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Genio e Regolatezza
Il Concerto in Sol di Maurice Ravel
Cesare Marinacci

All’Ill.mo M° Carlo Marinelli

Il concerto in sol a due mani, è un concerto nel senso proprio del termine ed è scritto
secondo lo spirito di quelli di Mozart e di Saint-Saens. Penso, infatti, che la musica di un
concerto debba essere gaia e brillante, senza pretendere di scendere in profondità o di rag-
giungere effetti drammatici. Si è detto di alcuni grandi musicisti che i loro concerti sono
concepiti non per il pianoforte ma contro il pianoforte; per conto mio, considero questo
giudizio come perfettamente motivato. All’inizio pensavo di intitolare la mia opera “Diver-
tissement”, poi ho sentito che non ce n’era bisogno, dato che il titolo di concerto è suffi-
cientemente esplicito per quanto riguarda il carattere della musica che lo compone; sotto
alcuni aspetti il concerto presenta una certa relazione con la mia sonata per violino; pre-
senta anche alcuni elementi chiesti in prestito al Jazz, ma con moderazione...1
Questa la dichiarazione con cui lo stesso Ravel intendeva sommariamente pre-
sentare il suo concerto, in un’intervista al Daily Telegraph del 1931, evidenzian-
done i caratteri di semplicità e chiarezza. Una dichiarazione che avrebbe certa-
mente confortato lo Stendhal il quale aveva affermato: «...i compositori che ardo-
no dalla voglia di distinguersi cadono nella ricercatezza, nella stravaganza, nell’ir-
ragionevolezza e cercano di stupire più che commuovere. Le difficoltà dei concerti
e la noia da essi prodotta invadono ogni cosa. Il peggio è che l’abitudine ai cibi
preparati con tutte le spezie dell’India ci rende insensibili al profumo di una sem-
plice pesca».
Avrebbe confortato anche Gabriel Fauré, il grande maestro di Ravel scomparso
nel 1924, il quale ammoniva l’allievo contro i pericoli di una ricerca esasperata
dell’effetto a discapito della coerenza, talvolta criticandone alcune scelte anche
forse troppo severamente: «ecco quali sono i risultati dei procedimenti, detti musi-
cali, del momento […] è incontestabile che Ravel e i suoi, nelle loro forme, non
conoscono che la prodigalità, e non molto altro prodigano che grandi effetti»2.
Ravel, nel suo cammino, senza rinunciare alle preziosità di una sensibilità armo-
nico-timbrica senza pari, raggiungerà un’ideale sintesi di originale ricerca espressi-

1 Alfred Cortot, La musica pianistica francese, Curci, Milano 1990, p.169


2 Jean-Michel Nectoux, Gabriel Faure, les voix du clair obscur, Flammarion, Paris 1990 -Ed. Ital. a cura di
Raoul Meloncelli, EDT, Torino 2004, p.443

CARLO MARINELLI - Musicus discologus 2


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2 Musicus discologus 2

va e purezza formale, una sorta di ‘genio e ...regolatezza’.


Il concerto in Sol, nella sua genuinità, è di una straordinaria profondità ed in-
tensità, non solo nel celebre adagio ma anche in momenti nei quali gli aspetti, a
prima vista, esteriormente stereotipati vengono trasfigurati in forme nuove e vita-
lissime. Si prendano ad esempio i citati spunti jazzistici, o meglio da music hall,
che il compositore ripropone originalmente, in un assemblaggio semi parodistico,
eppure non serioso e snobistico, anzi giocoso e curioso.
Tanto più sorprende la diversità nei caratteri principali dei due concerti rave-
liani, se si pensa che sono quasi contemporanei. Drammatico e titanico quello in
Re per la mano sinistra, in cui, dall’iniziale nebbia sonora, emerge un canto lenta-
mente innalzato fino al parossismo di un vero e proprio “urlo” espressionista.
Quello in Sol è più brioso e lirico, alternando a momenti di ideale freschezza, frasi
di intensissima poesia. I due concerti divengono un testamento spirituale in cui
Ravel svela all’umanità la segreta varietà del suo essere.
L’ultimazione di ambedue si situa negli anni 1930-31, tuttavia la prima idea di
un lavoro per pianoforte ed orchestra risale al 1913, a Saint Jean de Luz. Egli ave-
va in programma di scrivere un’opera concertante, Zaspiak-Bat, in cui collocare
una rapsodia di temi baschi ed aveva cominciato a sviluppare quest’idea, di cui
non rimangono che pochi frammenti, parallelamente alla composizione del trio.
Verso la fine degli anni ’20 cominciò a riconsiderare il progetto, stimolato anche
dai numerosi esempi dei suoi colleghi; aveva constatato i successi ottenuti da
Prokofiev col suo terzo concerto e da Stravinskij con il Capriccio, per non parlare
di Rachmaninov che nel 1927 aveva già lasciato in eredità le sue quattro meravi-
gliose gemme dai colori tanto belli quanto diversi. Ravel che aveva raggiunto un
apice tecnico espressivo fin dal 1908, dall’apparizione dell’insuperato Gaspard de la
Nuit, sentiva ora il bisogno di consegnare alla storia un frutto maturo ed originale
della forma concerto in cui il suo linguaggio policromo potesse sfiorare tutte le sfe-
re espressive e coniugare le disparate forme via via metabolizzate.
I due concerti riflettono però due concezioni opposte e complementari della sua
poetica musicale: titanico nella forma, nel linguaggio, nella destinazione program-
matica, quello in Re tenta di superare la limitazione tecnica dell’utilizzo della sola
mano sinistra, spingendosi in una metaforica ed impari lotta per liberarsi della ma-
teria3. Anche la divisione in movimenti tradizionale è evitata, al suo posto vi è un
alternarsi, talvolta volutamente esteriore e quasi appariscente, di riflessioni ed im-
provvise ribellioni. Quanta poesia in quel brusio iniziale ove si scorge, tra le neb-
bie dell’indistinto, un Prometeo incatenato; è lo stesso brusio che appare nelle bat-
tute iniziali di La Valse. Nel poema coreografico evoca i labirinti della memoria da
cui emerge un nostalgico e decadente valzer, nel concerto materializza il caos pri-

3 Il concerto in Re per la mano sinistra venne concepito per il pianista Paul Wittgenstein, fratello del filo-

sofo, che aveva perduto l’uso di un arto in guerra. Fu eseguito il 27 novembre 1931 tuttavia in una versione ini-
zialmente semplificata rispetto all’impervio originale.
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mordiale, un primo vagito e poi un urlo di rivolta all’ineluttabile fato.


Altra idea pervade il Concerto in Sol, domina l’apollineo, la chiarezza della for-
ma e del colore, l’ambiguità pensata, la luminosa geometria pur nascosta talvolta
dietro un cespuglio di mirti divini. Contribuì non poco al suo progetto il viaggio
negli Stati Uniti del 1928; Ravel si sarebbe dovuto proporre come solista in un’e-
ventuale opera gioiosa e brillante da offrire al pubblico newyorkese. Contempora-
neamente era impegnato nell’ultimazione della Sonata per violino e così anche di
fronte alle difficoltà che si accumulavano nella sempre meticolosa opera di com-
posizione, si perse nuovamente d’animo e decise di tralasciare ancora il concerto,
partendo per l’America con la pur affascinante ma più semplice Sonatine. Ebbe co-
munque una trionfale accoglienza oltre oceano; narra Hélène Jourdan Mohurage
dopo un concerto raveliano: «…le donne gli lanciarono fiori tolti dalla scollatura,
gli uomini urlavano o fischiavano secondo l’uso americano, i programmi volteggia-
vano per l’aria; una vera e propria ovazione durata più di dieci minuti»4.
Ravel per altro in America era già conosciuto ed ammirato, per l’instancabile
opera di quel dinamicissimo George Gershwin5 che aveva visto in lui ‘il migliore
dei maestri possibili’; Gershwin che, con la schiettezza del pionierismo ‘yankee’,
aveva già anch’egli dato vita alle geniali contaminazioni ‘sinfonico-jazzistiche’ della
Rapsodia in Blue e del Concerto, a frizzanti improvvisazioni, a quella ‘musica sinco-
pata’6 che Ravel ebbe modo di conoscere, restando estremamente impressionato.
Grande ispirazione gli venne dal viaggio in America; amante della novità, il
compositore rimase affascinato dalla vitalità della ‘città’ statunitense, e poi ancora
dalle sonorità, dai suggestivi ritmi, dalla frenesia che aveva potuto assimilare, tan-
to da riprendere subito con nuova forza e nuove idee la composizione del’suo’ con-
certo. Ammirato dal terzo di Prokofiev in Do, così spigoloso, energico, allucinato,
e deliziato dal Concerto in Fa di Gershwin, prezioso, trascinante e sfrontato non re-
stava a Ravel che scrivere un concerto nella dominante di questa ideale cadenza
(IV-V-I), il quale finalmente vide la luce alla fine del 1931, puro come una geo-
metria mozartiana, languido e malizioso come il ‘jazz alla francese’ che ascoltava in
patria nei locali notturni tanto cari anche a Cocteau.

Ravel riteneva il bello, frutto di lavorio instancabile, ripensamento, sfida conti-


nua contro un ostacolo naturale o artificiale, volontà di mettersi in discussione per
creare una strada ove fossero rovi, la libertà ove fosse l’imposizione, la poesia dai
precetti, l’arte dal mestiere. Disse all’amico Jacques de Logheb, meravigliato di ve-
derlo al lavoro anche nelle ore notturne: «...non riesco a finire il mio concerto a

4 Claudio Casini, Maurice Ravel, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1990, p. 45


5 Ravel aveva conosciuto George Gershwin in casa della cantante Eva Gauthier; risale a quest’occasione la
celebre frase con cui il maestro francese rispose alla richiesta di lezioni avanzata da Gershwin: «perdereste la gran-
de spontaneità della vostra melodia per fare del cattivo Ravel»
6 La definizione è di Hélène Jourdan Morhange
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due mani, e così ho deciso di non dormire un solo secondo[...]terminato il lavoro


mi riposerò in questo o nell’altro mondo».
Ravel si nutre di difficoltà, la stessa Gaspard de la Nuit appare meravigliosa sfida
all’improponibile confronto col virtuosismo strumentale. Mediocre virtuoso volle
fortissimamente scrivere, per sua stessa ammissione, il brano più complesso mai
concepito; eppure nulla vi è di esteriore, nulla di superfluo, la difficoltà trascen-
dentale, come e più che in Liszt, è il mezzo per raggiungere l’idea. Nell’opera del
1908 stravolge il meccanismo pianistico sublimando e spersonalizzando le sue ri-
sorse più ‘convenzionali’; così dallo sterile automatismo del ribattuto prende forma
la più impalpabile ed emozionante pioggia sonora di Ondine, dalle modulazioni
lontanissime la fissità stremata di Le Gibet, dagli arpeggi infiniti il crepitio irre-
quieto di Scarbo, e nel concerto, come vedremo, dalle propulsioni ritmiche il più
tenero e struggente adagio.
Senza l’arrogante e spesso vuota protervia di tanti suoi contemporanei delle più
diverse discipline artistiche, Ravel ha tolto la quotidianità dal quotidiano renden-
dola sublime, ha decontestualizzato senza deformare, ha usato i ‘ferri del mestiere’
e non i ‘programmi’ per insegnarci il ‘bello’ ovunque, ha messo il ‘pollo in cornice’
e ci è piaciuto davvero.
Egli considera la regola come un sentiero sicuro e scarno ma fertile, come solo i
grandi sa trasformarlo in uno splendido viale alberato, al contrario dei mediocri
che ne fanno palude o dei folli che lo devastano come cinghiali in un prato alla ri-
cerca di tartufi. Il bello si esprime attraverso l’idea, ed in qualche modo si rende
corporeo attraverso la stessa sua ricerca.
A questa concezione, quasi fatalista quanto speculativa del bello, si deve proba-
bilmente anche la peculiare rinuncia ad ogni enfatizzazione, se non quando volu-
tamente esteriore, ad ogni eccesso interpretativo, alla romantica libertà dell’esecu-
tore. Egli stesso sosteneva che bastasse suonare esattamente la sua musica per in-
terpretarla. Ecco allora prevedere anche il temuto e ‘periglioso’ ritardando fin nella
grafia, basti guardare l’incipit della Sonatine ove la terzina in fine di frase aggiunge
una sorta di calcolata esitazione.

Esempio 1

Sonatine, I mov. batt 1-4

Ravel manifesta chiaramente il suo pensiero ed il suo sentire, anzi non vuole sia
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frainteso. Tuttavia la cura maniacale del particolare grafico, così come dell’indica-
zione dinamica e dell’agogica codificata, lungi dal manifestare un’ironia irrinun-
ciabile, pericoloso viatico per l’aridità espressiva ed intellettuale, confermano una
tale voluttà di passioni, sfumature di sentimento e ricchezza di pensiero da non po-
ter essere lasciate al caso, tanto meno all’arbitrio interpretativo. Tutto ciò è pre-
sente nel Concerto in Sol: divertimento e non dileggio, curiosità del nuovo e dell’e-
sotico ma non collezionismo di chincaglierie, sentimento e non languore, passione
della ragione. In questo rigore creativo certamente si ode la voce paterna del mae-
stro Fauré il quale tuttavia per tante ragioni si era chiuso, nell’ultima parte della
sua opera, in un ascetismo solitario e lontano, costellato di bagliori improvvisi ma
anche di troppe rinunce7.
Ricerca continua dunque, l’arte si nutre di tirocinio, di artigianato. Non impor-
ta se poi il cammino si spinge lontano o addirittura in altre direzioni. Ogni materia
può essere plasmata ed esprimere un’assoluta e genuina beltà. In effetti, anche ri-
guardo al Concerto, dell’antico progetto di rapsodia su temi baschi non rimane
molto, se non forse, la meravigliosa varietà d’idee che s’intrecciano nell’andamen-
to. Come il modello Mozart anche Ravel inserisce numerosi incisi secondari, di
grande bellezza e pregnanza, che spesso appare riduttivo indicare come idee acces-
sorie o elementi di transizione; come in Mozart si può pensare a veri e propri ‘grup-
pi tematici’. La propulsione ritmica, peculiare della poetica di Ravel, si propone
originalmente in questo brano come componente preponderante nel primo e nel
terzo movimento, ma anche nel secondo, come elemento più velato e sfuggente.
Come anticipato dal musicista stesso troviamo ‘con moderazione’ il jazz alla ‘ma-
niere de Ravel’; il compositore mostra, indagando vari significati della tecnica ‘pa-
rodia’, da un lato un materiale distillato e rielaborato, dall’altro quella frizzante di-
sinvoltura da music-hall, quasi da ‘circo equestre’, passatempi tanto di moda nella
musica francese che Satie e i ‘Sei’ sé n’eran fatti un’esclusiva, sviluppando i sugge-
rimenti pittorici di Serat e Toulouse Lautrec.
Ravel si distingue ancora; egli non intendeva essere monocorde, tantomeno
stravagante, dunque gli basta l’evocativo colpo di frusta iniziale per dare l’avvio ad
un rapsodico intreccio d’agili figure ed apparizioni collegate da fili sottili quanto
resistenti. Con grazia e agilità si fondono immagini sonore apparentemente lonta-
ne, facilmente si passa dalle intonazioni jazzistiche, con la peculiare partecipazione
in ‘sordina’ delle trombe, ai ‘clacson blues’, scorrendo poi in più elitarie remini-
scenze da Tombeau de Couperin. Il compositore, rispetto anche al concerto in Re,
ritrova serenità ed una ‘sostenibile’ leggerezza dell’essere. Si riscopre il Ravel che
sottintende, che si lascia scoprire a poco a poco, che scherza con se stesso da raffi-

7 La produzione pianistica di Gabriel Fauré è convenzionalmente divisa in tre periodi: al primo appartengo-

no le composizioni più spiccatamente romantiche per scrittura e linguaggio, al secondo pagine più riflessive come
il Sesto Notturno, al terzo composizioni meditative da più difficile ascolto, dalle linee scarne e severe, che nulla
più hanno dell’efflorescente e carezzevole pianismo tardo romantico.
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nato umorista e commuove da grandissimo poeta.


Tutto il Concerto è una meraviglia d’agilità, ricercatezza, di palpiti improvvisi e
celestiali evanescenze sonore, di fitti dialoghi con un’orchestra esuberante, ricca
ma leggerissima, di cadenze solistiche ora brillanti, di virtuosismo ora ovattate di
estrema dolcezza; per non parlare del secondo movimento, che rimane un insupe-
rabile capolavoro di lirismo e struggente solennità. Ravel partendo ancora dalla
purezza formale di Mozart crea un Lied tripartito dalla nobile melodia che passa
inesausta dal solista ai legni e, sostenuta dal sospiro degli archi, s’innalza anche ol-
tre la solennità panica dei grandi movimenti lenti di Bartok. Il concerto in Sol è
una superba sintesi di tutto quanto il musicista aveva elaborato e metabolizzato
negli anni, di uno stile che pare giunto in ogni passo all’apice, eppure con la mas-
sima spontaneità con la suprema disinvoltura del maestro cui basta lambire gli og-
getti, con un tocco lieve, per inondarli di luce, Ravel ad ogni frase sembra dire: ‘io
sono così’.
***
Ultimato il lavoro, Ravel si rese subito conto che la sua capacità esecutiva non
avrebbe potuto valorizzare compiutamente la musica, e così, ricordando la meravi-
gliosa interpretazione che la pianista Marguerite Long aveva dato alla prima del
Tombeau de Couperin, le chiese di tenere a battesimo anche la sua nuova opera;
l’artista accettò e Ravel le dedicò il concerto. La prima si tenne alla Salle Pleyel di
Parigi il 14 gennaio 1932; sul podio un emozionato Maurice Ravel a dirigere l’Or-
chestre des Concerts Lamoureux. Ebbero un’accoglienza così calorosa che Margue-
rite Long dovette bissare il capriccioso finale che riusciva a dominare in ogni sua
parte rivolgendone, ad ogni battuta, l’irresistibile impulso verso la platea.
Va sottolineato ulteriormente come questo concerto sia uno dei migliori esempi
in cui a tanta ‘bontà di forme’ sia subito corrisposta altrettanta popolarità e stima,
per ribadire ancora una volta come Ravel, pur fedele a se stesso, seppe sempre
mantenere aperto il canale di comunicazione con il pubblico; egli gioca con la
musica senza la stravagante ed un po’ supponente ironia d’alcuni suoi contempora-
nei, è il primo a divertirsi e riesce in quel mirabile equilibrio di coerenza linguisti-
ca, esigenza espressiva ed armonia formale che costituiscono il suo tratto più carat-
terizzante.
La multiforme tavolozza timbrica di Ravel si avvale del seguente organico or-
chestrale: ottavino, flauto, oboe, corno inglese, clarinetto piccolo, clarinetto, due
fagotti, due corni, tromba, trombone, timpani, triangolo, tamburo, piatti, grancas-
sa, tam-tam, wood-block, frusta, arpa, archi…e pianoforte che viene utilizzato in
senso solistico, ma anche concertante. L’opera si snoda in tre canonici movimenti:
I Allegramente, II Adagio assai, III Presto
Il Concerto si apre con un secco colpo di frusta – ‘signori lo spettacolo comincia’
– che introduce una serie di rapidissimi arpeggi di terzine. Il primo basso armoni-
co, un Re, presenta la tonalità Sol M d’impianto subito in secondo rivolto, posizio-
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ne questa, che Ravel usa di frequente per sfumare l’affermatività di talune cadenze.
L’arpeggio della mano sinistra è, invece un rivolto di Re#7 seconda specie. Si cerca,
dunque, un tappeto dalle sonorità cristalline ed impalpabili, costruito su arpeggi
bitonali, mentre l’orchestra amplifica questa evanescenza, riprendendo, in accordi
pizzicati, le armonie del pianoforte.

Esempio 2

Concerto in Sol, I mov. 1-7

In questa fluttuante cornice s’inserisce allegramente il tema ‘principale’, affidato


alla brillante sonorità dell’ottavino, che emerge da un’orchestrazione della massi-
ma leggerezza e trasparenza; il tema è una melodia pentatonica dal profilo ritmico
particolarmente marcato, una specie di danza rustica, assimilabile alla forma fran-
cese d’origine medievale denominata ‘Bransle’ e rappresentata anche dall’insisten-
za ‘popolareggiante’ sui gradi I e V; insomma, come affermava Gil-Marchex, primo
esegeta dell’opera raveliana, «…un tema su cui la Reine Margot avrebbe volentieri
danzato alla corte di Navarra». Alla battuta 14, le triadi, ricavate sulla scala della
dominante, anticipano, in qualche modo, l’idea della perentoria chiusa del movi-
mento;
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Esempio 3

Concerto in Sol, I mov. 14-15

inizialmente invece, aprono un punto di raccordo su un’atmosfera di dominante, ac-


centuata da glissandi del pianoforte, in un crescendo dinamico ed un incalzare delle
accentuazioni fino alla battuta 25, dove ricompare il tema declamato dalla tromba
solista; quest’immediata riproposta assegna alla precedente sezione un doppio ruolo:
la prima esposizione del tema e, contemporaneamente, l’introduzione ‘sul’ tema.
La modulazione al Si minore III grado non è certo lontana, tuttavia giunge vo-
lutamente improvvisa a spezzare la precedente ‘monocromia’ armonica e funge da
sigla d’apertura all’ingresso dell’importante seconda idea tematica. Il pianoforte,
dunque, senza passare per la prima, diventa protagonista direttamente con la se-
conda frase. Un canto, ancora pentatonico, si snoda su un’armonia di Fa# minore
che, con la presenza del Sol naturale, evoca un antico modo Frigio.

Esempio 4

Concerto in Sol, I mov. 44-48

In Ravel, come anche in Fauré, l’utilizzo delle scale modali, più che un esotismo
archeologico, rappresenta un espediente per rendere ingannevole il cammino ar-
monico e soprattutto differire le cadenze; il suo interesse si concentra sull’ambi-
guità maggiore-minore, inoltre sfuma la chiusura dei periodi degradando le sensibi-
li, talvolta omettendo direttamente la terza o gli elementi caratterizzanti di un ac-
cordo e preferendo agglomerazioni costituite solo dal basso accordale e dalle ten-
sioni, come nella ritmata parte centrale del primo movimento dove abbiamo ad
esempio su basso Do l’armonia Re#-Fa#-Si, dunque 9# 11# 7 in tono di Do.
Il pianoforte dopo aver svolto la turbinante introduzione con l’orchestra propo-
ne ora un momento in cui la scrittura è molto rarefatta ed intima, talvolta mono-
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dica quasi a ricordare il canto solitario dell’Ondina di Gaspard de la Nuit. Ecco Ra-
vel che comincia a scherzare con se stesso quando quel canto morbido, qui rievo-
cato, viene disturbato dalle prime pulsazioni della mano sinistra e poi da un ele-
mento ancor più estraneo. Tornerà questo piccolo ossimoro espressivo, più volte,
in particolare nel secondo tema e nei momenti più sognanti, come ad alleggerire
un ragionamento che va a farsi troppo serio, come a dire ‘ma va’ la’.

Esempio 5

Concerto in Sol, I mov. 55-63

L’ambiguità maggiore-minore, si fa davvero modernamente esotica quando evi-


denzia il richiamo al ‘Jazz’; prima è sfumata, quando appare il La naturale nella me-
lodia contemporaneamente al La# dell’armonia, ma si palesa definitivamente con
l’arrivo d’una sorta di riconoscibile scala blues, esposta dal clarinetto e i fiati alla
battuta 52; indi il pianoforte prosegue nel suo disegno melodico su un Fa#m di ac-
cordi ribattuti, fino ad essere nuovamente interrotto dalla scala blues, cantata di
nuovo, a turno, dai fiati che, in questo concerto, rivestono una particolare impor-
tanza, appunto nei passi ‘jazzistici’, per il loro impiego in fraseggi tipici. Alla battu-
ta 75, il pianoforte propone un’idea melodica di maggiore pregnanza tematica, an-
che perché di carattere più lirico rispetto al primo tema ed in tonalità di Mi.
Senz’altro possiamo individuare il vero e proprio secondo tema che contrasta net-
tamente con la ritmicità del primo anche se ne conserva inizialmente l’impulso.

Esempio 6

Concerto in Sol, I mov. 75-79

Ad una prima frase serena, giocata sugli elementi fondanti degli accordi, usati
quasi come appoggiature verso le tensioni, segue un secondo periodo di sapore ma-
linconicamente modale che sfrutta un movimento plagale nel relativo minore elu-
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dendo ancora la sensibile (IV-I-Vb3). Splendido il procedere della melodia per


enjembement ove le consonanze vengono presto abbandonate e la melodia si atte-
sta sulle ‘tensioni’ trattate a valori lunghi, comportandosi con infinito desiderio.
Anche questa sezione è ancora in parte collegata alla precedente, di cui richiama
il gioco degli accordi ritmici tra pianoforte ed orchestra per interrompere ‘dispet-
tosamente’ il limpido canto. L’ambiguità modale è ancora evidenziata dalle fre-
quenti coesistenze tra terza maggiore e minore (es. batt. 99) . Alla battuta 106, la
nona dominante in rivolto nella tonalità di Si annuncia lo sviluppo che inizia con
i cinque diesis in chiave. È interessante notare come la mobilità armonica sia più
apparente che reale, è l’ambiguità modale funzionale a dominare. Ampie zone go-
vernate da un’unica armonia si susseguono screziate dalle alterazioni transitorie, da
inflessioni modali o sottigliezze ritmiche. Come il primo tema sfruttava le funzioni
principali, il chiaro secondo tema pure si svolge in concreto su un pedale di Mi
maggiore impreziosito da appoggiature e ritardi. Anche nello sviluppo la raffina-
tezza ‘psico-armonica’ di Ravel è magistrale. Da una figurazione a mani alterne,
sullo schema ritmico del primo tema, prende vita un vivace episodio in cui le mo-
dulazioni della parte superiore rimangono in definitiva tenacemente ancorate, per
ben trentaquattro battute, ad un ostinato basso di Fa# che, allo stesso tempo, tiene
ferma la sezione su un apparente pedale, ma la rende instabile, allontanando qual-
siasi risoluzione delle armonie che ancora sono quasi sempre in rivolto.
L’episodio si apre in Si maggiore con un andamento armonico relativamente
semplice che passa dal II grado per stabilirsi sulla dominante; da questo momento
in poi quel citato Fa# funge da termometro di un progressivo ed inesorabile strania-
mento dell’armonia: dal Si ci dirigiamo verso il II e V grado della tonalità, poi di
nuovo Si con settima; l’armonia inizialmente tende solo a colorarsi e a spostare
l’attenzione tra tonica e dominante finché, ancora sul pedale di Fa#, nota in comu-
ne, giunge, brusca come non ci si aspetterebbe, una modulazione a Re maggiore
(batt. 123); da essa riemergono il frammento ponte del primo tema, in un climax
percussivo ritmico e dinamico, e la scala blues tra le terzine del pianoforte; la ri-
proposta in Fa, pedale Fa#, e poi in Sol# aggiunge altri spigoli fino alla battuta 142,
ove lo spostamento del basso finalmente al Mi vede l’episodio assumere un vero e
proprio carattere ‘tambureggiante’. Si può notare nella scrittura pianistica un gra-
duale passaggio da una figurazione più tematica, alternata tra le mani, a motivo
ritmico, come avverrà anche nella ripresa e poi nel terzo movimento.

Esempio 7

Concerto in Sol, I mov. 139-143


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L’attenzione è catturata dalle asimmetrie accentuative di carattere ‘improvvisa-


tivo’ su una progressione per quarte ascendenti, armonizzate con none e undicesi-
me – forse dirette inflessioni bitonali in cui ci troviamo, ad esempio in Sol# su bas-
so La, oppure in Si su basso Do(es. batt. 147/152); tutto deriva dalla progressiva
spersonalizzazione armonica compiuta su quel famoso Fa#, sensibile della tonalità
principale, usato spesso solo come appoggiatura e la cui funzione poi nelle cadenze
viene invece per lo più giocosamente elusa. Momentaneamente il tema passa alla
tromba, mentre il pianoforte fa scivolare le mani su accordi contigui, un riflesso
che interrompe ora timbricamente, l’ostinazione dell’episodio e fa intravedere an-
cora quanti spunti avrebbe dato Ravel alla generazione pianistica di un Bill Evans.
La spinta percussiva e progressiva riappare subitanea in Do e, più strettamente in
Fa, Sib, Mib (VIb), insistendo su quest’ultimo prima di risolvere sulla dominante,
un procedimento molto frequentato anche da Fauré; il frammento utilizzato per
l’episodio di battuta 162 senz’altro mostra sottaciute parentele, da un lato con il
tema principale (es. batt 16 orchestra), dall’altro con le ritmiche triadi annunciate
alla tredicesima misura e riproposte in chiusura, inoltre è rievocato con diverso ac-
cento nel terzo Movimento.

Esempio 8

Concerto in Sol, I mov. 163-166

Nel ‘fortissimo’ una breve cadenza solistica, dopo l’evocazione di un VIb con
enarmonica ‘sesta tedesca’, annuncia la ripresa in Sol (batt. 173). Lo sviluppo eb-
bene non presenta subito modulazioni forti e improvvise, in quanto si apre con
l’ambiguo Fa# pedale gravitazionale, per poi dirigersi metodico verso toni lontani e
presentando il maggior movimento poco prima della ripresa, anzi sfociando in es-
sa. Si tratta di una scelta di equilibrio formale ancora una volta tanto efficace
quanto apparentemente semplice. Ravel ci seduce ingannando la nostra percezio-
ne del particolare, talvolta cambia semplicemente la cornice della sua figura sono-
ra, talaltra accende unicamente un colore, di tanto in tanto sposta disinvolto il di-
pinto su un’altra parete senza informarci e dunque sorprendendoci con l’evidenza,
quella disarmante del genio.
Finalmente è il pianoforte ad esporre il tema principale con una danza fra le
mani di pieni accordi, quasi una gioiosa fanfara. Si ripete l’andamento iniziale con
il secondo gruppo melodico esposto alla dominante secondaria (La) e la ‘nuance
frigia’ sciolta in un melisma quasi iberico; enfatica, la sigla blues incornicia un suc-
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12 Musicus discologus 2

cessivo quadro dall’atmosfera irreale: ecco emergere dei glissandi fantastici dell’ar-
pa nuovamente il canto dell’Ondina derivato dal secondo tema, un canto affidato
agli armonici su un drappo steso dagli archi la cui dolcezza viene ancora disturbata
da arpeggi bimodali e frullate d’ottavino a sproposito, rimandata, per meglio assa-
porarla nella attesa cadenza solistica. Il tema è ripreso dal corno che segue l’incan-
to di un tempo dilatato dal cambio della misura, da binaria a ternaria, dal sapiente
uso di sincopi e contraccenti; stavolta il compito di diffondere una luce morbida e
fatata è affidato ai fiati: fagotto, flauto, clarinetto e infine, oboe. La battuta 231
propone il lirico secondo tema nella consueta tonalità principale, avvolto da ar-
peggi, trilli, in un notturno paesaggio che ricorda certe opere di Chopin e del pri-
mo Fauré. L’iniziale visione è sognante, la seconda appassionata, il tema viene av-
volto dall’orchestra in un crescendo breve, meraviglioso e crudelmente struggente
perché ci lascia soavemente inappagati, come in un sogno da cui ci si desta troppo
in fretta; il risveglio è affidato ad una cascata d’arpeggi bitonali che ripropongono
lo spirito iniziale, cambiano repentinamente scena e ci guidano al finale. Dall’oasi
onirica rientriamo presto nella città strombettante. Riappare presto l’impulso rit-
mico su un altro basso ‘ostinato’ di La, che poco ha in comune con le armonie so-
vrastanti, fino alla modulazione in Sol minore, dove risuona ancora il primo tema;
con sempre maggiore forza propulsiva ricomincia il gioco degli equivoci tonali,
delle terze bimodali, degli urti dissonanti e percussivi e, infine, ancora la progres-
sione per quarta sui bassi di Sol-Do, Fa-Sib, armonizzati con settime alterate, fino
ad arrivare ancora sul Mib che ripropone il frammento in comune col terzo movi-
mento. Stavolta non è un VI grado che risolve sulla dominante bensì sul IV, fun-
zionalmente ancor più semplice ma come al solito inaspettato. Il riavvicinamento
tramite note comuni passa per il VI e il III grado con triadi, dominate secondaria,
dominante con ritardi non risolti e infine tonica sul tema principale che risuona
gioioso nella voce della tromba finché non intervengono il pianoforte, con l’ar-
peggio rovesciato rispetto all’inizio, e l’orchestra a pieni accordi a chiudere il mo-
vimento su un frammento di scala napoletana, come parodiando un’orchestrina di
varietà che chiude pomposamente un Can-can.

Esempio 9

Concerto in Sol, I mov. 318-323


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13 Cesare Marinacci

Anche nel secondo movimento protagonista è il pianoforte ma in un’aura total-


mente diversa che, secondo quanto lo stesso Ravel confidò a Marguerite Long, gli
sarebbe stata ispirata dal Larghetto del quintetto con pianoforte K581 di Mozart; il
riferimento a Mozart è evidente, anche nella forma, che è quella di un semplice
Lied tripartito. Da notare immediatamente anche la nobile tonalità scelta di Mi
maggiore, in sesta con la più ‘rustica’ e solare Sol.
Paradosso iniziale e raveliano ossimoro: nell’adagio la prima particolarità evi-
dente quanto celata è il ritmo! Come Fauré e prima ancora Schumann, Ravel si ri-
vela maestro anche nel controtempo. Egli trova affascinante e misterioso non far
coincidere l’accento metrico con quello melodico. Un ché di arcaico si avverte
nelle melodie a cavallo di battuta che terminano prima della percezione prevista,
si dilatano in ejambement o si prolungano ancora un attimo dopo la chiusura ‘uffi-
ciale’. Non è estraneo l’influsso faureano su questo modo di melodiare, ne è lonta-
no quello del Canto Gregoriano, col suo corso narrativo libero che se appare tal-
volta disorganico alle nostre orecchie, abituate alla quadratura ritmica ed alla fun-
zione armonica, è perciò tanto più genuino e suggestivo.
Anche Ravel, come e più di Fauré, libera ed accarezza l’udito affrancandolo dai
vincoli ufficiali e sorprendendolo senza per questo coartarlo. Così come una carez-
za non ha una fine promessa così il canto di Ravel si attarda e si protrae talvolta
inatteso, talaltra desiderato. Nella prima battuta s’imposta alla mano sinistra
un’antica formula che immediatamente ci seduce col suo ritmo ineffabile: il 3/4
per il tipo di scrittura sembra accentuarsi in un 6/8, anzi, contraddizione doppia al-
l’ascolto il basso più due accordi pare un valzer e quasi impone di seguire questa
formula ulteriormente contraddetta ed offuscata dalla sovrascansione melodica. La
scrittura presenta dunque una particolarità ritmica che non apparirà forzoso far ve-
dere in parte come una sublimazione dei tambureggiamenti del primo movimento.
Come non percepire, oltre a ciò e nonostante la diversa suddivisione, nell’incipit
melodico un richiamo a quello del secondo tema nell’allegro.

Esempio 10

I mov. 75 (II tema)

II mov 1-7

I mov. 142
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Più che un segnale ritmico formale, appare la stessa intenzione, un’ebbrezza che
si materializza; ancora la consonanza breve a favore di un’apertura, quel timido di-
sagio quando il La naturale urta con il Sol# dell’accompagnamento, una vaghezza
inappagata che si compiace del piccolo dolore. La seconda, maggiore o minore,
uno degli intervalli preferiti da Ravel per la sua valenza timbrica ed armonica, uno
spigolo, un dubbio o una carezza come nella seconda battuta, una piccola fitta co-
me nella quarta, ma anche un ripiegamento tenerissimo e intimo subito dopo.
Stesso materiale completamente ripensato, un’altra sorpresa. Sorprendente è an-
che il canto che si leva da questo ritmo, un canto spoglio, intimo, commovente,
estremamente espressivo e inesauribile, un canto come raramente da tempo si tro-
vava in Ravel8.
Come riferisce Marguerite Long, pare che quest’infinita melodia sia stata con-
cepita attraverso molte fatiche e ripensamenti, eppure, la spontaneità di questa ar-
caica sarabanda, che evoca il ricordo delle Gymnopedies di Erik Satie, è così disar-
mante da far pensare ancora una volta che sia sgorgata naturalmente sotto le dita
di Ravel.
La voce, la poesia, i sensi, la storia del musicista, tutto s’idealizza, divenendo più
impalpabile e tralucente; anche il tempo sembra fermarsi incantato ad ascoltare
quella melodia del pianoforte che, in un intimo monologo, continua in modo qua-
si serafico per ben 33 battute, finché la solennità diventa struggente sul sereno ca-
denzare del solista, quando la voce di un flauto lontano viene a posarsi sul ‘respiro’
degli archi, come un dono dal cielo…la melodia assume il timbro di un oboe e poi
di un clarinetto prima di tornare al flauto che conduce verso un sereno e luminoso
Re diesis maggiore.
La parola torna al pianoforte che propone dei raffinati contrasti tra melodia ed
armonia. Ravel ricrea per due volte una situazione di ‘disagio’, insistendo esplicita-
mente sulla bimodalità da un lato, presentando il tono Re# con Fa# e Fa##, dall’altro
disturbando la sensibile presentando il settimo grado contemporaneamente nella
melodia. Le figurazioni qui utilizzate ed in parte variate dal tema, introducono ed
anticipano la sezione B che inizia alla battuta 58.

Esempio 11

Concerto in Sol, II mov. 45-49

8 Ravel stesso confida in una lettera di aver constatato una svolta, verso un processo di semplificazione e di

nuova ispirazione melodica a partire dalla Sonata per Pianoforte e Violino del 1927.
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15 Cesare Marinacci

La seconda parte si pone in delicato ed elegante contrasto con la prima, essendo


comunque da questa derivata. Il pianoforte comincia un fraseggio di semicrome,
che accompagna una progressione cromatica ascendente e il canto dell’orchestra
su scale modali armonizzate in rivolto. Questo episodio crea un’atmosfera di ‘ten-
sione’ che si accresce con la ripetizione della progressione, stavolta su un ‘pedale’
di Sol, dalla funzionalità armonica per una volta quasi convenzionale, un classico
pedale di tensione, quasi di ‘dominante’; Ravel pian piano lo tonicizza trasforman-
dolo nella terza del tono di Mi, maggiore o minore non importa in quanto ancora
una volta sono presenti insieme, creando la massima tensione insieme alla quinta
aumentata. La melodia e il pianoforte ascendono inesorabilmente nei loro disegni
melodici – il pianoforte ne stringe anche la figurazione – l’armonia ansima deside-
rosa d’una risoluzione, aumentando la propria dissonanza, finché alla battuta 73 il
basso Fa con l’armonia di Sol#m. si comporta come un ‘enarmonico’ secondo grado
abbassato con 7ma di terza specie (Fa- Lab- Dob- Mib) che, risolve stemperando la
tensione senza passare per il V grado sul Mi, facendo intravedere come l’arrivo di
un raggio di sole a rischiarare il cielo azzurro dalle nubi che lo avevano offuscato
(batt. 74).

Esempio 12

Concerto in Sol, II mov. 71-74

Nella ripresa della prima sezione le figure efflorescenti del pianoforte evocano
un sereno paesaggio, ricordando in parte anche l’adagio del primo concerto in Mi
m. di Chopin; il tema, stavolta, è affidato al timbro malinconico ed ovattato del
corno inglese, che lo rende ancor più vibrante, toccando i vertici di un lirismo
senza pari, in cui maggiore è la semplicità, maggiore lo struggimento.
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16 Musicus discologus 2

Torna la nostalgica inflessione frigia sull’armonia di Sol# e la melodia a tratti


pentatonica quasi come un’antica nenia. L’ultimo raggio di sole si accende quan-
do, in battuta 97, la dominante si trasforma in un settimo grado aprendo in Do# M
da cui inizia una coda che, dopo aver rievocato i gradi principali, cadenza in modo
plagale dal II grado, facendo posare il lungo volo delle figurazioni pianistiche su un
dolcissimo trillo che morbidamente si spegne come allo svanire di un sogno…

Quattro decisi accordi dei fiati su rullo di tamburo ci destano quasi ‘dispettosa-
mente’ dal miraggio a cui ci eravamo abbandonati; si ripresenteranno in seguito
come un motto ricorrente ed unificatore del terzo movimento.

Esempio 13

Concerto in Sol, III mov. 1-7

Da questo perentorio incipit viene ‘lanciato’ il tema, che potremmo chiamare


principale, il quale si presenta come la linea in semicrome risultante da una suc-
cessione alternata fra le mani di quinte vuote; è un tema ancora molto vivace e di
sapore pentatonico che presenta non poche affinità con i motivi del primo movi-
mento (es. battute 7-8-9 ). Abbiamo un altra veloce melodia di carattere rustico,
accentuato dal procedere in modo lidio, per la presenza frequente del Do#. Nel ter-
zo movimento l’evocazione del ‘jazz’ è anche affidata all’armonia, ai ritmi incalzan-
ti e agli effetti strumentali. Oltre al già citato movimento d’accordi spezzati al pia-
noforte, troviamo ad esempio anche l’uso frequente del glissando nella parte dei
fiati e soprattutto dei tromboni, i procedimenti politonali e bimodali; insomma si-
tuazioni indubbie che richiamano alla mente lo stile dell’età dell’oro di New Or-
leans.
Alla diciassettesima misura il tema, ripreso da capo, opera come ‘accompagna-
mento’ e contemporaneamente da contrasto armonico-ritmico all’entrata quasi
goffa di un provocatorio clarinetto, il quale rappresenta un capriccioso disegno in
rapporto bitonale con il tema in Sol.
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17 Cesare Marinacci

Esempio 14

Concerto in Sol, III mov. 17-21

Il richiamo ‘formale’ porta di nuovo a Mozart per l’abbondanza d’idee che si sus-
seguono, e talvolta s’incalzano, durante il brano. L’effetto frenetico ricorda certi
lavori di Gershwin, come la Second Raphsody o An american in Paris ma anche di
Stravinskij, con quell’entrata così a sproposito e ribadita ancor più stridente, subi-
to dopo, dall’ottavino; potrebbe far pensare ad un’evocazione di quella vita vivace
e frenetica che tanto aveva colpito Ravel nella ‘città’ statunitense; qui si tratta di
un francese a New York, ed infatti il profilo di questo ‘marameo’ ricorda meglio la
smaliziata irriverenza di un ‘gigolò’ che uno spaesato viandante nel traffico, forse
ancor meglio il brulichio indistinto di un esuberante quartiere parigino.
Dopo la riproposta del motto, si ode un nuovo spunto melodico avvicinabile a
quelli del primo movimento (es. battuta 160 e seg.). L’idea è ritmicamente ben
marcata, fatta d’accordi congiunti in terza posizione melodica, che rende evidenti
le quinte parallele ed un certo carattere ancora rusticano; il motivo è ripreso dal-
l’orchestra e il pianoforte lo fregia di ribattuti, fino ad arrivare ad un episodio in
cui il solista dialoga fittamente con i legni. Siamo alla misura 57: ancora le semi-
crome del tema cicalano tra loro sulla scala lidia esposte prima dai fiati poi dal so-
lista modulando al Fa maggiore che facilmente si muta in Do e cede sul Si dove il
‘motto’ chiude anche questa sezione.
Comincia un effettivo sviluppo, come nel primo movimento improvvisamente
ad un tono lontano, un variopinto episodio centrale ove tutto ciò che interviene è
l’elaborazione modulante degli elementi precedenti: forse anche l’episodio che
apre la battuta 78, non è del tutto nuovo! Il metro è mutato in 6/8 e ciò permette
di rendere ‘in tempo’ la risata che si presentava in terzine alla diciannovesima mi-
sura, dandole dignità tematica, e di dilatare il ritmo degli accordi alla mano sini-
stra, derivati dal ‘motto’. Ravel crea su questo schema un’apparenza di fanfara,
aperta dalla tromba, in cui lo stridore delle armonie esalta l’aspetto ‘bandistico’.
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18 Musicus discologus 2

Esempio 15

Concerto in Sol, III mov. 79-83

Dopo una ‘americana’ figurazione discendente degli ottoni, che ripropone per
aumentazione il secondo spunto tematico (batt. 37), il tema è riproposto dal soli-
sta in Si maggiore con risposta al tritono; al pianoforte è affidata l’ombra del tema
che si cela nelle risposte, rapidi arpeggi e ottave spezzate, per riaffiorare più chiara-
mente a sprazzi. In questa sezione è il ‘motto’ad operare una serie di modulazioni
siglando gli episodi: prima alla battuta 123, giungendo ad un Si carico della 13° e
poi alla 135 in Sol# con la 9° di dominante nella cadenza. Il tema in semicrome si
maschera nella frase successiva, assumendo pressoché le fattezze di un virtuosistico
e politonale rag-time, su una progressione prima per salti, poi cromatica fino a ri-
solvere su un Mib, insistente VI grado abbassato che come nel primo movimento
annuncia la ripresa.

Esempio 16

Concerto in Sol, III mov. 140-145

La prima ripresa è introdotta dal fagotto, o meglio dal fagottista, cui è impieto-
samente affidato il tema principale (batt. 154). Non era raro che Ravel chiedesse
ai propri interpreti fraseggi inconsueti o ‘fuori tecnica’ – persino gli eletti pianisti
soffrono un po’ nell’affrontare i glissati doppi dell’Alborada – eppure anche i mi-
surati ‘tentennamenti’ di fronte ad una scrittura inconsueta sono calcolati e volu-
ti; non la virtuosità nel superare un ostacolo deve scaturirne, quanto l’umanità
nell’affrontarlo. Dunque l’esplorazione dei propri limiti creativi si esplicava tran-
quillamente anche nell’approfondimento dei limiti altrui, ricorda Marguerite
Long:

«…ai legni e agli ottoni sono richiesti vari virtuosismi…ripenso allo sgomento del fa-
gottista, quando alle prove dovette decifrare la sua parte del ‘finale’ e sentir chiedere da
Ravel, serenamente, di prendere un movimento estremamente veloce…un autentico eser-
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19 Cesare Marinacci

cizio d’alta scuola che faceva impallidire d’angoscia l’infelice professore, sorridere l’ascolta-
tore e risplendere il pianista, lì pronto a riprendere lo stesso tema con la disinvoltura degli
eletti…».9

Anche quest’episodio manifesta esattamente l’idea espressiva, all’entrata del


pianoforte si ha come una sensazione fisica di sollievo; il passaggio alla terza mino-
re inferiore (Mib-Do), dall’ampio orizzonte, accentua questo rischiararsi quando la
fondamentale della tonalità di partenza sorge cromaticamente trasformandosi nel-
la luminosa terza della tonalità d’arrivo. Dopo la fatica, intuibile anche nella ‘più
perfetta’ delle esecuzioni, quel tema che nella frase pianistica si mostra imperti-
nente, giunge invece in tal modo tanto più rassicurante e solare.
Dalla battuta 182 procede un crescendo fino alla stretta finale; come nel primo
movimento lo sviluppo si era allontanato gradualmente dalla tonalità, così nel ter-
zo gradualmente si riavvicina con attraente simmetria. L’arrivo del definitivo Sol
maggiore è così rimandato ma prefigurato da un’altra struttura modulante sequen-
ziale nella quale riaffiorano tutti gli elementi tematici in entrate successive: all’ini-
zio il solo mormorio del primo tema nel registro grave dei fiati, poi, di contrappun-
to, il secondo tema al clarinetto, quindi il tema di ‘fanfara’ ai corni e, in Sib mino-
re ai tromboni, corni e trombe, infine al clarinetto in Fa# minore. (batt.198).
I temi si comportano come in uno ‘stretto’, comprese le volatine stizzose e disso-
nanti, sovrapponendosi di continuo nei toni di Mib-Mi minore e armonizzandosi
in un climax, fino all’esplosione del pianoforte, che riafferma il proprio dominio
‘sbraitando’il capriccioso controtema in Fa#. (batt.214) , ‘tempestivamente’ in pie-
na ripresa, proprio mentre da ultimo è riapparso il Sol d’impianto e il primo tema è
passato canonicamente agli archi. Alla battuta 230 il solista ripropone anche il se-
condo tema insieme all’orchestra, poi il tema di fanfara a battuta 251 e il ‘motto’;
sembra tutto pronto per la fine, ma passando per Sol-Sol# un’improvvisa modulazio-
ne a Mib sembra arrestare per un attimo la corsa della musica; in realtà prepara
l’apparizione di un nuovo ‘rag-time’, parentesi che riconsegna il definitivo primato
al solista per condurci inesorabilmente alla fine. Alla battuta 290, la seconda idea
tematica risuona imperiosa nei suoi blocchi accordali e, immediatamente, il parti-
colare disegno del pianoforte, da cui emerge una scala cromatica spezzata che met-
te in risalto la tensione della quinta aumentata, sfocia nell’altro curioso effetto ‘li-
quido’, ottenuto con lo scivolamento su accordi contigui tra le mani, notato già
nel primo movimento; un attimo dal pianissimo alla forzatura dell’unisono con i
fiati e, finalmente, il ‘motto’ che improrogabilmente chiude i poco più di tre mi-
nuti in cui è successo tutto ciò.
L’ultima nota del pianoforte è un La-1, quella dell’orchestra e del timpano un
Sol: si crea quest’urto che psicoacusticamente viene risolto a favore del tono d’im-

9 M. Long, Au piano avec Ravel, Julliard, Paris 1971.


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20 Musicus discologus 2

pianto; diversamente da Jeux d’eau, ove si presentava lo stesso espediente come ri-
sorsa timbrica, stavolta c’è anche un significato rivelato dal continuo gioco tra le
‘seconde’ del concerto…resta dunque come una firma definitiva dell’aura ‘chiara-
mente oscura’ di tutta l’opera.
Ravel ci sorprende con il dejavu, la sua musica c’invia messaggi subliminali du-
rante lo svolgimento, segnali di cui non ci accorgiamo ma di cui, senza sapere, de-
sideriamo quel manifestarsi che puntualmente ci rapisce… è come un fiore che
sboccia pian piano, lentamente esso si dipana, non vediamo i petali schiudersi, lo
immaginiamo, eppure, come dal nulla sorpresi, ammiriamo al mattino, solo il suo
luminoso incanto.

Bibliografia essenziale
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J. Boivin, I giardini incantati di M. Ravel, Le avanguardie musicali del’900, En. della Musica,
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V. Jankelevitch, Ravel, Mondadori, 1962
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