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E. R. Sorenson, P. Draper, J. L. Briggs, R. K. Dentari, C. H. Berndt, C.

M. Turnbull, R. I. Levy

IL BUON SELVAGGIO

elèuthera
A CURA DI ASHLEY MONTAGU
Titolo originale Learning Non-Aggression Traduzione dall’inglese di
Roberto Ambrosoli e Amedeo Bertolo
© 1978 Ashley Montagu © 1987, 1999
Editrice A coop. sezione Elèuthera
Copertina: Gruppo Artigiano Ricerche Visive
INDICE

Introduzione
(di Ashley Montagli)
1. Cooperazione e libertà tra i Fore della Nuova Guinea (di E.
Richard Sorenson)
2. Aggressività e ambiente educativo tra i !Kung (di Patricia
Draper)
3. Origini della nonviolenza:
il controllo dell’aggressività tra gli Inuit (di Jean L. Briggs)
4. Vita infantile in un contesto nonviolento: il caso dei Semai
(di Robert Knox Dentan)
5. L’Australia degli Aborigeni (di Catherine H. Bemdt)
6. La politica della nonviolenza (di Colin M. Tumbull)
7. Gentilezza tahitiana e controlli ridondanti (di Robert 1. Levy)
In memoria di Frank Speck
INTRODUZIONE
di Ashley Montagli

Molto è stato scritto sull’aggressività, ma assai poco sulla non-


aggressività, sulla gentilezza. E il poco che è stato detto
sull’argomento, tranne alcuni studi di psicologi e di antropologi che
hanno lavorato sul campo, era raramente basato su risultati di ricerche.
Negli ultimi anni un certo numero di autori hanno riesumato l'ipotesi
che gli esseri umani siano universalmente aggressivi, anzi che essi lo
siano per istinto. La loro ipotesi ha suscitato una buona dose
d'interesse e d'approvazione sia tra i lettori sia tra alcuni scienziati. Ma
ha anche suscitato molte critiche da parte di studiosi del
comportamento animale e umano.
Gli «innato-aggressivisti» - come io definisco coloro che
ritengono che l’aggressività sia universale e innata, ad esempio
Konrad Lorenz, Niko Tinbergen, Robert Ardrey, Desmond Morris,
Anthony Storr e altri1 - danno per scontato che tutte le società umane
si conformino all’opinione che essi ne hanno, vale a dire che tutte le
società umane siano aggressive. Si dà invece il caso che ciò,
semplicemente, sia falso. Le società umane non possono essere
classificate come aggressive. E vi sono molti individui nelle società
aggressive. Si dà invece il caso che ciò, semplicemente, sia falso.
Molte società umane non possono essere classificate come
aggresive. E vi sono molti individui nelle società aggressive che non
sono aggressivi e anzi contrari a qualunque forma di comportamento
aggressivo. Molte società che sembrano aggressive sono, in realta,
composte da individui che per lo più non sono abitualmente
aggressivi. La maggior parte della gente nelle società «civili» viene
coinvolta nelle guerre non perché si senta aggressiva nei confronti di
quello che viene socialmente definito come il «nemico», ma perché i
suoi leader - che a loro volta raramente sono motivati da sentimenti
aggressivi - ritengono necessario fare la guerra. E una tale
convinzione non ha assolutamente nulla a che vedere con sentimenti
universali o con istinti, ma per lo più con necessità politiche.
Quando ci si riferisce a società aggressive dev'essere ben chiaro
se ci riferiamo ad aggressività interna o esterna al gruppo. Vi sono, ad
esempio. società in cui l'aggressività esterna - verso altri gruppi - è
molto elevata ma in cui al contrario l'aggressività interna al gruppo è
molto bassa, come in molte popolazioni della Nuova Guinea. Vi sono
alcune società in cui è molto alta sia l'aggressività interna sia quella
esterna, come tra gli Yanoama3. Vi sono poi società in cui sono molto
basse entrambe le forme di aggressività, come tra i Toda 4 dell’india
meridionale; e vi sono infine società in cui non esiste aggressività né
interna né esterna al gruppo.
Di fronte al rinnovato dibattito sulle società aggressive ci è
dunque parso utile cercare di evidenziare quali fattori fanno sì che
alcune società siano più o meno aggressive di altre. A questo scopo
abbiamo chiesto ad alcuni antropologi, che hanno lavorato
direttamente sul campo, di esporre i risultati delle loro ricerche per
quanto concerne specificamente l’aggressività e la non-aggressività in
società non-letterate di loro conoscenza.
Ci sono numerose società che spiccano per la loro
nonaggressività. Fra queste, i Punan del Borneo, gli Hadza della
Tanzania, i Birhor e i Toda dell’india meridionale, i Veddah di Ceylon,
gli Arapesh della Nuova Guinea, gli aborigeni australiani, gli Yamis
dell’isola dell’Orchidea, al largo di Taiwan, i Semai della Malesia, i
Tikopia del Pacifico occidentale, i Dayak dell’interno di Sarawak, i
Lepchas del Sikkim, gli indiani Papago, gli Hopi, gli Zuni e in genere
le tribù Pueblo, i Tacitiani e gli Ifaluk del Pacifico.
Vi sono peraltro poche società in cui non sia presente una qualche
forma di comportamento aggressivo, magari lieve. Il campo di
variazione è, comunque, estremamente ampio. La variabilità e
l'assenza di uno stereotipo suggerisce l'ipotesi che il comportamento
violento sia in gran parte appreso. Come si potrebbe altrimenti dare
ragione delle spiccate differenze nell’espressione della violenza? Il
ricordo all'istinto o ai geni non regge un esame critico 5; il riduttivo
"nient'altro che" dei biologici estremi e, per converso, degli
ambientalisti estremi non porta che a una gran confusione. Lo
sviluppo del comportamento aggressivo sia negli animali sia negli
esseri uman dipende, in ogni sua fase, da una complessa interazione
tra geni e ambiente, in cui però l'esperienza sociale gioca un ruolo
centrale6.
I dati di fatto suggeriscono l’ipotesi che, come conseguenza della
selezione naturale in quell’ambiente peculiare in cui gli umani hanno
vissuto la parte principale della loro storia evolutiva, essi siano
diventati polimorficamente educabili. Gli esseri umani possono
imparare praticamente tutto. Tra l’altro, possono imparare ad essere
pressoché completamente non-aggressivi.La costituzione genetica
umana non va assolutamente vista come un equivalente della dottrina
teologica della predestinazione. Qualunque siano o possano" essere le
potenzialità aggressive umane, è chiaro che le manifestazioni di
aggressività dipenderanno in larga parte dagli stimoli ambientali che
riceveranno. Se, come crediamo, è così, c’è di che essere ottimisti,
perché se si riesce a capire le condizioni che producono il
comportamento aggressivo, si può sperare che cambiando tali
condizioni si possa controllare il manifestarsi e lo svilupparsi di tale
comportamento.
I saggi che qui presentiamo costituiscono, individualmente e
collettivamente, un contributo originale e prezioso alla nostra
comprensione delle condizioni che producono l’aggressività in società
diverse e di come le manifestazioni d’aggressività possano essere
controllate. Bisogna tenere distinti i fatti dalle teorie. In questo libro ci
si occupa di fatti, fatti che rivestono per noi un’importanza particolare,
non solo perché gettano luce sulla validità delle teorie ma anche
perché ci consentono di andare a fondo di rapporti sociali da cui il
nostro mondo occidentale ha molto da imparare. Nei dibattiti
sull’aggressività assai frequentemente il termine non viene
adeguatamente definito. Si dà per scontato che tutti sappiamo che
cos’è l’aggressività. In realtà vi sono tali e tanti tipi di comportamento
definibili come aggressività che è necessario stabilire sempre in modo
inequivocabile a quale genere di aggressività ci si sta riferendo 7. Nei
saggi inclusi nel presente volume ci si riferisce a più d’un tipo
d’aggressione. Tutti però possono essere compresi - più che definiti -
in una categoria generale in quanto comportamento finalizzato a
infliggere dolore fisico o psichico ad altri. Tale dolore può limitarsi al
portar via uno stecco o un giocattolo, oppure può significare infliggere
una ferita corporale più o meno grave. L’aggressività, seppure limitata
a nient’altro che un sentimento, è probabilmente qualcosa che la
maggior parte degli esseri umani ha vissuto e manifestato.
La questione che ci interessa in questo volume è come mai alcune
società siano così poco aggressive rispetto ad altre. Quali sono le
condizioni che favoriscono l’aggressività negli individui e nella
società? Come fanno talune società a tenere sotto controllo il
manifestarsi dell’aggressività? E, infine, in quali condizioni gli
individui delle società non-aggressive tendono a diventare aggressivi?
Alcune risposte a queste domande sono fornite dalle pagine che
seguono.
Margaret Mead fu, molti anni fa, il primo antropologo a indagare
sulle origini dell’aggressività in società preletterate. Nel suo Sesso e
temperamento in tre società primitive8, evidenziò l’esistenza di una
forte correlazione tra pratiche educative dell’infanzia e successivo
sviluppo della personalità. Il bambino che era fatto oggetto di molta
attenzione, quello i cui bisogni venivano prontamente soddisfatti,
come tra gli Arapesh della Nuova Guinea, diventava un adulto gentile,
cooperativo, nonaggressivo. D’altro canto, il bambino cui veniva data
un’attenzione superficiale e intermittente, come tra i Murdugomor -
sempre della Nuova Guinea - diventava un adulto egoista,
noncooperativo, aggressivo.
Successive ricerche tra popoli sia preletterati sia civilizzati hanno
sostanzialmente confermato questa correlazione. Lo stesso vale per gli
studi pubblicati in questo volume.
Oggi è risaputo che la grandissima maggioranza di coloro che
picchiano i bambini sono stati a loro volta picchiati o trascurati
quando erano bambini9. E' risaputo che sono stati emozionalmente
deprivati da bambini probabilmente diventeranno adulti aggressivi. Ed
è anche risaputo che chi da bambino è stato adeguatamente oggetto
d’affetto assai probabilmente diventerà un adulto affettuoso e non-
aggressivo.
Sembrerebbe che, seppure le potenzialità aggressive esistano in
tutti gli esseri umani sin dalla nascita, tali potenzialità restino tali a
meno che non vengano organizzate dall’esperienza in comportamenti
aggressivi. Questo appare particolarmente evidente nel contributo di
Sorenson sui Fore della Nuova Guinea 11. Il comportamento aggressivo
non è determinato da elementi innati più di quanto lo sia quel
comportamento che chiamiamo linguaggio. Senza le potenzialità
innate per il linguaggio non
impareremmo mai a parlare, per quanto stimolante possa essere
l'ambiente, in termini di linguaggio per l'appunto. Ma senza
un'ambiente di "parlanti" non impareremmo mai a parlare12 poiché,
per quanto se ne abbiano le potenzialità innate, perchè si parli bisogna
che ci si parli e che si viva in un ambiente di linguaggio. Gli esseri
umani palesemente sono — come ho detto - polimorficamente
educabili, capaci cioè di imparare qualunque cosa si possa imparare. Il
che non significa che essi nascano come tabulae rasae lockiane, nere
lavagne su cui l’ambiente scrive le sue istruzioni comportamentali.
Quello che la realtà conosciuta sembra indicare è che non ci sono
modelli operativi prefissati, non ci sono «istinti» che determinano la
spontanea comparsa dell’aggressività oppure il suo scatenarsi a partire
da un determinato stimolo. Ciò che può sembrare una reazione
«scatenata», «automatica», «prefissata», «stereotipata» a uno stimolo
può essere in realtà qualcosa di assai diverso. Accade spesso che vi
siano, tra le condizioni che determinano il comportamento, elementi
d’apprendimento che possono essere visti solo se li andiamo a cercare.
Questo può significare, in pratica, evitare che si verifichino nella vita
del bambino quelle situazioni che tenderebbero a produrre
comportamenti aggressivi. O qualora tali situazioni si producano,
percepirne il comportamento conseguente non com’è consueto tra noi
occidentali, bensì come esempio di gioco fisico esplorativo, con
relativa soddisfazione sensoriale per i soggetti implicati, come avviene
tra i Fore. Fra costoro, comportamenti di tal genere sono sempre
consentiti, ma assai raramente finiscono in liti o scontri. Come
dimostra Sorenson, l’aggressione tra i Fore non si scontra con una
controaggressione, ma con una giocosità e con un’allegria cui ben
presto 1’«aggressore» finisce per unirsi.
Uno dei modi in cui gli individui affrontano situazioni che
minacciano di esplodere in manifestazioni di rabbia o di violenza è
spesso, assai semplicemente, quello di allontanarsene, e in alcuni casi
ciò può significare aggregarsi a un altro gruppo. È stato anche
ipotizzato che tutto il continuo brontolare, lamentarsi, battibeccare,
sproloquiare dei Boscimani sia un modo per mantenere l’aggressività
a livelli tollerabili. La stessa ipotesi è stata avanzata per l’analogo
comportamento dei Pigmei dell foresta Huri (africa centrale), tra i
quali picchiare la moglie, bisticciare e gridare potrebbero servire a
tenere sotto controllo i manifestarsi del comportamento aggressivo.
Tali ipotesi traggono origine dalla concezione popolare della
aggressività umana come «sfogo» compendiata nell’espressione
letting off steam [letteralmente: lasciar scaricare il vapore] Il che è
noto anche come modello energetico idraulico, in quanto assimila
l’aggressività alla crescente pressione del vapore in una caldaia.
Il_modo per impedire che la pressione del vapore cresca fino a far
scoppiare la caldaia è di lasciarne uscire un po’, attraverso una valvola
di sicurezza, così da tenere la situazione sotto controllo.
L’unico problema di questo grazioso modello dell’«energia»
aggressiva è che non c’è alcunché di simile in alcun sistema nervoso
di organismi conosciuti. Il difetto dei modelli energetici è che tendono
a identificare gli impulsi psichici con energie fisiche pronte a
scaricarsi in azioni fisiche per «ridurre» la «pressione» e così
«concludere» il comportamento. Questi modelli trascurano il fatto che
normalmente il comportamento viene «concluso» quando si modifica
la struttura degli stimoli che l’hanno messo in moto13.
Vi sono prove schiaccianti che la manifestazione dell'aggressività
porta non a una riduzione bensì a un suo rafforzamento14. Konrad
Lorenz e gli altri innato-aggressivisti non fanno del problema quando
affermano che «in tempi preistorici la selezione intraspecifica inserì
nell’uomo una certa dose d’aggressività per la quale non riesce a
trovare uno sbocco idoneo nell’attuale ordine sociale»15. Né gli
individui né le società hanno bisogno di «sbocchi» per il
comportamento aggressivo.
Quanto risulta in modo evidente dallo studio di gran parte delle
culture preletterate è che ad esse non solo dispiace profondamente il
manifestarsi della violenza ma che anzi lo temono moltissimo, e sono
generalmente grate a chi ne fa cessare il pericolo. Lungi dal cercare
«sbocchi» alla violenza, la violenza stessa è spesso un comportamento
freddo e ragionato anziché una manifestazione emotiva. È l’ostentata
minaccia della violenza, più che la violenza di per sé, che conta
maggiormente in tali occasioni; un po’ secondo il senso implicito
nell’antica massima: «Se vuoi la pace, sii pronto a fare la guerra» 16. La
gioia con cui molti popoli preletterati hanno volentieri rinunciato a
combattere, a razziare, a fare la guerra è una prova formidabile contro
la pretesa che l’aggressione sia un piacere in sé.
Come indicano i saggi di questa antologia, qualunque siano le
nostre potenzialità aggressive genetiche, una precoce induzione al
comportamento cooperativo, e per converso la dissuasione da ogni
comportamento aggressivo o assimilabile, serve a rendere un
individuo (o una società) sostanzialmente non-aggressi- vo e
cooperativo. Se le cose stanno così, la lezione, penso, è chiara.

Note all’introduzione
1. Konrad Lorenz, Ori Aggression, Brace & World, Harcourt,
New York, 1966 (trad. it.: L’aggressività, Il Saggiatore,
Milano, 1983); Niko Tinbergen Ori War and Peace in
Animals and Man, «Science», 160 (1968) pp. 1411-18;
Robert Ardrey, African Genesis, Atheneum, New York, 1961;
Robert Ardrey, The Territorial Imperative, Atheneum, New
York, 1966; Robert Ardrey, The Social Contract, Atheneum,
New York, 1970; Robert Ardrey, The Hunting Hypothesis,
Atheneum, New York, 1976; Desmond Morris, The Naked
Ape, McGraw-Hill, New York, 1967 (trad. it.: La scimmia
nuda, Bompiani, Milano, 1984); Desmond Morris, The
Human Zoo, McGraw-Hill, New York, 1969 (trad. it.: Lo zoo
umano, Mondadori, Milano, 1970); Anthony Storr, Human
Aggression, Atheneum, New York, 1968; Anthony Storr,
Human Destructiveness, Basic Books, New York, 1972 (trad.
it.: La distruttività nell’uomo, Astrolabio, Roma, 1975).
2. Ronald M. Berndt, Excess and Restraint, University of
Chicago Press, Chicago, 1962.
3. Napoleon A. Chagnon, Yanomamo: The Fierce People, Holt,
Rinehart & Winston, New York, 1968.
4. W.H.R. Rivers, The Todas, Macmillan, Londra, 1906.
5. Ashley Montagu, The Nature of Human Aggression, Oxford
University Press, New York, 1976.
6. Robert A. Hinde, Bioìogical Bases of Human Social Behavior,
McGraw- Hill, New York, 1974, pp. 249-52 (trad. it.: Basi
biologiche del comportamento sociale e umano, Zanichelli,
Bologna, 1977).
7. Ashley Montagu, op. cit., pp. 14-15.
8. Margaret Mead, Sex and Temperament in Three Primitive
Societies, Morrow, New York, 1935 (trad. it.: Sesso e
temperamento in tre società primitive, Il Saggiatore, Milano,
1983).
9. C.H. Kempe e R. Helfer, The Battered Child, University of
Chicago Press, Chicago, 1968.
10. Ashley Montagu (a cura di), Culture and Human Development,
Prentice- Hall, Englewood Cliffs, 1975; Ashley Montagu (a cura
di), The Direction of Human Development, Hawthorn Books,
New York, 1970.
11. E. Richard Sorenson, The Edge of thè Forest: Land, Childhood
and Change in New Guinea, Smithsonian Institution Press,
Washington D.C., 1976.
12. Cfr. Ashley Montagu, The Direction of Human Development, cit.
13. Robert A. Hinde, Energy Models of Motivation, «Symposia of thè
Society for Experimental Biology», n. 14 (1960), pp. 119-230.
14. Léonard Berkowitz, Aggression: A Social Psychological Analysis,
McGraw-Hill, New York, 1962; Albert Bandura, Aggression: A
Social Learning Analysis, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1973.
15. Konrad Lorenz, On Aggression, cit., p. 244.
16. Vegezio, Epitoma Rei Militaris, 385, 3, Prologo.
I
COOPERAZIONE E LIBERTÀ TRA
I FORE DELLA NUOVA GUINEA
di E. Richard Sorenson [Smithsonian Institution,Washington D.C.]

Una decina di anni fa cominciai a riflettere come molti altri


sull’idea, allora molto di moda, che l’aggressività fosse un attributo
basilare dell’umanità, un qualcosa di inestricabilmente intrecciato
dentro la natura umana. La motivazione sarebbe che gli esseri umani
sono stati, per la maggior parte del tempo da loro trascorso sulla faccia
della Terra, cacciatori-raccoglitori. Il che, si diceva, ha radicato nella
nostra specie tratti aggressivi, tutti utili per la caccia. Si diceva inoltre
che l’aggressività era necessaria alla sopravvivenza anche per un altro
motivo: perché serve alla difesa del «territorio».
Poi ebbi l’occasione di vedere una parte dell’ampia documentazione
filmata di John Marshall sulla vita quotidiana dei Boscimani del
Kalahari, una delle ultime culture di cacciatori- raccoglitori rimaste
sulla Terra. Quello che vidi non era un popolo feroce e aggressivo.
Termini decisamente più appropriati sarebbero: gentile, ospitale,
generoso e cooperativo. Recentemente Marshall ha definito il loro
modo di vita «una dura scuola di gentilezza»1. Più o meno nello stesso
periodo, una lettura di The Forest People di Colin Turnbull fece sì che
mi ponessi la domanda se la difesa aggressiva del territorio fosse
l’unico modo idoneo di gestire lo spazio vitale2. Avevo fatto queste
riflessioni prima di partire alla volta della Nuova Guinea, per lavorare
tra i Fore meridionali3; ma allora non gli avevo dato molta importanza
perché avevo sentito che gli abitanti degli altipiani della Nuova
Guinea erano un popolo piuttosto feroce e combattivo. Un popolo del
genere, pensavo, non potrà gettare molta luce sul problema dei
comportamenti alternativi a uno stile di vita aggressivo.
Al mio arrivo sugli altipiani feci base in due villaggi fore e mi
misi a viaggiare in lungo e in largo. Scoprii ben presto che i Fore non
erano poi così terribili come mi si era fatto credere. Anzi, già a prima
vista apparivano meno aggressivi, meno competitivi e meno rissosi
che non la gente della mia stessa cultura. Mi rendevo conto che la mia
opinione poteva essere stata influenzata dall’ospitalità con cui ero
stato accolto e dal palese interesse che i Fore avevano per il way of
life che rappresentavo. E tuttavia non potevo non restare
impressionato dalla loro indi- pendente cordialità e alla fine mi resi
conto di quanto fossero stupefacentemente in sintonia l’uno con l’altro
nei loro tradizionali villaggi mobili.
I Fore che mi trovai a studiare erano cacciatori-orticoltori non più
cacciatori-raccoglitori. Una delle cose che fin dall’inizio mi intrigò era
che fra di essi risultava esserci un elevato livello di libertà individuale
che si intrecciava con - e che era alla base di - una relazione
estremamente cooperativa. Noi occidentali, con i nostri tipici modelli
di pensiero e di linguaggio culturalmente determinati, siamo portati a
considerare queste due categorie sociali come qualcosa di antitetico.
Invece tra i Fore esse si rafforzavano vicendevolmente anziché
indebolirsi l’un l’altra. Il che mi poneva questioni epistemologiche,
dovendo usare lo strumento linguistico di una cultura per lo studio di
un’altra. Così cominciai ad affidarmi alla registrazione
cinematografica come strumento per la raccolta di dati sui modelli di
comportamento. Il block-notes non bastava.
Il cannibalismo di cui m’avevano parlato risultò essere una
pratica interna alla famiglia: i Fore si cibavano solo dei defunti che
erano loro stretti parenti, come forma d’amore e di rispetto, non di
ferocia. La stregoneria tendeva ad affiorare verso il nord dove la
tradizionale vita pionieristica stava lasciando il posto ad uno stile di
vita orticolo più stabile e circoscritto. Stava emergendo come mezzo
di difesa della propria «zolla», che non implicava necessariamente
un’aggressività esplicita, diretta. Nelle medesime zone di crescente
pressione insediativa sulla terra, anche la «guerra» fra villaggi aveva
cominciato a manifestarsi, ma era episodica, disorganizzata e non
apprezzata. Persino nelle regioni più affollate i Fore tendevano a
evitare il conflitto quando possibile, in genere spostandosi altrove.
Questo stile di vita «settentrionale» si contrapponeva a quello
delle regioni meridionali, dove ancora persistevano le condizioni
pionieristiche di base. In queste regioni isolate i nuovi venuti erano
meglio accolti, il conflitto era poco comune e prevaleva un’armonia
sociale abbastanza generalizzata.
Mi ci volle un po’ di tempo prima di rendermi conto che il modo
di vita in cui m’ero imbattuto si differenziava da altri tipi di società
nomadi più note per a) le condizioni socioecologiche che la reggevano
e b) il comportamento umano digressivo- esplorativo che produceva.
Non si trattava semplicemente di agricoltori transumanti all’intemo di
un territorio loro proprio. I Fore erano pionieri che seguivano il ritrarsi
della foresta vergine e continuamente si allargavano a ventaglio
sull’orlo della foresta stessa, espandendosi in una vasta regione non
ancora sfruttata. Cercavano nuove terre per la loro orticoltura, le
lavoravano finché si esaurivano e poi se ne andavano a cercarne altre.
Sempre allontanandosi dalle aree già popolate e sfruttate, essi
conducevano una vita indipendente con tratti peculiari. La loro
organizzazione sociale era basata su una libertà esplorativa, un
rapporto cooperativo personalizzato e frontiere aperte. Le stesse
condizioni ecologiche e demografiche basilari sottese a questo modo
di vita avrebbero ben potuto caratterizzare un po’ tutto il mondo prima
che l’agricoltura gli desse la sua impronta: si tratta di condizioni, cioè,
che potrebbero aver preceduto la conversione delle terre selvagge in
regioni agricole, condizioni che potremmo chiamare protoagricole.
Un tale stile di vita può riprodursi stabilmente finché sussistono i suoi
presupposti ecologici e demografici. A questo riguardo la regione dei
Fore e l’area circostante potrebbero costituire uno scenario in cui
studiare, sotto diversi aspetti, il primordiale passaggio dell’umanità
all’agricoltura. Inoltre, in alcune zone il modello protoagricolo stava
lasciando il posto a pratiche agricole più stanziali, cosicché quello che
mi si presentava era anche un tipo di evoluzione che potrebbe aver
avuto luogo su larga scala durante l’emergere dell’agricoltura stanziale
sul nostro pianeta.
Le comunità protoagricole fore erano molto diverse da tutto ciò
che avevo fino ad allora incontrato. Non ci sono capi, patriarchi, preti,
stregoni, o cose simili. Spostandosi a piacimento e stando con chi
vogliono, perfino i più giovani godono di una libertà personale
impressionante. Le donne sono meno mobili degli uomini, essendo
vincolate da accordi matrimoniali, ma anch’esse possono sempre
tornarsene alle loro zone d’origine quando le cose non vanno bene.
I bambini piangono raramente e giocano senza farsi male con i
coltelli, con le accette, con il fuoco. I bambini più grandi di buon
grado accondiscendono agli interessi e ai desideri di quelli più piccoli;
la rivalità tra fratelli è praticamente inesistente. Una sorta di acuto
"sesto senso" sembra sintonizzare ogni membro del villaggio con gli
interessi e i bisogni di tutti gli altri. È raro che essi chiedano
direttamente qualche cosa o che contrattino e blandiscano per ottenere
ciò di cui hanno bisogno o desiderio. Più di frequente, i membri della
comunità leggono prontamente le sottili, talora sfuggenti, espressioni
di interesse, desiderio o disagio manifestate da uno di loro e agiscono
di conseguenza. Una spontanea tendenza a condividere cibo, affetto,
lavoro, fiducia e piacere caratterizza la loro vita quotidiana.
L’aggressione e il conflitto intracomunitario sono insoliti e oggetto di
discussione preoccupata. Il senso della tribù, della famiglia e della
«patria» è vago; non ci sono luoghi fissi residenziali od orticoli né
terre tradizionali. È una vita aperta, liberamente nomade, in cui
ognuno si sposta con quelli con cui sta bene'. La segmentazione del
gruppo, alla ricerca di nuove occasioni, è una pratica standard
accettata come naturale. Sono rimasto impressionato dalla velocità
con cui idee e pratiche nuove vengono assimilate da questi gruppi:
modi di parlare, di contare e persino credenze basilari sono aperte a
repentine modificazioni.
Questa situazione protoagricola di base è cominciata a cambiare
al nord e all’ovest. Lì è aumentata la densità della popolazione e il
mutamento ecologico ha ridotto la disponibilità di nuova terra
coltivabile. Sono cominciate a scoppiare delle lotte e l’organizzazione
comunitaria è diventata più strettamente definita. Ad occidente, nella
Baliem Valley, gli «orti di guerra»4 dei Dani sembrano rappresentare
un estremo di questo sviluppo socioecologico, mentre gli «orti
occasionali» dei Fore ne rappresentano l’altro. Ovviamente il
passaggio da un tipo all’altro comporta una modifica del carattere e
dello stile di vita.
In certa misura possiamo studiare questa modifica tramite l’esame
dei Fore. Già cacciatori-raccoglitori, ora protoagricoltori di cui una
parte in transizione verso l’agricoltura stanziale, i Fore coltivano,
cacciano e raccolgono. Come i cacciatori-racco- glitori essi si
procurano il cibo su una superficie molto estesa, dapprima in un
luogo, poi in un altro, seguendo le occasioni offerte da una natura
provvida. Ma in quanto orticoltori concentrano sforzi e attenzione più
strettamente su luoghi circoscritti di produzione: i loro orti mobili.
Essi sono insieme cercatori e produttori di cibo. Popolo di pionieri in
una terra da pionieri, essi spaziano liberamente in un vasto territorio
ma hanno anche iniziato a piantare per vivere.
Le esigenze dell’orticoltura focalizzano l’interesse umano e la
vita quotidiana in un modo, la caccia-raccolta in un altro. L’orticoltura
richiede un nuovo modello d’organizzazione sociale. Un orticoltore
non va a cercare il suo cibo in un’area molto estesa, ma concentra i
suoi sforzi e la sua attenzione nel manipolare piccoli e selezionati
spazi di produzione del cibo. L’ottica territoriale si restringe e il
comportamento economico si modifica in conseguenza, mentre il
comportamento sociale si esplica in uno scenario quotidiano con
differenti requisiti.
Inoltre, l’innovazione protoagricola finisce col moltiplicare la
crescita demografica e può alterare l’ecologia. Quando le terre
«illimitate» cominciano a riempirsi, la loro ricchezza vergine si
esaurisce. Vengono così poste le condizioni demografiche ed
ecologiche che consentono lo sviluppo protoagricolo. Si afferma un
nuovo scenario che richiede un più acuto senso del «territorio». La
disponibilità di terra si restringe. L’agricoltura deve stanzializzarsi e la
terra occupata stabilmente deve essere difesa.
Perché un modo di vita possa durare, esso deve includere delle
pratiche tramite le quali i suoi modelli di adattamento possano essere
trasmessi alle nuove generazioni. Così, utilizzando una metodologia di
ripresa cinematografica da me elaborata, ho campionato il
comportamento quotidiano dei bambini a vari stadi di crescita e ho
quindi studiato i modelli di comportamento in relazione allo stile di
vita protoagricolo. Cogliendo elementi non percepiti e non previsti al
momento della ripresa, la documentazione filmica ha consentito di
scoprire modelli culturalmente specifici di comportamento tramite
visioni ripetute in tempi differenti, a differenti velocità e in differenti
circostanze. Diversamente dalla lingua parlata, il dato visivo della
pellicola ci ha consentito di scoprire e isolare modelli sottili e
fuggevoli stati d’animo e di aggregare categorie simili di eventi, così
da facilitare la ricerca di tratti comuni.
La scoperta fondamentale è stata che i bambini più piccoli
restavano in contatto corporeo quasi continuo con la loro madre, i suoi
familiari o le sue compagne di lavoro nel’orto. Il grembo materno è il
centro della vita infantile e i piccoli se ne stanno lì a succhiare il latte,
a dormire e a giocare con il loro corpo o con quello della loro nutrice.
Ed essi non vengono messi da parte neppure durante lo svolgimento di
altre attività, come la preparazione del cibo o il trasporto di oggètti
anche pesanti5.
Restando a stretto e ininterrotto contatto fisico con quelli che stanno
attorno, i loro bisogni basilari - riposo, nutrimento,
stimolazione e sicurezza - vengono continuamente soddisfatti senza
problemi. Poiché tutti i bambini fore hanno una possibilità costante
d'interscambio tattile, ben prima di poter parlare essi comunicano
bisogni, desideri e sentimenti alle persone che si occupano di loro
tramite il tatto e il movimento fisico. Questo costante "linguaggio" del
contatto rende pronta e facile la soddisfazione dei bisogni dei
desideri dell'infante e rende superflui i più rigidi espedienti normativi
e dietetici. Frustrazione infantile ed esplosioni di protesta, così
comuni nella cultura occidentale, sono raramente individuabili. Le
madri fore, ad esempio, distolgono con dolcezza i piccoli dal mordere
i capezzoli o da altre forme di aggressione «accidentale», il che
sembra essere reso possibile da una stretta sintonia fisica.
Reagendo attivamente a un’interazione tattile persuasiva (ma non
coercitiva), i piccoli ben presto riconoscono e accettano come naturale
l’affettuosa attenzione che costantemente ricevono. E i bambini più
grandicelli partecipano a questa situazione ambientale di
comunicazione tattile scherzando e giocando continuamente con i più
piccoli.
La comunicazione tattile è funzionale all’espressione e alla
soddisfazione dei principali problemi del bimbo: nutrimento,
sicurezza, comfort e stimolazione. La capacità di parlare emerge a
tempo debito, tuttavia nel periodo precedente si stabilisce un modello
fondamentale di rapporto umano che è alla base dello stile di vita fore
e lo modella. Questo modello «sociosensuale» istituisce un rapporto
molto intimo con le persone circostanti e pare costituire il fondamento
di quel «sesto senso» che tiene insieme i gruppi attraverso una
spontanea e affettuosa spartizione di cibo, strumenti e piacere.
L’economia cooperativa, le relazioni umane di tipo consensuale,
l’ordine sociale egualitario emergono dalla condizione iniziale di
relazione tattile. L’alto grado di contatto fisico che inizia alla nascita
può dunque essere stato essenziale nel determinare lo sviluppo dello
specifico modello sociale e comportamentale fore. Gli effetti di questo
tipo di precoce input esperienziale si dipanano come un filo continuo
attraverso l’infanzia e l’adolescenza dei Fore e culmina alla fine nel
loro modo di vita protoagricolo.
Un altro filo essenziale corre dalla prima infanzia in avanti ed è la
libertà concessa al bambino di esplicare un'attività esplorativa secondo
la sua iniziativa e i suoi interessi. Man mano che cresce la
consapevolezza del neonato, si amplia il suo interesse per ciò che
fanno la madre e gli altri che si prendono cura di lui. Poi il piccolo
comincia a muoversi in giro a quattro zampe per esplorare gli oggetti
vicini che attraggono la sua attenzione. Quando comincia a muovere i
primi passi, i suoi interessi lo portano continuamente a brevi sortite
verso oggetti e persone che gli stanno attorno. Non appena riesce a
camminare con sicurezza, le escursioni si estendono a tutto il villaggio
e ai suoi orti e poi, con altri bambini, anche oltre. Sviluppandosi senza
alcuna interferenza o sorveglianza, questa ricerca esplorativa
personale s’imbatte liberamente in tutto ciò che sta attorno al
bambino, comprese le asce, i coltelli, i machete e il fuoco.
Stupefatto, dapprima, dalla capacità mostrata dai bambini piccoli
nell’agire in modo così indipendente senza farsi male, ho poi
cominciato a capire come anche questa abilità derivi dall’ambiente
infantile di stretta vicinanza fisica e di interazione tattile. Il tatto e il
contatto corporeo si prestano naturalmente, come s’è detto, alla
soddisfazione dei bisogni elementari dei bambini e nel contempo
forniscono la base per un genere precoce di esperienza comunicativa.
Essendo in contatto fisico continuo con persone impegnate nei compiti
quotidiani, i piccoli cominciano ben presto ad apprendere le forme di
comportamento e di reazione caratteristiche della vita fore. Elementi
costitutivi di questo processo di apprendimento sono il tono
muscolare, il movimento, l’atteggiamento; non l’istruzione formale.
Circondati da continue e ampie possibilità d’esperienza cinestetica
spontanea, fin dalla prima infanzia i bambini cominciano a indagare e
a esplorare, secondo la loro iniziativa e la loro inclinazione, quegli
oggetti e quelle attività che, attorno a loro, ne attraggono l’attenzione.
La conoscenza degli strumenti si sviluppa assai presto e quando
riescono a camminare, i piccoli fore sanno già maneggiare asce,
coltelli, fuoco, eccetera.
Il modello iniziale di attività esplorativa comprende un frequente
ritorno a una delle «madri». Fungendo da base domestica, da bastione
di sicurezza, una donna può talvolta fare un cenno d’incoraggiamento
al bambino se egli guarda nella sua direzione con un’espressione
d’incertezza. Tuttavia assai raramente qualcuno cerca di controllarlo o
di indirizzarlo, né tanto meno di partecipare alle sue ricerche o
scorribande.
Da principio trovai molto strano che i bambini ai primi passi non
si buttassero avventatamente in situazioni di pericolo, così come
tendono a fare i nostri bambini. Poi vidi che non avevano alcun
motivo di farlo. Sin dai primi giorni essi godono di un benevolo
"santuario" dal quale possono con confidenza guardare il mondo,
sperimentarlo, apprezzarlo. Questa "base" umana non è né esigente né
restrittiva, cosicché essi non hanno alcun bisogno dì scappare, di
sfuggirla, come invece si può frequentemente osservare nella cultura
occidentale. Fiduciosamente e non furtivamente i piccoli sono in grdo
di allargare la loro ricerc, di ampliare la loro conoscenza, a loro scelta.
Non hanno bisogno di sotterfugi per andare in cerca della vita, né
hanno bisogno di agire impulsivamente per vincere le paure
subliminali indotte da castighi o da ansietà materne. Bambini siffatti
possono muoversi liberamente, senza sorveglianza e senza proibizioni.
L’apprendimento, iniziato come sintonizzazione fisica con chi si
prende cura del bambino, prosegue tramite la sintonizzazione
sociosensuale con i coetanei. Da ciò deriva l’approccio cooperativo
consensuale al cibo, al rifugio, al piacere, che caratterizza la vita dei
Fore, e all’associazione volontaria degli adulti che cooperano e si
separano per sfruttare le terre vergini. In questo modo l’approccio
non-autoritario dei Fore all’allevamento del bambino sorregge la loro
esistenza protoagricola, forgiando una personalità esplorativa, non
repressa, idonea alla segmentazione sociale, funzionale all’uso della
circostante situazione ecologica vergine.
Il modo con cui i Fore introducono innovazioni culturali non è né
compulsivo né ansioso. Poiché i Fore non si sforzano d’essere diversi
o migliori, la novità diventa interessante ed eccitante solo se vissuta
come «gioco» tra coetanei. Quando un qualcosa di nuovo, dopo aver
suscitato interesse, non produce anche un apprezzamento unanime,
viene generalmente lasciato cadere. L'attività economica dei For
rispecchia il loro approccio alla novità. L'uno e l'altra sono cooperativi
e consensuali e né l'uno né l'altra sono aggressivi o competitivi.
Indubbiamente l'assenza di frustrazioni durante l'infanzia è un fattore
chiave nello sviluppo del loro carattere protoagricolo coopertivo e
libero. Poiché le basilari esigente fisiche e emozionali dei bambini
vengono prontamente soddisfatte, essi per sentirsi sicuri non debbono
elaborare astratte costruzioni mentali relative a scansioni temporali e
relazioni umane, come fanno i bambini in famiglie organizzate a
partire da regole, orari, modelli di comportamento. Non c'è alcun
bisogno di sviluppare e interiorizzare astratti concetti d'ordine
regolarità per accedere alle fonti di alimentazione e benessere. Il che
rende superfluo il ricorso profondamente emozionale a ideali astratti
di comportamento correlati al senso di sicurezza. Tali ideali non sono
necessari né al benessere materiale né a quello spirituale. Così, per lo
meno, viene a mancare una delle fonti d’aggressività e di conflitto, e
cioè l’interesse a manipolare la gente o a modificare l’ambiente in
funzione di uno «schema di vita» radicato a modelli emotivi.
Con un programma comportamentale modellato da un trattamento
costantemente benevolo sin dalla prima età, la dinamica sociale dei
Fore procede in modo abbastanza flessibile verso un senso d’identità
personale che dipende ben poco dal nome, dal luogo, dalla posizione,
dallo status. In assenza di concetti astratti correlati con il senso di
sicurezza, non è «pericoloso» sfidare le credenze o le pratiche
correnti. Il che lascia i Fore relativamente liberi di pensare e
comportarsi in modi nuovi. La conseguente flessibilità cognitiva e
comportamentale è funzionale all’adattamento protoagricolo.
Tutto ciò ha implicazioni evidenti per la comprensione della
natura dell’aggressività. Il modo culturalmente peculiare di trattare il
bambino che abbiamo riscontrato nei Fore fa sì che non s’instaurino
comportamenti tipo «fuggire o fare a botte». E «vendicarsi», «fargliela
pagare», o analoghi impulsi distruttivi rivolti contro la famiglia, le
persone care e il loro modo di vita, non entrano a far parte del loro
repertorio comportamentale. Tra i Fore non si presentano problemi
assai comuni nelle società occidentali come il "gap generazionale", la
rivalità tra fratelli, la prepotenza sociale, la rivolta adolescenziale e
atteggiamenti aggressivi simili. Vi sono atti aggressivi sperimentali e
accidentali da parte dei più piccini che, tuttavia, vengono considerati
conseguenza naturale dell'immaturità di chi non si rende ancora conto
dell'impatto di simili azioni. Vengono perciò giudicati divertenti. Non
viene fatto alcun tentativo di castigarli né viene esibita normalmente
alcuna espressione d'ira o disapprovazione.
Piuttosto la reazione tipica dei bambini più grandi e degli adulti fatti
oggetto di azioni aggressive od ostili dei più piccoli è di interessato e
affettuoso divertimento. Se l'attacco diventa doloroso, chi ne è oggetto
se ne va oppure cerca di distrarre il piccolo con affettuosa scherzosità
o proponendogli altri interessi. Quando l'"aggressione" è rivolta verso
coetanei viene scoraggiata ma, di nuovo, non con rimbrotti o punizioni
bensì tramite giochi diversivi. Il comportamento aggressivo
sperimentale e accidentale dei più piccini non dura; le loro azioni
aggressive casuali o embrionali non riescono a trovare uno spazio
nello stile di vita quotidiano. Nella loro vita l’ira, il litigio, la lotta non
diventano «naturali». Espressioni momentanee d’ira, ad esempio in
caso di «incidenti» durante giochi rudi, si disperdono rapidamente. Il
conflitto riguardante il possesso o l’uso di «cose» viene tipicamente
sviato tramite costumi comportamentali di rispetto reciproco o di
sintonia cooperativa.
Radicato nella gestalt protoagricola questo sistema sociale non-
aggressivo ha cominciato a sfaldarsi con l’emergere dell’agricoltura
stanziale. La debolezza del tipo di sviluppo psicosociale protoagricolo
dei Fore sta nel fatto che solo quelli che sono cresciuti assieme sono
strettamente sintonizati reciprocamente. Non è facile estendere questo
rapporto agli stranieri.
Esso richiede che si cresca assieme nell’armonia sociosensuale e
consensuale dei villaggi protoagricoli. Senza di questo, la base del
rapporto non è molto solida.
Così il carattere aperto, ricettivo e non-aggressivo prodotto dalla
situazione protoagricola dei Fore era destinato a essere turbato man
mano che le terre cominciavano a riempirsi. Quando diversi gruppi di
orticoltori nomadi fore cominciarono a convergere sulle poche aree
rimaste di foresta vergine, cominciò un’epoca problematica. Gli «orti
occasionali» cominciarono a diventare «orti di guerra».
In condizioni normali la reazione tipica dei Fore a difficoltà
interpersonali o tra gruppi sarebbe stata quella di andarsene altrove,
anche assai lontano. Ma, quando le terre cominciarono a riempirsi,
questo comportamento diventò sempre meno praticabile. Nelle regioni
più densamente popolate i Fore iniziarono a stanzializzarsi e a
sviluppare atteggiamenti bellicosi e violenti. Si ebbero incursioni
contro gli orti e perfino contro i villaggi dei «trasgressori», e infine
anche uccisioni per rappresaglia.
Questo genere di «guerra» era generalmente di piccola scala e
poche erano le vittime. Le alleanze «belliche» erano temporanee e
informali. Le comunità raramente si comportavano come unità
politiche. Persino in un piccolo villaggio era inconsueto che tutti gli
uomini partecipassero a un’incursione o a una battaglia. Il
combattimento normalmente era affare di poche persone che si
sentivano direttamente offese o danneggiate. La loro ostilità era
tipicamente rivolta contro individui particolari o piccoli gruppi di
persone di altri villaggi limitrofi. Le cause scatenanti erano di solito
azioni commesse a danno di qualcuno (per esempio rompere una
recinzione, danneggiare un orto, uccidere un maiale o intrecciare una
relazione sessuale con la moglie di un altro).
Il carattere alquanto indefinito della «guerra» deriva dal tipo di
organizzazione sociopolitica informale dei Fore. Sebbene la maggior
parte degli amici e alleati di un Fore siano suoi «compaesani», non è
inconsueto che i vari membri d’un villaggio abbiano un buon numero
di affini - a diversi livelli - in località al di fuori del villaggio, e questo
a causa del processo protoagricolo di dispersione territoriale. I membri
di alcuni villaggi fanno risalire le loro affinità familiari non solo ad
altri villaggi della loro regione, ma anche a popolazioni residenti assai
lontano. Il che crea una situazione in cui vi sono individui che non si
uniscono ai loro «compaesani» durante i combattimenti a causa della
loro stretta affinità con individui del villaggio «nemico». Questi
«neutrali» possono liberamente passare il fronte delle ostilità persino
mentre la battaglia è in corso.
In altre zone degli altipiani, dove 1 ’era protoagricola è giunta
al_termine_e dove è forte la pressione sulla terra, la guerra è diventata
più comune, meglio organizzata e più istituzionalizzata. Hanno
cominciato a formarsi unità sociopolitiche più definite e bande più
numerose di combattenti. È cresciuta la probabilità di attacchi diretti
ai villaggi e coloro che non vorrebbero unirsi al combattimento sono
costretti a farlo o ad andarsene. Gli abitanti dei villaggi, per quanto
concerne conflitto e guerra, si vanno così unificando, grazie anche alla
stregoneria o alla minaccia di stregoneria. Ed hanno cominciato a
esserci nemici comuni, nemici che possono essere identificati dal
luogo in cui abitano.
Riassumendo, nello sviluppo della guerra tra i Fore è possibile
distinguere tre fasi ecologicamente e demograficamente definite:
PRIMA FASE: abbondanza di terra vergine circostante. Piccoli
gruppi isolati di protoagricoltori, composti da membri strettamente
uniti da fiducia reciproca, che tendono ad aprirsi a ventaglio nelle
foreste disabitate. Il combattimento è raro.
SECONDA FASE: inizia la concorrenza per la terra. Popolazioni,
prima divergenti e fra di loro relativamente estranee, cominciano a
convergere sulle stesse aree residue di terra vergine. Vi sono crescenti
episodi di confusione, rabbia e lotta. Il conflitto, tipicamente, consiste
in scorrerie di piccole bande volte a punire immediatamente specifici
comportamenti ritenuti ingiusti. Si osserva anche un’ulteriore spinta
alla migrazione per evitare il conflitto.
TERZA FASE: crescente scarsità di nuova foresta. Non è più
praticabile la libera segmentazione contigua. Un crescente livello di
stregoneria, sospettosità e accuse reciproche restringe l’orizzonte
sociale. Persone non fidate vengono escluse dalle aree residenziali.
Cominciano a verificarsi attacchi a villaggi. Cominciano a svilupparsi
gruppi sociopolitici. Gruppi diversi si alleano contro il pericolo di
infiltrazioni territoriali da parte di popolazioni indesiderate. Le
popolazioni si disperdono in modo più rigido man mano che la
migrazione segmentaria dei gruppi porta i nuovi segmenti verso terre
molto lontane, al di là delle terre abitate da altri gruppi.
Questo processo venne interrotto dall’intervento dei funzionari
governativi australiani, che ebbe come effetto immediato la
pacificazione. I combattimenti cessarono quasi spontaneamente in
tutta la regione. La maggior parte dei gruppi fore non aspettarono che
venisse loro imposto il «cessate il fuoco» da parte del nuovo governo,
ma smisero da soli quasi come se non avessero aspettato altro che una
scusa per farlo. Alcuni conservarono ancora per un po’ un
atteggiamento si vai-guerresco ma senza effettuare scorrerie gravi. I
Fore dicevano che stava per arrivare il kiap (funzionario governativo)
e perciò era ora di smetterla di combattere. Quello che s’aspettavano
da questo arrivo era più l’inizio di una nuova era che un’invasione. Le
controversie che non riuscivano a trovare una soluzione interna ai
Fore stessi venivano prontamente e volentieri sottoposte all’arbitrato
dei funzionari australiani.
Ben presto si diffuse in tutta la regione un’etica antibellica,
scomparvero gli atteggiamenti aggressivi che precedentemente erano
stati associati alla rivendicazione di supposti diritti e cessarono i
discorsi in cui venivano associati la virilità e la bravura guerriera.
Questa disponibilità dei Fore alla presenza dei bianchi mi sembra
possa attribuirsi, per lo meno in parte, alla peculiarità storica
dell’arrivo degli australiani. La guerra era diventata un problema
grave e sgradevole ed erano ancora in fase embrionale meccanismi
sociopolitici indigeni per tenerla sotto controllo. L’arrivo della polizia
australiana consentiva una soluzione immediata ed è in gran parte
grazie a questo se la venuta degli australiani è stata vissuta in modo
millenaristico.
La cultura dei Fore rappresenta uno dei molti sviluppi umani resi
possibili dal peculiare e complesso apparato neurofisiologico
dell’uomo, e ci dice qualcosa su un aspetto importante dell’evoluzione
socioecologica del mondo: la transizione dalla caccia-raccolta
all’agricoltura stanziale. Ci dice anche che l’aggressività è un tratto
caratteriale programmato culturalmente, che non è sempre necessario
e neppure sempre presente. Sarebbe un errore, tuttavia, ritenere che il
tipo d’organizzazione umana dei Fore sia necessariamente emerso in
ogni situazione protoagricola. Un caso non fa una regola.
Il passaggio dalla caccia-raccolta alla protoagricoltura dapprima e
all’agricoltura stanziale poi, così come s’è svolto sugli altipiani della
Nuova Guinea, è l’interessante espressione di un’organizzazione
umana emersa in risposta a una serie peculiare di condizioni storiche,
ecologiche, culturali ed economiche.
Fino a che non ne sapremo di più sull’ampio ventaglio di possibili
modelli comportamentali dell’essere umano, non sarà possibile dare
una risposta convincente alla questione dell’aggressività umana. Né
sarà possibile valutare appieno il ruolo adattativo che ha giocato o che
può giocare nelle vicende umane. Il termine stesso «aggressività»
riflette la struttura cognitiva della cultura occidentale. Si presenta
perciò la questione epistemologica, alquanto difficile, di come
applicare trans-culturalmente tale termine. A questo scopo sarebbe
utile disporre di più dati su modelli non-occidentali di comportamento
umano correiabili al concetto occidentale d’aggressività.

Note al capitolo
1. Così [in inglese, gentle crucible. N.d.T.], in una
comunicazione privata (2 marzo 1977), John Marshall ha
definito il periodo pleistocenico di caccia-rac- colta.
2. Colin Tumbull, The Foresi People: a Study of thè Pygmies of
thè Congo, Simon and Schuster, New York, 1961 (trad. it.: I
Pigmei. Il popolo della foresta, Rus'oni, Milano, 1975).
3. E. Richard Sorenson, The Edge of thè Forest: Land,
Childhood and Change in a New Guinea Protoagricultural
Society, Smithsonian Institution Press, Washington D.C.,
1976.
4. R. Gardner e K.G. Heider, Gardens of War: Life and Death
in thè New Guinea Stone Age, Random House, New York,
1969.
5. In genere è la madre che porta i più piccoli, ma al crescere
del bambino essa condivide questa attività con altri individui
della sua cerchia sociale: in particolare sono i bambini più
grandicelli che aiutano a tenere e portare i più piccoli. I
neonati sono talvolta portati sulla schiena della madre in
ceste imbottite di morbida scorza e di foglie, come in un
«utero» artificiale, ma spesso sono anche portati sotto il
braccio. Al crescere, il bambino viene pure portato
appoggiato all’anca materna. I bambini più grandi che
badano ai piccini li portano spesso sull’anca ma altrettanto
spesso sulla schiena, cosa che invece non fanno gli adulti.
II
AGGRESSIVITÀ E AMBIENTE EDUCATIVO TRA I !KUNG
di Patricia Draper [university of New Mexico]

I !Kung, un popolo di cacciatori-raccoglitori del deserto del Kalahari,


presentano un certo interesse per questa raccolta di scritti sulla non-
aggressività come carattere culturalmente trasmesso. E ciò per vari
motivi. Essi sono stati descritti come «un popolo inoffensivo» da
Thomas (1958) in un libro che descrive la vita sociale e i valori
culturali dei IKung della Namibia, mentre da un lavoro inedito di
Richard Lee emerge una loro immagine diametralmente opposta.
Questo lavoro, basato su interviste e analisi di documentazioni
genealogiche raccolte sul campo, parla di omicidi fra i IKung.
L’omicidio, secondo Lee, sarebbe un po’ troppo frequente per un
popolo dato per inoffensivo e non aggressivo.
Altri autori, che si sono occupati più in generale dei tratti comuni
ai popoli cacciatori-raccoglitori organizzati a livello di «banda»
(Service, 1966; Hoebel, 1954, 1958; Lee e DeVore, 1968), hanno
rilevato che i gruppi di cacciatori-raccoglitori dispongono di pochi
meccanismi formali per tenere sotto controllo il conflitto sociale.
Questi popoli s’affidano tipicamente a meccanismi informali di
controllo sociale come il pettegolezzo, lo scherno, la stregoneria, lo
stare alla larga, l’ostracismo e a una pubblica opinione formatasi in
pubbliche discussioni. Nell’analizzare il problema del controllo
sociale in tali società, gli antropologi fanno notare che i conflitti
vengono risolti in modi tortuosi e prolissi e segnalano che scopo della
soluzione del conflitto non è quello di svergognare o di punire
necessariamente un reo ma piuttosto quello di ripristinare relazioni
amicheevoli tra gli individui.
In questo contesto, i !Kung sono un caso certamente stimolante in
quanto c’è su di loro una netta divergenza di opinioni: se classificarli
tra i popoli inoffensivi o, addirittura, tra quelli feroci. Inoltre, poiché i
IKung sono ora ben conosciuti e studiati, si possono usare specifiche
informazioni concernenti il loro comportamento per analizzare
proposizioni più generali relative al controllo sociale e al conflitto
interpersonale nelle società di cacciatori-raccoglitori.
Il presente scritto si occuperà del problema del conflitto
interpersonale e dell’aggressività tra i IKung, con particolare
attenzione all’ambiente educativo dei bambini e alle sue correlazioni
con l’apprendimento di un comportamento non-aggressi- vo. Il che
significa, innanzi tutto, occuparsi del modo con cui i genitori
affrontano il comportamento dei figli e delle tecniche adottate nei
confronti del conflitto. Inoltre, nel caso dei IKung vi sono vari altri
elementi - come i modelli di insediamento, l’economia, il principio
della spartizione - che sono meno palesemente correlati con il sistema
di valori pedagogici ma che hanno tuttavia un impatto sostanziale sul
clima sociale ed emozionale in cui crescono i bambini. Perciò ci
occuperemo non solo di alcuni aspetti della socializzazione infantile
che concernono direttamente l’insegnamento della non-aggressività,
ma anche di altre dimensioni dell’organizzazione sociale che hanno
una certa importanza nella capacità dei IKung di scoraggiare
l’aggressività interpersonale e di favorire la cooperazione di gruppo. Il
problema se i IKung sono aggressivi, inoffensivi o feroci è invece
lasciato all’ultima parte di questo scritto.
Prima di entrare direttamente nell’argomento debbo dare al lettore
alcune avvertenze concernenti i problemi che si trova di fronte un
antropologo nel presentare e interpretare i dati raccolti.
Quando gli antropologi descrivono popoli esoterici con cui hanno
vissuto e che hanno studiato, spesso strutturano le loro analisi attorno
a temi che sono ritenuti centrali rispetto alla vita culturale di quei
popoli. Il che può costituire un approccio proficuo e culturalmente
corretto: l’istituzione scelta come fonda- mentale o l’insieme
fondamentale di valori diventa la base per evidenziare le connessioni
fra processi culturali apparentemente discontinui e indipendenti. Però,
uno svantaggio di questo approccio è che esso necessariamente porta a
sottovalutare il ruolo di altri costumi che potrebbero legittimamente
assumere la stessa importanza se l’analisi etnografica partisse da un
altro punto di vista. Vi sono molti esempi dell’approccio a un «tema
culturale centrale». Tra i più noti vi è la descrizione della reciprocità e
dello scambio fra i Trobriandesi (Malinowski, 1920, 1922), l’analisi
dell’aggressività e del conflitto ritualizzato (Asch e Chagnon, 1976;
Chagnon, 1977) e naturalmente i Modelli di cultura di Ruth Benedict
(Benedict, 1934).
L'approccio opposto, quello in cui un antropologo descrive una
cultura per argomenti, occupandosi successivamente dei vari sistemi
cuturali (ad esempio la religione, l'economia, la socializzazione e così
via), è oggi fuori moda. Nonostante tutti i pregi di questo metodo, più
esaustivo ed equilibrato, esso tende a fare della scabra, irregolare,
accidentata trama della vita sociale un porridge facile da inghiottire
ma sciapo.
Scrivendo un saggio sull’aggressività tra i IKung, ci si trova di
fronte ad alcuni dei problemi su accennati. Aggressività, conflitto,
violenza... questi comportamenti non costituiscono problemi oggetto
di specifica e complessa elaborazione culturale. E neppure si può
sostenere che vi sia come tema culturale centrale una coppia di
opposti valori: il rafforzamento della pace e la repressione
dell’aggressività. Da questo punto di vista i valori relativi
all’aggressività interpersonale non si presentano come una prospettiva
particolarmente proficua da cui guardare alla realtà culturale. Ciò
nondimeno i IKung sono un popolo che valuta negativamente
l’aggressività: dispongono di valori esplicitamente contrari
all’aggressione, alla perdita di autocontrollo, all’intimidazione e ai
tentativi di «plagiare» l’altrui comportamento. Di più, dopo molti mesi
di lavoro sul campo e di quotidiana osservazione del loro
comportamento, devo dichiarare che gli atti di palese violenza fisica di
un individuo contro un altro sono estremamente rari. In due anni ho
personalmente osservato tre soli casi in cui delle persone hanno perso
il controllo di sé e si sono picchiati a vicenda: due ragzzine dodicenni
che si sono accapigliate e prese a pugni; due donne che si sono
graffiate e prese a calci a proposito di un uomo (che era il marito di
una delle due); due uomini che, dopo essersi spintonati violentemente,
erano corsi gridando a prendere delle armi (venendo successivamente
trattenuti da altra gente dei loro due accampamenti). In un quarto caso
ho visto due donne che s’erano picchiate il giorno prima. Lorna
Marshall, un’antropoioga che ha una lunga esperienza tra i IKung,
similmente racconta:

Nel corso di diciassette mesi e mezzo passati tra i IKung Nyae


Nyae [...], sono stata personalmente testimone di quattro soli alterchi e
ho sentito parlare di altri tre avvenuti in gruppi limitrofi durante il
medesimo periodo. Tutti si risolsero prima di diventare veramente
gravi.

Tuttavia i !Kung, anche se riescono ad evitare, nella maggior parte dei


casi, che si verifichino scontri fisici diretti, palesemente provano le
stesse emozioni che in altre società porterebbero rapidamente ad atti
ostili. Anche i !Kung nutrono odi, gelosie, risentimenti, sospetti... tutta
la gamma, insomma, delle emozioni negative. Del resto, la loro
tradizione orale è sorprendentemente violenta e fratricida per un
popolo che, in superficie, conserva tutta l’apparenza d’una semplice
armonia comunitaria (Biesele, 1972a, 1972b, 1975,1976). La
differenza tra i IKung e gli altri popoli è che le circostanze della loro
vita sono tali da imporre loro di smorzare le passioni a livelli
controllabili; oppure, se non ci riescono, a staccarsi dal gruppo di
persone che non riescono a sopportare: in questo senso, è interessante
il fatto che anche i IKung possono diventare fortemente irascibili
quando il loro stile di vita cambia rispetto a quello tipico dei piccoli
gruppi mobili che vivono nella savana e si basano, per la
sopravvivenza, sulla raccolta e sulla caccia (Lee, 1972a). Nel presente
saggio ci occuperemo di un gruppo di circa 120 IKung della savana
che ho studiato nel 1968 e nel 1969. All’epoca essi vivevano lungo il
confine internazionale tra il Botswana e la Namibia, in prossimità
delle fonti d’acqua Ikung note come To//gana e /Du/da. Per i lettori
che non siano a conoscenza dell’abbondante letteratura sui IKung, può
essere utile una breve descrizione etnografica.
Negli ultimi vent’anni la letteratura sui IKung è andata facendosi
cospicua. I primi lavori di Lorna Marshall ed Elisabeth Marshall
Thomas danno un’idea generale dell’organizzazione sociale e
dell’economia dei IKung, anche se si occupano essenzialmente dei
IKung della regione Nyae Nyae in Namibia. A partire dai primi anni
Sessanta un altro gruppo di ricercatori si è messo a studiare i IKung 1.
Questo gruppo ha lavorato nel Botswana occidentale, con popolazioni
Ikung che si sovrapponevano in parte con quelle studiate dalla
famiglia Marshall.
Oggi i IKung vivono per lo più sul margine occidentale del
sistema sabbioso del Kalahari, in quello che è ora l’Angola
meridionale, la Namibia e il Botswana, e sono vissuti fino a tempi
recenti di caccia e raccolta. Attualmente la grande maggioranza del
popolo di lingua !Kung ha abbandonato lo stile di vita tradizionale e
vive una vita sedentaria da semiallevatori in o presso villaggi di
pastori bantù o di allevatori europei. Una minoranza di !kung - alcune
migliaia di persone - vivono ancora secndo tecniche tradizionali
d'approvvigionamento del cibo ed è di costoro che mi occuperò in
questo scritto.
I pochi gruppi residui di !Kung mobili si cibano di alimenti
vegetali spontanei e di carne di selvaggina. Sono semi-nomadi;
spostando i loro accampamenti a intervalli irregolari, da pochi giorni a
varie settimane. Vivono in piccoli gruppi (bande) costituiti in media da
circa trentacinque individui, ma che possono variare tra quindici e
sessantacinque. I fattori che influiscono sulla dimensione del gruppo
sono principalmente la stagione delle piogge e
la disponibilità d’acqua. Durante la stagione delle piogge (da ottobre a
marzo) il numero di membri del gruppo è più basso in quanto l’acqua
e il cibo offerto dalla savana sono abbondanti un po’ in tutte le regioni
desertiche e perciò i IKung si sparpagliano per la savana in gruppetti
costituiti da due o tre famiglie. Come si avvicina la stagione asciutta e
cominciano a prosciugarsi le pozze d’acqua temporanee, la gente
comincia a raggrupparsi e a ritornare verso le fonti d’acqua che
restano disponibili tutto l’anno. Poiché tali fonti sono poche nel pieno
della siccità, si possono trovare anche due o tre diversi accampamenti
nel raggio di uno-due miglia dalla stessa pozza d’acqua.
Le norme che regolano la composizione di queste bande sono
estremamente flessibili; non sembra esservi una qualche sorta di
affiliazione formale alla banda. I parenti stretti si spostano insieme per
la maggior parte dell’anno, sebbene spesso sia singoli individui sia
segmenti di ampi gruppi familiari si separino temporaneamente per
andare a visitare altri parenti o affini.
La tecnologia materiale dei IKung è piuttosto semplice. Gli
uomini cacciano con piccoli archi e frecce e con lance dalla punta
metallica. Alle donne spetta gran parte della raccolta di alimenti
vegetali selvatici e della preparazione del cibo: i loro attrezzi
principali sono un semplice bastone appuntito per scavare, un mortaio
ligneo con pestello e una pesante mantella di pelle (kaross) che può
servire oltre che come capo d’abbigliamento anche come «borsa» da
trasporto.

Formazione del bambino e comportamento non-aggressivo

È impossibile capire la socializzazione del bambino Ikung senza


prendere in considerazione il contesto fisico e sociale in cui avviene.
Per questo motivo è necessario che io faccia una più ampia
descrizione di questo contesto. Soprattutto due fattori, a natura pubblic
della vita familiare e l'onnipresente occhio degli adulti, sono
intimamente correlati con la capacità di controllo dei genitori
sull’ambiente formativo dei loro figli e in particolare con la loro
capacità di scoraggiare l’aggressività. Più avanti darò anche elementi
conoscitivi più dettagliati relativi all’ambiente fisico dei IKung e
all’uso sociale dello spazio.
Un tratto rilevante della vita nell'accampamento è la stretta
integrazione fisica e sociale di adulti e bambini. I bambini di età
inferiore ai sei-sette anni raramente sfuggono a una stretta sor
veglianza da parte degli adultil. I bambini che vivono in queste piccole
bande non hanno praticamente alcun luogo dove stare da soli. Una
volta fuori dall’accampamento. già fuori portata di voce, c’è solo la
savana desertica del Kalahari che si stende per miglia e miglia in tutte
le direzioni.
Dal punto di vista d'un bambino la savana non ha alcunché d’attraente:
è grande, tutta uguale e non umanizzata. Non sono gli adulti a
dissuadere i bambini più grandi dal girovagare nella savana, sono loro
che preferiscono restare a casa3.
I bambini !kung, come i bambini di tutto il mondo, discutono, danno
fastidio, piangono, perdono le staffe ed anche si picchiano. Ho potuto
vedere dei piccini ancora ai primi passi che, con faccia arrabbiata e
pugni stretti, si sporgevano dal grembo della madre e cercavano di
colpire un altro bambino o perfino un adulto. In questo tipo di società
vi sono frustrazioni anche per i più giovani. Però i IKung hanno un
modo particolare di trattare l’ira e l’aggressione fisica tra bambini.
Quando due piccoli litigano e cominciano a lottare, gli adulti non li
puniscono né gli fatto una ramanzina, semplicemente li separano e li
potano di peso lontani uno dall'altro. Cercano poi di calmarli e distrarli
interessandoli ad altre cose. La strategia seguita è quella
d’interrompere il comportamento prima che la situazione sfugga di
mano. Anche per i bambini più grandi gli adulti usano una tecnica
d'intervento analoga. Mi sono spesso stupito della capacità che hanno
gli adulti di percepire gli stati emotivi dei bambini anche quando
questi sono così lontani dà non poter sentire le loro parole. Quando il
gioco si fa troppo pesante o la discussione troppo accesa, un adulto
chiama a sé uno dei due litiganti. Oppure uno o più adulti vanno dai
bambini e basta la loro presenza a smorzare la situazione.
Questo metodo disciplinare ha importanti conseguenze per
l’aggressività nell’infanzia dapprima e nella maturità poi.
Poiché i genitori non usano punizioni fisiche e poiché gli
atteggiamenti aggressivi vengono evitati dagli adulti e valutati
negativamente dall'insieme della società, i bambini hanno poche
opportunità di osservare o di imitare un comportamento apertamente
aggressivo. Non solo sono scarsi i modelli aggressivi, ma la tecnica
d'intervento degli adulti sin dal primissimo stadio dei litigi significa
che un bambino normalmente non ha nemmeno
l'opportunità di provare la soddisfazione di picchiare e umiliare un
altro bambjpo. Questa situazione. ovviamente, è resa possibile dal
fatto che bambini e adulti occupano il medesimo angusto spazio vitale
e dal fatto che in ogni giorno normale ci sono al campo molti adulti
che danno un’occhiata ai bambini.
Quando si chiede loro che cosa ne pensano degli scontri fisici tra
bambini, i IKung dichiarano che è male e che sono pericolosi, in
quanto i bambini possono ferirsi fra di loro. Se un adulto vede un
bambino più grande che ne maltratta uno più piccolo, interviene
immediatamente a rimbrottarlo. Per converso i !Kung sono
straordinariamente tolleranti verso le sfuriate e gli atti aggressivi
rivolti da un bambino a un adulto. Ho visto una bambina di sette anni,
piangente e arrabbiatissima, che tirava stecchi, gusci di «noci» e alla
fine addirittura tizzoni accesi contro sua madre. La madre se ne stava
seduta di fronte al fuoco con sua cognata e con la nonna della
bambina. Bau (la madre) alzava ogni tanto il braccio per proteggersi
dai proiettili, ma continuava la conversazione con apparente
noncuranza. Anche le altre due donne rimanevano imperturbabili
nonostante la gra- gnuola di oggetti. Sua figlia infuriava a tre metri di
distanza, ma Bau non si scomponeva. Quando sassi e gusci le
arrivavano vicino, Bau commentava: «Quella bambina è senza
cervello».
Quest’esempio non è un caso isolato ma una pratica comune. Gli
adulti sistematicamente ignorano lo scoppio d'ira d'un bambino finché
non rischia di fare danni. La frustrazione del bambino è in questi casi
fortissima, ma così impara che l'ira non può far cambiare
l'atteggiamento dell'adulto nei suoi confronti e che l'esibizione di
rabbia non attira l'attenzione né tanto meno la simpatia dell'adulto. In
queste situazioni la «ricompensa» per gli atti ostili del bimbo
dev’essere minima. Il bambino può infuriare finché non ne può più
ma, per quanto ho potuto osservare, con scarsissimi risultati.
L’onnipresenza degli adulti così come protegge i bambini dai
maltrattamenti reciproci li protegge anche da maltrattamenti da parte
degli stessi adulti, in particolare dai loro genitori. Come ho detto,
accade che i bambini perdano le staffe e, soprattutto fra i tre e i cinque
anni, riescano ad essere insistentemente piagnucolosi e riottosi nei
confronti delle loro madri. Una causa comune del malumore infantile
è la decisione materna di svezzare il bambino (è comune un
allattamento
prolungato per tre o quattro anni) o di smettere di portarlo sulla
schiena. A quanto mi risulta, i bambini trovano più traumatico
Lo «svezzamento» dalla schiena che non quello dalla mammella, forse
perché le madri sono meno ferme nello smettere di portare
Il bambino che nello smettere d’allattarlo. In alcuni casi i due
«svezzamenti» avvengono contemporaneamente e i bambini ne sono
particolarmente turbati.
Per queste ed altre ragioni ho visto diverse situazioni in cui un
bambino mostrava di voler fare veramente del male alla madre. In
questi casi la madre protesta, prende in giro, rimprovera, schiva i colpi
per un po’, poi si rivolge a un’altra donna o a un uomo seduto vicino a
lei: «Ehi! Portami via questo bambino!». C’è sempre qualcuno che
con calma porta via di peso il bambino da un’altra parte
dell’accampamento, consentendo così alla madre di riprendere a fare
quello che faceva prima di essere interrotta dal figlio.
La pronta disponibilità di altre persone significa che la madre non
può essere tormentata dal figlio fino al punto di perdere il controllo di
sé, circostanza, questa, assai comune invece nella nostra società, con
la sua famiglia nucleare e con le relative strutture abitative che
impongono un livello di intimità coattiva a genitori e figli
verosimilmente esasperante. Nel caso dei !kung è assai improbabile
che i genitori arrivino al punto di maltrattare i loro figli, ma se ciò
avvenisse, interverrebbero immediatamente altri adulti.
Per dei bambini che crescono in queste bande isolate di
cacciatori-raccoglitori, la socializzazione è un’esperienza continua e
coerente. Ne risulta, come s’è già detto, che i bambini hanno poche
opportunità di fare i prepotenti o di fare a botte con altri bambini del
loro stesso accampamento o di acquisire abitudini antisociali di altro
genere. I genitori, per indurre i bambini a conformarsi a certi canoni
comportamentali, paiono basarsi sull’implicita «costrizione» della
continua sorveglianza da parte loro e di altri adulti affini. Per quanto
concerne il modo giusto o sbagliato di fare le cose o di trattare le
persone, essi non si affidano a un esplicito indottrinamento morale.
Un altro fattore che può concorrere a minimizzare le interazioni
aggressive tra bambini può essere la composizione in termini d’età del
tipico gruppo di gioco. Normalmente in un accampamento ci sono
solo pochi bambini con cui giocare e raramente questi sono coetanei e
spesso neppure di età simile. Questa mancanza di coetanei
probabilmente scoraggia non solo lo scontro fisico ma anche più in
genere la competitività. Il bambino più anziano impara ad essere
sottile nella sua «dominanza» del minore e questi si rende conto che la
differenza in altezza e forza e abilità tra lui e il più grande è tale da
rendere assurda la sfida reciproca.

Economia ed ecologia

I IKung vivono in un’area estremamente arida da cui tuttavia, data la


loro tecnica e la loro scarsa natalità, possono ricavare cibo con una
certa sicurezza. La selvaggina e gli alimenti vegetali sono abbastanza
abbondanti, ma sparsi irregolarmente su vaste aree. Per poter
utilizzare questo tipo d’ambiente «a chiazze», i IKung vivono e si
spostano in piccole bande mobili. Queste bande in sé e per sé non
sono unità stabili, pur se a volte un’intera banda o un intero
accampamento si trasferiscono in un altro posto. Più spesso singoli
individui o uno o più gruppi familiari si staccano dai loro coabitanti e
si uniscono ad un'altra banda, che può essere prossima ma anche a
volte distante cinquanta-sessanta chilometri. Dato questo
guazzabuglio di mobilità, dissoluzione e fusione di gruppi, il flusso di
informazioni lungo vaste distanze è straordinariamente veloce e
minuzioso, nonostante la densità demografica dei IKung sia tra le più
basse del mondo: una persona ogni 25 chilometri quadrati circa.
Naturalmente la mobilità degli individui e dei gruppi in una
situazione come questa è un comportamento adattativo all’ambiente,
ma poiché un tale livello di mobilità rende pratica- mente impossibile
immagazzinare il cibo, i IKung non hanno alcuna forma di
«assicurazione» per i tempi duri. Mentre popoli tecnologicamente più
avanzati possono contare sui granai o sulle messi che vanno
maturando nei campi o sugli animali domestici che possono
sopravvivere anche quando il raccolto va in malora, i IKung non
dispongono di scorte immagazzinate. Non possono neppure contare su
periodi di sovrabbondanza come quelli di cui godono i cacciatori-
raccoglitori i cui territori comprendono gli itinerari migratori dei
bisonti o dei caribù o i fiumi di risalita dei salmoni in frega. I IKung
possono farcela solo se si muovono continuamente e si tengono in
contatto con altri gruppi che, come loro, cercano selvaggina o alimenti
vegetali presenti a casaccio nel tempo e nello spazio.
Il fatto essenziale per la solidarietà e l’armonia di gruppo è che i
IKung hanno bisogno l’uno dell’altro. Il che non è un loro tratto
esclusivo, certo, ma quello che è veramente insolito e non si riscontra
nella maggior parte delle altre culture è l’immediatezza, la
quotidianità di questo bisogno. In un certo senso, per i IKung il
surplus immagazzinato è costituito dal gruppo: il gruppo di cui fanno
parte ma anche gruppi più lontani, sparsi nella savana. Il gruppo
rappresenta la loro «assicurazione» sociale ed economica.
In queste circostanze ci si aspetta di trovare valori culturali
contrari all’aggressività interpersonale e favorevoli a una regolare
ripartizione del frutto di circostanze fortunate. E infatti questo è
proprio quanto si verifica tr ai !kung. Essi sono estremamente
diffidenti nei confronti degli individui che hanno un carattere violento
o un comportamento imprevedibile. Tali individui vengono
apertamente criticati e biasimati e alla fin fine tenuti alla larga. Una
volta, prima che il sistema statale di giustizia s'intromettesse nei fatti
di questi lontani e marginali cacciatori-raccoglitori, alcuni dei rari
omicidi erano in realtà «esecuzioni politiche» di persone che si erano
dimostrate incorreggibili. Ancora oggi i !kung temono gli individui
irrazionali e aggressivi. Dietro questa paura ci sono molte ragioni, ma
almeno due sono fondamentali. Una persona che non riesce a
controllarsi è pericolosa per sé e per i suoi parenti. Se la gente evita
tali persone e quelle che stanno con loro, esse vengono a mancare
delle risorse del gruppo e delle informazioni di cui dispone il gruppo.
Inoltre i IKung, come la maggior parte delle popolazioni organizzate
in bande, non hanno ruoli dirigenziali istituzionalizzati e procedure
giudiziarie. Non hanno strumenti per applicare sanzioni a chi non si
conforma ai costumi4. Perciò il comportamento veramente antisociale
ha un maggiore potenziale disgregante, nei confronti del tessuto
sociale e dell’equilibrio economico, di quanto non ne abbia per altri
tipi di società.
Sebbene i IKung manchino di un sistema di sanzioni formali
contro i «malfattori», in compenso dispongono di una massa di
controlli informali che normalmente riescono a «tenere in riga» la
gente. Hanno tutto un sottile e diversificato armamentario per
reprimere una serie di infrazioni. Il loro repertorio sembra essere
particolarmente ricco per quanto concerne la neutralizzazione di
comportamenti quali l’arroganza, la spacconeria e i tentativi di
prevalere sugli altri.
Sono soprattutto valutati negativamente l'orgoglio e la vanità. Ad
esempio, quando un giovane cacciatore torna dalla caccia ed annuncia,
a nessuno in particolare: «Ho ucciso un’antilope!», viene accolto
dall’indifferenza. Nessuno interrompe quello che sta facendo. Se il
giovanotto insiste, un anziano osserverà, a voce abbastanza alta perché
tutto l’accampamento possa sentire: «Perché solo una?».
Il modo corretto di annunciare una caccia fortunata è più del
tipo seguente. Il cacciatore ritorna al tramonto e se ne va al suo fuoco
a riposarsi. Più tardi uno o due altri uomini vanno da lui e, in modo
tortuoso, cominciano a informarsi:

«Visto niente nella savana, oggi?».


«No, non c’era quasi selvaggina. Ho colpito una cosuccia, ma chi
sa?».
«È vero, non si sa mai».
«Forse domani mattina potete venire con me, così vedremo se ho
ucciso qualcosa».

Alcuni uomini mi hanno riferito che quando, in casi del genere,


hanno accompagnato un altro cacciatore, non hanno saputo di che
animale andavano in cerca finché non sono arrivati dove iniziavano le
tracce da seguire5.
Il
successo personale, la bravura e persino la pura e semplice fortuna
sono cose che in questa società vanno trattate con grande cautela,
perché è sempre pronta una lezione d'umiltà. I !kung hanno bisogno
che i membri della loro società siano motivati a fini socialmente utili,
ma l’individuo deve perseguire quei fini in modo innocuo, non
autoaffermativo. Questo processo di livellamento è, naturalmente,
coerente con l’ethos per lo più egualitario delle società organizzate a
livello di banda, ma c’è anche qualcosa di più. Anni e anni di questo
tipo di condizionamento producono una personalità estremamente
sensibile all'opinione degli altri.
Quando un individuo infrange qualche norma e l’opinione
pubblica dell’accampamento gli è contro, reagisce in un modo che
sembra eccessivo a un osservatore occidentale. Tra l’altro, il modo con
cui il trasgressore reagisce alle critiche e alla conseguente frustrazione
indica che le norme sociali sono ben interiorizzate dagli individui. Ad
esempio, una giovane donna, Nluhka, diciassettenne e nubile, aveva
insultato suo padre. Diciassette anni, in questa società, sono già un’età
avanzata per sposarsi, perciò il padre aveva spesso parlato con lei e
con i parenti di possibili mariti. Lei era ribelle e non mostrava alcun
interesse per gli uomini più anziani i cui nomi le venivano proposti.
(Nel contempo si divertiva a flirtare con dei suoi coetanei, che però
venivano giudicati troppo giovani per essere buoni mariti). Dunque,
aveva imprecato in modo insolente contro suo padre. Egli l’aveva
sgridata e immediatamente altre voci avevano levato un coro
indignato. (Non c’è un gran che di privacy in queste piccole bande!).
Nluhka era furibonda per la pubblica espressione di indignazione,
ma anche se ne vergognava. La sua reazione prese allora questa
forma: afferrò la sua coperta e se ne uscì dall’accampa- mento fin
sotto un albero solitario a una settantina di metri dal cerchio delle
capanne. Lì si sedette nell’ombra, con la coperta sopra la testa in
modo da coprirla tutta fino ai piedi. E lì stette tutto il giorno. Questo
era il massimo del broncio boscimano. Era arrabbiata, ma non lasciò
trapelare la sua rabbia al di fuori di questo suo gesto di isolamento. Si
tenne dentro la sua rabbia e, sia detto per inciso, a un certo prezzo
personale, giacché quel giorno c’erano più di 40 gradi all’ombra... e
senza coperta.
In un altro caso Tsebe, zia della ragazza di cui sopra, svolse il
ruolo di paraninfa tra Nluhka e uno dei giovanotti della banda. Di per
sé combinare matrimoni non è un male, ma Tsebe questo matrimonio
l’aveva combinato - non casualmente - durante un’assenza del padre e
quando anche i genitori del giovanotto erano altrove in visita a parenti.
Quando ritornarono, i novelli consuoceri furono non solo stupiti ma
anche offesi dal fatto che si fosse macchinato alle loro spalle e così in
fretta.
Cominciò la discussione e ben presto vi prese parte tutto
l’accampamento. Qualcuno prese le parti dei genitori, giudicando che
Tsebe s’era comportata in modo arbitrario. Altri ritenevano che quel
matrimonio in sé fosse una buona cosa, ma che Tsebe avrebbe dovuto
aspettare il ritorno dei genitori della coppia. In un modo o nell’altro
Tsebe si prese una bella dose di critiche. Si mise a letto e rifiutò il
cibo. Due giorni dopo si fece due tagli superficiali su una coscia e
sfregò del veleno da frecce sulle ferite. Stette subito male e confessò
di aver tentato il suicidio. Quella sera e la sera successiva la gente
dell’accampamento organizzò per lei una danza ipnotica. Quelli dotati
di capacità taumaturgiche, in grado cioè di andare in trance e di
guarire in stato ipnotico, operarono su di lei e tutti gli altri
presenziarono e parteciparono al canto e al ballo. Poco dopo Tsebe si
riprese, grazie soprattutto al fatto che il suo tentato suicidio era stato
più che altro simbolico: nelle ferite erano entrate solo quantità
minuscole di veleno. Nei giorni seguenti ebbe luogo una specie di
riconciliazione tra le parti. Ma, soprattutto, i discorsi contro Tsebe e i
suoi maneggi cessarono del tutto.
In questi esempi c’è un tema comune e caratteristico. Quando la
gente litiga e l’opinione pubblica si schiera contro una delle parti in
causa, chi sta dalla parte del torto si ritrae e rivolge frustrazione e
rabbia contro se stesso. Quando invece le discussioni vanno avanti e
non s'intravede chiaramente chi ha torto o ragione, la soluzione
consuetudinaria è che uno dei due litiganti lasci il gruppo e si aggreghi
a un'altra band in cui lui e i suoi simpatizanti abbiano amici e parenti.
Col tempo non è che le liti vengano proprio dimenticate ma
quantomeno, qualora le due parti dovessero incontrarsi di nuovo nello
stesso accampamento, ci si passa sopra.
Dire che i !Kung sono non-aggressivi e capaci di vivere
armoniosamente con i loro simili può essere vero come può non
esserlo. Che le risse e le chiassate siano rare è vero, tra gli adulti come
tra i bambini. Le emozioni che potrebbero alimentare i litigi sono
palesemente presenti; ci sono però varie ragioni affinché la gente
controlli la propria rabbia. La struttura della vita nell’accampamento -
mancanza di privacy e consuetudine d’accamparsi con parenti stretti e
affini - è tale che la perdita di autocontrollo viene immediatamente
percepita e altra gente interviene prima che un individuo possa
lasciarsi andare e aggredire il suo nemico, in preda all’ira, col rischio
di fargli seriamente del male. Inoltre, ogni adulto dell’accampamento
è imparentato con ogni aggressore potenziale da decine di vincoli
familiari e matrimoniali intrecciati. Se una persona ne aggredisce
un’altra, è come una mosca che aggredisca un altro insetto dentro una
ragnatela: subito sono «catturati» entrambi. Se nel fuoco della loro ira
i due litiganti si dimenticano di questa vischiosa ragnatela, ci pensano
gli astanti a ricordarglielo. La vera rabbia spaventa i !Kung e li
disgusta, perché è profondamente disgregatrice della loro ragnatela di
rapporti, non avendo oltretutto alcun modo efficace per affrontare le
conseguenze di un’aggressione violenta.

La spartizione

Gran parte della gelosia e dell’invidia connesse con


l’ineguaglianza anche temporanea di ricchezza viene efficacemente
limitata dalla generale aspettativa che i beni preziosi - come ad
esempio la carne - vengano spartiti o fatti circolare. E in effetti la
carne di selvaggina viene divisa fra tutti i consanguinei ed affini con
cui il cacciatore convive. Lorna Marshall ci dà un’eccellente
descrizione di queste regole di compartecipazione (Marshall 1961). Le
tensioni che s’accompagnano alla distribuzione formale della carne di
una grossa preda sono ben note, sia ai !Kung stessi sia agli antropologi
che hanno lavorato con loro6. Molti giovani cacciatori chiedono al loro
padre o a un parente maschio più anziano di distribuire la carne di
animali da essi uccisi, perché tremano al pensiero d’affrontare lo
sguardo acuminato dei loro coabitanti. Ogni porzione viene osservata
da tutti quando viene assegnata ai singoli individui (hanno diritto alla
spartizione sia i maschi sia le femmine).
Durante l’operazione di spartizione la gente può apertamente
offendere colui che effettua le assegnazioni con espressioni carine del
tipo: «Secondo te dovrei prendermi il fastidio d’abbassarmi a portar
via questo miserrimo pezzo di carogna?». Commenti del genere
scivolano via sulla pellaccia indurita dei vecchi cacciatori. Danno
risposte caustiche e stoicamente vanno avanti, ben sapendo che la
distribuzione della carne è un compito ingrato. Non solo la gente
spesso non è soddisfatta delle sue porzioni, ma sembra credere che
lamentarsi sia parte del rituale. Comunque, a parte il fatto che una
certa dose di battibecco è abitudinaria, se qualcuno veramente crede
che gli sia stato gravemente mancato di rispetto nella spartizione, la
cosa può farsi seria, possono nascerne vere e proprie discussioni e alla
fine i gruppi possono anche scindersi.
I IKung praticano uno scambio formalizzato, detto hxaro, con
determinati partner7. Un po’ di questo hxaro è accuratamente
preordinato in anticipo e sancito in modo formale e solenne, ma un bel
po’ di hxaro avviene anche perché la persona che si trova in possesso
di un oggetto particolarmente attraente non ne può più dei sarcasmi e
dei brontolìi dei suoi parenti. Ad esempio, quando una donna porta
una collana di perline particolarmente bella o un pezzo di stoffa dai
bei colori, anziché riceverne complimenti si sente dire: «Com’è che il
tuo collo quasi si spezza sotto il peso di tutte quelle collane e io son
qui con solo sudore sul collo? Fai hxaro con me!». Il che vuol dire,
naturalmente, che chi è in possesso della collana dovrebbe cederla.
Quella che gliela chiede sarebbe contenta se la donna cui si rivolge
facesse hxaro, ma resterebbe molto stupita se ciò avvenisse alla prima
richiesta.
I dare e prendere di cose tangibili e intangibili procede in mezzo a
un acceso bisticcio. Finché non impara il significato cuturale di questa
continua aggressione verbale, l'estraneo si chiede come i !kung
riescano a sopportare di vivere gli uni con gli altri. La maggior parte
di quelli che hanno lavorato con i Ikung hanno una loro storia da
raccontare su come hanno imparato a cavarsela con le loro prontissime
insolenze. Essi continuamente assillano i bianchi, e specialmente gli
antropologi perché, diversamente dalla maggior parte dei bianchi,
parlano !kung. Anch’io, nei primi mesi della mia permanenza fra di
loro, disperavo di riuscire a sfuggire alle loro continue molestie.
Quando la mia conoscenza della loro lingua migliorò, scoprii che i !
Kung sono altrettanto impietosamente rompiscatole fra di loro. E alla
fine imparai le giuste formule melodrammatiche di rifiuto alle loro
assillanti richieste. Ora arrossisco quando ricordo qualche esempio
della mia oratoria:
Tu ti aspetti che io, un’europea solitaria, straniera in questo
territorio, che vive lontano dai suoi parenti, senza neppure una lancia
o una freccia e addirittura senza un bastone appuntito e senza
conoscenza della savana... tu ti aspetti che io dia a te qualcosa da
mangiare? Tu sei una persona la cui capanna è piena zeppa di buone
cose da mangiare. Nella tua capanna ci sono mucchi enormi di bacche,
carne secca, tuberi dolci e vieni a dirmi di essere affamato!».
Gli astanti si godevano questi botta-risposta esattamente come si
godevano quelli del loro accampamento. Una volta fatto un discorso
del genere su riportato, il mio visitatore e io potevamo prendere a
parlare di altre cose. Gli europei possono parlare oziosamente del
tempo eo dell'andamento dei raccolti come discorsi riempitivi. I !kung
in parte utilizzano allo stesso scopo le loro insistenti richieste. M tale
insistenza, quand'è praticata tra di loro, non è solo forma oziosa senza
contenuto: una persona che non ricicla continuamente ciò che gli è
stato dato è segnata. L’aggressione verbale è pratica corrente tra i !
Kung. In realtà, il motivo per cui i beni sono ripartiti equamente e più
o meno continuamente è che i «non-aventi» sono molto rumorosi e
insistenti. E, questo, un popolo che vive in armonia comunitaria,
dividendo felicemente tutto fra tutti? Non esattamente. Ma in ogni
cultura l’interpretazione dei significati inevitabilmente sprofonda in
questo genere d’ambiguità. A un certo livello d’analisi si può
dimostrare che i beni circolano, che non vi sono disuguaglianze di
ricchezza e che i comportamenti e i rapporti dentro e tra le bande sono
tipicamente pacifici. Ma a un altro livello, mettendo un po’ da parte le
categorie concettuali etiche dell’antropologo, si può vedere che
l’azione sociale è una schermaglia continua, spesso amichevole ma
talora anche seria.
Lorna Marshall (1976) ha saputo cogliere molto di questa
atmosfera con l’accuratezza che è propria di tutta la sua opera sui !
Kung. A proposito dell’alto tasso di battibecco, scrive:
Tutti questi modi di parlare aiutano, credo, i !Kung a conservare
le loro pacifiche relazioni sociali. Dire le cose serve a far sì che
ognuno sappia che cosa pensano e sentono gli altri, a sfogare le
tensioni e a impedire che la pressione salga fino al punto di scoppiare
in atti aggressivi (p. 293). [...] Credo che la frequenza delle risse sia
bassa tra i !Kung; credo che essi riescano molto bene a evitare la
violenza fisica quando la tensione è alta e l’ira s’infiamma, ma anche
che riescano molto bene a impedire che la tensione raggiunga il punto
di rottura. Essi evitano di far sorgere l’invidia, la gelosia, il rancore e
riescono, in larghissima misura, a stare uniti e a godere di quel
benessere e di quella sicurezza nelle relazioni umane cui essi tengono
molto (p. 312).
Decidere come definire il clima emotivo della vita di gruppo è
come decidere se un bicchiere è mezzo vuoto o mezzo pieno. Gli
individui si sforzano di non arrabbiarsi coi loro coabitanti, ma lo fanno
perché le norme comportamentali non sono «inermi». Inoltre, siccome
vivono in accampamenti chiusi, intimi, le possibilità di commettere
infrazioni facendola franca sono praticamente inesistenti. I !Kung, a
modo loro, sono altrettanto soggetti a costrizione da parte della loro
cultura di quanto lo siamo noi della nostra.

Modelli d’insediamento

È più facile capire perché siano efficaci le norme sociali se si


prende in considerazione la struttura spaziale in cui si svolge la vita
dell’accampamento. Il tipico accampamento Ikung è una radura
ellittica nella savana in cui si sistemano da trenta a sessanta persone
per periodi variabili da una settimana a varie settimane. Questo spazio
viene utilizzato in modo tale da assicurare
il minimo di privacy e il massimo di stretto contatto interpersonale 8.
La gente si accalca in questo spazio volutamente limitato e per di più
l’organizzazione dello spazio interno aumenta l’esposizione d’ogni
persona a ogni altra. Ad esempio, ogni singola famiglia nucleare ha la
sua capanna, costruita dalle donne con erba e ramaglia. Le capanne
sono disposte lungo il bordo dello spazio ellittico del villaggio.
Ebbene, l’area interna al cerchio delle capanne viene ripulita
sistematicamente dall’erba, dai cespugli, dagli arbusti, insomma da
ogni cosa che potrebbe fornire una qualche privacy o schermare una
parte del villaggio da un’altra. In questo modo né le capanne né la
vegetazione possono interrompere lo spazio interno o creare delle
suddivisioni nel villaggio, dei «microquartieri». E quel che è ancora
più strano è che neppure le capanne sono in realtà utilizzate nel senso
comune. La gente non vive nelle capanne, né vi entra per riposarsi o
per trovarvi intimità. Piuttosto, le capanne sono usate per tenere
all’asciutto il cibo, le pelli, gli attrezzi. Le capanne. poi, sono così
vicine tra di loro che gli individui seduti davanti ai vari focolari
disposti di fronte alle capanne possono passarsi delle cose l’un l’altro
senza doversi alzare. E succede spesso che avvengano discussioni tra
persone sedute a fuochi diversi senza che le voci debbano alzarsi
sopra un livello da conversazione normale.
Mentre l’europeo medio troverebbe oppressivo questo accalcarsi,
i IKung palesemente ne godono e ne traggono beneficio. La
sistemazione circolare di capanne che si fronteggiano significa, di
fatto, che quella quarantina circa di persone vive in un’unica grande
stanza. Ne risulta che i primi abbozzati cenni d’azione antisociale
possono essere percepiti immediatamente e
immediatamente possono essere prese misure correttive. Se una
persona è arrabbiata per un qualche motivo,alcuni - Se non tutti - lo
sapranno ben presto. Data la loro propensione a vivere così gomito a
gomito, si direbbe che la prontezza dei IKung nello sciorinare in
pubblico le loro lagnanze sia profondamente adat- tativa. Quando una
persona si sente offesa, può parlarne e di solito lo fa, scegliendo il
tempo e il modo così da fare udire la sua lamentela praticamente a
tutti quelli che si trovano nell’accampamento. In questa maniera il
risentimento di un individuo viene reso pubblico e in certa misura si
sfoga. Viene coinvolta altra gente e così il peso della frustrazione non
grava solo sull’individuo.
Considerando i valori dei IKung e i vincoli sociali ed economici
entro i quali essi agiscono, non si deve necessariamente concludere
che siano un popolo straordinario quanto ad assenza di conflitto
interpersonale e per grado d’armonia sociale. Scoppiano anche tra loro
delle vere e proprie risse e in passato essi conoscevano anche
l’omicidio. Tuttavia, i IKung si distinguono nettamente da altri popoli
per l’esistenza di vari fattori culturali che nella loro società agiscono a
livello d’espressione dell’aggressività. L’aggressione fisica non viene
insegnata e neppure indirettamente incoraggiata. Non vi sono modelli
aggressivi che possano suggerire manifestazioni di violenza a bambini
e adulti. L’aggressione fisica e il comportamento antisociale costano
cari data l’universale interdipendenza sociale ed economica. Per di più
è quasi impossibile che un trasgressore non sia colto in fallo.
Diversamente da altre società in cui l’individuo può farsi i fatti suoi,
da solo o con i pochi che la pensano come lui, tra i IKung ognuno è
sempre passibile di giudizio e critica da parte di tutti gli altri. Se
qualcuno ha qualche motivo di lagnanza, raramente ciò resta una
faccenda sua. Che gli piaccia o no, altri si intrometteranno nella
questione.
Dunque, i IKung sono aggressivi o non-aggressivi? Sono più o
meno aggressivi di altri popoli? Finché il termine polivalente
«aggressività» non sarà affinato e reso maggiormente operativo, un
confronto in termini d’aggressività dei IKung con gli altri non sarà
possibile su basi empiriche e quantificabili. Da quello che ho potuto
osservare, i IKung riuscivano benissimo a scoraggiare nei giovani i
comportamenti malevoli e violenti. Per tutti i dodici mesi durante i
quali ho vissuto con IKung di diverse bande nelle regioni ?^To//gana e
/Du/da, non vi furono negli accampamenti in cui risiedevo episodi
conflittuali tra adulti che avessero prodotto ferite gravi o morti. Né
ebbi alcuna notizia di simili eventi in alcun altro accampamento.
L’omicidio e l’aggressione fisica sono stati senz’altro scoraggiati,
in epoca recente, dal fatto che un sovrintendente governativo risiede in
territorio Ikung, nel Botswana occidentale, e dal fatto che la polizia
sudafricana pattuglia le adiacenti aree Ikung nella Namibia. I IKung si
rendono conto che, in caso di crimini gravi, la notizia si diffonderebbe
e il colpevole sarebbe ricercato da autorità esterne. Ciò
indiscutibilmente agisce da deterrente. Inoltre, in tempi recenti
l’isolamento dei IKung dagli altri gruppi etnici si è marcatamente
ridotto. Vi sono ora molti centri d’insediamento bantù (e alcuni
insediamenti bianchi) da cui i IKung sono attratti sia per l’offerta di
lavoro sia per la possibilità di cambiare stile di vita. In passato tali
possibilità di uscire dalla società Ikung, sia per gli individui sia per
interi gruppi familiari, erano inesistenti. Non è escluso che gravi
crimini contro le persone fossero più frequenti in passato anche perché
i devianti, gli ostracizzati, i fuggitivi non avevano dove andare per
continuare a vivere. Dovevano essere tenuti dentro la società e
sopportati o, al limite, uccisi. Oggi la situazione è diversa per le due
ragioni appena viste: i !Kung possono lasciare il ristretto ambiente
dell'accampamento in savana e andarsene in insediamenti bantù o
misti !kung-bantù, dove la vita è diversa; e in più, l’autorità di governi
estranei può ora arrivare fino alla più remota banda !kung e
comminare una punizione per quegli atti da essa giudicati criminali.

Note al capitolo
1. Cfr. Biesele, Draper, Harpending, Howell, Katz, Konner, Lee,
Lee e DeVore, Shostak, Yellen.
2. Per un’analisi dei fattori della vita infantile tra i ÌKung
nomadi, cfr. Draper, 1976.
3. Tutti i bambini evitano d’allontanarsi molto nella savana, ma
l’età e il sesso contribuiscono a determinare la distanza
massima dall’accampamento cui si spingono abitualmente.
4. Per un’analisi del ruolo giocato dai sovrintendenti bantù nella
risoluzione delle dispute fra !Kung sedentari, cfr. Lee, 1972a.
5. Tra la popolazione del /Du/da è pratica usuale, per un
cacciatore, quella di ferire un animale, poi lasciarlo e
ritornare all’accampamento per la notte e riprendere a
seguirne le tracce la mattina successiva. Ci può volere,
infatti, tutta la notte perché il veleno delle frecce indebolisca
o uccida la preda e nel frattempo questa può fuggire per molti
chilometri. Inoltre il cacciatore può avere bisogno dell’aiuto
di altri uomini per portare la carne fino all’accampamento.
6. Per una bella descrizione delle invettive !kung in questo
contesto, cfr. Lee, 1969.
7. Polly Weisner, giovane ricercatrice dell’istituto di
Antropologia nell’Università del Michigan ha condotto uno
studio esaustivo dello hxaro tra i ÌKung delle regioni /Tai/tai
e IKangwa (Botswana).
8. Per una descrizione più completa dei modelli insediativi,
della densità abitativa e della loro correlazione con il
concetto di affollamento, cfr. Draper, 1973.
MARSHALL L., Sharing, Talking and Giving: Relief of Social
Tensions among thè ÌKung, in LEE R.B. e DEVORE I. (a cura di), op.
cit., 1976, pp. 350-71.
MARSHALL L., The ÌKung of Nyae Nyae, Harvard University Press,
Cambridge, Mass., 1976.
SERVICE E.R., The Hunters, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1966.
SHOSTAK M.L., A Zhun/twa Woman's Memories of Childhood, in
LEE R.B. e DEVORE I. (a cura di), op. cit., 1976, pp. 246-77.
THOMAS MARSHALL E., The Hannless People, Random House,
New York, 1958.
YELLEN J.E., Archaeological Investigations in Western Ngamiland,
Botswana, «Botswana Notes and Records», voi. 3, 1971.
YELLEN J.E., Settlement Pattern of thè ÌKung: An Archaeological
Perspective, in LEE R.B. e DEVORE I. (a cura di), op. cit., 1976, pp.
47-72.
YELLEN J.E. e LEE R.B. (1976), The Dobe-/Du/da Environment:
Considerations far a Hunting and Gathering Way ofLife, in LEE R.B.
e DEVORE I. (a cura di), op. cit., 1976, pp. 28-46.
III
ORIGINI DELLA NONVIOLENZA: IL CONTROLLO
DELL’AGGRESSIVITÀ TRA GLI INUIT
di Jean L. Briggs[Memorial University of Newfoundland.]

Il presente saggio1 si occupa del controllo dell’aggressività in


due gruppi di Inuit2 del Canada, quello degli Utkuhikhalingmiut (d’ora
in poi abbreviato in Utku) nell’Artico centrale e quello degli
Qipisamiut (d’ora in poi Qipi) nell’Artico orientale. Proporrò
un’interpretazione del modo in cui le idee, i valori, i modelli
comportamentali e le esperienze emotivamente significative, per
quanto concerne l’aggressività, degli Utku e dei Qipi possano
integrarsi in modo da riprodurre il tipo di comportamento nonviolento
tipico di queste società.
In questa sede uso il termine aggressione (da cui aggressività) nel
senso ampio di azione nociva. Tale azione può essere fisica, verbale o
puramente immaginata; può essere diretta
all’esterno verso un’altra persona o verso un oggetto, oppure
all’interno, verso se stessi. Se l’atto d’aggressione è fisico, Io
definisco violenza.
L’aggressività si differenzia da\ì' ostilità. Quest’ultima è
un’emozione che può fornire la motivazione per atti aggressivi, ma
ritengo che la locuzione culturale «comportamento aggressivo» possa
essere usata anche per l’espressione di sentimenti diversi dall’ostilità.
Un’attenta analisi può stabilire se una data azione aggressiva veicoli
veramente sentimenti consci o inconsci di ostilità; oppure se si tratta,
ad esempio, di un’imitazione irriflessa - e forse obbligatoria - di un
modello aggressivo; oppure di un’espressione idiomatica d’affetto;
oppure d’una violenza freddamente razionale.
Desidero sottolineare sin dall’inizio che quel che segue non è una
spiegazione esaustiva del controllo inuit dell’aggressività. Intanto,
oltre alle poche variabili che evidenzierò, ve ne sono certamente altre
implicate nel processo, e tutte le variabili sono tra loro correlate in
molteplici modi e non solo nei modi da me considerati in questa sede.
Poi vi sono tra i gruppi inuit, per quel che concerne lo stile delle
relazioni interpersonali, tante differenze quante affinità, differenze sia
tra vari gruppi «tradizionali» (che vivono in accampamenti mobili) di
varie zone dell’Artico, sia tra accampamenti e insediamenti stabili.
Perciò, quanto la presente analisi sia applicabile agli Inuit in generale
resta da dimostrare. Nondimeno, il fatto che siano possibili
generalizzazioni valide per entrambi i gruppi qui considerati, assai
lontani spazialmente, credo possa indicare che tali enunciati sono in
larga misura validi anche per altri gruppi inuit. Le differenze nel modo
di controllare l’aggressività tra Utku e Qipi, ed anche - credo - tra altri
gruppi, sono variazioni su un tema comune, il tema d’una profonda
disapprovazione e d’un forte timore dell’ostilità e delle sue
espressioni. Le differenze più ovvie sono la diversa capacità effettiva
di controllare l’aggressività e la natura delle forme aggressive
consentite. A confronto degli Utku, i Qipi consentono un’espressione
un po’ più aperta dell’ostilità ed anche una manifestazione più
aggressiva di altre emozioni, come l’affetto materno e sessuale.
Nondimeno, i valori e i timori soggiacenti, i modi in cui vengono
appresi e i modi in cui l’ostilità viene trattata, in sé e negli altri, sono
fondamentalmente simili in entrambi i gruppi. Perciò mi occuperò
insieme e, nel complesso, congiuntamente dei due gruppi.
Il mondo degli Utku e dei Qipi

Gli ambienti fisici e sociali degli Utku e dei Qipi sono simili per
taluni versi e differenti per altri. Quando il presente studio è iniziato,
c’erano circa trentacinque Utku e cinquanta Qipi insediati nei loro
territori tradizionali. Entrambi i gruppi vivono in accampamenti
stagionalmente nomadi a circa centocinquanta chilometri di mare
aperto dal più vicino insediamento stabile, il che significa anche dai
vicini più prossimi. Tale insediamento è Gjoa Haven nel caso degli
Utku e Pangnirtung nel caso dei Qipi. In entrambi i casi questi
insediamenti costituiscono il col- legamento principale tra gli
accampamenti studiati e il mondo esterno (sia inuit sia
euroamericano). Gli uomini di entrambi i gruppi si recano negli
insediamenti, a piccoli gruppi, una volta al mese circa in inverno, per
scambiare pellicce con alimenti e altri beni di cui abbisognano. I Qipi
ci vanno anche in estate e i loro viaggi sono in ogni stagione più
veloci e più facili, dotati come sono di veicoli da neve e di barche a
motore. Gli Utku invece sono completamente tagliati fuori dal mare in
estate e in autunno, e nelle altre stagioni si spostano con slitte trainate
da cani. Per gli Utku il viaggio, tra andata e ritorno, prende da quattro
a dodici giorni, per i Qipi tre giorni in media. Le donne e i bambini dei
due gruppi prendono parte occasionalmente a questi viaggi, ma
raramente più d’una volta all’anno e in alcuni casi assai meno
frequentemente.
Questi viaggi «commerciali» sono pressoché l’unico contatto che
i due gruppi hanno con il mondo esterno, tranne visitatori occasionali:
Inuit che vivono negli insediamenti e che sono in giro per caccia;
funzionari pubblici degli insediamenti in visita di «controllo»; infine,
nel caso degli Utku, gruppi di pescatori sportivi che vanno e vengono
in luglio e agosto. Singoli individui di entrambi i gruppi sono stati
ricoverati in ospedali e alcuni bambini hanno fatto un po’ di scuola.
Nel complesso, tuttavia, il mondo esterno gioca un ruolo secondario
nella vita dell’accampamento. Entrambi i gruppi vivono in relativa
autosufficienza, adattandosi minimamente alla cultura occidentale,
tranne che per la pratica religiosa anglicana e per l’inglobamento di
taluni beni strumentali utili alla loro vita di cacciatori nomadi.
Per altri aspetti importanti, l’ambiente fisico e le condizioni di
vita, i due gruppi differiscono in modo rilevante. Gli Utku vivono
nella tundra ondulata, alla foce di un grande fiume. In inverno i loro
ricoveri sono igloo, in estate tende di tela. Il loro cibo è costituito per
lo più da pesci e il loro reddito monetario, molto scarso, viene dalle
pelli delle volpi che catturano con trappole durante i mesi invernali.
L’inventario dei beni familiari è semplicissimo, come si conviene a
gente che si sposta su slitte trainate da cani, in canoa o a piedi.
Carenze di combustibile, munizioni e cibi di scorta non sono
infrequenti tr agli Utku in ogni stagione, ma durante i mesi estivi e
autunnali , quando il disgelo li taglia fuori da Gjoa Haven, diventano
croniche.
Quanto ai Qipi, essi vivono alla base di nude montagne scoscese. In
estate vivono in tenda a doppia parete con un'intercapedine isolante,
tra i due teli, di erica secca. Queste tende possono essere riscaldate
fino a 20-25 °C mediante lampade ad olio di foca3, diversamente dagli
igloo utku che devono essere raffreddati, perché non si sciolgano,
quando la temperatura interna supera lo 0°. I Qipi hanno una dieta più
variata degli Utku. Cacciano la foca, il beluga [nome comune del
cetaceo Delphinapterus leu- cas, N.d.T.] e il caribù, inoltre quand’è
stagione si cibano di pesci, uccelli e uova. Il loro reddito monetario
proviene dalle pelli di foca e di norma è sufficiente a comprare cose
"di lusso" come registratori, giradischi, radio a onde corte, ecc., oltre
alle cose essenziali: cibo, vestiti, carburante, munizioni, veicoli da
neve, barche e motori per barche. Gli Utku sanno delle più floride
condizioni di vita delle popolazioni orientali, ma non sembra che si
sentano per questo frustrati dal loro ambiente più austero. Come mi
disse un giovanotto utku: «Se quest’inverno riesco a prendere dodici
volpi, posso comprare tutto quello che voglio».
Sia gli Utku sia i Qipi vivono in gruppi di parentela bilaterale.
All’epoca in cui cominciò il mio studio sugli Uktu, il nucleo centrale
del gruppo era costituito da due fratelli anziani e dai loro discendenti,
cioè tre figlie sposate o vedove e le loro famiglie. Il gruppo Qipi era
costituito da un uomo anziano, tre figlie sposate e un figlio sposato.
Entrambi i gruppi, poi, comprendevano anche alcuni altri uomini, con
le loro mogli e i loro figli, che erano imparentati con il nucleo centrale
in vari modi complicati. In entrambi i gruppi, ognuno era in grado di
specificare le sue relazioni di parentela con ogni altra persona del
gruppo, ma ciò non significa che l’uno e l’altro accampamento si
considerassero due entità omogenee, se non rispetto agli estranei.
Nelle loro relazioni reciproche c’erano linee di divisione che si
riflettevano in tensioni, in forme sottili d’antagonismo (pressoché
impercettibili al mio occhio) ed anche in modelli di dispersione
stagionale.
Per entrambi i gruppi l’inverno è la stagione per raggrupparsi;
nelle altre stagioni la gente vive in gruppetti sparsi, talvolta a portata
di vista gli uni degli altri, ma spesso anche a distanza assai maggiore.
In queste stagioni gli uomini si incontrano frequentemente durante le
battute di caccia e pesca, ma le donne e i bambini vedono raramente
quelli accampati lontano.
Tra i Qipi la famiglia è tendenzialmente nucleare ogniqualvolta è
possibile, cioè quando è disponibile sufficiente materiale da
costruzione (legni e tela). Anche le famiglie utku tendono ad essere
nucleari durante l’estate, ma in inverno due famiglie correlate
linearmente possono anche costruire igloo congiunti, forse per avere
più calore e per meglio spartirsi il cibo, il lavoro, la socialità.
Tra gli Utku non vi sono leader riconosciuti del gruppo. Ogni
capofamiglia dirige la sua propria famiglia ma non quelle degli altri.
Tra i Qipi, come tra altri Inuit orientali, i figli (e i generi) possono
continuare a rispettare, per certe faccende, i desideri dei loro padri (e
suoceri) anche dopo essersi sposati ed aver messo su la loro famiglia,
specialmente se vivono nello stesso accampamento. Nel caso dei Qipi,
al più anziano - «padre» di tutti loro - ogni membro
dell’accampamento riconosce una certa autorità. Egli non esercita tale
autorità nelle questioni quotidiane (se cacciare o no e che cosa e dove,
ad esempio), ma su decisioni di più ampia portata (come, ad esempio,
se andare o no a Pangnirtung) taluni accondiscendono ai suoi desideri.
Nessun capofamiglia può peraltro decidere di testa sua anche su tali
faccende: conformarsi ai desideri dell’anziano è volontario. Tuttavia
tale comportamento, chiamato lealtà, è spesso praticato.
Il significato dell ’aggressività

La spiegazione che dò del comportamento nonviolento verso gli


esseri umani, nelle società utku e qipi, si basa sulla fusione di
comportamento affettuoso e comportamento aggressivo nel processo
di socializzazione dei bambini. Secondo la teoria inuit delle emozioni,
tale fusione è paradossale, in quanto affettuosità e aggressività sono
concepite come assolutamente antitetiche: il comportamento
affettuoso è, per definizione, non-aggressivo e viceversa. Nelle pagine
che seguono cercherò di spiegare il paradosso e di dimostrarne gli
effetti4.
Sottesi alla mia analisi ci sono due assunti: primo, l’ovvietà che il
comportamento è incanalato da idee e valori (specifica- mente, in
questo caso, idee su che cosa sia la natura umana e valori su che cosa
essa dovrebbe essere e su come si dovrebbe trattare la gente); secondo,
la proposizione (anch’essa largamente accettata, pur se non sempre in
modo esplicito) che queste idee e valori debbano essere sorretti da
esperienze emozionalmente rilevanti che facciano apparire vere le idee
e giusti i valori. È necessario, allora, definire dapprima le teorie e i
valori che forniscono il fondamento logico del comportamento
nonviolento, e poi le esperienze che ne rafforzano la filosofia.

Le teorie normative

In entrambe le società, utku e qipi, due concetti e i valori ad essi


associati forniscono il principale supporto della nonviolenza: ihuma e
naklik5. L’ihuma copre grosso modo tutte le funzioni che noi pensiamo
come cerebrali: mente, pensiero, memoria, ragione, senso, volontà. Il
naklik può essere chiosato come atteggiamento protettivo. Questi
concetti regolano in vari modi l’espressione dell’aggressività.
IHUMA. E' il criterio dell'umanità e della maturità. dire che una
persona ha ihuma equivale a dire che è un Inuk pienamente
sociaizzato, che si comporta in modo adeguato. Gli Inuit hanno ihuma,
gli animali selvaggi e i cani no6.
Una persona buona e matura è una che è retta dalla ragione
(ihuma) e che lo dimostra comportandosi, di conseguenza, in
modo premuroso, tollerante, non-aggressivo nei confronti di tutti. In
altre parole, si suppone che la ragione governi la sfera emotiva in
generale e, in particolare, impedisca a una persona di aggredire
sconsideratamente. Il possesso di ihuma definisce le categorie degli
esseri viventi che si possono o meno aggredire legittimamente. Solo
quelli che non hano ihuma - cioè cani e altri animali - sono corretti
bersagli dell'aggressività. Quelli che ce l'hanno - gli esseri umani -
hanno per ciò stesso diritto ad essere autonomi, sovrani di se stessi. Al
di fuori dei limiti posti dalle aspettative di ruolo, i possessori di ihuma
non devono subire alcuna interferenza né tanto meno alcun tipo di
violenza. Gli Utku (ma non i Qipi) definiscono l'interferenza in modo
assai più rigoroso del nostro: non si dovrebbe cercar di convincere un
altro, né tentare di influenzarne le opinioni o azioni, né criticarlo o
suggerirgli un altro modo di agire e neppure chiedere motivazioni,
"perché?" è una delle domande più villane che si possano fare a un
Utku. A loro modo di vedere, non si dovrebbe chiedere direttamente a
qualcuno di fare qualcosa (se non ai propri «subordinati» naturali)
perché costui potrebbe sentirsi imbarazzato a rifiutare e si sentirebbe
perciò come costretto. Anche ad est è riscontrabile un po’ questo
atteggiamento verso l’interferenza, ma in forma meno estrema. In
entrambe le società, comunque, una persona che ha ihuma lo dimostra
conformandosi volontariamente, «obbedendo» volentieri al suo
«leader» quando costui gli affida un compito. Ma allo stesso tempo
egli si opporrà tenacemente — con forme di resistenza passiva o di
cortese furbizia - a ogni tentativo di invadere le sue legittime aree di
privacy e di autodeterminazione. Così l’alto valore attribuito
all’autonomia «distanzia» la gente e inibisce l’azione aggressiva.
Il concetto di ihuma, così, gioca un triplice ruolo nel control-
lo della violenza: primo, fornisce una motivazione logica per
l'importanza attribuita all'autonomia e alla nonintromissione e
definisce chi ha il diritto di essere considerato autonomo7; secondo,
definisce la forza (la ragione) che mette in grado la gente di esercitar
l'autocontrollo nel rispetto dell'altrui autonomia; terzo, fornisce una
sanzione contro la perdita di controllo etichettamndo tale
comportamento come "immaturo" e "irragionevole".
NAKLIK. In altre culture l’estrema importanza attribuita
all’autonomia non è sempre correlata con un comportamento pacifico;
al contrario, la gente spesso difende violentemente la propria
autonomia (anche fino alla morte). Com’è dunque che nella società
inuit l’autonomia viene difesa con la «fuga» piuttosto che con
l’attacco? Una parte della risposta sta nel concetto di naklik. La teoria
e i valori inuit concernenti il comportamento protettivo (nakik)
procedono paralleli a quelli concernenti l’ihuma e si rafforzano a
vicenda. Naklik significa preoccuparsi per il benessere di un’altra
persona; è ogni genere di comportamento affettuoso e generoso. Così
quando se ne chiede una definizione, viene risposto che il naklik è il
desiderio di proteggere un altro dalla fame, dal freddo, dal pericolo o
dalla sofferenza. Il termine, però, può anche avere la connotazione di
voglia di stare con la persona per cui si prova naklik e di sentimento di
mancanza quand’essa è assente. In altre parole, non è esattamente
come F«amore» in senso biblico, ma ha toni alti, da relazione molto
affettuosa.
Come possesso idi ihuma è il criterio della maturità , così il
comportamento naklik è il criterio di bontà. Quasi tutte le qualità
negative - e in particolare l'ostilità e l'aggressività - sono in
opposizione al naklik; la gente dice: «Il tale è arrabbiato, non sente
naklik». È il concetto di naklik che definisce quale sia il
comportamento «ragionevole», e chiaramente ci vuole gente
autonoma per trattarsi a vicenda con circospezione e riserbo e per
difendere in modo non-aggressivo la propria autonomia.
I concetti di ihuma e naklik sono correlati fra loro anche perché la
capacità di comportarsi secondo naklik deriva dal possesso di ihuma.
La teoria è che la gente che ha ihuma sente naklik e, per converso, il
non sentire naklik è segno che Vihuma manca o è «rovinato».
Infine, è soprattutto nei confronti dei possessori di ihuma - vale a
dire gli esseri umani - che ci si deve comportare in modo protettivo,
naklik. Verso i cani e gli altri animali non è necessario essere
protettivi.

Categorie intermedie
Finora abbiamo parlato come se le categorie dei possessori e dei
non possessori di ihuma, di quelli che devono o meno essere trattati
protettivamente, fossero nettamente delimitate: da un lato gli umani e
dall’altro gli animali. Ma in realtà vi sono categorie intermedie: i
bambini, i bianchi, gli idioti, a costoro si attribuisce il possesso d'un
po' di ihuma (ma non un gran che). (Coerentemente, il modo in cui
queste categorie vengono trattate è altrettanto intermedio tra i modi in
cui vengono trattati gli umani adulti e gli animali 8. In questa sede mi
limito a prendere in considerazione i bambini. In primo luogo bambini
non godono di piena autonomia. Vengono influenzati, criticati,
persuasi e rimproverati, ma nel complesso non vengono picchiati. Più
precisamente, i bambini utku non vengono picchiati affatto e i bambini
qipi non vengono generalmente picchiati forte. Inoltre, gli adulti di
entrambi i gruppi hanno un atteggiamento ambivalente sui rimproveri.
Gli Utku ritengono che non siano necessari; "l'insegnante" dovrebbe
bastare perché, quando un bambino acquisterà l'ihuma, saprà
ricordare. Ma dicono anche che le madri (meno spesso dei padri)
s'impazientiscono e perciò sgridano. I Qipi sostengono la
contraddittoria convinzione che i rimproveri siano giusti e necessari
ma che una brava persona non ne faccia mai. Wd anche tra i Qipi
sembra che le madri siano più impazienti e propense ai rimbrotti dei
padri.
È corretto, dunque, che i bambini siano sottoposti a interferenze
assai più degli adulti, però essi non devono essere maltrattati
fisicamente. Non devono essere picchiati né tanto meno - beninteso -
uccisi. Al contrario, ai cani - che non hanno ihuma - non si può
insegnare (cioè, non gli si può dire) come comportarsi; devono perciò
essere picchiati.e i Qipi (ma non gli Utku) li uccidono anche,
assimilandoli in questo agli altri animali. Gli Utku preferiscono
abbandonare un cane non desiderato e lasciar morire da sé un cane
malato e sofferente. Per spiegare questa loro riluttanza a uccidere
dicono: «I cani sono come persone». In altre parole, l’aggressione
fisica è accettabile solo nei confronti di creature che non hanno
ihuma. Il fatto che i bambini occupino una posizione intermedia in
questo continuum è importante, perché legittima la giocosa disciplina
- fusione di affetto e di aggressività - attraverso la quale imparano a
temere l’aggressività.
Il fatto che i bambini hanno solo un po’ di ihuma significa che
essi vengono trattati come categoria intermedia non solo rispetto
all’autonomia ma anche rispetto al naklik, all’atteggiamento
protettivo. A prima vista non sembrerebbe vero. La gente dice:
«Nessuno suscita più sentimenti protettivi di un bambino piccolo», e
anziché essere trattati con meno naklik per il fatto di non avere ihuma,
essi sono trattati con più naklik di chiunque altro. Il che sembra
contraddire la mia tesi, negando quel continuum che ho descritto fra
trattamento delle creature con ihuma e senza ihuma. Se però si osserva
più da vicino il modo con cui viene espresso il naklik nei confronti dei
bambini, appare evidente che, sebbene i bambini non siano trattati con
la schietta aggressività usata verso gli animali, essi non sono neppure
trattati con la forma «pura» di gentilezza naklik considerata ideale per
le interazioni tra adulti. In altre parole, sebbene l’aggressività sotto
qualunque forma sia in teoria l’opposto del comportamento affettuoso,
l’affetto per i bambini si può esprimere in modo aggressivo. Ciò si può
vedere più palesemente tra i Qipi. Costoro hanno una parola, ugiangu,
che definisce il comportamento affettuosamente aggressivo. Quando si
chiede ai Qipi che cosa significhi ugiangu, viene risposto che vuol
dire aggredire e uccidere, e in questo senso il termine viene utilizzato
per i combattimenti tra cani. Ma viene anche utilizzato per una cagna
che uccide i suoi cuccioli neonati per «proteggerli» da un aggressore.
Infine, il termine si riferisce anche ad espressioni di intenso affetto
quali lo stringere fortemente un bambino, morderlo, dargli pacche...
tutti comportamenti più o meno dolorosi per il bambino stesso.
Anche gli Utku hanno una parola, kiilinngu, che indica uno stato
di eccitazione affettuosa espresso, ad esempio, abbracciando e
baciando intensamente il proprio bambino. Il comportamento
kiilinngu, come la maggior parte delle espressioni emozionali utku, è
più contenuto del comportamento ugiangu dei Qipi, e anche così non è
del tutto apprezzato, venendo giudicato forse un po’ puerile;
nondimeno è ai loro occhi comprensibile in quanto espressione
d’affetto. Le manifestazioni sia di kiilinngu sia di ugiangu sono
sufficientemente controllate, così da non fare veramente male al
bambino, e sono accompagnate da sorrisi, risate, schiamazzi; ma in
entrambe le società queste affettuose aggressioni possono arrivare al
punto di far piangere il bambino e farlo scappare via o indurlo a
calmare l’adulto aggressivo abbracciandolo oppure offrendogli un
pezzetto di cibo. Gli adulti si rendono allora conto che il bambino è
turbato e interpretano questa reazione come paura dell’affetto
confortandolo teneramente. Il rapporto che gli Inuit vedono tra questa
forma di comportamento aggressivo e l’amore è ben indicato dalla
spiegazione dell’ugiangu che mi ha dato una donna: «Un bambino che
s’è fatto male fa più tenerezza». Ritornerò più oltre su questa
spiegazione.
Vi è uno stretto parallelismo fra questo trattamento dei bambini
affettuoso-aggressivo e il modo con cui vengono trattati gli uccellini e
i cuccioli degli altri animali, i quali, pur non facendo parte d’una
categoria intermedia quanto a ihuma, sono purtutta- via su una linea di
confine in un altro senso, essendo nello stesso tempo animali e
«bambini». Anche questa posizione «di frontiera» si traduce in un
comportamento nei loro confronti in cui trovano posto sia
l’affettuosità sia l’aggressività. In questo caso, però, i due stati emotivi
non sono tra loro fusi - l’aggressione non è etichettata come affetto -
ma si alternano. In quanto animali i cuccioli possono essere uccisi, ma
allo stesso tempo, essendo piccoli e infantili, fanno tenerezza. Più
oltre darò una descrizione dell’insieme di tenerezza e indifferenza con
cui vengono trattati gli animali domestici: da un lato accarezzati,
coccolati, scaldati, nutriti; dall’altro molestati, tormentati, uccisi. Si
può notare un’analoga alternanza anche nella caccia dei piccoli
gabbiani non ancora capaci di volare. I Qipi organizzano in primavera
spedizioni speciali sulle alte scogliere dove nidificano i gabbiani per
sparare a questi uccellini, e le donne strillano di eccitazione quando ne
viene localizzato uno, proprio come strillano al vedere un gruppo di
beluga o un qualche altro animale da preda assai appetito. Però,
quando un gabbianetto viene colpito e cade sbattendo inutilmente le
aiucce, le donne ne seguono la caduta con affettuosi chiocciolii molto
simili a quelli che emettono quando un bambino si fa male o quando,
affettuosamente aggredito (ugiangu), si mette a piangere. Mi chiedo se
anche nel caso degli uccelli, come in quello dei bambini, la logica
emozionale sia che, se una creatura s’è fatta male, fa più tenerezza.

Esperienze di conferma

Si potrebbe dedurre che il trattamento ambiguo riservato alle


categorie di transizione indichi un conflitto fra tendenze o desideri
violenti e nonviolenti e dunque una situazione intrinsecamente
instabile. E invece, paradossalmente, ritengo che sia proprio
quest’ambigua fusione di affetto e di aggressione quello che produce
un adulto naklik ben socializzato, una persona da cui ci si può
aspettare che si comporti violentemente solo con gli animali, in quanto
creature prive di ihuma9'.
Penso che tale fusione operi, in tal senso, in tre modi. 1. Essa dà
al bambino un modello benevolmente aggressivo da imitare. Il
bambino impara implicitamente ed esplicitamente che non vi è altro
modello accettato; cioè che la violenza ostile verso gli esseri umani
non è mai accettata. Imparare a imitare un modello del genere non
significa semplicemente copiarlo, come s’impara a memoria una parte,
perché «è così che si fa», o per evitare la disapprovazione che sancisce
l’aperta ostilità; il bambino impara le motivazioni intrinseche al
modello. Nella fattispecie impara vividamente e dolorosamente che
cosa significhi essere amati, essere aggrediti, aggredire e avere paura.
2. In particolare, il fatto d'etichettare l'aggressività come affettuosità,
legittima le espressioni aggressive nei confronti dei bambini e crea
una situazione in cui i bambini possono imparare ad avere paura.
Questa paura, a sua volta, fa sorgere nell'adulto aggressivo sentimenti
protettivi e nel bambino spaventato un comportamento pacificatorio.
3. Infine, è l'affetto, l'amore, che il bambino impara a temere, cosicchè
si crea nei confronti dell'intimità emozionale un'ambivalenza che gli fa
avere paura di perdere i suoi cari comportandosi violentemente. Una
possibilità, quest'ultima, che gli viene drammaticamente rappresentata
in una varietà di modi, non ultimo dei quali, forse, l’incoraggiare sia il
comportamento protettivo sia quello distruttivo nei confronti della
categoria limite di esseri viventi: quelli che sono sia animali sia
«bambini». In altre parole, gli viene dato un canale
nonviolento per esprimere l’ostilità e forti motivazioni per limitarsi a
quel canale. Qui di seguito esaminerò queste motivazioni una per una.

I pacìfici effetti della paura

Da quello che ho detto sulle teorie concernenti V ihuma e il naklik


dovrebbe risultare ovvio perché l’aggressività debba essere
contrabbandata con l’etichetta di affettuosità. La teoria dice che gli
esseri umani bravi e ragionevoli non aggrediscono altri esseri umani;
il loro ihuma li rende amabili, non ostili. Ma se l’aggressione può
essere spiegata come espressione d’un corretto sentimento naklik di
affetto, ciò la giustifica o perlomeno la scusa.
È forse meno ovvia l’importanza di offrire un canale attraverso il
quale i bambini possano imparare a temere (ilira) la gente. Per
spiegare il significato dell'ilira come garante della pace, dovrò fare
una digressione per spiegare di che sentimento si tratti e quale siano la
teoria e l’atteggiamento inuit al riguardo. Ilira è paura d’essere
maltrattati o d’essere rimproverati. È perciò un’emozione sentita solo
da chi può essere maltrattato o rimproverato, vale a dire cani e umani,
e solo nei confronti di chi è potenzialmente più «forte». I bambini
provano ilira nei confronti di quelli più grandi di loro; gli adulti non
provano ilira nei confronti dei bambini ma la provano nei confronti di
altri adulti. L’ilira è una delle principali sanzioni emotive che
sorreggono i valori inuit in generale e il valore naklik in particolare. E,
come il naklik, è collegato all'ihuma in modi diversi. Primo, solo
creature che posseggono ihuma sono in grado di provare ilira10;
secondo, solo creature che posseggono ihuma sono in grado di ispirare
agli altri sentimenti di ilira. Inoltre, si dice che i bambini, avendo
meno ihuma degli adulti, provino l'ilira in modo diverso. I bambini
più piccoli la provano solo quando vengono effettivamente
rimproverati, mentre gli adulti la provano anche se s’aspettano
d’essere rimproverati o quando viene rimproverato o sta per esserlo
qualcuno nei cui confronti essi si sentono protettivi (naklik).
L’atteggiamento degli Inuit nei confronti dell’ilira è
contraddittorio, o meglio, così appare alla nostra logica. Da un lato V
ilira è un sentimento indesiderabile, perché la paura è un sentimento
spiacevole per la persona che la prova e perché una persona che prova
paura spaventa gli altri. Penso che la logica qui implicata sia la stessa
che orienta l’atteggiamento relativo alla paura della violenza fisica, e
cioè: se una persona teme di essere aggredita da un’altra, attaccherà
per prima per prevenire l’attacco. Perciò una persona spaventata è una
persona che fa paura.
La via d’uscita da questa situazione sgradevole consiste nel
rassicurare la persona spaventata (ilira) con l’essere affettuosi (naklik)
nei suoi confronti. Se sono gentile con una persona che mi teme,
smetterà d'avere paura di me - vale a dire smetterà di volermi
minacciare - e si ristabilirà la pace. Come mi ha detto un Qipi: "una
persona felice non combatte". Questa logica è una delle radici del
comportamento naklik; sia gli Utku sia i Qipi si danno spesso un gran
da fare per rassicurarsi vicendevolmente in questo modo. Un altro
motivo per rassicurare una persona spaventata, naturalmente, è che
tutti vogliono considerarsi brave persone e per definizione una brava
persona è protettiva, affettuosa. Se sono buono, com’è possibile che
voglia spaventare qualcuno? Dunque, cercherò di evitare che altri
abbiano paura di me.
Questa serie di atteggiamenti verso V ilira spiega molto bene
alcuni aspetti del comportamento inuit. Ma la paura ha due facce. Se,
da un lato, alimenta il comportamento aggressivo, dall’altro lo
inibisce; cosicché Yilira è anche un sentimento desiderabile. Una
persona che prova ilira è una persona socializzata e, viceversa, «una
persona che non prova ilira tenderà a imporsi sugli altri», interferirà
con la loro autonomia, sarà prepotente e potrà perfino aggredire e
uccidere perché «si sente forte». La gente parla con approvazione di
un bambino che prova ilira nei confronti dei suoi genitori, perché
questo timore viene visto come una motivazione per obbedire ai
precetti paterni e materni. Allo stesso modo, per disapprovare un
bambino disobbediente dicono: «Non sente ilira». Eppure, nel corso
della stessa conversazione, interrogato in merito, un genitore negherà
di volere che suo figlio abbia ilira di lui (o di lei).
Utku e Qipi hanno certamente ragione di ritenere che i sentimenti
ilira spingano i loro figli ad essere tranquilli e non invadenti sin dalla
più tenera età: anche un bambino di cinque anni è straordinariamente
quieto e obbediente tra estranei. Essi ritengono anche, ed io concordo,
che Vilira spinge i bambini a cercar di placare quelli che incutono loro
timore, come gli adulti per l’appunto. Gli Utku (non so i Qipi) dicono
che questo comportamento pacificatorio - un abbraccio, l’offerta d’un
pezzetto di cibo o d’un giocattolo - non è vero comportamento naklik,
perché i bambini non si sentono veramente protettivi finché non hanno
sviluppato appieno V ihuma. Si tratta di falsa protettività, che essi
chiamano manigguuti-, e tuttavia assomiglia al naklik, anzi potrebbe
essere un precursore del naklik e produce lo stesso effetto: suscitare
negli altri un analogo comportamento affettuoso e protettivo11.
Così, Vilira induce al comportamento protettivo (naklik) in
almeno due modi: 1. se qualcuno ha paura di me devo comportarmi
affettuosamente nei suoi confronti; 2. se ho paura di un’altra persona,
mi comporterò in modo protettivo nei suoi confronti e questa,
naturalmente, si comporterà a sua volta in modo analogo nei miei
confronti, perché vede che la temo e perché l’ho rassicurata di non
avere nulla da temere da parte mia. Così il cerchio è (idealmente)
chiuso.
Ma come vengono creati i timori che inducono tutto questo
comportamento protettivo, se ognuno è così ben deciso a evitare che
chiunque altro possa aver timore di lui? Credo che in buona parte la
risposta sia: in relazione alle situazioni di aggressività affettuosa.
Sinora ho descritto solo una delle diverse forme che tale aggressività
può prendere e cioè quell’espressione d’affetto fisicamente intensa
chiamata ugiangu dai Qipi e kiilinngu dagli Utku. E chiaro che i
bambini spesso si sentono aggrediti dall’approccio ugiangu,
nonostante i gesti di tenerezza che l’accompagnano e nonostante le
espressioni verbali che dovrebbero aiutarli a capirne l’affettuosità
sottesa: «Uhmm, che sapori- no ha (questo morso)!», «Non era
divertente (quello scapaccione)?», eccetera. Le faccine dei piccoli
Qipi sono uno spettacolo mentre oscillano tra il riso e il pianto,
reagendo ora al dolore del morso o dello scapaccione, ora al caldo
sorriso e all’abbraccio dell’aggressore12. Quando il bambino non
sopporta più il dolore, Utku e Qipi dicono: «Il mio bimbo ha paura del
mio (intenso) amore», e gli Utku aggiungono: «Per questo cerca di
rappacificarmi (maniguuti)». I genitori di entrambi i gruppi,
naturalmente, rispondono alla paura del bambino ridendo
affettuosamente, baciandolo e parlandogli con tenerezza... in altre
parole, rassicurandolo con un comportamento naklik.
Un’altra forma di «aggressione benevola» che produce timore
(ilira) è la presa in giro. Le motivazioni per prendersi gioco dei
bambini sono varie e complesse. Qualche volta le prese in giro sono,
come l'ugiangu, un’espressione d’intenso affetto e spesso anche un
deliberato tentativo di inculcare ilira, per evitare che i bambini siano
troppo fastidiosi; altre volte (o nello stesso tempo) la presa in giro
aiuta un bambino ad affrontare le situazioni critiche, saggia il grado
d’autocontrollo emotivo da lui raggiunto, gli conferma d’essere un
membro bene accetto del gruppo, suscita forme divertenti di
comportamento, molto apprezzate da chi lo prende in giro e dagli
astanti. Si può dire che essere preso in giro è una delle esperienze
socializzanti più forti e diffuse che affrontino i bambini inuit.
Un tipo di presa in giro che può essere praticata con bambini di
un anno (o anche meno) consiste nello spaventare il piccino,
facendogli smorfie orribili o parlandogli ad altissima voce o con
quella voce gutturale che viene associata ai rimproveri finché si mette
a piangere; dopodiché gli astanti e il «tormentatore» scoppiano a
ridere e quest’ultimo o la madre del bambino lo tranquillizzano
offrendogli del cibo. Nei casi cui ho personalmente assistito, il
tormentatore ha sempre cercato di rappacificarlo, ma sempre il
bambino ha rifiutato d’essere confortato da altri che dalla madre. In
una variante di questo gioco, il tormentatore offre un pezzo di cibo o
un giocattolo al bambino e cerca con blandizie di farglielo prendere.
Anche la madre entra nel gioco, incoraggiando il bambino ad accettare
il cibo o addirittura offrendoglielo lei stessa. Ma quando il bambino fa
per prendere il bocconcino, il tormentatore gli dà uno scappellotto e lo
sgrida, cosicché il piccolo si ritrae e a volte si mette a piangere.
Questa sequenza viene ripetuta finché il bambino non impara a non
cercar di prendere l’oggetto che gli viene offerto. Il modo di fare è
sempre scherzoso e lo scopo dichiarato è benevolo. Del resto, la
capacità di interagire scherzosamente con i bambini e non in modo
serio e brontolone, anche in contesti disciplinari, è considerata segno
che il socializzatore è una brava persona, retta dalV ihuma e che si
comporta secondo naklik. E proprio come nel caso delle intense
espressioni d’affetto, anche queste prese in giro sono seguite da
comportamenti rassicuranti se il bambino appare turbato.
Così i bambini imparano a sentire ilira come risultato di una
benevola aggressione rivolta contro di loro e nel medesimo contesto
imparano a comportarsi in maniera conciliatoria nei confronti sia degli
aggressori sia delle vittime dell’aggressione. Questo comportamento
conciliatorio essi lo apprendono per imitazione del modello di
comportamento protettivo (naklik) o pseudo-protettivo (manigguuti)
osservato negli adulti.
Si potrebbe sostenere che non ci sarebbe alcun bisogno di
etichettare come benevola o affettuosa l’aggressione per ottenere
questo risultato. L’essere trattati in modo aggressivo «puro» - cioè
ostile - dagli adulti potrebbe altrettanto bene suscitare un
comportamento conciliatorio da parte della piccola vittima, dal
momento che costui è assai più debole dell’aggressore. Però, se il
comportamento aggressivo fosse veramente ostile, il bambino
probabilmente imparerebbe a vendicarsi, aggredendo rabbiosamente
quelli più deboli di lui, anziché imparare a trattare protettivamente i
deboli. In altre parole, potrebbe facilmente imparare la strategia
conciliatoria (manigguuti) anche se fosse trattato in modo
schiettamente ostile, ma è più difficile immaginare come potrebbe
apprendere quel tipo di comportamento pacificatorio che è motivato
da un genuino interesse per il benessere altrui (naklik).
Inoltre, col chiamare benevola l’aggressione, la si legittima. Data
la grande importanza attribuita al comportamento naklik, sarebbe assai
più difficile per un adulto «aggredire» se non potesse camuffare da
naklik la sua azione. Così come stanno le cose, invece, può non solo
giustificare il suo comportamento, ma può anche goderselo, il che
aiuta a perpetuare il modello. Secondo me queste aggressioni naklik
vengono godute sia di per sé - in quanto possibile sfogo di ostilità - sia
paradossalmente, come modo per indurre sentimenti amorevoli
nell’aggressore. Come mi disse il mio informatore, la vista del
bambino cui si è fatto male rafforza l’atteggiamento protettivo. Il che
è forse ancor più vero se, a qualche livello dell’inconscio, l’adulto
nutre un sentimento ostile inammissibile nei confronti del bambino. E
ciò, come vedremo tra breve, è assai probabile. I sentimenti protettivi
così rafforzati a loro volta rendono l’adulto probabilmente più naklik
verso il bambino di quanto altrimenti sarebbe13.

L’ambivalenza nei confronti dell’amore

L’altro modo fondamentale in cui una fusione di affetto e


aggressività produce un adulto naklik ben socializzato è l’ambivalenza
nei confronti dell’intimità emozionale - amare ed essere amati - che
rende un bambino timoroso di perdere i suoi cari se si comporta
aggressivamente. Questa ambivalenza si produce, credo, nel modo
seguente. Da un lato gli adulti sono assai spesso teneri e affettuosi con
i bambini, senza tonalità aggressive. La madre è sensibile e
attentissima ai bisogni del figlioletto; per tutti i primi anni di vita il
bambino è al centro di un’affettuosa attenzione, viene coccolato,
vezzeggiato, preso su e portato da tutti i parenti stretti di entrambi i
sessi e di ogni età, il che certamente incoraggia l’intimità emozionale
con gli altri.
Inoltre l’affetto, specie quello materno, diventa tremendamente
importante in due modi. In primo luogo, esso viene associato
strettamente e costantemente al cibo, non solo nell’infanzia ma per
tutta la fanciullezza ed oltre. Il bambino può essere sicuro di venir
nutrito solo da gente che lo ami e il cibo ha un’importanza critica
come simbolo d’affetto. In secondo luogo, l’amore materno serve
come rifugio da estranei sul cui affetto si può fare meno affidamento.
Fuori casa, il mondo è pieno di gente che può prenderlo in giro,
rifiutargli il cibo e fargli paura in altri modi. Sinora, cercando di
rendere più chiara quest’analisi alquanto complessa, ho parlato come
se tutte le paure del bambino venissero apprese nel contesto
dell’aggressione benevola; in realtà vi sono anche altre paure nella
vita infantile. In particolare, c’è la paura di subire cattiverie da parte di
altri bambini ostili e la paura di farsi fisicamente male o d’essere ferito
(kappia, iqhi), sentita soprattutto nei confronti dei cani e di altri
animali. Ho detto che i bambini tendono ad essere «materni» nei
confronti di quelli più piccoli di loro, e ciò è vero soprattutto nei loro
rapporti con bambini molto più piccoli. Però i rapporti con la classe
d’età immediatamente inferiore tendono a un’alteman- za di cura e di
ripulsa. Così, quando una piccola baby-sitter se ne va per i fatti suoi
abbandonando all’aperto il bimbo affidatole, magari tra cani non legati
(che i bambini temono, perché così è stato loro insegnato per la loro
stessa incolumità), quel piccolo può essere davvero terrorizzato. Gli
strilli d’un bimbo abbandonato producono un immediato intervento di
soccorso da parte della madre, oppure di un altro adulto o di un
bambino più grande (in genere molto più grande) che lo riporterà dalla
madre. La madre, naturalmente, lo consola con baci e coccole e cibo
finché non si calma. Sebbene in alcuni casi anch’essa lo prenda in giro
, lo rimproveri, la madre tuttavia conforta sempre il suo bambino, lo
nutre, lo cura sollecitamente e sempre lo difende contro gli estranei.
La relazione madre-figlio è dunque una relazione estremamente
positiva, affettuosa e affidabile. Tra i Qipi, che esprimono i loro
sentimenti più liberamente degli Utku, persino i giovani adulti,
baruffando scherzosamente o allegramente spaventati da un gioco di
fantasmi, gridano: «Anaaaanaaaak! (madre!)», vale a dire «aiuto
mamma»!
D’altro canto, ci sono tre timori associati all’affetto che
complicano l’atteggiamento nei confronti di quest’emozione: 1. la
paura di perdere le persone amate (che, negli adulti s’esprime anche in
una paura d’amare); 2. la paura dell’aggressività (la propria e quella
altrui) perché, tra le altre cose, può causare la perdita dei cari; 3. la
paura di essere amati, perché la gente che ti ama può a volte diventare
aggressiva.

La paura di perdere le persone amate

La paura della perdita viene inculcata in vari modi già nella prima
infanzia. Questa mia affermazione può forse apparire stupefacente
considerata la sollecitudine eccezionalmente affettuosa di cui sono
oggetto i piccoli inuit. Di giorno i bisogni infantili vengono raramente
frustrati. I piccoli utku sono portati sulla schiena (nel porta-infante)
per molto tempo, sia dalla madre sia da una baby-sitter che lo
restituisce alla madre al primo segno di disagio del bimbo o quando
s’addormenta. Poiché la madre sta in così intimo contatto fisico col
suo piccolo per tanta parte del tempo, essa può accorgersi dei più lievi
segnali di irrequietezza e di disagio. Sa quando si sveglia o
s’addormenta, quando ha paura, quando sta per bagnarsi e quando ha
fame. Tranne che per le rare occasioni in cui sta facendo qualcosa che
non può interrompere - come mettere i finimenti ai cani, caricare una
slitta o cercare di finire la costruzione di un igloo prima che faccia
buio - s’occupa dei bisogni del bimbo immediatamente, lo culla
dolcemente e gli parla con voce rassicurante anche se è troppo piccolo
per capire le parole. Un sintomo della sensibilità materna è il fatto che
sebbene il bimbo non porti pannolini, raramente la madre viene
bagnata: si toglie il bambino di dosso al primo segno che il piccolo sta
per urinare.
Anche i piccoli qipi sono spesso tenuti sulla schiena quando
devono essere trasportati da un posto all’altro, quando vanno tenuti al
sicuro e sotto controllo durante le visite a parenti e conoscenti, e
quando vanno calmati o addormentati se sono irrequieti o insonnoliti.
Però sono meno spesso tenuti sulla schiena mentre le loro madri
stanno lavorando in casa. Le tende qipi sono più tiepide degli igloo
utku e fa troppo caldo perché le donne si tengano addosso i loro
eskimo in casa. E anche un bimbo non corre il pericolo di raffreddarsi
standosene steso in una tenda riscaldata a 20-25°C. A causa, in parte,
di questa separazione fisica tra madre e figlio, le donne qipi tendono
ad essere un po’ meno immediatamente sensibili ai bisogni dei loro
piccoli. Nondimeno anch’esse ritengono, come le madri utku, che non
si debbano lasciar piangere a lungo i bimbi perché così «imparano a
piangere». Se stanno facendo un lavoro particolarmente sporco, come
raschiare via il grasso da una pelle di foca, possono consentire ad altri
adulti o a bambini più grandi di tranquillizzare temporaneamente il
piccolo dandogli dei buffetti, parlandogli dolcemente o prendendolo
su, ma in genere smettono di lavorare in pochi minuti per accudirlo.
Tuttavia in entrambe le società questo quadro di sensibilità
materna si applica assai più al comportamento diurno che a quello
notturno. Gli Utku e i Qipi dormono molto profondamente e sebbene i
bambini piccoli dormano di fianco alle loro madri, sotto la stessa
imbottita, esse spesso non li sentono quando piangono. E il sonno
pesante non ce l’hanno solo le madri. La maggior parte degli Inuit di
mia conoscenza dormono come sassi, abituati come sono a dormire in
presenza di altri adulti e di bambini che chiacchierano, giocano,
mangiano, gridano, e così via. Succede spesso che tutti i membri
d’una famiglia continuino a dormire mentre il piccolo piange ed è un
vicino (che non dormiva) che viene a svegliare la madre. Così,
nonostante l’estrema sollecitudine che caratterizza la cura dell’infante,
i bimbi sperimentano periodicamente la perdita del «diritto per nascita
all’assistenza».
La lezione che l’assistenza può andare persa è anche implicita in
un genere di presa in giro che si trova in entrambe le società e che
consiste nel rifiuto simulato dell’allattamento: la madre offre il petto
al bimbo, ma quando questi sta per afferrar
lo glielo sottrae ridendo e glielo tiene giusto fuori portata. E quando il
bimbo è abbastanza grande da attribuire al gesto un significato
minaccioso, la madre può offrire il suo petto a un altro bambino e
perfino lasciargli succhiare il latte. Talvolta questo è un modo per
indurre il suo bimbo a tettare; altre volte è un gioco che serve a
suscitare i suoi sentimenti naklik per il piccolo: un bambino che
protesta, come uno che soffre, fa tenerezza.
Questo genere di presa in giro viene raramente spinto fino al
punto di turbare seriamente il bimbo, ma è seguito da altre esperienze
più dure di rifiuto: sia il rifiuto ostile di bambini più grandi
(specialmente nel caso dei Qipi), sia il rifiuto per scherzo degli adulti.
Le prese in giro degli adulti (sia quelle che fanno parte del
comportamento ugiangu sia quelle finalizzate a ispirare ilira e a
verificare il processo di crescente autocontrollo) mettono spesso in
dubbio la stima che il bambino ha di sé. Una madre qipi, in un accesso
d’amore, può continuare a prendere in giro suo figlio, prima ancora
che sia in grado di capire, in questa maniera: «Credi forse d’essere
carino? Ti sbagli proprio. Devi piuttosto essere grato se il tal dei tali ti
vuol bene e vuole portarti sulla schiena, benché tu sia una cosuccia
talmente sgraziata». Non sono certa che le madri utku inizino questo
genere di scherzo altrettanto presto di quelle qipi, ma anch’esse
cominciano perlomeno quando il bimbo ha uno o due anni e vanno
avanti ben oltre l’età della comprensione. Dapprima, naturalmente, il
piccolo risponde all’atmosfera, al tono di voce che è tenero, anziché al
contenuto verbale; ma più avanti le madri possono anche usare un
tono più adatto alle parole e allora il bambino non è sempre sicuro se
deve o no prendere sul serio il gioco, a giudicare dalla sua espressione
solenne e attenta o depressa. Quando una madre bacia il piedino del
suo figlioletto d’un anno e dice in tono di scherzoso disgusto: «Uh,
come puzza!», madre e figlio sorridono o ridono assieme. Ma quando
la stessa madre dice alla figlia di tre anni, in tono di ripulsa beffarda:
«Non mi piaci per niente, sei una vecchia», la bambina piange. La
presa in giro è normalmente seguita da un’esplicita rassicurazione,
soprattutto se il bimbo è piccolo, ma mi chiedo se un residuo
d’insicurezza - di mancata certezza di piacere agli altri - non rimanga
ciononostante contribuendo al senso di ilira suscitato da questo genere
di scherzo. Una prova che ciò possa essere vero è fornita dalla
descrizione datami dell’ilira da un Inuit del centro (Netsilik): «Quando
vengo rimproverato, mi raggrinzi- sco, mi faccio piccolo, mi sento
alto così (un centimetro)... Non si dovrebbe mai dire a un bambino che
non è bravo, perché potrebbe crederci e ciò lo farebbe sentire una
nullità. Quando sono andato a lavorare per i bianchi (da giovane) ed
essi m’insultavano, credevo a tutto quello che dicevano e mi sentivo
malissimo». Ai bimbi qipi, diversamente da quelli utku, viene detto
che «non sono bravi». Generalmente ciò avviene in un contesto di
presa in giro e non di serio rimprovero, ma palesemente il piccolo ci
crede: il suo volto si fa triste e sembra sul punto di piangere. Subito il
suo «tormentatore» gli dice, in modo rassicurante: «E una bugia, ti
voglio bene. Bevi un po’ di tè».
La frase detta da una bambina utku di sei anni ben illustra sia
l’insicurezza di sé sia la sua associazione al timore della perdita. Essa
era stata lasciata con il nonno e una zia per alcune settimane, mentre i
suoi genitori e la maggior parte degli altri membri dell’accampamento
erano via per la caccia autunnale ai caribù. In quel frattempo, più
d’una volta mi aveva chiesto: «Non sono brava?». Questa bambina era
normalmente al centro dell’affettuosa attenzione di tutto
l’accampamento, non solo dei suoi genitori ma anche delle zie, degli
zii e del nonno. Penso che lasciata con due sole persone, che pur le
volevano bene anche se erano entrambe solite prenderla in giro nel
modo poc’anzi descritto, si sentisse come «a digiuno» d’affetto e
perciò insicura del suo stesso valore.
L’insicurezza di sé dev’essere generata nei bambini piccoli anche
da quell’esperienza d’essere abbandonati da bambini più grandi cui ho
accennato sopra e da liti con coetanei. I bimbetti qipi, quando sono
arrabbiati, sonc soliti prendere la frase scherzosa degli adulti «non sei
bravo» e rilanciarla senz’alcun umorismo ad altri bambini.
I bambini utku (ma in misura minore anche quelli qipi) possono
anche imparare a dubitare di piacere mettendo a confronto i loro
scoppi di ostilità e di petulanza con l’imperturbabile pazienza e
autocontrollo dei loro genitori. Una madre utku si presenta, in tutta
coerenza, come una «protettrice» nei confronti di pericoli ignoti e per
lo più immaginari. Può dire ad esempio: «Se fai quella cosa, i
lemming ti prenderanno; è meglio che tu venga qui, così ti posso
proteggere». È del tutto improbabile che essa dica, come ho sentito
dire da una madre qipi: «Faccio entrare i cani nella tenda». Essa è
invece gentile, paziente, comprensiva. La teoria del ihuma fa sì che
non sia per lei necessario vincere battaglie individuali e che sia
viceversa considerato uno scendere a livello infantile mettersi a
litigare con i propri figli. Essa invece fornisce un’immagine molto
coerente di quel
lo che dovrebbe essere il loro comportamento, aspettandosi che alla
fine - man mano che si svilupperà il loro ihuma - essi vi si conformino
sempre di più. Nei casi in cui il conflitto è inevitabile, una delle sue
armi principali è la resistenza passiva (vissuta forse dai piccoli come
rifiuto?). Una volta ho sentito un bambino, che stava sforzandosi di
imparare a controllare la sua ostilità, gridare durante un incubo:
«Mamma, mamma!... Sono cattivo, cattivo!» (Briggs, 1970, p. 145).
L’ostilità nei confronti della madre non può esprimersi direttamente,
perché non è approvata ma anche perché (specialmente nel caso degli
Utku) non se la merita proprio: è sempre così buona! L’ostilità dunque
viene rivolta contro se stessi e interiorizzata come insicurezza e ilira.
La paura di perdere le persone amate viene rafforzata anche dalle
minacce d’adozione e d’abbandono e dall’effettiva esperienza della
perdita. Molte di queste minacce vengono fatte in un contesto di presa
in giro, ma alcune no. Ad esempio, un bambino qipi che sta dando
fastidio mentre i genitori stanno facendo i bagagli per trasferirsi in un
altro accampamento, può sentirsi dire: «Smettila o ti lasciamo qui !».
La gente compare e scompare spesso in un accampamento di nomadi:
una zia o uno zio amati, un compagno di giochi o un fratello possono
andarsene per periodi lunghi o brevi; anche i padri vanno via per
lunghe battute di caccia o per viaggi «commerciali». E l’attenzione del
bambino viene spesso e volutamente richiamata su queste assenze:
«Dov’è il tale e il talaltro? Se ne sono andati tutti...». Gli viene chiesto
se sente la mancanza della tal persona e ogni stramberia inconsueta
del suo comportamento durante l’assenza della persona cara viene
attribuita alla solitudine del bambino. Talvolta viene anche
esplicitamente minacciato - per scherzo, beninteso - che la persona
assente non tornerà più: «Ti sbagli se credi che tuo padre ti porterà una
caramella, una gomma da masticare, qualcosa di buono da mangiare
(cioè amore). Non ti porterà niente perché non tornerà affatto». I più
piccoli reagiscono a questa presa in giro allo stesso modo in cui
reagiscono allo scherzo «non sei simpatico»: appaiono turbati e
devono essere confortati. '
Anche l’adozione è un fatto comune, vissuto nella realtà e
drammatizzato dalle prese in giro. Il tasso d’adozione tra gli Inuit è
alto e vi sono diversi bambini adottati sia tra gli Utku sia tra i Qipi 14.
Come mi disse una delle mie informatrici, lei stessa adottata: «Passare
da una famiglia a un’altra, perdere qualcuno che si ama... questa è una
delle cause principali (di malattia mentale)». Infine, la malattia e la
morte sono parte del mondo infantile inuit in modo inimmaginabile
per un bambino «protetto» del ceto medio urbano occidentale.
La paura della perdita e l’insicurezza di piacere agli altri possono
essere lette, credo, nella possessività verso le persone che è così tipica
di Utku e Qipi. Spessissimo, quando viene minacciato per scherzo di
perdere la sua amata nutrice e protettrice, il bimbetto reagisce
aggrappandosi alla persona che teme di perdere o protesta strillando e
cerca di picchiare chi lo minaccia agitando scompostamente le
braccia: in altre parole, la sua reazione consiste nell’accentuare il suo
comportamento dipendente e possessivo. La madre, naturalmente, lo
gratifica ridendo e coccolandolo. In realtà, sono gli stessi sentimenti
possessivi dell’adulto nei confronti del bimbo che stanno alla base di
questa forma di presa in giro, che consiste nel dirgli che può perderlo
e di conseguenza nel sollecitare il suo abbraccio. Una
giovane donna utku giocava ripetutamente, con la sua nipotina
preferita di due anni, a fìngere di uscire dalla tenda: «Ciao, adesso me
ne vado». Ogni volta la bimba strillava: «No!» e la zia, ridendo,
fingeva di accondiscendere alla richiesta e tornava indietro... e dopo
qualche minuto ripeteva il gioco. Alla fine, naturalmente, se ne andava
davvero e la bimba si calmava, ma non prima che la partenza fosse
stata vividamente drammatizzata e il sentimento possessivo infantile
potentemente risvegliato.
Ho segnalato come l’insicurezza d’essere benvoluti finisca con
l’associarsi alla possibilità di perdere una persona amata; ma si può
vedere anche come la stessa insicurezza spieghi le osservazioni
possessive fatte dai ragazzi più grandi e dagli adulti: «Il tale (o la tale)
non viene più a farci visita». Oppure (detto scherzosamente da
un’adolescente inuit alla sorella un po’ più giovane che sta per andare
a trovare un’amica): «Non ci vuoi bene», al che la sorellina risponde,
rassicurante: «Ma sì che ve ne voglio! Tomo subito. Veramente».

La paura dell ’aggressività

Uno dei principali modi in cui si possono perdere le persone


amate è naturalmente tramite una loro aggressione. Arriviamo così al
secondo tema negativo nell’ambivalenza rispetto all’amore: la paura
dell’aggressività. In primo luogo, come ho detto, il comportamento
aggressivo è fortemente e chiaramente definito come brutto e
spiacevole, e abbiamo visto come si crei una forte associazione tra
spiacevolezza e perdita. Ma questa non è la sola associazione che si
stabilisce tra aggressività e perdita. Si può causare il distacco
emozionale o fìsico dalle persone amate non solo spiacendo loro ma
addirittura uccidendoli. La connessione tra aggressione da una parte e
ferita e morte dall’altra viene fatta esplicitamente dagli adulti quando
insegnano ai bambini a non aggredirsi a vicenda. Se un bambino picco
lo s’accosta a un neonato, è certo che la persona che si sta prendendo
cura di quest’ultimo dirà con voce gentile: «Bacialo, non fargli male».
E ogni approccio troppo entusiastico o persino un bacio troppo
energico susciterà l’avvertimento: «Non fargli male». Se un bambino
aggredisce una persona più grande, questa reagirà con una plateale
esclamazione di dolore: «Aaaa!». E se il bimbo usa un’arma - un
bastone, un coltello, un sasso - gli verrà tenuta una lezione, in tono
serio o, nel caso degli Utku, con voce sommessa e solenne, sul
pericolo d’uccidere: «Potresti uccidermi: davvero vuoi uccidermi? E
vuoi che venga la polizia a portarti via?». Al bambino viene detto che i
temporali, il buio e tutto quello di cui ha notoriamente paura sono
causati proprio dalla sua ostilità: «S’è fatto buio perché sei
arrabbiato».
Ai bambini utku (non so se è lo stesso anche per quelli qipi) viene
detto che si possono ferire e possono ferire gli altri con un
comportamento incontrollato. Una madre utku dirà, ad esempio, al suo
bimbo di tre anni: «Non piangere; ti sanguinano gli occhi», oppure:
«Le lacrime ti bagneranno i piedi che così geleranno».
La paura dell’aggressione viene insegnata anche dicendo ai
bambini indisciplinati che saranno aggrediti dagli animali, in genere
da animali di cui si sa che il bambino ha paura (o meglio che gli è
stato insegnato a temere), come i cani e i lem.ning.
A tutte queste minacce viene data concretezza dalle esperienze
quotidiane di ferimenti e morte. I fratelli maggiori e il padre del
bambino sono cacciatori, perciò egli sa che la morte può essere
causata da un’aggressione. Egli gioca con le carcasse degli animali,
fingendo di ucciderli e macellarli e facendoli «piangere» di dolore:
«Maaaa-maaaa». Egli sa, inoltre, che tutti quelli che gli stanno attorno
hanno paura dell’aggressività; li sente parlare di come siano
spaventose le persone arrabbiate e di come, nei tempi andati, gli Inuit
fossero soliti uccidersi per rabbia, o talvolta senza alcuna ragione. E
vede che quando qualcuno è arrabbiato gli altri tendono a sfuggirlo.
Gli effetti dell’aggressività acquistano per lui realtà anche grazie alle
sue stesse dolorose esperienze di vittima di aggressioni, e di questo
parleremo tra breve, insieme al terzo elemento dell’ambivalenza: i
pericoli d’essere amati.
Prima però voglio aggiungere che, oltre alle precedenti lezioni
(più o meno esplicite) impartite al bambino sulla pericolosità
dell’aggressività, vi sono anche modi più sottili per insegnargli ad
avere paura dell’aggressione e a tradurre questa paura in
comportamenti riconciliatori (naklik o falso naklik). In breve questi
timori addizionali possono sorgere dal fatto che l’aggressione non è
sempre condannata, anzi talora è incoraggiata; credo che i contesti in
cui viene insegnato a goderne siano facilmente associabili per i
bambini a quelli in cui l’aggressione è proibita, il che rende quel
godimento e l’aggressione stessa estremamente pericolosi.
Ho menzionato il fatto che i piccoli degli animali sono
concettualmente una categoria limite essendo insieme animali e
«bambini» e in quanto tali sia protetti sia uccisi. Ho dato esempi di
questa miscela di opposti nel comportamento degli adulti nei confronti
di tali creature, ma è importante considerare il comportamento dei
bambini e come questo viene appreso. Da un lato i bambini desiderano
avere - e vengono loro dati - cuccioli e uccellini come animali
domestici. Essi si «appropriano» di nidi di uccello prima ancora che le
uova si schiudano e, pochi giorni dopo la loro nascita, si portano gli
uccellini con affettuosa e tenera sollecitudine a casa, dove da parte
delle madri viene loro insegnato con altrettanta tenerezza: «Dagli da
mangiare, proteggilo, non fargli male». Quando un bambino gioca un
po’ troppo rudemente con il suo animaletto, la madre ripete
l’avvertimento: «Non fargli male». Lo stesso vale per i cuccioli di
cane. Mi è stato detto che ricevere in dono un cucciolo significa essere
accettati come membro di pieno diritto della famiglia. Quando
crescerà, il cane entrerà a far parte degli animali da lavoro della
famiglia e l’adulto, che ha il possesso della muta di cani, avrà piena
giurisdizione anche su di esso; ma è il bambino che gli dà il nome e,
finché è un cucciolo, ci gioca assieme moltissimo, come se fosse un
bebé. Lo porta a letto con lui e lo coccola sotto la sua coperta proprio
come coccola un suo fratellino o cuginetto; gli dà colpetti sul pene per
farlo urinare, come una madre fa con i genitali d’un bebé; e le
ragazzine (talvolta anche i ragazzini più piccoli) portano i loro
cuccioli sulla schiena, proprio come le madri e i bambini più grandi
portano i piccoli.
D’altro lato, ai bambini viene insegnato, col metodo della presa in
giro, ad aver paura delle «cose pelose semoventi», compresi cuccioli e
uccellini. Ci si aspetta anche (ma non l’ho visto insegnare) che essi
abbiano paura e un po’ schifo dei neonati, compresi i cagnolini e i
bebé umani. Inoltre gli viene insegnato che un modo di affrontare ciò
che si teme - quand’è un animale è quello di ucciderlo. Ho già detto
che gli Inuit ritengono che una persona spaventata sia pericolosa
perché potrebbe uccidere per autodifesa, ed è in relazione ai cuccioli
che i bimbi cominciano a imparare questo modo di trattare la paura 15.
Ho visto dare la prima lezione di questo tipo a un bambino d’un anno.
Stava guardando, da una certa distanza, un anatroccolo accuc- ciato in
una cassetta. Suo nonno gli disse: «Prendi l’anatroccolo». Il bimbetto
non si mosse e sua madre disse: «Gli fa paura». «Davvero?» disse il
nonno in tono divertito e, preso un grosso stecco, lo porse al bambino
dicendogli: «Uccidilo. Se ti fa paura, Uccidilo!». Tra parentesi, il
nonno, che è un cacciatore provetto, ha paura dei lemming, come la
maggior parte degli Inuit di mia conoscenza, e dà loro la caccia con
grande piacere.
La paura, tuttavia, non è l’unico motivo per uccidere gli animaletti. Ai
bambini viene anche insegnato a ucciderli per il
gusto di farlo, cioè per il piacere di cacciare, di prendere "selvaggina".
In effetti, nel linguaggio infantile qipi, la parola uquuuquu
(selvaggina) è spesso usata non solo per caribù e foche, ma anche per
uccellini, zanzare e tomcod [pesce dell’Atlantico settentrionale.
N.d.T.], che non sono commestibi ma vengono cacciati per il puro
gusto della caccia. La cosa più impressionante e forse problematica è
che le direttive contraddittorie - tratta protettivamente e uccidi -
possono essere date dallo stesso adulto nei confronti dello stesso
animale a distanza di pochi minuti. Ad esempio, mentre un bimbo di
due anni sta giocando con un uccellino, la stessa persona che qualche
minuto prima diceva con voce dolce e suadente «Non fargli male! Sii
delicato!», può dare un bastone al bambino e dirgli, con lo stesso tono
di dolcezza: «Uccidilo, sarà per te una preda di caccia!». Che questa
complessa lezione venga appresa è dimostrato dal comportamento di
una bambina utku che ho visto dapprima carezzare delicatamente e
nutrire un uccellino, e poi fargli schizzare fuori il cuoricino con
l’unghia d’un pollice; o da quello d’una ragazzina qipi che, guardando
un lemming che lei ed altri avevano appena bloccato senza vie di
scampo dopo una caccia accanita, disse dolcemente che il poverino
doveva aver fame e cercò di dargli un po’ di erba da mangiare... prima
di saltargli addosso coi piedi e ucciderlo.
Ai bambini utku e qipi vengono anche dati cagnolini appena nati da
uccidere, che non sono, in questo caso, destinati ad essere i «loro»
cuccioli, ma neonati che il padrone della muta ha deciso di non voler
tenere. Una donna utku mi ha spiegato che: " noi adulti troveremmo
disgustoso (quinak) uccider dei cuccioli". I bambini invece sembrano
farlo con gusto: sbattendoli contro dei macigni con strilli di allegra
eccitazione, buttandoli giù dalle scogliere o facendoli ruotare intorno
alla testa tenendoli per una zampa e gettandoli poi in mare. Succede
però che un bambino possa piangere o gridare di protesta per
l’uccisione d’un cucciolo particolare o per l’abbandono d’un suo
uccellino quando l’accampamento si sposta. In questo caso sua madre
commenterà, con voce affettuosamente divertita: «Si sente naklik». E
nei casi da me osservati, il desiderio del bambino di salvare la vita a
un cucciolo o a un uccelletto è stato soddisfatto: i suoi sentimenti
naklik sono stati rispettati.
Mi sembra che questi modi di sperimentare affetto e aggressività
in rapporto ai cuccioli possa insegnare ai bambini diverse cose. In
primo luogo, naturalmente, i bambini imparano che uccidere animali
non è solo legittimo ma anche gratificante e piacevole per vari motivi:
è un modo per placare la paura, è una specie di caccia, è a avolte uno
sfogo per sentimenti ostili. (Picchiare i cani è, tra gli adulti, un modo
assai frequenti di sfogare ostilità e frustrazione). Allo stesso tempo, la
pericolosità dell’aggressione, cioè la facilità con cui si può ferire una
persona amata, viene drammatizzata dal fatto che i cuccioli, la cui
uccisione è accettata e finanche divertente, sono creature che il
bambino ha amato e che sono per molti versi associati
concettualmente ai bebé umani. Mi sembra possibile che il bambino
stabilisca un legame tra l’uccisione di animali cari e di persone care in
uno dei due modi seguenti (o in entrambi). Egli può identificarsi con
l’animale, in quanto tutti e due sono categorie limite: creature
graziose, da coccolare, da giocarci insieme (come con un giocattolo) 16,
ma che sono anche passibili d’aggressione. E grazie a questa
identificazione il bambino può temere d’essere ucciso come un
animale. (Questa paura fa parte dei pericoli inerenti all’essere amati,
terzo aspetto dell’ambivalenza nei confronti dell’amore che tratteremo
fra breve). Oppure egli può identificarsi con l’uccisore e temere di
poter fare del male a un oggetto umano d’affetto, per ira, ostilità o
finanche per gioco, come fa con gli animali. Gli avvertimenti che gli
vengono fatti, di non far male o addirittura uccidere un piccolo
abbracciandolo troppo forte o giocandoci assieme senza delicatezza,
potrebbero nutrire entrambi i tipi di paura.
Ma i bambini piccoli non sono i soli esseri umani amabili,
temibili, detestabili. Anche le madri hanno tutte queste qualità, e così
se il bambino fa un salto concettuale un po’ più lungo - dagli oggetti
infantili d’amore a quelli adulti - l’esperienza dell’uccisione di
animaletti può rafforzare l’associazione delle madri alle creature
sopprimibili e, di conseguenza, la paura d’uccidere la madre (creata da
vari ammonimenti come, ad esempio, che potrebbe ammazzarla
tirandole contro dei sassolini)17.
E chiaro che queste esperienze con piccoli animali contribuiscono
anche in un altro modo a creare quel comportamento nonviolento
degli adulti che sto cercando di spiegare. Probabilmente non solo
intensificano le paure inerenti l’aggressione, generate in modi
molteplici, ma assai palesemente alimentano anche un comportamento
protettivo di risposta a quelle paure. Il modo più semplice in cui
possono agire in tal senso è di far sì che un bambino desideri
proteggere un cucciolo minacciato da qualcun altro. Ho ricordato che
in tali circostanze - che la minaccia sia reale o no - i bambini mostrano
un comportamento protettivo che i genitori etichettano come quasi
naklik o sinq- naaq (iperprotettivo) e che assai spesso rispettano,
accogliendo le richieste dei figli. Il collegamento con il ferimento di
esseri umani viene stabilito da un gioco che adulti e bambini grandi
fanno con quelli più piccoli, in cui uno finge di fare del male a una
persona amata dal piccolo, ad esempio mettendo una mano sopra la
testa di questa persona come se volesse tirarle i capelli e dicendo: «Gli
sto per fare del male. Devo farglielo?». Generalmente a questo punto
il bambino protesta e l’altro ritira la mano, facendo commenti
affettuosamente divertiti sulla pro- tettività del bambino. Così il
bambino sperimenta il positivo risultato della sua difesa della
«vittima»18.
I sentimenti protettivi possono essere suscitati anche in modo
meno diretto. Come s’è visto, non sono solo gli altri ad aggredire gli
animali amati da un bambino, ma talvolta può essere egli stesso. Di
conseguenza, credo sia possibile che il bambino senta preoccupazione
e rimorso per il suo comportamento aggressivo e più ancora per il
piacere che ne trae - nei confronti di ciò che ama, soprattutto se
identifica l’animale con un essere umano, piccolo o adulto; e questo
rimorso potrebbe generare una compensazione di tipo protettivo. Ho
già ipotizzato, in linea con un certo pensiero psicoanalitico, che il
rimorso derivi dall’aggressività del bambino nei confronti di esseri
umani amati (così come gli adulti sentono che «un bambino che s’è
fatto male fa più tenerezza»). Quel che ora ipotizzo è che nel caso
degli animali è più facile per il bambino vedere gli effetti letali di una
sua aggressione. In altre parole, agli occhi del bambino l’animale
drammatizza la vicenda umana. Tuttavia non posso dimostrare che sia
così.

La paura d’essere amati

Il terzo elemento negativo nell’ambivalenza rispetto all’amore -


la paura d’essere amati - deriva dalla dolorosa esperienza d’essere
aggrediti in nome dell’amore. La lezione che l’amore ha un prezzo
sembra implicita nel modo con cui i bambini utku e qipi vengono
trattati fin dalla nascita. Nella prima infanzia il prezzo è un certo
disagio fisico. In entrambe le società, come ho più volte detto, il
linguaggio dell’amore è una tenera, continua, sensibile attenzione ai
bisogni del piccolo. In tutti e due i casi, però, i piccoli sono anche
ipernutriti. La madre si preoccupa della capacità di resistenza al
freddo e al vento del suo neonato finché questi non è ben grasso.
Inoltre un piccolo grasso è considerato più carino di uno pelle-e-ossa.
Dare cibo è espressamente riconosciuto come un modo fondamentale
di esprimere affetto e, per converso, rifiutarsi di dare del cibo è
considerato da parte sia d’un adulto sia d’un bambino come
espressione d’ostilità: si tratta palesemente d’un simbolismo correlato
all’incerta disponibilità di cibo in un’economia di caccia. Comunque,
ogniqualvolta un poppante mostri voglia di succhiare, viene giudicato
affamato anche se sono passati pochi minuti dall’ultima poppata e
anche se vomita subito dopo aver poppato. Poiché ai bebé non viene
mai fatto fare il ruttino, è possibile che la madre talvolta interpreti
come crampi da fame il
disagio da pressione gassosa. In altre parole, l'amore viene dato in
dosi talmente massicce da causare disagio e la cura offerta per questo
disagio è... altro amore, cioè altro disagio.
I piccoli qipi sperimentano la fastidiosita dell'amore anche sotto forma
di una certa dose di maneggiamenti rudi o contro la loro volontà. E
non parlo solo dell’espressione aggressiva (ugiangu) di intenso
affetto, ma anche del fatto che i piccoli sono talvolta maneggiati in
modo sgarbato durante le operazioni quotidiane di pulizia. Ad
esempio, per pulire il naso del suo bebé, la madre qipi stacca il muco
dalle narici sfregando in modo circolare le palme callose della sua
mano contro il naso del piccolo e poi succhiando il muco e
sputandolo. Il bambino in genere piange. Anche altre operazioni di
pulizia, come togliere le croste delle ferite e spremere il liquido dalle
vesciche, vengono vissute dal piccolo come sgradevoli. Per di più,
queste operazioni vengono generalmente eseguite proprio quando il
bambino è rilassato al massimo, cioè quando sta poppando. Così, di
nuovo, amore e dolore vengono associati.
I bambini sia utku sia qipi - ma soprattutto quelli qipi, che vengono
meno costantemente portati sulla schiena - vivono talvolta Tesser
tenuti nello «zaino» come un’esperienza spiacevole. L’essere portati
sulla schiena finisce con l’avere un doppio significato: quando i
bambini sono stanchi, hanno paura o non stanno bene significa
intimità e conforto, ma quando preferirebbero essere attivi in modo
indipendente significa costrizione.
Infine, i più piccoli possono vivere come esperienza sgradevole anche
le espressioni d’affetto dei fratellini più grandi. Se il piccolo è il
beniamino di uno dei genitori o di entrambi, i fratellini possono fare a
gara tra di loro per attrarre la sua attenzione, coprendolo di baci e
pretendendo di essere ognuno quello che «lo ama di più». Ci si può
naturalmente chiedere se si tratti di vero amore. Quel che è certo è che
il piccolo, oppresso dagli attacchi amorosi, tenderà a sottrarsi e a
piangere19.
Tra i Qipi l’intensa espressione d’affetto (ugiangu) prosegue
anche nelle fasi successive dell’infanzia, e per di più, come ho già
detto, in entrambe le società l’affetto s’esprime in forme di ambiguo
finto-rifiuto che vengono anch’esse vissute come aggressive. I più
piccoli piangono, s’intristiscono o diventano furibondi; i più
grandicelli stanno seduti con facce inespressive, si nascondono o
scappano via.
Una delle più teatrali manifestazioni d’amore aggressivo è
l’espressione capovolta d’affetto verso i figli preferiti chiamata
siqnaaq. La parola siqnaaq designa l’attacco d’un animale femmina
contro un predatore per difendere i suoi piccoli. Anche il
comportamento di un essere umano che difende uno più debole - ad
esempio un bambino - dagli attacchi d’un altro viene chiamato
siqnaaq. In queste situazioni, palesemente, il termine significa
qualcosa di simile a protezione. Ma la stessa parola viene usata anche
quando qualcuno attacca la persona che manifestamente vuole
proteggere, in particolare quando un genitore maltratta il suo figlio
preferito. Il maltrattamento si può manifestare nel nutrire e vestire
poco il bambino, nel rimbrottarlo spesso e severamente, nel non
accondiscendere ai suoi desideri. Le tre giustificazioni che vengono
addotte per questo comportamento sono una prova palese
dell’esistenza negli adulti di quell’ambivalenza nei confronti della
dipendenza amorosa di cui ci stiamo occupando. Le prime due sono
razionalizzazioni evidenti, ma proprio per ciò rivelatrici: 1. trattare un
bambino in modo siqnaaq lo rende più forte e indipendente, così che
sappia badare a se stesso nel mondo senza dover dipendere da altri; 2.
se qualcuno vuole ferire il padre del bambino e non osa farlo, potrebbe
fare del male al suo figlio preferito, ma se non sa qual è il beniamino
non potrà farlo; 3. se il bambino muore, i suoi genitori ne soffriranno
meno; se gli avessero invece espresso più amore, ne sentirebbero
maggiormente la mancanza. Mi è stato detto che spesso ad essere
trattato in questo modo è per l’appunto un bambino che è stato sul
punto di morire. Ma al di là dell’ambivalenza nei confronti dell’amore
espressa in questo comportamento dai genitori (e che il bambino
trattato con durezza può percepire), il trattamento di per sé di certo
induce il bambino stesso a dubitare della positività dell’essere amati.
Rafforzano tutte queste esperienze le minacce che vengono
espresse ai bambini per insegnare loro esplicitamente che l’amore può
fare paura: «Sta attento, (quello straniero) ti vuole baciare!», oppure:
«Quello straniero adora i bambini rumorosi e perciò ti adotterà se non
stai tranquillo». Anche l’addestramento all'illira può prendere la forma
della presa in giro, di inviti falsamente affettuosi fatti da estranei: «Ti
voglio bene. Vieni a dormire a casa mia». La reazione del bambino è
di aggrapparsi alla madre o, se è più grandicello, di raggelarsi per
paura di quell’«amore» estraneo. Bisogna tener presente che in
generale le adozioni vengono presentate non come rifiuto del bambino
ma come inviti motivati dall’amore.
L’espressione aggressiva dell’amore viene sperimentata anche in
forma sessuale dalle ragazzine qipi tra gli otto-nove anni e
l’adolescenza. Esse vengono scherzosamente inseguite da uomini che,
con sonore grida d’eccitamento, minacciano d’infilare loro un dito nel
didietro. Le ragazzine più grandi mostrano d’apprezzare il gioco, ma
quelle sotto i dodici anni hanno in merito sentimenti misti: da un lato,
esse se ne vantano nelle loro conversazioni private tra coetanee, ma
d’altro, dicendo d’averne ilira, evitano d’andare in visita in quelle
abitazioni dove è più probabile che esse vengano prese di mira da
scherzi di questo tipo. E probabile che anche le ragazze più grandi
provino una certa dose di ilira, ma che sappiano meglio nasconderla.
Le giovani spose a volte parlano di come avevano paura del sesso
appena sposate, e una volta ho sentito una donna di mezz’età
sussurrare a una ragazza che era appena stata inseguita nel modo su
descritto: «Eri spaventata?». E ciò, nonostante il fatto che la giovane
inseguita avesse riso e strillato con apparente allegria.
In tutti questi casi il dolore - reale o immaginario - che il bambino
sperimenta gli si presenta come parte integrante delle manifestazioni
d’affetto, vale a dire come un aspetto dell’amore stesso. Penso si tratti
d’un fatto di cruciale importanza. In alcuni casi i comportamenti
amorosamente aggressivi possono in realtà essere motivati da
sentimenti d’ostilità o sentimenti misti d’ostilità e affetto; ma in
quanto percepiti come benevoli dall’adulto e come tali presentati al
bambino, quest’ultimo non viene spinto ad estraniarsi, come
probabilmente avverrebbe se fosse trattato con ostilità aperta. Viene
solo indotto al dubbio: non può mai essere del tutto sicuro sul modo
d’interpretare le osservazioni negative della gente. Persino gli adulti
hanno bisogno d’essere rassicurati. Ho sentito una volta una vecchia
qipi dire in tono bonario a una donna più giovane che stava tenendo il
suo picco
lo in modo sbagliato. Poi ha aggiunto delicatamente: «Non ti sto
rimproverando; sto solo cercando di insegnarti». L’insicurezza sulle
reali intenzioni della gente - sono veramente ostili, stanno solo
«scherzando» affettuosamente, oppure stanno «insegnando»? - unita al
piacere reale che il bambino trae dall’essere amato intensifica la
dipendenza dall’amore. E significativo che se è facile sconcertare i
bambini inuit - detta con le loro parole, fargli provare ilira - è
altrettanto facile rassicurarli. Quando vengono minacciati da qualcuno
essi non cercano la sicurezza nella solitudine, bensì presso un’altra
persona. D’altro canto, gli orfani e i bambini infelicemente adottati (e
che perciò hanno sperimentato dell’ostilità vera e propria) non sono
altrettanto pronti a cercare conforto presso altre persone quando
vengono fatti bersaglio di scherzi; piuttosto, si mettono a girare
attorno al palo di una tenda o se ne vanno a spasso da soli.
Insomma, mi sembra plausibile che l’espressione aggressiva di
affetto crei nei bambini utku e qipi un atteggiamento ambivalente nei
confronti dell’intimità con gli altri. Da un lato esistono un bisogno e
un desiderio d’intimità, che vengono intensificati dalla paura di
perderla, dall’altro vi è paura (e conseguentemente avversione)
dell’intimità stessa. Quest’ambivalenza si esprime negli adulti in vari
modi. Il desiderio d’intimità e la paura di perderla si possono vedere
nella possessività, nel bisogno di rapporti esclusivi con il proprio
coniuge, i propri figli e i propri coetanei, oltre che nel timore -
comune a tutte le età - della solitudine. La solitudine è causa di
lamentele in entrambe le società. Gli Utku dicono: «È impossibile
essere felici se si è soli», e sono certa che i Qipi la pensano allo stesso
modo.
Ma l’intenso bisogno, con carattere di dipendenza, che si esprime
nella possessività e nel senso di solitudine può far male e perciò
dev’essere evitato. Un Utku ha espresso quest’idea in modo molto
chiaro riferendosi alle sue quattro figlie: «Amo (naklik) Saarak e
Kamik un poco più di quanto ami Raijili e Qayaq. Le amo troppo.
Quando sono in viaggio, per caccia o commercio, vorrei vederle.
Dormo male. Quando Kamik è via, a scuola, sento la sua mancanza,
non sono contento. Se amo troppo una figlia, mi preoccupo se piange,
se no non m’importa. È bene non amare troppo» (Briggs, 1970, pp.
71-72). Abbiamo visto che le giustificazioni date per il trattamento
severo del figlio preferito esprimono lo stesso atteggiamento negativo
nei confronti dell’amore. Ma agli Utku non piace molto neanche
essere troppo amati. È stata la moglie dell’uomo che ho appena citato
che l’ha detta meglio: «Mio padre mi amava troppo. Ma adesso va
tutto bene, ha smesso di amarmi tanto» (Briggs, 1970, p. 71). In
entrambe le società l’altissimo valore attribuito all’autonomia, alla
non-interferenza, può spiegarsi in parte come un modo di reagire o
resistere ai bisogni che implicano dipendenza.
Per chiudere il cerchio, credo che quest’ambivalenza nei confronti
dell’amore giochi un ruolo cruciale nell’inibizione della violenza
grazie a una formidabile intensificazione della paura di fare qualcosa
che potrebbe distruggere rapporti tanto preziosi quanto fragili. La
fusione di affettuosità e aggressività, in varie forme, offre ai membri
delle due società studiate un canale approvato d’espressione
dell’ostilità e nel contempo li motiva a restare nei limiti di quel canale.
Questa fusione viene sorretta, in modi complessi ma coerenti, dai
valori e dalle teorie regolative dei rapporti interpersonali degli Inuit.
A conclusione vorrei ritornare sul l’avvertenza con cui ho iniziato
e svilupparla un poco. Quello che ho scritto nelle pagine precedenti
non è in alcun modo un’analisi completa del control
lo inuit dell’aggressività. In particolare, mi spiace che non sia stato
possibile sviluppare più sistematicamente l’importanza del modo
scherzoso con cui tipicamente avviene la socializzazione rispetto ai
valori fondamentali. Ho, sì, descritto alcune delle prese in giro
utilizzate per creare le complesse motivazioni soggiacenti al
comportamento nonviolento; tuttavia, il modo in cui gli adulti e i
bambini giocano assieme con l’aggressione non solo crea un labirinto
emozionale di cui il bambino deve trovare
il filo, ma crea anche la forza necessaria ad affrontare (e dà i mezzi
per rinnovare giorno dopo giorno la certezza d’essere in grado di
affrontare) tutte quelle complessità. Purtroppo non c’è spazio, in
questa sede, per trattare appunto l’importante ruolo della scherzosità.

Note al capitolo

1. Il presente scritto è una versione molto abbreviata e


leggermente rivista d’un saggio pubblicato in W.
Muensterberger (a cura di), Psychoanalytic Study of Society,
voi. 6, International Universities Press, New York, 1975, pp.
134- 203. Rimando a quel saggio i lettori interessati a una
descrizione più dettagliata. Entrambi i saggi si basano su una
ricerca sul campo. Tra il 1963 e il 1965 ho passato diciassette
mesi con gli Utku nello Chantrey Inlet e quattro mesi circa
con loro parenti a Gjoa Haven. Nel 1968 ho passato altri otto
mesi nello Chantrey Inlet. Nei due o tre anni successivi la
maggior parte degli Utku si sono trasferiti a Gjoa Haven,
dove ora svernano, e lì sono tornata a visitarli tre volte: per
un mese nell’invemo 1971-1972 e per tre mesi nel 1972.
Questo scritto tratta della vita degli Utku com’era vissuta
nello Chantrey Inlet e quando uso i verbi al presente è un
presente etnografico che si riferisce a quel primo periodo.
Quanto ai Qipi, li ho studiati nel 1970 (due mesi), nel 1971
(otto mesi), nel 1974 (tre mesi) enei 1975 (tre mesi).
2. Inuit (singolare Inuk) è il nome che si danno gli esquimesi
nella loro lingua (inuktitut). Molti Inuit canadesi preferiscono
questo termine a Eskimo (o esquimese), una parola derivata
dall’algonchino che in origine aveva connotazioni
spregiative. Nel presente scritto, perciò, seguirò l’uso oggi
prevalente e userò inuit come nome plurale e come aggettivo
e inuk come nome singolare.
3. Si tratta della lampada tradizionale inuit, piatta e a forma di
mezzaluna, con stoppino, di lunghezza variabile da una
decina di centimetri a mezzo metro, appoggiate sul lato
piatto.
4. Anche nella teoria psicoanalitica è problematica, per il
bambino, la fusione di amore e aggressività; e la capacità di
sviluppare, conservare e affrontare un atteggiamento
ambivalente nei confronti del genitore, amato e odiato (o
amato in modo sia protettivo sia distruttivo), viene
considerata una tappa essenziale nel processo infantile di
crescita emozionale (cfr. Winnicott, 1965, pp. 16- 17 e 74-
77). L’ambivalenza di cui ci occupiamo in questa sede
sembra parzialmente correiabile a quella descritta nella
letteratura psicoanalitica, ma è anche in parte diversa, sia
nella causa che nel contenuto. Anzi, l’intera situazione degli
Inuit è in buona parte diversa. Non c’è qui lo spazio per
entrare esplicitamente nel merito di queste differenze, ma i
lettori d'indirizzo psicoanalitico potranno fare da sé le
opportune comparazioni durante la lettura.
5. Ad eccezione di ihuma e uquuuquu, nessuno dei termini inuit
che userò costituisce una parola completa in inuktitut.
Benché nel testo talora mi riferisca ad essi come «parole», si
tratta più propriamente di «radici» di parole che non
possono essere usate da sole (tranne quinak, che può essere usato da
solo come interiezione). Poiché le parole complete in inuktitut sono
lunghe e bizzarre per l’occhio occidentale, ho pensato bene di
utilizzare solo le radici.
6. Però si veda nota 8.
7. È anche vero il contrario, naturalmente: il valore attribuito
all’autonomia, che ha le sue radici in una varietà di
esperienze, può a sua volta rafforzare il valore attribuito alla
ragione. Non voglio dire, cioè, che vi sia in questo caso un
rapporto causale unidirezionale.
8. Ho detto che si ritiene che i cani non abbiano ihuma. In realtà
vi sono situazioni in cui si dice che i cani ce l’abbiano.
Ritengo che questa sia una contraddizione solo per il nostro
modo di pensare e prendo questa «contraddizione» come
prova del fatto che per gli Inuit anche i cani sono una
categoria di transizione: hanno ihuma e non ce l’hanno, come
i bambini. Anche per altri aspetti i cani sono concettualmente
a mezza strada tra gli animali e gli esseri umani (Briggs,
1975, p. 149).
9. Beninteso, sto descrivendo il modo in cui la situazione
funziona quando funziona come dovrebbe. Mi è stato fatto
osservare che la mia descrizione dellTnuk ben controllato
non va d’accordo con altre descrizioni etnografiche di Inuit
impulsivi e violenti. Posso rispondere con due
considerazioni. Primo, la stragrande maggioranza degli Inuit
che conosco hanno veramente un formidabile autocontrollo
nelle vicende quotidiane. Secondo, le motivazioni sottese a
questo controllo sono talmente complesse e gli elementi
dell’educazione che costruisce quelle motivazioni così
interdipendenti che vi sono molte possibilità che qualcosa
non funzioni in singoli casi individuali. Non è mia
convinzione che la socializzazione inuit faccia scomparire i
sentimenti violenti. Al contrario, essi restano ben presenti, e
si può persino opinare che essi vengano intensificati dal tipo
di educazione che descriverò, che è un po’ un giocare con il
fuoco. Ora, i sentimenti intensi possono incutere più paura di
quelli moderati e perciò possono - a certe condizioni - essere
meglio tenuti sotto controllo; ma essi possono anche
emergere in forma di azioni violente se sono troppo intensi o
se viene a mancare una delle condizioni dell’autocontrollo.
Gli stessi Inuit non si fidano del fatto che l’autocontrollo
possa funzionare in tutte le circostanze, ed anzi riconoscono
la pericolosità di certe situazioni. Come dirò più avanti, essi
ad esempio hanno paura di chi per un qualche motivo non ha
imparato a temere (ilira) la disapprovazione degli altri; delle
persone che, come gli ubriachi, non sono rette da quella forza
della ragione che essi chiamano ihuma; della gente che si
trova in uno stato emotivo molto intenso come il dolore o la
paura di un’immaginaria ostilità altrui. È proprio quando
l’esigenza di controllo emozionale è molto alta - come nel
caso della società inuit - che può facilmente succedere che
l’immaginazione ostile e paranoica si sviluppi
incontrollatamente e l’emozione s’accumuli dentro fino al
punto di «ebollizione». Come mi disse una donna: «Una
persona che non perde mai le staffe può arrivare a uccidere se
a un certo punto s’arrabbia». Ecco perché non vedo alcuna
contraddizione tra la mia analisi e l’etnografia di altri.
10. Si veda nota 8.
11. Il comportamento manigguuti si ritrova anche tra gli adulti,
con lo scopo di placare, di far vergognare di sé un altro con
un esempio di comportamento «superiore», oppure di
ottenere favori da una persona temuta.
12. La somiglianza tra questa situazione e il doppio legame
descritto da Bateson (1956) è impressionante. C’è però una
differenza significativa, in quanto al bambino inuit viene
insegnato come interpretare con coerenza i messaggi
apparentemente contraddittori. Gli viene detto che al
messaggio «Ti voglio bene» dev’essere data sempre priorità
e, sia che reagisca al messaggio apparentemente ostile con
una risata sia che si metta a piangere, viene comunque
ricompensato da una manifestazione d’affetto,
incoraggiamento o rassicurazione, a seconda dei casi. In altre
parole: «Hai visto? Ti voglio bene». Dunque la terza
condizione di Bateson perché si instauri una situazione di
doppio legame non è soddisfatta: il bambino è capace di
«correggere la sua scelta relativa all’ordine in cui reagire al
messaggio» (p. 176).
13. Il modo di sentire inuit, secondo cui un bambino che soffre fa
più tenerezza, richiama alla mente l’idea di Winnicott (1965,
pp. 74-77) che l’origine dell’ansia protettiva stia nel senso di
colpa legato a desideri distruttivi nei confronti d’una persona
amata e insieme odiata, e nel conseguente desiderio di
compensazione. La stessa dinamica potrebbe essere sottesa al
comportamento naklik degli Inuit. Si potrebbe anche andare
oltre e ipotizzare che forse una delle ragioni per esprimere
l’affetto in modo aggressivo è che, a un qualche livello, gli
adulti provano veramente dell’aggressività nei confronti dei
bambini, sia perché sono spesso fastidiosi (ed è palese che le
madri inuit talvolta ritengono che lo siano) sia perché gli
adulti sono ambivalenti rispetto all’amore e gli oppongono
una certa resistenza. Questo tipo d’ambivalenza sarà trattata
più oltre, in un prossimo paragrafo (si veda in particolare la
descrizione del comportamento siqnaaq). Per il momento
basti dire che il rimorso potrebbe essere alla base della
sensazione che un bambino che soffre fa tenerezza. Bisogna
anche tener conto del fatto che Winnicott stava delineando le
origini dell’atteggiamento protettivo nei bambini, mentre io
applico il suo schema agli adulti. È l’adulto che,
confortandolo, compensa il bambino cui ha fatto del male,
più che il viceversa come nella tesi di Winnicott. Ho dei forti
dubbi che la stessa logica emozionale possa spiegare le prime
manifestazioni di comportamento manigguuti nei bambini.
Queste sembrano, sia agli Inuit sia a me, essenzialmente una reazione
alla minaccia costituita dall’aggressività degli adulti più che a una
qualsiasi minaccia inerente ai sentimenti aggressivi del bambino
stesso. E ciò -- il semplice desiderio di rendere inoffensivo un
aggressore e di instaurare di nuovo un comportamento naklik nei
propri confronti - è certamente una delle motivazioni fondamentali
sottese al comportamento naklik sia nel bambino sia nell’adulto. Però,
man mano che il bambino comincia a sviluppare un atteggiamento
ambivalente verso l’amore e l’aggressione, le motivazioni che ho
appena descritto, nella misura in cui spiegano il comportamento
naklik adulto, debbono anche cominciare ad essere in parte motivate
anche dalla compensazione che il bambino stesso fa nei confronti
degli adulti che gli vogliono bene.
14. Ann McElroy (1975, p. 27) cita delle statistiche relative a
Pangnirtung e Frobister Bay secondo cui a Pangnirtung il
saggio di adozione tra il 1965 e il 1969 era del 20% dei nati e
a Frobister Bay, nello stesso periodo, del 42%. Tra il 1939 e il
1943 il dato corrispondente per Frobister Bay era del 31%.
Anche se i dati citati sembrano mostrare per Frobister Bay un
incremento, risulta da rilevazioni informali negli
accampamenti inuit che il trend attuale non fa che riprodurre
un modello tradizionale.
15. Non escludo la possibilità (e forse anche la probabilità) che
voler uccidere ciò che si teme sia una reazione «umana», un
modo naturale di eliminare il pericolo. Però, questo modo
d’affrontare la paura può essere sia incoraggiato sia
scoraggiato e può essere o meno indicato come una
possibilità al bambino, quando non vi abbia spontaneamente
fatto ricorso. Il fatto è che l’uccisione viene sia incoraggiata e
segnalata ai bambini, come un’azione possibile nell’ambito
dei loro rapporti con i piccoli degli animali, sia scoraggiata
nei confronti dei piccoli dell’uomo che pure, dal punto di
vista concettuale e comportamentale, sono assai simili ad
animaletti.
16. Si veda la nota seguente.
17. Mi sono state poste due obiezioni a questo ragionamento. La
prima è che se i bambini si divertono a uccidere i cuccioli
neonati mentre gli adulti lo trovano ripugnante (quinak)
potrebbe significare che gli adulti fanno il collegamento tra
uccisione di piccoli di animali e di piccoli d’uomo, mentre i
bambini non la fanno. Oppure potrebbe voler dire che i
bambini fanno il collegamento ma non hanno ancora
imparato a soffrire al pensiero della morte d’un piccolo. Ci
sono altre prove che gli adulti collegano uccisione di cuccioli
e uccisione di bambini, ad esempio la dichiarazione d’uno
sciamano iglulik, citato da Birket-Smith (1959, p. 166),
secondo cui «il più grande pericolo della vita... sta nel fatto
che il cibo dell’uomo è tutto costituito da anime». Nei tempi
andati si cercava di scongiurare questo pericolo tramite tabù e
cerimonie di riconciliazione. Nella maggior parte dei gruppi
inuit venivano celebrati rituali funebri per gli animali più
importanti, come se fossero degli esseri umani (Birket-Smith,
1959, p. 166; Lantis, 1946, p. 154). È interessante a questo
proposito notare la credenza degli Inuit orientali secondo cui
i neonati maltrattati o uccisi possono vendicarsi, proprio
come si riteneva che potessero fare gli animali uccisi. Quanto
ai bambini, è evidente che anche loro associano animali ed
esseri umani. Ho già detto che giocano con i cuccioli come
fossero bebé e, in più, spesso giocano anche «ad essere
animali». Talvolta nel ruolo di «cacciatori» fingono di
avvicinarsi di soppiatto a compagni di gioco nel ruolo di
«preda», di ucciderli e di macellarli; altre volte fanno finta di
essere cani o uccelli. Non ho alcuna prova diretta, tuttavia,
che essi associno l’uccisione di animali e di esseri umani.
La seconda obiezione consiste nel fatto che è probabilmente
etnocentrico pensare che il cucciolo che viene ucciso sia lo «stesso»
che è stato coccolato qualche istante prima. Come un pezzo di legno o
un fascio d’erba possono essere, nella fantasia infantile, prima un
«bebé» e poco dopo un «cane» o una «barca», così un cucciolo o un
uccellino potrebbero ben essere in successione «bebé» e «animale»;
forse i «giocattoli» non hanno «essenza» stabile (è questa un’idea che
m’è stata suggerita da uno studente norvegese con cui ho parlato
nell’aprile del 1976 all’Università di Bergen). Questo argomento può
essere forse sorretto dal fatto che se può accadere, come ho detto, che
i bambini protestino contro l’idea d’uccidere un animale e così lo
salvino dalla morte, non ho però mai visto un bambino addolorato per
la morte d’un suo animaletto. Una volta morto è come fosse stato
buttato via. Questo atteggiamento viene insegnato dagli adulti che, per
convincere il bambino ad abbandonare il suo cucciolo, gli dicono:
«Questo puoi anche lasciarlo qui, tanto ne avrai un altro».
D’altro canto, i neonati e i bambini più piccoli sono più
«giocattoli» che compagni di gioco, vale a dire che gli adulti e i
bambini più grandi non partecipano al gioco dei piccoli ma li «usano»
per proprio divertimento. L’idea che i giocattoli non abbiano essenza,
dunque, potrebbe applicarsi altrettanto bene anche ai bambini, i quali,
rendendosene conto, vedrebbero intensificata la loro sensazione
d’essere in posizione pericolosa. Ma qui stiamo entrando nell’ambito
della pura speculazione.
18. Cfr. Briggs, 1970, p. 173.
19. Quest’esperienza a volte lascia tracce consce. Un bambino
inuit orientale di circa sei anni, le cui sorelle maggiori
avevano fatto a gara a «volergli più bene», è stato udito dire
con tenerezza al suo fratellino neonato (in inglese): «Non
sarai viziato come lo sono stato io». Sua madre,
interrogandolo, scoprì che egli serbava un ricordo sgradevole
di quando tutte le sue sorelle gli dicevano: «Bel bambino, sei
il mio bambino...!». Certo, in questo caso non c’è modo di
sapere se la sgradevolezza era associata all’esperienza
originaria o se era una reazione successiva, dovuta al fatto
che ora il ragazzino era troppo grande per essere «viziato».

Riferimenti bibliografici
BATESON G., Toward a Theory of Schizophrenia (1956), in
SMELSER N.J. e SMELSER W.T. (a cura di), Personality and Social
Systems, Wiley, New York, 1963, pp. 172-87.
BIRKET-SMITH K., The Eskimos, Methuen, Londra, 1959.
BRIGGS J.L., Never in Anger: Portrait of an Eskimo Family,
Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1970.
BRIGGS J.L., The Origins of Nonviolence: Aggression in Two
Canadian Eskimo Groups, in MUENSTERBERGER W. (a cura di),
Psychoanalytic Study of Society, International Universities Press, New
York, 1975.
LANTIS M., The Social Culture of thè Nunivak Eskimo,
American Philosophical Society, Philadelphia, 1946.
MCELROY A.P., Continuity and Change in Baffin Island Inuit
Family Organization, «Western Canadian Journal of Anthropology», 5
(2), 1975, pp. 15-40.
WINNICOTT D.W., The Maturational Processes and thè
Facilitating Environment, Hogarth, Londra, 1965 (trad. it.: Sviluppo
affettivo e ambiente, Armando, Roma, 1979).
IV
VITA INFANTILE IN UN CONTESTO
N ON VIOLENTO : IL CASO DEI SEMAI
di Robert Knox Dentati[ State University of New York at Buffalo]

Il modo di vita nonviolento dei Senoi della Malesia occidentale


ha da tempo attratto l’interesse del mondo occidentale. Le popolazioni
senoi più numerose sono i Semai e i Temiar.
Nel 1936 Kilton Stewart, che si era allora appena laureato in
psicologia all’Università di Londra, compì tre brevi viaggi presso i
Temiar al seguito di H.D. Noone, il primo antropologo ad occuparsi
diffusamente dei Senoi. Diversi anni dopo, Stewart ha pubblicato una
serie di articoli sul modo con cui i Senoi sanno conservare la propria
«salute mentale» tramite la manipolazione dei sogni, e tali articoli
hanno avuto un certo successo in
America verso la fine degli anni Sessanta. In molti testi di analisi dei
sogni compaiono riferimenti a una cosiddetta «terapia onirica senoi»,
e nella California meridionale è possibile trovare anche delle «cliniche
oniriche senoi». Ma i Semai non trattano i propri sogni nel modo
descritto da Stewart, e a mio avviso nemmeno i Temiar1.
La questione della nonviolenza semai è stata affrontata più di
recente da me e da C.A. Robarchek lavorando separatamente. Il mio
primo tentativo di analisi, di stampo paleofreudiano, è disponibile in
microfilm (Dentan, 1965). Oggi esso mi appare del tutto
insoddisfacente, in quanto l’aggressività psichica vi è postulata prima
di essere «scoperta». Successivamente, ho ancora affrontato
l’argomento in un breve libro e in un lungo articolo (Dentan, 1968a,
1968b). C.A. Robarchek invece affronta il tema del punto di vista
dell’analisi dei sistemi (Robarchek, 1976, 1977a, 1977b).
Dal momento che è nostra intenzione fornire un’idea del punto di
vista semai, spesso è necessario usare termini semai (che sono
oltretutto più facili da pronunciare di quanto non sembri a prima
vista). Tradurre è tradire, si sa. Il tentativo di tradurre i problemi
affrontati in questo libro con parole semai corrette illustra le difficoltà
che abbiamo dovuto affrontare.
Scopo di questo saggio è, grosso modo, descrivere come i Semai
educhino i propri figli ad essere nonviolenti. Dal punto di vista
occidentale, la questione sembra chiarissima, eppure, nei termini con
cui è stata posta, può indurre qualche interpretazione inesatta. Quindi
è necessario prendere in esame più da vicino i termini «educazione»,
«nonviolenza» e «Semai».

«Educazione»

Il ricorso al termine «educazione» può far credere, erroneamente,


che i Semai abbiano messo a punto una specie di tecnica, applicabile
ovunque, per produrre persone nonviolente, e che essi «modellino» i
propri figli nel medesimo modo con cui ciò avviene presso gli
euroamericani.
L’ambito nel quale, tradizionalmente, un fanciullo impara a
comportarsi da Semai è assai meno differenziato rispetto a quel
lo euroamericano. Si può dire che la scuola semai coincida con
l’insediamento nel quale il fanciullo vive. Lì, l'istruzione è continua,
implicita in qualunque cosa accada, Analizzando le tecniche educative
fuori di questo contesto si rischia di stravolgerne il significato reale.
Inoltre, poiché è proprio questo contesto totale che determina ciò che i
fanciulli semai, crescendo, diventeranno, è impensabile che queste
tecniche possano essere trapiantate con successo in un ambiente
diverso da quello semai, che è omogeneo, egualitario, raccolto e
pacifico.
È certo che in un contesto differenziato, gerarchico impersonale e
violento, anche gli adulti semai possono comportarsi in modo assai
diverso da quello che è loro abituale in seno ai loro villaggi. Ad
esempio, si dice che quando i Semai sono stati arruolati nelle forze
anti-insurrezionali del governo malese, durante la sollevazione
comunista degli anni Cinquanta, si siano dimostrati più feroci degli
altri gruppi etnici, forse anche perché volevano vendicarsi di alcune
azioni terroristiche condotte contro i loro insediamenti. Alcuni ex-
combattenti dicono che, in quell’occasione, erano butti bhiiip, ubriachi
di sangue; il che, a quanto pare, è una condizione che si verifica
soltanto quando i Semai vengono tolti dal loro contesto sociale e si
trovano ad avere a che fare con non-Semai. La maggior parte della
violenza di cui i Semai mi raccontavano nel 1962, nel 1963 e nel
1975, era diretta contro gente di fuori. Nel 1962, alcuni gruppi semai
delle zone più interne erano convinti che la campagna anti-
insurrezionale potesse essere il preludio a una guerra genocida contro
di loro. «La gente di fuori», diceva un Semai che aveva fatto il
caporale nella polizia, «è cattiva. Dice che il nostro cibo è sporco, e
violenta le nostre donne. Ma se cercheranno di ucciderci, sappi che
noi abbiamo dei veleni speciali che i nostri antenati ci hanno
tramandato, e avveleneremo i fiumi, e quelli che stanno nelle città
moriranno tutti».
Ovviamente, non è detto che quando i Semai escono dal loro
ambiente tradizionale automaticamente si trasformino in persone
violente. Per la verità, i Semai cercano soprattutto di starsene per
conto proprio («Noi dell’interno non abbiamo niente da guadagnare a
occuparci dei problemi della gente di fuori, solo da perdere...»); se
qualcuno cerca di coinvolgerli in ciò che a loro appare nient’altro che
una disputa della gente di fuori, il più delle volte semplicemente
rifiutano. Nel 1962 uno di loro ha detto: «Durante la guerra cercavano
portatori, e c’era chi offriva soldi per indurre le persone del nostro
popolo a fare questo lavoro. Anche a me piacciono i soldi, ma ho
detto: se è per la gomma, i soldi li prendo; se è per i polli, o per le
banane, anche; ma per il sangue, no».
In breve, nel contesto semai tradizionale la nonviolenza ha un
senso. In tale contesto, la violenza appare un atteggiamento stupido,
non solo ai Semai medesimi, ma a chiunque. Tuttavia, ciò non ha tolto
ai Semai la capacità di ricorrere alla violenza per rispondere alla
violenza altrui.
I Semai negano con enfasi di impartire una qualche forma di
educazione ai loro figli . Capita infatti di sentirli dichiarare: "noi non
ci preoccupiamo dei nostri bambini. Li lasciamo per conto loro, e
vengono su come animali, qui nella giungla. Noi pensiamo a noi
stessi, loro pensano a se stessi». Ma è solo un modo di prendersi gioco
dell’idea stereotipata che la gente di fuori ha di loro, e cioè che i
Semai sono dei selvaggi. Così possono evitare di dover fare quello che
gli altri vorrebbero indurli a fare, e contemporaneamente ci scherzano
sopra. Tutto sommato, è una bugia che può apparire plausibile nel suo
contesto.
Quando sono più seri, i Semai amano contrapporre il proprio
comportamento a quello che essi attribuiscono, spesso erroneamente,
ai musulmani malesi (i Semai sono in maggioranza pagani), che
costituiscono la popolazione predominante in quella zona e la cui
cultura, agli occhi dei Semai, si presenta come una controcultura
rispetto alla loro. Ad esempio: «I malesi danno botte ai loro bambini,
botte, botte, botte. Noi invece i nostri bambini li amiamo. E' per
questo che i nostri bambini sono tutti forti e sani, mentre quelli dei
malesi sembrano topi».
Ai Semai l’addestramento dei figli appare come una forma di
coercizione. Per loro ogni coercizione è in ultima analisi coercizione
fisica e in quanto tale può provocare danni fisici. Capita che nel corso
di un discorso un Semai risponda a una domanda circa l’educazione
dei figli con una contro-domanda: «E se tuo figlio muore, dopo che
l’hai picchiato?».

«Nonviolenza»
Ai nostri occhi di occidentali la nonviolenza semai è un argomento
assai interessante. Ma per i Semai non costituisce una preoccupazione
centrale. Essi non manifestano timore che i loro figli possano divenire
violenti da adulti. Un simile timore non avrebbe senso nel contesto
semai tradizionale, e la tipica riluttanza a colpire gli altri viene
espressa facendo ricorso a luoghi comuni del tipo «E se l’altro ti
colpisce a sua volta?» Per i Semai essere nonviolenti equivale ad
essere ragionevoli.
Nonostante la loro manifesta indifferenza per il problema, i Semai
possono essere definiti nonviolenti per tre motivi principali. Il primo è
che, in contrapposizione a quanto accade presso altri popoli, essi non
vengono alle mani (come fanno gli americani, ad esempio) né si
scontrano in faide (come si usa presso altre popolazioni del sud-est
asiatico). Il secondo è che i Semai, spesso, esprimono apertamente il
timore di venire attaccati da gente di fuori, ed è per questo che
insegnano ai propri bambini a temere e a evitare gli estranei, specie i
non-Semai. Per loro la fuga è sempre preferibile allo scontro.
Il terzo motivo è che il concetto che i Semai hanno della violenza
sembra essere assai più ampio che presso gli euroamericani,
estendendosi a tutto ciò che può aumentare i rischi di danni fisici.
Perdere il controllo, quindi, può risultare disastroso. Questa
affermazione merita qualche esempio. Come si è già visto, qualunque
tipo di coercizione aumenta il rischio che la vittima si ammali o si
faccia male o muoia: educazione=coercizione=violenza. Quando i
Semai parlano dell’abitudine malese di picchiare i figli, scivolano
quasi invariabilmente dal termine pukul (colpire) al termine bunuh
(uccidere), senza dar l’impressione di aver voluto cambiare il senso
del discorso. Lo stesso vale per trattar male qualcuno, dare ordini,
comportarsi da prepotente e simili: i Semai dicono che così facendo è
facile che la vittima di questo comportamento possa inquietarsi,
ammalarsi, avere qualche brutto incidente e anche morire. Insomma, il
concetto di violenza presso i Semai ha un contenuto diverso che
presso gli euroamericani, ma è comunque più ampio. E inoltre
caratterizzato dal fatto di considerare i risultati dell’aggressività come
sempre fisici, in ultima analisi. In breve, il terzo motivo per cui i
Semai possono essere definiti «nonviolenti» è che per loro le azioni
violente, quelle che le persone per bene non devono compiere,
includono un ampio spettro comportamentale comprendente anche
azioni che ad altri popoli appaiono come semplici manifestazioni di
inimicizia o di necessaria disciplina.
Gli studiosi che hanno letto The Semai (Dentan, 1968a) si sono
spesso fatta l’idea stereotipata che questo sia un popolo di persone
compulsivamente portate ad essere gentili e amichevoli, per cause
genetiche o per qualche benigno disordine della personalità. Nessun
Semai pensa ciò, né lo pensa chiunque abbia passato con loro un po’
di tempo. Ad esempio, tra i Semai è frequente la maldicenza, che
assume forme quasi da arte drammatica. E basterà trascorrere sei mesi
in un villaggio semai per assistere ad almeno tre o quattro litigi
veramente seri, nei quali la gente alza la voce e minaccia di ricorrere
alla violenza fisica, anche se poi il passaggio a vie di fatto non
avviene. Robarchek (1977b) riporta il caso di liti così aspre da
richiedere un’assemblea generale di tutto il villaggio per essere
composte. Tra il 1955 e il 1977 sono stati compiuti almeno due
omicidi, e corre voce che ce ne siano stati anche altri due. Insomma, i
Semai sono nonviolenti solo nei tre sensi qui considerati.

«Semai»

Il termine «Semai» è stato adottato dagli studiosi occidentali per


ragioni di convenienza linguistica ed etnografica, ma non è molto
usato dai Semai medesimi. Forse è un termine di origine Temiar. I
Semai chiamano se stessi «il popolo», «il nostro popolo», oppure «il
popolo dell’interno». Nel 1960, i Semai non sapevano con esattezza
chi fosse «semai» e chi non lo fosse. Io uso questo termine perché i
Semai mi sembrano un «popolo» nel senso inteso da Karl Deutsch
(1966). Per motivi simili, Geoffrey Benjamin (1966) ha difeso l’uso
del termine «Temiar».
I Semai sono circa 16.000. Vivono in massima parte nella foresta
tropicale sui monti lungo la frontiera degli Stati Perak e Pahang.
Parlano circa una quarantina di dialetti diversi, derivati da un
linguaggio riferibile al cambogiano e alla lingua di certi montagnards
sudvietnamiti. Fino a qualche tempo fa disboscavano tratti di foresta e
li coltivavano per alcuni anni, dopodiché si spostavano in cerca di altri
luoghi da disboscare, secondo il modello che gli antropologi
definiscono «orticoltura nomade». Essendo la densità di popolazione
nelle aree semai inferiore alle tre unità per kilometro quadrato, quindi
considerevolmente più bassa di quella che tale tipo di orticoltura è in
grado di sopportare, potevano spostarsi agevolmente. In seguito,
quando altra gente è arrivata ad affollare i loro territori, si sono messi
a fare i lavoranti agricoli o i manovali a giornata. I loro insediamenti
sono generalmente dispersi e distanti uno dall’altro. Comunque, a
parte durante l’abortita sommossa degli anni Cinquanta, è raro che la
gente si allontani da casa per più di una dozzina di miglia.
Salvo indicazioni contrarie, in questo saggio il tempo presente si
riferisce agli anni 1962 e 1963. Nel 1962 ho passato circa sei mesi
presso i Semai «orientali», nella foresta interna, mentre nel 1963 sono
stato per un ugual periodo di tempo presso i Semai «occidentali»,
vicino a una ricca città cinese. Qui sono ritornato per un paio di
settimane nel 1975. La ricerca era finanziata dalla Fondazione Ford.

La questione riformulata

Visto e considerato quanto sopra, la mia traduzione ha modificato


il problema originale, trasformandolo da «come i Semai educano i
propri figli alla nonviolenza» in «come vivono e crescono i bambini
nel territorio a cavallo tra il Pahang e il Perak». Spero che trovare
risposte a questa seconda impostazione possa contribuire a trovare
risposte anche alla prima. E mi farebbe piacere che le risposte trovate
potessero rassomigliare a quelle che potrebbe dare un Semai.

Gravidanza

I Semai cominciano a prestare attenzione allo sviluppo dei bambini fin


da quando si rendono conto che è avvenuto il concepimento. Da quel
momento, entrambi i genitori divengono makoo’. Tale aggettivo (il
sostantivo corrispondente è formato introducendo una «n» dopo la
prima lettera, mnakoo’) ha un significato più ampio del termine
occidentale «gravido», ma ha anche un senso più marcatamente
biologico del semplice «genitore in attesa». Esprime la relazione
stretta, simbolicamente biologica, che esiste tra entrambi i genitori e il
nascituro. Siffatta relazione rituale si mantiene anche dopo che il figlio
è fisica- mente separato dalla madre, sebbene i Semai (a differenza dei
Temiar) non pratichino la couvade. Così, ad esempio, le azioni dei
genitori possono avere conseguenze sulla salute del bimbo.
Quando una donna non vede le mestruazioni, si reca insieme al
marito a consultare una levatrice, che è in genere una vecchia che ha
avuto molti figli sani: la salute di costei, come del resto quella dei
genitori, ha influenza sulla salute del nascituro. Se la levatrice
conferma la diagnosi di gravidanza, e se la madre è alla sua prima
esperienza, i due genitori assumono i loro primi tecnonimici,
KiMakoo’, la madre, e BiMakoo', il padre. Entrambi iniziano ad
osservare una serie di restrizioni, specialmente nell’alimentazione,
anche se le restrizioni cui è soggetta la madre sono più numerose di
quelle che interessano il padre. 11 concetto che le ispira è quello di
evitare rischi alla salute della madre o del nascituro. Ad esempio,
bisogna limitarsi ai cibi familiari e quotidiani con i quali la gente «ha
più confidenza». In genere, queste regole rituali sono seguite
scrupolosamente dai genitori alla loro prima esperienza, mentre quelli
che hanno già avuto altri figli, senza complicazioni di gravidanza, si
dimostrano meno rigorosi. Comunque, i fattori che determinano
l’entità delle regole da osservare sono numerosi, e in questa sede non
è il caso di prenderli in esame tutti (a questo proposito, si veda
Dentan, 1965). Nella TABELLA I sono riportati i cibi che le neofite,
oppure chi ha già avuto altre gravidanze difficili, devono evitare.

RESTRIZIONI ALIMENTARI PER LE DONNE


N è il numero di specie per le quali sono stati reperiti dati. La %
rappresenta la porzione di N per la quale devono essere osservate
restrizioni.
In un villaggio semai tradizionale le novità sono rare, cosicché
una gravidanza diviene ben presto un fatto di interesse generale. Prima
o poi, un «adepto» locale (halaa’) riceverà in sogno notizie della
gravidanza da un cosiddetto spirito di famiglia. In seguito a ciò, egli
diviene il responsabile di quelle cerimonie pubbliche (definite «canti»)
che servono a prendersi cura della futura madre e della sua levatrice.

Amuleti domiciliari

Presso i Semai occidentali, sopra la porta (o le porte) di ogni


abitazione in cui viva una donna gravida stanno attaccati degli
amuleti, fissati con corde di fibra di banana, sui quali un adepto,
o un esperto di preghiere, ha sussurrato un’appropriata preghiera in
lingua malese. L’amuleto più frequente è una testa di pesce dai denti
aguzzi, colorata in azzurro vivo, oppure un sacchetto contenente
henné, zenzero, gusci di noce areca, aglio, grani di pepe nero, brattee
di riso vecchie di almeno due anni, un pezzo di ombrello (che nel sud-
est asiatico è simbolo di regalità) e qualche barba di cocco giallo (il
giallo è il colore dei re nel sud
est asiatico). L’amuleto serve a proteggere la madre e il nascituro dallo
Spirito Uccello, uno spirito di bell’aspetto e dai lunghi capelli che si
dice riassuma in sé le caratteristiche del Cacciatore-Spettro malese e
dello Spirito Principessa. Quella che segue è una versione abbreviata
della leggenda semai circa l’origine degli amuleti domiciliari, così
come mi è stata raccontata da Ngah Hari bin Yeop e Itam Bluug bin
Alang Judin, informatori attendibili nonché miei buoni amici.
Un uomo e una donna (un klamin, una «coppia», l’unità sociale
fondamentale) del Popolo Antico avevano disboscato un campo nella
foresta lontano da ogni villaggio. Dopo aver bruciato gli alberi
abbattuti, costruirono una casa nel centro secondo il costume dei
Semai Perak. Piantarono il riso e la donna divenne gravida. Il riso
maturava e la gravidanza progrediva. Subito dopo il raccolto
cominciarono le doglie, ma la donna non riusciva a partorire. La
mattina successiva, l’uomo si avviò verso il villaggio più vicino a
cercare una levatrice. La donna giaceva rabbrividendo e
singhiozzando per il dolore.
Nella spessa nebbia mattutina che ricopre la giungla, lo Spirito
Uccello si aggirava furtivamente vicino alla casa, come fa tutte le
volte che c’è qualche donna gravida, e sentì i lamenti. «Ah», pensò,
«la aiuterò e ne trarrò qualche vantaggio». Assunse così il suo aspetto
abituale, quello di una bella ragazza nubile, e si avviò verso la casa
pensando a come avrebbe potuto rubare il cordone ombelicale, senza
il quale il bambino sarebbe morto. Si affacciò alla porta:
«Cosa c’è che non va?», chiese.
«Va tutto bene. Solo che il mio stomaco sta partorendo e mi fa
male».
«D’accordo, ti aiuterò io». Lo Spirito Uccello raccolse alcune
foglie fresche di tapioca, le scaldò sul fuoco e con esse strofinò lo
stomaco della donna, finché il bambino non venne al mondo. Lo
Spirito Uccello depose il piccolo e la placenta accanto alla madre, poi
cucinò un po’ di pasta di riso, la mise in una tazza speciale e gliela
diede da mangiare, perché non le si formasse aria nell’utero. Quindi
tagliò il cordone ombelicale.
«Dove tieni lo zenzero selvatico?», domandò.
«Nella sacca».
Lo Spirito Uccello non sapeva che nella sacca c’era la testa di un
pesce-serpente. Così, quando infilò la mano nella sacca, le sue dita
restarono prese tra i denti affilati della testa del pesce. Allora si mise a
saltare spaventato, cercando di liberare le dita da quella cosa, finché
non fu costretto, per poter fuggire, ad assumere il suo aspetto reale,
quello di un fagiano-argo, e volò via strillando2.
Quando il marito tornò, con la levatrice e i genitori della coppia,
trovò il bambino felicemente partorito. Da allora, le coppie che
devono avere un figlio usano amuleti a testa di pesce.

Abluzioni rituali

I «canti» semai, che avvengono solo di notte, sono costituiti da un


contrappunto tra un adepto che invoca i suoi spiriti familiari e un coro,
che ripete le frasi che costui pronuncia. Il ritmo è dato dalle donne,
che battono con stecchi di bambù sopra un tronco, producendo un
suono di due note, dolce, quasi cristallino. A volte i giovanotti
danzano in trance, dopo che i fuochi sono stati spenti, e gli adolescenti
flirtano nelFoscurità.
La gravidanza richiede un «canto» con abluzione rituale. Si
ricorre ai «canti» anche nelle circostanze seguenti: 1. dopo un aborto o
dopo la morte di un bimbo piccolo, perché devono bagnarsi sia la
madre sia la levatrice e l’adepto responsabile; se il piccolo era già in
grado di muoversi da solo senza l’aiuto degli adulti, è sufficiente che
si bagni l’adepto; 2. dopo un’adozione, perché deve bagnarsi la
levatrice del bambino; 3. se un bambino si ammala e qualcuno ha un
sogno premonitore; 4. se si ammala la levatrice o l’adepto, o costui ha
un sogno premonitore; 5. ogniqualvolta qualcuno ha un sogno che
indica che qualcun altro deve prendere un’abluzione rituale.
Quando «lo stomaco della futura madre appare grosso
abbastanza» da far ritenere che il parto sia prossimo, lo spirito di
famiglia si manifesta in sogno all’adepto e ordina un «canto» con
abluzione rituale per la donna e la sua levatrice nonché per tutte le
altre donne gravide presenti nel villaggio e le loro rispettive levatrici.
L’adepto si rivolge a persone competenti, preferibilmente i futuri
genitori e i loro parenti, perché preparino tutto il necessario. Nell’est,
l’equipaggiamento comprende due \ «coppe da bagno», un aspersorio,
due (o più) «tubi da bagno» ) fatti di bambù, e un «sostegno per gli
spiriti»3.
Come la maggior parte dei lavori importanti, la fabbricazione di
questi oggetti cade sotto alcuni tabù. Le fasi lunari sfavorevoli
(particolarmente la quindicesima e la sedicesima notte e, all’ovest,
anche la ventesima, la ventunesima e la ventiduesima) accrescono il
pericolo che le persone partecipanti alla cerimonia possano divenire
«calde», come si vedrà più avanti. Inoltre gli spiriti non accettano
oggetti vicino ai quali qualcuno abbia ruttato rumorosamente, poiché
si spaventano per tutti i tipi di rumori forti e improvvisi. Nessun
oggetto rituale può essere fatto nei tre giorni che seguono un funerale,
e i Semai dell’est preferiscono attendere anche un mese. Presso i
Semai occidentali l’attesa è di una settimana se il funerale era di un
parente. Infine, non si deve camminare sopra un oggetto rituale,
perché in questo modo esso diviene meno attraente agli occhi degli
spiriti.
La «coppa da bagno» viene di solito fabbricata dal marito, con
l’internodio di un certo tipo di bambù (rngrod). Non tutti i bambù
vanno bene, perché alcuni sono troppo acquosi, o troppo spinosi, o
hanno la cavità interna troppo piccola, e tutto ciò può avere effetti
disastrosi sul parto. Il marito lascia una sporgenza a una delle due
estremità della coppa, un «piede» di 2-3 centimetri che, incastrato tra
le assi del pavimento, serve a tenere ritta la coppa stessa. La coppa
della levatrice ha un’altezza di 20 centi- metri, quella della madre o
del bambino di circa 30. Fintantoché non è in grado di «andare in giro
da solo», il bambino deve essere bagnato con una coppa fatta
appositamente per lui. Questa non va assolutamente gettata via, anche
se è rotta, perché se «l’anima» del bambino la vede abbandonata, può
«fuggir via» (si veda oltre). Nel 1963, le donne dei Semai occidentali
avevano imparato a usare scatole stagnate invece che bambù, per le
coppe, pur mantenendo la medesima attenzione per le abluzioni e la
loro necessità rituale.
L’aspersorio rassomiglia molto a uno scopino da sciamano
malese. E una specie di pennello, lungo circa 30 centimetri, fatto di
foglie magiche (specialmente le foglie di slbok e di una lauracea detta
«freschezza») la cui fresca fragranza attrae gli spiriti 4. Le donne che
hanno raccolto tali foglie le legano insieme con un pezzo di corteccia
d’un tipo speciale di fico perché è odorosa, ma anche altre essenze,
come la palma rattan, possono andar bene.
L’aspersione gioca un ruolo importante nella maggior parte dei
rituali semai. Un adepto, o un uomo di medicina, o a volte anche
semplicemente un anziano, agita l’aspersorio sopra un incensiere
pieno di carbone e benzoina, quindi lo immerge in una coppa da bagno
contenente una poltiglia ottenuta mescolando un po’ di farina di riso
con molta acqua, identificata con il termine malese di tepung tawar
che significa esattamente «(acqua di) pasta di riso neutralizzante»,
dove «neutralizzante» viene usato in senso quasi chimico, per indicare
l’azione di «sterilizzazione» nei confronti dei principi attivi di un
veleno, o di distruzione delle potenzialità negative degli spiriti maligni
(Skeat, 1900, p. 77).

Dopo che l’aspersorio è stato sgocciolato, il paziente viene


asperso, mentre l’officiante chiama gli spiriti familiari e invoca la
freschezza risanatrice gridando «la’ap!» (fresco!). Tale freschezza
attrae gli spiriti e le forze della guarigione, che vivono normalmente in
luoghi freschi come le colline, i fiumi, gli oceani, e
contemporaneamente allontana il calore, associato al concetto di
malattia. Un eufemismo usato per indicare gli adepti è «persone dal
corpo fresco». L’aspersione può essere eseguita agitando l’aspersorio
in prossimità della parte del corpo o dell’oggetto interessato, oppure
strofinandolo delicatamente con colpetti brevi. Un aspersorio usato
può essere gettato via senza prescrizioni particolari. Comunque, ogni
cerimonia richiede l’impiego di un aspersorio nuovo. Di solito, tutti
gli oggetti rituali, come i «tubi da bagno» e i sostegni per gli spiriti,
vengono aspersi prima e dopo l’uso.
Il «tubo da bagno» rituale è costituito da un lungo pezzo di
bambù, con un’estremità chiusa dal suo setto naturale e l’altra incisa
con motivi ornamentali. La scelta del bambù e l’esecuzione
dell’incisione spetta al padre, sotto la supervisione di un adepto. Altri,
uomini o donne, dipingono sul fusto figure ornamentali, con cenere,
calce, e con il succo rossastro di un frutto speciale5.
Il tubo destinato all’ostetrica è ornato dalla raffigurazione di una
«scala» a sette gradini rettilinei, che rappresentano le sette divisioni
del cosmo e le sette Levatrici primordiali. Su quello destinato al
bimbo ci sono delle «stelle» (o dei «soli») a sei raggi, i quali si
congiungono in modo da formare un disegno geometrico. Più che
dell’esatto numero dei gradini dèlia scala, la gente si preoccupa molto
dei raggi delle stelle, forse perché il sei (insieme al due) è
tradizionalmente un numero magico presso i Semai, mentre il sette è
un numero magico malese. Il sogno che sta all’origine della cerimonia
può eventualmente suggerire il ricorso a qualche altro motivo
ornamentale, come «l’artiglio della tigre» o «le uova di rana», o il
«fiore del buri buus». Il buri buus è una specie di basilico e insieme al
slbok è la pianta sacra più usata dai Semai. È sacra anche presso gli
Indù e nelle Filippine le vengono attribuite proprietà medicinali.
Dopo aver raccolto una serie di essenze odorose, le donne ne
fanno un infuso in acqua. Oltre al bun buus e alle piante usate per fare
gli aspersori, vengono impiegate essenze come il gelsomino, il
gelsomino rosso, i fiori di amaranto e altre 6. Le piante restano in
infusione per circa un’ora, quindi vengono estratte e pestate. L’infuso
viene poi filtrato attraverso un telo e versato nei tubi da bagno. La
bocca di questi viene chiusa con un ciuffo di foglie odorose e fiori di
amaranto, con alcune foglie di slbok disposte in modo da ricadere
ornamentalmente intorno al bordo. Le foglie pestate vengono messe
vicino al muro, su di un tappetino dove sta anche l’incensiere per
l’aspersorio. In teoria questo tappetino dovrebbe essere tessuto
dall’ostetrica, ma anche un tappeto qualsiasi può andar bene.
L’importante è che gli oggetti rituali non tocchino per terra.
La lunghezza dei tubi da bagno varia da uno a quattro metri, a
seconda del numero delle persone che devono bagnarsi. Tale numero
dipende dallo spazio disponibile, dalla difficoltà della gravidanza,
dall’eventualità che una cerimonia precedente, più modesta, non abbia
dato risultato, e anche dal numero di altri ammalati che desiderano
ricevere il trattamento insieme alla futura madre. Se sono di
dimensioni modeste, i tubi vengono sistemati in piedi, sul tappetino
appena ricordato. Se sono molto lunghi, gli uomini legano a ciascuno
di essi due bastoncini ornamentalmente intagliati, per poterli poi
appendere a una rastrelliera che viene assicurata alle assi del tetto. In
genere c’è un tubo per ogni persona che deve sottoporsi all’abluzione.
Il «sostegno per gli spiriti» è costituito da una sorta di cilindro di
foglie, dalla sommità piatta, con una lunga frangia che si diparte dal
fondo. In esso le donne infilano due aghi di bambù (o della nervatura
principale di una foglia di attap), perpendicolarmente uno rispetto
all’altro e trasversalmente rispetto all’asse longitudinale del sostegno.
A questi aghi vengono appese due collane di foglie, fatte con le stesse
essenze usate per l’acqua del bagno rituale.

Esempio di abluzione rituale

Diamo qui di seguito la descrizione dettagliata di un bagno rituale


che ha avuto realmente luogo presso i Semai occidentali. Tale
descrizione è preferita a una descrizione più generale per tre motivi. Il
primo è che permette di cogliere un po’ dell’atmosfera di un’abluzione
rituale. Il secondo è che tutti i rituali sono difficili da condensare senza
omettere qualche punto di particolare rilevanza per i Semai, o per
qualche antropologo che osservi le cose da un angolo visuale diverso
dal mio. Il terzo motivo è che, anche se nell’esempio specifico si
trattava di un caso particolare di «perdita dell’anima», non c’è mai
molta differenza tra un’abluzione rituale e l’altra.
La casa appartiene alla famiglia di un bimbo che ha appena
perduto la sua anima. Dalle assi del tetto, vicino al muro interno di
sinistra, pende un sostegno per gli spiriti. Sul lato opposto, a destra
della porta, c’è un tappetino, sul quale sono appoggiati i tubi da
bagno, un braciere fatto con una vecchia scatola di sardine, e un
piccolo recipiente contenente pasta di riso. Vicino ad esso c’è un vaso
di terracotta dove sta il decotto per i tubi da bagno. Se fossimo in una
casa dei Semai orientali, lo spazio compreso tra questi oggetti e la
parete alla quale sarebbero poi appesi i tubi ammonterebbe a circa
cinque metri quadri e sarebbe separato dal resto della casa da foglie di
palma. Tale spazio è definito dalla parola malese kandang. Ci sarebbe
anche una cornice circolare (jrmun) intorno al sostegno degli spiriti,
per permettere agli spiriti di sedervisi sopra quando entrano in volo
per ammirare il loro sostegno.
È sera. Siamo nella casa di Itam, il fratello della donna gravida.
19,45 Itam, che ha trentun anni anni, riempie i tubi da bagno
con l’infuso odoroso.
20,23 In ciascun tubo mette 70 centesimi di dollaro malese perché
si generi la cosiddetta «aura dell’argento». Il quantitativo esatto
avrebbe dovuto essere 75 centesimi, ma Itam non possiede tutti
quei soldi. Due parenti maschi tengono i tubi a 25-30 gradi,
mentre egli si aggrappa alle assi del tetto e ve li lega saldamente,
anche se qui non accade come all’est, dove i giovanotti ballano in
trance dentro la casa e fanno tremare il pavimento. Comunque,
l’eventuale rovesciamento dei tubi porterebbe disgrazia a tutti i
partecipanti alla cerimonia. I nodi della legatura sono nodi rituali,
chiamati «stretta del macaco».
20,50 Per segnalare agli spiriti che la cerimonia sta per avere
inizio, il padre incensa i tubi da bagno.
20,55 II padre avvolge il bimbo ammalato in una coperta e lo
depone tra i tubi e il sostegno degli spiriti. La moglie invita la figlia
maggiore, di dieci anni, a pulire i tappeti che coprono il pavimento.
Gli altri figli, due ragazzini di sette e tre anni osservano, e altrettanto
fanno le figlie della sorella maggiore del marito, di sette e otto anni.
21,01La donna incinta, KinLii, di trentatré anni, sorella di Itam,
entra in casa insieme ai suoi tre figli più grandi, un ragazzino di
otto anni di nome Lii e due bimbe di sei e sette anni. Siede vicino
alla porta. Poco dopo entra anche suo marito, BiLii.
21,20 KinLii porta a casa le due bimbe, che si sono addormentate.
21,35 Entra l’adepto, un vecchio magro e tubercolotico sui
settant’anni, insieme alla levatrice sua moglie, robusta, un po’ più che
quarantenne. Entrambi si siedono. La donna tiene un ginocchio
scoperto e sollevato, ostentando competenza in una posa che alle altre
donne apparirebbe un tantino audace. L’adepto sta alla sua sinistra. La
donna è la vicina di casa di Itam, ed anche la sorella di sua nonna
materna. I matrimoni tra adepti e levatrici non sono frequenti.
21,43 Itam porta a termine la fabbricazione di due aspersori, uno
di foglie di slbok, l’altro di foglie di pmoleh, dotate di proprietà
magiche pressoché identiche. Quindi fabbrica uno scopino per
l’adepto con foglie di palma areca, che i Semai chiamano «foglia
del nutrimento». Comunque, qualunque tipo di palma, purché
abbia foglie rigide e «sonore», può essere impiegato per questo
scopino che ha la lunghezza di circa un avambraccio.
21,45 L’adepto getta un po’ di succo di kijai sull’incensiere,
diffondendo in giro una nuvola odorosa. Quindi incensa
nuovamente i tubi da
bagno. Si scalda le mani all’incensiere per assumerne i vapori salutari.
21,46L’adepto e sua moglie iniziano a pregare ad alta voce, a
turno: «Oh, venite a me, Levatrici primordiali, voi sette Levatrici,
Porta della Mecca (?), Porta di Cumulus, Porta del Tuono. Venite
a me, e disponetevi accanto ai tubi da bagno. Vi prego, prendete
l’aura dei vostri fiori, l’aura dei tubi da bagno scintillanti. Io mi
prenderò cura dei vostri discendenti. Voglio che la rinascita
sussurri preghiere insieme alla Pianta primordiale del pmoleh»
(ognuno dei due interviene quando l’altro accenna a smettere).
21,50L’adepto asperge una volta i tubi da bagno e tre volte il
bimbo ammalato. Quindi chiama KinLii e le asperge il seno e il
capo una volta ciascuno, dopodiché la rimanda al suo posto. Itam
stende una coperta bianca sul pavimento, tra l’adepto e il bimbo, e
vi poggia sopra il vaso di terracotta come pegno per gli spiriti
familiari dell’adepto7.
21,57Accucciato a terra, l’adepto batte lo scopino contro il palmo
della sua mano sinistra per attirare l’attenzione dei suoi spiriti
familiari. Quindi con il braccio appoggiato al ginocchio si
avvicina lo scopino alla fronte, nella posa tipica degli adepti
semai di pianura, e ricomincia a pregare. In quel modo, lo scopino
scherma la luce e gli permette di vedere le forze malefiche che
affliggono il paziente.
21,59 Mentre la preghiera procede, Itam impasta della pasta di
riso coagulata e la versa nel vaso per «neutralizzare» il veleno della
malattia.
22,00Iniziano i canti in coro. La moglie di Itam fa
l’accompagnamento, battendo languidamente due intemodi di
bambù di diversa lunghezza sul legno del pavimento, tra la cucina
e la stanza principale. Secondo l’uso, l’adepto canta una strofa,
poi il coro la ripete.
22,01La levatrice interrompe il canto per chiedere un aspersorio.
Mentre l’adepto canta, ella prega. Sempre cantando, l’adepto si
toglie la camicia e si sventaglia con lo scopino, in modo da
impedire che il proprio corpo divenga troppo caldo e gli spiriti
familiari non vengano. Assistito dalla moglie che gli fa da
suggeritore, egli chiama per nome gli spiriti di famiglia,
pregandoli di intervenire «in gran numero e moltitudine». )
22,10L’adepto si porta alla bocca la mano sinistra con le dita
piegate a formare un tubo e aspira aria attraverso di esso,
rumorosamente, per attenuare la sensazione, frequente negli
adepti a questo stadio della cerimonia, di avere la bocca tappata.
Contemporaneamente, agita ritualmente il suo scopino (-gar).
Come al solito, i partecipanti cominciano ad essere impazienti per
l’arrivo degli spiriti, mentre altri si uniscono al coro.
22,12La madre di Itam, che vive nella casa accanto con un altro
figlio e la famiglia di lui, si rivolge spazientita agli spiriti.
(Anch’essa è una levatrice). La gente smette di cantare e comincia
a discutere le ragioni del ritardo degli spiriti: forse la stanza è
troppo grande (gli spiriti di famiglia soffrono di agorafobia)
oppure è colpa della presenza di estranei (gli spiriti di famiglia
sono anche un po’ xenofobi).
22,20L’adepto si avvicina al bimbo malato e gli «soffia» in faccia
il proprio respiro, attraverso le dita ripiegate a tubo, in modo da
trasferire su di lui le virtù salutari degli spiriti familiari e del fumo
che proviene dall’incensiere. Tale complesso rituale viene detto
-tlhool, tradotto convenzionalmente con il termine «espirare».
22,22 L’adepto agita il suo scopino sul bimbo, allo scopo di
rinfrescarne il corpo. Anche questa è un’azione rituale complessa, che
traduciamo convenzionalmente come «sventagliare». Poi l’adepto
prega.
22,24L’adepto espira, sventaglia, espira, sventaglia, e sbatte lo
scopino contro il palmo della sua mano sinistra, per «sgrondare»
da esso le forze malefiche eventualmente trattenutevi.
22,25L’adepto canta un poco, sventagliando ed espirando sul
bimbo. Tale azione viene ripetuta ancora due volte, dopodiché c’è
una pausa.
22,34L’adepto espira nuovamente sul piccolo, mentre la madre di
Itam prega.
22,37L’adepto si volge a un uomo che soffre di una distorsione al
polso, il quale è il vicino di casa di Itam e il cugino di suo zio
materno. Egli pronuncia una preghiera esoreistica per scacciare
«le cose taglienti e calde» che fanno dolere il polso.
22,40L’adepto «inspira» (-trheer). I Semai dicono che l’inspirare
differisce dall’espirare perché, oltre a infondere forze salutari,
quest’operazione «succhia via» dal paziente le «cose taglienti e
calde», e per eseguirla non c’è bisogno di mettere le dita a tubo. I
due termini, in lingua semai, sono probabilmente collegati.
L’adepto sventaglia il polso offeso e prega. Egli strofina
dolcemente lo scopino sulla distorsione, inspirando, dopodiché
sbatte ancora lo scopino sul palmo della mano sinistra per
scacciare le «cose» che eventualmente vi fossero rimaste prese.
II paziente ritorna al suo posto presso la porta. È ora la volta di
KinLii di sedersi di fronte all’adepto accovacciato che stende la
mano sinistra sul ventre gonfio di lei, agitando lo scopino avanti e
indietro, parallelamente al pavimento, mentre prega.
22,43L’adepto, per due volte, agita con decisione lo scopino,
inspira, batte lo scopino contro il palmo della mano, inspira due
volte ancora, invocando l’aiuto degli spiriti familiari.
22,45Ancora sventagliamenti, preghiere...
22,47L’adepto inspira nuovamente sulla donna e le massaggia il
ventre con entrambe le mani per assorbire le eventuali malattie
presenti; poi batte le mani per scuoter via da esse il male che vi
fosse rimasto trattenuto. Quindi massaggia ancora, perché questo
è il modo di trattare tutti i problemi legati allo stomaco, dalla
dispepsia alla gravidanza. Batte di nuovo le mani, poi prende lo
scopino e lo agita vigorosamente mentre prega.
22,50Massaggi, battimani, sventagliamenti allo stomaco della
paziente.
22,51Inspirazione, sventagliamento, poi ancora inspirazione e
sventagliamento.
22,52L’adepto agita lo scopino al di sopra del vaso, per infondere
nel decotto le virtù dei suoi spiriti familiari. Canta ancora un
poco, quindi manda a casa gli spiriti, invitandoli con un
movimento dello scopino.
22,54 La gente se ne va a casa.
Il giorno seguente, di mattino presto, l’adepto e la levatrice
ritornano alla casa di Itam. Tenendo la mano sull’imboccatura del
vaso, per impedire epe le foglie in infusione escano fuori, Itam versa il
contenuto sulla levatrice, che si è messa accovacciata. In teoria
dovrebbe ripetere le stesse preghiere pronunciate la notte precedente,
ma incespica sulle parole e l’adepto deve pregare al suo posto. Poi
l’adepto, KinLii e il bimbo ammalato si accucciano sotto i tubi da
bagno. Sotto il quarto tubo si dispone il figlio più giovane di KinLii,
di quattro anni, che è stato fatto nascere dalla medesima levatrice e
deve ricevere le sue normali cure postnatali. Recitando la preghiera
già pronunciata la notte precedente, la levatrice rompe il fondo dei
tubi, uno dopo l’altro, facendo scendere il contenuto sulle persone
sottostanti. Dopo il bagno, Itam mette un po’ di essenza odorosa di
kijai sul braciere e coloro che hanno ricevuto l’abluzione vi si
riuniscono intorno per assorbirne il fumo risanatore. L’adepto chiede
una benedizione, invoca la freschezza, quindi asperge i bagnanti con
un aspersorio fatto di foglie di pmoleh. La gente resta ancora un poco,
chiacchierando distrattamente secondo il costume semai, e infine torna
a casa.
Sul Telom, gli adepti ordinano che i fuochi vengano riaccesi dopo
la prima parte della cerimonia e invitano gli astanti ad esaminare il
fondo dei tubi da bagno, affinché prendano visione del fatto che, pur
sembrando solidi, sono stati miracolosamente indeboliti dagli spiriti di
famiglia («probabilmente l’adepto li gratta un poco con il machete,
mentre è ancora buio»). Dopo che tutti hanno constatato, le levatrici e
le donne gravide si accovacciano sotto i tubi e l’adepto può facilmente
spezzare il setto di base con le dita. La fuoriuscita dell’acqua
garantisce una nascita senza problemi. A volte accade che gli spiriti
non diano un grande aiuto, e l’adepto deve pubblicamente aprire il
fondo dei tubi con un colpo di machete. Quando l’abluzione è
terminata, la gente canta e danza fino a notte inoltrata, e accade a volte
che qualche giovanotto scapolo vada avanti imperterrito fino all’alba.

Il parto
Dove avviene. Appena iniziano le doglie, la donna va a casa.
Il parto deve avvenire in un posto dotato di un pavimento fessurato, di
modo che il sangue e la placenta possano passare attraverso senza
contaminare la casa. Tutte le case dei Semai orientali hanno pavimenti
fatti di assicelle di bambù, disposte a 3-5 mm l’una dall’altra, onde
permettere ai rifiuti di cader fuori e alla brezza di entrare. Presso i
Semai occidentali, invece, alcune case hanno tutte le stanze dotate di
pavimento fatto di assi ben ravvicinate ad eccezione della cucina, che
è quindi l’unico luogo dove il parto può avvenire. I familiari
schermano la «zona-parto» con paraventi fatti di lenzuola o foglie di
palma.
Pericoli. Il sangue puerperale e la placenta sono considerati tanto
pericolosi che la gente usa degli eufemismi per indicarli, il che ha
indotto i primi studiosi dei Semai a ritenere che i termini usati per
definire la placenta fossero estremamente numerosi e variabili da una
località all’altra. L’odore delle secrezioni del parto attrae le forze
malefiche, specialmente lo (o gli) Spirito/i Uccello. Una traccia di tali
odori lasciata in un fiume attira gli spiriti malefici dell’acqua. Quindi
il marito deve prendere ogni precauzione al fine di evitare che la
placenta tocchi il terreno. Se le doglie iniziano in una località troppo
distante da un villaggio, il marito deve scavare nel terreno una sorta di
«cuccia», con il suo machete, e tappezzarla con foglie asciutte che
possano trattenere la placenta. Presso i Semai orientali, un tempo, i
mariti usavano intrecciare una piattaforma di circa un metro quadro,
poi la coprivano di terra e l’appendevano al di sotto dell’area dove
avrebbe avuto luogo il parto. Tale piattaforma restava lì fino a che non
cadeva il cordone ombelicale, dopo di che veniva appesa a un albero
in qualche luogo fresco della foresta tropicale, lontano dal villaggio. I
costumi dei Semai occidentali, descritti più avanti, assomigliano a
quelli dei malesi del Perak meridionale, ma sono comunque diversi
dai costumi malesi più tipici.
Assistenza al parto. P.D.R. Williams-Hunt (1952, p. 64) riferisce
che nell’area da lui visitata gli uomini di norma non forniscono
assistenza al parto, e in genere i Semai maschi dichiarano di non
gradire «tutto quel sangue». Nonostante ciò, presso i Semai chiunque
può fornire assistenza al parto. Gli amici, i parenti, i vicini, entrano ed
escono continuamente dalla casa della partoriente, portando cibo e
aiuto di vario genere. Se ciò non accade, il marito si sente offeso,
come nel caso di un uomo di Telom, che aveva notato che al parto di
sua moglie era intervenuta assai meno gente che a quello di un’altra
donna, che era stata visitata dall’intero villaggio.
Comunque, i visitatori si tengono lontani dall’area del parto vera
e propria, dove entrano solo il marito, l’adepto, la levatrice e i parenti
di sesso femminile che portano acqua bollente, o foglie e pietre calde.
Nessuno vorrebbe rischiare di mettere in pericolo la madre, la
levatrice o il nascituro portando fuori inavvertitamente gli odori
puerperali che le forze malefiche potrebbero percepire.
Morbilità. Stando ai dati gentilmente fornitici dal Ministero per
gli Aborigeni, in tutte le categorie d’età dei Semai si riscontra una
netta preponderanza degli individui di sesso maschile su quelli di
sesso femminile. Tale rapporto, anomalo rispetto a quello presente
presso la maggior parte degli altri popoli, sembra indicare un elevato
tasso di mortalità femminile durante o dopo il parto. Alan Fix (1971)
condivide questa conclusione. Le informazioni che egli ha raccolto nel
Satak, nel Pahang e nei territori semai sudorientali, dimostrano che il
parto è di gran lunga il pericolo principale affrontato dalle donne
durante gli anni in cui sono feconde; ad esso vanno attribuite 13 morti
su 29 (pari al 45%) e metà di quelle dovute a cause note. Richter
(1975) attribuisce la causa di tale elevato tasso di mortalità a probabili
infestazioni da nematodi (si veda più oltre), citando Chandler e Read
(1961)8:
Gli effetti delle infestazioni da nematodi sono particolarmente
gravi durante la gestazione, quando la richiesta di proteine e ferro da
parte del feto in sviluppo sottopone la madre a un ulteriore
impoverimento di sostanze nutritive. L’Anchilostoma provoca un
numero spaventoso di aborti ed è ritenuto essere causa di
complicazioni della gravidanza ancor più che la sifilide o l’epilessia.
La riduzione della capacità lavorativa dovuta a infestazione da
Anchilostoma può variare dal 25 fino al 50%, e la percentuale sale
ancora se si tiene conto delle malattie e dei decessi conseguenti (pp.
432-433).
In che misura ciò si risolva in danno per i figli è meno chiaro.
Comunque, i casi di piccoli morti in seguito alla perdita della madre
durante il primo anno di vita (9 su 77 morti dovute a cause accertate),
nonché di quelli deceduti nel corso della prima settimana di vita (17 su
77), sembrano indicare, secondo Fix (1971), che un terzo della
mortalità infantile nel Satak deriva da complicazioni puerperali.

Resoconto di un parto

Corriamo il rischio di mettere nuovamente alla prova la pazienza


del lettore con un altro resoconto dettagliato, proposto non solo per i
motivi che ci hanno indotto a farlo a proposito dell’abluzione rituale,
ma anche perché i parti si verificano generalmente quando il tasso
glicemico della madre è basso, e quindi in ore assai scomode, cosicché
quello di cui riportiamo qui la testimonianza è stato l’unico parto cui
abbiamo assistito. Infatti i Semai non hanno l’abitudine di svegliare la
gente deliberatamente in quanto temono che, così facendo, l’anima del
dormiente, allontanatasi dal corpo durante un sogno, possa spaventarsi
e non tornare più indietro (vedere più avanti a proposito della «perdita
dell’anima»).
Siamo nella stanza principale della casetta di una famiglia
nucleare. Sul pavimento fatto di assicelle sta KinLii, la donna gravida,
appoggiata alla parete a un angolo di circa 30 gradi. Quando sta
all’interno, suo marito BiLii si siede alla destra di lei, appoggiandosi
alla parete che sta dirimpetto alla porta. Alla destra di lui sta il
medesimo adepto che era intervenuto all’abluzione rituale già
descritta, con vicino sua ritoglie, la levatrice. La porta sulla destra dà
in cucina, un locale assai piccolo. Gli altri adulti, compresi gli
osservatori bianchi, siedono lungo la parete compresa tra la porta di
cucina e la porta di ingresso. Le figlie piccole di KinLii stanno in un
angolo alla sinistra di lei, mentre sua madre e la sorella di questa si
danno da fare in cucina.
BiLii chiude la porta di ingresso per annunciare che le doglie
hanno avuto inizio. Lii e gli altri ragazzini si radunano all’esterno.
• Entrano la levatrice e l’adepto. La levatrice dispone le sue
cose e cade in una specie di trance preparatoria finché non
arriva Uda, la madre di KinLii, a portare caffè per tutti. La
levatrice massaggia lo stomaco di KinLii. chiedendole come
si sente, se ha dolore, eccetera. Quindi la massaggia per circa
tre minuti con entrambe le mani.
L’adepto richiede la solita gomma odorosa da mettere
nell’incensiere, in modo da poterla benedire con le sue
preghiere. C’è qualche problema perché sembra che le donne
si siano scordate di raccoglierla. Inoltre l’adepto manifesta il
timore che il vento possa portare dentro la sabbia di una
miniera abbandonata che si trova nei pressi. Uda porta alcune
foglie di zenzero selvatico nella cucina. L’adepto incarica
BiLii di andare a prendere altre foglie, sempre di zenzero ma
di una varietà più adatta alla circostanza9. Infatti in questo
caso non possono essere usate le stesse foglie che vanno bene
per curare gli ammalati, perché hanno una connotazione
negativa legata alla malattia.
L’adepto sussurra una preghiera malese su di un recipiente di
stagno pieno d’acqua e sulle due varietà di foglie di zenzero. BiLii
ritorna e fabbrica un aspersorio. L’adepto gli porge il recipiente,
dicendogli: «Passaglielo sopra». BiLii fa scorrere il recipiente sullo
stomaco e sulla schiena di sua moglie, quindi le rincalza con cura il
lenzuolo che l’avvolge. Uda porta all’adepto della pasta di riso per
l’aspersorio.
Uda porta dentro un braciere, ricavato da un guscio di cocco,
contenente braci e gomma odorosa L’adepto scalda sopra di
esso la mano destra, in modo da assorbire il fumo benefico.
Espira ed inspira su KinLii e le passa la mano sullo stomaco.
Ripete la procedura, poi tiene la mano al di sopra del
braciere. Quindi si accovaccia sui talloni, con le braccia tese
di fronte a sé, tenendo le palme delle mani al di sopra dello
stomaco di KinLii. Mentre la levatrice sua moglie gli
suggerisce, invoca le Levatrici primordiali delle sette porte.
«Completato è il periodo stabilito, completati sono i giorni.
Questa donna è già da tempo in travaglio, fin dal mattino.
Essa è stanca, ormai. Forse forze aliene interferiscono. Se è
così, aiutatemi». «Forse ha l’utero legato», interviene la
levatrice. Ogni volta che, durante la preghiera, l’adepto
invoca una benedizione (-smain slamaci), BiLii agita
l’aspersorio ripetendo «Slamaci!».
21,33 Dopo aver chiamato a raccolta gli spiriti ( familiari,
l’adepto asperge lo stomaco di KinLii, recita una breve preghiera,
chiede una benedizione, asperge altre due volte. Uda gli porge un
pezzo di giornale con dentro dello zenzero selvatico e l’adepto vi
pronuncia sopra una preghiera malese. BiLii conficca sotto la casa un
machete spalmato di calce, affinché il «ferro» di esso tenga lontani gli
spiriti maligni attratti dal sangue puerperale. Attorno vi costruisce una
specie di rozzo steccato fatto di gusci vuoti di attap, sempre per tener
lontani gli spiriti maligni e per impedire che lo «sporco» del parto si
sparga verso le case vicine. All’interno dello steccato accende un
fuoco, anch’esso destinato a scacciare le forze malefiche.
La levatrice inumidisce lo stomaco e la fronte di KinLii per
tenerla fresca. La sorella minore di KinLii porta dentro
dell’olio di cocco, su cui suo padre ha pronunciato una
preghiera malese.
BiLii, alla sinistra di sua moglie, sussurra su di lei una
preghiera malese, mentre l’adepto ne pronuncia un’altra su
dello zenzero selvatico.
KinKupa’, un’altra levatrice, mette dentro la testa spiegando:
«Io sto di fuori perché la famiglia si è affidata a un’altra
levatrice. Mi occupo delle cose qua fuori». Quindi si siede
davanti all’ingresso.
BiLii continua a massaggiare lo stomaco di sua moglie con il decotto
di zenzero selvatico. L’adepto sta seduto accanto alla testa di lei e di
tanto in tanto prega ad alta voce. Dice KinLii: «Ho caldo e sono
stanca».
KinLii si lamenta forte. La levatrice si mette in posizione tra
le gambe di lei, invitando le altre donne a raccogliersi
intorno. Arriva anche KinKupa’, pregando ad alta voce. La
levatrice chiede una sigaretta. L’adepto prega: «Presto,
aiutatela, fate presto. Io sono vecchio e ho la tosse, e voglio
andarmene a casa». Intanto ridacchia un po’. La levatrice
estrae il bimbo, chiedendo che qualcuno le tolga la sigaretta
dalle labbra. Poi chiede un panno, dove avvolge il bimbo,
tutto rosso e rugoso. Manda la maggiore delle/ figlie di
KinLii a prendere delle foglie di tapioca e grida alle donne in
cucina di portare dell’acqua calda. Quando il panno arriva, vi
depone sopra il piccolo, dopodiché si dedica completamente
alla madre.
Uda porta dalla cucina un coltello di bambù appena
fabbricato, affilato come un rasoio. KinKupa’ chiede un
panno nero, la levatrice chiede delle pietre calde.
Dalla cucina arriva un ciuffo di foglie di tapioca riscaldate.
«Va’ a prenderne altre», dice la levatrice alla figlia maggiore.
«Porta del caffè», le dice Uda.
La levatrice, massaggiando il ventre di KinLii per fare uscire
la placenta, si volta per la prima volta a guardare il neonato:
«Un maschio», commenta. Uda le porge un recipiente di
acqua calda.
Uda porge all’adepto il caffè, perché egli vi reciti sopra una
preghiera malese.
La levatrice si lava le mani nell’acqua calda, chiede una
sigaretta e continua a massaggiare lo stomaco di KinLii.
La levatrice prende un nuovo ciuffo di foglie calde. L’adepto
le dà del caffè perché si riscaldi.
KinKupa’ strappa una striscia da un pezzo di stoffa qualsiasi.
Uda porge all’adepto un pezzo di stoffa nera. Costui estrae
dalla confezione una lametta da rasoio, avvolge a nodo la
stoffa nera e depone il tutto su una vecchia copia
delF«Oregonian» di Portland. Tradizionalmente avrebbe
dovuto usare una foglia di banana e il coltello di bambù, che
egli appoggia invece sotto il pavimento, sopra una delle assi
di sostegno. Uda gli porge un pesto di radice di zenzero
selvatico in un pezzo di giornale. L’adepto vi appoggia sopra
la lametta e la stoffa annodata e vi strofina sopra le radici
mormorando tra i denti una preghiera malese.
KinKupa’ cosparge di radice di zenzero la stoffa che aveva
strappato alle 23,16 e avvolge il tutto in un altro pezzo di
giornale proveniente dalla cucina.
L’adepto termina la sua preghiera, porge la lametta e il resto
alla levatrice, quindi prende la stoffa di KinKupa’ e comincia
a recitare un’altra preghiera su di essa.
L’adepto restituisce la stoffa a KinKupa’, la quale la porge
alla levatrice.
23,30 La levatrice, che ha appena rimandato indietro dell’acqua
perché si era raffreddata, ora ne rimanda indietro dell’altra dicendo
che è troppo calda: «Raffreddatela con l’acqua fredda». Uda porta
indietro un’altra pietra calda. KinKupa’ la appoggia sullo stomaco di
KinLii poiché la levatrice sta ancora massaggiandola per far uscire la
placenta.
Uda porta dentro un gran recipiente di acqua tiepida. La
puerpera si solleva a sedere e beve un po’ di caffè.
Uda porge all’adepto una tazza di acqua di riso calda. Egli vi
pronuncia sopra una preghiera malese.
Arriva acqua fredda dalla cucina. La levatrice lava il piccolo
in acqua calda, stringendogli delicatamente la testa con una
mano in modo da chiudere le fontanelle. Le donne più
anziane esprimono meraviglia per le dimensioni del cordone
ombelicale.
L’adepto termina la preghiera sull’acqua di riso e porge la
tazza a KinKupa’, che la porge a sua volta a KinLii perché
beva. La levatrice lega il cordone ombelicale e lo taglia.

La placenta viene presa dal padre e posta all’interno di un bambù,


dopodiché è abbandonata in qualche luogo ombroso della foresta,
nella biforcazione di un albero, in modo che non possa diventare
«calda» e non entri nel terreno. I Semai orientali dicono che il
bambino deve essere lasciato a faccia in giù e fasciato in corteccia
soffice, perché la stoffa in commercio è troppo ruvida. Le braccia
vengono fasciate in modo che stiano lungo il corpo, mentre le natiche
vengono lasciate libere per permettere al piccolo di defecare. La
levatrice, la madre e il neonato devono rimanere isolati finché il
cordone ombelicale non si stacca. Il cordone viene allora trattato allo
stesso modo della placenta. I Semai dell’est dicono che il processo
richiede sei giorni, quelli dell’ovest sette.
I gemelli sono rari e costituiscono fonte di «imbarazzo» per i
genitori. Si dice che i gemelli monozigoti possono anche vivere
entrambi, mentre di quelli dizigotici uno è destinato a morire. Tale
concetto corrisponde a quello per cui si piantano almeno due
esemplari di ogni cultivar, in modo che nessuna varietà rischi di andar
perduta. I parti trigemini sono ancora più rari: «La madre morirebbe»;
«Le donne hanno solo due seni»; eccetera. La polidattilia e l’adattilia
sono conosciute. Nell’est ne abbiamo visto due casi, ma nessuno
sembrava particolarmente interessato ad essi. I Semai non sono
sconvolti dalle «deformità» come gli euroamericani.

La prima infanzia
Quella che segue è una descrizione basata su dichiarazioni rese
dai Semai. Le mie considerazioni sono riportate tra parentesi, sebbene
un po’ di interpretazione personale scivoli inevitabilmente in tutte le
traduzioni. Comunque, è logico che quanto la gente dice dell’infanzia
non corrisponde necessariamente a quanto la gente crede.
I Semai sembrano particolarmente attenti alla fragilità della vita
infantile, soprattutto rispetto a popoli che hanno un minor tasso di
mortalità infantile. Nell’est, dove i bambini hanno meno di una
probabilità su due di sopravvivere durante il primo anno di vita, la
gente appare più sensibile a questa fragilità che non all’ovest, dove la
mortalità infantile è circa la metà. Nell’est, ad esempio, le restrizioni
rituali volte a proteggere i neonati riguardano una maggiore varietà di
cibi, durano più a lungo, coinvolgono un maggior numero di persone,
e sono anche, a quanto pare, osservate con maggior scrupolosità
(vedere TABELLA II). Tali differenze subculturali potrebbero
rappresentare modi diversi di affrontare diverse situazioni di morbilità.

RESTRIZIONI ALIMENTARI POST-PARTUM (N. DI SPECIE


VEGETALI E ANIMALI DA EVITARE)
Identità sociali

Nel sistema di «gradi di età» dei Semai il primo grado è quel


lo di «figlio», cui le persone appartengono finché non si sposano. Un
bimbo appena nato è un «figlio novello» e assume automaticamente
un nome (muli) che specifica la sua posizione quanto a ordine di
nascita. Può anche assumere un nome generico (mol) che
semplicemente ne indica il sesso, come Gong per i maschi e Doi per le
femmine. Davanti a questo nome viene posto un titolo, Bah o Wa’, ad
esempio Bah Cong, Wa’ Doi, sebbene nel caso dei «figli novelli»
questi appellativi vengano usati soltanto per scherzo. Bah è la forma
con cui ci si rivolge a uno zio giovane materno o paterno, Wa’ a una
zia. Nei due termini è implicito il concetto che a una persona con tale
appellativo non si debba quella «attenzione» deferente che spetta a
una persona più matura. Durante una lite, rivolgersi a qualcuno
chiamando
lo con l’appellativo di Bah può equivalere a un insulto indiretto.
In precedenza ho osservato che uno dei modi attraverso cui, presso i
Semai, viene espresso simbolicamente quel legame
quasi fisico che unisce genitori e figli consiste nell’assunzione, da
parte dei genitori, dei nomi KiMakoo’ e BiMakoo’ al momento in cui
essi si rendono conto che la madre è incinta per la prima volta. Lo
stesso legame si manifesta nella tecnonimia semai, in cui il nome dei
genitori incorpora quello del loro primo figlio vitale. Secondo tale
tecnonimia, i genitori di una bimba di nome Doi diventano KinDoi e
BiDoi, o più semplice- mente e sbrigativamente Doi. Le altre persone
possono continuare a rivolgersi ad essi con l’appellativo di Bah o Wa’
anteposto ai loro nomi personali. Ma il fatto di avere un tecnonimico
indica l’uscita dalla condizione di «giovane non sposato/a» e
l’ingresso in quella di individuo dotato di una certa importanza in seno
alla comunità. Pertanto, anche i giovani sui vent’anni che non hanno
ancora avuto figli assumono dei tecnonimici, KinManang o
BiManang, dove manang significa «sterile». (Presso i Semai
occidentali, la gente si rivolgeva a me, ed anche a Robarchek, con
l’appellativo di Manang', il termine non ha significato negativo).
D’altro canto, poiché è facile che un «figlio novello» possa
morire, tutti questi sistemi di denominazione tendono ad essere
considerati provvisori e poco seri. E tipico che le famiglie attendano di
essere sicure che il «figlio novello» sopravviva prima che un parente
stretto attribuisca al piccolo un autonimo, cioè un nome di persona che
si riferisce soltanto a lui/lei. L’autonimo (anch’esso detto mol) è in
genere un soprannome, basato sulla «prima parola» pronunciata dal
«figlio novello» o su qualche particolarità, o qualcosa del genere. Il
tecnonimico dei genitori incorpora allora l’autonimo del bimbo. Al
pari di quegli americani che devono ammettere un qualche
soprannome della loro fanciullezza, i Semai manifestano spesso
«imbarazzo» per i loro autonimi una volta raggiunta l’età matura,
specialmente poiché essi possono essere usati a scopo canzonatorio,
come già è stato fatto notare. Quindi accade frequentemente che la
gente cambi il proprio autonimo quando sposta la propria residenza
(anch’io ho cambiato il mio, «Incesto», quando mi sono trasferito
all’ovest).
Infine, esiste un tecnonimico (o meglio, in gergo antropologico,
un necronimo) per quei genitori il cui primo figlio è morto. Al figlio
successivo, l’intero procedimento di denominazione ricomincia
daccapo; però il nome d’ordine di nascita (muli) del «figlio novello»
più recente ne indicherà la posizione di secondogenito. In breve, la
nascita di un bimbo ha una serie di ramificazioni attraverso la
comunità, come «sulta chiaro dal complicato sistema di
denominazione.
I figli novelli sono ignoranti e difficili da educare. Ad essi non
possono essere fatte colpe per quanto fanno poiché «non capiscono».
(Ad esempio, nessuno fa scenate se un neonato gli fa la pipì addosso.
Quando questo capita, la persona interessata tiene il piccolo sospeso
sul pavimento, che è di assicelle lasse, fintantoché non ha finito,
quindi lo passa a qualche altro adulto. Spesso non viene fatto alcun
tentativo di pulire l’urina sulle assi del pavimento). I nuovi figli sono
comunque sempre carini e la gente gioca molto con loro.

Sviluppo motorio e malattie infantili

Gli adulti fanno molta attenzione all’acquisizione della capacità


di muoversi da parte dei bambini piccoli, essendo considerato un
indice importante dello stato di salute generale del bambino. Tale
acquisizione è un processo naturale, non «appreso». Gli adulti non
tentano di affrettarlo, anche se ogni tanto mettono i bambini a sedere o
in piedi. Man mano che lo sviluppo motorio procede, i genitori si
dimostrano meno preoccupati e pongono in atto un minor numero di
restrizioni. Queste sono in buona parte di origine personale e
corrispondono a interpretazioni individuali dei genitori, comunque la
madre tende a rispettarle più a lungo della levatrice e la levatrice più a
lungo del padre.
Gli starnuti (siili) sono frequenti tra i bambini e muovono al riso
gli adulti. Il termine siih, comunque, è impiegato anche per indicare
malanni respiratori più seri, e questi stanno al secondo posto tra le
cause principali di mortalità tra i bambini semai satak con meno di un
anno (l’ 11,9% di tutti i casi registrati, pari a circa un quarto dei
decessi dovuti a cause accertate) e provocano più di un quinto dei
decessi dovuti a cause note tra i giovani di età compresa tra uno e
quattordici anni (Fix, 1971). Per tener lontani questi malanni, i Semai
occidentali mettono al collo dei loro bambini una collana fatta della
corteccia di una pianta odorosa. Il padre, o la madre, arrotola una
striscia di tale corteccia in modo da farne una cordicella, quindi fa sei
lassi nodi lungo di essa. In seguito, un «esperto» (malib) di preghiere
malesi, ad esempio un adepto, recita una preghiera sulla collana così
costruita. Questa preghiera non è sempre efficace, ma serve a
minimizzare la virulenza degli attacchi. Quando un bambino ha un
raffreddore, viene sottoposto a un’abluzione, o beve un infuso di
corteccia fresca su cui è stata pronunciata una preghiera in malese. Il
malese è la lingua ufficiale per le preghiere. Se il bimbo ha una tosse
molto forte, deve essere bagnato con un decotto caldo di psychotria10.
Molti «figli novelli» muoiono frequentemente anche di diarrea.
Fix (1971) attribuisce a tale causa sette dei ventitré decessi accertati di
fanciulli in età compresa tra uno e quattordici anni). Nel caso di un
bimbo continuamente ammalato, i Semai dell’est ricorrono a
un’abluzione con un decotto caldo di foglie di cana- rium, mentre
quelli dell’ovest strofinano intorno agli occhi del bimbo le foglie
incenerite di tale pianta, recitando alcune preghiere. A volte i Semai
seguono il costume malese di porre sotto il cuscino del bimbo
ammalato un cartoccio di foglie di sensitiva, sperando che il
progressivo «rilassarsi» delle foglie induca un simile rilassamento al
bimbo stesso11.
Un’altra frequente malattia infantile è il klab, una specie di
malaria provocata dall’ingestione di frutti dolci e ricchi di acidità e
caratterizzata da febbre e ingrossamento della milza. (Nel 1960, da un
quarto a due terzi della popolazione semai era infettata da parassiti
malarici). Quando un bambino è ammalato di klab, la madre se lo
tiene amorosamente in braccio e lo asperge con un decotto caldo di
corteccia di uncaria, quindi gli versa sul capo il liquido rimasto e gli
applica un impiastro di corteccia alla milza, allo scopo di liberare la
milza stessa dal «male», in questo caso un «male» detto sampuu’. Con
certi speciali massaggi, un adepto fa uscire il «male», che ha l’aspetto
di una pie- truzza chiara. (A quanto pare, questo sampuu’ indica lo
stato di debilitazione provocato dalla malaria; in altri casi, definiti di
nyani’ sampuu’, sembra indicare una «entità che provoca l’anemia». E
questa una delle principali cause di morte tra i piccoli al di sotto di un
anno di età, ovvero, nel campione rilevato da Fix, il 17,8% del numero
totale di decessi; più del 35% tra tutti i decessi dovuti a cause
accertate; e 10 decessi su 23 dovuti a cause accertate tra i fanciulli da
uno a quattordici anni. Il riconoscimento della complessità di ciò che,
a prima vista, può sembrare solo una semplice categoria di malattia,
contribuisce a dimostrare quanto siano complicate le teorie semai sulle
malattie e sui loro rimedi).

La perdita dell’anima

La perdita dell’anima12 è la più temuta delle malattie infantili.


Secondo i Semai, tutte le anime in generale - e in particolare quelle dei
fanciulli - sono paurose al pari degli spiriti familiari ed è quindi facile
che, prima o poi, esse si distacchino dal corpo cui appartengono.
L’evento scatenante è in genere un qualche stimolo che induce timore,
come un rumore improvviso (il gracidare di una rana, il richiamo di un
uccello). I sintomi classici sono pallore, silenzio, letargia. Il bimbo ha
spesso gli occhi chiusi, come se dormisse, e pronuncia parole senza
senso. Sintomi ulteriori possono includere anemia, diarrea, febbre e
convulsioni. Di norma, quando si verifica un caso di perdita
dell’anima, accade che qualcuno del villaggio, in genere un adepto o
una levatrice, abbia un sogno rivelatore. Gli elementi diagnostici di
esso possono essere rappresentati dalla presenza di bambini o da
rappresentazioni simboliche dell’anima, come uccelli e farfalle, facili
alla fuga come le anime.
Molti degli eventi cui i Semai attribuiscono il ruolo di causa
scatenante della perdita dell’anima non sembrano particolarmente
spaventosi. Ad esempio, le rane testé menzionate gracidano
piacevolmente in coro tutte le sere nei territori dove i Semai
occidentali hanno i loro villaggi, e il loro gracidio non sembra in
grado di spaventare nessuno. La rilevanza attribuita allo spavento
nell’eziologia semai di perdita dell’anima deriva forse dalla rilevanza
del cosiddetto riflesso Moro nell’ambito di un repertorio limitato del
comportamento infantile. Quando gli informatori mostrano
all’interrogante il modo con cui i fanciulli rispondono al presunto
stimolo scatenante, essi compiono piccoli salti, spalancano gli occhi e
aprono le braccia e le gambe, come nel riflesso Moro. Ciò potrebbe
anche spiegare perché il riflesso Moro non figura nelle descrizioni,
peraltro meticolose, che i Semai fanno del comportamento motorio dei
loro piccoli.
Tali sintomi di perdita dell’anima sembrano coincidere con quelli
attribuibili a gravi stati morbosi dovuti a infestazione da parassiti. Da
tale punto di vista, è interessante notare che i casi di perdita
dell’anima appaiono più frequenti all’est che all’ovest, nonostante
l’ampiezza dei campioni esaminati non sia tale da permettere
considerazioni conclusive. Le popolazioni semai più acculturate,
presenti negli insediamenti meno elevati, hanno in genere una
maggiore mortalità da parassiti, e un maggior carico di parassiti,
rispetto a quelle che vivono più in alto e più appartate (TABELLA III).

Gli occidentali spesso danno per scontato che certe credenze


simili al concetto semai di perdita dell’anima non siano altro che il
frutto di «superstizioni primitive» e non abbiano alcun rapporto con
una qualche risposta intelligente a problemi reali. Val quindi la pena di
prendere in esame le informazioni, che riportiamo qui di seguito, circa
le infestazioni da parassiti secondo Fred Dunn (1964) e Malcolm
Bolton (1963, 1968).
Negli insediamenti dei Semai occidentali sono presenti infestazioni da
nematodi assai gravi. L’amebiasi è comune, ma l’Entoamoeba
histolytica colpisce solo il 5% della popolazione. Viceversa, quasi
metà delle persone sono affette dal flagellato Giardia lamblia, che ha
qui la più elevata diffusione del mondo. Al contrario, i bimbi dei
Semai orientali presentano a volte ulcere «umide» interpretabili come
sintomi di leishmaniosi delle foreste di quei territori, ma non
manifestano altri sintomi di malattia. L’infestazione da Anchilostoma
è frequente, ma è raro che oltrepassi la soglia dell’anemia. L’amebiasi,
così come gli attacchi di Giardia, sono rari.
Il quadro testé presentato suggerisce la possibilità che la «perdita
dell’anima» corrisponda a una sintomatologia derivata
dall’assommarsi di anemia con qualche shock secondario, correlato
con gravi infestazioni da nematodi o da Giardia, il tutto complicato a
causa di altre manifestazioni morbose e di malnutrizione. Gli
accertamenti clinici eseguiti su bambini semai occidentali, condotti in
ospedale dai genitori per essere curati da «perdita dell’anima»,
confermano tale possibilità. I sintomi corrispondono con certezza alla
sindrome cosiddetta da sampuu’: letargia, pallore, anoressia, eccetera.
Inoltre, i sintomi dell’infestazione da Giardia sono quasi esattamente
gli stessi della «perdita dell’anima», al punto che è possibile
interpretare la diversa rilevanza della «perdita dell’anima» tra i Semai
dell’est e dell’ovest come diversa intensità delle infestazioni da
Giardia.
Quando si verifica la «perdita dell’anima», non esiste alcun
rimedio. Il trattamento classico prevede la costruzione di un «luogo di
raccolta» degli spiriti (balei) e il ricorso a un bagno con canti rituali
del tipo di quelli descritti in precedenza. Presso i Semai dell’est, ciò
che viene definito come luogo di incontro degli spiriti ha la forma di
un asse piuttosto lungo su cui è montata una specie di elica a quattro
pale. Ognuna di esse ha circa 15 cm di lunghezza, mentre l’asse può
essere di mezzo metro o di un metro a seconda dei casi. Se l’asse è di
un metro, subito sotto il primo gruppo di pale ne viene sistemato un
secondo gruppo, a quarantacinque gradi dal primo. Ogni pala è tenuta
distante dall’asse per mezzo di «aghi» di legno. Nel caso di un asse
lungo solo mezzo metro, dalle pale si dipartono due «comici» circolari
che avvolgono tutta la costruzione. In ogni caso, le pale e l’asse sono
decorati con macchie nere di carbone e con linee spezzate fatte con
succo di tamarindo.
All’estremità di ogni pala pendono ciuffi di foglie di piante
magiche13 in modo da formare una specie di frangia ornamentale.
Altre foglie pendono dalla cornice circolare. All’estremità inferiore
dell’asse c’è un «piede», atto a conficcare l’asse stesso tra le assicelle
del pavimento, così da tenerlo ritto.
Esiste un tipo di «luogo di raccolta» degli spiriti che viene
definito «cosciente»: il suo asse è inserito strettamente in un tubo di
bambù, sicché, quando viene fatto ruotare, l’attrito produce un suono
misterioso, apprezzato dagli spiriti familiari.
Questo balei viene fabbricato dal padre del bambino ammalato, il
mattino del giorno in cui si deve tenere la cerimonia, con legno bianco
e tenero. Fabbricarlo prima potrebbe provocare effetti catastrofici per
il padre stesso e la sua famiglia. Le donne si dichiarano «riluttanti» o
«troppo timorose» riguardo la fabbricazione di un «luogo di raccolta»
degli spiriti, ma se lo volessero potrebbero attendervi. I parenti stretti
di sesso femminile fanno delle «collane» di foglie da attaccare ad
esso. Una volta che la costruzione del «luogo di raccolta» degli spiriti
è terminata, l’oggetto viene conservato appeso al soffitto, o in una
camera da letto, in modo che nessuno possa correre il rischio di
camminarvi sopra, rompendolo e provocando nel contempo la propria
rovina.
Quando è notte, gli uomini fabbricano una sorta di «cerchio» di
foglie magiche e di fiori (jrmun) al centro del quale viene sistemato il
luogo degli spiriti. Anche l’adepto, con il suo (o i suoi) pazienti, si
dispone entro questo cerchio, al buio. Man mano che questi recita le
sue invocazioni, gli spiriti arrivano sulle pale del «luogo di raccolta» e
corrono a nascondersi tra i ciuffi di foglie magiche. Più tardi, anche le
anime dei giovanotti che ballano in trance andranno a raggiungerli.
Auspicabilmente, qualcuno degli spiriti familiari si sposterà fino a
raggiungere l’oscurità della foresta tropicale e strapperà l’anima che è
stata persa dalle grinfie delle forze malefiche che stanno per
consumarla.
Al termine delle danze, quando i fuochi vengono riaccesi, il balei
viene lasciato sul posto per qualche giorno, in genere sei. Quindi,
l’adepto provvede ad abbandonarlo nel tronco di qualche albero della
foresta tropicale, in modo che non possa divenire «caldo».
All’ovest, la «casa di raccolta degli spiriti» consiste in una
cornice di assi, alta da 3 a 4 centimetri e lunga poco più di un piede.
All’interno di tale cornice è teso un «pavimento» di assicelle sul quale
sta appoggiato un pezzo di foglia di pandanus, o di foglia di banana, o
un pezzo di giornale. La cornice viene fabbricata dal padre del bimbo
ammalato, con qualche legno tenero e magico. I parenti stretti di sesso
femminile fabbricano una collana, ottenuta infilando grani di riso
tostato su di un filo, intervallati ogni 7-10 cm da una foglia di slbok
avvolta a cilindro, che verrà appesa come «ornamento» ai lati del
balei. Questa «casa degli spiriti» deve venire appesa esattamente a
nord rispetto al «sostegno degli spiriti» di cui si è parlato a proposito
delle abluzioni rituali.
All’interno della «casa degli spiriti» vengono messi sette pezzi di
noce betel; sette bocconi appetitosi di foglia di areca, argilla e
gambier; sette sigarette di foglia di palma nipa; mezzo tael
(corrispondente a una ventina di grammi circa) di riso tostato; mezzo
tael di riso allo zafferano. Dovrebbe anche esserci una statuetta del
bimbo ammalato, spesso a forma di uccello o di farfalla. Una statuetta
di uccello è indispensabile se nel sogno diagnostico è comparso lo
Spirito Uccello, «quello con i capelli lunghi», mentre se è comparso
un drago, è necessaria una raffigurazione di drago. Se il sogno ha
parlato di un fantasma, la statuetta deve avere la testa al contrario, così
come gli eventuali ornamenti di foglie, e tutta la cerimonia avrà luogo
con orientamento ovest (là dove «muoiono gli occhi del giorno») e
non est (là dove «gli occhi del giorno vivono»).
La «casa degli spiriti» entra in gioco nella seconda notte
dell’abluzione rituale. L’idea è che l’entità maligna che si è
impadronita dell’anima, la rilascerà per impadronirsi dell’«essenza
spirituale» della statuetta, come potrebbe fare qualcuno che mette giù
qualcosa che ha in mano per prendere qualcosa d’altro. La cerimonia
dura generalmente anche per una terza notte, dopodiché il balei e le
altre attrezzature verranno lasciate appese davanti alla casa per circa
una settimana, per essere finalmente portate nella foresta ed ivi
lasciate in modo da poter stare al riparo del calore del sole. A volte
accade anche che la gente lasci il tutto appeso alla casa. Se il bimbo
guarisce,
il padre pagherà all’adepto circa 7,25 dollari malesi, possibilmente in
monete perché la lucentezza del metallo possiede una «aura» che
manca alla moneta cartacea.
In sintesi, il «figlio novello» è al centro di una grande attenzione
emozionale, cognitiva e rituale, che deriva da amore e
preoccupazione. Egli è considerato fragile e per questo timido, come
attesta l’attribuzione di tale carattere alla sua anima. La gente è
tollerante con i suoi capricci e non lo punisce, perché, essendo
incapace di parlare, «non può capire».

La transizione dall’infanzia alla fanciullezza

Il "figlio novello" cessa di essere tale per essere ritenuto


semplicemente un "figlio"quando diventa capace di "scendere le scale
di casa" da solo. La nuova condizione diviene definitiva quando il
bambino ha imparato a parlare. Allora gli viene attribuito un nome
personale che ne attesta la qualità di essere sociale, cui spetta, ad
esempio, un funerale in piena regola.
L’acquisizione della capacità di parlare conferisce al bambino un
certo potere su quanto lo circonda, specialmente nel contesto della
società semai, dove le relazioni interpersonali poggiano in gran parte
sul ricorso alla persuasione, per indurre gli altri a fare quanto uno
vuole, e dipendono quindi dall’abilità verbale. L’acquisizione della
capacità di parlare significa anche che, ora, il bimbo «capisce». È
allora che diviene oggetto di correzione e di educazione consapevole.
A questo punto, in genere, i rischi di morte decrescono
nettamente, come anche i casi di perdita dell’anima. Parallelamente,
anche la grande preoccupazione degli adulti per il bambino decresce, a
volte in modo improvviso. All’est, il termine della preoccupazione
rituale avviene circa due anni dopo il parto, allorché la madre può
riprendere i propri rapporti sessuali senza timore di avere altri figli che
potrebbero o danneggiare la propria salute o non essere
adeguatamente accuditi. Comunque, l’assunzione di alcuni cibi
continua ad essere ritenuta pericolosa fino a che il figlio non ha sei o
sette anni, età alla quale è ormai completamente svezzato. All’ovest,
dove i rapporti sessuali riprendono dopo due mesi o quarantaquattro
giorni - «ma chi può aspettare tutto quel tempo?»; ad esempio, nel
Satak «il coito ricomincia ‘appena la donna ne avverte il desiderio’»
(Fix, 1971) - fino a quell’età c’è una dozzina di cibi che è meglio
evitare, ma la maggior parte non è pericolosa a partire dal momento in
cui il piccolo non è più un «figlio novello» (si veda a questo proposito
la TABELLA II). Contemporaneamente, i bambini più grandi
cominciano ad assumere una parte sempre più importante nella vita
sociale del piccolo e partecipano, quasi al pari degli adulti, alla sua
educazione.
In breve, la transizione dall’infanzia alla fanciullezza è piuttosto
improvvisa e avviene principalmente durante il secondo anno di vita
del piccolo. L’attenzione che gli adulti gli tributano viene rapidamente
assorbita da altri figli, ed è in quest’epoca, secondo la mia
impressione, che i bambini semai tendono a diventare attenti,
tranquilli e introversi.

Il concetto di fanciullezza

Le considerazioni riportate in questo paragrafo sono il frutto di


impressioni tratte da conversazioni con i Semai o da osservazioni non
sistematiche.
Il cuore dei bambini. Diffloth (1975) riferisce che i Semai di
Tngrig, nel sud-ovest, dicono che i piccoli al di sotto dei cinque- sei
anni hanno il «cuore di un macaco», curioso e pronto all’imitazione.
Quelli un po’ più grandi hanno invece il «cuore di un cane», perché
sono imprevedibili e piantagrane. All’opposto, gli adulti hanno «cuori
da elefanti», in quanto ricordano tutto.
L’educazione. Oltre ad essere pericolosa, perché può far cadere
ammalati i bambini, la coercizione a scopi educativi non è necessaria
perché «i nostri figli imparano da soli» (si veda anche il paragrafo
sull’educazione prima riportato). I bambini stanno insieme agli adult,
specialmente i genitori o i nonni, imitando le attività di questi,
fintantoché finiscoo, piano piano, per essrer coinvolti in attività utili.
Di fronte all'interesse dei fanciulli per qualche attività, gli adulti
mostrano loro il modo esatto di fare le cose, e a volte costriscono per
loro qualche rudimentale strumento
adatto, in scala ridotta. Anche quando non stanno insieme agli adulti, i
bambini frequentemente giocano fra di loro imitandone le azioni.
I bambini sono «tonti». I Semai dicono che i bambini sono «tonti»
perché non padroneggiano completamente l’espressione verbale.
Forzando un poco il paragone, si potrebbe dire che mentre gli
euroamericani considerano gli adulti mentalmente ritardati "come
bambini", i Semai cosiderano i bambini come "adulti ritardati".. Tale
condizione è destinata ad essere superata naturalmente, come l’iniziale
difficoltà motoria. Se ciò non avviene, è dovuto alle caratteristiche
individuali del bambino, non alla mancanza di un adeguato
insegnamento da parte degli adulti. L'idea che i genitori siano in
qualche modo responsabili di quanto fanno i loro figli è estranea alla
cultura semai. Del pari, i piccoli non hanno alcun "potenziale" che gli
adulti debbano incoraggiare. Quindi, ecco che i Semai trattano i loro
figli come dei "ritardati" facendo quello che essi non riescono a fare
da soli, lasciandoli fare cose che gli adulti non farebbero, ed
aspettandosi da essi solo quello che sono in grado di fare. E' insomma
in questo contesto sociale e ideologico che si verifica ciò che, in senso
lato, può essere definita la «socializzazione» dell’aggressività e della
tolleranza, del timore e dell’ira. È ovvio, comunque, che la
fanciullezza dei Semai non si esaurisce in quanto preso in
considerazione in questa sede.

«Timore» e «imbarazzo»

È noto che parlare delle emozioni di qualcun altro è sempre


difficile, anche quando si usa la stessa lingua. Quindi, a maggior
ragione, le difficoltà aumentano quando si deve affrontare il problema
di emozioni che rientrano in categorie diverse dalle proprie. All’inizio
di questa trattazione abbiamo tradotto i termini semai snngoh e slniil
rispettivamente come «timore» (o «preoccupazione») e «imbarazzo»
(o «timidezza»). Ma la pura e semplice sostituzione dei termini semai
con la loro traduzione nella nostra lingua può produrre frasi il cui
senso non corrisponde alle intenzioni di chi le pronuncia. Dopo tutto,
anche la paro-
la inglese panic (panico) ha perduto ormai il suo originario significato
religioso, ed anche il termine fear (paura), così come lo si trova nella
Bibbia di King James, ha un’accezione assai differente da quella con
cui viene impiegato nell’inglese moderno. Gli angloamericani hanno
perduto in gran parte il contatto con le radici semantiche della loro
lingua, e dunque non c’è da stupirsi se il tentativo di tradurre i termini
semai in una lingua diversa rischia di snaturarli. Quelle che seguono,
pertanto, non sono altro che glosse usate per presentare il concetto
semai di «timore» e «imbarazzo». Se qualcuno -sngoh (teme)
qualcosa, evita il contatto con essa. Se qualcuno -siil (è imbarazzato),
significa invece che si trattiene dal fare qualcosa, per evitare la
reazione di qualcun altro. Incutere -sngoh si traduce col verbo
-smgoh, che ha il senso di minacciare qualcuno, o redarguirlo ad alta
voce.

L’educazione al «timore»

«Aver timore» (-sngoh) non è considerato un atteggiamento


reprensibile, bensì «saggio». «Spaventare» (-smgoh) i figli ha uno
scopo fondamentalmente protettivo, anche se a volte gli adulti lo
fanno con intenzioni amabilmente provocatorie. Ad esempio, quando
siamo arrivati per la prima volta in un villaggio semai, gli adulti che
conoscevano la nostra reputazione di non-pericolosità coglievano
ugualmente l’occasione per -smgoh i loro figli, in modo che temessero
gli estranei. Così, un uomo che ci aveva condotti fino al suo villaggio
natale soleva cacciare in fuori la testa, spalancare gli occhi e dire
ridendo al gruppetto di bimbi che si era radunato a guardarci a un paio
di metri di distanza: «Sngoh! Sngoh! I Visi Pallidi sono arrivati per
farvi la puntura! Ahahah... (guardandosi intorno). Chi -sngoh più degli
altri? Tu? A te faremo la puntura per primo!». Oppure accadeva che
una madre ci indicasse alla bimba che teneva in braccio dicendo:
«.Sngoh! Sngoh!», finché quella non cominciava a piangere,
dopodiché le copriva il capo e la consolava, mentre a noi diceva
ridendo: «Io non -sngoh, ho solo -smgoh lei».
Gli adulti dicono che è giusto che i bambini -sngoh. Non è detto
che tutti i bambini si comportino esattamente così, ma
questo è comunque lo stereotipo semai del bambino «pauroso» con
un’anima altrettanto (e anche più) paurosa. Se un bambino è troppo
audace, viene -srngoh, anche se il suo comportamente è in generale
accettabile. Ad esempio, c'era un uomo che dicev che suo figlio di
cinque anni, il quale scoppiava in lacrime e scappava via ogni volta
che ci vedeva, era assai meglio educato della sua altra figlia, di nove
anni, che ci stava sempre d'attorno offrendosi di aiutarci. «Anche voi
dovreste -srngoh lei, così come faccio io...» ci diceva, anche se in
realtà la sgridava raramente. Da tale punto di vista il termine snngoh
significa qualcosa di simile ad "atteggiamento giustamente riservato"
e il verbo -srngoh usato a proposito di un figlio ha il senso di
«insegnare tale atteggiamento».
In breve, i Semai non si limitano a indurre -sngoh nei propri figli
soltanto per alcuni pericoli reali, come il fuoco o simili, ma tentano
di inculcare in essi la "timidezza" come una sorta di virtù astratta.
di conseguenza, i bambini semai si comportano sempre (o quasi)
come se fossero timorosi e timidi. Il termine snngoh ha dunque
anche il significato di "attenzione", "precauzione".
E il caso di ricordare che gli adulti non dedicano mai molto tempo
a insegnare ai loro figli, anche quando si tratta di insegnar loro ad
avere snngoh.
E nonostante i bimbi semai sono timidi e timorosi degli estranei non
possono dirsi terrorizzati. Sono semplicemente timidi all’inizio
quando sono in presenza di qualcosa (ambienti o persone) che non è
loro familiare, ma quando si accorgono che non c’è alcun pericolo,
essi divengono progressivamente sempre più audaci, fino a che si
comportano del tutto liberamente. L’educazione ricevuta sembra più
che altro indurre in essi la tendenza a sfuggire i possibili pericoli di
ciò che è sconosciuto, o per lo meno ad assumere un atteggiamento di
cautela piuttosto che uno di «audacia». È una questione di priorità più
che di comportamenti compulsivi profondamente radicati.

L’educazione alla cautela

Neal Miller e John Dollard (1941) sono stati forse i primi,


trattando il caso di un’altra popolazione malese di collina, a suggerire
con osservazioni rigorose che le genti delle colline siano state costrette
a ritirarsi nella foresta tropicale in conseguenza della schiacciante
sconfitta subita ad opera dei malesi, tecnologicamente più avanzati; e
che, in quel contesto, gli occasionali modelli comportamentali ispirati
alla cautela si siano generalizzati fino a divenire un modello
intraculturale trasmesso consapevolmente attraverso l’educazione.
P.M. Gardner (1966) fornisce una spiegazione simile, sebbene più
sofisticata, mettendo in evidenza l’importanza assunta da un’area di
rifugio priva di altre popolazioni e facendo riferimento ad alcuni dei
popoli descritti in questo testo.
Una delle più antiche leggende malesi descrive una grande
battaglia nella quale le popolazioni delle colline sono state scacciate
per sempre, e alcune tracce del passato, attualmente oggetto di studio,
sembrano indicare che tali popolazioni abbiano goduto un tempo di
«un livello di civiltà superiore» a quello odierno. I Semai se la sono
passata assai male fino a una cinquantina di anni fa - epoca in cui la
loro schiavizzazione ha avuto finalmente termine - e non molto meglio
fino a quando la Malesia non è riuscita ad essere indipendente. Solo
allora si è verificato un rapido e deciso miglioramento. Nel 1962 e nel
1963, molti Semai ricordano ancora i tempi duri del passato e si
comportano di conseguenza per quanto concerne le relazioni umane.
In un simile contesto, educare i figli ad essere timorosi degli estranei
appare del tutto logico.
I Semai che vivono nelle zone più appartate, adulti o fanciulli che
siano, mostrano per gli stranieri una paura assai più marcata della
«cautela» che in genere tutti i Semai manifestano di fronte a ciò che
può essere fonte di pericolo, o semplicemente a ciò che non è ben
conosciuto. Ad esempio, se vedono un «serpente cieco» o un fungo
fallico14 ai quali è attribuito un significato sovrannaturale, i Semai
dell’est si fermano a circa tre metri di distanza, battendosi il petto e
dicendo: «Oh, sngoh, sngjh», secondo la gestualità socialmente
considerata come opportuna. Il limite dei tre metri, stando
all’interpretazione di Miller e Dollard, indica il punto in cui il
gradiente di timore interseca il gradiente di curiosità, ma la risposta è
dettata sia dall’abitudine sia dalla paura vera e propria.
Whiting e Child (1962) hanno avanzato l’ipotesi che, quando il
postulato di essere oggetto di un’aggressività generalizzata perde la
sua ragion d’essere, come dovrebbe essere nel caso dei Semai di oggi,
la gente tende a proiettare i propri impulsi aggressivi verso
qualcos’altro: presso i Semai, verso gli estranei e gli spiriti maligni
portatori di malattie, ai quali i genitori assimilano gli stranieri stessi
agli occhi dei propri figli. Tale interpretazione, però, sembra alquanto
arbitraria, dal momento che in passato gli stranieri si sono dimostrati
realmente pericolosi, così come certe malattie continuano ad essere
esiziali nella vita di tutti i giorni, e quindi solo uno sciocco riterrebbe
di non dover temere queste e quelli. D’altro canto, l’instabilità dei
matrimoni presso i Semai dell’est può forse provocare una sorta di
sindrome «del padre assente», nei fanciulli, che secondo gli
psicoanalisti aumenta la diffidenza per gli estranei. Risultati simili
possono essere attribuiti alla brusca interruzione tra lo stadio di «figlio
novello» e quello successivo. Anche queste comunque sono
interpretazioni arbitrarie, sia pur possibili.

Slniil

Quando si arrabbiano, o quando qualcun altro è arrabbiato con


loro, i Semai manifestano un’emozione detta slniil, che tradotta alla
meglio può significare «vergogna», o «nervosismo», o «riluttanza».
Le manifestazioni esteriori dello slniil consistono nel distogliere lo
sguardo dalla persona con cui è in corso la disputa e rifiutarsi di
rivolgere ad essa la parola o ascoltarla. Un Semai dell’ovest,
politicamente acculturato, mi spiegava una volta che «non essendoci
qui alcuna gerarchia accettata, l’unica autorità è lo slniil».
Il ricorso allo slniil come risposta all’ira sembra essere un
atteggiamento appreso in molti contesti simili a quelli dello snngoh.
Ad esempio, uno straniero amichevole fa sì che uno -siil anziché
-sngoh. Abbiamo osservato un vero e proprio insegnamento di slniil
solo nei due casi seguenti: 1. quando i genitori di un «figlio novello»
che sta oltrepassando qui,sta condizione per entrare nella
«fanciullezza» gli insegnano a non toccarsi i genitali, allontanandogli
la mano e dicendogli gentilmente «siil, siil...»; 2. quando, presso i
Semai dell’est, i ragazzi più grandi sollevavano quelli più piccoli di
fronte a noi, esponendone i genitali e strillando «fotografia,
fotografia!». Il concetto è probabilmente quello di assimilare
l’esposizione dei genitali alla manifestazione aperta dell’ira, con un
effetto inibitorio nei confronti di quest’ultima.

Aggressività

Diamo qui di seguito due esempi di aggressività infantile, tolti a


caso dai nostri schedari, e ciononostante in qualche modo tipici. Il
primo riguarda il modo con cui i bambini controllano la loro ira, il
secondo la risposta dei genitori ad essa.
Due ragazzine di circa 8 anni, Kioh e Kuup, si contendono la
nostra attenzione. Un giorno Kioh tiene chiusa la porta di casa nostra,
per impedire che Kuup entri. Kuup emette uno strillo, piange per circa
cinque minuti, poi se ne va nonostante i nostri inviti a entrare. Di lì a
poco, si mette a battere un legno per terra, verosimilmente arrabbiata.
Cinque minuti dopo, accetta i nostri inviti a entrare, senza manifestare
più ira. In seguito riprende a giocare con Kioh.
Siti, una bimba di 7 anni, afferra un legno che appartiene ad
Hamid, un ragazzino di circa 5 anni, cercando di strapparglielo dalle
mani. Hamid in risposta tenta di morderla. Due zii osservano e dicono:
«Smettetela!», ma non interferiscono. Awa il cugino di Hamid, di circa
11 anni, che sta lì vicino, comincia a battere per terra un bastone per
farli smettere. Alla fine Siti riesce a impadronirsi del giocattolo di
Hamid ed esce di casa, mentre la zia le dice di restituirlo. Hamid
strilla per circa dieci minuti, ma nessuno gli bada. A un certo punto,
anche la bimba che la zia tiene in braccio comincia a piangere e i
genitori si concentrano su di lei per confortarla. «Hamid ha la
-smgJh», dice lo zio. Awa si avvicina e per un paio di minuti gioca con
la piccola, quindi va a sedersi accanto ad Hamid che continua a
strillare, senza toccarlo
o parlargli. Arriva la nonna di Hamid e domanda cos’è successo,
mentre Awa lo prende per mano e lo conduce da lei. La nonna se lo
carica sulla schiena come se fosse un «figlio novello», secondo
l’abitudine usata per tranquillizzare i bimbi già grandicelli che
piangono a lungo.
Come risulta chiaro dal secondo esempio, gli adulti e gli altri bambini
interferiscono di rado quando i più piccoli litigano tra loro in quanto,
avendo "cuore di cane", non c'è da meravigliarsi che si azzuffano. Se
un bambino fa i capricci e stenta a calmarsi, qualcuno lo prende
bruscamente in braccio, mentre sta strillando e lo porta dai suoi
genitori. Tale intervento improvviso deve essere molto temuto, visto
che di norma, come si è constatato nel secondo esempio, gli adulti
ignorano i bambini e non interferiscono con ciò che fanno i figli degli
altri. Presso i Semai orientali, l'attività più aggressiva cui abbiamo
visto dedicarsi i bambini è una specie di gioco, al quale partecipano
tutti quelli di età tra i 3 e i 12 anni, che genera grande eccitazione. I
«concorrenti» si squadrano l’un l’altro, assumendo pose
drammaticamente minacciose, e fanno finta di colpirsi reciprocamente
con dei bastoni. Si tirano dei gran colpi, ma questi si arrestano sempre
a qualche centimetro dal bersaglio, a imitazione dei gesti dei genitori
che minacciano (-srngoh) di battere i figli. Tali gesti costituiscono
probabilmente il modello cui i bambini si ispirano, e il gioco potrebbe
essere interpretato come un esercizio di auto-controllo. Esiste un altro
gioco simile nel quale i bambini, spesso anche di taglia assai diversa,
si mettono le mani sulle spalle e lottano, scrollandosi l’un l’altro, ma
senza mai buttarsi realmente a terra. Se i figli diventano troppo
rumorosi, il che accade parecchie volte al giorno, gli adulti si mettono
a gridare «Trlaid! Trlaid!», riferendosi a un comportamento capace di
far arrivare uno di quei tifoni spaventosi tipici della Malesia.
Comunque, in genere gli adulti ridono, ed è raro che i fanciulli
interrompano le loro attività. Il richiamo sembra essere, più che altro,
un atteggiamento prò forma, allo scopo di rammentare l’opportunità di
un comportamento improntato alla cautela. Quando invece arriva
davvero un tifone, i genitori gridano ai figli «Sngoh! Sngoh!», quasi a
rammentare che la mancanza della cautela necessaria può risultare
disastrosa.
E' possibile che uno dei principali fattori inibitori dell'aggressività
infantile sia il fatto che i bambini ne vedano rarissimi esempi. Anche
presso i Semai deli ovest, dove a volte i bambini giocano «agli
indiani», a imitazione dei film americani, e fingono di spararsi
addosso e di cadere uccisi, la violenza è chiaramente considerata come
un comportamento non-semai. Non esistendo alcuna forma di
gerarchia, non esistono nemmeno vere manifestazioni di prepotenza
reciproca tra gli adulti. Può succedere che i genitori minaccino (-
smgoh) i figli di batterli, ma è raro che ciò avvenga realmente. Quindi,
anche se un bimbo volesse comportarsi in modo violento, verrebbe a
mancargli un'idea esatta di come fare. I sociopsicologi euroamericani
concordano che una situazione siffatta - dove l'ignoranza della
violenza si combina con l'assenza di timore,da parte dei genitori, che i
loro figli possano divenire violenti e con l'abitudine a non ricorrere
alla violenza a scopi educativi - è tale da garantire l'insorgere di un
atteggiamento non-violento.

Conclusioni

Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di mettere in evidenza


quelle che sono le preoccupazioni centrali dei Semai nell’allevamento
dei loro figli, ed abbiamo quindi dovuto assegnare un certo spazio alle
cure fisiche e spirituali. Ciò perché riteniamo che, per un antropologo,
le preoccupazioni sentite come fondamentali dal popolo che egli
studia debbano avere la precedenza su altri motivi di interesse.
Ci siamo interessati inoltre del problema della nonviolenza.
Indurre i figli a -sngoh e a -siil sembra insegnar loro a optare per la
cautela piuttosto che per la violenza. Apparentemente, i Semai
attribuiscono la timidezza riscontrabile nei loro bambini alla timidezza
della loro «anima», la cui tendenza ad abbandonare facilmente il
«corpo» deve essere ritualmente accudita fin dal concepimento. E
possibile che qualche psicoanalista veda nelle idee che i Semai hanno
dei bambini, dell’anima e degli spiriti familiari, nient’altro che
proiezioni dei timori degli adulti. La timidezza dei bambini, come è
già stato osservato, potrebbe forse risultare rafforzata dal brusco
cambiamento di comportamento degli adulti allorché c’è il passaggio
dalla condizione di «figlio novello» a quella di figlio puro e semplice.
Inoltre, il modo con cui gli adulti rispondono all’aggressività dei loro
figli è esattamente quello che, in un contesto euroamericano, conduce
alla nonviolenza.*
L’educazione, comunque, è solo uno dei fattori che inducono alla
nonviolenza tra i Semai. Come abbiamo già avuto occasione di notare,
senza la presenza contemporanea di tutti tali fattori (come durante la
cosiddetta «Emergenza», cioè l’insurrezione comunista), i Semai
cessano di essere nonviolenti. Oltre a quelli educativi, gli altri fattori
possono essere indicati come ecologici, economici, storici e sociali.
L’importanza del fattore ecologico, come emerge dallo studio di
Gardner (1966) sui popoli nonviolenti, sta nel fatto che l’interno della
penisola malese, praticamente spopolato, ha sempre fornito zone di
rifugio ai gruppi che volevano sfuggire ai conflitti interetnici o tra
comunità, e quindi la fuga è sempre stata un’alternativa possibile alla
lotta. La tendenza consolidata a optare per la fuga, dovuta non solo a
fattori educativi e culturali ma anche a fattori storici, come si vedrà
più avanti, risulta nel profilo demografico di «fissione-fusione»,
elegantemente messo in evidenza da Fix (1971). I Semai dicono
chiaramente che, se non avessero un’area di rifugio, farebbero fronte e
combatterebbero fino alla morte.
Dal punto di vista storico, si deve ricordare che i Semai sono stati
oggetto di frequenti massacri da parte dei loro vicini, fin quasi
all’estinzione. Pur potendo contare su di un atteggiamento
ragionevolmente favorevole da parte del Ministero per gli Aborigeni,
che li porta a nutrire fiducia verso i funzionari governativi, sanno
comunque che non avranno mai un vero peso nelle decisioni politiche
nazionali a causa del loro numero ridotto. Riconoscono che, in caso di
dissenso con la politica nazionale, la resistenza violenta sarebbe un
suicidio e dicono che non avrebbe senso ricorrervi, almeno fin quando
il pericolo dell’estinzione potrà essere evitato con la fuga.
Il tradizionale sistema economico dei Semai è stato già
descritto da altri, che l’hanno definito come basato su di una
«reciprocità indefinita». Più recentemente, Price (1975, p. 6) ha
distinto tra reciprocità e «spartizione», notando che « [...] La
spartizione consiste in genere in uno scambio ineguale, dove ci si
aspetta che ognuno abbia l’atteggiamento considerato giusto, ma non
si pretende l’esatta equivalenza degli oggetti scambiati [...]». Tra i
Semai, «viene attribuita un’enorme importanza alla spartizione», al
punto che questa è quasi l’unica forma di
distribuzione dei beni. La violenza, che i Semai vedono come
equivalente al rifiuto di sparire, avrebbe quindi l'effetto di isolare chi
vi ricorre, impedendogli di partecipare a tale distribuzione. Tale
ipotetico, probabilmente, funziona come deterrente contro il ricordo
alla violenza in seno alla comunità.
Infine, anche presso i Semai, come presso altre popolazioni
nonviolente, mancano i raggruppamenti sociali segmentali come clan
e gerarchie, che bloccano l’insorgere della violenza attraverso la
minaccia di rappresaglie perpetue. Come sanno gli occidentali fin dal
tempo dei Romani, la violenza è l’ultima parola della gerarchia, l'
ultima ratio regum. Per i Semai, che non amano né la violenza né la
gerarchia, il fondamento dell’assetto esterno è snngoh, quello
dell’assetto interiore slniil.
I gruppi segmentali, implicitamente violenti, con la loro presenza
metterebbero in pericolo la tradizionale strategia semai improntata alla
cautela, volta a evitare le situazioni potenzialmente violente.
In breve, pur essendo vero che l’educazione semai favorisce la
nonviolenza, è probabile che essa possa aver successo solo nel
contesto globale in cui i Semai stessi sono inseriti. In tale contesto, la
risposta alla domanda «perché i Semai sono nonviolenti?» non può
essere che questa: la nonviolenza è l’unico atteggiamento sensato.

Note al capitolo
1. Per una bibliografia di Stewart (scritti principali: ms., 1953-
54, 1954, 1962, 1972), si veda Coxhead e Miller (1976),
Regush e Regush (1977) e Tart (1972). Alcuni articoli sulla
terapia onirica senoi sono apparsi su «Psychology Today».
2. Tentiamo qui di identificare scientificamente le piante e gli
animali che interessano la vita dei Semai. Ciò appare utile per
tre ragioni. La prima è che una simile identificazione è
intrinsecamente interessante, come ogni materiale da
archivio. La seconda è che, come ha dimostrato Lévi-Strauss
(1966), è necessario avere una conoscenza dettagliata
deH’ambiente in cui vive un popolo per poter capire l’uso
che quest’ultimo ne fa. Terzo, gli studiosi occidentali
descrivono in genere i Malesi e i Semai come due popoli
nemici, mentre, al contrario, una etnobiologia completa
suggerisce che le due etnie in buona parte si sovrappongono.
Lo zenzero selvatico cui si allude nella leggenda dello Spirito
Uccello (brda ') è verosimilmente Zingiber sp. Il termine semai deriva
forse dal malese bedak, usato per indicare le macchie bianche che
restano sul corpo di qualcuno quando costui viene «toccato» con pasta
di riso. Il pesce è un ka ’ bakap (pesce rubino), oppure un ka’ kadag o
un ka’ ruan, nomi di origine malese che si riferiscono a
Ophiocephalus spp.; ka’ ruan corrisponde forse a Ophiocephalus
strìa- tus. Il fagiano argo è detto in lingua semai ceep mara ’, «uccello
anziano».
Per quanto concerne l’aspersorio, la corteccia preferita è quella
AeWipad (Ficus sp.). È possibile comunque usare anche corteccia
proveniente da qualche albero tipo «albero del pane» (Artocarpus
spp.), come lo smkab e lo slamei; il più usato è lo s’ug (Artocarpus
elastica) e il dkoh (Artocarpus polyphema). Vengono anche impiegate
essenze del genere Aquilaria, come gaalug (Aquilaria agallocha,
Aquilaria malaccensis). Un’altra fonte di corteccia è il famoso albero
ipoh o upas, Antiaris toxicaria, dooog in lingua semai. In mancanza di
meglio, può anche essere impiegato del rattan, detto coog sta’.
Sempre con riferimento all’aspersorio, le altre essenze interessate
sono il pmoleh (Filetia ridleyi), il ppulud (Urena lobata), lo slbok
(Oureatea crocea, Susum malayanum), lo spad (Mallotus sp.) e il
tabar (Costus speciosus, Kalanchoe pinnata). Per l’uso che di tali
essenze viene fatto in Malesia, si veda Burkill e Haniff (1929), Dentan
(1971), Gimlette (1971), Skeat (1900).
Le piante impiegate per le abluzioni rituali possono includere il
bttn buus (Ocimum sanctum), il bttn srey (Cymbopogon nardus), il
bttn kalib, il ckor e il pngkras. Bttn è la forma contratta di bttttd, una
pianta la cui fragranza è particolarmente gradita agli spiriti «utili».
L’amaranto corrisponde alla Ceiosia argentea e la cosiddetta essenza
di kijai è estratta dal Trìgonochlamys griffithii.
La fabbricazione della calce usata per la decorazione dei tubi da
bagno si trova descritta in Dentan (1968c). Il frutto rossastro usato per
il medesimo scopo è il sumba’, Bixa orellana, di origine caraibica.
Nei parti, si usa l’essenza di kijai prima ricordata, il brda’, e il
rmpuyig (Zingiber sp.), che i malesi impiegano come erbe medicinali.
Nella cura dei «figli novelli», i Semai usano il gaalug (vedi
sopra), cui vengono attribuite proprietà medicinali anche dai malesi.
L’essenza detta salung corrisponde forse a Psychotria sp. e deriva
probabilmente dalle parole malesi salang, sesalang e sulong (Burkill e
Haniff, 1929-30). La specie interessata dovrebbe essere, stando alle
prove contestuali, Psychotria stipulacea, sebbene i Semai dell’est
usino anche Psychotria sannentosa (gilik) per facilitare i parti e i
Temiar Psychotria rostrata per curare il malditesta. Il Canarium
(Canarium lit- torale) è detto dai Semai «alleviatore» (prsnlir), dal
verbo -slir che sembra significare «togliere un’infiammazione». Le
essenze sensitive includono verosimilmente Biophytum sensitivum.
Mimosa pudica e forse anche Biophytum adiantoides. Il termine semai
kado' -dak (forse una variazione del termine malese senduduk)
corrisponde probabilmente all'Uncaria pteropoda, la cui corteccia
contiene tannino.
La rana (tabeg) accusata di spaventare le anime con il suo
gracidare è il Bufo melanosticus.
Per quanto riguarda le «case degli spiriti» dei Semai dell’est le
piante magiche includono il già ricordato slbok, oltre al bun pnreh
(Goniothalamus scorte- chnii, Costus speciosus), che invece i Semai
dell’ovest impiegano come decotto per gli ammalati sfebbrati. All’est,
il legno ideale è lo stoog, Hibiscus macrophyllus, mentre all’ovest
viene data la preferenza al pulei (Alstonia spp., verosimilmente
Alstonia augustiloba, Alstonia scholaris, Alstonia spathulata) e allo
bdo' (Dyera spp.) entrambi alberi ritenuti frequentati da entità
soprannaturali (njani’). Lo bdo’, in particolare, forse a causa del color
rosso della sua linfa che la fa somigliare al sangue, è detto ospitare lo
Spirito dei Rami.
Il fungo fallico è denominato dai Semai btees kemook (fungo
fantasma, corrispondente ad Amorphophallus sp.) ed è ritenuto essere
il pene di un cadavere. Si veda a questo proposito anche Dentan
( 1968a).
3. Il Museo Americano di Storia Naturale possiede una ricca e
documentata collezione di oggetti semai, inclusi quelli
menzionati nel presente articolo. Dentan (1968a) elenca altre
collezioni, cui andrebbe aggiunta la collezione temiar del
Muzium Negara di Kuala Lampur e quella del Muzium
Negara di Singapore.
La coppa da bagno è chiamata takoj", termine forse correlato a
makos’ (gravido). L’aspersorio è un cnau, nome corrispondente al
verbo -cau, aspergere. Per il tubo da bagno è usata la parola malese
pancur, che significa appunto «tubo», oppure pancur takJO sostegno
degli spiriti è detto presso i Semai orientali sngrig, che può darsi
derivi dal nome srig, una specie di paniere per prendere i pesci. Presso
i Semai dell’ovest, invece, tale oggetto è detto tamu’, termine di
derivazione malese (il vocabolo originario significa grossomodo
«accogliere», «trattare come un ospite»). In entrambi i casi,
comunque, l’idea è che gli spiriti familiari sono così timidi che
bisogna in qualche modo «adescarli» perché intervengano ai «canti».
4. Si veda nota 2.
5. Si veda nota 2.
6. Si veda nota 2.
7. Di norma solo gli uomini divengono «adepti», ma a volte può
accadere anche a una donna (in tal caso essa è ritenuta
particolarmente abile). Per divenire adepto, una persona deve
avere un sogno, in cui uno spirito di famiglia gli dona una
melodia. Da quel momento, questo spirito (kloog) o anima
(rum) accorrerà in aiuto della persona tutte le volte che costui
canterà la melodia, purché nelle condizioni e nelle
circostanze appropriate (Dentan, 1968a). L’adepto di cui si
parla nel testo aveva un numero eccezionalmente elevato di
spiriti familiari, per la precisione nove, di potenza via via
decrescente:
• Nyani’ lata’, lo Spirito della Cascata, che gli si presentava in
sogno come un vecchio Semai dall’aria amichevole;
• Bah Ta’ Kuali', il Vecchio Signor Wok, con l’aspetto di un
vecchio cinese tristemente famoso perché non osservava i
tabù relativi al mescolamento dei cibi e metteva insieme cibi
ritualmente non miscibili, come appunto fanno i cinesi.
Appariva in sogno sorreggendo un bastone alle cui estremità
stavano appesi due canestri, contenenti tazze, piatti, bacchette
cinesi, riso, maiale, pesce, funghi, etc. Appariva anche sotto
l’aspetto di qualche animale, in genere un porco. La sua
apparizione in sogno era equiparata a una diagnosi di epatite;
• Bah Karau si presentava nei sogni come una tigre,
all’esterno, oppure come un giovane semai, in casa. Le tigri
sono spiriti familiari assai frequenti tra i Semai e i Temiar;
• Bah Lingsar, simile a Bah Ta’ Kuali’ nell’aspetto bestiale;
• Nyani’ Ceeb, lo Spirito Uccello;
• Karìm, Spirito del Vento,un giovanotto singalese
appartenente alla classe degli «spiriti del mare» (in
opposizione^ cosiddetti «spiriti di terra»), la conoscenza dei
quali viene dalla costa dove vivono i malesi;
• Tambi, Giovane Tamil, uno «spirito degli alberi» che, come
molti di essi, vive nei rami delle piante di bdj’ (si veda nota
2). Cura una malattia della pelle detta tma ’;
• Marà Tunggul, il Ceppo Anziano, si riferisce alle radici aeree
colonnari (tunggul) che sorreggono l’ampia chioma degli
alberi tipo baniani, all’ombra della quale la gente usa
riposarsi durante l’esecuzione dei lavori agricoli. La sua
presenza è indicativa di epatite e di cibi non mescolabili;
• Putrì Mayang Murei, la principessa Fiore di Palma, che
probabilmente è solo una pronuncia errata del termine malese
mayang mengurai, il fiore di palma che sboccia, usato nella
letteratura malese come simbolo di bellezza. Secondo
l’adepto, questo spirito vive in una sorgente, detta il Bagno
della Principessa, proprio sotto le cascate vicine al monte
sacro Rlau.
8. Fin dal 1963 questo tasso è stato drasticamente ridotto grazie
al Ministero per gli Aborigeni. Da quando la Malesia è
divenuta indipendente, l’assistenza
medica è divenuta eccezionalmente efficiente.
9. Si veda nota 2.
10. Si veda nota 2.
11. Si veda nota 2.
12. Per una trattazione più dettagliata dell’argomento, si veda Dentan
(1968a, 1968b).
13. Si veda nota 2.
14. Si veda nota 2.

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V
L’AUSTRALIA DEGLI ABORIGENI
di Catherine H. Bemdt [University of Western Australia]

Il problema
Tra gli aborigeni urbanizzati del giorno d’oggi vi è chi rimpiange
i tempi passati, pur senza averli vissuti direttamente, e li considera
come una specie di età dell’oro. In tale immagine idilliaca, l’idea di
aggressività (o di conflitto) non ha spazio e gli aborigeni della
tradizione vengono visti come una popolazione mite, dove le persone
vivevano in armonia tra di loro e con l’ambiente circostante,
dividendo equamente i beni, il lavoro, le risorse naturali.
Altri aborigeni tradizionalisti guardano al passato (al loro passato)
con occhi assai diversi. Si prenda il caso di Lamilami,
ad esempio, un uomo di lingua maung proveniente dalla costa
nordoccidentale della Terra di Arnhem. Cresciuto in una missione, egli
è successivamente diventato prete metodista, ma ha continuato ad
alimentare il proprio interesse per la cultura della tradizione, ivi
comprese le credenze e le pratiche religiose ancor oggi tanto
importanti per molti aborigeni di quel territorio. In tale atteggiamento
«misto» è stato facilitato dalla dichiarata volontà, da parte della
Chiesa metodista, di «conservare il meglio della cultura aborigena»,
nonostante la difficoltà davvero immensa di mettere in pratica siffatto
ideale. Nella sua autobiografia (1974), tratteggiata sullo sfondo dei
cambiamenti verificatisi progressivamente nelle Isole Goulburn, e
intorno ad esse, egli ci offre l’immagine di una vita certamente
cooperativa, eppure non esita a inserire come parte integrante della
scena anche il conflitto e perfino la violenza fisica. Negli anni
Quaranta, gli abitanti nordorientali della Terra di Arnhem erano soliti
vantarsi della propria reputazione di fierezza, della propria impulsività
emotiva di fronte a offese o insulti presunti e della propria capacità di
andar dritti per la propria strada, anche con la violenza o con le
minacce se necessario. Essi amavano raccontare, come fossero «cose
della vita», episodi di cui avevano avuto diretta conoscenza, come ad
esempio il caso di uomini uccisi allo scopo preciso di impadronirsi
della loro moglie (o mogli). Oppure della possibilità, ai tempi dei loro
genitori o dei loro nonni, di trattare duramente e spogliare dei suoi
beni chi, trascinato alla deriva con la sua imbarcazione, fosse finito
fuori rotta.
Un altro esempio dell’atteggiamento aborigeno nei confronti del
passato ci viene fornito da una persona, parzialmente aborigena per
nascita, che fino a qualche anno fa ha vissuto in una condizione
socioculturale da aborigeno solo in senso negativo, in quanto
legalmente e politicamente svantaggiato, ai margini della società
australiana. Oggi, mutato il clima sociopolitico, costui non soltanto si
considera totalmente, e non parzialmente, aborigeno ma è anche
stimato da molti, aborigeni e non, come leader e portavoce, una sorta
di autorità nelle questioni aborigene. Inizialmente, il suo
atteggiamento verso la tradizione si richiamava inequivocabilmente al
concetto di «passato-regno- dell’armonia», ma in seguito è andato
gradualmente modificandosi. E quando i disordini verificatisi a Perth
tra gruppi di origine aborigena, culminati con la morte di una persona,
hanno riempito le prime pagine dei giornali dell’Australia occidentale,
egli ha spiegato i fatti come una faida tra due «famiglie», secondo il
costume degli «antichi tempi tribali». Un ritorno alla tradizione del
passato, insomma.
Ovviamente, tali interpretazioni non si escludono reciprocamente.
Dai casi simili a quello di Lamilami è possibile dedurre che all’epoca
della loro sottomissione gli aborigeni si siano comportati più
remissivamente di quanto avrebbero fatto se ne avessero avuto la
possibilità. Gli aborigeni urbanizzati, a volte, contrappongono
deliberatamente il passato ai difetti della società australiana (o
europea), dalla quale essi sono stati un tempo respinti e che oggi
respingono a loro volta (almeno fino a un certo punto). L’armonia
tradizionale e lo spirito di collaborazione vengono rappresentati come
un modello ideale di vita, opposto allo stile rapace e aggressivo che ne
ha preso il posto e l’ha distrutto.
Nella realtà, come dice anche Lamilami, la situazione tradizionale
era una situazione composita, e quindi l’equilibrio tra elementi
aggressivi e non aggressivi può essere presentato in modi diversi, ivi
compresa l’attribuzione di particolare rilevanza agli uni a spese degli
altri. Al di là delle circostanze generali testé menzionate (cioè il fatto
che gli aborigeni guardano al passato dal punto di vista di chi ha di
fronte un presente insoddisfacente), interviene in tutto questo un certo
numero di fattori. Prima di tutto, chi si interroga circa il passato, e che
domande si pone? Quali risposte si attende? Qual è il materiale
disponibile sull’argomento? In che misura l’interrogante ha attinto a
tale materiale? E possibile l’esistenza di variazioni locali? Infine, non
meno importante, c’è il problema del modo con cui l’aggressione e
l’aggressività vengono definite nell’inquadramento della questione: in
che misura si presuppone l’esistenza di tali manifestazioni,
indipendentemente dal semplice riscontro di quello che può essere il
comportamento palese, e come devono essere analizzati gli eventuali
miti e rituali da porre in rapporto ad esse.
Da tale punto di vista, bisogna dire che nessuno studio veramente
esaustivo è stato finora condotto sull’argomento per quanto concerne
gli aborigeni australiani, nonostante siano stati raccolti numerosi dati
su questa o quella singola regione. Molti di essi riguardano le
caratteristiche socioculturali, mentre alcuni sono relativi ai problemi
della personalità. A seguito dei primi lavori di Róheim sull’attività
onirica femminile tra le popolazioni dell’Australia centrale, negli anni
passati si è prodotto un interesse crescente per le tematiche
psicoanalitiche e psichiatri- che, ma tali indagini, con i loro risultati,
esulano dall’argomento della presente trattazione. È appena il caso di
ricordare che non tutto ciò che può essere etichettato come
«aggressività» compare sotto tale voce nella letteratura. Nel lavoro di
Kaberry sulle donne aborigene (1939), uno dei pochi a riportare un
indice delle voci relative a tale termine, manca un criterio preciso di
scelta e numerosi riferimenti importanti sono omessi. Un indice del
genere è assente in Warner (1937-1958), nonostante tale autore
fornisca numerosi esempi, e lo stesso può dirsi del nostro studio sui
Gunwinggu (R.M. e C.H.B. Berndt, 1970) e della nostra opera in
generale (1964-1977). Come molti altri, anche noi ci siamo limitati a
registrare argomenti specifici, conflitti, dispute, scontri, vendette,
rappresaglie e simili. Nonostante ciò, praticamente ogni libro o
articolo riguardante la vita degli aborigeni australiani contiene del
materiale che riporta, direttamente
o indirettamente, al tema dell’aggressività. Scontri e contese
interpersonali, ferimenti e uccisioni, accuse e condanne per
stregoneria, toccano da vicino la sfera economica, ma
contemporaneamente testimoniano le implicazioni di questa con il
problema dell’aggressività.

Come s ’imparava a comportarsi

I bambini aborigeni crescevano in un_contesto in cui la gente era


considerata importante, e la gente con la quale essi avevano a che
fare era costituita da persone tutte bene identificate. Nonostante si
spostassero continuamente da un luogo all’altro, le relazioni che si
instauravano erano di lunga durata, continuative.
L’ambiente fisico in cui i bambini crescevano a volte poteva
anche essere difficile, specialmente durante la cattiva stagione, ma
l’ambiente sociale era sicuro e accogliente. Il bambino imparava il
proprio posto nell'ordine delle cose, e, soprattutto, imparava che aveva
un posto suo, garantito. Particolare rilevanza veniva attribuita alla
continuità spirituale, che poggiava in gran parte sui vincoli con la terra
e, attraverso di essa, con gli esseri dotati di spirito e con le creature
presenti nei medesimi luoghi o connesse con varie manifestazioni
spirituali. In più, c’erano i vincoli fisici con gli altri, attraverso i
genitori che fornivano muscoli, sangue e struttura ossea.
I piccoli stavano sempre accanto alla madre, fin dal momento in
cui emergevano con essa dall’isolamento del parto. Essi dormivano
con la madre, rannicchiati contro di lei, a contatto col tepore del suo
corpo. Anche se poteva accadere che venissero a volte lasciati con
qualche «baby-sitter» durante il giorno (i nonni, ad esempio), la madre
rappresentava, a quanto pare, la persona più importante della loro
esistenza, fin quando non imparavano a muoversi da soli. Fino a quel
momento, la madre era non semplicemente una fonte di cibo, ma la
fonte principale di benessere, protezione, amore. Il pianto di un
neonato era il segnale che muoveva immediatamente l’attenzione della
madre e l’allattamento «a richiesta» del piccolo era la norma. E se una
madre vedeva il proprio figlioletto cadere o spaventarsi per qualcosa,
il più delle volte accorreva a prenderlo in braccio offrendogli il seno,
per consolarlo. Lo svezzamento poteva allentare questa relazione per
qualche tempo, ma esso in genere veniva ritardato, nel caso del figlio
minore o di un figlio unico.
I bambini solevano sedere tra le donne a osservare le danze
durante qualche cerimonia e si addormentavano tra le loro braccia o
accanto ad esse. Durante il giorno, se non erano in giro con le donne a
raccogliere cibo, imparando così ad eseguire tale compito da soli,
giocavano insieme, sia pure in modo da poter sempre essere visti e
sentiti da chi aveva il compito di sorvegliarli, come essi ben sapevano.
A causa della rete di relazioni di parentela, le persone usavano
rivolgersi tra loro con l’appellativo di «padre», «madre», oppure
«fratello», «sorella». Cionondimeno nell’uso di questi termini erano
presenti sempre delle sfumature, che distinguevano tra il «proprio»
padre, o madre o fratello, e quelli «più distanti».
Dalla nascita alla morte ognuno era inserito in una fitta rete di
rapporti con gli altri, sia molto stretti sia gradualmente più laschi. Ciò
contribuiva a dare un senso di sicurezza, sociale ed emozionale, in
grado di compensare ampiamente le piccole incertezze connesse con
tale sistema.
Come tutti gli esseri umani, anche gli aborigeni avevano le loro
liti e i loro conflitti e si preoccupavano di quanto gli altri facevano nei
loro confronti e di quanto essi stessi dovevano fare nei confronti degli
altri. I figli assistevano, osservando e ascoltando e a volte
partecipando. Imparavano così le regole e le infrazioni ad esse, ciò che
non si doveva fare oltre a ciò che andava fatto. La competizione e la
competitività, come anche il comportamento o gli atteggiamenti
aggressivi, erano presenti ma non veniva attribuito loro un gran peso.
Ciò che importava
era la cooperazione, che era una necessità urgente, quotidiana. La
cooperazione tra le persone era essenziale per la sopravvivenza fisica
e anche la cooperazione con la terra e con gli altri esseri viventi che,
insieme agli esseri umani, vivevano su di essa. La gente di una
comunità formava un tutt’uno e di ciò era parte anche l’ambiente
naturale.
Il messaggio d’ordine generale che veniva comunicato ai figli,
perché essi a loro volta lo tramandassero ai propri figli una volta
divenuti adulti, era che la vita aveva un suo significato. Tutto quello
che essi dovevano fare era seguire le linee-guida che erano state
stabilite. Ciò non significava seguirle pedissequamente: una certa
possibilità di apportare variazioni c’era, ma sempre nell’ambito di
quelle direttrici.
Gli aborigeni non credevano che le informazioni ritenute
necessarie per l’esistenza adulta potessero essere trasmesse
misticamente o per eredità genetica. In certe zone c’era la credenza
che uno «spirito fanciullo», uno spirito preesistente, portasse la vita
alla parte fisica del feto, prima del parto. Tale spirito appariva in
sogno, o si manifestava in qualche altro modo, al padre del nascituro o
a una persona comunque appropriata. Ma nessuno riteneva che tale
spirito fosse «completo» per quanto concerne la conoscenza della vita
quotidiana. Ciò comportava un legame, per ciascuno, con la propria
terra e con gli altri che vi abitavano e anche un legame col passato,
presente e futuro spirituale.
La filosofia educativa degli aborigeni non era presentata
attraverso la discussione di parole e concetti. Essi si concentravano
sulla realtà delle diverse situazioni, con spiegazioni del «perché»
formulate in termini religiosi. Tutte le società aborigene tributavano
grandissima attenzione sia all’insegnamento sia all’apprendimento,
due aspetti di un medesimo processo. E vero che veniva messo
l’accento soprattutto sull’insegnamento, in quanto ci si aspettava che
l’apprendimento ne seguisse quasi automaticamente, se le condizioni
erano quelle giuste e i bambini adeguatamente ricettivi. Ma si
differenziava l’insegnamento a seconda dei casi ed erano tenute in
conto le differenze di risposta individuale. Gli aborigeni ritenevano
che i fanciulli dovessero ricevere un insegnamento e che ciò fosse
compito degli adulti.
Sia per gli adulti sia per i bambini, quindi, il contesto sociale era
fatto di relazioni dirette, di persone note, identificabili. Ed era anche
un contesto di calore e vicinanza tra tali persone, nonostante le
inevitabili discordie e liti. Gli aborigeni erano un popolo gregario.
Nella loro cultura non c’era posto per eremiti o altre persone del
genere, che si ritirano dal consesso sociale per meditare in solitudine.
Tale vicinanza, tale consapevolezza dei propri legami personali, si
estendeva al di fuori del nucleo familiare inteso in senso stretto -
padre, madre, fratelli e sorelle - per comprendere chiunque fosse
presente nell’area dove il bambino viveva. I bambini imparavano a
identificarsi come un «noi» piuttosto che in contrapposizione a un
«loro», gli «altri», che è un modo di identificazione fondato sulla
divisione e sulla separazione. E ciò costituiva la base per apprendere
sia le regole generali sia il modo di comportarsi nella pratica di un
certo numero di situazioni. Questo apprendimento per i bambini
piccoli iniziava sempre nell’ambito delle relazioni familiari, in
un’atmosfera di amore e di attenzione personale. Di norma, i bambini
piccoli erano amati e accettati e gli adulti cercavano di farli sentire,
appunto, amati e accettati. A dispetto di quanto ha scritto qualche
autore l’infanticidio era raro.
Nei tempi passati la fonte dell’educazione e della disciplina era la
famiglia, e prima di tutto la madre del bimbo. Anche il padre era
importante, ma fino ai tre o quattro anni di età i bambini erano
accuditi soprattutto dalla madre.
Tale situazione si modificava man mano che i bimbi crescevano,
soprattutto nel caso dei maschi. Il padre si occupava di loro sempre
più stabilmente, e in seguito intervenivano anche altri uomini. In cerce
zone erano particolarmente importanti i fratelli della madre, ma in
ogni caso chi finiva per assumere un ruolo predominante
nell’educazione dei giovani maschi, finanche un ruolo di controllo,
erano i leader religiosi della comunità. Nei territori nordorientali della
Terra di Arnhem, ad esempio, tra i sei e gli otto anni d’età i ragazzi
venivano presi per la circoncisione. Presi, nel senso letterale del
termine: strappati dalla madre, cui stavano aggrappati o a cavalluccio
(nel modo tipico con cui tra gli aborigeni i piccoli si fanno portare
dagli adulti). Ciò aveva il significato simbolico di un’interruzione
della vita infantile, fino a quel momento completamente controllata
dalla famiglia. Dopo, il giovane non viveva più con i suoi genitori.
La vita delle bambine aveva una maggiore continuità in seno alla
famiglia, e crescendo esse si identificavano con le donne e con i ruoli
di queste. L’interruzione avveniva in occasione del matrimonio, che in
certe zone coincideva con l’avvento della pubertà (o prima!), in altre
avveniva più tardi. Col matrimonio, comunque, la fanciulla non solo
abbandonava il suo piccolo mondo di fuochi e ripari casalinghi, ma
lasciava l’accampamento dei genitori per andare lontano, in un altro
insediamento. Tradizionalmente, ciò non significava recarsi in terra
«straniera». Il matrimonio non era un fatto improvviso, brusco, perché
di norma le fanciulle venivano promesse in sposa fin da quando erano
molto piccole, e da allora il matrimonio era oggetto di molti discorsi,
sicché finivano per abituarsi all’idea. Né si recavano tra estranei. In
tutte le società aborigene il matrimonio ideale era quello in cui le
famiglie dei due futuri sposi erano già legate da una qualche forma di
parentela, sebbene il tipo specifico di parentela da preferirsi potesse
essere diverso da un territorio all’altro. Quindi la famiglia della sposa
e quella dello sposo erano in rapporti già prima della promessa di
matrimonio, oltre che del matrimonio stesso.
La nota fondamentale dell'educazione era l'indulgenza. La disciplina
non era dura. L'atmosfera era permissiva. I genitori, insomma, non si
aspettavano dai loro figli un vero comporta- mento da adulti.
Lasciavano correre riguardo a cose tipo «andare al gabinetto», e ciò
che nei fanciulli più grandi sarebbe stato considerato come
disdicevole, nei più piccoli veniva tollerato, perché questi «non
avevano ancora imparato a capire per bene». Le difficoltà venivano
graduate e ai bambini venivano risparmiati i compiti ritenuti «troppo
duri per loro». Anche le zuffe e i litigi tra bambini venivano lasciate
proseguire un po’, prima che qualche adulto (le madri, in genere)
intervenisse. Ai maschi era concesso di comportarsi in modo un po’
irrispettoso verso la madre più che non alle femmine. Ma nei territori
nordorientali della Terra di Arnhem accadeva a volte che le bizze delle
ragazzine, che potevano verificarsi anche in età adolescenziale,
costituissero una vera minaccia per l’udito (e la vista) della gente,
anche se non comportavano attacchi alle persone. Era tipico che una
bimba si sdraiasse per terra, scalciando e strillando, e ciò poteva
durare anche per qualche ora, sia pur sporadicamente. Gli adulti che le
stavano vicino la sgridavano o brontolavano esasperati, ma non
intervenivano mai direttamente, se non per fornire qualche diversivo
(cibo, ad esempio).
In ogni accampamento tradizionale all’insegnamento prendeva
parte una gamma assai ampia di persone. Ciò era fatto in maniera
informale e con tolleranza, ma consapevolmente e continuativamente.
Gli adulti parlavano ai bimbi piccoli, li stuzzicavano e li facevano
divertire, carezzandoli e rivolgendosi loro con i termini appropriati di
parentela. Nessuno aveva l'aria di insegnare qualcosa e invece, così
facendo, venivano comunicate le forme corrette del linguaggio, il
modo educato con cui le persone dovevano reciprocamente trattarsi.
Infatti, era considerato indelicato rivolgersi a qualcuno col suo nome
personale, ad eccezione dei soprannomi e degli appellativi scherzosi, e
bisognava usare solo termini di parentela o di posizione sociale o
geografici. A volte i bambini avevano un sacco di gente attorno, a
volte meno. Ma in questo ambiente aperto, quasi pubblico, fatto di
gente estremamente socievole, era raro che un bambino si trovasse da
solo, con la sola compagnia dei suoi genitori e dei suoi fratelli e
sorelle. Nelle comunità tutti, in un modo o nell’altro, partecipavano
all’educazione dei bambini.
L’ambito di chi poteva somministrare punizioni, invece, era molto
più ristretto. Di ciò erano investiti principalmente i genitori e in
particolare la madre. Nella vita quotidiana la madre era responsabile
dei figli piccoli. Lei poteva prenderli a scapaccioni o punirli, mentre
gli altri erano restii a farlo, anche i nonni e gli zii. D’altro canto, se la
madre trattava i figli troppo bruscamente o non li accudiva a
sufficienza, poteva accadere che venisse inflitta a lei una punizione ad
opera del marito (o dei fratelli, in qualche zona). Una simile
prospettiva può aver trattenuto qualche donna dal trattare male i propri
figli, ma in tal caso la minaccia era una minaccia che faceva parte del
suo background.
In generale, le madri dovevano essere affettuose e protettive, non
punitive. Spettava ad esse assicurarsi che i figli fossero al sicuro e ben
nutriti, che non andassero in qualche luogo pericoloso o proibito o che
mangiassero cibi altrettanto pericolosi o proibiti. Che qualcuno
l’aiutasse o no, era sulla madre che veniva fatto affidamento per
quanto riguardava i bambini. E ciò non significava che essa poteva
limitarsi a fornir loro amore e protezione, tenendoli lontano dai
pericoli. Essa doveva insegnare ai bambini come comportarsi di fronte
ai pericoli per salvaguardare la propria incolumità.
Ma c’è un altro aspetto della vita tradizionale nel quale le madri,
insieme a tutte le altre donne, avevano un ruolo centrale, un aspetto
spesso ignorato dai non aborigeni e dimenticato, a volte, anche dagli
aborigeni che si volgono a guardare il proprio passato. Si tratta della
religione.
Presso le popolazioni aborigene dell’Australia, tradizionalmente,
erano le donne e in particolare le madri che insegnavano direttamente
e continuativamente la religione ai bambini piccoli. Non era un
insegnamento dettagliato, né riguardava i contenuti generali della
religione. Poteva includere la comunicazione di qualche nozione
elementare, nelle zone dove esistevano versioni per bambini dei miti e
dei canti religiosi, ma in genere riguardava qualcosa di meno
specifico: era la comunicazione di un’atmosfera, di una disposizione
d’animo.
Ciò era ottenuto tramite l’approccio «doppio» usato dagli
aborigeni in quasi tutti i loro programmi educativi. Da un lato, c’era
l’aspetto negativo, quello che «non si doveva fare». Potevano essere
avvertimenti preliminari, o considerazioni generali del tipo «quando si
verifica la tal cosa, ecco quello che devi tenere a mente»; ma tali
avvertimenti venivano esattamente messi a fuoco a tempo e luogo
debito. Nel corso di qualche cerimonia rituale, ad esempio, i bambini
si sentivano dire imperiosamente: «Non guardare!», mentre la loro
madre, insieme alle altre donne, si copriva la testa e le spalle, o
distoglieva lo sguardo, durante determinate parti del rito. Oppure
accadeva che venissero avvisati di non gridare, di non ridere, mentre
si apprestavano ad accogliere, sempre insieme alle donne, un gruppo
di uomini che rientravano cantando, tutti addobbati, da qualche luogo
sacro. Infatti era possibile che quelle figure strane, così diverse dalle
persone che i bambini erano abituati a vedere nella vita di tutti i
giorni, apparissero loro terrificanti o buffe come in un nuovo gioco, a
quanto dicevano le donne. E qualcuna aggiungeva, in tale occasione,
per zittire i bambini: «Non far così, altrimenti gli uomini potrebbero
ucciderci!».
Il secondo aspetto dell’approccio era complementare al primo e
tendeva a imprimere nei bambini la nozione del lato positivo di tali
cerimonie, ponendo così le basi di un atteggiamento favorevole verso
le manifestazioni della religione: insegnavano il senso del sacro, fatto
di rispetto, di riverenza, di timore. Era una premessa di importanza
vitale per l’acquisizione successiva di quelle informazioni specifiche
che sarebbero state comunicate quando i ragazzi fossero diventati
grandi.
In sostanza, dunque, i bambini imparavano (cioè veniva loro
insegnato) a stabilire e mantenere rapporti con la gente, con
l’ambiente umano che li circondava, e anche con l’ambiente non
umano. Dapprima essi vedevano tutto ciò inserito nel contesto delle
attività quotidiane, acquistando via via sempre maggior
consapevolezza della propria esistenza in un ambito religioso.
Successivamente, la comprensione e la partecipazione diventavano più
dirette.
Le società aborigene appartenevano alle società cosiddette
«ripetitive». Questo significa, per prima cosa, che il passato veniva
usato come guida del comportamento nel presente e nel futuro, e
inoltre che ai bambini veniva chiesto di considerare gli adulti (e i
ragazzi più grandi) come modelli cui uniformare il proprio
comportamento.
Se si eccettua la sfera segreta del sacro e certe manifestazioni ad
essa legate, come i luoghi di isolamento delle donne, non c’era nulla
nelle società aborigene la cui visione fosse proibita ai bambini. Essi
avevano quindi numerose occasioni di osservare esempi di
comportamento «sbagliato», ed eventualmente le relative punizioni.
Imparavano che in molte situazioni della vita quotidiana non c’era
un’unica, fissa, maniera di comportarsi: quasi sempre era disponibile
una gamma di alternative accettabili, tanto maggiore quanto più
distanti le diverse situazioni erano dalla sfera del sacro.
Ciononostante, sembra corretto rilevare che, nella maggioranza dei
casi, se non in tutti, la gente non si poneva il problema della libertà di
scelta. I valori e gli assunti fondamentali non venivano mai seriamente
messi in discussione. L’area problematica in cui potevano verificarsi
degli inconvenienti riguardava solo il modo di mettere in pratica le
regole, non le regole stesse. Queste erano considerate come «date».
Attraverso un insegnamento combinato, in parte «dolce» e in parte
«duro», i bambini imparavano quanto era necessario circa le cose e le
persone, circa i tabù alimentari e quelli sociali, così come imparavano
a prepararsi al matrimonio e all’età adulta. Specie nei primi anni di
vita l’aspetto «dolce» risultava più evidente. Successivamente
emergeva la durezza, associata all’apprendimento delle regole
fondamentali, per lo più di natura religiosa, che esercitavano la propria
influenza su tutte le attività sociali.

Conclusione

Pur senza entrare nel merito del problema delle variazioni locali,
la descrizione fin qui fatta pone in evidenza alcuni punti fondamentali
che dovrebbero essere tenuti presenti al fine di uno studio più
approfondito.
Un interessante settore di indagine riguarda i riti di iniziazione, in
relazione al loro contesto socioculturale. Tali riti variano da una
località all’altra del continente e vanno dalla totale assenza di forme di
iniziazione fisica alla depilazione, all’ablazione di denti, alla
circoncisione, alla subincisione. Molti non aborigeni li considerano
(specialmente la subincisione) mere forme di crudeltà, o addirittura di
sadismo, in se stesse o per lo meno in quanto manifestazioni di un
comportamento tirannico e punitivo. (Da tale punto di vista, possono
essere visti come un
mezzo per perpetuare siffatto comportamento).
Allo scopo di esaminare l’argomento in modo soddisfacente, non
basta considerare come uniche variabili la relazione madre- figlio, da
un lato, e il rito iniziatico (inteso come operazione fisica), dall’altro.
Ciò che è qui necessario è studiare l’intero sistema di controllo sociale
di una certa società, insieme al materiale verbale e drammatico cui i
bambini sono esposti, al modo con cui rispondono ad esso, nonché ad
un’analisi di questo materiale. L’iniziazione non è che un aspetto di
tutto ciò, ancorché importante. Essa fornisce dei segni fisici, visibili,
che le persone interessate possono interpretare come segni di
qualcos’altro, status rituale, conoscenza di simboli religiosi e simili.
Ma cosa indicano tali segni all’antropologo che intende affrontare da
un punto di vista comparativo argomenti più generali? È interessante
notare che per un certo periodo l’archetipo degli aborigeni miti e
gentili è stato visto nel popolo degli Aranda, divenuto ben noto
attraverso l’opera di Spencer e Gillen, ripresa da Durkheim. Eppure i
loro riti iniziatici prevedevano pratiche dolorosissime come morsi al
capo e avulsione di unghie, oltre all’instaurazione in queste occasioni
di un dominio autocratico degli anziani sui giovani. All’opposto, le
popolazioni di lingua gunwinggu che risiedevano nei territori
occidentali della Terra di Arnhem, non praticavano alcuna forma
tradizionale di circoncisione o subincisione nei loro riti iniziatici, per
altro assai lunghi, né alcun tipo di operazione fisica. Ciononostante,
nel loro modello di vita erano previsti scontri fisici di modesta portata
e forme di guerra in scala ridotta, simili a quelle praticate dai loro
«vicini» orientali presso i quali vigeva la circoncisione (Bemdt, 1970;
Warner, 1937-1958). L’eventuale ricerca di correlazioni tra questi
elementi, a livello comparativo in senso lato, potrebbe condurre a
osservazioni affascinanti. Ma, di nuovo, esse andrebbero interpretate a
fronte di un contesto completo, nel quale entrino anche altri aspetti, ad
esempio le concezioni che riguardano il trattamento del corpo umano,
il proprio corpo e quelle degli altri specificamente, ma anche il corpo
in generale, così come risulta dall’osservazione dei riti funerari.
(L’analogia tra l’aspetto fisico delle pratiche iniziatiche e la morte
corporea, con conseguente resurrezione, è evidente, o lo è stata, in
molte società aborigene, ma in essa intervengono anche altre
implicazioni).
Il problema se le popolazioni che si cibano di carne (non solo
carne bovina, ma anche pesce o selvaggina) siano o no più aggressive
di quelle vegetariane, e se questa particolare variabile alimentare sia
realmente rilevante ai fini dell’insorgenza dell’aggressività, non è
ancora stato rigorosamente affrontato. Dopo tutto, come ha messo in
evidenza Ashley Montagu (1968), chi è tecnicamente autore
dell’uccisione dell’animale non è necessariamente l’unico
consumatore della sua carne. Inoltre, l’allevamento di bovini, suini,
volatili e altre creature per lo scopo specifico di ucciderle e cibarsene,
non è fondamentalmente diverso dalla caccia condotta con il
medesimo scopo.
Nel caso degli aborigeni, la relazione tra le persone e le creature
che venivano uccise a scopo alimentare non era limitata a questi due
semplici aspetti, l’uccidere e il mangiare. Era contemporaneamente
una relazione più stretta e più ampia. L’identificazione di determinate
persone, o categorie di esse, con alcune specie animali non era
puramente nominale. Era un legame emozionalmente e personalmente
rilevante. Anche all’interno della stessa società, esso poteva assumere
forme diverse, eppure nessuna di queste vietava o tendeva a
scoraggiare l’uccisione di entità non umane oppure la loro raccolta,
nel caso dei vegetali e della frutta. La relazione era intrinsecamente
asimmetrica, in quanto non invertibile. Gli umani usavano altri esseri
viventi come cibo, ma di norma non accadeva il contrario. Tra gli
aborigeni australiani erano pochi i predatori dai quali era necessario
guardarsi (principalmente pescecani, coccodrilli e pitoni). Quando uno
di essi assaliva un essere umano, le ragioni di ciò venivano ricercate
nell’ambito della sfera umana e riferite a manifestazioni di
stregoneria, senza attribuire alcuna responsabilità all’animale
direttamente coinvolto nel fatto. L’inimicizia, i rancori, l’aggressività
di origine umana sembravano fornire tutte le spiegazioni necessarie e
sufficienti, senza bisogno di supporre una qualche forma di
«cattiveria» nella creatura agente.
Ci si aspettava che tutti, una volta divenuti adulti, fossero
consapevoli di queste relazioni che li legavano agli altri membri della
comunità, umani e non umani. Ma non sappiamo granché sul modo
con cui siffatta consapevolezza veniva raggiunta. Le informazioni
disponibili riguardano più l’aspetto educativo, l’insegnamento, che il
processo di apprendimento vero e proprio, il modo con cui
l’insegnamento veniva interiorizzato. A quanto pare, due dimensioni
diverse erano contemporaneamente presenti. Una era quella
dell’identificazione personale e sociale, con le sue implicazioni di
risposta alle questioni trascendentali. L’altra, legata alla prima ma più
centrata su considerazioni pratiche di sopravvivenza fisica, era il
modello naturale dell’ucci- dere per procurarsi il cibo. Forse i bambini
coglievano più facilmente questa, con gli atteggiamenti ad essa
collegati, che non la prima, quel complesso di idee generali e doveri
particolari nel cui ambito si costruiva la loro identità.
Al di là del comportamento umano osservato, attraverso i canti e
le storie i bambini imparavano come le diverse specie viventi
interagivano tra loro e con il mondo circostante per sopravvivere e
procurarsi il cibo. Per i bambini dell’Arnhem occidentale, ad esempio,
i canti erano rappresentazioni brevi ma concentrate delle abitudini e
delle caratteristiche delle creature che dividevano con gli umani
l’ambiente naturale. In alcuni di essi l’allusione al modo spietato con
cui i predatori insidiavano e catturavano le loro prede rifletteva la
rilevanza di un tema importante anche per i cacciatori umani. Uno di
questi canti era quello del cane selvatico (il dingo), mentre altri
parlavano degli uccelli pescatori che stanno attorno ai fiumi e agli
stagni. Alla luce di tale comportamento «naturale», il trattamento
apparentemente crudele riservato dai bambini ai piccoli animaletti che
avevano la disgrazia di capitare tra le loro mani può forse essere visto
come «funzionale»: un addestramento ad acquisire la durezza
necessaria a un popolo che aveva bisogno di uccidere altri esseri
viventi per sopravvivere. (La dieta degli aborigeni era
fondamentalmente vegetariana nella maggioranza dei loro territori, ma
era integrata da cibi di origine animale, ricchi di proteine). Il modo
con cui i bambini trattavano i piccoli canguri che gli adulti donavano
loro perché ci giocassero, ad esempio, non può essere definito tortura
deliberata. La violenza era casuale e spesso si mescolava a sporadiche
manifestazioni di affetto e protezione. Era una specie di sport, senza
alcuna pretesa, anche solo a livello di finzione, di utilizzare la vittima
come cibo. (Al contrario, le esercitazioni di tiro con la lancia a spese
di lucertole commestibili o altri animali facevano parte di una
sequenza più completa, in cui la preda veniva poi cotta e mangiata, sia
pure per fìnta).
C’è un altro esempio che ci viene dall’Arnhem occidentale, per la
precisione una storia che veniva raccontata ai bambini fino a una
trentina di anni fa. È una storia fine a se stessa, che spiega come il
loglog, una lucertola non commestibile, abbia assunto il suo aspetto
attuale. In breve, si dice che quando Loglog era un uomo, egli uccise
con l’inganno due fratelli che lo stavano aiutando a cacciare gli
opossum dentro alcune caverne molto profonde. I due fratelli lo
chiamavano «nonno» (materno) ma non «nonno vero». Loglog riuscì a
bloccarli in una caverna e li fece morire soffocati, accumulando erba
secca all’ingresso e dandovi fuoco. Quindi li cucinò, insieme a carne
di opossum, ne mangiò un po’, conservando il resto per dopo. Fece un
canestro speciale dove riporre le ossa rimaste, quindi si recò dai
genitori a portare loro la notizia della morte in modo
convenzionalmente corretto. Ma al cospetto della famiglia riunita il
canestro si rovesciò e le ossa dei ragazzi caddero sul terreno. Allora
gli uomini capirono e lo colpirono con le lance, mentre altri si
infliggevano ferite per manifestare il loro dolore. Loglog si trasformò
in una lucertolina dalla pelle rilucente, ma gli uomini riuscirono a
prenderlo Io stesso e lo bruciarono fino a farlo morire, attizzando il
fuoco finché anche le ultime ossicine non furono ridotte in cenere. La
storia è piena di dettagli drammatici, allo scopo di tener desta
l’attenzione degli ascoltatori, dalle scene iniziali in cui i fratelli
entrano nella profondità della caverna, mentre l’adulto ascolta le loro
voci dall’esterno e si affretta a raccogliere l’erba, all’episodio della
chiusura della caverna con relativo incendio e morte per soffocamento
dei prigionieri (l’episodio si ripete in diverse altre storie dell’Arnhem
occidentale), fino alla cottura dei corpi e alla fabbricazione del
canestro, il viaggio e la scena di fronte alle famiglie (con Loglog che
salta e balla, mentre le ossa sbatacchiano all’interno del canestro), la
caccia all’assassino e la sua distruzione finale. In questa sede, ciò che
ci interessa è l’asserzione, da parte dei giustizieri di Loglog, che «le
persone non sono cibo» e, in particolare, che per uccidere qualcuno ci
vuole un’adeguata giustificazione. Loglog non aveva una buona
ragione per uccidere i due fratelli. Inoltre, essi erano almeno
nominalmente suoi parenti e quindi la sua azione era ancora più
vergognosa.
C’è ancora un’osservazione che può essere fatta. Alcuni anni fa
mi era stato chiesto di scegliere dalla cultura aborigena alcune storie
da usare, tradotte, nelle scuole elementari australiane; e io avevo
proposto, tra le altre, la storia di Loglog, anche perché mi sembrava
una storia vivace e capace di colpire l’immaginazione. Ma le autorità
scolastiche di quell’epoca hanno trovato la storia troppo aggressiva e
impressionante per dei bambini e l’hanno rifiutata, sostenendo che
avrebbe potuto causare incubi agli scolari per quell’atmosfera
terrificante cui essi non erano abituati.
Forse questo è sufficiente a dimostrare l’importanza che assume il
contesto socioculturale nell’interpretazione di qualunque tipo di
materiale verbale o drammatico riguardante l’aggressività e la
violenza.
Le definizioni degli aborigeni australiani come di un popolo mite
e non-aggressivo vengono spesso erroneamente interpretate in quanto
sono definizioni relative. Esse dicono che gli aborigeni lo erano in
genere e a paragone con altre popolazioni. Nei tempi passati, anche
agli aborigeni accadeva di combattersi reciprocamente e di ferirsi o di
uccidersi, nel corso di una lite oppure per una vendetta programmata.
Ma questo non significa che, per quanto ci è dato sapere, essi
amassero la violenza per se stessa, o provassero piacere a infliggere
dolore agli altri. Erano esseri umani, quindi anch’essi avevano le loro
eccezioni. Ma erano, appunto, eccezioni. E il comportamento normale
era un comportamento appreso, deliberatamente insegnato ai bambini
fin dalla prima infanzia.
11 problema, quindi, non è stabilire se esiste una certa porzione di
violenza in ogni tipo di società o espressioni di quanto può essere
definito come aggressività. Il problema è stabilire se esistono controlli
ed equilibri in grado di contenere queste manifestazioni, in che misura
essi sono efficaci e come vengono trasmessi. Da questo punto di vista,
le società aborigene non erano tutte uguali. Ma avevano in comune
alcune caratteristiche che, nel loro complesso, servivano a
«raffreddare» l’ampiezza e l’intensità dell’aggressività. L’assenza di
casi di suicidio nell’esistenza tradizionale, o per lo meno di suicidi
apertamente riconosciuti come tali, è forse sotto questo riguardo
indicativa.
È, comunque, un argomento che merita approfondimento.
Tuttavia, è importante tenere a mente che la difesa e la conquista
territoriale non erano considerati problemi rilevanti nell’Australia
degli aborigeni. La terra era vista come un dono di Dio, non
negoziabile. Le delimitazioni confinarie non erano modificabili per
volontà degli esseri umani. Almeno implicitamente, le riunioni
religiose in cui i membri di gruppi diversi si incontravano erano
occasioni per riaffermare la proprietà del territorio di ciascuno e delle
zone circostanti. Ciò non impediva del tutto la possibilità di conflitti
tra gruppi confinanti, ma per lo meno la limitava.
All’interno delle comunità i conflitti e le manifestazioni palesi di
aggressività avvenivano nell’ambito di un tessuto sociale basato
sull’interdipendenza. Le comunità potevano essere definite, secondo
l’espressione da me adottata, «comunità di necessità». La rete di
collaborazioni, obblighi e doveri reciproci costituiva il perimetro
invalicabile all’interno del quale gli individui prendevano le proprie
decisioni. La mobilità territoriale ne risultava limitata, a causa degli
stretti vincoli interpersonali che legavano le persone le une alle altre in
una certa zona e per gli imperativi religiosi che regolavano le loro
relazioni. In ultima analisi, erano le norme e l’autorità della religione a
determinare la virtuale assenza di protesta. Nelle società aborigene i
bambini accettavano la disciplina imposta dagli anziani in quanto non
avevano alcuna pratica alternativa. E in tale contesto, mentre potevano
osservare «cattivi esempi» e casi di prepotenza, imparavano anche le
sanzioni cui sarebbero andati incontro con tale comportamento. Le
speranze e gli ideali da una parte, la realtà delle cose dall’altra,
contribuivano a formare un particolare substrato socioculturale nel
quale le occasioni di atteggiamento violento o aggressivo non erano
che una piccola parte del modello generale.
Riferimenti bibliografici

La lista che segue è breve per due motivi: a) i riferimenti alla


socializzazione negli insediamenti tradizionali sono estremamente
scarsi; b) i riferimenti all’aggressività e alla non-aggressività, non
necessariamente definite con questi termini, sono così numerosi da
includere praticamente tutta la letteratura pubblicata sulla maggior
parte dei temi riguardanti gli aborigeni.
BERNDT C.H. e R.M., Aborigines, in HUNT F.J. (a cura di),
Socialization in Australia, Angus and Robertson, Sidney,19772.
BERNDT C.H. e R.M., Pioneers and Settlers: The Australian
Aborigines, Pitman, Melbourne, 1978.
BERNDT R.M., Law and Order in Aboriginal Australia, in
BERNDT C.H. (a cura di), Aboriginal Man in Australia, Angus and
Robertson, Sidney, 1965.
BERNDT C.H. e R.M., Man, Land and Myth in North Australia,
The Gunwinggu People, Ure Smith, Sidney, 1970.
BERNDT C.H. e R.M., The World of thè First Australians, Ure
Smith, Sidney, 19772.
KABERRY P., Aboriginal Woman, Sacred and Profane,
Routledge, Londra, 1939.
LAMILAMI L., Lamilami Speaks..., Ure Smith, Sidney, 1974.
MONTAGU A. (a cura di). Man and Aggression, Oxford
University Press, New York, 1968.
STREHLOW T.G.H., Geography and thè Totemic Landscape in
Central Australia, in BERNDT R.M. (a cura di), Australian
Aborigenal Anthropology, University of Western Australia Press,
Perth, 1970.
WARNER W.L., A Black Civilisation, Harper, New York, 1937-
1958.
VI
LA POLITICA DELLA N ON VIOLENZA
di Colin M. Tumbull [George Washington University.]

A qualcuno l’articolo seguente1 potrà apparire come una


descrizione immotivatamente estesa ed eccessivamente dettagliata di
argomenti come la gravidanza, il parto, l’educazione dei figli. Al
contrario, io penso che ciò sia ben lungi dal non avere rilevanza ai fini
di uno studio dell’aggressività e, anzi, mi dispiace di non aver potuto
fornire una trattazione più dettagliata. Il punto cruciale
dell’aggressività, almeno in quanto comportamento appreso, sta nei
rapporti che l’individuo instaura tra sé e il mondo che lo circonda.
Sono rapporti totali. Noi li dividiamo artificialmente in settori, e
parliamo di rapporti con il mondo umano e animale, di rapporti con il
mondo meccanico o tecnologico, eccetera. Ma per imparare davvero
la nonviolenza e la non-aggressività, l’individuo deve sviluppare un
atteggiamento di fiducia in tutti i diversi aspetti della sua esperienza, e
percepirli come un’unica totalità, piuttosto che come la mera somma
di tanti rapporti separati.
In che misura l’essere umano sia considerabile come
biologicamente programmato per essere un animale aggressivo,
predatore, può essere oggetto di discussione. Quella che è fuori di
dubbio, invece, è la sua disponibilità potenziale all’aggressività. Se
l’attitudine fisiologica dell’uomo in tal senso è notevole, la sua
attitudine intellettuale è impressionante, in quanto non solo gli
permette di inventare e costruire armi, ma gli consente anche di
pianificare coscientemente la propria aggressione e di metterla in
pratica con malevola predeterminazione, il che è forse la forma di
violenza più pericolosa e distruttiva.
Nella presente trattazione non è mia intenzione ignorare la
possibilità di una programmazione biologica, ed ho presente il fatto
che esistono certamente numerosi fattori significativi, d’ordine
biologico e fisiologico, che devono essere presi in considerazione;
cionondimeno la discussione sarà centrata principalmente sulla
considerazione dei fattori culturali, dei quali è innegabile la capacità
di vincere sempre - tranne che nei casi estremi - gli impulsi (biologici
o culturali che siano) che spingono gli individui alla violenza.
Verranno anche prese in esame quelle istituzioni sociali
specificamente destinate, tra l’altro, a impedire, controllare o
rettificare le eventuali manifestazioni di violenza individuale o di
gruppo.
Tuttavia, se è vero che l’uomo possiede una capacità
apparentemente illimitata di violenza e aggressività, è vero anche che
possiede un potenziale ugualmente grande di nonviolenza e non-
aggressività, e molte sono le società di ridotte dimensioni che
presentano l’interessante caratteristica di preoccuparsi, all’interno di
un’ampia gamma di forme istituzionali, di ridurre al minimo la
potenziale aggressività umana. Ciò non perché l’uomo «primitivo» sia
più morale, o più pragmatico, di quanto lo siamo noi; se ha
considerato saggio minimizzare la violenza e l’aggressività, riducendo
l’ostilità a un livello ben inferiore al suo potenziale intellettuale e
tecnologico, è forse soltanto perché ha visto in questo la risposta
migliore alle sue necessità generali di sopravvivenza, proprio come la
nostra massimizzazione del potenziale aggressivo ha lo scopo di
soddisfare i nostri bisogni, anche se non soddisfa i nostri gusti.
Non è il caso, in questa sede, di discutere se l’una forma sia
migliore dell’altra o viceversa, o chiedersi quale delle due sia più
adatta a un certo contesto e quale a un altro; né intendiamo qui in
alcun modo dimostrare che il dato culturale sia più determinante di
quello biologico. Ci limiteremo invece a osservare un caso particolare
di società, tra le più «primitive» (nel senso di livello di complessità
tecnologica), per constatare i diversi modi, formali e informali,
attraverso cui la tendenza umana alla violenza e all’aggressività viene
ridotta al punto di sradicare quasi completamente il suo potenziale
distruttivo, sia individuale sia di gruppo.
I cacciatori-raccoglitori mbuti, che vivono nella foresta tropicale
dello Zaire nordorientale, danno per scontato che la natura umana non
è angelica, e con tipico pragmatismo accettano l’idea che, per quanto
possa essere divina la nostra essenza (ed essi la considerano tale),
l’individuo sociale può tralignare. Pertanto, ammettono in linea di
principio la nostra potenzialità aggressiva, ma contemporaneamente la
disinnescano quasi completamente e dedicano considerevole energia a
deviarla e al contempo a sviluppare la potenzialità opposta.
L’organizzazione sociale degli Mbuti e i loro rapporti con le
popolazioni vicine sono stati da me già esposti altrove 2. Ciononostante
è necessario che qui vengano, almeno brevemente, ricordati i fattori
del contesto mbuti, che rendono il loro stile esistenziale nonviolento e
non-aggressivo estremamente interessante. Una delle principali aree di
conflitto potenziale per gli Mbuti è, in un certo senso, esterna al loro
«vero» mondo, al mondo appartato dove conducono la loro vita
quotidiana. E il mondo profano degli agricoltori che stanno al di fuori
della foresta e che ora assediano il territorio sacro degli Mbuti: il
mondo della foresta. È un esempio classico di opposizione binaria che
trova la sua soluzione pacifica in un terzo ambito comune a entrambi i
gruppi, la foresta, che è anche il contesto nel quale per entrambi i
gruppi si visualizza l’opposizione. La soluzione adottata dagli
agricoltori non-forestali è diversa da quella dei cacciatori-raccoglitori
forestali, ed esula dall’ambito del pre sente studio. Ma la drammatica
potenzialità della situazione risulta chiaramente dal fatto che le due
popolazioni hanno economie opposte e potenzialmente inconciliabili:
gli agricoltori, per sopravvivere, tagliano gli alberi della foresta per far
posto alle loro piantagioni, che vengono continuamente spostate,
mentre la sopravvivenza degli Mbuti dipende dalla possibilità che la
foresta resti intatta. La soluzione di tale conflitto potenziale sta nella
distribuzione periferica degli agricoltori, che anche dopo
l’indipendenza dello Zaire sono penetrati solo raramente all’interno
della riserva forestale e comunque non hanno indirizzato i propri
spostamenti colturali, man mano che il terreno si impoveriva, verso
l’interno, ma si sono limitati a spostamenti lineari, avanti e indietro
lungo il perimetro della foresta.
Per gli agricoltori la concettualizzazione del conflitto
(essenzialmente territoriale) e della sua soluzione sta nel fatto che essi
considerano la foresta come un luogo profano, mentre l’eventuale
definizione in positivo del loro mondo non-forestale come sacro è un
fattore secondario. Per gli Mbuti, invece, è la foresta ad essere definita
sacra, e la profanità del mondo esterno nonforestale costituisce un
motivo di interesse secondario. Nonostante la nostra trattazione sia
concentrata sulla considerazione del mondo forestale degli Mbuti, è
importante che l’esistenza del mondo esterno non venga dimenticata,
perché anche se nella concezione mbuti i due mondi sono separati
nettamente e si contrappongono per struttura, valori e comportamenti,
tra essi c’è interazione. Ed è importante riconoscere che la concezione
della sacralità forestale crea un conflitto anche in seno al mondo
interno della foresta, in quanto gli Mbuti, essendo cacciatori-
raccoglitori, possono sopravvivere solo a spese della vita forestale,
anch’essa sacra.
Il principio e la fine di tutto è la foresta e la concezione che di
essa e della «forestalità» hanno gli Mbuti. Ogni tentativo di penetrare
la vita concettuale di un popolo estraneo è denso di pericoli, si sa, e
rimane in gran parte legato a congetture. Purtuttavia l’antropologo,
attraverso la partecipazione prolungata alla vita di quel popolo,
esponendosi alle sue stesse pressioni, condividendone le speranze e i
timori, le gioie e i dolori, può arrivare a ordinare tutte queste
esperienze in termini sempre meno condizionati dalla sua propria
cultura e più vicini a quelli della cultura del popolo con cui vive. Ed
anche se gran parte di quello che egli può dire resta fondato
principalmente su congetture (è anche il caso di quello che dirò io
nelle pagine seguenti), ha comunque a disposizione una solida schiera
di fatti che possono aiutarlo ad avvicinarsi a questo mondo concettuale
estraneo.
Uno di questi fatti, ad esempio, è che tutti gli Mbuti, giovani
o vecchi che siano, maschi o femmine, quando camminano per la
foresta (tranne che nei momenti critici della caccia, ovviamente)
parlano, gridano, sussurrano e cantano rivolti ad essa (che è detta
ridurci), chiamandola padre, o madre, o in entrambi i modi,
celebrandone la divinità e la capacità di «curare» o fare del bene
(bonga). Il criterio di scelta degli appellativi è del tutto individuale,
dipendendo, come dicono gli Mbuti, dal modo in cui si sentono in quel
momento. È significativo che nella terminologia parentale degli Mbuti
non siano previste differenziazioni di sesso. I termini usati per
rivolgersi a nonni, fratelli e sorelle, figli, sono gli stessi,
indipendentemente dal sesso. Inoltre, un momento importante della
vita dei bambini è quando essi accettano il padre come «una specie di
madre», come vedremo meglio in seguito. Per il momento, comunque,
mi sembra giusto definire la foresta più come madre che come padre,
onde tradurre in termini propri della nostra cultura l’atteggiamento
mbuti, anche se ho il sospetto che gli Mbuti preferirebbero il termine
«genitore».
Un secondo fatto a sostegno delle nostre congetture è che, quando
gli Mbuti spiegano il perché di questa terminologia, dicono: «Come i
nostri padri e le nostre madri, la foresta ci dà cibo, riparo, vestiti,
calore, affetto». Uso, qui, il termine affetto, ma la parola mbuti usata
in questo contesto (kondi) serve in realtà a esprimere
contemporaneamente amore e bisogno, concetti tra i quali gli Mbuti
raramente fanno distinzione quando parlano delle relazioni umane.
Questa immagine della foresta viene ripetuta praticamente tutti i
giorni, e diverse volte al giorno, da tutti gli Mbuti. Non c’è nulla di
formale in tali dichiarazioni: la gente sente veramente quello che dice.
A volte l’intenzione è di far sì che «la foresta» stia ben desta e attenta,
in modo da garantirsi la sua protezione. Ma in genere non è presente
alcun intento consapevole, ma solo l’espressione spontanea di una
emozione. Quale emozione? Dai gesti, dall’espressione del volto, dal
tono della voce, da frasi e parole aggiunte in seguito o da tutto questo
insieme si comprende che è un’emozione di amore sessuale. E la
relazione sessuale che unisce alla foresta uomini, donne, ragazzi e
ragazze, è a volte apertamente dimostrata da un movimento erotico del
corpo, che imita l’atto copu- latorio. I giovanotti più spiritosi possono
giungere a specificare verbalmente il proprio desiderio di accoppiarsi
con la foresta. Ciò ha certamente lo scopo di suscitare l’ilarità dei
propri compagni, particolarmente se i movimenti del corpo che
accompagnano la dichiarazione sono ben eseguiti, ma è un motivo che
non regge quando un simile comportamento avviene in privato, come
ho avuto modo di osservare. In quel caso almeno, rappresenta una
comunione intima, forse sessuale, tra l’individuo e la foresta. A volte
questo tipo di emozione è del tipo che non saprei definire se non come
adorazione; e non mi vergogno di usare tale termine pensando alla
gioia che provava Teleabo Kengé mentre in una notte di luna piena
sgattaiolava fino al bopi (il luogo dove giocano i bambini), e là
cantava e ballava in estasi evidente, con un fiore di foresta tra i capelli
e foglie di foresta alla cintura e al perizoma, fatti di cirri e corteccia
anch’essi provenienti dalla foresta. E alla mia stupida domanda (è
sempre stupido domandare ciò che è ovvio), rispondeva: «me bi
na’ndura, me bi na songé», «ballo con la foresta, ballo con la luna».
Di simili esempi del rapporto intimo che gli Mbuti hanno con il
mondo naturale che li circonda, i miei appunti sono pieni. Quelli qui
riportati, comunque, mi sembra possano bastare. Cerchiamo di
avvicinarci un po’ di più al cuore del problema, dunque, senza tentare
di chiarire come sia possibile che una ragazza mbuti possa desiderare
di accoppiarsi con suo «padre»,
o un ragazzo con sua «madre». Gli Mbuti trovano infinitamente
noiose queste questioni, perché non le comprendono affatto. Una volta
mi hanno risposto: «E perché no, allora, un ragazzo con suo padre e
una ragazza con sua madre?», evitando la profanità delle mie
domande con ironia ben centrata. Il sesso in sé e la sessualità non sono
il cuore del problema, per come gli Mbuti vedono il loro mondo. E
poiché è il loro mondo che ci interessa è meglio riferirsi alle loro
categorie.
Il mondo degli Mbuti - così come me lo hanno descritto una
volta, quando vivevo nel mondo non-forestale, sebbene chiaramente
appartenente alla loro foresta - assomiglia a una «sfera». All’interno di tale
sfera, noi in quanto individui (o in quanto popolo, sottolineavano, anche se
ciascuno parlava in termini principalmente individuali) di norma occupiamo il
centro. Quando ci muoviamo nel tempo o nello spazio, la sfera si muove con
noi, e quindi noi continuiamo ad essere al centro di essa. Ciò è in armonia con
il loro uso quasi esclusivo del tempo presente, nonostante abbiano anche un
tempo passato e un futuro; e va anche d’accordo con il loro vocabolario, che è
tale da rendere difficile distinguere ciò che sta davanti (nel tempo o nello
spazio) da ciò che sta dietro. L’attenzione è centrata sul qui ed ora, quindi se
qualcosa non è qui, ora, è poco importante sapere esattamente dov’è, se
davanti o dietro. E perché non di lato, nel tempo e nello spazio?
Però, dicono gli Mbuti, se qualcuno compie un movimento troppo brusco nel
tempo e nello spazio, può accadergli di raggiungere la parte periferica della
sfera prima che questa faccia in tempo a mettersi al passo con lui, e allora una
persona diventa wazi-wazi, disorientata, imprevedibile. E se uno, senza preoc-
cuparsi della sicurezza che deriva dal fatto di restare al centro della sfera,
compie un movimento ancora più brusco, può addirittura perforare la sfera e
passare dall’altra parte, nel mondo fuori di essa. In tal caso, può darsi che
qualcos’altro entri nella sfera, a prendere il posto di chi è uscito. A questo
punto, in genere, gli Mbuti cominciano a parlare della natura dell’acqua e
delle sue caratteristiche riflettenti. Essi dicono che, quando uno si specchia
nell’acqua, vede un’immagine uguale a lui, che fa tutto quello che fa lui, e che
è possibile anche «toccare», se piano piano si appoggia sulla superficie
dell’acqua un piede, fino a farne combaciare la pianta con quella del piede
dell’immagine. Ma cosa accade se si mette il piede dentro l’acqua? L’altro
piede viene su e sparisce nella nostra gamba, e più uno si immerge più
l’immagine dell’acqua entra nel suo corpo, e attraverso di questo passa nel
mondo esterno, che chi si immerge sta abbandonando. E se uno si immerge
completamente, ad esempio per attraversare il fiume sott’acqua, quando rie-
merge dall’altra parte ha luogo il processo inverso. Allora, qual è la persona
reale, e quale il mondo reale? Qualcosa di simile accade, dicono gli Mbuti,
quando vengono attraversati i confini sicuri e noti della sfera di
ciascuno di noi. Il termine che usano per indicare la sfera è uno dei
tanti con cui identificano l’utero.
Ovviamente non pensano all’utero in senso letterale, e cercavano
di spiegarmelo ricorrendo a parole alternative, quando parlavano con
me. Stomaco, ad esempio. Ma il termine non li soddisfaceva, perché
temevano che io potessi intendere che alludevano a un vero stomaco,
o che interpretassi l’analogia nel senso errato o comunque in senso
troppo esteso; e quindi precisavano «lo stomaco del parto», che è un
altro dei loro modi di nominare l’utero. Un altro termine alternativo,
che appariva più soddisfacente di stomaco, era enclu, cioè l’abitazione
a forma sferica in cui vivono, fatta di rami e foglie presi dalla foresta,
che offre loro riparo e protezione, calore e comodità.
Spostiamoci adesso da questo utero a un altro, quello vero e
proprio della madre incinta. Il figlio che essa porta in sé è stato
concepito per mezzo di un atto gioioso, perché tale è per gli Mbuti
l’atto sessuale, così come dovrebbe esserlo ogni atto della creazione.
L’atto sessuale è anche un atto sacro quando ha lo scopo del
concepimento. Tale atteggiamento si evidenzia in diversi modi, che
verranno discussi più oltre, quando parleremo dei giovani. Per il
momento il giovane non è ancora nato. Usiamo il genere maschile per
indicarlo, specialmente per comodità, onde più agevolmente
distinguerlo dalla madre, sebbene una siffatta distinzione potrebbe
apparire criticabile agli occhi degli Mbuti. È mia intenzione seguire
l’evoluzione di questo giovane dall’utero fino all’età adulta, allo scopo
di identificare alcuni dei diversi fattori che contribuiscono a
trasformare le giovani vite in adulti sostanzialmente non-aggressivi,
nonviolenti.
Anche dopo i primi sintomi inequivocabili di gravidanza, i
rapporti sessuali tra marito e moglie possono continuare, secondo le
preferenze individuali. Alcuni sostengono che il prolungamento del
coito fino all’epoca del parto facilita le cose ed anche le affretta. Altri
sono di opinione differente. Secondo quanto ho potuto constatare dalle
coppie mbuti che ho conosciuto bene, è la donna che decide, in base a
ciò che fa «star bene» lei e il piccolo dentro di lei. È possibile che la
stessa persona si comporti in modo diverso da una gravidanza
all’altra. Comunque, in genere, la futura madre continua la sua vita
quotidiana normale, quasi senza cambiamenti, fino al giorno del parto.
Progressivamente, però, tende a evitare le attività che
l’impegnerebbero troppo sul piano fisico o su quello emozionale.
Significativamente, è possibile notare la comparsa di piccoli segni che
indicano come essa risponda positivamente, piuttosto che
negativamente, alla propria condizione. Pur essendo in genere una
questione di scelte individuali, il modo più frequente con cui una
donna manifesta la propria gravidanza consiste nell’adornare il
proprio corpo di foglie e fiori, forse in preparazione, come Kengé, di
una danza di adorazione. È chiaramente una forma di consacrazione e
lo stesso può dirsi dell’abitudine, durante gli ultimi mesi, di andarsene
per conto proprio per la foresta, nel posto favorito, a cantare la ninna-
nanna al figlio nascituro.
Queste ninne-nanne hanno alcuni caratteri propri. Sono l’unica
forma tradizionale di canto mbuti che può essere cantata in assolo
(quindi quando Kengé cantava, pensava alla foresta come a suo figlio?
E possibile). Sono composte dalla madre, specificamente per il figlio
che porta in sé. Non vengono cantate per altri, né da altri. Pur essendo
possibile che io non sappia considerare con proprietà qualche fattore
biologico importante, se non altro per la mia incompetenza in materia,
voglio comunque ricordare, a questo proposito, che tutti ammettono
che le modificazioni fisiologiche del corpo materno possono esercitare
un’influenza fisiologica sul nascituro3. A quanto pare, l’intelligenza si
desta già nell’utero e ciò mi sembra estremamente significativo, dal
mio punto di vista puramente etnografico: le madri mbuti, infatti,
cominciano a trattare i propri figli come esseri intelligenti già tre o
quattro mesi prima che vengano al mondo. Inoltre, esse attribuiscono
loro la medesima intelligenza (anche se non le medesime conoscenze)
degli adulti. Nelle ninne-nanne non vengono usate cantilene fatte di
parole prive di senso, incomprensibili tanto per la madre come per il
figlio. Lo scopo di ciò è chiaro: sono canti informativi e rassicuranti,
di conforto, esattamente come lo sono le azioni della madre.
La futura madre compone una dolce ninna-nanna rassicurante e la
canta muovendosi come se si cullasse, a volte con le mani appoggiate
al ventre, oppure agita dolcemente mani e piedi nell’acqua del suo
ruscello favorito o tra le foglie, oppure si scalda al calore di un fuoco.
Allo stesso modo parla al figlio dentro di sé, dicendogli del mondo
forestale che lo accoglierà alla nascita, ripetendo frasi semplici, simili
a quelle che canta gioiosamente alla foresta quando partecipa a una
caccia: «La foresta è buona, la foresta è gentile: mamma foresta, papà
foresta». Ne ho udite alcune fare delle vere e proprie conversazioni
dettagliate, descrivendo il luogo dove il piccolo sarebbe venuto al
mondo, gli altri bambini con cui avrebbe giocato e sarebbe cresciuto, e
anche raccontando che, da qualche parte, c’era un altro bambino o
bambina, che doveva ancora nascere, con cui un giorno si sarebbe
sposato. In questo modo, al piccolo viene descritto sia il mondo fisico
sia quello sociale.
Il fatto che il nascituro non sappia ancora parlare, e quindi ben
difficilmente possa comprendere il significato delle parole
pronunciate, ha scarsissima importanza. Né mi angustiano i dubbi,
avanzati da qualcuno, circa la possibilità che i contenuti emozionali
delle parole, dei pensieri e delle azioni materne possano
effettivamente essere comunicati alla sua coscienza, sebbene
personalmente io non condivida tali dubbi. Dal mio punto di vista,
l’importante è che in questo modo per lo meno la madre rafforza il
proprio concetto di mondo, e si prepara all’atto creativo che l’aspetta
rassicurando se stessa che la foresta sarà per suo figlio buona e gentile
tanto quanto lo è stata per lei, fornendogli abiti, cibo, riparo, calore, e
soprattutto affetto. Un simile senso di fiducia è, già di per sé, di buon
auspicio per una vita che deve sbocciare e, fino a prova contraria, non
vedo perché non si debba credere che qualcosa di ciò possa essere
comunicato al nascituro nel grembo materno, dal momento che i
piccoli nascono, crescono e passano via via attraverso l’infanzia,
l’adolescenza, l’età adulta, rassicurati da una fiducia quasi incredibile
in tutti questi nuovi mondi, come se ciascuno di essi non fosse che una
forma diversa della loro sfera iniziale, l’utero.
Nei giorni immediatamente precedenti il parto può accadere che
la madre riduca drasticamente le proprie attività, evitando anche di
uscire tutti i giorni a caccia con gli altri, sebbene non sia infrequente
che qualche ragazza partorisca proprio nel corso della caccia,
semplicemente restando indietro, da sola o con un’amica, per il tempo
necessario e riunendosi al gruppo un paio d’ore più tardi. Comunque,
è norma che, qualche giorno prima dell’evento, durante uno dei suoi
solitari appuntamenti con la foresta, magari mentre canta
indirizzandosi al figlio come a un amante, la madre scelga una liana
da cui trarre la sua ovatta preferita. Essa taglia la liana, la porta al
campo, e con un mazzuolo ricavato da una zanna di elefante la batte
fino a trasformarla in un pezzo di ovatta soffice, profumata, pulita e
chiara, come il le-enghe o l’esele. 11 profumo deve essere gradevole
per il bimbo e il colore chiaro serve forse a riflettere un po’ di luce
nell’oscurità della capanna dove egli passerà i suoi primi giorni di
vita, o forse è scelto soltanto perché, come dicono molte madri mbuti,
il chiaro «sta bene» ai bambini. Soprattutto è importante che il
profumo sia dolce, non acre come quello di alcune ovatte vegetali, e
che la consistenza sia morbida quel tanto che basta, ma non troppo,
perché un po’ di ruvidità convince il piccolo di essere nel grembo
protettivo della foresta ed è perciò rassicurante. Gli Mbuti dicono che i
loro antenati erano nati dagli alberi, quindi cosa ci può essere di più
rassicurante, per un bimbo mbuti, del profumo e della consistenza di
un albero? Una volta fabbricato il pezzo di ovatta, la madre può
decorarlo con motivi ornamentali dipinti con il succo del kangai, il
frutto della gardenia.
Il concepimento è frutto dell’amore e della gioia. Lo stesso può
dirsi del parto. Se la madre è da sola, si accovaccia sulle anche o siede
su di un tronco. Se ritiene che ci possano essere delle difficoltà, si
sdraia a terra, appoggiando i piedi contro un albero. Qualcuna fa
passare una liana attorno al tronco e vi si regge. Di più non so dire,
perché ho sempre assistito solo ai preparativi del parto, ritenendo che
quanto perdevo, accettando di non intromettermi in nome della
scienza, veniva compensato in altro modo. Ad esempio, quando mi
parlavano del parto, se c’era qualche argomento che le donne mbuti
preferivano non toccare, me lo dicevano senza difficoltà. Io evitavo di
violare la loro intimità ed esse in cambio mi dicevano la verità quando
accettavano di parlare. Comunque, appare improbabile che tutte le
madri che hanno parlato con me, chiedendomi di allontanarmi solo
quando era il momento del parto vero e proprio, mi abbiano raccontato
le medesime menzogne. Molte dicevano, ad esempio, che in
previsione di un parto difficile, poteva accadere che un’amica si
sedesse di fronte a loro, piede contro piede, «come gli alberi della
foresta».
Ma a quanto pare, è raro che si presentino problemi di parto,
anche di minore importanza. Il piccolo viene al mondo facilmente,
aiutato solo dalle mani della madre o di un’amica, e immediatamente
viene deposto sul seno materno, mentre la donna è ancora distesa a
terra. Il cordone ombelicale non viene tagliato subito. Comunque, non
esiste un momento preciso in cui effettuare il taglio, esso può
avvenire, si dice, nel giro di pochi minuti come di un’ora, più o meno.
Qualche tempo dopo che il cordone è tagliato, il padre e gli intimi
vengono invitati a vedere il piccolo, che ormai sta poppando
allegramente. Le donne dicono che questa è una decisione che la
madre prende con il piccolo. Non riesco a ricordare un solo caso in cui
il momento della nascita sia stato segnalato da un pianto acuto e
prolungato. Tutte le volte che sono stato presente a un parto nel
campo, poteva accadere che il neonato facesse un paio di stril- letti, al
massimo, come per lamentarsi di qualcosa che gli veniva fatto e che
non gradiva. Ma in genere aveva di meglio da fare che piangere:
esplorare il corpo di sua madre, sentirne il calore, sperimentare la
sensazione nuova e gratificante di succhiarne il latte, rassicurato dal
suono familiare della sua voce che gli cantava la sua ninna-nanna,
cullato a un ritmo già noto.
A questo punto il lettore si chiederà quale rapporto esista tra tutti
questi dettagli descrittivi e il problema della non-aggressività e della
non violenza. Ebbene, tutto, può avere rapporto con quel problema.
Infatti, se i bambini non venissero al mondo accompagnati da questa
fiducia, se la nascita non fosse come invece è, una meravigliosa
avventura felicemente conclusa, in cui il bimbo si sposta da un
grembo a un altro assai simile al primo, e se tale modello educativo
non venisse uniformemente seguito anche dopo, nei passaggi
successivi all'infanzia e all'adolescenza, come sarebbe possibile per il
bimbo, o l'adulto, affrontare il mondo incrollabile sicuro della sua
definitiva bontà, come appunto fanno gli Mbuti? Se la sua prima
esperienza del mondo esterno glielo facesse apparire troppo dissimile
dall'ambiente sicuro del grembo materno, la sua nascita sarebbe
caratterizzata da un senso di incertezza e di comprensibile timore. E la
medesima sensazione di shock e di sorpresa di fronte
al nuovo, la medesima insicurezza, la medesima disgraziata necessità
di affrontare l’ignoto, si ripetesse periodicamente durante tutte le fasi
dell’esistenza, appare legittimo immaginare che la reazione, del tutto
ragionevole, di fronte a ogni situazione nuova non potrebbe essere che
di timore, paura, sospetto, ostilità, se non di violenza vera e propria.
Gli Mbuti, invece, non hanno mai'questo tipo di reazione. Né
reagiscono in alcun altro dei modi considerati come verosimili
conseguenze di cambiamenti improvvisi, di situazioni impreviste, cioè
situazioni in cui si è passivi, indifesi, depressi. E neppure mi risultano,
dai miei studi o dalla letteratura, casi di disturbi da «stress» 4. Perché
mai un neonato mbuti dovrebbe imparare ad essere aggressivo,
quando sta attaccato al petto di sua madre per un periodo anche più
lungo di quello che ha passato nel suo grembo, durante il quale la
madre soddisfa tutte le sue necessità proprio come accadeva prima
della nascita? Mettere alla prova i figli è certamente produttivo e
necessario, ma le madri mbuti lo fanno in modo «razionato», sì da non
compromettere mai, nemmeno per un momento, la fiducia nel
successo finale, la fiducia nella bontà complessiva della foresta-sfera-
utero.
In genere, dopo un periodo di circa tre giorni, durante il quale la
madre sta nella sua capanna sferica con un paio di amiche intime ed è
l’unica persona ad avere col figlio un contatto praticamente
ininterrotto, il neonato viene presentato al campo. È un momento
atteso da tutti, specialmente dal padre che, a volte, in tale occasione
vede il figlio per la prima volta. La madre esce dalla capanna, tenendo
in braccio il piccolo avvolto nel suo le- enghe profumato e lo porge a
qualcuno dei suoi familiari più intimi, non solo perché lo guardino, ma
perché lo prendano e se lo stringano anch’essi al petto. Da luogo così
a un altro evento educativo nella giovane vita: a tre giorni di vita, il
piccolo impara che esiste una pluralità di corpi caldi, simili quanto a
tepore (il che è rassicurante) ma diversi quanto a odori e ritmo di
movimento, e ciò può apparirgli abbastanza sconcertante da farlo
piangere, in segno di protesta. S questo accade, immediatamente sua
madre se lo riprende e gli offre il seno; come primo giorno di scuola
nel nuovo mondo è sufficiente. Ecco come il modello iniziale di
prevedibilità e sicurezza viene moltiplicato, e ciò vale per tutto il
processo educativo: lezioni vitali come quella della non-aggressività
vengono apprese attraverso una pluralità di modelli.
Certamente l’immagine che il neonato riceve del nuovo mondo è
un’immagine vaga, indistinta, come tutte le altre immagini che riceve
attraverso la vista. Ma la vista non è l’unica via di percezione. Gli
Mbuti danno pari importanza a tutti i sensi. All’interno delle capanne
la luce è sempre piuttosto scarsa, tuttavia è possibile vedere le madri
che stanno sedute accanto alla porta, nei primi giorni dopo il parto,
come se volessero abituare i loro piccoli alla luce del giorno. Ma
anche nel campo la luce è tenue e fresca, filtrata attraverso le chiome
degli alberi, che si riuniscono in alto formando un altro tipo di sfera
che non mancherà di dimostrarsi altrettanto protettiva e benefica di
tutte le altre. Comunque, dopo l’iniziale presentazione della sfera
principale in cui si svolgerà la vita del fanciullo, il campo di caccia, la
madre riporta il piccolo in casa. Ora il padre può seguirla e gli amici
andare a farle visita, almeno finché il bimbo non protesta. In siffatte
occasioni il fattore-guida che regola costantemente il comportamento
è questo: quando un neonato è messo di fronte a qualcosa di nuovo
che non riesce a pire e reagisce piangendo, subito la madre se lo porta
al seno, ripristinando la sensazione familiare di sicurezza e protezione.
L'infanzia, però, non è affatto un periodo di protezione totale,
piuttosto, è un periodo di sperimentazione controllata e di continuo
apprendimento. Stranamente, è raro che dopo il parto le madri parlino
con i propri figli allo stesso modo in cui parlavano loro durante la
gravidanza e sembra che i piccoli imparino a parlare più ascoltando le
madri che chiacchierano con gli altri adulti che attraverso
un’istruzione diretta. Come prima, comunque, non è usata alcuna form
di "linguaggio per bambini". In genere, il piccolo riceve un nome poco
tempo dopo essere stato presentato al capo e da quel momento in poi
viene trattato come una persona completa, dotata di diritti individuali.
Il primo nome viene di solito deciso della famiglia e dagli amici
insieme, per lo più ispirandosi a qualche forma di vita forestale,
animale o vegetale. In quest’epoca, la madre lascia al piccolo grande
libertà di esplorazione, in modo che possa fare le proprie esperienze
direttamente. Mentre fa da mangiare, ad esempio lo mette giù e lascia
che esplori il letto di foglie sul quale dormono insieme, sì che il
piccolo si familiarizzi sempre più con la sensazione rassicurante
dell’odore e della consistenza di esso. Ben presto accade che il bimbo
riesca a strisciare fino all’estremità della capanna e può così osservare
i pali che ne costituiscono l’intelaiatura, le foglie che formano la
copertura che arriva fino a terra. I pali costituiscono forse una nuova
esperienza, ma per lo meno le foglie sono familiari, in quanto
provengono dalla stessa essenza usata per fare le stuoie dove si dorme.
Sta di fatto che dalla vita del bambino viene tolta qualunque
forma di violenza deliberata, fisica o psicologica. Il dolore di uscire
dall’utero, l’esperienza insolita di riempirsi i polmoni d’aria, la
percezione della luce e, più in generale, la sensazione visiva, del tutto
estranee al mondo della prima sfera-utero del bambino, tutte queste
sensazioni dolorose vengono adeguata- mente gestite, come indica la
mancanza di vivaci proteste vocali. I suoni più frequenti che il neonato
emette più che strilli sono gorgoglìi, ma non di soffocamento (le vie
respiratorie gli vengono rapidamente liberate), piuttosto di piacere per
la scoperta che questo mondo nuovo non è poi così diverso, dopo
tutto. Mentre giace da solo sul letto di foglie c’è ben poco che gli
possa provocare disagio o senso di solitudine, perché finora (e per
qualche tempo ancora) ha visto in sua madre - suo rifugio principale,
suo primo contatto con l’umanità ed anche suo primo modello di
comportamento umano - una totale assenza di violenza, almeno per
quello che i suoi sensi gli permettono di constatare. Ma se
l’educazione che riceve è graduale e inizialmente libera dalla violenza,
non per questo è priva di ordine; inoltre, prima o poi, essa deve
prendere in considerazione la violenza, in modo che il piccolo possa
imparare ad affrontarla, altrimenti sarebbe un’educazione incompleta.
Vediamo come tutto ciò viene organizzato.
Per gli Mbuti esistono quattro principi fondamentali di
organizzazione sociale, che corrispondono alle quattro aree principali
nelle quali è più probabile possano presentarsi dei conflitti. Tali aree
sono chiaramente riconosciute dagli Mbuti: il potenziale conflittuale
insito in ciascuna di esse viene manifestato in forma rituale, oltre ad
essere tenuto a freno da specifiche istituzioni sociali. Esse sono il
territorio, la famiglia (o comunque la parentela), l’età e il sesso. Man
mano che il neonato cresce, abbandonando l’infanzia per entrare nella
fanciullezza e nell’adolescenza, queste aree, più o meno in tale ordine,
vengono progressivamente esplorate, sia come principi organizzativi
sia come ambiti pericolosi all’interno dei quali possono verificarsi
conflitti e scoppi di violenza. In questo modo egli acquisisce gli
strumenti per far parte di una comunità ad elevato livello di
integrazione e organizzazione, quanto ad azioni e convinzioni, e la
natura della sua esperienza educativa è tale da consentirgli anche di
affrontare i conflitti, quando si presentano, senza quel timore che
viene dall’isolamento individuale e dalla competitività. Al contrario, la
sua esperienza lo porta fin dalla giovinezza a immettersi in qualunque
situazione di stress con una fiducia che è proprio la sua arma più
efficiente contro lo stress. Tale fiducia è ben sostenuta dalla
disponibilità di un repertorio completo di tecniche ed abilità
specificamente destinate alla risoluzione dei conflitti, che vengono
apprese e praticate fin dall’infanzia. Una certa sensazione di
insicurezza è possibile, ma non quel senso di minaccia che conduce
inevitabilmente a una risoluzione violenta dei conflitti.
L’educazione del fanciullo non viene programmata dagli adulti in
modo rigido; in un certo senso essa riguarda simultaneamente tutte e
quattro le aree prima viste, ma poiché lo strumento disponibile per
primo, i sensi, è adatto a una precoce esplorazione del territorio e della
parentela, l’età e il sesso vengono rimandati a un’indagine successiva,
quando sono più sviluppate l’intelligenza e la capacità di
ragionamento.
L’epoca giusta per l’esplorazione del territorio è certamente
l’infanzia. Dopo tutto, l’utero era un territorio chiaramente definito e
ora che ne è uscito il neonato utilizza tutti i suoi sensi per scandagliare
il nuovo territorio in cui si trova, sua madre, operazione che inizia già
prima che egli venga fisicamente separato da lei col taglio del cordone
ombelicale. Nel giro di poche settimane di vita, non c’è un palmo di
questo nuovo territorio che il neonato non abbia esplorato. E durante
l’esplorazione dei confini relativamente familiari del corpo materno,
che avviene in totale sicurezza, egli viene continuamente messo a
contatto con altre sensazioni che in futuro resteranno anch’esse
associate con un senso di totale sicurezza. Alla nascita, ad esempio, il
bimbo riceve un bagno, ma non nell’acqua di un ruscello della foresta,
anche se essa sarebbe sufficientemente idonea. L’acqua per il bagno
viene invece da una delle molteplici gigantesche piante rampicanti
della foresta, le quali, incise, emettono un liquido profumato, sacro
come tutto ciò che proviene dalla foresta, e certamente assai vicino
all’intima essenza della foresta stessa. Anche la madre preferisce usare
quest’acqua per lavarsi e per bere, di solito, durante le prime settimane
successive al parto. Il piccolo viene avvolto in una copertina di ovatta
vegetale. Intorno al collo, polsi, caviglie, gli vengono posti ornamenti
di fibra vegetale, cui a volte sono fissati pezzetti di legno. Il bimbo
esplora ed esamina tutti questi oggetti, già prima di imparare a
muoversi carponi. Egli li annusa, li tocca, li sente, li «ascolta»,
esattamente come annusa, tocca, sente e ascolta sua madre. Si accorge
che anch’essa ha qualcosa di simile al collo ai polsi, in vita, alle
caviglie, ed ha sul corpo il medesimo profumo della linfa delle liane
forestali.
Ed ecco che è tempo di nascere di nuovo, uscire in un’altra sfera,
la sfera dell'endu, cioè la capanna fatta di rami e foglie provenienti
dalla foresta. Appena impara a camminare carponi il bimbo si mette ad
esaminare il pavimento dell’endu altrettanto minuziosamente che il
corpo di sua madre. Può incontrare dei guai: una spina introdotta
inavvertitamente dal padre di ritorno dalla caccia, un insetto pungente
o il margine tagliente di qualche foglia. Ma invece di avvisarlo del
rischio, la madre preferisce che egli lo scopra da solo o si limita ad
aiutarlo a scoprirlo, a scoprire i pericoli potenziali insiti nelle cose e il
modo di evitare ildolore o alleviarlo prontamente. Può accadere che il
piccolo cerchi anche di condurre un’indagine in senso verticale,
attaccandosi all’impalcatura interna dell'endu per sollevarsi. In tal
caso, è facile che la madre lo aiuti a compiere l’operazione e
comunque non cerca di impedirgliela. Se cade o si produce qualche
male di poco conto nel corso delle sue esplorazioni, la madre
interviene rapidamente a confortarlo, per poi lasciarlo libero di
proseguire i suoi tentativi. Nel corso di poche settimane, tutto l'endu
viene accuratamente esplorato, con la sola eccezione delle sue
porzioni superiori, e il piccolo è pronto per un’altra nascita, che
stavolta lo porta all’interno della sfera dell’apa, il campo.
Avendo passato tanto tempo disteso sulla schiena all’interno del
mio piccolo endu nella foresta Ituri, so perfettamente quanto tale
esperienza rassomigli a quella di giacere sdraiato in mezzo all'apa. In
entrambi i casi, ci sono delle pareti di legno (rami o alberi) e di foglie:
la differenza sta solo nelle dimensioni. L’assetto della copertura di
rami e foglie dell'apa è meno regolare di quella dell 'endu, e a
differenza di questa cambia continuamente. Ma in entrambe le sfere è
presente il medesimo odore diffuso di legna che brucia, e anche se
nell’apa esso proviene da molti fuochi (ecco di nuovo la pluralità dei
modelli) e da molte direzioni, tutte sono tranquillamente esplorabili,
perché se l’odore che emana dagli altri endu è così simile a quello del
proprio endu, luogo certamente sicuro, gli altri endu non possono che
essere sicuri a loro volta.
Dunque i bimbi arrancano tranquilli per tutto il campo e imparano
un’altra lezione importante, che riguarda sia il territorio sia la
parentela. Imparano che più si allontanano dal nucleo della propria
famiglia, più aumenta il rischio di incontrare pericoli. La cosa può
essere eccitante, è vero: sembra infatti che il piccolo mbuti non possa
fare a meno di andare a ficcare il naso in tutti gli angoli e gli anfratti, e
l’osservatore si aspetta da un momento all’altro di vederlo sgattaiolare
fuori dal campo per andare a vedere la foresta. Ma questa è
un’avventura dello spirito che avrà luogo più tardi: per il momento
egli si attiene ai confini del campo. Comunque, può accadere che vada
a finire in un punto del campo dove non c’è nessuno, ad esempio
perché tutti sono andati a caccia. Alle coppie giovani è lasciata più
libertà di restare al campo, quando gli altri vanno a caccia, ed esse
fungono così da guardiani, insieme a quelli che sono rimasti a casa per
malattia, vecchiaia, o anche pigrizia. In ogni caso, durante la caccia il
campo è in gran parte deserto. In tale situazione, i bambini imparano
due cose. Una è che se non escono dal territorio definito dai suoni,
odori, sensazioni eccetera, che essi associano con la sfera del proprio
endu e della propria madre, in caso di guai riceveranno conforto
immediato. L’altra è che se, invece, entrarono in un territorio diverso
dal proprio, anche se simile, e si mettono nei guiai, verranno
confortati, ma da un tipo diverso di madre, con un odore, un tocco e
un aspetto diversi. Nella fattispecie, potrebbe essere un vecchio o una
ragazzina o qualcun altro. In qualche modo ciò allarga il concetto che
il piccolo ha
della maternità ed anche il suo senso di sicurezza, perché così impara
di avere più madri, e più territori sicuri. Essi però non sono proprio
altrettanto sicuri del suo utero-madre originale e se accade che il
piccolo arrivi in un territorio dove nessuna "madre" è presente, è facile
che si verifichi qualcosa di completamente nuovo se gli capita di
mettersi nei guai. Il suo specifico utero-madre interverrà a toglierlo
(ad esempio) dalle braci dove è caduto, ma stavolta, invece di
portarselo al seno, offrirgli da poppare e confortarlo con la consueta
canzoncina, è facile che gli dia uno scopaccione e lo porti via
tenendolo per un braccio o u per una gamba e deponendolo a terra,
una volta arrivati al sicuro nel territrio famigliare, con inaspettata
rudezza. Il piccolo ha avuto la sua prima lezione di vera socialità o
reciprocità.
Fino a questo punto, il piccolo ha imparato una sottile combinazione
di dipendenza e indipendenza. Infatti era libero di muoversi per
esplorare i diversi mondi in cui successivamente è venuto a trovarsi,
ma per le proprie necessità fondamentali, per la sua sopravvivenza,
dipendeva completamente dalla madre. Adesso impara invece che il
gioco prevede alcune restrizioni, specialmente rispetto alla sua libertà
di movimento. Alcuni territori sono più sicuri di altri, alcuni non
devono essere violati (ad esempio, se entra nell’ endu di qualcun altro,
viene sculacciato o sgridato), e nonostante tutta quella gente
dall’apparenza materna, si accorge che tutti pian piano cominciano a
chiedergli qualcosa. Per il momento lo scopo di ciò coincide col suo
stesso bene, in quanto la disciplina che gli Mbuti insegnano ai figli in
questo periodo serve solo a impedire loro di mettersi nei pericoli,
come ad esempio finire dentro un fuoco. Solo quando imparerà a
camminare, nel giro di qualche mese, e sarà in grado di stare insieme
con altri coetanei e creare con essi il proprio territorio (il bopi, il
terreno di gioco), verrà disciplinato allo scopo di non «arrecare
fastidio» agli altri.
Nel frattempo, viene formalizzata la sua prima lezione di
classificazione della parentela. Egli ha già imparato che può fare
affidamento su di un certo numero di persone, in genere molto più
vecchie di lui, che egli classifica come «madri» (ema). Nel suo
secondo anno, però, verso la fine di esso, accade che la persona che
vedeva condividere con sua madre il letto di foglie, il cui odore,
suono, aspetto e ritmo gli sono quasi altrettanto familiari, e che ha
imparato a riconoscere come totalmente sicura, questa persona,
dicevo, può mettersi ad accarezzarlo così come fino ad adesso faceva
sua madre. A due anni, o prima, il padre prende il figlio e se lo porta al
seno, e a volte lo incoraggia perfino a cercare di poppare. Per il
piccolo la situazione è abbastanza familiare, e quelle carezze, che
tanto rassomigliano a quelle di sua madre, lo inducono a cercare il
latte. Al posto del latte, invece, riceve il suo primo cibo solido. Ecco
che gli si presenta un tipo di madre diversa, che gli offre tutto quello
che la madre gli ha sempre dato, calore, riparo, affetto, e anche cibo,
ma che non proviene dal seno, proviene dalla bocca stessa di questa
«madre», o dalle sue mani. In questo modo il piccolo impara a
riconoscere tra ema e eba, madre e padre, ma anche ad assimilarli
l’uno all’altra. La relazione con essi è fondamentalmente la stessa, di
fiducia e dipendenza e anche di obbligo, perché adesso c’è un’altra
persona che gli può dare scapaccioni, invece che conforto, quando si
fa male.
Col passare del tempo questi scapaccioni sono sempre più
frequenti, ma non sono mai forti e in nessun senso possono essere
considerati violenti. C’è sempre un momento in cui il piccolo viene
confortato se non riesce ad affrontare la situazione, ritirandosi a fare
qualcosa di «lecito» all’interno dei confini sicuri del suo territorio. Ma
la lezione che gli è stata data sulla famiglia o sulla parentela è
inequivocabile. Non ha niente a che vedere con odori o suoni comuni,
con la biologia umana; ha a che vedere con un territorio più grande,
ì’apa, distinto da quello più piccolo, sicuro ma anche più ristretto,
dell’endu. Adesso chiunque gli si presenti alla vista (o agli altri suoi
sensi) come somigliante a suo padre o sua madre, quanto a dimensioni
e caratteristiche, si aspetta da costui (o costei) lo stesso trattamento di
suo padre o sua madre. Può aspettarsi di ricevere tutte le volte che
vuole quel nuovo tipo di cibo solido che sta imparando a mangiare ed
anche ricevere conforto e affetto, oppure punizioni se infrange le
poche e semplici regole del gioco.
Impara a chiamare tata (nonno) tutte le altre persone diverse da
padre e madre, senza distinzione alcuna di sesso o parentela biologica;
impara anche che su queste persone può fare certo affidamento ma è
difficile che esse lo puniscano come gli altri. Anzi, questi tata sono
coloro cui può rivolgersi per essere confortato quando i vari ema/eba
gli negano tale possibilità. C’è anche un altro gruppo che il piccolo
impara a riconoscere, ma è più difficile da definire: sono persone che
in certi casi si comportano come ema/eba, in altri come tata e si
rivolgono a lui, e tra loro, con l’appellativo di apua’i (fratelli/sorelle).
All’età di due anni, quando ormai ha appreso tutte queste parole e
molte altre ed è in grado di parlare agevolmente, oltre che di correre e
camminare, egli incomincia a stare sempre più con i bambini degli
altri endu, e questi apua’i lo introducono in un territorio ancora
diverso, il bopi. È il momento in cui prende contatto con
quell’importante principio di organizzazione sociale che, almeno per
gli Mbuti, è l’età. Pur essendo stato indotto a rendersi conto delle
differenze territoriali, e di quelle familiari, o di «parentela», egli non
ha ancora sviluppato la facoltà5 di affrontare razionalmente i conflitti
connessi con tali differenze. Allo stesso modo, non gli viene chiesto di
affrontare i conflitti connessi con la suddivisione per età, ma solo di
prendere atto delle differenze che esistono tra bambini, giovani, adulti
e anziani. Tutti questi gruppi sembrano avere territori loro propri e
attività loro proprie; sono categorie che si presentano come ben
distinte, con rapporti reciproci ordinati.
È nel bopi che il fanciullo, nell’età compresa tra i due-tre anni e
gli otto-nove comincia ad affrontare il problema del conflitto,
dell’aggressività, della violenza. Tanto per cominciare, il suo mondo è
ancora soprattutto fisico ed emozionale, piuttosto che razionale. Le
attività che si svolgono nel bopi sono in massima parte fisiche, ma
cominciano a dare una direzione agli sfoghi emozionali che sarà
confermata in modo più razionale allorché il bambino lascerà il bopi
per entrare nell’adolescenza. Tuttavia i problemi conflittuali non sono
ancora affrontati direttamente, bensì indirettamente, attraverso la
chiarificazione ed espansione crescenti dell’opposizione che divide
reciprocamente le quattro principali aree di conflitto potenziale. Il
bambino, ad esempio, ha già avuto modo di notare non solo la
distinzione dell’intero territorio dell’apa in diversi territori, ciascuno
relativo a un particolare endu, ma anche il fatto che gli endu,
all’interno del campo, tendono a riunirsi in gruppi che si
contrappongono vicendevolmente. Tale opposizione, forse, gli si è
manifestata attraverso la constatazione crescente della presenza di
rapporti emozionali all’interno del campo, ma con l’acutezza propria
dei bambini mbuti egli non manca di notare che la medesima
contrapposizione fisica esistente tra un gruppo e l’altro esiste anche, a
volte, tra singoli endu. Rappresentate sulla carta, tali contrapposizioni
invariabilmente si concretizzano in linee di fissione e di fusione che
percorrono il campo (si veda la FIGURA 1), e costituiscono un chiaro
esempio di contrapposizione (in senso fisico) priva di ostilità, in
quanto disporre il proprio endu direttamente davanti a un altro endu
del campo, o di una sua suddivisione, equivale ad offrire un
particolare rapporto di amicizia e fiducia, o a richiederlo.
Cionondimeno, ciò contribuisce a creare quel tipo di relazione intima
da cui può sorgere un conflitto, come quando il bambino, secondo
quanto gli è stato insegnato, guarda direttamente negli occhi qualcuno.

FIGURA 1.1 focolari degli endu sono concepiti come contrapposti


affettivamente l’un l’altro, attraverso il campo. All’incirca dove le
linee d’opposizione s’intersecano, ci può essere un focolare centrale,
acceso con braci prese dai focolari individuali, che simbolizza
l’alleanza d’un gruppo di endu in contrapposizione a un’alleanza
simile in un’altra parte dell'apa. Il bopi è esterno ed estraneo a queste
alleanze interne al campo.

Ora il bambino ha un’altra contrapposizione da tener presente,


quella tra il bopi, il territorio dei bambini, e l'apa, il territorio degli
adolescenti, degli adulti e dei vecchi. E all’interno del bopi si viene a
manifestare ancora un’altra contrapposizione, quella tra due principi
fondamentali di raggruppamento, l’età e la parentela. Il
raggruppamento familiare d’origine, quello dell 'endu, è ora
attraversato dal raggruppamento d’età, che così gli si contrappone.
Agevolmente il bambino, con la familiarità dell’esperienza, trasferisce
alla nuova sfera la propria fiducia e sicurezza, e scopre che tale fiducia
e sicurezza non sono mal riposte. I suoi coetanei gli danno il
medesimo senso di sicurezza che ha avvertito in tutte le sfere
precedenti, e d’altro canto quando ritorna al l'apa dal bopi vede che la
precedente fonte di sicurezza è ancora lì, che la sfera del suo endu e di
sua madre sono ancora intatte. Tutto gli appare garantito, e il nuovo
senso di sicurezza non entra in conflitto con il vecchio.
Come si è detto, le attività del bopi sono fondamentalmente
fisiche. Non possono essere definite gare in quanto non hanno
carattere competitivo. Più che altro, sono passatempi o sport. Il fatto
che le attività competitive siano assenti ha un’importanza
inestimabile. L’unica attività competitiva incoraggiata presso gli
Mbuti è quella che si svolge nell’intimo della persona, tra l’individuo
e la sua abilità. Per vincere, egli deve migliorare il più possibile i
propri difetti, ma anche controllare i propri pregi. Diventare migliore
(o peggiore) degli altri significa perdere Se una certa capacità
individuale ha dei limiti fisici, come nel caso di qualche handicap,
allora diviene lecito sviluppare in modo eccezionale, per
compensazione, qualche altra attitudine. In parole povere, lo scopo è
l’eguaglianza, realizzata attraverso la non-competitività.
Qualche esempio di questi passatempi varrà a dare un’idea del
tipo di apprendimento che ha luogo in un bopi. I bambini più piccoli,
abituati come sono ad esplorare tutti i rapporti con il mondo naturale,
cominciano ad esaminare le liane che pendono dagli alberi,
attaccandosi ad esse e rafforzando i loro muscoli mentre
contemporaneamente imparano a conoscerle. Si arrampicano e si
dondolano, e ben presto imparano a saltare da una all’altra e a roteare,
il che può essere fatto in una molteplicità di modi, da soli o in
compagnia. Alla fine si arriva al più difficile di questi giochi, nel quale
viene costruita un’altalena con una grossa liana appesa in mezzo a due
alberi. Solo gli adolescenti sono abbastanza forti e agili per questo
gioco, ma esso si svolge comunque sul terreno del bopi. La liana è
attaccata a un’altezza di circa dieci metri dal suolo, ma nel suo punto
più basso, là dove «fa pancia», non è più distante dal terreno di un
mezzo metro. Un ragazzo vi si siede in mezzo e comincia a dondolarsi
sempre più in alto. Allora arrivano gli altri. Quando il compagno inizia
il tragitto discendente, uno gli corre appresso, si attacca a un lato
dell’altalena di liana, e quando questa riprende a salire vi salta sopra,
superando con un balzo la testa del compagno, che
contemporaneamente salta a terra per lasciare il proprio posto
all’amico. È necessaria una perfetta coordinazione, oltre che una
notevole forza ed agilità. Alcune variazioni del gioco possono apparire
come competitive, ma solo nel senso mbuti del termine. Il ragazzo a
terra può lanciarsi al di sopra della testa di quello sull’altalena, mentre
costui è al punto più basso della corsa, in modo da atterrare dalla parte
opposta. Se quello che sta sull’altalena non capisce l’intenzione
dell’amico e salta anch’egli, credendo che quello intenda prendere il
suo posto, gli spettatori emettono un mormorio di disapprovazione,
perché la perfezione del balletto è stata rovinata. In alternativa, quello
sull’altalena può decidere di restare seduto e il saltatore deve fare uno
sforzo per saltare più in alto e passare così al di sopra della testa di lui,
atterrando sano e salvo dall’altra parte. Nessuno vuole superare l’altro,
il gioco consiste nel mettere a punto spontaneamente delle manovre
audaci e realizzarle tutti insieme.
Anche nell’arrampicarsi, lo sviluppo individuale evolve, pian
piano ma con continuità, verso uno sviluppo sociale. All’età di quattro
o cinque anni i bambini hanno tutti la passione di arrampicarsi sugli
alberi, limitata soltanto dalle dimensioni del loro corpo o del tronco
con cui vogliono misurarsi. Si arrampicano da soli, all’inizio,
esplorando ogni branca, sperimentando tutti i modi per passare da un
ramo all’altro, da un albero all’altro. Lo scopo non è mai di
raggiungere la sommità, bensì di imparare cose nuove. I più piccoli si
fermano continuamente, affascinati da qualche dettaglio della
corteccia che prima non avevano notato o per assaggiare un po’ di
linfa che trasuda. Provate anche voi, qualche volta, ad appoggiare
l’orecchio a un albero per vedere se siete capaci di sentirlo cantare
felice o piangere per qualche dispiacere, come riescono a fare i
bambini mbuti. Ben presto, comunque, l’arrampicarsi diviene un
passatempo dotato di un serio significato educativo, come l’altalena di
liane, a un livello sociale più che individuale. Alcuni ragazzini (anche
una decina, a volte) si arrampicano tutti insieme su di un arbusto, fino
ad arrivare in cima. A questo punto, l’arbusto per il peso si piega verso
terra, fino ad arrivare a poche spanne di distanza dal suolo. Allora
tutti, con precisione, saltano giù contemporaneamente. Se qualcuno
esita, perchè ha paura o, al contrario, per "fare il coraggioso",
certamente non ripeterà mai più l'operazione, perchè lo scatto
dell'albero che si raddrizza improvvisamente lo scaglia lontano, con
conseguenze anche gravi. E anche se non gli capita nient’altro che
qualche ammaccatura, non riceve lodi per la sua esibizione, perché
anche in questo caso ha rovinato lo sforzo comune di "ballare" (bina)
con perfetta coordinazione il balletto della vita.
Nel bopi ci sono poche attività prive di valore per quella che sarà più
tardi la vita da adulto. Il piccolo impara la gioia e la bellezza di agire e
giocare con gli altri, non contro gli altri, e contemporaneamente
impara in maniera positiva (attraverso la prescrizione più che
attraverso la proscrizione) l'essenza della cooperazione porta con sé
una comunione spirituale che è il fondamento di un comportamento
veramente sociale. Ma come impara, il piccolo mbuti, ad affrontare
anche l’aspetto negativo, l’inevitabile eccezione comportamentale
rappresentata forse proprio da lui stesso, la mancata considerazione
del bene altrui nel perseguire i propri scopi personali? Anche se non
ne è cosciente, egli ha appreso le due tecniche principali usate dagli
Mbuti per evitare e risolvere i conflitti, nei limiti del possibile, senza
ricorso alla violenza. Una l’ha appresa mentre imparava a muoversi
carponi, mentre provava la sicurezza relativa dei diversi territori.
Anche quando esplorava il corpo materno aveva imparato che c’erano
punti di esso più sicuri di altri, più accoglienti, o più gratificatiti.
All’interno dell 'endu, la lezione si era ampliata. E quando era nato
un’altra volta uscendo nell’apa, era risultato chiaro che se finiva nei
guai in un territorio, ne poteva uscire spostandosi in un altro. Aveva
imparato che ciò che era vero per i territori intesi in senso geografico
lo era anche per i territori della parentela.
Se c’erano problemi con ema o eba, il piccolo poteva rifugiarsi da
qualche tata, e lo stesso risulta adesso evidente per le categorie d’età.
Semplicemente spostandosi all'interno di queste categorie, o tra l'una e
l'altra di esse, è sempre possibile trovare rifugio. Le caratteristiche
tipiche dell’utero - di protezione, conforto, soddisfazione delle
necessità, affetto - possono sempre essere trovate da qualche parte,
dimodoché si può dire che il piccolo mbuti sia sempre al centro della
sua sfera-utero, in quanto la fonte della sua sopravvivenza si sposta
insieme a lui, per lo meno se non si muove troppo rapidamente.
Più avanti, il bambino imparerà che la mobilità è una delle
tecniche fondamentali per evitare, o risolvere, una disputa, in quanto
se si sposta la sua sfera si sposta con lui, e la disputa viene lasciata
indietro. Ma cosa accade se né lui né il suo avversario decidono di
spostarsi? Che tecnica è disponibile in questo caso? Una tecnica
anch’essa appresa durante l’infanzia. La gioia che il neonato ha
provato nello scoprire che, dopo tutto, il nuovo mondo era altrettanto
sicuro del primo è stata forse la sua prima lezione sul modo di
risolvere i conflitti. Dalla gioia è nato il riso, e il riso è divenuta l’arma
principale da impiegare contro conflitti, aggressioni e violenza. Gli
Mbuti hanno appreso a ridere di gioia per il parto, e non è difficile per
loro imparare a usare sia la gioia sia il riso nella maggior parte delle
loro attività di bopi, che diventano così occasioni per apprendere a
usare il riso come mezzo di risoluzione nonviolenta dei conflitti.
Il bambino, legato agli altri bambini dal legame dell’età, affida
tutta la sua fiducia ai vincoli territoriali e di parentela; essi sono stati
ben messi alla prova e possono essere considerati come certi, anche se
c’è altro ancora che deve essere imparato. Ad essi si può tornare a
piacimento (ad esempio, per cercare rifugio dai propri coetanei) e
contemporaneamente, in seno al bopi, è possibile esplorare non solo
questo nuovo vincolo, ma anche tutte le altre categorie e le loro
relazioni infinitamente complesse. La categoria del sesso sta già
cominciando ad affacciarsi, man mano che il bambino cresce e sta più
insieme ai ragazzi, all'interno del campo principale. Quando una
madre può essere donna e quando un padre può essere madre? E cosa
significa quando qualcuno cui ci rivolgiamo come ema, madre, da
qualcun altro è interpellato come miki, figlio? E perché a volte
vengono usati i nomi propri, invece di questi termini così
policomprensivi da far apparire ogni persona del campo legata in
qualche modo alle altre? E come si conciliano le azioni caratteristiche
del comportamento territoriale e quelle caratteristiche del
comportamento di parentela o d’età, cosa dev’essere rispettato per
primo?
Ecco che si presenta un nuovo campo di esplorazione e lo
strumento adatto, la mente, è già pronto per assolvere al suo compito.
All’inizio si tratta di un’esplorazione imitativa. Ciò che prima era
essenzialmente imitazione inconscia, diviene ora consapevole e nel
bopi i bambini esplorano tutte le possibilità. Essi non si limitano a
costruire degli endu in miniatura e a «giocare alla casa»; ed è raro che
l’imitazione di altre attività degli adulti, come la caccia, la raccolta di
frutti selvatici, la fabbricazione dell’ovatta, o anche il coito, li
interessino a lungo. Queste non sono altro che tecniche, i cui elementi
fondamentali vengono appresi rapidamente, mentre le loro
particolarità possono essere acquisite solo quando l’organismo è
cresciuto e si è irrobustito. E assai più affascinante, come gioco,
imitare i diversi ruoli possibili, territoriali, di età, di parentela o
sessuali. Attraverso l’imitazione ogni fanciullo esplora ciascuno dei
ruoli che ha imparato a riconoscere, il giovane e il vecchio, il maschio
e la femmina, il buono e il cattivo, l’allegro e il triste, esplorando
contemporaneamente le situazioni connesse con tali ruoli. Non c’è da
meravigliarsi che il bopi sia sempre così pieno di schiamazzi e risate,
al punto da far intervenire qualche adulto, seccato perché il chiasso ha
interrotto il suo pisolino pomeridiano. L’adulto arriva, cerca di
acchiapparne uno per sculacciarlo, non ci riesce e il risultato sono altri
schiamazzi e chiasso ancora più forte. E non appena l’adulto se ne va,
tutti i bambini si precipitano al centro del bopi e ben presto ciascuno
di essi è un piccolo adulto irato in miniatura, che grida e sbraita contro
gli altri, cercando di acchiapparli per sculacciarli. Cosa avviene se
l’adulto è tanto sciocco da fermarsi a guardare e si accorge che lo
stanno prendendo in giro? Non ha certo la capacità fisica di
mettere il freno a quella banda di piccoli diavoli. Così non ha che due
alternative: o se ne va, coperto di ridicolo, e allora deve aspettarsi che
la scena si ripeta al campo perché i bambini, al loro rientro a casa, la
rappresenteranno nuovamente, per il divertimento degli altri adulti;
oppure, se ha un po’ di buon senso, si unisce ai fanciulli schiamazzanti
e partecipa al gioco, prendendo in giro se stesso.
Eppure i bambini non hanno pensato nemmeno per un istante di
avere il diritto di disturbare il sonno di qualcuno, non più di quanto
quello potesse avere il diritto di interrompere i loro giochi. Entrambi,
l’adulto disturbato quanto i bambini, hanno le proprie buone ragioni,
ciascuno dal suo punto di vista. Comunque, indipendentemente dal
comportamento dell’adulto, sia che questi si unisca al gioco sia che
ritorni sbuffando al proprio endu con la coda tra le gambe, i bambini
ben presto si acquietano. Hanno ricevuto un’altra lezione, una lezione
circa il valore dell’ekimi (la calma, il silenzio) rispetto all'akami (il
rumore, il disturbo degli altri). Queste sono le due parole che più
frequentemente si sentono pronunciare, quando gli Mbuti, per
risolvere una disputa, ricorrono alla discussione piuttosto che al riso.
Nel bopi, quando i bambini (specialmente i più grandi) si stufano
dei giochi fisici, si dedicano a giochi verbali. Questi sono in gran parte
costituiti da scherzi che equivalgono a prove di comportamenti
alternativi, così da scoprire quelli che sono giusti e funzionali e quelli
che non funzionano. Ma questi scherzi, comunque, prevedono spesso
il ricorso razionale e verbale a concetti come quelli di ekimi e akami,
allo scopo di comporre eventuali situazioni di conflitto. La cosa può
prendere avvio come imitazione di una vera disputa cui i bambini
hanno assistito al campo, magari la sera prima. Ognuno di essi assume
un molo, a imitazione di quelli avuti dagli adulti nel caso considerato.
È anche una specie di giudizio dell’operato degli adulti, perché una
volta che gli adulti nel corso della disputa hanno detto la loro, i
bambini ne danno una rappresentazione, e così facendo, in un certo
senso, superano il problema. Se hanno la sensazione che la disputa
poteva essere risolta in un modo migliore, essi vanno a fondo di tale
possibilità, e se quella sera gli adulti non sono riusciti a mettersi
d’accordo e tutti sono andati a letto arrabbiati, i bambini cercano di
dimostrare che si poteva far meglio. Se poi verificano che ciò era
impossibile, allora buttano la cosa sul ridere, e vanno avanti finché
non rotolano per terra quasi isterici, che è poi anche il modo in cui la
maggior parte delle dispute potenzialmente violente vengono
composte nel mondo degli adulti.
Beffe, risa, scherzi, sono elementi vitali dell’esistenza degli
Mbuti. Io credo che tutti insieme essi costituiscano uno dei principali
fattori atti a definire negli adulti la preponderanza degli atteggiamenti
positivi su quelli negativi. È nel bopi che i ragazzini ricevono i loro
primi nomignoli che, il più delle volte, contengono qualche elemento
di bonaria derisione, ad esempio sottolineando una caratteristica
opposta a quella che il singolo ritiene corretta. Un bambino o una
bambina che tende a vantarsi della propria forza fisica può essere
soprannominato «il debole», oppure quello che non manca di nulla è
detto il «povero». Il soprannome può anche alludere a qualche qualità
nascosta: spesso i nomi di animali, usati a tale fine, hanno questo
scopo e simboleggiano astuzia, lentezza, grazia, petulanza, saggezza,
eccetera. Vengono fatti molti tentativi prima che un bambino riceva
dagli altri bambini il proprio nome definitivo, e ciò avviene non senza
che nel processo intervenga anche il bambino stesso, per lo meno con
le sue reazioni.
Questo tipo di sperimentazione è essa stessa un passatempo
educativo, attraverso cui i bambini apprendono le virtù della non-
aggressività, e serve a rammentarla a tutti i frequentatori del bopi.
Mettiamo il caso, ad esempio, che un nuovo arrivato assuma un ruolo
particolarmente attivo nella derisione di qualche adulto, in un caso
simile a quello descritto poc’anzi, dimostrando (si fa per dire)
un’insospettata eloquenza. Egli verrà allora soprannominato «tonto».
Oppure, al contrario, se, data la giovane età, egli si mostra maldestro e
un po’ sciocco, viene soprannominato «abile ballerino», o «vecchio
saggio». L’attribuzione non si ferma lì e altri possono intervenire per
dire la loro, suggerendo altri soprannomi, e tutti comunque staranno a
vedere le reazioni dell’interessato prima di provare qualche altro
nome. Ma tutta la faccenda è priva di qualunque forma di
vittimizzazione e ostilità e tutto si risolve in grandi risate, all’indirizzo
dell’inventività del soprannominatore o viceversa della sua stupidità,
della sua inadeguatezza. E se accade che la caratteristica cui si allude
nel soprannome sia riconoscibile nell’inventore del soprannome
stesso, allora gli scherzi invece che al ragazzino preso di mira
inizialmente, si indirizzano verso il suo persecutore, che diviene così
perseguito a sua volta.
Se qualche bambino deride un altro al punto da farlo piangere
(reazione più frequente degli scoppi di rabbia tra gli Mbuti di
quest'età), subito viene improvvisato un nuovo gioco, nel quale il
bimbo in lacrime deve impersonare qualche gioioso eroe, o eroina,
mentre il responsabile del suo pianto viene escluso da tale gioco. Ciò
che il soprannominatore sente in tale occasione è il sapore
dell’ostracismo, una sanzione che tra gli Mbuti adulti sta un passo
avanti al ridicolo quanto a forza deterrente. Il bambino impara così la
necessità di rientrare nel gruppo dal quale è stato escluso, aspettando
che trascorra un opportuno periodo di tempo, nel corso del quale gli
altri bambini si lasciano prendere a tal punto da qualche nuovo
passatempo da non ricordare più quanto è successo prima, come se
appartenesse a una sfera spa- zio-temporale diversa. E così, l’escluso
si ritrova riammesso senza grande sforzo. Ciò che è necessario è
soltanto che egli dimentichi l’accaduto, esattamente come gli altri, per
spostarsi con essi verso il nuovo centro vitale. Qualunque crudeltà
della derisione, qui, è assente, perché tale crudeltà non è altro che un
atteggiamento mentale di chi deride, non è insita nella derisione in sé.
A questo stadio i ragazzini sono troppo occupati a fare un uso corretto
delle proprie azioni e delle proprie parole per avere il tempo di
pensare a concetti come la crudeltà o la gentilezza. Cercando i modi
migliori di comportarsi, però, scoprono naturalmente che gli
atteggiamenti più efficaci sono anche, in genere, quelli meno
aggressivi.
C’è anche un’altra lezione nella pratica dei soprannomi. A volte,
infatti, è il rapporto mbuti con il mondo del villaggio ad essere preso
in considerazione e sono i suoi abitanti ad essere fatti oggetto di
comici soprannomi, oppure è la visita al villaggio da parte d’un
bambino e i suoi rapporti con gli abitanti. Ora, nei nomi del villaggio,
specialmente nelle denominazioni ngwa- na di origine araba, è
presente in genere un’evidente distinzione sessuale. Tale distinzione
può essere invertita quando uno di questi nomi viene applicato a un
bimbo mbuti, e ciò serve a prendere in giro sia la gente del villaggio
sia il bimbo. Ma serve anche a sottolineare al bimbo stesso che
viceversa presso gli Mbuti i nomi personali non posseggono alcuna
intrinseca distinzione di sesso, il che è un altro problemino
intellettuale da affrontare.
II bimbo ha osservato che certi gruppi sono divisi in base all'età e
che ciascun gruppo di età possiede attività specifiche. Tra le sue c'è
l'accensione del fuoco rituale, prima dell'inizio della caccia, che ha un
significato rappacificatorio (la cui spiegazione ai bambini è un’altra
lezione sul valore della non-aggressività). Ciò dà loro un cert senso di
controllo sociale in quanto, se decidono di non accendere il fuoco, gli
adulti non possono andare a ciaccia e dunque soffreono la fame; a
differenza dei bambini, ai quali è permesso cibarsi con alimenti che
sono invece proibiti agli adulti, cosicché essi non soffrono la fame. I
bambini comunque non approfittano indebitamente della situazione,
perché hanno già imparato, da quando erano più piccoli, che alla loro
iniziale dipendenza da un certo numero di madri corrispondeva una
interdipendenza tra gruppi chiaramente identificati per parentela,
territorio, età. Adesso è il momento di rendersi conto della differenza
sessuale. Già nel bopi cominciano ad accorgersi della natura sessuale
delle relazioni tra ragazzi e ragazze, imitando tali relazioni e
mettendole in ridicolo con un’ampia gamma di variazioni sul tema,
appuntando il proprio interesse su qualunque tipo di relazione umana
(ivi incluse quelle degli abitanti del villaggio), ma senza per questo
tralasciare variazioni riguardanti gli animali terrestri, questi e gli
umani, gli umani e gli uccelli, gli uccelli e gli animali terrestri, e
mostrando anche qualche attenzione, sia pur ridotta, per il mondo
vegetale. Sarebbe errato considerare questi lazzi come esclusivamente
osceni. Certamente sono anche osceni, non c’è dubbio, ma la grande
abilità dei bambini in tali attività è apprezzata non solo per il
divertimento degli adulti al campo, ma anche in certe importanti
occasioni, quando il responsabile di qualche trasgressione, che ha
deciso di restare isolato nella sua sfera, deve essere assoggettato a una
pratica di derisione per reinserirlo nella sfera più grande àeWapa,
oppure per spingerlo ad andarsene in un’altra. In tali casi il giudizio
sul reprobo è opera degli adolescenti, ma contemporaneamente è
riconosciuto ai bambini un potere rituale (come nel caso del fuoco),
dimodoché la loro derisione è considerata quella più efficace di tutte,
al punto da possedere perfino proprietà di «transfert», una specie di
«magia per simpatia». Tali proprietà, comunque, sono per gli Mbuti
oggetto di discussione e l’impotenza sessuale che i bambini mimano
in queste occasioni non ha lo scopo di essere fisicamente trasmessa al
colpevole.
È praticamente impossibile qui evitare le digressioni, perché
anche un’azione semplicissima è densa di una molteplicità di
implicazioni educative, sicché è impossibile seguirle tutte
separatamente fino alla loro conclusione senza imbattersi in qualcuna
che ci costringa a divagare. Abbiamo cominciato con i soprannomi e
la derisione, all’interno di uno stesso gruppo di età o fra gruppi di età,
e partendo dal tema della divisione dei sessi siamo arrivati a quello
della sessualità vera e propria. Il che è corretto, in quanto il sesso e i
rapporti sessuali sono importanti per gli Mbuti sia in quanto fonte
potenziale di aggressività sia (forse proprio in conseguenza di ciò) in
quanto principio di organizzazione sociale. Il loro sistema di nomi,
con la loro terminologia di parentela, implica che, all’inizio, il genere
sia relativamente poco rilevante. Un ragazzo o una ragazza possono
anche avere lo stesso nome e ciò significa che essi hanno una certa
identità in comune e particolari obblighi reciproci, che devono essere
rispettati indipendentemente dagli obblighi, apparentemente
contraddittori, del territorio, della parentela, dell’età. Tale apparente
contraddizione è in genere risolta riconoscendo la natura
dell’appropriata sfera di obbligo presente in ciascun contesto. Ma la
terminologia di parentela, mentre sottolinea l’assenza di distinzioni di
genere relativamente ai figli, ai fratelli-sorelle e ai nonni, indica la
presenza di tale distinzione a livello dei genitori. Agli occhi del
bambino, al suo primo contatto consapevole con il sistema in quanto
tale, ciò rimanda al livello d’età dell’adulto ed egli impara così che il
genere è qualcosa di importante per gli adulti e per le relazioni tra
marito e moglie, per Yapa e Venda ma non per il bopi. Distingue così
tra differenziazione sessuale e sessualità, tra genere e sesso, e impara
ben presto che una delle fonti più frequenti di akami (lite ad alta voce)
nell'apa è appunto il sesso. L’assenza del genere in tali contesti (tutti
gli adulti sono, gli uni per gli altri, apua’i) fornisce una contromisura
efficace, capace di integrare tra loro le persone più che dividerle.
Questo è tutto, quanto alF«innocenza dell’infanzia». Il nostro
ragazzino mbuti ha appena quattro anni ed è già consapevole di tutto
ciò e in più ha una certa porzione di responsabilità e controllo sociale.
In quanto indifeso, non macchiato dal peccato, puro, il bimbo mbuti
può essere considerato innocente, ma non nel senso di non essere
«smaliziato», di non conoscere ciò che è «sbagliato». Cionondimeno,
il fatto che egli sia messo a contatto delle «cose sbagliate», vuoi
attraverso la derisione, vuoi attraverso il suo occasionale «ruolo
giudicante», è in se stesso un segno della sua purezza, della sua
mancanza di colpa. Il bimbo ha appreso alcune cose «giuste» e
«sbagliate» della vita presso gli Mbuti, ma non conosce il concetto di
male, o di malevolenza consapevole. Nel magma di principi diversi, e
spesso contraddittori, da rispettare, sarebbe irragionevole incolpare
qualcuno di pensare in modo «sbagliato». Per quanto chiaramente
definito, è raro che il contesto di ogni azione o relazione determinata
imponga solo un certo tipo particolare di legame, escludendo tutti gli
altri. Il conflitto è insito nel sistema, ne è parte integrante. Quindi lo
scopo di ogni azione giudiziale non è mai penale, ma restaurativo:
riportare l’individuo (o il gruppo) al centro della sfera più grande di
tutte, quella che contiene tutte le altre, la ndura, la foresta.
Questo apprendimento avverrà in maniera più consapevole e
razionale nello stadio successivo dell’esistenza del bambino,
l’adolescenza. Tuttavia il bambino ha già avuto modo di avvertire
l’essenza di questa sfera più grande nel suo successivo trapassare da
un utero all’altro. Dopo tutto, non gli si chiede soltanto di accendere
un fuoco prima della caccia. Né egli si limita a sapere che, se non
accende il fuoco, per qualche oscura ragione i cacciatori non possono
partire e non possono accendere il fuoco loro stessi. Egli sa che quello
di accendere il fuoco è compito suo e di altri perchè sono bambini, e
che il fuoco deve essere acceso alla base di un albero ben preciso,
lungo la direzione di marcia dei cacciatori, in modo speciale, con l’uso
di foglie particolari, in modo che il fumo si disperda. Il fumo deve
attraversare la copertura di foglie e disperdersi nella profondità della
foresta, avvolgendo i cacciatori al loro passaggio. Se sale troppo in
fretta, questi agitano le mani in modo da spingerlo verso di sé, come
se volessero lavarsi con esso, e le madri aspergono i figli piccoli che
portano in braccio e se stesse. L’operazione può avvenire sia in
silenzio sia mentre tutti esclamano con gioia le parole «foresta
madre», «foresta padre». In tutto ciò c’è ben più che il fumo e il fuoco
che lo produce e il legno che produce il fuoco: c’è la foresta, fonte e
origine di tutto.
Vediamo ora cosa dicono gli Mbuti adulti quando discutono tra
loro o con qualche adolescente curioso delle storie che gli anziani
raccontano ai giovani. Gli anziani, si dice, sono come i bambini, se
non puri del tutto sono comunque tra le persone più pure che esistono.
La purezza, si dice, è una condizione caratteristica dell’altro mondo e
tra i mortali è posseduta in misura massima tra coloro che sono più
vicini alla morte, i neonati e i vecchi. Queste storie introducono un
altro problema di cui i bambini del bopi dovranno rendersi conto, e
cioVil fatto che tutti gli esseri viventi, perfino gli alberi, devono
morire prima o poi. Ma come continua la foresta, dove la vita nasce
dalla vecchiaia, così è per l’umanità. Eppure, chi può dire di aver visto
un figlio nascere da una donna vecchia o un elefantino da
un’elefantessa morta, così come dal corpo di un albero morto sboccia
un germoglio giovane e verde? La storia dell’origine della morte è
raccontata dagli Mbuti in molte versioni diverse, tutte centrate
comunque su di un concetto che noi potremmo definire di «peccato
originale». A volte la morte è detta essersi originata da un disaccordo
tra padre e figlio, come nella leggenda dell’uccello dal canto
melodioso che cantava soltanto per il figlio, rendendo geloso il padre,
al punto che questi tentò di ucciderlo, e così facendo uccise se stesso e
uccise anche il canto (ecco il principio d’età all’opera); oppure in
quella dell’uomo che rubò il fuoco della donna (il principio del
sesso?); o quella di una coppia che entrò in un luogo proibito (la
territorialità?); o ancora quella della ragazzina abbandonata dalla sua
famiglia, che viveva tutta sola (come un uccellino), ma portava la
morte a tutti gli altri (il principio della parentela?). Ma la storia che i
bambini sentono ripetere più frequentemente e più frequentemente
ripetono tra loro è quella che dice come gli Mbuti fossero immortali,
un tempo, fin quando uno di loro non uccise l'antilope suo fratello, e
da allora tutti sono stati condannati a morire così come era morta
l'antilope. E continueranno a morire finché non impareranno a non
uccidere6.
La lezione nonviolenta è abbastanza evidente e ad essa vanno
aggiunte tutte le altre lezioni riportate nelle pagine precedenti (e le
molte altre a me note, che sono però abbastanza simili da poter essere
omesse nella presente trattazione), oltre a tutte quelle che io non
conosco semplicemente perché non sono nato tra gli Mbuti e non sono
tra loro cresciuto. Considerate tutte insieme, queste lezioni
rappresentano solo un’approssimazione dell’infinità di insegnamenti
nonviolenti che i fanciulli mbuti ricevono ogni giorno della loro
esistenza, imparando sia i valori positivi della cooperazione e della
dipendenza reciproca (chi vorrebbe essere completamente
indipendente in tale società?) sia quelli altrettanto positivi della
rinuncia ai conflitti, all’aggressività, alla violenza.
Ma è tempo ormai che il nostro ragazzino cresca e guardi in
faccia la realtà della vita da adulto, dell’esistenza inevitabile dei
conflitti e della probabilità che i conflitti sorgano dall’area sessuale.
Passando dall’età di quattro anni a quella di otto, più o meno (per gli
Mbuti l'età è una questione di eprsonalità, di abilità e di taglia
corporea, più che di anni), egli partecipa ai giochi del bopi con
consapevolezza sempre maggiore, sviluppando la propria capacità di
ragionamento. Nella prima infanzia stava con sua madre, a caccia con
gli altri oppure quando essa si riuniva da qualche parte con le altre
donne. Anche quando era portato, stava sull’anca della madre, non
sulla schiena, ed aveva quindi facile accesso al seno di lei, oltre a una
visione completa del mondo degli adulti così come appariva agli occhi
della madre stessa. La cosa era identica, ovviamente, nel caso di un
bimbo come di una bimba. Entrambi imparavano un po’ più dei
semplici rudimenti dell’attività economica degli adulti e si
accorgevano che certe operazioni rientravano più nella sfera maschile,
mentre altre erano eseguite più frequentemente, anche se non
esclusivamente, dalle donne.
Dopo i quattro anni, il bambino aggiunge all’esplorazione fisica
l’esplorazione intellettuale, che si sovrappone alla prima e spesso
prevale su di essa. Comincia a divertirsi a raccontare storie, forse a
imitazione di quanto vede frequentemente fare dagli adulti. Senonché
le storie sono di sua invenzione. Egli le trae dalla sua esperienza, così
come fanno gli adulti che le traggono dalle loro attività quotidiane;
oppure paragona il mondo degli umani a quello animale, paragona la
foresta al mondo non-fore- stale, e di tanto in tanto emette qualche
giudizio indiretto in termini di ekimi e akami. L’attenzione del
bambino è centrata sulle attività del bopi, e quindi fondamentalmente
limitata all’interno del suo specifico gruppo di età, che d’altronde è
destinato a diventare una delle sfere principali della sua esistenza. Ma,
dal suo punto di vista, egli investiga anche il mondo degli adolescenti,
degli adulti, degli anziani, mettendo insieme le proprie osservazioni
con quelle dei suoi coetanei.
Crescendo, il principale cambiamento subito dai suoi passatempi
è assai semplice: egli diviene sempre più_consapevole della quarta
sfera, cioè del quarto principio di organizzazione sociale, il sesso.
Aumentando la propria convivenza con gli adolescenti, egli acquisisce
pian piano un modo diverso di considerare l’attività sessuale, e
crescendo conduce le proprie esplorazioni sul tema con ragazze del
bopi. E qui accade una cosa assai bella: egli non esclude gli altri
ragazzi, né la sua amichetta le altre ragazze... quale che sia la
coscienza della nuova emozione essa viene condivisa, come ogni altra
cosa coi i coetanei. Essi esplorano reciprocamente i proprio corpi
senza discriminazione, e allo stesso modo imitano l'atto
dell'accoppiamento, come in una danza. Ciò che dico a questo
proposito è una mia interpretazione, ovviamente. Ma essendo io stato
classificato dagli Mbuti come «bambino» per un anno intero - il che
comprendeva ricevere insegnamenti di buone maniere ed anche, ogni
tanto, l’essere confinato nel bopi (col pretesto di stare lì a fare la
guardia) ed altri trattamenti da bambino — ed essendo stato dopo di
ciò classificato per due anni come adolescente e quindi lasciato
insieme agli altri adolescenti, credo di avere una certa esperienza
sull’argomento. Non pari a quella di un vero Mbuti, certo, ma simile
per lo meno, credo, a quella dello «scemo del villaggio» che esiste in
ogni campo e che io mi sono trovato costretto a interpretare. Ora,
quello che voglio dire è che, allo stadio del bopi, i bambini non hanno
nulla che li trattenga l’uno dall’altro, e che se avessero la possibilità di
offrire amore fisico (il che, forse fortunatamente, non hanno) lo
offrirebbero senza problemi. Da tutto quanto mi è parso di capire a
livello sia razionale che intuitivo, non esiste alcuna forma di
discriminazione sessuale nell’emozione dell’amore. Eravamo tutti
apua’i indipendentemente dal sesso e dal genere.
Comunque, all’età di otto-nove anni (forse anche fino a undici), i
giovani maschi entrano nel nkumbi’1(si veda oltre) e ne escono tre
mesi più tardi come adulti agli occhi del villaggio[L’autore si riferisce
qui, come già prima a proposito dei soprannomi, a un villaggio di
agricoltori stanziali con cui gli Mbuti hanno contatti abbastanza
regolari [N.d.T.].] (questo è infatti un rituale del villaggio, non mbuti),
ma ancora come adolescenti agli occhi degli Mbuti. (Questa
trasformazione, nel mio caso, è avvenuta all’età di trent’anni). Gli
Mbuti non hanno alcuna forma di iniziazione dei ragazzi, né mai
l’hanno avuta, a quanto pare. Danno un riconoscimento al ragazzino
che cattura la sua prima preda, perché questa è un’azione pericolosa,
che ha a che vedere con il peccato originale, ma anche necessaria, in
quanto solo così è possibile sopravvivere. Tuttavia, per una serie di
motivi che qui non è il caso di esaminare, e che sono già stati presi in
considerazione da un collega (Joseph A. Towels), il quale è riuscito a
penetrare i segreti del nkumbi più a fondo di quanto non sia riuscito a
me, gli Mbuti hanno ritenuto utile accettare il rituale del villaggio. È
evidente l’importanza di ciò al fine di istituire rapporti tra due gruppi
potenzialmente ostili, con il risultato di definire in modo relativamente
semplice il passaggio, spesso piuttosto vago, dei maschi dall’infanzia
all’adolescenza. Per le femmine il problema non si pone, in quanto per
loro tale passaggio è segnato chiaramente dalla comparsa della prima
mestruazione, avvenimento che tutti salutano con gioia, perché la
fanciulla ha ora la facoltà di divenire madre8. Quando ciò accadrà,
essa sarà divenuta adulta, e lo stesso sarà per il suo compagno, che da
quel momento in poi verrà considerato suo marito.
A ogni modo, dopo il nkumbi ci sono ancora sei o sette anni da
passare nella categoria degli adolescenti. Il rituale del villaggio, con
tutta la sua esplicita istruzione sessuale e morale, con la sua
consacrazione dell’individuo al modello degli antenati e, più in
generale, alla società, non ha nulla da insegnare agli Mbuti circa la
vita nella foresta. Ciò che al giovane resta ancora da apprendere, verrà
appreso nello stadio successivo dell’esistenza sua e dei suoi coetanei.
Territorio, parentela, età, sono tutti argomenti ormai totalmente
esplorati. Durante l’adolescenza, l’oggetto principale di esplorazione
sarà il sesso, ma contemporaneamente sarà anche sviluppata e affinata
la capacità razionale e il/la giovane, rafforzando ludicamente
l’interdipendenza, si troverà a svolgere un ruolo più «giuridico» che
rituale. Nel medesimo tempo, però, lo Mbuti diviene anche
particolarmente consapevole dell’esistenza della sfera generale che
tutto accoglie, la ridurci, e scopre che la propria condizione di purezza
(non gli è concesso uccidere un’antilope se non verso la fine di questo
stadio) lo pone a volte in un ruolo che è tanto rituale quanto
«giuridico» [Su questo ruolo «giuridico» o «giudicante», si veda più
oltre, a proposito dei rituali del molimo [N.d.T.].]. A questo proposito,
la precedente definizione del ruolo dei bambini come rituale deve
essere qui corretta in quella di ruolo spirituale, anche se io sono
convinto che esso appaia ai loro occhi più come rituale, e venga
percepito come spirituale solo in modo confuso.
Il giovane, l’adolescente, è considerato meno puro, più
contaminato del bambino. Ma ciò non è a causa del suo crescente
interesse per il sesso, quanto piuttosto perché si va avvicinando per lui
il momento di iniziare il suo sacrilegio quotidiano: la caccia. L’attività
sessuale è semmai un elemento di purificazione. Ho già notato che nel
bopi è assente qualunque forma di discriminazione sessuale nello
scambio di manifestazioni d’affetto tra i bambini. Tale situazione si
manifesta anche durante l’adolescenza, eppure posso garantire di non
aver incontrato nemmeno un caso di accoppiamento omosessuale,
nonostante ciò possa teoricamente verificarsi, come suggerisce la
presenza di termini usati per definire sia l’omosessualità maschile sia
quella femminile. Ho incontrato un unico caso di bestialità (tra un
giovane maschio e una capra) che era apertamente riconosciuto ed
accettato: l’unica sanzione era il fatto che ragazzo e capra erano stati
entrambi confinati nel villaggio. L’esclusione dal territorio della
foresta non è stata motivata da ragioni di igiene o di purezza, né sono
state mosse accuse di immoralità; semplicemente, è stato osservato
che la «moglie» del ragazzo non era in grado di cacciare e sarebbe
morta in breve tempo se fosse vissuta con lui nella foresta. Il giovane
si è trovato così nell’imbarazzo di dover rispettare due principi opposti
e alla fine ha scelto la foresta, lasciando la sua sposa- capra a un
abitante del villaggio che aveva promesso di accudirla e mantenerla in
buona salute, convinto di acquisire insieme alla capra un grande
potere sulla foresta, essendo la capra stessa impregnata di sperma del
popolo forestale. Successivamente, il ragazzo ha sposato senza alcuna
difficoltà una ragazza mbuti: era di nuovo al centro della sfera
forestale e la capra non faceva più parte del «qui ed ora». Ho
menzionato questo episodio perché ci permette di capire qualcosa del
concetto che gli Mbuti hanno dell’amore, anche quando si manifesta
attraverso l’atto sessuale: le due cose, infatti, restano separate. E forse
per ragioni altrettanto pragmatiche che non risultano casi di
omosessualità maschile o femminile: la «moglie» (o il «marito») della
situazione non sarebbe capace di raccogliere i frutti, o cacciare, a
seconda dei casi.
Fino a questo momento, le ragazze hanno prestato attenzione
crescente alle attività delle donne, seguendole a caccia, o nelle loro
spedizioni per la raccolta di frutti, mentre parallelamente i ragazzi
hanno seguito gli uomini, apprendendo le astuzie della caccia e le altre
attività maschili. L’omosessualità non c’entra, comunque, in questa
scelta di genere. Il fatto è che quando i giovani scoprono l’estasi del
sesso e la limitano all’ambito di una relazione eterosessuale, non per
questo smettono di amarsi vicendevolmente, e anche se non hanno, tra
loro, veri e propri rapporti carnali, mantengono nelle proprie relazioni
un che di fisico, come se stentassero ad abbandonare completamente
un certo modo di comportarsi. Poco posso dire delle ragazze, anche se
mi pare di aver visto e udito abbastanza da sostenere che non agiscono
diversamente dai propri coetanei maschi; ma è certo che i ragazzi per
tutta l’adolescenza indulgono a contatti fisici tra loro. Questi possono
subire una rarefazione quando iniziano i corteggiamenti eterosessuali
veri e propri, ma non cessano mai del tutto e possono continuare fino
ai primi tempi della vita maritale. Ai ragazzi piace dormire insieme,
all’aperto intorno al fuoco o in una capanna costruita da uno di loro e
usata da tutti. Dormono abbracciati, in uno splendido intreccio di
giovani membra pieno di calore e di amore. Non vi sono vere carezze
sessuali, e quelle che occasionalmente compaiono sono più che altro
scherzose, prive dell’intenzione di provocare piacere. Cionondimeno è
chiaro che tale vicinanza non serve soltanto a dare calore, che pure è
necessario nelle notti della foresta tropicale. E non c’è dubbio che in
questo modo viene raggiunta una forma di soddisfazione sessuale, o
qualcosa del genere, con o senza eiaculazione. Può capitare che
qualcuno borbotti tra sé qualche parola a proposito di un’eiaculazione
incidentale, nello stesso modo che uno di noi potrebbe brontolare
perché gli si è slacciata una scarpa mentre cammina per strada.
Qualcosa di seccante per l’interessato, ma di scarso peso per gli altri.
Quello che è importante è che la differenziazione sessuale risultante
dall’atto fisico dell’accoppiamento, acuita dalla diversa ripartizione
del lavoro tra i sessi, viene qui, in un certo senso, contrastata,
superata, a tutto vantaggio della conservazione dell’amore. Al punto
che, anche se dovesse aver luogo un vero e proprio rapporto carnale,
questo aggiungerebbe ben poco all’intensità della relazione, se non per
un breve momento. Anzi, proprio la rinuncia a tale breve momento
sembra rendere più salda la relazione medesima. A questo punto,
prima di passare a considerare la transizione finale, quella
dall’adolescenza all’età adulta, che coincide anche con il passaggio da
una forma di non-aggressività inconsapevole, o meglio (forse) «non-
razionale», a una razionale, deliberata, può risultare utile rivedere in
sintesi gli insegnamenti appresi e le simbologie ad essi collegate.

Valori

All’inizio dell’adolescenza (tra gli otto-nove anni e gli undici) il


giovane mbuti ha già appreso i valori principali che contrastano
l’aggressività e la violenza. I più importanti sono i seguenti.
Sicurezza. Gli Mbuti ritengono che la storia dell’esistenza
individuale di ciascuno di loro abbia inizio con il concepimento e la
formazione del feto nell’utero materno. Stante l’elevata frequenza di
gravidanze senza problemi e parti facili, e quindi di madri e figli in
buona salute, l’esperienza vissuta dal piccolo all’interno dell’utero
non può essere che di sicurezza totale. Dal momento della nascita in
poi, tutto collabora a trasferire questo senso di sicurezza dalla sfera
relativa al corpo materno all 'endu, da esso agli altri endu, quindi al
bopi, all'apa, e infine alla sfera che contiene tutte le altre, la ndura.
Attraverso un processo simile, per successive inclusioni, nel bambino
vengono instillati gradualmente altri valori, anche se è possibile che ai
suoi occhi di neonato, e poi di bimbo, ogni stadio successivo appaia
più come uno stadio separato dagli altri che come uno che via via
comprenda gli stadi precedenti, poiché egli ha la tendenza ad
abbandonare ogni singola sfera, all’intemo della quale si sente sicuro,
per esplorare quella che viene dopo. Probabilmente, è solo
nell’adolescenza che si manifesta appieno la natura integrata della sua
esperienza complessiva.
Dipendenza. La gradualità è simile. L’iniziale dipendenza del
piccolo dalla madre si dimostra valida anche per tutti gli altri ambiti di
«parentela», per includere praticamente tutti gli Mbuti presenti al
campo indipendentemente dall’età o dal sesso. Ma il piccolo apprende
il valore della dipendenza, esattamente come è accaduto per la
sicurezza, anche in relazione al territorio {endu, bopi, apa, ndura) e ai
quattro livelli di età.
Interdipendenza. È il valore appreso subito dopo, e di nuovo
appare al piccolo come applicabile in tutte le aree dove è possibile
sorgano conflitti: parentela, territorio, età, sesso. A questa età, il
piccolo non associa ancora l’interdipendenza con il conflitto; la
comprensione di ciò verrà più tardi, con l’adolescenza. Comunque egli
si sposta rapidamente dalla sicurezza della dipendenza alla sicurezza
anche maggiore dell’interdipendenza, all’interno della quale
sperimenta per la prima volta il senso della responsabilità e del
«potere».
Coordinazione. Tale valore viene appreso, all’inizio, quando il
bambino coordina i movimenti dei propri arti e, successivamente,
questi con i movimenti della madre. In seguito viene appresa la
coordinazione in seno a un certo gruppo d’età e tra i diversi gruppi
d’età.
Cooperazione. Con lo sviluppo della ragione, il valore testé
appreso della coordinazione viene superato da un atteggiamento
intellettuale che riconosce la necessità di cooperazione per
l’esecuzione delle complesse attività che si svolgono nell’endu, nel
bopi e nell’a/?a. Viene anche appresa la natura cooperativa del
rapporto tra gli Mbuti e la loro sfera originaria, la foresta,
partecipando alla caccia dapprima in braccio alla madre,
passivamente, e quindi in modo attivo nel gruppo degli uomini o in
quello delle donne. E a questo stadio che il valore della cooperazione,
e per inclusione anche gli altri finora appresi, viene esteso alla quarta
area di conflitto potenziale, quella della differenziazione tra i sessi.
Ekimi/akami. Fino all’adolescenza, al piccolo viene presentato,
più a livello fisico che razionale, il valore positivo di ekimi, quiete, in
contrapposizione a quello di akami, disturbo. Egli ha imparato ad
associare l'akami con la fame, in quanto il chiasso, l'ira, il mancato
rispetto degli altri valori (che viene sempre descritto come akami sono
fattori che conducono generalmente all'insuccesso venatorio e quindi
alla mancazna di cibo). Del pari, ha appreso che il rispetto dei valori
produce ekimi, e inizia a usare tale vocabolo anche in altri contesti,
nell’accezione del nostro termine «felicità». Scopre che una delle
occasioni più frequenti in cui viene pronunciata la parola akami si
riferisce non al chiasso durante la caccia, che è raro, ma alle dispute
che si verificano al campo. E impara a distinguere tra suoni «buoni»,
come quelli dei canti, e «cattivi», come quelli delle liti, anche se alle
nostre orecchie i primi potrebbero risultare più fastidiosi dei secondi.
Allo stesso modo, impara che il suso (il vento) è sempre ekimi, mentre
il kuko (il vento che provoca danni) è akami. All’inizio, il punto di
partenza per la definizione di questo valore è il suono, che può essere
sia ekimi che akami, ma ben presto il piccolo impara, assai prima di
entrare nell’adolescenza, che ciò che conta non è il suono in sé, ma
l’effetto del suono stesso.

Tecniche di apprendimento
Il sistema con cui tutto ciò viene appreso contribuisce a
determinare la gigantesca fiducia con cui ogni Mbuti, dall’adolescenza
in poi, affronta il mondo in cui vive. La tecnica consiste nel
permettere al piccolo fin dall’infanzia l’esplorazione, sicura ma
avventurosa, di tutte le sfere successive, secondo i ritmi propri di
ciascun bambino; ciò gli consente di sviluppare le sue attitudini
motorie e sensoriali, la sua capacità, non ancora razionale, di «sentire»
la totalità (intuizione?) e contemporaneamente di acquisire sempre
maggiore esperienza. Vengono così poste le basi dell’integrazione
razionale e intellettuale di tutta la sua esperienza e quindi della sua
fiducia. Le diverse tecniche considerate comprendono:
• nell'endu: prendere il latte, essere cullato, ascoltare,
annusare, toccare madre, padre, il loro letto, il pavimento
della capanna, le pareti;
• nel'apa: l’esplorazione fisica continua fino a includere tutti
gli altri endu, anche se per il momento il piccolo non riesce
ancora a concepire l'apa come una singola unità;
• nel bopi le tecniche comprendono quei passatempi volti
all’inizio a migliorare la coordinazione e la forza muscolare,
e anche se vengono eseguiti in compagnia sono per lo più
esplorazioni solitarie. In seguito i passatempi diventano più
complessi e richiedono la cooperazione di un numero
crescente di bambini. Qualche esempio: giochi sugli alberi;
imitazione delle attività economiche degli adulti (caccia,
raccolta dei frutti, produzione di ovatta); imitazione delle
attività domestiche degli adulti (costruzione di capanne,
preparazione del cibo, mangiare, dormire, litigare);
imitazione delle attività politiche degli adolescenti (scherno
reciproco, scherno degli adolescenti, degli adulti e degli
anziani, scherno degli abitanti del villaggio). Questi giochi
hanno contenuti non solo fisici, ma intellettuali e razionali,
specialmente nella presa in giro delle liti degli adulti, dove
sono necessarie considerevoli doti di improvvisazione e di
esplorazione del sistema di valori. Infine vi è l’imitazione, sia
pur limitata, del ruolo rituale degli anziani, nel quale essi
vedono alcune somiglianze con il proprio ruolo quando
accendono il fuoco per i cacciatori. Ma i bambini imitano
anche il ruolo svolto dagli anziani come narratori, in parte
ripetendo le loro storie, in parte inventandone di nuove per
proprio conto. Così facendo sviluppano l’intelligenza e la
capacità di raziocinio, rafforzando contemporaneamente i
valori appresi e preparandosi ad entrare nella adolescenza e
nel mondo integrato dell'apa. Attraverso l’esplorazione fisica
di una serie di spazi, i bambini hanno stabilito un contatto
con gli elementi principali che tanta importanza rivestiranno
in seguito nel loro mondo simbolico.
Forse è un’esagerazione collegare il calore dell’utero a quello del
corpo materno e quindi a quello del fuoco; tuttavia, mi è capitato udire
gli Mbuti, nel corso di conversazioni apparentemente casuali,
assimilare l’utero a un fuoco. Il bimbo, comunque, associa
innegabilmente tra loro il fuoco del suo endu, quelli degli altri endu,
quelli del bopi, quello della caccia, e quello che ha visto, anche prima
di parteciparvi direttamente in quanto adolescente, al centro dell'apa,
il kumamolimo, letteralmente la «vagina» del molimo, un fuoco che
viene preparato solo in tempi di grandi crisi. Similmente, si dice che il
suo primo contatto con l’aria sia avvenuto nel momento del suo primo
respiro, quando era ancora attaccato al cordone ombelicale, e che tale
contatto continui in seguito attraverso l’apprendimento di vari tipi di
fischi e zufoli, o imparando a dar vita a un fuoco (i ventagli non sono
usati), o a cantare, o a soffiare nella sacra tromba del molimo, in modo
che le braci ardenti sprizzino scintille in direzione della foresta Anche
la terra è un elemento costante della vita del bambino, da quando
comincia le sue esplorazioni del pavimento dell 'endu, ai suoi giri per
l'apa e per il bopi, fino all’osservazione degli alberi che escono dalla
terra, quella stessa terra che può capitargli di vedere strofinata sulla
tromba del molimo o sparsa al di sopra del molimo stesso quando
questo alla fine viene spento. E l’acqua: il suo primo contatto con
l’acqua è speciale, l’acqua è quella delle liane della foresta. Anche
sguazzare in qualche ruscello è speciale, perché è in tali occhioni che
il bambino vede la propria immagine riflessa e ode gli anziani
raccontare le storie dell’altro mondo. I bambini vengono avvertiti di
tenersi lontani da quella parte del ruscello dove è conservata la tromba
durante la festa del molimo: l’avvertimento consiste semplicemente in
una specie di barricata di liane. E quando sono adolescenti assistono
alla scena della tromba del molimo che riceve da bere, se già non vi
hanno assistito di nascosto, spiando di notte dalla porta della loro
capanna. Il loro contatto con il simbolo supremo, la foresta stessa, è
ben lungi dal limitarsi a dare la scalata agli alberi: come hanno
imparato a riconoscere la propria interdipendenza con tutti gli altri
Mbuti, così riconoscono ben presto la propria interdipendenza con il
mondo naturale di cui fanno parte integrale. Prima del parto, la madre
parla al piccolo che porta in sé della foresta, canta e grida in lode della
foresta. Dopo, ogni volta che emerge in un’altra sfera, il piccolo ode
simili dichiarazioni di fiducia e di appartenenza e comincia a
chiamare, egli stesso, «madre» o «padre» la foresta quando lascia il
campo per una delle sue frequenti avventure esplorative.
All’ingresso nell’adolescenza, tale processo educativo continua e
i valori così efficacemente antitetici all’aggressività vengono rafforzati
da altre attività, che si estendono a comprendere anche l’area di
conflitto potenziale con cui il bambino entra in contatto per ultimo, il
sesso. Contemporaneamente, i giovani acquisiscono la capacità
intellettuale di integrare questi valori, così come integrano
razionalmente le diverse sfere della propria attività, e vengono
coinvolti in un certo numero di forme istituzionalizzate di
comportamento che li pongono in un contatto fisico e intellettuale col
valore onnipresente della non-aggressività. Ad esempio, quando da
bambini erano portati in braccio dalle madri o trotterellavano accanto
a qualche parente, durante la caccia, si accorgevano indirettamente
della contrapposizione fisica dei due sessi che in essa si realizzava.
Indirettamente, perché tale contrapposizione era per loro in larga
misura irrilevante, e comunque passivamente accettata. Da
adolescenti, invece, hanno un ruolo assai più attivo nella caccia, un
ruolo ben definito, e quindi la divisione tra i sessi diventa concreta.
Essa trae la sua origine nella logica della divisione del lavoro, ma il
modo con cui viene ritualizzata le attribuisce un significato diverso. I
canti di caccia, nei quali i giovani svolgono la parte principale,
rimandano alla contrapposizione fisica tra gli uomini, che stanno alle
reti, e le donne, che spingono verso di loro la selvaggina, mentre i
giovani, dall’una e dall’altra parte, hanno una posizione
approssimativamente mediana. Pur essendo difficile dimostrare che
tali canti costituiscano un’attività rituale e non educativa, di
rafforzamento dei valori, esistono altre attività innegabilmente rituali
dove sono usate tecniche di canto contrappuntato simili a queste, che
esprimono direttamente la necessità di evitare i conflitti tra i due sessi.
In queste attività sono coinvolti gli adulti e i giovani, non gli anziani e
i bambini, in quanto l’insorgenza del conflitto è considerata possibile
solo nell’ambito dell’età adulta: in un certo senso, agli adulti spetta il
compito di rendere evidente tale conflitto, ai giovani quello di
risolverlo, se non possono evitarlo.
Una di queste attività è il tiro alla fune. Esso viene iniziato dagli
adulti, in genere, ma non va mai avanti a lungo se non intervengono i
giovani. Per lo più si verifica nella stagione del miele, un’epoca di
rilassamento generale durante la quale la banda di caccia si suddivide
in piccoli gruppi che setacciano il territorio in cerca di miele, e la
caccia come operazione svolta in comune si interrompe. Ciò ha
verosimilmente una funzione ecologica, in quanto per circa due mesi
la selvaggina non è sottoposta ad alcuna pressione venatoria, ma serve
indubbiamente anche a consentire l’emergere di conflitti irrisolti o di
dispute potenziali. Il tiro alla fune esprime il principale dei conflitti
potenziali, quello tra maschi e femmine. Gli uomini tirano una liana
da una parte, le donne la tirano dall’altra. Contemporaneamente,
cantano in contrappunto. Ma poiché la vittoria dell’uno o dell’altro
gruppo non ha alcun senso, se sono gli uomini che stanno vincendo,
ecco che uno di loro abbandona il proprio posto e si unisce alle donne,
sistemandosi la veste in stile femminile, gridando motti di
incoraggiamento in falsetto e prendendo in giro le «compagne» con
l’esagerazione della propria mimica. Se invece sembrano avere la
meglio le donne, accade l’inverso: una di esse si abbassa la veste nel
modo in cui la portano gli uomini e passa dalla loro parte gridando
con voce profonda, imitando comicamente gli atteggiamenti virili.
Ogni persona che compie questo «passaggio di campo» cerca di
superare in comicità chi ha compiuto il passaggio precedente,
provocando ilarità via via crescente, finché, quando entrambi i gruppi
ridono così forte da non riuscire più né a cantare né a tirare, tutti
mollano contemporaneamente la corda e piombano al suolo in preda a
una specie di isteria. Il «passaggio di campo» viene compiuto sia dagli
adulti sia dai giovani, ma sono soprattutto questi ultimi a suscitare la
maggiore ilarità. In tal modo gli scherni sono privi di ostilità, anzi in
essi è presente un certo senso di identificazione, sia pur parziale, col
gruppo preso di mira, una sorta di simpatia, e viene così evitata la
violenza e l’aggressività conseguente a una vittoria dell’uno o
dell’altro sesso e dimostrata la stupidità della competizione.
La stagione del miele è considerata un momento di rilassamento
dedicato ai piaceri della vita, di cui il miele è uno dei simboli
principali. In quest’epoca, l’attività sessuale tra i giovani è
particolarmente intensa. Nella «danza dell’ape» viene esplicitato il
collegamento esistente tra la domanda individuale di piacere, sia pur
legittima, e la conflittualità. Anche qui, partecipano sia i giovani che
gli adulti. I maschi si dispongono in fila indiana, portando archi,
frecce e delle braci ardenti, che hanno «rubato» dal focolare di
qualche èndu. Qui si ha già una prima rappresentazione del contrasto
maschio/femmina: il fuoco infatti è controllato dalle donne, che hanno
il compito di portarlo con sé, a caccia oppure se accompagnano gli
uomini in qualche viaggio, e soprattutto quando il campo viene
spostato da un luogo all’altro, perché il focolare dell'endu non deve
spegnersi mai. Gli Mbuti conoscono un paio di tecniche per accendere
il fuoco derivate da quelle tradizionali del villaggio, ma preferiscono
non usarle. Usano anche i fiammiferi (se ne hanno), ma solo per azioni
profane, come accendere una sigaretta o simili.
Dunque gli uomini devono «rubare» il fuoco dagli endu per
portarlo con sé, come fanno quando vanno in cerca di miele allo scopo
di affumicare le api onde poter «rubare» il loro prodotto (anche qui
viene messo in evidenza l’aspetto aggressivo dell’azione, assimilabile
al «furto della vita» compiuto ai danni della selvaggina). Gli uomini
danzano per l'apa, guardando in alto come se stessero cercando un
alveare, mentre le donne formano un’altra fila e li seguono, danzando
dietro di loro, o accanto a loro, o anche entrando e uscendo dalla fila
degli uomini come se questi fossero invisibili. A un certo punto le
donne cambiano direzione e si mettono a danzare verso gli uomini.
Anch’esse portano il fuoco, ma a differenza degli uomini, solo due o
tre dei quali hanno delle braci avvolte in foglie di phrynium, ogni
ragazza e ogni donna adulta tiene nella sinistra un tizzone ardente.
Quando le due file sono vicine, le donne improvvisamente escono dai
ranghi e attaccano gli uomini, battendoli con i tizzoni sulla testa e
coprendoli di braci e scintille, che «bruciano come la puntura delle
api». Gli uomini si scompigliano, quindi ricostituiscono la fila e tutto
ricomincia daccapo, con l’imitazione della ricerca dell’alveare.
Diversamente dal tiro alla fune, questa danza ha una conclusione più
definitiva, nel senso che gli uomini non riescono mai a portare a
termine il loro tentativo di «rubare» il miele alle «api», cioè alle
donne. Prima o poi, una di queste (sempre un’adulta, mai una
ragazza) pone fine alla danza entrando nella propria capanna e
riemergendone con una tazza di miele o un pezzo di favo, che viene
offerto agli uomini. Questi lo accettano e se ne cibano, dividendolo
con le donne (cioè con le api).
La danza col cerchio e il salto della corda sono attività assai
frequenti durante la stagione del miele, cui si dedicano soprattutto le
ragazze più grandi, le quali in quest’epoca dedicano molto tempo alla
cura del proprio corpo, decorandosi con succo di gardenia. E giocano
con i frutti di gardenia, facendoli rotolare lungo le spalle fino sui loro
seni sodi, per mezzo dei quali li scagliano poi in aria per prenderli al
volo. Il solito mattacchione del campo non mancherà di dimostrare
come questo gioco non possa essere eseguito dai ragazzi, i quali,
comunque, hanno altri passatempi, come una specie di «partita a
carte» con semi, o pietruzze, nelle quali di solito vincono tutti. Questa
partita è una variante di un gioco molto popolare al villaggio, ed è
anche un mezzo importante di socializzazione tra la gente del
villaggio e gli Mbuti quando si incontrano. Anche i ragazzi usano
decorarsi durante la stagione del miele, usando foglie, orchidee e
corteccia fresca. Sono preliminari della grande festa pre-nuziale,
l'elima, che ha luogo, idealmente ma non necessariamente, durante
questo periodo. Essa coinvolge tutti i giovani maschi e femmine
presenti nell’apa così come è costituita in quel momento, e solo alcuni
degli anziani, chiamati a rivestire ruoli specifici, come quello della
«madre» dell'elima (una vecchia vedova o una donna sterile) o del
«padre» di essa. Quest’ultimo è un ruolo meno formale, assunto in
genere da un uomo vedovo o da uno storpio. In altri termini sia il
«padre» che la «madre» dell'elima sono considerati, in un certo senso,
asessuati. Le altre madri presenti al campo fungono da guardiane delle
bamelima, le ragazze, che stanno nella capanna dell' elima. I
giovanotti provenienti da altri territori di caccia, vicini o lontani che
siano, vengono in visita al campo per partecipare alla festa. I maschi
adulti, i bambini e gli anziani (a parte il «padre» e la «madre»
dell'elima) possono intervenire solo come spettatori.
Come altre istituzioni sociali, l’elima può essere considerata da
diversi punti di vista. Essa è motivata dal passaggio delle ragazze
dell'apa all’adolescenza, reso evidente dalla comparsa del primo
flusso mestruale. A differenza di altre società, non solo africane,
questo avvenimento è ampiamente pubblicizzato e salutato con
manifestazioni di gioia, perché significa che «è nata una madre». In
genere il campo aspetta che una seconda ragazza «veda il sangue» per
la prima volta, in modo che le due fanciulle possano riunire la loro
elima e festeggiarla insieme. Accade anche che arrivi una ragazza di
un altro apa, condotta dai suoi genitori col pretesto di stare al campo
durante lo spostamento mensile da un luogo all’altro, in realtà con lo
scopo di farla partecipare all’elima. Ciò avviene soprattutto se le
ragazze sono amiche. Le ragazze possono invitare delle amiche a far
loro compagnia nella casa dell’elima, dove stanno con la
eia’abamelima, la madre delle ragazze dell’elima. In effetti, in
quest’epoca i giovani del campo sono rigorosamente divisi tra maschi
e femmine, sia i più grandi sia quelli di minore età, e svolgono
separatamente tutte quelle attività che in tempi normali avrebbero
condotto insieme.
L'elima è considerata come una festa pre-nuziale che fornisce
l’occasione per corteggiamenti formali e sperimentazione di rapporti
sessuali. Ma è anche una iniziazione congiunta di maschi e femmine
che segnala agli adulti l’approssimarsi dell’età anziana, un’altra area
di conflitto potenziale, di possibile aggressività, se non di violenza.
Gli Mbuti parlano di questo periodo come di un periodo di akami, per
l’individuo interessato, mentre per i giovani il passaggio
all’adolescenza e da questa all’età adulta è ekimi. L’elima può essere
utilizzata, dagli adulti sul limite della vecchiaia, per giocare
temporaneamente il ruolo di pagliacci. A tale scopo, se sono maschi,
essi fingono di essere della generazione successiva e si presentano
come giovanotti, dandosi da fare insieme agli altri per raggiungere la
casa dell’elima e, a volte, perfino entrandoci per qualche momento.
Per le donne, comportamenti del genere sono più rari. Se sono vedove,
il passaggio alla vecchiaia è più graduale che per gli uomini, ed anche
se non lo sono la vecchiaia costituisce per la loro attività di raccolta un
ostacolo minore che per l’attività venatoria degli uomini. Ma le donne
non più giovani, che non gradiscono il prossimo cambiamento di
status, possono approfittare dell 'elima per mettersi in mezzo alle
ragazze allorché queste escono dalla casa dell 'elima. In tal modo, gli
adulti di mezza età, alleandosi temporaneamente con la generazione
più giovane, si identificano automaticamente con quella più anziana,
secondo il principio dell’alleanza tra generazioni alternate assai attivo
nella società mbuti.
La principale caratteristica dell' elima, secondo quanto ci
interessa in questa sede, è il conflitto rituale tra ragazzi e ragazze, che
si manifesta come una battaglia combattuta con bastoni, noci e semi di
grandi dimensioni, braci accese e perfino ciocchi, per quanto riguarda
le donne, con il lancio di semi più piccoli e pezzi di pelle ispessita da
parte dei ragazzi, e con l’uso di fruste di rami flessibili ad opera delle
ragazze bamelima. Allo scopo di arrivare fino alla casa dell 'elima e
acquisire così il diritto di giacersi con una delle ragazze, i giovanotti, o
gli adulti di mezza età che si fingono tali, devono farsi strada
attraverso il fuoco di sbarramento messo in atto dalle donne adulte.
Una volta dentro la casa, o subito prima di essa, possono poi essere
affrontati dalle ragazze armate appunto di frustini. Le medesime fruste
vengono usate dalle ragazze nel corso delle loro frequenti incursioni al
campo e anche nei territori vicini, a provocare i giovanotti (e gli adulti
di mezza età) per indurli ad andare a trovarle nella casa dell'elima.
Ovviamente tutto ciò contiene una serie di insegnamenti. A parte le
accese discussioni che le ragazze hanno con la madre dell’elima, e i
ragazzi col padre, attraverso cui vengono fomite le spiegazioni
razionali di quello che deve succedere, la vera e propria violenza fisica
che i giovani devono affrontare per poter realizzare i propri desideri
sessuali è una drammatica ritualizzazione dell’intimo conflitto tra l’io
individuale e l’io sociale, conflitto che costituisce una delle
caratteristiche chiave della vita da adulti verso la quale si stanno
muovendo. Essi hanno già imparato che gli adulti sono «per forza» dei
«piantagrane», che l’età adulta è un’età di akami, ed ora questo per la
prima volta si trasforma in esperienza concreta. Eppure tutti i simboli
familiari della sicurezza sono presenti: la madre e il padre; l' endu
(delle bamelima) col suo focolare; i tizzoni che le bamelima usano
contro i ragazzi; le foglie speciali su cui si dorme dopo che i ragazzi
sono stati ammessi, e che devono essere gettate via secondo un certo
rituale a cose finite; i rami flessibili che vengono usati come fruste; e i
canti che devono essere cantati in contrappunto, diversi da tutti gli
altri canti quanto a forma musicale e stile. Al termine dell’elima, sia i
ragazzi sia le ragazze ricevono un’abluzione rituale con l’acqua.
Attraverso l'elima, i giovani imparano che il perseguimento dei
desideri individuali, che pure non è sbagliato in sé, può condurre ad
akami, e che per realizzare tali desideri è opportuno temperarli in
modo che possano divenire accettabili per il resto della società. Le
donne adulte, se vogliono, sono perfettamente in grado di impedire,
anche al più forte e aggressivo dei ragazzi, di entrare nella casa
dell'elima1, possono batterlo con bastoni e con rami spinosi, o
semplicemente sollevarlo di peso e gettarlo nel ruscello più vicino.
L'elima dura un mese, ed è ovviamente un periodo di tensione, al
termine del quale molti sono i malumori, e c’è un momento di akami
generale. Allora accade che proprio i giovani che sono stati la causa
involontaria di questo akami, siano chiamati a giocare forse il loro
ruolo più importante, un ruolo che stranamente li prepara al tempo in
cui saranno anch’essi adulti, e inevitabilmente litigiosi. In tale ruolo,
essi sono i portatori del molimo madè, il molimo minore. Il termine
molimo, che ha a che vedere con la «leopardità», è traducibile al
meglio come anima della foresta, essenza spirituale di essa. Ne è
simbolo concreto una lunga tromba fatta tradizionalmente da un
albero speciale che, se tagliato giovane, può essere facilmente scavato
al suo interno per mezzo di una liana abrasiva. Questa tromba è
generalmente lunga da due a tre metri. Il molimo mangbo, il molimo
maggiore, è controllato dagli anziani ed è usato in occasione di gravi
crisi, come qualche decesso, o il protrarsi di un periodo di caccia
sfortunata. Il molimo madè entra in funzione per riportare la calma in
un campo «rumoroso». Sono i giovani che siedono a giudizio per
giudicare gli adulti. Sono i giovani che vengono chiamati a porre
rimedio al male compiuto dagli appartenenti a quell’età di cui tra
breve essi entreranno a far parte. Il molimo mangbo (sempre operato
dai giovani, ma sotto la direzione degli anziani) è costruito in modo da
produrre il suono di un leopardo; gli viene data da bere acqua, è
strofinato con la terra, e serve anche per attizzare il fuoco, oltre che
per essere fatto risuonare dal fiato. Il molino madè, invece, produce il
suono di un elefante irato, distruttore della foresta: quando arriva al
campo non riceve terra, acqua, fuoco, aria, ma viene afferrato da tutti i
giovanotti e agitato avanti e indietro, ma distrugge ogni cosa al suo
passaggio, attaccando uno dopo l’altro tutti gli endu, riservando forse
(ma non obbligatoriamente) un trattamento speciale a quello degli
adulti piantagrane che hanno fatto sì che il molimo madè «si
svegliasse»..
Niente di quanto adulti e anziani possono dire o fare ha effetto sul
controllo del molimo madè da parte dei giovani. Sono loro a decidere
sia quando l'akami è tanto serio da richiedere questo tipo di intervento,
al posto del consueto ricorso allo scherno, sia che cosa costituisca
akami. I giovani hanno il potere di rivedere i valori della società, di
modellare il futuro. La loro esperienza è ormai sorretta da una capacità
intellettuale ben sviluppata: essi discutono a lungo, e seriamente, del
comportamento degli adulti, in termini di akami ed ekimi intesi in
senso concettuale, non riferendosi a codici stereotipati di azione.
Similmente, sebbene gli adulti non abbiano alcun controllo
sull’attività sessuale dei giovani al di fuori dell’istituzione dell' elima,
questi riconoscono la potenzialità conflittuale del sesso e discutono al
proprio interno le loro preferenze e l’opportunità di avere, o no, un
rapporto con qualche ragazza. Essi dicono che deve esistere un tempo
e un luogo di ekimi, e nei loro discorsi affermano le proprie
preferenze: vicinanza all’acqua, per poterla vedere o udire, oppure alla
terra, nel senso che un posto ha un odore più piacevole di un altro o è
più soffice, oppure vicinanza all’aria, riferendosi al suono della brezza
che sussurra tra le foglie. Quando una coppia è convinta di aver
sperimentato abbastanza da essere in grado di portare l'ekimi con sé
nell’età adulta, in quanto senza ekimi i rapporti sessuali non sarebbero
né possibili né piacevoli, si sposa. Per gli Mbuti questo richiede scarse
formalità. Il giovanotto deve dimostrare la propria abilità come
cacciatore, catturando selvaggina «grossa» (grossa abbastanza da
poter sfamare un nucleo familiare), da solo o grazie alla sua posizione
a una delle estremità del semicerchio di reti; la ragazza deve
desiderare di andare con lui e costruire una capanna dove vivere. I
genitori non hanno voce in capitolo, anche se a volte esprimono
tranquillamente la propria opinione. Gli anziani intervengono soltanto
se ritengono che il matrimonio sia troppo «stretto», un concetto dove
entrano sia la parentela sia la territorialità.
L'età adulta inizia senza formalità, appena i giovani si sentono pronti
per il matrimonio. Una volta sposati, i giovani vengono classificati
come adulti. La madre del ragazzo regala al figlio una rete da caccia, e
da un giorno all'altro la coppia partecipa alla caccia tra adulti;
al'interno di ogni gruppo d'età non esiste gerarchia verticale. E a
questo punto i due novelli sposi cominciano a rendersi conto di quanto
sia densa di conflitti la vita da adulto. Dopo ogni figlio, il marito deve
astenersi dai rapporti sessuali con la moglie per tre anni. Andare a
letto con le altre donne, specialmente se ragazze nubili, non è
formalmente proibito, ma questo metterebbe l’uomo in competizione
con altri maschi adulti, o con qualche giovane corteggiatore. Inoltre, il
maschio adulto è colui che uccide la selvaggina, dunque colui che
perpetua la mortalità (umana oltre che animale). Egli deve fare
affidamento sui bambini, attraverso il fuoco di caccia, per ridurre al
minimo questo atto necessario di violenza e aggressività. E deve
affidarsi ai giovani perché ritorni 1 ’ekimi quando qualche sua
dissennata scappatella, o la sua gelosia, provoca akami, accettando che
i giovani di quel momento ridefiniscano i concetti di ekimi e akami in
modo non necessariamente gradevole per lui. E quando, in genere
nella piena maturità, si trova ad affrontare la morte dei suoi genitori, il
maschio adulto deve affidarsi al potere degli anziani, che invocano il
molimo mangbo a restaurare l'ekimi anche davanti alla morte. Nel
momento in cui è più potente sessualmente, il maschio adulto scopre
di essere del tutto impotente socialmente. In gran parte l’impatto di ciò
è minimizzato dai valori appresi dall’infanzia in poi, la dipendenza e
l’interdipendenza, ed anche dal ricordo della recente gioventù, solo da
poco tempo trascorsa. L’ostilità teoricamente presente tra queste due
generazioni adiacenti (adolescenza ed età adulta) è in qualche modo
attenuata dalla loro estrema prossimità e dalla necessità di
cooperazione che è loro richiesta a caccia, nella raccolta di frutti, nei
canti e nelle danze rituali.
Sono soprattutto gli adulti ad essere in contatto con la più
pericolosa delle aree di conflitto, quella tra gli agricoltori stanziali che
risiedono al villaggio e i cacciatori-raccoglitori nomadi. A causa del
ruolo economico che svolgono nella società mbuti, è dagli adulti che il
villaggio si attende carne, funghi, vimini e foglie per le capanne, ed
altri prodotti forestali. Gli abitanti del villaggio ritengono
erroneamente che il controllo economico esercitato dagli adulti mbuti
sia sinonimo di controllo politico, e quindi è con loro che
intrattengono rapporti e intavolano discussioni. Ciò mette in difficoltà
gli adulti, sia maschi che femmine, perché ogni tentativo di andare
incontro ai desideri degli abitanti del villaggio può provocare grandi
litigi in seno al campo forestale; e il contrario può provocare guai nei
rapporti con il villaggio, cosa che bisogna impedire se non si vuole
che la gente del villaggio vada nella foresta a prendere ciò di cui ha
bisogno. Non è questa la sede per esaminare in dettaglio questo
conflitto; ci limitiamo a notare la partecipazione (già ricordata) dei
ragazzi mbuti alla cerimonia dell’iniziazione (nkumbi) che si tiene al
villaggio, che secondo i suoi abitanti permette di acquisire un
controllo sovrannaturale sugli Mbuti... visto che ne è impossibile il
controllo politico attraverso gli adulti. La partecipazione di coppie
mbuti che vogliono sposarsi ai riti nuziali del villaggio serve al
medesimo scopo. Ma una volta tornati nella foresta gli adulti vengono
regolarmente incolpati dell 'akami che deriva dall’avere accettato
anche la più ragionevole delle richieste del villaggio. All’apa, dunque,
sono in genere gli adulti che motteggiano gli abitanti del villaggio per
il divertimento degli altri Mbuti, cui raccontano delle loro visite
laggiù, riferendo come hanno imbrogliato, o derubato, o preso in giro i
villici magari battendoli ai loro stessi giochi preferiti. In queste
rappresentazioni, gli adulti scherniscono i villici come maldestri,
stupidi, rumorosi, sporchi, e via dicendo, ma contemporaneamente li
qualificano anche pericolosi come l’elefante.
La continua mobilità degli Mbuti, che cambiano posto all’apa
quasi ogni mese, impedisce il verificarsi di conflitti con la gente del
villaggio. I campi variano continuamente di composizione e
dimensione, oltre che di localizzazione, quindi i villici non sono mai
in grado di sapere quali Mbuti sono dove. Tale processo di continua
fissione e fusione è anche un modo di evitare i conflitti tra gli Mbuti
stessi, in quanto i possibili avversari si separano e vanno in campi
diversi prima che le dispute assumano proporzioni pericolose.
Comunque, il fattore che più di ogni altro serve a controllare
l’aggressività, la violenza e i conflitti nella vita degli adulti, è il valore
manifestamente positivo dell'ekimi, percepito dagli adulti in ogni
stadio della propria esistenza e tuttora considerato come fondamentale
nel perseguimento della soddisfazione individuale. La «cerimonia» del
molimo è qualcosa di faticoso e coinvolgente. Pur mettendo l’accento
sull’ekimi, quasi inevitabilmente produce akami. Quindi è sempre
accompagnato da riti atti a invertire l'akami. Uno di questi è il molimo
madè, un altro è un rituale centrato sul sesso. Essendo i principali
responsabili delle dispute, non sorprende che siano gli adulti, maschi e
femmine, coloro ai quali è chiesto di eseguire l'ekokomea, il più
formale di tutti i riti di inversione e/o ribellione. Lo scopo
dell'ekokomea è di dimostrare, come in un esperimento controllato, i
pericoli insiti in comportamenti e modi di pensare non corretti. A
sottolineare la diversità delle maniere di esprimere attivamente
l’aggressività, espellendola da sé, vi è qui il richiamo implicito alla
purezza, o salute, senza il quale la drammatizzazione rituale sarebbe
vuota e inefficace. Nell'ekokomea tutte le norme relative al sesso sono
accantonate, invertite, e quindi ridicolizzate. Attraverso la mimica e lo
scherno vengono sperimentati e messi alla prova modi alternativi di
comportamento. In particolare, sia come individui sia come gruppi,
uomini e donne hanno l’occasione di prendere in giro il sesso opposto,
il più delle volte facendo riferimento alla pulizia o al comportamento
sessuale. Come nel tiro alla fune, ogni manifestazione individuale di
scherno accresce l’ilarità generale e attenua l’aggressività latente,
finché la comicità oltrepassa a tal punto la ragionevolezza che
l’aggressività stessa diviene inconcepibile. A questo punto, il gruppo
dell'ekokomea si abbandona all’isteria e tutti rotolano al suolo,
roteando gli occhi pieni di lacrime, col respiro affannoso. Quando si
riprendono, uomini e donne riassumono i loro ruoli consueti come se
nulla fosse accaduto, a parte una generale sensazione di sollievo
psicologico.
Il maggiore dei riti purificatori, comunque, è il molimo mangbo,
che serve a ricordare a tutti, indipendentemente dall’età o dal sesso, il
valore fondamentale dell'ekimi e la necessità vitale della cooperazione
perché l'ekimi possa essere ottenuto. E in questa occasione che gli
Mbuti si sentono davvero tutti uniti, al centro dell’utero che tutto
contiene, la foresta. Infatti, solo un sentimento di questo tipo può
essere alla base del senso di cooperazione necessario per restaurare
l'ekimi di fronte al supremo akami della morte. La natura intima della
cooperazione rituale richiesta rappresenta i ruoli mutuamente
complementari dei quattro gruppi d’età presenti nella società mbuti, e
proprio come la vita (e l'ekimi) non sarebbe possibile senza questa
interazione e interdipendenza giornaliera tra bambini, giovani, adulti e
anziani, così sarebbe impossibile il molimo mangbo, e quindi
l’inversione dell' akami, senza la cooperazione dei medesimi gruppi. Il
molimo mangbo integra tra loro i gruppi di età e i sessi, riunendo tutti i
singoli endu, divisi per quanto riguarda la parentela, nell’ambito di
una medesima, comune, territorialità. Infine, il molimo mangbo
esprime la contrapposizione fonda- mentale, quella tra foresta e non
foresta. In questo grande rituale, tutte le possibili cause di conflitto
hanno modo di esprimersi. Sono dunque tre le occasioni che
periodicamente e costante- mente si ripropongono, nelle quali è
necessaria la ritualizzazio- ne della conflittualità e l’espulsione
dell’aggressività. La stagione del miele, annuale, in cui la banda
territoriale si frammenta in gruppi minimali; l'elima, che si tiene ogni
volta che una fanciulla della banda ha il primo flusso mestruale; e il
molimo mangbo, quando muore un adulto o un vecchio (a volte anche
un giovane). Non è impossibile che tutte e tre le ritualizzazioni
avvengano contemporaneamente, anche se, in genere, l' elima viene
ritardata se è in atto un molimo mortuario.
Nel molimo mangbo i bambini, con alcuni degli adolescenti di
minore età, hanno il compito di «rubare» (ancora) cibo e fuoco dal
focolare di ciascun endu per il focolare centrale del molimo, il
kumamolimo. La necessità di mimare l’atto del «rubare» sottolinea
l’esistenza di un conflitto insito nel rapporto tra gli individui e la
società, conflitto che si manifesta soprattutto nel corso dell’età adulta.
Come nel molimo madè, i portatori della tromba del molimo sono i
giovani: uno di essi dà fiato alla tromba, e questo dà al canto degli
uomini, che fanno eco, un potere speciale, consentendogli di
raggiungere la foresta e di farsi udire dalla ndura. I suoni prodotti dal
molimo imitano non il barrito dell’elefante, ma il ruggito soffocato del
leopardo, che è come l’elefante simbolo di morte, ma a differenza di
questo simboleggia la morte da cui risorge la vita. La decisione di dar
inizio al molimo mangbo, così come di porvi fine, spetta agli anziani,
ma sono i giovani a stabilire quando (e se) è il momento di introdurre
nel campo la tromba per nutrirla al fuoco del kumamolimo. Ciò è
coerente con il loro ruolo giudicante. Se i giovani decidono che gli
adulti, gli anziani, i bambini, maschi o femmine che siano, non
cooperano abbastanza e non si danno anima e corpo alla festa, se
giudicano che al campo c’è akami, allora quella notte essi toglieranno
la tromba dal suo ruscello, la bagneranno, e le daranno da bere e da
mangiare (acqua, terra e fuoco), soffiando in essa il proprio fiato
vitale; ma non la introdurranno nel campo, si limiteranno ad
avvicinarsi. E invece di farla suonare come un leopardo, il che
riconcilia l’uomo con la morte, la faranno suonare come un elefante, e
all’alba sarà il molimo madè ad entrare nel campo, non il molimo
mangbo. Ancora una volta, proprio ai giovani, che stanno per divenire
adulti e quindi anch’essi rumorosi e litigiosi, è data la responsabilità di
restaurare l' ekimi.
I maschi adulti, che impersonano il primo cacciatore, colui che ha
portato la morte tra gli umani, patiscono i maggiori disagi durante
questa festività lunga e faticosa. Anche il loro canto, che pure è il più
sonoro, non possiede la capacità di portare il molimo nel campo. Deve
essere trasformato dalla tromba, e trasfigurato per mezzo della voce
dei giovani, in un suono di puro ekimi, perché la foresta possa udirlo.
Agli anziani, ai giovani, alle femmine e ai bambini è concessa qualche
pausa. Agli uomini no. Se un maschio adulto fa tanto di sonnecchiare
durante i lunghi canti notturni del molimo, è minacciato di morte.
L’intensità del suo canto dev’essere superiore a quella di chiunque
altro. E verso la fine del rito deve anche subire l’affronto di vedere il
proprio ruolo usurpato dalle donne, che si sostituiscono agli uomini
nel canto, legandoli come salami con cappi fatti con gli stessi vimini
(nkusa) che vengono usati per fabbricare le reti da caccia. In
quest’occasione si dice che le donne legano il canto e legano la caccia.
Solo quando gli uomini fanno un certo gesto propiziatorio, le donne li
liberano e il molimo può continuare. Ma a questo punto accade che
una vecchia, con gesto di controllo supremo, calpesti lentamente e
deliberatamente il fuoco del molimo, spargendo in giro la legna e le
braci, minacciando di estinguere per sempre la vita. Gli uomini, allora,
ricostruiscono il focolare, «reinfiammando» le braci con una danza
che imita i movimenti del coito, e di nuovo la vecchia calpesta il fuoco
e lo scompiglia, per dire che, come donatrice di vita, essa ha anche il
potere finale di dare la morte, di negare il suo stesso potere vitale.
Questa scena si ripete per due o anche tre notti, dopodiché il molimo
volge al termine. Le ultime scintille del focolare vengono attentamente
spente da un uomo anziano. I giovani riportano la tromba al suo
ricettacolo nelle profondità della foresta. E gli adulti possono
finalmente lavarsi e togliersi la macchia della morte, riprendendo le
proprie attività quotidiane.
Si vede dunque come gli adulti, maschi e femmine, vengano
educati fin dall’infanzia a evitare i conflitti, deviarli, distoglierli,
oppure a risolverli con un ricorso minimo all’aggressività fisica e
mentale quando emergono nonostante tutte le precauzioni. I casi più
frequenti di akami si manifestano nell’età adulta, e non è detto che
tutto ciò che è stato appreso nell’infanzia e nell’adolescenza sia
sempre sufficiente a impedire il loro verificarsi. Nell’età adulta,
comunque, è presente un elemento particolare, la differenziazione
sessuale. L’età adulta è l’unica età in cui i vocaboli per indicare le
persone esprimono anche il sesso. Per i piccoli, i bambini e anche i
giovani, tutti gli adulti sono divisi in ema o eba, mentre essi,
all’interno di ciascun gruppo d’età, sono tutti apua’i, senza riguardo al
sesso; oppure, quando sono interpellati da qualcuno più grande, sono
miki, sempre senza riguardo al sesso. Anche gli adulti possono
rivolgersi tra loro come apua ’i, ma sono divisi tra maschi e femmine.
Inoltre, anche se l'elima prepara la strada alla distinzione tra ruoli e
comportamenti, attribuendo chiaramente l’iniziativa alle femmine,
l’uomo adulto sembra trovar difficile, a volte, accettare questo
predominio femminile. Egli si vede come cacciatore, ma non può
cacciare senza moglie, e anche se la caccia è ben più eccitante che fare
il battitore o raccogliere frutti, sa bene che la parte fondamentale della
sua dieta è costituita da cibo raccolto dalle donne. Mentre sua moglie
può partecipare praticamente a tutti gli aspetti della sua vita sociale,
egli resta escluso dal suo ruolo di madre. E dopo ogni parto, non
potendo avere rapporti sessuali con lei per tre anni, sente la donna
ancora più lontana da sé. Nonostante il persistere dell’affetto, in tutti i
campi di caccia sono queste le «linee» lungo le quali si manifestano le
tensioni.
È come se la donna (la madre, colei che dà la vita) divenisse
sacra, e l’uomo (il cacciatore, colui che dà la morte) profano. La
riluttanza che la donna deve dimostrare a fornire il fuoco per il
kumamolimo, il suo potere di «legare il canto e la caccia» (le donne
usano anche il termine «mettere a tacere»), il suo potere sul fuoco
vitale, tutto ciò è coerente con il suo ruolo di donatrice di ekimi.
Parallelamente, l’uomo è visto come portatore di akami, e questo
ruolo è altrettanto vitale quanto quello della donna. Comunque,
l’aggressività maschile nell’età adulta è tenuta a freno non solo
attraverso i diversi rituali con cui è prevista la collaborazione tra
maschi e femmine, o l’inversione dei ruoli, e neppure semplicemente
dalla necessità di cooperazione e dipendenza reciproca presente nella
caccia e nella raccolta dei frutti. L’aggressività maschile è tenuta a
freno dalla posizione mediana dell’età adulta, così vicina
all’adolescenza da un lato, e contemporaneamente vicina alla
vecchiaia dall’altro. Il giovane marito, neopadre e quindi già privato
del diritto di dormire con sua moglie, passa molto tempo in compagnia
di quegli adolescenti di cui faceva parte fino a poco tempo prima.
Accade a volte che partecipi anche al molimo madè, continuando così
ad esercitare l’antico ruolo giudicante accanto al nuovo ruolo
economico da adulto, anche se non ufficialmente. E quando è già
troppo vecchio per stare con i giovani, non lo è comunque abbastanza
da non essere più influenzato da loro, ed è relativamente facile per lui
accettare la loro volontà, così come si esprime nel molimo madè.
In seguito, quando ormai sua moglie ha smesso di mettere al
mondo figli, si sente vicino alla vecchiaia e per questo più vicino alla
purezza. Il passaggio dall’età adulta alla vecchiaia è graduale, e per
coloro che lo trovano difficile, una soluzione può venire dall’adesione
al ruolo di pagliaccio. Altri, forse i più, tendono a scivolare più
agevolmente nella vecchiaia abbracciandola fin dal momento in cui
hanno perso l’ultimo contatto con la gioventù. In tal modo essi
passano dal contatto con un ruolo giudicante al contatto con il ruolo di
mediatori svolto dagli anziani. Cosicché l’età adulta, per il maschio, si
trova in una posizione intermedia, segnata da un senso di
ambivalenza. L’alleanza tra generazioni alternate, cioè tra giovani e
anziani, è uno dei sistemi principali per prevenire l’aggressività tra gli
adulti.
Dopo il passaggio all’età anziana, il pericolo di aggressività
diventa praticamente nullo. Gli anziani, cui anche i figli adulti si
rivolgono come tata, sono di nuovo privi di differenziazione sessuale:
i sessi si sono ricomposti. Inoltre, per la loro vicinanza alla morte, essi
sono sempre più imbevuti di poteri spirituali associati con Y ekimi. Il
loro ruolo di arbitri è informale; grazie all’età, hanno una grande
esperienza cui possono far riferimento per trame indicazioni. Oppure,
semplicemente, senza una parola si frappongono fisicamente tra due
litiganti, rendendo così difficile la continuazione della disputa o dello
scontro. Ma mentre i giovani, col molimo madè, controllano
l’aggressività nella sfera del «qui ed ora», facendo appello alla
ragione, gli anziani fanno riferimento a un’altra sfera, quella «fuori dal
qui ed ora», e col molimo mangbo invocano lo spirito, non la ragione.
Se i giovani hanno il potere, i vecchi hanno l’autorità. Entrambi,
tranne che nel contesto dell'elima, non sono differenziati
sessualmente, e sotto tale profilo sono alleati dei bambini, e tutti e tre i
gruppi si diversificano da quello degli adulti sessualmente
differenziati.
L'aggressività e la violenza sono virtualmente impossibili nella società
mbuti fino all'età adulta; qui sono limitate quasi esclusivamente ai
maschi, ma controllate da potenti istituzioni giuridiche e spirituali
rette da classi di età adiacenti all'età adulta, da cui gli adulti
provengono e verso cu sono destinati ad andare, con una
contrapposizione che si rivela un'efficace misura di controllo. In
questo contesto pericoloso, la donna mbuti emerge come simbolo di
ekimi, anche se vicina all'akami del maschio. Le frequenti
manifestazioni rituali del suo potere ultimo non hanno altro scopo che
quello di ricordare la sicurezza totale offerta dall’utero che tutto
accoglie, la foresta. Non c’è da meravigliarsi che gli Mbuti non
abbiano paura di morire e che i canti funebri esprimano una gioia
simile a quella per il concepimento della vita. È la stessa gioia con cui
il piccolo nasce all'endu, il bimbo nasce al bopi, il giovane nasce all'
apa, perché tutti vengono dalla ndura e ad essa ritornano. Per gli
Mbuti questa gioia, che li accompagna per tutta la vita, è ekimi, il
contrario di akami. L’esperienza mbuti, se non altro, insegna che
l’aggressività è politicamente svantaggiosa: l'ekimi è semplice- mente
non compatibile con l'akami supremo della violenza.

Note al capitolo

1. Molti dei dati utilizzati in questo scritto sono stati da me


raccolti nel corso ci una ricerca sul campo finanziata dalla
National Science Foundation (1970- 1972), del cui sostegno
sono molto debitore. Sono anche grato, per l’aiuto e gli utili
suggerimenti, alla collega Barbara Ingersoll della West
Virginia University.
2. Colin M. Turnbull, The Forest People, Simon & Schuster,
New York, 1961 (trad. it.: I Pigmei. Il popolo della foresta,
Rusconi, Milano, 1975); Colin M. Turnbull, The Mbuti
Pygmies: An Ethnografic Survey, «Anthropological Papers
of thè American Museum of Naturai History», a. 50, n. 3
(1965).
3. Ashley Montagu, Prenotai Influences, C.C. Thomas,
Springfield, 111., 1962.
4. In questo tipo di considerazioni devo molto all’apporto di
Barbara Ingersoll, del dipartimento di Medicina
Comportamentale della West Virginia University, al cui
parere ho sottoposto il dattiloscritto di questo articolo.
5. E nemmeno l’interesse, a giudicare dalla distrazione che i
fanciulli di questa età mostrano di fronte alle situazioni
conflittuali.
6. P.E. Joset, Notes ethnographiques sur le Babira-Babombi,
«Bull. Assoc. Ancienne Ethnog.», Univ. Colon, Belgio, n. 1
(1947), pp. 9-24; P.E. Joset, Buda Efeba: contes et légendes
pygmées, «Zaire», a. 2, n. 1 (1948), pp. 25-56 e a. 2, n. 2, pp.
137-57; Colin M. Turnbull, Legends of thè BaMbuti,
«J.R.A.I.», a. 89, n. 1 (1959), pp. 45-60.
7. Colin M. Turnbull, Initiation among thè BaMbuti Pygmies
of thè Central Ituri, «J.R.A.I.», a. 87, n. 2 (1957), pp. 191-
216; Colin M. Turnbull, Wayward Servants, Naturai History
Press, New York, 1965.
8.1 primi cicli mestruali di una ragazza sono in genere
anovulatori, per cui in realtà non ha ancora la capacità di diventare
madre. Si veda Ashley Montagu, The Reproductive Development of
thè Female, Julian Press, New York, 1957.
VII
GENTILEZZA TAHITIANA E CONTROLLI RIDONDANTI
di Robert I. Levy[University of California at San Diego]

L’antropologia è stata costruita sul contrasto; per lo più sul


contrasto tra il comportamento dei membri di comunità esotiche e il
senso della normalità secondo la prospettiva europea ed
euroamericana.
Uno dei tipi di comportamento che contrastava (e contrasta) col
nostro senso del normale ha a che fare con l’aggressività. I primi
osservatori occidentali trovarono i vari «nativi» o selvaggiamente
aggressivi o idillicamente gentili. L’antropologia metodologicamente e
teoricamente ripulita è nata su questo substrato irriflesso di ingenuo
senso delle differenze. Di quelle differenze che, come ha detto
Gregory Bateson in riferimento alle unità di significato, «fanno
differenza».
Anche se di questi contrasti comportamentali si riesce ad afferrare
qualcosa di attendibilmente e intuitivamente significativo, ci si trova
comunque in difficoltà con problemi interpretativi, e ciò è vero
soprattutto nell’ambito dell’antropologia psicologica. In questo
campo, tra le altre difficoltà, ci sono anche quelle connesse con le
seduzioni ideologiche e con le fedeltà teoriche. Se si vuol credere che
tutti gli esseri umani sono «fondamentalmente aggressivi» (oppure
fondamentalmente gentili) non è difficile manipolare la proprio analisi
dei dati per far sì che tutti i conti tornino. Quello che è in ballo è
soprattutto la grossa difficoltà di passare dal comportamento
apparente a una qualche sorta di concetto non tendenzioso di struttura
sottostante. Non si può fare a meno di queste strutture sottostanti. In
particolare, per quanto concerne l’aggressività, tutti noi sappiamo per
esperienza personale che c’è, ad esempio, una certa differenza tra
«gente gentile» e «gente che si comporta in modo gentile in certe
situazioni». Si suppone, cioè, che le azioni gentili abbiano differenti
significati... differenti tipi di struttura sottostante.
Risulta evidente dalla letteratura antropologica che vi sono al
mondo popoli che quantomeno si comportano in modo nettamente più
gentile (o meno gentile) di altri. Tahiti è uno di questi casi. Già poco
dopo la scoperta di Tahiti, tutti gli osservatori ne riportarono
impressioni di gentilezza:
La gente ha, in generale, la stessa configurazione fisica degli
europei [...]. Il loro portamento è dignitoso e disinvolto, il loro volto è
libero, aperto, vivace, mai fosco e sospettoso [...], i loro movimenti
sono vigorosi ed aggraziati e il loro atteggiamento nei confronti dello
straniero è tale da dichiarare a prima vista il loro carattere umano, che
è candido proprio come indica la loro espressione; e il loro
comportamento reciproco - cortese, affabile ed amichevole - indica
che essi non hanno alcuna traccia di barbarie, crudeltà, sospettosità,
vendicatività. Essi presentano un carattere costantemente sereno, sono
lenti a irritarsi quanto pronti a rappacificarsi e, così come non nutrono
sospetti non possono neppure essere sospettati, e un’ora di conoscenza
è sufficiente per stabilire con loro un rapporto fiducioso (Morrison,
1784, p. 170).
In poche parole, il loro carattere è amabile come quello d’una
nazione uscita intatta dalle mani della natura (J. Forster, 1778, p. 231).
Il carattere dei Tahitiani [...] la loro gentilezza, la loro generosità,
il loro affetto, la loro amicizia, la loro tenerezza, la loro pietà (G.
Forster, 1777, voi. II, p. 133).
I Tahitiani sono, in genere, attenti a non offendersi l’un l’altro
[...]. Ci sono poche baruffe domestiche; e se si prendessero cinquanta
nativi a caso, da qualunque villaggio o paese, e fossero messi insieme
in una casa o in un quartiere, laddove essi leticherebbero una volta,
cinquanta inglesi scelti altrettanto a caso e messi insieme
leticherebbero venti volte. Sono più portati allo scherzo, all’allegria, al
senso dell’umorismo che al linguaggio irritato e offensivo (Ellis, 1830,
voi. II, p. 24).
Per certo essi vivono in reciproca armonia più di quanto sia
consueto tra gli europei. Per tutto il tempo che sono stato tra loro non
ho mai visto qualcosa di simile a una battaglia, e benché essi siano
eccellenti lottatori e nei loro incontri di lotta si buttino a terra alquanto
rudemente, appena finisce la lotta sono buoni amici come prima. Le
loro frequenti guerre devono essere imputate alle ambizionii dei loro
capi e, se non fosse per la frenesia di costoro, sono convinto che la
guerra sarebbe pressoché sconosciuta [...]. Il loro carattere è gentile
fino all’estremo. [Tranne due eccezioni] non ho mai visto un
Otaheitano perdere le staffe in tutto il tempo che sono stato a
Otaheite» (Turnbull, 1812, pp. 339 e 372).
E via di questo passo.
Vennero riferite storie di violenza e alcolismo pesante nel secondo
decennio del diciannovesimo secolo, quando i Tahitiani affrontarono
un tremendo stress connesso alla transizione dalla cultura e dalla
società tradizionali a una nuova serie di modelli sotto l’impatto della
civiltà occidentale e in particolar modo dell’influenza missionaria
protestante. Ma questo periodo di scompiglio passò presto, le nuove
influenze culturali vennero assorbite e addomesticate e la gentilezza
tahitiana si ristabilì.
All’inizio degli anni Sessanta, quando ho iniziato il mio lavoro
sul campo, Tahiti sembrava ben poco diversa, quanto a gentilezza, da
quel che suggerivano i racconti del diciottesimo secolo e dell’inizio
del diciannovesimo. Le statistiche disponibili sulla
criminalità e sul suicidio, le impressioni degli amministratori e le mie
personali osservazioni, durante un periodo di oltre due anni in un
villaggio e in una piccola enclave urbana a Papeete, indicavano
concordemente una spiccata assenza di comportamenti rabbiosi, ostili,
distruttivi in confronto all’esperienza occidentale e agli studi di molte
società non-occidentali.
Ma di che genere di gentilezza si trattava? Perché e come la gente
si comportava gentilmente? In quali modi si mostravano l’aggressività
e l’ostilità che essi pur manifestavano? Per cercare di analizzare questi
problemi non ci si può più limitare a utilizzare prove inequivocabili e
quantificabili come l’omicidio, il suicidio, le lesioni, le zuffe fisiche
ed altri comportamenti palesemente ostili; si debbono prendere in
considerazione anche sottili indizi espressivi, necessariamente basati
su ipotesi più o meno esplicite relative alla personalità umana e ai
processi interpersonali.
Le minuziose osservazioni comportamentali e le interviste
psicologiche che ho fatto nelle due comunità studiate mostravano ben
pochi elementi di ostilità espressa sia a livello neurovegetativo (ansia,
sintomi di stress psicofisiologico), sia a livello della muscolatura
volontaria (tensione muscolare, mal di testa, mal di schiena,
movimenti e posizioni tese), sia infine al livello puramente
psicologico (segnali di ostilità mal controllata: ipocondria, paura della
morte, depressione autopunitiva, fantasie consapevoli su temi
esplicitamente distruttivi). Cioè, quale che fosse l’ostilità con cui era
alle prese la gente, essa non costituiva un problema, in quanto non si
manifestava né come comportamento interpersonale disgregante né
come sintomatologia dolorosa ad alcuno dei tre livelli personali -
viscerale, muscolare, simbolico - normalmente intesi come chiave
espressiva specifica del controllo e dell’integrazione personale
dell’ostilità. Il che non significa che non ci fossero segni di ostilità e di
controllo dell’ostilità. Anzi, le pratiche di socializzazione di cui
parlerò sono proprio segno dell’una e dell’altro. All’ostilità ci si deve
preparare1, le frustrazioni debbono essere ridotte e debbono essere
istituiti controlli su quei processi emozionali e comportamentali che
minacciano d’evolversi in senso distruttivo. Ma questo viene fatto in
modo tale che l’ostilità come patologia, come forza disgregante
dell’organizzazione personale ed interpersonale, viene tenuta a un
livello minimo, in forma garbata e con un «costo» minimo. Non sono
necessari complessi controlli secondari (cioè sanzioni sociali severe,
come la prigione, o un duro autocontrollo personale).
L’assenza di_ostilità ha a che fare con l'ambiente culturale e
fisico2 in cui la gente agisce ed ha a che fare con la loro
socializzazione. L'ambiente tahitiano tradizionale è non frustrante in
modo complesso. Minimizza le cause esterne d’irritazione.
L'adattamento ecologico del villaggio è ben riuscito: la gente non ha
grossi problemi a procurarsi cibo e altri beni necessati in quantità e
varietà soddisfacente e funzionano bene anche i sistemi tradizionali di
possesso della terra, distribuzione dei beni e organizzazione sociale.
E non solo appaiono idonei i dispositivi tecnologici e sociali che
mediano tra il villaggio e l’ambiente, ma c’è anche una serie di
credenze che, operando sia tramite la visione che i singoli individui
hanno del loro ambiente sociale e fisico sia tramite il loro effetto sugli
altri, contribuiscono a ridurre 1’«impatto frustrante» di
quell’ambiente. Ad esempio, è opinione corrente che gli individui
abbiano scarso controllo sulla natura e sul comportamento degli altri;
ed anzi, se qualcuno si dà troppo da fare, se cerca di forzare la realtà
innuoci modelli, quella realta(Dio, la natura, gli altri) inevitabilmente
reagirà distruggendo il trasgressore. Viceversa, se uno non si agita
troppo per forzare le cose, la realtà inevitabilmente si prenderà cura
dell'individuo. La gente impara così ad essere "passivamente
ottimista". Questa opinione generale, prodotta dalle condizioni della
socializzazione, viene rafforzata da leggende, pratiche guaritorie dei
medici-stregoni e da valori consciamente e universalmente
manifestati. Un universo così definito è cognitivamente meno
frustrante di quelle culture che definiscono realtà in cui all’individuo
quasi tutto è possibile3.
Se si passa dalla situazione esperienziale in cui l’ostilità può
essere generata o meno (che è già di per sé una complessa miscela di
aspetti soggettivi e oggettivi) al problema dell’influenza culturale
tahitiana sulla «soggettività», cioè sulle tendenze personali
culturalmente prevalenti nei confronti dell’ostilità e della gentilezza,
ci troviamo alle prese con i temi della socializzazione, dell’educazione
informale, della formazione della personalità e della cognizione.
A tale proposito, la cosa più impressionante nelle due comunità
che ho studiato era la pervasività e la molteplicità delle influenze
culturali riguardanti l’ostilità/gentilezza. Ne individuerò alcune.

1. Un certo numero di aspetti della vita comunitaria, compreso


l’istituto dominante dell’adozione (che consente alle madri di affidare
ad altri i bimbi per cui non si sentono pronte), il fatto che i modelli
matrimoniali tendano a produrre relazioni più serene e con meno
tensioni di molte altre culture, e in più una serie di concezioni sulla
forza e sulla capacità del bambino di svilupparsi in relativa autonomia
grazie a una sua intima integrità, tendono a produrre un rapporto
madre-figlio affettuoso e privo di ansie fin dai primissimi stadi.
Questa idea dell’auto-sviluppo, dell’autonomia, della limitata
influenza delle pressioni esterne inducono i genitori a limitare le
ambizioni poste sul bambino. I genitori sanno di doversi prendere cura
del bambino - il non farlo sarebbe causa di grave vergogna sociale -
ma questa cura non viene considerata cosa particolarmente difficile.
L’insieme di questi fattori alimenta probabilmente nel bambino un
profondo senso di sostanziale adeguatezza e sicurezza del mondo, un
senso di fiducia basilare. Così, il bambino sarà probabilmente in grado
di accettare più facilmente le successive frustrazioni culturalmente
indotte. I piccini sono il centro dell’attenzione, e sono vezzeggiati,
gratificati, protetti.

2. Man mano che il bimbo cresce, tra i tre e i cinque anni, gli viene
insegnato in vari modi convincenti che deve accettare certi limiti. Vi è
una vistosa e netta diminuzione dell'indulgenza nei suoi confronti e
viene come "spinto via" dal centro del palcoscenico familiare. E',
questo, il momento in cui presumibilmente un altro bambino entra a
far parte della famiglia, ma lo stesso trattamento viene riservato anche
agli ultimogeniti.
Il bambino, quando entra in questa fase di decrescente indulgenza da
parte dei genitori, attraversa tipicamente un breve periodo di
malumore e scoppi d’ira ed ha un’aria cupa e depressa. E' in questa
fase che viene spinto a fare amicizia con altri bambini. Ben presto si
riprende ed entra in attiva e felice interazione con i suoi coetanei. (Tra
parentesi: i giochi infantili sono nettamente privi di baruffe e scontri).
Immagino che la soddisfazione del primo periodo renda assai meno
traumatico il passaggio alla «disindulgenza» di quanto sarebbe se il
suo orientamento di fondo fosse ansioso e insicuro.

3, Quando il bambino esce dallo stadio infantile, si trova di fronte a


una situazione che diventa più spiccata all'epoca della
"disindulgenza", e cioè il fatto di essere diretto, controllato,
socializzato, educato essenzialmente non da un singolo adulto, o da
una coppia di adulti, bensì da un'intera rete di "fratelli" e "genitori"
classificatori. Gli effetti di un tale modo di veicolare i messaggi di
socializzazione attraverso una rete diffusa sono complessi, ma per
quanto concerne l’aggressività, una delle principali implicazioni
sembra essere la sensazione che le frustrazioni sociali non sono
prodotte da uno o due individui specifici, contro i quali ci si può
ribellare o con i quali si può adottare una qualche strategia di
seduzione, rivolta o fuga, bensì da un intero sistema contro il quale è
inefficace qualsiasi azione esterna. Se ne ricava così una sensazione di
rassegnazione. Il sistema ha le sue regole cui ci si deve adattare.
E' importante osservare, di nuovo, che una frustrazione
considerata in qualche modo arbitraria può risvegliare assai più
aggressività di una frustrazione considerata nella natura delle cose.
Normalmente non ci si arrabbia percheè non si può passare attraverso
i muri ma si deve cercare una porta relativamente distante. Le
frustrazioni dell’«inevitabile» per lo più non producono rabbia. Nelle
parole di Dylan Thomas: «Non prendere con dolcezza quella buona
notte. / Rabbia, rabbia contro il morire della luce», leggiamo un
residuo nostalgico, infantile (e perciò mal socializzato) di innocenza.

4. Ci sono forme culturali rivolte specificamente contro


l’aggressività, nel senso più generale secondo cui è «aggressione»
ogni mutamento di una data struttura delle cose, di una data
situazione. L’addestramento contro quest’aggressività in senso lato
avviene in modo sottile. Non solo attraverso la struttura del sistema di
socializzazione s’insegna al bambino che è difficile cambiare la realtà
sociale oppure opporvisi, ma vi sono anchediversi altri modelli
istituzionali significativi che veicolano lo stesso messaggio. Ad
esempio, il diffusissimo costume dell’adozione - più di metà delle
famiglie, nella comunità rurale, sono coinvolte nell’adozione - sembra
avere il valore e il significato che la società nel suo insieme prevale
sulle relazioni individuali, e dunque anche sugli sforzi individuali.
Inoltre, il principale messaggio simbolico percepito nel rituale
dell’incisione dorsale del prepuzio degli adolescenti è che la sessualità
maschile è pericolosa, ma che questo pericolo può essere scongiurato
con l’aiuto delle risorse della natura culturalmente mediate. La virilità,
il lottare, l’aggredire sono pericolosi, mentre la cooperazione con la
natura dà buoni risultati
Il comportamento genericamente aggressivo viene eliminato
anche in modo più diretto, in quanto i tipi di comportamento cui i
socializzatori prestano attenzione e che puniscono sono per l’appunto
quelli che disgregano l’ordine pacifico delle cose. L’«aggressività» è
ciò che attiva il sistema educativo familiare e porta con sé la
punizione.

5, Per quanto concerne i modelli di socializzazione specifica-


mente rivolti al comportamento ostile, al bambino si dà una serie di
«risposte» chiare e costanti. Ai più piccini viene consentito - se non
addirittura incoraggiato - un comportamento aggressivo «esplosivo»
in risposta a palesi frustrazioni e contrarietà. Però vengono in vari
modi scoraggiati il broncio protratto, l’ostilità prolungata di tipo
vendicativo e l’ostilità ritenuta immotivata. Uno dei modi più comuni
consiste nell’uso di vaghe minacce: «Le buscherai di santa ragione»,
«Ti succederà qualcosa». Poi, quando un bambino si fa male, gli viene
detto: «Ti sta bene. Te lo sei meritato». La timidezza viene
incoraggiata e coltivata. La gente è compiaciuta del fatto che i suoi
figlia siano socialmente timidi. A quelli che sono troppo ostili,
orgogliosi, presuntuosi, ambiziosi, che non sono umili, cooperativi,
gentili, vengono minacciate ritorsioni della natura che inevitabilmente
li colpiranno in futuro quando meno se lo aspettano. Queste minacce
vaghe, che tirano in ballo la natura, queste punizioni genericamente
annunciate e inevitabili, che possono arrivare da qualsiasi parte,
evitano quell’effetto dell’essere direttamente picchiati da qualcuno che
consiste, come è già
stato osservato da più autori, nell’apprendimento dell’aggressione
come modello di comportamento, per imitazione o identificazione con
colui che punisce. E poiché a un bambino qualcosa succede sempre,
prima o poi, la minaccia finisce con l'avverarsi.

6, Vi è una grande chiarezza culturale sulla natura dell'aggressione


ostile. C'è un ampio vocabolario concernente tutte le sfumature
dell’azione ostile, c’è una precisa teoria su quali comportamenti siano
espressione d’ostilità (ad esempio il suicidio) e molta teorizzazione
sugli effetti dell’ostilità e su come trattarla. Si ritiene che l’ostilità
intensa o prolungata faccia male al corpo, che dovrebbe essere
verbalmente espressa nei confronti della persona che ne è oggetto,
cosicché non s’instaurino pericolosi sentimenti ostili di lunga durata e
non si producano cronici effetti sociali. Si ritiene che l’ostilità cronica
sia molto pericolosa anche perché porta a conseguenze magiche,
all’attivazione di spiriti ancestrali che spesso determinano, in una
complicata teoria della ritorsione, la morte della persona arrabbiata.
Rispetto a molte altre aree emozionali della cultura tradizionale, il
vocabolario e le teorie concernenti l’ira sono enormemente sviluppati,
e questo fatto è di per sé un fattore di controllo.

7, La dottrina tahitiana sull'ira dice che tutto ciò che va lotre la


breve espressione verbale è sbagliato, che indica una mancanza
d'autocontrollo e di maturità. E' perciò cosa di cui vergognarsi. Le
persone che, nonostante le numerose e formidabili forme di
controllo, provano sentimenti ostili, non li esprimono se vogliono
essere considerati cittadini responsabili e se vogliono evitare quel
senso di vergogna che per varie ragioni turba profondamente il
carattere tahitiano tradizionale.

Si sarà notato che abbiamo dovuto prendere in considerazione un


certo numero di influenze che non sono direttamente rivolte alla
socializzazione dell’aggressività ostile. È una semplificazione
eccessiva e ingiustificata pensare che l’educazione efficace per un
certo carattere comportamentale sia fatta solo di ciò che i
socializzatoli (o una certa teoria ingenuamente beha-
vioristica dell’apprendimento) ritengono essere a ciò indirizzato. In
realtà quelle pratiche educative strettamente indirizzate alla
produzione di un certo carattere producono assai spesso risultati
imprevisti. Il bambino impara cioè qualcosa d’altro rispetto a quello
che intende il socializzatore (o lo sperimentatore) .
Mi si consenta di riassumere gli effetti presunti di queste
influenze disparate. C’è l’idea-sensazione profonda, calma, non
ansiosa, che il mondo sia fondamentalmente affidabile e non
minaccioso. Ma c’è anche l’idea radicata che la gratificazione dei
propri desideri dev’essere limitata. Questa frustrazione è nella natura
delle cose e dunque inevitabile. Ma se qualcuno ciononostante tenta di
violare i limiti, vi sarà una ritorsione automatica, una punizione, un
ristabilirsi dell’equilibrio. Al contrario, l’accettazione dei limiti e la
cooperazione con la natura e con il gruppo funzionano: dentro quei
limiti ognuno può stare certo d’essere aiutato. Se qualcuno s’arrabbia,
intervengono forme culturali a definire in modo netto quello che sta
succedendo e che cosa l’individuo dovrebbe fare. L’ira viene percepita
come disgregante per l’io e per i rapporti sociali. Dovrebbe esprimersi
verbalmente con una discussione delle sue cause interpersonali, nella
speranza che non ne derivino effetti cronici. L’ira che non viene
trattata e dominata in questo modo viene considerata una mancanza di
controllo regressiva, e se gli altri si accorgono dell’incapacità di un
individuo a padroneggiare l’ira, lo svergognano.
Un individuo su cui hanno operato tutte queste influenze culturali,
in cui s’è prodotta tutta la serie di effetti relativi, è soggetto a un
insieme pervasivo e ridondante di controlli tendenti al comportamento
gentile. Non s’arrabbierà spesso e quando gli succede ne proverà
disagio e timore e tenderà a liquidare l’ira il più presto possibile.

L’idea che il comportamento tahitiano tendenzialmente gentile sia


il prodotto di una serie di influenze piuttosto differenti ha diverse
implicazioni.

1. La «gentilezza» è un comportamento che, dal punto di vista


psicologico, fa parte dei comportamenti di superficie. La
sottostante struttura può essere di vari generi.
2. Quei comportamenti che una data cultura enfatizza - cui dà
importanza centrale, che sono controllati da valori dominanti,
che sono essenziali ai suoi modelli d’adattamento socio-
ambientali — sono necessariamente prodotti e controllati da
un insieme ridondante di influenze. Tutti i sistemi stabili
utilizzano insiemi ridondanti di controlli per mantenere
relativamente costanti le variabili essenziali. (Ne è un
esempio il controllo dei livelli d’ossigeno nella fisiologia
animale). Nella società tahitiana tradizionale la gentilezza è
un comportamento adattativo essenziale, come lo è stata la
competitività nella società europea in trasformazione dopo la
rivoluzione industriale. Se un comportamento è relativamente
indifferente per una data società, il numero di controlli sarà
inferiore; il che è in parte vero per definizione, dal momento
che l’importanza di un comportamento viene giudicata
proprio in base all’importanza del sistema di controlli che lo
determinano.

3. Tra quelle società che enfatizzano un tratto caratteriale


particolare, come la gentilezza, quello che le caratterizza non
sarà probabilmente una particolare tecnica educativa - che
dovrebbe produrre una struttura sottostante, che a sua volta
dovrebbe spiegare il tratto caratteriale - quanto un particolare
modello di controlli di quel comportamento. E prevedibile,
pertanto, che il modello tahitiano di controllo della gentilezza
differisca nel complesso anche da quello di altre popolazioni
miti, pur se taluni elementi di controllo possono essere
uguali.

4. Il modello di controllo è ridondante nel senso che vari tipi di


controlli, relativi a diversi sottosistemi psicologici, hanno sul
comportamento un significato analogo pur presentandosi in
forme diverse. Il che è qualcosa di differente da quanto
ipotizzato dalle prime teorie configurazionali della cultura, e
cioè che molte aree culturali - allevamento dei bambini, miti,
modelli relazionali adulti - hanno la stessa forma, producendo
così una forza confi- gurazionale ridondante che modella il
comportamento.
5. I controlli sono non solo ridondanti ma in certa misura
«gerarchizzati», nel senso che, dal punto di vista
dell’individuo, quei controlli che sono stati appresi o
interiorizzati prima sono più pervasivi e più forti di quelli
appresi dopo. Essi sono «egosintonici» (in sintonia con l’ego)
e «naturali». Possono, inoltre, essere più generalizzati,
possono cioè riguardare una serie più ampia di sistemi
comportamentali che non quelli di più tardo apprendimento.
Nella misura in cui uno di questi controlli comportamentali
precocemente acquisiti non funziona, verrà «attivato» un
controllo successivo. Così, se l’opinione universalmente
accettata, secondo cui l’ambiente sociale e fisico è refrattario
all’aggressione, non è sufficiente a trattenere un individuo dal
pensare o iniziare un’azione aggressiva, questi proverà
comunque vergogna.

6. Se una data cultura è caratterizzata da controlli


comportamentali ridondanti e gerarchizzati per ogni tratto
socialmente significativo (ed è perciò caratterizzata da un
complesso di controlli ridondanti per tutta la serie di tratti
culturali significativi), allora all’interno di quella data cultura
c’è una tipologia personale limitata e culturalmente specifica
rispetto a un comportamento (o insieme di comportamenti)
particolare. Ogni tipo è determinato dal modo specifico con
cui i controlli selezionati dall’insieme culturale si combinano
per produrre il comportamento di un individuo rispetto, ad
esempio, alla gentilezza e all’aggressività. Cioè, non tutti i
controlli vengono appresi da tutti gli individui. L’unico
bambino di una piccola famiglia non riceverà l’impressione
d’essere socializzato tramite una rete diffusa. Un figlio
preferito può anche non passare attraverso l’esperienza della
verticale caduta di indulgenza come la maggior parte dei
bambini. Il figlio di un genitore dal temperamento più
collerico potrà anche buscarle, anziché essere semplicemente
minacciato di punizioni, e così potrà anche tendere a
imparare l’aggressività per identificazione. Questi bambini
saranno nonaggressivi (a meno che non fallisca l’intero
sistema di controlli) in modi diversi. Saranno sottotipi di
personalità dentro il modello più generale e culturalmente
specifico di controllo ridondante, ed è solo all’interno di quel
modello di controllo culturalmente determinato, comunque,
che potranno operare le loro scelte.
7. Ho detto che la gentilezza tahitiana non dà l’idea - tramite
sintomi a livello viscerale, muscolare e psicologico-simbolico
- di essere il risultato di «forze» in lotta evidente l’una con
l’altra. Questa osservazione ha un’importanza cruciale per
quanto è generalmente implicato nell’ambigua domanda: gli
esseri umani sono fondamentalmente aggressivi o
fondamentalmente gentili? Tale domanda è formulata su uno
sfondo ideologico. E cioè, quando la gente si comporta in
modo gentile, è perché sta socialmente reprimendo
l’aggressività biologica? Oppure (se l’ideologia è quella
opposta), quando la gente si comporta in modo aggressivo, vi
è indotta da patologie e frustrazioni sociali? Dal momento
che la capacità aggressiva è sempre umanamente presente,
come peraltro molteplici altre capacità, credo che il modo più
corretto di formulare la domanda sulla non-aggressività sia il
seguente: la non-aggressività viene incorporata nelle strutture
personali (in determinate culture o ambienti formativi) come
un aspetto della personalità integrato a «costo» relativamente
basso o nullo, oppure come tipi di controllo stressante,
conflittuale, «costoso»? Queste ultime strutture caratteriali
possono essere considerate «fondamentalmente aggressive»,
mentre le prime possono esserlo solo se si vuole a tutti i costi
salvare una teoria biologica semplicistica della natura umana.
Da un lato i Tahitiani presentano potenzialità aggressive.
Dall’altro hanno imparato a strutturarsi in modo tale da non
essere «fondamentalmente aggressivi». Essi in genere non
hanno alcun bisogno di reprimere l’ostilità dentro di loro;
sono strutturati in modo tale da minimizzare il problema.

Perché i Tahitiani sono gentili? Il fatto che per produrre la


gentilezza vi sia una serie complessa e sottile di controlli ci porta a
un’altra domanda. Com’è che un popolo arriva, come parte della sua
cultura, ad elaborare tecniche sottili atte a produrre un determinato
tipo di comportamento? Questo non costituirebbe un problema se il
comportamento fosse insignificante in termini adattativi, perché allora
le tecniche e il comportamento conseguente si sarebbero originati
come insieme circolare interdipendente a seguito di fattori storici. Ma
supponiamo che la gentilezza, l’aggressività, il coraggio, la
competitività, l’indipendenza eccetera, siano caratteristiche
comportamentali specificamente necessarie per l’adattamento
tecnologico e sociale a diversi tipi d’ambiente. Si possono fare
congetture sulla sequenza che va dall’esperienza infantile, tramite la
formazione, al comportamento risultante. Ma quella parte del ciclo
adattativo che va dagli elementi costitutivi di una situazione
ambientale - che sono coattivi (cui ci si deve adattare) - alla
produzione di uno dei possibili insiemi comportamentali idonei a quel
certo ambiente non è semplice. In definitiva, la risposta alla domanda
«perché i Tahitiani sono gentili?» sta nel fatto che la gentilezza è, per
questi orticoltori e pescatori isolani, uno d’una serie di tratti
comportamentali - relativi all’adattamento a un’ecologia
autosufficiente, sicura, stabile ma delicata - che danno buone garanzie
di successo nel peculiare ambiente polinesiano 4. Come è successo che
i Tahitiani abbiano sviluppato i meccanismi necessari a garantire la
stabilità psicologica di questi comportamenti? Una cosa è rendersi
conto della desiderabilità di un carattere, un’altra cosa - assai più
difficile - è produrlo. Se è vero, come è vero, che i meccanismi di
produzione di un tratto comportamentale adattativo sono complessi,
sottili, pervasivi, ridondanti e «gerarchizzati», ci troviamo di fronte
all’interessante questione concernente gli effetti circolari, di feedback,
tra le situazioni e gli adattamenti culturali: com’è che questi
meccanismi si sviluppano nella storia di una cultura?
note al capitolo

1. Il presente etnografico usato in questo scritto si riferisce ai


primi anni Sessanta. Le due comunità da me studiate dopo
d’allora sono molto cambiate.
2. Per i dettagli etnografici e per altri comportamenti che
compongono il contesto culturale della gentilezza rinvio al
mio Tahitians. Il materiale sull’aggressività e sulla
socializzazione viene qui presentato in modo parziale e
sintetico per gli scopi specifici della trattazione.
3. Per un esempio dei modi complessi in cui l’apprendimento
culturalmente modellato possa produrre convinzioni
cognitive nella cultura della classe media americana, si veda
Levy, 1975.
4. Il quadro è complicato da andamenti sociali e politici
intermedi. L’andamento tahitiano rappresenta un felice
adattamento all’ambiente successivo alla distruzione del
vecchio sistema di capi a base genealogica.

Riferimenti bibliografici
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Londra, 1830.
FORSTER G., A Voyage Round thè World... in thè Years 1772,
1773, 1774, 1775,2 voli., White, Londra, 1777.
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LEVY R.I., Tahitians: M'md and Experience in thè Society
Islands, University of Chicago Press, Chicago, 1973.
LEVY R.I., A Conjunctive Pattern in Middle Class Informai
and Formai Education, «Ethos», n. 3, 1975, pp. 269-79.
MORRISON J., The Journal of James Morrison, Golden
Cockerel Press, Londra, 1935.
TURNBULL J., A Voyage Round thè World in thè Years 1800,
1801, 1802, 1803 and 1804, Maxwell, Londra, 1812.

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