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Premessa

La raccolta di saggi che andiamo a presentare ha obiettivi limitati e destinazioni ben definite. Si
rivolge infatti ad un pubblico vasto che ha interessi archeologici, ma soprattutto a studenti di
archeologia medievale e più in generale a chi lavora nell'ambito della storia medievale, rendendo
facile l'accesso ad articoli e contributi dispersi nelle più varie sedi e non di rado di difficile
reperimento. I contributi, opera sia di storici che di archeologi, di taglio non sempre specialistico,
hanno in comune la caratteristica di giungere ad analisi e a considerazioni di carattere generale per
la ricostruzione della società medievale e costituiscono nel loro insieme un territorio di interessi
definiti ma allo stesso tempo largamente convergente.
Gli archeologi medievali, lavorando in un'area di ricerca ancora molto giovane e per la natura stessa
del lavoro archeologico—che catalizza forze fisiche ed intellettuali su aspetti talvolta particolari e
comunque generalmente estremamente definiti nello spazio -, hanno teso per lo più a produrre
nuove evidenze e ad elaborare i propri strumenti di analisi piuttosto che a stendere sintesi o
interpretazioni complessive. Quando sono stati in grado di elaborare contributi di interesse più
generale, questi, per la limitatezza del raggio di penetrazione dei loro tradizionali mezzi di
comunicazione, sono rimasti sepolti in sedi poco note al grande pubblico o, quando lo hanno
raggiunto, non sono sempre stati all'altezza del compito.
Con questa raccolta, che pure seleziona drasticamente, per ovvi motivi di spazio, si vuole
evidenziare, attraverso le parole degli stessi protagonisti della ricerca, il ruolo che può e deve avere
l'indagine archeologica per allargare e approfondire i temi di una storiografia che è sempre più
attenta e finalizzata a ricostruzioni della società preindustriale non più selezionando attraverso scale
di valori precostituiti.
Se è vero che ancora oggi molte delle ricerche archeologiche e molti scavi hanno il carattere
dell'occasionalità e la loro distribuzione nelle diverse aree della penisola è indipendente da un
quadro di programmazione generale, è altrettanto vero che dietro non poche iniziative di ricerca sul
campo si nota un'impostazione strategica a cui le domande storiografiche non sono certo assenti. E
comunque i dati acquisiti sono ormai tanti e nuovi.
Oggi inizia ad essere possibile immaginarsi di "riscrivere" la storia sulla base anche di quanto
prodotto dalla ricerca sul campo e sui materiali conservati nei musei in poco più di venti anni, da
quando cioè l'indagine nel settore ha iniziato a procedere con una accelerazione notevole.
In alcuni settori della ricerca storica o, per meglio dire, per alcuni periodi definiti il contributo della
ricerca archeologica ha sempre rappresentato e costituito un punto di riferimento, basti pensare
all'archeologia longobarda e più in generale all'archeologia altomedievale; in altri settori e per altre
epoche, come anche per la storia urbana, il contributo della ricerca archeologica viceversa si
fermava alle fasi classiche e a quelle che comunque potevano presentare aspetti monumentali. La
storia dell'insediamento medievale è stato campo di indagine talvolta estremamente incisivo di soli
storici; al proposito il richiamo alle opere di Elio Conti sul contado fiorentino e di Pierre Toubert
sul Lazio è d'obbligo, come la stessa ricostruzione della maglia degli scambi commerciali era
affidata alle sole fonti scritte; rimanevano ignorati non solo aspetti fondamentali della produzione
di beni di consumo come la ceramica, il vetro e tutti i processi tecnologici legati a questi come ad
altri aspetti, ma la stessa risorsa di messaggio e la valenza documentaria che questi materiali hanno.
I singoli saggi che qui si pubblicano affrontano alcuni dei problemi appena accennati facendo in
ogni caso un ricorso organico alla fonte archeologica, superando il limite di una sterile polemica,
che fortunatamente pare avere poche radici nell'esperienza italiana, almeno per il Medioevo,
polemica che ha visto oziose contrapposizioni fra storici ed archeologi. Gli uni e gli altri infatti
sono "produttori" di "evidenze", gli uni non possono fare a meno del "documento" prodotto dagli
altri come delle rispettive problematiche: esiste in sostanza, il problema della ricostruzione di una
società che ha lasciato diversi tipi di testimonianze: si tratta di capire e di cogliere il valore del
"campione"documentario - sia esso fonte scritta o materiale - su cui stiamo lavorando, confrontarlo,
integrarlo e spiegarlo.
Vi sono tendenze oggettive e soggettive alla "riduzione" del lavoro archeologico all'antiquaria e
alla mera classificazione descrittivistica, come pub esistere l'attitudine alla semplice "edizione" e
"traduzione" del documento scritto: I'interpretazione dei fatti, che costituisce il mezzo per fare
avanzare e arricchire le problematiche di ricerca, è impegno degli archeologi in un confronto
sistematico con la documentazione scritta e la problematica storica, ma è altrettanto
imprescindibile per gli storici non rinunziare alla risorsa costituita dall'evidenza e dalla
problematica archeologica.
In questo senso i saggi raccolti in questo volume, seppure diversi fra loro, sono a mio avviso
esemplari perché vi si coglie generalmente il tentativo di elaborare interpretazioni senza
selezionare tipi di informazioni disponibili e d'altra parte gli autori riescono ad indicare prospettive
di ricerca, ponendo nuove domande e nuovi problemi. L'acquisizione di nuove informazioni e la
costruzione di nuovi "documenti" potrà mutare il quadro che in alcuni di essi si è iniziato a
delineare, ma rimane sostanzialmente fermo, se non altro, il dato fortemente positivo dell'uso
intrecciato delle diverse tecniche di ricerca.
Il dibattito su queste tematiche, iniziato utilmente un quindicennio fa sulle pagine di "Quaderni
Storici" e quindi proseguito e per certi aspetti allargato sulle pagine di "Archeologia Medievale",
inizia a dare i suoi primi frutti, anche se fra storici, geografi e archeologi non sono mancati e non
mancano momenti di incomprensione e di confronto anche severo, da cui per altro tutti possono
uscire arricchiti.
I limiti di una selezione di contributi che affronta prevalentemente i problemi accennati sono
evidenti non solo sul tema in questione del rapporto storia-archeologia, ma soprattutto perché sono
sostanzialmente elusi tutti i problemi di quel largo spazio costituito dalla specificità metodologica
dell'archeologia medievale, che rappresenta un momento non secondario della ricerca, trovando fra
l'altro vastissimi territori comuni non solo con tutte le altre archeologie (preistorica, classica e
postmedievale), ma anche con le scienze naturali, il restauro dei monumenti e in generale con le
discipline che investono lo studio, la valorizzazione e la tutela della sedimentazione storica.
Verso gli autori dei saggi il curatore della raccolta ha un debito di riconoscenza particolare, non
solo perché hanno gentilmente espresso la disponibilità alla ristampa dei loro lavori, apportando a
volte modifiche, correzioni e aggiornamenti o "subendo" alcuni ritocchi, ma per la piena
collaborazione data in fase di composizione del volume, che in alcuni casi, come ad esempio nei
saggi di 0. von Hessen, di C. La Rocca e P. Hudson e di R. Hodges, li ha spinti a fornire una
traduzione di testi usciti recentemente in altri paesi, offrendo la possibilità di accedere a contributi
inediti in Italia.

È stato più volte ricordato che paragonata alle altre archeologie, I'archeologia medievale appare
ancora ad uno stato di "infanzia", giacché possiamo far risalire la "fondazione" di questa disciplina
come scienza storica agli inizi degli anni Sessanta. Fu infatti Gian Piero Bognetti che in un articolo
comparso nel 1964 su I rapporti pratici tra storia e archeologia pose «con forza il problema del
rapporto organico fra le due aree di ricerca sottolineando fin dall'apertura del saggio che «I'operare
dell'archeologo presuppone un corredo talvolta assai raffinato di nozioni storiche» e aggiungeva
che . «è di per sé, un problema "storico" quello che spinge all'indagine archeologica; ed è la
consapevolezza storica che fornisce, nella più parte dei casi, i principali criteri per la valutazione di
quanto viene scoperto dall'archeologo». 1 E Bognetti parlava facendo riferimento ad una esperienza
che lo aveva visto protagonista: egli infatti, che già fra le due guerre aveva individuato i resti di
Castelseprio (Varese), la cui rilevanza per la conoscenza dell'Altomedioevo è divenuta
paradigmatica, si era fatto promotore di campagne di scavo nel sito dell'insediamento medievale

1
In Tecnica e diritto nei problemi dell'odierna archeologia, Roma (CNR) 1964, PP. 169-76.
utilizzando una équipe di archeologi dell'"Istituto di Storia della Cultura Materiale" 2 e aveva
intrapreso, con lo stesso gruppo di studiosi, le ricerche sulle origini di Venezia impiantando un
cantiere a Torcello 3 Contemporaneamente si diffondeva e si allargava il dibattito sull'archeologia
nell'ambito del "Centro italiano di studi sull'Alto Medioevo" di Spoleto e, sotto i suoi auspici,
vennero intrapresi gli scavi sull'insediamento altomedievale di Invillino 4 (Udine) diretti da
Joachim Werner, lo studioso che già da tempo era noto in Italia per essere stato l'editore con il
Fuchs5 di materiali prevalentemente longobardi rinvenuti a partire dall'inizio del XIX secolo 6.
Sempre alla metà degli anni Sessanta datano la prima istituzione di una cattedra di archeologia
medievale nelle università italiane e la fondazione del "Museo dell'Altomedioevo" a Roma 7, che si
costituiva riunendo i materiali provenienti dagli scavi di fine Ottocento e primi Novecento delle
necropoli longobarde di Nocera Umbra e Castel Trosino e accogliendo viceversa soltanto pochi
materiali altomedievali laziali. In sostanza in questi anni si andava legittimando e consolidando
l'uso della ricerca archeologica per l'Altomedioevo, seguendo un percorso che saldava in qualche
modo la tradizione archeologica tardo antica e quella della ricerca protostorica mitteleuropea con
la storia.
Nello stesso tempo, sotto la spinta di una storiografia medievale italiana che si andava rinnovando
soprattutto grazie al ruolo propulsivo della scuola delle "Annales", si impiantavano una serie di
indagini sul terreno che travalicavano i confini di una periodizzazione che concludeva il ruolo

2
M. Dabrowska, L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Castelseprio: scavi diagnostici 1962-63, "Sibrium",
XIV (1978-79), PP.1-138, al quale si rinvia per la bibliografia.
3
L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62 , Roma (Istituto Nazionale dell'Archeologia
e Storia dell'Arte, monografie III) 1977.
4
Cfr. G. Fingerlin, J. Garbsh, J. Werner, Gli scavi nel castello longobardo di Ibligo lnvillino
(Friuli). Relazione preliminare delle campagne del 1962, 1963 e 1965, "Aquileia nostra", XXXIX
(1963), PP.85-135, gli scavi ripresi nel 1972 e 1973 sono stati pubblicati preliminarmente sulla
stessa rivista nel 1973 da V. Brierbauer, mentre l'edizione definitiva è ancora in corso di stampa.
5
S. Fuchs, J. Werner, Die longobardische Fibeln aus Italien, Berlin 1950.
66
Uno dei maggiori rinvenimenti di materiali fu ottenuto infatti, nel tentativo di individuare l'abitato romano alle porte
di Cividale, fra il 1817 e il 1826 quando il religioso Michele della Torre fece emergere una grande necropoli romana fra
le cui tombe si trovavano anche numerose inumazioni con corredo costituito da oggetti «preziosissimi, in oro, bronzo
dorato, in gioie benissimo conservate e tutte con appiccicagnolo di imperatori greci, le quali usavano partare al collo»,
che l'erudito riteneva appartenere ad un cimitero costituito al momento di una battaglia fra Goti e Bizantini, mentre si
sarebbe scoperto soltanto successivamente che si trattava invece delle tombe dei longobardi della prima generazione
giunta in Italia al seguito di Alboino. Dopo la scoperta di tale celebre necropoli - cfr. fra l'altro M. Brozzi, Il sepolcreto
longobardo "Cella": una importante scoperta archeologica di Michele della Torre alla luce dei suoi manoscritti,
"Forum lulii", I (1977), PP. 22-62 - nel corso dell'Ottocento, e segnatamente nella seconda metà del secolo, si
infittiscono le notizie di rinvenimenti e scavi di necropoli appartenenti all'epoca longobarda. Ma sarà soltanto fra il
1893 e 1898 che archeologi professionisti (sebbene non medievalisti) scaveranno le due più note e vaste necropoli
dell'Italia centrale, quelle di Nocera Umbra e Castel Trosino. Da questo momento i ricchi corredi delle popolazioni
germaniche catalizzano l'interesse degli archeologi, un interesse che sarà di tipo antiquariale e/o "ideologico" e soltanto
più recentemente diverrà interesse puramente scientifico in un contesto di rapporto fra "culture" (cfr. Germani e
Romani, a cura di V. Brierbrauer e C. G. Mor Bologna 1986). In sostanza con l'edizione delle due necropoli di Nocera e
Castel Trosino, rispettivamente nel 1919 e nel 1902, nasce quell'archeologia longobarda, che, all'indomani delle
ricerche dello svedese Salin (1904), diventeranno ben presto terreno di ricerca privilegiato di studiosi di stirpe
germanica quali Aberg, Fuchs, Werner e von Hessen, cui va il merito di una sistemazione complessiva dei materiali che
sempre più numerosi, e disordinatamente in molti casi, entreranno nelle collezioni dei musei italiani (ma anche
stranieri, per opera dei clandestini, ed il caso di Chiusi è esemplare), dopo essere emersi nel corso di scavi operanti da
archeologi nostrani, i cui studi rimarranno per altro marginali rispetto alla consolidata ed egemone tradizione tedesca:
il Galli, editore dei materiali chiusini e vivace operatore nell'ambito fiesolano, ne è un tipico esempio. Ma per una storia
degli studi nel campo dell'archeologia longobarda, ancora da definire analiticamente, si rinvia al primo capitolo del
volume di A. Melucco Vaccaro, I longobardi in Italia, Milano 1982.
7
Per le problematiche inerenti il museo in questione si rinvia agli ampli contributi di A. Melucco
Vaccaro e L. Paroli che aprono il X numero di "Archeologia Medievale".
dell'archeologia con l'" origine" del romanico8 e l'inizio di una documentazione scritta
relativamente ricca, aprendo la strada per affrontare i temi legati alle vicende dell'insediamento e al
rapporto uomo-ambiente, e per studiare i fondamenti materiali delle strutture sociali allargando
l'orizzonte della ricerca storica e liberando «in una certa misura la storia sociale dalla sua
dipendenza dalla storia economica»9.
La dilatazione cronologica dell'indagine archeologica ha posto sul tappeto della ricerca oltre che,
come abbiamo appena detto, il problema di un confronto più serrato con la documentazione scritta
e quindi con problematiche storiografiche più mature e complesse, anche quello del rapporto con
una tradizione antiquaria di radici profonde10 . In particolare si è posto il problema del "recupero"
della cultura neogotica, che alla fine del secolo scorso e nei primi decenni di questo aveva avuto un
grandissimo peso nello studio dei monumenti medievali e negli stessi centri abitati,11 con il
collezionismo di origine ottocentesca che, ad opera soprattutto di anglosassoni e tedeschi, aveva
fornito materiali ceramici e gli "incunaboli" della maiolica italiana ai musei pubblici e privati di
molti paesi europei12, e più in generale con la tradizione positivistica, le cui acquisizioni, e ci basti
pensare alle esperienze di Boni e di Pigorini13 o agli studi storico-archeologici sull'attività estrattiva
della seconda metà dell'Ottocento14, potevano essere utilizzate e ricollocate in un quadro di
riferimento molto più maturo e in grado di ridefinirle come documenti di maggior significato.
Nel quadro di "allargamento" tematico e cronologico della ricerca archeologica postclassica
assumono un ruolo non secondario anche gli scavi e le indagini di superficie promossi in Italia dalla
British School di Roma, diretta prima da J. Ward Perkins e quindi da D. Whitehouse, che concentra

8
Di questa opinione, poi parzialmente rivista, era M. Cagiano de Azevedo, Lo studio
dell'archeologia medievale in Italia, in Atti del 11 Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana,
Matera 25-31 maggio 1969, Roma 1971, PP. 9-17.
9
Si veda quanto scriveva G. Duby ( Le società medievali , Torino 1985, P. 103 S.) a proposito dell'archeologia
medievale agli inizi degli anni Settanta.
10
Basti fare riferimento al Muratori e ai suoi "continuatori" sparsi in molte delle regioni italiane, e per quanto riguarda
la Toscana è d'obbligo il riferimento ad opere come i Viaggi del Targioni Tozzetti, dove cultura umanistica e
osservazione scientifica sono inestricabilmente congiunte, o come il Dizionario storico e topografico, di Emanuele
Repetti che sono i più espliciti esempi di quella cultura, e che a tuttoggi rimangono base documentaria e punto di
partenza di non pochi studi storico topografici ed archeologici.
11
In questo quadro il gusto "archeologico" ed il desiderio del pittoresco iniziò ad investire i monumenti medievali ed in
particolare quelli gotici, sotto la spinta della cultura transalpina, soprattutto nell'Italia settentrionale ed in Piemonte in
particolare, dove l'ispirazione seottiana faceva porre al centro di non poca produzione di romanzi il paesaggio del
rudere e del eastello fino dal primo Ottocento, e dove lavorerà il d'Andrade, il cui operare originalmente sulle orme di
Viollet le Duc, influenzerà la cultura restaurativa italiana ben oltre Boito. Per un esaustivo quadro del gusto
"archeologico" Ottocentesco si vedano le belle pagine introduttive di A. A. Settia, Castelli e villaggi nel’Italia padana,
Napoli 1984.
12
Manca fino ad ora una storia del collezionismo e dell'erudizione antiquaria relativa al materiale medievale quindi è
impossibile valutare con precisione il ruolo svolto da personaggi quali Fortnum, Wallis, Bode, Langton Douglas
accanto ai nostri Funghini, Argnani, Passeri, Campori, Malagola, Urbani di Gheltof. Numerosi riferimenti a quanto
elaborato a cavallo fra Ottocento e Novecento da questa generazione di studiosi, che ha costruito le basi per una storia
della ceramica che generalmente non parte prima della comparsa della maiolica arcaica, sono contenuti nelle più recenti
ricerche che si vanno pubblicando sempre più numerose a livello regionale e locale. Il disinteresse generalmente
constatabile fino agli inizi degli anni Sessanta verso quelle classi ceramiche che definiamo acrome, verso cioè la
ceramica di uso comune non decorata, ha privato però la ricerca di strumenti di grande utilità per i secoli centrali e per
l'Altomedioevo, un'area dove la ceramica è ancor oggi difficilmente utilizzabile come "fossile guida".
13
Sul problema si veda D. Manacorda, Cento anni di ricerche archeologiche italiane: il dibattito sul metodo ,
"Quaderni di Storia", 16 (1982), pp. 85-119.
14
Si fa riferimento in particolare ai lavori di L. Simonin sull'attività estrattiva, il lavoro metallurgico e sugli statuti
minerari di Massa Marittima e più in generale della Toscana pubblicati negli anni 1858-1859 sulle "Annales des
Mines", temi che troveranno momenti di approfondimento nei lavori dell'Haupt e del Lotti. Tali indagini minerarie che
hanno paralleli cultori in varie parti d'Italia, continueranno ad essere fertile terreno di ricerca per gli archeologi ed in
particolare degli etruscologi che sulla rivista "Studi etruschi", daranno, fra la fine degli anni Venti e i primi anni
Cinquanta, ampio margine all'argomento grazie soprattutto all'interesse di Minto, il quale, per altro, mostra una chiara
tendenza ad appiattire sull'epoca preromana ogni forma di attività estrattiva con caratteristiche preindustriali.
la sua attenzione sui villaggi abbandonati del meridione e dell'area laziale15, mentre sempre a
ricercatori anglosassoni si devono le prime sistemazioni dei materiali ceramici provenienti sia da
raccolte che da ricerche sul campo, ricerche che trovano spazio nei papers di quella istituzione16.
Ma la "British School at Rome", non opera isolata, seppure costituisce il centro di ricerca straniero
che forse più profondamente influenza e coopera con istituti e studiosi italiani, infatti l"'Ecole
Française de Rome" svolge anch'essa un'intensa attività su insediamenti rurali siciliani17, mentre
1'Università di Salerno, raccogliendo l'eredità di Bognetti, promuove in collaborazione con gli
archeologi dell'"Istituto di storia della cultura materiale" di Varsavia una sistematica indagine
sull'area della città abbandonata di Capaccio vecchia in Campania18. In tutti i casi che abbiamo
ricordato i cantieri di scavo divengono centri di formazione e di dibattito per storici ed archeologi.
Non di minor rilievo per altro ha rivestito quanto si andava contestualmente elaborando all'interno
di alcuni gruppi di ricerca regionali: il "Gruppo ligure di ricerca sulle sedi abbandonate» che
vedeva uniti storici, geografi, archeologi e naturalisti (Massimo Quaini, Diego Moreno, Tiziano
Mannoni)19, affronta il problema della morfologia dell'insediamento con un approccio
interdisciplinare del tutto inedito nel caso italiano ed elabora strumenti di analisi e di datazione
nuovi, muovendosi su un'area estesa e per certi versi omogenea. La Liguria è infatti la prima
regione che si dota di uno strumento come la tipologia delle ceramiche postclassiche e
preindustriali, facendo un uso ottimale anche dell'esperienza che si era andata consumando con
l'insegnamento di Nino Lamboglia. Tiziano Mannoni elabora la classificazione delle ceramiche
liguri, guardando a questo tipo di manufatto con un'ottica che non si limita all'utilizzazione di un
"fossile guida", la cui definizione è comunque tutt'altro che agevole, ma ad uno strumento di analisi
di contesti sociali, di funzioni, di tecnologie produttive e spia di contatti economici fra le diverse
aree mediterranee 20.

15
I risultati del lavoro pluriennale della scuola britannica sono stati pubblicati da T. W. Potter, The Changing
Landscape of South Etruria, London 1979 (trad. it. Storia del paesaggio dell'Etruria meridionale. Archeologia e
trasformazioni del territorio, Roma 1985), a cui si rinvia anche per una sintesi storica delle ricerche e delle metodologie
utilizzate, che così marcatamente segnano la ricerca sul campo in questo settore, tanto da costituire oggi un modello di
riferimento alternativo alla consolidata metodologia che sta alla base dei volumi editi nella collana Forma Italiae.
16
Non vi è infatti alcun dubbio che il saggio di D. Whitehouse, The medieval glazed pottery of
Lazio, "Papers of the British School at Rome", XXXV (1967), pp. 40-86, che segue di due anni un
breve saggio dedicato all'argomento sulla rivista "Medieval Archaeology" e di un solo anno un altro
saggio dedicato alla ceramica dell'Italia centrale e meridionale edito nella stessa sede, rappresenta il
punto di partenza di una ceramologia che si pone come strumento essenziale per una ricerca
archeologica che sta muovendo ancora i primi difficili passi, tanto è che, nonostante l'approccio
metodologicamente corretto, la datazione imprecisa del cosiddetto "Forum Ware" condizionerà
negativamente l'interpretazione dei dati che emergevano dalla ricerca di superficie nell'area laziale,
dove il problema dell'incastellamento, diveniva tema di confronto concreto fra storici ed archeologi.
17
Sull'impostazione di lavoro dei ricercatori legati a questa istituzione si veda AA.VV., Il gruppo di ricerche in
antropologia medievale (Parigi): un approccio interdisciplinare del basso medioevo rurale dell'Europa occidentale,
"Archeologia Medievale", III (1976), pp. 337-54 e quanto in più occasioni elaborato da G. Noyé. Mentre l'edizione
dello scavo Brucato. Histoire et archéologie d'un habitat médiéval en Sicile, a cura di J. M. Pesez, vol. 2, Roma 1984 è
un caso felice di pubblicazione integrale di uno scavo condotto, fra non poche difficoltà, nei primi anni Settanta dove si
è coniugato storia ed archeologia sino dall'inizio.
18
Si vedano al proposito i due volumi AA.VV., Caputaquis Medievale , I e II, rispettivamente
Salerno 1975 e Napoli 1984.
19
Un approccio interdisciplinare allo studio delle sedi abbandonate in Liguria, Genova 1971 che è
la più matura risposta italiana, rimasta sostanzialmente isolata, ad una tematica che in Europa aveva
prodotto una vasta letteratura ed evidenziato il ruolo dell'archeologia nello studio della dinamica
insediativa.
20
T. Mannoni, La ceramica medievale a Genova e nella Liguria, la cui sintesi è riportata tra i saggi
pubblicati nel presente volume, ha fra l'altro evidenziato l'impossibilità di muoversi su scale
diverse, per il Medioevo, da quella regionale se non subregionale.
In altre regioni il lavoro archeologico si andava catalizzando all'interno di istituti di storia
medievale o intorno a cantieri di scavo dove la correttezza dei direttori permetteva di prestare
attenzione ai livelli di vita successivi alle fasi classiche; al proposito si potrebbero indicare gli
istituti di storia delle università di Firenze, Palermo, Pisa, Salerno e Roma e lo scavo di Luni21.
Sebbene non in forma omogenea, la ricerca archeologica di ambito postclassico agli inizi degli anni
Settanta stava prendendo consistenza con l'apporto e il contributo determinante degli storici: da
Gina Fasoli a Elio Conti, da Carmelo Trasselli a Nicola Cilento e Paolo Delogu, l'unico,
quest'ultimo, che abbia anche scelto la pratica dell'archeologia riuscendo a produrre non solo linee
originali di ricerca, ma anche critiche ed incisive pagine sulla storia della disciplina, mentre l'unico
docente di archeologia medievale, Cagiano di Azevedo, pressato dalla spinta "spontaneista" dei
gruppi di ricerca regionali che già operavano sul campo con nuove strategie e generalmente con
punti di riferimento extranazionali, non si stancava di compiere opera di collegamento anche con
gli storici, orientando temi di dibattito soprattutto nell'ambito del centro di studi spoletino.
Datano sempre agli inizi degli anni Settanta alcuni episodi che mar22cano in modo sostanziale
l'orientamento prevalente dell'archeologia medievale in Italia: i dibattiti suscitati dal n. 24 del 1973
dei "Quaderni Storici", dedicato al tema Archeologia e geografia del popolamento, e dal n. 31 del
1976 della stessa rivista incentrato sulla cultura materiale23, la comparsa del primo numero della
rivista "Archeologia Medievale" nel 1974, nata sostanzialmente dall'incontro delle esperienze
condotte in Liguria ed in Toscana24,1'organizzazione del Colloquio Internazionale di Archeologia
Medievale di Palermo-Erice 25 ed infine la Tavola rotonda sull'archeologia medievale , promossa
dall"'lstituto nazionale di archeologia e storia dell'arte26 segnano definitivamente la fase di

21
Cfr. Scavi di Luni II . Relazione delle campagne di scavo 1972, 1973, 1974, a cura di A. Frova,
Roma 1977, dove compaiono studi sulle indagini relative alle fasi e ai materiali postclassici di B.
Ward Perkins, H. Blake e S. Lusuardi Siena.
22
23
In entrambi i numeri della rivista in questione i singoli saggi sono introdotti da un contributo, autori rispettivamente
Massimo Quaini e lo stesso Quaini con Diego Moreno che costituiscono ancor oggi un punto di partenza teorico
importante per la ricerca archeologica postclassica, nonostante che si sia notato già da allora come fossero presenti
spunti di una tendenza a cercare "scorciatoie" nella costruzione del documento archeologico. Si trattava di
un'insofferenza giustificata dal faticoso e lungo processo analitico sui materiali che talvolta esaurisce l'energia di chi
opera sul campo. Ma il significato più rilevante dei due contributi sta nell'aver posto le basi per una definizione di una
pratica di ricerca, che, nonostante le oggettive specificità archeologiche, si pone come momento di ricomposizione di
settorializzazioni disciplinari per una storia delle "culture" postclassiche e preindustriali.
24
Al gruppo ligure si deve l'inizio della pubblicazione del "Notiziario di Archeologia Medievale" a
partire dal settembre del 1971, che, con il GRAM (Gruppo ricerche archeologia Medievale
Palermo) di breve vita (1971-72), ha costituito uno strumento di informazione rapido relativamente
a iniziative di scavi, incontri e notizie bibliografiche: un ruolo che continua a svolgere tuttora.
Mentre nel gruppo toscano si stava sviluppando proprio in quel periodo un interesse archeologico
verso i problemi dell'insediamento incastellato e si stavano muovendo i primi passi per la
costruzione delle cronologie ceramiche in un rapporto proficuo con la "Soprintendenza all'antichità
d'Etruria" diretta da Guglielmo Maetzke.
25
Vol. 2, Palermo 1976.
26
Roma 1976, in questa sede si trova un saggio di grande respiro dove Toubert ha affrontato con
chiarezza il tema dei rapporti fra documentazione scritta e dati archeologici non senza rivendicare
un'assoluta separazione fra storici ed archeologi, portando l'esempio dei castelli che rimangono
campo di azione comune quando si tratta di vita materiale abitato ecc. e, viceversa, dei soli storici
quando si parla in termini di "signoria di castello" (p. 31), una posizione che a distanza di circa un
decennio, concludendo il convegno cuneese del 1981 sui castelli, Toubert pare aver notevolmente
attenuato, e, viceversa, il prodotto del lavoro archeologico gli appare sempre più uno strumento
integrato ed essenziale per la ricostruzione storica complessiva (Castelli. Storia e Archeologia, a
cura di R. Comba e A. A. Settia, Torino 1984, pp. 403-7).
un'"autonomia" disciplinare che a livello istituzionale si trasforma in un incremento consistente di
insegnamenti universitari e alla messa in moto del meccanismo che porterà all'introduzione, agli
inizi degli anni Ottanta, degli ispettori medievisti all'interno degli organi della tutela archeologica,
mentre a livello di ricerca sanciscono nel confronto con la storia il terreno privilegiato su cui
impostare la propria strategia. L'archeologia medievale nasceva e si muoveva quindi libera dalle
ipoteche che potevano provenire dalla tradizione antiquaria e lontana dalla tradizione storico
artistica e dell'archeologia classica.
Ma è stato proprio il rapporto stretto fra la domanda storiografica tesa a risolvere i problemi delle
dinamiche insediative di epoche caratterizzate anche da strutture precarie, che lasciano poche tracce
sul terreno, e più in generale delle dinamiche sociali ed economiche a spingere verso elaborazioni
di tecniche di indagine che, sul piano del metodo, si sono potute collocare all'avanguardia in
particolare nell'ambito della ricerca sul campo nel contesto delle archeologie, rompendo la
tradizionale dicotomia fra scienze "umanistiche" e scienze "naturali"27.E in questo senso si è parlato
di una "filiazione" e di una vicinanza fra l'archeologia medievale e la preistoria. Le edizioni, ancora
non numerosissime, degli scavi postclassici infatti presentano solitamente sezioni paleoecologiche,
dove si evidenzia l'attenzione posta ai problemi delle trasformazioni ambientali attraverso la
registrazione sistematica delle informazioni di carattere naturalistico: pollini, resti osteologici,
materiali organici in generale che non sempre erano valutati come possibili indici di assetti
pregressi, come pure sistematiche analisi mineralogiche di impasti ceramici per l'individuazione
delle aree di provenienza dei materiali da mensa e da trasporto 28.
Gli stessi metodi dell’archeologia estensiva hanno avuto, attraverso le indagini di superficie
condotte in Liguria dal Mannoni, momenti di notevole approfondimento29 e la stessa indagine
stratigrafica è stata generalmente e dall'inizio il minimo comun denominatore degli interventi
intensivi, dei cantieri di scavo postclassici, con rare e definite eccezioni. In questo senso ha pesato
non poco, in positivo, il ruolo svolto ancora una volta dalle scuole straniere, ed in particolare da
quella inglese, il cui impegno, seppure ancor oggi consistente in ambito postclassico, appare
fortemente ridimensionato, ancorché estremamente vitale e stimolante.
La funzione trainante dell'archeologia medievale nel qualificare i »problemi di metodo nella ricerca
ha contribuito in modo incisivo ad aprire un fruttuoso dibattito all'interno dell'intera archeologia
italiana. È stato infatti recentemente notato che «nel lanciare la sua crociata contro la tradizione
aulica dell'archeologia classica italiana, Andrea Carandini si accorgeva di esser stato preceduto,
nella parte propositiva, da quei pochi e ancor poco noti archeologi medievisti che pubblicavano una
rivista giunta al secondo numero»30. In realtà l'esperienza che era andata maturando all'interno della
ricerca di Carandini e della sua équipe aveva una storia notevolmente simile, almeno per l'aspetto
dell'indagine sul campo (rapporti da un lato con Nino Lamboglia e dall'altro con la missione inglese
a Cartagine), a quella dei gruppi regionali dove la ricerca archeologica postclassica, nonostante il
rapporto che abbiamo visto anche con altre tradizioni, aveva attinto a piene mani soprattutto

27
È indicativo al proposito che uno dei primi ed originali interventi sulle analisi stratigrafiche sia
stato elaborato da T. Mannoni, Sui metodi dello scavo archeologico nella Liguria montana.
(Applicazioni di geopedologia e geomorfologia), "Bollettino linguistico", XXII (1970), pp. 51-64.
28
E interessante notare come le tecniche di scavo descritte da A. Carandini, Storie della terra.
Manuale dello scavo archeologico, Bari 1981, siano in perfetta assonanza con i metodi di indagine
adottati dagli archeologi postclassici, come è verificabile nelle diverse annate di "Archeologia
Medievale".
29
Cfr. Mannoni L. e T., La ceramica dal Medioevo all'età Moderna nell'archeologia di superficie
della Liguria centrale ed orientale, in Atti dell'VIII Convegno Internazionale della ceramica,
Albisola 1975, pp. 121-36.
30
Cfr. P. Delogu, Archeologia medievale, un bilancio di venti anni, "Archeologia Medievale", XIII
(1986) a cui si rinvia per un'esauriente quadro delle vicende della disciplina e per un quadro delle
linee di ricerca attuali.
dall'esperienza anglosassone. Ed è proprio da questa nuova prospettiva, che vedeva unificati sul
piano del metodo gli archeologi medievisti e un settore importante dei classici, che si è potuto
guardare all'archeologia stratigrafica come ad una scienza di analisi del territorio nella lunga durata,
dove le problematiche della cultura materiale e delle scienze etnografiche assumevano una
centralità che fino a quel momento non gli era riconosciuta.
Inoltre l'unità delle archeologie è la base su cui stanno maturando le iniziative di archeologia
urbana che, nel nostro paese, hanno iniziato ad essere impiantate soltanto a partire dagli anni
Ottanta, ma anticipate da un paio di casi, uno dei quali, quello genovese, risale già alla metà degli
anni Sessanta ed ha visto protagonista ancora una volta Tiziano Mannoni, mentre il secondo, quello
pavese, ha avuto in un altro archeologo medievale, Peter Hudson, il suo riferimento31.
L'archeologia urbana si è diffusa come pratica soprattutto nell'Italia centro-settentrionale, vedendo
attivi in particolare gli archeologi medievistici (si vedano al proposito i casi di Brescia, Verona,
Milano, Pindena ecc.32) e i risultati raggiunti permettono fino ad ora di intravedere un nuovo modo
di fare storia della città, dove continuità e fratture possono essere concretamente valutate al di fuori
di schematismi precostituiti e di letture "formali", mettendo in relazione i processi di stratificazione
con le trasformazioni urbanistiche.
Per l'Altomedioevo stanno emergendo informazioni preziose non solo relativamente alla riduzione
degli spazi urbani, rilevabile attraverso la lettura dell'andamento delle cinte murarie, ma anche
relativamente al rialzamento consistente delle quote di uso, talvolta anche di diversi metri. Questo
fenomeno, i cui tempi non sono forse unitari, ma che inizia già in epoca tardo antica e si protrae per
tutto l'Altomedioevo, si caratterizza per la presenza di spessi "strati neri" a forte componente
antropica, talvolta riferibili ad usi di ampie aree ortive in altri a depositi di rifiuti o a crolli di case
di terra. Comunque in generale si tratta di accumuli causati da una mancata manutenzione delle
infrastrutture. Le indicazioni che vengono raccolte mostrano come la città tenda generalmente a
svilupparsi per isole, alterando zone precedentemente abitate, con vaste aree inedificate e coltivate,
e come si sia largamente diffuso l'uso del legno come materiale da costruzione per le case-capanne,
che per altro coesistevano con altre tipologie edilizie differenziate, come edifici pubblici in pietra
e/o mattone, e con strutture antiche che, quando non erano usate come cave, venivano riutilizzate in
forma parassitaria. L'evidenza archeologica mostra inoltre che gli edifici in legno non erano un
retaggio di culture germaniche, ma appartenevano ad un substrato di conoscenze tecnologiche
autoctone.
In realtà l'archeologia urbana rappresenta uno dei nodi più rilevanti per la ricerca nei prossimi anni,
perché è il terreno dove si potrà più concretamente operare quel disegno di ricomposizione delle
archeologie da un lato e dall'altro dell'archeologia medievale con la storia, con la storia
dell'architettura e dell'arte e più in generale con le scienze del sopravvissuto.
Insistere sulla rilevanza dell'unità dell'archeologia postclassica con le a tre archeologie e con lo
studio del "sopravvissuto", dalla capanna al monumento, che Mannoni definisce «archeologia
globale», vuol dire indicare chiavi di lettura filologicamente corrette delle fonti materiali nel loro
complesso le quali permettano di superare le artificiose separazioni disciplinari che impediscono di
cogliere nel suo insieme ciò che è stato prodotto da l'uomo nel lungo periodo nelle sue più

31
Gli scavi nell'area centrale di Genova, Castello-San Silvestro furono iniziati nel 1967 e sono stati
soltanto parzialmente editi: cfr. D. Andrews, D. Pringle, Lo scavo dell'area sud del Convento di S.
Silvestro a Genova, "Archeologia Medievale", IV(1977), pp. 47-207; per il caso pavese si veda P.
Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca: I'esempio di Pavia, Firenze 1981
32
Cfr., Archeologia urbana in Lombardia , a cura di G. P. Brogiolo, Modena 1985. Per un quadro generale dei problemi
di archeologia urbana si rinvia oltre che ad "Archeologia Medievale", VII(1979), dedicato ad Archeologia e
pianificazione del territorio, al recente saggio di B. D'Agostino, Le strutture antiche del territorio, in Storia d7talia,
Annali 8, Insediamenti e territorio, Torino 1985, pp. 5-52. Mentre per un caso di studio privilegiato, la cui
interpretazione in parte si differenzia da quanto si va scrivendo di seguito, si veda C. La Rocca, "Dark ages" a Verona:
edilizia privata, aree aperte e strutture pubbliche in una città dell'Italia settentrionale, "Archeologia Medievale", XIII
(1986).
diversificate e complesse attività. Soprattutto importante nel caso italiano dove la "storica"
divisione nell'ambito della ricerca postclassica fra storia e storia dell'arte e architettura ha creato
delle "separazioni", che sono state accentuate nel quadro del dibattito storiografico che ha
avvicinato vita materia e, quotidianità con la lunga durata e l'analogia e viceversa l'evento con il
monumento e l'anomalia, radicalizzando in qualche modo l'incomunicabilità33. La necessità del
confronto con i temi privilegiati della storia dell'arte emergono con grande chiarezza da la maturità
raggiunta dal metodo di analisi stratigrafico, che non ha mancato di dare contributi imprescindibili
anche nella lettura di monumenti significativi34: si è in sostanza conclusa la fase in cui l'archeologia
postclassica si interessa di ciò che gli storici e gli storici dell'arte e dell'architettura tralasciavano.
A distanza quindi di dieci anni dall'incontro-seminario di San Marino di Bentivoglio (Museo della
Cultura Contadina) da titolo Una rifondazione dell'archeologia postclassica: la storia della cultura
materiale35, che ha segnato una tappa importante del dibattito epistemologico relativamente
all'archeologia nel suo rapporto con le a tre scienze storiche, gli interrogativi posti a lora alla
discussione sono ancora terreno di dibattito vivo 35 e i temi aOora impostati sono divenuti oggetto
di indagini problematiche e non certo una pratica di ricerca discriminatoria dove la cultura delle
collettività è stata contrapposta a quella dell'individua ità. Inoltre la ricerca di come l'archeologia
contribuisce a la costrazione della storia e soprattutto del documento storico è proceduta ad un
livello assai elevato e sulle cose, i saggi che seguono sono esemplificativi, anche nella loro
eterogeneità, di quanto si va elaborando al proposito.

RICCARDO FRANCOVICH

33
Al proposito si rinvia al numero monografico di "Restauro & Città" dedicato ad Archeologia
urbana e restauro ed in particolare al saggio di T. Mannoni, Archeologia globale a Genova pp. 33-
47.
34
Oltre i casi genovesi di Santa Maria in Passione e dell'ex convento di San Silvestro, cui fa
continuamente riferimento Mannoni (Archeologia globale, cit.), si potrebbe ricordare AA.VV., Il
Palazzo Corigliano tra archeologia e storia, Napoli 1985, R. Francovich, S. Gelichi, Archeologia e
storia di un monumento mediceo, gli scavi nel "cassero" senese della Fortezza di Grosseto, Bari
1980 e G. Vannini, L'antico Palazzo dei Vescovi a Pistoia, Firenze 1985.
35
Cfr. "Archeologia Medievale", III (1976), pp. 7-24. Per una rassegna critica dell'andamento del
dibattito intorno a questi problemi si veda J. M. Poisson, Problemi tendenze e prospettive
dell'archeologia medievale in Italia, "Società e Storia", 4 (1979), pp. 129-50. Più difficilmente
utilizzabile il breve saggio di H. Blake, Archeologia e Storia, "Quaderni Medievali" 12 (1981), pp.
136-52, mentre recentemente M. S. Mazzi, Civiltà, cultura o vita materiale?, "Archeologia
Medievale», XII (1985), pp. 573-92, ha riproposto il problema della cultura materiale fra storia ed
archeologia in termini estremamente chiari ed incisivi, riprendendo spunti anche da quanto
elaborato nella voce Cultura materiale della Enciclopedia Einaudi, da J. M. Pesez e R. Bucaille, e
da J. M. Pesez, Storia della cultura Materiale, in La nuova storia, a cura di J. Le Goff, Milano
1980. Ma per la definizione degli" spazi" comuni fra storici ed archeologi oltre al citato saggio di
Serena Mazzi si veda anche il contributo di J. M. Pesez, Archéologues et Historiens,—in Mélanges
d'archéologie et d'histoire médiévales en l'honneur du Doyen Michel de Bodard, Genève-Paris
1982, pp. 295-308.
I Longobardi in Italia: insediamenti e cultura materiale

L'invasione longobarda dell'Italia (568 d.C.), pur non investendo come è noto, I'intera penisola, che
in parte restò all'Impero, costituì un fatto molto più traumatico rispetto a quella gotica. Infatti i
Longobardi, instaurando una dominazione germanica sulle popolazioni romanze, contrapposta
all'Impero romano, che si protrasse in forme diverse per oltre due secoli, segnarono un punto di
cesura con il mondo romano anche a livello politico e istituzionale, innescando una serie di processi
di trasformazione economico-sociale che determineranno il successivo sviluppo dell'Italia
medievale.
Il lungo processo di interrelazioni "culturali" fra Germani ed autoctoni ha assunto nelle diverse
parti della penisola connotati talvolta diversi, a seconda della vicinanza cronologica e spaziale dal
momento e dall'area della prima migrazione e dal diverso grado di assimilazione reciproco che si
era raggiunto. L'archeologia dell'epoca longobarda ha generalmente privilegiato l'elemento
germanico: una grande tradizione di studi dell'Europa centro-settentrionale, a cominciare dall'Äberg
per giungere al Werner e al von Hessen, ha creato gli strumenti di lettura cronologici e ha
ricostruito l'evoluzione del costume nazionale longobardo, soprattutto indagando i resti delle aree di
inumazione e dando uno spazio più limitato al problema degli insediamenti e quindi del rapporto
fra l'elemento germanico e le popolazioni autoctone (fra i pochi casi indagati si ricordano quelli di
Castelseprio e di Invillino del Friuli); soltanto recentemente si è cominciato a riflettere in modo
diverso a questo proposito.
In questa sede offriamo due brani, entrambi inediti in Italia, che evidenziano altrettanti diversi
approcci, l'uno di Otto von Hessen, 1 l'altro di Cristina La Rocca Hudson e Peter J. Hudson 2, al
quale si rinvia per la bibliografia sull'argomento3.

1
Die Longobarden in Pannonien und in Italien , in Sonderdruck aus der Propyläen Kunstgeschichte , Berlino 1982, pp.
164-8; la traduzione dal tedesco è di Nori Zilli.
2
Questo contributo è stato presentato alla «Third Italian Conference», Cambridge 1984, e pubblicato con il titolo
Lombard immigration and its effects on North Italian rural and urban settlement, in Papershin Italian Archacology IV.
The Cambridge Conference IV, a cura di C. Malone e S. Stoddart, Oxford 1985, pp. 225-46. Ndl'occasione di questa
edizione italiana gli autori hanno rivisto il testo ed aggiornato la bibliografia.
3
Per uno sguardo complessivo ed esauriente al problema delle migrazioni germani che in Italia, comprensivo di una
ricca bibliografia rinviamo al recente volume Magistra Barbaritas. Barbari in Italia, Milano 1984 ed in particolare al
saggio di V. Bierbrauer, Aspetti archeologici di Goti, Alemanni e Longobardi, pp. 445-508, mentre una ricostruzione
storica che tiene ampio conto delle evidenze archeologiche è in P. Delogu, Storia dei Longobardi, in P. Delogu, A.
Guillou, G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, in Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, I, Torino 1980, pp. 3-216.
Otto von Hessen

I Longobardi in Pannonia e in Italia

Il nome di Longobardi riferito a una stirpe compare per la prima volta negli anni
intorno alla nascita di Cristo; gli storici romani fanno menzione di questo popolo
come di una stirpe germanica in lotta con Roma. Il praefectus equitum di Tiberio,
Velleio Paterculo, ne parla e osserva che sono particolarmente bellicosi, lo stesso
riferisce Tacito circa cento anni più tardi. Come sede di questa stirpe viene indicata la
zona del basso corso dell'Elba, i Longobardi da parte loro invece affermano di essere
originari della Scandinavia, come risulta nell'introduzione all'Editto di Rotari, la
Origo gentis langobardorum, redatta intorno al 643. Queste notizie riportate anche
dalla Historia Langobardorum di Paolo Diacono, scritta fra il 770 e il 790 e che
vengono ripetute dalle fonti successive, sono state più volte messe in dubbio e non
hanno trovato fino ad oggi conferma certa dal punto di vista archeologico.
Nella zona che gli storici romani indicano come sede dei Longobardi, la regione cioè
fra le attuali Amburgo e Luneburg, esistono, quali testimonianze archeologiche di
quel periodo, delle necropoli talvolta piuttosto grandi con tombe a incinerazione usate
senza interruzione per almeno due o trecento anni che confermerebbero una
prolungata presenza "longobarda". L'insediamento durò fino ai primi secoli dopo
Cristo, ma verso la metà del IV secolo diminuì di importanza; il fenomeno potrebbe
essere spiegato con l'emigrazione almeno parziale della popolazione. Il nome dei
Longobardi ricompare nei testi storici di nuovo nel 166-67 durante la guerra dei
Marcomanni. In questo caso vengono citati seimila Longobardi che combattevano a
fianco dei Marcomanni contro i Romani e che si spinsero in quell'occasione fino alla
Pannonia. Dopo questo accenno le fonti storiche tacciono per almeno due secoli.
Anche dal punto di vista archeologico in tale periodo è difficile definire questo popolo
come unità a se stante. I Longobardi nelle proprie tradizioni affermano di aver
abbandonato le antiche sedi per spostarsi prima ad Antahib e poi a Bainhaib. Mentre
Bainhaib viene oggi identificato da parte degli studiosi con la Boemia, non abbiamo
per il momento nessuna indicazione valida per identificare Anthaib.
La storia vera e propria dei Longobardi ha inizio soltanto nell'anno 487-88. Allora,
come risulta dalle fonti storiche, occupavano il territorio dei Rugi, vinti e distrutti da
Odoacre, cioè l'attuale Bassa Austria. L'occupazione del paese dei Rugi da parte di
un nuovo gruppo etnico in questo periodo è attestata anche dalla ricerca archeologica.
Innanzi tutto compaiono le necropoli con tombe a fila (Reihengräber) che fanno
chiaramente parte del mondo merovingico orientale e documentano l'immigrazione di
nuove popolazioni da nord-ovest. I nuovi venuti inumavano i propri morti secondo il
rito dei Reihengräber in tombe orientate. I doni funebri per le donne consistono in
gioielli e accessori dell'abbigliamento per gli uomini soprattutto in armi e oggetti di
ornamento per l'armatura. In ambedue i casi troviamo inoltre pettini e recipienti di
terracotta.
I1 corredo funebre nelle tombe femminili della prima generazione di immigrati,
corrisponde a quello in uso fra le popolazioni di ambiente merovingico. Insieme alle
collane di perle troviamo in genere un paio di piccole fibule a "S" o di fibule a disco e
un paio di fibule a staffa relativamente piccole. Mentre le fibule a "S" - diversamente
da quelle appartenenti a altre civiltà dell'ambito merovingico - presentano un gran
numero di varianti, per cui vanno considerate come un elemento a se stante, le fibule
a staffa e quella a disco, nel periodo pre-pannonico e all'inizio della fase pannonica
delle migrazioni longobarde, si ricollegano direttamente ai modelli occidentali. I1
corredo di armi, nelle tombe maschili di questo primo periodo, comprende innanzi
tutto una spada (spatha), la lancia con la punta a foglia di salice e lo scudo con
umbone a cono schiacciato, al cui vertice si trova spesso un ribattino col gambo.
Vorrei qui ricordare le tombe di due orafi, quella di Brünn e quella di Poysdorf, che
oltre al corredo di armi contenevano gli arnesi da orafo e nel caso di Poysdorf,
addirittura due modani per la fabbricazione delle fibule, una a "S" e una a staffa con
piastra di testa rettangolare. Quanto alla ceramica nelle tombe longobarde di
quest'epoca compaiono due forme principali: da un lato le ciotole scanalate
caratteristiche della zona dell'Elba, dall'altro le ciotole a doppio cono con motivi a
stralucido tipiche del mondo orientale.
Nelle necropoli dei primi decenni del VI secolo, periodo in cui i Longobardi si
diffusero oltre il Danubio in Pannonia, si nota la tendenza ad abbandonare gli oggetti
di tipo turingio-boemo, mentre compaiono più di frequente offerte che fanno pensare
a legami con l'ambiente occidentale merovingico e alemannico. Nelle tombe
femminili si trovano spesso coppie di fibule a staffa di provenienza occidentale -
come i due esemplari di Hegyko - e inoltre anche fibule a rosetta e a disco ornate a
cloisonné, che sono certamente di origine franca; in generale in questo periodo l'abito
delle donne longobarde segue in tutti i dettagli la moda occidentale.
Se consideriamo le fibule a staffa delle tombe longobarde in Pannonia, basandoci
sulle pubblicazioni disponibili, possiamo notare che il materiale non è unitario, ma
comprende una serie di forme molto diverse fra loro.
Accanto ai succitati esemplari di "importazione" che sono di provenienza occidentale,
in Pannonia gli orefici longobardi sviluppano nuove forme, che non possiamo più
catalogare genericamente come merovingiche, ma che vanno considerate
specificamente longobarde. Questi nuovi tipi di fibule e la loro ornamentazione sono
le prime testimonianze di un'arte autonoma prettamente longobarda.
Le forme preferite dai Longobardi sono le fibule a staffa dalla piastra di testa
semicircolare e il piede ovale terminante con una testa di animale in rilievo. La piastra
di testa è circondata da protuberanze, che negli esemplari più semplici erano fuse in
un sol pezzo con la fibula, mentre in quelli più pregiati venivano approntate
separatamente e poi inserite nella piastra. Il loro numero varia a seconda della
grandezza della fibula. Questa forma classica di fibula longobarda si sviluppa da
prototipi occidentali fino ad assumere caratteri propri. Talvolta compare la
ornamentazione geometrica a Kerbschnitt abituale nelle fibule merovingiche, che
indica la provenienza originaria, ma per lo più le fibule sono decorate con
ornamentazione zoomorfa in Stile 1.
Una variante dello Stile 1, che compare quasi contemporaneamente, è la cosiddetta
Schlaufenornamentik; consiste, nella sua forma originaria, di nastri intrecciati e
disposti con rigida simmetria, che possono talvolta, ma non sempre, contenere dettagli
zoomorfi appena accennati. Questa variante dello stile zoomorfo, nello sviluppo della
ornamentazione longobarda, va posta, secondo H. Roth, fra lo Stile I e lo Stile II.
Oltre alle tipiche fibule a staffa con piastra di testa semicircolare compare in Pannonia
un altro tipo, si tratta di fibule con la piastra di testa rettangolare e il piede
romboidale, come quelle trovate nella Tomba 18 di Hegykö. Il gruppo, indicato in
genere come tipo Cividale, e che discende dalle Relieffibeln (fibule a rilievo)
nordiche, si sviluppò per suo conto sotto l'influsso longobardo. Certi ornamenti che
già compaiono in queste fibule- come i tralci a spirale, gruppi di linee, maschere e
teste di uccelli assai stilizzate lungo il bordo del piede - rivelano un influsso diretto
dell'arte ostrogota e fanno pensare che queste fibule siano state approntate per i
Longobardi da orafi ostrogoti rimasti in Pannonia. Perciò la fibula di tipo Cividale
dimostra come nel periodo pannonico della migrazione i Longobardi, sotto l'influsso
di elementi provenienti da culture diverse, abbiano creato un nuovo stile, che può
essere considerato veramente longobardo.
Qualcosa di analogo si può notare per i reperti provenienti da tombe maschili della
stessa epoca. Accanto a oggetti di alta qualità "importati" da altri ambiti culturali,
come la spatha nordica col pomo d'oro di Gyirmod e la placca di cintura franca di
Szentendre, si trovano, anche se finora di rado, prodotti di artigiani locali. Vorremmo
qui citare le placche delle briglie di Veszkeny, che probabilmente provengono dalla
tomba distrutta di un principe. Si sono conservati soltanto gli anelli dei filetti con
agemina in argento, un pendente di argento dorato e delle falere a forma di croce;
queste ultime si possono dividere in due gruppi in base alla loro forma. Il primo è
ornato da una greca e da un semplice nastro intrecciato, motivi questi che provengono
da forme mediterranee. Nell'altro gruppo le placche emisferiche sono divise da una
croce in rilievo, i cui bracci terminano con teste di animali, in quattro campi nei quali
sono rappresentati alternativamente una figura umana accovacciata e due animali
intrecciati fra di loro. Mentre la croce e anche i motivi zoomorfi si rifanno in generale
all'arte pannonico-longobarda, per la figura umana accovacciata ritroviamo delle
lontane analogie nell'arte nordica. La decorazione del pendente a mezza luna consiste
in due animali affrontati in Stile I e una maschera umana fra due teste di uccelli
rapaci; questi due motivi, che compaiono frequentemente nell'ornamentazione
zoomorfa nordica, indicano che il pezzo si rifà a un modello di origine nordica.
I reperti, provenienti dalle necropoli dell'epoca della venuta in Italia, indicano che i
Longobardi nei primi decenni a partire dal 568 continuano a seguire la tradizione
pannonica. Lo si nota chiaramente in esemplari trovati nei cimiteri di Cividale del
Friuli, Nocera Umbra e Castel Trosino presso Ascoli Piceno. In questi centri, come
pure in altri luoghi di scavo d'Italia, s'incontra lo stesso patrimonio di forme che sono
caratteristiche dell'epoca pannonica, il che costituisce un'indubbia prova della
migrazione del popolo longobardo. Poco tempo dopo si notano tuttavia delle
innovazioni che vanno ricollegate all'influsso della civiltà bizantino-mediterranea. Le
donne longobarde dapprima rimangono fedeli all'antico costume con le fibule, ma
accanto a questo compaiono elementi ripresi dalla moda bizantina, in particolare gli
orecchini d'oro e d'argento ornati di sottile filigrana. Vengono anche usati anelli di
metallo nobile e nelle tombe di donne ricche compaiono pendenti d'oro infilati nelle
collane di perle.
Le piccole fibule vengono abbandonate poco dopo l'insediamento in Italia; al loro
posto compare la fibula a disco, che nei primi tempi è ancora ornata a cloisonné. Le
fibule a staffa diventano più grandi e al posto della decorazione in Stile I e in
"Schlaufenstil" subentra quella in Stile II sviluppatasi dopo la venuta in Italia.
Questa nuova decorazione non viene usata soltanto sulle fibule a staffa, ma compare
anche sulle guarnizioni di cintura o su altri oggetti simili e in particolare sulle
cosiddette crocette in lamina d'oro, tipiche del periodo italo-longobardo. Si tratta di
croci, in genere piuttosto piccole, ritagliate in sottile lamina d'oro e per lo più decorate
con tecnica a sbalzo; esse erano cucite su un velo che veniva disteso sul volto dei
defunti. Data la varietà dei motivi usati nella decorazione esse rappresentano uno dei
documenti più importanti per le arti minori longobarde. Accanto alla ornamentazione
a Schlanfenstil, nella fase più sviluppata troviamo varianti in Stile II, ma anche
elementi non longobardi di provenienza bizantma.
La massima fioritura delle arti minori longobarde e dell'oreficeria corrisponde ai primi
decenni del VII secolo. I reperti di questo periodo, che sono assai importanti e
numerosi ci danno un'immagine di quanto ricca fosse la produzione in oggetti d'oro e
d'argento. I doni funebri che di norma venivano deposti nelle tombe femminili
consistono in orecchini d'oro con ametisti e altre pietre preziose. Le fibule a staffa
vengono sostituite da una grande fibula a disco in cui sono inserite pietre disposte a
croce o guarnizioni in filigrana. Spesso in queste tombe si trova del broccato d'oro,
che fa pensare a abiti riccamente decorati e che compare anche nelle tombe maschili.
Inoltre vengono usate spathe col pomo d'oro o d'argento, in parte filigranato, in parte
con ornamentazione zoomorfa in Stile II. La foggia delle cinture si sviluppa in forme
particolarmente ricche; venivano indossate cinture multiple con guarnizioni d'oro e
d'argento, secondo il modello orientale bizantino, i cui ornamenti riportano in parte
motivi mediterranei come delfini contrapposti o simili. Altri oggetti di lusso
provenienti da tombe maschili di questa epoca e anch'essi influenzati dallo stile
mediterraneo sono le preziose selle e le placche delle briglie. Un genere tipico
dell'epoca italo-longobarda è rappresentato invece dai cosiddetti scudi da parata
longobardi, ornati con ribattini dorati e, in casi particolarmente preziosi, anche con
placche sagomate a forma di figure. Le scene riprodotte sulla superficie dello scudo
possono derivare da modelli tardoantichi, come nel caso dello scudo di Stabio in cui è
rappresentata una scena di caccia, o derivare dall'iconografia cristiana come nello
scudo di Lucca in cui compare un calice fra due pavoni e un guerriero che porta una
croce in piedi fra due leoni. Talvolta la decorazione consiste solamente di croci, come
per esempio nello scudo di Gisulfo di Cividale o nello scudo di Borgo d'Ale.
Ai primi decenni del VII secolo appartiene anche la placca frontale del cosiddetto
elmo di Agilulfo trovato in Val di Nievole. Vi è rappresentata la tradizionale scena
dell'atto di sottomissione: il re siede in trono fra due armati a cui si avvicinano da
destra e da sinistra due gruppi di figure condotti ciascuno da una vittoria alata. Anche
se la rappresentazione si rifà a modelli antichi, la placca di Agilulfo rappresenta una
delle testimonianze non solo più interessanti, ma anche più importanti dell'arte
longobarda, perché, ad eccezione di alcuni anelli a sigillo, non conosciamo
praticamente nessuna rappresentazione della figura umana.

I reperti longobardi della metà circa del VII secolo hanno caratteri completamente
nuovi; diminuisce anche il numero dei reperti stessi. Nelle poche tombe femminili
dell'epoca che si sono conservate si trovano solo oggetti che seguono la moda
mediterranea, come orecchini e fibule a disco e talvolta anelli di metallo nobile. Se
confrontiamo questi reperti con oggetti appartenuti a donne non longobarde trovati in
tombe della Sicilia e della Sardegna, notiamo una forte somiglianza sia nelle forme
che nello stile; ciò indica che è avvenuta una totale assimilazione degli usi autoctoni
da parte delle donne longobarde. Di contro, per quanto concerne i doni funebri degli
uomini di quest'epoca, si può constatare che permangono caratteristiche particolari
che ci permettono di distinguere chiaramente le sepolture dei Longobardi da quelle
degli autoctoni. Continua l'usanza di deporre nelle tombe le armi. Tipiche della
ornamentazione longobarda sono le cinture per sospendere le armi e le guarnizioni
degli sproni, che si sviluppano in forme analoghe. Ambedue sono sia di bronzo che di
ferro. Le guarnizioni di bronzo in genere sono ornate solo da ribattini e hanno i bordi
centinati; quelle in ferro, invece, sono ornate da una quantità di motivi eseguiti nella
tecnica dell'agemina e della placcatura. In questo campo si nota una evoluzione, che è
presente anche a nord delle Alpi, per cui sembra giusto pensare a dei rapporti fra i
Longobardi e i loro vicini del nord.
Già all'inizio del VII secolo accanto alle guarnizioni di cintura in metallo nobile,
compaiono le cinture quintuple con agemina piuttosto grossolana in Stile II.
Contemporaneamente si trovano guarnizioni multiple in ferro la cui ageminatura
cerca di imitare il motivo bizantino a punto e virgola (ornamentazione a spirale in
tutte le sue varianti). In un secondo stadio - che in base alle conoscenze attuali si pone
all'inizio del secondo trentennio del VII secolo - I'ornamentazione, sia sulle
guarnizioni delle cinture quintuple che su quelle multiple, diventa di qualità superiore.
Prendono il sopravvento decorazioni eseguite con cura in Stile II che rivestono
l'intera superficie. Infine verso la metà del VII secolo si abbandonano le guarnizioni
di cinture quintuple in ferro, mentre si continuano a usare cinture dello stesso tipo in
bronzo. A1 medesimo periodo appartengono anche guarnizioni di cinture multiple in
ferro dalla placcatura raffinata, che talvolta presentano un ornato mediterraneo a
tralci, talaltra graziosi motivi in Stile II, per lo più nastri a "otto". Agli inizi circa
dell'ultimo trentennio del VII secolo siamo alla fine di questa evoluzione, compaiono
allora delle guarnizioni di cinture molto strette e lunghe, sagomate, in bronzo e in
ferro; queste ultime sono per lo più ornate di agemina a righe o di placchette in bronzo
applicate e decorate con punzonature. Al momento in cui compaiono tali reperti cessa
presso i Longobardi l'uso del corredo funebre e di conseguenza anche la possibilità di
ricostruire la storia di questo popolo dal punto di vista archeologico.
Cristina La Rocca Hudson - Peter J. Hudson
Riflessi della migrazione longobarda sull'insediamento rurale e urbano in Italia
settentrionale *

1. Problemi dell'insediamento rurale

Gli effetti della migrazione longobarda sull'insediamento sia rurale sia urbano, sono un tradizionale
argomento di dibattito nella storiografia sia politica, sia giuridica1. Il modo in cui le fonti
archeologiche altomedievali sono state utilizzate nel passato non sembra invece aver fornito dati
significativi per comprendere i rapporti che si instaurarono tra i Longobardi e la popolazione
romanza2. Gli studi riguardanti la classificazione e la datazione dei corredi tombali longobardi si
sono infatti per lo più limitati ad incasellare questi manufatti in categorie tipologiche, definendo
genericamente come "Longobardi" gli oggetti databili dalla fine del VI alla fine del VII secolo3, e
soltanto di recente per alcuni reperti, quali le fibule zoomorfe, o le fibbie da cintura di bronzo
massiccio, si è iniziato a prospettare la possibilità che si tratti di oggetti relativi alla popolazione
locale4 .
Il quadro che si delinea archeologicamente dell'Italia durante l'età longobarda è dunque limitato alla
sfera della classe dominante, completamente avulsa dal contesto territoriale di insediamento e
chiusa ad ogni contatto culturale.
In questa sede, si vogliono invece illustrare alcuni esempi tratti sia da contesti rurali, sia urbani, per
dimostrare non solo che vi furono interferenze reciproche tra Longobardi e popolazione locale, ma
anche che tali rapporti variarono quantitativamente e qualitativamente a seconda del territorio
esaminato e non sono da intendersi soltanto in una direzione, cioè dai più "civili" romani verso i
"barbari", ma reciproci, né possono essere limitati ad una rigida divisione tra prodotti bizantini e

*Il presente lavoro, frutto di una comune ricerca, è stato redatto per la parte I da Cristina La Rocca Hudson e per la
parte 2 da Peter J. Hudson.
Vorremo ringraziare la professoressa Bianca Maria Scarfì, soprintendente ai Beni archeologici per il Veneto, per averci
permesso di pubblicare la ceramica proveniente dal cortile del tribunale di Verona, ed anche l'ispettore per la provincia
di Verona, dottoressa Giuliana Cavalieri Manasse, per averci informato dell'esistenza di oggetti di corredo
altomedievali inediti e per averci sostenuto ed incoraggiato durante la ricerca. Infine siamo grati al professor Aldo A.
Settia dell'Università di Torino per le utili discussioni sull'insediamento presso la collina torinese.
1
G. Falco, La questione longobarda e la moderna storiografia italiana, in Atti del I Congresso internazionale di studi
longobardi, Spoleto 1952, pp. 153-66; E. Sestan, La composizione etnica della società in rapporto allo svolgimento
della civiltà in Italia nel secolo VII in Occidente, in I caratteri del secolo VII in Occidente, Settimana di Studio del
Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 23-29 aprile 1957, Spoleto 1958, Il, pp. 64977; G. Fasoli, Aspetti di vita
economica e sociale nell'ltalia del secolo VII, in I caratteri del secolo VII in Occidente, cit., I, pp. 103-59; G. Tabacco,
Problemi di insediamento e di popolamento nell'altomedioevo, "Rivista Storica Italiana", 76 (1967), pp. 67-110; Id.,
Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Torino 1979, pp. 94-135; P. Delogu, Il regno longobardo,
in P. Delogu, A. Guillou, G. Ortalli, Longobardi e Bizantini in Storia d’Italia a cura di G. Galasso, I, Torino 1980, pp.
3-216; C. Wickham, Early Medieval Italy. Central Power and Local Society, London 1981, pp. 64-80 (trad. it. L'Italia
nel primo Medioevo. Potere centrale e società locale, Milano 1983).
2
A. Melucco Vaccaro, I Longobardi in Italia, Milano 1982, p. 7s.
3
O. von Hessen, I ritrovamenti barbarici nelle collezioni civiche veronesi del Museo di Castelvecchio, Verona 1968;
Id. Die langobardischen Funde aus dem Graberfeld von Testona (Moncalieri-Piedmont), "Memoria dell'Accademia
delle Scienze di Torino. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche", 4 (1971), pp. IV-120; C. Sturmann Ciccone
Reperti longobardi e del periodo longobardo dalla provincia di Reggio Emilia, Reggio Emilia 1977; S. Cini, M. Ricci, I
Longobardi nel territorio vicentino, Vicenza 1979, M. C. Carretta, Reperti autoctoni di età longobarda dal Museo
Civico Archeologico di Bologna ,"Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 646-48.
4
O. von Hessen, Il materiale altomedievale dalle collezioni Stibbert di Firenze, Firenze 1983.
longobardi, secondo la proposta di Äberg5. È stato d'altronde già notato che nelle fonti scritte
altomedievali la maggioranza dei nomi propri - anche di schiavi - sono germanici, dimostrando
chiaramente la diffusione di questo costume anche tra la popolazione di origine locale6.
Per il contesto rurale sono state prese in esame tre aree campione: la collina ad est di Torino, ove
nel secolo scorso venne alla luce la necropoli altomedievale di Testona7 e le moderne province di
Brescia e Verona, poste sulle sponde opposte del lago di Garda. Mentre per la prima zona, di
estensione più limitata, sono stati presi in esame accanto ai siti tuttora esistenti, anche quelli
abbandonati nel corso del Medioevo8, per le altre due aree si sono considerati soltanti gli abitanti
attuali, il che costituisce un'indubbia limitazione, ma può in ogni caso permettere delle
considerazioni indicative9. La distribuzione dei dati archeologici - in prevalenza sepolture - è stata
rapportata ai dati toponomastici, includendo quegli abitati, attestati nelle fonti scritte altomedievali,
con toponimi derivanti sia da nomi personali latini sia germanici. È infatti ragionevole ritenere che
toponimi aventi radice in un nome personale germanico e documentati nell'Altomedioevo siano
riconducibili, se non senz'altro alla classe dominante germanica, senza dubbio ad insediamenti sorti
ex novo presso quelli già esistenti in età tardoantica. I toponimi derivanti invece da nomi comuni
non sono stati considerati, perché la loro adozione nella lingua corrente anche in epoche di molto
successive li rende inutilizzabili ai nostri scopi10.
In primo luogo occorre chiarire che la presenza di una necropoli longobarda estesa e
numericamente consistente non significa necessariamente una presenza germanica più rilevante
rispetto ad altre zone, e neppure cambiamenti nella struttura territoriale tardo romana11. Al
contrario, i siti delle necropoli più a lungo frequentate, sembrano indicare l'usanza di seppellire
soltanto in cimiteri ufficialmente "autorizzati", che venivano perciò usati da più villaggi
circonvincini12. Questo sembra essere il caso delle necropoli maggiori qui esaminate: Testona
(Torino) circa 450 tombe, e Calvisano (Brescia), 500 tombe, mentre, ed è significativo notarlo,
nessuna delle necropoli rinvenute in provincia di Verona supera le 50 sepolture, tranne la distrutta

5
N. Äberg, Die Goten und Longobarden in Italien, Uppsala 1923.
6
G. Tabacco, Dai possessori dell'età carolingia agli esercitali dell'età longobarda, "Studi
Medievali, X (1969), pp. 228-34; Wickham, Early Medieval Italy, cit., p. 68 s.
7
C. Calandra, Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, "Atti della Società di Archeologia e
Belle Arti per la provincia di Torino", IV (1883), pp. 17-52; von Hessen, Die Langobardischen
Funde, cit.; M. Negro Ponzi, Testona: la necropoli di età longobarda, in Testona. Per una storia
della comunità, Torino 1980, pp. 1-12.
8
A. A. Settia, «Villam circa castrum restringere». Migrazioni e accentramento di abitati sulla collina torinese nel basso
medioevo, "Quaderni storici", 24 (1973), pp. 905-44; Id., Insediamenti abbandonati sulla collina torinese, "Archeologia
Medievale", 11 (1974) pp. 237-328; M. C. La Rocca Hudson, Le vicende del popolamento in un territorio collinare:
Testona e Moncalieri dalla preistoria all'altomedioevo, "Bollettino storico bibliografico subalpino", LXXXII (1984),
pp. 1-86.
9
D. Oliveri, Dizionario di toponomastica veneta, Venezia 1960, Id., Dizionario di toponomastica
lombarda, Milano 1961; Id., Dizionario di toponomastica piemontese, Brescia 1965; E.
Gamillscheg, Romania Germanica, 11 Berlin-Leipzig 1936, G. B. Pellegrini Osservazioni sulla
toponomastica "barbarica- veronese, in Verona in età gotica e longobarda, Verona 1982, pp. 1-52
10
G. Petracco Siccardi, «Vico Sahiloni» e «Silva Arimannorum», ~Archivio Storico per le Province
Parmensi", XXVI (1977), pp. 133 e 135; Id., Typologie des toponymes Romans d'origine
germanique dans l'ltalie du Nord, "Onoma", XXII (1978), pp. 172-86; Pellegrini, Osservazioni sulla
toponomastica, cit., pp. 4-6 e 18-22.
11
A. Castagnetti, L'organizzazione del territorio rurale nel Medioevo, Torino 1979, pp. 255-61.
12
A. A. Settia, Pievi e cappelle nella dinamica del popolamento rurale, in Cristianizzazione ed organizzazione
ecclesiastica delle campagne nell'alto medioevo: espansione e resistenze, Settimana di Studio del Centro Italiano di
Studi sull'Alto Medioevo, 10-16 aprile 1980, Spoleto 1982, I, pp. 445-89, a pp. 458-60; B. Chapman, Death, culture
and Society, in Anglo-Saxon Cemeterie 1979, a cura di P. Rathz, T. Dickinson,L. Watts Oxford (British Archaeological
Reporis, British Series 82) 1980, pp. 59-79.
necropoli presso Buttapietra-su cui però nulla si può ormai dire - che si aggirava sulle 100 tombe13.
La sovrapposizione delle sepolture, indice di un'area precisamente definita e limitata in cui era
permesso seppellire14, che si accompagna all'assenza, nelle immediate vicinanze, di altri siti
cimiteriali oppure di tombe isolate sembrerebbe indicare l'esistenza di un'area cimiteriale "ufficiale"
(fig. 2 e fig. 4). Inoltre a Testona i catasti del XIV secolo seppur tarda attestazione - menzionano la
presenza di un muracium nell'area ove si rinvenne la necropoli longobarda15, che potrebbe suggerire
l'esistenza di un edificio romano in rovina, riutilizzato dai Longobardi16. In ogni caso, l'esistenza di
aree autorizzate e delimitate per le sepolture non implica necessariamente che i Longobardi
riorganizzarono radicalmente l'assetto territoriale. Sia Testona, sia Calvisano si trovano infatti in
zone caratterizzate da toponimi prediali latini, conservatisi fino al XIII secolo (fig. 1 e fig. 3)17.
Questo dimostra chiaramente che i Longobardi si sovrapposero semplicemente accanto alla
popolazione esistente, ereditando l'organizzazione insediativa romana. Il tipo di alcuni oggetti di
corredo ed i dati antropologici, fornito dallo studio delle ossa umane, provano inoltre che nei pressi
di tali nuclei cimiteriali vi furono insediamenti della popolazione locale che si rapportarono in
qualche modo con quelli germanici. I manufatti comprendono ceramica di tradizione locale- come
gli "otto orciolini ed anfore di terra rossastra" e la pilgrimflask ricoperta da un'invetriatura verde18
provenienti da Testona, mentre a Calvisano furono rinvenuti due olpi invetriate19; inoltre i resti
antropologici femminili di Testona sono per la maggior parte relativi al tipo alpino-mediterraneo e
quindi presumibilmente riferibili alla popolazione locale20.

13
O. von Hessen, La necropoli longobarda delle tombe in fila della zona di Ciringhelli Povigliano,
provincia di Verona, "Memorie Storiche Forogiuliensi", XLIX (1969), PP. 93-9.
14
Calandra, Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, cit., p. 18s; P. Rizzini, Gli oggetti
barbarici raccolti nei Civici Musei di Brescia, "Commentari dell'Ateneo di Brescia", 1894, pp. 3-
51, a p. 22s.
15
Archivio Comunale di Moncalieri, Serie A, Catasti, n° 25, anno 1351, cc. 1v-2r.
16
A. A. Settia, La toponomastica come fonte per la storia del popolamento rurale, in Medioevo
rurale. Sulle tracce della civiltà contadina, a cura di V. Fumagalli e G. Rossetti, Bologna 1980, pp.
35-56, a p. 43; altri esempi in O. von Hessen, Primo contributo all'archeologia longobarda in
Toscana. La necropoli, Firenze 1971.
17
La Rocca Hudson, Le vicende del popolamento in un territorio collinare, cit., tav.VII.
18
Calandra, Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, cit., tavv. 3 e 29, H. Blake, Ceramica
paleo-italiana, "Faenza", 68 (1980), pp. 20-54, tav. IV: L. Pejrani Baricco, La collezione Calandra,
in Testona. Per una storia della comunità, cit., pp.12-39, a p. 39, n.46.
19
Blake Ceramica paleo-italiana, cit., tav. 3c; G. Panazza, Note sul materiale barbarico trovato nel
bresciano, in Problemi della civiltà e dell'economia longobarda. Scritti in onore di G. P. Bognetti,
Milano 1964, pp. 137-70, a p. 142.
20
L Kiszely, The Anthropology of the Lombards, Oxford (British Arcaeological Reports,
International Series 61) 1979, 1, pp. 143-7.
.

FIGURA 1
Provincia di Torino: territorio medievale dei comuni di Chieri e di Moncalieri. Distribuzione
dei toponimi romani () e germanici () e delle necropoli longobarde ().

Come è noto, l'abitudine di seppellire in cimiteri "ufficiali" coesistette accanto a quella di creare ex
novo delle piccole aree cimiteriali, isolate. Nonostante questo, la seconda possibilità non è
necessariamente indicatrice di una presenza longobarda più labile o più sporadica. Se quest'ultimo
può essere il caso della Valpolicella, a nord di Verona, e dell'area nei pressi di Cellore d'Illasi, ad
est della città (fig. 5), in cui ad una fitta distribuzione di toponimi latini si accompagna un numero
assai modesto sia di tombe isolate, sia di piccole necropoli21, in altre zone la situazione è assai
diversa.

21
Per Valpolicella cfr. M. C. La Rocca Hudson, S. Anna d'Alfaeo. Armilla bronzea, in A.
Castagnetti, La Valpolicella dall'altomedioevo all'età comunale, Verona 1984, p. 25; per Cellore
d'lllasi cfr. C. Cipolla, Zevio. Tombe barbariche, "Notizie degli Scavi di Antichità", 1880, p. 341s;
von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., pp. 12s e 27s.
FIGURA 2
Provincia di Torino: territorio medievale dei comui di Chieri e di Moncalieri. Distribuzione
delle necropoli longobarde: sepolture isolate (); gruppi da 2 a dieci tombe (); necropli con
più di 100 sepolture(G).

Infatti, in prossimità dei moderni centri di Chieri (Torino) (fig. 1), Povegliano, Zevio e Cologna
Veneta, nella pianura veronese (fig. 5), e di Brandico, nella pianura bresciana, nonostante il numero
limitato di ritrovamenti archeologici - per il torinese ed il bresciano, poiché nel veronese essi sono
in numero maggiore - i Longobardi sembrano aver avuto un'influenza decisiva nella strutturazione
del territorio medievale.
In queste località, a cavaliere di aree in cui si concentrano fittamente toponimi latini, documentati
nell'Altomedioevo come locus et fundus -vale a dire insediamenti con un proprio territorio - si
trovano toponimi contraddistinti dall'unione di un nome quale Mons o Vicus, unito al genitivo di
nomi di persona germanici, come Maco, Bemo, Falco22.

22
E. Gamillscheg, Romania Germanica, Il, Berlin-Leipzig 1913, ad vocem.
FIGURA 3
Provincia di Brescia:toponimi e necropoli. Distribuzione dei toponimi romani () e germanici
() e delle necropoli longobarde(G).

Sembra pertanto di trovarsi di fronte a situazioni simili a quella documentata a Cologno Monzese
(Milano)23: la creazione ex novo di insediamenti con un proprio territorio, formato attraverso
l'acquisizione di parte della terra degli insediamenti confinanti. In questo caso, il gruppo germanico
sembrerebbe aver imposto la propria autorità, organizzandosi indipendentemente dalla popolazione
locale e creando nuovi centri abitati.
Una terza possibilità è la formazione di insediamenti longobardi in aree del tutto incolte e disabitate
durante il periodo romano. Se ciò non sembra essersi verificato nella provincia di Brescia, tranne
forse per le odierne Gambara e Gottolengo24, poste nella pianura lungo il corso del Mella, ricorre

23
G. Rossetti, Società e istituzioni del contado Lombardo durante il Medioevo. Cologno Monzese,
Milano 1968.
24
Olivieri, Dizionario di toponomastica piemontese, cit., pp. 244 e 265.
invece più frequentemente nella provincia di Verona, nelle colline sopra Caprino, nell'alta
Valpolicella25, e nella pianura presso il corso dell'Adige, nei territori delle odierne Bovolone 26
,
27 28
Valeggio ; e Mozzecane (fig. 6). Anche nella parte occidentale della collina torinese, zona
formata da ripide vallate e caratterizzata, tra XII e XIII secolo da toponimi che indicano la presenza
di aree incolte, quali Padisium (pagus) forse con significato di pascolo comune29, Arsitie (ardo),
area incolta, bruciata e disboscata per permettere la coltivazione, ai reperti archeologici di età
longobarda30 Si affiancano toponimi germanici quali Saxias 31. In questo caso sembra pertanto che
gruppi di Longobardi preferirono fondare nuovi insediamenti in zone prima disabitate e incolte, che
in un buon numero di casi si trovano in località occupate nella tarda età del Ferro e poi
abbandonate. Quest'ultima, forse casuale, coincidenza si verifica specialmente nella provincia di
Verona (Molina, Caprino Rivoli, Tragnago, Peschiera, Colognola ai Colli, Povegliano, Baldaria,
Legnano, Gazzo)32. Questo dato è del resto provato anche da altre fonti, dato che le analisi
pedologiche condotte per la pianura romagnola hanno dimostrato che questo territorio venne messo
a coltura solo durante l'Altomedioevo mentre durante l'età romana la zona era paludosa33.
Esiste, infine, un'ulteriore possibilità, che è più complessa da interpretare e per cui è più difficile
scandire cronologicamente le tappe di uso e di abbandono del suolo: si tratta di insediamenti
occupati sotto diverse forme durante l'età romana, ed in seguito da una necropoli altomedievale, e
che sembrano definitivamente abbandonati fino all'età dei dissodamenti estensivi del XII secolo.
Questo processo è ipotizzabile in base alla presenza di reperti archeologici romani ed altomedievali,
che si accompagnano a toponimi genericamente romanzi. È questo il caso della val Trompia a nord
di Brescia, in cui gli attuali abitati sono tutti contraddistinti da toponimi indicanti caratteristiche del
suolo, come Villa Carcina, Villa Cogozzo, Concesio34 e dove sono stati rinvenuti piccoli nuclei
cimiteriali altomedievali. Essi sono formati da una cinquantina di tombe, costruite con lastre di
calcare locale, disposte a file, secondo il costume germanico35; contengono in genere esigui

25
Breonio e Molina: cfr. La Rocca Hudson, Le vicende del popolamento in un territorio collinare,
cit., pp. 23, 31 e 35; Museo di Storia Naturale di Verona s.n.
26
Soprintendenza Archeologica di Verona, I.G. 27996.
27
von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., p. 32; R. Zoni, Tomba longobarda scoperta a Nograr
di Valpolicella, "Memorie Storiche Forogiuliensi", XXXIX (1952), p. 112s.
28
Cipolla, Zevio. Tombe barbariche, cit.
29
Settia, Insediamenti abbandonati sulla collina torinese, cit., p. 263s.
30
P. Barocelli, Tracce di necropoli barbarica presso la strada nazionale Torino-Mocalieri,
"Notizie degli Scavi di Antichità", 1915, p. 159, A. Angelucci, Catalogo dell'Armeria reale di
Torino, Torino 1890, p. 588.
31
F. Cognasso, Cartario dell'abbazia di san Solutore di Torino, Pinerolo (Biblioteca della Società
Storia Subalpina 44) 1908, doc. 18, armo 1089, p. 37s.
32
A. Aspes et alii, 3000 anni fa a Verona. Dalla fine dell'età del bronzo all'arrivo dei Romani nel
territorio veronese, Verona 1976, tav., IV, p. 76.
33
M. Cremaschi, A. Marchesini, Evoluzione di un tratto di Pianara Padana (prov. Reggio e
Parma) in rapporto agli insediamenti ed alla struttura geologica tra il XV sec. a.C ed il sec. Xl d.C,
"Archeologia Medievale", V (19801, pp. 542-70, in particolare pp. 542-5.
34
Olivieri, Dizionario di toponomastica lombarda, cit., pp. 143, 184 e 191.
35
Villa Carcina: cfr. P. J. Hudson, M. C. La Rocca Hudson, Villa Carcina (BS). Cimitero
altomedievale, in Soprintendenza Archeologica della Lombardia, Notiziario 1981, Milano 1982, p.
142s.; Sarezzo: cfr. A. Breda, Sarezzo (Brescia). Loc. Brede, necropoli altomedievale, in
Soprintendenza Archeologica della Lombardia, Notiziario 1982, Milano 1983, p. 103s. Gussago:
cfr. P. Rizzini, Supplemento agli oggetti barbarici raccolti nei Civici Musei di Brescia,
"Commentari dell'Ateneo di Brescia", 1914, pp. 33-49, a p. 42; Panazza, Note sul materiale
barbarico trovato nel bresciano, cit., p. 163; Villa Cogozzo: cfr. Rizzini, Supplemento agli oggetti
elementi di corredo,prevalentemente armille dalle estremità ingrossate e pettini d'osso, mentre
mancano del tutto i tradizionali attributi militari longobardi, quali la spada e le armi in genere.

FIGURA 4
Provincia di Brescia: distribuzione delle necropoli longobarde; Sepolture isolate(); gruppi
da 2 a 10 tombe(); gruppi da 11 a 50 tombe (G); necropoli con più di 50 sepolture

barbarici raccolti nei Civici Musei di Brescia, cit., p. 43; Panazza, Note sul materiale barbarico
trovato nel bresciano, cit., p. 165.
FIGURA 5
Provincia di Verona: toponimi e necropoli. Distribuzione dei toponimi romani () e germanici
(); necropoli longobarde(); tesoro di Isola Rizza ().
FIGURA 6
Provincia di Verona: Distribuzione delle necropoli longobarde. Sepolture isolate (); gruppi
da 2 a 10 sepolture (); gruppi con più di 10 sepolture (G); tesoro di Isola Rizza().

Sebbene gli oggetti presenti in queste sepolture appartengano a tipi che compaiono anche in tombe
longobarde - come le armille ad estremità ingrossate e decorate da più file di perle a rilievo, che si
rinvennero, ad esempio, nella tomba del cavaliere di via Monte Suello 4 a Verona36 - 1'assenza di
armi e di ceramica tipicamente longobarda, potrebbe indicare sia che ci troviamo di fronte a
sepolcreti della popolazione locale - come sembrano indicare anche le analisi antropologiche37 -
oppure ad un avanzato stadio della coabitazione tra indigeni e Longobardi. La composizione del
corredo è varia, va infatti dagli status symbols indicanti l'appartenenza all'esercito ai semplici
oggetti personali. Se la presenza di questi oggetti indichi un periodo cronologico più avanzato
oppure una diversa matrice etnica è difficile stabilirlo, poiché le due possibilità non sono
necessariamente contrapposte. Ad esempio a Pettinara-Casale Lozzi38 (Ascoli Piceno), gli oggetti
dei corredi, attribuiti alla popolazione locale, sono databili alla fine del VII secolo o all'inizio dell'

36
M. L. Rinaldi, Tombe longobarde di Valdonega , "Bollettino d'Arte", XLIX (1964), p. 402s; Archivio Soprintendenza
Archeologica del Veneto, Padova, ad vocem "via Monte Suello".
37
Kiszely, The Antrhopology of the Lombards, cit. p. 157s.
38
0, von Hessen, Il cimitero altomedievale di Pettinara - Casale Lozzi (Nocera Umbra), Firenze
1978, p. 100s.
VIII, mentre le analisi osteologiche indicano un'origine germanica dei sepolti39, mentre a Sovizzo
(Vicenza) la stessa necropoli, circoscrivibile nell'ambito del VII secolo, accanto ad un indubbio e
purtroppo imprecisato numero di tombe con armi40, presenta circa 120 tombe con i soli pettine e
coltello, recentemente scavate dalla Soprintendenza Archeologica del Veneto. Comunque il
problema dell'identificazione della razza del sepolto in base al suo corredo funebre sta assumendo
connotati sempre più problematici, poiché è via via più chiaro che non sempre le tombe con armi
appartengono a Longobardi41, ne viceversa quelle con misero corredo sono sicuramente indizio
della popolazione locale.

2. Le città

Il comportamento flessibile dei Longobardi nei confronti della struttura insediativa tardoantica è
evidente anche nel contesto urbano, sebbene i cambiamenti provocati dalla popolazione germanica
siano di altra natura.
Vi sono ancora assai pochi dati che possono essere sfruttati per delineare lo sviluppo urbano in
Italia settentrionale dalla tarda antichità sino alla fine del periodo longobardo. Le fonti scritte, nella
loro esiguità, forniscono soprattutto elementi sugli edifici ecclesiastici ed in misura assai più ridotta
sulle residenze pubbliche del potere regio o ducale42. I dati archeologici si limitano invece, nella
maggioranza delle città, a sepolture che dimostrano sia la continuità di uso dei cimiteri romani nel
suburbio, sia la presenza di sepolture isolate all'interno della cerchia muraria43. I soli scavi urbani
che abbiano scoperto resti di case altomedievali sono stati intrapresi in siti abbandonati durante il
Tardomedioevo, come Luni44 e Castelseprio45.

39
H. Blake, Sepolture "Archeologia Medievale", X (1983), pp. 175-98, a p. 176.
40
Cini, Ricci, I Longobardi nel territorio vicentino, cit.
41
Kiszely, The Anthropology of the Lomabrds cit. p. 196.
42
D. A. Bullough, Urban change in early Medieval Italy: the example of Pavia, "Papers of the
British School at Rome", 34, (1966), pp. 82-130, a p. 92.
43
Per Verona cfr. von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., p. 7s; P.1 Hudson, M. C. La Rocca
Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante, in Lancaster in Italy, University of
Lancaster 1983, pp. 9-21, a p. 17s.
44
B. Ward-Perkins, Ricerche su Luni medievale, in Scavi di Luni II. Relazione delle campagne di
scavo 1972, 1973, 1974, a cura di A. Frova Roma 1977, pp. 633-38; Id. Two byzantine houses at
Luni, "Papers of the British School at Rome", 49 (1981), pp. 91-8.
45
M. Dabrowska, L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Castelseprio: scavi diagnostici
1962-63, "Sibrium", XIV (1978-79), pp. 1-138.
FIGURA 7:
Ricostruzione della viabilità roma di Verona: sepolture longobarde (); case di periodo
longobardo(); area non edificata ( a tratteggio).

Fino ad epoca recente non vi erano dati relativi alle città, tuttora esistenti, che potessero chiarire in
quale misura i risultati ottenuti a Luni e Calstelseprio erano estendibili agli insediamenti urbani che
continuarono a sopravvivere oltre l'età romana. Infatti, malgrado l'intensificazione dal 1980 in poi
delle ricerche archeologiche urbane nel nord Italia, specialmente nella regione lombarda46, mancano
ancora quasi completamente resti di case civili altomedievali (VII-X secolo). L'unica eccezione è
rappresentata da Milano, dove qualche elemento strutturale fu rinvenuto durante gli scavi per la
"linea 3" della metropolitana in piazza del Duomo47 accanto ai dati più consistenti di Verona, che
qui si presentano.

46
Archeologia urbana in Lombardia, a cura di G. P. Brogiolo, Modena 1984.
47
D. Andrews, D. Perring, Gli scavi in piazza del Duomo, in Soprintendenza Archeologica della
Lombardia, Notiziario 1982, cit., pp. 63-5, a p. 64, Id. Piazza Duomo lotto due, Soprintendenza
Archeologica della Lombardia, Notiziario 1983, Milano 1984, p. 91s.
FIGURA 8
Verona, Via Dante: fronte stradale tardoromano e altomedievale (fine V- fine XII secolo). La
campitura grigia indica la seconda fase edilizia ( inizio VII secolo), mentre quelle chiare al di
sopra e al di sotto indicano la prima e la terza fase edilizia (rispettivamente fine V secolo e
fine XI secolo).

In questo lavoro, si considerano alcuni aspetti della topografia urbana, utilizzando i risultati degli
scavi intrapresi dal 1981 a Verona48, integrando tali osservazioni con i dati di altre città, in primo
luogo Pavia, basati però essenzialmente su fonti scritte e topografiche.
È stato più volte notato che la parziale conservazione del reticolo stradale romano nelle città
moderne dell'Italia settentrionale e centrale e Verona e Pavia sono due degli esempi più noti di
questo fenomeno deve significare una certa continuità dell'intensità di insediamento urbano anche
durante l'Altomedioevo49. La natura di tale continuità è stata recentemente chiarita nei recenti scavi
di tre siti urbani a Verona, aventi caratteristiche diverse: il cortile del tribunale (circa 900 m2
all'interno di un'insula romana), via Dante (una strada urbana romana) e palazzo Maffei, collocato
sul lato settentrionale di piazza delle Erbe, sul sito del Foro romano50 (fig. 7).
Lungo il lato occidentale di via Dante, è stata messa in luce una struttura muraria (lunga 22 metri
ed alta circa 2 metri) (fig. 8), che rappresenta la fronte stradale altomedievale, e che è collocata 4,5
metri ad est della fronte stradale romana51. Si tratta di case costruite durante il V secolo,
periodicamente restaurate durante l'Altomedioevo ed abbandonate soltanto alla fine del XII secolo,
quando l'intera zona venne acquisita dal Comune di Verona, e vi si edificò il palazzo comunale52. Il

48
Hudson, La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante cit.
49
B. Ward-Perkins, From Classical Antiquity to the Middle Ages. Urban pubiic building in Northen
and Central Italy, Oxford 1984, p. 179s.2
50
G. Cavalieri Manasse, Verona Palazzo Maffei: resti di edificio pubblico, "Quaderni di
archeologia del Veneto", I (1985), p. 47s.
51
P. J. Hudson, M. C. La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Cortile del Mercato
Vecchio, in Lancaster in Italy, University of Lancaster 1984 pp. 22-5.
52
P. J. Hudson, La dinamica dell'insediamento urbano nell'area dei Cortile del Tribunale di
Verona. L'età medievale, "Archeologia Medievale", XII (1985), pp. 281-302.
fronte stradale altomedievale occupava la metà occidentale della strada romana ed era connesso al
retro degli edifici monumentali posti lungo il lato orientale del Foro. A palazzo Maffei si è
riscontrata una situazione del tutto simile. Alla fine del V o al massimo all'inizio del VI secolo,
furono costruite delle case di abitazione nella estremità settentrionale del Foro, con la facciata posta
circa 9 metri più a sud rispetto all'edificio monumentale romano sottostante. Questi dati forniscono
dunque l'immagine di una città fittamente abitata durante il periodo tardoantico ed altomedievale.
La situazione riscontrata all'interno dell'insula romana, modifica ed attenua quest'impressione.
L'area dell'odierno cortile del tribunale fu intensamente riedificata durante la fine del IV secolo.
Tale sviluppo include la costruzione di nuovi ambienti con pavimenti a mosaico, semplicemente
bianchi bordati con una fascia nera, ed un'aula absidata53, ma segni di crisi urbana compaiono già
con la fine del V secolo. Alcuni ambienti sono completamente abbandonati, mentre in altri i
mosaici sono semplicemente sostituiti da pavimenti di terra battuta. L'abbandono definitivo di
queste strutture si verificò tra la fine del VI e l'inizio del VII secolo54, quando un incendio provocò
la loro totale scomparsa. Nessuna nuova struttura fu ricostruita in quest'area, fino all'inizio del IX
secolo. Il deposito di terra scura che sigilla le macerie del crollo degli edifici tardoantichi
suggerisce che la zona del cortile del tribunale fosse stata adibita a zona coltivata. Pertanto, mentre
lungo la strada romana vi era ancora un fitto insediamento, le zone all'interno delle insulae
sembrano invece sgombre di edifici. Altri dati per Verona sembrano confermare quest'ipotesi. La
presenza di sepolture isolate e non associate ad edifici ecclesiastici è presumibilmente anch'essa
indice di aree aperte. A Verona vi sono tre episodi di questo genere: una tomba inserita nell'aula
absidata al cortile del tribunale55, una sepoltura sul lato settentrionale del Foro 56, ed infıne la ricca
tomba femminile rinvenuta nel secolo scorso presso palazzo Miniscalchi, al centro di un isolato
romano57.
I risultati dell'esame del cavo veronese sembrano trovare sostanziale conferma per Pavia. Qui
diverse sepolture altomedievali sono state rinvenute all'interno delle insulae della città romana58, e
1'unico scavo stratigrafico eseguito all'interno di un isolato non ha identificato resti strutturali di
questo periodo59. Inoltre, la costruzione in età longobarda e carolingia di chiese al centro di isolati
romani potrebbe essere un'ulteriore indicazione di aree rimaste inedificate dall'età tardo romana (ad
es. S. Pietro in Vincoli). Il ruolo avuto dai Longobardi nel ridimensionamento dell'intensità edilizia
urbana è comunque difficile da isolare. Si è già osservato che segni di decadenza urbana erano
manifesti a Verona fıno dalla fine del V secolo, e questa crisi potrebbe essere attribuita
alI'abbandono della città da parte dei maggiori latifondisti, che provocò la decisa diminuzione della
committenza per nuovi edifici60 e 1'abbandono dei ceti dominanti della città era intimamente
connesso con la diminuzione del volume degli scambi economici che si verifıcò tra V e VI secolo.
In questo quadro generale, già compromesso, I'arrivo della nuova classe dirigente longobarda
sembra aver soltanto peggiorato tendenze già in atto.

53
Hudson, La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante, cit., p. 19s.
54
Hudson, La dinamica dell'insediamento urbano nell'area del Cortile del Tribunale di Verona.
L'età medievale, cit.
55
Hudson, La Rocca Hudson, Verona: Cortile del Tribunale and Via Dante, cit., p. 17s.
56
Cavalieri Manasse, Verona Palazzo Maffei: resti di edificio pubblico, cit.
57
C. Cipolla, Una tomba barbarica scoperta nel Palazzo Miniscalchi a Verona, "Madonna-
Verona", I (1906), pp. 1-7 (ora in Scritti di Carlo Cipolla, a cura di G. C. Mor Verona 1978, 1, pp.
151-7); von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., p. 7s.
58
P. J. Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca: l'esempio di Pavia, Firenze
1981, p. 255.
59
H. Blake, Pavia, in Lancaster in Italy: archaeological research undertoken in Italy by the Dept. of
Classix & Archacology in 1979, University of Lancaster 1980, pp. 5-12, a p. 5s.
60
L. Ruggini, Economia e società nell'"ltalia Annonaria", Milano 1961, pp. 29-35 81-90, 93-102.
Vi fu inoltre una sostanziale continuità nell'insediamento suburbano. A Verona, questo dato è
testimoniato dalle tombe longobarde scoperte in Valdonega nel 196461, a nord del fiume Adige, in
una zona occupata nell'età romana da suntuose ville suburbane62 e presso la chiesa di S. Fermo,
nella zona chiamata nell'813 villa prope portam Sancti Firmi, cioè presso la porta repubblicana,
chiamata porta dei Leoni63. Anche a Lucca sono menzionate case di abitazione nel suburbio sin dai
primi documenti dell'VIII secolo64, ed infine a Pavia, I'unico dato per l'esistenza di suburbi
altomedievali è il toponimo germanico Mons Falconis, nella zona sud occidentale della città, ma
qui non vi è alcuna prova archeologica di un insediamento romano extra moenia65.
Se vi fu una sostanziale continuità nell'estensione delle aree urbane e soltanto una diminuzione
delle aree edificate, nelle tecniche costruttive vi fu invece un considerevole ridimesionamento
qualitativo. I muri delle case scoperti negli scavi veronesi sono formati pressoché integralmente da
materiale romano reimpiegato. In via Dante la striscia di lastricato romano su cui si costruì
l'edificio altomedievale venne totalmente asportata e le sue lastre vennero usate come soglie (fig.
8). A palazzo Maffei il lastricato del Foro venne asportato per lo stesso scopo e le fondazioni di un
edificio pubblico vennero demolite per soddisfare la domanda di mattoni. A Pavia, sembra che
l'anfiteatro ed altri edifici monumentali collocati nelle zone di insediamento longobardo, potrebbero
aver sofferto la stessa sorta66.

61
Von Hessen, I ritrovamenti barbarici, cit., pp. 9-11.
62
G. Tosi, La casa romana di Valdonega e il problema degli «oeci colonnati», "Venetia", 3
(1971), pp. 5-69.
63
V, Fainelli, Codice diplomatico veronese, I, Venezia 1940, pp. 120-27.
64
I. Belli Barsali, La topografia di Lucca nei secoli VIII-XI, in Atti del V Congresso internazionale
di studi sull'alto medioevo - Lucca 1971, Spoleto 1973, pp. 461-554, a p.492.
65
P. Hudson, Pavia, in Archeologica urbana in Lombardia, cit., pp. 140-50, a p.
66
Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca, cit., p. 25.
FIGURA 9
Verona, ceramica longobarda proveniente dal cortile del Tribunale.
Legenda: 1) ceramica acroma con beccuccio applicato; 2) ceramica invetriata con beccuccio applicato; 3) base di
ciotola con invetriatura interna e decorazione a stampo longobarda; 4) ceramica longobarda con decorazione a
stampo.

A Verona il materiale reimpiegato era semplicemente legato da argilla, come le strutture scavate a
Luni67 e Castelseprio 68. La facciata delle case altomedievali in via Dante era interamente costruita
con materiali di reimpiego, mentre i muri interni divisori erano soltanto basse fondazioni forse per
elevati di legno. Quindi, anche in questo campo l'arrivo dei Longobardi fu caratterizzato dalla
prosecuzione di tendenze già presenti tra la fine del V e l'inizio del VI secolo.
La più volte notata commistione di abitudini e tradizioni si riflette anche in materiali di uso
quotidiano, per esempio la ceramica. In qualche caso si crearono dei tipi ibridi con caratteristiche

67
Ward-Perkins, Ricerche su Luni medievale, cit. p. 636.
68
Dabrowska, Leciejewicz, Tabaczynska, Tabaczynski, Castelseprio, cit., pp. 38 e 78s.
che accomunano caratteri della produzione locale romana, come l'invetriatura verde o marrone69 e
della produzione tipicamente germanica, a stralucido e stampiglia70. Si presentano qui quattro
esempi particolarmente significativi dal cortile del tribunale (fig. 9). I primi due mostrano la
diffusione di una forma tipicamente longobarda: la fiasca monoansata con beccuccio applicato71. Il
primo ha impasto grezzo ed è decorato da una linea incisa, di tradizione locale, mentre il secondo è
rivestito da vetrina giallo-marrone e decorato a rotella. La terza è la base di una ciotola invetriata,
decorata con stampigliature circolari con una croce centrale: la stessa stampigliatura è presente su
un bicchiere, con impasto grigio e decorato a stralucido, e quindi tipico della produzione
longobarda. Quindi la fiasca da pellegrino di Testona e le borraccia invetriata con stampigliature da
Biella72, non sono più da considerarsi eccezioni.
I1 fluido panorama che si è presentato dimostra come non sia più attuale parlare dei Longobardi in
termini di specifici tipi di insediamento oppure di manufatti. È sembrato infatti fruttuoso, oltre che
di estremo interesse, esaminare in modo più approfondito alcuni aspetti del sistema di relazioni che,
di volta in volta, si vennero a creare con le popolazioni locali, ed è forse in questa direzione che
future ricerche potranno contribuire a meglio conoscere questo periodo della storia italiana anche
attraverso l'archeologia.

69
Blake, Ceramica paleo-italiana, cit.
70
O. von Hessen, Die Langobardiischen Keramik aus Italien, Wiesbaden 1968, p. 23
71
Ibid.
72
Blake, Ceramica paleo-italiana, cit., p. 31s e tav. 4.
Maometto, Carlo Magno e altri

Gli Autori, Richard Hodges e David Whithouse, sintetizzano brillantemente in quest'articolo


pubblicato nel 19831 quanto più estesamente scritto nel loro volume Mohammed, Charlemagne and
the originis of Europe2. L'interesse dell'intervento sta non tanto negli apporti critici alla tesi di
Pirenne, che viene ampiamente discussa e corretta, giungendo a conclusioni che un quarantennio di
dibattito storiografico aveva in qualche modo già definito, quanto piuttosto nel fatto che questo è il
primo studio che affronta tale tema utilizzando sistematicamente le fonti archeologiche su larga
scala: in sostanza, se appare scontato il superamento del dibattito sulla tesi di Pirenne, è viceversa di
grande efficacia la ripresa in positivo della ricerca sulla "crisi" del Tardoimpero e l'inizio del
Medioevo. In questa direzione le diverse forme che assume "la decadenza" urbana, i radicali
mutamenti degli assetti nell'insediamento rurale, come appaiono in un quadro geografico
estremamente ampio e comparato sulla base dell'informazione archeologica, l'analisi dei tesori del
Mare del Nord alla fine del secolo VIII-inizi IX e lo sfruttamento di una grande rete di contatti
commerciali con l'area islamizzata, sono le linee originalmente tracciate dagli autori di questo
saggio che pone prospettive rinnovate alla ricerca archeologica.
Si tratta in sostanza di un tentativo di sintesi delle informazioni archeologiche che vengono
rapportate in un bilancio storico complessivo, soggetto ad "aggiustamenti" e a ricalibrature, tanto
frequente nella tradizione anglosassone quanto desueto nella tradizione storiografica italiana.

1
"Opus", II (1983), fasc. 1, pp. 253-66.
2
London, 1983.
Richard Hodges - David Whitehouse

Il Mediterraneo e l'Europa nell'Altomedioevo*

Tra gli sviluppi più positivi dell'archeologia in Italia negli ultimi 20 anni sono la diffusione dello
scavo stratigrafico e lo studio quantitativo della cultura materiale nell'archeologia classica e
l'affermarsi della archeologia medievale. Praticamente ignorata agl'inizi degli anni Sessanta, oggi
all'archeologia del Medioevo è riconosciuta piena legittimità per quanto riguarda la tutela, la
valorizzazione e la ricerca. Ci sono professori che insegnano questa materia nelle università,
ispettori specialisti nelle soprintendenze, una rivista annuale (Archeologia Medievale) a diffusione
internazionale. Sebbene rimanga molto da fare, senza dubbio molto è stato già realizzato e in paesi
vicini, come la Francia e la Grecia, sono stati fatti simili progressi nello stesso campo.
Un analogo sviluppo si sta verificando anche in alcuni paesi islamici dove nel passato la cultura
materiale degli ultimi 1300 anni era stata trascurata (a parte i monumenti più famosi e le maggiori
opere d'arte) a favore di civiltà più antiche: di solito quelle classiche nel Mediterraneo quelle
preistoriche e protostoriche nell'Asia Occidentale. Oggi, una maggiore valutazione del patrimonio
culturale più recente, spesso sostenuta dalla ricchezza derivata dal petrolio, porta ad applicare ai
resti del primo periodo islamico le tecniche archeologiche più avanzate e cioè: lo scavo
stratigrafico, la ricognizione in superficie programmata, l'uso di modelli mutuati dagli antropologi e
dai geografi, le analisi scientifiche e le statistiche dei manufatti e dei reperti biologici.
Il bacino del Mediterraneo e l'Asia occidentale, quindi, hanno iniziato a darci abbondanti dati
archeologici riguardanti il periodo che noi (ma non i nostri colleghi islamici) chiamiamo
Altomedioevo, come da molto tempo ha fatto l'Europa settentrionale. Di conseguenza lo storico si
trova di fronte ad una nuova, ricchissima fonte d'informazioni.
Vorremmo illustrare l'importanza dell'archeologia per lo storico attraverso l'esame di una delle
pietre miliari della storiografia moderna - la tesi di Pirenne - alla luce di questi nuovi dati
archeologici. Lo facciamo senza intenzioni polemiche. Sicuramente non crediamo che l'archeologia
possa sostituirsi alla storia tradizionale. Siamo tuttavia certi che è il solo mezzo a nostra
disposizione per aumentare notevolmente la banca dei dati per lo studio del Medioevo e che,
quindi, ha molto da dirci adesso, e ancora di più ne avrà in futuro.
Nel 1935, quando il grande storico belga Henri Pirenne morì, aveva già completato la prima stesura
del suo capolavoro Maometto e Carlo Magno. Sebbene non riveduta, quest'opera è la trattazione
più ampia e matura di argomentazioni esposte dapprima in un articolo pubblicato nel 1922,
elaborato poi nei primi capitoli de Le città medievali del 1925 e presentate in molte sedi: a Roma,
ad esempio, all'Institut Historique Belge (l'Accademia Belgica) nel 1933. La tesi centrale, presto
divenuta famosa come "la tesi di Pirenne", riguarda le origini del primo impero europeo del
Medioevo, quello di Carlo Magno, sviluppatosi nel vuoto lasciato nell'Europa occidentale dalla
caduta dell'Impero romano. Essa è basata quasi esclusivamente su fonti letterarie. È usata la
documentazione numismatica, è vero, ma questo è praticamente l'unico aspetto della cultura
materiale preso in considerazione.
Ecco testualmente la quintessensa della tesi di Pirenne contenuta nella parte conclusiva di
Maometto e Carlo Magno1 :

*Testo riveduto di una conferenza tenuta alla British School at Rome il 20 maggio 1982.
1
H. Pirenne, Mohammed and Charlemagne , Londra 1958, pp. 284-5 (trad. it., Maometto e Carlomagno , Bari 1939).
Tutte le citazioni di Maometto e Carlo Magno si riferiscono alla terza edizione della versione inglese.
1. Le invasioni germaniche non distrussero né l'unità mediterranea del mondo antico, né ciò che
potrebbe essere considerato essenziale nella cultura romana, così come si conservava ancora nel V
secolo, in un periodo cioè in cui in Occidente non vi era più un imperatore.
Malgrado il conseguente disordine, non apparve nessun nuovo principio né in campo sociale ed
economico, né nella situazione linguistica, né nelle istituzioni esistenti. La civiltà che sopravvisse
era mediterranea. Fu nelle regioni attorno a questo mare che la civiltà fu conservata, e da queste si
originarono le innovazioni del tempo: il monachesimo, la conversione degli anglo-sassoni, la ars
barbarica ecc.
L'Oriente era l'elemento fecondatore; Costantinopoli il centro del mondo. Nell'anno 600 la
fisionomia del mondo non era diversa da quella che aveva nel 400.
2. La causa della cesura con la tradizione antica fu il rapido ed inatteso avanzamento dell'Islam. Il
risultato di tale avanzamento fu la separazione finale dell'est dall'ovest, e la fine dell'unità
mediterranea. Paesi come l'Africa e la Spagna, che erano sempre stati parte della comunità
occidentale, gravitarono d'ora in avanti nell'orbita di Baghdad. In questi paesi apparve un'altra
religione ed una cultura completamente diversa. Il Mediterraneo occidentale, diventato un lago
musulmano, non era più l'arteria principale del commercio e del pensiero come era sempre stato.
L'Occidente fu preso d'assedio e costretto a vivere delle sue proprie risorse. Per la prima volta nella
storia, l'asse vitale fu spostato a nord del Mediterraneo. La decadenza in cui cadde la monarchia
merovingia in seguito a questo cambiamento, dette vita a una nuova dinastia, la carolingia, la cui
origine era nel Nord germanico.
Il papa si alleò con questa nuova dinastia rompendo con l'imperatore, il quale, assorbito nella sua
battaglia contro i musulmani, non poteva più proteggerlo. Così la chiesa cambiò bandiera. A Roma,
e nell'Impero che essa fondò, la chiesa non ebbe rivali. E il suo potere era tanto maggiore in quanto
che lo Stato, essendo incapace di mantenere una sua amministrazione, si lasciò assorbire dal
feudalesimo, inevitabile risultato della regressione economica. Tutte le conseguenze di questo
cambiamento divennero lampanti dopo Carlomagno. L'Europa, dominata dalla Chiesa e dal
feudalesimo, assunse una nuova fisionomia, differenziandosi leggermente nelle varie regioni. Il
Medioevo - per mantenere l'espressione tradizionale - stava iniziando. La fase transizionale fu
lunga. Si può dire che durò l'intero secolo, dal 650 al 750. Fu durante questo periodo di anarchia
che la tradizione dell'antichità scomparve, mentre affioravano nuovi elementi.
Tale sviluppo si completò nell'800 con la costituzione di un nuovo impero che consacrò la rottura
tra l'Occidente e l'Oriente dando un nuovo impero romano all'occidente: la prova evidente che si era
separato dal vecchio impero che continuava ad esistere a Costantinopoli.

Fin dal suo apparire, quest'ampia ricostruzione di Pirenne provocò un dibattito che ha continuato a
riaccendersi in maniera intermittente per quasi mezzo secolo. I documenti sono stati setacciati alla
ricerca di nuovi dati che appoggiassero o screditassero le conclusioni, e i dati numismatici sono
stati riconsiderati più di una volta2.
Anche all'epoca in cui Pirenne era ancora in vita, l'archeologia aveva iniziato ad illuminare alcuni
aspetti del problema dell'Europa nord occidentale. Basti ricordare che i primi risultati dello scavo
dell'insediamento commerciale di Dorestad in Olanda furono pubblicati nel 19303. Poco dopo, scavi
furono iniziati in un altro emporio, Haithabu, nella Germania settentrionale4. Dopo la morte di
Pirenne, nel 1937, venne pubblicata la tesi di Holgar Arbman intitolata Schweden und das
Karolingische Reich, che esaminava attentamente i rapporti tra il mondo scandinavo e quello
carolingio. Nel 1940 e 1943 lo stesso studioso pubblicava i vecchi scavi di Birka in Svezia che
fornivano abbondanti informazioni sulle relazioni commerciali dei Vichinghi5. Negli anni

2
A. Riising, The fate of Henri Pirenne's thesis on the consequences of Islamic expansion, "Classica et Mediaevalia", 13
(1952), pp. 87-130; B. Lyon, Henri Pirenne: a biographical and intellactual study, Gand 1974.
3
H. Holwerda, Opgravingen von Dorestad, "Oudheidkundige Mededeelingen", 9 (1930), pp. 32-93.
4
H. Jankuhn, Haithabu: ein Handelsplatz der Vikingecrzeit, 6a ed., Neumunster 1976.
5
H. Arbman, Birka, Sveriges aldsta handelstad, Stoccolma 1939.
Cinquanta Joachim Werner, Donald Harden e altri esaminavano gli scambi internazionali tramite la
diffusione di determinati tipi di manufatti come oggetti di metallo e di vetro6. La ricerca
archeologica ha continuato con un buon ritmo e oggi la nostra conoscenza dell'Europa carolingia
deve molto allo scavo e allo studio della cultura materiale, e la nostra conoscenza dei Vichinghi gli
deve ancora di più.
Proprio come è impossibile ora ignorare i dati archeologici nello studio dell'Altomedioevo
nell'Europa nord-occidentale, allo stesso modo sta diventando rapidamente impossibile ignorarli nel
Mediterraneo e nell'Asia occidentale. Per quanto riguarda la tesi di Pirenne, quindi, comincia ad
esistere un discreto numero di informazioni archeologiche per tutte le zone interessate. Cosa ci
dicono?
Sarebbe assurdo tentare di offrire in questa sede un commento archeologico su tutti gli aspetti di un
problema così ampio e complesso. Cercheremo invece di trattare tre importanti elementi della Tesi
di Pirenne: le condizioni economiche nel bacino mediterraneo al momento in cui arrivano gli Arabi,
le radici locali dell'economia carolingia e la riforma monetaria dello stesso Carlomagno.
Primo, il Mediterraneo. Pirenne propose due conclusioni, tanto fondamentali quanto semplici:

1.la civiltà mediterranea era ancora essenzialmente unitaria alla vigilia dell'invasione Islamica, cioè
come era all'inizio del V secolo
2.la "cesura", quindi, se vogliamo considerare il problema in termini di una "cesura" - fra
l'Antichità e il Medioevo - fu creata dagli Arabi, i quali effettivamente abolirono le relazioni
commerciali tra il Mediterraneo e l'Europa continentale, isolando i Franchi e lasciando che essi
stabilissero le loro nuove strutture politiche ed economiche. Senza gli Arabi (rappresentati
simbolicamente da Maometto), scrisse Pirenne, la nuova Francia (rappresentata da Carlo Magno)
sarebbe stata inconcepibile7.

L'archeologia ci offre una prospettiva diversa. Invece che ad un unico episodio catastrofico nel VII
secolo, ci troviamo di fronte ad un processo lungo e discontinuo di smembramento politico,
decadenza urbana e diminuzione degli scambi commerciali.
Il declino urbano inizia ad essere documentato dappertutto. A Roma i pochi e controversi dati delle
fonti scritte riguardanti le quantità di pane e altre vivande distribuite gratuitamente implicano una
popolazione di non meno di un milione di abitanti al tempo di Augusto, ma di non più di 500.000
nel V secolo8. Dopo la "rinascita" edilizia del secondo quarto del V secolo, che vide la costruzione
sia di S. Maria Maggiore che di S. Sabina, ci fu una pausa fino alle grandi opere del tardo VIII e IX
secolo9. Intorno al 525, Cassiodoro sottolineò il declino demografico dell'Urbe quando contrappose
la situazione attuale con quella del passato «[. . .] la grande estensione delle mura - scrisse - la
capienza dei luoghi di spettacolo, di notevole grandezza delle terme, il numero di mulini [. . .]
testimoniano le multitudini di cittadini» (che, si capisce, non esistevano più)10.
Roma naturalmente era sempre un caso a parte, ma il suo destino negli ultimi secoli dell'Impero
non era affatto unico. Troviamo la stessa decadenza urbana altrove in Italia, ad esempio nel porto di
Luni, che fino a circa il 400 doveva 1a sua vita all'esportazione del marmo delle vicinissime cave di
Carrara. Luni aveva già iniziato la sua decadenza nel periodo imperiale, ma nel V secolo la

6
J. Werner, Fernhandel und Naturalwirtschaft in östlichen Merowingerreich nach archalogischen-numismatischen
Zeugnissen, "Bericht der Römisch-Germanisch Kimmission" 42 (1961), pp. 307-46, D. B. Harden, Glass vessels in
Britain and Ireland, A.D. 400-1000, in D. B. Harden, Dark Age Britain, Londra, 1956, pp. 132-67.
7
Pirenne, Mohammed and Charlemagne, cit., p. 234.
8
S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo , Roma 1951, pp. 230-8; R. P. Duncan-Jones, The Economy of the Roman
Empire, Cambridge 1974, p. 264, n. 4; G. Hermansen, The population of Imperial Rome: the Regionaries, "Historia",
27 (1978), pp. 129-68.
9
R. Krautheimer, Rome: Profile of a City, 312-1308 , Princeton 1980, pp. 46-108 (trad. it. Roma. Profilo di una città.
312-1308, Roma 1981).
10
Cassiod. Var. XI.39
situazione precipitò, ed invece di una architettura domestica i mattoni in recenti scavi hanno
rivelato - perfino nel vecchio foro - modestissime costruzioni in legno11.
Sebbene i particolari cambiamenti e la cronologia siano differenti lo stesso processo si osserva a
Cartagine. Il mattone crudo sostituì materiali da costruzione più durevoli. Parte della rete stradale
finì per essere bloccata da rifiuti. La zona urbana è piena di inumazioni riferibili, secondo uno degli
scavatori, «a uno stadio avanzato del declino economico e demografico, quando zone della città
non erano più occupate e le leggi tradizionali, secondo le quali la necropoli doveva stare fuori le
mura, furono abbandonate». Tutto questo si verificò prima e non dopo l'invasione islamica12
Una storia analoga sta venendo alla luce altrove nel Mediterraneo centro-occidentale, e non vi è
dubbio che il declino urbano fosse quasi universale13.
Meno scontato, forse, è il fatto che una trasformazione simile si verificò anche nel cuore
dell'Impero bizantino. Recentemente, Clive Foss, ha pubblicato uno studio delle "venti città
dell'Asia" nominate da Costantino Porfirigeneto nel X secolo. La lista include Efeso, Mileto,
Pergamo, Sardi e Smirne: tutti centri ampiamente scavati nell'ultimo secolo. Anche se gli scavatori
possono non aver trovato modeste strutture di legno come quelle scoperte a Luni, sicuramente
avrebbero trovato tutte, o quasi, le costruzioni in mattone o pietra. Per quanto riguarda il VII
secolo, queste mancano. Guardiamo Efeso, ad esempio. Nel V secolo, parte della città fu
ricostruita, poi sotto Giustiniano venne eretta la magnifica chiesa di S. Giovanni; la zona intorno
l'Embolo, uno dei viali principali, era piena di case di cittadini ricchi. Ma all'inizio del VII secolo
tutto cambiò. Questo è il periodo dell'invasione persiana, dopo la quale la vita urbana di Efeso
declinò rapidamente. Infatti, in tutte le città, con la possibile eccezione di Smirne, troviamo lo
stesso fenomeno: una rapida decadenza prima dell'arrivo degli Arabi )14. Anche nel Mediterraneo
orientale, quindi, le armate islamiche stavano attaccando un sistema già decisamente indebolito.
Nella maggior parte dei casi non mancava che un colpo di grazia.
Non ci sorprende che nella misura in cui le città declinavano, anche il commercio diminuiva. Nel V
secolo, una città come Roma consumava materie prime, manufatti e vettovaglie provenienti da ogni
angolo del Mediterraneo e oltre. Uno scavo come quello della Schola Praeconum mostra ceramiche
da tavola dall'Africa settentrionale e anfore dalla Tunisia, dall'Egeo, dalla Turchia e anche da Gaza
in Palestina15. La stessa situazione si verifica a Cartagine, dove anfore importate dal Mediterraneo
orientale erano comuni fıno alla fine del VI secolo, data a partire dalla quale le relazioni
commerciali sembrano essere declinate molto rapidamente16. Il commercio mediterraneo ancora
esisteva: lo scavo a Luni lo dimostra, come anche la scoperta di frammenti di anfore provenienti da
Gaza in strati sicuramente posteriori al 550 ad Anguillara nella Campagna Romana, o ceramica da
tavola africana dello stesso periodo a Farfa nella Sabina. Ma il numero delle imbarcazioni ed il
volume dei prodotti trasportati erano esigui a paragone agli scambi commerciali di qualche secolo
prima17. Proprio come il declino delle città, sebbene quasi universale, si verifıcò in maniera diversa

11
B. Ward-Perkins, Luni: the Decline of a Roman town , in M. Blake, T. Potter e D. Whitehouse Papers in Italian
Archaeology, I, Oxford 1978, pp. 2, 313-21; Id., Not so different from England? A Byzantine House in Italy, "Popular
Archaeology", Agosto 1981, p. 17s; Id., Two Byzantines houses at Luni, "Papers of the British School at Rome" , 49
(1981), pp. 91-8.
12
H. Hurst, Excavations at Carthage, 1977-8. Fourth Interim Report, "Antiquaries Journal", 59 (1979), pp. 19-49.
13
P. A. Fevrier, Quelques observations sur villes et campagnes au Maghreb à la fin de l'Antiquité ; Id., Observations
sur l'habitat urbuin et rural dans la Gaule méridionale (dattiloscritto inedito presentato all'Istituto Gramsci, Napoli
1982).
14
C. Foss, Archaeology and the 'Twenty Cities' of Byzantine Asia , "American Journal of Archaeology", 81 (1977), pp.
469-86; Id., Ephesus after Antiquity: a Late Antique, Byzantine and Turkish City, Cambridge 1979.
15
D. Whitehouse, G. Barker, R. Reece, D. Reese, The Schola Praeconum I. the coins, pottery, lamps and fauna ,
"Papers of the British School at Rome", 50 (1982).
16
M. Fulford, Carthage: overseas trade and the political economy, c. A D. 400-700 , "Reading Medieval Studies", 6
(1980), pp. 68-80.
17
C. Panella, Produzioni anforiche presenti nella Cartagine di età romana: nuovi elementi per la ricostruzione dei
flussi commerciali del Mediterraneo tra il V e a VII secolo (dattiloscritto inedito presentato all'Istituto Gramsci, Napoli
1982).
da una regione all'altra, anche il declino nel volume del commercio era lungi dall'essere uniforme.
Il punto essenziale, tuttavia, è che contrariamente alla ipotesi sostenuta da Pirenne, il crollo dello
scambio su vasta scala ebbe luogo prima dell'arrivo degli arabi e non fu causato dagli stessi arabi.
La decadenza della vita urbana e la recessione economica possono essersi accompagnate a
cambiamenti radicali nell'insediamento rurale. I dati, tuttavia, sono attualmente difficili da
interpretare. Sicuramente, il numero di siti rurali del VI secolo scoperti dagli archeologi in una zona
come l'Etruria meridionale o nell'ager Cosanus è di gran lunga inferiore al numero dei siti del II
secolo18. Comunque, dato che noi identifichiamo tali siti soprattutto in base alla presenza di certe
tipiche ceramiche d'importazione (in particolare, terra sigillata africana) non sappiamo fino a che
punto la scarsità di siti identificati sia dovuta semplicemente alla scarsità di ceramiche importate sul
mercato locale, in seguito alla recessione commerciale. In futuro, quando saremo in grado di
riconoscere non solo la terra sigillata africana, ma anche le ceramiche di uso comune, saremo in
grado di valutare molto più accuratamente la densità dell’insediamento rurale nel periodo
tardoromano, cosa che attualmente purtroppo non è possibile19.
Tuttavia, sebbene i dati archeologici siano difficili da interpretare, abbiamo indicazione di quanto
può essere accaduto dal fenomeno geologico conosciuto come the Younger Fill (il riempimento
recente). Questo riempimento è uno strato di alluvium trovato nelle valli in molte zone del bacino
Mediterraneo, creatosi secondo alcune datazioni radiocarboniche nel periodo 400-900 d.C.20.
L'alluvium veniva depositato dai fiumi, a volte in maniera drammatica: la città di Olimpia nel
Peloponneso venne letteralmente seppellita dal fango e dalla ghiaia portata dal fiume Cladeo.
Esistono due ipotesi principali sull'origine dell'alluvium. La prima, elaborata dal geologo Claudio
Vita-Finzi nel suo studio classico The Mediterranean Valleys, lo attribuisce ad un cambiamento
metereologico. Un aumento nella pioggia produrrebbe un maggior volume d'acqua nei fiumi che
causerebbe una più rapida erosione ed una maggiore capacità di trasportare l'alluvium. I sostenitori
di questa ipotesi, tuttavia, devono ammettere non solo che non c'è alcuna prova a favore di un
aumento di precipitazioni, ma anche che le recentissime ricerche della missione dell'UNESCO nei
uidian della Libia danno prove sicure contro l'ipotetico aumento21.
Resta l'altra ipotesi, secondo la quale l'alluvium fu una conseguenza del declino del sistema
agricolo romano. Nel momento in cui diminuivano i grandi mercati urbani per il grano, l'olio ed il
vino, la mancata riparazione delle terrazze avrebbe portato il suolo all'erosione, e la stessa cosa si
sarebbe verificata se i canali di scolo non fossero più stati mantenuti22.
Qualunque sia la spiegazione corretta per l'alluvium23, esso ha importanti implicazioni per il
periodo che c'interessa. I cambiamenti geomorfologici nelle vallate e negli estuari avrebbero
intaccato non soltanto l'agricoltura, ma anche le reti stradali, i porti (come quello di Roma) e
perfino le stesse città. Il destino di Olimpia fu un esempio estremo di un fenomeno piuttosto
comune, e disastrose alluvioni vennero registrate a Roma nel 589 e in seguito tra il 715 e il 73124.
In questo miscuglio di città morenti, crisi economiche e vallate soffocate dall'alluvium, dove è
andato a finire Pirenne? Proprio qui. Per Pirenne, gli Arabi chiusero il Mediterraneo ed in seguito i

18
T. W. Potter, The Changing Landscape of Southern Etruria , Londra 1979, pp. 13944 (trad. it.: Storia del paesaggio
dell'Etruria medirionale, Roma 1985); M. Celuzza, E. Regoli, La Valle d'Oro nel territorio di Cosa, in "Dialoghi di
Archeologia", n.s., 4 (1982), pp. 31-62.
19
Per quanto riguarda l'Etruria meridionale, un contributo alla comprensione della ceramica d'uso comune ci viene
dagli scavi ad Anguillara: D. Whitehouse, Le Mura di S. Stefano, Anguillara Sabazia (Roma): Ultima relazione
provvisoria, in "Archeologia Medievale" 9 (1982), pp. 319-22; vedi anche P. Arthur, D. Whitehouse, Le ceramica
dell'Italia Meridionale: produzione e mercato tra V e X secolo, "Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 39-46.
20
C Vita-Finzi, The Mediterranean Valleys, Cambridge 1969.
21
G. Barker, G. D. B. Jones, The UNESCO/Libyan Valleys Survey: Report on Three years of Fildwork , 1979-1981, p.
56.
22
Vita-Finzi, The Mediterranean Valleys, cit., p. 105.
23
J. M. Wagstaffe, Buried assumptions: some problems in the interpretation of the 'Younger Fill' raised by recent data
from Greece, "Journal of Archaeological Science", 8 (1981), pp. 247-64.
24
L. Duchesne, Le Liber Pontifcalis, Parigi 1886, I, pp. 399 e 411.
Franchi, isolati nell'Europa occidentale, non ebbero altra scelta che quella di creare la loro stessa
identità politica. Per l'archeologo, che sia d'accordo o meno con tutte le nostre ipotesi, il distacco
dell'Europa dal Mediterraneo fu un processo più lungo, complesso e discontinuo. Questo processo
era già maturo quando arrivarono gli Arabi - infatti era iniziato in Europa con la fine
dell'amministrazione provinciale di Roma se non prima - ed in questo senso sembrerebbe che
Maometto abbia ben poco a che fare con Carlo Magno.
Due aspetti dello stato carolingio che l'archeologo può contribuire a chiarire sono quelli che
riguardano le città e il commercio: specialmente in che misura esistevano sia prima di Carlo Magno
che dopo. Sebbene i dati archeologici siano più abbondanti in Inghilterra che in Francia,
cominciamo ad avere un'idea circa le condizioni delle città tardoromane del continente nei
cosiddetti "secoli scuri", tra il V e il VII secolo. Come nella maggior parte del Mediterraneo, la
costruzione di prestigiosi monumenti pubblici e sontuose residenze private terminarono. Dove si
hanno tracce di occupazione continua, si tratta di edifici di legno, come a Luni25.
Diminuirono anche la produzione su scala più o meno industriale e il commercio regolare su lunga
distanza, mentre le monete non furono più di uso comune. Negli insediamenti rurali della Francia
troviamo una gamma di manufatti molto più ristretta di quella che era una volta esistita nelle città
romane, e per la maggior parte fatti localmente da non professionisti o al massimo da semi-
professionisti26. Il periodo tra il V e il VII secolo quindi vide lo sviluppo di una società agraria in
cui la maggior parte della popolazione era sparsa in modesti insediamenti rurali. L'economia di
mercato era crollata, l'artigianato e l'imprenditoria erano praticamente scomparsi e i dati
archeologici convergono su una quasi totale dipendenza dalla produzione locale. Sebbene gli Arabi
non c'entrino, il giudizio di Pirenne sulla società ed economia della Francia merovingia è confortato
dai dati di scavo: città e commercio, così come concepiti nel periodo romano, non esistevano più27.
Vi erano, naturalmente, centri di potere sia civile che ecclesiastico. Alcuni di questi erano nelle
vecchie città: piccoli nuclei circondati da quartieri praticamente abbandonati. Aethelberht, re di
Kent, per esempio, viveva nella città romana di Canterbury al tempo della missione di Agostino
nell'anno 597 e più tardi la più famosa residenza reale, ad Aquisgrana, sorse al centro di un'altra
città romana28. Si potrebbero citare molti esempi: il palazzo del vescovo recentemente scoperto a
Tours, i complessi monastici nelle città della Provenza, e così via. È la storia di Luni e di dozzine di
altre città sia continentali che mediterranee29.
Anche il paesaggio merovingio conteneva centri di potere, come i monasteri (che in seguito
godranno grande prosperità sotto Carlo Magno e i suoi successori) e le ville reali, di cui Ingelheim
e il recentemente scavato Schloss Broich furono i discendenti caloringi30. Tuttavia, non dobbiamo
farci influenzare dalla fama di questi siti e sopravvalutare il loro carattere monumentale, anche
sotto i carolingi. Il palazzo imperiale ad Aquisgrana, il centro amministrativo più importante
dell'Europa occidentale, occupava solo due ettari (la maggior parte era vuoto) mentre il grande
monastero ideale di S. Gallo fu progettato per solo 240-260 persone tra monaci e laici31.
Il commercio crollò, ma ogni tanto prodotti stranieri raggiungevano anche le parti più distanti
dell'Europa: il vasellame di bronzo fuso arrivava dall'Egitto, il vino dalla Palestina, la ceramica da
tavola dalla Tunisia32. Paradosso? Pensiamo di no, preferendo interpretare queste rare e costose

25
M. Biddle, Towns, in The Archaeology of Anglo-Saxon England, a cura di D. Wilson, Londra 1976, pp. 99-150.
26
Cfr. R. Koch, Absatzgebiete merowingerreitlicher Topferewen des nordlichen Nechagelsieter , "Jarbuch fur
Schwabisch Frankische Geschichte", 27 (1973), pp. 31-43.
27
Pirenne, Mohammed and Charlemagne, cit., pp. 164-74.
28
W. Horn, The Plan of St Gall, Berkeley, Los Angeles e Londra 1979, I, pp. 106-7.
29
H. Galinié, Archéologie et topographie historique de Tours-IVème-Xléme siècles , "Zeitschrift für Archäologie des
Mittelalters", 6 (1978), pp. 33-56.
30
G. Binding, Die spatkarolingische Burg Broich in Mulheim and der Ruhr, Dusseldorf 1968.
31
Horn, The Plan of St Gall, cit., I, p. 342.
32
Per le ceramiche mediterranee nell'Europa occidentale, vedi C. Thomas, A provisional list of improted pottery in
post-Roman Western Britain and Ireland, Redruth 1981. Per il vasellame di bronzo egiziano in Italia, vedi la recente
lista di M. C. Carretta, Il Catalogo del vasellame bronzeo italiano alto medievale, Firenze 1982.
importazioni come oggetti di scambio di carattere non commerciale. Sappiamo dall'antropologia
che lo scambio di doni è un mezzo preferito per rendere omaggio e rinforzare relazioni politiche e
sociali. L'idea non è nuova; fu esaminata anni fa da Malinowski e da Marcel Mauss33. Anche il
grande tesoro di Sutton Hoo può essere facilmente interpretato come frutto di una serie di scambi di
doni piuttosto che di rapporti commerciali.
È un passo piccolo, abbondantemente documentato nella letteratura antropologica, quello che, dagli
scambi di doni porta alla creazione di specializzate partnerships semi-commerciali, che permettono
lo scambio di oggetti di prestigio e di lusso tra i capi o, nel caso europeo, tra reucci locali. Un
elemento essenziale in questo sistema è la creazione di posti di frontiera, dove gli scambi possono
essere controllati - le cosiddette gateway communities dei geografi e degli antropologi34. Non è
affatto assurdo pensare all'Europa occidentale in questi termini, è sufficiente ricordare le lettere
scambiate tra Carlo Magno e Offa, re di Mercia, le quali descrivono esattamente questo
fenomeno35. Infatti analoghi posti di frontiera stanno iniziando a venire alla luce. Ad alcuni
chilometri da Sutton Hoo, si trova il porto di Ipswich, che emerge come uno dei maggiori
insediamenti di questo periodo. Il re di Wessex aveva Hamwih, precursore del gorto di
Southampton. Nel continente, si hanno Quentovic e Dorestad 36.
Alla fine dell'VIII secolo, tutti e quattro questi posti fissi subirono un drammatico cambiamento.
Divennero molto più grandi (alla fine Dorestad si estendeva per 250 ettari) e testimoniano non
soltanto dell'esistenza di commercianti ma anche di artigiani. Aumentò la quantità e la varietà della
cultura materiale. Le monete, prima molto scarse, divennero più comuni. Grazie all'applicazione
della dendrocronologia ai legnami conservati negli strati più umidi a Dorestad, sappiamo con
grande precisione quando lo sviluppo prese il via: nell'ultima decade dell'VII secolo37.
L'emergenza di un vero sistema commerciale (sarebbe difficile spiegare il fenomeno in altri
termini) coincideva con una svolta nello sviluppo della moneta medievale in Europa: la riforma
monetaria di Carlo Magno dell'anno 793 o 79438. Il peso del denaro d'argento aumentò di un terzo e
Carlo Magno fece l'impossibile per allargare la diffusione e l'uso della moneta. Gli obiettivi
evidentemente erano di stimolare l'economia e di facilitare l'esazione delle tasse. Il successo della
riforma, se non altro dal punto di vista commerciale, è chiaramente dimostrato dalla crescita
esplosiva di Dorestad, e non è un caso che le stesse misure furono subito adottate da Offa e da
Leone III39.
Il Mare del Nord non è la sola zona in cui si svilupparono i porti commerciali negli anni intorno
all'800. Subito fuori della frontiera carolingia, i Danesi fondarono un insediamento che aveva un
solo scopo, il commercio. L'insediamento era Haithabu, creato dopo una raid che vide la
distruzione del vicino porto carolingio e la deportazione dei mercanti. La dendrocronologia
dimostra che la costruzione di Haithabu era già in corso nell'anno 810 circa40.
Quale motivazione spinse i Danesi ad imbarcarsi in questa impresa? Dato il carattere commerciale
di Haithabu, la risposta sembra sia che essi volevano controllare le nuove relazioni commerciali tra
la Francia e il Mar Baltico, dove i dati archeologici mostrano lo sviluppo di un'attività economica
non meno intensa di quella del Mare del Nord. Gli scavi nei cimiteri di Birka, un centro
commerciale svedese, già dallo scorso secolo documentarono la ricchezza degli abitanti dal IX
secolo in poi. La scoperta a Helgo di una statuetta di Budda, fusa nel Kashmir, dimostra come gli

33
B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, Londra 1922; M. Mauss, Essai sur le Don, Parigi 1925.
34
R. Hodges, Dark Age Economics, Londra 1982.
35
Ivi p. 124.
36
1vi, pp. 66-86.
37
W. W. van Ess, W. J. H. Werwers, Excavations at Dorestad 1: the harbour; Hoogstrnat 1, Amersfoort 1980.
38
P. Grierson, Money and coinage under Charlemagne, in Karl der Grosse 1, Dusseldorf 1965 pp. 501-36.
39
Ibid.
40
Jankuhn, Haithabu, cit.; K. Randsborg, The Viking Age in Denmark , London 1980, pp. 85-92 e 171s.; K. Shietzel,
Stand der siedlungsarchäologischen Forschung in Haithabu. Ergebnisse und Probleme, "Berichte uber die
Ausgrabungen in Haithabu", 16 (1981).
oggetti possano essere importati da paesi sorprendentemente lontani41. Recentemente, gli scavi a
Staraya Ladoga, vicino Leningrado, ci hanno dimostrato che anche qui cominciò ad espandersi un
ricco centro commerciale intorno all'800 circa42.
In poche parole, la nuova informazione archeologica ha mutato completamente le nostre idee circa
le origini dei rapporti commerciali nell'Europa nord-occidentale, provando lo sviluppo dei porti nel
Mare del Nord e nel Baltico entro un brevissimo periodo compreso tra il 790 e 1'810 circa.
Questo elogio dell'archeologia può forse sembrare troppo simile ad un annuncio pubblicitario e
dobbiamo ammettere che, come qualsiasi inserzione per detersivi, propone un ingrediente speciale.
Pirenne quasi lo scoprì quando scrisse di «una grande via commerciale che conduceva (dall'Oriente,
s'intende) al Baltico, percorrendo il Volga»43. Esitò, tuttavia, e abbandonò l'argomento.
Riproponiamolo noi.
Abbiamo insistito sullo sviluppo dei centri commerciali lungo le coste del Mare del Nord e il
baltico, e sulle relazioni tra il mondo carolingio e i Vichinghi. Sappiamo tutti che gli stessi
Vichinghi sfruttarono una vasta rete di contatti commerciali con la Russia e l'Oriente islamico, ed è
questo l'ingrediente speciale44.
Nell'anno 750 l'ultimo califfo della dinastia omniade fu spodestato. I nuovi califfi della dinastia
degli Abbasidi decisero di trasferire la corte e il governo dalla vecchia capitale, Damasco, verso le
basi del loro stesso potere, in oriente. Dodici anni più tardi, dopo molte indecisioni, il califfo al-
Mansur decise di fondare una nuova città sul Tigri, nel punto in cui i grandi fiumi, il Tigri e
l'Eufrate, distano meno di 40 km. e erano già collegati da canali. La scelta fu brillante e gli scrittori
arabi del IX e X secolo sono unanimi nelle loro lodi. Secondo al-Muqaddasi, venne detto al califfo:
«sarai sempre circondato da palme e sarai vicino all'acqua [. . .] se una regione soffre siccità [. . .] vi
sarà sollievo da un'altra [. . .]. Il nemico non può avanzare salvo che per nave o sopra un ponte».
Ya'qubi scrisse: «Il Tigri ad oriente e l'Eufrate ad occidente sono gli approdi del mondo». Tabari fa
esclamare il califfo: «Questo è il Tigri: qui non c'è distanza tra noi e la Cina. Tutto ciò che è sul
mare può venire a noi»45.
Baghdad non solo era ben situata per esercitare il commercio marittimo, ma era anche un punto
d'incontro per alcune delle maggiori carovaniere dell'Asia. La "via di Khorasan" arrivava dall'Iran e
Asia centrale, portando tra le molte altre cose, argento dalle miniere di Afghanistan e Uzbekistan.
Altre strade portavano verso ovest in Siria e a sud-ovest fino in Arabia ed Egitto. L'Iraq, quindi,
divenne il centro di un vasto impero politico e commerciale.
Non esiste illustrazione più sconvolgente della ricchezza a disposizione degli Abbasidi che
Samarra, un'altra nuova capitale a 129 chilometri a nord di Baghdad, creata ex novo nel 836, e
abbandonata dai califfi nel 882. In un arco di tempo di appena 46 anni, gli Abbasidi riuscirono a
costruire una città che si estendeva lungo il Tigri per 35 km - più della distanza tra Roma e Ostia46.
Fu un'impresa incredibile, forse la città più grande mai esistita prima di questo secolo. Esaminiamo
solo quattro dei principali edifici. I1 palazzo del fondatore di Samarra, al-Mu'tasim aveva un'area
quattro volte maggiore dei Vaticano. Questo fu sostituito da un nuovo palazzo, costruito pochi anni
dopo dal suo successore, alMutawakkil, e grande tre volte più del Vaticano. Lo stesso califfo
costruì anche una moschea grande più di due volte S. Pietro. Più tardi, ne costruì un'altra, la
moschea di Abu Dhulaf, anche questa due volte più grande di S. Pietro. È vero, i materiali da
costruzione (per la maggior parte mattone crudo) e la mano d'opera costavano poco. Ma i palazzi e

41
La statuetta è stata illustrata in numerose occasioni; vedere, ad esempio, D. Wilson, The Wikings and their origins ,
London 1970, fig. 33.
42
Hodges, Dark Age Economics , cit.; D. Ellmers, Frühmittelalterliche Handelsschiffart in Mittel - und Nordeuropa ,
Neumuster 1972.
43
Pirenne, Mohammed and Charlemagne, pp. 183s.
44
H. Arbman, Svear i Osterviking, Stoccolma 1955; A. Stender-Petersen, Varangica, Arhus 1953.
45
K. A. C. Creswell, Early Muslim Architecture, 2a ed., Londra 1968, 2, pp. 1-5.
46
Stranamente, nessuna dettagliata descrizione del sito è mai stata pubblicata. Per una serie di fotografie aeree, vedere
E. Herzfeld, Ausgrabunden von Samarra VI. Geschichte der Stadt Samarra, Berlino 1948. Per la descrizione dei
principali monumenti, vedere Creswell, Early Muslim Architecture, cit..
le moschee erano rifiniti in marmo, mosaici e stucchi, e in ogni caso, quali ehe fossero i materiali
usati, la costruzione di una città per l'estensione di 35 km, realizzata in soli 46 anni, deve aver
consumato una parte del bilancio nazionale, pari o forse maggiore di quella destinata oggi al
programma di difesa di una o l'altra delle superpotenze.
Un importante elemento nella ricchezza degli Abbasidi fu il commercio marittimo, e anche qui
l'archeologia si aggiunge alla storia come un'indispensabile fonte d'informazione. Già sapevamo
dalle fonti scritte che i rapporti commerciali ebbero una lunga storia nell'Oceano Indiano. Anche
all'inizio del primo millennio dopo Cristo, il Periplo del Mar Rosso dimostra una conoscenza non
solo dello Sri Lanka, ma vagamente anche della costa orientale dell'India. Alla fine dello stesso
millennio, mercanti viaggiavano regolarmente dal Golfo Persico alla Cina e dall'Africa Orientale,
fino a Sofala in Mozambico e all'isola di Madagascar47. Ora, l'archeologia ci dice con precisione
impressionante quando questi lunghissimi viaggi iniziarono.
L'informazione ci viene da Siraf, il grande porto medievale del Golfo48. Malgrado un ambiente
arido ed improduttivo, Siraf fiorì per più di due secoli grazie alla sua funzione di porto di scalo per
una flotta mercantile che trafficava lungo tutto l'Oceano Indiano. La chiave di lettura della storia di
Siraf è la moschea principale, costruita, ricostruita, quindi riparata in più di un'occasione. La prima
costruzione sembra abbia avuto luogo contemporaneamente alla costruzione del bazar, il cuore
commerciale della città. Ciò rappresenta un considerevole investimento e già denuncia un momento
eccezionale di sviluppo economico. Questo coincide inoltre con un notevole cambiamento nella
ceramica d'uso. Prima della costruzione della moschea, le ceramiche cinesi erano presenti, ma rare
e in forma di giare per l'importazione di sostanze deperibili. Gli strati contemporanei e successivi
alla costruzione, d'altra parte, contengono una maggiore quantità di materiale cinese, e non solo
contenitori: sono presenti anche pregevoli ceramiche da tavola. Crediamo non si tratti di altro che
del momento in cui iniziò il contatto diretto con la Cina, in sostituzione di quello indiretto.
E la data? Gli storici ci dicono che non può essere prima del 792, quando il governo cinese riaprì il
Cantone ai mercanti stranieri49. L'archeologia ci dice che non può essere dopo gli anni 815-25, data
della costruzione della moschea indicata dalle monete.
Ricapitolando, la fondazione di Baghdad nel 762 provocò un boom economico nell'Asia
occidentale, e l'inizio di un commercio diretto con la Cina negli anni intorno all'800 è sintomatico
dell'enorme forza dell'economia abbasida, all'epoca governata dal califfo Harun al-Rashid.
Naturalmente, il simultaneo sviluppo dell'economia carolingia, del commercio baltico e del boom
nell'Asia occidentale non può colpirci. E per finire, vorremmo aggiungere un ulteriore elemento
interessante. Torniamo alla riforma monetaria di Carlo Magno, che aumentò di un terzo
l'ammontare dell'argento nei suoi denari. Come? La risposta venne data poco dopo la pubblicazione
di Maometto e Carlo Magno da un giovane numismatico, Store Bolin. L'argento, egli diceva,
proveniva dal commercio con le città del Baltico ed esse lo ottennero tramite il commercio con
l'Oriente. Il Baltico, egli precisava, è pieno di tesori di monete - quasi tutte islamiche - e il peso del
nuovo denaro pesante di Carlo Magno era simile a quello del dirham di Harun al-Rashid50.
Siamo convinti che Bolin aveva ragione. Una recente analisi di 71 tesori scoperti nelle repubbliche
occidentali dell'Unione Sovietica rivela che il volume di monete d'argento islamiche esportate verso
il Baltico raggiunse una proporzione senza precedenti negli anni 790-820 circa: il periodo in cui

47
È sufficiente confrontare il Periplo con le notizie date dai geografi arabi, come riassunto, ad esempio, da G. Hourani,
Arab Seafaring, Beirut 1964. Per l'Africa orientale, vedere J. S. Trimingham, The Arab geographers and the East
African Coast, in H. N. Chittick, R. I. Rotberg, East Africa and the Orient, New York e Londra 1975, pp. 115-46.
48
D. Whitehouse, Siraf: a medieval city on the Persian Gulf , "Storia della Città", 1 (1976), pp. 40-55; Id. Siraf III: The
Congregational Mosque, Londra (s.d.).
49
Hourani, Arab Seafaring, cit., p. 66.
50
S, Bolin, Mohammed, Charlemagne and Ruric , "Scandinavian History Review", I (1953), pp. 5-39; Grierson, Money
and coinage, cit.
l'economia abbasside raggiunse il suo apice e il nascente sistema carolingio era in grado di ricevere,
e cambiare per uso interno, grandi quantità d'argento51.
Dove ci ha portato questa discussione? Riassumiamo: Carlo Magno tentò di sviluppare un più
coerente sistema economico nell'Europa occidentale, incoraggiando il commercio e senza dubbio
facilitando l'esazione dalle tasse tramite la riforma monetaria. Noi crediamo, che per quest’impresa
egli ottenne la maggior parte dell'argento dai commercianti del Baltico, i quali a loro volta lo
ottennero dal Medio Oriente. Harun al-Rashid governò un impero dieci volte più vasto di quello
carolingio e dall'enorme capacità economica. In questo preciso momento, i capitani di Siraf
iniziarono regolari contatti marittimi con un altro grande impero, la Cina e sfruttarono le ricchezze
naturali dell'Africa orientale. Altrove i mercanti islamici rinforzavano i rapporti con il baltico che
serviva da legame tra la rete commerciale dei Carolingi e degli Abbasidi fornendo le zecche
dell'Occidente con l'argento dell'Afghanistan e di altre regioni asiatiche. È una domanda senza
risposta, ma che merita lo stesso di essere fatta: Carlo Magno e Harun al-Rashid, l'imperatore e il
califfo, conoscevano questa ragnatela di relazioni commerciali (un vero world system) a cui
appartenevano entrambi, o no?

51
T. S. Noonan, Ninth-century dirhem hoards from European Russia: a preliminary analysis , in M. A. S. Blackburn,
D. M. Metcalf, Viking-age Coinage in the Northern Lands, Oxford 1981, pp. 47-118.
La città altomedievale

Uno dei temi su cui si è concentrata l'attenzione della storiografia sulla città è quello della
continuità fra Antichità e Medioevo: un problema destinato ad essere ancora ampiamente dibattuto
e probabilmente rimanere irrisolto perché può essere evinto soltanto nelle grandi diversificazioni
temporali e nelle diversità geografiche. Una situazione determinata oggettivamente dalle
scarsissime conoscenze relative alle strutture fisiche della città altomedievale. Non vi è dubbio che
se affrontiamo il problema urbano in Italia dal punto di vista politico ed istituzionale il problema
della continuità sarebbe generalmente risolto positivamente, ma se andiamo a leggere le strutture
materiali ci accorgiamo di profondi e incisivi mutamenti sia nell'organizzazione degli spazi sia nei
modelli dell'edilizia privata. Il largo lasso di tempo di oltre sei secoli che separa gli impianti romani
delle città italiane dagli impianti romanici è generalmente simmetrico ad un altrettanto vasto
dislivello fra le quote di partenza dei rispettivi edifici, dislivello caratterizzato da un accumulo di
strati neri: sono questi contenitori delle informazioni relative alle strutture abitative e
all'organizzazione degli spazi della città altomedievale, che soltanto in questi ultimi anni, e non
sempre, cominciano ad essere indagati sistematicamente per capire gli assetti che hanno
caratterizzato questa fase. In Lombardia, dove l'archeologia urbana comincia a dare i primi risultati,
le città altomedievali, pur conservando la presenza delle sedi delle autorità civile ed ecclesiastica,
appaiono più che un agglomerato omogeneo, disseminate di insediamenti talvolta concentrati
intorno ad una chiesa con annessa area cimiteriale e circondate da aree ortive, riproducendo un
modello rurale sulla continuità delle rovine di una cultura urbana (naturalmente non mancano
eccezioni). In altre aree della penisola il quadro non è diverso, ci basti al proposito richiamare la
labilità delle strutture urbane altomedievali a Firenze recentemente evidenziate da uno scavo nella
piazza della Signoria, dove i livelli di vita altomedievali, costituiti prevalentemente dai resti di
strutture precarie, si appoggiavano ai monumentali crolli delle terme romane. Il caso di Firenze è
esemplificativo per molte situazioni, ma certo non esaustivo della varietà della casistica che vedeva
contemporaneamente in alcune aree metropolitane bizantine svilupparsi impianti religiosi di vaste
proporzioni, nati in una tradizione di padronaggio che non si era ancora spenta. Ma ancora molti
aspetti del problema devono essere chiariti mentre è assodata la fragilità dello spessore della
cultura cittadina in Firenze, rimane ancora tutta da definire quella lucchese, di cui la
documentazione scritta tenderebbe a dare un'immagine diversa, comunque tutta da verificare.
E in questo contesto di una storia urbana che non si basa su una consolidata conoscenza dei resti
materiali della città che Ward Perkins, nel saggio di seguito pubblicato1, sintetizza il ruolo che
l'archeologia deve svolgere e il complesso delle problematiche intorno a cui devono ruotare le
ricerche.

1
La città altomedievale, " Archeologia Medievale", X (1983), pp. 111-24.
Bryan Ward-Perkins

L'archeologia della città *

1. Introduzione

È mio compito in questo articolo trattare della città altomedievale italiana, in relazione particolare
con l'archeologia. Come limiti cronologici ho preso, più o meno, il periodo dal 400 al 1000, e, come
limiti geografici, l'Italia a nord della Toscana: cioè la Liguria e tutta la Val Padana.
Bisogna anche che mi fermi un attimo a definire la parola "città". Due sono i tipi di definizione più
comuni: uno che considera la città in termini politici e come il centro amministrativo del territorio
circostante, spesso anche con privilegi e diritti specificamente "urbani"1; l'altro che la considera in
termini economici e demografici, come un concentramento di persone, di solito con una base
economica non soltanto agricola, ma anche artigianale e commerciale. Infatti risulta che per la
maggior parte delle città europee tutte e due le definizioni sono accettabili; perché nuovi centri di
sviluppo economico e demografico diventano normalmente anche centri amministrativi e zone
investite di privilegi speciali; mentre i vecchi centri, in fasi di decadenza economica e demografica,
perdono alla fine la loro posizione legale e amministrativa.
Perciò in genere potere economico-demografico e potere amministrativo finiscono nello stesso
posto, cioè nella stessa città. Però può anche darsi che il conservatorismo amministrativo ritardi
questa congiunzione, mantenendo per secoli i privilegi di una città in un insediamento già decaduto,
in termini economici e demografici, al livello di un villaggio, ed ignorando l'esistenza di un vicino
centro economico molto fiorente, che perciò non acquista per molto tempo privilegi urbani. Per
esempio, nel X secolo Luni nella Liguria era ancora la città capitale della Lunigiana ed il centro del
potere ecclesiastico e secolare: però a livello demografico ed economico era sicuramente in
condizioni molto ridotte e forse già superata in ricchezza e popolazione dalla vicina Sarzana, dove
però la cattedrale fu spostata soltanto agli inizi del secolo XIII2.
Per l'archeologia medievale è necessario senz'altro concentrare gli sforzi e le ricerche sulla
definizione e sull'identificazione della città come centro demografico ed economico, piuttosto che
amministrativo. In primo luogo perché ovviamente in un periodo senza iscrizioni che forniscono
dati amministrativi, l'archeologia ci può dire pochissimo sulla posizione politica e legale di un
insediamento, e per questo aspetto dobbiamo basarci sulle fonti scritte. In secondo luogo perché
l'archeologia può invece fornire preziosissimi dati sull'economia e sulla densità della popolazione,
che sono, come vedremo, proprio gli aspetti della vita urbana spesso trascurati dai documenti.
Quindi della «città», in questa relazione, parlerò soprattutto in termini demografici ed economici,
intendendo cioè insediamenti con una popolazione notevole (anche se lascio del tutto vago il
significato di «notevole»), e insediamenti con funzione economica specializzata che li differenzi dal
mondo rurale. La definizione è necessariamente vaga e ampia, però può servire.

*Vorrei ringraziare le molte persone che mi hanno fornito idee ed informazioni per questa relazione, anche se non
saranno ovviamente sempre d'accordo con le mie interpretazioni dei dati dei loro scavi e delle loro ricerche. Soprattutto,
per aver fornito informazioni ancora inedite, vorrei ringraziare Gian Pietro Brogiolo, Peter Hudson, Silvia Lusuardi
Siena, Sergio Nepoti, Maria Pia Rossignani, Guido Vannini e David Whitehouse. A richiesta della redazione ho ridotto
le illustrazioni a due, poco conosciute ed essenziali alla comprensione del testo.
1
Vedi per esempio G. Mengozzi, La città italiana nell'alto Medio Evo, Roma 1914.
2
B. Ward-Perkins, Luni: the prosperity of the town and its territory , in
Archaeology and Italian Society, a cura di G. Barker e R. Hodges, Oxford 1981,
pp. 179-90.
2. Le fonti scritte

Dopo queste osservazioni su problemi di definizione e di indirizzo generale, è mio compito, scrivere
della natura delle prove esistenti che illustrano il mio tema. Per la città altomedievale non è un
compito difficile, perché in pratica l'informazione a nostra disposizione è scarsissima. Per la
maggior parte delle città italiane le fonti scritte prima del 1000 documentano soltanto la loro
esistenza o no, e la presenza o assenza al loro interno della gerarchia ecclesiastica e secolare. Perciò
le fonti scritte generalmente parlano degli insediamenti soltanto in termini amministrativi, e non ci
permettono di sapere se queste cosiddette «città» fossero anche centri economici e demografici
fiorenti, o se invece fossero piuttosto villaggi con un palazzo ducale o comitale ed una cattedrale.
In alcuni casi, come per esempio quelli di Pavia e di Milano disponiamo di una documentazione
scritta un po' migliore, adeguata per fornirci ulteriori dettagli: soprattutto per quanto riguarda
l'ubicazione e la fondazione delle chiese3. Quasi unico è il caso di Lucca, dove per fortuna è rimasta
una buona documentazione, che va dal secolo VIII in poi, di carte private, di donazione o di vendita
di proprietà dentro e fuori della città4. Queste carte ci permettono di disegnare, attraverso i
documenti, un quadro della vita urbana e della topografia di case, strade, palazzi ecc.; come si può
fare in base alle fonti scritte per molte città del Bassomedioevo. Però, anche nel caso eccezionale di
Lucca, le lacune sono molto grandi e molte delle informazioni sono discutibili e poco dettagliate.
Per esempio, per informazioni sulla vita economica, dipendiamo dai rarissimi casi di persone citate
nei documenti con il nome del loro mestiere, e, quanto alle case, abbiamo solo descrizioni brevi e
molte vaghe per quanto riguarda la loro forma ed i materiali costruttivi5.

3. Potenzialità e problemi di scavo

Quindi l'archeologia è fondamentale, o meglio, per essere più preciso, sarà fondamentale per la
nostra conoscenza della città altomedievale italiana. Però, in contrasto col Bassomedioevo, non è
l'archeologia duplice, lo studio delle strutture sopra terra, e quello dei resti di scavo. Per
l'Altomedioevo rarissime sono le strutture ancora evidenti sopra terra, con l'unica e importante
eccezione delle chiese. Esistono ancora, è vero, alcune strutture non religiose, per esempio lunghi
tratti delle mura leoniane intorno alla Città Vaticana6, e ulteriori studi potranno forse moltiplicare
tali esempi; però saranno sempre rari. Per quanto io sappia, non è stata conservata in elevato
nessuna casa domestica attendibilmente databile prima del 1000, mentre del Bassomedioevo ne
esistono migliaia.
Saranno, invece, gli scavi a chiarire il problema della città altomedievale, e vorrei dedicare un po' di
spazio ai problemi generali dello scavo in questo campo.
Il fatto è che la fase altomedievale di un insediamento urbano risulta spesso difficile da trovare, e,
una volta trovata, difficile da capire. I motivi di queste difficoltà sono tre, dei quali due sono
inevitabili, mentre è appunto nostro compito eliminare il terzo.

3
D. A. Bullough, Urban change in early Medieval Italy : the example of Pavia , "Papers of the British School at Rome",
34 (1966), pp. 82-130, P.J. Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca: l'esempio di Pavia, Firenze
1981, Fondazione Treccani degli Alfieri per la Storia di Milano, Storia di Milano, Milano 1954, II, pp. 500-608.
Milano.
4
I. Belli Barsali, La topografia di Lucca nei secoli VIII-XI , in Atti del V Congresso internazionale di studi sull'alto
medioevo - Lucca 1971, Spoleto 1973, pp. 461-554. Altra città relativamente ben documentata, ma, in questo caso, non
ancora molto studiata è Ravenna. Per un'idea della potenzialità della documentazione ravennate cfr. M. Cagiano de
Azevedo, Le case descritte dal Codex Traditionum Ecclesiae Ravennatis, "Accademia Nazionale dei Lincei, Rendiconti
della classe di scienze morali, storiche e filologiche'', serie VIII, XXVII (1972), pp. 159-81.
5
Belli Barsali, La topografia di Lucca , cit., pp. 487 99; C. Wickham, Early Medieval Italy. Central Power and Local
Society, London 1981, p. 85 (trad. it. L'Italia nel primo Medioevo. Potere centrale e società locale, Milano 1983).
6
S, Gibson, B. Ward-Perkins, The surviving remains of teh Leonine wall , "Papers of the British School at Rome", 47
(1979), pp. 30-57.
Quest'ultimo motivo che non consente di trovare o di capire gli insediamenti altomedievali è
l'incapacità tecnica dell'archeologo. Fino a dieci anni fa questo dato di fatto era senz'altro il peggior
nemico dell'Altomedioevo. Più si scava, più diventa chiaro che i resti di case altomedievali non
consistono generalmente in bei muri e pavimenti resistenti al piccone o anche alla ruspa, ma
consistono in fragilissime tracce di terra battuta, muretti a secco per pali: quali possiamo distruggere
tutti, senza neanche accorgercene, in pochi secondi con la ruspa ed in pochi minuti con il piccone.
Oggi questo rischio di distruzione irresponsabile del materiale archeologico da parte degli
archeologi stessi è minore di quello che era anche poco tempo fa; però, come penso sappiamo tutti,
è un rischio non ancora del tutto eliminato.
Gli altri due motivi che non consentono di trovare o di capire l'Altomedioevo urbano sono
purtroppo legati alla realtà delle cose, e non possiamo che accettare la situazione di fatto. Primo:
soprattutto in una situazione di continuità di insediamento attraverso il Bassomedioevo fino ad oggi,
succede spesso che i fragili resti della città altomedievale siano stati molto mal ridotti, o anche del
tutto distrutti da vari interventi tardo e post-medievali: cantine, sepolture, fogne, buche per rifiuti,
cisterne, fondazioni, pozzi neri ecc. La fase romana, essendo più profonda ed anche spesso molto
solida, in genere resiste meglio a questi tardi interventi; però il disgraziato Altomedioevo risulta
bucato, tagliato, e schiacciato fra le massicce strutture romane e basso post-medievali 7.
Se documentato bene, il secondo motivo che non consente di trovare l'altomedievale è molto
interessante. In certi casi si può dimostrare che fasi di vita altomedievali mancavano del tutto (p.e.
nello scavo dell'abside di S. Giorgio a Bologna, di prossima pubblicazione). Anche se c'è stata una
continuità notevole di vita urbana in Italia8, è pure chiaro che, in confronto col periodo romano e col
periodo bassomedievale, le città altomedievali erano più rare e più piccole. Perciò, cercando
l'Altomedioevo sopra le città romane o sotto le città tardomedievali, troveremo alcuni punti di
«vuoto» altomedievali. Questi punti sono in un certo senso deludenti per l'archeologo interessato a
questo periodo, ma sono fondamentali per capire la storia di una città e delle sue varie espansioni e
contrazioni. La cosa essenziale, però, per poter documentare con certezza questo vuoto, è che scavo
sia abbastanza rigoroso, ovviamente, se lo scavo non è buono, non si saprà mai se il vuoto è vero,
dovuto all'assenza di resti altomedievali, o falso, dovuto soltanto all'incapacità dell'archeologo di
riconoscere un buco per palo o un battuto di terra.

4. Città abbandonate e città attuali

Finora, lasciando da parte le chiese, le scoperte più frequenti e clamorose del periodo altomedievale
sono state fatte in città abbandonate Torcello nel Veneto, Castelseprio in Lombardia, e Luni in
Liguria9. La ragione è semplice: l'abbandono nel periodo medievale facilita enormemente il lavoro
dell'archeologo. Per scavare basta pagare i danni per il pascolo o per i cereali, mentre in città
bisogna affrontare tanti problemi (spostare un parcheggio, bloccare per mesi la costruzione di una
nuova scuola, deviare una fogna ecc.). Ed inoltre questi siti abbandonati non hanno tutto
quell'accumulo spaventoso e disturbante di strutture solide e di interventi profondi tipici del periodo
post-medievale; interventi e strutture che rendono lento il lavoro e frammentaria e difficile da capire
la stratigrafia orizzontale altomedievale.

7
Situazioni del genere sono state documentate in diverse zone di scavo a Genova Pavia, Bologna e Pistoia. Cfr. anche
Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca, cit., pp. 45-50.
8
Wickham, Early Medieval Italy, cit., p. 80 s.
9
Per Torcello cfr. L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62 , Roma (Istituto Nazionale
d'Archeologia e Storia dell'Arte, monografie III) 1977; per Castelseprio cfr. M. Dabrowska, L. Leciejewicz, E.
Tabaczynska, S. Tabaczynski, Calstelseprio: scavi diagnostici 1962-63, "Sibrium", XIV (1978-79), pp. 1-138 e G. P.
Brogiolo, S. Lusuardi Siena, Nuove indagini archeologiche a Castelseprio, Atti del VI Congresso internazionale di
studi sull'alto medioevo - Milano 1978, Spoleto 1980, pp. 475-99; per Luni cfr. Scavi di Luni II. Relazione delle
campagne di scavo 1972, 1973, 1974 a cura di A. Frova, Roma 1977, pp. 631-71; S. Lusuardi Siena, Archeologia
altomedievale a Luni: nuove scoperte nella basilica, "Centro Studi Lunensi, Quaderni" 1 (1976), pp. 35-48 e B. Ward-
Perkins, Una casa bizantina a Luni. Notizia preliminare, "Centro Studi Lunensi, Quaderni", 4-5 (1979), pp. 33-6.
Perciò si potrebbe anche chiedere: «Allora perché non scavare soltanto nei siti abbandonati, dove si
incontrano minori fastidi e dove c'è maggior possibilità di ricavare piante complete di edifici e
depositi intatti?». Almeno due sono le risposte valide a questa domanda. Innanzitutto per capire il
fenomeno dell'urbanesimo altomedievale non basta certo vedere le città che poi sono decadute e
sono state abbandonate; se ci limitiamo a studiare queste, ci limitiamo a pochi siti e corriamo il
rischio di esaminare soltanto insediamenti meglio definiti «proto-urbani» (come Torcello e
Castelseprio) o «post-urbani» (come Luni). La storia della città in Italia è prevalentemente una
storia di continuità e di sviluppo, e perciò dobbiamo senz'altro affrontare l'archeologia delle città
nella loro continuità fino ai nostri giorni.
La seconda ragione per scavare ancora abitati è forse anche più importante. Se scaviamo soltanto, o
prevalentemente, le città morte, l'archeologia rimane in un certo senso anch'essa morta e ristretta a
predelimitate «zone archeologiche» di ruderi. Invece, se lavoriamo anche nei centri attuali,
possiamo mostrare che l'archeologia è un'attività molto larga che fa vivere la storia sepolta
dappertutto, sotto ogni casa e sotto i piedi di ogni cittadino. Riuscire in questo campo richiede molti
sforzi a livello didattico e divulgativo, per demolire le concezioni dell'archeologia come la
disciplina dei monumenti e delle necropoli. Però già in città come Genova e Pavia abbiamo visto
realizzarsi felicemente questi sforzi10. L'interesse per la storia della propria città esiste, ed è forte;
noi archeologi dobbiamo soltanto mostrare che l'archeologia è fondamentale per illuminare questa
storia.
Sicuramente l'archeologia urbana dei centri storici attuali non sarà mai facile, sia per ragioni
tecniche, su scavi necessariamente multistratigrafici e molto turbati, sia a causa dei tanti interessi,
legittimi ed anche speculativi, che si intrecciano su ogni piccolo lembo di terra in una città
moderna. Però, se vogliamo veramente sapere qualche cosa della città altomedievale l'archeologo e
lo scavo devono assolutamente inserirsi in quest’intreccio soprattutto con lo scavo preventivo
sistematico, che salva i dati possibili in una zona destinata alla ricostruzione, la quale comporta
necessariamente la totale, o quasi totale distruzione dei resti archeologici. L'unico modo valido per
inserirci è convincere il mondo non-archeologico che l'archeologia urbana ha un contributo
importante da offrire, e non è soltanto un pretesto accademico per bloccare per diversi mesi i lavori
edilizi.

5. Programmi generali di ricerca

Per quanto riguarda lo scopo dei lavori intrapresi e da fare, è ovvio che, per l'archeologia urbana, gli
scavi più significativi ed interessanti sono quelli fatti nell'ambito di un programma di diversi scavi
in diversi punti dello stesso insediamento. Soltanto con una serie di scavi si può cominciare a
parlare della storia generale di una città attraverso i secoli: delle sue contrazioni ed espansioni, della
diversità sociale ed economica documentabile in zone diverse dell'abitato, delle differenze nella
cultura materiale dei vari ceti sociali, degli edifici pubblici, delle zone artigianali ecc.
Programmi generali di questo tipo richiedono ovviamente anni di lavoro, soprattutto in città ancora
abitate (dove l'archeologo deve necessariamente aspettare la possibile occasione di fare scavi
preventivi), e richiederebbero anche idealmente una struttura specializzata di scavatori e ricercatori
professionali, come ci sono negli Units dei centri storici inglesi di Londra, Canterbury, York,
Oxford, Exeter ed altrove. Perciò, in Italia per quanto riguarda i grandi programmi di scavo in città,
gli anni trascorsi dalla nascita dell'archeologia medievale sono ancora pochi e le somme di denaro
finora disponibili lo sono ancora meno: così anche i risultati non sono stati eccezionali in confronto
a quelli nordeuropei. Però in almeno due città attuali, Genova e Pavia, ed in due abbandonate, Luni
e Castelseprio, si può già parlare degli inizi di un'archeologia programmata, diretta a chiarire, in una

10
Si veda ad esempio Archeologia a Genova , catalogo della mostra didattica a Palazzo Rosso, Genova 1976 e Hudson,
Archeologia urbana e programmazione della ricerca, cit., p. 58.
prospettiva di decenni di lavoro, il massimo possibile dell'insieme complesso e variabile di una
città.
Sia a Genova sia a Pavia i risultati degli scavi hanno avuto più importanza finora per il Basso che
per l'Altomedioevo. Però già a Genova (dove i controlli e la salvaguardia archeologica da parte
dell'ISCUM sono unici in Italia) si è documentata la rifortificazione nell'epoca altomedievale del
vecchio castrum preromano, e, in un piccolo scavo nel centro della città, si è verificata anche la
trasformazione di una casa romana in un'altra più umile dell'Altomedioevo11. Per Pavia, basta fare
riferimento al lavoro di Hugo Blake ed alla nuova pubblicazione di Peter J. Hudson12.
A Castelseprio e a Luni diversi aspetti delle città altomedievali sono stati indagati negli ultimi anni.
A Castelseprio, le fortificazioni, le chiese e tre zone dell'abitato entro il castrum13. A Luni, la
cattedrale, una zona di case del VI-VII secolo sul foro romano abbandonato, ed un ambiente
apparentemente rimasto in uso fino al VI-VII secolo annesso a terme tardoromane probabilmente
private14. Inoltre, in tutta la città è stato affrontato il problema della datazione dell'abbandono degli
edifici pubblici romani15. Perciò a Luni, che è la città che conoscono meglio delle quattro finora
citate, si può cominciare a comporre in un quadro generale i dati provenienti da diversi scavi
eseguiti da diverse persone, per esempio, il cambiamento di mecenatismo edilizio è documentabile
sia dallo scavo delle fasi d'abbandono dei monumenti tradizionali romani, sia dagli scavi della
grande cattedrale paleocristiana e dell'edificio termale privato, entrambi costruiti proprio nel
momento di quest'abbandono. Anche le diversità sociali nell'ambito del VI secolo sono
documentate, con la scoperta, in una zona della città, di case molto povere in legno (una con tracce
di attività artigianale), e, in un'altra, di probabili tracce di continuità di uso in un vano
apparentemente annesso ad una ricca casa aristocratica.
Genova, Pavia, Castelseprio e Luni sono forse le uniche città dove si può parlare finora di
un'archeologia programmata diretta a fornire la storia generale della città. Anche in altre località,
però, scavi isolati sono stati fatti con risultati importanti per quanto riguarda l'Altomedioevo. Vorrei
illustrare questi scavi, insieme a quelli delle città già citate, considerando vari temi e problemi nella
storia della città altomedievale che possono essere chiariti dall'archeologia. Devo sottolineare però
il fatto che di problemi da risolvere con lo scavo ce ne sono tanti e che nello spazio a disposizione
posso soltanto accennare a ben pochi di questi.
Un problema fondamentale riguarda la carta geografica urbana, cioè la documentazione della
continuità di vita di molte città romane, l'abbandono di altre, ed anche la rara formazione di nuovi
centri.

6. Sopravvivenza, abbandono e formazione di città

Risulta molto chiaramente che l'abitudine di vivere in città ha avuto una continuità molto forte in
Italia, però, nell'assenza di documenti scritti e di scavi archeologici, le prove di questa continuità
sono spesso ancora molto indirette16. Per esempio, una prova è costituita dal fatto che la carta
geografica delle città esistenti nel Bassomedioevo (ed anche oggi) in molte regioni è
sostanzialmente ancora quella romana: perciò si può presupporre una continuità d'insediamento in

11
Soprintendenza Archeologica della Liguria, Archeologia in Liguria. Scavi e scoperte 1967-75, Genova 1976, pp. 93-
112.
12
Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca ,cit. pp. 45-50.
13
Dabrowska, Leciejewicz, Tabaczynska, Tabaczynski, Castelseprio, cit.; Brogiolo, Lusuardi Siena, Nuove indagini
archeologiche a Castelseprio, cit..
14
Lusuardi Siena, Archeologia altomedievale a Luni : nuove scoperte nella basilica , cit. e Ward-Perkins, Una casa
bizantina a Luni, cit.; informazioni da Maria Pia Rossignani.
15
Ward-Perkins, L'abbandono degli edifici pubblici a Luni, "Centro Studi Lunensi, Quaderni", 3 (1978), pp. 33-46.
16
Wickham, Early Medieval Italy, cit., pp. 80-92.
queste città romane anche attraverso i secoli oscuri dell'Altomedioevo17 . Anche all'interno delle
singole città la situazione topografica tardomedievale e quella attuale fanno spesso pensare ad una
continuità di vita abbastanza intensa. In molte città italiane, soprattutto nella Val Padana, troviamo
conservato, più o meno bene, il reticolato di strade della città romana sottostante18. Questa
sopravvivenza della topografia urbana romana è probabilmente dovuta ad una continuità di
insediamento relativamente denso, in netto contrasto con l'Inghilterra, dove la continuità della vita
urbana è stata molto minore: soltanto le strade colleganti le porte nei muri di fortificazione si sono
conservate sulle loro linee originali19. Però finora queste supposizioni, in base alla topografia
tardomedievale ed odierna, hanno avuto soltanto rarissimi controlli archeologici. Per esempio,
nell'Italia settentrionale non è mai stata fatta una sezione attraverso una strada di città che
documenti, non soltanto il basolato romano, ma anche tutti i riferimenti alto e bassomedievali, e
post-medievali fino all'asfalto moderno20. Rarissimi sono anche gli scavi di isolati di case, che
documentano tutte le loro trasformazioni, dall'Età moderna all'impianto romano. Un tale lavoro è
stato fatto di recente, con risultati molto interessanti, attraverso sondaggi sotto il monastero di Santa
Giulia a Brescia, e sta per essere fatto su una zona ampia negli scavi attualmente in corso nel cortile
del palazzo del tribunale di Verona, scavi che nel settembre 1981 avevano già raggiunto il X
secolo21. Lavori di questo genere saranno ovviamente fondamentali per capire la continuità (o
l'assenza di continuità), e, nello stesso tempo, la trasformazione della città romana in quella alto e
poi bassomedievale.
Accanto allo studio e alla documentazione archeologica delle città sopravvissute, c'è il problema
delle città in fase di abbandono e delle città in fase di formazione durante l'Altomedioevo. Per
quanto riguarda le città abbandonate ho già fatto riferimento a Luni e Castelseprio, ma bisogna
citare anche Torcello22. In questi casi si devono ovviamente documentare la restrizione e l'eventuale
abbandono dell'abitato, e vanno anche cercate spiegazioni specifiche di quello che è un fenomeno
insolito in Italia. Ovviamente, molte possibili ragioni di abbandono non lasciano tracce
archeologiche (per esempio, decisioni amministrative o sconfitte militari), però molti cambiamenti
nella fortuna di una città, e soprattutto quelli economici ed ambientali, sono documentabili per
mezzo dell'archeologia. A Luni, per esempio, è stato possibile evidenziare la degradazione e
l'impoverimento del territorio e della città stessa dal periodo romano a quello altomedievale
attraverso cambiamenti commerciali e geomorfologici23. Ma in molte città abbandonate (ad esempio
quelle dell'alto Adriatico) studi archeologici indirizzati specificamente a documentare e capire la
fase di abbandono non sono stati ancora fatti.
Per le città di fondazione altomedievale, dobbiamo invece chiarire quando si sono formate e come e
quando si sono allargate: problemi già illuminati in parte a Castelseprio ed in un unico scavo a
Torcello, e che si spera anche di chiarire con scavi iniziati nel 1981 nella città fluviale di Ferrara. In
questi casi bisogna cercare anche indicazioni archeologiche per spiegare il fatto insolito di una
fondazione urbana o proto-urbana, e per fortuna, indicazioni di questo tipo sono rintracciabili nella
documentazione archeologica. A Castelseprio, per esempio, una fondazione sostanzialmente
militare ed amministrativa sembra forse indicata dalle massicce fortificazioni e dalla relativa
scarsità- a tutt'oggi - di materiali importati e di resti di lavorazione: fatti che potrebbero indicare
un'economia prevalentemente agraria e locale, anche se bisogna subito dire che ulteriori lavori (ad

17
C. Schmiedt, Città scomparse e città di nuova formazione in Italia in relazione al sistema di comunicazione, in
Topograpa Urbana e vita cittadina nell'Alto Medioevo in Occidente, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi
sull'Alto Medioevo, 26 aprile-1° maggio 1973, Spoleto 1974, pp. 603-617, a p. 505.
18
Per esempio a Pavia, Piacenza, Verona, Brescia, Albenga e Lucca; cfr. J. WardPerkins, Cities of ancient Greece and
Italy: planning in classical antiquity, New York 1974 figg. 39, 53-6, 58 e 61.
19
M. Biddle, Towns, in The archaeology of Anglo-Saxon England , a cura di D. Wilson, London 1976, pp. 99-150, a pp.
107-9.
20
Per una sezione stradale parziale cfr. Scavi di Luni II, cit., tav. 320.
21
Informazioni da Gian Pietro Brogiolo e da Peter J. Hudson.
22
Leciejevvicz, Tabaczynska, Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62, cit.
23
Ward-Perkins, Luni: the prosperity of the town and its territory, cit.
esempio nel «borgo») potrebbero benissimo cambiare completamente quest'impressione. Mentre a
Torcello, invece, il materiale ceramico è più esotico, ed è stata scoperta anche una vetreria
altomedievale. Questa ceramica più esotica e questa vetreria forniscono un'impressione della base
economica artigianale e commerciale, con contatti a largo raggio (ad esempio, con le zone alpine
per i crogiuoli in pietra ollare), che ha permesso la formazione di insediamenti anche ricchi e
densamente abitati nella laguna veneta già nell'Altomedioevo.

7. Le basi economiche delle città

Le scoperte a Castelseprio ed a Torcello ci portano ad un problema la cui soluzione è fondamentale


per capire le città altomedievali, e che può benissimo essere chiarito almeno in parte
dall'archeologia: cioè la base economica di quei centri. In particolare dobbiamo indagare se la città
altomedievale era, come alcuni suppongono nel caso della città romana, prevalentemente un centro
di consumo aristocratico e, in minor senso, anche un centro di produzione agraria24. Cioè se la città
era soltanto un posto dove venivano raccolti e consumati dalla classe dominante e dai loro servitori i
profitti dell'economia rurale circostante, e dove abitava anche un piccolo numero di contadini. O se,
invece, la città era anche un centro economico specializzato e produttivo, che otteneva cibo dalla
campagna, non soltanto dal lavoro dei cittadini agricoltori e da varie forme di imposte, di affitti, di
decime ecc., ma anche in cambio di prodotti artigianali, fatti nella città da lavoratori specializzati, e
di prodotti esotici, importati attraverso i porti e i mercati urbani.
Sarebbe oggi prematuro parlare in Italia di soluzioni definitive a questi problemi; però già si
possono vedere gli inizi di un quadro generale, e nuove possibilità di ricerca. Per esempio, nei casi
di Castelseprio e Torcello abbiamo l'impressione, finora molto sommaria e forse anche sbagliata, di
due città con basi economiche apparentemente diverse: a Castelseprio forse prevalentemente agraria
e di consumo, a Torcello artigianale e commerciale.

8. Produzioni e scambi

Per quanto riguarda la vita commerciale devo far riferimento anche agli importanti scavi in corso a
Classe, il porto di Ravenna, dove la scoperta di una fornace di ceramica illustra anche la vita
artigianale 25. La ceramica infatti, essendo un manufatto che si conserva molto bene nel terreno e
che si può spesso attribuire con precisione a specifiche zone e a precise epoche di produzione, sarà
per l'Altomedioevo, come per tutti i periodi, molto utile per l'informazione di natura economica che
può fornire. Al livello della ceramica da cucina può darci un'idea dell'artigianato e del commercio
prevalentemente locale di un manufatto comune adoperato da tutti, al livello delle anfore, ci può
fornire notizia degli scambi di certi prodotti agricoli pregiati, e, a livello della ceramica fine da
tavola, del commercio in articoli di lusso: negli ultimi due casi ci dà informazioni non soltanto sul
commercio entro l'Italia, ma anche sugli scambi internazionali.
Nell'Italia settentrionale sappiamo ancora pochissimo della ceramica altomedievale, ma senz'altro,
prima o poi, arriveremo su tale base a disporre di preziose indicazioni sul ruolo della città nella vita
commerciale ed artigianale. Prendo come esempio della potenzialità di questi studi uno dei pochi
tipi di ceramica finora conosciuti nell'Italia centrale, la Forum Ware databile senz'altro fra il V e il
X secolo, anche se non siamo ancora in grado di darne con sicurezza una collocazione cronologica
precisa26. Grazie alla scoperta di scarti di fornace nel luogo di ritrovamento originale, il Lacus
Iuturnae, nel Foro, sappiamo che questa ceramica era un prodotto urbano romano, grazie poi alla
scoperta di frammenti di Forum Ware nei lavori di superficie nell'Etruria meridionale e grazie a
scoperte occasionali in altri scavi in Italia, abbiamo un importante dato sulle relazioni commerciali

24
M. Finley, The ancient economy, London 1975 pp. 123-49.
25
Schede di M. G. Maioli in "Archeologia Medievale", VI (1979), p. 323 e VII (1980), p. 478s.
26
D. Whitehouse, Forum Ware again, "Medieval Ceramics", 3 (1980), pp. 13-6.
altomedievali di Roma, non soltanto con il territorio limitrofo, ma anche con luoghi molto più
distanti (fig. 1).

FIGURA 1
Ritrovamenti sicuri e probabili di Forum Ware
Da: D. Withehouse, T. Potter, The Byzantin frontier in South Etruria, “Antiquity”, LV (1981), pp. 206-10.

L'esempio della Forum Ware e della carta della sua distribuzione illumina un altro problema
fondamentale: cioè le relazioni fra città e territorio. È chiaro che la città non può essere studiata
isolatamente, ma deve assolutamente essere considerata accanto al mondo agrario circostante. Per
esempio, tracce archeologiche di scambi, o dell'assenza di scambi fra città e campagna ed un'idea di
quali lavorazioni erano presenti in città e quali in campagna, sono dati fondamentali per capire
l'urbanesimo e la sua base economica.
L'archeologia fornirà senz'altro, nei prossimi anni, molte informazioni sulla vita produttiva,
commerciali ed artigianale della città altomedievale, ed è qui forse che avrà la sua massima
importanza, perché questo aspetto della storia economica urbana è quasi del tutto trascurato dalla
documentazione scritta del periodo27.

9. Centri di consumo

Però l'archeologia potrà anche fornire ulteriori dati sull'altro aspetto della storia economica e
sociale, meglio conosciuto dai documenti: cioè sulla città intesa come centro di vita e consumo
dell'aristocrazia e dell'amministrazione ecclesiastica e secolare. Qui, con lo scavo di molte chiese

27
Considerando l'archeologia dell'artigianato, bisogna ovviamente sempre tener conto del fatto che molti prodotti non
lasciano quasi nessuna traccia nel documento archeologico della loro lavorazione e diffusione (ad esempio tessuti, cuoio
e legni lavorati).
paleocristiane ed anche altomedievali, parecchio lavoro è già stato fatto anche se bisogna dire che in
genere il livello tecnico degli scavi è stato pessimo e che perciò dipendiamo, per le datazioni, non
da stratigrafie precise con ceramiche e monete datanti, ma soprattutto da argomenti stilistici, che
possono spesso risultare opinabili. Le chiese, o tuttora esistenti o messe in luce dallo scavo, ci
danno però una buona documentazione della continuità di vita religiosa urbana e della continuità del
mecenatismo aristocratico, sia ecclesiastico che laico, in contesti urbani28.
Però, anche se sappiamo molto delle chiese costruite dall'aristocrazia, sappiamo pochissimo di altri
aspetti della vita urbana della classe dominate. Per esempio, fra i tantissimi senodochi, monasteri, e
complessi episcopali costruiti nel periodo tardoantico ed altomedievale abbiamo conoscenze
archeologiche soltanto di una parte del convento di S. Giulia di Brescia, e, di recente, del bagno
clerico a Ravenna costruito nel V secolo ed ancora in uso nel IX29.
Per quanto riguarda l'amministrazione e l'aristocrazia secolare non sappiamo quasi niente. Nessun
palazzo ducale, comitale o reale è stato scavato, ad eccezione di vecchi scavi a Ravenna30, e nessuna
casa sicuramente attribuibile ad un membro dell'aristocrazia urbana è stata documentata attraverso
l'archeologia. Inoltre la nostra conoscenza di uno dei più significativi edifici pubblici, la cui cura
spettava all'amministrazione secolare, le mura di città, è scarsissima. In nessuna città d'Italia sono
stati fatti scavi stratigrafici per chiarire come siano state mantenute, o eventualmente ricostruite o
sostituite, le mura romane originali31.

28
L'archeologia medievale monumentale, ed anche sepolcrale (delle necropoli con corredi), è ancora molto privilegiata
in Italia in confronto all'archeologia domestica ed artigianale. In questa relazione faccio riferimento quasi
esclusivamente a quest'ultima, perché la sua enorme potenzialità è meno conosciuta. Anche volendo, sarebbe
impossibile in questa sede fare riferimento alla vasta bibliografia esistente su scavi e studi di chiese paleocristiane ed
altomedievali.
29
Su Brescia informazioni da Gian Paolo Brogiolo, su Ravenna scheda di M. G. Maioli in "Archeologia Medievale"
VIII (1981).
30
G. Ghirardini, Gli scavi del palazzo di Teodorico a Ravenna , "Monumenti antichi pubblicati per cura della reale
Accademia dei Lincei", 1918, pp. 738-841.
31
Per la potenzialità di questo tipo di lavoro cfr. ad esempio Royal Commission on Historical Monuments, An inventary
of the historical monuments in the city of York, II (The Defences), London 1972, pp. 111-4.
Figura 2
Una delle case del VI secolo sul foro di Luni

10. L'effetto delle invasioni germaniche

L'ultimo problema a cui vorrei fare riferimento è quello dell'effetto delle invasioni e degli
insediamenti barbarici sulle città italiane. Il problema è sapere se le invasioni, e soprattutto quella
longobarda nel tardo VI secolo, abbiano avuto un influsso notevole sulla continuità e sulla qualità
della vita urbana. Bisogna dire che questi problemi sono ancora da chiarire; però, già in base ai
pochissimi reperti fatti, si può cominciare a discutere ed ipotizzare. Per esempio, in un primo
momento i muretti a secco delle case e la grezza ceramica di Castelseprio sembravano tipicamente
barbariche e germaniche: e perciò il risultato culturale delle invasioni longobarde32. Però adesso,

32
S, Kurnatowski, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Gli scavi a Castelseprio nel 1963 , "Rassegna Gallaratese di Storia e
d'Arte", XXVII (1968), pp. 61-92, ripubblicato con leggere modifiche in Dabrowska, Leciejewicz, Tabaczynska,
Tabaczynski, Castelseprio, cit.; M. Cagiano de Azevedo, Esistono una architettura e una urbanistica longobarda?, in
Atti del convegno internazionale sul tema: La civiltà dei Longobardi in Europa - Roma e Cividale del Friuli 1971,
Accademia Nazionale dei Lincei, quaderno 189, Roma 1974, pp. 1-41, a pp. 7-10.
con altri lavori a Castelseprio ed altrove, il quadro sta per cambiare, e quelle documentazioni
sembrano ora piuttosto tipicamente tardoantiche ed altomedievali. Due case di legno scavate di
recente a Luni appartengono sicuramente al periodo bizantino della città, cioè al tardo VI secolo,
mentre, con la loro forma di «casa lunga» (Langhaus, longhouse) ed i loro buchi per pali,
sembrerebbe a prima vista ancora più germaniche delle case con muretti a secco di Castelseprio
(fig. 2). Perciò, è almeno ipotizzabile che certi cambiamenti nell'architettura domestica (uso del
legno, abbandono della malta, adozione a Luni della pianta a casa lunga) siano dovuti non ad
influssi etnici ma a cambiamenti sociali ed economici. Si tratta forse non di nuove forme di casa
introdotte da barbari, ma di forme locali molto antiche che hanno avuto una nuova importanza in
epoca post-romana33. Direi che sia ancora da chiarire se i nuovi abitanti germanici abbiano
veramente avuto un notevole influsso sulle città, a parte quanto resta limitato ai loro particolari
costumi di sepoltura.

1 1. Programmi per il futuro

Per finire dovrei trattare anche di programmi per i prossimi dieci anni. Spero, però, che da quello
che ho scritto sia già chiaro cosa si debba fare. Dobbiamo assolutamente accumulare molti dati in
più, da più scavi in più città. È anche indispensabile che scaviamo e pubblichiamo bene (perché per
l'Altomedioevo, come per ogni altro periodo, lo scavo poco rigoroso non serve a niente, anzi serve
soltanto a confondere). Ed in tutte e due queste attività, lo scavo e la pubblicazione, dobbiamo
affrontare rigorosamente i vari problemi storici da risolvere: problemi di continuità urbana (ed
anche di abbandono e formazione), di trasformazione, di base economica (artigianale, commerciale
e di consumo), e di diversità ed influssi sociali, religiosi ed etnici. C'è da fare non per un decennio,
ma per almeno cento anni.

33
Cfr. anche G. P. Brogiolo, La campagna dalla tarda antichità al 900 ca. d.C, "Archeologia Medievale", X (1983), pp.
73-88.
Incastellamento e strutture abitative

Un uso non strumentale dell'informazione archeologica traspare dalle pagine di due storici, che alle
fonti materiali dedicano ampio spazio per analizzare aspetti fondamentali della storia
dell'insediamento medievale, e cioè l'incastellamento e la struttura della casa rurale altomedievale.
L'insediamento accentrato e fortificato (generalmente d'altura), costituisce uno dei caratteri
dominanti il paesaggio rurale italiano, le sue origini, i1 suo sviluppo e le sue trasformazioni sono
stati oggetto di riflessioni da parte di geografi e storici: aspetti istituzionali e politici, sociali ed
economici trasformazioni e distruzioni sono stati illustrati in ricostruzioni di grande incisività e
capacità da Conti a Toubert, da Laicht a Vismara, da Cusin a Cammarosano, da Settia a Comba.
Ma pochi hanno usato con sistematicità la documentazione materiale.
Se per il Bassomedioevo, quando le fonti scritte sono abbondanti e largamente descrittive,
l'informazione archeologica offre materiali per allargare la "qualità" della ricostruzione storica, per
le fasi originarie e per cogliere i processi di trasformazione profonda che avvengono fra
Tardoantico ed Altomedioevo nell'ambito delle forme di organizzazione del territorio l'archeologia
è strumento essenziale senza il quale una ricostruzione storica rischia di essere persino forviante.
Spesso, ad esempio, le fonti scritte non ricordano le fasi a buche di palo, cioè presenza di capanne e
case di legno su quei siti che a livello documentario risulteranno incastellati a partire soltanto dal X
-XI secolo.
Gli autori dei due contributi che seguono, senza "piegare" i diversi tipi di fonti, usano gli "indizi"
provenienti dagli uni e dagli altri con esemplare metodologia: la presenza di fasi più antiche di
quelle attestate a livello documentario nei siti poi incastellati può essere una spia per cogliere un
fenomeno di riconquista delle "sommità" generalizzata prima del fenomeno noto come
"incastellamento"? e la diffusione dell'edilizia in legno è un fatto legato a modelli importati dai
popoli germanici o non piuttosto un retaggio "culturale" autoctono e profondamente ancorato alla
società e ai modi di vivere altomedievali?
Le fonti scritte, che pure rimangono campo privilegiato degli autori lasciano margine a riletture
sulla base dell'evidenza archeologica, che suggerisce utili indicazioni e producono dati oggettivi per
riflessioni nuove1.

1
Il primo C. Wickham, Castelli e incastellamento nell'Italia centrale : la problematica storica , in Castelli. Storia e
archeologia, a cura di R. Comba e A. A. Settia, Torino 1984, pp. 137-48; in questa relazione, tenuta dall'autore al
convegno svoltosi a Cuneo nel 1981, è condensato gran parte di quanto poi pubblicato nel volume C. Wickham, Il
problema dell'incastellamento nell'Italia centrale:l'esempio di San Vincenzo al Volturno, Firenze 1985. Il secondo di P.
Galetti, La casa contadina nell'Italia padana dei secoli VIII-X, "Quaderni Medievali", 16 (1983), pp. 6-28.
Chris Wickham

Castelli e incastellamento nell'Italia centrale: la problematica storica

Tratterò due aspetti distinti della problematica dell'incastellamento, legati a due zone diverse
dell'Italia centrale. Per primo, sulla base dell'esperienza condotta nell'alta valle del Volturno nel
Molise (il territorio del monastero di San Vincenzo al Volturno), tratterò il problema della relazione
tra storici e archeologi quando studiano la stessa zona. Vale la pena notare subito quanto rara sia
ancora questa esperienza, specialmente per gli storici; e (fatto più istruttivo), come rarissima sia la
scelta degli archeologi in Italia di zone di studio che hanno documentazione storica adeguata: una
importante causa contingente, questa, a mio parere, della spaccatura che esiste ancora fra le due
discipline: perché, ad esempio, non c'è alcuna ricerca sul campo in Lucchesia, in Sabina o nel
Milanese? La documentazione storica importante nella valle del Volturno è in gran misura di un
tipo specifico, le carte di incastellamento, e queste sono naturalmente di rilevanza diretta per la
ricerca archeologica; almeno per una volta, le due discipline dovrebbero poter convergere.
Il secondo problema che voglio discutere è quello, certamente non minore, delle cause
dell'incastellamento in Italia centrale. Questo però nel contesto dell'Abruzzo e in una zona che ho
studiato di recente, il circondario e la diocesi di Sulmona, il territorio e la diocesi altomedievale di
Valva; essa è interessante per la ragione classica che le teorie tradizionali sull'incastellamento non
vi funzionano, e si deve scoprirne il perché. Questo mi porta a riconsiderare, ovviamente in breve,
l'intera problematica sulle cause dell'incastellamento, e introdurvi alcuni nuovi elementi.
Vorrei mettere in chiaro all'inizio che propongo di concentrarmi su un solo aspetto del processo di
incastellamento, quello sull'accentramento dell'insediamento. A mio giudizio, «incastellamento» si
mostra sempre più un concetto «macedonia» un po' sfortunato, in cui si uniscono almeno tre
processi storici separati:

1. incastellamento vero e proprio, la fortificazione di insediamenti preesistenti, o il costruite delle


fortificazioni ad essi più o meno vicine;
2. la creazione dei territori e della localizzazione giuridica associate ai castelli (cioè la problematica
tradizionale del Vaccari)1;
3. la concentrazione, l'accentramento, dell'insediamento, tramite la creazione di nuovi insediamenti
o il convergere di quelli vecchi: normalmente dentro i castelli (cioè fortificazioni) come nelle analisi
classiche del Toubert2, ma non sempre. È quest'ultimo il caso del quale parlerò, se non dico
altrimenti. Qualche volta lo chiamerò, genericamente, «incastellamento», ma di solito tenterò di
ridisegnarlo «accentramento», riservando «incastellamento» per i primi due processi.

Il rapporto tra gli storici e gli archeologi è stato sempre delicato. Gli storici tendono a pensare agli
archeologi come a degli studiosi di supporto, per se stessi o per gli storici dell'arte, e li limitano al
ruolo di fornitori di nuovi fatti per gli storici politici, o di nuovi begli oggetti per illustrare i libri seri
degli storici dell'arte. Gli archeologi da parte loro sono stati spesso poco più sofisticati nel costruire
le loro tipologie, per le tipologie, datate arbitrariamente da legami con gli avvenimenti politici.
Almeno ora storici e archeologi hanno iniziato ad interessarsi dello stesso campo, quello
socioeconomico. Dovrebbe essere possibile pensare a questo campo come a una disciplina unificata,
ma con apporti diversi basati su diversi tipi di materiale. Ma in pratica, io almeno ho trovato che le
1
P. Vaccari, Le territorialità come base dell'ordinamento giuridico del contado nell'Italia
medioevale, 2 ed., Milano 1963.
2
P.. Toubert, Les structures du Latium médieval, Rome 1973.
cose non si risolvono tanto facilmente, perché i diversi tipi di materiale tendono ad essere associati
con diverse basi di inchiesta, e con interessi separati dall'insieme: in altre parole, con problematiche
diverse. Così avviene a San Vincenzo, con implicazioni istruttive. Ho lavorato qui con una équipe
di scavo e ricerche sul campo, guidate da Richard Hodges3, dell'Università di Sheffield; il materiale
storico che presento è il mio (usando anche le analisi fatte da Mario del Treppo negli anni
Cinquanta), il materiale archeologico è di Richard Hodges e della sua équipe, specialmente del
direttore delle indagini sul campo, Peter Hayes.
La prima esperienza interessante a San Vincenzo è che la sua storia insediativa sembra largamente
divergente, a seconda che si privilegi la documentazione storica o quella archeologica. Il materiale
storico è abbastanza chiaro: una ventina di documenti del X secolo, quasi tutte carte per la
fondazione di insediamenti sulla «terra di San Vincenzo», una zona totalmente posseduta dal
monastero e donata da vari duchi di Benevento nell'VIII secolo. Gli insediamenti con questi
documenti sono segnati sulla prima carta (fig. 1). La documentazione manca di profondità storica,
quasi nulla di specifico per la storia dell'habitat prima del 940 o dopo il 1000; ma è ricchissima di
documenti più utili ed espliciti per la storia degli insediamenti (cioè i livelli per la fondazione e
popolamento di castelli), e include, se non sbaglio, più della metà di tutte le carte di tale genere
sopravvissute per l'Italia centrale dei secoli X-XI.
Secondo l'interpretazione classica questi documenti rappresenterebbero il ripopolamento di una
valle deserta, dopo il sacco dato dai Saraceni a San Vincenzo nell'881, tramite la fondazione di una
schiera di abitati accentrati o castelli (castra nei testi). Tale tesi sarebbe sostenuta dalle numerose
vivaci constatazioni che si trovano nella nostra fonte del XII secolo per tutti questi documenti, il
Chronicon Vulturnense. Non è difficile però mostrare differenze fra le carte stesse, e fra le carte e il
commento del cronista, che sollevano alcuni dubbi. Alcuni dei commenti più retorici (ad esempio
adhuc autem locus bestiis et avibus latibula prebens, hominibus omnino vacabat, per San Salvatore
in Alife nel 950 circa) sono chiose a livelli per una terra che è ovviamente già occupata e coltivata.
Alcune delle terre di San Vincenzo erano certo state abbandonate o ancora mai occupate, ma gran
parte della zona era abitata continuamente.

3
R. Hodges, Excavations and survey at San Vincenzo al Volturno. Molise 1981 , "Archeologia
Medievale", VIII (1981), pp. 483-92; Id., Excavations and survey at San Vincenzo al Volturno.
Molise 1982, "Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 299-310.
FIGURA 1
La terra di San Vincenzo al Volturno

Non è discutibile, però, che San Vincenzo raccolse la popolazione sopravvissuta, insieme con
immigrati da tutta l'Italia centrale, in abitati accentrati, i quali furono anche, in molti casi,
esplicitamente centri per il dissodamento della terra. Molti dei livelli non richiedono un reddito per i
primi 3 o 5 anni, ciò per permettere il ristabilimento di campi e vigneti. Così, l'accentramento
insediativo e il dissodamento, cioè l'espansione agraria, vanno insieme, costituendo, per dirla con le
parole di Del Treppo, «centri di raccordo ove si annodino le maglie vieppiù fitte della vita delle
campagne»4. L'impressione prima facie è che la maggior parte degli insediamenti siano nuovi: i loro
toponimi sono spesso termini geografici con ad-: ad ipsa Causa (un fiume), ad Ficus, ad ipsa
Olivella e così via.

4
M. Del Treppo, La vita economica e sociale in una grande abbazia del Mezzogiorno: S. Vincenzo
al Voltumo nell'alto medioevo, "Archivio Storico per le Province Napoletane", LXXXIV (1955), pp.
31-110.
Due altri punti vanno però aggiunti, anche in uno sguardo sommario come questo. Il primo è che,
mentre l'accentramento e il dissodamento vanno insieme in senso globale (una relazione sulla quale
ritornerò), non sempre appaiono nello stesso contesto. Parecchi livelli, come quello per Scapoli, un
castrum dall'inizio, contengono doveri onerosi di dissodamento. Altri livelli però, come quelli per
Colle, Fornelli e Valle Porcina, posti nella pianura e sui ricchi pendii della confluenza Volturno-
Vandra, non fanno alcun riferimento a tali doveri. Un'area almeno di probabile vecchio
insediamento, quella di Olivella-Santa Maria Oliveto ai confini della terra del monastero e della
piana di Venafro, è con tutta evidenza ancora una zona di habitat sparso del X secolo, come pure
alcune altre zone fra Venafro e Alife, fuori della terra di S. Vincenzo. Ma anche una delle carte per
il dissodamento, quella per Ficus, è cospicua per l’assenza di ogni riferimento a un castello, e
sembra essere un insediamento aperto, alla sua fondazione nel 995, quando finalmente ottenne delle
fortificazioni, probabilmente nel tardo XI secolo, fu ribattezzato, con una certa mancanza di
immaginazione, castro Pesclu. Dunque non c'è un perfetto accoppiamento fra accentramento e
dissodamento. L'accentramento di questa zona nel X secolo è certamente rapido. Ma San Vincenzo
sembra aver scelto se stabilire un abitato accentrato, incastellato o non, caso per caso.
Il secondo punto è l'assenza di ogni contesto militare in questi livelli. Nessuno fa riferimento alle
mura (benché alcuni o tutti ne abbiano avute) o a servizio militare di sorta. Le parti della terra più
esposte a pericolo, nell'estremo sud, intorno a Olivella e a Santa Maria Oliveto, sono quelle che,
dall'evidenza dei documenti, sono le ultime che formano insediamenti accentrati. Il contrasto con i
castelli di Montecassino è impressionante: il solo livello per Cassino del X secolo, per Sant'Angelo
in Theodice, pone in gran rilievo la costruzione delle mura, e le milizie locali dei castelli della terra
di Cassino hanno un'importanza evidente nella sua storia durante l'XI secolo. Non così per San
Vincenzo, ove infatti manca ogni accenno all'attività militare locale, e anche alla difesa contro
attacchi che divengono sempre più di ordinaria amministrazione. Vorrei che ci sbarazzassimo
dell'aspetto militare dell'incastellamento a questo punto, perché sta tornando di moda come
spiegazione: qualunque sia la sua importanza per la fortificazione dei siti (e quest'ultima varia
enormemente da luogo a luogo, come, evidentemente, da San Vincenzo a Cassino), il fattore
pericolo non ha effetto duraturo sulle forme di insediamento nell'Italia centrale e non formerà parte
delle mie analisi. Anche in altre regioni dove invece tale effetto esiste, è naturalmente sempre
necessario spiegare perché, siccome gli insediamenti fortificati non sono la sola risposta possibile al
pericolo. Ma a San Vincenzo il pericolo sembra avere anche meno effetto sull'insediamento che
altrove.
Il materiale archeologico, dopo due stagioni di lavoro sul campo, ci dà un quadro istruttivamente
diverso: anzi in conflitto su alcuni punti. La documentazione storica ci dice poco sul periodo prima
del secolo X ma si pensa generalmente che tutta la terra di San Vincenzo fosse incolta sino alla
fondazione dell'abbazia, nel 700 circa, che provocò un po' di dissodamento. L'archeologia esclude
senz'altro tale ipotesi: la vallata appare infatti disseminata di piccoli siti di età repubblicana e
altoimperiale, non sparsi regolarmente, ma legati a tutta la buona terra della valle. Questi sono poi
sostituiti da un numero alquanto minore di siti bassoimperiali più grandi, secondo uno sviluppo che
è anche tipico di altre regioni d'Italia. Un sito - il complesso abbaziale stesso - mostra persino una
certa continuità nel periodo altomedievale. Il nostro scavo ha mostrato che esso fu fondato, in tutta
apparenza, direttamente sopra una villa tardoromana, e così sparisce l'immagine della fondazione
del monastero in una foresta vergine, già presente in una vita dei fondatori scritta nel tardo VIII
secolo. La valle non fu fittamente abitata - non lo è ancora, né potrebbe esserlo - ma c'è comunque
una certa consistenza di materiale, e non possiamo dubitare su una qualche continuità generale di
occupazione. La scoperta più interessante, però, è la storia della ceramica negli insediamenti sulle
colline (tutti medievali, come accade di solito). Sette di questi insediamenti sono stati finora
investigati un processo possibile perché in ogni caso l'habitat si è spostato a un'altra sede, e qualche
volta in tempi abbastanza recenti. Di questi sette, solo uno mostra un orizzonte della ceramica che
comincia addirittura nei secoli X-XI. Due hanno ceramica che comincia nei secoli VIII-IX; quattro
hanno mostrato sinora solamente la Proto maiolica, cioè ceramica dai secoli, XIII-XIV circa,
benché alcuni di questi ultimi abbiano bisogno di ulteriore studio. Devo sottolineare che per questi
dati mi fido degli archeologi di Sheffield; ma, nel caso che ci siano difficoltà fra noi al riguardo
posso aggiungere che la ceramica fina nell'Italia centro-meridionale di questo periodo è
normalmente ceramica dipinta in bande rosse, senza vernice, che è più comune della ceramica
verniciata nel nord e cambia le sue forme in modo visibile; è perciò più strettamente affidabile per
la datazione. Essa è stata datata normalmente dai livelli nello scavo al monastero stesso, che sta
divenendo un sito straordinariamente ricco, quest'anno sono state ritrovate intere camere piene di
affreschi del IX secolo. Non è stata trovata ceramica medievale al di fuori di questi siti appollaiati
sulla collina; i siti romani non sembrano avere sbocchi negli stessi luoghi, cioè nella terra più bassa.
Uno dei siti che hanno la ceramica dei secoli VIII-IX; Vacchereccia, è un castello documentato nel
X secolo come fondazione apparentemente nuova; un altro, sopra Filignano, si trova in una zona
che - devo ammettere - ritenevo, in base alla documentazione storica, fosse sempre stata di habitat
sparso. Il sito con ceramica dei secoli X-XI circa del Colle Castellano, è in una zona che dalla
documentazione storica, fino al tardo XI secolo, sarebbe stata ad habitat sparso, poi accentrato. Tre
dei quattro siti con la maiolica sono documentati già nel X secolo: due come castelli, e uno (Ficus)
come centro aperto. Ci sono qui certamente punti di convergenza, ma l'apparenza del materiale
archeologico è prima facie un po' imbarazzante per lo storico puro, poiché dà un quadro alquanto
diverso da un incastellamento del X secolo.
I risultati fınali dipendono naturalmente dalla quantità del materiale archeologico scoperto, con un
lavoro più fitto sul terreno. I dettagli qui non importano, specialmente in questa che è una relazione
metodologica; interessa invece l'approccio. Un archeologo, a cui si presentino alcuni siti inerpicati
che cominciano nei secoli VIII-IX (e con un vuoto tipologico nel VII secolo), sapendo che la
ceramica altomedievale è molto meno comune, e perciò meno reperibile della maiolica, potrebbe
facilmente concludere che molti dei siti della vallata abbiano avuto origine prima del 900. Senza
alcuna documentazione storica, cioè in un contesto simile all'archeologia preistorica, potrebbe
congetturare (e sarebbe totalmente giustificato nella congettura) che i siti romani del fondo valle
avessero una tendenza ad essere sostituiti da siti in collina, intorno al IX secolo o forse prima. Ora,
è certamente possibile, e ovviamente necessario, conciliare questa congettura con la datazione
storica dei centri dal X secolo in poi. Il modo più convincente e probabile è dire che i ricercatori sul
campo hanno sottovalutato i siti sparsi dell'Altomedioevo, perché sono notoriamente difficili da
trovare, specialmente sui pendii delle colline, dove, con tutta probabilità, era collocata la maggior
parte. Lo sviluppo del X secolo, che si verifica a diverse velocità e in diverse zone della vallata,
consisterebbe perciò nell'accentramento conscio e diretto di un insediamento sparso entro siti vicini
ed inerpicati, che già esistevano come piccoli nuclei; in caso contrario non ci sarebbe stato bisogno
che l'abbazia di San Vincenzo creasse i nuovi centri del X secolo con le note carte di livello. Questo
è quanto credo, ma ciò si oppone al peso naturale e ai presupposti di ambedue i materiali, quello
storico e quello archeologico. Per l'Altomedioevo tendiamo ad affidarci alla fortuna: non possiamo
però permetterci di basarci su premesse scorrette e non riconosciute. Ma qui ambedue le parti
devono ammetterlo: gli storici che vedono la fondazione, nel X secolo, di nuovi insediamenti su
nuovi siti, perché così dicono i documenti, più o meno esplicitamente; e gli archeologi che vedono
solo questi siti, già esistenti da alcuni secoli, e concludono che essi siano stati a lungo i soli
elementi insediativi della valle.
Un'altra differenza metodologica interessante consiste nella spiegazione. Gli archeologi
dell'insediamento, come gli storici, stanno andando oltre le necessità difensive come spiegazione
automatica dei siti inerpicati accentrati, e ora tendono a dare rilievo alle loro funzioni nella
concentrazione delle risorse, in relazione al paesaggio. Tale tendenza ha una chiara logica: si
possono scavare più facilmente gli elementi che riguardano le risorse. Ma il lavoro dell'archeologo
ora si pone altri problemi: ad esempio qual'è la grandezza ottimale di un insediamento, in questi
contesti, secondo le limitazioni imposte dalla geografia e dall'antropologia? Dobbiamo considerare
quanto grande esso dovrebbe essere prima che la convenienza di disporre, nelle vicinanze, di servizi
non agricoli (fabbri, vasai ecc.) sia superata dallo svantaggio, per un contadino, di dover camminare
15 km per recarsi nei suoi campi - perché, ovviamente, più grandi sono gli insediamenti, più
distanziati essi sono - e dallo svantaggio di avere troppi vicini che sono altrettanti potenziali nemici,
circostanza abbastanza comune. Quando tali insediamenti divengono troppo grandi, nel terzo
mondo di oggi, essi si spaccano e un nuovo centro viene costituito, con una parte della terra.
Sospetto che tale esigenza sia alla base del raddoppiamento di insediamenti documentato in molte
parti d'Italia. Nell'Italia del X-XI secolo (forse qualche volta nell'VIII, e abbastanza spesso nei
secoli più tardi, pure) la concentrazione dei servizi, in un periodo di crescita economica, diverrebbe
abbastanza importante per assicurare una veloce nucleazione dell'habitat. La creazione di castelli
inerpicati è allora razionale nel senso economico, per questa concentrazione di servizi e, anche,
generalmente per la loro collocazione, a metà strada fra l'incolto sopra e il colto sotto. I campi
parcellizzati, così tipici dell'Italia contadina, come risultato secolare dell'eredità divisibile, danno
anche più razionalità a tali centri, perché se ogni contadino ha una ventina di campi sparsi, è logico
che tutti abitino un singolo centro, equidistante dalle loro terre.
Questi tipi di analisi funzionali sono caratteristici di geografi e archeologi; questi ultimi, anzi, hanno
oggi raggiunto in esse un livello molto avanzato per l'acutezza delle conclusioni. Molte di queste
analisi sono anche, naturalmente, ben conosciute dagli storici, poiché anch'essi sono capaci di
imparare dai geografi: il lavoro del Toubert sul Lazio, per esempio, per l'importanza che dà
all'«urbanisme villageois», mostra di conoscere bene tali argomenti; e il geografo Gribaudi scrisse
cose simili in Italia già nel 1951, con risultati scientifici rilevanti5. Ma gli storici vedono il problema
da un altro punto di vista. Gli archeologi tendono a concentrarsi sulla funzione, gli storici sulla
causa. Noi storici non possiamo sempre vedere che cosa si fece dentro un insediamento accentrato.
possiamo però vedere chi lo costruì o lo possedette più tardi, e quali redditi estrasse dai suoi
abitanti; questo ha effetto sull'intera direzione de nostri interessi. Tornerò infatti all'analisi della
razionalità economica dei castelli fra poco, nella seconda parte della relazione, precisamente per
questa ragione: l'analisi funzionale è validissima ma non può agire come spiegazione delle cause.
Devo, naturalmente, chiedere scusa a tutti coloro, che si sentiranno, con tutta ragione, limitati da tali
categorizzazioni arbitrarie. Ovviamente, la gran parte degli archeologi si interessa alle cause, e
molti storici alle funzioni; né si possono separare i due concetti, nella vera analisi. Ma qui mi
occupo dei tipi ideali, per fare delle distinzioni generalizzate. Gli archeologi che si interessano alle
cause trovano molte difficoltà nello stabilire, dall'evidenza archeologica, che cosa esse sono, nella
realtà. Gli storici lo trovano più facilmente.
Possiamo studiare la terra di San Vincenzo e mettere in evidenza che tutta la terra fu possesso di un
singolo monastero, senza interruzione, dal 700 al 1050, accertare che è sicuramente il monastero,
almeno durante questo periodo, a dirigere i cambiamenti insediativi, dobbiamo perciò cercare dei
principî direttivi nelle fonti sopravvissute; possiamo subito trovare il dissodamento (cosa difficile a
scoprire archeologicamente se fatta da siti preesistenti) come una risposta almeno parziale (non
totale, certo, come vedremo). Il Toubert, quando studiò la Campagna Romana e la Sabina, dominate
ma non totalmente possedute da istituzioni ecclesiastiche, individuò la potenzialità dell'«urbanisme
villageois», come qualsiasi archeologo avrebbe dovuto riconoscere, se alcuni dei siti fossero stati
allora scavati, ma poté anche riconoscere come non avrebbe potuto un archeologo, la
riorganizzazione territoriale che accompagnò l'incastellamento nel Lazio, e lo stabilirsi del controllo
sopra la popolazione contadina, che fu uno dei motivi per i quali essa fu raccolta in siti accentrati
più o meno pianificati. Ma per sapere come furono organizzati strutturalmente questi castelli, come
funzionarono, quali tipi di attività e di relazioni economiche ci furono, non abbiamo la
documentazione, e perciò nel grande libro di Toubert questi problemi tesero ad apparire a pié di
pagina, nelle note. Per gli archeologi la situazione andrebbe capovolta. Qualche volta io trovo le
preoccupazioni degli archeologi per quella che potrebbe essere chiamata la «castellanistica» un po'
fuori luogo, come essi trovano fuori luogo la mia preoccupazione con il possesso e con il potere

5
D. Gribaudi, Sulle origini dei centri rurali di sommità , "Rivista Geografica Italiana", LVIII
(1951), pp. 19-33.
politico ed economico. Qui ritengo vi sia un vuoto incolmabile che sta nella specifica stessa della
disciplina. Neppure penso che sia cosa inutile: il solo modo in cui le due discipline possono
convergere, o anche essere utili fra di loro, è di cominciare da basi veramente indipendenti.
Ho già fatto riferimento al problema delle cause nell'analisi dell'insediamento, ed è su questo che
voglio intrattenermi nella seconda metà della relazione. Non tornerò, dunque, all'archeologia; in
particolare perché il materiale documentario che citerò è dell'alto Abruzzo, una zona più o meno
archeologicamente intoccata. Nelle mie ultime discussioni, ho idealizzato un po' l'analisi
dell'habitat. Come sappiamo tutti, scoprire quali forme di insediamento siano esistite in diversi
luoghi del passato, cambiando ogni pochi chilometri, è infatti così difficile che spesso ci
accontentiamo semplicemente di presentare i risultati empirici: l'insediamento fu qui accentrato, qui
sparso, qui steso intorno ad un piccolo nucleo o fortificazione disabitata (il cosiddetto habitat
centré); qui più fitto, qui più raro ecc. Dobbiamo considerare, però, perché forme diverse
dell'habitat sono importanti storicamente. Perché importa se la gente viveva in forme sparse o
accentrate? L'analisi dell'insediamento è interessante solo nella misura in cui sia veramente una
guida all'organizzazione socio-politica e socio-economica. E necessario esplorare quali elementi in
questa sede hanno un valore veramente causativo.

FIGURA 2
Italia Centrale

Le forme dell'insediamento dopo il X secolo in Italia centrale non rassomigliano a quelle dell'Italia
centrosettentrionale. In quest'ultima, i castelli furono di solito una addizione a quadri insediativi
preesistenti; qualche volta essi divennero centri temporanei nei secoli X-XI, poi talvolta si ritirarono
ancora. Nel centro, i castelli divennero la nuova struttura insediativa di quasi tutta la regione da
Grosseto alla Puglia, da Ascoli Piceno a Caserta (per non parlare, naturalmente delle zone
meridionali, di cui tratta Martin6), e in molte zone rimangono tuttora, quasi senza cambiamenti.
Occasionalmente arrivarono prima del X secolo; qualche volta, non vennero mai; ma in generale il
periodo, diciamo, dal 950 al 1100, è il grande periodo dell'accentramento. Per questa ragione, le
spiegazioni tendono ad essere generalizzate. Troppo generalizzate, a mio parere, perché
presuppongono una gamma troppo omogenea di strutture socio-politiche o anche socio-economiche
per essere probabile nel senso storico, e non concordano con i cambiamenti che veramente vi
furono.
Proporrei, sia pure un po' rozzamente, due tipi di spiegazioni per l'accentramento in Italia centrale: i
processi strutturali, cioè socio-economici, e i processi congiunturali, cioè socio-politici. Ciascuno di
questi ha i suoi sostenitori. Il Toubert ha messo potentemente in evidenza l'analisi strutturale; dal
lato congiunturale il suo antagonista più notevole è probabilmente Hartmut Hoffmann7. Io penso
che i due modi di analizzare siano inestricabili (proprio come nella vita reale, si potrebbe dire). Le
analisi strutturali tendono a mettere in rilievo la «croissance» economica del X secolo,
dissodamento, razionalizzazione agraria il lento aumento del commercio, i castelli come nodi di
tutto. I castelli sono i fuochi razionali di tale crescita, come abbiamo visto; nei secoli X-XI, i signori
dell'Italia centrale - Farfa, Subiaco, Velletri, Cassino, San Vincenzo, San Clemente di Casauria fra
gli ecclesiastici (anche i signori laici fecero lo stesso, ma in maniera meno documentata) - decisero
di metter i loro livellari dentro tali castelli, per reagire alla crescita e organizzarla. Ho detto altrove8
che questo modello richiede conoscenze economiche straordinarie, che non posso immaginare sul
serio che la maggior parte dei signori dell'Altomedioevo avesse istintivamente; penso piuttosto che
potesse ottenere organicamente tali conoscenze solo tramite l'esperienza dell'organizzare del
dissodamento, nel presente o nel passato. Penso che ci sia qui un punto empiricamente verificabile,
che non è stato considerato finora: in certe zone lungamente abitate, come alcune parti della
Campagna Romana, o del piano di Capua, l'accentramento è notevolmente meno completo, come
nel Nord; non c'è l'esperienza dell'«aménagement territorial» che dà ai signori l'esercizio necessario.
Ma c'è anche un altro punto, che rende difficile l'uso semplice di argomenti strutturali: se esiste un
orientamento inesorabile verso l'accentramento insediativo per opera dei signori, a causa
dell'evidente razionalità economica dell'habitat accentrato, perché non tutti lo fanno, almeno in zone
di nuovo dissodamento? Ho notato che San Vincenzo non accentra il suo insediamento dappertutto.
Delogu e Travaini hanno mostrato che non lo fa neanche Subiaco nel cuore delle sue terre9. Anche
nelle vicinanze immediate di Farfa, non tutti gli insediamenti sono accentrati: un esempio è
Pomonte, uno dei castelli falliti dell'analisi toubertiana che, attraverso la sua ampia
documentazione, mostra con chiara evidenza l'insediamento sparso sopravvissuto nel suo territorio.
Qui, penso, sono rilevanti gli argomenti socio-politici che determinano la scelta.
I tipi di scelte socio-politiche fatte dagli abitanti dell'Italia centrale sono simili a quelle fatte
nell'Italia centro-settentrionale dello stesso periodo, perché, ovunque, eccetto nel Sud bizantino, il X
secolo fu un periodo di indebolimento dello stato e di cristallizzazione dei poteri politici locali: i
castelli sono nello stesso tempo centri militari, luoghi giuridici e simboli politici per tutto questo
processo (benché nel Centro, diversamente dal Nord, l'aspetto giuridico sia secondario
nell'incastellamento, e venga più spesso più tardi o anche mai). Ma, naturalmente, tutto ciò è
possibile anche senza l'accentramento. Quando un signore accentra l'insediamento, la dimensione
politica più importante è quella del controllo: sopra i contadini stessi, liberati di recente dalla pura
dipendenza socio-economica dalla fine del sistema curtense e della schiavitù; e sopra la terra, contro
6 e
J M. Martin, Modalités de l'«incastellamento» et typologie castrale en Italie méridionale (X -XIIe siècles), in Castelli.
Storia e archeologia, a cura di R. Comba e A. A. Settia, Torino 1984, pp.89-104.
7
H. Hofman, recensione a P. Toubert, Les structures du Latium médiéval , "Quellen und
Forschungen", LVIII (1977), pp. 1-45.
8
C. Wickham, Studi sulla società degli Appennini nell'alto medioevo, Bologna 1981.
9
P. Delogu, L. Travaini, Aspetti degli abitati medievali nella regione sublacense , "Archivio della
Società Romana di Storia Patria", CI (1978), pp. 17-34; L. Travaini, Rocche, castelli e viabilità fra
Subiaco e Tivoli, "Atti e Memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte", LII (1979), pp. 65-97.
le rivendicazioni di rivali. Così molto spesso l'accentramento diviene un gesto politico, un elemento
sintagmatico nella retorica delle rivendicazioni per il potere politico. Subiaco non accentrò
l'insediamento nella sua terra, zona abbastanza isolata, ma lo fece nei possessi occidentali, verso
Tivoli, dove la sua autorità fu geograficamente meno completa e più contestata. Come ha descritto
bene il Delogu10, Castel Sant'Angelo (ora Castel Madama) ne è un esempio particolarmente chiaro:
incastellato da Subiaco e dai Crescenzi nel 1038 (benché l'insediamento stesso sia anteriore), con
una schiera impressionante di riorganizzazione territoriale esso si trova precisamente in una delle
zone più contestate con il vescovo e la città di Tivoli. Questo tipo di processo fu normale in larghi
tratti dell'Italia centrale. Anche la politica consistente dell'incastellamento/accentramento, praticata
da Farfa, va posta nello stesso contesto: Farfa dominò la Sabina, fondiariamente e politicamente, ma
non possedette tutta la terra. Dovette, dunque, sostenere il suo potere, e il rimaneggiamento
dell'insediamento fu un'iniziativa particolarmente evidente rivolta a tale scopo. Si potrebbe anche
proporre che il processo sia stato imprenditoriale in senso politico: la fondazione da parte di Farfa di
un castello fu spesso un pretesto per imporre la propria autorità in un territorio ove essa era
contestata, ad esempio dagli abitanti locali ancora proprietari. Se questi abitanti venivano persuasi a
stabilirsi dentro il castello, entravano così anche nella clientela del monastero. L'iniziativa, in
generale, ebbe successo; a Pomonte, però, essi non accettarono, ciò che portò, a mio parere, al
fallimento del castello. Viceversa, in alcune zone, come nel cuore della terra di Subiaco, o nella
maggior parte della terra di San Vincenzo, l'accentramento non fu politicamente necessario, perché
un signore possedette tutta la terra di una zona relativamente vasta; l'accentramento, allora, non
avvenne, malgrado la crescita economica.
Come ho detto, io penso che si debbano sempre usare le spiegazioni socio-economiche e socio-
politiche insieme, senza contrapporle. Le ragioni socio-politiche, prese isolatamente, non spiegano
abbastanza: non è necessario che tale relazione fra accentramento e controllo esista ovunque, e non
esiste affatto in molte parti dell'Europa. Da parte loro le spiegazioni socio-economiche sono troppo
generiche e danno poco spazio alla possibile scelta dei singoli proprietari, poiché un signore non
deve necessariamente accentrare tutti i suoi insediamenti. Ma l'esistenza di una tendenza
economica, che mostra l'accentramento dell'habitat come un processo razionale più o meno
evidente, dà un peso al contesto socio-politico della scelta, probabilmente molto più apparente al
livello conscio, cioè a livello ideologico. Non è puro caso che Castel Sant'Angelo, il castello
sublacense più esposto politicamente, sia anche l'esempio meglio documentato della
riorganizzazione territoriale sistematica. Ambedue gli elementi, quello strutturale e quello
congiunturale, sono qui presenti e dobbiamo metterli insieme di continuo, privilegiando ora il
primo, ora il secondo, ma ciascuno nel contesto dell'altro.
Tutto questo funzionerà, penso, per gran parte dell'Italia centrale. Tutto viene così proposto nel
contesto del controllo signorile, tutto è fatto dai signori, per ragioni varie, ma ragioni che finora
dipendono dal fatto che è organizzato da loro. È spesso vero anche il contrario: in zone con
possesso frammentato, l’accentramento è spesso assente o incompleto. Ma non sempre. E che cosa
accade o può accadere in quelle zone del Centro dove si verifica l'accentramento senza che vi sia il
predominio di singoli signori? Prenderò l'esempio di Valva-Sulmona, necessariamente in breve,
come illustrazione del problema.
Valva non è stata certo un grande punto di riferimento storiografico nel passato, e dubito che gli
ascoltatori conoscano molto al riguardo. Si tratta di una serie di vallate con sbocco nel piano di
Sulmona, la Conca Peligna, rinchiusa da ogni parte dalle montagne più alte dell'Appennino, il Gran
Sasso a nord, la Maiella a est. Adesso Sulmona è il suo centro, essa fu anche una città romana, ma
non è rintracciabile nel Medioevo come vero centro urbano fino al pieno XII secolo. Prima del
1100, Valva non ebbe neanche un centro diocesano di città, poiché la cattedrale, san Pelino, fu una
chiesa isolata, fuori della città romana abbandonata di Corfinium. Oggi Valva è una zona di

10
P. Delogu, Territorio e cultura tra Tivoli e Subiaco nell'altro medioevo , "Atti e Memorie della
società Tiburtina di Storia e d'Arte", LII (1979), pp. 25-54.
insediamento altamente accentrato, vicino al 100 per cento; tutto 1'alto Appennino anzi, è una delle
parti d'Italia in cui l'insediamento è più accentrato, benché i centri siano più piccoli di quelli della
Puglia o della Sicilia.
Una gran parte degli insediamenti attuali di Valva esistevano già nel 1112, quando sono elencati in
una bolla papale. Solo una minoranza fu fondata come castello. Nella Conca Peligna i centri
moderni stanno cominciando, nei secoli tardo X e primo XI, a cristallizzarsi, uscendo da una
struttura vaga e disgregata, caratterizzata da curtes e da loci, che quasi ovunque nella Conca devono
rappresentare una forma di insediamento sparso. Questi nuovi centri non sono castelli, però, quasi
tutti sono chiamati villae. Che cosa fosse esattamente una villa in questo momento non è certo: tutti
sappiamo quanto vaghi e vari siano i sensi di tale vocabolo. La rappresentazione, anche se
imprecisa, che possiamo avere di queste ville (l'esempio meglio documentato è Introdacqua, al
confine meridionale del piano) è però quella di un abitato accentrato su un pendio o su un
promontorio, con le abitazioni che si estendono un pochino nella pianura, in modo più aperto di
quello che troviamo adesso. C'è segno chiaro di un processo di accentramento, allora, che ha luogo
attraverso il periodo 950-1050, ma non di incastellamento: i castelli come tali non sono comuni
nelle nostre fonti fino al tardo XI secolo, quando arrivano i Normanni. Ciò che sembra di trovare,
allora, è incastellamento nel senso di accentramento, esattamente come nel Lazio di Toubert, e nello
stesso periodo, ma senza l'armamentario politico, militare, o giuridico che normalmente complica il
problema. Ciò avviene dentro un contesto politico ben diverso da quelli che abbiamo finora visto,
perché la Conca Peligna non fu una zona dove dominarono grandi signori. Ce n'erano in Valva,
nelle vallate tributarie a nord e a sud, più vicine a basi ferme di potere signorile in Marsica e in
Chieti. Ma quasi tutta la nostra documentazione per la Conca riguarda piccoli nobili e contadini di
vari livelli di importanza: in un paese ben documentato, Pacentro, con in apparenza una forma
insediativa simile a quella di Introdacqua, c'era una preponderanza enorme di proprietari contadini
fino a tutto l'XI secolo. In breve, la Conca non fu una zona dove qualsiasi tipo di cambiamento
insediativo controllato dall'alto sarebbe potuto accadere; l'accentramento quindi deve essere stato
più o meno spontaneo. Manchiamo pure di qualsiasi contesto socio-politico normale; c'era per la
verità una sorta di vuoto nel potere politico in Valva dei secoli X-XI, e certamente mancava nella
Conca ogni tipo di minaccia o politica o militare prima dell'avvento dei Normanni. Dobbiamo
perciò ricorrere a spiegazioni strutturali, ipotizzando cambiamenti socio-economici (non
commercio, perché non c'è tanta possibilità di scambi in Valva altomedievale), come avanzamenti
agrari, dissodamento e un riordinamento della popolazione rurale in questo contesto.
Paola Galetti

La casa contadina nell'Italia padana dei secoli VIII-X *

La maggioranza dei rustici durante l'Altomedioevo generalmente costruiva da sé la propria


abitazione. La costruzione delle case era infatti compresa tra i vari tipi di attività che
caratterizzavano il lavoro dei contadini, le cosiddette opera ruralia. Così Carlo Magno, in un
capitolare ecclesiastico del 789, riprendendo alcune disposizioni di suo padre, nel descrivere le
attività proibite nelle domeniche stabilisce: «nec viri ruralia opera exerceant, nec in vinea colenda,
nec in campis arando, metendo vel foenum secando vel sepem ponendo nec in silvis stirpare, vel
arbores caedere, vel in petris laborare, nec domos construere, nec in horto laborare»1 Così un testo
agiografico padano del secolo XI, la Vita Theobaldi, nel testimoniarci il progressivo mutarsi del
paesaggio delle campagne anche per l'intervento degli eremiti, definisce le attività legate all'edilizia
«vilissima ac laboriosa rusticorum opera»2,
La casa era inserita in un complesso che raggruppava elementi insediativi diversi, organizzati,
strutturati e costruiti dal contadino. Per l'Altomedioevo d'altronde più che di abitazione in senso
stretto è corretto parlare di «nucleo abitativo», comprendente, oltre all'abitazione (cioè alla
residenza vera e propria), i «servizi» e i rustici, stalle, granai, fienili, tettoie, configurati quasi
sempre come edifici separati dalla casa ma ad essa collegati in quanto raccolti attorno ad un cortile
centrale, la curtis, all'aia, l'area, con un puteo che fornisce l'acqua, un orto, spesso una piccola
vigna e alberi pomiferas; il tutto separato, per mezzo di recinzioni, siepi, fossati, dalle terre de
foris3. Questo complesso di elementi insediativi diversi era sentito come un tutto unico, tanto che lo
si indicava nei documenti con termini precisi: per lo più sedimen, molto più raramente cispide
oppure casalivo, terra casaliva, casalina, o genericamente area e areale4 .

*Dalla presente ricerca è esclusa la zona padana di tradizione bizantina, che riscontra una situazione profondamente
diversa da quella dell'area di lungo dominio longobardo, sia per il nostro specifico problema che per la struttura stessa
dell'economia e della società.
1
Capitularia Regum Francorum , in Monumenta Germaniae Historica , 1, ed. A. Boretius, Hannover 1883, Admonitio
generalis, n. 22, a. 789, p. 61.
2
Vita Theobaldi, in Bibliotheca Hagiographica Latina , Bruxelles 1898-1899, 8031 ; Acta Sanctorum,Jun . 3 (1701), IV,
p. 593. Cfr. P. Golinelli, Elementi per la storia delle campagne padane nelle fonti agiografiche del secolo XI,
"Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 87 (1978), pp. 6, 8s, 24.
3
Ad esempio: L. Schiaparelli, Codice Diplomatico Longobardo , Roma 1929-1933 [F.S.I. 62-63], I, n. 78, a. 742, p.
230; n. 83, a. 745, p. 246; II, n. 231, a. 769, p. 291; A. Gloria, Codice Diplomatico Padovano. Dal secolo sesto a tutto
l'undicesimo, I, Venezia 1877, n. 17, a. 895, p. 33; n. 56, a. 970, p. 83; V. Fainelli, Codice Diplomatico Veronese. Dalla
caduta dell'Impero Romano alla fine del periodo carolingio, I, Venezia 1940, n. 134, a. 832, p. 183; n. 189, a. 853, p.
286. Id., Codice Diplomatico Veronese del periodo dei re d'Italia, II, Venezia 1963, n. 21, a. 891, p. 26; n. 114, a. 912,
p. 148. E. P. Vicini, Regesto della Chiesa cattedrale di Modena, I, Roma 1913 [Regesta Chartarum Italiae, 16], n. 16, a.
843, p. 24; n. 54, a. 968, p. 77. G. Tiraboschi, Storia della augusta badia di San Silvestro di Nonantola, Modena 1785,
II, n. XLI, a. 861, p. 56. U. Benassi, Codice Diplomatico Parmense, I, Parma 1910, n. VIIII, a. 854, p. 24; n. XXVIIII,
a. 898, p. 80. P. Torelli, Le carte degli Archivi Reggiani fino al 1050, Reggio Emilia 1921, n. VIII, a. 806, p. 25, n.
LXXXVI, a. 998, p. 223. P. Galetti, Le carte private della Cattedrale di Piacenza (784-848), I, Parma 1978, n. 3, a.
791, p. 33; n. 17, a. 821, p. 57. F. Gabotto, Le più antiche carte dell'Archivio Capitale di Asti, Pinerolo 1904, n.
LXXXV, a. 961, p. 164; n. CXIII, a. 990, p. 219. Codex Diplomaticus Langobardiae, Torino 1873 [Monumenta
Historiae Patriae, XIII], n. CCXLVI, a. 870, c. 416; n. CCCXIII, a. 882, c. 527; n. DLXXX, a. 947, c. 991; n.
DCCLXXXIX, a. 978, c. 1386. Cfr. G. Fasoli, Aspetti di vita economica e sociale nell'Italia del secolo VII, in I
caratteri del secolo VII in Occidente, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 23-29 aprile
1957, Spoleto 1958,1, pp. 128-31; G. Barni, G. Fasoli, L'Italia nell'alto Medioevo, Torino 1971, pp. 162-4, 618; P.
Riché, La vie quotidienne dans l'empire carolingien, Paris 1973, pp. 128s.
4
Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., II, n. 231, a. 769, p. 291. Codex Diplomaticus Langobardiae , cit., n. CCLXVI,
a. 876, c. 446; n. CCCCXXXV, a. 910, c. 750. G. Drei, Le carte degli Archivi Parmensi dei secoli X-XI (dall'anno 901
È da notare inoltre che questo stesso schema organizzativo era proprio sia delle «case» dei
coltivatori dipendenti o dei liberi piccoli proprietari, sia dei centri domocoltili di grandi e medie
aziende. Significativa è al riguardo la descrizione di due curtes donate al monastero di San Zaccaria
di Venezia dal conte Ingelfredo nel 914 e poste «in Petriolo et Cona» nel Padovano: si distingue il
«domo et cultile et sediminas earum cum curte, ortos et viridarios suos cum olivetas et pomiferas»
dai «casalis massariciis cum casis, ortis, areis et sediminas earum»5. Lo stesso avviene, nel 910,
nella descrizione di una corte situata nel Veronese, «locus ubi vocabulum est Duas Robores»,
lasciata in donazione testamentaria dal conte di Verona Anselmo al monastero di San Silvestro di
Nonantola nel Modenese: il nucleo centrale della curtis con «terris casalivis et sediminas earum
cum curtis, ortis et viridario suo et cum arboribus et pomiferis» è distinto dai «casalibus massariciis
cum curtis, ortis, areis»6.
Le case erano costruite per la maggior parte di legno, o anche di canniccio, paglia, argilla seccata,
materiali «poveri» cioè, con il tetto di scandolae di legno o per lo più di paglia; di legno erano
anche le recinzioni artificiali costruite per proteggere e separare il nucleo abitativo dai campi o da
altre abitazioni vicine7.
Queste abitazioni potevano essere «smontate» e i materiali da costruzione, soprattutto il legno,
potevano essere trasportati in altro luogo per servire all'edificazione di una nuova casa. È quanto
sembrano saggerire le indicazioni relative al conquestum, cioè alla porzione di beni mobili alla
quale l'affittuario aveva diritto allo scadere del termine contrattuale8, che ritroviamo in alcuni
contratti di locazione stipulati nei secoli IX e X. Così nel maggio 887 si stabilisce che il colono alla
fine del periodo di locazione possa andarsene via dal «podere» portanto con sé tutti i beni mobili,
ad eccezione delle strutture edilizie: «anteposito edificiis, casis»9; lo stesso awiene nel 947-955 per
una «colonica in Valle Paltenate in vico Fosado»10.Significative sono le vicende di un gruppo di
uomini liberi che nel 920 chiedono all'abate di Nonantola di concedere loro a livello per ventinove
anni case dentro le mura del castello di Nogara, con la possibilità, alla scadenza del contratto, di
portare via quanto avevano accumulato, con un'unica riserva: «post expletos annos tollemus nos vel
nostris heredibus omnes mobilias nostras absque calumnia foris de ipso castello, anteposito edificiis

all'anno 1000), I Parma 1930, n. XV, a. 917, p. 66. Torelli, Le carte degli Archivi Reggiani, cit., n. LXXIII, a. 985, p.
191. Gloria, Codice Diplomatico I, cit., n. 40, a. 950, p. 59. C. Cipolla, Antichi documenti del monastero trevigiano dei
santi Pietro e Teonisto, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo", 22 (1901), n. X, a. 790, p. 52. Cfr. P.
Galetti, Per una storia dell'abitazione rurale nell'alto Medioevo: le dimensioni della casa nell'Italia Padana in base
alle fonti documentarie, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 90
(1982/83), pp. 147-76.
5
Gloria, Codice Diplomatico I, cit., n. 29, p. 46.
6
Fainelli, Codice Diplomatico II, cit., n. 98, p. 127.
7
Schiaparelli, Codice Diplomatico , cit., II, n. 188, a. 765, p. 173. Codex Diplomaticus Langobardiae , cit., n. CLII, a.
843, c. 262; n. CCIX, a. 859, c. 346; n. CCCLXXIV, a. 897, c. 620; n. DLVI, a. 940, c. 948. Vicini, Regesto della
Chiesa, cit., n. 22, a. 869, p. 38; n. 27, a. 886, p. 44; n. 54, a. 968, p. 77. Benassi, Codice Diplomatico, cit., n. VIIII, a.
854 p. 24, n. XIX bis, a. 888, p. 61. Drei, Le carte, cit., n. XIV, a. 917, p. 63. Galetti, Le carte, cit., n. 34, a. 843, p. 90.
Torelli, Le carte degli Archivi, cit., n. IX, a. 822, p. 27. Gabotto, Le più antiche carte, cit., n. XXXIX, a. 909, p. 64.
Fainelli, Codice Diplomatico I, cit., n. 292, a. 884, p. 443. Gloria, Codice Diplomatico I, cit., n. 64, a. 980, p. 91.
L'Editto di Rotari rivolge particolare attenzione a danni di vario tipo fatti a siepi e recinzioni costruite, per racchiudere
lo spazio abitativo, con assi e pertiche di legno: Edictus ceteraeque Langobardorum Leges, in Monumenta Germaniae
Historica, Fontes iuris germanici antiqui in usum scholarum, ed. F. Bluhme, Hannover 1869, rr. 282, 283, p. 57; rr.
300, 303, 304, p. 58. Cfr. Fasoli, Aspetti, cit., p. 130 s. Sulle case contadine e sui materiali da costruzione: Barni-Fasoli,
L'Italia nell’alto Medioevo, cit., pp. 162s, 617s; G. Duby, L'economia rurale nell'Europa medievale, Bari 1972 (I ed.
Paris 1962), 1, pp. 7-11; Riché, La vie, cit., pp. 128s.; G. Fourquin, Le premier Moyen Age, Le temps de la croissance,
in Histoire de la France rurale des origines à 1340, a cura di G. Duby, A. Wallon, 1, Paris 1975, pp. 296s., 303s., 515s.
Cfr. inoltre M. De Bouard, Manuel d'archéologie médiévale. De la fouille à l'histoire, Paris 1975, pp. 48-63, 67-76; S.
Roux, La maison dans l'histoire, Paris 1976, pp. 116, 120-4; J. Chapelot, R. Fossier, Le village et la maison au Moyen
Age, Paris 1980, pp. 255-327; J. Le Goff, La civiltà dell'Occidente medievale, Torino 1981, pp. 222-8.
8
Sul «conquestum»: B. Andreolli , Ad conquestum faciendum. Un contributo per lo studio dei contratti agrari
altomedievali, "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XVIII (1978), 1, pp. 109-36.
9
Fainelli, Codice Diplomatico 1, cit., n. 295, a, 887, p. 447.
10
Id., Codice Diplomatico II, cit., n. 239, a. 947-955, p. 363.
castri et edificiis casis» 11. Nel 936 le stesse persone, assieme ad altre, chiedono che venga
confermata dal monastero modenese la concessione del 920, ma la clausola relativa al conquestum
non compare più nella nuova peticio, e soprattutto, per la costruzione delle case, non si indica più il
legno, che era l'unico materiale edilizio menzionato nel precedente livello, ma muras et petras12.
Allorché quindi si vuol rendere l'insediamento di questi uomini all'interno del castello meno
provvisorio, più stabile, i capifamiglia si orientano nella scelta di materiali da costruzione più
resistenti e meno precari.
Che la pratica di «smontare» le case per reimpiegarne i materiali in nuove costruzioni non sia
caratteristica di una zona determinata, legata a particolari usi locali (i documenti sopra citati sono
infatti tutti relativi al Veronese), ma sia diffusa un po' dappertutto, ce lo testimonia il fatto che la
medesima clausola relativa al conquestum la ritroviamo in un'area lontana, nel Piacentino. Nel
giugno dell'847 infatti un uomo libero di nome Martino ottiene a livello per ventinove anni dal
vescovo di Piacenza Seofredo dei beni in «Tressedenti», pertinenti all'oratorio di San Fiorenzo di
Fiorenzuola, con la clausola che «ad expleti libelli cum omni suo foris exeat suprascripto petitor vel
suos heredes, anteposito edificio»13 Il legno era il materiale maggiormente utilizzato nell'edilizia (e
non solo!14); poteva costituire il materiale esclusivo di una costruzione o poteva comunque entrarci
in parte, come ad esempio nell'armatura dei tetti o nei pali di sostegno dei muri altrimenti
edificati15. L'Altomedioevo è stato infatti giustamente definito «il mondo del legno» 16
.
Particolarmente significative sono due rubriche dell'Editto di Rotari che indicano il legname come
elemento base per le costruzioni: r. 282: «Si quis de casa erecta lignum quodlibet aut scandolas
furaverit, conponat solidos sex»; r. 283: «Si quis de lignamen adunatum in curte aut in platea ad
casam faciendam furaverit, conponat solidos sex»17.
Gli uomini dei primi secoli del Medioevo avevano d'altronde a disposizione nell'Italia padana
vastissime foreste, da cui potevano trarre con facilità il materiale da costruzione, tendevano anzi a
prendere e utilizzare ciò che era a portata di mano, comprensibile scelta in un'età in cui i trasporti
erano divenuti difficili. Così, ad esempio, i carpentieri che lavorano alla copertura del tetto della
chiesa di Santa Maria di Castelseprio scelgono per le travature il legno di castagno dei boschi
locali, invece del legno di quercia, migliore del primo, di cui sicuramente v'era disponibilità non
lontano, sulle prealpi varesine18. A questo si deve aggiungere il bagaglio di cognizioni ed
esperienze nella tecnica costruttiva proprio del popolo longobardo, portato, come gli altri popoli
nordici e germanici, «ad identificare ogni architettura con le costruzioni in legno» e a far risalire
l'arte del costruire ad origini e impieghi campestri19. La costruzione di un edificio in legno era

11
Ivi, n. 168, a. 920, p. 219.
12
Ivi, n. 218, a. 936, p. 316
13
Galetti, Le carte, cit., n. 41, a. 847, p. 103.
14
Era di legno la stragrande maggioranza degli oggetti, da lavoro o utili alla casa. Il metallo era infatti scarsamente
presente nel settore della strumentazione agricola. Cfr. V. Fumagalli, Precarietà dell'economia contadina e
affermazione della grande azienda fondiaria nell'Italia Settentrionale dall'VIII all'XI secolo, "Rivista di Storia
dell'Agricoltura", XV (1975), 3, pp. 4-6; Id., Il Regno Italico, in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, II, Torino 1978, p.
150s; M. Baruzzi, I reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia. Note sull'attrezzatura agricola nell'alto Medioevo,
"Studi Romagnoli", XXIX (1978), pp. 423-46.
15
Cfr. soprattutto J. Decaens, Recherches recents concernant la maison paysanne en bois au Moyen Age en Europe du
Nord-Ouest, in La construction au Moyen Age. Histoire et archéologie, Actes du Congrés de la Société des Historiens
Médiévistes de l'Ensegneiment Supérieur Public, Besan,con, 2-4 Juin 1972, Paris 1973, pp. 125-36; De Bouard, Manuel
d'archéologie, cit., pp. 48-53, 67-74; Le Goff, La civiltà cit., pp. 222-4.
16
Ivi, p. 222.
17
Edictus, cit., rr. 282, 283, p. 57.
18
G. P. Bognetti, S. Maria Foris Portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi , in G. P. Bognetti, G.
Chierici, A. De Capitani D'Arzago, Santa Maria di Castelseprio, Milano 1948, pp. 11-511, ora in L'età longobarda, II,
pp. 11-673 alle pp. 3-24.
19
G. De Angelis d'Ossat, Tecniche edilizie in pietra e laterizio , in Artigianato e tecnica nella società dell'Alto
Medioevo occidentale, Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 2-8 aprile 1970, Spoleto
1971, Il, p. 547. Cfr. anche U. Monneret De Villard, L'organizzazione industriale nell'ltalia longobarda durante l'Alto
Medioevo, "Archivio Storico Lombardo", s. V, XLVI (1919), pp. 10-2; M. Cagiano de Azevedo, Esistono una
inoltre più «economica», perché poteva essere portata a termine utilizzando i materiali stessi sul
luogo e senza l'intervento di artigiani specializzati da fuori, di magistri, sfruttando le conoscenze
tecniche e le esperienze costruttive dei contadini nella carpenteria. Se consideriamo i dati, non
molto numerosi, che i documenti ci forniscono sulla strumentazione agricola, negli elenchi di
attrezzi sono spesso compresi anche strumenti da taglio e da carpenteria (che, nel caso di alcuni
attrezzi, sono indispensabili ovviamente anche per lavori di potatura degli alberi e raccolta di
legname leggero).
Sull'equipaggiamento dei «poderi» contadini si sa ben poco; maggiori informazioni le abbiamo per
i centri dominici di curtes facenti capo a grandi proprietà20, Comunque sappiamo tra l'altro che
nell'812 in Toscana un certo Altiperto, uomo libero, al momento di prendere a livello un «podere»,
riceve in dotazione dal proprietario oggetti di vario tipo, tra cui una scure e roncole per sfrondare
gli alberi21, che nella corte di «Griliano» (forse nel Bresciano) di proprietà del monastero di Santa
Giulia di Brescia, nel massaricio ventotto manentes devono corrispondere come canone anche ferro
e attrezzi già lavorati, tra cui «secures III, mannaria I»22.
Due polittici altomedievali di area padana, il breve recordacionis del monastero di San Tommaso
di Reggio Emilia, attribuito al X secolo, e l'inventario della corte di Migliarina, presso Carpi,
sempre del secolo X, ci forniscono elenchi di attrezzi agricoli per vari centri aziendali23. Così, in
base al polittico reggiano, sul domocoltile dello stesso monastero troviamo registrate, tra l'altro,
«materia I, secure II, secias [seghe] III»; su quello della «curte de Inciola», Enzola nella bassa
pianura reggiana, «securis II, mannaria I»; a «Zeola», Sciola di Tizzano nel Parmense, «mannarias
II»; nella «curte de Citonio», Cedogno nel Parmense, «mannaria I»; e a «Curciliano» sempre
«mannaria I». Nella corte di Migliarina sono elencati invece «dolatoria una, secure una, secies VI,
[. . .] asia una, assione uno, rasoria una, falce potatoria una, tappolis dui, secio uno»: asce, accette,
scuri, seghe, pialle, un vero e proprio corredo per lavorare il legno.
Più in generale, quella guida per la gestione dei posssessi regi che è il Capitulare de villis al
capitolo 42 elenca, tra la suppellettile e la strumentazione che dovevano essere presenti in ogni
centro aziendale, soprattutto attrezzi, non tanto destinati al lavoro dei campi, ma a quello del legno,
alla carpenteria o alla falegnameria24.
D'altronde si presupponeva che i liberi proprietari, presenti capillarmente nel territorio prima
dominato dai Longobardi e poi dai Franchi possedessero particolari e precise capacità tecniche
costruttive, se tra i servizi pubblici che erano dovuti appunto dai liberi homines, exercitales
arimanni in epoca carolingia, come già in età longobarda, oltre a quello militare, alla custodia
armata dei placiti, alla manutenzione delle vie di comunicazione era compresa anche la
manutenzione ma soprattutto la costruzione dei ponti25. Alcuni di questi, ormai decaduti però al
ruolo di dipendenti di una curtis di proprietà del monastero di San Colombano di Bobbio,

architettura e una urbanistica longobarda? in La civiltà dei Longobardi in Europa, Roma-Cividale del Friuli, 24-28
maggio 1971, Roma 1974, pp. 294-8.
20
Fumagalli, Precarietà, cit., pp. 4-6, Baruzzi, I reperti, cit. pp. 430-4.
21
W, Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus, Tübingen 1971, n. 73, a. 812, p. 144.
22
Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi , a cura di A. Castagnetti, M. Luzzati, G. Pasquali, A. Vasina, Roma
1979 [F.S.I., 104], S. Giulia, a cura di G. Pasquali, p. 54. Per i problemi di identificazione della località: G. Pasquali, La
distribuzione geografica delle cappelle e delle aziende rurali descritte nell'inventario altomedievale del monastero di S.
Giulia di Brescia, in San Salvatore di Brescia. Materiali per un museo. I, II, Brescia 1978, p. 148.
23
Inventari, cit., S. Tommaso di Reggio , a cura di A. Castagnetti, pp. 196-8; Corte di Migliarina , a cura di A.
Castagnetti, p. 204. Per l'identificazione dei centri domocoltili di S. Tommaso: V. Fumagalli, La resa della terra e i
patti colonici, in Id., Coloni e signori nell'Italia settentrionale. Secoli VI-XI, Bologna 1978, p. 72.
24
Capitularia I, cit., Capitulare de villis , n. 32, p. 87; Capitulare de villis . Cod Guelf. 254 Helmst. der Herzog August
Bibliothek Wolfenbüttel, ed. C. Bruhl, Stuttgart 1971, p. 59. Cfr. W. Metz, Zur Erforschung des Karolingischen
Reichsgutes, Darmstadt 1971, pp. 8-21; Duby, L'economia rurale, cit., pp. 30s, B. Fois Ennas, Il «Capitulare de villis»,
Milano 1981, pp. 140-2.
25
Capitularia Regum Francorum, in Monumenta Germaniae Historica, II, edd. A.Boretius, V. Krause, Hannover 1897,
Capitulare Papiense, a 850 ex., n. 213, p. 87s; Edictum Pistense, a. 864, n. 273, p. 322. Sui «liberi del re» e la
costruzione dei ponti: G. Tabacco, I liberi del re nell'Italia carolingia e postcarolingia, Spoleto 1966, pp. 102-5.
continuano ad esercitare nella seconda metà del IX secolo tali diritti/doveri propri della condizione
di uomo libero, anche se come prestazioni di lavoro dovute alla grande proprietà monastica nella
quale sono stati attirati. Le due Adbreviationes de rebus omnibus Ebobiensi Monasterio
pertinentibus dell'862 e dell'883 ci elencano infatti per il centro di «Virdi, oratorium sancti Hilarii»,
Valverde (Pavia): «XXX arimanni, XX ex his secant pratum in Caulo [Coli, Piacenza], et faciunt
pontem de parte monasterii in Papia, et unusquisque illorum facit opera ad monasterium ebdomadas
V»26.
E comunque soprattutto la contrattualistica che ci fornisce chiare indicazioni sull'attività
edificatrice dei rustici. Tra gli obblighi del concessionario nei confronti del concedente spesso
infatti è richiesta la costruzione della casa di abitazione e degli edifici secondari del sedimen a
spese o, più probabilmente ad opera del colono27.
Nell'837 in un livello per beni in Ostiglia il locatario promette di «lavorare et excollere et
superabitare [. . .] ibi et super ipsa terra casa et canalibus faciendo, curte et orto claudere»28 e
nell'843 Orsone, uomo libero, per beni ottenuti in locazione nel Piacentino, si obbliga «super
resedendum et casa palia tecta inibi levandum»29; più avanti, nel settembre 869, il colono si
impegna «ad laborandom, colendum, tegia palliaticia continendum, canales edificandom [...]
edifıcias faciendum ut [...] rebus et tegia palliaticia meliorentur» su terre nel Modenese, a
Collegara30. Nel marzo 917 Orso ottiene a livello degli appezzamenti di terreno, su uno dei quali
aveva edifıcato «tria paliatecta»31, e nell'ottobre del 940 a Novate, nel Milanese, un livellario si
impegna «in casina residere et ens continere, conciare, coperire, claudere»32; nell'agosto 910 a chi
prende in locazione «ariale uno una cum aquimolo suo in
fluvio Tartaris in porto de Rovescello» si fa obbligo addirittura di provvedere a «super ipso ariale
molinum edifıcare [...] cum tecto super se abente et rodas et cum universis municionibus et fabrica
sua» (ma in questo caso si trattava di persone «del mestiere», di mugnai)33.
Il colono doveva occuparsi anche dei lavori di manutenzione, miglioria, riparazione delle abitazioni
sui fondi che otteneva in conduzione, oltre che delle opere di recinzione e riparo del nucleo
abitativo. In una charta promissionis rogata nel febbraio del 773, questa volta però di ambito
toscano (territorio di Lucca), si richiede espressamente «ticta recopiriendum, et ipsa casa
recludendum cum petra et tabula, et [...] sepi recuciandum et ipsa porta cludendum et
defindendum»34; o più genericamente si raccomanda, nell'845, per beni in Ostiglia, di «casa seo et
canalibus [. . .] staurando, curte, ortum, aream faciendo»35; e nel 907, per beni a Borgo Panigale nel
Bolognese, di «metato, curte, orto et kanale restaurandum»36.
Esistevano però degli addetti alle costruzioni, specialisti, sui quali conviene soffermarci per
evidenziare la particolare qualificazione della loro attività costruttiva, rivolta a soddisfare
soprattutto i gusti di una committenza ristretta e di un certo livello sociale. La documentazione è
avara di notizie a loro riguardo: questo silenzio delle fonti è, crediamo, un’ ulteriore conferma del
fatto che la maggior parte delle abitazioni era opera degli uomini che in esse vivevano, non di

26
Inventari, cit., S. Colombano di Bobbio 1-4, a cura di A. Castagnetti, I, a. 862, p. 135; 2, a. 883, p. 156. Sugli
arimanni dipendenti dal monastero di Bobbio cfr. Tabacco, I liberi, cit., pp. 100-6. Sulla decadenza dei liberi homines e
sulla diffusione della curtis: B. Andreolli, M. Montanari, L'azienda curtense in Italia. Proprietà della terra e lavoro
contadino nei secoli VIII-XI, Bologna 1983 pp. 69-84.
27
Ad esempio, Vicini, Regesto, cit., n. 5, a. 813, p. 7; n. 27, a. 886, p. 44. Cipolla, Antichi documenti, cit., n. XVII, a.
829, p. 69. Benassi, Codice Diplomatico, cit., n. XVIIII bis, a. 888, p. 61.
28
Tiraboschi, Storia della augusta badia, cit., n. XXXIII, a. 837, p. 50.
29
Galetti, Le carte, cit., n. 34, a. 843, p. 90.
30
Vicini, Regesto, cit., n. 22, a. 869, p. 38.
31
Drei, Le carte, cit., n. XIV, a. 917, p. 63.
32
Codex Diplomaticus Langobardiae, cit., n. DLVI, a. 940, c. 948.
33
Fainelli, Codice Diplomatico II, cit., n. 95, a. 910, pp. 122s. Lo stesso avviene per un altro «molendino in valle
Fontense»: Ivi, n. 164, a. 920, p. 214.
34
Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., II, n. 281, a. 773, p. 402.
35
Tiraboschi, Storia, cit., n. XXXVI, a. 845, p. 52.
36
Drei, Le carte, cit. n. VI, a. 907, p. 43.
personale specializzato, la cui attività era rivolta per lo più alla costruzione di edifici pubblici civili,
religiosi, o privati di una certa importanza, non certo di case di impianto semplice ed elementare,
fatte di materiali «poveri», che non abbisognavano di tecniche particolarmente complesse e
raffinate.
Questa è appunto l'immagine che, come si è visto, la documentazione scritta ci fornisce dell'edilizia
contadina, che trova riscontro però nei dati che ci sono forniti dagli scavi archeologici. Questi
ultimi, per l'Italia settentrionale, come del resto per tutta la penisola, sono pochi relativamente agli
insediamenti rurali minori e all'edilizia privata altomedievali, mentre sono più numerosi per i secoli
del pieno e soprattutto del Bassomedioevo. Basta sfogliare le pagine della rivista "Archeologia
Medievale", che riporta notizie degli scavi svolti nel corso di ogni anno, per rendersene conto. Del
resto, la stessa disciplina dell'archeologia medievale è di recente sviluppo nel nostro paese37,
rispetto al resto dell'Europa occidentale che già da tempo ha avviato ricerche sulle costruzioni civili
e, nello specifico, sulla dimora rurale, anche se i secoli dell'Altomedioevo sono anche in questo
caso poco coperti38. Comunque, gli scarni dati forniti dagli scavi effettuati a Castelseprio39, presso
la pieve di Santa Maria di Val Tenesi sul lago di Garda40, a «Refondou» presso Savignone in
Liguria, e a Luscignano in Lunigiana41, a Luni42, a Bagnoregio in Toscana43. Ci confermano quanto
si è detto sulle abitazioni rurali.

37
P. Delogu, Archeologia medievale, in Atti del Convegno dell'Associazione dei Medioevalisti Italiani, Roma, 31
maggio-2 giugno 1975, pp. 1-17.
38
Dei bilanci degli scavi sulla casa contadina per la Francia, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, il Belgio, la Germania, ci
sono forniti da: Decaens, Recherches, cit.; De Bouard, Manuel, cit., pp. 67-74, Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp.
79-134. In Francia per l'Altomedioevo sono da ricordare, tra l'altro, gli scavi a Isle-Aumont nell'Aube (De Bouard,
Manuel, cit., p. 67 e nota 233 con la bibliogr.) a Mandeure (Ivi, p. 67 e nota 234 con la bibliogr.), a Bourcheuil, nel Pas-
de-Calais (Fourquin, Le premier, cit., p. 296), ma soprattutto gli scavi fatti a Brebières, a sud di Douai (P. Demolon, Le
village mérovingien de Brebières (Vle-Vlle siècles), Arras 1972; De Bouard, Manuel, cit., pp. 67-9 e fig. I a p. 68;
Fourquin, Le premier, cit., pp. 303, 304, 311). In Gran Bretagna, su impulso di M. Beresford (Lost villages in England,
London 1954) e del «Deserted Medieval Village Research Group», sono stati effettuati numerosi scavi di villaggi
abbandonati, le cui notizie appaiono nella rivista "Medieval Archeology", ma per lo più per il pieno e basso Medioevo.
Cfr. M. Beresford, Villages désertés: bilan de la recherche anglaise, in Villages désertés et histoire économique XIe-
XVIIIe siècles, Paris 1965, pp. 533-80, con la bibliogr. e la notizia degli scavi alle pp. 573-80. Per i secoli
dell'Altomedioevo sono da ricordare, tra l'altro, gli scavi a Catholme nello Staffordshire, V/VI secolo - X (Chapelot,
Fossier, Le village, cit., pp. 95-97), a Chalton nell'Hampshire, VI-VII secolo (Ivi, pp. 103-6), a West Stow, V-VI secolo
(Ivi, p. 119), a Mucking, V/VI-VIII secolo (Ivi, p. 123). Per i Paesi Bassi sono stati effettuati scavi di case che datano
dal VII all'XI secolo a Leens (De Bouard, Manuel, cit., p. 70 e nota 244 con la bibliogr.), a Kootwijk nel Gelderland
(Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp. 88-95) e a Odoorn (Ivi, p. 123). In Germania sono stati studiati, tra l'altro, gli
insediamenti di Warendorf, in Westfalia, il centro più importante (W. Winkelmann, Die Ausgrabungen in der
frahmittelalterlichen Siedlung bei Warendorf, in Neue Ausgrabungen in Deutschland, Berlin 1958, pp. 492-517;
Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp. 79-88), risalente al VII-VIII secolo, quello di Gladbach (Riché, La vie, cit., p.
128s; De Bouard, Manuel, cit., p. 70 e nota 248; Chapelot, Fossier, Le village, cit., pp. 97 e 117) in Renania come il
centro di Haldern (Decaens, Recherches, cit., p. 126) e le due località di Kirchheim in Baviera e di Hedeby (De Bouard,
Manuel, cit., p. 70 e note 248 e 249 con la bibliogr.). Ricordiamo anche gli scavi a Wülfingen-am-Kocher, VI-XII
secolo, e a Burgheim, VII-IX secolo (Chapelot, Fossier, Le village, cit., p. 97s), a Morken (Ivi, p. 128) e a Feddersen
Wierde, centro risalente al I-V secolo (Ivi, pp. 106-10).
39
Cagiano de Azevedo, Esistono, cit., p. 296; "Archeologia Medievale" VI (1979), Notizie degli scavi, schede 1978, p.
321; G. P. Brogiolo, S. Lusuardi Siena, Nuove indagini archeologiche a Castelseprio, in Atti del VI Congresso
Internazionale di Studi sull'Alto Medioevo, Milano, 21-25 ottobre 1978, Il, Spoleto 1980, pp. 475-500.
40
Sui risultati degli scavi presso questa pieve ed anche di altri nel Canton Ticino e ad Albenga, con le relative
indicazioni bibliografiche, cfr. G. P. Brogiolo, Lettura archeologica di un territorio pievano: l'esempio Gardesano, in
Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell'alto Medioevo: espansione e resistenze, in Atti
della XXVIII Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 10-16 aprile 1980, I, Spoleto 1982,
pp. 281-300.
41
Per Savignone e Luscignano, T. Mannoni, Il castello di Molassana e l'archeologia medievale in Liguria,
"Archeologia Medievale" I (1974), p. 12; Ivi, Notizie degli scavi, schede 1971-'73, p. 270; "Archeologia Medievale",III
(1976), pp. 309-25.
42
W, Ward Perkins, Lo scavo nella zona Nord del foro, in Scavi di Luni, II, a cura di A. Frova, Roma 1977, pp. 633-8;
"Archeologia Medievale", Notizie degli scavi, I (1974), schede 1971-'73, p. 270, III (1976), schede 1975, p. 330; IV
(1977), schede 1976, p. 251; V (1978), schede 1977, p. 485; VI (1979), schede 1978, p. 322; VII (1980), p. 476.
Le maestranze specializzate nell'attività costruttiva dedite esclusivamente a tale lavoro, a cui
dobbiamo, come si è detto, non tanto l'edificazione delle minori costruzioni quanto quelle degli
edifici di carattere pubblico e delle fondazioni ecclesiastiche (pubbliche e private), sono
rappresentate da quei magistri della cui opera abbiamo scarse testimonianze nelle carte
altomedievali (tenendo conto anche dell'abbondante documentazione toscana), proprio a causa
probabilmente dell'eccezionalità e alta qualificazione della loro attività.
Negli anni 728-729, «Trasualdus vir devotus», nel dotare di alcuni beni la chiesa di San Terenzio
«in vico Colonia» nel territorio di Lucca da lui fondata, fa esplicito riferimento al fatto che questa
era stata costruita «per manum artificum a fundamentis»44; sempre a Lucca, nel 737 troviamo, tra i
testimoni che sottoscrivono una charta adfiliationis, «Tendoaldus magister»45; e come testimone ad
una vendita, nel novembre 815, «Pauloni magestro filio quondam Domnigoni», questa volta
nell'Italia settentrionale, nel Piacentino46. A questi professionisti va attribuita, a vari livelli, secondo
preparazione e provenienza, una certa attitudine artistica, che ci è testimoniata da opere scultorie o
costruttive firmate dall'artefice, dal magister. Sappiamo così che «Ursus magester cum discepolis
suis Iuvintino et Iuviano» ha lavorato nella prima metà dell'VIII secolo al ciborio della chiesa di
San Giorgio di Valpolicella; che a «Iohannes magister» dobbiamo l'opera, dell'anno 736, per lo
scoto Cumiano, a Bobbio; che «Paganus» lavora (negli anni 751-754 o subito dopo 1'800)
all'oratorio di Santa Maria in Valle a Cividale; che «Gennarius magester marmorarius» lavora a
Savigliano nel 755, e che «Pacificus», morto nell'anno 844, è un artista molto versatile (ma si tratta
di un personaggio singolare, un arcidiacono, tra l'altro, del cui livello di capacità professionale non
conosciamo per ora altri casi, almeno per quanto riguarda uomini di Chiesa), se l'iscrizione che lo
riguarda recita: «quicquid auro vel argento et metallis ceteris, quicquid lignis ex diversis et
marmore candido, nullus unquam sic peritus in tantis operibus»47. Le carte private ci documentano
invece, in un atto rogato a Lucca nel luglio 754, 1'attività di un certo «Auripert pictor», ricordato
anche in una charta firmitatis del febbraio 763; e di un altro pictor, di nome «Eribertus», in un
documento veronese dell'aprile 86548.
Artigiani qualificati, specializzati più propriamente nella costruzione di edifici, sono da ritenersi il
«Godefrit viri honesti magistro murarum» che presenzia in qualità di testimone il 19 dicembre 737
a Vianino (Parma) ad un atto di vendita di terra alla chiesa di San Pietro di Varsi e che doveva
probabilmente occuparsi della parte muraria di una costruzione, e quel «Natalis homo transpadanus
magister casarius» che nei primi anni del IX secolo erige (con probabilità partecipando attivamente
all'opera di costruzione) e dota la chiesa di San Pietro e Santa Maria a Lucca49.

43
M. Cagiano de Azevedo, Due «casae» longobarde in Tuscia, in Atti del Convegno internazionale di archeologia
medievale, Palermo-Erice, 20-22 settembre 1974, Palermo 1976, pp. 101-3.
44
Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., I, n. 42, a. 728-729, p. 144.
45
Ivi, n. 62, a. 737, p. 196.
46
Galetti, Le carte, cit., n. 13, a. 815, p. 51.
47
Sulle iscrizioni apposte dai vari magistri sulle loro opere e sulla bibliogr. ad esse relativa: Monneret de Villard,
L'organizzazione, cit., p. 36 nota 1, p. 64 nota 2. Cfr. anche P. L. Zovatto, L'arte altomedievale, in Verona e il suo
territorio, II, Verona 1964 pp. 51523; C. G. Mor, L'autore della decorazione dell'Oratorio di S. Maria in Valle a
Cividale e le possibili epoche in cui poté operare, "Memorie Storiche Forogiuliesi", XLVI (1965), pp. 20-36; Cagiano
de Azevedo, Esistono, cit., pp. 325, 327. Sull'arcidiacono Pacifico: C. G. Mor, Dalla caduta dell'impero al Comune, in
Verona e il suo territorio, cit., pp. 70, 76-82 86. Ricordiamo anche due iscrizioni che riguardano due magistri attivi
nell'Italia centrale rispettivamente nella chiesa di S. Maria in Fianello di Sabina (VIII secolo) e all'altare della chiesa di
S. Pietro di Ferentillo (739): Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., p. 36, nota 1.
48
Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., I, n. 113, a. 754, p. 329; II, n. 170, a. 763, p. 127. Fainelli, Codice
Diplomatico, I, cit., n. 231, a. 865, p. 353.
49
Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., 1, n. 64, a. 737, p. 203. Memorie e documenti per servire all'istoria del
Ducato di Lucca, a cura di D. Barsocchini, V, p. II, Lucca 1837, n. CCCXXII, a. 800, p. 192 (il regesto del Barsocchini
fa riferimento al t. IV, p. 11 n. 6: qui con la data 805). Per l'individuazione delle competenze dei magistri murarum e
l'identificazione del magister casarius del documento toscano con un artigiano addetto alle costruzioni: Bognetti, S.
Maria, cit., rispettivamente alle pp. 490 e 493, nota 228 (in polemica con Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., p.
50, nota 5).
Si trattava comunque di uomini liberi, che certamente si valevano dei diritti/doveri propri della
condizione dell'uomo libero (quasi sempre li troviamo presenziare in qualità di testi alla rogazione
di vari negozi giuridici); potevano avere anche una certa qual rilevanza sociale («Auripert pictor»
delle carte degli anni 754 e 763 possedeva numerosi beni e il «magister Pacificus» veronese, di cui
ci resta l'iscrizione, era un arcidiacono, personaggio di spicco a Verona50) e certamente spesso
svolgevano la loro attività spostandosi all'interno del «Regnum» ed anche fuori51. Troviamo infatti
numerosi magistri qualificati come «transpadini» nelle carte del monastero di Farfa, tra i testimoni
alla stesura di varie contrattazioni giuridiche52.
«Professionisti dell'edilizia, al confronto di chi, servo dipendente di un privato, non andava più in là
della rudimentale capacità di tirare in piedi una rozza baracca o di obbedir materialmente alle
minute prescrizioni di un tecnico»53 dovevano essere quelle maestranze indicate nella
documentazione come magistri commacini, come quel «Rodpertu magistrum Cummacinum» che
nel 739 aliena, con un atto di vendita rogato a Toscanella, «casa cum vinea, clausura, citina, terra»
di sua proprietà54.
Non ci interessa in questa sede stabilire se il termine «Commacini» indica che si trattava di artigiani
provenienti dal territorio di Como oppure uomini operanti «cum machinis» (considerando le
impalcature, gli argani e i verricelli di cui probabilmente erano provvisti) o espletanti il loro
compito «cum maciones» (etimologia significante artigiani associati), o di maestranze specializzate
provenienti dalla Commagene (ve ne erano due, una danubiana e una asiatica) al seguito dei
Longobardi al tempo dell'invasione55, ma di segnalare e di precisare la loro attività sia come
costruttori, sia come imprenditori, organizzatori tecnici dei lavori56. È soprattutto la legislazione
longobarda che ci permette di avere un'idea delle opere che ad essi venivano commissionate e della
loro organizzazione del lavoro.
Le due rubriche 144 e 145 delle leggi di Rotari ci mostrano come un «magister commacinus»
potesse avere con sé nell'opera di restauro o di fabbrica «ex novo» di un edificio dei «collegantes»,
dei «consortes», cioè persone legate a lui dalla compartecipazione all'impresa [144], che potevano
essere anche altri «magistri commacini» [145]. Siamo quindi di fronte a rudimentali «imprese di
costruzioni» che assumevano in appalto un lavoro. Oppure accettavano anche di dirigere l'opera dei
servi di un padrone57. I1 Memoratorio de mercedes comacinorum58, un vero e proprio tariffario per
le prestazioni che ad essi si richiedevano, dei tempi di Grimoaldo o di Liutprando, in cui il Bognetti
vede la testimonianza di una decadenza di questi artigiani qualificati da liberi imprenditori a
dipendenti regi59, specifica con estrema precisione le opere che erano in grado di effettuare.

50
Per «Auripert pictor» cfr. nota 48. Per Pacifico cfr. nota 47.
51
La legislazione longobarda prevede che i magistri, che sono in questo caso assimilati ai negotiatores, possano «intra
provincia vel extra provincia ambulare» liberamente durante il regno di Liutprando; possono farlo con una «epistola
regis.. aut voluntate iudicis sui» durante il regno di Astolfo: Edictus, cit., Liutprandi Leges, a. VIII, cap. 18 III, p. 93,
Ahistulfi Leges, a. I, p. Chr. 750, cap. 6, p. 163.
52
I. Giorgi, U. Balzani, Il Regesto di Farfa di Gregorio di Catino, Roma 1879-1914, II, n. 61, a. 765, p. 62; n. 240, a.
819, p. 197; n. 274, a. 824, p. 227; n. 259, a. 825, p. 214.
53
G. P. Bognetti, I capitoli 144 e 145 di Rotari ed il rapporto tra Como ed i «Magistri Commacini», in L'età
Longobarda, IV, Milano 1968 (I ed. in Scritti di Storia dell'Arte in onore di M. Salmi, Roma 1961, pp. 155-71), p. 452.
54
Schiaparelli, Codice Diplomatico, cit., I, n. 71, a. 739, p. 216.
55
Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., pp. 37-51; Bognetti, S. Maria cit., pp. 484-504; Id., I capitoli, cit.;
Cagiano de Azevedo, Esistono, cit., pp. 325s. Una sintesi delle varie posizioni in M. Salmi, Maestri comacini o
commacini?, in Artigianato e tecnica, cit., I, pp. 409-24.
56
Sulla loro attività di costruttori insiste Bognetti nelle due opere cit. alla nota 55 mentre Monneret de Villard, nello
studio ivi citato (p. 46) insiste soprattutto sulla loro funzione di capomastri impresari, distinguendoli dai vari magistri
murarum, di cui coordinavano l'attività.
57
Edictus, cit., Edictus Rothari, r. 144 «De magistros commacinos», pp. 29s; r. 145. «De rogatos aut conductos
magistros», p. 30. Cfr. Monneret de Villard, L'organizzazione cit., p. 46s.; Bognetti, S. Maria cit., pp. 492s; Id., I
capitoli cit., pp. 434s; C. G. Mor, Gli artigiani nell'alto Medioevo, in Artigianato e tecnica, cit., I, p. 205s.
58
Edictus, cit., Capitula extra Edictum vagantia, Memoratorio de mercedes comacinorum, pp. 147-9. Vedi anche F.
Beyerle, Die Gesetze der Langobarden, Weimar 1947, pp. 324-7.
59
Bognetti, S. Maria, cit., pp. 493-5, 503s.
Conviene soffermarci su di esse, in quanto testimoniano la sopravvivenza, per una ristretta
committenza, di tecniche edilizie che richiedevano capacità professionali particolari.
Inizialmente viene fissato il prezzo di base di un edificio con il solo piano terreno (sala) coperto di
tegole e quello di un edificio con un piano superiore (solario) sempre coperto di tegole; si passa poi
al prezzo del muro secondo il suo diverso spessore, delle costruzioni che avevano richiesto un
secondo ordine di impalcature, della decorazione e struttura delle pareti secondo due diverse
tecniche (opus gallica e opus romanense) e della costruzione degli archi. Viene poi indicato il
prezzo dell'armatura lignea del tetto e dei rinforzi delle travature principali, del tetto, che poteva
essere o in «scandolae» lignee o in tegole, delle fondazioni e di alcuni lavori di rifinitura, come
l'esecuzione di una stanza con «camino», di chiusure per le finestre in legno o di telai per vetri di
gesso, di lastre e colonne di marmo. Da ultimo si fissano i compensi per la costruzione di forni con
tubi fittili al modo romano e di pozzi di diversa profondità60. Come si vede, si tratta di capacità
tecniche che niente hanno a che vedere con la costruzione delle semplici ed elementari abitazioni
contadine, mentre a loro dobbiamo probabilmente quanto di rilevante dell'arte architettonica del
periodo longobardo ancora oggi ci resta.
Nel corso del IX secolo le testimonianze dell'attività di questi liberi artigiani/costruttori diventano
sempre più rare (scarse lo erano già prima, come si è detto), mentre cominciamo a trovare
documentati artigiani specializzati nella attività di costruzione dipendenti dei grandi proprietari
terrieri, concentrati nei centri domocoltili delle aziende curtensi. Ci ricordano i «servi ministeriales
docti aut probati» che l'Editto di Rotari elenca tra il personale che un grande proprietario teneva
presso di sé, che utilizzava per le attività artigiane e le industrie domestiche e ai quali attribuiva un
notevole valore. Se confrontiamo infatti tra loro le composizioni pecuniarie previste per l'uccisione
dei servi, possiamo notare come i 50 soldi previsti per la morte di un servo ministeriale
costituiscano una pena piuttosto elevata, indice dell'alto valore che si attribuiva a questa categoria
di servi, pari solo a quella stabilita per l'uccisione di un «magister porcarius», che nell'ambito di
un'economia di tipo prevalentemente silvo-pastorale in qualità di addetto alla custodia del branco
dei maiali, l'animale da carne allora per eccellenza, aveva una notevole importanza61: per
1'uccisione di un servo ministeriale [r. 130], 50 soldi d'oro; per l'uccisione del suo aiutante [r. 131],
25 soldi d'oro per l'uccisione di un servo massaro [r. 132], 20 soldi d'oro; per l'uccisione di un servo
bifolco [r. 133], 20 soldi d'oro; per 1'uccisione di un servo rusticano [r. 134], 16 soldi d'oro; per
1'uccisione di un maestro porcaro [r. 135], 50 soldi d'oro; per 1'uccisione del suo aiutante [r. 135],
25 soldi d'oro; per 1'uccisione di un maestro pecoraio, capraio e armentario [r. 136], 20 soldi d'oro;
per 1'uccisione di un loro aiutante [r. 136], 16 soldi d'oro.
Ad essi si doveva tra l'altro anche la manutenzione, riparazione e costruzione degli edifici,
all'interno probabilmente della grande proprietà, come ci è suggerito dalla rubrica 145 dell'Editto di
Rotari: «Si quis magistrum commacinum unum aut plures rogaverit aut conduxerit ad opera
dictandam aut solatium diurnum prestandam inter servos suos, domum aut casa sibi facienda»62. Il
«magister commacinus» poteva venire ingaggiato quindi da un proprietario per dirigere o aiutare i
suoi operai servi nelle costruzioni.
Sullo scorcio del primo trentennio del IX secolo (833-835) l'abate di Bobbio Wala, nel compilare
un breve memorationis dei beni del monastero di San Colombano, elaborò uno schema di
pianificazione delle risorse del cenobio, con indicazioni per la loro gestione. Per quel che riguarda
l'attività artigianale, Wala aveva organizzato una serie di ministeria (officine centrali), controllati
tutti dal prepositus, che doveva occuparsi di «omnis laboratio agrorum et vinearum et edifitiorum,
figulorumque», ma affidati ciascuno ad un responsabile, che doveva al tempo stesso controllare il
lavoro dei servi e provvedere probabilmente all'approvvigionamento del materiale necessario per

60
Edictus, cit., nota 58. Per l'analisi del testo del «Memoratorio»: U. Monneret de Villard, Note sul memoratorio dei
maestri commacini, "Archivio Storico Lombardo", XLVIII (1920), pp. 1-16; Bognetti, S. Maria, cit., pp. 493-500.
61
Edictus, cit. Rothari, rr. 76, p. 23; rr. 130-136, p. 27s. Cfr. P. Delogu, Il Regno Longobardo, in P. Delogu, A. Guillou,
G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, I, Torino 1980, pp. 3-216, a p. 73.
62
Edictus, cit., Rothari, r. 145 p 30.
farli funzionare. Così, per il settore che a noi interessa, Wala suggerisce che il «magister
carpentarius provideat omnes magistros de ligno et lapide, preter eos qui ad cetera officina deputati
sint, id est qui butes et bariles seu scrinia vel molendina, casas atque muros faciunt» 63. Questi
magistri non dovevano limitare la loro attività al solo centro dominicale del monastero e
utilizzavano sia il legno che la pietra; ma, se consideriamo i loro compiti principali e il fatto che
comunque erano soggetti alla sovrintendenza di un carpentarius, la lavorazione prevalente ci
appare essere stata quella del legno, che d'altronde, come si è già visto, era il materiale più diffuso
nell'edilizia. Con il termine carpentarius inoltre si indicava allora proprio l'addetto alla lavorazione
del legno64. Questa organizzazione che Wala vuole dare al monastero piacentino si inscrive nella
linea suggerita dal Capitulare de villis, degli inizi del IX secolo, che, nel fissare le regole per una
buona organizzazione e gestione dei possessi regi, stabiliva che in ogni centro curtense ci dovessero
essere iudices che avessero sotto il loro controllo «bonos [...] artifices, id est [...] carpentarios [. . .]
nec non et reliquos ministeriales»65.
Alcuni di questi carpentieri, della Val d'Intelvi e di «Besozolo» (cioè di Bizzozzero presso
Castelseprio), li ritroviamo dipendenti dal monastero di San Pietro in Ciel d'Oro in Pavia nel 929 (e
così pure nel 962 e nel primo trentennio dell'XI secolo) in un atto di conferma di beni per il
monastero pavese, che fa riferimento ad un diploma di re Liutprando66. È interessante notare come
la specializzazione nell'arte della carpenteria sembri tramandarsi tra queste famiglie: «omnes
carpentarios illos quos predictus locus [...] possedisse in valle quae dicitur Antelamo vel eos qui
sunt in vico Besozolo cum filiis filiabusque vel omni agnitione eorum [. . .] indefesse operando
deserviant tam vel posteri eorum in supra fato coenobio» si legge nel 929 e nelle successive
conferme di Ottone I e Corrado II67.
Ma non era tanto sull'attività di questi artigiani costruttori raccolti nei centri residenziali curtensi
che si basava la possibilità di realizzare quell'«autosufficienza» che si può considerare come «mito»
della società altomedievale, quanto piuttosto con il progressivo rafforzarsi della grande proprietà e
con il diffondersi dell'azienda curtense, sullo sfruttamento delle risorse del massaricio, sul quale
troviamo documentato, anche per il nostro settore, una forma diffusa di artigianato rurale
contadino68.
Così nei due inventari bobbiesi dell'862 e dell'883 sono dipendenti della corte di «Luliatica»
(località non identificata, ma nel Pavese) «septem fictales», sette affittuari che, oltre a
corrispondere «unusquisque caseum libras XLI, vervicem dimidium; alius reddit oleo libras V,
picula libras V; tertius bracales II; quartus et quintus et sextus reddunt vervices II, segale sextarios
III; alio grano modia III», «faciunt vineam et cooperiunt casas cum suo ligno»69 e, più avanti, nel

63
C. Cipolla, Codice Diplomatico del monastero di San Colombano di Bobbio fino all'anno MCCVIII, Roma 1918
[F.S.I., 52-53], I, n. XXXVI, p. 140s.
64
C. A. Mastrelli, Le denominazioni dei mestieri nell'alto Medioevo, in Artigianato e tecnica, cit., pp. 318-20. Sul
lavoro del carpentiere: Storia della tecnologia, a cura di C. Singer, E. J. Molmyard A. Ruper Hall, T. I. Williams, II,
Torino 1962 (I ed. Oxford 1956), pp. 244-8, 395-402.
65
Capitularia I, cit., Capitulare de villis, n. 32, r. 45, p. 87; Capitulare de villis. Cod. Guelf 254, ed. cit., p. 60.
66
L. Schiaparelli, I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, Roma 1924 [F.S.I., 38], n. XX, a. 929,
pp. 59s. Per il precetto di re Liutprando, al quale il testo del 929 si richiama: C. Brühl, Codice Diplomatico
Longobardo, III, I, Roma 1973 [F.S.I., 64], n. 14, a. 714 (falso) pp. 48s. Diplomata Regum et Imperatorum Germaniae.
I Conradi I, Heiurici I et Ottonis I Diplomata, ed. T. Sickel, in Monumenta Germaniae Historica, Hannover 1879-
1884, n. 241, a. 962, p. 340, Die Urkunden den Konrads II, ed. H. Bresslau, in Monumenta Germaniae Historica,
Hannover-Leipzig 1909, 1, n. 75, a. 1027, p. 87s., n. 186, a. 1033, p. 247.
67
Monneret de Villard, L'organizzazione, cit., p. 68s. Su di essi vedi anche Bognetti, S. Maria, cit., pp. 26, 487s. e note
220, 221, 494s.
68
V, Fumagalli, Strutture materiali e funzioni nell'azienda curtense. Italia del Nord: sec. VIII-XII, "Archeologia
Medievale", VII (1980) pp. 25-7. Le osservazioni del Fumagalli sono state riprese da P. Toubert, Il sistema curtense: la
produzione e lo scambio interno in Italia nei secoli VIII, IX, X in Annali della Storia d'Italia Einaudi, VI, Torino 1983,
p. 36. Cfr. anche Andreolli, Montanari, L'azienda, cit., pp. 16s., 118-21.
69
Inventari, cit., S. Colombano di Bobbio, cit., 1, a. 862, p. 137; 2, a. 883, p. 158.
Breviarium de terra Sancti Columbani (secolo X-XI), uno «scultor», di nome Giovanni, tiene due
«sortes» del beneficio di «Homo»70.
Così, anche per il massaricio di corti di proprietà del monastero di Santa Giulia di Brescia, sullo
scorcio del secolo IX, ci sono testimoniate attività legate all'edilizia. Nella corte di «Alfiano»
(Alfianello, Brescia, e Alfiano Vecchio, Cremona, vicinissime e separate dal fiume Oglio) vi sono
quaranta «sortes super quas sedunt manentes XL, cum ipso canevario et sunt de ipsis VIII magistri
ad muros et casas et buttes faciendum; hec est redditus eorum: de grano modium tercium, vinum
medium et ad fictum porcos XX, berbices XX, pullos LXX, de argento solidos X, opera in
ebdomada dies XC»71. Questi otto manentes hanno sì una qualificazione particolare, ma sono
soprattutto contadini. È pensabile che espletassero le operae richieste in qualità di costruttori a
disposizione dei bisogni del centro domocoltile: un impegno che li distoglieva dal lavoro sul loro
«podere» per più di due giornate lavorative alla settimana (la media delle novanta giornate richieste
per tutti i quaranta manentes).
Nella «curte Cervinica» (forse Sernìga nel Bresciano) troviamo «sors una, super quam sedet
manentem I, qui reddit de grano modia III, vinum medium, berbicem I, denarios XXX, de rapas
modium I, fava sestarium I, scandolas CCCC»72. Si tratta dunque di un contadino carpentiere, dal
momento che deve corrispondere delle scandolae, cioè delle tavole di legno per la copertura dei
tetti delle abitazioni.
Sembrano dediti esclusivamente ad un lavoro artigianale invece i «servos VIII qui petras
tantummodo operantur» insediati su tre sortes dipendenti dal centro domocoltile della corte di
«Summolacu», a nord del lago di Garda73. Non devono infatti corrispondere alcun canone, e inoltre
l'avverbio «tantummodo» (solamente) è oltremodo significativo: sono scalpellini, lapicidi.
I prodotti manufatti di questi artigiani, sia pietra lavorata che scandolae, non erano utilizzati solo
per soddisfare le esigenze dei centri domocoltili da cui dipendevano le sortes sulle quali essi
risiedevano, o dell'intero complesso delle medesime corti «Cervinica et Summolacu», ma dovevano
probabilmente avere una circolazione più ampia all'interno dell'insieme della proprietà del
monastero bresciano; così l'attività degli artigiani/costruttori dipendenti dal centro di «Alfiano»
doveva avere un raggio di azione più ampio di quell'organizzazione curtense. Doveva cioè esistere
una rete di scambi tra le varie aziende parti di un grande complesso fondiario, con la conseguente
circolazione di prodotti tra le diverse aree ed una certa mobilità della manodopera stessa,
soprattutto di quella specializzata 74.
Le prestazioni di operae artigianali degli affittuari dipendenti (oltre naturalmente al lavoro del
personale specializzato concentrato nei centri domocoltili) garantivano quindi una relativa
«autosufficienza» della grande proprietà fondiaria per quel che riguarda l'attività edilizia, così come
d'altronde avveniva anche per altri settori artigianali75. Questi contadini (in larga misura già piccoli
proprietari), attratti sempre più massicciamente nel corso del secolo IX nella grande proprietà
curtense, che fabbricavano e riparavano i loro attrezzi agricoli, le suppellettili domestiche e
costruivano da sé, per la maggior parte, la propria abitazione, ci testimoniano l'«universale
ruralizzazione delle attività, il loro chiudersi e contrarsi all'ambito delle grandi proprietà
fondiarie»76.

70
Ivi, 4, secolo X-XI, p. 189.
71
Inventari, cit., S. Giulia, cit., p. 81s. Per l'identificazione della corte di «Alfiano»: Pasquali, La distribuzione, cit., p.
159.
72
Inventari, cit., S. Giulia, cit., p. 68. Per l'identificazione della corte «Cervinica»: Pasquali, La distribuzione, cit., p.
153.
73
Inventari, cit., S. Giulia, cit., p. 61. Per l'identificazione del centro di «Summolacu»: Pasquali, La distribuzione, cit.,
p. 151.
74
Id., I problemi dell'approvvigionamento alimentare nell'ambito del sistema curtense, "Archeologia Medievale", VIII
(1981), pp. 93-116; Andreolli, Montanari, L'azienda curtense, cit., pp. 16s, 120. Galetti, Per una storia, cit.
75
P. S. Leicht, Operai artigiani agricoltori in Italia dal secolo VI al XVI, Milano 1959, pp. 58-71.
76
Fumagalli, Il Regno Italico, cit., p. 150; v. inoltre p. 151-3.
La ceramica

L'indagine sulla ceramica postclassica ha catalizzato le energie degli archeologi medievali in


quest'ultimo quindicennio. Al centro dell'interesse non è stata la ceramica in sé e per sé, quanto
piuttosto la ceramica come strumento di lavoro archeologico. Dopo decenni di studi concernenti le
produzioni "coperte" (maioliche, ingobbiate, invetriate) con taglio generalmente da storia delle arti
minori, era necessario razionalizzare il campo costruendo tipologie che permettessero di utilizzare
il fossile guida per eccellenza come strumento di datazione degli strati da un lato e dall'altro come
strumento di comprensione di contesti sociali e funzionali. Accanto a monografie relative a
produzioni regionali e subregionali, si sono elaborate carte di distribuzione e si è letta la ceramica
come spia di traffici e rapporti ad ampia gittata: rimane ancora molto lavoro da fare soprattutto per
quei secoli compresi fra il VII e il XII-XIII, nell'Italia centro-settentrionale in particolare, dove la
parcellizzazione dei centri di produzione e l'adozione di tecnologie estremamente povere impone un
tipo di indagine a livello microterritoriale. Diversa per certi aspetti l'impostazione della ricerca in
altre parti della penisola dove, come nell'Italia meridionale e in Sicilia, certi apparati produttivi
hanno conservato assetti di fabbrica e di commercializzazione a scala più ampia.
I primi "affondi" sulla ceramica come strumento del lavoro archeologico sono rintracciabili negli
Atti dei convegni internazionali della ceramica di Albisola, giunti ormai al diciassettesimo anno di
vita, come nella rivista "Archeologia Medievale", mentre il corpus de I bacini ceramici medievali
delle chiese di Pisa, di G. Berti e L. Tongiorgi (Roma 1981) costituisce un punto di riferimento
essenziale per la circolazione delle ceramiche nell'intero Mediterraneo. Ma gli strumenti più
complessi ed esaurienti di cui si sono dotati gli archeologi medievali, e sui quali possiamo trovare,
oltre ad una bibliografia esauriente per l'intera penisola e l'Europa mediterranea, anche gruppi di
studi sia su tipologie specifiche che sui più diversi aspetti della produzione, della circolazione e
della funzione della ceramica, sono gli atti dei congressi internazionali su La ceramica medievale
del bacino occidentale del Mediterraneo, tenuti a Valbonne nel 1978 (Parigi, 1980) e a Siena nel
1984 (Firenze 1986). In quest'ultimo volume segnaliamo in particolare quei saggi relativi alle
produzioni dell'Italia centro meridionale e di Roma, che costituiscono punti di riferimento
estremamente aggiornati sulle produzioni delle aree in questione, che presentano caratteristiche ben
diverse dal quadro delineato da tempo per l'Italia centro settentrionale.
In questa occasione presentiamo le conclusioni di uno studio a livello regionale, la Liguria, che, a
distanza di anni dalla sua comparsa rimane un modello ancora insuperato e certamente
esemplificativo di un contesto che comprende almeno l'intera Italia centro-settentrionale tirrenica:
si tratta della sintesi storica che conclude il volume di Tiziano Mannoni, La ceramica medievale a
Genova e nella Liguria 1.
1
Genova-Bordighera 1975, pp. 164-181.
Tiziano Mannoni

La ceramica medievale a Genova e nella Liguria

1. È noto che l'organizzazione della produzione ceramica nell'Impero romano appare complessa e
stratificata, con al vertice prodotti di tipo industriale, diffusi da poche grandi fabbriche, e
subordinate produzioni più o meno regionali. Il carattere "industriale" va identificato con la
standardizzazione dei prodotti e dei metodi di fabbricazione, che sono sempre tecnicamente buoni
(omogeneizzazione degli impasti, grandi forni a temperatura ed atmosfera costanti), sia che si tratti
di manufatti pregiati (sigillate), sia d'uso comune, che spesso usufruirono di questo tipo di
organizzazione produttiva (anfore, olpi, lucerne ecc.)1. È difficile stabilire se esisteva nel
Tardoimpero un'organizzazione locale di tipo artigianale, nel senso medievale del termine, poiché
anche molte ceramiche comuni di tipo grossolano presentano forme standardizzate e diffusione di
mercato in grandi aree. In compenso è documentata una produzione quasi casalinga delle grandi
ville rurali2.
L'approfondimento di questa stratificazione della produzione del Tardoimpero sarebbe ovviamente
molto importante per capire le ceramiche dell'Altomedioevo. Quando si parla quindi di continuità o
discontinuità, almeno in campo ceramico, si dovrebbe precisare di quali aspetti della complessa
produzione tardoantica si intende parlare. È evidente che l'intera organizzazione romana non
continua nel Medioevo. È facile d'altra parte ipotizzare che il danno peggiore sia derivato ai
prodotti di tipo industriale a causa del diminuito o mancato mercato; la loro produzione tuttavia
continuò a sopravvivere per molti secoli nel Nord-Africa e nel Mediterraneo orientale. da dove
continuarono ad esempio a provenire, anche in Liguria, fino al Tardomedioevo, anfore scanalate, e
dove, pur mutando le forme, le tecniche romane vennero ereditate dal mondo arabo.
È certo, comunque, che insieme all’organizzazione industriale scompare, per non più ricomparire,
la tecnica delle vernici sintetizzate, propria delle sigillate. Le loro imitazioni (in alcune forme e nel
colore) continuano forse anche oltre ai secoli VI o VII. ma prive della caratteristica vernice3.
Una vera continuità della produzione industriale romana (sia comune, sia pregiata) nelle rozze
ceramiche altomedievali. si può vedere in alcune forme tardoimperiali che persistono per molti
secoli, come il boccale trilobato a basso ventre ed ansa schiacciata4 ed il catino tronco-conico o
emisferico. Mentre la seconda è una forma elementare, e perciò la continuità potrebbe essere
casuale, il boccale trilobato costituisce invece una delle forme atte alla mescita delle bevande, che,
diffusasi nel Tardoimpero, si può documentare quasi continuamente fino al Tardomedioevo ed ai
giorni nostri. I vuoti altomedievali sono dovuti alla mancanza di scavi. I vasi a fiasco, invece, che
1
Cfr R. C. A. Rottländer, Is a provincial-roman Pottery standardized? " Archeometry", 9 (1966),
pp. 76-91, e 10 (1967), pp. 35-47.
2
Lo studio tecnologico e tipologico di queste fabbriche minori purtroppo è ancora da fare.
3
Si può anche ritenere di derivazione romana la pittura in ocra rossa applicata su certe ceramiche medievali. anche per
la sua precoce comparsa in Renania. regione nella quale le sigillate provinciali tardoromane presentano una lunga
sopravvivenza, cfr I Hurst. Red-painted and glazed Pottery in Western Europe "Medieval Archaeology". XIII (1969).
pp qs 110. 112. ma finora non è stato dimostrato che si tratti di vernici sinterizzate e quindi della continuità della
autentica tecnica romana. Altri tipi dipinti con ocra rossa sono di origine mediterranea (Spagna, Bisanzio, Italia
meridionale), sarebbe perciò importante stabilire a quale gruppo appartengano i reperti liguri.
4
Si notano in realtà tre tipi di sezione dell'ansa, dovuti a diverse tecniche di foggiatura: sezione a
sella (foggiatura al tornio), prevalente nei boccali tardoromani o del XII-XIII secolo; sezione
appiattita (a nastro), nei boccali depurati altomedievali; sezione ellittica (a mano), nei boccali
grezzi.
assieme ai boccali costituiscono i prodotti tecnicamente migliori dell'Altomedioevo, si possono
ritenere derivati dalle olpi per perdita dell'ansa.
Una certa tendenza alle decorazioni ottenute durante la tornitura (striature dritte e ondulate), o
stampigli geometrici, che si potrebbero ritenere di influenza barbarica, ma già ben sviluppata nella
ceramica romana del IV secolo, tende a continuare nel Medioevo.
Una estinzione, di valore non trascurabile sul piano del costume e dell'economia domestica, si può
notare invece per quanto riguarda le funzioni del vasellame. Scompaiono ad esempio con le
sigillate i servizi ricchi di forme destinate ai vari usi della mensa, e con essi piatti, scodelle e vasi
potori individuali5.
Il motivo principale per il quale si può dunque parlare di continuità della produzione romana è che
fino al secolo XII non sembra comparire nulla di nuovo dal punto di vista ceramico, ma si può solo
tenere conto di ciò che scompare.

2. L'esistenza in età romana di un substrato locale per quanto riguarda i vasi ceramici di tradizione
preistorica, come le olle e i cinerari, non si può certo negare, anche se in alcune regioni dove le
tecniche locali si sono maggiormente evolute, probabilmente a contatto con nuove fabbriche di tipo
industriale, tali prodotti non presentano più tipici aspetti primitivi. In Liguria, in particolare, dove
praticamente la tornitura è stata introdotta soltanto con la romanizzazione, la produzione locale è
ben distinguibile anche in età romana (la cosiddetta «rozza terracotta locale»)6. E probabile che,
dato il nuovo assesto dell'economia, anche la diffusione dei prodotti locali subisca in tale periodo
delle variazioni: certe forme degli orli delle olle, e soprattutto le analisi mineralogiche, dimostrano
l'esistenza di mercati municipali e regionali; tuttavia aree di produzione e di diffusione della
ceramica indigena esistevano già in età preromana7.
Il recipiente tipico che va collocato nel fılone del substrato locale è l'olla. Di questa forma
elementare si conosce una serie di tipi abbastanza continua che va dall'età del Ferro fino al secolo
XIII per i centri urbani e XV per le aree ad economia chiusa della montagna. I vuoti nella serie si
riferiscono all'Altomedioevo, non già perché le olle abbiano subìto un'interruzione, ma per la
mancanza di livelli datati negli scavi medievali finora effettuati. Se si escludono alcuni esemplari
molto grossolani foggiati a mano che indicherebbero il ritorno in una fase dell'Altomedioevo di
almeno una parte della produzione locale a livelli preistorici, i rimanenti prodotti indicano
l'esistenza di mercati regionali e subregionali, all'interno dei quali le olle, come già in età imperiale,
presentano tipiche materie prime e forme costanti.
Si è già in parte parlato dei catini tronco-conici ed emisferici privi di rivestimento, vasi molto meno
frequenti delle olle. Non sono per ora documentati dal VII all'XI secolo, ma probabilmente
sostituiscono le forme analoghe della produzione industriale tardoromana e scompaiono con
l'introduzione di forme aperte da tavola di classe superiore (invetriate, ingobbiate). Le loro grandi
dimensioni e la mancanza di tracce di fuoco, che conferma l'uso da tavola, potrebbero significare

5
Le ultime forme delle stesse sigillate e loro imitazioni sono ovunque costituite solo da catini
emisferici e tronco-conici: J. W. Hayes, Late roman Pottery, Roma 1972, G. Bass, Un avventuroso
viaggio commerciale bizantino, "Le Scienze", 39 (1971), p. 28; G. Fingerlin, J. Garbsch, J. Werner,
Gli scavi nel castello longobardo di Ibligo-lnvillino (Friuli). Relazione preliminare delle campagne
del 1962, 1963 e 1965, "Aquileia Nostra", XXXIX (1968), p. 117; I. Baldassarre, Le ceramiche
delle necropoli longobarde di Nocera Umbra e Castel Trosino, "Alto Medioevo", I (1967), figg. 3 e
10.
6
N. Lamboglia, Gli scavi di Albintimilium e la cronologia della ceramica romana , parte I,
Bordighera 1950. La persistenza della produzione indigena è ovviamente maggiore nelle aree
montane che hanno resistito più a lungo alta penetrazione romana (M. Leale Anfossi, Una stipe
votiva (?) a Caprauna, "Rivista Ingauna Intemelia", XVII (1962), pp. 56-8.
7
T. Mannoni, La ceramica dell'età del Ferro nel Genovesato , "Studi Genuensi", VIII (1970-71),
pp. 3-26.
l'introduzione nella mensa di un unico tipo di recipiente, forse ad uso collettivo. Un riaffioramento
del substrato preromano si può invece vedere nelle ciotole ad impasto vacuolato.
Per i cosiddetti "testi" non si può parlare di substrato locale in quanto non sono mai stati trovati fra i
reperti di età romana, mentre i rari esemplari, di incerta funzione, appartenenti all'età del Ferro non
sono tali da permettere una ipotesi di riaffioramento culturale. Abbastanza chiaro è invece
l'abbinamento di questi primitivi strumenti per la cottura di farinacei all'economia agricola
medievale dell'Appennino orientale funzione che probabilmente ha determinato dopo il primo tipo
altomedievale foggiato con terra delle olle, l'uso di una terra speciale, uso che è continuato fino ai
giorni nostri con piccole varianti nelle forme dei bordi e nelle tecniche di foggiatura8.
Postmedievale sembra invece per ora l'origine del testo grande da pane.

3. Sulla ceramica longobarda esistono ricerche esaurienti e specializzate9, e proprio per questo è
possibile affermare che non sono stati fino ad oggi rinvenuti in Liguria oggetti tipici di tale
produzione (vasi con decorazioni a "stralucido" o stampigliatura)10. Ma evidentemente la ceramica
prodotta direttamente dai Longobardi in Italia, con tecniche decorative di tradizione protostorica
che già in Pannonia venivano applicate su forme di influenza romana, non può esaurire il problema
della produzione dei secoli VI-VIII. Anzi proprio la mancanza di tali prodotti in Liguria, se verrà
confermata da successivi scavi altomedievali, starebbe a confermare che forse i Longobardi stessi
avevano già abbandonato la loro ceramica tradizionale nella metà del VII secolo, quando hanno
appunto occupato la Liguria. L'interesse principale va quindi rivolto alla produzione romana di età
longobarda, che anche fuori della Liguria è più frequente della ceramica longobarda vera e
propria11, utilizzando quest'ultima per il suo valore cronologico più preciso.
D'altra parte la ceramica altomedievale italiana non sembra aver subito particolari influenze dalla
produzione longobarda in quanto le forme (boccali, "fiaschi", catini ed olle) possono derivare, in
vario modo, come si è visto, dalla produzione industriale romana e dal substrato locale; gli stessi
vasi a fiasco longobardi non derivano da una tradizione protostorica (né formale, né funzionale),
ma sembrano un'interpretazione semplice, priva di ansa, dei "versatoi" a basso ventre del
Tardoimpero, e perciò assai vicini ai vasi a fiasco locali. Ma mentre questi ultimi presentano
reminiscenze di una tecnica industriale e decorazioni a striatura frequenti nei prodotti d'uso comune
del Tardoimpero, i "fiaschi" longobardi presentano tecniche di impasto, cottura e decorazione
(stralucido e stampigliatura) di tradizione protostorica. Se dunque un'influenza barbarica vi è stata,

8
Per la produzione dei "testi" non necessita un artigianato organizzato, ma essa è tradizionalmente
inserita nelle attività complementari dei contadini; che ne fanno anche un modesto commercio
locale, in proposito cfr. T. Mannoni, Il "testo" e la sua diffusione nella Riviera di Levante,
"Bollettino Ligustico», XVII (1965), pp. 49-64. Ciò nel Medioevo era possibile anche per le olle e
catini foggiati a tornio lento con la stessa terra di gabbro usata per i "testi", e che presentano inoltre
una cottura non elevata e poco uniforme, tipica delle fornaci "a catasta". Meno probabile sembra
l'ipotesi dei "vasai erranti", in quanto le fornaci da laterizi non sono documentate in Liguria prima
del XIII secolo e ad esse si dovrebbero attribuire comunque prodotti con cottura migliore. Una
conferma, invece, della prima ipotesi si può vedere in una importante fonte medievale a proposito
delle attività dei contadini nel mese di dicembre: "e si possono far le corde de' vimini, le ceste, le
gabbie e molti altri arnesi, e stovigli di bisogno" (Trattato della Agricoltura di Piero de' Crescenzi,
Milano 1805, p. 328).
9
Si tratta praticamente di caratteristici vasi per bere: "fiaschi", boccali e bicchieri (O. von Hessen,
Die Langobardische Keramik aus Italien, Wiesbaden 1968).
10
Due frammenti problematici provenienti dagli scavi di Genova S. Silvestro sono attribuibili al
periodo protostorico.
11
I vasi longobardi sono predominanti nei corredi sepolcrali della Pianura Padana e del Friuli,
meno frequenti rispetto alla produzione romana nei centri urbani della stessa area, rari, anche nei
corredi sepolcrali, nell'Italia centrale.
essa è sul piano decorativo, già presente nella ceramica tardoromana (stampigliature); rapporto che
potrebbe però anche essere inserito nella tendenza generale del gusto estetico tardoantico
all'astrazione geometrica. Ma l'influenza si nota in senso contrario nelle forme e, quello che più
conta per l'archeologia, non tanto sul piano estetico, ma funzionale.
Un'altra variante barbarica del versatoio tardoromano è il "pegau" francese, che si collega ai boccali
laziali con beccuccio di età carolingia e posteriore, ma anch'essa manca nei reperti liguri12 .

4. Credere che l'enorme ribasso qualitativo e quantitativo subìto dalla ceramica nell'Altomedioevo
sia tutto da imputarsi ad un deterioramento eccessivo dell'economia in generale, e più
specificamente di quella domestica, potrebbe essere poco aderente alla realtà, anche sulla base degli
stessi dati di scavo. Le percentuali della pietra ollare e del vetro, ad esempio, fra i reperti
archeologici di questo periodo sono molto alte rispetto a quelle di periodi ricchi di buona ceramica.
A ciò fanno riscontro le informazioni provenienti dagli inventari patrimoniali dei secoli XII-XIII
(molto rari sono quelli altomedievali, ed inesistenti in Liguria), i quali segnalano, oltre a qualche
recipiente di terra, altri in pietra, metallo (rame, ferro), vetro e legno; i primi da fuoco ed i secondi,
ovviamente, da tavola )13. È noto però che i metalli sono sempre stati riutilizzati, il legno può essere
bruciato e comunque molto raramente si conserva nei depositi archeologici, lo stesso vetro veniva
in buona parte rifuso, come hanno dimostrato gli scavi delle vetrerie medievali14. E di ciò bisogna
tenere conto nelle valutazioni quantitative rispetto alla ceramica.
Per il vetro e per la pietra ollare, dei quali si conoscono come si è detto i reperti di scavo, si può
d'altra parte parlare di una continuità dal periodo imperiale. I bicchieri a calice cilindrico su basso e
tozzo stelo ne sono una prova15; un mutamento nella tipologia dei bicchieri si nota solo a partire dal
XII secolo con il sopravvento delle forme cilindriche apode a fondo rientrante, legate al diffondersi
delle vetrerie forestali. Per la pietra ollare si nota per primo, rispetto al Tardoimpero, un
assottigliamento delle pareti, mentre il fondo rimane piano e spesso16; in età comunale anche il
fondo si fa sottile e convesso mentre le dimensioni dei recipienti aumentano fino a raggiungere
quelle dei lavezzi in pietra moderni. Andrebbe inoltre appurato se anche i recipienti da fuoco in
metallo siano stati largamente usati nel periodo tardoantico17.

12
La Liguria ha sempre fatto parte dell'area di diffusione del boccale a bocca trilobata, come la
maggior parte delle altre regioni italiane, escluse cioè le regioni meridionali per i periodi dominati
dalle produzioni bizantina e araba (nelle quali la bocca trilobata è praticamente assente), se quelle
padane per la produzione longobarda, mentre il Lazio, a partire dall'età carolingia, fa parte, come la
maggior parte dell'Europa, dell'area del boccale con bocca rotonda spesso fornita di un beccuccio
applicalo in una delle sue varie forme: a cannone, schiacciato, incorporato al bordo.
13
L. Mannoni Sorarù, G. Barbero, Recipienti domestici medioevali negli inventari notarili
genovesi, in Atti VI Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1973, pp. 43-66.
14
T. Mannoni, A medieval glasshouse in the Genoese Apennines , Italy, "Medieval Archaeology",
XVI (19721, p. 143s. Gli stessi venditori di oggetti di vetro hanno sempre raccolto i vetri rotti per
la rifusione.
15
Essi probabilmente cominciano a sostituire già nel periodo tardoromano i caratteristici bicchieri
in ceramica, che nelle ultime sigillate mancano completamente.
16
I piccoli recipienti subcilindrici in pietra ollare rinvenuti a Luni (A. Frova, Scavi di Luni , Roma
1973, tav. 75) sono molto simili a quelli di altri siti altomedievali (Castelseprio, Invillino e
Torcello).
17
A questo fine informazioni positive sembrano provenire dall’archeologia sottomarina. G. Bass.
Un avventuroso viaggio cit. p. 28.
Per il legno, oltre agli inventari domestici, esistono importanti documenti commerciali della prima
metà del XIII secolo che attestano l'esportazione da parte dei "tornitori" liguri in Sardegna, Sicilia
e NordAfrica di scodelle, conche, taglieri e mortai per diverse migliaia di pezzi18.
Se l'abbandono dei complessi servizi da tavola dell'Impero segna almeno nella maggior parte delle
famiglie, un mutamento nel costume, la funzionalità dei recipienti comuni non sembra dunque
compromessa dal decadimento della ceramica in quanto essa viene rimpiazzata da altre materie più
funzionali. La porosità e la scarsa resistenza alle escursioni termiche delle olle altomedievali non
rendono certo questi prodotti più utili in cucina dei lavezzi di pietra19 o dei poinoli di rame, questi
ultimi però certamente più costosi anche se assai più durevoli. Lo stesso vale forse per i boccali e
catini grezzi rispetto al legno e al vetro. Questi fatti provano però che non tutte le tecniche sono
decadute (metalli e pietra ollare richiedono tra l'altro materie prime meno usuali), e che forse non
bastano le consuete considerazioni sul diminuito commercio e consumo per spiegare il fatto che un
artigianato locale non abbia potuto ereditare dall'organizzazione industriale romana certe tecniche
per produrre ceramiche funzionali. Forse lo stesso artigianato non è derivato dall'organizzazione
produttiva romana, ma dai vasai delle ville, da una mai spenta tradizione protostorica locale.
D'altra parte la stessa produzione altomedievale, pur nella sua semplicità, presenta, sotto certi
aspetti, una diffusione in larghe aree, e spesso le forme sono simili in regioni diverse dell'Europa,
dal che si potrebbe dedurre che i modelli circolavano anche in questo periodo, ed il costume della
gente comune era molto simile ovunque20. Solo nei particolari più intrinseci come gli impianti si
notano le influenze delle barriere locali alla diffusione di merci21.
È dunque difficile al momento attuale stabilire perché una decadenza della ceramica si instauri
stabilmente e soprattutto si protragga così a lungo, anche quando cioè, con la prima età comunale,
tutte le attività risentono di un miglioramento. Ciò è difficile da spiegarsi se non pensando che una
radicata tradizione tecnologica, di produzione e di consumo, di recipienti funzionali non ceramici
abbia ritardato il riaffermarsi di buone tecniche ceramiche e quindi il largo consumo dei loro
prodotti.
È solo verso il XII secolo che i vasi comuni si fanno più sottili (terre selezionate), ben torniti e ben
cotti. Le olle assottigliano il fondo, che si fa convesso e, eliminando le difformità di spessore del
piede, diventano più resistenti agli sbalzi di temperatura. Compaiono i tegami con fondo analogo,
ed entrambi presentano le prime impermeabilizzazioni interne con invetriatura, costituendo i primi
esemplari di pentolame invetriato da fuoco così come è giunto fino ai giorni nostri. Quali siano i
fenomeni che hanno prodotto queste rapide trasformazioni è difficile da stabilire. La pietra ollare ed
il rame non scompaiono, come attestano gli scavi e gli inventari notarili, mentre i prodotti grezzi si
attardano solo nelle aree economicamente isolate, ultimi rappresentanti di una produzione
millenaria.

18
N. Calvini, E. Puizulu, V. Zucchi, Documenti inediti sui traffici commerciali tra la Liguria e la
Sardegna nel secolo XIII, I, Padova 1957, R. S. Lopez, L'attività economica di Genova nel marzo
1253 secondo gli atti notarili del tempo, "Atti della Società Ligure di Storia Patria", LXIV (1935),
pp. 163-270.
19
Ciò è ancora valido, come è già stato detto, nel XVI secolo.
20
In tutti i paesi europei non soggetti agli Arabi e a Bisanzio fino al secolo XII, ed anche al XIII,
predominano ceramiche locali prive di rivestimento, più o meno grezze, costituite da olle, catini e
boccali. Talvolta le somiglianze formali si spingono, forse casualmente anche ai dettagli, come si
può constatare, ad esempio, confrontando le olle liguri tipo 13 e quelle coeve del Friuli, cfr.
Fingerlin, Garbsch, Werner, Gli scavi, cit., fig. 15.
21
Il maggiore frazionamento subregionale si constata in Liguria per i prodotti foggiati a tornio lento,
attribuibili ai secoli X-XII, periodo nel quale la Liguria è divisa in marche, mentre si vanno
affermando da una parte i comuni e dall'altra le aeree feudali.
5. L'invetriatura costituisce certamente una tecnica semplice ed efficace per migliorare le
prestazioni e talora anche il pregio estetico della ceramica; perciò si dà una certa importanza al suo
ruolo nel Medioevo. Essa, già usata in età romana, pare certamente presente in Italia negli ultimi
secoli del primo millennio22, ma il suo impiego generalizzato si ha solo dopo il Mille. Diversi
pareri, talora con accenti polemici, sono stati espressi sulle invetriate dei secoli VI-VIII, per i quali
secondo alcuni autori non si avrebbero ritrovamenti sicuri, secondo altri invece latradizione romana
non avrebbe mai subìto soluzione di continuità23. In realtà gli esemplari portati ad esempio dai
sostenitori della continuità sono pochi e tipologicamente legati alla produzione tardoromana, tanto
da comprendere i dubbi di chi li ritiene oggetti riutilizzati. Ma anche accettando la versione della
continuità, la ceramica invetriata altomedievale non sembra costituire un prodotto diffuso, che
giuoca quindi un ruolo importante nell'ambito della cultura materiale, rispetto alla costante
produzione di ceramica grezza e priva di rivestimento. Ciò, al di sopra di ogni polemica retorica,
resta probabilmente il fatto fondamentale confermato dalla irregolare distribuzione delle stesse
invetriate altomedievali, la maggiore continuità delle quali è forse da ricercare in alcune aree della
Pianura Padana24.
Per quanto riguarda la Liguria, in particolare ad Albenga e Ventimiglia, si nota nel Tardoimpero un
crescente impiego dell'invetriatura per recipienti di uso comune, in contrasto con le rare e pregiate
coppe decorate in rilievo dell'Altoimpero. Probabilmente alcuni grossolani prodotti invetriati dei
livelli altomedievali possono rappresentare materiali rimaneggiati, ma anche la continuazione delle
invetriate tardoromane. Resta pur sempre difficile, in tal caso, spiegare come una tecnica, che ha
conferito nel Tardoimpero una maggiore funzionalità ai vasi ceramici da fuoco, possa essere stata
applicata anche nell'Altomedioevo senza mantenere questa sua importante funzione, mentre, come
è stato esposto nel paragrafo precedente, la pietra ollare ed il rame hanno ampliamente sostituito le
olle grossolane fino all'introduzione nel XIII secolo della invetriatura del pentolame da fuoco. Forse
gli stessi vasi da fuoco invetriati tardoromani costituiscono il primo passo di un mutamento nei
recipienti da cucina, che culmina con il loro completo decadimento nell'altomedioevo.
Non si deve neppure pensare che l'esistenza di un'arte vetraria, con altra origine, svolta in ambienti
e con procedimenti spesso diversi da quelli della invetriatura della ceramica, debba
necessariamente avere influenzato l'arte ceramica decaduta ad attività minore, e della migliore
funzionalità della quale probabilmente non si sentiva bisogno perché sostituita da altri materiali
funzionali.
A Genova e a Savona d'altra parte si sono scavati livelli altomedievali assolutamente privi di
ceramiche invetriate. Rari sono comunque per ora in Liguria reperti sicuramente classificabili nelle
invetriate altomedievali di tipo laziale. I primi prodotti invetriati che compaiono agli inizi del
secondo millennio mostrano fomme da tavola ed un livello tecnologico generale assai superiore alla
produzione locale priva di rivestimento essi sembrano provenire dal Nord-Africa. Una continuità
della invetriatura del periodo romano esisterebbe dunque in tutti i modi attraverso la mediazione
mediterranea.

22
Nonostante il diffondersi degli scavi medievali il gruppo nettamente più importante di invetriate databili prima del
Mille rimane ancora quello del Foro Romano, cfr. B. Boni, Locus Juturnae, "Notizie Scavi", 1901; D. Whitehouse,
Forum Ware, "Medieval Archaeology", IX (1965), pp. 55-63; O. Mazzucato, La ceramica a vetrina pesante, Roma
1972.
23
G. Ballardini, L'eredità ceramistica dell'antico mondo romano, Roma 1964; D. Whitehouse, The
medieval glazed pottery of Lazio, "Papers of the British school at Rome», XXXV (1967), pp. 40-
86. D Whitehouse, Nuovi elementi per la datazione della ceramica a vetrina pesante, "Archeologia
Medievale", VIII (1981), pp. 583-7. D. Manacorda e altri, La ceramica medioevale di Roma nella
stratigrafia della Cripta Balbi, in La ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, Firenze
1986, pp. 511-44.
24
Le invetriate altomedievali sembra che siano molto frequenti, ad esempio, a Castelseprio.
6. Uno dei meriti degli scavi di archeologia medievale degli ultimi decenni è stato quello di
segnalare come alcuni tipi di pregiate ceramiche islamiche, più raramente bizantine, databili ai
secoli XI-XIII, e già conosciute in Italia perché inserite come ornamenti architettonici sulle facciate
di chiese o altri edifici pubblici, i cosiddetti "bacini", siano presenti anche nei rifiuti domestici,
denunciandone perciò un uso diverso da quello già noto.
Le tecniche impiegate nella fabbricazione di tali prodotti esotici (ingubbiature bianche, smaltature
bianche o vivamente colorate, decorazioni dipinte policrome e a lustro metallico, oppure graffite),
ma soprattutto la costante presenza di ricchi motivi decorativi, sia astratti, sia figurati, creano nei
secoli XI-XII un incolmabile distacco dal livello delle produzioni locali, non solo liguri e italiane,
ma di tutta Europa, ancora confinate nelle ceramiche grezze e prive di rivestimento, o, al massimo,
con una invetriatura monocroma a decorazioni plastiche ottenute in foggiatura. Il distacco è tale da
non permettere in tale periodo tentativi di imitazione locale, di fatto finora non identificati, e da
spiegare la meraviglia che certe ceramiche islamiche e bizantine debbono avere destato nei primi
europei che nel corso dell'XI e soprattutto nel XII secolo, a seguito delle prime crociate e di attività
marinare, cominciavano a frequentare il Mediterraneo. Da ciò è facile quindi immaginare come i
"bacini" costituissero rari oggetti esotici da portare in patria come trofei, ricordi o doni, e ciò forse
anche da parte di mercanti intenzionati a crearne un mercato25.
La Liguria, e Genova in particolare, che certamente, per il ruolo preminente svolto nella riconquista
politica e mercantile del Mediterraneo sin dai primi tempi, sono state fra gli intermediari delle
pregiate ceramiche islamiche o bizantine, non ne hanno destinato ai propri monumenti che pochi
esemplari rispetto, ad esempio, a Pisa e Pavia. I "bacini" islamici decorati in Liguria sono infatti
limitati ad una decina, e collocati sull'abside di S. Paragorio di Noli e sulla facciata di S. Ambrogio
vecchio di Varazze26; non è possibile stabilire purtroppo a quale tipo e periodo appartenessero
quelli mancanti sulla facciata di S. Stefano e sulla torre nolare di S. Donato a Genova. Anche i
frammenti provenienti dagli scavi sono legati a palazzi preminenti, come quelli vescovili o di
grandi famiglie di Genova e Savona; anche se un inventario della metà del XII secolo elenca una
scutellam pictam de Almeria in una modesta famiglia mercantile27. I tipi presenti in Liguria
provengono prevalentemente dal Mediterraneo occidentale (invetriate o smaltate dipinte
magrebine), più raramente da quello centro orientale, sono piuttosto rari finora i "lustri" egiziani e
le graffite bizantine.
L'importazione delle rare ceramiche esotiche dei secoli XI-XIII stabilisce probabilmente un gusto
ed una consuetudine nelle classi agiate che non cessano anche quando nei secoli successivi la
produzione locale si evolve tecnicamente e stilisticamente. Soprattutto il commercio genovese
delle "ispano-moresche" di Malaga, delle quali Genova ha il monopolio, ed anche di Valenza, nei
secoli XIV e XV assume volumi giganteschi, a giudicare sia dai reperti di scavo per quanto
riguarda il mercato interno sia dalla documentazione scritta per quanto riguarda quello esterno28. Si

25
Mercanti salernitani, amalfitani e caietani, che sono i primi a realizzare gli itinerari commerciali
tra il Mediterraneo e il Tirreno fino a Pisa, e l'Adriatico fino a Pavia, offrono doni in quest'ultima
città agli inizi dell'XI secolo (A. Solmi, Onorantiae Civitatis Papiae, informazione di G. Rebora).
26
Comunicazione non pubblicata di H. Blake, F. Aguzzi e T. Mannoni al III Convegno
Internazionale della Ceramica di Albisola (1970); si veda anche: D. Whitehouse, La Liguria e la
ceramica medievale nel Mediterraneo, in Atti IV Convegno Internazionale della Ceramica,
Albisola 1971, tav. I.
27
Secondo il Vitale il testatore è un oste, forse di origine catalana o provenzale, molto interessato
all'ambiente delle Crociate, che potrebbe avere partecipato alla presa di Almeria avvenuta dieci
anni prima del testamento (cfr. V. Vitale, Vita e commercio nei notai genovesi dei secoli XII e XIII,
"Atti della Società Ligure di Storia Patria", LXXII (1949), p. 90.
28
Sui motivi storico-economici che hanno determinato l'esplosione commerciale delle "ispano-moresche", e sul peso
esercitato da Genova su tale fenomeno (spesso i documenti chiamano le ceramiche spagnole «genovesche») si veda: G.
Rebora, La ceramica nel commercio genovese alla fine del Medioevo, "Studi Genuensi", IX (1972), pp. 87-93.
potrebbe persino pensare, almeno per il tipo tardo di Malaga poco documentato altrove, ad una
imitazione speculativa, ma le analisi degli impasti confermano l'uso di terre spagnole.

7. Con i "bacini" decorati dei secoli XI-XII sulle chiese si trovano spesso scodelle monocrome
verdi, corrispondenti per i caratteri tipologici e tecnologici alle invetriate verdi che si trovano nei
livelli archeologici dello stesso periodo, e che le analisi mineralogiche indicano come provenienti
dal Mediterraneo orientale, dal Nord-Africa e dal sud della Spagna, paesi nei quali le monocrome
verdi sono state forse assai più frequenti di quanto si può dedurre dalle grandi monografie ispirate
alla stilistica29. È questo un accertamento che andrebbe fatto su larga scala e, se l'indicazione
archeologica ligure venisse confermata, le monocrome verdi potrebbero rappresentare la prima
considerevole corrente di importazione di ceramiche d'uso e ad essa si potrebbe attribuire
quell'influenza che giustifica l'improvviso sviluppo nel secolo XIII della invetriatura sui vasi
comuni di produzione locale. Non va dimenticato che Genova è già massicciamente presente nel
Mediterraneo occidentale nel XII secolo30, e che poteva quindi essere, assieme a Pisa, il veicolo di
tale corrente.
Negli scavi stratigrafici di Genova e di Savona le scodelle verdi di importazione, assieme a scodelle
con ingubbio e vetrina monocroma di colore paglierino ("ingobbiata chiara"), costituiscono di fatto
i primi vasi da tavola ed anche i primi prodotti invetriati che compaiono a fianco alla monotona
serie altomedievale di olle, boccali e catini privi di rivestimento.
Nel XIV secolo, o forse già nel XIII, si constata una imitazione locale delle "invetriate verdi" da
tavola, il "servizio verde". Esso è alquanto rozzo, principalmente costituito da catini tronco-conici
con tesa, ancora destinati all'uso collettivo.
Per l"'ingubbiata chiara" non vi sono per ora evidenti indicazioni sulla provenienza, ma la parentela
tipologica più prossima si può stabilire con analoghi prodotti dell'ambiente bizantino31; le analisi
mineralogiche escludono i componenti tipici del Nord-Africa e della Spagna meridionale, e non
escludono, per il tipo più tardo, una produzione locale.
Un fatto significativo dal punto di vista del costume domestico è che le prime ceramiche d'uso
importate sono recipienti da tavola (piatti e scodelle), praticamente assenti nella attardata
produzione ceramica altomedievale, e che a partire dal XII secolo, almeno nell'ambiente urbano il
servizio ceramico da tavola, in base ad una globale valutazione dei reperti di scavo, si sviluppa, sia
qualitativamente sia quantitativamente con una tendenza ai colori chiari e bianchi che costituiscono
un fatto nuovo nelle stoviglie dei paesi europei.

29
G. Marçais, Les poteries et faïences de la Qal'a des Benì Hammâd . Costantina 1913. L. Llubiá,
Ceramica medieval espofiola, Barcellona 1967, documenta solo forme chiuse alle quali si può
mettere in relazione il tipo 26. Per le invetriate islamiche si veda anche: H. Blake, La ceramica
medievale spagnola e la Liguria, in Atti V Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1972,
p. 57s. D'altra parte invetriate verdi nei secoli Xl-XII si trovano ovunque nel Mediterraneo, cfr.
Whitehouse, La Liguria cit., p. 269s. D.Cabona, A. Gardini, O. Pizzolo, Nuovi dati sulla
circolazione delle ceramiche mediterranee dallo scavo di Palazzo Ducale a Genova, in La
ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, Firenze 1986, pp.453-82.
30
A1 1088 data il sacco di Mehdìa ed i connessi accordi commerciali, al 1136 l'incursione e il
conseguente fondaco genovese di Bugia; al 1146-48 la conquista di Almeria e Tortosa, al 1149 il
fondaco di Valenza, cfr. A. Schaube, Storia del Commercio dei popoli latini del Mediterraneo sino
alla fine delle Crociate, Torino 1915, p. 386; T. O. De Negri, Storia di Genova, Milano 1968, pp.
211 e 260. Il rinvenimento di giare islamiche occidentali si può mettere in relazione
all'importazione di merci in esse contenute.
31
G. Brett, W. J. Macaulay, R. B. K. Stevenson, The Great Palace of the Byzantine Emperors, First
Report, Oxford 1947, pp. 31-63. Si veda anche: Whitehouse, La Liguria, cit., pp. 269-70.
All'«ingubbiata chiara» si possono associare le invetriate tipo 35a.
Un tipo che ha conferito un netto impulso a tale sviluppo, e che per primo ha anche introdotto
forme decorate d'uso, è la "graffita arcaica". La sua stretta parentela tipologica, stilistica e
cronologica con le graffite policrome del XIII secolo rinvenute nei castelli crociati del Medio
Oriente32 (a Pisa e in Provenza la graffita arcaica si data a partire dal secondo quarto del XIII
secolo)33, e la mancanza di rapporti immediati con le graffite islamiche e bizantine 34, possono far
pensare ad un tipo occidentale del quale non si conoscerebbe l'origine (le graffite mancano tra
l'altro nei paesi islamici occidentali), oppure ad un prodotto dei vasai mediorientali assoggettati ai
regni crociati, in seguito imitato o fabbricato dagli stessi vasai in Occidente. La seconda ipotesi
spiegherebbe l'origine del tipo, anche le differenze esistenti tra la "protograffita" e la "graffita
arcaica" padano-adriatica rispetto a quella tirrenica; differenze che, come per i "bacini", indicano
quanto le due diverse vie marittime abbiano avuto più importanza della relativa vicinanza terrestre.
I tipi iniziali delle due aree, infatti, sono più diversi tra loro delle relative evoluzioni successive.
Una produzione savonese di "graffita tirrenica" è l'unica provata da scarti di produzione e dalle
analisi mineralogiche, ma ancora oscura è la sua data di inizio anche se sicuramente anteriore alla
metà del XII secolo. Si tratta comunque della prima ceramica prodotta in Liguria con una
decorazione autonoma rispetto alla foggiatura del vaso, la quale può avere dato origine a quella
forma di artigianato, tipicamente medievale, che riunisce nei manufatti la reiterazione dei tipi e dei
motivi decorativi ad una certa individualità e freschezza stilistica del singolo prodotto.
Mentre la Liguria sembra aver giuocato fin dall'inizio un ruolo importante nell'uso e diffusione
dell'"ingubbiata chiara" e della "graffita tirrenica", lo stesso non si può dire per la "maiolica
arcaica" che comincia ad affiancarsi ai tipi precedenti verso la fine del secolo XIII con forme e
decorazioni caratteristiche della Toscana35. Anche se la tecnica dello smalto stannifero era già nota

32
C, N. Iohns, Medieval slip-Ware from Pilgrims' Castle Atlit (1930-31) , in The Quarterly of the
Department of Antiquities in Palestine, III, 1934; A. Lane, Medieval Finds at Al Mina in North
Syria, "Archeologia", LXXXVII (1938), pp. 19-79. Si veda anche: Whitehouse, La Liguria, cit., pp.
271-5. H. Blake, The medieval incised Slipped pottery of north-west Italy, in La ceramica
medievale nel Mediterraneo Occidentale, Firenze 1986, pp. 317-52. I genovesi sono presenti ad
Antiochia fra il 1098 e il 1268, ma già nel 1065 una loro flotta mercantile scambiava merci nei
porti della Siria. Certa sembra pure l'esportazione da Tiro di ceramica e vetro verso l'Occidente.
Schaube, Storia del Commercio, cit., pp. 83 e 199; W. Heyd, Le colonie commerciali degli italiani
in Oriente nel Medio Evo, Venezia-Torino 1866-1868, pp. 155-71. La "graffita tirrenica" raggiunge
anche i centri minori della Liguria coinvolta nelle Crociate, mentre è assente in certe aree isolate
come la Lunigiana.
33
G. Berti, L. Tongiorgi, I bacini medievali delle chiese di Pisa , Roma 1981. D. Démiams
d'Archimbaud, Les céramiques médiévales italiennes et la Provence, in Atti III Congresso Storico
Liguria-Provenza (1973) (in corso di stampa). M. Picon, G. Démians D'Archimbaud, Les
importation de céramiques italiques en Provence médiévale: état des question, in La ceramica
medievale nel Mediterraneo Occidentale, cit., pp. 125-36. La diffusione della graffita arcaica
tirrenica sembra legata a territori che hanno avuto molto peso nelle prime Crociate.
34
S. Gelichi, La ceramica ingubbiata medievale nell'Italia nord-orientale , in La ceramica
medievale nel Mediterraneo Occidentale, cit., pp. 353-408. I motivi decorativi della graffita
arcaica, pur essendo presenti nelle ceramiche bizantine ed islamiche coeve e più antiche, sono usati
con associazioni, stile e spesso anche tecniche caratteristici che ne fanno una classe indipendente
dalle produzioni del Mediterraneo orientale. La forma principale (scodella con tesa ad orlo in
rilievo) si direbbe tipica del Mediterraneo occidentale. Prodotti sicuramente bizantini sono invece
le anfore scanalate, ma esse sono state molto probabilmente introdotte in Liguria allo stato di
contenitori di merci inviate dalle numerose colonie di Oltremare.
35
Il boccale a piede svasato del XIV secolo è caratteristico della Toscana meridionale e dell'Umbria
(cfr. ad esempio H. Blake, Descrizione provvisoria delle ceramiche assisiane e discussione sulla
maiolica arcaica, in Atti IV Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1971, figg. 6, 7, 21,
in Liguria nel XIII secolo, essa è solo documentata su laterizi per usi architettonici36; soltanto nel
secolo XIV si nota una diffusione delle stoviglie smaltate, con o senza decorazioni dipinte, e dalla
fine del secolo è documentata una produzione savonese delle stesse37. Il tipo savonese di "maiolica
arcaica" corrisponde alla tarda produzione pisana38, e costituisce la ceramica più diffusa e
caratteristica in Liguria fino agli inizi del XVI secolo. Non si hanno prove (scarti di fabbrica e dati
cronologici sicuri) di una presunta produzione locale di Albenga, che sembrerebbe essere più
antica.
La "maiolica arcaica" introduce un servizio da tavola completo (sei forme) e, forse anche per la sua
maggiore funzionalità, soppianta gradualmente la "graffita arcaica", continuando con l'aiuto delle
imitazioni ingubbiate quella penetrazione negli ambienti sociali meno ricchi già iniziata da
quest'ultima. Il boccale della "maiolica arcaica" è il primo versatoio di ceramica fine molto diffuso.

8. La Liguria non partecipa attivamente al complesso fenomeno italiano che, sotto lo stimolo della
pregiata ceramica spagnola del XIV-XV secolo, determina l'abbandono della medievale "maiolica
arcaica" per creare una maiolica rinascimentale, ben presto indipendente nella tematica decorativa e
cromatica, espressione di un gusto e di una sensibilità originali. Tale fenomeno non sembra in
genere coinvolgere direttamente le città marinare legate ai grandi mercati internazionali.
La nuova maiolica italiana, particolarmente quella prodotta nel contado fiorentino39; compare
tuttavia subito in Liguria come prodotto di importazione a fianco alla "ispano-moresca", ma senza
stimoli o influenze sulla produzione locale, ancora ferma agli schemi medievali; tuttavia la
"maiolica arcaica", sempre più povera e solo funzionale in confronto con le ceramiche importate,
subisce una continua involuzione stilistica.

26, 27, 29 e 30); esso è abbinato in queste regioni ad un recipiente aperto tronco-conico, che non è
oggetto d'importazione in Liguria, e che sembra derivare come forma dai catini grezzi, mentre nella
"maiolica arcaica" pisano-ligure le forme aperte derivano da quelle mediterranee della "graffita
arcaica". Per le origini e sviluppo della maiolica arcaica si veda: G. Liverani, La maiolica italiana
fino alla comparsa della porcellana europea, Milano 1958, pp. 10-3; Whitehouse, La Liguria, cit.,
pp. 275-9; Blake, Descrizione, cit., pp. 367-74; G. Berti, L. Cappelli, R. Francovich, La maiolica
arcaica in Toscana, in La ceramica medievale nel Mediterraneo Occidentale, cit., pp. 483-510.
36
A. Cameirana, Esempi di prime smaltate a Savona. Il pavimento dell'antico convento di S.
Francesco, "Faenza", LIX (1973), pp. 132-7. Si vedano inoltre le piastrelle monocrome.
37
Gli scarti di fornace savonesi solo di recente sono stati scavati con metodo e quindi datati archeologicamente (A.
Cameirana, Contributo per una topografia delle antiche fornaci ceramiche savonesi, in Atti del II Convegno
Internazionale della Ceramica, Albisola 1969, pp. 61-72), perciò si assumono come termine post quem per la
produzione della maiolica arcaica savonese i già citati documenti dei vasi pisani operanti a Savona, cfr. F. Noberasco,
La ceramica savonese, Savona 1925, p. 5s. I presunti scarti di fabbrica genovesi si riducono per ora ad alcuni
frammenti di biscotto.
38
Cfr. G. Berti, L. Tongiorgi, Ceramica pisana . Secoli XIII-XV, Pisa 1977. Tenuto conto che la
corrispondenza per molti manufatti si spinge ad una identità, che una produzione genovese non è
ancora dimostrabile, che quella savonese è tarda, ad opera di pisani e non molto diffusa, si può
pensare che Genova abbia sempre importato maiolica arcaica toscana, prima tramite Pisa, poi da
Pisa stessa, oramai politicamente piegata e rivolta ad una sopravvivenza mercantile; si tenga conto
della quasi inesistenza di vasai nei documenti genovesi di questo periodo rispetto a Pisa: L.
Tongiorgi, Pisa nella storia della ceramica, I e II, "Faenza", L (1964), pp. 125-39 e LVIII (1972)
pp. 3-24. Le forti importazioni possono anche trovare una spiegazione economica nella
"rivoluzione dei trasporti" verificatasi alla fine del XIV secolo (Rebora, La ceramica, cit., p. 88), e
costituirebbero la premessa di quelle certamente provate del XVI secolo.
39
Cfr. G. Cora, La maiolica di Firenze e del contado, Firenze 1973. Questa merce,assieme a qualche pezzo di "maiolica
arcaica" fiorentina, passa evidentemente per Pisa, che dagli inizi del XV secolo è sotto il dominio fiorentino, e che,
come si è detto, probabilmente già esporta a Genova la propria "maiolica arcaica". Anche i tipi successivi di maiolica
italiana, e cioè della seconda metà del XV secolo e della prima del XVI, sono sempre toscani e in massima parte di
Montelupo.
Dal secondo quarto del XV secolo al primo del XVI si ha di conseguenza in Liguria un periodo
particolarmente ricco di tipi ceramici, stratificati in classi di diverso valore. Con l'avvento della
maiolica italiana non cessa il commercio delle ceramiche spagnole, che a Genova sembrano
arrivare per tutto il periodo, con tipi che non rispecchiano più lo splendore del periodo precedente,
ma ancora molto usati. Alla "maiolica arcaica" tarda si accompagnano gli ultimi prodotti della
locale "graffita tirrenica" e le graffite policrome di tipo padano40, che assieme costituiscono una
classe meno pregiata. Una classe locale a parte è costituita dalla "graffita monocroma",
probabilmente primo tipo di una serie di ceramiche conventuali che si evolve nel periodo
successivo. Restano infine i prodotti da tavola ingubbiati ed invetriati monocromi ed il pentolame
invetriato da fuoco che presenta tipi standardizzati e molto diffusi. Naturalmente l'intera serie è
presente solo nelle città e nei castelli, mentre nelle campagne compaiono solo le classi più povere.
Al vasellame va inoltre aggiunto l'abbondante commercio ed uso di piastrelle da rivestimento
spagnole, che in questo periodo passano dalla monocromia alla decorazione policroma "a cuenca"41.
Genova, che raggiunge nel XV secolo una estesa organizzazione mercantile di tipo moderno e che
completa praticamente la sua espansione territoriale sulla Liguria42, e in particolare la sua classe
mercantile, non sembra in un primo tempo favorire la produzione di una propria ceramica originale.
E quando, nel secondo quarto del XVI secolo, cento anni in ritardo rispetto ai principali centri della
maiolica italiana, decide di creare una propria produzione di maiolica, se utilizza per le innovazioni
tecniche ceramisti dell'Italia centrale43, per i caratteri estetici (formali, cromatici e decorativi)
decide di attingere alla ceramica turca44. Ad eccezione dei boccali all'italiana, della prima metà del
XVI, e di altre decorazioni meno diffuse ("quercuate", "a paesi"), la decorazione blu di imitazione

40
Data la distribuzione, si ritengono tipi prodotti in Liguria da vasai padani, cfr. G. Pessagno, Cenni
storici sulla ceramica ligure, in O. Grosso, Le gallerie d'arte del Comune di Genova, Genova 1932.
T. Grandis, Scarti di fomace ad Albisola, in Atti del XIII Convegno Internazionale della Ceramica,
Albisola 1980, pp. 319-26.
41
L. Panelli, Piastrelle del secolo XVI di fabbricazione genovese, "Atti della Società Ligure di
Storia Patria", IX (LXXX111) (1969), pp. 231-6. Mentre per i laggioni dipinti del XVI secolo si
sono trovati scarti di fornace a Genova e Savona, non sono state finora rinvenute prove di
produzioni locali di quelli "a cuenca". È vero che gli impasti dei due tipi sono molto simili, ma le
analisi mineralogiche non escludono una possibile produzione valenzana. Non si può escludere
quindi che i laggioni con decorazione "a cuenca" siano sempre stati importati dalla Spagna assieme
al vasellame e venduti, come questo, su altri mercati come prodotti "genoveschi" (si veda sopra al
punto 6). In questo caso i laggioni dipinti policromi del XVI secolo sarebbero una continuazione
locale che riprende in parte i motivi moreschi, ma con una tecnica diversa, dopo la decadenza
spagnola, e le ordinazioni documentate a Savona nel XV secolo dovrebbero ritenersi riferite a
laggioni monocromi.
42
Cfr. J. Heers, Gênes au xvème siècle , Paris 1961 (trad. it.: Genova nel Quattrocento , Milano
1984); Rebora, La ceramica, cit. Interessante soprattutto la tendenza dei nuovi mercanti a
promuovere nuovi metodi di vendita ed una produzione sempre più di serie, fenomeno quest'ultimo
riscontrabile anche nelle "ispano-moresche" del XV secolo, cfr. T. Mannoni, Analisi mineralogiche
e tecnologiche delle ceramiche medievali. Nota II, in Atti V Convegno Internazionale della
Ceramica, Albisola 1972, p. 122.
43
Lo dimostrano da una parte i documenti sulla famiglia da Pesaro a Genova nel 1525 (G.
Pessagno, Cenni storici, cit.), dall'altra le nuove tecniche di cottura e formule di composizione degli
smalti confrontate con quelle del Piccolpasso, cfr. T. Mannoni, Innovazioni tecnichenell'arte
ceramica delXVI secolo inLiguria, "Le Machine",II (1969-70) pp. 101-4.
44
Cfr. G. Farris, V. A. Ferrarese, Contributo alla conoscenza della tipologia e della stilistica della
maiolica ligure del XVI secolo, "Atti della Società Ligure di Storia Patria", IX (LXXXIII) (1969),
pp. 187-222.
orientale costituisce la base della produzione di Genova, Savona e Albisola per più di un secolo45,
sostituendo nelle famiglie agiate la maiolica italiana e la ceramica spagnola ormai completamente
decaduta, ma soprattutto sostituisce quest'ultima come prodotto «genovesco» nei mercati
internazionali.
Anche le piastrelle, che entrano come ornamento delle nuove e sontuose dimore della nuova classe
di potere, subiscono una trasformazione, lasciando la tecnica a stampo e la decorazione rigidamente
geometrica spagnola, per una decorazione dipinta con motivi geometrico-vegetali e qualche
elemento rinascimentale di produzione locale46.
Il secolo XVI vede inoltre la fine dei tipi medievali ("graffita arcaica", "graffita monocroma" e
"maiolica arcaica"), ma il mercato locale ha ancora bisogno di ceramiche a basso costo, che i
genovesi preferiscono importare anziché produrre. Tolto il pentolame, che in parte viene anch'esso
importato da Antibo, forse perché più funzionale47, e le graffite conventuali, il vasellame d'uso
viene importato direttamente da Pisa, dove si comprano i tipi di valore più basso e l'incidenza del
trasporto è minima, più raramente imitato ad Albisola48. La "graffita a stecca", la "graffita tarda" e
la "marmorata" sono ceramiche molto resistenti all'uso e sobriamente decorate in modo veloce; la
loro diffusione è grande e raggiunge assieme al pentolame i centri minori delle campagne, dove
assieme alle "tofanìe" di legno, vengono principalmente usate le forme ampie per uso collettivo,
retaggio di un costume domestico medievale che giungerà fino ai giorni nostri.
Sulla base dei dati fin qui esposti si può tentare una prima periodizzazione della ceramica
medievale in Liguria, con lo scopo anche di fornire un provvisorio quadro riassuntivo di tutto il
lavoro.

1. Secoli V-VII. Non vengono introdotti in Liguria nuovi tipi ceramici rispetto a quelli della
articolata produzione tardoromana, la quale per contro si va progressivamente deteriorando e
sfaldando nella propria organizzazione. Diventano più rozzi e si riducono nella diffusione e nelle

45
Cfr. G. Olivari, Notazioni iconografiche e stilistiche nella maiolica ligure del XVII secolo , in Atti
IV Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1971, pp. 59-90. La produzione a Genova,
iniziata probabilmente dai da Pesaro, continua con i Cagnola fino almeno al 1630 (G. G. Musso, E.
Grendi, Ceramologia post-medievale a Genova. Note d'archivio, "Notiziario di Archeologia
Medievale", Aprile 1973, p. 11); scarti di produzione di questo periodo sono stati rinvenuti in un
pozzo di via S. Vincenzo, e prodotti "di terra fatti a Genova a modo di porcelletta" sono citati in un
inventario del 1633, cfr. J. Costa Restagno, Ricerche d'archivio: la suppellettile ceramica nel Sei-
Settecento, in Atti VI Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1973 p. 101.
46
Panelli, Piastrelle, cit.; G. Farris Contributo alla conoscenza delle piastrelle cinquecentesche
savonesi, in Atti III Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1970, pp. 195-204. Si veda
quanto già detto nella nota sui laggioni "a cuenca".
47
Si tratta di una terra alquanto retrattaria. Pentole di Antibo si trovano negli scavi già nei livelli del
XV e XVI secolo, ma la maggior quantità viene da quelli del XVII, ciò in accordo con la
documentazione scritta: D. Presotto, Arrivi a Genova di vasellame di Antibes dal 1560 al 1640, in
Atti V Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1972, pp. 275-98.
48
Pisa sembra specializzarsi in questo periodo in prodotti tecnicamente buoni, poco costosi,
evitando l'uso di ingredienti pregiati ed operando in grandi serie con un minimo di gradevole
decorazione; questi caratteri, abbinati al trasporto marittimo, devono essere ottimi per la grande
diffusione, come confermano i dati archeologici e quelli d'archivio (D. Presotto, Notizie sul traffico
della ceramica attraverso i registri della Gabella dei Carati (1586-1636), in Atti IV Convegno
Internazionale della Ceramica, Albisola 1971, pp. 3350). Il fenomeno della "graffita tarda" e
"marmorata" pisane si può paragonare in questo senso a quello della "taches noires" albisolese tra
XVIII e XIX secolo. Sulle imitazioni liguri: M. Milanese, Graffita a girandola, graffita tarda ed
altri tipi ceramici postmedievali da uno scarico di fomace di Albisola superiore, in Atti del XV
Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 1982, pp. 123-44.
forme i prodotti di tipo industriale, mentre meglio resistono le semplici produzioni locali, affiancate
da una relativa abbondanza di vetro, metalli e di pietra ollare.

2. Secoli VIII-X. I pochi reperti assegnabili a questo periodo per cronologia relativa, provengono
tutti dalle grandi serie stratigrafiche, e sono costituiti principalmente da forme elementari eseguite
ad un livello tecnico molto basso, che sembrano stabilizzarsi come residuo di una tradizione locale
preromana e romana. Per mancanza di livelli databili non è ancora possibile fare distinzione
all'interno del periodo e perciò stabilire se alcuni prodotti migliori d'importazione, alcuni dei quali
invetriati appartengano ancora al periodo precedente e costituiscano già una ripresa in atto prima
del Mille.

3. Secoli XI-XII. Mentre la produzione locale si attarda nella maggior parte del territorio in tecniche
e forme altomedievali, in alcune aree si nota un certo miglioramento tecnico e formale, che vede tra
l'altro le prime applicazioni di rivestimenti vetrosi a vasi da fuoco ed opacizzati monocromi alle
ceramiche architettoniche; ciò nonostante la ceramica domestica non raggiunge quella funzionalità
che le permetterebbe di contrastare la concorrenza di altri materiali (pietra, metalli, vetro e legno), i
quali anzi in questo periodo si affermano maggiormente ed i recipienti di legno sono oggetto di
esportazione dalla Liguria. In coincidenza delle riprese attività marinare si notano inoltre nei
crescenti centri urbani diverse importazioni dal Mediterraneo che vanno dai pregiati bacini decorati
al vasellame da tavola monocromo ed infine ai contenitori di merci. Sulla base della tipologia dei
prodotti importati è forse possibile suddividere il periodo in almeno due parti.

4. Fine XIII-XIV secolo. Dalle aree a prevalente economia mercantile scompaiono le ceramiche
grezze, convertite con una certa continuità di forme nelle prime depurate o invetriate locali da
tavola e da bottega e in pentolame invetriato, mentre alcune forme grezze resistono nelle aree ad
economia chiusa. All'accelerato mutamento in atto nei prodotti comuni non è probabilmente
estranea la consistente produzione e diffusione della "graffita tirrenica" e dei tipi ad essa collegati, e
quindi l'introduzione di vasai che possono avere creato le prime fabbriche liguri di ingubbiata e
"graffita arcaica". Diventano inoltre più numerose le importazioni della Spagna moresca, rispetto a
quelle degli altri paesi mediterranei, mentre si fa consistente il consumo della "maiolica arcaica"
toscana.

5. Fine XIV-inizi XVI secolo. Il forte aumento nel volume del traffico marittimo delle ceramiche si
realizza in Liguria su due fondamentali canali mercantili: quello spagnolo che fornisce i tipi
pregiati, non solo per il mercato interno, ma anche per quello esterno abilmente sviluppato dalla
nuova classe mercantile, e il canale pisano, dal quale, oltre ad almeno una parte della "maiolica
arcaica", provengono anche i prodotti dell'area fiorentina. Molto meno frequenti le importazioni
dall'area padana, e forse si tratta di vasai padani trasferiti in Liguria rarissime quelle da paesi
europei. Nel frattempo l'artigrianato locale, sotto la spinta mercantile, si evolve verso una
produzione di serie, nella quale la reiterazione banale dei motivi spesso prevale sulla ricerca
stilistica, ma che rende possibile una grande diffusione dei manufatti. Savona, in particolare,
accogliendo anche il contributo di vasai pisani, organizza una propria produzione di "maiolica
arcaica" e dei tipi da essa dipendenti che affianca a quella della graffite e del pentolame.

6. Inizi XVI-inizi XVII secolo. Con la decadenza della ceramica spagnola, il ruolo di quest'ultima nel
mercato interno ed in quello internazionale, ancora in espansione, viene assegnato alla maiolica
ligure, prodotta con le nuove tecniche importate dall'ltalia centrale, ed imitando decorazioni in
monocromia azzurra tipiche delle pregiate ceramiche turche. Anche le piastrelle policrome
spagnole vengono sostituite con quelle dipinte locali. La vecchia organizzazione medievale si
spacca fra le nuove e presto rinomate manifatture di maiolica e chi si riduce a produrre pentolame
(in parte però anche importato da Antibo) ed altri recipienti comuni per il mercato locale. Gli altri
tipi decorati ad uso popolare. graffite e marmorate. vengono importate in grandi quantità da Pisa, da
dove passano anche le maioliche fiorentine di tipo corrente mentre rari sono i prodotti padani.
Continua una produzione locale di graffite conventuali che si allarga all'imitazione di quelle pisane.
Segni materiali di una economia povera ed autarchica della montagna ligure, sono infine ravvisabili
nella continuazione della produzione contadina dei ''testi''.
I vetri

Anche per il vetro, esattamente come per la ceramica o meglio la maiolica, il nome di una città o di
un centro (Faenza per la maiolica e Murano per il vetro), evocava quasi integralmente l'intero
complesso produttivo della penisola, viceversa le recenti ricerche sul campo, come i più sistematici
spogli documentari, hanno evidenziato una realtà molto più articolata. In particolare lo scavo di una
fornace da vetro in territorio ligure e recenti ricerche di superficie nel territorio di Gambassi e
Montaione (Fi), hanno mostrato affinità produttive che potrebbero essere l'indice di un ruolo
propulsivo svolto dai centri toscani, i cui artigiani troviamo disseminati a livello documentario in
molte parti della regione e nell'Italia centrosettentrionale, come è ben esemplificato anche saggio di
Sergio Nepoti pubblicato di seguito1. L'apertura di cantieri archeologici sulle aree produttive è
destinata ad offrire nuovi ulteriori elementi per la conoscenza della circolazione dei prodotti di
vetro, e non è escluso che anche per il vetro emerga per il Bassomedioevo un assetto di
organizzazione del lavoro parcellizzato e disseminato in modo omogeneo ovunque in forme del
tutto simili a quanto è successo per la ceramica. Se per le produzioni bassomedievali comincia
timidamente a delinearsi un quadro, ben poco sappiamo per l'Altomedioevo; una sola fornace è
stata scavata a Torcello all'inizio degli anni Sessanta, mentre più noti sono i tipi prodotti presenti in
minor quantità negli scavi2.

1
Per una storia della produzione e del consumo del vetro a Bologna nel tardo Medioevo, "Il Carrobbio. Rivista di
Studi Bolognesi", IV (1978) pp. 321-33.
2
D. Schiaffini, Contributo ad una prima sistemazione tipologica dei materiali vitrei alto medievali, "Archeologia
Medievale", XII (1985), pp. 667-88.
Sergio Nepoti

Per una storia della produzione e del consumo del vetro a Bologna nel
Tardomedioevo

La storia della produzione e del consumo del vetro nell'Italia preindustriale, e in particolare
nel periodo medievale, è ancora in gran parte sconosciuta se si escludono poche aree
circoscritte, benché la quantità di informazioni disponibili sia notevolmente aumentata negli
ultimi anni con la progressiva diffusione dell'archeologia medievale e di ricerche improntate
alla storia della cultura materiale.
Prima dell'ultimo ventennio le notizie sul vetro medievale italiano riguardavano quasi
esclusivamente la produzione veneziana, per la quale erano state esaminate fonti
documentarie, che testimoniano l'attività dei vetrai a partire dai secoli X e XI ma soprattutto
dal secolo XIII, e fonti iconografiche, abbastanza ricche di contenitori di vetro dal secolo
XIV1; le altre zone di produzione documentate dai secoli XIII e XIV o pur essendo
considerate importanti non suscitavano un analogo interesse per gli studiosi, come nel caso
della ligure Altare2 o non venivano neppure considerate particolarmente notevoli, come è
avvenuto per l'area fiorentina3. Tale diversità di interesse si spiega considerando che gli
studi sul vetro, come avveniva per altri manufatti di produzione artigianale collocati nella
categoria delle "arti minori", erano condotti prevalentemente con criteri storico-artistici,
trascurando tutta la complessa problematica del ruolo nella vita quotidiana e
dell'organizzazione della produzione e del commercio4: solo nel caso di Venezia era
possibile passare rapidamente dai documenti medievali, riguardanti soprattutto la
produzione degli oggetti d'uso comune, ai vetri pregiati delle epoche successive giunti fino
alle collezioni pubbliche e private contemporanee. Analogamente uno scarso interesse era
suscitato dai frammenti recuperati negli sterri, che, essendo in genere poco numerosi, di
piccole dimensioni e con una limitata gamma di decorazioni, in pratica non consentivano di
costruire con i soli criteri stilistici una cronologia ed una tipologia legata alle aree di
produzione, come invece veniva fatto per i reperti ceramici.
Per l'Altomedioevo la mancanza di dati era pressoché totale, se si escludono alcuni oggetti
rinvenuti in tombe del periodo longobardo, e ne veniva dedotto che l'attività vetraria, ad alto
contenuto tecnologico, si era estinta in Italia, come altre tecniche per le quali mancano le
prove di una continuità fra l'epoca romana ed il Bassomedioevo, per fiorire nell'area
bizantina e poi nel Medio Oriente islamico, ed essere infine reimportata dai Veneziani dalle
coste orientali del Mediterraneo. Queste conclusioni si ritrovavano anche nei trattati di storia
della tecnica, che per quanto riguarda il vetro non si erano molto modificati dal secolo

1
Cfr. in particolare G. Monticolo , I Capitolari delle Arti veneziane , Roma 1905, A. Gasparetto, Il vetro di
Murano dalle origini ad oggi, Venezia 1958; G. Mariacher, Il vetro soffato da Roma antica a Venezia, Milano
1960
2
Cfr. E. Bordoni, L'industria del vetro in Italia e i trattati commerciali. L'arte vetraria in Altare, Savona 1879.
3
Le numerose informazioni contenute in G. Taddei , L'arte del vetro in Firenze e nel suo dominio , Firenze
1954, hanno avuto una scarsa eco negli studi successivi.
4
Per una precisa puntualizzazione di tali problemi ed un concreto esempio dei più recenti criteri di ricerca sui
vari tipi di contenitori cfr. L e T. Mannoni, Per una storia regionale della cultura materiale: i recipienti in
Liguria, "Quaderni Storici", 31 (1976), pp. 229-60.
scorso fino ai recenti anni Cinquanta5, mentre nelle principali sintesi di storia economica e
sociale dell'Europa preindustriale il vetro, insieme alla maggior parte dei manufatti di uso
quotidiano in metallo, legno, ceramica, pietra o osso, non veniva nemmeno preso in
considerazione.
Lo scavo italo-polacco del 1961-62 a Torcello ha cambiato sostanzialmente la situazione,
con il rinvenimento dei resti di una fornace vetraria databile al VII-VIII secolo nella
piazzetta tra la chiesa di Santa Fosca ed il Palazzo del Consiglio, ora sede del museo6. Oltre
ai resti delle strutture nello scavo di Torcello si sono rinvenuti frammenti di crogiuoli, scarti
di lavorazione e frammenti di calici a gambo, questi ultimi confrontabili con parte dei calici
rinvenuti, come si è già accennato, in tombe del VII secolo7. Numerosi frammenti di calici a
gambo ed anche scorie e scarti testimonianti una produzione vetraria sono stati trovati poi
negli scavi effettuati negli anni 1962-73 nel castello longobardo di Ibligo-Invillino in Friuli,
abbandonato nell'VIII secolo8, ed anche in alcuni altri insediamenti altomedievali scavati si
sono recuperati vetri in quantità discrete9.
Questi rinvenimenti dunque indicano che la produzione del vetro almeno nell'Italia
settentrionale, è continuata nell'Altomedioevo, anche se bisogna sottolineare che
normalmente i frammenti di vetro presenti negli strati altomedievali sono pochi, spesso
conservati male e di difficile classificazione. Va però anche considerato che rispetto alla
diffusione nell'uso quotidiano la presenza quantitativa nei rifiuti è in genere ridotta, per il
vetro come per i metalli, dal recupero dei rottami per la rifusione, che in tutte le epoche ha
alimentato un flusso commerciale parallelo a quelli delle materie prime e dei manufatti.

5
Si possono confrontare ad esempio la parte dedicata al vetro in J. Labarte, Histoire des arts industriels au
Moyen Age et à l'époque de la Renaissance, Paris 1872-752, vol. III, pp. 363-98, e D. B. Harden, Glass and
Glazes, in C. Singer, E. J. Holmyard, A. R. Hall, T. I. Williams, A History of Technology, II, T h e
Mediterranean Civilisations and the Middle Ages c. 700 B.C to c. A.D. 1500, Oxford 1956, pp. 311-46 (ed.
italiana, Torino 1962), anche se quest'ultimo, ottimo conoscitore del vetro nell'area mediterranea dall'Antichità
pre-romana al Medioevo, pone in rilievo il problema degli oggetti dalle tombe di età longobarda.
6
Lo scavo è stato oggetto di numerose pubblicazioni, dedicate in particolare all'analisi della fornace per il
vetro: A. Gasparetto, Les fouilles de Torcello et leur apport à l'histoire de la verrerie de la Vénétie, dans le
Haut Moyen-Age, VIIe Congrès International du Verre, Bruxelles 1975, Comptes Rendus n. 239, pp. 1-8; E.
Tabaczynska, Glashütte aus dem VII-VIII Jahrhundert auf Torcello bei Venedig. Ausgrabungen 1961-1962, ivi
Comptes Rendus n. 238, pp. 1-3; A. Gasparetto, A proposito dell'officina vetraria torcellana, "Studi
Veneziani" VIII (1966) pp. 3-18, Id., A proposito dell'officina vetraria torcellana. Forni e sistemi di fusione
antichi, "Journal of Glass Studies", IX (1967), pp. 50-75; E. Tabaczynska, Remarks on the Origin of the
Venetian GlassmaLing Centre, 8th International Congress on Glass 1968, London 1969, pp. 20 ss.; L.
Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Commento archeologico ai reperti naturali antichi e medievali
scoperti a Torcello (1961-62), "Memorie di Biogeografia Adriatica", VIII (1969-70), pp. 89-105, L.
Leciejewicz, Gli insediamenti protourbani della laguna veneta prima del sorgere della città di Venezia alla
luce degli scavi di Torcello, in Atti del Colloquio internazionale di Archeologia Medievale. Palermo-Erice
1974, Palermo 1976, pp. 45-58; E. Tabaczynska, Aspetti archeologici dell'artigianato medievale, ivi. pp. 419-
22; L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62, Roma 1977.
7
Il possibile collegamento è stato sottolineato anche a proposito del calice di vetro rinvenuto nella tomba 46
degli scavi fiorentini di Santa Reparata, del 1965-73, che viene datato alla fine del VII secolo: O. Von Hessen,
Reperti di età longobarda dagli scavi di Santa Reparata, "Archeologia Medievale", II (1975), pp. 211-4.
8
Cfr. G. Fingerlin, J. Garbsch, J. Werner, Gli scavi nel castello longobardo di Ibligolnvillino. Relazione
preliminare delle campagne del 1962, 1963 e 1965, "Aquileia Nostra", XXXIX (1968), cal. 57-136.
9
Per la Lombardia cfr. E. Tabaczynska, Szkla wczesnosredniowieczne z Castelseprio (Les verres du haut
Moyen Age de Castelseprio), "Archeologia Polski", XVI (1971), pp. 295-307; per la Liguria cfr. il contributo
di T. Mannoni in Scavi di Luni: relazione preliminare delle campagne di scavo 1970-1971, a cura di A. Frova,
Roma 1973, pp. 886-90 per l'Emilia-Romagna vanno segnalati i reperti, ancora inediti, dallo scavo imolese di
Villa Clelia-Castrum S. Cassiani e da quello ravennate di Classe.
Il recente moltiplicarsi degli scavi archeologici postclassici in Italia10 ha fornito nuove
informazioni sul vetro soprattutto dal Tardomedioevo in avanti, proporzionalmente alla
quantità dei frammenti negli strati, che, limitata quasi sempre a poche decine di pezzi fno al
secolo XV aumenta poi notevolmente. I rinvenimenti più significativi per il Tardomedioevo
sono comunque ancora in numero abbastanza ridotto e possono essere elencati in una rapida
rassegna.
In Liguria gli scavi urbani sono stati affiancati dalle ricerche sulle fonti documentarie,
dall'archeologia di superficie e dall'indagine toponomastica nel territorio appenninico,
ottenendo una prima carta di distribuzione delle sedi di produzione in età preindustriale, ed è
stata individuata e scavata una vetreria, databile fra gli ultimi decenni del XIV secolo ed i
primi del XV, sul Monte Lecco presso il valico della Bocchetta, dove veniva coltivata una
vena quarzosa e si sfruttava il bosco per il combustibile, per produrre vetri d'uso comune
destinati probabilmente alle mescite pubbliche11. A Pavia nello scavo effettuato all'interno
della Torre Civica è stato riportato alla luce un livello di attività artigianali chiaramente
collegato ai lavori di rifacimento della cattedrale adiacente e databile intorno al 110012, che
conteneva quasi cinquecento frammenti residui della fabbricazione di vetrate multicolori con
anche decorazioni dipinte, raccolti probabilmente per la rifusione insieme a frammenti di
altri oggetti ed anche di "pani" a calotta sferica di diverse provenienze, testimonianti un
traffico di vetro in questa forma da vetrerie dove veniva effettuata una prima fusione,
depurazione e coloritura, a luoghi dove veniva rifuso e soffiato13. Un numero inferiore di
dati è disponibile finora per l'Italia centrale e meridionale, dove mancano rinvenimenti di
vetrerie: fra quelli conosciuti i ritrovamenti più notevoli di vetri tardomedievali si sono avuti
nel Lazio, con gli scavi dei pozzi di scarico domestico a Tuscania14, e in Puglia, negli scavi
del Castello di Lucera, dove insieme a vetri islamici sono venuti alla luce anche probabili
prodotti locali15.

10
Sulle possibilità ed i limiti dell'archeologia medievale, ed i suoi rapporti con la ricerca storica nel senso più
generale vedere il volume Archeologia e geografia del popolamento, "Quaderni Storici", 24 (1973), ed in
particolare sui problemi e sull'evoluzione delle ricerche italiane fino a quel momento il contributo di T.
Mannoni e H. Blake, L'archeologia medievale in Italia, ivi, pp. 833-60, dal 1974 relazioni di scavo, saggi e
discussioni sull'archeologia medievale, la cultura materiale, gli insediamenti ed il territorio vengono pubblicati
annualmente nella rivista "Archeologia Medievale".
11
Per la relazione di scavo della vetreria di Monte Lecco, la ricostruzione del funzionamento della fornace,
l'analisi della tecnologia impiegata e dei tipi di prodotti vedere: T. Mannoni, A Medieval Glasshouse in the
Genoese Apennines, Italy, "Medieval Archaeology" XVI (1972), pp. 143 ss.; S. Fossati, T. Mannoni, Lo scavo
della vetreria medievale di Monte Lecco, "Archeologia Medievale", II (1975), pp. 31-97; L. Castelletti, I
carboni della vetreria di Monte Lecco, ivi, pp. 99-121. per un panorama delle ricerche e dei dati sulla
produzione ligure: M. Calegari, D. Moreno, Manifattura vetraria in Liguria tra XIV e XVII secolo, ivi, pp. 13-
29; il complesso più numeroso di vetri rinvenuti negli scavi urbani è pubblicato in D. Andrews, Vetri, metalli e
reperti minori dell'area Sud del Convento di San Silvestro a Genova, ivi, IV (1977), pp 162-207.
12
Cfr. H. Blake , Scavo nella Torre Civica di Pavia, 1972. Notizia preliminare , "Archeologia Medievale", I
(1974), pp. 149-70; B. Ward-Perkins, Scavi nella Torre Civica di Pavia. Le fasi di attività artigianali, ivi, V
(1978), p. 93-121; S. Nepoti, I vetri dagli scavi nella Torre Civica di Pavia, ivi, pp. 219-38.
13
Il commercio di simili lingotti di vetro, veneziani, islamici e cinesi, era noto solo per un'epoca molto
posteriore: cfr. R. J. Charleston, Glass "cakes" as Raw Material and Articles of Commerce, "Journal of Glass
Studies", V (1963), pp. 54-68.
14
Cfr. W. Lamarque, The Glassware , in J. Ward-Perkins, J. Johns, B. Ward-Perkins, W. Lamarque, M.
Beddoe, Excavations at Tuscania, 1973: Report on the finds from six selocted pits, "Papers of the British
School at Rome", XLI (1973), pp. 117-33.
15
Sugli scavi di Lucera vedere: D. B. Whitehouse, Ceramiche e vetri medioevali provenienti dal Castello di
Lucera, "Bollettino d'arte", LI (1966), 3-4, pp. 171-78; sempre per la Puglia cfr. D. B. Harden, Some Glass
Fragments mainly of the12 th-I3th century A.D. from Northern Apulia, "Journal of Glass Studies", VIII (1966),
pp. 70-9; un importante rinvenimento di vetri è segnalato anche nello scavo dell'insediamento rupestre di
Varcaturo presso Massafra, in provincia di Taranto: Archeogruppo di Massafra, Ricerche archeologiche negli
insediamenti rupestri medievali, Massafra 1974. La produzione dell'Italia meridionale e della Sicilia pone
Anche in Sicilia si sono invece scoperti resti di impianti produttivi medievali, oltre a quelli
più antichi di Sofiana, associati a monete del IV secolo16: una vetreria riferibile ai secoli
XIV-XV è stata individuata presso le mura del Castello di Cefalà Diana17 e scorie e rifiuti di
lavorazione sono stati trovati a Palermo negli scavi alla Zisa18, mentre una abbondante
quantità di frammenti di vetri del XIV secolo, comprendente esemplari sia di importazione
sia di presumibile produzione locale, è stata rinvenuta sempre a Palermo negli scavi dello
Steri19 ed un recupero notevole di vetri attribuiti al secolo XIII è awenuto a Gela durante le
demolizioni del quartiere S. Giacomo20, inoltre sono state intraprese ricerche sul territorio e
sulle fonti scritte e iconografiche21. Mancano comunque per ora anche per il Tardomedioevo
sintesi almeno a livello regionale che forniscano serie tipologiche dei recipienti di vetro in
rapporto alla cronologia ed anche le ricerche tendenti a ricostruire la storia della produzione,
dei commercio e dei consumi in questo settore hanno tuttora una diffusione limitata.
Venendo finalmente all'Emilia Romagna, come si è potuto constatare essa non figura tra le
regioni con rinvenimenti archeologici di particolare rilievo, se si escludono alcuni scavi più
recenti inediti, e la mancanza di dati è ancora pressoché totale anche per quanto riguarda le
fonti documentarie22, mentre l'iconografia è abbastanza ricca, a partire dalla ben nota serie di
tavole imbandite negli affreschi trecenteschi di Pomposa, dove il rapporto fra i contenitori di
ceramica e quelli di vetro è a favore di questi ultimi, poiché mentre i primi sono per lo più di
utilizzo comune, ogni commensale ha a disposizione un proprio bicchiere o calice di vetro.
In questo quadro ci si è proposti di presentare una serie di notizie, relative soprattutto al
secolo XIV, sulla produzione del vetro a Bologna, raccolte con una prima ricerca di
sondaggio sulle fonti documentarie edite ed inedite ritenute più promettenti, quali gli statuti
comunali, le tariffe daziarie ed i memoriali.
In una rubrica degli statuti del comune di Bologna del 1288, che precisa la tariffa daziaria
per l'esportazione delle merci, secondo un elenco abbastanza dettagliato, compaiono sia i
vetri lavorati sia i vetri rotti, soggetti ad un'imposta rispettivamente di quattro e due soldi per
salma23. Vetro lavorato e vetro rotto con un'imposta rispettiva salita a sette e cinque soldi per

anche il problema del rapporto con quella simile riscontrata a Corinto, dove negli scavi del Foro Romano sono
state trovate due vetrerie, attive a quanto pare fra l'inizio del secolo XI ed il saccheggio del 1147, per le
maestranze delle quali è stata fatta l'ipotesi di un trasferimento in tali aree: cfr. G. R. Davidson, A Medieval
GlassFactory at Corinth, "American Journal of Archaeology", XLIV (1940), pp. 297-324; Id. Corinth, vol.
XII, The minor Objects, Princeton, New Jersey, 1952, pp. 76-122.
16
Alcune strutture di forni, scorie e numerosi frammenti vitrei sono stati scoperti negli scavi del 1961: cfr. D.
Adamesteanu, Nuovi documenti paleocristiani nella Sicilia centro-meridionale, "Bollettino d'Arte", XLVIII
(1963), p. 264.
17
Cfr. M. Bonanno, F. D'Angelo, La vetreria di Cefalà Diana ed il problema del vetro siciliano nel medioevo ,
"Archivio Storico Siciliano", XXI-XXII (1972), pp. 337-48.
18
Cfr. V. Tusa, Sull'archeologia medioevale (con accenni agli scavi eseguiti allo Steri e alla Zisa) , in Atti del
Colloquio Internazionale di Archeologia Medievale. Palermo-Erice 1974, Palermo 1976, p. 108.
19
Cfr. G. Falsone, Gli scavi allo Steri , in Atti del colloquio internazionale di Archeologia Medievale. Palermo-
Erice 1974, cit., p. 121 s.
20
Cfr. F. D'Angelo, Produzione e consumo del vetro in Sicilia , "Archeologia Medievale", III (1976), pp. 379-
89.
21
Cfr. ivi e Bonanno, D'Angelo, La vetreria di Cefalà, cit.
22
Come conseguenza compare solo un breve accenno al vetro nelle più aggiornate sintesi sulla produzione e
sul commercio medievali nella regione: cfr. R. Greci, Produzione, artigianato e commercio in Emilia nel
Medio Evo, in Storia della Emilia-Romagna, vol. 1, Bologna 1975, pp. 489-518; A. I. Pini, Produzione
artigianato e commercio a Bologna e in Romagna nel Medio Evo, ivi, pp. 519-47. Si consideri per contrasto
l'elevato numero di ricerche da un secolo a questa parte sui recipienti di ceramica, stimolato soprattutto dagli
studiosi faentini, anche se tali ricerche sono state condotte prevalentemente con un'ottica storico-artistica.
23
Statuti di Bologna dell'anno 1288 , a cura di G. Fasoli e P. Sella, Città del Vaticano 1937, Lib. III rubr. V, pp.
118 e 120: "...de salma... vitreorum laboratorum... quattuor solidos bononinorum; . . . de salma vitreorum
fractorum. . . duos solidos bononinorum".
salma, figurano anche nella tariffa daziaria in vigore per i fiorentini esportanti merci dal
territorio bolognese, che risalirebbe al 1317, e che presenta un elenco più ampio e
sistematico di mercanzie24; si trova qui in elenco, soggetto al pagamento di due soldi per
salma, anche il manganesi da bicchieri25, il biossido di manganese, impiegato per ottenere
vetri incolori, in quanto ossida il ferro quasi sempre presente nelle materie prime utilizzate e
ne compensa il colore giallo-bruno risultante con la propria tinta purpurea. In quest'ultima
tariffa compaiono anche i crogiuoli, grugiuoli, con un'imposta di nove soldi per salma26,
necessari per l'attività vetraria ma non riferibili esclusivamente a questa; mancano invece o
comunque non sono identificabili in entrambi gli elenchi le principali materie prime per
produrre il vetro: il quarzo, in blocchi di cava o in ciottoli fluviali che venivano cotti e ridotti
in polvere per pestaggio o con mulini, oppure le sabbie silicee, e per quanto riguarda i
fondenti alcalini le uniche fonti individuabili nella tariffa del 1288 sono il tartaro delle botti
da vino e le ceneri di cerro27 ma anche in questo caso va considerato che gli alcali oltre che
per la fabbricazione del vetro servivano anche per altre produzioni, ad esempio per gli smalti
e, soprattutto, per ottenere detergenti e saponi per l'industria tessile e l'igiene personale.
Poche novità sono riscontrabili nelle due successive tariffe daziarie bolognesi che ci sono
pervenute: nel 1351, durante il dominio di Giovanni Visconti, abbiamo l'appalto ad un
milanese del dacium merchadandie et sigilini, che contiene solo per l'imposta sul transito e
sull'esportazione un elenco dettagliato delle merci, dove si trovano ancora il manganese da
migluoli ed il vetro lavorato e rotto, mentre compaiono per la prima volta crestalli e overa
de crestalli, che però sono da riferirsi a cristalli di rocca piuttosto che a vetro incolore o
proprio a cristallo al piombo, considerata anche l'imposta elevata alla quale sono
sottoposti28; nel 1383 abbiamo le norme del dazio delle mercanzie con tariffe dettagliate sia
per l'esportazione, dove si ritrovano le stesse voci rilevate per il 1351 e con le stesse
imposte, sia per l'importazione a Bologna, dove abbiamo ancora soltanto le voci già notate,
qui con imposta differente29, e vale solo la pena di rilevare che il manganese è qui definito a
miglolis sive ciatis. Alla fine del Trecento - inizi del Quattrocento infine risale la redazione
più complessa ed organica di norme e tariffe relative alla gabella delle mercanzie, che è
priva di data ma si può collocare, in base alle addizioni datate che nello stesso codice la
precedono e la seguono, fra il 1396 ed il 1405: in tale redazione, che resterà sostanzialmente
immutata, tranne che per l'ammontare delle imposte, fino al Seicento, mentre per le merci
esportate o in transito la tariffa è analoga a quelle del 1351 e del 1383, per le merci
importate a Bologna la tariffa è molto più ricca di voci e queste sono suddivise secondo le

24
L. Frati, Tariffa daziaria fra il Comune di Bologna e quello di Firenze (1317), Firenze 1903, p. 22
25
Ivi p. 18.
26
Ivi p. 17.
27
Statuti del 1288 , cit., p. 120: ". . . de salma taxi et cineris de cerro . . . duos solidos bononinorum ". Nella
vetreria scavata a Monte Lecco si è potuto rilevare che veniva usato minerale quarzoso piuttosto che sabbia, e
come fondenti alcalini con ogni probabilità potassa lisciviata dalle ceneri di legna insieme a soda commerciale
piuttosto che ottenere gli alcali dalla calcinazione dei tartrati del vino: cfr. Fossati, Mannoni, Lo scavo della
vetreria, cit. Sembra che il procedimento fosse analogo anche per la Toscana dove si estraeva una roccia detta
"tarso" in cave presso Pisa e Massa Carrara, e si usavano anche ciottoli dal letto dell'Arno e sabbie per la
produzione più comune: cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 30. Anche per le gabelle toscane del secolo XIV e
degli inizi del XV sulle merci connesse alla manifattura del vetro vedere ivi, p. 11s.
28
Archivio di Stato di Bologna (in seguito A.S.B.), Comune, Difensori dell'avere, 83, cc. CXXIIv-CXXVIr:
crestalli e overa de crestalli per soma libre 6, per centonaro solidi 24, per dexina solidi 2 denari 5 (per i
fiorentini 1'imposta è ridotta rispettivamente a 1. 5. s. 20, s. 2); manganexe da migluoli per soma s. 3, per
centonaro d. 7 (per i fiorentini s. 2 e d. 5); vedro lavorado per soma s. 10, per centonaro s. 2, per dexina d 2 e
l/2 (per i fiorentini rispettivamente s. 6, s. 1 e d. 2 e l/2, d. 1 e 1/2); vedro rotto per centonaro s. 1, per dexina d.
1 e 1/5.
29
A.S.B., Comune. Difensori dell'avere, 84, cc. XXXllv-XXXIVr: manganexe a miglolis sive ciatis pro salma
s. 3; vitro laborato pro salma s. 15; vitro fracto pro salma s. 5.
compagnie delle arti bolognesi alle quali sono pertinenti30. Sotto gli Speziali si ritrova qui il
manganexe da migluoli con imposta per centonaro de pexo solido 1, ma un complesso più
numeroso di voci relative al vetro, sia per le materie prime che per i manufatti, compare
sotto i Merciai, Setaioli e Quattro Arti, che sono raggruppati insieme: vi si trovano le
clessidre, arluogli de vedro cum sabion d'una hora l'uno solidi 2 per cascuna docina,
arluoglio de vedro de più d'una horadinari 2 per cascuna hora d'arluoglio; il quarzo
macinato, preda pesta da migluoli per centonaro de pexo dinari 4; gli occhiali, anche se
non sono citate le lenti, ochiali de busso, d'avuolio e de burala per lirta de pexo solidi I
dinari 6; gli specchi, spiechi de legno stagnodi vedradi cum smalto e sença smalto per
centonao de pexo solidi 5, vedro da spiechi per centonaro de pexo solidi 6; terra pistoiese,
presumibilmente per laterizi refrattari, per costruire le fornaci da vetro, terra pistoiexe da
fare fornaxe da minoli per centonaro de pexo dinari 6, vetro con decorazioni pregiate, vedro
lavorado al modo de Damasco per livra de pexo dinari 6, oltre al vedro lavorado d'one
raxon salvo che da spiechi per centonaro de pexo solidi 3, ed ai rottami, vedro rotto per
centonaro de pexo dinari 6. Evidentemente le informazioni ricavabili da tariffe daziarie sono
limitate a dati qualitativi sul traffico commerciale, a parte i rapporti di incidenza
dell'imposta, comunque l'esistenza di un commercio di vetri lavorati, di rottami e di
manganese alla fine del Duecento è indice di una certa attività di vetrai, che infatti trova
conferma in altre fonti: nel più antico estimo cittadino rimasto, del 1296-97, un Johanellus
quondam Petri qui facit artem vitrorum denuncia 270 lire dal commercio di olio e 400 lire in
oggetti di vetro lavorato31, inoltre la tomba di una famiglia de Ciatis compare nel sepoltuario
del 1291 del convento di S. Domenico32. La prevista introduzione in città di materie prinne
per il vetro e per le fornaci testimonia una produzione locale alla fine del Trecento sulla
quale, come si vedrà, maggiori informazioni sono.fornite da altri documenti. Va sottolineato
inoltre come i bicchieri siano spesso rappresentativi del vetro lavorato in genere, essendo gli
oggetti maggiormente prodotti, al punto che gli artigiani come si constaterà sono identificati
come fabbricanti di bicchieri. A questo proposito è interessante rilevare che il termine
bichirarius o de bicheriis, che corrisponde a quello in uso nell'area fiorentina33, sembra
testimoniato a Bologna solo nel XV secolo, mentre nel Trecento nei documenti bolognesi i
bicchieri vengono indicati col termine ciati, da cui de ciatis, dal latino.cyathus, oppure col
termine miuoli o migluoli, da cui miolarus o de miolis una denominazione che risulta
diffusa, con varianti locali come moçolli, moioli, miogli, in Emilia-Romagna, Lombardia e
Veneto.
Ritornando agli statuti comunali bolognesi, nella redazione de1 1352 è presente una rubrica
de vasis vitreis fiendis, nella quale sulla base dell'osservazione che vasa vitrea sunt multo
solito cariora et debiliora, quod contingit ex eo quod est penuria magistrorum et
solummodo certis licet ipsa facere, viene stabilita la possibilità per chiunque cittadino o
forestiero di realizzare extra circulas et muros civitatis Bononie fornaces aptas et abiles ad
faciendam miolos, inghistarias, bocalitos et alia vasa vitrea, e di vendere liberamente tali
oggetti purché non fuori del distretto bolognese34. La scarsità di vetrai potrebbe essere
spiegata e collegata ad un fenomeno più generale considerando che si è pochi anni dopo la

30
Ivi, cc. LXXXXVIIr.-CXXXVIr
31
A. I. Pini, Gli estimi cittadini di Bologna dal 1296 al 1329. Un esempio di utilizzazione: il patrimonio
fondiario del boccaio Giacomo Casella, "Studi Medievali", s. III, XVIII (1977), pp. 111-59, alla p. 123 nota
53.
32
Archivio del Convento di San Domenico in Bologna, Sepolture I (sono grato per la segnalazione alla dott.ssa
Rossella Rinaldi).
33
Cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., in particolare l'appendice documentaria.
34
A.S.B., Comune, Statuti del 1352, c. CCVIIv. La rubrica era già stata segnalata, anche per gli statuti
successivi, con trascrizione parziale in G. Arias, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana
nell'età dei Comuni, Torino-Roma 1906, appendice VI, p. 455.
peste del 1348; per lo stesso anno 1352 un libro d’estimo fiorentino riporta l'iscrizione di
nove bicchierai, ma mancano possibili confronti precedenti35.
Nella rubrica statutaria citata compaiono per la prima volta accanto ai bicchieri
denominazioni di altri contenitori: se i bocaliti sono probabilmente boccali con la bocca
trilobata, le inghistarie dovrebbero essere le bottiglie con corpo sferoidale, rientranza conica
alla base e lungo collo con bocca svasata a tromba, documentate sia nell'iconografia che nei
rinvenimenti archeologici (fig. 1), che venivano chiamate in modo simile, ingrestarie o
inghistere, anche a Venezia dal secolo XIII36. Va rilevato inoltre che per le fornaci è prevista
la collocazione fuori dal centro cittadino, evidentemente per scongiurare gli incendi:
un'analoga preoccupazione da parte dei veneziani aveva fatto concentrare i vetrai a Murano
già dalla fine del secolo XIII, però a Bologna in epoca successiva sono testimoniate fornaci
annesse alle botteghe di vendita in zone centrali della città, come anche a Firenze37.
La stessa rubrica è presente negli statuti del 135838 e del 1376 39, mentre in quelli del 1389 40
diventa più complessa e ricca di informazioni, poiché dopo aver ribadito la possibilità di
impiantare fornaci, questa volta intus et extra civitatem, ed aver precisato che i manufatti
devono essere realizzati con vetro bene cotto et bene temperato e senza impurità che ne
provochino una facile rottura o addirittura lo scoppio spontaneo, fissa i rapporti fra qualità
del vetro, peso e prezzo per i prodotti più comuni, per alcuni dei quali è prevista una gamma
di diverse capacità (vedere appendice doc. I e la tabella 1).
Questa volta accanto alle inghistarie, ai bocaliti ed ai ciati compaiono anche gli orinali41,
che sono previsti cum coperta, e le zuche, anch'esse col rivestimento, da identificarsi
evidentemente secondo le dimensioni con damigiane e fiaschi, questi ultimi documentati
dalla fine del Trecento soprattutto in Toscana, dove fino ai nostri giorni sono rimasti il tipo
di contenitore più usato per il vino e sono stati oggetto di una produzione specializzata,
affiancata da artigiani rivestitori, testimoniati a Firenze dal 144742. Per le bottiglie, i bocaliti
ed i bicchieri è prevista la produzione in due tipi di vetro, verde e bianco cristallino,
quest'ultimo ovviamente più pregiato, mentre la mancata indicazione per orinali e zuche
sembra indicare che per questi si usasse comunemente solo il vetro verde. Le diverse
capacità riscontrabili nella rubrica statutaria per i bocaliti e le zuche permettono di
ricostruire una scala plausibile per i vari contenitori, per la quale non è invece molto
indicativo il peso, che varia con la forma e viene qui fissato per evitare l'eccessiva fragilità,
infatti i fiaschi sono più leggeri delle bottiglie e dei boccali ma hanno la protezione del
rivestimento.

35
Cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 15 s.
36
Cfr., anche per gli altri termini, L. Zecchin, Denominazioni antiche dei prodotti muranesi , "Vetro e Silicati",
XIII (1969), 2, pp. 25-8.
37
Per la collocazione nel secolo XVI delle fornaci in aree centrali di Firenze, in cortili retrostanti alle botteghe,
e per la documentazione di incendi, dovuti in particolare alla sistemazione della legna in palchi sopra le fornaci
stesse per farla seccare, cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 27 s. e appendice, docc. XXI e XXIV.
38
A.S.B., Comune, Statuti del 1358, c. CLXXXIIv.
39
A.S.B., Comune, Statuti del 1376, c CCLXXVIr.
40
A.S.B., Comune, Statuti del 1389, c CCCLXXIIr-v.
41
Per un probabile orinale in vetro rinvenuto a Tuscania cfr. Lamarque, The Glassware, cit. n. 15, p. 121 s., fig.
33 e tav. XXVa.
42
I rivestitori o fiascai usavano, come ancora oggi, un'erba palustre detta schiancia e ricoprivano sia fiaschi
nuovi sia usati, il che rese abbastanza facili le frodi quando alla fine del Cinquecento fu introdotto come
garanzia di capacità un bollo di piombo attaccato alla veste, sostituito solo dal 1629 da un bollo di vetro col
giglio fiorentino, applicato al collo: cfr. Taddei, L'arte del vetro, cit., pp. 38-46 e appendice, docc. V, Vlll e
XV; per bolli di vetro con scudi crociati sulle bottiglie rinvenute nello scavo della vetreria di Monte Lecco cfr.
Fossati, Mannoni, Lo scavo della vetreria, cit., p. 58 s.
FIGURA 1
Vetreria di Monte Lecco nell’Appennino tra Genova ed Alessandria, databile alla fine
del secolo XIV-inizi del XV. Ricostruzione, in scala, delle principali forme prodotte
sulla base dei reperti di scavo

Le zuche sono evidentemente i recipienti più grandi, con unità di misura la quarta, per la
quale sono previsti multipli e un sottomultiplo, la meza, confrontabile con il "mezzo quarto"
che si ritrova anche a Firenze come contenuto del fiasco da vino comunemente usato e per il
quale è stata calcolata un'equivalenza a litri 2,2843; per l'inghistaria è prevista una sola
misura e come confronto è possibile utilizzare la capacità delle bottiglie rinvenute nella
vetreria di Monte Lecco, stimata fra 850 e 900 centimetri cubici44; per i bocaliti, distinti in
bocalitus de meza e bocalitus de piçola et terçarola, è meno facile dedurre le capacità e
rimane anche da chiarire per la misura più piccola la differenza che sembra esistere tra due
oggetti di peso e costo equivalente; parrebbe comunque trattarsi di capacità inferiori a quella
dell'inghistaria: in questo caso la specificazione de meza non sarebbe riferita alla quarta
come per le zuche e si potrebbe pensare invece ad un contenuto corrispondente
rispettivamente alla metà e ad un terzo in rapporto a quello delle bottiglie. Poco chiara
rimane infine la distinzione che si riscontra per i bicchieri fra ciati gambasini e ciati
cristalini: le denominazioni non sembrano riferirsi a diverse qualità di vetro poiché per
entrambi i tipi è prevista la produzione verde e incolore, né suggeriscono una differenza di
forme che si possa ricondurre all'esistenza di bicchieri apodi e calici con stelo, si può solo
rilevare che quelli gambasini sono più leggeri ed economici, che la gamma dei prezzi unitari
varia da uno a tre denari e che in ogni caso quelli in vetro incolore devono essere più
pesanti.
Nella stessa rubrica statutaria viene anche stabilito che i vetrai devono essere soggetti alla
società dei Salaroli, e questo è per ora l'unico dato sulla collocazione di questi artigiani
nell'ambito delle corporazioni bolognesi, se si trascura la ricordata tariffa divisa per arti nella
quale i Salaroli non figurano e che sembrerebbe suggerire un'appartenenza ai Merciai o alle
Quattro Arti, prima della fine del secolo XV, quando

43
Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 43
44
Fossati, Mannoni, Lo scavo della vetreria cit., p. 65.
TABELLA 1
Tip i, caratteristiche e prezzi dei contenitori d'uso comune in vetro prodotti a Bologna,
secondo le norme degli statuti comunali del 1389 (cfr. appendice I).

Contenitore Qualità del vetro Peso unitario Peso unitario in


bolognini piccoli
Inghistaria verde once 7 9
Inghistaria bianco cristallino once 7 12
Bocalitus de meza verde once 5 1/2 6
Bocalitus de meza bianco cristallino once 5 1/2 7
Bocalitus de pigola et tergarola verde once 3 4
Bocalitus de pipola et tergarola bianco cristallino once 3 5
Orinalis once 3 10*
Ciati gambasini verde libre 1/13 12/12
Ciati gambasini bianco cristallino libre 1/11 12/8
Ciati cristalini verde libre 1/8 12/5
Ciati cristalini bianco cristallino libre 1/7 12/4
Zuche de meza once 3 9*
Zuche de quarta once 4 1/2 16*
Zuche de duabus quartis once 8 24*
Zuche maiores duarum in proporzione 8 per ogni quarta
quartarum alle precedenti oltre le prime due

*Cum coperta.

cominciano a comparire dei bichirarii nelle matricole dei Fabbri45. Questo passaggio ai
Fabbri nel Cinquecento è riscontrabile anche per i ceramisti, un'altra categoria di artigiani
che necessitano di fornaci e che produeono contenitori d'uso comune46, mentre un fenomeno
analogo è documentato per Firenze, dove nel secolo XIV i bicchierai costituivano un
membro dell'Ars Oliandolorum, Biadaiolorum, Bicchieraiorum et Casciaiuolorum e
facevano anche parte dell'arte dei Medici e Speziali, per poi passare verso il 1400 all'arte dei
Chiavaioli, Ferraioli e Calderai47.
Informazioni su vetrai attivi a Bologna sono ricavabili da un contratto del 139148 (vedere
appendice, doc. II), nel quale Francesca di Filippo, vedova di Pietro de Ciatis de Gambassi,
che ha perso anche il figlio Jacopo ed alla quale sono rimaste in eredità le attrezzature per la
produzione vetraria del marito e del figlio, si associa con Pietro di Bartolo di Giovanni de
Gambassi de Ciatis, il quale si impegna a pagarle ottocento lire in quattro anni per l'acquisto

45
A.S.B., Comune, Capitano del Popolo, Libri Matricularum delle società d'Armi e d'Arti V: Blasius lacobi de
Pilatis de zuchis alias de bicheriis capelle Sancii losep compare insieme al figlio Geronimo nel 1481 (c.
CCLXXXVIIIIv), seguito poi da alcuni altri nel secolo successivo.
46
Sulla produzione di ceramiche a Bologna fino al secolo XVI vi sono stati studi e polemiche alla fine del
secolo scorso e all'inizio di questo da parte di bolognesi e faentini: in particolare C. Malagola, Memorie
storiche sulle maioliche di Faenza, Bologna 1880, pp. 36-42 e passim; L. Sighinolfi, Per la storia dell'arte
ceramica, "Faenza", IV (1916), 3, pp. 79-82. Anche per questa produzione è comunque necessaria una
revisione critica dei documenti, anche alla luce dei recenti rinvenimenti archeologici.
47
Cfr. Taddei, L'arte del vetro , cit., pp. 14s e 33-7. È interessante comunque notare che a Firenze e a Pisa nel
secolo XV si riscontrano investimenti e partecipanze in cui sono collegate botteghe e fornaci di vetrai con
botteghe di formaggiai o pizzicagnoli: cfr. ivi, pp. 17 e 19 e appendice, docc. II e XVI.
48
A.S.B., Comune, Memoriali n. 317, cc. CVIr-v.
della metà degli oggetti di vetro, dei rottami, degli attrezzi metallici, dei beni mobili in
genere pertinenti alla lavorazione del vetro e delle fornaci esistenti in una casa posta nella
cappella di San Remigio: egli promette anche di saldare i debiti di Pietro e Jacopo, riceverà
in prestito da Francesca centonovantadue lire a termine di quattro anni e condurrà a mezzo
con lei la domus seu statio deputata ad artem et misterium ciatorum per dieci anni, pagando
un affitto annuo di trentacinque lire49. Oltre a consentire la localizzazione di una fornace
bolognese questo documento ci dà un'interessante testimonianza sulla località di origine di
questi vetrai, Gambassi, un centro della Val d'Elsa con attività di vetrai documentata dalla
prima metà del Trecento. Notizie di produzione vetraria nello stesso periodo si hanno anche
per altri tre comuni vicini, San Gimignano, con fornaci documentate dal 1265, Montaione,
che ricavava la legna per le vetrerie dalla selva di Camporena e San Miniato che disputava al
preeedente i diritti sulla selva50, e quest'area e in particolare Gambassi oltre a costituire una
notevole coneentrazione di impianti specializzati diedero origine ad una migrazione di vetrai
anche al di fuori della Toscana. Se a Firenze numerosi bicchierai originari di Gambassi sono
noti dal 142751, come si è rilevato a Bologna sono presenti alla fine del Trecento, e per
Ravenna è documentata nel 1365 una società ad artem de mioliis, per cinque anni, fra un
cesenate che partecipa con un capitale di cento lire ed un cittadino ravennate originario di
Gambassi che oltre a cinquanta lire si impegna a fornire le materie prime e l'attrezzatura
necessarie52; anche a Modena la prima fornace da bicchieri documentata, nel 1339, fu
impiantata da artigiani fiorentini nella via dei Grasolfi, chiamata poi de miolis53. Le
dimensioni della diffusione dei vetrai toscani dalla fine del 1200 sono sottolineate dalla
testimonianza di vetrai fiorentini a Genova dal 1297, nonché di un artigiano di Gambassi a
Sassello nel Savonese nel 1314, di vetrai dalla stessa area a Murano dal 1315, e dalla
documentazione a Palermo nel 1344 e 1345 di due società per la produzione del vetro fra
mercanti palermitani che forniscono il capitale e artigiani di Firenze e San Miniato54.
Ritornando alla produzione bolognese, i documenti esaminati consentono di ricavare una
discreta quantità di informazioni per il secolo XIV, ma rimangono ampie lacune di
conoscenza sulla struttura delle fornaei55, l'approvvigionamento delle materie prime e del

49
Attraverso un altro documento, la donazione nel 1413 da parte di Francesca di questa fornace ai frati
Francescani, tale fabbrica era la più antica nota anche al Guidicini, cfr. G. Guidicini, Cose notabili della città
di Bologna, Bologna 1868, vol. I, p. 425.
50
Taddei, L'arte del vetro , cit., p. 10. A Gambassi potrebbe risalire l'origine dell'attributo gambasini incontrato
per i bicchieri negli statuti del 1389, sebbene ciò non ne chiarisca le caratteristiche né la contrapposizione a
cristalini; l'attributo compare anche altrove ed in particolare in documenti muranesi dal 1311, cfr. Zecchin,
Denominazioni, cit., 5p. 27s.
51
Taddei, L'arte del vetro, cit., p. 16s e appendice, docc. II, III, VI, IX.
52
Il documento è pubblicato in S. Bernicoli, Arte e artisti in Ravenna. III. Di un'antica vetreria , "Felix
Ravenna" 9 (1913), p. 353 s. Il fomimentum necessarium è costituito da duodecim miliaria sablonis a vitro,
quinque paria de forbicibus ad incidendam lanam et quinque moglas ad pingendum pannum de maglis a
miolis, sex somas de metallo a miolis, novem canellas a miolis, septem puntellos, unam capzam ad ponendam
vitrum et tres cazzas ad mutandam vitrum, duos ratarellos, unam rasuram grossam, unam cazzolam
pannorum, unum par de moglis ab archis, unum paleum ad misidandam, unam rasuram parvam, quindecim
padellas, unum miliare de mutoncellis, unum de ferro, unam stateram grossam cum catena, Vl libras terre de
Rezzo sex capsonos inter magnos et parvos.
53
Cfr. Comune di Modena, Museo Civico Medievale Moderno, Guida, s.d. Sala X vetrina VII. Anche a
Bologna un tratto dell'attuale via Farini era denominato Miola o Migliola o via del Miolo, cfr. M. Fanti, Le vie
di Bologna, Bologna 1974, p. 316.
54
Per la Liguria cfr. A. Ferretto, Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la Toscana e la Lunigiana
ai tempi di Dante (1265-1321), "Atti Soc. Ligure Storia Patria", XXXI (1901), 1, p. XI; per Murano Zecchin,
Denominazioni, cit., p. 27; per la Sicilia Bonanno, D'Angelo, La vetreria di Cefalà, cit. p. 346, docc. 1 e 2.
55
Per la discussione sulla struttura e sul funzionamento delle vetrerie nell'Antichità e nel Medioevo sulla base
delle fonti documentarie e dei risultati di alcuni scavi vedere Gasparetto, A proposito dell'officina vetraria
torcellana, cit.
eombustibile, il numero, la dislocazione, la durata d'esercizio e la produttività degli impianti,
il numero, le funzioni e la situazione economica degli occupati nella manifattura vetraria,
nonché sulla produzione dei vetri da finestra, delle lenti e di altri oggetti realizzati in vetro,
come lampade e calamai, e soprattutto mancano per ora dati sui consumi in rapporto alle
diverse classi sociali.
Per avere delle risposte a questi problemi sono necessarie ulteriori indagini sistematiche
sulle fonti scritte ed anche un maggior numero di scavi stratigrafici; le ricerche inoltre
andrebbero estese oltre il termine cronologico che qui ci si è posti, per chiarire la
transizione, riscontrabile a Bologna56 come in altre località, nella seconda metà del
Quattrocento ad un monopolio produttivo che arriverà fino alla fine del secolo XVIII,
quando la privativa sarà tempestivamente rivenduta al Senato bolognese prima dell'arrivo
dei Francesi, che, tra le altre cose, abolivano tali privilegi.

Appendice

Archivio di Stato di Bologna, Archivio del Comune, Statuto del 1389, Libro VI, rabr. LVII,
cc. CCCLXXII r-v.

De vasis vitreis fiendis et aliis capitulis rubrica. Quia vasa vitrea sunt multo solito cariora et
debiliora, quod contingit ex eo quod [est] penuria magistrorum et solumodo certis licet ipsa
facere, volentes talibus obviare et ut de talibus copia habeatur, merito duximus statuendum
quod quilibet civis vel forensis possit libere et impune facere et fieri facere intus et extra
civitatem Bononie fornaces aptas et habiles ad faciendum miglolos, inghistarias, boccalitos
et alia vasa vitrea, de bono vitreo bene cotto et bene temperato et sine aliqua immissione ex
quibus faciliter non rompantur vel a se ipsis sclopentur seu frangantur, sub pena aliter
facienti scu aliter fieri facienti et magistro fornacis quinque solidorum bononinorum pro
quolibet vase, de quibus et omnibus infrascriptis notarius fanghi et stratarum cognoscere et
inquirere possit et teneatur et culpabiles punire et quibus possit acusare et denuntiare, et
ipsos miglolos, inghistarias, boccalittos et alia vasa vitrea facere et fabrigare et fieri et
fabricari facere ac etiam conducere et conduci facere ad civitatem Bononie undecunque et
illa vendere possint et teneantur cuilibet emere volenti, dummodo non possint ipsa vasa
vitrea integra scu fracta nec etiam tasum conducere extra districtum Bononie per aliquem,
pena conducenti pro qualibet vice XXV librarum bononinorum et ammissionis rerum, et
quilibet possit acusare et habeat medietatem condennationis. Et quilibet veniens ad
faciendum miglolos et alia vasa vitrea eos faciat in civitate vel comitatu, sit et esse
intelligatur immunis ab omnibus oneribus realibus vel personalibus vel mixtis que
imponerentur per comunem Bononie vel aliquam aliam universitatem comuni Bononie
subiectam. Et potestas teneatur facere preconizari predicta infra quindecim dies a die
publicationis presentium statutorum. Et debeant dicta vasa vitrea fieri et esse infrascriptarum
manerierum, infrascripti ponderis et qualitatis ipsaque dari debeant et vendi in civitate
Bononie quibuscunque emere volentibus pro infrascriptis pretiis et non pro maioribus,

56
La privativa fu concessa nel 1472 dai Sedici Riformatori ai Malvezzi, che la mantennero, a parte un breve
periodo all'inizio del Cinquecento in cui la ebbe Nascentorio Nascentori, che vantava un'attività vetraria
familiare di 150 anni a Bologna (cfr. Una fabbrica di vetri a Bologna già secolare al tempo di Clemente VII,
"Archivio Storico dell'Arte", II, 1889, p.l69-71), finché nella seconda metà del secolo XVII passò in dote ai
Bentivoglio: Filippo Bentivoglio vendette infine il diritto al Senato nel 1792 per 15.000 scudi cfr. A.S.B.,
Archivio del Reggimento, Assunteria d'Arti, Recapiti per la privativa dei vetri e G. Guidicini, Cose notabili
della città di Bologna, cit., vol. 1, p. 425 e vol. II, p. 57.
pondus vero et qualitates infrascriptarum manerierum vasorum vitreorum et pretium pro
quibus dari et vendi debent sunt hec videlicet: inghistaria vitri viridis ponderis VII untiarum
pro novem denariis parvis bononinorum; inghistaria vitri albi cristalini ponderis VII
untiarum pro duodecim denariis parvis bononinorum; bocalitus vitri viridis de meza
ponderis quinque untiarum et dimidie pro sex denariis parvis bononinorum; bocalitus vitri
albi cristalini de meza ponderis quinque untiarum et dimidie pro septem denariis parvis
bononinorum; bocalitus vitri viridis de pigola et tergarola ponderis trium untiarum pro
quatuor denariis parvis bononinorum; bocalitus vitri albi cristalini de pigola et tergarola
ponderis trium untiarum pro quinque denariis parvis bononinorum, orinalis ponderis trium
untiarum pro decem denariis parvis bononinorum cum coperta, ciati gambasini vitri viridis
ponderis ad rationem tredecim pro libra duodecim pro XII denariis parvis bononinorum,
ciati gambasini vitri albi cristalini ponderis ad rationem XI pro libra, octo pro XII denariis
parvis bononinorum; ciati cristalini vitri viridis ponderis ad rationem octo pro libra, quinque
pro XII denariis parvis bononinorum; ciati cristalini vitri albi cristalini ponderis ad rationem
Vll pro libra, quatuor pro Xll denariis parvis bononinorum; zuche de meza ponderis trium
untiarum pro novem denariis parvis bononinorum cum coperta; zuche de quarta ponderis
quatuor untiarum et dimidie pro XVI denariis parvis bononinorum cum coperta; zuche de
duabus quartis ponderis octo unziarum pro XXIII lor denariis parvis bononinorum cum
coperta; omnes allie vero zuche maiores duarum quartarum a dictis duabus quartis supra
ponderis pro qualibet quarta secundum ratam ponderis aliarum zucharum predictarum, pro
octo denariis parvis bononinorum pro qualibet quarta ultra duas quartas cum coperta, et
omnia alia vasa vitrea cuiuscunque alterius maneriei pro iusto et competenti pretio exhiberi
et dari emere volentibus actenta ratione supradictarum. Sub pena cuilibet contrafacienti
ammissionis vasi cuiuslibet in quo fuerit contrafactum et dimidie extimationis seu valoris
dicti vasi. Et ut predicta melius observentur volumus quod quilibet magister exercens dictam
artem sit subiectus et obediens massario et sotietati artis salarolorum civitatis Bononie, pro
qua obedientia et subiectione et fideiussione prestanda exigi ab eis non possit ultra solidos
quinque pro quolibet et habeantur pro vere exercentibus artem et membrum artis
salarolorum quo ad omnia que disponuntur de dictam artem vel membrum exercentibus et
massarius dicte artis teneatur singulis duobus mensibus semel visitare quamlibet stationem
dictorum vitrorum et ipsos punire et condennare secundum formam suprascriptam [...]

II

Archivio di Stato di Bologna, Archivio del Comune, Memoriali n. 317, 1391, cc.CVI r-v

Millesimo trecenteximo nonageximo primo inditione quartadecima, die vigeximotercio


mensis februarii. Petrus quondam Bartholi olim Johannis de Gambassi de Ciatis habitator
Bononie in capella Sancti Remigii, adultus personaliter comstitutus in presentia sapientis et
discreti viri domini Johannis de Lapis legum doctoris et civis Bononie, petiit a dicto domino
Johanne sibi dari et ipsius decreto comstitui et decerni in suum curatorem Dominicum
quondam Guidonis de Manzolis cartolarium et Bononie civem capelle Sancti Josep, ibidem
presentem et aceptantem, specialiter ad interponendum et prestandum auctorizandum suam
presentiam et comsensum, promissioni quam facere intendit idem adultus domine Francisce
quondam Philipi uxori olim Petri de Ciatis de Gambassi, heredi et hereditario nomine
recipienti quondam Jacobi sui filii et flii dicti quondam Petri, de octingentis libris
bononinorum in una parte ad terminum quatuor annorum hodie inchoandorum, pro precio et
extimacione precii plurium rerum et bonorum mobilium, ut est vitrum et laboratum et non et
stracii et feramenta et alia de quibus plene patebit in instrumento venditionis inferius
describendo, vendendarum per dictam dominam Franciscam ipsi adulto pro dicto precio. Et
similiter confessioni quam facere intendit ipse adultus de dictis rebus a se habitis et traditis
et comsignatis sibi per ipsam dominam, promissionique etiam quam facere intendit ex causa
dicte venditionis de dando satisfaciendo et persolvendo de suo proprio et suis expensis
cuidam Johanni de Placentia naute, Petro del Pigaglo de Ciatis et domine Lasie Nannis
speciarii capelle Sancti Laurentii de Guarinis, de omni et quocumque debito olim comtracto
et facto tam per dictos Jacobum et Petrum simul vel alterum ipsorum divixii et de omni et
toto eo quod ab ipsis comuniter vel divisim habere et percipere deberent. Item etiam
promissioni quam ipse adultus facere intendit predicte domine de centumnonagintaduabus
libris bononinorum in alia parte, quas dictus adultus confiteri intendit se habuisse et
recepisse ex causa mutui de puro amore et gratia speciali a dicta domina Francischina ad
terminum quatuor annorum hodie inchoandorum et pro rata et parte ac terminis anuatim
prout et de quibus in instrumento inde confitiendo inferius declarabitur. Item conductioni
quam facere intendit a dicta domina Francisca ad terminum decem annorum proxime
venturorum de medietate pro indivixo cum se ipso unius domus seu stationis deputate ad
artem et misterium ciatorum posite Bononie in capella Sancti Remigii iuxta suos confines in
instrumento de predictis fiendo aponende et clarius describende, promissioni de utendo et
fruendo arbitrio boni viri et de dando et solvendo pro pensione et nomine pensionis anuatim
libras tregintaquinque bononinorum terminis in dicto instrumento describendis, et de ipsam
stationem in fine termini in eodem statu restituendo [...].
Venditio rerum mobillium. Eisdem millesimo inditione mense die testibus, habito agnato
iurante consentiente aserente et dicente ut supra, domina Francisca quondam Philipi uxor
olim Petri de Ciatis de Gambassi, heres et hereditario nomine Jacobi eius quondam filii et
filii quondam Petri, ex ipsius Jacobi testamento et ultima voluntate scripta in millesimo
trecenteximo octuageximonono inditione duodecima die primo octubris, animo et intentione
dictam hereditatem adeundi et in ea se immiscendi sponte et excerta [scientia] per se et suos
heredes dedit vendidit et tradidit Petro quondam Bartolli olim Johannis de Gambassi de
Ciatis heredi substituto per dictum quondam Jacobum in dimidia hereditate ipsius
testamenti, ibidem presenti pro se et suis heredibus recipenti et ementi, cum protestatione
tam quam ipse Petrus fecit et promixione quod non intendit per aliqua in presente
instrumento apponenda dicte substitutioni vel aliquibus in dicto testamento contentis
ullatenus derogare set ea semper ipsi salva fore, dimidietatem pro indivixo cum dicto Petro
omnium et singullorum ciatorum, fiallarum, zucharum et aliorum vasorum vitreorum ac
omnis quantitatis vitri laborati et non laborati, seu fracti et contussi, strazzorum, ferri seu
feratii et aliarum quarumcumque rerum mobillium deputatarum ad usum et pro usu faciendi
et laborandi vitrum, ac etiam fornacum existentium in una domo comuni ipsorum domine
Francisce ut heredis predicte et Petri predicti, posita Bononie in capella Sancti Remigii,
iuxta viam publicam a duobus lateribus, iuxta heredes Nicolay de Castellis, iusta heredes
Michaelis Solasse [. . .]
I metalli

Nel saggio seguente, esemplare quanto poco noto1, Marina Baruzzi, partendo
dall'analisi di alcuni reperti provenienti dallo scavo imolese di Villa Clelia, imposta
un'indagine sull'attrezzatura agricola dell'Altomedioevo e mette in evidenza come la
fonte materiale sia estremamente efficace per ridiscutere problemi di cronologia,
diffusione e tecnologia già dibattuti dalla storiografia medievale sulla base di
un'evidenza prevalentemente scritta ed iconografica. Non solo, lo spunto e lo stimolo
proveniente da materiali in contesti archeologici certi, spinge l'autrice ad affrontare,
seppure marginalmente, aspetti legati alla produzione e alla circolazione del ferro
nell'Altomedioevo. Un tema che soltanto recentemente ha nuovamente catalizzato
l'interesse della storiografia medievale dopo molti decenni di disinteresse. Attraverso le
fonti e la più recente letteratura (V. Fumagalli) ci viene mostrato come nel bresciano
nel IX e X secolo, la lavorazione metallurgica non costituisse soltanto parte di attività
in centri dominici, ma fosse disseminata nell'artigianato contadino che indirizzava le
proprie capacità produttive non solo all'autoconsumo ma anche alla soluzione dei censi
dovuti. Contemporaneamente, oltre ai centri signorili e agli artigiani contadini,
producevano oggetti in metallo artigiani di mestiere sia in area urbana che rurale. Il
quadro che emerge è quindi di grandissimo interesse dimostrando la polverizzazione
della produzione che doveva avere una simmetria notevole con l'attività estrattiva (un
tema non affrontato ovviamente nel saggio), che si attuava in forme di "erosione" di
ogni piccolo affioramento anche superficiale. Sarà soltanto con i nuovi bisogni della
città di pietra, in epoca romanica, che estrazione e attività metallurgica si
specializzeranno dando vita ad insediamenti con vocazione specifica in forme però
destinate a mutare velocemente per le radicali trasformazioni tecnologiche, soprattutto
nel quadro dello sfruttamento della forza idraolica nella lavorazione metallurgica, che
spinse allo sviluppo dei centri produttivi presso i corsi di acqua.

1
I reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (Imola). Note sull'attrezzatura agricola nell'Altomedioevo,
"Studi Romagnoli", XXIX (1978), pp. 423-46.
Marina Baruzzi

I reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (Imola). Note sull'attrezzatura agricola
nell'Altomedioevo

Nel corso della campagna di scavi del 1978 presso Villa Clelia a Imola, sono state riportate alla luce
le tracce di un insediamento probabilmente identificabile con il castrum Sancti Cassiani, la sede
vescovile che affiancò la città di Imola fino alla fine del XII secolo. Fra i numerosi importanti
reperti di tale scavo, si segnala il rinvenimento, in strati differenti, di numerosi oggetti in ferro, la
maggior parte dei quali riconoscibile come parte trinciante di strumenti di lavoro. Un primo gruppo
è stato rinvenuto nello strato di intonaci databile al VI secolo1. Al momento del ritrovamento,
l'intero gruppo poggiava su una graticola in ferro e gli oggetti si trovavano ingrumati in un unico
blocco di forma vagamente rettangolare; ciò lascia supporre che essi fossero originariamente raccolti
in un contenitore. Si tratta di una dozzina di pezzi, tra cui lame di diversi attrezzi, alcune delle quali
presentano ancora tracce di legno nell'immanicatura: un vero e proprio corredo di strumenti,
difficilmente riferibile, tuttavia, ad un'attività artigiana, vista l'eterogeneità d'uso dei pezzi presenti.
Il maggior numero di attrezzi è da porre in relazione con attività di lavorazione del legno. Troviamo
infatti due scuri, di dimensioni simili ma di foggia leggermente diversa: una (1170 g) è fornita di
una grossa cassa a sezione quadrangolare, che si prolunga in una piccola nuca squadrata (fig. 1, a);
1'altra presenta un corpo più compatto, la nuca appiattita fino a confondersi nella cassa, la lama
leggermente arrotondata; il suo peso è leggermente inferiore: 900 g (fig. 1, b). Il peso delle lame e la
superficie di taglio non sono tali da suggerire trattarsi di scuri da abbattimento: piuttosto, per la
robustezza della cassa e l'angolazione delle superfici, esse potevano essere impiegate da taglio, per
diramare, come cuneo per legni teneri. Si affiancano ad esse due piccole scuri ad alabarda (a forma
di mannaia) rispettivamente di 610 e 960 g (fig. 1, g ed h). La larga superficie del taglio, utile per
spaccare e squadrare tavole, è equilibrata dalla cassa pesante. Completa il gruppo degli attrezzi da
taglio uno strumento di piccole dimensioni (450 g) identificabile con un'ascia (fig. 1, c) piuttosto che
con una zappa, anche se la posizione della lama e la sua foggia sono nei due attrezzi spesso simili.
La prima, tuttavia, consta generalmente di un corpo più corto e compatto e di una cassa più robusta,
adatti ad affrontare la maggiore resistenza opposta da legno e radici; la zappa invece può presentare
una cassa anche molto sottile, e la sua lama raggiungere dimensioni notevoli. La lama della nostra
ascia, di forma allungata, si presenta leggermente arcuata; il lembo tagliente è perpendicolare
all'asse del manico; la cassa si prolunga in una stretta nuca, quasi a formare una piccola scure dalla
lama arrotondata.

1
Per la datazione degli oggetti e la localizzazione dei rinvenimenti si vedano i contributi di M. G. Maioli in Imola
dall'età tardo romana all’alto medio evo. Lo scavo di Villa Clelia, Imola 1979; Id., La campagna di scavo 1979 a "Villa
Clelia" (Imola): relazione preliminare, in "Studi Romagnoli", XXIX (1978), pp. 329-46. Una parte consistente della
medesima annata della rivista raccoglie gli Atti delle giornate di studio che la Società di Studi Romagnoli ha dedicato ai
risultati degli scavi (Imola, dicembre 1979). I disegni delle figure 1 e 2 (a cui si fa riferimento nel testo) sono stati
realizzati da Miria Mazzetti, che ringrazio.
FIGURA 1, a-f
Reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (secolo VI)
FIGURA 1, g-n
Reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (secolo VI)

Ancora alla lavorazione del legno erano destinate la sgorbia (450 g) (fig. 1, f) e, forse, le due lamine
di forma semicircolare (fig. 1, d ed e) terminanti alle estremità a doppio uncino (predisposte per una
doppia immanicatura?), probabilmente attrezzi destinati alla scortecciatura dei tronchi.
Alla frantumazione del terreno sembra invece destinato il lungo piccone (fig. 1,l) che presenta due
strette superfici taglienti opposte e perpendicolari tra loro, adatto soprattutto allo scasso di terreni
accidentati e rocciosi (450 g). Infine troviamo un martello del peso di 1080 g (fig. 1, m); una lama
fortemente corrosa e contorta, al punto da essere ormai irriconoscibile, in cui è visibile l'occhio per
l'alloggiamento di un manico (fig. 1, i); ed una vanga o pala (fig. 1, n). Quest'ultimo è un attrezzo di
piccole dimensioni- (960 g); la lama, a taglio arrotondato, è leggermente incurvata, e l'immanicatura,
che presenta ancora tracce di legno, forma con essa un ampio angolo, suggerendo trattarsi di una
pala anziché di una vanga, anche perché le spalle spioventi e strette dell'attrezzo non sembrano poter
offrire una buona presa al piede del lavoratore. L'attrezzo presenta tuttavia una grossa lamina ricurva
di metallo sulla parte anteriore dell'immanicatura: forse un vangile deformato? Si tratterebbe allora
senza dubbio di una vanga, il principale strumento di lavoro nella piccola coltura, per compiere a
mano lavori di scasso e rivoltamento del terreno, e per completare l'insufficiente lavoro dell'aratro
nel campo.
Del secondo gruppo di strumenti fanno parte quattro pezzi, rinvenuti in una zona di
rimaneggiamento dello strato altomedievale, databile attorno al Mille. Si tratta di una scure, in
buono stato di conservazione (1180 g), con le superfici disposte simmetricamente a forma di cuneo
del tutto simile a quella del gruppo precedente, anch'essa munita di grossa cassa e nuca
quadrangolare, col lembo tagliente leggermente obliquo (fig. 2, a); un'ascia (560 g) dalla cassa
sottile, prolungantesi in una nuca compatta ed appiattita (fig. 2, b); un oggetto di peso notevole
(2120 g), appuntito simmetricamente, che presenta 1'aspetto di un piccone, sprovvisto tuttavia di
foro centrale per alloggiare il manico (fig. 2, c); ed infine una lama di coltello di grandi dimensioni e
peso (2300 g), probabilmente - come vedremo - il coltro di un aratro (fig. 2, d).
Ritrovamenti di strumenti in ferro di età medievale, soprattuto in numero consistente, sono piuttosto
rari (anche perché il materiale, raro e prezioso, era soggetto a continui reimpieghi). Sotto questo
profilo i ferri degli scavi di Villa Clelia assumono un'importanza ed un interesse del tutto particolari
ai fini di una migliore conoscenza dell'equipaggiamento tecnico altomedievale, tenuto conto della
scarsità di informazioni utilizzabili a questo proposito, ed offrono l'occasione per alcune
considerazioni di carattere più generale sull'attrezzatura agricola a disposizione dei contadini.
Nell'insieme, i reperti imolesi costituiscono un piccolo campionario di lame di quelli che furono,
oltre alle falci, gli strumenti essenziali dell'attività agricola nell'Altomedioevo: zappe, vanghe, aratri,
asce, scuri; gli stessi attrezzi che, pur eccezionalmente, vengono registrati nei documenti
altomedievali tra i mobilia presenti sui poderi dei contadini dipendenti e sulle terre gestite
direttamente dai proprietari.
FIGURA 2
Reperti in ferro dello scavo di Villa Clelia (fine secolo X- inizi secolo XI)

Strumenti di lavoro quotidiano, soggetti ad una usura relativamente lenta, gli attrezzi dotati di parti
metalliche venivano fatti oggetto di accurata manutenzione e di continne riparazioni. Il loro forzato
abbandono, come può essere il caso del gruppo di ferri del VI secolo riposti tutti insieme forse in
una cassetta, o il loro smarrimento, come forse è accaduto ai reperti erratici rinvenuti nello strato più
tardo, dovette costituire una perdita di entità non trascurabile. E certo non era fatto di poco conto, se
il recupero della lama di un falcastrum - una piccola falce per tagliare i rovi2-, staccatasi dal manico

2
«ferramentum. . . quod a falcis similitudine falcastrum vocatur» (Gregorio Magno, Dialogi, a cura di U. Moricca,
Roma 1924, II, VI, p. 89). La definizione è ripresa da Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XX, XIV, 5 (ed. W. M. Lindsay,
e scivolata in un lago, poteva diventare oggetto di miracolo nell'agiografia altomedievale3. Che la
perdita delle parti metalliche degli attrezzi da lavoro potesse rappresentare un serio danno
economico è confermato dall'esame delle fonti documentarie contemporanee - le carte private in
particolare - da cui si ricava una generale impressione di scarsa presenza di metallo nel settore della
strumentazione agricola. L'Altomedioevo è stato felicemente definito una civiltà del legno4. Il bosco,
sulla cui estensione in quell'epoca e sul cui ruolo nella vita economica non è qui luogo per insistere,
non forniva allora soltanto sostentamento per animali e uomini, ma anche il materiale primario per
la costruzione della stragrande maggioranza di attrezzi, macchinari, edifici e costruzioni di vario
tipo. Pale, forche, rastrelli, badili, vanghe e spesso anche l'aratro erano fabbricati esclusivamente in
legno, riservando alle parti trincianti di pochi strumenti l'impiego del metallo5. Non di rado questo
era destinato a rivestire come semplice rinforzo una parte soltanto dell'attrezzo: la punta dell'aratro o
il bordo delle vanghe, come ben testimonia l'iconografıa contemporanea6, Non a caso, negli elenchi
di attrezzi agricoli sono talora compresi anche strumenti di carpenteria che servivano alla loro
fabbricazione7.
Alcuni elenchi di attrezzi agricoli sono rintracciabili nei "polittici", inventari di terre, coloni e redditi
stesi dai grandi proprietari altomedievali - enti ecclesiastici e monastici - per una ricognizione dei
loro possessi. Fra IX e XI secolo non sono pochi i documenti di questo tipo, talora assai lunghi e
dettagliati8, Ma anche in essi, che pure costituiscono una fonte di fondamentale utilità per le ricerche
di storia agraria9, le notizie sugli strumenti di lavoro sono rare e sommarie: su tredici polittici
altomedievali di area padana, solo due - come vedremo - presentano inventari di questo tipo.
Fra di essi, quello relativamente più ricco di informazioni a questo riguardo è il breve recordacionis
del monastero di S. Tommaso di Reggio Emilia, attribuito al X secolo10. In esso è tracciato, per ogni
curtis, un elenco di prodotti, attrezzi, servi e bestiame presenti sul centro aziendale11. Apprendiamo,
così, che una zappa, una mannaia, due scuri, tre seghe, otto falci messorie sono a disposizione dei 62
servi (fra maschi e femmine, adulti e bambini) che lavorano sulla corte principale del monastero
nell'area gestita in economia; essi possono inoltre utilizzare due coppie di buoi per l'aratura,
effettuata con uno strumento prowisto di rinforzo metallico (oltre a due gioghi sono infatti registrati

Oxford 1911): «Falcastrum a similitudine falcis vocatum: est autem ferramentum curvum cum manubrio longo, ad
densitatem veprium succidendam. Hi et runcones dicti, quibus vepres secantur, a runcando dicti». Esattamente a questo
scopo era impiegato l'attrezzo nel racconto di Gregorio (cfr. nota seguente). Il termine, sinonimo di runco, è come
questo assente negli scritti degli agronomi latini, ad eccezione di Palladio (cfr. D. K. White, Agricultural implements of
the roman world, Cambridge 1967, pp. 91 ss.). La tarda comparsa di ambedue i termini fa supporre allo studioso «that
implement was a specialized form of falx invented in later times»: una sorta di falcetto innestato su un lungo manico, di
cui si può vedere riprodotto un esemplare (conservato presso il Museo Nazionale di Napoli) nello studio citato (tav. 9b).
3
Narra Gregorio che Benedetto un giorno affidò ad un lavoratore goto l'incarico «ut de loco quodam vepres abscinderet,
quatinus illic fieri hortus deberit». Nel corso del lavoro, la lama dell'attrezzo cadde nell'acqua del lago sulla cui sponda
si trovava il goto, che «tremebundus», corse a denunciare «damnum quod fecerat», chiedendo di essere punito. Ma
Benedetto «tulit de manu Gothi manubrium, et misit in lacum: et mox ferrum de profundo rediit, adque in manubrium
intravit, qui statim ferramentum Gotho reddidit dicens: "ecce labora, et noli contristari"» (Dialogi, cit. p. 89).
4
J. Le Goff, La civiltà dell'Occidente medievale, Milano 1969, p. 251.
5
Cfr. G. Duby, L'economia rurale nell'Europa medievale, I, Bari 1970, p. 30s.
6
Una buona raccolta di esempi tratti dall'iconografia medievale inglese è quella apprestata da W. O. Hassall, Notes on
Medieval Spades, in The Spades in Northern and Atlantic Europe, a cura di A. Gailey e A. Fenton, Belfast 1970, pp. 30-
4.
7
Vari esempi in Duby, L'economia rurale, cit., I, p. 30.
8
Essi sono ora riuniti (e nuovamente editi) nel volume Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi , a cura di A.
Castagnetti, M. Luzzati, G. Pasquali, A. Vasina, [F.S.I., 104], Roma 1979.
9
Si vedano, ivi, le accurate bibliografie premesse ad ogni polittico e la bibliografia aggiuntiva alle pp. XV-XVI.
10
Ivi, n. IX, pp. 195-9 (a cura di A. Castagnetti).
11
A ciò fa seguito la registrazione dei proventi relativi ai poderi aggregati ai singoli centri domocoltili, che perù non
fornisce dati sull'attrezzatura agricola.
due vomeri). Non molto diversa la situazione nelle altre cinque corti descritte nel polittico, delle
quali ugualmente si registra l'attrezzatura rinvenuta sulla pars dominica 12.
Notiamo che tra i beni mobili di cui sono dotate le aziende alcuni soltanto - i più rilevanti - vengono
registrati: per lo più compaiono utensili da cucina, contenitori per derrate alimentari di vario tipo,
soprattutto quelli di grandi dimensioni, ed infine attrezzi da lavoro, ma probabilmente solo quelli
dotati di parti metalliche, tralasciandosene molti altri - che pure dovevano essere presenti - di più
semplice e comune fabbricazione. È difficile perciò esprimere una valutazione sulla consistenza
dell'equipaggiamento tecnico di queste aziende, senza contare che non sappiamo nulla della sua
effıcacia. Le laconiche informazioni dei documenti sembrano suggerire una generalizzata carenza di
strumenti agricoli di metallo: conclusione cui, in effetti, gli storici dell'economia nella maggior parte
dei casi - pur con qualche eccezione13 - pervengono 14. Ma due elementi, almeno, vanno tenuti
presenti, per non incorrere in conclusioni affrettate: da un lato, l'organizzazione del lavoro all'interno
del sistema curtense; dall'altro, la realtà del paesaggio altomedievale e le sue peculiarità produttive.
Per quanto riguarda il primo punto è noto che la lavorazione dei campi tenuti in economia era
affidata per gran parte alle prestazioni di opere (cioè alle giornate di lavoro) dei coloni dipendenti, i
quali presumibilmente portavano con sé i propri attrezzi, necessari alle diverse operazioni agricole, e
spesso anche i buoi per l'aratura (e forse lo stesso strumento aratorio): l'ingiunzione medietatem cum
bovis et medietatem cum manibus, che più frequentemente ricorre a proposito delle corvées nei patti
colonici15, non sembra infatti riferirsi solo al tipo di lavoro da eseguire, ma anche
all'equipaggiamento che i coloni sono tenuti - se possibile - a portare con sé16.

12
A Sciola, nella montanga parmense, sono annotate una falcina, due zappe due mannaie, un vomere per l'aratro, due
buoi; i servizi qui sono 36. A Vercallo, nell'alta collina reggiana, dove lavorano 5 servi, non è registrata la presenza di
alcun attrezzo. A Cedogno, nella stessa zona, ci sono - a disposizione di 33 servi - due zappe, una mannaia, due falci
messorie, una setia; anche un giogo e due buoi compaiono nell'elenco, ma non c'è menzione del vomere: forse sul suolo
leggero di questa azienda collinare era considerato sufficiente l'impiego di un aratro di legno temperato al fuoco, il cui
lavoro sarebbe stato poi completato a mano. A Curciliano, ubicato probabilmente in alta collina o in montagna, 7 servi
dispongono - oltre che del giogo, di un vomere e di un numero imprecisabile di buoi (la carta in questo punto è abrasa) -
di una mannaia, due zappe, due falcine e tre falci messorie. Relativamente meglio equipaggiata rispetto all'estensione
del terreno signorile (di cui possiamo farci un'idea in base alla quantità dei prodotti che vi sono coltivati) sembra essere
la corte di Enzola, nella bassa pianura reggiana vicina al Po; qui per 13 servi vi sono tre buoi, due gioghi, due vomeri,
quattro zappe, due scuri, una mannaia e quattro falci messorie. Per l'identificazione delle località, cfr. V. Fumagalli,
Storia agraria e luoghi comuni, "Studi Medievali", s. 3, IX (1968), pp. 949-65, a p. 955.
13
Si veda ad esempio R. Delatouche, Regards sur l'agriculture aux temps carolingiens , "Journ. des Savants", 1977/2,
pp. 73-100, a p. 78 ss. Per un periodo più tardo, le ricerche di P. Toubert sull'area laziale hanno individuato la presenza
di artigiani del ferro sul fronte della colonizzazione, «pour fournir à la conquête rurale un outillage dont nous n'avons
aucune raison de minimiser la valeur à l'excès» (Les Structures du Latium médiéval. Le Latium métidional et la Sabine
du IXe siècle à la fin du XIIe siècle, I, Rome 1973, p. 230).
14
Così, ad esempio, Duby, L'economia rurale , cit., p. 24 ss., Le Goff, La civiltà , cit. p. 256 ss.; J. Dhondt, L'Alto
Medioevo, Milano 1970, p. 124; G. Fourquin, Le Premier Moyen Age, in Histoire de la France rurale, a cura di G.
Duby e A. Wallon, I, Paris 1975, p. 331 ss.
15
Un elenco dei contratti con coltivatori editi (limitatamente all'Altomedioevo e all'ltalia del Nord) è in M. Montanari,
L'alimentazione contadina nell'alto Medioevo, Napoli 1979, Appendice a pp. 481-5. Un aggiornamento del medesimo
elenco è in Id., La corvée nei contratti agrari altomedievali dell'ltalia del Nord, in Le prestazioni d'opera nelle
campagne italiane del Medioevo, Bologna 1987. L'ingiunzione ricorre in questa stessa forrna anche nel citato polittico
di S. Tommaso di Reggio: medietatem cum bovis et medietatem cum manibus (Inventari, cit., pp. 196-8).
16
Esplicite indicazioni in tal senso si rinvengono nella documentazione d'Oltralpe, ove gli inventari espressamente
precisano che i dipendenti devono recarsi a lavorare il terreno dominico con i loro propri attrezzi (cfr. Delatouche,
Regards sur l'agriculture, cit., p. 78). Un capitolare di Carlo Magno dell'anno 800, relativo al pago Cenomannico ma
che può avere un significato più generale, si riferisce ai coloni tenuti ad opere di aratura «cum suis animalibus [. . .] cum
suo aratro in campo dominico», precisando che se non hanno animali a sufficienza, devono prestare opere manuali più
numerose (Capitularia Regum Francorum, edd. A. Boretius, V. Krause, Monumenta Germaniae Historica, Leges, 1,
Hannover 1883, n. 31). Nella documentazione dell'Italia del Nord mancano attestazioni altrettanto esplicite riguardo alle
corvées, ma per le opere di trasporto in alcuni contratti si fa precisare ai coloni che «si bubus non abuerimus at manibus
aciuvare debeamus» (così in P. Federici Codex diplomaticus pomposianus, in appendice, a Id., Rerum pomposianarum
historia monumentis illustrata, Roma 1781, pp. 397-591, n. LXVII, a. 1025, pp. 496s; cfr. Montanari, L'alimentazione,
Per valutare, dunque, l'adeguatezza della strumentazione agricola altomedievale, non possiamo
prescindere dall'attrezzatura dei poderi contadini. Non manca chi - sia pure in via ipotetica - sostiene
una sua migliore qualità, e maggiore consistenza, rispetto alle aziende signorili: il Modzelewski, ad
esempio, ritiene che diversamente dal signore, il colono avesse ogni interesse ad investire in attrezzi
i pur magri proventi del suo lavoro17. La tesi è interessante, ma difficilmente verificabile, dato che
sull'equipaggiamento dei poderi contadini sappiamo ancor meno di quanto si può accertare per i
centri dominici. I riscontri documentari fino al X secolo sono davvero pochi: basti pensare che su
oltre 160 contratti con coltivatori stipulati nell'ltalia del Nord fra VIII e X secolo uno soltanto
fornisce indicazioni a proposito degli attrezzi. Si tratta del contratto di livello stipulato nell'anno 853
fra il monastero veronese di S. Maria in Organo e i fratelli Lusiverto e Luvenperto, i quali «devono
premunirsi per poter mantenere, una volta scaduta la locazione, la proprietà dei pochi beni che si
sono portati dietro all'ingresso nel podere»18, e cioè, per quanto riguarda gli attrezzi agricoli, otto
zappe, cultra una, giuntezos (= correggiati) duos, falces [. . .] torias tres 19 .
Quali, in concreto, fossero i risultati di un'agricoltura praticata con tali mezzi, uniti ad una
concimazione insuffıciente e a rotazioni irregolari20, è dato rilevare dalle rese unitarie dei cereali,
che il già citato inventario del monastero di S. Tommaso ha permesso al Fumagalli di calcolare
alcuni anni or sono: esse oscillano, nelle parti domocoltili delle singole aziende, tra 1'1,7 e il 3,8 per
uno21. Più basse nelle proprietà ubicate in zone collinari o di montagna, esse risultano relativamente
più alte nelle zone più adatte alla coltivazione dei cereali dell'alta e della bassa pianura; in ogni caso
si tratta di rendimenti esigui, spia di un livello tecnologico decisamente basso. Entra però in causa a
questo punto la seconda delle due considerazioni sopra accennate: la realtà del paesaggio
altomedievale e la sua tipologia economica. In effetti, in quel sistema produttivo il settore
cerealicolo aveva una importanza relativa, in certi casi addirittura secondaria, rispetto ad altre realtà
produttive legate oltre che allo sfruttamento intensivo degli orti - soprattutto all'utilizzo degli spazi
incolti: selve, pascoli, paludi. Questi costituirono nell'Altomedioevo, non meno dei coltivi, una fonte
di approwigionamento costante per gli uomini, per la possibilità di pascolarvi grandi greggi di maiali
e di ovini e caprini, di esercitarvi la caccia, la pesca, la raccolta dei frutti spontanei22. La
caratterizzazione fortemente silvo-pastorale dell'economia altomedievale va tenuta ben presente per

cit., nota 21 a p. 231; e vedi P. Allegri, I contratti con coltivatori nella Romagna dei secoli IX-XII, tesi di laurea,
relatore M. Montanari, Università di Bologna, a.a. 1978-79, pp. 268, 281). Sulle corvées contadine vedi ora il volume
Le prestazioni d'opera cit.
17
K. Modzelowski, La transizione dall'antichità al feudalesimo , Storia d'Italia Einaudi. Annali , 1, Torino 1978, pp. 3-
109, a p. 98. Anche il Delatouche (Regards, cit., pp. 89-91) suppone una migliore attrezzatura (e una maggiore
produttività) dei poderi contadini rispetto alle terre tenute in economia dai signori.
18
V, Fumagalli, Le prestazioni di opere sul dominico in territorio veronese nel secolo IX , in Id., Coloni e signori
nell'Italia settentrionale. Secoli VI-XI, Bologna 1978, pp. 1735, a p. 28. Sul problema dei beni mobili accumulati dai
coloni nel periodo di permanenza sul podere (conquestum) e la possibilità di disporne, vedi B. Andreolli, A d
conquestum faciendum. Un contributo per lo studio dei contratti agrari altomedievali, "Rivista di Storia
dell'Agricoltura", XVIII (1978), 1, pp. 109-36.
19
V. Fainelli, Codice diplomatico veronese , I, Venezia 1940, n. 189, pp. 285-7 (ma vedi Fumagalli, Le prestazioni, cit.,
per una più corretta e completa lettura del passo).
20
Cf. Duby, L'economia rurale, cit., p. 37, Montamari, L'alimentazione, cit., p. 162.
21
Fumagalli, Rapporto fra grano seminato e grano raccolto, nel polittico del monastero di S. Tommaso di Reggio , in
"Rivista di Storia dell'Agricoltura", VI (1966), 4, pp. 360-2; Id., Storia agraria e luoghi comuni, cit., pp. 953-5. Sulla
scorta della vecchia edizione dell'inventario curata dal Torelli l'autore indicava come indice massimo di resa il 3,3 per
uno; il valore 3,8 è calcolabile per la corte centrale del monastero (per cui il Fumagalli indicava uma resa 2,8) in base
alla lettura del documento proposta recentemente dal Castagnetti (Inventari, cit., p. 196). Sulle rese cerealicole nel
Medioevo vedi, ora, M. Montanari, Rese cerealicole e rapporti di produzione. Considerazioni sull’Italia padana dal IX
al XV secolo, in "Quaderni medievali", 12 (1981), pp. 32-60.
22
Cfr. per questo soprattutto V. Fumagalli, Terra e società nell'Italia Padana. I secoli IX e X , Torino 1976, pp. 3 ss.;
Id., Il regno Italico, in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, II, Torino 1978, pp. 57 ss.; Montanari, L'alimentazione
contadina, cit., pp. 19 ss. e 221ss.
valutare nella loro giusta portata i dati forniti dalle fonti, a cominciare dalla stessa carenza di
strumenti agricoli.
La realtà fısica degli spazi incolti costituì lungo tutto l'arco del Medioevo una presenza con cui gli
uomini dovettero misurarsi quando vollero conquistare nuove terre all'agricoltura. È signifıcativo
pertanto osservare che nei documenti scritti, così come nei riscontri iconografici e nei reperti
archeologici (anche in quelli imolesi), accanto agli attrezzi per la lavorazione del suolo gli strumenti
da taglio - per diradare rovi, tagliare rami, attaccare il bosco e abbattere quella che i documenti
chiamano silva infructuosa23 - sono una costante fissa. Sotto questo profilo è particolarmente
interessante l'inventario della corte di Migliarina, nella pianora emiliana presso Carpi24. Nel X
secolo, epoca di stesura dell'inventario questa era una vera e propria corte pioniera ai margini di una
grande foresta, che nelle annate buone - quando glande bene prinde - poteva ingrassare ben 4.000
maiali25. Fra gli attrezzi di questa corte sono registrate asce, accette, scuri, seghe, pialle: dolatoria
una, secure una, secies VI, sappes VII, asia una, asione uno, rasoria una, falce potatoria una,
tappolis dai, secio uno26. Un vero e proprio corredo da boscaiolo.
Non diversamente funzionale alle caratteristiche delle terre- in buona parte incolte - che Altiperto
homo liber prende a livello nell'812, in Toscana, appare l'elenco di attrezzi che gli vengono
consegnati al momento di entrare sul podere: questo è composto di quattro appezzamenti a vigna e
di due moggi di terra ad pastenandum, per la coltivazione dei quali egli potrà utilizzare tzappa una,
marcione unum; l'altra parte del podere è formata da una cetina - zona di recente diboscamento27- di
dieci moggi: una scure, un runcone, un runcilione ed una falce mensuria costituiscono il resto
dell'equipaggiamento 28.
Se ora ci soffermiamo ad esaminare quali fossero i centri di produzione del metallo e degli arnesi
metallici, notiamo che nell'organizzazio ne economica della grande proprietà, complessivamente
tendente all'autosufficienza, la produzione di manufatti artigianali era prevista talora nei centri
dominici, ad opera dei servi prebendari.
Dal breve memoriationis dell'abate di Bobbio Wala, stilato forse fra 1'833 e 1'83529, apprendiamo
quali erano i principi ispiratori dell'organizzazione economica curtense. Si tratta infatti di uno
schema di pianificazione delle risorse dei diversi possessi del monastero, con indicazioni precise per
la loro gestione. Una serie di officine avrebbe dovuto provvedere alla fabbricazione di tutti i
manufatti necessari al normale funzionamento dell'azienda. Ogni settore doveva essere affidato ad
un responsabile, che al tempo stesso si occupasse del lavoro dei servi e dell'approvvigionamento del
materiale necessario. Così, per il settore che a noi interessa, Wala suggerisce che «camararius
abbatis provideat omnes fabros scutarios [. . .] et ipse provideat omnia ferramenta» 30. Alle diverse
necessità del grande complesso monastico, inoltre, rispondeva la specializzazione - per quanto
possibile - delle singole aziende, in base alle risorse locali: così Wala «Gardam deputavit ad oleam,
Luliaticam ad ferrum»31. Se presso questa corte, ubicata nel Pavese 32, si praticasse anche un'attività
23
Per tale espressione cfr. G. Tiraboschi, Storia della augusta badia di S. Silvestro di Nonantola , II, Codice
diplomatico, Modena 1785, n. XXXIII, a. 837, p. 50s; n. XXXVI, a. 845, p. 52 s.
24
Inventari, cit., n. X, pp. 201-4 (a cura di A. Castagnetti).
25
Il dato si ricava dalla decima (400 maiali) che la corte riscuote annualmente, se la produzione delle ghiande va bene,
dai coloni che utilizzano la selva (ivi, p. 203).
26
Ivi, p. 204.
27
Cfr. B. Andreolli, Recensione a W. Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus , Tübingen 1974, "Rivista di Storia
dell'Agricoltura», XVII (1977), 1, pp. 137-42, a p. 141.
28
Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus , cit., n. 73, a. 812; cfr. ivi, nota I a p. 145, l'identificazione di alcumi attrezzi e
di altri oggetti citati nel testo. E vedi Fumagalli, Precarietà dell'economia contadina e affermazione della grande
azienda fondiaria nell'ltalia Settentrionale dall'VIII all'XI secolo, "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XV (1975), pp. 3-
27, a p. 4s.
29
C, Cipolla, Codice diplomatico del monastero di S. Colombano di Bobbio, I, Roma 1918, doc. XXXVI, a. (833-835?).
30
Ivi, p. 141.
31
Ivi, p. 140.
32
Inventari, cit., p. 137 nota 1.
estrattiva o solo la lavorazione del metallo, non sappiamo; è certo che, negli anni successivi, dai
dipendenti di questa corte provengono manufatti in ferro: dei sette fictales registrati nel breve
bobbiese dell'anno 862, uno deve corrispondere come canone annuo cinque vomeri33, e lo stesso
numero di vomeri è tenuto a prestare ancora al momento della stesura di un secondo breve,
nell'88334. Non sappiamo invece di dove provenisse il ferro che i dipendenti della corte di Sorlasco,
nel Pavese, erano tenuti a trasportare fino a Piacenza35.
Notizie relativamente abbondanti e sistematiche sono quelle che sugli attrezzi e sul metallo grezzo ci
fornisce l'inventario dei beni del monastero femminile di S. Giulia di Brescia, databile agli anni a
cavallo fra IX e X secolo36. In esso non è documentata alcuna attività artigianale presso il
monastero; ma molti dei poderi dipendenti, ubicati nelle ricche colline metallifere delle prealpi
lombarde, forniscono come canone ferro o attrezzi già lavorati, in quantità rilevante37. 30 libbre di
ferro rendono 8 manentes insediati su una sors dipendente dalla corte di Cassivico, 60 libbre di ferro
riscuote da 83 servi la corte di Bradellas in Val Camonica; 20 libbre è il fictum corrisposto ogni
anno da un manens della corte di Borgonato; 20 vomeri, 3 scuri, una mannaia, 2 forche di ferro (che
qui compaiono per la prima volta nella documentazione medievale dell'Italia del Nord) ed altre 100
libbre di ferro vengono dai dipendenti della corte di Griliano; 5 vomeri da tre manentes di Mairano;
4 vomeri e 4 falci sono consegnati alla corte di Odolo; 130 libbre di ferro provengono dal
beneficium dell'amministratore Pietro, legato alla corte di Vuassaningus, forse Siniga in comune di
Pisogne38. Sono complessivamente 340 libbre di ferro39, 29 vomeri, 3 scuri, 1 mannaia, 4 falci, 2
forche, a testimonianza di un'attività artigiana diffusa, in zone naturalmente ricche di giacimenti
minerari ferrosi, come le colline bresciane40.
Queste notizie ci testimoniano un fatto importante: la lavorazione dei metalli non aweniva solo sui
centri dominici, ma anche (forse soprattutto) in una forma diffusa di artigianato rurale, contadino, i
cui prodotti erano destinati non al mercato - o non solo ad esso—ma alla soddisfazione delle
esigenze di autosufficienza dell'economia curtense. Pochi altri documenti lasciano intrawedere
qualche aspetto di questa attività: oltre al caso della corte bobbiese di Luliatica che abbiamo appena
considerato, due falces prataricias sono pagate come canone da due dipendenti della corte di
Verriana, nel Pistoiese, che appare fra i possedimenti del monastero di Bobbio nell'adbreviatio, non
datata, assegnabile agli anni fra IX e X secolo41.
E ancora la preoccupazione di procurarsi strumenti di lavoro dovette spingere l'abate di Nonantola
Pietro, nel 907, a commutare il canone in natura corrisposto da Gudepertus faber, titolare di un
podere nel Comasco, con il prodotto della sua attività artigianale, obbligandolo a consegnare ogni
anno, entro il mese di aprile, quindici falci prataricias, di cui vengono stabilite - fatto del tutto
eccezionale - anche le dimensioni42.

33
Ivi n. VIII/1 pp. 121-44 (a cura di A. Castagnetti), a p. 137.
34
Ivi n. VIII/2 pp. 145-65 (a cura di A. Castagnetti), a p. 158.
35
Ivi pp. 143 (a. 862) e 164 (a. 883).
36
Ivi n. V, pp. 41-94 (a cura di G. Pasquali).
37
Per la rilevanza del dato anche in un ambito geografico più ampio cfr. Duby, L'economia rurale, cit., 1, p. 32.
38
Inventari, cit., pp. 65, 72, 56-57 54, 69, 63, 71. Per l'identificazione delle località vedi (oltre alle note in calce al testo
dell'inventario) G. Pasquali, La distribuzione geografica delle cappelle e delle aziende rurali descritte nell'inventario
altomedievale del monastero di S. Giulia di Brescia, in San Salvatore di Brescia. Materiali per un museo, II, Brescia
1978,pp. 142-l67.
39
A titolo puramente indicativo si può osservare che secondo il Delatouche una buona zappa richiedeva circa 800
grammi di ferro (Regards, cit., p. 80). Il dato concorda con i reperti degli scavi imolesi di Villa Clelia: il peso dei ferri
oscilla infatti tra i 500 ed i 1200 grammi. Dunque, con 340 libbre di metallo si sarebbe potuto costruire un numero
consistente di attrezzi (anche senza assegnare alla libbra il valore ottimale di mezzo chilogrammo).
40
Sull'importanza della produzione di ferro delle miniere bresciane nel Medioevo cfr. R. Sprandel, Das Eisengerverbe
in Mittelalter, Stuttgart 1968, p. 111 ss.
41
Inventari, cit., n. VIII/3, pp. 166-175 (a cura di A. Castagnetti), a p. 173.
42
Codex Diplomaticus Langobardiae, Torino 1873, n. CCCCXXII, cc. 730-731. Per questo documento vedi anche
oltre, nota 49 e contesto.
Il terzo polo della produzione di attrezzi in ferro, assieme ai centri signorili e all'artigianato
contadino, era quello degli artigiani di mestiere, operanti nelle campagne o nelle città. Le menzioni
di fabbri specializzati si moltiplicano nei documenti già a partire dai secoli IX e X43, attestando uno
sviluppo progressivo della loro attività e della loro rilevanza sociale, collegata con una prosperità
economica che si manifesta nel possesso della terra44. Da questo punto di vista non è forse senza
significato trovare menzione di un Iohannes faber, possessore fondiario nel primo documento
imolese conservatoci, risalente all'anno 96445. Fin dal secolo X, e poi nell'XI e nel XII, la
documentazione imolese attesta una straordinaria presenza e vitalità di questa categoria artigiana,
presente sia in città sia negli insediamenti minori del contado46. Nello stesso castrum S. Cassiani,
entro la cui area sono stati effettuati gli scavi di cui ci stiamo interessando abbiamo esplicitamente
attestati almeno quattro fabbri47.
Quanto alla tipologia degli attrezzi, alla loro conformazione, alla loro efficacia d'impiego,
informazioni di questo tipo sono assolutamente eccezionali nelle fonti documentarie altomedievali:
unica nel suo genere è la descrizione dettagliata delle dimensioni che devono avere le falci fienaie
fornite al monastero di Nonantola dal fabbro lombardo sopra ricordato, secondo il contratto
dell'anno 90748. Né molto più utili risultano a tale scopo i trattati enciclopedici, come le Etymologie
di Isidoro di Siviglia o il De universo di Rabano Mauro, costellati di ardite fantasie (o, al meglio, di
dotte citazioni) anche là dove ci si attenderebbero descrizioni precise49. In realtà, soprattutto i reperti
archeologici, e in qualche misura l'iconografia, possono fornirci indicazioni concrete sugli attrezzi,
sulla loro foggia e taglia, anche se il riscontro fra menzioni scritte, immagini e oggetti è sempre
delicato e spesso problematica l'instaurazione di precise corrispondenze, a volte a rischio di
fraintendimenti50. Risultati concreti si possono tuttavia attendere, se la lettura delle fonti si unisce
all'osservazione delle immagini51 e soprattutto all'esame - a cominciare dalla pesatura - degli oggetti
giunti fino a noi.

43
Cfr. sull'argomento anche Modzelewski, La transizione, cit., pp. 75, 87.
44
Cfr. C. Violante, La società milanese nell'età precomunale, Bari 19742, p. 60.
45
S. Gaddoni G. Zaccherini, Chartularium Imolense, I, Imola 1912, n. 1, p. 4: «a tercio latere [di una «mansione que est
edificata in monte castro Imola»] tenente lobannes faber per livello de ipsius [del monastero di S. Vitale] iura».
46
Ivi, passim (si veda il dettagliato indice onomastico in fondo al II vol.).
47
Ivi,II, n. 738, a. 1140, p. 318: Ugo faber (cfr. 1, n. 78, a. 1144, p. 117: Ugo Iohannis fabri); 1, n. 208, a. 1160, p. 270
(Guido faber: cfr. n. 257, a. 1168, p. 322); n. 217, a. 1161, p. 281 (Romesinus faber: cfr. n. 218, a. 1161, p. 281); 11, n.
767, a. 1187, p. 358 (Bernardus faber).
48
Cfr. sopra nota 43 e contesto. L'interpretazione di queste misure, benché ostacolata dall'abrasione del testo nelle parti
che ci interessano, pone alcuni problemi di interesse non secondario. Il documento stabilisce, che le «falces prataricias
bonas quindecim cum [.. .] ferreas eatum [. . .] sicut necesse est segandum. Sed tale debeant esse [. . .] ut sint unaquaque
longa pedes legitimos doos manualis ad mediocrem haminem, quod sunt duos pedes, semisses quattuor [. . .]»; che a
mio awiso si potrebbe interpretare così: ogni falce sia lunga due piedi, e il manico adatto ad un uomo di media statura,
cioè lungo due piedi e quattro semissi. In questo caso ci troveremmo di fronte ad un tipo di falce fienaia il cui manico
ha scarso sviluppo in confronto alla lama forse del tipo "italico" descritto da Plinio in opposizione ad un tipo di manico
lungo utilizzato ai suoi tempi in Gallia ed in seguito diffusosi altrove (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, ed. C.
Mayheff, Leipzig 1892, XVIII, 28, 5 (261); cfr. White, Agricultural implements, cit., pp. 98-103). Caratteristica
principale di questo attrezzo è quella di tagliare l'erba non rasoterra, ma ad una certa altezza dal suolo, e di poter essere
utilizzato con una mano sola. Esso inoltre - secondo l'indicazione di Plinio poteva essere maneggiato anche inter vepres,
fra gli sterpi: destinazione, che certo poteva riuscire utile nell'Altomedioevo, quando la lotta all'incolto era un'attività
quotidiana del lavoro agricolo. Raffigurazioni medievali di falci di questo tipo provengono dall'area fiamminga dove
ancora oggi esse sono in uso (cfr. ivi, p. 89, e tav. 10).
49
Sulla sostanziale astrattezza e ripetitività dei trattati altomedievali vedi Fumagalli, Terra e società, cit., p. 157 s.
50
Per gli equivoci derivanti, ad esempio, dalla non corretta identificazione dei vari tipi di falces menzionati dagli autori
latini, in particolare a proposito della falx foenaria, cfr. J. Le Gall, Les 'falces' et la 'faux', in Etudes d'archéologie
classique, II, (à la mémoire de M. Launey), "Annales de l'Est", Mém. 22 (1959), 4, pp. 55-72.
51
Una raccolta sistematica di immagini del XII secolo (le raffigurazioni dei Mesi) che per la forte ripetitività dei
soggetti rappresentati si offrono come buon punto d'osservazione per l'indagine storica, ho condotto nella tesi di laurea,
discussa nell'a.a. 1975-76 con il prof. V. Fumagalli presso l'Università di Bologna: Iconografia e storia agraria: le
occupazioni dei Mesi nell'arte medievale padana. In particolare cf. le pp. 2 ss., per una rassegna delle problematiche
A titolo esemplificativo, vorrei soffermarmi sui problemi relativi alla identificazione dello strumento
al quale era probabilmente fissato il coltello rinvenuto nello strato altomedievale degli scavi di Villa
Clelia. Che si tratti di un attrezzo da taglio più sostanzioso che un semplice coltello appare subito
chiaro dalle sue dimensioni; la foggia ed il peso possono suggerirne l'identificazione con un coltro e
l'appartenenza ad uno strumento aratorio. A questo proposito può risultare utile un raffronto con il
peso di alcuni coltri realizzati alla metà del '400 da un fabbro casentinese. Sull'attività di questo ha
riferito Laura De Angelis, utilizzando un taccuino di lavoro in cui si trovano registrati peso e prezzo
dei singoli manufatti eseguiti dall'artigiano52.Tra questi compaiono dodici coltri, il cui peso oscilla
tra le 7 libbre e le 101ibbre e mezzo, cioè tra i 2 e i 3 chilogrammi53. Il coltro rinvenuto a Imola pesa
2 chilogrammi e 3 etti.
A che tipo di strumento aratorio apparteneva questo coltro?
Non è facile dirlo. Molto spesso degli aratri antichi non si conservano che le parti metalliche, cioè il
vomere e, quando sia presente, il coltro: ma sulla scorta di questi soli elementi non è possibile
risalire con certezza all'attrezzo originario. E questo è tanto più vero quanto più ci si allontana nel
tempo e scarsi sono i riferimenti per affrontare il problema nel suo insieme.
Quali forme e quali caratteristiche tecniche avessero gli aratri in età medievale, nelle diverse aree
geografiche e soprattutto in quella mediterranea, che è stata finora la meno studiata54, resta un
problema aperto55. La complessità e varietà di attrezzi che caratterizzano le carte etnologiche d'Italia
degli strumenti aratori56 invitano a guardarsi da eccessive semplificazioni57.
Un utile criterio di classificazione, per individuare le caratteristiche discriminanti degli aratri, è
quello che li distingue in due classi principali in base alle caratteristiche tecniche delle parti
lavoranti ed alle funzioni che esse assolvono58. Un primo tipo di aratro59 è caratterizzato dal vomere

relative alla critica delle fonti iconografiche per ricerche di interesse rurale. Su questi temi vedi ora P. Mane,
Calendriers et techniques agricoles (France-Italie, XIIe-XIIIe siècles), Paris 1983.
52
L. De Angelis, Intorno all'attività di Deo di Buono, fabbro casentinese, "Archeologia Medievale", III (1976), pp. 429-
32 (e Appendici, p. 433 ss.).
53
Ivi, p. 433.
54
Per l'Europa del Nord esistono numerosi contributi. Oltre al classico P. Leser, Entstehung und Verbreitung des
Pfluges, Münster i.W. 1931, un folto numero di interventi si può reperire nella rivista danese "Tools and Tillage" edita a
partire dal 1968 a cura di alcuni tra i più qualificati specialisti del settore: A. SteensFerg, A. Fenton, G. Lerche. Si veda
inoltre A. Steensberg, Aratro e colture nell'Europa nordica medievale, "Quaderni Storici», XXXI (1976), pp. 85-109,
con una aggiomata bibliografia. Per il Bassomedioevo, un'indagine puntuale è stata condotta da S. Anselmi, Piovi
perticari e buoi da lavoro nell'agricoltura marchigiana del XV secolo, ivi, pp. 202-28.
55
Un approccio metodologico alla problematica d'insieme, con particolare riguardo alle fonti iconografiche, è offerto da
B. Gille, Recherches sur les instruments du labour au Moyen Age, "Bibliothèqùe de l'Ecole de Chartes", 1962, pp. 1-38.
56
Si veda ad esempio in C. Grassi, Parole e strumenti del mondo contadino. L'aratro, Storia d'Italia Einaudi, VI,
Torino 1976, pp. 471-5, una carta degli aratri basata essenzialmente sulle caratteristiche costruttive degli strumenti. Per
una rappresentazione cartografica che tenga conto della distinzione di tipo funzionale, tra aratri simmetrici e aratri
asimmetrici, con particolare riguardo per questi ultimi, vedi G. Forni, Aratri ed altri mezzi tradizionali mantovani per la
lavorazione del suolo, nella storia generale dell'aratro, in Arte e lavoro nella civiltà padana, San Benedetto in Polirone
1977, pp. 213-30, a p. 223.
57
Gli studi di Steensberg relativi all'Europa del Nord e quelli di Anselmi pertinenti l'area marchigiana (vedi sopra, nota
54) invitano ad attenuare e articolare la tradizionale separazione fra Europa mediterranea, area dassica di diffusione
dell'aratro "semplice", ed Europa del Nord dove troverebbe largo impiego l'aratro "pesante". In proposito cfr. la
letteratura ricordata da Anselmi (anche se egli non ha potuto evitare un incidente di lettura dovuto alla ambigua
traduzione di un brano di J. Heers, Le Travail au moyen âge, Paris 19682, p. 19; infatti, nell'edizione italiana del lavoro
(Messina 1973, p. 24) i termini aratro e coltro mal restituiscono, in una lingua che non ha conservato due temmini
distinti per indicare i due tipi di aratro, rispettivamente i francesi charrue ed araire. Da ciò prende origine l'equivoco
per cui l'area di diffusione dei singoli strumenti è nella traduzione italiana, capovolta rispetto all'originale, inducendo
Anselmi ad accogliere questa tesi come altemativa a quella della storiografia tradizionale). La ricerca di Anselmi ha
dimostrato come si possa verificare la compresenza di diversi strumenti aratori in una stessa area, coerentemente con
esigenze diverse di coltura e di lavorazione del suolo.
58
A. G. Haudriccurt, M. J. Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue à travers les siècles, Paris 1955. Sull'importanza
e la maggiore funzionalità di tale classificazione rispetto ad altre precedenti cfr. C. Poni, Gli aratri e l'economia agraria
simmetrico, eventualmente accompagnato da due ali egualmente simmetriche, che esegue un lavoro
superficiale di scasso sollevando ai lati le zolle del terreno smosso. Asimmetriche, invece, le parti
lavoranti dell'altro tipo di aratro, in cui il vomere presenta una metà più sviluppata, e la sua azione di
taglio orizzontale della zolla è completata dalla presenza, sul medesimo lato dello strumento, di un
asse obliquo che ha la funzione di rivoltare completamente la zolla: il versoio60. Questo strumento
asimmetrico - che una proposta vorrebbe fosse chiamato plovo61, richiamandosi ad una terminologia
già in uso nei secoli scorsi in Italia62 e che si riallaccia ad una radice comune alle lingue germaniche
per indicare l'aratro asimmetrico63 - pratica sul terreno un lavoro più profondo, grazie anche
all'azione trinciante di un coltello - il coltro posto verticalmente sull'asse del timone, davanti al
vomere 64.
Se ci si è dilungati su questa distinzione è per un motivo non secondario alla questione che a noi
interessa. Infatti, molti storici sono concordi nell'assegnare alla diffusione dell'aratro asimmetrico un
ruolo di protagonista in quella che viene definita la "rivoluzione agraria» medievale, che avrebbe
interessato tutta l'Europa occidentale, compresa l'Italia settentrionale, a partire dal secolo XI65.
Tuttavia, a tutt'oggi i tempi e le aree di diffusione dell'aratro asimmetrico nell'Europa medievale
restano per gran parte da defınire66. Nulla, poi, sappiamo del suo ruolo nell'area padana. Ciò che può
essere utile in questo momento è cercare di definire i termini del problema per quanto riguarda l'area
che a noi interessa, in modo da poter mettere a frutto ogni informazione che come il ritrovamento
imolese - possa apportare nuovi contribuiti all'indagine.

nel Bolognese dal XVII al XIX secolo, Bologna 1963, p. 6. In seguito F. Sach, Proposal for the Classifcation of Pre-
lndustrial Tilling Implements, "Tools and Tillage", I (1968), pp. 3-27, ponendosi 1'obiettivo di separare nettamente il
punto di vista fommale da quello funzionale, ha inteso offrire due differenti schemi d'indagine (cioè due diversi tipi di
classificazione, che tengano rispettivamente conto della distinzione «betwecn the kind of am implement according to ils
function and the type according to its shape») per la ricerca sulle basi materiali di una società, da uma parte, e quella
etnologica dall'altra. M. J. Brunhes Delamarre, nel recensire il lavoro di Sach, esprime alcune riserve sul metodo
adottato, osservando che la ripartizione proposta non tiene conto della forza motrice («attelage») e ribadendo i pericoli
insiti in una classificazione «formaliste» degli strumenti aratori, basata unicamente sui criteri costruttivi ("Etudes
rurales", 1970, pp. 129-31).
59
Questi aratri possono avere, in circostanze deterrninate, diversi montaggi dando luogo a strumenti abbastanza
differenti tra loro. Vedi ad esempio i primi risultati di una ricerca sul campo condotta da G. Caselli, Per uno studio
tipologico dell'aratro con particolare riferimento alla regione toscana, "Archeologia Medievale", IV (1977), pp. 281-
96, che adotta, se pure con qualche riserva, la tipologia degli aratri simmetrici proposta da Haudricourt e Brunhes
Delamarre, offrendone una sintetica documentazione grafica ed iconografica.
60
Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue, cit., p. 15. La distinzione fra i due tipi di aratri, come ha
ben messo in luce Carlo Poni, già era esposta con chiarezza e proprietà di linguaggio dell'agronomo bolognese
Vincenzo Tanara, il quale, nel descrivere gli aratri in uso nel "piano" bolognese alla metà del '600, scriveva: «Il piò non
ha che una tavola e non alza che una gleba over laga. Ma l'arà, che ha due tavole quali in punta si vanno a congiunger
sopra il vomero, alza due glebe rivolgendone una da una parte e una dall'altra» (Poni, Gli aratri, cit., p. 4; cfr. V.
Tanara, L'economia del cittadino in villa, Bologna 1644, p. 411).
61
Forni, Aratri, cit., p. 35s, poi ripresa in Una proposta terminologica per semplifcare e chiarire la nomenclatura
italiana dell'aratro, "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XVII (1977), 3, pp. 137-44.
62
Forni, Una proposta, cit. pp. 140-2. Una interessante serie di dati linguistici collegati alla voce plovum, tratti
dail'Atlante Linguistico Italiano per precisare la diffusione geografica del temmine, è in G. B. Pellegrini, Terminologia
agraria medievale in Italia, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'Alto Medioevo, Settimana di Studio del
Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 22-28 aprile 1965, Spoleto 1966, pp. 605-61, a p. 620s (nota 13).
63
Diversamente che nella lingua italiana, infatti, come noto, in molte lingue europee si sono mantenuti due diversi
temmini per indicare le due diverse classi di strumenti (ibid).
64
L'impiego dell'uno o dell'altro tipo di aratro dà luogo ad una lavorazione profondamente diversa dal suolo, che lascia
tracce evidenti nei rialzi del terreno (Steensberg, Aratro e colture, cit., p. 86). Per le connessioni aratro/forma dei campi
il dibattito è ripreso nelle sue linee essenziali in Anselmi, Piovi perticari e buoi, cit., nota 9, p. 217.
65
Così, ad esempio, il Duby ritiene possa giustificarsi il «successo agricolo» verificatosi nell'Europa dell'XI-XII secolo
(Il problema delle tecniche agricole, in Id. Terra e nobiltà nel Medio Evo, Torino 1971, pp. 36-47: trad. del testo già
pubblicato in Agricoltura e mondo rurale, cit., pp. 267-83).
66
Diverse ricerche archeologiche hanno interessato l'area danubiana. Sui loro risultati cfr. Forni, Una proposta, cit., p.
139.
Molti studiosi concordano nell'affermare che il mondo romano conobbe esclusivamente aratri
simmetrici, adatti a suoli leggeri ed accidentati come quelli mediterranei, sui quali essi praticano uno
scasso non troppo profondo, che rimuove la terra evitando una eccessiva evaporazione ed erosione67.
Tra gli scrittori latini, Plinio è quello che ha descritto gli aratri in uso ai suoi tempi con maggior
ricchezza di dettagli, come sempre attento ad annotare curiosità e novità68. Come è noto, è grazie ad
un passo della sua Naturalis Historia, in cui sono elencati diversi tipi di vomeri e lame per aratri,
che siamo informati che nel I secolo d.C. era conosciuto e diffuso - perlomeno in Rezia - un tipo di
aratro dotato di un ampio vomere e che presentava una novità allora piuttosto eclatante rispetto agli
strumenti aratori mediterranei familiari a Plinio: la presenza di un avantreno a ruote69. Se un tale tipo
di aratro si sia presto diffuso anche in area padana, non sappiamo. Contribuisce però a farlo credere
la nota testimonianza di Servio, del IV secolo, che nel commentare un passo delle Georgiche (1,
174), identifica il currus del testo virgiliano con un tipo di aratro munito di ruote diffuso ai suoi
tempi nella regione nativa del poeta, l'area mantovana70.
Da un punto di vista tecnico, l'adozione delle ruote non implica necessariamente un diverso tipo di
aratura; essa tuttavia sembra rappresentare la risposta più idonea alle esigenze di lavorazione di suoli
pesanti e argillosi, dove la tendenza dell'aratro ad infossarsi non può essere facilmente arrestata -
come nei suoli più leggeri del Sud - dalla pressione del piede e della mano dell'aratore71.
L'aratro a ruote probabilmente rappresentò una fase intermedia di evoluzione dall'aratro simmetrico
a quello asimmetrico72. Grazie al miglioramento della trazione fu facilitato, su terreni pesanti e in
climi piovosi, l'impiego di un aratro che adottasse vomeri di più ampie dimensioni, rendendosi
inoltre possibili nuove e importanti trasformazioni dello strumento. L'applicazione del versoio e, più
tardi, del vomere asimmetrico e del coltro sarebbero stati perfezionamenti ulteriori dell'attrezzo, che
gli avrebbero conferito la sua conformazione più tipica ed una più completa effıcacia di lavoro.
La localizzazione e l'individuazione delle fasi di questa evoluzione presentano tuttavia alcuni
problemi, dovuti sia alla scarsità del materiale documentario che alla reale difformità del processo.
Per ciò che concerne i reperti archeologici, va tenuto presente che il vomere continuò probabilmente
a lungo ad essere fabbricato in forma simmetrica, benché montato su strumenti di tipo
asimmetrico73: ciò può rendere difficile interpretare correttamente ritrovamenti archeologici di
vomeri e capire a che tipo di aratro appartenessero. La presenza, poi, del coltro, se non è affiancata

67
In talune occasioni essi potevano essere inoltre usati obliquamente, per eseguire una aratura inclinata.
68
Le descrizioni di aratri romani giunte fino a noi non sono numerose, e per lo più attinenti alle singole parti con
particolare interesse per l'etimologia dei temmini che le designano. Uno studio approfondito di tali menzioni,
unitamente ad una documentazione relativa all'iconografia contemporanea ed ai reperti archeologici è stato condotto da
White, Agricultural implements, cit., pp. 123-45 (si vedano anche le tavv. 10, 11, 12).
69
Plinio, Naturalis Historia, cit., XVIII, 172: latior haec quarto generi et acutior in macronem fastigata eodemque
gladio scindens solum et acie laterum radices herbarum secans, non pridem inventum in Raetia Gadioe duas addere
tali rotulas, quod genus vocant plaumorati, cuspis effigiem palue habet. Il brano, lacunoso, presenta non poche
difficoltà di interpretazione, e ha dato luogo a diversi emendamenti, soprattutto per il temmine plaumoratum che
compare solo in questo passo. Cfr. White, Agricultural implements, cit., pp. 141, 213. Una aggiomata letteratura
sull'interpretazione del temmine è segnata in Forni, Una proposta, cit., p. 138.
70
Currus autem dixit propter morem provinciae suae in quo aratra habent rotas quibus iurantur (Servii grammatici qui
feruntur in Vergilii Bucolica et Georgica commentarii, ed. C. Thilo, Leipzig 1887, III, 1, 173). Motivi di ordine
filologico oltre che tecnico hanno indotto a ritenere errata l'interpretazione di Servio, che porterebbe ad anticipare di
alcuni secoli la comparsa di un avantreno a ruote fissato all'aratro. Cfr. Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et la
charrue, cit., pp. 100-2. Ancora di recente, tuttavia, Steensberg (L'aratro nell'Europa nordica, cit., p. 88) ha sostenuto
che già Virgilio «descrive un assolcatore fissato su un carro a ruote di uso comune nelle terre di Lombardia». Lo stesso
in M. Bloch, I caratteri originali della storia rurale francese, Torino 1973, p. 61.
71
Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue, cit., p. 330 ss. (anche per quanto segue). Per M. Bloch (I
caratteri, cit., p. 60) la presenza o meno delle ruote costituisce la caratteristica discriminante delle diverse tipologie di
aratri.
72
Un aratro di questo tipo è raffigurato su una formella bronzea collocata nel portale di S. Zeno a Verona, realizzata
verso la metà dell'XI secolo.
73
Gille, Recherches, cit., p. 30.
da altri elementi, difficilmente rappresenta, da sola, un elemento sufficiente a stabilire che ci si trova
in presenza dei resti di un aratro asimmetrico. Come vedremo, il coltro poteva anche far parte di uno
strumento aratorio dotato di questa sola lama74. Da ultimo, bisogna tener conto del fatto che il
versoio fu per lungo tempo costruito in legno, e quindi può non aver lasciato tracce di sé nel terreno.
Un esame sistematico della documentazione iconografica a questo proposito potrebbe offrire
informazioni molto utili, sia riguardo alla cronologia, sia riguardo a problemi più strettamente
tecnici75. Nella documentazione scritta, per l'area che a noi interessa, un primo possibile accenno
all'esistenza di due distinti strumenti aratori si trova nell'editto di Rotari (anno 643) al capitolo 288,
De plovum76. A quale tipo di aratro il termine plovum, qui giustapposto ad aratrum, si riferisca, è
impossibile sapere; è certo però che più tardi un termine derivante dalla stessa radice indichierà
l'aratro asimmetrico in molti paesi dell'Europa nord-occidentale, ed anche nella documentazione
dell'area padana e marchigiana77.
In seguito, per tutto l'Altomedioevo, la documentazione scritta dell'Italia padana non sembra fare
alcun accenno alla tipologia degli aratri, né, tantomeno, al plovum. La maggior parte delle menzioni
che abbiamo registrato sono riservate - abbiamo visto - al vomere: tra i censi in natura costituiti da
manufatti in ferro, i vomeri hanno la preminenza assoluta78; ma nulla ci è dato di sapere sulla sua
conformazione, né gli scavi, per quanto è a mia conoscenza, hanno portato nell'area padana
contributi di qualche interesse. Si potrebbe tuttavia pensare che l'assenza di menzioni dell'altra parte
dell'aratro asimmetrico necessariamente in ferro, il coltro, significhi molto semplicemente che esso
non era ancora utilizzato, e che l'unico tipo di strumento in uso sia rimasto a lungo il tradizionale
aratro simmetrico, anche sui terreni della bassa pianura padana, sui quali la sua azione poco efficace
avrebbe certamente dovuto essere completata dal lavoro della vanga.
L'unico riscontro documentario relativo ad un coltro non ci fornisce elementi sufficienti per sapere
esattamente di che cosa si tratti. In un documento dell'anno 853, in cui compare 1'unico elenco di
strumenti a disposizione di un colono, tra gli altri si trova ricordata cultra una: certo uno strumento
da taglio di notevoli dimensioni, ma non sappiamo con certezza a quale uso adibito79. In questa
situazione, il ritrovamento a Imola di un coltro, databile intorno agli inizi dell'XI secolo, costituisce
un dato di notevole interesse, che forse può indurre la soggestiva ipotesi di una precoce
testimonianza di uno strumento aratorio di tipo asimmetrico in un'area in cui esso è certamente
diffuso alcuni secoli più tardi80. Ma la scarsità di indizi documentari (scritti, iconografici,
archeologici) non permette di prendere chiaramente posizione in questo senso; né, forse, va
74
Cfr. oltre, nota 82 e contesto.
75
Si vedano ad esempio gli interessanti risultati di una breve indagine sulle miniature inglesi tra X e XIV secolo, che ha
portato ad una prima periodizzazione della diffusione di differenti strumenti aratori nell'isola (Gille, Recherches, cit., p.
10).
76
«Si quis plovum aut aratrum alienum iniquo animo capellaverit, conponat solidos tres, et si furaverit, reddat in
actogild» (Edictus ceteraeque Langobardorum leges, ed. F. Bluhme, Monumenta Germaniae Historica, Fontes iuris
Germ. antiqui in us. sch., Hannover 1869, p. 57).
77
Uno spoglio della documentazione per aree ben detemminate, volto a individuare la comparsa di termini legati alla
stessa radice del plovum di Rotari, di cui danno sporadica testimonianza i dizionari, sarebbe a mio avviso una ricerca
fruttuosa.
78
Vedi sopra, p. 159.
79
Vedi sopra, nota 19 e contesto. Ancora per tutto il Medioevo il termine mantenne questo significato: nel D e
controversia mensium di Bonvesin de la Riva (seconda metà del XIII secolo) Novembre brandisce un cultrum [. . .
acutum, quo porcos iugulat. Cfr. G. Orlandi, Letteratura e politica nei 'Carmina de mensibus' ('De controversia
mensium') di Bonvesin da la Riva, in Felix Olim Lombardia. Studi di storia padana dedicati dagli allievi a Giuseppe
Martini, Milano 1978, pp. 103-95, a p. 160 (vv. 264-5). Nella redazione volgare del componimento, ad opera dello
stesso autore, leggiamo: «Novembre à piglià in man un cortel de bechè»). Cfr. G. Contini, Le opere volgari di Bonvesin
da la Riva, Roma 1941. Sui vari significati di cultrum in età medievale vedi il Glossarium del Du Cange, s.v.
80
Esso doveva ormai essere largamente diffuso quando lo statuto della Società dei Fabbri di Bologna del 1397,
suddividendo in dieci gruppi (membri) gli artigiani del ferro attivi in città, ne disciplina la produzione prevedendo tra
l'altro la fabbricazione di coltre da pio da parte del membro dei fieri gruossi e di feracieri. Cfr. M. G. Tavoni, Gli
statuti della società dei Fabbri dal 1252 al 1579, Bologna 1974, p. 52.
trascurata l'ipotesi, sopra accennata, che una lama di tal fatta fosse collocata su uno strumento
indipendente, come quello di cui abbiamo notizia per l'età romana. L'interesse suscitato dal passo di
Plinio ricordato poc'anzi ha lasciato un po' in ombra il resto del brano, in cui l'autore descrive i
diversi tipi di lame utilizzabili per fendere il terreno. Delle quattro ricordate, una in particolare è
detta culter, ed è così descritta: si chiama "coltro" il ferro ricurvo usato per tagliare la terra dura
prima che essa venga più profondamente scassata dal vomere che ne segue le tracce81.
E questa l'unica menzione di un culter adibito ad uso aratorio negli scrittori latini. Esso è stato
identificato non come parte dell'aratro, ma come uno strumento a sé stante- simile a quello oggi
ancora in uso in alcune zone dell'area alpina- diverso e staccato dall'aratro vero e proprio, la cui
funzione è quella di tagliare il terreno verticalmente per facilitare il successivo passaggio del vomere
nell'aratura di terreni pesanti o ghiacciati durante l'inverno82. Non è da escludersi che uno strumento
del genere fosse in uso nell'Italia del Nord medievale: una verifica sul piano iconografico
renderebbe l'ipotesi più attendibile.
Allo stato attuale delle ricerche, il ritrovamento di un pezzo isolato non è sufficiente ad individuare a
quale tipo di strumento aratorio esso appartenesse. Tuttavia, nel caso imolese, sia che si voglia
attribuire il coltro ad un aratro vero e proprio, sia che si ipotizzi l'esistenza di uno strumento
separato, è chiaro che ci troviamo di fronte ad un attrezzo che risponde alla necessità di una
lavorazione più profonda del terreno83, al rinnovamento del quale non era ritenuto sufficientemente
idoneo il solo scasso del vomere di un aratro simmetrico, in un'area in cui, più tardi, l'aratro
asimmetrico avrà larga diffusione.

81
Plinio, Naturalis Historia, cit., XVIII, 171: culter vocatur inflexus praedensam, priusquam proscindatur, terram
secans futurisque sulcis vestigia praescribens incisuris, quas resupinus in arando mordeat vomer. Per le diverse
interpretazioni a cui il passo ha dato origine, soprattutto in relazione alla conoscenza a posteriori dell'impiego moderno
del coltro nell'aratro asimmetrico, cfr. White, Agricultural implements, cit., p. 132. Sull'argomento vedi G. Forni, Latino
rustico «culter» = vomere o coltello d'aratro? Aspetti ergologico-storici e semantici dell'etimologia dell'italiano
«coltro», in "Rivista di Storia dell'Agricoltura", XXVI (1986), 1, pp. 23-35.
82
Cfr. Haudricourt, Brunhes Delamarre, L'Homme et la charrue, cit., p. 108 ss. Il ritrovamento di coltri di epoca romana
in Gran Bretagna e in Irlanda ha fatto supporre ad alcuni studiosi l'esistenza di aratri di tipo asimmetrico in quei paesi
per l'epoca romana. Tuttavia, secondo Haudricourt e Brunhes Delamarre, tale interpretazione sarebbe da respingere in
quanto distorta dall'esperienza moderna (analoghi rilievi, sul piano documentario, possono essere rivolti alle
interpretazioni di cui alla nota precedente).
83
Forse non è senza significato ricordare, con Haudricourt e Brunhes Delamarre (L'Homme et la charrue, cit., p. 110),
che strumenti di questo tipo - «coutriers» - non si trovano nelle regioni mediterranee dal suolo leggero ed asciutto, che
richiede generalmente una aratura superficiale: aPline avait dû en voir ou entendre parler, à propos de régions plus
septentrionales, au climat plus humide et au sol plus profond et compact» (ivi, p.111).
I resti organici

I1 cantiere archeologico appare sempre più un laboratorio dove si incontrano e si confrontano


"scienziati" e "umanisti", dove lo stesso confine fra le due culture si confonde: non è infatti
improbabile trovare archeologi che si specializzano in settori di ricerca che sembravano off limits,
come ad esempio problemi di carattere mineralogico, petrografico e paleobotanico per poter
impostare correttamente analisi che altrimenti risultano inutili appendici ed abbellimento di edizioni
di scavo, oppure "scienziati" confrontarsi con i problemi della stratigrafia di un determinato sito per
cogliere il senso del proprio lavoro in laboratorio. I1 deposito archeologico oggi non viene più
selezionato, è esso stesso, materialmente, fonte di ricerca con il suo contenuto "naturale", attraverso
la lettura sedimentologica e dei pollini è possibile ad esempio contribuire alla ricostruzione dei
quadri ambientali, individuando diffusioni di specie arboree altrimenti non documentabili; oppure
attraverso la raccolta dei materiali osteologici contribuire ad una storia dell'alimentazione che offre
quantità e qualità di informazioni che integrano, surrogano e parlano al posto di un'informazione
scritta disomogenea e da un punto di vista cronologico e da un punto di vista geografico.
I problemi della raccolta dei dati e della loro elaborazione insieme ad una prima sintesi generale
sono i temi del saggio elaborato da Maria Ginatempo riproposto nelle pagine seguenti1 relativo al
problema di una storia alimentare fondata sulla base dei materiali archeozoologici, che pone fra
l'altro il problema del valore del campione archeologico in una prospettiva estremamente concreta e
stimolante.

1
Archeologia Medievale", XI (1984), pp. 35-61.
Maria Ginatempo

Per la storia degli ecosistemi e dell'alimentazione medievali:


recenti studi di archeozoologia in Italia

Alla storia dell'alimentazione sono possibili, com'è noto, diversi tipi di approccio. E non soltanto
in base al differente tipo di fonti utilizzate (documentarie e letterarie; archeologiche;
iconagrafiche; orali ecc.) oppure in base alle necessarie "deviazioni" specialistiche che quest'area
tematica può richiedere. L'alimentazione infatti appare come un nodo in cui confluiscono, si
intersecano e possono essere osservati molti degli aspetti o livelli secondo i quali si considera
generalmente suddivisa o composta la realtà che si vuole analizzare. A seconda delle scelte di
priorità, dunque, e analogamente ad altri was ist disciplinari, come ad esempio la cultura
materiale, lo studio dell'alimentazione può prendere direzioni tra le più divergenti.
All'interno di ogni sistema alimentare che si intende ricostruire sembrano infatti giocare
contemporaneamente: le strutture ambientali, così come sono date per condizionamento
"naturale" e soprattutto per condizionamento e modificazione umana (si mangia ciò che
l'ambiente è in grado di produrre); le strutture tecnico-produttive, sia per quanto riguarda
direttamente la produzione alimentare, sia meno immediatamente per quanto riguarda
l'organizzazione tecno-economica nel suo complesso (si ma mangia ciò che l'uomo è in grado di
produrre); le strutture degli scambi e le stratificazioni sociali, sia nel senso della circolazione e
distribuzione dei beni alimentari (ripartizione dei prodotti e differenziazioni sociali dei consumi:
non sempre si mangia ciò che si produce), sia in relazione ai modi complessi in cui i rapporti di
produzione retroagiscono o determinano la produzione stessa (ripartizione dei mezzi di
produzione e livello delle forze produttive, ma anche in senso ristretto influenza dei mercati,
ecc.); infine, ma senza pretese di esaurire l'argomento, le strutture mentali, i rituali, il linguaggio
e l'estetica alimenare, sia nel caso di preferenze alimentari non motivabili con un determinismo
tecno-ambientale, sia per ciò che concerne le tecniche di preparazione dei cibi e tutti quei sottili
meccanismi di identificazione etnica o sociale che passano attraverso il gusto e la qualità dei cibi,
o più in generale attraverso il numero praticamente infinito di associazioni alimentari possibili,
anche a partire da un numero finito di prodotti e dai ferrei condizionamenti biologici
dell'organismo umano1.
Impossibile poi dimenticare un altro aspetto fondamentale che traversa tutti quelli frettolosamente
elencati, ossia le retroazioni che le strutture alimentari hanno sulla storia del corpo. Accanto allo
studio delle tecniche del corpo e delle modificazioni storiche e sociali della struttura fiscia (e
genetica) dell'organismo umano a queste connesse, a fianco della paleopatologia e della storia
della medicina, non possono certo mancare studi che, assunta l'alimentazione come uno dei

1
Cfr. per quest'ultimo aspetto in generale A. Leroy Gourhan, Il gesto e la parola , trad. it. Torino 1977, pp. 338-45 e
F. Braudel, Capitalismo e civiltà materiale (secoli XVXVIII), trad. it., Torino 1977, pp. 126-97. Più specificamente
per il Medioevo i lavori e le tendenze ricordati in G. Piccinni, Note sull'alimentazione medievale, "Studi Storici", 3
(1982), pp. 603-15 a p. 612, in margine al convegno Problemi di storia dell'alimentazione nell'Italia medievale
promosso da «Archeologia Medievale». Su alcune preferenze alimentari divergenti dall'andamento dei prezzi dei
prodotti G. Pinto, Le fonti documentarie bassomedievali, "Archeologia Medievale", VIII (1981) pp. 39-58, a p. 57 s.
Su alcuni rituali legati al ruolo alimentare della castagna G. Chernbini, La civiltà del castagno in Italia alla fine del
Medioevo "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 247-80, a p. 279 s.
principali veicoli delle stesse modificazioni storiche del corpo umano, tendano a comprendere e
mettere a fuoco il peso delle strutture alimentari sul piano demografico, economico-produttivo2.
Un tipo di approccio, però, può essere quello che, senza operare alcuna scelta di priorità, finisce,
pur partendo da intenti rigorosamente e ottimamente interdisciplinari, per circoscrivere il campo
dell'alimentazione finalizzandolo a se stesso, per creare - analogamente a quanto è avvenuto per
la cultura materiale o per i villaggi abbandonati o per l'abitazione rurale - un contenitore
tematico, estremamente fecondo e ricco di stimoli, ma destinato quasi a essere demotivato dalle
stesse ricerche a cui ha dato origine o rinnovata vitalità. Questo tipo di approccio latente, mi
pare, in alcuni dei saggi dell'ottavo numero di «Archeologia Medievale», interamente dedicato
alla storia dell'alimentazione medievale- sembra infatti comportare alcuni rischi. Ad esempio il
rischio di un descrittivismo, connesso probabilmente con il fatto che lo scopo risulta quello di
ricostruire l'alimentazione in una data situazione, piuttosto che risalire dalle strutture alimentari
ad altre strutture portanti dello stesso contesto. Oppure il rischio opposto di uno sforzo di
modellizzazione all'interno del "contenitore" - a titolo di esempio si ricordino i tentativi di
definire una volta per tutte il motivo chiave dell'abbandono dei villaggi, che pure sono stati fatti
- sforzo che non può che vanificarsi di fronte all'evidente differenziarsi e opporsi dei contesti, di
fronte a ciò che rimane in qualche modo esogeno al "contenitore", ma che risulta alla fin fine
molto più significativo. Infine, un altro inconveniente sembra quello strettamente metodologico
dell'uso di procedimenti circolari, di serpenti che si mordono la coda, al fine di colmare le
lacune o le incertezze delle fonti. Intendo dire che quando si deve fare i conti con fonti indirette,
frammentarie o di difficile quantificazione - e se si parla di società medievale ciò awiene molto
di frequente - e all'interno di questo tipo di approccio, appare a volte legittimo owiare a carenze
o distorsioni dei dati sull'alimentazione, o meglio sui consumi alimentari, ricorrendo ad esempio
a informazioni sulla struttura ambientale o tecnicoproduttiva, e alle carenze dei dati su
quest'ultima con i dati sull'alimentazione, usando cosı indifferentemente l'uno e l'altro ordine di
informazioni, magari contemporaneamente, come indicatori e come "indicata".
In questo senso le scelte di priorità possono consentire una collocazione stabile degli indicatori
indiretti, e di conseguenza un più accurato controllo e una resa euristica migliore. Ma, un
esempio può forse chiarire meglio tutto ciò. Ammesso che solo raramente ci si trova di fronte a
situazioni di completa coincidenza di produzione e consumo, se l'interesse del ricercatore è,
poniamo, verso la capacità di resistenza alle malattie o verso i ritmi dello sviluppo puberale nei
cui confronti, com'è noto, svolgono un ruolo improtante i consumi alimentari (o meglio il
bilancio proteico), le informazioni sulle strutture ambientali, sul rapporto
agricoltura/allevamento, o in generale sulla produzione carnea o casearia possono costituire
degli ottimi indicatori indiretti e fornire preziosi elementi sulle strutture alimentari, ma è chiaro
che parleranno correttamente solo se controllati e accuratamente tarati in base alle variabili
connesse con le direzionalità sociali, sia a livello quantitativo che qualitativo, dei surplus
alimentari. Allo stesso modo, se l'interesse si dirige verso le strutture ambientali e le forme di
sfruttamento del territorio, i dati sui consumi alimentari possono dirci molto sulla produzione e
possono essere assunti come indicatori indiretti del sistema ecoculturale entro il quale sono
avvenuti, ma è necessario - prioritario, direi - trovare gli strumenti più adatti per renderli fruibili
e depurarli dagli elementi di "disturbo" costituiti essenzialmente dal divergere di produzione e
consumo, o meglio per individuare, valutare e collocare all'interno di un sistema complesso
questi stessi elementi.

2
Cfr. ad esempio M. S. Mazzi, Consumi alimentari e malattie nel Basso Medioevo , "Archeologia Medievale", VIII
(1981), pp. 321-37 e Id., Salute e Società nel Medioevo, Firenze 1978, pp. 158 ss.; A. M. Nada Patrone, Il cibo del
ricco ed il cibo del povero. Contributo alla storia qualitativa dell'alimentazione. L'area pedemontana negli ultimi
secoli del Medioevo, Torino 1981 e Id., Trattati medici diete e regimi alimentari in ambito pedemontano alla fine del
Medioevo, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 369-92; G. Forniciari, F. Mallegni, Alimentazione e
paleopatologia, ivi, pp. 353-68.
Entriamo così nel cuore stesso del discorso. I reperti archeozoologici si presentano
essenzialmente come fonti sui consumi carnei, sia perché provengono per lo più da avanzi di
pasto, sia perché il primo e più consistente livello di informazioni da essi offerte concerne
comunque il rapporto uomo/animale (sia selvatico che domestico) in termini di uccisione-
consumo, in particolare per i contesti urbani ma anche per gli insediamenti rurali3. D'altro canto,
l'interesse prevalente negli studi di archeozoologia - e in chi scrive - si focalizza sulla possibilità
di far luce sugli ecosistemi del passato4 a partire dal settore nevralgico dell'allevamento e della
produzione di beni alimentari proteici, ossia su quello che possiamo considerare come un
secondo livello di informazioni dei reperti faunistici e che si riferisce al rapporto uomo/animale
vivo. In base a questa scelta di priorità - operata sempre entro il campo della storia
dell'alimentazione o almeno a partire da esso - si determina l'oggetto della nostra discussione.
Assunta la divergenza tra produzione e consumo come asse protante dell'intera riflessione e la
subordinazione delle informazioni archeozoologiche sui sistemi produttivi a quelle sui consumi
come punto di partenza, si concentrerà l'attenzione sulla fruibilità dei reperti faunistici per la
storia degli ecosistemi medievali e su alcuni metodi per aumentare o realizzare questa fruibilità.
Si cercherà inoltre di fare il punto dei risultati a tutt'oggi ottenuti in Italia dalla ricerche in
questo senso.
L'ottica in cui Graeme Barker da un lato e Judith Cartledge dall'altro propongono di analizzare i
problemi della rappresentatività dei campioni faunistici consiste nella ricostruzione - il più
dettagliata possibile - della storia del campione stesso, dall'animale vivo al reperto che giunge
sul tavolino dell'archeozoologo dopo aver subito una serie complessa di modificazioni, sia
umane che naturali5. Judith Cartledge propone di vedere ciò come quattro processi:

1. produzione, allevamento o cattura;


2. attività successive alla morte dell'animale;
3. trasformazioni successive all'interramento;

3
A proporre di vedere le potenzialità delle fonti archezoologiche in termini di ricostruzione del rapporto
umano/animale è J. Cartledge, Faunal Studies and urban archeology, in Archeology and Italian Society, a cura di G.
Barker e R. Hodges, Oxford 1981, pp. 91-7 a pp. 91 e 93. Cfr. anche M. Montanari, L'alimentazione contadina
nell'alto Medioevo, Napoli 1979 p. 244s.
4
È naturalmente ii più vicino alle suggestioni della nuova e stimolante epistemologia archeologica (si veda sul
«paradigma ecologico» Ga. Maetzke, Metodi e problemi dell'analisi delle fonti archeologiche, "Archeologia
Medievale", VIII (1981), pp. 9-24, a p. 14s.; in generale sulla new archaeology, l'ecologia culturale e il
«materialismo antropologico», G.Kezich, Tra materialismo e metafisica. Note sulla cultura materiale, "La Ricerca
Folklorica", 2 (1980), pp. 130-5, a pp. 132-5, J. Barrau, Ecologia, in Il laboratorio dell'etnologo, a cura di R.
Cresswell, Bologna 1981, II, pp. 13-59 e anche B. Hodges, Method and Theory in medieval Archeology,
"Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 7-37; cfr. inoltre Gu. Maetzke e altri, Problemi dell'analisi descrittiva sui
siti archeologici pluristratificati, "Archeologia Medievale", IV (1977), pp. 7-45 e il più vicino agli interessi della
nuova storiografia agraria (cfr. a questo proposito quanto ricordato da M. Montanari, Storia, alimentazione e storia
dell'alimentazione: le fonti scritte altomedievali, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 25-38, a p. 32 o, a titolo
di esempio, la sintesi di G. Cherubini, Le campagne italiane dall'XI al XV secolo, in Storia d'Italia, a cura di G.
Galasso, IV, Torino 1981, pp. 265-448 o Montanari, L'alimentazione contadina, cit. o P. Toubert, Feudalesimo
mediterraneo. Il caso del Lazio medievale, ed. it., Milano 1977 sul Lazio altomedievale, o G. Pinto La Toscana nel
Tardo Medioevo. Ambiente, economia rurale, società, Firenze 1982, cap. I sulle strutture ambientali della Toscana
tardomedievale). Si veda inoltre G. Barker, R. Hodges, Archeology in Italy, 1980: new directions and mis-direcrions,
in Archeology and Italian Society, cit., pp. 1-16, in generale sui nuovi indirizzi dell'archeologia italiana. In generale
sui problemi dell'analisi dei consumi e sulla loro irrinunciabile dimensione sociale cfr. W. Kula, Problemi e metodi
della storia economica, Milano 1972, pp. 224 ss., sulle fonti archeologiche pp. 300-10. L'unico studio di
archeozoologia divergente da queste direzioni risulta quello di Ch. Beck Bossard, L'alimentazione in un villaggio
siciliano del XIV secolo sulla scorta delle fonti archeologiche, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 311-20,
focalizzato consapevolmente sulla ricostruzione dei regimi alimentari, piuttosto che dei sistemi produttivi.
5
G. Barker, Studi sulla fauna e l'economia medievale in Italia , "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 59-70, a
pp. 60 ss.; Cartledge, Faunal studies, cit., p. 91.
4. scavo (archeologico).
Barker considera l'azione di "disturbo" di 5 fattori:

1. selezioni alimentari non coincidenti con il sistema produttivo;


2. luoghi, tempi e modi di macellazione;
3. tipi di seppellimento;
4. caratteristiche del suolo;
5. metodi e tecniche di scavo.

Come si vede, Barker- che tende dichiaratamente a esaminare la rappresentatività dei campioni
fannistici per la ricostruzione del sistema economico-produttivo, mentre la Cartledge sembra
parlare in generale, pur se dichiara che il compito dell'archeozoologia è di ricostruire il sistema
di relazioni uomo/animale - si mostra più sensibile ai problemi di produzione/consumo e
considera i sistemi di allevamento (o di caccia) con tutte le loro implicazioni come la base su
cui agiscono i vari fattori di "disturbo", come il nucleo di informazioni a cui arrivare dopo aver
eliminato l'influenza di questi ultimi. La Cartledge invece sembra includere il punto nevralgico
delle selezioni alimentari nel primo processo (produzione), o nel primo e nel secondo,
stabilendo un discrimine (la morte dell'animale) che risulta tutto sommato poco significativo ai
nostri fini. Naturalmente entrambi pongono in eguale misura l'accento sulla variabile costituita
dalle tecniche di scavo e - sia pure con qualche differenza data dal fatto che l'uno pone
l'attenzione sui fattori di trasformazione e l'altra sulle trasformazioni stesse - sulla distanza che
separa l'archeologo dalle ossa animali ad attività di produzione-consumo conclusa.
È ormai quasi ovvio che diverse tecniche di scavo determinano campioni faunistici condizionati
in modo differente e a più livelli di informazione e che, costituendo il momento della
produzione dei dati, l'adozione di tecniche accurate è la prima condizione della fruibilità del
campione. Meno scontato, anzi in pieno sviluppo, è lo specifico campo d'indagine che da ciò
viene aperto: da un lato si tende a stabilire come (e quanto) e su quali informazioni agiscano le
differenti tecniche di scavo, mettendo a punto strumenti di valutazione per una migliore lettura e
per una adeguata comparizione dei campioni già prodotti; dall'altro si cerca di costruire coerenti
strategie per i casi in cui non è possibile l'applicazione integrale delle tecniche che meno
condizionano il campione faunistico (il setacciamento a secco)6. Allo stesso modo è ormai
evidente che le caratteristiche del suolo, la profondità del seppellimento, il tipo di deposito e
naturalmente le vicissitudini del contesto materiale da cui provengono i resti ossei possono
avere un'incidenza determinante sui processi di frammentazione, sulla sopravvivenza delle ossa
di questa o quella specie, di questo o di quel tipo, con queste o quelle informazioni, e di
conseguenza sulle quantificazioni che il campione consente e richiede. Anche ciò apre un
campo d'indagine teso a comprendere come e quanto queste variabili causino distorsioni sui dati
archeozoologici, e a rendere comparabili i diversi campioni, tramite accurati sistemi di controllo
e procedimenti statistici a volte molto sofisticati7.
Mai usciamo un attimo dall'ottica proposta dai due studiosi inglesi o meglio dai loro rispettivi
schemi. I problemi inerenti le tecniche di scavo e i processi di trasformazione posteriori al

6
Cfr. soprattutto, G. Barker, Dry bones? Economic studies and historical archeology in Italy , in Papers in Italian
Archeology, I, part. 1, a cura di H. Mc. K. Blade, T. W. Potter e D. B. Whitehouse, Oxford 1978, pp. 35-49, a pp. 35
s., 42 e 45; J. M. Maltby, The variability of faunal samples and thair effects upon ageing data, in Ageing and Sexing
Animal Bones from Archeological Sites, a cura di B. Wilson, C. Grigsons, S. Payne, Oxford 1982, pp. 81-90, a p. 82,
Barker, Studi sulla fauna, cit., pp. 62-4; Id., L'economia del bestiame a Luni, in Scavi di Luni II, a cura di A. Frova,
Roma 1977, pp. 725-35, a p. 725s., in rapporto agli scavi di Luni e alle variazioni dei campioni prodotti con tecniche
diverse.
7
Barker, Dry bones?, cit. p. 37, Maltby, The variability, cit., pp. 81-9 e bibliografia da entrambi riportata. Cartledge,
Faunal Studies, cit., pp. 91 e 94.
deposito delle ossa - e gli specifici campi di ricerca che essi richiedono - non sono certo meno
determinanti di altri problemi. Tuttavia, essi possono apparire agli occhi di uno storico, non
tanto un campo estraneo e specialistico al punto da indurre una sorta di delega agli addetti ai
lavori - ciò infatti può essere vero per la messa a punto di alcuni strumenti di valutazione, ma
non in generale, né nell'eventuale utilizzazione dei dati archeozoologici, né in forme più
complete e auspicabili di collaborazione 8 -, quando qualcosa di strumentale, di essenziale per la
fruibilità della fonte, ma il cui interesse si esaurisce in ciò, ossia nella funzione di depurare i dati
da fattori di vero e proprio disturbo. Infatti, si tratta di processi che avvengono come si è detto -
ad attività di produzione-consumo già conclusa e che solo secondariamente riguardano l'attività
e la vita della comunità nel preciso contesto in cui viene studiata ed è rappresentata dai reperti
osteologici (si pensi al caso limite degli scavi nei villaggi abbandonati). Inoltre, non a caso
questi processi costituiscono potenziale distorsione sia per la ricostruzione dei consumi
alimentari che per indagini sull'economia o sugli ecosistemi. Voglio giungere a dire che, a
differenza dell'analisi dei processi di trasformazione delle ossa animali nella terra,
l'individuazione e la ricostruzione di tutto ciò che succede a esse prima dell'eliminazione e del
definitivo interramento costituisce qualcosa di più che la semplice - si fa per dire - conquista di
una migliore fruibilità della fonte. Si identifica infatti necessariamente con la comprensione
raggiungibile non solo tramite informazioni "contestuali", ma anche tramite potenzialità delle
stesse fonti archeozoologiche - di alcuni importanti processi che, per awenire all'interno di un
complesso sistema socioeconomico (o ecoculturale), solo provvisoriamente possono essere
considerati fattori di disturbo. Considererei dunque i due ordini di problemi relativi alla
rappresentatività dei campioni faunistici su due piani differenti, l'uno riferito alla correttezza dei
procedimenti di produzione ed elaborazione dei dati, l'altro alla lettura e interpretazione globale
di questi ultimi.
Prima di passare decisamente ai problemi concernenti squisitamente l'uso di fonti che riflettono
prima di tutto i consumi alimentari al fine di risalire alle strutture ambientali e tecnico-
produttive (o agli ecosistemi), sembra opportuno fermare l'attenzione su alcune questioni che
riguardano la rappresentatività dei campioni faunistici nei confronti degli stessi consumi
alimentari. Questi problemi possono essere raggruppati in due ampi settori, l'uno più generale e
l'altro più specifico e direttamente collegato alla possibilità di redistribuzione delle carcasse (di
parti dello stesso animale) tra differenti luoghi di uno stesso sito o tra siti tra di loro in relazione,
ossia alle modalità e soprattutto ai luoghi della macellazione e dello scarico dei rifiuti. Se infatti
è vero che i campioni faunistici riflettono il consumo più direttamente che la produzione, è
altrettanto vero che, soprattutto in contesti urbani, luoghi differenti possono riflettere contesti
socioculturali diversamente alimentati, solo se si è in grado di verificare che non esistono
scollamenti tra il luogo di consumo e quello di scarico degli avanzi di pasto (si pensi ad esempio
la possibilità che questi ultimi o parte di essi venissero gettati fuori dalle mura della città o -
come sembra che avvenisse a Londra9 - in un fiume ecc.) o anche tra il luogo di macellazione e
seppellimento (o riciclaggio) di alcune parti della carcassa e il luogo del consumo/seppellimento
delle altre. Quest'ultimo fattore agisce in forma più mediata dando luogo a campioni che,
sbilanciati ad esempio a favore delle specie consumate intere, oppure diversamente condizionati
in differenti periodi, risultano correttamente leggibili solo dopo attenti controlli e dopo confronti
operati su larga scala, ossia tra campioni diversamente rappresentativi non soltanto di consumi
socialmente differenziati, ma anche di diversi meccanismi di macellazione-consumo-scarico10.

8
Si veda ad esempio quanto proposto in Piccinni, Note sull'alimentazione medievale, cit., p. 606.
9
Cartledge, Faunal Studies, cit., p. 94
10
Barker, Studi sulla fauna , cit., pp. 61s; Cartledge, Faunal Studies , cit., pp. 91, 94, 95; e soprattutto Maltby The
variability, cit., pp. 81-9, dove si mostra come con raffinati procedimenti e a partire da campioni ampi, numerosi e
soprattutto opportunamente differenziati è possibile distinguere tra incidenza della sopravvivenza differenziale
delle ossa nella terra, incidenza delle diverse tecniche di scavo e incidenza delle attività di macellazione-scarico.
L'esempio di quanto verificato a Exeter11 è a questo proposito illuminante, e se da un lato può
indurre un certo scoraggiamento per l'archeozoologia in Italia dove non esiste ancora nessun
complesso di campioni faunistici paragonabile a quello di Exeter per estensione, ragionata
differenziazione interna e profondità di elaborazione, dall'altro lato però ricorda
inequivocabilmente come l'arma euristica più importante, per una valida lettura di dati che presi
alla lettera o isolatamente sarebbero molto ingannevoli, risieda nella possibilità di sottoporre a
continui confronti (o integrazioni) campioni differenziati in base alle molte variabili descritte12.
Riprenderemo comunque più avanti il discorso su questa variabile in quanto, sempre a partire
dagli studi su Exeter, è stato verificato che essa agisce fortemente anche sulla determinazione
delle età di morte, cioè su un ordine di informazioni cardine ai fini della storia degli ecosistemi.
Su un piano più generale gli ostacoli più importanti che si pongono alla ricostruzione dei
consumi alimentari dai campioni faunistici possono essere identificati, oltre che nella già
accennata esigenza di disporre di campioni rappresentativi di consumi socialmente differenziati,
nella indubbia difficoltà di accedere all'universo dei valori assoluti13. Infatti, se è vero che le
fonti archeozoologiche possono fornire ottime risposte sulla reciproca importanza delle varie
risorse carnee e casearie nell'alimentazione e nella gerarchia socioeconomica dei consumi, cioè
sulla qualità dei regimi alimentari proteici e in parte sulla varietà della dieta, difficilmente esse
potranno parlare sulla quantità di questi consumi, sia in relazione alla complessiva dieta o
meglio alle diverse diete, sia in assoluto, cioè in un tentativo di definire il consumo pro capite
dei gruppi sociali14. Inoltre, queste fonti sembrano tacere anche sui ritmi stessi della dieta e sul
carattere quotidiano/festivo di alcuni consumi15. Naturalmente ciò non nega il valore di quanto
possono dirci le fonti archeozoologiche sui regimi alimentari medievali - che diventa tanto più
importante, quanto più si constata che le fonti documentarie o letterarie, dove sono presenti,
taceranno per sempre su molti aspetti pregnanti e significativamente messi in luce dai reperti
faunistici -, ma vuole solo delineare, gli spazi che rimangono estranei a queste fonti o illuminati
solo in negativo.
Veniamo dunque alle questioni centrali di questa riflessione - cioè ai modi in cui i dati
archeozoologici ci parlano degli ecosistemi - e consideriamo alcune linee generali di esse

11
J. M. Maltby, Faunal Studies or urban sites: The animal bones from Exeter , 19711975, University of Sheffield
1979, e Id., The variability, cit.
12
Si veda anche Barker, Dry bones? , cit., pp. 44-6; Id., Studi sulla fauna , cit., pp. 63-5 e 67 e Cartledge, Faunal
Studies, cit., p. 95.
13
Piccinni, Note sull'alimentazione medievale, cit.,
14
Ivi, p. 614. Ciò, pur non essendo un limite proprio delle fonti documentarie, è comunque un limite generale dello
stato attuale delle ricerche sulla storia dell'alimentazione o meglio il loro punto d'arrivo ideale. Cfr. ancora ivi, n.
39 per i casi in cui sono stati svolti lavori in questo senso, ai quali è da aggiungere il recentissimo G. Nigro, Gli
uomini dell'irco, Firenze 1983, sui consumi carnei a Prato alla fine del '300. Ancora sui consumi carnei si veda il
convincente quadro delineato da F. Leverotti, Il consumo della carne a Massa all'inizio del XV secolo: prime
considerazioni, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 227-39, mettendo in relazione le fonti sulle
macellazioni di Massa Lunense all'inizio del Quattrocento con altre fonti fiscali. Da questi due lavori emerge
chiaramente come le fonti sulle macellazioni da sole avrebbero parlato soltanto sul ruolo reciproco delle diverse
risorse carnee e non sull'ammontare relativo del consumo carneo individuale e dei gruppi sociali.
15
Anche questo è un aspetto ricostruibile solo con fonti documentarie (o letterarie). Cfr. Leverotti, Il consumo della
carne, cit., p. 233 s.; S. Frescura Nepoti, Macellazione e consumo della carne a Bologna: confronto tra i dati
documentari e archeozoologici per gli inizi del secolo XV, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 281-99, a pp.
286-8; e Nigro, Gli uomini dell'irco, cit., pp. 25-41. Sui problemi specifici delle fonti documentarie bassomedievali
e in particolari sulla tendenza di esse a illuminare prevalentemente la dieta di gruppi particolari e non sempre
socialmente rappresentativi, oppure la dieta degli strati sociali privilegiati piuttosto che quella dei ceti meno
abbienti, il mondo urbano piuttosto che quello rurale, l'alimentazione che passa per il mercato piuttosto che
l'autoconsumo, e i consumi principali (cereali o sostitutivi) piuttosto che quelli minori, ma alla fin fine connotatori
dei vari regimi alimentari, cfr. M. Aymard, M. Bresc, Nourritures et consommation en Sicilie entre XIVe et XVllle
siècle, "Mélanges de l'Ecole Française de Rome. Moyen Age-Temps modernes", 87 (1975), pp. 535-81, a pp. 535-8
e Pinto, Le fonti documentarie, cit. Per le fonti scritte altomedievali Montanari, Storia, alimentazione, cit..
prendendo l'esempio dei campioni faunistici provenienti dai contesti medievali urbani. Esiste,
infatti, la domanda se sia legittimo usare i metodi dell'archeozoologia- sviluppati nell'analisi di
comunità preistoriche, dunque in situazioni di sostanziale autosussitenza - per lo studio della
società medievale, e soprattutto bassomedievale, la quale, nonostante la permanenza di enclaves
protostoriche e gli indubbi caratteri di arretratezza agraria, è indiscutibilmente una società
complessa, stratificata e urbanizzata. Ma, porsi questa domanda in generale può non essere un
buon punto di partenza o può condurre ad affermare conclusioni, come ad esempio quella di
ritenere legittima l'archeozoologia solo in situazioni di identità di produzione/consumo (in
contesti altomedievali ad esempio, o nelle enclaves di cui sopra, o ancora solo in contesti rurali
particolarmente arretrati ecc.)16. Cosa che appare un po' come gettar via il bambino con l'acqua
di bagno.
È chiaro infatti che i campioni faunistici urbani, oltre a presentare i problemi più sopra descritti,
avranno nei confronti dell'ecosistema prevalente o meglio del sistema agrario che connota il
territorio una rappresentatività molto attenuata o problematica, così come è chiaro che il
consumo alimentare da essi indicato non rifletterà che una parte (forse piccola) della produzione
agricola dell'area territoriale in cui il sito urbano è inserito. Tuttavia, anche se non sempre si può
dire che in un contesto urbano la relazione uomo/animale si limita a quella uomo/animale
morto, o acquistato presso i produttori e strettamente finalizzato al consumo17, è molto probabile
che campioni del genere riflettano un consumo privilegiato, in altre parole una produzione
specificamente diretta al mercato urbano e da esso influenzata, un drenaggio (spazialmente ben
connotato) di eccedenze agricole. Come non considerare che, anche quando il sistema agrario
dello stesso contesto storico dovesse risultare del tutto eterogeneo a quello che il campione
faunistico urbano superficialmente assunto indicherebbe, un tipo di produzione del genere esiste
e trova posto in un sistema non necessariamente omogeneo, ma profondamente stratificato e
discontinuo? Come trascurare, su un piano diverso di riflessione, che le fonti archeozoologiche
consentono, ad accurate letture e tramite adeguati confronti tra dati provenienti da contesti
differenziati in un'area territoriale, di far luce sul problema della direzionalità dei surplus, sulla
distribuzione dei prodotti o ancora sulla diversificazione della produzione indotta dalla
domanda urbana? Certo, i problemi in questo senso sono molti: una volta verificata l'attrazione
del mercato (e del macello) urbano - nota giustamente J. M. Maltby18 -, come rapportare tra loro
quantitivamente i diversi tipi di produzione animale dei singoli siti o aree del territorio, quella
ad esempio di carne diretta al consumo urbano (e rappresentata nei campioni faunistici della
città, ma difficile da quantificare in generale e anche perché i prodotti provenienti da varie parti
del territorio sono raggruppati insieme, con scarse o nessuna possibilità di distinzione), con
quella diversamente finalizzata o direttamente consumata dalle comunità? Come valutare
l'importanza relativa dei diversi indirizzi produttivi dell'allevamento nel sistema agrario, e
16
Anche porsi questa domanda in relazione ai contesti medievali urbani puù portare a conclusioni che prestano il
fianco a critiche. Ad esempio Cartledge, Faunal Studies, cit. p. 93s. argomenta che 1'archeozoologia medievale è
legittima e remunerativa perché le sue difficoltà rispetto a quella preistorica non sono maggiori, grazie alla
possibilità di informazioni "contestuali" (ma la questione non sembra essere quante difficoltà esistano, quanto
piuttosto quali e quanto risolverle sia fecondo), e che l'archeozoologia urbana godrebbe in più di una serie di
"semplificazioni" date dalla particolare struttura sociale urbana—come ad esempio l'accentramento delle attività di
macellazione e raccolta dei rifiuti, il fatto che il rapporto uomo/animale si riduce a quello uomo/prodotti animali
(fauna domestica) - e note già, almeno a livello generale, per gli studi sul contesto storico. Questo tipo di
argomentazioni, se non si indica insieme quali sono le potenzialità informative delle fonti archeozoologiche e se non
si ha presente che la corrente di informazioni tra queste fonti e quelle sui "contesti" è e deve essere a doppio senso
rischia di far pensare che il ruolo dell'archeozoologia sia solo di confermare alcune tendenze generali già individuate
per altra via, ossia che si riduca a ben poca cosa.
17
Così Cartledge, Faunal studies , cit., p. 94, si veda nota precedente. Su forme di allevamento di bestiame
all'interno delle mura cittadine, cfr. ad esempio Porci e Porcari nel Medioevo, a cura di M. Baruzzi, M. Montanari,
Bologna 1981, p. 70.
18
Maltby, The variability, cit., p. 87 s.
soprattutto come individuare la soglia dopo la quale l'influenza del mercato urbano diventa
fattore di trasformazione strutturale dello stesso sistema agrario?
Sono domande a cui al momento non è certo facile (o possibile) rispondere; tuttavia, esse
spingono a riflettere sul fatto che, pur se le città sono state definite «anomalie del
popolamento»19, è vero che nulla ci può essere di anomalo o di esogeno, se si considera una
civiltà come un sistema complesso, e che in un ottica più globale è errato identificare il sistema
agrario con il sistema ecoculturale. Il problema è semmai - e soprattutto ciò è un'esigenza
irrinunciabile per gli archeologici e per dar luogo a coerenti strategie di scavo - di individuare
un certo numero di modelli spaziali20 che servano da guida e da punto di partenza alle ricerche
storiche e archeologiche in questo senso. Inoltre, è bene soffermarsi ancora sull'ultima delle
domande avanzate- domanda urbana e trasformazioni strutturali del sistema agrario - in quanto
contiene delle implicazioni importanti e non esenti da equivoci.
A volte, infatti, si è portati ad assumere che a un aumento della popolazione urbana e anche a un
miglioramento delle sue condizioni di vita - delle quali i regimi alimentari sono evidentemente
un aspetto importante - debbano corrispondere un aumento della produttività delle campagne e
una ristrutturazione del sistema produttivo21. Questo datato, ma tenace modello - per il quale
alcuni studiosi anglosassoni spezzano ancora qualche lancia - proviene, com'è noto, dagli studi
sull'evoluzione post-medievale che la realtà inglese ha conosciuto ed è per essa probabilmente
valido. Ma, se viene trasportato di peso non solo alla realtà mediterranea, ma anche al Medioevo
rurale mediterraneo, interpretando l'espansione urbana dei secoli XI-XIII come prova
dell'aumentata produttività delle campagne22, esso rischia di appannare la comprensione di più
di un carattere di arretratezza e di contraddittorietà della cosiddetta colonizzazione medievale e
della sostanziale fragilità del sistema agrario mediterraneo. Tutto ciò è stato ampiamente
superato dalla storiografia agraria contemporanea23, tuttavia una certa rigidità teorica,
nell'interpretazione dei dati sulle eccedenze agricole e nella fattispecie quelli sui consumi carnei
privilegiati, può viscosamente persistere e far dimenticare che probabilmente non è il volume
delle eccedenze a caratterizzare e differenziare le civiltà precapitalistiche (o non è soltanto esso)
ma tutta un'altra serie di processi, tra i quali quelli di stratificazione sociale, direzionalità e
intensità di drenaggio dei surplus stessi.
Torniamo all'interpretazione dei dati archeozoologici. Da un lato si situa dunque l'ipotesi che
l'aumento della popolazione urbana sia leggibile in essi come miglioramento della qualità del
bestiame e del suo sfruttamento in direzione della produzione carnea, in altre parole come
aumento della produttività animale in inscindibile relazione con quello della produttività
agricola in generale24. Dall'altro è inevitabile la riflessione che non è affatto automatico che

19
Braudel, Capitalismo e civiltà materiale, cit., p. 380.
20
Sul problema della costruzione e applicazione dei modelli "spaziali" per la nuova archeologia, Hodges, Method
and Theory, cit., pp. 13 ss.
21
Ad esempio Barker, Studi sulla fauna , cit., p. 67 s., nel riferire sugli studi di Exeter, per i quali (cfr. Maltby,
Faunal Studies, cit.) quando descritto rappresenta l'ipotesi di ricerca; così anche in Cartledge, Faunal Studies, cit., p.
93.
22
Ciò è latente anche nell'opera meno recente di P. Jones, cfr. P. Jones, Per la storia agraria italiana nel Medio
Evo: lineamenti e problemi, in Id., Economia e società nell'Italia Medievale, Torino 1980, pp. 191-247, a pp. 194s.,
202-4 ecc. (l'anno si riferisce all'ultima edizione italiana, prima ed. 1964).
23
Sui caratteri di arretratezza dell'agricoltura mediterranea e dell'espansione dei secoli XI-XIII, si veda ad esempio
P. Jones, La società agraria medievale all'apice del suo sviluppo. L'Italia, in Storia economica Cambridge, 1,
L'agricoltura e la società rurale nel Medioevo, Torino 1976, pp. 412-526, particolarmente a pp. 446-65, oppure
Cherubini,—Le campagne italiane, cit., soprattutto a pp. 271-315 e 326-35, o ancora G. Haussmann, Il suolo nella
storia d'Italia, in Storia d'Italia Einaudi, I, Torino 1972, pp. 61132, a pp. 73-102, o il "dassico" F. Braudel, Civiltà e
imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino 1976 pp. 245-54 o pp. 44-80. Sulla fragilità dell'assetto tecno-
ambientale nella Toscana medievale cfr. Pinto, La Toscana nel Tardo Medioevo, cit., p. 23. Sui processi di
degradazione dei boschi mediterranei cfr. E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi, Torino 1981, pp. 3-100.
24
Maltby, Faunal Studies, cit., e Barker, Studi sulla fauna, p. 67s.
l'incremento demografico urbano significhi un aumento nella domanda di carne, né che
l'aumento della domanda e dei consumi carnei urbani costituisca un reale ed efficace stimolo
per la produttività e per la trasformazione dei sistemi agrari.
Questi infatti potrebbero trovarsi al centro di numerosi circoli viziosi che impedirebbero o
ridimensionerebbero in modo deciso ogni sviluppo. Verificare l'una e l'altra tendenza, com'è
facilmente intuibile, è molto più che arduo. Basti dire, però, che da un lato negli studi
archeozoologici su Exeter25 viene ribadita, in relazione ai dati medievali, l'assenza di nesso tra
incremento demografico urbano e ristrutturazione del sistema agrario, mentre dagli studi
sull'alimentazione siciliana emerge prepotentemente come i consumi carnei del Bassomedioevo
e dell'età moderna seguano le curve demografiche in funzione nettamente inversa, cioè che
all'aumento della popolazione non corrisponde un aumento della produzione, ma un aumento
dei prezzi dei prodotti carnei e un peggioramento della qualità e della quantità
dell'alimentazione26. In generale poi, è da credere che in contesto mediterraneo, dove mezzadria
o colonia parziaria, transumanza e latifondo connoteranno la realtà agraria fino alle soglie
dell'età contemporanea, anche i dati archeozoologici post-medievali parlerebbero in senso
contrario all'ipotesi "inglese"27 .
Tuttavia, le potenzialità delle fonti archeozoologiche non si limitano al pur prezioso contributo
circa la dimostrazione che la realtà mediterranea è uno spazio bianco rispetto al cosiddetto
"modello inglese". Queste fonti, infatti, nonostante tutte le cautele espresse fin qui e nonostante
si debba passare sempre attraverso il filtro costituito dai consumi alimentari e dalle implicazioni
e deviazioni che essi comportano, possono fornire decisive informazioni su quello che è stato
definito «un carattere strutturale del modo di produzione mediterraneo»28, ossia sull'incapacità
del sistema produttivo di integrare organicamente - forse nemmeno nel modo ancora arretrato e
circolarmente vizioso proprio dei paesi d'open field - agricoltura e allevamento e sulla tendenza
opposta a tenere l'animale al margine della vita e delle pratiche agrarie. Sarebbe a dire che
possono dirci molto, e su una scala potenzialmente priva dei limiti cronologici e spaziali propri
delle fonti documentarie, su uno di quei circoli viziosi che sembrano aver svolto un ruono non
indifferente nel rendere l'agricoltura mediterranea incapace di trasformarsi strutturalmente per
secoli, nonostante la presenza di eventuali stimoli allo sviluppo quali i mercati, la domanda
cittadina e i suoi incrementi ecc. Questi ultimi, e in particolare la domanda urbana, potrebbero
essere stati soddisfatti secondo soluzioni (e feed-back negativi) specificamente mediterranei (il
sistema mezzadrile ad esempio, o altre forme di intensificazione del drenaggio dei surplus), sui
quali le stesse fonti archeozoologiche hanno qualcosa da dirci.
Inoltre, possono fornirci informazioni sull'utilizzazione (stagionale o no) degli spazi incolti, del
patrimonio boschivo o meno in generale, sullo sfruttamento delle risorse carnee provenienti da
quelle popolazioni animali che legano il loro ciclo biologico al bosco e alle sue variazioni
storiche o comunque all'outfield.
Come dar torto dunque a Graeme Barker quando, dopo aver individuato nell'interpretazione
delle fonti archeozoologiche tre livelli di complessità crescente - dalla dieta della singola

25
Maltby, Faunal Studies, cit., e Id. The variability, cit.
26
Aymard, Bresc, Nourritures cit., pp. 549 ss., A. Giuffrida, Considerazioni
sul consumo della carne a Palermo nei secoli XIV e XV, "Mélanges de l'Ecole
Française de Rome, Moyen Age-Temps modernes", 87 (1975), pp. 583-95, a
p. 594, Cherubini, Le campagne italiane, p. 328.
27
Cfr. a titolo di esempio C. Pazzagli, L'agricoltura toscana nella prima metà dell'Ottocento , Firenze 1973, pp. 235-
312.
28
Toubert, Feudalismo mediterraneo , cit., p. 69. Ma sul contrapporsi di agricoltura e allevamento come limite e
contraddizione di fondo dell'agricoltura mediterranea cfr. anche gli studi citati alla nota 23 e soprattutto Jones, La
società agraria, cit., e Cherubini, Le campagne italiane, cit. In relazione alla Toscana ottocentesca e al sistema
mezzadrile (nel suo punto di maggiore perfezionamento) cfr. Pazzagli, L'agricoltura toscana, cit.,pp. 60ss e 235-312
(allevamento), 322-31 (concimazioni).
comunità, alle sue basi economiche e i suoi sistemi di sussistenza, ai sistemi di redistribuzione
in complesse economie di mercato, dall'animale nella dieta, al ruolo delle popolazioni animali
nell'ecosistema e nell'economia-, definisce gli studi e le tecniche archeozoologici «the
archaeological key to understanding the changing relationship between town and country»29?
Oppure quando definisce questi studi come parte essenziale di un approccio completo al sito e
al territorio e come un grosso sforzo richiesto all'archeologia e agli archeologi, che non si
pentiranno certo per averlo fatto e ne raccoglieranno i frutti30?
Ma vediamo in modo più dettagliato quali sono le informazioni fornite dai reperti ossei animali.
Generalmente da essi vengono tratti questi ordini di dati:

1. diverse specie animali;


2. relativa importanza di ciascuna specie nel campione, calcolata tramite:

a) numero dei frammenti;


b) numero minimo di individui;
c) peso dei frammenti;
d) stima della carne;

3. età al momento della macellazione o della morte;


4. dimensioni, da cui possono essere dedotte;

a) sesso;
b) razze;
c) livelli nutritivi;

5. composizione anatomica, tipo di frammentazione e macellazione, stato di conservazione e


resistenza/fragilità.

Quest'ultimo ordine di dati rappresenta naturalmente lo strumento con il quale saggiare


l'incidenza delle variabili che vanno dalle tecniche di scavo, alle trasformazioni posteriori al
deposito, ai meccanismi di macellazione-consumo-scarico, mentre il primo svolge il ruolo di
delimitare l'universo significativo dei frammenti identificabili, a volte meno della metà delle
ossa rinvenute31. Il secondo e il terzo invece costituiscono allo stesso tempo il nucleo principale
e più fecondo di informazione e il settore più delicato, più soggetto alle variabili di disturbo e
più problematico. Se ciò è più che ovvio nei confronti del calcolo della frequenza relativa delle
diverse specie animali, che dovrebbe costituire, al di là delle distorsioni informative, lo specchio
della relativa importanza delle risorse carnee provenienti da ciascuna specie nel regime
alimentare e in seconda istanza quello del ruolo di ciascuna specie nella produzione,
nell'economia e nell'ecosistema, meno owio è invece nei confronti dell'età di morte. Queste
infatti insieme al sesso e alle misure di ciascun tipo di popolazione animale, dovrebbero
indicare in modo abbastanza diretto la natura dello sfruttamento di ogni specie da parte
29
Barker, Dry bones? cit., pp. 40 e 46.
30
Id., Studi sulla fauna, cit., p. 68.
31
Barker, Dry bones?, cit., p. 37. Il problema della identificazione delle specie nel campione non è certo da
sottovalutare e un aspetto di esso è ad esempio l'impossibilità in molti casi di distinguere i resti caprini e ovini (ciò è
stato possibile finora solo nel caso di S. Maria in Cività, cfr. R. Hodges, G. Barker, K. Wade, Escavation at D85
(Santa Maria in Cività): an early medieval hilltop settlment in Molise, "Papers of British School at Rome", 35
(1980), pp. 70-124, a p. 102s.). Sulla maggiore pericolosità (ecologica) dell'allevamento caprino rispetto a quello
ovino e sulla distruttività del morso delle capre, cfr. ad esempio, Sereni, Terra nuova, cit., pp. 42-4. Per ciò in
relazione alla "civiltà del castagno" e su alcune norme che regolamentavano rigidamente l'allevamento caprino, cfr.
Cherubini, La civiltà del castagno, cit., p. 262.
dell'uomo (naturalmente si prendono in considerazione quasi soltanto le specie principali di
allevamento). È stato tuttavia verificato - sempre a partire dai dati di Exeter- che le attività di
macellazione possono spesso distruggere ossa con informazioni sull'età o meglio causare una
loro diversa dislocazione in più luoghi del sito e dunque campioni diversamente condizionati32.
Ciò naturalmente agisce soprattutto per i campioni piuttosto ampi, quelli cioè che consentono
una vera e propria quantificazione delle varie età di morte, mentre la maggioranza dei campioni
italiani sembra consentire a questo proposito solo valutazioni poco più che indicative.
Comunque non è solo la ridotta dimensione dei campioni a causare questo: attraverso la fusione
delle epifisi infatti è possibile ottenere solo indicazioni approssimativamente ante quem o post
quem, mentre l'analisi condotta attraverso la dentizione e l'usura dei denti risulta più precisa, ma
per lo stato ancora pionieristico di queste tecniche, ancora approssimativa. Sia l'una che l'altra
tecnica si basano inoltre su parametri tratti dalla moderna zootecnia e inducono dunque a una
complessiva sottovalutazione delle età di morte del bestiame medievale. I dati o meglio le
indicazioni in questo senso vanno dunque assunti in generale, come ordini di grandezza e mai
come precisi e assoluti valori33 . Queste informazioni sono tuttavia essenziali in quanto indicano
l'indirizzo produttivo dell'allevamento. Ad esempio, per quanto riguarda i caprovini, una
prevalenza di bestiame femminile adulto, accanto a resti di agnelli o castrati, indica una
produzione prioritariamente casearia, mentre la prevalenza di bestiame ovino adulto dei due
sessi indicherebbe una specializzazione verso la produzione di lana e la predominanza di
animali giovani o giovanissimi una produzione destinata a soddisfare una domanda di carne34.
Per i bovini, un campione faunistico composto da resti di bestiame adulto o decisamente
vecchio indica che l'animale ucciso era alla fine del suo ciclo lavorativo (le bestiae inutiles)35,
che la funzione principale di questa specie era l'armatura, o in generale la produzione di energia
meccanica e che poco spazio per essa rimaneva nel sistema agrario36. Viceversa una presenza
più o meno alta di bestiame bovino giovane indica un indirizzo dell'allevamento verso la
produzione carnea e probabilmente importanti trasformazioni nel sistema agrario e nelle
tecniche agricole (tra cui l'introduzione delle colture da foraggio).
Non sempre però i dati archeozoologici sono così caratterizzati e leggibili, anche perché spesso
ci si trova di fronte, oltre a particolari forme di consumo, anche sistemi produttivi
effettivamente poco specializzati e in cui alcune specie - particolarmente i caprovini - erano
allevati con una polivalenza di funzioni. Inoltre, è ovviamente necessario tenere conto
dell'importanza relativa delle tre specie principali e del ruolo delle specie selvatiche. Ad
esempio nel caso di una netta predominanza di caprovini nel campione e di una struttura d'età
ben connotata da femmine adulte e maschi molto giovani, è possibile pensare a una primitiva
economia pastorale37, tanto omogenea ed estesa da non ammettere consumi carnei privilegiati se
non entro i limiti costituiti dal surplus di agnelli (semmai è da verificare la direzionalità di
questi ultimi e dei prodotti caseari). Ma, quando questa specie occupa un posto minore o anche
quando la struttura d'età (e di sesso) si limita a indicare la presenza di animali sia giovani che
vecchi, è più giusto pensare a una produzione poco specializzata (in contesto rurale) o a un
consumo solo in parte privilegiato o ancora a una debole influenza della domanda di carni
migliori (in relazione a campioni urbani, o provenienti da siti per altri motivi privilegiati).
32
Maltby, The variability, cit., si veda anche nota 10.
33
Barker, Dry bones?, cit., p. 38. Si stanno però mettendo a punto nuovissime tecniche che dovrebbero consentire
indicazioni assolute sull'età di morte e che si basano sulle linee di crescita leggibili nelle sezioni dei denti reperiti,
cfr. J. P. Coy, R. T. Jones, K. A. Turner, Absolute agening of cattle from tooth sections and its relevance to
archeology, in Agening and Sexing, cit., pp. 127-40 e in generale tutto il volume di cui questo lavoro fa parte.
34
Barker, Studi sulla fauna, cit., p. 59 s.
35
Jones, Società agraria, cit., p. 464.
36
Sui limiti tecnologici e del sistema agrario che si celano dietro a ciò Braudel, Capitalismo e civiltà materiale , cit.,
pp. 250-9, 80-2, e in generale gli studi citati alle note 23, 28 e 35.
37
Barker, Studi sulla fauna, cit., p. 59 s.
Laddove un bestiame bovino macellato invariabilmente adulto non lascia dubbi sul tipo di
sistema agrario (e tecnologico) dell'area territoriale in esame, la presenza di bovini più giovani
risulta di problematica interpretazione, sia per le oggettive difficoltà di quantificazione di questi
dati, sia perché implica l'intera questione del rapporto tra domanda urbana e trasformazioni
tecno-produttive dell'agricoltura e socioculturali dell'ambiente e richiede l'analisi della natura
del campione e del contesto storico più generale.
Per quanto riguarda i suini, la popolazione animale più direttamente legata alla funzione di
produzione di proteine nobili e, per antonomasia, la più "economica" - nel senso del lavoro e del
grado di sviluppo tecnoambientale che richiede-, le informazioni sull'età risultano secondarie e
ci parlano, insieme a quelle sulle misure, più dei livelli nutritivi, dei ritmi di crescita e del grado
di specializzazione del loro allevamento, che della loro funzione nell'economia- questa viene
indicata già in modo ampio dalle frequenze nel campione.
E tuttavia interessante notare, in base al suggerimento di Graeme Barker38, come una
predominanza crescente dei suini rispetto alle altre specie possa indicare processi degnerativi
dell'economia agraria e delle strutture ambientali, specie se in zone marginali o che per un
motivo o per l'altro si apprestano a diventare tali. Questo suggerimento richiede comunque
alcune sfumature e precisazioni, o meglio un'applicazione attenta al tipo di contesto in cui si
riscontra la predominanza o l'aumento dei suini. È vero infatti che i maiali non sono soltanto la
popolazione animale più "economica", ma anche, in quanto onnivori, potenziali concorrenti
ecologici dell'uomo39 e conseguentemente potenziale sintomo di disfunzioni a livello del
rapporto popolazione/risorse. Ma è vero anche che la prevalenza dei suini, soprattutto se si
considera che i campioni fannistici ci parlano soltanto in termini di rapporti percentuali tra le
varie specie e non dei valori assoluti di ciascuna di esse, può indicare fenomeni diversi e anche
contrapposti. È nota ad esempio l'importanza dei suini nel sistema agrario altomedievale -
almeno in relazione all'area padana-, all'interno del quale essi risultano lo specchio del ruolo
decisivo dell'economia silvo-pastorale, della disponibilità e del "libero" accesso alle risorse dei
boschi e dell'incolto, e infine di un regime alimentare variato e probabilmente più equilibrato o
elastico di quelli dei secoli successivi all'XI40. D'altro canto una presenza dominante dei suini
può indicare un equilibrio in cui si è esasperata anche a sfavore dei caprovini la tendenza a
tenere l'animale al margine di un sistema che non consente la produzione o il reperimento del
nutrimento per esso, ovvero un sufficiente rapporto ager/saltus. Un equilibrio in cui i suini, per
le loro capacità di riciclare i rifiuti o in generale per il loro carattere "economico", risultano
l'unica possibile fonte di proteine nobili, accanto a pochi caprovini allevati con più funzioni,
eventualmente il bestiame da cortile e ancor meno bovini tenuti al minimo indispensabile per
l'aratura. Ancora, è da rilevare come nemmeno la verosimile relazione bosco-incolto/maiali in
contesti altomedievali sia da assumere in modo automatico in quanto è possibile che, per motivi
tutti da indagare, l'outfield venisse utilizzato in modo diverso da quello che è stato definito
modello "longobardo", ossia che non si verificasse la scelta nei confronti della popolazione
suina41. Da un lato, dunque, una situazione di scarsa o scarissima pressione demografica e di
larga disponibilità di risorse - sia pure in termini di prelievo da bosco e incolto - e la scelta
"culturale" verso i suini, dall'altro in sistema che, in opposte condizioni demografiche e in un
capovolto rapporto di ager/saltus-silva, trova i suoi equilibri (o le sue precarietà)
nell'esasperazione della cerealicoltura. Conseguentemente a ciò l'aumento dei maiali oltre una

38
Barker, L'economia del bestiame, cit., p. 729 s., in relazione ai dati di Luni. Cfr. anche Barker, Dry bones?, cit., p.
42 s.
39
Cfr. ad esempio Barrau, Ecologia, cit., p. 51 s. e R. A. Rappaport, Maiali per
gli antenati. Il rituale nell'ecologia di un popolo della Nuova Guinea, Milano
1980, pp. 192 ss.
40
Montanari, L'alimentazione contadina, cit., pp. 225-44, 425-31 e 469-80.
41
Baruzzi, Montanari, Porci e Porcari, cit., p. 20s. e Montanari, L'alimentazione contadina, cit., pp. 245-50 e 402-4.
certa soglia - il problema è stabilire quale - può significare certo la rottura di alcuni equilibri, ma
in più sensi: da una parte crisi territoriale da spopolamento e «deumanizzazione", boschi e
paludi che avanzano, o ancora processi di marginalizzazione di alcune microregioni; dall'altra
l'esplosione delle contraddizioni proprie di un certo tipo di economia contadina, il superamento
delle soglie di tollerabilità dell'ambiente nei confronti di irrazionali sfruttamenti agricoli e nei
confronti di una popolazione animale che non è certo tra le meno pericolose42.
È ora venuto il momento di saggiare concretamente le potenzialità di queste fonti sulla base di
quanto a tutt'oggi si è fatto in Italia in termini di produzione di dati e di interpretazioni di questi.
A ciò è opportuno premettere che un tentativo, non tanto di sintesi, quanto di intensificazione
dei confronti tra dati provenienti da contesti differenziati, incontra grossi limiti nello stato stesso
delle ricerche e nel fatto che non sempre al momento attuale i campioni faunistici si presentano
legittimamente comparabili o che non sempre è possibile, sulla base di ciò che è attualmente
edito, ricostruire e impadronirsi dei necessari strumenti di stima in relazione alle numerose
variabili - di disturbo e no - descritte sopra. Per una disciplina in rapido e recente sviluppo ciò è
naturalmente inevitabile, e costituisce piuttosto un sintomo di vitalità che un segno negativo.
Inoltre, appare comunque opportuno tentare uno sforzo di sistèmatizzazione, che, per quanto
prowisorio, tenda a evidenziare le acquisizioni più importanti e i settori che più richiedono
approfondimento o verifica, e cerchi di cogliere in una visione d'insieme indicazioni che
altrimenti rimarrebbero nelle pieghe dei singoli lavori o del tutto in ombra. Questo anche se i
risultati che emergeranno da alcuni confronti andranno completamente rivisti nel volgere di
poco tempo, non appena cioè i progressi di questi studi daranno luogo a altre possibilità di stima
e lettura dei campioni faunistici.
L'area geografica attualmente toccata dagli studi di archeozoologia medievale comprende, oltre
alla Liguria, alla Lunigiana e alla Maremma toscana e laziale—le regioni meglio rappresentare -
, l'Umbria, la Lombardia e l'Emilia, il Molise e la Sicilia (che tuttavia resterà fuori dal nostro
discorso). Per il Molise si tratta di un insediamento rurale abbandonato prima del X secolo (un
piccolo centro di sommità), poi si dispone di due campioni coevi (XV secolo) per Bologna, di
parecchi campioni per la Torre Civica di Pavia dall'XI secolo ai giorni nostri, di dati
bassomedievali (XIII-XV) per la Rocca Posteriore di Gubbio (sede di una guarnigione). La
Maremma è rappresentata dai dati su Scarlino (XI-XII secolo e XV) e sulla fortezza di Grosseto
(XI-XIII e XIV) e dai ricchi campioni di Tuscania (seconda metà del Duecento, 1350 circa,
primo Quattrocento, prima metà Quattrocento, tardo Quattrocento). Per l'arco ligure-lunense si
dispone di un campione databile all'XI-XII secolo per un'area del complesso di Filattiera (S.
Giorgio), degli accurati campioni di Luni (presentati in modo da poter tenere conto
dell'incidenza delle varie tecniche di scavo e dei quali i più significativi si riferiscono al VII-
VIII secolo e all'XI), di dati su 4 siti della città di Genova (piazza Matteotti, dati per il VI-VII
secolo; S. Agostino, un grande complesso conventuale, dati per il XIII secolo; via Ginevra,
insediamenti della consorteria dei Fieschi, XIII secolo circa; S. Silvestro, sede arcivescovile,
dati per il IX-X secolo e per il primo Quattrocento), e infine di dati per altri 4 siti rurali, il
«Castellaro» di Zignago e Castel Delfino (castelli feudali, rispettivamente XI-XII secolo e XIII),
Monte Zignago (borgo feudale arroccato, XV secolo) e Molassana (castello, dati per il XV
secolo)43.

42
Sulla dannosità dei maiali cfr. ad esempio B. Slicher Van Bath, Storia agraria dell'Europa occidentale (500-
1850), Torino 1972, p. 101. In generale, sull'importante assunto metodologico che identici dati (in questo caso le
frequenze dei suini nei campioni faunistici o la loro importanza relativa nel sistema alimentare ed ecoculturale)
possono avere significato diverso in contesti diversi, Kula, Problemi e metodi, cit., p. 338.
43
Si da qui l'elenco degli studi dai quali sono tratti i dati archeozoologici che verranno analizzati da qui in avanti, per
brevità si tralascerà di fare altri riferimenti ad essi, salvo che per necessarie precisazioni o nei casi in cui si
ricorderanno informazioni contenute in questi studi e non limitate agli stessi dati.
Gli insediamenti liguri-lunensi, come si vede, sono nettamente i più numerosi, ma se si eccettua
la stessa Luni sono anche quelli in cui i dati si presentano non solo privi di ampiezza
cronologica, provenienti da campioni piuttosto ridotti e limitati alle quantificazioni relative al
numero dei frammenti, ma anche privi o quasi di informazioni sulla natura del campione e del
contesto socioculturale che rappresentano. Lo stesso si paò dire per i dati dei siti genovesi - se
non che per S. Silvestro si dispone al momento di due campioni confrontabili nel tempo44 - e in
parte anche per quelli bolognesi. Vere e proprie interpretazioni dei dati archeozoologici, nel
senso della ricostruzione dell'economia di base di alcune comunità o del significato di alcuni
consumi urbani o privilegiati sono state fatte al momento solo per Luni, Tuscania, S. Maria in
Cività (Molise), Pavia e in parte Gubbio45.
Dopo questa sorta di censimento e nonostante le oggettive difficoltà a procedere a
comparazioni, proviamo a collocare i dati disponibili entro tre grandi scansioni temporali (ante
XI secolo, XI-XIII secolo e XIV-XV) e a comprendere all'interno di questi periodi alcune
macroscopiche differenziazioni dei contesti da cui provengono i campioni faunistici.
Per il primo periodo disponiamo di alcuni scarni dati su due siti genovesi che indicherebbero
per l'insediamento più antico (piazza Matteotti, VI-VII secolo) un consumo carneo fortemente
basato sui caprovini giovani, e per l'altro (S. Silvestro IX-X secolo) un consumo basato
all'opposto e quasi per intero sui suini. Nel campione del primo, infatti, sono assenti le ossa
bovine, piccolo posto è lasciato a quelle suine (23% delle specie principali) o di altre specie e le
ossa caprovine appartengono ad animali macellati prevalentemente giovani. Il campione però è
molto ridotto e soprattutto non ci è dato alcun elemento per comprendere a quale gruppo sociale
sia da attribuire questo tipo di consumo. Nel campione di S. Silvestro (proveniente dai livelli
più antichi dell'orto del castello vescovile) le ossa bovine sono ugualmente assenti, ma i suini
coprono quasi i 4/5 e i resti caprovini mostrano un'età di morte piuttosto alta. Da ciò senza
ulteriori approfondimenti e contestualizzazioni, è naturalmente impossibile dedurre qualcosa,
tuttavia ci si può porre la domanda se la totale assenza dei bovini sia puramente casuale e

—Molise: Hoges, Barker, Wade, Excavation at D85, cit.;


—Bologna: Frescura Nepoti, Macellazione e consumo della carne, cit.
—Pavia: G. Barker, A. Wheeler, Informazioni sull'economia medievale e postmedievale di Pavia: le ossa dello
scavo, "Archeologia Medievale", V (1978), pp. 249-66;
—Gubbio: G. Barker, Alimentazione della guarnigione di stanza sul Monfe Ingino, Gubbio, "Archeologia
Medievale", III (1976), pp. 267-74, e Id., La Fauna [della Rocca posteriore di Gubbio], "Archeologia Medievale", V
(1978), pp. 469-74;
—Grosseto e Scarlino: G. Tozzi, La fauna della Fortezza Vecchia di Grosseto in Archeologia e storia di un
monumento mediceo. Cli scavi nel «cassero» senese della Fortezza di Grosseto, a cura di R. Francovich e S. Gelichi,
Bari 1980, pp. 182-5, Id., L'alimentazione nella Maremma medievale. Due esempi di scavo, "Archeologia
Medievale" VIII (1981), pp. 299-305.
—Tuscania: G. Barker, The economy of medieval Tuscania: the archeological evidence
"Papers of the British School at Rome", 31 (1973), pp. 155-77;
—Filattiera: M. Biasotti, R. Giovinazzo, I reperti faunistici di Filattiera, "Archeologia
Medievale", IX (1982), pp. 358-62; —
Luni: Barker, L'economia del bestiame, cit.
—Siti genovesi e liguri: M. Biasotti, P. Isetti, L'alimentazione dall'osteologia animale in
Liguria, "Archeologia Medievale", VIII (1981), pp. 239-46;
—Genova, S. Silvestro XV secolo: J. Cartledge, Le ossa animali dell'area sud del Chiostro di S. Silvestro a Genova,
"Archeologia Medievale", V (1978), pp. 437-51.
Inoltre per la datazione dei reperti di Filattiera: cfr. D. Cabona, T. Mannoni, O. Pizzolo Gli scavi nel complesso
medievale di Filattiera, 1: la collina di S. Giorgio, "Archeologia Medievale", IX (1982), pp. 331-57.
44
Esistono però degli altri e ben più ampi dati su questo sito, inediti. Notizia in J. Cartledge, The animal bones from
the Cloister of S. Silvestro, Genoa, in Papers in Italian Archeology, 1, cit., part. Il, pp. 358-63 e Id., Faunal Studies,
cit.
45
Barker, L'economia del bestiame , cit., Id., The economy of medieval Tuscania cit., Hodges, Barker, Wade,
Escavation at D85, cit., pp. 96 ss., Barker, Wheeler Informazioni sull'economia medievale, cit., Barker, Dry bones?,
cit., pp. 42-4 (per Gubbio e ancora per Luni, Tuscania e Pavia).
derivata da qualche variabile di disturbo, o se nasconda qualche significato. Così ci si può
chiedere se la differenza tra i due consumi non possa riflettere alcune trasformazioni avvenute
tra i due periodi e che significato abbia la predominanza dei suini su una mensa
presumibilmente privilegiata come quella vescovile.
In questo stesso periodo si situano i ricchi dati di Luni provenienti dai campioni di «controllo»
del VII-VIII secolo (ossia due di quelli ottenuti tramite setacciamento) e quelli,
approssimativamente databili al VII-IX secolo, di S. Maria in Cività, piccolo villaggio molisano
(forse composto da una cinquantina di persone) situato in una delle zone ambientalmente meno
favorevoli della Valle del Biferno46. In entrambi i campioni sono assenti (o quasi) i resti di
animali selvatici, quasi che la caccia fosse scarsamente praticata, e in entrambi, i frammenti di
bovini occupano un piccolo posto (tra il 10 e il 15% circa) e indicano un'età di morte piuttosto
alta, salvo qualche eccezione per Luni. La funzione produttiva e l'importanza dei bovini nel
complessivo sistema di allevamento dei due siti sembra dunque abbastanza chiara, ma per S.
Maria in Cività ciò si collega a una netta predominanza di ovini (produttivamente polivalenti, di
razza piccola e dunque legata ad una piccola transumanza locale), mentre a Luni si riscontra un
equilibrio pressoché perfetto tra suini e caprovini. Si delinea così, per il villaggio molisano, un
sistema (agricolo-pastorale) integrato di prevalente autosussistenza47, forse connotato da un
favorevole rapporto popolazione/risorse, nonostante i condizionamenti ambientali, e comunque
caratterizzato da un rapporto con l'incolto e i boschi senz'altro dissimile da quello dell'Italia
padana altomedievale. Per Luni emergere invece la mancata scelta produttiva nei confronti dei
caprovini48 (allevati comunque essenzialmente per latte e lana e in regime di piccola
transumanza) in un sistema tendente a scaricare gran parte del fabbisogno di prodotti carnei sui
suini. In base alla conoscenza complessiva delle trasformazioni del territorio lunense, ossia in
base a quanto si sa sulla disgregazione del sistema romano di drenaggıo delle acque e sul
generale degrado ambientale, e anche alla luce del successivo incremento dei suini (nel
campione di «controllo» dell'XI secolo), sembra inoltre possibile avanzare l'ipotesi che la scelta
produttiva a favore dei maiali rappresenti qui un potenziale elemento di contraddizione49 e la
spia di un lento processo di marginalizzazione, piuttosto che un elemento di equilibrio in un
sistema tipicamente altomedievale. Una particolare soluzione che, in relazione alle deboli e
regressive strutture ambientali dell'area lunense e di fronte a eventuali incrementi demografici,
potrebbe costituire uno dei motivi del collasso dello stesso sistema microregionale - com'è noto,
Luni venne abbandonata definitivamente all'inizio del secolo XIII50.
Tuttavia, quasi a confermare che ogni struttura alimentare e produttiva suggerita dai campioni
faunistici per poter essere compresa appieno deve essere irrinunciabilmente messa in rapporto
con il proprio contesto ambientale, nell'insieme dei dati dell'XI-XII secolo relativi agli
insediamenti rurali le frequenze dei suini di Luni non risultano affatto anomale anzi si mostrano
superiori - se questi confronti sono validi - solo a quelle di Filattiera. Nel campione di C.
Zignago, infatti, - contesto montano non lontano da Luni - il numero dei frammenti suini risulta
poco meno inferiore al 60% della specie principali (Luni 47,2%, Filattiera 42,5%), mentre nel
campione di Scarlino essi arrivano a coprire addirittura i 4/5.

46
Hodges, Barker, Wade, Escavation at D85 , cit., pp. 103-5 e 109 s. Si veda anche R. Hodges, Ch. Wickham, The
evolution of hilltop villages in the Biferno valley, Molise, in Archeology and Italian Society, cit., pp. 305-12, a pp.
307-9.
47
Hodges, Barker, Wade, Escavation at D85, cit., pp. 103-6.
48
Barker, L'economia del bestiame, cit., p. 730.
49
Ivi, p. 729 s.
50
Sulla crisi territoriale economica di Luni, si veda B. Ward-Perkins, Luni: the decline and abandonement of Roman
town, in Papers in Italian archeology, 1, cit., part. Il, pp. 313-21 e Id., Luni: the prosperity of the town and its
territory, in Archeology and Italian Society, cit., pp. 179-90.
Diversi si mostrano invece sia i dati duecenteschi di Castel Delfino (Savona) e di Tuscania, sia
quelli di Grosseto (XI-XIII secolo), sia quelli urbani di Pavia (XI-XII secolo) e di Genova S.
Agostino e via Ginevra (XIII secolo). A Tuscania infatti i caprovini sembrano non lasciare
spazio alle altre specie (coprono quasi il 90% del campione duecentesco), mentre per Castel
Delfino, per Grosseto, per Pavia e per i due siti genovesi, in particolare per la sede dei Fiaschi, a
una leggera predominanza dei caprovini stessi- generalmente macellati giovani, salvo che a
Pavia - si unisce una presenza stranamente alta dei bovini, i quali sono invariabilmente
macellati adulti in tutti i campioni del periodo. Può dunque essere relativamente facile pensare
che i campioni urbani costituiscano lo specchio di consumi privilegiati, di un drenaggio di
risorse carnee, o meglio di una domanda di carne soddisfatta innanzitutto con i caprovini
giovani51 e solo secondariamente con i suini e con bovini, attratti comunque dal mercato o dalle
macellazioni urbane pur alla fine del loro ciclo lavorativo. Così può essere legittimo accostare a
ciò che anche Castel Delfino - nel quale si riscontra tra l'altro una sorprendente presenza di
cervidi - in base alla riflessione che i consumi privilegiati non sono da identificare sempre e
automaticamente con l'"urbano". È possibile ragionare in modo analogo anche per ciò che
riguaga Grosseto, non tanto assumendola tout court come un polo urbano, quanto perché è
probabile che il campione faunistico rifletta il consumo di una guarnigione. Viceversa, per
Pavia è giusto tenere conto che l'età di morte dei caprovini nei campioni dell'XI-XII secolo
sembra indincare, insieme ai dati sulle misure, una prevalente produzione di lana nel territorio52.
Ma, ammesso che i campioni disponibili siano significativi a grosso modo comparabili e che
quanto detto sia relativamente verosimile, cosa pensare invece della alte quote di ossa suine nei
campioni rurali dell'XI-XII secolo e soprattutto della posizione, che appare diametralmente
opposta di Tuscania e Scarlino?
Certo sarebbe suggestivo pensare che i suini, relativamente trascurati dai consumi urbani a
differenza dei caprovini giovani, svolgessero un periodo di verosimile incremento demografico
un ruolo compensatore in campagna. Ma, al di là di quanto detto per Luni e il suo specifico
contesto ambientale e in generale sul ruolo dei suini nelle economie contadine, come affermare
in relazione ai casi concreti degli insediamenti liguri-lunensi e di Scarlino che essi gravitassero
nell'orbita di attrazione di un qualunque polo urbano- Genova, Lucca o Pisa o altri che siano
senza nulla sapere sui circuiti di scambio dei prodotti agricoli e nemmeno sul tipo di economia
che connotava gli insediamenti in questione?
A quest'ultimo proposito si può in questa sede aggiungere soltanto qualche elemento sulla base
degli stessi dati archeozoologici. Per gli insediamenti linguri-lunensi, infatti, le età di morte dei
caprovini sembrano essere in diretto rapporto con l'importanza della specie nel campione: per
Luni già sappiamo che la produzione carnea risulta circoscritta ai suini sia per la presenza
relativamente bassa dei caprovini (30% circa), sia per la finalizzazione al latte e alla lana del
loro allevamento; per C. Zignago - ricordiamo che si tratta di una zona montana- accanto a una
presenza di suini che sembrerebbe anche più alta di quella di Luni si situa però una consistente
quota di caprovini (40% circa), all'interno della quale ci sono anche resti di agnelli o capretti; a
Filattiera, infine, i frammenti di caprovini sono di poco superiori a quelli di suini e le età di
morte sembrano indicare animali macellati prevalentemente giovani.
Riguardo a Tuscania, invece, c'è da dire che, nonostante le oggettive difficoltà di trarre
indicazioni precise dalle età di morte e nonostante nell'intero stock di reperti i resti provenienti
da animali macellati adulti siano senz'altro prevalenti, pure sembra di intravedere nel campione
duecentesco una maggiore presenza di caprovini macellati prima del secondo anno di età53 . Ciò

51
Cfr., anche se per un periodo successivo (fine Trecento), il ruolo dei caprovini giovani e dei castroni nei consumi
carnei di Prato, ricostruiti tramite fonti documentarie da Nigro, Gli uomini dell'irco, cit., pp. 27-38.
52
Barker, Wheeler, Informazioni sull'economia medievale, cit., pp. 250 e 252 e Barker, Dry bones?, cit., p. 44.
53
Barker, The economy of medieval Tuscania , cit., tab. 4. Graeme Barker non rileva questa differenza, preferendo
considerare i dati sulle età di morte nel loro insieme. In effetti, considerazioni come questa, rispetto alla necessità di
potrebbe indicare che la struttura produttiva dell'allevamento caprovino nella Tuscania
duecentesca non fosse ancora decisamente specializzata nei confronti del latte e della lana, e che
il ruolo di produzione carnea non assegnato al maiale potesse essere assunto da questa specie.
Torniamo alla domanda se la predominanza del maiale nei campioni liguri-lunensi e di Scarlino
costituisca un sintomo di crisi microregionale - remota o recente - o di scarsa umanizzazione del
territorio; oppure un elemento di un sistema agrario fortemente indirizzato verso la produzione
cerealicola, in cui l'animale è stato sconfıtto in una sorta di concorrenza allo sfruttamento della
terra e in cui solo il maiale può produrre le necessarie proteine nobili trasformando tutto
l'economicamente trasformabile; o ancora se possa costituire la spia di alcuni processi di
redistribuzione, di una risposta contadina ai drenaggi verso il polo urbano e alla domanda di
carne caprovina, piuttosto che suina. Dobbiamo naturalmente concludere che la questione resta
integralmente aperta, tuttavia anche il solo fatto di impostarla non può non spingerci a ripetere -
con Barker - che le fonti archeozoologiche, se correttamente prodotte e interpretate, possono
costituire davvero una chiave per comprendere alcuni dei processi più importanti della storia del
paesaggio e dei rapporti città/campagna.
Passiamo comunque al periodo successivo (XIV-XV secolo). Salvo che per i due siti urbani
bolognesi del primo Quattrocento (S. Petronio, area densamente urbanizzata e S. Giorgio, area
per cui non si dispone di informazioni contestuali se non che è attualmente un'area cimiteriale
con poche tracce di frequentazione), per i due siti rurali liguri (Monte Zignago e Molassana, XV
secolo), e per Gubbio (XIII-XV secolo, guarnigione di stanza sul Monte Ingino), abbiamo la
fortuna di poter leggere gli altri dati di questo periodo in relazione a eventuali trasformazioni
avvenute nei confronti dei periodi precedenti. Questi dati si riferiscono a Pavia (XIII-XVI
secolo), Tuscania (metà Trecento e XV secolo), Scarlino (XV secolo), Grosseto (XIV secolo) e
Genova S. Silvestro (primo Quattrocento). Pavia mostra, forse in relazione alla contiguità di
datazione e all'ampiezza dell'arco temporale rappresentato che potrebbe eventualmente
nascondere variazioni di medio periodo, una coincidenza quasi completa con i dati del periodo
precedente (XI-XII secolo), non fosse che per un ulteriore spostamento a favore dei bovini e a
danno dei suini. Invariata sembra rimanere anche l'età di macellazione dei caprovini, che
unitamente ai dati sulle misure e sulle razze aveva già indotto a pensare alla scelta produttiva
verso la lana (il campione di questo periodo è tuttavia piuttosto ridotto).
A Pavia può essere accostato uno dei due siti bolognesi (S. Petronio), il campione del quale è
l'unico a mostrare una insolita predominanza dei bovini, che rimane tale anche dopo aver sottratto
una consistente quota di frammenti esplicitamente connessi a attività artigianali. Il ruolo dei
bovini nei campioni di Pavia e Bologna S. Petronio - si tratta naturalmente di animali macellati
adulti -, visto nel suo complesso e anche in rapporto al campione dell'altro sito bolognese dove i
bovini sembrano occupare un posto del tutto secondario, induce a pensare non tanto a un
consumo specificamente privilegiato, né tantomeno a una produzione destinata a soddisfare la
domanda urbana e potenziale fattore di trasformazione per l'agricoltura - non ancora per lo
meno54 -, quanto a un eventuale ruolo di attrazione dei macelli urbani nei confronti di bestie
utilizzate nel territorio quasi esclusivamente per l'aratura. A ciò c'è da aggiungere soltanto che, a
differenza di Pavia, nei due siti bolognesi i resti caprovini mostrano una buona presenza di
animali consumati giovani, o meglio giovanissimi, e che la discordanza rilevata a questo
proposito rispetto ai dati delle fonti documentarie - che sembrano indicare una prevalente
macellazione di agnelli, capretti e persino vitelli - non sembra poi così accentuata. Le fonti
documentarie - riguardanti le impostazioni fiscali sulle macellazioni - potrebbero infatti riflettere
una fascia particolare dei consumi, ossia quella direttamente legata al mercato della carne fresca e

utilizzare queste informazioni solo come ordini di grandezza potrebbero risultare legittime solo fino a un certo
punto.
54
Si veda per un'eventuale interpretazione in questo senso di dati post-medievali di Pavia (nei quali si verifica un
aumento percentuale di bovini e suini) Barker, Wheeler Informazioni sull'economia medievale, cit., p. 254 s.
delle macellazioni urbane, lasciando fuori altri tipi di consumi, macellazioni non soggette a tasse
o tendenti a evadere il fisco ecc. Inoltre, anche soltanto un'analisi sommaria delle variazioni
mensili delle macellazioni55 porta a sfumare molto, e in base al carattere quotidiano/festivo del
consumo di agnelli e capretti, la discordanza tra i due diversi tipi di fonte. Così è da credere che
un'analisi contestualizzante dei dati tratti dalle fonti documentarie bolognesi, una collocazione
sociale dei consumi indicati - in base ad esempio ad altre fonti fiscali - e un tentativo di
defınizione (anche qualitativa) del ruolo dei caprovini giovani e gersino dei vitelli nel complesso
della struttura alimentare e produttiva56 potrebbero delineare un quadro molto diverso da quello
immediatamente suggerito dai semplici dati quantitativi sulle macellazioni, e, chissà, forse anche
più vicino a quello adombrato dai campioni faunistici.
Dal campione di Gubbio emerge un consumo (relativo alla guarnigione) pervalentemente basato
sui caprovini giovani e secondariamente sui suini. Invece, sia per ciò che riguarda la mensa
arcivescovile genovese, sia per i due siti rurali liguri l'elemento comune e connotatore sembra
l'alta o altissima quota di frammenti di suini, unita all'assenza o quasi di frammenti di bovini e a
una presenza relativamente bassa (sotto il 40% delle specie principali) di frammenti di caprovini,
provenienti da animali adulti per Monte Zignago, sia adulti che giovani per Molassana e S.
Silvestro. Ciò naturalmente ci ricorda quanto rilevato sia per gli insediamenti liguri-lunensi e per
Scarlino nell'XI-XII secolo, che per la stessa sede vescovile nel IX-X secolo.
Tuttavia, le considerazioni più interessanti emergono dalla constatazione di quanto sembra
avvenire in Maremma. Se nel campione trecentesco di Grosseto sparisce l'alta presenza di
frammenti bovini riscontrata nel periodo precedente (XI-XIII secolo), per lasciare spazio ai
caprovini - macellati in larga parte abbastanza giovani, ossia entro il secondo anno di età - i quali
giungono a coprire i 2/3 dell'insieme delle specie principali, il campione quattrocentesco di
Scarlino sembra conoscere un vero e proprio rovesciamento, dalla prevalenza quasi completa dei
suini nell'XI-XII secolo alla netta predominanza dei caprovini - più del 60% delle specie
principali e macellati essenzialmente adulti. Quanto a Tuscania, l'attenuarsi del ruolo dei
caprovini - che rimangono però una quota decisiva dei reperti quattrocenteschi, dal 58,9% del
campione più ampio del tardo Quattrocento, al 73,6% e 86% di quelli della prima metà del
secolo, e che sono in maniera più chiara e decisa macellati adulti - è stato felicemente interpretato
da Graeme Barker come segno della crisi del sistema di transumanza locale, o meglio gestito
dalla stessa comunità, nell'ambito del generale sviluppo della grande transumanza della Dogana
del Patrimonio di S. Pietro57. A ciò si può aggiungere soltanto che, se le differenze che pare di
intravedere nelle età di morte caprovina tra il campione duecentesco e quelli quattrocenteschi
hanno un valore euristico, ciò può costituire un ulteriore tassello per la comprensione
dell'economia di Tuscania e del territorio circostante. Si potrebbe infatti pensare che quella parte
dei caprovini che è sparita nei campioni quattrocenteschi a favore dei suini e in parte dei bovini
adulti, possa appunto essere quella degli animali giovani quasi sottratti alle altre finalità
produttive, possa appunto essere la carne migliore. In altre parole, si potrebbe pensare che la

55
Frescura Nepoti, Macellazione e consumo della carne, cit., pp. 286-8.
56
Cfr. ad esempio quanto è stato possibile fare, a partire da fonti analoghe, a Nigro, Gli uomini dell'irco , cit. e
Leverotti, Il consumo della carne, cit. In particolare nel lavoro di F. Leverotti emerge come i rapporti percentuali tra
le varie specie macellate e tra animali giovani e adulti avrebbero indotto a valutazioni errate circa una prevalenza del
consumo di animali giovani o circa un indirizzo verso la produzione carnea. Dall'analisi più generale si vede invece
come questo tipo di consumi svolgesse un ruolo limitato e fosse ridotto a ristrette fasce sociali e a particolari
momenti dell'anno, mentre la gran parte della popolazione macellava un solo agnello o capretto l'anno, per giunta
comprandolo e non producendolo in proprio. Il quadro efficacemente delineato da F. Leverotti è dunque quello di
una produttività animale piuttosto ridotta, soprattutto per ciò che riguarda la carne, e conforme al classico modello
dell'economia contadina.
57
Barker, The economy of medieval Tuscania , cit., pp. 167-70; J. C. Marie
Vigueur, Les pàturages de l'Église et la Donàne du Bétail dans la province du
Patrimonio (XlVeXVe siècle), Roma 1981.
diminuzione dei caprovini stia in qualche rapporto con un processo che rende
contemporaneamente la finalizzazione extralimentare (e extraterritoriale) di questa parte
dell'allevamento completa e la transumanza locale sempre meno importante di quella a grande
raggio.
I dati archeozoologici maremmani sembrano dunque riflettere in modo diverso - dal "filtro" dati
dai consumi della guarnigione di Grosseto nei quali si conserva il ruolo dei caprovini giovani,
agli scarti netti e facilmente leggibili di Scarlino, alle complesse variazioni di Tuscania identici
processi di trasformazione dell'ambiente e dei modi di sfruttamento di esso. Il punto di coagulo di
questi processi sembra consistere nello sviluppo dell'allevamento transumante in un territorio in
via di maggiore o minore desertificazione58, cominci questo sviluppo da zero come sembra
avvenire a Scarlino (e nei territori circostanti?), o si innesti su più antichi sistemi come a
Tuscania. Il fatto poi che questi processi sembrino significativamente assenti da quanto è
possibile leggere nei dati liguri, nei quali il ruolo dei suini sembra rimanere immutato, spinge a
un'ulteriore riflessione di carattere generale. Ossia che ogni informazione archeozoologica
diventa significativa dei processi di trasformazione degli ecosistemi e dell'economia, non soltanto
dopo aver subito innumerevoli trattamenti di depurazione dai fattori di "disturbo", non soltanto
dopo aver compreso i principali meccanismi connessi alle differenziazioni dei consumi, alle
redistribuzioni dei prodotti, e a un più generale divergere della produzione dal consumo, non
soltanto in rapporto agli specifici contesti ambientali, ma anche e soprattutto in rapporto al
contesto storico globale e all'interno di alcune decisive periodizzazioni. Questa riflessione può
apparire banale, ma si pensi ai motivi per cui in alcuni contesti signifıcativamente periodizzati la
funzione di sintomo di processi degenerativi dell'economia e del sistema ecoculturale può essere
assunta dal crescente ruolo della popolazione suina in essi, mentre in altri momenti storici, a
indicare fenomeni simili, o precise risposte regressive e fallimentari - in termini di rapporto
uomo/ambiente - al degrado terntoriale e alla crisi demografica, può essere il dilagare dei
caprovini e dell'allevamento transumante59. La "soluzione" transumanza infatti, può per molti
versi essere considerata una vera e propria scelta ecoculturale - se pure è quasi banale ribadirlo -
una svolta che connoterà per secoli e in maniera globalizzante la storia di ampi spazi del territorio
italiano.

58
In generale sullo sviluppo della transumanza cfr. Cherubini, Le campagne italiane , cit., pp. 329-35; Jones, La
società agraria, cit., pp 461-5. Su questo fenomeno nella Maremma senese cfr. G. Chernbini, Risorse, paesaggio ed
utilizzazione agricola del territorio della Toscana sud-occidentale nei secoli XIV-XV, in Civiltà ed economia
agricola in Toscana nei secc. XIII-XV: problemi della vita delle campagne nel Tardo Medioevo, Pistoia 1981, pp.
91-115, a pp. 112-5; Pinto, La Toscana nel Tardo Medioevo, cit., pp. 421-3. Sulla desertificazione delle aree
coinvolte da questo fenomeno cfr. Ch. Klapisch, Villaggi abbandonati e emigrazioni interne, in Storia d'Italia
Einaudi, V, Torino 1973, pp. 309-64, a pp. 341-57, Ch. Klapisch, J. Day, Villages désertés en Italie, Esquisse, in
Villages désertés et histoire économique. XIe-XVIIe siècles, Paris 1965, pp. 419-59, a pp. 444-50; per la Maremma
toscana cfr. Pinto, La Toscana nel Tardo Medioevo, cit., pp. 58-65 e 80-5. Sulla transumanza come fenomeno
specificamente mediterraneo Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo cit., pp. 73-90.
59
Sulla fallimentarietà - in termini di ristrutturazioni ambientali e socio-economiche - dell'incontrastato sviluppo
della transumanza cfr. soprattutto Haussmann, Il suolo nella storia d’Italia, cit., pp. 74-7, 83 e 87s e Klapisch,
Villaggi abbandonati, cit., pp. 345-50.
La pratica archeologica

Lo scavo è il momento qualificante la ricerca archeologica: i problemi delle strategie adottate, del
metodo di ricerca, le domande che stanno alla base di un intervento che presenta costi elevati in
termini di investimenti finanziari, fisici ed intellettuali sono elementi essenziali per raggiungere gli
obiettivi di passare da un'indagine "al microscopio" alla costruzione del documento archeologico e
quindi alla elaborazione di un modello, ad una riflessione sul valore del campione archeologico,
anche in presenza di evidenze negative.
I casi di scavo che abbiamo selezionato come esemplificazioni dei problemi di cantieri in ambito
postclassico, lontani da essere esaustivi della pluralità delle situazioni analizzate negli ultimi dieci
intensi anni di attività, rappresentano comunque un largo spazio delle problematiche presenti agli
archeologi che operano sul campo. Il caso della Cripta di Balbo a Roma è il primo scavo urbano di
grande respiro nel quale si pone come problema centrale in modo esplicito il tema del rapporto fra
archeologia e restauro architettonico. Un tema vitale perché la ricomposizione di una lettura fra
parti in elevato e deposito archeologico attraverso gli strumenti di una "archeologia globale",
elaborati in particolare dal gruppo genovese dell'ISCUM1 rappresenta l'unica chiave per superare i
limiti di parcellizzazioni disciplinari, che costituiscono barriere insormontabili alla compernsione
di fenomeni insediativi e costruttivi.
I problemi di una "continuità" insediativa e del rapporto fra archeologia dell'insediamento e
archeologia monumentale sono i temi viceversa dello scavo di San Vincenzo al Volturno, che con
la vastità dell'evidenza materiale prodotta in oltre cinque anni di scavi, affiancata da sistematiche
compagne topografiche, permette di "riscrivere la storia" di una realtà molisana in un quadro di
riferimento europeo.
Lo scavo di San Silvestro di Campiglia marittima riconduce l'interesse al tema classico dei villaggi
abbandonati nel XIV secolo, in una situazione caratterizzata da un'economia estrattiva e di
trasformazione metallurgica dove lo stato di conservazione dell'insediamento e la "fossilizzazione"
del territorio circostante, comprese le miniere contemporanee alla vita del castello, permettono di
leggere contesti sociali, attività produttive e mutamenti tecnologici in situazione ottimale.
I tre scavi, a diverso grado di avanzamento e quindi di approfondimento esplicitano chiaramente
strategie di intervento, obiettivi posti e problematiche storiografiche2.
1
Si confrontino in proposito le ultime cinque annate di "Archeologia Medievale".
2
Il saggio di D. Manacorda, Crypta Balbi, che qui si presenta è stato pubblicato in " Restauro e Città ", 2 (1985), pp. 21-
32; quello di R. Hodges sugli scavi a San Vincenzo al Volturno è, invece, nella veste che qui si pubblica inedito, mentre
l'ultimo rappresenta il Rapporto preliminare di R. Francovich al saggio Un villaggio di minatori e fonditori di metallo
nella Toscana del Medioevo: San Silvestro (Campiglia Marittima), apparso in "Archeologia Medievale", XII (1985),
pp. 313-22.
Daniele Manacorda

Appunti su archeologia e architettura nel cantiere della Crypta Balbi

Una storia dei rapporti sul campo tra archeologia e architettura nell'esperienza italiana di questo
ultimo secolo è ancora da scrivere. Un primo bilancio sommario dovrebbe tuttavia rilevare una
persistente condizione di incomunicabilità, quando non di conflittualità, tra le due discipline, e non
solo sul piano accademico, quanto soprattutto nella formulazione teorica degli interventi sul
campo e nella loro attuazione pratica. Eppure, sul piano della professionalità- che oggi più di altri
ci fa discutere - l'interdipendenza delle due discipline è sempre più stretta1.
Episodi significativi di intercambiabilità professionali sono oggi più frequenti sui nostri cantieri di
scavo e di restauro: la problematica scientifica modifica l'angolazione settoriale dell'intervento e
pretende la formulazione di ottiche nuove. Il fenomeno, pur nuovo, ha radici profonde. Prima che
il divario tra le due discipline continuasse ad approfondirsi (ma esso è già consolidato con la
cultura antiquaria) il caso di Giacomo Boni segnò un momento nel quale il rapporto tra due
competenze, quella architettonica, appunto, e quella archeologica, sembrò trovare aspetti di
sintesi.
Giacomo Boni fu sostanzialmente un archeologo: tanto più lo possiamo affermare oggi, quanto più
i suoi colleghi si studiarono di sfocarne la definizione2. I motivi di questa difficoltà di rapporto da
parte di componenti diverse della cultura archeologica italiana verso la fıgura e l'opera di Boni
vanno ricercati nella incapacità da parte del classicismo di tradizione filologica o di tendenza
estetizzante, così come dello storicismo di tradizione idealistica o materialistica3, di riconoscere la
grande lezione di metodo che la formazione positivistica di Boni aveva introdotto nella
archeologia italiana, facendolo penetrare per una finestra extraaccademica addirittura nel santuario
della cultura classica romana, nel Foro romano4. Eppure la formazione dell'archeologo Boni, che si
sarebbe trovato ad assolvere il ruolo di padre senza figli dell'archeologia stratigrafica italiana, era
stata piuttosto quella di un architetto. Le sue prime esperienze veneziane saranno sulle impalcature
del Palazzo Ducale o a contatto delle fondazioni del campanile di S. Marco, di cui studierà
insieme gli aspetti strutturali e qualitativi5. La sua esperienza di funzionario della
Amministrazione delle Belle Arti sarà concentrata per lungo tempo sul problema delle architetture
religiose del Medioevo pugliese; il suo maestro e padre spirituale sarà per molti versi John
Ruskin6.

1
Si veda ad es. F. Gurrieri, Architetto, archeologo, centro storico. Una collaborazione opportuna per un intervento
difficile, "Archeologia Medievale", VI (1979), pp. 23-31, il cui titolo costituisce anche un programma di lavoro.
2
Architetto preferivano chiamarlo Gherardo Ghirardini ( L'archeologia nel primo cinquantennio della nuova Italia ,
Roma 1912, p. 30), che ne dava comunque un giudizio positivo, o, più recentemente, Nevio Degrassi (Nuovi metodi di
scavo e restauro archeologico e necessità di un loro coordinamento, in Il monumento per l'uomo, Atti del II
Congresso internazionale del Restauro, Padova 1972, 171s.), che ne azzarda un giudizio liquidatorio del tutto
ingiustificato.
3
Lo stesso R. Bianchi Bandinelli dimostrò di non aver sufficientemente compreso l'opera di Boni, «un rètore, la cui
opera scientifica si è ridotta a nulla in pochi anni» (Introduzione all'archeologia classica, Bari 1976, a p. 78 s.; cfr.
anche Prefazione a C. W. Ceram, Civiltà sepolte, Torino 1955, p. 14).
4
Vi entrerà infatti in qualità di architetto della Direzione di Belle Arti. Boni, nonostante la sua notorietà in campo
internazionale, non fu mai ammesso alla Accademia dei Lincei (cfr. L. Beltrami, Giacomo Boni, Milano 1926, p.
69s.).
5
G. Boni, Il muro di fondazione del campanile di S. Marco a Venezia , "Archivio Veneto", XXIX, 2 (1885); cfr. anche
E. Tea, Giacomo Boni nella vita del suo tempo, I Milano 1932, pp. 19 ss. e 154 ss.
6
Beltrami, Giacomo Boni, cit., pp. 17 ss. e 46 ss.
L'archeologia di tradizione antiquaria ha assimilato asetticamente l'immagine di Boni,
disconoscendone la teoria metodologica e respingendone la prassi7. Se oggi i limiti più evidenti
della sua opera appaiono, ai nostri occhi di archeologi di formazione prevalentemente storica,
nello scarso spessore della sua formazione storico-erudita8 (e lasciamo da parte gli effetti della sua
più tarda involuzione irrazionalistica), al tempo stesso nella storia della sua formazione culturale e
nella sua pratica di ricerca troviamo presenti quelle tematiche che sono oggi al centro anche del
dibattito sull'archeologia urbana: la stratigrafia, innanzitutto, quale strumento portante
dell'intervento archeologico; l'attenzione rivolta alle tecniche edilizie nei loro aspetti qualitativi
(materiali, malte ecc.) come in quelli esecutivi, in un'ottica che oggi riassumiamo con il termine di
cultura materiale; la centralità dell'intervento di restauro nel rapporto tra uomo e monumento
antico9.
Sul piano delle istituzioni la lezione del Boni non ha lasciato tracce. La tradizione degli interventi
di restauro sui monumenti, e in particolar modo su quelli di epoca post-classica, da parte delle
competenti Soprintendenze ha testimoniato nel suo complesso una volontà pervicace di ignorare il
dato e il contesto archeologico, negando l'intervento archeologico, quasi che quella archeologia
monumentale - pur così disarmata in campo classico di fronte alle necessità di una lettura
stratigrafica del manufatto antico - fosse non di meno di impaccio all'intervento di restauro,
angustamente sentito come opera di natura strettamente architettonica. Né da parte
dell'archeologia, per evidenti motivi portata a vedere più da vicino i nessi tra archeologia e
architettura, si è spesso assistito, specie a livello istituzionale, ad un richiamo alle necessità
dell'intervento scientifico.
La distruzione sistematica di una quantità incalcolabile di contesti archeologici post-classici è la
diretta conseguenza di questa prassi, che solo in questi ultimi anni sta conoscendo una inversione
di rotta. Molto dobbiamo per questo all'opera svolta dalla nascente scuola di archeologia
medioevale in Italia, ed in particolare alla rivista "Archeologia Medievale"10. Le stesse prime
comparse di ispettori archeologi medievisti sono segnale di una coscienza nuova delle competenze
professionali richieste dall'intervento di restauro11. Il processo in atto non è lineare e fa
giustamente discutere. Se dunque è ancora necessario vigilare affinché non si torni a sottrarre alla
specificità della competenza archeologica l'intervento conoscitivo nei siti pluristratificati anche di
età post-classica, è pur vero che «la tutela del patrimonio archeologico, e in particolare di quello
post-classico, può realizzarsi soltanto nel quadro di una ricomposizione complessiva delle
competenze», perché se è indubbio che esistano specificità disciplinari è anche certo che esistono

7
D. Manacorda, Cento anni di ricerche archeologiche italiane: il dibattito sul metodo , "Quaderni di storia",16 (1982),
pp. 85-91.
8
Richiamata da F. Coarelli, Topographie antique et idéologie moderne: le Forum romain revisité , "Annales E.S.C.",
37,1982,p.724 ss. e Il ForoRomano. Periodo arcaico, Roma 1983 p. 3 ss. con una sintetica esposizione del dibattito
interno all'archeologia classica italiana negli anni a cavallo tra i due secoli, cfr. inoltre le osservazioni esposte in D.
Manacorda, Introduzione a E. C. Harris, Principi di stratigrafia archeologica, Roma 1983, p. 27 ss
9
Molto interessante a questo proposito è una lettera del Boni del 1893 - precedente di vari anni il suo impegno nel
Foro - riprodotta in Tea, Giacomo Boni, cit., p. 433.
10
Mi riferisco agli editoriali della rivista ma anche a singoli contributi - ad es. R. Francovich, Archeologia medievale e
istituzioni, "Archeologia Medievale", II (1975), pp. 399-408 - o a numeri monografici, quale quello dedicato alla
"Archeologia e pianificazione dei centri abitati", "Archeologia Medievale», VI (1979), nel quale si segnalano per il
nostro discorso in particolare gli interventi di F. Gurrieri, R. Francovich, E. Guadagni, A. Gardini, M. Milanese, F.
Bonora.
11
Si veda in proposito il documento a cura degli ispettori medievisti delle Soprintendenze italiane pubblicato in
"Archeologia Medievale", IX(1982), pp. 439-41: un testo da sottoscrivere, che lascia tuttavia qualche perplessità
laddove sembra privilegiare una pur necessaria «attività di tutela per fasce cronologiche di competenza» a scapito di
un'altrettanto fondamentale concezione dell'intervento a scala territoriale.
settori di "confine", e in questo settore si collocano evidentemente gli interventi di scavo-
restauro12.
Tra le nuove esperienze in atto crediamo che quella in corso a Roma nel cantiere della Crypta
Balbi offra un'occasione importante di sperimentazione dei rapporti possibili tra le diverse
discipline. Ne è premessa lo stesso. contesto da cui l'iniziativa trae origine. Come si è già altre
volte avuto occasione di rilevare13, infatti, 1'indagine alla Crypta Balbi pur nella centralità degli
aspetti archeologici (conoscenza della stratificazione urbana di un settore-chiave del centro
storico; rilevanza monumentale degli insediamenti a scala topografica) - si sviluppa intorno ad un
grande tema di natura urbanistica: il reinserimento di un isolato urbano abbandonato e sconvolto
(che racchiude insieme con le preesistenze classiche elementi della topografia cittadina del
Bassomedioevo, del tardo Rinascimento e dell'età barocca e che ha trovato la sua definitiva
fisionomia nel corso del XVIII secolo) nell'ambito di un quartiere che ha visto in epoca recente
uno sventramento urbanistico condotto in un punto delicato della più antica viabilità storica di
Roma. Cultura architettonica e urbanistica e cultura archeologica sono chiamate a trovare insieme
le risposte adeguate.
La scala urbana pretende che il discorso sul riuso e lo sviluppo del tessuto urbano non vada
disgiunto dalla tutela del dato archeologico, cioè dalla sua comprensione e quindi dal suo studio.
La consapevolezza che «la valorizzazione del patrimonio archeologico costituisca comunque un
presupposto fondamentale per la riqualificazione del tessuto urbano» è una delle ipotesi di
partenza del progetto Crypta Balbi. Nella prospettiva urbana, in altri termini, «le stesse opere di
restauro e recupero vengono così a definirsi in termini complessi ed ormai totalmente estranei al
tradizionale concetto di monumento. Ad esso si sostituisce l'interesse di una testimonianza
diacronica costituita dall'insieme dei dati scientifici propri di uno scavo stratigrafıco in area
urbana»14.
Credo si debba rilevare l'importanza del fatto che queste formulazioni giungano dal versante della
cultura architettonica, che si trova oggi di fronte al profondo rinnovamento in atto nella cultura
archeologica italiana - a misurarsi con strumenti teorici e pratici - la stratigrafia innanzitutto-
rimasti sinora periferici al suo bagaglio concettuale.
Queste condizioni, che fanno di alcuni cantieri di intervento archeologico-architettonico in Roma,
in atto o in programmazione, occasione di costruzione di nuovi laboratori, si collocano nel quadro
dell'applicazione della legge speciale per la tutela e la valorizzazione dei monumenti antichi di
Roma: una legge che ha fatto molto discutere, destinata a segnare la storia urbanistica di Roma.
Rivolta al passato, essa si riallaccia alle faticose iniziative che attraverso tortuosi cammini
condussero alla creazione, sia pur mutilata, della Zona archeologica di Roma15; rivolta al presente
e al prossimo futuro della città, essa offre alcuni strumenti che hanno cambiato qualcuna delle
carte in tavola nel gioco delle responsabilità urbanistiche. Se tutelare significa innanzitutto
comprendere, quindi dotarsi di strumenti di conoscenza, intervento di restauro e intervento

12
Si veda il documento Archeologia postclassica. Competenze di intervento e necessità di tutela con le relative
osservazioni di R. Francovich, "Notiziario di archeologia medievale", 37, gennaio 1984, pp. 3-5.
13
Sull'indagine in corso alla Crypta Balbi si vedano: D. Manacorda, Archeologia urbana a Roma: il progetto della
Crypta Balbi, Firenze, 1982,Un "mondezzaro" del XVIII secolo, a cura di D. Manacorda, Firenze 1984 e Id. (a cura
di), Il giardino del Conservatorio di Santa Caterina della Rosa a Firenze, 1985, relazioni preliminari e notizie si
troveranno in D. Manacorda, L'enquete archéologique dans la zone de la Crypta Balbi, "Nouvelles de l'archéologie",
13 (1983), pp. 11-6, A. Gabucci, L. Sagul, L'enquete archéologique de la Crypta de Balbus, in Archéologie et projet
urbain, Paris 1985, pp. 177-81; AA.VV., Crypta Balbi, 1981-1983, in Roma Archeologia nel centro, vol. II, pp. 546-
64, De Luca, Roma 1985; L. Saguì, in "Archeologia Medievale", XII (1985), pp. 471-84 e XIII (1986) pp. 345-55.
14
M. L. Conforto, Problemi del recupero urbano, in Manacorda, Archeologia urbana, cit., p. 75.
15
Sulla legge n° 92/1981 e i problemi della sua applicazione cfr. Roma. Archeologia e progetto cit., nonché A. La
Regina, Programmi della Soprintendenza archeologica di Roma, in Archeologia laziale, IV, Roma 1981, pp. 13-22.
Per le vicende della Zona archeologica si veda da ultima P. Ciancio Rossetto, La «passeggiata archeologica», in
L'archeologia in Roma capitale tra sterro e scavo, Venezia 1983, pp. 75-88.
stratigrafico vanno di pari passo e insieme indicano che l'archeologia, cioè la somma delle tante
archeologie in cui ancora ci dibattiamo, depurata del classicismo e del monumentalismo, si
candida a buon diritto tra le discipline in grado di contribuire alla programmazione ed alla
esecuzione dell'intervento urbanistico: l'archeologia muove la città, e aiuta a sollevare il velo dai
suoi "buchi neri", introducendovi ottiche inconsuete.
Da questo angolo di visuale riusciamo forse a capire meglio alcuni aspetti della rovente polemica
sul progetto di scavo dei Fori imperiali: un dibattito assai complesso, non schematizzabile, ma nel
quale la nuova capacità programmatrice assunta dall'archeologia urbana ha dimostrato di toccare
corde assai delicate e di rompere steccati consolidati anche nel campo della cultura architettonica
ed urbanistica, e specialmente in quello della storia dell'arte, il più pronto, si direbbe, ad alzare il
tono della polemica, il più restio, in taluni suoi rappresentanti, a rendersi conto che la disciplina
archeologica con cui misurarsi parla un linguaggio e agita problematiche assai diverse dalle
fastidiose e rassicuranti retoriche di un tempo.
La storia dell'insediamento copre due millenni e mezzo di vita urbana. Abbiamo avuto occasione
di esporre altrove il succedersi delle fasi urbanistiche e di elencare fonti e problematiche relative.
Qui ci limitiamo a richiamare quella che sembra essere una tendenza ricorrente nella tipologia
dell'insediamento, costituita da un'alternanza di momenti di accorpamento edilizio e urbanistico a
momenti di disgregazione e parcellizzazione nell'uso del suolo16. La storia del sito è storia di
grandi monumenti, certamente, ma è anche storia di grandi spazi, di pieni e di vuoti e di continne
tensioni tra questi due elementi sul piano della stratigrafia orizzontale, di continua alternanza di
pieni a pieni, di pieni a vuoti e anche di vuoti a vuoti sul piano della stratigrafia verticale.
Murature e terre formano un amalgama che solo l'indagine stratigrafica è in grado di cogliere. È
appunto anche questo il grande compito delI'archeologia urbana, che per defınizione rifugge da
ottiche gerarchizzanti: isolare un problema con atteggiamento totalizzante significa in queste
condizioni condannarsi a non comprenderlo o ad averne quanto meno una immagine assai
parziale. Ma il rifiuto dell'ottica selettiva comporta all'archeologo come all'architetto, all'indagine
stratigrafica come al progetto di restauro, il problema della scelta tra conservazione e distruzione17.
Questo conflitto si colloca su due diversi piani: vi è una conflittualità oggettiva sul piano
urbanistico e sociale quando l'intervento archeologico (e di restauro) metta in discussione
l'effettiva possibilità di sussistenza delle strutture moderne o contemporanee insistenti su
preesistenze antiche; vi è un'altra sorta di conflittualità, di natura più culturale e metodologica, che
sorge di fronte alla necessità di scegliere nel corso dell'intervento per la conservazione di un
contesto a danno di un altro. Nel primo caso ci troviamo di fronte a problematiche che non
dovrebbero appartenere alla prassi dell'archeologia urbana che - a differenza dell'archeologia
monumentale - non vuole essere il grimaldello per operazioni di sventramenti urbanistici né per
allestimenti di "banchetti" archeologici di infausta memoria: deve semmai intervenire per limitare
i danni tramutando operazioni distruttive in occasioni di conoscenza. Nel secondo caso il conflitto
è interno agli stessi strumenti concettuali dell'archeologia urbana: la sua risoluzione credo vada
cercata tuttavia al suo esterno, coinvolgendo in essa tutti gli operatori del settore, archeologi e
architetti e non soltanto questi.
Nel cantiere della Crypta Balbi «ci si trova ad operare al di fuori delle ipotesi già sperimentate
come valide, e secondo parametri metodologici ancora da definire e di difficile definizione [. . .].
Si tratta prima di tutto di acquisire allo spazio urbano la lettura scientifica delle trasformazioni
avvenute [. . .], dei cambiamenti subiti dalle unità abitative e dagli edifici che definiscono il
perimetro, distinguendo strutture originarie e superfetazioni, adattamenti e trasformazioni in un
insieme reso oggi incomprensibile [...] ritrovando una forma che questo insieme riscatti dal
16
Cfr. nota 13, in particolare Manacorda, Archeologia urbana, cit., p.l4 s.
17
Un problema che, per quanto riguarda lo "scarto" dei reperti mobili comincia ad essere affrontato in termini più
approfonditi da parte degli stessi archeologi: cfr. A. Ricci, Carta da macero e "cocciopesto": appunti sullo scarto di
reperti archeologici, "Quaderni storici", 56(1984), pp. 655-68.
risultato casuale di oltre quaranta anni di abbandono»18. I due piani nel nostro caso, dunque, si
intersecano. Mentre nel primo piano non è in discussione la salvaguardia dei volumi e delle linee
essenziali della stessa tipologia dell'insediamento (altra cosa è la discussione sulla destinazione
d'uso), nel secondo piano non possiamo che rifarci a quanto già osservato all'atto della
presentazione del progetto: «L'ipotesi archeologica su cui lavorare è quella della definizione di
contesti insediativi omogenei da scavare o da conservare integralmente, una volta che siano stati
inseriti nella sequenza stratigrafica. Sul piano urbanistico potremmo pensare - parallelamente ad
una scelta che privilegi il mantenimento delle forme compiute, comprensibili e reinseribili nel
contesto urbano»19.
Queste formulazioni astratte, e che altro non vogliono essere che una riflessione a voce alta su di
una tema che non conosce ancora proposizioni definitive, hanno sinora avuto riscontro nelle scelte
effettuate sul cantiere della Crypta Balbi, dove la prospettiva perseguita è quella di creare le
premesse per una sorta di antologia degli insediamenti urbani riconoscibile e percorribile una volta
che- terminata l'operazione di scavo e restauro - l'area potesse essere restituita al godimento
pubblico.
Questa antologizzazione dovrebbe condurre alla definizione di spazi aperti e di spazi fabbricati
che consentano di leggere - sia pure a livello di campionature - la successione stratigrafica e
quindi la storia urbanistica. L'obiettivo è certamente anche quello di recuperare l'uso di parte
almeno degli antichi criptoportici (la cui natura ancora ci sfugge) e di riacquistare la praticabilità
di un settore della piazza augustea, individuando un'area dove sia possibile esporre un quadrante
delle sue preesistenze, ma anche di definire un settore dove sia possibile rendere testimonianza
della qualità e dell'estensione dell'accumulo altomedievale (la "distruzione" di Roma antica) e del
sorgere dei nuovi insediamenti. Se l'area un tempo occupata dalla chiesa di S. Maria (nota dal X
secolo) dovesse ancora conservarne le vestigia in termini comprensibili (lo scavo non ha ancora
affrontato quell'area) la sua conservazione, in un settore perimetrale dell'isolato, si imporrebbe
rispetto a pur pressanti necessità di conoscenza della natura del monumento sulle cui rovine la
chiesa dovette erigere le proprie fondamenta. Una quinta monumentale chiude a sud-ovest il
complesso rinascimentale con la chiesa di S. Caterina e le arcate superstiti del convento
cinquecentesco, la cui persistenza consente in questa ottica di approfondire l'indagine al di sotto
dei piani d'uso superstiti in altre zone del fabbricato, di cui vengono scavati integralmente
ambienti e fondazioni, privilegiando in questo caso l'indagine dei livelli bassomedievali dell'area,
a tutt'oggi tra i più complessi e sconosciuti.
Questo orientamento sin qui seguito si riflette pertanto in una programmazione che abbia come
costante riferimento il riconoscimento dei rapporti esistenti (o un tempo esistiti) tra le aree aperte e
le strutture in elevato (o quanto di queste ancora resta), trasformando sì il momento della
"distruzione" archeologica in occasione di arricchimento di conoscenze storiche, ma anche in
opportunità di ricomposizione (effimera se destinata allo scavo, duratura se alla conservazione) di
unità topografiche delle quali il tempo aveva lasciato che si perdesse la percezione. Se questo
problema è il pane quotidiano dell'archeologia stratigrafica e dell'applicazione della strategia per
grandi aree20, a scala più grande il problema coinvolge necessariamente un arco più ampio di
competenze e si riflette drammaticamente sulla programmazione delle attività di ricerca e di
restauro.
Se distruggere significa conoscere, alla scala ridotta dell'intervento stratigrafico l'intreccio di
competenze tra archeologo e architetto torna a porsi attraverso lo studio delle tecniche costruttive.
Questo aspetto della ricerca ha una lunga tradizione in campo classico, con ombre e luci. In questa
sede varrà solo la pena di ricollegarsi brevemente ad una nota polemica degli anni Cinquanta che

18
Conforto, Problemi del recupero, cit., p. 75.
19
Manacorda, Archeologia urbana, cit. p. 13.
20
Su cui cfr. Ph. Barker, Tecniche delio scavo archeologico, Milano 1981 p. 59 ss.
riflette quanto il problema dell'approccio al monumento, il cui studio tecnico apre orizzonti nuovi
alla comprensione della cultura che lo produsse oltre che alla determinazione della cronologia, sia
stato uno dei temi più delicati del rapporto tra topografia classica e archeologia stratigrafica. Mi
riferisco alla recensione che Nino Lamboglia dedicò alla ormai classica monografica di Giuseppe
Lugli sulla Tecnica edilizia romana ed alla risposta, molto illuminante, dell'autore21, Al di là delle
forzature e dei limiti delle due posizioni22, quella polemica nasceva da una sostanziale
contrapposizione metodologica che mentre faceva asserire a Lamboglia che il «rapporto costante
fra il monumento e lo strato coi suoi materiali è [. . .] il punto cruciale del metodo stratigrafico
applicato all'archeologia classica»23 consentiva invece al Lugli di teorizzare non solo la legittimità
dell'esistenza ma la necessità di distinzione di due metodi formatisi «nella nostra scienza
archeologica in relazione col "piano di campagna": il metodo strutturale-architettonico, per tutto
ciò che è sopra terra, e il metodo preistorico-stratigrafico per tutto ciò che è sotto terra»24: una
formulazione, come ben si vede, che vanifica ab imis ogni ulteriore discorso sul rapporto
necessario tra archeologo e architetto. È certamente una posizione anacronistica che più non ci
riguarda, ma che va richiamata per aiutarci a comprendere alcune delle radici culturali delle nostre
problematiche25.
Lo studio delle tecniche edilizie rappresenta - si diceva - uno degli elementi di novità che
caratterizzano l'attuale stagione della archeologia post-classica. Sentiamo assai più di ieri il
bisogno di costruire un linguaggio comune tra archeologi e storici dell'architettura, i quali a loro
volta cominciano a porsi nuovi interrogativi ed a fare alcuni conti con il passato.. La direzione è
quella della definizione disciplinare di una archeologia dell'architettura moderna26, che - anche
attraverso la riflessione sull'opera di personalità contraddittorie del recente passato, di formazione
positivistica27 _ rivendichino alla storia dell'architettura «un approccio conoscitivo ispirato ai
metodi dell'archeologia, o meglio alla stessa ottica della ricerca archeologica»28. I concetti intorno
ai quali si definisce la storia della cultura materiale credo possano rappresentare il sottofondo
comune a questa ricerca, della quale gli aspetti archeologici e storico-architettonici non sono che
due punti di vista ora paralleli ora sovrapponibili.
Da un incontro con le problematiche storico-architettoniche l'archeologo ha molto da guadagnare:
l'architettura nella prospettiva archeologica ha spesso sofferto per una irrisolta mescolanza di
aspetti tecnici, stilistici o tipologici, non sempre sostenuti da una sufficiente capacità di analisi

21
Cfr. N. Lamboglia, Opus certum , "Rivista di studi liguri", XXIV (1958), pp. 158-70 e G. Lugli, Opus incertum ,
"Rendiconti dell'Accademia dei Lincei", XIV (1959), pp. 321 -30.
22
Cfr. Manacorda, Cento anni, cit., pp. 106-8.
23
N. Lamboglia, La datazione stratigrafica dei monumenti di età classica , in Cronica del IV Congreso internacional
de Ciencias prehistòricas y prothistùricas - Madrid 1954, Zaragoza 1956, p. 904.
24
Lugli, Opus incertum, cit., p. 329.
25
Pur riconoscendone la funzione per l'analisi dei monumenti la stratigrafia viene confinata all'indagine nel sottosuolo
finalizzata allo studio dei reperti ceramici da G. Caputo, Metodo di scavo e sistemi di restauro, in Il monumento per
l'uomo, cit., p. 190: ma si veda nel suo stesso contributo la riproduzione della stratigrafia del crollo della basilica
severiana di Leptis Magna, esempio mirabile per l'epoca (1937) dell'applicazione dell'osservazione stratigrafica al
progetto di restauro monumentale (ivi, p. 184, fig. 7). Nello stesso volume il testo dovuto a G. Ioppolo, Contributo per
una metodologia nella ricerca archeologica e nel restauro dei monumenti antichi (pp. 231-4) testimonia di una ben
più matura sensibilità verso i problemi della lettura stratigrafica dei monumenti, isolati d'altronde nel panorama del
tempo.
26
Cfr. nota 2.
27
La figura di Gustavo Giovannoni meriterebbe in questo contesto di essere analizzata in relazione - sul piano
culturale come su quello politico-ideologico - con i due grandi personaggi dell'archeologia italiana di formazione
positivistica, Giacomo Boni e Nino Lamboglia.
28
P. Marconi, Il conoscitore di architettura "moderna": quale storia per il restauro , "Ricerche di storia dell'arte", 20
(1983), p. 7.
strutturale dei manufatti29. La storia dell'architettura a sua volta non può non beneficiare
dell'inserimento delle ottiche stratigrafiche, ad essa storicamente estranee e che le consentono
invece a livello di elaborazione un arricchiamento metodologico evidente, a livello di operatività
la possibilità di superare la facciata, l'immagine esterna dell'architettura, per andare a sezionare le
componenti più intime, riflesso diretto del lavoro umano30.
Questa complessa problematica si va affrontando alla Crypta Balbi a misura che l'indagine di
scavo, con l'allargamento del cantiere ai fabbricati perimetrali, si viene a fondere in forme sempre
più interdipendenti con il cantiere di restauro. I primi passi riguardano l'awio di una definizione
delle tipologie delle tecniche edilizie e dei materiali impiegati, la creazione di archivi di malte, di
laterizi, di elementi costruttivi, l'avvio dell'analisi epigrafica doliare di età post-classica.
Prendendo le mosse da esperienze già maturate in campo classico e medievale, ci si indirizza alla
elaborazione di una nuova scheda dell'unità muraria31 inseribile nel meccanismo della
documentazione archeologica, ma in grado di essere utilizzata nella analisi del manufatto
architettonico con la stessa rigorosa duttilità con cui essa può essere utilizzata quale elemento
costituente la ricostruzione della sequenza stratigrafica.
L'introduzione di strumenti di natura archeologica nello studio delle tecniche edilizie nel cantiere
di restauro dovrebbe trovare una corrispondenza nella maggiore acquisizione da parte
dell'archeologo della capacità, propria dell'architetto, di ragionare per organizzazione degli spazi,
funzioni, percorsi: un'attitudine certamente non ignota all'archeologo ma troppo spesso limitata da
una tendenza descrittivistica che non rende ragione alla mole del lavoro analitico, che è il
presupposto, ma non il fine della indagine stratigrafica. Questa capacità - si potrebbe anche dire
questa curiosità - si traduce a livello di rappresentazione grafica nell'attenzione maggiore che
l'archeologo dovrebbe rendere alle ricostruzioni topografiche e architettoniche degli insediamenti
(un'attitudine assai sviluppata nella cultura ottocentesca e poi via via andata perduta), specie
attraverso un uso più diffuso e consapevole della rappresentazione assonometrica, che restituisce
al monumento quella potenzialità di tramissione di informazioni che al rudere non è concessa.
Ma l'apporto più significativo dell'ottica stratigrafica all'analisi archeologico-architettonica è
costituito dall'introduzione del fattore tempo nella documentazione archeologica come nel rilievo
dei monumenti32. È la quarta dimensione infatti che viene documentata principalmente dalla
sezione stratigrafica, dove il contatto materiale dei tratti grafici che si sovrappongono l'un l'altro
intende proprio testimoniare la dinamicità della stratificazione, mentre la sua qualità viene affıdata
alle diverse tecniche di caratterizzazione, secondo una rappresentazione estranea al repertorio
grafico delle sezioni architettoniche, ma a questo complementare 33. Ed è la quarta dimensione che
l'archeologo introduce nella sua documentazione grafica orizzontale al momento della redazione
delle piante composite: piante per fase, e come tali sincroniche, ma solo interpretabili in una
sequenza stratigrafica che registri le presenze e le assenze, gli apporti come le sottrazioni, anche

29
Non si può non concordare con quanto scrive a questo proposito C. F. Giuliani, Introduzione a C. M. Amici, Foro di
Traiano: basilica Ulpia e biblioteche, Roma 1982, p. IX s. Ma un problema in questo senso sembra porsi anche nella
formazione professionale degli storici dell'architettura (cfr. Marconi, Il conoscitore, cit.).
30
Il problema è ben definito da E. Guadagni: «L'architetto, il muratore, il tecnico, dovranno farsi archeologi, o meglio
l'archeologo dovrà entrare col proprio bagaglio metodologico nel gruppo di lavoro che interviene sulla conservazione
e da questa indispensabile collaborazione nella fase conoscitiva dovranno prendere l'avvio le proposte per l'intervento
di restauro», Il recupero delle tradizioni costruttive locali nel restauro del patrimonio edilizio esistente, "Archeologia
Medievale", VI (1979), p.99.
31
Ricordo a tale proposito le importanti esperienze portate avanti da R. Parenti negli scavi condotti dall'lnsegnamento
di Archeologia medievale dell'Università di Siena sotto la direzione di R. Francovich.
32
Particolarmente chiare mi sembrano a tale proposito le osservazioni di F. Bonora, Nota su un'archeologia
dell'edilizia, "Archeologia Medievale", VI (1979), in part. pp. 171s. e 176.
33
Su teoria e prassi dell'intervento stratigrafico rinvio a A. Carandini, Storie della terra , Bari 1981 e ad Harris,
Principi di stratigrafia, cit., due opere che non dovrebbero mancare nello scaffale dell'architetto impegnato nei
cantieri di restauro.
qui secondo uno schema grafıco estraneo al rilievo architettonico ed alla rappresentazione
planimetrica di natura topografica.
La riproposizione del criterio di lettura stratigrafica delle planimetrie sui prospetti degli elevati
rappresenta il momento di incontro più ravvicinato tra l'ottica archeologica e quella dell'architetto.
Oltre a raffigurare sul piano verticale la dinamicità della stratificazione (le leggi che presiedono
alla stratigrafia verticale sono le stesse definite per qualunque tipo di stratificazione archeologica)
la stratigrafia degli elevati introduce al tema centrale del rapporto tra stratigrafie orizzontali e
verticali, sia nella sua forma direttamente verificabile nel procedimento di scavo, sia nella sua
forma ricostruibile per associazioni, confronti, periodizzazioni, attraverso la storicizzazione del
dato stratigrafico: un aspetto centrale della ricerca dell'archeologo, ma altrettanto fondamentale
per qualunque ipotesi di restauro architettonico.
Questa capacità di tradurre in un sistema integrato di documentazione grafica e scritta le
osservazioni stratigrafiche condotte sull'insieme monumento-ambiente non è ancora, almeno
quanto dovrebbe esserlo, patrimonio consolidato della professionalià dell'archeologo. Altrettanto
in formazione mi sembra essere, dal punto di vista dell'archeologo, la figura dell'architetto in
grado di utilizzare a pieno la mentalità stratigrafica nel proprio intervento sul cantiere di scavo-
restauro. I1 tema della formazione professionale mi pare quindi che scaturisca come necessaria
conclusione di questa serie di appunti, che non si è posta altro obiettivo se non quello di una
riflessione su problemi e aspetti del lavoro quotidiano in un cantiere di archeologia urbana. Senza
dubbio sarà il moltiplicarsi delle occasioni di incontro sui cantieri che indicherà le strade più
adatte al conseguimento di questa formazione professionale; ma senza un pronto coinvolgimento
delle nostre istituzioni (nella formulazione dei piani di studio universitari, nell'organizzazione
delle scuole di perfezionamento, nella elaborazione dei programmi concorsuali per l'accesso
all'Amministrazione dei beni culturali) le vie saranno più tortuose, le soluzioni più episodiche, il
livello di consapevolezza più incerto. In questa fase, credo, abbiamo bisogno di empiria; ma lo
sbocco di un approccio empirico deve essere quello della defınizione di una figura professionale
nella quale i contenuti di una formazione storico-filologica e insieme tecnico-operativa trovino
una sintesi equilibrata.
Richard Hodges

Scavi a San Vincenzo al Volturno:


un centroregionale ed internazionale dal 400 al 1100*

San Vincenzo al Volturno fu uno dei maggiori monasteri benedettini dell'Europa altomedievale.
Il Chronicon Vulturnense, una storia del monastero compilata nel XII secolo, lo paragona, nel IX
secolo, a Farfa e a Montecassino per splendore ed importanza (fıg. 1): il cronista descrive una
comunità prospera, dell'ordine di grandezza di un piccolo regno, e governata da una serie di abati
potenti1. Tuttavia, al contrario di molti altri grandi monasteri suoi contemporanei, San Vincenzo
al Volturno è oggi dimenticato, e storici e archeologi non ne conoscono l'ubicazione e la
fisionomia attuale. Solo la pubblicazione del Chronicon, awenuta negli anni Venti e Trenta ad
opera di Vincenzo Federici, ha risvegliato l'interesse degli studiosi per questo importante centro2
.
L'abbazia sorge presso le sorgenti del Volturno, nella piana di Rocchetta, ai piedi dei monti
dell'Abruzzo, al confine settentrionale dell'odierno Molise. San Vincenzo si trova a soli 30-40
km in linea d'aria da Montecassino, ma il viaggiatore moderno deve attraversare gli Appennini e
risalire la tortuosa valle del Volturno, prima di raggiungere l'abbazia fra i monti. Il suo
isolamento geografico attuale non era tale nell'antichità: in periodo preromano la zona si trovava
sull'itinerario dei pastori transumanti che ogni anno si spostavano dalla Puglia e dalla Basilicata
ai pascoli degli Abruzzi, ed era quindi densamente popolata. Anche in epoca classica, i pastori
facevano probabilmente tappa nella piana di Rocchetta prima di affrontare l'aspra salita verso le
Mainarde a circa 2000 m. di altezza. In epoca post-classica questa stessa catena montuosa
segnava il confine fra il Ducato (più tardi Regno) di Benevento e gli stati della Chiesa a nord; fra
VIII e IX secolo infine la regione ebbe per un breve periodo il ruolo di frontiera meridionale
dell'Impero carolingio, fino al disfacimento di questa formazione politica. Nei secoli seguenti,
l'instabilità politica del centro e del meridione d'Italia fece sì che la prosperità dell'abbazia
dipendesse principalmente dalla sua prossimità ai ricchi pascoli degli Abruzzi: questi
assicurarono la relativa prosperità dei villaggi dell'alta valle del Volturno rispetto ai centri del
Mezzogiorno. Come nel Sud, tuttavia, anche qui l'emigrazione, dal XIX secolo, verso le città
dell'Europa settentrionale e dell'America ha dato luogo ad un drammatico spopolamento, e una
delle principali risorse della regione rimane oggi l'industria turistica, al cui potenziamento potrà
contribuire anche lo scavo e l'apertura al pubblico di San Vincenzo al Volturno.

*Desidero ringraziare la soprintendente dottoressa D’Henry ed inoltre i responsabili e i volontari che hanno lavorato
a S. Vincenzo.
1
Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di V. Federici [F.S.I. 58-60], Roma 1925-38.
2
Ibid.
FIGURA 1
Carta di localizzazione di San Vincenzo al Volturno

L'ubicazione precisa del monastero altomedievale era, fino a pochi anni fa, sconosciuta, e,
benché la scoperta di una cripta affrescata del IX secolo avrebbe dovuto richiamare l'attenzione
degli studiosi su questo sito, il suo isolamento ha scoraggiato qualsiasi ricerca.
I risultati del nostro lavoro, ottenuti in cinque anni di scavi, vanno in primo luogo inseriti nella
prospettiva storica dello sviluppo del monastero, come è descritto dal Chronicon Vulturnense, la
principale fonte per il periodo che va dalla fondazione di San Vincenzo all'inizio del XII secolo.
Il cronista, Giovanni, utilizzò probabilmente documenti dell'VIII, IX e X secolo: è però
opportuno leggere il Chronicon con una certa cautela, perché esso venne redatto con lo scopo
dichiarato di esaltare l'importanza del monastero in un periodo in cui le sue fortune erano in
declino. In breve, la storia riferisce di come tre monaci dell'abbazia di Farfa, Paldo, Taso e Tato,
fondarono San Vincenzo all'inizio dell'VIII secolo, in un luogo selvaggio e boscoso. È probabile
che ai monaci venisse fatto dono dei ruderi di una tenuta, ai confini settentrionali del Ducato di
Benevento, appena fondato. Sembra anche che i monaci restaurassero una chiesa preesistente,
costruita, secondo la tradizione, in epoca costantiniana. I tre fondatori collaborarono poi alla
rifondazione dell'abbazia di Montecassino. Le ragioni della dedica dell'abbazia a San Vincenzo
rimangono oscure e anche il Chronicon non ne fa menzionare3; forse le reliquie del martire
menzionato in un documento del X secolo appartenevano ad uno sconosciuto di epoca
tardoromana, piuttosto che al famoso santo spagnolo4.
Il monastero del secolo VIII era probabilmente di piccole dimensioni, anche se nel suo
scriptorium venne redatto, al tempo dell'abate Ato, il famoso Codex beneventanus5. Quando
l'imperatore Carlo Magno, nel terzo quarto del secolo VIII, conquistò il Regno longobardo
settentrionale, San Vincenzo, come altri monasteri, si trovò a dover decidere fra la fedeltà ai

3
P. J. Geary, Furta Sacra. Theits of relics in the central Middle Ages, Princeton 1978, p. 166 s.
4
Ibid.
5
D. H. Wright, The canon tables of the Codex Beneventanus and related decoration, "Dumbarton Oaks Papers", 33
(1979), pp. 135-56.
duchi locali e il rispetto verso il potente conquistatore. In quest'epoca secondo Paolo Diacono,
che scriveva a Montecassino, San Vincenzo al Volturno era una comunità di una certa entità6. La
decisione dell'abate Paolo, intorno al 780, di schierarsi con i Carolingi, può essere stata la causa
di una serie di nuove donazioni all'abbazia, ma è solo con il suo successore, Giosuè (792-817),
che 1'appoggio carolingio assunse una forma tangibile. Il Chronicon descrive la ricostruzione di
San Vincenzo che Giosuè compì con l'aiuto di suo cognato, Ludovico il Pio; pare addirittura che
il re franco organizzasse lo spoglio sistematico di un tempio romano a Capua, per poi farlo
trasportare a San Vincenzo pezzo per pezzo. Per quanto si tratti forse solo di una leggenda,
questo episodio rivela gli stretti rapporti esistenti fra la corte carolingia e il monastero
benedettino, ed il prestigio che a questi attribuiva il cronista nel XII secolo.
Dopo Giosuè, gli abati Talarico ed Epifanio continuarono ad espandere il monastero, costruendo
nuove chiese e ottenendo donazioni dai beneventani. Lo zenith delle fortune del monastero fu
raggiunto alla metà del IX secolo, e l'awento, nell'860, di una banda di pirati Saraceni, segnò
l'inizio del declino. In quell'occasione, i pirati nordafricani si accontentarono di un riscatto, ma
nell'ottobre dell'881 un'altra banda, guidata dal feroce Saradan, attaccò San Vincenzo, e, dopo
una drammatica battaglia, saccheggiò l'abbazia, spogliandola di tutti i suoi tesori e costringendo i
monaci sopravvissuti a fuggire a Capua. Essi ritornarono nel 914-15, e probabilmente
utilizzarono San Salvatore, piuttosto che la chiesa madre, ormai in rovina. Nel secolo che seguì,
l'attività edilizia nel monastero fu assai ridotta, e vi fu invece un crescente interesse per
l'amministrazione delle terre di proprietà di San Vincenzo: il Chronicon riporta una serie di carte
che documentano la fondazione di villaggi dopo il 940; alle popolazioni degli insediamenti già
esistenti vennero dati in affıtto nuovi terreni, con lo scopo evidente di formalizzare il rapporto fra
questi e l'abbazia, e nello stesso tempo di aumentare la produzione agricola, mediante la
colonizzazione delle aree boschive. È probabile che San Vincenzo incoraggiasse
l'"incastellamento" della zona, per procurarsi le risorse necessarie a riparare e mantenere il
monastero in rovina, seguendo l'esempio di Farfa e Montecassino7. È certo che nel periodo che
seguì la concessione di queste carte di fondazione e affitto nel monastero si ebbe una fase di
grande attività edilizia. Al tempo dell'abate Giovanni IV (998-1007) la chiesa madre,
abbandonata nell'881, fu restaurata. In seguito l'abate Ilario (1011-45) fece costruire un nuovo
campanile, mentre Giovanni V (1053-76) rinnovò il pavimento nella grande chiesa e costruì un
nuovo chiostro. Con l'abate Gerardo, un ex monaco di Montecassino all'epoca di Desiderio, la
chiesa madre fu totalmente ricostruita, ad imitazione della bella basilica di Montecassino voluta
da Desiderio, e fu completata solo al tempo di Benedetto (1109-17), quando il monaco
conosciuto come Giovanni era già intento a scrivere la storia di San Vincenzo8. La stesura di
quest'opera si colloca all'inizio del defınitivo declino di San Vincenzo. Nel XIV secolo il
monastero venne gravemente danneggiato da un terremoto, e da allora esso ebbe solo importanza
locale, fıno a che, nel 1699, le sue proprietà vennero rilevate da Montecassino. La chiesa
abbaziale fu fatta restaurare dai cassinesi, che la usarono come luogo di ritiro estivo. Keppel
Craven, un viaggiatore inglese che visitò San Vincenzo nel 1837, ignorò sia l'edificio, di cui
sembrava non conoscere la storia, che la cripta affrescata, allora da poco (1832) scoperta da O.
Fraja-Frangipane, archivista di Montecassino9. Gli affreschi richiamarono l'attenzione degli
storici dell'arte, che nei 150 anni seguenti li studiarono, anche se nessuno tentò di inserirli nel più
ampio contesto della storia dell'abbazia. La chiesa abbaziale fu poi danneggiata durante la

6
Paolo Diacono, Storia dei Longobardi.
7
C. Wickham, Il problema dell'incastellamento nell’Italia centrale: l'esempio di San Vincenzo al Volturno , Firenze
1985.
8
A. Pantoni, Le chiese e gli edifici del monastero di San Vincenzo al Volturno , Montecassino 1980, p. 69 s. Pantoni
crede che il sito del monastero sia sempre stato quello odierno, e perciò attribuisce i chiostri della "nuova" abbazia
(I'attuale) a Giovanni V (pp. 75-7) e suggerisce che la fase finale della chiesa abbaziale sia stata operata da Gerardo.
9
Pantoni, Le chiese e gli edifici, cit., p. 91.
Seconda guerra mondiale e restaurata nel periodo postbellico sul modello della chiesa dell'XI-
XII secolo di cui parla l'autore del Chronicon. Nel 1972 infıne, poco dopo la pubblicazione del
famoso studio che H. Belting dedicò agli affreschi della cripta10, la fattoria che la sovrastava fu
sostituita da un curioso edificio di copertura che, insieme ai "restauri" eseguiti all'epoca, portò al
drammatico deteriorarsi delle pitture, che a tutt'oggi rappresenta un problema per la
Soprintendenza archeologica del Molise.
Il professor D'Agostino, soprintendente nel 1979, ci invitò a scavare la zona circostante la cripta,
conosciuta con il nome di San Lorenzo, in via preliminare al restauro completo degli affreschi
sotto la direzione del professor Basile del Centro di restauro di Roma. Per ragioni che sono state
esposte altrove11, noi chiedemmo di studiare non solo la cripta ma anche il monastero nel suo
insieme, e, in seguito al lavoro di C. Wickham sullo studio della terra di San Vincenzo compiuto
da M. Del Treppo, di condurre una ricognizione di superficie e dei saggi di scavo in alcune
località della regione legate al monastero. Il nostro scopo era quello di condurre un programma
di ricerca interdisciplinare che ci permettesse di definire il ruolo del monastero nella regione fra
VIII e XI secolo. In particolare, si sperava di ottenere dati sufficienti sulla forma del monastero
per stabilirne la funzione come centro regionale nell'Altomedioevo. Va sottolineato che il lavoro
è stato intrapreso con in mente tre punti principali, che hanno poi guidato la nostra strategia
successiva. In primo luogo, la chiesa della cripta veniva considerata come una cappella isolata, a
circa 400 m. dall'abbazia attuale. Il nostro scopo era di condurre uno scavo ad "open area" per
documentare accuratamente lo sviluppo della chiesa e degli edifici circostanti; questi scavi
avrebbero dovuto formare il nucleo principale di un parco archeologico, di cui la cripta avrebbe
rappresentato il monumento più insigne. In secondo luogo, volevamo accertare l'estensione del
monastero altomedievale compiendo saggi sia intorno all'abbazia attuale che nella zona fra
questa e la cripta. Credevamo che l'insediamento avesse avuto un'estensione di circa un ettaro,
come veniva confermato dagli scavi di D. Whitehouse in un altro insediamento di epoca
carlolingia, Farfa (Sabina), e dall'ipotesi di W. Horn, che la famosa pianta di San Gallo fosse
quella di un monastero dell'819 circa, di un ettaro di estensione12.

10
H. Belting, Studien zu Beneventanischen Malerei, Wiesbaden 1968.
11
R. Hodges, Excavations and survey at San Vincenzo al Volturno , Molise: 1980, "Archeologia Medievale", VIII
(1981), pp. 483-6.
12
W Horn, E. Born, The Plan of St. Gall, Berkeley 1979.
FIGURA 2
La principale area di scavo di lato al fiume Volturno

In terzo luogo, la ricerca archeologica sulla terra mirava ad individuare gli insediamenti esistenti
durante il periodo più antico della vita del monastero: la densità del popolamento ed altri
semplici problemi dovevano essere affrontati e risolti prima di raggiungere una valutazione delle
diverse ipotesi relative allo sviluppo dell'economia altomedievale. Era quindi necessario
rinvenire tipi ceramici diagnostici in contesti stratificati in varie località della terra, per poi
confrontarli con i dati associati alla cripta, l'unico punto fermo nella cronologia. Ricerche
precedenti sulla ceramica altomedievale condotte da D. Whitehouse nella Puglia settentrionale e
da R. Hodges e G. Barker nella valle del Biferno13, suggerivano che era possibile rinvenire tale
ceramica. Un progetto di 5 anni iniziò così nel 1980, con la collaborazione, dal 1981, della
dottoressa G. D'Henry, la nuova soprintendente.
Nell'agosto del 1981, durante la seconda stagione di scavo, divenne chiaro che il sito del
monastero altomedievale si trovava a sud della chiesa della cripta, lungo il Volturno. L'abbazia
attuale invece si trova sul luogo di quella dell'XI secolo, probabilmente quello voluto dall'abate
Gerardo. Dal 1981 abbiamo portato alla luce presso il Volturno una sequenza edilizia molto
complessa, comprendente alcuni resti di età carolingia, in ottimo stato di conservazione, ed

13
D. B. Whitehouse, Medieval painted pottery in South and Central Italy , "Medieval Archacology", 10 (1978), pp.
30-44; Id., The medieval pottery of Rome. in H. McK. Blake, T. W. Potter, D. B. Whitohouse, Papers in ltalian
Archaeology, Oxford l 978, pp. 475-505; R. Hodges, G. Barker, K. Wade, Excavations at D85 (Santa Maria in
Cività): an early medieval hillton settlement in Molise, "Pape Pantoni, Le chiese e gli edifici, cit., p. 91.rs of the
British School at Rome", 48 (1980), pp. 70-124.
inoltre resti di periodi anteriori e posteriori. I resti archeologici interessano un'area di circa 5
ettari e indicano che in alcuni periodi il sito raggiungeva le dimensioni di una piccola città.
L'esiguità delle risorse a nostra disposizione ci ha finora solo permesso di verificare la sequenza
e l'estensione di una piccola parte del sito; pensiamo tuttavia di aver raggiunto dei risultati
soddisfacenti in rapporto ai nostri obiettivi iniziali e ci è ora possibile descrivere la sequenza
insediativa lungo il Volturno, e quindi offrire una prima valutazione del ruolo di San Vincenzo
come centro regionale.
Queste in sintesi le fasi costruttive evidenziate dallo scavo del complesso:

—fase 0a, periodo repubblicano;


—fase 0b, periodo romano (I-IV secolo d.C.);
—fase 1, periodo tardoromano (V-inizio VI secolo);
—fase 2, periodo longobardo (tardo VI-VII secolo)
—fase 3, il primo monastero (VIII secolo);
—fasi 3a, b, c, ristrutturazioni del monastero (fino all'inizio del IXsecolo);
—fase 4, il monastero dell'inizio del IX secolo;
— fase 4a, ristrutturazioni;
— fase 5, le opere di Epifanio (824-42 e oltre);
—fase 5a, b, c, ristrutturazione e tracce dei danni causati dai Saraceni(881);
—fase 6, il monastero del X secolo
—fase 6a, b, abbandono;
—fase 7, il monastero del secolo XI;
—fase 8, l'abbazia nel tardo XI secolo e quella moderna.

La storia raccontata dagli scavi è sorprendentemente dettagliata. Il collegamento con i Sanniti,


cui accenna il cronista, è per esempio con fermato dall'esistenza qui di un vicus repubblicano, da
cui gli architetti del IX secolo d.C. prelevarono molto materiale edilizio. L'insediamento di epoca
imperiale era molto più modesto, anche se era un centro importante a livello subregionale, come
suggeriscono i suoi resti (compreso il materiale epigrafico). Di dimensioni analoghe fu la villa
tardoromana; a differenza dei suoi predecessori, tuttavia, considerazioni di carattere difensivo ne
determinarono la natura, ed essa operò anche come centro religioso: l'entità delle chiese potrebbe
addirittura far pensare ad un vescovato. Ciò è forse contraddetto dalla varietà dei resti culturali e
dalla natura della popolazione sepolta nel cimitero, simile a quelle rinvenute nei cimiteri di altre
zone dell'Italia centrale e meridionale. Per il momento, la villa va attribuita ad un proprietario
locale che consolidò il suo potere con la costruzione di una chiesa e di un cimitero di cui
usufruiva la popolazione di questa parte dell'alta valle del Volturno.
L'abbandono della villa avvenne in un periodo in cui lo stato non aveva più potere effettivo nelle
aree più marginali dell'Italia. L'invasione bizantina, le guerre Gotiche e l'improvvisa conquista
dell'Italia settentrionale e parte dell'Italia centrale da parte dei Longobardi, riflettono la
disintegrazione economica e sociale di questo periodo14. Le singole comunità dovevano reagire
in modo individuale alle circostanze e contribuivano al crollo dello stato centralizzato: ciò
provocò anche la scomparsa dei grandi proprietari terrieri e l'emergere di tenute più piccole
coltivate per supplire ai bisogni locali. La continuità del popolamento è testimoniata dai dati
provenienti dalla basilica funeraria di San Vincenzo. La pratica funeraria tardoromana persistette
senza cambiamenti fino all'awento nella regione di una nuova élite politica, etnicamente distinta,

14
R. Hodges, D. Whitebouse, Mohammed, Charlemagne and the origins of Europe , London 1983 R. Hodges et abi
Excavations at Vacchereccia (Rocchetta al Volturno): a 7th to 12 th century settlement in the upper Volturno valley,
"Papers of the British School at Rome", 52 (1984), pp. 148-94.
i Longobardi, e i membri più ricchi delle piccole comunità circostanti poterono ancora ottenere
per vie commerciali orecchini in argento di tipo tardoantico.
Come a Farfa e a Montecassino, anche a San Vincenzo i monaci scelsero un sito di epoca
classica per edificarvi il monastero: pare anzi che in ciascun caso i monaci utilizzassero il nucleo
di una tenuta tardoantica in abbandono, attirati dalla sua evidente potenzialità economica e
dall'ubicazione adatta all'amministrazione di comunità disperse. Nel caso di San Vincenzo,
tuttavia, il cimitero era probabilmente ancora in uso, così che Paldo, Tato e Taso non fecero che
occupare un centro ancora operante.
Il primo monastero è apparentemente molto piccolo e primitivo. Il Codex beneventanus
dell'Abate Alto acquista portata ancora maggiore quando si pensi alla minuscola chiesa
imbiancata di fase 3 e al suo altare in mattoni. La comunità deve essere stata molto piccola, e
formatasi sotto l'influenza locale e isolata dell'abbazia. L'accento posto sulle sepolture nel lato
ovest dell'abside e a quelle nei successivi deambulatori suggerisce l'ipotesi che San Vincenzo, a
cui l'abbazia fu dedicata, fu un romano di questa regione, e le sue reliquie non avrebbero attirato
grande attenzione al di fuori di essa tranne che in circostanze eccezionali: queste si produssero
quando Carlo Magno conquistò l'Italia settentrionale e si alleò con una serie di papi. L'abbazia di
San Vincenzo, al confine settentrionale del ducato di Benevento, acquistò un rango e una
ricchezza prima inimmaginabili: la breve ma efficace diffusione dell'ideologia carolingia, che
sosteneva con fermezza l'autorità del Papa come vero e unico agostolo di Dio in terra, fu
principalmente diretta al regno di Benevento 15.
Il Ducato (più tardi Regno) di Benevento era una marca politicamente divisa, che si trovava fra
l'impero di Bisanzio e quello di Carlo Magno, e fra le loro due chiese. I Carolingi, che facevano
capo alla corte longobarda in Italia settentrionale e a quella papale, potenziarono i monasteri di
San Vincenzo e Montecassino, come centri di potere ideologico da cui manipolare la politica
beneventana. Una serie di donazioni beneventane del IX secolo rivelano la vera entità di questo
investimento: esso è evidente in modo tangibile nell'impressionante espansione di San Vincenzo,
pare effettuata sotto il patrocinio di Ludovico il Pio, su di un modello che riassume le
caratteristiche del movimento carolingio.
La datazione precisa dell'abbazia di fase 4 non può essere stabilita con certezza: l'abate Giosuè
può esserne stato l'artefice principale, come riporta il cronista, ma la ricostruzione può anche
essere stata effettuata dal suo predecessore, Paolo. Quest'operazione chiaramente ebbe luogo fra
la fase 3b e la cripta di Epifanio. La fase 3b è degna di nota: alla chiesa sud e alla chiesa della
cripta furono aggiunti rispettivamente un protodeambulatorio e un'abside tricora. Entrambe le
forme si richiamano a idee architettoniche tardoantiche, recuperate durante il periodo carolingio
verso la fine dell'VIII secolo16; cioè prima della grande ricostruzione questa piccola comunità già
risentiva di influenze nordiche.

15
W. Ullmann, The Carolingian Renaissance and the idea of Kingship , London 1969, R. Hodges, J. Moreland, H.
Patterson, San Vincenzo al Volturno, the kingdom of Benevento and the Carolingians, in Papers in Italian
Archaeology IV, The Cambridge Conference, IV, a cura di C. Malone e S. Stoddard, Oxford 1985, pp. 261-88.
16
Belting, Studien, cit., p. 25 s.; C. Heitz, More Romano. Problèmes d'architécture et liturgie carolingiennes , in
Roma e l'età carolingia, Roma 1976, pp. 27-37; e 1'importante studio di R. Krautheimer, The Carolindan revival of
early Christian architecture, "Art Bulletin", 24 (1942), pp. 1-38.
FIGURA 3
L’abside della Chiesa dell’VIII secolo (lato sud). Il primo San Vincenzo

Il monastero di fase 4 appare come un complesso edilizio pianificato comprendente zone adibite
alle diverse funzioni: questo è un punto molto importante in quanto sembra sottintendere
l'operare di un'autorità centrale, intenta a realizzare un modello ideale17. La costruzione del
nuovo monastero quasi certamente fu completata prima della stesura della famosa pianta di San
Gallo: le caratteristiche di quest'ultima indicano la preesistenza, prima che l'abate Haito lo
mettesse per scritto, di un concetto preciso di quello che è il "monastero modello"18. La
costruzione di San Vincenzo al Volturno ne è un'interpretazione locale, molto attenta tuttavia ai
temi principali della renovatio carolingia. In particolare ricorrono ovunque nel monastero i
richiami tardoantichi: gli affreschi, la forma degli edifici, i colonnati e le arcate, la produzione di
tegole e vetro si ispiravano tutti a idee e tecniche correnti tre o quattrocento anni prima. San
Vincenzo poi fu quasi tutta costruita con materiali di reimpiego, esibiti con l'intento di suggerire
con forza ai visitatori l'immagine di un impero rinascente. La quantità di simboli presenti
probabilmente comunicava un messaggio confuso al visitatore laico, che ne recepiva solo
un'impressione di grandiosità e imponenza: San Vincenzo era, nel IX secolo, una città agli occhi
dei contemporanei. I monaci e lavoranti laici devono essere stati mille o più: forse nessun altro
monastero e quasi nessun altro centro dell'epoca in Europa contava tanti abitanti. La possibilità
di espansione edilizia nella piana può avere contribuito a determinare la grande crescita del
monastero; l'attività costruttiva sembra tuttavia, nelle fasi 4 e 5, essersi concentrata intorno alla
collina.
Scavi in alcuni villaggi della terra di San Vincenzo mostrano che qui, come in altre parti
d'Europa in questo periodo, le comunità consistevano raramente di più di cinquanta persone19.
Un'abbazia che, nel giro di una generazione, divenne venti volte più grande, deve avere

17
R. Hodges, The evolution of gatervay communities: their socio-economic implications , in Rankingi Resource and
Exchange, a cura di C. Renfrew e S. Shennan, Cambridge 1982, pp. 117-2
18
Horn, Born, The Plan of St. Gall cit., ringrazio A. Zettler, che ha discusso questo problema con me, e mi ha
comunicato ciù che sapeva sulla storia di Reichenau, Germania Occidentale, dove ha scoperto un monastero con una
simile pianta, precedente la pianta di San Gallo.
19
Hodges, Barker, Wade, Excavations at D85 , cit., p. 112; R. Hodges, Dark Age Economics, London 1982, pp. 132-
5.
rappresentato un fenomeno eccezionale. Come in una città in esso vivevano artigiani: i dati
parlano di una fabbrica di tegole, di un'officina vetraria, fabbri e, quasi certamente, almeno un
vasaio. Artigiani del cuoio, del legno, falegnami, muratori, amannensi e pittori devono avere
vissuto a San Vincenzo nel momento del suo massimo splendore. Questo deve essersi verificato
al tempo di Epifanio, quando, come abbiamo visto, molti dei monumenti principali vennero
ulteriormente abbelliti.
Gli anni 820-30 furono un periodo importante per gli uomini di chiesa politicamente attivi,
poiché essi riuscirono brevemente ad imporre la loro autorità mentre il potere secolare
centralizzato cominciò a disintegrarsi20. Gli abati e i vescovi carolingi furono al culmine della
potenza durante le guerre civili degli anni 830, ma, come tutti gli altri membri dell'élite,
soffersero della recessione economica che seguì. Dobbiamo immaginare Epifanio, nel reame di
frontiera, a operare in queste circostanze. La quarta decade dell'800 vide la caduta del governo
centrale nel regno di Benevento e l'avvento di fazioni in lotta. San Vincenzo poté quindi
prosperare per un breve periodo sfruttando i suoi legami con autorità lontane, decadendo però,
come tutti i grandi monasteri dell'Impero, quando la benevolenza dello Stato cessò.

FIGURA 4
Forno da ceramica dell’XI secolo (fase 7)

Nell'881, data dell'attacco saraceno, San Vincenzo era ancora un'espressione classica del
movimento carolingio. Era un monumento molto diverso da quelli di Benevento (per esempio
Santa Sofia)21, o dei villaggi collinari quali Santa Maria in Cività 22. Ma nell'881 il momento di
massimo splendore del monastero era certamente concluso: le riparazioni eseguite in seguito ad

20
Ullmann, The Carolingian Renaissance, cit.
21
Belting, Studien, cit., pp. 42-53.
22
Hodges, Barker, Wade, Excavations at D85, cit., pp. 83-6; fig. 9.
un terremoto nella fase 5 rivelano il ritorno a tecniche più antiche e più primitive. Forse per
questo il cronista, 250 anni più tardi, fu felice di attribuire la responsabilità del declino agli odiati
pagani. I Saraceni, pirati nordafricani del Maghreb, secondo la leggenda saccheggiarono e
devastarono San Vincenzo. I nostri scavi suggeriscono un'immagine meno pittoresca di quel
mattino di ottobre: gli attacchi furono forse localizzati alla due estremità dell'insediamento e
l'equivalente altomedievale di artiglieria leggera, l'arco composito, fu utilizzato per appiccare
piccoli fuochi a scopo intimidatorio. Anche se l'impatto psicologico dell'attacco non può essere
minimizzato, è improbabile che molti edifici venissero devastati. Va poi notato che le porte delle
officine erano sbarrate: questa da sola è un'indicazione del nuovo contesto economico-sociale in
cui venne a trovarsi il monastero: i Saraceni non arrivarono inaspettati.
Il precario insediamento del X secolo, che tentava insistentemente di richiamare l'attenzione del
visitatore sui suoi morti, piazzati all'entrata del monastero, è una scoperta sconcertante nell'era di
Cluny. Sembra che, con il rango, scomparisse anche l'abilità tecnica e San Vincenzo tornò ad
essere un modesto centro a livello regionale. Naturalmente San Vincenzo, come altre abbazie di
questo periodo, lamenta la sua triste condizione23 e il quotidiano confronto con i grandiosi edifici
ormai in rovina deve avere umiliato più di un abate. Ciò può avere contribuito a stimolare il
crescente interesse nello sviluppo dei terreni di prol?rietà dell'abbazia, ed il tentativo di
aumentarne la produzione agricola. È impossibile ignorare il contrasto fra il monastero in declino
la serie di atti che documentano il disboscamento di numerosi terreni e l'inizio
dell'incastellamento nell'alta valle del Volturno.
I redditi crescenti e una rinascita ecclesiastica, nel secolo XI riportano l'abbazia, per un breve
periodo, alla ribalta. Come a Farfa e a Montecassino, anche a San Vincenzo fu realizzato un
imponente programma di ricostruzione. Nella prima metà del secolo XI l'intera struttura del
monastero fu rivoluzionata. L'entità di questo processo è sorprendente, come può notare ancora
oggi chi visita gli scavi: l'enormità della distribuzione suggerisce alla fantasia orde di Saraceni,
non l'energia spirituale dell'ideologia romanica. La demolizione di monumenti più antichi è
un'illustrazione eloquente del modo in cui la tradizione può essere sfruttata in un'epoca e
obliterata e negata in quella successiva. La costruzione di un nuovo chiostro a sud di San
Vincenzo segnò uno stacco netto dalla storia passata del monastero; la negazione del passato fu
attuata anche con la creazione di una nuova abbazia ad opera dell'abate Gerardo, ex monaco di
Montecassino al tempo di Desiderio. Lo spostamento sull'altra riva del fiume, da una posizione
dominante la piana di Rocchetta ad una di carattere più difensivo, incombente sulla gola del
Vo1turno, illustra con forza il nuovo spirito di un secolo importante. Con l'inizio del XII secolo
la comunità di Gerardo entrò in competizione con la piccola nobiltà normanna locale, e le
fortune di San Vincenzo, isolato dalle principali correnti di traffico italiane, cominciarono a
declinare.
In un momento di crescente competizione con l'autorità secolare, un monaco (o monaci) di San
Vincenzo redasse una vivida descrizione della storia passata del monastero.
La narrazione dettagliata e le suggestive illustrazioni descrivono un passato che per secoli è stato
difficile comprendere:
San Vincenzo raggiunse veramente tale splendore e fama?
Ebbe veramente una storia simile a quella della vicina Montecassino o della grande abbazia
umbra di Farfa?
I1 suo isolamento fra i monti del Molise rendeva ciò poco credibile. Sei stagioni di scavo hanno
dato profondità e prospettiva alla storia, portando San Vincenzo al rango di uno dei siti più
importanti del periodo altomedievale in Europa occidentale.

23
Chronicon Vulturnense, cit., 1, p. 36 s
Riccardo Francovich

Un villaggio di minatori e fonditori di metallo nella Toscana del Medioevo:


San Silvestro *

In Italia, nonostante la ripresa di interesse verso i temi della storia della metallurgia
preindustriale1, i problemi dell'estrazione e della lavorazione siderurgica hanno trovato in ambito
archeologico postclassico uno spazio molto limitato e confinato all'epoca moderna. E questo
nonostante la centralità che tale aspetto della produzione ha avuto in epoca medievale ed in
particolare per quell'area della costa toscana che fino dall'epoca etrusca è stata intensamente
sfruttata per le sue risorse minerarie2.
I1 progetto di scavo archeologico intorno al villaggio minerario di Rocca San Silvestro
(Campiglia Marittima-Livorno), intrapreso nel 1984 dall'Insegnamento di Archeologia medievale
dell'università di Siena, vuole viceversa riproporre la tematica, sostanzialmente abbandonata
nella sua dimensione di ricerca sul campo da oltre mezzo secolo, in una prospettiva che tenga
conto degli aspetti relativi all'estrazione, alle tecnologie della riduzione e della lavorazione nel
più ampio campo della storia dell'insediamento medievale.
L'intervento sul villaggio minerario di San Silvestro si è concentrato, nella prima campagna di
scavi, sulle strutture urbanistiche del centro, di cui in questa occasione diamo una dettagliata
seppure preliminare informazione, mentre nella seconda campagna (1985), oltre che allargare
l'indagine all'interno dell'abitato e su parti significative della struttura «castrense», sono state
affrontate le aree di produzione del ferro e di lavorazione del rame.
Il progetto di ricerca che ha al suo centro San Silvestro, comprende inoltre, come di consueto,
sistematiche indagini documentarie sia relativamente al sito stesso, sia al territorio circostante,
dalla Valle della Cornia alla costa a nord di Castagneto Carducci. Ma la ricognizione sulle fonti
non si limita al Medioevo—che nel caso della Cornia hanno un carattere di eccezionalità per
l'abbondanza degli atti altomedievali conservati, tale da rendere di straordinario interesse il
«confronto» con l'evidenza topografica—infatti le stesse fonti di epoca moderna, e non solo la
letteratura e l'erudizione storica ed archeologica moderna, insieme alla cartografia antica, sono
oggetto di indagini da parte di un gruppo di studiosi.
Le indagini documentarie sono partite in anticipo rispetto alle campagne topografiche, appena
iniziate nel 1985, ma già fino da ora possiamo notare come la fonte archeologica (sia a livello
estensivo che intensivo) offra una quantità di informazioni diverse e nuove rispetto alla ricerca
documentaria, e non soltanto per quegli aspetti legati alla storia del popolamento e
dell'insediamento, sul quale ci siamo già soffermati in altra sede3, ma anche per quegli aspetti
relativi all'attività estrattiva e per la storia della siderurgia che per quanto riguarda l'epoca
postclassica e preindustriale rimangono un capitolo ancora tutto da scrivere. Si deve infatti

*Del tema che trattiamo in questa occasione abbiamo parzialmente già parlato in R. Francovich, G. Gelichi, R.
Parenti, Aspetti e problemi di forme abitative minori attraverso la documentazione materiale nella Toscana
medievale, "Archeologia Medievale", VII (1980), pp. 176-205, R. Francovich, Per la storia della metallurgia e
dell'insediamento medievale sulla costa toscana: lo scavo del villaggio minerario di San Silvestro, "Rassegna di
Archeologia", IV (1985), Id., Rocca San Silvestro: an archaeology project for the study of a mining village in
Tuscany, in Medieval iron in society, Stoccolma 1985, pp. 318-40.
1
Per lo stato degli studi si veda il recente volume monografico di "Ricerche Storiche", XIV (1984) dedicato a
Miniere e metalli in Italia fra medioevo e prima età moderna e curato da G. Pinto.
2
Cfr. L'Etruria mineraria, Firenze 1981.
3
Si vedano le pagine introduttive a Scarlino I. Storia e territorio, a cura di R. Francovich, Firenze 1985.
notare che per questa specifica area, differentemente da quanto sappiamo per il territorio
limitrofo di Massa Marittima, anche le fonti bassomedievali sono, al proposito, di una povertà
estrema, mentre ben diverso è il discorso per l'epoca moderna.
Le difficoltà della ricerca in questo campo sono aggravate dallo stato della letteratura
archeologica classica che pare viziata da un peccato originale: quello di aver ignorato
generalmente l'uso e il «riuso» in epoca preindustriale delle miniere, che sono state considerate
generalmente sfruttate fino solo all'età romana. Tale condizione pone difficoltà non indifferenti a
chi si trova ad operare sul campo: si tratta in sostanza di ridefinire gli strumenti di datazione
delle miniere e delle fosse, e cioè le diverse tecniche estrattive senza i condizionamenti
provenienti da una tradizione, che pur fra molti meriti, ha la responsabilità di non aver guardato
con sufficiente attenzione ai problemi di continuità e di rottura sui tempi lunghi4.
Oltre alle consuete e non sempre facili operazioni di laboratorio legate all'analisi dei materiali
rinvenuti nel corso dello scavo secondo le indicazioni di un'archeometria sempre più affinata, le
problematiche inerenti la ricerca hanno imposto un'allargamento delle cooperazioni, che non si
limitano solo al campo della metallurgia e della geologia (per i quali il coinvolgimento, fin
dall'inizio della indagine sulle strutture produttive, di Tiziano Mannoni costituisce una
importante e imprescindibile garanzia scientifica), ma si allargano anche a quel settore della
diagnostica archeologica che in strutture monumentali del tipo di San Silvestro si sarebbero
potute considerare marginali. Il preventivo riconoscimento dei punti di lavorazione dei metalli
(ad esempio) attraverso l'uso di indagini magnetometriche, si è rivelato di grande utilità per poter
far marciare in modo omogeneo ed equilibrato l'indagine sull'insediamento e ha posto
immediatamente il problema del suo allargamento all'esterno delI'area abitata al fine di avere un
quadro complessivo delle relazioni fra il sito e il suo immediato territorio. Un problema, questo,
sentito in modo già marcato per quanto riguarda l'attività estrattiva; alcune cave, ad esempio, e
fosse sono state individuate, all'interno dell'area pertinente al castello, e conosciuta anche
attraverso la documentazione scritta, con l'uso della foto aerea5 che ha evidenziato una viabilità
minore ancora solo parzialmente percepibile sul terreno.
Di non minore importanza sono i problemi legati alla conservazione e alla fruizione del
monumento stesso. In questo quadro il ruolo di protagonista che l'amministrazione comunale di
Campiglia Marittima ha nella gestione del cantiere di scavo e nella partecipazione alla
progettazione dei parchi, coordinata da Italo Insolera, è l'unica certezza che il progetto possa
avere un buon fine, insieme alla solidarietà che Soprintendenza ai beni architettonici e storici
artistici di Pisa e Soprintendenza archeologica della Toscana hanno espresso.

Nel corso del 1984 è stato portato a termine dopo un ampio lavoro di disboscamento, che ha
investito l'intera superficie dell'insediamento all'interno delle mura pari a poco meno di un ettaro,
il rilievo dello sviluppo planimetrico dell'abitato, che ne ha permesso una prima interpretazione.
Nel 1985 è stata riportata in pianta anche 1'area di lavorazione del ferro, posta a sud est delle
mura e sono state apportate soltanto alcune piccole integrazioni al primo rilievo. L'insediamento
è circondato da una cinta muraria ben conservata per lunghi tratti, realizzata in muratura a sacco
con conci di calcare locale disposti in filari regolari; nel muro, fondato generalmente sulla roccia
affiorante, si aprono strette feritoie strombate.

4
I progetti di A. Minto, Per una carta archeologica sulle antiche coltivazioni minerarie del bacino mediterraneo
"Studi Etruschi", XX (1948-49), pp. 303-39, rimasero tali fino ad anni recenti (cfr. nota 2) e comunque 1'aspetto
dell'attività estrattiva rimane un campo ancora ampiamente scoperto e che viceversa sta drammaticamente
depauperandosi per il degrado naturale e soprattutto per l'attività di cava che non di rado ha sostituito l'attività
mineraria (cfr. situazione di Monte Valerio nel Campigliese).
5
Per questo aspetto ci gioviamo della collaborazione preziosa di Marcello Cosci della Regione Toscana.
FIGURA 1
Carta di localizzazione

FIGURA 2
Sezioni NW-SE e SW-NE del castello di San Silvestro

La costruzione e l'andamento attuale della cinta muraria è comunque il risultato di un processo


piuttosto lungo e non si tratterebbe, da una prima analisi, di una costruzione avvenuta in un
ristretto lasso di tempo; infatti in alcuni casi, soprattutto nella parte ovest, il muro pare che
coincida con alcuni tratti in muratura successivamente utilizzati come terrazzamenti
dell'insediamento, in altri casi, ed è la situazione a sud-est, il muro pare successivo alla
costruzione di almeno due strutture abitative che vengono sormontate dal muro stesso. Sul lato
meridionale poi, la cinta venne ampliata in un periodo successivo alla definitiva conclusione
della «muratura», come dimostra il diverso tipo di tecnica utilizzata, e la presenza di merli:
probabilmente si tratta di una diversa organizzazione dell'accesso alla porta del castello, come è
apparso dallo scavo. All'interno della cinta, sulle ripide pendici del rilievo, si sviluppano le case
e gli edifici di servizio, la parte alta dell'abitato è occupata dagli edifici a destinazione militare,
religiosa e signorile; l'intero complesso è collegato da una fitta e regolare rete di vicoli, che era
tagliata direttamente sulla roccia affiorante.

Area «militare». Nel punto più alto dell'insediamento sorge, su uno sprone roccioso, la torre di
guardia, cinta in basso da un contrafforte probabilmente coevo ad un vano che l'affiancava e
quindi nella parte più bassa troviamo un'altra cinta dove si apriva una porta di fianco a due
cisterne poste in parallelo, interne a questo nucleo. Nella parte bassa, la cinta, che presenta
almeno due fasi costruttive, delimitava un'altra struttura abitativa di cui alcuni recenti scavi
clandestini hanno evidenziato la pavimentazione in pietra. La torre è realizzata in muratura a
sacco con bozze perfettamente squadrate ed è di limitate dimensioni (m 4x5), vi si accedeva
attraverso una porta che si trovava a circa 3 metri di altezza.
Area signorile (6000). L'area che indichiamo con questo termine occupava una piattaforma
immediatamente sottostante il complesso «militare» e sovrastante la chiesa. Tutta l'area era
circondata da strutture murarie, di cui per altro rimangono in vista poche tracce, mentre
chiaramente visibili erano i crolli di imponenti strutture abitative.
Nel corso della prima campagna di scavi la regolarizzazione di una buca praticata dai clandestini
ha evidenziato alcuni strati in relazione a strutture murarie di una fase arcaica (corrispondente
probabilmente ad una prima fase insediativa, comunque databile ad epoca postclassica), mentre
soltanto nel corso della seconda campagna sono state evidenziate strutture abitative, circondate
da una struttura muraria di notevole consistenza, che si aprivano in direzione est con una porta. Il
complesso, che non presenta edifici monumentali o comunque molto diversi come superficie
rispetto alle unità abitative del borgo, aveva una sua definizione ed un suo rapporto organico con
l'«area militare», e con questo costituiva il «cassero». Un elemento ancora in fase di studio,
perché emerso nel corso della seconda campagna, è l'apparecchiatura muraria delle strutture
emerse che rimanda ad una prima fase costruttiva.
Ecclesia de Rocca a Palmenti (1000). La chiesa aveva un suo spazio definito, fra il «cassero» e il
«borgo», non solo dalle strutture murarie dell'edificio, ma anche dall'area cimiteriale circondata
nella parte antistante il sagrato da un muro di terrazzamento, rialzato in più tempi e da un muro
di andamento nord-sud, fra il terrazzamento e le cisterne del «cassero».
Il borgo (3000, 4000, 5000, 8000). Le abitazioni del villaggio si trovano, a diversi livelli lungo le
strade del borgo, intorno al nucleo fortificato (o «cassero») sviluppandosi da nord-est a sud-est.
Il rilievo ha mostrato che difficilmente ci troviamo di fronte ad un singolo edificio, ma piuttosto
a lotti comprendenti due o tre case sorte quindi secondo un minimo di coordinamento, anche se
non mancano eccezioni. Si tratta di edifici generalmente articolati su due piani, più difficilmente
(forse in un caso) su tre, che sembrano seguire un modulo costante, non tanto per quanto
concerne lo sviluppo planimetrico quanto piuttosto per la superficie abitativa.
L'analisi delle tecniche murarie utilizzate per la costruzione del complesso abitativo ha permesso
fino da un primo esame l'individuazione di almeno due fasi edilizie nella vita del sito, di cui la
seconda, che si data con buone probabilità a pochi decenni prima dell'abbandono è relativa ad
ampliamenti e rifacimenti (in alcuni casi si tratta specificamente di rialzamenti). L'impianto della
quasi totalità degli edifici, pertinente alla prima fase, ma come vedremo questa prima fase ha una
sua articolazione ed una sua dinamica, è caratterizzato da muratura a sacco con conci di notevole
dimensione disposti in filari piuttosto regolari. Più approssimativo è il tipo di muratura relativo
alla seconda fase, dove sono impiegate pietre di medie e piccole dimensioni con una sola faccia
spianata, forse di spacco, disposte disorganicamente. Nei frequenti casi dove gli alzati si
conservano in buono stato, le finestre superstiti sembrano riconducibili a due tipi principali,
anche se non mancano varianti. Il tipo più antico sembra essere quello della finestra strombata
con architrave monolitico e più recente invece quello della finestra rettangolare. La copertura
delle case, con tetti a doppio spiovente con travature in legno, era realizzata mediante l'impiego
di sottili lastre di calcare scistoso, che veniva cavato nel poggio di fronte (sud-ovest) e il cui uso
locale nel Medioevo è ancora oggi testimoniato nella chiesa di San Giusto a Suvereto.
Area produttiva interna (2000). All'interno della cinta muraria esiste un'ampia superficie che si
trova nell'area nord-ovest, sotto la torre, che non presenta evidenti tracce di edifici, ma soltanto
terrazzi e tracce di viabilità e scalette incise nella roccia, mentre affiorano notevoli quantità di
scorie di rame. In tale area abbiamo riconosciuto la zona nella quale si dovettero concentrare le
attività produttive ed in particolare quelle appunto legate alla lavorazione del rame. Lo scavo
appena iniziato nelle ultime settimane delle campagne del 1985 parrebbe confermare la presenza
di forni per la fusione di rame, mentre le preventive indagini magnetometriche avevano dato
esito negativo. La contraddizione potrebbe spiegarsi con il fatto che l'anomalia riscontrabile
attraverso l'intervento magnetometrico nei punti di fuoco non sarebbe rilevabile in quell'area
dove la concentrazione del calore avviene direttamente sul calcare, privo di minerali ferrosi.
Area produttiva esterna alle mura (9000). In quest'area, disboscata nel 1984, sono emersi due
ampi vani rettangolari, appoggiati al fronte di una più antica cava di calcare (utilizzata per la
costruzione degli edifici dell'insediamento probabilmente della prima fase); con l'analisi
magnetometrica si è potuto evidenziare un punto di anomalia che si è quindi rivelato una fornace
«alla catalana» per la lavorazione del ferro solo nella campagna del 1985. Si è così evidenziato
un uso in almeno tre fasi dell'area: I, cava, II, area di lavorazione del ferro, abbandonata già nel
corso del XII secolo, III, ovile o ricovero per animali.
Il riconoscimento della viabilità circostante il castello ed il suo limitatissimo interland agricolo
con i piccoli terrazzamenti per olivi e i «petia de terra» a destinazione cerealicola sono problemi,
al momento, appena impostati.
Per concludere questa prima analisi descrittiva ci pare possibile prospettare alcune ipotesi
relative al nucleo di popolamento che questo insediamento poteva accogliere. All'interno
dell'«area militare» riteniamo possibile che potessero alloggiare fra le 10 e le 15 persone, forse
solo poco più nell'«area signorile», mentre nel borgo, considerando che dovettero essere in uso
contemporaneamente nella fase di massimo sviluppo (XIII secolo) fra le 40 e le 45 case,
dovevano vivere approssimativamente dalle 230 alle 260 persone.
Questo calcolo si basa su una lettura dell'analitico rilievo condotto nel corso della prima
campagna di scavo e non tiene conto delle possibilità prospettate nel corso della seconda
campagna, quando analizzando l'«area industriale» interna si è affacciata l'ipotesi che la sua
destinazione ad area di lavorazione sia stata successiva ad un primo uso insediativo. In questo
caso, che deve essere comunque confermato, si potrebbe ipotizzare un nucleo di popolamento
ancora più consistente in una fase anteriore al XIII secolo.
Gli obiettivi che ci siamo posti con le prime campagne di scavo sono puntati ad ottenere risultati
relativamente a:

1. La dinamica dell'insediamento stesso dalle sue origini, siano esse preromane o medievali, e in
questo secondo caso «mettere a confronto» evidenza archeologica e documentazione scritta.

2. Le caratteristiche dell'insediamento bassomedievale, in particolare:

a) quale era l'articolazione urbanistica (già in parte «letta» attraverso il rilievo planimetrico);
b) quali trasformazioni ha subito tale assetto per giungere alla sua definizione;
c) come era organizzato lo spazio interno alle abitazioni e agli edifici di servizio;
d) in quali modi e in quali forme era organizzato il lavoro siderurgico (in particolare, sapendo
dalle analisi dei campioni di minerali e di scorie, raccolti superficialmente dal 1979, che San
Silvestro era stata sede di un'industria differenziata per la lavorazione del ferro, del rame e
probabilmente anche di zinco e piombo6, è nostra intenzione capire se ci sia stata una
successione cronologica nella produzione dei singoli metalli, o se c'era viceversa
contemporaneità; e, in questo contesto, naturalmente cogliere le peculiari tecnologie produttive).

FIGURA 3
Rilievo planimetrico dell’abitato di San Silvestro. Area 6000: area signorile ai piedi
dell’area militare (torre). Aree 5000, 8000, 3000: edifici pertinenti al borgo. Area 2000:
area di produzione del rame. Area 9000: area di produzione del ferro.

Nel corso del primo anno di intervento si è tentato di dare risposta a questi quesiti indagando:

1. tre diverse situazioni all'interno dell'area del borgo (aree 3000, 4000, 5000);
2. la chiesa (area 1000);
3. l'«area signorile» (area 6000), attraverso una prima «pulizia» di una sezione evidenziata da
scavi illegali, dove si poteva immaginare di cogliere la lunga durata dell'insediamento.
Dando alle stampe il rapporto preliminare relativo alla prima campagna di scavi, quando si sta
concludendo la seconda, che ha ampliato i termini dell'analisi delle strutture murarie presentata
da Parenti e gli stessi termini dell'intero progetto, non sarà forse inutile accennare in pochissime
parole alcuni punti affrontati nel secondo anno di ricerche.

6
Cfr. Francovich, Gelichi, Parenti, Aspetti e problemi, cit., p. 206.
Non avendo avuto possibilità di intervenire sull'area cimiteriale, per motivi «tecnici» (problemi
di stabilità di un muro a retta), l'intervento nell'area dell'abitato si è concentrato su un lotto
frazionato in abitazioni, dove la «programmazione» urbanistica del centro era più facilmente
leggibile e dove è stato possibile riconoscere una fase costruttiva precedente a quelle già evidenti
in elevato, caratterizzata da una tecnica muraria molto più imprecisa e approssimata rispetto
all'uso del «filaretto» di epoca pienamente «romanica»; che al momento non possiamo escludere
possa costituire la prima fase insediativa. Nell'area dell'abitato è stato inoltre parzialmente
scavato un ampio terrazzo, che costituiva un «casalino», un lotto predisposto per la costruzione
di una casa, mai avvenuta 7.
Nell'area signorile, l'allargamento dello scavo sulla parte sommitale, a differenza di quanto
potevamo aspettarci, ha evidenziato un ampio piazzale delimitato da unità abitative di superficie
sostanzialmente omogenee a quelle del borgo che presentavano una tecnica costruttiva di prima
fase, giunte fino al Bassomedioevo. E questo è un elemento di notevole interesse, che se rimane
ferma l'interpretazione dell'area come quella occupata dai Della Rocca, signori del castello, apre
prospettive di ricerca particolarmente stimolanti per lo studio delle condizioni materiali
d'esistenza dei ceti egemoni.
L'intervento sulle strutture produttive oltre che offrire dati rilevanti sulle tecnologie, di cui
neppure diamo cenno, ha mostrato come la produzione di ferro nell'area 9000 sia cessata alla fine
del XII-inizi XIII secolo e viceversa come nell'area 2000 la produzione di rame abbia avuto una
maggiore continuità.
Le condizioni di conservazione dell'insediamento e la «fossilizzazione» di una parte del territorio
circostante, in particolare la valle del Manienti, a conclusione delle prime indagini e ricognizioni,
hanno confermato il potenziale informativo che questo sito può esplicitare, in considerazione
soprattutto della «specializzazione» delle sue risorse economiche. È chiaro che l'attività agricola
degli abitanti del castello costituiva soltanto una piccola ed integrativa parte della vita
economica, riducendosi probabilmente alla copertura delle mere necessità di sussistenza,
affiancata da un'attività pastorale che nel corso del XIV e XV secolo diventerà sempre più
rilevante fino ad essere l'unica attività praticata su un territorio abbandonato. La popolazione di
San Silvestro aveva nell'attività mineraria e nella lavorazione siderurgica la base della propria
«ricchezza», tutta da quantificare ma esemplificata da una presenza di ceramica che trova
confronti come qualità soltanto in contesti urbani e non in contesti rurali8.
Il dato essenziale che emerge dalla lettura delle permanenze archeologiche, dalle strutture
abitative e dai circostanti resti di attività estrattive è che la maggior parte degli abitanti, se non la
totalità, era dedita a tale attività, mentre rimane da capire se il lavoro siderurgico fosse
«specializzazione» nel quadro di una già consolidata divisione del lavoro oppure se si trattava di
un lavoro stagionale o comunque praticato dagli stessi «cavatori»9. Come da chiarire sono gli
aspetti giuridici del rapporto che doveva esistere fra l'«universitàs» degli abitanti e i signori del
castello, che, come abbiamo notato, non hanno lasciato un «signum» particolarmente evidente
nel tessuto abitativo, pur avendo la certezza della loro presenza nel sito.
Alcuni degli interrogativi ancora aperti potranno trovare soluzione con l'avanzamento dello
scavo, quando, ad esempio attraverso lo studio dei forni da ferro e da rame, sarà possibile avere
elementi di quantificazione della produzione in relazione alle risorse di minerale presenti nelle
pertinenze del castello; appare infatti difficile immaginare l'importazione di materie prime da

7
Il rinvenimento di maiolica arcaica negli strati di riempimento fa ritenere probabile che la costruzione del lotto si
sia conclusa nel corso dei primi decenni del XIV secolo, quando ormai la "crisi" aveva già colpito San Silvestro.
8
Per alcune prime osservazioni sui materiali ceramici oltre che le relazioni sulle singole aree di scavo si vedano le
mie brevi note Per la storia della metallurgia, cit., p. 28.
9
Stupisce al proposito l'assoluto silenzio delle fonti, che contrasta con quanto viceversa sappiamo per l'Isola d'Elba
(cfr. L'estrazione e la lavorazione del ferro elbano sotto il comune di Pisa, in M.W., Miniere e ferro dell'Elba dai
tempi etruschi ai nostri giorni, Roma 1938, pp. 35 55.).
altri territori, anche se per quanto riguarda i minerali di ferro si devono approfondire le analisi
che ci permettono di accertarne la provenienza.
Ancora sostanzialmente da affrontare rimane il problema dell'origine dell'insediamento. I due
frammenti di ceramica a figure rosse non sono una spia sufficiente per farci ipotizzare la
preesistenza di un abitato preromano, potendo trattarsi di riusi provenienti da luoghi vicini e ben
documentati in epoca etrusca: lo stesso uso della «panchina» di San Vincenzo, unica pietra
proveniente da siti leggermente distanti da San Silvestro, e utilizzata in epoca etrusca, ci pare
difficilmente individuabile come un indizio per ipotizzare nella zona del castello un'area di
inumazione, essendo stata utilizzata soltanto nella fase più tarda delle costruzioni medievali e in
modo limitato.
La stessa prima fase di insediamento medievale non è stata individuata con chiarezza anche se
appare assai probabile che anteriormente all'impianto degli edifici «romanici», coevi alla
costruzione della chiesa, nella sua prima redazione, sia esistito soltanto l'impianto, rinvenuto in
«lacerti» nell'area 8000 e nell'area signorile, riferibile ad un'epoca non più alta del X secolo.
In questo contesto appare chiaro comunque come San Silvestro fosse già ampiamente
consolidato, come unità di popolamento, nel XII secolo: è infatti riferibile a questo secolo
l'ampliamento della chiesa, indice esplicito dell'incremento demografico. Interessante notare la
coincidenza di questo fatto con l'incremento della domanda di metalli che proprio in quel secolo
si dilatò sotto la spinta dei bisogni cittadini. Il problema dell'origine dell'insediamento medievale
rimane uno dei temi più significativi della ricerca anche per tentare di cogliere se esiste un
rapporto fra l'iniziativa signorile e lo sfruttamento delle risorse minerarie.
Per quanto concerne i motivi dell'abbandono del sito possiamo avere dallo scavo soltanto parziali
informazioni, mentre molto possiamo sapere sui modi dell'abbandono. Appare infatti chiaro che
dalle tre diverse situazioni analizzate la fine dell'insediamento pare legata ad un processo diluito
che inizia già verso la metà del secolo (area 5000), si allarga probabilmente intorno alla seconda
metà (area 5500 e 4000), per concludersi definitivamente nei primi decenni del XV (area 3000).
Verso questa interpretazione di lenta estinzione spingerebbero alcune indicazioni archeologiche,
come la presenza di muretti a secco lungo viabilità interne minori che sembrerebbero costituire
una chiusura progressiva di aree dell'insediamento, anche se pare contraddittoria la presenza di
numerosi manufatti, anche in ferro e quindi di un certo pregio, all'interno di alcune strutture
abitative (area 5000).
Se infatti non abbiamo informazioni relative ad episodi traumatici (fatti militari o accidenti
naturali), che hanno determinato la fine dell'insediamento, pare probabile pensare che il
dissanguamento del villaggio sia stato provocato da tutta una serie di fattori, fra i quali ricoprì
probabilmente un ruolo non marginale il diffondersi delle nuove tecniche di lavorazione dei
minerali, che richiedevano una diversa organizzazione degli spazi per la produzione e una non
meno vitale vicinanza con corsi di acqua. Inoltre non dovette essere estranea alla fme
dell'insediamento l'espansione politica pisana, che tese ad abbattere ogni superstite emergenza
signorile, di cui sono espressione da un lato l'abortito tentativo di fondazione della terranuova di
San Vincenzo e dall'altro il viceversa riuscito incremento d'importanza affidato al ruolo di
Campiglia, che divenne il centro di popolamento più consistente della zona sotto l'egemonia di
Pisa.
Oltre che a San Silvestro sono state rinvenute aree di scorie di lavorazione del ferro nel castello
pre-trecentesco di Fornoli presso Roccastrada10, scarti di lavorazione di minerali ferrosi
provengono anche dai castelli di Cugnano e di Rocchette (a nord-ovest di Massa Marittima) 11,
mentre contemporaneamente sappiamo di lavorazioni stagionali per la lavorazione del ferro

10
Ricognizioni topografiche 1984 a cura dell'Insegnamento di archeologia medievale, università di Siena (resp.
Silvia Guideri).
11
Campioni raccolti nel luglio 1985 da chi scrive su segnalazione di Moreno Bargelli.
lungo la costa toscana, e in particolare nell'entroterra populoniese ad opera di «fabbri» pisani12, e
nella pianura, presso corsi di acqua, per iniziative di strutture religiose, generalmente cistercensi
(a San Galgano, ma soprattutto a Giugnano, vicino a Roccastrada13 dove sono stati rinvenuti resti
pertinenti ad un forno). Ci troveremmo in sostanza di fronte a diversi modi di organizzazione
della produzione metallurgica, una legata al sistema signorile attraverso l'uso di aree incastellate
e le altre legate a iniziative cittadine e/o monastiche, che razionalizzando le tecnologie, in
particolare attraverso l'uso dei corsi di acqua per azionare i mantici dei forni, cancellerà nel corso
del XIV secolo un modo di produrre di cui soltanto ora cominciamo ad avere un primo quadro.
In questo contesto la ridiscussione di quanto fino ad ora già dato per scontato relativamente ai
grandi accumuli di scorie di rame accanto ai «forni» di Madonna di Fucinaia, che vengono
generalmente attribuiti ad epoca preromana, potrebbe aprire un margine nuovo di discussione. Se
infatti non si esclude che le scorie di rame possano essere tardomedievali, cosa da accertare e
non affatto scontata, ma non per questo impossibile, potremmo trovarci di fronte ai resti di
un'attività produttiva promossa dal centro di Campiglia, per iniziativa pisana, di una tale
rilevanza, che non può non aver condizionato le sorti della più modesta attività siderurgica di
San Silvestro.

12
Cfr. S. Gelichi, Impianti per la lavorazione del ferro sul promontorio di Piombino , "Ricerche storiche", XIV
(1984), pp. 35 SS.
13
Vedi nota 10.

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