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2 Indice
Un sistema giuridico repubblicano: 3
COLLANA DI STUDI
DI AMERICANISTICA 1
4 Indice
Comitato editoriale
Gérard Collomb
Iiac-Laios, (Cnrs/Ehess), France
collomb@msh-paris.fr
William Fisher
College of William & Mary, Usa
whfish@wm.edu
José Zanardini
Universidad Católica de Asunción, Paraguay
josezanardini@hotmail.com
Elizabeth Ewart
University of Oxford, Uk
elizabeth.ewart@anthro.ox.ac.uk
Un sistema giuridico repubblicano: 5
Claude LÉvi-Strauss
Visto dal Brasile
a cura di
Paride Bollettin e Renato Athias
Indice
Prefazione 9
Cristina Papa
Introduzione 19
Paride Bollettin e Renato Athias
4. La storia pittografica 85
Oscar Calavia Sáez
Prefazione
Cristina Papa
Università di Perugia
1
Lévi-Strauss Claude (1965) [1955], Tristi Tropici, Milano: Il Saggiatore, .
2
Lévi-Strauss Claude (2005), Tropici sempre più tristi, Roma: I sassi, ed. Nottetempo, pp. 10.
10 Cristina Papa
3 Puccini Sandra (1991) (a cura di), L’uomo e gli uomini. Scritti di antropologi italiani
dell’Ottocento, Roma: Cisu, pp. 25.
4 La prima missione diplomatica del Regno d’ Italia è l’Ambasciata italiana in Persia del
1862, a cui presero parte anche alcuni scienziati. Più nota è la spedizione della nave “Magen-
ta”, progettata nel 1864 e finalizzata a stabilire relazioni diplomatiche tra lo Stato italiano, il
Giappone e la Cina. Se ne fa un resoconto dettagliato di circa 1000 pagine in Giglioli Enrico
(1875), Viaggio intorno al Globo della R. Pirocorvetta Magenta negli anni 1865-66-67-68, con
una introduzione etnologica di Paolo Mantegazza, Milano: Ricordi. Enrico Giglioli, uno dei
fondatori della Società di antropologia italiana e membro della spedizione descrive dal punto
di vista geografico i paesi dell’Asia e dell’America latina (compreso il Brasile) toccati dalla nave
Magenta nell’arco di tre anni e fornisce anche numerose informazioni etnografiche sui popoli
che li abitavano.
Prefazione 11
stica ufficiale francese era partito per il Brasile dove restò ben 15 anni9. I
limiti nella politica culturale dell’Italia appaiono peraltro in contraddizione
con le potenzialità del nostro Paese in questo campo, ancor più che in altri,
a causa dell’interesse per l’Italia di molti giovani artisti brasiliani e di altri
paesi latino americani che venivano a completare nel nostro paese la loro
formazione e dell’interesse individuale di artisti italiani, come Alessandro
Cicarelli, Giovanni Mochi o Eugenio Landesio che in America latina rico-
prirono anche incarichi istituzionali.
Trent’anni più tardi, come Osculati, anche Stradelli percorre l’Amazzo-
nia, ma a differenza del primo, Stradelli passa in Brasile gran parte della sua
vita fino alla morte, dove accanto alle esplorazioni e ai lavori etnografici ri-
copre incarichi pubblici ed esercita la professione di avvocato. Il suo lavoro
di ricerca viene patrocinato dalla Società Geografica Italiana sui cui bollet-
tini escono molti suoi lavori. La sua opera sulle popolazioni del Vaupes10 è
opera di grande impegno a carattere tra il linguistico e l’etnografico, esito di
lunghi soggiorni di ricerca, che gli consentono di documentare i vari aspetti
della cultura locale, ma anche di intervenire sullo sfruttamento delle risorse
naturali da parte delle grandi imprese internazionali e sui loro esiti distrut-
tivi sull’ambiente e sulla vita degli indigeni, tanto da considerare la lavora-
zione del caucciù come un crimine contro l’umanità. Queste spedizioni non
furono prive di efficacia anche a livello della conoscenza nell’antropologia
italiana degli studi che si conducevano in Brasile da parte di studiosi che
venivano costruendo le basi di una etnoantropologia brasiliana. Ne sono
testimonianza gli articoli che Giglioli e Mantegazza11 pubblicano sull’“Ar-
chivio per l’antropologia e l’etnologia” su “l’etnologia al Brasile”12. Quello
di Giglioli è dedicato alle ricerche etnografiche in Amazzonia di due gio-
vani studiosi: João Barbosa Rodrigues un giovane botanico ed esploratore
che collaborò in varie occasioni con lo stesso Stradelli con cui risalì anche
il corso del fiume Jauaperi all’interno di una missione ufficiale brasiliana e
che fu nominato anche socio onorario della Società italiana di antropologia
ed enologia, e Couto de Magalhães, politico, militare ed etnologo di cui
Giglioli recensisce il libro O selvagem in cui l’autore accanto ai dati etno-
grafici raccolti presso molte popolazioni indie del Brasile avanza anche una
proposta politica volta alla loro integrazione nello stato brasiliano. Quello
di Mantegazza invece dà conto dei primi due fascicoli dell’“Archivos do
Museu Nacional do Rio de Janeiro” del 1876 dedicati quasi completamente
all’antropologia ed etnologia del Brasile.
Nello stesso periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del No-
vecento,
in particolare a Rio de Janeiro, Minas Gerais e in gran parte del
Sud del Brasile, emigrarono migliaia di italiani per sfuggire alla miseria del
proprio paese, all’interno di un più ampio fenomeno migratorio diretto
anche verso altre aree del continente americano, a cui corrispose anche
un rinnovato interesse da parte della Chiesa cattolica nell’intensificare la
propria attività missionaria. In questa terra di immigrazione, insieme a co-
munità provenienti da altre aree del globo, vivono oggi circa 30 milioni di
discendenti italiani, un sesto dell’intera popolazione brasiliana. Al seguito
di questa prima ondata migratoria in Brasile si rifugiarono anche molti an-
tifascisti italiani a partire dagli anni ’20 e molti ebrei italiani per sfuggire
alle persecuzioni razziali in epoca fascista. Tra quest’ultimi anche Tullio
Seppilli che, undicenne, con la famiglia, da Trieste si trasferì a São Paulo,
dove, come ricorda in uno scritto recente:
...si costituì così, fra il ‘39 e il ‘40, una piccola comunità di un paio di centinaia di
ebrei italiani, uniti dai comuni problemi e dai comuni ricordi: e fu certo una tipi-
ca manifestazione dello humour ebraico se questa piccola comunità, che un assai
particolare destino aveva fatto incontrare in un Paese così lontano, prese subito ad
autodenominarsi “Colonia Mussolini” […] Ricordo quando mio padre cominciò
a canticchiare le prime canzoni carnevalesche brasiliane. E mia madre che tornava
dalla spesa al mercatino rionale con sempre nuove “scoperte” sul costume loca-
le.13
16 Seppilli Anita, Seppilli Tullio (1964), L’esplorazione dell’ Amazzonia. Con 223 figure nel
testo, Torino: Utet.
17 A Biocca è interamente dedicato il fascicolo della rivista “Parassitologia . A publication of
the University of Rome, la Sapienza. Official Journal of the Italian Society of Parasitology”, vol.
44, n. 1-2, giugno 2002.
18 Recentemente ripubblicato in Italia è anche un suo saggio comparso nel 1946 in una
prestigiosa rivista brasiliana sull’uso del curaro da parte degli indios Makù dell’Alto Rio Negro.
Biocca Ettore, “Estudos etno-biológicos sôbre os Índios da região do Alto Rio Negro-Amazo-
nas-Nota III* - Observações sôbre o Curare dos Índios Makú”, Thule. Rivista italiana di studi
americanistici, n. 18/19, aprile/ottobre, 2005, pp. 197-205. L’articolo è accompagnato da una
nota introduttiva di Tullio Seppilli che mette l’accento sul contributo di Biocca all’antropologia
medica. Seppilli Tullio, “Nota introduttiva”, Thule. Rivista italiana di studi americanistici, n.
18/19, aprile/ottobre, 2005, pp. 191-195.
16 Cristina Papa
19 Varejão Marcela (2005), Il positivismo dall’Italia al Brasile. Sociologia del diritto, giuristi
e legislazione (1822-1935), Milano: Giuffrè. Varejão, giurista della Universidade Federal de Pa-
raíba, analizza in modo approfondito l’influenza del positivismo italiano non solo in Brasile ma
più in generale in Sudamerica.
20 Come fa notare Tullio Seppilli, che ha contribuito a vario titolo alla riforma psichiatrica
in Italia e a cui devo le informazioni sul movimento antimanicomiale in Brasile qui riportate, la
data del convegno è legata a una doppia ricorrenza: quella dell’approvazone della legge 180 in
Italia (13 maggio 1978) e la data dell’abolizione della schiavitù in Brasile (13 maggio 1888).
Prefazione 17
21 Loucos pela vida [Pazzi per la vita]. A trajetória da Reforma psiquiátrica no Brasil, 1995,
Rio de Janeiro: Fundação Oswaldo Cruz. Escola Nacional de Saúde Pública.
22 Tra queste esperienze, importante è quella della comunità di Quatro Varas, alla periferia
di Fortaleza (Stato del Ceará), fondata e guidata da Adalberto Barreto, che fu allievo a Parigi di
Georges Devereux. Su questa esperienza si può vedere Eliane Contini (1995), Un psychiatre
dans la favela, Paris: Les Empêcheurs de Penser en Rond.
18 Cristina Papa
Introduzione
Paride Bollettin e Renato Athias
1
Per una analisi critica del rapporto tra riflessione strutturalista e “storia” si veda il volume
di Francesco Remotti (1971), Lévi-Strauss. Struttura e storia, Torino: Einaudi.
2
Si vedano a titolo di esempio, e senza alcuna pretesa di esaustività, Francesco Remotti,
Lévi-Strauss. Struttura e storia (op. cit.), Sergio Moravia, La ragione nascosta. Scienza e filoso-
fia nel pensiero di Claude Lévi-Strauss (1969, Milano: Sansoni), Lévi-Strauss e l’antropologia
strutturale (1978 [1973], Milano: Sansoni), Ragione strutturale e universi di senso. Saggio sul
pensiero di Claude Lévi-Strauss (2004, Firenze: Le Lettere), Antonino Buttitta, Dei segni e dei
miti (1996, Palermo: Sellerio), Antonino Buttitta e Silvana Miceli, Percorsi simbolici (1989,
Palermo: Flaccovio), o i saggi raccolti nel volume curato da Alberto Mario Cirese, Folklore e
antropologia (1974, Palermo: Palumbo). Tra i testi più recenti in Italia: Marino Niola (a cura
20 Paride Bollettin e Renato Athias
3
Come evidenzia anche Pier Giorgio Solinas: “Lo specifico della ricerca strutturale [...] consi-
ste nel privilegiare l’analisi delle relazioni formali «soggiacenti» al fenomeno considerato, in vista
della costruzione di un completo sistema di relazioni formali”, Lévi-Strauss, le strutture della pa-
rentela e le posizioni marxiste, in Alberto Mario Cirese, Folklore e antropologia, op. cit., pp. 90.
4
Alberto Mario Cirese (2008), “Mie memorie ridestate dai cento anno di Lévi-Strauss”, in
Voci, pp. 9-17 (disponibile anche in: http://www.amcirese.it/Z_AMC/miememorie_levistrauss.
pdf). Si veda anche Umberto Eco, La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo struttu-
rale, Bompiani, 1968, in cui il filosofo italiano critica una certa deriva della nozione di struttura
nella direzione della trasformazione da strumento esplicativo a concetto filosofico.
5
Alberto Mario Cirese (1995), “Modelos de comportamiento y modelos teóricos”, in Estu-
dios sobre las culturas contemporaneas, Año/Vol. 1, N. 1, pp. 127-128.
22 Paride Bollettin e Renato Athias
do dice che: “Il mito, che si definisce come l’insieme delle sue varianti, costitu-
isce un gruppo di trasformazioni nel quale ogni variante [...] propone sempre
[...] una nuova soluzione”, o ancora: “ogni mito è in relazione con gli altri miti.
Essi sono le tessere di un unico grande mito [...] e [...] si parlano tra loro”6.
Di conseguenza, l’analisi strutturale del discorso mitico deve concentrarsi su
queste relazioni, trasformazioni, gruppi, perché è attraverso queste che esso
diviene realmente “mitico”, ovvero è nella sua dinamicità e trasformabilità che
il mito ha un significato di ordinamento del mondo. Un ordine che utilizza,
secondo Lévi-Strauss, la logica del concreto per giungere a porre ordine al re-
ale. Può essere utile fermarsi un istante su questa questione, che appare come
centrale in questo volume.
Diversamente dal positivismo del xix secolo che disprezzava i racconti mi-
tici, gli aspetti della magia, i rituali, Lévi-Strauss li ha utilizzati come risorse
di una narrazione della storia del gruppo sociale, come espressioni legittime
delle manifestazioni di desideri e progetti occulti, tutti meritevoli di assurgere
al ruolo di materia prima dell’etnologia. Ciò appare chiaramente nelle Mito-
logiche, opera nella quale ha proposto un ordine in cui il racconto orale si
colloca su una piattaforma diacronica di un tempo non reversibile, al contrario
della struttura del mito (che ad esempio tratta della nascita o della morte di
eroe) che sale e scende lungo un asse sincronico, in un tempo che al contrario
è reversibile. Sebbene i miti non ci rivelino nulla a proposito dell’ordine del
mondo, sono molto utili per comprendere il funzionamento del gruppo che
li ha generati e che li perpetua. Già Sergio Moravia aveva evidenziato come
“Il mito, per Lévi-Strauss, è essenzialmente una struttura logico-formale”7.
In questa raccolta viene sottolineata tale idea nei testi degli antropologi bra-
siliani che analizzano i racconti mitici a partire dalle proposizioni del maestro
francese, il cui obiettivo era quello di provare che la struttura dei miti è iden-
tica in ogni luogo e che dunque la struttura mentale dell’umanità è la stessa,
indipendentemente dal popolo o gruppo sociale, clima o religione adottata o
praticata8.
Con Lévi-Strauss si è compiuta, forse, una delle ultime “torsioni” della di-
sciplina, o meglio una “doppia torsione” (come dice uno degli autori dei testi
qui raccolti a riguardo della pubblicazione delle opere di Lévi-Strauss all’in-
terno della collezione nella Bibliothèque de la Pléiade): quella del collocare
6
Antonino Buttitta e Silvana Miceli (1989), Percorsi simbolici, Flaccovio, op. cit., pp. 20 e 90.
7
Sergio Moravia (1978) [1973], in Lévi-Strauss e l’antropologia strutturale, Sansoni, op. cit.,
pp. 30.
8
Come sottolinea Alberto Mario Cirese, questa ricerca delle “identità profonde che soggiaciono
alle differenze di superficie è una conquista scientifica fondamentale”, in Mie memorie..., op. cit.
Introduzione 23
l’uomo all’interno della sua propria opera, con il mirabile libro che è Tristi
Tropici9, e quella di elevare l’antropologia verso un rigore quasi matematico,
con la spasmodica ricerca delle trasformazioni e dei modelli. Quest’ultimo
aspetto è evidenziato molto bene anche da Paolo Caruso: “l’espressione ma-
tematica della società, che è poi la «struttura sociale», non coincide con la
concreta organizzazione sociale di una data società, ha un valore strumentale
e non ontologico, [...] è un paradigma, o un modello”10. Esso indubbiamente
influenza anche le successive ricerche, ad esempio nel campo della parentela,
aprendo la possibilità alla costruzione di modelli matematici di descrizione
dell’esperienza concreta del vissuto, come ha fatto Alberto Mario Cirese11.
Certo si potrebbe ancora continuare a lungo con la ricerca di punti nodali
della riflessione di Lévi-Strauss e dei confronti successivi con la sua opera,
come l’influenza dei suoi studi sulla parentela, l’importanza del rapporto con
gli studi linguistici, e così via, ma non è nei compiti di questa introduzione, che
si limita a mettere in evidenza i tratti salienti dei contributi qui raccolti. Questi,
alcuni dei quali ora tradotti in italiano, altri inediti, vogliono stimolare un di-
battito a partire dalle questioni teoriche sollevate nell’antropologia brasiliana,
prendendo spunto dalle tematiche sviluppate da Lévi-Strauss, in riferimen-
to a campi differenti, che si interrogano su questioni anche apparentemente
lontane, nel tentativo di permettere una navigazione ad ampio raggio su quei
“contro-sguardi” che stanno alla base della disciplina antropologica.
È importante evidenziare come Lévi-Strauss abbia nel Brasile, o meglio
nei popoli indigeni del Brasile, la propria fonte primaria per sviluppare la sua
9
“L’oggettività per l’etnografo non consiste nel fingersi sin dall’inizio della ricerca al riparo da
qualsiasi passione, col rischio di restare preda di passioni mediocri e volgari e di lasciarle inconsa-
pevolmente operare nel discorso etnografico, quasi vermi ululanti nell’interno di un decoroso se-
polcro di marmo, ma si fonda nell’impegno di legare il proprio viaggio all’esplicito riconoscimento
di una passione attuale, congiunta ad un problema vitale della civiltà cui si appartiene, a un nodo
della prassi, uno stimolo della historia condenda o del res gerendae, nel raccontare come quel
“patire” fu faticosamente oggettivato nel corso dell’esplorazione etnografica mediante il successivo
impiego delle tecniche di analisi storico-culturale. La importanza di Tristi Tropici di C. Lévi-Strauss
sta appunto nel fatto di essere un documento significativo di questo nuovo corso dell’indagine et-
nografica.” con queste parole Ernesto De Martino commenta il famoso libro di Lévi-Strauss in
La Terra del Rimorso, 1996 [1961], Milano: Ed. Est, pp. 20. Certo il rapporto della tradizione
antropologica italiana di ispirazione storicista con Lévi-Strauss è molto complesso, basti ricor-
dare la critica di Alfonso Maria Di Nola (“Non mi incanti Lévi-Strauss”, in A.L.I.A.S., 14
novembre 2009, pp. 17-18).
10
Paolo Caruso (1967), Introduzione, in: Claude Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di
antropologia, Torino: Einaudi, pp. 28.
11
Si vedano ad esempio i programmi Acarep e Gelm, che rappresentano uno strumento di
un nuovo linguaggio della parentela.
24 Paride Bollettin e Renato Athias
La mia carriera si è decisa una domenica dell’autunno 1934 alle nove del mattino,
con una telefonata. Era Celestino Bouglé, allora direttore della scuola normale
superiore; da qualche anno egli mi accordava una benevolenza un po’ sostenuta e
reticente: in primo luogo perché non ero un antico normalista, in secondo luogo
e soprattutto perché, anche se lo fossi stato, non appartenevo alla sua scuderia
per la quale nutriva sentimenti particolari. Evidentemente non aveva altra scelta,
infatti mi domandò all’improvviso: «Lei ha sempre intenzione di fare l’etnografo?»
«Certo!» «Allora ponga la sua candidatura come professore di sociologia all’Uni-
versità di São Paulo. I dintorni sono pieni di Indiani, potrà dedicare loro i suoi
weekends.12
12
Claude Lévi-Strauss (1999 [1955]), Tristi Tropici, Milano: Il Saggiatore, pp. 45.
13
Claude Lévi-Strauss e Didier Eriborn (1988), Da vicino e da Lontano, Milano: Rizzoli,
pp. 36.
14
Pierre Clastres (1979), Entre silence et dialogue, in Bellour, R. e Clément, C. (orgs.),
Lévi-Strauss, Paris: Gallimard, p. 37-38.
Introduzione 25
Da un altra prospettiva, Oscar Calavia Sáez, nel quarto capitolo “La storia
pittografica”, evidenzia che l’insieme dell’opera di Lévi-Strauss può essere in-
terpretata storicamente. I miti raccolti nelle Mitologiche sono narrazioni che
utilizzano le categorie del sensibile per raccontare ciò che in passato successe
ai popoli indigeni: una storia di storie, una storia pittografica.
Con il capitolo cinque, di Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto, si
discute un’altro importante aspetto dell’opera lévi-straussiana e si cerca di evi-
denziare, all’interno di una discussione più ampia, le informazioni etnografi-
che raccolte in Brasile e i dibattiti teorici da lui proposti a partire da queste. I
due autori analizzano il problema del dualismo, il cui sviluppo viene accompa-
gnato fin dai testi inaugurali sui Bororo ed i Nambikwara, fino a Storia di Lince
(1991), in questo tragitto essi mettono in evidenza sia come i dati etnografici
occupino uno spazio centrale nell’opera di Lévi-Strauss, sia il rilievo dei suoi
contributi per l’etnologia contemporanea.
Il contributo di Lévi-Strauss allo studio dei miti amerindi è incontestabile,
ampio e profondo. Tânia Stolze Lima, nel suo articolo intitolato “L’uccello
di fuoco”, il sesto del volume, riprende un mito degli juruna per confrontar-
lo con quelli studiati nelle Mitologiche. L’autrice sottolinea, partendo dalla
propria esperienza di campo con gli juruna, una profonda relazione tra questi
miti, soprattutto tra quelli che riguardano la distinzione natura/cultura, e sot-
tolinea il fatto che essi offrono elementi etnografici utili ad una comprensione
della nozione indigena di mito.
“Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo” è il titolo del set-
timo capitolo, firmato da Eduardo Viveiros de Castro, che ricerca in Storia
di Lince e nelle Mitologiche gli elementi centrali del proprio discorso. Come
egli stesso dice, è in Storia di Lince che si può trovare la “chiave di tutto il si-
stema”: “Il maestro francese – continua Viveiros de Castro – si riferisce qui al
sistema mitico panamericano analizzato nella serie delle Mitologiche; ma io mi
riferisco al sistema teorico dello strutturalismo. Sempre che sia realmente pos-
sibile distinguere i due sistemi”. L’autore presenta Lévi-Strauss come uno dei
fondatori del post-strutturalismo nel senso di un “pensatore che ha reinven-
tato l’antropologia, lo smontatore dei fondamenti metafisici del colonialismo
occidentale, e che allo stesso tempo ha rivoluzionato la filosofia, aprendo uno
dei principali sentieri del secolo affinché altri potessero smontare i fondamenti
colonialisti della metafisica occidentale”. Nelle conclusioni viene infine evi-
denziato come il movimento teorico di Lévi-Strauss proceda verso una “ame-
rindianizzazione dello strutturalismo”.
In questi lavori qui raccolti, gli autori sottolineano come non sia possibile
riassumere le Mitologiche senza che si perda qualcosa dell’insieme, perché
sono proprio i legami logici tra i miti che rivelano l’intelligibilità delle culture.
Introduzione 27
deperibile del Tempo, svelando i contenuti latenti che contengono molto più
del tragitto immaginario di colui che pensa, parla, agisce ed interagisce”. In
questo modo, gli strumenti messi a disposizione dall’antropologo francese,
soprattutto la definizione di cultura, rendono possibile una comprensione più
approfondita della realtà urbana.
Antonio Motta nel capitolo undici problematizza lo “spazio dell’esotico”
nella produzione dell’“altro” in Lévi-Strauss. Come dice l’autore: “l’altra par-
te coinvolta nella relazione, che è lo stesso oggetto investito, ossia la cultura
dell’altro (esotica) si trasforma in una mera formulazione e valorizzazione di
un ideale, in principio basato nell’affermazione dell’alterità, però visto dalla
prospettiva di chi lo nomina o professa l’esotismo, ma che da esso si conserva
immune nella propria cultura di origine”. In realtà, le proposte di Lévi-Strauss
nell’ambito della sua etnologia cercano di comprendere l’esotico avendo in
mente una applicazione universale.
L’impatto del progetto teorico dell’opera di Lévi-Strauss non è misurabile,
soprattutto per ciò che riguarda il modello degli studi etnologici che egli ha
inaugurato, in cui si può contemplare la base per la comprensione delle società
amerindie. Sappiamo però che la scienza non si costituisce solo con individui
isolati e questa pubblicazione vuole proporre una proiezione verso il futuro,
perché rende possibile un dibattito su questioni elaborate da e su Lévi-Strauss,
studiate e discusse da antropologi brasiliani che producono conoscenze etno-
grafiche e etnologiche in e sul Brasile, che ci auguriamo possano essere di sti-
molo anche in Italia. Il desiderio è quello, quindi, di proporre un dialogo che
possa intessere trame di spiegazioni, di analisi e di riflessioni tra due tradizioni
antropologiche, ma anche tra persone fuori e dentro l’ antropologia che leg-
gendo l’opera del maestro francese vi hanno riconosciuto elementi innovativi
per il loro lavoro.
Per concludere questa breve introduzione, ci sia permesso di ringraziare
tutti coloro che hanno reso possibile la realizzazione di questo volume. In
modo particolare un sentito ringraziamento va a Fabrizio Loce Mandes e Luca
Tabarrini, di Contro-Sguardi, per l’immagine di copertina. Ringraziamo anche
Andrea Ravenda, Alexander Koensler, Cristina Papa, Giovanni Pizza, Donatel-
la Schmidt, Laura Montesi, Igor Baglioni e Martina Forti per il sostegno e l’ap-
poggio alla realizzazione di questo lavoro. Un grazie sincero anche al maestro
francese cui questo volume è dedicato, per aver permesso con la sua riflessione
di aprire nuovi fertili terreni di indagine per l’antropologia e come egli stesso
ebbe a dire: “le mie ultime parole siano per quei selvaggi, la cui oscura tenacia
ci offre ancora modo di assegnare ai fatti umani le loro vere dimensioni”15.
15
Claude Lévi-Strauss, Elogio dell’antropologia, in Id., Razza e storia..., op. cit., pp. 82.
1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile 29
1
Intervista a Grisoni, in Léry (1994: 6).
2
“Tristes tropiques constitue un genre littéraire à part [...] inclassable, sans doute parce que
hors classe”, nelle parole di Pascal Dibie (2003: 29). Da segnalare inoltre che, nell’anno della sua
pubblicazione, la giuria del Premio Goncourt si lamentò di non poter dare a Tristes tropiques il
massimo premio, perché non si poteva definirla come un’opera di invenzione.
30 Beatriz Perrone-Moisés
appena fondata Universidade de São Paulo, dove egli avrebbe potuto, gli dis-
sero, fare ricerche sul campo durante i fine settimana, con i molti indigeni che
si trovavano nei sobborghi della città. Non era vero. Gli indigeni erano ben
più lontani, come commenta lo stesso Lévi-Strauss più avanti, chiedendosi se
non ci fosse stata una confusione tra São Paulo e Città del Messico o Teguci-
galpa (Idem.: 49-50).
Ad ogni modo, fu in Brasile che Lévi-Strauss realizzò il lavoro sul campo
indispensabile per ottenere le proprie credenziali come etnologo, le sua “preu-
ves d’ethnologue” (Lévi-Strauss e Eribon, 1988: 35). Si trattava di una esigenza
formale per essere accettato tra gli specialisti. Ma il lavoro sul campo è sempre
più che una mera formalità. È un vero rito di passaggio, indispensabile, come
disse (in Charbonnier, 1961: 18 [ed. it.: 38]), per apprendere la “ginnastica
intellettuale” di cambiare il proprio sistema di riferimento, ginnastica senza la
quale non è possibile essere etnologo. Ginnastica ben diversa da quella che gli
proponeva la filosofia, e della quale si dichiarava stanco (Lévi-Strauss, 1955:
55 [ed. it.: 51]). Questa “ginnastica etnologica” era anch’essa stancante, dice,
ma fisicamente stancante. E continuava ad essere una ginnastica intellettuale,
come l’altra. Nella stessa descrizione del lavoro di etnologo, nel 1955, Lévi-
Strauss già connetteva mente e corpo, ragione e sensi, preannunciando la lo-
gica dei sensi che sarebbe stata esplicitata nel 1962, ne Il pensiero selvaggio, e
moltiplicata, con i codici sensoriali con cui operano i miti amerindi, nel corso
delle Mitologiche.
E così, fu in Brasile che egli visse l’isolamento fisico in relazione al proprio
gruppo, i cambiamenti brutali, lo sradicamento cronico che fanno un etno-
grafo, secondo la sua stessa caratterizzazione del lavoro sul campo (Idem.:
59 [ed. it.: 53]). Tutte le difficoltà e gli sconforti provati in queste spedizioni
nell’interno del Brasile sono espressi e chiaramente affermati da Lévi-Strauss,
ma l’incanto dei viaggi permane, soprattutto nelle descrizioni della natura e
degli incontri con gli amerindi. Egli racconta in Tristes tropiques che “d’avoir
tant parcouru les savanes désertiques du Brésil central a redonné son charme
à cette nature agreste qu’ont aimé les anciens”. Più avanti, descrive la foresta
tropicale come un
ceux qui ont enfoui le nez au coeur d’un piment exotique fraîchement éventré
après avoir [...] respiré la torsade mielleuse et noire du fumo de rolo, feuilles de
tabac fermentées et roulées... (Idem.: 85)3.
Parvenu au soir de ma carrière, la dernière image que me laissent les mythes et,
à travers eux, ce mythe suprême que raconte l’histoire de l’humanité [...] rejoint
donc l’intuition qui, à mes débuts et comme je l’ai raconté dans Tristes Tropiques,
me faisait rechercher dans les phases d’un coucher du soleil [...] le modèle des faits
que j’allais étudier plus tard et des problèmes qu’il me faudrait résoudre sur la my-
thologie: vaste et complexe édifice, lui aussi irrisé de milles teintes, qui se déploie
sous le regard de l’analyste, s’épanouit lentement et se referme pour s’abîmer au
loin comme s’il n’avait jamais existé. (Lévi-Strauss 1971:620).
3
Si noti la congiunzione del tabacco con il miele, motto del secondo volume delle Mitologi-
che, nella descrizione della “torsade mielleuse” del tabacco in corda.
4
Una serie di altri passaggi di Tristes tropiques con riferimenti sensoriali si trova in Perrone-
Moisés (2008a).
5
Temporaneamente, dato che le tre “piccole Mitologiche”, La voie des masques, La potière
jalouse e Histoire de Lynx saranno pubblicate in seguito, tra il 1975 ed il 1991.
32 Beatriz Perrone-Moisés
La prosa, che già è stata definita “tropicale”, di Tristes tropiques è uno dei nu-
merosi esempi dell’impossibilità di separare, in Lévi-Strauss, forma e contenuto.
Lì si esprime uno dei suoi più notevoli talenti, quello di far sì che la materia di
cui parla dia forma alla maniera in cui parla di essa. O di esprimere nella forma
del testo il suo contenuto6. Solidarietà tra forma e contenuto che è, giustamente,
essenziale nella sua nozione di struttura. Reintegrazione del sensibile nell’intel-
legibile, o viceversa, che segna tutta l’opera di Lévi-Strauss. Già in Tristes tropi-
ques, egli componeva il proprio pensiero con categorie del sensibile.
Torniamo al Brasile da lui descritto e pensato nel libro “inclassificabile”.
Oltre alla natura vergine ed al viaggio attraverso i sensi, cosa vede Lévi-Strauss
in Brasile?
6
Ho sviluppato questo punto in relazione a Histoire de Lynx, mostrando come la compo-
sizione del libro stesso e l’analisi in esso sviluppata hanno la forma dell’“ideologia bipartita
amerindia” (Perrone-Moisés, 2008b).
1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile 33
Rio de Janeiro è “morsa” nella baia di Guanabara e tutto nella città sem-
bra di un tempo antico, come “demodé”. Gli appare una città che non è sta-
ta costruita come le città usualmente sono, che si inserisce con difficoltà nel
paesaggio, “à la façon des doigts dans un gant trop étroit”. La São Paulo degli
anni ‘30 gli sembrava essere un esempio tipico delle città americane, una “ville
sauvage” dal ciclo corto, sempre a mezza strada tra il cantiere e la rovina, “per-
petuellement jeunes [mas] jamais saines”. Una città che, “d’une façon générale,
[...] offrait ces tons soutenus et arbitraires qui caractérisent les mauvaises con-
structions”. Nel cuore del Brasile, Goiás Velha viene descritta come un insieme
di “façades dégradées” conquistate da rampicanti, banani e palme; la sua vicina
e succedanea, Goiânia, come “une plaine sans fin, qui tenait du terrain vague et
du champ de bataille, hérissée de poteaux electriques et de piquets d’arpentage”
(Lévi-Strauss, 1955: 88, 96, 107-108, 139, 140). Sono molti e diversi gli aspetti
del Brasile che Lévi-Strauss descrive, sempre rivelando uno sguardo attento ed
acuto in formule che oscillano tra un certo “détachement” ed il puro incanto.
Il Brasile non ha, ciononostante, un posto di rilievo nel suo pensiero.
Occupa, nella sua opera, un luogo comparabile a quello del sudest asiatico,
dell’America del Nord o anche della stessa Europa. Appartiene ad un insieme
di luoghi che fanno parte della traiettoria di Lévi-Strauss, ai quali egli applica
il pensiero, che egli confronta e connette gli uni agli altri, in quello che egli
stesso chiama il suo “travelling mentale”. I “tropiques vacants” in Brasile si
oppongono ai “tropiques bondés” in India. Le allora nuove strade dello stato
del Paraná accompagnano il rilievo come le vecchie strade romane della Gal-
lia. Rio de Janeiro, a prima vista, ricorda le gallerie di Milano e Amsterdam,
o la stazione Saint-Lazare a Parigi, ma all’aria aperta, e lo fa pensare anche
a Calcutta, Nizza o Biarritz nel XIX secolo. Ma Rio è anche il contrario di
Chittagong, nel golfo del Bengala. Ed i quartieri della città ne evocano anche
altri, in altri paraggi e tempi: Botafogo ricorda Neuilly, Copacabana è Saint-
Denis degli anni ‘30. I pantani attorno alla città di Santos sono come il delta
del Bramaputra. La nebbia dell’altopiano paulista è bretone. Goiânia gli evoca
il ricordo di Karachi. São Paulo, come Chicago e New York, sorprende l’eu-
ropeo perché appare precocemente devastata dal tempo. La “lugubre” Porto
Esperança figura nella sua memoria a lato di Fire Island, nello stato di New
York, a sua volta una sorta di Venezia invertita. Corumbá, in Mato Grosso,
ricorda le città pioniere del vecchio west e della California (Lévi-Strauss, 1955:
161-162, 94, 96, 103, 142, 107, 184-185, 228).
Ad un certo punto del racconto, Lévi-Strauss evoca un quadro di combi-
nazioni tra l’ambiente geografico ed il popolamento, le cui possibilità sareb-
bero tutte espresse nell’insieme {Europa, India, America del Nord e America
del Sud} (Idem.: 149). Ma non sono queste le uniche variabili considerate in
34 Beatriz Perrone-Moisés
Tristes tropiques e, ad uno sguardo più ravvicinato, si vede che non si tratta di
una mera combinazione. Attraverso i luoghi del mondo, Lévi-Strauss percorre
un gruppo di trasformazioni connesse da opposizioni, sdoppiamenti, inver-
sioni, duplicazioni, come quelle che seguirà più tardi tra i miti amerindi, nelle
Mythologiques. Nel gruppo di trasformazioni che può anche essere il mondo,
questo Brasile occupa un luogo alla fin fine più contingente di quello del mito
di riferimento bororo della tetralogia. Perché nonostante egli affermi, all’ini-
zio de Il crudo ed il cotto, che il viaggio attraverso i miti, i tragitti per i grup-
pi di trasformazione, potrebbe essere iniziato a partire da uno qualsiasi dei
suoi rappresentanti, il mito bororo M1 si presenta come “spécialment propre
à exercer la réflexion”, non perché sarebbe “typique”, ma piuttosto per la sua
“position irregulière au sein d’un groupe”, per i “problèmes d’interprétation que
[tale posizione] soulève” (Lévi-Strauss 1964:10). Mano a mano che si avanza
per i cammini delle trasformazioni mitiche, M1 giustifica sempre più il proprio
luogo di punto di partenza, per ritornare con forza alla fine del tragitto, ne
L’Homme nu. Questo Brasile – o questi vari Brasili – descritto nel libro auto-
biografico non si presenta né come tipico né come notevolmente atipico; non
sembra essere più che un punto iniziale nella memoria del viaggiatore, in un
viaggio che avrebbe potuto, di fatto, essere cominciato in un qualsiasi luogo.
Qualsiasi luogo, che però fosse in America. Perché il Brasile che segna la
vita e l’opera di Lévi-Strauss è quello degli amerindi. Il Brasile che fa di lui un
americanista e inflette la sua produzione intellettuale è quello in cui vivono
Nambikwara, Bororo, Caduveo, Tupi-Kagwahiv, Tupi Mondé. Nell’esperienza
sul campo la cui brevità tanti critici hanno tenuto a sottolineare, Lévi-Strauss
sarebbe stato uno di quegli etnografi che
se referment sur eux-mêmes et se laissent en quelque sorte flotter; ils s’en remet-
tent à un travail inconscient qui se produit de toute façon, pour installer en eux des
observations, faire surgir des réflexions, mais qui se manifesteront à leur conscien-
ce quelquefois des années après leur séjour sur le terrain
per riprendere una riflessione dello stesso autore a proposito delle distinte
maniere di vivere l’esperienza sul campo (apud Clement, 2002: 9). Lasciandosi
“flotter” nel Nuovo Mondo da questa altra faccia dell’umanità che gli si rivela-
va, Lévi-Strauss aprì lo spazio necessario per una trasformazione. È l’America
che Lévi-Strauss pensa, e che in lui si pensa.
pour deviner qu’elle a joué un rôle dans la généalogie des concepts de l’anthropo-
logie structurale (Taylor 2004:92).
È già stato notato (Peixoto, 1988: 96; Taylor, 2004: 94) che egli ritorna con-
tinuamente alla propria esperienza etnografica in Brasile nel corso dell’opera
posteriore. I Nambikwara, “società ridotta alla sua più semplice espressione”,
rispondevano nell’esperienza, come egli stesso pondera, ad una questione che
Rousseau aveva affrontato teoricamente, ossia, ciò che potrebbe essere una
“società minima”, un “grado uno” della società, per così dire. L’esperienza tra
i Nambikwara, questa “società minima”, è fondamentale per lo sviluppo della
sua critica al “falso arcaismo”, idea corrente (ancora) che le società come la loro
sarebbero sopravvivenze di uno stadio primo, arcaico, di ogni società (Coelho
de Souza e Fausto, 2004: 92 [in questo volume Cap. 5, n.d.t.]). I Nambikwara
sono anche decisivi per lo sviluppo della prima parte del fondamentale trat-
tato di teoria della parentela che sono le Strutture Elementari della Parentela.
I Bororo, “société encore vivante et fidèle à sa tradition” (Lévi-Strauss 1955:
244) in cui ebbe il privilegio, come egli stesso riconoscerà più tardi, di vedere
in tutto il suo splendore questa arte tanto amerindia che è quella piumaria, gli
forniscono la materia prima per studi seminali di organizzazione sociale ed
il primo mito (delle migliaia di miti amerindi) delle Mythologiques, il mito di
riferimento, storia di un giovane che si reca a prendere i figli di arara nel nido,
lo “snidatore di uccelli”, al quale egli torna continuamente, condotto da altri
miti americani. La “apertura all’altro” che propone come caratteristica del
pensiero amerindio era già stata individuata molto prima di divenire oggetto
di Histoire de Lynx, dato che è presente nei suoi primi articoli, come nota
Anne-Christine Taylor (2004: 95-96)7.
Le “saudades” evocate nel titolo del suo libro di fotografie sono, alla fin
fine, nostalgie dello “état d’excitation intellectuelle intense” con cui egli scoprì
il Nuovo Mondo, del tempo degli esploratori e viaggiatori le cui avventure si
sentiva di rivivere, dei primi incontri tra europei e tupi nella costa brasiliana
(Lévi-Strauss e Eribon, 1988: 34); lui che si riconosce in Jean de Léry, visitato-
re francese che, nel XVI secolo, scrisse una delle più belle opere a riguardo dei
popoli dell’America, la Storia di un viaggio alla terra del Brasile (1578), salutata
come “breviaire de l’ethnologue” in Tristes tropiques. In una mappa dello stato
di São Paulo del 1918, egli notava che due terzi dell’area erano definiti come
“territoire inconnu habité seulement par les Indiens”, ed anche che lì, negli
anni ‘30, già non c’era più alcun indio (Lévi-Strauss, 1955: 52). Nell’opera di
7
“Apertura all’altro” che è anche caratteristica della stessa antropologia da lui inaugurata.
Cfr. Viveiros de Castro (in questo volume, Cap. 7).
36 Beatriz Perrone-Moisés
Lévi-Strauss, come nella sua analisi dei miti, nessun dettaglio deve essere con-
siderato come fortuito, la mappa del 1918 rimanda tanto alla decimazione dei
popoli indigeni quanto al mistero dei suoi “territori sconosciuti”. “Sconosciu-
ti” nel senso che potevano avere per gli europei, di paesaggi diversi, i tropici,
l’esotico. Ma anche, o soprattutto, territori del pensiero, mondi da conoscere
che gli indigeni gli mostrano. Egli sente la nostalgia degli indigeni8, che gli pro-
piziarono una delle ultime opportunità di registrare una esperienza umana che
“non doveva nulla” alla cultura occidentale; senza la quale non sarebbe più
possibile pensare l’umano al di fuori della tradizione occidentale, perché tutte
le culture della faccia della terra sarebbero presto, in qualche modo, entrate
in contatto con essa e si sarebbero trasformate in questo contatto. La rapida
scomparsa evidenziata dalla mappa sarebbe esemplare della brutale distruzio-
ne dell’America, che tante volte Lévi-Strauss ha evocato nella sua opera9, ed
anche un caso specialmente flagrante di distruzione della diversità culturale,
di perdita di realizzazioni uniche delle possibilità umane.
Ciò che fu deciso in quell’imprevedibile telefonata avrebbe portato Lévi-
Strauss ad essere un americanista con un ingresso “brasiliano”, o un europeo
che incontra l’America sul suolo del Brasile. Lévi-Strauss scopre gli americani
in Brasile e scopre, rivela l’America. L’incontro è tanto importante che si può
parlare di “indianizzazione” dell’immaginario scientifico di Lévi-Strauss (Tay-
lor, 2004: 06) e percepire una inflessione amerindia nella sua teoria del sociale,
tributaria di Marcel Mauss tanto quanto dei Nambikwara o dei Bororo. Ma, si
noti, il suo pensiero è anche tributario delle molte letture fatte più tardi, nelle
biblioteche di New York, dove egli dice di aver realmente appreso l’etnologia
amerindia.
Se un qualche Brasile influenza l’opera di Lévi-Strauss, è quello dei popoli
indigeni, ed è nella comprensione degli universi amerindi che la sua opera per-
mane più viva. È soprattutto agli etnologi americanisti che Lévi-Strauss indica
cammini, possibilità e questioni che continuano alimentando nuove scoperte.
8
Come aveva di loro nostalgia Jean de Léry, di ritorno all’Europa e divenuto pastore cal-
vinista, quando dichiarava di lamentarsi molto spesso di non essere tra i selvaggi (Léry, 1994:
508). La comparazione stabilita da Léry in questo passaggio, tra i modi di relazione dei selvaggi
e quelli che diremmo civilizzati ed egli chiamava cristiani (la cui fertile prosperità nota Lestrin-
gant; in Léry, 1994: 508, n.2), in cui gli amerindi emergono come moralmente superiori, è uno
dei numerosi echi di Léry in Lévi-Strauss o meglio, uno dei paralleli tra entrambi, che echeg-
giano lezioni amerindie.
9
L’evocazione del genocidio massiccio praticato nel Nuovo Mondo segna specialmente Hi-
stoire de Lynx, la cui apertura invita il lettore ad un atto di “contrition et pitié” in occasione
dei 500 anni del primo viaggio di Colombo e nel quale Montaigne, altro autore che lamenta la
distruzione dell’America, occupa un posto centrale.
1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile 37
si tant d’écrits amazonistes ressassent des oppositions binaires, des dualismes so-
ciaux ou idéologiques, décortiquent des choréographies conceptuelles composées
de rapports en miroir, ce n’est ni parce que leurs auteurs sont congénitalement
anti-historicistes et idéalistes, ni parce qu’ils sont automatiquement sous l’influen-
ce de Lévi-Strauss; c’est tout simplement parce que les Amérindiens eux-mêmes
leur en offrent la matière
En abordant l’étude des mythes et, en général, de la pensée des peuples dits primi-
tifs, j’ai été frappé de ce que la différence fondamentale que j’apperçois entre notre
pensée et la leur (leur pensée non pas en tant qu’hommes, mais en tant qu’elle se
manifeste dans des formes de civilisation) tenait au fait que ces sociétés ne font
pas la distinction tranchée qui nous est devenue habituelle de par notre tradition
philosophique, et reprise en compte par la science, entre le sensible et l’intelligible.
Mais qu’au contraire, pour elles, il y a continuité entre les deux règnes: la signifi-
cation du monde se manifestant directement à travers lesordres de la sensibilité; et
c’est à cette intuition qu’avec des moyens et dans des registres différents, j’essaie
de ramener les sciences de l’homme (Lévi-Strauss, 2003 [1971]: 53).
miti alla loro forma, attinga infine un “discours vide” (Lévi-Strauss, 1991: 254-
55).
Questo cammino che va dall’affermazione delle “strutture dello spirito”
come oggetto ultimo all’esposizione di una filosofia amerindia, dalle matrici
del pensiero umano verso il pensiero amerindio, passa per una mediazione nel
finale de L’Homme nu, nel passaggio che dichiara che “les mythes ne disent
rien qui nous intruise sur l’ordre du monde, la nature du réel, l’origine de l’hom-
me ou sa destinée”, ma, “en revanche”, insegnano molto su “les sociétés dont ils
proviennent”; per subito in seguito affermare che “enfin et surtout, ils permet-
tent de dégager certains modes d’opération de l’esprit humain” (Lévi-Strauss,
1971: 571)10. Se le modalità di operazione dello spirito sono condivise, è grazie
a ciò che si possono comprendere i modi propriamente amerindi di operare.
Un’altra trasformazione di questo movimento tra l’universale dello spirito ed
il particolare amerindio può essere letta nella ugualmente famosa affermazio-
ne, nell’“Apertura” de Le cru et le cuit, che poco importa se è il suo pensiero
che pensa quello degli amerindi o il contrario. L’interpretazione che si offre
immediatamente è legata al movimento tra “l’intuizione diretta dell’oggetto e
l’analisi” di cui parla Paz, citato sopra, che a sua volta rimette all’affermazione,
ricorrente nell’opera di Lévi-Strauss, di “homologie de structure entre la pensée
humaine en excercice et l’objet humain auquel elle s’applique [...] intégration
[...] de la méthode et de la réalité” (Lévi-Strauss, 1962: 535). É al proposito
ultimo dell’antropologia, che sarebbe quello di “contribuer à une meilleure
connaissance de la pensée objectivée et de ses mécanismes”, che Lévi-Strauss si
riferisce in questo passaggio iniziale delle Mythologiques: la “démarche dou-
blement réflexive de deux pensées agissant l’une sur l’autre” può illuminare
entrambe nella misura in cui esprimono lo spirito umano (Lévi-Strauss, 1964:
21). Ma può esserci anche un’altra cosa. O è un’altra cosa ancora ciò che Lévi-
Strauss fa. Perché tale procedimento riflessivo, la cui possibilità è data dalla
unità dello spirito umano, produce un pensiero trasformato. Poco importa,
alla fin fine, perché questo è ciò che importa: aprire l’un l’altro pensieri tanto
diversi, il cui allontanamento differenziale è condizione della produzione di
un nuovo pensiero.
10
Idea questa “molto complicata”, come nota Eduardo Viveiros de Castro, commentando
questo stesso passaggio (2001: 4 e seg.). L’autore nota, in questo stesso testo, che l’affermazione
in questione, fatta ne L’Homme nu, sembra stonare dall’ultimo passaggio delle “piccole Mitolo-
giche”, Histoire de Lynx (idem.: 5, n.6). Tutta la lettura che faccio del luogo del pensiero ame-
rindio nel pensiero dello stesso Lévi-Strauss si basa precisamente in un movimento che parte da
Histoire de Lynx retrospettivamente, verso le opere anteriori; direzione di lettura che propone
anche Viveiros de Castro.
40 Beatriz Perrone-Moisés
Bibliografia
La formula canonica del mito è uno dei topici più ostici dell’opera di Lévi-
Strauss, ma è anche una delle idee più affascinanti e persistenti del grande
antropologo. Essa sorse per la prima volta nel 1955, nell’articolo su “La strut-
tura dei miti” (Lévi-Strauss, 1955), fu menzionata nell’articolo “Struttura e
dialettica” dell’anno successivo (Lévi-Strauss, 1958b [1956]), per riapparire
trent’anni dopo ne La vasaia gelosa (Lévi-Strauss, 1985) e nel 2001 (Lévi-
Strauss, 2001a [1994]) in un articolo sull’architettura religiosa.
Dal 1955 al 1985, la formula canonica è stata in maniera generale igno-
rata dai commentatori e lo stesso Lévi-Strauss si è mantenuto in silenzio a
proposito. La sua riapparizione ne La vasaia gelosa, nel 1985, però, ha avuto
forti ripercussioni. Nel 1988, la rivista L’Homme ha pubblicato due articoli sul
tema, di Jean Petitot e di Bernard Mezzadri (Petitot, 1988, 1989; Mezzadri,
1988), e dieci anni dopo è apparso il libro di Lucien Scubla, un tour-de-force
sullo spinoso argomento (Scubla, 1998). Nel 1995, L’Homme dedica alla for-
mula canonica un numero intero, che può essere visto come un moltiplicarsi
delle strade indicate negli articoli del 1988 (Côté, 1995; Désveaux; Pouillon,
1995; Marcus, 1995, Petitot, 1995, Scubla, 1995), in particolare dell’idea di
applicare la teoria delle catastrofi alla modellizzazione della formula. Il nume-
ro speciale de L’Homme ha avuto, a sua volta, nel 2001, uno sdoppiamento
importante, che è stato il libro in inglese organizzato da Pierre Maranda, The
Double Twist (La Doppia Torsione), che contiene alcuni degli articoli apparsi
ne L’Homme e vari altri originali. Il libro organizzato da Maranda presenta
due aspetti importanti per noi: l’articolo in cui Lévi-Strauss utilizza la formula
canonica a proposito dell’architettura religiosa (Giappone, Giava e America
1
Questo testo è la traduzione dall’originale in portoghese: “A Fórmula Canônica do Mito”,
pubblicato in: Caixeta De Queiroz R. e Nobre R. F. (Org.) (2008), Lévi-Strauss. Leituras Brasi-
leiras. Belo Horizonte: Editora da UFMG, p. 147-182.
44 Mauro William Barbosa de Almeida
Forma e contenuto hanno la stessa natura, sono di competenza della stessa analisi.
Il contenuto deriva la sua realtà dalla sua struttura e quello che si definisce forma
è la «messa in struttura» [mise en structure] delle strutture locali in cui consiste il
contenuto (idem: 158 [ed. it.: 172]).
2
Questa pretesa è realmente giustificata? Lo spettro fisico dei colori può essere rappresen-
tato come continuo, e sviluppa qui il ruolo di “substrato continuo” del paradigma colore. Se ci
atteniamo ad una dimensione, questo substrato può essere rappresentato nel fascio delle x come
un continuo che va, ad esempio, dal bianco al nero. Ogni cultura “categorizza questo substrato
continuo” in unità discrete – per esempio, riducendolo a due colori, “bianco” e “nero”. Un
informatore, mentre gli vengono presentate successivamente le parti del continuo, ad un certo
punto salta dalla categoria “bianco” a quella di “nero”: questo punto di discontinuità è una
“catastrofe”, che in questo caso si riduce ad un punto. Con un numero molto maggiore di assi,
il locus della catastrofe diviene più complesso, ma l’idea è di trattare punti di discontinuità come
punti in cui l’attuante salta da una “attrazione” ad un’altra. Per capire come ciò si applica alla
diacronia narrativa, pensiamo i segmenti della narrativa come “attuanti” confinati ad una “fun-
zione” (“values categorizing the continuous substratum of paradigms into discrete units”, Petitot,
2001: 272). Transitare tra due funzioni opposte significa quindi, per un attuante, saltare da un
“confino” ad un altro e, così, superare “opposizioni”.
2. La formula canonica del mito 47
da un insieme delimitato di miti esige dal lettore che ricerchi un ponte tra essi
e gli altri insiemi, o ancora tra il codice in considerazione ed altri codici. Que-
sta risorsa per fare un bilancio di un insieme mitico indica nella direzione di
trasformazioni che possono essere state imposte dalla storia, o da un altro tipo
di movimento irriducibile alla ragione analitica. Insomma, da un movimento
della ragione nella sua capacità di “oltrepassare abissi”, e che Lévi-Strauss
ha caratterizzato come ragione dialettica. Così, ciò che appare, a prima vista,
come se fosse un formalismo positivista è, al contrario, un appello alla ricerca
di qualcosa oltre il dato positivo: uno sforzo di immaginazione capace di spie-
gare, attraverso procedimenti come l’inversione, l’analogia, la metonimia, le
lacune attraverso la storia del subconscio.
La base di questo discorso sarà una rilettura dell’articolo del 1955, pub-
blicato nel 1958, in cui Lévi-Strauss presentò una celebre analisi dei miti che
formano insieme ciò che chiama mito di Edipo. Si tratta, qui, di giustificare
l’apparire della “formula canonica del mito” come indicazione di un procedi-
mento metodologico che, nonostante non sia esplicito, è essenziale nell’analisi.
Questo raziocinio sarà confermato con l’uso della formula canonica del mito
nel 1985, ne La vasaia gelosa.
3
Nella versione del 1955 in inglese, la consanguineità è esplicitata come “overrating of blood
relations”. A rigore, potremmo glossare così la proposizione soggiacente al fascio: comporta-
mento esageratamente prossimo, o oltrepassare le regole sociali (tra consanguinei di sesso oppo-
sto). Questa lettura è di fatto la prima lettura di Lévi-Strauss: “tutti gli incidenti riuniti nella pri-
ma colonna parlano di “parenti consanguinei”, la cui “relazioni di prossimità sono... esagerate”.
Lévi-Strauss descrive anche così il predicato: “questi parenti sono oggetto di un trattamento più
intimo di quello che le regole sociali autorizzano”. Ora, questa prima formulazione riafferma una
endogamia reale o latente e suggerisce per implicazione la rinuncia all’alleanza.
4
Un termine che designa una relazione, e non un attuante come modellizzazione sintagma-
tica in Propp e Greimas.
2. La formula canonica del mito 49
5
Potremmo aver letto il quadro della Figura 2 così: la sovrastima di relazioni Fx(a) di pa-
rentela sta alla sottostima delle relazioni con i mostri autoctoni Fy(b) come la sottostima delle
relazioni Fy(a) di parentela sta alla funzione-mostro autoctono (monco, mancino, piede-gonfio)
della sovrastima di relazioni. Questa lettura verticale si approssima più letteralmente alla formu-
la canonica scritta da Lévi-Strauss nel 1955.
52 Mauro William Barbosa de Almeida
6
La condensazione nella versione “amerindia” lega Edipo, Laio e Labdaco (a partire dalla
sua presunta difficoltà di camminare in maniera eretta) agli Spartoi (come esseri ctoni), presu-
mibilmente perché (secondo suggestioni dei miti amerindi) esiste una connessione tra l’origine
dalla terra e la deformità.
7
Nell’articolo del 1955a, Lévi-Strauss aveva esteso alla Grecia antica la teoria pueblo in
cui “la vita umana è intesa sul modello del regno vegetale (emergenza fuori dalla terra)”, giu-
stificando così la scelta del mito di Edipo come primo esempio (Lévi-Strauss, 1958: 252 [ed.
it.: 248]). Ciononostante, gli ellenisti affermano che la deformità (come carattere monco) è un
tratto degli dei e non degli esseri ctonici (Detienne e Vernant, 1974: 242 [ed. it.: 205]). Evidenza
di ciò è il fatto che gli Spartoi, i “seminati” con i denti del drago, escono dalla terra eretti e senza
deformità.
2. La formula canonica del mito 53
Jean Pierre Vernant affermò nel 1988 che, nonostante l’interpretazione lévi-
straussiana sia apparsa all’inizio “almeno contestabile”, “modificò in maniera
tanto radicale il campo degli studi mitologici che a partire da essa, in Lévi-
Strauss ed in altri specialisti, la riflessione a proposito della leggenda edipiana
ha intrapreso vie nuove e, credo, feconde”. (Vernant, 1988: 54)
E ciò in particolare perché
Il “tratto in comune” è qui una risposta che richiede una domanda. L’inte-
ressante è che, anche se abbandonassimo la domanda a cui Lévi-Strauss giunse
nel 1955, i tratti torti di Labdaco/Laio/Edipo hanno continuato ad alimentare
i tentativi di formulare una domanda adeguata. Ad esempio: i tratti torti dei
personaggi, nella loro connessione con l’incesto e con enigmi, indicano verso
una riflessione politica ateniese – i cui poeti tragici hanno fornito le versioni da
noi più conosciute del mito di Edipo – sulla tirannia come forma di anorma-
lità nella comunicazione. Letture successive hanno messo in relazione il tema
del “disequilibrio nel camminare” all’incesto (fratello-sorella, madre-figlio),
all’abuso del linguaggio nella forma dell’enigma, all’abuso del potere nella for-
ma della tirannia8.
È stato, infine, Jean Pierre Vernant colui che ha richiamato l’attenzione
verso un gruppo di miti greci geograficamente distante dai miti di Edipo, in
cui il carattere-monco ha un ruolo centrale. Si tratta della storia di Labda, la
regina monca di Corinto. Salta agli occhi il parallelismo stretto con il mito di
Edipo: a Tebe, c’è un lignaggio di tiranni stranieri – che si sposano all’ester-
no del proprio gruppo consanguineo –; a Corinto, c’è un lignaggio di tiranni
endogami. A Tebe, l’abuso sessuale di un futuro tiranno “maldestro” (Laio
ha relazioni sessuali con il giovane figlio del suo anfitrione, che prevede che
il lignaggio di Laio si estinguerà in due generazioni) porta alla distruzione del
lignaggio attraverso le azioni di suo figlio piede-gonfio, Edipo (passando per
un incesto); a Corinto, un matrimonio esogamico di Labda, la Zoppa, porta
8
Jean-Pierre Vernant ricorda che Terence Turner fu il primo ad accentuare l’importanza
dell’enigma. Da ciò i termini di Lévi-Strauss del 1960: “Come l’enigma risolve, così l’incesto
avvicina termini destinati a rimanere separati: il figlio si unisce alla madre, il fratello alla sorella,
così come fa la risposta che riesce, contro ogni previsione, a raggiungere la sua domanda” (Lévi-
Strauss, 1973a [1960]: 34 [ed. it.: 58-59]; Vernant, 1988: 56).
54 Mauro William Barbosa de Almeida
alla distruzione del lignaggio per le azioni di suo figlio Cipselo (ma qui sono i
cittadini che uccidono il tiranno). In entrambi i casi, esiste una profezia ora-
colare la cui conseguenza si cerca di impedire con il tentativo – frustrato – di
assassinare un(a) figlio(a)9. I paralleli simmetrici continuano10. Si distacca la
tensione tra l’endogamia del lignaggio agnatico (fratricidio, parricidio) ed i
conflitti fratricidi da un lato e tra guerra ed alleanza dall’altro – tutto questo in
connessione con il tema dell’impraticabilità della tirannia permanente. Tutto
avviene, quindi, come se l’esagerata prossimità tra consanguinei di sesso op-
posto (incesto) stesse al conflitto con i consanguinei dello stesso sesso (fratri-
cidio, parricidio, filicidio), come l’alleanza con gli autoctoni (non agnati) sta
alla guerra con gli autoctoni.
9
I Bacchiadi monopolizzano il potere politico a Corinto sposando le loro figlie tra di loro (i
labdacidi alternano il potere politico a Tebe, sposandosi con discendenti degli Spartoi); l’endo-
gamia dei tiranni di Corinto viene interrotta dal matrimonio esogamico di Labda (o perché ella,
essendo zoppa, non trovò marito all’interno del lignaggio, o divenne “zoppa” giustamente per
essersi sposata all’esterno del gruppo), mentre a Tebe l’alleanza viene interrotta dal matrimonio
endogamico di Edipo con sua madre; l’oracolo profetizza che il figlio di Labda (la Zoppa) assu-
merà il potere a Corinto, ma che avrà appena due generazioni di discendenti, mentre l’oracolo
profetizza che Edipo, il figlio di Giocasta (la madre incestuosa) ucciderà suo padre (sul padre
di Edipo, colpevole di “incesto”, cadrà la maledizione che la sua stirpe sarà stermineata, il che
avviene in due generazioni). Si veda Vernant (1988: 77).
10
Per questi paralleli, Cfr. Robey. “From Oedipus to Periander”. In: Oxford Readings in
Greek Religion. www.uark.edu/campus-resources/dlevine/Oxford5.html
2. La formula canonica del mito 55
VITA (=crescita)
Uso (meccanico) del regno vegetale (come crescita) ORIGINE
Uso alimentare del regno vegetale (piante silvestri) RACCOLTA
Uso alimentare del regno vegetale (piante silvestri e AGRICOLTURA
coltivate)
Uso alimentare del regno animale CACCIA
Uso distruttivo del regno animale e del regno umano GUERRA
MORTE(=de-crescita)
Schema 3 – Progressione dialettica e termine contraddittorio.
11
Se consideriamo il tableau come una striscia di carta, ed incolliamo la estremità di sinistra
(progressione dall’alto verso il basso dalla vita alla morte) e di destra (progressione dal basso
verso l’alto dalla morte alla vita), otterremo un nastro di Möbius – una figura topologica che è
uno dei topos ricorrenti della fase mitologica dell’opera di Lévi-Strauss.
56 Mauro William Barbosa de Almeida
ciatori). L’importante, però, è che questi mediatori sono parte di blocchi mag-
giori di opposizioni paradigmatiche (il coyote è un intermediario tra erbivori
e carnivori, così come lo scalpo lo è tra la guerra e l’agricoltura, i vestiti tra
natura e cultura, la cenere tra il fuoco della casa ed il tetto, ed altre). Insomma,
lontani dall’essere una mera soluzione logica per risolvere una opposizione tra
opposti, i dioscuri e tricksters sono piste euristiche per indagare trasformazioni
mitiche che portano ad altri continenti spaziali e semantici, e, in questo caso,
conducono Lévi-Strauss a paralleli tra l’Ash-boy della mitologia amerindia e il
Gatto con gli Stivali europeo.
L’utilizzo di termini ambigui (trickster e dioscuri) come mediatori è un pri-
mo esempio delle “operazioni logiche” del mito (Lévi-Strauss, 1958a [1955]:
241 [ed. it.: 246]). Un’altra caratteristica è la “dualità di natura”, che caratte-
rizza una stessa divinità nei miti. Lévi-Strauss esemplifica questo punto con il
seguente schema (idem: 251 [ed. it.: 255]):
Partendo da un mito ben localizzato e che, a prima vista, sembra riunire capric-
ciosamente dei termini eterocliti da tutti i punti di vista, seguirò passo a passo le
osservazioni, le inferenze empiriche, i giudizi analitici e sintetici, i ragionamenti
espliciti ed impliciti che rendono conto della loro connessione (Lévi-Strauss, 1985:
22 [ed.it.: 12]).
Tuttavia, stabilendo uno stretto legame fra un’arte della civiltà, un sentimento mo-
rale e un uccello, i miti jívaro costituiscono un enigma. Quale rapporto può esiste-
re tra ceramica, gelosia coniugale e Succiacapre? (Idem: 34 [ed. it.: 21]).
Ci chiederemo innanzi tutto se esiste un legame tra l’arte del vasaio e la gelosia
[...] Ci interrogheremo in seguito sul legame tra la gelosia e il Succiacapre. Se in
entrambi i casi otterremo un risultato positivo, in base a ciò che decisi in passato
di chiamare una deduzione trascendentale ne conseguirà l’esistenza di una connes-
sione anche tra la ceramica e il Succiacapre (Idem: 35 [ed. it.: 22]).
2. La formula canonica del mito 59
12
In ciò la Mãe-de-Argila assomiglia alla Mãe da Seringueira dei seringueiros del sudovest
amazzonico!
60 Mauro William Barbosa de Almeida
sia e, in seguito, che c’è un legame tra gelosia e Succiacapre. La prima connes-
sione è teorica: si tratta qui della teoria indigena secondo la quale la ceramica
è una delle cose che sono in gioco nel conflitto cosmico tra potenze celesti e
potenze ctonie. Già la seconda connessione, tra “gelosia e Succiacapre”, deri-
va da una “deduzione empirica” basata sull’associazione sensibile tra l’uccello
ed un carattere avido, solitario e triste, ma che viene confermata anche dal
legame tra dissapori coniugali e conflitti tra gli astri.
Resta il terzo passo: mostrare che “esiste anche un legame tra la ceramica e
Succiacapre”. Ma questo terzo passo esigerà una “deduzione trascendentale”13.
Nel capitolo 4, Lévi-Strauss fa il seguente bilancio della situazione:
gelosia → Succiacapre
:
ceramica → ?
Schema 7 – Un triangolo empirico-logico.
13
Quando flirta con il linguaggio kantiano, Lévi-Strauss sta mettendo in risalto che i passag-
gi del pensiero mitico non derivano dall’esperienza sensibile. Ricordiamo che Kant spiega que-
sta nozione ricorrendo alla distinzione giuridica tra ciò che è “di diritto” (quid juris) e ciò che
è “di fatto” (quid facti). Nell’argomento “di fatto” bastano esempi empirici; ma per convincere
che qualcosa è “di diritto”è necessaria una deduzione a partire da principi. Analogamente, dice
Kant, nel caso dei concetti empirici, possiamo ricorrere all’esperienza per attribuire un senso ad
essi; ma nel caso di concetti “sintetici a priori”, è necessaria una deduzione a partire da principi:
“Chiamo questa spiegazione del modo come i concetti a priori possono essere in relazione agli
oggetti, di deduzione trascendentale di questi concetti, e la distinguo dalla deduzione empirica,
che indica il modo attraverso il quale un concetto è ottenuto dall’esperienza e dalla riflessione
su di essa...” (Critica della Ragion Pura, A85). Cfr. Lèvi-Strauss (1985: 35 [ed.it.: 22]).
2. La formula canonica del mito 61
Si pone qui un problema sul quale conviene soffermarsi, dal momento che la sua
soluzione mette in gioco certi principi fondamentali dell’analisi strutturale dei miti.
Per dimostrare la connessione tra il Succiacapre e la ceramica, dovremo ricorrere
ad un uccello che non occupa alcun posto nei miti finora considerati (Idem: 70-71
[ed. it.: 47]).
È fuor di dubbio che i Fornai fossero presenti nel pensiero degli Indios anche
quando questi non ne parlavano. E le loro abitudini, come ho provato, non pote-
vano non essere percepite in opposizione a quelle dei Succiacapre (Idem: 78 [ed.
it.: 53])
Gelosia → Succiacapre
:
Vasaia → Donna
?
Lévi-Strauss legge così la formula: “la funzione «gelosa» del Succiacapre sta
alla funzione «vasaia» della donna come la funzione «gelosa» della donna sta
alla funzione «Succiacapre invertito» della vasaia” (Idem.: 79 [ed. it.: 53-54]).
2. La formula canonica del mito 63
14
Ricordiamo che, nel caso del ciclo tebano di Edipo, il “carattere zoppo del Re” appariva
come un tratto implicito (o incosciente), ma appariva in forma esplicita nel ciclo corinzio di
Labda, che costituisce una versione “invertita” del ciclo tebano di Edipo.
64 Mauro William Barbosa de Almeida
con le vasaie, la gelosia, e che è anche un nesso tra l’uso domestico dell’arte
della ceramica e le grandi questioni metafisiche che ebbero luogo nella volta
celeste all’inizio del mondo.
*gelosia succiacapre*
**vasaia donna**
(unire le estremità della striscia unendo gli asterischi corrispondenti)
*gelosia succiacapre-1
-1vasaia donna*
(incollare le estremità unendo gli asterischi corrispondenti; è necessaria una torsione)
Schema 10 – La formula Canonica: da un cilindro ad un nastro di Möbius.
15
Si confronti questa visione con quelle di Carneiro da Cunha (2009 [1973]), Sahlins (1981,
1985) e Peter Gow (2001). Credo che essa sia convergente con quella che Viveiros de Castro
esprime in un testo che mi è giunto tra le mani mentre terminavo di revisionare il presente
capitolo, e dal quale estraggo il seguente passaggio: “Con la formula canonica, al posto di una
opposizione semplice tra metaforicità totemica e metonimicità sacrificale, ci installiamo im-
mediatamente nell’equivalenza tra una relazione metaforica ed una metonimica, la «torsione»
che fa passare da una metafora ad una metonimia o vice versa: la famosa «doppia torsione», la
«torsione soprannumeraria», il «double twist» che, in realtà, è trasformazione strutturale per
eccellenza” (Viveiros de Castro, 2008).
66 Mauro William Barbosa de Almeida
... è indispensabile confrontare il mito con il rito, non solo in seno a una medesima
società, ma anche con le credenze e le pratiche delle società vicine. Se un certo
16
Un esempio con il quale ho cominciato la presentazione orale di questo testo è dato da
un aneddoto che si trova in Tutaméia, di Guimarães Rosa. Professoressa: “- Joãozinho, fai un
esempio di sostantivo concreto”. Joãozinho: “- I miei pantaloni, professoressa”. Professoressa:
“- E di un sostantivo astratto?”. Joãozinho: “- I suoi, professoressa”. L’aneddoto potrebbe es-
sere riformulato come un enigma il cui spirito è ben colto dalla formula canonica, il cui quarto
termine conduce ad un salto inaspettato tra domini semantici che normalmente si trovano sepa-
rati. Al posto di una deduzione logica che porterebbe alla risposta attesa (“- La mia innocenza,
professoressa”...), Joãozinho trasporta l’opposizione concreto/astratto dal codice grammaticale
al codice della sessualità, attraverso una analogia che trasporta oltre i dati immediati del pro-
blema.
2. La formula canonica del mito 67
gruppo di miti pawnee rappresenta una permuta, non solo di taluni rituali della
stessa tribù, ma anche di quelli di altre popolazioni, non ci si può accontentare di
un’analisi puramente formale: quest’ultima costituisce una tappa preliminare della
ricerca... (Lévi-Strauss, 1958b: 265-266 [ed. it.: 270]).
In questo viaggio tra miti vicini – e qui è il punto importante – non cerchia-
mo la diffusione di elementi dei miti, ma l’azione attiva del costruttore di miti
collettivi, attraverso trasformazioni che rivelano meccanismi di “risposta, di
scuse o anche di rimorsi”:
... sottolineando che l’affinità non consiste soltanto nella diffusione, al di fuori del-
la loro area di origine, di talune proprietà strutturali o nella ripulsione che ostacola
il loro propagarsi: l’affinità può anche procedere per antitesi, e generare strutture
che presentano il carattere di risposte, di rimedi, di scuse o anche di rimorsi (Idem:
266 [ed. it.: 271]).
Vediamo qui due livelli: uno quello della forma logica, e l’altro quello
dell’inconscio, combinati come fronte e verso, e accompagnati lungo distanze
geografiche e storiche. Come insiste Lévi-Strauss, nel 1958, “(...) tutto ciò che
un’analisi strutturale del contenuto del mito potrebbe, da sola, ottenere: rego-
le di trasformazione che permettono di passare da una variante ad un’altra”
(Idem: 260 [ed. it.: 265]).
Una versione del mito si trasforma in un’altra nella storia e nello spazio
geografico, e queste trasformazioni, inflesse dalla realtà, si subordinano, allo
stesso tempo, alle esigenze delle teorie includenti sul mondo17. Vediamo così
che la “formula canonica”, secondo questi testi degli anni ‘50, di fatto preten-
de di rifarsi da un lato ad operazioni logico-algebriche e dall’altro ad opera-
zioni storico-psicologiche, alla ragione analitica ed alla ragione dialettica, alla
deduzione ed alla fabulazione.
Arriviamo alla fine evocando un’ultima testimonianza di Lévi-Strauss a
proposito dell’utilizzo della sua formula. Si tratta di un lettera che l’antropolo-
go francese scrisse a Solomon Marcus nel 1994, citata da Pierre Maranda nella
sua introduzione al volume interamente dedicato alla formula canonica, ma
con prospettive in generale dissonanti in relazione a quelle dell’antropologo
francese. Nella lettera Lévi-Strauss si pronuncia con un tono conciliatorio a
rispetto del distanziamento tra la sua prospettiva e quella degli autori del vo-
17
Terence Turner ha richiamato l’attenzione sulla differenza tra trasformazione logica e tra-
sformazione storica quando ha commentato un articolo di cui sono autore sullo strutturalismo
di Lévi-Strauss. Purtroppo mi è sfuggita l’efficacia di quel punto perfettamente giustificato a
quell’epoca (Almeida, 1993). Si veda anche Gow (1991).
68 Mauro William Barbosa de Almeida
Lei distingue due utilizzi della formula, uno diacronico, e l’altro sincronico. Il
primo può essere illustrato da Maranda e Maranda (1971), che lo applicano alla
dimensione temporale interna alle narrative, mentre io uso la formula per organiz-
zare varianti da un punto di vista puramente formale (Lévi-Strauss, 2001a [1994]:
314).
Ciò nonostante, anche il mio uso di essa implica un aspetto diacronico. La variante
che viene per ultima (il quarto membro della formula) nasce da un evento che è
avvenuto nel tempo: il passaggio delle frontiere culturali o linguistiche, la presa in
prestito da parte di un pubblico straniero (Idem: 314).
... Nel presente caso, è degno di nota che la doppia trasformazione illustrata dalla
formula sia iniziata da restrizioni tecniche. Il passaggio da un materiale ad un altro
ricopre così lo stesso ruolo dei cambiamenti di natura linguistica o culturale in altri
contesti: esso riguarda sempre il passaggio di un limite (Idem: 28).
... Si può concepire la diacronia in due modi: come inscritta nella durata temporale
interna di una narrazione specifica (le temps du récit), o come l’inscrizione di varie
narrative relazionate in una durata temporale esterna (le temps historique) (Lévi-
Strauss, 2001a [1994]: 314).
Bibliografia
In uno dei suoi articoli sulla storia della biologia, Stephen Jay Gould (1991)2
si riferisce ad una immagine offerta con frequenza ai lettori di tutto il mondo
con il fine di fare loro visualizzare uno dei piccoli antenati del cavallo con-
temporaneo. Egli rivela, così, che una enorme quantità di autori, in Europa,
America, Asia ed in ogni dove, cercano di chiarire come l’animale in questione
presentava approssimativamente le dimensioni di un cane fox terrier. Intrigato
dalla apparente invenzione indipendente di una immagine in fin dei conti per
nulla ovvia, Gould finisce con lo scoprire che tutte le formulazioni si ispira-
rono ad un unico testo, trasmesso di autore in autore, di generazione in ge-
nerazione, citato di seconda, terza o quarta mano, senza che nessuno sentisse
alcuna necessità di ricorrere all’“originale” – che sia il testo o che sia l’animale
utilizzato come esempio. Per essere più preciso, ciò che di fatto è avvenuto è
che a nessuno importava sapere chi fosse il creatore dell’immagine, o anche
conoscere ciò che gli serviva come significante.
In questo caso specifico, tale processo, che potremmo denominare di gene-
razione e di trasmissione di una volgata, non mi sembra così grave. Alla fin fine,
tutto indica che gli animali confrontati possiedano effettivamente dimensioni
simili, e sembra che nessun danno reale alla conoscenza sia stato prodotto da
questo luogo comune. Più gravi – e, allo stesso tempo, molto più interessanti
– sono i casi in cui certe distorsioni sono presenti. Così, Dominique Merllié ha
suggerito che una serie di malintesi riguardo all’opera di Lucien Lévy-Bruhl
si devono giustamente al fatto che “avendo tutti quanti «letto» Lévy-Bruhl,
1
Questo testo è la traduzione dal portoghese di: “Lévi-Strauss e os sentidos da História”,
pubblicato originalmente in: (1999), Revista de Antropologia, Vol. 42, n.1-2, pp. 223-238.
2
Ringrazio Peter Gow per avermi rivelato l’esistenza di questo testo. Ringrazio anche, in
maniera più generale, Tânia Stolze Lima per una serie di suggerimenti che riguardano punti
specifici del testo.
74 Marcio Goldman
La più famosa di tutte le formulazioni della a-storicità dei popoli indigeni è quella
di Lévi-Strauss (...) [che] stabilisce la sua famosa distinzione (molto spesso intesa
in maniera equivocata) tra società “calde” e “fredde”. Allo stabilire questo contra-
sto, l’autore separa i popoli dotati di storia da quelli che non la possiedono. Egli
argomenta che questi ultimi deliberatamente subordinano la storia al sistema ed
alla struttura, e a causa di questa subordinazione le società in cui essi vivono posso-
3. Lévi-Strauss ed i significati della storia 75
attribuisce alla società una specie di riflessione oggettiva che non coincide con la
coscienza dell’individuo [...]. La società è come un soggetto, che reagisce ad un
esterno, correggendo le proprie deficienze (Gaboriau, 1963: 153).
Il secondo modello, che coesiste col primo, tratterebbe la società come una
“macchina”, gli aggiustamenti e reazioni deriverebbero dal suo funzionamen-
to oggettivo, non da coscienze individuali o collettive.
In sintesi: è ovvio che Lévi-Strauss non accetta qualsiasi dicotomia appa-
rentemente oggettiva tra società “con storia” e “senza storia”, per altro verso
le forme di reagire alla temporalità sono ora considerate come i semplici effetti
di un determinato tipo di struttura sociale, ora come il risultato di una specie
di volontà collettiva.
Alcuni anni prima dell’introduzione della distinzione tra storia fredda e cal-
da, Lévi-Strauss aveva già proposto un’altra dicotomia cercando di demarcare
distinte forme di storicità – proposta che, forse anche più dell’altra, aveva sof-
ferto una incomprensione fondamentale e suppongo che ciò sia dovuto al fatto
3. Lévi-Strauss ed i significati della storia 79
che “Razza e Storia” – nel quale l’opposizione tra storia stazionaria e cumula-
tiva è presentata – ebbe come destino la rubrica di testo “introduttivo”. Letto
da quasi tutti durante i nostri primi studi di antropologia, è raramente rivisto
nel momento in cui diveniamo capaci di una riflessione più seria; preferiamo
indicarlo ai nostri alunni, il che chiude il cerchio e rilancia la maledizione.
Come parte delle nostre “Introduzioni all’antropologia”, “Razza e Storia”
è quasi interamente ridotto a ciò che non va oltre il suo preambolo: la critica
all’etnocentrismo ed al “falso evoluzionismo” o “evoluzionismo sociale”. Si
presta poca attenzione, così, al fatto che questo testo forse è l’unica propo-
sta di applicazione, nel campo delle scienze sociali, di un modello veramente
evoluzionista, o per meglio dire, non la trasposizione di un lamarckismo o di
un darwinismo già fuori moda anche nel dominio delle scienze naturali, ma
l’evocazione della possibilità di un neo-darwinismo sociologico. Ossia, di una
riflessione ispirata dalle trasformazioni radicali che le scoperte di Mendel pro-
vocarono nella teoria evoluzionista, collocando al centro nozioni come quella
di caso, probabilità, mutazione e concatenazione delle trasformazioni – giusta-
mente quelle che Lévi-Strauss pretende di recuperare per l’antropologia.
“Razza e Storia” procede per tappe. In un primo momento, storia cumula-
tiva e storia stazionaria sembrano semplici sostituti dell’opposizione con/senza
storia. In seguito, siamo invitati a riconoscere, con esempi tratti dall’America
precolombiana, che la cumulatività non è un privilegio occidentale. Infine, a
questa relativizzazione “di fatto”, segue una relativizzazione “di diritto”: la di-
stinzione deriva sempre da una specie di illusione ottica e se la storia dell’Ame-
rica appare cumulativa è perché siamo capaci di ritagliare e selezionare in essa
avvenimenti simili, in significato ed orientamento, a quelli che privilegiamo
nel nostro stesso divenire. Se, come dice Lévi-Strauss, “la storia non è, quindi,
mai la storia, ma la storia-per”, si può dire, a maggior ragione, che la storia
dell’America è cumulativa “per noi”. In altre parole, se la distinzione tra storia
fredda e calda è di ordine “soggettivo”, quella tra storia stazionaria e cumula-
tiva lo è in un grado ancora più elevato:
Ogni qualvolta propendiamo a qualificare una cultura umana come inerte o stazio-
naria, dobbiamo dunque chiederci se questo immobilismo apparente non dipenda
dalla nostra ignoranza dei suoi veri interessi consapevoli o inconsapevoli e se, dota-
ta di criteri differenti dai nostri, questa cultura non sia nei nostri confronti vittima
della stessa illusione (Lévi-Strauss, 1952: 73 [ed. it.: 120]).
Osserviamo, però, che la stessa ambiguità esistente nel modello storia “fred-
da” e “calda”, riappare a proposito della coppia stazionaria/cumulativa. Così
come il primo può essere interpretato o come parte del funzionamento di una
80 Marcio Goldman
In tal senso, si può dire che la storia cumulativa sia la forma di storia caratteristica
di quei superorganismi sociali che costituiscono i gruppi di società, mentre la sto-
ria stazionaria – se esistesse davvero – sarebbe il contrassegno di quel genere di vita
inferiore che caratterizza le società solitarie (Lévi-Strauss, 1952: 89 [ed. it.: 137]).
come il nostro mito. Molto più che una mera “relativizzazione” del sapere
scientifico, si tratta qui di rivelare che differenti tipi di storicità sono articolati
con differenti tipi di riflessione su di esse, i quali, a loro volta, fanno parte del
tipo di storicità sulla quale si riflettono.
La storia, come forma di sapere e auto-coscienza, è, quindi, caratteristica di
queste società che “interiorizzano risolutamente il divenire storico per farne il
motore del loro sviluppo” (Lévi-Strauss, 1962: 268 [ed. it.: 254]). Potremmo,
quindi, dire che facciamo parte di una società che è, prima di tutto, “a favore
della storia”, anche se in qualche momento può reagire ad essa. Se ciò è vero,
non è troppo considerare che esistono anche società “contro la storia”, quelle
che cercano, “grazie alle istituzioni che si danno, di annullare, in modo quasi
automatico, l’effetto che i fattori storici potrebbero avere sul loro equilibrio e
la loro continuità” (Idem).
Quindi, “contro la storia” è una espressione che deve, evidentemente, es-
sere intesa nello stesso senso in cui Pierre Clastres parla di “società contro lo
Stato”. Ossia, non come semplice assenza o privazione, ma come un principio
attivo – il che allontana immediatamente qualsiasi minaccia di etnocentrismo.
Oltre a ciò, credo che sia possibile immaginare che buona parte delle proteste
contro coloro che, suppostamente, rifiutano alle altre società la benedizione
della storia derivano da una sorta di etnocentrismo elevato alla seconda po-
tenza. Dato che, alla fin fine, chi ha detto che per avere dignità umana è ne-
cessario che la storia, così come la conosciamo, sia presente? E non si imma-
gini, neanche, che la distinzione tra queste due attitudini di fronte alla storia
caratterizzi due gruppi o tipi di società. Anche se sempre in una relazione
di subordinazione, attitudini distinte sono simultaneamente presenti in ogni
società umana.
Joanna Overing ha, così, almeno il merito di aver intuito correttamente
l’approssimazione tra Clastres e Lévi-Strauss. Perché non sarebbe difficile
mostrare che oltre a fondarsi su dati etnografici precisi ai quali nessuno dava
molta attenzione, il modello di Clastres deriva giustamente da una profon-
da riflessione su questi testi “minori” di Lévi-Strauss. Come ha dimostrato
François Châtelet, qualsiasi sia il significato che si vuole prestare al termine
“storia”, questa è la parte essenziale di queste società che, da molto tempo,
hanno scelto il partito dello Stato. E lo stesso Lévi-Strauss lo ricordava quan-
do, nell’intervista a Charbonnier, utilizzava una bellissima metafora e richia-
mava l’attenzione sul fatto che le società con “storia fredda” funzionano come
“orologi”, ossia in equilibrio e senza grandi disuguaglianze – senza potere co-
ercitivo, direbbe Clastres. Quelle che conoscono la “storia calda”, al contrario,
sono come “macchine a vapore”, generando una enorme quantità di energia
ed accelerando il tempo al costo delle crescenti disuguaglianze tra gli uomini
82 Marcio Goldman
3
Si racconta che provocato dai fratelli Campos – che osservavano che la sua opera sembrava
trattenersi entro un limite situato al di qua delle trasformazioni più contemporanee della poesia
–, João Cabral de Melo Neto avrebbe detto che immaginava la sua opera come un trampolino:
l’estremità ben flessibile con il fine di rendere possibile i salti, ma con la base necessariamente
ben ferma.
3. Lévi-Strauss ed i significati della storia 83
è più importante avere idee che conoscere la verità; è per questo che le grandi ope-
re [...], anche quando rifiutate, continuano significative e classiche [...]. La verità
non è mai il più elevato valore della conoscenza. (Veyne, 1976: 42).
Bibliografia
4. La storia pittografica1
Oscar Calavia Sáez
1
Questo testo è la traduzione dall’originale in portoghese: “A história pictografica”, pubbli-
cato in: Caixeta De Queiroz R. e Nobre R. F. (Org.) (2008), Lévi-Strauss - Leituras brasileiras.
Belo Horizonte: Editora da ufmg, p. 125-146.
86 Oscar Calavia Sáez
Alcune riserve devono essere fatte al testo che segue. Esso deve molto al
lavoro che gli etnologi hanno dedicato negli ultimi decenni alla storia degli
antichi “popoli senza storia”. Sono tentativi di ripensare la storia a partire dai
suoi margini. Anche se le idee lévi-straussiane già da molti anni stanno fecon-
dando terreni più classici, specialmente i medievalisti e gli ellenisti2, anche se
esse sono più o meno presenti in tutte le produzioni di ciò che siamo abituati
a chiamare storia culturale, non mi sembra che siano arrivate al cuore della
disciplina. Non pretendo che gli storici ortodossi, quelli che si incontrano di
prassi nei dipartimenti e sugli scaffali della storia, condividano necessariamen-
te i giudizi che seguono e che, in molti casi, ancora possono avere un poten-
ziale di polemica. Questo articolo non entrerà nella polemica, ma cercherà di
definire meglio uno dei suoi protagonisti. Servirebbe a poco reiterare vecchi
argomenti appoggiati in vecchi equivoci.
Il secondo appunto si riferisce alla relazione di queste rivendicazioni con
l’opera dell’autore indicato. Egli stesso ebbe molte occasioni di discutere a
rispetto, ad esempio, del binomio società fredde/società calde e delle sue
interpretazioni. Autori come Goldman (1999, [in questo volume; cap. 3]) o
Johnson (2004) hanno commentato in dettaglio le opere di Lévi-Strauss che
trattano in maniera esplicita della storia3. Questo testo, fedele alla presentazio-
ne orale che gli ha dato origine, è una presentazione sulle metafore lévi-straus-
siane, che non aspira a precisioni filologiche e che si riferisce con frequenza ad
opere molto distanti dal tema in questione. Non sono sicuro che Lévi-Strauss
sottoscriverebbe queste interpretazioni, tra l’altro perché esse focalizzano le
discontinuità di un’opera la cui continuità il suo autore ha sempre cercato di
affermare. Ma questa è, alla fine, la servitù dei classici: la memoria che è loro
garantita non è per forza accompagnata da una perfetta fedeltà.
2
Pensiamo specialmente alle opere di Jean Pierre Vernant e di Jacques LeGoff e di tutto il
movimento rinnovatore della storia in cui essi si situano.
3
Questo articolo deve molto ad entrambi i testi. Al primo, in maniera generale; a quello di
Johnson nel capitolo dedicato alla storia come gioco della roulette. Un altro testo, di Mauro
W.B. Almeida (1999) è alla base del capitolo sull’entropia. È anche in sintonia con la rivendica-
zione di Lévi-Strauss con lo storico Gow (2001: 10-17). Per il resto, ricapitola e prosegue alcune
idee da me già esposte in scritti precedenti (Calavia Sáez, 2002, 2005).
4. La storia pittografica 87
4
L’idea è stata esposta per la prima volta da Lévi-Strauss nelle interviste radiofoniche con-
cesse a Georges Charbonnier nel 1959 (Charbonnier, 1989), assieme a quella degli orologi e
delle macchine a vapore.
5
È questa la difesa che lo stesso Lévi-Strauss espone in un’altra intervista posteriore (Eribon
e Lévi-Strauss, 1988: 160-161 [ed. it.: 176]).
88 Oscar Calavia Sáez
sposarsi con quelli del clan B ed i loro figli apparterranno al clan C; chiunque
sia che occupi una posizione, egli sarà chiamato X ed avrà gli attributi di X;
qualsiasi siano i nuovi oggetti o pratiche, essi saranno integrati in un mito delle
origini, come se lì si trovassero fin dalle origini. Al contrario, le società calde
focalizzano i conflitti, i cambiamenti, e di essi ne fanno i cardini della propria
esperienza: il risultato, né più né meno illusorio, è un mondo ricreato ad ogni
secolo, ad ogni generazione o ad ogni anno (le società calde hanno bisogno di
essere sempre più calde). Ad ogni pagina del suo giornale, il lettore scopre due
o tre eventi che alterano o andranno ad alterare il corso dell’umanità: gli an-
ticoncezionali, la telefonia mobile, i Beatles, i transgenici. È chiaro che caldo/
freddo non è una descrizione discreta, ma un gradiente nel quale possiamo de-
terminare molte posizioni: una società assolutamente fredda è un tipo ideale,
tanto quanto una società assolutamente calda. Ovunque si riconosce qualche
cambiamento o qualche permanenza. Ma, soprattutto, è necessario notare che
questa distinzione recupera precisamente il soggetto storico, o più esattamen-
te concede una rilevanza alla sua capacità cognitiva. A questo proposito, molti
discorsi storicisti centrati sul soggetto storico cadono in una contraddizione
fatale: il soggetto ha o non ha coscienza della storia, ma appare come se questa
storia sia data indipendentemente dalla sua coscienza. Si può perdere il treno
della storia, o si può salire sul vagone appropriato, ma non esiste alcuna pos-
sibilità di alterarne il tragitto, tanto meno la velocità del convoglio. La distin-
zione caldo/freddo introduce una distanza sostanziale tra l’agente storico e la
storia, o tra la storia e la storiografia. Una distanza che non serve a separare,
ma a mettere in relazione. Un soggetto storico si mostra come tale ancor più
quando scende dal treno della storia per, ad esempio, proseguire a piedi.
Al contempo, questa difesa della storicità lévi-straussiana sarebbe anche
troppo facile se non ricordassimo che assieme a questa allegoria delle società
fredde e calde Lévi-Strauss ne propose un’altra che apparentemente contrad-
dice la precedente interpretazione. In questo caso, si tratta di orologi versus
macchine a vapore: ci sarebbero da un lato le società “orologio”, in cui tutto
è preparato per una riproduzione stabile degli stessi cicli e delle stesse forme,
con una minima tassa di esternalità, ossia, con un consumo minimo di risorse
ambientali ed una risoluzione interna dei conflitti. Sono società che tendono
all’autosufficienza e, per usare un termine di moda, sostenibili. Dall’altro,
avremmo società che Lévi-Strauss compara alle macchine a vapore, che ope-
rano massimizzando le loro differenze interne, promuovendo conflitti che
solo incontrano una soluzione (provvisoria) ricorrendo all’esterno, cercando
nuovi soggetti, spazi o risorse. L’immagine della macchina a vapore – tanto
emblematica di una rivoluzione industriale già antiquata nel momento in cui
4. La storia pittografica 89
Storia ed entropia
6
Ricordiamo che, come è stato detto, la storia è utilizzata frequentemente come mito: in
questo senso, è già stato detto, ad esempio, che ogni rivoluzione ha il suo Robespierre, il suo
Danton ed il suo Fouquier-Tinville, trasformati così in paradigmi. Don Quixote o Madame
Bovary possono essere visti come paradigmi. Ma la funzione dello storico e del romanziere è
precisamente quella di fuggire dal paradigmatico in direzione dell’individuale.
4. La storia pittografica 91
per l’argomento del presente testo. Suggerisce che la storia è una modalità di
sapere che tende al caos, è un flusso del quale niente può essere detto se non
che operiamo in esso tagli sincronici: narrare la storia è giustapporre imma-
gini fisse, la cui comparazione suggerisce il movimento. Al di sotto di questa
illusione narrativa ci sarebbe un movimento indicibile, che incarnerebbe l’ir-
riducibilmente storico: la degradazione delle forme, la loro serializzazione. In
nessun momento Lévi-Strauss è tanto esplicito in questo senso come quando
tratta, nel terzo volume delle Mitologiche, della “morte dei miti” e della loro
trasformazione in romanzo (forse, potremmo dire, anche della loro trasfor-
mazione in storia). I miti cominciano a morire quando i loro episodi si reite-
rano, trasformandosi in una serie di avventure. Al posto dei grandi contrasti
simbolici che organizzano i miti sorgono le sfumature, ed al posto degli eventi
paradigmatici le eventualità dei protagonisti. Il mito – da ciò l’interesse degli
antropologi per esso – codifica il romanzo, come la storia, dissolve i codici7.
Lo storico stricto sensu è uno sfondo che si intuisce ma che non può essere
veramente pensato e detto, a differenza delle forme veramente pensabili, le
strutture, isole in un oceano di incertezza. L’elementare ed il meccanico hanno
un valore intellettuale perché è a questo livello che l’esperienza e la cognizione
umana si possono incontrare.
Ciò che c’è di veramente anti-storico nel pensiero di Lévi-Strauss è, in-
somma, la sua morale. Le società fredde appaiono non come società ingenue,
ma come società eroiche impegnate in trattenere o diminuire il ritmo di una
dissoluzione irreversibile. La storia è contemplata più come degradazione che
come costruzione, il che definitivamente non è ciò che piace alla maggior parte
degli storici. Ma fare di questo disgusto una ignoranza equivarrebbe a pro-
porre che la storia deve essere patrimonio di coloro a cui piace. Come ha già
detto da qualche parte Emil Cioran, i pensatori reazionari non sono quelli che
apprezzano i vecchi tempi, ma coloro che pensano sia possibile tornare ad essi.
E Lévi-Strauss, malgrado la sua ossessione con l’entropia, è contrario a questa
linea del tempo sulla quale reazionari e rivoluzionari misurano le loro forze.
7
Questo item segue, in linee generali, le idee esposte in Almeida (1999).
8
Questo capitolo è, essenzialmente, una parafrasi di Johnson (2004).
92 Oscar Calavia Sáez
quello che avverrà un anno o un secolo dopo, senza dubbio elogeremo la sua
chiaroveggenza, ma non senza sospettare, in fondo, che egli semplicemente ha
fatto una scommessa fortunata. La storia non ha mai osato includere la futuro-
logia come sottodisciplina regolare. Lévi-Strauss tira le somme di questa limi-
tazione ben conosciuta della storiografia e le applica coerentemente alla storia.
Egli lo fa con una allegoria opposta a quella della freccia del tempo, quella del
gioco della roulette. La storia, in questa versione, non è più il percorso di una
freccia, ma una successione di giocate di roulette, necessariamente disconti-
nue. Non esiste giocatore che non tenti di addomesticare il caso, cercando una
logica nella sequenza dei lanci, e non definisca in funzione di essa la propria
strategia, ma sappiamo che, se il croupier è onesto, questa logica non esiste. La
storia come roulette suggerisce che la successione dei momenti storici si deve
ad una scelta aleatoria tra le scommesse, ossia, tra i differenti futuri che ogni
momento storico propone.
Ma questa scommessa per il caso, poco congruente con l’ethos o con il pa-
thos scientifico, può apparire temeraria. Sarebbero potute prevalere, ad esem-
pio, le civilizzazioni amerindie di fronte agli invasori europei? La storia degli
ultimi secoli sembra essere, al contrario, un gioco truccato: una civilizzazione
si impone sulle altre inglobandole, senza lasciare molto spazio alla fortuna.
Per salvare la sua allegoria, Lévi-Strauss ricorre a ciò che chiama coalizioni.
Pensiamo ad un pool di giocatori che combinasse le proprie giocate al banco
della roulette: il gioco non smetterebbe di essere aleatorio, ma se il pool fos-
se sufficientemente grande avrebbe grandi possibilità di vincere lancio dopo
lancio. L’Occidente sarebbe una coalizione di questo genere, forse la più co-
nosciuta. Esso ingloba le conoscenze, le tecniche, la storia di una infinità di
popoli e la sua identità è costruita retrospettivamente, richiamando l’eredità
di civilizzazioni genealogicamente distanti dal mondo europeo. La differenza
fondamentale tra le società si troverebbe non nella loro potenzialità intrin-
seca, ma nell’opportunità che hanno avuto di stabilire tali coalizioni: la lotta
non è tra l’arcaico ed il moderno, ma tra la comunicazione e l’isolamento. Il
continente americano è, per Lévi-Strauss, un esempio di tale antagonismo.
Gli ampi scambi realizzati tra le centinaia di popoli amerindiani costituirono
civilizzazioni poderose, ma relativamente ristrette. Non furono al pari di con-
quistatori che portavano con loro l’esperienza di una interazione secolare tra
tre continenti. Non furono alcune centinaia di avventurieri che distrussero gli
imperi mesoamericani o andini. Essi vennero appoggiati da Europa, Asia e
Africa, portavano con loro una arte politica, una tecnica militare ed una espe-
rienza storica dell’alterità che oltrepassava in diversità le creazioni originali del
mondo americano; un potere che includeva ma che andava ben oltre i cavalli
e le armi da fuoco.
94 Oscar Calavia Sáez
Discontinuità in Lévi-Strauss
esempi, verso una definizione sempre più depurata, essa sembra che vada
dissolvendosi nella sua variabilità. In ogni luogo, essa si lega a dati ecologici,
sociologici, cosmologici e storici diversi, trasformandosi in un caleidoscopio
virtuale di case possibili e tutte queste varianti non sono anomalie di un qual-
che modello fisso, ma costitutive della nozione che viene proposta. La casa è,
più che un concetto, una vaga nozione. O, per onorare il nostro titolo, la casa
è un pittogramma.
numerosi assi. Gli storici lottano per ridurre questa confusione, trasforman-
dola in idiografia. Ma sarebbe possibile postulare una storia pittografica che
mettesse in relazione i fatti prima di astrarli, se per caso fosse possibile pensare
con questo tipo di segno. È precisamente questa la proposta iniziale delle Mi-
tologiche, già anticipata ne Il pensiero selvaggio: il pensiero è capace di operare
con categorie sensibili, ossia, esso può stabilire relazioni significative tra termi-
ni del sensibile (ad esempio crudo e cotto), o relazioni significative di secondo
livello, ad esempio, tra coppie di oggetti prossimi e coppie di oggetti distanti,
o tra cicli corti e lunghi, ecc. L’essenziale è che in questa complessificazio-
ne – capace di dire molto sulla società ed il mondo – il pensiero non debba
per forza ricorrere ad una formulazione astratta e possa sempre esprimersi
attraverso una immagine – un pittogramma. Così, all’interno di un mito, una
canoa – il cui equilibrio dipende dalla distribuzione da un estremo all’altro dei
suoi occupanti, ad ogni modo confinati nel loro spazio ristretto – è capace di
esprimere la nozione della buona distanza necessaria tra gli agenti sociali senza
la necessità di coniare una formula verbale come “buona distanza sociale”. Ma
ognuno di questi occupanti avrà attributi concreti, che possono sdoppiarsi in
altri assi di significazione: la canoa del sole e della luna non sarà la stessa del
giaguaro e del formichiere. In un caso, la buona distanza si stabilirà tra ritmi,
nell’altro, tra modi di trattare l’esterno. In verità, e dentro le condizioni impo-
ste dal pensiero selvaggio, i pittogrammi possono moltiplicare la loro signifi-
cazione quasi indefinitamente.
Ma, allora, come è possibile comporre una storia con questo tipo di ma-
teriale? La tesi di questo testo, se per caso non fosse ancora sufficientemente
chiara, è che Mitologiche, l’opera culminante di Lévi-Strauss, è una storia pit-
tografica dei popoli amerindi – forse l’unica storia possibile, per la mancan-
za di scritture, ma per ciò stesso una storia modellatrice, capace di suggerire
alternative alle storiografie che hanno contato fin dall’inizio sulle armi e sulle
correnti della scrittura.
Mitologiche come storia può sembrare una idea esorbitante. Non assomi-
gliano a nessuna opera storiografica e nemmeno il suo autore le presenta come
tali. In vari sensi, possono apparire come tutto il contrario di un’opera stori-
ca: alla fin fine, storia e mito non sono concetti costruiti uno contro l’altro?
Possiamo proporre che le Mitologiche sono storia allo stesso modo che un
anemone è un animale, e l’ornitorinco è un mammifero: non facendo appello
alle fattezze tipiche, ma alle definizioni radicali.
4. La storia pittografica 99
Per cominciare, le Mitologiche affrontano una sfida costante per gli storici,
ma quasi sempre da questi elusa, diluendo la frontiera tra storia e storiografia.
L’opera è un insieme articolato di narrazioni indigene, narrazioni che, nono-
stante questo termine – “mito” – con cui le definiamo, descrivono ciò che,
secondo i nativi, una volta è successo: la loro storia9. La storia è racconta-
ta non attraverso/nonostante questi filtri, ma con essi, non riducendo i loro
dati ad una temporalità unica, ma mettendo in contrasto più temporalità. Se
tentassimo di fare lo stesso con la storia dell’Occidente, il risultato sarebbe
una narrazione in cui i fatti non sarebbero cose come l’Impero Romano, il
feudalesimo, le guerre di religione o le rivoluzioni, ma la descrizione che di
tutto ciò hanno fatto Gibbon, Voltaire, Marx o Toynbee. Sappiamo che que-
ste descrizioni sono fatti storici, tanto quanto le battaglie o i regni. Allo stesso
tempo, la maggior parte degli storici pretende di storificare fatti svincolandosi
dalle narrazioni in cui essi sono stati custoditi; le Mitologiche sono una storia
di storie, il cui oggetto sono già narrazioni. Si potrebbe obiettare che, ad ogni
modo, Lévi-Strauss è l’autore dell’insieme, il proprietario della narrazione. Ma
la sua attività autoriale si esercita, essenzialmente, nella selezione e nell’artico-
lazione dei miti, non nella loro riduzione idiografica, che, certamente, appare,
ma negli interstizi – ragione principale della difficoltà di riassumere le Mitolo-
giche: gli anelli di congiunzione sono dati nei miti e le interpretazioni non sono
capaci di per sé stesse di dare unità all’insieme.
Questa storia non segregata dalla sua storiografia è capace di descrivere
irriducibilità storiche e di articolarle le une con le altre. Ogni insieme di miti
condensa il modo in cui un popolo o una regione concepiscono determinati
temi: si può trattare del comportamento corretto a tavola, o delle attitudini di
fronte all’incesto, o della successione delle stagioni; in ogni caso, se questi temi
sono stati selezionati per comporre i miti, è perché è in essi che si identificano
gli assi, i conflitti, i punti critici di ogni società in un determinato luogo e tem-
po. Il risultato è una descrizione organizzata non secondo criteri esterni, ma
designati dai suoi propri protagonisti; una descrizione, insomma, più storica,
già che evita il temuto anacronismo – potremmo dire anche anatopismo – di
intendere i fatti a partire da un contesto che non è quello che corrisponde
loro localmente. Non manca chi opini che una storia altra, come quella che
le Mitologiche esemplificano, non merita il nome di storia. Non tanto per la
mancanza – che tratteremo in seguito – di una colonna vertebrale cronologica,
ma perché la descrizione segue registri che non sono quelli che, da questo lato
9
È questo il principale taglio scelto da Peter Gow per sviluppare il proprio approccio al
mito come storia, ed a Lévi-Strauss come storico.
100 Oscar Calavia Sáez
uno stesso mito. Si potrebbe dire, anche, coalizioni di miti, che estendono da
un estremo all’altro delle Americhe una qualche costante. Pensiamo al mito
dei gemelli, nel quale Lévi-Strauss identificava, nel finale di Storia di Lince,
l’essenza di una certa ideologia americana dell’alterità. Anche così, l’insieme
della mitologia amerindia si mantiene fedele al principio della roulette, con-
servando il pieno valore delle virtualità. È per questo che, al posto di costruire
lungo il suo percorso da un estremo all’altro delle Americhe una specie di
teologia uniforme10, le Mitologiche presentano un catalogo ricchissimo di rap-
presentazioni della diversità umana.
Le Mitologiche non sono la speculazione nomotetica che c’era da aspettarsi
a partire dai progetti che Lévi-Strauss abbozzò nei suoi primi scritti sull’analisi
di miti: tutto ciò che avrebbe potuto sostenere questo progetto – la formula
canonica, i grafici, le equazioni – appare con forza all’inizio dell’opera e poi
si dirada e ridefinsce come semplici illustrazioni. Al posto di arrivare ad un
insieme di regole, o ad alcuni quadri sinottici, o ad una conclusione sul valo-
re ed il significato del mito, le Mitologiche rimangono irriducibili nella loro
monumentale estensione, come è proprio della storia. Il loro valore è nella
concretezza della narrazione e nel suo alto grado di relazione con il contesto.
Ma quella scommessa epistemologica sugli estremi, della quale abbiamo
parlato in precedenza, suppone che per Lévi-Strauss sia possibile alleare l’ir-
riducibilità con la razionalizzazione, senza ricorrere a quella mezza misura
dell’idiografia. La storia delle Mitologiche è un’arte ed un ordine combinato-
rio, in cui operazioni finite danno luogo a variazioni virtualmente infinite, sto-
riche. Questo ordine è possibile perché la pittografia è, alla fine, una scrittura,
non una pittura. La critica che è stata mossa a Lévi-Strauss che i miti che egli
ha utilizzato, in forma di riassunti, scartano tutta la ricchezza esperienziale del
mito – l’intonazione, la performance, le matrici idiomatiche – trova giustifica-
zione in questa scelta del livello pittografico, un livello che potremmo definire
come dell’intelligibilità equivoca. Il livello in cui l’equivoco – già che non è
una comprensione esatta – è accessibile all’ascoltatore distante, perché non
è limitato né dalla depurazione dei segni né dalla densità ridondante di una
performance diretta. Le Mitologiche trattano di un processo narrativo realiz-
zato a media distanza, in cui i ricettori/emissori sono capaci di comprendere
la narrazione, ma sono liberi di intenderla a modo proprio, organizzando un
insieme di narrazioni differenti ma articolate, che corrispondono a realtà di-
verse ma articolate. Cos’è la storia, se non questo? Un quadro della differenza
umana nello spazio e nel tempo, non sprovvisto di cronologia, ma sprovvisto
10
Cfr. il tentativo di Sullivan (1988).
102 Oscar Calavia Sáez
Bibliografia
1
Questa è una versione di un testo scritto in francese, il cui titolo è “Regagner le Terrain
Perdu: Ce que Lévi-Strauss doit aux indiens” e pubblicato in portoghese nella (2004) Revista
de Antropologia, 47(1). Il titolo originale possiede un doppio senso, difficile da preservare in
italiano, dato che se l’espressione militare è “riconquistare il terreno perduto”, definiamo la
ricerca etnografica come “campo” (e non “terreno” alla maniera dei francesi).
2
Nimuendaju lavorava da oltre un decennio con popoli di lingua Jê del Brasile centrale, sui
quali pubblicherà tre importanti monografie (1939, 1942, 1946), pubblicate grazie alla collabo-
razione con Robert Lowie.
104 Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
È notevole che l’uomo, di cui Lei scrive, che solo recentemente è passato all’et-
nologia, si sia informato in così poco tempo in una maniera tale, da comprendere
con tanta precisione le condizioni sociologiche dei Bororo, che di fatto non sono
semplici. Se penso che io ho lottato per sei anni con la sociologia dei Canela, merita
attenzione la forma concisa di presentazione (Idem.).
Cette expédition est le prix que Claude Lévi-Strauss a payé pour être reconnu
comme un véritable ethnologue. Mais [...] il n’avait pas le “physique du rôle”. Il
avait des difficultés à communiquer, et ça l’ennuyait d’être aussi loin de la civilisa-
tion, de son confort. (Libération, 1/9/1988)
3
Il primo incontro di Lévi-Strauss con gli indios brasiliani avvenne nel nord del Paraná,
nel 1935, durante una breve visita ai Kaingang (Jê meridionali). Da novembre 1935 a marzo
1936, egli visitò i Kadiwéu, alla frontiera con il Paraguay, ed i Bororo, nel Mato Grosso, in una
spedizione di maggior respiro, i cui risultati etnografici (notoriamente, l’articolo sui Bororo e
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi 105
seppe riconoscere questo aspetto, forse perché aveva lottato tutta la vita con
i dettagli e gli era mancato un grandangolo, una mancanza un po’ ironica per
chi cominciò la vita come meccanico ottico nella fabbrica Zeiss di Jena (Wel-
per, 2002: 32).
In questo articolo, vogliamo regagner le terrain perdu de Lévi-Strauss. Non
si tratta di sapere ciò che egli fece o non fece, né di giudicare i risultati empirici
delle sue ricerche. Ciò che a noi interessa è tracciare il campo di idee e proble-
mi che questa esperienza legò a Lévi-Strauss e, attraverso di lui, ai ricercatori
che vennero dopo. Recuperare “cosa Lévi-Strauss deve agli indios” non con-
siste, quindi, nel dare ad ognuno la sua parte, ma nel sottolineare gli aspetti
dell’opera americanista lévi-straussiana che, per la loro continua capacità di
animare il dibattito contemporaneo, testimoniano le lezioni che l’antropologo
seppe apprendere dal suo incontro con gli indios sud americani.
Assumeremo come filo conduttore il tema del dualismo. Invertendo l’ordi-
ne cronologico dei suoi viaggi, cominceremo dai Nambikwara, che sono, in più
di un senso, all’inizio: sia per essere passati nell’immaginario dell’antropologia
politica come rappresentanti del grado zero dell’autorità (e per Lévi-Strauss
di tutta la socialità), sia per rappresentare nell’opera sociologica dell’autore la
forma più semplice e pura del principio di reciprocità. In seguito passeremo
ai Bororo, ed alla sfida posta dalla complicazione della formula dualista, per
poi da lì accompagnare gli sdoppiamenti della questione nell’opera di Lévi-
Strauss, focalizzando la dialettica tra simmetria e gerarchia, tra diametralismo
e concentrismo, fino ad arrivare a Storia di Lince ed alla formulazione più
americanista del problema del dualismo.
Arcaismi
l’esposizione per il Musée de l’Homme) gli permisero di essere riconosciuto come etnologo.
Con ciò poté ottenere risorse per la missione realizzata tra maggio e novembre del 1938, che lo
portò tra i Nambikwara ed i Tupi-Kawahib del Rio Machado (Peixoto, 1998).
106 Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
stato poi ripubblicato nei volumi di Antropologia Strutturale, così come non lo
furono gli articoli più generali dello stesso periodo, come il famoso testo sulla
guerra ed il commercio (1976 [1942]) e un altro, meno conosciuto, sulla pa-
rentela sud americana (1943) – tutti anteriori all’avvicinamento dell’antropo-
logia alla linguistica strutturale annunciata da Lévi-Strauss nel 1945. Il campo
tra i Nambikwara riappare, però, negli articoli a proposito dell’arcaismo (1974
[1952a]) e dello sciamanismo (1974 [1949]), così come in Le strutture elemen-
tari della parentela (da qui in avanti SEP), in cui svolge un ruolo centrale nella
concettualizzazione del matrimonio tra cugini.
La letteratura antropologica ha conservato, dai lavori sui Nambikwara, due
immagini principali: da un lato, quella del bimodalismo economico e del semi-
nomadismo; dall’altro, quella dell’organizzazione politica semplice, nella qua-
le il capo non sarebbe altro che un servo del gruppo. I Nambikwara entrano
nell’immaginario della disciplina come un popolo estremamente mobile, che
pratica una orticoltura molto semplice, ora vivendo in villaggi semipermanen-
ti, ora organizzandosi in bande nomadi riunite attorno a leaders sprovvisti
di potere e di beni, il cui unico privilegio sarebbe la poligamia. Ricercatori
successivi hanno messo in dubbio le descrizioni di Lévi-Strauss dell’economia
nambikwara, suggerendo che essi, primo, non sono stagionalmente nomadi,
dato che la maggior mobilità ha luogo in periodi microstagionali ed accom-
pagna il ritmo dei lavori agricoli e, secondo, che essi vivono in villaggi perma-
nenti e possiedono una orticoltura relativamente diversificata4. Price (1981)
ha suggerito inoltre una maggiore variabilità nella leadership nambikwara ed
una maggiore autorità dei loro leaders, variegando il modello di Lévi-Strauss,
che Clastres estenderebbe alla quasi totalità delle terre basse sud americane
(estensione attualmente oggetto di molte critiche).
Per Lévi-Strauss, comunque, la mobilità e l’acefalia nambikwara riflette-
vano una situazione storico-etnografica specifica, anche se eletta a esempio
del limite minimo dell’organizzazione sociale e dell’autorità politica. Questa
elementarità dei nambikwara, centrale per la riflessione di Lévi-Strauss e per
l’emulazione di Rousseau, non risultava dalla proiezione di un immaginario
primitivista sulla realtà etnografica. Alla fin fine, il campo tra i Nambikwara
ed i Bororo condusse Lévi-Strauss ad una delle critiche più importanti del pri-
mitivismo a-storico che marcava lo schema evolutivo dell’Handbook of South
American Indians – critica che egli formulò in un articolo del 1944 (1994b)
(nel quale rispondeva a Lowie [1941] a proposito del carattere originario o
4
Si vedano le critiche di Aspelin (1976, 1979) e Price (1978), così come le risposte di Lévi-
Strauss (1976, 1978).
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi 107
l’exorbitant privilège d’avoir duré e de n’avoir point d’histoire (...) L’archaïsme ve-
ritable est l’affaire de l’archéologue et du préhistorien, mais que l’ethnologue, voué
à l’étude de sociétés vivantes et actuelles, ne doit pas oublier que, pour être telles, il
faut qu’elles aient vécu, duré, et donc changé (1974[1952a]: 115 e 126).
Tutte le società sono nella storia, anche se non tutte fanno la stessa cosa del-
la storia – un punto che i critici delle nozioni di caldo e freddo hanno voluto
dimenticare.
Così, se Lévi-Strauss si sbaglia per ciò che riguarda l’importanza relativa
dell’orticoltura tra i Nambikwara, egli non li costruisce come un esemplare
tipico di una società di cacciatori-raccoglitori, ma come il prodotto di una
storia regressiva6. Nonostante la storicizzazione del problema, Lévi-Strauss
costruisce l’argomento regressivo supponendo l’associazione inequivoca tra
mobilità e privazione, riproducendo una rappresentazione della mobilità in-
digena, radicata fin dal XVI secolo, secondo la quale caccia e raccolta sono
segni necessari di insicurezza e scarsità, mentre l’agricoltura, di stabilità ed
abbondanza. Negli ultimi decenni, alcuni autori hanno relativizzato questa
rappresentazione a riguardo delle popolazioni della foresta, attraverso studi
quantitativi (Hill & Hawkes, 1983; Hawkes et al., 1982) e di carattere storico-
etnologico (Fausto, 2001; Rival, 1998, 2002).
5
Si veda anche il testo di chiusura della conferenza Man, the Hunter (1968), “On the con-
cept of primitivieness”, nel quale Lévi-Strauss torna sull’argomento, questa volta con un nuovo
adepto (Lathrap, 1968).
6
La discussione sul carattere regressivo o no dei popoli cacciatori-raccoglitori in Amazzonia
– se erano o no popolazioni orticultrici che desedentarizzarono (in generale a causa di intru-
sioni, violenze ed epidemie post-conquista) – fu ripresa da ricerche successive (Lathrap, 1968;
Martin, 1969; Clastres, 1972; Balée, 1994). Sulla possibilità che esistessero cacciatori-raccogli-
tori “à part entière” nella foresta tropicale, si veda Lévi-Strauss (1974 [1952]: 123), Bailey et al.
(1989), Bailey & Headland (1991), Headland (1987). Per una analisi critica della discussione, si
veda Good (1995) e Fausto (2001).
108 Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
Déjà en 1935, chez les Bororo, j’étais frappé par des traditions indigènes sur les
grands villages du temps passé, si densément peuplés que les maisons formaient
plusieurs cercles concentriques. Quelques années plus tard, il m’apparaissait que
7
Si veda ad esempio, Posey (1986) a proposito dello sfruttamento delle aree di transizione
tra cerrado e foresta tra i Kayapó, e Flowers (1994) sugli Xavante.
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi 109
les Nambikwara n’offraient pas l’image d‘une structure sociale élémentaire, vestige
de temps archaïques, mais que les vicissitudes de l’histoire les y avaient contraints.
Je défendis vainement cette thèse contre Lowie et le P. Cooper à l’époque de l’éla-
boration du Handbook of South American Indians (Lévi-Strauss, 1993: 8).
Protodualismo
J’avais cherché une société réduite à sa plus simple expression. Celle des Nambik-
wara l’était au point que j’y trouvais seulement des hommes (1955: 284).
E più avanti:
j’étais allé jusqu’au bout du monde à la recherche de ce que Rousseau appelle ‘les
progrès presque insensibles des commencements’ (idem).
Questo è un momento cruciale delle SEP: egli getta un ponte tra la deduzione
della proibizione dell’incesto, come regola universale all’origine della cultura,
e l’interpretazione dei sistemi concreti nei termini di strutture elementari di
scambio matrimoniale; ossia, il ponte tra la teoria strutturalista della parentela
e la teoria ristretta dell’alleanza del matrimonio (Dumont, 1971: 91). L’impor-
tanza eccezionale del matrimonio tra cugini, dice Lévi-Strauss, risiede nell’ar-
bitrarietà, dal punto di vista biologico, della divisione dei cugini in coniugi
prescritti e proibiti (1967 [1949]: 142), che viene così a richiedere una spiega-
zione di altro ordine: vero experimentum crucis dello studio delle proibizioni
matrimoniali (idem: 143), l’istituzione manifesterebbe con speciale chiarezza
l’onnipresenza della reciprocità, anche in assenza di formule esplicite di alle-
anza tra i gruppi. Dimostrando che “la notion de reciprocité permet donc de
déduire immédiatement la dichotomie des cousins” (idem: 152), Lévi-Strauss
offre una spiegazione strutturale per un fenomeno estremamente diffuso – le
terminologie classificatorie simmetriche – la cui interpretazione era stata fino
ad allora dominata da speculazioni evoluzioniste o storiciste, oltre ad estendere
la portata della sua dimostrazione, nella misura in cui la distribuzione di questi
sistemi di classificazione è più ampia di quella della norma matrimoniale.
L’importanza teorica del matrimonio tra cugini, che fa di esso uno dei temi
dominanti nella prima parte delle SEP, non è però sufficiente per garantire la
presenza di sistemi come quello dei Nambikwara nell’analisi dello scambio
ristretto, che si concentra sulle sezioni australiane. Questo perché, nonostante
siano equivalenti dal punto di vista del loro valore funzionale (stabilire un
sistema di reciprocità), il matrimonio tra cugini e l’organizzazione dualista dif-
feriscono considerevolmente quanto alla loro struttura, esemplificando una
distinzione importante nella teoria dell’alleanza tra il metodo delle relazioni
ed il metodo delle classi, tra la delimitazione automatica dei coniugi possibili
attraverso la costituzione di una classe e la “determinazione di una relazione o
di un insieme di relazioni che permettono di dire per ogni singolo caso se il co-
niuge considerato è desiderabile o escluso” (1967 [1949]: 139 [ed. it.: 183]).
La collocazione marginale dei Nambikwara nelle SEP si spiega, così, per il
carattere non coattivo del loro dualismo relazionale. Al di qua delle strutture
elementari (Viveiros de Castro, 1993: 154), potrebbero solamente occupare il
luogo di fondamento teorico, senza mai esemplificare il funzionamento socio-
logico reale di queste strutture. Da ciò decorre la difficoltà, sentita da molti
etnologi nei decenni ‘50 e ‘60, di analizzare i sistemi amazzonici simili a quello
dei Nambikwara. Se gli strumenti analitici della teoria della discendenza erano
inadatti alla regione, neanche la teoria di Lévi-Strauss sembrava molto utile.
Curiosamente, l’acclimazione della teoria dell’alleanza all’Amazzonia finì me-
diata da un passaggio per l’India del sud, attraverso i lavori di Louis Dumont
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi 111
sui popoli dravidiani (1953, 1957, 1983). Le analisi di Dumont, così come
la sua critica del passaggio dal locale al globale nelle sep (Dumont, 1971),
liberarono la teoria dell’alleanza dal linguaggio delle “classi”, aprendo il cam-
mino per una estensione del concetto di struttura elementare (o, almeno, di
“alleanza di matrimonio” o di “scambio simmetrico”) ben oltre l’universo dei
sistemi unilineari, in maniera da includere anche sistemi fondati esclusivamen-
te sul metodo delle relazioni (Overing Kaplan, 1975; Rivière, 1969, 1973; Be-
cker, 1969; Viveiros de Castro, 1993). Le conseguenze di questo movimento,
fondamentale per l’analisi dei sistemi di parentela amazzonici, sono andate,
comunque, molto oltre la stessa parentela, dato che hanno permesso che si
recuperasse una intuizione inaugurale di Lévi-Strauss, alla cui origine, ancora
una volta, c’è il celebre incontro tra due bande nambikwara e la loro ricerca di
termini per esprimere una relazione prima inesistente.
Le pagine finali dell’articolo “The Social Use of Kinship Terms among Bra-
zilian Indians” (1943) riassumono la questione. All’avvicinare i Nambikwa-
ra ai Tupi cinquecenteschi, Lévi-Strauss focalizza lo scambio matrimoniale,
in particolare il matrimonio tra cugini incrociati, ma va oltre, discutendo i
termini che, utilizzati da individui senza una previa relazione di parentela,
permettono di stabilire una relazione. Questi termini, che la letteratura po-
steriore mostrerà sempre più numerosi, esprimerebbero secondo l’autore una
“special «brother-in-law» relationship” che funzionerebbe come un dispositivo
di apertura dell’universo della parentela, servendo a stabilire relazioni sociali
più ampie:
When the technical problem of establishing new social relationship is put up to the
Indians [Nambikwara], it is not the vague «brotherhood» which is called upon,
but the more complex mechanism of the «brother-in-law» relationship (1943: 407,
n. 22).
Alla fine del testo, dopo aver analizzato le somiglianze e le differenze tra la
relazione tra cognati amerindia e il comparatico euroamericano, Lévi-Strauss
conclude che “the outstanding character of the ‘brother-in-law’ relationship [is]
a specific feature of South American sociology”. Rifiutando la separazione tra so-
cietà e cultura, cosmologia e sociologia, la letteratura etnologica, a partire dalla
fine degli anni ‘60, avrebbe esplorato tutte le conseguenze di questa intuizione
di Lévi-Strauss, in un movimento nel quale la categoria dell’affinità guadagne-
rà progressivamente in comprensione ed estensione. Presa inizialmente come
meccanismo interno di costituzione di gruppi locali (Rivière, 1969; Overing
Kaplan, 1975), l’affinità apparirà, in seguito, come un dispositivo relazionale
che rende possibili ed organizza le relazioni extralocali, articolando persone e
112 Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
collettivi oltre la parentela (si veda in particolare, Albert, 1985; Descola, 1981),
e, finalmente, come idioma e schema della relazione tra lo Stesso e l’Altro, tra
identità e differenza (Descola, 1992; Viveiros de Castro, 1993, 2001).
L’elaborazione dell’affinità come “fenomeno politico-rituale, esterno e su-
periore al piano inglobato della parentela” (Viveiros de Castro, 1993: 181),
venne incontro ad una serie di studi sui fenomeni della guerra e del canniba-
lismo, in cui la posizione dell’Altro – determinata dall’alterità e dall’inimicizia
– è, negli specifici contesti etnografici, ricoperta da differenti figure: cognati e
nemici reali o immaginari, umani o non-umani relazionati come affini. Questo
Altro sorge, così, come la determinazione del Sé, determinazione positiva e
necessaria alla costituzione ed al funzionamento dei sistemi sociocosmologici
indigeni. È stato proprio il rifiuto dell’opposizione sociale e culturale che ha
permesso questa estensione delle figure dell’affinità oltre il locale e lo stretta-
mente umano, movimento che è risultato nel dibattito a proposito delle nozio-
ni di animismo e prospettivismo (Descola, 1986, 1992; Arhem, 1993; Viveiros
de Castro, 1996a; Lima, 1996). Affermando che per gli amerindi le relazio-
ni sociali vanno oltre l’universo degli umani, l’etnologia amazzonica ha fatto
dell’accusa di idealismo – invettiva lanciata da africanisti di tradizione marxi-
sta ad americanisti di ispirazione strutturalista – una virtù. Da questo doppio
movimento – l’adozione di una prospettiva antiidentitaria e relazionale ed il
rifiuto della distinzione forte tra ideale e materiale – è risultata un’etnologia
che, con un piede nelle SEP e l’altro nelle Mitologiche, cerca oggi di ripensare
l’opposizione centrale che struttura entrambi i lavori: quella tra natura e cul-
tura. In questo senso, anche la “anthropologie de la nature” (Descola, 2001), e
non solo l’antropologia della parentela americanista, deriva dalla relazione tra
cognati nambikwara.
sets out the arrangement of the [...] corporate groups in the village circle; stipula-
tes, to a degree, their internal differentiation; and relates the whole to the natural
and spiritual universe (1979: 252).
8
Coordinato da Maybury-Lewis, questo progetto, che riunì, negli anni ‘60, ricercatori bra-
siliani e statunitensi, grazie ad un accordo tra Harvard ed il Museu Nacional do Rio de Janeiro,
riprese questioni poste dall’analisi lévi-straussiana del materiale jê di Nimuendaju. I risultati te-
orici ed etnografici del progetto, consolidati nella raccolta Dialectical Societies (Maybury-Lewis,
1979), verrano ad influenzare in maniera decisiva non solo lo studio dei popoli centro-brasiliani
come anche tutta l’etnologia sud-americanista.
114 Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
9
Negli anni ‘30, l’etnografia bororo si riassumeva a Von den Steinen (1984), Radin e Fric
(1906), Cook (1907), Colbacchini (1925) e Baldus (1936), studi ancorati, con eccezione del
penultimo, in esperienze tanto o più brevi che quella di Lévi-Strauss.
10
Nel 1936, Lévi-Strauss parla di quattro clan in una metà, sei in un’altra, prendendo ap-
parentemente suddivisioni per clan indipendenti (1936: 270-271). Già in Tristes trópicos, Lévi-
Strauss parlerà della divisione ottagonale riportata dai salesiani come “probabile in passato”,
ma diluita con il tempo dai processi di estinzione e suddivisione clanica: “in realtà la situazione
è dunque piuttosto confusa” (1955: 252 [ed. it.: 209]).
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi 115
11
I clan Bado Jeba (“costruttori del villaggio”), che detengono i titoli di comando, apparten-
gono alla metà nord, Exerae. Questa gerarchia sarebbe ambivalente, dato che i termini Exerae e
Tugarege, secondo Lévi-Strauss, potrebbero essere associati, rispettivamente, ai significati “de-
bole” e “forte”, una interpretazione che è contestata però dai salesiani.
116 Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
1960: 23; Zerries, 1976: 102), l’etnografia successiva suggerisce cautela (Viert-
ler, 1976; Fabian, 1992). Lévi-Strauss continua, da parte sua, a sostenere la
verosimiglianza delle sue osservazioni iniziali, enfatizzando il rischio esistente
nel sacrificare, in nome della coerenza del modello, la diversità delle varianti
locali e delle interpretazioni native (1964, 1973)12. Egli stesso, però, finirà per
appoggiarsi all’interpretazione dei salesiani per formulare una delle sue più
conosciute ipotesi a proposito dei Bororo: quella che le complessità dell’eso-
gamia nasconderebbero una realtà endogamica.
Questa ipotesi, che si trova in Tristi tropici, è in parte basata su dati regi-
strati da Lévi-Strauss nel 1936. Egli aveva individuato, allora, un sistema di
“unioni preferenziali” tra le unità formate da classi di nomi personali (o titoli)
appartenenti al clan, differenziate in termini di ricchezza clanica (Lévi-Strauss,
1936: 278-281). Più tardi, munendosi delle indicazioni di Albisetti (1948), egli
identifica tali unità con il subclan della Enciclopédia Bororo e costruisce un
modello secondo il quale le unioni preferenziali avrebbero luogo esclusiva-
mente tra sottoclan dello stesso rank:
Si cette description était exacte (...) on voit que le schéma classique des institu-
tions bororo s’effondrerait. Quelles que soient les préferences matrimoniales qui
unissent entre eux certains clans, les clans proprement dits perdraient toute valeur
fonctionelle (...) et la société bororo se réduirait à trois groupes endogames (...) qui
constitueraient vraiment trois sous-sociétés (Lévi-Strauss, 1974 [1952b]: 142).
12
Crocker finirà per dargli qualche ragione: i suoi informatori “concordano con quelli di
Lévi-Strauss, dicendo che per alcuni propositi il villaggio era, anticamente, diviso in una parte
«superiore» e un’altra «inferiore» per mezzo di un asse nord-sud in mezzo al villaggio. Questa
divisione, certamente, non è in vigore tra i Bororo attuali” (1969: 57-58, n.6).
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi 117
dello schema delle sep ed ad una riformulazione cruciale del problema del
dualismo amerindio.
Caratteristico dei sistemi centro-brasiliani, il fenomeno del multiduali-
smo poneva l’autore di fronte ad una situazione apparentemente parados-
sale: ossia, la disgiunzione tra la superelaborazione istituzionale e lo scarso
valore funzionale (cioè, matrimoniale) del principio dualista. A parte la di-
sposizione circolare e la distinzione tra il (semi)cerchio delle case e la piazza
centrale, comune a tutte le versioni, i vari sistemi jê comportano formule
diverse di differenziazione, coinvolgendo una molteplicità di suddivisioni
sovrapposte non-coincidenti. Certi popoli jê portano all’estremo questa
complicazione, accumulando varie paia di metà, in generale agame e basate
su principi divergenti. Anche nel caso bororo che, con la sua esogamia e
matrilinearità, si presenta come un sistema relativamente armonico, questa
armonia si vede perturbata da un sistema di inversioni rituali che, nelle pa-
role di Crocker,
stands the whole society on its head, in an almost literal sense, and makes the Bo-
roro ultimately much more Gê-like than they initially appear (1979: 251).
même ce cas particulier n’est jamais complètement réalisé dans l’experience, sinon
sous forme de rationalisation imparfaite de systèmes qui restent irréductibles à un
dualisme, sous les espèces duquel ils essayent vainement de se représenter (1974
[1956]: 167).
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi 119
13
Si veda Viveiros de Castro (2002: 412-413) per una riconsiderazione del battesimo di
questo concetto, che Taylor, invertendo la terminologia originale dell’autore, ha suggerito di
chiamare “virtuale” o “meta-affinità” (1999: 312, n.6), e a quella di Descola si riferisce come
“affinità ideale”.
14
Questo è stato uno degli aspetti importanti dello sforzo teorico di vari autori brasiliani
che hanno cercato negli anni ‘80 e ‘90 di specificare etnograficamente ciò che Sahlins (1985)
chiamò “strutture performative”. Si vedano gli articoli nella raccolta organizzata da Viveiros de
Castro (1995).
122 Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
les phénomènes du dualisme” (1973: 91), che, come abbiamo visto, lo porta
a proporre che i diversi dualismi sociologici (con o senza metà, siano queste
esogamiche o no) “suppongono e ricoprono” strutture di alleanza non duali-
ste, ovvero, triadiche (idem.: 91-92 [ed. it.: 111]). Se ciò indica che la connes-
sione tra dualismo “sociale” e alleanza può solo essere indiretta, è perché la
reciprocità non si riduce per Lévi-Strauss (pace Maybury-Lewis, 1960, 1989b)
ad un principio di equilibrio nelle transazioni matrimoniali: alla fin fine, “ce
qu’une société ‘dit’ en termes de relations d’alliance, une autre société le ‘dit’ en
termes d’organisation spatiale villageoise, une troisième en termes de représen-
tations religieuses, etc” (Lévi-Strauss, 1973: 97), e, potremmo completare, in
termini dei loro stili artistici. Alla fin fine, non era questa l’ipotesi dell’autore
per il grafismo kadiwéu che gli appare organizzato attorno ad una doppia op-
posizione – ternarismo/binarismo, reciprocità/gerarchia – così come il piano
del villaggio bororo? L’arte grafica dei Kadiwéu, popolo Mbaya-Guaikuru che
Lévi-Strauss conobbe ancora nel 1935, nel Mato Grosso, gli appariva come
una soluzione, al livello del simbolico, ad una contraddizione che i Bororo
avevano risolto sociologicamente (1955: 168-169 [ed. it.: 181 e seg.]).
Per Maybury-Lewis, al contrario, c’è una opposizione tra il sociale ed il
simbolico che non deriva dalla differenza tra uno schema e la sua attualizza-
zione, ma dalla distinzione tra le sfere in cui un tale sistema verrebbe ad appli-
carsi, ovvero, tra cosmologia ed organizzazione sociale. Se una tale distinzione
è ignorata da Lévi-Strauss (Maybury-Lewis, 1960), essa lo è deliberatamente:
“è proprio sul valore assoluto di una tale distinzione che il mio studio sulle
organizzazioni dualiste apriva un dibattito” (1973: 100 [ed. it.: 119]); dibattito
che sarà pienamente assunto dall’etnologia americanista nel suo sforzo per
rompere la separazione tra i domini del sociale e del cosmologico, della società
e della cultura, un punto esplicitamente affermato da Overing Kaplan (1977,
1983-1984) e sposato da quasi tutti gli specialisti della regione. Utilizzata sia
come metodo comparativo, sia come analisi etnografica, la nozione di schema
comune che si manifesta attraverso i differenti codici sensibili andrà ad in-
fluenzare profondamente l’etnologia amazzonica a partire dagli anni ‘70 e la
libererà dal tipologismo funzionalista.
In Histoire de Lynx, lo stesso Lévi-Strauss ritornerà sul problema, stavolta
sotto la forma di contrasto tra la fioritura istituzionale del dualismo centro-
brasiliano e l’elaborazione mitica dello stesso tema tra i Tupi (1991: 315-316
[ed. it.: 224-225]). L’analisi del dualismo dà luogo lì ad uno sviluppo ulteriore.
Nel capitolo dedicato al problema della “idéologie bipartite des indiens”, dopo
essersi dissociato da una interpretazione delle organizzazioni dualiste come
espressione della “natura binaria del pensiero umano”, Lévi-Strauss scrive:
124 Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
Je constate seulement que des peuples qui occupent une aire géographique im-
mense, certes, mais circonscrite, ont choisi d’expliquer le monde sur le modèle
d’un dualisme en perpétuel déséquilibre dont les états successifs s’emboîtent les
uns dans les autres: dualisme qui s’exprime de façon cohérante tantôt dans la my-
thologie, tantôt dans l’organisation sociale, tantôt dans les deux ensembles (Lévi-
Strauss, 1991: 316).
di una certa tradizione filosofica o una mera applicazione delle lezioni della
fonologia strutturale. Come già intuì Lévi-Strauss nel 1943, esso possiede una
affinità elettiva con le realtà amerindie. È questo che Histoire de Lynx cercherà
di consolidare, mostrando, attraverso l’analisi delle sue differenti concezioni
della gemellarità, che la relazione tra identità e differenza si pone nel mondo
amerindio in maniera diversa da quella del pensiero europeo (Lévi-Strauss,
1991: 302-307, 316 [ed. it.: 213-218, 225]).
Al problema posto dalla gemellarità – “la dualité peut-elle se résorber dans
l’image approchée de l’unité par quoi on la représente, ou offre-t-elle un caractère
irréversible, à tel point que l’écart minimal entre ses termes doivent fatalement
s’élargir?” (Lévi-Strauss, 1991: 300) –, i nativi del Nuovo Mondo avrebbero
preferito dare risposte intermedie, e tra la contraddittorietà e l’identità avreb-
bero scelto l’instabilità. L’identità appare, quindi, come uno stato revocabi-
le e provvisorio: neanche gli stessi gemelli possono essere identici. L’identità
pura è una condizione inarrivabile o, in alcuni casi, non desiderabile perché
eguagliata alla morte15. Il principio del disequilibrio si trova all’interno della
coppia, nella simmetria tra i due termini (nel caso, la disuguaglianza relativa
tra i gemelli), che instaura una dinamica particolare di sdoppiamento o incas-
samento regressivi, così come espresso ad esempio nel diagramma del mito
tupinambá di differenziazioni successive in cui uno dei poli sempre si biparte
in una nuova coppia (Idem.: 76 [ed. it.: 48]). Obbligato a, tappa dopo tappa,
sdoppiare i termini dell’opposizione iniziale, il modello del dualismo in per-
petuo disequilibrio si presta pertanto ad una lettura di tipo frattale, nel quale
la stessa forma si ripete in scale diverse. Questa rappresentazione coincide
(e non a caso) con la caratterizzazione del dinamismo proprio del dualismo
concentrico.
Questo punto è enunciato nelle formulazioni più recenti di Viveiros de
Castro. Riformulando il concetto di affinità potenziale, prendendo adesso una
distanza in relazione alla problematica della totalità implicata nel linguaggio
dumontiano (Viveiros de Castro, 2002), l’autore fa un movimento parallelo
a quello che porta Lévi-Strauss dalla critica del dualismo nel 1956 all’elogio
del dualismo in perpetuo disequilibrio nel 1991. Anche nel suo caso, vedia-
mo la dialettica del concentrico e del diametrale, il gioco del triadismo e del
dualismo, riapparire sotto forma di una struttura asimmetrica costituita di
dualismi successivi; in questa struttura, l’affinità potenziale appare come un
“dato generico, fondo virtuale contro il quale è necessario fare apparire una
15
Questa concezione ha importanti conseguenze per la questione dell’identità personale e
collettiva, che marca una differenza centrale tra l’etnologia amazzonica di orientamento struttu-
ralista e quella ispirata da una antropologia dell’identità.
126 Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
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5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi 133
6. L’uccello di fuoco1
Tânia Stolze Lima
Nella millenaria storia della nozione di mito, quali avvenimenti sono com-
parabili con l’opera di Lévi-Strauss? Non so se ne esistono altri oltre allo stes-
so sorgere di tale nozione, che, come si sa, dipende dalla nascita della filosofia
greca e della storia. Non so se nella storia della mitologia esistono due avveni-
menti tanto fondamentali quanto quello che ha escluso il mito dalla ragione e
quest’altro che lo ha trasformato in pensiero.
Ciò nonostante, anche tra gli antropologi che studiano le società indigene
sud americane è presente una certa reticenza di fronte all’opera mitologica di
Lévi-Strauss. Al termine di una conferenza cui ho assistito recentemente, di
un antropologo francese che potrebbe essere considerato “lévi-straussiano”
(dato che finiva di esporre un sistema panamericano formato dai miti dello
snidatore di uccelli), un antropologo nord americano prese la parola ed espose
il proprio metodo di analisi dei miti, opponendolo a quello di Lévi-Strauss.
Per me, si trattava di uno solo e stesso metodo, e così il suo Lévi-Strauss non
aveva assolutamente la stessa dimensione del mio. Nella letteratura etnologica
sud americana è facile percepire come la dimensione di Lévi-Strauss varia a
seconda della simpatia e tranquillità intellettuale che la sua opera suscita in
ognuno di noi. Quanto a me, se ne ho grande simpatia, non posso dire che tale
opera mi tranquillizzi. Al contrario.
1
Questo testo è la traduzione dell’originale in portoghese: “O pássaro de fogo”, pubblicato
in: (1999) Revista de Antropologia, Vol. 42, n. 1-2, pp. 113-132.
136 Tânia Stolze Lima
persona più anziana, e così via. Tutto ciò articolato con un dispositivo più ge-
nerale che determina che il peso politico ed il peso cosmologico di una narra-
zione dissociata dal testimone oculare non è lo stesso di un racconto basato su
questa testimonianza. Lontano dall’essere una conseguenza unicamente delle
nostre abitudini mentali, questo differenziale, che si è convenuto nei termini
di mito e storia, presenta un radicamento evidente e una grande importanza
nelle società indigene.
Nel caso della società juruna, il discorso storico non conosce limiti di tem-
po e di spazio, essendo totalmente nullo in quanto a peso cosmologico; ma se
esiste la possibilità di ascoltare la storia dal suo “proprietario” (il testimone
oculare o, nel caso della morte di questi, i suoi figli o, nel caso della morte
di questi, i suoi nipoti) non c’è l’abitudine di raccontarla a qualcuno, se non
contornandosi di attenzioni e raccomandazioni all’interlocutore che ne cerchi
il vero proprietario. Già il discorso mitico, al quale non si attribuiscono pro-
prietari tra le persone vive, implica il diritto del più anziano sul più giovane,
oltre i limiti di tempo e di spazio, genere e grado di pericolosità, variabile a
seconda della narrazione. L’affermazione più toccante sul peso incommensu-
rabile del particolare insieme dei miti juruna mi è stata fatta da un anziano, che
si era manifestato preoccupato per la mia vita a causa di un viaggio in aereo
che avrei fatto portando con me le registrazioni delle “narrazioni di Senã’ã”,
il creatore.
Ma è ancora necessario esaminare meglio la forza di interferenza del nostro
senso della realtà. La prima volta che raccontai ad alcuni Juruna un mito (era
una narrazione apinayé), le persone non percepirono che quando terminai la
narrazione il mito già era realmente finito. La situazione si ripeté in altre oc-
casioni, e può ricordare quella in cui, in una sala da concerto, alcune persone
comincino ad applaudire prima del tempo. Con gli Juruna, ho l’impressione
che non percepiscano quando finisce il mito, e questo può indicare tanto una
infinitezza formale del racconto quanto rivelare che la mia opzione di raccon-
tare miti potando dalla narrativa il topico iniziale, che riassume brevemente lo
sviluppo della storia, li lascia in uno stato di permanente aspettativa: se ometto
il tema, come potrebbero indovinare il punto in cui lo sviluppo si conclude?
Una volta tentai di raccontare loro il mito bororo che apre Il crudo ed il
cotto, e semplicemente mi impedirono di proseguire, fino al punto in cui qual-
cuno esclamò che stavo mentendo, perché il colibrì non si immerge. Io dicevo
che il colibrì, per aiutare il giovane incestuoso, si sarebbe immerso per cercare
un sonaglio nel nido delle anime. Pensai tra me e me: chi siete voi per ricor-
darmi che il colibrì non si immerge! Non potei comprendere ciò che stava
avvenendo, poiché le mie narrazioni erano sempre state ben accolte e, dopo
quel giorno, essi non mi interruppero mai più. Il problema, quindi, poteva
140 Tânia Stolze Lima
soltanto derivare dal mito. Immaginai che, dato che nessun mito juruna che io
conoscessi indagava l’incesto tra madre e figlio, probabilmente essi ritennero
la storia bororo brutta per questa ragione. Mesi dopo potei scoprire, stupe-
fatta, che gli Juruna avevano ragione, dato che, nonostante le anime bororo
vivano di fatto nel fondo del fiume, era in un albero che il mito situava il loro
“nido”. La soppressione della distanza tra la realtà etnografica ed il mito, che
la manchevolezza della mia memoria mi portava ad operare, feriva il senso di
verosimiglianza degli Juruna, che mi ordinarono di tacere.
I miti, come ha dimostrato Lévi-Strauss, non obbediscono a costrizioni ab-
bastanza ben definite che stanno alla base di una logica del sensibile? Questo
episodio mi mostrò che la ragione della mia sorpresa era la nozione, assolu-
tamente falsa, secondo la quale qualsiasi cosa è possibile nei miti. Ciò indica
anche che il campo di possibilità definito dal nostro senso di verosimiglianza
non ha la stessa estensione né la stessa comprensione che il campo di possibi-
lità degli Juruna, che percepiscono esattamente che i miti di altre società sono
discorsi dotati di coerenza, di interesse e di verità.
Ma come possono gli Juruna sapere che i miti di altri appartengono allo
stesso tipo di discorso dei propri? Penso che la questione già prefiguri la ri-
sposta. Non potrebbero saperlo nel caso in cui un criterio non fosse preso in
considerazione, ossia, il fatto che gli avvenimenti mitici sono dipendenti da
un campo di possibilità che è altro in relazione alla propria esperienza sociale.
Nell’etnografia juruna, una proposizione come “la giovane coppia aveva la
propria casa” è tanto favolosa quanto “le lontre erano le padrone della canoa”.
E ciò non è scevro di conseguenze per la ricerca etnografica, dato che i rac-
conti che non feriscono il nostro senso di verosimiglianza possono essere pre-
si, erroneamente, come storia. Gli Juruna, ad esempio, sono particolarmente
ricchi in miti che operano strettamente con i codici politico e sociologico e la
cui identificazione esige che li si proietti sull’insieme dei materiali etnografici
per percepire che sono lontano dall’adeguarsi al campo di possibilità della vita
sociale. Sono miti nel senso stretto, come si può, in maniera supplementare,
verificare dalla loro posizione nel regime dei discorsi.
Il differenziale tra i due campi di possibilità indica, di per sé stesso, che
gli Juruna non applicano ai miti ed alle storie basate su testimonianze oculari
gli stessi criteri di verità. Entrambi devono possedere una consistenza logica
esplicativa, devono essere plausibili secondo il loro mondo di riferimento spe-
cifico. Posso mentire nel raccontare che ho visto una cosa avendone in realtà
vista un’altra, ma non posso mentire nel narrare un mito, eccetto quando non
lo so narrare. Ciò che un mito narra è avvenuto realmente, la stessa esistenza
del mito prova che è verità. Non è rara l’esistenza di versioni leggermente
differenti di un mito, e, per quanto ne so, escludendo l’ipotesi che una de-
6. L’uccello di fuoco 141
Avviene, inoltre, nel campo della cultura lo stesso che in quello della sto-
ria: così come i periodi non si trovano pre-ritagliati ma sono costruiti dagli
storici, neanche l’umanità è pre-ritagliata, eccetto nel caso in cui naturalizzia-
mo i ritagli introdotti dai gruppi sociali e da noi stessi. Ma ciò che voglio evi-
denziare è come questa maniera di concepire la cultura assomiglia alla visione
di Evans-Pritchard della società nuer. Anche la segmentarietà nuer implica
che uno stesso insieme di individui appartenga a gruppi di diverso ordine di
grandezza e che solamente una relazione sociale determinata nel tempo e nel-
lo spazio può dire quali gruppi stanno venendo costituiti e dissolti. I gruppi
segmentari hanno un’esistenza solo in atto: noi siamo A se e solamente se in
un certo momento voi siete B. Assieme, voi e noi, saremo C, nel caso in cui
altri divengano D in relazione a noi, e così successivamente. Di diritto, se non
di fatto, i segmenti non sono permanenti, reificati, transcontestuali o atem-
porali, dato che le identità collettive non sono entità empiriche ma relazioni
differenziali.
Accanto all’uso segmentare del concetto di cultura, l’antropologia ne cono-
sce un altro che si potrebbe dire imperiale. La cultura è prima separata dalla
natura e, in seguito, i suoi differenti territori sono sovracodificati in maniera
da far credere che le sue frontiere sempre flessibili e variabili siano marchi
naturali; infine, questo grande impero della cultura conferisce ad ogni terri-
torio sovracodificato lo statuto di impero autonomo. Si può andare ancora
più lontano, si può sempre sovracodificare il sovracodificato, in modo che se
anteriormente gli imperi autonomi mantenevano relazioni di equivalenza ed
6. L’uccello di fuoco 143
incommensurabilità, ossia se ognuno differiva da tutti gli altri nella stessa mi-
sura in cui questi differivano tra loro, ora uno degli imperi vuole distinguersi
da tutto l’insieme in maniera differente.
Ovunque l’operazione imperiale si presenti, la natura è tagliata dalla cultu-
ra e le differenti culture che da ciò derivano, esigono per essere analizzate, la
nozione di principio o quella di totalità espressiva. Si tratta del conosciuto mec-
canismo secondo il quale, qualsiasi cosa tu faccia, sei condannato ad esprimere
un principio, qualsiasi cosa tu dica, dice la totalità.
Le Mitologiche rappresentano senza dubbio l’opera antropologica meno
compromessa con l’uso imperiale della cultura. Non chiedo che mi si creda
sulla parola, ma io, che ho appena riletto Il crudo ed il cotto, sinceramente non
so quale sia la differenza che, grosso modo, esisterebbe tra i Tupi e gli Jê, ad
esempio, per ciò che riguarda la mitologia dei due insiemi di popoli. Nessuna
tipologizzazione delle società che lì appaiono attraverso i loro miti. Nessuno
viene opposto a nessuno: ha ciò che l’altro non ha, pensa ciò che l’altro non
pensa, è ciò che l’altro non è. E questo non perché siano tutti uguali, ma per-
ché le differenze scoppiettano [pipocar, n.d.t.] da tutte la parti ed anche in
ciascuno.
Ciò che a prima vista appare più enigmatico è che derivi da un uomo che
lavora come un motore per la fabbricazione di opposizioni. Il linguaggio di
Lévi-Strauss, marcato dai termini opposizione, simmetria, inversione, solo ap-
parentemente suggerisce una somiglianza con il pensiero degli antropologi che
utilizzano in maniera esplicita o meno gli stessi strumenti analitici. Prima però
di esaminare questo punto esploriamo la problematica lévi-straussiana della
separazione tra natura e cultura.
La partecipazione di Lévi-Strauss al seminario di Lacan il 30 novembre del
1954 mette in scena una curiosa conversazione. Mannoni, dopo aver eviden-
ziato che il trattamento lévi-straussiano della distinzione tra natura e cultura,
già non si formulava nei termini classici di una opposizione tra il naturale e
l’istituzionale, l’universale ed il contingente, dichiara che “dopo Lévi-Strauss,
si ha l’impressione che non si possano più usare le nozioni di cultura e di natu-
ra” (in Lacan, 1985: 56 [ed. it.: 47]). Facendo apparire una maggiore tranquil-
lità rispetto a Mannoni o Hyppolite, Lacan sostiene ciò che segue:
del mondo, è solo per sostenere che, primo, la loro relazione è di immanen-
za e, secondo, che l’opposizione è reale, ma solamente in quanto realtà del
pensiero.
Esaminiamo adesso come il problema appare in una delle Mitologiche, Il
crudo ed il cotto. In questo libro, si osservano due usi differenti dell’opposi-
zione natura/cultura, che ora si presenta come uno strumento di analisi, ora
come un oggetto. Come strumento analitico, però, questa coppia appartiene
ad un insieme di varie decine di altre coppie di termini opposti, i quali non si
situano allo stesso livello di astrazione e la cui grande parte è, senza ombra di
dubbio, espressa in maniera diretta dai miti stessi. La funzione del mitologi-
co consiste in evidenziarle e, a volte, tradurle in altre opposizioni che legano
termini appartenenti al campo del concetto più che al campo del segno. È
questo il caso appunto della coppia natura/cultura, che traduce l’opposizio-
ne tra segni come crudo e cotto o tapiro e uomo. Il procedimento garantisce
una certa continuità tra i miti e le analisi; la premessa forse essendo giusta-
mente che per comprendere come pensano i miti è necessario pensare come
loro.
Analizzare i miti è, quindi, collocarsi nel loro prolungamento e fare ciò che
essi fanno. Ma cos’è che fanno? Come in una specie di grande laboratorio sim-
bolico, i miti fanno esperienze con le relazioni di subordinazione del linguag-
gio. In essi, la differenza tra denotazione e connotazione è posta solamente per
essere superata. Un mito jê (M163) parla di un diadema di piume rosse che
“brillava tanto che sembrava fuoco vero”; il picchio lanciò questo diadema
verso il sole che si trovava al piedi dell’albero, ed il sole “l’afferrò, passandolo
rapidamente da una mano all’altra per poterlo tenere finché si fosse raffredda-
to...” (Lévi-Strauss, 1991: 277 [ed. it.: 386]). A causa del goffo fratello del sole,
il diadema avrebbe provocato un incendio che avrebbe distrutto la foresta e
gli animali. La somiglianza prefigura l’identità, l’icona diviene indice, anche la
metafora ha una relazione esistenziale con l’oggetto.
Anche la differenza tra il nome proprio e la persona è collocata solamente
per essere superata. In un mito tupinambá (M96), un uomo chiamato Sarigoys
abusa della donna di Maíra Ata, ingravidandola; il suo castigo sarà trasformar-
si in una sariga (Lèvi-Strauss, 1991: 170 [ed. it.: 228-229]).
Si dà lo stesso nella relazione tra la parola e la cosa. Nel mito bororo
dell’origine del fuoco (M55), il giaguaro, offrendosi per cenare con la scimmia,
la interroga: “Ma... dov’è il fuoco?” (:127 [ed. it.: 171]), come se il linguaggio
precedesse la realtà. La scimmia lo inganna, facendogli confondere l’immagine
del sole al tramonto con il fuoco e, mentre il giaguaro corre invano verso l’oriz-
zonte occidentale per prenderlo, la scimmia inventa la tecnica di produzione
del fuoco per frizione.
146 Tânia Stolze Lima
In tutti i casi la natura imita il mondo della cultura, ma alla rovescia. La cucina che
la rana esige è il contrario di quella degli uomini, in quanto essa ordina all’eroina
di scuoiare la selvaggina, di disporre la carne sulla graticola e di mettere le pelli nel
fuoco, ciò che significa agire contro il buon senso: si affumica infatti la selvaggina
nella sua pelle, e la si tiene sopra un fuoco lento, alimentato con legna. Con il mito
arekuna questo carattere di mondo alla rovescia si accentua ulteriormente: il tapiro
copre il figlio adottivo di zecche a guisa di perle: «Gliele mette attorno al collo, alle
gambe, alle orecchie, ai testicoli, sotto il braccio, su tutto il corpo» [...].
Non basta dunque dire che in questi miti la natura, l’animalità, si invertono in
cultura e in umanità. La natura e la cultura, l’animalità e l’umanità, divengono qui
reciprocamente impermeabili. Si passa liberamente e senza ostacoli da una sfera
all’altra: non esistono soluzioni di continuità, ma viceversa queste due sfere si me-
scolano a tal punto che ogni termine dell’una evoca immediatamente un termine
correlativo dell’altra, in quanto essi sono in grado di significarsi vicendevolmente.
Orbene, una certa concezione del veleno non sarebbe forse adatta a ispirare questo
sentimento privilegiato di trasparenza reciproca della natura e della cultura (...)?
Il veleno opera una specie di corto circuito fra la natura e la cultura. Esso è infatti
una sostanza naturale che, come tale, viene ad inserirsi in una attività culturale:
caccia o pesca, e che la semplifica all’estremo. Il veleno è incomparabilmente più
potente dell’uomo e dei mezzi ordinari di cui questi dispone, amplifica il suo gesto
e anticipa i suoi effetti, agisce più rapidamente e con maggiore efficacia. Si com-
prende allora perché il pensiero indigeno veda in esso una intrusione della natura
nella cultura. La prima penetrerebbe momentaneamente nella seconda: per alcuni
istanti si svolgerebbe una operazione congiunta, nella quale le rispettive parti di-
verrebbero indiscernibili (Lévi-Strauss, 1991: 262-263 [ed. it.: 357-358]).
veleno più che dal fuoco, dal tapiro o dal pipistrello. Anche i punti di vista del
giaguaro e degli avvoltoi sono messi in risalto dai miti, caratterizzando ugual-
mente la trasparenza, la permeabilità e la contrarietà tra natura e cultura. Il
mito matako dell’origine del giaguaro (ossia, di un padrone del fuoco), M22,
racconta di una donna, futuro giaguaro, che strappa con una dentata la testa
di suo marito, la porta a casa e la mostra ai figli dicendo che si tratta della testa
di un armadillo. L’insieme formato dai miti tupi dell’origine del fuoco offre
un mito (M65) nel quale gli avvoltoi trovano il cadavere di un dio che si finge
morto ed accendono un fuoco con il fine di resuscitarlo. Ancora più suggesti-
vo è un mito tacana (M42), nel quale il pipistrello, che, al contrario della liana,
“incarna infatti una disgiunzione radicale fra la natura e la cultura” (Lévi-
Strauss, 1991: 132 [ed. it.: 177]), resta sposato con una umana che ignora la
sua condizione fino al giorno in cui ella vede un pipistrello sorridendole e lo
uccide senza riconoscervi il marito (Idem.: 123 [ed. it.: 166]).
Per terminare, la mitologia juruna presenta una piccola difficoltà per la
cui soluzione lo sforzo speso sembrerà ad alcuni interamente derisorio. Sarò
quindi molto breve. Il mito juruna dell’origine del fuoco ha l’arpia come il suo
primo proprietario, ma afferma che questi non ne ha mai perso il possesso.
Ciò significa che il mito in realtà narra che gli umani condividono il fuoco con
l’arpia. Quando per caso qualche arpia ruba loro carne arrostita da un forno,
come ho già visto succedere, le persone procedono come il giaguaro benevo-
lente ed avveduto di uno dei miti jê. Per altro verso, secondo il loro mito dello
snidatore di uccelli, l’eroe (che inoltre ha la posizione del genero) viene salvato
giustamente da un arpia che gli dà sangue da bere, dato che il sangue è l’acqua
per l’arpia. Essa mangia cotto, ma beve crudo. Per un popolo che considera le
bevande fermentate come il marchio per eccellenza della vita culturale, l’arpia
incarna, direbbe Lévi-Strauss, la più radicale disgiunzione tra natura e cultura
che si possa concepire.
Ho battezzato questo mito di Uccello di Fuoco ed ho scoperto più tardi
che la migliore maniera di memorizzare miti è dare loro nomi propri. Questa
fantasia indica le molte relazioni che possiamo mantenere con una persona
che certamente mai conosceremo, ma i cui libri sono entrati nelle nostre vite
come una persona vera, influenzando la materia più intima della nostra sog-
gettività.
Un’ultima parola: “il pensiero riconquista i propri diritti nei confronti della
ragione, che ne era stata investita al fine di soggiogarlo, e si appropria del com-
pito di legiferare contro la stessa ragione; in ciò ritroviamo il senso del lancio
di dadi.” (Deleuze, 1997: 107 [ed. it.: 130-140]).
6. L’uccello di fuoco 149
Bibliografia
Cari colleghi,
devo cominciare dicendo che sono molto sensibile all’onore che qui mi
viene offerto: di aprire con questa allocuzione il convegno Lévi-Strauss: un
siglo de reflexión. Non riesco a spiegarmi la ragione per cui mi abbiate scelto,
tra i tanti colleghi qui riuniti – tutti più accreditati di me per una tale onorifi-
cenza – se non per il fatto contingente di essere un etnologo nato in Brasile, e
che studia i popoli indigeni brasiliani. Vedo in questo invito, così, una sorta di
omaggio indiretto al mio paese, dove Lévi-Strauss si fece le ossa come etnolo-
go, ma soprattutto ai popoli indigeni brasiliani, popoli il cui pensiero, contri-
buendo in maniera decisiva alla formazione di quello dello stesso Lévi-Strauss,
è giunto di buon ora ad irrigare la tradizione filosofica dell’Occidente, dopo
cinque secoli di dimenticanza o disprezzo – nel momento stesso in cui questa
tradizione necessita mai come ora di tutto l’aiuto esterno per poter avere un
risultato. Finalmente l’Occidente comincia a percepire che non è altro che un
accidente, un gigantesco accidente antropologico che potrà chiudere la carrie-
ra della specie sulla Terra.
La seconda ragione che mi sovviene per ricevere un tanto distinto invito
potrebbe essere per così dire intrinsecamente lévi-straussiana o strutturalista,
ossia: mi vedo chiamato a parlarvi precisamente perché, come potete percepi-
re, non parlo la vostra lingua, ma una lingua gemella di questa. Sappiamo che
una delle caratteristiche fondamentali dei gemelli nella mitologia amerindia è
di essere leggermente, ma crucialmente, diseguali, asimmetrici. Tale asimme-
tria è palpabile nel caso delle nostre rispettive lingue, con il portoghese che
ricoprirebbe il ruolo di gemello lunare, minore, con qualcosa di ingannatore
(malandro, diremmo in questa lingua) con i suoi dittonghi traditori, le sue
1
Questo testo è la traduzione di una conferenza inedita pronunciata dall’autore a Città del
Messico il 19 novembre del 2008, nell’ambito del seminario “Lévi-Strauss, un siglo de refle-
xión”, organizzata dall’Instituto Nacional de Antropologia e Historia.
152 Eduardo Viveiros de Castro
II
nudo : “Il problema della genesi del mito si confonde quindi con quello del
pensiero stesso, la cui esperienza costitutiva non è quella di un’opposizione
tra l’io e l’altro, ma dell’altro colto in quanto opposizione”(Lévi-Strauss, 1971:
539-540 [ed. it.: 566]). Da ciò si può concludere, in sintonia con altri passaggi
dell’autore, che l’io è un caso particolare dell’altro, così come l’opposizione,
tanto quanto l’identità, è appena un caso particolare della differenza.
Secondo il nostro autore, di conseguenza, una opposizione binaria è tutto
fuorché un oggetto semplice, o semplicemente doppio, o anche semplicemen-
te un oggetto; forse – ma qui è possibile che stiamo andando troppo lontano
– neanche una opposizione. Si leggano le pagine luminose de Le origini delle
buone maniere a tavola o de La vasaia gelosa sulla natura esatta, o meglio, “ane-
satta”, della relazione tra il Sole e la Luna nella mitologia amerindia e si avrà
un’idea di ciò di cui sto parlando.
La piccola frase ricopre, in verità, una funzione fondamentale all’interno
dell’economia teorica dello strutturalismo. Essa indica la non finitezza perpe-
tua dell’analisi strutturale e suggerisce che la ragione di questa non finitezza
è la molteplicità virtuale di ogni oggetto determinato dal metodo strutturale,
dato che l’oggetto è sempre uno stato particolare di un sistema di trasforma-
zioni i cui limiti sono radicalmente contingenti e, inoltre, definibili soltanto
in maniera relazionale. La “in-terminabilità”, nel doppio significato (senza
fine o termine, e senza la possibilità di determinazione univoca di ciò che è
un termine ed una relazione) dell’analisi mitica è un principio fondamentale
delle Mitologiche, enunciato subito nella “Apertura” de Il crudo ed il cotto: il
carattere aperto, intensivo, interattivo, in nebulosa, poroso, “connessionista”
dei sistemi mitici che ricostruisce. “Questo non è tutto”, quindi, perché nien-
te è tutto, in nessun momento si raggiunge una totalizzazione. “Questo non
è tutto” proietta un concetto di struttura (ed una concezione di analisi) che
non privilegia nessuna volontà di chiusura, completezza, compattezza. Con
il “questo non è tutto”, si comincia ad intravvedere la possibilità di un Lévi-
Strauss post-strutturalista.
Naturalmente, questo di fatto non è tutto... La piccola frase, come una
chiave, può essere usata tanto per aprire ciò che era chiuso come per chiudere
ciò che era aperto. La dimostrazione della chiusura trasformazionale, della
coerenza ed omogeneità dei gruppi di miti in analisi appare ripetute volte nel
corso del testo delle Mitologiche, per raggiungere una sorta di apoteosi enfa-
tica nel capitolo “Il mito unico” de L’uomo nudo. Lévi-Strauss andrà ad insi-
stere ripetute volte nelle Mitologiche sulla chiusura del sistema che analizza, la
rotondità della terra mitologica, la completezza del circolo che lo porta dalle
savane del Brasile alla coste brumose degli stati di Washington e della Colum-
bia Britannica, così come sulle varie chiusure secondarie dei sottogruppi mitici
154 Eduardo Viveiros de Castro
2
L’inesistenza di una meta-struttura è segnalata fin dalla “Introduzione all’opera di Marcel
Mauss” (1950) e dal “Il concetto di struttura in etnologia” (1958). Sull’indeterminatezza del
principio degli assi semantici di un sistema mitico, si veda la massima de Il pensiero selvaggio
secondo cui “il principio di una classificazione non si postula mai”.
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo 155
III
3
“Deve esserci da qualche parte un passaggio decisivo che Mauss non ha superato...” (Lévi-
Strauss, 1950: XXXVII [ed. it.: XLI]).
156 Eduardo Viveiros de Castro
ordine per così dire, sovrannaturale più che naturale, un continuo la cui rela-
tiva indifferenziazione interna (autori, secoli, generi si allineano nella serie di
volumi ricoperti da un fino marocchino – la pelle di una qualche anaconda mi-
tologica? – marcata da una discretissima variazione cromatica), lo fa solamente
distaccare più chiaramente nel vasto cielo notturno ed anonimo della storia.
Questo, ancora una volta, non è tutto. Onore supremo, questa ascensione
al continuo avvenne in vita, nello stesso anno del centenario di Lévi-Strauss
che celebriamo. Tutti gli antropologi del mondo dobbiamo sentirci orgogliosi
e debitori per l’omaggio che così si presta alla nostra disciplina nella persona
del suo più illustre praticante, il pensatore che ha reinventato l’antropologia,
lo smontatore dei fondamenti metafisici del colonialismo occidentale, e che
allo stesso tempo ha rivoluzionato la filosofia, aprendo uno dei principali sen-
tieri del secolo affinché altri potessero smontare i fondamenti colonialisti della
metafisica occidentale.
IV
mento della redazione delle Mitologiche. Una nota ne Dal miele alle ceneri è
forse il primo registro esplicito del cambiamento:
2008 [in questo volume, Cap. 2]), quello che la formula canonica descrive
è precisamente la trasformazione della storia in struttura e viceversa (ma il
percorso non è lo stesso nelle due direzioni). Questo cambiamento si deve in
parte all’influenza, su Lévi-Strauss, delle nuove interpretazioni matematiche
disponibili; ma soprattutto, io penso, al cambiamento del tipo di oggetto pri-
vilegiato della sua antropologia. Con il mito, le frontiere tra permuta sintattica
e innovazione semantica, dislocamento logico e condensazione morfogenetica,
divennero più tortuose, contestate, complicate – più frattali. L’opposizione tra
la forma e la forza (le trasformazioni ed i flussi) ha perso i suoi contorni e, in
una certa maniera, si è indebolita.
Questo non significa che Lévi-Strauss abbia dato grande rilevanza a tale
trasformazione, né che si sia soffermato su di essa oltre la suddetta riflessione
rispetto ai differenti problemi trattati dal metodo strutturale. Al contrario, la
sua tendenza è sempre stata quella di sottolineare “la continuità del program-
ma che seguiamo metodicamente fin da Le strutture elementari della parente-
la” (l’avvertenza si trova nella “Apertura” de Il crudo ed il cotto). Continuità
– ecco una nozione ambivalente come poche nel vocabolario strutturalista.
È chiaro che Lévi-Strauss ha ragione; sarebbe un po’ ridicolo volerlo cor-
reggere a proposito di sé stesso, come sembrano fare alcuni dei suoi commen-
tatori più fondamentalisti (dato che esiste uno struttural-fondamentalismo!).
Ma l’insistenza del maestro francese sull’unità di ispirazione della sua opera
non manca di proporci, come buoni strutturalisti, una lettura discontinua di
questa opera; meno per insistere sulle rotture univoche che non per suggerire
una coesistenza complessa o una sovrapposizione intensiva di stadi del discor-
so strutturale.
Le discontinuità del progetto strutturalista possono essere distribuite all’in-
terno delle due dimensioni classiche: lungo l’asse delle successioni, con l’idea
che l’opera lévi-straussiana conosca fasi; e lungo l’asse delle coesistenze, con
l’idea che essa enunci un discorso doppio, che descriva un doppio movimen-
to. Le due discontinuità coesistono nella misura in cui i momenti dell’opera si
distinguono per l’importanza concessa ad ognuno dei due movimenti, opposti
contrappuntisticamente nel corso di essa.
4
Ricordiamo che il contrario del “pensiero selvaggio” è il pensiero “addomesticato con il
fine di ottenere una rendita” (Lévi-Strauss, 1962).
160 Eduardo Viveiros de Castro
5
L’espressione è stata applicata da Jacques Donzelot (1977) a L’Anti-Edipo (Deleuze e
Guattari, 1972), noto manifesto post-strutturalista.
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo 161
Ogni mito è per sua natura una traduzione [...] esso si colloca, non già in una
lingua e in una cultura o sottocultura, ma nel punto di articolazione di queste con
altre lingue ed altre culture. Il mito quindi non è mai della propria lingua, bensì una
prospettiva su una lingua altra... (Lévi-Strauss, 1971: 576-577 [ed. it.: 607-608]).
Una struttura è sempre tra due: tra due varianti, tra due sequenze di uno stesso
mito... L’unità della struttura non è quella di una forma che si ripeterebbe iden-
ticamente in una ed un’altra variante, ma quella di una matrice che permette di
mostrare in cosa una variante è una trasformazione reale dell’altra... La struttura è
rigorosamente coestensiva alle sue attualizzazioni. Ecco perché Lévi-Strauss insiste
sulla differenza tra lo strutturalismo ed il formalismo, che ostinatamente si tende a
trascurare (Maniglier, op. cit.)6.
6
Ecco perché anche la ricerca di una “struttura del mito” in quanto oggetto sintagmatico
chiuso è un perfetto contro-senso. Come risalta da questa osservazione di Maniglier, e più en-
faticamente dalla dimostrazione di Mauro Almeida nell’articolo già citato, la trasformazione
strutturale per eccellenza, la formula canonica del mito, non permette di definire la “struttura
interna” di un mito – dato che ciò non esiste. Un mito non si distingue dalle sue versioni, la
composizione “interna” di una narrativa è della stessa natura delle sue trasformazioni “ester-
ne”. Ciò che avviene all’interno di un mito è ciò che permette di passare da un mito ad un
altro. Ogni mito è “come la bottiglia di Klein” (Lévi-Strauss, 1985: 209 e seguenti [ed. it.: 145
e seguenti]).
164 Eduardo Viveiros de Castro
VI
7
L’espressione “disequilibrio perpetuo” fa la sua prima comparsa ne Le strutture elementa-
ri, per descrivere il matrimonio avuncolare dei Tupi, popolo la cui mitologia è, forse non a caso,
il riferimento principale per il tema del disequilibrio perpetuo ne Storia di Lince.
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo 165
Ma è soltanto venti anni dopo, con Storia di Lince, che il mito accederà a
ciò che si potrebbe chiamare il suo momento propriamente speculativo, quan-
do esso trasforma il perpetuo disequilibrio da condizione a tema:
Qual è infatti l’ispirazione profonda di questi miti? [...] Essi rappresentano l’orga-
nizzazione progressiva del mondo e della società, nelle forme di una serie di bipar-
tizioni; ma senza che fra le parti, che risultano a ogni tappa, appaia mai una vera
uguaglianza. [...] Da tale squilibrio dinamico dipende il buon funzionamento del
sistema che, altrimenti, rischierebbe continuamente di cadere in stato d’inerzia.
Quel che implicitamente proclamano questi miti è che mai potranno essere gemelli
i poli fra i quali si ordinano i fenomeni naturali e la vita in società: cielo e terra,
fuoco e acqua, alto e basso, vicino e lontano, Indiani e non-Indiani, concittadini
e stranieri. L’intelligenza si adopera per accoppiarli, ma non riesce a stabilire fra
loro una parità. Perché sono queste variazioni differenziali in serie – così concepite
dal pensiero mitico – che mettono in moto la macchina del mondo (Lévi-Strauss,
1991: 90-91 [ed. it.: 58])8.
8
La parola finale di questo paragrafo, nell’originale, è “univers” - ma si è preferito qui il
termine “mondo” come un omaggio al massimo poema di Carlos Drumond de Andrade.
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo 167
VII
Non dobbiamo assolutamente dimenticare che questi atti di mediazione non rever-
sibili comportano pesanti contropartite: impoverimento quantitativo dell’ordine
naturale – nella durata, per il termine assegnato alla vita umana, nello spazio, per
la diminuzione del numero delle specie animali dopo la sua disastrosa impresa
celeste –; e, inoltre, impoverimento qualitativo dal momento che, per aver con-
quistato il fuoco, il picchio perde la maggior parte del suo ornamento di piume
rosse (M729); e se, in compenso, il merlo acquisisce il colore rosso del petto, questa
acquisizione assume la forma di una lesione anatomica conseguente al suo falli-
mento nel corso di quella medesima missione. Quindi, sia per la distruzione di
un’armonia primitiva, sia per l’introduzione di scarti differenziali che la alterano,
l’accedere dell’umanità alla cultura si accompagna, sul piano della natura, a una
sorta di degradazione che la fa passare dal continuo al discontinuo (Lévi-Strauss,
1971: 448 [ed. it.: 466]).
Questo è uno di quei passaggi quasi dispersi nella selva delle Mitologiche
che subito percepiamo come cruciali, quando l’ambiguità tra i due discorsi
dello strutturalismo, quello dell’ominizzazione trionfante de Le strutture ele-
mentari della parentela e quello della denuncia dell’auto-separazione dall’uma-
nità, viene “interiorizzata” analiticamente e messa in conto ad una riflessione
immanente al mito: sono i miti che raccontano le due storie e la retromarcia
non è poi così negativa, o almeno non solo negativa: la genesi della cultura è
degenerativa? E in questo caso, la retromarcia è rigenerativa? Quindi impos-
sibile? Semplicemente immaginaria? O peggio? Perché ci sono momenti in
cui la nostalgia del continuo appare a Lévi-Strauss come un sintomo di una
malattia reale provocata dalla proliferazione incontrollata del discontinuo, si
direbbe, e non solo come una mera fantasia o libertà immaginaria. Il riscalda-
mento globale della storia, o la fine delle storie fredde, è la fine della Natura9.
9
Questo passaggio echeggia la “morale dei miti” del finale de L’origine delle buone maniere
a tavola, che echeggia tanti altri passaggi, come quello dell’articolo in omaggio a Rousseau.
170 Eduardo Viveiros de Castro
VIII
Cito qui L’origine delle buone maniere a tavola: “In questo secolo in cui l’uomo si accanisce
nel distruggere innumerevoli forme di vita, dopo aver distrutto molte società la cui ricchezza e
diversità costituivano da tempo immemorabile il suo più splendido patrimonio, è più che mai
necessario dire, come fanno i miti, che un umanesimo ben orientato non comincia da sé stessi,
ma pone il mondo prima della vita, la vita prima dell’uomo, e il rispetto per gli altri esseri prima
dell’amor proprio. Né va dimenticato che essendo comunque destinato a terminare, nemmeno
un soggiorno di uno o due milioni di anni su questa terra può servire da scusa a qualsiasi specie,
anche alla specie umana, per appropriarsi del nostro pianeta come se fosse una cosa e per com-
portarvisi senza pudore e senza discrezione” (422 [ed. it.: 457]).
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo 171
Bibliografia
1
Questo testo è la traduzione dal portoghese dell’originale: “Do movimento ao fixo (e vice-
versa) em Lévi-Strauss”, pubblicato in: Caixeta De Queiroz R. e Nobre R. F. (Org.) (2008),
Lévi-Strauss. Leituras Brasileiras. Belo Horizonte: Editora da Ufmg.
174 Ruben Caixeta de Queiroz
rigore ed alla forma della sua analisi, avrebbe potuto abbandonare tutto ed
appena leggere i miti come se stesse ascoltando una musica. Prendo molto se-
riamente tali raccomandazioni, dato che esse mi confermano che l’opera lévi-
straussiana fugge da molto dello scientificismo che molti vogliono attribuirle,
suggeriscono quanto il romanticismo ed il classicismo si confondono nel suo
sguardo antropologico (come ben dice Marcio Goldman in un suo articolo,
2003), mi portano a credere che di fatto l’antropologia di Lévi-Strauss sia una
antropologia del sensibile, interessata tanto alla scienza quanto all’estetica.
Questa presentazione vuole dire tutto ciò in altra maniera: l’antropologia lévi-
straussiana è multipla e, prima di tutto, essa accoglie nel suo seno l’altro ed il
pensiero nativo, che, lo sappiamo, si diffonde per il cielo e per la terra, per il
cosmo e per il socius, per la speculazione filosofica e per la prassi. Questo è
anche il pensiero di Lévi-Strauss; è difficile, o impossibile, racchiuderlo, clas-
sificarlo, proporre tappe di sviluppo. Mi si lasci, quindi, parlare di due o tre
soli fatti che penso di sapere su di esso.
Una cosa porta ad un’altra, che, a sua volta, porta ad un’altra ancora.
Una cosa in relazione ad un’altra vuol dire altra cosa che non essa stessa
da sola o in relazione alla terza. In primo luogo, parlerò del dialogo o della
mescolanza tra il pensiero lévi-straussiano ed il pensiero indigeno, uno mol-
tiplica l’altro. In secondo luogo, mi interrogherò su di una lettura comune-
mente fatta a proposito dell’obiettività (scientifica) e della figura centrale
dell’opposizione o del dualismo, che sarebbero presenti, soprattutto, nei
primi scritti dell’autore. Infine, a partire dal tema del passaggio dal continuo
al discreto, molto presente nelle Mitologiche, articolo e ripresento gli scritti
di Bergson come quelli di Lévi-Strauss, nella speranza tanto di comprendere
meglio quel passaggio quanto di suggerire che il cinema potrebbe essere
stato una metafora o una allegoria tanto forte e stimolante quanto lo furono
la linguistica, la musica, la pittura, la poesia o la formula canonica utilizzata
dall’autore2.
2
Lévi-Strauss, nonostante avesse portato con sé una telecamera super 8 durante la propria
ricerca sul campo in Brasile nel 1936 e avesse fatto alcune riprese, non ha mai pensato al cinema
come ad un’arte maggiore, meno ancora come ad un linguaggio capace di ispirargli compara-
zioni del tipo di quelle che arrischio nel finale di questo capitolo. Nel suo libro di fotografia,
Saudades do Brasil, giunge a parlare addirittura in maniera annoiata dell’immagine in movimen-
to. Però, paradossalmente, vedremo che questo articolo dice esattamente che il pensiero lévi-
straussiano ha luogo in un movimento intenso e che se esso si ferma in qualche luogo è per, in
seguito, tornare a procedere, così come il fotogramma nel cinema, così come la vita, al di qua e
al di là della riflessione e della classificazione, come il pensiero indigeno, che si confonde, a vol-
te, con il pensiero di Lévi-Strauss, più vicino al rito che al mito, al sensibile che all’intelligibile,
anche se ogni sforzo viene fatto per unire l’uno con l’altro.
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss 175
Dialogo e molteplicità
La prima e più semplice cosa che dovrei sapere o dire sul pensiero di Lévi-
Strauss è che esso è stato costruito a partire da due ontologie: l’amerindia
e l’occidentale. In questo senso, non credo che sia stato un gesto gratuito,
articolato alla fine della sua lezione inaugurale al Collège de France, nel 1960,
il fatto che egli, dopo aver reso omaggio ai suoi maestri – passando per Boas,
Mauss e Durkheim –, abbia detto che le sue ultime parole di ringraziamento e
riconoscenza di un debito dovevano essere indirizzate ai
...selvaggi, la cui oscura tenacia ci offre modo di assegnare ai fatti umani le loro
vere dimensioni [...] quegli Indiani dei tropici, e i loro simili sparsi per il mondo,
che mi hanno insegnato il loro povero sapere in cui consiste, tuttavia, l’essenziale
delle conoscenze che voi mi avete incaricato di trasmettere ad altri [ed. it.: 82].
Ben oltre alla gratitudine verso gli indigeni, Lévi-Strauss dice in maniera
limpida che il suo pensiero non esisterebbe senza il loro; questo è il suo meto-
do, così come attesta il celebre passaggio de Il crudo ed il cotto:
Si può dire che nel suo articolo “L’analisi strutturale in linguistica ed an-
tropologia”, del 1945, la fonologia o la linguistica moderna rappresentino, per
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss 177
Lévi-Strauss, più che una fonte di ispirazione o una metafora per analizzare i
sistemi di parentela, l’inaugurazione del metodo strutturale. C’è qui una chiara
rivendicazione di un metodo scientifico per l’antropologia3. Ma un po’ alla
volta, nel corso della sua opera, come se si stesse rendendo conto che l’antro-
pologia si situa più vicina all’arte che non alla scienza – anche se scienza ed
arte, o mitologia e scienza, si avvicinano più che allontanarsi una dall’altra:
questa è la conclusione cui giungerà nel 1991, nella prefazione de Storia di Lin-
ce –, Lévi-Strauss utilizzerà metafore provenienti da altri domini per allargare
la comprensione del campo sociale o culturale: la musica, la pittura, la famosa
formula (canonica) matematica, ecc. Già nel finale delle Mitologiche, nelle ul-
time pagine de L’uomo nudo, dopo la traversata dell’universo mitologico delle
Americhe, Lévi-Strauss si rassegna al fatto che “i miti non ci dicono nulla che
ci informi sull’ordinamento dell’universo, sulla natura del reale, sull’origine
dell’uomo o sul suo destino” (Lévi-Strauss, 1991: 577 [ed. it.: 602]).
A partire da questa “confessione”, Joanna Overing approfitta per attacca-
re: dice che Lévi-Strauss sostiene la tesi secondo la quale il mondo reale può
essere rivelato solo dalla scienza e che, per lui, “gli eventi presentati dalla mito-
logia sono, in relazione a questo mondo reale rivelato dalla scienza, irrazionali
e falsi e, pertanto, comparabili alla storia minore, meno importanti: la storia
dei cronisti più oscuri” (Overing Kaplan, 1995: 111).
Eduardo Viveiros de Castro presenta un’altra analisi dell’opera di Lévi-
Strauss. Di fatto, egli non nega che i miti ci insegnano qualcosa sulle società
da cui provengono e, soprattutto, su certi modi fondamentali (e universali)
di operazione dello spirito umano. Allo stesso tempo, l’idea che i miti parlino
solamente del loro soggetto (la società e la mente umana) non viene sostenuta
da Viveiros de Castro4. Questo autore risale al 1955 per trovare nell’articolo
“La struttura dei miti”, di Lévi-Strauss, un argomento molto più interessante
secondo il quale, al posto di opporre
3
È in questo senso che Geertz (1978: 40 [ed. it.: 41]) accusa il metodo strutturalista in lin-
guistica e la sua versione antropologica di volere “capire gli uomini senza conoscerli”.
4
Sto utilizzando qui una versione preliminare di un articolo di Viveiros de Castro (s.d.), che
è stata in parte ripresa nel testo “O nativo relativo” (Viveiros de Castro, 2002a)
178 Ruben Caixeta de Queiroz
Ossia, più che una epistemologia che si costruirebbe sulle basi dell’oggetti-
vismo, ciò che il pensiero indigeno pensa, ciò che Lévi-Strauss intravede – so-
prattutto nel libro del 1991, Storia di Lince – è una ontologia dei soggetti.
Nonostante questo, ne “L’analisi strutturale in linguistica e in antropolo-
gia” Lévi-Strauss scommette che la fonologia può ricoprire, “nei confronti
delle scienze sociali, lo stesso compito rinnovatore che la fisica nucleare, per
esempio, ha avuto per l’insieme delle scienze esatte” (Lévi-Strauss, 1967: 47
[ed. it.: 47]). Queste scienze potrebbero, finalmente, abbandonare le analogie
con i sistemi biologico e meccanico e, in maniera più obiettiva, comprendere
i fatti della vita sociale in termini di segni linguistici e di struttura incosciente.
Ma, qui, ciò che importa ricordare è meno l’insegnamento della linguistica
che afferma che nel linguaggio si verifica la logica binaria, cioè la differenza,
l’opposizione e la relazione (un termine ha senso solo nella sua relazione con
un altro termine), quanto piuttosto che, per Lévi-Strauss, il modello della fo-
nologia ci permette di abbandonare l’atomismo e l’individualismo delle scuole
precedenti, perché, negli studi di parentela, ad esempio, il “sociologo si trova
in una situazione formalmente simile a quella del linguista fonologo: come i
fonemi, i termini di parentela sono elementi di significato; anch’essi acquista-
no tale significato solo a condizione di integrarsi in sistemi” (Idem: 47 [ed. it.:
48]).
Nei primi due capitoli de Le strutture elementari della parentela, del 1949,
Lévi-Strauss discute dell’opposizione tra natura e cultura, poiché la proibizio-
ne dell’incesto sarebbe l’istituzione capace di spiegare il passaggio dalla prima
alla seconda, ovvero, la vita in società sarebbe possibile per il doppio signifi-
cato di quella istituzione: allo stesso tempo in cui postula una regola negativa
(la proibizione di sposarsi all’interno del proprio gruppo), immediatamente
stabilisce una regola positiva (l’obbligo di sposarsi all’esterno del gruppo). Mi
sembra che Lévi-Strauss abbia sempre avuto ragione sulla doppia influenza
tra i due termini dell’opposizione, sul doppio cammino che porta all’altro, sul
terzo termine mediatore tra la Natura e la Cultura, il Crudo e il Cotto, il Con-
tinuo e il Discontinuo. Pertanto già ne Le strutture elementari della parentela
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss 179
In una tesi di mestrado del 2005, Pedro Augusto Lolli fa una critica ben
attenta di una certa lettura che vede nella coppia natura-cultura una mera op-
posizione binaria e statica, nella quale la continuità starebbe a lato del primo
termine e la discontinuità del secondo. Contro questa idea, la tesi propone:
Uno, l’abbandono dello statico in favore del dinamico; poi, l’abbandono di una
visione binarista a detrimento di una visione dialettica del continuo e del discreto;
infine, invece che una riflessione enfatizzata sulla distinzione natura e cultura, ve-
diamo una enfasi sempre maggiore sulle mediazioni tra la natura e la cultura (Lolli,
2005: 13).
5
Paradossalmente, in un bel passaggio, Pierre Sanchis (1995: 240), forse senza averne co-
scienza, colloca Lévi-Strauss a lato di Deleuze e Guattari e, con ciò, rende incoerente la critica
della coppia a Lévi-Strauss. Vediamo: “[lo] strutturalismo di Lévi-Strauss, al contrario di ciò
che molte volte si scrive, [è] uno strumento aperto e flessibile, perché un organismo [radcliffe-
browniano], semplicemente, è – e, essendo così com’è, funziona. Un insieme di relazioni tra re-
lazioni [lévi-straussiano] non è dell’ordine dell’«essere», della «cosa», ma del venire-ad-essere,
della freccia, della connotazione, dell’analogia, dell’omologia, del «simbolo», e così via”.
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss 181
arrivare a una corrispondenza dei rapporti. Perché l’animale, da parte sua, si di-
stribuisce secondo rapporti differenziali o opposizioni distintive di specie, e allo
stesso modo l’uomo, secondo i gruppi considerati” (Deleuze e Guattari, 1997: 16-
17 [ed. it.: 353]).
... perché l’accademismo pittorico potesse dormire tranquillamente, non era op-
portuno considerare El Greco come un essere sano e capace di rifiutare certi modi
di rappresentazione del mondo, ma come un malato le cui figure allungate testimo-
niavano soltanto di una malformazione del globo oculare... In questo come nell’al-
tro caso venivano consolidati nell’ordine della natura certi modi culturali che, se
fossero stati riconosciuti come tali, avrebbero immediatamente determinato altri
modi particolareggiati, ai quali veniva attribuito un valore universale (Lévi-Strauss,
1986: 12 [ed. it.: 6]).
E più avanti:
Per mantenere nella loro integrità e nello stesso tempo fondare i modi di pensare
dell’uomo normale, bianco e adulto, niente di più comodo che raccogliere fuori di
lui costumi e credenze – piuttosto eterogenei e difficilmente isolabili, per la veri-
tà – attorno ai quali si sarebbero cristallizzate come massa inerte, idee destinate a
rivelarsi meno inoffensive se si fosse reso necessario riconoscere la loro presenza e
la loro attività in tutte le civiltà, compresa la nostra. Il totemismo è, innanzitutto, la
proiezione al di fuori del nostro universo, e come per esorcismo, di atteggiamenti
182 Ruben Caixeta de Queiroz
mentali incompatibili con l’esigenza di una discontinuità tra uomo e natura, che il
pensiero cristiano considerava fondamentale (Idem: 12-13 [ed. it.: 7-8]).
casi un sistema discreto risulta da una distruzione di elementi, o dalla loro sot-
trazione da un insieme primitivo” (Idem: 75-76 [ed. it.: 80-81]), ossia, affinché
il sistema divenga ricco dal punto di vista logico e della significazione è neces-
sario effettuare un atto negativo: l’estrazione di elementi dalla rete continua.
Allo stesso tempo, Lévi-Strauss constata, subito dopo, ancora ne Il crudo
ed il cotto, quando tratta dell’insieme di miti che hanno come tema le Pleiadi,
il veleno e l’arcobaleno, così come nel volume due, Dal miele alle ceneri, che,
in questo percorso, c’è una traiettoria inversa, propriamente regressiva, che
va dalla cultura alla natura, dal discreto al continuo. A questo proposito due
passaggi de Il crudo ed il cotto sono, dal mio punto di vista, abbastanza chiari-
ficatori. Il primo:
Ed il secondo passaggio:
nella direzione della pratica, che sbocca nel rituale, che è così definito come
un procedimento ossessivo di frammentazione e ripetizione. Se il mito cerca di
stabilire le grandi discontinuità e le grandi differenze (natura e cultura, crudo
e cotto, cielo e terra, acqua e fuoco), incaricandosi anche, come abbiamo visto,
delle piccole differenze, il rito, al contrario, tende ad introdurre differenze
minuscole o infinitesimali, a tal punto che esse divengono quasi impercettibili.
Accompagniamo un lungo passaggio de L’uomo nudo. A proposito della fram-
mentazione, Lévi-Strauss dice che il rituale distingue, all’interno delle classi di
oggetti e dei tipi di gesti, fino all’infinito ed attribuisce valori discriminanti alle
più piccole sfumature. Concorrente alla frammentazione, si verifica il processo
di ripetizione, in cui lo stesso gesto o la stessa parola sono minuziosamente
messi in scena. Pertanto, da un lato, si trova la percezione delle minori diffe-
renze e, dall’altro, abbiamo la ripetizione pura ed esaustiva. In realtà, i pro-
cedimenti di frammentazione e di ripetizione si oppongono: nel primo caso
si tratta di introdurre differenze, per quanto piccole esse siano, in seno ad
operazioni che potrebbero apparire identiche; nel secondo caso si tratta di ri-
produrre fino a perderlo di vista lo stesso enunciato. Possiamo dire, però, che
le differenze rese infinitesimali tendono a confondersi in una quasi identità.
In questo momento, Lévi-Strauss avvicina il cinema al rito, nel senso che
anche lì si ritrovano i processi di frammentazione e ripetizione. L’autore cita
l’esperienza condotta da Worth e Adair tra i Navajo per dire che solamente
gli indigeni sono capaci, nel processo di montaggio, di percepire le differenze
infime tra due fotogrammi successivi, questo perché, specialisti di rituali, essi
sanno distinguere i minimi dettagli di un processo. Nel contempo, ciò che
più ci interessa qui è questo presupposto (tecnico-fisico-ideologico) venuto
dal cinema, secondo il quale, per catturare il movimento del mondo reale, c’è
bisogno di un dispositivo che frammenti questo movimento in 24 immagini
fisse per secondo, ossia che ci sia una differenza infima tra una immagine ed
un’altra. È questa differenza infima che rende possibile, nella proiezione, la
ricostruzione illusoria del movimento.
Facciamo un piccolo intervallo per, in un certo senso, poterne approfit-
tare ed arrivare alle conseguenze di questa comparazione proposta da Lévi-
Strauss. Tutti sappiamo che il cinema, in quanto spettacolo, è stato inventato
nel 1895 dai fratelli Lumière. Però, prima di loro, varie esperienze di studio
del movimento, con un obiettivo scientifico, ossia volte a svelare il mistero del
movimento della vita, erano state condotte da Muybridge e Marey. Ognuno
con il suo metodo, questi scienziati inventarono un dispositivo, la cronofoto-
grafia, che permetteva di analizzare il movimento, cioè i momenti in cui esso
si ferma, si fissa, si sospende. Ad esempio, per esaminare l’andatura di un
cavallo, Muybridge collocò lungo il suo cammino vari apparecchi collegati
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss 185
tra loro con un filo, in maniera tale che, muovendosi, il cavallo li azionasse
ed una immagine venisse catturata ad ogni singolo movimento dell’animale.
Detto in altra maniera, Muybridge e Marey perfezionarono una macchina per
analizzare il movimento che non poteva essere percepito ad occhio nudo. Ma,
paradossalmente, il movimento poteva essere analizzato solamente per mezzo
della sua fissazione, fermandolo. Da lì è nato il cinema: queste immagini fisse,
24 immagini al secondo, furono collocate una dopo l’altra e, per mezzo di un
proiettore – all’inizio la macchina per filmare era la stessa che proiettava –,
esse sfilavano in maniera da ricostruire il movimento, ossia la sintesi e l’illu-
sione del movimento. Muybridge o Marey avrebbero detto che non avrebbero
mai inventato il cinema, perché ciò che interessava loro era esattamente ana-
lizzare il movimento e vedere ciò che non era passibile di essere captato ad
occhio nudo. Ora, fare la sintesi del movimento, fare il cinema, è reintrodurre
la cecità (o l’illusione), non vedere più il momento in cui il cavallo appoggia lo
zoccolo al suolo.
Prima di tornare a Lévi-Strauss, citerei un altro esempio a partire dal cine-
ma. Dziga Vertov, quando realizzò L’uomo e la camera (1929), volle mostra-
re i procedimenti utilizzati nella costruzione di un film, oltre a fare un film.
Questo processo è complesso, ma mi piacerebbe qui mettere in risalto solo
un passaggio, che è quello nel quale il cineasta analizza l’immagine fissa ed in
movimento. Bisogna ricordare che Vertov aveva l’opinione che l’occhio della
camera fosse superiore a quello umano. Questo sarebbe incapace di “vedere
bene le cose” a causa dell’eccesso o della scarsità di luce nel mondo, della velo-
cità e della sovrapposizione degli esseri, infine, della confusione degli enti che
popolano la cornice delimitata dal nostro sguardo o dai nostri quadri mentali.
La macchina per fotografare e filmare, al contrario, apre o chiude il diaframma
per controllare la luce ed adeguarla alla sensibilità della pellicola, delimita un
quadro che contiene certi elementi e ne esclude altri, focalizza certi esseri e ne
sfoca altri. Ma come ciò avviene? Per un processo di esclusione, evidentemen-
te – qui ci troviamo nel dominio del mito –, ma anche attraverso un processo
di frammentazione, nella produzione di 24 immagini al secondo – ed entriamo
nel regno del rito. Vertov voleva, in un certo passaggio de L’uomo e la camera,
fare uscire lo spettatore dall’illusione, rivelandogli il processo di ricostruzione
del movimento, ossia di costruzione del film: mostrargli il gesto decomposto,
rallentato, accelerato, tagliato, sospeso, fermato. Il critico del cinema Jean-
Louis Comolli dice che, in questo istante, l’analisi proposta da Vertov
smaschera ciò che la sintesi nasconde: il flusso delle immagini è, in realtà, discon-
tinuo [...] La macchina riproduce all’inizio fotogrammi. In seguito essa induce a
trasformare questi fotogrammi, per definizione frammenti discontinui di materia,
186 Ruben Caixeta de Queiroz
di spazio e di tempo, in un insieme fuso, una cosa mentale che diviene più o meno
coerente e liscia (Comolli, 2004: 244).
6
Dopo il “Finale” de L’uomo nudo, Lévi-Strauss è tornato nei suoi ultimi scritti a comparare
il rito al cinema ed a situare entrambi nel dominio dell’illusorio: “Per quanto dettagliati siano, i
riti di caccia e di cottura delle capre potrebbero essere moltiplicati. Come le immagini di un film
cinematografico esaminate una ad una, non potranno ricostruire l’esperienza invivibile, eccetto
che nel pensiero, di un uomo che si trasformò in capra. A meno che, come le immagini di un
film, uno zelo pietoso produca tanti riti e li faccia sfilare tanto rapidamente che, proprio grazie a
questa mescolanza, creino l’illusione di un vissuto impossibile, poiché nessuna esperienza reale
gli è corrisposta o corrisponderà mai” (Lévi-Strauss, 1993: 84).
188 Ruben Caixeta de Queiroz
tro7. Quando l’uno o l’altro lanciano la propria rete sul mondo, molto fugge,
resiste, si divide. Ciò che resta è il sacrificio, il rito. Ciò che resta è il pensiero
degli indigeni ed il pensiero di Lévi-Strauss; l’uno non è l’antitesi dell’altro, è
un’altra cosa che uno e l’altro, non è la sintesi, è il multiplo, la differenza che
resiste.
Si può dire che Lévi-Strauss fosse, nel corso della sua opera, più preoccu-
pato della forma che della forza, dell’istante che del movimento, del fisso che
del flusso. Ma è giusto dire che sempre l’antropologo si trova di fronte alla for-
za, di fronte alla sintesi al posto dell’analisi (ricordo il passaggio de Il crudo ed
il cotto in cui Lévi-Strauss dice che il lettore, “superati i limiti dell’irritazione e
della noia, possa essere trasportato (in virtù del movimento che lo allontanerà
dal libro) verso la musica che è nei miti” [Lévi-Strauss, 2004: 52; ed. it.: 54]).
In questi momenti, egli si rincontra con il sensibile, l’invisibile, l’irrazionale,
il primitivo (nel senso di iniziale), il precario, infine, con il movimento (della
forza) e non con l’eternità (della forma). Così, è più che giusto collocare lato a
lato il pensiero di Lévi-Strauss, di Bergson e lo stesso pensiero indigeno.
Gilles Deleuze (1983: 11) dice, nella sua analisi dell’immagine-movimento
in Bergson (il che vorrebbe dire anche in Lévi-Strauss), che le cose e le perso-
ne sono sempre forzate a nascondersi nel momento in cui esse nascono. Ciò
si deve al fatto che esse sorgono in un contesto che ancora non le include.
Quello che era implicito fin dall’inizio appare in forma chiara solamente nel
corso del suo sviluppo, esattamente quando perde la propria forza. Inoltre,
continua Deleuze, è stato Bergson che ha trasformato la filosofia collocando
la questione del “nuovo” al posto di quella dell’eternità (come sono possibili
la produzione e l’apparizione di qualche cosa nuova?). Ora, è stato in questa
maniera che, senza che lo stesso Bergson lo sapesse o volesse, egli, analizzando
l’immagine-movimento, ha postulato l’essenza dell’immagine cinematografica.
E cosa determina il sorgere del cinema? È lo stesso Deleuze (Idem: 14) che ci
risponde: non solamente la foto, ma la foto istantanea (la foto in posa appar-
7
Dice Lévi-Strauss a proposito della sua analisi ne Il crudo ed il cotto: “Pertanto, a mano
a mano che la nebulosa si estende, il suo nucleo si condensa e si organizza. Filamenti sparsi si
saldano, certe lacune si colmano, nuove connessioni si stabiliscono, qualcosa che assomiglia a
un ordine traspare dietro il caos. [...] Nasce un corpo multidimensionale, le cui parti centrali
rivelano l’organizzazione, mentre intorno regnano ancora l’incertezza e la confusione” (Lévi-
Strauss, 2004: 21 [ed. it.: 15]).
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss 189
Noi prendiamo immagini (visioni) in maniera quasi istantanea dalla realtà che pas-
sa e, dato che esse sono caratteristiche di questa realtà, non è sufficiente metterle
in fila lungo un divenire astratto, uniforme, invisibile, situato nel fondo dell’appa-
recchio della conoscenza... Percezione, intelletto e linguaggio generalmente pro-
cedono in questa maniera. Che si tratti di pensare il divenire o di esprimerlo, o
anche di percepirlo, noi non facciamo altra cosa se non azionare una specie di
cinematografia interiore (Deleuze, 1983: 10).
Se comprendo bene ciò che Bergson dice, una “immagine” presa dal “mon-
do” è una immagine fissa “movimentata” dalle immagini già disposte nel no-
stro “apparecchio di conoscenza”. Questa “immagine” del “pensiero umano”,
è l’immagine che ho del pensiero che Lévi-Strauss fa a proposito del pensiero
mitologico: una rete lanciata sul mondo degli esseri e delle cose, nel tentativo,
sempre frustrato, di frenare e comprendere meglio il movimento (in perpetuo
disequilibrio) delle cose.
Di fronte a tutto questo, è possibile, credo, connettere Bergson a Lévi-
Strauss ed al pensiero indigeno, e questa triade, senza che nessuno lo sappia o
lo voglia dire in maniera esplicita, al pensiero cinematografico. Vediamo cosa
dice Lévi-Strauss a proposito degli indigeni Sioux e di Bergson per comprova-
re che ciò che pensa questo filosofo è lo stesso che pensano gli indigeni. Viene
detto, ne Il totemismo oggi, sui Sioux:
i venti, è lì che lui è stato. Gli alberi, gli animali, sono tutti i suoi punti di sosta...
(Dorsey in Lévi-Strauss, 1986: 125 [ed. it.: 138]).
Una grande corrente di energia creatrice si slancia nella materia per ottenere ciò
che può. Essa si è fermata sulla maggior parte dei punti; queste soste si traducono
ai nostri occhi con altrettante apparizioni di specie vive, cioè di organismi dove il
nostro sguardo, essenzialmente analitico e sintetico, distingue una moltitudine di
elementi che si coordinano per compiere una moltitudine di funzioni; il lavoro di
organizzazione non era, tuttavia, che la sosta stessa, atto semplice, analogo all’atto
di affondare un piede che determina istantaneamente migliaia di granelli di sabbia
a intendersi per offrire un disegno (Bergson in Lévi-Strauss, 1986: 125 [ed. it.:
138).
Ciò che Bergson pensa, con riferimento al passaggio citato, è ciò che pensa
la mitologia degli indigeni, è ciò che pensa Lévi-Strauss, è ciò che pensa il pit-
tore giapponese Kawanabe Kyôsai (1831-1889). D’accordo con Lévi-Strauss,
nel suo libro Guardare, ascoltare, leggere, Kyôsai
Ora, è così che succede anche nel cinema, perché ogni fotogramma che sfi-
la produce la dimenticanza nella memoria dello spettatore di quello che lo ha
preceduto, in maniera che io non vedo una immagine fissa, ma in movimento,
anche se fittizio. Allo stesso modo, nel cinema, un piano non solo succede
all’altro, ma cancella dalla memoria dello spettatore il piano precedente ed è
questo che lo mantiene nel presente cinematografico. Tutto ciò ci fa ricordare
due frasi di Lévi-Strauss: la prima di queste, detta nella già citata intervista
a Didier Eribon, ricorda un passaggio di Tristi tropici, nel quale l’etnologo
aveva detto di possedere una intelligenza neolitica: “non sono uno che capita-
lizza, che fa fruttare il sapere acquisito; sono piuttosto uno che si sposta su di
una frontiera sempre in movimento. Conta soltanto il lavoro del momento. E,
molto rapidamente, questo si annulla” (Eribon e Lévi-Strauss, 2005: 08 [ed.
it.: 8]). La seconda frase, scritta in Tristi tropici, è detta non più solamente a
proposito dell’autore, ma degli stessi indigeni e dell’umanità intera: “L’uomo
non crea cose veramente grandi che al principio; in qualunque campo, solo il
primo frutto è integralmente valido. Quelli che seguono sono esitanti e bal-
bettanti, e si affannano pezzo per pezzo a ricuperare il territorio superato”
(Lévi-Strauss, 1996: 386 [ed. it.: 397]).
Nel pensiero di Viveiros de Castro, nella scia del pensiero indigeno e del-
lo strutturalismo lévi-straussiano, il minoritario guadagna forza e potere, la
forma perde la forza, la forza guadagna forza, il sacrificio non è più il luogo
del non-senso. Il rito non è più solamente illusione, ma è, o dovrebbe essere,
anche una formula che pensa, tanto quanto il totemismo. Sto pensando alla
formula del cineasta francese Jean-Luc Godard: il cinema non è, o dovrebbe
non essere, solo una illusione per ingannare gli spettatori e vendere merci,
dovrebbe essere prima di tutto una formula che pensa. Di fronte a tutto ciò,
infine, oggi abbiamo bisogno di un sacrificio, direbbe Eduardo Viveiros de
Castro. Si legga, non prendere l’illusione come regno della sragione, ma assu-
mere la realtà come sua compagna, perché il mondo è multiplo, ibrido, fatto
di spirito e di materia, animalità ed umanità. Questo è ciò che penso a propo-
sito del prospettivismo, o meglio, ciò che Eduardo Viveiros de Castro pensa
a proposito dell’ontologia amerindia. Ma, prima di noi, è stato necessario che
esistesse Lévi-Strauss e, prima di qualsiasi altro, è stato necessario che esistes-
sero gli indigeni sudamericani.
(Molto di ciò che è stato detto in questo articolo è stato ispirato dagli scritti [e
dalle parole] di Eduardo Viveiros de Castro su Lévi-Strauss e sul pensiero degli
indigeni sudamericani, il tutto amalgamato in temi come il prospettivismo, lo
sciamanismo, il sacrificio, il totemismo, le organizzazioni dualiste. Si registri,
quindi, la mia gratitudine verso questo genuino pensatore.)
192 Ruben Caixeta de Queiroz
Bibliografia
1
Una versione anteriore di questo testo, del quale sono l’unico responsabile, è già stata pub-
blicata in Araujo ed altri (2008), un’altra è stata presentata alla Mesa Redonda 4 – in omaggio ai
100 anni di Lévi-Strauss – organizzata da Tânia Stolze Lima durante il 32° Encontro Anual da
anpocs (Caxambu, 27-31/10/2008). Ringrazio Samuel, Gaspar e Vincenzo per la preparazione
degli originali per la pubblicazione e Tânia [Stolze Lima, n.d.t.] per l’invito a partecipare alla
Mesa Redonda. Sono grato anche agli integranti il pubblico di questa per i commenti.
2
Come in Menezes Bastos (1978 [1999], 1982, 1990a, 1990b, 1993, 1995a, 1966) e due libri
in preparazione.
3
Per una considerazione di questo impatto nei campi musicologici, si veda, tra tanti altri
testi, Nattiez (1971, 1973a, 1973b), Imperty (1979, 1981) e Pousseur (1971), oltre ai lavori
riferiti nella nota 2 per una mappatura più sistematica. Si veda Merquior (1975) a proposito
dell’estetica generale dell’autore.
196 Rafael José de Menezes Bastos
4
Sulla forza suggestiva esercitata su di lui dalla musica occidentale – cui fa tante volte ri-
ferimento nel corso della sua opera – viene immediatamente alla mente il famoso passaggio di
Tristi Tropici, a proposito dell’invasione ossessiva del suo spirito, in Mato Grosso, da parte dello
Studio n° 3, opus 10, per piano di Chopin (Lévi-Strauss, 1986: 373-374 [ed. it.: 365]).
5
Si veda Menezes Bastos (1999: 52-54; 1990: 41-42) per una mappatura di queste critiche.
Per le incursioni musicologiche dell’autore, si veda il Finale de L’Homme Nu ed alcuni testi di
Guardare, Ascoltare, Leggere (1997a).
6
Mi riferisco al pensiero sulla musica classico-romantica. Brevemente, lì la musica viene
immaginata come una entità, per così dire, “in uno stato puro e libera da qualsiasi incarnazio-
ne” (si veda più avanti, come la matematica per Lévi-Strauss). Ho trattato questo argomento in
diversi testi (ad esempio, 1990a, 1995a, 1996).
9. Claude Lévi-Strauss, il Mito Amerindio e la Musica Occidentale 197
7
Conforme rispettivamente Lévi-Strauss (1991 [1964], 1971 e 1979 [1978]).
8
L’idea della partitura come simile al mito era già stata esposta dall’autore almeno fin dal
1955 (si veda 1970a: 232 [ed. it.: 237]).
9
Si veda Menezs Bastos (1996: 156-169, 176, nota 12).
10
La fuga cui Lévi-Strauss si riferisce è la Bachiana (1979: 72-73 [ed. it.: 62]).
11
Ho analizzato questo incrocio tra Lévi-Strauss e Spengler (si veda, 1973) in 1995a e 1996.
Nello stesso Finale, sostiene Lévi-Strauss, senza riferirsi a Spengler: “Quando il mito muore, la
musica diviene mitica così come le opere d’arte, quando muore la religione, cessano di essere
semplicemente belle per divenire sacre”(1971: 584 [ed. it.: 616]).
198 Rafael José de Menezes Bastos
12
Ricordo che per Weber il tratto distintivo della musica occidentale è la razionalità, mentre
per Adorno, la ratio progressiva (Menezes Bastos, 199a; 1995a, 1996).
9. Claude Lévi-Strauss, il Mito Amerindio e la Musica Occidentale 199
Bibliografia
13
Esiste una seconda edizione di questo libro, del 1999, quasi ipsis litteris in relazione alla
prima, pubblicata dalla Editora da Universidade Federal de Santa Catarina.
204 Rafael José de Menezes Bastos
1
Articolo pubblicato in portoghese ed in tedesco nei volumi a cura di Leibing & Bennin-
ghoff-Lühl (2001).
2
Ci riferiamo qui al concetto coniato da Roberto Cardoso de Oliveira (1972) per lo studio
delle tensioni e degli attriti interculturali che la società brasiliana, mediata dall’azione dello
Stato, stabilisce con le popolazioni indigene locali.
206 Ana Luzia Carvalho da Rocha e Cornelia Eckert
la vita sociale del Paese fin dalla sua formazione3. In questo senso, i discorsi
che presentano il Brasile come un “paese senza memoria” si riferiscono co-
stantemente al tema del “sottosviluppo”, del “ritardo”, della “marginalità”
e del capitalismo selvaggio come modi di trattamento concettuale delle que-
stioni della barbarie e della deformità che presiedono l’atto di fondazione del
corpo sociale in Brasile sulla base di sincretismi culturali, di mescolanze delle
razze.
Si potrebbe dire che i limiti della comprensione della logica contraddittoria
che regna nelle forme informi della vita sociale si basano sui miti di fondazione
del Nuovo Mondo che contaminano le interpretazioni a riguardo delle siste-
mazioni temporali nei Tropici, eternamente scisse tra le immagini della barba-
rie e della civilizzazione, dell’inferno e del paradiso. Tali “interpretazioni” del
Brasile come “un paese senza memoria” sono, quindi, impregnate dello stesso
spirito riduzionista e moralizzatore che ha retto i miti dell’implementazione
della civilizzazione nei Tropici, originati nello sguardo dell’eroe conquistatore
europeo e nell’avvento della scoperta e colonizzazione del Nuovo Mondo. La
stessa classificazione “scientifica” che trasfigura, più recentemente, il Nuovo
Mondo in Terzo Mondo già rivela il posto atopico occupato da Brasile, come
da altri paesi, all’interno di una visione eurocentrica della durata temporale, in
base alla concezione di un tempo lineare e progressista, dato che evoca l’idea
di un corpo sociale sincretico, la cui fattezza denuncia la presenza di una “ar-
monia” in tensione fra le proprie origini eterogenee (radici europee, africane,
indigene) all’interno della stessa idea dell’unità dell’“essere brasiliano”4.
La personalità etnica dell’“essere brasiliano”, che contempla la figura del
Terzo Mondo amalgamando, in uno stesso ed unico essere-stare collettivo, una
pluralità di stati, suggerisce la visione colonizzatrice della durata, ossia, una ma-
teria intermediaria per le sistemazioni temporali nei Tropici, materia inadegua-
tamente fluida ed imprecisa, in cui si svelano, a volte, le impressioni di mostruo-
sità e deformazione con le quali il fenomeno della memoria è stato abbordato
dal pensiero intellettuale prodotto in seno ai paradigmi classici. In questo senso,
il dualismo che regge la episteme classica applicata dall’Europa vittoriana agli
3
Questo tema costituisce il fulcro dello studio di Ana Luiza Carvalho da Rocha nella sua
tesi di dottorato (1994). I chiarimenti dell’analisi del contenuto sulla produzione del pensiero
scientifico brasiliano contenuti nelle note seguenti di questo capitolo sono stati estratti da tale
lavoro.
4
Questo è un tema costante nella letteratura nazionale, che appare nel folclore popolare in
forma dispregiativa, nella figura di Zé Ninguém o di Zé Povinho, ed in Monteiro Lobato, nella
figura del personaggio Jeca Tatu, secondo Roberto Da Matta (1981). Per altro verso, la figura
“meticcia” del popolo brasiliano è stata positivamente drammatizzata dal movimento moderni-
sta, in particolare da Mário de Andrade, nella sua opera Macunaìma.
208 Ana Luzia Carvalho da Rocha e Cornelia Eckert
altri popoli e civiltà arriva fino ai giorni nostri nella forma in cui gli intellettuali,
europei e no, riflettono sull’antagonismo insuperabile che scinde le ondulazio-
ni temporali in Brasile tra tradizionale/moderno, sviluppo/sottosviluppo, paesi
periferici/paesi egemonici, ritardo/modernità, rurale/urbano.
Ciò che si presenta è il tema del paradosso della coesistenza di molteplici
contrari nella formazione del corpo collettivo in Brasile, paese frequentemen-
te compreso attraverso la semplificazione riduttrice di un sapere intellettuale
cartesiano che cerca di allontanarsi dalla sensibilità relativista della persona or-
dinaria per raggiungere, in favore del reale, la pretesa oggettività. L’argomento
duale si trova, così, nel profondo degli orientamenti dei saperi scientifici che
tendono ad eliminare, nelle loro spiegazioni causali e materiali del ritardo e
della rovina del mito del Progresso nei Tropici, il residuo tangibile di un tem-
po lacunoso che accompagna la formazione della società brasiliana ignorando
la genealogia delle proprie categorie scientifiche sul piano mitologico5.
Il dilemma che fa da cornice alle rappresentazioni che costruiscono il Brasi-
le come “un paese senza memoria” istiga, quindi, a comprendere la temporali-
tà di una maniera di essere “brasiliana” che si realizza indipendentemente dal
monopolio etnocentrico in cui gravita la produzione dei saperi scientifici. Si
tratta forse del muoversi con l’ermeneutica del sospetto per suscitare le dimen-
ticanze ed i ricordi selettivi che danno significato a questa instabilità prescritta
a partire dallo sguardo del Centro per rivelare le tensioni, le trasformazioni ed
i conflitti che racchiudono un controdiscorso alle immagini museificate della
percezione dei “colonizzatori” moderni. In questi termini, prima di opporre il
Nord al Sud, la società patriarcale alla società di classe, la ragione sensibile al
rigore scientifico, si tratta di lavorare con il principio della tensione fondante
dell’oggettività scientifica. Si ritorna, lentamente, alla necessità di comprende-
re che il processo di produzione di concetti scientifici, prima di allontanarsi
dalla conoscenza ordinaria del senso comune, si nutre di esso6.
5
Questa polemica è riesaminata nella opposizione tra l’intuizione poetica della sociolo-
gia delle coccole e delle amicizie, una sociologia nordestina, metaerotica e metarazionale della
civilizzazione della canna da zucchero di Casa Grande e Senzala e di Sobrados e Mocambos di
Gilberto Freire, sociologia della benedizione paterna, in opposizione alla sociologia onnipoten-
te della fabbrica e della città, sociologia prometeica della lotta di classe, sociologia paulista di
Florestan Fernandes e di Otavio Ianni; o la sociologia del mondo caipira, di Parceiros do Rio Bo-
nito, di Antônio Cândido (1987), in cui letteratura e prosa scientifica si rinnovano in un quadro
interpretativo delle popolazioni cabocle del Paese, o ancora la sociologia del Brasile indigeno,
dei cicli minerali e vegetali della formazione del corpo sociale in Brasile, ossia, la sociologia
orgiastica di Darcy Ribeiro in Os Brasileiros (1969).
6
Negli anni ‘60, il pensiero sociale in Brasile ricerca le radici del Paese, in una comparazione
sempre maggiore tra i mali della civilizzazione nei Tropici e la drammatica del popolo porto-
10. La retorica di un mito: “Brasile, un paese senza memoria!” 209
ghese, in un tentativo di esorcizzare il suo passato impuro, attribuendo alla persona brasiliana
un fare cordiale, un jeitinho ed una malandragem, dimensioni plausibili di essere esplicitate alle
basi populiste della vita politica del Paese e delle sue élite abituate all’ombra del potere.
7
La non-contemporaneità della realtà brasiliana raggiunge il suo grado più critico con il
pensiero sociale del Brasile negli anni ‘60, attraverso la strada di una Sociologia critica e militan-
te, considerata all’epoca l’unico filo conduttore capace di sostenere un sapere sociologico atto
a promuovere, finalmente, la redenzione dell’anima barbara della società brasiliana per infine
portarla in paradiso. Il monoteismo dei valori marxisti che consolidarono il dominio delle classi
sociali si confronta con l’umanesimo pluridimensionale del tragitto antropologico della forma-
zione del corpo collettivo in America Latina.
210 Ana Luzia Carvalho da Rocha e Cornelia Eckert
Come scoprire il pulsare della vita nella forma-città, nelle sue stratificazioni
e rovine, nell’edificazione di nuovi topos urbani, nella demolizione di anti-
che strutture spaziali, nella ristrutturazione e sovrapposizione del significante
dell’opera architettonica? Si tratta qui di etnografare la memoria della durata
degli abitanti brasiliani nello svelamento delle opere della sinergia delle fanta-
sticherie della volontà e del riposo che nutre una comunità in relazione al suo
divenire8.
Legando a questo apprendimento le forme associative elaborate da Georg
Simmel (1984, 1989), diviene possibile captare, nelle memorie biografiche,
le forme della sua manifestazione concreta, che è la sua “forma” nella perce-
zione della sua esteriorità. La città si anima, così, con lo sforzo degli abitanti
di continuare nel tempo, di vivere concretamente le loro memorie pensate:
le sociabilità e le dinamiche quotidiane vanno disegnando mappe affettive di
appartenenza territoriale dei soggetti.
Si parte dall’idea simmeliana della città come una opera d’arte circoscritta
alla storia della cultura occidentale, attraverso la quale “leggiamo”, nell’estetica
urbana delle città brasiliane – tanto quanto nelle sue manifestazioni artistiche
e culturali –, il tema delle infrazioni che lo stile barocco offre alle regole del
pensiero occidentale classico in cui l’assurdo della estetizzazione delle masse
e del grottesco avanza sull’idea di coerenza, il mitico sul logico, l’immaginario
sul cogito.
Attuando come sistemi decentrati, alcune città brasiliane generarono, fin
dalla loro fondazione, forze che esercitavano pressione dall’interno verso
l’esterno dei loro limiti, generando un’armonia conflittuale tra perimetro-fron-
tiera-confine9. In questo senso, la configurazione di un décor e di un ambiente
urbano deforme per il continuo processo di distruzione e ricreazione può solo
essere messa a fuoco come realtà materiale (nelle sue strutture spaziali) se con-
sideriamo che la città può perpetuarsi solo se i suoi abitanti la riconquistano
quotidianamente nei loro sogni e fantasie.
8
A questo proposito abbiamo sviluppato un progetto di ricerca integrato sulle città in Brasi-
le, privilegiando Porto Alegre. Si tratta del Projeto de Pesquisa Integrado CNPq Estudo Antro-
pológico de Itinerários Urbanos, Memória Coletiva e Formas de Sociabilidade no Meio Urbano
Contemporâneo e del Banco de Imagens e Efeitos Visuais, www.biev.ufrgs.br
9
A proposito si veda la bibliografia sulla sociologia dello sviluppo e della trasformazione so-
ciale così come le teorie della modernizzazione e i suoi critici, con esponenti come Luiz Pereira,
Fernando Henrique Cardoso, Paul Singer e altri.
10. La retorica di un mito: “Brasile, un paese senza memoria!” 213
10
Ricorriamo qui a Ruben George Oliven, in A Parte e o Todo (1992), e a Gilberto Velho, in
Individualismo e Cultura (1981). Ci sembra interessante anche mettere a fuoco questa tematica a
partire dal pensiero di Gilles Deleuze, in particolare nell’opera Différence et Répétition (1968).
214 Ana Luzia Carvalho da Rocha e Cornelia Eckert
La storia di ogni individuo nella città è la storia delle situazioni che egli ha
affrontato nel suo territorio, ed è l’azione di questo soggetto in questi spazi
che fa di un episodio banale una situazione, per lui, di rivendicazione delle
sue tradizioni.
Si può supporre che le descrizioni etnografiche disarmoniche dei fenome-
ni della cultura urbana, nelle sue più differenti epoche, parlano “in quantità
maggiore o minore e in maniera più o meno profonda nelle opere anonime
del «vivere la città»” (Dorfles, 1973), ragione per cui significano un autentico
recupero dell’Immaginario negli studi sul mondo contemporaneo.
Schivando la pressione della storia immediata delle trasformazioni urba-
ne, l’estetica del disordine che configura la città del “Terzo Mondo” è qui
vista come il risultato del comportamento estetico di un popolo che incontra
riposo nell’adattabilità. È questa trasgressione di una retorica che riduce le
esperienze temporali dei brasiliani ad un paese senza memoria a cui ci siamo
riferiti, allegoria messa in dubbio dall’etnografia della memoria della durata
problematizzando il lavoro del popolo brasiliano nell’adattarsi alla materia de-
peribile del Tempo, svelando i contenuti latenti che contengono molto più del
tragitto immaginario di colui che pensa, parla, agisce ed interagisce.
In Brasile, la città mette in gioco le emozioni e le passioni collettive arcaiche
del suo popolo convivendo con la visione meccanica del mito del Progresso e
dell’Ordine. Proprio per la natura della sue “forme informi”, la città in Bra-
sile non acquisisce un valore estetico per le sue opere coltivate, ma per una
concezione differente della materia della vita urbana attribuita alla sensibilità
collettiva dei suoi abitanti. Il Brasile interpretato nella condizione di produtto-
re di sincretismi culturali e territorio di coesistenza di tempi sociali diversi ha
bisogno di essere rivisto attraverso l’angolo della sua memoria collettiva, per la
sovrapposizione di strati di durata in cui la presenza di principi contraddittori
permette al suo corpo sociale di ridisegnare, ogni giorno, il suo aspetto.
Bibliografia:
Celebrare l’Anno del Brasile in Francia, nel 2005, e l’anno della Francia in
Brasile, nel 2009, costituisce un esempio paradigmatico di quanto l’esotismo
sia ancora capace di provocare interesse nell’immaginario francese. Da un lato
e dall’altro la relazione continua in maniera asimmetrica. Dal lato di là, l’eso-
tismo senza riserve, dal lato di qua, la missione civilizzatrice della Francia nel
Brasile dei Tropici.
Nel corso del tempo, il Brasile si è presentato come una fonte di immagini
e rappresentazioni diverse, spesso oscillando tra la nostalgia di un eden tro-
picale, revival del primitivismo e altri stereotipi associati alla disuguaglianza
sociale; prossimo a ciò che, dopo Roger Bastide, si è convenuto nel mondo
francofono di chiamare Brésil, terre des contrastes. Lo sconfinamento di que-
sto campo semantico, tradotto per mezzo di segni, forme e rappresentazioni,
si esprime più chiaramente nei momenti in cui il Brasile diviene, per qualche
motivo speciale, eventuale oggetto di interesse nella stampa o nei mezzi di co-
municazione francesi, con ridondanti riferimenti alla miseria, alla violenza, al
narcotraffico, alla corruzione e a tante altre malefatte attribuite alla condizione
di paese periferico. Se da un lato questo “esotismo al contrario” – che abitual-
mente veicola le piccole e grandi tragedie quotidiane del popolo brasiliano –
trova uno spazio ed una ricezione presso il pubblico francese, dall’altro, non
resta indietro l’ambigua profusione di immagini di un paese che si pretende
anche di dipingere – dal punto di vista della cultura francese – attraverso l’altra
faccia della medaglia: idillico, sensuale e sincretico. A quest’ultima tendenza si
220 Antonio Motta
altro luogo, Musée du Quai Branly). In questo modo, la cosiddetta art nègre
avrebbe conosciuto un prestigio mai visto fino ad allora, includendo non solo
le maschere e le sculture africane – disputate tanto dal pubblico dei musei
quanto dai collezionisti privati –, come anche l’adesione alla moda di altre
tradizioni di origine africana, come il jazz americano che giungeva a Parigi con
la voce di Josephine Baker. Assieme a questa nuova sensibilità estetica, si dif-
fondeva il gusto per altri artefatti etnografici portati dall’Oceania, soprattutto
sculture della Polinesia e dell’Australia, e in seguito, dall’America, attraverso
i totem policromi degli indigeni Kwakiutl, del Canada, dei bastoni da danza,
dell’Isola di Pasqua, fino ai diversi oggetti della cultura materiale degli autoc-
toni brasiliani, come arte piumaria, ceramiche, ornamenti e utensili vari.
Quasi un secolo dopo, alcuni di questi oggetti etnografici composero la
collezione della esposizione temporanea, al Grand Palais, a Parigi, intitolata
Brésil indien: les arts des amérindiens, nel 2005. Si tratta dell’evento di punta
che ha segnato l’Anno del Brasile in Francia, la cui ultima sala è stata dedicata
alla spedizione di Claude e Dina Lévi-Strauss nel Brasile Centrale, degli anni
1935-1936, costituendo, anche se in maniera subliminale, un riferimento al
già consacrato libro Tristes Tropiques che, in quell’anno, festeggiava il suo cin-
quantesimo compleanno.
C’è spazio qui, quindi, per una parentesi, ossia per riprendere la questio-
ne iniziale sul nostalgico revival del mondo primitivo – probabile eredità del
rousseanismo – che, oltre ai Tristes Tropiques ed al suo autore, conta anche
su un buon lignaggio di autori ed opere che indagano ed esplorano l’esoti-
smo, che va da Blaise Cendras, passando per Alain Gheerbrandt in Orénoque-
Amazonie, Lucien Bodart, Le massacre des indiens, fino a tentativi più recenti,
come quello di Jean-Christophe Rufin, autore del romanzo Rouge Brésil, pre-
mio Goncourt nel 2001. Anche se tautologica, non abbiamo già incontrato la
risposta nella stessa definizione dell’esotismo?
essere lui un tipo particolare di viaggiatore che odia i viaggi e gli esploratori
e, più avanti, sentenziare che i viaggi sono “Ce que d’abord vous nous montrez,
voyages, c’est notre ordure lancée au visage de l’humanité” (Lévi-Strauss, 1955:
38).
Evidentemente, la sua famosa dichiarazione di principio incide meno
sull’atto soggettivo del viaggio in sé, pensato come incontro etnografico con
nuove realtà, che sui suoi effetti reali causati da successivi sfoghi esplorati-
vi che l’umanità ha conosciuto, soprattutto a partire dal xvi secolo, oriundi
dell’espansione coloniale europea. Gli ultimi grandi imperi coloniali sparirono
attorno alla metà del xx secolo, ma lasciarono segni indelebili come eredità ai
diversi popoli.
Tale questione ha cominciato ad essere cruciale per buona parte dell’antro-
pologia realizzata nella prima metà del secolo scorso, orientata da una sorta
di cattiva-coscienza in relazione alla civilizzazione occidentale. Non è senza
ragione che Tristes Tropiques è divenuto un riferimento critico imbattibile in
relazione ad una visione del Brasile, appresa attraverso un processo di corro-
siva trasformazione, specialmente per ciò che riguarda il destino funesto delle
popolazioni autoctone.
In questo senso, praticare l’etnologia, secondo Lévi-Strauss, almeno all’epo-
ca dei pionieri, era anche, in un primo momento, poter ancora sperimentare
una buona dose di esotismo: “et je me reconnais, voyageur, archéologue de
l’espace, cherchant vainement à reconstituer l’exotisme à l’aide de parcelles et de
débris”(Idem.: 44). Come i due viaggiatori belgi, personaggi di Joseph Con-
rad, che in pieno impenetrabile entroterra dell’Africa Nera vaticinavano me-
lanconici l’arrivo inevitabile della civilizzazione – la strada, il viale, la città –,
anche Lévi-Strauss non nasconde il proprio disappunto quando cammina per
la prima volta per la strade di Rio de Janeiro. Deluso di fronte alle evidenze
del processo di civilizzazione , si rimette al prodigioso spettacolo testimoniato
dai suoi antecedenti, gli antichi viaggiatori: “Je foule l’Avenida Rio-Branco ou
s’élevaient jadis les villages tupinamba, mais j’ai dans ma poche Jean de Léry,
bréviaire de l’ethnologue” (Idem.: 89). Però né Léry, nel xvi secolo, né Bou-
ganville, nel xviii secolo, riuscirono a percepire la ricchezza ed il significato di
questa diversità primordiale – riflette Lévi-Strauss. Ciò lo porta a lamentarsi
“di fronte alle ombre”, ovvero di ciò che gli antichi viaggiatori ebbero ancora
il privilegio di apprezzare, ossia l’esotismo nel suo stato più puro, meno conta-
minato, meno corrotto, nonostante mancasse loro la capacità di discernimento
e comprensione. Secoli dopo, in quello stesso luogo, già vestito con la pelle del
viaggiatore moderno, con la infelice coscienza della perdita, l’autore de Tristes
Tropiques se ne va lì “(…) voyageur moderne, courant après les vestiges d’une
réalité disparue”(Idem.: 45). Di conseguenza, sono i distanziamenti massimi,
11. Come un profumo bruciato 225
tradotti dal minimo grado di contatto tra alcuni gruppi indigeni e la civiliz-
zazione, ciò che di fatto durante la sua permanenza brasiliana lo ha sempre
sedotto come realtà etnografica. Si spiega così il suo disinteresse per un Brasile
che si modernizzava, la cui popolazione urbana si moltiplicava ogni giorno.
Un disprezzo anche per la forme e le dinamiche ibride della cultura urbana e
rurale, con le sue manifestazioni sincretiche variate, studiate all’epoca da Ba-
stide e tanti altri che giunsero ad interessarsi del Brasile. Anche con il passare
del tempo, mentre scrive Tristes Tropiques, non riesce a svincolarsi dall’imma-
gine fantasmatica di un paese esotico, recuperato dalla memoria involontaria
e dalle note di campo, restituite dalle “intermittences du coeur” metaforizzate
dalle rovine:
Le Brésil s’esquissait dans mon imagination comme des gerbes de palmiers con-
tournés, dissimulant des architectures bizarres, le tout baingné dans une odeur de
cassolette, détail olfactif introduit subrepticement, semble-t-il, par l’homophonie
inconsciemment perçue des mots “Brésil” et “grésiller”, mais qui, plus que tou-
te expérience acquise, explique qu’aujourd’hui encore je pense d’abord au Brésil
comme à un parfum brûlé (Idem.: 50).
i cavalieri di ventura (...) sarebbero quindi saggi nel cercare posizioni alternative
durante i tempi difficili che trascorreranno tra il momento in cui la pretesa esplora-
zione avrà definitivamente perso la propria maschera esotica e quello in cui si po-
tranno intraprendere sulla superficie della luna o di Marte i grandi viaggi rinnovati
del xvi secolo, in capsule di materiale plastico(Lévi-Strauss, 1956: 32).
ciò che già dà per certo, attraverso la testimonianza visuale ed istantanea delle
proprie fantasie. Non bisogna sottostimare, allo stesso tempo, la capacità ed
arguzia dei nativi che, per mezzo della persuasione narrativa delle loro storie,
ognuno a modo proprio, riescono molto bene ad “inscatolare” la cultura loca-
le, rendendola ancora più arrotondata, conforme al gusto del cliente straniero.
Secondo questo tipo di raziocinio, la maggiore arte della convinzione risiede
nel creare, a partire dal falso, l’illusione del genuinamente autentico e residua-
le, come traccia e prova di una cultura che, bene o male, allo sguardo dell’altro
straniero lasci trasparire l’illusione di continuare a resistere eroicamente alle
trasformazioni del tempo – già che l’aspetto dinamico e trasformativo di ogni
cultura sembra interessare solo agli antropologi. Da ciò l’attenzione dei pro-
tagonisti nativi, dei “trafficanti dell’esotico”, dei “ruffiani dell’esotico”, molte
volte con la connivenza degli stessi autoctoni, al mascherare le discontinuità e
gli influssi esterni che eventualmente possano arrivare a fratturare le immagini
che la maggioranza degli stranieri ancora insiste a portare via dal Brasile, evi-
tando ad ogni costo di frustrare i sedimentati clichês che essi credono di udire
e vedere attorno allo spettro di un Brasile atemporale, per questo più vicino
alla natura e più sottomesso alle sue leggi: sessualità, desublimazione, allegria,
istintività, sensitività, irrazionalità, ecc.
Allo stesso tempo, se ci sono immagini consumate da coloro che sono di
fuori, ci sono anche rappresentazioni interne, apprese dallo sguardo di dif-
ferenti strati della popolazione brasiliana. È sicuro che, tra queste due dif-
ficilmente si incontrerà una qualche corrispondenza. Anche perché il bene
più prezioso, coltivato dalle élite native, che hanno potuto viaggiare fuori dal
paese, per molto tempo sono state le attrazioni della cultura materiale conse-
gnate dalla cosiddetta “civilizzazione” e, per estensione, occidentalizzazione
del mondo. Ecco come opera il gioco antagonistico di interessi. Mentre i nativi
correvano dietro alla divulgata civilizzazione, alla prassi del progresso ed ai
beni materiali da esso derivanti, gli europei sbarcavano in Brasile avidi di sole,
di natura, inseguendo le ultime vestigia della cultura immateriale: esotismo
allo stato “più puro”. In questo modo, il pathos melanconico dell’esotismo
perduto di Lévi-Strauss guadagna nella versione nativa la “sindrome” della
nostalgia della civilizzazione, il complesso del “ritardo” ed altre sintomato-
logie di una cultura colonizzata. Basta ricordare il riferimento aneddotico al
poeta parnassiano Olavo Bilac, un vero dépaysé nel suo stesso paese:
Se Bilac resta qui a Rio de Janeiro a passeggiare tra il Beco das Cancelas e la Rua da
Vala muore della peggiore delle nostalgie di Parigi (...). Solo all’inizio del xx secolo
sarebbe iniziato un ciclo di viaggi annuali a Parigi. Là Bilac confesserà di odiare la
natura. Non disse nulla a nessuno, perché sarebbe stato per lui negativo in quanto
228 Antonio Motta
poeta rivelare tali sentimenti, ma la verità era questa: apprezzava solo gli ambienti
urbani e civilizzati (Broca, 1975: 93).
Non è meno vero anche che le attrattive di consumo dei settori medi ed alti
della società brasiliana contemporanea, già da alcuni anni addietro, si siano
dislocati verso il mondo nordamericano tecnologizzato dei beni, con i suoi
innumerevoli display di artefatti high tech, allo stesso tempo aumentando il
gusto per l’evasione e intrattenimento nel mondo spettacolarizzato delle re-
pliche o simulacri: medievali, gotici e rinascimentali, degli scenari glaciali con
eschimesi di cera, dell’habitat naturale con copie in scala reale degli indigeni.
Chinook, Irochesi, Algonchini e Kwakiutl, che disputano l’attenzione dei tu-
risti al fianco delle olografie pop e di virtualità che conferiscono al paesaggio
degli Stati Uniti l’aspetto unico e seduttore del falso assoluto. Allo stesso tem-
po, osservate le dovute proporzioni, la riproduzione dell’impuro esotico non
è più privilegio esclusivo della società nordamericana. Paesaggi lontani sono
ricostruiti anche in diverse regioni del Brasile, componendo mirabolanti sce-
nari di resort, di parchi tematici e di spazi di intrattenimento urbano, negoziati
a prezzo modico dalle agenzie di viaggi, secondo la logica massificatrice del
turismo interno.
Se le rappresentazioni stereotipate di Tahiti, con le sue capanne, servite
da giovani nativi con ornamenti floreali, possono essere incontrate facilmente
in qualsiasi luogo del nordest brasiliano, dune di sabbia del litorale cearense
e potiguara possono molto bene metaforizzarsi nel Sahara, includendo nella
permanenza del turista gite sul cammello condotto da alcuni contadini nor-
destini travestiti da berberi. Già nel Brasile Centrale – dove Lévi-Strauss rea-
lizzò la sua meteorica incursione etnografica tra gli indigeni Cadiueu, Bororo
e Nambiquara –, conosciuta anche come la regione del Pantanal, il turismo
rurale offre confortevoli lodges e safari domestici monitorati da informato-
ri nativi bilingue. Nell’alto Amazonas, invece, il turismo ecologico presenta
come opzione incursioni nella foresta, con diritto alla ricezione ed al pernot-
tamento in comunità indigene, con capanne stilizzate, ad una consulta con lo
sciamano e l’esibizione performatica di diversi rituali; nel sud del paese sono le
Alpi svizzere, le scenografie tedesche o scandinave che servono da sfondo per
coloro che cercano temperature invernali ed incanti che arrivano a ricordare
certi paesaggi europei. Ci sono anche coloro che preferiscono sperimentare
l’illusione di un Brasile più autentico, attraverso il cosiddetto turismo cultu-
rale, interagendo con manifestazioni della cultura popolare, quali: il Boi del
Maranhão, il Maracatu del Pernambuco, la Ala das Baianas della Mangueira,
la Bateria della Mocidade Independente de Padre Miguel, tra le altre tante
offerte disponibili attualmente nel mercato culturale.
11. Come un profumo bruciato 229
Bibliografia
Beatriz Perrone-Moisés
Ha ottenuto la laurea in Scienze Sociali all’Universidade de São Paulo (1982), il me-
strado in Antropologia Sociale all’Universidade Estadual de Campinas (1990) ed il
dottorato in Scienze Sociali (Antropologia Sociale) all’Universidade de São Paulo.
Attualmente è professoressa del Departamento de Antropologia della Universidade
de São Paulo e ricercatrice del Núcleo de História Indígena e do Indigenismo (USP),
dove coordina il gruppo di ricerca “Redes Ameríndias: geração e transformação de
relações nas Terras Baixas sul-americanas”.
Marcio Goldman
Ha conseguito la laurea in Scienze Sociali presso l’Universidade Federal Fluminense
(1979), il mestrado in Antropologia Sociale all’Universidade Federal do Rio de Ja-
neiro (1984) ed il dottorato in Antropologia Sociale presso la Universidade Federal
do Rio de Janeiro (1991). Attualmente è Professore Associato del Programa de Pós-
Graduação em Antropologia Social (ppgas), Departamento de Antropologia, Museu
Nacional, ufrj. È borsista della Fundação de Amparo à Pesquisa do Estado do Rio
236 Note sugli autori
Carlos Fausto
Laureato in Scienze Sociali alla Universidade de São Paulo (1985), mestrado in Antro-
pologia Sociale alla Universidade Federal do Rio de Janeiro (1991) e dottorato in An-
tropologia alla Universidade Federal do Rio de Janeiro (1997), è Professore Aggiunto
(iv) della Universidade Federal do Rio de Janeiro. Ha realizzato un post-dottorato al
Laboratoire d’Anthropologie Sociale (Collège de France/cnrs) ed è stato Professore
Visitante alla École Pratique des Hautes Études, alla École des Hautes Études en
Sciences Sociales ed alla Università di Chicago. Realizza ricerche in Amazzonia dal
1988, ed ha pubblicato libri ed articoli sui popoli indigeni, in particolare su guerra,
sciamanesimo, etnostoria, archeologia ed arte. Ha coordinato vari progetti di media e
ampia portata di carattere nazionale ed internazionale, oltre a progetti di abilitazione
e video realizzazione con Video Nas Aldeias e con l’Associação Indígena Kuikuro
dell’Alto Xingu. È membro dell’equipe di ricerca del Musée du Quai Branly ed ha
Note sugli autori 237
Cornelia Eckert
Laureata per la ricerca in Storia (1981) e laureata per l’insegnamento in Storia presso
la Universidade Federal do Rio Grande do Sul (1980), mestrado ppgas ifch ufrgs
(1985), dottore di ricerca in Antropologia Sociale - Paris v - Sorbonne, Université
René Descartes (1991) e post-dottorato in Antropologia Sonora e Visuale, Paris viii.
Professoressa Associata (i) del Departamento de Antropologia e del Programa de Pós
Graduação in Antropologia Sociale nella Universidade Federal do Rio Grande do
Sul. Linee di ricerca: antropologia visuale e immagine, antropologia urbana e am-
biente. Porta avanti ricerche su memoria collettiva, traiettoria, sociabilità nella città
a partire dall’etnografia di lunga durata. Coordina il portale biev (www.biev.ufrgs.br)
ed il Núcleo de Antropologia Visual. Attualmente partecipa alla Comissão Técnico-
científica della Fapergs, al Conselho Editorial ufrgs, alla Comissão Salão ic ufrgs, e
Note sugli autori 239
Antonio Motta
Ha ottenuto il mestrado in Storia Moderna e Contemporanea alla Université de Paris-
Sorbonne ed il dottorato di ricerca in Antropologia Sociale alla Ecole des Hautes
Etudes en Sciences Sociales, con la direzione di M. Godelier. Ha ottenuto un post-
dottorato alla Universidad Complutense di Madrid (ucm) ed uno alla Universidad
de Salamanca (usal). È Professore e ricercatore nel Programa de Pós-Graduação em
Antropologia della Universidade Federal do Pernambuco e nel Programa de Douto-
rado de Antropologia de Iberoamérica, all’Universidad de Salamanca. Attualmente è
il coordinatore del Programa de Pós-Graduação em Antropologia e coordinatore del
Corso di Laurea in Museologia della Universidade Federal do Pernambuco; dirige il
Laboratório de Estudos Avançados de Cultura Contemporânea (lec) ed il Labora-
tório de Pesquisa sobre Patrimônio (lpc).
240 Note sugli autori
Un sistema giuridico repubblicano: 241
242 Indice