
prevalente, che si limitava a monetizzare la nocività, accettando cioè
condizioni di lavoro malsane e nocive in cambio di compensi
salariali: solo nel 1969 nel contratto dei chimici è abolita l’indennità di
nocività e vengono introdotti limiti precisi alla concentrazione di
sostanze dannose. L’eco giunge anche a un’opinione pubblica
disattenta, talora con iniziative clamorose: a Bologna, ad esempio, o
a Genova, con una contestazione del congresso nazionale di
medicina del lavoro che mette a stridente confronto la realtà operaia
(1 infortunio ogni 20 secondi, 1 invalido ogni 10 minuti, un morto ogni
2 ore) con il programma mondano del convegno… Questa sensibilità
nuova dava vigore alle voci di chi batteva da tempo questa via, come
Giulio Maccacaro: peraltro uno dei pochi docenti che aveva guardato
sin dall’inizio al movimento studentesco con attenzione solidale.
Dà una spiegazione Basaglia: «Ciò che è accaduto in Italia è stato
molto semplice e banale. Abbiamo rifiutato il potere che viene dalla
classe dominante e che ci dà la possibilità di opprimere il malato, e
abbiamo cercato un nuovo patto, un impegno con la parte oppressa
della società. Quando apriamo il manicomio mettiamo in crisi la
nostra professione, perché diamo al malato la possibilità e le
condizioni per criticare la nostra azione pratica».
La scoperta delle cause sociali della malattia è immediatamente
seguita da un’altra: «per quanto riguarda la contestazione
studentesca negli ospedali psichiatrici – scrive il prefetto di Torino
agli inizi del 1969 – va rilevato che la denuncia del movimento
universitario sullo stato di disagio in cui versano i malati di mente ha
trovato ampia eco nella stampa cittadina, la quale è apparsa
unanime nel sollecitare una riorganizzazione dei locali nosocomi». Il
manicomio di Collegno, l’istituzione totale, ricorda Marco Revelli in
un saggio sulle lotte studentesche torinesi per gli Annali della
Fondazione Micheletti, «sarà per il movimento un incontro
scioccante e fondamentale, in qualche modo simbolico della sua
estraneità ai modelli di razionalità strumentale dominanti, della sua
natura di secessione dalla società strutturata e ordinata». Proprio a
Torino, nel Regio manicomio, venne istituita nel 1850 la prima
cattedra universitaria di psichiatria.
Così un giornale, «La Stampa» di Torino, il 12 gennaio 1969, con
stupore e persino ingenuità cerca di rappresentare lo stato degli
ospedali psichiatrici di Torino (vi si parla di Collegno e della sede di
via Carlo Ignazio Giulio): «Siamo stati a Collegno ieri sera, poco
dopo la cena. Uno spettacolo che stringe il cuore. Affollamento
intollerabile nelle camerate (in una c’è un intervallo di trenta
centimetri tra letto e letto); promiscuità e fetore insopportabili.
Abbiamo visto i malati nelle cinghie di contenzione. Urla: ci
picchiano, il vitto è scondito, la vita è un inferno… Ma se anche i
pazzi fossero trattati benissimo – dicono gli studenti – non per
questo muterebbe l’aspetto sinistro di un sistema sociale. Le
infermiere di via Giulio… sono dello stesso parere. Ieri li chiamavano
indemoniati, oggi sono soltanto oggetti pericolosi da segregare
perché non disturbino. Affermano che fino a un anno fa una stessa
siringa serviva a fare iniezioni a trenta persone; riferiscono di penose
promiscuità; di malate costrette a lavare mucchi di biancheria delle
incontinenti; di donne legate per ore, inchiodate nella loro sporcizia.
Ha dunque ragione il prete, che ha parlato l’altra sera durante il
dibattito promosso dagli studenti: d’accordo a modificare le strutture
e la società che rinchiude i pazzi e li segrega, ma cominciamo a far
qualcosa perché ì malati vivano meglio. Se i piani
dell’amministrazione si realizzeranno, la “vergogna di via Giulio”
sparirà entro il ’71. E Collegno? Andiamo a vedere come vivono i
duemila ricoverati in edifici che hanno da 100 a 300 anni. Ci siamo
già stati nel ’66, da allora qualcosa è migliorato. Ma chi potrà
rendere funzionali questi tetri ambienti? Sono quasi le 19, la cena è
finita, parecchi sono già coricati. Sezione otto, 150 letti, uno
addossato all’altro. Luci accese, un giovane malato lavora a maglia,
il suo vicino è legato. Venti giorni fa ha spaccato una sedia addosso
a un infermiere, stasera ha rifiutato il sedativo e si agita. Sezioni 7 e
5, il fetore prende alla gola. Qui ci sono anche i “sudici” i e i letti
distano appena 30 centimetri. Ogni spazio è sfruttato. Vecchi
scheletrici, rattrappiti, gialli, con lo sguardo ebete. Uno supplica:
legami, altrimenti cado. Dice il medico: non cade mai, ma se non lo
leghiamo non dorme. Qualche letto ha le sponde, l’aria è greve. Un
nano grida: sono Caligola, mi tengono qui per mangiarsi i miei
marenghi. Nel refettorio qualcuno gioca a carte; un uomo guarda un
quaderno, lo sfoglia e ha un sorriso remoto. Passiamo attraverso
altre sezioni; ovunque lo stesso squallore, affollamento, promiscuità
dolorosa. Ci fermiamo in quella “alcolisti” rimodernata di recente.
Non occorre poi molto perché i malati si sentano un po’ meno “cose”.
C’è una stanza per chi dipinge, una sala da biliardo, il bar e la tv e le
tende alle finestre. Un soffio di speranza circola nell’ambiente più
umano. Ancora una sosta alla sezione 15, osservazione e reparto
chirurgico. Pulizia e povertà. Un uomo ferma il medico: non mi mandi
via; non mi sento a posto. Tutte le sezioni hanno il televisore, ma i
malati preferiscono trovarsi nel teatrino o nel bar centrale. Fumo che
si taglia col coltello, grida, canzoni a squarciagola. Ci vengono tutti
intorno e possiamo interrogarli a uno a uno. Un uomo di trent’anni
scuote la testa: da 25 anni sono qui e te lo dico io, la vita è brutta».
Anche Basaglia partecipa, a metà giugno del 1969, ad
un’assemblea, con le malate, in via Giulio. Viene presentato come il
dottor Basaglia, uno dei fautori della «comunità terapeutica». Dice
che la malattia mentale esiste, ma che purtroppo non si sa che cosa
sia, dice che il problema è dentro i manicomi, ma soprattutto fuori,
dove scuola, lavoro famiglia creano emarginati tra gli individui più
deboli, alcuni finiscono in carcere, altri negli ospedali psichiatrici, che
occorre infine intervenire su quelle strutture della società che
possono favorire «l’esplosione della malattia» (così secondo un
breve resoconto giornalistico).
A Torino Basaglia passa anche mesi prima, a fine 1968, per un
altro convegno. Il tema che viene proposto: «È un crimine costruire
un ospedale psichiatrico?» Tra il pubblico siede Pier Paolo Pasolini.
Partecipa, silenzioso, per solidarietà con il «dottor Basaglia». Poi
commenterà, su «La Stampa»: «Qualcuno ha detto, molto
bonariamente, che il manicomio è una casa un po’ particolare in cui
si curano e si custodiscono i malati. Io avrei saputo che cosa dire:
l’ospedale psichiatrico è un ghetto, un posto dove vengono confinati i
diversi, quelli che mettono in forse la falsa idea di sé che ha la
maggioranza degli uomini… Il concetto di diverso mi è stato ispirato
da due tristi personaggi, Hitler e Himmler. Nel primo campo di
concentramento di Hadamar, cominciarono a trucidare due categorie
di persone, i malati di mente e gli invertiti. Poi fu la volta degli ebrei,
degli zingari, dei comunisti, degli artisti. Persone che secondo loro
non erano degne di vivere. Sono proprio loro i miei diversi, coloro
che riescono a mettere in crisi, con la loro diversità, la nostra società
tanto normale». Hadamar era una clinica psichiatrica. Negli anni del
nazismo e della Shoah, vi morirono quindicimila persone, tra di loro
diecimila bambini, uccise in nome di un programma di eugenetica,
Action T4. Ad Hadamar funzionava un forno crematorio.
Anni più tardi, una studiosa torinese, Anna Maria Bruzzone,
ripropone lo stesso confronto, il lager e il manicomio. Nei suoi libri,
Le donne di Ravensbruck e Ci chiamavano matti, raccoglie le
testimonianze di donne che furono deportate nei campi di sterminio
e di ospiti del manicomio di Arezzo (di cui, dopo Gorizia, diventa
direttore Agostino Pirella: per i malati il tempo del loro narrare si
scandisce tra il prima e il dopo Pirella): «Nell’uno e nell’altro luogo, in
una rete di corrispondenze grandi e minute, gli orari inflessibili, la
privazione di ogni oggetto personale, la divisa, le perquisizioni, la
conta e altri controlli, le uscite accompagnati, il lavoro non retribuito
con cui i rinchiusi contribuivano a sostenere l’istituzione che li
segregava, la gamella, la mancanza di posate – i ricoverati avevano
in più il cucchiaio di legno – l’affollamento orrendo in spazi serrati, la
sporcizia: nel lager i pidocchi, le deportate colpite da diarrea che non
potevano lavarsi, qui le persone contenute o imprigionate nelle
camerette o costrette nei cortili profondi come pozzi, fra alti muri cinti
da cipressi, e nei cameroni, abbruttite, immerse nelle loro feci… là i
colpi di bastone, le frustate, gli schiaffi, i pugni, i calci, lo Strafblock, il
Bunker, qui le percosse, i cravattini, le impannucciate, le camicie di
forza, i lacci, le fasce di contenzione, le camerette di isolamento…»

53

Anche gli studenti di medicina a Parma occupano il loro manicomio,


quello di Colorno, la grande reggia che fu di Maria Luigia che diventa
ospedale psichiatrico nel 1873. Quaranta giorni di occupazione, dai
primi di febbraio 1969. Con l’appoggio dell’Amministrazione
provinciale, come non nasconde Mario Tommasini, appunto
l’assessore provinciale alla sanità. Il manicomio è di sua
competenza. Franca Ongaro Basaglia ascolta e trascrive la sua
testimonianza. Succede che gli studenti visitino Colorno. In
un’assemblea descrivono le condizioni di vita degli internati:
inammissibili le definiscono. Così decidono l’occupazione,
chiamando medici, infermieri, familiari dei malati e malati e
soprattutto la città perché non dimenticasse quell’inferno che
comunque gli apparteneva. «I temi del movimento studentesco –
ricorda Tommasini – trovarono nella lotta al manicomio un terreno
pratico di confronto, una possibilità d’azione concreta che si
riallacciavano alla necessità di riportare l’insegnamento teorico della
medicina sul piano stesso della pratica, esigendo di verificare e di
smascherare ciò che la teoria aveva prodotto: il manicomio come
risultato della psichiatria tradizionale insegnata all’università».
Poi viene l’assemblea con la carta delle richieste dei ricoverati,
approvata all’unanimità. Poi tra gli occupanti ai primi rari infermieri se
ne aggiungono altri: si battono perché sia riconosciuto il loro lavoro,
perché sanno di non potersi ridurre solo a carcerieri. I vecchi medici
si dileguano, il direttore si chiude in casa… «Per quaranta giorni
furono i pazzi, gli irrecuperabili, i deficienti, gli imbecilli, i mostri a
gestire in perfetto ordine l’ospedale, diventando – con l’appoggio di
studenti e amministratori – protagonisti veri della propria
liberazione.» L’occupazione si conclude quando le amministrazioni
pubbliche annunciano la presentazione di un progetto di
risanamento e la istituzione di servizi esterni, laboratori, fattorie,
centri di igiene mentale.
«L’Espresso», presto, il 16 febbraio 1969, dedica un lungo servizio
all’occupazione, servizio che si apre con la testimonianza di un
infermiere, cruda, dolorosa: «Sono infermiere qua dentro da
quattordici anni, prima lavoravo in campagna. Come i miei
compagni. Quasi tutti eravamo braccianti o artigiani. Per darci il
diploma ci hanno istruito fino a un certo punto. Ma non ci hanno
insegnato il karate. Perciò abbiamo subito tutti qualche conseguenza
delle violenze. Occhi neri, costole rotte, contusioni, distorsioni e
peggio. E anche i medici le hanno subìte e anche le suore. Questo è
un paese agricolo: ci vedono venire fuori la sera con la camicia
pulita, la giacca di città, e ci dicono signori. Noi qui siamo i colletti
bianchi. E la gente non pensa a quello che facciamo qua dentro.
Non è piacevole neanche per noi quando si picchia un uomo, a volte
anche in cinque o in sei contro uno, per tenerlo e legarlo. Ci sono
malati che hanno una forza spaventosa… Purtroppo ho visto la
guerra e qui ci sono dei residui di guerra. Io devo fare fuori te,
perché tu non fai fuori me. Questa è la regola…» «L’Espresso», con
Fabrizio Dentice, ricostruisce la cronaca dell’occupazione:
compaiono Pompeo Costa, primario di un reparto dove si è avviata
una sorta di comunità terapeutica, Antonio Slavich, e l’assessore
Tommasini «da amico degli occupanti» (Tommasini dice qualche
cosa di più: «Abbiamo organizzato insieme l’occupazione»). Gli
studenti preparano incontri e dibattiti, «rispondono con volantini e
manifesti ai benpensanti locali che l’altra notte sono venuti a gridare
davanti al portone e a strappare i manifesti che dicono: “No al
manicomio dei poveri”, “Se l’ospedale psichiatrico serve a curare le
malattie mentali, i malati ricchi dove sono?”»

54

«Vi dirò una cosa sul Sessantotto che nessuna denigrazione


cancellerà. Prima del Sessantotto c’era scritto dappertutto “Vietato
l’ingresso”. Le case chiuse, grazie a una brava signora, erano state
abolite: ma le caserme, i manicomi, gli ospedali, le fabbriche e altri
luoghi di lavoro, gli uffici pubblici, le scuole erano tutte case chiuse. Il
Sessantotto le aprì. I non addetti ai lavori vi entrarono e guardarono.
Quel po’ di trasparenza che l’Italia s’è guadagnata, viene da lì». Ha
ragione Adriano Sofri, scrivendo nel suo Piccola posta, rubrica del
«Foglio quotidiano»: i non addetti aprono e guardano, poi però
qualcuno richiude. Quasi sempre succede così. Quegli anni e quelle
lotte, quando il movimento diventa movimenti di studenti e operai, di
poliziotti, soldati e carcerati, di malati, medici e psichiatri, calano i
veli che occultano l’arretratezza di un Paese, che, superati gli anni
del boom, incrocia un periodo di difficoltà economiche, ma continua
a inseguire consumi e benessere. «Una confortevole, levigata,
ragionevole, democratica non libertà prevale nella società industriale
avanzata, segno di progresso tecnico», commenta Herbert Marcuse,
nel suo celeberrimo L’uomo a una dimensione, altro libro di culto del
nostro Sessantotto. Poco più avanti, nel primo capitolo (Le nuove
forme di controllo), Marcuse annota ancora: «L’efficienza del sistema
ottunde negli individui la capacità di riconoscere che esso non
contiene fatti che non siano veicolo del potere repressivo
dell’insieme. Se gli individui si ritrovano nelle cose che plasmano la
loro vita, essi lo fanno non formulando la legge della loro vita, ma
accettandola – non la legge della fisica, ma la legge della loro
società» All’ultima pagina una citazione di Walter Benjamin:
«All’inizio dell’era fascista, Walter Benjamin ebbe a scrivere: “È solo
a favore dei disperati che ci è data la speranza”».

55

Nel Sessantotto accanto ai libri di Marcuse, Reich, Laing, accanto al


libretto rosso di Mao, ci sono i libri di Franco Basaglia. Il primo esce
edito dall’amministrazione provinciale di Parma, siamo nel 1967. La
copertina è celebre, diventerà un manifesto (in realtà apparve la
prima volta nel modulo di adesione dell’Associazione per la lotta
contro le malattie mentali fondata nel 1966 a Firenze): un matto (cioè
l’autore, l’artista, Hugo Pratt), seduto composto su una panchina e
su di lui i timbri del suo ricovero, ospedale psichiatrico, decreto di
ricovero definitivo, reparto agitati alta sorveglianza, reparto cronici…
L’attenzione è attratta da quel ritratto-autoritratto. Poi, in mano il
libro, sono le parole contenute nel cerchio del timbro a sgomentare:
decreto di ricovero definitivo. Come «fine pena mai», l’ergastolo per
chi si ritiene ancora un malato, di una malattia che si sa classificare
senza saper altro e senza saper nulla della vittima. Il libro si intitola
Che cos’è la psichiatria? e non è una guida di rapido consumo, ma è
una dichiarazione di impotenza, una provocazione, che nasce, come
scrive Basaglia nell’introduzione, «dallo stato di disagio in cui ci si
trova, oppressi da una ideologia psichiatrica chiusa e definita nel suo
ruolo di scienza dogmatica che, nei confronti dell’oggetto della sua
ricerca, ha saputo solo definirne diversità e incomprensibilità venute
a tradursi concretamente nella sua stigmatizzazione sociale». Si dice
di una scienza che si fa dogma, tradendo la sua ragione, che di
fronte all’oggetto della sua ricerca, la malattia, non sa che
immaginare definizioni, nomi per qualcosa che non comprende, nomi
che diventano un marchio che la società impone al malato. Timbri,
appunto. Ricorrendo ancora a Sartre, Basaglia ripete qui la frase
celebre: «Le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione
quando sono fatte» (da Che cos’è la letteratura). Una cosa è la
costruzione di un’idea, altra la cristallizzazione di un’idea. Anche
Gorizia è l’avvio di un cammino, non un traguardo definitivo. Ancora
Sartre: «nessun libro resiste davanti a un bambino che muore di
fame». L’impotenza della letteratura. Basaglia spiega. La letteratura
è parole, ma le parole agiscono su ciò che designano: lo modificano.
Un’ambiguità che si deve usare, perché la letteratura non si riduca al
nulla ma non si eserciti neppure soltanto come propaganda. Dice
Sartre (in un’intervista a «L’Arc», nel 1966): «…se si mantiene
fermamente l’ambiguità, se non si sacrifica né l’uno né l’altro aspetto
delle parole, si sarà già a buon punto per fare la vera letteratura: una
contestazione che contesta se stessa».
La psichiatria non è letteratura, ma la letteratura può aiutare la
psichiatria: il malato mentale che si incontra entrando in un
manicomio è il bambino che muore di fame e, morendo di fame,
nega il libro. Allo stesso modo, seguendo il pensiero di Sartre,
l’emozione di fronte alla sofferenza del malato mentale, all’ingiustizia
che sta subendo, alla miseria in cui sopravvive, non mi aiuta a
colmare la distanza che lo separa dalla scienza che dovrebbe
occuparsi di lui. «Quindi, o la parola conserva la sua ambiguità di
essere “parola” che contemporaneamente modifica ciò che designa
(e allora la psichiatria deve essere una scienza che agisce
direttamente sul malato come ciò che il discorso psichiatrico deve
designare per modificare); o si prende un solo polo di tale ambiguità
e si fa da un lato, della “letteratura” (discutendo sulle classificazioni e
sottoclassificazioni delle sindromi); e dall’altro una analisi emotiva
del “malato” e della deprecabile situazione in cui si trova. Rifiutando
invece e la sterile “letteratura” psichiatrica e lo sterile rapporto
puramente umanitario, si sente l’esigenza di una psichiatria che
voglia costantemente trovare la sua verifica nella realtà e che nella
realtà trovi gli elementi di contestazione per contestare se stessa».
Quindi viene l’accusa: la psichiatria, attraverso la conferma
scientifica dell’incomprensibilità dei sintomi, gioca la sua parte nel
processo di esclusione del malato mentale, è l’espressione di un
sistema che cerca di negare le proprie contraddizioni allontanandole
da sé, occultandole, alzando muri e chiudendo porte. Che fare:
Gorizia dà l’esempio, ricerca di via alternative in una lotta che deve
vivere a un livello scientifico e a un livello politico allo stesso tempo,
antisistema, contro il sistema della politica che della scienza si
serve. Quanti lavorano a Gorizia si confrontano con la doppia
ingiustizia di cui soffre un ricoverato: quella d’essere appunto un
uomo malato, quella di essere un escluso, uno stigmatizzato sociale.
Segnato a vita, diremmo semplicemente. Ma Basaglia sa bene che
l’esperienza di Gorizia non sarà conclusiva: la comunità terapeutica,
l’ospedale aperto, il rapporto che si stabilisce tra medici, malati,
infermieri sono conquiste, che non si possono separare dalla
semplice verità di una società che continua a emarginare, a
«stigmatizzare», tra la commiserazione per le vittime e la pubblicità
dei propri successi. Gorizia non può diventare la somma ideologica
della pietà umana e dell’efficienza sanitaria. Interno ed esterno,
incontro – dice Basaglia – tra due comunità, fuori e dentro. In questo
caso la prima si troverà a scontrasi dialetticamente con l’altra da cui
è stata partorita: «Si potrà minare così contemporaneamente e
l’ideologia dell’ospedale come macchina che cura, come fantasma
terapeutico, come luogo senza contraddizioni; e l’ideologia di una
società che, negando le proprie contraddizioni, vuole riconoscersi
come società sana».
56

Basaglia raccoglie nel libro le riflessioni di quanti gli sono vicini


nell’impresa di Gorizia: Slavich, Jervis, Pirella, Schittar, Casagrande,
Risso, Letizia Jervis Comba, Franca Ongaro. Pirella e Casagrande
propongono una biografia di John Connolly, dal titolo John Connolly,
dalla filantropia alla psichiatria sociale. L’Inghilterra, nel 1966, mentre
insomma si va costruendo Che cos’è la psichiatria?, celebra il
centenario della morte di John Connolly, figura poco nota in Italia.
Viene presentato come un precursore della medicina sociale,
sostenitore dell’esigenza della vaccinazione (dopo un’epidemia di
vaiolo), creatore di dispensari pubblici per indigenti. È un riformista
che opera in modo molto concreto a favore dei ceti più deboli della
popolazione e che incontra la psichiatria nel 1816, quando conosce
William C. Ellis, fondatore di un Rifugio per alienati, ispirato alle
regole del «Ritiro» sulle colline della città di York, la casa-ricovero
fondata da William Tuke alla fine del Settecento, con l’idea di «offrire
ai degenti un ambiente più accogliente, una sistemazione asilare da
cui fosse bandita ogni forma di violenza precostituita, allo scopo di
recuperare il malato se non alla società, almeno a una convivenza
istituzionale legata ad attività lavorative e sociali». Connolly
ovviamente conosce la storia di Tuke, l’uomo d’affari inglese,
quacquero, filantropo, con la volontà in testa di umanizzare i
manicomi, lo conosce anche attraverso il nipote di William Tuke,
Samuel, ma non è solo un filantropo, è uno scienziato che vuole
praticare le nuove strade di una medicina sociale. Casagrande e
Pirella ci ricordano lo scandalo che suscita in Inghilterra nel 1815 la
visita di alcuni ispettori a un manicomio, sempre nella regione di
York. Trascrivono alcune righe della relazione di uno di quegli
ispettori, sorpreso, nauseato, disgustato: «Entrai in un andito e trovai
quattro celle, penso di circa otto piedi quadrati, in condizione di
sporcizia veramente orribile; la paglia era pressoché satura di orina
e di escrementi… la seconda volta che visitai la casa, tre pazienti
erano incatenati allo stesso letto, due erano distesi per il lungo e il
terzo era disteso sugli altri due». Connolly, che diventa prima medico
ispettore nelle case dei malati mentali dello Warwickshire e quindi,
nel 1839, direttore del manicomio di Hanwell, cerca una risposta a
quella vergogna che denuncia in un libro, The Indications of Insanity,
in cui in quattro punti riassume definizioni e azioni possibili: la
malattia mentale non è di per sé ragione di isolamento, ogni malato
di mente deve essere assistito dallo Stato, mentre ogni manicomio
deve divenire proprietà statale sotto controllo centrale, ogni
manicomio deve divenire luogo di istruzione per studenti in medicina,
ogni manicomio si deve preoccupare del benessere del malato in
collaborazione con i medici generici… Ci dicono Casagrande e
Pirella, ma lo si impara anche da quella poverissima sintesi, che
Connolly cerca una soluzione oltre le mura del manicomio,
nell’assistenza possibile grazie a servizi distribuiti tra città e
campagne e ai quali il manicomio può garantire l’aiuto scientifico.
Quando diventa direttore a Hanwell (dove vengono ospitati 850
malati), Connolly abolisce ogni strumento di coercizione e di
restrizione personale. «La novità non era costituita tanto dal fatto
che pressoché per la prima volta si era realizzata una tale
condizione in un istituto pubblico, quanto per la lucidità scientifica e
la passione con cui egli la sosteneva. Nasceva, questa sì per la
prima volta, la consapevolezza che il problema era
contemporaneamente sociale e scientifico, economico-politico e
psichiatrico. Nasceva con Connolly la psichiatria istituzionale.»
Connolly, grazie alla viva esperienza di Hanwell, intuisce che non
basta eliminare catene e catenacci, non basta garantire
un’accoglienza umana, capisce che se la segregazione, l’esclusione,
l’impoverimento fino alla cancellazione dei rapporti umani escludono
qualsiasi possibilità di cura, capisce che quando l’istituzione toglie
identità, personalità, responsabilità, qualsiasi terapia è infruttuosa:
«Il circolo chiuso esclusione – mortificazione asilare – passività e
violenza – esclusione doveva essere spezzato non perché ciò era
richiesto da considerazioni umanitarie e filantropiche, ma per motivi
sociali e scientifici». In questa evidenza sta l’originalità di Connolly.
Di filantropi pietosi è pieno il mondo. Ma la pietà non corregge le
rovinose origini del male. Connolly testimonia che nella stessa
prigione, appena più accogliente, può finire rinchiuso il malato anche
quando appartiene a ricche famiglie: segregato, assistito da persone
di scarsa o nessuna competenza, nascosto pure agli occhi di un
medico, le cui visite non sono gradite perché comunque rivelano,
accertano, quella sorta di colpa, sono la prova dello scandalo.
Ci sono pagine di Connolly illuminanti (anche rispetto al futuro
segnato dall’esperienza di Basaglia), citate da Casagrande e Pirella:
ad esempio quando scrive che solo eliminando coercizioni, metodi di
controllo violenti e irritanti, solo allora, allo studioso è consentito di
osservare i disturbi della psiche nella loro semplicità, e non più
alterati da trattamenti esasperanti.
Due secoli fa Connolly intuisce la devastante complicità
nell’aggravarsi della malattia dell’istituzione manicomiale e indica i
compiti del medico, che «non deve vergognarsi di riconoscere per
quanto riguarda i fenomeni mentali che il suo ufficio va assumendo,
di questi tempi, un carattere tanto più elevato quanto più egli cessa
di essere un mero prescrittore di medicine».

57

«Essendo liberi, siamo responsabili del compito che dobbiamo


assolvere, quindi si fa il possibile di essere amici di tutti, di non
scappare, di non commettere male grazie.» Il signor Zanelli, degente
dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, racconta così la sua condizione,
in un’assemblea, il 20 dicembre 1966, personale sanitario e degenti
di Gorizia di fronte a infermieri e amministratori di Colorno,
l’ospedale alle porte di Parma. Il resoconto compare in Che cos’è la
psichiatria? Quelli di Colorno vogliono capire l’organizzazione di
Gorizia, gli orari, la libertà di movimento nelle camerate o nel
giardino del manicomio, l’uso dei mezzi di contenzione. Basaglia
ricorda che due reparti sono ancora chiusi, «dove esiste – interviene
un infermiere – un sistema più rigido di terapia».
«Che cosa intende – chiede il direttore Basaglia – per terapia più
efficace?» «Non so – risponde l’infermiere – con iniezioni,
pastiglie…» Prende la parola Slavich: «Mi pare che così si sostenga
la possibilità di curar meglio nei reparti chiusi gli ammalati più gravi e
di trasferire nei reparti chiusi chi magari s’aggrava, invece no, noi
vogliamo che i reparti chiusi siano almeno chiusi nel senso che non
si aprono a nuovi ammalati».
Slavich è chiaro nella sua replica, ma la questione reparti chiusi
resta al centro della discussione. Resta una contraddizione dentro
un sistema che si vuole rinnovare e che già si rinnova in parte. E per
giunta anche nei reparti aperti quale è il grado effettivo di libertà?
«L’ammalato è veramente libero di uscire e entrare nel reparto? È
libero di partecipare o meno alle riunione della comunità?» Lo chiede
il signor Tommasini, Mario Tommasini, l’assessore provinciale di
Parma. Come si vive a Gorizia, lo spiega la signora Carli, ricoverata.
Le sue parole stanno in una paginetta del libro, semplici,
testimoniano di serenità e speranza. Lasciano immaginare la
disperazione alle spalle, una disperazione che si sedimenta
nell’animo e aiuta a intendere il miracolo umano del cambiamento
avvenuto. Le trascrivo. Chi non ha voce, finalmente la ritrova, chi
non è ascoltato, finalmente trova ascolto per le sue parole: «Qui nel
nostro ospedale si è in molti che si lavora e anche nei nostri reparti
aperti abbiamo la massima libertà. Siamo anche a contatto con i
nostri amici sia sul lavoro come nelle altre ore della giornata; come
la domenica al ballo, al sabato al cinema; siamo sempre assieme.
C’è proprio una fratellanza fra di noi e anche quelle poche che non
lavorano, lo fanno perché proprio non possono lavorare o a causa
dell’età o a causa della malattia. D’altronde anche loro se la passano
discretamente bene, perché quando fa bel tempo possono andare in
giardino o magari fino al parco o verso la colonia, insomma c’è modo
di passare il tempo; poi abbiamo qui la biblioteca con molti libri; ogni
quindici giorni portiamo molti giornali illustrati per i reparti e poi c’è
l’assemblea della mattina che ci porta via un’ora della giornata, poi
durante la settimana, insomma cerchiamo di passarla il meglio
possibile. Per quelli che lavorano abbiamo anche un orario fisso…
c’è il riposo a mezzogiorno… alle 16,30 il lavoro finisce, abbiamo la
cena alle 17,30, dopo incomincia subito la televisione e si può stare
fin tanto che uno ha piacere, perché la televisione è giù nel
soggiorno. Chi ha piacere rimane lì, chi no va a riposare. Poi
abbiamo diversi giochi: si gioca a tombola, qualche volta a carte.
Insomma è una vita di famiglia la nostra da quando abbiamo il nostro
direttore, tanto che anche quelli che si sentono bene, che per motivi
giuridici o per altri motivi familiari non possono uscire di qui, non
sentono troppo il peso della clausura perché in fondo abbiamo una
vita libera come in famiglia. Questa è una grande famiglia, niente
altro che una grande famiglia».
Tommasini riferisce l’obiezione, rispetto alla vicenda di Gorizia, di
un amico medico di Parma: l’ospedale psichiatrico deve restare un
ospedale dove si curano i malati con le medicine, non può diventare
un albergo o una buona pensione. Basaglia alla fine, di nuovo,
conferma il senso per lui di quanto sta avvenendo: da un certo punto
di vista davvero la comunità terapeutica rischia di diventare una
gabbia dorata in cui tutti si trovano incarcerati, medici, pazienti,
infermieri; a un certo punto c’è bisogno di ossigeno; l’organizzazione
comunitaria non ha ancora raggiunto un livello comunitario reale,
completo; appena raggiungerà quel livello allora la comunità
terapeutica dovrà rompersi e uscire nella comunità esterna. Se non
dovesse succedere, sarebbe un fallimento. Ma prima si deve
smitizzare la figura del malato mentale e quella del suo ospedale.
Conclusione del vicepresidente della provincia socialcomunista di
Parma, Bocchi: «Ancora grazie a tutti, alla direzione, al personale
tutto, ai ricoverati che ci hanno dato, credo, uno dei contribuiti più
validi».

58

Ho conosciuto Mario Tommasini, molti anni dopo i suoi incontri con


Basaglia a Gorizia. Un uomo di modesta statura, magro, schivo.
Eravamo a Parma, nella sede della federazione del Pci, partito con il
quale Tommasini aveva avuto sempre rapporti difficili, per il suo
spirito libertario e innovatore, per la sua voglia di sperimentare, per
l’incapacità di gestire contorti e opachi equilibri politici.
Tommasini è schietto, coraggioso, osserva senza pregiudizi: «Quel
giorno del 1965 – era l’8 marzo del 1965 e Tommasini era il neo
assessore alla sanità e ai trasporti – il primo che incontrai nel
manicomio di Colorno fu Paolo Moreschi». Chi era Paolo Moreschi?
Un ex partigiano, conosciuto da tutti perché viveva a modo suo, in
maniera magari un po’ stravagante, ma che non aveva mai fatto
male a nessuno. Sì, a volte si faceva prendere dal vino. Allora, a
Langhirano, andava al bar dei ricchi e litigava con qualche cliente.
Le stranezze però si fermavano qui: non c’era niente di malato nel
suo comportamento.
«Ma nel ’52 un episodio gli cambiò la vita. In quell’anno fu
organizzata a Parma una grande manifestazione contro il governo.
Erano i tempi in cui gli operai venivano assassinati a decine, nelle
piazze, dalla polizia di Scelba. Durante la manifestazione un
commissario irresponsabile ordinò di caricare il corteo. Vennero
uccise due persone: un diabetico, che fu arrestato e al quale non
vennero date le medicine necessarie, morì in questura, e il giovane
Alberti, colpito da una raffica sparata da un agente, all’angolo del
municipio. Cadde vicino a me e con alcuni compagni lo portammo a
braccia per un lungo tratto, finché arrivò l’autoambulanza. Spirò
poche ore dopo.»
Tommasini continua la sua cronaca: la gente si ribellò a quella
violenza e si scontrò con la polizia. Parma, la città popolare
dell’Oltretorrente, aveva alzato le barricate contro i fascisti. Moreschi
ferì un commissario di polizia colpendolo con una spranga di ferro
trovata sotto una jeep. Come tanti tra quei manifestanti, aveva fatto
la Resistenza, aveva contribuito a conquistare la democrazia,
sentiva quindi il diritto e il dovere di manifestare contro la politica
antipopolare del governo e non poteva accettare che in una
manifestazione democratica si assassinassero gli operai. Ma da quel
momento non si seppe più nulla di lui: scomparso. «Lo ritrovai –
continua il racconto di Tommasini – appunto a Colorno e fu lui a
raccontarmi il suo calvario, cominciato allora: questura, carcere e
manicomio. Moreschi era un ribelle, quindi in carcere si era ribellato
con la violenza alla violenza. Era finito così in manicomio. Ma anche
qui si ribellava, confermando agli occhi dei medici la gravità di una
malattia che non aveva. Tant’è che passò molti anni legato al letto.
Pure non era un malato di mente, era solo uno che non accettava
supinamente le ingiustizie. Ricordo che gli raccomandai di non
litigare, di pazientare ancora e, dopo un paio di anni, quando
cominciammo a dimettere la gente, fu uno dei primi a uscire. È morto
alcuni anni fa per un’ulcera perforata, però da allora era sempre
stato fuori.»
Tommasini, che cosa ci faceva, quel giorno, in manicomio? «Bè, è
semplice. Proprio nel 1965, un po’ per caso, ero diventato assessore
alla sanità della provincia di Parma. Operaio, in una fabbrica di
mangimi e olii, da cui fummo tutti licenziati, ero stato responsabile
della commissione interna, segretario della sezione comunista del
quartiere Parma centro e, successivamente, vice responsabile del
comitato cittadino. Disoccupato per diversi anni, dopo il
licenziamento dalla fabbrica, avevo pensato di emigrare perché
allora i comunisti erano discriminati dappertutto e di lavoro non se ne
trovava. Venni invece assunto dall’Azienda municipalizzata, dove
feci l’operaio finché passai alla lettura dei contatori, attività che ho
svolto lungo tutto il mio mandato amministrativo, fino alla pensione
da poco raggiunta.
«Venivo dunque da un mondo assai lontano dalle sale del
consiglio provinciale e ai primi incontri, con la mia quinta elementare,
gli intellettuali, gli avvocati, i professori un po’ mi spaventavano. Ma
poi mi resi conto che se avevano una cultura che non possedevo, io
ne avevo una che nasceva dalla conoscenza del mio mondo a loro
totalmente estraneo e in questo trovai forza.
«Parma presentava in quegli anni – per quanto riguarda
l’assistenza pubblica, psichiatrica e sociale, di cui avrei voluto
occuparmi in qualità di amministratore – un quadro analogo a tutte le
province italiane: grandi concentrazioni dove confluivano l’infanzia
abbandonata, la vecchiaia sola e rifiutata, la delinquenza minorile, la
malattia mentale. Milleduecento internati nel manicomio di Colorno,
centocinquanta in manicomi fuori provincia, ottocento anziani in
ospizi, settanta bambini abbandonati in brefotrofio,
novecentosessanta illegittimi e abbandonati internati nei collegi,
centoventi ragazzi in carcere minorili, centosessantacinque minorati
psichiatrici e fisici in istituti speciali (Sospiro, Ficarolo di Rovigo e
altre province), duecentotrentasei in classi speciali,
duecentonovantadue in scuole differenziali, più di trecento in istituti
per ciechi, sordomuti, motulesi: questo il mondo emarginato di cui
noi amministratori avevamo la responsabilità.»
L’istituzione totale nelle sue varianti, sempre chiuse tra mura,
impenetrabile, carceraria per proteggere chi sta fuori con la scusa di
proteggere chi sta dentro, mobile al suo interno perché è facile, per
un orfano ad esempio, transitare dal brefotrofio al manicomio.
59

«Mi sento diventare matto qua dentro.» Parla Marco, padre


alcolizzato, sorella prostituta, lui ricoverato in un istituto di Cesano
Boscone, in provincia di Milano (in un sequenza di Matti da slegare).
Non è il primo ricovero: «Quei collegi lì dove mettono dei ragazzi
intelligenti che escono di lì imbambolanti». Tommasini lo sa e
comincia con i ragazzi, gli irrecuperabili. Comincia dal lavoro,
costruire un futuro con il lavoro: «I datori di lavoro ci hanno chiuso le
porte in faccia. Allora ci siamo rivolti agli operai». «Viva gli operai
dell’officina», dice un ragazzo down, diventato operaio. «Ci hanno
dato grandi soddisfazioni. Noi di questo problema eravamo
all’oscuro, perché erano rinchiusi negli ospedali», dice il capo
officina. Che cosa vorresti di più, chiedono al ragazzo operaio di
prima. La risposta: «Abolire il sabato e la domenica». I giorni di
riposo.

60

Tommasini torna al manicomio: «Quando cominciai a lavorare come


assessore alla sanità, l’onere principale dell’assessorato provinciale
era l’assistenza psichiatrica. Nel manicomio di Colorno c’erano allora
milleduecento internati con quattro medici e centosessanta
infermieri.
«Nonostante la bellezza e il valore storico della villa dove sorge il
manicomio, affacciato su un parco immenso usato allora solo dal
direttore e dalla sua famiglia, i malati vivevano – all’inizio del mio
mandato – in condizioni indescrivibili: ammassati in cinquanta,
sessanta, cento in squallidi cameroni, nudi, seminudi, legati, in
mezzo alle feci, alle urine, maltrattati.
«La cosa era accettata da tutti, dal direttore ai medici, agli
infermieri, agli stesso nostri compagni. Al massimo, chi entrava in un
reparto ne usciva vomitando ma, insieme, accettando la cosa come
inevitabile: la pazzia era per tutti la desolazione e la degradazione
che il manicomio conteneva. Allora nessuno sapeva – nessuno ce lo
aveva detto – che quanto si vedeva non era soltanto il prodotto della
malattia, ma che si trattava soprattutto di una reazione al manicomio
stesso, come rifiuto di una violenza disumana che passava per cura
e terapia. Finché ci dicevano – e la scienza lo confermava – che la
malattia era una violenza incontenibile per la quale bastava un luogo
in cui domarla, nessuno si domandava se fosse giusto trattarla con
una violenza analoga, perché tutto era giustificato dalla malattia
stessa.
«Ma quello che, nel primo impatto con il manicomio, mi fece
agghiacciare tanto da pensare di dimettermi, fu che avevo ritrovato
lì, a Colorno, non decine, ma decine di decine di compagni,
compagne, persone che abitavano nei nostri quartieri e che tutti
conoscevano bene. Insomma, una parte della popolazione della città
che, negli anni, era stata rapita dalle proprie case. E in particolare
molti partigiani. Questa scoperta mi fece sospettare che chi aveva
avuto comportamenti difformi da quelli tollerati, era stato internato –
con motivazioni diverse – in manicomio. E guarda caso, si trattava
proprio di quelli che, per primi, erano entrati nella Resistenza,
avevano partecipato alle lotte contro Scelba, erano stati presenti in
tutti i movimenti. Dunque i ribelli, coloro che non accettavano le
regole del gioco, della disoccupazione, della miseria, dell’ingiustizia,
del potere, della gerarchia, dell’efficienza a tutti i costi: le regole su
cui si è fondata la ricostruzione del nostro dopoguerra.
«La cosa mi sconvolse. Quegli uomini erano stati nei campi di
concentramento, erano stati accettati e utilizzati durante la guerra
partigiana, ma venivano respinti se si ribellavano a come andavano
le cose per le quali avevano lottato. Credo che questa constatazione
abbia contribuito a farmi guardare il manicomio e la pazzia con occhi
diversi: erano vecchi amici quelli che incontravo, conoscevo la loro
storia, alla cui luce l’internamento in manicomio risultava un chiaro
abuso di potere.»
Tommasini si presenta in consiglio comunale. Non gli danno subito
retta, finché dai banchi dell’opposizione democristiana non s’alza un
consigliere che raccoglie la denuncia dell’assessore: che si studi
meglio la questione. Così decidono di istituire una commissione
d’esperti «per aggredire il problema seriamente». Ne fanno parte il
professor Fabio Visintini, cattedratico della clinica neuropsichiatrica
di Parma, che conosce e stima Basaglia; il professor Gianfranco
Minguzzi, docente di psicologia a Bologna; Mario Cennamo, ex
assessore provinciale. Si concorda il primo passo: puntare sul
decentramento dell’assistenza, secondo i princìpi del «settore»
francese, allora in voga, e nei quali confidava il professor Visintini.
Un’assistenza decentrata, territoriale, che manteneva però nel
manicomio il proprio perno, dividere il manicomio in tanti settori
quante erano le zone territoriali della provincia, sì che lo stesso
gruppo curante potesse seguire i malati internati e il settore esterno
di sua competenza. Tommasini in un’intervista filmata rievoca: «Io
volevo eliminare il manicomio e Visintini mi proponeva tanti piccoli
manicomi sparsi attorno a Parma. No…»
«Fu in quel periodo che Gianfranco Minguzzi mi parlò di Basaglia
e di quanto stava facendo, dal ’61, nell’ospedale psichiatrico di
Gorizia. Circolavano voci su un manicomio, che si apriva, su un
modo diverso di lavorare…
«Incontrai Franco Basaglia a Padova, al caffè Pedrocchi, dove mi
dette appuntamento. Sembrava un ragazzo, anche se doveva avere
allora quarant’anni. Avevo portato con me il progetto per una serie di
impianti sportivi da realizzare in un grande appezzamento di terreno,
acquistato per ampliare il manicomio, al quale volevamo invece dare
un altro uso. Parlai delle iniziative che stavamo prendendo per
rendere più umana la vita ospedaliera, ma Basaglia non sembrava
interessato. Mi ascoltava un po’ distratto e, alla fine, mi invitò ad
andare a Gorizia a vedere ciò che stava facendo, perché era vero –
diceva – che per umanizzare il manicomio occorrevano quelle
iniziative, ma senza un lavoro teso a modificare i rapporti, a
riabilitare la gente per poterla dimettere, la cosa non serviva a
niente. Mi parlò della comunità terapeutica, dicendo che si trattava di
una tappa transitoria, e che si sarebbe visto dopo quale sarebbe
stato il passo successivo. Già questo mi apriva prospettive inusuali:
l’incertezza, il non sapere verso dove andare erano il segno del
nuovo che poteva nascere.
«Sapevo che a Gorizia aveva grosse difficoltà con
l’amministrazione democristiana; gli chiesi se non sarebbe venuto a
lavorare a Colorno presumendo che quella di Parma, di sinistra,
l’avrebbe sostenuto. Ma lui sembrava scettico nei confronti degli
amministratori in generale, avendo già avuto modo di conoscerli e
capirli, più di me che incominciavo appena a frequentarli.
Comunque, dalle poche cose che mi disse, mi piacque subito: era
una persona diretta e si avvertiva che sapeva bene quello che
voleva.
«Dopo dieci giorni ero a Gorizia. Potei vedere ciò che Basaglia mi
aveva descritto: un ospedale vivo, pieno di gente che non si
distingueva: malati, medici, visitatori, infermieri non era facile
riconoscerli, individuare i loro ruoli. Ma soprattutto vidi come pur
essendo un “intellettuale” fosse capace di comprendere i bisogni più
elementari dei malati. Li conosceva tutti. Entravano nel suo ufficio
senza essere annunciati, la porta era sempre aperta e c’era un via
vai continuo. Così come, nel parco, era un fermarsi a ogni passo, a
salutare, a chiacchierare con l’uno o l’altro.
«Pensando all’ospedale di Colorno, all’assenza dei medici in
reparto – una visita quando andava bene – alla monotonia di quelle
tragiche giornate sempre uguali, ciò che vedevo a Gorizia mi pareva
un sogno, come se la malattia qui avesse un’altra faccia, fosse
diversa da com’era altrove. Nelle assemblee – le grandi riunioni cui
partecipava tutto l’ospedale – vedevo e sentivo i malati discutere e
avvertivo che Basaglia aveva la capacità di dare le risposte che
ognuno si aspettava: risposte che non erano mai di compatimento o
di accondiscendenza. Un momento dopo, alla riunione con medici e
infermieri, lo stesso uomo dimostrava una visione chiara di che cosa
fare per cambiare l’ospedale. Insomma, mi trovavo di fronte una
persona, con una grande apertura culturale, che sapeva però legare
alla vita quotidiana, traducendola in iniziative pratiche che – anche
se apparentemente insignificanti – erano uno stimolo alla
partecipazione della gente e al cambiamento.»
Tommasini comprende, vedendo Basaglia, ma anche come
lavoravano i giovani medici che lo avevano seguito (Antonio Slavich,
che era stato con lui nella clinica neurologica dell’Università di
Padova, Agostino Pirella che era venuto dal manicomio di Mantova,
Lucio Schittar che faceva l’internista a Mestre, era approdato a
Gorizia e vi si era fermato), quello che significava lavorare in un
manicomio con lo scopo di creare le condizioni culturali, umane e
organizzative per dimenticare gli internati, per farli ritornare alla vita:
«Mi si apriva una prospettiva che stravolgeva l’ottica cui ero
abituato». Non si trattava solo di rendere più umano il manicomio,
rendere più gradevole la vita di chi finiva rinchiuso là dentro, era la
stessa esistenza del manicomio che veniva messa in discussione, la
sua pratica ma anche la teoria che la sosteneva, cioè la psichiatria e
la scienza. Problemi nuovi, per l’ex operaio Tommasini, che
finalmente poteva toccare con mano la novità: «Un manicomio che si
liberava significava anche la necessità di domandarsi come e perché
era esistito e in quel modo, a chi servisse, se ai malati, come si
diceva, o ai sani che se ne sbarazzavano. Capivo ciò che significava
per Franco Basaglia il valore della pratica, perché attraverso quanto
vedevo mi apparivano espliciti i processi per cui il manicomio era ciò
che era: nessuna teoria me lo avrebbe spiegato tanto chiaramente.
Mi ripromisi di non perdere quel rapporto e da allora fui spesso a
Gorizia e vi portai molti compagni. Ci andai diverse volte anche con il
professor Visintini, persona che per noi era importante coinvolgere e
convincere di questa nuova impostazione. Conosceva Franco. Lo
aveva incontrato a un convegno nel ’56. Lessi, su un libro che uscì
poco prima della sua morte, che “Franco presentava una
comunicazione sui problemi della corporeità nelle nevrosi ed ero
stato impressionato per la padronanza del discorso perché calava
nella concretezza della diagnostica i metodi di una dottrina
originariamente filosofica, derivata da Husserl e Heidegger”». Il libro
di Visentini, cui si riferisce Tommasini, si intitola: Diario di un cittadino
psichiatra. Immagino impotente l’assessore davanti a Husserl e
Heidegger: «Tutto questo – riconosce – mi era molto estraneo ma le
conclusioni del suo discorso mi furono più familiari: “Nell’apprendere,
qualche anno dopo, che aveva lasciato l’Università per un ospedale
di provincia ne fui rattristato. Ma quando venimmo assieme a Mario
Tommasini a Gorizia, a visitare l’ospedale dove lavorava, non
rimpiansi quel suo abbandono. L’impressione che ne ricevetti fu di
assistere a una straordinaria scoperta terapeutica…”».
Da Parma, in quegli anni, è dunque un vero pellegrinaggio, per
vedere, per capire come funzionava la comunità di Basaglia, per
imparare. Tommasini ebbe l’idea di organizzare nel ’67 un dibattito
proprio a Colorno con Basaglia e un rappresentante del ministero
della Sanità, «dibattito che risultò molto vivo e polemico».
«Fu l’inizio di una grande amicizia – narra ancora l’assessore di
Parma – perché Franco per me è stato veramente un amico e un
compagno. Non ho remore nel dire che con lui ho imparato tutto: il
modo di guardare le cose, il modo di guardare anche il mio partito,
una maggior capacità critica nell’affrontare le situazioni, una maggior
consapevolezza su problemi che mi erano estranei e sconosciuti.
Per me, come per tutti, gli istituti assistenziali erano una necessità:
se c’erano matti occorreva il manicomio, se c’erano bambini
abbandonati occorreva il brefotrofio, se c’erano vecchi soli e senza
risorse occorreva l’ospizio. Con lui ho imparato a rifiutare queste
soluzioni e a cercarne altre, comprendendo che lo scopo di queste
istituzioni era soprattutto accantonare i problemi sociali più scottanti
con l’alibi dell’assistenza. È stata secondo me una vera e propria
rivoluzione culturale e mi piace ricordarlo perché in Italia il concetto
di lotta all’emarginazione e all’esclusione è entrato anche nella
cultura della povera gente e ne è stato promotore e animatore
Franco Basaglia.
«Non tutti quelli che lo hanno seguito hanno però compreso fino in
fondo il senso della sua impresa. Ci sono tanti equivoci,
fraintendimenti; gli hanno messo in bocca cose che non ha mai
detto. Ricordo quanto si infuriasse quando sentiva dichiarare –
magari da compagni di battaglia – che la malattia mentale non
esiste. Il suo discorso, articolato e complesso, è stato spesso
appiattito e banalizzato, come se la sofferenza psichica fosse
un’invenzione. Queste semplificazioni hanno nuociuto alla sua lotta,
anche se, nonostante tutto, non si può dire che sia persa. Quanto
comunque occorre sottolineare è che il coinvolgimento che creava
non era mai fondato sull’appartenenza politica o partitica, ma sui
progetti e sulle azioni. Quanti compagni che avevano fatto la
Resistenza, che lottavano per il socialismo e da anni erano militanti
seri e impegnati, di fronte al problema dell’emarginazione non
capivano e tuttora non capiscono il senso politico di questa battaglia.
Battaglia che evidentemente passava, e tuttora passa, attraverso
un’elaborazione nuova, una conquista culturale e politica, per la
quale non basta l’adesione a questo o a quel partito.»
61

Nella sua prima edizione Che cos’è la psichiatria? contiene, dopo la


prefazione di Fabio Visintini, un intervento del ministro socialista alla
Sanità, Luigi Mariotti. Il ministro annuncia novità di legge nel quadro
della riforma sanitaria. Questo non è un annuncio a vuoto: la legge
arriva, è la legge 431 del 18 marzo 1968. Non è la rivoluzione, ma
apre un varco superando alcune norme della vecchia legge. «La
parola matto scomparirà dal vocabolario del nostro Paese», titolano
con fiducia alcuni giornali e annunciano con ottimismo l’imminente
chiusura degli indecenti manicomi, quelli che il ministro stesso
definisce «lager o bolge dantesche». Non chiuderanno gli indecenti
manicomi, ma intanto si comincia a far intendere che la terapia non
dovrebbe essere una punizione e che il malato non debba per forza
far la fine del recluso, correggendo le procedure del ricovero e poi
avviando progetti di cura e prevenzione nel territorio.
«La forma del ricovero viene così corretta: resta inalterata la
vecchia procedura del ricovero coatto ma si aggiunge una procedura
di ricovero volontario del tutto simile a quella in uso negli Ospedali
generali: nel manicomio della 431 può entrare un malato che non
perde mai i suoi diritti di cittadino e che può dimettersi sotto sua
responsabilità in qualsiasi momento. Questo malato può ricadere
nella figura d’internato (qualora si attivi la procedura del ricovero
coatto); ma lo stesso internato può compiere il percorso a ritroso con
la trasformazione del ricovero da coatto in volontario (art. 4 II
comma) soprattutto quest’ultima è una novità sostanziale. Sullo
scenario che è ancora quello della 1904, si ritaglia infatti un
personaggio ambiguo cui è consentita una autonomia di rapporto
con l’istituzione a misura della sua mantenuta capacità e pienezza di
diritti ma su cui continua a gravare la minaccia della coazione ed il
fantasma della pericolosità sociale. A ben guardare questo
personaggio ambiguo si scinde in realtà in due figure sociali
differenti. L’inchiesta sullo stato dei manicomi del 1973 mostra come
l’internato coatto tende a coincidere col lungodegente che ha
totalmente perduto i legami col sociale mentre il ricoverato dotato di
volontà è il “nuovo malato” che può entrare ed uscire dalle mura del
manicomio e quindi dallo schema della coazione/sanzione,
malattia/pericolosità». Sono note di Maria Grazia Giannichedda,
presentate ad un convegno a Trieste, nel maggio 1982, su Profili di
tutela dei diritti della personalità. Note che continuano così: «Lo
stralcio Mariotti approfondisce così la crisi del modello asilare, ne
mostra le ambiguità e ne chiarisce l’inefficacia rispetto all’ideologia
terapeutica che informa questa legge. Il manicomio si evidenzia
infatti in questa fase come deposito di cronicità di poveri ed
emarginati (che sono i “pericolosi”), deposito che non è in grado di
risolvere le crisi che temporaneamente contiene e sanziona (cresce
il turnover, aumentano i ricoverati ma soprattutto i reingressi).
L’automatismo malattia-pericolosità tende a mostrarsi
ideologicamente fondato, lo schema dell’internamento generalmente
inefficace rispetto alla cura, la necessità di una riforma complessiva
sempre più pressante».

62

Parliamo di libri, ancora. Il 1968 è l’anno anche de L’istituzione


negata, pubblicato da Einaudi, dove, secondo «la Stampa», si
spiega come «la rivoluzionaria esperienza di Gorizia supera l’ambito
della pura psichiatria per assumere il significato di una contestazione
più ampia». Appare in libreria nei giorni in cui le lotte studentesche
sembrano più accese, nei giorni di Valle Giulia, della facoltà di
Architettura di Roma, quando la polizia aggredisce gli studenti in
corteo, gli studenti reagiscono, la polizia inasprisce le cariche:
duecentocinquanta fermi, molti feriti, camionette incendiate, quando
Pasolini dedica alla «battaglia» la sua poesia, una delle più
discusse: «Avete facce di figli di papà/ Buona razza non mente/
Avete lo stesso occhio cattivo/ Siete paurosi, incerti, disperati/
(benissimo) ma sapete anche come essere/ prepotenti, ricattatori e
sicuri/ prerogative piccolo borghesi, amici./ Quando ieri a Valle Giulia
avete fatto a botte/ coi poliziotti/ io simpatizzavo coi poliziotti./
Perché i poliziotti sono figli di poveri./ Vengono da periferie,
contadine o urbane che siano…»
Molti acquistano il libro di Basaglia, molti lo leggono, pochi forse lo
capiscono. Non è un libro facile, ma è un successo editoriale in
quella fine degli anni Sessanta, diventa una bandiera di una stagione
critica, come L’uomo a una dimensione di Marcuse, come Lettera a
una professoressa di don Milani, come La persuasione occulta di
Vance Packard, come L’io diviso di Ronald Laing, come I dannati
della terra di Frantz Fanon. Compare in una collana prestigiosa, «Il
Nuovo Politecnico», accanto agli autori più rappresentativi di
quell’epoca: Myrdal, Levi-Strauss, Maldonado, Barthes, Gombrich,
Erving Goffman, David Cooper… Lo cura un intellettuale di grande
prestigio, Giulio Bollati. Gli scrive Basaglia il 19 gennaio 1968: «La
situazione muta continuamente e già ora non è più quella che tu hai
vissuto, proprio di qui nascono le difficoltà quando si voglia fissarla in
qualche cosa che la rappresenti sotto il profilo delle attività
quotidiane… Quello che mi preme sapere è se le tue perplessità
sono di natura editoriale o di che genere. Il mio timore è che
l’istituzione negata (intendo l’impresa in sé) diventi una ideologia e
non continui invece a negarsi. In questo momento, almeno per me,
potrei dire che sta cominciando – dalla grossa crisi in cui mi trovo –
un altro capitolo dell’azione, per sfuggire l’ideologia di ciò che ho io
stesso provocato. Il problema della malattia, come problema anti-
istituzionale specifico, mi angoscia e, una volta affrontato il problema
anti-istituzionale generico, mi si affaccia l’anti-istituzionalità specifica,
l’antipsichiatria».
L’ideologica di ciò «che io stesso ho provocato». Gorizia come
punto d’arrivo, come fissazione di un metodo sul quale costruire
ideologia. Basaglia non accetta che così possa essere. Capisce che
il percorso non si chiude con l’abbattimento delle sbarre restando
all’interno del manicomio, neppure con la creazione della migliore
possibile tra le comunità.
Bollati rappresenta in modo chiaro l’ansia di Basaglia, il «che
fare?» successivo: «Il vostro libro è bellissimo e molto importante. È
uno dei rarissimi esempi (c’è gente che darebbe la vita per riuscire a
costruirlo in laboratorio) di un libro che si costruisce da sé, vive nelle
tensioni che si producono nel suo interno, si sostiene sulle sue
stesse tendenze autodistruttive. Non mi stupirei che voi “dramatis
personae”, ne foste scontenti, irritati, offesi, anche più di quel che (se
non sbaglio) già siete: è infatti come se un gruppo di persone si
fosse raccolto non per raccontare o fingere la morte di Agamennone,
ma per ucciderlo con le proprie mani. Credo anch’io che questo libro
abbia concluso un intero periodo. Oltre il libro non può esserci a
Gorizia che la routine (beninteso con tutto quel che di positivo ha la
routine di Gorizia) o l’assalto agli edifici pubblici».
Giovanni Jervis racconta della nascita del libro, della sua proposta
a Giulio Bollati, del primo incontro con il consiglio editoriale di
Basaglia, del contratto firmato da entrambi, Basaglia e Jervis,
dell’accordo perché in copertina comparisse la dicitura «a cura di
Franco Basaglia»: «Feci presente all’editore che se vi si parlava di
cose interessanti queste erano merito suo; inoltre era lui il capo
dell’équipe goriziana, per cui ogni formula diversa sarebbe stata
impropria. Per quanto fossi stato incaricato degli aspetti redazionali,
alla fine il libro fu soprattutto il risultato di un lavoro collettivo e i diritti
d’autore andarono ai club dei pazienti».
Il titolo è nella sua sintesi un progetto, un obiettivo, una volontà.
Evoca muri che crollano, accogliendo in sé, riassumendo (malgrado
la precisazione-limitazione del sottotitolo: Rapporto da un ospedale
psichiatrico) la volontà di quel Sessantotto di lotta che contesta
barriere fisiche e metafisiche, che mette in discussione istituzioni le
più diverse, dalla famiglia al carcere, alla caserma, al manicomio
naturalmente (in modo confuso, perché si sarebbe dovuto definire il
significato dentro la storia e dentro la società di quella parola:
istituzione). Nel titolo, per questo effetto, sta una ragione del
successo editoriale. Maria Grazia Giannichedda lo attribuisce a «una
felice intuizione» di Agostino Pirella (vedi l’introduzione a L’utopia
della realtà). Jervis ricorda un’altra storia: che di fronte all’ambiguità
di quel termine, lui e Basaglia abbiano discusso a lungo e che anni
dopo se ne attribuissero a vicenda la paternità. Nessuno dei due
accettava quel «merito». Forse, come sospetta Jervis, nessuno
voleva farsene carico: «Infatti ci eravamo sentiti un po’ a disagio
(non dico in colpa) perché “l’istituzione negata” era una dizione
troppo promozionale e forse anche lievemente trionfalistica. Quel
titolo sembrava suggerire ciò che molti entusiasti amarono credere in
seguito, ma che nei fatti non era vero: ossia che un’istituzione come
il vecchio manicomio di medie dimensioni potesse, alla fine di una
lotta vittoriosa, ribaltare la propria essenza, esistere nel suo
rovesciamento, riscattarsi integralmente nella sua negazione,
divenire il luogo in cui una rivoluzione culturale aveva creato la
possibilità di vivere ogni giorno, tutti quanti alla pari, anche i
“cosiddetti matti”, secondo inediti valori umani».

63

Basaglia chiarisce subito, alle prime righe della Presentazione, che


non si può criticare il manicomio e magari battersi per il suo
«rovesciamento», senza contestare i valori che lo consentono: «Per
questo il nostro discorso anti-istituzionale, antipsichiatrico (cioè
antispecialistico) non può mantenersi ristretto al terreno specifico del
nostro campo d’azione». La società dominante, con la sua cultura, la
sua tradizione, le sue paure, le sue regole a difesa del privilegio di
una parte (non è detto neppure sia la maggioranza), la società
davanti a noi bisogna indagare e contestare se si vuole cambiare
qualcosa, se si vuole cancellare l’orrore di ordinamenti (di istituzioni)
che relegano l’uomo alla condizione di «cosa», di oggetto, uomo-
non-uomo. Viene in mente una parola: «consunzione», di un uomo
consumarne l’umanità giorno dopo giorno.
Mentre si compone L’istituzione negata, Basaglia prepara
l’introduzione di Asylums. Le istituzioni totali di Erving Goffman
(ancora Einaudi, nella traduzione di Franca Ongaro). Professore di
sociologia all’Università della California, Goffman trae spunto da una
ricerca condotta a metà degli anni Cinquanta in un manicomio di
Washington, per dedurne l’idea e la definizione di «istituzione
totale», nella quale, in una rigida e invalicabile gerarchia, custodi e
custoditi si muovono secondo regole non scritte, che annullano poco
alla volta i diritti dei secondi, poi i loro caratteri, persino le loro
sembianze e la loro identità. Goffman viene presentato attraverso
uno scritto – è una novità per l’Italia– dedicato alla carriera del
malato mentale anche in alcune pagine (commentate da Franca
Ongaro) di Che cos’è la psichiatria?. A epigrafe, in quelle pagine,
compare una breve citazione da Primo Levi: «Parte del nostro
esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-
umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una
cosa agli occhi dell’uomo». Da Se questo è un uomo, alla data del
26 gennaio, nei giorni della liberazione di Auschwitz: «Noi
giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà
era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione,
intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai
tedeschi disfatti».
Goffman torna nelle pagine dell’Istituzione negata, in un saggio di
Franca Ongaro, che lo cita per una importante definizione:
un’istituzione totale può essere ritenuta come il luogo in cui un
gruppo di persone viene determinato da altre, senza che sia lasciata
una sola alternativa al tipo di vita imposto e per questo appartenere
a una istituzione totale significa essere in balia del controllo, del
giudizio e dei progetti altrui senza che chi vi è soggetto possa
intervenire a modificarne l’andamento e il significato.

64

Quando si cerca di cambiare, gli ostacoli sono tanti.


L’amministrazione provinciale di Gorizia non gradisce e non assume
le decisioni che consentirebbero l’aiuto ai malati fuori dalle mura del
manicomio. La gente guarda con diffidenza l’esperimento, quando si
abbattono le barriere che separano i reparti, quando i ricoverati
vanno in gita, quando i ricoverati, dopo decenni di isolamento,
traversano la città. Stupore, meraviglia, timori, paura. La Dc, che ha
la maggioranza, ostacola, il Pci non incoraggia. Nessuno cerca di
capire per interloquire, magari in modo critico. Il manicomio è
un’istituzione, non si tocca. Il manicomio è ciò che prescrive la
scienza medica e quindi va bene. Nessuno si interroga sulla storia:
perché i manicomi, perché una medicina che li propone, li organizza,
li gestisce, una medicina che inventa una propria scienza fondandola
sulla segregazione.
I familiari dei ricoverati faticano a intendere: hanno bisogno di
aiuto. Gli infermieri frenano: sono affaticati, mal pagati, poco
preparati. Qualcuno insorge, ricorre ai sindacati, che li sostengono
contratto in pugno. Diffidenze, preclusioni, ma anche coraggiose
riflessioni e poi incoraggiamenti. I testi che aprono L’istituzione
negata, rappresentano le discussioni tra medici e infermieri. «Per me
era una grande soddisfazione vedere Marri e altri, dopo tanti anni di
degenza essere dimessi.» «Che gli ammalati siano stati dimessi, che
vengano a trovarci, ci espongano i loro problemi, tutto questo ci fa
piacere, e ci fa anche pensare a cosa si faceva e alle cose che non
si può fare oggi.» «Io non so, non sono psichiatra… Modificare uno
stato della natura sarebbe una cosa possibile, quasi certa. Quelli che
si ammalano sono secondo me curabili, poi sta tutto in voi, nelle
vostre capacità.»
Maso, un ricoverato, triestino, con la guerra alle spalle, ex
ferroviere, fa la sua analisi: «Fra la gente che ho conosciuto qua
dentro, ci sono tanti che hanno spaventi di guerra, tanti sono rimasti
invalidi come è successo a me, io mi sono buttato in vacca dopo un
incidente stradale. Tanti invece sono nati proprio così, ma sono
pochi. È, diciamo così, il malessere che regna nella società che
costringe le persone a ammalarsi e poi a ricoverarsi in questi
ospedali, perché naturalmente uno che ha benessere non si butta
nel bere ne fa stravaganze, è la miseria che porta a tutte queste
cose…» Risponde il direttore Basaglia: «Sono anche i ricchi sa, che
si buttano così…» Ribatte: «Ma sono molto pochi…» Una ricoverata:
«È anche una malattia, perché io conosco persone che stanno bene,
che hanno conforti, che hanno tutto quello che vogliono, eppure
bevono». Ancora: «Sì però i ricchi, i milionari, vengono messi nelle
cliniche, non perdono i diritti civili e non vengono scritti».
A rileggerle quelle discussioni, nelle parole dei malati, degli esclusi
dalla vita, si ritrovano infinite esperienze e soprattutto si ritrovano le
domande sulla malattia e sulla società, sulle cause della malattia e
sulle responsabilità, sulle colpe della società. Una analisi su se
stessi e sul proprio e nostro mondo con lucidità. Uno degli argomenti
più frequenti è il lavoro: l’ergoterapia è stata inventata da tempo,
lavoro per guarire. Ma non un lavoro qualsiasi, non il passatempo,
un lavoro utile, retribuito, di cui sia riconosciuta la necessità anche
economica, non un intrattenimento in funzione della cura o
semplicemente un sollievo di fronte alla noia. Da una parte si chiede
come spingere al lavoro quanti se ne escludono, dall’altra si insiste
sulla opportunità di una dignitosa retribuzione. Un infermiere:
«Anche in quanto al lavoro, dottore, siccome vanno fuori, vanno in
città al sabato, vanno di qua e di là, vedono e sanno l’importanza dei
soldi. E allora penso che per questo il lavoro non gli garba molto, in
quanto sanno quanto prendono, quella misera paga, fanno il
confronto con fuori e vedono che sono pochi soldi e pertanto dicono:
perché devo lavorare tanto se mi danno questo ricavato?»
Anche di questo si discute, delle difficoltà, con insoddisfazione,
persino con angoscia, sentita, condivisa. Si discute dei reparti
ancora chiusi, sono la «colpa della comunità», sono l’immagine della
vecchia istituzione. Le porte non si sono aperte, le reti restano in
piedi, i medici avvertono il ritardo e se ne sentono responsabili, i
ricoverati «liberi» li vedono con sofferenza, perché ritrovano lì dentro
il loro passato. Alcuni pazienti sono vittime di lesioni organiche, sono
dei gravi dementi, dei cerebropatici, regrediti per l’abbandono in una
situazione di chiusura, altri pazienti sono il risultato di un fallimento
terapeutico, il fallimento di una terapia istituzionale.
Nelle assemblee di reparto si ragiona anche dei permessi d’uscita.
Insieme si valutano le condizioni dell’ammalato, insieme si chiede
all’ammalato di assicurare buon comportamento all’esterno,
autocontrollo, rispetto dei tempi concessi. Vale anche per gli alcolisti:
non bere. Il direttore del reparto, Domenico Casagrande, spiega che
si impegnano vicendevolmente a combattere la loro battaglia anche
«fuori». Chi deroga, anche con un bicchiere o un quartino di vino,
«dentro» discute le ragioni della sua trasgressione.
Molti lasciano il manicomio, molti restano perché non sanno dove
andare: «Non si esce se non si ha un appoggio». I primi che se ne
vanno sono anche gli ultimi ricoverati, quelli dentro di fresco: bella
prova della terapia manicomiale, la lunga degenza ispessisce il
male, se la cava chi passa rinchiuso solo qualche settimana,
qualche mese. Anni di ricovero producono i guasti più duri. Restano
gli scarti? Si domanda Jervis. Quelli che insieme vanno ad
accrescere il disagio.
Il manicomio si apre alla musica, al ballo, invitando i cittadini.
Testimonia il giornale di Trieste, «Il Piccolo», rievocando quegli
avvenimenti (nell’edizione del 15 febbraio 2010): «Straordinari
momenti di comunità, di profonda emozione. Quando allestivamo nel
parco spettacoli di arte varia era davvero una festa. Per loro e per
noi. È il ricordo dell’attrice goriziana Maja Monzani, protagonista in
quegli anni nella partecipazione delle celebri sagre che costituirono il
primo, sincero collante tra città e manicomio».
Nel 1968 una disgrazia colpisce Gorizia. Ancora dalla rievocazione
del «Piccolo»: «Temeva che se il marito fosse stato “liberato” dal
manicomio l’avrebbe uccisa. E così fu. Il 26 settembre del 1968
Milena Kristancic fu assassinata a colpi d’ascia dal marito, Alberto
Miklus. Il quale nonostante fosse un “alienato” (secondo la prognosi
dell’epoca) ottenne dall’équipe di Basaglia il permesso di una
temporanea uscita dallo psichiatrico. Si diresse a casa e come una
furia si avventò sulla moglie. Nella recente fiction trasmessa da
Raiuno la verità dei fatti è stata manipolata: si vede l’aggressione ma
la donna muore in seguito alla caduta dalle scale durante la
disperata fuga. Perché non raccontare la verità? Tanto più che il
processo si concluse con un’assoluzione piena del dottor Antonio
Slavich, imputato di omicidio colposo per aver firmato il permesso di
uscita dal manicomio dell’alienato Miklus. Quell’indagine (la
sentenza è del 18 febbraio 1972) sfiorò appena Franco Basaglia,
che il giorno della “libera uscita” dell’assassino non era a Gorizia.
Ovviamente, Miklus fu ritenuto incapace di intendere e volere e finì
“innocente” a scontare la sua “pena” in manicomio». Così la versione
polemica, quarant’anni dopo, del quotidiano triestino: a che giova
annebbiare la realtà?
Alberto Miklus, nello psichiatrico di Gorizia, è un paziente
tranquillo, da un decennio almeno non mostra segni di aggressività.
Lo definiscono sospettoso. Quando deve uscire per la visita in
famiglia se ne discute in assemblea: il consenso di Slavich è
decisivo. Del resto, come conferma Basaglia interrogato dal giudice
istruttore, Miklus si sente ormai vicino alla famiglia e i figli sono pronti
ad accoglierlo. A casa Miklus resta solo con la moglie, che gli
racconta dei parenti morti e lo invita ad andare nei campi «per
vedere quelli che lavoravano». Miklus racconta al magistrato che a
un certo momento trova un martello e lo dà in testa alla moglie,
dicendole: «Finiscela di sberciar». La moglie cade, lui si nasconde in
un bosco. Vorrebbe presentarsi alla polizia. Non sa che la moglie è
morta: «La moglie gli aveva sempre detto che lui era matto, ma non
era vero che lui fosse malato di mente».
Basaglia, all’epoca dei fatti, è all’estero per un congresso, a
Wisbaden, in Germania. Quando torna, interrogato dai giornalisti,
argomenta in modo chiaro: se un marito geloso uccide la moglie,
non si può prevenire il delitto incarcerando tutti i mariti gelosi. Mai
«matti» sono una razza speciale: pericolosi e reclusi al di là di
qualsiasi loro intenzione.
Molti psichiatri esprimono solidarietà a Basaglia: tra gli altri
Maxwell Jones, Christian Muller professore a Losanna, il francese
George Daumezon. Gli scrive Aldo Natoli, parlamentare del Pci. Gli
scrive il ministro socialista Luigi Mariotti: «…sono veramente
spiacente dell’infortunio occorsole, nonché del pretesto che da esso
si vuol cogliere per evitare un necessario ed indilazionabile radicale
rinnovamento strutturale, terapeutico e di valutazione sociale del
settore psichiatrico». Gli scrive anche un professore palermitano,
che insegna letteratura spagnola a Roma, Carmelo Samonà: «Voglio
che tu sappia, se ce ne fosse bisogno, che la mia solidarietà per te
in questa circostanza è piena e assoluta». Carmelo Samonà, morto
nel 1990, è ricordato come uno dei più importanti ispanisti italiani,
ma anche per i suoi romanzi, uno in particolare, Fratelli: è una storia
sua e della sua decisione di convivere in un appartamento di città
con il fratello malato, afflitto da depressione maniacale.
Il giudice istruttore decide che non si debba procedere nei
confronti di «Miklus Alberto… trattandosi di persona non imputabile
per vizio totale di mente» e ne ordina il ricovero in manicomio
giudiziario «per la durata minima di cinque anni», decide che non si
debba procedere nei confronti di Basaglia (difeso da Nereo Battello
e Loris Fortuna, il firmatario della legge sul divorzio), per non aver
commesso il fatto. Sarà rinviato a giudizio invece Antonio Slavich,
per il reato di cooperazione in omicidio colposo, perché aveva
firmato le dimissioni di Miklus seguendo la prassi di Gorizia,
«dimettere in via di esperimento gli alienati senza che avessero
raggiunto il grado di miglioramento stabilito dall’art. 60 del Reg. sui
manicomi approvato dal R.D. 16.8.1909 n.615 e senza darne avviso
all’autorità particolarmente a quella di P.S. come prescritto
dall’articolo stesso…» Così a norma rigorosamente di legge, una
legge di inizio secolo. Anche Slavich, a giudizio, viene assolto per
non aver commesso il fatto. Ma bisogna attendere quattro anni.
La vicenda intanto scuote profondamente Gorizia, non incoraggia
l’équipe dello psichiatrico, esposta alle inevitabile, rituali polemiche,
di chi non conta i «morti» del manicomio, occultati dalle mura e dal
silenzio, conta con distrazione i morti del mondo «normale», è pronto
a contare quel morto sulla via tra l’istituzione e la casa. In una nuova
edizione, la seconda, de L’istituzione negata, in quello stesso 1968,
Basaglia aggiunge un’appendice, scritta con Franca Ongaro, che
riflette su quanto è avvenuto e sulla «responsabilità»: Il problema
dell’incidente. Il problema dell’incidente e del suo significato in una
realtà in rovesciamento, dove un passo falso o un errore possono
confermare, agli occhi dell’opinione pubblica, l’impossibilità di
un’azione che rivela apertamente le sue falle e le sue incertezze,
mentre ogni altra realtà, quella «sana», in primo luogo, si
premunisce, nascondendole, come la polvere sotto il tappeto, che è
l’ideologia, che fissa, che orienta, che esalta i modelli, astratti e
intangibili. Ancora si deve distinguere tra istituzione chiusa e
istituzione aperta. Nel primo caso l’incidente è consentito da una
mancanza di vigilanza, se si allenta il controllo, se un coltello viene
dimenticato su un tavolo, se una finestra rimane aperta. Nel
secondo, si sconta un’assenza: di una comunità che dovrebbe
assistere, aiutare, controllare. L’impegno sarebbe gravoso: non se
ne esce con l’indifferenza. Peggio se l’indifferenza si alterna o si
unisce all’ostilità. Il problema dell’incidente è un testo relativamente
breve, denso, attorno a una parola: libertà. Dentro un’istituzione
chiusa, in una «situazione coatta», dove tutto è controllato e previsto
in funzione di ciò che non deve accadere, più che in rapporto a
qualcosa di buono che possa coinvolgere il malato, dove lo
psichiatra lavora secondo le indicazioni di «una società che esige da
lui il controllo dei comportamenti anomali, con il minimo di rischio»,
«la libertà non può essere vissuta che come l’atto proibito, negato,
impossibile ad attuarsi, in una realtà che vive solo per prevenirlo».
Lo spiraglio di una porta aperta, ci dice Basaglia, è lo stimolo
esplicito a un’azione autodistruttiva, il malato non può vivere la
libertà che come momento auto o eterodistruttivo: «Dove non ci sono
alternative, dove non c’è possibilità di scegliere e di
responsabilizzarsi, l’unico futuro possibile è la morte, come rifiuto di
una condizione di vita invivibile, come protesta al grado di
oggettivazione in cui si è ridotti, come l’unica illusione possibile di
libertà, come l’unico progetto possibile». Segue l’accusa alla
scienza: è troppo facile identificare queste motivazioni con la natura
della malattia, così come la psichiatria classica ci ha insegnato.

65

Gorizia è una città ancora divisa da un muro, isolata, città di militari e


di funzionari pubblici e la politica reagisce alle idee di Basaglia con
paura, non capisce, può essere pietosa ma non innovatrice, rifiuta di
mettersi alla prova.
In un’intervista a «Rinascita», il settimanale di cultura del Partito
comunista (n. 48, 1968), Basaglia riassume la storia finale di Gorizia.
Il tono è asciutto, nessuna ansia di coprire un ritardo, nessun
tentativo di esaltare un risultato. Piuttosto il linguaggio è burocratico,
involuto, scostante. Come sempre mette in guardia: guai a
considerare la comunità terapeutica, anche quella costruita a
Gorizia, come un modello tecnico da riproporre all’interno delle
medesime strutture generali: «Essa rischia di assumere… il ruolo di
una protesi che aiuta l’adattamento all’interno di uno schema i cui
limiti non vengono varcati». Poi l’indicazione: «La libera circolazione
dei malati all’interno di una struttura senza reti e senza sbarre è solo
il primo passo di un’apertura che deve essere proiettata verso
l’esterno, nel senso che l’ospedale psichiatrico deve perdere la sua
funzione sociale di spazio nella norma per chi è fuori dalla norma,
quando la norma sia, come nel nostro caso, qualche cosa di
strettamente legato ai valori della classe dominante».
A una domanda in merito ai problemi che si pongono a un
ospedale di «sperimentazione» come quello di Gorizia, Basaglia
risponde a lungo, ma insistendo su quanto l’«esterno» sia refrattario
ad accogliere, a vincere la separazione.
«Attualmente, a Gorizia» spiega il direttore del manicomio, «dopo
sette anni di lavoro in cui si tendeva a fondere la libertà di
circolazione e di comunicazione interna con l’esterno, l’azione
antisociale di un paziente (azione che anche pazienti e non pazienti
di altre istituzioni tradizionali possono compiere) è stata capace di
bloccare il fluire di questa comunicazione, chiudendoci in una sorta
di accerchiamento che comporta una serie di pericoli ben evidenti: il
malato si trova a dover riassumere il suo ruolo di escluso, dopo aver
faticosamente conquistato quello di “malato”; l’istituzione, sotto
l’ansia dell’accerchiamento, rischia di coprire questa nuova
contraddizione con l’ideologia comunitaria-liberalizzante; la chiusura
dall’esterno ha riproposto all’interno la violenza e l’aggressività che il
malato non riconosceva più come proprie, in un clima di libera
comunicazione fra interno ed esterno.
«Mantenere in queste condizioni l’ideologia dell’apertura e della
libera comunicazione, significa destorificare in una nuova forma chi
vive in questo spazio di libertà, ritornata ancora una volta dialettica.
«L’apertura è tale solo se l’esterno riconosce l’ospedale come
proprio. Ma i recenti fatti che ci hanno colpiti hanno dimostrato che
l’ospedale deve essere soltanto un’isola di tolleranza da cui non ci è
concesso uscire. Che senso ha in questo caso l’apertura interna? La
diffidenza e la paura sono rientrate nell’ospedale, proprio perché era
aperto verso l’esterno e ci hanno colpiti tutti: malati, infermieri e
medici, riproponendoci i nostri rispettivi ruoli. L’ospedale, anche se
aperto, è praticamente chiuso e doveva esprimere in qualche modo
concretamente la realtà contro cui era cozzato: sono state
temporaneamente chiuse le porte di due reparti la cui chiusura ha lo
scopo di rilanciare il problema della contraddizione che è esplosa
nuovamente fra l’esterno e l’interno dopo l’attacco. L’apertura interna
– in un momento in cui l’esterno rialzava le mura e i cancelli che
erano stati aperti – sarebbe stata un artificio e non avrebbe
consentito la presa di coscienza da parte dei malati della realtà che
si stava vivendo, così come da parte dei medici e degli infermieri. La
chiusura dei due reparti (reparti popolati da malati regrediti, dementi
e frenastenici che meno possono risentire di una simile misura, dato
che possono muoversi comunque accompagnati da infermieri e
volontari) vuole dunque essere l’occasione di una successiva
maturazione, soprattutto per i malati e il personale dei reparti aperti
che – attraverso la presenza della chiusura all’interno dell’istituzione
– devono prendere coscienza dei limiti in cui l’Ospedale è costretto a
muoversi, quindi delle proprie dirette responsabilità.»
Basaglia di continuo mette in guardia dall’insufficienza di una
soluzione apparente: «sulla fronte avevo un’etichetta», che la
comunità terapeutica rischia di lasciarti a vita, ma la comunità
terapeutica piace a una società appena più sensibile, perché è più
umana, magari chiede più soldi ma non rompe gli schemi, non
pretende ragionamenti rischiosi su di sé e sul mondo attorno, lascia
tutto come prima. I matti restano matti.
«Abbiamo avuto la dimostrazione pratica che ci è consentito
fabbricare isole – più o meno aperte, più o meno sperimentali – dove
la malattia mentale possa continuare ad essere delimitata, ma non
possiamo varcare i limiti oltre i quali verrebbero messi in discussione
il significato classista dell’esclusione del malato e il concetto di
norma su cui si fonda una tale esclusione. L’avvertimento ci è stato
dato. Ma la nostra azione anti istituzionale ha già avuto il suo
significato: far esplodere la contraddizione nascosta sotto la falsa
coscienza psichiatrica e rivelare le implicazioni politiche presenti in
ogni atto tecnico. Ci è stato necessario ancorarci, a mano a mano,
all’ideologia dell’ospedale aperto, alla libera comunicazione,
all’ideologia comunitaria che si è tentato di usare come strumenti per
la riabilitazione del malato; ma ora l’unico atto politico che ci sia
possibile è riconfermare l’impossibilità di questa riabilitazione
all’interno di un sistema che non può esserne interessato;
riconfermando in questo modo il carattere eminentemente politico
del problema. Il che non significa negare l’esistenza della malattia,
ma riconfermare la necessità di mantenerla nuda – senza la
copertura di una nuova ideologia – per poter incominciare ad
affrontarla.»
Ci avevano avvertiti…
Quando in Brasile, anni dopo a San Paolo, chiedono se la
popolazione italiana fosse stata d’accordo con i cambiamenti, con
schiettezza Basaglia risponde che no, non era d’accordo. E non
poteva essere diversamente, insiste Basaglia, perché troppa è la
distanza tra pregiudizio e consapevolezza, perché probabilmente al
«sistema» andava bene così. Più che ai partiti, Basaglia chiede aiuto
alla gente e racconta la storia della ragazza che minaccia di buttarsi
da un edificio molto alto, richiamando l’attenzione della gente. La
ragazza si butta giù e i pompieri non riescono a frenarne la caduta
con il telone. La ragazza si ferisce gravemente. È un episodio
sventurato. La gente ne discute e comincia a discutere anche se sia
giusto o meno il lavoro di Basaglia: la lotta per la liberazione del folle
dal manicomio diventa la vicenda di una persona concreta e diventa,
per chi è fuori, di fronte all’evento, di fronte a un volto, pure scrutato
da lontano, l’occasione per ragionare, per capire, per giudicare.
Basaglia dice: abbiamo bisogno di questo. Sa di non poter contare,
per smantellare un’istituzione, sull’intesa di altre istituzioni,
amministrazioni, governi, partiti… La loro sembra una difesa a
circolo dell’esistente, in un Paese che sta vivendo il suo breve
Sessantotto, che declina ormai da un lato verso il conformismo
burocratico (anche nella lotta politica di sinistra, nell’assemblearismo
che degenera nel verticismo), dall’altro verso il terrorismo, nel mezzo
tra il maggio francese e l’agosto cecoslovacco, tra le immagini di una
rivolta e quelle della cristallizzazione del presente, tra negazione,
rifiuto ipocrita e cautela altrettanto ipocrita. Non passa un anno ed è
la strage di Piazza Fontana.

66

Come se l’onda si smorzasse nella superficie piatta di un mare


senza vento. Basaglia sente indebolirsi la spinta. L’«incidente»,
Miklus, le accuse, soprattutto le polemiche dei suoi consueti
avversari, mortificano Basaglia. Lo si immagina scoraggiato di fronte
alle incomprensioni e ai ritardi, le delibere che non vengono votate, i
soldi che vengono lesinati, le strutture che non crescono. È una
politica d’opposizione alle sue intenzioni, che non contrasta,
semplicemente frena, rimanda, impedisce. Eppure in ballo sono
scelte molto concrete: il territorio, gli ambulatori, la comunità che
dovrebbe tornare a vivere qualcosa che comunque le appartiene. Ma
la norma, la prescrizione di una scienza ufficiale, universitaria,
paludata, non possono venire dismesse o ribaltate. Come sempre, a
Gorizia e altrove, «ciò che non è nella norma è motivo di scandalo e
deve essere allontanato e circoscritto (la prostituta che adesca il
passante è scandalosa, ma non lo è più in una casa chiusa; il malato
mentale che delira per strada è scandalo, ma non lo è più quando
viene chiuso in manicomio). Lo scandalo è il segno della presenza di
un problema che ha la forza della minaccia, perché può turbare
l’equilibrio della nostra esistenza: circoscriverlo è segnare i confini
entro i quali gli si permette di agire». (La soluzione finale, nel primo
volume degli Scritti). Come gli ebrei nei campi di concentramento i
matti nei manicomi. Ma i matti sono stati anche nei campi di
sterminio, hanno subìto i manicomi e i lager e dalle «fabbriche degli
alienati» s’è dimostrato che è difficile uscire. I confini o i muri restano
in piedi. La riforma si inceppa, la rivoluzione si sterilizza. Allo
psichiatra resta il mandato (e il potere) di allontanare, escludere,
preservare, per la pace della società dei sani. Gorizia fa scandalo,
bisogna interrompere lo scandalo. Basaglia, scoraggiato,
lucidamente convinto di non poter andare oltre, accetta forse
tatticamente la resa: decide di lasciare il suo primo manicomio da
direttore. S’adatta alla parte del capro espiatorio, ma è la stessa
qualità dei risultati raggiunti un freno: per continuare, bisogna
negarli. D’altra parte è lui il leader e ha il merito di affidare la partita a
giovani psichiatri innovatori: Pirella, Jervis, Casagrande, Slavich,
Schittar. Ma non è per molto: nel 1972 si dimettono, seguendo
Basaglia, in polemica con la pubblica amministrazione.

67

Pirella è il primo erede di Basaglia. Gli capita il caso di un ragazzo


appena ricoverato e già pronto alle dimissioni (si prepara alla visita
di leva), che in un pomeriggio di libertà litiga con la madre. È una lite
come altre che capitano in qualsiasi altra parte del mondo. Ma il
ragazzo è un «matto» di Gorizia. Un consigliere provinciale del Msi
presenta un’interrogazione al consiglio: come possono accadere
episodi del genere? Non è colpa dell’eccessiva libertà che si
concede ai ricoverati? In un ospedale dove si sono infiltrati i «cinesi»
che comandano nelle assemblee?
In quegli stessi giorni a Battipaglia la polizia spara sulla folla che
protesta contro la chiusura dalla manifattura tabacchi e di uno
zuccherificio: due morti. Due morti come ad Avola, alla fine del 1968.
La polizia che spara sui braccianti. A Capodanno, la polizia spara sui
giovani che contestano le feste dei ricchi, davanti alla Bussola. Viene
ferito Soriano Ceccanti. Ha sedici anni. Resta paralizzato. In quegli
stessi giorni di aprile del 1969 i detenuti delle Nuove di Torino e di S.
Vittore a Milano si rivoltano per protestare contro le durissime
condizioni della vita carceraria.

68

Dimissioni. Ammainare la bandiera. La spiegazione è in un


comunicato stampa firmato da Domenico Casagrande, allora
direttore incaricato dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. La data: 20
ottobre 1972. Comincia così: «A undici anni dalla trasformazione del
manicomio di Gorizia oggi ho consegnato alla Procura della
Repubblica la proposta di redigere il certificato di guarigione nei
confronti di 130 persone internate presso il nostro istituto, insieme
alla proposta di trasformare, in virtù dell’articolo 4 della Legge
n.431/1968, 68 degenti in ammalati volontari, persone cioè che
volontariamente chiedono un’assistenza psichiatrica, conservando
tuttavia il diritto di essere dimessi su loro richiesta. Restano 52
degenti che rientrano ancora nella legge 1904, oltre i già attuali
volontari». È un’istantanea di Gorizia, del quadro legislativo, degli
effetti della riforma Mariotti (riconoscimento dei diritti del ricoverato:
può decidere lui di rimanere o di tornare a casa).
Continua il comunicato: «Partiti dall’ipotesi che il manicomio, oltre
che servire da asilo per i malati di mente servisse come luogo di
scarico per le persone genericamente devianti prive di soluzioni
economiche e sociali, si è proceduto in questi anni alla lenta
riabilitazione di chi era stato distrutto più dal lungo periodo di
segregazione che dalla malattia in sé. Oggi non si può accettare di
continuare a mantenere la maggior parte dei degenti segregati in
una istituzione che, per il fatto di non consentire aperture e sbocchi,
li farebbe velocemente retrocedere al grado di istituzionalizzazione e
di distruzione personale in cui li avevamo trovati». Casagrande pone
una questione molto pratica: abbiamo resuscitato molte persone,
che si sono incamminate verso un futuro di libertà, di autonomia, di
responsabilità, abbiamo mostrato a queste persone come
potrebbero vivere lontano dalle mura e dalla segregazione del
manicomio, proprio adesso ci viene a mancare il sostegno, proprio
all’ultimo passo, prima di un possibile traguardo. Poi, in forma
retorica, Casagrande prosegue: «Non è qui il caso – vorrebbe dire
“È qui il caso” – di indagare perché l’Amministrazione provinciale di
Gorizia si sia rifiutata di aprire i centri esterni proposti e programmati
fin dal ’64 (vedi in particolare quello di Cormons, partito da più di due
anni) né di spiegare il suo atteggiamento concretamente negativista
– al di là delle parole e delle dichiarazioni pubbliche – che ha sempre
reso difficile ogni avvicinamento da parte dell’ospedale con gli enti
locali con cui sarebbe stato possibile tessere una rete protettiva, sia
in fase di post-cura che in fase preventiva, che avrebbe consentito e
consentirebbe la finale riabilitazione di molti “volontari”, costretti
invece a ristituzionalizzarsi nella routine comunitaria». La lettura è
semplice: l’istituzione pubblica ha tradito una speranza, ha illuso
quando il traguardo sarebbe stato possibile. Ritorna la critica alla
comunità terapeutica, bloccata nel suo significato di istituzione
chiusa. Il traguardo è ridare una vita a molti, invece, anche a quanti
sono costretti al manicomio perché senza manicomio non sanno
dove andare.
Segue replica, sul «Piccolo», quotidiano di Trieste, del presidente
della Provincia di Gorizia: reazione emotiva e immatura quella di
Casagrande di fronte a inevitabili difficoltà di legge e di bilancio.
Segue risposta di Basaglia: condivide la decisione di Casagrande e
dell’équipe goriziana, denuncia dell’impossibilità di proseguire su
una strada, che, interrotta, costringerebbe a un ritorno al passato, al
manicomio, a una gestione tradizionale del manicomio; non è forse
un segno di serietà professionale richiamare l’attenzione del
pubblico sui limiti che incontra il tecnico nell’espletamento del suo
lavoro? Limiti rappresentati dalla responsabilità degli enti pubblici da
cui l’assistenza dipende… Il presidente dice di voler attendere l’esito
dell’indagine di una commissione di studio, ma quale peso potrebbe
avere quell’indagine di fronte al bilancio di un decennio di lavoro? Un
bilancio che indica, anche, bisogni concreti di una realtà che si è via
via trasformata.
In un’altra lettera, questa volta per i degenti, spiega che la ragione
delle dimissioni sta nel rifiuto di accettare i limiti imposti dall’esterno,
cioè dalla pubblica amministrazione: «Cari amici… in queste
condizioni noi stessi, alle vostre legittime domande: “quando vado a
casa?”, dovremmo riprendere le menzogne dei vecchi manicomiali
che rispondevano “domani”, sapendo bene che quel domani non
esisteva nel vostro calendario».
Una lettera ancora, datata 20 novembre 1972, scrive Basaglia al
presidente della Provincia per dimettersi dalla commissione di
concorso per la scelta del nuovo direttore dell’ospedale psichiatrico.
Una lettera esplicita nella durezza delle sue accuse: non avete
voluto capire il senso della nostra battaglia, avete contrastato la
«linea Basaglia», pur dichiarandovi convinti della sua bontà. «Il
momento – scrive l’ex direttore – è chiarificatore e particolarmente
importante per quello che lo svolgersi dei fatti ha lasciato capire:
perché la realtà pratica rappresentata dall’Ospedale Psichiatrico di
Gorizia sta fungendo da verifica della moralità politica sia della
classe medica che di quella politico-amministrativa. Non è infatti
casuale che gli ultimi interventi dell’Amministrazione provinciale di
Gorizia siano stati appoggiati e riconosciuti come propri dal Msi e
dalle ali più regressive e immobiliste di ogni schieramento politico…»
Speriamo che nessun ricoverato abbia a pagare per il gesto di
irresponsabilità dettato da un’evidente ripicca politica dei suoi
amministratori. Ed è la chiusa. Il silenzio. Così si conclude la storia di
Basaglia e dei suoi a Gorizia, dopo undici anni.
Il bilancio di una prova e la spiegazione della sua fine stanno nelle
prime pagine dell’introduzione a Crimini di pace: «La chiusura
dell’esperienza, vissuta per undici anni nell’ospedale psichiatrico di
Gorizia, può forse rappresentare un tentativo, da parte del tecnico, di
portare fino in fondo il suo rifiuto a essere complice della copertura di
un’emarginazione di classe che la scienza legittima attraverso l’alibi
del controllo della devianza psichica. Le dichiarazioni allora rilasciate
dal gruppo curante sembrano chiarire, più di qualunque commento, il
significato di quell’azione e la posizione assunta dai tecnici nei
confronti di una problematica che non trovava modo né possibilità di
evolversi, se non riproponendo la logica manicomiale,
precedentemente distrutta, che si sarebbe ricostruita nell’isolamento
e nell’impossibilità di proposte a un livello diverso di problematica».
Basaglia farà riferimento a Gorizia in uno dei suoi ultimi scritti
(firmato con Giovanna Gallio), per un incontro a Parigi, dopo
l’approvazione della legge 180, mentre sta per lasciare Trieste,
pronto a partire per Roma.
Scrive: «Solo Gorizia esprime, dopo anni di lavoro silenzioso, un
modello credibile di trasformazione del manicomio. Dimostrando la
pratica applicabilità della socioterapia di derivazione anglosassone,
ne svela al tempo stesso i limiti e ne critica i presupposti,
rovesciando una posizione di tradizionale subalternità della
psichiatria italiana ai modelli terapeutici europei…
«Non c’è dubbio infatti che Gorizia abbia parlato molti linguaggi,
consentendo di liberare altrettante alleanze in quella parte della
società che esigeva dei cambiamenti: – la critica del manicomio
come “istituzione totale”; – la critica del modello della malattia, intesa
come statuto e come organizzazione clinica che, in quanto tale,
parla meno del malato e più del potere che si esercita su di lui; – il
rendere esplicite le connivenze esistenti tra il sapere e “l’ordine
psichiatrico” con le regole dell’organizzazione sociale generale e con
le pratiche espulsive, di controllo dei comportamenti devianti…
«Nel corso della trasformazione e dall’interno dell’O.P., l’équipe
goriziana ha teorizzato e praticato il rifiuto a indagare la malattia in
sé, nello sguardo e nell’ascolto clinico, per sviluppare un altro
sapere, accessibile e generalizzabile, dell’organizzazione della
malattia nel registro della realtà dei rapporti istituzionali. L’utopia
della realtà è stata usata per contrastare le oscillazioni che
inevitabilmente si producono in un processo di trasformazione
istituzionale: tra chi sottosta all’inerzia dell’organizzazione della
malattia e ne condivide, in ultima istanza, regole e procedure; a chi,
sull’onda del cambiamento, rischia continuamente di cadere dall’altra
parte, nei tranelli e negli auto-inganni del paternalismo terapeutico:
la catena delle “dipendenze buone”, tolleranza, seduzione,
gratificazione e tutta la vasta gamma di effetti che si producono nella
fascinazione istituzionale. La “messa tra parentesi della malattia”,
questa ostinazione imputata al gruppo goriziano come radicalità
distruttiva e che è stata in seguito più volte fraintesa (vuoi come
negazione tout court della malattia, o come una posizione di
radicalità politica del corpo curante, giustificata dall’arretratezza della
situazione psichiatrica italiana) era invece una faticosa astuzia che
presupponeva un profondo sapere della malattia, e una
consapevolezza altrettanto profonda delle sue costruzioni cliniche e
istituzionali».
Riprende la domanda di un libro famoso: «che cos’è la
psichiatria?» Da Gorizia in poi, il «movimento italiano» risponde che,
qualunque vocazione terapeutica (sia nell’enfasi posta sulle
potenzialità terapeutiche dell’istituzione riformata, che
nell’investimento del sociale e del territorio) condanna la psichiatria a
ripetersi nel coltivare la stessa presunzione delle sue origini: quella
di voler espellere dal suo ordine depurato, e dissimulare sotto forma
di malattia, il carico di miseria e povertà che tradizionalmente le
viene assegnato, un «carico» che non rappresenta la sua cattiva
eredità, il suo anacronismo, ma è la sua contraddizione, il suo
oggetto sociale.
5. LE ULTIME SFIDE

69

Gorizia contiene molto del futuro, i passi che Trieste rappresenterà,


la certezza che con le camicie di forza non si cura nessuna malattia,
che per tutti esistono diritti inalienabili, che la libertà è terapeutica,
come compare scritto sui muri. A Gorizia i muri sono stati rotti, si
sono aperte le brecce, qualche muro resta in piedi ancora, ma le
carte di Gorizia spiegano che in fondo la strada è segnata. Il futuro
intanto Basaglia lo cerca negli Stati Uniti. Cerca conferme, forse, e
idee nuove, in «un Paese ad alto livello tecnologico che rappresenta,
concretamente, il nostro futuro politico istituzionale», scrive in una
Lettera da New York. A New York Basaglia resta con la famiglia per
sei mesi, come visiting professor al Maimonides Hospital di
Brooklyn.

70

È nel 1961 che giunge al Congresso americano un rapporto sulla


sanità, che richiama l’attenzione del presidente e chiede un impegno
rapido «per arrivare ad un programma nazionale che voglia
affrontare adeguatamente le necessità individuali dei malati mentali
in America». Nel rapporto si sottolinea che cosa determina tanta
urgenza: alcoolismo e tossicodipendenze, dilaganti. John Kennedy
ha una sorella, Rosemarie, che soffre di disturbi mentali. Nel 1963 il
messaggio alla nazione del presidente è dedicato a quei temi ed è
uno stimolo al Congresso, perché prepari una nuova legge. La
nuova legge viene approvata e nascono così servizi comunitari di
salute mentale (Mental Retardation Facilities and Community Mental
Health Centers Construction Act), la cui direzione sarà nelle mani
dell’Istituto Nazionale di Salute Mentale (National Institute of Mental
Health). Gli utenti dei centri di salute mentali aumentano di sei volte.
La legge di riforma della sanità per gli anziani (Medical Health Bill for
the Aged, che sarà conosciuto negli anni come Medicare), proposta
nel 1961, viene firmata dal successore di Kennedy, Lyndon B.
Johnson nel 1965. La prima tessera di Medicare viene consegnata
da Johnson all’ex presidente Harry Truman e a sua moglie Bess. Era
il 30 luglio 1965. Esiste una bella foto dei tre, seduti uno accanto
all’altro. Sono stati o sono a capo del più potente Paese al mondo,
ma nei loro gesti sembra di scorgere resti di semplicità contadina.
America rurale, che costruisce le sue riforme.
Franco Basaglia è a New York, nell’America di Nixon e della
guerra in Vietnam (quando comincia il graduale ritiro delle truppe
americane). Basaglia vuole capire intanto come funziona il Mental
Act, dopo alcuni anni ormai di sperimentazione. Immagino che resti
deluso. Lo si può immaginare, se mezzo secolo dopo un
economista, professore alla New York University, è ancora costretto
a concludere che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si rivela una
stretta correlazione fra incidenza delle malattie mentali e reddito. La
diseguaglianza è il peccato. La diseguaglianza non è solo un
fenomeno poco gradevole. Mortalità, criminalità, obesità,
malnutrizione, disoccupazione, uso illegale di droghe, disagio
mentale, ansia: più larga è la forbice tra ricchi e poveri, più
drammatici sono i problemi sociali. Lo scrive Tony Judt, londinese di
origine ebraica, emigrato in America per insegnare (è morto di
sclerosi laterale amiotrofica, sla, nell’agosto del 2010), in un libro che
mostra l’altra faccia del neoliberismo imperante: Guasto è il mondo.
Dai versi di Oliver Goldsmith (scrittore inglese del Settecento, il
romanziere del Vicario di Wakefield): «Guasto è il mondo, preda/ di
mali che si susseguono,/ dove la ricchezza si accumula/ e gli uomini
vanno in rovina» (da The deserted village, 1770).
Accanto alla novità Franco Basaglia scopre molto del passato. I
servizi distribuiti nel territorio si tengono alle spalle le antiche
strutture dell’esclusione. Il manicomio non muore negli Stati Uniti e in
questa permanenza sembra già che si legga la risposta al quesito
che si pone (se lo pone da sempre) Basaglia: se un programma che
si definisce innovatore possa vivere e prosperare in un sistema
politico scosso ma non rinnovato (Kennedy è stato assassinato nel
1963, la Nuova Frontiera è rimasta nei suoi progetti). Nella sua
lettera da New York, scrive che quella visita gli avrebbe potuto dare
concretamente «la misura del legame tra una tecnica istituzionale
che ama definirsi innovatrice, e il sistema socioeconomico che lo
sostiene, per verificare i limiti di una nuova azione tecnica all’interno
di una determinata struttura politica». Come può una politica fondata
sulla divisione in classi, sull’ingiustizia sociale, sull’emarginazione,
magari corretta, moderata, «riformata», inventare una strategia che
cancelli o contenga una «malattia», spesso generata, spesso
aggravata proprio dalla discriminazione di classe, dall’ingiustizia,
dall’esclusione? Non sarà un caso che i manicomi siano ancora lì a
testimoniare materialmente la capacità di autodifesa di una società
dominante, la sua resistenza al cambiamento, la crudele
diseguaglianza che domina. «Sotto la stessa legge che le informa –
spiega Basaglia – agiscono contemporaneamente in modo
complementare le istituzioni della violenza, con il loro significato
esplicitamente esclusorio discriminante e distruttivo, e le istituzioni
della tolleranza, che, attraverso il nuovo concetto della psichiatria
sociale e comunitaria e l’interdisciplinarietà, tendono a risolvere
tecnicamente i conflitti sociali.» Da una parte la segregazione degli
«elementi di disturbo sociale», dall’altra il riadattamento di una
nuova categoria di malati, gli emotional patients, soprattutto
tossicodipendenti e alcolizzati (in un quartiere di centoventimila
abitanti, multietnico si direbbe, di italiani, ebrei, scandinavi, «negri»,
portoricani, in parte – annota Basaglia – sovvenzionati dal welfare,
sulla traccia della campagna anti povertà lanciata da Johnson nel
1964). Basaglia descrive le strutture: l’unità psichiatrica costituita da
un centro ospedaliero di quaranta letti e uno staff di duecento
persone, alle spalle della nuova unità psichiatrica il vecchio ospedale
psichiatrico con seimila ricoverati, cronici e disturbati. Il nuovo non
soppianta il vecchio in uno schema rigido: non si dà il caso di andare
oltre questo modello tecnico, malgrado le dichiarazioni di
democrazia nei rapporti interni, «nuovo dogma della psichiatria
comunitaria». Per questo l’esempio vale, ma per metterci in guardia
«contro ogni soluzione parziale e dialettica». «La povertà sta qui
diventando un’industria», secondo Basaglia, diventando componente
pacificata di un sistema che si conserva, che si perpetua, senza mai
mettersi in discussione, senza mai rivolgersi alle cause profonde del
disagio: «un’opera di colonizzazione interna, con le sue tattiche
diverse per un’unica strategia: il mantenimento dello status quo
economico generale». «Il Welfare – denuncia Basaglia – tenta, con il
vecchio sistema assistenziale, di lenire la piaga della
disoccupazione, ma affievolisce insieme la forza della rivolta. Se poi
la rivolta viene definita malattia, con le istituzioni deputate a curarla,
il ciclo è completo e il sistema è al riparo da ogni sorpresa, ancora
per un poco. L’ospedale di lusso per i poveri non è che la faccia
tollerante del sistema che ha escogitato un nuovo mezzo per
sopravvivere e un nuovo oggetto da inglobare – al medesimo punto
di distanza e di oggettivazione – nel ciclo produttivo».
Il viaggio negli Stati Uniti offre momenti di riflessione per un altro
libro, La maggioranza deviante, nel quale Basaglia e Franca Ongaro
tornano a quell’idea di prevenzione che dilata la devianza,
proponendo poi le sue classificazioni: prevenzione che moltiplica
malati e malattie e crea nuove condizioni di controllo sociale. Nuove
povertà finiscono nel catalogo della psichiatria: «Quando i devianti
seguiti dal Community Mental Health Centers sono i negri, i
portoricani, gli ebrei, gli italiani che, ai margini della produzione,
vengono assistiti dal Welfare, privi di un progetto che vada oltre la
sopravvivenza assicurata dalle organizzazioni assistenziali, è chiaro
che questi centri di salute mentale fungono, in definitiva, da controllo
per quella fascia di marginali che non può essere assorbita in
istituzioni produttive. Esattamente come da noi serve tuttora da
controllo il manicomio». Il malato, il deviante esistono come esiste la
malattia e la devianza. Sempre manca la libertà, sempre viene
negata al malato la possibilità di riconoscere se stesso, di rivivere in
modo dialettico la propria storia e di proporne un’altra. Il controllo è
l’unica soluzione indicata dalle istituzioni.
Quando incontra gli studenti brasiliani a San Paolo, nel 1979,
Basaglia riassume la sua esperienza americana: «Ho lavorato sei
mesi in una di queste istituzioni e posso dire di alcuni fatti
interessanti di una gestione sostanzialmente repressiva che tuttavia
aveva un’apparenza, una coloritura di libertà. Tutte le mattine gli
operatori tenevano una riunione dove si discutevano tutti i problemi
del giorno precedente. In una di queste riunioni, si presentò una
volta il rettore della New York University. Era durante le rivolte
studentesche. Il rettore chiedeva che alcuni psichiatri dessero delle
valutazioni psichiatriche dei leader della rivolta degli studenti.
Evidentemente il centro serviva per reprimere un’iniziativa presa da
persone normali. Il centro serviva tutta un’area che in inglese si
chiama catchment area, dal verbo to catch, che originariamente vuol
dire gettare la rete di pesca per ritirarla con i pesci. Così gli psichiatri
e i servizi sociali gettano la loro rete e pescano i malati… Per capire
come questo controllo si esercita, si tenga presente che negli Stati
Uniti il servizio sociale offre un sussidio in denaro alle persone che
non lavorano: il non-lavoro, cioè, è controllato. Gli assistenti sociali
fanno visite domiciliari per controllare quanti ricevono il sussidio. In
una delle riunioni del centro l’assistente sociale rivelò che nella casa
di una donna assistita erano state trovate le mutande di un uomo:
c’era un uomo, dunque, e l’uomo probabilmente manteneva
l’assistita. Il sussidio fu immediatamente revocato. Voi potete capire
in che senso la logica del centro fosse repressiva…»

71

«Alla fine del ’69 riuscimmo a far venire Basaglia a Parma.» Mario
Tommasini ricorda l’arrivo di Basaglia a Colorno, nel grande
manicomio ospitato dal 1873 nella reggia di Maria Luigia d’Austria e
in un’ala del convento di San Domenico.
A Parma l’amministrazione provinciale è di sinistra. Non ci sono
resistenze alla sua venuta, come testimonia Tommasini, ma non ci
sono neppure appoggio e sostegno. Indifferenza, invece, diffidenza:
la novità rompe equilibri solidi, convinzioni vecchie che nessuno mai
prova a mettere in discussione, la cultura degli amministratori
declina verso una idea assistenzialista o soltanto sembra guidata dal
desiderio di allontanare da sé un problema che si considera senza
altra soluzione al di fuori del manicomio.
Tommasini, che non sa di psichiatria, che non coltiva teorie, spirito
libero e battagliero, ispirato semplicemente dalla sua sensibilità,
dalla sua umanità, non si ferma alla porta del grande manicomio.
Entra, percorre i corridoi, attraversa i larghi cameroni. Colorno gli si
presenta, prigione senza pace per ricoverati dalle mille storie, e
racconta con concretezza ed evidenza come vanno le cose a
Colorno: «C’erano quattro medici e centosessanta infermieri per
milleduecento malati. Quale cura si poteva offrire? Si spendevano
dieci milioni in psicofarmaci, centottanta lire al giorno per il vitto –
mattina, mezzogiorno e sera, la roba più marcia veniva mandata lì –
le persone erano nude, gli stanzoni senza vetri, il riscaldamento
insufficiente». La politica si era mostrata insensibile, reticente,
l’esperienza di Gorizia era nota ma gli amministratori la
consideravano un caso lontano, una prova unica senza possibilità di
ripetizione, confusa e velleitaria. Mettere in discussione il manicomio
e la psichiatria? Negare la malattia? Confutare la scienza medica? A
Colorno come sarebbe andata? Tommasini descrive, mette assieme
quel mosaico del dolore e dell’infamia e il consiglio provinciale vota
all’unanimità «una mozione in cui si impegnava a umanizzare
l’ospedale e a dimettere chi poteva essere dimesso». Incontra altre
resistenze l’assessore provinciale, perché il manicomio è un cancro
e a tenerlo desto il cancro, per interesse, sono tanti: i medici, legati
alla vecchia cultura, paurosi di fronte a qualsiasi cambiamento, gli
infermieri perché l’ospedale psichiatrico è l’unica industria di Colorno
e dà lavoro, le famiglie degli infermieri, i fornitori che smerciano
carne e verdure marce: «L’ospedale esisteva perché c’erano i malati
e invece pareva esistere in funzione di medici e infermieri».
Tommasini sperimenta in proprio quanto Basaglia sostiene: partiti e
sindacati si occupano soltanto delle condizioni salariali del personale
infermieristico e proprio in quegli anni si passa dai turni di
ventiquattro a turni di otto ore e poi di sei, «conquiste frutto di
battaglie giuste, sacrosante, mai legate però al benessere dei
ricoverati».
I ricoverati restano al loro posto, rinchiusi, dimenticati dalla società
civile, ma nell’esistenza di alcuni di loro compare a un certo punto la
fattoria di Vigheffio, un podere e un cascinale che aprono una porta
sul mondo. A sei chilometri da Parma. Podere e cascinale sono di
proprietà dell’amministrazione provinciale. Il cascinale sarebbe
dovuto diventare istituto per handicappati gravi, ma rimane un
cascinale malandato. Tommasini intuisce che il cascinale sarebbe
potuto diventare qualche cosa di diverso da un altro reclusorio, che
potrebbe rappresentare una casa e un lavoro: «La fattoria era allora
disastrata, vuota, abbandonata da anni. Ricordo che andammo a
vederla una sera, al buio, anche con Franco e Franca Basaglia.
Sistemammo alla meglio una stanza con due brande: non c’era
l’elettricità e usavamo candele. Nessuno ne sapeva niente…» Poi
arrivano il muratore, l’imbianchino, l’elettricista. Vigheffio diventa la
casa ritrovata del partigiano Paolo Moreschi e di Martino, il
contadino, completamente sordo, venticinque anni in manicomio,
Moreschi e il contadino dimessi grazie ad un articolo della legge del
1904 (a condizione che qualcuno se ne assumesse la
responsabilità). Vigheffio diventa mese dopo mese un’azienda
agricola vera, dove altri ricoverati ritrovano un posto. «Venne l’estate
e al momento della raccolta quelle biolche resero più dei poderi
vicini… i contadini, che avevano sempre guardato la fattoria con
sospetto e con paura, cominciarono a vedere i manicomiali con altri
occhi, anzi con gran rispetto, perché si rendevano conto che
lavoravano con cognizione, curavano i pochi animali che c’erano,
tenevano pulita la casa. Da quel momento ebbe inizio tra loro una
collaborazione stretta».
La fattoria di Vigheffio prospera, viene ristrutturata: si comincia con
un investimento regionale di 140 milioni, poi s’adoperano i volontari,
prestano le loro idee e la loro manualità, la loro passione, le aziende
offrono mattoni e mattonelle, Salvarani, quello delle cucine, s’occupa
dei tetti, di rimboschire, del parco giochi per i bambini. Intanto si
aprono altri centri, si affittano appartamenti per dar casa ad altri
pazienti dimessi. Si creano cooperative di lavoro.
A Colorno, Franco Basaglia, preceduto da Antonio Slavich e da
Lucio Schittar, cerca di concludere quanto avviato a Gorizia. Per
Basaglia si aprono anche le porte dell’università. Gli affidano un
corso di igiene mentale, incarico che mantiene per otto anni: «L’aula
– come testimonia nelle sue Memorie di uno psichiatra Fabio
Visintini – era sempre affollattisima, come non lo era mai prima». Ma
resiste la diffidenza degli amministratori. Lo ricorda anche Basaglia
ai suoi ascoltatori di Rio de Janeiro: «Sono stato isolato come un
appestato. Fortunatamente avevo molti allievi che frequentavano le
mie lezioni e così spero di aver “corrotto” un bel po’ di gente».
Anche se la via è aperta, se molti malati tornano a un’esistenza
normale, nella fattoria o nelle case, Basaglia e Tommasini
continuano a ritrovarsi di fronte a un ostacolo che pare insuperabile:
la pigrizia intellettuale, le paure, il pregiudizio di un ceto politico,
anche a sinistra, che non sa scorgere il valore di un cambiamento,
che teme le novità. Quell’inerzia, a sinistra, che confina con
l’opposizione, è il cruccio di Tommasini, che ancora nel 2005, poco
prima di finire in un letto d’ospedale (muore nella primavera del
2006) scrive su «l’Unità» (19 maggio 2005) a proposito di Basaglia:
«Oggi lo celebriamo, ma mai in nessun luogo per Franco Basaglia fu
difficile lavorare come lo fu a Colorno e in Emilia Romagna…»
Tommasini rievoca un incontro a Bologna con l’assessore
regionale, comunista. Riascoltiamo le parole che l’assessore
regionale rivolge a Basaglia: «Caro professore, lei è un bravo
tecnico e sono certo che darà un grande contributo per cambiare il
modo di trattare con i malati di mente. Però lei a Bologna e in Emilia
Romagna non verrà mai a lavorare. Da noi, qui, in Emilia, sia ben
chiaro, i tecnici devono fare ciò che diciamo noi amministratori. Qui
vogliamo tecnici che siano esecutori. Lei è un uomo troppo libero.
Per questo motivo qui non la vogliamo». Sembra di ascoltare
esattamente quanto, da intellettuale e da tecnico, citando Gramsci,
Basaglia rifiutava del rapporto con il potere, rapporto che gli viene
riproposto negli stessi intollerabili termini di sudditanza,
conformismo, omologazione, da un dirigente comunista nella rossa
Bologna. Pasolini scopre, qualche anno dopo, «la funzione
conservatrice che qui ha avuto il Partito comunista», che descrive in
alcune pagine delle Lettere Luterane. È la città stessa che parla al
poeta, suo ospite trent’anni prima, oggi sorpreso dalla mortificazione
delle identità, dall’assimilazione acritica, immemore di ogni storia, di
costumi di una società consumistica, dall’esercizio in assemblee,
autogestioni, partecipazioni, di sembianze della democrazia: «Ma io
so che ciò che più di ogni altra cosa ti rende ansioso e quasi
angosciato per quanto riguarda il mio fenomeno, è il fatto che io
ponga problemi riguardanti lo sviluppo consumistico transnazionale
a una giunta comunista regionale. La quale nel risolvere quei
problemi, li accetta. E accettando quei problemi– nella pratica che è
sempre una teoria ancora non detta – essa accetta anche l’universo
che li pone: cioè l’universo della seconda e definitiva rivoluzione
borghese. Ciò che una città italiana è diventata – sia bene o sia male
– è qui accettato, assimilato, codificato. Nel momento in cui sono,
insieme, una città sviluppata e una città comunista, non solo sono
una città dove non c’è alternativa, ma sono una città dove addirittura
non c’è alterità. Prefiguro cioè l’eventuale Italia del compromesso
storico: in cui nel migliore dei casi, cioè nel caso di un effettivo
potere amministrativo comunista, la popolazione sarebbe tutta di
piccoli borghesi, essendo stati antropologicamente eliminati dalla
borghesia gli operai…»
E come se Pasolini denunciasse una cultura congelata dallo
sviluppo e dal progresso, condannata alla violenza del silenzio e del
rifiuto di fronte a ogni «alterità».
Anche Basaglia, Tommasini, i loro matti rappresentano una
«alterità». Dunque… «Non si sta in paradiso – conclude l’animoso
assessore – a dispetto dei santi. Ricordo che gli controllavano
persino le telefonate, a lui, che era in contatto con il mondo perché le
sue esperienze avevano varcato ogni confine». Si volta l’ultima
pagina: «Se ne andò. E fece bene, perché un tecnico non può
essere sottomesso a un amministratore. Se è un bravo tecnico e se
ha dignità».
La direzione passa a Ferruccio Giacanelli, che prosegue nell’opera
di de-istituzionalizzazione (come si può dire: smantellare l’istituzione,
cancellare le sue regole, abbattere le sue porte?). Colorno però
continua a ospitare i suoi malati fino agli anni Novanta.

72

Dieci anni dopo la nascita di Vigheffio, un anno dopo l’approvazione


della legge 180, un giornalista visita la fattoria. L’occasione è un
convegno pubblico. Il giornalista si chiama Michelangelo Notarianni.
È un politico (morto nel 1998), è tra i fondatori del quotidiano «il
manifesto» e vi scrive di Vigheffio. Lo colpiscono i bambini che
scoprono gli animali, le famiglie che li accompagnano, gli insegnanti
che fanno scuola approfittando di quanto si può vedere nella
fattoria… Notarianni riferisce le sue emozioni: «Di straordinario a
Vigheffio c’è solo il fatto che questo insieme di cose, di strumenti, di
presenze umane intorno a una iniziativa costata poche decine di
milioni, pochissimo lavoro retribuito e un impulso istituzionale
modesto e niente affatto macchinoso, è sorto a partire da una lotta
che a Parma ha già un decennio di storia, quella della liberazione
degli internati psichiatrici. Dieci anni fa, studenti e infermieri durante
l’occupazione del manicomio di Colorno, quello del film di Marco
Bellocchio, andarono a liberare i matti dai corsetti e dalle camicie di
forza. Oggi alcuni di quei matti conducono per mano i bambini di
Parma a vedere gli animali, a fare un giro sul carretto tirato dal pony,
a passeggiare per i campi della fattoria. Una paura antica si scioglie,
il pericolo non esiste. Gli adulti stanno a guardare qualche volta un
po’ vergognosi questo spettacolo di felicità risolutiva, semplicissima
e niente affatto miracolosa».
«Non è un manicomio riformato e decentrato sul territorio,
Vigheffio. Non è neppure un servizio psichiatrico, non è destinato in
primo luogo e in esclusiva ai matti, agli ex reclusi del lager di
Colorno (che esiste ancora e non è facile svuotare): è quello che si
chiama forse un po’ impropriamente servizio sociale, un momento di
utopia e di lotta che risponde ai bisogni e alla coscienza di una serie
di strati sociali che qualcuno dipinge solo con le categorie del riflusso
e magari dell’imbarbarimento». Considerazione generosa. Notarianni
ricorda tre protagonisti di questa avventura: Laura Campanini (la
ricorda spesso anche Tommasini, che la trova sempre al proprio
fianco), l’assessore coraggioso, comunista in eterno conflitto con il
suo partito e, naturalmente, Franco Basaglia, «persone concrete».
Basaglia diceva, cita Notarianni, di non dimenticare il manicomio e
che, paradossalmente, nel manicomio c’era qualcosa di buono,
«perché lì è nata la cultura della liberazione».
«Vigheffio – coglie nel segno Notarianni – è sorta per iniziativa di
una amministrazione rossa. Vigheffio deve lottare contro le
incomprensioni, le diffidenze, la paura che proprio dall’ambiente
rosso continuano a venire». Perché, si chiede Notarianni. La
domanda è densa. La risposta forse troppo semplice: contraddizioni
nel popolo. Una volta si combatteva per un valore: l’eguaglianza.
Ora per un altro: l’individualità, che implica la diversità,
giustificazione del privilegio, il primo titolo per la rivendicazione del
dominio e dello spazio privato. La paura nei confronti del malato
mentale e quindi la sua emarginazione, il suo isolamento, sono
molto più antichi.
Anche Enrico Berlinguer, nel maggio 1980, pochi mesi dunque
prima della morte di Basaglia, dopo una riunione di partito, passa a
conoscere Vigheffio, accolto da molti amici che lo applaudono. Gira
nella fattoria insieme con Tommasini. Ne scrive su «il manifesto» lo
psichiatra allievo di Basaglia, Franco Rotelli: «L’eccesso di
commozione sul viso di Berlinguer accanto a Tommasini è
spietatamente e teneramente vivo nelle foto che li ritraggono
insieme, attorniati dal vario, liberato, stupefacente popolo di
Tommasini».

73

Un uomo che nasconde il proprio volto tra le mani, il capo reclinato,


indosso una divisa di tela grezza, ruvida, le dita affusolate, eleganti,
sulla testa rasata, non un’espressione si coglie, non un gesto, non
una sensazione. L’uomo senza faccia è l’immagine forse più celebre
che ritragga l’ospite di un ospedale psichiatrico. La foto è il simbolo
della condizione manicomiale. L’abbiamo vista sulle copertine dei
libri, nei giornali, sui manifesti. Viene scattata a Colorno nel 1968 da
Carla Cerati, fotografa milanese (ma è nata a Bergamo). Questa sua
foto insieme ad altre e altre ancora di Gianni Berengo Gardin,
grande fotografo, compongono un libro famoso, Morire di classe,
pubblicato nel 1969, un reportage tra i manicomi di Gorizia, Firenze,
Parma. Fu una rivelazione… Carla Cerati conosce Basaglia
attraverso i suoi libri e in particolare grazie a L’istituzione negata.
Telefona. Fissa un appuntamento. Basaglia è contento. La fotografia
è uno strumento straordinario, uno sguardo sulla miserabile
condizione dei malati nei manicomi. Per Carla Cerati il primo
ospedale psichiatrico è quello di Gorizia. Le foto sue e di Gianni
Berengo Gardin, prima che nel libro, compaiono in una mostra, a
Parma, nel 1968, organizzata proprio da Basaglia. Nei giorni della
mostra gli infermieri precari di Colorno sfilano in corteo, molti
indossando camicie di forza, per mostrare anche in strada la
crudeltà del manicomio e la violenza della cura.
Il ricordo di Carla Cerati: «Basaglia io l’ho visto più come un
rivoluzionario che come un medico. Rivoluzionario, geniale,
imprevedibile. Era capace di togliersi calze e scarpe di fronte a tutti
sul tappeto del salotto in casa di amici per provare un paio di calze
che gli avevano appena regalato. Nel suo ospedale psichiatrico di
Gorizia, la prima volta ho assistito all’assemblea che tutti i giorni
tenevano i malati per decidere che cosa fare e poi l’assemblea che i
medici tenevano per discutere dei malati e sul da farsi. Francamente
mi sono sembrati più sani i malati dei medici. Ho avuto la sensazione
che gli psichiatri fossero tutti matti».

74

La fotografia documenta la malattia, che diventa la rappresentazione


dell’istituzione. Gli abiti, la testa rasata, le mani sul volto sono
l’istituzione, il malato deve diventare «un corpo istituzionalizzato, che
è vissuto e si vive come oggetto, anche se tenterà – attraverso
acting out apparentemente incomprensibili – di mantenere le
qualifiche di un corpo proprio, rifiutando di identificarsi con
l’istituzione. Fino a quando comincerà a essere definito nelle cartelle
cliniche “ben adattato all’ambiente, collaborativo, ordinato nella
persona”: allora sarà definitivamente sancita la sua condizione di
soggetto passivo, dove il soggetto esiste solo nella sua accezione di
numero». Così Basaglia nell’introduzione a Morire di classe. Numero
come ogni deportato nei lager. Ribellione è il tentativo di
riconoscersi, ovviamente represso fino alla totale sottomissione. In
poche righe, appena più avanti, Basaglia sintetizza il percorso della
sua battaglia: «Ogni azione di rinnovamento in questo campo ha
inizialmente questo significato: smascherare la violenza
dell’istituzione psichiatrica e dimostrare la gratuità e il carattere
difensivo delle misure repressive manicomiali, attraverso l’abbozzo
di una dimensione istituzionale diversa, dove il malato possa
ritrovare un ruolo che lo tolga dalla passività in cui la malattia, prima,
e l’azione distruttiva dell’istituzione, poi, lo hanno fissato. In questo
senso, l’avvio ad una nuova dimensione terapeutica non può che
passare attraverso la distruzione della realtà manicomiale, per
arrivare a creare un terreno dove a libera comunicazione tra malati,
infermieri, medici possa sostituire– nell’azione di sostegno e di
protezione – le mura, le sbarre, la violenza». Il testo è breve, poche
pagine che sintetizzano il modo di procedere di Basaglia, l’idea di ciò
che sarà Trieste: smascherare la violenza dell’istituzione psichiatrica,
dimostrando la gratuità e il carattere difensivo delle misure
repressive manicomiali, immaginando e cominciando a realizzare
qualche cosa di diverso, qualcosa (un ruolo, un luogo, rapporti) che
consenta al malato di liberarsi dalle catene e della passività, imposta
dalla malattia e dall’istituzione. Azione distruttiva dell’istituzione,
scrive Basaglia: «In questo senso, l’avvio a una nuova dimensione
terapeutica non può che passare attraverso la distruzione della
realtà manicomiale, per arrivare a creare un terreno dove la libera
comunicazione tra malati, infermieri e medici possa sostituire,
nell’azione di sostegno e di protezione, le mura, le sbarre e la
violenza…» Basaglia avverte che l’istituzione manicomiale ha in sé,
nel suo carattere violento coercitivo discriminante, una più nascosta
funzione sociale e politica, perché il malato mentale, ricoverato,
privato di ogni diritto, spogliato della sua identità non è soltanto il
bersaglio della violenza di un’istituzione dedicata a difendere i sani
dalla follia, a separare i sani dalla follia, in una società che rifiuta la
malattia mentale: il malato è insieme il povero, il diseredato, che non
ha nulla da opporre all’arroganza dell’istituzione. «Che significato
può avere – si chiede Basaglia – costruire una nuova ideologia
scientifica in campo psichiatrico, se, esaminando la malattia, si
continua a cozzare contro il carattere classista della scienza che
dovrebbe studiarla e guarirla.» La risposta sta nella citazione, a
epigrafe, dei versi famosissimi di una poesia di Brecht: «E quando
dall’armadio i cadaveri puzzarono allora Jacob comprò un’azalea».
Un velo di profumo per occultare il delitto. Un abbellimento per
nascondere la violenza della segregazione. Il pericolo è di lasciarsi
sedurre dall’apparenza di una novità. Basaglia ci richiama alla
responsabilità: il pericolo implicito in ogni azione di rinnovamento
che tenda a organizzarsi, è di ridursi alla traduzione in termini
ideologici di ciò che era nato come un’esigenza di rifiuto e di rottura
pratici. Vale anche per il futuro di nuove leggi.

75

Tra anni Sessanta e anni Settanta si spegne il Sessantotto, la


protesta segue gli schemi, persino il movimento si istituzionalizza.
Basaglia riconosce quanto la «grande vicenda del Sessantotto» aiuti
la sua battaglia. Ma le bombe di Milano (la strage della Banca
dell’Agricoltura è del dicembre 1969), appena dopo l’autunno caldo
del lavoro, l’autunno delle grandi lotte operaie, sono un’ombra sul
Paese, gelano la voglia di cambiare, sono atti di terrorismo che
muovono altro terrorismo, oscurano il ruolo della politica, spesso
divisa tra inerzia, connivenza, incertezza. Al governo si succedono
Rumor, Emilio Colombo, Andreotti. Le elezioni premiano la Dc.
Torniamo a Pasolini, quello degli Scritti corsari (ma prima sul
«Tempo illustrato», il 15 luglio 1973): «Nel 1971-72 è cominciato uno
dei periodi di reazione più violenti e forse più definitivi della storia. In
esso coesistono due nature: una è profonda, sostanziale e
assolutamente nuova, l’altra è epidermica, contingente e vecchia. La
natura profonda di questa reazione degli anni Settanta è dunque
irriconoscibile, la natura esteriore è invece ben riconoscibile. Non c’è
nessuno infatti che non la individui nel risorgere del fascismo, in tutte
le sue forme, comprese quelle decrepite del fascismo mussoliniano,
e del tradizionalismo clericale-liberale, se possiamo usare questa
definizione tanto inedita quanto ovvia».
Nell’introduzione a Crimini di pace, del 1975, Franco Basaglia e
Franca Ongaro Basaglia analizzano la condizione del Paese, la sua
mutazione sociale, l’affermazione di un ceto medio appagato, il
progressivo indebolimento della classe operaia e la sua
emarginazione, la violenza che diventa strumento anche psicologico
per spegnere ogni conflitto. Sembra, a tratti, di leggere qualcosa che
appartiene alla polemica di Pasolini, ad esempio nel suo giudizio a
proposito di una piccola borghesia, che ha abbracciato i valori
«dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente
tolleranza modernistica di tipo americano»: «È stato lo stesso Potere
– attraverso l’imposizione della smania del consumo, la moda,
l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a
creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e
la Chiesa stessa, che ne era il simbolo…» Pasolini lo pensa
all’indomani della vittoria dei «no» al referendum sul divorzio (in un
articolo sul «Corriere della Sera», il 10 giugno 1974). Crimini di pace
appare un anno dopo: «In Italia… si vive da anni in un clima di
minaccia di violenza. Nel momento in cui scriviamo non si sa più, o
non si sa ancora, se il clima paranoide in cui viviamo sia reale o
creato artificialmente come un nuovo sistema di controllo, in cui ogni
cittadino diffida dell’altro, e quindi siamo noi stessi i soggetti e gli
oggetti del controllo che le istituzioni violente non riescono più a
gestire. Gli squilibri e le contraddizioni sociali sono, in Italia, più forti
che in altri paesi europei retti a democrazia borghese (esclusi
ovviamente i paesi dichiaratamente fascisti), così come è più forte
l’opposizione. In Italia – a causa della profondità degli squilibri e,
insieme, della coscienza di questi squilibri – la tendenza alla
costituzione di una classe unica, identificata nei valori proposti da un
centro ridottissimo di potere che la controlla, trova difficoltà e
resistenze, anche se l’allargarsi dell’area dei ceti medi, su cui ha
buon gioco questo processo di identificazione nei valori dominanti,
ne è un preannuncio. Esiste una classe operaia ancora
numericamente forte, per garantire il controllo di manovre di tipo
golpista. Ma l’atmosfera paranoide (reale o artificiosamente creata)
tende comunque a indebolire le forze di opposizione che vivono in
uno stato continuo di minaccia di violenza». Basaglia è convinto che
la sfida sia aperta. Ma Basaglia scrive nella stagione delle illusioni e
delle speranze, quando il risultato del Pci alle elezioni
amministrative, lo straordinario successo del Pci, lascia credere che
la «grande mutazione» denunciata da Pasolini sia tutt’altro che
compiuta.
Quegli anni ci sono presenti: la strategia della tensione. Le bombe
sui treni, la bomba di piazza della Loggia, i generali che cospirano
contro lo stato, un ministro degli Interni che annota: «Certo il clima è
pesante. Assomiglia a quello del Cile prima dell’avvento di
Pinochet». Il Pci (nel 1971) con Luigi Longo che pensa a una
organizzazione scientifico-militare, enucleata in unità piccole che
possano muovere rapidamente e agire. Il golpe Borghese (la
rivelazione del tentativo risale al 1971). Il corteo a Milano della
maggioranza silenziosa (marzo 1971). La morte dell’anarchico
Serantini, in carcere dopo la bastonatura subìta per mano di alcuni
poliziotti durante una manifestazione a Pisa. Il rogo di Primavalle. La
fine di Giangiacomo Feltrinelli sotto un traliccio dell’alta tensione.
L’assassinio del commissario Calabresi. La rivolta di Reggio. Leone
presidente della Repubblica (eletto dopo ventitré votazioni il 24
dicembre 1971). Le Brigate Rosse (la firma sotto i primi volantini, a
metà del 1971, nel 1972 il primo rapimento, quello di un dirigente
della Siemens, Hidalgo Macchiarini)…
A metter in fila (e sarebbe una fila interminabile) quei nomi, quei
luoghi, quelle date, si dà il senso di una tragedia, che giustifica la
paura. Rapido il vento (quello spirito libertario, che anima il
Sessantotto) sembra volgersi nel suo opposto. Basaglia lo vede.
Qualche anno avanti ne parla, ancora di fronte ai suoi ascoltatori
brasiliani: «Alcuni di questi movimenti e gruppi, come il movimento
studentesco e il movimento delle donne, sono stati per noi molto
importanti, e fanno parte della grande vicenda del Sessantotto. Ma
successivamente in Italia si sono organizzati movimenti sempre più
estremisti e sempre più adialettici, che sono giunti alle estreme
conseguenze del partito armato, del terrorismo, delle Brigate Rosse.
Credo che l’estremismo dei gruppi abbia avuto senso fino a un certo
punto, ma poi i gruppi sono caduti in una situazione adialettica
determinata dalla loro stessa azione pratica. Si sono allontanati
completamente dalla lotta della classe operaia, e secondo me sono
entrati nel gioco manipolatorio del potere. Oggi l’estremismo è
manipolato dal potere, fa il gioco del potere».
Adialettico: Basaglia usa di frequente questo aggettivo. Potrebbe
dire, a volte, dogmatico, apodittico, categorico, ma in quell’uso c’è il
riflesso del suo studio filosofico, da Hegel alla psicoanalisi.
«Dialetticamente», l’onda lunga del Sessantotto non si esaurisce
del tutto davanti a una barriera di violenza, di terrore, di crisi della
politica. La rivendicazioni di nuovi diritti, ad esempio, non si arena di
fronte alla stretta repressiva. L’arretratezza delle istituzioni non
sempre di per sé riesce a frenare la volontà di chi vuol cambiare,
non si presenta come un ostacolo insormontabile. Gorizia e in parte
Colorno sono un’indicazione. I «manicomi» cominciano a cambiare.
La protesta tocca adesso un’altra istituzione totale, il carcere. Sono i
detenuti a insorgere a Rebibbia, ad Alessandria, a San Vittore,
chiedendo condizioni di vita, nelle carceri, meno disumane,
chiedendo una legislazione penale che vada oltre i codici fascisti.
Ancora in un’altra istituzione totale, la caserma, cresce la denuncia
sia per la situazione di degrado materiale sia per la privazione dei
diritti. Sulle mura della caserma di Casale Monferrato compare una
scritta: «Non siamo bestie». Un volantino spiega: «In caserma ti
abituano a lavorare senza discutere. Ti abituano ad avere paura di
chiunque abbia un grado. Ti abituano a non decidere e a non far
rispettare i tuoi diritti. Ti abituano a non pensare a niente, a vivere
alla giornata. Ti abituano a fare le cose senza chiederti se servono e
a cosa servono». Battaglia democratica o semplicemente denuncia
di abusi, un appello alla rivolta, come segnala «Lotta continua», il
giornale più vivace e imprevedibile, che alterna pagine di plumbea
cronaca politica ad altre di rappresentazione della realtà sociale, di
scambio, di incontro, là dove gli altri non arrivano.
Tra caserme, carceri e manicomi è facile cogliere la contiguità:
analogia dell’istituzione psichiatrica con le altre istituzioni totali. Si
può risalire a Erwin Goffman di Asylums: «Uno degli assetti sociali
fondamentali nella società moderna è che l’uomo tende a dormire, a
divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, sotto diverse autorità e senza
alcun schema razionale di carattere globale. Caratteristica principale
delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta la rottura delle
barriere che abitualmente separano queste tre sfere di vita. Primo,
tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la
stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività giornaliere si
svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone, trattate
tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose.
Terzo, le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente
schedate secondo un ritmo prestabilito che le porta dall’una all’altra,
dato che il complesso di attività è imposto dall’alto da un sistema di
regole formali esplicite e da un corpo di addetti alla loro esecuzione.
Per ultimo, le varie attività forzate sono organizzate secondo un
unico piano razionale, appositamente designato al fine di adempiere
allo scopo ufficiale dell’istituzione».
Manipolare, organizzando, vietando, prescrivendo. Insisto sulle
caserme (a quell’epoca nasce il gruppo «Proletari in divisa»,
sostenuto da Lotta continua, nel segno della «lunga marcia dentro le
istituzioni»), perché il militare non è, per definizione, privato dei diritti
civili (come capita al carcerato o al matto), ma come rivelano le
cronache giornalistiche, non può leggere giornali di sinistra, non può
manifestare le proprie idee politiche, un marinaio di leva può essere
processato (nel 1971) per istigazione alla disobbedienza se
abbandona sulla tolda della nave un libro di don Milani
(L’obbedienza non è più una virtù), come racconta Camillo Arcuri sul
«Giorno» del 9 marzo 1971, un militare può essere punito se
reclama, può essere ancora accusato di ammutinamento se la sua
protesta è seguita da altri commilitoni. Solo nel 1972 viene
approvata la legge che consente il servizio civile per obiezione di
coscienza.
Sull’analogia tra «sapere psichiatrico» e «sistema giudiziario»
Franco Basaglia riflette in una relazione (elaborata insieme con
Maria Grazia Giannichedda) per l’International Congress of Law and
Psychiatry del 1979: «Come nel caso dell’apparato giudiziario,
l’oggetto della psichiatria si definisce sul pericolo costituito dal
comportamento deviante. Giustizia e psichiatria hanno inoltre in
comune i princìpi della sanzione e della separazione, oltre a molta
parte dell’organizzazione istituzionale. Come nel caso dell’apparato
giudiziario, il sistema normativo costruisce, nel terreno della
psichiatria, un’articolata rete di norme che regolamentano tutte le
fasi dell’azione del tecnico-funzionario: il modo del riconoscimento
della malattia (cioè l’accertamento che si presenti la fattispecie della
pericolosità sociale), la sua immediata sanzione (generalmente la
contenzione), la conseguente restrizione della libertà personale
(l’internamento), della cui rigidità è responsabile il medico, al punto
di essere coinvolto come correo nel caso che la mancata custodia
del folle abbia dato luogo a comportamenti devianti. Gli stabilimenti
di cura devono perciò essere adeguati a questo scopo e dunque
anche fisicamente somiglianti alle carceri…»
76

Crimini di pace. Basaglia ne dà un elenco: «Ospedali e carceri


uccidono più di quanto non riescano a curare (una statistica
americana ha riconosciuto che l’ottanta per cento della medicina
serve a curare malattie generate dalla medicina stessa). Le carceri
producono più delinquenti di quanti ne entrino. I manicomi
fabbricano i malati su misura: cioè costruendo passività, apatia,
annientamento personale necessari al controllo e alla conduzione
dell’organizzazione ospedaliera. Nelle fabbriche si sfruttano gli
operai, costringendoli a condizioni di lavoro nocive e distruttrici, dove
le morti bianche sono preventivate come un male necessario al
progresso dell’uomo. Le scuole continuano a non insegnare e a non
svolgere il loro ruolo educativo, eliminando chi non ha “imparato” e
non è stato “educato”. Gli studenti che esigono una ristrutturazione
dell’insegnamento e una garanzia per il loro futuro, sono accusati di
sovvertire l’ordine pubblico; mentre gli studi universitari sono sempre
più scadenti e squalificati, sì che ci saranno, da una lato, posti di
lavoro per chi si è preparato all’estero o presso le scuole di
specializzazione delle industrie, e dall’altro una nuova ondata di
laureati disoccupati o sottoccupati. Mari e fiumi sono inquinati e
inaccessibili, perché portano nelle loro acque la morte chimica che le
industrie producono e solo davanti a questa morte generale si
progettano spese di miliardi per depuratori e impianti di filtraggio che
potevano essere costruiti per prevenirla e non correre ai ripari dopo i
funerali». Sembra d’essere fermi a quel tempo o d’essere tornati a
quei tempi, dopo gli anni dell’illusione. Tutto questo, scrive Basaglia,
in nome del progresso che darà all’uomo felicità e benessere. Ma
quale uomo? Si chiede. La risposta è quella che percorre molte tra le
sue riflessioni sulla «malattia»: è la logica economica a stabilire ciò
che è umano e ciò che non lo è, ciò che è malato e ciò che è sano,
ciò che è brutto e ciò che è bello, ciò che va bene e ciò che non va.
6. PRENDERE IL VOLO

77

Il primo agosto 1971 Franco Basaglia entra al San Giovanni, il


manicomio.
San Giovanni è un quartiere di Trieste.
Quando viene inaugurato, nel 1908, l’ospedale psichiatrico viene
intitolato a Giorgio di Andrea Galatti, a Giorgio figlio di Andrea.
Giorgio Galatti è un ricco industriale, di origine greca, titolare di
un’impresa elettrotecnica, un precursore, che alla morte, nel 1902,
lascia tutte le sue sostanze, un milione e mezzo di corone (siamo
ancora nella Trieste che guarda a Vienna), per la costruzione del
manicomio, purché venga dedicato al padre. Di Giorgio, nel parco,
resta il busto di bronzo, sopra un basamento in pietra con figure
femminili in bassorilievo, morbide citazioni liberty, che abbracciano la
lapide commemorativa: «A Giorgio di Andrea Galatti/ che al Comune
di Trieste/ lasciava cospicuo dono/ per l’erezione di questo/
frenocomio desiderando/ fosse intitolato dal/ nome del padre suo/
Andrea di Sergio Galatti./ Onore e riconoscenza». Il benefattore è un
uomo calvo, il viso adornato da baffi densi e lunghi, barba cospicua,
sguardo teso all’orizzonte.

78

Il magnifico frenocomio. È il suo titolo ufficiale, ma la definizione


volge al grottesco in un libro, Non ho l’arma che uccide il leone,
autore Peppe Dell’Acqua, psichiatra, tra i primi a lavorare con
Basaglia a Trieste. Dell’Acqua raccoglie così le impressioni della sua
prima visita: «Quel giorno di ottobre, era il 1971, varcato il grande
cancello, il parco ci svelò tutta la sua bellezza allora ancora
nascosta, misteriosa, ambigua. Ci affascinarono i colori degli alberi,
delle foglie: sfumature infinite di verdi, di gialli, di rossi, rossi di
un’intensità mai vista prima. Era quello il secondo manicomio che
vedevo. Lo spazio, i viali, le architetture dei reparti sembrarono a me
giovane medico inesperto di un ordine e di una pulizia spropositati. Il
proposito di quell’ordine lo avrei capito negli anni a venire. La
finestra del soggiorno del reparto offriva quella vista. Al di qua dei
vetri un puzzo penetrante di piscio, di cibo, di disinfettante; tanti
giovani uomini bavosi, urlanti, lamentosi. Occhi grandi, tristi,
immobili. Camici bianchi, rumori di chiavi. Un dialetto
incomprensibile…»
Qualche mese dopo l’apertura, M. Strobl (si sa viennese, Vienna è
nella sua firma, ma la «M.» resta misteriosa) fotografa il manicomio:
un reportage di trentacinque lastre che vengono acquistate nel 1910
dal municipio di Trieste per cinquecento corone. Molte vanno
disperse, alcune si salvano. È stupefacente l’immagine di ordine e di
pulizia, ma anche di eleganza e di luminosità. Il giardino mette
serenità. Lungo il vialone d’accesso si potrebbero immaginare le
passeggiate di ricchi borghesi. Sembra di vedere pareti, finestroni,
archi, scalinate, decori, volumi e vuoti di un’architettura di Otto
Wagner (che lavora quasi negli stessi anni al progetto del manicomio
di Vienna allo Steinhof e in particolare della chiesa di San Leopoldo),
Jugendstil per sanare una malattia, con l’aggiunta di qualcosa che
ricorda il neoclassico fiorentino o la grande arte rinascimentale
italiana, come vuole il progettista, Lodovico Braidotti che dispone ad
esempio all’esterno una decorazione di tondi in ceramica nello stile
di Andrea della Robbia.
Il misterioso M. Strobl inquadra anche i volti dei malati, volti di
severità ottocentesca, non ancora corrotti dalla restrizione, dalla
punizione, dalla sofferenza. I saloni della mensa sanno di generoso
rimedio alla povertà. Le sale di ricreazione paiono di un grande
albergo in una valle alpina. Le piante in ordine geometrico
scandiscono il paesaggio, che si apre ai malati trasferiti da San
Giusto due o tre alla volta: ufficialmente perché tutti possano
abituarsi al cambiamento con calma, senza traumi, probabilmente
perché un corteo di matti che attraversa la città secondo gli
amministratori non fa un bell’effetto, non è un bel vedere.
È dalla fine del Settecento che Trieste ospita un manicomio,
Conservatorio generale dei poveri. Che diventa, prima del nuovo
secolo, caserma. I «mentecatti» vengono trasferiti nell’ex
arcivescovado di San Giusto, diventato ospedale, che resta
manicomio fino al 1908, fino all’apertura del «magnifico frenocomio»,
che raccoglie malati di Trieste, di Gorizia, dell’Istria tutta, costruito
rapidamente con le tecniche più moderne, largo uso di calcestruzzo,
costruito per giunta nel segno dello spazio aperto, «open door»,
seguendo, come dice il podestà Ferdinando Pitteri nella sua
presentazione agli amministratori, «il consiglio di insistenti psichiatri
della nostra città e più di tutto il desiderio vivissimo, certamente
condiviso da quest’inclito Consiglio, di seguire sempre le idee di
progresso». Neppure il muro di divisione tra gli edifici si vorrebbe,
che si possa vagare liberamente da un angolo all’altro del parco, ma
poi si rimedia, ci si «arrende» (il termine usato nei documenti ufficiali
è: «arrendersi») alle reti di recinzione. Non un corpo unico,
comunque, come s’usa in Italia, un corpo monumentale dove
s’accentrano tutte le attività, ma seguendo l’insegnamento tedesco
tanti padiglioni, distribuiti in un parco di ventidue ettari. Quaranta
edifici ciascuno contraddistinto da una funzione precisa e dalla
malattia dei suoi ospiti: la direzione, la chiesa, il teatrino (dedicato
oggi a Franca e Franco Basaglia, con la bellissima cupola ad arco
ribassato, in calcestruzzo), gli orti, i laboratori, la lavanderia, la
cucina, l’obitorio, i suicidi, gli agitati, i semiagitati, i sudici, i paralitici, i
tranquilli, i paganti (nella villa), i semipaganti, i minori, uomini e
donne rigorosamente separati. Tanto ordine corrisponde al sapere
classificatorio della psichiatria, che della malattia continua a non
sapere nulla e non sapendo nulla definisce, sanziona, restringe,
occulta. Come insegna Basaglia, che cos’è la psichiatria resta con il
punto di domanda.
Il magnifico frenocomio può rivolgere così alla città e al mondo il
suo volto «decoroso»: il decoro è il centro della sua architettura ed è
la prima ambizione della ricca borghesia triestina, che insegue la
modernità o almeno l’apparenza della modernità e costruisce la sua
macchina modernissima e benevola. L’ospedale psichiatrico di San
Giovanni nasce dotato di ventisei caldaie delle officine Holt, di
sistema di ventilazione artificiale per il riscaldamento degli ambienti,
di macchinario Koerting per il lavaggio e asciugatura di 2200
chilogrammi di biancheria ogni dieci ore, di una cucina
Kuepfersbursch capace di preparare duecento chilogrammi alla volta
di pane, cinquecento litri di caffè all’ora e cinquecento chilogrammi di
minestra. Tutto questo per i miserabili di Trieste e Gorizia e
dell’Istria, alcolizzati delle campagne, operai sloveni dei cantieri e
della ferriera, bambini abbandonati, disgraziati di ogni genere: un
sottoproletariato che sopravvive nelle case sovraffollate, prive
d’acqua, in condizioni igieniche disperate. A Trieste, città asburgica,
porto dell’impero, che nel 1910 è una capitale di oltre duecentomila
abitanti. Una città ricca e colta.
Nel manicomio lavora lo psichiatra Edoardo Weiss, dalla fine della
prima guerra mondiale, dopo aver studiato a Vienna con Sigmund
Freud. La psicoanalisi la riserva alla sua pratica privata. Resta al
manicomio fino al 1927. Si dimette, rifiutando le norme previste dal
regime fascista per il pubblico impiego. Non si dà il conto,
statisticamente, degli ospiti sloveni del manicomio, minoranza etnica,
perseguitata negli anni del fascismo, privata delle proprie scuole,
costretta ai lavori più bassi, quindi subalterna, esclusa, marginale,
facile al destino di cadere in una cosiddetta malattia mentale.

79

A settembre 1971, appena entrato, Basaglia presenta il suo


programma. Rimettere in sesto, ripulire, riverniciare, cambiare i
mobili, quelli colorati costano quanto quelli di quel bianco latte che
invecchia in un crema scheggiato e rugginoso della vecchia corsia.
Rompere la vecchia divisione, suicidi, agitati, semiagitati, sudici,
paralitici, tranquilli, e invece riunire i malati, milleduecento malati, più
di ottocento in regime coatto, in comunità aperte, secondo le aree
geografiche di origine, per ridestare una memoria anche nel dialetto,
una memoria che consente uno scambio ma anche per ripristinare
un rapporto con il territorio, rimandare con il pensiero e con la
memoria riaccesa a luoghi della propria vita, ridare il senso di un
legame, cinque «zone» di duecento ricoverati ciascuna, organizzare
servizi nel territorio per il pronto intervento, per il servizio notturno,
per la riabilitazione.
Gli serve la prova di Gorizia. Così, anni dopo, ricorderà: «Quando
nel 1971 abbiamo iniziato a lavorare a Trieste, abbiamo proseguito
l’esperienza di Gorizia avendo in mente fin dall’inizio la prospettiva di
eliminare il manicomio e di sostituirlo con una organizzazione molto
più agile, per poter affrontare la malattia dove essa si produceva,
dove nasceva…» Il cambiamento di Gorizia si realizzerà a Trieste:
«Potremmo dire che siamo persone che trasformano in oro quello
che toccano, ma nella realtà il nostro lavoro è stato molto
semplice…» Chi sta ai margini deve ritrovare la comunità, la società,
la propria responsabilità: «La nostra scoperta nell’esperienza di
Gorizia era stata che la classe lavoratrice era destinata al manicomio
in caso di malattia. Pensammo allora che questa classe dovesse
avere responsabilità, potere nella gestione del problema della salute
e che questo potesse cambiare le cose».
Basaglia però sa d’aver bisogno d’aiuto: utilizzando la legge 431
del 1968 che prevede per ogni 125 malati un primario, un aiuto e
almeno un assistente, uno psicologo e un assistente sociale, riesce
ad assumere molti giovani, riesce ad assumere come ausiliari di
assistenza più di cento precari giornalieri. Il manicomio si anima:
giovani medici, giovani volontari da tutta Europa e persino dagli Stati
Uniti, giovani psichiatri senza esperienza se non di studio al loro
primo incontro con il manicomio. Giovani del Sessantotto, giovani
che avevano letto L’istituzione negata, profughi da una battaglia
politica e vicini ormai a una professione dentro le regole della
corporazione. Peppe Dell’Acqua è il testimone: «Basaglia ci aveva
inviato subito al “fronte”, nei reparti, con le nostre insicurezze, a
contatto immediato con i problemi… Passavamo giornate intere nei
padiglioni di San Giovanni. Basaglia cominciava la sua giornata alle
sette del mattino incontrando gli ispettori che riferivano, reparto per
reparto, sul movimento dei ricoverati, gli accolti e i dimessi, sul
personale, su eventuali incidenti. Aveva preteso che anche noi
cominciassimo la giornata con una riunione alle sette e mezzo del
mattino, subito dopo quella con gli ispettori. Durò poco. Fu costretto
a desistere per i nostri ostinati ritardi. Durò a lungo invece la riunione
che chiamammo “delle cinque”. Una riunione quotidiana al termine
della giornata di lavoro. Era difficile e spesso frustrante, specie per
quelli più giovani che poco riuscivano a dire. Si affrontavano i
problemi della giornata, i nuovi programmi terapeutici, le storie degli
internati che emergevano. Ma anche questioni generali di
orientamento politico, culturale, disciplinare. Di fronte all’impasse, ai
vicoli ciechi in cui ci cacciavamo, Basaglia riusciva sempre a
spostare i termini del problema, a farci guardare da un altro punto di
vista, a capovolgere le situazioni».
Intelligenza politica: affrontare i problemi, intuendo le vie d’uscita,
con moderazione verso traguardi che sembrano impossibili.
«Abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile», dice
spesso e scrive nei suoi libri.
Nel manicomio si discute, le porte si aprono davvero, si eliminano i
mezzi di contenzione, le terapie di shock e si continua su questa
strada nei mesi successivi, cercando, lentamente, di cancellare quel
passato di segregazione. Al gelido ordine del manicomio si
sostituisce la confusione: le feste, i balli, l’atelier di pittura, le prime
gite, il bar. Gli uomini non sono più divisi dalle donne. Dagli
appartamenti che venivano occupati dai funzionari dell’ospedale
psichiatrico si ricreano «case» per quanti, ormai dimessi, magari
lontani da parenti o amici, non sanno dove andare, continuano a
vivere nel comprensorio ospedaliero. La casa è un’anticamera prima
del ritorno alla vita fuori dal manicomio. Per loro l’amministrazione
provinciale del democristiano Michele Zanetti ha deciso un sussidio:
«Sussidi in denaro una tantum o mensili agli ex ricoverati che si
trovino disoccupato o privi di risorse per il proprio mantenimento e
allorquando l’erogazione del sussidio – in uno con gli altri interventi
terapeutici – sia valida per evitare un nuovo ricovero e l’aggravarsi
della malattia mentale». I malati lavorano. Non è questione di
ergoterapia, l’idea che costruire cavallini o spazzare le camerate
fosse un modo per passare il tempo e ripulire la mente. Il lavoro
restituisce dignità, è una cosa seria e va retribuito secondo un
principio sacrosanto, secondo le regole: a parità di mansione, parità
di salario. Nasce la Cooperativa dei lavoratori uniti dell’Ospedale
psichiatrico, con la creazione delle prime squadre di lavoro esterno,
sessanta persone all’inizio, con il loro contratto sindacale. La
cooperativa viene riconosciuta giuridicamente nel 1974. La
Cooperativa lavoratori uniti vince gli appalti (il primo per la pulizia in
una scuola). Il lavoro è una patente. La strada per riconoscere se
stessi passa anche attraverso un lavoro regolarmente retribuito. Il
lavoro rappresenta anche «l’ingresso dei malati nella città non solo
come consumatori, ma anche come produttori». Diventano
protagonisti nell’economia triestina, come sintetizza Giovanna Gallio,
non sono più soltanto degli assistiti. Altre cooperative seguono.
Cooperative per una ragione ideale: efficienza senza alienare i
mezzi di produzione. Siamo un po’ ideologici. Il capitale sono le
risorse umane, sono gli uomini, sono i matti (ma si ricorda una
sentenza della Corte di Cassazione del 1973 che boccia l’iscrizione
dei malati di mente alle liste di collocamento). Ciascuno diventa
padrone di se stesso, la responsabilità, anche verso se stessi, viene
restituita a chi ne è privato, intrappolato dall’istituzione psichiatrica.

80

Trieste sa poco di quanto accade dentro il suo manicomio. È


distratta. Le pagine di cronaca del «Piccolo» riferiscono della crisi
politica in comune, della crisi del porto, della crisi di un’azienda
metalmeccanica, del carnevale e del ballo dei giornalisti. Se parla
del manicomio, è speso per paventare chissà quale pericolo, per
allarmare, se un episodio si presta. Ma senza palese ostilità.
Registra e, registrando, suggerisce, muove i sospetti dei vicini di
casa, i «normali» di San Giovanni. La destra politica raccoglie
l’invito, a Trieste e persino a Roma. Ma «Il Piccolo» non ha molto da
scrivere, in genere, del suo manicomio e quanto sta accadendo là
dentro. Un’occasione si presenta, però.
Il 19 febbraio del 1972, con un titolo a quattro colonne, torna a
parlare di matti, non i suoi, quelli di Gorizia, perché una storia
processuale si chiude: «Nel tragico raptus di Miklus/ assoluzione per
il prof. Slavich». La cronaca dell’ultima udienza fino alla lettura della
sentenza è dettagliata. «Non ci dilungheremo sugli antefatti che
presero l’avvio dal tragico evento del 26 settembre 1968, quando
l’alienato Alberto Miklus uccise la moglie Milena Kristancic con un
colpo di martello alla testa». Il giornale ricorda che nell’istruttoria
rimane coinvolto anche Basaglia, che viene prosciolto, perché non è
a Gorizia in quei giorni, si esclude ogni responsabilità. Resta
l’accusa per Slavich. Il professor Reda, direttore dell’Istituto di
psichiatria all’Università di Roma, a domanda risponde: «Non si deve
ritenere scolasticamente noto che la schizofrenia possa portare di
per se stessa alla pericolosità». Dopo tredici ore di camera di
consiglio, il Tribunale decide: anche Slavich assolto per non aver
commesso il fatto. È mezzanotte. Segnala «Il Piccolo»: «La lettura
della sentenza è stata accolta con uno scrosciante applauso da
parte del pubblico che, nonostante l’ora tarda, ancora affollava
l’aula».
Il Procuratore generale della Repubblica di Trieste scrive a
Basaglia: apprezza gli sforzi, ma è perplesso e quindi raccomanda
che prima di avviare il malato alla comunità aperta vi siano «non solo
una severità critica di diagnosi, ma l’inderogabile certezza che non
nascano disturbi nella vita di relazione che abbiano a turbare l’ordine
pubblico o a ledere l’incolumità personale del malato medesimo e di
terzi».
Però certi casi si possono ripetere.
Un pazzo dimesso dal manicomio uccide a coltellate madre e
padre, si legge su «La Stampa» di Torino, Dimesso dal manicomio,
taglia la gola ai genitori titola il «Corriere» e Malato di mente uccide i
genitori sul «Giorno». «Il Piccolo» dedica alla vicenda due articoli:
Padre e madre massacrati da un folle a coltellate e Odiava le auto
rosse e le barche. Il 10 giugno 1972 Giordano Savarin, che dal 1970
andava avanti e indietro dal manicomio, ed era stato dimesso dal
reparto accettazione uomini quattro mesi prima, il 14 febbraio,
dimesso «in esperimento», come dice la legge del 1904, su richiesta
dei genitori, torna a casa ad Aquilinia di Muggia. Uccide il padre e la
madre, «colpendoli ripetutamente con un rudimentale coltello».
Savarin, «tarchiato, di muscolatura forte», un pazzo, un folle, «in slip
con gli occhi stravolti», «tutto intriso di sangue e con molte
ammaccature sul corpo», «si vedeva subito che era pericoloso». Poi
il furioso si calma: «Si è avuta l’impressione che attendesse
qualcuno che venisse a prenderlo. Non ha opposto resistenza. Si è
lasciato ammanettare e ricondurre allo psichiatrico». A Basaglia,
qualche mese dopo, viene recapitato l’avviso di reato. La vicenda ha
un clamore straordinario e la conclusione è semplice: tutta colpa di
quelle «porte aperte». Savarin viene prosciolto: lo riconoscono
affetto da incapacità assoluta di intendere e di volere al momento del
fatto nonché socialmente pericoloso. Destinato all’ospedale
psichiatrico giudiziario «per un tempo non inferiore ai dieci anni».
Basaglia viene rinviato a giudizio, insieme con il medico psichiatra
del Centro di igiene mentale, Edoardo De Michelini.
Si va a processo nel 1975, a Trieste, il 24 novembre. Basaglia
difende in aula le ragioni dell’apertura. Il corrispondente della
«Stampa» racconta così quella giornata: «Si è iniziato stamane al
tribunale di Trieste il processo contro il prof. Franco Basaglia,
direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale di Trieste e uno dei
promotori in Italia dell’ospedale aperto e contro il dott. Edoardo De
Michelini, medico preposto al centro di igiene mentale di Muggia
(Trieste), rinviati a giudizio per concorso in omicidio colposo con
Giordano Savarin, di 43 anni. Questi era ricoverato nell’ospedale
psichiatrico di Trieste dal quale fu dimesso, per esperimento, dopo
qualche tempo. Il 10 giugno 1972 Savarin in una crisi di follia che lo
colse nella sua abitazione di Aquilinia (Trieste), uccise il padre,
Giovanni di 68 anni, e la madre, Caterina Stefancich, di 66. Il
processo si è aperto con un lungo interrogatorio del prof. Basaglia, il
quale ha ribadito la validità del sistema psichiatrico di cure in
concorso con i familiari da lui adottato, rilevando che l’omicida aveva
avuto lunghi periodi di normalità e che era stato affidato alla famiglia
perché questa era in grado di poterlo seguire nelle cure prescritte.
L’accusa contesta, invece, ai due psichiatri il concorso in omicidio
per negligenza in quanto la madre dell’omicida era analfabeta e,
secondo il pubblico ministero, incapace di assolvere ad un compito
così delicato. Il prof. Basaglia ha sostenuto, invece, che il nucleo
familiare di Savarin, per quanto la madre fosse analfabeta, dava
affidamento di poter seguire Giordano Savarin, come in effetti era
avvenuto in precedenza per altri periodi di dimissioni del paziente
dall’ospedale psichiatrico. Rispondendo ad alcune domande del
presidente della corte, dott. Visalli, lo psichiatra ha quindi chiarito
che il giudizio sulla non pericolosità di Savarin era formulato sulla
base delle cartelle cliniche e che all’ospedale psichiatrico, dopo le
dimissioni del paziente, nessuno aveva segnalato i sintomi di sue
ricadute, evidenziate anche da una serie di atti clamorosi sui quali
nel corso del processo saranno sentiti alcuni testi. Il prof. Basaglia
ha detto che “ovviamente la struttura dell’ospedale psichiatrico non è
in grado di seguire nei dettagli il comportamento sociale degli
ammalati dimessi e che per questo gli psichiatri non possono che
affidarsi alle segnalazioni delle persone cui i malati sono dati in
affidamento”. Il processo, sul quale si appunta l’interesse del mondo
psichiatrico italiano per la figura dell’imputato principale, il prof.
Franco Basaglia, protagonista della riforma psichiatrica in Italia, e
che “assume grande rilievo non solo giudiziario – come ha rilevato in
una presa di posizione anche il Movimento di psichiatria democratica
in quanto è tutta l’ideologia della nuova psichiatria che sale sul
banco degli imputati” – si concluderà probabilmente domani».
Basaglia viene assolto: un’altra volta «il fatto non sussiste». Il dottor
De Michelini viene condannato a sedici mesi di reclusione. Viene
assolto pochi mesi dopo in appello per insufficienza di prove. La
Cassazione, nel 1978, va oltre: «il fatto non è preveduto dalla legge
come reato». La sentenza di primo grado, assolvendo Basaglia, si
interroga a proposito di prevedibilità, avviandosi lungo il labirinto che
dovrebbe condurre dalla prevedibilità all’imprevedibilità, affidandosi
alla scienza medica che nei progressi costanti dovrebbe giungere a
dedurre ogni atto da un peccato originale, uno dei tanti che
affliggono l’umanità. Concludendo che il comportamento di un
essere umano, sano o malato, non può essere ridotto a qualcosa
che si determina in modo meccanicistico. Non ci sono uomini
destinati a delinquere e altri rivolti al bene, non si danno marchi
incancellabili.
Però, come ci ricorda Peppe Dell’Acqua, «le prime porte aperte, le
prime uscite, le prime assemblee sono oscurate dalle furiose
polemiche, dalle denunce, dai processi, dalle critiche feroci che
vogliono rimarcare quanto sia utopico e soprattutto pericoloso il
disegno di Basaglia». Capita ovunque si tenti o si sia tentato in Italia
di cambiare qualcosa nella sorte «terapeutica» dei matti: a Gorizia, a
Perugia, a Parma, adesso a Trieste. Giornali locali, fogli della Curia,
prediche dal pulpito, dibattiti pubblici: sono tanti i modi per
complottare contro una novità, il cui significato ci si ostina a non
comprendere.
A Basaglia resta la lettera firmata da Jean-Paul Sartre, da Lelio
Basso e da altri, lettera di solidarietà e di protesta contro «le misure
di politica persecutoria che attaccano lo sforzo di una psichiatria
alternativa che vuol dare una risposta pratica e reale ai bisogni del
popolo che soffre».
Non c’è nulla da nascondere, ma i sospetti aleggiano. Li esprime
la commissione provinciale di vigilanza sui manicomi e sugli alienati,
che chiede chiarimenti sul presunto disagio del quartiere di San
Giovanni, sull’uscita e sull’entrata indiscriminata, sugli ospiti degenti,
sui volontari curanti, sulla promiscuità e sull’abuso nella
somministrazione di contraccettivi. Scandalo. Un altro avviso di reato
verrà recapitato a Basaglia pochi mesi dopo per «somministrazione
ad un indeterminato numero di pazienti di sostanze medicinali a
scopo anticoncezionale con violenza presunta tenuto conto dello
stato di malattia mentale delle pazienti». La commissione di vigilanza
torna e controlla, senza rilevare nel movimento della farmacia un
impiego di questi farmaci al di là del loro normale uso ospedaliero.
Basaglia viene prosciolto in istruttoria. Il professor Carlo Amigoni,
difensore con Giovanni Conso di Basaglia, spiega alla «Stampa»:
«Non esiste e non è mai esistita una distribuzione di contraccettivi
come se si trattasse di caramelle. Non ci sono state prescrizioni di
pillole né in gran quantità né come qualità di contraccettivi. Tutti
sanno che estrogeni e progestinici, come farmaci, hanno funzione di
regolatori del flusso mestruale e di certe turbe ovariche».

81

Mettere in fila il resto è una sequenza frenetica e generosa. Sembra


che lì dentro tutti abbiano fretta, sembra che lì dentro si debba fare
in poco tempo quanto è stato negato per troppo tempo. Le cronache
dal manicomio sembrano la rincorsa senza soste a un risarcimento
dopo anni di sofferenza e di giustizia violata, che pesano su tanti,
non solo sui malati. Ad esempio, ancora nel 1972, a luglio,
scioperano gli infermieri. In La libertà è terapeutica?, il libro di Maria
Grazia Giannichedda, Giovanna Gallio, Ota de Leonardis, che rifà la
storia di Trieste, lo sciopero viene raccontato in questo modo: «19
luglio. Gli infermieri di alcuni reparti chiudendo le porte aperte,
attuano una forma di protesta per la perdita di un assegno
integrativo annuale. Questo denaro una tantum era motivato come
assegno per l’aggiornamento professionale ed era ricavato dal fondo
regionale di contributi speciali per l’assistenza psichiatrica, utilizzati
ora per i borsisti. La protesta dura una mezza giornata e si conclude
con l’invito del direttore a riprendere il proprio posto di lavoro e la
solidarietà dei sanitari. Questo episodio resta significativo come
prima denuncia delle condizioni lavorative degli infermieri, ma anche
perché rappresentò una presa di coscienza di massa di che cosa
significavano l’apertura e la chiusura delle porte dei reparti, con
l’inizio di un confronto tra gli infermieri stessi sul contenuto del loro
lavoro».

82

In manicomio si contano tante feste. È una festa anche


l’inaugurazione del salone di bellezza, Vesna, come primavera,
proprio Vesna, la ragazza che in Slovenia, nei miti, rappresenta la
bellezza, la giovinezza, la freschezza. Qui si faranno i primi collettivi
femminili per imparare a discutere della condizione della donna
dentro e fuori l’ospedale.
Ma la prima vera grande indimenticabile festa è a novembre, dopo
tre serissime giornate di studio sui modelli di riforma dell’assistenza
psichiatrica in Europa (partecipa anche Robert Castel, il sociologo
francese allievo di Bourdieu e di Foucault). La Festa delle castagne
nasce con il lavoro, con l’aiuto del comitato di quartiere, annunciata
da un volantino (scritto in italiano e in sloveno) con i manifesti di Ugo
Guarino, l’artista di Trieste tornato da Milano che ha scelto due
stanzoni del padiglione Q per allestire il suo nuovo atelier. Si porta
appresso la sua arte, la sua passione, carta, colori, vernici, pastelli,
tutto a disposizione dei ricoverati, chi vuole disegnare, chi vuole
stare a guardare, chi vuole sedersi in disparte e riposare. Tutti
insieme diventano il «Collettivo d’arte Arcobaleno». I manifesti sono
all’inizio un foglio bianco con la scritta «festa delle castagne». I
disegni, le figure, le casette, i colori ce li mettono i ricoverati. La festa
non è la solita festa, è una grande festa e soprattutto è «fuori». «È
domenica. Circa seicento matti, la metà dei mille e duecento che
sono in manicomio, escono. Per poche ore ballano, cantano,
mangiano, fanno festa insieme agli abitanti del quartiere, nella
palestra del rione di San Giovanni, il rione del manicomio. “Tè son
de San Giovanni” si dice a Trieste per dire matto». È il ricordo di
Peppe Dell’Acqua, che non dimentica le polemiche in consiglio
comunale per il volantino bilingue, perché, naturalmente, tutto va
bene, tutto viene utilizzato per contestare quella breve libertà dei
matti e perché «Trieste è italiana». Ancora trascrivo poche righe di
Peppe Dell’Acqua a proposito degli artisti del San Giovanni e del
Collettivo Arcobaleno, perché la scena che si rappresenta è viva,
movimentata, coinvolge. Il protagonista è Boris, venticinque anni,
triestino di famiglia, di lingua e di cultura slovena, il padre che se n’è
andato a stare a Lubiana, la madre che è rimasta a Trieste, lui tra
quelli che vanno dentro e fuori: «Bruno Antoni continua a dipingere,
come nel vecchio atelier, le sue interminabili e belle nature morte.
Boris diventa subito amico di Ugo. Tra le sue aspirazioni c’è quella di
diventare artista, attore, musicista, pittore e vivere di questo. Quando
è in crisi dipinge tele su tele disordinatamente. È difficile stargli
dietro. Ci mette in ginocchio. Da molti mesi ormai è ricoverato nel
reparto accettazione uomini. Stravolge tutte le regole. Vuole tenere
con sé i colori, dipingere fino a tarda ora nel soggiorno mensa,
esporre nel corridoio del reparto. Al mattino arriva al laboratorio
Arcobaleno e mostra le tele a Ugo. Poi insieme improvvisano una
mostra nel soggiorno del Q. Ugo e Boris, aiutati da altri ricoverati,
trasportano nelle stanze del laboratorio un vecchio e pesante
pianoforte a coda abbandonato nella cantina del reparto. Un
accordatore lo rimette in sesto. Boris comincia ad esercitarsi
quotidianamente. Non ha mai studiato musica, suona a orecchio.
Sebastiano Medeot comincia a intagliare legno usando pezzi di
vecchie panche. Si scopre che Bice Demicoli, mai stata nel vecchio
atelier riservato agli uomini, è una pittrice sensibile e raffinata».
L’altra grande festa capita pochi mesi dopo, ancora di domenica, il
25 febbraio 1973. Dentro San Giovanni lavora anche un cavallo,
Marco Cavallo. Trascina la carretta che raccoglie le ceste della
biancheria sporca. Quando Marco Cavallo invecchia e la biancheria
la si può raccogliere con un furgoncino, vorrebbero trascinarlo al
macello. Ma qualcuno protesta, fa sapere che non si può trattare
così un vecchio amico e Marco Cavallo evita la sua triste fine,
venduto a un farmacista di nome Cohen che se lo porta in un paese
del Friuli a passare in pace i suoi ultimi giorni in un maneggio. Ma il
ricordo di Marco Cavallo è struggente. Vorrebbero regalargli un
fratello, intanto lo disegnano. Pensano di regalargli un fratello, una
scultura o un cavallo di cartapesta. Il reparto P, chiuso a novembre
(dieci dei suoi trenta ospiti sono andati a vivere nell’appartamento
lasciato libero dal direttore), diventa un cantiere. Si costruisce Marco
Cavallo. Malati e artisti lavorano di legno, carta e colori. «Venite. Vi
darò il reparto P appena svuotato, venite, fate quello che volete»,
dice Basaglia agli artisti (li incontra la sera di Natale del 1972 nella
sua casa veneziana). Ci sono Giuliano Scabia e, soprattutto, Vittorio
Basaglia. Giuliano Scabia, padovano, è uomo di teatro, un
innovatore, costruisce con le parole, con i suoni. Dice: «Ogni
persona ha dentro un bosco, pieno di figure dell’anima». Anche i
matti. Giuliano Scabia è anche «curatore della cronaca», cioè
narratore dell’invenzione, della costruzione, della nascita e della
liberazione di Marco Cavallo. Come si ritrova nel suo diario, Marco
Cavallo. Da un ospedale psichiatrico la vera storia che ha cambiato il
modo di essere del teatro e della cura. Vittorio Basaglia, l’artista,
pittore scultore incisore, è cugino di Franco. Allievo a Brera di Marino
Marini, Vittorio immagina le proporzioni, intreccia di legno lo
scheletro di Marco Cavallo, lo forma di cartapesta, magro, ossuto,
paziente e ribelle allo stesso tempo. Come gli «uomini», sculture che
popolano il suo monumento alla vittime della miniera a Ribolla.
Nessuno glielo avrà mai detto, però Marco Cavallo cresce come
un’opera d’arte. Nasce dopo un mese e mezzo, nasce azzurro,
colore della speranza (il colore piace a Franco Basaglia, ma sono i
malati a sceglierlo). «Marco Cavallo lotta per tutti gli esclusi», si
legge in un manifesto appeso ad un muro del padiglione d’arte, dove
i malati si incontrano, dipingono, protestano, insieme con gli amici di
fuori, giovani, possibili maestri, volontari. Nel pomeriggio – come
mette in scena per noi Giuliano Scabia – alcuni si ritrovano in
compagnia. Cucù ad esempio si unisce a Franco, un giovane del C.
Cucù fa dei riquadri e dei cerchi, Franco li riempie di colore, con
attenzione, stando attento a non versare troppa tempera, come
faceva fino a qualche giorno prima, con il risultato di bagnare troppo
il foglio e bucarlo. Durante la pittura Cucù stringe a sé Franco
affettuosamente, come per dargli sicurezza. Poi il gruppo si allarga e
nasce una storia astratta in molti quadri. Succede anche che
qualcuno, un malato, infuriato, entri e distrugga tutto: le
contraddizioni non si spengono nel laboratorio artistico. Non sono un
gioco quel colore gettato sulla carta, quei pupazzi costruiti di
cartone, paglia legno, tessuto, che paiono osservare la scena
dall’altro, le sagome di cartone di fiori, animali, uccelli, orsi, uomini
che danzano come le geometrie di Calder, appese al soffitto, il cielo
di un «Paradiso terrestre». Dipingere, colorare, disegnare,
semplicemente imbrattare, qualche volta distruggere, vengono da
decenni orchestrati dalla scienza come terapia: arteterapia. Oppure
vivono soltanto del desiderio di esprimersi, in qualunque modo, di chi
ne viene sempre impedito.
Rinchiuso nell’ex manicomio criminale di Volterra, Oreste
Fernando Nannetti, traccia con la fibbia di una cintura, sul muro
esterno di un reparto un enorme graffito: centocinquanta metri per
due di segni geometrici, di parole, di pensieri («amo il mio essere
materiale come me stesso»), di tabelle e planetari, un intrico
fittissimo, dentro il quale si ritrovano anche figure d’uomo e persino
l’autoritratto di profilo, cappello in testa, naso aquilino, pronunciato.
Nannetti, «colonnello astrale, ingegnere astronautico minerario,
scassinatore nucleare», quando comincia nel 1958 la sua scrittura,
sostiene di tramandare sotto ispirazione telepatica messaggi
provenienti dalle profondità del cosmo. Continua per dodici anni
(anche sul corrimano di pietra di una scala, per cento e otto metri,
scandendo la narrazione come se fosse di sequenze di una pellicola
cinematografica). Quel muro diventa un reperto archeologico o un
mistero fantascientifico: comunque voci di un altro mondo. Un film di
Studio Azzurro rifà la storia di Oreste Fernando Nannetti, detto
Nanof o Nof4, nato a Roma nel 1927, da padre ignoto, finito in
manicomio, nel 1948, prima al Santa Maria della Pietà a Roma e poi
a Volterra, perché riconosciuto infermo di mente, dopo una denuncia
per oltraggio a pubblico ufficiale. Nanof muore a Volterra nel 1994, il
muro è in disfacimento, la balaustra è stata smantellata.

83

Viene il giorno del viaggio inaugurale di Marco Cavallo. «Comincia il


viaggio per il mondo di Marco Cavallo», annuncia il manifesto. Marco
Cavallo vuole presentarsi alla città, uscendo dal manicomio, alto,
nobile, orgoglioso. Marco Cavallo non passa da una porta, troppo
alto lui, troppo fiero per inchinarsi. Va bene, s’arrangeranno, in
qualche modo fanno passare Marco Cavallo. In una bella foto,
Basaglia davanti a tutti si sforza, un po’ impacciato, d’abbattere il
battente in alto del cancello.
Davanti a fotografi, giornalisti, telecamere, il corteo si muove, in
testa Marco Cavallo, dietro matti, cittadini qualunque, infermieri,
dottori, in fila fino alla scuola elementare De Amicis nel rione San
Vito. Giuliano Scabia rivive così quel corteo: «Facciamo l’ultimo
tratto di discesa, dove ci sono i tornanti. Davanti alla grande entrata
c’è una fitta folla. Prima di partire verso San Giusto e San Vito tutti
aspettano Marco Cavallo, che arriva al cancello dell’Opp con dietro
un lungo corteo di macchine. Quando è mezzo dentro e mezzo fuori,
la testa in strada e la pancia ancora in manicomio, lo fermo e dico,
gridando: “Questo è un momento importante. Ora Marco Cavallo sta
per uscire. Con lui è tutto il manicomio che va fuori!” Mi sembra aver
parlato a nome di tutti. Quasi che tutti si aspettassero una
precisazione simbolica: perché questo varcare il cancello doveva
essere simbolico. Dopo, il cavallo esce lentamente, preceduto da
bandiere e tamburi. Lo agganciano al camion che deve trainare.
Quando si mette in moto si muovono lentamente anche tutte le auto,
coi degenti, i medici, gli infermieri, gli studenti, gli assistenti sociali, i
parenti e gli amici… In testa viene il camion che traina Marco
Cavallo, sul quale stanno in piedi e appollaiati Ljubo, Vittorio, Riad,
Stefano e altri. E una fila lunghissima di automobili cammina dietro il
cavallo azzurro, che scivola alla velocità di una corsa d’uomo, sotto i
muri tetri e le finestre e le serrande di una città domenicale
semivuota e un poco ostile. Nel traffico e sotto gli sguardi un po’
stupiti della gente che lo incontra, Marco Cavallo ha la
sfacciataggine dell’assurdo (ma un assurdo ben carico di significato),
che lo fa sembrare gigantesco, mentre non è alto neppure tre
metri…»
Giuliano Scabia, l’artista, il teatrante, è uno del corteo e un
cronista sicuro: «Trieste è tappezzata dei nostri manifesti, ma la
gente che ci guarda passare non sembra capire, come se il muro
che il cavallo ha dovuto rompere per uscire dal manicomio ce lo
portassimo addosso. In qualche momento abbiamo l’impressione di
attraversare una città morta. Forse per questo sentiamo il cavallo
azzurro tanto più vivo».
Una città morta, che non è morta e che sorprende il narratore:
«Poi sulla costiera della collina con tutto il mare davanti, San Giusto
ci appare piena di gente. Si intravedono le figurine nere e molti ci
vengono incontro, applaudono». Ancora, la gente. «Passiamo
ancora per strade deserte e finalmente arriviamo nel rione di S.Vito.
C’è tanta gente che ci aspetta: ci appare improvvisamente dopo una
curva». Scabia alterna le immagini: il vuoto che sa di solitudine e la
folla che osserva, si muove, partecipa, applaude. «Il grande cortile
col campo da pallacanestro brulica di degenti, abitanti del quartiere,
bambini. Entriamo nella palestra che è zeppa come un uovo. Ci sono
tutti…» La festa comincia: «Chi distingue i malati dai cittadini di
Trieste? Ci sono molti militari e operai, la gente semplice che forse
ha intuito il significato di questa nostra uscita. Quelli del quartiere
hanno organizzato tutto molto bene». Scabia fa il bilancio: «È stata
una festa popolare, partecipata, vissuta, piena di significato.
Avevamo un servizio d’ordine garantito dal Pci e uno da Lotta
Continua. Non ci sono stati incidenti. Quattrocento malati di due
ospedali psichiatrici hanno vissuto il loro incontro con la città da cui
sono banditi, in libertà e allegria, uniti dalla loro stessa liberazione: e
dalla gioia che l’esperienza vissuta insieme ha provocato in tutti».
Questa volta anche «Il Piccolo» se ne accorge: «Non è stata,
quella di ieri, una domenica come tutte le altre per gli ospiti
dell’ospedale psichiatrico: essi sono usciti fuori tutti assieme, per una
volta, a fare un’allegra manifestazione pubblica, chiamando i cittadini
a parteciparvi. La festa si è svolta all’insegna di un grande cavallo
azzurro di gesso e cartapesta, Marco Cavallo… Il corteo,
accompagnato da una banda, era composto da 350 ricoverati, ai
quali si erano uniti un centinaio di degenti provenienti dall’ospedale
psichiatrico di Gorizia…» Passa da San Giusto il corteo, sotto gli
occhi di centinaia di triestini, prima di far capo alla scuola De Amicis.
Il giornale ricorda che «nel corso della festa è stato distribuito uno
stampato, nel quale, a nome di infermieri, medici e artisti si
denunciano condizioni di precarietà dei servizi più elementari
all’interno dell’ospedale stesso e il disagio per il lavoro degli
infermieri stessi, nonché la “mancanza di qualsiasi prospettiva reale
(lavoro, case, mezzi di sussistenza) per la maggior parte dei
degenti”». Dice anche altro il volantino. Ad esempio che «Marco
Cavallo vuole essere simbolo di un processo di liberazione in atto
per tutti quelli che soffrono della vita manicomiale». Premessa
fondamentale, introduzione alla denuncia delle carenze dentro
l’ospedale, delle difficoltà che incontrano medici e infermieri, ma
soprattutto delle mancanze «fuori», perché è il «fuori» che vale e
che non si può conquistare se mancano case, lavoro, aiuti…, se non
ci sono condizioni per una vita di normalità e di responsabilità per gli
ex ricoverati, perché questo si vuole: che i ricoverati diventino «ex
ricoverati» e che l’ospedale psichiatrico vada incontro alla sua fine.
Due giorni dopo, in tutta Italia, sarà sciopero generale, come
annuncia l’Unità, per il lavoro, per i contratti, per il Mezzogiorno.

84

I ricoverati ancora escono sempre più spesso: vacanze a Ravenna,


vacanze a Grado, soggiorni (e siamo già nel 1975) a Villa Fulcis, una
villa del Settecento, dalle parti di Belluno, il «grande volo» (e siamo
nell’agosto del 1975), sopra Venezia, sulla costa adriatica, sull’Istria,
con discesa a Ronchi dei Legionari e festa successiva. Il «grande
volo» è uno spettacolo, clamoroso, sensazionale. Peppe Dell’Acqua
lo racconta: «Gennaro Imperatore, un assistente di volo, napoletano
era il più felice di tutti. Aveva vinto la scommessa. L’idea del volo, e
della scommessa, era nata qualche mese prima durante uno dei
tanti viaggi sulla tratta Trieste-Roma di Franco Basaglia. Gennaro,
che aveva letto di Gorizia e sapeva di Trieste, non perdeva un
minuto. Appena possibile si sedeva accanto a u’professore e un po’
sornione, con il suo parlare napoletano, che a Basaglia piaceva
molto, cercava di farsi raccontare le cose belle che accadevano a
Trieste. “Ah! Quante’ me piacesse’ – sospirava Gennaro, sentendosi
impotente di fronte a quei racconti per lui lontani e irrealizzabili – fare
qualche cosa con voi”. Basaglia gli dice che sono tante le cose che
può fare. Lo provoca. Far volare i matti per esempio. Gennaro
accetta la sfida e per mesi lavora per spiegare quella strana cosa ai
suoi superiori. Deve convincere i vertici Alitalia, il sindacato, le
associazioni dei piloti, i gestori dell’aereoporto di Ronchi». «Andiamo
a vedere il cielo», sta scritto nel manifesto che annuncia l’avventura
aerea. A Ronchi si fa festa. Organizza l’Anpi, l’Associazione
nazionale dei partigiani. Con Basaglia, c’è un ospite particolare, già
con la sua barba bianca, David Cooper, sudafricano, considerato
con Ronald Laing uno dei pionieri dell’antipsichiatria (è morto nel
1986). Uno dei suoi libri, La morte della famiglia, attacco diretto al
cuore delle istituzioni, è un classico in quegli anni.
Il volo lo ricorda un film di Silvano Agosti. Ma andrebbe ricordato
altro: la musica e il teatro, Ornette Coleman e Dario Fo, Gaslini e
Battiato, Gino Paoli e gli Area. E ancora la pittura (le mostre
«escono» in città) e i manifesti che presentano a Trieste in bella
grafica quanto sta accadendo dentro.
Non succede niente per caso. Franco Basaglia sa convincere
malati, artisti, musicisti, infermieri, cittadini qualsiasi, volontari di
mezzo mondo, riesce a mobilitarli attorno a quel progetto che si
realizza e si definisce di giorno in giorno, un progetto di liberazione.
San Giovanni comunica con Trieste e con tutto il mondo. Il
riconoscimento ufficiale è dell’Organizzazione mondiale della sanità:
dal 1973 Trieste diventa zona pilota nell’ambito della ricerca sulla
psichiatria (il progetto, previsione cinque anni, riguarda
l’elaborazione tra l’altro di programmi per la formazione degli
operatori socio-sanitari).
Basaglia intuisce con lucidità il valore della comunicazione. Lo
impara a Gorizia, continua a provarlo a Trieste, lo conferma a
Ernesto Venturini, nel Giardino dei gelsi: «Abbiamo usato tutti i
mezzi che il sistema ci dava: dalla radio alla televisione, da Marco
Cavallo al volo, alle infinite conferenze che siamo andati a fare un
po’ ovunque. Probabilmente abbiamo fatto molte cose che possono
essere considerate propaganda, atteggiamenti da vedette,
argomenti tanto cari ai nostri detrattori di destra e di sinistra». Sarà
propaganda, ma rompe l’isolamento, crea osmosi tra il disordine
della vita e l’inerzia del manicomio tradizionale, dà la parola a quanti
la parola se la sono vista sottrarre dalle leggi, dai regolamenti, dalla
psichiatria, più ancora che dalla malattia. Insieme la propaganda
muove un’opinione pubblica, crea correnti di utopia ma anche di
concretezza riformatrice, contro i molti nemici, che stanno in comune
a Trieste, nelle chiese, persino nei tribunali, che si vedono sottrarre
una sorta di primato, controllori sopra ogni cosa del destino dei
manicomi e dei loro ospiti.
Il 25 novembre 1973 Massimiliano Belsasso, medico primario al
San Giovanni, viene ferito da un ricoverato. Non se ne dimentica il
presidente del tribunale di Trieste, che un mese e mezzo dopo,
inaugurando l’anno giudiziario, dedica pagine e pagine al «Problema
degli alienati», nell’invito alla prudenza, al calcolo, alla misura. Il
passato fatica a morire. Frenare, sopire, sembra il motto, perché il
manicomio secondo alcuni dovrebbe restare un luogo di punizione e
di reclusione. Una prigione anche per chi nella vita non fa nulla di
male. I normali commettono più crimini dei malati.
7. UNA LEGGE E «OLTRE LA LEGGE»

85

I ricoverati diventano «ospiti». Non è questione di definizioni.


L’amministrazione provinciale decide il riconoscimento di una nuova
figura istituzionale. Ospite di giorno e di notte, di giorno o di notte.
Possono diventarlo tutti coloro che sono stati dimessi e che tuttavia
avvertono la necessità «di un’ulteriore protezione anche di tipo
alloggiativo e di assistenza e di tipo ospedaliero e ciò fino al loro
effettivo reinserimento nel tessuto sociale». Si fa un regolamento. La
commissione di vigilanza approva, il tribunale accoglie. Sembra
poco, ma è un passo avanti, riconoscimento che del manicomio si
può fare a meno poco alla volta, purché in mezzo vi sia un asilo
possibile. Accompagnare.
Il lavoro continua. Nel 1975, a gennaio, viene istituito il centro di
salute mentale di Aurisina, in una palazzina di tre piani in mezzo al
verde, soggiorno, sala riunioni, camere, cucina, ambulatorio. Ad
aprile aprono il centro di Muggia e quello di Barcola. È una strategia,
anche amministrativa, per avvicinare l’obiettivo dei matti senza
manicomio.

86

Nel giugno 1974 Basaglia torna a Gorizia per il primo convegno di


Psichiatria democratica, nata a dicembre del 1974, segno di una rete
che si va estendendo. Apre i lavori Gianfranco Minguzzi, professore
di psicologia clinica, all’università di Bologna, segretario provvisorio.
«Dice con soddisfazione che ormai la lotta anti istituzionale come
momento specifico di critica pratica al manicomio è estesa a tutte le
strutture emarginanti e oppressive, dalla scuola autoritaria agli istituti
per minori e quelli per minorati, agli stessi (nascenti) centri di igiene
mentale. Parla così delle iniziative di gestione alternativa,
intendendo con questo nome che definisce approssimativo, le
esperienze di assistenza extramanicomiale nel territorio, che si
rivelano ricche di interesse soprattutto per il loro aspetto politico in
quanto pongono in modo palese la questione del collegamento con
le altre forme di intervento sociale e sanitario». Il resoconto è di
Peppe Dell’Acqua. Minguzzi mette in guardia: il rischio è
l’enfatizzazione di aspetti tecnicistici, che potrebbero neutralizzare il
senso politico, culturale e sociale di un’impresa, riducendola a
organizzazione burocratica, il rischio che la critica dell’ideologia
diventa essa stessa ideologia, rifiuto incondizionato della scienza,
affermazione di posizioni «prati cistiche», di atteggiamenti più vicini
allo spiritualismo che al materialismo.
Ad ascoltare ci sono Michele Zanetti, il presidente della provincia
di Trieste, politici (come Sergio Scarpa per il Pci), sindacalisti
(Antonio Fontana della Fiom), Marco Ramat di Magistratura
democratica. Al convegno giunge anche una lettera di Lelio Basso, il
vecchio socialista presidente del Tribunale Russel, e di Vladimir
Dedijer, vicepresidente. Arriva il messaggio di Sartre. Interviene
Basaglia, «il più famoso psichiatra italiano, l’uomo che per primo in
Italia ha messo in atto la teoria del manicomio aperto e del sistema
di cura comunitario», come lo presenta l’inviato della «Stampa».
Basaglia racconta al giornalista dei suoi «ospiti» a Trieste: «Quella
dell’ospite è una figura nuova… l’ospite ha un rapporto con
l’ospedale come lo potrebbe avere con un albergo e riceve
assistenza da noi, è seguito nella sua cura». «Basaglia – riferisce
“La Stampa” – è più che mai alle prese con la giustizia, perché la
legge che regola il problema della salute mentale è vecchia di
settant’anni e male si addice ai suoi metodi moderni. Continua a
ricevere avvisi di reato per cose commesse da chi è stato rilasciato
dall’ospedale o ne è uscito temporaneamente». Basaglia di avvisi di
reato ne riceve almeno una dozzina. Il giornale sostiene che quelli di
Psichiatria democratica sono molto politicizzati. Poi riassume la
relazione introduttiva di Basaglia: «Uno Stato borghese non può che
progettare leggi e istituzioni che, rispondendo formalmente ai bisogni
di tutti (il manicomio è il luogo di cura per tutti i cittadini bisognosi
d’assistenza psichiatrica), rispondono di fatto alla ragion di Stato,
cioè alla logica economica su cui lo Stato si fonda e agli interessi
della classe che lo rappresenta (solo la classe subalterna finisce
nelle maglie delle istituzioni pubbliche e sotto il rigore della legge e
del controllo). Le dichiarazioni di principio e l’universalità dei
provvedimenti naufragano nello scontro con la pratica sociale, che
sostanzialmente consiste nella divisione in classi e nella
sopraffazione di una classe sull’altra. Tutto ciò che nasce all’interno
di questa logica si traduce così automaticamente in uno strumento di
repressione e di dominio, che passa anche attraverso la presa in
carico, da parte dei tecnici specialisti, di un solo aspetto dei
problemi, lasciando sotto silenzio l’altro».
Prende la parola anche Vincenzo Accattatis di Magistratura
Democratica. Torna al 1904, l’anno della legge psichiatrica. Un sunto
di storia italiana: formazione dello Stato industriale, privatizzazione
del capitale sociale, accumulazione primitiva, poi crisi, emigrazione,
fame per chi resta e quindi stretta autoritaria del governo, restrizione
della libertà anche per chi, per conseguenza proprio delle privazioni
subite, si ritrova tra i «malati mentali». Settant’anni dopo si danno la
necessità e la possibilità di mutare rotta. Accattatis sa che non è
facile. Lo prova di persona: un anno prima finisce in punizione, cioè
viene sottoposto a un provvedimento disciplinare, perché, giudice di
sorveglianza nel carcere di Pisa, concede licenze di lavoro ai
detenuti oltre i limiti allora consentiti (Incolpato: aveva concesso
troppe licenze di lavoro, denuncia «Il Giorno» del 6 marzo 1973). Già
la presenza di un’associazione di magistrati dice di una riflessione
parallela a quella che ha guidato le prove di Gorizia e Trieste. Un
anno prima, in un documento pubblico, Magistratura democratica
scrive: «L’internamento manicomiale e l’internamento carcerario
sono risposta univoca e aspecifica ad esperienze umane che
esistono e che hanno origini e dovrebbero avere risposte diverse: la
malattia e la delinquenza. Queste esperienze umane, tuttavia, nel
nostro sistema sociale, non possono essere affrontate come tali,
perché esse sono annullate in una gestione repressiva che,
forzandole in un’unica modalità di organizzazione istituzionale, ne
uniforma il destino sociale. L’univocità della risposta è espressione
dell’univocità di giudizio che definisce sia lo stato di malattia che
quello di delinquenza solo in rapporto all’organizzazione sociale:
cioè come trasmissione dei limiti di norma definiti…»
Tra una relazione e l’altra, come ricorda il giornale torinese, un
«gruppo di base» informa sullo stato dell’ospedale psichiatrico Pietro
Pisani di Palermo e proietta una serie di diapositive, immagini
all’interno del vecchio, cadente, fatiscente edificio: 2300 ricoverati,
trentaquattro medici, ottocento infermieri nei quattro turni, sporcizia,
umidità, sovraffollamento, inadeguatezza dei servizi, carenza nel
vitto, malati sdraiati tra i rifiuti. L’ospedale è stato dichiarato inagibile
dalle autorità sanitarie della regione. Tutto procede come prima.
Questo, il 1974, potrebbe essere un anno di svolta: si vota per il
divorzio, a metà maggio, ed è un voto che rivela il volto nuovo nel
Paese. Una svolta nella cultura politica del Paese? La risposta a una
parte agli ultimi tragici bagliori della strategia della tensione (la
bomba di piazza della Loggia e l’Italicus), all’insorgere della violenza
brigatista? Una risposta alla crisi economica e alla caduta di autorità
dei partiti di governo, all’invadenza della P2? O semplicemente,
come argomenta Pasolini sul «Corriere», un altro tratto di quella
mutazione antropologica che coinvolge i ceti medi, pronti ad
abbandonare quei loro valori «sanfedisti e clericali», per indossare i
panni dell’edonismo, del consumismo, della «tolleranza modernistica
di tipo americano»? «È stato lo stesso potere – attraverso la
sviluppo della produzione di beni superflui, l’imposizione della
smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto in maniera
imponente la televisione) – a creare tali valori, gettando a mare
cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa che ne era il
simbolo».
In un decennio, dal 1970, si succedono dodici governi, a guida
democristiana. Si scambiano il posto Rumor, Andreotti, Emilio
Colombo, Aldo Moro, Cossiga.
La vittoria dei «no» all’abrogazione della legge sul divorzio anticipa
la prima grande vittoria elettorale del Pci, alle amministrative del
1975. Leggiamo ancora Pasolini: «Il Partito comunista italiano è un
paese pulito in un paese sporco, un paese disonesto, un paese
intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante,
un paese umanistico in un paese consumistico». Pasolini va oltre,
pensa al «compromesso», via d’uscita dalla crisi: «…compromesso
che sarebbe però in realtà un’alleanza tra due Stati confinanti, o tra
due Stati incastrati uno nell’altro». Così in un celeberrimo articolo per
il «Corriere della Sera» (il 14 novembre 1974), quello che il
quotidiano titola: Che cos’è questo golpe e che comincia: «Io so. Io
so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che
in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del
potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12
dicembre 1969…»
Rumor firma il trattato di Osimo, nel 1975. Conta per Trieste, città
di confine, città ricca di molte lingue, di molte culture, luogo di
passaggio. Trieste fa proprie le contraddizioni della frontiera, che è
ponte ma anche barriera, luogo in cui è più facile incontrare l’altro,
ma pure rifiutarlo e ignorarlo, vivace apertura e gretta chiusura, dice
una volta Claudio Magris. Trieste conosce la guerra, le divisioni, le
vendette, conosce i muri di confine e quelli dell’indifferenza. Le
cronache del «Piccolo» testimoniano soprattutto di questi ultimi: in
una città apparentemente pacificata, invecchiata e impoverita,
timorosa e sommessamente intollerante: i matti provocano qualche
fastidio, se vanno finalmente a vivere in un alloggio popolare assistiti
da un’équipe medica «suscitano lamentele e proteste da parte degli
abitanti delle case circostanti». Cronaca del «Piccolo»: «Più volte è
accaduto che ospiti dell’alloggio popolare venissero ricoverati a
causa delle loro particolari condizioni all’Ospedale psichiatrico e
nemmeno un’ora dopo facessero ritorno in via Gozzi. Con la
creazione del servizio di salute mentale, per ospitare il quale l’Ente
comunale di assistenza, ha messo a disposizione un’ala del secondo
piano dell’alloggio popolare, quest’ultimo ha poi incominciato a
essere frequentato anche da persone estranee all’alloggio stesso,
che si rivolgevano al servizio per cure e prestazioni ambulatoriali». E
quindi ecco che la «coabitazione» di tante attività e di tante persone
facenti capo a organismi ed enti diversi ha finito con il creare non
pochi disagi e una situazione «affatto chiara».
87

Altra politica. A Trieste, dopo la metà degli anni Settanta, alcune


alleanze vacillano. La crisi al Comune sembra trascinare quella in
Provincia. Michele Zanetti teme per l’avvenire. Non sa quali equilibri
tra i partiti si possano realizzare, chi verrà dopo di lui e come gestirà
quel caso difficile e non ancora risolto, che il manicomio
rappresenta.
Siamo all’inizio del 1977. Il 24 gennaio il presidente della Provincia
convoca una conferenza stampa per il pomeriggio. Accanto a lui
nella sala del consiglio provinciale siede Franco Basaglia. Ecco la
notizia: il manicomio chiude, non esisterà più. Lo dice Zanetti, lo
spiega Basaglia.
Peppe Dell’Acqua rappresenta così quel giorno: «L’annuncio
coglie tutti noi, l’intera équipe di sorpresa. La cosa era nell’aria ma
non se ne era parlato nelle riunioni delle cinque… Arrivo alla
conferenza che Zanetti ha già cominciato a parlare. Posti in piedi
sulle scalinate riservate al pubblico. Si sente molto male, in quel
punto ci sono molte persone che mormorano, si parlano, si cercano.
Sono circondato da tanti che conosco. Alcuni sono infermieri, quelli
che ancora lavorano a San Giovanni e vogliono capire se
veramente, ora, dovranno uscire; altri sono sindacalisti che
mugugnano su partecipazione, accordi, democrazia sindacale,
rischi, monetizzazione e altro. Molti sono familiari che si interrogano
impauriti e preoccupati sul destino dei figli, delle mogli, dei mariti, dei
fratelli, delle sorelle, dei nonni. Il papà di Luciano è semplicemente
arrabbiato… Vuole che io comprenda bene la gravità delle
affermazioni di Basaglia, l’impossibilità, l’inconsistenza del suo
progetto». Farebbe di tutto per Luciano, ma a casa no. Peppe
Dell’Acqua spiega che dichiarare chiuso il manicomio non vuol dire
mandare tutti a casa. Gli ricorda l’esistenza del Centro di salute
mentale, a Barcola, dove Luciano passa molte ore, alcune,
«piacevolmente», con la madre. È un passo che cambia il quadro.
Altri parenti si fanno attorno. Vogliono sapere, interrogano il giovane
psichiatra. «Alla fine il papà di Luciano all’improvviso mi saluta senza
riuscire più a dire parola, piange a dirotto, mi abbraccia e scappa
via.»
Peppe Dell’Acqua trascrive alcune frasi di Basaglia: «Qui a Trieste
abbiamo attaccato a fondo quello che è il problema della logica
manicomiale; secondo noi non si può fare assistenza psichiatrica,
non si può assistere la devianza psichica se non si elimina il punto…
il bubbone nel quale c’è la repressione della devianza, la
ghettizzazione dell’emarginazione sociale con la scusa della
malattia. Noi abbiamo attaccato a fondo tutto questo e diciamo che
oggi il manicomio di Trieste può considerarsi finito. Però della fine
dell’ospedale si può parlare solo quando c’è in atto una situazione
alternativa. Infatti il superamento… l’abbandono progressivo
dell’ospedale è avvenuto soltanto quando si è cominciato un tipo di
assistenza psichiatrica esterna rappresentata dai Centri». Al San
Giovanni restano ancora 123 ricoverati, di cui un’ottantina di
volontari, più quattrocento ospiti, quelli che vanno e vengono.
«L’Unità» il giorno dopo si chiede: «Dove andranno a finire i malati di
mente? La strategia in atto a Trieste punta a un decentramento
territoriale, articolato in presidi strettamente collegati alla realtà
sociale e democratica dei quartieri. L’avvio dell’operazione è stato ed
è assai precario. I primi centri si sono scontrati da un lato con le
diffuse carenze di strutture assistenziali, dall’altro con presunte
resistenze burocratiche, funzionali alle preoccupazioni
dell’establishment politico e scientifico». Insomma, come sempre, c’è
chi frena: sono gli stessi compagni di partito del presidente Zanetti,
accusa «l’Unità». Difesa di privilegi, di rendite accademiche.
Sul «Piccolo» un trafiletto annuncia la formalizzazione delle
dimissioni della giunta monocolore Dc della Provincia. L’apertura di
pagina è per il «magnifico frenocomio». «Non saranno manicomietti,
bensì nuclei di vita sociale», titolo accomodante. Che viene chiarito
nel corpo dell’articolo: i centri non vogliono essere manicomietti, cioè
«psichiatrici in miniatura», riservati ai soli malati di mente, sono
infatti aperti a tutti gli ex ricoverati dell’Opp, agli anziani soli, a chi
non ha una casa dove passare la notte; non si tratta di specifica
assistenza psichiatrica, ma di accogliere senza formalità tutte quelle
persone accomunate dal fattore «emarginazione». Si va presto ad
un esempio: sul centro di Roiano gravitano materialmente più di
cento persone che fanno vita in comune, sono seguite dal personale
specializzato, mangiano e talvolta dormono e quanto ai «gruppi
appartamento», che ospitano in una «comunità chiusa e
autosufficiente» ex ricoverati (si va dalle due alle dieci persone),
tredici di questi sono già operanti, alcuni sono stati sistemati in
palazzine in disarmo dell’Opp, altri in abitazioni comuni, prese in
affitto sul libero mercato dalla provincia. «L’ospedale di San Giovanni
si sta intanto svuotando… resta in funzione il solo reparto
accettazione dove si trovano attualmente 52 ospiti coatti e 71
volontari.» Poi ci sono gli altri, cinquecento persone che non hanno
proprio bisogno di assistenza, come riconosce il quotidiano, ma che
non sanno dove andare: niente lavoro, niente alloggio.
Si dice ancora della difficoltà dell’amministrazione, ma chi provoca
la crisi, Pci e Psi, assicura che «il problema dell’assistenza
psichiatrica esula dalle contestazioni e dalle critiche che hanno
innestato la crisi». Basaglia dichiara che non si presta a
strumentalizzazioni. Zanetti conferma che si procede in modo
concorde e comunque che non si chiude subito, ma lungo la strada
intrapresa per una «deistituzionalizzazione» fondata su attività
alternative decentrate, sui gruppi appartamento, sul sostegno al
lavoro, sui centri di salute mentale.
Ancora «La Stampa» di Torino presenta un resoconto dell’inviato,
Franco Giliberto, sdegnato per quanto succede altrove,
appassionato sostenitore dell’impresa triestina, critico rispetto
all’indifferenza del pubblico e della politica. Comincia citando una
notizia di qualche giorno prima: un malato di mente muore bruciato,
legato a un letto di manicomio a Firenze. Quotidiani e radio ne
danno notizia – deve ricordarci Giliberto – ma non succede niente.
Continua: «Non ci sono aggettivi che valgano per le nefandezze dei
manicomi di Palermo e di Bisceglie – di cui hanno parlato le
cronache recentemente – e non ci sono elogi o apprezzamenti che
valgano per l’annuncio di un programma di eliminazione del
manicomio. L’opinione pubblica e chi da anni segue da vicino come
cronista le vicende dell’assistenza, si fa per dire, psichiatrica in Italia
ha la nausea delle denunce di atrocità commesse sui malati e dei
discorsi programmatici di chi con buona volontà e impegno pure
lavora per mutare le cose. La soglia del disinteresse collettivo è
quasi raggiunta. Ma fin che c’è fiato, perché non tentare di
recuperare all’interesse almeno dei politici e del legislatore il
problema della buona, reale assistenza esterna per i malati di
mente? E perché non tentare di parlare alla nuora (che sta a Trieste
ed è rappresentata da tutti i partiti locali) perché la suocera romana
intenda? Sta forse qui il senso della Conferenza stampa nazionale
convocata stamane da Michele Zanetti, presidente della Provincia
triestina, e da Franco Basaglia, direttore del manicomio locale. Su un
piccolo vizio di forma, su un’anomalia di nascita, si può sorvolare: la
giunta democristiana di Zanetti otto giorni fa ha avuto la sfiducia di
comunisti e socialisti, il presidente è dimissionario. Perciò a rigore il
presidente avrebbe potuto fare la storia passata del suo sodalizio
quinquennale con Basaglia, dire delle sue realizzazioni, ma non
ipotecare il futuro. Sulla forzatura si può chiudere un occhio se ha,
come sembra, il valore di motivato auspicio. Il manicomio – proclama
Zanetti – si chiuderà a settembre. Ora tutti conoscono il lavoro fatto
da Basaglia prima a Gorizia e poi a Trieste. Poche persone sanno
come lui orchestrare e polarizzare l’attenzione nazionale e in certa
misura internazionale sul proprio operato e su quello dell’équipe che
dirige. Non è fama usurpata, almeno per le realizzazioni sostanziali.
Ha già distrutto il manicomio-lager, ha dimesso centinaia di malati,
ha dato la dimostrazione che i suoi pazienti o ex pazienti possono
essere assistiti fuori dalle mura, senza la palla al piede delle lesioni
che l’Istituzione segregante o “umanizzata” comunque produce».
L’ultimo atto amministrativo del presidente provinciale è una
delibera che adegua l’organizzazione dei servizi di assistenza
psichiatrica alla decisione della chiusura. Altro passo: il pronto
soccorso dell’ospedale generale sarà pronto soccorso, ventiquattro
ore, anche per psichiatria, per impedire i ricoveri coatti, per
intervenire nell’emergenza, per accompagnare chi ha bisogno non
più allo psichiatrico ma nei centri di salute mentale.
A fine febbraio si insedia la nuova giunta di minoranza, Pci e Psi
insieme. Cerca di ricostruire alleanze attorno a questa storia di matti
e manicomi. Opera per il reinserimento degli ex degenti, case
alloggio, sussidi, lavoro, progetta la «riconversione» del San
Giovanni…
La riforma di Trieste continua lungo la sua strada. Il manicomio ha
la sua data finale: metà settembre 1977.
88

Ne danno avviso a Milano, per Sant’Ambrogio, «prima» della Scala,


con violentissima contestazione. Estremisti, proletari, ultrà di sinistra,
autonomi… Uno strano movimento di strani studenti, scrivono Luigi
Manconi e Marino Sinibaldi (su «Ombre rosse», nel marzo 1977).
Occupazioni nelle principali università. Anche Trieste conosce la sua
occupazione. Scontri a Roma. Enrico Berlinguer, in un discorso,
durante una manifestazione a Roma, insieme con Luis Corvalan,
segretario del partito comunista cileno (pochi mesi dopo il colpo di
stato di Pinochet) cita il «diciannovismo», il biennio 1919-1920,
«quando l’Italia cominciò a essere investita da un magma fangoso
nel quale confluivano – sotto il marchio dell’irrazionalità – correnti e
velleità contraddittorie: ribellismo, anarchismo piccolo borghese,
livore anti operaio e anti sindacale, demagogia populista e violenza
eversiva contro le istituzioni. Le forze reazionarie riuscirono poi
attraverso il fascismo a coagulare e a incanalare questo magma, che
peraltro distorceva e stravolgeva anche esigenze oggettive e
aspirazioni, pur confuse, di ordine, di giustizia, di cambiamento»
(«l’Unità» del 26 febbraio 1977).
Sono gli stessi autonomi che invadono Bologna, che a Roma
danno l’assalto al palco di Luciano Lama, che non risparmiano
Basaglia e il terzo incontro del Réseau internazionale di alternativa
alla psichiatria. Titolo completo: Il circuito del controllo, dal
manicomio al decentramento psichiatrico. Ideologia e pratica. Il
Réseau, la rete, nasce a Bruxelles nel 1975. A Trieste, sotto un
tendone da circo eretto dentro il parco di San Giovanni, raccoglie
due o tremila persone. «Via via la nuova psichiatria» gridano gli
autonomi. Gridano anche «Vogliamo Basaglia direttore all’Asinara».
Chiedono buoni pasto a prezzo politico. «Il Piccolo» riferisce
puntuale, molto spazio, cronaca, note maliziose. Nelle «sedi
decentrate, in cui si è articolato il convegno» si discute, si
confrontano esperienze. Gli autonomi, una sessantina di giovani,
occupano la segreteria. Si definiscono «il movimento«, dicono di
rivendicare uno spazio «per discutere non solo di psichiatria
alternativa, ma anche di altri problemi che vanno oltre
all’emarginazione sociale – tema che rientrerebbe comunque nella
materia psichiatrica– per approdare a questioni come quella
dell’occupazione degli appartamenti sfitti a Trieste…» (da «Il
Piccolo» del 17 settembre). Un convegno «imbizzarrito». Però,
secondo il giornale, al cinema Verdi di Muggia, ad esempio, «c’è
stato un approfondito e serio scambio di esperienze – circa
l’attuazione pratica della lotta alle strutture repressive manicomiali –
fra i pubblici amministratori di varie città d’Italia e quelli di Trieste».
Sotto il tendone la tensione è alta. Ecco il titolo: «Basaglia
coinvolto anche fisicamente nel convulso confronto sulla psichiatria.
Costretto ad abbandonare la sala, sotto le spinte, si è fratturato una
costola. Tuttavia positivo il suo giudizio anche sugli oppositori».
L’assessore triestino Panizon commenta: «Tirando le somme, il
convegno va valutato positivamente. Esso ha peraltro consentito ai
pubblici amministratori un proficuo scambio di esperienze…»
Basaglia vede ciò che di buono quei giorni esprimono: «Le
quattromila persone che hanno partecipato a questo incontro hanno
comunque dimostrato il bisogno profondo di aggregazione, di
confronto, di scambio, di rapporto. Il clima non è stato tra i più distesi
e i più trionfalistici, ma pensare che questa tendopoli di giovani
provenienti da ogni parte si sia potuta installare nello spazio lasciato
libero dal manicomio smantellato e che possa coesistere coi suoi
resti è già il segno di una conquista e di una sfida che ogni giorno si
rinnova» (ancora su «Il Piccolo», due giorni dopo). Non esita
Basaglia a respingere la pretesa di alcuni (gli autonomi) di
generalizzare un confronto voluto sulle pratiche di Trieste e di altri
paesi: rischio di confusione verbale, di ideologia, ancora una volta. Il
«movimento» invita Basaglia al convegno sulla repressione, di lì a
pochi giorni a Bologna. Una provocazione? «Qui siamo già a
Bologna – risponde – questo congresso comincia nel momento in cui
finisce…»
Ancora Franco Giliberto, inviato della «Stampa», dialoga con
Basaglia dopo l’incidente: «Ti fa male la costola? “Non tanto. E poi
oggi c’è altro a cui pensare che a un po’ di dolore fisico”. Ma ti hanno
malmenato deliberatamente dandoti spintoni e pugni? Volevano
proprio colpire te, Franco Basaglia, numero uno del convegno
internazionale sulle alternative alla psichiatria? “Assolutamente no. È
successo per la calca, nel teatro dell’ospedale psichiatrico che può
tenere solo settecento persone. Erano tutti stretti contro il palco. Una
naturale compressione fra cinquanta corpi e uno stipite, e trac:
eccomi con una costola contusa”. Continui a dire che il convegno è
stato un successo? “Usiamo codici diversi di valutazione. So che
non la pensi come me, ma devo ripetere che sì, è stato un convegno
enorme, straordinario. Anche se so che la confusione, le grida, le
occupazioni, gli insulti, il disordine possono far pensare a un
fallimento, secondo un certo codice che tiene in gran conto la
perfezione organizzativa”. Come? Bisognerebbe rifuggire anche
dalla perfezione organizzativa che per un convegno con quattromila
partecipanti può essere l’elemento indispensabile a garantire
chiarezza formale e possibilità di capire e analizzare ogni voce, del
coro e dei solisti? “Non dico che bisogna rifuggire
dall’organizzazione, ma che il nostro convegno sulle alternative alla
psichiatria non aveva voluto essere canonico, paludato, tradizionale.
Io giudico straordinario, prima di tutto, che quattromila persone –
operatori psichiatrici, ex malati, operatori sociali, studenti, tecnici,
giovani appartenenti a varie associazioni e movimenti – siano venuti
a Trieste con in corpo una carica eccezionale. E in secondo luogo mi
sembra importante che non sia stato impedito a nessuno di parlare o
gridare, protestare o applaudire. In un quadro di autogestione, il
convegno ha anche lasciato spazio a voci prepotenti, confuse,
assurde. Ma è ascoltando tutti, accettando il dialogo con tutti, anche
con chi in apparenza si presenta come scalmanato, che si assolve
alla funzione del confronto globale: verifica necessaria per chi, come
noi, vuole continuare a lavorare dentro la realtà”. Dentro la realtà,
ma senza lasciarsi prender la mano dagli impulsi di violenza o di
istigazione e strumentalizzazione della violenza? “L’ho già detto, ciò
che conta è il dialogo, qualunque tono o accento, anche acutissimo,
possa avere. Dopo due ore dall’incidente alla costola, domenica
pomeriggio sono ritornato nel teatro dell’ospedale a parlare con
l’assemblea. Non posso rinunciare e non rinuncerò mai al confronto”.
Può esser definito straordinario Franco Basaglia, più che il convegno
triestino. C’è in queste sue parole una sincerità tanto intima, una
convinzione così radicata, che diventa ingiusto e offensivo, nei suoi
confronti, avanzare anche il più piccolo dubbio che sotto sotto giochi
al demagogo. Una realtà inconfutabile, durante i sei giorni del
convegno sulle alternative alla psichiatria, è stata troppo facilmente
dimenticata. L’anfitrione non era un filosofo, un intellettuale alla
moda, un partito delle teorizzazioni, ma un uomo che da quindici
anni si sta battendo con i fatti, più che con le parole, contro
l’emarginazione e la tortura dei propri simili…»
Basaglia non polemizza. Riconosce le difficoltà, cerca comunque
di cogliere (ad esempio, nella partecipazione) segnali positivi, cerca
solidarietà non per sé, ma per la causa che con animosità e lucidità
sostiene. Sa di un’opinione pubblica avversa e non vuole offrire
argomenti, non fa drammi sulle ragioni del disagio vissuto e neppure
per una costola malandata: colpa dello stipite.

89

Una lettera al «Piccolo», intitolata Scienza e demagogia, firmata


«B.P.», nei giorni del Réseau. Eccola: «In questi giorni si parla tanto
di psichiatria. In particolare si parla di “psichiatria alternativa”, il che
lascia supporre che “la scienza medica che studia le malattie
mentali” dovrà trovare delle alternative non scientifiche per cui non
occorrerà studiarle. E avremo medici psichiatri alternativi. Fin qui
niente di male: che se la vedano i loro pazienti. Quel che non
capisco è quando si parla di “psichiatria democratica”. Esiste forse
anche la “psichiatria antidemocratica” o la “psichiatria dittatoriale”?
Temo che andando avanti così (o indietro?) assisteremo presto a
qualche convegno di studi “sullo spostamento dell’appendicite da
destra a sinistra”, ove si parlerà di “suture alternative”, “resezioni
democratiche”, “amputazioni progressiste”, “laparatoplastiche
antifasciste”, “trapianti proletari”. E che Dio ce la mandi buona!»

90

Il problema è la casa. I padroni rifiutano di affittare agli ex ricoverati,


anche se gli affitti sono garantiti da chi firma il contratto, i medici
stessi dell’ospedale. Si cerca di sensibilizzare i triestini.
A Trieste un vecchio edificio, proprietà di un ente dichiarato inutile,
la Casa del Marinaio, viene occupato da operatori e utenti. È dentro
Cittavecchia. Vorrebbero trasformarlo in un centro per la salute
mentale e insieme in un ambulatorio. «A Trieste – comunicano in un
volantino gli occupanti, una trentina – centinaia di persone vivono in
case umide, prive di riscaldamento e di servizi pagando spesso
quote d’affitto troppo elevate…» Non sono soli gli occupanti: trovano
solidarietà nei sindacati, nel Sunia, tra i cittadini. Non è d’accordo
invece proprio Franco Basaglia. Lo dice ai suoi medici. Lo scrive in
una lettera per il presidente della Provincia: un gesto politico. «La
mia dissociazione pubblica – spiega – è stata determinata proprio
per salvaguardare i servizi provinciali da ogni inquinamento che
potesse dare una immagine equivoca all’amministrazione. Non
drammatizzo l’accaduto, in quanto esso è l’espressione della crisi
che il nostro Paese sta vivendo in questo momento e d’altra parte
mette in evidenza un problema estremamente acuto che emerge
oggi a Trieste. Sono convinto che le interpretazioni che vengono
date possono essere molteplici, soprattutto per quanto riguarda il
rapporto con quella che viene definita l’Autonomia, e fanno parte del
gioco politico cittadino, esulando dalle reali intenzioni che il gruppo
politico sopraddetto ha inteso attuare». Insomma, attenti alle
strumentalizzazioni. Così si offrono pretesti agli avversari.
La Casa del Marinaio viene sgomberata il 2 marzo, dieci giorni
dopo l’occupazione.

91

Franco Basaglia racconta così un anno dopo, il 21 giugno 1979, ai


suoi ascoltatori di San Paolo: «Nel maggio 1978 sono state
approvate in Italia due leggi fondamentali per la trasformazione della
medicina: la riforma della psichiatria e le norme sull’aborto. Non
penso che la legge sull’aborto debba essere considerata la
liberazione della donna, come anche la legge sulla psichiatria non
costituisce la soluzione al problema della salute mentale… La legge
sull’aborto è il risultato di una lotta di molti anni. Il movimento
femminista, che si è costituito attorno a questa lotta e che è legato ai
partiti politici, non è contento di questa legge, chiede un’ulteriore
trasformazione e una ripresa della lotta… Molti medici italiani,
adducendo ragioni di coscienza, personali e religiose, si rifiutano di
praticare aborti. D’improvviso, i medici italiani sono diventati in
maggioranza religiosi. Perché? Perché non possono più fare aborti
clandestini a prezzi altissimi. Il movimento femminista ha denunciato
molti medici e occupato gli ospedali per esigere l’applicazione della
legge. Il risultato di questa lotta è che ora la legge comincia a essere
applicata e questo rappresenta una grande conquista sociale, non
tanto per l’aborto in sé, ma per il processo di coscientizzazione delle
donne…» Prendere coscienza, decidere per sé, responsabili del
proprio corpo… C’è qualcosa che avvicina alla condizione del malato
di mente che esce dalla sua condizione di recluso fisica, materiale,
fatta di porte, serrature, lucchetti, inferriate.
«Parliamo adesso della legge sulla psichiatria, che pure è una
legge molto difficile da applicare, innanzitutto perché il pregiudizio
contro il malato di mente è secolare e non può essere eliminato con
una legge, né con una legge sarà eliminata il problema della follia. I
principi di questa legge, come ho già detto, hanno origine da una
pratica reale. Il lavoro di quindici anni ha dimostrato che si può
vivere senza manicomio, ed è a partire da esperienze pratiche che
hanno elaborato la legge. Ma è importante sapere che queste
esperienze sono state poche e che in Italia ci sono ancora molti
manicomi e che non tutte le amministrazioni hanno realizzato in
questi anni servizi territoriali in grado di seguire la persona che
soffre, senza internarla.»
Basaglia propone un bilancio critico, ma anche una rivendicazione
rispetto al passato, l’affermazione che la legge non è un’astrazione,
nasce da prove concrete, «pratiche», non solo Gorizia o Trieste, ma
anche Varese (con Edoardo Balduzzi), Nocera (con Sergio Piro),
Perugia (con Carlo Manuali). La legge non nasce da una
«ideologia», ma dalla realtà, dall’osservazione di una realtà di pena
e senza cura e dai tentativi di superarla, di una realtà che imprigiona
la follia in una questione di ordine pubblico.
Basaglia si impegna, avverte che i tempi sono maturi per una
nuova legge, corre spesso a Roma per discuterne. La fretta è anche
dettata dall’iniziativa radicale, di Marco Pannella, di un referendum
che, se vincesse, abrogherebbe la vecchia legislazione, lasciando il
vuoto. La legge opera per il superamento dell’ospedale psichiatrico.
Dà un indirizzo preciso, anche se si dovranno attendere anni per
l’attuazione, con il ministro della Sanità Rosy Bindi, nel primo
governo Prodi. Ma a Basaglia sta a cuore un altro punto: che il
trattamento sanitario obbligatorio si realizzi nel rispetto della dignità
della persona e dei suoi diritti civili e politici garantiti dalla
Costituzione, che sia accompagnato da iniziative volte ad assicurare
il consenso e la partecipazione da parte dell’individuo obbligato. Nel
primo articolo della legge (una legge stralcio, che viene poi ripresa
dalla riforma sanitaria, approvata a fine anno) si dice ancora: «Nel
corso del trattamento sanitario obbligatorio chi vi è sottoposto ha
diritto di comunicare con chi ritenga opportuno». Una prescrizione
ovvia, ma è come la memoria di un passato (e di un presente
ancora) di isolamento, di una segregazione che nulla deve dire oltre
quelle mura che racchiudono un luogo segreto. Anche il relatore, in
commissione, Bruno Orsini, uno psichiatra democristiano, si
sofferma sul punto del trattamento sanitario obbligatorio, per
affermare un principio elementare quanto nuovo: che il tso in
determinate situazioni psicopatologiche si può fare («ma meno
frequentemente – rimarca – di quanto si possa immaginare»), come
può avvenire per una vaccinazione o per una quarantena. Il malato
mentale non è un mondo a sé, la sua storia medica rientra tra le
tante altre storie e in una riforma sanitaria che le riguarda tutte. La
legge restituisce diritti, dignità, cittadinanza alle persone, stabilisce
che l’articolo trentadue della Costituzione vale per tutti (diritto alla
tutela della salute, nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario e la legge non può violare i limiti imposti dal
rispetto della persona umana). «Riteniamo giusto – dice Susanna
Agnelli, membro repubblicano della commissione – che finalmente il
malato di mente diventi un malato comune come tutti gli altri,
semmai più bisognoso di comprensione e di cure. Non ci illudiamo
che questa concezione già fatta propria dalla parte più sensibile
dell’opinione pubblica, diventi automaticamente una nuova diffusa
concezione culturale del nostro popolo». Significava sottrarre la
psichiatria ai problemi di ordine pubblico, cui l’aveva costretta la
legge del 1904.
La nuova legge 180, Norme per gli accertamenti ed i trattamenti
sanitari volontari e obbligatori, viene approvata il sabato 13 maggio,
in un Paese sbigottito, quattro giorni dopo la morte di Aldo Moro,
assassinato dalle Brigate Rosse, nove giorni prima che venga
approvata la legge sull’aborto, la legge 194, quando al governo
siede Giulio Andreotti, alla guida di un monocolore democristiano,
sostenuto da comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani. È
il governo di «solidarietà nazionale», che cade nel gennaio dell’anno
successivo. Segue un incarico ancora ad Andreotti, che rinuncia. Le
elezioni si faranno all’inizio di giugno del 1979, dal dopoguerra la
prima sconfitta del Pci.
Il Paese è distratto, vittima di altre tragedie e di altre paure. La
prima reazione è dei familiari: che cosa faremo adesso? «…subito
dopo l’approvazione della legge c’è stato un panico generale per il
fatto che i nuovi malati non sarebbero più stati accolti in manicomio.
Gli ospedali psichiatrici e gli ospedali generali non sapevano che
fare. Nella stampa reazionaria sono iniziati gli attacchi, esattamente
come è accaduto per la legge sull’aborto».
Gli attacchi trovano infinite voci: parenti, primari, psichiatri, politici
della destra. Tra le voci s’ascolta anche quella di uno scrittore di
grande valore, Mario Tobino, non più giovane (è nato nel 1910) e
psichiatra sull’orlo della pensione, direttore di un manicomio in
Toscana, a Maggiano, autore di racconti e di romanzi, nei quali
riversa quella sua esperienza. Come nel celeberrimo Le libere donne
di Magliano («un nome celebre nella provincia di Lucca», perché
«essere stati a Magliano significa, ridendo, essere stati matti»): «La
bava, la lussuria estiva, le donne che si toccano, si abbracciano, la
saliva, gli occhi languidi lucidi: in manicomio, nei reparti femminili,
senza pudicizia si scarica la sensualità. È d’estate. L’epilettica
Gianna stamani era tutta attaccata a una idiota sbavante che non
capisce un’inezia ma al piacere ubbidisce. La pazzia sgomina tutte
le ipocrisie».
«Come bandiere vittoriose sventolano nel prato nude e le loro
parole, i loro inviti, gli atti sono di una tale verità che rapisce
osservandola e subito dopo la vogliamo dimenticare». Estetismo,
lirismo? E paternalismo nell’esercizio di una professione medica?
Tobino, lo psichiatra scrittore, sente il peso di una vicinanza, di
condizioni che si sovrappongono e lasciano ambiguità e dubbio:
«Questi matti sono ombre con le radici al di fuori della realtà, ma
hanno la nostra immagine (anche se non precisa), mia e tua, o
lettore. Ma quello che è più misterioso domani potranno avere,
guariti, la perfetta immagine, poi di nuovo tornare astratti, solo
parole, soltanto deliri. Dunque è il nostro incerto equilibrio che
pencola, e insuperbiamoci e insieme siamo umilissimi, che siamo
soltanto uomini capaci delle cose opposte, uguali, nel corso delle
generazioni, alla rosa dei venti». Più avanti: «Cosa significa essere
matti? Perché si è matti? Una malattia della quale non si sa l’origine
né il meccanismo, né perché finisce o perché continua. E questa
malattia, che non si sa se è una malattia, la nostra superbia ha
denominato pazzia». In un’introduzione scritta nel 1964, dieci anni
dopo la prima edizione, Tobino riconosce che nell’era degli
psicofarmaci (le «pasticche»), quando «si può tentare di attenuare le
nebbie che ancora fanno aureola» intorno alle tempie dei malati, i
sani dovrebbero rendersi consapevoli di quel che succede e
collaborassero e intervenissero («questi sani che sono a loro
insaputa anch’essi fragili»), per poter passare da uno stadio al
successivo, dalle nebbie alla luce. Senza questo esterno aiuto –
sostiene Tobino – sarà molto difficile che si oltrepassi la soglia. Ci
vorrebbero più psichiatri, più infermieri specializzati, più accuratezza,
più dedizione. Questa sarebbe la via. Non oltre. Conclude: «Se si
pensa all’incontrario, allora lo si dichiari; si continui a tenere i pazzi in
un oscuro antro, quasi abbandonato». Ma si chiede anche: «La
pazzia è davvero una malattia? Non è una delle misteriose e divine
manifestazioni dell’uomo? Non esiste per caso una sublime felicità
che noi chiamiamo patologica e superbamente rifiutiamo?»
Tobino conosce nuove tendenze nella psichiatria, sa quanto sta
avvenendo per merito di Basaglia e di altri con lui. Ma al dottor
Anselmo, alter ego nel romanzo Per le antiche scale, quel cambiare
lo stato della follia, ridurla a una condizione della vita sociale, non
piace: «Per i giovani la follia è solo un misfatto della società, frutto di
storte leggi, non una solenne misteriosa tragedia». Siamo nel 1972,
qualche anno dopo l’approvazione della legge Mariotti (anche Tobino
ne scrive, in altre pagine del suo romanzo, convinto della bontà di
quell’articolo quattro che consente il passaggio tra ricovero coatto e
ricovero libero). Siamo, con il dottor Anselmo scettico ma convinto di
quella solenne misteriosa tragedia, a una premessa del sarcasmo
che Tobino riversa sulla legge 180, in aspra polemica con Basaglia,
prima ancora dell’approvazione. Basta il titolo di un suo articolo su
«La Nazione» (il 18 aprile 1978): «Lasciateli in pace, è casa loro».
Una legge libertaria, sostiene Tobino, che abbandona a se stessi i
malati o, al meglio, li affida alle famiglie, impreparate, incapaci di
affrontare le imprevedibili mosse di quella malattia.
Basaglia risponde in un’intervista a «Paese Sera». Ricorda le sue
letture di Tobino, definisce cecoviana la sua prosa: «Quand’ero
assistente consideravo Le libere donne di Magliano un trattato». Ma
poi «Quando entrai a lavorare nel manicomio di Gorizia l’impatto con
la realtà fu del tutto diverso. Ho potuto verificare ogni cosa,
controllare ogni sensazione. Ebbene era tutto falso! Dove erano le
donne oscene e cattive, quei bei personaggi descritti dal Tobino?
Nella realtà del manicomio non c’era da avere pietà e compiacersi
della sofferenza ma soltanto lavorare duramente per abbattere
giorno per giorno quei muri, quei camerini dove le “libere donne”
erano state recluse per anni soltanto perché non dessero fastidio a
nessuno».
Anche Basaglia s’interroga sulla bontà della legge. Con realismo
(anche con senso della politica e quindi della gradualità degli atti, pur
conservando all’orizzonte una straordinaria utopia), intanto, nella
prefazione al Giardino dei gelsi, riconosce che «pur tra molte critiche
e con una strumentale enfatizzazione dei pericoli che questa legge
comporta, si sta assistendo ai primi passi della diffusione di un modo
di fare psichiatria che differisce dal recente passato: anche se non si
sa ancora – ed è troppo presto per saperlo– in che cosa consista
questo mutamento immediato». Esalta il risultato principale: il
riconoscimento dei diritti dell’uomo, sano e malato. Quindi spiega:
«La novità della legge si incentra, infatti, soprattutto sulla scomparsa
del concetto giuridico di “pericolosità” del malato mentale, da cui si
deduceva la necessità di custodirlo e quindi di violentarlo e
reprimerlo; sull’opposizione – che da questa scomparsa deriva – alla
creazione di nuove strutture segreganti; sul capovolgimento
dell’ottica tradizionale della psichiatria che si trova per la prima volta
in condizione di affrontare colui che soffre di disturbi psichici senza lo
schermo della pericolosità e della custodia».
Poi ci sono i freni. Basaglia teme la riduzione della malattia
mentale a puro oggetto di medicalizzazione, con il rischio di
moltiplicare i luoghi del controllo sociale. Paradosso nella scelta
giusta di decentrare. Nella logica di Basaglia, che vuole immaginare
sempre qualche cosa oltre il traguardo nella sua identificazione
dell’utopia. Scrive: «Mentre in tempi precedenti si trattava di un tipo
di assistenzialismo legato al manicomio che disponeva, nella
ghettizzazione, di tecniche particolari (internamento, contenzione,
elettroshock, farmaci ecc. – la psichiatria dispone sempre di tecniche
per il controllo sociale), oggi assistiamo ad un tentativo di
decentralizzare tutto questo. Si afferma così il criterio della
territorializzazione, che muta la situazione precedente in una
situazione apparentemente rinnovata, che implica però sempre il
pericolo di riproporre una forma di controllo assistenziale.
«Se anche il controllo diretto non c’è, bisogna tener presente che
può esserci sempre l’ideologia del controllo. La logica che rischia di
perpetuarsi può funzionare in modo analogo a quella che troviamo
nei paesi in cui c’è la tortura: anche se la tortura non raggiunge di
fatto tutti gli individui, tutti però sono in qualche modo minacciati
dall’esistenza della tortura; si crea pertanto un contesto in cui agisce
molto di più la minaccia della tortura che la tortura stessa».
Basaglia ammette una debolezza: Trieste resta un luogo di
sperimentazione e la normativa non offre modelli, che costituiscono
fondamentali ancore di salvezza. È un’obiezione che si perpetua
(ancora nel suo ultimo libro, La razionalità negata, Giovanni Jervis,
sottolinea come Basaglia e i suoi collaboratori non abbiano mai dato
disegni certi della nuova assistenza: «Non ho reperito un solo scritto
da parte loro che fosse somigliante a un piano, o programma, per
l’assistenza psichiatrica in Italia»). Ma una riforma autentica non si
può ridurre ad alcuni articoli di una legge. Il senso di una riforma sta
anche nella possibilità di rimetterla in discussione, nel momento in
cui si afferma, contro ogni rigidità ideologica. L’ideologia è il pericolo,
l’urgenza è la pratica, attraverso la quale si costruisce l’utopia.
Quando nel 1972 lo psichiatra svizzero Christian Müller, direttore
della clinica psichiatrica di Losanna, gli scrive, chiedendogli di
indicare attraverso le risposte a un questionario l’organizzazione
ideale di un servizio psichiatrico in una città di centomila abitanti,
Basaglia, come riferisce nell’introduzione a Crimini di pace, risponde
che non gli interessa immaginare un’utopia astratta, che potrebbe
solo riflettere l’ideologia dominante o la sua ideologia. Vuole, invece,
studiare e capire i bisogni di chi vive accanto a lui, considerare
risorse e limiti della realtà in cui lui e l’altro vivono, costruire
un’utopia, come è possibile solo vivendo «praticamente la
contraddizione tra il suo ruolo di potere e il suo sapere». «Ciò che
deve mutare – scrive – per poter trasformare praticamente le
istituzioni e i servizi psichiatrici (come del resto tutte le istituzioni
sociali) è il rapporto tra cittadino e società, nel quale si inserisce il
rapporto fra salute e malattia. Cioè riconoscere come primo atto che
la strategia, la finalità prima di ogni azione è l’uomo (non l’uomo
astratto, ma tutti gli uomini), i suoi bisogni, all’interno di una
collettività che si trasforma per raggiungere la soddisfazione di
questi bisogni e la realizzazione di questa vita per tutti. Ciò significa
capire che il valore dell’uomo, sano o malato, va oltre il valore della
salute e della malattia…»
Approvata la legge 180, sembrano finire l’epopea garibaldina e la
leggenda dei volontari all’assalto della fortezza. Lo scrive Peppe
Dell’Acqua: discutiamo di salari, di riconoscimento professionale, di
luoghi e di mezzi professionali adeguati ai nuovi compiti. Per
trasferire tutto ai codici sindacali? Fine di una storia? La quiete dopo
la rincorsa? Ma così tutto si irrigidisce, diventa regola che si può
riprodurre all’infinito. Sembra pronta la soluzione.
Basaglia vede il rischio della caduta di identità e ribatte: sarebbe il
momento per rimettere tutto in discussione, perché davanti al «vuoto
ideologico» si può vivere invece il «momento felice» in cui «disarmati
come siamo, privi di strumenti che non siano un’esplicita difesa
nostra di fronte all’angoscia e alla sofferenza, siamo costretti a
rapportarci con questa angoscia e questa sofferenza senza
oggettivarle automaticamente negli schemi della malattia e senza
disporre ancora di un nuovo codice interpretativo che ricreerebbe
l’antica distanza fra chi comprende e chi ignora, tra chi soffre e chi
assiste». Lo annota ancora nella prefazione a Il giardino dei gelsi.
92

Siamo a un finale di partita. Un’esperienza politica, legata al


«compromesso storico», chiude e muore il governo di «solidarietà
nazionale». Il terrorismo colpisce «l’ala riformista dello schieramento
riformista» (da un volantino delle Br). Nell’arco di pochi mesi cadono
l’operaio comunista Guido Rossa, i giudici Galli e Alessandrini, il
giornalista Walter Tobagi, il vice presidente del consiglio superiore
della magistratura Guido Bachelet. Ma le rivelazioni di alcuni
terroristi (come Roberto Sandalo e Patrizio Peci) sono la premessa
di una conclusione. A Trieste il manicomio è mezzo vuoto e alcuni
padiglioni mostrano i segni dell’abbandono. La nuova giunta, centro
sinistra sotto il segno del Melone, accusa i basagliani d’aver
abbandonato in rovina il parco di San Giovanni, «Il parco va in
rovina, i basagliani lo hanno devastato». Non vedono altro, non
vedono i giardini restituiti alla città, i matti restituiti ai loro diritti. Nel
parco, in giugno, si tiene la festa di San Giovanni (il Falò di San
Giovanni), suona la banda e canta anche Gino Paoli, il vescovo dà la
sua benedizione e poi dice messa nella chiesa di San Giovanni. A
settembre comincia il corso di formazione (in sei mesi) per gli
infermieri. Basaglia tiene la prima lezione. Peppe Dell’Acqua ci
riferisce alcune battute di quegli incontri. Un infermiere chiede:
«Quando è venuto a Trieste, professore, questo programma l’aveva
ben chiaro o è un programma nato con il tempo e in momenti
successivi?»
Basaglia non elenca libri, teorie, non cita filosofi e scienziati.
Un’altra volta si richiama al «fare». Si potrebbe dire al «ben fare».
«Le rispondo con un’altra situazione, però non riferita a Trieste. Nel
’62, quando io e altre persone che lavoravano con me abbiamo
cominciato questa trasformazione a Gorizia, gli infermieri mi
chiedevano: senta professore, ma dove vuole arrivare? che cosa
vuol fare? Io rispondevo sempre: non lo so! Mi chiedevano: come
vuole cambiare le cose, non vede che non è possibile? Però, giorno
per giorno, le cose cambiavano».
Per «cambiare le cose», perché continua a pensare che la sfida
vada vissuta sul terreno della pratica, per quanto sia stanco, per
giunta costretto a un piccolo intervento chirurgico, accetta l’invito
della Regione Lazio. Va a Roma perché lo stimola l’idea di lavorare
in una grande metropoli che ospita uno dei più grandi ospedali
psichiatrici, il Santa Maria della Pietà, in una regione dove
prosperano le case di cura private, una ventina, e le cliniche
convenzionate: a Guidonia, Genzano, Ceccano… Dove non manca
tuttavia chi tenta di cambiare, come Massimo Marà, psichiatra al
Santa Maria della Pietà, che apre un padiglione e che poi guida
l’occupazione di due palazzine a Primavalle, per trasformarle in
casa-famiglia.
Nella relazione sulle linee programmatiche (fino al 1981)
dell’assistenza psichiatrica in provincia di Roma, l’assessore
comunista Nando Agostinelli riferisce di circa cinquemila ricoverati e
denuncia l’estrema arretratezza degli interventi di cura in istituti dove
le condizioni di vita sono «subumane»; la mancanza di un qualsiasi
tentativo di programmazione e coordinamento degli interventi e delle
strutture sul territorio; la subordinazione dell’assistenza pubblica agli
interessi delle case di cura private. All’inviato della «Stampa»,
Franco Giliberto, che gli chiede che cosa si possa inventare perché
l’aria cambi, l’assessore risponde: «Franco Basaglia darà impulso a
tutti quegli interventi che siano destinati a non lasciare
nell’abbandono il malato dimesso dal manicomio e la sua famiglia e
a dare un’adeguata risposta alle sofferenze di chi, per la prima volta,
si presenta alle strutture pubbliche. Pur di raggiungere questo scopo
siamo decisi a prendere anche iniziative clamorose…» Roma e i
suoi abitanti – insiste il giornalista – vanno dunque scossi in fatto di
manicomio, com’è avvenuto, poniamo, per i triestini con Basaglia e
per gli aretini con Agostino Pirella «Vuole un esempio? D’accordo col
Vaticano – risponde l’assessore – una domenica avevamo lanciato
un appello nelle chiese, perché chi ne aveva disponibilità ci affittasse
appartamentini, cascine, locali di qualsiasi tipo, da destinare a
piccole comunità protette, formate da ex degenti degli ospedali
psichiatrici, guariti o in via di riabilitazione. Lo stesso appello
avevamo fatto tramite tutte le televisioni private e anche alla tv
nazionale. Ebbene niente, nemmeno una risposta abbiamo ricevuto.
Non è una città che merita scossoni questa?»
Basaglia va a Roma. A Trieste, direttore incaricato, resta Franco
Rotelli. A Roma Basaglia comincia a studiare e a progettare nuovi
interventi. Pensa al pronto soccorso sanitario, pensa di dover
coinvolgere le cliniche private: sono troppe e troppo affollate perché
la «riforma romana» le possa dimenticare. Ancora una volta il saper
fare della politica: lungimiranza, realismo, consapevolezza per
traguardi lontani.

93

Basaglia è a Berlino per una conferenza nell’aula magna delle Freie


Universität, piena di giovani arrivati da tutta Europa per il
Gesundheitstag, la giornata della salute del 15 maggio 1980.
Conclude il suo discorso e si sente male. Possiamo immaginare: il
dolore alla testa, le mani alle tempie, il pallore del viso. È la prima
volta che gli capita…

94

«Vede, la cosa importante è che abbiamo dimostrato che


l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, venti anni fa era
impossibile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i
manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo
so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la
persona folle in un altro modo e la testimonianza è fondamentale.
Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia
dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa che
cosa si può fare. È quello che ho già detto mille volte: noi nella
nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo
vincere perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al
massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi
vinciamo…
«Noi medici abbiamo un pessimismo incredibile riguardo al nostro
lavoro, che è il pessimismo della ragione. Il medico ha studiato che
le cose sono come sono. Come il bambino a scuola, il medico ha
studiato che uno più uno fa due. È questa la sua logica riguardo il
mondo in cui vive. È pessimista perché c’è sempre questo limite, che
uno più uno fa due. È il pessimismo della ragione, patrimonio del
tecnico e dell’intellettuale borghese. Noi medici democratici
proponiamo un altro tipo di logica, quella che uno più uno può fare
due, o quattro, o cinque, o dieci. Diciamo questo non perché
abbiamo ricevuto l’illuminazione dello Spirito Santo, ma perché la
pratica ci ha dimostrato che uno più uno può fare tre o cinque. Se il
concetto base della psichiatria era che il folle è pericoloso così come
uno più uno fa due, noi abbiamo dimostrato che il folle è pericoloso
come qualsiasi altra persona che agisce nella società, ha la stessa
probabilità di essere pericoloso. La pratica ha cambiato il risultato di
uno più uno. Abbiamo messo l’ottimismo della volontà al posto del
pessimismo della ragione.»

95

Ci sono vari modi per leggere l’eredità di Basaglia, lontani ormai


negli anni dalla sua esperienza che si potrebbe ancora con
semplicità definire straordinaria. Bilanci si chiedono sempre, a ogni
decennale di una nascita, di una morte, di un’inaugurazione. I bilanci
rappresentano un rito. Ma è difficile tentarli ed è ancora più difficile
farli quanto più la distanza da un’epoca è segnata da un
rovesciamento culturale, nel caso nostro un rovesciamento che ha
cancellato oppure oscurato valori, princìpi, volontà, sentimenti,
speranze. È evidente che Basaglia è stato un uomo del suo tempo e
di quel tempo in particolare, dall’antifascismo della Liberazione
all’antifascismo degli anni Sessanta e Settanta. Ripetiamo
«antifascismo» per estrema sintesi e perché in quegli anni il
significato dell’antifascismo fu riscoperto e pure arricchito di progetti
concreti che parlavano di libertà e ancora di liberazione, di
democrazia, di giustizia sociale.
Vi sono vari modi per provarsi in un bilancio dell’opera di Basaglia.
Uno è in fondo semplice, quasi turistico: aggirarsi tra le palazzine, tra
i vialetti, tra i giardini del S. Giovanni di Trieste, scoprire là dove
venivano rinchiusi migliaia di «malati» un «centro di salute mentale»
e qualche ambulatorio diagnostico, strutture mediche insomma, ma
anche un bar, un teatro, la chiesa, palazzine, auto in movimento,
gente liberamente in movimento, la sagoma orgogliosa di Marco
Cavallo. La stessa sensazione si ricaverebbe sedendo al ristorante
del Paolo Pini a Milano o visitando il museo (il laboratorio della
mente) del Santa Maria della Pietà a Roma oppure semplicemente
prendendo il fresco sotto le ombrose querce di Gorizia o ammirando
le mura di Colorno.
Un altro modo sarebbe ripercorrere i fili del pensiero filosofico e
della ricerca psichiatrica, come capita nei convegni e nelle aule
universitarie. Sempre considerando, peraltro, il rifiuto di Basaglia di
una scienza che definisce, classifica, indifferente alla persona, per
piegarsi invece a un compito di controllo sociale.
Il terzo modo infine sta nel misurare, valutare, ponderare quanto
della riforma dettata dalla legge 180 è stato realizzato, quanto regge
all’usura dei tempi, quanto si dovrebbe innovare e quanto magari si
dovrebbe arretrare, perché c’è anche chi pensa si debba arretrare di
fronte all’innovazione culturale e strutturale prodotta dalla lunga
battaglia di Franco Basaglia, come testimoniano le tante iniziative di
legge, tutte intese a ripristinare qualcosa che possa ricordare gli
antichi ospedali psichiatrici e soprattutto quella sensazione di
sicurezza e quella certezza di separazione che i manicomi potevano
comunicare all’universo dei cosiddetti sani. Alcuni episodi di
violenza, scarsi in realtà, hanno ovviamente acceso le polemiche e
le velleità dei controriformatori. Senza troppo seguito, però, al di là
dell’occasionale emozione, e questo dà la misura di per sé della
profondità dell’eredità culturale di Basaglia.
Che poi le indicazioni di quella legge si siano realizzate tardi e
talvolta male è vero ed era forse inevitabile. Ma la legge è stata
applicata, meglio dove più a lungo s’era potuto sperimentare e dove,
anche fisicamente, più vicina s’era percepita la lezione di Basaglia.
Nel Friuli Venezia Giulia, ad esempio. Ma anche a Milano o in Emilia.
Il contrappasso pagato s’è visto nelle infinite presunte «case di
cura» private sorte nelle più diverse periferie divenute succursali di
manicomi, a spese della sanità pubblica, «manicomietti» (come li
temeva «Il Piccolo» di Trieste alla chiusura del San Giovanni e come
tante voci raccontano), senza controllo e sotto compiacenti controlli.
La scelta della privatizzazione o più semplicemente la facilità della
corruzione hanno prodotto anche questi risultati, con costi altissimi
per la collettività.
Ma non si possono imputare a una legge le storture di un sistema,
che si è via via piegato all’interesse privato, tra disattenzioni, colpe,
inadempienze, irresponsabilità dell’amministrazione e della politica.
Una riforma è uno strumento che dovrebbe servire a migliorare una
condizione umana. Il suo uso distorto è colpa di chi approfitta di
qualche potere, che usa male quando dovrebbe usarlo bene.
Basaglia ci insegnerebbe ancora che una riforma non è un quadro
di regole insuperabile e inossidabile. Una riforma non può diventare
ideologia della riforma. È politica che si realizza e si rinnova di giorno
in giorno davanti ai problemi, davanti alla gente, davanti a chi soffre.
Anche la riforma, che tutti i paesi del mondo ci hanno invidiato come
una delle più innovative tra le nostre riforme, può vivere se non si
spegne la volontà di sperimentare, di scoprire incertezze, lacune,
ostacoli, di indicare nuove mete, mentre il traguardo resta quello
indicato da Basaglia dal primo momento: il rispetto di ogni individuo,
la difesa di ogni personalità umana. In fondo è sempre un discorso
sulla libertà.
LIBRI E ALTRO

Ho cercato di ricostruire una biografia di Franco Basaglia soprattutto


attraverso i suoi libri, quelli di cui è autore e quelli di cui è stato
curatore, insieme con Franca Ongaro Basaglia, raccogliendo
interventi e saggi di quanti gli furono vicini, concretamente o
idealmente, nel lungo cammino da Gorizia a Trieste, libri famosi
come Che cos’è la psichiatria (Amministrazione provinciale di Parma
1967, Einaudi 1973, Baldini&Castoldi 1997) o come L’istituzione
negata (Einaudi 1968, Dalai editore 2010), celeberrimo,
fondamentale soprattutto in quell’onda breve, politica e culturale, che
fu il nostro Sessantotto, come Morire di classe (l’introduzione alle
fotografie di Carla Cerati e di Gianni Berengo Gardin, pubblicato da
Einaudi nel 1969) o La maggioranza deviante (Einaudi 1971, Dalai
editore 2010) o Crimini di pace (Einaudi 1975, Dalai editore 2009).
Molto ho imparato dalle conferenze tenute da Basaglia in Brasile,
poco prima di morire, raccolte a cura di Maria Grazia Giannichedda
(sociologa che incontrò Basaglia ai tempi di Trieste) in un libro che si
intitola appunto Conferenze brasiliane (Raffaello Cortina 2000). Nel
botta e risposta con i suoi interlocutori Basaglia sa esprimersi con
particolare chiarezza, talvolta con forza polemica, talvolta persino
con asprezza, sempre con grande passione, la passione di chi sente
la responsabilità non solo di dover rappresentare con precisione,
senza tralasciare le ombre, la complessa realtà che si è lasciato alle
spalle, ma anche di non poter illudere quel pubblico così attento e
così coinvolto.
Naturalmente oltre a questi testi mi sono molto servito di articoli,
saggi e interviste, presenti nei due volumi degli Scritti (Einaudi 1981)
e nel volume L’utopia della realtà (Einaudi 2005), curato da Franca
Ongaro Basaglia e da Maria Grazia Giannichedda (segnalo la sua
intelligente introduzione, davvero una guida essenziale alla lettura di
Basaglia), che contiene peraltro una bibliografia completa (a partire
dai primi saggi «universitari» e quindi dagli anni Cinquanta).
A varie interviste si è fatto riferimento nel corpo di questo libro.
Richiamo qui soltanto l’intervista apparsa su «Rinascita»,
settimanale culturale del Pci (n.48, 6 dicembre 1968) per la
circostanza che ne determina un particolare rilievo politico, e
l’intervista che compare nel libro, di Ernesto Venturini, Il giardino dei
gelsi (Einaudi, 1979). Infine quella in La nave che affonda. Un
dibattito (Savelli 1978). Vorrei ricordare ancora la prefazione di
Franco Basaglia a La marchesa e i demoni. Diario da un manicomio
(Feltrinelli 1973), testimonianza di Maria Luisa Marsigli che conobbe
il manicomio criminale, e la postfazione al testo fondamentale di
Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni e i meccanismi
dell’esclusione e della violenza (Einaudi 1968, Edizioni di Comunità
2001).
Tra i libri di quanti vissero direttamente l’esperienza di Gorizia e
poi di Trieste, ho letto la bella, dettagliata, vivace «cronaca» di
Peppe Dell’Acqua, psichiatra ed «erede» di Basaglia, Non ho l’arma
che uccide il leone, fortunatamente ripubblicata da Stampa
Alternativa nel 2009, con molte integrazioni e in particolare con
l’aggiunta di un’inedita presentazione di Franco Basaglia, dettata allo
stesso Dell’Acqua nell’estate del ’79, trascritta, rivista, apparsa in
parte in un altro lavoro dello psichiatra veneziano, infine dimenticata
e poi ritrovata. Sono due pagine che riassumono con passione ma
anche con leggerezza e ironia le idee sulla psichiatria di Basaglia,
che chiarisce subito il segno corrosivo della sua critica citando lo
scrittore tedesco Ernst Toller (nato in realtà in Polonia): «Essere
nelle mani di uno psichiatra è come essere in balia di un uomo che
ha gli orecchi sordi e gli occhi ciechi». E poi, quasi con enfasi,
riassume: «Quello che voglio dire è che per noi la follia è vita,
tragedia, tensione. È una cosa seria. La malattia mentale invece è il
vuoto, il ridicolo, la mistificazione di una cosa che non c’è, la
costruzione a posteriori per tenere celata, nascosta, l’irrazionalità.
Chi può parlare è solo la Ragione, la ragione del più forte, la ragione
dello Stato e mai quella del diseredato, dell’emarginato, di chi non
ha». Chi non ha, non è. Riecheggia il proverbio calabrese, altre volte
ascoltato dalla voce di Basaglia. Che dedica una battuta anche
all’amico Peppe Dell’Acqua, che «non ha voluto fare un libro di
psichiatria… ha voluto raccontare delle storie come le ha vissute da
psichiatra che fortunatamente non capiva che cosa volesse dire
essere psichiatra…»
Naturalmente da leggere, per chi vuole ripercorrere alcuni
momenti della vicenda triestina, Marco Cavallo. Da un ospedale
psichiatrico la vera storia che ha cambiato il modo di essere del
teatro e della cura, di Giuliano Scabia, scrittore, poeta, uomo di
teatro, personaggio di straordinaria vitalità culturale che s’impegnò,
come altri artisti, volontariamente nella «liberazione» del manicomio
di Trieste. Anche Marco Cavallo è stato ripubblicato di recente da
Edizioni Alphabeta Verlag, fortunatamente, ripeto, perché molti di
questi libri sono poi difficilmente reperibili nelle librerie e persino
nelle più importanti biblioteche, come nel caso di La libertà è
terapeutica?, di Giovanna Gallio, Maria Grazia Giannichedda, Ota
De Leonardis, Dario Mauri, un libro di Feltrinelli del 1983, che ho
trovato solo alla Braidense di Milano. Aggiungo Per la normalità.
Taccuino di uno psichiatra negli anni della grande riforma (Asterios
1999): lo psichiatra in questione è Franco Rotelli. Peppe Dell’Acqua
ha scritto anche Fuori come va? Famiglie e persone con
schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi,
dove si fa la storia di Gorizia e di Trieste. L’ultima edizione è nei
tascabili Feltrinelli (2010).
Ovviamente poi ci sono le biografie. Segnalo quella di Francesco
Parmegiani e di Michele Zanetti (proprio il presidente della provincia
che volle Basaglia a dirigere il manicomio di Trieste), Basaglia. Una
biografia (Lint 2007), che contiene tra l’altro alcune fotografie molto
belle di Franco e di Franca Basaglia, e quella di Nico Pitrelli, L’uomo
che restituì la parola ai matti (Editori Riuniti 2004), che in modo
originale affronta il tema del rapporto di Basaglia con l’informazione:
Basaglia ne aveva scoperto l’importanza ai fini della sua impresa e
fu, anche in questo senso, un anticipatore… Ma la biografia di gran
lunga la più scientificamente densa (e in questo senso la meno
«divulgativa») è quella di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio, uno
psichiatra e un filosofo. Il titolo è, semplicemente, Franco Basaglia
(Bruno Mondadori 2001) ed è soprattutto un percorso non certo di
comoda lettura tra le tappe della formazione culturale di Franco
Basaglia, un percorso lungo il quale compaiono i nomi di Husserl,
Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty, Freud, Lacan, Jaspers,
Minkowski, Binswanger. Nomi noti a chiunque abbia anche solo
qualche «informazione» scolastica di storia della filosofia, tranne
probabilmente quelli di Minkowski e Binswanger, pubblicati
rispettivamente da Einaudi (La schizofrenia, Il tempo vissuto, Verso
una cosmologia) e da Feltrinelli (Per una antropologia
fenonemologica, il più «leggibile» forse anche in virtù di una bella
traduzione di Enrico Filippini, l’intellettuale del Gruppo 63, che molti
avranno conosciuto attraverso i suoi scritti sulle pagine culturali di
Repubblica).
A proposito della storia culturale di Basaglia, non dimentico Franco
Basaglia. Un laboratorio italiano, a cura di Federico Leoni (Bruno
Mondadori 2011) e Franco Basaglia e la filosofia del ’900, pubblicato
da Be-Ma nel 2010, raccolta degli interventi registrati in un convegno
promosso dalla Fondazione Gaetano Bertini Malgarini, alla
Università degli Studi di Milano, interventi di Massimo Recalcati,
Romolo Rossi, Carlo Sini, Ota De Leonardis, Pier Aldo Rovatti,
Mario Colucci, Eugenio Borgna (con un dvd allegato che «mostra» il
convegno).
Del rapporto tra responsabilità dello psichiatra e imputabilità del
paziente (a partire ovviamente dai casi che hanno coinvolto Franco
Basaglia prima a Gorizia e poi a Trieste) fondamentale è il lavoro di
Ernesto Venturini, Lorenzo Casagrande e Lorenzo Toresini, Il folle
reato (Franco Angeli Editore 2010).
Grande rilievo ha in questa storia Frantz Fanon con I dannati della
terra (Einaudi 1962), libro lungamente considerato da Basaglia e che
suscitò tante emozioni nel nostro breve, mi ripeto, Sessantotto,
come altri libri, che mi è capitato di citare: naturalmente L’io diviso di
Ronald Laing (Einaudi 1969), con la sua specificità psichiatrica (e
«antipsichiatrica»), L’uomo a una dimensione (Einaudi 1967) di
Herbert Marcuse, Sulla violenza (Guanda 2001) di Hannah Arendt.
Ho anche citato La guerra di guerriglia di Ernesto Guevara (Baldini
Castoldi Dalai editore 2003) e, per il Manifesto di Port Huron, Il
Sessantotto senza Lenin (e/o 1998). Molti anni dopo, ma in sintonia
in buona misura con quanto il Sessantotto espresse, Guasto è il
mondo (Laterza 2011) di Tony Judt, economista che sarebbe
piaciuto a Basaglia, afflitto dalla sclerosi laterale amiotrofica e morto
nel 2010. Il libro lo dettò negli ultimi mesi, dal letto nel quale ancora
sopravviveva paralizzato.
Un rilievo particolare ovviamente lo dobbiamo a Michel Foucault
con la sua Storia della follia nell’età classica (lo si ritrova in una
edizione recente economica, del 2008, nella Bur Rizzoli), scrittura da
grande «romanzo» (di Foucault mi ha da sempre affascinato Io,
Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio
fratello…, pubblicato da Einaudi, storia di un delitto terribile e di un
processo negli anni Trenta dell’Ottocento, quando la Francia faceva i
conti anche con la progressiva costruzione della riforma di Pinel).
Per una storia della psichiatria e dell’istituzione manicomiale in
Italia i miei riferimenti sono stati, un po’ in disordine: Liberi tutti (il
Mulino 2009) di Valeria Babini; Storia del manicomio in Italia
dall’Unità ad oggi (Feltrinelli 1979, altra rarità editoriale, ormai) di
Romano Canosa; Manicomio Italia (Editori Riuniti 1998) di Franco
Stefanoni; Tempo e catene. Manicomio, psichiatria e classe
subalterne. Il caso milanese (Franco Angeli 1980) di Alberto De
Bernardi, Francesco De Peri e Laura Panzeri; Storia della psichiatria
(Leo S. Olschki 1991) di Patrizia Guarnieri; I manicomi marchigiani.
Le follie di una volta (Il lavoro editoriale 2008) di Cesario
Bellantuono, Marco Bellogi, Luigi M. Bianchini (dove si racconta
appunto di guerra, bombardamenti, distruzioni e conseguenti
liberazioni dei «folli»); Ugo Cerletti. Scritti sull’elettroshock (Franco
Angeli 2007) di Roberta Passione. Alcuni spunti ho tratto da Cesare
Lombroso (Einaudi 2003) di Delia Frigessi.
In merito al magnifico frenocomio triestino, una documentazione
dettagliata della sua storia materiale (architettonica) l’ho ritrovata nel
volume, di Diana De Rosa, L’ospedale psichiatrico di San Giovanni a
Trieste (Electa 2008).
Naturalmente, a proposito di psichiatria, ho letto il vecchio
Manuale critico di psichiatria (Feltrinelli 1975) di Giovanni Jervis, che
abbiamo incontrato al fianco di Basaglia a Gorizia, poi impegnato in
altre esperienze manicomiali, a Reggio Emilia, professore alla
Sapienza. Di Jervis abbiamo letto anche la sua conversazione con
Gilberto Corbellini, La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria
in Italia (Bollati Boringhieri 2008). Il titolo, che ne evoca un altro
famoso, L’istituzione negata, già manifesta elementi di criticità. Ma il
ritratto che Jervis ricostruisce di Basaglia mi sembra, nella sua
brevità, tra i più intensi. Di Jervis ho anche letto il resoconto del
congresso di Londra del luglio 1967, Dialettiche della liberazione,
resoconto apparso sui Quaderni piacentini. Il convegno, come scrive
Jervis, fu organizzato da Ronald Laing e da David Cooper. È una
efficace testimonianza dello spirito combattivo dei tempi.
Ampie citazioni ho tratto dal bellissimo libro di Franca Ongaro
Basaglia, dedicato a Mario Tommasini, esemplare figura di
amministratore pubblico e di comunista: Vita e carriera di Mario
Tommasini, burocrate proprio scomodo, narrate da lui medesimo
(Editori Riuniti 1991).
Altra storia quella di Giorgio Coda, detto «l’elettricista», il primo
psichiatra italiano a essere condannato per maltrattamenti: sulla sua
vicenda (e su quella dei manicomi triestini), fanno testo La fabbrica
della follia (Einaudi), voluta dall’Associazione per la lotta alle malattie
mentali, curato da Piera Piatti, Portami su quello che canta.
Processo a uno psichiatra (Einaudi 1977) di Alberto Papuzzi e Fate
la storia senza di me (add editore 2011), a cura di Mirko Capozzoli,
raccolta dei diari di Albertino Bonvicini, proprio «quello che canta», in
orfanotrofio a tre anni, a nove in manicomio (dove incontra appunto
Giorgio Coda), morto di aids nel 1991. A proposito di questa vicenda
e di altre simili ho trovato pagine anche nei libri di Bianca Guidetti
Serra (avvocato di parte civile nel caso Coda) e in particolare (e per
le storie dei celestini) in Bianca la rossa (Feltrinelli 2009).
Devo aggiungere ancora due romanzi (romanzi veri o di genere
non-fiction novel alla Truman Capote), che mi hanno aiutato a capire
i tempi di Basaglia o addirittura la sua condizione negli anni della
giovinezza e del fascismo e cioè Villa Gradenigo (Einaudi 2011) di
Giuseppe Bevilacqua e Due anni senza gloria (Einaudi 2011) di
Lodovico Terzi e poi romanzi (con la stessa precisazione di prima)
che ci mettono in relazione con la malattia mentale e con il
manicomio, cominciando da quelli di Mario Tobino, scrittore che
Basaglia apprezzava, malgrado le dure polemiche: Le libere donne
di Magliano (Oscar Mondadori 2010), Gli ultimi giorni di Magliano
(Oscar Mondadori 2010), Per le antiche scale (Oscar Mondadori
2010). E ancora: I tetti rossi (Marsilio 1987) di Corrado Tumiati, Il
male oscuro (Bur Rizzoli 2007) di Giuseppe Berto, Fratelli (Einaudi
1978) di Carmelo Samonà. Brevi citazioni sono tratte da Le parole
sono pietre (Torino 2010) di Carlo Levi, Milano è una selva oscura
(Einaudi 2009) di Laura Pariani e, naturalmente, da Se questo è un
uomo (Einaudi 1989) di Primo Levi, assai apprezzato dallo stesso
Basaglia. La tragedia raccontata da Primo Levi mi rimanda ad Anna
Maria Bruzzone e al suo Ci chiamavano matti (Einaudi 1998). Anna
Maria Bruzzone ha scritto anche, insieme con Lidia Beccaria Rolfi,
ex deportata nei campi nazisti, Le donne di Ravensbruck (Einaudi
2003). Il binomio manicomio-lager torna spesso nel racconto. La
storia di una malattia e dei ricoveri conseguenti in manicomi o in
case di cura peggio di lager, negli stessi anni della battaglia di
Basaglia, è raccontata in un libro molto bello di Carlo Gnetti, Il
bambino con le braccia larghe (Ediesse 2010).
Per quanto riguarda le citazioni di Gramsci mi sono rifatto all’ultima
edizione economica di Einaudi (2007) dei Quaderni del carcere. Per
quanto riguarda Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Scritti corsari,
Descrizioni di descrizioni sono stati pubblicati di recente in edizione
economica da Garzanti. Altro ho tratto dal volume dei Meridiani
Mondadori (1999) Saggi sulla politica e sulla società.
Il rapporto tra Basaglia e la casa editrice Einaudi attraverso Giulio
Bollati è perfettamente raccontato da Luisa Mengoni nel
preziosissimo Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni
Trenta agli anni Sessanta (Bollati Boringhieri 1999).
I libri di storia generale che ho consultato sono Il paese mancato.
Dal miracolo economico agli anni Ottanta (Donzelli 2003) di Guido
Crainz, Storia d’Italia 1943-1996 (Einaudi 1998) di Paul Ginzborg,
Storia dell’Italia repubblicana (Marsilio 1992) di Silvio Lanaro. Mi
sono particolarmente cari e utili, rispetto agli ultimi decenni della
storia italiana, anche dal punto di vista del metodo, i due saggi di
Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio (Feltrinelli 2009) e La
Repubblica del dolore (Feltrinelli 2011). Una finestra sulla cultura del
tempo, dal punto di vista di un marxista e comunista, è il saggio di
Giovanni Berlinguer, Marxismo e psichiatria (Editori Riuniti 1969).
Per i riferimenti alla condizione di Venezia durante il fascismo e
agli episodi che caratterizzarono la resistenza veneziana mi sono
rifatto al volume Un soffio di libertà. La Resistenza nel Basso Piave,
di Morena Biason (Anpi di San Donà di Piave e Istituto veneziano
per la storia della Resistenza, 2007).
Molto ho tratto dai giornali e in particolare da «Il Giorno», «La
Stampa», «Corriere della Sera», «il manifesto», «Lotta continua», «Il
Gazzettino» di Venezia, «Il Piccolo» di Trieste e «l’Unità».
Tra le riviste, «Sapere» dedicò un numero speciale monografico a
Basaglia (numero 851, novembre dicembre 1982), «Rocca», la
rivista di Pro Civitate Cristiana avviò nel 1968 una serie di servizi
sullo stato dei manicomi in Italia, sostenendo apertamente l’opera di
Basaglia.
Oltre ai libri, ai quotidiani, alle riviste, non pochi film e documentari
sono dedicati in generale al tema della psichiatria, della malattia
mentale, dell’istituzione manicomiale e in particolare all’avventura
intellettuale, politica, scientifica di Franco Basaglia.
Elencherò solo quei film che mi hanno più colpito e che ho rivisto,
cominciando dalla Fossa dei serpenti, di Anatole Litvak, che risale al
1948, presentato alla X Mostra del cinema di Venezia, passato
qualche volta in televisione. Quindi: Diario di una schizofrenica
(1968) di Nelo Risi; Family Life (1971) di Ken Loach; Matti da
slegare (1972) di Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia
e Stefano Rulli, protagonisti i pazienti di Colorno; il celeberrimo
Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) di Milos Forman; Un
angelo alla mia tavola (1990) di Jane Campion; La seconda ombra
(2001) di Silvano Agosti con Remo Girone nella parte di Basaglia; La
meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana; Si può fare (2008)
di Giulio Manfredonia; naturalmente La città dei matti (2010) di
Marco Turco. Tra film e teatro è La pecora nera di Ascanio Celestini
(nel cofanetto Einaudi Stile Libero 2010) con le testimonianze di
alcuni ex degenti del manicomio romano.
Molte immagini filmate conservano e restituiscono la realtà dei
manicomi. Basta internet per ritrovarle. Ovviamente non si può
dimenticare il «pezzo» televisivo più importante, il reportage che
raccontò agli italiani la vergogna dei manicomi e il modo in cui un
uomo, Franco Basaglia, si batteva per cancellarla: mi riferisco a I
giardini di Abele, anno 1967, autore Sergio Zavoli, la prima volta che
la televisione italiana entrò in un manicomio.
Naturalmente per documentarsi ci sono anche i siti: segnalo in
primo luogo quello della Fondazione Franca e Franco Basaglia e poi
quello del Dipartimento di salute mentale di Trieste.
Per quanto riguarda la legge 180 e la sua approvazione mi sono
servito degli atti parlamentari.
Sicuramente ho dimenticato qualcosa, ma credo di aver fornito
una traccia essenziale, indicativa delle fonti, libri, giornali, film, che
mi hanno consentito di avvicinare Franco Basaglia e di immaginare il
valore del suo agire nella società italiana del tempo, una società di
contrasti e di conflitti tra grande prove di cambiamento.
RINGRAZIAMENTI

Sotto questo titolo finiscono spesso parole di circostanza, quasi


d’obbligo. Quindi evito i ringraziamenti, che in primo luogo
andrebbero a Franco Basaglia, che ha regalato a tutti una storia
straordinaria, forse irripetibile (e mai ripetuta), e quindi a quanti, a
cominciare da Franca Ongaro Basaglia, con lui hanno lavorato negli
anni di Gorizia, di Colorno, di Trieste. Ma non posso tacere di Enrico
Basaglia, storico e gran lettore, la cui intelligenza e la cui sensibilità
sono state le condizioni perché il lavoro iniziasse e si concludesse
fino alla realizzazione di questo libro.

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