Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Ashley Montagu (A Cura Di) - Il Buon Selvaggio. Educare Alla Non Aggressività PDF
Ashley Montagu (A Cura Di) - Il Buon Selvaggio. Educare Alla Non Aggressività PDF
M. Turnbull, R. I. Levy
IL BUON SELVAGGIO
elèuthera
A CURA DI ASHLEY MONTAGU
Titolo originale Learning Non-Aggression Traduzione dall’inglese di
Roberto Ambrosoli e Amedeo Bertolo
© 1978 Ashley Montagu © 1987, 1999
Editrice A coop. sezione Elèuthera
Copertina: Gruppo Artigiano Ricerche Visive
INDICE
Introduzione
(di Ashley Montagli)
1. Cooperazione e libertà tra i Fore della Nuova Guinea (di E.
Richard Sorenson)
2. Aggressività e ambiente educativo tra i !Kung (di Patricia
Draper)
3. Origini della nonviolenza:
il controllo dell’aggressività tra gli Inuit (di Jean L. Briggs)
4. Vita infantile in un contesto nonviolento: il caso dei Semai
(di Robert Knox Dentan)
5. L’Australia degli Aborigeni (di Catherine H. Bemdt)
6. La politica della nonviolenza (di Colin M. Tumbull)
7. Gentilezza tahitiana e controlli ridondanti (di Robert 1. Levy)
In memoria di Frank Speck
INTRODUZIONE
di Ashley Montagli
Note all’introduzione
1. Konrad Lorenz, Ori Aggression, Brace & World, Harcourt,
New York, 1966 (trad. it.: L’aggressività, Il Saggiatore,
Milano, 1983); Niko Tinbergen Ori War and Peace in
Animals and Man, «Science», 160 (1968) pp. 1411-18;
Robert Ardrey, African Genesis, Atheneum, New York, 1961;
Robert Ardrey, The Territorial Imperative, Atheneum, New
York, 1966; Robert Ardrey, The Social Contract, Atheneum,
New York, 1970; Robert Ardrey, The Hunting Hypothesis,
Atheneum, New York, 1976; Desmond Morris, The Naked
Ape, McGraw-Hill, New York, 1967 (trad. it.: La scimmia
nuda, Bompiani, Milano, 1984); Desmond Morris, The
Human Zoo, McGraw-Hill, New York, 1969 (trad. it.: Lo zoo
umano, Mondadori, Milano, 1970); Anthony Storr, Human
Aggression, Atheneum, New York, 1968; Anthony Storr,
Human Destructiveness, Basic Books, New York, 1972 (trad.
it.: La distruttività nell’uomo, Astrolabio, Roma, 1975).
2. Ronald M. Berndt, Excess and Restraint, University of
Chicago Press, Chicago, 1962.
3. Napoleon A. Chagnon, Yanomamo: The Fierce People, Holt,
Rinehart & Winston, New York, 1968.
4. W.H.R. Rivers, The Todas, Macmillan, Londra, 1906.
5. Ashley Montagu, The Nature of Human Aggression, Oxford
University Press, New York, 1976.
6. Robert A. Hinde, Bioìogical Bases of Human Social Behavior,
McGraw- Hill, New York, 1974, pp. 249-52 (trad. it.: Basi
biologiche del comportamento sociale e umano, Zanichelli,
Bologna, 1977).
7. Ashley Montagu, op. cit., pp. 14-15.
8. Margaret Mead, Sex and Temperament in Three Primitive
Societies, Morrow, New York, 1935 (trad. it.: Sesso e
temperamento in tre società primitive, Il Saggiatore, Milano,
1983).
9. C.H. Kempe e R. Helfer, The Battered Child, University of
Chicago Press, Chicago, 1968.
10. Ashley Montagu (a cura di), Culture and Human Development,
Prentice- Hall, Englewood Cliffs, 1975; Ashley Montagu (a cura
di), The Direction of Human Development, Hawthorn Books,
New York, 1970.
11. E. Richard Sorenson, The Edge of thè Forest: Land, Childhood
and Change in New Guinea, Smithsonian Institution Press,
Washington D.C., 1976.
12. Cfr. Ashley Montagu, The Direction of Human Development, cit.
13. Robert A. Hinde, Energy Models of Motivation, «Symposia of thè
Society for Experimental Biology», n. 14 (1960), pp. 119-230.
14. Léonard Berkowitz, Aggression: A Social Psychological Analysis,
McGraw-Hill, New York, 1962; Albert Bandura, Aggression: A
Social Learning Analysis, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1973.
15. Konrad Lorenz, On Aggression, cit., p. 244.
16. Vegezio, Epitoma Rei Militaris, 385, 3, Prologo.
I
COOPERAZIONE E LIBERTÀ TRA
I FORE DELLA NUOVA GUINEA
di E. Richard Sorenson [Smithsonian Institution,Washington D.C.]
Note al capitolo
1. Così [in inglese, gentle crucible. N.d.T.], in una
comunicazione privata (2 marzo 1977), John Marshall ha
definito il periodo pleistocenico di caccia-rac- colta.
2. Colin Tumbull, The Foresi People: a Study of thè Pygmies of
thè Congo, Simon and Schuster, New York, 1961 (trad. it.: I
Pigmei. Il popolo della foresta, Rus'oni, Milano, 1975).
3. E. Richard Sorenson, The Edge of thè Forest: Land,
Childhood and Change in a New Guinea Protoagricultural
Society, Smithsonian Institution Press, Washington D.C.,
1976.
4. R. Gardner e K.G. Heider, Gardens of War: Life and Death
in thè New Guinea Stone Age, Random House, New York,
1969.
5. In genere è la madre che porta i più piccoli, ma al crescere
del bambino essa condivide questa attività con altri individui
della sua cerchia sociale: in particolare sono i bambini più
grandicelli che aiutano a tenere e portare i più piccoli. I
neonati sono talvolta portati sulla schiena della madre in
ceste imbottite di morbida scorza e di foglie, come in un
«utero» artificiale, ma spesso sono anche portati sotto il
braccio. Al crescere, il bambino viene pure portato
appoggiato all’anca materna. I bambini più grandi che
badano ai piccini li portano spesso sull’anca ma altrettanto
spesso sulla schiena, cosa che invece non fanno gli adulti.
II
AGGRESSIVITÀ E AMBIENTE EDUCATIVO TRA I !KUNG
di Patricia Draper [university of New Mexico]
Economia ed ecologia
La spartizione
Modelli d’insediamento
Note al capitolo
1. Cfr. Biesele, Draper, Harpending, Howell, Katz, Konner, Lee,
Lee e DeVore, Shostak, Yellen.
2. Per un’analisi dei fattori della vita infantile tra i ÌKung
nomadi, cfr. Draper, 1976.
3. Tutti i bambini evitano d’allontanarsi molto nella savana, ma
l’età e il sesso contribuiscono a determinare la distanza
massima dall’accampamento cui si spingono abitualmente.
4. Per un’analisi del ruolo giocato dai sovrintendenti bantù nella
risoluzione delle dispute fra !Kung sedentari, cfr. Lee, 1972a.
5. Tra la popolazione del /Du/da è pratica usuale, per un
cacciatore, quella di ferire un animale, poi lasciarlo e
ritornare all’accampamento per la notte e riprendere a
seguirne le tracce la mattina successiva. Ci può volere,
infatti, tutta la notte perché il veleno delle frecce indebolisca
o uccida la preda e nel frattempo questa può fuggire per molti
chilometri. Inoltre il cacciatore può avere bisogno dell’aiuto
di altri uomini per portare la carne fino all’accampamento.
6. Per una bella descrizione delle invettive !kung in questo
contesto, cfr. Lee, 1969.
7. Polly Weisner, giovane ricercatrice dell’istituto di
Antropologia nell’Università del Michigan ha condotto uno
studio esaustivo dello hxaro tra i ÌKung delle regioni /Tai/tai
e IKangwa (Botswana).
8. Per una descrizione più completa dei modelli insediativi,
della densità abitativa e della loro correlazione con il
concetto di affollamento, cfr. Draper, 1973.
MARSHALL L., Sharing, Talking and Giving: Relief of Social
Tensions among thè ÌKung, in LEE R.B. e DEVORE I. (a cura di), op.
cit., 1976, pp. 350-71.
MARSHALL L., The ÌKung of Nyae Nyae, Harvard University Press,
Cambridge, Mass., 1976.
SERVICE E.R., The Hunters, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1966.
SHOSTAK M.L., A Zhun/twa Woman's Memories of Childhood, in
LEE R.B. e DEVORE I. (a cura di), op. cit., 1976, pp. 246-77.
THOMAS MARSHALL E., The Hannless People, Random House,
New York, 1958.
YELLEN J.E., Archaeological Investigations in Western Ngamiland,
Botswana, «Botswana Notes and Records», voi. 3, 1971.
YELLEN J.E., Settlement Pattern of thè ÌKung: An Archaeological
Perspective, in LEE R.B. e DEVORE I. (a cura di), op. cit., 1976, pp.
47-72.
YELLEN J.E. e LEE R.B. (1976), The Dobe-/Du/da Environment:
Considerations far a Hunting and Gathering Way ofLife, in LEE R.B.
e DEVORE I. (a cura di), op. cit., 1976, pp. 28-46.
III
ORIGINI DELLA NONVIOLENZA: IL CONTROLLO
DELL’AGGRESSIVITÀ TRA GLI INUIT
di Jean L. Briggs[Memorial University of Newfoundland.]
Gli ambienti fisici e sociali degli Utku e dei Qipi sono simili per
taluni versi e differenti per altri. Quando il presente studio è iniziato,
c’erano circa trentacinque Utku e cinquanta Qipi insediati nei loro
territori tradizionali. Entrambi i gruppi vivono in accampamenti
stagionalmente nomadi a circa centocinquanta chilometri di mare
aperto dal più vicino insediamento stabile, il che significa anche dai
vicini più prossimi. Tale insediamento è Gjoa Haven nel caso degli
Utku e Pangnirtung nel caso dei Qipi. In entrambi i casi questi
insediamenti costituiscono il col- legamento principale tra gli
accampamenti studiati e il mondo esterno (sia inuit sia
euroamericano). Gli uomini di entrambi i gruppi si recano negli
insediamenti, a piccoli gruppi, una volta al mese circa in inverno, per
scambiare pellicce con alimenti e altri beni di cui abbisognano. I Qipi
ci vanno anche in estate e i loro viaggi sono in ogni stagione più
veloci e più facili, dotati come sono di veicoli da neve e di barche a
motore. Gli Utku invece sono completamente tagliati fuori dal mare in
estate e in autunno, e nelle altre stagioni si spostano con slitte trainate
da cani. Per gli Utku il viaggio, tra andata e ritorno, prende da quattro
a dodici giorni, per i Qipi tre giorni in media. Le donne e i bambini dei
due gruppi prendono parte occasionalmente a questi viaggi, ma
raramente più d’una volta all’anno e in alcuni casi assai meno
frequentemente.
Questi viaggi «commerciali» sono pressoché l’unico contatto che
i due gruppi hanno con il mondo esterno, tranne visitatori occasionali:
Inuit che vivono negli insediamenti e che sono in giro per caccia;
funzionari pubblici degli insediamenti in visita di «controllo»; infine,
nel caso degli Utku, gruppi di pescatori sportivi che vanno e vengono
in luglio e agosto. Singoli individui di entrambi i gruppi sono stati
ricoverati in ospedali e alcuni bambini hanno fatto un po’ di scuola.
Nel complesso, tuttavia, il mondo esterno gioca un ruolo secondario
nella vita dell’accampamento. Entrambi i gruppi vivono in relativa
autosufficienza, adattandosi minimamente alla cultura occidentale,
tranne che per la pratica religiosa anglicana e per l’inglobamento di
taluni beni strumentali utili alla loro vita di cacciatori nomadi.
Per altri aspetti importanti, l’ambiente fisico e le condizioni di
vita, i due gruppi differiscono in modo rilevante. Gli Utku vivono
nella tundra ondulata, alla foce di un grande fiume. In inverno i loro
ricoveri sono igloo, in estate tende di tela. Il loro cibo è costituito per
lo più da pesci e il loro reddito monetario, molto scarso, viene dalle
pelli delle volpi che catturano con trappole durante i mesi invernali.
L’inventario dei beni familiari è semplicissimo, come si conviene a
gente che si sposta su slitte trainate da cani, in canoa o a piedi.
Carenze di combustibile, munizioni e cibi di scorta non sono
infrequenti tr agli Utku in ogni stagione, ma durante i mesi estivi e
autunnali , quando il disgelo li taglia fuori da Gjoa Haven, diventano
croniche.
Quanto ai Qipi, essi vivono alla base di nude montagne scoscese. In
estate vivono in tenda a doppia parete con un'intercapedine isolante,
tra i due teli, di erica secca. Queste tende possono essere riscaldate
fino a 20-25 °C mediante lampade ad olio di foca3, diversamente dagli
igloo utku che devono essere raffreddati, perché non si sciolgano,
quando la temperatura interna supera lo 0°. I Qipi hanno una dieta più
variata degli Utku. Cacciano la foca, il beluga [nome comune del
cetaceo Delphinapterus leu- cas, N.d.T.] e il caribù, inoltre quand’è
stagione si cibano di pesci, uccelli e uova. Il loro reddito monetario
proviene dalle pelli di foca e di norma è sufficiente a comprare cose
"di lusso" come registratori, giradischi, radio a onde corte, ecc., oltre
alle cose essenziali: cibo, vestiti, carburante, munizioni, veicoli da
neve, barche e motori per barche. Gli Utku sanno delle più floride
condizioni di vita delle popolazioni orientali, ma non sembra che si
sentano per questo frustrati dal loro ambiente più austero. Come mi
disse un giovanotto utku: «Se quest’inverno riesco a prendere dodici
volpi, posso comprare tutto quello che voglio».
Sia gli Utku sia i Qipi vivono in gruppi di parentela bilaterale.
All’epoca in cui cominciò il mio studio sugli Uktu, il nucleo centrale
del gruppo era costituito da due fratelli anziani e dai loro discendenti,
cioè tre figlie sposate o vedove e le loro famiglie. Il gruppo Qipi era
costituito da un uomo anziano, tre figlie sposate e un figlio sposato.
Entrambi i gruppi, poi, comprendevano anche alcuni altri uomini, con
le loro mogli e i loro figli, che erano imparentati con il nucleo centrale
in vari modi complicati. In entrambi i gruppi, ognuno era in grado di
specificare le sue relazioni di parentela con ogni altra persona del
gruppo, ma ciò non significa che l’uno e l’altro accampamento si
considerassero due entità omogenee, se non rispetto agli estranei.
Nelle loro relazioni reciproche c’erano linee di divisione che si
riflettevano in tensioni, in forme sottili d’antagonismo (pressoché
impercettibili al mio occhio) ed anche in modelli di dispersione
stagionale.
Per entrambi i gruppi l’inverno è la stagione per raggrupparsi;
nelle altre stagioni la gente vive in gruppetti sparsi, talvolta a portata
di vista gli uni degli altri, ma spesso anche a distanza assai maggiore.
In queste stagioni gli uomini si incontrano frequentemente durante le
battute di caccia e pesca, ma le donne e i bambini vedono raramente
quelli accampati lontano.
Tra i Qipi la famiglia è tendenzialmente nucleare ogniqualvolta è
possibile, cioè quando è disponibile sufficiente materiale da
costruzione (legni e tela). Anche le famiglie utku tendono ad essere
nucleari durante l’estate, ma in inverno due famiglie correlate
linearmente possono anche costruire igloo congiunti, forse per avere
più calore e per meglio spartirsi il cibo, il lavoro, la socialità.
Tra gli Utku non vi sono leader riconosciuti del gruppo. Ogni
capofamiglia dirige la sua propria famiglia ma non quelle degli altri.
Tra i Qipi, come tra altri Inuit orientali, i figli (e i generi) possono
continuare a rispettare, per certe faccende, i desideri dei loro padri (e
suoceri) anche dopo essersi sposati ed aver messo su la loro famiglia,
specialmente se vivono nello stesso accampamento. Nel caso dei Qipi,
al più anziano - «padre» di tutti loro - ogni membro
dell’accampamento riconosce una certa autorità. Egli non esercita tale
autorità nelle questioni quotidiane (se cacciare o no e che cosa e dove,
ad esempio), ma su decisioni di più ampia portata (come, ad esempio,
se andare o no a Pangnirtung) taluni accondiscendono ai suoi desideri.
Nessun capofamiglia può peraltro decidere di testa sua anche su tali
faccende: conformarsi ai desideri dell’anziano è volontario. Tuttavia
tale comportamento, chiamato lealtà, è spesso praticato.
Il significato dell ’aggressività
Le teorie normative
Categorie intermedie
Finora abbiamo parlato come se le categorie dei possessori e dei
non possessori di ihuma, di quelli che devono o meno essere trattati
protettivamente, fossero nettamente delimitate: da un lato gli umani e
dall’altro gli animali. Ma in realtà vi sono categorie intermedie: i
bambini, i bianchi, gli idioti, a costoro si attribuisce il possesso d'un
po' di ihuma (ma non un gran che). (Coerentemente, il modo in cui
queste categorie vengono trattate è altrettanto intermedio tra i modi in
cui vengono trattati gli umani adulti e gli animali 8. In questa sede mi
limito a prendere in considerazione i bambini. In primo luogo bambini
non godono di piena autonomia. Vengono influenzati, criticati,
persuasi e rimproverati, ma nel complesso non vengono picchiati. Più
precisamente, i bambini utku non vengono picchiati affatto e i bambini
qipi non vengono generalmente picchiati forte. Inoltre, gli adulti di
entrambi i gruppi hanno un atteggiamento ambivalente sui rimproveri.
Gli Utku ritengono che non siano necessari; "l'insegnante" dovrebbe
bastare perché, quando un bambino acquisterà l'ihuma, saprà
ricordare. Ma dicono anche che le madri (meno spesso dei padri)
s'impazientiscono e perciò sgridano. I Qipi sostengono la
contraddittoria convinzione che i rimproveri siano giusti e necessari
ma che una brava persona non ne faccia mai. Wd anche tra i Qipi
sembra che le madri siano più impazienti e propense ai rimbrotti dei
padri.
È corretto, dunque, che i bambini siano sottoposti a interferenze
assai più degli adulti, però essi non devono essere maltrattati
fisicamente. Non devono essere picchiati né tanto meno - beninteso -
uccisi. Al contrario, ai cani - che non hanno ihuma - non si può
insegnare (cioè, non gli si può dire) come comportarsi; devono perciò
essere picchiati.e i Qipi (ma non gli Utku) li uccidono anche,
assimilandoli in questo agli altri animali. Gli Utku preferiscono
abbandonare un cane non desiderato e lasciar morire da sé un cane
malato e sofferente. Per spiegare questa loro riluttanza a uccidere
dicono: «I cani sono come persone». In altre parole, l’aggressione
fisica è accettabile solo nei confronti di creature che non hanno
ihuma. Il fatto che i bambini occupino una posizione intermedia in
questo continuum è importante, perché legittima la giocosa disciplina
- fusione di affetto e di aggressività - attraverso la quale imparano a
temere l’aggressività.
Il fatto che i bambini hanno solo un po’ di ihuma significa che
essi vengono trattati come categoria intermedia non solo rispetto
all’autonomia ma anche rispetto al naklik, all’atteggiamento
protettivo. A prima vista non sembrerebbe vero. La gente dice:
«Nessuno suscita più sentimenti protettivi di un bambino piccolo», e
anziché essere trattati con meno naklik per il fatto di non avere ihuma,
essi sono trattati con più naklik di chiunque altro. Il che sembra
contraddire la mia tesi, negando quel continuum che ho descritto fra
trattamento delle creature con ihuma e senza ihuma. Se però si osserva
più da vicino il modo con cui viene espresso il naklik nei confronti dei
bambini, appare evidente che, sebbene i bambini non siano trattati con
la schietta aggressività usata verso gli animali, essi non sono neppure
trattati con la forma «pura» di gentilezza naklik considerata ideale per
le interazioni tra adulti. In altre parole, sebbene l’aggressività sotto
qualunque forma sia in teoria l’opposto del comportamento affettuoso,
l’affetto per i bambini si può esprimere in modo aggressivo. Ciò si può
vedere più palesemente tra i Qipi. Costoro hanno una parola, ugiangu,
che definisce il comportamento affettuosamente aggressivo. Quando si
chiede ai Qipi che cosa significhi ugiangu, viene risposto che vuol
dire aggredire e uccidere, e in questo senso il termine viene utilizzato
per i combattimenti tra cani. Ma viene anche utilizzato per una cagna
che uccide i suoi cuccioli neonati per «proteggerli» da un aggressore.
Infine, il termine si riferisce anche ad espressioni di intenso affetto
quali lo stringere fortemente un bambino, morderlo, dargli pacche...
tutti comportamenti più o meno dolorosi per il bambino stesso.
Anche gli Utku hanno una parola, kiilinngu, che indica uno stato
di eccitazione affettuosa espresso, ad esempio, abbracciando e
baciando intensamente il proprio bambino. Il comportamento
kiilinngu, come la maggior parte delle espressioni emozionali utku, è
più contenuto del comportamento ugiangu dei Qipi, e anche così non è
del tutto apprezzato, venendo giudicato forse un po’ puerile;
nondimeno è ai loro occhi comprensibile in quanto espressione
d’affetto. Le manifestazioni sia di kiilinngu sia di ugiangu sono
sufficientemente controllate, così da non fare veramente male al
bambino, e sono accompagnate da sorrisi, risate, schiamazzi; ma in
entrambe le società queste affettuose aggressioni possono arrivare al
punto di far piangere il bambino e farlo scappare via o indurlo a
calmare l’adulto aggressivo abbracciandolo oppure offrendogli un
pezzetto di cibo. Gli adulti si rendono allora conto che il bambino è
turbato e interpretano questa reazione come paura dell’affetto
confortandolo teneramente. Il rapporto che gli Inuit vedono tra questa
forma di comportamento aggressivo e l’amore è ben indicato dalla
spiegazione dell’ugiangu che mi ha dato una donna: «Un bambino che
s’è fatto male fa più tenerezza». Ritornerò più oltre su questa
spiegazione.
Vi è uno stretto parallelismo fra questo trattamento dei bambini
affettuoso-aggressivo e il modo con cui vengono trattati gli uccellini e
i cuccioli degli altri animali, i quali, pur non facendo parte d’una
categoria intermedia quanto a ihuma, sono purtutta- via su una linea di
confine in un altro senso, essendo nello stesso tempo animali e
«bambini». Anche questa posizione «di frontiera» si traduce in un
comportamento nei loro confronti in cui trovano posto sia
l’affettuosità sia l’aggressività. In questo caso, però, i due stati emotivi
non sono tra loro fusi - l’aggressione non è etichettata come affetto -
ma si alternano. In quanto animali i cuccioli possono essere uccisi, ma
allo stesso tempo, essendo piccoli e infantili, fanno tenerezza. Più
oltre darò una descrizione dell’insieme di tenerezza e indifferenza con
cui vengono trattati gli animali domestici: da un lato accarezzati,
coccolati, scaldati, nutriti; dall’altro molestati, tormentati, uccisi. Si
può notare un’analoga alternanza anche nella caccia dei piccoli
gabbiani non ancora capaci di volare. I Qipi organizzano in primavera
spedizioni speciali sulle alte scogliere dove nidificano i gabbiani per
sparare a questi uccellini, e le donne strillano di eccitazione quando ne
viene localizzato uno, proprio come strillano al vedere un gruppo di
beluga o un qualche altro animale da preda assai appetito. Però,
quando un gabbianetto viene colpito e cade sbattendo inutilmente le
aiucce, le donne ne seguono la caduta con affettuosi chiocciolii molto
simili a quelli che emettono quando un bambino si fa male o quando,
affettuosamente aggredito (ugiangu), si mette a piangere. Mi chiedo se
anche nel caso degli uccelli, come in quello dei bambini, la logica
emozionale sia che, se una creatura s’è fatta male, fa più tenerezza.
Esperienze di conferma
La paura della perdita viene inculcata in vari modi già nella prima
infanzia. Questa mia affermazione può forse apparire stupefacente
considerata la sollecitudine eccezionalmente affettuosa di cui sono
oggetto i piccoli inuit. Di giorno i bisogni infantili vengono raramente
frustrati. I piccoli utku sono portati sulla schiena (nel porta-infante)
per molto tempo, sia dalla madre sia da una baby-sitter che lo
restituisce alla madre al primo segno di disagio del bimbo o quando
s’addormenta. Poiché la madre sta in così intimo contatto fisico col
suo piccolo per tanta parte del tempo, essa può accorgersi dei più lievi
segnali di irrequietezza e di disagio. Sa quando si sveglia o
s’addormenta, quando ha paura, quando sta per bagnarsi e quando ha
fame. Tranne che per le rare occasioni in cui sta facendo qualcosa che
non può interrompere - come mettere i finimenti ai cani, caricare una
slitta o cercare di finire la costruzione di un igloo prima che faccia
buio - s’occupa dei bisogni del bimbo immediatamente, lo culla
dolcemente e gli parla con voce rassicurante anche se è troppo piccolo
per capire le parole. Un sintomo della sensibilità materna è il fatto che
sebbene il bimbo non porti pannolini, raramente la madre viene
bagnata: si toglie il bambino di dosso al primo segno che il piccolo sta
per urinare.
Anche i piccoli qipi sono spesso tenuti sulla schiena quando
devono essere trasportati da un posto all’altro, quando vanno tenuti al
sicuro e sotto controllo durante le visite a parenti e conoscenti, e
quando vanno calmati o addormentati se sono irrequieti o insonnoliti.
Però sono meno spesso tenuti sulla schiena mentre le loro madri
stanno lavorando in casa. Le tende qipi sono più tiepide degli igloo
utku e fa troppo caldo perché le donne si tengano addosso i loro
eskimo in casa. E anche un bimbo non corre il pericolo di raffreddarsi
standosene steso in una tenda riscaldata a 20-25°C. A causa, in parte,
di questa separazione fisica tra madre e figlio, le donne qipi tendono
ad essere un po’ meno immediatamente sensibili ai bisogni dei loro
piccoli. Nondimeno anch’esse ritengono, come le madri utku, che non
si debbano lasciar piangere a lungo i bimbi perché così «imparano a
piangere». Se stanno facendo un lavoro particolarmente sporco, come
raschiare via il grasso da una pelle di foca, possono consentire ad altri
adulti o a bambini più grandi di tranquillizzare temporaneamente il
piccolo dandogli dei buffetti, parlandogli dolcemente o prendendolo
su, ma in genere smettono di lavorare in pochi minuti per accudirlo.
Tuttavia in entrambe le società questo quadro di sensibilità
materna si applica assai più al comportamento diurno che a quello
notturno. Gli Utku e i Qipi dormono molto profondamente e sebbene i
bambini piccoli dormano di fianco alle loro madri, sotto la stessa
imbottita, esse spesso non li sentono quando piangono. E il sonno
pesante non ce l’hanno solo le madri. La maggior parte degli Inuit di
mia conoscenza dormono come sassi, abituati come sono a dormire in
presenza di altri adulti e di bambini che chiacchierano, giocano,
mangiano, gridano, e così via. Succede spesso che tutti i membri
d’una famiglia continuino a dormire mentre il piccolo piange ed è un
vicino (che non dormiva) che viene a svegliare la madre. Così,
nonostante l’estrema sollecitudine che caratterizza la cura dell’infante,
i bimbi sperimentano periodicamente la perdita del «diritto per nascita
all’assistenza».
La lezione che l’assistenza può andare persa è anche implicita in
un genere di presa in giro che si trova in entrambe le società e che
consiste nel rifiuto simulato dell’allattamento: la madre offre il petto
al bimbo, ma quando questi sta per afferrar
lo glielo sottrae ridendo e glielo tiene giusto fuori portata. E quando il
bimbo è abbastanza grande da attribuire al gesto un significato
minaccioso, la madre può offrire il suo petto a un altro bambino e
perfino lasciargli succhiare il latte. Talvolta questo è un modo per
indurre il suo bimbo a tettare; altre volte è un gioco che serve a
suscitare i suoi sentimenti naklik per il piccolo: un bambino che
protesta, come uno che soffre, fa tenerezza.
Questo genere di presa in giro viene raramente spinto fino al
punto di turbare seriamente il bimbo, ma è seguito da altre esperienze
più dure di rifiuto: sia il rifiuto ostile di bambini più grandi
(specialmente nel caso dei Qipi), sia il rifiuto per scherzo degli adulti.
Le prese in giro degli adulti (sia quelle che fanno parte del
comportamento ugiangu sia quelle finalizzate a ispirare ilira e a
verificare il processo di crescente autocontrollo) mettono spesso in
dubbio la stima che il bambino ha di sé. Una madre qipi, in un accesso
d’amore, può continuare a prendere in giro suo figlio, prima ancora
che sia in grado di capire, in questa maniera: «Credi forse d’essere
carino? Ti sbagli proprio. Devi piuttosto essere grato se il tal dei tali ti
vuol bene e vuole portarti sulla schiena, benché tu sia una cosuccia
talmente sgraziata». Non sono certa che le madri utku inizino questo
genere di scherzo altrettanto presto di quelle qipi, ma anch’esse
cominciano perlomeno quando il bimbo ha uno o due anni e vanno
avanti ben oltre l’età della comprensione. Dapprima, naturalmente, il
piccolo risponde all’atmosfera, al tono di voce che è tenero, anziché al
contenuto verbale; ma più avanti le madri possono anche usare un
tono più adatto alle parole e allora il bambino non è sempre sicuro se
deve o no prendere sul serio il gioco, a giudicare dalla sua espressione
solenne e attenta o depressa. Quando una madre bacia il piedino del
suo figlioletto d’un anno e dice in tono di scherzoso disgusto: «Uh,
come puzza!», madre e figlio sorridono o ridono assieme. Ma quando
la stessa madre dice alla figlia di tre anni, in tono di ripulsa beffarda:
«Non mi piaci per niente, sei una vecchia», la bambina piange. La
presa in giro è normalmente seguita da un’esplicita rassicurazione,
soprattutto se il bimbo è piccolo, ma mi chiedo se un residuo
d’insicurezza - di mancata certezza di piacere agli altri - non rimanga
ciononostante contribuendo al senso di ilira suscitato da questo genere
di scherzo. Una prova che ciò possa essere vero è fornita dalla
descrizione datami dell’ilira da un Inuit del centro (Netsilik): «Quando
vengo rimproverato, mi raggrinzi- sco, mi faccio piccolo, mi sento
alto così (un centimetro)... Non si dovrebbe mai dire a un bambino che
non è bravo, perché potrebbe crederci e ciò lo farebbe sentire una
nullità. Quando sono andato a lavorare per i bianchi (da giovane) ed
essi m’insultavano, credevo a tutto quello che dicevano e mi sentivo
malissimo». Ai bimbi qipi, diversamente da quelli utku, viene detto
che «non sono bravi». Generalmente ciò avviene in un contesto di
presa in giro e non di serio rimprovero, ma palesemente il piccolo ci
crede: il suo volto si fa triste e sembra sul punto di piangere. Subito il
suo «tormentatore» gli dice, in modo rassicurante: «E una bugia, ti
voglio bene. Bevi un po’ di tè».
La frase detta da una bambina utku di sei anni ben illustra sia
l’insicurezza di sé sia la sua associazione al timore della perdita. Essa
era stata lasciata con il nonno e una zia per alcune settimane, mentre i
suoi genitori e la maggior parte degli altri membri dell’accampamento
erano via per la caccia autunnale ai caribù. In quel frattempo, più
d’una volta mi aveva chiesto: «Non sono brava?». Questa bambina era
normalmente al centro dell’affettuosa attenzione di tutto
l’accampamento, non solo dei suoi genitori ma anche delle zie, degli
zii e del nonno. Penso che lasciata con due sole persone, che pur le
volevano bene anche se erano entrambe solite prenderla in giro nel
modo poc’anzi descritto, si sentisse come «a digiuno» d’affetto e
perciò insicura del suo stesso valore.
L’insicurezza di sé dev’essere generata nei bambini piccoli anche
da quell’esperienza d’essere abbandonati da bambini più grandi cui ho
accennato sopra e da liti con coetanei. I bimbetti qipi, quando sono
arrabbiati, sonc soliti prendere la frase scherzosa degli adulti «non sei
bravo» e rilanciarla senz’alcun umorismo ad altri bambini.
I bambini utku (ma in misura minore anche quelli qipi) possono
anche imparare a dubitare di piacere mettendo a confronto i loro
scoppi di ostilità e di petulanza con l’imperturbabile pazienza e
autocontrollo dei loro genitori. Una madre utku si presenta, in tutta
coerenza, come una «protettrice» nei confronti di pericoli ignoti e per
lo più immaginari. Può dire ad esempio: «Se fai quella cosa, i
lemming ti prenderanno; è meglio che tu venga qui, così ti posso
proteggere». È del tutto improbabile che essa dica, come ho sentito
dire da una madre qipi: «Faccio entrare i cani nella tenda». Essa è
invece gentile, paziente, comprensiva. La teoria del ihuma fa sì che
non sia per lei necessario vincere battaglie individuali e che sia
viceversa considerato uno scendere a livello infantile mettersi a
litigare con i propri figli. Essa invece fornisce un’immagine molto
coerente di quel
lo che dovrebbe essere il loro comportamento, aspettandosi che alla
fine - man mano che si svilupperà il loro ihuma - essi vi si conformino
sempre di più. Nei casi in cui il conflitto è inevitabile, una delle sue
armi principali è la resistenza passiva (vissuta forse dai piccoli come
rifiuto?). Una volta ho sentito un bambino, che stava sforzandosi di
imparare a controllare la sua ostilità, gridare durante un incubo:
«Mamma, mamma!... Sono cattivo, cattivo!» (Briggs, 1970, p. 145).
L’ostilità nei confronti della madre non può esprimersi direttamente,
perché non è approvata ma anche perché (specialmente nel caso degli
Utku) non se la merita proprio: è sempre così buona! L’ostilità dunque
viene rivolta contro se stessi e interiorizzata come insicurezza e ilira.
La paura di perdere le persone amate viene rafforzata anche dalle
minacce d’adozione e d’abbandono e dall’effettiva esperienza della
perdita. Molte di queste minacce vengono fatte in un contesto di presa
in giro, ma alcune no. Ad esempio, un bambino qipi che sta dando
fastidio mentre i genitori stanno facendo i bagagli per trasferirsi in un
altro accampamento, può sentirsi dire: «Smettila o ti lasciamo qui !».
La gente compare e scompare spesso in un accampamento di nomadi:
una zia o uno zio amati, un compagno di giochi o un fratello possono
andarsene per periodi lunghi o brevi; anche i padri vanno via per
lunghe battute di caccia o per viaggi «commerciali». E l’attenzione del
bambino viene spesso e volutamente richiamata su queste assenze:
«Dov’è il tale e il talaltro? Se ne sono andati tutti...». Gli viene chiesto
se sente la mancanza della tal persona e ogni stramberia inconsueta
del suo comportamento durante l’assenza della persona cara viene
attribuita alla solitudine del bambino. Talvolta viene anche
esplicitamente minacciato - per scherzo, beninteso - che la persona
assente non tornerà più: «Ti sbagli se credi che tuo padre ti porterà una
caramella, una gomma da masticare, qualcosa di buono da mangiare
(cioè amore). Non ti porterà niente perché non tornerà affatto». I più
piccoli reagiscono a questa presa in giro allo stesso modo in cui
reagiscono allo scherzo «non sei simpatico»: appaiono turbati e
devono essere confortati. '
Anche l’adozione è un fatto comune, vissuto nella realtà e
drammatizzato dalle prese in giro. Il tasso d’adozione tra gli Inuit è
alto e vi sono diversi bambini adottati sia tra gli Utku sia tra i Qipi 14.
Come mi disse una delle mie informatrici, lei stessa adottata: «Passare
da una famiglia a un’altra, perdere qualcuno che si ama... questa è una
delle cause principali (di malattia mentale)». Infine, la malattia e la
morte sono parte del mondo infantile inuit in modo inimmaginabile
per un bambino «protetto» del ceto medio urbano occidentale.
La paura della perdita e l’insicurezza di piacere agli altri possono
essere lette, credo, nella possessività verso le persone che è così tipica
di Utku e Qipi. Spessissimo, quando viene minacciato per scherzo di
perdere la sua amata nutrice e protettrice, il bimbetto reagisce
aggrappandosi alla persona che teme di perdere o protesta strillando e
cerca di picchiare chi lo minaccia agitando scompostamente le
braccia: in altre parole, la sua reazione consiste nell’accentuare il suo
comportamento dipendente e possessivo. La madre, naturalmente, lo
gratifica ridendo e coccolandolo. In realtà, sono gli stessi sentimenti
possessivi dell’adulto nei confronti del bimbo che stanno alla base di
questa forma di presa in giro, che consiste nel dirgli che può perderlo
e di conseguenza nel sollecitare il suo abbraccio. Una
giovane donna utku giocava ripetutamente, con la sua nipotina
preferita di due anni, a fìngere di uscire dalla tenda: «Ciao, adesso me
ne vado». Ogni volta la bimba strillava: «No!» e la zia, ridendo,
fingeva di accondiscendere alla richiesta e tornava indietro... e dopo
qualche minuto ripeteva il gioco. Alla fine, naturalmente, se ne andava
davvero e la bimba si calmava, ma non prima che la partenza fosse
stata vividamente drammatizzata e il sentimento possessivo infantile
potentemente risvegliato.
Ho segnalato come l’insicurezza d’essere benvoluti finisca con
l’associarsi alla possibilità di perdere una persona amata; ma si può
vedere anche come la stessa insicurezza spieghi le osservazioni
possessive fatte dai ragazzi più grandi e dagli adulti: «Il tale (o la tale)
non viene più a farci visita». Oppure (detto scherzosamente da
un’adolescente inuit alla sorella un po’ più giovane che sta per andare
a trovare un’amica): «Non ci vuoi bene», al che la sorellina risponde,
rassicurante: «Ma sì che ve ne voglio! Tomo subito. Veramente».
Note al capitolo
Riferimenti bibliografici
BATESON G., Toward a Theory of Schizophrenia (1956), in
SMELSER N.J. e SMELSER W.T. (a cura di), Personality and Social
Systems, Wiley, New York, 1963, pp. 172-87.
BIRKET-SMITH K., The Eskimos, Methuen, Londra, 1959.
BRIGGS J.L., Never in Anger: Portrait of an Eskimo Family,
Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1970.
BRIGGS J.L., The Origins of Nonviolence: Aggression in Two
Canadian Eskimo Groups, in MUENSTERBERGER W. (a cura di),
Psychoanalytic Study of Society, International Universities Press, New
York, 1975.
LANTIS M., The Social Culture of thè Nunivak Eskimo,
American Philosophical Society, Philadelphia, 1946.
MCELROY A.P., Continuity and Change in Baffin Island Inuit
Family Organization, «Western Canadian Journal of Anthropology», 5
(2), 1975, pp. 15-40.
WINNICOTT D.W., The Maturational Processes and thè
Facilitating Environment, Hogarth, Londra, 1965 (trad. it.: Sviluppo
affettivo e ambiente, Armando, Roma, 1979).
IV
VITA INFANTILE IN UN CONTESTO
N ON VIOLENTO : IL CASO DEI SEMAI
di Robert Knox Dentati[ State University of New York at Buffalo]
«Educazione»
«Nonviolenza»
Ai nostri occhi di occidentali la nonviolenza semai è un argomento
assai interessante. Ma per i Semai non costituisce una preoccupazione
centrale. Essi non manifestano timore che i loro figli possano divenire
violenti da adulti. Un simile timore non avrebbe senso nel contesto
semai tradizionale, e la tipica riluttanza a colpire gli altri viene
espressa facendo ricorso a luoghi comuni del tipo «E se l’altro ti
colpisce a sua volta?» Per i Semai essere nonviolenti equivale ad
essere ragionevoli.
Nonostante la loro manifesta indifferenza per il problema, i Semai
possono essere definiti nonviolenti per tre motivi principali. Il primo è
che, in contrapposizione a quanto accade presso altri popoli, essi non
vengono alle mani (come fanno gli americani, ad esempio) né si
scontrano in faide (come si usa presso altre popolazioni del sud-est
asiatico). Il secondo è che i Semai, spesso, esprimono apertamente il
timore di venire attaccati da gente di fuori, ed è per questo che
insegnano ai propri bambini a temere e a evitare gli estranei, specie i
non-Semai. Per loro la fuga è sempre preferibile allo scontro.
Il terzo motivo è che il concetto che i Semai hanno della violenza
sembra essere assai più ampio che presso gli euroamericani,
estendendosi a tutto ciò che può aumentare i rischi di danni fisici.
Perdere il controllo, quindi, può risultare disastroso. Questa
affermazione merita qualche esempio. Come si è già visto, qualunque
tipo di coercizione aumenta il rischio che la vittima si ammali o si
faccia male o muoia: educazione=coercizione=violenza. Quando i
Semai parlano dell’abitudine malese di picchiare i figli, scivolano
quasi invariabilmente dal termine pukul (colpire) al termine bunuh
(uccidere), senza dar l’impressione di aver voluto cambiare il senso
del discorso. Lo stesso vale per trattar male qualcuno, dare ordini,
comportarsi da prepotente e simili: i Semai dicono che così facendo è
facile che la vittima di questo comportamento possa inquietarsi,
ammalarsi, avere qualche brutto incidente e anche morire. Insomma, il
concetto di violenza presso i Semai ha un contenuto diverso che
presso gli euroamericani, ma è comunque più ampio. E inoltre
caratterizzato dal fatto di considerare i risultati dell’aggressività come
sempre fisici, in ultima analisi. In breve, il terzo motivo per cui i
Semai possono essere definiti «nonviolenti» è che per loro le azioni
violente, quelle che le persone per bene non devono compiere,
includono un ampio spettro comportamentale comprendente anche
azioni che ad altri popoli appaiono come semplici manifestazioni di
inimicizia o di necessaria disciplina.
Gli studiosi che hanno letto The Semai (Dentan, 1968a) si sono
spesso fatta l’idea stereotipata che questo sia un popolo di persone
compulsivamente portate ad essere gentili e amichevoli, per cause
genetiche o per qualche benigno disordine della personalità. Nessun
Semai pensa ciò, né lo pensa chiunque abbia passato con loro un po’
di tempo. Ad esempio, tra i Semai è frequente la maldicenza, che
assume forme quasi da arte drammatica. E basterà trascorrere sei mesi
in un villaggio semai per assistere ad almeno tre o quattro litigi
veramente seri, nei quali la gente alza la voce e minaccia di ricorrere
alla violenza fisica, anche se poi il passaggio a vie di fatto non
avviene. Robarchek (1977b) riporta il caso di liti così aspre da
richiedere un’assemblea generale di tutto il villaggio per essere
composte. Tra il 1955 e il 1977 sono stati compiuti almeno due
omicidi, e corre voce che ce ne siano stati anche altri due. Insomma, i
Semai sono nonviolenti solo nei tre sensi qui considerati.
«Semai»
La questione riformulata
Gravidanza
Amuleti domiciliari
Abluzioni rituali
Il parto
Dove avviene. Appena iniziano le doglie, la donna va a casa.
Il parto deve avvenire in un posto dotato di un pavimento fessurato, di
modo che il sangue e la placenta possano passare attraverso senza
contaminare la casa. Tutte le case dei Semai orientali hanno pavimenti
fatti di assicelle di bambù, disposte a 3-5 mm l’una dall’altra, onde
permettere ai rifiuti di cader fuori e alla brezza di entrare. Presso i
Semai occidentali, invece, alcune case hanno tutte le stanze dotate di
pavimento fatto di assi ben ravvicinate ad eccezione della cucina, che
è quindi l’unico luogo dove il parto può avvenire. I familiari
schermano la «zona-parto» con paraventi fatti di lenzuola o foglie di
palma.
Pericoli. Il sangue puerperale e la placenta sono considerati tanto
pericolosi che la gente usa degli eufemismi per indicarli, il che ha
indotto i primi studiosi dei Semai a ritenere che i termini usati per
definire la placenta fossero estremamente numerosi e variabili da una
località all’altra. L’odore delle secrezioni del parto attrae le forze
malefiche, specialmente lo (o gli) Spirito/i Uccello. Una traccia di tali
odori lasciata in un fiume attira gli spiriti malefici dell’acqua. Quindi
il marito deve prendere ogni precauzione al fine di evitare che la
placenta tocchi il terreno. Se le doglie iniziano in una località troppo
distante da un villaggio, il marito deve scavare nel terreno una sorta di
«cuccia», con il suo machete, e tappezzarla con foglie asciutte che
possano trattenere la placenta. Presso i Semai orientali, un tempo, i
mariti usavano intrecciare una piattaforma di circa un metro quadro,
poi la coprivano di terra e l’appendevano al di sotto dell’area dove
avrebbe avuto luogo il parto. Tale piattaforma restava lì fino a che non
cadeva il cordone ombelicale, dopo di che veniva appesa a un albero
in qualche luogo fresco della foresta tropicale, lontano dal villaggio. I
costumi dei Semai occidentali, descritti più avanti, assomigliano a
quelli dei malesi del Perak meridionale, ma sono comunque diversi
dai costumi malesi più tipici.
Assistenza al parto. P.D.R. Williams-Hunt (1952, p. 64) riferisce
che nell’area da lui visitata gli uomini di norma non forniscono
assistenza al parto, e in genere i Semai maschi dichiarano di non
gradire «tutto quel sangue». Nonostante ciò, presso i Semai chiunque
può fornire assistenza al parto. Gli amici, i parenti, i vicini, entrano ed
escono continuamente dalla casa della partoriente, portando cibo e
aiuto di vario genere. Se ciò non accade, il marito si sente offeso,
come nel caso di un uomo di Telom, che aveva notato che al parto di
sua moglie era intervenuta assai meno gente che a quello di un’altra
donna, che era stata visitata dall’intero villaggio.
Comunque, i visitatori si tengono lontani dall’area del parto vera
e propria, dove entrano solo il marito, l’adepto, la levatrice e i parenti
di sesso femminile che portano acqua bollente, o foglie e pietre calde.
Nessuno vorrebbe rischiare di mettere in pericolo la madre, la
levatrice o il nascituro portando fuori inavvertitamente gli odori
puerperali che le forze malefiche potrebbero percepire.
Morbilità. Stando ai dati gentilmente fornitici dal Ministero per
gli Aborigeni, in tutte le categorie d’età dei Semai si riscontra una
netta preponderanza degli individui di sesso maschile su quelli di
sesso femminile. Tale rapporto, anomalo rispetto a quello presente
presso la maggior parte degli altri popoli, sembra indicare un elevato
tasso di mortalità femminile durante o dopo il parto. Alan Fix (1971)
condivide questa conclusione. Le informazioni che egli ha raccolto nel
Satak, nel Pahang e nei territori semai sudorientali, dimostrano che il
parto è di gran lunga il pericolo principale affrontato dalle donne
durante gli anni in cui sono feconde; ad esso vanno attribuite 13 morti
su 29 (pari al 45%) e metà di quelle dovute a cause note. Richter
(1975) attribuisce la causa di tale elevato tasso di mortalità a probabili
infestazioni da nematodi (si veda più oltre), citando Chandler e Read
(1961)8:
Gli effetti delle infestazioni da nematodi sono particolarmente
gravi durante la gestazione, quando la richiesta di proteine e ferro da
parte del feto in sviluppo sottopone la madre a un ulteriore
impoverimento di sostanze nutritive. L’Anchilostoma provoca un
numero spaventoso di aborti ed è ritenuto essere causa di
complicazioni della gravidanza ancor più che la sifilide o l’epilessia.
La riduzione della capacità lavorativa dovuta a infestazione da
Anchilostoma può variare dal 25 fino al 50%, e la percentuale sale
ancora se si tiene conto delle malattie e dei decessi conseguenti (pp.
432-433).
In che misura ciò si risolva in danno per i figli è meno chiaro.
Comunque, i casi di piccoli morti in seguito alla perdita della madre
durante il primo anno di vita (9 su 77 morti dovute a cause accertate),
nonché di quelli deceduti nel corso della prima settimana di vita (17 su
77), sembrano indicare, secondo Fix (1971), che un terzo della
mortalità infantile nel Satak deriva da complicazioni puerperali.
Resoconto di un parto
La prima infanzia
Quella che segue è una descrizione basata su dichiarazioni rese
dai Semai. Le mie considerazioni sono riportate tra parentesi, sebbene
un po’ di interpretazione personale scivoli inevitabilmente in tutte le
traduzioni. Comunque, è logico che quanto la gente dice dell’infanzia
non corrisponde necessariamente a quanto la gente crede.
I Semai sembrano particolarmente attenti alla fragilità della vita
infantile, soprattutto rispetto a popoli che hanno un minor tasso di
mortalità infantile. Nell’est, dove i bambini hanno meno di una
probabilità su due di sopravvivere durante il primo anno di vita, la
gente appare più sensibile a questa fragilità che non all’ovest, dove la
mortalità infantile è circa la metà. Nell’est, ad esempio, le restrizioni
rituali volte a proteggere i neonati riguardano una maggiore varietà di
cibi, durano più a lungo, coinvolgono un maggior numero di persone,
e sono anche, a quanto pare, osservate con maggior scrupolosità
(vedere TABELLA II). Tali differenze subculturali potrebbero
rappresentare modi diversi di affrontare diverse situazioni di morbilità.
La perdita dell’anima
Il concetto di fanciullezza
«Timore» e «imbarazzo»
L’educazione al «timore»
Slniil
Aggressività
Conclusioni
Note al capitolo
1. Per una bibliografia di Stewart (scritti principali: ms., 1953-
54, 1954, 1962, 1972), si veda Coxhead e Miller (1976),
Regush e Regush (1977) e Tart (1972). Alcuni articoli sulla
terapia onirica senoi sono apparsi su «Psychology Today».
2. Tentiamo qui di identificare scientificamente le piante e gli
animali che interessano la vita dei Semai. Ciò appare utile per
tre ragioni. La prima è che una simile identificazione è
intrinsecamente interessante, come ogni materiale da
archivio. La seconda è che, come ha dimostrato Lévi-Strauss
(1966), è necessario avere una conoscenza dettagliata
deH’ambiente in cui vive un popolo per poter capire l’uso
che quest’ultimo ne fa. Terzo, gli studiosi occidentali
descrivono in genere i Malesi e i Semai come due popoli
nemici, mentre, al contrario, una etnobiologia completa
suggerisce che le due etnie in buona parte si sovrappongono.
Lo zenzero selvatico cui si allude nella leggenda dello Spirito
Uccello (brda ') è verosimilmente Zingiber sp. Il termine semai deriva
forse dal malese bedak, usato per indicare le macchie bianche che
restano sul corpo di qualcuno quando costui viene «toccato» con pasta
di riso. Il pesce è un ka ’ bakap (pesce rubino), oppure un ka’ kadag o
un ka’ ruan, nomi di origine malese che si riferiscono a
Ophiocephalus spp.; ka’ ruan corrisponde forse a Ophiocephalus
strìa- tus. Il fagiano argo è detto in lingua semai ceep mara ’, «uccello
anziano».
Per quanto concerne l’aspersorio, la corteccia preferita è quella
AeWipad (Ficus sp.). È possibile comunque usare anche corteccia
proveniente da qualche albero tipo «albero del pane» (Artocarpus
spp.), come lo smkab e lo slamei; il più usato è lo s’ug (Artocarpus
elastica) e il dkoh (Artocarpus polyphema). Vengono anche impiegate
essenze del genere Aquilaria, come gaalug (Aquilaria agallocha,
Aquilaria malaccensis). Un’altra fonte di corteccia è il famoso albero
ipoh o upas, Antiaris toxicaria, dooog in lingua semai. In mancanza di
meglio, può anche essere impiegato del rattan, detto coog sta’.
Sempre con riferimento all’aspersorio, le altre essenze interessate
sono il pmoleh (Filetia ridleyi), il ppulud (Urena lobata), lo slbok
(Oureatea crocea, Susum malayanum), lo spad (Mallotus sp.) e il
tabar (Costus speciosus, Kalanchoe pinnata). Per l’uso che di tali
essenze viene fatto in Malesia, si veda Burkill e Haniff (1929), Dentan
(1971), Gimlette (1971), Skeat (1900).
Le piante impiegate per le abluzioni rituali possono includere il
bttn buus (Ocimum sanctum), il bttn srey (Cymbopogon nardus), il
bttn kalib, il ckor e il pngkras. Bttn è la forma contratta di bttttd, una
pianta la cui fragranza è particolarmente gradita agli spiriti «utili».
L’amaranto corrisponde alla Ceiosia argentea e la cosiddetta essenza
di kijai è estratta dal Trìgonochlamys griffithii.
La fabbricazione della calce usata per la decorazione dei tubi da
bagno si trova descritta in Dentan (1968c). Il frutto rossastro usato per
il medesimo scopo è il sumba’, Bixa orellana, di origine caraibica.
Nei parti, si usa l’essenza di kijai prima ricordata, il brda’, e il
rmpuyig (Zingiber sp.), che i malesi impiegano come erbe medicinali.
Nella cura dei «figli novelli», i Semai usano il gaalug (vedi
sopra), cui vengono attribuite proprietà medicinali anche dai malesi.
L’essenza detta salung corrisponde forse a Psychotria sp. e deriva
probabilmente dalle parole malesi salang, sesalang e sulong (Burkill e
Haniff, 1929-30). La specie interessata dovrebbe essere, stando alle
prove contestuali, Psychotria stipulacea, sebbene i Semai dell’est
usino anche Psychotria sannentosa (gilik) per facilitare i parti e i
Temiar Psychotria rostrata per curare il malditesta. Il Canarium
(Canarium lit- torale) è detto dai Semai «alleviatore» (prsnlir), dal
verbo -slir che sembra significare «togliere un’infiammazione». Le
essenze sensitive includono verosimilmente Biophytum sensitivum.
Mimosa pudica e forse anche Biophytum adiantoides. Il termine semai
kado' -dak (forse una variazione del termine malese senduduk)
corrisponde probabilmente all'Uncaria pteropoda, la cui corteccia
contiene tannino.
La rana (tabeg) accusata di spaventare le anime con il suo
gracidare è il Bufo melanosticus.
Per quanto riguarda le «case degli spiriti» dei Semai dell’est le
piante magiche includono il già ricordato slbok, oltre al bun pnreh
(Goniothalamus scorte- chnii, Costus speciosus), che invece i Semai
dell’ovest impiegano come decotto per gli ammalati sfebbrati. All’est,
il legno ideale è lo stoog, Hibiscus macrophyllus, mentre all’ovest
viene data la preferenza al pulei (Alstonia spp., verosimilmente
Alstonia augustiloba, Alstonia scholaris, Alstonia spathulata) e allo
bdo' (Dyera spp.) entrambi alberi ritenuti frequentati da entità
soprannaturali (njani’). Lo bdo’, in particolare, forse a causa del color
rosso della sua linfa che la fa somigliare al sangue, è detto ospitare lo
Spirito dei Rami.
Il fungo fallico è denominato dai Semai btees kemook (fungo
fantasma, corrispondente ad Amorphophallus sp.) ed è ritenuto essere
il pene di un cadavere. Si veda a questo proposito anche Dentan
( 1968a).
3. Il Museo Americano di Storia Naturale possiede una ricca e
documentata collezione di oggetti semai, inclusi quelli
menzionati nel presente articolo. Dentan (1968a) elenca altre
collezioni, cui andrebbe aggiunta la collezione temiar del
Muzium Negara di Kuala Lampur e quella del Muzium
Negara di Singapore.
La coppa da bagno è chiamata takoj", termine forse correlato a
makos’ (gravido). L’aspersorio è un cnau, nome corrispondente al
verbo -cau, aspergere. Per il tubo da bagno è usata la parola malese
pancur, che significa appunto «tubo», oppure pancur takJO sostegno
degli spiriti è detto presso i Semai orientali sngrig, che può darsi
derivi dal nome srig, una specie di paniere per prendere i pesci. Presso
i Semai dell’ovest, invece, tale oggetto è detto tamu’, termine di
derivazione malese (il vocabolo originario significa grossomodo
«accogliere», «trattare come un ospite»). In entrambi i casi,
comunque, l’idea è che gli spiriti familiari sono così timidi che
bisogna in qualche modo «adescarli» perché intervengano ai «canti».
4. Si veda nota 2.
5. Si veda nota 2.
6. Si veda nota 2.
7. Di norma solo gli uomini divengono «adepti», ma a volte può
accadere anche a una donna (in tal caso essa è ritenuta
particolarmente abile). Per divenire adepto, una persona deve
avere un sogno, in cui uno spirito di famiglia gli dona una
melodia. Da quel momento, questo spirito (kloog) o anima
(rum) accorrerà in aiuto della persona tutte le volte che costui
canterà la melodia, purché nelle condizioni e nelle
circostanze appropriate (Dentan, 1968a). L’adepto di cui si
parla nel testo aveva un numero eccezionalmente elevato di
spiriti familiari, per la precisione nove, di potenza via via
decrescente:
• Nyani’ lata’, lo Spirito della Cascata, che gli si presentava in
sogno come un vecchio Semai dall’aria amichevole;
• Bah Ta’ Kuali', il Vecchio Signor Wok, con l’aspetto di un
vecchio cinese tristemente famoso perché non osservava i
tabù relativi al mescolamento dei cibi e metteva insieme cibi
ritualmente non miscibili, come appunto fanno i cinesi.
Appariva in sogno sorreggendo un bastone alle cui estremità
stavano appesi due canestri, contenenti tazze, piatti, bacchette
cinesi, riso, maiale, pesce, funghi, etc. Appariva anche sotto
l’aspetto di qualche animale, in genere un porco. La sua
apparizione in sogno era equiparata a una diagnosi di epatite;
• Bah Karau si presentava nei sogni come una tigre,
all’esterno, oppure come un giovane semai, in casa. Le tigri
sono spiriti familiari assai frequenti tra i Semai e i Temiar;
• Bah Lingsar, simile a Bah Ta’ Kuali’ nell’aspetto bestiale;
• Nyani’ Ceeb, lo Spirito Uccello;
• Karìm, Spirito del Vento,un giovanotto singalese
appartenente alla classe degli «spiriti del mare» (in
opposizione^ cosiddetti «spiriti di terra»), la conoscenza dei
quali viene dalla costa dove vivono i malesi;
• Tambi, Giovane Tamil, uno «spirito degli alberi» che, come
molti di essi, vive nei rami delle piante di bdj’ (si veda nota
2). Cura una malattia della pelle detta tma ’;
• Marà Tunggul, il Ceppo Anziano, si riferisce alle radici aeree
colonnari (tunggul) che sorreggono l’ampia chioma degli
alberi tipo baniani, all’ombra della quale la gente usa
riposarsi durante l’esecuzione dei lavori agricoli. La sua
presenza è indicativa di epatite e di cibi non mescolabili;
• Putrì Mayang Murei, la principessa Fiore di Palma, che
probabilmente è solo una pronuncia errata del termine malese
mayang mengurai, il fiore di palma che sboccia, usato nella
letteratura malese come simbolo di bellezza. Secondo
l’adepto, questo spirito vive in una sorgente, detta il Bagno
della Principessa, proprio sotto le cascate vicine al monte
sacro Rlau.
8. Fin dal 1963 questo tasso è stato drasticamente ridotto grazie
al Ministero per gli Aborigeni. Da quando la Malesia è
divenuta indipendente, l’assistenza
medica è divenuta eccezionalmente efficiente.
9. Si veda nota 2.
10. Si veda nota 2.
11. Si veda nota 2.
12. Per una trattazione più dettagliata dell’argomento, si veda Dentan
(1968a, 1968b).
13. Si veda nota 2.
14. Si veda nota 2.
Riferimenti bibliografici
ABDUL-HADI BIN HAJI HASAN, Sejarah ‘Alani Melayu, «The
Malay School Series», n. 7, 1925.
AHMAD BIN EMBUN, Hantu dengan Kerja-nya, 2 voli., Sinaran
Brothers, Singapore, s.d.
AHMAD EZANEE MANSSOR et al., Peringkat-peringkat umur di
kalangan Orang-orang Kensiu di Kedah dati Orang-orang Kintak
dati Temiar di Ulu Perak-satu lapuran pendahulan, «Manusia dan
Masyarakat», n. 2, 1973, pp. 117-25.
AHMAD SHAFFIE, Temiar di Pos Brooke, «Dewan Masharakat»,
ottobre, 1971, pp. 32-35.
AINSWORTH L., The Confessions of a Planter in Malaya, Witherby,
Londra, 1933.
ALW1 BIN SHEIKH ALHADY, Malay Customs and Traditions,
Eastern Universities Press, Singapore, 1962.
BAHARON AZHAR BIN RAFFIEI, Engku-Spirit of Thunders,
«Federated Malay Museums Journal», n. 11, 1966, pp. 34-37.
BARBER N. (1971), The Warofthe Running Dogs, Collins, Londra,
1971. BENJAMIN G., Temiar Social Groupings, «Federation
Museums Journal», n.
15. 1966, pp. 1-24.
BOLTON J.M., Comunicazione personale sulle malattie semai, 1963.
BOLTON J.M., Jungle Rescue, «Straits Times Annual for 1964»,
1965, pp. 26-28.
BOLTON J.M., Medicai Services to thè Aborigines in West Malaysia,
«British Medicai Journal», 2, 1968, pp. 818-23.
BRAU DE ST.-POL LIAS M.F.X.J.J.H., Perak et les Orangs-Sakeys,
Parigi, 1883.
BURKILL I.H., A Dictionary of thè Economie Products of thè Malay
Peninsula, 2 voli., Londra, 1935.
BURKILL I.H. e HANIFF M., Malay Village Medicine, «The
Gardens’ Bulletin, Straits Settlements», 6, 1929-30, pp. 167-332.
CERRUTI G.B., Mes Amis les Sauvages, Milano, 1908.
CLIFFORD H.C., In a Corner of Asia, McBride, New York, 1925.
COLE F.C., The People of Malaysia, Van Nostrand, Princeton, 1945.
COLLINGS H.D., Aboriginal Notes, «Bulletin of thè Raffles Museum,
Series B», n. 4, 1949, pp. 86-103.
COXHEAD D. e HILLER S., Dreams, Avon, New York, 1976.
DENTAN R.K., Some Senoi Semai Dietary Restrictions, Tesi di
dottorato, Yale University, 1965.
DENTAN R.K., The Response to Intellectual Impairment among thè
Semai, «American Journal of Mental Deficiency», n. 71, 1967, pp.
764-766.
DENTAN R.K., The Semai, Holt, Rinehart & Winston, New York,
1968a.
DENTAN R.K., The Semai. Reponse to Mental Aberration,
«Bijdragen tot de Taal-, Land en Volkenkunde», n. 124, 1968b, pp.
135-58.
DENTAN R.K., Notes on Semai Ethnomalacology, «Malacologia», n.
7, 1968c, pp. 135-41.
DENTAN R.K., Labels and Rituals in Semai Classifìcation,
«Ethnology», n.
16. 1970a, pp. 16-25.
DENTAN R.K., Hocus Pocus and Extensionism in Central Malaya:
Notes on Semai Kinship Terminology, «American Anthropologist», n.
72, 1970b, pp. 358- 62.
DENTAN R.K., Some Senoi Semai Planting Techniques, «Economie
Botany», n. 25, 1971, pp. 136-159.
DENTAN R.K., IfThere Where No Malays, Who Would thè Semai
Be'!, in NAGATA J. (a cura di), Ethnic Pluralism in Malaysia,
Canadian South-Asian Society, Toronto, 1975.
DENTAN R.K., ldentity and Ethnic Contact: Perak, Malaysia,
«Journal of Asian Affairs», n. 1, 1976a.
DENTAN R.K., Ethnics and Ethics in Southeast Asia, in BANKS DJ.
(a cura di), Changing Identities in Southeast Asia, Mouton, L’Aia,
1976b.
DEUTSCH K.W., Nationalism and Social Communication, M.I.T.
Press, Cambridge, Mass., 19662.
DIFFLOTH G.F., Proto-Semai Phonology, «Federation Museums
Journal», n.
17. 1968, pp. 65-74.
DIFFLOTH G.F., Comunicazione personale, 1975.
DIFFLOTH G.F., Body Moves in Semai and French, manoscritto.
DUNN F., Comunicazione personale, 1964.
FIX A.G., Semai Senoi Population Structure and Genetic
Microdifferenta- tion, Tesi di dottorato, University of Michigan, 1971.
FORTES M., The Web of Kinship among thè Tallensi, Oxford
University Press, Londra, 1949.
GARDNER P.M., Symmetric Respect and Memorate Knowledge:
The Structure and Ecology of Individualist Culture, «Southwestern
Journal of Anthropology», n. 22, 1966, pp. 389-415.
GIMLETTE J.-D., Malay Poisons and Charm Cures, Oxford
University Press, Londra, 1971.
GIMLETTE J.-D. e THOMPSON H.W., A Dictionary of Malayan
Medicine, Oxford University Press, Singapore, 1971.
GRENN R., Anthropological Blood Grouping among thè Sakai,
«Bulletin of thè Raffles Museum, Series B», n. 4, 1949, pp. 130-132.
HOGAN-SHAIDALI S.A.E., Rapporto sulle statistiche Sakai,
inedito, archivio del Ministero per gli Aborigeni, 1950.
ISMA1L M., GIMLETTE J.-D. e BURKILL L.H., The Medicai
Book of Malayan Medicine, «The Gardens’ Bulletin, Straits
Settlements», n. 6, 1930, pp. 333-499.
LEECH H.W.C., About Kinta, «Journal of thè Straits Branch of
thè Royal Asiatic Society», n. 4,1880, pp. 21-33.
MACHADO A.D., The Hot Springs of Ulu Jelai, «Journal of thè
Straits Branch of thè Royal Asiatic Society», n. 33, 1900, pp. 263-64.
MCHUGH J.N., Hantu Hantu: Ghost Belief in Modem Malaya,
Eastern Universities Press, Singapore, 1959.
MIKLUCHO-MACLAY N.V., Dialects of thè Melanesian Tribes
in thè Malay Peninsula, «Journal of thè Straits Branch of thè Royal
Asiatic Society», n. 1, 1878, pp. 38-43.
MIKLUCHO-MACLAY N.V., Ethnological Excursions in thè
Malay Peninsula, November 1874 to October 1875, (relazione
preliminare), «Journal of thè Straits Branch of thè Royal Asiatic
Society», n. 2, 1879, pp. 205-21.
MILLER H., The Fighting Senoi, «Straits Times Annual 1960»,
1960, pp. 17-19.
MILLER H., Jungle War in Malaya, Arthur Barker, Londra, 1972.
MILLER N.E. e DOLLARD J., Social Leaming and Imitation,
Yale University Press, New Haven,1941.
MINISTRY OF THE INTERIOR, Statement of Policy Regarding
thè Administration of thè Aborigine Peoples of thè Federation of
Malaya, Ministry of thè Interior, Kuala Lampur,1961.
MOSS P., She Patrols 400 Miles of High Jungle, «Sunday Mail»,
lì novembre 1962.
NEEDHAM R., Temer Names, «Journal of thè Straits Branch of thè
Royal Asiatic Society», n. 37, 1964, pp. 121-25.
NEEDHAM R., Belief Language and Experience, University of
Chicago Press, Chicago, 1972.
NG YOOK YOON, Science Reaches thè Jungle Folk, «Sunday Mail»,
5 novembre 1961.
POLUN1N I., The Medicai Naturai History of thè Malayan
Aborigines, «Medicai Journal of Malaya», n. 8, 1953, pp. 55-174.
PORTEUS S.D., Primitive Intelligence and Environment, Macmillan,
New York, 1937.
PRICE J.A., Sharing: thè Integration of Intimate Economies,
«Anthropologica», n. 17, 1975, pp. 3-26.
REGUSH J.V. e N.M., Dream Worlds, Signet Books, New York, 1977.
RICHTER L.B., Comunicazione personale, 1977.
ROBARCHEK C.A., Tradeoffs in trading with traders, Relazione
presentata alla Western Conference of thè Association for Asian
Studies, Flagstaff, Arizona, 1976.
ROBARCHEK C.A., Learning to Fear: A Case Study in Emotional
Conditioning, Relazione presentata alla Western Conference of thè
Association for Asian Studies, Flagstaff, Arizona, 1976.
ROBARCHEK C.A., Semai Nonviolence: A Systems Approach to
Understanding, Tesi di dottorato. University of California, Riverside,
1977a.
ROBARCHEK C.A., Conflict, Emotion and Abreaction: Conflict
Resolution among thè Semai Senoi, Relazione presentata al convegno
annuale della South- westem Anthropological Association, San Diego,
California, 1977b.
SCHEBESTA P., Sakai in Malakka, «Archiv fUr Rassenbilder», n. 9,
1926, pp. 81-90.
SCHEBESTA P., Religiose Anschauungen der Semang ìiber die
Orang hidop (die Unsterblichen), «Archiv fUr
Religionswissenschaft», n. 25, 1927, pp. 5-35.
SKEAT W.W. e BLAGDEN C.O., Pagan Races ofthe Malay
Peninsula, 2 voli., Macmillan, Londra, 1906.
SKEAT W.W., Malay Magic, Macmillan, Londra, 1900.
STEWART K., A Report on Porteus Maze Test resultsfrom some of thè
racial groups of southeastern Asia and thè peripheral island, tns.,
estratti in PORTEUS
S.D., Primitive Intelligence and Environment, Macmillan, New York
1937.
STEWART K., Culture and Personality in Two Primitive Groups,
«Complex», n. 9, 1953-1954, pp. 3-23.
STEWART K., Mental Hygiene and World Peace, «Mental Hygiene»,
n. 38,
1954, pp. 387-403.
STEWART K., The Dream Comes ofAge, «Mental Hygiene», n. 46,
1962, pp. 230-37.
STEWART K., Dream Theory in Malaya, in TART C.T. (a cura di),
Altered States of Consciousness, Anchor, New York, 1972.
TWEEDIE M.W.F., The Snakes of Malay, Government Printing
Office, Singapore, 19612.
WHEELER L.R., The Modem Malay, Alien and Unwin, Londra, 1928.
WHITING, J.W.M. e CHILD I.L., Child Training and Personality,
Yale University Press, New Haven, 1962.
W1LKINSON R.J., A Voeabulary of Central Sakai (dialect of thè
aboriginal communities in thè Gopeng Valley), «Papers on Malay
Subjects», 2nd series, n.
18. 1915.
WILLIAMS T. R., A Borneo Childhood, Holt, Rinehart & Winston,
New York, 1969.
WILLIAMS-HUNT P.D.R., Appunti inediti del 21 gennaio 1950,
Archivio del Ministero per gli Aborigeni.
WILLIAMS-HUNT P.D.R., An Introduction to thè Malayan
Aborigines, Government Press, Kuala Lumpur, 1952.
V
L’AUSTRALIA DEGLI ABORIGENI
di Catherine H. Bemdt [University of Western Australia]
Il problema
Tra gli aborigeni urbanizzati del giorno d’oggi vi è chi rimpiange
i tempi passati, pur senza averli vissuti direttamente, e li considera
come una specie di età dell’oro. In tale immagine idilliaca, l’idea di
aggressività (o di conflitto) non ha spazio e gli aborigeni della
tradizione vengono visti come una popolazione mite, dove le persone
vivevano in armonia tra di loro e con l’ambiente circostante,
dividendo equamente i beni, il lavoro, le risorse naturali.
Altri aborigeni tradizionalisti guardano al passato (al loro passato)
con occhi assai diversi. Si prenda il caso di Lamilami,
ad esempio, un uomo di lingua maung proveniente dalla costa
nordoccidentale della Terra di Arnhem. Cresciuto in una missione, egli
è successivamente diventato prete metodista, ma ha continuato ad
alimentare il proprio interesse per la cultura della tradizione, ivi
comprese le credenze e le pratiche religiose ancor oggi tanto
importanti per molti aborigeni di quel territorio. In tale atteggiamento
«misto» è stato facilitato dalla dichiarata volontà, da parte della
Chiesa metodista, di «conservare il meglio della cultura aborigena»,
nonostante la difficoltà davvero immensa di mettere in pratica siffatto
ideale. Nella sua autobiografia (1974), tratteggiata sullo sfondo dei
cambiamenti verificatisi progressivamente nelle Isole Goulburn, e
intorno ad esse, egli ci offre l’immagine di una vita certamente
cooperativa, eppure non esita a inserire come parte integrante della
scena anche il conflitto e perfino la violenza fisica. Negli anni
Quaranta, gli abitanti nordorientali della Terra di Arnhem erano soliti
vantarsi della propria reputazione di fierezza, della propria impulsività
emotiva di fronte a offese o insulti presunti e della propria capacità di
andar dritti per la propria strada, anche con la violenza o con le
minacce se necessario. Essi amavano raccontare, come fossero «cose
della vita», episodi di cui avevano avuto diretta conoscenza, come ad
esempio il caso di uomini uccisi allo scopo preciso di impadronirsi
della loro moglie (o mogli). Oppure della possibilità, ai tempi dei loro
genitori o dei loro nonni, di trattare duramente e spogliare dei suoi
beni chi, trascinato alla deriva con la sua imbarcazione, fosse finito
fuori rotta.
Un altro esempio dell’atteggiamento aborigeno nei confronti del
passato ci viene fornito da una persona, parzialmente aborigena per
nascita, che fino a qualche anno fa ha vissuto in una condizione
socioculturale da aborigeno solo in senso negativo, in quanto
legalmente e politicamente svantaggiato, ai margini della società
australiana. Oggi, mutato il clima sociopolitico, costui non soltanto si
considera totalmente, e non parzialmente, aborigeno ma è anche
stimato da molti, aborigeni e non, come leader e portavoce, una sorta
di autorità nelle questioni aborigene. Inizialmente, il suo
atteggiamento verso la tradizione si richiamava inequivocabilmente al
concetto di «passato-regno- dell’armonia», ma in seguito è andato
gradualmente modificandosi. E quando i disordini verificatisi a Perth
tra gruppi di origine aborigena, culminati con la morte di una persona,
hanno riempito le prime pagine dei giornali dell’Australia occidentale,
egli ha spiegato i fatti come una faida tra due «famiglie», secondo il
costume degli «antichi tempi tribali». Un ritorno alla tradizione del
passato, insomma.
Ovviamente, tali interpretazioni non si escludono reciprocamente.
Dai casi simili a quello di Lamilami è possibile dedurre che all’epoca
della loro sottomissione gli aborigeni si siano comportati più
remissivamente di quanto avrebbero fatto se ne avessero avuto la
possibilità. Gli aborigeni urbanizzati, a volte, contrappongono
deliberatamente il passato ai difetti della società australiana (o
europea), dalla quale essi sono stati un tempo respinti e che oggi
respingono a loro volta (almeno fino a un certo punto). L’armonia
tradizionale e lo spirito di collaborazione vengono rappresentati come
un modello ideale di vita, opposto allo stile rapace e aggressivo che ne
ha preso il posto e l’ha distrutto.
Nella realtà, come dice anche Lamilami, la situazione tradizionale
era una situazione composita, e quindi l’equilibrio tra elementi
aggressivi e non aggressivi può essere presentato in modi diversi, ivi
compresa l’attribuzione di particolare rilevanza agli uni a spese degli
altri. Al di là delle circostanze generali testé menzionate (cioè il fatto
che gli aborigeni guardano al passato dal punto di vista di chi ha di
fronte un presente insoddisfacente), interviene in tutto questo un certo
numero di fattori. Prima di tutto, chi si interroga circa il passato, e che
domande si pone? Quali risposte si attende? Qual è il materiale
disponibile sull’argomento? In che misura l’interrogante ha attinto a
tale materiale? E possibile l’esistenza di variazioni locali? Infine, non
meno importante, c’è il problema del modo con cui l’aggressione e
l’aggressività vengono definite nell’inquadramento della questione: in
che misura si presuppone l’esistenza di tali manifestazioni,
indipendentemente dal semplice riscontro di quello che può essere il
comportamento palese, e come devono essere analizzati gli eventuali
miti e rituali da porre in rapporto ad esse.
Da tale punto di vista, bisogna dire che nessuno studio veramente
esaustivo è stato finora condotto sull’argomento per quanto concerne
gli aborigeni australiani, nonostante siano stati raccolti numerosi dati
su questa o quella singola regione. Molti di essi riguardano le
caratteristiche socioculturali, mentre alcuni sono relativi ai problemi
della personalità. A seguito dei primi lavori di Róheim sull’attività
onirica femminile tra le popolazioni dell’Australia centrale, negli anni
passati si è prodotto un interesse crescente per le tematiche
psicoanalitiche e psichiatri- che, ma tali indagini, con i loro risultati,
esulano dall’argomento della presente trattazione. È appena il caso di
ricordare che non tutto ciò che può essere etichettato come
«aggressività» compare sotto tale voce nella letteratura. Nel lavoro di
Kaberry sulle donne aborigene (1939), uno dei pochi a riportare un
indice delle voci relative a tale termine, manca un criterio preciso di
scelta e numerosi riferimenti importanti sono omessi. Un indice del
genere è assente in Warner (1937-1958), nonostante tale autore
fornisca numerosi esempi, e lo stesso può dirsi del nostro studio sui
Gunwinggu (R.M. e C.H.B. Berndt, 1970) e della nostra opera in
generale (1964-1977). Come molti altri, anche noi ci siamo limitati a
registrare argomenti specifici, conflitti, dispute, scontri, vendette,
rappresaglie e simili. Nonostante ciò, praticamente ogni libro o
articolo riguardante la vita degli aborigeni australiani contiene del
materiale che riporta, direttamente
o indirettamente, al tema dell’aggressività. Scontri e contese
interpersonali, ferimenti e uccisioni, accuse e condanne per
stregoneria, toccano da vicino la sfera economica, ma
contemporaneamente testimoniano le implicazioni di questa con il
problema dell’aggressività.
Conclusione
Pur senza entrare nel merito del problema delle variazioni locali,
la descrizione fin qui fatta pone in evidenza alcuni punti fondamentali
che dovrebbero essere tenuti presenti al fine di uno studio più
approfondito.
Un interessante settore di indagine riguarda i riti di iniziazione, in
relazione al loro contesto socioculturale. Tali riti variano da una
località all’altra del continente e vanno dalla totale assenza di forme di
iniziazione fisica alla depilazione, all’ablazione di denti, alla
circoncisione, alla subincisione. Molti non aborigeni li considerano
(specialmente la subincisione) mere forme di crudeltà, o addirittura di
sadismo, in se stesse o per lo meno in quanto manifestazioni di un
comportamento tirannico e punitivo. (Da tale punto di vista, possono
essere visti come un
mezzo per perpetuare siffatto comportamento).
Allo scopo di esaminare l’argomento in modo soddisfacente, non
basta considerare come uniche variabili la relazione madre- figlio, da
un lato, e il rito iniziatico (inteso come operazione fisica), dall’altro.
Ciò che è qui necessario è studiare l’intero sistema di controllo sociale
di una certa società, insieme al materiale verbale e drammatico cui i
bambini sono esposti, al modo con cui rispondono ad esso, nonché ad
un’analisi di questo materiale. L’iniziazione non è che un aspetto di
tutto ciò, ancorché importante. Essa fornisce dei segni fisici, visibili,
che le persone interessate possono interpretare come segni di
qualcos’altro, status rituale, conoscenza di simboli religiosi e simili.
Ma cosa indicano tali segni all’antropologo che intende affrontare da
un punto di vista comparativo argomenti più generali? È interessante
notare che per un certo periodo l’archetipo degli aborigeni miti e
gentili è stato visto nel popolo degli Aranda, divenuto ben noto
attraverso l’opera di Spencer e Gillen, ripresa da Durkheim. Eppure i
loro riti iniziatici prevedevano pratiche dolorosissime come morsi al
capo e avulsione di unghie, oltre all’instaurazione in queste occasioni
di un dominio autocratico degli anziani sui giovani. All’opposto, le
popolazioni di lingua gunwinggu che risiedevano nei territori
occidentali della Terra di Arnhem, non praticavano alcuna forma
tradizionale di circoncisione o subincisione nei loro riti iniziatici, per
altro assai lunghi, né alcun tipo di operazione fisica. Ciononostante,
nel loro modello di vita erano previsti scontri fisici di modesta portata
e forme di guerra in scala ridotta, simili a quelle praticate dai loro
«vicini» orientali presso i quali vigeva la circoncisione (Bemdt, 1970;
Warner, 1937-1958). L’eventuale ricerca di correlazioni tra questi
elementi, a livello comparativo in senso lato, potrebbe condurre a
osservazioni affascinanti. Ma, di nuovo, esse andrebbero interpretate a
fronte di un contesto completo, nel quale entrino anche altri aspetti, ad
esempio le concezioni che riguardano il trattamento del corpo umano,
il proprio corpo e quelle degli altri specificamente, ma anche il corpo
in generale, così come risulta dall’osservazione dei riti funerari.
(L’analogia tra l’aspetto fisico delle pratiche iniziatiche e la morte
corporea, con conseguente resurrezione, è evidente, o lo è stata, in
molte società aborigene, ma in essa intervengono anche altre
implicazioni).
Il problema se le popolazioni che si cibano di carne (non solo
carne bovina, ma anche pesce o selvaggina) siano o no più aggressive
di quelle vegetariane, e se questa particolare variabile alimentare sia
realmente rilevante ai fini dell’insorgenza dell’aggressività, non è
ancora stato rigorosamente affrontato. Dopo tutto, come ha messo in
evidenza Ashley Montagu (1968), chi è tecnicamente autore
dell’uccisione dell’animale non è necessariamente l’unico
consumatore della sua carne. Inoltre, l’allevamento di bovini, suini,
volatili e altre creature per lo scopo specifico di ucciderle e cibarsene,
non è fondamentalmente diverso dalla caccia condotta con il
medesimo scopo.
Nel caso degli aborigeni, la relazione tra le persone e le creature
che venivano uccise a scopo alimentare non era limitata a questi due
semplici aspetti, l’uccidere e il mangiare. Era contemporaneamente
una relazione più stretta e più ampia. L’identificazione di determinate
persone, o categorie di esse, con alcune specie animali non era
puramente nominale. Era un legame emozionalmente e personalmente
rilevante. Anche all’interno della stessa società, esso poteva assumere
forme diverse, eppure nessuna di queste vietava o tendeva a
scoraggiare l’uccisione di entità non umane oppure la loro raccolta,
nel caso dei vegetali e della frutta. La relazione era intrinsecamente
asimmetrica, in quanto non invertibile. Gli umani usavano altri esseri
viventi come cibo, ma di norma non accadeva il contrario. Tra gli
aborigeni australiani erano pochi i predatori dai quali era necessario
guardarsi (principalmente pescecani, coccodrilli e pitoni). Quando uno
di essi assaliva un essere umano, le ragioni di ciò venivano ricercate
nell’ambito della sfera umana e riferite a manifestazioni di
stregoneria, senza attribuire alcuna responsabilità all’animale
direttamente coinvolto nel fatto. L’inimicizia, i rancori, l’aggressività
di origine umana sembravano fornire tutte le spiegazioni necessarie e
sufficienti, senza bisogno di supporre una qualche forma di
«cattiveria» nella creatura agente.
Ci si aspettava che tutti, una volta divenuti adulti, fossero
consapevoli di queste relazioni che li legavano agli altri membri della
comunità, umani e non umani. Ma non sappiamo granché sul modo
con cui siffatta consapevolezza veniva raggiunta. Le informazioni
disponibili riguardano più l’aspetto educativo, l’insegnamento, che il
processo di apprendimento vero e proprio, il modo con cui
l’insegnamento veniva interiorizzato. A quanto pare, due dimensioni
diverse erano contemporaneamente presenti. Una era quella
dell’identificazione personale e sociale, con le sue implicazioni di
risposta alle questioni trascendentali. L’altra, legata alla prima ma più
centrata su considerazioni pratiche di sopravvivenza fisica, era il
modello naturale dell’ucci- dere per procurarsi il cibo. Forse i bambini
coglievano più facilmente questa, con gli atteggiamenti ad essa
collegati, che non la prima, quel complesso di idee generali e doveri
particolari nel cui ambito si costruiva la loro identità.
Al di là del comportamento umano osservato, attraverso i canti e
le storie i bambini imparavano come le diverse specie viventi
interagivano tra loro e con il mondo circostante per sopravvivere e
procurarsi il cibo. Per i bambini dell’Arnhem occidentale, ad esempio,
i canti erano rappresentazioni brevi ma concentrate delle abitudini e
delle caratteristiche delle creature che dividevano con gli umani
l’ambiente naturale. In alcuni di essi l’allusione al modo spietato con
cui i predatori insidiavano e catturavano le loro prede rifletteva la
rilevanza di un tema importante anche per i cacciatori umani. Uno di
questi canti era quello del cane selvatico (il dingo), mentre altri
parlavano degli uccelli pescatori che stanno attorno ai fiumi e agli
stagni. Alla luce di tale comportamento «naturale», il trattamento
apparentemente crudele riservato dai bambini ai piccoli animaletti che
avevano la disgrazia di capitare tra le loro mani può forse essere visto
come «funzionale»: un addestramento ad acquisire la durezza
necessaria a un popolo che aveva bisogno di uccidere altri esseri
viventi per sopravvivere. (La dieta degli aborigeni era
fondamentalmente vegetariana nella maggioranza dei loro territori, ma
era integrata da cibi di origine animale, ricchi di proteine). Il modo
con cui i bambini trattavano i piccoli canguri che gli adulti donavano
loro perché ci giocassero, ad esempio, non può essere definito tortura
deliberata. La violenza era casuale e spesso si mescolava a sporadiche
manifestazioni di affetto e protezione. Era una specie di sport, senza
alcuna pretesa, anche solo a livello di finzione, di utilizzare la vittima
come cibo. (Al contrario, le esercitazioni di tiro con la lancia a spese
di lucertole commestibili o altri animali facevano parte di una
sequenza più completa, in cui la preda veniva poi cotta e mangiata, sia
pure per fìnta).
C’è un altro esempio che ci viene dall’Arnhem occidentale, per la
precisione una storia che veniva raccontata ai bambini fino a una
trentina di anni fa. È una storia fine a se stessa, che spiega come il
loglog, una lucertola non commestibile, abbia assunto il suo aspetto
attuale. In breve, si dice che quando Loglog era un uomo, egli uccise
con l’inganno due fratelli che lo stavano aiutando a cacciare gli
opossum dentro alcune caverne molto profonde. I due fratelli lo
chiamavano «nonno» (materno) ma non «nonno vero». Loglog riuscì a
bloccarli in una caverna e li fece morire soffocati, accumulando erba
secca all’ingresso e dandovi fuoco. Quindi li cucinò, insieme a carne
di opossum, ne mangiò un po’, conservando il resto per dopo. Fece un
canestro speciale dove riporre le ossa rimaste, quindi si recò dai
genitori a portare loro la notizia della morte in modo
convenzionalmente corretto. Ma al cospetto della famiglia riunita il
canestro si rovesciò e le ossa dei ragazzi caddero sul terreno. Allora
gli uomini capirono e lo colpirono con le lance, mentre altri si
infliggevano ferite per manifestare il loro dolore. Loglog si trasformò
in una lucertolina dalla pelle rilucente, ma gli uomini riuscirono a
prenderlo Io stesso e lo bruciarono fino a farlo morire, attizzando il
fuoco finché anche le ultime ossicine non furono ridotte in cenere. La
storia è piena di dettagli drammatici, allo scopo di tener desta
l’attenzione degli ascoltatori, dalle scene iniziali in cui i fratelli
entrano nella profondità della caverna, mentre l’adulto ascolta le loro
voci dall’esterno e si affretta a raccogliere l’erba, all’episodio della
chiusura della caverna con relativo incendio e morte per soffocamento
dei prigionieri (l’episodio si ripete in diverse altre storie dell’Arnhem
occidentale), fino alla cottura dei corpi e alla fabbricazione del
canestro, il viaggio e la scena di fronte alle famiglie (con Loglog che
salta e balla, mentre le ossa sbatacchiano all’interno del canestro), la
caccia all’assassino e la sua distruzione finale. In questa sede, ciò che
ci interessa è l’asserzione, da parte dei giustizieri di Loglog, che «le
persone non sono cibo» e, in particolare, che per uccidere qualcuno ci
vuole un’adeguata giustificazione. Loglog non aveva una buona
ragione per uccidere i due fratelli. Inoltre, essi erano almeno
nominalmente suoi parenti e quindi la sua azione era ancora più
vergognosa.
C’è ancora un’osservazione che può essere fatta. Alcuni anni fa
mi era stato chiesto di scegliere dalla cultura aborigena alcune storie
da usare, tradotte, nelle scuole elementari australiane; e io avevo
proposto, tra le altre, la storia di Loglog, anche perché mi sembrava
una storia vivace e capace di colpire l’immaginazione. Ma le autorità
scolastiche di quell’epoca hanno trovato la storia troppo aggressiva e
impressionante per dei bambini e l’hanno rifiutata, sostenendo che
avrebbe potuto causare incubi agli scolari per quell’atmosfera
terrificante cui essi non erano abituati.
Forse questo è sufficiente a dimostrare l’importanza che assume il
contesto socioculturale nell’interpretazione di qualunque tipo di
materiale verbale o drammatico riguardante l’aggressività e la
violenza.
Le definizioni degli aborigeni australiani come di un popolo mite
e non-aggressivo vengono spesso erroneamente interpretate in quanto
sono definizioni relative. Esse dicono che gli aborigeni lo erano in
genere e a paragone con altre popolazioni. Nei tempi passati, anche
agli aborigeni accadeva di combattersi reciprocamente e di ferirsi o di
uccidersi, nel corso di una lite oppure per una vendetta programmata.
Ma questo non significa che, per quanto ci è dato sapere, essi
amassero la violenza per se stessa, o provassero piacere a infliggere
dolore agli altri. Erano esseri umani, quindi anch’essi avevano le loro
eccezioni. Ma erano, appunto, eccezioni. E il comportamento normale
era un comportamento appreso, deliberatamente insegnato ai bambini
fin dalla prima infanzia.
11 problema, quindi, non è stabilire se esiste una certa porzione di
violenza in ogni tipo di società o espressioni di quanto può essere
definito come aggressività. Il problema è stabilire se esistono controlli
ed equilibri in grado di contenere queste manifestazioni, in che misura
essi sono efficaci e come vengono trasmessi. Da questo punto di vista,
le società aborigene non erano tutte uguali. Ma avevano in comune
alcune caratteristiche che, nel loro complesso, servivano a
«raffreddare» l’ampiezza e l’intensità dell’aggressività. L’assenza di
casi di suicidio nell’esistenza tradizionale, o per lo meno di suicidi
apertamente riconosciuti come tali, è forse sotto questo riguardo
indicativa.
È, comunque, un argomento che merita approfondimento.
Tuttavia, è importante tenere a mente che la difesa e la conquista
territoriale non erano considerati problemi rilevanti nell’Australia
degli aborigeni. La terra era vista come un dono di Dio, non
negoziabile. Le delimitazioni confinarie non erano modificabili per
volontà degli esseri umani. Almeno implicitamente, le riunioni
religiose in cui i membri di gruppi diversi si incontravano erano
occasioni per riaffermare la proprietà del territorio di ciascuno e delle
zone circostanti. Ciò non impediva del tutto la possibilità di conflitti
tra gruppi confinanti, ma per lo meno la limitava.
All’interno delle comunità i conflitti e le manifestazioni palesi di
aggressività avvenivano nell’ambito di un tessuto sociale basato
sull’interdipendenza. Le comunità potevano essere definite, secondo
l’espressione da me adottata, «comunità di necessità». La rete di
collaborazioni, obblighi e doveri reciproci costituiva il perimetro
invalicabile all’interno del quale gli individui prendevano le proprie
decisioni. La mobilità territoriale ne risultava limitata, a causa degli
stretti vincoli interpersonali che legavano le persone le une alle altre in
una certa zona e per gli imperativi religiosi che regolavano le loro
relazioni. In ultima analisi, erano le norme e l’autorità della religione a
determinare la virtuale assenza di protesta. Nelle società aborigene i
bambini accettavano la disciplina imposta dagli anziani in quanto non
avevano alcuna pratica alternativa. E in tale contesto, mentre potevano
osservare «cattivi esempi» e casi di prepotenza, imparavano anche le
sanzioni cui sarebbero andati incontro con tale comportamento. Le
speranze e gli ideali da una parte, la realtà delle cose dall’altra,
contribuivano a formare un particolare substrato socioculturale nel
quale le occasioni di atteggiamento violento o aggressivo non erano
che una piccola parte del modello generale.
Riferimenti bibliografici
Valori
Tecniche di apprendimento
Il sistema con cui tutto ciò viene appreso contribuisce a
determinare la gigantesca fiducia con cui ogni Mbuti, dall’adolescenza
in poi, affronta il mondo in cui vive. La tecnica consiste nel
permettere al piccolo fin dall’infanzia l’esplorazione, sicura ma
avventurosa, di tutte le sfere successive, secondo i ritmi propri di
ciascun bambino; ciò gli consente di sviluppare le sue attitudini
motorie e sensoriali, la sua capacità, non ancora razionale, di «sentire»
la totalità (intuizione?) e contemporaneamente di acquisire sempre
maggiore esperienza. Vengono così poste le basi dell’integrazione
razionale e intellettuale di tutta la sua esperienza e quindi della sua
fiducia. Le diverse tecniche considerate comprendono:
• nell'endu: prendere il latte, essere cullato, ascoltare,
annusare, toccare madre, padre, il loro letto, il pavimento
della capanna, le pareti;
• nel'apa: l’esplorazione fisica continua fino a includere tutti
gli altri endu, anche se per il momento il piccolo non riesce
ancora a concepire l'apa come una singola unità;
• nel bopi le tecniche comprendono quei passatempi volti
all’inizio a migliorare la coordinazione e la forza muscolare,
e anche se vengono eseguiti in compagnia sono per lo più
esplorazioni solitarie. In seguito i passatempi diventano più
complessi e richiedono la cooperazione di un numero
crescente di bambini. Qualche esempio: giochi sugli alberi;
imitazione delle attività economiche degli adulti (caccia,
raccolta dei frutti, produzione di ovatta); imitazione delle
attività domestiche degli adulti (costruzione di capanne,
preparazione del cibo, mangiare, dormire, litigare);
imitazione delle attività politiche degli adolescenti (scherno
reciproco, scherno degli adolescenti, degli adulti e degli
anziani, scherno degli abitanti del villaggio). Questi giochi
hanno contenuti non solo fisici, ma intellettuali e razionali,
specialmente nella presa in giro delle liti degli adulti, dove
sono necessarie considerevoli doti di improvvisazione e di
esplorazione del sistema di valori. Infine vi è l’imitazione, sia
pur limitata, del ruolo rituale degli anziani, nel quale essi
vedono alcune somiglianze con il proprio ruolo quando
accendono il fuoco per i cacciatori. Ma i bambini imitano
anche il ruolo svolto dagli anziani come narratori, in parte
ripetendo le loro storie, in parte inventandone di nuove per
proprio conto. Così facendo sviluppano l’intelligenza e la
capacità di raziocinio, rafforzando contemporaneamente i
valori appresi e preparandosi ad entrare nella adolescenza e
nel mondo integrato dell'apa. Attraverso l’esplorazione fisica
di una serie di spazi, i bambini hanno stabilito un contatto
con gli elementi principali che tanta importanza rivestiranno
in seguito nel loro mondo simbolico.
Forse è un’esagerazione collegare il calore dell’utero a quello del
corpo materno e quindi a quello del fuoco; tuttavia, mi è capitato udire
gli Mbuti, nel corso di conversazioni apparentemente casuali,
assimilare l’utero a un fuoco. Il bimbo, comunque, associa
innegabilmente tra loro il fuoco del suo endu, quelli degli altri endu,
quelli del bopi, quello della caccia, e quello che ha visto, anche prima
di parteciparvi direttamente in quanto adolescente, al centro dell'apa,
il kumamolimo, letteralmente la «vagina» del molimo, un fuoco che
viene preparato solo in tempi di grandi crisi. Similmente, si dice che il
suo primo contatto con l’aria sia avvenuto nel momento del suo primo
respiro, quando era ancora attaccato al cordone ombelicale, e che tale
contatto continui in seguito attraverso l’apprendimento di vari tipi di
fischi e zufoli, o imparando a dar vita a un fuoco (i ventagli non sono
usati), o a cantare, o a soffiare nella sacra tromba del molimo, in modo
che le braci ardenti sprizzino scintille in direzione della foresta Anche
la terra è un elemento costante della vita del bambino, da quando
comincia le sue esplorazioni del pavimento dell 'endu, ai suoi giri per
l'apa e per il bopi, fino all’osservazione degli alberi che escono dalla
terra, quella stessa terra che può capitargli di vedere strofinata sulla
tromba del molimo o sparsa al di sopra del molimo stesso quando
questo alla fine viene spento. E l’acqua: il suo primo contatto con
l’acqua è speciale, l’acqua è quella delle liane della foresta. Anche
sguazzare in qualche ruscello è speciale, perché è in tali occhioni che
il bambino vede la propria immagine riflessa e ode gli anziani
raccontare le storie dell’altro mondo. I bambini vengono avvertiti di
tenersi lontani da quella parte del ruscello dove è conservata la tromba
durante la festa del molimo: l’avvertimento consiste semplicemente in
una specie di barricata di liane. E quando sono adolescenti assistono
alla scena della tromba del molimo che riceve da bere, se già non vi
hanno assistito di nascosto, spiando di notte dalla porta della loro
capanna. Il loro contatto con il simbolo supremo, la foresta stessa, è
ben lungi dal limitarsi a dare la scalata agli alberi: come hanno
imparato a riconoscere la propria interdipendenza con tutti gli altri
Mbuti, così riconoscono ben presto la propria interdipendenza con il
mondo naturale di cui fanno parte integrale. Prima del parto, la madre
parla al piccolo che porta in sé della foresta, canta e grida in lode della
foresta. Dopo, ogni volta che emerge in un’altra sfera, il piccolo ode
simili dichiarazioni di fiducia e di appartenenza e comincia a
chiamare, egli stesso, «madre» o «padre» la foresta quando lascia il
campo per una delle sue frequenti avventure esplorative.
All’ingresso nell’adolescenza, tale processo educativo continua e
i valori così efficacemente antitetici all’aggressività vengono rafforzati
da altre attività, che si estendono a comprendere anche l’area di
conflitto potenziale con cui il bambino entra in contatto per ultimo, il
sesso. Contemporaneamente, i giovani acquisiscono la capacità
intellettuale di integrare questi valori, così come integrano
razionalmente le diverse sfere della propria attività, e vengono
coinvolti in un certo numero di forme istituzionalizzate di
comportamento che li pongono in un contatto fisico e intellettuale col
valore onnipresente della non-aggressività. Ad esempio, quando da
bambini erano portati in braccio dalle madri o trotterellavano accanto
a qualche parente, durante la caccia, si accorgevano indirettamente
della contrapposizione fisica dei due sessi che in essa si realizzava.
Indirettamente, perché tale contrapposizione era per loro in larga
misura irrilevante, e comunque passivamente accettata. Da
adolescenti, invece, hanno un ruolo assai più attivo nella caccia, un
ruolo ben definito, e quindi la divisione tra i sessi diventa concreta.
Essa trae la sua origine nella logica della divisione del lavoro, ma il
modo con cui viene ritualizzata le attribuisce un significato diverso. I
canti di caccia, nei quali i giovani svolgono la parte principale,
rimandano alla contrapposizione fisica tra gli uomini, che stanno alle
reti, e le donne, che spingono verso di loro la selvaggina, mentre i
giovani, dall’una e dall’altra parte, hanno una posizione
approssimativamente mediana. Pur essendo difficile dimostrare che
tali canti costituiscano un’attività rituale e non educativa, di
rafforzamento dei valori, esistono altre attività innegabilmente rituali
dove sono usate tecniche di canto contrappuntato simili a queste, che
esprimono direttamente la necessità di evitare i conflitti tra i due sessi.
In queste attività sono coinvolti gli adulti e i giovani, non gli anziani e
i bambini, in quanto l’insorgenza del conflitto è considerata possibile
solo nell’ambito dell’età adulta: in un certo senso, agli adulti spetta il
compito di rendere evidente tale conflitto, ai giovani quello di
risolverlo, se non possono evitarlo.
Una di queste attività è il tiro alla fune. Esso viene iniziato dagli
adulti, in genere, ma non va mai avanti a lungo se non intervengono i
giovani. Per lo più si verifica nella stagione del miele, un’epoca di
rilassamento generale durante la quale la banda di caccia si suddivide
in piccoli gruppi che setacciano il territorio in cerca di miele, e la
caccia come operazione svolta in comune si interrompe. Ciò ha
verosimilmente una funzione ecologica, in quanto per circa due mesi
la selvaggina non è sottoposta ad alcuna pressione venatoria, ma serve
indubbiamente anche a consentire l’emergere di conflitti irrisolti o di
dispute potenziali. Il tiro alla fune esprime il principale dei conflitti
potenziali, quello tra maschi e femmine. Gli uomini tirano una liana
da una parte, le donne la tirano dall’altra. Contemporaneamente,
cantano in contrappunto. Ma poiché la vittoria dell’uno o dell’altro
gruppo non ha alcun senso, se sono gli uomini che stanno vincendo,
ecco che uno di loro abbandona il proprio posto e si unisce alle donne,
sistemandosi la veste in stile femminile, gridando motti di
incoraggiamento in falsetto e prendendo in giro le «compagne» con
l’esagerazione della propria mimica. Se invece sembrano avere la
meglio le donne, accade l’inverso: una di esse si abbassa la veste nel
modo in cui la portano gli uomini e passa dalla loro parte gridando
con voce profonda, imitando comicamente gli atteggiamenti virili.
Ogni persona che compie questo «passaggio di campo» cerca di
superare in comicità chi ha compiuto il passaggio precedente,
provocando ilarità via via crescente, finché, quando entrambi i gruppi
ridono così forte da non riuscire più né a cantare né a tirare, tutti
mollano contemporaneamente la corda e piombano al suolo in preda a
una specie di isteria. Il «passaggio di campo» viene compiuto sia dagli
adulti sia dai giovani, ma sono soprattutto questi ultimi a suscitare la
maggiore ilarità. In tal modo gli scherni sono privi di ostilità, anzi in
essi è presente un certo senso di identificazione, sia pur parziale, col
gruppo preso di mira, una sorta di simpatia, e viene così evitata la
violenza e l’aggressività conseguente a una vittoria dell’uno o
dell’altro sesso e dimostrata la stupidità della competizione.
La stagione del miele è considerata un momento di rilassamento
dedicato ai piaceri della vita, di cui il miele è uno dei simboli
principali. In quest’epoca, l’attività sessuale tra i giovani è
particolarmente intensa. Nella «danza dell’ape» viene esplicitato il
collegamento esistente tra la domanda individuale di piacere, sia pur
legittima, e la conflittualità. Anche qui, partecipano sia i giovani che
gli adulti. I maschi si dispongono in fila indiana, portando archi,
frecce e delle braci ardenti, che hanno «rubato» dal focolare di
qualche èndu. Qui si ha già una prima rappresentazione del contrasto
maschio/femmina: il fuoco infatti è controllato dalle donne, che hanno
il compito di portarlo con sé, a caccia oppure se accompagnano gli
uomini in qualche viaggio, e soprattutto quando il campo viene
spostato da un luogo all’altro, perché il focolare dell'endu non deve
spegnersi mai. Gli Mbuti conoscono un paio di tecniche per accendere
il fuoco derivate da quelle tradizionali del villaggio, ma preferiscono
non usarle. Usano anche i fiammiferi (se ne hanno), ma solo per azioni
profane, come accendere una sigaretta o simili.
Dunque gli uomini devono «rubare» il fuoco dagli endu per
portarlo con sé, come fanno quando vanno in cerca di miele allo scopo
di affumicare le api onde poter «rubare» il loro prodotto (anche qui
viene messo in evidenza l’aspetto aggressivo dell’azione, assimilabile
al «furto della vita» compiuto ai danni della selvaggina). Gli uomini
danzano per l'apa, guardando in alto come se stessero cercando un
alveare, mentre le donne formano un’altra fila e li seguono, danzando
dietro di loro, o accanto a loro, o anche entrando e uscendo dalla fila
degli uomini come se questi fossero invisibili. A un certo punto le
donne cambiano direzione e si mettono a danzare verso gli uomini.
Anch’esse portano il fuoco, ma a differenza degli uomini, solo due o
tre dei quali hanno delle braci avvolte in foglie di phrynium, ogni
ragazza e ogni donna adulta tiene nella sinistra un tizzone ardente.
Quando le due file sono vicine, le donne improvvisamente escono dai
ranghi e attaccano gli uomini, battendoli con i tizzoni sulla testa e
coprendoli di braci e scintille, che «bruciano come la puntura delle
api». Gli uomini si scompigliano, quindi ricostituiscono la fila e tutto
ricomincia daccapo, con l’imitazione della ricerca dell’alveare.
Diversamente dal tiro alla fune, questa danza ha una conclusione più
definitiva, nel senso che gli uomini non riescono mai a portare a
termine il loro tentativo di «rubare» il miele alle «api», cioè alle
donne. Prima o poi, una di queste (sempre un’adulta, mai una
ragazza) pone fine alla danza entrando nella propria capanna e
riemergendone con una tazza di miele o un pezzo di favo, che viene
offerto agli uomini. Questi lo accettano e se ne cibano, dividendolo
con le donne (cioè con le api).
La danza col cerchio e il salto della corda sono attività assai
frequenti durante la stagione del miele, cui si dedicano soprattutto le
ragazze più grandi, le quali in quest’epoca dedicano molto tempo alla
cura del proprio corpo, decorandosi con succo di gardenia. E giocano
con i frutti di gardenia, facendoli rotolare lungo le spalle fino sui loro
seni sodi, per mezzo dei quali li scagliano poi in aria per prenderli al
volo. Il solito mattacchione del campo non mancherà di dimostrare
come questo gioco non possa essere eseguito dai ragazzi, i quali,
comunque, hanno altri passatempi, come una specie di «partita a
carte» con semi, o pietruzze, nelle quali di solito vincono tutti. Questa
partita è una variante di un gioco molto popolare al villaggio, ed è
anche un mezzo importante di socializzazione tra la gente del
villaggio e gli Mbuti quando si incontrano. Anche i ragazzi usano
decorarsi durante la stagione del miele, usando foglie, orchidee e
corteccia fresca. Sono preliminari della grande festa pre-nuziale,
l'elima, che ha luogo, idealmente ma non necessariamente, durante
questo periodo. Essa coinvolge tutti i giovani maschi e femmine
presenti nell’apa così come è costituita in quel momento, e solo alcuni
degli anziani, chiamati a rivestire ruoli specifici, come quello della
«madre» dell'elima (una vecchia vedova o una donna sterile) o del
«padre» di essa. Quest’ultimo è un ruolo meno formale, assunto in
genere da un uomo vedovo o da uno storpio. In altri termini sia il
«padre» che la «madre» dell'elima sono considerati, in un certo senso,
asessuati. Le altre madri presenti al campo fungono da guardiane delle
bamelima, le ragazze, che stanno nella capanna dell' elima. I
giovanotti provenienti da altri territori di caccia, vicini o lontani che
siano, vengono in visita al campo per partecipare alla festa. I maschi
adulti, i bambini e gli anziani (a parte il «padre» e la «madre»
dell'elima) possono intervenire solo come spettatori.
Come altre istituzioni sociali, l’elima può essere considerata da
diversi punti di vista. Essa è motivata dal passaggio delle ragazze
dell'apa all’adolescenza, reso evidente dalla comparsa del primo
flusso mestruale. A differenza di altre società, non solo africane,
questo avvenimento è ampiamente pubblicizzato e salutato con
manifestazioni di gioia, perché significa che «è nata una madre». In
genere il campo aspetta che una seconda ragazza «veda il sangue» per
la prima volta, in modo che le due fanciulle possano riunire la loro
elima e festeggiarla insieme. Accade anche che arrivi una ragazza di
un altro apa, condotta dai suoi genitori col pretesto di stare al campo
durante lo spostamento mensile da un luogo all’altro, in realtà con lo
scopo di farla partecipare all’elima. Ciò avviene soprattutto se le
ragazze sono amiche. Le ragazze possono invitare delle amiche a far
loro compagnia nella casa dell’elima, dove stanno con la
eia’abamelima, la madre delle ragazze dell’elima. In effetti, in
quest’epoca i giovani del campo sono rigorosamente divisi tra maschi
e femmine, sia i più grandi sia quelli di minore età, e svolgono
separatamente tutte quelle attività che in tempi normali avrebbero
condotto insieme.
L'elima è considerata come una festa pre-nuziale che fornisce
l’occasione per corteggiamenti formali e sperimentazione di rapporti
sessuali. Ma è anche una iniziazione congiunta di maschi e femmine
che segnala agli adulti l’approssimarsi dell’età anziana, un’altra area
di conflitto potenziale, di possibile aggressività, se non di violenza.
Gli Mbuti parlano di questo periodo come di un periodo di akami, per
l’individuo interessato, mentre per i giovani il passaggio
all’adolescenza e da questa all’età adulta è ekimi. L’elima può essere
utilizzata, dagli adulti sul limite della vecchiaia, per giocare
temporaneamente il ruolo di pagliacci. A tale scopo, se sono maschi,
essi fingono di essere della generazione successiva e si presentano
come giovanotti, dandosi da fare insieme agli altri per raggiungere la
casa dell’elima e, a volte, perfino entrandoci per qualche momento.
Per le donne, comportamenti del genere sono più rari. Se sono vedove,
il passaggio alla vecchiaia è più graduale che per gli uomini, ed anche
se non lo sono la vecchiaia costituisce per la loro attività di raccolta un
ostacolo minore che per l’attività venatoria degli uomini. Ma le donne
non più giovani, che non gradiscono il prossimo cambiamento di
status, possono approfittare dell 'elima per mettersi in mezzo alle
ragazze allorché queste escono dalla casa dell 'elima. In tal modo, gli
adulti di mezza età, alleandosi temporaneamente con la generazione
più giovane, si identificano automaticamente con quella più anziana,
secondo il principio dell’alleanza tra generazioni alternate assai attivo
nella società mbuti.
La principale caratteristica dell' elima, secondo quanto ci
interessa in questa sede, è il conflitto rituale tra ragazzi e ragazze, che
si manifesta come una battaglia combattuta con bastoni, noci e semi di
grandi dimensioni, braci accese e perfino ciocchi, per quanto riguarda
le donne, con il lancio di semi più piccoli e pezzi di pelle ispessita da
parte dei ragazzi, e con l’uso di fruste di rami flessibili ad opera delle
ragazze bamelima. Allo scopo di arrivare fino alla casa dell 'elima e
acquisire così il diritto di giacersi con una delle ragazze, i giovanotti, o
gli adulti di mezza età che si fingono tali, devono farsi strada
attraverso il fuoco di sbarramento messo in atto dalle donne adulte.
Una volta dentro la casa, o subito prima di essa, possono poi essere
affrontati dalle ragazze armate appunto di frustini. Le medesime fruste
vengono usate dalle ragazze nel corso delle loro frequenti incursioni al
campo e anche nei territori vicini, a provocare i giovanotti (e gli adulti
di mezza età) per indurli ad andare a trovarle nella casa dell'elima.
Ovviamente tutto ciò contiene una serie di insegnamenti. A parte le
accese discussioni che le ragazze hanno con la madre dell’elima, e i
ragazzi col padre, attraverso cui vengono fomite le spiegazioni
razionali di quello che deve succedere, la vera e propria violenza fisica
che i giovani devono affrontare per poter realizzare i propri desideri
sessuali è una drammatica ritualizzazione dell’intimo conflitto tra l’io
individuale e l’io sociale, conflitto che costituisce una delle
caratteristiche chiave della vita da adulti verso la quale si stanno
muovendo. Essi hanno già imparato che gli adulti sono «per forza» dei
«piantagrane», che l’età adulta è un’età di akami, ed ora questo per la
prima volta si trasforma in esperienza concreta. Eppure tutti i simboli
familiari della sicurezza sono presenti: la madre e il padre; l' endu
(delle bamelima) col suo focolare; i tizzoni che le bamelima usano
contro i ragazzi; le foglie speciali su cui si dorme dopo che i ragazzi
sono stati ammessi, e che devono essere gettate via secondo un certo
rituale a cose finite; i rami flessibili che vengono usati come fruste; e i
canti che devono essere cantati in contrappunto, diversi da tutti gli
altri canti quanto a forma musicale e stile. Al termine dell’elima, sia i
ragazzi sia le ragazze ricevono un’abluzione rituale con l’acqua.
Attraverso l'elima, i giovani imparano che il perseguimento dei
desideri individuali, che pure non è sbagliato in sé, può condurre ad
akami, e che per realizzare tali desideri è opportuno temperarli in
modo che possano divenire accettabili per il resto della società. Le
donne adulte, se vogliono, sono perfettamente in grado di impedire,
anche al più forte e aggressivo dei ragazzi, di entrare nella casa
dell'elima1, possono batterlo con bastoni e con rami spinosi, o
semplicemente sollevarlo di peso e gettarlo nel ruscello più vicino.
L'elima dura un mese, ed è ovviamente un periodo di tensione, al
termine del quale molti sono i malumori, e c’è un momento di akami
generale. Allora accade che proprio i giovani che sono stati la causa
involontaria di questo akami, siano chiamati a giocare forse il loro
ruolo più importante, un ruolo che stranamente li prepara al tempo in
cui saranno anch’essi adulti, e inevitabilmente litigiosi. In tale ruolo,
essi sono i portatori del molimo madè, il molimo minore. Il termine
molimo, che ha a che vedere con la «leopardità», è traducibile al
meglio come anima della foresta, essenza spirituale di essa. Ne è
simbolo concreto una lunga tromba fatta tradizionalmente da un
albero speciale che, se tagliato giovane, può essere facilmente scavato
al suo interno per mezzo di una liana abrasiva. Questa tromba è
generalmente lunga da due a tre metri. Il molimo mangbo, il molimo
maggiore, è controllato dagli anziani ed è usato in occasione di gravi
crisi, come qualche decesso, o il protrarsi di un periodo di caccia
sfortunata. Il molimo madè entra in funzione per riportare la calma in
un campo «rumoroso». Sono i giovani che siedono a giudizio per
giudicare gli adulti. Sono i giovani che vengono chiamati a porre
rimedio al male compiuto dagli appartenenti a quell’età di cui tra
breve essi entreranno a far parte. Il molimo mangbo (sempre operato
dai giovani, ma sotto la direzione degli anziani) è costruito in modo da
produrre il suono di un leopardo; gli viene data da bere acqua, è
strofinato con la terra, e serve anche per attizzare il fuoco, oltre che
per essere fatto risuonare dal fiato. Il molino madè, invece, produce il
suono di un elefante irato, distruttore della foresta: quando arriva al
campo non riceve terra, acqua, fuoco, aria, ma viene afferrato da tutti i
giovanotti e agitato avanti e indietro, ma distrugge ogni cosa al suo
passaggio, attaccando uno dopo l’altro tutti gli endu, riservando forse
(ma non obbligatoriamente) un trattamento speciale a quello degli
adulti piantagrane che hanno fatto sì che il molimo madè «si
svegliasse»..
Niente di quanto adulti e anziani possono dire o fare ha effetto sul
controllo del molimo madè da parte dei giovani. Sono loro a decidere
sia quando l'akami è tanto serio da richiedere questo tipo di intervento,
al posto del consueto ricorso allo scherno, sia che cosa costituisca
akami. I giovani hanno il potere di rivedere i valori della società, di
modellare il futuro. La loro esperienza è ormai sorretta da una capacità
intellettuale ben sviluppata: essi discutono a lungo, e seriamente, del
comportamento degli adulti, in termini di akami ed ekimi intesi in
senso concettuale, non riferendosi a codici stereotipati di azione.
Similmente, sebbene gli adulti non abbiano alcun controllo
sull’attività sessuale dei giovani al di fuori dell’istituzione dell' elima,
questi riconoscono la potenzialità conflittuale del sesso e discutono al
proprio interno le loro preferenze e l’opportunità di avere, o no, un
rapporto con qualche ragazza. Essi dicono che deve esistere un tempo
e un luogo di ekimi, e nei loro discorsi affermano le proprie
preferenze: vicinanza all’acqua, per poterla vedere o udire, oppure alla
terra, nel senso che un posto ha un odore più piacevole di un altro o è
più soffice, oppure vicinanza all’aria, riferendosi al suono della brezza
che sussurra tra le foglie. Quando una coppia è convinta di aver
sperimentato abbastanza da essere in grado di portare l'ekimi con sé
nell’età adulta, in quanto senza ekimi i rapporti sessuali non sarebbero
né possibili né piacevoli, si sposa. Per gli Mbuti questo richiede scarse
formalità. Il giovanotto deve dimostrare la propria abilità come
cacciatore, catturando selvaggina «grossa» (grossa abbastanza da
poter sfamare un nucleo familiare), da solo o grazie alla sua posizione
a una delle estremità del semicerchio di reti; la ragazza deve
desiderare di andare con lui e costruire una capanna dove vivere. I
genitori non hanno voce in capitolo, anche se a volte esprimono
tranquillamente la propria opinione. Gli anziani intervengono soltanto
se ritengono che il matrimonio sia troppo «stretto», un concetto dove
entrano sia la parentela sia la territorialità.
L'età adulta inizia senza formalità, appena i giovani si sentono pronti
per il matrimonio. Una volta sposati, i giovani vengono classificati
come adulti. La madre del ragazzo regala al figlio una rete da caccia, e
da un giorno all'altro la coppia partecipa alla caccia tra adulti;
al'interno di ogni gruppo d'età non esiste gerarchia verticale. E a
questo punto i due novelli sposi cominciano a rendersi conto di quanto
sia densa di conflitti la vita da adulto. Dopo ogni figlio, il marito deve
astenersi dai rapporti sessuali con la moglie per tre anni. Andare a
letto con le altre donne, specialmente se ragazze nubili, non è
formalmente proibito, ma questo metterebbe l’uomo in competizione
con altri maschi adulti, o con qualche giovane corteggiatore. Inoltre, il
maschio adulto è colui che uccide la selvaggina, dunque colui che
perpetua la mortalità (umana oltre che animale). Egli deve fare
affidamento sui bambini, attraverso il fuoco di caccia, per ridurre al
minimo questo atto necessario di violenza e aggressività. E deve
affidarsi ai giovani perché ritorni 1 ’ekimi quando qualche sua
dissennata scappatella, o la sua gelosia, provoca akami, accettando che
i giovani di quel momento ridefiniscano i concetti di ekimi e akami in
modo non necessariamente gradevole per lui. E quando, in genere
nella piena maturità, si trova ad affrontare la morte dei suoi genitori, il
maschio adulto deve affidarsi al potere degli anziani, che invocano il
molimo mangbo a restaurare l'ekimi anche davanti alla morte. Nel
momento in cui è più potente sessualmente, il maschio adulto scopre
di essere del tutto impotente socialmente. In gran parte l’impatto di ciò
è minimizzato dai valori appresi dall’infanzia in poi, la dipendenza e
l’interdipendenza, ed anche dal ricordo della recente gioventù, solo da
poco tempo trascorsa. L’ostilità teoricamente presente tra queste due
generazioni adiacenti (adolescenza ed età adulta) è in qualche modo
attenuata dalla loro estrema prossimità e dalla necessità di
cooperazione che è loro richiesta a caccia, nella raccolta di frutti, nei
canti e nelle danze rituali.
Sono soprattutto gli adulti ad essere in contatto con la più
pericolosa delle aree di conflitto, quella tra gli agricoltori stanziali che
risiedono al villaggio e i cacciatori-raccoglitori nomadi. A causa del
ruolo economico che svolgono nella società mbuti, è dagli adulti che il
villaggio si attende carne, funghi, vimini e foglie per le capanne, ed
altri prodotti forestali. Gli abitanti del villaggio ritengono
erroneamente che il controllo economico esercitato dagli adulti mbuti
sia sinonimo di controllo politico, e quindi è con loro che
intrattengono rapporti e intavolano discussioni. Ciò mette in difficoltà
gli adulti, sia maschi che femmine, perché ogni tentativo di andare
incontro ai desideri degli abitanti del villaggio può provocare grandi
litigi in seno al campo forestale; e il contrario può provocare guai nei
rapporti con il villaggio, cosa che bisogna impedire se non si vuole
che la gente del villaggio vada nella foresta a prendere ciò di cui ha
bisogno. Non è questa la sede per esaminare in dettaglio questo
conflitto; ci limitiamo a notare la partecipazione (già ricordata) dei
ragazzi mbuti alla cerimonia dell’iniziazione (nkumbi) che si tiene al
villaggio, che secondo i suoi abitanti permette di acquisire un
controllo sovrannaturale sugli Mbuti... visto che ne è impossibile il
controllo politico attraverso gli adulti. La partecipazione di coppie
mbuti che vogliono sposarsi ai riti nuziali del villaggio serve al
medesimo scopo. Ma una volta tornati nella foresta gli adulti vengono
regolarmente incolpati dell 'akami che deriva dall’avere accettato
anche la più ragionevole delle richieste del villaggio. All’apa, dunque,
sono in genere gli adulti che motteggiano gli abitanti del villaggio per
il divertimento degli altri Mbuti, cui raccontano delle loro visite
laggiù, riferendo come hanno imbrogliato, o derubato, o preso in giro i
villici magari battendoli ai loro stessi giochi preferiti. In queste
rappresentazioni, gli adulti scherniscono i villici come maldestri,
stupidi, rumorosi, sporchi, e via dicendo, ma contemporaneamente li
qualificano anche pericolosi come l’elefante.
La continua mobilità degli Mbuti, che cambiano posto all’apa
quasi ogni mese, impedisce il verificarsi di conflitti con la gente del
villaggio. I campi variano continuamente di composizione e
dimensione, oltre che di localizzazione, quindi i villici non sono mai
in grado di sapere quali Mbuti sono dove. Tale processo di continua
fissione e fusione è anche un modo di evitare i conflitti tra gli Mbuti
stessi, in quanto i possibili avversari si separano e vanno in campi
diversi prima che le dispute assumano proporzioni pericolose.
Comunque, il fattore che più di ogni altro serve a controllare
l’aggressività, la violenza e i conflitti nella vita degli adulti, è il valore
manifestamente positivo dell'ekimi, percepito dagli adulti in ogni
stadio della propria esistenza e tuttora considerato come fondamentale
nel perseguimento della soddisfazione individuale. La «cerimonia» del
molimo è qualcosa di faticoso e coinvolgente. Pur mettendo l’accento
sull’ekimi, quasi inevitabilmente produce akami. Quindi è sempre
accompagnato da riti atti a invertire l'akami. Uno di questi è il molimo
madè, un altro è un rituale centrato sul sesso. Essendo i principali
responsabili delle dispute, non sorprende che siano gli adulti, maschi e
femmine, coloro ai quali è chiesto di eseguire l'ekokomea, il più
formale di tutti i riti di inversione e/o ribellione. Lo scopo
dell'ekokomea è di dimostrare, come in un esperimento controllato, i
pericoli insiti in comportamenti e modi di pensare non corretti. A
sottolineare la diversità delle maniere di esprimere attivamente
l’aggressività, espellendola da sé, vi è qui il richiamo implicito alla
purezza, o salute, senza il quale la drammatizzazione rituale sarebbe
vuota e inefficace. Nell'ekokomea tutte le norme relative al sesso sono
accantonate, invertite, e quindi ridicolizzate. Attraverso la mimica e lo
scherno vengono sperimentati e messi alla prova modi alternativi di
comportamento. In particolare, sia come individui sia come gruppi,
uomini e donne hanno l’occasione di prendere in giro il sesso opposto,
il più delle volte facendo riferimento alla pulizia o al comportamento
sessuale. Come nel tiro alla fune, ogni manifestazione individuale di
scherno accresce l’ilarità generale e attenua l’aggressività latente,
finché la comicità oltrepassa a tal punto la ragionevolezza che
l’aggressività stessa diviene inconcepibile. A questo punto, il gruppo
dell'ekokomea si abbandona all’isteria e tutti rotolano al suolo,
roteando gli occhi pieni di lacrime, col respiro affannoso. Quando si
riprendono, uomini e donne riassumono i loro ruoli consueti come se
nulla fosse accaduto, a parte una generale sensazione di sollievo
psicologico.
Il maggiore dei riti purificatori, comunque, è il molimo mangbo,
che serve a ricordare a tutti, indipendentemente dall’età o dal sesso, il
valore fondamentale dell'ekimi e la necessità vitale della cooperazione
perché l'ekimi possa essere ottenuto. E in questa occasione che gli
Mbuti si sentono davvero tutti uniti, al centro dell’utero che tutto
contiene, la foresta. Infatti, solo un sentimento di questo tipo può
essere alla base del senso di cooperazione necessario per restaurare
l'ekimi di fronte al supremo akami della morte. La natura intima della
cooperazione rituale richiesta rappresenta i ruoli mutuamente
complementari dei quattro gruppi d’età presenti nella società mbuti, e
proprio come la vita (e l'ekimi) non sarebbe possibile senza questa
interazione e interdipendenza giornaliera tra bambini, giovani, adulti e
anziani, così sarebbe impossibile il molimo mangbo, e quindi
l’inversione dell' akami, senza la cooperazione dei medesimi gruppi. Il
molimo mangbo integra tra loro i gruppi di età e i sessi, riunendo tutti i
singoli endu, divisi per quanto riguarda la parentela, nell’ambito di
una medesima, comune, territorialità. Infine, il molimo mangbo
esprime la contrapposizione fonda- mentale, quella tra foresta e non
foresta. In questo grande rituale, tutte le possibili cause di conflitto
hanno modo di esprimersi. Sono dunque tre le occasioni che
periodicamente e costante- mente si ripropongono, nelle quali è
necessaria la ritualizzazio- ne della conflittualità e l’espulsione
dell’aggressività. La stagione del miele, annuale, in cui la banda
territoriale si frammenta in gruppi minimali; l'elima, che si tiene ogni
volta che una fanciulla della banda ha il primo flusso mestruale; e il
molimo mangbo, quando muore un adulto o un vecchio (a volte anche
un giovane). Non è impossibile che tutte e tre le ritualizzazioni
avvengano contemporaneamente, anche se, in genere, l' elima viene
ritardata se è in atto un molimo mortuario.
Nel molimo mangbo i bambini, con alcuni degli adolescenti di
minore età, hanno il compito di «rubare» (ancora) cibo e fuoco dal
focolare di ciascun endu per il focolare centrale del molimo, il
kumamolimo. La necessità di mimare l’atto del «rubare» sottolinea
l’esistenza di un conflitto insito nel rapporto tra gli individui e la
società, conflitto che si manifesta soprattutto nel corso dell’età adulta.
Come nel molimo madè, i portatori della tromba del molimo sono i
giovani: uno di essi dà fiato alla tromba, e questo dà al canto degli
uomini, che fanno eco, un potere speciale, consentendogli di
raggiungere la foresta e di farsi udire dalla ndura. I suoni prodotti dal
molimo imitano non il barrito dell’elefante, ma il ruggito soffocato del
leopardo, che è come l’elefante simbolo di morte, ma a differenza di
questo simboleggia la morte da cui risorge la vita. La decisione di dar
inizio al molimo mangbo, così come di porvi fine, spetta agli anziani,
ma sono i giovani a stabilire quando (e se) è il momento di introdurre
nel campo la tromba per nutrirla al fuoco del kumamolimo. Ciò è
coerente con il loro ruolo giudicante. Se i giovani decidono che gli
adulti, gli anziani, i bambini, maschi o femmine che siano, non
cooperano abbastanza e non si danno anima e corpo alla festa, se
giudicano che al campo c’è akami, allora quella notte essi toglieranno
la tromba dal suo ruscello, la bagneranno, e le daranno da bere e da
mangiare (acqua, terra e fuoco), soffiando in essa il proprio fiato
vitale; ma non la introdurranno nel campo, si limiteranno ad
avvicinarsi. E invece di farla suonare come un leopardo, il che
riconcilia l’uomo con la morte, la faranno suonare come un elefante, e
all’alba sarà il molimo madè ad entrare nel campo, non il molimo
mangbo. Ancora una volta, proprio ai giovani, che stanno per divenire
adulti e quindi anch’essi rumorosi e litigiosi, è data la responsabilità di
restaurare l' ekimi.
I maschi adulti, che impersonano il primo cacciatore, colui che ha
portato la morte tra gli umani, patiscono i maggiori disagi durante
questa festività lunga e faticosa. Anche il loro canto, che pure è il più
sonoro, non possiede la capacità di portare il molimo nel campo. Deve
essere trasformato dalla tromba, e trasfigurato per mezzo della voce
dei giovani, in un suono di puro ekimi, perché la foresta possa udirlo.
Agli anziani, ai giovani, alle femmine e ai bambini è concessa qualche
pausa. Agli uomini no. Se un maschio adulto fa tanto di sonnecchiare
durante i lunghi canti notturni del molimo, è minacciato di morte.
L’intensità del suo canto dev’essere superiore a quella di chiunque
altro. E verso la fine del rito deve anche subire l’affronto di vedere il
proprio ruolo usurpato dalle donne, che si sostituiscono agli uomini
nel canto, legandoli come salami con cappi fatti con gli stessi vimini
(nkusa) che vengono usati per fabbricare le reti da caccia. In
quest’occasione si dice che le donne legano il canto e legano la caccia.
Solo quando gli uomini fanno un certo gesto propiziatorio, le donne li
liberano e il molimo può continuare. Ma a questo punto accade che
una vecchia, con gesto di controllo supremo, calpesti lentamente e
deliberatamente il fuoco del molimo, spargendo in giro la legna e le
braci, minacciando di estinguere per sempre la vita. Gli uomini, allora,
ricostruiscono il focolare, «reinfiammando» le braci con una danza
che imita i movimenti del coito, e di nuovo la vecchia calpesta il fuoco
e lo scompiglia, per dire che, come donatrice di vita, essa ha anche il
potere finale di dare la morte, di negare il suo stesso potere vitale.
Questa scena si ripete per due o anche tre notti, dopodiché il molimo
volge al termine. Le ultime scintille del focolare vengono attentamente
spente da un uomo anziano. I giovani riportano la tromba al suo
ricettacolo nelle profondità della foresta. E gli adulti possono
finalmente lavarsi e togliersi la macchia della morte, riprendendo le
proprie attività quotidiane.
Si vede dunque come gli adulti, maschi e femmine, vengano
educati fin dall’infanzia a evitare i conflitti, deviarli, distoglierli,
oppure a risolverli con un ricorso minimo all’aggressività fisica e
mentale quando emergono nonostante tutte le precauzioni. I casi più
frequenti di akami si manifestano nell’età adulta, e non è detto che
tutto ciò che è stato appreso nell’infanzia e nell’adolescenza sia
sempre sufficiente a impedire il loro verificarsi. Nell’età adulta,
comunque, è presente un elemento particolare, la differenziazione
sessuale. L’età adulta è l’unica età in cui i vocaboli per indicare le
persone esprimono anche il sesso. Per i piccoli, i bambini e anche i
giovani, tutti gli adulti sono divisi in ema o eba, mentre essi,
all’interno di ciascun gruppo d’età, sono tutti apua’i, senza riguardo al
sesso; oppure, quando sono interpellati da qualcuno più grande, sono
miki, sempre senza riguardo al sesso. Anche gli adulti possono
rivolgersi tra loro come apua ’i, ma sono divisi tra maschi e femmine.
Inoltre, anche se l'elima prepara la strada alla distinzione tra ruoli e
comportamenti, attribuendo chiaramente l’iniziativa alle femmine,
l’uomo adulto sembra trovar difficile, a volte, accettare questo
predominio femminile. Egli si vede come cacciatore, ma non può
cacciare senza moglie, e anche se la caccia è ben più eccitante che fare
il battitore o raccogliere frutti, sa bene che la parte fondamentale della
sua dieta è costituita da cibo raccolto dalle donne. Mentre sua moglie
può partecipare praticamente a tutti gli aspetti della sua vita sociale,
egli resta escluso dal suo ruolo di madre. E dopo ogni parto, non
potendo avere rapporti sessuali con lei per tre anni, sente la donna
ancora più lontana da sé. Nonostante il persistere dell’affetto, in tutti i
campi di caccia sono queste le «linee» lungo le quali si manifestano le
tensioni.
È come se la donna (la madre, colei che dà la vita) divenisse
sacra, e l’uomo (il cacciatore, colui che dà la morte) profano. La
riluttanza che la donna deve dimostrare a fornire il fuoco per il
kumamolimo, il suo potere di «legare il canto e la caccia» (le donne
usano anche il termine «mettere a tacere»), il suo potere sul fuoco
vitale, tutto ciò è coerente con il suo ruolo di donatrice di ekimi.
Parallelamente, l’uomo è visto come portatore di akami, e questo
ruolo è altrettanto vitale quanto quello della donna. Comunque,
l’aggressività maschile nell’età adulta è tenuta a freno non solo
attraverso i diversi rituali con cui è prevista la collaborazione tra
maschi e femmine, o l’inversione dei ruoli, e neppure semplicemente
dalla necessità di cooperazione e dipendenza reciproca presente nella
caccia e nella raccolta dei frutti. L’aggressività maschile è tenuta a
freno dalla posizione mediana dell’età adulta, così vicina
all’adolescenza da un lato, e contemporaneamente vicina alla
vecchiaia dall’altro. Il giovane marito, neopadre e quindi già privato
del diritto di dormire con sua moglie, passa molto tempo in compagnia
di quegli adolescenti di cui faceva parte fino a poco tempo prima.
Accade a volte che partecipi anche al molimo madè, continuando così
ad esercitare l’antico ruolo giudicante accanto al nuovo ruolo
economico da adulto, anche se non ufficialmente. E quando è già
troppo vecchio per stare con i giovani, non lo è comunque abbastanza
da non essere più influenzato da loro, ed è relativamente facile per lui
accettare la loro volontà, così come si esprime nel molimo madè.
In seguito, quando ormai sua moglie ha smesso di mettere al
mondo figli, si sente vicino alla vecchiaia e per questo più vicino alla
purezza. Il passaggio dall’età adulta alla vecchiaia è graduale, e per
coloro che lo trovano difficile, una soluzione può venire dall’adesione
al ruolo di pagliaccio. Altri, forse i più, tendono a scivolare più
agevolmente nella vecchiaia abbracciandola fin dal momento in cui
hanno perso l’ultimo contatto con la gioventù. In tal modo essi
passano dal contatto con un ruolo giudicante al contatto con il ruolo di
mediatori svolto dagli anziani. Cosicché l’età adulta, per il maschio, si
trova in una posizione intermedia, segnata da un senso di
ambivalenza. L’alleanza tra generazioni alternate, cioè tra giovani e
anziani, è uno dei sistemi principali per prevenire l’aggressività tra gli
adulti.
Dopo il passaggio all’età anziana, il pericolo di aggressività
diventa praticamente nullo. Gli anziani, cui anche i figli adulti si
rivolgono come tata, sono di nuovo privi di differenziazione sessuale:
i sessi si sono ricomposti. Inoltre, per la loro vicinanza alla morte, essi
sono sempre più imbevuti di poteri spirituali associati con Y ekimi. Il
loro ruolo di arbitri è informale; grazie all’età, hanno una grande
esperienza cui possono far riferimento per trame indicazioni. Oppure,
semplicemente, senza una parola si frappongono fisicamente tra due
litiganti, rendendo così difficile la continuazione della disputa o dello
scontro. Ma mentre i giovani, col molimo madè, controllano
l’aggressività nella sfera del «qui ed ora», facendo appello alla
ragione, gli anziani fanno riferimento a un’altra sfera, quella «fuori dal
qui ed ora», e col molimo mangbo invocano lo spirito, non la ragione.
Se i giovani hanno il potere, i vecchi hanno l’autorità. Entrambi,
tranne che nel contesto dell'elima, non sono differenziati
sessualmente, e sotto tale profilo sono alleati dei bambini, e tutti e tre i
gruppi si diversificano da quello degli adulti sessualmente
differenziati.
L'aggressività e la violenza sono virtualmente impossibili nella società
mbuti fino all'età adulta; qui sono limitate quasi esclusivamente ai
maschi, ma controllate da potenti istituzioni giuridiche e spirituali
rette da classi di età adiacenti all'età adulta, da cui gli adulti
provengono e verso cu sono destinati ad andare, con una
contrapposizione che si rivela un'efficace misura di controllo. In
questo contesto pericoloso, la donna mbuti emerge come simbolo di
ekimi, anche se vicina all'akami del maschio. Le frequenti
manifestazioni rituali del suo potere ultimo non hanno altro scopo che
quello di ricordare la sicurezza totale offerta dall’utero che tutto
accoglie, la foresta. Non c’è da meravigliarsi che gli Mbuti non
abbiano paura di morire e che i canti funebri esprimano una gioia
simile a quella per il concepimento della vita. È la stessa gioia con cui
il piccolo nasce all'endu, il bimbo nasce al bopi, il giovane nasce all'
apa, perché tutti vengono dalla ndura e ad essa ritornano. Per gli
Mbuti questa gioia, che li accompagna per tutta la vita, è ekimi, il
contrario di akami. L’esperienza mbuti, se non altro, insegna che
l’aggressività è politicamente svantaggiosa: l'ekimi è semplice- mente
non compatibile con l'akami supremo della violenza.
Note al capitolo
2. Man mano che il bimbo cresce, tra i tre e i cinque anni, gli viene
insegnato in vari modi convincenti che deve accettare certi limiti. Vi è
una vistosa e netta diminuzione dell'indulgenza nei suoi confronti e
viene come "spinto via" dal centro del palcoscenico familiare. E',
questo, il momento in cui presumibilmente un altro bambino entra a
far parte della famiglia, ma lo stesso trattamento viene riservato anche
agli ultimogeniti.
Il bambino, quando entra in questa fase di decrescente indulgenza da
parte dei genitori, attraversa tipicamente un breve periodo di
malumore e scoppi d’ira ed ha un’aria cupa e depressa. E' in questa
fase che viene spinto a fare amicizia con altri bambini. Ben presto si
riprende ed entra in attiva e felice interazione con i suoi coetanei. (Tra
parentesi: i giochi infantili sono nettamente privi di baruffe e scontri).
Immagino che la soddisfazione del primo periodo renda assai meno
traumatico il passaggio alla «disindulgenza» di quanto sarebbe se il
suo orientamento di fondo fosse ansioso e insicuro.
Riferimenti bibliografici
ELLIS W., Polynesian Researches, Fisher, Son and Jackson,
Londra, 1830.
FORSTER G., A Voyage Round thè World... in thè Years 1772,
1773, 1774, 1775,2 voli., White, Londra, 1777.
FORSTER J., Observations Made During a Voyage Round thè
World, Robinson, Londra, 1778.
LEVY R.I., Tahitians: M'md and Experience in thè Society
Islands, University of Chicago Press, Chicago, 1973.
LEVY R.I., A Conjunctive Pattern in Middle Class Informai
and Formai Education, «Ethos», n. 3, 1975, pp. 269-79.
MORRISON J., The Journal of James Morrison, Golden
Cockerel Press, Londra, 1935.
TURNBULL J., A Voyage Round thè World in thè Years 1800,
1801, 1802, 1803 and 1804, Maxwell, Londra, 1812.