Sei sulla pagina 1di 420

Firera & Liuzzo Publishing è un marchio di Firera & Liuzzo Group

© 2010 - Firera & Liuzzo Group


Via Sistina, 15 - 00187 Roma
www.fireraliuzzo.com

ISBN: 978-88-6538-027-7

Released by fagiolo

Firera & Liuzzo Group è un membro di


Nicola Malizia

CRIMINOLOGIA
ed elementi di criminalistica

presentazione di Francesco Bruno


InDICE

Presentazione 11

PARTE PRIMA – CRIMINOLOGIA GENERALE

1- Lo studio della criminologia 15

1.1 Le scienze criminali 15


1.2 La criminologia come scienza 17
1.3 L’orizzonte della criminologia 21
1.4 Delitto e sua definizione 23
1.5 Diritto penale e criminologia: quale rapporto? 25

2 - La criminologia tra diritto ed evoluzione della società 27

2.1 Le teorie illuministiche 27


2.2 La concezione liberale del diritto penale: Cesare Beccaria 29
2.3 La Scuola Classica 32
2.4 Il crimine: primi approcci statistici e sociologici 36
2.5 La Scuola Positiva 38
2.6 Cesare Lombroso e gli studi sulla personalità del delinquente 39
2.7 La Scuola Positiva e i diversi contributi 46
2.8 La Nuova Difesa Sociale 49
2.9 Il contributo marxista 51

3 - I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche 55

3.1 Metodi e fonti della ricerca criminologica 55


3.2 La ricerca di tipo quantitativo 57
3.3 La ricerca di tipo qualitativo 58
3.4 Altri strumenti applicati alla ricerca 59
3.5 Il numero oscuro 65
4 - I fenomeni inducenti al delitto 69

4.1 La delinquenza e l’età 69


4.2 Relazione tra razza, nazionalità e delitto 71
4.3 Immigrazione e criminalità 72
4.4 Pauperismo e criminalità 75
4.5 Sistemi di controllo sociale 76

5 - L’imputabilità 79

5.1 I fondamenti dell’imputabilità 79


5.2 Concetto di infermità 83
5.3 Stati emotivi e passionali 86
5.4 Imputabilità e abuso di alcool e stupefacenti 89
5.5 Imputabilità dei minorenni 96
5.6 La recidiva 101

6 - Forme di criminalità 103

6.1 Le sottoculture criminali 103


6.2 Famiglia e delittuosità 106
6.3 La criminalità economica 111
6.4 La criminalità informatica 115
6.5 La criminalità organizzata e le moderne tecnologie 119
6.6 La criminalità stradale 121
6.7 La criminalità bianca (o dei colletti bianchi) 125
6.8 La delinquenza ed il teppismo allo stadio 127
6.9 Il terrorismo internazionale 128
6.10 Usura ed estorsioni 130
6.11 Criminalità comune 131
6.12 Criminalità ecologica 132
6.13 Omicidi colposi per infortuni sul lavoro 133
6.14 Criminalità e paranormale 133
6.15 Sètte e criminalità 135
6.16 La criminalità rurale 141
6.17 Famiglia, scuola, mass-media e criminalità 142
6.18 La criminalità clericale 144
6.19 La criminalità femminile 146
6.20 Gli omicidi in condominio 148
6.21 I minori e l’uso distorto delle tecnologie di comunicazione 149
6.22 Le risposte alle devianze minorili 150
7 - Aggressività e anormalità personologica 159

7.1 L’aggressività 159


7.2 Criminali aggressivi 160
7.3 Delinquenti normali e anormali 162
7.4 I delitti sessuali tra violenza ed aggressività 164
7.5 Asfissia autoerotica (o asphyxophilia) 166
7.6 Necrofilia e necrofagia 170

8 - Le teorie criminologiche 175

8.1 Teoria delle aree criminali 175


8.2 Teoria della patologia sociale 176
8.3 Teoria dei conflitti culturali 176
8.4 Teoria delle associazioni differenziali 177
8.5 Teoria dell’identificazione differenziata 177
8.6 Teorie sottoculturali 178
8.7 Teoria dell’anomia secondo Merton e Durkheim 178
8.8 Teoria dell’immunità differenziale 179
8.9 Teoria del numero oscuro 179
8.10 Teoria dell’etichettamento 180
8.11 Teoria della disorganizzazione sociale 180
8.12 Teoria delle aree naturali della criminalità 181
8.13 Teoria delle tecniche di neutralizzazione 182
8.14 Teoria delle opportunità differenziali di Cloward e Ohlin 182
8.15 Teoria dello stimolo rafforzatore differenziato di Burgess e Akers 183

9 - Criminologia e psicologia 185

9.1 Il contributo della psicoanalisi 185


9.2 La teoria analitica di C.G. Jung 187
9.3 La psicologia del comportamento 190
9.4 L’integrazione psico-ambientale 192
9.5 La teoria non direzionale dei Glueck 193
9.6 La teoria dei contenitori 197

10 - Il comportamento umano 201

10.1 Gli studi sul comportamento umano 201


10.2 La predisposizione al crimine 202
10.3 Il comportamento criminale violento 204
10.4 Il cannibalismo 205
10.5 Il ruolo della psichiatria forense 206
10.6 La macchina della verità (o poligrafo) 208

11 - Criminalità e disturbi mentali 213

11.1 Evoluzione storica del concetto di malattia mentale 213


11.2 Rilevanza dei disturbi mentali ai fini della responsabilità 219
11.3 Relazione tra disturbi mentali e pericolosità 220
11.4 Le nevrosi 223
11.5 Le psicopatie 227
11.6 Le psicosi 229
11.7 La schizofrenia 231
11.8 La paranoia 234
11.9 L’epilessia 236
11.10 Il border-line 238
11.11 Le perversioni sessuali 242
11.12 Le parafilie 244
11.13 La pedofilia 246
11.14 La depressione e l’euforia 252

12 - Droga ed alcool nell’agire delittuoso 255

12.1 La diffusione della droga e l’evoluzione legislativa 255


12.2 Consumatori, tossicodipendenza e tossicomania 260
12.3 Le sostanze stupefacenti 263
12.4 Relazione tra sostanze stupefacenti e delitto 273
12.5 L’alcolismo 276
12.6 Etilismo acuto e cronico 277
12.7 Relazione tra alcolismo e delitto 278
12.8 Tossicomania e adolescenza 279

13 - La criminologia clinica 283

13.1 Introduzione 283


13.2 L’osservazione criminologica: il colloquio 284
13.3 La prognosi delinquenziale 288
13.4 La pericolosità sociale 290
13.5 La vittimologia 293
14 - La violenza sulle donne e i processi di vittimizzazione 299

14.1 Le donne come vittime 299


14.2 Le forme di violenza 303
14.3 Donne e violenza intrafamiliare 308
14.4 L’uxoricidio 312
14.5 I centri anti-violenza 314
14.6 Trattamento delle donne vittime di violenza 316

PARTE SECONDA – ELEMENTI DI CRIMINALISTICA

15 - La criminalistica 323

15.1 La criminalistica e le sue origini 323


15.2 La Polizia Scientifica 328
15.3 RACIS e RIS 332
15.4 UACV 333

16 - La medicina forense 337

16.1 Introduzione 337


16.2 Cause di morte 338
16.3 Il DNA 342
16.4 Altre tecniche applicate al DNA 343
16.5 Le nuove frontiere dell’entomologia forense 345
16.6 Autopsia e interpretazione 351
16.7 La tossicologia forense 352
16.8 Le sostanze tossiche 354
16.9 Le forme più frequenti di avvelenamento nell’uomo 356
16.10 La perizia tossicologica 360
16.11 La prassi della perizia tossicologica 365

17 - Il criminal profiling 369

17.1 Il criminal profiling 369


17.2 Scopi del profiling 371
17.3 Il ritratto parlato 375
18 - La scena criminis 377

18.1 Introduzione 377


18.2 Il sopralluogo: aspetti giuridici 378
18.3 Scena criminis: organizzazione e procedure per
le operazioni di ricerca 380
18.4 Reperti della scena criminis: tecniche di raccolta e
di conservazione 384
18.5 Il luminol 395
18.6 La grafoscopica 396
18.7 La biometria 399

19 - Scena criminis e reperti organici 405

19.1 Macchie di sangue umido e secco 405


19.2 Campionamenti di sangue 406
19.3 Liquidi organici 406
19.4 Peli/capelli 407

Bibliografia 409
PRESENTAZIONE

è con immenso piacere che prendo visione del lavoro compiuto da Nicola Mali-
zia, che si compendia in un interessante e atteso volume che riassume, a scopo didat-
tico, il variegato complesso delle conoscenze che, a vario titolo, costituiscono il corpus
della criminologia.
Si tratta di un’opera intelligente che ha saputo fondere, nel presente volume, i
contributi multidisciplinari, in particolare del diritto, della psicologia, della sociologia,
della psichiatria, dell’antropologia criminale e della medicina-forense.
Infine, l’ultima parte del volume contiene cinque capitoli dedicati alla criminali-
stica. Si tratta, in realtà, di una visione scientifica che tiene conto della natura inter-
disciplinare e multidisciplinare della criminologia, cui si dedicano i primi quattordici
capitoli dell’Opera.
Tuttavia, in un’analisi protesa al futuro, come quella compiuta dall’Autore, non
si trascura la tendenza, ormai ampiamente realizzatasi nei Paesi di cultura anglosasso-
ne, di considerare le varie branche che compongono la criminologia, nell’ambito di un
più generale albero da cui si diramano i rami delle scienze forensi. In realtà, quella che
è ancora chiamata criminalistica, rappresenta uno spaccato sintetico ed essenziale del
contributo delle scienze forensi all’investigazione criminale.
All’inizio, l’Autore, esamina i cardini fondanti della disciplina, per poi procedere a
una disamina delle metodologie e delle fonti delle conoscenze criminologiche.
Analizza, altresì, le relazioni intercorrenti tra le fenomenologie delittuose e i fattori
sociali, economici, istituzionali, situazionali, al fine di identificare le fattispecie crimi-
nose più comuni, sia tradizionali, sia di più recente emersione, dedicando una parte
della trattazione alle teorie sociologiche, psicologiche e multifattoriali che concorrono
alle spiegazioni del delitto.
Lo studio delle implicazioni che seguono alla commissione dei crimini non può
prescindere, secondo il Malizia, da un approccio incentrato anche sul ruolo della vitti-
ma, sempre più ritenuta, oggi, soggetto interagente nella complessa dinamica relativa
alle origini, ai moventi e alle modalità dell’azione criminosa.
è superfluo dire che l’Autore puntualizza in modo moderno e aggiornato alcune
delle metodiche scientifiche della investigazione criminale che, oggi, sono molto note
anche al pubblico dei non addetti ai lavori, come, ad esempio, lo psicologico profiling e
l’analisi del DNA.
Queste metodiche, peraltro, non sono avulse dal contenuto più generale dell’Ope-
ra, ma sono inserite in un contesto appropriato che parte dall’analisi scientifica della
scena del crimine per individuarne i reperti fondamentali e per costruire, su di essi, le fasi

11
Criminologia ed elementi di criminalistica

concatenate del procedimento investigativo. Il Volume è diretto agli studenti ed anche


agli operatori del settore, e può trovare una ulteriore fascia di lettori anche nel pubbli-
co più generale, perché è scritto in modo chiaro, non dà nulla per scontato, ed esprime
compiutamente il pensiero dell’Autore, il quale, da anni ormai, insegna quotidiana-
mente la criminologia in diversi corsi universitari e anche alla Forze dell’Ordine.
Sono molto orgoglioso di concludere questa mia presentazione dicendo di cono-
scere personalmente il Malizia, del quale apprezzo le qualità umane e scientifiche. Mi è,
inoltre, gradito constatare che la grande domanda di conoscenza, che negli ultimi anni
si è espressa in Italia nel campo delle scienze criminali, abbia finalmente cominciato a
produrre un’offerta, moderna, aggiornata, adatta alla formazione, non più costellata da
semplici conoscenze, ma da contenuti e metodi di professionalizzazione.
Sono convinto che anche in Italia, come negli altri Paesi, è già in atto una trasfor-
mazione sociale e tecnologica che porterà, sempre più, alla individuazione e valorizza-
zione delle competenze criminologiche in ambiti lavorativi diversi, crescenti e sempre
più qualificati.

Prof. Francesco Bruno


Docente di Criminologia all’Università
LA SAPIENZA di Roma

12
PARTE PRIMA

CRIMINOLOGIA GENERALE
CAPITOLO 1

Lo studio della criminologia

1.1 Le scienze criminali


Le scienze criminali rappresentano, in una moderna dimensione scientifica, l’in-
sieme delle conoscenze disciplinari focalizzate allo studio e all’approfondimento delle
fenomenologie delittuose che interessano la società nel suo insieme.
Tra questa scienze vi rientrano, oltre alla criminologia, la vittimologia, la politica
penale (o criminale), il diritto penale, il diritto penitenziario, la psicologia giudiziaria e
giuridica, la criminalistica.
La vittimologia ha, da poco, guadagnato la dignità di scienza autonoma dalla crimi-
nologia, e ha per oggetto lo studio della vittima del crimine, della sua personalità, delle
sue caratteristiche psicologiche, morali, sociali e culturali, delle sue relazioni con il cri-
minale, ovvero l’individuazione di quei fattori che determinano o facilitano la vittimiz-
zazione di determinati soggetti o categorie di soggetti. Ma lo studio della vittima può
contribuire, anche sotto il profilo delle tecniche di individuazione del reo, alla elabora-
zione del c.d profilo criminale dell’autore di un reato.
Quanto alla politica penale, pur non potendola considerare come disciplina auto-
noma, è doveroso sottolineare che essa pone gli obiettivi che saranno successivamente
perseguiti dal diritto penale: stimoli che sono frutto delle attuali sollecitazioni sociali
in materia di prevenzione della criminalità, pensiamo, ad esempio, la depenalizzazione
di alcune fattispecie superate di reati e la conseguente creazione di fattispecie delittuo-
se nuove, come logica conseguenza del modificato sentire sociale. La politica penale, si
avvale, nel fine ultimo di studiare, elaborare e proporre gli strumenti e i mezzi per com-
battere la criminalità, di molteplici saperi e altrettante discipline: pensiamo all’antropo-
logia, al diritto penale e processual-penale, alla stessa criminologia, alla sociologia, alle
scienze economiche, a quelle morali e filosofiche. Se la politica criminale è un aspetto
della politica sociale, e attribuisce al diritto penale il ruolo di estrema ratio, quest’ultimo
è, al tempo stesso, suo strumento e limite.

15
Criminologia ed elementi di criminalistica

Mentre lo scopo della prima (politica sociale), infatti, consiste nella prevenzione
della criminalità, il secondo (diritto penale), definendo di fatto i singoli crimini e le ri-
sposte che a essi vanno date, diventa il mezzo di attuazione di tale politica.
Il diritto penitenziario è costituito dall’insieme delle disposizioni legislative che re-
golano la fase esecutiva del procedimento giudiziario penale. Recentemente, questa di-
sciplina ha allargato il raggio di azione del proprio intervento, dalla semplice carcera-
zione alle varie forme di misure sostitutive o alternative alla pena detentiva.
Legittimità di scienze criminali hanno anche la psicologia giudiziaria, che appro-
fondisce le interrelazioni psicologiche tra i vari protagonisti del procedimento giudi-
ziario (dalla persona offesa al testimone, dall’imputato al magistrato, sino all’operatore
amministrativo), e la psicologia giuridica, ramo della psicologia applicato al diritto.
Infatti, proprio lo studio e la comprensione dell’atteggiamento psicologico assun-
to dai vari soggetti che, direttamente o indirettamente, vengono in contatto con il pro-
cedimento giudiziario, si fà sempre più importante, anche dal punto di vista pratico:
pensiamo al perito che deve analizzare l’imputato, al difensore nell’ambito della scelta
delle strategie difensive, all’èquipe di osservazione e trattamento in ambito penitenzia-
rio, e così via.
Uno dei settori in cui, maggiormente, la ricerca è stata approfondita è quello della
psicologia della testimonianza; ma pensiamo, anche, alle tecniche di conduzione del-
l’esame incrociato nel processo penale, ai rapporti tra le varie figure professionali che
vengono a contatto – e talvolta collidono – nelle aule di giustizia, o, addirittura, tra i
componenti laici e togati di un medesimo collegio giudicante.
La criminalistica, invece, utilizza una serie di conoscenze, per far fronte ai problemi
di indagine di investigazione criminale. Può intendersi come l’insieme delle molteplici
tecnologie e saperi che vengono utilizzati per l’investigazione criminale, come la bali-
stica giudiziaria, la dattiloscopia, l’analisi di materiali biologici, dei gruppi sanguigni,
delle tracce ematiche, del DNA per l’identificazione del colpevole, la ricerca dei residui
di polveri da sparo, e inoltre, la medicina legale, la grafometria e la comparazione cal-
ligrafica, nonché, le indagini tossicologiche.
La medicina legale tratta dell’applicazione delle conoscenze mediche al diritto, con-
tribuendo alla elaborazione, interpretazione e applicazione di precetti giuridici che ri-
guardano la tutela della vita e dell’integrità psico-fisica. Se da un lato, mantiene an-
cora l’indirizzo giuridico-forense e i tradizionali rapporti con l’amministrazione della
giustizia occupandosi dello studio del cadavere e della medicina del delitto, dall’altro,
particolarmente in Italia, i suoi compiti investono, ormai, tutti i rapporti fra la persona
umana e l’ordinamento giuridico-sociale, trovando un’ampia collocazione nell’ambito
del S.S.N.; questa apertura sociale dipende dalla valorizzazione degli aspetti medico-
legali della malattia, affinché il cittadino sia reintegrato, non solo nello stato di salute,
se possibile, ma anche nello stato economico, fruendo di ogni altro beneficio ricono-
sciutogli in applicazione delle leggi sociali. Ogni fatto medico può nascondere svariati
risvolti giuridici; il compito della medicina legale è proprio quello di partire dalla situa-
zione clinica per verificare l’applicabilità di una normativa lungo un iter che, passando
attraverso una semeiotica, talvolta peculiare, non ha il fine diagnostico-terapeutico, ma
quello di determinare l’effettiva natura ed entità degli esiti di un particolare evento e di
accertare il nesso di causalità materiale fra tale evento e gli esiti stessi (giudizio medico-

16
Lo studio della criminologia

legale), con specifico riferimento all’ambito giuridico di competenza (penale, civile,


assicurativo, ecc.). La metodologia medico-legale si applica alla diagnosi, alla prognosi
e ai giudizi conclusivi che rappresentano il presupposto per la risposta a quesiti di in-
teresse medico e giuridico.

1.2 La criminologia come scienza


Bandini, nei primi anni novanta, sosteneva che la criminologia appare incerta cir-
ca le proprie finalità ed il proprio oggetto di studio, risulta divisa in indirizzi talvolta
profondamente contrastanti, è condizionata da una situazione di profonda crisi, che in
molti casi limita lo sviluppo, l’affermazione e la diffusione della disciplina stessa. Oggi,
da parte di coloro che si approcciano allo studio della criminologia, si riscontra, per lo
più, il desiderio di conoscenza delle metodologie che ineriscono, ad esempio, la crimi-
nologia clinica o applicata, oppure la criminalistica, tenuto conto, peraltro, anche della
continua influenza mediatica su tali argomentazioni; ciò, a detrimento del necessario e
primario approccio alla criminalità che deve concretizzarsi, in primis, nella conoscenza
di quella che possiamo definire come la storia e l’evoluzione della criminologia.
Nell’ultimo decennio, si è assistito ad un intenso dibattito sul ruolo di quest’ul-
tima. Da un lato, è considerabile come scienza multidisciplinare, dove per multidisci-
plinare si intende quella singola branca del sapere che, per il suo autonomo sviluppo,
richiede necessariamente competenze molteplici. La criminologia, pertanto, avrebbe
questa caratteristica in quanto si occupa del fenomeno criminoso secondo plurime pro-
spettive, e, in essa, andrebbero a confluire e ad integrarsi le conoscenze esistenti sul fe-
nomeno delittuoso. Se si mantiene questo status, la criminologia, sembrerebbe orien-
tata a rinunciare a una propria autonomia, in quanto si ripropone il problema di come
una disciplina possa costituirsi quale momento di sintesi e di integrazione di conoscen-
ze provenienti da discipline tra loro eterogenee.
Per uscire da questa impasse, allora, è necessario considerare la criminologia co-
me scienza interdisciplinare; ciò presuppone il dialogare con altre discipline autonome
con le quali ha in comune lo studio del comportamento antigiuridico o antisociale, al-
lo scopo di conoscere le sue cause e di realizzare adeguati programmi di prevenzione e
di trattamento. La interdisciplinarietà, però, viene dagli studiosi considerata come una
sorta di espediente epistemologico, tenuto conto che il criterio interdisciplinare non
può riguardare una singola disciplina, e presuppone un’interazione fra distinte discipli-
ne, le quali possono interagire, se hanno già acquisito un’identità (e forse una pseudo-
autonomia), e se sono nella condizione di apportare, attraverso propri schemi concet-
tuali, un proprio modo di definire i problemi e di impostare la ricerca.
L’interdisciplinarità è un momento di convergenza funzionale ed entra in gioco
successivamente al fatto che più discipline abbiano affrontato uno o più problemi in
comune, tenuto conto della propria specificità e delle proprie strategie interpretative.
Penati, ad esempio, sostiene che l’introduzione di un criterio interdisciplinare non
preceduto da uno studio preliminare e necessariamente distinto per discipline, livelle-
rebbe genericamente il sapere al grado di mera esperienza effettuale e di confuso ten-

17
Criminologia ed elementi di criminalistica

tativo di una sua espressione globale non strutturata: impedirebbe, cioè, quell’articola-
zione analitica e quel ripensamento critico originale e creativo che costituisce l’essenza
dell’assimilazione culturale della realtà da parte dell’uomo.
L’interdisciplinarità è accostamento e utilizzazione di teorie e modelli sviluppati
nell’ambito di determinati contesti e paradigmi dotati di linguaggi loro propri, e, come
tale, “porta a una semplice sovrapposizione di fuochi giungendo, quindi, nel migliore
dei casi, a enunciare proposizioni tautologiche, e, nel peggiore, alla confusione.”
Ponti, all’inizio, aveva caratterizzato la criminologia come scienza multidisciplinare
e interdisciplinare, successivamente rivede la propria posizione rispetto all’interdiscipli-
narità, affermando che la criminologia è scienza a carattere interdisciplinare, in quanto,
ha anche la necessità di coltivare rapporti interdisciplinari.
L’immagine della criminologia quale scienza sintetica si giustifica se essa è conce-
pita in termini di scienza empirica, caratterizzata dal metodo induttivo, e fondata sul-
l’osservazione tale che la scienza si riduce a un insieme di asserzioni che descrivono
osservazioni, e che aumenta e progredisce amplificando il volume delle asserzioni che
descrivono osservazioni.
Vassalli, afferma che la criminologia esprime, oramai, l’aspirazione a una visione
unitaria e sintetica del fenomeno individuale e sociale della delinquenza, nella quale
si compongono le diverse esperienze e le diverse conoscenze che, a tale visione, il più
possibile compiuta, possono contribuire, ordinate in relazione a chiari punti di parten-
za comuni e secondo una comune finalità di verità obiettiva, le conoscenze intorno al
fenomeno delittuoso, ai suoi fattori, al suo modo di manifestarsi, ai suoi effetti indivi-
duali e sociali, alla sua valutazione e comprensione.
Collegato a questo approccio è il metodo induttivo, secondo il quale la ricerca
scientifica parte dall’osservazione, per poi, con cautela, passare alle leggi generali.
Il passaggio da asserzioni particolari ad asserzioni generali viene, quindi, giustifi-
cato sulla base di un’accumulazione di fatti-asserzioni.
La codificazione della criminologia come scienza sintetica deriva dall’avere confu-
so la comprensibile aspirazione a un sapere, il più articolato possibile, sulla questione
criminale con la codificazione della criminologia quale scienza interdisciplinare, mul-
tidisciplinare.
Secondo questa interpretazione, alla criminologia può essere attribuito il compito
di comporre le diverse esperienze e conoscenze intorno al fenomeno delittuoso, alle sue
manifestazioni, ai suoi effetti, alla sua valutazione e comprensione, purché, si prenda
atto che la criminalità e il comportamento criminoso possono essere ricondotti ad unità,
unicamente se si abbandona l’illusione di poter costruire un’unità disciplinare sulla ba-
se di un’integrazione di conoscenze appartenenti a discipline e professioni diverse.
Allo stato attuale, tuttavia, i criminologi tradizionali non appaiono in grado di
risolvere le contraddizioni della loro codificazione di criminologia, soprattutto, per-
ché non hanno posto attenzione sul fatto che, allorché discipline e professioni diverse
interagiscono, non si limitano a offrire un contributo autoreferenziale, ma producono
frammenti di conoscenza e di operatività che sfuggono ai rispettivi vincoli.
Per la criminologia diventa, allora, necessario immaginare che i saperi costitutivi
del diritto, della medicina, della pedagogia, della psichiatria, della psicologia, della so-
ciologia, pur conservando autonomia e originalità, rappresentano frammenti conoscitivi

18
Lo studio della criminologia

e operativi che si producono durante il confronto disciplinare e professionale e che conflui-


scono in questo spazio; diventa, di conseguenza, necessario, prevedere un metodo che si
caratterizzi quale ricerca delle condizioni che consentano al confronto di non ridursi a mera
sommatoria di dati, ma che trasformi la connessione in risorsa di complementarità.
Calzante l’esempio di Pisapia a proposito del dibattito sull’autonomia della crimi-
nologia.
Si immagini un appartamento composto da più locali. Ognuno di questi loca-
li rappresenta una disciplina o una professione interessate a offrire un contributo alla
questione criminale: criminalistica, diritto, pedagogia, politica criminale, psichiatria,
psicologia, servizio sociale, sociologia, ecc.
Se si considera la criminologia (che per autodefinizione si pone quale scienza del
crimine) una delle discipline interessate alla questione criminale, essa andrebbe a occu-
pare una delle stanze dell’appartamento e non potrebbe essere delineata quale disci-
plina che sintetizza e integra, le conoscenze prodotte dalle altre discipline. Se identifi-
cassimo la criminologia con l’edificio che contiene quell’appartamento, essa, avrebbe
la presunzione di porsi come metascienza, e le altre discipline non sarebbero che sotto-
discipline della criminologia.
Si pensi, invece, alla criminologia come al corridoio che attraversa i confini delle
diverse stanze, corridoio che le distingue l’una dall’altra, ma che consente, a queste, di
comunicare. Allorché emerge una situazione che chiama in causa alcune delle discipli-
ne presenti, ognuna di queste supera la propria soglia e, sulla base della propria compe-
tenza, porta uno specifico contributo. La criminologia, rappresenta, in quanto spazio
comune e condivisibile, la condizione affinché questi contributi possano confrontarsi,
mantenendo, ciascuna, la propria identità; essa si pone come spazio al cui interno le
differenti discipline e professioni producono frammenti di conoscenza e di operatività
che sfuggono ai rispettivi vincoli.
L’immagine di criminologia che emerge è quella di un’area di sapere che si carat-
terizza quale potenzialità progettuale di connessione e, quindi, a mano a mano che si
sviluppa il processo di interazione, quale competenza metodologica che si sostanzia nella
possibilità di trasformare i contributi delle diverse discipline e professioni in risorsa di
complementarità.
La criminologia, pertanto, non si pone come motore di rielaborazione delle cono-
scenze acquisite da altre discipline, né rappresenta, per tale motivo, una scienza di se-
condo livello, né una metascienza nel dare senso e significato alle altre scienze; al con-
trario, si presenta come dimensione di costruzione di nuove conoscenze.
La criminologia, pertanto, deve essere intesa quale metodo di regolazione discipli-
nare e professionale che attiene, non solo alla fase successiva all’emergere del confronto,
ma che riguarda i processi, grazie ai quali, questa interazione si origina e si sviluppa.
Canepa, a tal proposito, sosteneva che la criminologia dovesse essere concepita come
ricerca criminologica.
Un’intuizione, come lo stesso affermava, che è stata troppo presto abbandonata;
si è preferito attestarsi sull’idea di criminologia quale scienza interdisciplinare del com-
portamento antisociale nelle sue varie forme: dal semplice disadattamento alle forme
di antisocialità più definita in senso oppositivo, fino al comportamento delittuoso (an-
tisocialità come delitto).

19
Criminologia ed elementi di criminalistica

All’interno della ricerca criminologica, Canepa individua una ricerca fondamen-


tale che studia le cause del comportamento antisociale prescindendo dall’utilizzazione
pratica dei risultati, e, una ricerca applicata che si concreta nella programmazione di
interventi per la prevenzione del comportamento antisociale.
La criminologia, più che una disciplina in senso tradizionale, è, quindi, concepita
come ricerca delle condizioni che consentono di strutturare domande e offrire risposte
sui diversi aspetti che compongono la questione criminale: dalla produzione delle nor-
me alle definizioni sociali di devianza e di criminalità; dall’applicazione delle norme,
all’applicazione effettiva delle definizioni sociali di criminalità e devianza a soggetti spe-
cifici; dalla condanna di coloro che sono ritenuti autori di reato all’esecuzione della pe-
na e delle misure di sicurezza, senza trascurare le vittime di reato.
Norme di condotta e regole di interazione accompagnano l’individuo nella ma-
turazione della propria esperienza sociale nel corso della vita quotidiana, ed è anche a
questo insieme di norme e di regole, denominato normativo-quotidiano, che il crimi-
nologo, ma non solo il criminologo, può fare riferimento.
Il fatto che l’interesse dei criminologi tradizionali sia stato quasi sempre il mo-
mento in cui le norme di condotta danno corpo a situazioni considerate socialmente
negative non può fare dimenticare che una situazione problematica può essere spiega-
ta se si hanno gli strumenti analitici per delineare le condizioni che rendono possibi-
le un’esperienza di incontro con le norme di condotta, al fine di spiegare anche il mo-
mento di conflitto. È in un secondo momento - sul piano logico e su quello dei tempi
di vita individuali - che ci si dovrebbe preoccupare di spiegare anche le articolazioni del
confronto normativo che assumono caratteristiche problematiche e che, comunque,
non necessariamente sfociano nel reato.
De Greef riteneva la criminologia scienza in sé inesistente, sia per l’incertezza, e la
contingenza, che per l’ipoteticità delle sue teorie.
Se una scienza deve rispondere ai criteri di sistematicità e controllabilità, si può
certamente affermare, che, ai due criteri, risponde, perfettamente, la criminologia.
Per sistematicità, si intende la costruzione di un complesso di conoscenze acquisite
su un determinato oggetto, integrate, in un complesso armonico e strutturato.
Per controllabilità, la possibilità di sottoporre tali conoscenze al c.d. controllo di
validità, sotto il profilo empirico e logico-formale.
Accanto alla sistematicità ed alla controllabilità, si riscontrano: la capacità teoretica,
quella cumulativa, ed infine, quella predittiva.
La capacità teoretica di una scienza, si concretizza nel trasformare in proposizio-
ni astratte – unite da nesso logico – proposizioni costituenti la c.d. teoria, finalizzate
a spiegare i rapporti causali, le correlazioni, nonché le variabili dei fatti, oggetto della
sua analisi, derivanti da molteplici osservazioni e dati. La capacità cumulativa consiste,
invece, nella caratteristica delle scienze di analizzare, correggere, amplificare o perfezio-
nare, attraverso teorie più recenti, quelle in precedenza formulate. La capacità predittiva
consiste nello sforzo di potere prevedere comportamenti dei singoli soggetti e dell’in-
tera collettività, anche se è d’obbligo precisare che la predizione – per tali dimensioni
– presenta limiti obiettivi e fisiologici.

20
Lo studio della criminologia

1.3 L’orizzonte della criminologia


Il campo di indagine della criminologia è identificabile nello studio dei fatti delit-
tuosi, in quello degli autori di fatti antigiuridici (qualificati come reati), delle molte-
plici forme di reazione sociale alla criminalità diffusa, dello studio personologico della
persona offesa nel reato (vittima), nonché dei fenomeni di devianza.
Studi paralleli alle scienze criminali sono stati compiuti anche da altre discipline,
quali la psichiatria, l’antropologia criminale, la sociologia, la statistica, la pedagogia,
discipline che hanno fornito, e continuano a fornire, spunti scientifici di applicazione
di indubbio valore e significato.
Nonostante le diverse sistemazioni teoriche che si sono avvicendate nel tempo, e
tenuto conto che la criminologia ha compiuto passi da gigante, fino ad oggi, sul piano
scientifico, e del posto importante che ha finito per occupare tra le attività istituziona-
li, ancora oggi, le domande rimangono le stesse:

• quanto sono vasti i confini della criminologia?


• qual è il suo campo di indagine e che cosa ricade sotto la sua osservazione?
• che tipo di relazione dovrebbe sussistere tra la criminologia e le altre discipline che
si occupano dei medesimi oggetti?

Bruno osserva che sostenere che la criminologia è una scienza multidisciplinare e


interdisciplinare non è un'asserzione chiara e definitiva.
Se si vogliono utilizzare definite e utili categorie concettuali per identificare il nu-
cleo duro della disciplina, e capire il ruolo della criminologia moderna, si deve andare
più in profondità a spiegare il significato reale delle parole, adottando un approccio che
possa considerarsi effettivamente comprensivo e sistematico.
Selling afferma, ad esempio, che il termine criminologia dovrebbe essere usato per
designare il corpo di conoscenze scientifiche disponibili sul crimine.
Il problema, tuttavia, non è risolto, nè da questa, nè da altre più lunghe e complesse
definizioni. Infatti, nuove difficoltà sorgono proprio dalla necessità di dare una defini-
zione operativa e, quindi, utilizzabile della parola crimine. Il crimine può essere definito
sia come un fenomeno sociale che come un tipo di comportamento umano, sia come
una violazione o infrazione della legge che come un atteggiamento morale mirato al ma-
le. La scelta dell’uno o dell’altro significato può dipendere non solo dal punto di vista
che si preferisce, ma, anche, dallo scopo che si vuole raggiungere con l’analisi.
Se ne deve concludere che molte e differenti prospettive coesistono insieme con
molti e diversi aspetti dello stesso oggetto, nello stesso tempo e nello stesso spazio.
L’unico quadro di riferimento che fornisce significato stabile e continuità ad una
tale realtà così mutevole e dinamica è rappresentato dall’essere umano che può essere
considerato come l’elemento essenziale che partecipa, in quanto tale, sia al sistema os-
servante che a quello osservato.
Questa duplicità appare ineliminabile ed è ancora più complicata quando l’ogget-
to dell’osservazione è il comportamento dell’uomo che promana direttamente dal suo
cervello, che si trova, così, ad essere contemporaneamente oggetto e soggetto di analisi
e di ricerca.

21
Criminologia ed elementi di criminalistica

Per questo motivo, non si può continuare a fare ciò che si è fatto da sempre, cioè
considerare l’uomo, di per sè, avulso da ogni rapporto e da ogni condizionamento o,
all’opposto, studiare i gruppi sociali come se fossero composti non da uomini, ma da
nuclei immutabili e scarsamente interagenti.
Al contrario, l’uomo non può essere studiato se non all’interno del suo ambiente e
in rapporto con i diversi sistemi cui può partecipare nell’ambito di un definito quadro
concettuale di realtà. Ne consegue che se ciò è vero, è vero anche il reciproco, quindi i
gruppi, gli insiemi e i sistemi non possono considerarsi se non nel rapporto essenziale
con l’uomo e nel significato e nella finalizzazione umani della loro esistenza.
Fino ad oggi è avvenuto l’esatto opposto, e gran parte delle nostre acquisizioni
scientifiche rappresentano, non l’immagine della realtà, ma quella di modelli estre-
mamente semplificati e astratti che tendono a comprendere le strutture elementari dei
fenomeni, talché si possa passare, successivamente, dal particolare al generale, e intuire,
così, le leggi che governano l’universo.
In altri termini, la scienza si è sempre affannata a ricercare, a tutti i livelli, gli ele-
menti significativi dell’ordine della natura, cercando di distinguerli da quelli che rap-
presentano i residui del caos primigenio.
All’inizio, tutto appariva semplice, tutto sembrava inquadrarsi in un grande e per-
fetto disegno, ma, poi, il progresso stesso della fisica ha finito per identificare delle
grandi contraddizioni che, tuttora, appaiono non risolte.
Lo stesso Einstein, che credeva di aver collocato ulteriori e rilevanti tessere alla ri-
costruzione del grande mosaico del sapere, morì, cercando, senza riuscirci, di elaborare
una teoria unificata delle forze che gli consentisse di dimostrare ciò che riassunse feli-
cemente nel celebre aforisma: Dio non gioca a dadi con l’universo.
Le scoperte della fisica sembrano, però, indurre a pensare il contrario: i principi
della termodinamica, l’incremento dell’entropia, il principio di non determinazione di
Heisemberg, la scienza dei quanti, ecc., dimostrano come la costruzione teorica non
possa essere mai considerata perfetta, e come nella natura e nell’uomo non regni la
perfezione, ma, al contrario, predomini l’imperfezione.
Nella natura non si riscontrano mai quelle perfette forme geometriche che l’uo-
mo riesce a concepire e ad elaborare, ma, al contrario, essa è fatta di forme complesse
ed irregolari che solo la moderna scienza ci consente di conoscere meno approssima-
tivamente.
In ogni caso, allo stato delle cose, è oggi evidente che caos ed ordine non sono ter-
mini rigidamente contrapposti, e che ognuno dei due può contenere l’altro.
La scienza moderna non può fare a meno di entrambi e, se da una parte prose-
gue nei suoi processi di astrazione per modelli, dall’altra cerca di capire i fenomeni
più complessi, attraverso tecniche che consentano un più diretto approccio alla realtà,
come ad esempio, la teoria dei sistemi. È importante che nelle scienze umane si adot-
tino approcci e modelli che siano considerati, oggi, più vicini alla realtà e che, se non
ne consentono ancora una perfetta comprensione, per lo meno, non siano fuorvianti o
addirittura mistificanti.
In criminologia, infatti, come in tutte le cosiddette scienze umane, è assai difficile
trovare le prove di quanto si sostiene, e ricerche, teoricamente e spesso anche metodo-
logicamente sbagliate, non solo non consentono di verificare le ipotesi poste, ma for-

22
Lo studio della criminologia

niscono dati incontrollati ed incontrollabili che nascondono e mistificano la verità, al


posto di palesarla.
Per questo motivo, è essenziale che l’approccio sia corretto e che il quadro di riferi-
mento teorico del ricercatore, ma anche del professionista criminologo, sia improntato
a chiare nozioni operativamente definibili e scientificamente fondate.
A proposito del valore fondamentale della ricerca, il quadro di azione designato da
Bruno, sembra, oggi, essere il più osservato:

• la necessità della completezza e dell'aggiornamento della documentazione;


• la necessità del contributo critico preliminare e successivo degli altri ricercatori;
• l'indipendenza e la responsabilità del giudizio;
• il rifiuto di ogni pregiudizio culturale, ideologico o religioso;
• la libertà del ricercatore;
• la critica dei fanatismi;
• l'accettazione della realtà, comunque essa sia;
• la conoscenza e l'accettazione delle diverse realtà e specificità culturali;
• il principio della collaborazione tra gli uomini di diversa razza e cultura;
• la ricchezza del dubbio;
• il coraggio di difendere e anche di cambiare le proprie opinioni.

L'approccio si basa su di una chiara definizione dei seguenti concetti fondamentali:

• il concetto di realtà;
• il concetto di norma;
• il concetto di sistema.

Da questi derivano, poi, ulteriori concettualizzazioni di base riguardanti l'operati-


vità in campo criminologico: si tratta di tutte quelle definizioni di concetti che rendo-
no possibile l'adozione di strategie e di strumenti mirati all'intervento e alla trasforma-
zione della realtà attraverso lo schema: formazione - operazione - valutazione.

1.4 Delitto e sua definizione


La condotta delittuosa, come già precisato, rientra nell’ambito dell’oggetto di stu-
dio della criminologia. Il delitto, che trova una sua definizione nel diritto positivo, va
inteso come quel fatto che la legge penale considera tale per definizione sociale o per
convenzione. Il concetto di delitto naturale, sin dal secolo scorso, si contrappone a quel-
lo di delitto come fatto contingente di natura storico - sociologica, partendo dall’idea di un
reato con caratteristiche non mutabili nel tempo e nello spazio, poiché valori primari
come la salute, l’integrità fisica, la vita, lo sono parimenti.
Ne è testimonianza il fatto che l’omicidio, ad esempio, presente in tutte le epoche
e in tutte le civiltà, sia stato sempre considerato come fatto totalmente illecito e univer-
salmente infausto, tale da concludere che i valori umani derivino, non da princìpi di

23
Criminologia ed elementi di criminalistica

carattere duraturo, bensì, dai processi culturalizzanti e socializzanti. Mantovani (e altri


autori) ha creduto di individuare, oltre alle variabili storiche della criminalità, che fanno
mutare nel tempo l’identificazione delle singole ipotesi di delitto, anche delle costanti,
indipendenti, sia dalle valutazioni variabili del legislatori, sia dalle evoluzioni dei valori
esistenti nei sistemi sociali.
Le costanti sono rappresentate dai delitti naturali e da alcuni princìpi basilari, come
le categorie razionali del pensiero penalistico, quali la condotta, la causalità, l’evento, la
capacità, il dolo, la colpa, il soggetto passivo, le conseguenze penali, e così via.
Prendendo campo l’inaccettabilità dell’idea di delitto naturale, si cercò, attraverso
il principio dell’antisocialità o della pericolosità sociale, di strutturare una nuova teo-
rizzazione per definire il delitto.
La Scuola Positiva, per esempio, incentrava la politica criminale proprio sulla peri-
colosità, definita quale tendenza innata a compiere delitti, anche non ponendo in essere
condotte legalmente proibite; pericolosità e antisocialità, rappresentavano, pertanto, so-
lo giudizi in ragione di caratteristiche psico-somatiche o di status: tutto ciò equivaleva,
quindi, a considerare antisociali anche coloro che non commettevano reati, ma che ne
venivano riconosciuti capaci. Il criterio dell’antisocialità, ritenuto un puro giudizio di
valore, e strettamente connesso e variabile al mutare della cultura e dei suoi contenuti,
non poteva risultare un metodo valido.
Si è tentato, a questo punto, di distinguere i delitti in base al criterio della maggio-
re o minore gravità. Alla base di tale tentativo, il primo problema da affrontare riguarda
lo stabilire – a priori – ciò che può risultare grave, da ciò che tale non può essere con-
siderato. La criminologia, sulla base di questa distinzione, avrebbe il compito di occu-
parsi solo dei primi e di trascurare i secondi; tra questi ultimi, rientrerebbero fattispecie
criminose come la corruzione, l’illecito finanziamento ai partiti, l’evasione fiscale ecc.,
che, per lungo tempo, sono stati qualificati come secondari, ma che nell’ultimo ven-
tennio hanno impegnato, e non poco, la magistratura.
La gravità del reato, prevista all’art. 133 del codice penale, rappresenta uno dei
parametri per l’applicazione discrezionale tra minimo e massimo della pena. Il crite-
rio della maggiore o minore gravità del delitto, seppur criticato, riflette, però, l’impe-
gno della criminologia in ordine, ad esempio, alla penologia minorile, laddove, per i
c.d. reati bagatellari, cioè di scarsa rilevanza sociale, a seguito della riforma della giu-
stizia minorile, è stato previsto, dal legislatore, l’istituto della rinunzia all’azione pe-
nale.
La criminologia, comunque, non è destinata a occuparsi solamente dei reati più
gravi che scuotono la società, ma di tutte le fattispecie di reato che possono tradursi in
possibile fonte di indagine, anche se è necessario ricordare che la valutazione di mag-
giore o minore gravità spetta al Legislatore e al Giudice, nelle diverse sedi, e non alla
criminologia o al criminologo.
Inoltre, nemmeno la distinzione tra azioni che sono illecite per la loro stessa natura
(mala in se) e quelle che sono tali perché proibite (mala quia proibita) possono delimi-
tare il campo della criminologia, poiché è da ritenersi convenzionale e mutevole con le
trasformazioni della società.
La criminologia, secondo alcuni autori, non dovrebbe occuparsi dei c.d. delitti po-
litici, o di terrorismo, o ancora, di delitti per motivi politici, poiché, sostengono che gli

24
Lo studio della criminologia

attori di queste fattispecie si diversifichino da altri attori comuni o criminali comuni per
la qualità delle ragioni ideologiche, dato che non sono mossi da motivazioni aggressi-
ve, egoistiche, lucrative, appropriative, che invece qualificano altri reati. Il compito del
criminologo, in questo scenario, dovrebbe essere quello di qualificare un delitto come
politico, ricercando la spinta ideologica che lo ha generato.
Al fine di delimitare i confini del campo degli interessi della criminologia, è op-
portuno sottolineare che le condotte illecite sono esclusivamente quelle definite dalla
legge e le indagini del criminologo devono avere origine da quelle definizioni.

1.5 Diritto penale e criminologia: quale rapporto?


Quello che si può definire come contrasto dottrinale circa il primato del diritto
penale o della criminologia, da tempo, può ritenersi concluso.
È, infatti, superata l’impostazione del Ferri il quale, negando qualsiasi autonomia
al diritto penale, lo riassorbiva, sostanzialmente, nella criminologia, ed è, al medesimo
livello, caduta la pretesa di totale subordinazione rispetto al diritto positivo.
Nuvolone, rimarcava come i rapporti tra le due discipline fossero spesso conno-
tati da resistenza e difficoltà di comunicazione, di diffidenza, nonostante si trattasse di
un contrasto concettuale artificioso, e che esistesse più di un terreno di incontro e di
dialogo.
L’asserzione del Nuvolone procedeva sulla base delle costanti e delle variabili in
ambito penale e criminologico.
Nessun primato da parte di una delle due discipline sull’altra, ma interdipendenza,
autonomia, complementarietà, con il riconoscimento, sia di ambiti di competenza, sia di
divergenze, al fine di una reciproca integrazione nelle scelte di politica criminale.
Tra giustizia penale e criminologia può esistere infatti un divario di mezzi.
La giustizia penale vigila perché siano rispettati i valori dominanti e le norme della
società; opera, al fine di contenere la criminalità a livelli sostenibili; rimane ancorata al
contesto del diritto positivo; rappresenta il complesso delle norme giuridiche che pre-
vedono i singoli fatti illeciti, per i quali sono comminate conseguenze penali; è scienza
normativa, legata a una impostazione di valori.
La criminologia studia, invece, con orientamento multidisciplinare: l’evolvere del-
la criminalità con il mutare dei costumi, la situazione socio-economica e l’orientamento
politico-culturale dominante; le caratteristiche dei rei e il comportamento antisociale,
in quanto espressione della personalità globale del suo autore; si arricchisce dell’ap-
porto delle varie discipline afferenti; ha indirizzi di pensiero multipli; comprende, al
suo interno, la criminogenesi e la criminodinamica, la metodologia di indagine sulla
personalità, per giungere all’aspetto importante della c.d. prognosi dell’atto criminale, da
intendere come previsione del comportamento criminale, sino al giudizio psichiatrico-
forense; la classificazione, prevenzione e trattamento dei rei; la organizzazione dei ser-
vizi di profilassi diretta ed indiretta, e l’assistenza, sia post-carceraria sia nel corso delle
misure alternative; utilizza una metodologia che è esterna, se non estranea, ai compiti
della giustizia penale; studia il funzionamento dei diversi sistemi di giustizia e di con-

25
Criminologia ed elementi di criminalistica

trollo; contribuisce all’adeguamento delle norme di diritto positivo, nonché, alle acqui-
sizioni scientifiche settoriali attraverso un’attività riformista.
Se è vero che la criminologia costituisce una specie di camera di compensazione
scientifica tra le varie discipline in lei convergenti, essa non può trarre vantaggio dalla
semplice giustapposizione di queste, ma, soltanto, da una loro armonica sintesi.
L’unico indirizzo suscettibile di garantirne lo sviluppo e l’efficacia operativa in
appoggio al diritto penale è, pertanto, la integrazione, cioè il superamento delle barrie-
re di parte, mitigando, quindi, le asprezze di alcuni suoi indirizzi più radicalizzati, co-
gliendo, nel singolo caso, le costanti e, nell’insieme, le differenze, legate all’aspetto na-
turalistico, usando tutti i mezzi scientificamente adeguati per una valutazione clinica
individualizzata e per una corretta impostazione su base empiricamente documentata
dei problemi più generali.
Dal ruolo originale di scienza ausiliaria, la criminologia, è venuta così acquisendo
il più penetrante ruolo di metascienza del diritto penale e della politica criminale, con
funzione, non più soltanto descrittiva ed esplicativa del dato (accettato senza appro-
fondimenti) della criminalità, ma critica rispetto ai processi selettivi dei fatti criminosi,
della stessa definizione di criminalità e criminalizzazione, dei meccanismi e delle fina-
lità dei controlli sociali. Il terreno sul quale diritto penale e criminologia più costruttiva-
mente si incontrano è quello della politica criminale, in cui, autonomia di dati e di pro-
poste, competenza in progettazione, elaborazione sistematica dell’impegno operativo,
tecnica di attuazione, rappresentano terreno di verifica e di feed-back reciproco.

26
CAPITOLO 2

La criminologia tra diritto ed evoluzione


della società

2.1 Le teorie illuministiche


Nel Settecento, gli illuministi, nell’obiettivo di contenere il dominio incontrastato
di uno Stato assoluto, tirannico e accentratore, suggerirono riforme decise, nelle quali
gli ideali dell’umanità tratteggiavano il punto di forza, indirizzato a custodire la libertà
dei cittadini contro un ordinamento giuridico alquanto arretrato, e contro lo stato di
completa anarchia in cui l’amministrazione della giustizia versava.
Il complesso delle riforme proposte, puntava, pertanto, alla effettiva difesa della li-
bertà dell’individuo e alla ricerca di un punto di equilibrio, a quei tempi ancora preca-
rio, tra la difesa della società contro le azioni delittuose e il rispetto dei diritti del cit-
tadino; gli illuministi riformatori, spinti dall’esigenza di annientare il vecchio sistema,
sentirono il bisogno di agire in maniera chiara e immediata, mediante un programma
di politica giudiziaria diretto a sconvolgere un sistema giuridico-sociale in cui domina-
va il dispotismo accentratore, che puntava, inesorabilmente, al completo abbattimento
dei diritti di ciascun individuo.
Sebbene, in quel periodo, fossero stati forniti utili ed eccellenti strumenti finaliz-
zati a migliorare le condizioni in cui la pratica del diritto versava, gli illuministi rifor-
matori non erano, tuttavia, in grado di portare a termine un progetto di rivisitazione
sistematico e organico di carattere normativo.
I propositi riformatori erano innegabilmente risoluti e arditi, di fronte all’attuale
condizione di polverizzazione sociale e di depressione dell’ordinamento giuridico, ma
le soluzioni studiate e rese note avevano un carattere disorganico, rispetto al rigore tec-
nico-giuridico che avrebbe dovuto sostenerle. Secondo gli illuministi, l’intimidazione e
la vendetta come risposta al diritto leso non potevano, certamente, più bastare.
La giustizia ed i giudici, pertanto, esercitavano un potere che era frutto di auten-
tico arbitrio, giacchè stabilivano se considerare un fatto, come delitto, indicandone, al
contempo, quantità ed entità della pena.

27
Criminologia ed elementi di criminalistica

Tutto ciò si poneva in antitesi con lo spirito illuminista che contrastava energica-
mente il potere assoluto delle classi fino ad allora dominanti, la corruzione, la supersti-
zione, l’arbitrio, contrapponendo - a tali dimensioni - la ragione, quale unica soluzione
e come luce eterna ed universale, facendo riferimento al principio della libertà dell’uo-
mo e dell’uguaglianza di tutti gli uomini, principio che si era oscurato per effetto della di-
sfunzione delle strutture sociali.
Cesare Beccaria e Pietro Verri, illustri esponenti dell’illuminismo giuridico italia-
no, ritenevano che l’obiettivo di riforma dell’ordinamento giudiziario potesse essere
raggiunto attraverso una rigida rottura con il passato e che, comunque, dovesse essere
improntato: a) alla semplificazione del sistema; b) alla formulazione di leggi chiare e
di pronta e facile comprensione; c) alla meccanica applicazione del dettato legislativo
da parte del giudice. Tutto ciò fa, inequivocabilmente, pensare a un manifesto etico-
politico pensato quale risposta immediata ai bisogni, non più rinviabili, della giustizia
penale.
Non possono essere sottesi i meriti che vanno riconosciuti alle riflessioni giuridico-
illuministiche, che immaginarono un sistema giuridico, coerentemente e direttamente
ancorato ai principi cui si ispiravano le nuove ideologie, anche se, in quelle meditate
proposte di riforma, si notava l’assenza di una sistematica ricostruzione tecnico-giuri-
dica delle delicate argomentazioni in discussione.
  La corrente di pensiero, ampiamente diffusa, che coincide, nella sostanza, con le
proposte di riforma avanzate dagli illuministi del tardo settecento, votati alla distruzio-
ne di un apparato inefficiente e sostanzialmente iniquo, ancor prima di porsi il proble-
ma di costruirne uno nuovo, lascia, comunque, nell’ombra, quei progetti, come quello
di Mario Pagano, che ideò una riforma integrale del sistema penale che trovava le radici
nelle correnti di pensiero che, in quel periodo, puntavano a costruire solide basi di un
sostanziale progresso civile. Pagano era cosciente della inutilità di ogni qualsivoglia ten-
tativo di correzione legislativa priva di un’idonea valenza scientifica, e, quindi, si impe-
gnò nello studio di una riforma organica del sistema penale, con il fine di estirpare le
cause della crisi che imbrigliavano la giustizia penale.
Nella concezione paganiana erano fortemente avvertiti, in una perfetta sintesi, da
un lato, il rispetto dei diritti inalienabili dell’uomo, concepiti come diritti naturali e,
dall’altro, la ferma difesa dei diritti dello Stato.
Tenuto conto dell’insieme delle esigenze, particolarmente avvertite, della pratica
il Pagano predispose un sistema penale articolato e completo, tanto da comprendere
le parti tutte della ragion criminale: delitti, pene, prove, ordine di acquisire queste ed
imporre quelle.
L’oggetto del diritto criminale viene, pertanto, suddiviso in tre settori, dal momento
che le leggi criminali o numerano i delitti e le proporzionate pene, e ciò forma la prima
parte, ovvero fissano le prove richieste a dimostrare i delitti e questa è la seconda parte;
o, finalmente, prescrivono l’ordine di giudizi criminali, vale a dire il processo, e que-
st’oggetto è compreso nella terza parte.
Nella Considerazione sul processo criminale, tenta di delineare i caratteri fondamen-
tali della riforma del processo penale e viene indicato il processo di tipo accusatorio,come
quello che, meglio degli altri, è in grado di garantire la libertà dei cittadini ed assicura-
re, nel contempo, la giusta punizione dei colpevoli; nella Teoria delle prove, contro ogni

28
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

preconcetta imposizione di schemi di giudizio, viene rivendicato al giudice il compito


responsabile di valutare, in base al proprio libero convincimento, i fatti di causa, senza
essere imbrigliato nel sistema meccanico delle prove legali. Nei Principii del Codice Pe-
nale, nonostante gli eccessi delle dottrine utilitaristiche, in un’epoca di relativismo do-
minante, viene ribadita l’idea della giustizia collegata a principi di diritto naturale, in
vista della salvaguardia dei diritti di libertà dell’individuo.
Le opere dello studioso Pagano rappresentano un unicum nel panorama riformi-
stico illuministico, avendo dato un apporto costruttivo al progresso della scienza del
diritto penale.
Per la prima volta, infatti, con insolita nitidezza e cognizione delle difficili proble-
matiche di fondo del diritto e della procedura penale, l’intera materia penalistica veni-
va sistemata, in maniera organica e armonica, intorno a principi fondamentali moderni
e attuali, attraverso i quali veniva suggerita la riforma integrale del sistema penale, con
l’obiettivo di dare alla giustizia un volto umano e coerente.
Il Pagano, reperendo nel campo della giurisprudenza criminale un insieme di teo-
rie sparsamente toccate, nè concatenate tra di loro, si proponeva di tracciare i principi fon-
damentali del diritto penale, conferendo dignità di scienza a questa branca del diritto,
onde offrire, alla fine, al legislatore, gli strumenti per la realizzazione di un corpo di
leggi unitario, organico e sistematico. “Ecco il nostro oggetto, ecco il piano, che ci abbiam
proposto; ed ecco lo stato del Diritto Criminale, e di ciò che in esso vien desiderato” (Intro-
duzione ai Principii).
Il Pagano, nei Principi del Codice Penale, proponeva la riforma integrale del siste-
ma penale, con la profonda cognizione che l’opera di rinnovamento sostanziale potesse
essere realizzata solo elevando a dignità di scienza questa branca del diritto.
È indubbio che sulla formazione culturale dei riformatori illuministi aveva fatto
leva la lezione del Montesquieu, il quale aveva gettato le basi per il successivo dibattito
penalistico settecentesco, condizionandolo profondamente, nel segno di una concezione
garantista in cui la libertà del cittadino assurgeva a valore assoluto, non assoggettabile
a mire utilitaristiche.
Il Montesquieu, saldo difensore della libertà dell’individuo, ritenne quali punti
prioritari del suo pensiero: il principio della separazione dei poteri, quello della infles-
sibile subordinazione del giudice alla legge, la ferrea difesa del principio della certezza
del diritto, la enunciazione di leggi chiare e semplici, la coscienziosa osservanza delle
formalità processuali che nel campo penale è, per i cittadini, garanzia di sicurezza.

2.2 La concezione liberale del diritto penale: Cesare


Beccaria
Le teorizzazioni di Cesare Beccaria furono, senza alcun dubbio, fondamentali per
vivificare il dibattito su aspetti fondamentali di politica criminale, tanto da esortare al-
cuni sovrani illuminati, come Caterina II imperatrice di Russia, Giuseppe II impera-
tore d’Austria e Pietro Leopoldo granduca di Toscana, a imboccare la strada delle rifor-
me legislative nella materia penale.

29
Criminologia ed elementi di criminalistica

Il contributo dato dal Beccaria al progresso del diritto penale – con l’opera Dei de-
litti e delle pene – fu di indubbio valore, anche se non va sottovalutato che l’azione ri-
voluzionaria dell’autore, permeata da scopi prevalentemente umanitari, molto difficil-
mente avrebbe potuto consentire una costruzione tecnico-giuridica sistematica, poiché,
i riformatori illuministi, nell’ottica di perseguire la meta di razionalizzare il sistema, per
prevenire i reati e combattere l’arbitrio giudiziario, si comportarono più come politici
del diritto, e meno come giuristi in senso rigorosamente tecnico.
Quale espressione del pensiero francese, Dei delitti e delle pene, risente, secondo lo
stesso Beccaria, delle letture di D’Alambert, di Diderot, di Elvezio e di altri enciclope-
disti, incoraggiato, altresì, dal dibattito sui temi della giustizia che si svolgeva all’Acca-
demia dei Pugni, alla quale, partecipava sotto la continua insistenza dei fratelli Verri.
L’Accademia dei Pugni venne fondata nell’inverno 1761-1762, e la sua attività si
protrasse fino al 1764. Animatore di quest’ultima era Pietro Verri il quale, fungeva, al-
tresì, da coordinatore delle attività dei giovani che ne facevano parte. Nelle riunioni
della società, cominciate fra pochi compagni a partire dall’inverno del ‘61-’62 e prose-
guite con grande successo di adesioni e di consensi nel ‘63 e nel ‘64, gli adepti discu-
tevano, leggevano in comune, soprattutto le opere della letteratura inglese e francese
in voga.
Nessun programma od obiettivo preciso: l’atteggiamento complessivo dei soci era
quello suggerito da chi teneva le redini. Una sorta di irriverenza e scansonatezza ver-
so gli stereotipi della tradizione, e ancora, attenzione ed entusiasmo verso quello della
nuova cultura e del nuovo mondo.
Beccaria, che proveniva da un periodo di profondo sconforto, scopre nuovi stimo-
li, dopo aver pubblicato, appena un anno prima, un saggio intitolato Del disordine e dei
rimedii delle monete, nel 1762, nello stato di Milano.
Il Beccaria, a seguito della lettura delle opere degli enciclopedisti francesi e su spin-
ta dei fratelli Verri, che gli avevano fornito anche la tematica, si interessò a tal punto
che, entusiasta, iniziò a scrivere. Era, altresì, motivato dal forte stimolo ricevuto da Pie-
tro Verri e dall’esperienza estremamente pratica del fratello Alessandro, il quale aveva
ricoperto l’ufficio di Protettore dei carcerati, e, quindi, conosceva la penosa esperienza
e le ancor tristi condizioni in cui versava un sistema penale che necessitava di essere
transitato verso uno assolutamente nuovo.
Così nacque il libro, osservò acutamente il filosofo Ugo Spirito, e le idee proposi-
tive in questo contenute, più che il risultato del pensiero dell’autore, appaiono come la
sintesi di una intima collaborazione di tutti i componenti il gruppo del Caffè.
L’importanza di questo intenso e appassionato dibattito, realizzatosi in un mo-
mento storico irripetibile, e grazie a una convergenza di forze animate da alti ideali,
concepì un risultato importante, al quale presero parte e contribuirono tutti i parteci-
panti alle discussioni che avevano luogo nella c.d. Accademia dei Pugni.
Fu in questo clima che si sviluppò Dei delitti e delle pene, definito, più tardi, co-
me l’invocazione di un moralista che traccia le linee di una legislazione ideale, ispirata al
rispetto della libertà.
E anche se può essere condivisa l’opinione che tende ad escludere il Beccaria dal
novero dei giuristi, questo, se mai fu un difetto, è stato rilevato, fu causa della sua for-
za propulsiva e della sua capacità di imporre la riforma di leggi inumane e inique (Vas-

30
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

salli, Cesare Beccaria nel bicentenario del Dei delitti e delle pene, in La Scuola Positiva,
1964, 586).
  Dei delitti e delle pene era l’opera di un filosofo e non di un giurista. Le caratte-
ristiche di quest’opera, i suoi contenuti, l’origine dai testi degli enciclopedisti francesi,
procurano un’utile chiave di lettura dei suoi contenuti. I filosofi che frequentavano Il
Caffè, non ignoravano l’importanza di discutere le problematiche del diritto penale e
ne facevano anche oggetto di saggi, che, alla fine, però, non si prestavano ad essere con-
siderate opere, per mancanza di rigore sistematico.
L’opera di Beccaria può essere, pertanto, considerata come l’inizio della moderna
storia del diritto penale. Un’opera accreditata in tutto il continente europeo, e che rice-
vette il plauso da parte dei massimi pensatori dell’epoca. Va sottolineato che il fine che
l’autore si proponeva era quello di dare rilievo ai difetti delle legislazioni giudiziarie a
lui contemporanee, e, nello stesso tempo, di prospettare possibili soluzioni per porre
rimedio ai vuoti e alle ingiustizie dei numerosi sistemi penali.
Cesare Beccaria, pienamente convinto del valore e della genuinità delle teorie di
Jean Jacques Rousseau nel suo Contratto sociale, ed ammiratore del pensiero del filosofo
inglese Locke, muove dal concetto della convivenza comune: gli uomini, sostiene, han-
no sacrificato una parte delle loro libertà, accettando di vivere secondo le regole della
comunità, in cambio di una maggiore sicurezza e di una maggiore utilità. L’autorità
dello Stato e delle leggi è, quindi, da considerarsi legittima, finché non oltrepassi certi
limiti accettati dai governati in nome del bene comune. Richiamando direttamente
Montesquieu, l’autore sostiene come ogni punizione che non derivi dall’assoluta ne-
cessità sia tirannica. Il sovrano ha il diritto di punire, ma tale diritto, è fondato sull’esi-
genza di tutelare la libertà e il benessere pubblici dalle usurpazioni particolari: nessun
arbitrio deve essere perpetrato, poiché nel decidere l’entità della pena l’unico criterio
da seguire è l’utile sociale.
Muovendo da tali significative premesse, le proposte avanzate dal filosofo posso-
no, così, essere riassunte: una decisa battaglia contro l’oscurità delle leggi (perché questa
conduce a una varietà di interpretazioni, spesso arbitrarie, che favoriscono gli abusi); la
necessità di rendere pubblici i giudizi (per non dar adito a sospetti di ingiustizia e tiran-
nide, e allo scopo di estirpare il sistema delle denuncie anonime, pratica che alimenta i
riprovevoli istinti della vendetta e del tradimento); l’opposizione netta alla tortura e alla
pena di morte (in quanto la prima non garantisce l’emergere della verità, oltre ad esse-
re una pratica disumana, poiché davanti al dolore fisico, chiunque sarebbe disposto a
confessare qualsiasi delitto); siccome il diritto di punire non deve andare oltre la necessità
di tutelare i cittadini dagli elementi più pericolosi, non è giusto accanirsi sugli accusati,
prima di aver provato la loro colpevolezza. Riguardo la pena di morte, questa deve es-
sere abolita, in quanto viene meno allo spirito del contratto sociale (nessun uomo è di-
sposto a dare la propria vita in nome della convivenza comunitaria), e perché, inoltre,
non è un deterrente efficace contro la criminalità: secondo Beccaria, è indice di terrore
personale l’idea di una lunga pena detentiva che non l’idea di una pena durissima, ma
immediata.
Secondo Beccaria, inoltre, è importante, anche, che la pena segua in tempi brevi il
reato commesso, affinché l’indiziato non venga lasciato nell’incertezza riguardo la sua
sorte e per imprimere nella mente dei cittadini il rapporto consequenziale colpa/pena.

31
Criminologia ed elementi di criminalistica

Di particolare importanza, inoltre, due principi fondamentali del trattato che sono:
l’attribuzione di un carattere laico alla pena e l’importanza della prevenzione dei delitti.
Beccaria opera una distinzione tra la nozione di peccato e quella di crimine, in quanto
ritiene che la punizione per non avere osservato la legge non ha niente a che fare con
l’espiazione di un peccato nel senso cristiano: la pena irrogata dall’autorità giudiziaria
è solo uno strumento per impedire che avvengano o si ripetano determinate violazioni.
Ma è particolarmente importante cercare di prevenire i crimini, educando alla legalità;
bisogna, altresì, adoperarsi e fare in modo che le leggi siano chiare e facili da compren-
dere per tutti, che siano rispettate e temute.
Lo scopo ultimo della pena è quello di evitare il ripetersi di un danno commesso
nei confronti della società, scoraggiandone, al contempo, altri: la pena non è più, nella
visione di Beccaria, uno strumento per raddoppiare con altro male il male prodotto dal
delitto commesso, ma un mezzo per impedire che al male già arrecato se ne aggiunga al-
tro ad opera dello stesso criminale o a opera di altri che, dalla sua impunità, potrebbero
essere incoraggiati. La pena è un mezzo di difesa, un mezzo di prevenzione sociale.
Nell’opera di Beccaria emerge un convincimento molto chiaro in ordine alla uti-
lità pratica dei provvedimenti presi o da prendere, e che lascia uno spazio ridotto a
considerazioni di ordine morale, così come ben si evidenzia la posizione dell’autore nei
confronti della pena di morte: questa va abolita perché non consegue gli scopi prefissi, so-
prattutto per tale motivo va eliminata: la sua crudeltà, la sua irreparabilità sono marginali.
Beccaria, nel suo trattato, indica anche delle rare eccezioni nelle quali il ricorso alla pe-
na capitale è ammissibile. Questo tipo di atteggiamento ha innescato numerose cri-
tiche alla sua opera in tempi recenti, poiché è stato ritenuto che il calcolo utilitaristico
dei vantaggi e degli svantaggi delle pene non può essere considerato la sola base dei si-
stemi penali, ma, in essi, deve trovar posto il rispetto della persona umana e di quei di-
ritti inviolabili dell’uomo che ancora oggi molto fanno dibattere. Va sottolineato che,
se è possibile individuare prese di posizione discutibili in alcune pagine de Dei delitti e
delle pene, in altre, Beccaria mette in risalto come l’imputato debba essere sempre conside-
rato persona e non cosa e come non possa esistere libertà laddove questo principio non venga
rispettato. Malgrado alcune affermazioni non consone, l’opera di Cesare Beccaria pone
le basi per il corretto progresso dello sviluppo civile del mondo occidentale, tenuto con-
to del fatto che molte coscienze furono scosse in ordine ad argomenti basilari per la for-
mazione di una società giusta e democratica, sia per l’utilità pratica che dimostrò, visto
che molte delle misure auspicate nel trattato vennero effettivamente seguite ed applicate
in diversi Stati.

2.3 La Scuola Classica


La teoria più antica e più significativa, che per lungo tempo ha dominato e che an-
cora oggi conta numerosi sostenitori, è quella della Scuola classica.
La Scuola Classica vede la luce in pieno Illuminismo, come autentica reazione alla
drammatica situazione politica, sociale e giuridica in cui si trovava l’Italia, e nello scon-
tro contro il sistema penale allora vigente, basato sull’uso indiscriminato della tortura e

32
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

della ferocia delle pene. Questa dottrina, che fa propria una concezione metafisica del
diritto, pone a fondamento del diritto penale i seguenti principi:

a) il delinquente è un uomo uguale a tutti gli altri;


b) la condizione e la misura della pena sono date dall’esistenza e dal grado del libero ar-
bitrio;
c) la pena ha una funzione etico-retributiva per il male commesso, perciò deve essere asso-
lutamente proporzionata al reato, afflittiva, personale, determinata e inderogabile.

La Scuola Classica fonda l’imputabilità sul libero arbitrio, cioè sul potere di auto-
determinarsi secondo una libera e totale scelta della propria volontà. Secondo tale con-
cezione, la pena, quale castigo per il male commesso, viene applicata se l’uomo ha vo-
lontariamente e consapevolmente scelto la violazione della norma, pur avendo, invece,
la possibilità di sceglierne l’osservanza. Il reato, pertanto, rappresenta la violazione co-
sciente e volontaria del comando penale; ma perché la volontà sia colpevole, l’autore
del reato, posto davanti all’alternativa tra il bene e il male, deve avere la concreta capaci-
tà di intendere il valore etico-sociale delle proprie azioni e di determinarsi liberamente alle
medesime, sottraendosi all’influsso dei fattori interni ed esterni.
Da questa interpretazione deriva che gli individui affetti da anomalie di interes-
se psichico o comunque immaturi, non essendo liberi (perché privi di questa libertà di
scelta fra il bene e il male), non possono essere biasimati per il male commesso e quin-
di non possono essere puniti; e inoltre, in caso di una libertà non del tutto assente, ma
limitata, la pena dovrà, in tali casi, essere diminuita.
La Scuola Classica annoverò tra i suoi maggiori esponenti Francesco Carrara, il
quale, in ordine al c.d. esame del reato e del suo autore, formulò teorie ben precise: in-
nanzitutto, il pensiero giuridico di Carrara si differenzia da quello Positivo per uno stu-
dio che porta a definire il reato non come un’anomalia del commettere il male derivante
da fattori antropologici o sociali, che vanno in sintesi a paragonare il criminale ad un in-
dividuo atavico e non sviluppato ma, viceversa, l’illecito penale è un ente giuridico. Il de-
litto infatti non è un ente di fatto, perché viene ad essere sintetizzato con una definizio-
ne generale, oltre ogni riferimento empirico, ossia come la violazione della legge della
ragione rivelata, per Carrara, direttamente da Dio.
È, infatti, alla divinità, che viene fatta risalire la nascita del diritto naturale di cui
l’uomo deve servirsi, al fine di disciplinare la vita sociale, nata con l’inizio della civil-
tà stessa.
Le teorizzazioni del Carrara condurrebbero al superamento degli orientamenti del
Lombroso e del Ferri, infatti, essendo il reato un ente giuridico, significa che esso non ha
bisogno di riferimenti ad altre definizioni appartenenti a scienze che vi confluiscono.
Quindi, se un soggetto, ad esempio, viene a commettere un reato, esso è lesione del-
l’ordine esterno della società, non necessita di ulteriori specificazioni come quella che
egli infranga la legge, perché mosso da fattori sociali estranei alla realtà giuridica. Que-
sta considerazione riporta il reato ad una visione che appartiene al diritto penale, che
lo rende per così dire autosufficiente. E ha, come seconda conseguenza, che esso trova
nel diritto il proprio fondamento che è connaturato all’uomo e, dunque, viene allarga-
to l’orizzonte del campo d’indagine della materia, che va oltre le riforme e i codici at-

33
Criminologia ed elementi di criminalistica

tualmente vigenti. In altri termini, il richiamo è ad una sorta di jus naturale, a principi
fondanti della legge; la legislazione penale è così ricondotta a un’analisi che non è una
pura e infruttuosa interpretazione del diritto positivo. Tutto ciò non porta a negare la
visione particolare delle norme giuridiche, ma, si ammette l’esistenza di un principio
che non accetta l’esistenza di leggi contrarie alla natura dell’uomo stesso. Inoltre, va ri-
cordato che per Carrara, il diritto deve studiare l’ordine che si origina dalla divinità ma
che può essere letto solo dalla ragione; esso viene, in tal modo, a essere imposto prima
ancora della legislazione stessa; è quella struttura che si può sintetizzare come della li-
bertà; nel senso che il sistema penale viene definito come la libertà di un individuo di
non sopraffare in alcun modo un altro.
L’ulteriore conseguenza del delitto, come divieto di ledere l’ordine sociale esterno,
è che, chi commette tali azioni deve essere punito, per definizione, solo se capace e li-
bero; esclusivamente in questo caso si delinque, cioè, quando si possiedono queste due
peculiarità: quella d’autodeterminare le proprie azioni e quella dell’intelligenza.
Ciò contribuisce ad interpretare validamente la c.d. esimente valevole per la minore
età; infatti, se si vaglia la maturità intellettiva e la responsabilità penale come parametri
primi del delinquere, ci si trova a giustificare l’esclusione della pena per chi non si trovi
in tale situazione. La questione pone un interrogativo: così procedendo, non si vengo-
no a trattare in modo uguale, situazioni differenti, in contraddizione con il principio
espresso nell’articolo 3 della Costituzione?
Inoltre, stabilendo che il delitto è ente giuridico, lo si diversifica da quel diritto pena-
le che lo porta a coincidere con la velleità dei codici e delle leggi, che sono transitorie.
Tale considerazione, non è da interpretare in modo abnorme, in quanto porte-
rebbe a definire il sistema penale come scollegato dalle leggi positive e, quindi, que-
st’ultime sarebbero sempre poste a distanza dai principi della verità, rivelandosi, anzi,
un freno, degli elementi che impediscono la realizzazione della giustizia sulla terra,
giustizia amministrata solo da Dio. Secondo tale concezione, il reato si configurereb-
be quale divieto posto ad un’intelligenza libera di sovvertire l’ordine stabilito dalla legge,
che non è quella regolamentata dallo jus positum, ma è quella venuta al mondo con
l’uomo.
Il dibattito si sposterebbe, inevitabilmente, sul campo del diritto penale, poiché,
quest’ultimo, era considerato dipendente da altre discipline non giuridiche, mentre,
adesso, si getterebbero le basi per ammettere la possibilità che uno Stato formuli del-
le leggi contrarie a quello che è il diritto naturale, superiore alle norme codificate. Al-
tro passaggio importante riguarderebbe la funzione della pena come funzione di man-
tenere l’equilibrio stabilito al di sopra dell’uomo, che diventa, pertanto, una tutela
giuridica, prima ancora di essere una tutela sociale. Se si definisce il delitto come ente
giuridico, lo si priva di ogni altro riferimento e, quindi, tale interpretazione portereb-
be alla rilevante conseguenza che esso verrebbe ad essere definito un imperativo assolu-
to. Quando poi si vuole differenziare la quantità e la qualità del reato, il riferimento è
al c.d. grado del delitto, anche se la sua obiettività è strettamente collegata al divieto. In
tale contesto, la pena verrebbe ad essere spiegata in funzione del divieto, quindi, il di-
ritto penale non sarebbe tale se non esistesse la repressione per farlo rispettare. Se si pensa
al rapporto reato/soggetti minorenni, una pena come quelle che prevedono il perdono
giudiziale dei minori non sarebbe neanche ammissibile.

34
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

Altra funzione basilare della pena è quella della c.d. minaccia, poichè, essa diviene
capace di incutere timore nel violare la legge. La quantità delle pene sono dunque rica-
vabili rispetto al grado del delitto, e la diretta conseguenza è rappresentata dal divieto,
per il legislatore, di eccedere con pene che puntino a mortificare la personalità dell’uo-
mo e siano maggiori della rilevanza dell’azione illecita.
Se è vero che siamo in presenza di una concezione moderna, sia del delitto che del-
la pena, è altrettanto vero, però, che tale impianto non ammetterebbe l’esimente ( reati
commessi da minorenni), in quanto, sarebbe lo stesso sistema a non prevedere alcuna
esclusione o alcuna riduzione della misura sanzionatoria.
Significativa, inoltre, l’analisi del Carrara in ordine agli scopi ed alle funzione del-
la procedura penale: in primo luogo, l’identificazione dei colpevoli, che non deve con-
durre, però all’applicazione di una pena superiore rispetto a quanto commesso dagli
stessi. Pertanto, il fatto, il giudizio, altro non sono che l’applicazione diretta e concre-
ta del diritto; il Carrara, non prevede altra definizione del giudicato che non sia la se-
guente: o si è colpevole o innocenti, o si ammette un grado di colpevolezza o lo si esclude; la
questione fondamentale non è tanto quella di prevedere per il reo un inserimento nel-
la collettività, quanto, invece, salvaguardare l’applicazione corretta della legge, che, in
tal senso, significa porre in essere gli strumenti utili, affinché il sistema del diritto non
venga violato.
Un paragone efficace riguarda il rapporto tra diritto penale e procedura penale: la le-
gislazione penale rimane, essenzialmente, estranea alla realtà dei fatti, anche se incapace
di modificare, se non attraverso la repressione, quella realtà di cui è solo un’astrazione. Il
diritto penale ha, quindi, la funzione di proteggere un ordine superiore alla realtà giuri-
dica degli ordinamenti, attraverso lo strumento del divieto, confermando il diritto della
pena, poiché, mediante la repressione, la legge diventa efficace, ed il giudizio si trasfor-
ma in strumento per farla osservare.
Anche in questo caso, mancherebbe la c.d. esimente per escludere la pena, oppure di
un tipo di sanzione che abbia lo scopo di raddrizzare, ma non di punire. Secondo Car-
rara, però, una punizione che miri a modificare i comportamenti dei criminali sarebbe
priva del fondamentale requisito di una misura penale, consistente nel condurre il cri-
minale ad avere timore della pena, intesa quale funzionale deterrente. Qual è l’origine di
tale impostazione? Il punto di partenza è, sia la cieca fede in un’entità superiore custode
della giustizia, che la capacità dell’uomo di farsi garante con la ragione della legge.
Secondo Carrara, amministrare in modo pieno la giustizia è compito di Dio, mentre,
per l’uomo, l’unico itinerario percorribile è difendere quella collettività nata con lui. In
tale ottica, il diritto penale assurgerebbe a difensore dell’uomo e di quell’ordinamento
assoluto che ha il suo ultimo referente in una visione spirituale del diritto. Molteplici
sarebbero le implicazioni: a) la metodologia proposta non punta ad approfondire la
funzione della pena come processo migliorativo dell’uomo che è custode di una verità;
b) rimane senza risposta la domanda in ordine a quale legge ideale possa essere supe-
riore all’uomo.
L’analisi del Carrara, da molti considerata legata ad un pensiero giuridico ormai
datato per essere identificata come criterio di ricerca, ha lasciato, comunque, aperto un
fervido dibattito. In primo luogo, il reato viene definito, in modo chiaro, quale ente
giuridico, e, dunque, viene salvaguardata l’autonomia della ricerca giuridica; da una

35
Criminologia ed elementi di criminalistica

cognizione certa del diritto, si procede alla deduzione di tutti gli altri corollari legali,
ed anche quella della minore età (esimente). In secondo luogo, si rappresenta la non
completa esaustività delle leggi positive, e al contrario, è prospettabile una legge supe-
riore che non vada mai a ledere, ad esempio, con pene superiori alla gravità del reato, la
natura e la dignità dell’uomo. Ciò ha come conseguenza che lo jus positum possa essere
oggetto di critica rispetto alla legge naturale, quando esso giunge a deprezzare l’uomo,
che, almeno in questo caso, torna ad essere baricentro. Per concludere, la Scuola Classi-
ca opera una scissione tra ciò che la legge giuridica, come quella morale, disciplina, (ad
esempio, un individuo dotato di intelligenza e capacità di scelta), e ciò che invece è di-
sciplinato dalle leggi fisiche e naturali. Queste due dimensioni non potranno mai dive-
nire coincidenti, o almeno interferire tra di loro, perché il soggetto giuridico, pienamen-
te imputabile, è in grado di scegliere di infrangere, o meno, le norme giuridiche.

2.4 Il crimine: primi approcci statistici e sociologici


I primi studi statistici impiegati per l’approccio scientifico allo studio delle feno-
menologie criminose iniziarono a mettere in crisi, intorno alla metà del secolo XIX, la
concezione del reato quale astratta entità di diritto.
La natura di tali studi era di carattere sociologico, essi puntavano ad approfondire
la dimensione sociale nella quale l’uomo era inserito. Lo spazio sociale, pertanto, veni-
va considerato il luogo dell’agire criminoso di quegli individui che ponevano in esse-
re azioni devianti; queste ultime, però, non venivano più considerate come il natura-
le prodotto, come si riteneva in passato, di sporadici comportamenti. Il belga Quételet
(1796-1874) ed il francese Guerry (1803-1868), appellati, più tardi, come statistici mo-
rali, fondarono la Scuola cartografica o geografica franco-belga, e, nel secolo XIX, con-
dussero alcune ricerche sulla distribuzione della devianza, in relazione a fattori fisici e
geografici. Il sesso, le professioni, l’età, il grado di istruzione, il ceto, la razza, così co-
me le condizioni economiche, costituirono le variabili per studiare il crimine, anche in
termini di prevedibilità statistica.
Quételet, ad esempio, sosteneva il principio secondo cui le leggi che governano la
società sono fisse e immutabili, come quelle che governano i corpi celesti ed esistono fuori dal
capriccio degli uomini.
I risultati cui pervennero Quételet e Guerry, di grande interesse sociologico e crimi-
nologico, mostrarono, nel tempo, una relativa omogeneità, sia in ordine alle diverse ca-
tegorie dei c.d. fatti delittuosi, sia alla costanza della loro diversa distribuzione fra le va-
rie classi della popolazione. Il crimine, pertanto, veniva studiato, adesso, in rapporto
alle condizioni sociali. Inoltre, la prevedibilità statistica dei reati, venne successivamente
dimostrato, può essere ritenuta valida solo nell’ambito di spazi temporali e in condizioni
macrosociali stabili.
In questa fase, dove prevaleva l’interesse delle scienze criminali classiche di matrice
antropologica, E. Durkheim (1858-1917) ripropose il problema del delitto, non con-
siderandolo più come espressione di una patologia da individuare e sulla quale interve-
nire, ma teorizzando nuovi modelli interpretativi.

36
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

Nello scritto dal titolo Le regole del metodo sociologico, l’autore approfondisce il de-
litto nel capitolo Le regole relative alla distinzione fra normale e patologico, in cui egli af-
fronta la dimensione del delitto mediante i concetti biologici di disfunzione e patologia,
spiegando, altresì, che il delitto debba essere considerato come fatto normale e, pertanto,
funzionale all’esistenza stessa dell’ordine sociale. Queste ultime teorizzazioni si scontra-
vano apertamente con le teorie dominanti in un’epoca di positivismo imperante e di let-
tura dei conflitti che percorrevano la società (di cui il crimine era un’espressione).
Durkheim giunge ad affermare che il crimine non ha nulla di morboso, e la pena
non può avere lo scopo di guarirlo, quindi la sua vera funzione deve (...) essere cercata altro-
ve, indicando questa funzione nella sua capacità di produrre solidarietà, essendo la pe-
na stessa espressione dell’esistenza di un ordine sociale.
Va sottolineato che per la prima volta dallo sviluppo del pensiero positivista e dal-
la formalizzazione delle scienze umane e sociali, vi sia stato chi, studiando e approfon-
dendo il crimine, non lo affronti quale fenomeno patologico individuale, ma ne sottoli-
nei i caratteri della normalità e della funzionalità per l’ordine sociale stesso: il crimine ed
il diritto penale che lo definisce altro non sono che l’espressione delle demarcazioni mo-
rali di una data società.
È importante notare come tali teorie abbiano lo scopo di evidenziare nuovamente
la sostanza normativa e convenzionale del fattore crimine, persa sostanzialmente a cau-
sa del ricorso alle simbologie di cui le scienze umane e sociali si servivano ampiamente
nella fase del loro primo sviluppo. Attraverso Durkheim, pertanto, il problema del cri-
mine ritorna ad essere un dilemma strettamente legato alla situazione storica delle so-
cietà del tempo, in cui il progressivo frazionamento (o divisione sociale) del lavoro ral-
lenta i legami sociali, facendo perdere di vista, al singolo individuo, il continuum che
lo lega alla società, aumentando, al contempo, i conflitti e gli antagonismi. Tutto ciò è
il risultato di anomia, (cioè assenza di norme), disinteresse per l’ordine sociale e per le regole
di condotta che implica. Il diritto penale si configura, pertanto, quale unico ed efficace
strumento per punire gli scostamenti dall’ordine stabilito e rinvigorire la coscienza col-
lettiva sociale, lesa dall’infrazione.
Non poche, nel merito, le critiche mosse a Durkheim: innanzitutto, nell’impian-
to teorico sulle funzioni del diritto penale, egli, pur individuando nell’anomia il pro-
blema della deviazione individuale, ritiene già esistente una coscienza collettiva su cui si
dovrebbe fondare l’ordine sociale, dimostrando, così, un’eccessiva fiducia nella capa-
cità degli organismi intermedi (le corporazioni professionali) che, secondo il teorico,
avrebbero contribuito fattivamente a evitare fenomenologie anomiche, promuovendo
azioni socializzanti negli individui, in ordine ai valori espressi dalla coscienza comune,
nonché, porre in essere strumenti di mediazione nei conflitti. Il diritto penale, in tale
ottica, assurge a mezzo (seppur estremo) di socializzazione, al fine di reintegrare la co-
scienza oltraggiata dall’infrazione.
Quelli che Durkheim identificava come fattori accidentali della società, (l’anomia
e i conflitti) conferendo al diritto penale il compito di integrare la maggioranza sociale
non deviante, si rivelarono, successivamente, come fattori normali nello sviluppo del-
le società industriali.
Tutta l’opera di Durkheim è orientata ad individuare quella coscienza collettiva sul-
la quale erigere l’ordine sociale, obiettivo che, nella società in cui visse ed operò il socio-

37
Criminologia ed elementi di criminalistica

logo francese, difficilmente, sarebbe stato possibile raggiungere. La possibilità di rea-


lizzare una coscienza comune e di ritenere il diritto penale espressione di questa morale
condivisa furono oggetto di aspre critiche. Diversamente, sarebbe stato più appropriato
parlare di moralità dominante o di ordine morale dominante, che non di coscienza colletti-
va, rivolgendo lo sguardo, in particolar modo, all’elevato numero di conflitti che carat-
terizzavano le società del tempo, e tenendo presente come l’ordine giuridico prevalente
altro non fosse che una palese manifestazione di quegli interessi.
Gabriel Tarde ( 1843-1904) fu uno dei maggiori critici di Durkheim e definì la
sua opera eccessivamente realista. Tarde, definì alquanto limitativo circoscrivere i feno-
meni sociali a quelli che esercitano una costrizione, perché si sarebbero escluse tutte quelle
relazioni sociali fondate sulla cooperazione e sulla imitazione che non hanno nulla di co-
strittivo. Attraverso i suoi studi di archeologia criminale, Tarde mise l’accento sull’au-
mento dei crimini nel XIX secolo, determinato da un considerevole aumento della
prosperità collegata alle prime fasi del capitalismo e favorita dalla rivoluzione indu-
striale, contraddicendo quei principi teorici che, invece, identificavano nel pauperi-
smo la ragione fondamentale dell’esistenza dei delitti. Lo stesso Tarde, rappresentava
che, in precedenza, il sistema sociale era stabile e iniquo, ed era impossibile, per gli
appartenenti alla società, modificare il proprio status o proiettare sè stessi verso forme
migliorative; ciò era anche frutto di una mancata e generale sollecitazione al cambia-
mento, che, al contrario, li spingeva a una esasperante conservazione di valori e tra-
dizioni varie.
Se da un lato l’avvento della nuova prosperità aveva generato meccanismi di benes-
sere sociale, contribuendo alla produttività economica, dall’altro, però, era destinata,
inevitabilmente, a creare conflitti in nome delle aspirazioni e della instabilità sociale. In
tale contesto, la delinquenza iniziava a crescere esponenzialmente, poiché, strettamente
correlata alla nascita di nuove e fiorenti attività.

2.5 La Scuola Positiva


La nascita della c.d. Scuola Positiva, che si sviluppò nel XIX secolo, è essenzial-
mente legata ad alcuni fattori − ritenuti costitutivi − per l’avvio di questo nuovo indi-
rizzo teorico/criminologico.
Il primo fattore è identificabile nell’affermarsi del metodo di indagine induttivo-
sperimentale.
Il secondo è da individuare nella necessità di reagire contro l’affievolirsi della dife-
sa sociale per ristabilire un equilibrio fra garanzie individuali e garanzie sociali nel campo
della giustizia penale.
La Scuola Classica, è utile ricordarlo, lottava per rivendicare e proteggere i diritti
individuali contro i numerosi abusi e soprusi dell’autorità nell’amministrare la giustizia
penale. In questo panorama, la difesa sociale era stata particolarmente trascurata, tan-
to che il Frosali, così commenta: per i soggetti moralmente non imputabili, abbandonati
dalla giustizia penale anche se commettevano fatti di reato, non esistevano, al di fuori di
essa, provvidenze sufficienti alla difesa della società.

38
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

Il terzo fattore che contribuì a dare origine al nuovo indirizzo fu l’inefficacia dell’al-
lora vigente sistema penale per frenare l’esponenziale aumento del crimine.
Per la Scuola Positiva, il principio base per il quale si devono spiegare tutti i feno-
meni, fisici e psichici, individuali e sociali, è quello di causalità. Sulla base di tale as-
sunto, per i Positivisti, il delitto è il risultato, non di una scelta libera e responsabile del
soggetto, ma di un triplice ordine di cause: a) antropologiche; b) fisiche; c) sociali. Mentre
la Scuola Classica, come è noto, considerava il reato come ente giuridico astratto stacca-
to dall’agente, per la concezione Positivista, il reato è un fenomeno naturale e sociale, un
fatto umano individuale, indice rivelatore di una personalità socialmente pericolosa. L’at-
tenzione del diritto penale, pertanto, si sposta dal fatto criminoso in astratto, alla per-
sonalità del delinquente in concreto, dalla colpevolezza per il fatto, alla pericolosità sociale
dell’autore, intesa come probabilità che il soggetto, per certe cause, sia spinto a commettere
fatti criminosi.
Ciò equivale ad affermare che il principio di responsabilità individuale, adesso,
viene sostituito dal principio di responsabilità sociale.
Tale nuova teorizzazione rinforza il principio secondo cui non avrebbe più alcun
senso castigare con la pena il reo, perché fatalmente spinto da forze che agiscono dentro e
fuori di lui e, obiettivo dei provvedimenti repressivi, deve essere la difesa sociale; per cui,
coloro che delinquono devono essere sottoposti a misure di sicurezza che hanno lo sco-
po di prevenire nuove manifestazioni criminose, mediante il loro allontanamento dalla
società e, ove possibile, il loro reinserimento nella dimensione sociale.
Le misure individuate, al contempo, non devono essere proporzionate alla gravità
del fatto, ma alla pericolosità del reo e, nella loro applicazione, devono differenziare nella
forma, per adattarsi alle differenti tipologie psichiche del delinquente; devono, altresì,
essere indeterminate nella durata, e derogabili con l’esaurirsi della pericolosità. Tenuto
conto che anche i fattori psichici rispondono al principio di causalità (determinismo
psichico), il libero arbitrio (valutato quale illusione psicologica) non ha più alcun valo-
re. Sulla base di tale impianto teorico, la Scuola Positiva giunge fatalmente a negare la
stessa categoria dell’imputabilità e della distinzione fra soggetti imputabili e non imputa-
bili; e ciò in funzione di quanto sostenuto in ordine alla funzione della sanzione penale,
che servirebbe solo come mezzo per impedire la commissione di crimini; tale asserzione
non motiverebbe l’esclusione dalla sua applicazione degli autori di reato con problema-
tiche di natura psichiatrica.

2.6 Cesare Lombroso e gli studi sulla personalità del


delinquente
La criminologia, dal punto di vista storico, come è noto, vede i suoi albori nell’af-
fermarsi della cultura illuminista del XVIII secolo, ed in particolare con l’intellettuale
giurista italiano Cesare Beccaria; successivamente, nell’Ottocento, con lo sviluppo del-
le scienze empiriche, quali la sociologia, la psicologia e l’antropologia, nasce la Scuo-
la Positiva che si articola in due direzioni: lo studio dell’uomo che delinque, secondo
l’approccio medico-biologico dell’antropologia criminale, e lo studio sociologico del-

39
Criminologia ed elementi di criminalistica

le condizioni che favoriscono la commissione differenziale di reati in funzione del ce-


to sociale di appartenenza. È opportuno sottolineare che l’uomo, da sempre, ha cerca-
to di scoprire o capire l’altro o se stesso, mediante lo studio dei tratti somatici del volto;
all’origine tale disciplina era soprannominata fisiognomica, ovvero l’arte di interpretare
la personalità dell’individuo.
Antichissime sembrano essere le origini della fisiognomica, infatti, Platone e Ari-
stotele affermavano che il corpo era concepito come riflesso dell’anima e solo quegli studen-
ti il cui aspetto fisico suggeriva determinate capacità di apprendimento, venivano ammessi
alla scuola pitagorica. La teoria della correlazione tra anomalia fisica e degenerazione mo-
rale, può essere definita come l’importante paradigma della concezione greca del cosmo
e del bello e buono. Solo nel ‘500, con Leonardo Da Vinci, inizia la fase della c.d. fisio-
gnomica moderna, che vede il genio pittorico esprimersi muovendo dal presupposto se-
condo cui la fisiologia spiega le emozioni, mentre la fisiognomica i moti dell’animo.
L’approfondimento e lo studio dei moti dell’animo partendo dai tratti del volto,
compiuto dal grande artista scienziato, anticipa, con inconsueta chiarezza critica, un
fondamentale percorso di idee e di teorizzazioni che accompagna, da un lato, lo svilup-
po della scienza psicologica, fino alla fondazione della psicanalisi, e, dall’altro, il lavoro
dei pittori lungo il corso della storia occidentale.
Nell’Ottocento, in pieno clima positivistico, la fisiognomica raggiungerà l’apice,
sia nella pittura, con i Folli di Géricault e con le devastazioni fisiognomiche di Van Go-
gh (perfettamente informato sulla materia), che nella trattatistica scientifica, con le im-
portanti teorizzazioni dell’antropologia di Darwin e con la criminologia di Lombroso.
Il fondersi, sia dell’arte che della scienza, farà in modo che le stesse saranno cosí stret-
tamente unite, da non poter piú seguire percorsi autonomi. Cartesio, nel ‘600, indivi-
duava i moti degli occhi e del volto come tra i più importanti indizi delle passioni, come
anche gli svenimenti, il riso, le lacrime, i tremiti e i mutamenti di colore. È indubitabi-
le come allora ci si riferisse sempre alla lettura di sentimenti coscienti. È solo la fine del
‘700, che i segnali esterni di un individuo vengono interpretati anche come espressione
dell’insieme spazio-temporale e sociale nel quale l’individuo stesso è inserito.
Tutto ciò diede l’impulso a indirizzare le indagini scientifiche in direzione crimi-
nale. Già alla fine del diciottesimo secolo, Johann Kaspar Lavater, di origine svizzera,
aveva tracciato una teoria fisiologica denominata l’arte della fisiognomica, mediante la
quale cercava di individuare come le caratteristiche del volto di ogni individuo condu-
cessero a svelarne il carattere. In tale contesto, il Lavater, presentò il suo famoso Trat-
tato di fisiognomica, cui fecero, immediatamente dopo seguito, le teorizzazioni di Josef
Gall, in ordine alla c.d. frenologia, che partiva dall’analisi della forma del cranio che, se-
condo lo studioso, avrebbe potuto svelare le inclinazioni della persona. La fisiognomica e la
frenologia, pertanto, venivano congiuntamente applicate nello studio dei volti dei cri-
minali vivi o morti, nel tentativo di individuarne l’inclinazione al crimine, mediante
l’analisi scientifica delle caratteristiche somatiche ataviche. È solo attraverso gli studi di
Cesare Lombroso che la fisiognomica raggiungerà livelli scientifici altissimi. Nella sua
opera principale, L’Uomo Delinquente, Lombroso, operò la funzionale distinzione del-
la tipologia dei c.d. criminali: 1) il delinquente nato, nel quale si concentrano le citate
anomalie regressive e, per il quale, la criminalità è innata nella propria natura, tale, da
considerarlo quale soggetto non recuperabile, ma, al contrario, da sopprimere o da rin-

40
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

chiudere, in nome del diritto della difesa della società che, in questi casi, si sostituisce al
diritto di punizione. Il fulcro di questa teoria è che una certa percentuale di criminali,
dal 35 al 40%, sono nati con disposizioni criminali, e che in essi si possono accertare,
scientificamente, caratteristiche anatomiche e fisiologiche particolari; 1) il criminale epi-
lettico; 2) il delinquente per impeto passionale (forza irresistibile); 3) il delinquente pazzo
(criminale pazzo e debole di mente), inclusi gli individui di mentalità limitata (mattoi-
di); 4) il delinquente occasionale, proiettato al delitto da fattori causali diversi da quelli
del delinquente nato; su questa ultima tipologia di soggetti, il Lombroso ritiene debba
essere svolta un’opera di rieducazione in istituti carcerari ben organizzati.
Importante sottolineare come i primi tre di questi gruppi, abbiano tutti in co-
mune una caratteristica di natura psico-patologica. Lo stesso Lombroso definisce il cri-
minale nato come pazzo morale, e di fatto, la sua classificazione può essere ricondotta
alla principale distinzione tra criminali normali e anormali. Lombroso, inoltre, opera
una ulteriore suddivisione del gruppo dei delinquenti occasionali, in tre sottogrup-
pi: a) gli pseudo-criminali, cioè, individui che sono imputabili di un reato commesso
senza intenzione o sotto l’influenza di circostanze affatto eccezionali (autodifesa e si-
mili); b) i criminaloidi, cioè individui con una più mite variante del criminale nato;
c) i delinquenti abituali di tipo non anormale, inclusi molti appartenenti alle bande
criminali.
Inoltre, la criminalità femminile, secondo Lombroso, trova la sua massima espres-
sione nella mercificazione del corpo della donna.
Tra gli elementi che concorrono nell’attuazione dell’azione delittuosa, egli consi-
derò: i fattori meteorici, climatici e geologici, la razza, il tipo di alimentazione, l’alcooli-
smo, le condizioni culturali ed economiche, la religione, l’età e il sesso.
Dalle teorie lombrosiane, la criminologia moderna ha guadagnato un insieme di
saperi altamente scientifici, e la genialità del pensiero del medico torinese è ancora pre-
sente nelle pagine delle trattazioni del crimine. Lombroso aderì totalmente alle teorie
fisiognomiche, tanto da sostenere che, una mattina, in un nuvoloso giorno di dicembre,
nel teschio di un brigante trovò una lunga serie di anomalie ataviche analoghe a quelle che
si riscontrano negli invertebrati inferiori. Questo concetto, quindi, precorse, seppur par-
zialmente, l’evoluzionismo darwiniano.
Infatti, quasi nello stesso arco di tempo, una identica relazione tra fisiognomica e
antropologia, venne stabilita da Charles Darwin, il quale sostenne come alcuni tipi di
espressione, sia negli umani che nelle scimmie, fossero sempre e comunque determinati da fi-
nalità naturali, esprimendo, pertanto, un concetto che, opportunamente, operava una
scissione significativa tra mente e corpo.
Si deve ancora al genio lombrosiano l’intuizione secondo cui lo sviluppo embrio-
nale dell’uomo ripercorre la filogenesi, e in qualche modo, nel delinquente, questo sviluppo
può essere disturbato o interrotto.
Il lavoro scientifico di Lombroso si orientò, inoltre, a paragonare il criminale al
cosiddetto selvaggio, al primitivo, facendo discendere il crimine da un comportamen-
to naturale. Quest’ultima teoria etnologica, oggi improponibile, già nel 1800, venne
aspramente criticata da un altro autore contemporaneo, J. J. Rousseau, il quale propo-
se la teoria del buon selvaggio, giungendo ad affermare che solo il progresso e l’evoluzione,
potevano corrompere veramente l’innocenza primitiva dell’uomo. Comunque, nel clima

41
Criminologia ed elementi di criminalistica

del periodo ottocentesco, caratterizzato da un forte scientismo, dal bisogno nevrotico


di catalogare, di sistematizzare, di misurare, di schedare, l’antropologo Lombroso, rac-
colse, al fine di comprovare le sue teorie, un elevatissimo numero di prove e materiale
fisiognomico, specialmente di natura fotografica, in gran parte proveniente da viaggia-
tori e studiosi, e avvalendosi anche delle attività dei commissariati, specie per ciò che
attiene le foto segnaletiche.
Quindi, il Lombroso, utilizzò la fisiognomica, scienza antica che aveva costituito
la linfa per l’arte ed il mito, per esaltare la diversità di chi era già stato dichiarato reo,
per registrare le stigmate della diversità colpevole, per documentare scientificamente le
differenze.
Nell’ultima edizione aggiornata della sua opera L’Uomo Delinquente viene allegata
una raccolta fotografica, al contrario, invece, per quanto riguarda i suoi reperti, oggi,
custoditi nel Museo di antropologia criminale della città di Torino.
Il metodo fotografico - fisiognomico del Lombroso, costruito sul presupposto screzio
fisico - screzio morale, era finalizzato ad effettuare veri e propri ritratti per andare oltre il
solo aspetto fisico e mostrare, inoltre, lo spirito, l’indole ed il carattere del suo modello.
Ed è questo, sostanzialmente, l’obiettivo che il Lombroso si proponeva di raggiun-
gere nelle sue schedature fotografiche di soggetti considerati socialmente pericolosi,
nelle sue gallerie di ritratti che dovevano diventare, e così avvenne, per decenni, esempi
di riferimento per gli studiosi del crimine e per gli operatori di giustizia.
Nell’ambito della fisiognomica di inizio secolo si può, pertanto, parlare di veri e
propri ritratti lombrosiani; la fotografia segnaletica diventa, quindi, una sorta di im-
pronta facciale, successivamente perfezionata dal Bertillon, che aggiunge i c.d. connota-
ti, consistenti nella misurazione di segmenti ossei brevi: piede, mignolo, ecc, e il ritratto
parlato, caratterizzato dalla descrizione degli elementi facciali, al fine di risolvere il pro-
blema della identificazione dei criminali recidivi.
Umberto Ellero, fornì l’ultimo impulso a tale nuovo approccio tecnico-scientifico
ideando la c.d. doppia foto, realizzata, sia di fronte che di profilo, attraverso la contem-
poranea esposizione del soggetto a due macchine fotografiche messe, tra loro, ad angolo
retto e chiamate, appunto, gemelle Ellero. Successivamente, l’opera di Giovanni Morelli,
contribuì significativamente al recupero di altri particolari fisionomici, prima trascurati,
includendo anche gli sguardi; anche l’anamnesi medica entrò a far parte della schedatura,
assumendo quella valenza indiziaria, prima nella letteratura di genere con Conan Doyle
e poi con le tecniche indiziarie di Sherlock Holmes, fino a giungere nei tribunali.
L’avvento della psicoanalisi, nel ‘900, contribuì ulteriormente all’approfondimen-
to della fisiognomica, tanto da affermare che quello che è evidente copre, in effetti, quella
che è la vera realtà sottostante, ed esprimendo la necessità di indagare l’intimo dell’uo-
mo, per trovare la sua vera essenza.
Anche la criminalistica moderna risente, oggi, dell’esperienza degli studi fisiogno-
mici: si pensi al criminal profiling, cioè alla costruzione del profilo psicologico del sog-
getto - reo che rappresenta una componente essenziale dell’indagine investigativa. Vi è
da rilevare che da parte di numerosi studiosi del crimine, la dottrina lombrosiana, oggi,
rappresenta solo un mito e viene considerata come un insieme di teorie senza alcuna
valenza che vengono riportate, nella loro essenzialità, nei volumi di criminologia, come
una parte della storia di quest’ultima.

42
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

La teorizzazione lombrosiana ed il suo uomo delinquente, degenerato, naso schiac-


ciato, barba rada, cranio deforme, sono state definitivamente abbandonate, così come
la disciplina antropologia criminale, oggi, purtroppo, disattivata in quasi tutti gli Ate-
nei italiani. Va, comunque, ricordato che la Scuola di criminologia che ebbe origine dal-
la dottrina del Lombroso, prese il nome di Scuola Positiva, per manifestare la propria
incondizionata adesione ai metodi sperimentale ed induttivo, quali quelli utilizzati nelle
scienze naturali e sociali, contro quelli del ragionamento giuridico e deduttivo.
Tra gli aderenti alla Scuola, vanno annoverati Enrico Ferri (1856-1929) e Raf-
faele Garofalo (1852-1934), che erano fermamente convinti della profonda influenza
che sul comportamento criminale doveva avere la formazione costituzionale del delin-
quente individuale e l’ambiente a lui circostante, tanto da non riuscire ad ammettere
la possibilità che tutti i criminali, a parte quelli chiaramente insani di mente, potessero
essere considerati pienamente responsabili.
I Positivisti, erano, al contempo, convinti che esistesse una ampia gamma di ano-
malie mentali e di inadeguatezze che, pur non conducendo alla pazzia, influenzavano il
c.d. libero arbitrio del delinquente.
Ciò comportava che le sanzioni difensive della società nei confronti del crimina-
le dovevano scaturire, non in riferimento alla natura e alla gravità dell’atto compiuto ma,
tenendo in considerazione il suo potenziale aggressivo individuale, riaffermando, quin-
di, l’importanza della fisiognomica nella valutazione e nell’accertamento della capacità
delinquenziale.
Tale impostazione viene rafforzata dalle parola di Van Hamel che afferma: “la Scuo-
la Classica esorta gli uomini a studiare la giustizia; la Scuola Positiva esorta la giustizia
a studiare gli uomini”. Per ciò che attiene l’aspetto inerente il Diritto Penitenziario,
Lombroso, non richiese pene più severe. La sua teoria sostiene la tesi che per questa
categoria di criminali non esista il libero arbitrio nel delinquere, ma, semplicemente ed
esclusivamente, motivi insiti nella formazione biologica, fisica e mentale. Pertanto è op-
portuno insistere sul processo di rieducazione, con il fine ultimo di riabilitare il de-
linquente.
Da qui, l’obiettivo di creare manicomi giudiziari che garantiscano al tempo stesso
la cura del delinquente e la difesa della società, motivazione che sarà alla base del siste-
ma del doppio binario del Codice Rocco, nel momento della previsione delle c.d. misure
di sicurezza, abbinate alla pena classica.
Lombroso incentivò, comunque, nei casi meno gravi, le pene alternative al carce-
re. Nel progetto di organizzazione del manicomio criminale di Pesaro, scrisse, infatti,
nel 1872: “bisogna creare ai ricoverati un ambiente allegro, fornito di tutte le attrattive che
possono consolare e rendere dolce la vita, concedendo loro teatri, libri, musica e pittura; ecci-
tandone l’attività, dando libero sfogo alle loro tendenze artistiche e poetiche, con recite, con
esposizioni e soprattutto con un giornale manicomiale, per dare ai malati una tribuna ove
far conoscere i migliori loro squarci letterari”. I recenti studi di biologia e psicologia cri-
minale hanno, sotto diverso aspetto, fatto rivivere la teoria dei criminali predisposti e le
investigazioni statistico-antropologiche (E.A.Hooton), permettendo di sostenere l’esi-
stenza di accertate caratteristiche anatomiche in un grande numero di criminali messi
a confronto con gli individui normali che si attengono alla legge. Una importante ri-
visitazione degli studi investigativo-antropologici criminali è stata compiuta mediante

43
Criminologia ed elementi di criminalistica

una serie di misurazioni e analisi statistiche, dal prof. Ernest A. Hooton di Harvard, su
di una massa di americani.
La sua dottrina, neo-lombrosiana, sostiene che i criminali, in media, sono distin-
tamente inferiori in peso (anche dopo la correzione per le differenze d’età); essi sono
più piccoli di statura; la larghezza delle spalle, la larghezza e lo spessore del torace, co-
me pure la circonferenza della testa sono, in essi, minori; la loro altezza facciale è signi-
ficativamente più piccola come pure l’altezza del naso; i loro orecchi sono più corti, la
larghezza del naso maggiore, le orecchie sono più larghe in confronto della lunghezza e
la faccia più bassa in confronto della larghezza.
Per ciò che attiene i peli, le investigazioni, dimostrano che il gruppo dei criminali
ha probabilmente meno barba, meno peli sul corpo e più capelli. I capelli rosso/bruni,
sono più frequenti nei criminali che non nei non-criminali, e così pure il colore degli
occhi che sono, o molto chiari, o molto scuri.
La conclusione generale dell’investigazione, la quale contiene anche un certo nu-
mero di caratteristiche sociologiche, è che i criminali, considerati come insieme, sono
un gruppo di individui inferiori sociologicamente e biologicamente, e la loro inferiorità
fisica è soprattutto di natura ereditaria.
Tutto ciò premesso, probabilmente, condurrebbe ad un vero e proprio ritorno alla
fisiognomica lombrosiana che si basa sulla relazione esistente tra le differenti caratteri-
stiche fisiche di un individuo e la sua personalità.
Anche se le teorizzazioni lombrosiane sono state spesso, oggetto di critica, è co-
munque indiscutibile come ciascuno di noi, ogni qual volta si trovi di fronte ad un
nuovo interlocutore, tenti di intuire, istintivamente, se la persona che ha di fronte a
sé è cattiva o buona, sincera o antipatica, e così via. Ed è altresì innegabile come le
emozioni suscitate dalle esperienze di vita, spesso tragiche, di una persona, segnino
in qualche modo il suo viso, modificando i lineamenti del volto in un modo piutto-
sto che in un altro.
Da qui, l’intreccio della fisiognomica con la psicologia, laddove, entrambe, cercano
di intuire e dedurre, dal visibile, i moti più intimi dell’animo umano.
La fisiognomica, nelle sue tre linee distintive, assume significati diversi, e ciò in rap-
porto agli approcci volgare, mimico e scientifico utilizzato dagli studiosi della materia.
L’approccio volgare è caratterizzato dall’utilizzo dell’astrologia e della chiromanzia,
e l’aspetto simbolico-intuitivo viene espressamente enfatizzato e privilegiato. Nell’ap-
proccio mimico vengono messi in evidenza gli elementi della comunicazione non ver-
bale (tratti somatici, espressione corporea e facciale, segni del volto, tono della voce),
che sono ritenuti elementi rivelatori del carattere di una persona. L’approccio scientifi-
co, infine, ha l’obiettivo di seguire le teorie darwiniane e antropologiche.
L’impalcatura teorica di Lombroso verrà sostenuta, più tardi, dalla figlia Gina, dal
genero Ferrero, da Niceforo e Di Tullio, e anche dallo stesso Pende, malgrado la diffe-
rente posizione ideologica. La figlia Gina negli anni ‘20, si occupa di opere giovanili,
tra cui risalta, in particolare, La donna delinquente, dove viene rappresentata la ormai
famosa corrispondenza tra prostituzione e criminalità. Si legge, infatti: “l’identità, psico-
logica come l’anatomica, tra il criminale e la prostituta-nata, non potrebbe essere più com-
piuta: ambedue identici al pazzo morale, sono per assioma matematico eguali fra loro”. Gi-
na, comunque, non si occupa solo di riproporre i testi del celebre padre, ma rivolge la

44
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

sua attenzione alle difficoltà della condizione femminile, e si impegna nel promuovere
l’elevazione culturale e l’emancipazione sociale della donna.
Alcuni scienziati, sulla base di ricerche nel campo psicologico e neurologico, sono
giunti alla conclusione che, nelle persone che formulano idee creative, risulta partico-
larmente attiva la zona frontale del cervello che emette onde alfa da parte di entrambi
gli emisferi. Secondo la fisiognomica, inoltre, concorre ad ottenere un quadro più esau-
riente possibile dell’individuo, un complesso di informazioni sulle tre fasce del volto
che sono l’intellettiva, la sensitiva e la materiale; lo sviluppo maggiore di una fascia del
volto rispetto ad un’altra, ne determina una maggiore influenza sul temperamento. La
fascia intellettiva è costituita dalla fronte e indica ingegno, curiosità, fede negli ideali;
la fascia sensitiva è costituita dalla base del naso, tra le ciglia e le narici, e si configura
come un indicatore dell’emotività e della sensibilità dell’individuo; infine, la fascia ma-
teriale, localizzabile tra la base del naso e la punta del mento, esprime l’istintività e la
sensualità.
Per la fisiognomica, anche il colorito dell’individuo costituisce uno degli elemen-
ti chiave per l’analisi della personalità: un colorito pallido indicherebbe mancanza di
energia, malumore e pigrizia, mentre un colorito rosa acceso, esprimerebbe sensualità
ed estroversione; un colorito spento e grigiastro indica ipocondria, pessimismo e scar-
sa fiducia negli altri; infine un colorito che tende al giallastro è un segnale di forte ira-
scibilità, ma anche di ascolto verso l’altro e di lealtà. Ancora secondo la fisiognomica,
l’analisi delle singole parti del viso, fornisce preziose informazioni sulla personalità del-
l’individuo che si osserva: 1) una fronte molto alta indica la tendenza alla superficialità e
all’imitazione degli altri, mentre, se è molto bassa, indica scarso sviluppo intellettuale e
atteggiamento ipercritico; 2) una fronte proporzionata al resto del viso, esprime chiusura
mentale e forte senso di responsabilità, ma se è alta, e presenta un rigonfiamento nel-
la parte superiore, determinerà, in chi la possiede, difficoltà di concentrazione e stra-
vaganza. Secondo la fisiognomica, l’analisi della personalità di un individuo sarà tanto
più attendibile quanto più informazioni si avranno sulle varie parti del volto, non solo,
ma se è vero che ogni parte rappresenta una caratteristica di personalità, è altresì vero
che solo dall’interpretazione armonica dei vari elementi si potrà capire al meglio chi è
la persona che abbiamo di fronte. Meritano particolare attenzione alcune caratteristi-
che del mento e del naso: un mento aguzzo, indica vivacità intellettuale con tendenza al-
l’analisi e all’approfondimento; un mento tondo segnala creatività ed energia e capacità
di mettere a proprio agio gli altri; il doppio mento indica insicurezza, bisogno di prote-
zione e instabilità emotiva, mentre, se un mento è ben equilibrato con il resto del viso,
segnala grande tenacia.
Il naso è importante perché conferisce carattere al volto: il naso camuso (schiac-
ciato e largo alla radice), indica forte empatia e personalità affettuosa; il naso all’insù
indica instabilità emotiva e diffidenza; il naso greco (lungo e stretto) lascia intuire che
la persona sia molto sensuale, di animo buono e leale ma anche superficiale; il naso
aquilino indica forza interiore e grande carisma, energia e tendenza all’ira; il naso a
patata indicherebbe tendenza all’idealismo ma, anche, una certa predisposizione alla
tristezza.
La fisiognomica, si basa, inoltre, sull’analisi degli occhi e della bocca: gli occhi gran-
di, denotano tendenza al misticismo, avversione al materialismo e insicurezza; occhi

45
Criminologia ed elementi di criminalistica

piccoli indicano intuito, vitalità e furbizia; occhi rotondi segnalano creatività e bontà
d’animo, vivacità intellettuale; degli occhi all’ingiù, esprimono un animo romantico,
sensibile con tendenza alla depressione; gli occhi all’insù, indicano timidezza, introver-
sione e scarsa coerenza.
La bocca, si analizza attraverso le labbra: le labbra carnose indicano sensualità e
istintualità, nonché capacità di instaurare rapporti di coppia armoniosi; labbra sottili,
indicano introversione e tendenza al romanticismo, forte senso del dovere; un labbro
superiore sollevato con gengive in evidenza denoterebbe aggressività e scarso autocontrol-
lo, chiusura mentale; un labbro superiore ad emme, identifica un individuo con partico-
lare senso dell’ironia e tendenza al buon umore, estroversione e avversione per la mono-
tonia; le labbra a bocciolo, esprimono tendenza alla malinconia con instabilità emotiva
e poca sensibilità verso gli altri.
Altre importanti informazioni sul temperamento individuale si possono leggere,
secondo la fisiognomica, anche attraverso i segni della pelle, come i nei e le rughe di
espressione, segni, soprattutto questi ultimi che, derivando dalla mimica facciale, ren-
dono unico ed espressivo un volto, raccontando molto sulla vita intima della persona.
Altri teorici della fisiognomica hanno sostenuto che il volto rivela qualsiasi cosa ed è
possibile analizzare la personalità di un individuo attraverso l’osservazione del suo viso,
seguendo la tecnica dell’analisi facciale. È possibile, altresì, determinare attraverso i se-
gni del viso, persino la forma e le dimensioni degli organi sessuali maschili e femminili.
Esistono anche delle caratteristiche nell’analisi facciale che sono comuni sia agli uomini
che alle donne: se, ad esempio, l’angolo esterno dell’occhio presenta delle linee, queste
indicano forte inclinazione sessuale e disponibilità, caratteristiche che sono tanto più
intense quanto più sono profonde e numerose le linee.
L’esistenza di pieghe profonde ai lati della bocca, indica forte desiderio sessuale,
ed ancora, una persona con mento lungo, sarà in possesso di una forte spinta sessua-
le. Inoltre, la quantità delle caratteristiche che si combinano tra di loro, nonché la loro
intensità, contribuiscono a determinare la forza dell’inclinazione sessuale. In generale,
un volto ovale, sinonimo di perfezione estetica, indica un temperamento ipersensibile,
tendente alla dolcezza, creatività ma anche instabilità e timidezza; un volto quadrato,
indica grande forza interiore, un carattere energico e pratico, pazienza e determinazio-
ne; un volto triangolare, denota intelligenza brillante ma scarsa fantasia, mentre un viso
rettangolare o lungo, denota elasticità mentale, apertura alle novità, evoluzione intellet-
tuale, senso estetico.

2.7 La Scuola Positiva e i diversi contributi


L’impianto teorico lombrosiano, oggetto, come già evidenziato, di consensi e dis-
sensi, inaugurò una nuova Scuola di pensiero Positiva, finalizzata a studiare, in modo
più approfondito, la criminalità in generale e il crimine e il criminale, più in partico-
lare.
Enrico Ferri (1856-1929) e Raffaele Garofalo (1852-1934), il primo giurista ed il
secondo magistrato, rappresentano le figure più esclusive di questa nuova Scuola.

46
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

Garofalo, in particolare, appare più attento alla dimensione psicologica che sot-
tende la criminalità; Ferri, invece, volge lo sguardo alla dimensione sociale del delitto.
Garofalo, studioso di psicologia criminale, anche se sostanzialmente più vicino alle po-
sizioni teoriche lombrosiane, intitola, però, Criminologia, il suo saggio più noto, svin-
colando la sua opera dai risultati più espliciti della ricerca antropologico-criminale. An-
che per Garofalo, comunque, il delitto non è una mera convenzione definita dal codice
legale, come vuole fare intendere la Scuola Classica, ma è, piuttosto, un fatto naturale, il
cui concetto è ben presente nel buonsenso popolare. Scrive Garofalo: “il delitto sociale o
naturale è una lesione di quella parte del senso morale che consiste nei sentimenti altruistici
fondamentali (pietà e probità) secondo la misura media in cui trovansi nelle razze umane
superiori, la quale misura è necessaria per l’adattamento dell’individuo nella società”. Il ri-
ferimento alle razze superiori viene ritenuto indispensabile per non creare confusione
con quanto si verifica nei selvaggi, dove mancano quegli istinti altruistici che sono in-
vece considerati fondamentali nelle società più evolute.
In Garofalo, mentre natura e società si accatastano e convergono, il concetto di
istinto assume coloriture etiche, e con chiari riferimenti alla frenologia che vanno ben
oltre la generica spinta biologica che lo caratterizza; la statistica non è poi un semplice
strumento conoscitivo, ma si identifica piuttosto con la forma stessa del conoscere. Se-
condo Garofalo, i delinquenti possono essere distinti in due categorie: a) la prima, ca-
ratterizzata da assenza di senso morale; b) la seconda, delineata dalla presenza di istinti
morali deboli o latenti; pur prendendo atto, però, della mancanza dell’istinto pietoso
e di probità, e della sostanziale perversità, non esiste alcun tipo di conclusione, in as-
senza di un vero e proprio delitto. Garofalo ritiene, inoltre, che la natura dell’anomalia,
morbosa o meno, risulti indifferente in riferimento alle esigenze della società. Ciò che è
opportuno conoscere è se l’anomalia sia permanente e l’infermità incurabile o duratura
nella sua forma pericolosa nei confronti della società, ovvero, se vi sia speranza di mi-
glioramento e di cessazione degli impulsi criminosi.
Nel primo caso, non vi è alcun motivo per non trattare il pazzo come il delinquen-
te istintivo, cioè, eliminarlo assolutamente; nel secondo caso, si avranno, da una parte,
delinquenti affetti da psico-nevrosi, curabili nei manicomi, e, dall’altra parte, delinquen-
ti per occasione e per abitudine, che possono correggersi attraverso l’imposizione di un
nuovo genere di vita.
Tutto ciò condurrà al tema della pericolosità sociale che sostanzierà la legge del
1904 sui manicomi e sugli alienati.
Il pessimismo radicale di Garofalo deriva dalla convinzione che tutti i delinquen-
ti sono uomini psichicamente anormali, molti anche antropologicamente; e del resto se, in
condizioni analoghe, fra tanti uomini, uno solo delinque, si deve coerentemente de-
durre che il fattore primo del delitto è sempre individuale, e che senza di esso le spinte
occasionali rimangono inefficaci.
Il delitto, pertanto, viene fatto discendere da un’anomalia individuale, e che le in-
fluenze familiari e sociali siano ritenute poco attendibili. Anche il disagio economico,
interviene con modesta incisività, tanto che, il malessere individuale connesso, appare
scarsamente attribuito alla sproporzione fra desideri e mezzi per soddisfarli.
Il Garofalo, legato fortemente al sostanzialismo evoluzionista, sembra aver perso di
vista la complessità familiare, economica e sociale della vita. Il suo contributo più origi-

47
Criminologia ed elementi di criminalistica

nale è piuttosto da ricercare nella rappresentazione di quelle personalità delinquenziali,


avulse da ogni vibrazione affettiva, che, già individuate nella letteratura del ‘500, ricor-
rono ripetutamente nelle più recenti nosografie ottocentesche e novecentesche, dove si
discute, di sociopatici (soggetti che soffrono e fanno soffrire la società), di personalità
psicopatiche, e di individui con disturbi di personalità.
Al contrario di Garofalo (esperto di psicologia criminale), Enrico Ferri è invece ri-
tenuto il sociologo della Scuola Positiva. Per Ferri, il più ampio numero di delinquenti
è, infatti, costituito da quelli occasionali particolarmente influenzati da motivazioni
sociali, tanto che egli elabora una sorta di piano regolatore per prevenire e reprimere la
criminalità, tenuto conto, in particolare, dei problemi dei soggetti minorenni, dei ma-
lati di mente, dei tossicomani, e così via.
Grispigni, a proposito delle teorie del Ferri, chiarisce che la sociologia di quest’ul-
timo non deve essere intesa come una disciplina avente l’obiettivo di deresponsabiliz-
zare l’individuo per trasferire le sue responsabilità nella società, ma, piuttosto, come
momento legato all’esigenza dello Stato di tutelare la propria integrità. Ferri ritiene che
per un completo e valido approccio alla criminalità, lo studio della psicologia collettiva
dovrebbe essere il risultato della connessione fra la psicologia individuale e la sociolo-
gia, che ha il compito di analizzare la società nel suo insieme.
Il delitto, per Ferri, è sempre un fenomeno biopsicologico, legato tanto all’ambien-
te, quanto all’individuo, e che gli artefici di atti anti-sociali presentano un particola-
re temperamento criminale caratterizzato da una singolare personalità biopsichica che,
non potendo subire le condizioni di esistenza sociale del presente, cede all’impulsività
di un sistema nervoso degenerato, oppure squilibrato dal fanatismo.
Le teorizzazioni criminologiche del Ferri raccolsero ampi consensi: Nicola Pende,
uno dei rappresentanti più significativi del costituzionalismo italiano, scrive, appun-
to: “in Enrico Ferri, saluto il grande biologo e clinico dell’uomo delinquente, interprete, per
mezzo secolo, delle leggi dell’io incosciente, determinanti, sotto la spinta provocatrice del-
l’ambiente, quella acutissima malattia della nostra personalità che chiamiamo delitto”.
Il successo e l’incisività storica di Garofalo e di Ferri, fra i tanti teorici della Scuola
Positiva, sono anche il risultato ultimo dell’impegno profuso nell’ambito giuridico in
cui operano entrambi, con il conseguente allargamento di ambito, rispetto all’origina-
rio scenario lombrosiano, essenzialmente limitato dalla dimensione e dalle metodolo-
gie della scienza medica.
Intorno all’orbita della Scuola Positiva, maturano, comunque, approcci molto di-
versi che si riscontrano, da un lato, saldamente ancorati alla biologia, dall’altro, si proiet-
tano verso la sociologia politica, oppure, tendono a rivedere l’indirizzo ufficiale della
Scuola. Secondo Virgilio, ancorato su rigide posizioni lombrosiane, i pazzi ed i crimi-
nali, entrambi degenerati, sono associati da un fragile sistema nervoso e, in particolare,
del cervello. Se si rappresenta che il delitto ha un’origine morbosa, spetta alla medicina
il compito, sostanzialmente preventivo, di moralizzare la comunità civile; l’attribuzione
alla medicina di tale competenze, rappresenta una novità in termini assoluti, specie, se
si tiene in conto che le stesse erano coordinate dai giuristi e dalla Chiesa.
Altri importanti contributi vengono forniti da Colajanni e Pistolese, per ciò che
attiene il rapporto tra alcoolismo e delinquenza: pur tenendo conto dell’appartenenza
degli stessi all’area socialista e positivista, essi, affrontano detto rapporto in termini

48
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

palesemente polemici, rispetto alle teorie lombrosiane, nella loro classica formulazio-
ne. Per Colajanni, in particolare, alcoolismo e criminalità hanno infatti una radice co-
mune abbastanza semplice: la miseria con la carenza di educazione che la sostanzia. Per
estirpare questi mali è poi indispensabile, secondo Pistolese, la caduta del capitalismo:
“è il capitalismo che ha fatto l’alcool accessibile a tutti, perché a poco prezzo; è esso che lo
offre sovente in mille guise falsificato per l’ingordigia di maggiori guadagni da parte degli
speculatori”.
A Di Tullio, in particolare, si deve un noto trattato di antropologia criminale ag-
giornato con capitoli dedicati agli argomenti più recenti come l’endocrinologia. L’insie-
me delle teorie lombrosiane è ancora presente nel pensiero di Di Tullio, anche se non
si parla più di tipo delinquenziale, ma di personalità. Di Tullio, comunque, pur coscien-
te che l’antropologia criminale solleva numerosi e vasti problemi come quello del bene
e del male e quelli della libertà e della responsabilità umana, intende occuparsi solo di
delitto, inteso quale atto umano che va considerato e valutato in relazione al contesto
sociale dove viene consumato, prescindendo, in tal modo, da qualsiasi valutazione di
carattere filosofico. Di grande importanza, è poi ritenuto il rapporto con la psicopato-
logia, tanto più che ogni delitto è sempre l’espressione di un turbamento psichico.
Di Niceforo, si ricorda, invece, una imponente sintesi in merito ai contenuti e ai
dibattiti maturati attraverso il lungo itinerario della Scuola Positiva. L’opera di Nicefo-
ro, edita da Bocca in 6 volumi fra il ‘49 e il ‘54, si delinea come una sorta di riassunto
critico, dove vengono affrontati argomenti di carattere criminologico, da quelli biolo-
gici a quelli sociali e motivazionali.
Anche Pende, tomista in metafisica e costituzionalista in medicina, non è certo
lontano dalle influenze di Lombroso, specie, quando, per risolvere il problema relativo
alla sollecitazione di alcune aree encefaliche che possono provocare improvvisi focolai
di aggressività, propone interventi mirati di psicochirurgia per trasformare le turbe del-
l’umore che guidano il comportamento di alcuni criminali; a fronte di quanto soste-
nuto, riferisce il caso di un poveretto che aveva da molti anni fatto il giro di tutte le car-
ceri e che dopo adeguato intervento neurochirurgico poté essere trasformato in un pacifico
ed onesto lavoratore.
I contributi, sin qui descritti, testimoniano come l’opera lombrosiana sia stata effi-
cace, esercitando, nel tempo, vaste influenze nella cultura, indirizzando la pratica giu-
diziaria e psichiatrica, favorendo la ricerca, sia vincolandola a quanto è oggettivamente
visibile, che incoraggiando la statistica, in parallelo con la metodologia utilizzata. L’aver
promosso nuove tecnologie applicate allo studio del crimine, come la fotografia, che fa-
vorisce la documentazione realistica, sia in psichiatria che in criminologia, o aver fatto
comprendere il ruolo della statistica e della sociologia, sono solo alcune delle righe del
testamento culturale e scientifico di Lombroso.

2.8 La Nuova Difesa Sociale


Con la nascita della Nuova Difesa Sociale, si assiste al proliferare di una serie di
dottrine intermedie, che, se da una parte, mantengono alcuni dei vecchi principi, dal-

49
Criminologia ed elementi di criminalistica

l’altra, accolgono posizioni proprie dei positivisti. Lo scontro dottrinale più forte si
avverte con i rappresentanti della Scuola Classica.
Secondo Mantovani, il movimento che ha realizzato il maggior sforzo di sintesi è
quello della Nuova Difesa Sociale, movimento di pensiero che non sopprime la nozio-
ne di responsabilità, non nega le libertà dell’uomo né rifiuta la possibilità della punizio-
ne, ma fonda la politica criminale della difesa sociale sulla responsabilità individuale, la
cui realtà esistenziale viene assunta come la molla ed il motore essenziale del processo di
risocializzazione e torna ad essere la giustificazione profonda della giustizia penale.
Tra queste correnti criminologiche va segnalata la Terza Scuola, il cui obiettivo era
quello di mediare le posizioni delle due Scuole (Classica e Positiva), infatti, da tale ten-
tativo si origina il c.d. sistema del doppio binario, fondato sul dualismo della responsabi-
lità individuale-pena retributiva e della responsabilità sociale-misura di sicurezza.
In ordine, invece, al fondamento del diritto di punire, tale nuovo indirizzo rigetta
il principio positivista della responsabilità sociale, e si accosta alla concezione classica,
incentrando il diritto penale sulla responsabilità del fatto commesso con volontà colpevole e
sull’ imputabilità, ma fonda, quest’ultima, non sul concetto del libero arbitrio, piuttosto
sui concetti di sanità mentale e di normalità (determinismo psicologico).
Per tale principio, l’uomo determina le sue azioni che derivano dal motivo con-
scio più forte. Alimena, a tale proposito, sostiene che, se di fronte alla stessa offesa, uno
uccide ed altri no, ciò avviene perché l’uno vuole uccidere e l’altro non vuole: ciò acco-
muna le tesi dei liberisti e dei deterministi. Il problema di fondo rimane, perché biso-
gnerebbe chiedersi: perché vuole uno, e l’altro non vuole, uccidere? Perché in quel mo-
mento, nell’uno, l’idea omicida costituisce il motivo maggiore, e nell’altro no, e forse
non si è nemmeno presentata?
Evitando dispute filosofiche e psicologiche, molti studiosi di criminologia, han-
no cercato di rappresentare il concetto di imputabilità su basi anche empiriche, dando
corso alla nascita di nuove teorie. In particolare, è stato autorevolmente ritenuto che
la scienza del diritto penale sia in grado di spiegare il tema dell’imputabilità non con-
siderando quale sia la soluzione teorica da prestare al problema filosofico del libero ar-
bitrio. Secondo Antolisei, le fondamentali teorie che hanno cercato di superare l’anti-
nomia tra libertà e causalità sono quelle della normalità, dell’identità personale e della
intimidabilità.
Per la teoria della normalità, l’imputabilità rappresenta la normale facoltà di deter-
minarsi, per cui, imputabile sarebbe solo chi reagisce normalmente, cioè l’uomo sano e
maturo; pertanto, se manca la normalità, è mancante la ragione stessa del punire. Que-
sta teoria è stata sostenuta in particolar modo da Liszt e, recentemente da Nuvolone,
che opera una distinzione tra il concetto di normalità per il diritto penale, da quello pro-
prio della psicologia e della psichiatria. Se, secondo un indirizzo prettamente psicologi-
co, non esiste un discrimen esatto tra normalità e anormalità, e tale impianto si rinviene
nel nostro codice alla distinzione infermità/seminfermità, per il diritto è indispensabile
assicurare un confine al di là del quale inizia la c.d. follia.
Ciò non equivale a sostenere che i soggetti considerati capaci ai sensi del diritto
penale siano conseguentemente normali anche per le altre scienze. Pertanto, continua
Nuvolone, la normalità, per il diritto penale, è la facoltà di intendere gli oggetti della
percezione, con una mente non viziata da infermità, e a un livello di maturità corri-

50
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

spondente alla media di sviluppo caratteristico dell’età; la normalità è, altresì, la facoltà


di adeguarsi a tale rappresentazione.
Questa teoria non è comunque scevra da critiche, in quanto viene a questa conte-
stato che il concetto stesso di normalità, su cui essa si basa, è troppo relativo, soprattut-
to, se si considera, che la stessa psicologia moderna esclude che esso possa essere deter-
minato con esattezza. Deve essere inoltre osservato che tale teoria taglierebbe fuori dalla
pena una serie di delinquenti, come quelli abituali e professionali, che, soventemente,
presentano delle anomalie psichiche.
Per la teoria dell’identità personale (Tarde, Sabatini), invece, l’imputabilità, sostan-
zialmente, consisterebbe nella appartenenza dell’atto all’autore, per cui l’autore del fatto
sarebbe imputabile quando la condotta è corrispondente alla sua personalità, mentre,
sarebbe non imputabile, quando viene meno, nel soggetto, il potere di manifestarsi se-
condo il proprio Io, come avviene in caso di certe anomalie psichiche. Tale teoria pone
il problema dell’infermo di mente, in quanto si ritiene opinabile considerare l’azione di
quest’ultimo non rispondente alla sua personalità.
Per la teoria dell’intimidabilità (Alimena-Impallomeni-Vannini), l’imputabilità con-
siste nella capacità di essere intimiditi dalla minaccia della sanzione; per cui, chi non è
compos sui (come gli infermi di mente) non può essere sottoposto a pena, poichè non
sarebbe in grado di sentirne e di subirne la coazione psicologica.Tale tesi si scontra ine-
vitabilmente con la realtà, tenuto conto che i malati di mente ed i bambini, entro cer-
ti limiti, possono sentire l’efficacia intimidatrice dei castighi, mentre non si può certo
dire che tutti gli uomini subiscono l’intimidazione della pena.
Le tre teorie in questione, seppur dichiaratamente diverse tra loro, sembrano, co-
munque, aver in comune una identica caratteristica, infatti, ciascuna di esse, sembra
confondere il problema del fondamento dell’imputabilità, con quello dei criteri per de-
terminare, chi è imputabile e chi non lo è. Pertanto, pur non comprendendo di fondarsi
sul concetto di libertà di volere, dimostrano, altresì, di presupporlo, giacchè le distin-
zioni operate fra soggetto imputabile (normale o suscettibile di intimidazione) e soggetto
non imputabile (anormale o non suscettibile di intimidazione) presuppongono che il
soggetto possa agire in maniera diversa da come ha agito.

2.9 Il contributo marxista


Nel XIX secolo, il marxismo, contribuendo all’interpretazione della criminali-
tà, riuscì ad aprire nuovi e importanti scenari. Omettendo, in questa sede, di riferirne
i contenuti più strettamente ideologici e politici, appare importante indagare le teoriz-
zazioni di Karl Marx (1818-1883) e Friedrick Engels (1820-1895) a proposito del de-
litto. Nei loro approfonditi studi politico-sociali, essi sostengono che il delitto è una di-
retta conseguenza dell’apparato capitalistico e delle ingiustizie, degli squilibri e della grandi
disfunzioni del capitalismo del XIX secolo.
Ancora prima di Marx ed Engels, il nesso tra sistema economico e criminalità era
stato oggetto di interesse e di studio da parte di Saint-Simon, di Proudhon, di Blanqui,
i quali, avevano individuato elementi criminogenetici, nella natura stessa della società

51
Criminologia ed elementi di criminalistica

basata sulla proprietà privata, e caratterizzata da violenza e oppressione. È utile sottoli-


neare che gli autori menzionati non erano di matrice marxista, infatti, sostenevano che
solo attraverso l’associazionismo solidaristico e la rivendicazione dei diritti per mezzo del-
le lotte sindacali, fuori da ogni logica rivoluzionario-proletaria, si potessero abbattere le
disuguaglianze della società.
La criminologia di stampo marxista, invece, riteneva che i delinquenti non appar-
tenessero al c.d. proletariato rivoluzionario che attuava la lotta di classe per sconfiggere
il capitalismo, bensì ad una parte, definita di sottoproletariato, degradato moralmente e
misero, che non aveva acquisito coscienza di classe e che replicava alle ingiustizie sociali
mediante la ribellione, concretizzatasi nel crimine.
Di contro, un’utilizzazione complessa del marxismo emerge all’inizio del nove-
cento con A.W. Bonger.
Quest’ultimo, superando la denuncia delle responsabilità del capitalismo e della
ingiustizia sociale, mette in risalto come un sistema di produzione, basato sulla proprie-
tà privata e sul profitto, sia avverso allo sviluppo dei legami di reciprocità.
Ciò equivale a dire che il capitalismo, trasformando gli uomini in individui ancora
più egoisti, li predispone alle azioni delittuose. Il delitto, pertanto, secondo Bonger,
non è intimamente legato a nessun particolare sistema economico, ed è nato addirit-
tura prima del capitalismo, resistendo oggi, in sistemi socio-economici, totalmente
differenti.
La condotta criminale, è identificabile in un tratto costante di tutte le società: la
disuguaglianza. L’analisi porta a concludere che tutte le società hanno concepito cri-
minalità perché erano e sono società di dominanti che impongono, e di dominati che,
consapevolmente o meno, rifiutano tale imposizione; perché erano e sono sistemi so-
ciali che basavano e basano i rapporti interumani sullo sfruttamento; perché sono so-
cietà composte in maniera gerarchica e autoritaria che pronunciano leggi che tratteg-
giano gli interessi del vertice e ne difendono i privilegi.
In tale dimensione, si può confermare che la condotta antigiuridica non è preroga-
tiva esclusiva dei gruppi sociali che, rispetto al vertice, meno possono far valere i propri
interessi, e ciò con riferimento alle masse degli sfruttati, collocati nei gradini più bassi
della scala sociale. L’infrazione delle norme di legge diventa un atteggiamento non evi-
tabile, legato alla mobilità sociale anche di gruppi più vicini al vertice del sistema o al
vertice stesso, seppur in misura e con modalità differenti rispetto alla delinquenza degli
strati inferiori. In tutti i gruppi sociali, il crimine è presente come strumento normale
di mobilità all’interno del sistema. Il volto comune del criminale, abilmente costruito
dalla cultura dominante accettata dalla società, è quello di un sottoproletario, privo di
istruzione, e incapace di affermarsi socialmente, anche ai gradini più bassi del sistema.
L’immagine di questo tipo di delinquente è quella cui la cultura indirizza il disprezzo
comunitario, lo sdegno emotivo verso il criminale, la cui condotta antigiuridica viene
colta come antisociale.
La criminologia, comunque, nella prima metà del novecento, è permeata anche da
un approccio sociologico di impronta liberale: Shaw e McKai, appartenenti alla Scuola
di Chicago, analizzano la dimensione della criminalità quale espressione della disorga-
nizzazione sociale, derivante dal rapido seguirsi di regole di condotta in comunità prive
di identità culturali, e, come concausa del progresso industriale, gli autori sostengono

52
La criminologia tra diritto ed evoluzione della società

che la delinquenza, in aree laddove l’economia e la socialità sono quasi assenti, è trasfe-
rita agli appartenenti delle stesse aree o ai gruppi che in esse transitano, e ciò a causa
delle cosiddette sottoculture criminali.
Non meno calzanti risultano le teorie di Merton, che obiettiva i suoi studi socio-
logici sul concetto di anomia, inteso quale squilibrio tra le mete poste dalla cultura alla
società e i mezzi, di fatto, forniti dalla stessa per conseguirle.
Cloward e Ohlin puntano, invece, la loro attenzione sul ruolo esercitato, nel dive-
nire criminali, dall’appartenenza all’uno o all’altro gruppo sociale.
Anche se di impronta liberale, questi indirizzi sociologici fanno risaltare, al con-
tempo, gli sbilanciamenti presenti nella società capitalistica, ne affermano l’indiscuti-
bilità tale da definire come deviante colui che si allontana dalle regole, ponendosi co-
me obiettivo la reintegrazione di tali individui nell’ambito sociale; per tale motivo, la
criminologia viene definita criminologia del consenso.
Alla criminologia del consenso, si contrappose la criminologia del conflitto che, ri-
prendendo le teorizzazioni sociali e politiche marxiste, ripropose, in chiave rivoluzio-
naria, la soluzione delle problematiche relative ai conflitti di classe. La nuova corrente
di pensiero, che contava al proprio interno marxisti di tutta Europa facenti capo alla
National Conference (Inghilterra 1968), ed un gruppo italiano che faceva riferimento
alla rivista La Questione Criminale, prese il nome di criminologia critica. Questa si pro-
poneva di indagare, non sulle caratteristiche del criminale, bensì sulle ragioni per cui,
una data società, qualifica come devianti certe condotte. La devianza, secondo la crimi-
nologia critica, non è più espressione di inosservanza delle norme, ma viene intesa qua-
le conseguenza dell’oppressione della società capitalistica, che si limita a perseguire, in
particolar modo, le condotte delle classi subalterne, definendole illegittime.

53
CAPITOLO 3

I metodi e le fonti delle conoscenze


criminologiche

3.1 Metodi e fonti della ricerca criminologica


Kaplan (1964) sosteneva che la ricerca scientifica può essere definita come un pro-
cesso di osservazione deliberata e controllata.
I criminologi adoperano un vasto ventaglio di metodi e tecniche per valutare quan-
titativamente specie e dimensione della criminalità. I dati relativi possono essere raccolti,
sia svolgendo ricerche empiriche con strumenti di osservazione, o con lo studio dei casi,
sia studiando le statistiche ufficiali già costruite da altre fonti. In primis, occorre precisare
che non vi è un metodo scientifico, bensì vi sono diversi metodi scientifici, il cui scopo consi-
ste nell’ottenere conoscenze attraverso osservazioni obiettive. L’esigenza che le osservazio-
ni siano oggettive chiarisce l’importanza che gli scienziati attribuiscono alla validità dei
metodi di ricerca. Essi tentano di esprimere, accuratamente, le condizioni esatte in cui
sono state effettuate le osservazioni, in modo tale che altri scienziati le possano ripetere.
Quindi, il criterio di produzione di conoscenza scientifica è caratterizzato da una
serie di scelte ragionate che il ricercatore deve, di volta in volta, compiere. Non può cer-
tamente essere negato il fattore di soggettività, che non può essere cancellato, ma, che
può e deve essere reso esplicito. L’oggettività è, quindi, la caratteristica che contraddi-
stingue ciò che è scienza, da ciò che non lo è, ed è ciò che fa della scienza l’unico mezzo
universale per acquisire conoscenze, perché, sin dall’inizio, rifiuta di considerare ogni
fenomeno che non sia accessibile a tutti. La diversità dei metodi scientifici costituisce,
pertanto, il percorso più idoneo per il raggiungimento di verità probabilistiche e dispo-
nibili a possibili modifiche.
La formulazione dell’ipotesi rappresenta l’attività primordiale che va a definire il
campo di indagine, senza chiaramente assicurarne in anticipo i risultati, ed è basata su
problemi empiricamente verificabili. L’ipotesi, inoltre, non dovrebbe essere condizio-
nata da credenze, pregiudizi e ideologie del ricercatore, mentre lo è, in ogni caso, dal
suo background culturale e formativo; ha sempre carattere di provvisorietà.

55
Criminologia ed elementi di criminalistica

Una volta formulata l’ipotesi da dimostrare, le fasi successive si possono semplifi-


care nei seguenti punti:

a) analisi della letteratura sull’argomento di ricerca e commento critico dei risultati


conseguiti dalle altre indagini;
b) scelta del metodo da utilizzare, tuttavia influenzata, quasi sempre, dalla formazio-
ne del ricercatore (psicologo, sociologo, medico, giurista, ecc.), e dagli strumenti
(questionari, interviste, statistiche già rilevate, ecc.);
c) in relazione al metodo, l’approccio si identifica in due tipologie: quantitativo e/o
qualitativo. Il primo (quantitativo) tende a quantificare il fenomeno indagato e a
porlo in rapporto ad altri indicatori sociali; può essere esplicativo, mirando cioè a
spiegare perché si verifica il fenomeno studiato e perchè si correla con gli altri fat-
tori presi in esame, oppure descrittivo, cioè descrivere come esso si manifesta in un
determinato periodo storico distinguendone i molteplici collegamenti;
d) il secondo (qualitativo) si pone l’obiettivo di studiare le caratteristiche, le similarità
e le connessioni logiche e funzionali fra i fenomeni osservati. Si applica sia a fatti
complicati considerati nella loro unicità, sia a pochi casi, come in campo clinico
(per es.: studio dei casi) o sociologico (per es.: storie di vita);
e) è comunque, sempre, preferibile svolgere preliminarmente uno studio pilota, uti-
lizzando lo strumento di rilevazione prescelto su di un numero limitato di casi per
controllarne la funzionalità e graduarlo sul campo, ciò al fine di evitare, nel futuro,
un eccessivo dispendio economico e di energie; è il caso di una ricerca quantitativa
con lo strumento del questionario: la distribuzione di esso a un numero limitato di
soggetti consentirà di accertarne la chiarezza e di modificarne le domande, se in-
comprensibili o inadeguate, prima di stamparne un’elevata quantità di copie (con
i relativi costi) e ottenere risultati di scarsissimo interesse o inutilizzabili;
f ) la raccolta dei dati, attraverso lo strumento adottato: questionari, interviste, colloqui
clinici, se fonte informativa sono le persone; schede di rilevazione, se si opera su
materiale cartaceo (per es. fascicoli giudiziari o penitenziari, materiale peritale);
statistiche già rilevate, se si studiano dati ufficiali. Comunque, va sottolineato che,
soprattutto nella ricerca criminologica, l’accesso ai dati presenta non poche diffi-
coltà legate, ad esempio, alla diffidenza dei soggetti, alla riservatezza delle informa-
zioni, nonchè alla non omogeneità del materiale;
g) l’elaborazione dei dati segue dopo la codifica e la computerizzazione degli stessi.
Nel caso l’indagine si svolga su una casistica limitata, l’elaborazione può avvenire
manualmente. Questa fase comporta l’utilizzo di tecniche statistiche per misurare
il fenomeno in esame e quelli correlati: rapporti di coesistenza, composizione e
derivazione, numeri indici, valori medi, variabilità e analisi della varianza, interpo-
lazioni e così via;
h) i dati elaborati, vengono poi condensati attraverso rappresentazioni di natura car-
tografica con tabelle, ortogrammi, istogrammi, grafici secondo il metodo cartesia-
no, diagrammi in scala logaritmica, cartogrammi, torte, ecc.. La rappresentazione
grafica dei fenomeni ha lo scopo di rendere il contenuto dei dati più visibile;
i) la fase finale della ricerca, è rappresentata dall’interpretazione dei dati, che deve
essere eseguita in maniera obiettiva e senza forzare le risultanze ottenute.

56
I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche

La spiegazione dei nessi causali tra il fenomeno osservato (devianza o criminalità)


e gli altri fattori sociali o individuali deve realizzarsi attraverso la generalizzazione em-
pirica, cioè secondo proposizioni che mostrano come in un certo tempo e in un certo
luogo alcuni fenomeni si verifichino. Attraverso la serendipity si vuole indicare la utiliz-
zazione del dato nuovo, non previsto nell’ipotesi di ricerca, che introduce un rapporto
non direttamente osservabile e supera l’aspetto constatativo della generalizzazione, per
raggiungere un livello più alto di tipo teorico, riferibile a entità ipotetiche, a costruzioni
logico-deduttive. L’indagine criminologica, permette, pertanto, di passare dal momen-
to constatativo al momento teorico-scientifico, che stabilisce leggi generali e teorie va-
lide in ogni tempo e in ogni luogo.
L’indagine successiva, risulta assolutamente necessaria per verificare i risultati di una
ricerca che dovrebbero tradursi in ipotesi di partenza di un nuovo studio. Va sottolinea-
to che i risultati della ricerca devono restare integri e non devono subìre manipolazioni
decretate da preconcetti e ideologie del ricercatore, o dovute a difformità rispetto al-
l’ipotesi e all’impostazione teorica preliminare. In altre parole, la validità di una ricerca
empirica è strettamente legata all’onestà intellettuale del ricercatore.

3.2 La ricerca di tipo quantitativo


Gli anni settanta ed ottanta si sono contraddistinti per quel generale potenzia-
mento nel campo metodologico della ricerca, specie per ciò che riguarda l’applicazione
del metodo statistico.
L’applicazione quantitativa richiede che, una volta formulate le ipotesi da sottopor-
re a verifica, venga effettuata una serie di operazioni allo scopo di rendere quantifica-
bili le osservazioni stesse, anche in previsione dell’elaborazione statistica. Il primo step
utile riguarda il c.d. campionamento, che consiste nell’operare una selezione di perso-
ne o situazioni oggetto d’indagine. Le indagini campionarie permettono, pertanto, di
rintracciare alcune caratteristiche su un gruppo ristretto; quest’ultimo deve, però, rap-
presentare la totalità di una popolazione e deve essere rappresentativo.
La rappresentatività è offerta dal metodo probabilistico di campionamento in cui tut-
te le unità che compongono la popolazione hanno uguale probabilità di essere selezio-
nate. Questa metodologia è, comunque, applicabile solo in presenza di un universo, per
il quale sia possibile valutare l’ammontare, e per il quale possa essere predisposto un
elenco numerabile. La statistica insegna che in presenza di universi ampi è opportuno
ricorrere ad un campionamento a grappolo o a un campionamento stratificato, metodi,
che si basano su tecniche di suddivisione della popolazione in sottopopolazioni, da cui
vengono estratti diversi sub-campioni rilevati in base ad alcune variabili, ritenute rile-
vanti per la specifica indagine.
Nel caso in cui, per svariati motivi, i metodi sopra descritti non fossero applica-
bili, il ricercatore potrà avvalersi del campionamento definito non probabilistico, che
prevede la selezione di un campione sulla base della conoscenza diretta della popola-
zione, ovvero potranno essere inseriti coloro che si dichiarano disponibili o segnalati
da esperti del settore.

57
Criminologia ed elementi di criminalistica

3.3 La ricerca di tipo qualitativo


Le metodologie di tipo qualitativo sono state ampiamente utilizzate nell’ambito
della ricerca criminologica, si pensi all’applicazione nel campo clinico o in quello so-
ciologico.
La stragrande maggioranza di coloro che si dedicano alle ricerche è orientata nel-
l’utilizzo del metodo qualitativo, considerato più adatto a rappresentare il crimine e la
relativa complessità, basandosi sulla ricerca di connessioni logico-funzionali e di simi-
litudini, in ordine ai fenomeni oggetto di studio.
Una prima distinzione con le metodiche di ricerca già evidenziate consiste nel fatto
che l’applicazione del metodo qualitativo implica la produzione di dati, non sotto for-
ma di numeri, bensì di parole; ciò equivale a dire, che i dati qualitativi sono ridotti a
categorie o temi valutati in modo soggettivo. La dimensione della soggettività nell’am-
bito della ricerca e le problematiche connesse non rappresentano, di certo, una novi-
tà, poiché è altamente probabile che l’influenza soggettiva del ricercatore possa alterare
l’osservazione.
La metodologia qualitativa parte da tre assunti fondamentali: a) una visione olisti-
ca, attraverso la quale si cerca di comprendere, nella loro interezza e complessità, i feno-
meni; b) un approccio induttivo, che fa sì che la ricerca parta da osservazioni specifiche
per poi spostarsi verso schemi generali, derivanti dai casi studiati; c) l’indagine naturali-
stica, che consiste nel comprendere, naturalmente, la fenomenologia generale.
Si annoverano i seguenti approcci: fenomenologico, ermeneutico, etnografico.
Le ricerche fenomenologiche hanno l’obiettivo di chiarire e descrivere i significati
dell’esperienza umana; gli strumenti utilizzati nell’ambito di tali ricerche è supportata,
solitamente, da interviste o conversazioni, durante le quali, andando oltre le descrizioni
offerte dagli individui circa il vissuto, si punta a giungere alle strutture che sottendono
la coscienza. Particolarmente importante risulta essere il rapporto con il soggetto da un
punto di vista empatico.
L’approccio ermeneutico, proprio per la sua complessità, risulta scarsamente appli-
cato nel campo della ricerca sociale. Si basa sul presupposto che una specifica attività
può essere compresa solo se si comprende il contesto nel quale si sviluppa; metodologi-
camente, i dati vengono forniti, prima, al ricercatore, il quale, in uno studio di natura
fenomenologica, provvederà a creare il racconto trascritto che, solitamente, è stato ot-
tenuto intervistando i partecipanti soggetti.
L’approccio etnografico comprende descrizioni di natura antropologica e ricerche
naturalistiche. L’attività di ricerca si sostanzia nella comprensione, ad esempio, di par-
ticolari aspetti di un gruppo, al fine di ottenerne, successivamente, informazioni più
dettagliate. Il ricercatore, penetrando sempre più nella dimensione dell’oggetto di stu-
dio, dovrà, però, mantenere un adeguato distacco. I dati ottenuti vengono annotati su
un diario di ricerca.
Occorre innanzitutto precisare che, in campo criminologico, si ricorre a svariati
metodi d’indagine; la scelta di una specifica metodologia è influenzata innanzitutto
dagli scopi che il ricercatore si prefigge. Il processo della ricerca non è lineare, bensì si
configura come un ciclo di passi ripetuti nel tempo. Il punto di entrata più comune è
rappresentato da una qualche forma di osservazione empirica. Il ricercatore sceglie un

58
I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche

argomento da un infinito insieme di argomenti, in seguito, attraverso un procedimen-


to induttivo, formula una proposta di ricerca. Il passo successivo, consisterà nello svi-
luppare in modo compiuto la proposta, enunciandola sotto forma di affermazione che
stabilisce una relazione tra due fenomeni. Dato che l’asserzione è valida solo nell’am-
bito di una specifica struttura teorica, spetterà al ricercatore il compito di spiegare tale
proposizione, alla luce di un più vasto sistema teorico.

3.4 Altri strumenti applicati alla ricerca


a) le statistiche di massa

Le statistiche di massa esprimono, in numeri, l’osservazione di fatti; privilegiano lo


studio di fattori macrosociali di generale influenzamento, e non consentono l’identi-
ficazione di fattori causali e l’evidenziazione di condizioni microsociali o personali si-
gnificative. Tale metodo risulta essere indispensabile per la conoscenza dell’estensione
del fenomeno criminale e per l’espressione delle sue caratteristiche più generali, quali
diffusione, frequenza, modificazioni quantitative e qualitative, distribuzione qualitati-
va in ordine al tipo di reati, qualità e gravità delle sanzioni, e così via.
La statistica di massa si limita, in genere, a una descrizione fenomenologica della
condotta criminale. Può usufruire di dati, pervenuti dagli organi della magistratura o
da quelli della polizia, che possono essere considerati in funzione di numerose variabi-
li (sesso, età, tipo di reato, occupazione, stato civile, razza, religione, ecc.). La statisti-
ca criminale può contenere numerose cause di errore, sia riguardo la validità dei dati,
dovute all’imprecisione o non attendibilità delle fonti, sia per ciò che concerne l’inter-
pretazione dei dati in genere, se la tecnica statistica non viene correttamente applicata.
La principale causa di errore insita nella statistica di massa è legata al fatto che i dati
ufficiali (reati denunciati alla magistratura, denuncie formulate dagli organi di polizia,
provvedimenti penali istruiti contro gli autori, statistiche sulle popolazioni nelle carce-
ri, ecc.) non possono, ovviamente, tener conto della statistica occulta, rappresentata dai
reati effettivamente commessi, ma non scoperti. Il numero oscuro (dark number) indi-
ca, quindi, la differenza tra la criminalità effettivamente presente in un certo contesto
sociale, e quella che invece risulta dichiarata e perseguita dagli strumenti costituzionali.
Esso invalida, in modo più o meno rilevante, le statistiche sulla criminalità. L’indice di
occultamento (rapporto fra reati noti e quelli commessi) è influenzato da innumerevo-
li fattori, tra i quali:

- caratteristiche del reato: alcuni crimini è più difficile che passino inosservati (omi-
cidi), rispetto ad altri di cui spesso non se ne ha neppure notizia (truffe);
- atteggiamento della vittima: una delle fonti dalla quale emerge la conoscenza dei
delitti commessi è la denuncia della parte offesa, ma non tutte le vittime (o testi-
moni) rendono di dominio pubblico il danno subito;
- atteggiamento degli organi istituzionali: le iniziative di questi ultimi rappresentano
un’ulteriore fonte per l’evidenziazione dei fatti delittuosi. Spesso, però, queste in-

59
Criminologia ed elementi di criminalistica

dagini finiscono, per motivi contingenti o di scelta, col privilegiare un settore o un


gruppo sociale piuttosto che un altro. Significativo, a tal proposito, è il riferimento
alla delittuosità dei colletti bianchi, caratterizzata da un alto indice di occultamento,
incrementato, in parte, dal mancato controllo da parte delle forze istituzionali;
- qualità dell’autore del reato: fattori quali ceto sociale, razza, stato civile, nonché
livello di professionalità del criminale, influenzerebbero la scoperta o la denuncia
del crimine. In ogni caso, queste considerazioni dovrebbero far desistere dall’attri-
buire significato di causalità alle indagini statistiche, nonché dall’arbitraria genera-
lizzazione dei risultati.

In conclusione, il campo della delittuosità reale è molto più ampio di quello che
convenzionalmente si ritiene, coinvolgendo larga parte della popolazione, e interessan-
do gran parte dei gruppi sociali.
Per crimine si intende qualunque fatto previsto dalla legge come reato che si ma-
nifesta, peraltro, con modalità differenti in funzione della posizione sociale e dei vari
status. Mentre i delitti che costituiscono la delittuosità convenzionale sono, statistica-
mente parlando, appannaggio dei gruppi sociali più squalificati, gli altri gruppi socia-
li commettono reati di diversa natura, che sono in genere quelli meno perseguiti. Co-
sì, ad esempio, un giovane immigrato manifesterà la sua indifferenza verso le norme,
rubando o rapinando in modo convenzionale, mentre il borghese disonesto, esplicherà
la propria antinormatività in settori suoi propri, nelle frodi del commercio, nella cor-
ruzione, e così via. Questi delitti non convenzionali avranno, però, la caratteristica di
comparire nelle statistiche redatte, sulla scorta dei soli delitti perseguiti e giudicati, in
modo poco rilevante rispetto alla loro entità, ingenerandosi, perciò, la erronea convin-
zione che i veri delitti sono quelli convenzionali, e che questi ultimi siano molto più
diffusi degli altri.

b) il metodo sperimentale

Come nel campo delle scienze cosidette esatte, anche in criminologia, si usa il me-
todo rigoroso della sperimentazione controllata. Esso consiste nel mantenere costanti
o controllati tutti i fattori e le condizioni che si ritiene influenzino i risultati dell’espe-
rimento, a eccezione della variabile o fattore ipotizzato come responsabile di deter-
minati comportamenti del soggetto sotto osservazione. Per esempio, alcune ricerche
criminologiche hanno focalizzato l’attenzione sullo sviluppo di diverse forme di tera-
pia farmacologica per ridurre l’aggressività e il comportamento delinquenziale dei mi-
nori. L’applicazione del metodo sperimentale in tale campo implica l’uso di due grup-
pi di soggetti.
L’uno, sperimentale o campione, l’altro di controllo. Entrambi, devono essere simili
per età, quoziente intellettivo, sesso, classe sociale e ogni altra caratteristica associabile
all’aggressività e al comportamento deviante. Al gruppo testato viene somministrato il
farmaco, mentre, al gruppo di controllo viene somministrata, senza che lo sappia, una
sostanza innocua, cioè un placebo.
Successivamente, vengono confrontati i differenti comportamenti aggressivi tra i
due gruppi. Vengono, infatti, svolte determinate misurazioni del comportamento ag-

60
I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche

gressivo dopo l’assunzione del farmaco e confrontate con quelle fatte prima del tratta-
mento per entrambi i gruppi. La riduzione delle spinte aggressive e delinquenziali nel
gruppo sperimentale o in una sua parte, confrontate con quelle del gruppo di control-
lo, potrà considerarsi perciò come l’effetto della terapia farmacologica studiata. Nelle
ricerche sperimentali, inoltre, la criminologia, prova varie ipotesi su come due o più
variabili siano correlate ad altre. Anche in questo caso, si mantengono costanti o con-
trollati tutti i fattori considerati significativi per il risultato dell’esperimento (variabili
dipendenti), tranne la variabile indipendente, ipotizzata come determinante il cambia-
mento del soggetto o il comportamento allo studio. Quindi, la ricerca sperimenta-
le, deve utilizzare metodi molto più complessi di altre, poiché i risultati ottenuti po-
trebbero essere dovuti anche a fattori completamente ignorati nella sperimentazione
che potrebbero influenzare, contemporaneamente, i cambiamenti rilevati. Sebbene ta-
le modello metodologico sia considerato come ideale ed estremamente rigoroso, il suo
utilizzo in criminologia è abbastanza limitato, in quanto, può risultare particolarmen-
te costoso in termini di tempo e di economia, soprattutto se il campione e il gruppo di
controllo sono molto numerosi.

c) le metodologie d’inchiesta

Nel metodo dell’inchiesta rientrano le tecniche dell’intervista o del questionario.


Esso permette di rilevare opinioni, atteggiamenti, valori, ecc., dei soggetti che fanno
parte del gruppo campione della ricerca.

d) la tecnica dell’intervista

I dati di ricerca si possono ottenere anche con il metodo dell’intervista.


L’intervista si basa sull’incontro di un soggetto, come un deviante, un detenuto o
una vittima di reato, con l’intervistatore, e può essere condotta faccia a faccia o per te-
lefono.
È una tecnica completamente diversa da quella del questionario, in quanto, que-
st’ultimo, è compilato in maniera autonoma dalle persone partecipanti, mentre l’in-
tervista è svolta direttamente da un intervistatore addestrato che pone le domande
preparate appositamente su una scheda dal ricercatore.
È chiaro che, in tal modo, aumentano considerevolmente i costi e i tempi della ri-
cerca, ma ciò è compensato dai seguenti vantaggi: 1) si elimina quasi completamente il
problema della non restituzione o del rifiuto; 2) si possono porre domande più perso-
nali; 3) l’intervistatore, può riformulare o spiegare in modo più chiaro alcune domande
evitando il rischio di fraintendimenti.
Entrambi gli strumenti, comunque, sono utilizzati sia per le ricerche sulla vitti-
mizzazione, che traggono informazioni dalle vittime del reato, sia per le indagini di au-
todenuncia o inchieste confidenziali, in cui si chiede ai partecipanti di descrivere le loro
attività criminali attuali e trascorse.
In ogni caso, e qualsivoglia strumento si utilizzi, per ottenere informazioni su una
larga fascia di persone definita come popolazione, è necessario selezionare un campione,
essendo impossibile indagare su ogni singolo soggetto.

61
Criminologia ed elementi di criminalistica

Il campione è, pertanto, un sottogruppo del contesto più ampio e deve essere rap-
presentativo di esso, il che significa che deve averne le stesse caratteristiche socio-demogra-
fiche (per es., in una ricerca sulle opinioni della popolazione di Palermo nei confronti
della tossicodipendenza, se il 25% di essa è costituita da soggetti di età superiore ai 49
anni anche il campione dovrà contenere la stessa percentuale di soggetti ultraquaranta-
novenni).
Va, infine, sottolineato che esistono due tipi di intervista: strutturata e semistrut-
turata.
La prima (strutturata) si basa, in effetti, sull’uso di un questionario che consente
di raccogliere sistematicamente un certo numero di informazioni di prima mano dalle
persone scelte per l’indagine. Il documento di base deve essere predisposto in modo ta-
le da soddisfare due esigenze fondamentali: trasformare in domande precise e specifiche
gli obiettivi della ricerca e prevedere l’elaborazione dei dati in rapporto a essi; coadiuvare
l’intervistatore nel preparare l’intervistato a collaborare.
L’intervista semistrutturata, invece, prende le mosse da uno schema di massima
con l’indicazione di aree tematiche obbligatorie. È informale in quanto all’interno di
tali aree, il colloquio si sviluppa in base anche alle risposte dell’intervistato, ed è utile,
soprattutto, per individuare fatti, credenze, sentimenti, criteri di azione, atteggiamenti
e comportamenti passati e attuali.
È, in effetti, dal punto di vista metodologico, molto simile al colloquio in profon-
dità, dove prevale la tecnica della non-direttività, definita anche del colpo di sonda (pro-
bing). Con essa, si provoca una reazione con una domanda-stimolo, posta con grande
apertura e calore comunicativo da parte dell’intervistatore, che consente al soggetto di
esprimere sentimenti e opinioni per i quali assume un atteggiamento difensivo.

e) la somministrazione del questionario

Il questionario è un piano strutturato di domande che consente di verificare le ipo-


tesi di ricerca; esso viene compilato direttamente dall’intervistato e, di frequente, viene
spedito a un campione specifico di persone considerate rappresentative (cioè aventi
determinate qualità o caratteristiche in proporzioni simili) rispetto a una popolazione
più ampia.
In criminologia si preferisce, spesso, utilizzare questionari, poiché meno costosi, in
confronto ad altre forme di raccolta di dati, e si possono ottenere informazioni da un
numero più elevato di soggetti (per es. cittadini, criminali condannati, vittime, ecc.),
in un tempo relativamente breve, con un minimo sforzo da parte sia del ricercatore sia
dell’intervistato.
Comunque, l’uso dei questionari presenta alcuni problemi; prima di tutto, il rifiu-
to di rispondere di una parte dei soggetti; chi ha commesso un reato o è stato vittima di
esso può non voler fornire informazioni personali, per diverse ragioni. È ovvio che ta-
le situazione produce serie conseguenze sui risultati della ricerca, che possono portare a
interpretazioni incomplete o distorte del fenomeno osservato. Un secondo problema è
costituito dal fatto che, a volte, un numero significativo di persone potrebbe frainten-
dere o non capire alcune domande che presentino difficoltà, sia per la loro formulazio-
ne, sia per la loro interpretazione. Molte altre questioni si pongono all’attenzione del

62
I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche

ricercatore nell’utilizzo dei questionari. Per esempio, molti soggetti preferiscono dare
risposte compiacenti, oppure, rispondono in modo differente alla stessa domanda po-
sta in momenti diversi (domanda di controllo sull’attendibilità); o, ancora, i pregiudi-
zi inconsci dello studioso potrebbero colorare le domande, in modo tale da giungere a
conclusioni predeterminate, senza valore scientifico.

f ) la ricerca longitudinale o catamnestica

Il metodo dello studio del caso consiste nell’analisi intensiva e approfondita di un


singolo individuo, di un gruppo, comunità o istituzione. Lo studio può essere svilup-
pato in un preciso momento storico o per un periodo di tempo (studio longitudinale).
Quest’ultima ipotesi permette di cogliere l’evoluzione di un fenomeno. Se è svolto in
retrospettiva (studio anamnestico), è molto utile per spiegare lo svolgimento delle car-
riere criminali; se è svolto in prospettiva (studio catamnestico), risulta particolarmente
significativo nell’analisi dell’efficacia delle misure di trattamento e recupero sociale dei
condannati.
I fattori considerati e gli strumenti utilizzati con questo metodo sono molteplici:
anamnesi familiare per conoscere i precedenti morbosi e le caratteristiche personolo-
giche e comportamentali dei componenti familiari (ascendenti e collaterali); anamnesi
personale di tipo medico; analisi costituzionale per confrontare soma e psiche; indagine
biografica per conoscere le modificazioni comportamentali e degli atteggiamenti; esa-
me psicologico, anche con l’uso di reattivi mentali; esame psicopatologico per individuare
eventuali patologie mentali; indagine sociale e familiare; osservazione comportamentale
nella fase di ricerca. Per esempio, la perizia psichiatrica, ordinata durante un procedi-
mento penale ai fini dell’accertamento dell’imputabilità e della pericolosità sociale del
soggetto, potrebbe essere considerata, a tutti gli effetti, uno studio del caso; tant’è che,
anche se lo scopo ultimo non è quello di ricerca, una o più perizie psichiatriche pos-
sono costituire un materiale fondamentale per lo studio di casi criminali (per es. serial
killer, pedofilo: Ponti, Fornari, 1997).
Tra le opere più famose in questo campo, si possono citare le numerose ricerche
svolte dai coniugi Glueck (1950, 1968) per individuare i fattori familiari-situazionali e
individuali più frequenti nei giovani delinquenti. L’analisi inizia con la comparazione - a
tappeto - di coorti di minori delinquenti (campione) e non delinquenti (gruppo di con-
trollo), nati nella stessa città e nello stesso anno, e frequentanti la stessa scuola, per poi
passare al raffronto di multicoorti dello stesso genere, ma nate in anni diversi, per di-
stinguere i fattori dovuti agli effetti della crescita da quelli derivanti dal periodo storico.
Un altro esempio classico di ricerca, fatta secondo lo studio del caso, è quello de-
scritto da Sutherland (1937) in The Professional Thief. L’autore intervistò un ladro pro-
fessionale e ottenne informazioni in profondità che sarebbe stato difficile avere con
altri metodi; studiò che cosa significasse essere un ladro professionale piuttosto che oc-
casionale, come esso si era organizzato, e come i soggetti di questo tipo comunicavano
e si collegavano fra loro. Certo le conclusioni cui era pervenuto Sutherland non posso-
no essere generalizzate.
Infatti, una delle critiche mosse al metodo dello studio casistico è che le informazio-
ni ottenute possono essere non corrette o errate, contenere opinioni personali o molto

63
Criminologia ed elementi di criminalistica

limitate. Nonostante ciò, diversi criminologi hanno continuato a utilizzare tale tecnica
anche per esaminare lo stile di vita di un singolo delinquente (Geis, 1968; Klockars,
1976; Steffensmeier, 1986).
Nel settore più strettamente sociologico, lo studio del caso si definisce anche storia
di vita, in quanto, descrive un tipo particolare ed emblematico di criminale o di car-
riera criminale, senza pervenire a interpretazioni o spiegazioni specifiche. In Italia, per
esempio, analisi di questo tipo sono state fatte su mafiosi, banditi, terroristi (Ghirotti,
1968; Vergani, 1968; Licausi, 1971; Marrazzo,1984).

g) la ricerca trasversale o cross-sezionale

L’inchiesta cross-sezionale è quella più diffusamente usata. Fornisce dati circa l’epi-
demiologia del delitto, ed entro certi limiti, sull’eziologia di un comportamento crimi-
nale. Essa comprende un campionamento di un insieme di individui o di gruppi, in
modo da poter generalizzare i risultati ad una più ampia popolazione (detenuti dimessi
dal carcere, studenti di scuola superiore, ecc.). Il campione è preso in un dato momen-
to, i soggetti vengono intervistati o sottoposti a questionario e i dati vengono analizzati.
Numerose critiche sono state rivolte a questa tecnica: in particolare, risulta difficoltoso
isolare gli effetti del trattamento o dei programmi di prevenzione del comportamento
criminale. I gruppi selezionati potrebbero differire tra loro già in precedenza, minando,
in tal modo, la validità interna della ricerca.

h) le indagini individuali

I metodi individuali di indagine criminologia consistono nello studio di singoli


criminali o di piccoli gruppi; mutuati dalla ricerca psicologica e medica, presuppon-
gono che un ricercatore possa pervenire a una migliore conoscenza di un fenomeno
mediante un’intensa esplorazione. Essi si diffondono per reazione allo studio di cause
singole e, per contro, si avvalgono di un approccio olistico. Il metodo clinico, possi-
bile approccio allo studio dei casi, viene utilizzato nella diagnosi di un problema per-
sonale rilevante o anormale e nella messa a punto di un programma di trattamento
adeguato. Coniuga due aspetti importanti: ricerca e trattamento, e si sofferma sui fat-
tori costituzionali, psicologici e sociali che caratterizzano ciascun delinquente. Le cor-
relazioni fra numerose indagini individuali consentono di ricavare tendenze e carat-
teristiche comuni. Inoltre, tali investigazioni hanno permesso di chiarire fattori assai
rilevanti della condotta deviante: fattori disturbanti familiari, caratteristiche di perso-
nalità, condizioni frustranti, tutti elementi interessanti se inseriti in un ottica di cau-
salità circolare.
Clinici provenienti da vari ambiti vengono spesso interpellati per formulare valuta-
zioni circa il possibile futuro comportamento o la eventuale pericolosità sociale di un indivi-
duo, valutazioni che possono essere usate per incarcerare un reo o limitare in altro mo-
do la libertà. Gli studi dei giudizi clinici predittivi di un comportamento futuro hanno
evidenziato che esiste un notevole numero di falsi positivi, cioè predizioni errate. Ciò
solleva la spinosa questione dell’equilibrio tra sicurezza pubblica e libertà individuale.
La critica più aspra rivolta al metodo clinico è che gli individui o i gruppi selezionati per

64
I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche

lo studio potrebbero non essere rappresentativi della intera popolazione di quegli indi-
vidui o di quei gruppi. Oltre al suo impiego clinico in criminologia, l’approccio dello
studio dei casi è stato anche usato nella forma di storie di vita, osservazione e osserva-
zione partecipante. Il metodo della storia di vita comprende l’analisi di diari, biografie,
autobiografie, come pure interviste, al fine di ottenere una conoscenza profonda di sin-
goli individui o gruppi rappresentativi. Particolare attenzione viene riservata alla storia
individuale come raccontata dal soggetto, all’interpretazione che egli ne fornisce, non-
ché alle sue esperienze e al suo ambiente. L’osservazione e l’osservazione partecipante arric-
chiscono ulteriormente lo studio della vita sociale e della condotta deviante, attraverso
esperienze dirette con il reato e i criminali. Di solito, ciò implica il compilare un diario
dettagliato, magari comprendente anche un certo numero di interviste molto approfon-
dite. Altri ricercatori si avvalgono di registrazioni, fotografie, e così via.
Un inconveniente del metodo dell’osservazione e delle storie di vita è rappresenta-
to dall’estremo coinvolgimento personale richiesto al ricercatore, spesso causa di sgra-
devoli e dannose conseguenze. Contro tutte queste obiezioni, si potrebbe ribattere con
la considerazione che lo studio dei casi e l’osservazione partecipante potrebbero essere
utilizzati nella fase preliminare di ogni ricerca, al fine di arricchire una teoria e giun-
gere alla formulazione di ipotesi più efficaci e alla costruzione di strumenti più appro-
priati.

i) il metodo storico

Il metodo storico, in criminologia, ha molti obiettivi: studiare il cambiamento nel-


la natura e nella diffusione del reato nel tempo o in condizioni sociali differenti; rin-
tracciare le fonti sociali del cambiamento delle leggi che definiscono la natura del rea-
to; analizzare un evento o un periodo storico per il suo interesse intrinseco; isolare una
particolare forma di reato o devianza e studiare le reazioni ad essa durante uno specifico
periodo storico. Tale approccio, seppure molto utile, risulta spesso di non facile appli-
cazione a causa di limitazioni legate alla parziale o totale indisponibilità dei dati presen-
ti negli archivi. Inoltre, un altro inconveniente comune allo studio dei casi, scaturisce
dalla difficoltà della scelta di un caso rappresentativo.

3.5 Il numero oscuro


Le statistiche giudiziarie rappresentano il fondamentale strumento per intrapren-
dere uno studio sulle dimensioni della criminalità; esse registrano le denunce, i giu-
dizi e le condanne in un periodo considerato; la criminalità registrata dagli organi di
controllo sociale ritrae solo una parte della criminalità reale, che è rappresentata dal
numero effettivo dei reati commessi. È un dato di fatto ignoto, considerando che, per
diversi motivi, non è possibile conoscere il numero esatto di tutti i reati commessi.
È comunque possibile avvicinarci alla conoscenza della criminalità reale impiegando
particolari tecniche di misurazione, quali le ricerche di vittimizzazione e di auto-de-
nuncia.

65
Criminologia ed elementi di criminalistica

Questi rilevamenti utilizzano metodologie che tutelano l’anonimato di chi ri-


sponde e raccolgono dati sui reati subìti o commessi dalle persone del campione con-
siderato.
La criminalità percepita rappresenta, invece, un dato soggettivo, che varia per cia-
scuno di noi, e indica la quantità di reati che ogni persona ritiene vengano commessi
in una data realtà. Si tratta di un dato largamente influenzato dalle sensibilità perso-
nali e dalle caratteristiche oggettive dell’ambiente di vita. La criminalità percepita è
quella che, maggiormente, interferisce sulla definizione individuale e collettiva del-
l’insicurezza e sull’intensità dell’allarme sociale. Questo allarme determina, talora, una
percezione deformata della gravità dei reati e delle conseguenti azioni di polizia. La
criminalità ufficiale è quella che si riferisce ai dati ufficiali, ricavabili dalle denunce
dei cittadini e dalle attività autonome delle forze dell’ordine e della magistratura. La
criminalità ufficiale risente dei limiti del cosiddetto numero oscuro (dark number) dei
reati, cioè dell’insieme di delitti che, per diversi motivi, non arrivano a conoscenza
degli uffici deputati alla raccolta delle segnalazioni. Il numero oscuro può variare a se-
conda della gravità dei reati e, nel tempo, in base al diverso atteggiamento dei citta-
dini e alla loro propensione a denunciare gli episodi delittuosi di cui sono stati vitti-
me.
Il rapporto tra reati registrati e reati commessi è detto indice di occultamento e varia
da reato a reato, in relazione alla gravità del crimine. Tale indice è sempre negativo.
Se si prendono in considerazione talune fattispecie di reato quali le rapine in ban-
che, il furto di automobili, l’omicidio, il numero oscuro è molto limitato, con rapporto
di occultamento vicino all’unità, mentre per altri, ad esempio, i delitti sessuali, la cri-
minalità economica, il numero oscuro è elevatissimo.
La spiegazione di tali differenze è riscontrabile nella impossibilità oggettiva che,
ad esempio, un omicidio non giunga a conoscenza dell’autorità giudiziaria; lo stesso va-
le per una rapina in banca caratterizzata, soventemente, da clamore, soprattutto per le
modalità di esecuzione; analoghe considerazioni vanno fatte per ciò che attiene la sot-
trazione di automobili, e ciò in virtù delle responsabilità a carico del proprietario che
non ne dovesse denunciare il furto.
Al contrario, il numero oscuro tende a salire, soventemente, per tre fattori fon-
damentali: a) atteggiamento della vittima; b) atteggiamento degli organi istituzionali; c)
qualità dell’autore del reato.
a) atteggiamento della vittima: deve rilevarsi che, in genere, non tutti i delitti ven-
gono denunciati dalle vittime o dai testimoni; ciò comporta, da parte dell’autorità giu-
diziaria un non venirne a conoscenza; si pensi alle sottrazioni di oggetti di scarso valore,
laddove la vittima non denuncia il fatto perché ritiene che trattasi di inutile perdita di
tempo e che molto difficilmente l’autore del furto verrà acciuffato; anche i furti nei
grandi magazzini, in numero elevatissimo, subiscono la stessa sorte: anche se l’autore
viene colto in flagranza di reato, spessissimo non si procede a denuncia per evitare
lungaggini di vario di tipo e la merce viene fatta riconsegnare, seduta stante, dagli ad-
detti alla vigilanza. Ancora, per ciò che inerisce l’atteggiamento della vittima, si pensi
ai delitti sessuali, laddove la parte offesa, per evitare pubblicità e clamore giornalistico,
preferisce desistere; e ancora, le vittime di estorsioni da parte della malavita organizzata
che, per paura di ritorsioni e danneggiamenti, non denunciano gli aguzzini; altri esem-

66
I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche

pi potrebbero riguardare i tossicomani che si guarderebbero bene dal denunciare i pu-


sher, senza i quali, non potrebbero placare la loro bramosia patologica;
b) atteggiamento degli organi istituzionali: sia la magistratura che gli organi di poli-
zia hanno il precipuo compito di identificare gli autori di reato, ma non solo, poiché,
altra funzione demandata è quella di prendere l’iniziativa di ricercare fatti delittuosi
non ancora noti. Può accadere, comunque, che filoni di indagini urgenti e contingenti
per particolari tipologie di delitti (come quelli ad opera di immigrati, di organizzazioni
criminali, e così via) in periodi più o meno lunghi impegnino in tale direzione le forze
dell’ordine, disimpegnandoli da altre dimensioni criminose, quali ad esempio gli illeciti
internazionali, o i delitti ad opera dei colletti bianchi, fattispecie di reati che, per lungo
tempo, non sono stati perseguiti poiché vi è stata assenza di iniziative di indagine, ma
che nel contesto attuale, considerata la pericolosità e l’insidia, sono al centro, oggi, di
interesse giudiziario;
c) la qualità dell’autore di reato: particolare importanza viene data a tale condizio-
ne, poiché non è infrequente che la posizione di un pubblico ufficiale, di un uomo ric-
co, influente, potente, o appartenente a classi direttive o politiche, influisca o si traduca
in una relativa minore esposizione al rischio di identificazione. Altra categoria benefi-
ciata è costituita dai minorenni, per i quali, si sa, la legge, soventemente, lascia correre,
sempre tenendo conto, comunque, della qualità del reato; a questi ultimi, si aggiungo-
no i soggetti con particolari infermità psichiche o gli anziani; così non sembra, invece,
per altre categorie di soggetti, quali i tossicomani o gli sbandati, per i quali le possibili-
tà di immunità sarebbero, oggettivamente, minori; analoga situazione si riscontrerebbe
nei confronti di soggetti emarginati e che hanno minor peso sociale.

67
CAPITOLO 4

I fenomeni inducenti al delitto

4.1 La delinquenza e l’età


Le statistiche criminali offrono, oggi, la possibilità di coniugare lo studio delle fe-
nomenologie criminali con le fattispecie di reati legate all’età degli autori di crimini.
Un dato è certo: la delinquenza è in percentuale superiore tra le classi di età più
giovani rispetto alle classi più vecchie.
Tra i 12 (se non in alcuni casi, prima) e i 19 anni, la natura dei fenomeni crimi-
nali è legata ad atti di teppismo, di bullismo, di reati contro il patrimonio, e, solo in
casi rari, si registrano omicidi; tra i 20 e i 30 anni, la criminalità raggiunge il proprio
culmine; tra i 30 e i 40, si assiste ad un lento declino, che aumenta, sempre di più, tra
i 40 e i 60 anni, per cessare, quasi completamente, con la vecchiaia. Le statistiche di
rilevamento sui reati compiuti dagli infraquattordicenni, tuttavia, non rappresentano,
almeno fedelmente, il fenomeno, poiché bisogna tenere in considerazione alcuni fat-
tori, tra cui il numero di reati compiuti e non registrati dall’autorità giudiziaria, la par-
ticolare legislazione in ordine ai reati commessi dai minorenni, e il relativo trattamen-
to in sede giudiziaria.
Altri reati attribuiti ai minori riguarderebbero le rapine, le aggressioni, i furti d’au-
to, atti osceni con donne, e violenze carnali.
Agli adulti, invece, vengono attribuiti reati di natura più complessa, quali truffe,
appropriazioni indebite, e così via; reati, invece, come gli atti di libidine su minori o
l’esibizionismo, vengono attribuiti agli ultraquarantenni.
Ritornando alla delinquenza minorile, se ne possono distinguere: una forma ge-
neralizzata di delinquenza minorile, a sua volta divisa in due forme: il delinquente vero
e proprio, e il teppista, proprio delle grandi metropoli industriali con la formazione di
bande di giovani teppisti, senza appoggio adulto (teddy-boys). Per il primo, furto e ra-
pina e altre attività criminali sono mezzi per raggiungere la ricchezza e la soddisfazione
dei propri desideri. È cauto, attento, calcola l’utilità e i rischi che gli possono venire da
ogni azione. Se raggiunge una posizione economica che considera soddisfacente, ab-
bandona l’attività criminale: questo è il suo progetto e la direzione che ha dato alla sua

69
Criminologia ed elementi di criminalistica

vita. Il secondo tipo, il teppista, non si prefigge alcun fine pratico, o almeno, esso non
è prevalente. Il crimine, per lui, non è un mezzo per raggiungere qualcosa di tangibile,
ma è fine a se stesso. Spesso, infatti, tale tipo di delinquente, appartiene a famiglia ab-
biente che gli soddisferebbe ogni esigenza.
Possiamo, quindi, cosi, sintetizzare le differenze: il primo compie un crimine per
l’utilità che ne può ricavare, mentre il secondo lo compie per se stesso, senza prefiggersi
una vera utilità, e, in genere, è poco curante delle conseguenze. Le azioni dei teppisti,
spesso, appaiono quindi illogiche e stupide. Il primo tipo, infatti, non ha origine nel-
la psicologia propria dell’infanzia, ma è semplicemente il risultato della delinquenza
adulta. Infatti, in questi casi, il minore è aggregato quasi come un apprendista a una
banda criminale, spesso incoraggiato dagli stessi genitori. L’attività criminale non deri-
va da problemi psicologici giovanili, ma dall’ambiente degli adulti in cui vive. Il teppista
minorile, invece, ha la sua origine proprio nell’animo dei ragazzi e sorge come rivolta
all’ordine costituito dei genitori, della società.
Il teddy-boy non ha appoggi nel mondo degli adulti, che lo deridono. La banda
dei delinquenti minorili può essere definita un gruppo che assume valori etici opposti
a quelli della società. I componenti odiano ferocemente tutto quello che è per bene.
Caratteristico è il vandalismo. Cercano di distruggere tutto quello che non appartie-
ne loro, senza nessuno scopo. La banda cerca, poi, di essere autonoma assolutamente
da interferenze esterne. Tale fine ha la chiusura ermetica agli estranei, il segreto che la
circonda. Ma se l’autonomia della banda è assoluta all’esterno, l’autonomia dei singo-
li membri all’interno è scarsissima. È importante da notare che, spesso, tali bande sca-
tenano deliberatamente l’ira di persone e di gruppi di persone per liberarsi dei legami
affettivi che ad essi li legano.
Come si può constatare, i caratteri delle gang sono molto simili a quelli delle ma-
nifestazioni più deleterie del gruppo infantile scolastico.
Naturalmente, nella delinquenza minorile, quei caratteri acquistano ben altra con-
sistenza e gravità, anche se si ritiene che la radice dei due fenomeni sia sostanzialmente
la stessa: lo sbandamento, l’incapacità a inserirsi armonicamente nella società, sia per i di-
fetti di essa, sia per le insufficienze personali, combinati variamente caso per caso. Co-
me il fanciullo, anche l’adolescente, esplode in rivolta contro la società che lo respinge.
Il delinquente minorile non riesce a inserirsi nella società per le più varie ragioni: allora,
per affermare la sua personalità, non gli rimane che aggregarsi a un banda che mostra di
combattere quell’ordine che lo ha respinto e, nella quale, i titoli che gli hanno impedito
di affermarsi rovesciano il loro valore e diventano ambiti titoli di merito.
Per ciò che attiene la delinquenza degli adulti, è necessario evidenziare che il quadro
dei reati in ogni Paese è sottoposto a continui mutamenti: dalle indagini, ma anche da
determinati servizi per la sicurezza pubblica (contrasto del traffico della droga e dello
sfruttamento di esseri umani ridotti in schiavitù, ad esempio), emergono, continua-
mente, delle nuove specificità dei territori, quale riscontro della straordinaria capacità
di adattamento della delinquenza alle occasioni. Si pensi al fenomeno cosiddetto delle
bande in trasferta. Il nomadismo della delinquenza va, inoltre, a rinforzare le tendenze at-
tivistiche della delinquenza locale.
In agglomerati urbani di ridotta ampiezza, la delinquenza è altrettanto presente in
minore intensità, segno che il controllo sociale spontaneo e la capillarità della presen-

70
I fenomeni inducenti al delitto

za istituzionale posseggono, ancora, una certa efficacia, tanto da scoraggiare l’attività


della delinquenza autoctona (che, però, in parte, compensa il surplus di sorveglianza,
spostandosi altrove). Nei piccoli centri, dove è attivo un maggior controllo sociale, si
può dedurre che chi delinque tende a farlo altrove; reciprocamente, anche le persone
vittime di reato e nate nella piccola provincia, subiscono prevalentemente il crimine in
altre località.

4.2 Relazione tra razza, nazionalità e delitto


La criminologia si è spesso interrogata sul rapporto tra criminalità e diversità raz-
ziali. Lo stesso concetto di razza, di per sé ambiguo, può intendersi in una prospettiva
di carattere biologico, come un aggregato di caratteristiche su base genetica. Le origini
della parola razza sono state discusse, a lungo, dai linguisti, ma, ormai, è prevalsa l’opi-
nione che fa derivare il vocabolo da un termine francese medioevale, haraz haras che
significa allevamento di cavalli, in particolare, stalloni selezionati.
Anzi, sempre secondo l’uso originario, con razza, si è indicato anche il risultato del
processo di selezione, attraverso le varie generazioni, che ha portato a migliorare gli ele-
menti genetici, considerati preferibili da vari punti di vista, di una particolare specie.
Assai presto, tuttavia, si è passati ad usare il termine con un valore più ampio, quel-
lo di discendenza, stirpe, non solo di animali, ma anche di uomini, e, quindi, razza ha
potuto indicare anche una famiglia nel senso di successione di generazioni.
Con il diffondersi di una concezione del mondo di tipo positivistico, nell’Otto-
cento, la divisione in razze è stata estesa all’intera umanità, basandosi, però, su elementi
come l’aspetto esteriore o altre caratteristiche secondarie che la scienza attuale ha mes-
so fortemente in discussione, soprattutto in rapporto all’effettivo patrimonio genetico
dei gruppi umani.
Comunque, a partire dalla fine del secolo scorso si è cominciato a distinguere i vari
popoli della terra a seconda delle presunte razze di appartenenza.
E quel che è peggio, si sono collegati i concetti di razza e cultura, sostenendo una
ipotetica superiorità di popoli di cultura occidentale, in quanto razze superiori rispetto
alle altre considerate inferiori perché di tradizioni più o meno primitive.
Neppure il libro di Charles Darwin − L’origine della specie (1859) − che documen-
tò come lo sviluppo fosse prodotto dalla selezione naturale e che rivoluzionò in campo
scientifico le teorie sulle differenze fra gli esseri umani, potè impedire un uso distorto
del termine razza. Ispirò anzi una nuova forma di razzismo, il cosiddetto razzismo scien-
tifico, basato sull’idea che il pregiudizio razziale svolga, addirittura, una funzione evo-
lutiva. Le teorie biologiche sulla razza subirono profondi mutamenti negli anni trenta,
quando, con l’affermarsi della genetica che documentò come non la specie, ma il gene
fosse l’unità di selezione, si potè argomentare che esistevano potenzialmente tante raz-
ze quanti erano i geni.
Nel 1939 Julian Huxley e Alfred Cort Haddon, nel libro, Noi europei, sostennero
che i gruppi solitamente considerati razze, non erano fenomeni biologici ma invenzioni
politiche, e che sarebbe stato più corretto denominarli gruppi etnici.

71
Criminologia ed elementi di criminalistica

Ritornando all’interesse della criminologia per il rapporto tra razza e criminalità,


si può affermare che non risultano indagini che abbiano fornito elementi significativi
per spiegare tale presunto rapporto; pertanto, il termine razza dovrebbe essere sostitui-
to con quello di nazionalità. Numerosi autori concordano, comunque, sul fatto che,
sebbene si operasse la sostituzione del termine nazionalità con quello di razza, sarebbe
impossibile, altresì, stabilire se un popolo sia più o meno criminale di un altro. Solo
uno studio delle differenze fenomenologiche delittuose tra una nazione e un’altra offri-
rebbe una visione più funzionale. Mentre negli Stati Uniti, ad esempio, la delinquenza
delle persone di colore, rispetto alla popolazione totale, è di gran lunga superiore per
motivazioni economiche, sociali, di scolarizzazione, e la tipologia di reati è riconduci-
bile per lo piu ad azioni delittuose di appropriazione, in Svizzera, il tasso di criminalità
è percentualmente ridotto in termini quantitativi per una dimensione di benessere dif-
fusa che spinge al delitto solo in particolari casi. La tipologia dei delitti è sicuramente
diversa, poiché è di gran lunga più diffusa la criminalità bianca.

4.3 Immigrazione e criminalità


Il rapporto tra immigrazione e criminalità è sicuramente un problema complesso,
e ancora più complesso risulta provare che l’immigrazione determini sempre l’aumen-
to dei reati nel Paese di destinazione. In Italia, ad esempio, un esponenziale aumen-
to della criminalità è stato accostato a un aumento della presenza di immigrati. Tale
aumento ha avuto luogo già dalla prima metà degli anni ‘70, quando, cioè, i processi
migratori erano in fase iniziale. Purtroppo, risulta incontestabile che, specie nell’ulti-
mo decennio, la quota degli stranieri implicati in fatti delittuosi è cresciuta. Questo
incremento, tuttavia, nonostante si sia verificato per la gran parte dei reati e le diver-
se forme in cui sono stati commessi (lievi o gravi, commessi da singoli o da gruppi,
espressivi o strumentali), non si è avuto per tutte le tipologie, né per tutti i livelli a cui
vengono svolte le attività illecite. Si tratta di quei reati per la cui commissione è ri-
chiesta una posizione qualificata all’interno del sistema di stratificazione sociale e che,
pertanto, escludono gli immigrati che si trovano ancora ai gradini più bassi. Questa
situazione, però, non deve far pensare che nel sistema criminale gli stranieri occupino
solo le posizioni più basse, dequalificanti e meno remunerative. Se è vero, che vi so-
no reati che continuano ad essere appannaggio della criminalità italiana, è anche vero
che esistono delle zone di comunicazione, settori illeciti in cui si assiste a un progressi-
vo inserimento degli immigrati anche ai livelli superiori e, addirittura, settori esclusivi
della criminalità straniera.
D’altra parte, anche quando vi è stato un aumento del numero dei reati commessi
dagli immigrati, questo, però, non ha seguito un percorso parallelo all’intensificarsi del
fenomeno immigratorio. Infatti, alcuni reati hanno avuto andamenti ciclici, con fasi di
forte espansione nei primi anni di immigrazione e successive contrazioni e riprese negli
anni più recenti. Inoltre, vi sono intere classi di reato che hanno fatto registrare aumenti
notevoli anche tra gli stessi italiani, e che, pertanto, non si presentano come un proble-
ma specificamente straniero. Occorre, poi, tener presente che la popolazione immigra-

72
I fenomeni inducenti al delitto

ta ha una composizione per sesso ed età diversa da quella italiana, nel senso che è più
giovane ed ha una quota di maschi più elevata. Questo elemento strutturale è di fon-
damentale importanza nell’analisi dei fenomeni criminali, in quanto, il genere e l’età as-
sumono un peso determinante nella propensione al crimine. Seguendo questo metodo,
si potrà verificare, ad esempio, se, a parità di sesso ed età, gli immigrati commettono,
più (o meno) spesso, alcuni reati rispetto agli italiani. L’idea di un rapporto diretto tra il
numero di immigrati presenti e reati commessi è ulteriormente indebolita dal fatto che
non tutte le nazionalità sono egualmente coinvolte in queste attività criminali.
Infatti, vi sono gruppi etnici numerosi che presentano indici di criminosità infe-
riori rispetto a quelli italiani; ovvero, comunità di immigrati che, pur non essendo tra
le più numerose, presentano indici di criminosità molto elevati; e infine, vi sono comu-
nità etniche di particolare consistenza che esprimono una criminalità preoccupante. Il
peso di ciascun gruppo, per di più, varia a seconda del reato e della posizione occupata
nel sistema di stratificazione delle attività illecite: i furti e le rapine vengono compiute
soprattutto dagli ex jugoslavi di entrambi i sessi (spesso minori nomadi), oltre che da
marocchini, algerini e tunisini; lo spaccio di eroina, da marocchini e tunisini (e solo di
recente anche dagli albanesi); il traffico di marijuana da albanesi, quello di cocaina da
sud-americani; lo sfruttamento della prostituzione da albanesi e nigeriani.
Questo aspetto si salda con la necessità di un’analisi di tipo culturale. Non si trat-
ta di compilare pagelle o di distinguere tra buoni e cattivi, né di sostituire lo stereotipo
dell’immigrato criminale con quello di una specifica nazionalità criminale. Si vuole
solo aprire un discorso sul confronto culturale. La tesi è che la criminalità sia un feno-
meno derivato anche da questo processo di confronto, che si verifica quando esso non
è sufficientemente gestito dalle istituzioni, in termini di politiche di promozione e
sostegno nella direzione dell’accoglienza e dell’integrazione. Il confronto può essere,
di fatto, più difficile per gli immigrati che provengono da alcune aree geografiche, in
quanto più complesso il processo di interazione tra la nostra cultura e quella di questi
gruppi. È chiaro che quando si parla di cultura, si fa riferimento a qualcosa di dinami-
co, che si sviluppa: l’immigrato, porta con sé non solo usi religiosi, familiari, alimentari
che perdurano nel tempo, ma, anche, atteggiamenti e opinioni che maturano nella si-
tuazione storica del Paese di origine.
In questo senso, isolare le nazionalità più produttive dal punto di vista criminale
non vuol dire proporre discriminazioni e chiusure selettive, bensì, indicare quelle com-
ponenti a maggior rischio criminale, in quanto, una situazione di protratta illegalità
nel Paese di origine può essere alla base di una maggiore propensione a comportamenti
aggressivi o violenti.
I dati disponibili, inoltre, dimostrano che la criminalità è appannaggio principal-
mente di chi si trova nel nostro Paese in una situazione di irregolarità: ad esempio, sul
totale dei cittadini extracomunitari denunciati per vari delitti, quelli senza permesso di
soggiorno sono oltre il 70%, per le lesioni volontarie, il 75% per gli omicidi, l’85% per
i furti e le rapine. Non v’è dubbio che la condizione di irregolarità crei le condizioni fa-
vorevoli al verificarsi di eventi criminosi; in primo luogo, perché costituisce un limite
all’inserimento nel circuito socio-economico legale; in secondo luogo perché l’irregola-
rità porta con sé la produzione di alcuni reati quali la falsità, la resistenza all’arresto, le
false generalità ecc. Inoltre, se si considera che una parte degli irregolari è composta dai

73
Criminologia ed elementi di criminalistica

clandestini, sarà facile immaginare che l’immigrato irregolare, già all’ingresso, o al mo-
mento dello scadere del permesso di soggiorno o del visto, entri in contatto con realtà
criminali che gli forniscono servizi di vario genere. Questo aspetto è particolarmente
importante perché spiega i rapporti di soggezione che legano gli immigrati ai gruppi
malavitosi organizzati che si occupano del traffico di migranti, della successiva gestione
degli stessi e, soprattutto, del loro conseguente inserimento nei circuiti della devianza
a tutti i livelli. Non vi è dubbio, infatti, che in questo traffico siano ravvisabili consi-
stenti interessi di gruppi criminali internazionali che gestiscono l’organizzazione del-
l’immigrazione in tutte le sue fasi: dal reclutamento nel Paese di origine al transito nei
diversi Paesi lungo il viaggio; dal reperimento di passaporti e documenti falsi al trasfe-
rimento e alla sistemazione iniziale nelle aree di destinazione. Ma, come avviene con
la droga, gli immigrati, al loro arrivo, trovano un’organizzata rete criminale pronta ad
accoglierli, destinarli, e inserirli in circuiti illeciti paralleli.
Dunque, se molti elementi possono suffragare l’ipotesi che esiste un rapporto di-
retto tra aumento dell’immigrazione ed aumento della criminalità, altri inducono a dubi-
tare della sufficienza delle basi scientifiche di tale tesi.
Finché si continuerà ad affermare che la delinquenza straniera aumenta in rap-
porto diretto con l’intensificarsi dell’immigrazione, e che gli stranieri delinquono più
dei nostri connazionali, si enunceranno delle verità generiche che non aiutano a capi-
re, veramente, quali dinamiche sociali siano in atto, e che certamente non aiutano ad
individuare strategie per la risoluzione del problema. Oggi, infatti, i fattori di spin-
ta all’immigrazione e l’orientamento dei flussi si presentano fortemente condizionati
dagli interessi criminali che hanno sfruttato i momenti di crisi della società civile ed
hanno modificato, di fatto, i rapporti tra immigrazione e criminalità. Normalmente,
coloro che sostengono che gli immigrati provocano un aumento delle forme di de-
vianza forniscono tre prove che considerano inconfutabili: a) gli immigrati sono coin-
volti nelle attività illecite del traffico e dello spaccio della droga; b) immigrate sono
le donne che esercitano la prostituzione sulle strade; c) gli immigrati sono fortemen-
te rappresentati nelle statistiche giudiziarie. Se le prime due affermazioni sono sicu-
ramente efficaci, in quanto fanno riferimento a realtà di immediata percettibilità da
parte dell’opinione pubblica, il terzo argomento, invece, necessita di alcune conside-
razioni. La valutazione quantitativa della criminalità straniera si fonda su dati rela-
tivi a situazioni differenti, quali il numero degli stranieri entrati nelle carceri, degli
arrestati, dei denunciati, dei condannati e dei detenuti. Le diverse rilevazioni, che do-
vrebbero costituire il termine di confronto con la criminalità degli italiani e misurare
il grado di incidenza sulla criminalità complessiva nel nostro Paese, in realtà, eviden-
ziano numerose lacune e forniscono un quadro parziale e distorto del rapporto im-
migrazione-criminalità. Vi sono, infatti, molte buone ragioni per ritenere questi dati
come i meno affidabili tra gli indicatori dei reati commessi dagli stranieri. Tra i fattori
distorsivi, basti ricordare la proliferazione dei dati quantitativi in riferimento allo stes-
so individuo e la difficile attribuzione temporale dei fatti delittuosi. Per quanto riguar-
da il primo punto, vi è da dire che, per il censimento dei dati provenienti dalle diverse
istituzioni (Ministero dell’Interno, Ministero di Grazia e Giustizia, ecc.), non è previ-
sto, ad oggi, un sistema per eliminare l’inconveniente di segnalare un episodio di recidi-
va come fatto riferito ad un soggetto diverso. L’omessa rilevazione dei fatti commessi

74
I fenomeni inducenti al delitto

dalla stessa persona produrrà, dunque, l’effetto di gonfiare i dati quantitativi delle di-
verse rilevazioni.
Quanto al secondo punto, occorre precisare che non tutti i dati riescono a stabili-
re una connessione temporale tra l’evento criminoso e il momento repressivo: ad esempio,
mentre i dati sui denunciati si riferiscono, di norma, ai soggetti segnalati per fatti av-
venuti nell’anno di riferimento, quelli relativi alle condanne, viceversa, si riferiscono a
manifestazioni criminose verificatesi anche negli anni precedenti. La conseguenza è che
solo attraverso alcuni dati è possibile rilevare la fenomenologia criminale nell’anno pre-
so in considerazione. Più in generale, l’imprecisione della rilevazione della criminalità
degli immigrati non dipende solo da fattori di distorsione, ma anche dall’eterogeneità
dei dati, dalla mancanza di razionalità e di selezione qualitativa degli stessi, dalla man-
canza di indici-standard di rilevazione. Spesso, si è in presenza di indagini campionarie,
poi proiettate a livello nazionale. Manca un confronto tra le rilevazioni effettuate dal-
le diverse istituzioni; manca un censimento della titolarità o meno di un permesso di
soggiorno in capo al soggetto della rilevazione; manca un censimento del numero degli
stranieri come persone offese dal reato. Tutte carenze, queste, che inficiano la corretta
comprensione della realtà che si va a studiare.

4.4 Pauperismo e criminalità


Mannheim sostiene che sia la povertà sia la ricchezza possono portare al delitto;
le differenze motivazionali della criminalità (esistono forme di criminalità che hanno
molto a che fare o niente con la povertà o la ricchezza) non debbono indurre ad accuse
di scarsa coerenza teorica, perché, altrimenti, si dovrebbe accusare di confusione con-
cettuale un cardiologo, quando sostiene che le malattie del cuore possono avere origi-
ne sia da eccessivi sforzi fisici che da inattività; un economista, quando afferma che lo
stesso effetto economico − cioè l’accumulazione di un certo capitale − può essere rea-
lizzato sia guadagnando di più che spendendo di meno. Cause diverse, o persino oppo-
ste, possono avere lo stesso effetto, sebbene, naturalmente, il meccanismo causale avrà
seguito una strada diversa.
Le devianze criminali vengono affrontate, in un contesto moderno, sotto due ot-
tiche fondamentali: la prima, che ritiene le devianze come esclusive conseguenze del
sistema economico capitalista e, quindi, tende ad avere un atteggiamento di tipo giu-
stificazionista; l’altra, secondo cui le politiche repressive vanno applicate solo nei con-
fronti dell’anello più debole della catena criminale. Queste tesi, ovviamente, non sono
sufficienti a interpretare e leggere le crescenti preoccupazioni tra gli abitanti delle città
e i fattori che determinano la costruzione delle paure sociali più diffuse.
Le condizioni di vita nelle grandi città sono ormai critiche, la diffusione del senti-
mento di insicurezza si esplicita in relazione a due aspetti distinti ma in qualche modo
complementari: a) esiste la paura ed il timore di rimanere vittime della criminalità di stra-
da (furti, rapine, scippi, violenze) e di altre forme di illegalità diffuse; b) il degrado urba-
no e il disordine sociale sempre più esteso per l’aumento della povertà, dell’emarginazio-
ne e dell’esclusione sociale, causano un forte senso di impotenza e di abbandono.

75
Criminologia ed elementi di criminalistica

Sul primo elemento, si ritiene che, pur in presenza di un tasso di criminalità in lie-
ve ma costante aumento, negli ultimi anni, questo non appare sufficiente a giustifica-
re l’aumento dell’insicurezza generale e lo spropositato allarme sociale che crea. I dati
statistici rivelano, anche, un altro aspetto interessante: in Italia, è la medio-alta bor-
ghesia, la fascia sociale che risulta più a rischio di rimanere vittima dei reati, per con-
tro, l’insicurezza e la paura di rimanere vittima di reati è più diffusa negli strati sociali
poveri, nonostante le statistiche indichino, in questa categoria, una minore diffusione
dei fenomeni criminali, mentre, ad esempio, negli Stati Uniti, la situazione è completa-
mente rovesciata, in quanto, le statistiche sulla criminalità indicano una maggiore dif-
fusione nella popolazione più povera ed emarginata.
Il crescente divario tra le diverse aree del Paese, la disoccupazione strutturale di
massa, l’emergere di aree sempre più consistenti di povertà ed emarginazione, l’incre-
mento dei flussi migratori, la riduzione dei sentimenti di solidarietà, la crescita del-
l’esclusione sociale, la criminalità indotta e l’aumento della microcriminalità defini-
scono un contesto in cui è facile prevedere sia l’aumento di fenomeni di criminalità,
che l’intreccio sempre più stretto tra questione criminale e questione sociale.
Lo sviluppo urbanistico, in questi anni, ha fortemente risentito dell’aumento di
questi fenomeni. Gli stessi spazi urbani stanno assumendo una fisionomia nuova; da
una parte, assistiamo alla configurazione di spazi in cui prevale la tendenza alla co-
struzione di quartieri-fortezza, ove i nuovi ricchi vivono protetti da sistemi di allarme
sofisticati e da polizie private. Dall’altro, crescono, sempre più, aree di città blindate,
abitate da nuovi poveri, zone che tendono a diventare dei moderni ghetti.
Una città blindata alimenta il sentimento d’insicurezza che si esplicita, non solo
nella paura di rimanere vittima di azioni delittuose (furti, scippi, borseggi ecc.), ma,
anche, delle diverse forme in cui si diffonde il disagio urbano.
La sociologia moderna ha messo in luce il nuovo concetto di povertà, non più intesa
come la mancanza di beni primari di consumo, ma come assenza di strumenti, ad esem-
pi tecnologici, che interagiscono con la vita quotidiana.

4.5 Sistemi di controllo sociale


Il controllo sociale può certamente essere definito come il concetto classico delle
scienze sociali, ed è identificabile con tutti i fenomeni e i processi che contribuiscono a
regolare il comportamento umano e ad organizzarlo.
In quest’accezione, il controllo sociale s’identifica con la morale, la religione, il di-
ritto, i costumi, l’educazione, le rappresentazioni collettive, i valori, gli ideali, i modelli
di cultura, l’opinione pubblica, le forme di suggestione e convinzione, e così via.
L’insieme di questi meccanismi è strettamente connesso con il problema dell’or-
dine, e con quello di dare coerenza ai comportamenti di una moltitudine, e alle loro
interazioni.
Secondo tale modello, pertanto, ogni organizzazione di uomini che pretenda di
definirsi tale, necessita di un meccanismo di controllo sociale teso ad assicurarne il
mantenimento. Il diritto, quale meccanismo di regolazione praticato dallo Stato, rap-

76
I fenomeni inducenti al delitto

presenta uno degli strumenti attraverso cui viene svolto il controllo sociale, anche se
non è l’unico. Il diritto viene considerato come potere, ed esercitato per mezzo dello
strumento dell’interdizione, cioè l’imposizione di un divieto o un obbligo (il precetto)
e la reazione alla trasgressione (la sanzione); tenuto conto che il diritto interviene nei
settori più importanti della vita associata, questo non implica, in linea di principio,
che sia effettivamente il precetto, con la relativa sanzione, posto per legge, ad assicura-
re la conformità alla norma nei soggetti cui questa si rivolge. Si pone, però, un doppio
problema: da un lato, il diritto non è l’unico agente del controllo sociale, cui, al con-
trario, sembrano funzionali anche meccanismi persuasivi oltre che coercitivi; dall’altro
lato, il diritto stesso, la sua nascita ed il suo funzionamento concreto, sono immersi nel
contesto socio-culturale, in cui un precetto assume vigore, cosicché, è possibile arriva-
re a distinguere tra la sfera della validità di una norma giuridica e la sfera della sua ef-
fettività.
Il tema dell’efficacia delle norme giuridiche e del loro funzionamento effettivo
rappresenta un impegno classico della sociologia giuridica; essa, studierebbe la società
nel diritto, cioè la realtà concreta del fenomeno normativo, quella sorta di diritto libero
che è il comportamento umano, più o meno difforme rispetto alle norme giuridiche,
sempre pronto, nella prassi di tutti i giorni, a ricodificarle.
Più precisamente, la sociologia giuridica, così intesa, andrà ad occuparsi di tutto
quell’insieme di comportamenti che:

- hanno per effetto norme giuridiche;


- sono considerati come effetto di norme giuridiche;
- sono considerati in relazione funzionale con comportamenti che hanno come effetto
norme giuridiche o che sono effetto di norme giuridiche.

Attraverso la sociologia giuridica, si riesce, quindi, a porre maggiormente in luce


come il diritto, quale strumento di controllo sociale, interagisca con tutti gli aspetti
che riguardano una data collettività, i quali, a loro volta, non vanno visti come fattori
secondari nel funzionamento dei meccanismi di potere, ma come la base sociale in cui
nasce e funziona, in concreto, il diritto.
Collegando il diritto alla funzione imperatrice dello Stato è opportuno fare qual-
che passo indietro: Machiavelli, nella sua opera più celebre, parla dello stato del princi-
pe indicando, al contempo, una sua condizione personale e la somma dei suoi poteri.
Il Principe di Machiavelli è tratteggiato come un sovrano che riesce ad accentrare nelle
sue mani quel potere che in Italia restava ancora parcellizzato fra istanze diverse. Ta-
le visione sintetizza il potere nella capacità di imporre la propria volontà da parte del
sovrano: esso è la capacità di dettar legge e di usare la forza per farla rispettare. M. Fou-
cault, invece, poneva il problema relativo al concetto di sovranità e del modo corretto
di esercitarla da parte del Principe, che ne è titolare.
La svolta fondamentale dovuta al pensiero illuminista, cioè una nuova, democra-
tica, legittimazione del potere, non sembrerebbe avere indotto grossi cambiamenti nel
modo di rappresentarsi, da parte della teoria politica, il funzionamento dei meccanismi
di controllo sociale. La sovranità ha, ancora, il mero obbiettivo di esercitarsi mediante
l’imposizione di obblighi o divieti e la pretesa del rispetto degli stessi.

77
Criminologia ed elementi di criminalistica

L’obiettivo fondamentale, nel tempo, fu quello di individuare quale, fra le diverse


modalità di governo si sarebbe potuta applicare allo stato interamente inteso. Si pote-
va distinguere:

- il governo di se stessi (cui si ricollega la morale);


- l’arte di governare una famiglia (cui si ricollega l’economia);
- la scienza di ben governare lo Stato (cui si ricollega la politica);
- colui che vuole governare lo Stato deve prima saper governare se stesso, poi, ad
un altro livello, la sua famiglia, i suoi beni, il suo patrimonio, e alla fine riuscirà a
governare lo stato;
- viceversa, in uno Stato ben governato, anche i padri di famiglia ed i singoli come
tali sapranno governare se stessi ed il piccolo universo sociale che li circonda.

Da ciò si comprende come il potere necessiti di diventare potere creativo e non re-
pressivo, coinvolgendo gli uomini nel meccanismo del potere stesso; ciò non equivale
a dire che il potere debba essere democraticamente diviso – in forma piramidale – ar-
rivando sino alla base, ma, al contrario, è connaturato da relazioni che, interamente
sommate, costituiscono un enorme processo d’interazione, attraverso il quale le nostre
società (in maniera più o meno conflittuale, con maggiori o minori resistenze) costrui-
scono dei significati condivisi in grado di orientarne l’azione sociale. Lo stesso Gramsci
sottolineva la necessità di comprendere i meccanismi dei poteri moderni, a partire da
una riconsiderazione del concetto di diritto. Più in generale, il concetto stesso di Stato
che Gramsci formula è composto da un misto di forza e consenso, coercizione − auto-
rità − e capacità di creare consensi mobilitando le forze sociali − egemonia. Secondo la
visione gramsciana, lo Stato, esplica inoltre, un compito educativo che ha sempre il fine
di creare nuovi e più alti tipi di civiltà, di adeguare la civiltà e la moralità delle più vaste
masse popolari alla necessità del continuo sviluppo dell’apparato economico di produ-
zione, quindi di elaborare anche fisicamente dei nuovi tipi di umanità.

78
CAPITOLO 5

L’imputabilità

5.1 I fondamenti dell’imputabilità


La categoria della imputabilità, in quanto fondata sulla capacità dell’uomo di auto-
determinarsi, rappresenta lo spartiacque fra soggetti da considerare penalmente respon-
sabili e soggetti nei confronti dei quali un tale giudizio rimane escluso. La dottrina pe-
nalistica ritiene, infatti, che esista una stretta connessione fra il problema della libertà
del volere ed il problema della responsabilità penale, e la maggioranza di essa sembra es-
sere d’accordo su un punto fondamentale, ossia sull’irrinunciabilità, per il sistema pe-
nale, dell’immagine dell’uomo come essere capace di operare delle scelte consapevoli e
libere. L’imputabilità penale trova allora il suo primo fondamento nella capacità di au-
todeterminazione dell’uomo. Tale capacità o libertà di autodeterminazione non va inte-
sa in senso assoluto e incondizionato. Antolisei ha affermato che la volontà umana può
definirsi libera nella misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli impul-
si psicologici che lo spingono ad agire in un determinato modo, ma riesca ad esercitare
poteri di inibizione e controllo idonei a consentirgli scelte consapevoli tra motivi an-
tagonistici. Una tale concezione della libertà è quella che, secondo l’autore, più corri-
sponde al senso comune e allo stesso diritto penale moderno, che assume la volontà del
volere non come un dato ontologico, ma come necessario presupposto della vita prati-
ca, non come un dato scientificamente dimostrabile, ma come contenuto di una aspet-
tativa giuridico-sociale.
L’imputabilità costituisce la prima condizione per esprimere la disapprovazione
soggettiva del fatto tipico ed antigiuridico commesso dall’agente, e solo riguardo ad un
soggetto dotato di capacità di autodeterminazione può parlarsi di riprovevolezza o di-
sapprovazione, in quanto, disapprovazione e rimprovero non avrebbero senso, se rivolti
a soggetti del tutto privi della possibilità di agire altrimenti. Il fondamento penalistico
della imputabilità è rinvenibile anche sul terreno delle funzioni della pena.
Se la minaccia della sanzione punitiva deve esercitare un’efficacia general-preven-
tiva distogliendo i singoli soggetti dal commettere reati, è chiaro che un necessario
presupposto di ciò è che i destinatari del precetto giuridico siano psicologicamente in

79
Criminologia ed elementi di criminalistica

grado di lasciarsi motivare dalla minaccia stessa. Allo stesso modo, se l’esecuzione in
concreto della pena deve tendere alla rieducazione del reo, è necessario che il condan-
nato sia in grado di cogliere il significato del trattamento punitivo.
Tale motivabilità normativa non è presente allo stesso modo in tutti gli individui.
La categoria della imputabilità trova in ultima analisi il suo fondamento nel principio
della libertà dell’uomo. Il contenuto di tale libertà è stato interpretato da diverse con-
cezioni paradigmatiche. Il principio della libertà del volere è un postulato necessario
al diritto penale, in particolare per giustificare la pena in senso retributivo, per cui la
pena trova la sua giustificazione solo attraverso il riconoscimento della libertà dell’uo-
mo. Senza tale libertà di scelta, nel senso di libertà psicologica del soggetto di agire in
un senso piuttosto che in un altro, la nozione di colpevolezza, quale rimproverabilità,
diventa priva di significato, poiché non è logicamente possibile rimproverare a qualcu-
no di aver commesso un dato fatto se era necessitato a farlo. Il giudizio di rimprovero
suppone la libertà di agire.
La giurisprudenza, ha, in parte, condiviso tali affermazioni, ritenendo moralmente
e penalmente imputabile ogni uomo la cui autodeterminazione, risultante dall’intelletto e
dalla volontà, non sia impedita o turbata dall’organismo corporeo e psichico dell’agente; per
cui, il delitto è penalmente perseguibile ogni qualvolta sia dovuto non a malattia del
corpo o della mente, bensì a deviazioni del sentimento e al male dello spirito.
Analogo trattamento viene riservato ai soggetti psicopatici, i quali, a parere della
Cassazione, sono anormali nel carattere e come tali pienamente imputabili, e ciò in quan-
to sono in possesso di quelle condizioni psico-biologiche richieste dalla legislazione vigente
affinché l’azione del soggetto venga ritenuta come causa eticamente e psicologicamente vo-
luta dal soggetto.
Attualmente, il paradigma più osservato, non solo in Italia, è quello che è stato
definito di relativo indeterminismo. Questo modello è stato in prevalenza assunto an-
che dalla giurisprudenza più recente, che ha affermato che la capacità di volere indica
l’attitudine del soggetto ad autodeterminarsi in relazione ai normali impulsi che motivano
l’azione.
Secondo tale orientamento, ciò che rileva sono i processi psicologici di motiva-
zione alla condotta, indipendentemente da un giudizio di responsabilità eticamente
fondata sulla capacità di distinguere il bene dal male. L’imputabilità penale deve esse-
re intesa come attitudine del soggetto a valutare il significato e gli effetti della propria con-
dotta, ad autodeterminarsi nella selezione dei molteplici motivi. È questo l’orientamento
suggerito dallo stesso codice Rocco per il quale, perché sussista la imputabilità morale,
occorre la facoltà di scelta.
In tal senso, il libero arbitrio, inteso quale capacità di discernere, di selezionare i
motivi e di inibirsi, acquista un significato più vivo.
L’art. 85 c.p. dopo aver sancito che nessuno può essere punito per un fatto preveduto
dalla legge come reato, se al momento in cui lo ha commesso non era imputabile, stabilisce
che è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere.
Lo stesso articolo regola la generica capacità di agire nel campo penale, senza rife-
rimento ad un determinato fatto concreto, ossia, nella imputabilità, la volontà è con-
siderata al momento della possibilità, mentre, nella effettiva responsabilità penale, la
volontà è considerata nel momento della sua attuazione.

80
L’imputabilità

L’imputabilità rappresenta, quindi, la generica capacità di essere soggetto di dirit-


to penale. L’art. 85 c.p. fornisce, infatti, la nozione di personalità di diritto penale, de-
finendo la nozione di persona normale, alla quale la legge penale può essere applicata,
mentre la concreta volontà dà luogo alla responsabilità, cioè a quel rapporto per cui la
legge mette in conto di un determinato soggetto imputabile le conseguenze della sua
azione od omissione.
Presupposto della responsabilità giuridica è la possibilità, normativamente prevista,
di realizzare l’attività richiesta ossia: tu devi perché puoi. Per individuare la fondamen-
tale differenza che intercorre tra imputabilità e responsabilità, occorre fare perno sul
concetto di sanzione: la responsabilità, è, appunto, la sanzione conseguente all’illecito
commesso, e la sua funzione è quella di risarcire il danno o di riparare comunque il tor-
to recato ad altri.
Si preferisce, infatti, mantenere le norme che definiscono il concetto di imputa-
bilità nel campo autonomo dedicato alle cause che escludono e diminuiscono l’impu-
tabilità stessa, al fine di distinguere l’art. 85 c.p. dall’art. 42 c.p. Quest’ultimo dispone
che nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato,
se non l’ha commessa con coscienza e volontà, ossia, considera la volontà effettiva, concre-
ta del fatto, necessaria affinché l’individuo, genericamente capace, quindi imputabile,
possa essere chiamato a rispondere penalmente di un fatto determinato. Risulta chiaro
che l’imputabilità sia il presupposto logico e giuridico della responsabilità penale, e che
l’espressione capacità di intendere e di volere rappresenti il fondamento, sotto il profilo
psicologico, della responsabilità penale.
Il principio di colpevolezza è uno dei principi base del nostro sistema penale. Esso
rappresenta il terzo elemento costitutivo fondamentale del reato insieme alla antigiuri-
dicità ed alla tipicità. Il suo ruolo centrale risulta confermato dalla sua rilevanza costi-
tuzionale, desumibile dall’art. 27 della Costituzione.
Infatti, il principio della personalità della responsabilità penale in esso fissato va
inteso non solo nel suo significato di divieto di responsabilità per fatto altrui, ma, an-
che, nel senso di responsabilità per fatto proprio colpevole. Ovvero, il legislatore costi-
tuzionale, nell’affermare che la responsabilità penale è personale, ha inteso affermare
il principio secondo cui l’applicazione della pena presuppone l’attribuibilità psicologica
del singolo fatto di reato alla volontà antidoverosa del soggetto.
L’imputazione penale si arresta là dove il soggetto non sia in grado di governare
il verificarsi degli eventi: ciò vuol dire che il rimprovero di colpevolezza implica che si
presupponga, come esistente, una possibilità di agire altrimenti da parte del soggetto
cui il fatto viene attribuito. Perché un soggetto possa essere colpito con la sanzione del-
la pena non basta che abbia commesso con dolo o colpa un fatto lesivo di un interesse
protetto (fatto tipico), né che la sua azione risulti non giustificata da alcuna esimen-
te (antigiuridicità), ma è necessario che tutto il comportamento significhi un tumulto
contro la forza imperativa della norma.
Il momento di disobbedienza si ricollega alla personalità del soggetto, e la colpe-
volezza, in quanto disobbedienza, sarà sempre diversa, come diversa è la personalità di
colui che agisce.
Il raggiungimento di una adeguata maturità psichica (imputabilità) è la condi-
zione iniziale perché il soggetto comprenda il significato dannoso della sua azione nel

81
Criminologia ed elementi di criminalistica

giudizio di valore (espresso dalla norma) che impone l’inflizione di un castigo. Per cui,
la rivolta contro l’ordine giuridico si compie nella specifica dimensione individuale in
cui viene sentita l’importanza dei valori tutelati e della pretesa normativa.
I fondamenti del diritto penale consentono di giungere ad una conclusione di to-
tale e reciproca indipendenza concettuale. Il giudizio di imputabilità, infatti, riguarda
la irrogabilità della pena, mentre la colpevolezza si riassume in due passaggi fondamen-
tali, l’attribuibilità del fatto-reato e la riprovazione che ne deriva, la quale legittima la
soggezione a pena. Infatti, fra quelle azioni che, in quanto coscienti e volontarie, sono
attribuibili all’agente, potranno essergli imputate solo quelle commesse in uno stato di
capacità di intendere e di volere. L’anima originaria della colpevolezza resta, quindi, la
paternità del fatto quale responsabilità in senso meccanicistico, restando impregiudi-
cate la punibilità del soggetto sano e maturo, e la non punibilità del soggetto insano e
non maturo, e come tale non rimproverabile. Come tale, quindi, la colpevolezza è ri-
portabile a tutte le persone fisiche. Infatti, anche prescindendo dalle ipotesi specifiche
indicate agli artt. 222 e 224 c.p., è accertato che meccanismi psichici di rappresentazio-
ne e di volizione agiscono, comunque, nella mente del non-imputabile, anche se tratta-
si di meccanismi abnormi e distorti. Ed il compiuto giudizio di incapacità, presuppone
che tali meccanismi siano stati individuati anche in relazione al fatto.

La capacità di intendere e di volere

Ai sensi dell’art. 85 c.p., perché un soggetto sia imputabile e quindi punibile, oc-
corre che abbia la capacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto.
La giurisprudenza di legittimità ha ribadito che delle tre facoltà psichiche, cioè, senti-
mento, intelligenza e volontà, che caratterizzano l’azione nel suo lato subiettivo, il codi-
ce penale, ai fini della imputabilità, e quindi anche della infermità di mente, prende in
considerazione soltanto le ultime due, e non la prima: pertanto, le anomalie del carat-
tere e l’insufficienza di sentimenti etico-sociali non possono essere di per se stesse con-
siderate indicative di infermità di mente, ove ad esse non siano associati disturbi nella
sfera intellettiva o volitiva di indubbia natura patologica.
La capacità di intendere è stata definita, in dottrina, come la idoneità del soggetto
a conoscere, comprendere e discernere i motivi della propria condotta e, quindi, a valutare
questa, sia nelle sue relazioni col mondo esterno, nonché nella sua portata e nelle sue
conseguenze; in breve, a rendersi conto del valore sociale delle proprie azioni. Ciò non
ha nulla a che vedere con la coscienza della illiceità penale del fatto. La capacità di vole-
re è l’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con la possibilità di op-
tare per la condotta adatta al motivo che appare più ragionevole e, quindi, di resistere
agli stimoli degli avvenimenti esterni: più brevemente, è la facoltà di volere ciò che si giu-
dica doversi fare. Il concetto di capacità di intendere esprime, dunque, l’attitudine alla
comprensione corretta della realtà, la quale, è il risultato di funzioni variabili per quan-
tità e qualità, da individuo a individuo, o anche nella stessa persona, a seconda degli sta-
di e stati di vita. L’apprezzamento e la graduazione della capacità di intendere implica-
no una valutazione dell’intelligenza e, quindi, un’analisi dei suoi vari fattori: il grado di
comprensione, l’astrazione, l’ideazione, il giudizio, il pensiero logico, la capacità critica, la
rappresentazione simbolica, l’associazione di idee, l’immaginazione.

82
L’imputabilità

Le cause che escludono e diminuiscono l’imputabilità

Nel nostro sistema penale, le cause che escludono o diminuiscono l’imputabilità


appartengono a due specie: a) le alterazioni patologiche, dovute ad infermità di mente o
all’azione dell’alcool o a quella di sostanze stupefacenti; b) l’immaturità fisiologica o pa-
rafisiologica, dipendenti rispettivamente dalla minore età e dal sordomutismo.
In sostanza esse sono rappresentate da: 1) minore età; 2) sordomutismo; 3) vizio di
mente; 4) azione dell’alcool; 5) azione degli stupefacenti. L’art. 88 c.p. disciplina il vizio
totale di mente, statuendo che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il
fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di vo-
lere.
Nel sistema predisposto dal codice, ai fini della esclusione della imputabilità, lo
stato di mente, comprensivo sia del vizio transitorio, dovuto per lo più ad infermità fisi-
che, sia di quello permanente, provocato solitamente da infermità propriamente psichi-
che, deve dunque derivare da infermità non necessariamente localizzata nella mente e
quale che ne sia la gravità, essendo sufficiente che, da un lato, essa abbia generato uno
stato di mente tale da escludere o almeno da scemare grandemente la capacità di intende-
re e di volere e, dall’altro, che ne sia stata accertata l’esistenza al momento in cui il sog-
getto ha commesso il reato: senza che sia necessaria la sussistenza di un preciso rappor-
to eziologico tra la causa del vizio di mente ed il fatto commesso.
Il legislatore, all’art. 89 c.p., attribuisce rilevanza anche al vizio parziale di mente,
che si ha quando il soggetto, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in
tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di
volere; in tal caso, l’agente risponde del fatto commesso, ma la pena è diminuita. Il vi-
zio parziale di mente, non escludendo l’imputabilità, importa soltanto una diminuzio-
ne di pena, in aggiunta alla quale si applica, di norma (cioè in caso di soggetto ritenuto
pericoloso), la misura di sicurezza dell’assegnazione a una casa di cura e custodia (art.
219 c.p.). Si ha, quindi, il cumulo della pena con la misura di sicurezza, con preceden-
za nella esecuzione della pena restrittiva della libertà personale, fatta salva la facoltà del
giudice di disporre che il ricovero in una casa di cura e custodia venga eseguito prima
che sia iniziata o abbia termine l’esecuzione della pena.

5.2 Concetto di infermità


Il legislatore del 1930, con il termine infermità, intese limitare la rilevanza dell’in-
capacità alle sole situazioni patologiche clinicamente accertabili. Senonché, la maggio-
ranza della dottrina è concorde nel ritenere che l’infermità non può più essere circo-
scritta ai soli quadri nosograficamente definiti, e che essa esprima, quindi, un concetto
più ampio di quello di malattia mentale, il cui contenuto va determinato in base alla
ratio delle norme sull’imputabilità.
Il fatto che la disciplina legale dell’infermo di mente richiami determinate situazio-
ni naturalistiche dà ragione dell’utilità teorica e pratica del ricorso ai sussidi della scienza
psichiatrica per la corretta applicazione delle norme e delle categorie giuridiche.

83
Criminologia ed elementi di criminalistica

L’utilizzazione di tali contributi in sede giuridica non può tuttavia essere mecca-
nica. Innanzitutto, diverse sono le finalità del diritto penale rispetto a quelle della psi-
chiatria. Nel diritto penale, la ricostruzione di determinate condizioni soggettive è in
prevalente funzione dell’assoggettabilità a pena e del tipo di trattamento sanzionatorio
che deve applicarsi.
In psichiatria, invece, l’accertamento delle medesime condizioni è preminente-
mente in funzione della terapia. È ovvio, quindi, che le medesime situazioni natura-
listiche possano avere rilevanza diversa, a seconda che vengano prese in considerazio-
ne nell’ambito giuridico o in quello psichiatrico. Nella prospettiva psichiatrica, tutte
le alterazioni mentali classificabili secondo gli schemi della nosografia ufficiale, sono
considerate e trattate come malattie mentali.
Il giudice penale, sulla base di una valutazione diversamente orientata, potrebbe
invece disconoscere a quei disturbi psichici rilevanza giuridica di infermità di mente. È
infatti possibile che alterazioni mentali, classificabili come malattie in senso psichiatri-
co, siano giuridicamente irrilevanti come infermità, per non aver influito sulla capacità
di intendere e di volere. Infatti, ai fini del giudizio di non imputabilità, non basta l’ac-
certamento della infermità, ma, occorre che vi sia una connessione tra questa e l’inca-
pacità di intendere e di volere al momento del reato.
Nella normativa attuale, l’oggetto del giudizio di imputabilità passa attraverso due
fasi:

a) accertamento della infermità;


b) graduazione del pregiudizio che tale infermità ha provocato sulla capacità di intendere
e di volere.

La giurisprudenza, ai fini del giudizio di cui agli artt. 88 e 89 c.p., deve, quindi,
richiamarsi al concetto di infermità elaborato dalle scienze psicopatologiche. Ma queste
scienze sono caratterizzate dalla presenza di differenti paradigmi, ciascuno dei quali defi-
nisce in maniera diversa il concetto di malattia mentale. Ciò individua una delle ragioni
della situazione di disagio e di incertezza in cui è venuta a trovarsi la giurisprudenza.
È possibile, quindi, rintracciare orientamenti giurisprudenziali contrastanti, a se-
conda del paradigma psicopatologico, di volta in volta, assunto, quale parametro valu-
tativo del disturbo psichico.
I tre paradigmi fondamentali di definizione della malattia mentale sono:

a) quello medico;
b) quello psicologico;
c) quello sociologico.

Al paradigma medico sono da ricondurre quelle sentenze che negano la qualifica


di infermità mentale alle semplici anomalie della personalità, del carattere e del senti-
mento, in quanto non derivanti da tare patologiche, e ai disturbi del sistema nervoso,
in quanto privi di substrato organico.
È questo l’indirizzo che, seguendo una interpretazione restrittiva del concetto di
infermità, delimita i casi di vizio totale di mente alle sole ipotesi nelle quali il disturbo

84
L’imputabilità

psichico trovi riscontro in una deficienza organica. Allo stesso paradigma vanno ascrit-
te quelle decisioni che, pur non facendo riferimento alla causa organica della malattia
mentale, affermano la necessità che l’alterazione biologica sia almeno riconducibile alle
classificazioni nosografiche elaborate dalla psichiatria. In tale ottica, la giurisprudenza
ha ritenuto di escludere dalla nozione di infermità: i difetti del temperamento; i vizi del
sentimento, morali o sociali, che non siano conseguenti a una malattia clinicamente ac-
certata e catalogata dalla nosologia psichiatrica.
Tuttavia, non tutti i disturbi psichiatricamente catalogati possono essere consi-
derati infermità rilevanti ex art. 88 c.p. Infatti, le nevrosi e le psicopatie non esclude-
rebbero la capacità di intendere e di volere. In tali casi, la ragione della non rilevanza
ai fini della incapacità affonda le proprie radici in considerazioni politico-criminali di
natura general-preventiva. Seguendo tali criteri, la giurisprudenza ha eletto la psicosi a
tipologia esponenziale del vizio di mente, ritenendo che la nozione giuridica di infer-
mità, rilevante per l’esclusione o la diminuzione della capacità di intendere e di volere,
è compiutamente integrata nell’ipotesi di accertata malattia di mente in senso medico-
legale, con tale espressione facendosi riferimento a quelle alterazioni psichiche che la
scienza psichiatrica definisce psicosi e che prendono vita da processi morbosi somatici,
siano essi noti, come nelle cosiddette psicosi organiche, ovvero ignoti ma comunque
postulati, come nelle cosiddette psicosi endogene (schizofrenia e psicosi maniaco-depres-
siva), alle prime assimilate in relazione al quadro psicopatologico e alle caratteristiche
nosografiche che presentano.
Non mancano, tuttavia, sentenze che, pur ancora riconducibili al paradigma me-
dico, ritengono sufficiente, per riconoscere il vizio totale o parziale di mente, l’esistenza
di uno stato o processo morboso, indipendentemente dall’accertamento di un suo sub-
strato organico o da una sua classificazione nella nosologia psichiatrica.
Tale prospettiva può essere definita psicopatologica, ed in tale ottica, la Cassa-
zione ha precisato: l’infermità mentale rilevante ai fini dell’imputabilità deve sempre
dipendere da una causa patologica e, quindi, esulano dalla nozione di essa quelle ano-
malie caratteriali e altre anomalie del comportamento che, pur influendo sul processo
di determinazione o inibizione, non siano conseguenti ad uno stato patologico suscet-
tibile di alterare la capacità di intendere e di volere, intesa quale attitudine del soggetto
a valutare il significato, gli effetti della propria condotta e autodeterminarsi nella sele-
zione dei molteplici motivi.
Alla prospettiva psicopatologica è riconducibile anche l’orientamento che vede nel
criterio del valore di malattia il parametro di riferimento per riconoscere efficacia scu-
sante ai disturbi psichici abnormi, non inquadrabili nelle psicosi e ai limiti della salute
mentale.
All’orientamento della giurisprudenza fondato sul paradigma medico, si contrap-
pone quello fondato sul paradigma cosiddetto psicologico. In esso, si possono far rientrare
quelle sentenze che affermano la necessità di una concreta valutazione del disturbo psi-
chico, e che rifiutano riferimenti e classificazioni scientifiche enunciate in astratto. Si
sostiene infatti che, per la sussistenza del vizio di mente, non è sufficiente che il giudice
riconduca l’azione dell’imputato sotto un modello di infermità apoditticamente affer-
mato, ma è necessario che lo stesso indichi i dati anamnestici, clinici, comportamentali
o sorgenti dalle stesse modalità del fatto, rilevatori dell’asserito quadro morboso.

85
Criminologia ed elementi di criminalistica

Il concetto di infermità diventa, così, un concetto di contenuto più ampio rispetto


a quello di malattia mentale, e ciò consente di ricomprendere nel concetto di infermità
rilevante penalmente anche i disturbi mentali atipici. In alcune sentenze della Suprema
Corte si legge: a determinare il vizio parziale di mente possono essere sufficienti an-
che alterazioni psichiche atipiche, quante volte esse per la loro impotenza si risolvano
in fattori perturbativi, in accentuata misura, della capacità di intendere e di volere, in
quanto qualunque condizione morbosa, anche se difficilmente caratterizzabile sul pia-
no clinico, può integrare il vizio di mente, sempre che siano presenti connotazioni tali
da escludere o diminuire le normali capacità intellettive e volitive.
L’affermarsi in psichiatria di un altro paradigma, quello sociologico, non trova, oggi,
alcun riscontro nella prassi penalistica in tema di imputabilità.
La spiegazione del mancato riconoscimento da parte della giurisprudenza della
partecipazione sociale alla genesi della malattia mentale è costituita dal timore di un
allargamento incontrollato delle maglie della disciplina relativa alle cause di esclusione
della imputabilità, quale deriverebbe dal riconoscimento della qualifica di infermità
mentale anche ad un generico disturbo psichico di origine sociale.
L’orientamento più recente della psichiatria si caratterizza per il riconoscimento di
spazi sempre più ampi di responsabilità del malato mentale, in quanto si ammette che
anche di fronte ad una diagnosi di malattia, il paziente possa essere in grado di compiere
responsabilmente delle scelte e di autodeterminarsi.
Su questa linea si è mossa la legislazione italiana, ad esempio con la legge nº 180
del 1978, con la quale si è prevista, non solo l’eliminazione dei manicomi, ma anche
la necessità di ottenere il consenso al trattamento da parte del malato di mente. Ben
diversa si presenta la posizione con riferimento al diritto penale, dove parte della giuri-
sprudenza, richiamandosi ancora alle concezioni tipiche del paradigma medico-noso-
grafico, sembra far propria la concezione che vede un’assoluta incompatibilità tra ma-
lattia mentale e idoneità ad agire responsabilmente.

5.3 Stati emotivi e passionali


Il primum movens dell’agire umano è costituito dalle emozioni e dalle passioni
umane.
L’essere umano, dotato di ragione, di creatività, e che esercita dominio sulla ter-
ra, sugli animali, ed ha perfetta padronanza di se stesso, racchiude due parti, una intel-
lettiva, l’altra animale. Quest’ultima è la meno razionale, ma pur sempre umana, parte
animale del nostro essere, dalla quale scaturiscono le emozioni e le passioni, attributi
atavici, ancestrali dell’uomo, con i quali, insieme a sentimenti positivi, come l’affetti-
vità, l’amore, l’entusiasmo, riaffiora in determinate situazioni; una istintualità che ge-
nera gesti, talvolta apparentemente immotivati, ma comunque sempre sproporzionati
rispetto alla causa, che, riuscendo a superare la sfera della coscienza, possono indurre
alla commissione di delitti.
Aristotele, sosteneva l’esistenza di due motori dell’azione umana, la ragione e l’emo-
zione, affermando che se essi possono, nella gran parte dei casi, procedere di pari pas-

86
L’imputabilità

so, divenendo così l’emozione spinta positiva che concretizza l’azione ragionata, altre
volte, invece si scindono, potendo l’emozione causare un’azione non voluta o, addirit-
tura, non condivisa dalla ragione. Affermava, pertanto, che un’azione umana nasce da
un desiderio emozionale, oppure dalla consapevolezza di ciò che è bene, ma se l’armo-
nia tra desiderio e consapevolezza viene meno, sarà inevitabilmente la passione a pren-
dere il sopravvento. L’istintualità dell’essere umano è rappresentata dalle emozioni che
non rientrano nella sfera della ragione; ciò viene confermato anche dal fatto che due
diversi soggetti, di fronte a un’identica situazione che sia di una certa valenza affettiva,
potranno reagire con modalità completamente diverse, a seconda dell’impianto carat-
teriale; ciò equivale a dire che l’emozione va studiata nelle sue modalità di integrazione
nella struttura della personalità.
Ferracuti definisce l’emozione quale intenso turbamento affettivo di breve durata
e in genere di inizio improvviso, provocato come reazione a determinati avvenimenti,
e che finisce col predominare sulle altre attività psichiche (ira, gioia, paura, spavento,
afflizione, sorpresa, vergogna, piacere erotico, ecc).
La passione è uno stato affettivo violento e più duraturo, che tende a predominare
sull’attività psichica in modo più o meno invadente o esclusivo, sì da comportare, talo-
ra, alterazioni della condotta, che può divenire del tutto irrazionale per difetto di con-
trollo. Ad essa sono riconducibili certe forme di amore sessuale, di odio, di gelosia, di
cupidigia, di entusiasmo, di ideologizzazione politica.
In termini giuridici, l’art. 90 c.p. recita che gli stati emotivi e passionali non esclu-
dono né diminuiscono l’imputabilità. Come appare evidente da tale dettato, ai fini del-
l’imputabilità, le alterazioni dell’affettività sono ritenute irrilevanti, a meno che, non
sottendano una comprovata infermità o seminfermità di mente, nel senso che una ma-
nifestazione dell’animo, per quanto violenta possa essere, non diminuisce la responsa-
bilità dell’individuo, fino a quando è espressione di una psiche normale, ovvero per-
fettamente in grado di controllare i propri impulsi, in quanto soltanto la malattia è
veramente idonea a conferire la certezza o quanto meno consentire un motivato giudi-
zio di inimputabilità al momento del fatto.
Nozione e fondamento dell’imputabilità è l’art. 85 del codice penale, esso costitui-
sce sicuramente uno dei cardini del diritto penale italiano. Nell’articolo in questione, si
fa, quindi, riferimento all’uomo nel suo complesso, dotato della facoltà di saper valuta-
re le possibili conseguenze del proprio agire e d’altra parte, di porre la propria volontà
quale inizio e causa dell’azione stessa. In altre parole, la capacità di intendere e di volere
può essere considerata come capacità di decidersi secondo ragione, libertà di autodetermi-
narsi razionalmente.
Il presupposto dell’imputabilità è, quindi, la libertà che va intesa non come liber-
tà di poter delinquere impunemente, bensì come libertà responsabile, ossia come as-
sunzione di responsabilità rispetto alle proprie azioni liberamente deliberate. Potrem-
mo dire che la responsabilità di ogni singolo uomo, soggetto ed oggetto di diritto,
risiede nel comprendere il valore dei propri atti, essendo tale responsabilità effettiva so-
lo in caso di maturità psichica e sanità mentale, consistendo l’imputabilità, in un modo
d’essere dell’individuo, uno status della persona, e deve sussistere nel momento in cui il
soggetto ha commesso il reato. Ciò impone, pertanto, una discriminazione, intesa in
senso psichico, tra soggetti normali ed anormali, ossia consapevoli o inconsapevoli al

87
Criminologia ed elementi di criminalistica

momento del reato. L’insorgenza di uno stato emotivo o passionale, in un soggetto au-
tore di reato non inficia l’imputabilità dello stesso, in quanto, in tal caso, manca il pre-
supposto dell’anormalità psichica.
Afferma il Beltrani: “dall’infermità di mente, vanno distinti gli stati emotivi (tur-
bamenti improvvisi e passeggeri della psiche del soggetto) e passionali (odio, amore, ge-
losia, ecc.), che non escludono né diminuiscono l’imputabilità (art. 90 c.p.), ma posso-
no, al più integrare gli estremi delle attenuanti di cui ai commi 2° (l’aver agito in stato
d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui) e 3° (l’avere agito per suggestione di una
folla in tumulto) dell’art. 62 c.p.”.
È opportuno sottolineare che, perché si possa riconoscere la circostanza attenuan-
te di cui al comma 2°, il citato stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui, de-
ve essere uno stato d’animo strettamente correlato e direttamente dipendente dal fatto
che lo ha causato e deve, soprattutto, possedere il carattere dell’immediatezza; ciò signi-
fica che non deve essere confuso con l’odio, la stizza o il risentimento, che subentrano
col passare del tempo all’originaria emozione e fanno maturare in un animo divenuto
pacato il desiderio della vendetta. Per quanto attiene al comma terzo, la circostanza di
avere agito per suggestione di una folla in tumulto va valutata con una particolare ana-
lisi; non è però applicabile se si tratti di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o
dall’Autorità, e se il colpevole è delinquente abituale o professionale.
Discorso a parte merita la gelosia, che si configura come stato emotivo originante
dall’amore tradito, realmente o solo fantasticamente, che nella storia della nostra legi-
slatura ha per decenni consentito la riduzione della pena del colpevole sotto il nome
di delitto per causa d’onore, in virtù dell’ormai abrogato art. 587 del c.p. che stabiliva:
“chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne
scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata
all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stes-
sa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in
illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”. L’art. 90 c.p.,
ponendosi in evidente contrasto con quanto affermato dall’art. 587 c.p., eliminava la
causa d’onore dalle attenuanti previste per il delitto di omicidio, in quanto stati emoti-
vi come l’ira e stati passionali come l’amore, l’odio o la gelosia non diminuiscono l’impu-
tabilità. Questo, però, sempre a patto che si tratti di stati d’animo che rispecchiano
un’affettività normale, in quanto altrimenti si sconfina nel vizio di mente.
Anche qui è necessario operare una distinzione tra gelosia normale e gelosia patologi-
ca ai fini dell’erogazione o meno della pena, anche se spesso, distinguere tra una forma
e l’altra si dimostra una mera speculazione, risultando molto arduo stabilire in qual mo-
mento dalla gelosia cosidetta normale si travalichi in quella certamente patologica, e quali
segni possano rilevare in quest’ultima l’insorgere di elementi di pericolosità.
Con l’art. 90 del codice penale, il legislatore, negando ogni qualsivoglia signifi-
cato di tutto ciò che possa essere attitudine o habitus comportamentale, vuole così af-
fermare l’inconsistenza della sfera affettiva e caratteriale ai fini dell’alterazione della ca-
pacità di intendere e di volere e, quindi, della negazione dell’imputabilità. Nasce così
l’esigenza di un’indagine psichica del reo, esperita di concerto dal medico-legale e dallo
psichiatra, in sede giudiziaria, per appurare se l’azione compiuta possa considerarsi con-
sona rispetto alla personalità dell’autore, oppure rivelatrice di una frattura della stessa,

88
L’imputabilità

al fine di poter stabilire se si sia trattato di delitto impulsivo, ma frutto, comunque, di


un’attività mentale sana, o, al contrario, di uno stato solo apparentemente emotivo o pas-
sionale, ma che, in realtà, configura una vera e propria infermità di mente (es.: uno stato
delirante ad impronta paranoica, ossessiva, allucinatoria; condotta emotiva di un de-
mente; acting out di uno schizofrenico). Ciò significa che un reato compiuto nell’am-
bito di un sovvertimento psichico dovuto a subitanea forte emozione oppure ad intensa
passione, ed in quanto tale, da tempo sofferta, non configura gli estremi di cui agli artt.
88 e 89 c.p., in quanto tali stati, di per sé soli considerati, rappresentano condizioni psi-
cologiche e non già psicopatologiche dell’essere umano. Risulta, così, evidente la giustezza
di quanto sostenuto dall’art. 90 c.p., in quanto, l’aver agito sotto la spinta dall’impeto
delle passioni o in un evidente stato emotivo, non implicando alcuna compromissione
della volontà, non può compromettere l’imputabilità e, di conseguenza, la punibilità
del reo, sempre, ed è bene ribadirlo ancora una volta, finché non sia configurabile al-
cun vizio, seppur parziale, di mente.

5.4 Imputabilità e abuso di alcool e stupefacenti


Alcolismo ed uso di stupefacenti sono fenomeni che hanno sempre interessato le
scienze criminali, sia come fattori pregiudizievoli per la salute individuale e collettiva,
sia come fattori criminogeni; difatti, assumendo tali sostanze, viene favorita la genesi
di determinate condotte criminali che comportano la squalificazione sociale, l’allon-
tanamento dal lavoro, il depauperamento, il decadimento morale, lo stato di bisogno
dovuto alla tossicodipendenza, il craving (aumento).
La prevenzione rappresenta una delle azioni di contrasto nella lotta contro tali
fenomeni. La prevenzione è finalizzata, da un lato, a colpire le attività che favoriscono
le autointossicazioni voluttuarie (produzione, commercio, distribuzione di dette so-
stanze), dall’altro, a promuovere, in favore degli intossicati, interventi terapeutico-ria-
bilitativi.
La repressione, ad esempio, incrimina l’ubriachezza manifesta in luogo pubblico o
aperto al pubblico (art. 688 c.p.) e la guida in stato di ebbrezza (art. 132 c.s.). Il nuovo
codice della strada sanziona anche la guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti.
La norma prevede che in caso di incidente o quando si abbia ragionevole dubbio che
il conducente sia sotto l’effetto conseguente all’uso di sostanze stupefacenti o psico-
trope, gli agenti di Polizia Stradale hanno facoltà di procedere, attraverso l’etilometro, a
misurare la quantità di alcool presente nel sangue, o ad accompagnarlo presso struttu-
re pubbliche per il prelievo di campioni di liquidi biologici (nel caso di sospetto uso di
sostanze stupefacenti).
Da un punto di vista medico legale, si dovrebbe concludere che chi commette
un reato sotto l’azione dell’alcool o di stupefacenti deve considerarsi inimputabile o
semimputabile, se la sua capacità di intendere o di volere è esclusa o grandemente sce-
mata. Tale impostazione non è stata tuttavia recepita dal legislatore del ‘30, il quale, in
materia, si è ispirato a criteri di notevole severità, per evidenti ragioni di politica cri-
minale. Ai sensi degli artt. 91 e 93 c.p., l’intossicazione accidentale, ovvero incolpevole,

89
Criminologia ed elementi di criminalistica

da sostanze alcoliche o stupefacenti può escludere o diminuire la capacità di intendere


e di volere. L’art. 91 c.p. dispone: “non è imputabile chi, nel momento in cui ha com-
messo il fatto, non aveva la capacità di intendere o di volere a cagione di piena ubria-
chezza derivata da caso fortuito o forza maggiore. Se l’ubriachezza non era piena, ma
era tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere,
la pena è diminuita”.
Perché possa configurarsi tale ipotesi, l’ubriachezza deve essere involontaria nella
causa. In questa nozione rientra pertanto l’ubriachezza non intenzionale, ma non quella
accidentale, ad esempio quella che dipende da negligenza o imprudenza, poiché, in tal
caso, è involontario l’effetto, ma non la causa. Per tale motivo, l’ubriachezza accidentale
è da escludersi non solo nel caso in cui il soggetto volle bere eccessivamente, pur senza
l’intenzione di ubriacarsi, ma anche quando la contratta ubriachezza dipese da errore
colposo dello stesso.
Dottrina e giurisprudenza spiegano che l’ubriachezza deriva da caso fortuito o for-
za maggiore quando è determinata da un fatto imprevedibile o incalcolabile che inter-
ferisce di sorpresa nel comportamento del soggetto, in modo da provocare un evento
che non si possa, con le ordinarie cautele, evitare (caso fortuito, ad esempio, quando si
scambi per un errore scusabile, dell’alcool puro per una bevanda innocua), ovvero da
una energia esterna, naturale o umana, inevitabile ed irresistibile, che soggioga la vo-
lontà e la resistenza del soggetto (forza maggiore, come nell’ipotesi dell’operaio addetto
ad una distilleria che si è ubriacato per aver lavorato in un ambiente saturo di vapori
alcolici in seguito ad un guasto dell’impianto, o del soggetto ubriacatosi per coazione
o inganno altrui).
La circostanza di essere stato ubriacato da altri, senza costringimento o inganno,
non è, quindi, sufficiente a rendere accidentale l’ubriachezza.
Analoga disciplina è prevista dall’art. 93 c.p. (che espressamente rinvia all’art. 91)
per il caso che il fatto sia commesso sotto l’azione, non ascrivibile a colpa dell’agente, di
sostanze stupefacenti. L’ubriachezza accidentale piena, cioè quella che toglie la capacità
di intendere e di volere, porta al proscioglimento dell’imputato perché non imputabi-
le. Trattandosi di uno stato transitorio, che scompare quando l’azione dell’alcool svani-
sce, non possono applicarsi le misure di sicurezza destinate ai casi di proscioglimento
per cronica intossicazione.
È, tuttavia, possibile che lo stato di incapacità sopraggiunga ad un soggetto già affet-
to da vizio di mente: per cui, se l’agente è affetto da vizio totale di mente, l’intossicazione
accidentale nulla toglie e nulla aggiunge ad uno stato mentale già di per sé ricompreso
nella sfera di operatività dell’art. 88 c.p.; in tal caso, si applicherà solo quest’ultimo. Se
l’agente è invece affetto da vizio parziale di mente, la situazione muta: l’art. 91 sarà ap-
plicabile se ubriachezza ed intossicazione da stupefacenti siano piene, cioè produttive di
una totale incapacità di intendere e di volere.
Se l’intossicazione accidentale scemi grandemente, senza escluderla, la capacità di
intendere o di volere, il soggetto, fruisce di una diminuzione di pena, poiché, in tal ca-
so, la ingestione di sostanze alcoliche o stupefacenti nulla ha innovato rispetto allo sta-
to mentale nel quale il soggetto già si trovava, così che l’agente potrà fruire di un’unica
riduzione di pena, e precisamente quella contemplata dall’art. 89 c.p. cui dovrà ovvia-
mente essere aggiunta la misura di sicurezza, altrimenti inapplicabile alla stregua del-

90
L’imputabilità

l’art. 91 c.p.; salvo ammettere che il giudice possa ugualmente farvi ricorso, qualora do-
vesse ritenere l’agente pericoloso sulla scorta di un accertamento condotto ai sensi degli
artt. 202 e 203 c.p. Non fa scemare, né esclude l’imputabilità, l’ubriachezza volontaria
o colposa, ovvero l’ebbrezza contratta con il proposito di ubriacarsi, o colposa, cioè vo-
lontaria nella causa anche se involontaria nell’effetto.
L’art. 92 primo comma c.p. statuisce che l’ubriachezza non derivata da caso fortuito
o forza maggiore non esclude né diminuisce l’imputabilità; l’art. 93 c.p. estende poi tale
disciplina anche al soggetto che agisca sotto l’azione di sostanze stupefacenti volonta-
riamente o colposamente assunte.
Tale disciplina si è posta in aperto contrasto con quanto invece era previsto dal co-
dice Zanardelli che, all’art. 48, stabiliva forti diminuzioni di pena per il delitto commes-
so in stato di ubriachezza volontaria, e una circostanza attenuante per il reato commesso
in stato di ubriachezza abituale. Le dispute sorte in dottrina riguardano anzitutto il tito-
lo della responsabilità per il reato commesso. Le soluzioni prospettate sono state varie:
dalla responsabilità oggettiva alla responsabilità a titolo di colpa, dalla responsabilità a ti-
tolo di dolo o colpa in base all’atteggiamento psichico del soggetto nel momento in cui
si è ubriacato, alla responsabilità, sempre a titolo di dolo o colpa, ma sulla base dell’ele-
mento psicologico che ha sorretto il fatto commesso nello stato di ubriachezza.
Una parte della dottrina meno recente, riproponendo lo schema dell’actio libera
in causa, sosteneva che per accertare l’elemento psicologico del reato commesso dal-
l’ubriaco, occorresse risalire al momento nel quale egli si pone in stato di ebrietà: per
cui, se egli si è ubriacato intenzionalmente, risponderà a titolo di dolo; se si è ubriacato
per imprudenza o negligenza, risponderà a titolo di colpa. Ad esempio, se Caio parteci-
pando ad una allegra cena con alcuni amici non riesce a controllarsi nel bere e finisce,
suo malgrado, col perdere l’autocontrollo, ove provochi più tardi la morte di una per-
sona, risponderà, comunque, di omicidio colposo.
Ciò si verifica sia che l’evento letale consegua a un involontario incidente stradale
dovuto ad eccesso di velocità, sia che esso derivi da una decisione volontaria influenza-
ta proprio dallo stato di ubriachezza (Caio, in preda all’alcool, non riesce a controllare
lo scatto d’ira che lo spinge ad uccidere il commensale che lo prende in giro per scher-
zo). Per spiegare la ratio essendi della responsabilità nelle suddette ipotesi, si è fatto rife-
rimento alla categoria non dogmatica della actio libera in causa, elaborata dalla teologia
morale, per inquadrare le ipotesi in cui, pur mancando la libera volontà nel momento
dell’atto esteriore, il peccato sussiste ugualmente, in quanto può essere riportato ad un
precedente libero atto del volere.
Si è obiettato che, in tal modo, si confonde lo stato psicologico che provoca la con-
dizione di ubriachezza con quello che accompagna e provoca la successiva commissione
dello specifico reato. Una tale impostazione, inoltre, rischia di punire come colposi delit-
ti commessi volontariamente (come nell’esempio prima riportato di Caio che uccide il
commensale) e, viceversa, di punire come dolosi delitti involontari che seguono ad uno
stato di ubriachezza volontaria (ad esempio Caio, ubriacatosi volontariamente, provo-
ca successivamente la morte di un terzo a causa di un incidente automobilistico dovuto
ad imprudenza). Antolisei sostiene che una tale teoria non considera che, per la respon-
sabilità dolosa è necessario che il risultato sia voluto, il che non può dirsi per il solo fat-
to che l’agente si è ubriacato volontariamente. Per questo si ritiene che tale tesi non sia

91
Criminologia ed elementi di criminalistica

conciliabile con il diritto positivo. Dottrina e giurisprudenza dominante ritengono che


dolo e colpa vadano accertati con riferimento al momento in cui il reato viene commes-
so. Il giudice, pertanto, dovrà accertare l’elemento soggettivo che, concretamente, ha
illuminato il fatto secondo i normali principi dettati dall’art. 43 codice penale; per cui
l’intossicazione da sostanze alcoliche o stupefacenti sarà dolosa quando il reo, oltre ad
aver voluto la condotta (assunzione delle sostanze alcoliche o stupefacenti), se ne rap-
presenta le conseguenze (il risultante stato di intossicazione). Essa sarà colposa quan-
do il soggetto ha assunto le sostanze alcoliche o stupefacenti, senza rappresentarsi, pur
potendolo, la conseguente intossicazione.
Allo scopo di rendere l’art. 92 primo comma più compatibile con i principi costi-
tuzionali della responsabilità penale che richiede sia la imputabilità che la colpevolezza,
parte della dottrina più recente, muove dal rilievo che la disposizione normativa in
esame si limita ad affermare che la ubriachezza lascia sussistere la piena imputabilità,
ma non dice che tale imputabilità implichi anche l’automatica colpevolezza per il fat-
to commesso.
Per riportare anche la disciplina di cui all’art. 92 c.p. al principio della responsa-
bilità penale personale occorre fare riferimento al momento in cui il soggetto si ubria-
ca, affermando che, in caso di ubriachezza piena, l’agente risponde: 1) a titolo di dolo,
se si è ubriacato nonostante la previsione della commissione del reato ed accettando-
ne il rischio; 2) a titolo di colpa, se il reato, al momento in cui si ubriacò fu da lui pre-
visto ma non accettato o, comunque, era prevedibile ed evitabile come conseguenza
dell’ubriachezza, sempre che si tratti di reato previsto dalla legge anche come colpo-
so.
Si è poi discusso se l’art. 92 c.p., primo comma, sia applicabile quando l’agente,
che, volontariamente o colposamente, si è posto in stato di ubriachezza o di ebbrezza
da stupefacenti, sia già, all’atto di acquisire l’ebrietà, incapace di intendere o di volere
per vizio totale di mente o parziale: in entrambi queste ipotesi, sia che si ritenga che
l’art. 92 c.p. dia luogo ad una finzione di imputabilità considerandosi pienamente
capace un soggetto che naturalisticamente non lo è, sia che in detta norma si ravvi-
si più semplicemente l’affermazione del principio in base al quale una certa causa di
incapacità naturalistica non è rilevante per l’ordinamento penale, le conclusioni non
mutano. Nel senso che, presupponendo l’art. 92 in ogni caso un soggetto pienamen-
te capace di intendere e di volere al momento di porsi in stato di ebrietà, ed una vol-
ta accertato che il soggetto al momento della commissione del reato era affetto da vi-
zio totale o parziale di mente, si applicheranno rispettivamente gli artt. 88 e 89 c.p.,
fatta naturalmente salva, al giudice, la facoltà nel determinare, in concreto, la specie
e l’entità della sanzione, e di tener conto delle particolari condizioni psichiche del-
l’agente.
Una menzione particolare merita, infine, il secondo comma dell’art. 92 c.p., il
quale dispone: “se l’ubriachezza era preordinata al fine di commettere il reato o di prepa-
rarsi una scusa, la pena è aumentata”. Tale disposizione viene richiamata anche per il
fatto commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti. Secondo l’orientamento preva-
lente, il comma in esame sarebbe direttamente collegabile all’art. 87 c.p., il quale reci-
ta che “la disposizione della prima parte dell’art. 85 non si applica a chi si è messo in stato
d’incapacità di intendere e di volere al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa”.

92
L’imputabilità

L’unica peculiarità dell’art. 92 comma 2, è data dal fatto che, in tal caso, a differenza
dell’art. 87 c.p., al reato commesso si applica un aumento di pena.
Entrambe le disposizioni sarebbero poi riconducibili, secondo parte della dottrina,
alla categoria dell’actio libera in causa.
Fiandaca e Musco sostengono che secondo tale principio l’incapacità preordinata
deroga alla regola della coincidenza temporale tra imputabilità e commissione del fatto
criminoso, senza disattendere il principio di colpevolezza. Infatti, nell’ipotesi prevista
al primo comma dell’art. 92 c.p., il soggetto, in un primo momento, si ubriaca (per il
piacere di farlo o per causa involontaria), e, successivamente, commette il reato (non
programmato in anticipo al momento di porsi in stato di ubriachezza).
Nel caso dell’ubriachezza preordinata, il soggetto si ubriaca allo scopo di commet-
tere un reato: ciò, perché, lo stato di ubriachezza, esercitando un’azione disinibente sul
soggetto, facilita la commissione del proposito criminoso.
Con la locuzione al fine di prepararsi una scusa, il legislatore fà riferimento non al
semplice porsi in stato di incapacità, ma alla prospettazione di uno stato di incapacità
tale da escludere il ricorso alla sanzione. Continuando l’esame delle disposizioni nor-
mative, l’art. 94 primo comma c.p. dispone: “se il reato è commesso in stato di ubriachez-
za (non accidentale) e questa è abituale, la pena è aumentata”. Agli effetti della legge pe-
nale, è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato
di frequente ubriachezza.
Il secondo comma dell’articolo prosegue: “l’aggravamento di pena previsto nella pri-
ma parte di questo articolo si applica anche quando il reato è commesso sotto l’azione di
sostanze stupefacenti da chi è dedito all’uso di tali sostanze”. Ai fini dell’aggravamento di
pena occorre quindi: a) uno stato di intossicazione alcolica (o da sostanze stupefacen-
ti) acuta volontaria o colposa; b) la commissione in tali condizioni di un reato; c) l’abi-
tualità.
Perché possa configurarsi la figura giuridica dell’abitualità, devono concorrere due
requisiti: la dedizione all’uso di alcolici e il frequente stato di ubriachezza. La dedizione
all’uso indica un vizio continuativo, una consuetudine viziosa di vita. I singoli episodi di
intossicazione, infatti, devono essere tali da dar luogo a ubriachezza, e inoltre, devono
essere frequenti, e cioè, tali da confermare la dedizione all’uso (e non la semplice pro-
clività).
In sostanza, occorre che lo stato di ebbrezza nel quale viene commesso il reato co-
stituisca un episodio del sistema di vita dell’individuo. Fatti saltuari, o anche periodici
di ubriachezza, non bastano a stabilire in concreto l’ubriachezza abituale. Per accerta-
re l’abitualità non è necessario che la prova di essa risulti da precedenti condanne per
reati commessi in stato di ubriachezza, o per il reato di manifesta ubriachezza ex art.
688 c.p.
È noto che si può essere dediti abitualmente all’ubriachezza, anche senza aver mai
subito tali condanne. L’ubriachezza abituale non esclude che quella crisi alcolica acuta
che si riconnette al reato attuale sia stata procurata per facilitare il reato o per procu-
rarsi una scusa. In tal caso, l’aggravante per l’ubriachezza abituale concorrerà con l’ag-
gravante per l’ubriachezza preordinata (art. 92 c.p.).
L’art. 94 c.p. non specifica quale aggravamento importi l’ubriachezza abituale. In
tal caso si applica l’art. 64 c.p., il quale dispone che quando ricorre una circostanza

93
Criminologia ed elementi di criminalistica

aggravante, e l’aumento di pena non è determinato dalla legge, è aumentata fino ad un


terzo la pena che dovrebbe essere inflitta per il reato commesso.
Tali regole valgono anche per l’ebbrezza da stupefacenti. Si tenga conto però che
ai sensi dell’ultimo comma dell’art 94 c.p., perché si abbia abitualità non è richiesto il
frequente stato di ebbrezza da stupefacenti, ma è sufficiente che il soggetto sia dedito
all’uso di stupefacenti.
Vincenzo Manzini sostiene che nel concetto di dedito all’uso è insito quello dello
stato frequente di alterazione psichica (richiesto esplicitamente per l’ubriachezza abitua-
le), perché non si può essere dediti all’uso delle dette sostanze senza subirne frequen-
temente l’azione intossicatrice acuta. La specificazione contenuta nel codice si spiega
proprio perché si può essere benissimo dediti all’uso di bevande alcoliche senza entrare
mai, o entrando raramente in stato di ubriachezza. L’ubriachezza abituale, con conse-
guente aggravamento di pena, come ipotesi autonoma contrapposta alla intossicazione
cronica da alcool (o da sostanze stupefacenti) è stata criticata fin dalla sua introduzione.
Valga ad esempio di ciò quanto scrive Mantovani secondo il quale l’ipotesi autonoma
di ubriachezza abituale è ritenuta discutibile in teoria e di non facile accertamento pra-
tico, poiché mal si concepisce un ubriaco abituale che non versi in situazione patologi-
ca di intossicazione perdurante e, inoltre, perché negli etilisti abituali si ha un graduale
cedimento dei freni inibitori con una sempre minore capacità di resistenza al bisogno
cogente di alcool. La labilità della distinzione sarebbe inoltre dimostrata dal fatto che il
codice, con evidente contraddizione, prevede all’art. 221 c.p., la casa di cura e custodia
anche per gli abituali. Tuttavia, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, si ritiene
che tale distinzione sia fondata. È la stessa giurisprudenza a sostenere che l’ubriachezza,
anche se abituale, è sempre una intossicazione acuta, uno stato transeunte che dà luo-
go ad una manifestazione episodica di perturbamento delle facoltà psichiche, ma che
una volta cessata, lascia il soggetto in condizioni normali. Viceversa, l’alcolismo croni-
co (al pari della stupefazione cronica) è un’intossicazione stabile, un’affezione cerebrale
che ingenera vere e proprie psicopatie che permangono anche indipendentemente dal
rinnovarsi delle crisi alcoliche.
Ai sensi dell’art. 95 c.p., per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione pro-
dotta da alcool ovvero da sostanze stupefacenti, si applicano le disposizioni contenute
negli artt. 88 e 89 del codice penale. Tali disposizioni sono quelle relative al vizio tota-
le e parziale di mente. Rinviando a quanto già detto in tema di vizio di mente, è chiaro
che l’intossicazione cronica deve aver ingenerato uno stato di mente tale da escludere la
capacità di intendere o di volere, o da grandemente scemarla; in tal caso, l’intossicato,
non è punibile o è punibile con pena ridotta, e sottostà alle misure di sicurezza previste
per i suddetti vizi di mente (artt. 219, 222 c.p.).
La definizione della situazione descritta nell’art. 95 c.p. come cronica intossicazio-
ne da alcool o da sostanze stupefacenti è, tuttora, oggetto di controversia. Dalla relazione
del ministro Rocco al codice penale risulta che il legislatore del 1930 aveva ben pre-
sente l’incertezza di confini riscontrabile tra intossicazione cronica e dedizione all’uso
di stupefacenti che, dal punto di vista del sistema sanzionatorio, veniva equiparata alla
figura dell’ebbrezza abituale. Ma credette di poter cogliere la distinzione nel carat-
tere pur sempre acuto, anche se abitualmente ripetentesi, dell’ebbrezza abituale, e nel
carattere cronico della situazione di cui all’art. 95, sino al punto di descrivere la croni-

94
L’imputabilità

ca intossicazione come un processo patologico permanente, un’affezione cerebrale, tale da


produrre un progrediente e caratteristico abbrutimento del carattere e da dare origine
a vere e proprie psicopatie.
Talvolta, la Cassazione ha aggiunto il requisito della irreversibilità o ineliminabi-
lità, cioè dell’impossibilità di guarigione. In una sentenza della Suprema Corte è pos-
sibile leggere: “l’intossicazione che, a norma dell’art. 95 c.p. in relazione agli artt. 88 e
89 dello stesso codice, influisce sulla capacità di intendere e di volere è solo quella che,
per il suo carattere ineliminabile e per la impossibilità di guarigione, provoca alterazio-
ni patologiche permanenti, tali da far apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte ad
una vera e propria malattia psichica”. Invece, l’intossicazione temporanea, pur se altera
la capacità di intendere e di volere, non influisce, tranne che derivi da caso fortuito o
forza maggiore, sull’imputabilità, e non è giuridicamente rilevante, anche se si innesti
in uno stato patologico preesistente che di per sé diminuisca, senza escluderla, la capa-
cità intellettiva e volitiva del soggetto.
In un’altra sentenza della Corte di Cassazione si è negato che a sostegno del com-
portamento criminoso del tossicodipendente possa ricorrere la scriminante dello stato
di necessità ex art. 54 c.p., dato l’istinto irrefrenabile che, in modo compulsivo, spinge il
soggetto ad una continua ricerca della sostanza.
Il fenomeno della compulsione, che caratterizza lo stato di tossicodipendenza, non
può essere indice dell’esistenza del vizio di mente, in quanto, l’art. 54 c.p. presuppone
che lo stato di necessità non sia stato volontariamente determinato dall’agente, mentre
l’uso e l’abuso di sostanze stupefacenti o alcoliche con conseguente bisogno di assumer-
ne in quantità sempre maggiori, è imputabile allo stesso soggetto.
Circa la configurabilità dello stato di necessità nel comportamento del tossicodipen-
dente in crisi di astinenza esiste una pronuncia per la quale l’applicabilità di tale scrimi-
nante al tossicodipendente autore di reato non è esclusa dalla considerazione che trat-
tasi di comportamento volontariamente assunto, in quanto, ciò che rileva, è la sindrome
di astinenza che può essere conseguenza o di apprezzabili tentativi di disintossicazione
o delle difficoltà, non volontariamente causate, di reperire la droga.
In tal senso, è degna di particolare menzione una sentenza del 1983 in materia
di eroinomania, dove testualmente si legge: “l’eroina esercita una devastante azione di-
struttrice sui sentimenti e sulla volontà di chi ne abusa, sì da distogliere, deviare ed
alterare i primi, subordinati all’esclusivo interesse di comunque assicurarsi la droga, e
da esaltare il dinamismo della volontà nella prevalente direzione di quell’interesse da
incondizionatamente soddisfare, determinando, sotto il profilo giuridico, una condi-
zione di inferiorità psichica.
Il precario apparente ed innaturale equilibrio scandito dalle periodiche assunzio-
ni di droga, il ritmo delle quali è proporzionale al grado di assuefazione, si labializza,
col fatale esaurirsi degli effetti della dose di sostegno, sino a risolversi nella cosiddetta
crisi di astinenza, che è condizione propriamente patologica, configurante un autenti-
co vizio di mente.
Altra questione controversa è la parificazione attuata dalla disciplina codicistica
dell’azione dell’alcool a quella degli stupefacenti, la quale risponde, secondo molti, a una
visione non corretta o incompleta dei due fenomeni e delle loro differenze. L’equipa-
razione tra l’assunzione di alcool e di sostanze stupefacenti nasce, dunque, non tanto da

95
Criminologia ed elementi di criminalistica

valutazioni biologiche e tossicologiche, quanto da un giudizio di valore che accomuna


le due situazioni, nel senso che il ricorso all’alcool o agli stupefacenti, ed il loro abuso,
rispondano sempre e comunque ad una scelta ovvero, secondo la cultura, corrente al-
l’epoca in cui fu approvato il codice, ad un vizio
In realtà, alcolismo e dipendenza da stupefacenti si presentano quali fenomeni dif-
ferenziati, non solo sul piano delle motivazioni, ma anche e soprattutto, su quello degli
effetti e delle conseguenze dell’intossicazione. Inoltre, mentre per l’alcolismo le cono-
scenze cliniche e biologiche consentono di discriminare sul piano diagnostico l’intossi-
cazione cronica dagli altri gradi di intossicazione, ciò non può dirsi per le intossicazioni
da sostanze stupefacenti. In particolare, manca in queste ultime, una patologia somati-
ca o neurologica specifica e soprattutto, va sottolineata la diversità delle risposte indi-
viduali alle sostanze stupefacenti, in relazione a caratteristiche e disturbi di personalità,
a modalità, a momento psichico e di assunzione.
In merito alla assunzione protratta, la sintomatologia clinica è poco significativa,
fatta eccezione per la crisi di astinenza, la cui tipologia varia in rapporto a fattori indi-
viduali, oltre che in rapporto ai diversi tipi di sostanza. Lo stesso parametro delle sin-
dromi di astinenza è aleatorio e risulta scarsamente utilizzabile in psichiatria forense,
dato che la valutazione medico-legale si svolge a distanza di tempo dal momento della
commissione del fatto in stato di supposta intossicazione cronica.
Solo in rapporto alla intossicazione da alcool è possibile configurare una patolo-
gia di rilievo somatico, neurologico e psichiatrico che abbia caratteristiche di perma-
nenza e che sia costantemente osservabile oltre la cessazione dell’abuso, dando luo-
go a parametri di rilievo nosografico. Lo stesso non può dirsi per l’intossicazione da
sostanze stupefacenti, la cui disciplina penalistica non trova validi supporti sul piano
biologico.

5.5 Imputabilità dei minorenni


Partendo dall’assunto che il minore non ha ancora raggiunto un grado di sviluppo
fisico e psichico tale da poter comprendere il valore etico-sociale delle proprie azioni,
tale da distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, anche il nostro codice consi-
dera la minore età tra le cause di esclusione dell’imputabilità.
Ma qual è il limite di età a partire dal quale si può ritenere il soggetto capace di in-
tendere e di volere? Se ci limitassimo semplicemente a seguire l’orientamento proprio
delle scienze psicologiche, dato che l’età della maturazione psichica non è uguale per
tutti, ma varia da persona a persona, si procederebbe ad un accertamento caso per caso.
Ci sono però esigenze giuridiche di certezza, uguaglianza e praticità dell’accertamento
che impongono l’adozione di un criterio cronologico, il quale, sulla base dei dati offerti
dall’esperienza, deve essere altamente presuntivo della raggiunta maturità.
Una prima acquisizione fatta riguarda la non necessaria coincidenza tra la matu-
rità fisica e quella psichica. Se infatti abbiamo assistito ad un’anticipazione di 2-3 anni
dello sviluppo puberale e intellettuale, questa, non è stata accompagnata da una matu-
razione affettiva, per cui l’età evolutiva si protrae nel periodo post-adolescenziale, con-

96
L’imputabilità

cludendosi con la raggiunta maturità tra i 18 e i 25 anni, a seconda della costituzione,


della razza, della religione, e così via.
Per quanto riguarda la situazione italiana preunitaria, il codice penale sardo del
‘59 considerava imputabili i quattordicenni e prevedeva, nei confronti dei minori di ta-
le età, un accertamento individuale per verificarne in concreto la capacità o meno di di-
scernimento; i codici parmense ed estense, invece, fissavano il limite della minore età
a dieci anni. Il Codice Zanardelli, come abbiamo detto, considerava non imputabili i
minori di nove anni e poi prevedeva delle fasce di età (9-14, 14-18, 18-21) per le quali
l’imputabilità era o subordinata alla prova del discernimento o diminuita. Già molte le-
gislazioni straniere della prima metà del ‘900 avevano elevato la soglia dell’imputabilità
all’età di 13, 14 o 15 anni. Ma altre, ancora più di recente, hanno elevato ulteriormen-
te l’inizio dell’imputabilità, facendola cominciare a 16 anni, come per il codice russo
del 1960, a 17 anni, come prevede il codice polacco del 1970, oppure, addirittura, a
18 anni, secondo il codice brasiliano. Accanto a questi esempi, possiamo trovare un’ec-
cezione, rappresentata dal codice di San Marino del 1975 che, in considerazione della
precocità dei giovani d’oggi, ha abbassato all’età di dodici anni l’imputabilità assoluta.
Il Codice Rocco ha innanzitutto elevato, rispetto al suo predecessore, il limite della
non imputabilità assoluta a 14 anni, elevamento giustificato dalla necessità di fondare
l’imputabilità sulla certezza che l’agente abbia la capacità di intendere e di volere, e tale
certezza, secondo i più recenti studi, devesi senz’altro escludere fino agli anni quattor-
dici per tutti i minori.
In secondo luogo, ha fissato il termine della minore età e l’inizio della piena im-
putabilità a diciotto anni compiuti. La maggiore età penale corrisponde quindi, oggi, a
quella stabilita per la completa maturità dal diritto pubblico e dal diritto privato, evi-
tando così il divario presente, invece, sotto il Codice Zanardelli, che fissava la maggiore
età, ai fini non penali, a 21 anni.
Infine, i minorenni sono divisi in due categorie: i minori di quattordici anni e i
minori fra i quattordici e i diciotto anni. Mentre i primi sono considerati assolutamente
incapaci di intendere e di volere, i secondi sono soggetti ad un accertamento della loro
imputabilità o non imputabilità da parte del giudice.
L’imputabilità del minore risulta quindi subordinata ad un criterio cronologico:

- fino a quattordici anni il minore non è mai imputabile, perché nei suoi confronti
è prevista una presunzione assoluta di incapacità, senza cioè prova contraria. L’art.
97 stabilisce, infatti, che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il
fatto, non aveva compiuto i quattordici anni;
- fra i quattordici e i diciotto anni il minore è imputabile solo se il giudice ha accer-
tato che al momento del fatto aveva la capacità di intendere e di volere. L’art. 98
rinuncia, infatti, a qualsiasi presunzione e subordina l’eventuale affermazione della
responsabilità penale al concreto accertamento della capacità naturale: è imputabi-
le chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto quattordici anni, ma
non ancora diciotto, se aveva la capacità di intendere e di volere.

L’art. 97 pone una presunzione assoluta di non imputabilità che prescinde dal-
l’effettivo riscontro della capacità di intendere e di volere e che quindi non può essere

97
Criminologia ed elementi di criminalistica

superata neanche se il minore infraquattordicenne si presenta, di fatto, perfettamen-


te capace. Siamo di fronte ad una presunzione iuris et de iure di incapacità, in quanto il
giudice, quando abbia costatato la minore età dell’imputato, non può sostituire alla
volontà del legislatore un proprio convincimento positivo in merito alla presenza del-
l’imputabilità.
Si potrebbe dire che questa è l’unica causa di esclusione dell’imputabilità apparen-
temente costruita, non in relazione al concetto di capacità di intendere e di volere, ben-
sì sulla base di un dato puramente formale quale l’età anagrafica. Però è evidente che il
legislatore ha escluso l’imputabilità del minore di quattordici anni proprio perché, sul-
la base dell’id quod plerumque accidit, è ragionevole pensare che questi, in ragione della
sua giovanissima età, sia sfornito di detta capacità. Bettiol sostiene che tale limite di età
è piuttosto elevato, esso è però in linea con le risultanze della dottrina italiana e stranie-
ra. Qui, in realtà, si considera esclusa, non tanto la capacità di intendere, che solitamente
viene acquisita molto prima di compiere quattordici anni, quanto piuttosto quella di
volere, dalla quale, infatti, si fa dipendere la formazione del carattere e della personalità.
E, dal momento che la personalità del minore di quattordici anni è ancora in fieri,
si cerca di non impedirne il regolare sviluppo prevedendo, appunto, la non applicazio-
ne della sanzione penale. Senza dubbio, può capitare che, in certi casi, la presunzione
di non imputabilità prevista dall’art. 97 risulti gravosa, perché in contrasto con la realtà
naturalistica, ma, giuridicamente, non vi è nulla da fare: tanto più è elevato il limite di
età al quale si vuole riferire l’incapacità, tanto più gravosa è la presunzione.
La presunzione di non colpevolezza dell’art. 97 è insuperabile nei confronti di chi
non abbia ancora quattordici anni, quindi, non possono essere adottate nei suoi con-
fronti misure penali che implichino un addebito di responsabilità; se, per ipotesi, ciò
accadesse e venisse pronunciata una condanna a carico del minore, la sentenza dovreb-
be considerarsi inesistente, e tale inesistenza, secondo la giurisprudenza prevalente,
può essere rilevata anche dal giudice dell’esecuzione. Diverso è il caso in cui la condan-
na sia stata emessa non per omessa considerazione dell’età inferiore ai quattordici anni
dell’autore del reato, ma sulla base di un erronea indicazione della data di nascita. In
questo caso, bisogna distinguere due ipotesi: se si è trattato di un errore materiale di indi-
cazione negli atti processuali, ma il procedimento si è comunque svolto nella consape-
volezza del fatto che si trattava di un infraquattordicenne, è lo stesso giudice che emet-
te la sentenza a procedere alla correzione dell’errore; se, invece, il rinvenimento dell’atto
di nascita è successivo o successiva è la scoperta della falsità dell’atto stesso, la soluzione
più corretta sembrerebbe quella della revisione del processo, dal momento che occorre
una nuova valutazione degli atti alla luce delle nuove circostanze.
Ai sensi dell’art. 26 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 448 del 22 set-
tembre 1988, il giudice, in ogni stato e grado del procedimento, quando accerta che
l’imputato è minore degli anni quattordici, pronuncia, anche d’ufficio, sentenza di non
luogo a procedere, trattandosi di persona non imputabile. Nonostante la sua apparente
chiarezza, l’art. 26 ha sollevato alcuni dubbi. In particolare il problema è se questa nor-
ma imponga sempre e comunque, laddove il fatto sia addebitato al minore infraquat-
tordicenne, di dichiarare la non imputabilità mediante sentenza, o se si possa utilizza-
re anche il decreto di archiviazione, il quale, tra l’altro, evita l’iscrizione nel casellario
giudiziale.

98
L’imputabilità

Se, infatti, la individuazione della natura del provvedimento (sentenza) non dà adi-
to ad incertezze quando a provvedere è il giudice dell’udienza preliminare o del dibat-
timento, il problema nasce quando il Pubblico Ministero si sia accorto, nel corso delle
indagini, della non imputabilità dell’indagato e abbia richiesto al giudice per le indagi-
ni preliminari, organo monocratico, espressa declaratoria di non imputabilità. Mentre la
giurisprudenza, infatti, sembra prevalentemente orientata verso un’applicazione lettera-
le della norma e quindi, conseguentemente, verso l’adozione di sentenze di non luogo a
procedere per difetto di imputabilità, indipendentemente dallo stato e grado del procedi-
mento, la dottrina, invece, pare orientata in senso opposto: il giudice per le indagini pre-
liminari, in presenza di un minore di quattordici anni, anche se il Pubblico Ministero
erroneamente richiede sentenza di non luogo a procedere per non imputabilità, dovreb-
be adottare decreto di archiviazione per infondatezza dell’accusa, potendo emettere sen-
tenza di non luogo a procedere solo nei casi in cui la declaratoria di non imputabilità sia
successiva all’effettivo esercizio dell’azione penale. Affinché venga pronunciato il pro-
scioglimento per inimputabilità dell’agente, occorre, peraltro, che il fatto realizzato sia
conforme al tipo legale e dunque, benché non colpevole, comunque antigiuridico.
Tutto questo, non vuol dire che il minore di quattordici anni, prosciolto per difet-
to di imputabilità, debba incondizionatamente essere lasciato libero, anche se è peri-
coloso: al minore non imputabile che viene contestualmente riconosciuto pericoloso può
essere applicata, infatti, una misura di sicurezza. Perché possa essere stabilita una tale
misura occorre, però, che la pericolosità sociale del minore sia stata concretamente accerta-
ta. Le presunzioni di pericolosità sociale sono state infatti abolite, dapprima in sede di
giurisprudenza costituzionale, poi, anche, in sede legislativa con la legge n. 663 del 10
ottobre 1986. Per quanto riguarda la nozione stessa di pericolosità del minore, bisogna
fare riferimento all’art. 37, comma 2, del D.P.R. n. 448/1988, che stabilisce requisiti
più specifici rispetto a quelli che integrano la nozione comune di pericolosità sociale
ricavabile dall’art. 203 del codice penale.

Gli infraquattordicenni

Per quanto concerne, invece, il minore che ha più di quattordici anni, ma non ha
ancora compiuto diciotto anni, il codice prevede che questi è imputabile solo se, al mo-
mento in cui ha commesso il fatto, aveva la capacità di intendere e di volere. Qual è il
significato di tale asserzione? Vuol dire che nei suoi confronti non opera nessuna pre-
sunzione, né di incapacità né di capacità, dovendo il giudice accertare, volta per volta,
se il soggetto era imputabile o meno.
Il non aver previsto una presunzione di imputabilità, ma l’aver previsto l’accerta-
mento caso per caso dell’effettiva acquisizione della capacità di intendere e di volere, è
una specifica scelta del nostro legislatore. Alla base di questa scelta, vi è la consapevolez-
za che fra i quattordici e i diciotto anni vi può essere la capacità di intendere e di volere
necessaria per essere considerati penalmente responsabili delle proprie azioni, come vi
può non essere - indipendentemente da patologie giuridicamente rilevanti - dato che si
tratta di una fascia di età in cui i soggetti raggiungono la maturità richiesta ai fini pe-
nali in momenti diversi, a causa delle multiformi varietà ambientali in cui si svolge tale
processo di maturazione.

99
Criminologia ed elementi di criminalistica

La capacità di intendere e di volere del minore fra i quattordici e i diciotto anni


viene solitamente individuata nel concetto di maturità: quest’ultima viene intesa qua-
le armonico sviluppo della personalità, sviluppo intellettivo adeguato all’età, capacità
di valutare adeguatamente i motivi degli stimoli a delinquere, comprensione del valore
morale della propria condotta, capacità di soppesare le conseguenze dannose del pro-
prio operato per sé e per gli altri, forza del carattere, comprensione dell’importanza di
certi valori etici, dominio acquisito su se stessi, attitudine a distinguere il bene dal ma-
le, l’onesto dal disonesto, il lecito dall’illecito, unità funzionale delle facoltà psichiche,
loro normale sviluppo rispetto all’età, capacità di elaborare i comportamenti umani a
livello della coscienza, capacità di percepire criticamente il contenuto etico di un atto e
di correlarlo al contesto dei rapporti e interessi socialmente protetti, capacità di volere i
propri atti come risultato di una scelta consapevole, attitudine a far entrare nel proprio
patrimonio di cognizioni e di esperienze il concetto della violazione, assimilazione del-
le regole morali e sociali in base ad un’autentica convinzione e non per un processo di
imitazione formale, e così via.
Assolutamente funzionale risulta la distinzione tra concetto di maturità e vizio di
mente: il minore può essere immaturo ma perfettamente sano di mente. Fino a non
molto tempo fa, l’unico parametro che veniva accettato per valutare la capacità di in-
tendere e di volere era quello medico: la facoltà intellettiva viene distinta da quella voli-
tiva, ed entrambe, vengono esaminate per valutare una loro possibile compromissione
a causa di una malattia di ordine fisiologico o psichiatrico, arrivando così ad avere un
quadro clinico del soggetto. Questi orientamenti restrittivi hanno tentato, cioè, di an-
corare il giudizio di immaturità a criteri biologici ed organici, come le carenze o i ritardi
dello sviluppo intellettivo, l’immaturità psicomotoria ed altri, per cui il ragazzo è inca-
pace se, dalla perizia psichiatrica e da esami clinici diversi, come l’elettroencefalogram-
ma, risulta essere mitomane isterico, epilettoide, cerebropatico, paranoide, schizoide,
e così via, con attenzione, quindi, esclusivamente alle sue condizioni mentali, senza
alcuna considerazione per la sua storia e per le modalità del suo reato. Un paradigma
di questo tipo offre indiscutibilmente il vantaggio che la scienza medica e psichiatrica
possono accertare eventuali alterazioni della funzione conoscitiva e intellettiva del sog-
getto con una certa sicurezza. Ma l’art. 98 c.p. fa riferimento alla situazione di un ra-
gazzo clinicamente normale perché una deficienza clinica della personalità rientra nella
diversa ipotesi di vizio di mente. E sulla base di questa considerazione, col tempo, sono
stati sempre più utilizzati i contributi della psicologia dell’età evolutiva e le dinamiche
adolescenziali. Il ricorso a paradigmi psicologici ha permesso di prendere in considera-
zione situazioni più sfumate, caratteristiche peculiari dell’individuo in via di sviluppo,
come l’immaturità emotiva, le caratteropatie, le insufficienze o conflittualità di origine
affettiva, che portano ad una devianza legata all’età particolare del soggetto e comune
a chi si trova nelle stesse condizioni.
L’utilizzo di questi nuovi parametri permette, in questo modo, di escludere l’im-
putabilità del ragazzo colpevole della cosiddetta ragazzata, come può essere il furto di
merce.
La realtà più recente ha mostrato, però, l’insufficienza anche del paradigma psi-
cologico a coprire tutte le ipotesi in cui un adolescente non può considerarsi imputa-
bile. Ci sono infatti delle situazioni in cui il ragazzo, benché non sia rilevabile il mi-

100
L’imputabilità

nimo danno organico né alcuna disfunzionalità della personalità, non ha raggiunto


quel grado di coscienza morale che lo possa far ritenere imputabile. È il caso del ragaz-
zo cresciuto in un ambiente difficile, per esempio a causa di una situazione familia-
re gravemente disgregata o di una precoce istituzionalizzazione. Si è affermato, così,
l’uso di paradigmi sociologici in grado di estendere la ricerca delle cause della devian-
za anche alle strutture socio-ambientali in cui il minore è cresciuto e la sua persona-
lità si è sviluppata.

5.6 La recidiva
La recidiva, consistendo nella “ricaduta” nel reato, si presenta come un istituto
dogmaticamente complesso e non esente da contraddizioni. La recidiva è disciplinata
dall’art. 99 c.p., in forza del quale (1° co.) può essere considerato recidivo chi, dopo es-
sere stato condannato per un reato, ne commette un altro.
Presupposto per la dichiarazione di recidiva è, pertanto, una sentenza di condan-
na (art. 533 c.p.), ovvero un decreto penale (art. 459 ss c.p.), divenuti irrevocabili ex
art. 468 c.p.
Il 1° co. dell’art. 99 c.p. prevede la recidiva cosiddetta semplice: chi, dopo essere
stato condannato per un reato ne commette un altro, può essere sottoposto ad un au-
mento sino ad un sesto della pena da infliggere per il nuovo reato.
Il capoverso della stessa disposizione dispone che la pena può essere aumentata fi-
no ad un terzo nelle seguenti ipotesi di recidiva aggravata: 1) se il nuovo reato è della
stessa indole (recidiva specifica); 2) se il nuovo reato è stato commesso nei cinque an-
ni dalla condanna precedente (recidiva infraquinquennale); 3) se il nuovo reato è sta-
to commesso durante o dopo l’esecuzione della pena (recidiva vera), ovvero durante il
tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena (reci-
diva finta). Le tre ipotesi sono previste separatamente, nel senso che basta una sola di
esse per dar vita al previsto aumento di pena. Se, invece, esse concorrono tra di loro
(recidiva plurima), il 3° co. dell’art. 99, dispone che l’aumento della pena può elevarsi
sino alla metà.
L’ultima ipotesi è quella del 4° co. dell’art. 99: la recidiva reiterata, che si verifica
allorquando, il nuovo reato è commesso dal già recidivo. Infine, l’ultimo comma del-
l’art. 99, dispone che, in nessun caso, l’aumento di pena per effetto della recidiva può
superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione
del nuovo reato.
Devono, inoltre, definirsi reati della stessa indole (per ciò che attiene la recidiva spe-
cifica), non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli
che, pur se preveduti da disposizioni diverse del codice penale ovvero da leggi diverse,
nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinaro-
no, presentano, nei casi concerti, caratteri fondamentali comuni.
Parlando di recidiva in termini sociologici e giuridici, la precedente sentenza di
condanna acquista rilievo, perché il soggetto, nonostante l’esperienza del processo, no-
nostante il monito a non violare più la legge, nonostante la finalità rieducativa connes-

101
Criminologia ed elementi di criminalistica

sa all’esecuzione della pena, ha violato nuovamente la legge, dimostrando insensibilità


etica sia verso l’ordinamento giuridico, che nei confronti del giudice e della società.
La concretizzazione di tale ulteriore violazione si riscontra in un rimprovero mag-
giore che viene mosso nei confronti del recidivo, e che viene ad influire sulla gravità del
reato commesso, con il conseguente aumento di pena.
Se la condanna e la fase successiva dell’esecuzione avrebbero dovuto offrirgli sti-
moli a non delinquere, è pur sempre necessario verificare, per la recidiva, ad esempio,
se il reato può essere scaturito da altre contingenze o motivazioni, o, ancora, se sia-
no state offerte opportunità di reinserimento sociale: in tale dimensione, la figura del
Giudice e la relativa discrezionalità, giocano un ruolo fondamentale nel capire il con-
testo degli altri elementi e l’eventuale legame successivo fra la sentenza di condanna ed
il nuovo reato.
Si presentano, pertanto tre possibilità: a) non ritenere la recidiva; b) ritenerla ed ir-
rogare il conseguente aumento di pena; c) ritenerla, ma, a seguito del giudizio di bilan-
ciamento risoltosi nel senso dell’equivalenza, non operare alcun mutamento di pena.

102
CAPITOLO 6

Forme di criminalità

6.1 Le sottoculture criminali


La definizione di sottocultura criminale è strettamente connessa al sistema di regole
e simboli che caratterizza il punto di vista di un gruppo che appartiene a una certa so-
cietà, ma che contrasta con ciò che la cultura generale considera legale.
La sottocultura criminale, come tutte le sottoculture più articolate, ha proprie tradi-
zioni, proprio linguaggio, propri costumi, regole, codici morali, usanze, rituali: l’aspet-
to che la qualifica è però quello di considerare lecite e non squalificanti certe condotte
antigiuridiche che gli altri gruppi sociali reputano, invece, come illegittime, anche se
la sottocultura può poi condividere con la cultura generale altri sistemi normativi (ad
esempio i valori familiari, l’amicizia, ecc.). In sostanza, quindi, una sottocultura non può
essere totalmente diversa dalla cultura di cui fa parte (Ponti, 1990).
La psico-sociologia americana ha dato un contributo fondamentale alla teoria delle
sottoculture criminali, in modo particolare A. K. Cohen (1955) che ha utilizzato un mo-
dello simile per spiegare la formazione delle bande criminali giovanili. Secondo Cohen,
la nascita di fenomeni sociali come le bande è strettamente connessa con le inegua-
glianze sociali caratterizzanti la vita di alcuni giovani, appartenenti a classi sociali meno
agiate e poste in posizioni più difficili nella ricerca dei mezzi per raggiungere efficace-
mente mete sociali desiderate.
La stimolo alla criminalità, nei giovani appartenenti a classi sociali basse, è dovuta
fondamentalmente al conflitto con la classe media, che custodisce i valori dominanti
e dai quali si sentono esclusi ed estraniati. Da un punto di vista strettamente sociale,
la loro carriera scolastica è più difficile, sono forzatamente spinti a frequentare scuole
pubbliche che non forniscono i mezzi idonei per accedere a livelli di formazione cultu-
rali idonei, e a prepararli, pertanto, a quella competizione per tentare di risalire la ge-
rarchia sociale.
Tali giovani, inoltre, sono tendenzialmente più esposti agli insuccessi, alle frustra-
zioni, alle umiliazioni. Di fronte al modello accreditato di adattamento sociale, tipico
della classe media, si trovano del tutto sprovveduti e segnati nel loro destino. Il sentirsi

103
Criminologia ed elementi di criminalistica

esclusi dalle regole sociali, li spinge a trovare il modo di condividere la loro dissonanza
culturale, cercando di organizzare nuovi rapporti interpersonali, modificando le regole
del gruppo e introducendo propri criteri di status.
Per superare le paure che derivano da uno stile di vita, in parte o del tutto contra-
rio a quello del sistema normativo, mettono in atto un processo difensivo di tipo colletti-
vo (la formazione reattiva, che si vedrà meglio nel modulo sulla psicologia del ciclo di
vita), che ribalta totalmente la definizione positiva delle norme, con le sue mete e i suoi
ideali condivisi a livello generale. Il sistema dominante viene metabolizzato in maniera
diversa, con disgusto, e percepito come ingiusto, sbagliato e pregiudizievole; pertanto,
viene rifiutato e disprezzato. I comportamenti criminosi che si innescano a causa del
rifiuto totale del sistema sociale di cui si sentono vittime, sono privi, comunque, di una
sostanziale carica di tipo critico; non hanno nulla a che vedere con le azioni di protesta
organizzata, tipiche di chi ha assunto la tipologia adattativa del ribelle di Merton. In
quel caso, le condotte emergenti sono prive di una effettiva finalità, si presentano co-
me atti vandalici e non offrono vantaggi diretti sul piano economico. È evidente, tut-
tavia, che esistano delle mete secondarie che motivano la scelta antigiuridica di questi
soggetti, che Cohen identifica nel maggior prestigio che essi acquistano, tramite i loro
comportamenti, all’interno dei gruppi sociali di appartenenza.
L’analisi di Cohen non giunge, tuttavia, a proporre una vera e propria spiegazione
di questi fatti; egli si limita a descrivere il fenomeno, riconducendolo alle trasformazio-
ni sociali in atto negli Stati Uniti fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Interessan-
te, da questo punto di vista, può essere il pensiero di E. Erickson sulla formazione delle
disarmonie dell’identità personale. Quest’ultimo ritiene, infatti, l’identità come l’orga-
nizzazione di una immagine coerente, omogenea, continua e stabile dell’essenza della
propria personalità. La sua formazione dipende sia dai meccanismi di identificazione
coi vari modelli che si succedono nel corso dell’età evolutiva, sia nei confronti dei ruoli
che vengono proposti e assunti nell’ambito delle relazioni interpersonali.
Questi processi, raggiungono un punto nodale proprio durante l’adolescenza, e
cioè nel momento in cui vengono rimessi in discussione i modi del radicamento sociale
e dell’appartenenza culturale.
Durante l’adolescenza, e anche oltre, il soggetto è fortemente influenzato dall’atteg-
giamento degli altri, specie di coloro che vivono all’esterno del contenitore familiare. Se
questa cattiva organizzazione dell’identità dà luogo a qualche iniziale comportamento
problematico o deviante, si risvegliano nel prossimo aspettative negative nei confron-
ti di tali soggetti (es. “da te non posso aspettarmi niente di buono”); ciò, talvolta, fini-
sce con l’alterare l’identità del proprio Io (“io non posso fare niente di buono”): sicché,
l’attore realizza, mediante la condotta deviante, il giudizio negativo anticipato nei suoi
confronti (Ponti, 1990). Si struttura, pertanto, nel soggetto, la realizzazione di una sor-
ta di identità negativa, che conduce a un’immagine del sé svalorizzata e degradata, che
la società affronta, mediante gli strumenti di esclusione dal gruppo, ossia la reclusione,
la condanna, la stigmatizzazione.
Alla genesi dell’identità negativa corrisponde anche la formazione di un etichet-
tamento sociale, e cioè, l’attribuzione di un significato negativo alla condotta di un
soggetto (spesso un giovane), orientando il soggetto verso l’avvio di una carriera de-
viante.

104
Forme di criminalità

Il problema fondamentale riguarda la c.d. interiorizzazione dei messaggi negativi


che circondano il soggetto, i quali, tracciando una cornice, finiscono con l’attribuire un
senso profondo alla condotta e a confermare nel soggetto la convinzione di essere ciò
che appare agli altri, cioé un criminale. Secondo Erickson, in questo modo, si possono
formare i tratti di personalità di tipo criminale. Negli anni Sessanta, le ipotesi di Cohen
sono state riprese e ampliate da R. A. Cloward e L. Ohlin, a proposito della famosa teo-
ria delle bande delinquenziali. Secondo questi autori, le possibilità di autoaffermazione
e di promozione socio-culturale non sono equamente distribuite all’interno delle varie
classi sociali; chi vive in zone economicamente meno sviluppate ha molti più problemi
nel raggiungere le mete delle proprie ambizioni, a differenza di coloro che invece risie-
dono in zone più ricche di risorse e di strumenti adatti. Secondo Cloward e Ohlin, que-
sti fattori, rappresentano una limitazione delle opportunità obiettive di riuscita sociale,
dove la razza, il ceto, la classe sociale costituiscono i principali elementi di tale impedi-
mento. Le bande criminali nascerebbero, allora, come risposta ai bisogni di aggregazione
e di riconoscimento reciproco di questi giovani devianti, costretti al margine dalla società.
In base all’abuso di sostanze stupefacenti, al ricorso alla violenza e alle modalità di eser-
citare la loro delinquenza, i due autori distinguono tre diversi modelli di banda:

a) le bande criminali sono formate da soggetti dediti alle abituali attività appropriati-
ve illecite, quali il furto, la rapina, il racket. Questi giovani diventano, in tal modo,
criminali, realizzando una più facile acquisizione degli status symbol proposti dalla
cultura della classe media;
b) le bande conflittuali sono invece dedite alla violenza e al vandalismo sistematico,
senza finalità primariamente appropriative, ma mirando a distruggere i simboli ir-
raggiungibili e a esprimere, così, irrazionalmente, con la violenza gratuita, appun-
to, la protesta di essere esclusi. Si effettua, in tal modo, un’aggressione violenta nei
confronti del sistema: con l’associazione in tali bande, infatti, i giovani esprimono
una ribellione e un’opportunità che combatte, mediante modalità del tutto irrazio-
nali, gli emblemi e le mete che la società propone;
c) le bande astensionistiche, infine, sono composte da quei giovani nei quali la frustra-
zione ha provocato una fuga che esprime il rifiuto globale della cultura stessa, dalla
quale cercano di evadere mediante la tossicomania o l’alcolismo.

È evidente come queste teorie siano il prodotto della cultura statunitense degli an-
ni Cinquanta e Sessanta, mentre, oggi, presentano numerosi punti deboli.
In primo luogo, la teoria che la condotta deviante debba essere una caratteristica
delle classi meno agiate ha perso qualunque tipo di validità, soprattutto se si considera-
no i c.d crimini dei colletti bianchi, caratterizzati da ampi fenomeni di corruzione, traf-
fico di denaro sporco, ed ancora, crimini finanziari e dell’imprenditoria.
Gli studi di Sutherland, infatti, hanno mostrato, fin dagli anni Quaranta, che la
criminalità non era solo una caratteristica delle classi sociali meno abbienti, ma pote-
va estendersi anche al mondo delle classi agiate (da qui il termine ‘colletti bianchi’).
Questo comportava, di fatto, una forte critica a tutte quelle ipotesi teoriche che vede-
vano le cause della criminalità nelle deviazioni di una classe, quella più umile, obiet-
tivata a trovare i mezzi leciti per conquistare le mete sociali quasi irragiungibili, pro-

105
Criminologia ed elementi di criminalistica

poste dal sogno americano. Il fenomeno della delinquenza appariva, per la prima volta,
nella sua complessità ed estensione; interessava tutti i gruppi sociali, compresi quelli
più alti, benché, le sue forme, apparissero differenti e variegate. Ma ciò che particolar-
mente occorre segnalare è la tendenza, spesso implicita, nelle considerazioni sociolo-
giche sulla devianza e la delinquenza, a valutare le condotte criminose come effetti di
fenomeni sociali (come, appunto, l’appartenenza a classi svantaggiate), che si presen-
tano col carattere del determinismo, quasi a giustificare ogni condotta, svincolando
l’azione antigiuridica da aspetti di responsabilità. In realtà, oggi, sappiamo che la que-
stione criminale comprende una grande quantità di fattori e, comunque, non può pre-
scindere dalla valutazione in termini di scelta, rispetto all’azione di chi commette un
crimine. Scelta che poi dà avvio al procedimento legale di sanzionamento, compresa
la comminazione graduata della pena. Solo in questo modo è possibile sfuggire al pe-
ricolo insito nelle ipotesi di tipo deterministico e causalistico che finiscono con l’assu-
mere posizioni assolutamente assolutorie, considerando la delinquenza come un fatto
subìto dal criminale, prima che agito dallo stesso, in prima persona. Su questo piano
si incontrano sia le posizioni dei sostanzialisti di provenienza positivistica, sia quelle
del sociologismo più acritico.

6.2 Famiglia e delittuosità


In questi ultimi anni, anche se in modo maggiore che nel passato, la cronaca ne-
ra italiana è stata fortemente caratterizzata da omicidi avvenuti in ambienti familiari.
I mass-media si sono occupati con un interesse particolare soltanto di alcuni di loro,
perchè più crudi o efferati o perché cruenti o sadicamente violenti. Per mesi abbiamo
sentito parlare dei delitti di Novi Ligure, così come di quello di Cogne. Due tragedie
umane che purtroppo, e non per i protagonisti, bene si sono sposate con il voyeurismo
del pubblico. Ma gli omicidi in famiglia si consumano con una frequenza preoccupante
ed hanno ben poco a che vedere con la spettacolarità mediatica: essi sono la manifesta-
zione ultima, finale, del lato orribile, deviato e disturbato dei rapporti familiari e dei
legami di sangue. Relazioni affettive turbate, compromesse, spesso compresse dal peso
della vita quotidiana e dalla delusione delle sconfitte, soprattutto date dall’incapacità,
personale e/o sociale, a realizzare un progetto di vita individuale soddisfacente. Questi
eventi nefasti, per molto tempo, sono stati analizzati solo nella prospettiva psicologica,
ma, oggi, che sembrano essere più frequenti, vengono chiamati in causa più elementi.
Si scopre, così, che c’è una complessità di fondo molto radicata, che a stento emerge e
che deve essere letta e analizzata alla luce di una complementarietà motivazionale che
non è però mai esaustiva. A proposito della famiglia, l’art. 29 della Costituzione italia-
na recita: “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata
sul matrimonio”. Una micro-società naturale, quindi, ma dai rapporti e funzioni estre-
mamente complessi: attraverso di essa, infatti, si apprende la propria cultura, i valori da
condividere, le regole di vita ma, nello stesso tempo, si acquisiscono ruoli e si assumo-
no funzioni che, a seconda della vita sociale, al di fuori del proprio nucleo, si declinano
in modi e maniere differenti.

106
Forme di criminalità

Nel momento in cui sorgono ostacoli individualmente considerati insormontabili,


scatta l’aggressività che, sempre più spesso, è veicolata verso i componenti del proprio
nucleo di origine, considerati causa primaria delle frustrazioni; (come testimoniano
sempre più spesso gli operatori dei Servizi Sociali), ma l’atto estremo, l’omicidio, co-
me spesso si crede, non è sempre estemporaneo, non è sempre dettato da un impulso
immediato e incontrollato. È il frutto, il più delle volte, di una lenta elaborazione, di
una conflittualità interiore che affonda le sue radici lontano e che è strettamente con-
nessa al cambiamento, nel tempo, dei ruoli familiari e sociali dei membri del nucleo di
appartenenza. Le vittime degli omicidi in ambiente domestico sono prevalentemente
donne, il 58,7% a fronte del 41,3% degli uomini (Eures), sono soprattutto i motivi
passionali che portano agli assassinii, ma elevate sono anche le motivazioni legate ad
interessi economici. In questi ultimi tempi, è andato ad aumentare il numero degli
infanticidi, anche se, in realtà, sarebbe più esatto dire che se ne parla di più e i casi di-
ventano statistici, perché di infanticidi e di omicidi di minori, la storia è piena. Inol-
tre, le cifre sugli infanticidi che riportano le statistiche ufficiali sono relative, perché
non contemplano le morti avvenute in modo accidentale, ma, pur sempre, in presen-
za di almeno uno dei genitori; e poi perché quando si parla di infanticidio si intende
un omicidio nei confronti di bambini appena nati; se volessimo estendere la morte
ai bambini di qualsiasi età dovremmo parlare di figlicidio, e allora, i numeri sarebbe-
ro molto più alti. Il figlicidio, come reato, non è contemplato dal Codice Penale, che
riconosce solo l’infanticidio e l’omicidio. Nel primo caso avremo la punizione, così,
come da art. 578 del c.p.: la madre che cagiona la morte del proprio neonato imme-
diatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato
da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la re-
clusione da quattro a dodici anni. A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo
comma, si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Tuttavia, se essi han-
no agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a
due terzi. Nel secondo caso, l’art. 575 del c.p.: “chiunque cagiona la morte di un uo-
mo è punito con la reclusione non inferiore ai ventuno anni”. Non si vuole entrare nel
merito di un campo giuridico-dottrinale delicato come questo, quello che interessa è
mettere in evidenza che, ad esempio, anche la morte di un bambino di cinque anni è
omicidio, attenendosi letteralmente al codice penale. Comunque lo si voglia chiama-
re, la morte di un minore è sempre la negazione di una vita breve, è un atto di violenza
finale sempre più spesso agito dalle madri.
Per la cultura italiana, questo è veramente insopportabile, psicologicamente im-
possibile, umanamente incredibile.
La figura e il ruolo della donna/madre/mamma è sacra. La donna che non solo
vede modificare il proprio corpo per contenere e proteggere un bambino, che soppor-
ta il travaglio fisico per portare alla vita un altro essere umano, la mamma, che cul-
turalmente deve prendersi cura del neonato, che naturalmente deve sacrificare il suo
tempo, il suo spazio, le sue relazioni, il suo lavoro, la sua carriera, i suoi affetti. Tutto
questo, rientra nella normalità, nella ovvietà, nella gratuità dell’amore. La donna ac-
cetta tutto questo perché è nel suo codice culturale genetico, perché è sempre stato
così nel passato, perché appartiene alla storia naturale e culturale della vita dell’uomo.
Allora abbiamo donne che, per difendere i propri figli, hanno lottato, si sono umi-

107
Criminologia ed elementi di criminalistica

liate, hanno combattuto, si sono prostituite, sono fuggite, sono morte di stenti, tutto
per proteggere i loro figli e/o per garantire loro la sopravvivenza e una vita decorosa. E
se questo ha significato il loro annientamento, la loro mortificazione, il loro sangue,
è andato bene lo stesso, perché una donna prima di essere un individuo come tutti è
una madre. Il concetto di madre rimanda a quello della Madonna, simbolo di tutte le
madri, Vergine, con la sua fede sacrificale e con il suo amore, ambedue materni e in-
condizionati, con la sua virtù di pietà e di devozione tipicamente femminili. Proprio
per questo, il valore della maternità non ha più una funzione sociale, ma un compito
trascendente, all’insegna di un forte spirito di sacrificio che avvicina la donna a Dio.
Per tutto questo, l’infanticidio e l’omicidio di un bambino per mano materna oltre
ad essere umanamente inaccettabile, è anche culturalmente destabilizzante; ecco che
allora, nel momento in cui vengono compiuti atti tanto efferati e apparentemente in-
comprensibili, viene chiamato in causa un deus ex machina, una presenza divina, su-
periore, che impone il proprio arbitrio alle donne, guidandole nel più abominevole
dei delitti. Il deus ex machina è la pazzia. È come se uno spirito maligno entrasse nel
corpo della donna, che diventa solo involucro, carne, senza più volontà o capacità di
comprendere e la portasse a compiere l’assassinio: infatti, spesso, durante i processi, si
invoca da parte della difesa l’incapacità di intendere, intesa, al contrario, quale assen-
za della normale capacità di valutazione dei propri atti e l’incapacità di volere, come
mancanza di determinazione libera e volontaria del proprio comportamento. I due
requisiti definiscono la responsabilità giuridica di un soggetto. In caso di omicidio o
infanticidio, dovranno essere tenuti in considerazione quei due requisiti per una giu-
sta valutazione di ciò che è stato commesso. E il tecnico chiamato a fare le perizie è lo
psichiatra, sarà lui a dover dare giudizi di normalità o infermità mentale. Da questo
dipenderà anche il tipo di detenzione a cui l’omicida sarà sottoposta. Se le imputate
saranno dichiarate sane di mente saranno recluse in un carcere comune, se invece ver-
ranno considerate incapaci, e nello stesso tempo pericolose socialmente, due pesanti
stigma, entreranno nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (dalla forte caratterizzazio-
ne carceraria). Tuttavia, la discriminante è già a monte: di fronte ad un fatto di sangue
si cerca, come afferma P. Barbetta, di affermare lo stato di ragione della criminale. La
trasformazione cioè della trasgressione morale in trasgressione giuridica. La difficoltà
di trovare un movente, o anche solo un interesse a commettere il gesto, crea uno spa-
zio perché la difesa possa far riconoscere la malattia mentale. Sempre più spesso infat-
ti, le Medee usufruiscono delle attenuanti. L’infanticidio è un tipo di reato particolare,
tale che gli ordinamenti penali di quasi tutti i paesi del mondo limitano la pena per la
madre, considerandolo meno grave rispetto al figlicidio. L’infanticidio, in Italia, è tale
se avvenuto immediatamente dopo il parto (per altri paesi i tempi sono più lunghi co-
me ad esempio il codice penale canadese che lo considera fino a 12 mesi dopo il par-
to), in una condizione fisica e psichica alterata da parte della donna, in cui viene dato
particolare risalto alla situazione psicopatologica temporanea delle funzioni mentali
relativa appunto alla fase post-parto. Non vi è, però, nella letteratura specializzata una
chiara definizione psicologica o psicopatologica della personalità dell’infanticida, pro-
prio perché, non sono solo questi gli elementi da prendere in considerazione. Infatti,
un altro motivo legato alla ridotta severità della pena, alle volte, è ricercato nelle parti-
colari condizioni culturali, sociali ed economiche in cui la donna viene a trovarsi, con

108
Forme di criminalità

tutto ciò che ne consegue rispetto all’illegittimità dell’atto, in un contesto di massicce


pressioni, consce ed inconsce, e forti condizionamenti sociali. Ma, spesso, la sorpresa
è data dal fatto che questi omicidi maturano in ambienti che potremmo definire so-
cialmente sani, con donne dall’apparente vita regolare, religiosa, con un percorso auto-
biografico fatto, anche, di molte soddisfazioni personali, questo perché il mostruoso,
l’abominevole, non è esclusivo appannaggio dell’insanità mentale o della deprivazione
economica. È importantissimo sottolineare che solo una piccola parte di donne che
si macchiano di questi orrendi delitti sono affette, potremmo dire, da patologie men-
tali, che vanno dalla serie depressiva a quella paranoidea; per la maggior parte di loro
si tratta, ovviamente, di disturbi della personalità causati da tutta una serie di motivi:
economici, sociali, di ruolo, psicologici, e così via.
Le donne non sono portate a commettere omicidi perché biologicamente inferiori
(come teorizzato dalla Scuola Positiva), ma forse perché vivono una vita inferiore, os-
sia, al di sotto delle loro aspettative e dei loro desideri. Basta analizzare le motivazioni
banali di alcune donne che uccidono i propri figli in quanto colpevoli di aver rovinato
i loro corpi attraverso il parto, a quelle più complesse, di donne, che ripropongono ai
piccoli le violenze che loro stesse hanno subìto, a quelle che dissimulano la gravidanza
e fecalizzano il neonato (è il caso dei bambini abbandonati nelle discariche o nei casso-
netti dei rifiuti). Un altro aspetto inquietante dei figlicidi è la modalità, l’atto materia-
le con cui viene portata a termine la vita. Ci sono moltissimi casi di morti accidentali,
ma che poi, tali non sono: cadute da balconi, soffocamento nei letti, lo scivolare in una
scarpata, o nei laghi o nei fiumi, il semplice cadere dalle braccia di un genitore, la cadu-
te dalle scale, le forme di denutrizione volontaria, il collocarli all’interno delle lavatrici
di casa. Molti degli incidenti domestici, come è stato dimostrato da molti psichiatri,
sono causati con totale volontà di uccidere. Altre volte, si consumano dei veri e propri
martìri, i bambini vengono uccisi con oggetti contundenti che fanno schizzare il san-
gue ovunque. Che significato può avere in un contesto così doloroso e drammatico lo
spargimento di sangue? Il sangue possiede una potente carica metaforica coagulante,
simboli ora terrifici, ora salvifici, connessi all’immagine nera della dissoluzione e della
morte o a quella positiva della rigenerazione della vita. Il versamento di tanto sangue,
sangue innocente di un bambino, ha il significato di una espiazione, è il mezzo attra-
verso il quale affrancarsi dalle proprie colpe, rinunciando, per propria mano, a ciò che
si ha di più prezioso, alla carne della propria carne, alla propria progenie, per tornare a
nuova vita, per potere avere un futuro privo di passato, come se l’atto di sangue fosse
il rito di purificazione attraverso cui passare per giungere in un altro posto, in una vita
serena, nuova, pulita.
La soglia è attraversata, e dal sangue versato scaturisce la rigenerazione e la pro-
pria vita. In questo senso, potremmo anche spiegarci il motivo per cui anche di fronte
all’evidenza, si ha la negazione dell’atto o comunque molte donne assumono, subito
dopo l’omicidio, un comportamento assolutamente normale. D’altro canto, in molte re-
ligioni e civiltà del passato ci sono esempi di sacrifici umani di adolescenti e bambini,
immolati per qualche divinità e per la Madre Terra, dai Maya agli Etruschi, dai Greci
ai Romani, perché il sangue innocente versato era garanzia di prosperità e di vita. Il
figlicidio e le sue declinazioni simboliche rappresentate da mutilazioni fisiche parziali
di natura rituale, circoncisioni, clitoridectomie, infibulazioni, si rintracciano in tutte

109
Criminologia ed elementi di criminalistica

le culture, e a queste, poi, si vanno ad aggiungere gli atteggiamenti violenti, le lesio-


ni fisiche indotte da percosse, la negligenza, l’abbandono a cui i bambini sono stati
sottoposti nel corso della storia. Oggi, chiaramente, si vive nel rispetto dell’infanzia,
ma la cultura del bambino riesce ad affermarsi con non poche difficoltà. Giuridica-
mente parlando, qualcosa viene fatto attraverso le norme per tutelare l’infanzia, ma
nonostante tutto, viviamo continuamente episodi cruenti di violenza e di morte. Nel
nostro Codice Penale, gli artt. 575 e 578 sono solo un piccolo passo avanti ma, co-
munque, estremamente significativo rispetto al passato. Il primo c.p. del 1889 atte-
nuava la colpa di infanticidio, considerandolo meno grave dell’omicidio, commesso
per salvare il proprio onore o per evitare sovrastanti sevizie. L’infanticida per eccellenza
era, infatti, la madre, o meglio la madre cosiddetta illegittima (nubili e adultere come
da codici ottocenteschi). Con il Codice Rocco, invece, l’attenuante non era solo per
le madri ma per chiunque, per motivi di onore, uccidesse un neonato. La situazione si
è andata modificando con l’articolo n.1 della legge 442 del 5 agosto1981, quando la
causa d’onore è stata abolita da tutti i reati che la contemplavano, per cui, si è tornati
ad identificare nella madre la principale agente dell’infanticidio, senza più attribuzio-
ni di maternità illegittima, oltre alla considerazione del gesto, in condizioni di abban-
dono materiale e morale.
I delitti citati, come già affermato, non sempre maturano in ambienti socialmente
compromessi o economicamente difficili. I mass-media, purtroppo, hanno una parti-
colare predilezione per gli avvenimenti che scaturiscono in situazioni di normalità; par-
lare infatti di delitti in ambienti già fortemente problematici non fa più, quasi, notizia,
anzi, per tutta una serie di pregiudizi culturali, il fatto che un bambino possa essere
ucciso in una famiglia in cui ci sono problemi economici, psicologici e sociali è abba-
stanza normale. Ma, se un infanticidio avviene nel contesto di una famiglia non pro-
blematica, diviene clamoroso. Anche le eventuali testimonianze dei vicini e conoscenti
saranno diverse: tutti, sono pronti a giurare sulla sanità mentale della madre, sulla de-
vozione verso la famiglia, sulle cure amorose verso il bambino, sul carattere affettuoso e
premuroso. Vengono, infatti, messi in moto i sentimenti comuni, la solidarietà sociale,
la coscienza collettiva, la capacità culturale di lavorare ed elaborare il delitto, e si viene,
quindi, a creare una empatia di sentimenti.
Ma sulla scena, ci sono anche altri attori: i c.d. familiari dell’omicida. Non esiste
legge e non esiste supporto psicologico che li possa tutelare e la situazione si complica
nel momento in cui le donne ritornano in seno alla famiglia. Dopo un primo atteggia-
mento di protezione e collaborazione incondizionata, spesso, comincia a serpeggiare la
diffidenza e la paura che la madre possa essere recidiva. Il reinserimento sociale è infat-
ti estremamente difficile e lo stigma che caratterizza una donna sarà tale fino alla sua
morte. Quando avvengono fatti delittuosi come la morte di un bambino, si spezzano
i legami familiari, si frantuma il concetto stesso di famiglia come ricovero, protezione,
si sradica il senso comune del vivere quotidiano che viene dalla famiglia e si annulla il
significato culturale della socializzazione primaria. Semplicemente, essa perde il ruolo
fondamentale di guida e di contenitore umorale e appare in tutta la sua fragilità, nella
sua incapacità di svolgere un compito che è quello di lenire le ferite provocate da una
vita non al passo con i ritmi sempre più vorticosi di una società che muta continua-
mente pelle.

110
Forme di criminalità

6.3 La criminalità economica


Gli storici di professione, fino a qualche decennio fa, lasciavano, volentieri, il te-
ma della criminalità economica, a sociologi e antropologi, i quali, considerando il rilie-
vo mondiale del dibattito sulla mafia siciliana, soventemente, cadevano nella trappola
interpretativa dell’eccezionalismo isolano.
Fenomeni importanti di criminalità organizzata si registrano in parti consistenti
del Mezzogiorno d’Italia. Il tema della faida rimanda, nel tempo, a quello degli ordi-
namenti primitivi e arcaici di giustizia privata o meglio comunitaria e, nello spazio, a
contesti mediterranei o balcanici. L’esistenza di una mafia italo-americana porta il no-
stro tema su un altro continente, in un contesto plurietnico del tutto diverso da quel-
lo originario. Il periodo più recente ci induce a ragionare di organizzazioni, traffici e
interessi di scala mondiale. Infine, il discorso sulla criminalità organizzata introduce i
grandi temi dell’illegalismo del potere politico e sociale, i problemi di un gap di statua-
lità che viene rappresentato come specifico della vicenda siciliana, ma che va, invece,
inquadrato in contesti ben più ampi e generali.
Per spiegare questa capacità della mafia di riprodursi in nuovi contesti economi-
co-sociali, occorre interpretarla, piuttosto, come un fenomeno tipico di ibridazione so-
ciale, cioè di stretta compenetrazione tra antico e moderno, di adattamento continuo
al mutamento. Non a caso, gli studi più recenti hanno ormai abbandonato la classica
distinzione tra vecchia e nuova mafia: la prima, espressione di relazioni sociali arcaiche,
circoscritta alle campagne e al piccolo tessuto della società locale, poco incline all’ac-
cumulazione economica ed arroccata al codice d’onore; la seconda, sviluppatasi in am-
bienti metropolitani nel secondo dopoguerra, compenetrata strettamente alla classe po-
litica per controllare i flussi di spesa pubblica dell’intervento straordinario e con legami
finanziari internazionali nel settore illegale della droga.
I comportamenti di criminalità economica non sono codificati come criminali, in
maniera omogenea, tra i sistemi giudiziari, che, spesso, delegano la loro sanzione al di-
ritto civile o amministrativo (come ad es. per l’abuso di posizione dominante, o l’uso
ingannevole della pubblicità). Inoltre, nel caso in cui le condotte siano sanzionate pe-
nalmente, si registra una scollatura tra la previsione di illiceità del codice e una diffusa
accettazione dei comportamenti illeciti in ampi strati del contesto sociale.
Le condotte di criminalità economica (come ad es. le truffe) devono spesso assume-
re, per avere successo, l’apparenza di transazioni e di comportamenti legittimi (Nelken
1994). In molti casi, quindi, per i crimini economici, viene a mancare, del tutto, la
consapevolezza che abbia avuto luogo il reato.
Vittime e rei, nei contesti di criminalità economica, risultano generalmente più in-
visibili che sulle scene di altri delitti (Ruggiero 1996). Le modalità dei crimini economici
(come per molte truffe) tendono a creare una separazione di tempi e di luoghi tra chi
compie il crimine e chi ne subisce il danno. Danno che, spesso, si materializza, senza
alcun esplicito collegamento, all’azione del criminale per effetto dell’ambiguità dell’og-
getto e della sua marginalità.
Nella divisione del lavoro tra le scienze sociali, non esiste una definizione general-
mente accettata di criminalità economica, né un distinto segmento di letteratura teorica
e pratica sulla criminalità economica (Kitch 1983). Ciò significa, in altri termini, che le

111
Criminologia ed elementi di criminalistica

definizioni disponibili concentrano l’attenzione su specifici aspetti dei fenomeni consi-


derati. A tre differenti aspetti, i criminali, le loro finalità, le modalità di esecuzione del
crimine, possono essere ricondotte le tre principali tipologie di definizione, elaborate in
letteratura. La prima concettualizzazione dell’idea di criminalità economica, attribuita al
criminologo americano E.H. Sutherland, fa esplicito riferimento ai soggetti che commet-
tono crimini economici. Nella sintesi del pensiero di Sutherland, diffusasi in letteratura, il
crimine economico viene visto come delinquenza delle classi superiori o dei colletti bianchi,
cioè di professionisti rispettabili, o almeno rispettati (Sutherland 1940). Il crimine eco-
nomico o crimine imprenditoriale, tra i differenti illeciti messi in atto dai colletti bianchi,
si qualifica, quindi, in questa accezione, come un comportamento illecito adottato da
soggetti che operano internamente a una organizzazione legittima, tipicamente un’im-
presa, in congruità con gli obbiettivi di questa (Schrager, Short 1977).
Una seconda tipologia di definizioni a cui spesso fanno riferimento, esplicitamen-
te o implicitamente, i manuali di criminologia di scuola americana, include, sotto l’eti-
chetta, di crimine economico, qualunque reato compiuto con finalità di natura econo-
mica, spostando il baricentro dell’analisi dagli attori criminali alle loro funzioni.
Ne risulta un allargamento del contenuto della definizione potenzialmente a qua-
lunque tipologia di crimine. Ma, al contempo, si delinea un rimando, per quanto im-
plicito, all’idea di criminale razionale (Becker 1968), che alloca le sue risorse tra attività
lecite ed illecite, massimizzando il profitto derivante dalle une e dalle altre, dati i costi
e i rischi dovuti all’attività delle agenzie anti-crimine.
Un’ulteriore tipologia di definizioni rimanda, infine, alle modalità di esecuzione
dei crimini economici: comportamenti illeciti che presentano significative analogie ge-
stionali con attività economiche normali e del tutto lecite (Kitch 1983). Questa defi-
nizione si articola tipicamente in tre differenti categorie di illeciti:

1) quelli commessi come attività ancillari ai business legali, sfruttando le opportunità


illegali che si aprono nel mondo degli affari;
2) quelli associati alla gestione con strumenti illeciti dell’offerta di beni e servizi le-
citi;
3) quelli, infine, tipici della gestione (ovviamente illecita) di beni e servizi, essi stessi
illeciti.

Tutte le definizioni, riconducibili alle precedenti tipologie, per quanto possano


essere utili per specifici obiettivi, lasciano insoddisfatti se considerate singolarmente,
ma contribuiscono, nel loro insieme, ad evidenziare gli elementi da combinare per la
costruzione di un concetto soddisfacente di criminalità economica: la rispettabilità dei
rei, la loro tipica finalità di arricchimento, la modalità imprenditoriale dell’azione cri-
minale.
Resta vero, tuttavia, che una semplice giustapposizione dei tre elementi lascereb-
be insoddisfatti ad un attenta analisi. La rispettabilità non sempre è ex-ante una carat-
teristica del reo, ma può divenirlo a seguito del successo ottenuto nella professione di
criminale economico. La finalità di arricchimento può combinarsi ad obiettivi di ac-
quisizione di potere o di rispettabilità, e manifestarsi, non rispetto ad un singolo com-
portamento criminale, ma ad un insieme concatenato di reati. La modalità imprendito-

112
Forme di criminalità

riale, può, a volte, concretizzarsi nell’utilizzo di un’impresa formalmente legittima per


la commissione del reato, come, invece, può manifestarsi nella stabile organizzazione
razionale del lavoro di un gruppo di individui per la conduzione di un’attività crimina-
le, senza per questo assumere la natura formale di impresa. Ancora, un reato può essere
commesso usufruendo di strumenti resi disponibili dal ruolo che il criminale ricopre
all’interno di un’impresa legittima, oppure, organizzando, parallelamente, una forma
di divisione del lavoro tra individui, che, seppure di natura imprenditoriale, nulla ha a
che fare con l’impresa in cui il criminale (eventualmente assieme ai suoi soci) opera.
Il problema centrale per la costruzione di una definizione di criminalità economi-
ca è, quindi, quello di trovare una strada per articolare la complessità delle numerose
possibili combinazioni delle diverse qualificazioni relative alle tre componenti: rispet-
tabilità degli autori dei reati, ruolo della finalità economica dei crimini, significato del-
la modalità di attuazione del crimine.
Per districarsi in questa fitta rete di possibilità, può essere utile utilizzare il concetto
di tecnologia, preso in prestito dalla teoria economica, nel suo significato più generale e
astratto di capacità di combinare fattori produttivi (lavoro, capitale, conoscenza, etc.)
al fine di realizzare un determinato obiettivo.
Distinguendo tra tecnologie legali e tecnologie illegali, sulla base della ammissibilità
o meno negli ordinamenti delle modalità con cui vengono combinati i fattori produt-
tivi, la criminalità economica può essere individuata come l’insieme di attività econo-
miche che vengono gestite utilizzando tecnologie illecite.
Tale definizione, pur astraendo direttamente dai tre elementi individuati nelle de-
finizioni tradizionali, consente di recuperarli, in seconda battuta, in un quadro più ar-
ticolato di relazioni tra essi; ciò, in quanto il successo nell’attività economica è, nelle
società moderne, associato ai percorsi di promozione sociale; allora, la rispettabilità del
criminale economico sarà un corollario della sua capacità di utilizzare la tecnologia ille-
gale per gestire la sua attività economica. La finalità del profitto non è attribuibile di-
rettamente ad ogni singolo atto criminale, ma è connessa alla gestione con tecnologia
illegale dell’attività economica nel suo complesso. L’assonanza concettuale tra crimini
economici e gestione delle attività economiche è fondata sulla considerazione del cri-
mine come tecnologia di assemblaggio dei fattori di produzione. In tal senso, la forma
imprenditoriale, nel suo connotato legale, può essere, ma non lo è necessariamente,
uno strumento di gestione.
Il riferimento alla criminalità come tecnologia non è utile unicamente per ricom-
porre i pezzi del puzzle delle definizioni tradizionali di criminalità economica. Essa, in-
fatti, offre al contempo l’opportunità di riportare ad unico denominatore una serie di
elementi emersi dalla ricerca e dall’attività investigativa nel corso degli ultimi vent’anni,
e altri che, invece, sono nell’agenda dell’analisi della criminalità per gli anni a venire.
La gestione criminale del fattore lavoro ha assunto un’importanza sempre più de-
terminante sia per gli equilibri dei mercati illegali, come quello della prostituzione o
del traffico di stupefacenti, che per l’evoluzione di segmenti di mercato legale, total-
mente o parzialmente sommersi. La gestione criminale della manodopera ha superato,
negli ultimi anni, la dimensione strettamente locale e nazionale, per assumere una scala
transnazionale, sviluppando legami sempre più stretti con il traffico internazionale di
migranti (Savona, Lasco, Di Nicola, Zoffi 1997).

113
Criminologia ed elementi di criminalistica

Nel management del fattore capitale, la rilevanza delle tecnologie illegali di ge-
stione è cresciuta di pari passo con lo sviluppo dei processi di globalizzazione e con il
diffondersi del loro impatto a livello locale. L’evoluzione del riciclaggio internazionale
evidenzia, sempre più, come tale fenomeno non risponda unicamente alla logica di co-
pertura dell’origine illecita dei flussi finanziari, ma risulti governato dalla dinamica dei
rendimenti e della rischiosità dei diversi impieghi. Come le tecnologie lecite di gestio-
ne, anche quelle illecite, determinano cambiamenti e mutamenti dei flussi internazio-
nali in risposta alle variazioni delle politiche di repressione e controllo, che ne alterano
le convenienze relative (Savona, De Feo 1997).
Anche sul piano delle strategie competitive, le tecnologie illegali si caratterizzano
come un’alternativa al management con strumenti leciti della concorrenza di merca-
to. L’uso della violenza criminale costituisce lo strumento concorrenziale estremo, per
la possibilità che offre, a chi ne fa uso, di competere con i concorrenti sulla definizio-
ne stessa dei diritti di proprietà sulle risorse e sui prodotti oggetto dell’attività econo-
mica (Lasco 1997). Ma anche frodi (Levi 1981), contraffazione di marchi, corruzione
(Van Duyne 1997), costituiscono elementi di uno strumentario competitivo crimina-
le, la cui funzionalità può emergere nello svolgimento di attività economiche sia ille-
cite che invece perfettamente legali, almeno sotto il profilo formale. Le frodi possono
assumere un ruolo importante anche nella gestione dei rapporti con fornitori e clienti,
costituendo un elemento rilevante del meccanismo di regolazione dei legami verticali
tra i settori industriali. Analizzare i crimini economici come attività economiche, ge-
stite utilizzando tecnologie illecite, mette, inoltre, a disposizione dell’analista, un equi-
paggiamento concettuale indispensabile per far luce su due fenomeni emergenti sullo
scenario della criminalità economica: la progressiva sovrapposizione tra criminalità or-
ganizzata e criminalità economica (Savona, Lasco, Di Nicola, Zoffi 1997), da un la-
to, e lo sviluppo di crescenti interdipendenze tra i principali reati economici (Savona
1997), dall’altro.
Le organizzazioni criminali convenzionali, tradizionalmente dedite allo sfruttamen-
to criminale del territorio in cui sono localizzate, tramite l’estorsione generalizzata, il
controllo degli appalti pubblici e dei mercati illegali locali, il traffico di stupefacenti, si
muovono verso nuovi business tipici della criminalità economica (frodi, contraffazio-
ne, ecc.), tanto più che le tecnologie illegali, su cui è costituita la loro attività tradizio-
nale (violenza e corruzione), divengono strumenti utili a ridurre i costi di gestione di
tali nuovi business e per competere con gli altri concorrenti illegali.
Specularmente, le nuove opportunità per i criminali economici tradizionali, carat-
terizzate da una più ampia dimensione geografica delle attività (si pensi alle frodi in-
ternazionali o a quelle contro gli interessi della Comunità Europea) e da una maggio-
re complessità delle procedure necessarie, rendono indispensabile, per un loro efficace
sfruttamento, che si possa contare su strutture criminali organizzate in grado di operare
su scala transnazionale.
Similmente, l’accresciuta complessità delle opportunità di affari per la criminalità
economica rende necessario gestire concatenazioni anche complesse di differenti con-
dotte illecite, nelle quali, la frode, la corruzione, il riciclaggio e la violenza costituiscono
tasselli indispensabili per il successo dell’intera attività. La combinazione di tali con-
dotte illegali interdipendenti può assumere la forma di transazioni tra differenti sog-

114
Forme di criminalità

getti criminali, generando veri e propri mercati di servizi illegali, oppure può materia-
lizzarsi in accordi di cooperazione tra differenti soggetti criminali più o meno stabili ed
efficaci, ovvero, ancora, può portare alla creazione di strutture organizzate in grado di
governare al proprio interno le differenti fasi dell’attività illecita.
Considerare la criminalità economica utilizzando il concetto di tecnologia illegale
per la gestione delle attività economiche, sollecita, rispetto all’analisi dei due trend de-
scritti sopra, due quesiti strettamente connessi tra loro.
In quali condizioni la tecnologia illegale richiede organizzazione per essere attivata
efficientemente, ovvero in quali condizioni richiede una divisione del lavoro criminale?
Quali legami esistono tra differenti tecnologie illegali (la frode, la corruzione, la violen-
za, etc.) e a quali condizioni tali legami si manifestano all’interno di una stessa struttura
organizzata, ovvero assumono la forma di transazioni tra strutture differenti?
La teoria economica dell’organizzazione industriale ha costruito strumenti analitici
per rispondere a domande simili in relazione a tecnologie lecite, ma tali strumenti, se
opportunamente riconsiderati (Fiorentini, Peltzman 1995), possono fornire elementi
di riflessione utili per analizzare le tecnologie illegali.
La nuova agenda per la ricerca in tema di criminalità economica è ancora tutta da
scrivere e richiede che gli economisti si abituino a considerare gli affari anche dal punto
di vista della rilevanza penale, e che i sociologi e i criminologi prendano sempre più in
considerazione la criminalità propria del mondo economico.

6.4 La criminalità informatica


In criminologia, quando si analizza il problema della criminalità informatica, si
utilizza un concetto dai contorni non ben definiti potendo questo riferirsi a una mol-
teplicità di condotte criminose lesive dei più diversi beni giuridici: reati contro il patri-
monio, contro la riservatezza e la libertà individuale, contro la proprietà intellettuale e
via discorrendo. Probabilmente, questo avviene perché la tecnologia è innanzitutto un
mezzo, uno strumento e, in quanto tale, può essere orientato tanto allo sviluppo quan-
to all’offesa. La Polizia di Stato, attraverso il Nucleo Postale e delle Telecomunicazioni, in
ordine ai pericoli che presenta la rete ai nuovi sistemi di comunicazione ha, necessaria-
mente, dovuto adeguare le proprie strutture investigative, strutturando, nel corso degli
anni, unità sempre più specializzate nel contrasto ai fenomeni criminali legati all’utiliz-
zo di tecnologie di avanguardia.
La Polizia Postale e delle Telecomunicazioni, nata nel 1981 con la legge di riforma
della Polizia di Stato e originariamente deputata alla tutela del servizio postale e dei
servizi di telecomunicazione, sta vivendo un momento di profonda trasformazione,
orientando il proprio campo di azione nei settori delle comunicazioni radio, televisive,
telefoniche e telematiche, così, connotandosi, sempre più, come Polizia delle Comu-
nicazioni. In realtà, la Polizia di Stato, già nei primi anni ‘90, aveva compreso appieno
le potenzialità che gli strumenti di alta tecnologia potevano offrire alle organizzazioni
criminali, tanto che, presso la Direzione centrale della Polizia Criminale, fu creato, al-
l’epoca, un team di specialisti con compiti di studio ed analisi dei fenomeni criminali

115
Criminologia ed elementi di criminalistica

legati al settore delle comunicazioni, con particolare riguardo alle attività illecite svolte
in seno alle grandi associazioni di stampo mafioso.
Nel 1996, l’attività di questa équipe di esperti è stata ricondotta al settore più am-
pio delle attività di contrasto ai crimini commessi nel settore delle telecomunicazioni,
dando vita al Nucleo Operativo di Polizia delle Telecomunicazioni. La creazione di questo
ufficio è stato il preludio di una vasta riorganizzazione di tutta la specialità: con decreto
del Ministro dell’Interno del 31 marzo 1998, è stato creato il Servizio Polizia Postale e
delle Comunicazioni all’interno del quale sono confluite le risorse del N.O.P.T. e del-
la Divisione Polizia Postale. L’articolazione attuale prevede una struttura centrale, co-
stituita appunto dal Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni, incardinato all’in-
terno della Direzione Centrale (in Roma). Mentre la Direzione Centrale sovrintende
ai servizi delle singole Specialità della Polizia di Stato (Stradale, Ferroviaria, Postale, di
Frontiera e dell’Immigrazione), il Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni presie-
de al supporto e al coordinamento dell’attività operativa di 19 Compartimenti regio-
nali (localizzati nelle principali città italiane) e 76 Sezioni provinciali, contando su un
organico di circa 2000 agenti.
L’indagine informatica non è prerogativa esclusiva della Polizia di Stato, ma attività
cui si dedicano anche altre forze dell’ordine, come Carabinieri e Guardia di Finanza.
In particolare, presso quest’ultima, è stato istituito, nel luglio 2000, il Gruppo Anti-
crimine Tecnologico (GAT). Il Gruppo ha un campo d’azione particolarmente ampio
investendo tutti i settori in cui viene impiegata la tecnologia per commettere reati: da
internet al telefonino, fino ad arrivare ai sistemi di pay TV.
Il coordinamento delle attività della Polizia delle Comunicazioni col GAT avviene
sempre tramite la Direzione Centrale di Roma.
La minaccia criminale nel mondo virtuale si distingue da quella tradizionale per-
ché caratterizzata dal superamento delle classiche categorie di tempo e di spazio.
La condotta delittuosa può concretizzarsi in più azioni svolte in tempi diversi o con-
temporaneamente, da più soggetti o da uno solo, in luoghi diversi o in uno spazio vir-
tuale; la condotta innesca più processi elaborativi e di trasferimento di informazioni che
passano, in tempi lunghi o in tempo reale, attraverso spazi indeterminati; possono essere
colpiti immediatamente, o a distanza di tempo, una o più vittime, in uno o più luoghi.
La velocità con la quale la tecnologia permette di trasferire, alterare o distruggere
grandi quantità di dati e informazioni e, più in generale, di portare a termine un cri-
mine, nonché la aterritorialità del fenomeno che può assumere una connotazione tran-
snazionale svincolandosi dai confini dei singoli Stati, rappresentano i limiti più gravi
alla persecuzione di tali forme di offesa.
La diffusione a livello mondiale della rete e la scomparsa del luogo del delitto hanno
creato gravi problemi di competenza territoriale, di giurisdizione, nonché, di norme
applicabili, laddove vengano coinvolti più paesi e, conseguentemente, più magistrature
e diverse forze dell’ordine.
Tuttavia, se un crimine è commesso tramite un server situato all’estero, viene da-
ta comunicazione della notizia di reato all’Interpol (Roma), che prosegue le indagini, e
alla Procura, competente per territorio (nel nostro caso quella di Firenze). Quest’ulti-
ma, verifica dove risiede il server, e inoltra (entro 24 ore) la comunicazione all’autorità
giudiziaria estera.

116
Forme di criminalità

Se il sito risiede sul server di un dato paese, ma è registrato presso un altro Stato,
la comunicazione della Procura deve essere effettuata ad entrambe le autorità giudizia-
rie. Esistono, inoltre, dei paradisi internet, come le Isole Samoa, la cui legislazione non
permette alcuna forma di intervento. Internet è infinitamente vasta e i crimini che pos-
sono essere compiuti, per suo tramite, sono numerosi e articolati. Se, da un lato, buo-
na parte degli interventi della Polizia delle Comunicazioni è promossa da specifiche
richieste di singoli utenti (aziende o privati cittadini), dall’altro, emerge un dato piut-
tosto significativo: una notevole discrepanza tra gli attacchi ai sistemi informatici sta-
tisticamente rilevati (di numero relativamente esiguo) e quelli effettivamente portati a
termine. Alla base di questo fenomeno vi sono diverse ragioni. Innanzitutto, può acca-
dere che il soggetto colpito non sappia di essere tale, non si accorga, cioè, di essere stato
vittima di un’aggressione informatica. Chi commette l’illecito può essere un esperto del
settore e, trattandosi, come spesso avviene, di un soggetto interno all’azienda, può es-
sere a conoscenza di informazioni preziose, di tipo tecnico o organizzativo, che lo pon-
gono in una situazione tale da impedire qualsiasi rilevamento.
In tal senso, gioca ovviamente il suo ruolo una inadeguata politica di sicurezza in-
terna: responsabilità di security manager impreparati, che devono, tra l’altro, aggiornarsi
continuamente, data la rapidità con la quale vengono scoperte nuove debolezze e falle
di sistemi e protocolli di comunicazione, ma anche responsabilità del personale dipen-
dente che può mettere in crisi, per ignoranza, anche la più sofisticata predisposizione di
misure di garanzia (basti pensare ai famosi post-it presenti su monitor o scrivanie che
riportano login e password di accesso). In altri casi, invece, è stata riscontrata nei siste-
misti, sia di enti pubblici che di aziende private, una forma di ritrosia nel considerare
l’attacco subìto come un fatto di reato, quando l’illecita intrusione non provoca danni.
Con questi termini, ci si riferisce a quel particolare tipo di attacco, prodromico
alla realizzazione di ulteriori reati, tecnicamente denominato hacking, ovvero, accesso
abusivo ad un sistema informatico o telematico (art. 615 ter c.p.). A questo proposito,
non bisogna, però, sottovalutare il fatto che un’illecita intrusione in un dato sistema
che non ha causato alcun danno, può essere utilizzata dall’autore come ponte per en-
trare in altri sistemi, reali bersaglio e oggetto di operazioni di cancellazione di dati o di
altre condotte criminose.
Inoltre, se l’ipotesi delineata, ex art. 615 ter, primo comma, è perseguibile a quere-
la della persona offesa, è pur vero che, quasi sempre, questo fatto è connesso con l’ille-
cita acquisizione del file delle password, condotta che integra il reato di cui all’art. 615
quater procedibile d’ufficio.
Ciò impone l’obbligo (almeno per i sistemisti di enti pubblici) di denuncia ai sen-
si dell’art. 331 c.p., obbligo sanzionato penalmente ai sensi degli artt. 361 e 362 c.p.
in caso di omissione. Ancora, si deve tener presente che, a volte, le aziende colpite pre-
feriscono non ricorrere alla denuncia perché il fatto di aver subìto un attacco è indice
di vulnerabilità, anche di fronte a clienti attuali e potenziali. Il prezzo da pagare per la
pubblicità del fatto criminoso subìto, può essere troppo alto, specie nel campo della re-
putazione e della credibilità.
Questo fenomeno interessa, soprattutto, certi tipi di aziende come banche, istituti
finanziari, compagnie assicurative, società quotate in borsa, imprese specializzate in si-
curezza informatica, in altri termini, tutti quei soggetti per i quali l’offerta di sicurezza

117
Criminologia ed elementi di criminalistica

costituisce una componente essenziale dell’attività esercitata. È un dato acquisito, inol-


tre, che, per la maggior parte di tali aziende, il ricorso alla magistratura non rappresenta
una soluzione neanche a fronte di ricatti o estorsioni, posti in essere da vere e proprie
organizzazioni malavitose. Accanto al cosiddetto danno di immagine, un altro elemento
può trattenere le aziende dalla denuncia: il timore di una responsabilità penale, nonché
civile, per eventuali danni cagionati a terzi. Deve essere chiarito, però, che in caso di
attacco ad un sistema informatico, tali responsabilità sono solo quelle disciplinate dalla
normativa sul trattamento dei dati personali. La legge sulla privacy (n. 675/96) preve-
de, infatti, l’obbligo giuridico per il responsabile del trattamento di adottare le misure
necessarie alla sicurezza dei dati, l’omissione delle quali (sia dolosa, sia semplicemente
colposa) è sanzionata penalmente (art. 36.)
In base, poi, all’art. 18 della legge citata, chiunque cagiona un danno ad altri per
effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050
del codice civile. Il trattamento di dati personali è, quindi, attività considerata pericolo-
sa, e comporta un’inversione dell’onere della prova (è il gestore a dover provare di aver
adottato tutte le misure idonee a evitare il danno, art. 2050 c.c.). Va sottolineato, d’altra
parte, come sia in pratica facile sottrarsi alle suddette responsabilità: la legge richiede,
infatti, la predisposizione di misure di sicurezza minime (per non dire ovvie e in alcuni
casi anche ingenue).
A norma dell’art. 15 (della 675/96), terzo comma, dette misure, individuate dal
regolamento introdotto con D.P.R. del 28 luglio 1999, n. 318 (in vigore dal 1.1.2000),
consistono, fondamentalmente, in un sistema di codici identificativi (password) per l’ac-
cesso al sistema e nell’impiego di idonei programmi antivirus, la cui efficacia e aggior-
namento sono verificati con cadenza almeno semestrale (art. 4 del regolamento). La
disciplina prevista dalla legge 675/96, trova applicazione, ex d. lgs. n. 171 del 1998,
anche ai fornitori di un servizio di telecomunicazioni accessibile al pubblico (in parti-
colare, quindi, agli Internet Service Provider e alle compagnie telefoniche).
Un altro elemento che non può essere trascurato è che, nel cosiddetto ciberspazio,
anonimità e omologazione sono attributi che qualificano gli utenti virtuali e facilitano
l’occultamento di prove reali e personali. Per questa ragione, nell’attività repressiva dei
computer crimes, la collaborazione dei gestori dei servizi di telecomunicazione, dei servi-
zi internet (Internet Service Provider), dei fornitori di connettività e degli altri operatori,
è un elemento imprescindibile se si vogliono ottenere risultati concreti. La professiona-
lità del personale impegnato nelle indagini deve essere supportata, soprattutto nella fase
di acquisizione delle fonti prova, dalla collaborazione spontanea di tali soggetti, nonché
delle stesse vittime. Diversamente, la volatilità degli elementi probatori e la mancanza di
una normativa che obblighi gli amministratori di sistema a conservare i cosiddetti file di
log determinano situazioni la cui complessità, difficilmente, potrebbe trovare soluzione.
In particolare, l’identificazione di un soggetto, di un luogo o di eventuali tracce di reato,
che costituiscono atti tipici di polizia giudiziaria, sono, in questo settore, essenzialmente
riconducibili al cosiddetto ip address, dal quale si può risalire, attraverso particolari accer-
tamenti tecnici, a soggetti fisici. Una collaborazione spontanea, si diceva, perché tutto
sembra ruotare intorno all’ip address, elemento fondamentale per tracciare e individua-
re il criminale informatico, ma contenuto in quei famosi file di log, la cui conservazione
(per un certo periodo) non è prevista come obbligo di legge a carico degli ISP.

118
Forme di criminalità

Per risalire all’autore dell’illecito, dunque, è determinante acquisire i file di log.


Occorre, in proposito, chiarire che esistono diversi file di log, ciascuno deputato al-
la registrazione di particolari attività svolte dall’utente sulla o tramite la macchina alla
quale ha ottenuto l’accesso. I file di log che qui interessano sono quelli (memorizzati
sul server dell’ISP) che contengono i dati relativi all’inizio e alla fine di una sessione
di navigazione di uno specifico utente (collegatosi con un certo username e una certa
password), nonché, soprattutto, l’indirizzo ip del computer (indirizzo assegnato dal ser-
ver stesso), che ha richiesto l’accesso alla Rete. Una volta acquisiti, tali files, vengono
confrontati con i tabulati telefonici e permettono, così, di risalire all’intestatario della
linea chiamante. È su quest’ultimo che, in primo luogo, ricadrà la responsabilità per
l’uso illecito del computer.

6.5 La criminalità organizzata e le moderne tecnologie


Le molteplici occasioni che la rete riesce ad offrire hanno inciso, specie in questi
ultimi anni, in parecchie attività economiche, facilitando qualsiasi tipo di transazione
e abbassando, al tempo stesso, i relativi costi. Naturalmente, anche la criminalità orga-
nizzata ha scoperto che internet può fornire nuovi benefici per i propri affari illeciti. Il
lato oscuro della rete telematica riguarda: la frode, il furto, la pornografia, la pedofilia,
il traffico di droga, di armi, di organi umani e quant’altro interessa e coinvolge diretta-
mente le organizzazioni criminali mondiali.
Nel mondo virtuale, come in quello reale, la maggior parte delle attività criminali
è compiuta da singoli individui o da piccoli gruppi e può essere perfezionata ed utiliz-
zata su larga scala dalle grandi organizzazioni. Si hanno, infatti, numerose prove che la
criminalità organizzata stia già sfruttando a pieno regime le nuove opportunità offerte
da Internet.
Certamente, si continuerà ad operare nel mondo reale, piuttosto che nel c.d. Cy-
berspazio, e la maggior parte dei crimini informatici sarà compiuta dagli individui, piut-
tosto che dalle organizzazioni; tuttavia, il grado di sovrapposizione fra i due fenomeni
aumenterà considerevolmente durante i prossimi anni. Prova di ciò è che non appena
le Forze dell’Ordine attuano uno screening delle imprese sospette di attività penalmente
rilevanti, si scopre come alcune di esse siano coinvolte, allo scopo di aumentare i loro
profitti illeciti, nel settore dei crimini informatici.
Le organizzazioni criminali non sono gli unici beneficiari dei c.d. mercati telemati-
ci illeciti, ma, senza dubbio, sono i più importanti a causa della competitività, frutto del
loro modus operandi, costituito, essenzialmente, da minacce, violenze e intimidazioni
di ogni genere. Le organizzazioni criminali, inoltre, tendono a essere particolarmente
attente a individuare tutte le occasioni per incrementare le proprie attività illegali. In
questo contesto, internet, e lo sviluppo continuo del commercio elettronico, offrono
nuove prospettive di espansione dei mercati. Negli ultimi anni, c’è stato un aumento
rilevante della specializzazione dei gruppi organizzati nel traffico di droga e di armi. I
narcotrafficanti colombiani, per esempio, hanno seguito nuove strategie per differen-
ziare il loro prodotto, sfruttando nuovi mercati in Europa occidentale e nei paesi del-

119
Criminologia ed elementi di criminalistica

l’ex Unione sovietica. Le organizzazioni criminali hanno esperti finanziari sempre più
specializzati a condurre transazioni economiche a livello internazionale. Il crimine orga-
nizzato non ha bisogno di sviluppare la perizia tecnica necessaria per navigare su inter-
net: può impiegare i migliori esperti informatici mondiali, utilizzando (secondo i casi)
ricompense o minacce pur di raggiungere i propri obiettivi. La criminalità organizzata
è continuamente alla ricerca di luoghi privi di controllo, in cui condurre, con tranquil-
lità, i propri affari illeciti. Internet rappresenta, senza dubbio, una zona franca, perché è
in grado di fornire sufficienti garanzie di sicurezza e anonimia offrendo, al contempo,
adeguata tutela nei confronti delle varie normative internazionali.
Nel mondo virtuale non ci sono confini, e questo costituisce una caratteristica
molto attraente per quasi tutte le attività criminali. Quando le autorità tentano di sorve-
gliare questo mondo virtuale, incontrano non poche difficoltà. Internet offre le occasio-
ni per la commissione di varie tipologie di reato. Offre nuovi strumenti per commettere
reati quali la truffa e l’estorsione (crimine, quest’ultimo, che è stato sempre una delle pe-
culiarità delle organizzazioni di mafia). L’anonimato fornisce uno strumento ideale per
molte attività proprie della criminalità organizzata. La segretezza è, solitamente, una
chiave strategica e internet offre opportunità eccellenti per la realizzazione di reati, in
maniera quasi completamente anonima. Il crimine organizzato si è spesso infiltrato nel
sistema economico del proprio paese. Nel passato, ad esempio, la mafia, aveva propri
interessi in vari settori dell’economia del paese di appartenenza. Oggi non vi sono più
confini cosi ben delineati, infatti, la stessa mafia italiana, ad esempio, ha interessi eco-
nomici nel sistema delle industrie chimiche di vari paesi dell’Europa, cosi come in indu-
strie dei paesi dell’ex blocco sovietico e dell’America. Internet e il crescente sviluppo del
c.d. e-commerce, presentano un nuovo terreno fertile per le infiltrazioni criminali. Tutto
ciò, dovrebbe suggerire alle varie componenti del sistema economico finanziario (con-
nesse con internet) di prestare attenzione ai futuri soci e sostenitori finanziari. In buona
sostanza, il sinergismo fra crimine organizzato e internet è, non soltanto molto naturale,
ma anche destinato a fiorire e a svilupparsi ancora in avvenire. Internet fornisce nuove
frontiere e permette guadagni considerevoli con un livello molto basso di rischi.
La multiformità delle varie forme del crimine informatico è collegata, strettamen-
te, a una seconda tendenza, distinguibile, soprattutto, nel settore economico finanzia-
rio, individuabile nel contesto penalistico, nell’area dei c.d. crimini dei colletti bianchi.
Durante la fine gli anni ‘90, numerosi sono stati i casi di organizzazioni criminali che
hanno sfruttato internet, soprattutto nel settore del c.d. e-commerce. Tutto questo è sta-
to fatto con coercizione e attraverso il controllo totale degli istituti di mediazione eco-
nomico-bancaria. Internet, inoltre, è stato usato per distribuire informazioni che hanno
determinato artificialmente il prezzo dei mercati borsistici. Negli Stati Uniti, i clan ma-
fiosi coinvolti in questo genere di affari erano membri delle famiglie Bonnano, Genove-
se e Colombo, come pure membri immigrati appartenenti alla mafia russa. La relativa
compiacenza ad usare la forza e l’intimidazione si adatta molto bene allo sviluppo della
cyber-estorsione. Nei confronti dell’industria di internet, ad esempio, l’estorsione si concre-
tizza, spesso, nella minaccia di interrompere le informazioni e i sistemi di comunicazio-
ne e di distruggere dati importantissimi. Lo sviluppo dell’estorsione telematica è una nuova
tendenza significativa della criminalità moderna. Gli schemi di un’estorsione nel mondo
reale, a volte, sono individuabili; al contrario, in rete, possono essere realizzati, anoni-

120
Forme di criminalità

mamente, subendo rischi modesti e realizzando alti profitti. Questa potrebbe essere una
forma di reato notevolmente sottostimata. Il crimine organizzato si sta spostando dalla
dimensione reale a quella virtuale, spinto dalle numerose vulnerabilità che derivano dai
sistemi informatici. I cybercrimes, quando sono collegati al crimine organizzato, presen-
tano molteplici problematiche che coinvolgono sia i meccanismi di indagine, sia quelli
giurisdizionali. Un esempio delle problematiche suddette proviene proprio dal virus in-
setto dell’amore, che si è diffuso in molti Stati ed è costato migliaia di milioni di dollari.
Quando gli agenti del FBI sono riusciti a identificare il colpevole, uno studente
filippino, hanno scoperto che nella sua Nazione non c’erano leggi in virtù delle qua-
li lo stesso poteva essere incriminato. Le Filippine, successivamente, hanno adottato
una legislazione sui cybercrimes e molti altri paesi di quell’area hanno fatto lo stesso.
Nonostante ciò, i vuoti legislativi e giurisdizionali rimangono, consentendo, ai crimi-
nali e agli hackers, l’impunità. Effettivamente, è possibile che alcuni Stati cerchino di
sfruttare sempre di più un atteggiamento permissivo per attrarre il commercio illecito
e garantire zone franche in cui sicurezza ed impunità sono caratteristiche essenziali. È
sempre più probabile che internet sia usato per le attività di riciclaggio di denaro sporco,
trasformandosi, così, nel mezzo con cui si sta sviluppando il commercio internaziona-
le. Le aste in linea, ad esempio, offrono opportunità di spostare denaro attraverso gli
acquisti apparentemente legittimi, pagando molto di più del valore reale delle merci.
Con questi ed altri meccanismi, è possibile spostare soldi verso i centri finanziari dei
c.d. paradisi fiscali (es. Caraibi). Inoltre, poiché le operazioni bancarie elettroniche di-
ventano sempre più diffuse, le occasioni per celare il movimento dei proventi del cri-
mine e delle transazioni illegali si sta perfezionando di giorno in giorno. Lo svilupparsi
dei collegamenti tra hackers e crimine organizzato è sempre più preoccupante. Nel mese
di settembre del 2002, per esempio, due membri di un gruppo conosciuto in America
con il nome di Phonemasters sono stati condannati per la violazione dei sistemi di ela-
borazione dati di numerose aziende di telecomunicazioni. I due cibercriminali avevano
rubato vari sistemi cifrati di crittografia che hanno venduto ad alcuni gruppi apparte-
nenti alla criminalità organizzata americana ed italiana.
La nuova criminalità organizzata utilizza internet per le comunicazioni cifrate e
per tutti gli altri scopi, di conseguenza, un sistema cifrato di crittografia può essere molto
vantaggioso (es. ordinare un omicidio via internet o reclutare donne per lo sfruttamento
della prostituzione o vendere armi e organi umani). Perciò, il crimine organizzato, si sta
dimostrando flessibile all’utilizzo di tutte le opportunità offerte dalla telematica. Le im-
plicazioni sono di grande portata e naturalmente richiedono una risposta forte dei vari
governi a più livelli (nazionale ed internazionale). La risposta alla sovrapposizione cre-
scente fra crimine organizzato e cybercrime richiede una strategia completa.

6.6 La criminalità stradale


Il problema merita un’attenta analisi nelle sue articolazioni logiche: preliminar-
mente, non può dubitarsi in alcun modo, della rilevanza criminologica delle condotte
di chi si pone alla guida di un’autovettura (come se impugnasse un’arma) e con atteg-

121
Criminologia ed elementi di criminalistica

giamento colposo, spesso cosciente, cioè consapevole delle gravità delle possibili conse-
guenze, pone a grave rischio l’incolumità altrui. Peraltro, si è correttamente osservato
che, nell’ordinamento giuridico italiano, il legislatore è orientato nel senso tradizionale
di considerare il delitto colposo come meno grave e, perciò, sanzionabile più lievemen-
te di quello doloso. Si tratta di un punto di vista classico, incentrato, soprattutto, sulla
colpevolezza, ma che tiene poco conto della pericolosità, oggettiva e soggettiva, della
delinquenza colposa della società moderna. In effetti, la tendenza alla deresponsabiliz-
zazione della criminalità colposa, propugnata dalla volontà del legislatore e dallo stesso
orientamento, assolutamente prevalente della giurisprudenza, non può assolutamente
essere supinamente condivisibile, in ragione della gravità e della frequenza del fenome-
no, fortemente legato al progresso tecnologico, all’automazione dei procedimenti indu-
striali, all’enorme diffusione della motorizzazione e ai mille riflessi della trasformazione
scientifica e tecnica della società contemporanea.
Vi è, infatti, una considerazione fondamentale da svolgere, gravida di conseguen-
ze sotto il profilo dell’effettività delle sanzioni e perfettamente coerente con i princi-
pi generali regolanti il nostro codice penale: se, in astratto, può essere condivisa una
minore colpevolezza del criminale colposo rispetto a quello doloso, tuttavia, non cer-
to minore è la pericolosità sociale dell’autore del reato, che anzi, sovente, manifesta pe-
culiarità di particolare valenza criminogena, al punto che si è ritenuto di equipara-
re, per esempio, il delinquente stradale ad una specie di bomba innescata, pronta ad
esplodere contro chiunque. Sotto un profilo vittimologico, inoltre, il pirata della stra-
da presenta connotati di elevata pericolosità, poiché agisce contro vittime fungibili,
cioè, non pone in essere la propria illecita condotta nei confronti di un soggetto ben
individuato, ma è pronto a rivolgerla verso un’amplissima generalità di consociati,
che si traduce in veri e propri bollettini di guerra che quantificano quotidianamen-
te i caduti per causa della circolazione stradale, con picchi particolarmente elevati a
ogni fine settimana.
Si è proposto di classificare i rapporti tra il criminale e la sua vittima nella circo-
lazione stradale, di non semplice delineazione dogmatica, in alcune situazioni fonda-
mentali: a) reati stradali in cui si può rilevare la presenza di particolari rapporti comuni
tra criminale e vittima; b) reati stradali senza vittime, tipica la guida in stato d’ebbrezza
allorquando il criminale sia fermato prima di provocare incidenti; c) reati stradali con
vittime ma senza trasgressori, perché gli stessi si danno alla fuga e restano ignoti; d) rea-
ti stradali in cui il trasgressore è anche vittima, tipici gli incidenti in cui il conducente ri-
porta lesioni per un incidente dovuto ad eccesso di velocità.
Tali situazioni si aggiungono a quella della c.d. vittima innocente, che non influi-
sce in alcun modo sulla genesi del reato e subisce solo gli effetti della condotta del reo,
situazione che contraddistingue la maggior parte degli eventi infortunistici.
Il bene primario da tutelare in tale contesto, la sicurezza della circolazione, è costi-
tuito dall’interazione di tre elementi, e cioè, anzitutto, la strada, con le sue caratteristi-
che fisiche e strutturali su cui possono influire sensibilmente le condizioni metereolo-
giche; in secondo luogo il veicolo, con i suoi dispositivi di sicurezza, ed infine l’uomo,
che riveste una priorità centrale essendo la causa largamente principale degli infortuni
sulla strada.
Un approccio corretto del fenomeno, quindi, non può prescindere da una preci-

122
Forme di criminalità

sa tipologia di fattori, che hanno natura tecnica, natura medico-legale e psicotecnica, e


infine natura giuridica e giudiziaria:

1) sotto il primo profilo, devono essere attentamente valutati gli standard qualitati-
vi nella costruzione di autoveicoli e dispositivi di sicurezza in genere, dall’altro, la
realizzazione di strutture stradali sicure ed idonee a sostenere il peso del traffico
stradale attuale, nelle più diverse condizioni climatiche. Il bilancio può conside-
rarsi sufficientemente positivo sotto il primo aspetto, giacché, significativi miglio-
ramenti, sia nella struttura degli autoveicoli( difesa dell’abitacolo mediante scocca
assorbente l’urto) sia nei sistemi di sicurezza attiva (ABS, sistemi di navigazione
antisinistro ecc.) e passiva (cinture di sicurezza, poggiatesta anatomici a sella, air-
bags ), si sono indubbiamente avuti grazie agli investimenti di ricerca delle case
automobilistiche;
2) il fattore uomo è assolutamente centrale nell’ottica della sicurezza stradale, giacché
ricerche attendibili hanno dimostrato come ad esso vada ricondotta una percen-
tuale elevatissima dei sinistri, non inferiore al 80/90% degli eventi dannosi.

Ciò investe problematiche di natura medico-legale e psicotecnica, inerenti l’effet-


tiva idoneità e attitudine alla guida e ai sistemi di accertamento delle stesse ai fini del
rilascio e del mantenimento dei documenti abilitanti, nonché problematiche di tipo
criminologico, ove si tenga conto che molti sinistri non conseguono a eventi acciden-
tali, bensì, costituiscono il riflesso di una vera e propria scelta sottoculturale del con-
ducente, che imita modelli di condotta che si ispirano alla violazione delle norme che
disciplinano la circolazione stradale. Si tratta di un fenomeno di particolare interesse,
dal momento che costituisce la causa principale dell’infortunistica stradale, che deve
essere oggetto di attenta valutazione al fine di determinare un trattamento sanzionato-
rio caratterizzato da effettività.
In effetti, la criminalità stradale costituisce una forma di devianza criminale vera e
propria, che si alimenta in forza dello scarso disvalore sociale attribuito agli eventi infor-
tunistici stradali e, parallelamente, dalla limitata effettività del regime sanzionatorio.
Sotto il profilo del sesso, pur esistendo una maggiore incidenza di sinistri causati
da maschi, vi è una progressiva tendenza alla piena assimilazione tra uomini e donne
in relazione alle trasgressioni stradali, pur con peculiarità specifiche (per esempio, la
donna ha molta più difficoltà dell’uomo a guidare al buio, e in tali condizioni aumenta
molto la sua sinistrosità): infatti, il rischio medio, cioè la frequenza media dei sinistri in
rapporto alle auto circolanti, valutata in centesimi, si attesta nel 12% per le femmine e
nel 13, 5% per i maschi.
La maggiore sinistrosità dei maschi, peraltro relativa, trova corollario nella valuta-
zione degli effetti degli incidenti che, se provocati da maschi, sono molto più gravi: si
è potuto constatare che i maschi provocano 1 morto ogni 4 feriti, le femmine 1 morto
ogni 7 feriti.
Le problematiche inerenti alle condizioni fisiche e psicologiche del trasgressore
introducono la necessità di valutazioni medico-legali e psichiatriche: quanto alle prime,
s’impone un accertamento specifico e approfondito sull’idoneità alla guida, in relazio-
ne ad eventuali handicaps motori, visivi, uditivi e fisici in genere, e una indagine su de-

123
Criminologia ed elementi di criminalistica

terminati connotati fisiologici, quali la resistenza alla stanchezza e al sonno, che svolga
un ruolo educativo sul conducente in relazione alla sua condotta futura.
Quanto poi alle condizioni psichiatriche, è fondamentale individuare tutte le psi-
cosi incompatibili con la sicurezza della circolazione che potrebbero risolversi in fatto-
ri criminogeni particolarmente gravi: si è, per esempio, potuta riscontrare un’elevata
correlazione tra il c.d. disturbo antisociale della personalità e la sinistrosità stradale; come
pure si sono individuate alterazioni quantitative di caratteri psicologici normali (psico-
patie legate a caratteri aggressivi, esibizionisti, stressati), tra le quale la c.d. risk taking
behaviour (propensione a comportamenti a rischio), che costituiscono fattori predispo-
nenti alla violazione di regole di sicurezza stradale, assimilabili all’assunzione di bevan-
de alcoliche o sostanze stupefacenti. La guida in stato di ebbrezza e sotto l’influenza di
stupefacenti è un fenomeno di drammatica gravità in relazione ai fatti criminosi da cir-
colazione stradale, al punto che, su questo versante della sicurezza, è necessario estende-
re significativamente la prevenzione e la vigilanza, individuate dalla dottrina anglosas-
sone come law enforcement, giacché, gran parte delle contravvenzioni per guida in stato
di ebbrezza vengono rilevate solo in occasione dei sinistri, circostanza che ben illustra
la carenza di controlli preventivi.
Si sono potute individuare alcune caratteristiche personali strettamente correlate
a fatti infortunistici. Si tratta, anzitutto, di connotati psicosomatici, costituiti da al-
terazioni, insufficienze o disfunzioni tali da implicare difficoltà nella realizzazione di
manovre di media ed alta complessità, che si risolvono in vere e proprie predisposizioni
agli incidenti (accident prones).
Tali fattori possono avere non solo natura fisiologica o psicomotoria, ma anche psi-
cologica, con particolare riferimento alla c.d. recidiva sinistrosa e alla conseguente pau-
ra di rivivere l’esperienza del sinistro, che paralizza il conducente e lo predispone a su-
bìre altri incidenti (fenomeno particolarmente diffuso per il sesso femminile), oppure,
infine, sociale: infatti, la frequentazione di discoteche, con la conseguente prolungata
esposizione a giochi violenti di luci e a rumori costanti superiori a 40 decibel, costi-
tuisce, a prescindere dall’assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti, un rilevante
fattore predisponente al sinistro; analogamente, l’uso ormai frequentissimo di telefoni
cellulari in assenza di dispositivi viva-voce determina una rilevante menomazione della
condotta dell’autovettura (specie se priva di cambio automatico) e nel livello di concen-
trazione alla guida, senza che a tale comportamento consegua un trattamento sanziona-
torio adeguato. Non si può sottacere, in una siffatta analisi del fenomeno, l’incidenza
rilevante del fattore inerente la nazionalità: è dato di fatto, inequivoco ed evidente, che
i cittadini extracomunitari si rendono responsabili al volante di autoveicoli di condot-
te criminali di elevatissima pericolosità, e altrettanto alta incidenza statistica, per una
molteplicità di fattori spesso interattivi: nella normalità dei casi, gli extracomunitari
hanno conseguito la patente di guida nei loro paesi d’origine, ove le condizioni di traf-
fico sono imparagonabili a quelle della nostra realtà sociale, per intensità e strutture
viarie; ciò fa sì che gli stessi siano gravemente inabili e pericolosi nel coinvolgimento in
condizioni di traffico denso e complesso, e di fatto, determinano con elevata frequenza
sinistri anche gravi; in talune situazioni patologiche ad elevatissima frequenza, gli ex-
tracomunitari, approfittando delle difficoltà di accertamento e controllo, si pongono
alla guida privi di adeguati corsi di apprendimento e con patenti false, apparentemente

124
Forme di criminalità

rilasciate dai paesi di origine; in casi assai frequenti, le condizioni di disagio personale
e sociale, dovute alle difficoltà di inserimento nel nostro Paese, determinano l’abuso di
sostanze alcoliche se non stupefacenti, i cui riflessi sull’idoneità alla guida sono triste-
mente e tragicamente noti: ciò ha portato a numerose recenti stragi, poste in essere, ir-
responsabilmente, da extracomunitari.
La necessità di verificare l’idoneità psicotecnica, sotto ogni profilo, alla guida di vei-
coli a motore di ogni tipo da parte di tali soggetti, è, pertanto, un dovere ineludibile da
parte delle autorità preposte nel nostro ordinamento giuridico.
In una prospettiva generale, l’autorevole dottrina penalistica (Mantovani) ricon-
duce la predisposizione a violare norme sulla circolazione stradale a: 1) cause psicosoma-
tiche, tra le quali la carenza di intelligenza e la conseguente limitata capacità di prevede-
re ed evitare il sinistro; 2) fattori caratteriali quali l’aggressività, l’asocialità e la tendenza
a commettere comportamenti devianti; 3) trasmissione subculturale dei comportamen-
ti illeciti stradali. Lo stesso autore, in un’ottica criminologica, distingue i delinquenti
stradali in: a) conducenti accident prones per cause psicosomatiche o psicotecniche, per
i quali, la prevenzione si esplica mediante interventi restrittivi o limitativi della patente
di guida (divieto di guidare di notte o in strade a scorrimento veloce ecc.); b) conducen-
ti che sono criminali della strada così come sono criminali comuni, per i quali, la attività
preventiva si deve ispirare alle strategie generali per la prevenzione dei comportamen-
ti devianti; c) conducenti normali che trasgrediscono le norme stradali per assimilazione a
modelli sottoculturali appresi per imitazione, che sono la tipologia più numerosa e in
relazione ai quali l’attività preventiva, di tipo culturale ed educativo, potrebbe determi-
nare i risultati più significativi.
È necessario intervenire con urgenza sul trattamento giudiziario e sulla politica cri-
minale cui si ispira il legislatore, che non può prescindere dagli apporti empirici delle
scienze criminologiche.

6.7 La criminalità bianca (o dei colletti bianchi)


Negli Stati Uniti, nel 1939, l’espressione criminalità dei colletti bianchi diventò ce-
lebre grazie a Sutherland. Il capo della General Motors aveva scritto un’autobiografia
con il titolo Autobiografia di un colletto bianco, dove riprendeva la distinzione americana
tra colletti bianchi e colletti blu, dando ad intendere di essere un operaio, ma col colletto
bianco. Sutherland riprende la dicotomia, rovesciando l’immagine, fino ad allora pre-
valente, e secondo la quale la criminalità era un problema dei ceti popolari. Rovesciando
questo impianto concettuale, Sutherland scrive un classico della letteratura scientifica
per il quale, si dice spesso, avrebbe ricevuto immediatamente un Nobel della criminolo-
gia se fosse esistito un tale tipo di premio. In brevissimo tempo, le analisi di Sutherland
diventano famosissime e danno vita a una vera e propria Scuola. Il termine criminalità
dei colletti bianchi è riferito, prevalentemente, alle impunità delle alte figure dell’econo-
mia, accusati di compiere crimini che sfuggono facilmente ai rigori della legge: nell’eser-
cizio di molte attività tipiche dei colletti bianchi, parecchi comportamenti sarebbero
oggetto di valutazioni erroneamente clementi, comprensive, innocentiste. Reati tipici

125
Criminologia ed elementi di criminalistica

della criminalità dei colletti bianchi sono la frode fiscale, la frode commerciale, e così via.
La mancanza, a volte, di un rapporto diretto dell’autore del reato con la vittima e la dif-
ficoltà, a volte, di individuare una vittima specifica, sono fattori importanti nella valu-
tazione sociale del reato. Un aspetto rivelatore del basso livello di reazione sociale e di
censura sociale è l’uso frequente dell’aggettivo disonesto, invece che criminale, nei con-
fronti degli autori di questi reati: essi, spesso, non vengono stigmatizzati come delin-
quenti dalla collettività, e non si considerano delinquenti. Tre aspetti, soprattutto, sono
messi in rilievo da Sutherland e dagli studiosi che hanno sviluppato queste tematiche:

1) la criminalità dei colletti bianchi è assassina, sia nel senso che, spesso, le conseguen-
ze dei reati sono devastanti non meno di quanto avviene con la violenza persona-
le. Basti pensare al campo delle sofisticazioni alimentari o al traffico di rifiuti tossici:
questo tipo di criminalità ha indubbiamente conseguenze assassine e per numeri
elevati di persone. In particolare, nota Sutherland, questo tipo di criminalità ucci-
de il senso di responsabilità e di civismo: mentre una violenza personale riunisce i
cittadini nel deprecare quanto avvenuto e li induce a riaffermare i principi fonda-
mentali della convivenza, la criminalità dei colletti bianchi mina la fiducia nelle
leggi e nello Stato, distrugge la certezza del diritto e le motivazioni dell’agire mora-
le. È assassina sia delle nostre vite sia della possibilità di stare insieme decentemen-
te e umanamente;
2) la criminalità dei colletti bianchi tende naturalmente a nascondersi, a mimetizzarsi, a
camuffarsi. Poiché la criminalità dei colletti bianchi è propria delle alte sfere della
società (anche se poi si allarga socialmente e coinvolge un ampio numero di per-
sone), questi reati vengono occultati in un’ampia gamma di modi. Chi detiene il
potere ha i mezzi per tentare efficacemente di nascondere la propria criminosità,
oppure di presentarla sotto una falsa luce, o ancora di dare informazioni erronee,
oppure di minimizzare il senso di informazioni vere, o di sopprimere la possibilità
di diffusione e di circolazione di alcune informazioni. In conclusione, la crimina-
lità dei colletti bianchi è misconosciuta;
3) la criminalità dei colletti bianchi è impunita, anche perché misconosciuta, è spesso
assassina. I motivi sono molteplici e anche facilmente intuibili. Innanzitutto, la pos-
sibilità di scoprire e provare questo tipo di crimine è in larga misura possibile soltan-
to ai poteri pubblici, che, teoricamente, hanno i mezzi per scalfire il muro di omer-
tà, di connivenza, di protezione che circonda questo tipo di crimini. Gli stessi poteri
pubblici sono, però, in larga misura, connessi con le stesse persone che dovrebbero
perseguire. La connessione contempla un grande numero di possibilità, che vanno
dalle parentele vere e proprie alle parentele più efficaci in questo ambito: affari in
comune, favori reciproci, divisioni di un bottino che spesso proviene dall’affarismo
della politica e dell’intervento pubblico. La fonte primaria per la criminalità dei col-
letti bianchi è la collusione con i poteri pubblici, dunque, come può meravigliare
che il potere pubblico nelle sue molte facce (di vigilanza e di controllo, di investi-
gazione e di repressione) lasci spesso impunita questo tipo di criminalità? Questi
aspetti della criminalità dei colletti bianchi, sottolineati da Sutherland e da tutti gli
studiosi interessati al tema, hanno enorme rilevanza per quanto riguarda l’ingiustizia
amministrativa che vorrebbe spesso risultare assassina, misconosciuta, impunita.

126
Forme di criminalità

6.8 La delinquenza e il teppismo allo stadio


Tifo, divertimento, entusiasmo, ma anche violenza, inciviltà e tafferugli. Sono or-
mai questi gli elementi che caratterizzano il calcio, non solo italiano, e le partite allo
stadio.
Le cronache di atti di violenza in Italia sono ormai numerosissime, mentre all’este-
ro sono note le ostili rivalità tra i tifosi dei club inglesi (i cosiddetti hooligans) e quelli
spagnoli, che, pur avendo pessima reputazione in argomento di civiltà, evitano tutti i
problemi, perché giocano all’interno di impianti sportivi che, grazie all’assenza di rin-
ghiere offrono uno stretto contatto tra pubblico e giocatori, ma senza rischi. Da non
trascurare sono gli scontri tra opposti schieramenti durante il pre-partita, quando si
accendono rivalità che crescono a tal punto da provocare numerosi arresti, feriti e, nel
più tragico dei casi, morti.
Tutto questo è sicuramente favorito dall’inciviltà, ma anche dagli schieramenti di
polizia, inadeguati, talvolta, a fronteggiare migliaia di inferociti ultras. Oltre alle vio-
lenze fisiche ci sono anche quelle psicologiche, fatte di cori razzisti e striscioni che sca-
gliano improperi contro popolazioni africane e contro ebrei. Tutto questo è, di solito
rivolto ai tifosi e ai giocatori avversari, ma, spesso, anche la propria squadra è oggetto
di contestazione per cattiva gestione o scadenti risultati: così, si innervosiscono anche
gli stessi giocatori che in campo si lasciano coinvolgere in zuffe che eccitano ancor più
i tifosi e inducono sugli spalti ad atti di delinquenza, violenza e inciviltà.
In questi casi, sarebbe meglio che i campioni presi come modelli dagli ultras des-
sero il buon esempio con atti di fair play nei confronti degli avversari. Fortunatamen-
te, ci sono anche gruppi di calciatori che invitano alla pace e non alla violenza: contro
la guerra, addirittura, scendono in campo con delle magliette che indicano le loro idee
ed invitano i tifosi, prima delle partite, a non lasciarsi andare ad atti di teppismo che
rovinerebbero quella che, indipendentemente dal risultato finale, sarebbe una festa e
un’occasione di divertimento. Le recenti disposizioni in tema di presenza negli stadi e
i comportamenti all’esterno degli stessi, stanno cerando, comunque, di contenere tale
delittuosità. In qualche caso, le partite vengono giocate senza la presenza di spettatori.
La criminologia, già da tempo, oltre a occuparsi dello studio della violenza negli
stadi, si occupa anche di costruire la personalità e il profilo psicologico del tifoso, anche se
ciò, può contribuire, solo in parte, a dare risposta alle fenomenologie di violenza cal-
cistica.
Per i fanatici del calcio, il non tifoso è un soggetto con il quale, nello spazio sociale
quotidiano, spesso, non si ha assolutamente nulla in comune, e con il quale è persino
difficile comunicare, mentre il tifoso di un’altra squadra è percepito come un vero e pro-
prio nemico. L’appartenenza ad un gruppo di tifosi è diventato uno dei principali stru-
menti di identificazione collettiva nella società moderna, e una delle principali fonti di
significato nella vita di molte persone. Il tifoso è un soggetto che dirige il proprio com-
portamento in vista di un fine e secondo le aspettative del gruppo; per gli adolescenti,
in particolare, tale aggregazione, contribuisce alla costruzione dell’identità. Chi entra
nel ruolo di tifoso ultra trova, in particolare, un’identità già predisposta, con il suo cor-
redo di norme, valori, sanzioni, credenze, ragioni e modelli d’azione. Per tali motivi,
bisogna considerare la cultura di un gruppo di ultras come una cultura forte, capace di

127
Criminologia ed elementi di criminalistica

trasformare la curva in un territorio in cui, al di là della provenienza sociale, delle mo-


tivazioni e degli stimoli soggettivi, dei differenti stili di vita, valgono per tutti i giova-
ni tifosi le medesime regole e norme. Le cose cambiano quando questa cultura, che si
esprime attraverso esibizioni e spettacoli all’interno degli stadi, risulta incapace di gesti-
re l’uso della violenza, e qualche unità, soprannominata cellula autonoma, pur agendo
nella curva degli ultras, non si identifica nelle regole, spesso ferree, del gruppo. È anche
possibile che la cellula autonoma non abbia alcun tipo di connessione con il gruppo
degli ultras, ma si mescoli ad essi per confondere.
La nuova generazione degli ultras (denominati cani sciolti) ha un’età media com-
presa tra i 13 e i 35 anni, ma non è organizzata, gestita, guidata; la ingente mobili-
tazione e presenza delle Forze dell’Ordine in servizio, spesso, rappresenta, per questi
nuovi gruppi, un motivo di ulteriore compiacimento per vedersi così osservati e sor-
vegliati, ma anche un avversario (dentro e fuori dallo stadio) con il quale misurarsi,
sfogarsi gratuitamente, esibirsi, sfidare, perché, è noto che alle provocazioni e alla vio-
lenza, in qualche modo, sono tenuti a rispondere; ciò è verificabile nel caso di attac-
chi immotivati alle Forze dell’Ordine, anche quando i tifosi avversari sono già andati
via. La violenza fuori dagli stadi è, spesso, un meccanismo complesso, alla cui base,
non sempre esiste una motivazione coerente, seppur psicologica; al contrario, quello
che sembrerebbe un atto intimidatorio, quale può essere il caso dell’aggressione dei
supporter avversari, o aggressione indiscriminata (verso cose o soggetti diversi) può
nascondere ben altro, altri progetti, o segnali anche di vendetta, spesso metabolizzata.
Gli atti di violenza riescono ad aggregare, in pochissimo tempo, decine, centinaia di
persone, condizione favorevole, poichè la folla violenta è quella che consente di mime-
tizzarsi, di scappare, di confondersi.
L’assenza di motivazione si traduce in distruttività gratuita di cose o di esisten-
za umana, chiunque esso sia, ed è associata, soventemente, alla devastazione di luoghi
pubblici, quali gli stessi stadi o vie adiacenti, gli autogrill, i treni, le autostrade di colle-
gamento, i veicoli di altri cittadini.
La violenza dell’ultra, intesa sia in un’ottica collettiva (ultras organizzati) che in
un’ottica individuale (cani sciolti), non può essere indubbiamente osservata a prescin-
dere dal resto della società, da cui assimila e accoglie tensioni e conflitti, che, in un se-
condo tempo, vengono agiti nella circostanza dell’incontro sportivo.

6.9 Il terrorismo internazionale


Le associazioni terroristiche transnazionali presentano caratteristiche ben diverse
dai gruppi criminali tradizionali, in particolare quelli di tipo mafioso: caratteristiche
che costituiscono la loro vera forza, perché le rendono più sfuggenti alla conoscenza e,
quindi, meno permeabili dalle indagini.
Mentre le associazioni mafiose sono caratterizzate da forte strutturazione e radi-
camento territoriale, le cellule islamiche non sono strutturate rigidamente in un’unica
organizzazione gerarchica, ma confederate tra loro, peraltro del tutto informalmente;
ruotano intorno a strutture di servizio (finanziario e logistico) come Al Qaida; operano

128
Forme di criminalità

con estrema mobilità nell’ambito di una rete transnazionale del terrore, nel cui ambito
vengono progressivamente superate anche le identità etnico-nazionali.
Anche gli obiettivi di ciascun gruppo possono essere distinti, pur essendo tutti acco-
munati da un denominatore comune: la guerra santa contro gli apostati e i miscredenti.
Il complesso delle cellule disseminate in Italia, in Europa e in Medio Oriente, rico-
stituitesi a partire quantomeno dalla prima metà del 2002, in continua interazione tra
loro e portate alla luce dalle indagini, costituisce una realtà stabile e consolidata, uno
strumento pronto ad entrare in azione nella catena dei singoli segmenti operativi (dallo
spostamento di un militante allo studio di un obiettivo, da un messaggio telefonico in
codice alla collocazione finale di un ordigno), che è destinata a concludersi con l’atten-
tato terroristico vero e proprio.
Se, o forse si può dire quando, dove e in danno di quale obiettivo, ciò avverrà
(contro uno Stato estero in territorio estero, contro una rappresentanza straniera o un
organismo internazionale sedente in Italia, contro un obiettivo italiano all’estero o, in
ipotesi, contro un obiettivo italiano in Italia), dipenderà dalle contingenze politiche del
momento o dalle concrete occasioni e dagli ordini ricevuti, ma, è certo, anche in ragio-
ne dei propositi politico-religiosi di guerra a tutto l’Occidente, resi manifesti ed esplici-
ti quasi quotidianamente, che il momento della decisione troverà le singole cellule già
pronte a portare a termine la loro parte di compito.
Sotto questo profilo appare evidente che, non solo la materiale detenzione di esplo-
sivi, ma gli spostamenti di militanti, di somme di danaro, di cellulari, le comunicazio-
ni criptate secondo concordati codici numerici, lo scambio di materiale di propaganda
finalizzato al reclutamento, la disponibilità di alloggi e soprattutto la produzione co-
stante di documenti falsi costituiscono, anche nei momenti di attesa e anche per molto
tempo, le condizioni senza le quali la catena che porta all’attentato terroristico non po-
trebbe mettersi in moto, sono strettamente funzionali al buon esito di un’azione.
Soprattutto la produzione di documenti falsi e sicuri, in cui le cellule italiane sem-
brano le più abili, costituisce uno strumento essenziale per l’organizzazione, in quanto,
tramite essi, i suoi membri possono muoversi abbastanza tranquillamente per i Paesi
europei e del Medio oriente, mantenendo i rapporti con gli associati (ben più essenziali
e intensi tra paese e paese di quelli che avevano caratterizzato le organizzazioni terrori-
stiche tradizionali), e, portandosi, al momento necessario, sugli obiettivi.
Le indagini dirette all’accertamento di tali condotte richiedono un rilevantissimo
impegno di mezzi umani, materiali e finanziari, spesso protratto per anni.
Ebbene, se non è dubbio che le valutazioni di tali aspetti debbano fare esclusiva-
mente carico all’organo inquirente, mentre il giudice deve restarvi indifferente nel mo-
mento decisionale, è evidente che nella valutazione del P.M. in ordine alla impostazio-
ne delle indagini, le decisioni dell’organo giudicante assumono un peso determinante.
Da qui, l’esigenza non solo di P.M. specializzati, ma anche di giudici specializza-
ti, i quali – nella loro funzione di controllo e garanzia – sappiano cogliere, fin dal pri-
mo momento degli atti di indagine, la valenza indiziaria degli elementi acquisiti, e poi
controllare per tutto il corso delle indagini lo sviluppo coerente del quadro indiziario
dalla sufficienza alla eventuale gravità necessaria per l’emissione del provvedimento cu-
stodiale. Dalla valutazione differenziata di materiali processuali, sostanzialmente iden-
tici e, in definitiva, dal diverso approccio giurisprudenziale al fenomeno del terrorismo

129
Criminologia ed elementi di criminalistica

internazionale, discende il rischio di dislocazione delle indagini da parte degli organi


centralizzati di polizia giudiziaria, nelle sedi, in cui la giurisprudenza appare più favore-
vole all’accusa, con la conseguenza – davvero devastante sul piano del contrasto – che
le cellule terroristiche vadano specularmente a insediarsi dove minore è la pressione in-
vestigativa e/o più debole il contrasto giudiziario.
In Italia, secondo vari organi di polizia, si sta anche assistendo a forme nuove di
dislocazione territoriale dei jiadhisti, che, molto spesso, si spostano dalle metropoli e
dalle grandi città verso cittadine minori, ove sono obiettivamente più difficili investi-
gazioni efficaci.
Più in generale, si stanno registrando segnali di trasferimento di tali soggetti, in
ambito europeo, verso i paesi nordici, i cui apparati di polizia non sembrano ancora
adeguati alle esigenze di contrasto a questo tipo di criminalità organizzata.

6.10 Usura ed estorsioni


Altra fonte di cospicui, illeciti guadagni per le organizzazioni criminali è rappre-
sentata dall’attività usuraria e da quella estorsiva che, spesso, è diretta conseguenza del-
la prima, perché, sempre più frequentemente, imprenditori in stato di disagio econo-
mico, a causa dell’assoggettamento al pagamento delle pesanti tangenti imposte dai
clan, sono costretti a ricorrere a crediti usurari offerti loro dalle stesse organizzazioni
criminali.
L’azione di contrasto a questi particolari crimini, è stata, da alcuni anni, posta in
essere dalla D.D.A., anche perché, il pesante velo dell’omertà che impedisce di annien-
tare questa vera piaga sociale comincia a spezzarsi, e molte indagini sono state concluse
positivamente con tempestività, grazie alla collaborazione delle persone offese. Se que-
sta inversione di tendenza, ancora nella fase iniziale, troverà sempre maggior sviluppo,
potrà essere detta una parola decisiva nel contrasto ai clan che praticano in maniera an-
cora massiccia tali forme di reato.
Per quanto concerne le estorsioni, va rilevato che gli autori, raramente, vengono
puniti, perché rimasti ignoti, innanzitutto, per radicata omertà e anche per la scarsa
collaborazione delle vittime per timore di rappresaglie. Per combattere tale grave fe-
nomeno, che tanto turbamento genera nella società e che rappresenta una piaga che
affligge, sono sorte varie iniziative da parte di associazioni antiracket per squarciare il
muro di omertà e per convincere gli operatori commerciali a denunziare ricatti e mi-
nacce subìte, rendendoli edotti sulla possibilità di ottenere i contributi economici pre-
visti dalla legge.
Tra i fatti più diffusi, vanno ricordate le estorsioni commesse dai datori di lavoro
ai danni dei propri dipendenti, costringendo gli stessi a sottoscrivere buste-paga o quie-
tanze di pagamento di liquidazioni, di gratifica natalizia o di altre spettanze recanti
importi, in realtà mai corrisposti (o elargiti in misura inferiore) ai lavoratori, costret-
ti a firmare sotto minaccia di licenziamenti. Tale fenomeno è apparso difficilmente
accertabile a causa del timore dei lavoratori di perdere il posto, se ancora dipendenti,
oppure di crearsi una fama di soggetti problematici, con scarse possibilità di trovare un

130
Forme di criminalità

altro impiego nella zona dove risiedono, se già licenziati. Persistono, sempre, le con-
dotte estorsive poste in essere, anche da stranieri, con la tecnica del cosiddetto cavallo
di ritorno.

6.11 Criminalità comune


La criminalità comune, con riferimento ai reati di omicidio, consumati o tentati,
rapine, estorsioni e furti, con strappo o in appartamenti, pare aver confermato, nell’ul-
timo anno, una tendenza ad assumere caratteri di pervasività.
Non esiste, si può dire, una zona franca rispetto alla presenza di soggetti isolati o
piccoli gruppi di malviventi che aggrediscono la vita o il patrimonio dei soggetti più
deboli ed esposti.
La dimostrazione di questo dato proviene dall’esame dei crimini compiuti in que-
sto campo, analizzata in un lavoro di quotidiano aggiornamento portato avanti in par-
ticolare da tutti gli organi di Polizia.
Emerge in particolare che, rinforzata la presenza di pattuglie di polizia nelle strade
di maggiore frequenza criminale, il numero dei reati, ivi perpetrati, decresce significati-
vamente, rigonfiandosi però in zone limitrofe.
In particolare, allorché gli interventi nella flagranza dei reati (che sono, in realtà,
gli unici risultati conseguibili, per l’impalpabilità degli indizi che tali tipologie di reati
lasciano sul posto o nel ricordo delle vittime) consentono la scoperta dei loro autori, si ha
modo di verificare che purtroppo se ne è abbassata, ed anche significativamente, l’età
media. A tale dato si accompagna una sostanziale indipendenza, ormai evidente, tra
tossicodipendenza e reati contro il patrimonio, elementi invece, in passato, fortemente
interconnessi (interconnessione da cui spesso derivavano esiti drammatici di furti e ra-
pine, senza peraltro alcun rapporto proporzionale fra rischio e profitto).
Da tale constatazione, si può ricavare una spinta criminogena, non più indotta da
pressioni esterne, ma, invece, da modelli comportamentali, da crisi economica, assenza
di incremento occupazionale, depressione dei valori, emarginazione e degrado urbano,
elementi tutti interagenti con devastanti effetti sulla determinazione delle condotte di
reato.
In aumento, appare il fenomeno degli scippi, e, in particolare, di orologi di alcune,
più prestigiose, marche; fenomeno particolarmente nocivo all’immagine della città, in
quanto, rivolto prevalentemente contro i turisti della fascia sociale più elevata (i citta-
dini napoletani hanno ormai, per lo più, imparato a evitare l’ostentazione di simili beni
di lusso). Si è anche potuto accertare, che gli orologi provenienti da tali reati raggiun-
gono gli Stati Uniti (Miami, per lo più), dove viene assicurato uno smercio più facile
e redditizio.
Altrettanto in aumento è il fenomeno delle rapine, specie nelle strade di più fitta co-
municazione, in cui vengono sperimentati metodi con cui fermare e ingannare inizial-
mente la vittima, sempre diversi e sempre più fantasiosi.
È anche vero che i dati presentano una significativa riduzione dei furti in apparta-
mento e (sia pure in maniera meno marcata) delle rapine in banca, ma si ritiene di poter

131
Criminologia ed elementi di criminalistica

affermare che ciò dipenda dai mezzi di difesa passiva, ormai assai sofisticati e sempre
più diffusi.
In forte aumento anche i furti di automezzi, e ormai è improcrastinabile che si pro-
ceda a investigazione sulle vere e proprie centrali che dirigono questo traffico, sia per
quanto concerne il prelievo delle vetture, sia per quanto riguarda la loro destinazione, una
volta, in qualche, modo camuffate e (apparentemente) regolarizzate.
La riposta alla criminalità comune non può che consistere in un dispiegamento di
forze, organizzate in pattuglie operanti a presidio di aree che, solitamente, non vedevano
la presenza di pattuglie di polizia, e che hanno sicuramente ottenuto, grazie alla loro vi-
sibilità, risultati non indifferenti dal punto di vista della prevenzione e della deterrenza,
Una categoria di reato contro il patrimonio particolarmente dilagante è quella del-
le truffe alle assicurazioni, che ha visto lo sviluppo di diverse indagini tese alla repres-
sione di veri e propri sodalizi organizzati per frodare le compagnie. Al di là della pecu-
liarità dei singoli gruppi (taluni dediti alla falsificazione della documentazione per la
emissione delle polizze, di prestiti da ottenere dalle finanziarie, altri all’alterazione delle
polizze stesse, ovvero alle denunzie di falsi sinistri stradali), ciò che colpisce è l’estrema
invasività del fenomeno, causata dal fatto che i soggetti che si rivolgono ai truffatori per
ottenere significativi risparmi sul premio non percepiscono, a pieno, la valenza illecita
della propria e dell’altrui condotta, giustificandosi con l’enorme diffusione della prassi
di ottenere un enorme sconto rispetto a premi avvertiti come particolarmente esosi.

6.12 Criminalità ecologica


Non sembra possano farsi considerazioni ottimistiche in ordine alle caratteristiche
della criminalità con riguardo ai reati in materia di tutela dell’ambiente e del territorio.
Permane, come negli anni scorsi, un elevato grado di aggressività al territorio sia dal
punto di vista urbanistico/paesaggistico, che ambientale. In molti Comuni, specie dove
esistono zone non ancora completamente urbanizzate, la regola continua a essere quella
della edificazione in assenza di titolo abitativo, edificazione portata a termine con reite-
rate violazioni di sigilli, nella convinzione che gli inconvenienti derivanti dalla risposta
del sistema giudiziario siano di gran lunga inferiori al vantaggio derivante dalla edifica-
zione abusiva. E ciò anche nei Comuni sottoposti a vincoli di carattere paesaggistico.
In molte città, a fronte di un numero percentualmente minore di nuove edificazio-
ni, che pure continuano in zone periferiche, sembra assistersi ad un sempre più intensivo
sfruttamento del patrimonio abitativo esistente, in assenza di titoli abilitativi, e al di fuori
di ogni forma di programmazione. Non sono, inoltre, rare, le comunicazioni di notizie
di reato a carico di ignoti per violazione dell’art. 51, comma 3, D. L. vo n. 22/97 con
conseguenti sequestri di aree adibite illecitamente a discariche di rifiuti pericolosi e non.
Solo di rado, le indagini hanno permesso di accertare la provenienza di tali rifiuti, spes-
so provenienti da lavorazioni edili.
Anche nel campo dello smaltimento dei rifiuti appare del tutto carente l’azione del-
le pubbliche amministrazioni per l’eliminazione delle conseguenze dannose del reato.
Ci si vuol riferire all’utilizzo dei provvedimenti previsti dagli artt. 14 e 17 del D. L. vo

132
Forme di criminalità

n. 22/97 che, rarissimamente, vengono eseguiti in danno dei responsabili e/o soggetti
obbligati.
Ancora vaste dimensioni, assumono i reati commessi in violazione delle norme di
tutela del territorio e dell’ambiente. Nell’ambito di tale quadro, vengono spesso rilevati
traffici riguardanti rifiuti tossici nocivi provenienti dal nord Italia che, attraverso sofi-
sticati meccanismi di falsificazione di documenti di viaggio, vengono depositate presso
discariche illegali.

6.13 Omicidi colposi per infortuni sul lavoro


In ordine agli omicidi colposi, commessi con violazione delle norme per la preven-
zione degli infortuni sul lavoro, appare tuttora rilevante l’incidenza delle violazioni alla
normativa prevenzionistica nella causazione di infortuni sul lavoro.
Particolarmente critico appare il settore dell’edilizia, laddove, si registra il più con-
sistente numero di infortuni gravi e di decessi. Tale situazione imporrebbe un impiego
di maggiori risorse nell’attività di vigilanza da parte delle autorità preposte, le quali ope-
rano, invece, con personale e mezzi in numero sicuramente non adeguato all’entità del
fenomeno, e che sono spesso chiamate a verificare l’osservanza della complessa norma-
tiva in materia di sicurezza sul lavoro che, in tempi recenti, è stata oggetto di profonde
innovazioni, che, non di rado, hanno dato origine a contrasti interpretativi e a difficoltà
anche per gli stessi operatori del settore. Inoltre, il permanere di un alto numero di in-
fortuni gravi o mortali nel settore edile è da ricollegare anche al fenomeno dell’abusivi-
smo edilizio. Invero, laddove la realizzazione di opere è connotata dalla necessità di ulti-
mare in fretta i lavori e dalla superficialità dei committenti e degli esecutori, immediato
è il riscontro della violazione della normativa posta a tutela dei lavoratori.
Ancora da sottolineare è l’aumento degli infortuni sul lavoro nell’ambito delle c.d.
lavorazioni pericolose, ovvero quelle in cui vengono utilizzate sostanze chimiche e in
particolare esplodenti che, per l’estrema pericolosità di tale materiale, comporta, spes-
so, una lesività diffusa, suscettibile di colpire una molteplicità di lavoratori, nonché di
generare problemi di pubblica incolumità o di inquinamento ambientale.
In relazione proprio a quest’ultimo settore, si sono registrati molteplici infortuni
mortali avvenuti in fabbriche aventi ad oggetto la produzione di materie esplodenti.
Invariato appare, poi, il numero degli infortuni mortali collegati all’uso di attrez-
zature e macchinari vetusti o, comunque, non conformi ai parametri tecnici stabiliti
dalla normativa posta a tutela dell’integrità fisica e della salute dei lavoratori.

6.14 Criminalità e paranormale


Le cronache in questi ultimi tempi, spesso si occupano di casi, a volte inquietanti,
di persone che sono rimaste vittime di sedicenti maghi, veggenti, guaritori, cartomanti, su-
bendo, spesso, gravi danni al loro patrimonio se non, addirittura, alla salute.

133
Criminologia ed elementi di criminalistica

Da più parti si invoca un intervento del legislatore che ponga freno a questo gene-
re di attività. Anche se la legge già se ne occupa, è sicuramente non sufficiente, e una
rapida sintesi, anche se non esauriente, ma indicativa, sui reati di maghi, veggenti, gua-
ritori, cartomanti, potrà, al momento, risultare uno stimolo a denunciare e segnalare
alle autorità giudiziarie. Lo svolgimento dell’attività di astrologo, grafologo, chiroman-
te, veggente, occultista non è, di per sé, vietato. Tale svolgimento diventa proibito, e
quindi il relativo contratto diviene nullo, per illiceità della causa, se contrario a norme
imperative, all’ordine pubblico, al buon costume o quando sia addirittura sanzionato
da norme penali.
Ciò premesso, va precisato che, seppur le predette attività non siano vietate, colo-
ro che le svolgono integrano, nella maggior parte dei casi, gli estremi del reato di cui
all’art. 661 del codice penale (abuso della credulità popolare: arresto fino a tre mesi o
ammenda fino a lire 2 milioni – vecchia valuta) e l’illecito di ciarlataneria (ora depena-
lizzato ex art. 33 legge 689 del 1981, con riferimento all’art. 121 t.u.p.s). È il caso, ad
esempio, dei maghi che pubblicizzano e magnificano le proprie capacità attraverso le
inserzioni pubblicitarie. In tal senso, merita segnalare le decine e decine di pubblicità
ingannevoli sospese dall’IAP e dall’Antitrust, perché contrarie alle norme che discipli-
nano la pubblicità (per citarne alcuni: Mago Otelma, Mago Benedetto dal Papa, Mago
don Cesare, Cartomanzia Servizio sociale, Talismani). Coloro che si professano guari-
tori, integrano, oltre a quelli sopra evidenziati, il reato di cui all’art. 348 del codice pe-
nale (abusivo esercizio di una professione – reclusione fino a tre mesi o multa da lire
duecentomila a un milione – vecchia valuta e procedibilità d’ufficio). Il reato di truffa
(che spesso ricorre) è più difficile da dimostrare ed è procedibile solo a querela di parte
(art. 640 cod. pen.: reclusione da sei mesi a tre anni e multa da lire centomila – vecchia
valuta). In tutti questi casi, il locale ove viene svolta l’attività illecita può essere seque-
strato e devono essere apposti i sigilli. Inoltre, le somme corrisposte dalle vittime-clienti
devono essere sequestrate e restituite.
Se venisse avviato un procedimento penale e tale procedimento dovesse dar luo-
go ad una assoluzione, i maghi potrebbero immediatamente essere contravvenzionati
ai sensi dell’art. 1 comma ultimo, legge 516 del 1982: omessa tenuta delle scritture con-
tabili e denunciati per l’omesso versamento dell’IVA e dell’IRPEF sui redditi degli ul-
timi cinque anni, compresa una sanzione del 100% sulle somme non versate all’erario.
Tutta la giurisprudenza esistente, fino ad oggi, è a favore dei maghi (tutti assolti) a ec-
cezione di quelli che si fregiavano del titolo di dottore, o, eventualmente, per quelli che
hanno commesso il reato di truffa, magari affiancato dal reato di abuso sessuale, ed altro.
Ma va precisato che la giurisprudenza esistente non fa testo, in considerazione del bas-
sissimo numero di denunce presentate negli ultimi anni. Il reato di abuso della credulità
popolare è facilmente dimostrabile. Molti antropologi si sono occupati del fenomeno
dei maghi e dell’occultismo nelle televisioni private; e hanno rilevato che se molti di que-
sti maghi sono di una evidente banalità e volgarità, molti altri, al contrario, sono di una
tale spregiudicata furberia e anche intelligenza e cultura, da poter facilmente imporsi
a gente fiduciosa e sprovveduta. Capire l’imbroglio, per persone evolute, è fin troppo
facile: ciò che colpisce è la modernissima organizzazione aziendale del tutto: la strega,
la cartomante, l’indovina, che una volta avevano la loro clientela nel quartiere, oggi, si
sono dilatate nell’etere. È quasi avvilente che oggi, a tre secoli dalla nascita di Voltaire,

134
Forme di criminalità

si debba assistere a questi fenomeni. Ma d’altra parte, lo stesso Voltaire, nel suo Dizio-
nario filosofico, scriveva: “dicono che il mondo vada affinandosi, sia pure lentamente. Ma
in realtà esso, dopo essersi ripulito per un pò, ricade nel fango; a secoli di civiltà seguono se-
coli di barbarie, come l’alternarsi del giorno e della notte”. La protezione degli sprovve-
duti, dei creduli è ovviamente la ratio della norma, la quale, peraltro, è di una chiarez-
za assoluta, tanto da rendere superflua qualunque attività interpretativa: in claris non
fit interpretatio. È anche ovvio, peraltro, che una certa attività possa essere vietata, cioè
costituire illecito amministrativo, pur senza costituire illecito penale. Approfittare del-
la credulità popolare non è consentito; la legge lo vieta per tutelare le masse ingenue e
ignoranti: purtroppo, questo ritorno in massa, dal più buio Medioevo dei sortilegi, dei
filtri, degli amuleti, delle cartomanzie, si collega, direttamente, al diffondersi nel mon-
do di superstizioni, di fanatismi, di integralismi più o meno camuffati di pretesa reli-
giosità, di violenze con pretesti ideologici.

6.15 Sètte e criminalità


Un particolare fenomeno della modernità è il rinnovato interesse per le sètte religio-
se e la preoccupazione per la loro esponenziale crescita e diffusione collegata al tema del
lavaggio del cervello, come metodo di proselitismo e di condizionamento.
Nei paesi occidentalizzati, caratterizzati, cioè, da un certo tipo di cultura ed eco-
nomia, si sono diffusi da tempo, accanto alle religioni tradizionali, nuovi culti religiosi
che propongono, ispirandosi a dottrine mutuate dall’Oriente, o creandone di proprie,
una nuova dimensione umana.
I vari gruppi sèttari si formano solitamente attorno a un leader carismatico che
propone o rielabora una dottrina, la quale, alla fine di un percorso spirituale, si pro-
mette capace di liberare l’uomo moderno dalle angosce e ansietà della società industria-
le, ma che in certi casi, tragicamente famosi, ha avuto un diverso epilogo.
Tutti questi fattori vengono indicati da studiosi come Cecilia Gatto Trocchi, Mi-
chele Del Re, o Jean Vernette, come fattori responsabili del proliferare delle sètte.
I nuovi movimenti religiosi propongono una propria soluzione a queste contraddi-
zioni, attraverso una liberazione, un percorso di salvezza o un accrescimento delle in-
nate potenzialità umane per mezzo delle quali l’uomo potrebbe sollevarsi dalla propria
condizione per divenire dominatore delle energie vitali, spirituali e magiche dell’uni-
verso.
La caratteristica comune all’interno dell’infinita tipologia delle sètte è che ognuna
di esse si dichiara portatrice di una verità,capace di cambiare il mondo. Ciascuna par-
tendo da una critica dello stato attuale delle cose, propone una liberazione dell’uomo
dalle strutture del presente.
Le sètte, o nuovi movimenti religiosi, si presentano di diversi tipi.
È stata riscontrata la presenza di almeno 600 gruppi nel nostro Paese. Questi, al-
cuni di maggiore rilevanza per numero di adepti, altri di una certa marginalità, ven-
gono divisi secondo due tipologie: quella dei gruppi esoterico-occultisti (per es. sono
compresi i Rosacroce, il Gruppo Raelliano, la Società Teosofica, il Centro Italiano

135
Criminologia ed elementi di criminalistica

Firewalking, Damanhur, Ufologia, magia satanica), e quella delle religioni alternative


(come gli Hare Krishna, i Testimoni di Geova, La Chiesa dell’Unificazione, i Bam-
bini di Dio).
Vengono anche definiti dei valori assoluti di distribuzione dei vari gruppi, sètte e
religioni operanti in Italia, a seconda delle regioni. Il primato spetta alla Lombardia,
con 75 gruppi esoterici, 9 gruppi di parapsicologia, 35 nuovi movimenti religiosi, 52
gruppi ufologici; a seguire, il Lazio, con 6 gruppi di parapsicologia, 40 movimenti eso-
terici, 31 religioni, 35 culti ufologici; e il Piemonte, con 1 gruppo parapsicologico, 38
gruppi esoterici, 11 religioni e 40 culti ufologici.
Secondo una definizione del direttore del CESNUR (Centre for Studies on New
Religions), Massimo Introvigne, il satanismo può essere definito come l’adorazione o
la venerazione, da parte di gruppi organizzati in forma di movimento, tramite pratiche
ripetute di tipo culturale o liturgico, del personaggio chiamato Satana o Diavolo nella
Bibbia. Il teologo può adottare una definizione molto più ampia di satanismo, ritenen-
do che siano satanisti – anche quando non adorano esplicitamente il Diavolo, o per-
fino negano la sua esistenza – tutti quei gruppi che manifestano avversione o odio nei
confronti di Dio e propongono nello stesso tempo all’uomo di diventare come Dio, ser-
vendosi di pratiche magiche e occulte (tanto più quando queste pratiche – come spesso
avviene – comportano elementi di immoralità e di violenza). Lo storico e il sociologo
hanno bisogno, invece, di delimitare l’ambito del satanismo in modo più circoscritto,
per poterne identificare gli elementi distintivi all’interno del mondo molto più vasto
dell’occultismo e della magia cerimoniale.
Al di là delle definizioni, sebbene le sètte sataniche e il satanismo in generale, per
tipologia e modalità operative, si presentino molteplici, due elementi sono pressochè
costanti: l’utilizzo della magia (messe nere, evocazioni, magia sessuale, ecc.) e la figura
di Satana. Compito delle criminologia moderna è quello di indagare il fenomeno del
satanismo, anche se quest’ultimo termine, nella comune sensibilità, è di per sé intriso di
negatività e illiceità; gravoso, per la mancanza di un particolare crimine satanista fra le
fattispecie penali previste dal nostro ordinamento.
L’attenzione posta al satanismo e il grande seguito che ne è scaturito a livello me-
diatico hanno portato studiosi di sociologia, psicologi, giuristi e antropologi a studiar-
ne le caratteristiche cercando di definire e classificare tale fenomeno. Dai più recenti
studi sul satanismo, si possono operare diverse catalogazioni che tengono conto di al-
cuni possibili differenti aspetti; la più famosa di queste schematizzazioni, tanto da esse-
re richiamata nel Rapporto Italiano sulle Sètte del 1998, entro cui vengono ricondotte
ideologie e tendenze sataniste, è quella che distingue tra correnti razionaliste, occultiste e
del satanismo acido. Tale suddivisione, nata negli ambienti della sociologia scettica ame-
ricana degli anni Ottanta, è richiamata da importanti esperti di nuovi movimenti reli-
giosi come Massimo Introvigne e Michele Del Re.
La prima forma di satanismo, il cosiddetto Satanismo razionalista, parte da una vi-
sione del mondo anticristiana, che considera Satana simbolo della ragione, della morale
personale, in luogo delle costrizioni sociali, della ricerca del piacere in se stesso. Il sata-
nismo in questo caso è, più che una religione del Diavolo, una prospettiva atea, scevra
da qualsiasi riferimento religioso. Il gruppo più famoso in questa sezione è la Chiesa
di Satana, fondata nel 1966 a San Francisco da Anton LaVey. Nel Satanismo occultista

136
Forme di criminalità

possono essere raggruppati movimenti che aderiscono alla visione teologica della Chie-
sa Cattolica, ma anziché rivolgersi a Dio, professano la loro fede nel Satana biblico. Ne-
gli Stati Uniti, questo genere di satanismo è il risultato di scismi nella Chiesa di Satana;
in Europa, si rifà di più all’occultismo della fine del secolo scorso. Il tempio di Set, una
sètta fondata nel 1975 a San Francisco da Michael A. Aquino, in seguito all’apparizio-
ne personale di Satana, da cui riceve il comando di venerarlo, non più con il vecchio
nome, ma con quello di Set, appartiene a questo gruppo.
Il Satanismo acido, invece, comprende gruppi a sfondo sadico, orgiastico o droga-
stico, dove il satanismo, secondo alcuni studiosi, è il pretesto per atti di violenza, orge e
droga-parties. Si tratta, in effetti, di piccolissimi gruppi non strutturati, che si formano
e si disfano solo per compiere qualche gesto particolare. Sono quindi gruppi effimeri e
disorganizzati, specializzati in crimini rituali e orge, anche se, non tutti i presunti crimi-
ni rituali e le orge, hanno sempre a che fare con il satanismo. I satanisti acidi formano
piccoli gruppi di circa dieci-quindici persone, sono spesso giovanissimi, si ritrovano per
consumare droga, leggere libri satanici e ascoltare il rock cosiddetto satanico. Qualche
volta si spingono fino alla profanazione di cimiteri e chiese, o alla messa in scena di ri-
tuali nei boschi attorno alle città o ai piccoli paesi.
La maggior parte delle notizie e degli allarmismi sul satanismo si riferisce proprio
a questi piccoli movimenti, i cui esponenti, o semplici partecipanti, vengono alla ri-
balta delle cronache, in occasione di omicidi in nome di Satana, commessi da zelanti
giovani servitori del demonio, plagiati e guidati dalla sètta, come spesso informano i
giornali, oppure spinti da problemi psicologici molto più profondi, che, a volte, tro-
vano origine nella situazione familiare, prima che in quella sèttaria, che spesso si rive-
la inesistente.
L’ultima corrente in cui viene classificato il satanismo è quella del Luciferismo, un
satanismo di orientamento manicheo o gnostico, che traduce in miti e riti, teologie in
cui Satana o Lucifero è oggetto di venerazione all’interno di cosmogonie che ne fanno
un aspetto buono o, comunque, necessario del sacro e della divinità. In questa corren-
te, il movimento organizzato più noto è quello nato a Londra nel 1961 e scioltosi nel
1974, denominato The Process.
Accanto a questa distinzione di gruppi dediti al culto di Satana, si può tracciare
una mappa dei soggetti che si muovono entro queste aree:

- isolati tradizionali: streghe e maghi che rivestono in società l’abito dello sciamano;
sono dotati di speciali legami con l’anti-dio, da consultare per ottenere fatture a
morte, imprecazioni, e così via;
- isolati dediti a droghe, che godono di visioni sabbatiche e infernali nel trip droga-
stico;
- isolati psicotici, sofferenti di follia religiosa a contenuto satanista. Tra gli associati,
sarebbero satanisti in senso proprio, puri, cioè legati al Satana biblico;
- i gruppi satanisti tradizionali, che celebrano messe nere e hanno una fede opposta,
ma parallela ai dettami cristiani;
- i gruppi dediti a droghe;
- gruppi di trasgressori sessuali, con tendenze sadomasochistiche e/o tendenze orgia-
stico-naturalistiche.

137
Criminologia ed elementi di criminalistica

Sarebbero impropriamente satanisti, invece:

- i seguaci di Baphomet (dio della sfera del divenire, contrapposto a Javè, dio dell’es-
sere, della sfera celeste);
- i carismatici, che credono nella rivelazione e nella venuta in terra di Satana, de-
miurgo buono, capace di riparare la Creazione;
- i razionalisti, che identificano il demonio con le forze compresse e represse della
nostra civiltà, forze che devono essere rivalutate e portate alla coscienza (influenza
junghiana).

All’interno dei satanismi, in senso ufficiale, si possono distinguere vari settori: un


primo settore è quello dei gruppi - bande che si riuniscono attorno a un leader carisma-
tico satanico che si propone come capo, guida del mondo dell’occulto, atteggiandosi a
sacerdote o a servo di Satana, per il semplice fatto di essersi documentato sui vari testi di
LaVey o aver imparato a memoria qualche rituale di Crowley.
Questi gruppi non possono rientrare nella definizione di movimenti satanisti, o
magici, in quanto, mancano di una struttura definita e stabile; l’organizzazione spes-
so ruota attorno solo a pochi contatti, spesso, semplicemente via internet, con altri
gruppi più importanti e famosi, quando non manchino del tutto anche questi. Non
hanno un sistema dottrinale e non vi è proselitismo, né volontà di comunicazione con
il pubblico, ma rilevano per il fatto che la loro attività, spesso, si traduce in eventi crimi-
nogeni, come profanazioni di cimiteri, furti e danneggiamenti ai danni delle chiese
locali, e vari altri episodi di teppismo, e rientrano, praticamente, nella definizione di
satanismo acido.
All’estremo opposto, si collocano i gruppi troppo organizzati, nati sulla base di fi-
losofie complesse e, per questo, poco adatte ad essere comprese e seguite dalla totalità
del gruppo, costretto ad una esistenza precaria. Un esempio del genere ci è dato da The
Process, una sètta che, rielaborando l’interpretazione di Carl Gustav Jung sulla Trinità e
sulla auspicabilità della riemersione del quarto elemento − quello oscuro − ha ideato una
liturgia luciferiana basata sulle coppie Geova-Lucifero e Cristo-Satana, studiata anche
con osservazione partecipativa del sociologo William Sims Bainbridge, fino alla fine
del movimento stesso.
Fra questi due estremi, si collocano i nuovi movimenti religiosi satanisti: veri e pro-
pri movimenti religiosi, con un sistema dottrinale e teologico che ha al suo centro il
Diavolo.
I principali sono:

- Chiesa di Satana (California): fondata da Anton Szandor La Vey, che ha pubbli-


cato alcuni libri diventati famosi in tutto il mondo: La Bibbia di Satana; Il Libro
completo della strega; I Rituali satanici. Anton LaVey si fa chiamare il gran sacerdote
di Satana e la sua chiesa si dà dei veri e propri sacramenti satanici: battesimo, ma-
trimonio, funerale. La Marina Militare degli Stati Uniti indicherà la Chiesa di Sa-
tana come uno dei gruppi religiosi più diffusi tra i suoi uomini, inserendola in un
manuale per i cappellani dove si espongono in dettaglio tutte le necessità spirituali
dei marinai. Nel manuale, la Chiesa di Satana viene definita del potenziale umano,

138
Forme di criminalità

dove Satana non è un essere antropomorfico, ma rappresenta le forze della natura.


Di fatto la filosofia della Bibbia di Satana è questa: la vita è la grande indulgenza,
la morte è la grande astinenza. Per questo godetevi il meglio della vita qui e ora. La
Chiesa ha grande successo tra i divi di Hollywood, mentre in Europa il più alto
numero di lettori delle opere di LaVey è in Italia.
La Chiesa di Satana è organizzata in gruppi chiamati grotte, ed esercita la sua atti-
vità prevalentemente per posta o via internet, mezzi tramite i quali, si può richie-
dere l’affiliazione secondo una scala di livelli che parte dal novizio, pagando le cifre
stabilite per ogni grado. È il movimento satanista più noto, a cui aderiscono perso-
naggi famosi del mondo musicale come King Daimond e Marylin Manson. Il ra-
zionalismo e ateismo vogliono essere le uniche due componenti del credo istituito
da LaVey, quando anche la messa nera, una parodia blasfema e ricca di contenuti
sessuali della messa cattolica, che ne riprende il cerimoniale in una visione oppo-
sta, rappresenta uno psicodramma che deve liberare i cristiani dalle loro superstizio-
ni e non ha nulla di effettivamente magico.
Dopo lo scisma intercorso nel 1975 la Chiesa di Satana si è ridotta a operare prin-
cipalmente per corrispondenza, e dopo un periodo in cui sembra per tramontare,
negli anni 1989-1990, grazie alle figlie di LaVey, Karla e Zeena, e a Blanche Bar-
ton, nuova compagna del Papa Nero, l’istituzione ha riguadagnato terreno e il suo
nuovo bollettino, The Black Flame, ripropone ai giovani adepti la legge del taglione.
Oggi, a causa della morte, nel 1997, di Anton LaVey, la Chiesa di Satana è un’or-
ganizzazione di vendita per corrispondenza, di tessere, diplomi di membro, e altro
materiale; l’organizzazione è rimasta nelle mani di Blanche Barton e di uno dei più
affezionati discepoli di Anton Szandor, Peter Gilmore, che hanno spostato la sede
a New York. Per quanto riguarda le figlie di LaVey, Zeena ha ripudiato il padre e
ora è sacerdotessa del Tempio di Set, mentre Karla, dopo un litigio con la Barton
per questioni di eredità, ha fondato, nel 1999, un’organizzazione satanica a San
Francisco, chiamata First Satanic Church.
- Tempio di Set: Micheal Aquino, tenente del controspionaggio dell’Esercito ameri-
cano, nel 1969 conosce LaVey e, in pochi anni, diventa il suo braccio destro, l’au-
tore di vari rituali e il direttore del periodico della Chiesa di Satana The Cloven
Hoof. Nel 1975, Aquino si allontana da LaVey, apparentemente per problemi or-
ganizzativi, ma, in realtà, per il classico conflitto fra il satanismo razionalista di La-
Vey e idee decisamente più occultiste e convinte della realtà di Satana come essere
personale.
Aquino professa una grande magia nera, legata a un mito gnostico, secondo cui,
il creatore del mondo avrebbe voluto negare agli uomini l’intelligenza e questi
l’avrebbero ricevuta dal Principe delle Tenebre, dalla cui parte sono chiamati a
schierarsi, sfidando le presunte leggi morali del mondo, che derivano dal Dio crea-
tore limitato e ostile all’uomo. Oggi è la maggiore organizzazione satanista su scala
mondiale.
- Chiesa della liberazione satanica: nel 1986 un professore di inglese, Paul Douglas
Valentine, fonda nel Connecticut la Chiesa della Liberazione Satanica, che appar-
tiene alla stessa corrente del satanismo occultista di Aquino e si ispira anche ai mo-
delli ottocenteschi descritti in romanzi come Là-bas di Huysmans.

139
Criminologia ed elementi di criminalistica

- Ordine del lupo mannaro: un autore di scritti sul satanismo, Nikolas Schreck, fon-
da, nel 1984, l’Ordine del Lupo Mannaro (Werewolf Order). Schreck si ispira a La-
Vey, ma l’aggressività nei confronti del Cristianesimo è particolarmente violenta. I
riferimenti al nazional-socialismo hanno suscitato simpatie in ambienti particolar-
mente legati al neo-nazismo.
- Chiesa della guerra: la Chiesa della Guerra (COWAN) accetta molti degli insegna-
menti di LaVey: si dichiara pagana e atea, ma, allo stesso tempo, vuole mantenere
gli aspetti validi delle religione, cioè il rituale e i simboli. La Church of War, celebra
la vita come guerra di tutti contro tutti, dove non c’è misericordia e contano solo
la forza e il coraggio. Satana è il simbolo della guerra, e le guerre come grandi ri-
tuali satanici pubblici non devono essere evitate, ma favorite.
Non solo l’America è protagonista del fenomeno satanico, in quanto anche l’Italia
ha la sua collezione di Chiese Sataniche Ufficiali, gruppi dediti a un satanismo di-
chiarato, e sono:
- Chiese di Satana: a Torino sono presenti due differenti movimenti che si denomi-
nano Chiesa di Satana; un gruppo nasce negli anni Sessanta e segue l’impostazio-
ne filosofica della Chiesa di Satana di San Francisco, basandosi sulla Messa Nera
secondo la versione interna degli adepti di LaVey;
- Chiesa della liberazione satanica: trae la sua origine dai contatti con un occultista
francese degli inizi del 1970, Claude Seignolle, autore di una serie di opere sulle
presenza del Diavolo nella tradizione popolare francese, conquistando una fama
insolita. Questa seconda Chiesa di Satana è meno razionalista della precedente, e
tenta, con i suoi rituali dal sapore forte, di evocare un Diavolo reale.
- O.T.O (Ordo templi orientis): Roberto Negrini, dopo essersi interessato di dischi
volanti e avere avuto contatti con diverse branche straniere dell’O.T.O, ne fonda
una indipendente, che si denomina luciferiano.
Negrini, tuttavia, mantiene ferma l’ideologia originaria di Crowley, per cui solo
l’uomo è l’unico dio, anche se una certa dose di ambiguità nei manuali e riti del
movimento ha permesso a stampa e televisione italiane di vedere in Negrini un
prototipo di satanista italiano.
- Confraternita di Efrem del Gatto: Sergio Gatti, vero nome di Efrem del Gatto, fonda
nel 1980 a Roma la sua confraternita che ritiene Lucifero superiore a Satana e crede
che sia un personaggio realmente esistente. Gatti celebrava i riti luciferiani una vol-
ta al mese nel suo Tempio sito nella zona del Monte Sacro, ed esercitava un’attività
di mago a pagamento. È deceduto il dicembre del 1998 all’età di 54 anni.
- Bambini di satana: le origini del gruppo dei Bambini di Satana Luciferiani di Bolo-
gna risalgono ai primi anni Ottanta, e ruotano attorno alla figura del suo fondato-
re, Marco Dimitri (o Bestia 666, come si definisce lui stesso), ex guardia giurata e
ora sacerdote di satana a tempo pieno. Il gruppo celebrava i suoi rituali in casolari
diroccati o boschi, oggi ha un tempio a Bologna. I riti comprendono messe nere e
messe rosse in cui, secondo Dimitri, tutti hanno rapporti sessuali con tutti, anche di
tipo omosessuale, e si ricorre, se del caso, a pratiche sado-masochistiche per scate-
nare certe energie. Gli adepti possono usufruire di una serie di servizi, che vanno
dai matrimoni fra uomo e donna a quelli fra uomo e uomo o donna e donna, o,
ancora fra donna uomo e donna, e così via.

140
Forme di criminalità

La loro filosofia satanica è riassunta in sei punti: l’esaltazione del vizio; l’arte; la
guerra; la scienza; lo spirito, che è orgogliosa confidenza in se stessi; la ricchezza.
Nel Vangelo Infernale, Dimitri proclama: “io, Marco Dimitri, dopo la morte di
Crowley, la caduta di LaVey e di Manson, data l’idiozia dell’idea dell’esistenza di
una Chiesa di Satana, ridicolo controsenso, mi propongo quale riferimento mon-
diale del culto demoniaco. Il mio fine è essere la giovane guida di tutti i demoni
della terra”.
Tra il 1989 e il 1992 infiltrati dei carabinieri hanno provocato noie per Dimitri e
perfino un’irruzione nel 1992 nel Savignano sul Rubicone, nel Riminese, mentre
una sacerdotessa giaceva nuda sull’altare. Le conseguenze penali sono state nulle,
ma è in quell’occasione che Dimitri ha perso il suo incarico di guardia giurata.

Sicuramente meno famose e ancora per la maggior parte coperte da un velato mi-
stero sono altre sette sataniche individuate: in Piemonte, i Figli di Satana; a Pescara,
Le Ierudole di Ishtar (gruppo satanista tutto al femminile); in Liguria, il Sacro Cerchio
dell’Alba Dorata.

6.16 La criminalità rurale


La criminologia, nell’ottica di diversificare i propri interessi, ha spostato anche
la propria attenzione verso quei fenomeni illegali riconducibili alla criminalità rurale.
Alcune indagini di settore hanno rilevato che le tipologie dei reati più diffusi, che in-
cidono sulla percezione della sicurezza e, quindi, sui livelli di produttività delle zone
rurali, vanno dal danneggiamento dei casolari al semplice furto dei prodotti della ter-
ra, sino ad arrivare, specie in talune realtà del Mezzogiorno, ai furti di attrezzature e
macchine agricole, a volte compiuti per attuare il cosiddetto cavallo di ritorno. Si tratta,
in quest’ultimo caso, di una vera e propria estorsione, praticata, con sempre maggiore
frequenza, da individui senza scrupoli che, dopo aver contattato la vittima del furto,
esercitano su di essa una forte pressione chiedendo una somma di denaro, un ricatto,
contro la promessa di farla rientrare in possesso della refurtiva.
Un altro fenomeno di particolare rilevanza riguarda il c.d. caporalato, vale a dire
quella degradante forma di sfruttamento del lavoro subordinato, consistente nella rac-
colta e nel successivo trasporto nei campi di manodopera generica, sovente composta
da extracomunitari, da parte di organizzazioni, non di rado vicine alla criminalità orga-
nizzata. I caporali considerano tale bacino molto economico ed efficiente, soprattutto
per soddisfare esigenze di lavoro giornaliero. Il lavoratore immigrato, specie se privo di
permesso di soggiorno, in cambio delle sue prestazioni, si accontenta infatti di riceve-
re vitto, alloggio (non sempre adeguato) e un’esigua retribuzione in nero, senza avanzare
pretese riguardo alla prevista tutela previdenziale e assicurativa.
L’attività di contrasto posta in essere da Magistratura e Forze dell’Ordine ha por-
tato all’individuazione di altre e, per certi versi, più allarmanti forme di criminalità ru-
rale, che influiscono direttamente sull’habitat e, di conseguenza, sulla sicurezza del ci-
clo alimentare. Ci si riferisce, in particolare, allo smaltimento e sversamento, entrambi

141
Criminologia ed elementi di criminalistica

illeciti, di rifiuti e sostanze inquinanti, nonché alle attività della cupola del bestiame che,
dal furto di singoli capi, è passata ai trasferimenti occulti di intere mandrie o greggi per
frodare l’Unione Europea, sino ad arrivare alla macellazione clandestina e alla vendita
di carni infette.
Spesso, le organizzazioni criminali, avvalendosi della compiacenza di alcuni alleva-
tori, reperiscono animali privi di garanzie sanitarie o gravemente malati, che vengono
immediatamente macellati in luoghi clandestini. Le carni, previa compilazione di falsi
documenti identificativi, vengono immesse sul mercato attraverso una rete di grossi-
sti, collegata al più ampio circuito criminale. Il quadro delineato dimostra che le aree
rurali sono particolarmente esposte a forme diversificate di aggressione da parte di una
criminalità specializzata, con gravi rischi per l’imprenditoria agricola. Del resto, la na-
tura stessa dell’impresa agricola, assai articolata e sovente frazionata sul territorio, non
sempre agevola l’acquisizione di dati utili per attuare interventi mirati.

6.17 Famiglia, scuola, mass-media e criminalità


a) la famiglia

Quanto al primo punto, va subito precisato che molto spesso, soprattutto nelle zo-
ne ad alto rischio di criminalità organizzata, la famiglia svolge un ruolo fondamentale
per verificare l’incidenza delle riforme sociali, politiche, economiche e culturali dello
Stato. Tenuto conto che il livello di benessere economico nelle famiglie è migliorato ri-
spetto agli anni passati, deve precisarsi che la disoccupazione e il livello di povertà del
c.d. proletariato sono aumentati.
Il tutto non favorisce certamente la famiglia e gli aspetti che all’interno della stessa
possono rappresentare fattori di sviluppo della criminalità. Se a ciò si aggiunge l’assenza
o la scarsa cultura di base, e l’eventuale stato di disoccupazione, si assiste all’annienta-
mento dell’istituzione famiglia.
Le famiglie numerose, disagiate, multiproblematiche, l’uso di metodi educativi
errati, la disgregazione familiare e altri fattori contribuiranno, in alta percentuale, ad
agevolare l’ingresso dei soggetti più vulnerabili nel vortice del crimine. Nessuno può
negare che qualsiasi bambino, per crescere sano, ha bisogno di essere guidato, ha bi-
sogno di essere compreso, necessita di affetti e cure che, soprattutto una famiglia nor-
malmente strutturata, può garantirgli. Il fatto di avere genitori che vivono una vita
complicata, che forse sono già entrati nel circuito del crimine organizzato o che vivo-
no in zone dove l’illegalità è norma di vita, significa, per i componenti della famiglia,
assenza di punti di riferimento, e alta probabilità di percorrere la stessa strada del ge-
nitore o dei genitori.
A fronte di ciò, occorre che lo Stato, nell’estrinsecazione della sua politica di pre-
venzione criminale, intraprenda percorsi che limitino la possibilità che la famiglia si
presenti come fattore criminogenetico. Infine, se si pensa che i figli dei mafiosi sono,
spessissimo, obbligati ad intraprendere la carriera criminale dei loro genitori si compren-
de quanto sia importante agire sulle famiglie, non propriamente inserite nel circolo

142
Forme di criminalità

mafioso. A tali problematiche, dunque, si può porre rimedio solo mediante un’azio-
ne sinergica che promani dallo Stato e si rafforzi con il contributo di tutta la socie-
tà civile.
Gli studi sociali attuali e del passato, pur nella diversità degli approcci utilizzati,
hanno sempre cercato di ricondurre la famiglia a dei modelli: pattern. Questi ultimi,
purtroppo, non sono esaustivi per definire un ambito in continuo divenire e in repen-
tino modificarsi. Il momento storico-culturale attuale, sempre più improntato e per-
vaso da concetti quali globalizzazione e per molti aspetti, omogeneizzazione, vede, nello
stesso tempo, un concetto e una forma di famiglia sempre più differenziato e profonda-
mente caratterizzato dalla individualità. È opportuno, allora, cercare di capire perché
la famiglia, cellula base della società, sempre più spesso, diviene ambito in cui maturano
fatti di violenza che degenerano poi in tragedia. Le trasformazioni della società attuale
dovute a motivi politici, economici, allo sviluppo tecnologico, all’adozione di model-
li culturali distanti, hanno alterato drammaticamente gli equilibri all’interno della fa-
miglia, mettendo fortemente in discussione i ruoli da sempre stabiliti e deludendo, al
contempo, le aspettative reciproche dei membri della famiglia. L’Italia fortemente ca-
ratterizza e contraddistinta dal concetto di famiglia, rispetto ad altre nazioni europee,
travolta dal cambiamento, ha visto cedere uno dei pilastri della propria cultura. L’or-
ganizzazione, se vogliamo definirla primaria, il contenitore degli umori individuali, il
piccolo clan capace di decidere in maniera del tutto autoritaria del destino dei suoi sin-
goli membri, ora è svuotata del proprio significato. La difficoltà esistenziale nella ge-
stione quotidiana porta gli individui a una continua tensione, tensione dovuta anche
alla fortissima competitività su cui si basano molti rapporti sociali e lavorativi; i modelli
culturali che si impongono, poi, si basano sul successo ad ogni costo e senza scrupoli,
per cui, alla fine, l’individuo si ritrova stretto tra una realtà macrosociale difficile da af-
frontare e da superare, e una famiglia che non è più capace di dare certezze e stabilità.
In questo modo, la via più semplice è quella di scaricare le frustrazioni sui congiunti e
tra questi, quelli più deboli come donne e bambini. Non è infatti da sottovalutare l’in-
fluenza che i modelli culturali attuali esercitano sull’individuo.

b) la scuola

Se la scuola è il luogo istituzionale più vissuto dall’adolescente ed assurge al ruolo di


pre-mestiere, spesso, è rigidamente orientata alla didattica senza permettere una piena
espressione della propria identità e creatività; dinanzi a tali, non rari, fenomeni, spesso,
la famiglia delega alla scuola la responsabilità di educare i ragazzi al vivere sociale.
La scuola, oltre a essere considerata terreno fertile di cultura, di associazione, di
espressione delle diverse personalità, funge, però, anche da specchio: ad esempio, a se-
conda del clima educativo che si crea in famiglia, il bambino assumerà determinati tratti
di personalità, che possono agevolare o compromettere la sua futura socializzazione al-
l’interno di una classe o di una scuola; secondo gli psicologi, genitori iperprotettivi pos-
sono limitare fortemente l’autonomia e la creatività del ragazzo rendendolo dipendente;
genitori ostili e autoritari possono rafforzare l’aggressività; Secondo Schaefer, il clima
educativo può essere di 4 tipi: a) affetto (iperprotezione) + controllo = sottomissione;
b) affetto + autonomia = buona fiducia in se stessi; c) ostilità (disapprovazione, norme

143
Criminologia ed elementi di criminalistica

troppo rigide) + controllo = eccessiva timidezza, timore, ansia; d) ostilità + autonomia


= disadattamento sociale.
Uno stato generalizzato di affetto comporterà: sottomissione, dipendenza, buone
maniere, obbedienza, scarsa creatività, conformismo, attività, buon andamento socia-
le, indipendenza, abilità sociale.
Uno stato generalizzato di ostilità comporterà: problemi nevrotici o sintomi psico-
somatici, disadattamento sociale, timidezza, incapacità ad assumere un ruolo autono-
mo, immaturità, aggressività.

c) i mass-media

In questo senso, anche i mezzi di comunicazione di massa hanno la loro parte di


responsabilità, soprattutto nel momento in cui propongono realtà virtuali, che vengo-
no metabolizzate dall’io; un misto di apparenza, di ruoli, di dimensioni esistenziali, di
estasi, che si traducono in pura illusione/allucinazione. Ciò provoca l’immersione del
soggetto in una realtà che invita e, nello stesso tempo, suggerisce, cose impossibili da
esperire, irreali, che non appartengono a nessuno, se non, come in questo caso, alla te-
levisione. Dal punto di vista strettamente criminologico e criminogenetico, numerose
sono state le teorie che hanno messo in luce la pericolosità reale del mezzo televisivo,
soprattutto per gli adolescenti, unitamente al rischio di emulazione di attività e gesta.
Analoghe considerazioni riguardano rivista di moda: giovani corpi bellissimi, sinuosi,
apparentemente felici, indifferenti alle fatiche del vivere quotidiano. Anche questo è
pervasivo e destabilizzante; basti pensare, ad esempio, che in alcuni casi di infanticidio,
alcune madri hanno ammesso di aver ucciso il proprio figlio perché ritenuto responsa-
bile di aver sformato il loro corpo a causa della gravidanza; tipici casi in cui gli equili-
bri sono stati fortemente compromessi e sui quali si vanno ad innestare proiezioni ir-
realizzabili, che formeranno una miscela esplosiva da far detonare sempre più spesso
in famiglia.

6.18 La criminalità clericale


Anche il rapporto tra criminalità e religione ha costituito fondamento di ricerca per
la criminologia; ad oggi, questa connessione risulta indimostrabile. È la storia a forni-
re alcuni esempi che, in un primo momento farebbero pensare ad attività delittuose da
parte del potere religioso, ma che, a una ragionata analisi, si traducono in avvenimenti
legati al contingente periodo politico-sociale.
Si ha notizia che il primo massacro etnico-religioso avvenne a Costantinopoli il
12 luglio del 400, allorquando settemila goti ariani furono sterminati su iniziativa del
vescovo Crisostomo. Poco conosciuto è il massacro di circa ventimila samaritani, avve-
nuto in Palestina nel 529, a seguito di una loro ribellione, dovuta alle continue perse-
cuzioni cui erano sottoposti dai cattolici.
Più note le stragi reciproche fra goti ariani e romani cattolici avvenute in Africa
settentrionale e in Italia: in tal caso, si può parlare di vera e propria crociata auspicata

144
Forme di criminalità

dal papato, che, quindi, è da considerare mandante e responsabile di tutti gli inenarra-
bili orrori che trasformarono l’Italia di quell’epoca in un deserto di fame e rovine.
Le stragi non si limitavano agli eretici, ma coinvolgevano anche gli ebrei che ad
Alessandria d’Egitto subirono lo sterminio parziale e la deportazione totale di questa
loro popolatissima comunità, la più numerosa della diaspora.
Per la repressione del paganesimo, l’imperatore Teodosio II varò un’ampia codifi-
cazione che prevedeva pene draconiane contro chiunque si ostinasse nei vecchi riti ido-
latrici: l’arte classica fu gravemente colpita da numerose devastazioni di insigni templi
e la cultura lo fu dall’incendio dei libri, accusati di essere strumento del culto pagano
(esempio famoso il rogo dei libri sibillini). Tutti i centri filosofici furono chiusi, i mae-
stri esiliati o uccisi, come la famosa Ipazia di Alessandria, assassinata con la co-respon-
sabilità del patriarca Cirillo; anche le Olimpiadi furono vietate, i teatri chiusi, trasfor-
mati in cave di pietra.
In quest’epoca, iniziano le prime stragi fra cattolici determinate dalle ambizioni
contrastanti dei diversi gruppi di potere clericali, sia a Roma sia in molte ricche sedi
diocesiane. Il 26 ottobre 366, ben 137 fedeli dell’antipapa Ursino, furono massacrati
all’interno della basilica di S. Maria Maggiore dai fautori di papa Damaso, tutti merce-
nari assoldati fra la manovalanza della criminalità dell’epoca.
Abbiamo anche i primi casi di papi morti improvvisamente in circostanze da far
sospettare un avvelenamento, ma il peggio in questo campo avverrà nei secoli seguen-
ti. La complicità fra alto clero e potere politico imperiale sono state ben evidenziate: la
situazione di sistematica intromissione aveva investito perfino la teologia dogmatica,
poiché tutti i concili ecumenici erano convocati dagli imperatori bizantini che, spes-
so vi imponevano la loro volontà autocratica. In tali assemblee, il potere dei papi non
era affatto preminente, come invece indicano i testi storici filo-cattolici. La pretesa
dei papi di avere un primato su tutta la cristianità, proprio perché a Roma sarebbe
morto l’apostolo Pietro, è polemicamente contestata dall’autore su basi scritturali e
storiche.
Ai nostri giorni, la situazione risulta ben diversa: la Chiesa non fomenta guerre,
non opera stermini, non diffonde l’odio: al contrario, è promotrice di pace. Solo al-
cune cellule del suo apparato hanno destato sgomento, apprensione, coinvolgendo, al
contempo, l’opinione pubblica sui drammatici episodi di pedofilia, antichi o recenti, in
cui sono stati purtroppo coinvolti sacerdoti o religiosi cattolici. Alcuni casi statuniten-
si e canadesi hanno avuto grande risonanza, e hanno indotto singole diocesi e le con-
ferenze episcopali nordamericane ad avviare inchieste e a proporre misure preventive.
Stabilire quanti sono i preti e i religiosi cattolici pedofili non è irrilevante. Le tragedie
individuali sono difficilmente descritte dalle statistiche, ma il quadro statistico può
aiutare a capire se si tratta di casi isolati o di epidemie, o se vi è qualche cosa nello stile
di vita del clero cattolico che rende questi episodi più facili a verificarsi, di quanto non
avvenga, per esempio, fra i pastori protestanti o fra i maestri di scuola laici. La Chiesa
cattolica, almeno in Nord America, ospita una percentuale di pedofili elevata e unica
rispetto a tutti i gruppi religiosi dotati di un clero o di religiosi. Le statistiche parlano
di migliaia di casi.
In tema di abusi sessuali, Shupe, sostiene che questi sono più diffusi fra il clero
cattolico che altrove, anche se le cifre correnti sono certamente esagerate. Il sociologo

145
Criminologia ed elementi di criminalistica

dell’Indiana, peraltro, non è convinto che il celibato o la tolleranza dell’omosessualità


spieghino il fenomeno: infatti, alcune denominazioni al cui clero non viene richiesto il
celibato (episcopaliani, avventisti), o che attaccano in modo militante le campagne per
i diritti degli omosessuali (mormoni), avrebbero percentuali di rischio simili alla Chie-
sa cattolica. Il problema, ritiene Shupe, è che la Chiesa cattolica, come la Chiesa mor-
mone o quella episcopaliana, è una struttura piramidale, gerarchica, con un sistema che
tende, naturalmente, a prescindere dalle buone intenzioni individuali, a proteggere una
figura religiosa quando è attaccata dall’esterno. Questa dinamica, se ha portato in altri
settori vantaggi alle Chiese organizzate in modo più gerarchico, avrebbe anche permes-
so ai pedofili di sentirsi, in qualche modo, protetti e tutelati. Shupe pensa che i casi di
pedofilia clericale cattolica nell’ultimo trentennio, negli Stati Uniti d’America e in Ca-
nada, siano un paio di migliaia, e coinvolgano intorno all’uno per cento dei sacerdoti
e dei religiosi. Ma ammette che le statistiche sono difficili perché, a partire da poche
centinaia di condanne, occorre estrapolare e speculare sulla base di sondaggi, quanti ca-
si non sono denunciati. Shupe, sostiene, inoltre, da anni, che la criminalità dei colletti
bianchi è oggi affiancata, per una serie complessa di ragioni, da una criminalità clerica-
le, diffusa presso ministri di tutte le confessioni che comprende anche, se non soprat-
tutto, reati economici e finanziari.

6.19 La criminalità femminile


In Italia, si è verificata una vera e propria rivoluzione culturale e giuridica che
ha inciso profondamente e a vari livelli: dalla procreazione controllata alla liceità del-
l’aborto, dal divorzio all’abrogazione del reato di adulterio femminile e di omicidio
e lesione personale a causa d’onore, dalla legge n. 903, che sancisce formalmente la
completa parità di trattamento in materia di lavoro tra uomini e donne, a quella che
promuove azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro. Se
è vero, comunque, che la donna ha assunto un quadro di dignità indiscutibile e di
parità, è altrettanto vero che si registra, altresì, un aumento del tasso di criminalità
preoccupante; alcuni studiosi collegano tali attività a un concreto processo di eman-
cipazione. Le cronache riferiscono di ingressi delle donne in ambito di criminalità or-
ganizzata, nelle quali assumono, talvolta, posizioni di leadership, comportandosi, in
maniera spietata e senza scrupoli. Molti nomi di donna, inoltre, compaiono tra coloro
che hanno attivamente partecipato a fenomeni terroristici. Nei vari gruppi terroristici,
il ruolo ricoperto dalle donne non differiva in modo marcato da quello dei maschi.
Troviamo, infatti, donne terroriste che hanno partecipato alla fase ideativa e a quella
decisionale, a quella strategica e alla realizzazione del fatto criminoso. In molti atten-
tati, è stata segnalata la presenza costante di donne nei commando che attuavano gli
agguati, e questa peculiarità è presente sia nelle organizzazioni terroristiche di estrema
sinistra, che in quelle di estrema destra. Questo esempio, come è ovvio, non è pro-
bante, perché sconta la situazione contingente ed anomala di un fenomeno dalle ca-
ratteristiche di eccezionalità, e che era esteso anche ad altre nazioni europee. Inoltre,
racchiude un numero esiguo di casi rispetto al totale della criminalità, e, comunque,

146
Forme di criminalità

registra una superiorità numerica maschile. Nella mafia, oggi, la donna sostituisce,
spesso integralmente, le funzioni dell’adepto-uomo, discostandosi dalle precedenti,
perché ha scelto l’impegno e il ruolo della donna di mafia, pretendendo e ottenendo
di agire all’interno dell’organizzazione. Questo ha portato alcune di loro, perfino, a
rinnegare mariti e figli perché pentiti, quasi che far propri i valori mafiosi fosse sino-
nimo di quel protagonismo negato che ha contrassegnato, e in parte ancora contrasse-
gna, il ruolo femminile all’interno di queste organizzazioni. Il più delle volte, però, si
è parlato delle donne di mafia che si sono schierate dalla parte della legalità. Una sorta
di evoluzione, quindi, sembra avere interessato anche le donne di questi ambienti co-
sì particolari. Specialmente le più giovani, infatti, non vedono più nella lealtà e nella
sottomissione ai loro uomini un univoco referente. I casi sono numericamente poco
rilevanti, ma forniscono una sia pur parziale smentita empirica del nesso tra eman-
cipazione femminile e aumento della partecipazione alla criminalità. D’altronde, in
questo caso particolare, le donne risentono del peso di un processo di liberazione mol-
to lento, faticoso e sofferto. Per chi, non per scelta, ma per forza maggiore, si è trovato
a vivere in tali organizzazioni, liberarsi dalla cultura mafiosa con le sue ferree regole di
sempre, è un’impresa difficile.
Per valutare se, e in che modo, la criminalità femminile è cambiata, è opportuno
fare riferimento alle statistiche criminali. Da un punto di vista strettamente quantitati-
vo, l’inferiorità numerica dei reati commessi da donne, rispetto a quelli dell’altro sesso,
è netta e costante. Negli ultimi dieci anni, i rapporti tra i sessi, in media, sono: per le
persone denunciate, 18 donne ogni cento uomini; per i condannati di 15,5; per gli en-
trati in carcere dallo stato di libertà si riduce a 8,2 donne ogni cento uomini. Valori che
non hanno subìto oscillazioni di rilievo nel periodo considerato. Si può ricordare che la
componente femminile è poco presente anche in altri comportamenti devianti. Ricerche
sui giovani confermano che tra le ragazze non compaiono ancora manifestazioni ca-
ratteristiche delle sottoculture e delle bande delinquenti. Per quanto concerne la situa-
zione italiana, si denota, nell’ambito dei reati, un aumento numerico delle fattispecie:
furto nei grandi magazzini, falsa testimonianza, infanticidio, e così via. Merita un parti-
colare cenno la c.d. attività di sfruttamento della prostituzione, laddove, un’altissima per-
centuale di donne sono effettive tenutarie delle case di appuntamento; accanto a questa
realtà ce ne sono altre, le cui protagoniste sono sempre donne, ma sfruttate, seviziate,
allontanate dalle famiglie, in situazione di subalternità, per puro business. Particolare
preoccupazione, desta l’aumento della criminalità femminile in ambito intra-familiare:
omicidi del coniuge, maltrattamento della prole, figlicidi, violenza generalizzata. Anche le
dinamiche delittuose sono mutate nel tempo: oggi, le donne, le mamme uccidono di
più (si pensi ai casi di incuria nei confronti di bambini che muoiono per denutrizio-
ne, a quelli in cui i bambini sono stati uccisi perché introdotti dentro una lavatrice, ad
altri che vedono bambini massacrati durante il sonno o in situazioni di veglia, oppure
affidati o venduti per placare il desiderio di qualche pedofilo). Anche per la crimina-
lità femminile è opportuno tenere in debito conto la c.d. cifra oscura, e ciò in ragione
di un’elevata quantità di reati che vengono consumati, ma di cui l’autorità giudiziaria
non ne viene a conoscenza.

147
Criminologia ed elementi di criminalistica

6.20 Gli omicidi in condominio


La criminologia moderna ha iniziato a muovere concretamente i propri passi nella
direzione, assolutamente nuova, di forme di criminalità, che, nel passato, non rientra-
vano nel proprio campo d’indagine. Ci si riferisce alle forme delittuose che maturano
in condominio, ad opera degli inquilini degli stabili. La cronaca giornalistica, pur oc-
cupandosi di alcuni casi, può semplicemente limitarsi ad esporre, o meglio a racconta-
re, i fatti, le dinamiche, ma è compito del criminologo indagare sul perchè, e, in ma-
niera approfondita, sul come.
La rivalità condominiale è costellata da una serie di eventi che, solitamente, si esau-
riscono in attacchi verbali (soprattutto durante le riunioni di condominio), anche se,
nel passato, non sono mancati i c.d. passaggi all’atto delittuoso, quali derivazioni di-
rette di antichi dissapori, o di vendette per torti subìti. In qualche caso, la rivalità, me-
tabolizzata nel tempo, ha portato a vere e proprie stragi, spesso, pianificate nei detta-
gli e perpetrate con intenzioni precise. In questo caso, la razionalità era semplicemente
obiettivata al male, perché, in tali soggetti, mancavano o risultavano traviate proprio
quelle regole introiettate di giustizia e ingiustizia.
Per comprendere sino in fondo l’origine di un atto di violenza o di omicidio in
condominio, è opportuno costruire analiticamente il profilo personologico dell’auto-
re o degli autori. Se ci confrontassimo con questi assassini, non ci sorprenderemmo di
ascoltare le motivazioni, del tutto razionali, ai loro gesti. Solitamente, l’atto delittuoso
è la risultante di eventi ripetutisi, come rumori molesti dei vicini, di neonati che pian-
gono, di contenziosi in denaro, di problematiche inerenti costruzioni aggiuntive o abu-
sive, e così via. Tutti elementi che, nella psiche di particolari individui, possono trasfor-
marsi in fattori criminogenetici. Spesso, tra i condòmini, risulta mancante la capacità
empatica, consistente nel mettersi nei panni altrui, di perdonarne gli aspetti sgraditi, di
comprendere le motivazioni di alcuni gesti.
Quando questa capacità empatica è presente, la convivenza è serena ed i sentimen-
ti di odio vengono ridimensionati; questi ultimi, non si producono a un tale livello di
intensità da condurre all’atto aggressivo.
Gli omicidi non sono, in un’alta percentuale di casi, generati da sentimenti di odio
cieco e senza controllo, frutto di un minus empatico, quanto piuttosto da una totale
assenza di emotività, un’anaffettività completa e pervasiva, che è la vera essenza della
psicopatia.
In tali soggetti, non c’è amore, ma non c’è neppure odio, c’è il silenzio dell’emo-
zione, il vuoto sentimentale, una voragine di intelletto traviato senza il supporto di un
sufficiente coinvolgimento empatico.
Ciò è anche il risultato della freddezza con cui, tali soggetti, riescono a costruirsi,
al momento, un alibi, senza manifestare, successivamente, alcun segno di pentimento
o ravvedimento.

148
Forme di criminalità

6.21 I minori e l’uso distorto delle tecnologie di


comunicazione

L’avvento di nuove e sempre più sofisticate tecnologie ha migliorato e qualifica-


to, in modo particolare, la comunicazione, contribuendo, da un lato, ad accorciare le
distanze e, dall’altro a rendere più agevole l’assolvimento di una serie di funzioni pri-
ma impensabili. È altrettanto vero, però, che la tecnologia, spesso, può diventare anche
un’arma da rivolgere contro un individuo ed i suoi diritti, tale che, in ambito europeo,
in particolar modo, il tema dei minori e dell’uso delle nuove tecnologie viene affrontato
nella dimensione del presente e del futuro. Il cellulare (o telefonino), ad esempio, rap-
presenta uno strumento che ormai sempre più spesso vediamo usato con perizia (quasi
da invidia) da giovani e giovanissimi. Il cellulare, sempre più tecnologico e convergen-
te, richiede un’attenzione specifica per evitare che possa essere mezzo di danno, spe-
cie, per i più piccoli. Ciò che era nato per accorciare le distanze, dando la possibilità di
comunicare continuativamente, sta ottenendo, anche, l’interesse della criminologia mo-
derna e, parimenti, la mobilitazione da parte di organizzazioni per la tutela dei minori,
associazioni di genitori, organizzazioni di consumatori, operatori di reti mobili, forni-
tori di servizi, fabbricanti di telefoni e di reti internet. Se, da un lato, la comunicazione
mobile rappresenta una grande opportunità per lo sviluppo delle economie e delle so-
cietà europee, dall’altro, è necessario, altresì, riflettere sui fenomeni nuovi, di carattere
criminogeno, che stanno interessando le tecnologie della comunicazione.
L’analisi riguarda i problemi legati ai contenuti e ai comportamenti, quali l’accesso
a materiale illegale o nocivo, il bullismo, o l’invio, tra bambini o adolescenti, di mes-
saggi e foto a carattere offensivo o compromettente; a ciò si aggiunge il preoccupante
fenomeno della seduzione di minori, consistente, attraverso la messaggistica telefonica,
in tentativi da parte di uno sconosciuto di diventare amico di un bambino al fine di in-
contarlo; e ancora, in generale, i rischi per la tutela della vita privata dei minori.
Negli ultimi anni, il numero di bambini o di giovani che utilizzano i telefoni cel-
lulari è aumentato vertiginosamente; allo stesso tempo è cresciuto in modo altrettanto
esponenziale il numero di funzionalità di cui sono dotati i telefoni cellulari. Secondo
un sondaggio del maggio 2006, in Europa, il 70% dei giovani tra i 12 e i 13 anni e il
23% dei bambini d’età compresa tra gli 8 e i 9 anni possiede un telefono cellulare. Og-
gi, i telefoni cellulari permettono di inviare e ricevere messaggi video, di utilizzare ser-
vizi d’intrattenimento (ad esempio scaricare suonerie, giochi, brani musicali e filmati),
di accedere a internet, e di utilizzare servizi basati sulla localizzazione degli utenti.
Le videocamere e le tecnologie fotografiche di cui sono dotati, oramai il 70% dei
telefoni cellulari, (specie quelli di ultima generazione), innescano, con particolare rife-
rimento agli adolescenti, da un lato, meccanismi legati alla sperimentazione delle fun-
zioni stesse del telefono, dall’altro, l’utilizzo di tale strumento che, in particolari occa-
sioni, funge da elemento criminogeno e ricattatorio.
A tal proposito, ci si riferisce ai recenti casi in cui, certe forme di violenza, di so-
praffazione, di negazione dei diritti e della libertà, viaggiano da un cellulare ad un al-
tro, o, attraverso la rete internet. Violenze perpetrate all’interno delle scuole, nelle aule,
nei luoghi di ritrovo degli adolescenti, oppure, in abitazioni private, tutte consumate

149
Criminologia ed elementi di criminalistica

con estrema leggerezza, filmate attraverso le videocamere e diffuse, come fosse solo un
gioco.
Adolescenti con problemi di disabilità che vengono scherniti, minacciati, percossi,
ma, al contempo, ripresi da un occhio tecnologico, sempre più sofisticato. La spetta-
colarità di tale tipologie di violenza ha il solo compito di sbalordire gli altri, farli ridere
e divertirli. Accanto a questi nuovi e contemporanei tragici eventi, anche la sessualità
gioca la sua parte.
Dietro le violenze, gli stupri, i rapporti sessuali tra minorenni, le attività sessuali
generalizzate, queste ultime vissute precocemente, e, spesso consensualmente da parte
delle adolescenti, vi è, oggi, uno strumento, il telefonino, che può essere utilizzato co-
me un’arma: quella del ricatto. Tutti questi eventi sono il prodotto di una società che
è diventata incapace di gestire le nuove generazioni. L’uso distorto delle tecnologie de-
ve trovare soluzioni, anche drastiche. Occorrerebbero segnali, in particolar modo pro-
venienti dalla giustizia minorile, dinanzi a tali casi di indirizzo penalistico. Le famiglie
degli adolescenti non sono contrari all’uso del telefono cellulare da parte dei loro fi-
gli, anche perché, tale strumento consente il controllo, in ordine alla loro ubicazione,
quando sono fuori di casa; sarebbe opportuno, allora, che le memorie dei cellulari ve-
nissero, periodicamente, controllati dagli stessi genitori, per indagarne il contenuto, in
ordine a numeri, messaggi, foto e video.
Se tali fenomenologie delittuose, a opera di minori, dovessero moltiplicarsi, sarà
opportuno, in un immediato futuro, affidarne il controllo contenutistico ai fornito-
ri dei servizi di telefonia ed internet, e ciò a scopo di tutela e di promozione dei diritti
umani.

6.22 Le riposte alle devianze minorili


Il nuovo processo minorile ha operato un cambiamento non indifferente dal pun-
to di vista di operatori, servizi e comunità. Oggi, infatti, il recupero del soggetto che
impatta con il sistema penale richiede una programmazione estremamente personaliz-
zata d’interventi che vede impegnati ed interagenti vari soggetti: il minore, la famiglia,
l’ambiente in cui vive (scuola, lavoro...), i servizi sociali ministeriali e quelli del terri-
torio e, naturalmente, la Magistratura. Anche la ricerca pedagogica e psicologica sul
trattamento educativo dei minori disadattati e devianti consente di compiere alcune
osservazioni interessanti. In primo luogo, oggi si assiste ad un progressivo abbandono
del modello di trattamento comportamentista, centrato in pratica sulla richiesta di una
modificazione del comportamento sulla base di una contrattazione che tendeva a risol-
versi in un sistema di rinforzi positivi e negativi. In altri termini, l’idea è che un minore
agisce, in modo più o meno deviante, sulla base degli schemi di significato che possie-
de. Prima di pretendere che un minore smetta di giocare il solo ruolo che sa giocare,
bisogna che gli sia data l’opportunità di utilizzare, e far propri, schemi, alternativi di
pensiero e azione. Il cambiamento del comportamento segue, non precede, il processo
di costruzione e ricostruzione identitaria che l’intervento educativo dovrebbe favorire.
Appare ovvio che quest’indicazione è in linea con la più ampia questione riguardante

150
Forme di criminalità

la costruzione del progetto educativo. Quest’ultimo consente di sviluppare alcune ri-


flessioni fondamentali:

a) La relazione con l’educatore è il principale motore del cambiamento. Una prima


componente necessaria è rappresentata dall’investimento affettivo e dalla gestione
pedagogica del transfert. I processi d’identificazione, d’affiliazione, d’attaccamen-
to, di dipendenza, incidono nella storia evolutiva del minore. Perché si trasformi-
no in momenti educativi funzionali, essi devono essere presi in considerazione e
trattati in modo congruente con le specifiche esigenze evolutive del minore.
La disponibilità, i segni dell’accoglimento affettivo, le funzioni di sostegno, strut-
turazione e contenimento svolte dall’educatore, costituiscono il fondo del terreno
relazionale su cui articolare norme, regole e autorevolezza. Perchè tale relazione sia
costruita come strutturante e rassicurante, la quotidianità del rapporto appare fon-
damentale. Il che rileva la debolezza dei modelli educativi, quando questi si risolvo-
no in incontri saltuari con l’educatore. Inoltre, la dimensione della progettualità è
connessa alla comunicazione al minore di una positiva scommessa sulle sue capaci-
tà, abilità, competenze. L’ipotesi di fondo è che l’orientamento al futuro, la dimen-
sione progettuale siano fattori costitutivi dell’identità: scopi da raggiungere, proget-
ti cui partecipare diventano dei dispositivi per cominciare a sperimentare l’efficacia
e la praticabilità di nuovi e differenti modi di pensare e di agire. In altri termini, la
presa di distanza dal passato è il prodotto di un differente modo di agire nel presente
e di pensarsi nel futuro. La comunicazione tra minore ed educatore deve risponde-
re a un modello circolare, cioè dare al minore la possibilità di partecipare alla con-
trattazione del proprio percorso, negoziare regole e norme, passare da un compor-
tamento di ruolo centrato sull’autorità ad un modello di autorevolezza, accogliere,
contenere e restituire in forma più organizzata emozioni e comportamenti disordi-
nati. Ciò al fine di sostenere il versante rassicurante, contenitivo e strutturante della
relazione e di trasformare il minore, seguendo uno schema simbolico-interazionista,
in un interlocutore attivo di un processo di cui dovrebbe essere protagonista.
La competenza, la disponibilità e soprattutto l’attendibilità dell’educatore e la sta-
bilità della relazione, sostengono la probabilità che egli diventi per i ragazzi e le
ragazze un riferimento autorevole di realtà. Il suo punto di vista, tradotto anche
in norme e regole, diventa quadro di riferimento, orienta, sostiene e contiene rea-
zioni e comportamenti. La costruzione delle esperienze orientate al cambiamento
e dell’identità si collocano oltre la prima formazione. Questo processo di cambia-
mento è destinato a soggetti che hanno già vissuto esperienze e sedimentato vis-
suti. Nel corso della propria storia, il minore ha avuto modo di consolidare alcuni
schemi di significato che egli sente propri e, spesso, per nulla disadattivi, introiet-
tati e difesi come propri, essi possono avere maggiore o minore grado di stabilità
e strutturazione in base alle esperienze vissute e alla loro stereotipia. L’intervento
rieducativo costruisce contesti ed esperienze nuovi o differenti da quelli che hanno
caratterizzato l’ambiente del ragazzo o che sono stati propri della sua formazione.
Entro questi contesti e attraverso essi, il minore ha l’opportunità di sperimentare
differenti figure e differenti modalità di essere percepito e trattato dagli adulti di
riferimento, differenti aspettative e reazioni al suo comportamento, nuovi stimoli

151
Criminologia ed elementi di criminalistica

e opportunità d’azione, nuove forme di comunicazione interpersonale. L’educato-


re sostiene il minore e lo accompagna in queste esperienze, fornendo supporti ma
senza sostituirsi a lui. La condivisione di spazi, tempi, attività e momenti della vita
quotidiana ha un duplice scopo: in primo luogo, consente all’educatore di cono-
scere a poco a poco le categorie attraverso cui il minore interpreta e fa fronte alla
sua realtà quotidiana, osservando come il minore interagisce e fa fronte ai compiti
e alle situazioni quotidiane e, interagendo con lui, l’educatore può comprendere la
chiave interpretativa del suo mondo in modo più preciso che attraverso colloqui
istituzionalizzati; in secondo luogo, se l’educatore riesce a inserirsi o a costruire un
micro-ordine della vita sociale, egli ha maggiori ambiti d’intervento, condividendo
ritmi, attività, luoghi della vita quotidiana che l’educatore può trasformare in am-
bienti più protetti e controllati, entro cui il minore può sperimentare nuovi modi
di conferire ordine e dotare di senso la realtà. Naturalmente, la condivisione della
vita quotidiana assume forme differenti se l’intervento educativo si svolge in strut-
ture diverse (carcere, comunità residenziali) o se esso si articola in forme di educa-
zione di strada o di progetti. Nella progressiva ridefinizione dell’identità persona-
le, l’esperienza del gruppo rappresenta il contesto di costruzione o rielaborazione
delle competenze sociali.
Alcuni dispositivi che caratterizzano la vita di gruppo (il senso d’appartenenza, la
complementarietà dei ruoli, la competitività, la cooperazione, istituzione di norme
e sanzioni) possono tradursi in altrettante risorse formative.
L’educatore può inserirsi all’interno di gruppi naturali o aggregazioni spontanee
contribuendo a ridefinirne dinamiche interpersonali e valori, facendo anche in mo-
do che il gruppo contenga, risolva e riassorba i suoi membri devianti perché non si
creino le condizioni per la riedizione di meccanismi di espulsione che molti ragaz-
zi potrebbero aver già subito in altri luoghi e in altri momenti. I tempi dell’inter-
vento educativo, inteso come processo di costruzione identitaria, come un’oppor-
tunità di crescita che punta al cambiamento, si collocano sul medio-lungo termine.
Alcuni fattori hanno quindi contribuito a orientare verso la territorializzazione dei
servizi educativi: le conseguenze devastanti dell’istituzionalizzazione, la necessità di
rispondere in termini di servizi alle misure alternative alla detenzione previste dal
nuovo codice di procedura penale minorile, la necessità di prendere in carico i mi-
nori a rischio. Da questo punto di vista, hanno acquistato sempre maggiore rilevan-
za sociale e interesse scientifico due luoghi/modi dell’intervento preventivo/educa-
tivo: la comunità e la strada.

b) Le comunità di tipo familiare


L’inserimento in comunità è previsto sia per i soggetti a rischio psico-sociale, sia
per i soggetti che sono già entrati nel circuito penale. L’allontanamento dai conte-
sti abituali è stabilito sulla base del principio della protezione del minore e non dal
minore. In tal senso, la residenzialità consente di lavorare sulla funzione struttu-
rante delle routine quotidiane e su quella contenitiva della relazione con gli educa-
tori. I principi pedagogici di base che regolano la comunità sono essenzialmente:
la vita quotidiana come contesto educativo, l’equilibrio tra rapporto individualiz-
zato e dinamiche relazionali di gruppo. La vita residenziale non è vista come puro

152
Forme di criminalità

contenitore o appoggio al ragazzo, ma come la reale chiave di volta dell’interven-


to educativo, infatti, accoglimento, sostegno, contenimento, mediazione con am-
bienti non protetti (la scuola, i familiari), condivisione di esperienze attuali, pro-
getti futuri, nuove opportunità di relazione, dovrebbero caratterizzare la vita del
ragazzo in comunità. Attualmente, sembra che la formula più indicata per inter-
venti di tipo preventivo/rieducativo sia la comunità, con un numero di ospiti non
superiore alle dieci unità. Le dimensioni contenute del gruppo di residenti, con-
sentono, infatti, l’instaurarsi di significative relazioni faccia a faccia e la costruzio-
ne di una nuova storia condivisa e significativa fatta di rituali della vita quotidiana,
ma anche di eventi salienti, tutte precondizioni per l’instaurarsi di nuovi modi di
agire e di pensare.

c) L’educazione di strada
In Italia, la figura professionale dell’educatore di strada acquista sempre maggior
rilevanza sia sul piano della riflessione pedagogica che su quello della progettazio-
ne di interventi. In alcune città (Palermo, Torino, Milano, Bologna, Napoli), sono
in atto modelli di intervento formulati intorno a quest’idea. L’idea di fondo è l’in-
versione di direzione: non è il minore che va o è condotto al servizio sociale, è il
servizio che va verso il minore e lo incontra o lo aggancia là dove si trova, ciò con-
sente di raggiungere utenti che forse non avrebbero mai incontrato i servizi e che
spesso sono quelli che ne hanno maggiore bisogno.
I presupposti sono quelli della pedagogia territoriale, particolarmente indicati ad
orientare l’intervento educativo in ambiti, in cui la devianza ha, o rischia di avere,
carattere strutturale e non occasionale, in quanto sostenuta e legittimata dal tessu-
to sociale e dalla cultura locale.
I caratteri distintivi di questo servizio sono: conoscenza delle categorie locali, rego-
le, norme e modelli di comportamento attraverso cui adulti e minori interpretano
e ordinano la loro realtà, stabiliscono significati, stringono alleanze, contrattano
modalità e margini di accesso al loro mondo, accordano fiducia o diffidenza.
La conoscenza di questo ordine di fattori è decisiva: un minore che ha abbandona-
to la scuola a Napoli e ha contatti con la criminalità, può aver trovato, in questo,
non solo una gratificazione economica personale, ma anche il modo di contribuire
responsabilmente al bilancio familiare.
L’educatore si troverà di fronte a una scelta che trova legittimazione sul senso del
dovere o sull’attaccamento familiare. Ancora, è stato accennato che la devianza
può funzionare come un vero e proprio percorso formativo, costellato da prove
d’iniziazione alla vita adulta in cui il coraggio, l’intraprendenza e la spregiudicatez-
za sono fondamentali. In questo senso, qualunque opportunità alternativa rischia
di non fare alcuna presa sul minore se non si inscrive sulle categorie locali, se non
risponde alle esigenze del tessuto sociale. L’accesso dell’educatore, la sua accetta-
zione da parte del quartiere, della strada, dei gruppi naturali, dipende largamente,
nelle prime fasi, dalla sua capacità di trovare dei margini di compatibilità tra il suo
ruolo, le sue funzioni e il campo in cui si trova.
La ricerca di una sinergia e di una reciproca legittimazione con la gente del luo-
go sono fondamentali. Il quartiere, la strada sono una rete di relazioni fortemente

153
Criminologia ed elementi di criminalistica

strutturate, nei cui confronti, l’educatore è, in prima istanza, l’estraneo; in questa


rete, altri sono gli adulti di riferimento, quelli che hanno ascendente sul ragazzo,
quelli a cui questi accorda fiducia e rispetto, alla cui fiducia e rispetto sono interes-
sati. Per acquistare credibilità agli occhi del ragazzo, l’educatore deve, in primo luo-
go, acquistarli agli occhi degli altri, deve farsi legittimare dagli adulti di riferimento.
Il lavoro dell’educatore di strada, comincia, dunque, con la costruzione di un certo
grado di consenso sociale, egli deve ottenere legittimazione e autorevolezza prima
di tutto agli occhi di chi è diventato un modello di riferimento per il ragazzo.
Due sono i nodi centrali contro cui si scontra l’educazione di strada:

- il primo ha a che fare con il confronto perdente con i guadagni che provengo-
no da un’economia illegale;
- il secondo concerne lo scontro con i modelli che i minori hanno assimilato.

Il primo nodo è di difficile soluzione pedagogica, perchè l’economia illegale è ter-


ribilmente competitiva rispetto alle proposte di qualsiasi educatore, anche se di-
penderà tutto dalla misura in cui il tessuto relazionale legittima, tollera, incorag-
gia, ignora i traffici illegali del minore.
Il secondo nodo è invece al cuore di questo intervento educativo. Uno dei compi-
ti dell’educatore di strada è quello di diventare un modello alternativo rispetto a
quello o a quelli che la famiglia, il quartiere e la strada propongono.
Perchè il modello identitario proposto riesca ad affiancarsi prima e sostituirsi poi
ai modelli rilevanti per il soggetto, l’educatore deve diventare oggetto di investi-
mento affettivo.
Ciò comporta un’attenzione alla costruzione della relazione con il minore, un la-
voro di mediazione con gli adulti del quartiere più vicini ai ragazzi, l’inserimento
dell’educatore nei gruppi naturali e conseguente coinvolgimento di una base più
allargata di destinatari del progetto educativo.

Il processo di cambiamento del quadro normativo, avviato dal nuovo codice di


procedura penale per i minorenni, ha comportato una ridefinizione dell’assetto orga-
nizzativo e gestionale dei servizi dell’amministrazione della giustizia minorile. Il siste-
ma dei servizi della giustizia minorile rappresenta, infatti, l’area di supporto all’imple-
mentazione delle linee, delle strategie politiche e, più specificatamente, delle decisioni
prese dall’autorità giudiziaria nell’ambito della competenza penale. Ai preesistenti ser-
vizi (come l’ufficio di servizio sociale e l’Istituto Penale), si affiancano nuovi servizi,
come il Centro di Prima Accoglienza, la Comunità Educativa, i Centri Diurni Polifun-
zionali, titolari della nuova filosofia dell’azione penale e di tutte le misure penali in area
esterna, che, come si è detto, rappresentano l’attuale tendenza di politica preventiva in
Italia. L’ufficio di servizio sociale costituisce il servizio che accompagna il ragazzo nel
suo percorso penale, dall’inizio alla fine. Opera sulla base di un mandato istituzionale
che ne prevede l’immediata attivazione dal momento in cui, a seguito di denuncia, un
minore entra nel circuito penale. Il nuovo codice prescrive l’attivazione del suo inter-
vento nei confronti del minore, entro 96 ore dall’inizio del suo stato d’arresto e di fer-
mo. L’ufficio, cura, inoltre, il progetto educativo del minore in misura cautelare non

154
Forme di criminalità

detentiva, gestisce la misura della sospensione del processo e della messa alla prova e
segue complessivamente tutte le misure alternative e sostitutive.
Svolge, altresì, compiti di assistenza in ogni stato e grado del procedimento e pre-
dispone la raccolta di informazioni utili per l’accertamento della personalità del mino-
re su richiesta del P.M. L’Istituto Penale, spazio originariamente preposto all’esecuzione
della misura cautelare detentiva e della pena, vede una sua ridefinizione organizzativa
più funzionale a un’azione educativa sempre più integrata con i servizi della giustizia
minorile e del territorio. Il Centro di Prima Accoglienza (CPA) è una struttura filtro
che ospita i minori arrestati e fermati per un massimo di 96 ore in attesa dell’udienza
di convalida; si tratta di un servizio finalizzato a evitare l’impatto con il carcere e che si
connota strutturalmente come una casa, dove gli operatori minorili accolgono, infor-
mano, sostengono il minore e avviano una prima prefigurazione del progetto educati-
vo, se il minore resterà nell’area penale. Le altre nuove tipologie organizzative, comu-
nità e centri diurni polifunzionali, rappresentano servizi di supporto all’intervento in
area penale esterna e vedono attualmente prevalere la formula del convenzionamento o
della cogestione con le forze del privato sociale.
Il recente Progetto ’98, elaborato dall’Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile,
costituisce una sintesi delle esperienze maturate in quella fascia d’intervento nota come
‘area penale esterna’ (misure cautelari non detentive, messa alla prova, riconciliazione),
il cui aspetto caratterizzante è dato da una relazione operativa che si dispiega, oggi ed in
prospettiva, al di fuori degli ambienti istituzionali in un rapporto, sia pure non sempli-
ce, di stretta interdipendenza con i servizi locali e con i contesti socializzativi di appar-
tenenza del minore. La concretizzazione di tali presupposti prende avvio da una modi-
fica strutturale che, nelle future tendenze di politica preventiva, si realizza nel Centro
Polifunzionale di Servizi, una struttura situata nei territori di competenza dei diversi
Centri per la Giustizia Minorile. Il Centro Polifunzionale si compone di diversi servi-
zi: Servizio di prima accoglienza, Servizio sociale, Servizio diurno polifunzionale, Servizio
comunità, Servizio controllo rafforzato.
Appare ipotizzabile, per il prossimo futuro, che i primi due servizi evolveranno
coerentemente con gli sviluppi dell’innovazione in corso. Il servizio diurno rappresenta,
invece, l’espressione più immediata dell’obiettivo di garantire continuità con l’esterno.
Tale struttura, infatti, non è riservata esclusivamente agli autori del reato, ma si rivolge
ad un’utenza mista che accede alle attività proposte tramite invio nel territorio (scuole,
parrocchie, servizi sociali territoriali ecc.).
Gli ultimi due servizi, costituiscono quelli più direttamente organizzati in forma
istituzionale secondo modalità contenitive, diversamente articolate sulla base delle ca-
ratteristiche del ragazzo, della sua posizione giudiziaria o di problematicità presentate. Il
servizio di controllo rafforzato sostituisce l’Istituto Penale ma, sostanzialmente, ne ripro-
pone la logica per tutti quei casi che non possono accedere ad ipotesi meno strutturate.
I servizi comunità si differenziano, al loro interno, fra comunità filtro, con fun-
zioni di accoglienza, inserimenti comunitari a medio e lungo termine e comunità pro-
tette, rivolte a quei ragazzi per i quali risulta inadeguato o prematuro il collocamento
presso strutture territoriali.
Questa nuova articolazione dei servizi e la complessità della proposta organizza-
tiva, sempre più orientate ad un’apertura al territorio di appartenenza del minore a

155
Criminologia ed elementi di criminalistica

rischio e/o che delinque, richiede la valorizzazione della multidisciplinarietà e la spe-


cializzazione delle figure che si occupano del ragazzo, l’interazione con i servizi e le pro-
fessionalità del territorio, ma, soprattutto, la fluidità sia di circolazione interno-ester-
no, sia di passaggio del minore fra strutture e servizi.
Nel quadro della promozione di diritti e di opportunità dell’infanzia e dell’adole-
scenza, il diritto allo studio assume un ruolo centrale, soprattutto se inteso come dirit-
to alla qualità e alla promozione del successo formativo; in questo modo, il fenomeno
della dispersione scolastica e dell’insuccesso educativo assume sempre più il significato
di chiave di lettura non solo del servizio scolastico, ma dell’intero sistema formativo; è,
infatti, un fenomeno complesso, sia per la sua fenomenologia (mancati ingressi, evasio-
ne dall’obbligo, abbandoni, ripetenze, bocciature, frequenze irregolari), che per la plu-
ralità di cause, interne ed esterne alla scuola, che lo determinano. La dispersione scola-
stica è, pertanto, il sintomo di una situazione complessiva di disagio e disadattamento
che, laddove l’insuccesso scolastico si correla, a seconda dei contesti territoriali, ad altre
cause di natura socio-economica-culturale, può condurre, come nel caso Napoli, a fe-
nomeni di rischio, marginalità e devianza. Non essendo riducibile a un modello lineare
di causa-effetto, va analizzato attraverso un approccio globale che superi la frammen-
tazione degli interventi. Conseguentemente, per coniugare diritto allo studio e quali-
tà dell’istruzione e della formazione, è necessaria un’azione integrata, interistituzionale
che assuma come centrale la realtà dell’alunno all’interno di un sistema di relazioni e sia
funzionale all’organizzazione e realizzazione di un servizio integrato alla persona.
In linea con questo quadro teorico-metodologico, il Ministero della Pubblica Istru-
zione ha promosso in tutte le province piani organici di intervento che hanno due pre-
supposti: l’area territoriale come unità d’intervento e l’interistituzionalità.
L’organizzazione dei suddetti piani ha previsto la costituzione di Osservatori, a
livello provinciale e di area: essi, hanno consentito l’individuazione di compiti rispet-
to all’analisi del territorio, alla ricognizione dei bisogni, alla progettazione integrata, al
coordinamento e alla gestione delle risorse, al fine di evitare la frammentazione e la so-
vrapposizione degli interventi, secondo una logica di rinforzare sul territorio il sistema
formativo integrato. Il modello d’intervento ha visto la scuola e il territorio gestire le
problematiche legate al disagio e alla devianza, integrando competenze e compiti dei
diversi attori del processo. La metodologia di rete si è confermata come l’unica rispo-
sta possibile che il territorio può dare alla complessità tipica del nostro sistema sociale,
allo scopo di evitare le forti autoreferenzialità dei diversi enti e istituzioni pubbliche, lo
spreco di risorse professionali ed economiche. Per consolidare le relazioni interne agli
osservatori, garantire la progettualità e l’intervento, sono stati adottati protocolli d’in-
tesa, accordi di programma, protocolli operativi a sostegno dei progetti.
Per ciò che attiene la prevenzione nei confronti dei minori, si deve sottolineare che
particolari esperienze di prevenzione della devianza minorile sono state compiute nel
nostro paese in contesti sociali e scolastici.
Un primo modello colloca l’attività di prevenzione in base alla fase di sviluppo del
comportamento criminale. È questo il modello medico di G. Caplan (1964), che pre-
senta tre tipi di prevenzione: la prevenzione primaria, che svolge la sua funzione allo
scopo di rimuovere o diminuire quei fattori criminogeni presenti nell’ambiente fisico
e sociale attraverso interventi educativi, di politica sociale e urbanistica; la prevenzione

156
Forme di criminalità

secondaria, tesa all’individuazione precoce di potenziali delinquenti, soprattutto giova-


ni, per i quali sono promossi interventi in grado di ridurre il rischio di comportamenti
antisociali; la prevenzione terziaria entra in gioco in seguito alla commissione di un cri-
mine e per tale motivo è finalizzata ad evitare la recidiva.
Una prevenzione situazionale, rivolta ad ostacolare fisicamente il compimento dei
reati, rappresentando una forma di prevenzione meccanica. Infine, abbiamo gli inter-
venti di prevenzione individuale, che possono essere realizzati facendo o meno ricorso
a ricerche di tipo predittivo. Nel primo caso, i soggetti bersaglio di questi interventi
sono quelli in età infantile e preadolescenziale, i quali sono stati individuati come a
rischio delinquenziale; nell’altro caso, gli interventi, pur essendo diretti a bambini e
preadolescenti problematici, sono soprattutto indirizzati alla promozione e al benes-
sere degli stessi soggetti e delle loro famiglie, più che alla preoccupazione per gli atti
delinquenziali.
Un ambito di ricerca che negli ultimi anni è in fermento è quello del bullismo e
delle prepotenze nelle istituzioni scolastiche; lo scopo di queste ricerche è mirato alla
progettazione e alla realizzazione di strategie rivolte al contenimento e alla riduzione
del fenomeno, attraverso la collaborazione e l’aiuto di insegnanti, genitori e gruppo dei
pari. In Italia, le esperienze effettuate come prevenzione della devianza minorile risen-
tono, naturalmente, della diversità dei contesti di applicazione, delle diverse metodolo-
gie adottate, degli obiettivi e delle risorse utilizzate per la loro applicazione.

157
CAPITOLO 7

Aggressività ed anormalità personologica

7.1 L’aggressività
Il termine aggressività indica sia il comportamento finalizzato all’adattamento del-
l’uomo, in modo attivo, creativo e disponibile, al mondo che lo circonda, sia il compor-
tamento violento, inteso come aggressività fisica verso un essere umano con l’intenzione
di fare del male.
La definizione di aggressività non è chiara: nella revisione della letteratura, infatti,
vari Autori, esponenti di impostazioni teoriche diverse, hanno affrontato il problema
privilegiando, maggiormente, lo studio delle origini e delle cause della condotta aggressiva,
piuttosto che il suo spessore clinico. Storicamente possiamo riconoscere tre posizioni
teoriche divergenti: 1) aggressività come fenomeno teso alla distruzione; 2) aggressività in-
tesa come istinto innato di controllo e comando; 3) aggressività come risultato di due istinti
umani fondamentali: quello della morte e della distruzione combinato a quello dell’amore e
della vita. In tutti i casi, l’aggressività si esprime con manifestazioni cognitive, emotive
e comportamentali (Rohrlich, 1998).
Il DSM-IV non prevede specificamente un disturbo aggressivo, ma il termine ag-
gressività compare nei criteri di diversi quadri clinici per cui la stessa si configura più
come una dimensione transnosografica che non come un elemento psicopatologico
nucleare e strutturante. Nel disturbo del controllo degli impulsi non classificati altrove
(NAS), esiste il disturbo esplosivo intermittente, i cui criteri diagnostici includono la pre-
senza di episodi ricorrenti, isolati, di incapacità di resistere agli impulsi aggressivi, che
causano gravi atti aggressivi o distruzione della proprietà.
Anche in altri disturbi mentali classificati nel DSM IV, l’impulsività, la rabbia e
l’aggressività fanno parte del quadro psicopatologico; nella schizofrenia, nell’episodio
maniacale, nella demenza, nell’abuso di sostanze, nell’alcolismo, nei disturbi di perso-
nalità (e in quelli borderline e antisociali in particolare), i comportamenti aggressivi sono
ben descritti. In altri disturbi, l’aggressività può essere presente in forma diversa, come
nel caso delle valenze suicidarie del depresso, degli attacchi di rabbia durante l’attacco
di panico, dell’intolleranza dell’ossessivo. La valutazione standardizzata, già comples-

159
Criminologia ed elementi di criminalistica

sa nelle forme di aggressività manifesta, pone problemi ancora maggiori quando l’ag-
gressività è mascherata o indiretta, sia per i pochi strumenti proposti, sia per la difficoltà
della raccolta dei dati mediante l’osservazione del comportamento, quando le condotte
aggressive sono meno obiettivabili
La valutazione dell’aggressività risulta particolarmente aleatoria quando si basa su
quanto il soggetto riferisce, come si verifica con gli strumenti di autovalutazione o con
le scale compilate dall’osservatore sulla base dei dati ricavati dal colloquio. Più atten-
dibile dovrebbe essere la valutazione del comportamento da parte di un osservatore
esterno anche se, in realtà, anche l’osservazione pone alcuni problemi, primo fra tutti,
quello più strettamente legato alla natura stessa dell’aggressività che, generalmente, è
un comportamento episodico, piuttosto che una condizione stabile o un comporta-
mento abituale o frequente. Di solito, nel caso dei comportamenti episodici, la va-
lutazione può essere effettuata sulla base dell’osservazione di un frammento del com-
portamento in questione, in quanto, esso sarà, con buona probabilità, rappresentativo
della condizione abituale del soggetto. Nel caso dell’aggressività, tuttavia, la normale
osservazione clinica offre difficilmente l’opportunità di coglierne direttamente anche
solo dei frammenti; spesso, solo un’osservazione del soggetto nel suo setting naturale
e per un periodo sufficientemente protratto può consentire di cogliere eventuali ma-
nifestazioni aggressive, anche se sporadiche. Si potrebbe pensare, in alternativa, a una
valutazione dell’aggressività in un setting sperimentale in cui, controllando e modi-
ficando la situazione e gli stimoli, il comportamento aggressivo possa essere in qualche
modo provocato e quindi misurato. Esperienze, in questo senso, sono state fatte, ma
restano limitate al campo della ricerca e avrebbe poco senso (né sarebbe comunque
agevole) trasferirle a quello clinico. Nonostante queste difficoltà e questi limiti, l’ag-
gressività può essere indagata e valutata con risultati soddisfacenti, non soltanto me-
diante i classici questionari di personalità, ma anche attraverso questionari specifici;
inoltre, utilizzando le tecniche proiettive, l’aggressività può essere studiata anche quan-
do non è espressa, quando investe i livelli più profondi. Poiché i soggetti con deficit
intellettivi o disfunzioni organiche cerebrali possono manifestare, con buona frequen-
za, comportamenti aggressivi, nella valutazione dell’aggressività di questi soggetti può
essere indicato l’uso di test di efficienza, come la Wechsler Adult Intelligence Scale -
WAIS (Wechsler, 1974) o il Bender Visual Motor Gestalt Test (Bender, 1938), anche
se, naturalmente, i risultati migliori si ottengono impiegando i test, i questionari, le
RS che indagano in maniera più mirata l’aggressività, sia essa espressa in maniera di-
retta o indiretta.

7.2 Criminali aggressivi


Le condotte aggressive sono dirette a provocare danno, fisico o psicologico, ad altri
individui. Ma da cosa dipendono? Si è sicuri che non dipendano da eredità genetica?
Cesare Lombroso, antropologo e psichiatra, come già accennato in precedenza,
si sforzò di evidenziare, nei criminali, note morfologiche particolari, considerandole
espressioni di un’anomalia di formazione.

160
Aggressività ed anormalità personologica

Distinse, come è noto, due tipi di delinquenti: il delinquente nato, per il quale la
criminalità è insita nella propria natura; il delinquente occasionale, portato al delitto da
fattori causali diversi. Il delinquente nato era considerato un soggetto non recuperabile,
da sopprimere o da rinchiudere, mentre per i delinquenti occasionali si poteva prevede-
re la rieducazione in carcere. Nel suo lavoro principale, L’uomo delinquente, del 1876,
Lombroso sosteneva che i criminali non compiono azioni aggressive per un atto di vo-
lontà malvagio libero e cosciente, ma piuttosto perché hanno tendenze malvagie, origi-
nate da un’organizzazione fisica e psichica diversa dall’uomo normale. Lombroso stu-
diò a lungo i crani, le facce, i piedi, le abitudini di vita di famosi criminali, allo scopo di
dimostrare scientificamente che l’uomo delinquente possedeva tratti subumani che lo
differenziavano dal resto della popolazione ed erano responsabili delle sue tendenze ag-
gressive. Questi studi non hanno prodotto risultati scientificamente dimostrabili e oggi
questa teoria è stata definitivamente abbandonata.
Nella ricerca moderna sulle strutture neuroanatomiche, è parso chiaro che i siste-
mi neuronali coinvolti con il comportamento aggressivo sono localizzati soprattutto nel
sistema limbico e nel tronco dell’encefalo. Diversi studi hanno dimostrato, ad esem-
pio, che lievi stimolazioni elettriche del sistema limbico nei ratti, sollecitano violenti
attacchi nei confronti degli animali vicini. Ricerche sull’influenza del sistema neuroen-
docrino hanno individuato nel testosterone, ormone sessuale maschile, un importante
modulatore dei comportamenti aggressivi, che spiegherebbe anche la maggiore aggres-
sività dell’uomo rispetto alla donna. Anche nelle donne particolarmente aggressive so-
no stati trovati alti tassi di testosterone. Quello che non è ancora chiaro è se sia l’aggres-
sività che porta ad avere alti livelli di testosterone o se sia il testosterone che determina
i comportamenti aggressivi.
Come sempre, fra psicologia e biologia, la teorizzazione tende ad intrecciarsi. I dati
della ricerca più recente tendono, comunque, a lasciare aperta la possibilità che fattori
genetici influenzino l’aggressività, ma solo in modo indiretto, determinando problemi
nello sviluppo cognitivo (es. deficit dell’attenzione, basso Q.I, ecc.) che, a loro volta,
possono sfociare in condotte anti-sociali.
Naturalmente, oltre alla natura, è stata indagata anche la cultura, attraverso ricer-
che condotte su gemelli e bambini adottati, per vedere quale aspetto avesse la preva-
lenza nel determinare la condotta aggressiva. Questi studi hanno prodotto tuttavia ri-
sultati non sono sempre chiari e coerenti. è stato indagato l’ambiente sociale e non si
è potuto certo negare che la povertà, il sovraffollamento delle periferie metropolitane,
l’assenza di spazi per qualsiasi forma di attività ricreativa e la carenza di igiene, genera-
no sempre una sensazione di abbandono e di disperazione, che può condurre a com-
portamenti aggressivi come strumento di evasione e rivalsa sociale. Oltre a questo, le
crisi economiche, le guerre, la fame, le malattie, possono produrre fenomeni ancor più
evidenti di criminalità.
Anche la psicoanalisi si è occupata di trovare un’origine alle condotte aggressive, e
lo stesso Freud individuò, in un primo momento, l’aggressività come una reazione alla
frustrazione sperimentata da una persona durante la ricerca del piacere (ad esempio, il
neonato cerca il suo piacere nel cibo, che però non sempre gli viene dato al momen-
to in cui lui ne sente il bisogno; da qui la frustrazione e l’aggressività, che rappresenta
una strategia comportamentale per allentare lo stato di tensione generato dal mancato

161
Criminologia ed elementi di criminalistica

soddisfacimento immediato del suo bisogno). In una fase successiva, Freud formulò,
invece, la teoria della pulsione di morte, Thanatos, antagonista dell’istinto di vita, Eros.
Obiettivo dell’istinto di morte era quello di far tornare l’individuo allo stato inorganico
di partenza e, a questo, si opponeva l’amore, o Eros, con la sua forza vitale. Il compor-
tamento aggressivo, secondo questo modello, avrebbe dunque il duplice scopo di porta-
re all’esterno questa forza, altrimenti auto-distruttiva, e di ridurre lo stato di tensione
pulsionale. In entrambi i casi, però, Freud non mise in discussione il concetto per cui
l’aggressività era sostanzialmente una caratteristica innata dell’esistenza umana. E la sua
visione della vita era, non a caso, molto pessimista.
Le tesi di Freud sono state anche confermate dai c.d. etologi. Konrad Lorenz in te-
sta, che si chiede: cosa fanno gli animali a cui non è permesso lottare per il cibo, per
l’accoppiamento, per la difesa del territorio, per il rispetto della loro posizione gerarchi-
ca all’interno del gruppo? Esprimono aggressività, si cimentano in estenuanti lotte.
Da un punto di vista etologico dunque, l’aggressività è un istinto primario, trasmes-
so ereditariamente per favorire l’adattamento della specie, anche umana. Gli esemplari
maggiormente aggressivi infatti hanno sempre maggiori possibilità di successo nella sfi-
da per la sopravvivenza e possono riprodursi trasmettendo le proprie caratteristiche.

7.3 Delinquenti normali e anormali


Fin dall’inizio dell’Ottocento, parallelamente all’affermazione del concetto di peri-
colosità sociale, si assiste a un sempre maggiore intervento degli psichiatri nello studio
e nell’interpretazione di alcuni clamorosi delitti, dando inizio ad un progressivo svilup-
po della psichiatria forense con elaborazione di nuove categorie nosografiche, basata,
soprattutto, sulla patologia degli istinti e degli affetti. Ma, solo con la fine dell’Otto-
cento, in tale settore di studio, si verificò una radicale evoluzione, con l’affermarsi della
concezione deterministica. è in questo periodo che sorse e si sviluppò la Scuola Italiana di
Antropologia Criminale, che introdusse gli strumenti clinici finalizzati alla valutazione
della pericolosità sociale: la scienza medica, estese, così, il proprio interesse da alcuni ed
eccezionali casi di delinquenza all’intera gamma dei soggetti che commettevano reati.
La letteratura del tempo testimonia che i freniatri si preoccupavano, da un lato, di sot-
trarre il malato di mente alla carcerazione, dall’altro, di collaborare al controllo sociale,
attraverso la struttura manicomiale. Tuttavia, l’internamento in manicomio criminale
del prosciolto per vizio totale di mente, non era prassi univoca e ineludibile, dedican-
dosi un’attenzione differenziata ai soggetti riconosciuti affetti al momento della com-
missione del reato da una malattia mentale che si era poi risolta. Tale prassi, tramontò
definitivamente con l’entrata in vigore del codice Rocco e occorrerà attendere le sen-
tenze della Corte Costituzionale del 1982-83 perché si affermi la possibilità di lasciare
esente da conseguenze penali il prosciolto per vizio totale di mente.
è noto come, in Italia, il codice Rocco abbia dato vita ad un sistema ibrido fon-
dato su un compromesso in tema di pericolosità sociale psichiatrica, concetto che si con-
figura come connotato contemporaneamente da parametri medici e parametri giuridici,
il cui carattere più giuridico che scientifico era dimostrato anche dal fatto che la peri-

162
Aggressività ed anormalità personologica

colosità sociale era spesso oggetto di presunzione legale, senza bisogno di un accerta-
mento da parte del perito psichiatra. Si è visto, anche, come il concetto di pericolosità,
mentre continua ad avere notevole rilievo in campo giuridico penale, è stato nettamen-
te superato nelle normative riguardanti i servizi psichiatrici, cosicché, mentre la scien-
za psichiatrica si è rinnovata in modo radicale, la psichiatria forense ha ignorato ogni
sostanziale mutamento, spesso arroccandosi su posizioni e richieste, basate su conce-
zioni risalenti all’inizio del secolo, ormai del tutto superate. è forse in considerazione
della difficoltà di una prognosi criminale, oltre che per la consapevolezza delle conse-
guenze stigmatizzanti ed emarginanti che tale giudizio comporta, che il perito tende a
centrare tutto il suo elaborato sulla diagnosi psicopatologica, e trascura, o considera in
modo marginale, la valutazione relativa alla pericolosità sociale, che, in genere, è limi-
tata a poche righe della relazione conclusiva. Occorre, preliminarmente, notare come
l’attuale normativa in materia di misure di sicurezza manicomiali sia il frutto di riserve
e perplessità, anche per effetto di uno sviluppo della psichiatria che andava via via po-
nendo in dubbio la validità scientifica delle nozioni di imputabilità e pericolosità so-
ciale, sottoponendo, inoltre, a revisione critica, le tradizionali nosografie e il concetto
stesso di malattia mentale.
Il criterio classificatorio nosografico classico distingue i disturbi psichici in ano-
malie psichiche (distinte a loro volta in deficienze intellettive, reazioni psicogene ab-
normi e personalità abnormi) e malattie psichiche o psicosi (distinte a loro volta in
psicosi organiche e psicosi endogene). 1) Le deficienze intellettive sono caratterizzate
da uno sviluppo dell’intelligenza inferiore alla media, attribuibile a carenze congenite
o culturali ovvero, specie per le forme più gravi, a un processo morboso anteriore al-
l’età della maturità intellettiva che non viene mai raggiunta (idiozia, imbecillità, insuf-
ficienza mentale); 2) Le reazioni psicogene abnormi indicano anomalie episodiche, non
abituali, consistenti in una risposta psichica inadeguata per quantità, qualità o durata
a eventi esterni emotigeni o psicotraumatizzanti e chiaramente causata da tali eventi;
3) Le personalità abnormi indicano, invece, quelle anomalie praticamente costanti nel
soggetto, tali da potersi considerare attributi stabili della personalità. Le reazioni psi-
cogene e le personalità abnormi si distinguono ulteriormente, a seconda che presen-
tino tendenze nevrotiche (nevrosi d’ansia, isteriche, depressive, ossessive, compulsive,
postraumatiche, da indennizzo, neurastenie, ecc.), caratterizzate da stati d’ansia in mi-
sura eccedente e più duratura rispetto a quella presente in ogni persona, espressione
di una conflittualità non risolta, generata da conflitti interiori o interpersonali o con
l’ambiente sociale, ovvero, tendenze psicopatologiche (reazioni esplosive, a corto cir-
cuito, primitive, negativistiche; personalità istrioniche, esplosivi, impulsivi, disaffettivi,
fanatici sessuali, instabili, insicuri, ipomaniacali, ecc.), caratterizzate da anomalie del
carattere che favoriscono comportamenti di disturbo e di sofferenza per gli altri, men-
tre, di regola, mancano conflitti interiori. Dal punto di vista della pericolosità sociale,
si deve tener presente che le persone affette da disturbi nevrotici tendono a introietta-
re gli effetti dei propri conflitti e, quindi, di regola, non pongono problemi di notevo-
le disadattamento sociale e, da un punto di vista statistico, sono di scarso significato
criminologico, pur comportando sofferenze personali e familiari (salvo i casi di passag-
gio all’atto o acting out nevrotico, cleptomania a base ossessiva, e altri casi particolari);
le persone affette da psicopatie, invece, pongono più frequentemente problemi di disa-

163
Criminologia ed elementi di criminalistica

dattamento sociale, vivendo una maggiore conflittualità con il mondo esterno, e sono
statisticamente molto frequenti nell’ambito della delinquenza abituale e professionale,
violenta ed aggressiva.

7.4 I delitti sessuali, tra violenza e aggressività


Com’è noto, l’ordinamento penale non prevede le specifiche configurazioni del-
l’omicidio sessuale e tanto meno degli omicidi sessuali multipli, attribuibili a un uni-
co autore in rapporto ad analogie inerenti a circostanze di tempo, di luogo e di modus
operandi. Si tratta di reati che assumono, tuttavia, particolare rilievo nel campo del-
la psichiatria forense: posto che, una volta identificato, l’autore di delitti siffatti viene
pressoché sistematicamente sottoposto a perizia psichiatrica. Perizia che, più che dai ri-
ferimenti anamnestici a pregressa patologia mentale o a pregressi comportamenti ab-
normi dell’autore dei reati, è il più delle volte motivata dai fatti-reati, di per se stessi
considerati, con particolare riguardo alla tipologia delle vittime e alle circostanze in cui
i delitti sono stati realizzati. Il problema della qualificazione aprioristica di determinati
omicidi come sessuali e del presunto autore degli stessi come delinquente sessuale rinvia ai
complessi rapporti tra sessualità e cultura da un lato, e tra sessualità e diritto, dall’altro.
Rapporti che riflettono il modo di porsi della collettività nei riguardi della sessua-
lità, e, di riflesso, il modo di porsi del legislatore (per quanto concerne la produzione
legislativa) e dei magistrati (per quanto attiene all’attività giurisdizionale) nei settori
che, direttamente o indirettamente, chiamano in causa la sessualità. Si pensi, ad esem-
pio, alle travagliate vicende legislative e alle altrettanto travagliate vicende giurisdizio-
nali in ordine ai problemi del controllo e della soppressione della fertilità, del danno
alla funzione sessuale e alla capacità di procreare, del transessualismo e della rettifica di
sesso anagrafico, alle norme contro la violenza sessuale di cui alla legge n. 66/96, e co-
sì via. Senza alcuna pretesa di approfondire in questa sede l’ampio e variegato tema dei
rapporti tra sessualità e cultura da un lato, e fra sessualità e diritto, dall’altro, ci si limita
unicamente a rilevare che in questi ultimi anni si è realizzato, nel campo della divulga-
zione criminologica, quanto si era verificato in passato in altri settori (letteratura, atti-
vità artistiche, ecc.), ovvero una proposizione e una lettura, per c.d. aperta, della nozio-
ne di sessualità, la quale, per quanto concerne i delitti a ipotetica matrice sessuale, per
effetto della suggestione operata dai mass-media, si è progressivamente caratterizzata
come nozione alla quale sarebbero sottese rilevanti quote di morbosità e di violenza. In
questo contesto, hanno assunto particolare pregnanza emozionale per l’opinione pub-
blica i delitti che vengono attribuiti ai cc.dd. serial killers, e, più recentemente, anche i
delitti che rinviano alla pedofilia.
Particolare attenzione deve essere rivolta alle tecniche di accertamento medico-le-
gali nel caso di delitti sessuali connotati da violenza e aggressività. Le indagini giudizia-
rie in tema di violenza carnale si svolgono normalmente in tre direzioni: a) sul luogo nel
quale è avvenuto il fatto, che può essere una località aperta o un ambiente chiuso; b)
sulla vittima che si dichiara aggredita e violentata; c) sul presunto colpevole. Durante il
sopralluogo giudiziario si dovranno ricercare macchie di sperma, sangue o peli su bian-

164
Aggressività ed anormalità personologica

cheria, altri oggetti o sulla vittima; rilevare le impronte digitali nell’ambiente; reperire
sostanze ad azione afrodisiaca, stupefacente, narcotica o antifecondativa; individuare i
segni lasciati dalla colluttazione e dalla reazione difensiva della vittima; raccogliere resti
di indumenti stracciati, bavagli, lacci od oggetti di specifico significato sessuologico.
In caso di morte della vittima, occorre cercare sul suo corpo, oltre ai segni delle lesioni
mortali, quelle del delitto sessuale, le tracce di secreto spermatico, peli sulla cute e in
tutte le cavità. Per ciò che attiene la diagnostica dei delitti sessuali sulla vittima, essa si
divide in: 1) anamnesi, che serve soprattutto a mettere a suo agio l’esaminando. L’inter-
rogatorio su come si sono svolti i fatti consente di verificare concordanze o discordan-
ze con i risultati dell’istruttoria e mette in luce particolari utili per dedurre le modalità
della violenza e le sue conseguenze. Lo studio del comportamento dell’esaminando in que-
sta fase, ne permette di inquadrarne il carattere, la moralità, l’emotività, la ritrosia o la
sfrontatezza, permette di giudicare lo sviluppo mentale ed eventualmente la necessità
di un esame psichico approfondito per diagnosticare l’esistenza di una malattia mentale
che condizionasse un’inferiorità psichica, oppure, se residuano turbe psichiche impor-
tanti. Può aiutare, inoltre, a mettere in luce una simulazione di violenza, condotta fino
al punto da procurarsi ecchimosi e graffiature. Se è possibile, l’esame delle vesti della
vittima, permette di riconoscere strappi di allacciature, asportazione di bottoni, lace-
razioni indicative di una lotta. Potranno portare tracce organiche del colpevole o della
vittima quali sangue, sperma, peli, capelli, saliva e altre secrezioni. 2) Esame obiettivo,
che deve verificare se lo sviluppo somatico sia tale da consentire un’efficace resistenza
all’aggressore, quindi, si ricercano le lesioni somatiche accertando se sono riferibili al-
l’epoca in cui il reato fu consumato. E inoltre: a) lesioni da costrizione: possono essere
ecchimosi e graffi al viso, al collo, agli arti superiori, al torace, dovute a manovre di im-
mobilizzazione, sulla faccia interna delle cosce da divaricazione delle stesse, ma anche
più gravi, da corpi contundenti, nel tentativo di stordire la vittima o vincerne la resi-
stenza; b) lesioni da eccitazione sessuale, quali ecchimosi da suzione, ecchimosi digitali
da palpamento, ferite da morso; c) lesioni da perversione sessuale, quali percosse o flagel-
lazioni; d) lesioni da tortura, come tagli, pizzicotti, ustioni da sigaretta, ecc.; e) lesioni da
congiunzione carnale: 1. deflorazione, consistente nella rottura dell’imene durante il pri-
mo coito completo. L’imene presenta spesso delle incisure congenite che ne interessano
il bordo senza arrivare alla base d’impianto; le rotture da deflorazione sono profonde,
e distribuite solo nella metà posteriore, si mettono bene in evidenza stirandolo ante-
riormente con adeguato strumentario o premendo anteriormente durante esplorazione
rettale. Le lesioni recenti comportano tumefazione, arrossamento, ecchimosi e mode-
sto sanguinamento, ma già dalla terza giornata cominciano a ripararsi, completando-
si il processo in 8-10 giorni. Sono possibili deflorazioni senza coito e, viceversa, coiti
senza deflorazioni per particolare elasticità della membrana; 2. lesioni da coito violento:
nella donna adulta si producono ecchimosi ed escoriazioni sulla mucosa del vestibolo o
sulle grandi e piccole labbra. Se il coito, anzichè violento, è abusivo, la normale lubrifi-
cazione evita lesioni dei genitali. Se il fatto è molto recente, si possono repertare tracce
di sperma in vagina, peli vulvari; è sempre opportuno prelevare campioni di secrezione
vulvo-vaginale per esami di laboratorio. Nella bambina stuprata, le lesioni sono molto
profonde e gravi, possono interessare la vulva, la vagina, il perineo, il retto, la vescica o
i fornici vaginali; frequenti le complicanze emorragiche o infettive, anche mortali. Al-

165
Criminologia ed elementi di criminalistica

tre volte, l’atto sessuale di un adulto con bambine si limita al coito vestibolare, in que-
sto caso i residui di sperma si possono trovare intorno ai genitali o sulle vesti. L’uso di
falli artificiali o di altri corpi estranei può portare a lacerazioni della mucosa vulvo va-
ginale o rettale anche in donne adulte (atti di libidine violenta); 3. lesioni da coito ana-
le: lo sfintere anale contratto offre notevole resistenza alla penetrazione, per cui, sono
frequenti ecchimosi escoriate della mucosa rettale, rottura di vasi emorroidari o addi-
rittura lacerazioni dello sfintere. Le lesioni più superficiali riparano in pochi giorni. Lo
sperma viene eliminato alla prima evacuazione spontanea dell’ampolla rettale; 4. Lesio-
ni da coito orale: la vittima è in genere ridotta all’impotenza psichica, per cui, assecon-
da l’aggressore; questo ha il duplice effetto di evitare lesioni orali alla vittima e genitali
all’aggressore. Lo sperma può essere deglutito o sputato, nonostante la pulizia orale è
possibile rinvenire spermatozoi nella saliva se il prelievo è effettuato entro alcune ore
dalla violenza; 5. Lesioni da rapporti carnali ripetuti: nella violenza carnale continuata si
potranno riscontrare lesioni ecchimotiche o ferite in stadi evolutivi diversi, soprattutto
per manovre sadiche da parte dell’aggressore, poichè in genere, dopo la prima violen-
za, subentra uno stato di apatia e di passività che non permette ulteriori tentativi di re-
sistenza. Per ciò che attiene l’autore della violenza, l’esame del presunto colpevole ha lo
scopo di accertarne le tendenze sessuali, le condizioni mentali e fisiche, la forza musco-
lare, l’idoneità al coito. Talvolta si rilevano lesioni lasciate sul suo corpo dalla reazione
della vittima. Un tempo la violenza carnale era un delitto compiuto da una sola perso-
na; oggi invece assume sempre più le caratteristiche di un crimine di gruppo.

7.5 Asfissia autoerotica (o asphyxophilia)


In ambito criminologico, l’asphyxophilia viene definita come un particolare tipo di
parafilia, e considerata una pratica estrema e pericolosa. Solitamente, viene impiegata
nell’auto-erotismo e si basa sul soffocamento/strangolamento, anche se, tale tecnica può
essere utilizzata nel sesso di coppia.
La pericolosità dell’asphyxophilia si concentra nel momento in cui l’azione non vie-
ne arrestata in tempo, dando luogo, per la vittima, a stati di incoscienza (per mancata
ossigenazione del cervello) e impedendo alla stessa di smettere tale gioco, che porta, in
numerosissimi casi, al c.d. decesso per asfissia.
Nel sesso di coppia, ha inizio con una fase definita soft, e con il tempo si arriva a
situazioni di cui si perde il totale controllo. Secondo recenti dati dell’OMS, ogni gior-
no, in tutto il mondo, 10 persone muoiono a causa di tali tecniche erotiche.
Ricompressa tra le parafilie, l’asphyxophilia consiste, pertanto, nel gratificarsi ses-
sualmente tramite auto-strangolamento o asfissia: uno studio compiuto dall’FBI ha
stimato che la morte per asfissia autoerotica costituisce il 31% dei moventi nelle im-
piccagioni di tutti i giovani adolescenti. Lo strangolamento o l’impiccagione (anche
incompleta) durante la masturbazione sembra che dia delle forti sensazioni erotiche.
Generalmente viene praticata stringendo il collo o infilandosi un sacchetto di pla-
stica in testa, o stringendo il collo in legacci da strangolamento, o, ancora, attraverso
l’induzione di corrente elettrica, areosol o propellenti vari di natura chimica.

166
Aggressività ed anormalità personologica

Le pratiche di asfissia autoerotica sono state documentate fin dal 1600, principal-
mente in Oriente e successivamente in Sud America: esse venivano anche utilizzate co-
me trattamento per disfunzioni sessuali e impotenza. Generalmente, nei casi di asfissia
autoerotica una caratteristica costante della vittima è la sua nudità: sono molto rari, in-
fatti, i casi in cui i soggetti erano vestiti; qualora ci si trovasse di fronte a casi di questo
genere, è più probabile che si tratti di un vero e proprio suicidio e non di un incidente
di percorso.
Molto spesso, vengono ritrovati sulla scena del crimine materiale pornografico o
abiti femminili, che, probabilmente, il soggetto indossa giocando il doppio ruolo del
sadico, che immagina di essere l’assassino, e di una personalità masochista, femminile,
in cui una donna viene torturata. Purtroppo, su queste scene, si notano, spesso, tracce
di tentativi o meccanismi di autosalvataggio, evidentemente falliti.
Tecnicamente, la sindrome dell’asfissia autoerotica viene descritta dagli esperti co-
me impiccagione eroticizzata e ripetitiva, meglio conosciuta, appunto, come asphyxophi-
lia.
Viene praticata sia da uomini che da donne; può essere la causa di una morte per
apparente impiccagione o per asfissia, senza prove evidenti di un omicidio e senza in-
dizi per avvalorare la tesi del suicidio.
Anche i serial killer si sono spesso interessati particolarmente a questa modalità
erotica, primo fra tutti, l’agente di polizia Gerard Schaefer, in forza nella comunità ru-
rale di Brevard, in Florida. Schaefer rapiva giovani autostoppiste che poi conduceva nel
bosco, immobilizzandole o legandole strettamente fino al sopraggiungere della morte,
associando le torture all’impiccagione; alcune delle vittime, abbandonate nel bosco, fu-
rono rinvenute in avanzato stato di decomposizione mentre altre, invece, erano mira-
colosamente sopravvissute.
Anche i Serial Killer John Gacy, Joseph Berdella e Gianfranco Stevanin erano dedi-
ti a questo tipo di pratiche utilizzate per la soppressione delle loro vittime, strangolan-
dole, soffocandole e, addirittura, in alcuni casi, anche fotografandole, per perpetuare
l’estrema eccitazione dell’attimo fatale precedente alla morte.
Un maschio, bianco, età intorno ai 25 anni, venne trovato morto nella sua stanza
d’albergo. Il cadavere era completamente nudo e in posizione supina, il capo era alzato
da terra, poiché una cordicella di cuoio era stretta intorno al collo e legata ad una ma-
niglia; intorno a lui vi erano delle riviste pornografiche. Un’attenta indagine medico
legale chiarì che non si trattava nè di suicidio, nè di omicidio.
Come è possibile che un medico legale o un investigatore si trovi davanti a una
morte, avvenuta apparentemente per impiccagione, o tecnicamente per asfissia, senza
prove evidenti di un omicidio e in privazione totale di indizi atti ad avvalorare la tesi
del suicidio? La spiegazione, per quanto drammatica e sconvolgente, è, in realtà, terri-
bilmente semplice: la vittima stava cercando solo una gratificazione sessuale attraverso
l’utilizzo di una pratica erotica piuttosto desueta, ma in netta crescita, e terribilmente
pericolosa, anche se esaltante.
Si pensi che il fenomeno ha registrato, solo negli Stati Uniti, 320 casi nel 2002, sa-
liti drammaticamente a quasi 1.000 casi nel 2004.
Naturalmente, per ovvi motivi, non sempre è possibile determinare con certezza le
reali cause della morte o identificare il numero esatto dei decessi riconducibili a questa

167
Criminologia ed elementi di criminalistica

categoria, il che spiega l’estrema flessibilità delle statistiche, ma appare evidente che la
tendenza è in costante aumento.
Non si conosce dunque il numero esatto delle persone decedute nel corso del-
l’espletamento di tali pratiche erotiche, né il numero di soggetti che ne fanno regolar-
mente uso, ma si sa per certo che il fenomeno interessa comunemente maschi compre-
si nell’età adolescenziale tra i 12 e i 25 anni, per almeno il 71% dei casi accertati. Gli
aspetti medico legali che possono indurre gli investigatori a sospettare eventuali casi di
morte per autoasfissia erotica sono generalmente: strangolamento, impiccagione, le-
gacci da strangolamento, soffocamento e compressione del petto, e, più genericamente:
decessi sospetti avvenuti per infarto, colpo apoplettico o assideramento, che potrebbero
parimenti essere riconducibili alle più comuni pratiche autoerotiche.
Ultimamente, le modalità di esecuzione di queste particolari attività di autograti-
ficazione sessuale vengono parificate anche a una serie di fenomeni minori, tutti estre-
mamente pericolosi e in grado, se applicati in mancanza di condizioni di sicurezza, di
condurre alla morte del soggetto per: compressione del collo o del torace, esclusione
dell’ossigeno, chiusura delle vie aeree, elettrocuzione e inalazione di gas, assunzione di
veleni, eccitanti, sedativi o dopanti, miscugli di sostanze tossiche o non tossiche ma pe-
ricolose se mischiate assieme, somministrazione incontrollata di anestetici, bondage o
giochi erotici estremi di ruolo e di coppia.
Per quanto macabro possa sembrare, la diffusione massima di questa pratica si eb-
be quando, all’epoca delle impiccagioni, vennero notate nei cadaveri degli impicca-
ti tracce di erezione, e in alcuni casi anche di eiaculazione, sopravvenuta al momento
contestuale della morte.
Poi spiegato scientificamente, il fenomeno venne originariamente collegato alla
carenza di ossigeno e allo stato di asfissia che è legato all’impiccagione, anche se tutti i
patologi sanno che è cosa piuttosto comune riscontrare nei cadaveri, anche in assenza
di morti asfittiche, alcune gocce di sperma sull’orifizio uretrale, dovute semplicemente
alla paresi e al rilassamento post-mortem degli sfinteri.
Questo genere di pratiche, comunque, ebbe originaria diffusione in Oriente e in
Sud America; in India, ancora oggi, sono frequenti i giochi erotici tra bambini messi
in atto tramite soffocamento o impiccagione, e anche la letteratura non ha mancato di
dare il suo contributo, con opere quali Justine del Marchese de Sade, Billy Budd di Mel-
ville, e Godot di Beckett. Risale al 1856, invece, la prima pubblicazione scientifica sul-
l’argomento a firma dello psichiatra francese De Boismont, che riscontrava come circa
il 30% dei casi sospetti di adolescenti o adulti maschili deceduti per impiccagione era
legato a manifestazioni evidenti di erezione o eiaculazione.
In seguito, nel 1928, un’enciclopedia austriaca pubblicò la voce penis strangulation,
come pratica di asfissia autoerotica.
Successivamente, fu Bloch a descrivere le pratiche di soffocamento delle donne
durante i rapporti sessuali, e fu Ellis a narrare dell’impulso di strangolare l’oggetto di de-
siderio sessuale.
Gonzales, Vance e Helpburn furono i primi a introdurre l’argomento in ambito
forense.
Nel 1953, Stearn pubblicò uno studio effettuato su una casistica di 97 suicidi av-
venuti nel Massachusets tra il 1941 e il 1950, provando che 25 persone di quelle 97

168
Aggressività ed anormalità personologica

non avevano avuto alcuna intenzione di suicidarsi, ma erano piuttosto decedute nel
corso dell’espletamento di pratiche di asfissia autoerotica.
Successivamente, negli anni settanta, l’FBI commissionò un’apposita ricerca, ese-
guita dall’agente speciale Roy Hazelwood e dallo psichiatra Dr. Park Dietz, in collabo-
razione con la dottoressa Ann Burgess, i cui risultati vennero pubblicati nel libro Autoe-
rotic Fatalities, al momento, il trattato più completo ed esaustivo sull’argomento.
Originariamente, si pensava che questa pratica interessasse solo le fasce adolescen-
ziali, successivamente venne invece provato che, se pur con minore incidenza, il feno-
meno riguardava anche maschi in età adulta.
Uno dei casi più esemplificativi al riguardo concerne il caso di un maschio, adulto,
di 47 anni, divorziato, di professione dentista, rinvenuto cadavere nel suo studio con
una maschera da anestesia sul volto.
Anche le donne, che in un primo tempo si riteneva non fossero interessate dal fe-
nomeno, possono a volte essere dedite a questo tipo di pratica, che, per definizione, si
riterrebbe erroneamente maschile.
Caso esemplificativo quello di una donna di 35 anni, ritrovata impiccata nell’ar-
madio del bagno di casa sua: il cadavere, rinvenuto nudo in uno spazio angusto nei
pressi dell’anta dell’armadio, aveva i piedi appoggiati contro il muro ed era in posizione
prona, un vibratore ancora funzionante a contatto con la vagina della donna indirizzò
gli investigatori inizialmente verso altre piste, fino a quando la figlia, di soli nove anni,
della vittima testimoniò che erano sole in casa al momento del fatto.
In ogni caso, oggi, gli investigatori sanno che una nudità, completa o parziale, nei
casi di asfissia, strangolamento o impiccagione, può far propendere decisamente le in-
dagini verso la pista dell’asfissia autoerotica.
Confondono invece le statistiche: i casi in cui i parenti più prossimi, rinvenendo
il cadavere nudo, si affrettano a rivestirlo, inquinando le prove e modificando la scena
del crimine.
A volte, poi, la maggior parte delle morti autoerotiche sono caratterizzate da trave-
stitismo o masochismo; in questi casi, le vittime, eterosessuali e di sesso maschile, indos-
sano capi di abbigliamento femminile.
Si ipotizzano, allora, giochi di ruolo in cui il soggetto, indossando panni femmini-
li, simuli di immedesimarsi in una donna allo scopo di sdoppiarsi per creare una doppia
personalità, in cui, il lato maschile, di tipo sadico, possa infliggere punizioni erotiche al-
l’altra personalità, femminile, caratterizzata da un evidente masochismo, di modo che,
idealmente, è una donna ed essere torturata e seviziata.
Tracce di questa pratica, che non è mai stata riscontrata all’inverso, ossia casi di
donne travestite da uomini, si ritrovano nel film-cult, il Silenzio degli Innocenti.
Risale al 1994 un caso esemplificativo in questo senso: un ingegnere di 46 anni
viene trovato morto nella sua abitazione, appeso a un gancio e travestito da donna con
minigonna nera, collant e tacchi a spillo; nel video registratore, una cassetta hard che
riproduce la medesima simulazione, nell’esecuzione della quale, però, il malcapitato,
avrebbe avuto difficoltà a collegare il complicato marchingegno di cappi e nodi scorsoi,
inducendosi inconsapevolmente la morte.
Nel 1981, l’agente speciale dell’FBI, Roy Hazelwood, delineò le caratteristiche tipi-
che della scena classica di morte per asfissia autoerotica, che sono: prove di asfissia prodotte

169
Criminologia ed elementi di criminalistica

da strangolamento o impiccamento, posizione del corpo favorevole a causare la morte per


asfissia, indizi che la morte sia causata da un incidente o da un mancato funzionamen-
to dei mezzi di salvataggio, elementi sulla scena del crimine che provino un meccanismo
di autosalvataggio fallito, prove di attività sessuale solitaria, in mancanza dei quali si può
ipotizzare un omicidio, un suicidio assistito o un incidente occorso durante un rapporto
sessuale a due persone, prove di aiuti alla fantasia sessuali, pornografia o altro materiale
presenti sulla scena della morte, precedenti indizi di dedizione alla pratica autoerotica,
nessuna intenzione o motivazione apparente che possa giustificare il suicidio.
In questo senso, risulta particolarmente eclatante il caso di un cadavere rinvenuto
in un canale, di una donna morta per asfissia e annegamento. Il fidanzato della vittima,
arrestato, di soli 26 anni, dichiarò che la donna era morta per strangolamento duran-
te un gioco erotico di coppia, ma fu arrestato per omicidio perché la ragazza, in realtà,
aveva solo perso i sensi, trovando poi la morte per annegamento solo al momento in cui
l’indiziato tentava di occultarne il presunto cadavere gettandolo in un corso d’acqua.

7.6 Necrofilia e necrofagia


La necrofilia consiste essenzialmente nel realizzare la soddisfazione sessuale attra-
verso contesti di morte, che siano scene macabre o rituali ad essi legati o addirittura
contesti rappresentati proprio da un atto sessuale con il cadavere: a proposito di que-
st’ultima possibilità, in linea di principio, il necrofilo non è responsabile della morte
del partner.
Di fronte al cadavere, il soggetto affetto da tale parafilia, può masturbarsi o esige-
re, per il soddisfacimento della propria carica sessuale, una penetrazione giungendo co-
sì all’amplesso. L’elemento più che centrale in questa perversione è la deumanizzazione
del partner/vittima, elemento peraltro molto importante già per quanto riguarda il feti-
cismo; tale deumanizzazione non è altro che il tentativo complesso e contorto, da parte
del soggetto, di soddisfare la carica a riguardo di desideri impossibili. Relazionandosi
col cadavere, il soggetto annulla completamente il rischio di minacce o prepotenti sen-
si di colpa: così facendo, ossia raggiungendo l’amplesso con un partner deumanizzato,
può trasformare vecchie sconfitte infantili in momenti di trionfo e soddisfazione.
Certo è che la necrofilia può essere espressa a più livelli: attraverso la capacità im-
maginativa, e dunque rimanere fantastica, magari pagando una prostituta che si finga
morta; può essere vissuta attraverso un amplesso con oggetti inanimati tipo le bambo-
le gonfiabili. L’estremo è rappresentato dal realizzare, in pieno, tale forza sessuale, os-
sia procurandosi in qualche modo un cadavere oppure ‘generandolò’, ossia uccidendo
qualcuno a tal fine.
La gravità in chiave morale di questo disturbo, più che esplicarsi nell’immagine fi-
sica stessa di un atto sessuale consumato con un cadavere, può essere ben chiara, facen-
do alcune considerazioni: di solito, si parla di normalità delle condotte sessuali quan-
do il comportamento si svolge tra soggetti realmente consenzienti e non reca disagio,
sofferenza o problemi legali (nella cultura di riferimento) a nessuno dei partecipanti
all’attività, quando non rappresenta una condotta esclusiva svolta come una compul-

170
Aggressività ed anormalità personologica

sione e non interferisce con lo svolgimento di attività lavorative e/o sociali; allo stesso
modo, si definisce patologico, quando causa, anche ad uno soltanto dei partecipanti al-
l’attività, disagio, sofferenza, interferenze con le attività lavorative e/o sociali, quando
si compie come una compulsione, quando reca danni, quando causa problemi legali.
Vedendo così la questione, può sicuramente risaltare la macabra deumanizzazione del
partner che rende una tale scelta di condotta sessuale piena e colma di psicoticismo e
negazione del senso di realtà.
Freud suddivide le perversioni a seconda che sia mutato l’oggetto o la meta; è nella
prima categoria che egli include la necrofilia per la quale gli individui che pur preten-
dendo l’intero oggetto avanzano su di esso richieste ben determinate, strane o mostruo-
se, persino quella che debba essere un cadavere indifeso, e che tale rendono con crimi-
nale violenza per poterne godere. Freud sostiene, ancora, che proprio nel campo della
vita sessuale si incontrano difficoltà se si vuole tracciare un confine netto fra la mera
variazione all’interno dell’ambito fisiologico e i sintomi patologici. Tuttavia, certe per-
versioni dal punto di vista del contenuto, si allontanano talmente dalla normalità che
non possiamo fare a meno di dichiararle morbose, in special modo quelle nelle quali la
pulsione sessuale giunge nel superare le resistenze (pudore, disgusto, orrore, sofferenza)
ad atti stupefacenti (coprofilia, necrofilia).
Sembra quindi possibile dedurre, dalle parole di Freud, che le sole vere perversio-
ni siano queste, e ciò farebbe supporre che, proprio perché estreme, esse siano quan-
tomeno rare. Al contrario, anche queste vivono sempre presenti, anche se in parte ma-
scherate, in ognuno di noi. Questa affermazione tende ad essere provocatoria, ma ciò
non toglie che istinti necrofili, coprofili e cannibalici sono parte integrante della psi-
che umana.
Il mito, come sappiamo, è la rappresentazione di qualcosa che appartiene all’uma-
nità intera e la necrofagia è scritta nel mito: Zeus, figlio di Crono e di Rea, sarebbe sta-
to divorato come i fratelli, se la madre non lo avesse nascosto sul monte Ida. Se il mito
ci pare troppo lontano, basta cercare in epoche ben più recenti per ritrovare decine di
casi descritti e documentati anche in anni recentissimi.
Negli anni venti, Karl Denice, il cannibale della Slesia massacrò e divorò almeno
31 persone. In Germania, negli anni trenta, Peter Kuerten, il famoso mostro di Dus-
seldorf, assassinò nove bambine, delle quali bevve il sangue. In Russia, tra il 1978 e il
1990, Andrei Romanovich Chikatilo, soprannominato il mostro di Rostov, violentò,
uccise e in parte mangiò, 21 bambini, 14 bambine e 18 giovani donne. A Milwaukee,
alla fine degli anni ottanta, Jeffrey Dahmer, si cibò di almeno tre delle sue 17 vittime.
Nel 1995, i due fratelli Novinov, Anatolij di 23 anni e Andrij di 18, furono con-
dannati per aver ucciso e poi mangiato un vagabondo. “Non tutto − dichiararono al pro-
cesso - soltanto le parti più gustose”.
Le perversioni possono essere definite come comportamenti psico-sessuali che si
esprimono in forme atipiche rispetto alla norma. L’estensione di questo concetto è
dunque strettamente dipendente dal tipo di norma che si assume come criterio di rife-
rimento. Freud parla di completo sviluppo della libido che, dopo aver percorso la fase
orale, anale e fallica, si esprime in quella genitale come relazione eterosessule; defini-
sce perversa ogni condotta che si discosta dalla norma, o in ordine all’oggetto sessuale,
come nel caso dell’omosessualità, della pedofilia, della zooerastia, o in ordine alla zona

171
Criminologia ed elementi di criminalistica

corporea, quando il piacere sessuale è raggiunto con parti del corpo di per sé non depu-
tate all’esercizio della sessualità, o in ordine alla meta sessuale che può essere raggiunta
solo in presenza di condizioni di per sé estrinseche, come nel caso del feticismo, del tra-
vestitismo, della scopofilia, dell’esibizionismo, del sadomasochismo e simili.
Da questo repertorio, risulta che Freud limita il concetto di perversione alla sfera
sessuale ma solo perché ritiene che queste deviazioni, come nel caso dei disturbi dell’ali-
mentazione, dipendano dalle ripercussioni della sessualità sulle funzioni nutritive.
Assunta come norma l’organizzazione genitale, tutte le forme di regressione o di
fissazione a stadi precedenti, in cui la sessualità si esprime attraverso pulsioni parziali
strettamente legate alle diverse zone erogene, sono considerate perverse.
Naturalmente, se si considera la sessualità originariamente perversa in quanto non
si stacca mai completamente dalla sua origine, quando il piacere non era cercato in
un’attività specifica, ma annesso ad attività dipendenti da altre funzioni come l’alimen-
tazione, la defecazione, ecc., allora, è perversa ogni attività sessuale che non si sia defi-
nitivamente staccata dalla polimorfia che caratterizza la sessualità infantile.
Freud definisce la perversione come il negativo della nevrosi, nel duplice senso che
il perverso mette in atto impulsi che il nevrotico rimuove, e che di fronte all’angoscia, il
perverso, si difende regredendo a forme di sessualità infantile, mentre il nevrotico adot-
ta altre forme di difesa successive o sostitutive della regressione.
Il termine necrofilia fu coniato dal belga Guislain verso la metà del diciannovesi-
mo secolo per definire una categoria di alienati distruttivi e che in seguito fu applicato
a ogni tendenza manifesta a compiere atti sessuali con un cadavere.
Galimberti definisce la necrofilia come un investimento erotico di scene macabre
che approda a rituali con significati funerei ricercati, contemplati, e talvolta eseguiti,
fino a giungere, in casi più rari, a rapporti sessuali con cadaveri.
Per E. Fromm, la necrofilia va letta come la forma più radicale dell’aggressività
umana che si oppone alla biofilia o amore per la vita. Associata a pulsioni sadiche, la ne-
crofilia non è esente da un tratto feticistico nell’accezione del feticismo del cadavere.
Rientrano in questo quadro la necrofagia che induce a cibarsi dei cadaveri e il ne-
crosadismo che sembra più prossimo alla necrofilia che al sadismo, dato che la vittima,
per ragioni evidenti, non prova dolore, e consiste nella mutilazione e nello scempio di
cadaveri, con i quali si sono generalmente avuti in precedenza rapporti sessuali. A vol-
te, il necrosadismo sostituisce interamente l’amplesso; altre volte, invece, come nel caso
di Jack lo Squartatore, il necrosadismo si manifesta come fase conclusiva dell’assassinio
sadico.
Il termine necrofagia (o cannibalismo) si riferisce invece alla pratica reale o rituale
di mangiare la carne dei propri simili; nel mondo animale è noto nella mantide religio-
sa e in alcune specie di ragni.
Il termine cannibalico, in particolare, è stato adottato dalla psicoanalisi in riferi-
mento alla fase orale dello sviluppo libidico, e, più specificamente, alla componente sa-
dica presente in tale fase dove si assiste al desiderio di incorporazione dell’oggetto amato
che sarà sostituito, nel corso dell’evoluzione psicosessuale, dall’identificazione. L’incor-
porazione, o introiezione, rappresenta una forma di identificazione primaria analoga
a quella che caratterizza il cannibalismo dei primitivi, motivato, secondo Freud, dalla
credenza che assimilando in sé, mediante ingestione, parti del corpo di qualcuno, ci

172
Aggressività ed anormalità personologica

si impadronisce anche delle qualità che a costui erano proprie. Lo stesso significato di
appropriazione è attribuito da Freud al pasto totemico, compiuto agli albori della storia
dell’uomo, quando i figli si allearono tra loro e, dopo aver ucciso il padre che interdi-
ceva loro l’uso delle donne del clan, lo divorarono.
Il senso di colpa che ne seguì segnò la fine dell’orda primitiva e l’inizio dell’orga-
nizzazione sociale, della morale e della religione.
K. Abraham suddivide la fase orale in due sottofasi: di suzione, caratterizzata dalla
fusione di libido e aggressività, e di morsicamento e attribuisce l’aggettivo cannibalico
soltanto alla seconda, dove distingue un cannibalismo parziale da un cannibalismo tota-
le. Quest’ultimo senza alcuna limitazione, è possibile solo sulla base di un narcisismo
illimitato. In questo stadio è tenuto in considerazione soltanto il desiderio di piacere
del soggetto. L’interesse dell’oggetto non trova assolutamente considerazione; l’oggetto
viene distrutto senza alcuno scrupolo. Lo stadio del cannibalismo parziale porta anco-
ra in sé i chiari segni della sua origine dal cannibalismo totale, ma ne differisce anche
in modo radicale. Il primo inizio di considerazione dell’oggetto fa qui la sua comparsa.
Questo parziale riguardo è da considerare come primo inizio dell’amore oggettuale in
senso stretto, poiché significa l’inizio di un superamento del narcisismo. Aggiungiamo
subito che l’individuo, a questo stadio evolutivo, è ancora ben lontano dal riconosce-
re un altro individuo come tale accanto a sé, e dall’amarlo fisicamente o psichicamen-
te nella sua totalità. Il desiderio è ancora quello di prendere una parte dell’oggetto allo
scopo di incorporarlo; questo significa, nello stesso tempo, però, una rinuncia alla meta
puramente narcisistica del cannibalismo totale.
Anche Abraham afferma che gli stati più gravi di rifiuto dell’alimentazione del
melanconico rappresentano un’autopunizione per gli impulsi cannibaleschi, ma il suo
interesse per la rappresentazione cannibalica dell’oggetto perduto è rivolto al lavoro del
lutto in analogia alla concezione che il lutto, nella sua forma arcaica, si esprime nel di-
voramento dell’ucciso. Tuttavia, mentre con Abraham il gesto cannibalico viene esplora-
to soprattutto nel suo versante finalistico, con M. Klein, questo concetto è impiegato
soprattutto nell’area della patologia depressiva, dove la pulsione cannibalica, se è ec-
cessiva, è causa della melanconia: il processo fondamentale della melanconia, secondo
Freud ed Abraham, è quello della perdita dell’oggetto amato. La perdita reale di un og-
getto reale, o un evento analogo che abbia lo stesso significato, ha come risultato che
l’oggetto viene collocato nell’Io. A causa, tuttavia, di un eccesso di pulsioni cannibale-
sche nel soggetto, questa introiezione abortisce e ne consegue la malattia.
La fase cannibalesca è, quindi, la prima organizzazione della libido in cui l’attività
sessuale e il cibo non sono ancora differenziati e la meta sessuale consiste nell’incorpo-
razione dell’oggetto.
L’identificazione è la fase preliminare della scelta oggettuale: l’Io vorrebbe incorpo-
rare in sé tale oggetto e, data la fase cannibalesca, vorrebbe incorporarlo divorandolo.
L’aggressività mescolata alla pulsione sessuale è un residuo di appetiti cannibale-
schi a cui partecipa l’apparato di impossessamento che serve a soddisfare l’altro grande
bisogno (l’assunzione del cibo) ontogeneticamente più antico.
Freud sostiene che dei tre più antichi desideri pulsionali, cannibalismo, incesto e
omicidio, la nostra civiltà ha vietato a tutti solo il primo. Nel 1921, parlando dell’iden-
tificazione e del fatto che essa si comporta come un derivato della prima fase orale del-

173
Criminologia ed elementi di criminalistica

l’organizzazione lipidica, ricorda che il cannibale rimane fermo a tale stadio; egli ama i
nemici che mangia e non mangia se non quelli che in qualche modo può amare. Sartre
affermava che il più alto atto d’amore era divorare l’amato per portarlo in se per sempre.

174
CAPITOLO 8

Le teorie criminologICHE

8.1 Teoria delle aree criminali


Secondo questa teoria, è l’ambiente l’elemento fondamentale per la genesi di un
comportamento criminale; ed è da questa dimensione che risulta funzionale partire, ini-
ziando, in termini operativi, dall’indagine di determinate zone, nelle quali la percen-
tuale di criminalità è superiore ed evidente, ma, nonostante l’avvicendamento degli
abitanti, rimane persistente: questi ambiti vengono denominati aree criminali. Queste
sono rappresentate, in massima parte, da quartieri degradati, dove alta risulta essere
la domanda di assistenza economica e sociale, e dove le dimore sono eccezionalmente
gremite, a detrimento, evidentemente, delle condizioni generali di salubrità, nonché di
igiene. Nelle aree in questione, è, inoltre, maggiore la presenza di minoranze etniche e
di soggetti emarginati dalla società. Chi abita queste aree ha poche possibilità e facol-
tà di scelta, poiché l’unico modo di andare avanti è quello di adattarsi. Questi soggetti
rappresentano per la società un fattore degradante, ed è per tale motivo che vengono
respinti dal mondo evoluto; la società li ghettizza, negando qualsiasi forma di riscatto o
risocializzazione; ed ecco, allora, che l’unica forma di sostentamento, diventa l’attività
criminale generalizzata, con il compimento di fatti previsti dalla legge come reato, con
particolare riferimento ai furti, o alle rapine.
Laddove risulti maggiore il processo di industrializzazione, e quindi il controllo
istituzionale, minore sarà la densità criminale.
Al contrario, in Paesi dove regna l’oppressione e le condizioni socio-economiche
sono instabili, le aree criminali assumono proporzioni smisurate e diventano ingover-
nabili; quando a tali fattori si sommano odi razziali, scontento economico e mancato
riconoscimento dell’autorità di governo, prendono il sopravvento associazioni o bande
criminali che dettano le loro leggi, spingendo, in taluni casi, la popolazione ad azioni
di guerriglia o a vere e proprie guerre.

175
Criminologia ed elementi di criminalistica

8.2 Teoria della patologia sociale


Secondo questa teoria, la società risulta essere un insieme di parti tra loro integra-
te e in equilibrio.
è Talcot Parsons, teorico di origine americana e appartenente al c.d. Strutturali-
smo a porre le basi di uno studio più incisivo della società, rappresentando, inoltre, che
la socializzazione è strettamente legata al meccanismo di ruoli e di apprendimento.
Il ruolo viene inteso come un insieme di aspettative e di comportamento, legate a
posizioni sociali occupate da figure come i genitori, gli operatori amministrativi, e co-
sì via.
Parsons, vede la società, quindi, come un aggregato di ruoli, conferendone, poi,
alle istituzioni la metabolizzazione e l’apprendimento. I comportamenti devianti, se-
condo la visione del teorico americano, altro non esprimerebbero se non una patologia
di carattere sociale dovuta a una deficienza di apprendimento dei ruoli. Se la devianza
viene considerata come patologia individuale, secondo Parsons, si è in presenza di pa-
tologie mentali, che tendono a distorcere la percezione della realtà sociale, retta da un
equilibrio. I critici hanno ritenuto questa teoria apparentemente conservatrice, poiché
mancante di un’analisi efficace, nonché permeata di contraddizioni e conflitti. La teo-
ria è da ritenersi, comunque, interessante poiché, sotto l’ottica dei ruoli e delle conse-
guenti aspettative, è in grado di offrire singolari spunti di riflessione per ciò che attiene
la dimensione della strutturazione sociale.

8.3 Teoria dei conflitti culturali


Il punto di partenza di questa teoria è rintracciabile in quella che viene definita co-
me perdita di potere dei comuni sistemi di controllo sociale: quando un individuo si tro-
va al centro di sistemi culturali disuguali, è possibile che questi creino una sorta di in-
stabilità del singolo, spingendolo a una condotta deviante. Il problema riguarderebbe,
pertanto, quella generale mancata integrazione, da parte degli individui, causata dalla
necessità di dover vivere in uno spazio sociale connotato da valori e dinamiche ambien-
tali estremamente differenti e, soventemente, in contrasto con i propri; pertanto, que-
sti soggetti percepiscono una crisi di valori etici che, un tempo, dava loro la possibilità
di potere mettere a punto, e regolare, la propria condotta. Il vivere secondo due sistemi
culturali diversi si tradurrebbe, per il soggetto, in una situazione di incertezza, di disa-
gio, di insicurezza, esponendolo a un serio rischio di disadattamento che può portarlo
a comportamenti criminali, che avranno la duplice funzione di estinguere entrambi i
sistemi di valori, rimpiazzandoli con la propria cultura di carattere deviante. Quando
sarà la società a rigettare e discriminare l’ospite estraneo, unitamente alla sua originaria
cultura, allora, i conflitti culturali, denominati secondari, diverranno particolarmente
difficili.

176
Le teorie criminologiche

8.4 Teoria delle associazioni differenziali


Secondo questa teoria, attraverso l’interazione con altri individui, e quindi, me-
diante il processo comunicativo, verbale e non, è possibile, per Sutherland, apprendere
il comportamento criminale. Il meccanismo di apprendimento del crimine si attiva, in
particolar modo, all’interno di un micro-gruppo, connotato da relazioni interpersona-
li. Nelle associazioni differenziali, i normali mezzi di comunicazione (mass-media), che
non hanno la peculiarità di essere mezzi di relazioni interpersonali, ma impersonali,
sembrano, a tal fine, meno efficienti. Secondo questa teoria, l’apprendimento del cri-
mine comporta, altresì, l’apprendimento di tutte le tecniche connesse alla commissione
del crimine, incluse quelle relative ai comportamenti dell’autore.
Il soggetto, successivamente, orienterà la sua condotta in base alle interpretazioni
apprese, favorevoli o sfavorevoli, ed inerenti la codicistica legale. Quando all’interno
del gruppo dove vive, le caratterizzazioni favorevoli alla violazione della legge sono in
eccesso rispetto a quelle sfavorevoli, secondo Sutherland, un soggetto diviene crimina-
le. Un individuo, pertanto, diviene un criminale, non solo perché è stato in contatto
con modelli criminali, ma anche a causa di un isolamento dai modelli che criminali
non sono. Dovranno, altresì, essere tenuti in considerazione ulteriori elementi quali
l’intensità, la frequenza, la durata.

8.5 Teoria dell’identificazione differenziata


La teoria delle associazioni differenziali venne rielaborata − nel 1960 − da Glaser,
il quale, sulla base della teoria dei ruoli, convertì la teoria dell’associazione differenziale
in quella denominata dell’identificazione differenziata. Glaser, nella sua rielaborazione,
sosteneva che ai fini dell’apprendimento della criminalità risulta fondamentale l’iden-
tificazione con modelli criminali, più che l’associazione con tali modelli.
L’elemento fondamentale per la criminogenesi è, quindi, il meccanismo di identi-
ficazione, quale processo psichico; attraverso quest’ultimo, si tende, in maniera incon-
scia, a somigliare a certi modelli, selezionati come ideale del proprio Io.
Durante tale processo, l’individuo fa, conseguentemente, come propri, anche i va-
lori normativi ed etici associati a tale schema ideale introiettato. L’identificazione non
richiede un contatto interpersonale, poiché può avvenire anche verso modelli immagi-
nari o reali, con i quali non si è stati in relazione diretta. L’identificazione con soggetti
criminali può avvenire in diversi modi: a) a seguito di partecipazioni dirette ad associa-
zioni di delinquenti; b) mediante una stima positiva dei ruoli delinquenziali rappresen-
tati dai mass media; c) a seguito di una reazione negativa a energie che si oppongono
alla criminalità. In ultima analisi, la teoria di Glaser consente, in tal modo, di fare chia-
rezza sulle c.d. azioni criminali commesse da parte di soggetti che sono comunemente
inseriti in insiemi sociali non criminali.

177
Criminologia ed elementi di criminalistica

8.6 Teorie sottoculturali


Intorno al 1955, Choen enunciò la teoria delle sottoculture devianti, derivante da-
gli aspri conflitti tra classi superiori e classi inferiori della società. Il fulcro della teoria è
identificabile nell’aspirazione, da parte degli individui appartenenti alla classe proleta-
ria, di raggiungere le medesime mete culturali degli individui della classe sociale supe-
riore. La base di partenza dei primi è sicuramente quella di uno svantaggio. Choen era
convinto che tale aspirazione si traducesse in una reazione negativistica, in direzione di
quei valori che non possono raggiungere; pertanto, il negativismo innescherebbe mec-
canismi di reazione, connotati da atti criminali, quali il teppismo, gli atti vandalici, o
il generale distruttivismo. Choen ritiene trattasi di una specie di formazione reattiva, e
non un conflitto reale verso la cultura che domina.

8.7 Teoria dell’anomia secondo Merton e Durkheim


L’analisi del comportamento di soggetti che si trovano in differenti posizioni rispetto
alla pressione culturale indifferenziata, rappresenta per Merton, che appartiene al c.d.
movimento Strutturalista, un fondamentale punto di partenza per la spiegazione del
crimine.
Il meccanismo di adattamento a tali pressioni sarebbe produttivo, o meno, di com-
portamenti devianti.
Alla base dell’attività criminale, pertanto, è rintracciabile una disuguaglianza tra
mete culturali accettate e mezzi per guadagnarle; ciò porterebbe l’individuo ad una
condizione di anomia. Il concetto di anomia mertoniano è quindi differente da quello
di Durkheim.
Il soggetto che è sottoposto alla pressione culturale per il raggiungimento delle
mete, quali il denaro, il successo, il potere, e così via, in mancanza di mezzi per raggiun-
gerle, può, secondo Merton, porre in essere i seguenti comportamenti: 1. conformismo,
consistente nell’utilizzo di mezzi leciti che non danno, comunque, la possibilità di rag-
giungere le aspirate mete; 2. l’innovazione, che si connota, invece, per l’uso indiscrimi-
nato di mezzi, totalmente illegali per raggiungere le mete; 3. il ritualismo, secondo il
quale, si assiste a una concentrazione nel seguire in modo rituale i mezzi, senza aver cu-
ra degli obiettivi; 4. la rinunzia, che si attua attraverso una sorta di rifugio psicologico
nelle sostanze stupefacenti o nell’alcol; 5. la ribellione, costituita da una vera e propria
condanna ideologica dei mezzi e delle mete.
Secondo la visione del sociologo francese Durkheim, il crimine, invece, è un fatto-
re sociale la cui interpretazione è da riferirsi alla società, e, pertanto, dimora al di fuori
dalla coscienza dei soggetti.
L’emigrazione persistente di un gran numero di persone dalle campagne alle aree
urbane, a seguito dei vistosi processi di industrializzazione, ha portato gli individui a
transitare verso un nuovo sistema culturale, non più come quello rurale, basato su un
sistema collettivo, redistributivo, tradizionalista, bensì, verso quello fondato su una so-
lidarietà urbana, razionale, individualista, nonché industriale. Secondo Durkheim, ta-

178
Le teorie criminologiche

le transito porta i soggetti, soventemente, alla mancanza di norme, all’inadeguatezza o


all’incertezza delle stesse (anomia). Il meccanismo anomico, subito dai soggetti che si
trovano nel nucleo caratterizzato da spinte sociali e culturali contrastanti, favorirebbe,
in tali contingenze, il crimine. L’attualità di questa teoria è palese, poiché spiegherebbe
il transito dalla solidarietà organica a quella tipicamente meccanica, ancora presente in
alcuni spazi geografici.

8.8 Teoria dell’immunità differenziale


Nel saggio Lo stereotipo del criminale, Chapman rappresenta che la criminalità
nota non è collegata all’effettiva commissione dei reati. Secondo l’autore, esisterebbe una
discriminazione dei soggetti in base all’appartenenza alla classe sociale, al potere, alla
visibilità sociale.
Il soggetto appartenente a una fascia debole della società, deculturalizzata, povera,
godrebbe, pertanto, di una generalizzata e inferiore immunità ai meccanismi di selezio-
ne della rappresentazione sociale e del controllo istituzionale. Lo strumento per eccel-
lenza rilevatore, di tale differenza, è la statistica giudiziaria, che mostrerebbe una mag-
giore inclinazione al crimine da parte di classi certamente svantaggiate.

8.9 Teoria del numero oscuro


Di particolare attualità è la teoria del numero oscuro, formulata da Sutherland, a
cavallo tra gli anni ’40 e ’50. è importante sottolineare che le indagini criminologiche
compiute in quel periodo monitoravano i crimini commessi da classi svantaggiate o
povere, eludendo, al contrario, quelli perpetrati dai colletti bianchi, cioè da coloro che
occupavano, nella società, posizioni di rilievo. è bene notare che l’attenzione dei ricer-
catori e dell’opinione pubblica statunitense – nel dopoguerra – fosse unicamente orien-
tata all’approfondimento dello street crime (crimine da strada).
Gli studi di Sutherland mostrarono, nel tempo, che la teoria del numero oscuro
e dell’indice di occultamento relativo al rapporto tra reati conosciuti e reati commessi,
dovesse abbracciare, non una parte della società deviante, ma la maggioranza totale; da
ciò l’opportunità di indirizzare, in altro modo, gli studi sul crimine, introducendo, al-
tresì, nuovissimi parametri. Procedendo con la vecchia impostazione, le azioni criminali
immesse nelle statistiche ufficiali, secondo Sutherland, sarebbero solamente quelle ef-
fettivamente scoperte e denunciate all’Autorità Giudiziaria, ma che fornirebbero, però,
una quantificazione non completa e non rispondente al dato reale; le statistiche ufficiali
non contemplerebbero, pertanto, i crimini commessi dai colletti bianchi, poiché, non
sarebbero denunciati alla giustizia e non passerebbero al vaglio dell’opinione pubblica.
Particolare impulso, nell’ambito della teoria del numero oscuro, venne data all’atteggia-
mento della vittima, al suo ruolo, alla sua propensione alla denuncia, e ciò con partico-
lare riferimento alla stessa natura dei crimini subìti.

179
Criminologia ed elementi di criminalistica

8.10 Teoria dell’etichettamento


La teoria dell’etichettamento valuta il crimine come meccanismo di etichettamento
sociale. Tale meccanismo, che può pervenire, come ultimo stadio, alla costruzione del sé
deviante, è determinato da un intervento selettivo della società sullo stesso deviante.
Il percorso della devianza del soggetto è frutto di una progressiva costruzione in
base all’azione della società.
Lemert, ad esempio, opera una distinzione in due fasi: a) devianza primaria, che
rappresenta la fase vera e propria della commissione del crimine; b) devianza seconda-
ria, corrispondente alla fase di identificazione sociale. Lo status di criminale è, quindi,
il risultato finale di un processo di interazione tra l’aspetto psico-sociale dell’azione de-
viante e del suo attore, e l’effetto socio-psicologico della reazione sociale. Il deviante,
secondo Becker, è un individuo, cui questa etichetta è stata attribuita con esito posi-
tivo. Il suo indirizzo primario di ricerca è costituito dalle carriere devianti, quali arre-
sti ed etichettamenti sociali e pubblici, come elementi che spingono verso una nuova
identità. L’importanza del processo di etichettamento ha anche l’obiettivo di analizzare
le possibilità di reversibilità di una carriera deviante. Per gli studiosi dell’etichettamen-
to, il crimine è frutto di un sviluppo unidirezionale, come costruzionismo del crimine.
Secondo tale visione, l’uomo, apparirebbe scosso da ragioni esterne multifattoriali, evi-
denziandosi, così, una riduzione dell’importanza della capacità di selezione e pianifica-
zione volontaria della mente incidente, in ultima analisi, sul comportamento sociale.
L’individuo, secondo gli studiosi dell’etichettamento, penetrerebbe, pertanto, nei mec-
canismi di selezione sociale, solamente come mero oggetto di selezione.

8.11 Teoria della disorganizzazione sociale


La disorganizzazione sociale, secondo i sociologi polacchi Thomas e Znaniecki,
rappresenta il punto di partenza di attività criminose. La loro teoria prende spunto
dai fenomeni socio-culturali connessi all’immigrazione dei contadini polacchi negli
Stati Uniti. L’entrata in nuovo Paese, secondo i due studiosi, innescherebbe inevitabi-
li fratture e conflitti culturali, nonché disorientamento generalizzato. Il rapporto di-
sarmonico tra culture differenti e i disagi che vengono a crearsi hanno la peculiarità di
produrre, pertanto, disagi e tensioni, responsabili, in ultima analisi, di fenomeni e/o
comportamenti criminali, in particolar modo se una delle due culture appartiene ad
uno strato socio-economico di minore rilevanza. Questa teoria fonda i propri postu-
lati sulle trasformazioni sociali derivanti dalla rivoluzione industriale nel tessuto della
dimensione sociale.
Il processo di industrializzazione, e in particolar modo le fenomenologie sociali
strettamente collegate, quali l’emigrazione, la conseguente urbanizzazione, la caduta
della antecedente struttura a carattere agricolo, condurrebbero a pesanti fenomenolo-
gie di cambiamento e instabilità, elementi, questi, che determinerebbero un mancato
equilibrio di componenti, sui quali si fondava la precedente strutturazione dei sistemi
di controllo sociale.

180
Le teorie criminologiche

A ciò, va aggiunta la trasformazione economica, quella degli status, la repentina


miscellanea di popoli, valori, culture, costumi, abitudini, che conducono a una signifi-
cativa perdita di azione delle istituzioni indirizzate al controllo sociale.
In ogni tempo, comunque, qualsiasi mutazione dell’assetto sociale ha innescato
un gran numero di conflitti a causa dell’instabilità sociale e della perdita di riferimen-
to a un aggregato di norme, tendente a regolare numerosi aspetti della vita sociale; si-
stema inadeguato, oggi, tenuto conto delle trasformate condizioni sociali, e dei nuovi
rapporti formatisi.
Secondo la teoria della disorganizzazione sociale, l’esponenziale aumento di crimi-
nalità appare strettamente collegato e dipendente dal processo di industrializzazione,
dalla neo-organizzazione sociale e dal rapido succedersi di conflitti e da trasformate re-
gole di condotta: una dimensione di drammaticità e instabilità rintracciabile in Paesi
degradati, laddove, pallidi sono i tentativi di industrializzazione, e a cui sono legati lot-
te e rivolte sociali e/o politiche.
Da non trascurare l’impatto del singolo individuo in una società connotata da di-
sorganizzazione, da instabilità, da trasformazioni immediate: il soggetto perde la pos-
sibilità di autogoverno, di regolazione rispetto a norme di comportamento precedenti;
non riconosce più quei valori e quegli ideali costituenti l’impalcatura della sua vita e
della sua condotta, spingendosi verso un sistema disorganizzato ed incidente sulla sua
condotta.
Altro problema affrontato dagli studiosi riguarda l’esistenza, nella società, di con-
traddizioni normative: una società è disorganizzata poichè non educa i propri adepti agli
aggregati normativi fondamentali, spingendoli, senza rendersene conto, a comporta-
menti devianti, e ciò poiché sono le norme stesse a risultare contrastanti. Questo stato
di cose condurrebbe, sia i soggetti singoli, che le associazioni di individui, a tenere in
maggiore considerazione le influenze provenienti dai loro ambienti ed i loro interessi,
invece di perseguire il benessere generale.

8.12 Teoria delle aree naturali della criminalità


Secondo questa teoria, la criminalità sarebbe maggiormente presente in particolari
aree, laddove è alta l’immigrazione e dove maggiore è la disorganizzazione sociale.
Tali fenomenologie vennero osservate da numerosi sociologi, tra cui Burgess,
Park, Shaw, McKenzie. Secondo tale impostazione, pertanto, l’ambiente delle città
che presenterebbe tali caratteristiche si presterebbe a divenire motore criminogene-
tico. La teoria, nel tempo, subì forti critiche, poiché gli studi successivi mostrarono,
con evidenza, che tutte le aree urbane, al loro interno, erano connotate, in misura, più
o meno eguale, da fattori che potevano innescare comportamenti criminali. Inoltre,
in aree a bassa incidenza migratoria, la qualità dei reati compiuti era assolutamente
differente, sia sulla base delle caratteristiche degli autori, che su quella delle modalità
operative.

181
Criminologia ed elementi di criminalistica

8.13 Teoria delle tecniche di neutralizzazione


La valorizzazione dell’uomo come costruttore del proprio ambiente e del proprio
mondo, e come unico responsabile della propria devianza, fu il fondamento della teo-
rizzazione di David Matza (1969).
Secondo quest’ultimo, non può eludersi, comunque, in tale contesto, l’influen-
za della società che, attraverso i meccanismi sanzionatori ed etichettanti, punta a razio-
nalizzare la devianza del soggetto. A questo, però, secondo il teorico, è demandata la
funzione di reazione o rinnegamento del marchio di deviante impresso dalla società;
pertanto, il soggetto potrà operare la scelta di aderire all’etichetta o rimodulare, in ma-
niera totale, la propria identità, offrendo ai consociati un’immagine totalmente diver-
sa di sé.
Matza ritenne, comunque, che anche i peggiori criminali subissero l’influenza del-
le regole sociali e riuscissero a porre in essere i comportamenti criminali, grazie alla
loro capacità di neutralizzare la morale e le regole sociali, nonché il senso di colpa. Ciò av-
verrebbe tramite l’applicazione, ante delictum, di specifiche tecniche, quali il discono-
scimento della propria responsabilità, il definire minimo il danno provocato, la nega-
zione della parte offesa, la condanna di soggetti che condannano, il rifarsi a ideali più
eminenti.

8.14 Teoria delle opportunità differenziali di Cloward e


Ohlin

La teoria delle opportunità differenziali risulta particolarmente influenzata dalla


teorizzazione del Sutherland. Cloward e Ohlin, nell’esplicazione di tale teoria, acco-
starono sia la teoria dell’anomia di Merton che la teoria delle associazioni differenziali
dello stesso Sutherland. Fulcro fondamentale della teoria sarebbe la posizione che nello
spazio sociale occupa ciascun individuo, con particolare riferimento alle opportunità
legittime e a quelle illegittime.
I due teorici concordano nel ritenere che esista un’unica meta (o obiettivo) iden-
tificata nel successo economico e non un insieme di mete da raggiungere. Tale obiettivo
può essere raggiunto sia mediante le opportunità legittime che quelle illegittime.
Bisogna tenere conto, però, che gli individui si trovano a operare in sistemi di op-
portunità differenziali, che condizionano le loro preferenze ed i loro comportamenti;
pertanto, condizioni economico-sociali sfavorevoli si traducono in una restrizione delle
opportunità di affermazione e di promozione sociale. La diversa presenza di opportu-
nità illegittime in una definita area urbana determinerebbe la formazione di tre tipo-
logie differenti di sottoculture denominate rispettivamente come: 1. criminale (giovani
inclini a furti e rapine); 2. conflittuale (giovani inclini a danneggiamenti e vandalismo);
3. astensionistica (caratterizzata da alcolismo, tossicomania, partecipazione a gruppi di
tendenza eversiva).

182
Le teorie criminologiche

8.15 Teoria dello stimolo rafforzatore differenziato di


Burgess e Akers

Sulla fine degli anni ’60, Burgess e Akers, riformulando la teoria di Sutherland, in-
trodussero come elemento fondamentale il c.d. stimolo rafforzatore. Secondo gli autori,
il comportamento criminale è acquisito secondo i principi del comportamento operante
e l’apprendimento si verifica sia in situazioni non-sociali, che sono rafforzanti o discri-
minative, sia nell’interazione sociale in cui il comportamento di altre persone è raffor-
zatore o discriminativo nei confronti di quello criminale.
La teoria dello stimolo rafforzatore differenziato sostiene che un contesto non-socia-
le può rinsaldare una determinata scelta, e, dunque, può sviluppare la nozione, secon-
do la quale il crimine è acquisito solo attraverso l’interazione sociale. In accordo con
Glaser, Burgess e Akers individuano l’importanza nel meccanismo di apprendimento,
anche dei gruppi di riferimento che non sono direttamente in contatto con il soggetto,
ma filtrati dai normali mezzi di comunicazione, oltre a quelli primari e agli altri con i
quali si è intrinsecamente associati.

183
CAPITOLO 9

Criminologia e psicologia

9.1 Il contributo della psicoanalisi


La psicoanalisi può considerarsi, certamente, una delle prime scienze che si è po-
sta l’obbiettivo di fornire un paradigma interpretativo del crimine legato alla struttura
psicologica e ai meccanismi dinamici agenti nell’uomo. L’essere umano, secondo Freud,
sarebbe, per sua natura, antisociale, e si adeguerebbe ai dettami sociali solo per pau-
ra o per convenienza. L’antisocialità (e con essa i comportamenti criminali) sarebbe,
pertanto, la condizione originaria comune, pronta a manifestarsi in situazioni in cui
le inibizioni perdono la loro efficacia. Quando le pulsioni libidiche o aggressive dell’Es
riescono a sopraffare le opposte spinte della conformità sociale, messe in atto dal Su-
per-io, si innescano i comportamenti, da parte dell’individuo, contrari alla società e di
natura criminale.
In tale dimensione, assume un ruolo centrale il processo di identificazione con le
figure parentali, fondamentale, nell’ottica psicodinamica, per la realizzazione di una
struttura superegoica funzionale.
Secondo la prospettiva di Alexander e Staub (1929), il crimine è interpretabile se-
condo una riduzione dell’efficacia del controllo da parte del Super-Io. Tale circostanza
darebbe vita a varie forme di criminalità in base al livello di efficacia residuale del Su-
per-io. Nella delinquenza fantasmatica, ad esempio, è ancora possibile, nel soggetto, ar-
ginare le pulsioni antisociali dislocandole su azioni fantastiche (es. identificandosi con
il personaggio cattivo di un film). La delinquenza colposa, manifestata attraverso una
condotta imprudente che provoca disgrazie, può rappresentare una forma di disloca-
zione più complessa che provoca ugualmente il danno desiderato dall’Es, senza dover
rispondere alle controspinte del superego. Nella delinquenza nevrotica, il crimine rap-
presenta, viceversa, un sintomo della presenza di una situazione conflittuale profonda,
che vuole essere risolta dal soggetto, come nel caso della delinquenza da senso di colpa.
In tali forme di azione criminale, come sottolineato da Reik, il soggetto sentirebbe una
profonda angoscia dovuta al senso di colpa che scaturisce dai tabù del parricidio e del-
l’incesto, per cui il comportamento criminale e spesso la correlata ricerca di punizione

185
Criminologia ed elementi di criminalistica

possono evidenziare il bisogno di attenuare quel senso di colpa attraverso un crimine,


anche se, questa volta, concretamente commesso.
La delinquenza occasionale si verificherebbe in circostanze particolari (es. in caso
di delitti passionali), quando si delineano situazioni favorevoli allo svincolo dal con-
trollo del superego. Nella delinquenza normale, il Super-io perde completamente la sua
capacità di controllare le spinte pulsionali, e il comportamento criminale può emerge-
re con facilità. L’interpretazione psicoanalitica del crimine prende in considerazione
anche la maturazione e l’efficacia dell’Io, attribuendogli responsabilità nel comporta-
mento criminale, quando diminuisce la sua capacità di dilazionare le pulsioni. Anche
l’Es può rappresentare un elemento significativo nella criminogenesi, nella misura in
cui le pulsioni istintuali da esso prodotte risultano particolarmente virulente ed in-
contenibili.
Secondo le teorie comportamentistiche di stimolo-risposta, diversi stimoli e condi-
zionamenti ambientali, attraverso il meccanismo del rinforzo, radicano nell’individuo
quegli elementi direttamente correlati con il comportamento antisociale e criminale.
Nel 1939, Dollard, ad esempio, sosteneva che ogni forma di aggressione da parte
dell’uomo è legata a una precedente frustrazione di un bisogno importante. Nell’im-
possibilità di raggiungere il successo sociale, l’individuo può porre in essere forme di
aggressività verso la società (persone, beni individuali ecc.). Il ripetersi delle frustrazioni
costituirebbe, poi, un rinforzo per le risposte aggressive. (Ponti, 1990). Le teorie sulla
deprivazione relativa Lea e Young nel 1984, sviluppano il concetto di deprivazione re-
lativa, attorno al quale costruiscono un interessante quadro teorico. Gli autori ricon-
siderano i fattori eziologici (patologia, povertà, razza) che, però, non generano diretta-
mente negli individui una condizione di deprivazione e, quindi, non possono essere
associati direttamente al crimine. Tali circostanze possono, però, generare un generico
malcontento dovuto a un aumento delle aspettative, a fronte di insufficienti possibilità
di raggiungimento delle mete. La situazione di malcontento può generare, in seguito,
delle rappresentazioni individuali o sub-culturali di deprivazione relativa, ma tale pro-
cesso è frutto della costruzione e della significazione da parte dell’individuo. La depri-
vazione relativa rappresenta, quindi, non una mancanza materiale, ma la significazione
della mancanza con caratteri negativi (presenza di un processo di significazione) che
genera il malcontento. (De Leo, Patrizi, 1999). I primi studi moderni sulle correlazio-
ni tra personalità e crimine sono ad opera dello studioso belga Etienne De Greeff. La
personalità costituisce, per De Greeff, una disposizione prefissata a reagire in un certo
modo a uno stimolo, e deriva dall’insieme delle esperienze passate. De Greeff (1947),
studiando la criminogenesi, ha individuato dei tratti tipici della personalità criminale,
fra cui merita attenzione il c.d. silenzio affettivo di alcuni delinquenti che, secondo l’au-
tore, deriva dal loro sentimento di essere stati sottoposti a un’ingiustizia. De Greeff,
per spiegare il comportamento criminale (la criminodinamica) introduce il concetto di
stato pericoloso, che è costituito da una fase di equilibrio psichico instabile nel soggetto
che precede l’esecuzione di un crimine. L’autore formula anche il concetto di passaggio
all’atto, fase in cui la situazione precipita e avviene l’esecuzione del delitto.
Analizzando la criminodinamica degli omicidi, De Greeff nota, ad esempio, tre fa-
si identificabili che precedono l’ideazione del crimine. La prima fase, definita del con-
senso mitigato, la fase dell’assenso formulato, e la fase del periodo di crisi.

186
Criminologia e psicologia

Nella fase del consenso mitigato possono emergere dei segnali che anticipano l’even-
to criminale; nella fase dell’assenso formulato, si riscontrano, talvolta, comportamenti
offensivi, di tipo legale, di tipo verbale, od omissioni; nella fase del periodo di crisi, il
soggetto coscientizza la necessità di passare all’atto ed entra nello stato pericoloso che
condurrà al crimine.
Un altro interessante contributo allo studio personologico dei delinquenti è sta-
to fornito da Pinatel (1968), che individua un nucleo centrale della personalità di ta-
luni criminali, costituito da quattro tratti fondamentali: l’egocentrismo (che consente
di ignorare i giudizi); la labilità emotiva (che consente di non tener conto delle con-
seguenze del crimine); l’aggressività (che consente di effettuare talune azioni criminali
e superare gli ostacoli) e l’indifferenza affettiva (che consente di ignorare le sofferenze
della vittima). Tra i contributi più recenti, riportiamo quello di Frechette e Le Blanc
(1987) che delineano una sindrome della personalità criminale, rappresentata da una
specifica struttura psicologica, che, in alcuni individui, si sovrappone ad altre struttu-
re di personalità, favorendo l’acting out. La sindrome, comprende tre tratti: l’iperattivi-
tà delittuosa, la dissocialità e un notevole egocentrismo. Le Blanc e Frechette affermano
che, nei delinquenti di spessore elevato, i fattori sociali ed ambientali ingeriscono con
il comportamento, ma sempre mediati dai tratti della sindrome della personalità crimi-
nale. Yochelson e Samenow (1976) sostengono che i tratti di personalità del delinquen-
te sono in realtà presenti in forma attenuata in tutti gli uomini. è la presenza intensa
di tali tratti che determina una specifica personalità criminale. I due autori statuniten-
si affermano che la mente del delinquente possiede generalmente una grande energia,
e presenta della caratteristiche ricorrenti: facilità di eccitamento, fantasie di dominio, di
potere e di trionfo, paura diffusa e persistente, sospettosità. Un’altra condizione tipica del
pensiero criminale è costituita, per Yochelson e Samenow, dallo stato zero, durante il
quale, nel soggetto, si rilevano una scarsa autostima e una sensazione di disperazione,
unite a sentimenti di superbia e ricerca spasmodica del potere. L’unione di questi fat-
tori sarebbe in grado di spingere alcuni criminali verso la ricerca del dominio e dell’il-
legalità. Le ricerche di Pinatel sono state sottoposte a verifica da Canepa (1974), che
ha condotto uno studio su un campione di delinquenti recidivi mediante colloqui e
strumenti psicodiagnostici, cercando di localizzare i tipici tratti di personalità. La ricer-
ca ha fornito poche conferme all’ipotesi di Pinatel. Altre indagini (Favard 1985) non
sono riuscite a determinare se i tratti di personalità tipici rappresentino una particolare
intensità di tratti diffusi in tutti gli individui e, soprattutto, se tali tratti siano la causa
o semplicemente l’effetto di una vita da delinquente.

9.2 La teoria analitica di C.G. Jung


Il pansessualismo freudiano, caratterizzato dalla concezione per cui, al centro del
comportamento psichico degli esseri viventi, vi è l’istinto sessuale, venne sostanzialmente
rifiutato da Jung. Nella concezione junghiana dell’uomo, invece, il tratto caratteristi-
co più importante è la combinazione della casualità con la teleologia. Il comportamento
dell’uomo non è condizionato, soltanto, dalla sua storia individuale e di membro della

187
Criminologia ed elementi di criminalistica

razza umana (casualità), ma anche dai suoi obiettivi e dalle sue aspirazioni (teleologia).
Sia il passato come realtà, sia il futuro come potenzialità, governano il nostro compor-
tamento presente.
Jung sostiene che entrambi le posizioni sono necessarie in psicologia per giunge-
re a capire perfettamente la personalità. Il presente, infatti, è determinato non solo dal
passato (casualità), ma anche dal futuro (teleologia). Un atteggiamento puramente ca-
suale conduce l’uomo alla disperazione, perché lo rende prigioniero del passato. L’at-
teggiamento finalistico, invece, dà all’uomo un senso di speranza e uno scopo per cui
vivere. La concezione junghiana della personalità considera la direzione futura dell’in-
dividuo e, nello stesso tempo, è retrospettiva, nel senso che si rifà al passato. Jung, vede
nella personalità dell’individuo il prodotto e la sintesi della sua storia ancestrale. Egli
pone l’accento sulle origini razziali dell’uomo. L’uomo nasce già con molte predisposi-
zioni trasmesse dai suoi antenati e queste lo guidano nella sua condotta. Quindi, esiste
una personalità collettiva e razzialmente preformata che è modificata ed elaborata dalle
esperienze che egli riceve.
La personalità consta di un certo numero di istanze e sistemi separati ma intera-
genti. I principali sono: l’Io, l’inconscio personale e i suoi complessi, l’inconscio collettivo
e i suoi archetipi, la persona, l’animus e l’anima, l’ombra: 1) l’Io è la mente cosciente; 2)
l’inconscio personale è formato dalle esperienze che sono state rimosse, represse, dimen-
ticate o ignorate, e da quelle troppo deboli per lasciare una traccia cosciente nella per-
sona; complessi: il complesso indica un contesto psichico attivo i cui elementi molteplici
(sentimenti, pensieri, percezioni, ricordi) sono unificati dalla comune tonalità affetti-
va. Un esempio è il complesso materno; 3) l’inconscio collettivo appare come il deposito
di tracce latenti provenienti dal passato ancestrale dell’uomo. Esso è il residuo psichi-
co dello sviluppo evolutivo dell’uomo, accumulatosi in seguito alle ripetute esperienze
di innumerevoli generazioni. Così, dal momento che gli esseri umani hanno sempre
avuto una madre, ogni bambino nasce con la predisposizione a percepirla e a reagire
ad essa. Tutto ciò che si impara dall’esperienza personale è sostanzialmente influenzato
dall’inconscio collettivo che esercita un’azione diretta sul comportamento dell’indivi-
duo sin dall’inizio della vita; 4) l’archetipo è una forma universale del pensiero dotato
di contenuto affettivo. Tale forma di pensiero crea immagini o visioni che corrispon-
dono, nel normale stato di veglia, ad alcuni aspetti della vita cosciente. Il bambino
eredita una concezione preformata di una madre generica, che, in parte, determina la
percezione che egli avrà dalla propria madre. In tal modo, l’esperienza del bambino è la
risultante di una predisposizione interna a percepire il mondo in un determinato mo-
do e dell’effettiva natura di tale realtà. Vi è, di regola, corrispondenza tra le due deter-
minanti, poiché l’archetipo stesso è un prodotto delle esperienze del mondo compiute
dalla razza umana, e tali esperienze sono in gran parte simili a quelle di ogni individuo;
5) la persona è una maschera che l’individuo porta per rispondere alle esigenze delle
convenzioni sociali. è la funzione assegnatagli dalla società, cioè il compito che essa at-
tende da lui. Questa maschera, spesso, nasconde la vera natura dell’individuo. La per-
sona è la personalità pubblica, quegli aspetti che si palesano al mondo o che l’opinio-
ne pubblica attribuisce all’individuo, in opposizione alla personalità privata che esiste
dietro la facciata sociale; 6) l’anima e l’animus: l’archetipo femminile nell’uomo è detto
anima, quello maschile nella donna animus; 7) l’ombra, è costituita dagli istinti animali

188
Criminologia e psicologia

ereditati dall’uomo nella sua evoluzione. Di conseguenza, l’ombra, simboleggia il lato


animale della natura umana.
Nella teoria della personalità di Jung, occupa un posto centrale il Sé, che è il pun-
to centrale della personalità, intorno a cui si raggruppano tutti gli altri sistemi; esso li
mantiene uniti e conferisce alla personalità l’equilibrio, la stabilità e l’unità.
Il Sé è lo scopo della vita, un fine per cui l’uomo lotta costantemente, ma che di ra-
do riesce a raggiungere. Jung concepiva la personalità o psiche come un sistema dotato
di energia e parzialmente chiuso, perché a esso si deve aggiungere l’energia proveniente
da fonti esterne, per esempio dal mangiare. Per spiegare la dinamica della personalità,
Jung ricorre, come Freud, al concetto della libido, ma, mentre per Freud la libido è un
concetto collettivo delle tendenze sessuali dell’uomo, per Jung, il termine libido è si-
nonimo di energia psichica e a seconda che la libido sia diretta preminentemente verso
l’interno o verso l’esterno. Jung opera, inoltre, una interessante distinzione tra intro-
versione ed estroversione. L’atteggiamento introverso tende ad orientare la sua energia psi-
chica verso il mondo interiore (pensieri ed emozioni), mentre l’atteggiamento estroverso
orienta la sua energia verso il mondo esteriore (fatti e persone). Ambedue questi oppo-
sti atteggiamenti sono presenti nella personalità, ma, di regola, uno di essi è dominante
e cosciente, mentre l’altro è subordinato e inconscio. Vi sono quattro funzioni psicologi-
camente fondamentali: il pensiero, il sentimento, la sensazione e l’intuizione. Ciascuna
di queste funzioni ci consente di adattarci al mondo e alla vita. Il pensiero utilizza dei
processi logici; il sentimento utilizza dei giudizi di valore; la sensazione percepisce i fat-
ti e l’intuizione percepisce le possibilità presenti dietro i fatti; il pensiero è intellettivo,
con esso, l’uomo cerca di comprendere la natura del mondo e se stesso; il sentimento è
il valore delle cose in rapporto al soggetto; la sensazione ha la funzione percettiva, ap-
porta fatti o rappresentazioni concrete del mondo. L’intuizione è la percezione attra-
verso processi dell’inconscio; l’uomo intuitivo va al di là dei fatti e costruisce elaborati
modelli della realtà.
Il pensiero e il sentimento sono denominati funzioni razionali, poiché fanno uso del
ragionamento. La sensazione e l’intuizione sono funzioni irrazionali, perché basate sulla
percezione del concreto e del particolare.
Nell’individuo, sono presenti tutte e quattro le funzioni ma, di regola, una delle
quattro è altamente differenziata e svolge un compito preminente nella coscienza ve-
nendo, così, denominata funzione superiore. La meno differenziata delle quattro è det-
ta funzione inferiore, ed è rimossa e inconscia; essa si esprime nei sogni e nelle fantasie.
Jung fondò le sue concezioni psicodinamiche su due principi fondamentali: il principio
di equivalenza e quello di entropia. Il primo asserisce che se un valore diviene più debo-
le o scompare, la quantità di energia a esso legata non andrà perduta per la psiche, ma
riapparirà in un nuovo valore. L’indebolimento di un valore si accompagna inevitabil-
mente al sorgerne di un altro (la fine di un hobby sarà in genere compensata dal sor-
gere di un altro).
Il principio di entropia afferma che la distribuzione di energia nella psiche tende a
un equilibrio o armonia. Fra due valori di diversa forza, l’energia tenderà a passare dal
più forte al più debole fino a raggiungere uno stato di equilibrio. Tutta l’energia psichi-
ca di cui la personalità dispone viene utilizzata per due fini generali. Una parte è spe-
sa nell’esecuzione del lavoro necessario al mantenimento della vita e alla propagazione

189
Criminologia ed elementi di criminalistica

della specie: queste sono funzioni istintive. L’energia eccedente quella utilizzata dagli
istinti può essere impiegata in attività culturali e spirituali. Per Jung, lo sviluppo può
svolgersi in senso progressivo o regressivo. Per progressione, Jung intende un soddisfa-
cente adattamento dell’io alle richieste dell’ambiente esterno e ai bisogni dell’inconscio.
Se un evento frustrante interrompe il movimento progressivo, la libido non potrà più
essere investita in valori orientati verso il mondo o estroversi, di conseguenza, regredi-
rà verso l’inconscio, legandosi a valori introversi. Tuttavia, Jung ritiene che uno sposta-
mento in senso regressivo non debba avere necessariamente effetti negativi permanenti:
esso infatti può aiutare l’Io a trovare il modo di aggirare l’ostacolo e riprendere il suo
cammino.
Il fine ultimo dello sviluppo è rappresentato dall’autorealizzazione. Per raggiungere
tale scopo è necessario che le diverse istanze della personalità si differenzino ed evolva-
no completamente. Una personalità sana ed integra si otterrà solo consentendo a ogni
istanza di raggiungere il più alto grado di differenziazione e di sviluppo. Il processo at-
traverso il quale si raggiunge tale stato è detto processo di individuazione. La funzione
trascendente è in grado di conciliare gli indirizzi opposti dei diversi sistemi e di operare
per il raggiungimento del fine ideale della totalità perfetta. L’energia psichica può esse-
re spostata, cioè trasferita da un processo di un dato sistema ad un altro processo dello
stesso o di un sistema diverso. La sublimazione è lo spostamento dell’energia dai pro-
cessi primitivi, istintivi e meno differenziati, a processi altamente spirituali, culturali e
maggiormente differenziati.

9.3 La psicologia del comportamento


Nato negli Stati Uniti negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mon-
diale, il behaviorismo, come nuovo indirizzo, venne fondato da J. B. Watson, con il suo
manifesto del 1913, Psychology as a Behaviorist Views It “La psicologia esaminata da un
behaviorista”.
In realtà, all’alba dell’opera di Watson, le concezioni behavioristiche avevano ini-
ziato a fare la loro comparsa nella psicologia americana attraverso l’opera di alcuni stu-
diosi di psicologia animale comparata come E. L. Thorndike e R. M. Yerkes.
Quest’ultimo, inoltre, divulgando agli americani, nel 1909, il lavoro di Pavlov sui
riflessi condizionati, aveva contribuito, in modo determinante, al volgersi del pensiero
americano in tale prospettiva. Spetta però a Watson il merito di aver sintetizzato e reso
esplicito quello che era l’orientamento di molti. Il behaviorismo di Watson può essere
sintetizzato in pochi punti: a) lo psicologo deve prendere in esame il comportamento, e
cioè le risposte esplicite che l’organismo dà a determinati stimoli ambientali; b) tutti gli
eventi interni possono essere ignorati senza alcuna perdita per la scienza; c) l’introspezione
(che, particolarmente nella psicologia europea, era stata sino ad allora il principale stru-
mento d’indagine) deve essere abbandonata, risultando mancante del fondamentale re-
quisito dell’osservabilità e della controllabilità interpersonale. Per comportamento, Watson
intendeva ogni movimento muscolare, o secrezione ghiandolare, o attività bioelettrica
del sistema nervoso, che fosse comunque osservabile. La psicologia doveva allora diven-

190
Criminologia e psicologia

tare la scienza delle connessioni tra stimoli ambientali e risposte, connessioni, che i pri-
mi behaviorismi concepivano soprattutto in termini di riflessi condizionati. L’influenza
dell’opera di Watson fu enorme, specialmente negli Stati Uniti (in Europa l’eco fu mino-
re e vi furono serrate polemiche contro il behaviorismo soprattutto da parte degli psico-
logi della Gestalt). L’estremo radicalismo della posizione di Watson non era però accetta-
bile e, dopo questa prima fase di behaviorismo, cosiddetto ingenuo, negli anni ‘20 e ‘30,
le concezioni behavioristiche ricevettero una nuova sistemazione a opera di altri autori.
Tra questi, particolare importanza si attribuisce a B. F. Skinner, che evidenziò la
necessità di distinguere il comportamento rispondente da quello operante: il primo, quale
frutto di riflessi innati o condizionati con un meccanismo pavloviano ed evocato dagli
stimoli appropriati (elicitato) indipendentemente dalla volontà del soggetto; il secon-
do, frutto di condizionamento operante, in cui, a differenza del pavloviano, l’apprendi-
mento si crea per associazione tra stimolo e risposta, e non tra due stimoli. Un notevole
apporto teorico fu fornito da C. Hull, che formulò una serie di postulati (la cui dimo-
strazione deve stare alla base dello studio del comportamento), e dai suoi collaboratori
della Scuola di Yale, in particolare da K.W. Spence, che pose l’accento sulla necessità di
studiare le variabili intervenienti, poste tra stimolo e risposta, nascoste nel sistema ner-
voso dell’organismo, come costrutti ipotetici che possiamo dedurre dal comportamen-
to in presenza di determinati stimoli.
E ancora, seppure in una posizione distaccata rispetto agli altri behavioristi, da cui
fu spesso accusato di mentalismo, E. C. Tolman, secondo il quale, il comportamento è in-
tenzionale (purposive behavior), in quanto, l’organismo (anche quello animale) appren-
de che un certo complesso di stimoli (segno) è legato a un altro complesso (significato),
determinandosi, così, una mappa cognitiva di situazioni ricorrenti. Questa fase, detta
del neo-b, pur non essendosi ancora esaurita (vitali sono ancora le scuole di Skinner e di
Spence), è stata seguita dopo la II guerra mondiale da una nuova fase, denominata da
Berlyne, del cenobehaviorismo. Tale fase è stata, comunque, contrassegnata da una serie
di apporti di diversa natura, ma anche di interpretazioni diverse, da autore ad autore,
tanto da render difficile darne un quadro riassuntivo globale. Questi apporti possono
essere comunque così sintetizzati: 1) la considerazione delle nuove scoperte che veniva-
no realizzate in campo neurofisiologico, e in particolare quelle sull’attività del sistema
reticolare e sull’arousal; 2) la scoperta delle opere di Jean Piaget, sino allora, per mo-
tivi prevalentemente linguistici, pressoché sconosciuto agli studiosi nordamericani, e
la conseguente rivalutazione della considerazione evolutiva nello studio del comporta-
mento; 3) la conoscenza del lavoro compiuto tra le due guerre dagli studiosi russi, che,
pur senza contatti con il mondo occidentale, si erano mossi in una direzione, sotto certi
aspetti, analoga a quella dei seguaci del behaviorismo.
A tali apporti, va aggiunta la profonda influenza che hanno avuto sulla psicologia,
soprattutto nordamericana, la cibernetica, la teoria dell’informazione, la teoria statisti-
ca della decisione e, più di recente, la linguistica, in particolare, l’opera di N. Chomsky
(pur essendo il pensiero di questo studioso criticato spesso dai behavioristi per il suo
innatismo).
Il panorama teorico si è venuto così articolando maggiormente, e si è fatto più
complesso e, se la collocazione di alcuni autori in questa corrente di pensiero è relativa-
mente agevole, per altri, soprattutto per quelli che hanno reagito al b. di tipo watsonia-

191
Criminologia ed elementi di criminalistica

no e al neo-b. di tipo hulliano o skinneriano, rivalutando l’importanza dei processi co-


gnitivi, il problema è più delicato. Così, da un lato, vi è l’opera di autori come il citato
Berlyne e lo psicologo canadese D. O. Hebb, su cui ha avuto un’influenza predominan-
te la neurofisiologia, vista però, non in senso riduzionistico ma funzionale. Dall’altro,
vi sono stati contributi di varia natura; particolarmente significativa a questo proposito
l’opera di Miller, studioso, soprattutto, del linguaggio e della teoria dell’informazione,
che, in collaborazione con uno psicologo matematico, E. Galanter, e uno psiconeurolo-
go, K. H. Pribram, ha dato vita con Plans and the Structure of Behavior (Metodi e strut-
tura del comportamento) ad una delle più importanti opere teoriche della psicologia
contemporanea, in cui, nell’ambito dello studio del comportamento, si rivalutano i proces-
si cognitivi e si rifiuta una concezione dell’uomo semplicistica in puri termini stimolo-
risposta. E ancora, significativa nella stessa prospettiva, è l’opera di Broadbent, che con i
suoi studi sull’attenzione, ha dimostrato i limiti che ha l’organismo umano nell’elaborare
le informazioni che gli provengono dall’ambiente. La scuola behaviorista, sino agli anni
Sessanta, aveva esercitato un dominio, pressoché assoluto, sulla psicologia sperimentale,
perdendo, in seguito, la propria centralità; in generale, la maggior parte dei ricercatori
aderisce oggi ad altre correnti di pensiero, prima tra tutte, il cognitivismo. La polemica
tra questa impostazione e il behaviorismo è particolarmente vivace, e verte, soprattut-
to, sulla liceità di studiare i processi mentali, negata dai behavioristi, che ritengono che
lo studio dello psicologo debba limitarsi al comportamento, e che parlare di mente sia
fare della metafisica e non della scienza. Va però detto che molti cognitivisti sostengo-
no l’esistenza di una continuità fra le proprie posizioni e quelle del behaviorismo, e ri-
tengono che la loro psicologia sia un rinnovamento del behaviorismo stesso. La crisi del
behaviorismo ha comunque avuto come effetto una sostanziale modificazione del cam-
po di ricerca della psicologia. Tipico esempio ne è la profonda modificazione degli stu-
di sull’apprendimento che costituivano gran parte della ricerca behaviorista, e che oggi
sono affrontati in modo abbastanza diverso, con un certo abbandono delle tematiche
del condizionamento. A fianco a questa crisi si assiste, però, alla rinascita di alcune ap-
plicazioni derivate dal b., e, in particolare, della cosiddetta behavior therapy (terapia del
comportamento). Tale sviluppo si ha anche in Italia, dove opera un gruppo abbastanza
numeroso di psicologi behavioristi (E. Caracciolo, P. Meazzini, e così via).

9.4 L’integrazione psico-ambientale


La criminogenesi è stata individuata, dalle varie teorie criminologiche, sia nelle ca-
ratteristiche dei singoli individui, che nei fattori sociali. Negli anni ‘50 e‘60 si tentò di
considerare, congiuntamente, l’individuo ed il suo contesto sociale: questo tentativo ca-
ratterizzava la dimensione dell’integrazione individuo/ambiente. Se l’ambiente veniva
ritenuto quale fattore criminogeno, l’obiettivo era quello di giungere alla spiegazione
del perché non tutti gli individui reagivano allo stesso modo ai fattori criminogeni le-
gati al loro ambiente e alle loro condizioni socio-economiche; analogamente, altro que-
sito riguardava la circostanza per la quale soggetti con uguali caratteristiche abnormi di
personalità non divenissero tutti delinquenti.

192
Criminologia e psicologia

Il problema fondamentale, pertanto, era quello di capire tale difformità di com-


portamento. Le riposte giungevano dalle varie discipline, e ognuna di esse elaborava
teorie, cercando, al contempo, di individuare elementi psicologici, sociologici, psichia-
trici, che giustificassero tali difformità di condotta. Rimaneva, comunque, il quesito in
ordine alla condotta normale, posta in essere da soggetti multiproblematici.
Importante, inoltre, era comprendere quanto il fattore individuale e quanto quello
sociale potessero incidere nella condotta criminosa.

9.5 La teoria non direzionale dei Glueck


La ricerca effettuata dai coniugi Glueck, nel 1950, rappresenta una fase decisiva
per la criminologia, anche se, successivamente, è stata criticata e replicata con metodi
diversi; si ricorda quella effettuata a Portorico, nel 1975, da parte di Ferracuti, Dni-
tz, e De Brenes (Bandini, Gatti, Marugo, Verde 1991). I coniugi Glueck effettuarono
il loro studio su un campione di 500 giovani delinquenti e 500 non delinquenti, tut-
ti però simili per età, gruppo etnico, estrazione sociale e culturale, e aspetto economi-
co, toccando tutti i punti delle loro vite, e, dunque, gli aspetti biologici, sociologici e
psicologici. Non essendo possibile, in questa sede, riportare interamente i risultati del-
la loro ricerca, ci si soffermerà su quelli che più da vicino interessano, e cioè i risultati
che riguardano i rapporti parentali, e quelli che riguardano la personalità dei giovani
intervistati. La prima parte della ricerca, che riguarda i rapporti e l’inserimento dei gio-
vani, delinquenti e gruppo campione, all’interno della famiglia, si apre con i risultati
che riguardano la struttura familiare e la sua genesi, per verificare le conseguenze del-
l’influenza dell’ambiente familiare sul futuro comportamento e sulla futura personalità
dei soggetti analizzati. Preme sottolineare che le famiglie d’origine dei due gruppi non
erano diverse: stesso numero di componenti, stessa estrazione socio-culturale, e, soprattutto,
i soggetti provenivano tutti da ambienti poveri e degradati. In primo luogo, fu rileva-
to che in un quarto delle famiglie paterne dei delinquenti, contro meno di un quinto
dei non delinquenti, erano presenti gravi turbamenti emotivi o disturbi della persona-
lità: psicosi, psiconevrosi, epilessia, omosessualità; i dati si eguagliavano (o quasi) per le
famiglie di provenienza dei padri, mentre, per le madri, risultava che le metà di quelle
dei delinquenti, contro un terzo di quelle dei non delinquenti, proveniva da famiglie
con casi di alcoolismo. Per quanto riguarda il fattore criminalità, esso risultava presente
nelle famiglie di provenienza dei delinquenti, da uno a tre membri, contro un numero
molto esiguo per le famiglie di provenienza dei genitori dei non delinquenti. Per quanto
riguarda l’istruzione, entrambi i gruppi, provenivano da famiglie con un basso grado di
istruzione. Anche nella genesi delle famiglie di appartenenza vi erano delle eguaglian-
ze; le madri dei soggetti appartenenti ad entrambi i gruppi risultavano essersi sposate
prima dei 21 anni, anche se, qualche differenza affiorava: 4 matrimoni su 10, contro 3
su 10 dei non delinquenti, risultavano forzati; inoltre, le madri dei delinquenti, in misu-
ra molto maggiore rispetto a quelle dei non delinquenti, avevano sofferto di malanni
fisici, sviluppo mentale ritardato, alcolismo, e avevano commesso reati sin dal periodo
adolescenziale. Gli stessi problemi e le stesse differenze erano affiorate dal raffronto tra

193
Criminologia ed elementi di criminalistica

i padri dei ragazzi. Si è detto che l’estrazione socio-economica delle famiglie era, in en-
trambi i casi, bassa, nonostante ciò, nel gruppo dei delinquenti, i padri, in rapporto di 5
a 1, risultavano essere dei cattivi lavoratori, cioè soggetti pigri, svogliati, poco interes-
sati al lavoro, ed inclini a cambiarlo spesso. Inoltre, 4 famiglie su 5, contro 1 su 5 dei
non delinquenti, erano costrette a chiedere un aiuto esterno per risolvere i problemi
economici. Risulta evidente che, seppur i soggetti dei due gruppi fossero stati scelti in
un contesto di base simile, alcune differenze affioravano nella formazione e nella genesi
delle famiglie dei delinquenti, rispetto a quelle dei non delinquenti.
Famiglia: in questa parte della ricerca, vennero valutati aspetti che riguardavano
più da vicino la vita all’interno della famiglia dei due gruppi. In primo luogo, risultò che
le famiglie dei delinquenti tendevano molto di più a vivere alla giornata, contraendo con-
tinui prestiti e spendendo molto più di quello che guadagnavano; mancava, dunque,
un’oculata gestione familiare. Inoltre, guardando al decoro familiare, e cioè all’ambizio-
ne delle famiglie, la volontà di migliorarsi, la presenza del senso della responsabilità, e
la difesa del buon nome della famiglia, risultarono presenti solo in 1 su 10 delle famiglie
dei delinquenti, contro le 4 su 10 dei non delinquenti. Per quel che riguarda il rapporto
tra i genitori, risultò che esso era buono solo in un terzo delle famiglie dei delinquenti,
contro due terzi di quelle dei non delinquenti, ed inoltre, in 1 su 3 delle famiglie dei de-
linquenti, contro 1 su 7 di quelle dei non delinquenti, la crisi familiare era sfociata in un
abbandono del tetto coniugale da parte di uno dei due genitori, quasi sempre il padre.
In entrambe le famiglie, le madri si occupavano direttamente della gestione del focolare
domestico, ma in maniera molto diversa; ragazzi privi di appoggio domestico risultava-
no molto più numerosi tra i delinquenti, solo meno di 1 madre su 10 risultò schiava dei
divertimenti collettivi; regolari abitudini di questo tipo esistevano solo in 11 delle 500
famiglie di provenienza dei non delinquenti, contro le 50 dell’altro gruppo.
Ed ancora, solo in 2 famiglie su 10 dei delinquenti gli amici dei figli erano ben ac-
cetti in casa, contro un terzo di quelle dei non delinquenti; inoltre, nelle case delle fami-
glie dei delinquenti erano assenti i mezzi di svago per i ragazzi, come giocattoli o libri, ed
in generale, fu rilevato che solo in 20 delle 500 famiglie dei delinquenti era presente un
qualunque mezzo di svago, contro il 69% delle famiglie dei non delinquenti. Infine, per
quel che riguarda il senso di solidarietà familiare, esso era presente in meno di 2 famiglie
su 10, contro le 6 su 10 per i non delinquenti. Prima di soffermarsi sulla vita dei ragazzi
all’interno della famiglia, i Glueck, aprirono questa parte della loro ricerca con dei dati
di statistica anagrafica. Da ciò, si dedusse che 2 delinquenti su 10, contro 1 su 10 per i
non delinquenti, erano stati concepiti fuori dal matrimonio, e inoltre 6 ragazzi su 10, in
entrambi i gruppi, avevano un genitore nato all’estero. Le famiglie dei delinquenti erano
solo di poco più numerose rispetto a quelle dei non delinquenti, 7 membri in media con-
tro 6, ma, nelle prime, era più frequente il caso di seconde nozze di uno dei genitori, e
quindi della presenza di fratellastri e sorellastre. Negli alloggi dei delinquenti, si notava,
però, maggiore affollamento, con soggetti che vivevano, dormivano e mangiavano nella
stessa stanza, dunque, con una maggiore presenza di competizione emotiva per attirare
l’attenzione dei genitori, e una situazione di promiscuità sessuale più diffusa.
Per quel che riguarda l’ordine di nascita dei soggetti delinquenti, non furono rile-
vate differenze statistiche interessanti, e, dunque, i delinquenti non erano, come buona
parte della dottrina sosteneva, più numerosi tra i primogeniti o gli ultimogeniti.

194
Criminologia e psicologia

La stabilità della famiglia è un altro parametro particolarmente importante per una


normale crescita psicologica. Dalla ricerca risultò che la maggior parte dei ragazzi de-
linquenti aveva avuto esperienze di vita disorganizzata, circa il 50% contro il 10% dei
non delinquenti; inoltre, 6 famiglie su 10 dei delinquenti, contro le 3 su 10 dell’altro
gruppo, furono sciolte da separazione, divorzio, abbandono improvviso di uno dei co-
niugi o morte di uno di essi. La rottura del nucleo familiare venne valutato con attenzio-
ne, poiché era già noto che sarebbe potuto risultare particolarmente traumatizzante per
il ragazzo vivere la scissione parentale; dai dati si evinceva che solo meno della metà dei
ragazzi delinquenti aveva potuto sperimentare la vita in una famiglia stabile, mentre per
la maggior parte di loro la vita fu trascorsa in una famiglia spezzata, se non addirittura
inesistente. Infine, furono valutati, per quel che riguarda i rapporti tra genitori e figli,
i legami affettivi all’interno della famiglia e l’interessamento dei genitori per i figli. In
primo luogo, si accertò che solo 4 su 10 padri dei delinquenti, contro 8 su 10 dell’altro
gruppo, erano affettuosi e comprensivi con i propri figli, e così anche le madri, 7 su 10
per i delinquenti, contro il 95% per i non delinquenti. Al contrario, fu notato, però,
che 4 madri su 7 per i delinquenti, contro 1 su 7 per i non delinquenti, erano eccessi-
vamente protettive verso i figli, innescando un particolare processo di dipendenza, insi-
curezza e deresponsabilizzazione. Per quel che riguarda l’affetto dei figli nei confronti dei
genitori, come era prevedibile, i delinquenti, in numero molto maggiore, dichiararono
di non sentire un particolare legame affettivo nei confronti dei genitori. Infine, nelle fa-
miglie dei delinquenti, fu anche riscontrata la mancanza di un modello educativo stabi-
le, costante ed univoco; nella maggior parte dei casi, i ragazzi erano solo puniti, spesso
in maniera violenta, per le loro malefatte, senza che poi gli fosse spiegato quello che era
giusto fare e quello che era ingiusto o illecito.
Intelligenza e criminalità: il test utilizzato per misurare il Q.I. (quoziente intellet-
tivo) dei ragazzi fu il Wechsler-Bellevue, che misura il quoziente globale, ma divide
anche l’intelligenza in due campi, quello pratico e quello verbale, permettendo un’ana-
lisi più approfondita dei soggetti. Per quanto riguarda i risultati generali, non furono
riscontrate differenze tra i due gruppi: in entrambi i casi furono rilevati dai 140 ai 150
ragazzi che avevano un Q.I. da 90 a 100, e dai 346 a 359 ragazzi che avevano un Q.I.
da 60 a 90. Maggiori differenze furono riscontrate nel rapporto tra gli usi che i due
gruppi facevano dell’intelligenza verbale e di quella esecutiva o pratica. L’aspetto ver-
bale del processo intellettivo riguarda l’uso dell’intelligenza astratta, e cioè la capacità
di ragionare, riflettere, ricordare, essere logici. In questo campo, i delinquenti mostra-
rono maggiori carenze, che non potevano essere spiegate solo con una minore propen-
sione agli studi. In ogni caso, le differenze rilevate furono comunque minime, tanto
da non poter definire i delinquenti meno intelligenti dei non delinquenti, ma forse uti-
li per poter affermare che i ragazzi delinquenti erano portati a prediligere e sviluppare
un’intelligenza diversa da quella verbale. Infatti, nei test che riguardavano l’intelligenza
nell’esecuzione, e cioè l’aspetto pratico dell’intelligenza, i due gruppi si eguagliavano,
ed anzi, in alcune prove, i delinquenti risultarono più veloci e pronti dei non delin-
quenti. Questi risultati furono comunque l’ulteriore conferma che non esiste correla-
zione tra deficit mentale e delinquenza.
Dinamiche emotive: in questo campo, risultò che solo il 15% dei delinquenti, con-
tro il 31% degli altri, si sentiva adeguato nel comportarsi e nell’esprimersi, al contrario

195
Criminologia ed elementi di criminalistica

fu riscontrato nei delinquenti una percentuale maggiore, 28% contro 14%, di sogget-
ti tendenti all’attività e al dinamismo. I sintomi del comportamento aggressivo erano
presenti in numero molto maggiore tra i delinquenti, mentre l’estroversione, intesa
come acting out, era presente nel 59% dei delinquenti, contro il 29% dei non delin-
quenti; la stabilità emotiva era riscontrata nel 18% dei delinquenti contro il 50% dei
non delinquenti.
Tendenze estetico-appetitive: più numerosi risultarono i delinquenti con spiccata
tendenza alla sessualità precoce e promiscua, 20% contro 6%, ed anche quelli tenden-
ti all’avidità, 21% contro 14%.
Orientamento della personalità: i dati ci dicono che solo il 25% dei delinquenti,
contro il 49% del gruppo di controllo, risultava essere convenzionale in tutti gli aspet-
ti della propria vita, e che solo il 9% dei delinquenti, contro il 54% dei non delin-
quenti, risultò essere coscienzioso. Molto scarsi tra i delinquenti anche i soggetti reali-
stici, 8% contro 29%, e i soggetti pratici, 19% contro 35%. Inoltre, fu riscontrata nei
delinquenti una quasi totale mancanza di autocritica, accompagnata da uno spiccato
egocentrismo.
Conflitti emotivi: traumi, paure, angosce, sensi di colpa e frustrazioni erano pre-
senti nel 75% dei delinquenti contro il 38% dei non delinquenti. Il piano emotivo dal
quale sorgevano, in massima parte, tali conflitti era il rapporto con il padre, 23% con-
tro 5%, e dall’incapacità dei ragazzi delinquenti di costruirsi una sana identificazione
sessuale, 30% contro 12%. Risultavano, al confronto, quasi assenti i conflitti esterni
alla famiglia, anche se il 33% dei delinquenti, contro il 18% dei non delinquenti, era
afflitto da un conflitto d’inferiorità fisico e psichico.
Metodologia di risoluzione dei conflitti: fu appurato che il 68% dei delinquenti,
contro il 31%, era solito risolvere i propri problemi riversandoli all’esterno, inoltre,
come gruppo, i delinquenti risultarono quasi immuni al senso di responsabilità, e ten-
denti all’acting out immediato, quando la pressione e l’ansia iniziavano a salire. Il mec-
canismo preferito per i non delinquenti risultò invece essere quello opposto, e cioè l’in-
troversione, 42% contro il 5% dei delinquenti.
Carattere e delinquenza: la prima parte della perizia psicologica e psichiatrica del-
la ricerca è stata integrata da una seconda parte che riguardava il carattere ed il tempe-
ramento dei soggetti analizzati. Il metodo d’indagine utilizzato fu la somministrazione
del test di Rorschach, utilizzato, anche oggi, nelle perizie psichiatriche e psicologiche.
I risultati furono divisi in varie categorie. In questo quadro furono valutati i seguenti
parametri: a) l’autoaffermazione, cioè la facoltà di affermare la propria personalità, le
proprie esigenze e la propria opinione in modo diretto ma senza aggressività esagerata.
Questo tratto fu riconosciuto in meno di un decimo dei delinquenti, e solo in un pic-
colo numero dei non delinquenti; b) l’affermazione sociale, cioè la volontà di affermarsi
nell’ambiente sociale. Questo tratto fu riscontrato nel 45% dei delinquenti e nel 27%
dei non delinquenti; c) la sfida, cioè un meccanismo reattivo, una forma di afferma-
zione aggressiva dell’Io in risposta ad un senso profondo di debolezza e insicurezza; d)
la remissività, cioè la rinuncia all’affermazione a tutti i costi del proprio sé, nel ten-
tativo di raggiungere la sicurezza sottomettendosi all’altrui autorità; questo tratto fu
riscontrato nel 27% dei delinquenti e nel 80% dei non delinquenti; e) il senso di insi-
curezza, cioè quella vaga impressione di non aver fatto presa sulla vita, fu riscontrato

196
Criminologia e psicologia

in maniera uguale, o quasi, in entrambi i gruppi, 89% dei delinquenti contro 96%
dei non delinquenti; f ) il senso di non essere amati e desiderati. Questo sentimento, an-
che se solitamente represso o inconscio, può condurre ad un eccessivo bisogno di at-
tenzione e dunque ad un forte desiderio di successo e riconoscimento. Anche questo
fattore fu riscontrato in percentuali molto elevate e pressoché identiche in entrambi i
gruppi, 92% dei delinquenti contro il 97% dei non delinquenti; g) il senso della pro-
pria nullità, cioè la sensazione per cui i nostri pensieri, sentimenti ed idee non sono
riconosciuti come validi o interessanti, fu riscontrato nel 59% dei delinquenti contro
il 64% dei non delinquenti, anche il senso di non essere apprezzati, molto simile co-
me concetto al precedente, risultò essere presente nel 36.1% dei delinquenti, contro il
24.5% dei non delinquenti; h) sentimenti che indicano una resa o una sconfitta. Questi
elementi si riscontrarono in percentuale molto maggiore tra i non delinquenti, e in-
fatti il senso di impotenza si riscontrò nel 42% dei delinquenti contro il 54% dei non
delinquenti, mentre il senso di insuccesso e di sconfitta fu riscontrato nel 44% dei
delinquenti contro il 63% dei non delinquenti; i) tendenze narcisistiche furono riscon-
trate nel 23% dei delinquenti contro il 14% dei non delinquenti; tendenze masochi-
stiche, si ritrovarono nel 15% dei delinquenti contro il 37% dei non delinquenti; l)
tendenze sadiche, si riscontrarono nel 49% dei delinquenti contro il 16% dei non de-
linquenti; m) la tendenza all’acting out fu riscontrata nel 44% dei delinquenti contro
il 19% dei non delinquenti; n) il potere di autocontrollo fu riscontrato nel 39% dei de-
linquenti contro il 66% dei non delinquenti. Le vere e proprie psicopatologie come:
psicosi, nevrosi, monomanie e forme schizofreniche furono riscontrate solo in pochissimi
soggetti che appartenevano al gruppo dei delinquenti, ma il dato statistico risulta ir-
rilevante. Con questi ultimi dati sulla presenza di vere e proprie patologie mentali si
chiude il dato psicologico della ricerca Glueck. Tale studio resta documento fonda-
mentale nella ricerca criminologica, anche se, successivamente, non mancarono cri-
tiche sui metodi scelti per eseguirlo, e soprattutto chiarisce che, sotto l’aspetto stret-
tamente psicologico, non esistevano differenze enormi tra i due gruppi analizzati. Le
differenze che infatti i ricercatori rilevarono non furono tali da poter affermare che il
crimine è una prerogativa di psicopatici e menti patologiche, né che i delinquenti siano
così diversi dai soggetti che non delinquono, e né che esistono dei tratti di personali-
tà specifici del crimine, sottolineando, dunque, che la psicologia di un criminale resta
dato fondamentale per comprendere i suoi atti, ma da integrare in una multidiscipli-
narietà auspicabile anche negli studi moderni.

9.6 La teoria dei contenitori


La teoria del controllo sociale, o teoria dei contenitori, di W. C. Reckless (1961)
rappresenta un tentativo di integrazione dei fattori individuali e ambientali della devian-
za. Essa considera in modo specifico l’azione dei controlli interni ed esterni, capaci con-
giuntamente e vicendevolmente, di regolare la condotta umana.
I contenitori interni, quelli, cioè, legati alla struttura dell’individuo, sono responsa-
bili dell’adeguamento del comportamento agli stimoli socio-ambientali e sono rappre-

197
Criminologia ed elementi di criminalistica

sentati da un buon autocontrollo, da un buon concetto di se stessi, dall’alta tolleranza


alle frustrazioni, dalla capacità di socializzazione, dal senso di responsabilità, dall’abilità
a trovare soddisfazioni sostitutive, dalle razionalizzazioni idonee a ridurre la tensione.
I contenitori esterni, di tipo normativo-culturale, costituiscono il freno che agisce
nell’immediato contesto sociale del soggetto, e che gli permettono di non oltrepassare
il limite normativo. Essi sono rappresentati dalle aspettative sociali, dalla sorveglianza
ed efficacia dei sistemi di controllo sociale, dalle opportunità di sfoghi alternativi, dalle
opportunità di consensi nel proprio ambiente, dall’identità e dal senso di appartenen-
za a un gruppo. A questi, si aggiungono la famiglia e gli altri gruppi di rinforzo (istitu-
zioni, apparati di prevenzione e repressione, ecc.), normalmente preposti al controllo e
al contenimento dell’individuo. La carenza di contenitori interni o esterni costituisce, per
il soggetto, un elemento di vulnerabilità che rende conto, nel singolo caso, delle ragio-
ni della condotta deviante. Per le evidenti correlazioni esistenti tra essi, la mancanza di
contenitori interni può essere compensata da un valido sistema di contenitori esterni e
viceversa. In ragione di questi freni, alcune ricerche hanno spiegato il livello particolar-
mente basso di criminalità di alcuni gruppi di immigrati degli anni ‘60 nei Paesi euro-
pei importatori di manodopera.
In una ricerca condotta sugli immigrati pakistani e indiani di Bradford, ad esem-
pio, si pervenne alla conclusione che le ragioni del loro basso livello delinquenziale erano
da ricercare nell’esistenza di comunità solidali e coese nelle quali essi vivevano. L’im-
portanza del consenso, dell’integrazione e dell’esistenza di persone significative di ri-
ferimento, fu riscontrata anche in una ricerca sugli immigrati italiani di Liegi. Secon-
do un altro studio, condotto a Ginevra nella prima metà degli anni ‘60, le possibilità
che un italiano commettesse un reato, variavano a seconda del grado di integrazione
sociale raggiunto. Gli immigrati italiani, infatti, potevano essere distinti in tre catego-
rie: una prima, della quale facevano parte i cosiddetti stagionali, coloro, cioè, che ogni
anno ritornavano in Italia per uno o due mesi; una seconda, nella quale rientravano
coloro che avevano un permesso di soggiorno, legati per un anno ad un lavoro fisso;
una terza, nella quale rientravano le persone con un permesso d’établissement, coloro,
cioè, di lunga permanenza (oltre dieci anni) che godevano di tutti i diritti dei cittadini
di quel Paese a esclusione dei diritti politici. Fu riscontrato che gli italiani appartenen-
ti alla prima e alla terza categoria commettevano reati meno frequentemente di quelli
della seconda.
Questo fu correlato al diverso grado di integrazione raggiunto: infatti, l’essere sta-
gionale garantiva loro un buon inserimento, quantomeno nella comunità dei loro con-
nazionali; viceversa, quando ottenevano un permesso di soggiorno, questi si trovava-
no nella fase più delicata dell’immigrazione in quanto si distaccavano, sempre più, dal
gruppo di origine, senza essersi ancora sufficientemente integrati nella società di acco-
glienza. Infine, dopo dieci anni, avevano ormai raggiunto un buon livello di integra-
zione nella nuova comunità. In altre parole, se gli immigrati italiani che violavano la
legge aumentavano, passando dagli stagionali a quelli con un permesso di soggiorno
valido un anno, per diminuire nuovamente fra i residenti ultradecennali, era anche per-
ché gli appartenenti alla prima e alla terza categoria godevano di più solidi legami con
la comunità (locale o di connazionali) circostante. La teoria del controllo sociale è stata
utilizzata anche per dare ragione del maggior tasso di criminalità degli immigrati della

198
Criminologia e psicologia

seconda generazione rispetto a quelli della prima. Anche in questo caso, la differenza
fu attribuita all’indebolimento dei fattori di contenimento della condotta deviante e,
in particolare, dei legami tra figli e genitori. La prima grande ricerca in merito fu con-
dotta nei primi decenni del secolo sui contadini polacchi immigrati negli Stati Uniti.
Si legge in questo studio che, quando questi vivevano nel loro Paese, erano organizzati
in famiglie forti e solidali e svolgevano la funzione educativa in modo molto più ricco
e meglio ordinato che in America. I figli venivano iniziati ben presto a tutte le attività
dei genitori e, in questo modo, assimilavano e imitavano in maniera irriflessa la loro
organizzazione di vita. Ma la situazione cambiava una volta giunti in America. I giova-
ni, sottoposti agli stimoli di una società più progredita, riducevano le partecipazioni al-
le attività dei genitori, apprendevano gli usi e i costumi della nuova società dalla vita di
strada e, spesso, erano essi stessi a fungere da mediatori tra la società circostante e i ge-
nitori. Così, veniva ad essere irrimediabilmente intaccata ogni autorità e controllo sui
figli che, anzi, quando entravano in contatto con la nuova realtà, si lasciavano sedurre
dai piaceri e dai desideri indotti da uno stile di vita completamente differente. In queste
condizioni, era naturale che, per ottenere ciò che soddisfacesse quei desideri e quei pia-
ceri, commettessero furti o rapine. Agli stessi risultati si giunse, qualche anno più tardi,
attraverso una ricerca effettuata sulle bande giovanili di Chicago.
Gran parte dei giovani che facevano parte delle centinaia di bande di quella cit-
tà provenivano da famiglie italiane, polacche, irlandesi, slave. Si sostenne che ciò era
dovuto alla progressiva perdita di controllo sui figli da parte degli immigrati, come del
resto era normale che accadesse in un ambiente sociale così diverso da quello origina-
rio. L’assimilazione troppo rapida e superficiale del modello americano aveva, di fatto,
accelerato la disintegrazione del controllo della famiglia sui figli e indebolito, di con-
seguenza, un importante contenitore della devianza. Non sono mancate, poi, ricerche
che hanno dimostrato il contrario e, cioè, che gli immigrati della seconda generazione
commettono meno reati di quelli della prima, anche se più frequentemente degli au-
toctoni. In questo caso, è stato dimostrato che le ragioni del minore tasso di crimina-
lità è da rapportare all’integrazione favorita dalle strutture istituzionali, quali ad esem-
pio, la scuola, che crea le condizioni favorevoli per ridurre gli svantaggi sociali iniziali
e rafforza i legami con figure significative di riferimento. Se, generalmente, la teoria del
controllo sociale arriva oltre il limite della teoria del conflitto culturale, anche per que-
sta, tuttavia, vi sono importanti obiezioni, in parte analoghe a quelle mosse per l’altra.
In primo luogo, la teoria del controllo sociale non riesce a dar conto delle trasformazio-
ni che nel corso del tempo hanno avuto i comportamenti devianti degli immigrati, né
tantomeno della differenza tra la devianza espressa dagli immigrati del Nord e quelli
del Sud del nostro Paese.
In secondo luogo, per comprendere gli effetti dell’indebolimento del controllo
sociale, sarebbe opportuno integrare detta teoria con i concetti di anomia, di stimolo-
risposta all’aggressione-frustrazione, di associazione differenziale, di identificazione dif-
ferenziale, secondo gli insegnamenti della sociocriminologia e nella prospettiva di una
devianza multifattoriale.

199
CAPITOLO 10

Il comportamento umano

10.1 Gli studi sul comportamento umano


La psicologia cognitiva, divenuta successivamente un movimento soprannominato
cognitivismo, è una branca della psicologia sperimentale che studia il comportamento e
la vita mentale. Il cognitivismo fonda la sua teoria a partire da un modello della mente
umana come elaboratore di informazioni provenienti dagli organi sensoriali. Il fine del-
la psicologia cognitiva è quello di coniugare lo studio del comportamento e delle capacità
cognitive umane con la riproduzione di questi mediante sistemi artificiali. Per ottene-
re questo risultato, la psicologia cognitiva è sostanzialmente interdisciplinare, poiché si
avvale dei metodi, degli apparati teorici e dei dati empirici di numerose discipline di-
verse tra le quali la psicologia, la linguistica, le neuroscienze, le scienze sociali, la bio-
logia, l’intelligenza artificiale e l’informatica, la matematica, la filosofia e la fisica. La
psicologia cognitiva nasce verso la fine degli anni ‘50, fondamentalmente come reazione
polemica nei confronti della scuola che da anni, soprattutto in America, dominava il
panorama culturale; ecco che, allora, il comportamentismo fu il vero e proprio punto di
partenza per lo sviluppo delle scienze cognitive, in quanto gettò le basi per una psicolo-
gia fondata empiricamente. Entrambe le discipline, infatti, si basano su una scientifici-
tà di tipo naturalistico, nel comune tentativo di assimilare lo studio della mente umana
alle scienze fisiche. Dal punto di vista dell’epistemologia, la psicologia cognitiva assume
la posizione ontologica del realismo critico, secondo la quale viene accettata l’esistenza
di una realtà esterna strutturata, ma, allo stesso tempo, viene rifiutata la possibilità di
conoscerla completamente. è proprio da questa premessa teorica che si genera la dia-
triba con il movimento comportamentista: l’oggetto di studio non è più (soltanto) il
comportamento umano, bensì gli stati o processi mentali fino ad allora considerati una
dimensione insondabile e non conoscibile scientificamente. Tale presa di posizione nei
confronti dello studio dell’attività psichica si traduce, praticamente, nell’accettazione
dell’analisi introspettiva come metodo conoscitivo, e nell’affermarsi della concezione
di comportamento umano come risultato di un processo articolato e variamente strut-
turato di elaborazione delle informazioni. In questo senso, il cognitivismo fa proprie

201
Criminologia ed elementi di criminalistica

le scoperte derivate dalla cibernetica e dagli studi sull’intelligenza artificiale, al fine di


comprendere gli algoritmi che sostanziano l’attività mentale.
Nel corso del tempo, si sono evidenziati diversi approcci allo studio del crimine
che hanno ipotizzato le origini del comportamento criminale localizzate nella psiche
dell’individuo, nel suo patrimonio genetico, nell’ambiente sociale, nelle psicopatologie
o, ancora, nelle diverse modalità di attribuzione di significato alla realtà o nella capacità
di adattamento alle norme. Talune scuole criminologiche si sono attestate su posizioni
critiche, ponendo in discussione il rapporto stesso tra individuo e un sistema norma-
tivo che è culturalmente e socialmente determinato e, come tale, non necessariamente
accettabile da tutti. Evidentemente, la scelta teorica del criminologo risulta fortemente
influenzata dal suo stesso rapporto ideologico con il sistema sociale. Posizioni consen-
suali e integrate degli studiosi saranno maggiormente legate a una visione del crimine
in termini di disfunzionalità e anomalia (ricercata in aree psicologiche, psicopatolo-
giche e sociologiche). Posizioni maggiormente conflittuali, invece, orienteranno pro-
babilmente lo studioso su valutazioni attinenti ai rapporti di potere tra gruppi sociali,
ricercando la spiegazione del crimine nelle dinamiche di reazione sociale, di etichetta-
mento, di esclusione, di stigmatizzazione.
In realtà, soventemente, le teorizzazioni mostrano semplificazioni ed esasperazioni
concettuali che non corrispondono alla realtà. Il concetto stesso di causa, applicato al
comportamento umano, necessita di estrema cautela, proprio in ragione degli infiniti
fattori che influenzano l’agire dell’uomo, posti su piani genetici, biologici, psicologici,
sociali e talvolta fortuiti, mediati e organizzati, tra l’altro, dalla variabile primaria indot-
ta dalla razionalità e dalla libertà di scelta. La ricerca di una causa specifica dovrà, quin-
di, essere intesa come maggiore o minore peso di una variabile all’interno di una dina-
mica complessa o, meglio ancora, come un fattore di possibile ingerenza. Un ulteriore
elemento da considerare è quello relativo alla grande diversità che intercorre spesso tra i
vari crimini. Taluni comportamenti criminali sembrano, infatti, essere maggiormente
influenzati dalle variabili biologiche e psicologiche (es. i crimini violenti), mentre altri
appaiono maggiormente correlati a dinamiche sociali.

10.2 La predisposizione al crimine


La teoria della predisposizione al crimine, già all’inizio del ‘900, aveva iniziato il suo
complesso percorso di validazione scientifica, e la genetica, che si presentò come disci-
plina in grado, non solo di spiegare l’origine delle differenze individuali, ma anche di
predirne la perpetuazione nel corso delle generazioni, apparve, in quel periodo, come
la scienza più idonea per raggiungere tale obiettivo. Era, comunque, logico che le leggi
della genetica esercitassero particolare fascino per chi tentava di leggere, in termini bio-
logici, la complessa struttura della società.
Già all’inizio degli anni ‘20, dopo l’identificazione della natura genetica di alcune
gravi malattie, come l’emofilia e la distrofia muscolare, e del riconoscimento dell’eredi-
tarietà di alcune caratteristiche biologiche minori, si iniziò a ipotizzare la possibile ere-
ditarietà di malattie mentali e di anomalie comportamentali.

202
Il comportamento umano

Le prime osservazioni di concentrazioni familiari di casi di criminalità fecero de-


durre, tanto rapidamente quanto erroneamente, che le predisposizioni alla delinquenza,
all’alcolismo, al furto, alla prostituzione e, persino, alla tendenza a vivere in povertà,
fossero genericamente determinate.
L’inquadramento del problema della devianza sociale in un contesto generico raf-
forzava il convincimento che, non solo le disuguaglianze sociali fossero attribuibili
esclusivamente a differenze di merito e di capacità individuali, ma che esse dipendesse-
ro da caratteristiche biologiche ereditabili.
L’ipotesi genetica spiegava, inoltre, la concentrazione in gruppi relativamente ri-
stretti, sia dei comportamenti socialmente desiderabili, che di quelli delittuosi e lo
stabilirsi di gerarchie e stratificazioni sociali destinate a perpetuarsi nelle generazioni,
appunto, per ragioni genetiche. Conoscenze elementari dei principi della genetica, me-
scolate a pochi concetti di eugenica e al solido quanto errato convincimento della eredi-
tarietà biologica della criminalità portarono, nel 1907, alla emanazione della prima legge
sulla sterilizzazione coatta di persone con caratteristiche comportamentali indesidera-
bili. Successivamente, analoghi provvedimenti vennero adottati estesamente in Germa-
nia, in contrasto con le leggi vigenti, ben prima dell’ascesa di Hitler al potere.
Per oltre vent’anni, vennero effettuati interventi di sterilizzazione coatta su mino-
rati psichici e persone asociali, fino a quando, nel 1933, venne approvata la legge per la
prevenzione di nuove generazioni affette da malattie ereditarie, alla cui stesura collabora-
rono i genetisti con Verschuer, Fisher e Lenz.
Seguirono, oltre 300.000 interventi di sterilizzazione di persone giudicate indegne
di riprodursi, da speciali Tribunali per la Sanità ereditaria.
Successivamente, si passò alla somministrazione di quella che Hitler definiva una
morte misericordiosa a oltre 70.000 disabili. Risulta da un’indagine governativa che, tra
il 1935 e il 1975, vennero sterilizzate in Svezia circa 63.000 persone, soltanto metà del-
le quali consenziente. La genetica del dopoguerra si rivolse a due importanti obiettivi:
da un lato, la ricerca delle cause materiali dell’ereditarietà biologica, dall’altro lo studio
della genetica di popolazione per comprendere i meccanismi dell’evoluzione. I risultati
di queste indagini costituiscono ormai capitoli fondamentali della storia delle scienze
biologiche. Una volta dimostrato che il DNA è la base materiale dell’eredità biologica,
averne compreso la struttura, il codice genetico e le caratteristiche funzionali, e aver
trovato il modo per manipolarlo in laboratorio, all’inizio degli anni ‘80, si aprì la fase
che ha portato all’attuale conoscenza dell’intera successione dei nucleotidi nel DNA di
diversi organismi, incluso l’uomo.
La disponibilità di nuovi metodi, basati sull’analisi del DNA, risvegliò, altresì,
l’interesse per lo studio dell’ereditarietà dei comportamenti.
Molto più serie e numerose furono le indagini per scoprire le basi genetiche di al-
cune patologie psichiatriche che potevano attivare meccanismi criminogenetici. Dopo
oltre un ventennio di ricerche, i risultati sono abbastanza diversi da quelli attesi: non
sono stati identificati geni per la schizofrenia o per la depressione, né sono state trovate
mutazioni associate in modo inequivocabile e causale a tali patologie, per cui si ritiene
che, in tali malattie, venga ereditata una predisposizione, i cui effetti possono manife-
starsi con diversa intensità fino al livello clinico, verosimilmente a seconda dell’espe-
rienza di vita individuale e forse del contributo di altri geni minori.

203
Criminologia ed elementi di criminalistica

10.3 Il comportamento criminale violento


L’approccio psichiatrico/psicologico al comportamento criminale assunse, nel pas-
sato, due forme, spesso collegate tra loro. Lo psicologo tentò di stabilire dei program-
mi riabilitativi; mentre lo psichiatra conduceva esperimenti con una sempre più vasta
gamma di droghe psicotrope, infatti, un gran numero di prigionieri fu in effetti uti-
lizzato come cavia inconsapevole della psichiatria, per testare quelle droghe; i detenuti
negli anni ‘30 e ‘40, invece, furono usati quali cavie inconsapevoli dell’elettroshock e
degli esperimenti per la psicochirurgia. Comunque, nel 1974, dopo uno studio alta-
mente controverso condotto del tutto erroneamente, come si scoprì in seguito, venne
determinato che nessun grande programma poteva fornire le prove della propria effi-
cacia nella riabilitazione del criminale. Di conseguenza, lo psicologo si allontanò più o
meno furtivamente dalle celle per mancanza di sovvenzioni, mentre lo psichiatra iniziò
a diminuire l’impiego droghe, in modo sempre più crescente. Oggi, malgrado le ricer-
che psichiatriche per l’individuazione delle fonti genetiche e neurologiche del compor-
tamento criminale (approdate a nulla), la riabilitazione di un criminale viene, tuttora,
comunemente considerata un’utopia.
Essere violenti significa far uso della forza (fisica, verbale, psicologica) per espri-
mere i propri sentimenti e per raggiungere i propri obiettivi attraverso la sopraffazio-
ne temporanea o permanente dell’interlocutore. Spesso si riscontra, nell’autore di una
azione violenta, un substrato di aggressività. Non esiste, però, una correlazione lineare
tra aggressività e comportamento violento. L’aggressività, entro certi limiti, è una nor-
male reazione dell’organismo, che si trasmette in parte geneticamente e in parte viene
indotta dall’ambiente, attraverso meccanismi di apprendimento psicologico e sociale.
L’aggressività ha, soprattutto, una funzione di conservazione della specie in quasi tut-
ti gli esseri viventi, compreso l’uomo. I principali fattori responsabili della maggiore o
minore pulsione aggressiva negli esseri umani possono essere: a) alcuni specifici tratti di
personalità (il temperamento); b) una bassa tolleranza alle frustrazioni; c) psicopatologie
(come depressioni, psicosi, disturbi di personalità); d) aspetti neurofisiologici ed endocri-
ni; e) l’uso di droghe e farmaci psicoattivi (specie alcool e cocaina); aspetti socioambientali
(es. deprivazione); f ) aspetti culturali (quali appartenenza a subculture devianti, cultura
violenta nella famiglia, gruppi di riferimento violenti, ecc.).
Il processo di socializzazione umano ha, però, progressivamente introdotto dei
meccanismi di canalizzazione delle spinte aggressive in modalità condivise e accettate,
e, generalmente, non-violente, regolate da leggi codificate e consuetudinarie.
Gli individui riescono a contrastare la propria aggressività attraverso un processo
di pensiero (più o meno complesso) che si basa sull’anticipazione mentale degli effet-
ti del proprio comportamento, e sulla significazione della propria azione. In tale fase,
vengono valutate le conseguenze negative e i vantaggi collegati a una possibile azione
violenta. Quando l’esito di tale percorso pone nella mente del potenziale autore di un
crimine una serie di significati favorevoli al cosiddetto passaggio all’atto, il comporta-
mento criminale viene, allora, progettato e, se le circostanze contestuali sono favorevoli,
eseguito.
Se l’esito del percorso di significazione conduce, viceversa, l’individuo a una va-
lutazione negativa (rispetto all’esecuzione del crimine), possono manifestarsi forme di

204
Il comportamento umano

canalizzazione e scarico della pulsione aggressiva attraverso modalità legali (il classico
pugno sul muro o più frequentemente il semplice alzare la voce).
In realtà, la produzione di idee criminali, talora molto violente, avviene, di frequen-
te, anche nella mente di individui che non hanno commesso, e non commetteranno,
mai, alcun crimine. In queste persone, le regole morali, la compassione della vittima,
la paura della sanzione penale e sociale impediscono l’esecuzione dei crimini (ma non
sempre l’immaginazione).
Nei cosiddetti criminali, invece, per vari motivi, tale forma di ostacolo diviene
inefficace, e le pulsioni aggressive si materializzano attraverso un’azione violenta. La dif-
ferenza tra un uomo violento e uno non-violento è così dovuta solo in parte all’indole
(più o meno aggressiva), ed è invece fortemente connessa all’efficacia dei sistemi men-
tali di inibizione e canalizzazione dell’aggressività.
Anche il crimine violento, quindi, non è un irrefrenabile impulso animalesco, ma
un’azione, in parte razionale, diretta a uno scopo, condotta da un individuo ai danni di
altri individui (o dell’ambiente).
La logica che conduce l’individuo alla violenza può essere, ovviamente, fortemen-
te viziata dalla presenza di una dimensione psicopatologica, ma essa è da considerarsi,
comunque, una produzione del pensiero umano.
In tale ottica, il comportamento criminale può essere spiegato utilizzando le nor-
mali regole che valgono per il comportamento umano (normale e patologico). L’uomo,
orienta, infatti, le proprie azioni (comprese quelle criminali), attraverso un processo di
significazione della realtà esterna, attribuendo significato alle sue percezioni e fornendo
quelle risposte comportamentali che ritiene adatte alle sue esigenze personali.
Questo processo di significazione è inizializzato e influenzato da aspetti pulsionali
e motivazionali preesistenti (siano essi neurofisiologici, farmacologici, psicologici, psi-
cologico-sociali, sociologici, e psicopatologici), ma ciò non basta a provocare diretta-
mente il crimine.

10.4 Il cannibalismo
Il più famoso cannibale è sicuramente Hannibal Lecter, lo psichiatra antropofago,
personaggio sconvolgente nato dalla penna di Thomas Harris, autore del Silenzio de-
gli innocenti. E poi, c’è la strega cattiva della fiaba di Andersen Hansel e Gretel, la quale
attira i due bambini nella casa di marzapane allo scopo di mangiarli. Ma, al di là delle
pratiche cannibalistiche di gruppi etnici documentate dall’antropologia, non è neces-
sario cercare tra favole e film per trovare personaggi reali che, spinti da desideri ingo-
vernabili, hanno ucciso, sezionato e mangiato gli sventurati capitati tra le loro mani.
Uno dei primi serial killer cannibale documentato dalla storia è Gilles De Rais, com-
pagno d’armi di Giovanna D’Arco, che tra una battaglia e l’altra dava sfogo all’impulso
di rapire, uccidere, sezionare, e poi mangiare bambini. E poi c’è la Contessa Bàthory,
una sorta di Dracula al femminile, che uccideva giovani donne per poi berne il sangue,
convinta che questa pratica regalasse benessere al corpo e ringiovanisse la pelle. Più re-
centemente, Nikolai Dzhurmongaliev, un omicida seriale che dopo aver massacrato le

205
Criminologia ed elementi di criminalistica

sue vittime, si sbizzarriva nel preparare gustosi piatti etnici che offriva ai suoi sfortuna-
ti commensali.
Jeff Dahmer, passato alla storia come il mostro di Milwaukee, è uno dei più vio-
lenti serial killer della storia. Uccise, seviziò e tagliò a pezzi almeno undici persone e,
durante il processo, ammise che mangiare i cadaveri gli procurava un senso di totale
controllo e aumentava l’eccitazione sessuale. Dopo aver accuratamente depezzato il ca-
davere della vittima, Dahmer prelevava le parti più succulente, cuore, fegato e bicipiti,
e li cucinava in padella, oppure alla brace, gustandoli con salse per insaporirli, proprio
come se fossero bistecche di carne animale.
Ma cosa spinge un serial killer a diventare cannibale? Già all’inizio del secolo scor-
so, Sigmund Freud scriveva in Totem e Tabù, che la pratica di mangiare carne umana di
vittime corrispondeva a un impulso di interiorizzazione e di appropriazione dell’altro.
In realtà, spiega il padre della psicanalisi, la crescita del bambino nei primi anni di vita
è scandita da una serie di fasi: la prima è la fase orale. In questo periodo, il bambino si
nutre dal seno della madre e quindi la suzione diventa fonte di vita. Nel comportamen-
to cannibalico, l’appagamento di questo desiderio rimasto latente è esasperato, e diven-
ta l’unica modalità per instaurare un rapporto con l’altro. Bruno sostiene che nei serial
killer cannibali, gli impulsi normalmente presenti in tutti noi si ingigantiscono, fino a
diventare patologici. In molti serial killer, questo tipo di comportamento patologico è
irrefrenabile e ha la stessa radice di un qualsiasi comportamento affettivo che, mentre
nella persona normale si esaurisce in un bacio o in morsetti affettuosi, in un individuo
con disordini psicologici diventa un fatto da vivere fino in fondo. Infatti, secondo Fava,
impulsi e fantasie cannibaliche fanno parte della struttura profonda della psiche uma-
na. Si pensi alla madre che dice al bimbo “ti mangerei” o a certi comportamenti sessuali
o affettivi connessi con il mordere.
Secondo il Dipartimento di Studi Psicologici dell’Fbi, la differenza tra i serial killer
e i serial killer cannibali è che, mentre i primi, in genere, progettano l’omicidio e ucci-
dono con rapidità, i secondi sono più violenti ed efferati, adescano la vittima in maniera
casuale e dopo averla brutalmente massacrata, si accaniscono sul corpo sventrandolo.
Secondo Joel Norris, studioso americano dei serial killer, alla base del cannibali-
smo ci possono essere delle disfunzioni dell’ipotalamo, una regione del cervello che rego-
la l’attività sessuale, dell’umore e di altre funzioni primarie dell’uomo, come mangiare
e bere. Il cannibalismo sarebbe, dunque, causato da uno squilibrio ormonale che deter-
mina l’incapacità del cervello di misurare le proprie emozioni.

10.5 Il ruolo della psichiatria forense


La psichiatria forense è una disciplina che collega il diritto alla medicina. Il suo
ruolo varia non solo in virtù degli ordinamenti di ciascun paese, ma anche in relazione
al tempo e alle spinte etico-sociali.
In particolare, appare interessante il diverso ruolo che assume lo psichiatra foren-
se nell’ordinamento giudiziario italiano e in quello statunitense. Nel nostro Paese, egli
opera, sia nel processo che nella fase della esecuzione della pena, anche con funzioni

206
Il comportamento umano

diagnostiche incidenti sul giudizio di colpevolezza; negli USA, invece, fornisce solo
consulenze in merito alla presunta malattia mentale, senza alcuna possibilità di influen-
zare le scelte del giudice.
La psichiatria forense è stata definita come l’applicazione della psicopatologia, della
semiologia e della diagnostica psichiatrica ai problemi via via suscitati dai protagonisti
del processo penale, civile e canonico, in riferimento a norme e disposizioni contenute
nei rispettivi codici e in leggi complementari.
Da questa definizione si può agevolmente comprendere che questa disciplina esal-
ta e specifica il rapporto che intercorre fra la medicina e il diritto, rapporto alcune volte
misconosciuto, ed altre volte esasperato, che varia da Stato a Stato e di tempo in tem-
po. In particolare, appare quanto mai interessante procedere a un confronto fra la di-
sciplina come concepita in Italia e come intesa nel più importante stato di common law,
ossia gli Stati Uniti.
Storicamente, negli stati di civil law e almeno fino al secolo XVII, la medicina
non si occupò delle malattie mentali che, per ragioni di opportunismo o di voluta igno-
ranza e di paura, venivano eziologicamente spiegate in termini di possessione diaboli-
ca, eretismo, peccato. Dunque, il pazzo che commetteva un reato non era considerato
malato, bensì indemoniato.
Solo nel 1800, grazie alla Scuola francese, nelle persone di Esquirol, Georet, Marc,
Leuret, si introdusse nella pratica forense la nozione di monomania come causa che
escludeva la punibilità e si affermò, più in generale, un nuovo concetto di follia intesa
come malattia dell’anima, curabile con la terapia morale, purchè istituzionalizzata.
Di contro, in Italia, la psichiatria, conformandosi alla più rigida impostazione ora-
ganicista, propose una diversa interpretazione del problema riconducendolo nell’alveo
della biologia, della neurologia, dell’anatomia e finendo per definire le malattie mentali
come affezioni del cervello, acquisite o congenite, primitive o secondarie.
Con l’affermarsi della psichiatria scientifica, il rapporto fra quest’ultima e il diritto
appare mutare in maniera sostanziale.
In particolare, la psichiatria forense, con l’emanazione del codice Rocco e con la
fine delle grandi discussioni teoretiche sull’imputabilità, assunse un ruolo sempre più
evidente di strumento tecnico di garanzia della corretta applicazione delle previsioni
codicistiche in materia di capacità di intendere e di volere.
Ma la vera esaltazione del ruolo dell’operatore psichiatrico, e dunque della stessa
psichiatria forense, avviene con le previsioni del nuovo codice di procedura penale, in
cui egli calca la scena, tanto nella fase dibattimentale del processo, con l’intervento pe-
ritale, quanto, in seguito, nella fase della esecuzione della pena, con finalità terapeuti-
che e rieducative.
Ma, se nella fase di trattamento del reo, l’obiettivo è quello di recuperarlo attraver-
so modificazioni oggettive delle condizioni di vita, che favoriscano una nuova capacità
di socializzazione ed evitino la ricaduta nei delitti, nella fase processuale, il fine è quello
di diagnosticare la capacità di intendere e di volere dell’agente e, dunque, di formulare
un giudizio circa la sua imputabilità.
Inoltre, in virtù del combinato disposto degli artt. 88 e 222 c.p., il soggetto rico-
nosciuto non imputabile, dopo essere stato prosciolto, non viene abbandonato al pro-
prio destino, ma viene ricoverato in un ospedale psichiatrico o presso case di cura e

207
Criminologia ed elementi di criminalistica

custodia, ovvero in istituti o sezioni per infermi di mente, dove sarà approntata una te-
rapia adeguata diretta al recupero e alla risocializzazione dello stesso.
In tale contesto, appare opportuno distinguere alcune cause che, secondo il dettato
codicistico e la letteratura in argomento, escludono o diminuiscono l’imputabilità: 1)
cause fisiologiche: l’età (minore di anni 14 e minore degli anni 18 se nel momento che
ha commesso il fatto non aveva la capacità di intendere e di volere); 2) cause morbose: a)
infermità; b) sordomutismo; c) cronica intossicazione da alcool e/o stupefacenti.
Particolare rilievo rivestono ai fini della psichiatria forense le infermità che pos-
sono essere definite come diagnosi di stato o sindromica più estesa di quella di malattia.
Esse possono essere: 1) malattie mentali o psicosi dovute a motivi organici, a malattie
somatiche, a processi psicopatologici su base non funzionale (schizofrenia, psicosi ma-
niaco-depressiva) con alterazioni psichiche di tipo quantitativo; 2) malattie psichiche
non somatiche e prive di base organica comportanti disturbi della personalità. In questo
contesto, solo le reazioni abnormi, intese come interruzione di continuità con il prece-
dente stile di vita del soggetto (che devono presentarsi, cioè, come atti di sproporzione
evidente del rapporto causa-effetto riferito all’evento), possono associarsi a una possibi-
le compromissione dello stato di coscienza e a una possibile presenza di disturbi disper-
cettivi o idee di riferimento che, oltre ad essere di durata relativamente breve, hanno
valore di malattia e potrebbero configurare un vizio parziale o totale di mente.

10.6 La macchina della verità (o poligrafo)


Nella nostra lingua si chiama macchina della verità, in inglese e americano, lie de-
tector; un’altra definizione comune ad entrambe le lingue, più utilizzata dai tecnici e
dagli specialisti, è poligrafo (in inglese/americano polygraph).
Sostanzialmente, è un dispositivo elettrico, molto simile a quello dell’elettrocar-
diogramma o dell’elettroencefalogramma, che, mediante un circuito piuttosto sempli-
ce, rileva le variazioni di certi parametri psicofisiologici, come la pressione del sangue,
la respirazione (toracica e addominale), la conduttanza cutanea (ovvero la sudorazione
del palmo delle mani) e produce, per ciascuno di essi, un tracciato.
Per lo più, viene utilizzata nell’ambito giudiziario, soprattutto in America, molto
più che in Italia e in Europa.
Una legislazione molto precisa (e differenziata Stato per Stato) indica campi e re-
gole di applicazione di questo tipo di interrogatorio come strumento di indagine di un
crimine. Il dibattito tra detrattori e sostenitori dello strumento e delle sue procedure,
è molto vivace.
È stato anche formalizzato un protocollo di utilizzo della macchina che comprende
processi tecnici, ma, soprattutto, fasi precise, secondo cui l’esaminatore deve procedere;
fasi la cui mancata applicazione implica il venir meno delle garanzie di una corretta rile-
vazione (detection) della verità (o della menzogna). Le fasi, sinteticamente, sono:

- pretest, cioè un’intervista informale che l’esaminatore destina all’esaminato; essa si


basa su una serie di domande neutre preliminari, al fine di calibrare la macchina

208
Il comportamento umano

sui parametri psicofisici dell’esaminato. Questa fase può durare, a discrezione del-
l’esaminatore, circa 1 ora;
- design questions, dove l’esaminatore, alla luce della fase di pretest, definisce le do-
mande rilevanti per l’indagine;
- in-test, che segna l’inizio dell’esame; l’esaminatore pone circa dieci domande delle
quali solo 3 o 4 sono rilevanti per l’indagine; le altre domande sono domande di
controllo, molto generali, per verificare lo stato di normalità dell’esaminato, quello
che, in linea di principio, dovrebbe corrispondere alla verità;
- post-test, durante il quale l’esaminatore analizza i dati delle risposte fisiologiche e
determina se la persona ha detto la verità oppure ha mentito.

Così come per il tracciato cardiaco, si costituisce un tracciato come normale. Le dif-
ferenze rilevate dallo stato definito come normale devono essere spiegate, analogamente
a quanto, nelle patologie cardiache, certi tipi di alterazione del tracciato vengono con-
siderate segno di precise alterazioni patologiche.
Il poligrafo rileva, quindi, alcuni parametri fisiologici: respirazione toracica, respira-
zione addominale, conduttanza cutanea, pressione sanguigna.
Questi stessi parametri, vengono alterati da varie situazioni: guidare nel traffico,
ad esempio, è causa di un aumento dell’accelerazione cardiaca e respiratoria (e questo
spiega i nostri comportamenti patologici quando siamo alla guida).
Nel caso della macchina della verità, vengono poste due ulteriori relazioni: quella
tra normalità e verità, e quella fra scostamento dalla normalità e menzogna; lo scostamen-
to dalla normalità, secondo questi quattro parametri, è considerato un valido indicato-
re della presenza di una menzogna.
Secondo le ricerche di Daniel Langleben, docente dell’Università della Pennsylva-
nia, dire bugie, per il cervello, è una gran fatica. Infatti, ci sono una gran quantità di aree
cerebrali diverse che si mettono all’opera quando i soggetti dell’esperimento si trovano a dire
una bugia, rispetto alle aree cerebrali implicate in una risposta veritiera.
Ecco, in sintesi, il protocollo dell’esperimento: un gruppo di 18 volontari è stato
sottoposto al seguente test: è stata loro fornita una serie di oggetti da nascondere in ta-
sca; poi sono state loro mostrate immagini, alcune delle quali riproducevano gli oggetti
in loro possesso; infine, è stato chiesto loro di mentire alle domande dell’intervistatore
circa il possesso, o meno, di quell’oggetto. Per eseguire l’interrogatorio, ogni volontario
è stato fatto accomodare all’interno dell’apparecchiatura per la risonanza magnetica,
uno strumento che ha permesso di osservare cosa accadeva nel suo cervello. Le imma-
gini prodotte dalla risonanza hanno mostrato un’intensificazione dell’attività cerebrale,
nel momento in cui il soggetto ha iniziato a mentire, ma, solo in zone ben localizzate
del cervello: il giro del cingolo e il giro frontale. Il primo, coinvolto nell’inibizione della
risposta e nel monitoraggio degli errori, il secondo che pare rivestire un ruolo critico
nell’attenzione.
Da questo, gli sperimentatori che riportano l’esperimento, deducono che: il nostro
cervello è sempre pronto per dire la verità, mentre, per mentire, deve organizzarsi, attivar-
si ed agire, in una sorta di lavoro extra non previsto.
Attorno a queste ipotesi, si possono fare molte considerazioni, ma, badando a non
tirare in campo tutte le questioni filosofiche sulla verità e la menzogna, né le differenze

209
Criminologia ed elementi di criminalistica

tra verità soggettiva e verità condivisa, passando per il sottile confine tra fantasia e men-
zogna, è opportuno individuare due elementi:

a) il fondamento ideologico di questa relazione tra normalità psico-fisiologica (e quindi,


per estensione, psichica) e verità, è costituito da un’attribuzione di valore che pro-
viene da una tradizione etica e religiosa molto precisa (da San Paolo a Sant’Agosti-
no al rito della confessione);
b) la promozione scientifica di tale valore, passa, nel caso della macchina della verità,
attraverso la costituzione di un’altra relazione: quella che viene posta tra l’istinto
(inteso come lo stato più puro, biologico) dell’uomo e il suo essere sincero e veritiero,
anzitutto, con se stesso (e pensiamo anche all’atteggiamento psicoanalitico), prima
che con gli altri.

Sembra, invece, che il valore positivo che viene attribuito alla verità abbia un si-
gnificato non tanto psichico o individuale, quanto sociale o socio-evoluzionistico, e che,
quindi, appartenga e debba restare di pertinenza dell’etica, più che della neurologia o
della psicofisiologia.
In una società, è importante che ciascuno si possa fidare dell’altro e la società si
evolve solo se ciascuno può contare su questo. Pertanto, la verità è una condizione del
vivere sociale e, come tale, va garantita e sancita, senza coperture ideologiche o pseudo-
scientifiche, ma in tutta la sua pragmatica utilità.
Al di là delle motivazioni ideologiche sul fondamento scientifico di questo tipo di
studi sperimentali e all’obiettivo di rilevare in modo inequivocabile la presenza di una
bugia analizzando il processo mentale che la bugia richiede, troveremo probabilmen-
te due differenti operazioni, laddove la risposta vera e sincera ne prevede una sola: se
a un soggetto viene chiesto, ad esempio, il nome, e lo stesso deve per qualche motivo
mentire, potrebbe avere un leggero ritardo nella risposta, dovuto al fatto che è abitua-
to a rispondere, ad esempio, Marco; il soggetto, pertanto, recupera l’operazione più fa-
cilmente disponibile (Marco, appunto), ma interviene un processo di controllo superiore
che gli impedisce di dirlo, per una serie di altre considerazioni; deve recuperare nella
memoria un altro nome disponibile da fornire come risposta all’interlocutore e dirlo:
il processo è più elaborato e dovrebbe richiedere, quindi, più tempo, una frazione di
secondo, un istante, ma sufficiente ad un orecchio allenato (o ad una macchina molto
sensibile) a dare perlomeno un allarme (se non un’indubitabile rilevazione). Se si pensa,
però, agli attori, e a come sanno essere più convincenti delle persone reali, stanno essi
mentendo? No, assolutamente. Dicono la verità utilizzando una tecnica che pare anco-
ra più complessa, ma probabilmente non lo è: credono alla storia che si sono costruiti o
che qualcuno ha costruito per loro, ci credono in ogni più piccolo dettaglio, e con tut-
to il loro essere. E agiscono, parlano e pensano secondo questa narrazione, forse come i
bambini, quando ci raccontano delle loro storie, e di loro stessi dentro le loro storie.
Raccontarsi una storia, convincente o meno, non importa, l’elemento fondamen-
tale è crederci; scriverla e riscriverla nella nostra mente: è questa complessa configura-
zione tenuta insieme dalla narrazione (dalle sue implicazioni, dalle contestualizzazioni
di cui è capace) ciò che va naturalmente a costruire la nostra verità; e se il narratore è
abile (e se la racconta ad arte) non c’è macchina della verità che tenga.

210
Il comportamento umano

Quando una persona dice una bugia, utilizza parti del cervello diverse da quan-
do dice la verità, e questi cambiamenti cerebrali possono essere misurati con la tecnica
della risonanza magnetica funzionale (FMRI). Lo sostiene uno studio presentato dal-
la Radiological Society of North America. I risultati suggeriscono che, un giorno, la
FMRI potrebbe essere usata come macchina della verità, con risultati più precisi del
poligrafo.
Misurando con la FMRI l’attività delle aree cerebrali associate alle bugie, sostiene
Scott H. Faro della Temple University, si potrà determinare se il soggetto sta dicendo
la verità.
A tal fine, è stato compiuto un esperimento con undici volontari. A sei di essi è
stato chiesto di sparare con una pistola giocattolo, mentre agli altri cinque, no. Tutti,
però, dovevano affermare di non aver sparato. I ricercatori hanno esaminato i singoli in-
dividui con la FMRI, e, contemporaneamente, con il normale poligrafo che viene usa-
to come macchina della verità. Il poligrafo misura tre risposte fisiologiche: il respiro, la
pressione del sangue e la capacità della pelle di condurre elettricità, che aumenta con la su-
dorazione. In tutti i casi, sia il poligrafo sia la FMRI sono riusciti a distinguere le rispo-
ste veritiere da quelle false. Durante le bugie, la FMRI ha mostrato l’attivazione di diverse
aree cerebrali nel lobo frontale (mediale inferiore e pre-centrale), temporale (ippocam-
po e temporale medio) e limbico (cingolato anteriore e posteriore). Nel caso delle rispo-
ste vere, la FMRI ha invece mostrato attivazione nel lobo frontale (inferiore e mediale),
temporale (inferiore) e nel giro cingolato. Nel complesso, quando un soggetto diceva una
bugia, si attivavano più aree cerebrali, rispetto a quando diceva la verità.
Poiché le risposte fisiologiche possono variare da individuo a individuo e, in alcu-
ni casi, essere regolate, il poligrafo non viene considerato uno strumento del tutto af-
fidabile per individuare una bugia. Secondo Faro, tuttavia, è ancora troppo presto per
affermare se la FMRI possa essere ingannata nello stesso modo.

211
CAPITOLO 11

Criminalità e disturbi mentali

11.1 Evoluzione storica del concetto di malattia mentale


La riforma sanitaria relativa all’assistenza psichiatrica venne approvata il 13 mag-
gio 1978, dopo un lungo dibattito alla Camera e al Senato; si tratta della legge 180,
successivamente integrata dalla legge 833, dello stesso anno, riguardante la costituzione
del Piano Sanitario Nazionale. Con tale normativa, si abbandonava un sistema coerci-
tivo, di contenzione, basato su terapie meramente mediche e di correzione proprie degli
ambienti manicomiali, per giungere a un nuovo sistema, improntato al riconoscimento
della dignità della malattia e, quindi, della dignità dell’individuo malato; il tutto chia-
ramente sorretto da un cambiamento di intervento terapeutico basato su una nuova re-
te di strutture e di servizi a carattere dipartimentale.
Il discorso sulla salute mentale, in Italia, è particolarmente problematico, poiché il
suo carattere non è solo di natura medico-clinica ma anche sociale, assistenziale e po-
litico. è, infatti, un tema scottante che rientra nelle problematiche affrontate dal Wel-
fare State, e anche per questo, soggetto a continue discussioni. Come affermano M.
Tansella e G. De Girolamo: i disturbi mentali costituiscono un importante problema di
sanità pubblica per vari motivi: essi presentano un’elevata frequenza nella popolazione
generale, in tutte le classi di età: sono associati a significativi livelli di menomazione del
funzionamento psicosociale (cioè di difficoltà nella attività della vita quotidiana, nel
lavoro, nei rapporti interpersonali e familiari, ecc..); sono all’origine di elevati costi sia
sociali che economici. Il malato di mente, in tempi non lontani, era soggetto all’isola-
mento e alla discriminazione. La patologia era uno stigma, aveva quindi un significato
meramente spregiativo che si poneva in antitesi con gli stereotipi relativi alla cosiddetta
normalità, considerata tale dalla cultura di riferimento. Con la nuova legge, nonostante
inadempienze e ritardi amministrativi e a volte carenze strutturali, si è riusciti, comun-
que, a dare voce all’individuo, alla sua dignità, intesa come valore intrinseco della per-
sona, valore che non si traduce come mera funzionalità, come atti, ma come essere.
In ritardo di circa 70 anni rispetto alla Francia − che già nel 1838 aveva varato la leg-
ge sugli alienati − l’Italia data la sua prima normativa sulla salute mentale solo nel 1904. è

213
Criminologia ed elementi di criminalistica

la legge n. 36 del 14 febbraio, che consta di soli undici articoli che prevedono le norme
di ammissione e di dimissione dall’istituto manicomiale, regolamentano il lavoro dei di-
rettori e impartiscono le regole amministrative da seguire. L’art. 1, comma primo di tale
legge definisce i malati di mente come persone affette per qualunque causa da alienazione
mentale, quando siano pericolose a sé o a gli altri o riescano di pubblico scandalo o non
siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi.
L’azione più importante era finalizzata, non alla cura basata sulla ricerca delle motiva-
zioni dei disagi provati e al successivo intervento terapeutico, quanto, piuttosto, all’iso-
lamento dell’individuo dalla società: rinchiudere uomini e donne che non agivano quoti-
dianamente secondo le regole dominanti nella cultura e nella società di riferimento era
fattore essenziale affinché la società stessa mantenesse il proprio equilibrio.
Ma isolare in strutture carcerarie, perché tali erano gli istituti manicomiali, non
equivaleva a risolvere il problema, anzi, dal momento che la tranquillità sociale era
considerata l’elemento più importante (così come importante era vivere in una società
sana, di buoni principi e profondamente religiosa), nei manicomi, molto spesso, veni-
vano rinchiusi anche quegli individui che, semplicemente, non vivevano secondo le re-
gole culturali dominanti di quella data società. Ovviamente, il malato non guariva ma,
piuttosto, sprofondava, sempre più, nei deliri della sua mente. Di particolare impor-
tanza, l’art.10 riguardante la gestione dei cadaveri degli alienati, che prevedeva l’uso dei
corpi e anche dei malati da parte degli uomini di scienza. In particolare, l’articolo reci-
ta: nelle città che sono sedi di facoltà medico-chirurgiche, gli ospedali sono tenuti a fornire
il locale e a lasciare a disposizione i malati e i cadaveri occorrenti per i diversi insegna-
menti. Tale articolo riguardava, anche, i manicomi pubblici e privati.
Nel secondo dopoguerra, la necessità di una normativa si ripresenta in maniera
pressante. Come scriveva il deputato Ceravolo nella sua proposta di legge alla Camera
dei Deputati il 17 novembre del 1953: “bisognava appellarsi a criteri di umanità e giu-
stizia perché sostituisce il concetto della custodia di chi è colpito da un male guaribile, il
concetto di cura, e redime l’infermo dalla ingiusta qualifica di delinquente potenziale”.
Dopo diverse proposte di legge, il 18 marzo 1968 fu varata la legge n. 431. è proba-
bilmente il primo vero tentativo di restituire dignità e dimensione umana all’individuo.
Ciò che fino a questo momento era considerato aberrante, mostruoso e disumano, ciò
che aveva alimentato a dismisura le paure della comunità, ciò che aveva portato ad azio-
ni e comportamenti deliranti perché basati sulla non conoscenza, adesso conquista una
categoria di riferimento e una definizione ben precisa: malattia mentale.
Questo restituisce, apparentemente, all’individuo, la sua vita. Il malato deve essere
considerato come tale, non più come un criminale, e la sua patologia va curata e preve-
nuta. Di importanza fondamentale, testimone di una reale volontà di cambiamento, è
l’art. 11 che, di fatto, abroga l’art. 604 n. 2 della legge 36/104, che prevedeva l’obbligo
della registrazione del malato nel casellario giudiziario. L’iscrizione in questo casellario
era come la marchiatura a fuoco, in Francia, dove secondo il Codice Penale del 1810,
si applicava sulla spalla la lettera P a coloro i quali erano condannati ai lavori forzati a
tempo, così come nel 1893, in Inghilterra, si tatuavano i delinquenti tra le gambe o nello
spazio interdigitale dei piedi. In questo modo, gli individui, anche una volta tornati in
libertà, o comunque reintegrati, avrebbero avuto per sempre, indelebilmente, il segno
dell’infamia. Ancora, con la legge n. 431 non si affronta il tema dei manicomi. La leg-

214
Criminalità e distrurbi mentali

ge 180 è da poco preceduta da un referendum abrogativo della legge 36 del 1904. Con
questa normativa, si apre una nuova era per la psichiatria, perché uno dei punti cardini
è il trattamento sanitario volontario.
La concezione dell’individuo malato è totalmente altra rispetto alle precedenti: l’in-
tervento terapeutico non è finalizzato a diminuire la sua pericolosità sociale ma a curar-
lo, a migliorare la convivenza con se stesso e, quindi, con gli altri. Anche la definizione
stessa della patologia cambia: da pazzia a disagio mentale. Si restituisce dignità anche
attraverso le definizioni, le parole. Se l’insanità mentale era legata a concetti di posses-
sione o di devianza, il disagio mentale esprime la difficoltà di vivere da parte di un essere
umano, ed è necessario, quindi, riequilibrare la sua salute.
E questo è un punto focale: il concetto di salute. In psichiatria, la salute è la condi-
zione di assenza della malattia, malattia che si rivela negando la salute. Ma come si de-
finisce la malattia? E soprattutto come si stabilisce il confine tra normale e patologico?
Come afferma M. Augè, la malattia è un paradosso, in quanto si presenta come fattore
meramente individuale, poiché si sperimenta sulla propria persona e, nello stesso tem-
po, è il più sociale degli eventi, perché le categorie per definirla sono sociali, apparten-
gono a quegli schemi di riferimento, a quelle norme che ogni data società umana si dà
e nelle quali si riconosce. Ogni anormalità costituisce il segno di qualcosa che è già av-
venuto o che sta per accadere: qualcosa che non tocca soltanto il soggetto individuale
ma, direttamente o indirettamente, coinvolge rapporti d’interesse comunitario (V. Lan-
ternari, 1994).
In antropologia, il concetto di salute non si costituisce a partire dalla sua contrap-
posizione con la malattia, ma è strettamente legato all’ambito culturale di riferimento.
Come afferma U. Fabietti: “l’analisi di tale dominio (concetto di salute) rivela le nume-
rose connessioni e la densità di significati sociali e culturali che investono il corpo uma-
no, sia laddove esso venga interpretato in una dimensione strettamente biologica, sia
laddove gli eventi che lo riguardano diventino il fulcro per un’elaborata riflessione sulla
costituzione della persona e sulle relazioni che la legano all’ordine sociale (2001)”. An-
che la malattia mentale, come il concetto più generale di malattia, va inteso in rapporto
alla propria cultura, quindi, solo individuando le coordinate culturali di riferimento, e
identificando il posto e il ruolo che ciascun individuo ricopre e svolge in una determi-
nata società si può comprendere la malattia.
Essa, quindi, deve essere interpretata, determinata di significato e questo può esse-
re sia di natura eziologica che sociale o anche entrambe. Comunque sia, è una manife-
stazione del sé che si esprime attraverso un suo proprio linguaggio e suoi propri rituali
che, ovviamente cambiano, a seconda del tipo di società: vi sono quelle in cui l’indivi-
duo è pensato come un insieme di elementi caldi e freddi in equilibrio e armonia e, quindi,
la malattia si insinua negli interstizi di questi elementi, nel punto esatto in cui si avvi-
cinano e corrono paralleli, e concorre a destabilizzare questa armonia, per cui, la cura
è finalizzata al ripristino delle proporzioni degli elementi; vi sono altre società in cui
l’individuo è considerato come agito da un principio spirituale (anima) e, quindi, la ma-
lattia può essere il furto o la compromissione di tale essenza vitale; o, ancora, società in
cui l’individuo è rappresentato come articolazione di una res extensa e di una (separata)
res cogitans, e quindi la malattia sarà affezione di ciascuno di questi domini, malattia del
corpo o della psiche (F. Vacchiano).

215
Criminologia ed elementi di criminalistica

è chiaro che ogni cultura, nel momento in cui si dà delle norme di riferimento
concepisce e sviluppa anche le devianze da tali norme. Ad esempio, presso i Wolof del
Senegal, la malattia mentale risulta essere una punizione per non aver rispettato alcu-
ni aspetti di un determinato rituale, mettendo, quindi, in evidenza tutta quella serie di
obblighi morali e pragmatici nei confronti dei defunti; presso i Wirràrika del Messi-
co, l’insanità mentale può essere frutto di un anatema scagliato da uno sciamano verso
il quale magari non si è portato rispetto; ancora, presso le culture animiste, la pazzia è
frutto di una contaminazione di uno spirito maligno che abita luoghi proibiti come fo-
reste, paludi, e così via. Per cui, le azioni insane dell’individuo saranno determinate da
questa possessione, così come accadeva durante il Medioevo quando l’Inquisizione ac-
comunava gli eretici ai pazzi: “non tutte le persone accusate di stregoneria erano inferme di
mente, ma, quasi tutti gli infermi di mente erano considerati streghe, maghi, posseduti
da incantesimi” (G. Zilboorg, H. Henry).
Ippocrate, nel V secolo a.c., considerava la follia una malattia del cervello, mentre
per il Cristianesimo era espressione della possessione da parte del demonio e pertanto
punibile con le più crudeli torture.
Nel Medioevo, invece, l’insano di mente era largamente accettato dalla comuni-
tà, ne era parte integrante e costituente; la follia era il lato oscuro della quotidianità,
era il male nel bene e l’esistenza tragica degli individui, che oscillava tra la vita e la
morte, conviveva con questa immagine inquietante e familiare. In un momento sto-
rico così fortemente impregnato di religione, il folle rappresentava la vacuità dell’esi-
stenza umana, la caducità delle speranze, il confine sottile tra la luce e le tenebre, e
proprio per questo, l’insano di mente era custode segreto di un sapere oscuro, altro, di
una dimensione parallela a quella della realtà quotidiana, che aveva in seno le verità.
è a partire dall’età moderna, che la pazzia comincia ad essere considerata una malat-
tia, ma una malattia morale piuttosto che mentale: la considerazione della follia come
crimine e non come malattia, determina la prevalenza della concezione etica su quella
giuridica e condanna al silenzio e alla vergogna tutte quelle forme di alterità che, nel
Medioevo e nel Rinascimento, avevano trovato la loro rappresentazione nel mondo
fantastico e miracoloso.
Il malato di mente comincia ad essere relegato in ambienti ben definiti, gli ex leb-
brosari: emblema di queste nuove locazioni è l’Hôpital General di Parigi, fondato nel
1656, che Foucault definisce il terzo stato della repressione. Questa struttura è del tutto
autonoma ed ha diritto di vita o di morte sull’esistenza dei suoi ospiti. Da qui, comin-
cia la storia dell’internamento, del maltrattamento, della deprivazione totale. è ovvio
pensare che in queste strutture era presente un’umanità molto varia: da veri malati a
criminali a dissidenti politici; ma anche individui dalla sessualità incerta o dediti a co-
stumi sessuali licenziosi. La follia, in questo periodo, veniva a rappresentare la diversi-
tà, la devianza, ciò che era contro natura, e si potrebbe affermare, contro cultura; era
associata al mostruoso, all’aberrante, al corrotto e al marcio. Nel tardo XVIII sec., si
comincia ad operare una distinzione, si libera la follia dalla collusione con altre forme
di devianza, ma viene ulteriormente isolata. Sul finire del XIX sec., diventa vera e pro-
pria malattia. Chiaramente, nel corso del tempo, anche gli interventi terapeutici sono
cambiati e sono proprio questi che ci danno la misura delle umiliazioni e le torture su-
bìte dai degenti. Possiamo parlare, ad esempio, della terapia dell’acqua, tanto usata in

216
Criminalità e distrurbi mentali

Francia nei primi anni del ‘800. Esquirol, medico e responsabile del manicomio Cha-
renton, dal 1826 al 1833, prescriveva vari tipi di bagni a seconda della gravità delle
patologie: potevano essere bagni tiepidi, bagni di immersione freddi o ancora bagni a
sorpresa, per cui, ad esempio, si prendeva un malato e lo si gettava di forza nelle acque
di un fiume anche in pieno inverno. Ma c’erano anche docce praticate inserendo il
tubo nel retto a diverse profondità. La terapia dell’acqua era legittimata dalla creden-
za che a seconda della temperatura, l’acqua potesse cambiare la circolazione del san-
gue e, quindi, il modo in cui questo affluisce alla testa, da cui dipendono le patologie.
Oltre a questi interventi, molto usato era il salasso (in realtà se facciamo un discorso
più ampio, il salasso, a quei tempi, era considerato la panacea per tutti i mali, perché,
per qualsiasi tipo di malattia, si interveniva prima in questo modo), praticato anche
attraverso l’uso di sanguisughe poste sugli organi genitali. Veniva praticata, anche la
flebotomia, consistente nell’immersione dei piedi in acqua bollente con l’aggiunta di
acido muriatico, purganti ecc.
Ciò, in quanto sopravviveva la concezione arcaica della malattia come punizione
di una cattiva condotta, come forma esplicita di una quotidianità vissuta non seguen-
do le regole della comunità; quindi, era necessario il rito purificatore attraverso la fuo-
riuscita di quei liquidi del corpo che avevano corrotto l’anima (e la testa). Usata era,
anche, l’elettricità galvanica o magnetica, per lo più posta, sempre, sulla zona anale o
testicolare, ma come afferma V. Andreoli, illustre psichiatra contemporaneo: “la forma
più spettacolare ed efficace però, era quella del ferro rovente applicato sulla nuca o sull’occi-
pite” (1991). C’erano fustigazioni con fasci di ortica o fruste di pelle. Ancor più dram-
matica, se possibile, è la sorte a cui erano destinate le donne, trattandosi di vere e pro-
prie sevizie: si va dalla clitoridectomia alla cauterizzazione, ma venivano praticate anche
l’ovariectomia e la dilatazione cruenta del collo dell’utero. Charcot, psicanalista, per cu-
rare l’isteria, utilizzava una cintura che, per mezzo di una vite a pressione, comprimeva
la regione ovarica di sinistra. Questi interventi non sono dissimili dalle sevizie che le
donne tutt’oggi subiscono in vari paesi del mondo.
Nella prima metà del ‘900 fa la sua comparsa l’elettroshock. è singolare la situazio-
ne da cui ha poi origine questa idea. è il 1937, il dott. U. Cerletti, allora direttore della
Clinica di Neuropatologia e Psichiatria di Roma, assiste, visitando il mattatoio di Ro-
ma, all’applicazione di corrente elettrica sulla testa dei maiali. Con questa tecnica ap-
plicata agli uomini, il paziente giunge al coma e all’arresto delle funzioni vitali: il cuore
e il respiro si fermano almeno per un pò di tempo; la rinascita è condotta con tecniche
di rianimazione e, nel giro di alcuni minuti, il folle cammina, rinato, nella sua stanza
(V. Andreoli, 1991). Non dimentichiamo, inoltre, gli interventi invasivi quali la lobo-
tomia che riduceva nell’individuo, da un lato, la patologia, ma, con essa, anche la sue
capacità critiche e relazionali.
Alla luce di tutto questo, ci rendiamo conto come con la legge 180 ci sia stata una
vera svolta epocale. L’art 1, comma 1, afferma: “gli accertamenti e i trattamenti sani-
tari sono volontari”. E il comma 2: “nei casi di cui per legge, e in quelli espressamente
previsti da leggi dello Stato, possono essere, invece, disposti dall’autorità sanitaria nel
rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costitu-
zione, compreso per quanto possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luo-
go di cura”.

217
Criminologia ed elementi di criminalistica

Già da questo primo articolo si evince la restituita dignità al malato come indivi-
duo e la restituzione del rispetto dei suoi diritti fondamentali quali, ad esempio, la li-
bertà di scelta.
L’art. 34 comma 4 della legge 833 del 1978, articolo che riguarda i casi in cui in-
vece si possa ricorrere al trattamento sanitario obbligatorio, afferma che: “questo può
svolgersi in condizioni di degenza ospedaliera, solo se esistano alterazioni psichiche tali
da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accertati dall’in-
fermo, e se non vi siano le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee
misure sanitarie extraospedaliere”.
Secondo la normativa attuale, la degenza in ospedale ha una durata massima di una
settimana rinnovabile, e ha inizio con la proposta del medico curante, rivolta al sindaco
che, nella sua qualità di autorità sanitaria, ne dispone il provvedimento. Da notare che
il sindaco − come si affretta a specificare anche l’art. 33, comma 3 della legge 833/78 −
interviene in virtù della sua autorità sanitaria e non anche di pubblica sicurezza come
invece era previsto per la legge 36 del 1904 e dall’art.1 del Testo Unico di Pubblica Si-
curezza. La proposta del medico, prima di giungere al Sindaco, deve essere convalidata
da un medico dell’unità sanitaria locale che deve motivare tale convalida, in relazione
all’art. 34, comma 4 della legge 833/78.
La nuova normativa sulle patologie psichiche ha una visione completamente diver-
sa: abolendo le strutture manicomiali, come nuovo territorio della psichiatria, utilizza
tutta una serie di istituzioni che possano essere alternative e interdipendenti tra di loro.
In questo modo, si intende realizzare una fitta rete di servizi, il cui scopo non sia quel-
lo di internare ma ricercare, continuamente, soluzioni riabilitative per quegli individui
che soffrono di disagio mentale. Di fondamentale importanza è anche il confronto con
chi soffre: concentrarsi sulle storie di vita, sull’ambiente in cui si è vissuto, sugli stimo-
li ricevuti e sulle esperienze avute, aiuta a comprendere. Dell’importanza della terapia
della parola già ne parlavano S. Freud e J. Breuer: “un’immagine che sia stata sfogata
a parole non si rivede più; solo con l’ultima parola dell’analisi scompare l’intero qua-
dro morboso” (J. Breuer, S. Freud, 1976). Ed ancora, in tempi più recenti: “la parola è
la rappresentazione di un sintomo, dunque, un segno che lo individua e lo maschera.
Gli rimane l’idea di una parola che, liberatasi nella ritualità della relazione terapeutica,
genera la soluzione d’un conflitto come se il conflitto fosse in quella parola, ora detta”
(V. Andreoli, 1991).
Se è vero che con la legge 180 c’è stata una reale svolta epocale nella considerazione
del disagio mentale, pur tuttavia, questa normativa non è esente da critiche. La gestio-
ne del problema psichiatrico da parte delle singole regioni non sempre ha dato risposte
soddisfacenti, e ciò per tutta una serie di motivazioni, non ultima proprio dal punto di
vista operativo, il passaggio da una normativa a un’altra. In realtà, i punti su cui si di-
batte da tempo, sono sia di natura tecnica che socio-sanitaria. Non sempre gli ex-mani-
comi, ad esempio, sono stati smantellati; più spesso, c’è stata una riconversione poiché
è stato impossibile creare strutture alternative e, parallelamente, vi è stata la prolifera-
zione di case di cura private che, molto spesso, salgono agli onori delle cronache (nere)
perché veri e propri lager; per quanto riguarda i Dipartimenti di Salute mentale, da più
parti, si lamenta la poca specializzazione del personale che dovrebbe essere sottoposto a
continua formazione; inoltre, c’è la gestione della malattia a livello sociale: la famiglia e

218
Criminalità e distrurbi mentali

i cittadini. Molto spesso, le associazione dei familiari dei malati lamentano il loro stato
di abbandono da parte delle strutture psichiatriche e delle istituzioni; ci sono casi mol-
to gravi, in cui il trattamento sanitario obbligatorio, per il periodo di tempo sancito dalla
legge, risulta insufficiente; di contro, le strutture intermedie predisposte all’assistenza
psichiatrica risultano insufficienti per soddisfare tutte le richieste. Quindi, sarebbe ne-
cessario creare una rete di strutture con compiti differenziati che siano però interagenti
tra loro, al fine di affrontare la malattia in tutte le sue forme e le sue gravità. Ci sono,
poi, difficoltà di convivenza a livello sociale con i malati psichici. In moltissimi casi, la
situazione di stigma della malattia permane, per cui, è difficile trovare una locazione
indipendente per il disagiato che non viene accettato, ad esempio, dai vicini di casa.
Paradossalmente, mentre in passato la realtà manicomiale garantiva la sistemazione a
lungo termine dei malati, oggi, c’è un reale abbandono di chi soffre, e le famiglie, per la
maggior parte composte da persone anziane, non riescono a gestire le varie situazioni.
Molto spesso, poi, i casi più gravi di malattia mentale si riscontrano presso famiglie che
già vivono situazioni di indigenza o che comunque hanno problemi. La legge prevede
dei protocolli d’intesa con le varie ASL ed i Comuni, per trovare delle soluzioni e delle
locazioni ma, dopo un impegno formale iniziale, le aspettative vengono subito disatte-
se per tutta quelle serie di problemi su indicati.

11.2 Rilevanza dei disturbi mentali ai fini della


responsabilità
Si pone, quindi, il problema di valutare il rapporto fra lo stato psicopatologico ed il
comportamento criminale, cui corrisponde un criterio o metodo di accertamento della
responsabilità. Schreiber ha individuato tre diversi metodi di valutazione della respon-
sabilità penale:

1) il metodo psicologico normativo, che consiste nel valutare l’esistenza di malattie o di-
sturbi psichici e valutarne l’incidenza sulla capacità di intendere e di volere. Circa
i fattori psicopatologici, non sempre la legge li definisce, mentre si limita a far ri-
ferimento a concetti molto generali, che poi sono interpretati estensivamente. Per
quanto attiene la capacità di intendere e volere, nella maggior parte dei sistemi pe-
nali, che seguono tale metodo valutativo (e sono quello danese, francese, olandese,
austriaco, irlandese portoghese, svizzero, tedesco, greco e il nostro), è sufficiente
che manchi anche solo una di esse perché il soggetto non sia considerato punibi-
le. Come rileva Pulitanò, il primo metodo, quello misto, è fatto proprio dal nostro
codice penale. In base a tale metodo, quindi, non occorre solo individuare lo stato
patologico, ma, anche, la verifica normativo-giurisprudenziale della rispondenza di
tale stato a una condizione di infermità tale da escludere o scemare grandemente
la capacità di intendere o di volere o entrambe;
2) il metodo puramente psicopatologico considera non punibili i soggetti affetti da de-
terminate malattie mentali, senza valutarne la loro incidenza sulla capacità di in-
tendere e di volere (Norvegia e Svezia seguono questo metodo). Ne consegue, ed è

219
Criminologia ed elementi di criminalistica

l’esempio svedese, che il malato mentale venuto a contatto con la giustizia penale
non può essere sottoposto a sanzioni penali punitive, ma deve essere sottoposto a
misure di trattamento psichiatrico;
3) il metodo puramente normativo non considera i problemi psicopatologici, ma valu-
ta solo se, al momento del fatto, sussisteva la capacità di intendere e di volere. Tale
metodo non è seguito in nessuno dei paesi europei (almeno di quelli membri del-
l’U.E.) e fa capolino solo in quelli in cui l’elemento psicopatologico, interpretato in
modo estensivo, conduce a effetti distortivi e ad abusi contrari al senso di giustizia.
Occorre, anche, chiarire che esiste un legame tra il criterio utilizzato per definire
il disturbo psichico e il criterio per rilevare il rapporto tra disturbo e imputabilità:
quanto più è allargato il criterio diagnostico, più è vincolante il rapporto tra ma-
lattia mentale e comportamento.

Nonostante il maggior sforzo critico dei magistrati, ancora oggi, il legame tra di-
sturbo psichico e comportamento criminoso, soprattutto per quanto attiene i reati di
violenza, resta in piedi. Anche se non esiste più il meccanicismo per il quale il malato di
mente è solo per questo prosciolto, si cerca il legame di causalità tra lo stato patologico e
l’atto criminoso, come se questo fosse sintomo della malattia, del disturbo.
In realtà non sembra che si possa affermare che il reato sia sintomo della malattia,
e ciò anche nei casi più gravi ed efferati.
La valutazione dei problemi connessi con l’imputabilità e la responsabilità pena-
le a livello dei casi individuali, nel campo delle scienze di tipo clinico, come sono la
psicologia e la psichiatria, hanno evidenziato come i periti non sono scientificamen-
te qualificati per fornitore pareri, se non veri e propri giudizi, in merito a questioni
morali e filosofiche, come la responsabilità o l’imputabilità penale. Giustamente, Ca-
nepa, fà notare che il parere del perito è trasformato, dal magistrato, in un giudizio
morale sulla responsabilità, e, quindi, sulla libertà del soggetto che deve essere giudi-
cato; ma il perito non ha la competenza per esprimersi sulla responsabilità e sull’im-
putabilità; da qui, la richiesta di revisione di tali concetti in seno al codice penale.
Per Canepa, il perito dovrebbe limitarsi alla comprensione clinico-fenomenologica
dell’atto criminoso ed elaborare un programma di trattamento finalizzato alla riso-
cializzazione.

11.3 Relazione tra disturbi mentali e pericolosità


Nella versione originale del codice Rocco, nei confronti dei prosciolti per vizio di
mente, vigeva la presunzione di pericolosità, e, di conseguenza, l’obbligo di assegnazione
all’O.P.G. (Ospedale Psichiatrico Giudiziario), per un tempo predefinito nel minimo,
ma non nel massimo, in funzione della gravità del reato e non della malattia.
L’ avvenuta guarigione prima dello scadere del termine della misura, così come la
concreta e reale non pericolosità del soggetto, non avevano alcuna rilevanza. Analogo
regime vigeva per i seminfermi, con l’ulteriore incongruenza che la misura si aggiun-
geva alla pena diminuita. Ciò sulla base di una duplice presunzione: accertata infat-

220
Criminalità e distrurbi mentali

ti la incapacità di intendere e di volere del soggetto conseguente ad una sua infermità


psichica, viene presunta dal legislatore la di lui pericolosità sociale; a sua volta, però, la
norma, presume, pure, che l’infermità cui è collegata la pericolosità, individuata rispet-
to al momento della commissione del fatto, perduri fino a quando si procede all’appli-
cazione della misura di sicurezza.
La conseguenza, inaccettabile sul piano costituzionale, è che può subìre la misura
di sicurezza un soggetto che, nel lasso di tempo intercorso tra i due momenti predetti,
sia guarito dallo stato di alterazione mentale, senza che però ciò valga a differenziarlo,
sul piano giuridico, da chi è ancora infermo.
Solo la legge 663/1986, abrogando ogni fattispecie di pericolosità presunta, ha ri-
solto definitivamente il problema del binomio pericolosità sociale-infermità mentale, con-
sentendo, così, di considerare quest’ultima, non più come una causa speciale di peri-
colosità, ma come un qualsiasi fattore che, interagendo con gli altri, può esercitare
un’efficacia criminogena; si può, quindi, escludere l’applicazione della misura, non so-
lo quando l’infermità è venuta meno o è migliorata, ma, anche quando, pur essendo
questa immutata rispetto all’epoca della commissione dei fatti, risulti comunque im-
probabile che il soggetto ponga nuovamente in essere comportamenti lesivi degli inte-
ressi della collettività: in altri termini, si può affermare, che anche la pericolosità socia-
le dell’infermo di mente deve accertarsi, non soltanto sulla base di emergenze di natura
medico-psichiatrica, ma sulla base di tutti quei criteri di valutazione di cui all’ art. 133
c.p.; quindi, il giudice è legittimato a prendere in esame qualsiasi elemento utile a detto
accertamento, compreso l’ambiente in cui il soggetto liberato verrebbe a vivere e ope-
rare, e la presenza ed efficienza o meno di presidi territoriali socio-sanitari ai fini della
continuità nell’assistenza psichiatrica; da ciò, consegue che detto accertamento è com-
pito esclusivo del giudice, che non può abdicarvi a favore di altri soggetti, quali il pe-
rito, né rinunciarvi, pur dovendo tener conto dei dati relativi alle condizioni menta-
li e comportamentali in cui si trova il soggetto interessato, eventualmente indicati dal
perito.
La conseguenza dell’attuale disciplina è che, nei confronti dell’autore di reato, an-
che gravissimo, che sia stato prosciolto per vizio totale e che non venga riconosciuto
pericoloso, non è previsto nessun provvedimento ed egli sfugge a qualsiasi terapia o cu-
ra appropriata.
La mancanza di alternative intermedie tra l’internamento in istituto e la rimessio-
ne in libertà, senza possibilità di imporre alcuna forma di controllo o di aiuto agli in-
fermi di mente, investe di una grossa responsabilità il giudice e lo psichiatra forense,
chiamato a esprimere un giudizio di pericolosità, che si traduce, o in una profonda li-
mitazione della libertà personale, o in una totale rinuncia alla difesa sociale. Unica solu-
zione intermedia che può aprirsi per il malato di mente giudicato socialmente pericoloso
è la possibilità che, in sede di accertamento della pericolosità prima dell’esecuzione in
concreto della misura o successivamente in sede di riesame della pericolosità, il magi-
strato di sorveglianza dichiari non venuta meno, ma attenuata, la sua pericolosità socia-
le e disponga la conversione della misura manicomiale in quella della libertà vigilata,
meno lesiva della libertà personale. Inoltre, persiste la difficoltà di conciliare il dubbio
e lo scetticismo sulle capacità predittive della psichiatria, che come tutte le scienze che
hanno per loro oggetto l’uomo, non è una scienza esatta, con la necessità, da parte del

221
Criminologia ed elementi di criminalistica

diritto, di risposte certe. L’ampliamento del ruolo e della responsabilità del perito psi-
chiatra, porta, quest’ultimo, ad esprimersi sulla pericolosità sociale, fino ad essere chia-
mato, tenuto conto dell’ampia delega operata abitualmente dai magistrati in favore dei
tecnici chiamati a esprimere il loro parere, a operare un giudizio che, secondo l’opinio-
ne dominante, non è da considerarsi di competenza medica e ad assumersi una respon-
sabilità che non gli compete, tra i due opposti rischi di sconfinare in una sovrastima
della pericolosità sociale o di agevolare i simulatori che, se giudicati inimputabili, e non
pericolosi, non subiranno alcuna sanzione. Meglio sarebbe, secondo tali autori, che allo
psichiatra fossero riservate considerazioni tecniche su elementi quali le caratteristiche
individuali della malattia, l’eventuale miglioramento o guarigione della stessa, le indi-
cazioni terapeutiche, la prognosi legata al tipo di interventi; elementi che poi il giudi-
ce utilizzerà per effettuare (egli stesso) il giudizio di pericolosità, non delegabile ad altri,
avvalendosi anche di tutti quei dati per la cui valutazione non è necessaria una compe-
tenza di tipo medico, quali la gravità del reato, l’allarme sociale, i fattori situazionali, i
precedenti penali, e così via.
Altri autori, poi, ammettono la competenza predittiva del perito psichiatra, ma,
solo se congiunta alla formulazione di un programma terapeutico. Il binomio prognosi-
terapia, dimostratosi valido in ogni settore della medicina, conserverebbe la sua validità
anche in psichiatria forense, coinvolgendo nei progetti terapeutici i servizi psichiatrici
civili territoriali, che sono, oggi, abilitati ad occuparsi anche dei malati di mente in de-
tenzione, siano essi imputati o condannati. Naturalmente, ciò che i critici della capaci-
tà predittiva della psichiatria contestano non è la necessità di formulare predizioni nella
quotidianità del vivere, bensì, il fatto di gabellare per scientifiche, prognosi che non sa-
rebbero più sicure di quelle basate sul senso comune. Resta però il fatto che, se si deve
ammettere che, al folle residua, pur sempre, uno spazio di libertà, sappiamo anche che
ogni disturbo mentale comporta una riduzione di questa area. Inoltre, le dinamiche
dei disturbi mentali sono note alla psichiatria, e le reazioni dei soggetti che ne sono af-
fetti sono più rigide di quelle delle persone sane, più frequentemente stereotipate e più
agevoli ad essere previste. Nonostante ciò, non sono possibili certezze, perché il malato
non è guidato, nella propria condotta, soltanto dalle dinamiche psicopatologiche, che,
seppur rilevanti, non eliminano la sua libertà di scelta.
Le predizioni psichiatriche sono, pertanto, possibili, ma contengono un margine
ineliminabile di errore, che impedisce di farle assurgere a dignità di certezze scienti-
fiche. Posto però che il diritto penale vigente deve poter disporre, per il suo corretto
funzionamento, così come dei giudizi di colpevolezza, anche di quelli di pericolosità
sociale del reo malato di mente, la psichiatria può fornire al giudice ulteriori elementi
di valutazione, ma la responsabilità ultima del giudizio di pericolosità è pur sempre del
giudice, nella veste di peritus peritorum, non potendo attribuirsi al perito la funzione di
arbitro del conflitto fra la sicurezza sociale e la libertà individuale. In conclusione, ai fi-
ni dell’accertamento della pericolosità sociale del soggetto affetto da malattia di mente,
occorre tener presente che nulla consente di affermare con certezza che in determina-
te circostanze di tempo e di luogo, o sotto determinate spinte emotive o psicologiche,
il malato di mente possa, o meno, porre in essere azioni delittuose che non sarebbero
compiute, nelle stesse condizioni, da una persona sana; ma, anche che in materia di
prognosi comportamentale, non può negarsi che l’esistenza di una malattia mentale o

222
Criminalità e distrurbi mentali

di disturbi alla sfera neuro-psichica, costituisce un elemento tale da pesare in modo ri-
levante. Sotto tale profilo, il giudice dovrà attendersi, dall’indagine tecnica, specifiche
indicazioni circa l’attualità della malattia, il livello di intensità con cui essa si presenta,
la possibilità di attuare, in ambiente diverso dallo stato di libertà, adeguate terapie con
ragionevole previsione di efficacia, la compatibilità della condizione morbosa del sog-
getto con l’inserimento in un ambiente (sociale e familiare) di cui siano state preventi-
vamente valutate la natura e le caratteristiche di recettività, gli elementi di danno che
possono derivare al malato dalla privazione della libertà, nonché gli elementi che pos-
sono determinare il soggetto alla perpetrazione di nuovi reati. Acquisiti tali elementi
di valutazione tecnica, il giudice dovrà esprimere, sulla base di questi, ed utilizzando i
criteri di cui agli artt. 203 e 133 c.p., il giudizio circa l’esistenza, la permanenza, l’atte-
nuazione o il venir meno della pericolosità, pur tenendo presente che, in tali casi, l’in-
fermità psichica, in quanto condizionante l’attuazione stessa della prognosi di perico-
losità, è l’elemento di maggior peso ai fini di quest’ultima.

11.4 Le nevrosi
Il termine nevrosi (letteralmente impoverimento di ordine nervoso) fu preso in
prestito dalla metà del ‘800: questo comprendeva la neurastenia (o nevrastenia), che si-
gnifica mancanza di energia, e l’esaurimento nervoso (accezione di tipo popolare). Si
pensava che ogni malattia psichica fosse correlata a una patologia di un’area specifica
del cervello. Il quadro era molto vago, e solo verso la fine del ‘800, Freud cominciò ad
organizzare una comprensione eziopatogenetica delle nevrosi; il primo studio fu sul-
l’isteria, malattia già nota da tempo.
I primi psicopatologi che si occuparono delle nevrosi furono Janet e Charcot. Fu
quest’ultimo che diede una descrizione e un significato preciso al termine isteria che,
seppur introdotto da Ippocrate, era assai ampio. È una malattia dovuta a cause psico-
gene che produce uno stato di sofferenza importante (es. diminuzione delle capacità la-
vorative), con perdita delle capacità operative sia nel soggetto che ne è affetto, che nelle
persone che gli stanno attorno: è una malattia che produce una grossa quantità di sof-
ferenza familiare. Il modello freudiano parte da un’ipotesi della psiche, che risulta cen-
trata su una funzione principale che è l’Io, ed un’altra area importante che è l’inconscio,
del quale non siamo consapevoli. In un corretto funzionamento, queste due aree sono
in continuo scambio (omeostasi della coscienza dell’io): è uno scambio qualificato, pre-
ciso e selettivo (ad esempio, la città contenuta dalla muraglia che seleziona il passaggio).
Questo scambio è il luogo dove si verificano le alterazioni che originano le nevrosi.
I meccanismi di difesa dell’Io: i meccanismi di difesa dell’io sono dei meccanismi
presenti in tutti noi, sono una funzione psicologica, (sono le guardie della città) che so-
no in parte coscienti e in parte incoscienti. Ogni meccanismo di difesa è tipico di una
categoria di nevrosi: lo spostamento è relativo alla nevrosi fobica, la formazione reatti-
va è tipica della nevrosi ossessiva, la conversione invece è relativa all’isteria. Le nevrosi
d’ansia, invece, comprendono la nevrastenia e la nevrosi ipocondriaca.
Meccanismo di difesa della rimozione: ogni cosa alla quale non siamo attenti è ri-

223
Criminologia ed elementi di criminalistica

mossa, questo avviene come un meccanismo fisiologico necessario per lasciare posto ad
una nuova informazione; è un meccanismo costante e continuo, la cui funzione avvie-
ne in modo selettivo e automatico dove alcuni contenuti hanno un carattere conscio,
mentre altri rimangono sempre inconsci. I contenuti psichici hanno una loro valenza
energetica; secondo questa valenza, sarà più o meno possibile rimuoverli. La rimozione
è un fenomeno per cui i contenuti della coscienza vengono gettati fuori dalla coscienza
stessa ma possono, in un soggetto sano, essere recuperati e riutilizzati.
Un contenuto psichico viene rimosso quando non ci serve più, o quando non è
coerente con l’orientamento che l’Io possiede; i nostri contenuti psichici scompaiono
da un lato, ma possono ricomparire da un’altra parte.
L’inconscio confonde, contamina, mette tutto insieme; la coscienza distingue, sepa-
ra, ha una funzione di discernimento, di distinzione. I nostri contenuti psichici quando
vengono allontanati, si mischiano in un unico contenitore, peraltro contaminato. L’at-
tività specifica della coscienza è quella di distinguere i contenuti psichici.
Psicopatologia della rimozione: ogni qualvolta un contenuto psichico con un certo
valore energetico viene eliminato, insieme a quelli che non hanno un valore energeti-
co, si realizza una rimozione psicopatologica. Ogni cosa che non è compatibile con la
struttura primaria della coscienza, viene rimossa (pregiudizi sentimentali come l’omo-
sessualità, il desiderio di uccidere, e così via). Per comprendere sostanzialmente qual è
la nostra area rimossa, bisogna pensare a tutto quello che ci fa vergognare, viceversa,
per l’area ideale, sarà tutto quello del quale siamo orgogliosi. Il nevrotico è colui che ri-
muove i contenuti psichici con una carica energetica importante perché non li ritiene
compatibili con la propria coscienza.
La differenza fondamentale è che un soggetto sano, prima o poi, si accorge dei
contenuti che ha eliminato e va a recuperarli, il nevrotico questo non lo farà mai. Se
si rimuove un contenuto con un elevato valore energetico (quantità di libido), questo
produce un’attivazione inconscia; l’inconscio attivato per mantenere rimosso il con-
tenuto ha bisogno di una grande quantità di energia. Il soggetto si troverà a spendere
un’enorme quantità di energia per evitare che il contenuto non torni a galla. Lo psico-
tico rimuove i contenuti psichici e non può più reintegrarli, dal momento che avesse
questa capacità non sarebbe psicotico ma verrebbe considerato nevrotico: la sua strut-
tura dell’Io, come contenitore, è troppo fragile.
Il rito nevrotico è diverso da un rito sano, il nevrotico evita il contatto con quella co-
sa da esorcizzare (esorcismo significa in greco: “giuro che no”), ponendo un muro.
È un rito fallimentare che ha come obiettivo la difesa del soggetto da questo evento
che crea paura, ma che, allo stesso tempo, è molto attraente. È un sistema di distanziar-
si dall’oggetto che necessita di riti sempre più potenti per mantenere questa distanza.
Nello psicotico, questi si presentano sotto forma di stereotipie e manierismi. Esi-
stono anche dei segni sintomatici di nevrosi infantili nei soggetti adulti:

- balbuzie: aumentano nelle situazioni di disagio e ansia;


- onicofagia: impulso a mangiarsi le unghie; frequente nei bambini ma riscontrabile
anche nell’adulto; l’onicofagia è una via per scaricare dell’ansia con sotteso simbo-
lismo aggressivo o autodistruttivo, non disgiunto da un aspetto rituale che, para-
dossalmente, svolge una funzione rassicurante;

224
Criminalità e distrurbi mentali

- pavor nocturnus: angoscia che insorge durante la notte, frequente nei bambini che
si risvegliano a occhi spalancati in preda al panico; solitamente, dopo una breve
rassicurazione, c’è una ripresa del sonno tranquillo e al risveglio, una totale am-
nesia dell’accaduto; inoltre, non è un sintomo isolato, ma si accompagna ad altri
disturbi quali l’enuresi, irrequietezza motoria, reazioni ansiose, solitamente dovu-
te a conflitti con l’ambiente familiare, e la conseguente incapacità di affrontare la
situazione;
- enuresi: perdita involontaria e incontrollata di urine dopo il quarto anno, età so-
glia, per l’autoregolazione dello sfintere urinario. Escluse le cause organiche, le ra-
gioni vanno ricercate nell’ambito psicogeno negativo dell’ambiente circostante,
che induce il soggetto ad atteggiamenti di protesta e di negativismo.

Per ciò che attiene la dimensione personologica, il nevrotico è in continuo stato


d’allarme. Vi è una diffidenza basale tra la coscienza e la natura stessa dell’individuo.
Paura dell’ignoto e del nuovo dove il soggetto deve rassicurarsi in continuazione. L’at-
teggiamento del soggetto affetto da nevrosi d’ansia è una difficoltà ad accettare tut-
to quello che non conosce. Chi non è ansioso, non ha difficoltà ad accettare le nuove
esperienze. Chi soffre di nevrosi d’ansia, è, di solito, una persona conservatrice; ha una
tendenza a leggere negativamente tutto ciò che lo circonda e in questa lettura negati-
va si rileva anche una grossa aggressività. Questo tipo di individuo autolimita la pro-
pria esistenza in modo molto marcato. Arriva il momento che si verifica una crisi acuta
d’angoscia (ad esempio presentimento di morte improvvisa), dove il soggetto si sente
bloccare il fiato, vi è una oppressione retrosternale, la persona si sente morire, vi posso-
no essere svenimenti, e così via. Le nevrosi più diffuse sono:

1) nevrosi d’ansia ipocondriaca (che si riscontra, soprattutto, in alcune aree della po-
polazione, ricorrente negli anziani, secondo il modello culturale, ed in quelle per-
sone che hanno una scarsa dimestichezza con il proprio lato psichico, emotivo,
sentimentale, e che esprimono i disagi piuttosto sul lato somatico; nel soggetto con
ansia ipocondriaca, c’è una sensazione che il corpo si rompa, come nella sintoma-
tologia dell’angoscia dove vi è la paura di avere dei problemi fisici (cardiopatie, tu-
mori, ecc.). La nevrosi d’ansia ipocondriaca è una lettura della cenestesia in modo
ansioso, dove vi è un’angoscia d’avere una malattia corporea;
2) nevrosi fobica: l’ansia viene canalizzata mediante il meccanismo di difesa dello spo-
stamento; il soggetto vive costantemente sulla difensiva, ha paura di tutto, soprat-
tutto di ciò che non conosce (nessuna nuova, buona nuova), non tollera il con-
fronto, desidera tanto che ci fosse qualcun altro al suo posto; quando dà la mano,
contemporaneamente la ritira. Teme tutto e organizza la sua vita su questo atteg-
giamento. È sempre in condizione di allarme e la fuga è un elemento ricorrente: è
l’antiesplorativo per eccellenza. Le fobie più diffuse sono:

- paura degli spazi aperti (agorafobia): l’ansia che insorge quando si tratta di
uscire di casa da soli può essere lieve o giungere a vere e proprie crisi di panico
che possono portare a svenimenti, sensazioni di vertigine e talvolta anche ad
una perdita del controllo sfinterico;

225
Criminologia ed elementi di criminalistica

- paura degli spazi chiusi (claustrofobia): paura dei luoghi chiusi o troppo affol-
lati, come ascensori, gallerie, scompartimenti dei treni, cabine telefoniche e si-
mili, dove, in alcuni casi, prevale la sensazione di soffocamento e oppressione,
in altri quella di essere rinchiusi o imprigionati. La claustrofobia e le reazioni
a essa associate rimandano filogeneticamente alle risposte di terrore degli ani-
mali posti in una situazione in cui non hanno la possibilità di fuga;
- paura dell’autostrada: è un percorso dove non si può ritornare in dietro (il tem-
po passa), quello che si è fatto è fatto, ed è irreversibile; chi può tornare indie-
tro è l’adolescente, capace di fantasticare;
- paura delle gallerie: la galleria può rappresentare il canale del parto, dunque
vi è una paura della nascita, anche questa è irreversibile; sul piano simbolico
indica la difficoltà di cambiamento, di passaggio. È un cambiamento da una
situazione a un’altra. La nostra coscienza è in grado di percepire la realtà in
base alle misure spazio/tempo. C’è un’evoluzione della coscienza umana in
base al bisogno; man mano che aumenta la rappresentazione di sviluppo che
si ha di sé, si cerca più spazio (scoperta dell’America, viaggi spaziali, ecc.);
- paura degli animali con tante zampe (ad esempio, ragno - aracnofobia): reazio-
ne fobica di repulsione nei confronti dei ragni, più diffusa tra le donne perché,
secondo la psicanalisi, questa fobia è legata alla paura della distruttività ma-
terna che la donna può inconsciamente avvertire dentro di sé e trasporre nella
realtà esterna, indirizzandola ad un oggetto sostitutivo che nella fattispecie è il
ragno;
- paura dei topi: sono delle organizzazioni di specie che, da sempre, si sono as-
sociate alle organizzazioni umane; queste si nascondono nei sottofondi, nelle
fogne, penetrano ovunque, sono dei portatori di malattie, stanno tra quello
che noi rimuoviamo, e noi rimuoviamo gli istinti (sesso, morte, ecc.);
- paura dei serpenti: il serpente è un animale che non si può addomesticare; sim-
bolicamente rappresenta l’istinto puro dove a uno stimolo c’è una risposta;
- paura dello sporco (rupofobia): fobia per lo sporco, che innesca un meccanismo
ossessivo che costringe il soggetto ad affaccendarsi in continue pulizie. Secon-
do la psicoanalisi, la rupofobia può nascondere un inconfessato rifiuto della
sessualità, dello sperma, delle mestruazioni, della gravidanza, che il soggetto
vive in modo conflittuale.

3) Nevrosi isterica: viene detta anche isteria di conversione, è una grande malattia con
una storia molto antica ed è molto complessa. Ha una connotazione etica negati-
va, soffre di una serie d’imputazioni mediche, dove oggi c’è ancora chi la conside-
ra come qualcosa di poco morale. Questo tipo di personalità nasce in un soggetto
che si sviluppa aderendo a una immagine ideale dell’Io e che non rispetta un reale
sentimento dell’Io. Questo capita se il soggetto cresce in un ambiente dove, per es-
sere amato, deve corrispondere a un certo modello, che finisce per adottarlo, non
essendo più quello che si sente di essere. Il soggetto isterico rifiuta la natura, rinvia
costantemente delle immagini di amabilità, per ottenere un consenso. Quando una
persona si trova in un ambiente di questo tipo, finisce per identificarsi con il mo-
dello che gli viene imposto per riuscire ad essere amata; si instaura quindi un mec-

226
Criminalità e distrurbi mentali

canismo di falsificazione delle proprie emozioni, sino alla legittimazione di un com-


portamento in modo automatico. Esistono, nel soggetto, dei germi basali per questa
doppia personalità. Nel soggetto, si inizia a costruire un’identità di sé falsificata, c’è
uno sviluppo di un falso sé, un’identità falsa che inganna il soggetto stesso.
4) Nevrosi ossessive: la personalità ossessiva è definita da una parola greca: anancastica,
che significa necessità obbligata; normalmente, esiste un rapporto di interscambio
funzionale con l’area istintiva, ma nella personalità anancastica, ciò avviene attra-
verso un filtro di regole di comportamenti precostituiti. Sono persone assenti, o
vissute come tali, che burocratizzano la propria esistenza e quella altrui: sul piano
affettivo-emotivo, sono fredde e regolamentano ogni loro azione e scambio emo-
zionale. Sono una grande sventura, molto simili alla struttura paranoide. Vi sarà
un’altra parte dell’ordine trasgressivo che si manifesterà come ad esempio in episo-
di cleptomania (il giudice preciso e regolamentato che ruberà al supermarket), o di
esibizionismo.

11.5 Le psicopatie
Le psicopatie, che includono anche le c.d. caratteropatie, rappresentano degli stati
e non delle malattie; esse non fanno parte del campo degli interventi psichiatrici; tutta-
via, da sempre, sono considerati dalla psichiatria, a seguito delle problematiche foren-
si indotte. Le psicopatie implicano una serie di comportamenti trasgressivi delle rego-
le sociali. Raramente gli interessati vengono ricoverati in ospedale psichiatrico se non
si innesta una psicopatologia secondaria (alcolismo, tossicomania, ecc.). Sulla genesi e
la problematica originaria, si è discusso per lungo tempo, dato che veniva considerata
frutto di una patologia cerebrale di derivazione epilettica, dovuta alle frequenti altera-
zioni dell’EEG, motivo per il quale, è sempre stata trattata con una terapia anticonvul-
siva, anche in assenza di crisi.
Uno dei collegamenti principali riguardava la caratteristica epilettica che si mani-
festava anche nelle psicopatie, termine attualmente non più in uso. Oggi, è noto che il
nucleo fondamentale risiede in un disturbo affettivo. La provenienza del soggetto a livel-
lo di nucleo familiare è fondamentale: si riscontra un’assenza di rete affettiva, manca un
referente affettivo che abbia una certa stabilità; la madre può essere prostituta, il padre
etilista, il fratello tossicodipendente o delinquente, e così via.
In realtà, non è indispensabile la presenza di una famiglia come quella su indicata;
è sufficiente, ad esempio, una situazione di separazione o di delega (perché si tratta di
una famiglia in carriera), da parte dei genitori, a cose come i giochi o a persone non
continuamente presenti, che acquisiscono il significato di sostituto affettivo, per indur-
re condizioni psicopatiche nel bambino. L’importanza di un oggetto amabile stabile,
nel senso di elemento proiettivo, è fondamentale, perché permette di introiettare que-
ste caratteristiche: la stabilità affettiva porta a un’inerzia che consente di assorbire il
mondo pulsionale e, quindi, la trasformazione in scelte comportamentali organizza-
te. Quello che accade tragicamente a una struttura psicopatica è la povertà di capacità
trasformativa; è la mancanza di trasformare un livello istintuale-pulsionale a un livello

227
Criminologia ed elementi di criminalistica

affettivo, per cui, la risposta è conseguentemente un agito (acting out). Lo sviluppo af-
fettivo si realizza grazie alla capacità di sopportare le frustrazioni. Lo psicopatico è un
soggetto che non sa che cos’è una vita affettiva godibile: le emozioni in lui non esisto-
no, sono pulsioni, quindi agiti. Dal punto di vista clinico, gli elementi caratteristici si
notano molto precocemente in un soggetto psicopatico: già a livello di infanzia. La fa-
miglia di provenienza dello psicopatico, se così la si può definire, ha una struttura psi-
copatica: è piuttosto un’aggregazione sociale che altro. Analoga cosa avviene anche nei
bambini istituzionalizzati precocemente. Si tratta quindi di un bambino che non ha
limiti a livello di aggressività, non ha una distinzione tra oggetti propri e quelli altrui,
non ha una stasi spaziale, è irrequieto: nessun gioco o azione possono tranquillizzarlo.
Si osserva una precocità sessuale (e non solo), tipica di un’età più avanzata. Essendo
alterata la funzione affettiva, il soggetto psicopatico ha una difficoltà di apprendimento
sin dalla tenera età, in quanto, presuppone una capacità di sopportare le frustrazioni.
È ricorrente che diventi, in una scolaresca, il capro espiatorio, in quanto, la precocità in
vari ambiti, porta a uno sconvolgimento dell’ambiente scolastico stesso: piccola delin-
quenza, tossicodipendenza, precocità sessuale, e così via. Giunto alla maturità, lo psicopa-
tico si inventa il quotidiano: può diventare il gregario di una delinquenza organizzata,
diventare una prostituta, oggi non infrequente anche a livello maschile. Si innestano
patologie secondarie come la tossicodipendenza, alcolmanie che contribuiscono ad am-
plificare lo stato psicopatico; un evento molto frequente è che si producono degli ac-
cidenti dell’ordine suicidale: morte per overdose, morte per AIDS, ecc.
Vi è una capacità di percezione in questi soggetti su quello che accade a loro com-
prendono per un tempo troppo breve, per poi ripartire per il loro percorso patologico.
In casi meno estremi, paradossalmente opposti, in una famiglia in carriera, ad esempio,
vi possono essere i presupposti per una struttura psicopatica. L’ambiente tipico per uno
psicopatico è quello dell’uniforme, o dell’ambiente uniformato, dove vi è uno statuto
di organizzazione dell’aggressività: infermieri, psichiatri, forze dell’ordine.
Vi sono individui che, in seguito a patologie di ordine psichico, solitamente nel-
l’ambito nevrotico, si trovano in una posizione di vantaggio secondario, dove, ad esem-
pio, l’istituzionalizzazione crea una situazione di beneficio come poter mangiare, dor-
mire, non lavorare. Si trovano a mimare una patologia di ordine nevrotico: sanno tutto
sulla loro malattia, conoscono tutti i tipi di psicanalisi e sono stati in molti ospedali; si
tratta, in tali casi, di psicopatici pseudo-nevrotici.
Vi sono, invece, patologie a livello di turba della personalità dell’ordine psicopati-
co, che virano in un ambito psicotico.
La psicopatia non è una malattia bensì uno stato; da adulti, le cose non si modifi-
cano più. Con i bambini si può lavorare invece in modo efficace: famiglie affidatarie,
adozioni, e così via, rappresentano ambienti che hanno un certo spessore affettivo. Si
tratta, in realtà, di un’azione preventiva. Non esistono terapie, si possono proporre
dei contenitori, più che dare una certa stabilità; un’organizzazione comportamentale è
una valida soluzione che impedisce comunque di far acquisire al soggetto psicopatico
un’esperienza.

228
Criminalità e distrurbi mentali

11.6 Le psicosi
Il termine psicosi, in uso nella letteratura psichiatrica a partire dal XIX secolo, ve-
niva utilizzato per indicare le malattie mentali in generale.
Successivamente, è emersa, sul piano concettuale, la necessità di suddividere alcu-
ne di queste malattie con la denominazione nevrosi. Da allora, l’evoluzione dei due ter-
mini, si è espressa su piani diversi, ma entrambi validi. Il gruppo delle nevrosi si è len-
tamente delineato, sino a comprendere le affezioni nelle quali, in mancanza di lesioni
organiche, si imputava il disturbo a un cattivo funzionamento dell’apparato psichico
(malattie funzionali).
Questo concetto si basava principalmente sul criterio di disturbo di una sola fun-
zione, sulla sua reversibilità e su alcune caratteristiche intrinseche del disturbo stesso,
che seguiva leggi differenti dalle malattie a carattere organico. A loro volta, queste ulti-
me, erano contraddistinte con il termine di psicosi. Successivamente, questo criterio è
stato mitigato, e molte classificazioni moderne usano il termine psicosi anche per alcune
affezioni senza reperto anatomico (psicosi funzionali) che rientrano, però, più specifi-
camente, nella competenza della psichiatria, poiché si traducono in una sintomatolo-
gia essenzialmente psicopatologica per caratteristiche di gravità, di molteplicità dei fe-
nomeni morbosi e di irreversibilità dei disturbi. Attualmente, nella psichiatria clinica,
il concetto di psicosi è estremamente ampio e comprende tutta una gamma di malattie
mentali, sia manifestamente organiche, sia con eziologia ancora discussa e non suffi-
cientemente chiarita. Il raggruppamento di queste malattie, sotto il termine di psicosi,
si basa su criteri psicopatologici e sociali. Dal punto di vista psicopatologico, il concetto
di psicosi rimane definibile in modo presuntivo, sia per la gravità dei disturbi psichi-
ci sia per il decorso progressivo e per lo più irreversibile, con modificazione, non solo
quantitativa, ma anche qualitativa, nei confronti della normalità. Sotto un profilo so-
ciale, la psicosi è definibile in base al contegno spesso imprevedibile e genericamente
alienato dello psicotico, con scarsa partecipazione alla psicologia normale. Per queste
ragioni spesso compaiono nelle definizioni correnti delle psicosi criteri diversi, come
l’incapacità di adattamento sociale, la maggiore o minore gravità dei sintomi, la pertur-
bazione delle facoltà di comunicazione, la mancanza di consapevolezza della malattia,
la perdita del contatto con la realtà, il carattere non comprensibile dei disturbi, le alte-
razioni più o meno profonde e irreversibili dell’Io. Il contributo sperimentale al chia-
rimento del concetto di psicosi non sempre ha potuto basarsi su dati obiettivi di ana-
tomia clinica e di psicofisiologia, poiché la psicosi è strettamente legata a un profondo
disturbo della personalità in genere e non riducibile a elementi semplici. Pertanto, i dati
sperimentali che si sono potuti utilizzare a questo riguardo hanno un significato vago e
di valore molto particolare. Le osservazioni principali si riferiscono all’azione di alcune
sostanze tossiche (psicodislettici) capaci di produrre disturbi psicotici inquadrabili nel-
le psicosi modello. Questi disturbi, tuttavia, si sono rivelati per lo più transitori e non
hanno sufficientemente chiarito i presupposti anatomo-clinici sopra enunciati. Anche
il contributo dato dalle varie correnti psichiatriche e psicologiche alla definizione del
concetto di psicosi si è espresso in termini variabili a seconda dell’indirizzo seguito e
non ha permesso di ricavare una definizione unitaria, per cui, è opportuno esaminare
i vari punti di vista, per meglio chiarire il problema nei suoi termini generali. Gli indi-

229
Criminologia ed elementi di criminalistica

rizzi organo-genetici si mantengono su un piano biologico, anche riguardo alle forme


in cui la lesione organica non è dimostrata; ammettono, dunque, che pure in questi
casi, l’anatomia e la fisiologia del cervello possono essere alterate da un agente morboso
occasionale o da un fattore costituzionale. Gli indirizzi a impostazione psicologica non
ammettono, invece, l’intervento organico in questi ultimi casi: l’alterazione psichica sa-
rebbe legata a cause psicologiche che evolvono in senso psicopatologico. In questa di-
mensione, stimoli psichici, con particolari modalità di azione e di elaborazione, potreb-
bero portare a disturbi mentali, non solo transitori, ma anche stabili e progressivi.
Tra gli indirizzi psicologici, la psicoanalisi ha individuato, fondamentalmente, il
denominatore comune delle psicosi in una perturbazione primaria delle capacità di in-
vestimento affettivo della realtà, e considera la maggior parte dei sintomi psicotici co-
me tentativi secondari di ripristinare questo legame oggettuale con la realtà.
Alcune dottrine eclettiche, dal canto loro, hanno individuato la causa della psicosi
in fattori psicobiologici; secondo queste correnti, esisterebbero psicosi in senso biologico
e in senso psicogenetico. Questi aspetti, per lo più, coesisterebbero in ogni esperienza
psicotica, anche se in proporzioni molto variabili da individuo a individuo, e definireb-
bero in senso fenomenologico ed eziopatogenetico i vari tipi di psicosi. Le cause delle
psicosi si possono considerare di tre ordini: organiche, costituzionali e psichiche.
L’importanza delle cause organiche è ormai nota in molti esempi di psicosi. Infat-
ti, non c’è alcun dubbio che una psicosi acuta confusionale dipenda da una condizione
tossica o tossinfettiva, e che la paralisi progressiva sia dovuta all’infezione luetica. L’im-
portanza della costituzione appare anch’essa sufficientemente manifesta nell’accertata
eredità di talune psicosi, per esempio, della psicosi maniaco-depressiva, o nel ripetersi di
episodi psicotici nel corso della vita di uno stesso individuo. Molti fattori psichici pos-
sono essere causa di psicosi, attraverso meccanismi diversi: nella psicosi maniaco-depressi-
va, ad esempio, episodi melanconici insorgono, talvolta, dopo una causa emotiva più o
meno grave; analogamente, una psicosi delirante può insorgere in seguito a un insuccesso
professionale, a una delusione sentimentale o a un qualsiasi trauma psichico.
II meccanismo patogenetico di queste affezioni consisterebbe in una particolare
azione di difesa della personalità di fronte all’angoscia prodotta da determinate situa-
zioni psicologiche che l’individuo non riesce ad affrontare e a superare. Quasi sempre,
comunque, la psicosi, con tutto il suo corteo sintomatologico, è il risultato di fattori
organici, psicologici e costituzionali e sarebbe un errore non cercare di rintracciare, nel-
l’evoluzione e nella prognosi della malattia, ciascuno di questi fattori che potrebbero
apparire di non chiara osservazione a un esame piuttosto superficiale.
Una classificazione razionale delle psicosi appare difficile per la mancanza di un
criterio unico al quale uniformarsi. Alcune psicosi sono dovute a cause determinate
o hanno una base anatomo-patologica conosciuta: si possono citare, ad esempio, la
paralisi generale, le psicosi acute e quelle che accompagnano le malattie infettive, le
malattie endocrine e dismetaboliche, alcune intossicazioni croniche (alcoolismo, tossi-
comania), le psicosi puerperali, le psicosi che si manifestano in corso di malattie orga-
niche cerebrali (traumi, encefaliti e tumori) e le psicosi dell’età involutiva. Altre psicosi
sono ancora troppo poco conosciute dal punto di vista eziologico e anatomo-patolo-
gico per poterle inquadrare e delimitare in modo altrettanto preciso, secondo un cri-
terio biologico. Tuttavia, alcune di queste forme hanno acquistato un’individualità

230
Criminalità e distrurbi mentali

nosologica incontestata, come la psicosi maniaco-depressiva e la schizofrenia. Una trat-


tazione a parte è stata riservata dagli esperti alle psicosi deliranti caratterizzate da un
delirio cronico sistematizzato non schizofrenico, quali la paranoia, le reazioni paranoi-
di e la parafrenia.

11.7 La schizofrenia
Per molto tempo, la malattia mentale, e la schizofrenia in particolare, è stata studia-
ta da due punti di vista spesso tra loro contrapposti. Il primo approccio considera ogni
prodotto comportamentale della persona quale esito di normalità o anormalità della
struttura e del funzionamento del cervello (approccio biologico); il secondo, si interessa
invece ai comportamenti quale esito di modalità di relazione e di integrazione sociale
più o meno funzionali o disfunzionali (approccio psicologico e sociale).
I due approcci tendono, oggi, a integrarsi in una visione che considera struttura
(cervello) e funzione (mente) quali elementi indivisibili e mutuamente interconnessi al-
la base di ogni comportamento umano. Nelle malattie che coinvolgono il cervello o la
mente, il peso del danno strutturale può variare da situazioni, in cui è ravvisabile una
netta e pesante compromissione di quelle in cui più forte è la valenza psicologico-rela-
zionale (come nelle cosiddette nevrosi).
In ogni caso, pur con ruoli e importanza differenti, è sempre la struttura che de-
termina la funzione e, quest’ultima incide sulle modalità di esplicazione della struttu-
ra. Allo stato delle conoscenze attuali, se nella schizofrenia non è possibile parlare di
malattia cerebrale alla stregua dell’Alzheimer, il ruolo dei fattori biologici è comunque
centrale nel creare gli aspetti di vulnerabilità che, da un lato, favoriscono uno sviluppo
della personalità problematica e, dall’altro, costituiscono il terreno su cui si innestano i
fattori scatenanti, dati dagli eventi stressanti della vita o da stili disfunzionali di comu-
nicazione o relazione all’interno della famiglia.
Il progressivo affinarsi delle tecniche di indagine sul cervello e gli sviluppi della
genetica hanno consentito di individuare quattro principali fattori biologici che au-
mentano la probabilità di sviluppare una malattia schizofrenica: 1) fattori genetici; 2)
anomalie strutturali del cervello; 3) anomalie nel funzionamento del cervello; 4) problemi
nello sviluppo neurologico.
In particolare, le anomalie strutturali (per lo più a carico dell’emisfero sinistro o
dei lobi frontali) e del neurosviluppo (dovuto a mancanza di ossigeno alla nascita o a
malattie della madre in gestazione) sembrano correlati con i sintomi negativi della ma-
lattia; le anomalie di funzionamento (essenzialmente alterazioni nella circolazione dei
neurotrasmettitori cerebrali, specie la dopamina e la serotonina) sembrano invece più
legate alla produzione di sintomi positivi.
Un aspetto importante connesso ai fattori biologici è dato dal concetto di vulne-
rabilità: spesso, il danno cerebrale o le alterazioni del neurosviluppo rimangono silenti
fino a quando la maturazione di particolari sistemi neuronali in epoca adolescenziale
non mette a nudo, di fronte al moltiplicarsi degli stimoli esterni e alle maggiori richie-
ste di adattamento agli eventi stressanti, il deficit acquisito, esponendo la persona al-

231
Criminologia ed elementi di criminalistica

le falle, nell’integrazione tra ambiente esterno e capacità di risposta dell’individuo. La


schizofrenia non è una malattia ereditaria, ossia, non è dovuta sempre e necessariamente
a un gene dominante o recessivo che transita dai genitori ai figli. Del resto, la maggior
parte dei genitori delle persone con schizofrenia non ha questa malattia, e, viceversa, i
figli schizofrenici hanno, per lo più, genitori sani. Numerose ricerche hanno, tuttavia
dimostrato, che esiste una tendenza alla familiarità, per cui, tanto più stretto è il lega-
me di parentela con un soggetto schizofrenico, tanto più aumentano le probabilità di
sviluppare la malattia. In particolare, il rischio di ammalarsi, per un parente di primo
grado, è del 10 per cento. Tale probabilità aumenta per i figli, se entrambi i genitori
hanno questa malattia: il rischio sale infatti al 40 per cento. La relazione tra struttura
genetica e rischio di sviluppare la malattia, inoltre, è stata illustrata con maggior forza
negli studi sui gemelli. Se, infatti, nei gemelli eterozigoti (ossia con patrimonio genetico
differente), il rischio che entrambi i fratelli sviluppino la malattia è del 10 per cento, in
quelli omozigoti (ossia identici), il rischio sale al 40-50 per cento. Il ruolo della familia-
rità genetica, quale ulteriore tassello nel puzzle dei fattori che incrementano il rischio, è
stato, infine, provato negli studi effettuati sulle adozioni: in questo caso, la probabilità
di rischio per i figli di genitori schizofrenici si avvicina a quella della popolazione gene-
rale. Da ultimo, un cenno al ruolo del clima emotivo della famiglia e delle modalità di
relazione e comunicazione al suo interno: spesso, come vedremo più avanti con la teo-
ria del doppio legame, non è la familiarità genetica a favorire la malattia, quanto una
familiarità con modelli di comunicazione e interazione schizofrenogenici.
I farmaci usati per la cura della schizofrenia (antipsicotici) agiscono a livello chi-
mico sul funzionamento del cervello. In particolare, la loro finalità è il riequilibrio di
particolari disfunzioni nel meccanismo che regola l’attività dei neurotrasmettitori cere-
brali, disfunzioni riscontrate con frequenza nelle persone con schizofrenia. Tra queste,
uno dei meccanismi maggiormente compromessi sembra essere quello legato alla dopa-
mina, una sostanza che regola la capacità di gestire gli stimoli esterni (e l’eventuale loro
sovrabbondanza) e il comportamento motorio.
Nei soggetti schizofrenici è stata spesso rilevata una quantità in eccesso di dopamina,
situazione che determina una eccessiva permeabilità agli stimoli e una compromissio-
ne nella capacità di filtrare e organizzare le informazioni che provengono dall’ambiente
esterno e interno all’individuo. È per questo che molti antipsicotici hanno una spicca-
ta azione antidopaminergica, in modo da riequilibrare i livelli di dopamina nel cervello
e garantire una maggiore efficienza nella gestione degli stimoli. Oltre alla dopamina,
anche l’attività di altri neurotrasmettitori può risultare compromessa: tra questi la sero-
tonina, che ha un meccanismo d’azione simile a quello di alcune droghe allucinogene
(LSD 25) e il cui eccesso è stato postulato alla base di alcuni fenomeni allucinatori, ti-
pici di molti soggetti schizofrenici. La schizofrenia è una patologia determinata da una
serie di cause, alcune ancora sconosciute che, rinforzandosi l’una con l’altra, creano le
condizioni favorevoli allo sviluppo della malattia.
Dei fattori biologici si è già parlato: questi agiscono da impronta strutturale e chi-
mica del cervello di un individuo, creando una o più condizioni di vulnerabilità (gene-
tica, morfologica, biochimica) che, in presenza di particolari condizioni temporali (per
esempio, l’adolescenza), e di particolari eventi di vita (per esempio, la fine della scuola
e l’ingresso nel mondo lavorativo), possono innescare l’avvio del processo patologico.

232
Criminalità e distrurbi mentali

Proprio il modo in cui l’individuo si è costruito, nel suo contesto sociale e fami-
liare e intorno ai propri elementi di vulnerabilità biologica, determina il modo in cui
risponderà all’ambiente. In questa ottica, le cause psicologiche e sociali sono date da
tutti quei fattori interni alla persona (peculiarità nello sviluppo della personalità, nel-
l’organizzazione delle funzioni cognitive, nello sviluppo emotivo e affettivo), ed esterni
(eventi particolarmente stressanti, per esempio un lutto, i momenti di passaggio quali
il matrimonio, il servizio militare, l’ingresso nel mondo del lavoro, o anche particolari
situazioni di emarginazione sociale ed economica) che, interagendo tra loro e sulla base
delle indicazioni fornite dal substrato biologico, scatenano la malattia.
La schizofrenia è una psicosi grave. Kraepelin l’aveva denominata dementia praecox.
Bisogna premettere che la schizofrenia è stata usata come etichetta per una tale quantità
di patologie e di sintomi che molti studiosi ne rifiutano la validità.
In realtà, se si presta attenzione al primo elemento che si presenta, emerge un dato
di fondo difficilmente contestabile: lo schizofrenico non è più pienamente responsabile
di se stesso. In secondo luogo, presenta una manifesta incapacità di organizzare coeren-
temente, o dialetticamente, le idee. Le conclusioni delle argomentazioni sono connesse
alle premesse solo lontanamente, o non lo sono affatto.
Talvolta, le associazioni di termini avvengono solo per assonanza, non per signifi-
cato o inerenza, ed allora si hanno catene verbali del tipo: abbondanza, eleganza, mat-
tanza, ignoranza, stanza, panza, riluttanza, oltranza. L’incidenza della schizofrenia a li-
vello mondiale pare sia dell’1% sull’insieme della popolazione. Stranamente, vi sono
aree geografiche nella quale l’incidenza è più alta come l’Irlanda occidentale. Più facile
comprendere come i grandi agglomerati urbani presentino percentuali più alte.
Di solito, si manifesta tra i 15 ed i 25 anni di età, e in media, cinque anni più tardi
tra le donne rispetto agli uomini.
Tra le cause, è spesso stato dimostrato che l’ereditarietà svolge un certo ruolo. I pa-
renti di primo grado di individui affetti da schizofrenia hanno una probabilità del 10%
di venire a loro volta interessati da questa psicosi. Secondo alcuni studi a indirizzo bio-
logico, alla base vi potrebbero essere dei danni cerebrali. Le tecniche di visualizzazione
cerebrale, soprattutto la T.C (tomografia computerizzata) e la scintografia a emissione
positronica, hanno evidenziato la presenza di anomalie strutturali e funzionali nel cer-
vello degli individui affetti da schizofrenia.
Inoltre, è stato dimostrato che l’assunzione di farmaci a contenuto anfetaminico
possano provocare un malessere di tipo schizofrenico.
Secondo alcuni studiosi, la schizofrenia può manifestarsi insidiosamente, a poco a
poco.
L’individuo diviene sempre più solitario e introverso, perde vitalità e motivazioni,
cessa di avere interessi culturali, arriva a dichiarare, come il filosofo Comte, che non ha
più alcun bisogno di tenersi informato e di leggere, perchè ha capito tutto.
Questo lento deterioramento può passare inosservato per mesi o persino per anni.
Solo ad un certo punto diviene chiaro che l’individuo soffre di fissazioni (le idee fisse
trovate da Pierre Janet) e/o di allucinazioni. Ma non è raro che la malattia si manifesti
improvvisamente, in seguito a forti eventi traumatici. Vi è una letteratura sterminata
riguardante le psicosi di guerra e sui reduci dalla guerra nel Vietnam. Le fissazioni pos-
sono assumere contenuti ideali svariati: come il credere di essere un personaggio famo-

233
Criminologia ed elementi di criminalistica

so o Gesù Cristo, o qualche altro rilevante personaggio storico, oppure nell’identificar-


si in una funzione come quella dell’unto del Signore, salvatore della patria, difensore
della fede, e così via.
Nella schizofrenia paranoide, la malattia comporta manie di grandezza che sono di-
rettamente proporzionali alla pochezza culturale e morale dell’individuo. Tuttavia, è sta-
to osservato che il paranoico si differenzia notevolmente dagli altri sofferenti per un mag-
giore stato di vigilanza e per la superiore coerenza nel pensiero e nell’argomentazione.
Gli schizofrenici catatonici stanno generalmente immobili per periodi lunghissimi
e sono refrattari a svolgere qualsiasi tipo di compito o a qualsiasi tentativo di farli muo-
vere. Solo occasionalmente, hanno esplosioni di tipo motorio che li costringono a va-
gare senza alcuna meta.

11.8 La paranoia
Il termine paranoia vuol dire pensare di traverso e, spesso, viene indicata ora co-
me l’espressione di una malattia mentale, ora di un’anomalia costituzionale, ora di un
complesso di disturbi ideativo-comportamentali con integrità delle funzioni affettive
e intellettive. Il disturbo primario consiste nella comparsa di un giudizio non correg-
gibile né con la critica, né con l’esperienza, né con la persuasione, e che innesca il delirio.
Il delirio è una condizione psicopatologica che è possibile trovare in diverse sindromi
psichiatriche. La terapia del delirio presuppone una valutazione diagnostica, quindi, al
fine di valutare l’efficienza di questo trattamento, è utile fare una approfondita analisi
semiologica di questa sindrome. Il delirio è definito come una falsa certezza soggettiva
non modificabile né con la logica, né con l’evidenza. Tuttora, tale definizione si basa
sui tre criteri fondamentali formulati da Jaspers. Egli delimitò, psicopatologicamen-
te, il delirio con le seguenti caratteristiche: 1) la certezza soggettiva, cioè la convinzione
straordinaria attraverso la quale viene mantenuta quella determinata idea; 2) l’incorreg-
gibilità, cioè, l’impossibilità di essere influenzati dall’esperienza concreta o da confu-
tazioni; 3) l’impossibilità del contenuto, cioè un alterato giudizio di realtà. Altra caratte-
ristica fondamentale che spesso si accompagna al delirio è la sua struttura autocentrica,
cioè il paziente è sempre e comunque elemento centrale all’interno della sua esperienza
delirante, rivestendo il ruolo di protagonista del suo mondo trasformato o in via di tra-
sformazione. La psicologia classica propone, inoltre, una serie di distinzioni puramente
descrittive di altre caratteristiche del delirio. La percezione delirante è, secondo Schnei-
der, l’attribuzione di un significato abnorme a una percezione corretta.
L’intuizione delirante è, invece, una nuova e inspiegabile certezza non basata su una
percezione. La rappresentazione delirante, infine, è secondo Jaspers, un ricordo o una rap-
presentazione mentale basata sul ricordo con l’attribuzione di un significato delirante.
La psicopatologia europea suddivide il delirio in primario e secondario, a seconda
che questo compaia rispettivamente, nell’esistenza dell’individuo come fatto puramen-
te nuovo non derivabile dalle esperienze di vita pregresse, oppure, abbia un carattere di
derivabilità comprensibile da una serie di eventi esperiti dal paziente o sia logica conse-
guenza di precedenti disturbi psicopatologici.

234
Criminalità e distrurbi mentali

Il delirio può presentarsi con un livello di organizzazione formale variabile. La sua


struttura dipende dalla complessità dei temi deliranti, dalla coerenza con i quali essi si
intrecciano, e dalla chiarezza e precisione con le quali essi vengono esposti dal soggetto.
Ne deriva che vi sono vari livelli di strutturazione del delirio, spesso collegati al tipo di
patologia o al diverso stadio di questa. Il grado di organizzazione formale, insieme con
il contenuto del delirio, sembra condizionare il comportamento del paziente, il quale,
ovviamente, sarà più influenzato a seconda di quante aree della sua vita psichica siano
coinvolte. Ad esempio, il delirio di rovina e di colpa può portare il paziente a mettere
in atto un comportamento suicidario, mentre quelli di persecuzione e gelosia possono
determinare comportamenti aggressivi. L’analisi dei temi e dei relativi contenuti del
delirio deve essere effettuata dal medico come aiuto all’indagine diagnostica, conside-
rato come alcune tematiche si presentino più spesso in alcune patologie psichiatriche
piuttosto che in altre, pur tuttavia, senza che vengano considerate come segni patogno-
monici. Quattro tematiche fondamentali caratterizzano il delirio: la prima, riguarda il
senso di minaccia e pericolo per la propria incolumità con contenuti di riferimento, di
persecuzione, di influenzamento e ipocondriaci; la seconda area tematica considera la
dominanza e il controllo alle quali sottendono contenuti di grandezza, erotomanici, e
di onnipotenza; il terzo tema raggruppa sotto i temi di rinuncia e passività, i deliri di
colpa, indegnità, rovina; l’ultima area include nelle tematiche della sessualità e della ri-
produzione contenuti di gelosia ed erotomanici.
La modalità emozionale con la quale il paziente vive l’esperienza delirante è, an-
ch’essa, di estrema importanza.
Riguardo alla relazione che legherebbe la risonanza emotiva al delirio, si possono
delineare due posizioni: la prima, considera il delirio come conseguente a una altera-
zione del tono dell’umore (depressione, mania), in questo caso si parla di delirio secon-
dario; la seconda posizione, invece, considera il delirio come indipendente dal tono
dell’umore (schizofrenia, paranoia, parafrenia) e viene incluso nella categoria dei deliri
primari. Nei deliri secondari, i temi piu frequenti correlati con la depressione riguar-
dano contenuti di colpa e rovina, mentre, nella mania, sono più spesso di grandezza e
onnipotenza.
Secondo il DSM IV, quando i contenuti sono in accordo con i tipici temi della pa-
tologia di base si parla di delirio congruo all’umore; quando invece i contenuti deliranti
non appaiono in accordo, si parla di delirio incongruo. Un altro aspetto da considerare
dal punto di vista semiologico, è come il paziente delirante viva la propria esperienza
di delirio.
Nella schizofrenia, ad esempio, la risonanza emotiva del paziente al proprio vissu-
to delirante può essere estremamente variabile. In acuto, e durante le bouffés deliranti,
infatti, risulta più frequente un’intensa risposta emotiva; al contrario, quando la pato-
logia si cronicizza, si può assistere a una sorta di indifferenza emotiva, da parte del sog-
getto. Spesso, si può notare una certa discordanza tra temi deliranti e le espressioni sia
mimiche che verbali del paziente. Al contrario, nella paranoia, il vissuto emotivo del
paziente è sempre di notevole entità. Esistono, infine, una serie di condizioni interme-
die (parafrenie), nelle quali la risonanza emotiva si muove all’interno di una vasta sca-
la. Il delirio, infatti, può esser considerato il sintomo di patologie psichiatriche a volte
molto complesse, ed è per questo motivo che, al fine di valutare l’efficacia del tratta-

235
Criminologia ed elementi di criminalistica

mento sulla condizione delirante, è utile fare un’analisi semiologica approfondita di


questa patologia, che permetta di comprendere come e perché il farmaco agisca mag-
giormente su alcuni aspetti, piuttosto che su altri.

11.9 L’epilessia
L’epilessia è una malattia o, meglio ancora, una sindrome patologica. Questo è il
primo dato importante da sottolineare. Infatti, per moltissimo tempo, si associava la
crisi epilettica a qualcosa di demoniaco, di inspiegabile e, soprattutto, era considera-
ta un fenomeno da nascondere. Si dice soffrissero di tale patologia grandi personaggi,
come Alessandro Magno, Giulio Cesare, Giovanna D’Arco o Napoleone; certamente,
ne soffrivano Dostoevskij, Flaubert, Paganini, Van Gogh, una prova, comunque, che
l’epilessia non lede le capacità intellettive, né il rendimento nella vita pratica. Nelle for-
me abituali, non porta nessuna menomazione nell’ambito della vita quotidiana e del
successo professionale.
L’epilessia è caratterizzata dalla ripetizione di crisi epilettiche, dovute a una iperat-
tività delle cellule nervose cerebrali (i cosiddetti neuroni). Si verifica, infatti, parados-
salmente, un eccesso di funzione del sistema nervoso: alcune cellule del cervello inco-
minciano a lavorare a un ritmo molto superiore al normale, producendo la cosiddetta
scarica epilettica (che si registra con l’elettroencefalogramma) e la crisi epilettica (che si
riconosce dal resoconto o con l’osservazione del paziente).
Esistono due tipi di epilessia. Nel primo (epilessie primarie o idiopatiche), la tendenza
a provocare le crisi è costituzionale; questi pazienti non presentano alcuna lesione cere-
brale e sono, dal punto di vista neurologico, del tutto normali, a parte questa singolare
caratteristica. Nel secondo (epilessie secondarie o sintomatiche), che comprende la mag-
gioranza dei pazienti, l’epilessia si sviluppa in seguito ad una lesione cerebrale. Si va da
disturbi dell’ossigenazione cerebrale al momento della nascita (evento molto frequen-
te), a malformazioni della corteccia cerebrale, fino a tutte le patologie acquisite del cer-
vello, come infezioni, traumi, tumori, disturbi circolatori. Ogni evento morboso che
lede la corteccia cerebrale, può, infatti, dare origine, nel corso degli anni, a un focolaio
responsabile dell’epilessia. Questi pazienti presentano, talora, altri segni neurologici
quali disturbi motori, ritardi di sviluppo, deficit attentivi.
In un buon numero di casi, non si riesce a trovare la causa, e l’epilessia viene defi-
nita criptogenetica.
Le crisi si rivelano con un breve e improvviso disturbo delle funzioni nervose.
Hanno in genere durata breve (meno di un minuto) e si possono manifestare con sin-
tomi diversi da caso a caso, a seconda della funzione dei neuroni cerebrali coinvolti. Le
crisi possono essere rare, ma, nella maggior parte dei casi, si ripetono frequentemente,
anche molte volte nella giornata. Fra una crisi e l’altra non è presente, solitamente, al-
cun disturbo.
La manifestazione più importante è la sospensione improvvisa della coscienza, con
caduta a terra e comparsa di movimenti di tipo convulsivo (tremori e scosse muscolari).
In altri casi, la perdita di coscienza si accompagna ad azioni compiute in modo automa-

236
Criminalità e distrurbi mentali

tico (masticare, inghiottire, parlare, toccare o spostare gli oggetti), oppure a un blocco
motorio. A volte, la coscienza è conservata, e il malato può avvertire sensazioni partico-
lari quali lampi di luce, rumori, formicolii a una parte del corpo, gusti o odori strani,
improvvise sensazioni di angoscia o euforia, la sensazione di essere in sogno, immagini
di ricordi del passato. I caratteri comuni delle crisi sono: la loro imprevedibilità, l’im-
possibilità di controllare in quel momento le funzioni nervose e il proprio comporta-
mento, la breve durata (le crisi durano pochi secondi o pochi minuti, raramente più di
10 minuti), l’inizio e la fine improvvisi.
In generale, le crisi si dividono: in crisi generalizzate e crisi parziali. Le crisi genera-
lizzate, tipiche dell’epilessia primaria o idiopatica, consistono in mioclonie (improvvise
scosse muscolari degli arti o del tronco, che, raramente, provocano cadute a terra ma
spesso fanno cadere gli oggetti di mano); assenze (improvvise sospensioni della coscien-
za della durata di 5-30 secondi, talora accompagnate da qualche scossa dei muscoli pal-
pebrali; sono facilitate dalla respirazione forzata); crisi convulsive generalizzate, (o gran-
de male, caratterizzate da perdita di coscienza, irrigidimento tonico e scosse cloniche
di tutta la muscolatura, con caduta a terra, morsicatura della lingua e talora perdita di
urine; è la manifestazione epilettica più importante e impegnativa, per i rischi di trau-
ma, ma anche per l’impegno respiratorio e cardiovascolare prodotti dalle contrazioni
massive della muscolatura).
Le crisi parziali sono tipiche dell’epilessia secondaria sintomatica o criptogenetica.
Si dividono in due grandi categorie, le crisi parziali semplici e le crisi parziali complesse.
Le crisi parziali semplici, sono caratterizzate da segni di attività parossistica di una zona
del cervello con funzioni specifiche: scosse muscolari a un arto (crisi motorie), sensazio-
ni abnormi in un territorio cutaneo (crisi somatosensoriali), sensazioni visive (crisi visi-
ve), sensazioni acustiche (crisi uditive), sensazioni fastidiose allo stomaco e alla gola, con
palpitazione e rossore del volto (crisi vegetative, la cosiddetta aura epigastrica), impres-
sione di già visto o già vissuto (crisi dismnesiche), pensiero forzato, cioè una improvvi-
sa idea che domina la mente (crisi cognitive), stati di animo di paura improvvisa (crisi
affettive). In tutte le crisi parziali semplici, la coscienza è conservata. Nelle crisi parziali
complesse, invece, la coscienza è compromessa, e il paziente appare confuso (crisi con-
fusionali); talora, mostra movimenti automatici del volto e del tronco (crisi psicomoto-
rie). Sono tipiche dei focolai della corteccia dei lobi temporali o frontali. Tutte le crisi
parziali, semplici o complesse, possono diffondere all’intero cervello e concludersi con
una crisi convulsiva di grande male.
Il male principale è proprio il rischio di essere soggetti, in maniera imprevedibile
e incontrollabile, a momenti, seppure brevi, nei quali non si è più in grado di gover-
nare il proprio comportamento. In queste occasioni, si resta esposti a tutti i rischi am-
bientali, ad esempio, se il disturbo della coscienza compare improvvisamente, mentre
il paziente sta utilizzando una macchina utensile o mentre sta guidando l’auto, oppu-
re, mentre è in casa, e la perdita di coscienza avviene di fronte a un fornello acceso e
all’acqua che bolle. Inoltre, il frequente ripetersi degli episodi, specialmente in alcune
forme di epilessia del bambino, può comportare un ritardo dello sviluppo intellettivo.
Infine, le implicazioni sociali dell’essere epilettico possono costituire un problema gra-
ve per l’integrazione nella scuola, nel lavoro e nella realizzazione della propria vita af-
fettiva e dei diritti civili.

237
Criminologia ed elementi di criminalistica

11.10 Il border-line
La psicopatologia borderline, per molti anni, ha trovato difficile collocazione no-
sografica, al limite fra l’area delle nevrosi e quella delle psicosi, venendo, quindi, va-
riamente identificata come sindrome pseudonevrotica, stato limite, sindrome marginale.
Kraepelin ha descritto forme attenuate di demenza precoce già nel 1887.
Bleuler ha introdotto il concetto di schizofrenia latente, per indicare condizioni
cliniche particolari, in cui, questa latenza psicotica, sembra svolgere un ruolo rilevan-
te in quadri clinici, solo apparentemente nevrotici o caratteriali. Ey ha definito que-
sti quadri clinici schizonevrosi, considerandoli espressione dell’evoluzione dalle nevrosi
alle psicosi. Altri autori hanno considerato gli stati border-line come disturbi mentali
propriamente detti, dotati di stabilità e coerenza interna, dandogli dignità diagnosti-
ca autonoma. Nelle nosografie psichiatriche classiche, tali condizioni psicopatologiche
di confine erano descritte come quadri sindromici complessi e vari, che includevano:
1) sintomi d’ansia intensa, prolungata e pervasiva; 2) sintomi nevrotici (ossessioni, fo-
bie, manifestazioni isteriche, neurastenia, ecc.); 3) sintomi psicotici (idee di riferimen-
to, ideazione paranoidea, ecc.); 4) disturbi cognitivi transitori con episodi confusionali
occasionali; 5) comportamenti impulsivi ed aggressivi, tipici delle personalità psicopa-
tiche.
Recentemente, alcuni autori hanno dato specifico rilievo, in questi soggetti, al-
la presenza di un’inadeguata modulazione dell’impulsività, sottolineando la rilevan-
za clinica dei comportamenti aggressivi auto ed eterodiretti, dei gesti autolesivi, dei
sentimenti di rabbia, eccessiva e non proporzionata alle situazioni in cui si esprime,
nonché dell’incapacità di questi pazienti a dilazionare la gratificazione e a tollerare le
frustrazioni.
Contrariamente ai disturbi psicotici propriamente detti, il decorso di queste con-
dizioni patologiche viene descritto, classicamente, come cronico, con scarsa tendenza
al deterioramento, con ricorrenti crisi d’instabilità affettiva e frequenti comportamenti
disadattivi di natura impulsiva. Solo con la pubblicazione del Diagnostic and Statistical
Manual of Mental Disorders (DSM), III edizione e successive, la psicopatologia border-
line è stata inquadrata tra i disturbi di personalità.
Il DSM-IV definisce il Disturbo border-line di Personalità (DBP) come una mo-
dalità pervasiva d’instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e del-
l’umore con una marcata impulsività, comparse nel corso della prima età adulta e pre-
senti in vari contesti, come indicato da cinque o più dei seguenti elementi: a) sforzi
disperati di evitare un reale o immaginario abbandono; b) un quadro di relazioni inter-
personali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealiz-
zazione e svalutazione; c) alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé
marcatamente e persistentemente instabili; d) impulsività in almeno due aree che sono
potenzialmente dannose per il soggetto, quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida
spericolata, abbuffate; e) ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari o compor-
tamento automutilante; f ) instabilità affettiva dovuta a marcata reattività dell’umore
(es. episodica intensa disforia, irritabilità o ansia che di solito durano poche ore e sol-
tanto raramente più di pochi giorni); g) sentimenti cronici di vuoto; h) rabbia immo-
tivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia (es. accessi di ira, rabbia costante,

238
Criminalità e distrurbi mentali

ricorrenti scontri fisici, ecc,); i) ideazione paranoide o gravi sintomi dissociativi transi-
tori, legati allo stress.
Nelle società occidentali, secondo recenti studi epidemiologici, il Disturbo border-
line di Personalità (DBP) presenta tassi di prevalenza, morbilità e mortalità in rapido
aumento. Alcuni studi hanno evidenziato che la prevalenza del DBP, nella popolazione
generale, raggiunge l’1,8%, superando la prevalenza della stessa schizofrenia. I pazien-
ti con DBP rappresentano un’elevata percentuale dei soggetti per i quali sono richieste
ed effettuate consulenze psichiatriche. Secondo alcuni studi osservazionali, essi rappre-
sentano l’11% dei pazienti ambulatoriali e, in alcune strutture psichiatriche, il 23%
dei pazienti ricoverati. In uno studio su pazienti con DBP, circa la metà del campione
aveva fatto ricorso a un servizio ambulatoriale di salute mentale, nei sei mesi prece-
denti l’indagine, e il 19,5% era stato ricoverato, in una struttura psichiatrica, nell’an-
no precedente. La sintomatologia psicopatologica manifestata dai soggetti con DBP, in
genere, appare significativamente invalidante. In un campione di pazienti con DBP,
ricoverati consecutivamente presso l’Università di Pittsburgh, il 62,2% aveva avuto, in
passato, condotte suicidarie e circa il 50% aveva avuto altri comportamenti autolesivi. Il
numero di pazienti con DBP che si era ucciso variava tra il 3% e il 9,5% della popola-
zione di pazienti trattati, una percentuale simile a quella evidenziata nei soggetti affetti
da disturbi depressivi o da disturbi psicotici.
La definizione nosografica attuale del DBP prevede una sintomatologia clinica
meno ampia di quella attribuita, nelle descrizioni tradizionali, alle cosiddette sindromi
marginali. Il sistema diagnostico DSM permette un perfetto inquadramento nosogra-
fico del singolo caso clinico, ricorrendo all’utilizzo dei diversi Assi diagnostici, ma in-
troduce, inevitabilmente e implicitamente, un’artificiosa sovrastima della comorbidità
psichiatrica. Diverse ricerche hanno evidenziato, infatti, un’alta comorbidità fra DBP
e altri disturbi psichici d’Asse I. Lo studio di comorbidità della psicopatologia border-
line si presenta, oggigiorno, alla stregua di un’analisi di correlazione tra DBP ad altre
condizioni cliniche d’Asse I.
Recenti osservazioni hanno confermato un elevato tasso di comorbidità e sostan-
ziali affinità eziopatogenetiche fra disturbo borderline e disturbi dell’umore, al punto
che il disturbo depressivo maggiore sembrerebbe correttamente diagnosticabile, in cir-
ca la metà dei pazienti border-line.
In particolare, risulta che: a) i pazienti con DBP hanno una depressione più grave
dei soggetti con altri disturbi di personalità; b) i pazienti con DBP e con depressione
maggiore, in comorbidità, hanno una storia clinica con più numerosi e gravi tentativi
di suicidio, rispetto ai soggetti affetti da depressione maggiore; c) i pazienti con DBP,
depressione maggiore ed elevati livelli di impulsività/aggressività, presentano una più
alta incidenza di dipendenza da sostanze d’abuso.
Il rapporto intercorrente tra impulsività e condotte suicidarie è stato oggetto di
numerose indagini cliniche e neurobiologiche. L’impulsività sembra essere significati-
vamente associata a comportamenti autolesivi, tra i pazienti psichiatrici. Nei soggetti
con DBP, l’impulsività, è il tratto di personalità più fortemente correlato ai compor-
tamenti suicidari. Alcuni indici clinici e biologici d’impulsività risultano più elevati
nei soggetti con comportamenti d’automutilazione. Un basso livello del tono seroto-
ninergico centrale si correla significativamente tanto ai comportamenti impulsivo-ag-

239
Criminologia ed elementi di criminalistica

gressivi, quanto alle condotte suicidarie. Alcuni di questi studi, sembrano suggerire la
presenza di un comune substrato psicopatologico e/o neurobiologico tra impulsività
e suicidio.
In apparente contraddizione, numerose altre osservazioni cliniche sostengono che
i traumi infantili si associano significativamente a comportamenti autolesivi e suicidari,
espressi in età giovanile o adulta. Inoltre, un’alta frequenza di traumi infantili sembra
essere presente negli adulti depressi con alti livelli d’aggressività, impulsività e compor-
tamenti suicidari. Esperienze di abuso nell’infanzia si correlano a un’età più precoce
della condotta suicidaria, che può presentarsi già in età infantile o adolescenziale.
L’impulsività potrebbe essere considerata, in una prospettiva più ampia, un tratto
ereditario, aggravato da esperienze d’abuso e da traumi infantili, che si correla signifi-
cativamente all’aggressività e alle condotte suicidarie. Secondo alcune osservazioni, per
esempio, il livello d’impulsività e d’aggressività di tratto, non la gravità obiettivabile di
depressione, è direttamente correlato al numero e alla frequenza dei tentativi di suici-
dio. Nei parenti di primo grado di adolescenti suicidi, sono stati evidenziati alti livelli
d’aggressività e una forte familiarità per il suicidio. In uno studio, inoltre, la gravità del-
la depressione, valutata in modo obiettivo dal clinico, non ha permesso di distinguere
i pazienti con recente tentativo di suicidio dai pazienti depressi di controllo. Al contra-
rio, i livelli d’aggressività e d’impulsività sono risultati significativamente più elevati nei
soggetti con tentato suicidio.
Notevole rilevanza psicopatologica assume la comorbidità tra DBP e disturbo bi-
polare dell’umore. Sulla base degli elevati tassi di comorbidità familiare, evidenziata già
negli anni ‘90, numerosi ricercatori hanno suggerito una relazione tra DBP e disturbi
dello spettro bipolare, fino a ipotizzare di includere le manifestazioni del disturbo bor-
der-line fra quelle proprie dello spettro bipolare. Altri autori sostengono che sia impos-
sibile soddisfare i criteri del DSM-IV per un episodio maniacale in assenza di condotte
impulsive. Altri, ancora, riferiscono livelli d’impulsività, misurata con scale specifiche
di valutazione psichiatrica, costantemente presente negli episodi maniacali. Un’elevata
impulsività è evidenziabile nei pazienti bipolari, anche nelle fasi eutimiche. Ciò potreb-
be indicare che l’impulsività si esprime, nei disturbi bipolari e in quelli correlati, sia nel-
le componenti psicopatologiche di stato, sia in quelle di tratto. Da quanto premesso, è
possibile ipotizzare un modello interpretativo dell’impulsività nel soggetto border-line,
nel framework stress/vulnerabilità, in cui tratti biologici e di personalità possono predi-
sporre a un abbassamento della soglia individuale di passaggio all’atto, mentre, condi-
zioni di intenso stress ambientale, possono precipitare la condizione clinica.
Esiste una frequente comorbidità, ben nota in clinica, tra DBP e abuso d’alcol e dro-
ghe. Secondo alcune ricerche, circa il 75% dei pazienti con DBP presenta una condi-
zione d’abuso/dipendenza da sostanze, mentre circa il 20% dei soggetti, con abuso di
sostanze, presenta un DBP. L’abuso e la dipendenza da sostanze voluttuarie è un com-
portamento complesso, che non può essere considerato semplicisticamente e, sempre,
di natura impulsiva. Ciò nonostante, un soggetto con abuso/dipendenza da sostanze, in
condizioni di stress soggettivo, può assumere impulsivamente le droghe d’abuso, a vol-
te in modo repentino, imprevisto ed eccessivo. L’impulsività, sembra svolgere un ruo-
lo patogenetico nell’esordio e nel prosieguo della dipendenza da sostanze. L’abuso può
essere più frequente, più intenso e meno controllato, quindi, potenzialmente più peri-

240
Criminalità e distrurbi mentali

coloso, in soggetti impulsivi. Tassi più elevati di abuso e dipendenza da sostanze sono
presenti, in alcune osservazioni, tra aggressori impulsivi e soggetti con disturbo esplo-
sivo intermittente. Diversi studi hanno evidenziato livelli più elevati d’impulsività tra i
soggetti tossicodipendenti, rispetto ai controlli sani. Alcuni ricercatori hanno riscontra-
to, tra i pazienti con DBP e dipendenza da sostanze, l’utilizzo di un maggior numero
di differenti droghe e maggiore impulsività, rispetto ai soggetti non border-line. Altro
importante aspetto è quello dell’impulsività: nel XIX secolo, Pinel ed Esquirol hanno
introdotto in psichiatria il concetto di impulso istintivo coniando il termine di monoma-
nia istintiva. In origine, tra queste monomanie, erano incluse: l’alcolismo, la piromania
e l’omicidio. In realtà, la definizione stessa dell’impulsività è controversa e non univo-
ca, in ambito psichiatrico. Alcuni autori definiscono il comportamento impulsivo come
la tendenza a reagire immediatamente agli stimoli ambientali emotivamente rilevanti,
senza controllare a sufficienza l’intensità della risposta, altri considerano l’impulsività
una predisposizione, ossia un comportamento biologicamente determinato, caratteriz-
zato dalla tendenza ad agire rapidamente, senza pianificare la propria azione, in assenza
di una valutazione razionale e/o consapevole di tutte le conseguenze dell’atto.
Le caratteristiche essenziali dei disturbi del controllo degli impulsi sono: 1) l’inca-
pacità a resistere all’impulso, alla spinta o alla tentazione di eseguire un atto pericolo-
so per sé o per gli altri; 2) il crescente senso di tensione o attivazione prima di commette-
re l’atto; 3) un senso di piacere e/o gratificazione al momento di commettere l’atto con
successivo ed immediato rilassamento. Anche a una osservazione superficiale, non può
sfuggire l’affinità esistente tra i disturbi del controllo degli impulsi e la disregolazione
omeostatica edonica (disedonia). La stessa impulsività potrebbe essere interpretata co-
me espressione disadattiva del controllo motivazionale, esercitato da circuitazioni neu-
robiologiche, filogeneticamente arcaiche, che includono i nuclei della base, la corteccia
prefrontale, l’accumbens e l’amigdala. L’attività di tali strutture risulta orientata, infat-
ti, da un lato, a facilitare l’approccio agli stimoli ambientali gratificanti (ricerca del pia-
cere) e, dall’altro, al distanziamento attivo degli stimoli ambientali avversivi o poten-
zialmente pericolosi (aggressione/fuga).
Il DSM-I (1952) ed il DSM-II (1968) dell’American Psychiatric Association,
(APA) non includevano tra i disturbi mentali: il gioco d’azzardo patologico, la piroma-
nia e la cleptomania che, solo nel 1980, hanno avuto un inquadramento diagnostico
nel DSM-III. Quest’ultimo, accanto a questi disturbi del controllo degli impulsi, ha
riconosciuto una dignità diagnostica anche al disturbo esplosivo intermittente e al di-
sturbo esplosivo isolato. Solo sette anni dopo, nel DSM-III-R (APA, 1987) veniva eli-
minato il disturbo esplosivo isolato, per l’elevato rischio d’errore diagnostico correlato
ad un singolo episodio di comportamento aggressivo. Il disturbo esplosivo intermit-
tente è stato mantenuto, nonostante fossero emersi seri dubbi sulla sua validità ed è
stato riconosciuto valore diagnostico alla tricotillomania. La categoria diagnostica del
DSM-IV (APA, 1994) definita come disturbo del controllo degli impulsi, non altro-
ve classificati, è considerata una categoria diagnostica residua, anche se, nel DSM-IV,
non esiste un’altra aggregazione categoriale di disturbi dell’impulsività. In questo grup-
po diagnostico venivano inclusi: il gioco d’azzardo patologico, la piromania, la cleptoma-
nia, il disturbo esplosivo intermittente, la tricotillomania ed il disturbo del controllo degli
impulsi non altrimenti specificato (NAS). Fatte queste considerazioni, sembra evidente

241
Criminologia ed elementi di criminalistica

una insufficiente attenzione diagnostica ai disturbi dell’impulsività, non solo nell’am-


bito della moderna interpretazione spettrale dei disturbi mentali, ma, persino, nel più
tradizionale ambito nosografico categoriale.
I sintomi caratteristici del disturbo border-line di personalità, secondo alcuni ri-
cercatori, sono riconducibili a tre fattori fondamentali:

1. il disturbo interpersonale-relazionale;
2. la disregolazione comportamentale impulsivo-aggressiva;
3. la disregolazione affettiva con instabilità emotiva.

In quest’ottica, il disturbo relazionale includerebbe l’instabilità nelle relazioni in-


terpersonali, il disturbo d’identità, il sentimento cronico di vuoto.
La disregolazione comportamentale comprenderebbe l’impulsività e il compor-
tamento auto ed eteroaggressivo. La disregolazione affettiva esprimerebbe l’incapacità
di affrontare condizioni di stress ed includerebbe l’instabilità dell’umore, la reazione
di rabbia improvvisa, eccessiva e ingiustificata, nonché l’evitamento di un abbandono
immaginario o reale.
I soggetti border-line presentano brusche oscillazioni affettive, con un’intensa e di-
sadattiva reattività all’ambiente, soprattutto nelle relazioni interpersonali. È stato ipo-
tizzato che la stessa instabilità emotiva possa essere interpretata come un fenomeno
impulsivo. I rapidi cambiamenti relazionali, in risposta a stimoli spesso modesti, sem-
brano essere affini al comportamento impulsivo, definito come la tendenza a reagire
immediatamente senza controllare a sufficienza l’intensità della risposta.

11.1 Le perversioni sessuali


Il concetto di perversione sessuale, che si riallaccia al canone di normalità do-
minante in una certa società, in una certa epoca, ha subìto, nel DSM, una notevole
evoluzione nel corso degli anni. Nell’edizione DSM-III-R del 1987, i disturbi sessuali
sono classificati nella categoria principale delle disfunzioni sessuali, che riguardano di-
sturbi inerenti l’attività sessuale normale (ad es. impotenza, eiaculazione precoce, fri-
gidità, ecc.). Il termine, una volta in uso, di perversione sessuale, è stato sostituito col
termine parafilia dal greco filìa (attrazione) e para (deviazione) e cioè attrazione per la
deviazione. La parafilia presenta come caratteristica l’attrazione sessuale per: 1) oggetti
non umani; 2) sofferenza o umiliazione propria o del proprio partner (non solo simula-
ta); 3) attrazione verso bambini o persone non consenzienti. La psicanalista americana
Louise J. Kaplan aggiunge ulteriori elementi alla descrizione della perversione sessua-
le, definendola come attrazione irresistibile verso un comportamento sessuale anomalo o
bizzarro, con la caratteristica di essere un gesto coatto, imperativo, ripetitivo, stereo-
tipato e che implichi almeno uno dei seguenti comportamenti: a) attività sessuali che
usino un oggetto sessuale inanimato al fine di raggiungere l’eccitamento sessuale; b)
attività sessuali con esseri umani che comportino sofferenze e/o umiliazioni reali o si-
mulate; c) attività sessuale con partner non consenziente. Lo psichiatra italiano Gio-

242
Criminalità e distrurbi mentali

vanni Jervis, nella sua definizione di perversione sessuale, evidenzia ulteriori aspetti di
questi comportamenti, mettendo in evidenza che: a) il soggetto ha da sempre difficoltà
a trattenersi dal soddisfare i propri impulsi; b) ha costanti difficoltà a valutare la discre-
panza dei propri atti rispetto alle norme dominanti e, insieme, ha difficoltà a valutare
le conseguenze di questi atti; c) procura, con questi atti, imprevisti seri danni (anche
psicologici) a se stesso e/o significative sofferenze ad altre persone; d) è di intelligen-
za normale e non presenta chiari disturbi nevrotici, né reali disturbi psicotici; e) tende
a reiterare, stabilmente, forme di comportamento disapprovate dalla mentalità domi-
nante, spesso, ma non sempre, a contenuto sadico. La prassi clinica evidenzia quadri
patologici non sempre così definiti, esistono anche altre forme di perversione, alcune
forme di perversione sconfinano in altre; spesso, il soggetto perverso mette in atto, nel-
lo stesso tempo, diversi tipi di perversione, o sostituisce una perversione con un’altra
meno pericolosa o più adatta alla situazione. Nella descrizione della psicanalista ame-
ricana Louise J. Kaplan, si definisce, come già evidenziato, la perversione come gesto
coatto, imperativo, ripetitivo, stereotipato, mettendo così in evidenza uno degli ele-
menti base della perversione e cioè il suo carattere di fissità, di ripetizione di una serie
di gesti e rituali sempre uguali. Questa caratteristica distingue la perversione dai com-
portamenti sessuali anomali o bizzarri, ma liberamente scelti e variati; comportamenti
cioè che due partner sessuali decidono di assumere se lo desiderano; partner che nor-
malmente vivono il sesso in maniere diverse, decidendo di volta in volta se farsi coin-
volgere o meno in giochi di particolare tipo, con la libertà di proporli e accettarli o
meno, e variando nel tempo i propri comportamenti e giochi sessuali. In altre parole,
a differenza di chi ha una sessualità libera e variata, chi mette in atto la performance
perversa, non ha scelte; la sua eccitazione passa solo attraverso quel comportamento e
non altri; attraverso la messa in atto della perversione, la persona cerca di combattere
uno stato di forte ansia, o di profonda depressione, o di disturbi psicologici così forti
ed invalidanti che possono sconfinare dal quadro delle nevrosi a quello delle psicosi.
E ancora, la perversione è una strategia psicologica che richiede, per essere soddisfat-
ta, una messa in atto, una cosiddetta performance, in genere di carattere sessuale. La
messa in atto della perversione placa le ansie e la disperazione del vivere, e dà alla per-
sona l’impressione di poter sopravvivere, superando i traumi subìti durante l’infanzia.
Il che significa che, quasi sempre, il perverso è una persona che, da bambino, ha su-
bìto traumi, spesso di carattere sessuale, che hanno lasciato dei danni nella struttura
della personalità. Questi danni non sono mai stati affrontati in maniera conscia; resta-
no presenti nell’inconscio della persona come nuclei che non hanno seguito la matu-
razione della sua personalità; colui che porta in sé questi danni è, quindi, spesso, un
portatore inconsapevole. Ma questi danni agiscono anche nel presente della persona,
divenuta adulta, e producono fortissimi malesseri, sull’origine dei quali, l’individuo
non ha coscienza. Attraverso la perversione, che possiamo vedere come drammatizza-
zione di questi eventi infantili, il perverso cerca di dominare ricordi di situazioni che
nell’infanzia erano troppo eccitanti, paurose o umilianti per essere dominate. La per-
versione rappresenta, quindi, per la maggior parte dei casi, il tentativo che un adulto
mette in essere, per cercare di esorcizzare i propri traumi infantili. Questo avviene, sia
attraverso la semplice replica del trauma (semplificando: se io da bambino venivo pic-
chiato sadicamente da un genitore, posso chiedere al partner sessuale di picchiarmi,

243
Criminologia ed elementi di criminalistica

ripetendo così la situazione infantile); sia attraverso una messa in scena a ruoli alterati
(nell’esempio di prima divengo io colui che picchia e assumo quindi il ruolo del ge-
nitore che sottometteva attraverso la violenza). Il bambino non amato o amato inade-
guatamente si convince di essere lui stesso la causa della mancanza di amore da parte
dei genitori, e può cercare di compensare questa perdita da grande mettendo in atto
un rapporto di dominazione, nel quale ha l’illusione (attraverso il dominio esercita-
to su un altro essere) di riacquistare i suoi poteri perduti nell’infanzia. Un rapporto
di dominazione può essere scelto, adottando la parte dello schiavo, anche per tenere
nascoste le proprie capacità, nella paura che vengano sottratte come una volta fecero i
genitori. Una tecnica simile, quella cioè di assumere il profilo più basso possibile, vie-
ne adottata in campo non sessuale, per dare agli altri la sensazione di debolezza e pro-
vocarne l’allentamento del controllo.
Altra caratteristica della perversione è che essa, finché dura (anni o tutta la vita),
diventa l’interesse centrale nella vita della persona. La perversione ha carattere di fissità,
cioè di comportamento coatto, ossessivo, ripetitivo. Si diversifica dai comportamenti
ossessivo-compulsivi (come ad es., il lavarsi continuamente le mani, il mettere sempre
in ordine la casa, i rituali rassicuranti del controllare se la porta è chiusa, se la manet-
ta del gas o dell’acqua sono sulla posizione spento, se l’interruttore generale della lu-
ce è chiuso, ecc.), perché questi rituali vengono vissuti, da chi li mette in essere, come
rassicuranti, curativi e buoni. Il perverso, invece, sa benissimo che sta facendo qualcosa
di cattivo, moralmente sbagliato, socialmente condannabile, ma parte del sollievo che
prova dalla perversione proviene anche dalla sfida e superamento dei codici morali co-
muni. Il perverso, inoltre, ha la necessità di tenere sempre in evidenza idee di peccato e
di colpa, anche se accompagnate dalla somministrazione a sé o agli altri di sofferenze; è
concentrandosi su queste sofferenze che il perverso riesce in qualche modo e per un pò
di tempo a dominare i terrori, le umiliazioni e le ferite morali e fisiche che hanno costi-
tuito il nucleo dei suoi traumi d’infanzia. In molti casi, la perversione serve a masche-
rare tendenze che l’educazione morbosa subìta dalla persona fa ritenere inaccettabili.
L’uomo che è stato allevato in un clima rigido e maschilista, nel quale ogni genere di
tenerezza viene proibita e condannata, da adulto, può assumere attraverso la perversio-
ne un comportamento di esagerata mascolinità, virilità, dominio, per nascondere, così,
la normale componente femminile del suo animo. La perversione trova alimento negli
stereotipi sociali di uomo e donna, nei ruoli e nell’identità di genere, cioè in tutti quei
comportamenti che la società ha codificato come da uomo e da donna. Le perversioni,
in altri casi, giocando sulle identità sociali, permettono all’uomo di identificarsi con il
ruolo della donna, senza però perdere la faccia della mascolinità.

11.12 Le parafilie
Parafilia è l’attuale termine scientifico per definire l’insieme di quelle condotte
sessuali più note con i nomi di perversioni o deviazioni sessuali.
Affrontare un discorso generale sulle parafilie senza suscitare anche un seppur mi-
nimo imbarazzo o prese di posizione nette sull’argomento è compito senza dubbio ar-

244
Criminalità e distrurbi mentali

duo se non impossibile. Questo perché, nonostante le numerose rivoluzioni sessuali,


la sessualità rimane uno dei più importanti modellatori della personalità, dell’identità
e della vita sociale di ogni individuo. Se al tempo di Sigmund Freud, in un contesto
sociale in cui la sessualità non risultava essere argomento di discussione, poteva ave-
re un senso parlare di perversioni definendole come quelle attività sessuali finalizzate
su regioni del corpo non genitali, oggi, in seguito a quei cambiamenti sociali messi in
moto proprio dal movimento psicoanalitico, in seguito alla nascita della sessuologia
clinica e quindi alle ricerche sulla sessualità, una simile diagnosi rischierebbe di va-
lutare, come patologiche, le condotte sessuali della quasi totalità della popolazione
mondiale.
Tutti gli individui cosiddetti normali hanno delle fantasie e mettono in atto delle
pratiche sessuali che potrebbero apparentemente sembrare perverse, ovvero, ognuno di
noi conserva un nucleo che possiamo anche definire perverso, che si integra in un pro-
cesso di personalità e di comportamento che risulta comunque normale.
La linea tra normalità e patologia, nella sessualità, è sempre legata ad aspetti quali
la non esclusività, la non compulsione del comportamento e, ricordiamo, soprattutto
al consenso reale dei partner sessuali.
Parliamo, infatti, di normalità delle condotte sessuali quando tale comportamento
si svolge, innanzitutto, tra soggetti realmente consenzienti e non reca disagio, sofferen-
za o problemi legali (nella cultura di riferimento) a nessuno dei partecipanti all’attività,
e non rappresenta una condotta esclusiva svolta come una compulsione, e non interfe-
risce con lo svolgimento delle attività lavorativa e/o sociale.
Allo stesso modo, si definisce il comportamento sessuale patologico, quando causa
anche a uno soltanto dei partecipanti all’attività, disagio, sofferenza, interferenze con
le attività lavorative e/o sociali, quando si compie come una compulsione, quando reca
danni, quando causa problemi legali. Attualmente, le parafilie sono previste nel Ma-
nuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV, 1994).
Quando ad esempio, il pedofilo cerca di giustificare la propria condotta parafilia-
ca portando, come esempio, altre culture o società antiche, dimentica che egli vive in
un contesto diverso da quelli che porta come prova che la sua condotta sia da definire
normale. La negazione di vivere all’interno di un contesto socio-culturale che non sia
in grado di giustificare un certo tipo di comportamento, tanto da definirlo patologi-
co, probabilmente rappresenta un processo difensivo che va utilizzato nella valutazione
diagnostica di tali pazienti.
Le parafilie classificate dal DSM-IV (1994) sono le seguenti:

- esibizionismo: esposizione dei propri genitali a un estraneo che non se l’aspetta;


- feticismo: uso di oggetti inanimati che non siano limitati a strumenti, come il vi-
bratore, progettati per la stimolazione tattile dei genitali;
- frotteurismo: toccare e strofinarsi contro una persona non consenziente;
- pedofilia: attività sessuale con uno o più bambini prepuberi (generalmente di 13
anni o più piccoli). Il soggetto pedofilo deve avere almeno 16 anni ed essere di alme-
no 5 anni maggiore del bambino o dei bambini con cui ha attività sessuali. Non
viene incluso il soggetto tardo-adolescente coinvolto in una relazione sessuale per-
durante con un soggetto di 12-13 anni;

245
Criminologia ed elementi di criminalistica

- masochismo sessuale: atto (reale, non simulato) di essere umiliati, picchiati, legati o
fatti soffrire in qualche altro modo;
- sadismo sessuale: azioni (reali, non simulate) in cui la sofferenza psicologica o fisica
(inclusa l’umiliazione) della vittima è sessualmente eccitante per il soggetto;
- feticismo da travestitismo: il travestimento di un maschio eterosessuale;
- voyeurismo: atto di osservare un soggetto che non se lo aspetta mentre è nudo, si
spoglia, o è impegnato in attività sessuali;
- parafilia non altrimenti specificata (NAS): questa categoria diagnostica viene inclu-
sa per codificare quelle parafilie che non soddisfano i criteri per nessuna delle pre-
cedenti. Gli esempi includono, ma non si limitano, a:

- scatologia telefonica (telefonate oscene);


- necrofilia (attrazione sessuale per i cadaveri);
- parzialismo (attenzione esclusiva per una parte del corpo);
- zoofilia (attrazione sessuale per gli animali);
- coprofilia (uso delle feci per l’eccitazione sessuale);
- urofilia (uso delle urine per l’eccitazione sessuale);
- clismafilia (uso dei clisteri per l’eccitazione sessuale).

Va ricordato che ogni parafilia deve durare per almeno sei mesi e devono essere
presenti fantasie, impulsi sessuali, o comportamenti ricorrenti e intensamente eccitanti
sessualmente che comportino le azioni di cui sopra. Ogni condotta sessuale, per essere
definita parafiliaca, ha necessità di causare disagio clinicamente significativo o com-
promissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.
Il trattamento delle parafilie è piuttosto complesso, soprattutto quando il paziente
ha già messo in atto processi difensivi in grado di far negare che il comportamento sia
patologico. Occorre, sempre, un’attenta valutazione diagnostico-differenziale, soprat-
tutto, per escludere altre forme psicopatologiche, come ritardo mentale, disturbi gravi
di personalità (in particolare il disturbo border-line) e altre patologie. Una volta valu-
tato il funzionamento globale del paziente, sarà possibile orientare verso la forma di in-
tervento, quasi sempre piuttosto lunga e tortuosa, adatta per ogni specifico caso.

11.13 La pedofilia
La pedofilia rientra, infatti, nella grande classificazione delle parafilie e l’eziologia
delle parafilie rimane in gran parte intrisa di mistero. Nel corso degli anni, sono state
elaborate diverse ipotesi interpretative riguardo all’origine del comportamento pedo-
filo. Le teorie sessuologiche di vecchio stampo, che hanno dominato la psicologia e la
psichiatria fino ai primi del novecento, consideravano le perversioni sessuali sempli-
cemente come delle sindromi psicopatologiche caratterizzate da alterazioni qualitative
dell’istinto sessuale. Con lo sviluppo della scienza psicologica e psichiatrica sono state
prodotte varie teorie sull’origine della pedofilia, alcune in evidente contrapposizione
con altre.

246
Criminalità e distrurbi mentali

L’atto pedofilo è legato, secondo la psicoanalisi classica, a fissazioni e regressioni


verso forme di sessualità infantile, consistente nell’arresto dello sviluppo psicosessuale, do-
vuto a un trauma precoce o all’aver vissuto la propria sessualità in ambiente restrittivo.
Oppure, la pedofilia, sarebbe il risultato di conflitti sessuali raggiunti senza il contribu-
to della fantasia, probabilmente per un insuccesso o per una formazione distorta della
coscienza causata da una patologia. La pedofilia si fonderebbe sull’angoscia di castra-
zione, che ostacola il perverso nel raggiungimento di una sessualità adulta e lo fa regre-
dire a una pulsione parziale (anale, orale, e così via).
La paura di affrontare una donna adulta, lo fa ripiegare verso un soggetto meno
potente e quindi, meno ansiogeno, con il quale può evitare la penetrazione o, se l’af-
fronta, ciò avviene da una posizione di forza.
Altri autori hanno distinto un comportamento o fantasia pedofiliaca di natura oc-
casionale e il vero pervertito pedofilo ossessivo, che deve avere un’attività sessuale con un
bambino, per non soffrire di una intollerabile e angosciosa ansia. Il pedofilo occasionale,
secondo alcuni studiosi, è certamente la tipologia più diffusa, mentre è relativamente
più raro il pervertito ossessivo. In tale ottica, si possono quindi distinguere due tipi di
pedofili, secondo lo stadio di sviluppo cui si sono fissati i conflitti psicologici profon-
di. Le basi su cui fonda questa teoria sono comunque esclusivamente derivate da osser-
vazioni cliniche e, in ogni caso, spiegano molto poco del perché viene scelta da alcuni
individui la pedofilia come meccanismo di difesa, piuttosto che qualsiasi altro possibile
meccanismo difensivo.
Socarides afferma, in tal senso, che il meccanismo più importante nella pedofilia
omosessuale è l’incorporazione del bambino maschio al fine di rinforzare il senso di
mascolinità, sconfiggere l’ansia della morte, rimanere giovani per sempre e poter ritor-
nare al seno materno.
Il parafilico, secondo la moderna psicoanalisi, è quindi una persona che non è riu-
scita a completare il normale processo di sviluppo verso l’adattamento eterosessuale,
fissazione o regressione a forme di sessualità infantile che persistono nella vita adulta.
In quest’ottica, ciò che distingue una parafilia dall’altra è il metodo scelto dalla persona
per far fronte all’ansia, causata dalla minaccia di castrazione da parte del padre e di se-
parazione dalla madre. La mancata risoluzione della crisi edipica tramite l’identificazio-
ne con il padre-aggressore (per i ragazzi) o la madre-aggressore (per le ragazze), provoca
un’impropria identificazione con il genitore del sesso opposto o una scelta impropria
dell’oggetto per le catarsi libidica. I parafilici, per placare le loro angosce di castrazio-
ne, sono costretti ad esaminare costantemente i propri o altrui genitali; in più, il fattore
decisivo che impedisce il raggiungimento dell’orgasmo attraverso il rapporto genitale
convenzionale è l’angoscia di castrazione. Le perversioni assolvono, pertanto, la funzio-
ne di negare la castrazione. Ricercatori psicoanalisti più recenti hanno, però, concluso,
che la sola teoria pulsionale è insufficiente a spiegare molte delle fantasie e dei compor-
tamenti perversi che vengono visti clinicamente, e che ad una lettura comprensiva, gli
aspetti relazionali delle perversioni sono cruciali. Secondo Stoller (1975), l’essenza della
perversione è la conversione di un trauma infantile in un trionfo adulto. I pazienti so-
no spinti dalle loro fantasie a vendicare umilianti traumi infantili, loro inflitti dai geni-
tori. Il metodo di vendetta è quello di disumanizzare e umiliare il loro partner durante
la fantasia o l’atto perverso. L’attività perversa può anche essere una fuga dalla relazio-

247
Criminologia ed elementi di criminalistica

nalità oggettuale (Mitchell, 1988). Molte persone che soffrono di parafilie si sono se-
parate e individuate in maniera incompleta dalle loro rappresentazioni intrapsichiche
della madre. Il risultato è che sentono che la loro identità come persone separate viene
costantemente minacciata da una fusione o da un inglobamento da parte di oggetti in-
terni o esterni. L’espressione sessuale può essere l’unica area nella quale riescono ad af-
fermare la loro indipendenza.
Un altro aspetto del sollievo esperito dai pazienti parafilici dopo che hanno messo
in atto i loro desideri sessuali è il loro sentimento di trionfo sulla madre che controlla
dall’interno (Gabbard, 1995). In particolar modo, i pedofili hanno bisogno di domi-
nare e controllare le loro vittime, come se supplissero ai loro sentimenti di impotenza
durante la crisi edipica.
Alcuni teorici, credono che la scelta di un bambino come oggetto d’amore da par-
te dei pedofili sia una scelta narcisistica. Secondo la visione classica, la pedofilia rap-
presenta una scelta oggettuale narcisistica; in quanto, il pedofilo vede il bambino come
un’immagine a specchio di se stesso bambino. Il narcisismo risulta dalla fissazione edi-
pica, dove il pedofilo si identifica con sua madre e vede sè stesso nel bambino.
Kaplan (1993) ritiene che i pedofili siano considerati degli individui deboli e im-
potenti; scelgono bambini come oggetto sessuale in quanto questi pongono meno resi-
stenza o creano minore ansia dei partner adulti, permettendo cosi ai pedofili di evitare
l’angoscia di castrazione. Si è, inoltre, appurato che molti pedofili soffrano di una pa-
tologia narcisistica del carattere, ivi comprese delle varianti psicopatiche del disturbo
narcisistico di personalità; l’attività sessuale con bambini prepuberi può puntellare la
fragile stima di sé del pedofilo. In maniera simile, molti individui con questa perver-
sione scelgono delle professioni nelle quali possono interagire con bambini perché le
risposte idealizzanti dei bambini li aiutano a mantenere la loro immagine positiva di
se stessi. D’altra parte, il pedofilo spesso idealizza questi bambini; l’attività sessuale con
loro comporta, pertanto, la fantasia inconscia di fusione con un oggetto ideale o di ri-
strutturazione di un sé giovane, idealizzato. L’ansia riguardo all’invecchiamento e alla
morte può essere tenuta a distanza attraverso l’attività sessuale con bambini. Quando
l’attività è associata a un disturbo narcisistico di personalità con gravi tratti antisociali,
come parte di un’evidente struttura caratteriale psicopatica, le determinanti inconsce
del comportamento possono essere strettamente collegate alle dinamiche del sadismo. I
pedofili sono frequentemente essi stessi delle vittime di abusi sessuali infantili e la con-
quista sessuale del bambino è lo strumento di vendetta, un senso di trionfo e di potere
può accompagnare la loro trasformazione di un trauma passivo in una vittimizzazione
perpetrata attivamente (Gabbard, 1995).
Kraemer (1976), ritiene che le origini delle tendenze pedofile vadano ricercate nelle
primissime interazioni madre-bambino, in quanto, i bisogni narcisistici di auto-amore
della madre potrebbero essere trasmessi al figlio in maniera eccessiva a causa del biso-
gno della madre di essere idealizzata dal figlio; ciò avrebbe come effetto la sostanziale
dilazione del processo di separazione-individuazione del bambino.
Alcuni psicoterapisti che trattano i colpevoli di abusi sessuali contro i bambini sem-
brano aderire alla teoria che la pedofilia è causata dal fatto che i colpevoli sessuali siano
stati loro stessi abusati durante l’infanzia (Groth, 1979). Garland e Dougher (1990)
coniano per questa nozione l’espressione: teoria dell’abusato abusatore.

248
Criminalità e distrurbi mentali

I reati dell’aggressore adulto possono essere, in parte, una ripetizione e un riflesso


di un’aggressione sessuale che egli ha subìto da bambino, un tentativo distorto di dare
uno sbocco a traumi sessuali precoci irrisolti. Possiamo osservare, infatti, come alcune
aggressioni sembrano, talvolta, ripetere gli aspetti della vittimizzazione da loro subìta;
e cioè l’età della vittima, i tipi di atti compiuti e così via. La teoria dell’abusato/abusa-
tore pone anche in risalto come, statisticamente, tra i pedofili, vi sia un elevato nume-
ro di vittime di abuso sessuale infantile. Questa teoria si fondava originariamente su
una doppia spiegazione teorica di impronta psicodinamica: il soggetto adulto replica
la vittimizzazione subìta da bambino, secondo le medesime modalità patite allora; una
volta adulto ottiene il trionfo proprio in ciò in cui da bambino era stato vittima: l’atto
perverso è odio erotizzato, un atto di vendetta mediante cui il passato è cancellato e tra-
sformato in piacere e vittoria. Le vittime di abuso sessuale infantile, dunque, agirebbe-
ro sessualmente e aggressivamente per ridurre gli affetti dolorosi e le sensazioni provati
più volte in occasione del trauma precedente, oltre che per superare il senso di impo-
tenza, l’immagine di sé negativa, la perdita di fiducia negli altri e il timore di pericolo
incombente, che costituiscono gli altri aspetti post-traumatici legati all’abuso sessuale.
Groth afferma che la motivazione di base che spinge l’abusatore ad agire non è di natura
sessuale, ma comporta l’espressione di bisogni non sessuali e di aspetti esistenziali non
risolti; l’abuso è quindi un atto pseudosessuale al servizio di bisogni non sessuali. Questo
autore ha anche diviso i molestatori di minori in due categorie:

- regrediti, coloro che hanno sviluppato un orientamento sessuale ed interpersona-


le adeguato alla loro età, ma che, in talune circostanze, possono regredire ad un
orientamento sessuale rivolto ai bambini;
- fissati, in cui l’interesse sessuale primario non si è mai sviluppato oltre il livello di
interesse verso i minori.

Un’altra parte di ricerche sulle origini della pedofilia sostiene che gli aggressori ses-
suali sono, con molta probabilità, cresciuti in famiglie devianti. Tali studi affermano
che, statisticamente, i criminali sessuali appartengono con molta probabilità a famiglie
disfunzionali. In uno studio volto a ricercare il grado di identificazione genitoriale ri-
sultò, ad esempio, che soggetti definiti pedofili avevano un grado di identificazione
bassa verso i loro genitori, rispetto a un gruppo di controllo rappresentato da studen-
ti di un college o rispetto a un gruppo di soggetti definiti criminali in genere. Queste
scoperte supportano la nozione che i criminali sessuali sono differenti da altri criminali
nella loro percezione di identificazione genitoriale.
La mancata identificazione può evidentemente giocare un ruolo importante nello
sviluppo di un disordine psicosessuale. Esiste, anche, una pedofilia femminile, sebbene
il giudizio clinico tradizionale ha sostenuto che le perversioni sono rare nelle donne.
Questo punto di vista è cambiato negli ultimi anni, come risultato della ricerca empi-
rica e dell’osservazione clinica che hanno dimostrato come le fantasie perverse siano di
fatto comuni nelle donne. In uno studio esauriente sulle perversioni nelle donne, Ka-
plan (1991) sottolinea che i clinici non sono stati in grado di identificare le perversio-
ni nelle donne, poiché implicano delle dinamiche più sottili rispetto alla sessualità più
prevedibili delle perversioni maschili. Delle attività sessuali che derivano dalle parafilie

249
Criminologia ed elementi di criminalistica

femminili, fanno parte le tematiche della separazione, dell’abbandono e della perdita. Ad


esempio, alcune donne che hanno subìto da bambine delle violenze sessuali, adottano
un modello di sessualità femminile esasperato, nel tentativo di vendicarsi sugli uomini
e di rassicurarsi sulla propria femminilità (Gabbard 1995).
Il modello di comportamento abusante si può spiegare in base alla compresenza di
quattro fattori: il primo, per cui, l’abusatore ritiene i bambini sessualmente attraenti:
l’abuso sessuale soddisfa alcune rilevanti esigenze emozionali dell’abusatore; il secondo,
che evidenzia la ricerca di una sensazione di dominio dopo essere stato vittimizzato,
oppure il fatto che lui stesso è infantile. Il bambino è una fonte di attivazione sessua-
le e di gratificazione e, dunque, è presente una preferenza sessuale per partner sessua-
li di età infantile; il terzo, relativo a un risultato di condizionamento o di essere stato,
a propria volta, vittima di abuso sessuale infantile. Fonti alternative di gratificazione
sessuale sono bloccate o inibite per varie ragioni e, quindi, si tratta di fattori che im-
pediscono all’abusatore di soddisfare le sue esigenze con soggetti adulti; il quarto, che
identifica in tale soggetto le seguenti caratteristiche: fobie, scarse abilità sociali, man-
canza di autostima.
La psicodiagnostica psichiatrica ipotizza l’esistenza di:

- una pedofilia primaria che comporta, in una certa misura, un’integrazione dell’io
pedofilo e una conseguente stabilità della sua personalità;
- una pedofilia secondaria, conseguente ad altre gravi psicopatologie come la schizo-
frenia, alcune psicosi organiche ed altre condizioni in cui la personalità si disinte-
gra, provocando una serie di comportamenti perversi.

Secondo Glasser (1989), la pedofilia è un comportamento che fa parte di un grup-


po di perversioni che condividono un nucleo composto da due aspetti: 1) aggressività,
che ha come scopo l’imposizione della sofferenza ed è finalizzata a neutralizzare le mi-
nacce alla sopravvivenza mentale e fisica dell’individuo pervertito; 2) annientamento,
le relazioni intime con gli altri, viste generalmente come normali, vengono viste come
pericolose o distruttive dai pervertiti, poiché, in tali situazioni, si sentono completa-
mente sotto il controllo dell’altro. Il focus emotivo della relazione del pedofilo con gli
altri è su se stesso.
Il modello cognitivo sostiene che i pedofili cerchino qualsiasi mezzo per giustifica-
re le loro azioni e utilizzino per esempio la pornografia come fonte di rassicurazione. In
essa, i pedofili, vedono altri adulti che fanno le cose che loro stessi fanno o vorrebbero
fare, e ciò crea un’aurea di normalità intorno all’abuso, che può allentare le loro inibi-
zioni e costituire il primo passo di un’escalation che può arrivare fino agli atti più turpi.
In tale ottica, viene rifiutata decisamente l’idea che la pornografia serva come valvola di
sfogo, utile a dirottare l’energia sessuale lontano dal compimento materiale dell’abuso.
La pedofilia viene considerata dai cognitivisti alla stregua di un comportamento addi-
tivo, come avviene per l’assunzione di alcool e di droga, ed essa, perciò, non può essere
contenuta e combattuta offrendole materiale che invece la alimenta. Tra le caratteristi-
che dello stile cognitivo dei pedofili vi è la minimizzazione dell’abuso; infatti, nei loro
racconti, l’abuso, viene definito come qualcosa di consensuale e, in un certo senso, de-
siderato dal bambino stesso. I pedofili, spesso, si difendono adducendo come scusa per il

250
Criminalità e distrurbi mentali

loro comportamento, la disoccupazione o un fallimento familiare. Queste non sono altro


che razionalizzazioni difensive, che fungono da fragili giustificazioni. Quando i pedofili
sono sinceri (se mai lo sono), essi, ammettono che sono sessualmente attratti dai bambi-
ni e che le loro fantasie masturbatorie sono quelle tipicamente ossessive di pedofili che
hanno avuto e che continuano ad avere rapporti sessuali con bambini.
Le giustificazioni fornite da questi soggetti arrivano, talvolta, ad accusare il bam-
bino, descrivendo l’accaduto come un incidente di cui il bambino o la bambina sono
stati la causa. In questo senso, i pedofili, ritenuti da Wyre uomini di intelligenza supe-
riore alla norma, sono molto abili nel manipolare chi sta loro intorno e coinvolgere così
anche gli eventuali psicologi ed assistenti sociali in questo pericoloso circolo di eteroat-
tribuzione della causa dell’abuso.
La tendenza, ad esempio, di molti operatori a considerare il pedofilo, primaria-
mente ed essenzialmente, come parte di un sistema relazionale, rinforza involontaria-
mente questo circolo e permette al pedofilo stesso di avere buon gioco nel gettare su
un sistema familiare o sociale disfunzionale la colpa del suo comportamento perverso.
Alcuni autori hanno ipotizzato la presenza di distorsioni cognitive (Pithers, 1989; Mar-
shall, 1997). Si tratta di un’ipotesi abbastanza controversa, dal momento che non tutti
gli autori definiscono tali distorsioni allo stesso modo. Alcuni, infatti, includono, nel
concetto la negazione e la minimizzazione degli effetti dell’abuso, altri si limitano al-
la percezione distorta degli atti del bambino e altri ancora vi inseriscono atteggiamen-
ti più generali verso la sessualità. Anche in questo caso, però, la presenza di distorsioni
cognitive non può essere considerata fattore eziologico specifico, in quanto gli abusa-
tori distorcono le percezioni in termini vantaggiosi per loro e, solo secondariamente.
riferiscono il loro desiderio deviante di fare sesso con il minore: è questo il precursore
indicativo, non la percezione distorta. Di conseguenza, le interpretazioni distorte del
comportamento dei bambini possono portare a convinzioni non appropriate, mentre è
più difficile che siano le convinzioni a produrre le percezioni stesse.
Secondo Howells (1981), dal momento in cui i bambini sono coinvolti abbastan-
za frequentemente in varie forme di attività sessuale con i loro coetanei, l’associazione
tra eccitamento sessuale e caratteristiche corporee ancora immature degli altri bambini
potrebbe condizionare una risposta sessuale a lungo termine (quando diventano adul-
ti) nei confronti dei corpi immaturi. Decisivo, in questo processo, sarebbe la potenza
dell’impulso sessuale adolescenziale che potrebbe facilitare tale distorto processo d’ap-
prendimento. Se questa teoria spiega facilmente come cominci l’attrazione sessuale per
i bambini, non spiega, però, perché la maggior parte degli individui passi attraverso
l’adolescenza avendo avuto esperienze sessuali, senza però diventare un adulto pedofi-
lo. L’autore suggerisce che la repulsione da parte dei coetanei e l’ostilità genitoriale po-
trebbero agire come rinforzi negativi e produrre così un’avversione per il rapporto ses-
suale adulto-bambino, favorendo, così, lo sviluppo di una sessualità adulta. Viceversa,
se l’adolescente si sentirà ansioso circa la possibilità di avere contatti con un individuo
sessualmente maturo, ancor più cercherà il contatto con i bambini. Problematiche di
relazione con gli adulti in generale, potrebbero, anche, svilupparsi proprio per la dif-
ficoltà di crescere uscendo dalla pedofilia. Come la maggior parte delle teorie fin qui
considerate, anche questa, lascia irrisolte alcune importanti questioni, quali, ad esem-
pio, come il pedofilo giunga a compiere il suo primo abuso.

251
Criminologia ed elementi di criminalistica

Esiste un’altra grave e preoccupante forma di manifestazione pedofila, e riguarda


la c.d. pedopornografia on-line (o pedofilia via internet). La Polizia Postale e delle Co-
municazioni ha a disposizione, da poco tempo, un’importante e innovativa tecnologia
messa a disposizione (gratuitamente) da Microsoft, per combattere il fenomeno della
pedopornografia online.
Il nuovissimo sistema denominato Child Exploitation Tracking System (CETS),
Sistema di Tracciamento Contro la Pedopornografia, consentirà alla Polizia Postale,
che in Italia è il principale organo di polizia preposto a contrastare i reati sulla Rete, di
tracciare eventuali tentativi di pedopornografia online e di indagare con maggior efficacia
gli individui e i siti internet sospetti. Un sistema che permetterà ai più giovani, pertan-
to, di navigare nella Rete con maggiore sicurezza.
Il nuovo sistema CETS è stato sviluppato da Microsoft in collaborazione con la
Polizia Canadese e numerose Polizie internazionali, dopo che un detective della Poli-
zia di Toronto si era rivolto direttamente a Bill Gates nel 2003 per avere un aiuto tec-
nologico che consentisse di affrontare il fenomeno, fortemente in espansione. Già nel
suo primo anno, CETS ha dato brillanti risultati nell’ambito di investigazioni nazio-
nali ed internazionali: gli arresti totali effettuati dalla Polizia canadese sono stati oltre
140. Il Child Exploitation Tracking System permette alla Polizia Postale di dialogare fra
le proprie 76 sedi territoriali, abbattendo, considerevolmente, i tempi di indagine, e
consente, a livello internazionale, di relazionarsi con i Paesi che hanno adottato o adot-
teranno progressivamente la piattaforma CETS, scambiando un’enorme mole di dati
e informazioni in tempo reale, ponendo, pertanto, il Sistema di Tracciamento contro
i Pedopornografi on line come la prima piattaforma veramente internazionale per la
caccia alla pedopornografia. L’alto grado di automazione del sistema rende possibile te-
nere sotto controllo e confrontare, all’istante, un’imponente massa di dati, documenti,
profili personali e domini web, rendendo molto più agevole la caccia alle illegalità e al-
lo sfruttamento dei minori sia sul territorio italiano, sia nelle indagini che coinvolgono
più Paesi, essendo la pedopornografia on line senza confini.

11.14 La depressione e l’euforia


Esistono forme di depressione che producono una perdita totale del sentimen-
to della vita; queste forme si chiamano comunemente melanconia e consistono in un
umore depresso, accompagnato da un grave svilimento del senso del proprio valore. La
persona è costantemente attraversata da un’angoscia senza limiti, indefinibile quanto
alle sue cause e ai suoi effetti, aggravata da autoaccuse il cui contenuto è palesemente
esagerato.
Un’altra forma molto grave è la malattia denominata disturbo bipolare, o psicosi
maniaco-depressiva. Questa malattia è caratterizzata dall’alternarsi da due fasi di umore
contrapposto: una fase di umore depressivo si alterna con una di umore esageratamen-
te euforico.
Sia la melanconia che la forma maniaco-depressiva sono condizioni particolarmen-
te gravi, che richiedono un intervento molto specifico e tempestivo. Sono condizioni

252
Criminalità e distrurbi mentali

particolarmente debilitanti, paragonabili a forme di malattia organica, e richiedono la


massima attenzione e, in primo luogo, un intervento inteso a modificare il tono del-
l’umore. Esse non vanno, cioè, confuse con gli altri stati depressivi, caratterizzati da
uno stato di tristezza e di tedio, poiché, in questi ultimi, la capacità di lavorare e di svol-
gere le normali attività non è compromessa, anche se può essere resa difficoltosa dalla
sofferenza provata; in queste forme meno gravi, domina, inoltre, un senso di insoddi-
sfazione che non ha nulla a che fare con la perdita del sentimento della vita o con l’esa-
gerato, irrequieto e angoscioso iperattivismo della condizione maniacale. Le autoaccuse
sono prodotte da un senso di responsabilità eccessivo ed immaginario che però schiac-
cia la vita morale della persona come un reale misfatto. Il melanconico ha innanzitutto
un atteggiamento caratterizzato dalla grandezza e dell’immensità; quando si ritiene re-
sponsabile di qualcosa, egli, in realtà, pensa di essere colpevole e arriva a considerarsi
un criminale.
Nonostante non abbia nulla da rimproverarsi, o addirittura nonostante una vita
morale irreprensibile e rigorosa, la persona melanconica riterrà, in egual modo, di ave-
re compiuto dei misfatti di cui potrà essere accusata e per i quali può considerarsi un
grande criminale. L’episodio a cui si riferisce il melanconico, nelle sue autoaccuse, può
essere anche reale, anche se non lo è sempre; ma in ogni caso, il melanconico, assume
su di sé una responsabilità del tutto sproporzionata a ciò che è accaduto. L’evento in
cui si è trovato coinvolto è sempre caratterizzato da una perdita o da una separazione
da qualcuno o da qualcosa; questo episodio può essere, ad esempio, il ricovero di un
proprio genitore in un ospedale per anziani, di cui la persona si sente colpevole; oppure
una malattia di un genitore o di un partner, che fa precipitare la persona in una ango-
scia che si trasforma presto in autoaccusa melanconica.
La depressione può alternarsi ad uno stato di esagerata euforia, detta condizio-
ne maniacale. Nella forma maniaco-depressiva, troviamo due condizioni emotivamente
molto diverse, ma che hanno entrambe sullo sfondo l’angoscia. Nella fase depressiva,
infatti, l’umore è così negativo e così profondamente triste da coincidere con uno stato
angoscioso vero e proprio: è una angoscia pervasa dal senso del nulla e della morte; la
persona vede in modo cupo se stessa e il mondo circostante e si sente senza via di scam-
po in una condizione di disperazione.
Nella fase detta maniacale, si instaura, invece, un’euforia associata con la necessità
imprescindibile di agire e di fare: ogni attività che già appartiene alla sfera di interessi
della persona diviene importantissima, fondamentale, ma per breve tempo. L’euforia
diviene, con il tempo, talmente inquieta ed esagitata da essere paragonabile all’angoscia
vera e propria. Via via che la condizione di euforia aumenta, la persona fa sempre più
fatica a portare a termine le attività iniziate; cresce l’inquietudine; ogni attività occupa,
ora, un tempo brevissimo e questo tempo diviene sempre più breve: la persona passa da
una cosa all’altra nel giro di pochissimo tempo e l’euforia, a poco a poco, è diventata
vera e propria disperazione. In questa fase, la persona è, in genere, potentemente reatti-
va, è espansiva, ironica, si lascia trascinare nelle discussioni e si appassiona. Ripensando
a questa condizione, la persona può avere un certo rimpianto, come se si trattasse di un
periodo di vita intensamente vissuta.
Perché una condizione venga definita maniaco-depressiva, non basta però questa
alternanza dell’umore; è necessario, anche, che nella condizione maniacale, la perso-

253
Criminologia ed elementi di criminalistica

na compia atti palesemente caratterizzati dall’impossibilità di mettere freni alla propria


volontà: spese folli e acquisti esagerati, accompagnati da sentimento di una propria
grandezza e della grandezza di ciò a cui ci si appassiona. Non basta, cioè, per parlare
di fase maniacale, il fatto che la persona manifesti forme anche accese di reattività e di
aggressività.

254
CAPITOLO 12

Droga e alcool nell’agire delittuoso

12.1 La diffusione della droga e l’evoluzione legislativa


La legislazione italiana ha costantemente considerato reato la produzione e il traf-
fico illecito di stupefacenti, adottando, al riguardo, misure repressive e sanzionatorie
sempre più incisive, anche in ossequio agli impegni assunti, con l’adesione ad alcune
importanti convenzioni internazionali. Nei confronti del consumatore di droghe, l’or-
dinamento giuridico ha, invece, previsto, nel corso degli anni, provvedimenti anche
molto differenti l’uno dall’altro. La prima legge sulla droga, la n. 396 del 18 febbraio
del 1923, espressione di un orientamento politico-sociale che, a differenza di quello at-
tuale, considerava il consumo di droga un vizio, prevedeva la punibilità del consumato-
re solo qualora la sua condotta potesse rappresentare un pericolo per l’ordine pubblico;
tale rigidità di giudizio si accentuò con la legge n. 1041 del 1954 che arrivava a consi-
derare il consumatore di stupefacenti pienamente equiparato al produttore e allo spac-
ciatore, applicando, sia pure in ritardo, le disposizioni della Convenzione di Ginevra
del 1936 tendenti a ribadire la necessità di incriminazione a cascata, per evitare possi-
bili impunità per coloro che entrassero anche occasionalmente nel mondo della droga.
Nel corso degli anni Settanta, si determinò, nella giurisprudenza italiana, la necessità di
distinguere i consumatori di droga dagli spacciatori e dai trafficanti.
L’approccio in questo senso si concretizzò nella legge n. 685 del 1975 che applicava
le direttive impartite dalle Convenzioni di New York del 1961 e di Vienna del 1971.
La premessa fondamentale di questa svolta nella legislazione italiana fu la crescente
consapevolezza della natura di malattia sociale dell’abuso di droghe e la visione dell’as-
suntore di sostanze stupefacenti quale persona bisognosa di un supporto medico, psico-
logico e sociale. Pur ribadendo l’illiceità della detenzione di droga, la legge contempla-
va un’ipotesi di non punibilità, caratterizzata da due elementi essenziali: uno, soggettivo,
legato alla finalità di uso personale non terapeutico della droga, l’altro oggettivo, costituito
dalla modica quantità di sostanza detenuta.
La causa di non punibilità poteva essere accertata solo mediante procedimento pe-
nale, la persona che deteneva una modica quantità di droga non era passibile di pena

255
Criminologia ed elementi di criminalistica

ma, qualora si fosse rifiutata di sottoporsi volontariamente al trattamento disintossi-


cante, poteva essere obbligata a curarsi con provvedimento giurisdizionale.
Dopo alcuni anni di applicazione, si manifestarono in Italia numerose critiche a
tale approccio normativo. In particolare, secondo l’opinione prevalente, si ritenne che
il concetto di modica quantità poteva determinare una certa impunità degli spacciatori,
e non contrastare sufficientemente l’attività del consumatore-spacciatore.
La legge n. 162 del 26 giugno 1990 (racchiusa nel T.U. delle leggi in materia di
stupefacenti e sostanze psicotrope, approvato con D.P.R. 309 del 9 ottobre 1990) ha
segnato una svolta nell’evoluzione legislativa italiana in materia, in quanto, insieme al
divieto dell’uso personale di sostanze stupefacenti e a un rifiuto di qualsiasi tesi anti-
proibizionistica, ha potenziato sia gli strumenti destinati all’attività di prevenzione e
recupero, attraverso il finanziamento di innumerevoli attività informative e socio-sa-
nitarie, sia la risposta sanzionatoria e i poteri investigativi nei confronti delle attività il-
lecite.
Tale normativa ha introdotto l’assoggettamento a sanzioni amministrative, come
il ritiro del porto d’armi, del passaporto e della patente di guida, per tutti coloro che,
per uso personale, illecitamente importino, acquistino o comunque detengano sostanze
stupefacenti (art. 75). Prima del referendum popolare dell’aprile del 1993, l’uso perso-
nale, inoltre, era rigidamente legato al quantitativo della sostanza usata, che non doveva
comunque, superare la dose media giornaliera.
Il ricorso all’Autorità Giudiziaria ed alle sanzioni penali, avveniva soltanto se la
condotta illecita era più volte reiterata (art. 76). Inoltre, il consumatore di stupefacenti
poteva evitare l’applicazione delle sanzioni (sia amministrative che penali), sottoponen-
dosi ad un programma terapeutico, l’inosservanza del quale, faceva irrogare nuovamen-
te altre sanzioni. Tali previsioni, così come l’intero articolo 76, sono state tutte abrogate
dal referendum del 1993. La portata innovativa della legge non è stata però intaccata
dal referendum, anzi, ne è risultata invigorita. Essa consiste nell’attività di recupero del
tossicodipendente, ricercata costantemente dal Prefetto durante l’applicazione del pro-
cedimento amministrativo di cui all’art. 75.
Accanto alle norme inerenti il consumo, vi sono poi quelle che sanzionano la pro-
duzione ed il traffico illecito di stupefacenti e che non si differenziano in modo sostan-
ziale dalla disciplina precedente alla riforma del 1990. Il sistema è costituito da due
gruppi di reati, che si distinguono in base al carattere individuale o associativo.
In ciascuno dei sottogruppi, le sanzioni si differenziano e si basano sulla natura del-
la sostanza stupefacente, a seconda che si tratti di droghe pesanti (indicate nelle Tabelle
I- III del D P R 309/90) o leggere (Tabelle II- IV). Le condotte prese in considerazione
dall’art. 73 del D.P.R. 309/90 coprono tutte le possibili ipotesi in cui la produzione e il
traffico di stupefacenti può concretamente manifestarsi. È punita anche la illecita de-
tenzione, ovviamente fuori dalle ipotesi di utilizzazione di droga per uso personale.
Sono previste alcune circostanze che comportano un consistente aumento della
pena, in relazione a condotte di produzione o traffico riferite ad ingenti quantitativi di
stupefacenti o ad uso di armi. Queste circostanze, aggravanti, trovano sovente applica-
zione nei casi di traffico internazionale di stupefacenti.
L’altro sottogruppo di reati è rappresentato dal delitto di associazione finalizzata al
narcotraffico che, rispetto alla originaria norma incriminatrice prevista dalla vecchia leg-

256
Droga e alcool nell’agire delittuoso

ge, si differenzia per un sensibile inasprimento delle pene detentive e per una migliore
precisazione delle condotte criminose (art. 74). Tali norme si sono rivelate particolar-
mente efficaci nella repressione della produzione e del traffico della droga, soprattutto
nei confronti delle grandi organizzazioni criminali che operano a livello internazionale.
Nell’ambito del sistema repressivo penale delle condotte finalizzate alla produzio-
ne e al traffico di stupefacenti, l’ordinamento riserva un trattamento particolare al tos-
sicodipendente, privilegiando, nella fase detentiva, l’aspetto del recupero e assecondan-
do le scelte trattamentali e curative. In particolare, tra le misure cautelari alternative alla
custodia in carcere, il giudice può ritenere opportuno adottare nei confronti del tossi-
codipendente, gli arresti domiciliari nella comunità terapeutica o di riabilitazione pres-
so cui il tossicodipendente ha in corso un programma terapeutico di recupero, qualora
l’interruzione dello stesso possa pregiudicare la sua disintossicazione.
L’art. 89 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (provvedimenti restrittivi nei confron-
ti di tossicodipendenti) vieta, addirittura, che il giudice possa disporre la custodia in
carcere, salvo per esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, del tossicodipendente che
abbia in corso un programma terapeutico di recupero nell’ambito di una struttura au-
torizzata, nel caso in cui una forzata interruzione possa pregiudicare la disintossicazio-
ne dell’imputato.
Gli artt. 90 − 93 prevedono che, nei confronti di persona condannata a pena de-
tentiva non superiore a 3 anni per reati commessi in relazione al proprio stato di tossi-
codipendenza, il Tribunale di Sorveglianza possa sospendere l’esecuzione della pena per
una durata di 5 anni, qualora accerti che la persona si sia sottoposta o abbia in corso un
programma terapeutico. L’art. 94 prevede l’istituto dell’affidamento in prova al servizio
sociale, nel caso di pena detentiva inflitta nel limite di 3 anni.
Presupposti di questo istituto − così come di quello contemplato dall’art. 90 − so-
no il riconoscimento dello stato di tossicodipendenza e un programma terapeutico già
iniziato o concordato.
Il D.L. 14 maggio 1993 n. 139, convertito nella legge 14 luglio 1993, n. 222, con-
tenente disposizioni urgenti relative al trattamento di persone detenute affette da in-
fezioni da HIV e di tossicodipendenti, ha introdotto alcune importanti modifiche nel
regime della detenzione per il tossicodipendente. Ha, infatti, modificato parzialmente
l’art. 89, introducendo la possibilità di revocare la custodia cautelare già in fase di ese-
cuzione, qualora il soggetto manifesti l’intenzione di sottoporsi a un programma di re-
cupero, anche se non ancora iniziato.
L’art. 286-bis c.p. prevede il divieto di mantenere la custodia cautelare in carcere
nei confronti di chi sia affetto da infezione da HIV in stato avanzato, qualora si veri-
fichi una situazione di incompatibilità con lo stato di detenzione; inoltre, è stato mo-
dificato l’art. 146 c.p., mediante la sospensione temporanea dell’esecuzione della pena
detentiva nei confronti di persona affetta dalla medesima infezione.
Il D.P.R. 309/1990, pur rappresentando il cardine della normativa sulla tossicodi-
pendenza in Italia, è stato oggetto di aspre critiche che hanno condotto al referendum
dell’aprile del 1993, i cui esiti sono stati recepiti dal D.P.R. 5 giugno 1993, n.171. L’in-
tervento referendario ha abrogato alcune norme della legge del 1990, modificando in
parte l’approccio normativo, soprattutto per quanto riguarda il consumatore di droga.
In sintesi, il sistema legislativo italiano in materia di tossicodipendenza, dopo gli effetti

257
Criminologia ed elementi di criminalistica

abrogativi del referendum del 1993, vieta penalmente solo le attività destinate alla pro-
duzione, vendita, spaccio e traffico di sostanze stupefacenti. È venuto meno − in base
all’abrogazione del comma 1 dell’art. 72 − il divieto dell’uso personale non terapeutico,
senza, tuttavia, optare per la liberalizzazione delle sostanze stupefacenti e mantenendo
l’illiceità dell’uso personale.
Altra conseguenza del referendum è stata l’abolizione della dose media giornalie-
ra, che non presenta più il discrimine per distinguere tra consumo personale e spaccio.
L’uso personale può essere, quindi, desunto da qualsiasi circostanza e non è più legato
a un prefissato parametro normativo.
Bisogna precisare che l’esclusione di ogni rilievo penale riguardo il semplice uso
personale non si è tradotto, però, in un atteggiamento di indifferenza dello Stato rispet-
to al fenomeno del consumo di droga.
Al contrario, in base alla normativa vigente (art. 75), il Prefetto convoca dinanzi a
sé o ad un suo delegato, la persona segnalata per uso personale di sostanze stupefacenti
al fine di accertare, a seguito di colloquio, le ragioni della violazione nonché individua-
re gli accorgimenti utili per prevenire ulteriori violazioni.
Il Prefetto, ove l’interessato volontariamente richieda di sottoporsi a un program-
ma terapeutico socio-riabilitativo, sospende il procedimento amministrativo avviato
dalla segnalazione e, decide l’invio del segnalato al Servizio per le Tossicodipendenze,
che predispone il programma terapeutico di disassuefazione e concorda il luogo più
idoneo dove svolgerlo.
Il programma deve essere, in ogni caso, formulato nel rispetto della dignità della
persona ed in considerazione anche delle esigenze di lavoro, nonché delle condizioni
familiari e sociali del tossicodipendente. Al termine del programma, il Servizio Sani-
tario pubblico locale, redige una relazione sul comportamento del soggetto, che dovrà
essere sottoposta al Prefetto per valutare in merito alla eventuale archiviazione del pro-
cedimento sanzionatorio.
Il mancato rispetto di tale programma prevede l’applicazione di sanzioni ammi-
nistrative.
Prima del referendum abrogativo del ‘93, i tossicodipendenti che persistevano nel
consumo di droga o non ottemperavano al programma terapeutico, erano passibili di
sanzioni penali mentre ora, il Prefetto dopo aver invitato − anche ripetutamente − il
tossicodipendente segnalato al rispetto del programma terapeutico, deve applicare le
sanzioni amministrative previste per legge.
Il T.U. 309/1990, oltre a regolare in termini giurisdizionali il consumo e il pos-
sesso di sostanze stupefacenti ha provveduto − in maniera organica e globale − a rego-
lamentare tutti i profili relativi alla politica contro la droga. Infatti, ha individuato gli
organismi preposti alle attività di coordinamento degli interventi, sia a livello centrale
(Governo, Ministeri) che periferico (Regioni, Province e Comuni).
Nel suddetto T.U., recentemente modificato per effetto dell’entrata in vigore della
legge 18 febbraio 1999, n. 45 (cosiddetta legge Lumia), sono state definite anche le ri-
sorse finanziarie per l’attuazione degli interventi (Fondo Nazionale di Intervento per la
lotta alla Droga, Fondo Sanitario Nazionale), nonché gli strumenti legislativi per l’or-
ganizzazione della lotta al traffico e gli ostacoli all’esplicazione delle attività delle gran-
di organizzazioni criminali.

258
Droga e alcool nell’agire delittuoso

La nuova legge ha definito in maniera organica gli strumenti di rilevazione epi-


demiologica del fenomeno nonché di monitoraggio degli interventi. Il governo deve
presentare al Parlamento, ogni anno, una relazione sull’andamento del fenomeno, onde
consentire alle forze politiche di promuovere iniziative legislative adeguate alle nuove
esigenze; inoltre, deve convocare ogni 3 anni una Conferenza Nazionale a cui parteci-
pano tutte le istituzioni pubbliche e private che operano nel settore. (La prima Confe-
renza Antidroga si è tenuta a Palermo dal 24 al 26 giugno 1993. La seconda Conferen-
za dal 13 al 15 marzo 1997 a Napoli).
La normativa vigente (art. 13 D.P.R. n. 309/90) stabilisce che le sostanze stupe-
facenti o psicotrope sottoposte alla vigilanza e al controllo del Ministero della Sanità
sono raggruppate, in conformità ai criteri di cui all’articolo 14 del citato D.P.R., in sei
tabelle, approvate con decreto del Ministro della Sanità. Le predette tabelle contengo-
no l’elenco di tutte le sostanze e i preparati indicati nelle convenzioni e negli accordi
internazionali e sono sottoposte a continuo aggiornamento.
L’articolo 14, nello stabilire i criteri per la formazione delle tabelle, distingue le so-
stanze dalle preparazioni.
Con il termine sostanze (stupefacenti o psicotrope) si indicano, generalmente, le
droghe aventi origine naturale o di sintesi, mentre il termine preparazione si riferisce alle
soluzioni o ai miscugli che, indipendentemente dal loro stato fisico, contengono una
o più sostanze psicotrope:

- nelle tabelle I e III sono ricomprese le c.d. droghe pesanti quali l’oppio e suoi de-
rivati, le foglie di coca e gli alcaloidi ad azione eccitante da queste estraibili, le so-
stanze di tipo amfetaminico ad azione eccitante, le sostanze di tipo barbiturico ad
effetto ipnotico e sedativo, nonché ogni altra sostanza che produca effetti sul siste-
ma nervoso centrale ed abbia capacità di determinare dipendenza fisica o psichi-
ca nell’assuntore. Vi rientrano, altresì, le preparazioni che contengono le sostanze
elencate nelle tabelle I e III;
- le tabelle II e IV contengono le c.d. droghe leggere (es. cannabis indica e i prodotti
da essa ottenuti − i.e. marijuana, olio di hashish) e le preparazioni che contengono
le sostanze in esse indicate.
Nella tabella IV sono comprese le sostanze di corrente impiego terapeutico, per le
quali sono stati accertati concreti pericoli di induzione di dipendenza fisica e psi-
chica di intensità e gravità minori rispetto a quelle delle tabelle I e III;
- nella tabella V sono elencate le preparazioni contenenti le sostanze indicate nelle ta-
belle I, II, III e IV quando, per la loro composizione qualitativa e quantitativa e per
le modalità del loro uso, non presentano rischi di abuso e, pertanto, non devono
essere assoggettate alla disciplina (penale) delle sostanze con cui vengono prodotte;
- nella tabella VI sono indicati i prodotti ad azione ansiolitica, antidepressiva o psi-
costimolante che possono dar luogo al pericolo di abuso e alla possibilità di farma-
codipendenza.

Le sostanze e le preparazioni delle Tabelle I, II, III, e IV costituiscono oggetto della


repressione penale, mentre quelle delle Tabelle V e VI sono sottoposte soltanto a con-
trolli amministrativi.

259
Criminologia ed elementi di criminalistica

La nuova e recente legge sulla droga, in Italia, prevede, sostanzialmente: la depe-


nalizzazione del consumo; l’eliminazione del concetto quantitativo per distinguere tra
uso personale e spaccio; la reintroduzione della divisione delle sostanze per tabelle, e
conseguente distinzione tra droghe pesanti e leggere; l’ampliamento delle pene alterna-
tive al carcere. Il consumo personale di sostanze stupefacenti resta un illecito, ma vie-
ne sanzionato solo se comporta azioni irresponsabili o pericolose verso terzi. La guida
in stato di alterazione, il consumo di droga per via endovenosa in un luogo pubblico,
l’abbandono di siringhe incustodite, il coinvolgimento attivo di minori nel consumo,
sono puniti con sanzioni, che vanno dalle multe alla perdita di punti della patente, al
divieto di guidare. Per i minori, è inoltre previsto l’obbligo di segnalazione ai servizi
sociali e ai genitori.
La nuova normativa sulle droghe elimina la dose massima consentita, restituendo
al giudice la discrezionalità di decidere − caso per caso − se la quantità di sostanze de-
tenuta dal tossicodipendente sia destinata ad uso personale o a spaccio. Nel secondo
caso viene comunque previsto un riequilibrio del sistema delle pene (la precedente legge
trattava parimenti la cannabis, la cocaina e l’eroina, con la reclusione da 6 a 20 anni),
in modo da distinguere il piccolo spacciatore-consumatore dalle grandi organizzazioni
mafiose di spaccio.
Si allarga, inoltre, il ventaglio di ipotesi di pene alternative al carcere. La certifica-
zione dello stato di tossicodipendenza torna di esclusiva competenza del servizio pub-
blico, con l’estensione, ai privati, della possibilità di certificare lo stato di tossicodipen-
denza ai fini delle misure alternative al carcere e della sospensione dell’esecuzione della
pena.
Per quanto riguarda il capitolo della riduzione del danno, la nuova normativa fissa
i criteri generali a cui devono conformarsi i progetti (ad esempio, le sperimentazioni si
devono basare su evidenze scientifiche) ma lascia alle singole Regioni la libertà di deci-
dere le modalità concrete con cui attuarli.

12.2 Consumatori, tossicodipendenza e tossicomania

a) Consumatori

Circa il 3% della popolazione mondiale (185 milioni di persone) ha abusato di


droghe durante lo scorso anno, secondo l’UNODC (United Nations Office on Drugs
and Crime). Una piccola percentuale della popolazione mondiale abusa di cocaina (13
milioni di persone) o di oppiacei (15 milioni abusano di eroina, morfina e oppio). Ma
la sostanza più consumata è la cannabis (usata nell’ultimo anno da più di150 milioni di
persone), seguita dalle ATS, le sostanze stimolanti di tipo amfetaminico (38 milioni, di
cui 8 milioni consumatori di ecstasy). Questi i dati presentati nella nuova edizione del
World Drug Report, in due volumi. Il primo volume illustra le tendenze del mercato e
fornisce analisi dettagliate delle tendenze in atto; il secondo volume comprende statisti-
che particolareggiate sul mercato internazionale della droga. Ci sono, inoltre, 1,3 bilio-

260
Droga e alcool nell’agire delittuoso

ni di fumatori nel mondo, sette volte più dei consumatori di droga. L’Organizzazione
Mondiale della Sanità stima che circa 200.000 persone sono morte a causa dell’abuso
di droga durante il 2000, l’equivalente dello 0,4% di tutti i decessi nel mondo. Il tabac-
co, invece, vanta decessi pari a 25 volte (4,9 milioni), l’equivalente dell’8,8% di tutte le
morti. Se la misura usata per liquidare l’invalidità sono gli anni di vita, l’abuso di droga
causerebbe la perdita di 11,2 milioni di anni di salute di vita, ma il tabacco causerebbe
una perdita di cinque volte maggiore (59,1 milioni). Tra i punti salienti del World Drug
Report 2005, vi sono alcune buone notizie che giungono dalle due più vaste aree di pro-
duzione di droghe: nel sud-est asiatico, la coltivazione del papavero da oppio continua
a calare in Myanmar e Laos, mentre nella regione delle Ande la coltivazione di coca re-
gistra un sostanziale declino per il quarto anno di seguito in tutti e tre i principali pae-
si produttori (Colombia, Perù e Bolivia). In termini di impatto sulla salute, gli oppiacei
sono la droga più problematica del mondo. Essi causano la morte per il 67% dei trat-
tamenti per droga in Asia, per il 61% in Europa e per il 47% in Oceania. Nel sud-est
dell’Asia, le metamfetamine stanno costituendo il problema principale. La cocaina è an-
cora al primo posto nell’intero continente americano, ma negli USA, l’abuso di cocaina
tra gli studenti sta declinando. In Africa, la cannabis continua a dominare la doman-
da (65%). Ecco alcuni dei nuovi dati presentati nel rapporto: nel corso di dieci anni la
quantità complessiva di sostanze illecite sequestrate è cresciuta, con gli incrementi più
alti per le sostanze stimolanti di tipo amfetaminico (ATS); la conversione di quantità di
droghe sequestrate in unità equivalenti (una dose tipica assunta dai consumatori di dro-
ga) riflette un forte incremento del totale dei sequestri, da 14 bilioni di dosi nel 1990 a
26 bilioni nel 2000 con segnali di stabilizzazione nel 2001/2002. I sequestri in termini
unitari sono più alti nel continente americano (10,4 bilioni di dosi), seguito dall’Euro-
pa (7,4 bilioni), dall’Asia (5,5), dall’Africa (2,4) e dall’Oceania (0,08); su base pro-capi-
te, comunque, la classifica subisce questi cambiamenti: le Americhe (12,1 unità o dosi
sequestrati pro-capite), l’Europa (10,2), l’Africa (2,9), l’Oceania (2,6) e l’Asia (1,5); la
produzione illecita globale di oppio è rimasta stabile, tra le 4.000-5.000 tonnellate dai
primi anni ‘90, ma ha avuto un incremento quella concentrata in Afghanistan; le colti-
vazioni di coca sono diminuite del 30% dal 1999 al 2005 a seguito dell’incremento dei
sequestri dei laboratori dalla metà degli anni ‘90 nei paesi sviluppati, il consumo di so-
stanze stimolanti di tipo amfetaminico (ATS) sembra aver avuto un picco negli ultimi
due anni; il mercato della cannabis resta costante, con un incremento di consumo nel
Sud America, in espansione sui mercati dell’Europa occidentale ed orientale, così come
dell’Africa; sebbene il mercato delle sostanze stimolanti di tipo amfetaminico (ATS) sia
in espansione, il tasso di incremento sembra essere rallentato, rispetto al rapido incre-
mento che lo ha caratterizzato negli ultimi dieci anni.

b) Tossicodipendenza

La tossicodipendenza può essere definita come un comportamento compulsivo o una


condotta tossicomanica per cui, una persona si trova progressivamente a non potere con-
trollare il suo desiderio di assumere una certa sostanza presente in natura o di sinte-
si, legale o illegale, nonostante i rischi e i danni che derivano tanto sul piano sociale o
relazionale che sanitario. Nonostante l’avvio delle campagne di prevenzione, in questi

261
Criminologia ed elementi di criminalistica

ultimi anni, il numero di giovani che ricorrono a sostanze psicoattive non ha cessato
di aumentare. Da alcuni anni, l’assunzione di droghe sembra sempre più motivata dal
desiderio del cosiddetto sballo o dalla volontà di aumentare le prestazioni. Per questi
motivi, le modalità di assunzione sono cambiate: si osservano maggiormente forme di
poliabuso per meglio controllare o sfruttare gli effetti delle singole sostanze, e anche per
riscontrare il rischio di dipendenza.
Mentre il numero dei tossicodipendenti da eroina in cura presso i Ser. T., cioè i
servizi per le tossicodipendenze, o le comunità terapeutiche, è relativamente costante
negli ultimi anni, si stima che più della metà dei ragazzi abbia fatto uso occasionale di
sostanze psicoattive o frequenti amici che le assumono.
Come tutte le condotte tossicomaniche, la dipendenza nei confronti di una droga
si manifesta con una serie di sintomi che si possono così riassumere: a) impossibilità
di resistere all’impulso di ricercare la sostanza; b) tensione interna crescente prima di
iniziare il comportamento; c) piacere o sollievo al momento dell’assunzione o della sua
preparazione; d) perdita del controllo già all’inizio del comportamento.
Almeno 5 degli 8 criteri seguenti:

- preoccupazione frequente per il proprio comportamento;


- la ricerca della sostanza richiede più impegno di quanto si vorrebbe; sforzi ripetuti
per ridurre o smettere;
- molto tempo passato ad attivare il comportamento o a rimettersi dai suoi effetti;
- riduzione delle attività sociali, professionali, familiari determinata dal comporta-
mento;
- impegno nel comportamento che impedisce di assolvere agli obblighi sociali, fami-
liari o professionali;
- perseveranza nonostante i problemi sociali, finanziari o fisici; agitazione o irritabi-
lità se è impossibile attuare il comportamento.

La tossicodipendenza è un processo per cui sotto gli effetti associati della sostan-
za ripetutamente assunta (sia a livello dell’organismo che del sistema nervoso) e delle
condotte necessarie per procurarsela, si producono delle modificazioni a livello delle si-
napsi che portano l’individuo a desiderare sempre più di ripetere l’esperienza della tos-
sicomania.

c) Tossicomania

L’utilizzo di sostanze voluttuarie è un fenomeno normale del comportamento uma-


no, diffuso in ogni società. Nella progressione verso lo stato di tossicomania si possono
distinguere diverse fasi.
L’avvicinamento iniziale alla droga o fase di induzione, che determina il primo con-
tatto con la droga stessa è, di solito, caratterizzato dalla disponibilità della droga, dalla
curiosità e dallo spirito di emulazione. Quasi sempre, la prima esperienza con la droga
non è piacevole, suscita, anzi, spesso, ansia e malessere. Presto, tuttavia, si passa alla fase
in cui l’individuo ottiene sensazioni piacevoli ed effetti gratificanti. Dopo un certo in-
tervallo di tempo dall’ultima somministrazione della droga, l’individuo accusa una sen-

262
Droga e alcool nell’agire delittuoso

sazione di malessere e di inquietudine, secondo alcuni legata alla diminuzione dei livelli
ematici e cerebrali del farmaco.
Il soggetto sa che tale malessere va combattuto con un’ulteriore somministrazio-
ne di droga che produce in lui benessere ed euforia. Con il progredire della tolleranza
e dello stato di dipendenza fisica, l’intervallo di tempo che separa la somministrazione
della droga dalla comparsa dei sintomi di privazione diventa sempre più breve.
La tossicomania, infatti, è la condizione determinata dal ripetuto impiego di cer-
te sostanze psicoattive ed è caratterizzata da tre elementi: 1) assuefazione al farmaco; 2)
tolleranza ai suoi effetti; 3) tendenza alla intossicazione cronica.
1) L’assuefazione, si manifesta con il desiderio di un certo farmaco, dal cui im-
piego si ricercano effetti psichici piacevoli. Con la brusca sospensione del farmaco, si
viene a creare il cosiddetto quadro clinico della sindrome dell’astinenza e l’instaurarsi
della dipendenza; 2) la tolleranza, invece, può essere definita una forma di adattamen-
to cellulare a un ambiente chimico estraneo. A causa della tolleranza, l’attività del far-
maco psicoattivo diminuisce graduatamente; 3) tendenza alla intossicazione cronica: a
questi due aspetti possono essere attribuite le conseguenze nefaste delle tossicomanie.
Il desiderio di evitare la sofferenza della sindrome di privazione costituisce un poten-
te meccanismo di rinforzo dei fattori psichici che, in origine, hanno spinto il soggetto
all’uso di droghe voluttuarie, d’altra parte, la tolleranza obbliga ad usare dosi sempre
più elevate e rende perciò sempre più difficile, costoso e pericoloso evitare la sindrome
di astinenza.
L’assumere queste sostanze regolarmente fa si che l’organismo non abbia il tempo
di eliminare le sostanze tossiche ad esse associate, e si instaura lentamente un’intossica-
zione cronica con grave danno degli organi (es. fegato e cervello).

12.3 Le sostanze stupefacenti


La classificazione, di seguito riportata, tiene conto, altresì, delle nuove sostanze
che, pericolosamente, stanno circolando tra gli adolescenti.

a) Eroina

L’eroina che si acquista nel mercato illecito è una polvere fine oppure in piccoli
granuli, di colore dal bianco al marrone chiaro, di odore leggermente pungente e dal
sapore amaro, costituita in realtà da una miscela di sostanze la cui composizione è mol-
to variabile.
La dose è, in genere, confezionata in un piccolo pezzo di carta argentata (quella
che si trova dentro i pacchetti di sigarette), oppure in bustine di plastica. Anche la per-
centuale di eroina contenuta nella dose o bustina può variare notevolmente a seconda
del numero di passaggi intermedi dal produttore al consumatore: si va dal 50% e oltre,
alla traccia minima (meno dell’1%). In media, la percentuale di eroina contenuta in
una dose, si aggira attorno al 10%. Proprio a causa della notevole variabilità della per-
centuale di eroina che si può trovare nella bustina, il consumatore, non ha alcun modo

263
Criminologia ed elementi di criminalistica

di sapere la quantità di eroina pura che sta per assumere. Le altre sostanze che possono
essere presenti nella eroina da strada sono classificabili in:

- sostanze che, pur non avendo effetto stupefacente, simulano alcune caratteristiche
dell’eroina (ad esempio, il sapore amaro). Queste sostanze sono indicate con il no-
me di adulteranti (ad esempio caffeina, procaina, lidocaina, fendimetrazina, ami-
nofenazone, barbiturici, chinina, stricnina);
- sostanze aggiunte con l’unico scopo di diluire l’eroina e di realizzare quindi un mag-
gior profitto dalla vendita. Queste sono indicate con il nome di diluenti (ad esem-
pio, zuccheri, acido citrico, bicarbonato, acido borico);
- sostanze estratte dall’oppio assieme alla morfina e presenti nella bustina da strada co-
me impurezze (ad esempio, acetilcodeina, narcotina, papaverina).

A volte, oltre all’eroina, possono essere presenti altre sostanze stupefacenti, come
ad esempio cocaina (la miscela di eroina e cocaina è nota con il nome di speedball) o
amfetamina (bombitas). Al contrario di quanto comunemente si crede e di quanto ge-
neralmente viene riportato dai media, quello che rende pericolosa l’eroina da strada, e
che in genere causa fenomeni di aumento della mortalità in un’area geografica e/o in
un ristretto arco di tempo, non sono le sostanze aggiunte all’eroina (il cosiddetto ta-
glio) ma, invece, la variabilità della percentuale di eroina che può essere contenuta nella
bustina che si acquista dallo spacciatore. All’origine di questi fenomeni, vi è, infatti, la
temporanea presenza sul mercato di preparati contenenti percentuali di eroina più ele-
vate di quelle normalmente reperibili e tali da non essere tollerate da molti consuma-
tori di eroina. In altre parole, non è la natura del taglio, ma la occasionale riduzione del
taglio a rendere pericolosa l’eroina da strada. Nei paesi occidentali, il modo più diffuso
di somministrazione o auto-somministrazione dell’eroina è l’iniezione in vena (pera,
buco) dopo avere sciolto il contenuto della bustina in acqua.
Gli strumenti che vengono utilizzati per il buco sono la siringa da insulina, dell’ac-
qua (spesso vengono usate le fiale di acqua distillata per preparati iniettabili che si com-
prano in farmacia), il cucchiaino, un accendino o un’altra fonte di calore, del succo di limo-
ne (che servono a sciogliere la polvere in acqua), e un filtro (per rimuovere sostanze non
disciolte dalla soluzione che verrà iniettata; in genere viene usato il filtro di una siga-
retta). Generalmente, l’iniezione viene fatta nelle vene degli avambracci; in alcuni casi,
vengono scelte altre aree del corpo che sono normalmente coperte da indumenti, come
le gambe, i piedi o anche gli organi genitali. L’eroina viene anche inalata (sotto forma di
polvere, sniffata), o fumata. Un’altra modalità di assunzione, indicata come “chasing the
dragon” (“inseguendo il drago”), consiste nel bruciare l’eroina sopra ad una lastra e nel-
l’inalare i fumi attraverso un piccolo tubo o una banconota arrotolata. La via inalatoria
viene in genere scelta, sia nella convinzione (sbagliata) che l’eroina se non è iniettata in
vena non produca dipendenza, sia per evitare i rischi di infezione che sono associati al
buco. Per questa ragione, è stata riscontrata una recente tendenza all’aumento della scel-
ta di questa via di assunzione rispetto all’iniezione in vena. Quest’ultima, è, in ogni caso,
la via di assunzione che produce un effetto stupefacente più rapido e più intenso.
Negli ultimi anni, si sta diffondendo tra i consumatori di eroina la tendenza ad as-
sumere anche altre sostanze d’abuso assieme all’eroina. Tra queste ci sono soprattutto

264
Droga e alcool nell’agire delittuoso

l’alcol, alcuni farmaci sedativi e tranquillanti (Valium, Darkene, Roipnol, Tavor) e altre
sostanze stupefacenti (cocaina, ecstasy, hashish e marijuana).
Questo comportamento è molto pericoloso perché agli effetti dell’eroina sull’or-
ganismo si possono aggiungere quelli prodotti dalla/e altra/e sostanza/e, aumentando
significativamente il rischio che si producano effetti tossici anche in soggetti consuma-
tori abituali di eroina.
Per la stessa ragione, è molto pericoloso, per un soggetto in trattamento con meta-
done o con altri farmaci sostitutivi dell’eroina (es. buprenorfina), continuare ad assu-
mere eroina, oppure, anche altre sostanze d’abuso (alcol, sedativi, tranquillanti, stupe-
facenti, ed anche altro metadone al di fuori di quello prescritto).
Un consumatore cronico di eroina assume, in genere, tra i 100 milligrammi ed 1
grammo al giorno, divisi in 2-4 dosi. L’eroina è una sostanza che produce assuefazione.
Ciò vuol dire che in un consumatore che continuasse ad assumere tutti i giorni sempre
la stessa dose, l’effetto prodotto sull’organismo sarebbe progressivamente minore. Per
questo motivo, i consumatori di eroina tendono con il passare del tempo ad aumenta-
re la dose assunta.
Questo fenomeno, legato al progressivo adattamento dell’organismo all’eroina (tol-
leranza), è reversibile: l’astinenza volontaria o forzata, per esempio conseguente ad un
periodo di detenzione in carcere, dall’eroina, per un periodo anche relativamente breve
(un paio di settimane sono sufficienti) causa una riduzione della tolleranza. Ciò signi-
fica che, se un soggetto, dopo un periodo di astinenza, riprende a usare l’eroina nelle
stesse dosi che assumeva prima, rischia di incorrere, quasi certamente, negli effetti tossici
della sostanza. Il fenomeno della perdita della tolleranza è considerato una delle prin-
cipali cause di morte per intossicazione acuta da eroina. Oltre ai segni più evidenti nei
consumatori di eroina per iniezione, e cioè i segni di agopuntura o buchi, generalmente
agli avambracci, ma anche in altre parti del corpo (gambe, piedi, organi genitali), sono:
a) la parola impastata; b) il rallentamento nei movimenti; c) la tendenza alla sonnolenza;
d) il prurito insistente; e) le pupille a spillo.
L’iniezione di eroina provoca nel giro di pochi secondi una forte sensazione di pia-
cere, denominata flash, spesso descritta come un intenso orgasmo sessuale, accompa-
gnata da una sensazione di euforia e da vampate di calore. Dopo questo effetto, che
dura pochi minuti, subentra una seconda fase caratterizzata da calma, rilassatezza, sod-
disfazione, e distacco da quanto succede all’esterno. Questo effetto si esaurisce, entro 2-
6 ore dall’iniezione. Se l’eroina viene inalata o fumata, gli effetti sono qualitativamente
uguali, ma sono meno rapidi e meno intensi. L’eroina ha anche una potente azione de-
pressiva sul sistema nervoso e ottunde sia gli stimoli esterni che quelli interni sgradevo-
li: il dolore, le angosce, le paure, l’urgenza del sesso. Entro un periodo di tempo che va da
2 sino a 6 ore dopo l’iniezione o l’inalazione di eroina, agli effetti piacevoli cominciano
a subentrare quelli spiacevoli: agitazione, dolori diffusi, bisogno che a poco a poco diventa
irrefrenabile di assumere un’altra dose. In un tempo piuttosto rapido (bastano poche do-
si), si sviluppa una forte dipendenza che si manifesta come desiderio prepotente di assu-
mere nuovamente la droga, e come spinta a procurarsela con ogni mezzo. L’assunzione
abituale di eroina determina una progressiva riduzione delle sostanze che nel cervello
agiscono sui meccanismi che regolano la percezione del dolore (le più note delle qua-
li sono le endorfine), oltre che la perdita di gran parte dei recettori, attraverso i quali

265
Criminologia ed elementi di criminalistica

la sostanza agisce sulle cellule nervose. Se non viene assunta una nuova dose di eroina,
la mancanza della sostanza, in aggiunta alla riduzione delle endorfine e dei recettori,
provoca la comparsa della crisi da astinenza. La crisi da astinenza comincia a manife-
starsi dopo poche ore dall’ultima assunzione e raggiunge il massimo di intensità entro
1 o 2 giorni. I principali sintomi della crisi da astinenza comprendono agitazione, allu-
cinazioni, insonnia, dolori diffusi, tremori, aumento della produzione di sudore, di saliva
e di muco nasale, nausea, vomito, diarrea e crampi addominali, e sono tanto più intensi
quanto maggiore è stata la durata del consumo di eroina. La crisi da astinenza scompare
dopo l’assunzione di una nuova dose o, nel caso in cui l’astinenza prosegua, nel giro di
3-7 giorni. Quando la dose di eroina è superiore a quella che l’organismo è in grado di
sopportare (overdose), o quando l’eroina viene assunta unitamente ad altre sostanze che
ne potenziano gli effetti (alcool, sedativi, tranquillanti), la sensazione di calma e rilassa-
tezza si trasforma in una progressiva depressione del respiro e del sistema circolatorio,
sino a giungere all’arresto cardiocircolatorio e quindi alla morte.
A parte il rischio di contrarre patologie infettive, l’uso prolungato di eroina produce
una progressiva debilitazione fisica. Gli organi più direttamente interessati sono fega-
to, reni e polmoni. La presenza di particelle insolubili nel liquido iniettato può causare
fenomeni di otturamento dei vasi sanguigni e la conseguente morte delle cellule irro-
rate da questi vasi. La reazione immunitaria ai vari contaminanti presenti nell’eroina
di strada è all’origine dell’artrite (infiammazione delle articolazioni) e di altri problemi
reumatici.

b) Cocaina

La cocaina è uno stimolante molto potente che ha effetto direttamente sul cervel-
lo. Conosciuta come la droga degli anni Ottanta e Novanta per la sua popolarità in
quel periodo, non è certamente una sostanza nuova, ma una delle più antiche. L’effetto
stimolante e di riduzione della sensazione di fatica che si ottiene masticando foglie di
coca è conosciuto da migliaia di anni, la sostanza pura è invece utilizzata da oltre 100
anni.
La cocaina è estratta dalle foglie di alcuni arbusti del genere delle eritoxilacee, diffu-
si e coltivati nel Sud America. Nei primi del Novecento, essa fu utilizzata come ingre-
diente principale di numerosi tonici ed elisir per alleviare i sintomi di diverse malattie.
Oggi, è considerata una sostanza estremamente pericolosa ed è classificata fra le più po-
tenti droghe d’abuso. La cocaina si trova nel mercato illecito in due forme: il cloridra-
to, che ha l’aspetto di una polvere bianca o bianco-avorio ed ha sapore amaro, e la base
libera che si presenta, invece, sotto forma di scaglie o tavolette di varia forma e dimen-
sioni e di colore dal bianco sporco al marrone. Il cloridrato può essere inalato, sciolto
in acqua, oppure iniettato in vena. La base libera normalmente viene fumata.
La cocaina venduta dagli spacciatori è spesso tagliata (diluita) con sostanze come
l’amido di granturco, lo zucchero a velo, raramente il bicarbonato o il talco. Nella co-
caina di strada, può anche essere presente procaina, lidocaina o altri anestetici locali
che simulano alcune caratteristiche della cocaina (sapore, effetto di anestesia locale sul-
la lingua). Inoltre, la cocaina può essere mischiata con altre droghe come l’eroina o le
amfetamine.

266
Droga e alcool nell’agire delittuoso

Crack è il nome in gergo che viene dato ai cristalli di cocaina (base libera). Il termi-
ne crack deriva dal particolare rumore che questa sostanza produce quando viene bru-
ciata. Il crack produce una forte euforia in meno di dieci secondi. La sua popolarità tra
gli emarginati delle periferie urbane, in particolare negli Stati Uniti, è dovuta ai bassi
costi di produzione e al prezzo contenuto. La cocaina può essere inalata, iniettata o fu-
mata (da sola o mescolata a tabacco o a marijuana). L’assunzione mediante masticazio-
ne delle foglie è limitata esclusivamente ad alcune popolazioni sudamericane. Se inala-
ta, normalmente con dei cannelli o con banconote arrotolate, la sostanza attiva passa
attraverso le mucose nasali nel sangue. L’iniezione, invece, è la via più diretta e produce
effetti istantanei e più marcati. Il fumo, attraverso speciali pipette, passa dai polmoni,
nel sangue, quasi con la stessa velocità dell’iniezione. Molti tossicodipendenti la inetta-
no o la inalano, mescolata all’eroina.
Il consumo di cocaina può variare da occasionale a ripetuto e compulsivo. Non
esiste una modalità di utilizzazione sicura o priva di rischi. Qualunque tipo di uso può
portare all’assunzione di quantità tossiche di sostanza, provocando seri problemi car-
diovascolari o cerebrali, che possono dar luogo anche a una morte improvvisa. L’uso
ripetuto di cocaina, in qualunque forma, provoca dipendenza e altri danni alla salute.
Sono state realizzate molte ricerche per studiare il modo in cui la cocaina produce i suoi
effetti piacevoli, e la ragione per cui provoca dipendenza. Ciò avviene, probabilmente,
attraverso il suo effetto sulle strutture profonde del cervello. Gli scienziati hanno sco-
perto che quando vengono stimolate alcune zone del cervello si produce una sensazione
di piacere. Uno dei sistemi neurali che sembra siano più interessati dalla cocaina trova
origine in una regione molto profonda del cervello chiamata area ventrale del tegmen-
to (Avt). Le cellule nervose che partono dalla Avt si estendono alla regione conosciuta
come nucleus accumbens, una delle aree chiave del piacere nel cervello. In studi su ani-
mali, ad esempio, tutto ciò che produce piacere, dal bere al mangiare, dal sesso a molte
droghe, aumenta l’attività del nucleus accumbens.
Gli studiosi hanno scoperto che quando si sta svolgendo un’azione che provoca
piacere, i neuroni nella Avt aumentano la secrezione di dopamina nel nucleus accum-
bens. I segnali di piacere vengono cioè comunicati da neurone a neurone, attraverso la
emissione di dopamina nei punti di connessione (sinapsi) tra i neuroni. Le droghe pos-
sono interferire proprio con questo processo. La cocaina, ad esempio, blocca l’elimina-
zione della dopamina dalla sinapsi provocandone l’accumulo. La conseguente stimola-
zione continua dei neuroni è all’origine dell’euforia riferita dai consumatori.
L’uso continuo di cocaina crea tolleranza. Ciò significa che la persona che la as-
sume, ha bisogno di dosi sempre maggiori e frequenti per ottenere lo stesso effetto.
Secondo recenti ricerche, durante il periodo di astinenza dall’uso di questa droga, il
ricordo dell’euforia associata al consumo o soltanto alla stessa può causare il deside-
rio incontrollabile di assumerla anche dopo lunghi periodi in cui non è stata consu-
mata.
Gli effetti della cocaina si manifestano quasi subito dopo il suo uso, e possono du-
rare da alcuni minuti ad ore. Coloro che utilizzano cocaina in piccole quantità (fino
a 100 milligrammi) si sentono euforici, pieni di energia, disposti alla conversazione e
mentalmente attivi, attenti, in particolare, alle sensazioni visive, uditive e tattili. La co-
caina può anche diminuire, temporaneamente, il desiderio di mangiare e dormire. Al-

267
Criminologia ed elementi di criminalistica

cuni consumatori riferiscono che la droga li aiuta a compiere sforzi intellettuali e fisici
più rapidamente; altri, parlano di effetti opposti.
La durata degli effetti euforici di questa droga dipende dal modo in cui è stata uti-
lizzata. Più veloce è l’assorbimento nel sangue (come nel caso dell’iniezione in vena o
dell’inalazione del fumo), più intenso è l’effetto e più breve la sua durata. Le sensazio-
ni di benessere provocate dall’inalazione possono durare dai quindici ai trenta minuti,
mentre, quelle conseguenti al fumo variano dai cinque ai dieci minuti.
Gli effetti fisiologici a breve termine che la cocaina produce sono: contrazione dei
vasi sanguigni, dilatazione delle pupille, aumento della temperatura corporea, del ritmo
cardiaco e della pressione arteriosa. Se le quantità utilizzate superano i 100 milligram-
mi, gli effetti si intensificano e possono provocare comportamenti inusuali e violenti.
I consumatori possono provare tremori, vertigini, spasmi muscolari, paranoia e, dopo
successive assunzioni, reazioni tossiche simili a quelle prodotte dall’avvelenamento da
amfetamina. Tra gli effetti a breve termine della cocaina, è da segnalare la riduzione
della percezione del rischio che può originare comportamenti pericolosi per il consu-
matore stesso e per la salute di terzi (ad esempio, guida pericolosa). Alcuni utilizzatori
riferiscono di sentirsi irritabili, agitati e di soffrire di ansia. In qualche rara occasione,
l’uso di cocaina per la prima volta può provocare una morte improvvisa. I decessi per
cocaina sono provocati generalmente da arresto cardiaco o da convulsioni causate da
blocco respiratorio.
La cocaina provoca una forte assuefazione. Una volta provata, è molto difficile
controllarne e limitarne l’uso. Si ritiene che la dipendenza da questa sostanza e i suoi
effetti stimolanti, siano il risultato della sua capacità di impedire l’assorbimento della
dopamina da parte delle cellule nervose e di provocarne, quindi, un accumulo nell’or-
ganismo. Il cervello produce dopamina come sistema di gratificazione e il funziona-
mento di molte droghe dipende, direttamente o indirettamente, dalla maggiore o mi-
nore presenza di questa sostanza nell’organismo.
La cocaina può, inoltre, provocare una considerevole tolleranza in chi la assume,
tanto che molti tossicodipendenti riferiscono di non riuscire a provare le stesse sensa-
zioni di piacere dopo un uso continuato. Allo stesso tempo, alcuni individui possono
sviluppare nel tempo una maggiore sensibilità agli effetti anestetici e convulsivi di que-
sta sostanza, tanto da provocarne la morte dopo l’assunzione di quantità relativamen-
te piccole.
Esiste una notevole quantità di complicazioni mediche associate all’uso di cocaina.
Fra le più frequenti: complicazioni cardiovascolari, come irregolarità nella frequenza
del cuore, malattie cardiache, problemi respiratori che provocano dolori al petto, effetti
neurologici che causano ictus, convulsioni ed emicranie, complicazioni gastrointestina-
li che provocano dolori addominali e nausea.
L’uso di cocaina provoca vari tipi di malattie cardiache. Si sa che questa droga cau-
sa fibrillazione ventricolare, accelera i battiti del cuore e la respirazione, aumenta la
pressione arteriosa e la temperatura del corpo. I sintomi fisici possono includere confu-
sione mentale, dolore al petto, febbre, spasmi muscolari, convulsioni e coma.
Gli effetti negativi della droga sono collegati alle diverse modalità di assunzione.
Quando la si inala regolarmente, ad esempio, la cocaina può provocare una perdita di
sensibilità dell’olfatto, causare emorragie nasali, problemi di deglutizione, raucedine ed

268
Droga e alcool nell’agire delittuoso

una irritazione del setto nasale che causa una condizione cronica di irritazione delle na-
rici e di secrezione di muco. Quando viene ingerita, la cocaina può provocare cancrena
all’intestino perché riduce il flusso di sangue. Coloro che la iniettano, possono contrar-
re flebiti ed altre infezioni, come anche reazioni allergiche alla droga o alle altre sostan-
ze da taglio ad essa associate. La cocaina tende a ridurre il desiderio di alimentarsi, per
cui il suo uso abituale provoca perdite di peso e malnutrizione.
Gli scienziati hanno dimostrato che esiste un’interazione potenzialmente perico-
losa tra cocaina e alcol.

c) Cannabis

La cannabis contiene più di 400 composti chimici, di cui 61 cannabinoidi, tra i


quali, il delta 9-tetraidrocannabinolo (THC) è il più potente come attività psicoattiva;
inoltre, nel fumo di cannabis, sono presenti più di 350 sostanze chimiche, simili a quel-
le del fumo di sigaretta. I cannabinoidi, molto liposolubili, attraversano rapidamente le
membrane cellulari ed entrano nel cervello dopo pochi minuti dalla inalazione del fumo
di uno spinello ed entro un’ora dalla ingestione orale. Il THC si lega nel cervello a dei
recettori specifici scoperti nel 1988, i recettori endogeni, attivando una serie di reazioni
cellulari che portano all’effetto acuto dei cannabinoidi. Ad essere coinvolti sono i sistemi
cerebrali che controllano il tono dell’umore: la memoria, le funzioni intellettuali e cogni-
tive, il dolore, il controllo dei movimenti, le attività delle ghiandole endocrine, il sistema
cardiovascolare e altre funzioni vitali. La cannabis produce, così, uno stato di coscienza
oniroide (sognante), nel quale le idee appaiono sconnesse, incontrollabili e liberamente
fluenti. In genere, si produce una sensazione di benessere e rilassamento (il cosiddetto
sballo), effetti che non durano più di 2 o 3 ore dopo l’assunzione. Mancano, ad oggi, evi-
denze convincenti di un effetto prolungato o di postumi. Uno studio specifico ha con-
frontato le abilità di memoria, attenzione e apprendimento tra due gruppi di studenti di
college: uno di consumatori abituali di marijuana e uno di consumatori occasionali. Dopo
24 ore di sobrietà da tutte le droghe e alcol, i test hanno rivelato, nei consumatori abitua-
li, un maggior numero di errori e maggiore difficoltà nel mantenere la concentrazione.
Come ogni sostanza che causa euforia e riduce l’ansia, la cannabis può provocare
dipendenza, tuttavia, il consumo intenso e le lamentele di incapacità a smettere sono
rari. La cannabis può essere usata in maniera episodica, senza evidenze di disfunziona-
lità sociale o psicologica. Nel 16-29% dei consumatori abituali, alla brusca sospensione
della droga, può comparire una sindrome da astinenza con agitazione, ansia, aggres-
sività, insonnia e tremori, mentre il rischio di sviluppare una dipendenza in chi la usa
saltuariamente è stimato nel 10%.
È vero, infatti, che negli USA, ogni anno, 120.000 persone iniziano un trattamen-
to per la loro tossicodipendenza da marijuana ma, d’altro canto, i soggetti che risultano
positivi ai test sul posto di lavoro, spesso, sono obbligati a chiedere il trattamento. L’uso
di marijuana costituisce, comunque, un problema di droga, sebbene la sua importanza
tossicologica sia incerta. Come incerto è un altro argomento molto dibattuto: il rischio
di passare ad altre droghe illecite. Secondo alcune stime, i soggetti dipendenti da canna-
bis hanno una probabilità 28 volte superiore rispetto ai non consumatori di passare ad
altre droghe illecite, ma si tratta di un’associazione più forte per l’età di 14-15 anni.

269
Criminologia ed elementi di criminalistica

In ogni caso, le conoscenze attuali non consentano di affermare che la cannabis


abbia un impatto significativo sul tasso di decessi. Il buon senso, però, suggerisce di
tentare di non minimizzarne gli effetti negativi, ovvero di scoraggiarne l’uso da parte
degli adolescenti, di non usarla quando si guida o si lavora, e di evitarla, se si soffre
di disturbi cardiaci.

d) Allucinogeni

Gli allucinogeni naturali estratti dal psylocibe mexicana (fungo magico) furono, in
passato, utilizzati nelle cerimonie religiose dei popoli del Messico e dell’America Cen-
trale. In particolare, erano molto utilizzati, a tali scopi, i funghi di psilocibina, lunghi
funghi scuri che, con il deperimento, tendono a scurirsi ulteriormente, fino a diventare
bluastri, i quali contengono due sostanze allucinogene: la psilocibina e la psilocina. I sa-
cerdoti messicani pensavano che questo fungo (teonanacatl: “carne di dio”) permettes-
se di entrare in comunicazione con gli dei e portasse ad acquisire facoltà magiche e cu-
rative. Gli Aztechi, invece, ritenevano sacro il cactus peyotl, la pianta da cui si ricava un
allucinogeno naturale, la mescalina, che si consuma in forma di bottoni freschi o secchi
e da effetti simili a quelli dell’LSD. I mescaleros, indios del centro America, avevano
fatto dell’assunzione del cactus peyotl (peyote), il fulcro dei cerimoniali religiosi come
strumento di illuminazione e trascendenza.
La mescalina ha ispirato un’opera letteraria: Le Porte di Aldous Huxley, il quale ri-
teneva che tale sostanza fosse il mezzo più efficace per gettare luce su le zone della co-
scienza umana che la cultura occidentale, improntata alla razionalità, aveva messo in
ombra. L’autore fece anche da cavia agli esperimenti con cui gli psichiatri Osmond,
Smythies, Hoffer stavano indagando la possibilità di studiare i meccanismi biologici
della schizofrenia attraverso l’induzione di psicosi sperimentali con mescalina. Gli allu-
cinogeni non producono assuefazione ma ingenerano una fortissima tolleranza: la stes-
sa sostanza, assunta a distanza di pochi giorni, non fa più effetto.
L’LSD è un prodotto di sintesi che viene commercializzato sotto forma di pillole
di varia dimensione, di piccoli francobolli, o zollette di zucchero. La composizione del
prodotto è varia e incerta, così come i dosaggi: si pensa che esistano diversi tipi di LSD.
Questa è un’unica sostanza, ma compare sul mercato con diversi tagli (amfetamine, ec-
stasy, stricnina). I tagli influenzano fortemente gli effetti, in particolare la fase finale
nella quale l’effetto della sostanza scende.
La PCP (fenciclidina), altra sostanza di sintesi, può essere ingerita o fumata. La
dose efficace di questa sostanza è di 2-5 milligrammi. Essa viene spesso addizionata ad
altre sostanze per potenziarne gli effetti.
Il fungo psilocibina, l’LSD, la mescalina e il peyote sono assunti oralmente. Il
peyote e la fenciclidina (PCP) possono essere anche fumati. Raramente gli allucinogeni
sono assunti per endovena.
La dietilamide dell’acido lisergico o LSD è un allucinogeno di semisintesi derivato
dall’acido lisergico, presente negli alcaloidi della segale cornuta. L’LSD viene sintetiz-
zato a partire dall’acido lisergico che viene ottenuto da alcaloidi (ergometrina) estratti
dagli sclerozi, che rappresentano la forma vegetativa della Claviceps purpurea, parassita
sulle piante di segale. Sul mercato clandestino, l’LSD, nei primi anni ‘80, circolava in

270
Droga e alcool nell’agire delittuoso

forme diverse: polveri farmacologiche usate, poi, per riempire capsule di gelatina, cubet-
ti di zucchero e carta assorbente. L’LSD veniva anche incorporata in una matrice di ge-
latina che veniva tagliata, dopo solidificazione, in cubetti detti vetro di finestra. Attual-
mente, le formulazioni più frequenti sono strisce di carta o compressine. L’uso è per via
orale (compresse, micropunte o francobolli imbevuti di una soluzione alcolica di LSD),
specie in locali di ritrovo giovanile. Può causare l’insorgenza di bad trip (attacco di pa-
nico, talora episodi psicotici transitori) e flash-back che persistono per mesi dopo l’in-
terruzione dell’uso. Il problema più grave può essere l’insorgenza di una psicosi cronica,
probabilmente legata alla slatentizzazione di elementi psicopatologici in personalità ad
elevata vulnerabilità. A basse dosi possono intensificarsi i suoni e le luci, accentuando
gli impulsi sensoriali esterni. Non si è dimostrata l’instaurazione della dipendenza fisi-
ca dopo uso cronico, anche se si instaura il fenomeno della tolleranza. Un uso prolun-
gato di LSD, anche fino a diversi mesi dopo la cessazione dell’uso, provoca difficoltà
di memoria, turbe comportamentali, ansia e depressione fino all’allontanamento dalla
vita sociale. L’assunzione di allucinogeni, quindi di LSD, può comportare: allucinosi,
disturbo delirante, disturbo percettivo post-allucinogeno, disturbo dell’umore. Nell’al-
lucinosi si notano turbe percettive in stato di piena vigilanza (illusioni, allucinazioni, si-
nestesie). Nel disturbo delirante, il soggetto ha la convinzione che le turbe percettive di
cui fa esperienza nel corso dell’allucinosi corrispondano alla realtà. Il disturbo dell’umo-
re può insorgere entro 1-2 settimane dall’inizio dell’uso della sostanza e persistere per
più di 24 ore dopo la cessazione dell’uso stesso. Ci possono essere elementi depressivi
o maniacali. Il disturbo percettivo post-allucinogeno (flash-back) consiste nel ricorrere
all’esperienza allucinogena (pochi secondi), anche dopo diverso tempo (mesi) che la si è
interrotta. I flash back si fanno meno frequenti con l’andare del tempo.
Una reazione tossica comune a tutti gli allucinogeni è il viaggio (trip): una reazio-
ne ansiosa acuta simile a un episodio schizofrenico acuto. Tale effetto dura dalle quattro
alle dodici ore, ma può prolungarsi per giorni o mesi, in quanto gli allucinogeni sono
liposolubili e permangono nei depositi adiposi diversi tempo dopo l’assunzione. Per-
sone che hanno sperimentato il viaggio provano il fenomeno del flash-back, istanti nei
quali si ha l’impressione di rivivere la situazione psichedelica originale, anche quando la
sostanza non è stata assunta. L’uso prolungato può provocare psicosi; personalità fragili
e vulnerabili possono rimanere gravemente squilibrate per moltissimo tempo, fino ad
arrivare a danneggiare permanentemente l’equilibrio psichico. Gli effetti sono: vertigi-
ni, debolezza e sonnolenza, nausea, sinestesie; vedere/odorare i suoni, sentire/odorare
i colori, tensione interna che trae sollievo da risate o pianto; allucinazioni visive, ondate
ricorrenti di fenomeni percettivi, ipervigilanza e riflessi muscolari iperattivi, ipertensio-
ne e ipertermia, sudorazione e tremori, contrazioni uterine. I casi di morte che si sono
verificati sotto l’effetto di LSD e di altri allucinogeni derivano da azioni incontrollate
dovute all’alterata percezione della realtà circostante.

e) Amfetamine

Le amfetamine sono derivati sintetici dell’efedrina e appartengono al gruppo dei


farmaci simpaticomimetici, stimolanti del sistema nervoso centrale. Usate in medicina
come terapia sintomatologica della narcolessia e del morbo di Parkinson, provocano

271
Criminologia ed elementi di criminalistica

assuefazione ed effetti collaterali (aumento della pressione arteriosa e della frequenza


cardiaca, insonnia e allucinazioni). L’abuso di amfetamine viene classificato tra le tos-
sicodipendenze e può causare psicosi acute e collasso cardiocircolatorio o respiratorio.
L’assunzione provoca senso di benessere e invulnerabilità, riduce l’appetito, facilita il
rendimento fisico solo per prove di resistenza, in quanto riduce la sensazione di fati-
ca. Da un punto di vista sportivo è a tutti gli effetti doping e, a prescindere da consi-
derazioni morali, l’uso di amfetamine da parte di un atleta è del tutto irresponsabile.
Infatti:

a) i benefici (riduzione del senso di fatica) sono comunque temporanei a causa di


una rapida dipendenza; occorre aumentare le dosi, aumentando però anche il sen-
so d’eccitazione per bloccare il quale l’atleta deve ricorrere ai barbiturici che a loro
volta danno dipendenza. Basta questo quadro perché un soggetto normale si asten-
ga da questa forma di doping;
b) sono frequenti disordini cardiaci molto gravi, a volte mortali, causati da dosi eccessi-
ve o dalla soppressione del senso di fatica che spinge l’atleta oltre i propri limiti;
c) fra gli effetti collaterali c’è l’ipertermia, un nemico che è già difficile combattere
nelle prove di una certa durata in condizioni non ottimali di temperatura.

f ) Le nuove droghe

Ecstasy: è una droga sintetica con effetto allucinogeno e stimolante. I danni acu-
ti dell’ecstasy sono legati al rialzo termico (che può arrivare fino a 41 °C con rischio
di morte): coagulazione del sangue, autodistruzione delle cellule muscolari, alterazione
della funzionalità epatica (epatite acuta) e renale, attacchi cardiaci; in alcuni casi, si è
verificata un’epatite fulminante non collegata all’ipertermia. Fra le reazioni acute all’ec-
stasy si devono segnalare anche crisi d’ansia o depressive. I danni cronici sono soprat-
tutto psichici, in quanto la droga agisce sul sistema di recupero della serotonina: psicosi,
dissociazione dell’io e, probabilmente, con l’uso continuato, la lesione delle cellule cere-
brali che rilasciano e recuperano la serotonina. Accanto all’ecstasy, si stanno affermando
droghe naturali, un ulteriore esempio di come anche il naturale possa essere dannoso:

- Gotu kola − droga vegetale ricavata dalla centella asiatica; l’assunzione provoca ta-
chicardia, ipertensione, ansia, irritabilità e, a forti dosaggi, insonnia.
- Hoja madre − droga vegetale ricavata dalla calea zacatechichi, detta anche “hoja de
Dios”; l’assunzione a forti dosaggi provoca tachicardia, ipertensione, ansia, irrita-
bilità e insonnia.
- Lattuga silvestre − droga ricavata dalla lactuca virosa; l’assunzione inibisce la libi-
do.
- Kava o kawa − droga ricavata dalla pianta omonima (Piper mesthysticum) della fa-
miglia delle Piperacee diffusa in Polinesia e nelle Hawai; l’assunzione a forti dosag-
gi provoca tachicardia, ipertensione, ansia, irritabilità e insonnia. Da notare che
a bassi dosaggi è ansiolitica e sedativa. È stata comunque accertata la sua tossicità
epatica: dal 1999 si sono verificati in Germania, Svizzera e Stati Uniti 11 casi di
pazienti che, dopo aver assunto prodotti a base di Kava kava, hanno sviluppato un

272
Droga e alcool nell’agire delittuoso

quadro clinico di insufficienza epatica tanto grave da richiedere il trapianto del fe-
gato.
- Yohimbe o iohimbe − droga ricavata dalla corteccia di una Rubiacea (Corynanthe
yohimbe) dell’Africa tropicale; l’assunzione provoca ansia, vomito, nausea, tachi-
cardia, ipertensione, vertigini e irritabilità.
- Muirapuama o mirapuama − droga ricavata da un albero (Lyriosma ovata) della
famiglia delle Olacacee, che cresce nel Brasile settentrionale, in Cile e in Guiana;
l’assunzione provoca tachicardia, ipertensione, ansia, irritabilità e, a forti dosaggi,
insonnia.
- Ska pastora − droga (detta anche “hierba de la virgin”) derivata dalla Salvia divino-
rum, la cui assunzione ad alti dosaggi causa distorsioni nella percezione spazio-
temporale; se fumata, provoca gravi irritazioni a naso, bocca e gola.
- Rosa lisergica − droga vegetale ottenuta dalla Argyreia nervosa, la cui assunzione
causa nausea e vomito.

12.4 Relazione tra sostanze stupefacenti e delitto


La correlazione fra tossicodipendenza e criminalità può considerarsi uno dei campi
di studio maggiormente affrontati dalla criminologia moderna. Preliminarmente, di-
stinguiamo: a) una criminalità diretta, quale risultato della commissione di reati sotto
l’effetto di sostanze psicoattive; b) una criminalità da sindrome da carenza, quale risul-
tato della commissione di reati durante tale situazione clinica; c) una criminalità in-
diretta, quale risultato della necessità di procurarsi il denaro per acquistare le sostanze
usate; d) una criminalità da ambiente, quale risultato della interazione fra il contesto
sottoculturale di alcuni tossicodipendenti e le aree criminose nelle quali essi sono soli-
ti confluire.
Nel primo caso, è difficile comunque distinguere quando il comportamento de-
littuoso sia favorito dall’effetto propriamente farmacologico della sostanza, oppure se
sia espressione del deterioramento della personalità o dell’appartenenza a una sotto-
cultura criminosa e violenta, da cui, non raramente, provengono i più gravi tossico-
mani.
È da osservare che l’uso di droga non induca di per sé alla commissione di atti vio-
lenti o di altri delitti; le alterazione psichiche legate all’effetto acuto delle droghe, solo
raramente, inducono ad uno stato di alterazione facilitante gesti insensati, azioni in-
controllate o violente. I delitti commessi per l’effetto diretto di droga sono, perciò, sta-
tisticamente poco rilevanti.
I dati scientifici indicano che in situazioni eccezionali, sotto l’effetto di alcune
droghe, si possono avere disturbi psichici che si evidenziano in: alterazioni del control-
lo, perdita o diminuzione delle inibizioni, stati psicotici, stati confusionali o di eccita-
zione, esaltazione del tono dell’umore. Disturbi psicopatologici di tal genere possono
provocare reati violenti, aggressioni sessuali o d’altro tipo, azioni incongrue, condotte
pericolose. Sono, peraltro, manifestazioni che possono verificarsi con l’uso di tutte le
sostanze psicoattive, e perciò anche di psicofarmaci. Comportamenti inconsulti o vio-

273
Criminologia ed elementi di criminalistica

lenti direttamenti legati all’effetto farmacologico delle amfetamine, o della cocaina o


degli allucinogeni sono stati segnalati, ma raramente. Sembra, invece, palese che l’as-
sunzione di cannabinoidi, stimoli l’effetto di comportamenti astensionistici, stati di
quiete e di piacevole inerzia o di bonaria euforia: atteggiamenti difficilmente di natura
criminogenetica.
L’eroina è, invece, una droga criminogena, non tanto per l’azione farmacologia im-
mediata, ma, soprattutto, per cause indirette. La percezione sociale della pericolosità
dell’eroinomane si ricollega, almeno in parte, a comportamenti per lo più imprevedibi-
li, sulla base degli effetti farmacologici della sostanza.
Nel secondo caso (comportamenti dovuti a sindrome da carenza o astinenza), si
tratta, invece, di atti delittuosi che vengono commessi in una particolare condizione
di sofferenza angosciosa, che può portare a difficoltà di autocontrollo, fino alla perdita
completa dello stesso, legata all’urgenza di procurarsi rapidamente la droga. Particolar-
mente importante risulta, ai fini dell’imputabilità per reati commessi in stato intensivo
astinenziale, l’individuazione del c.d. punto K, che consente di conoscere, con dati appros-
simativi, il passaggio che conduce il soggetto nella fase denominata “passaggio all’atto cri-
minale”. In sostanza, man mano che la sindrome da astinenza aumenta, il fattore tem-
porale (tempo), diventa nullo, in quanto lo stato di assenza della coscienza tenderà ad
estraniarsi dalla realtà, e necessariamente all’assenza dal tempo e dallo spazio (A. Silve-
stri, Il punto K, I.S.G, 2000).
Più frequente è, invece, la criminalità indiretta, in cui si individua una correlazione
mediata con la droga (soprattutto eroina). In questo caso, ci si trova di fronte, spesso, a
uno stato di dipendenza da oppiacei grave, associato a un’alterazione dell’introiezione
normativa morale. In particolari condizioni personali e sociali, l’eroinomane, può adot-
tare comportamenti tipici di un delinquente abituale: le vessazioni e le estorsioni verso i
familiari, e ben più spesso i furti, le aggressioni, le rapine, gli scippi, la prostituzione, lo
spaccio di stupefacenti al minuto sono, in questi casi, i mezzi utilizzati per procacciarsi
il denaro. Si tende, dunque, ad attribuire a tali soggetti una particolare pericolosità socia-
le, sia per l’elevato numero e costo per la collettività dei reati contro la proprietà, sia per
la diffusione capillare delle attività di spaccio. Vi è, anche, tra droga e criminalità, una
correlazione ambientale: vi sono, cioè, alcuni contesti sociali dove il consumo di droghe
è particolarmente intenso e dove confluiscono i tossicomani; spesso, sono aree urbane
dove anche la criminalità comune è uno degli aspetti strutturali tipici.
Va osservato, comunque, che fra i delinquenti comuni, l’uso di droghe è molto dif-
fuso (di eroina e anche di cocaina) e che, in certe aree di delinquenza comune, molti
delinquenti abituali, divengono tossicomani; questa condizione può chiamarsi tossico-
mania dei delinquenti, accanto a quella della delinquenza dei tossicomani.
Questa distinzione risulta comunque piuttosto artificiosa nel contesto quotidia-
no, in quanto, si osserva, quasi, una sovrapposizione dei modelli comportamentali se-
gnalati.
I delitti compiuti dai tossicomani in connessione con l’uso e l’abuso di sostanze
stupefacenti possono collocarsi in tre categorie ben distinte:

- delitti specifici, in violazione del T.U. 309/90;


- delitti compiuti sotto l’azione di sostanze stupefacenti;

274
Droga e alcool nell’agire delittuoso

- delitti compiuti allo scopo di procurarsi sostanze stupefacenti o i mezzi per acqui-
starle.

I delitti specifici, frequentemente compiuti dai tossicomani in violazione del T.U.


309/90, si riferiscono alla detenzione illecita di stupefacenti, in quantità non modiche per
uso proprio, o in quantità per uso altrui. La norma consente, cioè, la detenzione per uso
personale di sostanze stupefacenti e colpisce il tossicodipendente che, per alimentare la
sua abitudine, si dedica al piccolo spaccio di stupefacenti, che è, probabilmente, il delit-
to di più frequente riscontro, fra quelli commessi in violazione della legge speciale.
Un altro delitto relativamente frequente, ma difficilmente dimostrabile in concre-
to, è rappresentato dall’induzione all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 76): è,
appunto, questo delitto che alimenta il proselitismo.
Secondo Ponti, si possono rilevare alcuni tipi di carriera criminale che ricorrono
con frequenza:

- soggetti che hanno conservato l’integrazione sociale: fanno uso di canapa, passano al-
le amfetamine, qualche volta agli oppiacei: la presunzione della loro pericolosità è
immotivata;
- soggetti inseriti nella sottocultura dei drogati: l’appartenenza ad una specifica asso-
ciazione differenziale costituisce un alto rischio di criminalità e gli appartenenti ne
subiscono le conseguenze;
- i dipendenti da eroina: essi stanno divenendo, nella quasi totalità, autori abituali di
atti criminosi, trovando solo nel delitto la possibilità di reperire i mezzi per procu-
rarsi la droga.

Le sostanze stupefacenti interferiscono con le funzioni psichiche e possono alterare


la capacità di intendere e di volere (art. 85 del codice penale). Si distinguono: a) intos-
sicazione acuta: in riferimento agli articoli 92 e 93 del codice penale, si ha che lo stato
di intossicazione acuta da sostanze alcoliche o stupefacenti, che non derivano da caso
fortuito o da forza maggiore, non ha rilevanza sull’imputabilità. Quindi per quanto ri-
guarda le droghe, il Legislatore attribuisce all’individuo la responsabilità della condizio-
ne in cui si viene a trovare. Gli atti compiuti in condizioni di non capacità di intendere e
di volere sono la conseguenza di una scelta operata in condizioni di normalità psichica;
b) intossicazione cronica: in riferimento all’articolo 95 del Codice penale, si ha che, per
i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool o sostanze stupefa-
centi, si applicano le disposizioni contenute negli articoli 88 (vizio totale di mente) e 89
(vizio parziale di mente) del codice penale. Il tossicodipendente cronico può essere giudi-
cato ma non necessariamente incapace di intendere e volere.
L’intossicazione cronica, per essere riconosciuta come malattia e, quindi, vizio tota-
le o parziale di mente, deve indurre un’alterazione psichica permanente. Tale concetto è
stato ribadito dalla Corte di Cassazione con una sentenza del 1995: la psicopatia perma-
ne indipendentemente dal rinnovarsi dell’azione di assumere le sostanze psicotrope.
Il perito clinico quindi deve cercare le alterazioni psichiche permanenti che devo-
no essere documentate da un danno organico definitivo e non suscettibile di modifica-
zioni anche con la sospensione della sostanza.

275
Criminologia ed elementi di criminalistica

12.5 L’alcolismo
L’alcoldipendenza o alcolismo è un fenomeno che si verifica in una percentuale di
consumatori di alcolici, ed è caratterizzata dall’impossibilità di smettere l’uso di alcol,
nonostante la persona si renda conto che quella sostanza (alcol etilico) le fa male e che
quindi voglia smettere di assumerla. In altre parole, quella persona si trova a essere
schiava dell’alcol e a non poterlo più controllare.
Si possono fare diagnosi di dipendenza alcolica se ci si trova in presenza di almeno
tre o più delle seguenti caratteristiche:

1. bisogno di dosi sempre più elevate di alcol per raggiungere l’effetto desiderato (au-
mento della tolleranza o assuefazione);
2. comparsa di malessere (fisico e/o psichico), se la persona non beve (sindrome di asti-
nenza);
3. impossibilità di controllarsi nel bere;
4. desiderio persistente della sostanza e impossibilità di ridurne l’uso;
5. continua ricerca della sostanza, fino ad arrivare al punto che gran parte del suo tem-
po viene speso in questa ricerca o per riprendersi dagli effetti dell’intossicazione;
6. interruzione di attività lavorative, ricreative, contatti sociali, a causa dell’uso della
sostanza;
7. persistenza nell’uso della sostanza, nonostante la consapevolezza delle conseguenze
negative (fisiche, psichiche, sociali).

L’alcolismo si sviluppa progressivamente in un periodo di tempo più o meno lun-


go (di solito anni), e comporta una serie di conseguenze a livello fisico, psichico e so-
ciale. I danni possono colpire qualunque persona, di ogni età sesso e ceto sociale e pos-
sono colpire vari settori della vita di una persona.
Si può parlare, infatti, di:

- danni fisici epatici, neurologici, cardiaci, sessuali, e così via;


- danni psichici come ansia, depressione, psicosi, disturbi di personalità, e così via;
- danni sociali come perdita di lavoro, divorzi, violenza sui minori, incidenti strada-
li, infortuni sul lavoro, e così via.

Fino a non molti anni fa, si pensava che l’alcolismo fosse un vizio, cioè un compor-
tamento volontario negativo e quindi moralmente riprovevole.
Negli ultimi anni, invece, è apparso sempre più evidente, in seguito al progresso
delle conoscenze scientifiche sull’argomento, che la dipendenza da alcol è dovuta, non
tanto alla mancanza di volontà del soggetto, ma a una serie di fattori che possiamo rag-
gruppare in:

- fisico-genetico, metabolici, neurologici;


- psichici: disturbi psichici di varia natura che provocano sofferenza e facilitano la ri-
cerca dell’alcol come conforto;
- sociali: cultura del bere, pressione sociale, abitudini e stile di vita.

276
Droga e alcool nell’agire delittuoso

Ciascuno di questi fattori, da solo, non è in grado di creare disturbo, e, quindi,


perché il problema si manifesti, è necessario che siano contemporaneamente presenti
più fattori come condizione predisponente, e che sopravvenga una causa occasionale
scatenante. Una volta che il disturbo è apparso, il suo mantenimento sarà reso possi-
bile da altri fattori, cosiddetti perpetuanti, vale a dire da fattori che contribuiscono a
far continuare il legame del soggetto con l’alcol. In base alle nuove conoscenze, sappia-
mo che il soggetto dipendente da alcol non ha più il controllo volontario sulla sostanza.
I suoi comportamenti sono dettati da meccanismi che scattano automaticamente e lo
rendono schiavo, impedendogli di staccarsi dalla sostanza, anche quando egli, si rende
conto che è indispensabile farlo. È per questo motivo che attualmente gli studiosi con-
siderano l’alcolismo una malattia, e non più un vizio.
Nel vizio, è il soggetto che controlla l’alcol, nella malattia, è l’alcol che controlla il sog-
getto. Un tempo, l’alcolismo, essendo considerato un vizio, veniva solo biasimato e con-
dannato. Ora che è apparso chiaro che si tratta di una malattia, viene affrontato come
tutte le altre patologie, cioè, con la ricerca di rimedi efficaci per risolvere i tanti danni
che provoca sia all’individuo che all’intera società.
Negli ultimi anni, sono stati sviluppati molti programmi terapeutici che si sono
sempre più affinati, permettendo di vedere risultati concreti che un tempo erano im-
pensabili. Tali risultati costituiscono una realtà per tante persone che riescono a trarne
beneficio, e al contempo, una fonte di speranza e di incoraggiamento per quanti sono
ancora in preda alla dipendenza, ma che vogliono venirne fuori.
Si può, quindi, affermare, senza dubbio, che l’alcolismo si può curare, anche se
questo non significa che sia facile farlo. Questa malattia è caratterizzata, infatti, dal ri-
schio costante di ricaduta, per cui, non basta smettere di bere, ma è fondamentale non
ricominciare a farlo. Smettere può non essere difficile, ma continuare a restare in so-
brietà non è altrettanto facile. Perché una persona possa curarsi, è indispensabile che
abbia la spinta giusta a farlo, che sia, cioè, motivata correttamente. La motivazione
scatta quando una persona si rende conto che l’alcol costituisce un problema e che non
riesce a risolverlo da sola. Constata che la sua vita viene pesantemente condizionata da
quella dipendenza e che i problemi che ne derivano gettano la persona stessa, e chi le
vive accanto, in un vero e proprio inferno. Arriva un momento in cui non è possibi-
le andare avanti a vivere in quel modo. Questo è il momento giusto per smettere. Per
alcuni, purtroppo, questa consapevolezza non si verifica o arriva troppo tardi, e cioè,
quando i danni sono ormai irreversibili. Spesso, la persona può tentare da sola di smet-
tere ma, se non ci riesce, non deve demoralizzarsi, perché questa malattia è un macigno
soffocante che la sovrasta; allora, è necessario chiedere aiuto ad esperti che possano for-
nire tutto l’appoggio e le conoscenze per affrontare il problema.

12.6 Etilismo acuto e cronico


L’intossicazione può essere acuta (alcolismo acuto) o cronica (alcolismo cronico).
a) L’alcolismo acuto è dovuto all’effetto, dapprima disinibente e poi depressivo,
dell’alcol sul sistema nervoso centrale; si distinguono tre quadri: 1. l’ebbrezza sempli-

277
Criminologia ed elementi di criminalistica

ce, in cui, da un iniziale stato di eccitamento psicomotorio con euforia, senso di be-
nessere, iperattività, si passa, gradualmente, a uno stato depressivo con ottundimento
della coscienza, rallentamento ideomotorio, fino al sonno profondo o, in alcuni casi,
al coma; 2. l’ebbrezza complicata, le cui manifestazioni, simili alle precedenti, sono
più rilevanti; 3. l’ebbrezza patologica, caratterizzata da manifestazioni particolarmente
intense o abnormi, che compare anche per dosi modeste di alcol e si osserva in caso
di psicopatie, lesioni cerebrali, insufficienze mentali, epilessie.
b) L’alcolismo cronico, dovuto all’abuso prolungato di alcol, comprende alterazio-
ni della personalità e alterazioni psicotiche legate al danno cerebrale organico pro-
dotto dall’alcol. Il deterioramento della personalità si manifesta con accentuazione di
tratti del carattere, deficit dell’attenzione e della volontà, perdita di interessi, turbe
dell’emotività, labilità dell’umore, comportamento sociale inadeguato, diminuzione
della capacità di critica e di giudizio, turbe del pensiero e della memoria. La compro-
missione di tutte queste funzioni può condurre a un quadro di demenza alcolica. Tra
le alterazioni psicotiche (o psicosi alcoliche), si possono osservare: il delirium tremens;
il delirio di gelosia nei confronti del partner, spesso accompagnato da atteggiamen-
ti diffidenti e aggressivi; encefalopatie carenziali, come la encefalopatia di Wernicke
(quadro psicotico acuto con disturbi della coscienza, deliri, allucinazioni, ipertonia,
discinesie ecc.) e la sindrome di Korsakoff (con perdita della memoria, disturbi della
coscienza, discorsi sconnessi).

Terapia

Il trattamento dell’alcolismo nelle forme acute gravi (in particolare nel coma) pre-
vede una terapia intensiva con tutte le misure di rianimazione; impiego di antibiotici,
polivitaminici, soluzioni glucosate; con alcune cautele, si induce sedazione (particolar-
mente usate a tale proposito le benzodiazepine nella sindrome di astinenza). Nell’alco-
lismo cronico, il trattamento presenta maggiori difficoltà, per le implicazioni a livello
organico, psicologico e sociale: fondamentali, sono la motivazione e la collaborazione
del soggetto; a volte, si consiglia il ricovero in reparti specialistici. In questi casi, la te-
rapia, si basa sull’abolizione dell’alcol, sulla disintossicazione, cioè sul trattamento della
patologia organica (epatoprotettori, vitamine ecc.), e sul divezzamento, per annullare il
desiderio dell’alcol e la dipendenza. Indispensabili sono, inoltre, azioni psicoterapiche
individuali o di gruppo, nonché interventi psicosociali protratti in stretta collaborazio-
ne con l’ambiente familiare e sociale del soggetto.

12.7 Relazione tra alcolismo e delitto


Nonostante siano state condotte numerosissime ricerche sul legame tra abuso di
alcool e condotte criminose, esistono, ancora, sul problema, dei luoghi comuni che
vanno abbattuti. Risulta, infatti, fuorviante e privo di solido fondamento scientifico,
ritenere esistente una sorta di predisposizione genetica, a carattere ereditario, nell’abuso
di sostanze alcoliche. Anche il generico richiamo ad un presunto rapporto diretto tra

278
Droga e alcool nell’agire delittuoso

abuso di alcool e criminalità è affermazione imprecisa ed incompleta. Vi sono, infatti,


tutta una serie di reati che, per la loro stessa indole e commissione, necessitano di una
lucidità di intelletto che non può avere un soggetto etilista. Alcune ricerche hanno, inol-
tre, dimostrato, come la relazione tra gli effetti dell’alcool e criminalità sfumi e venga
mediata da molteplici variabili cognitive ambientali e socio-culturali. L’unica distinzio-
ne rilevante ai fini criminologici può essere fatta tra etilismo acuto e cronica intossicazio-
ne da alcool. Nel primo caso, la perdita dei freni inibitori e morali e del controllo delle
pulsioni ha come diretta conseguenza quella di agevolare il soggetto a tenere condotte
aggressive sia verbali che fisiche.
Nel secondo caso, l’intossicazione acuta da alcol (o da stupefacenti) sia essa volonta-
ria, colposa o preordinata non è, di per sé idonea ad eliminare l’imputabilità, fatte salve
le ipotesi del caso fortuito o della forza maggiore.
Discorso a parte meriterebbe tutta la delinquenza colposa legata alla violazio-
ne delle norme sulla circolazione stradale a seguito di abuso di alcol. Sta di fatto che
taluni casi di intossicazione acuta da alcol hanno pacificamente assunto, nell’ottica
clinica, valore di malattia in senso proprio, senza che ciò abbia alcuna rilevanza dal
punto di vista giuridico. Al criminologo spetta, dunque, il compito di superare que-
ste differenze intrinseche, operando nella complessità e tentando di spiegare il feno-
meno nella globalità della sua manifestazione e nelle sue conseguenze dal punto di
vista sociale.

12.8 Tossicomania e adolescenza


I comportamenti a rischio adolescenziali possono essere considerati dei modi per
provare sensazioni nuove e forti, con la componente relativa alla sfida e alla sperimen-
tazione di sé.
Negli ultimi anni, è aumentato considerevolmente, da parte della criminologia
moderna, lo studio sui comportamenti ad alto rischio dei giovani adolescenti, compor-
tamenti messi in atto da soli o in gruppo, segnalati perché contengono elementi di au-
to o etero-distruttività: lanciarsi da un ponte legati a un elastico senza misure di sicu-
rezza; camminare sui cornicioni; attraversare torrenti in piena; guidare a forte velocità;
sdraiarsi sulla riga di mezzeria di una strada; sfidarsi a chi si toglie per ultimo da una
situazione pericolosa come: dai binari del treno, da uno scatolone in mezzo alla strada;
a ciò si accompagnano, uso di sostanze stupefacenti o alcoliche.
Il rischio che questi comportamenti hanno sulla salute può essere immediato, co-
me nel caso della guida pericolosa, prima causa di morte in età adolescenziale, oppu-
re, posticipato nel tempo, come nel caso dei disturbi dell’alimentazione, delle condotte
sessuali a rischio, del fumo di sigarette, dell’assunzione di droghe e dell’abuso di alcol.
In generale, correre dei rischi fa parte della norma in questa fase dello sviluppo; A.
Tursz (1989), infatti, sottolinea la necessità di considerare gli aspetti positivi e funzionali
del rischio che, per l’adolescente, può corrispondere a una volontà profonda di rinnovarsi, a
un desiderio di indipendenza e di autonomia oppure all’esplorazione delle proprie capacità
e dei propri limiti.

279
Criminologia ed elementi di criminalistica

Jeammet (1991) sottolinea come la stessa fase adolescenziale potrebbe costituire di


per sé un rischio, mettendone in evidenza la dimensione di crisi evolutiva corrispondente ad
una esigenza di cambiamento puberale, psichico e psicosociale.
Ciò che caratterizza l’adolescenza, statisticamente parlando, è infatti la presenza di
alcuni compiti evolutivi specifici, che riguardano l’acquisizione di una identità sessua-
le stabile, il riconoscimento del sé corporeo, il distacco dal mondo infantile, la costru-
zione degli ideali.
Bisogna, quindi, sottolineare come i comportamenti a rischio assolvono spesso, a
questa età, funzioni ben precise, sebbene siano dannose dal punto di vista fisico, psi-
chico e sociale, sembrano fornire all’adolescente una via di uscita alle insicurezze e alle
incertezze sperimentate in questa fase della vita. Per quanto pericolosi per sé e per gli
altri, essi potrebbero venire ricercati, perché permettono di raggiungere alcuni obiettivi
che sono molto importanti per gli adolescenti, quali, ad esempio, l’affermazione della
propria identità e la costruzione di relazioni sociali affettive.
Molti ragazzi riescono a raggiungere questi scopi, attraverso strade adattive, sen-
za mettere in pericolo il loro benessere fisico, psicologico e sociale; sono, quindi, in
grado di gestire le ansie e i problemi della discontinuità, senza distruggere il loro sen-
so di unità interiore; altri adolescenti, invece, non trovano altro modo per realizza-
re questi obiettivi, se non attraverso quelli che abbiamo definito comportamenti a ri-
schio.
Per affermare la loro adultità ed autonomia, essi ricorrono, allora, a condotte ses-
suali sconvenienti e, a volte, molto precoci, in opposizione alle norme sociali e/o fami-
liari, ecc. (molte fra le condotte a rischio aiutano l’adolescente a sentirsi adulto facen-
do ciò che fanno i grandi). Inoltre, alcuni comportamenti specifici permettono anche
l’identificazione con il gruppo dei pari: fumare sigarette, bere, avere rapporti sessuali co-
me fanno i propri amici, permette loro di sentirsi al pari, facilitando, in tal modo, l’ac-
cettazione nel gruppo. Il gruppo dei coetanei ha, infatti, una funzione molto precisa e
fondamentale per lo sviluppo e la crescita individuale: nei coetanei, il ragazzo ha mo-
do di riconoscere meglio la propria identità di adolescente, ha una conferma di ciò che
egli è per sè stesso e per gli altri e la possibilità di condividere con loro nuove norme e
nuove esperienze.
I conflitti e le crisi possono essere considerati una componente insita di questo pe-
riodo, una sorta di patologia latente che va seguita con attenzione e vigilanza allo scopo
di evitare che essa si radichi nei meccanismi profondi di maturazione della personalità
(Laufer, Laufer, 1986).
Choquet, Marcelli, Ledoux (1993), sulla stessa linea, affermano che l’adolescenza
stessa è un rischio, ovvero, che non ci sarebbe adolescenza senza assunzione di rischi, a
tal punto che un’adolescenza silente, senza nessun colpo di testa, potrebbe anche inso-
spettire.
Jack (1989) ha osservato che l’assunzione di rischi e la sperimentazione in gene-
re, durante l’adolescenza, sono considerati comportamenti normali perché aiutano gli
adolescenti a raggiungere una sana indipendenza, un’identità stabile e una maggiore
maturità. Ciò nonostante, l’assunzione di rischi sembrerebbe essere una delle maggio-
ri cause di mortalità tra gli adolescenti soprattutto quando vittime di incidenti. L’au-
tore osservò che anche le gravidanze adolescenziali sono spesso favorite dalla convin-

280
Droga e alcool nell’agire delittuoso

zione di una sorta di immunità personale, rispetto alle conseguenze negative, come se
gli incidenti, ad esempio, capitassero solo agli altri, come se si fosse superiori anche al
contagio di malattie come l’Aids, insomma, come se gli eventi negativi reali della vi-
ta non riguardassero l’adolescente che, quindi, potrebbe ritenersi, sempre, al di sopra
di tutto questo. Purtroppo, le cronache, così come anche i dati statistici, confermano
il contrario.
Ritenere che l’adolescenza comporti inevitabilmente manifestazioni comportamen-
tali autolesive può indurre la convinzione che qualsiasi condotta bizzarra e pericolosa
rientri nella normalità; adottando un punto di vista simile, il rischio è quello di mini-
mizzare la gravità di certe manifestazioni e quindi di non prevenire e di compromettere
l’avvenire dell’adolescente (Carbone, 2000).
Una serie consistente di studi ha messo in rilievo che i comportamenti a rischio so-
no tra loro collegati; tali comportamenti includono il consumo di alcol, di tabacco e di
droghe, il sesso non protetto, la guida pericolosa.
Emerge, così, un altro aspetto molto importante dei comportamenti a
rischio, questi non si presentano in modo isolato, ma si collegano in vere e proprie
sindromi, o costellazioni, che comprendono differenti comportamenti (Bonino, Frac-
zek, 1996).
Gli adolescenti sarebbero protagonisti di rapporti sessuali promiscui e non protetti,
sono altresì coinvolti, rispetto ai soggetti non promiscui sessualmente, negli altri com-
portamenti a rischio. Nel sottogruppo dei promiscui, il consumo forte e abituale di ta-
bacco riguarda il 37% dei soggetti, il consumo forte di alcol riguarda il 60%, e quello
abituale di marijuana sfiora il 44%. Ma anche la guida pericolosa e la devianza sono
più frequenti fra gli adolescenti promiscui rispetto ai non.
Si riscontrano risultati analoghi anche esaminando la ricerca sul consumo di so-
stanze: gli adolescenti che usano abitualmente marijuana, sono in maggior misura for-
ti bevitori, forti fumatori di sigarette e sono maggiormente coinvolti nella guida peri-
colosa e nell’attività sessuale a rischio. Anche la guida spericolata, così come quella in
condizioni psicofisiche alterate, non si presenta come un comportamento isolato, ma è
legata ad altri comportamenti a rischio.
La metà dei soggetti che guidano pericolosamente è altamente implicata anche nel-
l’uso di sostanze psicoattive e nelle condotte devianti. All’interno del gruppo dei sog-
getti che guidano infrangendo il codice penale (poiché guidano in condizioni psicofi-
siche alterate) e che rappresentano il 10% del campione totale, i 2/3 fumano sigarette
e consumano alcolici, i 3/4 fumano spinelli e, inoltre, sono maggiormente coinvolti in
forme persistenti di devianza.

281
CAPITOLO 13

La criminologia clinica

13.1 Introduzione
La funzione predominante della Criminologia clinica o applicata è quella di inte-
grare e far dialogare le scienze criminali con le scienze dell’uomo.
La sua utilizzazione pratica si riversa, soprattutto, nell’ambito della giustizia pena-
le, dove fornisce contributi interpretativi sulle dinamiche psicologiche e sociologiche,
che sono alla base del comportamento criminale, orientando, così, l’opera di applica-
zione della norma da parte del giudice. Il termine clinica è mutuato dalla scienza medi-
ca e si riferisce all’insieme degli interventi del criminologo che tendono a riconoscere,
interpretare, curare e prevenire i comportamenti illegali nel singolo individuo e che si
riflettono nella società, costituita da altri individui.
L’applicazione delle conoscenze della criminologia clinica si estrinseca, pertan-
to, nelle seguenti dimensioni: a) nella fase processuale, nella quale fornisce apporti sulla
personalità dell’imputato, così che il giudice possa disporre degli elementi conoscitivi
(componenti soggettive del singolo caso) per la migliore individualizzazione della san-
zione; b) al momento dell’esecuzione, mediante l’osservazione scientifica del condan-
nato, tecnica che, dalla magistratura di sorveglianza, viene utilizzata per l’individua-
lizzazione delle modalità secondo le quali la pena dovrà essere eseguita (es. affidamento
al servizio sociale, semilibertà, eccetera). L’osservazione tiene conto delle caratteristiche
personologiche, situazionali, microsociali e di pericolosità del soggetto. Attraverso l’osser-
vazione scientifica della personalità in prospettiva criminologica è possibile acquisire
informazioni su: 1. criminogenesi (caratteristiche individuali e sociali che hanno avu-
to peso nella scelta delittuosa); 2. criminodinamica (meccanismi interiori che hanno
condotto al delitto); 3. predizione (prospettive future di recidiva o di risocializzazio-
ne efficace); c. durante la detenzione: per indirizzare tecniche di trattamento risocia-
lizzativo.
L’osservazione criminologica prende, quindi, in considerazione i tratti della perso-
nalità del soggetto, le caratteristiche dell’ambiente sociale dove il soggetto è inserito e il
significato che psiche e ambiente hanno avuto nei confronti del comportamento delit-

283
Criminologia ed elementi di criminalistica

tuoso del singolo soggetto osservato. Comunemente, si articola in una fase diagnostica
e in una fase prognostica.
La fase diagnostica viene eseguita, solitamente, mediante i seguenti strumenti:

• colloquio criminologico;
• reattivi mentali (di efficienza intellettiva e di personalità);
• inchiesta sociale (condotta dall’assistente sociale) sull’abituale ambiente di vita del
soggetto;
• esame comportamentale fatto dall’educatore (atteggiamento nei confronti della di-
sciplina carceraria);
• dati documentali (curriculum criminoso, sentenza di condanna, precedenti sen-
tenze).

La fase prognostica o predittiva rappresenta un momento di grande responsabilità


etica e morale per il criminologo, poiché può generare due tipi di errore di valutazione:
il falso positivo (quando si valuta il soggetto potenzialmente pericoloso e invece non lo
è) e il falso negativo (quando si valuta il soggetto non pericoloso e invece esso si mostra
recidivante). La valutazione prognostica del criminologo si basa, normalmente, sui se-
guenti fattori: a) risultati dell’osservazione; b) parametri (famiglia di origine disastrata,
carriera criminosa, tossicodipendenza, ecc.); c) ricerche criminologiche pregresse; d) si-
stemi predittivi statistici.
Per una predizione equilibrata emerge, nell’esperienza clinica, la necessità di un
giudizio integrato che si basi quindi sia su parametri statistici che sulle caratteristiche
individuali emerse dall’osservazione.

13.2 L’osservazione criminologica: il colloquio


Il criminologo clinico, nell’esame della personalità, deve agire come il ricercatore
scientifico (ossia, colui che ricerca per conoscere), non interessato ai problemi del be-
ne e del male, del giusto o sbagliato, del meglio o del peggio (sono compiti che spettano al
giudice o ad altre professioni), ma deve ancorare il suo compito a criteri di scientificità:
limitarsi a valutare le affermazioni d’ordine categoriale e non normativo, vale a dire oc-
cuparsi di quelle affermazioni concernenti ciò che è, non ciò che dovrebbe essere.
La criminologia clinica nulla può decidere su come la società (o anche la vita, quin-
di, il futuro stesso del paziente osservato) dovrebbe proseguire il suo cammino, e non
opera in senso pedagogico su questioni attinenti la criminologia sociale o la politica
criminale. È questo il canone che distingue la criminologia clinica, ancorata in senso
epistemologico a dei criteri di scientificità, dalla criminologia sociale, dalla sociologia,
dalla psicologia, dalla psichiatria, dalla religione, dall’etica sociale e dalla filosofia po-
litica e sociale.
Il criminologo clinico, che agisce come il ricercatore scientifico, usa criteri di obiet-
tività e di neutralità etica. Per obiettività si intende che le conclusioni cui si perviene
come risultato dell’indagine e della ricerca sono indipendenti dalla razza, credo, profes-

284
La criminologia clinica

sione, nazionalità, religione, preferenze morali e propensioni politiche del ricercatore,


anche se questo tipo di obiettività è difficile da raggiungere alla perfezione, perché il
ricercatore deve sempre fare i conti con i pregiudizi sociali e anche di quelli propri del-
la sua personalità.
La neutralità etica implica che lo scienziato, nel suo ruolo professionale, non debba
schierarsi nell’ambito di questioni di significato morale o etico. Lo scienziato, in quanto
tale, non ha preferenze etiche, religiose, politiche, letterarie, filosofiche, morali. Il fatto
che egli abbia delle preferenze come cittadino, rende ancora più importante che egli se
ne liberi come scienziato. In tale qualità, egli è interessato non a ciò che è giusto o sba-
gliato, bene o male, ma soltanto a ciò che è vero o falso (Bierstedt R., 1957; Fortunato S.,
2000). Nell’osservazione scientifica della personalità, si deve distinguere: a) il delinquen-
te dal criminale; b) il delinquente (o il criminale) occasionale da quello patologico; c) il de-
tenuto in luogo (in attesa di giudizio o meno) dall’autore di reato (Pisapia G.V., 1987).
Il colloquio criminologico clinico deve rispondere a: problemi diagnostici (di crimi-
nogenesi e criminodinamica), prognostici (previsioni di comportamento futuro) e d’in-
dicazioni di trattamento criminologico (Merzagora I., 1987); inoltre, per quanto sia dif-
ficile da raggiungere, deve prefiggersi uno scopo di risocializzazione: ossia, far rinascere
in un detenuto il desiderio di essere parte della comunità umana fargli lentamente
ammettere o tollerare il punto di vista di un’altra persona (Balloni, Sabattini, 1971).
Nel porsi l’obiettivo della risocializzazione, il criminologo clinico si differenzia
dallo psicologo o dallo psichiatra o da altre figure professionali che studiano la psiche.
Il compito sociale professionale dello psichiatra è di occuparsi della prevenzione e cura
della patologia; quello dello psicologo è la prevenzione; dello psicoterapeuta, della cura
dei malati di spirito, compiti necessari ma insufficienti per capire il crimine: sia perché,
spesso, la cura non cura; sia perché la prevenzione è già di per sé un terreno minato; sia
perché, in sintesi, sono saperi (teorie) che hanno poco o nulla di scientifico in senso
epistemologico delle scienze.
Pensiamo a quanto possa essere pericoloso o prevedibile, nello studio dell’osserva-
zione scientifica della personalità, ricorrere alla psicoanalisi per scavare nell’inconscio
(ipnosi, interpretazione dei sogni, ecc.) per fini prognostici.
Oppure, porsi in termini psicoterapici con il detenuto che, come tecnica, porte-
rebbe ad un inevitabile transfert tra analista e analizzato, a causa delle condizioni di ri-
gorosa disciplina e ordine imposti dal carcere, per la rottura con il mondo esterno, per
la fragilità psicologica che da tutto ciò deriva, e così via; o ancora, porsi in termini psi-
chiatrici, cercando di dare una spiegazione biologica o farmacologica (o entrambe) al
comportamento umano, che porterebbe a vedere correlazioni causali anche tra il caldo
torrido dell’estate e l’aggressività, quindi a psichiatrizzare il trattamento.
Con questo, non si vuole negare l’importanza del ruolo dello psicoanalista, dello
psicoterapeuta o dello psichiatra, che possono e devono collaborare in tandem con il
criminologo clinico, ma si deve sempre tenere conto che la natura del colloquio crimino-
logico è diversa da quella terapeutica o psichiatrica, in quanto non abbiamo un paziente
che chiede di essere curato o aiutato, ma è lo Stato che chiede al criminologo clinico di
osservare in termini scientifici la personalità del detenuto.
Inoltre, la terapia (psicologica) o la cura (psichiatrica) si pongono sempre l’obiet-
tivo di guarire il paziente, ma, mentre nella terapia o nella cura è il paziente che si sot-

285
Criminologia ed elementi di criminalistica

topone spontaneamente ad esse e si attende dei risultati (impegnandosi in cambio ad


osservare la terapia stessa o la cura), in carcere, invece, il detenuto non richiede nessu-
na terapia né cura, e lo stesso colloquio criminologico, ai fini del trattamento, è impo-
sto o suggerito, ma non scelto di sua iniziativa (come avviene quando ci si rivolge al-
lo psicologo o allo psichiatra). Inoltre, l’opera dello psicologo e dello psichiatra viene,
ancora oggi, vista con particolare scetticismo, permeata da diffidenza, e forse da paure
inconsce.
Il criminologo clinico è distante da tali figure professionali perché egli non deve
orientare la sua azione al fine di conformizzare la personalità del detenuto, né deve cer-
care di minimizzare i guasti che un sistema ingiusto produce ai danni di persone so-
cialmente sfavorite (Bandini, Gatti, 1987). In altre parole, non deve né psicologizzare
né psichiatrizzare la personalità del detenuto per fini trattamentali o altro (Fortunato
S., 2003).
L’indagine (diagnosi e prognosi) del criminologo clinico è prettamente crimino-
logica, e il colloquio ha fini valutativi, poiché quel che in realtà sarà oggetto d’indagine
peritale potrà riguardare il giudizio diagnostico e prognostico per l’idoneità o meno a
fruire di misure alternative alla detenzione, il tipo della misura che è preferibile adottare,
l’opportunità di avere licenze premio, la convenienza di sottoporre il soggetto a un re-
gime di sorveglianza particolare; e, in generale, vari quesiti che l’Autorità giudiziaria o
la Magistratura di sorveglianza ritengano utile e possibile porre. (Marzagora, I, 1987).
Il colloquio criminologico è obiettivato, in primis, alla raccolta dei dati: 1. genera-
lità ed informazioni: data e luogo di nascita, parto e svezzamento, normalità, precocità
o ritardo nello sviluppo, prime fasi di vita fisiologica (linguaggio, cammino); 2. notizie
sulla famiglia di origine: livello di istruzione, situazione economica e sociale, occupazio-
ni, interessi, esistenza di fratelli e sorelle, età e caratteristiche, rapporti con loro, senti-
menti o risentimenti, conflitti, senso di superiorità o inferiorità, ammirazione e iden-
tificazione; 3. atmosfera familiare: ricordi sui genitori nei primi anni di vita, i rapporti
dei genitori fra loro e dei genitori con il soggetto, attaccamento alla famiglia, preferen-
za per un genitore o per un altro, giudizio sui genitori, disciplina familiare, la famiglia
come fonte di conforto e di sicurezza; 4. atteggiamento nei giochi e con gli altri bambini
(cooperativo, aggressivo, importuno, timido, passivo, ecc.); 5. carriera scolastica: età di
inizio e fine della scuola, motivi interruzione studi, classi ripetute, rapporti con i com-
pagni e con gli insegnanti, atteggiamento nei confronti dello studio; 6. atteggiamento
verso il gruppo dei pari, figure di identificazione; 7. ambizioni e ideali adolescenziali e
giovanili; 8. il servizio di leva; 9. disciplina, frustrazioni, ecc.; 10. esperienze sentimentali
e sessuali, legami affettivi, matrimonio, atmosfera coniugale, difficoltà, accordo o disac-
cordo, separazioni o divorzi; 11. i figli e i rapporti con loro. Malattie, infortuni, prece-
denti psicopatologici, loro importanza nella vita di relazione e lavorativa; 12. carriera
lavorativa, costanza o meno nel lavoro, interessi extraprofessionali; 13.uso di alcool o di
droghe; 14. difficoltà di adattamento; 15. scopi e aspirazioni per il futuro ideali e perso-
nali. (Marzagora. I, 1987).
Secondo Bisio B. (1975), il colloquio criminologico si deve occupare di: a) indagare
come il soggetto abbia ceduto all’azione dei motivi che su di lui hanno agito; b) deter-
minare perché non lo hanno inibito altri motivi (sociali, individuali, morali, religiosi,
giuridici, ecc.); c) ricercare come il soggetto è arrivato a concepire, e sotto quale aspet-

286
La criminologia clinica

to, l’azione antisociale, dalla quale si è ripromesso la soddisfazione di un interesse; d)


conoscere come è stata la preparazione e l’esecuzione del reato; e) passare allo studio del
comportamento onde determinare come la personalità umana reagisce ai vari stimoli e
nelle varie condizioni
L’osservazione criminologica è fondamentale per la Magistratura di sorveglianza,
oltre che per formulare il piano di trattamento, anche per fonrire alla magistratura di
sorveglianza le informazioni sulla personalità per le decisioni relative alle misure alter-
native, sia per riferire alla direzione del carcere sulla personalità dei detenuti in vista di
provvedimenti disciplinari o di benefici, sia, infine, per risolvere problemi di cattivo
adattamento carcerario.
L’osservazione scientifica della personalità consiste:

1) Momento diagnostico, che punta a conoscere i tratti di personalità e le caratteristi-


che socio-ambientali che consentono di ricostruire la criminogenesi e la crimino-
dinamica.
L’osservazione è eseguita da più persone con competenze diverse e le indagini si
concretizzano poi in un giudizio collegiale, cui partecipa anche il direttore dell’isti-
tuto.

a) Momento fondamentale di ogni osservazione è innanzitutto il colloquio clinico.


Il suo scopo è quello di cogliere la criminogenesi, cioè di fornire una spiega-
zione di come abbiano interagito le caratteristiche psicologiche del soggetto
con le sue particolari esperienze di vita, con i fattori sociali e ambientali e la
particolare situazione al momento della commissione del delitto.
Oltre a ciò il colloquio, punta a conoscere la criminodinamica: come è stato
compiuto il singolo delitto o se si è sviluppato tutto un progetto di vita indi-
rizzato al crimine. Non si indagano le modalità materiali di commissione del-
l’atto, ma l’intrecciarsi delle dinamiche psicologiche e il loro interagire nelle
motivazioni.
L’indagine è eseguita su mandato del sistema penale per fini di giustizia; l’os-
servatore non può schierarsi col soggetto come accade nel caso dell’alleanza
terapeutica. Ciò comporta il rischio di mancanza di sincerità da parte dell’esa-
minato.
b) L’osservazione può avvalersi di reattivi mentali che forniscono un ausilio, an-
che se il loro impiego, spesso, non consente di soddisfare i compiti ed i fini
dell’osservazione criminologica, né di stabilire se il soggetto è sincero. Gene-
ralmente, vengono impiegati i seguenti tests:

- di efficienza intellettiva, che permettono una valutazione qualitativa e


quantitativa dell’intelligenza esprimendola con il QI (quoziente intel-
lettivo);
- reattivi di personalità, che consentono di valutare l’affettività, la capacità
di adattamento, la maturità, le tendenze reattive, i modelli di identifica-
zione, la capacità di sopportare le frustrazioni, i meccanismi di difesa, e
così via;

287
Criminologia ed elementi di criminalistica

c) l’inchiesta sociale è un’indagine condotta nell’ambiente naturale di vita del sog-


getto assumendo informazioni sul suo conto.
L’analisi riguarda la famiglia, i gruppi frequentati dal soggetto, le relazioni
esterne, lo stile di vita familiare, e così via;
d) l’esame comportamentale descrive e analizza le modalità di condotta nei con-
fronti della disciplina carceraria, dell’autorità, degli operatori e dei compagni
di detenzione;
A tale esame è delegato l’educatore che vive a quotidiano contatto con i dete-
nuti ed è l’organizzatore di tutte le attività socializzanti all’interno della pri-
gione, nonché, il tramite per i rapporti con l’esterno e della mediazione tra
l’autorità e la comunità dei reclusi;
e) è necessario, poi, conoscere i dati documentati delle precedenti vicende del
soggetto, il curriculum criminoso, le informazioni della polizia, dei carabinie-
ri, dei servizi sociali.

13.3 La prognosi delinquenziale


La prognosi delinquenziale, come lo stesso termine indica, rappresenta uno stru-
mento che consente una previsione in ordine alla possibilità del soggetto di ripetere
certe esperienze devianti o, al contrario, di sapersi reinserire in maniera produttiva e
socialmente accettabile nella società esterna. Si cerca, pertanto, di esprimere un parere
finale complessivo sulla personalità del soggetto, così come si rileva al momento del-
l’osservazione, sulla natura e sull’entità del cambiamento eventualmente in lui verifi-
catosi dal momento dell’ingresso in istituto, e sul modo in cui egli sembra proiettarsi
nel futuro.
Per ciò che attiene quest’ultimo aspetto, oltre che a considerare i propositi espres-
si dal soggetto stesso, si cerca di valutare, con obiettività, le sue effettive motivazioni, le
sue capacità di revisione critica, le sue attitudini, cioè tutti quegli elementi che possono
condizionare un autentico distacco dal mondo delinquenziale e un concreto processo
riabilitativo.
In questa prospettiva, si considerano, ovviamente, anche tutte le informazioni re-
lative ai dati ambientali e, in genere, alle condizioni esterne che possano ritenersi im-
portanti ai fini del reinserimento del soggetto. In base a tali valutazioni, appare possi-
bile formulare un programma di trattamento che miri a potenziare gli aspetti positivi
già esistenti nella personalità del soggetto osservato e, mediante opportune iniziative,
cerchi di colmare le lacune e le carenze di vario grado e natura, che possano essere pre-
giudizievoli ai fini di un concreto processo maturativo. Occorre precisare, infine, che
l’osservazione non può ritenersi conclusa con la chiusura del caso, vale a dire con l’ela-
borazione della sintesi finale e con la formulazione delle ipotesi di trattamento.
Tecnicamente, la fase predittiva del comportamento delittuoso prevede un giudizio
sull’eventualità del futuro reiterarsi del comportamento delittuoso.
Il contributo del criminologo è limitato alla fase dell’esecuzione penale, mentre ogni
predizione nel momento processuale è delegata esclusivamente al giudice. La previsione

288
La criminologia clinica

è basata sulla statistica, tramite la quale si vanno a considerare, ad esempio, quali tratti
sono frequenti in soggetti recidivi. Tuttavia, non è possibile sapere se il comportamento
futuro del delinquente sarà conforme a quello indicato dalla statistica, e ciò, rientra nel
campo delle incognite revisionali che dovranno tenere conto dei seguenti parametri:

- la persona è dotata di liberta di scelta, per cui ogni predizione contiene necessaria-
mente possibilità d’errore;
- la formulazione di una predizione comportamentale negativa viene, entro certi li-
miti, ad influenzare a condotta futura.

In concreto, la previsione del comportamento sociale può essere realizzata utilizzando


molteplici parametri, per esperienza o per precedenti ricerche criminologiche ritenute
più significative. Per quanto attiene la persona, alcune caratteristiche risultano negati-
ve, come: la bassa intelligenza, le anomalie reattive, i disturbi di personalità, la tossico-
dipendenza e l’alcolismo, l’incostanza nella carriera scolastica, le sfavorevoli condizioni
socio-economiche gli ideali antisociali di vita, la precocità del disadattamento, l’inseri-
mento in sottoculture delinquenziali.
Per quanto riguarda la famiglia, sono negative: la disgregazione e la carenza affet-
tiva. Per ciò che attiene la carriera criminosa sono indizi prognostici sfavorevoli: l’inizio
precoce dell’attività delittuosa, l’alta frequenza e numero di recidive, la brevità dell’in-
tervallo di libertà tra successive condanne, l’appartenenza a una sottocultura delin-
quenziale, la non occasionalità dei reati.
Il giudizio deve tenere conto di tutta una serie di parametri (giudizio integrato). Il
più noto dei sistemi predittivi è quello di Glueck che consiste nell’attribuire un diverso
valore e quindi un diverso punteggio ai singoli parametri utilizzati per la predizione.
Il punteggio attribuito a tali indici è il risultato del più frequente riscontro di tali
caratteristiche in un gruppo di delinquenti, rispetto ad un gruppo di controllo di giovani
con condotta regolare.
Questo test comprende tre tavole:

1) I fattori predittivi legati alla famiglia:

- sistema educativo del padre nei confronti del figlio;


- sorveglianza del minore ad opera della madre;
- atteggiamento affettivo del padre;
- atteggiamento affettivo della madre;
- coesione della famiglia.

2) I fattori predittivi caratteriologici (ricavati col Rorschach):

- desiderio di affermazione sociale;


- sfrontatezza;
- diffidenza;
- tendenza distruttiva;
- labilità emotiva.

289
Criminologia ed elementi di criminalistica

3) La terza tavola comprende il tratti di personalità ricavati dall’esame diretto;

- spirito d’avventura;
- tendenza al passaggio all’atto;
- suggestionabilità;
- caparbietà;
- instabilità emotiva.

È bene precisare che ogni caso osservato viene sottoposto a revisione periodica e
a un aggiornamento, soprattutto per valutare gli eventuali sviluppi degli aspetti della
personalità più suscettibili di evoluzione, per prendere atto di possibili cambiamenti,
e, soprattutto, per verificare il grado e la partecipazione del soggetto al programma di
trattamento ipotizzato nella relazione finale.

13.4 La pericolosità sociale


Affinché sia possibile una prognosi di futura condotta criminale, il delitto si pone
come condizione necessaria ai fini del giudizio di pericolosità, ma non sufficiente, do-
vendo la sua valutazione essere integrata con l’esame di tutti gli elementi attinenti alla
personalità, all’ambiente e al comportamento del reo.
L’art. 203 comma 2 c.p., stabilisce che la qualità di persona socialmente pericolosa
si desume dalle circostanze indicate nell’art. 133 Codice Penale.
Di conseguenza, l’accertamento della pericolosità deve essere compiuto attraverso
l’integrale ricognizione di tutti i fattori che riguardano non solo la gravità del reato, ma
anche la capacità a delinquere del reo.
I criteri individuati dal Legislatore sono, dunque, i medesimi previsti per la deter-
minazione della pena. Tuttavia, è chiaro che i fattori che riguardano la capacità a de-
linquere del reo, visti in chiave prognostica, possono presentare un significato diverso
da quello assumibile in chiave retributiva, in funzione del fatto che il reato commesso
viene in rilievo non come tale, ma come sintomo di probabile futura recidiva. Gli ele-
menti indizianti di pericolosità, rilevanti ai fini della capacità a delinquere del reo, sono,
ai sensi dell’art. 133 c.p.: i motivi a delinquere e il carattere del reo; i precedenti pena-
li e giudiziari e in genere la condotta e la vita del reo antecedenti al reato; la condotta
contemporanea o susseguente al reato; le condizioni di vita individuale, familiare e so-
ciale del reo.
Il codice penale del 1930, nella sua formulazione originaria, prevedeva due forme
di pericolosità: la pericolosità accertata di volta in volta dal Giudice (art. 204 comma 1,
c.p.); la pericolosità presunta dalla legge (art. 204 comma 2, c.p.).
Nel primo caso, il giudizio di pericolosità viene integralmente rimesso alla valuta-
zione discrezionale del giudice, pur guidato dai criteri cardine dell’art. 133 del Codice
Penale. L’accertamento giudiziale si articola nelle due fasi dell’accertamento delle qualità
indizianti, da cui dedurre la probabile commissione di reati, e della prognosi criminale,
ossia il giudizio sul futuro criminale del soggetto, effettuato sulla base di tali qualità.

290
La criminologia clinica

Va inoltre precisato che, al fine di evitare di disporre l’applicazione di una mi-


sura di sicurezza a chi, pericoloso al momento del fatto, cessi di esserlo prima della
conclusione del giudizio, la pericolosità va accertata con riferimento, non solo al mo-
mento della commissione del fatto, ma anche al momento in cui il giudice ordina
la misura di sicurezza. E in base al principio nulla periculositas sine crimine, non può
applicarsi una misura di sicurezza a chi sia divenuto pericoloso dopo il fatto per cau-
se sopravvenute, dovendo esistere una interdipendenza fra pericolosità e reato, senza
la quale manca il presupposto garantista perché scatti il sistema preventivo di sicu-
rezza.
L’art. 204 comma 2 c.p., nella sua originaria formulazione, prevedeva alcune rile-
vanti deroghe al principio di accertamento giudiziale della qualità di individuo social-
mente pericoloso, stabilendo: “nei casi espressamente determinati la qualità di persona so-
cialmente pericolosa è presunta dalla legge”.
Nondimeno, anche in tali casi, l’applicazione delle misure di sicurezza è subordi-
nata all’accertamento di tale qualità, se la condanna o il proscioglimento è pronuncia-
to: dopo dieci anni dal giorno in cui è stato commesso il fatto, qualora si tratti di in-
fermi di mente, nei casi previsti dal primo capoverso degli artt. 219 e 222 c.p.; dopo
cinque anni dal giorno in cui è stato commesso il fatto, in ogni altro caso.
È altresì subordinata alla qualità di persona socialmente pericolosa, l’esecuzione,
non ancora iniziata, delle misure di sicurezza aggiunte a pena non detentiva, ovvero
concernenti imputati prosciolti, se dalla data della sentenza di condanna o di proscio-
glimento, sono decorsi dieci anni nel caso previsto dal primo capoverso dell’art. 222,
cinque in ogni altro caso. Si trattava, in tali casi, di presunzione di esistenza (cioè al mo-
mento del fatto) e di persistenza (cioè anche al momento della applicazione della mi-
sura).
Dette presunzioni riguardavano i seguenti soggetti: a) i prosciolti per infermità psi-
chica, per intossicazione cronica da alcool o stupefacenti, per sordomutismo o per mi-
nore età, se trattasi di delitto non colposo per il quale le legge commina l’ergastolo o
la reclusione superiore nel massimo edittale a due anni (art. 222 c.p.); b) i condanna-
ti, per delitto doloso o preterintenzionale, a pena diminuita per infermità psichica o
per intossicazione da alcool o stupefacenti o per sordomutismo, quando la pena com-
minata dalla legge per il delitto non è inferiore nel minimo a cinque anni ( art. 219,
comma 1 c.p.); c) i condannati alla reclusione per delitto commesso in stato di ubriachez-
za abituale o di intossicazione abituale da stupefacenti (art. 221 c.p.); d) i condannati
per reato di ubriachezza abituale o per reato commesso in stato di ubriachezza abituale,
agli effetti del divieto di frequentare osterie; e) i minori imputabili condannati per delit-
to commesso durante l’esecuzione di una misura di sicurezza cui erano stati sottoposti
perché non imputabili; f ) i condannati alla pena della reclusione per almeno dieci anni;
g) i condannati ammessi alla liberazione condizionale; h) i delinquenti abituali presunti
(art.102 c.p.).
In tutti i predetti casi, la fattispecie di pericolosità era costruita dal legislatore in via
normativa, attraverso una presunzione iuris et de iure, che escludeva ogni facoltà di ac-
certamento in concreto da parte del giudice. Il nodo problematico sul quale si gioca la
stessa legittimazione sostanziale delle misure di sicurezza è rappresentato dal giudizio
di pericolosità e dai criteri utilizzati per il suo accertamento.

291
Criminologia ed elementi di criminalistica

Padovani afferma che sul piano strutturale esso differisce profondamente dal giu-
dizio di responsabilità. Quest’ultimo è, infatti, di tipo diagnostico, nel senso che si basa
interamente sull’accertamento e sulla valutazione di dati noti o comunque conoscibili.
Il giudizio di pericolosità, invece, è di tipo prognostico, nel senso che, mentre l’accerta-
mento si riferisce a determinati elementi che assumono valore indiziante, la loro valuta-
zione è orientata prospetticamente in funzione di un dato sconosciuto, costituito dalla
condotta futura del reo. La fondatezza del giudizio di pericolosità, secondo il Padovani,
dipende pertanto da due fattori: 1) dalla rilevanza dei fattori indizianti; 2) dai criteri
utilizzati nel procedimento di inferenza probabilistica .
Nell’accertamento del giudizio di pericolosità, oltre al reato commesso, entra in
gioco una serie di elementi indizianti, che il Padovani distingue in: elementi sintomatici
reali ed elementi sintomatici personali.
I primi gravitano intorno al reato, o perché ne implicano la reiterazione (come si
verifica nella abitualità o nella professionalità, artt. 102 e 105 c.p.), o perché ne sup-
pongono una particolare gravità (in astratto, come accade nell’art. 222, comma 1 e 2
c.p., per il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario; o in concreto, come nelle ipo-
tesi in cui viene richiamata l’entità della condotta inflitta: ad esempio nell’art. 229, nº
1 e nell’art. 230, comma 1 nº 1 c.p., ai fini della sottoposizione alla libertà vigilata),
oppure, infine, perché lo individuano come particolare tipo criminoso a rilevanza sinto-
matica privilegiata (come, ad esempio, nell’ipotesi dell’art. 538 c.p. che autorizza, e in
certi casi impone, l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva a chi sia condan-
nato per i delitti in materia di prostituzione).
Gli elementi sintomatici personali, sono, invece, connessi alle peculiarità del sogget-
to, considerato in rapporto a dati caratteriali (come, ad esempio, l’essere dedito al de-
litto ai fini della abitualità ritenuta dal giudice ex art. 103 c.p.), a condizioni incidenti
sull’imputabilità (come ad esempio nelle ipotesi dell’art. 222 c.p., per quanto riguarda
l’infermità psichica, e dell’art. 224 c.p. per quanto concerne l’età), o alla condotta di vita
(come nel caso dell’ubriaco abituale o della persona dedita all’uso di sostanze stupefa-
centi, art. 221 c.p.). Nella valutazione criminologica dei fattori indizianti, il Padovani
sostiene che gli elementi sintomatici reali assumano un peso dominante rispetto agli ele-
menti sintomatici personali, e che spesso i fattori indizianti reali sono assunti in una di-
mensione fortemente astratta, connessa a valutazioni di mera gravità edittale del reato
commesso (come, ad esempio, si verifica nelle ipotesi degli artt. 219, 222, 224, comma
2 e 3 c.p.), senza alcuna considerazione per il concreto atteggiarsi dell’episodio crimi-
noso nella personalità del soggetto.
Questa accentuata propensione ad affermare il primato di valutazioni puramente
legali nelle fattispecie sintomatiche di pericolosità deve considerarsi positiva, in rappor-
to al fatto che gli elementi indizianti reali servono a circoscrivere le situazioni tipo, in
presenza delle quali, il giudice deve poi procedere all’ulteriore accertamento della peri-
colosità in concreto. L’unico rischio è che, attraverso una troppo rigida predetermina-
zione di limiti normativi astratti, finiscano con l’essere sottratti al vaglio di pericolosi-
tà soggetti in effetti pericolosi. È un rischio che consiste in sostanza nella formazione
implicita di presunzioni di non pericolosità. Basti pensare, in proposito, alla ipotesi del
prosciolto per infermità psichica da una contravvenzione, da un delitto colposo o da un
altro delitto, punibile con la sola pena pecuniaria o con la reclusione non superiore nel

292
La criminologia clinica

massimo a due anni (art. 222 comma 1 c.p., per il quale è in pratica preclusa ogni for-
ma di intervento preventivo, anche se il reato commesso, pur nella sua ridotta gravità
legale, consenta di evidenziare in rapporto alla infermità che lo ha determinato, una
pericolosità molto elevata).
Ma un tale rischio, secondo Padovani, può essere considerato il prezzo inevitabi-
le che l’ordinamento deve corrispondere alla esigenza di tutela della libertà personale,
quando la sua restrizione si prospetta come conseguenza di un giudizio prognostico
inevitabilmente incerto. Tuttavia i rischi insiti in una tale regolamentazione erano di
altra natura.
La preponderanza di fattori indizianti reali non assumeva una funzione limitativa
dell’accertamento di pericolosità, bensì una funzione costitutiva. Il meccanismo di ap-
plicazione delle misure di sicurezza si riduceva, nella maggioranza dei casi, al riscontro
degli elementi indizianti, ai quali veniva collegato un significato sintomatico assoluto
senza alcun accertamento in concreto della pericolosità. In tale prospettiva, dunque, la
previsione di elementi sintomatici personali accanto ad elementi sintomatici reali, con-
sentiva, raramente, di incidere sull’automatismo della conseguenza sanzionatoria, dato
che, di norma, si trattava di elementi accertati in sede di valutazione della responsabilità,
ed assunti nella fattispecie sintomatica di pericolosità in una dimensione aprioristica.
Ad esempio, il prosciolto per infermità psichica, in quanto autore di un reato do-
loso punibile con la reclusione superiore nel minimo a due anni, era ricoverato per ciò
stesso, in ospedale psichiatrico giudiziario (art. 222 c.p.), a prescindere dal significato
che l’infermità, rilevante per escludere l’imputabilità, assumesse in chiave prognostica
di pericolosità.

13.5 La vittimologia
In criminologia, l’attenzione posta alla vittima e al suo ruolo, più o meno attivo o
passivo che sia stato, è di fondamentale importanza per capire la genesi e lo sviluppo
dell’evento criminale. Agli inizi della criminologia, l’attenzione veniva riposta comple-
tamente sul criminale o sull’azione deviante, mentre la vittima veniva percepita come
totalmente passiva ed in balia degli eventi. Quando è stato rilevato che alcuni soggetti
avevano avuto delle responsabilità per la propria vittimizzazione (ad es. avevano provo-
cato l’aggressore oppure avevano ignorato dei segnali di pericolo), il focus di indagine
si è spostato, comprendendo tutti gli attori della scena criminale.
In un ambito criminale, può essere utile una definizione di vittima di questo tipo:
quel soggetto che in maniera diretta o indiretta (ad es. attraverso minacce) ha subìto un
danno fisico, psicologico o economico durante la commissione di un crimine.
Le funzioni della vittimologia sono principalmente due: una funzione preventi-
va, con lo scopo di tentare di ridurre il numero di vittime e le circostanze contestua-
li nelle quali è più probabile essere vittimizzati (attraverso la ricerca e lo studio sulle
specifiche proprietà bio-psico-sociali della vittima e del suo rapporto con l’aggresso-
re), ed una funzione riparativa per ridurre gli effetti dei danni fisici e psicologici ar-
recati grazie allo studio degli effetti sulla vittima riscontrabili sia a breve che lungo

293
Criminologia ed elementi di criminalistica

termine. La vittimologia, dunque, studia la sfera bio-psico-sociale della vittima, ma


anche il rapporto da essa avuto con il proprio aggressore, il contesto ambientale (fisico
e psicologico) entro il quale è stata compiuta un’azione criminale e, nel caso di vitti-
ma sopravvissuta, le conseguenze fisiche (danni biologici), psicologiche (traumi a bre-
ve-medio-lungo termine) e sociali (reazioni del gruppo primario, come la famiglia, del
gruppo secondario come ad es. gli amici, e delle agenzie di controllo come le forze di
polizia o i tribunali).
Tornando alle origini, la vittimologia nasce nel 1948, anno nel quale Von Hentig
pubblica The criminal and his victim. Tra i suoi concetti fondamentali tre sono partico-
larmente importanti: criminale-vittima (non si nasce vittima o criminale, ma sono gli
eventi a determinare i ruoli); vittima latente (per cui ci sono alcune categorie di vittime
che, per fattori sociali o psicopatologici, hanno una particolare predisposizione ad esse-
re vittimizzate); rapporto vittima-aggressore (per cui bisogna porre particolare attenzione
al tipo di relazione esistente fra la diade).
Un altro concetto fondamentale è quello discusso da Mendelsohn (1965), ovvero
quanta responsabilità attribuire alla vittima all’interno dell’azione deviante. Nella clas-
sificazione vengono riscontrati diversi gradi di colpa: vittima del tutto innocente (come i
bambini); vittima con colpa lieve e vittima per ignoranza (es. passeggero che, a bordo di
un’auto, distrae il guidatore e, causando una sbandata del veicolo, questi rimane ferito e
ucciso); vittima colpevole quanto il delinquente e vittima volontaria (come il suicidio nel-
la roulette russa, il suicidio per adesione o in coppia, etc.); vittima maggiormente colpe-
vole del delinquente (come nel caso della vittima provocatrice e della vittima impruden-
te); vittima con altissimo grado di colpa e vittima come unica colpevole (ad es. il criminale
che aggredisce una persona e viene da questa ucciso per legittima difesa).
Un’altra classificazione secondo la quale un soggetto può contribuire alla propria
vittimizzazione viene compiuta da Sparks nel 1982 e prevede: la precipitazione, se la
condotta della vittima incoraggia il comportamento del futuro aggressore (come ad es.
la provocazione fisica o verbale); la facilitazione, ovvero se la vittima in maniera con-
scia o inconscia si trova in contesti a rischio (come, ad es., una persona che attraversa
un punto della città di notte particolarmente malfamato); la vulnerabilità: la vittima è
in pericolo per una sua particolare condotta o posizione sociale (ad es., alcune persone
vengono mobbizzate sul posto di lavoro in quanto sottoposti non graditi); l’opportu-
nità: se la vittima in quel particolare momento è una facile preda per l’aggressore (ad
es., persone anziane che vanno a ritirare la pensione) e l’attrattività: ovvero la vittima è
in possesso di un qualcosa che potrebbe richiamare l’interesse del criminale (ad es. un
rappresentante di gioielli).
Le modalità di vittimizzazione, ovvero quali sono i sistemi attraverso cui un ag-
gressore può sottomettere un’altra persona, possono essere: abuso sessuale, abuso ver-
bale, abuso emotivo o psicologico (attraverso, ad es., la denigrazione dell’altro, soprat-
tutto nel lungo periodo, e la conseguente diminuzione di autostima), abuso spirituale
(ad es., senso di tradire le proprie tradizioni religiose o quando la vittima pensa che la
fede non lo protegga), abuso economico, abuso sociale (come scherzi esagerati, criti-
che eccessive e continuate, accuse false controllo costante dei movimenti del soggetto
vittimizzato, ecc.).
Fattah (1979) ha elencato una serie di parametri relativi alle vittime e alle loro pos-

294
La criminologia clinica

sibilità di essere colpite:

• occasioni: strettamente collegate con le caratteristiche dei potenziali bersagli (indi-


vidui, familiari, affari) e con le attività e i comportamenti di questi obiettivi;
• fattori di rischio: in particolare relativi a caratteristiche socio-demografiche, quali
l’età e il genere, la zona di residenza, l’assenza di protezione, la presenza di alcool e
così via;
• assalti motivati: gli assalitori, soprattutto non professionisti, non scelgono la loro
vittima/obiettivo in maniera casuale, ma la selezionano secondo specifici criteri;
• esposizione: l’esposizione a potenziali assalitori e a situazioni e ambienti ad alto ri-
schio aumentano il rischio di essere vittima di reati;
• legami: l’omogeneità delle popolazioni di vittime e autori suggeriscono che l’as-
sociazione differenziale è importante sia per la vittimizzazione sia per il reato e il
comportamento criminale. Così, individui che sono a contatto sul piano persona-
le, sociale o professionale con potenziali delinquenti, corrono un rischio più eleva-
to di rimanerne vittime rispetto a coloro che non lo sono;
• ore e luoghi pericolosi: i rischi di vittimizzazione non sono distribuiti in modo ugua-
le nel tempo e nello spazio. Ci sono momenti pericolosi come la sera, la notte inol-
trata e i fine-settimana, e ci sono ugualmente luoghi pericolosi come quelli di in-
trattenimento, dove il rischio di essere vittima di determinati reati è più elevato
rispetto all’abitazione o al posto di lavoro;
• comportamenti pericolosi: determinati comportamenti di tipo provocatorio aumen-
tano il rischio di vittimizzazione violenta, mentre altri comportamenti caratteriz-
zati da negligenza e superficialità aumentano le possibilità di una corretta vittimiz-
zazione. Esistono comportamenti pericolosi che rendono questi atteggiamenti di
per sé accattivanti in situazioni pericolose dove la propria capacità di difendersi e
proteggersi nei confronti di attacchi è molto ridotta. Un esempio di queste situa-
zioni è l’autostop;
• attività ad alto rischio: aumentano ugualmente le potenzialità di vittimizzazione.
Fra queste, si trovano la ricerca di divertimenti, che può includere attività illecite e
illegali. È risaputo inoltre che talune attività come la prostituzione portano con sé
un potenziale di vittimizzazione più elevato della media;
• atteggiamenti difensivi e comportamenti prudenti: dal momento che numerosi rischi
di vittimizzazione possono essere facilmente evitati, gli atteggiamenti della gente
nei confronti di questi rischi possono influenzare le loro possibilità di vittimizza-
zione. Va da sé che coloro che corrono il rischio sono destinati ad essere vittimizza-
ti con maggiore frequenza di coloro che lo evitano. Ciò significa che la paura della
criminalità è un fattore importante nella riduzione della vittimizzazione di coloro
che sono spaventati, per esempio gli anziani, che prendono più precauzioni, limi-
tano le proprie attività diurne e notturne, riducendo così la propria esposizione e
vulnerabilità alla vittimizzazione;
• predisposizione strutturale e culturale: esiste una correlazione positiva fra powerlessness
e deprivazione e frequenza di vittimizzazione. Parimenti, stigmatizzazioni culturali
e marginalizzazione aumentano il rischio di vittimizzazione, designando determi-
nati gruppi come bersaglio giustificato o vittime culturalmente legittimate.

295
Criminologia ed elementi di criminalistica

Lo studio della vittima, al di là dell’esatta interpretazione del fatto concreto e del-


l’accertamento delle responsabilità individuali, mira alla finalità della prevenzione del
crimine. La prevenzione, oltre che con interventi sulla vittima, deve avvenire attraverso
azioni sull’ambiente perché solo tali misure possono efficacemente influenzare il tas-
so di criminalità e di vittimizzazione. È più facile e realistico cercare di intervenire sul
comportamento della vittima che sulla condotta del criminale, soprattutto se si prende
atto che: la probabilità di divenire vittima di un crimine non è ugualmente distribuita
fra tutti gli individui; le circostanze costituiscono una sorta di predisposizione specifica
nei confronti di determinati reati e le predisposizioni specifiche possono distinguersi in
funzione dell’origine, della loro permanenza nel tempo, della loro natura.
Dunque, la vittimologia tende, a fini preventivi, a mettere a fuoco il comporta-
mento vittimogeno dei soggetti e le occasioni sociali o tipiche che agevolano il delit-
to; inoltre, tende a responsabilizzarli per far sì che la loro negligenza non possa favori-
re condotte criminali, che potrebbero essere scoraggiate con una maggiore attenzione.
A soddisfare tali esigenze può risultare utile innanzitutto un’attività informativa e di-
vulgativa, già all’interno delle scuole. Questa conoscenza porrebbe l’individuo in con-
dizioni di poter evitare quelle situazioni o quei comportamenti che possono esporlo a
maggior pericolo.
In tema di riparazione del danno subito dalla vittima, prevale l’aspetto economi-
co, anche per il danno morale che si concretizza in uno stress psicologico, ma la sua
entità è simbolica. Peraltro, il danno da stress psicologico, variando a seconda della vitti-
ma, rende più problematica una condanna al risarcimento. Di maggiore utilità risulte-
rebbe, invece, la costituzione di centri d’assistenza che potrebbero aiutare la vittima a
superare le difficoltà derivanti dal reato. Ecco perché è auspicabile l’introduzione o il
miglioramento di alcune iniziative post-delictum, quali: prendersi immediatamente cu-
ra della vittima; evitare alla vittima inutili intromissioni mediche, della polizia, della
stampa; dare consigli alla vittima per il risarcimento e la riparazione; offrire denaro per
superare le prime necessità; assistere la famiglia in attività successive al delitto, come ad
esempio i funerali; attivarsi presso le società di assicurazioni e incoraggiare la vittima a
denunciare il fatto. Anche nell’ambito di organizzazioni sovranazionali hanno trovato
una sempre maggiore considerazione il ruolo della vittima e soprattutto le esigenze di
protezione della stessa.
Nell’organizzare iniziative di aiuto alle vittime, è importante entrare nell’ordine
di idee che bisogna cercare di dar loro quello di cui hanno bisogno e non quello che è
preordinato o che noi riteniamo sia loro utile.
Come viene ricordato da una delle associazioni che coordina le attività di chi si
occupa di aiuto alle vittime, bisogna dare alle vittime l’appoggio che lo Stato, in tut-
te le sue strutture, centrali e locali, non ha il tempo di dare, vale a dire l’assistenza ne-
cessaria nell’immediatezza dell’accaduto e lungo il percorso-calvario della vittima con
quella vittimizzazione secondaria che ne è appunto la caratteristica principale, a partire
dall’indifferenza e dalla colpevolizzazione da parte di istituzioni, parenti della vittima,
parenti e avvocati dell’autore.
L’assistenza, diretta e indiretta, alle vittime, comprende quindi aspetti medici, psi-
cologici, legali, burocratici, logistici, relativi alla prevenzione contro la rivittimizza-
zione.

296
La criminologia clinica

è ugualmente importante sottolineare le opportunità relative all’informazione e


alla sensibilizzazione di chiunque possa esserlo, dalle autorità centrali e locali per l’im-
pianto di iniziative e la collaborazione in quelle già in atto, alle vittime, reali e potenzia-
li, ai singoli ed alle associazioni per attività di volontariato, ai gestori dell’informazione
per la presentazione corretta delle problematiche e la pubblicizzazione delle iniziative.

297
CAPITOLO 14

La violenza sulle donne ed i processi di


vittimizzazione

14.1 Le donne come vittime


La violenza contro le donne rappresenta una delle violazioni dei diritti umani più
diffusa nel mondo: essa nega il diritto delle stesse all’uguaglianza, alla sicurezza, alla di-
gnità, all’autostima e, inoltre, il loro diritto a godere delle libertà fondamentali.
La violenza nei confronti delle donne esiste in tutti i Paesi, attraversa tutte le cul-
ture, le classi sociali, le etnie, i livelli di istruzione, di reddito e tutte le fasce di età. Nes-
sun Paese può affermare di essere immune da tale fenomeno.
A milioni vengono picchiate, aggredite, stuprate, mutilate, assassinate, private del
diritto all’esistenza stessa. Nel mondo, almeno una donna su tre, nel corso della propria
vita, ha subìto o subirà gravi forme di violenza. Sia in tempo di pace che in tempo di
guerra, le donne subiscono atrocità, semplicemente per il fatto di essere donne.
Nonostante il fatto che la maggior parte delle società condanni tale fenomeno,
nessuna di queste può affermare di esserne indenne: l’unica diversificazione consta nel-
le forme e nelle tendenze esistenti nei vari Paesi o regioni.
La realtà è che le violazioni contro i diritti umani delle donne vengono spesso tol-
lerate come pratiche culturali oppure giustificate sulla base di errate interpretazioni di
principi religiosi.
La Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le don-
ne del 1993, definisce la violenza sulle donne come “qualunque atto di violenza in base
al sesso, o la minaccia di tali atti, che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche,
sessuali, o psicologiche, coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pub-
blica che privata delle donne”.
Questa definizione presenta la violenza nella sua dimensione di rapporto di forza
tra i sessi, e parte dalla constatazione che la violenza contro le donne è uno dei princi-
pali meccanismi sociali tramite i quali le donne vengono costrette alla subordinazione
dagli uomini. La definizione della violenza viene così ampliata, facendovi rientrare sia

299
Criminologia ed elementi di criminalistica

le sofferenze fisiche che quelle psicologiche, compresa la minaccia di tali azioni, la coer-
cizione o la privazione arbitraria della libertà nella vita privata e/o pubblica.
È violenza, ogni abuso di potere e controllo che si manifesti attraverso il sopruso
fisico, sessuale, psicologico ed economico. Questi diversi tipi di violenza possono pre-
sentarsi isolatamente o, come spesso accade, combinarsi insieme, in modo che una for-
ma di controllo apra le porte all’altra. Ciò accade, soprattutto, quando la vittima e chi
usa la violenza sono legati da un rapporto affettivo (il partner, il padre, l’amico di fami-
glia ecc.). Anche nelle aggressioni subite da estranei, tuttavia, la violenza fisica si può
accompagnare a minacce, umiliazioni e limitazione della libertà di movimento.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha suggerito di distinguere tre diverse for-
me di violenza perpetrata a danno delle donne:

- violenza interpersonale, comprende quelle forme di prevaricazione che si consuma-


no nei rapporti interpersonali quotidiani, sia all’interno delle mura domestiche sia
in ambito extrafamiliare, spesso con finalità di sfruttamento sessuale;
- violenza organizzata, che si concretizza in tutte le forme di violenza compiute al-
l’insegna di motivazioni politiche, sociali ed economiche, rivolte spesso contro
uno specifico gruppo etnico;
- violenza auto-inflitta, la quale è generata dall’umiliazione subìta.

Molte vittime tendono ad isolarsi volontariamente a seguito degli abusi subìti o a


procurarsi ulteriori violenze, fino ad arrivare a veri e propri tentativi di suicidio, qua-
si per auto-punirsi, perché si sentono in colpa a motivo dei soprusi subìti. Sempre la
Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne, nella
Risoluzione dell’Assemblea Generale, del dicembre 1993, così enunciava: “la violenza
contro le donne è la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo
e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di
loro, ed ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne”.
La violenza contro la donna viene definita, sia dall’ONU che dalla U.E., violenza
di genere, cioè una violenza che si annida nello squilibrio relazionale tra i sessi e nel de-
siderio di controllo e di possesso da parte del genere maschile sul femminile. La violen-
za di genere è rimasta a lungo invisibile: avveniva nell’ombra, in quanto coincideva con
i valori dominanti, le tradizioni e le leggi a tal punto da rendere il fenomeno un fatto
naturale, comune, normale.
La violenza non è soltanto quella eclatante, quella dai titoli da prima pagina dei
giornali, che indigna per i primi periodi ma che poi viene dimenticata; esiste un’altra
forma di violenza, molto più diffusa e sicuramente meno rumorosa: la violenza quoti-
diana. Tale forma di violenza è tutto tranne che eccezionale: essa non si riferisce solo al
campo della sessualità biologicamente intesa ma, spesso, attiene alle relazioni normali
tra i sessi, quelle inserite cioè nella routine e nella quotidianità. È la violenza che si con-
suma dentro le mura di una casa o di un ufficio, ovvero in tutte quelle situazioni nelle
quali una donna può essere provocata e indotta, con la violenza, ad assumere un atteg-
giamento o a svolgere un’azione.
Secondo il rapporto di Sheila Henderson, presentato al Comitato per l’eguaglian-
za tra donne e uomini presso il Consiglio d’Europa (Lienderson, 1997), almeno una

300
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione

donna su cinque, subisce, nel corso della sua vita, uno stupro o un tentativo di stupro;
quasi tutte le donne hanno subìto una o più molestie di tipo sessuale quali: telefona-
te oscene, esibizionismi, molestie sul lavoro e così via; infine, una su quattro fa l’espe-
rienza di essere maltrattata da un partner o ex partner. A riguardo, la ricerca condotta a
Napoli dall’ISERS (Istituto di Ricerche Sociali) nell’ambito del Progetto URBAN, ha
evidenziato che il 66,2% dei maltrattamenti denunciati riguarda un partner maschile
come autore, e che nel 78,8% il luogo ove si manifesta la violenza è la casa.
Le statistiche comunitarie ci dicono, in base ad indagini sui dati inerenti i reati ne-
gli Stati membri, che in Europa, la violenza rappresenta la prima causa di morte delle
donne nella fascia di età tra i 16 e i 50 anni e nel nostro paese si ritiene che ogni tre mor-
ti violente, una riguardi donne uccise da un marito, un convivente o un fidanzato.
L’aspetto più inquietante della violenza contro le donne è il suo essere trasversa-
le. A differenza di quanto solitamente pensato, né l’etnia, né l’età, né lo status sociale,
né le condizioni economiche e culturali sono indicatori affidabili al fine di individuare
luoghi di possibile violenza. Un dato sconcertante, soprattutto per chi ha giustificato, o
meglio, ha dato una spiegazione della violenza sulla donna, individuando nella povertà
e/o mancanza di cultura le basi della sua esistenza, è dato dai risultati che ci vengono
forniti dai diversi Enti internazionali e non (ad esempio, Amnesty International) che si
occupano di analizzare il fenomeno.
Se per decenni, infatti, l’occidente ha sempre circoscritto la vessazione femminile
nei confini geografici e sociali dei paesi in via di sviluppo e nella povertà, ora deve fa-
re i conti con la realtà, che lo vede comparire sul banco degli imputati con l’accusa di
non esserne esente. Anche la faccia bella del mondo, fatta di ricchezza e istruzione, di
beni di consumo (spesso inutili) e paladina di politiche democratiche, ha qualcosa della
quale vergognarsi: non più l’indigenza economica o l’assenza di istruzione possono es-
sere considerate terreno fertile per la generazione dell’abuso e del maltrattamento fem-
minile. Accanto al mostro, privo di cultura e istruzione, vi è un altro soggetto, istruito
e benestante, spesso professionista o dirigente.
È altrettanto falso che tale fenomeno riguardi solo alcune fasce sociali, quelle svan-
taggiate ed emarginate in realtà, questo è un fenomeno trasversale, che può riguardare
chiunque: donne di ogni età, razza e classe sociale; così come di ogni età, razza e classe
sociale sono i soggetti che attuano la violenza.
Gli studi segnalano che la maggior parte degli episodi di violenza è posta in essere
da uomini privi di particolari problemi legati all’alcool, alle droghe e ai disturbi psichici,
e mostrano come la violenza non è da attribuire a uomini che nella loro storia familiare
sono stati vittime e/o testimoni di violenza. Da una parte alcool, droghe e disturbi psi-
chici non sono cause, ma elementi che possono far precipitare la situazione; dall’altra,
gli studi dimostrano che non tutti i bambini, vittime o testimoni della violenza, diventino
uomini violenti.
Gli operatori che lavorano sul campo, da sempre, hanno sottolineato come, an-
cora oggi, sia impossibile stabilire, con certezza, le proporzioni del fenomeno. Non si
può facilmente dare un quadro esaustivo dello stesso, infatti, i dati che emergono dai
diversi studi svolti in materia, risultano piuttosto approssimativi, per via di quel mec-
canismo psicologico di autodifesa dimostrato dalle donne che le porta a non denuncia-
re la propria condizione.

301
Criminologia ed elementi di criminalistica

Tale situazione si può constatare con maggior frequenza nel caso della violenza do-
mestica. Qui le cifre riflettono solo in modo molto limitato e approssimativo l’entità
effettiva del fenomeno. Le indicazioni che la vittima fornisce a una ricercatrice o ad un
agente di polizia, rispetto alle esperienze fatte in materia di violenza domestica, sono
influenzate dai più svariati fattori: una donna può voler serbare il silenzio perché teme
ulteriori repressioni; forse desidera dimenticare al più presto tutta la storia più che ot-
tenere giustizia, e quindi ritiene opportuno non parlarne in modo da poter dimentica-
re tutta la vicenda molto più velocemente; spesso la stessa vittima si sente il vero e uni-
co colpevole di tutta la faccenda, e ciò mostra la complessità della situazione che ella si
trova ad affrontare.
Simili situazioni contribuiscono a far sì che, accanto alla cosiddetta zona chiara,
ossia ai fatti noti, vi sia sempre anche una zona oscura. E sull’entità di queste cifre oscu-
re non è possibile dire molto.
Innanzitutto, la violenza sulle donne non è un fenomeno limitato: i dati forniti
dalle maggiori organizzazioni che si occupano della questione, mostrano l’esatto con-
trario. Alcune forme si trovano in molte culture: si pensi, per fare qualche esempio, allo
stupro o alla violenza domestica; altre, invece, sono specifiche di alcuni contesti socio-
culturali, ad esempio, le mutilazioni sessuali o gli omicidi a causa della dote.
La violenza agita contro le donne può essere occasionale, un evento isolato, oppu-
re una situazione continua che si protrae nel tempo. In quest’ultimo caso non si espli-
ca in forma singola, ma suole essere la combinazione tra diverse forme. Un esempio è
rappresentato dalla violenza domestica dove intervengono generalmente violenza fisi-
ca, psicologica, sessuale ed economica. Violenze diverse possono essere fra loro connesse:
la violenza contro i figli, ad esempio, è spesso accompagnata da violenza domestica contro
la madre.
Non è neanche possibile a livello empirico misurare un cambiamento dell’entità
delle violenze nel corso degli anni, a causa delle difficoltà che hanno impedito l’emer-
gere del fenomeno. Il catalogo delle forme di violenza si è sempre più ampliato: oggi,
vengono denunciati e scoperti nuovi fenomeni violenti che fino a non molti anni ad-
dietro erano considerati come dei comportamenti normali. Si tratta di situazioni che,
in passato o in altre aree culturali, non venivano o non vengono affatto considerate co-
me violenze, per esempio, lo schiaffo da parte del marito o, prima del matrimonio, dal
padre, come misura educativa; oppure lo stupro nell’ambito della relazione coniugale.
Ugualmente, la violenza nella sfera familiare era considerata una questione privata e
non giustificava nessun intervento, sia esso pubblico che privato.
Senza dubbio, oggi, è aumentata la percezione del fenomeno violenza, soprattutto
quella che avviene in ambito familiare. Se rispetto a qualche anno addietro oggi si sen-
te maggiormente parlare del fenomeno, ciò è da ricondurre, non ad un aumento della
violenza in seno alla società ma, probabilmente, alla crescente visibilità del fenomeno,
grazie all’attività delle varie associazioni che si occupano della questione ed ai mezzi di
informazione.

302
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione

14.2 Le forme di violenza


Al concetto di violenza deve essere attribuito un significato più ampio di quello
strettamente legato all’esercizio del potere nella sfera sessuale in senso stretto. La vio-
lenza agita contro la donna è una forma di prevaricazione a tutto campo, caratteriz-
zata dal fatto che è esercitata da un singolo uomo o da un contesto maschile su una
donna.
Diverse sono le forme di violenza che le donne, nelle varie culture, subiscono nel
corso della loro esistenza e a qualsiasi età. Alcune di queste colpiscono la donna duran-
te l’infanzia, ad esempio, l’infanticidio; altre, si presentano ancor prima, come l’aborto
selettivo. Basti pensare alla Repubblica Popolare Cinese, all’India e alla Corea del Sud,
dove alle donne non viene nemmeno garantito il naturale diritto alla vita a causa di una
rigida disposizione che pretende di pianificare le famiglie tramite la politica del figlio
unico e la preferenza assoluta per il maschio piuttosto che per le femmine, poiché que-
ste ultime sono considerate un peso per la famiglia.
Altre forme di violenza che subiscono le donne nel corso della loro esistenza e con
l’aumentare dell’età sono i matrimoni precoci e forzati o le mutilazioni genitali femminili.
Mentre, sono violenze che riguardano donne di qualsiasi età: le vessazioni fisiche,
sessuali e psicologiche; lo stupro e l’incesto; lo sfruttamento della prostituzione ed in ambito
pornografico; la tratta delle donne; la gravidanza forzata; l’uxoricidio.
Inoltre, è bene distinguere due diversi aspetti del suo manifestarsi: da una parte vi
è la violenza sessuale, dall’altra, la violenza domestica. Con quest’ultima espressione, si fa
riferimento alle vessazioni commesse all’interno dell’ambito familiare, ovvero si indica-
no le sevizie da parte del coniuge, del padre o da parte di altri membri della famiglia.
Rientra nell’ambito della violenza domestica anche quella agita dai datori di lavoro o
amici della vittima. Ciò che caratterizza tale categoria di violenza non è il luogo dove
la violenza viene agita, ma la particolare relazione che lega la donna all’aggressore: si
tratta, appunto, di un legame sentimentale, che può essere una relazione di parentela o
di amicizia. In genere, si svolge sulla scena dei rapporti familiari e, principalmente, dei
rapporti di coppia. Questa tipologia di violenza ha come scopo quello di sottomettere
la donna ed acquisirne il controllo. È questa la violenza più diffusa, quella più difficile
da individuare e che arreca maggiori danni alla salute, sia in termini fisici che psichici,
perché tende a diventare abitudinaria.
Le forme di violenza domestica e quelle di violenza sessuale non sono proprie esclu-
sivamente dell’una o dell’altra categoria di violenza, ma si possono presentare, ora nel-
l’ambito dei rapporti familiari, ora all’esterno.
Generalmente, però, si classificano tra le forme di violenza domestica: il maltratta-
mento psicologico, quello fisico ed economico, il comportamento persecutorio (c.d. stalking), le
mutilazioni genitali femminili ed altre pratiche tradizionali pregiudizievoli per le donne.
Se nell’immaginario comune, lo stupro viene compiuto da estranei, in genere di
notte e per strada, la realtà, invece, ci mostra una diversa verità. La maggioranza degli
stupri avviene ad opera di conoscenti. La violenza sessuale nei confronti delle donne,
contrariamente ai luoghi comuni, viene agita nel 75% dei casi da parte di una perso-
na conosciuta: marito, ex-marito, fidanzato, ex-fidanzato, partner, amico, conoscente,
collega o datore di lavoro.

303
Criminologia ed elementi di criminalistica

La materia ha ricevuto una nuova regolamentazione con la legge n. 66 del 15 feb-


braio 1996, Norme contro la violenza sessuale. Una delle maggiori innovazioni apporta-
te da tale legge è sicuramente l’introduzione di un unico delitto di violenza sessuale, re-
golato dall’art. 609-bis.
Particolare forma di stupro è quella di gruppo. Il codice penale disciplina tale fattis-
pecie all’art. 609-octies, 1° comma: la violenza sessuale di gruppo consiste nella parte-
cipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’articolo
609-bis.
Si caratterizza per essere il frutto di un preciso progetto diretto ad infliggere inten-
zionalmente alla vittima un grado di umiliazione molto elevato. Il gruppo rappresenta
l’occasione per dare sfogo alla propria crudeltà. Il fatto di agire la violenza insieme ad
altri soggetti comporta, per chi la compie, un minore senso di colpa.
Le donne sono vittime di discriminazioni e di violenze sia in tempo di pace che in
tempo di guerra; in quest’ultimo caso, la violenza carnale viene utilizzata spesso come
un’arma.
Lo stupro di guerra, soprattutto nei conflitti con un forte connotato etnico, come
quelli nei Balcani, è il mezzo per umiliare e demoralizzare il nemico attraverso la di-
struzione e la denigrazione delle donne del suo stesso gruppo. Utilizzare lo stupro come
un’arma di guerra è diventato oggi una strategia intenzionale di diversi gruppi combat-
tenti in molti conflitti armati nel mondo. Amnesty International ha più volte sottoli-
neato come la violenza colpisce in più modi le donne nei conflitti armati: le bambine
soldato sono regolarmente stuprate dai propri commilitoni; le donne e le bambine estranee
ai combattimenti vengono mutilate, stuprate e uccise come si trattasse di un’arma di
guerra; il rientro dei soldati nelle proprie case produce un ulteriore aumento della vio-
lenza domestica. I conflitti armati stanno avendo un impatto devastante sulle donne,
che va ben al di là della violenza insita nella guerra.
Ricordiamo i fatti di cronaca nei conflitti che hanno avuto luogo in Bosnia Her-
zegovina e in Ruanda negli anni ‘90, che hanno attirato l’attenzione per il forte livello
di atrocità commesso contro le donne. Nel 1993, il Centro per i Crimini di Guerra di
Zenica, aveva documentato 40 mila casi di stupro in Bosnia, ma le cifre reali sono ri-
tenute ben più alte. Gli omicidi, gli stupri sistematici e generalizzati così come le altre
forme di violenza sessuale sono stati utilizzate con lo scopo di demoralizzare il nemico
e di sterminarlo.
Purtroppo, non solo i nemici si macchiano di tali forme di crudeltà. Durante i
conflitti armati, le donne diventano vittime non solo della violenza da parte dei solda-
ti nemici, ma anche di operatori di pace e di funzionari dei programmi di aiuto, cioè di
coloro che dovrebbero invece assicurare la loro incolumità. Quando il conflitto cessa,
purtroppo, quasi mai cessano, né diminuiscono le violenze.
La violenza sessuale, soltanto di recente, viene riconosciuta come arma di guerra
in ambito internazionale.
Nell’ambito del diritto internazionale pubblico, infatti, vengono prese in conside-
razione le condizioni dei civili, i quali pagano in prima persona, molto spesso con la
propria vita, le condizioni belligeranti.
Con la Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di
guerra, del 1949, nonché i Protocolli aggiuntivi relativi alla protezione delle vittime dei

304
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione

conflitti armati internazionali e non internazionali (rispettivamente Protocollo I e Pro-


tocollo II), entrambi del 1977, vengono vietati e considerati come crimini di guerra,
indipendentemente dal fatto che vengano commessi da personale civile o militare, ogni
forma di violenza contro: la vita, la salute o il benessere fisico o psichico dei civili, in
particolare l’omicidio; la tortura, sotto qualsiasi forma, sia essa fisica o psichica; le pene
corporali e le mutilazioni; gli oltraggi alla dignità della persona, specialmente i tratta-
menti umilianti e degradanti; la prostituzione forzata e ogni forma di offesa al pudore;
la cattura di ostaggi; le pene collettive e la minaccia di commettere uno qualsiasi degli
atti sopra citati (art. 75 Protocollo I). L’art. 76 Protocollo I, nonché art. 27 Conven-
zione di Ginevra e art. 4 Protocollo II prendono in considerazione le donne, al fine di
assicurare loro una speciale protezione, in particolare, contro lo stupro, la coercizione
alla prostituzione e qualsiasi offesa al loro pudore.
Nel 1974, l’Assemblea Generale dell’ONU aveva chiesto, nella sua dichiarazione
sulla protezione delle donne e dei fanciulli in periodi d’emergenza e di conflitti armati,
un divieto di attaccare e bombardare la popolazione civile. Donne e minori avrebbero
dovuto essere risparmiati da tutti i conflitti armati, e in nessun caso si sarebbe potuto
negare loro l’accesso ad alloggio, cibo, acqua, cure sanitarie ecc. I recenti fatti in atto
in Libano mostrano come, a tali dichiarazioni di intenti e buoni propositi in tempo di
pace, non scaturiscano effetti in tempo di guerra. Il Tribunale Penale Internazionale per
la ex Jugoslavia, il 22 febbraio del 2001, ha sancito che lo stupro etnico e la schiavitù ses-
suale, usati come strumenti di terrore, sono crimini contro l’umanità.
Rientrano nelle forme della violenza sessuale, oltre allo stupro, anche le molestie ses-
suali, la tratta delle donne a scopi sessuali e le mutilazioni genitali femminili.
Per molestia sessuale si intende ogni atto o comportamento indesiderato, anche
verbale, a connotazione sessuale, arrecante offesa alla dignità e alla libertà della perso-
na che lo subisce, oppure atto che possa creare ritorsioni o un clima di intimidazioni
nei suoi confronti. Le molestie sessuali costituiscono una forma di discriminazione in
base al sesso e si possono manifestare in varie forme. La forma verbale consiste in ap-
prezzamenti verbali, aventi come oggetto la sessualità o il corpo femminile; la molestia
relazionale consta in richieste, implicite o esplicite, di rapporti sessuali; quella visiva,
quando consiste in sms offensivi, foto pornografiche lasciate in prossimità di ogget-
ti di proprietà della donna, dello spogliatoio o delle toilette femminili; infine, quella
fisica, consiste in contatti intenzionali con parti del corpo femminile. Si tratta, dun-
que, di comportamenti non graditi né sollecitati dalla donna. Rientrano nell’ambito
della molestia, le offerte, implicite o esplicite, di agevolazioni o privilegi sul posto di
lavoro in cambio di prestazioni sessuali, così come le intimidazioni, le minacce, i ri-
catti subìti dalla donna per aver respinto comportamenti maschili finalizzati al rap-
porto sessuale.
È proprio l’ambiente lavorativo il luogo dove con più frequenza si verificano le
molestie. Nel 1991, la Commissione Europea ha emanato una Raccomandazione sulle
molestie sessuali in ambito lavorativo, alla quale è stato affiancato un Codice di buo-
na condotta.
Altra forma di violenza riguarda la c.d. tratta degli esseri umani. Ancora oggi, a cau-
sa delle ingenti somme di denaro che l’accompagnano, la tratta di essere umani è am-
piamente praticata. Le vittime di questa moderna forma di schiavitù sono prevalente-

305
Criminologia ed elementi di criminalistica

mente donne, sia adulte che bambine, le quali vengono destinate prevalentemente alla
prostituzione e alla pornografia.
Solitamente, si tratta di donne provenienti da Paesi poveri e in via di sviluppo che,
attraverso la forza o l’inganno (magari con la falsa promessa di un lavoro), vengono sot-
tratte dai loro luoghi d’origine per poi essere ridotte in schiavitù nei paesi occidentali.
Spesso, tale sottrazione, avviene ad opera dello organizzazioni criminali locali.
L’Italia è attivamente impegnata nella lotta contro il traffico di donne e bambini
a scopi di sfruttamento sessuale. A tal riguardo, l’articolo 18 del Decreto Legislativo n.
286 del 2003, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazio-
ne e norme sulla condizione dello straniero, prevede la concessione di un permesso di re-
sidenza speciale alle vittime di questo commercio, e prevede la loro partecipazione ad un
programma sociale di assistenza per l’integrazione. La durata del permesso di residenza
è di sei mesi e può essere rinnovato per un anno o più.
Nel caso di tale forma di violenza sessuale esiste una forte correlazione tra discrimi-
nazione sessuale e discriminazione razziale, spesso poco discussa. In altre parole, il traf-
fico di donne è stato accompagnato spesso da atteggiamenti razzisti, frequentemente
indirizzati contro le donne appartenenti ad alcuni gruppi razziali ed etnici (per esem-
pio, donne immigrate e indigene). Ciò significa che l’ideologia razzista alimenta la ten-
denza alla mercificazione della sessualità femminile.
Quello della mutilazione genitale femminile è un tema complesso e doloroso, che
comprende molti aspetti: le relazioni di genere, la sessualità, l’assistenza sanitaria, l’istru-
zione, i diritti umani, i diritti delle donne e dei bambini, il diritto allo sviluppo.
Per mutilazioni genitali femminili (m.g.f.) si intendono una serie di pratiche, che
mirano ad alterare la conformazione degli organi genitali esterni, non per finalità tera-
peutiche, ma per controllare il piacere e il corpo delle donne. Ogni definitiva e irrever-
sibile rimozione di un organo sano è una mutilazione. In situazioni di normalità, in-
fatti, non vi è assolutamente alcuna ragione medica, morale, o estetica, per sopprimere
alcune o tutte le parti che compongono gli organi genitali femminili esterni. Viene ef-
fettuata, quasi sempre, in condizioni sanitarie abominevoli, senza anestesia e, soprat-
tutto, su bambine, anche in tenerissima età. Gli effetti sulla salute sono devastanti, e
colpiscono le donne in ogni momento della loro vita sessuale e riproduttiva. La muti-
lazione genitale femminile viene distinta in tre differenti forme: la circoncisione, la cli-
toridectomia e l’infibulazione.
Gli strumenti impiegati per compiere la m.g.f. comprendono: coltelli, lame di ra-
soi, forbici e pezzi di vetro. Raramente vengono sterilizzati prima dell’operazione, e ciò
comporta l’insorgere di cistiti, ritenzione urinaria, infezioni vaginali, oltre all’alta pro-
babilità di contrarre l’AIDS. L’anestesia non è quasi mai impiegata.
L’età della circoncisione varia tra i diversi gruppi etnici. In genere, nelle bambine,
tra i tre e gli otto anni, ma può essere eseguita tra la prima settimana di vita e i venti
anni di età. Ad esempio, in Etiopia, viene eseguita nell’ottavo giorno dalla nascita; in
Egitto, dai tre agli otto anni, nella Tribù Masai, poco dopo il matrimonio. In alcuni ca-
si, la pratica segue dei veri e propri riti con canzoni, danze, abiti speciali e cibo.
Vi sono anche determinati periodi nei quali viene eseguita la mutilazione: nelle
aree urbane, l’operazione avviene durante le vacanze scolastiche, in genere giugno o lu-
glio per permettere alle ragazze di riprendersi dall’operazione; nelle aree rurali, il perio-

306
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione

do abituale è la fine della primavera o l’autunno, perché coincide con il termine della
stagione piovosa, e le ragazze sono ben nutrite e in grado di tollerare l’operazione.
La mutilazione genitale femminile è praticata, principalmente, in Africa e in Asia,
ma è stata riscontrata anche in alcune regioni dell’America Latina (Perù, Brasile, Mes-
sico), tra le tribù aborigene dell’Australia e in Russia. Anche in occidente si assiste a tale
fenomeno, infatti, gli immigrati africani hanno portato queste usanze negli Stati Uniti
e in Europa, in particolare in Gran Bretagna.
Anche se nessuna religione prevede espressamente tali pratiche, è proprio nelle
religioni che esse trovano maggior vigore. La religione che maggiormente abbraccia
tale pratica è l’islamismo, anche se è bene sottolineare che nessuna parte del Cora-
no le menziona e che in nessuna parte può individuarsi una giustificazione. Infatti,
non tutti i musulmani seguono il costume come, ad esempio, in Arabia Saudita, Iraq,
Iran, Algeria, Marocco, Tunisia e Libia. Tale appiglio deriva dal fatto che l’islamismo,
come la maggior parte delle altre religioni, considera la sessualità femminile come un
istinto primario che deve essere controllato. La visione comune sostenuta dalle reli-
gioni è che la sessualità femminile deve essere controllata e che il sesso, avendo solo
finalità riproduttive, deve essere praticato esclusivamente tra i due coniugi. La purezza
sessuale di una donna rappresenta l’onore della famiglia, quindi, la rimozione degli or-
gani genitali femminili esterni è un provvedimento atto a ridurre il desiderio sessuale,
necessario per salvaguardare la verginità e l’onore della donna e per rafforzare la sua
fedeltà. Viene inoltre considerata necessaria per impedire la masturbazione, proibita
dalla legge islamica.
Tale fenomeno non è diffuso solo tra gli islamici, ma anche tra i cristiani e gli
ebrei. Poco hanno a che fare le religioni con tali pratiche: si tratta, infatti, di fuorvianti
interpretazioni dei principi religiosi che hanno aiutato la sua legittimazione e che pre-
suppongono una visione contorta della sessualità femminile.
La m.g.f. viene giustificata, oltre che con la religione, anche con la tradizione e
con false credenze. Ad esempio, in alcune tribù in Costa D’Avorio, si ritiene che la cir-
concisione intensifichi la fertilità, mentre, spesso, il risultato è l’opposto; altre tribù, co-
me i Dogon del Mali, credono che la clitoride sia un organo pericoloso, perché si pensa
che durante il parto, il contatto con la clitoride possa provocare la morte del nascituro;
i Bambara del Mali credono, invece, che la clitoride possa uccidere un uomo se, du-
rante il rapporto, entra in contatto con il suo pene; in Egitto, nel Sudan, in Somalia
ed in Etiopia, considerano necessaria l’asportazione della clitoride per diventare puliti
e puri.
La mutilazione genitale femminile è, ancora oggi, ampiamente praticata. Sulla base
di una quantità limitata di dati disponibili, si è stimato che, a livello mondiale, abbia-
no subìto mutilazioni genitali tra i 100 e i 132 milioni di ragazze. Ogni anno, si calcola
che circa altri 2 milioni di ragazze, di solito bambine di età compresa tra i 4 e i 12 anni,
subiranno una qualche forma di mutilazione dei genitali.
I governi hanno, adesso, l’obbligo di adottare le misure necessarie per abolirla,
quale effetto degli impegni, da loro assunti, sottoscrivendo la Convenzione sui Diritti
dell’Infanzia.
Anche lo Stato italiano si è trovato nella necessità di dover affrontare il fenomeno
a causa delle numerose migrazioni degli ultimi anni. In Italia, vivono migliaia di don-

307
Criminologia ed elementi di criminalistica

ne infibulate e, ogni anno, numerose bambine con genitori provenienti soprattutto dai
paesi dell’Africa sub-sahariana rischiano di essere sottoposte a questo rituale. Sarebbero
oltre 40 mila nel nostro Paese le donne che hanno subìto mutilazioni sessuali e, ogni
anno, almeno 6 mila bambine di età compresa fra i 4 e i 12 anni sono sottoposte a que-
sto tipo di violenza.
Al fine di prevenire, contrastare e reprimere pratiche intollerabili che colpiscono
bambine e adolescenti, e che violano i fondamentali diritti della persona, primo fra tut-
ti quello all’integrità fisica, è stata emanata la legge n. 7 del 9 gennaio 2006, recante:
disposizioni concernenti “la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione geni-
tale femminili, […] in attuazione degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione e di quanto
sancito dalla Dichiarazione e dal Programma di azione adottati a Pechino il 15 settem-
bre 1995 nella quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne […], così
come dichiara l’articolo 1 della suddetta legge”.
Tale norma prevede, all’articolo 6, l’introduzione nel codice penale di due nuovi
articoli: l’art. 583-bis, intitolato: “pratiche di mutilazione degli organi genitali femmini-
li”, che prevede la reclusione da 4 a 12 anni a carico di chi praticherà la mutilazione, e
che tale pena verrà aumentata di un terzo se la mutilazione viene compiuta su una mi-
norenne, nonché in tutti i casi in cui viene eseguita per fini di lucro; e l’art. 583-ter,
pena accessoria.
Il provvedimento prevede, inoltre, la predisposizione di campagne informative ri-
volte agli immigrati provenienti dai paesi in cui sono effettuate tali pratiche, in modo
da diffondere la conoscenza dei diritti fondamentali della persona e il divieto vigente in
Italia delle pratiche di mutilazione genitale femminile.

14.3 Donne e violenza intrafamiliare


La violenza intrafamiliare si caratterizza per essere agita, di solito, da uomini che
con le vittime hanno o hanno avuto un rapporto di fiducia, intimità o potere. Tale fe-
nomeno annovera tra le sue vittime: figli, moglie, ascendenti in linea retta ed, eventual-
mente, gli altri membri della famiglia, quali fratelli o sorelle del coniuge.
Tra le vittime della violenza, senza alcuna ombra di dubbio, i soggetti più indifesi
sono i figli minori. Tra questi, le bambine si trovano a subìre, già da piccole, alcune for-
me di discriminazione. Si pensi, ad esempio, alle società nelle quali si attribuisce molto
valore ai figli di sesso maschile; in tali contesti, la discriminazione contro le bambine
può assumere forme estreme quali gli aborti per selezionare il sesso del nascituro. La
conseguenza di tale provvedimento è stata una crescita sproporzionata dell’aborto selet-
tivo dei feti femminili e, dunque, uno squilibrio numerico tra i sessi.
Secondo i risultati del lavoro svolto dal Centro di Ricerca Innocenti dell’UNICEF,
in India, sono stati rilevati 10.000 casi di infanticidio femminile all’anno. La cifra non
prende in considerazione il numero di aborti effettuati al fine di prevenire la nascita di
un bambino. Un’altra indagine ufficiale in Cina ha messo in evidenza che, con la po-
litica del figlio unico, il 12% di tutti gli embrioni di sesso femminile viene eliminato
con l’aborto o in altro modo.

308
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione

In molti Paesi in via di sviluppo, principalmente l’Asia del Sud, l’Africa del Nord,
il Medio Oriente e la Cina, le bambine ricevono meno cibo dei bambini. In tali Pae-
si, la mancanza di attenzioni e di cure, provocata dalla discriminazione tra bambine e
bambini, rappresenta la principale causa di malattia e di morte delle prime tra i due e
i cinque anni di età.
Non solo nei Paesi in via di sviluppo, ma anche nei paesi industrializzati, i soggetti
della violenza familiare sono soprattutto le donne, coniugate o conviventi, i figli e gli
ascendenti in linea retta.
Per quanto riguarda la relazione marito-moglie, le maggiori violenze possono essere
distinte in: psicologica, fisica, economica e sessuale.
Di solito, la violenza che viene compiuta sulla donna, in ambito familiare, non è
unica ma, contemporaneamente o in tempi successivi, convergono su di lei varie forme
di maltrattamento. Si caratterizza, quindi, per essere un fenomeno abbastanza comples-
so: tutte le molteplici forme (sessuale, fisica, psicologica e economica) si intrecciano
l’una con l’altra, tanto che risulterebbe alquanto difficile, nel caso concreto, individua-
re dettagliatamente le diverse forme.
Il danno arrecato alla donna sarà tanto più irreversibile quanto più la violenza si
protrae nel tempo e quanto più la vittima è isolata da una rete relazionale.
È violenza fisica ogni forma di intimidazione o azione in cui venga esercitata una
aggressione fisica su un’altra persona. Ma non riguarda esclusivamente quest’ultimo ti-
po di aggressione, che causa ferite richiedenti cure mediche di emergenza, ma anche
ogni contatto fisico mirante a spaventare e a rendere la vittima soggetta al controllo
dell’aggressore.
Tali comportamenti possono essere evidenti, come spintonare, costringere nei mo-
vimenti, privare del sonno, bruciare con le sigarette, privare di cure mediche, rompere
oggetti come forma di intimidazione, sputare contro, dare pizzicotti, tirare calci o pu-
gni, strappare i capelli, l’essere chiusi in una stanza o fuori di casa, l’essere tenuti for-
zatamente svegli o minacciati con un arma; altre sono più sottili e si rivolgono a qual-
cosa a cui la donna tiene (animali, oggetti, vestiti, e così via), o ai mobili della casa, o a
qualcosa che le è necessario (i documenti, il permesso di soggiorno). Si tratta di vere e
proprie dimostrazioni di forza o di crudeltà.
Tra i maltrattamenti fisici rientrano, pure, le pratiche tradizionali che recano danno
alle donne: mutilazione dei genitali femminili e l’ereditabilità della moglie (la pratica di
trasmettere in eredità la vedova e tutte le sue proprietà al fratello del marito deceduto).
In definitiva, per violenza fisica si intende ogni forma di aggressione contro la don-
na che abbia per oggetto il suo corpo e le sue proprietà. Nessuna di tali forme può e deve
essere sottovalutata, e deve essere valutata all’interno del contesto dove si compie.
L’aggressore agisce senza un motivo ben determinato, ciò mette la vittima in una
situazione di soggezione continua, poiché, non sa mai in quale momento verrà aggre-
dita e, qualsiasi motivo, può essere un pretesto scatenante.
È soprattutto la strategia della paura, più che i maltrattamenti fisici, che tengono
la donna in uno stato di timore costante. La componente psicologica più pesante, in-
fatti, consiste nell’imprevedibilità dell’aggressione. Pertanto, la vittima potenziale con-
suma ogni energia per evitare accuratamente ogni comportamento che potrebbe pro-
vocare una reazione aggressiva verbale o fisica del partner. La mancanza di controllo

309
Criminologia ed elementi di criminalistica

sulla propria incolumità fisica determina uno stato di incertezza e difficoltà permanen-
te che porta la donna a cercare di compiacere il partner per evitare che si verifichino
episodi violenti.
In ambito penale, la violenza fisica comprende tutti i tipi di lesioni personali (ex
art. 582 c.p.), le percosse (ex art. 581 c.p.), i maltrattamenti in famiglia (ex art. 572
c.p.), fino al tentato omicidio o all’omicidio (ex art. 575 c.p.).
Quando si parla di violenza psicologica, si fa riferimento a ogni comportamento
volto a intimidire e perseguitare la donna o a isolarla. Si pensi alle minacce di abban-
dono o di maltrattamenti, alla minaccia di allontanamento dai figli, alle aggressioni
verbali, alle continue umiliazioni, alla distruzione degli oggetti che hanno un valore
affettivo per lei, alle persecuzioni telefoniche e al controllo della posta. Per cercare di
isolarla, le si impedisce di lavorare, di andare in chiesa, di incontrare gli amici e gli altri
membri della famiglia, la si obbliga a rimanere in casa senza telefono e senza la dispo-
nibilità di un’auto.
La violenza psicologica accompagna sempre la violenza fisica e la prepara, anche
quando non degenera, verso questo tipo di maltrattamento.
Il messaggio che passa attraverso il maltrattamento psicologico è che, colui il quale
ne è oggetto è persona priva di valore. Ciò induce chi lo subisc, ad accettare, in seguito,
altri comportamenti violenti. Si tratta di atteggiamenti che si insinuano gradualmen-
te nella relazione e che finiscono, inconsciamente, per essere assecondati dalla donna,
senza che ella riesca a percepire quanto le siano dannosi. Allo stesso tempo, il maltratta-
mento psicologico procura una grande sofferenza, e, parte del dolore provato, dipende dal
non riuscire a dare un nome a questo stato di grave disagio: la donna continua a sentirsi
confusa e sofferente, ma senza capirne il perché. Le donne possono non rendersi conto
che quello che stanno subendo è un vero e proprio maltrattamento.
La violenza psicologica si configura come un insieme di strategie lesive della liber-
tà e dell’identità personale dell’altro, con conseguente insicurezza, paura e svalutazio-
ne di sé.
In questo tipo di maltrattamento, è sempre presente un’eccessiva responsabilizza-
zione della donna, che si attiva per far fronte a tutti i compiti e le richieste che le vengo-
no fatte dall’abusante, nella continua speranza di non adirarlo e dimostrare la propria
adeguatezza come partner e come madre. Anche se meno percepibile rispetto alle altre,
la continuata violenza psicologica, la tortura emotiva e la vita passata nel terrore, sono
spesso più insostenibili della brutalità fisica; e lo stress mentale provoca un’alta inciden-
za di suicidi e tentativi di suicidio.
In ambito penale, si possono ricondurre a tale forma di violenza, i reati di: lesione
(ex art. 582 c.p.), quando cagionano una malattia del corpo e della mente; ingiuria (ex
art. 594 c.p.); violenza privata (ex art. 610 c.p.); minacce (ex art. 612 c.p.); maltratta-
menti in famiglia (ex art. 572 c.p.); e il reato di sequestro di persona (ex art. 605 c.p.).
È violenza economica nell’ambito familiare, ogni condotta diretta a controllare e
limitare l’indipendenza economica della moglie. Con tale comportamento si vuole im-
pedire che la moglie diventi, o possa diventare, economicamente indipendente in mo-
do da poter esercitare su di essa un controllo indiretto, ma estremamente efficace. La
donna viene privata del diritto di decidere e agire autonomamente e liberamente rispet-
to ai propri desideri e scelte di vita.

310
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione

Tale forma di maltrattamento, può essere attuata mediante molteplici compor-


tamenti, quali: privare la moglie delle informazioni relative alla propria condizione di
reddito; non contribuire alle spese domestiche; impedire la ricerca di un lavoro o del
suo mantenimento; privare o controllare lo stipendio; costringere la donna a firmare
contratti o garanzie senza fornire le informazioni rispetto ai rischi e alle procedure di
rivalsa; costringerla a contrarre debiti; tenerla in una situazione di privazione econo-
mica continua; intestare tutti i beni a nome proprio o a nome dei propri familiari per
impedire ogni accesso legale ai beni comuni; rifiutarsi di pagare un congruo assegno di
mantenimento o costringerla ad umilianti trattative per averlo; licenziarsi per non pa-
gare gli alimenti.
Non sempre la donna ha una chiara percezione della violenza economica di cui è
vittima. La violenza economica trapela come uno degli aspetti di un quadro di violen-
za più complesso, emergendo concretamente nel momento in cui la donna decide di
iniziare un nuovo percorso di allontanamento dalla relazione distruttiva di maltratta-
mento.
Dal punto di vista penale, alla violenza economica, si possono ricondurre i reati di:
violazione degli obblighi di assistenza familiare (ex art. 570 c.p.); maltrattamenti in fami-
glia (ex art. 572 c.p.); violenza privata (ex art. 610 c.p.).
La violenza sessuale non è solo quella perpetrata da estranei. Anche se compiuta da
parte del marito, si configura come un delitto contro la libertà personale. Con il matri-
monio, infatti, i coniugi non acquisiscono il diritto di poter disporre a loro piacimento
del corpo dell’altro; nessun dovere coniugale obbliga a non disporre liberamente e se-
condo la propria volontà il proprio corpo. Anche all’interno del rapporto di coppia si
può verificare lo stupro, ciò tutte le volte in cui si ha l’imposizione di rapporti sessuali
non graditi, di pratiche indesiderate o di rapporti che comprendano in essi il far male
fisicamente o psicologicamente. Solitamente, tale violenza è accompagnata sia da quel-
la fisica (la messa in atto dello stesso mediante la forza ), che da quella psicologica (otte-
nere un rapporto sessuale mediante ricatti psicologici).
La violenza sessuale da parte del coniuge è un fenomeno molto grave ma che diffi-
cilmente viene portato alla luce. Le vittime, raramente, trovano il coraggio di denun-
ciare il proprio partner, anche perché trattasi di un genere di violenza che, a differenza
dei maltrattamenti fisici, lascia segni meno percepibili. Il timore di non essere credute
o delle conseguenze di una denuncia, oltre alla necessità di mantenere unita la famiglia,
sono i motivi che inibiscono la donna a denunciare il marito che le ha usato violenza.
Occorre sottolineare come le vessazioni sessuali e lo stupro ad opera di un partner
non sono considerati reato nella maggioranza dei paesi del mondo, e in molte società,
le donne non considerano il sesso forzato come stupro se sono sposate, o coabitano,
con chi glielo impone. Indagini svolte in molti paesi dimostrano che circa il 10/15 %
delle donne riferisce di venire costretta ad avere rapporti sessuali con il partner, contro
la propria volontà.
Tale forma di violenza trova regolamentazione nell’articolo 609-bis e seguenti del
c.p., come nell’ipotesi di violenza agita da estranei.

311
Criminologia ed elementi di criminalistica

14.4 L’uxoricidio
Dal latino uxor-oris, che significa moglie, con il termine uxoricidio, ci si riferisce, in
senso restrittivo, all’assassinio della moglie da parte del marito ma, in generale, con esso si
fa riferimento all’uccisione di uno dei due coniugi per mano dell’altro consorte.
Uno dei primi e interessanti studi scientifici sul tema dell’uxoricidio in Italia è sta-
to condotto nei primi anni ‘80, prendendo in considerazione, secondo un approccio
multidisciplinare (medico, psichiatra, psicologo, assistente sociale, educatore), 27 de-
litti che sono transitati nel Centro di Osservazione di Roma-Rebibbia nel periodo di
tempo compreso tra il 1955 ed il 1975.
Dall’analisi di questi casi, emersero alcuni dati degni di attenzione relativamente
all’autore del delitto, alla famiglia d’origine di quest’ultimo e alla vita all’interno del-
l’istituzione matrimoniale.
Dall’Indagine Istituzionale condotta dal centro Eures per l’anno 2000, è emerso
come il più alto numero di fatti di sangue, consumatisi tra le mura domestiche, si regi-
stri tra i coniugi con una percentuale del 27,7 %. Elevato è anche il numero degli omi-
cidi a carattere passionale che avvengono tra gli ex-coniugi o ex-partner con una per-
centuale dell’8,9 %, guadagnando così un quarto posto dopo l’uccisione dei genitori
da parte dei figli (15,0 %) e dei figli per mano dei genitori (12,7 %). I delitti a sfondo
passionale si consumano soprattutto nelle regioni del Centro e del Sud, con le rispettive
percentuali del 44,4 % e del 32,2 %. Per quanto concerne il sesso, a farne maggiormen-
te le spese sono le donne che, si è già visto, essere le vittime privilegiate di omicidi in
ambiente domestico con una percentuale del 58,7 % contro un 41,3 % degli uomini.
Oltre ai delitti a sfondo passionale, compiuti di impulso o forse covati sordamen-
te, il maggior numero di omicidi all’interno della coppia, di solito, è il risultato di una
separazione: in particolare, nel caso in cui non ci sono figli, tale separazione può essere
motivata dall’interesse economico e trattasi di omicidi molto rari; sono, invece, più dif-
fusi quei delitti che avvengono in coppie con figli in seguito ad una separazione.
Come emerge, infatti, da un’analisi statistica relativamente agli anni 2002 e 2003,
gli autori di omicidio sono per lo più uomini, con una percentuale dell’87,5 % e solo il
12,5 % sono donne. Inoltre, queste ultime costituiscono il 52,5 % delle vittime contro
un 37,5 % degli uomini.
La maggioranza di donne quali vittime di omicidio, la si può anche spiegare risalen-
do al diffuso clima di violenze e di maltrattamenti di cui, ancora oggi, continua ad essere
bersaglio la donna. Si parte, per esempio, dal maltrattamento psicologico e/o fisico e ses-
suale e si innesca come un circolo vizioso dal quale diventa difficile per lei uscire.
Un altro fattore che contribuisce all’aumento dei delitti familiari, con la donna
quasi sempre nel ruolo di vittima, è relativo al rapporto di struttura della società: il fat-
to che, oggi, marito e moglie lavorino, ha provocato non pochi problemi in seno alla
famiglia, la quale non ha trovato un sostegno adeguato nella nostra società e nelle isti-
tuzioni, e la coppia è stata costretta a decidere di troncare il rapporto. Le separazioni,
inoltre, implicano il dovere affrontare processi molto lunghi e faticosi che scatenano
aspri e duri contrasti e che, a volte, possono portare al delitto.
Come emerge dalle statistiche italiane, in una relazione conflittuale di coppia, so-
no soprattutto le donne a rimanere vittime di omicidio per mano del partner. In Italia,

312
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione

o comunque nei paesi occidentali, questi omicidi possono essere il risultato di continui
e ripetuti maltrattamenti o di separazioni non accettate o di gelosie o di interessi eco-
nomici. In altre parti del mondo, invece, una donna finisce per essere vittima di omi-
cidio da parte del partner, per altri motivi, difficili da comprendere per noi occidentali,
in possesso di una cultura totalmente opposta alla loro.
Prevalentemente nei paesi dove la maggioranza della popolazione è musulmana
(Bangladesh, Egitto, Giordania, Libano, Pakistan, Turchia), ma non solo limitatamen-
te ad essi, viene praticato il delitto d’onore, che consiste nell’uccisione della donna da
parte del partner maschio o da parte di un altro membro maschio della famiglia (pa-
dre, zio, fratello, ecc.), poiché sospettate di un comportamento considerato vergo-
gnoso o disonorevole. In più, nei processi penali, gli assassini vengono giustificati o
condannati a pene ridotte e viene rimproverato alla donna di tenere un comporta-
mento osceno. In quest’ultimo, non solo si annovera l’effettiva colpa di adulterio del-
la donna ma, anche il solo sospetto che una donna abbia una relazione sentimentale
non consentita dalla sua famiglia e dalla società: scambiare un sorriso o una parola
con un giovane che passa sotto casa, per una ragazza, può essere letale; avere prima
del matrimonio rapporti sessuali con l’uomo che si dovrà sposare è dannosissimo per
la donna, che rischia di essere uccisa se solo uno dei membri maschi della famiglia
lo viene a scoprire o ne abbia il sospetto. L’onore della famiglia è sacro, inviolabile e
deve essere protetto e difeso anche dal sospetto di infedeltà. Tale modus vivendi che
discrimina il sesso femminile viene giustificato nel nome di Allah e presentato come
legge islamica; in realtà si tratta di pure mistificazioni, infatti, il delitto d’onore è una
pratica pre-islamica, senza un reale presupposto religioso e si devono ricercare le sue
origini nel karo kari, una pratica tribale che prevede la morte per qualunque perso-
na sia sospettata di avere una relazione illecita. In Giordania, il paese dove tali delit-
ti sono più frequenti, gli assassini rischiano solo da tre a dodici mesi e non sempre
vengono arrestati, o perché riescono a fuggire, o perché giustificati come suicidi o
incidenti.
Nel caso in cui vengono presi dei provvedimenti, si tratta solo di sanzioni spro-
porzionatamente miti, specialmente se il responsabile ha meno di 18 anni. Le vittime
sopravvissute a tentativi di omicidio sono costrette a vivere sotto custodia protettiva in
prigione o in case di sorveglianza o di correzione a volte per anni, sapendo che rinun-
ciarvi significherebbe la morte per mano della famiglia. Mentre, chi minaccia la vita
di queste donne, gode della più completa libertà. L’indulgenza che viene praticata nei
confronti di questi carnefici è inammissibile: ciò succede perché il delitto d’onore non è
considerato un reato ma un giusto castigo per queste donne. Sono donne infelici e so-
le, soprattutto dentro le proprie famiglie, usate, sfruttate fino ad essere accusate di un
peccato di infedeltà che non hanno commesso e punite per un diritto che non viene
loro riconosciuto: il diritto a vivere.
Senza dovere andare troppo lontano nel tempo e nello spazio, anche nella nostra
cultura era d’uso il delitto d’onore. Il sistema di valori che vigeva fino a poco tempo fa
(anni ‘50 e ‘60) nelle famiglie italiane, soprattutto del centro-sud, obbligava i mariti, i
padri e i fratelli a sorvegliare rispettivamente le mogli, le figlie e le sorelle per smasche-
rare e ostacolare qualsiasi relazione illegittima e nemmeno il sistema legislativo puniva
tali atroci delitti.

313
Criminologia ed elementi di criminalistica

La legge a favore del cosiddetto delitto d’onore venne promulgata durante il fasci-
smo: il Codice Rocco, all’art. 587, prevedeva la riduzione di un terzo della pena nei
confronti di chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore suo
e/o della famiglia.
È solo dopo gli anni ‘70, successivamente alle battaglie a favore del divorzio e del-
l’aborto, e dopo la riforma del diritto di famiglia nel 1975, che si comincia a fare stra-
da una maggiore coscienza di cambiamento fino ad ottenere, il 5 Agosto 1981, con la
legge n. 442, l’abrogazione del matrimonio riparatore e del delitto d’onore.
Ancora oggi, come si legge dalle cronache, gli omicidi tra coniugi continuano ad
essere praticati ma l’espressione delitto d’onore ha lasciato il posto a ben altre locuzioni
(follia, delitti passionali, delitti per gelosia) che vogliono mostrare la progressiva tra-
sformazione verificatasi nel corso degli anni verso un modello di vita, di famiglia e di
coppia più democratico, basato sulla fiducia reciproca e sulla pari dignità tra uomo e
donna

14.5 I Centri anti-violenza


Le Nazioni Unite sono il primo organismo che, nel 1985, sottolinea la gravità del-
la violenza contro le donne, e che, cinque anni più tardi, riconosce come la violenza
contro le donne nel contesto familiare sia il crimine nascosto più diffuso nel mondo.
La Conferenza Mondiale sui Diritti Umani, tenutasi a Vienna nel 1993, oltre a
proclamare l’universalità e l’inalienabilità dei diritti umani delle donne, auspica che
ogni Stato assuma l’obbligo di proteggere le donne e si impegni per la scomparsa della
violenza contro le stesse.
La tutela della donna, e la sua protezione dalla violenza, è oggetto di una serie di
convenzioni internazionali. Si ricordi la Convenzione sull’eliminazione di ogni for-
ma di discriminazione nei confronti della donna, del 1979, la quale impegna gli Stati
firmatari a condannare qualsiasi forma di discriminazione e, inoltre, a promuoverne
l’eliminazione con tutti i mezzi adeguati.
Tra gli obblighi che vengono assunti dagli Stati contraenti, l’articolo 5 impegna
questi ultimi ad adottare ogni provvedimento adeguato al fine di modificare gli schemi
e i modelli di comportamento socio-culturale degli uomini e delle donne e giungere a
un’eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che
siano basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro
sesso o sull’idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne.
Anche l’Assemblea Generale dell’ONU, in varie risoluzioni, ha chiaramente mo-
strato la propria volontà di non tollerare ulteriormente la violenza sulle donne. A tal
riguardo, dopo la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza nei confronti delle don-
ne del 1993, l’Assemblea ha approvato ulteriori importanti dichiarazioni. Nel 1998,
con la dichiarazione Crime prevention and criminal justice measures to eliminate violen-
ce against women, ha sollecitato gli Stati ad affrontare seriamente e in maniera globale
la lotta alla violenza sulle donne; nel 2003, con un’altra dichiarazione, Elimination of
domestic violence against women, ha auspicato una maggiore attenzione e impegno per

314
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione

l’eliminazione della violenza domestica. Nel 2004, invece, un’ulteriore dichiarazione,


Working towards the elimination of crimes against women and girls committed in the name
of honour, condanna i reati d’onore perpetrati contro donne e minori.
La Commissione Europea, nel 1997, avvia la sperimentazione di un’iniziativa co-
munitaria volta a combattere la violenza contro le donne, gli adolescenti e i bambini:
Daphne. Si tratta di un’iniziativa pilota che promuove e finanzia progetti transnazionali
in collaborazione con enti pubblici contro la violenza. L’idea base è di costruire un ba-
gaglio di buone prassi contro la violenza e di incrementare e sviluppare studi sul feno-
meno e reti a livello europeo tra chi opera sul territorio .
La situazione italiana registra una legislazione contro la violenza sessuale ferma al-
l’istituzione di politiche quadro, da rimandare alle istanze regionali contro la violenza
domestica. Il decentramento ha, comunque, incoraggiato lo sviluppo, a livello locale,
di numerose esperienze di integrazione tra politiche sociali e/o di pari opportunità, ge-
stite da associazioni di donne, contro la violenza. Azioni che sono finanziate attraverso
l’istituzione di appositi capitoli di bilancio nelle finanze degli enti locali.
Nel 1997, la direttiva del Consiglio dei Ministri, riprendendo gli obiettivi della
conferenza di Pechino, realizza un’indagine sistematica sulla violenza alle donne, for-
nendo il primo quadro conoscitivo del fenomeno. Riconoscendo la categoria della vio-
lenza domestica all’interno del Piano Sanitario Nazionale 1999-2002, gli interventi
contro la violenza alle donne sono stati inseriti nelle leggi sull’assistenza socio-sanita-
ria. Nelle realtà locali, inoltre, si sono concretizzate esperienze di reti di intervento che
coinvolgono tutti gli attori che operano nel territorio: Forze dell’Ordine, sanità, servizi
sociali, associazioni. È soprattutto grazie all’attività svolta da tali Associazioni che negli
ultimi anni il fenomeno della violenza contro la donna è venuto alla ribalta: non è più
considerato un affare di famiglia, ma un problema che merita di essere risolto. Si deve a
tali associazioni la creazione dei primi centri di accoglienza e delle strutture per l’ospi-
talità delle donne in difficoltà. Se da una parte, i vari organismi internazionali affronta-
no la questione e se anche i governi locali non si tirano indietro, tuttavia, il lavoro più
importante viene svolto dalle diverse associazioni che operano sul campo e alle quali si
deve la nascita dei centri antiviolenza.
La nascita dei centri anti-violenza è dettata dalla sempre più crescente esigenza del
movimento femminista di affrontare il gravoso problema della violenza contro le don-
ne ed avviare una più ampia riflessione sulla questione. Basti riflettere come, con lo svi-
lupparsi della coscienza dei propri diritti da parte delle donne, sia emerso il fenomeno
della violenza intrafamiliare, per molti anni sommerso.
In Italia, i primi centri anti-violenza nascono alla fine degli anni ‘80, successiva-
mente ad un dibattito iniziato a metà degli anni ‘70 sulla legge contro la violenza sessuale.
Dalla questione del riconoscimento legislativo della violenza contro le donne, si passò
al problema dell’attivazione di servizi idonei a rispondere ai problemi individuali che
questa pone ed, infine, all’ampliamento dell’interesse dalla violenza sessuale a quella
domestica.
I primi centri di Bologna e Milano adottano come modello di riferimento quello
già utilizzato da decenni e con successo in Europa e in Canada. In seguito all’apertura
della prima casa a Bologna e del primo centro di accoglienza a Milano, si sviluppano
altri centri e case, in prevalenza nel centro-nord.

315
Criminologia ed elementi di criminalistica

Molti di questi centri nascono come organizzazioni di volontariato, dove alcune


donne mettono a disposizione la propria professionalità per accogliere altre donne che
si trovano in momentanea difficoltà a causa del maltrattamento e della violenza subìta.
Tali centri, inoltre, offrono alla donna maltrattata e violentata un percorso terapeutico
affinché sia loro possibile uscire dalla solitudine e dalla frustrazione ed assumere pro-
prie responsabilità per un futuro in autonomia.
Nel sud Italia, a causa del difficile contesto socio-economico, i centri anti-violenza
ritardano a nascere, rispetto al vicino nord: ciò, tuttavia, ha permesso la costruzione di
azioni molto significative che si misurano costantemente con le varie difficoltà, espri-
mendo prassi forti e progettuali.
Ai centri anti-violenza si deve quell’importante attività che ha permesso la rileva-
zione del fenomeno. A tal riguardo, bisogna ricordare come non vi sia stata, né in am-
bito pubblico né in quello privato, alcuna rilevazione del fenomeno della violenza, e
non siano stati pensati strumenti per la rilevazione della stessa. Ciò, purtroppo, non
ha permesso, e non permette, una circoscrizione e un’analisi più attenta del fenomeno
tanto da poter ricavare stime più attendibili sulla sua diffusione. Per tale motivo, è stata
importantissima l’attività di raccolta di dati svolta da tali centri che, seppur limitata, ha
permesso di avere dati sui quali lavorare.

14.6 Trattamento delle donne vittime di violenza


I vari centri, nel porre l’accento su un elemento piuttosto che su un altro, si so-
no differenziati per l’attività di relazione che svolgono con le donne che hanno su-
bìto violenza. Ciò è da ricondurre alla diversa storia ed evoluzione dei gruppi originari
dai quali i vari centri sono venuti alla luce e, soprattutto, è da ricondurre all’incon-
tro con altri saperi, modelli, conoscenze e contesti in cui le differenti esperienze so-
no fiorite.
L’approccio alla donna da parte dei diversi centri si è arricchito, infatti, grazie ad
un modo di accostarsi, sempre più complesso, alla tematica del maltrattamento e alle
sue dinamiche, senza dimenticare l’apporto e l’integrazione di altri modelli di lettura.
Ciò si evince da un interesse comune per lo sviluppo dei centri di documentazione e
ricerca, all’interno delle case e dei centri di accoglienza, che grande risalto danno all’in-
treccio tra teoria e pratica.
Generalmente, la donna che si rivolge ad un centro anti-violenza ha il primo con-
tatto con le operatrici tramite conversazione telefonica. Per quanto concerne l’approc-
cio metodologico, che generalmente regola questi centri, un primo aspetto da rilevare,
apparentemente poco significativo, è dato proprio dai tempi di risposta degli stessi in
seguito al primo contatto telefonico. È sembrato utile, a tal riguardo, rilevare se l’in-
tercorrere di un periodo di sospensione tra la telefonata e il primo colloquio, o l’even-
tuale risposta immediata, corrispondano a una prassi prestabilita, oppure siano il risul-
tato di un processo di analisi e di valutazione affinato, che consenta di differenziare le
situazioni realmente urgenti da quelle che possono avvalersi di una pausa, un periodo
di sospensione.

316
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione

Quest’ultimo, è volto a verificare la reale maturazione interna di una richiesta di


aiuto da parte della donna. In merito a ciò, sono stati rilevati due orientamenti diver-
si. Da un lato, alcuni centri, come quelli di Modena e Bologna, si regolano in base alle
disponibilità delle operatrici, per cui può verificarsi che la donna venga accolta il gior-
no dopo il primo contatto telefonico, oppure nel momento stesso in cui essa giunge al
centro, senza che sia preventivamente fissato un appuntamento. In tali casi, il primo
colloquio viene effettuato in mancanza di una preventiva valutazione sulla reale urgen-
za della situazione vissuta dalla donna e nessun significato viene dato al tempo di attesa
che va dal primo approccio telefonico al primo colloquio materiale. Dall’altro lato, in-
vece, vi sono altri centri, come quelli di Milano, Firenze e Palermo, i quali sottolinea-
no quanto il loro agire, sin dal primo contatto, sia accompagnato da un attento esame
della pericolosità reale delle situazioni e dell’esigenza di una pausa di maturazione dalla
richiesta telefonica: ciò, in quelle circostanze in cui non sembrano ravvisarsi situazio-
ni di urgenza. Questo perché si vuole evitare che la donna, spinta dalle emozioni tem-
poranee, si rivolga al centro senza essere ancora pronta, ma, soprattutto, giunga al pri-
mo contatto visivo con gli operatori con la ferma volontà di intraprendere la strada del
cambiamento. Non sono rari, infatti, i casi di donne che non si presentano all’appun-
tamento poiché, inibite dalla paura del cambiamento, tornano sui propri passi. Proprio
per tale motivo, alcuni centri posticipano l’instaurazione del rapporto con la donna, in
quanto tale insicurezza può causare ancora più danni.
Alcuni centri danno moltissima importanza al primo contatto telefonico, duran-
te il quale, in alcuni casi, l’operatore si occupa di compilare una scheda informativa
contenente determinate informazioni che permetteranno all’operatore di poter meglio
analizzare la singola posizione. Scendendo, poi, nel dettaglio, i vari centri si possono
differenziare in base al tipo di informazioni richieste al telefono. In genere, oltre ad an-
notare alcuni dati anagrafici viene rilevato il tipo di problema prospettato dalla don-
na e se, in passato, la stessa abbia già cercato di uscire dalla situazione di violenza. Tali
schede vengono a formare un vero e proprio archivio che permette agli operatori di po-
ter meglio analizzare la donna che richiede l’assistenza, attivandosi una vera e propria at-
tività di studio del singolo caso. Altri centri, infine, preferiscono compilare tale scheda
durante il primo colloquio tenuto presso il centro.
Sebbene siano diverse le modalità di intervento dei singoli centri, si può tuttavia
sottolineare come essi perseguano un obiettivo comune: vale a dire il ribaltamento della
posizione di vittima della donna che subisce violenza a quello di protagonista del nuo-
vo percorso di vita che si accinge a percorrere.
Strumento elettivo è la relazione: non una relazione d’aiuto qualsiasi, ma una rela-
zione di genere, fondante un luogo (i centri e le case) e una pratica politica di gruppo,
considerata l’unico mezzo efficace per combattere la violenza.
Entrando più in dettaglio su alcune questioni metodologiche, è stato rilevato che,
nonostante la relazione sia per tutti di primaria importanza, non vi è uniformità tra i
diversi centri per ciò che attiene alla modalità di conduzione dei colloqui.
Innanzitutto, il colloquio d’accoglienza si basa su alcuni punti fermi, quali: la rela-
zione tra operatrice e vittima della violenza, la non colpevolizzazione della stessa e la
proposizione di un progetto di vita che nasce dal desiderio di cambiamento della don-
na che proprio per questo scopo si rivolge al centro.

317
Criminologia ed elementi di criminalistica

Uno degli strumenti che permettono di rileggere il lavoro fatto, è la raccolta dei
dati attraverso la scheda del colloquio, la cui funzione pratica è quella di razionalizzare il
lavoro del centro e rendere più semplice la ricerca e la conservazione delle informazioni.
Serve, anche, da contenimento e guida nel colloquio, rende confrontabili alcuni casi e
situazioni, dà valore e visibilità al colloquio d’accoglienza che viene, in questo modo,
almeno per alcuni aspetti, reso anche misurabile. La scheda attraverso cui si articola il
colloquio è, sicuramente, uno strumento attivo nello studio del fenomeno e inoltre è
anche attraverso questa raccolta di dati che si conserva la memoria e il senso del lavoro
che il centro fa, e come questo si evolva nel tempo.
Il colloquio d’accoglienza, oltre a servire alle donne che si rivolgono al centro per un
cambiamento di vita e per uscire dalla violenza, è anche uno strumento di studio. Esso
permette di entrare nel cuore del problema e di verificare alcune ipotesi di ricerca. Al
fine di un’analisi scientificamente corretta del fenomeno della violenza familiare che
rimane ancora oggi un problema tanto grave quanto sommerso, occorrono dati di rife-
rimento il più possibile omogenei e leggibili. La violenza di genere rimane ancora na-
scosta all’interno della struttura familiare, dove la sua presenza è negata dalle stesse vit-
time: spesso, neanche le donne che la vivono, si rendono pienamente conto di ciò che
realmente succede né attraverso quali canali se ne perpetua l’esistenza. Svolgere un’in-
dagine in questo complesso territorio è molto difficile e necessita che si faccia emergere
con più chiarezza il problema in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più oscuri, utiliz-
zando efficaci strumenti d’indagine in un’accurata analisi quantitativa.
Merita, inoltre, una riflessione, la questione della metodologia di lavoro con don-
ne che hanno subìto violenza e che sono ospiti delle case-rifugio. Laddove sono più
stretti i rapporti tra il centro e le case, specie al momento dell’ingresso, vi è una mag-
giore attenzione al percorso che la donna deve intraprendere; infatti, attraverso una
valutazione congiunta, tra il responsabile del centro e quello delle case, deriverà una
decisione finale, quale pre-condizione essenziale all’inserimento in struttura. In merito
agli aspetti legati alla quotidianità, in alcuni casi si preferisce che sia l’operatrice della
casa ad occuparsene, mentre l’operatrice del centro continua a seguire la donna in acco-
glienza nel suo percorso di uscita dalla violenza, mantenendo, per i colloqui, un assetto
ubicato fuori dalla casa, ossia presso il centro. Dunque, se da un lato in alcuni centri
si mantiene tale assetto, in altri, l’intreccio tra centro e casa è solo iniziale, rimanendo
l’operatrice di quest’ultima l’unico riferimento della donna ospite. Vi è, infatti, una dif-
formità tra l’intervento del centro di accoglienza e quello delle case. Vi è un rapporto di
scambio, di segnalazione, ma non viene concordato un progetto comune.
La valutazione dell’ingresso è fatta dall’operatrice della casa, così come tutto il
percorso successivo, molto centrato sul rinvenimento di strumenti concreti per la co-
struzione di autonomia delle donne, e condotto dalla stessa operatrice, in assoluta in-
dipendenza dal centro, potendosi, però, avvalere, se presenti, di alcuni consulenti dei
centri, quali avvocati e psicologi.
Le donne che vivono presso le case-rifugio sono obbligate a rispettare una serie di
regole. La trasgressione più grave al regolamento rimane, per tutte le case, quella del-
la segretezza. Rivelare la segretezza del luogo di rifugio può pregiudicare l’intero percorso
formativo non solo della donna che ha trasgredito ma di tutto il gruppo delle donne convi-
venti. Per tale motivo, i responsabili considerano importante valutare, al momento del-

318
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione

l’ingresso, la percezione, da parte della donna, della pericolosità rispetto alla propria si-
tuazione, nonché della sua capacità di auto-tutela fortemente lesa dal maltrattamento.
L’indirizzo della struttura è segreto, e il riferimento pubblico è quello del centro di
accoglienza. La casa offre ospitalità temporanea a donne sole o con bambini per un pe-
riodo massimo di sei mesi; il possibile prolungamento di permanenze per altri sei mesi
a supporto del progetto concordato con la donna è valutato e deciso del responsabile
della casa, sentito il servizio sociale territoriale di riferimento del Comune.
L’attivazione dell’ospitalità si determina, allorquando, sia necessario l’allontana-
mento della donna e dei minori dalla casa coniugale a causa di una situazione di pe-
ricolo e a supporto di un percorso progettuale di risoluzione del rapporto violento.
Obiettivo dell’ospitalità è di concorrere congruentemente alla realizzazione del proget-
to di vita elaborato e concordato con la donna. Si tratta di fornire un luogo protetto a
garanzia dell’incolumità della donna a rischio, ma soprattutto di assicurare uno spazio
tempo di sospensione dell’agito conflittuale violento, che possa favorire nella donna
l’elaborazione e l’esplorazione per giungere a una ridefinizione di sé, al di fuori di un
rapporto violento.
Se non si fanno le opportune valutazioni, l’ingresso nella casa può essere, però, ri-
schioso perché può ostacolare il percorso della donna mortificandone le sue risorse au-
tonome.
È prevista la possibilità di effettuare ingressi urgenti. Si tratta di quei casi in cui il
rischio per l’incolumità della donna e dei minori è talmente alto da non essere compa-
tibile con il protrarsi della permanenza presso la casa coniugale. In queste situazioni,
l’ospitalità è immediata e vengono riservati i quindici giorni successivi all’ingresso per
effettuare il lavoro di analisi della condizione soggettivo-emotiva della donna. Questi
sono gli ingressi più problematici a causa della scarsa possibilità elaborativa dell’accadi-
mento traumatico e dello stato di choc.
Una spinosa questione riguarda le donne che presentano gravi manifestazioni psi-
copatologiche o tossicomaniche: la scelta metodologica è stata quella di non accogliere
queste donne, al di là dell’ipotesi eziologica abbracciata, che spesso rintraccia nella sto-
ria di maltrattamento l’origine dei disturbi. Inoltre, l’esclusione di donne che presenti-
no gravi manifestazioni di marca psicotica è da ricondurre anche alla specificità dell’in-
tervento che queste situazioni richiedono.

319
PARTE seconda

ELEMENTI DI CRIMINALISTICA
CAPITOLO 15

La criminalistica

15.1 La criminalistica e le sue origini


Il 1800 è stato, certamente, un secolo fecondo per la criminalistica; il pensiero po-
sitivista suggeriva d’indagare la realtà con la precisione e il rigore scientifici.
In questo clima di fiducia verso la scienza, non è raro trovare scienziati che si in-
teressino di investigazioni.
Su questo scenario, emerge il fenomeno letterario del poliziesco, in cui l’investi-
gatore non è più uno dei personaggi necessari alla trama ma è il protagonista. Illustri
esempi della nuova figura sono quelli creati prima da Edgard Alan Poe e successiva-
mente da Sir Artur Conan Doyle (1859-1930). Nascono, con Dupin e Holmes, i pri-
mi ragionamenti logico-deduttivi e induttivi, avvalendosi delle innovazioni scientifiche
e tecnologiche per raggiungere i loro fini, tali da potere essere considerati come crimi-
nalisti.
La fermentazione razionale in atto, mette in luce Alphonse Bertillon (1853-1914);
quest’ultimo era figlio di Louis, vicepresidente della Società di Antropologia di Fran-
cia, e suo fratello maggiore Jacques era un demografo. Il salotto di casa Bertillon era
frequentato da scienziati di chiara fama e, probabilmente, anche Alphonse avrebbe in-
trapreso la carriera accademica se non fosse stato colpito da una febbre tifoidea che lo
costrinse a lasciare gli studi universitari.
Bertillon, a ventisei anni, dopo varie esperienze lavorative, lavorando nella Prefet-
tura di Polizia di Parigi, superando non pochi contrasti e diffidenze, dopo poco tem-
po, introduce il sistema d’identificazione personale antropometrico, basato sul principio
scientifico secondo cui l’ossatura umana non subisce modificazioni apprezzabili, se
non per cause traumatiche, dopo il compimento del ventesimo anno d’età.
Inoltre, secondo gli studi statistici di Quetelet (1791-1874), riportati nel testo dal
titolo: Antropometrie eu mesure des differentes facultes de l’homme, nell’uomo, ogni mi-
sura ricorre solo in percentuale fissa, quindi, più alto è il numero delle misure assunte,
tanto più bassa è la probabilità che due soggetti le presentino tutte uguali.
Il segnalamento antropometrico fu seguito da quello descrittivo, a cui diede il no-
me di ritratto parlato, che doveva servire agli investigatori per poter memorizzare i con-

323
Criminologia ed elementi di criminalistica

notati dei ricercati; successivamente, realizzò il segnalamento fotografico e, a tal fine,


studiò e costruì, come aveva fatto per l’antropometria, vari attrezzi e accorgimenti per
dare uniformità alle riprese e, per dare maggior valenza scientifica alle fotografie, vi in-
serì un riferimento metrico.
Nel 1893, Bertillon era riuscito a custodire nell’archivio del Servizio d’Identità
giudiziaria di cui era direttore, ben 500.000 cartellini segnaletici; il metodo antropo-
metrico, dallo stesso introdotto, e ancora oggi soprannominato Bertillonage, si impone-
va come il sistema di identificazione più funzionale e utilizzato da tutte le Polizie.
Contemporaneamente, faceva i primi passi quello che sarà il futuro metodo d’iden-
tificazione personale per antonomasia, il c.d. metodo dattiloscopico.
Marcello Malpighi (1628-1694), nel 1686, aveva già descritti i vari strati del der-
ma e le figure che apparivano sui polpastrelli.
Nel 1823 Jan Evangelista Purkinje (1787-1861) aveva pubblicato un volume, dal
titolo De examne Physiologico organi visus et systematis cutanei, in cui affermava che le
impronte papillari sono riconducibili a nove figure fondamentali.
William Herschely, funzionario inglese in servizio nel Bengala, per impedire dop-
pie riscossioni di pensioni, faceva apporre le impronte a coloro i quali si presentavano,
e ciò, anche, per acquisire una sorta di ricevuta della somma.
Henry Faulds (1843), medico scozzese trapiantato a Tokyo, raccoglieva e studiava
le impronte digitali dei domestici e degli avventori dei bar; nei salotti eseguiva un gioco
di società che consisteva nell’identificare la persona che aveva bevuto da un dato bic-
chiere e, vista la sua predisposizione in tale campo, veniva consultato dalla Polizia locale
per risolvere eventi delittuosi.
Sir Galton (1822-1911), medico dai mille interessi, spaziando dall’antropologia
alle ascensioni in mongolfiera, teneva salotto nella sua casa londinese, facendo parteci-
pare agli incontri illustri biologi, filosofi, geografi e antropologi.
Nell’ambito, poi, dell’Esposizione Universale di Londra del 1884, aveva allestito
un padiglione in cui, aiutato dal fedele Sergente Randal, previo pagamento, il soggetto
era sottoposto a rilievi antropometrici; ne era misurata, la vista, l’udito, la forza musco-
lare, la prontezza dei riflessi e, tra l’altro, anche, assunte le impronte digitali; gli veniva
rilasciato un diploma in cui si attestavano le risultanze delle misure effettuate. In real-
tà, la metodologia descritta era destinata a formare un grande archivio rappresentativo
delle varie fasce sociali, etnie, d’età e sesso, mediante il quale, potevano essere studiate
le impronte digitali. Questo studio lo portò alla conclusione che tutte le impronte era-
no riconducibili alle quattro figure fondamentali: adelta, monodelta, bidelta e composta,
ancor oggi ritenute tali.
Sebbene avesse investite molte energie nella realizzazione di una classifica dattilo-
scopica, indispensabile per poter ordinare e rintracciare le impronte assunte e quindi
identificare il soggetto, non aveva trovato, tuttavia, un metodo valido e soprattutto spe-
dito.
Dove gli sforzi di Galton non erano giunti, in pochi mesi, al contrario, J. Wucetick
(1855-1913), responsabile del servizio statistica della Polizia Argentina, nel cui ambito
era inserito l’Ufficio d’identificazione di La Plata, elaborò, la prima classifica dattilosco-
pica, adottata ufficialmente, dopo cinque anni di vicissitudini, dallo Stato argentino,
il 1° gennaio 1896.

324
La criminalistica

Nel 1900, Edward Richard Henry (1850-1931), funzionario inglese in servizio


nell’India britannica, realizzava la classifica dattiloscopica più utilizzata, a livello mon-
diale, sino all’avvento dell’A.F.I.S..
Anche se Bertillon continuava a rimanere ancorato all’antropometria, un elevato
numero di Polizie utilizzava il metodo d’identificazione dattiloscopico, sia per la sempli-
cità d’assunzione e di classificazione, che per il più ampio campo d’applicazione.
Infatti, mentre l’antropometria, all’epoca, era valida a livello preventivo, a patto
che il soggetto avesse compiuto il ventesimo anno d’età, la dattiloscopia poteva essere
applicata anche a livello giudiziario, tenuto conto dell’immutabilità, nel tempo, delle
c.d. creste papillari.
Alla fine del XIX secolo, l’Italia meridionale, in particolare modo la Campania,
era sconvolta dal fenomeno del brigantaggio che, in tutta la penisola, era un fatto en-
demico, ma che in quel contesto, stava assumendo contorni politici di restaurazione;
proprio nella Questura di Napoli, nel 1892, il medico legale Abele De Blasio, chiese
al questore Sangiorgi di allestire, a proprie spese, un gabinetto antropometrico. Ottenu-
ta l’autorizzazione, costruì, nel cortile della Questura, una baracca in cui fotosegnalava
pregiudicati, eseguendo il primo confronto fotografico, in Italia, di un malavitoso.
Allo scopo di aggiornare le tecniche di contrasto dell’emergente criminalità, in
Roma, nel 1887, il Prefetto Giovanni Bolis, con R.D. N°1201, fu autorizzato a tene-
re un corso pratico di perfezionamento per funzionari di P.S., che si tenne presso l’ex
convento di Sant’Andrea delle Fratte. Dalle fonti dell’epoca, si apprende che furono
effettuati soltanto due corsi, ognuno dei quali frequentato da 35 funzionari di varie
qualifiche.
Nel 1886, venne organizzato a Roma il Congresso Penitenziario e tra gli ospiti
d’onore vi era Bertillon, il quale, nel suo intervento, illustrò l’importanza dell’antropo-
metria come metodo d’identificazione personale.
Intanto, Cesare Lombroso (1836-1909) aveva elaborato le sue teorie sull’uomo
criminale presso la cattedra di Medicina Legale all’Università di Torino.
Quasi tutte le Polizie avevano laboratori di criminalistica, e l’Italia sentì la necessi-
tà di rinnovare le proprie metodiche investigative, dando ad esse maggior certezza con
l’ausilio della scienza.
Il Ministro dell’Interno Giovanni Giolitti (1841-1928), accogliendo il suggeri-
mento del Capo della Polizia, Francesco Leonardi, inviò, nel 1901 un viceprefetto a
Parigi con l’incarico di prendere visione delle metodologie attuate da Bertillon che, no-
nostante l’affermazione della dattiloscopia, continuava a essere il faro dell’ormai con-
solidata criminalistica.
A seguito di questa missione, si decise di tenere a Roma dei corsi di Polizia Scienti-
fica. Il primo corso si tenne presso la sala riconoscimenti del carcere Regina Coeli a cui
parteciparono 35 funzionari di P.S.; l’incarico di docente fu dato al Medico Legale Pro-
fessor Salvatore Ottolenghi, assistente universitario di Lombroso. Nel 1893, diventa
titolare della cattedra di Medicina Legale presso l’Università di Siena, dove, nel 1896,
tenne un corso di Polizia Scientifica. Sempre nel 1893, unitamente al Funzionario di
P.S. Ostorero, aveva proceduto all’identificazione di un anarchico, utilizzando tecniche
fotografiche. Nel 1897, unitamente al Funzionario di P.S. Giuseppe Aloni, fonda la
Rivista di Polizia Scientifica.

325
Criminologia ed elementi di criminalistica

Il 25 ottobre 1903, organizza il secondo corso di Polizia Scientifica, a cui parteci-


pano, soltanto, 14 funzionari di P.S., presso le carceri nuove site in Via Giulia; lo stes-
so anno, realizza la cartella biografica, sorta di foglio matricolare del criminale, in cui
venivano annotati, oltre agli elementi propri del cartellino fotosegnaletico (descrizione,
fotografie e impronte digitali), tutti quegli elementi oggettivi che possono far risaltare
meglio la personalità del soggetto, dal comportamento scolastico alla precisazione del-
le eventuali specializzazioni conseguite durante il periodo militare, dall’elencazione di
tutti i parenti, amici e amanti a tutte le frequentazioni criminali e penitenziarie, abitu-
dini criminali, sociali e personali.
Soltanto nell’aprile del 1904, si ebbe una sistematicità nei fotosegnalamenti. Tali
operazioni, venivano eseguite presso i locali di Via Giulia, e oltre ai detenuti, venivano
fotosegnalati anche i fermati e gli arrestati dalla Questura di Roma che aveva la sua se-
de in Piazza del Collegio Romano, nell’attuale sede del Commissariato di P.S. di Trevi,
nel cui piazzale antistante, oltre a carrozze e auto di servizio, per regolamento comuna-
le, doveva sostare, giorno e notte, almeno una botticella (denominazione romana delle
caratteristiche carrozze da noleggio di piazza ancor oggi circolanti), e un taxi a disposi-
zione dei Funzionari di P.S..
L’Ottolenghi, creò un gruppo di lavoro costituito da funzionari di P.S.; ad ognuno
di essi assegnò un settore da sviluppare ed organizzare:

- a Giovanni Gasti, il campo della ormai affermata dattiloscopia;


- a Umberto Ellero, la fotografia;
- al suo Assistente Universitario Giuseppe Falco, la parte descrittiva e antropometri-
ca.

Gasti, dovendo organizzare il casellario d’identità, prese in esame i lavori già esegui-
ti in tal campo, sia dagli argentini che avevano realizzata la prima classifica al mondo,
che dagli inglesi, che avevano eseguiti i primi studi sull’argomento, ma non trascurò di
prendere visione dell’organizzazione che si erano dati gli austriaci. Sarebbe stato mol-
to più semplice adottare uno di questi sistemi, ma egli volle realizzare, personalmente,
l’originale sistema decadattiloscopico che prese il suo nome, e risulta ancora in uso presso
la Polizia Scientifica italiana.
Ellero realizzò vari dispositivi fotografici, sia nel campo del segnalamento, sia in
quello del sopralluogo. Giova ricordare il metodo originale con cui affrontò l’esigenza
di ottenere riprese fotografiche del soggetto di fronte e di profilo in un’unica espres-
sione. Usava due macchine fotografiche poste a 90°, i cui otturatori erano azionati
contemporaneamente da un sistema pneumatico, che venne denominato come siste-
ma delle gemelle Ellero.
Nel campo del sopralluogo, ideò e realizzo un cavalletto telescopico che permetteva
all’apparecchio fotografico di sopraelevarsi di oltre sei metri, infatti, all’epoca non era
passata di moda la foto dall’alto ed i grandangolari non erano molto spinti; tale attrez-
zo venne denominato cavalletto Ellero.
Ellero non si limitò soltanto a realizzare dispositivi fotografici, ma eseguì espe-
rimenti di teleiconotipia, il telefax dell’epoca, realizzando un metodo di trasmissione
dell’immagine che denominò ellerogramma che, pur permettendo di trasmettere im-

326
La criminalistica

magini di buona qualità, era estremamente lento (circa quattro ore per trasmettere una
fotosegnaletica).
Nel 1907, la Scuola di Polizia Scientifica ottenne una nuova e più consona sede.
Lo stesso anno, Ottolenghi, dopo aver rivisto e regolato tecnicamente l’attività di foto-
segnalamento, iniziò ad inviare circolari aventi per oggetto la metodologia corretta per
assumere le impronte digitali; istruzioni che nel 1910 formeranno oggetto di un’elegan-
te, e oggi ricercata, pubblicazione, a cura del Ministero dell’Interno, che venne distri-
buita, in modo capillare, a tutti gli Uffici di Polizia; a cura dello stesso Ufficio, il 24 ot-
tobre dello stesso anno, venne emanata la famosa circolare Fani, in cui venivano dettate
tutta una serie di prescrizioni sul corretto modo di eseguire l’ispezione del luogo del reato.
L’anno successivo, la nascente Polizia Scientifica iniziò a eseguire i sopralluoghi.
La Polizia Scientifica italiana era partita in leggero ritardo rispetto alle consorel-
le straniere, ma guadagnava terreno e prestigio a vista d’occhio: nel 1908, erano già
funzionanti ben 11 Gabinetti di Polizia Scientifica, mentre la Francia, alla stessa data,
ne aveva soltanto tre: a Parigi, Lione e Marsiglia. Con R.D. del 20.8.1909, il corso di
Polizia Scientifica era stato reso obbligatorio per tutti i Funzionari di P.S., ed era sta-
to stabilito che detto corso doveva avere una durata minima di tre mesi. L’instancabile
Ottolenghi riesce ad ottenere altri, attigui locali ma, l’organico è solo di undici perso-
ne. Il direttore coordina e indirizza l’attività del gruppo e cura i rapporti internaziona-
li; nel 1912, nel corso di un convegno internazionale entra in polemica con i colleghi
Edmond Locard e Reis, infatti, quest’ultimi asserivano che la nascente criminalistica
doveva investigare esclusivamente sul reo, mentre Ottolenghi propugnava che dovesse
estendere il proprio ambito, interessandosi anche del reato.
Intanto, l’Ottolenghi aveva messo a punto una metodica analitica, analoga al ritrat-
to parlato di Bertillon, ma applicata al sopralluogo, metodo usato ancor oggi da tutti i
criminalisti che eseguono diuturnamente l’esame della scena del crimine.
La direzione dei laboratori d’identità francesi erano ancora diretti da Bertillon nei
quali rimarrà sino al 13 febbraio 1914, quando morì, dopo aver accumulato onori, pre-
stigio, gloria e fama eterna, ma senza la soddisfazione di vedersi concedere la Legion
d’Onore, a causa della sua irremovibile posizione sul caso Dreyfus.
L’avvento della Grande Guerra porta dei cambiamenti nel gruppo di lavoro costi-
tuito da Ottolenghi; Gasti, viene chiamato a dirigere il nuovo organismo investigativo
per la sicurezza interna denominato U.C.I. e, mettendo a frutto le conoscenze crimina-
listiche, consegue brillanti risultati contro le organizzazioni spionistiche. Al settore so-
pralluoghi, si dedicano i valenti funzionari Sorrentino e Giri che conseguono risultati
notevoli.
In Francia, Locard, rendendosi conto dell’importanza di dare valore aggiunto, ma
soprattutto oggettività, ai rilievi fotografici, nel 1920, realizza un’embrionale, ma ori-
ginale, metodo fotogrammetrico, costituito da reticoli sovrapponibili.
Ottolenghi, pur essendo direttore della Polizia Scientifica, continua ad essere tito-
lare della cattedra di Medicina Legale della Sapienza e continua a intrattenere rapporti
ad altissimo livello col mondo accademico e scientifico, sino a fondare la rivista di me-
dicina legale, Zacchia, in ricordo del medico legale che, nel lontano 1650, eseguiva già
autopsie in Roma. Il Casellario Centrale d’identità era un sicuro punto di riferimento
per tutte le forze di Polizia; il fenomeno della tratta delle bianche, molto sentito all’inizio

327
Criminologia ed elementi di criminalistica

del secolo, venne affrontato, su indicazione della nascente Interpol, con il R.D. luogo-
tenenziale 1207, che disponeva l’istituzione, presso il suddetto casellario, di uno sche-
dario delle prostitute straniere.

15.2 La Polizia Scientifica


Partendo dalle intuizioni scientifiche dell’Ottolenghi (1902), la Polizia di Stato ha
maturato la sua esperienza nei quasi 100 anni di presenza sul territorio nazionale, avva-
lendosi della presenza di nuove figure professionali (biologi, chimici, fisici, ingegneri,
medici legali, psicologi ecc.), sviluppando, in tal modo, questa nuova struttura operati-
va che risponde al nome di Polizia Scientifica. Essa si avvale, inoltre, di strumentazioni
d’avanguardia, e di continue collaborazioni con Dipartimenti Universitari, al fine di
assicurare un sempre maggiore sostegno alle attività istituzionali, per tutte le esigenze
dell’Autorità Giudiziaria, compreso (a titolo gratuito), l’espletamento di incarichi di
consulenza e perizia. La P.S. è articolata in un servizio centrale con sede a Roma pres-
so la Direzione Centrale della Polizia Criminale, in 14 Gabinetti Regionali, dislocati
presso i principali capoluoghi di regione, in 89 Gabinetti Provinciali presenti in tutti i
capoluoghi di provincia, e in 197 Posti di Segnalamento e Documentazione ubicati nei
più importanti Commissariati di Pubblica Sicurezza.
Il Servizio Centrale di Polizia Scientifica è strutturato in 4 Divisioni:

- Prima Divisione: affari generali, indagini speciali e studi;


- Seconda Divisione: identità;
- Terza Divisione: indagini medico-legali e biologiche;
- Quarta Divisione: indagini fisiche, chimiche e merceologiche.

La Prima Divisione

Sezione Prima: Attrezzature Tecniche, Documentazione e Trattamenti Fotografici.


Si occupa di materie tradizionalmente inerenti la Polizia Scientifica, come il foto-
segnalamento e la documentazione a fini identificativi. L’importante settore attrezzature
tecniche e materiali si occupa della programmazione e della pianificazione degli acqui-
sti di apparati specialistici, dei materiali indispensabili per le esigenze dei laboratori,
nonché dell’istituzione e dell’ampliamento di nuovi uffici periferici.
Il settore fotosegnalamento e documentazioni speciali, invece, si occupa dell’identi-
ficazione personale a fini giudiziari e di polizia. Nei vari laboratori che lo compongo-
no, ci si occupa di sviluppo e stampa del materiale inerente l’attività di polizia giudi-
ziaria, particolari documentazioni video e fotografiche, trattamento delle pellicole e
collaudi di apparecchiature videofotografiche, riproduzione dei cartellini segnaletici
(fotodattiloscopici) e riproduzione fotografica delle impronte latenti evidenziate con
metodi fisici e chimici. All’interno della prima sezione, opera l’archivio, che, avvalen-
dosi di supporti informatici, tratta la protocollazione, archiviazione e gestione degli
atti del servizio.

328
La criminalistica

Sezione Seconda: Indagini Speciali.


Organizzata in 4 settori denominati Progetti Speciali, si occupa di:

- esame della scena del crimine (E.S.C);


- analisi della scena del crimine (A.S.C);
- analisi delle informazioni (A.I);
- analisi del comportamento (A.C).

L’insieme di questi 4 settori, costituisce l’U.A.C.V. (l’Unità per l’Analisi del Cri-
mine Violento). Scopo dell’Unità, è supportare gli organismi investigativi e l’Autorità
Giudiziaria nel caso, di omicidi senza apparente movente, negli omicidi di carattere se-
riale o di particolare efferatezza e nel caso di violenze a sfondo sessuale riconducibili a
un unico autore, attraverso un’attività di studio, analisi ed elaborazione di tutte le in-
formazioni disponibili, relative al particolare evento criminoso.
L’informatica, e più specificatamente diverse tipologie di software, subentrano a
dare ulteriore manforte a questa Unità: S.C.I.P.S. (Sistema Centrale Informativo di Po-
lizia Scientifica), per mezzo del quale tutti gli Uffici del Servizio possono scambiarsi da-
ti tecnici, immagini ed ogni tipo di informazioni. S.A.S.C. (Sistema per l’Analisi della
Scena del Crimine). La Sezione Indagini Speciali ha progettato e realizzato autonoma-
mente questo sistema per supportare le attività dell’A.I. e dell’A.C. Il S.A.S.C. è un ar-
ticolato sistema informativo in grado di gestire, in forma multimediale, e di collegare o
correlare, anche automaticamente, le informazioni sottoposte all’esame dell’U.A.C.V.
Sezione Terza: Didattica, Biblioteca e Pubbliche Relazioni.
Il settore didattica cura l’organizzazione e lo svolgimento dei corsi di specializzazio-
ne di Polizia Scientifica, per il conseguimento della qualifica di Videofotosegnalatore e
Dattiloscopista, riservati al personale della Polizia di Stato.
Il settore biblioteca si occupa dell’acquisto di volumi specialistici e della gestione
della Biblioteca del Servizio. Le Pubbliche Relazioni si occupano di organizzazione e
svolgimento di visite da parte di richiedenti italiani e stranieri.

La Seconda Divisione

Sezione Prima: Identità Preventiva.


La Sezione comprende il Casellario Centrale d’Identità, l’archivio completo di dati
personali della Direzione Centrale della Polizia Criminale, al quale pervengono i cartel-
lini fotosegnaletici redatti dagli Uffici della Polizia di Stato, dall’Arma dei Carabinieri,
dalla Guardia di Finanza e, tramite Interpol, dalle Polizie straniere. Al suo interno, si
svolgono ricerche dattiloscopiche per l’identificazione di persone precedentemente se-
gnalate con medesime o con diverse generalità (alias).
Sezione Seconda: Identità Giudiziaria.
La Sezione provvede all’identificazione degli autori di reato attraverso frammenti
di impronte, digitali o palmari, rilevati sul luogo del delitto.
Sezione Terza: Indagini Grafiche.
La Sezione effettua accertamenti su manoscritti, dattiloscritti e su documenti rea-
lizzati con stampanti collegate a personal computer.

329
Criminologia ed elementi di criminalistica

L’A.F.I.S. (Automatic Fingerprint Identification System) è quel complesso tecnologi-


co specializzato nella gestione automatizzata delle impronte digitali dato che la crimi-
nalistica moderna attribuisce all’esame delle impronte papillari (digitali e palmari) una
determinante valenza per l’identificazione personale.
Il software analizza ogni cartellino o frammenti inseriti, rileva i punti caratteristici
di ogni impronta (codifica), le cosiddette minutiae, confronta l’impronta del dito indi-
ce (per velocizzare la ricerca) con quelle di tutti i cartellini presente nella base dati; evi-
denziando infine, la lista dei probabili candidati.

La Terza Divisione

Sezione Prima: Indagini Medico-Legali.


La Sezione si occupa dell’identificazione dei resti scheletrici (diagnosi sulle specie,
sesso, razza, età e individualità) dei cadaveri in fase di studio.
Inoltre, rileva le impronte digitali, in caso di cattiva conservazione del cadavere, uti-
lizzando la tecnologia laser-scanner.
Interviene nell’attività patologica-forense sul territorio nazionale, in caso di rinve-
nimento di cadaveri sconosciuti, di vittime di disastri o in occasioni di grandi sciagure.
Sezione Seconda: Indagini Biologiche.
La Sezione articolata in numero di 3 settori, effettua analisi su reperti biologici co-
stituiti da sostanza ematica, liquido seminale, saliva, formazioni pilifere e resti umani.
Tramite tecniche e macchinari all’avanguardia, si svolgono analisi sul DNA sia nuclea-
re che mitocondriale.

La Quarta Divisione

Sezione Prima: Indagini foniche, videoregistrazione e telesorveglianza.


La Sezione, articolata in 5 settori, provvede, su specifica richiesta degli Organi In-
vestigativi Centrali, Periferici e dell’Autorità Giudiziaria, al riconoscimento del par-
lante, ad effettuare servizi di intercettazione telefonica, ambientale, cellulare e fax, alla
localizzazione di emissioni radio, alla bonifica di ambienti, ad appostamenti video-fo-
tografici, all’installazione di microtelecamere e al pedinamento elettronico.
Sezione Seconda: Indagini Balistiche.
La Sezione si occupa:

- dell’identificazione di documentazione e classificazione di armi, cartucce, bossoli e


proiettili rinvenuti a seguito di episodi delittuosi, utilizzando le varie e delicatissi-
me attrezzature presenti nei vari laboratori;
- degli accertamenti tecnici, diretti a verificare l’efficienza e la funzionalità delle ar-
mi in sequestro (mediante l’impiego di dinamometri, cronografi balistici, sonde
endoscopiche a fibbre ottiche, nonché di sistemi di video registrazioni applica-
ti);
- delle prove tecniche di natura comparativa su bossoli e proiettili, repertati in seguito
ai sopralluoghi e agli esami autoptici (supportati da microscopi comparatori ottici
e da attrezzature fotografiche computerizzate).

330
La criminalistica

La Sezione si avvale, peraltro, del S.A.I.B., ovvero il Sistema Automatizzato per le


Indagini Balistiche; codesto sistema è basato su un database che memorizza i dati alfa-
numerici relativi alle informazioni tecniche e investigative, alle indagini relative alle ca-
ratteristiche delle armi dei bossoli e dei proiettili (palla unica e spezzato), permettendo,
poi, le relative ricerche incrociate.
Sezione Terza: Indagini Fisiche.
La Sezione si divide in 3 specialità:

- il settore Revisioni dello sparo si occupa della ricerca e della relativa analisi delle
tracce di particelle generate dallo sparo di armi da fuoco su superfici di varia natu-
ra (carta, indumenti, cute, ecc.).
- il settore Esplosivistica cura: l’analisi di eplosivi integri, nonchè affini, come de-
tonatori, micce e dispositivi similari (per classificarli e stabilire la provenienza), lo
studio dei residui di esplosione (sottoposti a processi di estrazione e purificazione
messi a punto per isolare eventuali tracce) e trattamenti chimico-elettrolitici per la
rigenerazione dei numeri di matricola obliterati sulle armi da fuoco.
- il settore Analisi inorganiche provvede, invece, alla identificazione di solidi cristalli-
ni; inoltre, analizza e opera le comparazioni morfologico-compositivo tra campio-
ni solidi di terreni, vernici, vetri ecc.

Sezione Quarta: Indagini Chimiche.


La Sezione indagini chimiche si occupa dell’analisi delle sostanze inserite nelle ta-
belle del T.U 309/90 sulla disciplina delle sostanze stupefacenti e psicotrope. L’attivi-
tà, tuttavia, si estende anche all’identificazione di altre sostanze che rivestono interesse
tossicologico (sostanze da taglio, sottoprodotti di origine e di lavorazione presenti nello
stupefacente e qualità e quantità dei principi attivi).
Sezione Quinta: Indagini Merceologiche.
La Sezione è articolata in tre settori e si occupa della natura chimico-fisica sui re-
perti appartenenti a numerose classi di materiali.
Il settore Falso documentario e nummario accerta l’autenticità di documenti di iden-
tità e di banconote (alterazioni e contraffazioni), mediante verifica degli elementi di
sicurezza.
Il settore Incendi, svolge attività di sopralluogo e repertazione finalizzata all’in-
dividuazione delle cause degli stessi (ricerca ed individuazione di tracce di sostanze
infiammabili, specie acceleranti o idonee a mantenere la combustione), attraverso il
punto di innesco, e sue modalità, nonché, la ricostruzione della dinamica di propa-
gazione.
Il terzo settore, Fibre, vernici e materiali plastici, si occupa di effettuare esami tec-
nico-specifici su tutta una serie di materiali di largo utilizzo nella società, che, però,
vengono a coesistere durante fatti o eventi di natura criminosa.
Sezione Sesta: Esaltazione Impronte Latenti.
La Sezione si occupa della evidenziazione delle impronte papillari latenti, presenti
sulle superfici dei reperti sequestrati in occasione di episodi delittuosi. La Sezione in-
terviene, anche, in caso di disastri (aerei, navali, ferroviari,ecc.) per raccogliere i dati
utili al riconoscimento delle vittime.

331
Criminologia ed elementi di criminalistica

Per una suddivisione interna, che dipende dal tipo di analisi svolte, questa Sezione
è articolata in 2 settori denominati chimico e fisico.
Alla luce di tutto quanto fin qui esposto, si evince l’enorme importanza delle fun-
zioni svolte da parte della Polizia Scientifica, non solo a servizio della Magistratura e
della ricerca della verità, ma soprattutto come valido strumento per i singoli cittadini,
offesi e oltraggiati dal crimine.

15.3 RACIS e RIS


Il Raggruppamento Carabinieri Investigazioni Scientifiche (Ra.C.I.S.) è la strut-
tura preposta a soddisfare le richieste di indagini tecnico-scientifiche di P.G., dei Re-
parti dell’Organizzazione Territoriale e Speciale dell’Arma, della Magistratura e delle
altre Forze di Polizia. Il Raggruppamento svolge, nei casi più gravi e delicati, anche l’at-
tività di Sopralluogo e Repertamento sulla scena del crimine.
Il Raggruppamento Carabinieri Investigazioni Scientifiche è organizzato come se-
gue:

- un reparto denominato di Addestramento, deputato alla formazione e alla qualifi-


cazione del personale nel settore delle investigazioni scientifiche;
- un reparto di Analisi criminologiche, preposto ad attività di suppporto alle indagi-
ni, mediante la ricerca di elementi di connessione/analogia con altri fatti delittuosi
e valutazione del profilo criminologico degli autori dei delitti; all’effettuazione di
studi e ricerche sulle tecniche di esame della scena del crimine e all’aggiornamento
di una banca dati sui crimini violenti;
- un Reparto Tecnico, deputato ad attività di sperimentazione e controllo di qualità.

I Reparti Investigazioni Scientifiche (RIS)

Dal Raggruppamento dipendono quattro Reparti Investigazioni Scientifiche con


sede a Roma, Parma, Messina, Cagliari, retti da Ufficiali Superiori e posti alle dipen-
denze del Generale Comandante del Raggruppamento. La competenza dei quattro Re-
parti è determinata per territorio e per materia:

- il Reparto di Roma è competente ad eseguire le indagini tecniche di prassi nell’am-


bito dell’Italia Centrale e di quelle di maggiore complessità in ambito nazionale;
- il Reparto di Messina è competente a eseguire le indagini tecniche di prassi nell’am-
bito dell’Italia meridionale e della Sicilia;
- il Reparto di Parma è competente a eseguire le indagini tecniche di prassi nell’am-
bito dell’Italia settentrionale;
- il Reparto di Cagliari è competente a eseguire le indagini tecniche di prassi nell’am-
bito della Sardegna.

I Reparti sono articolati in Sezioni responsabili delle singole branche della Cri-

332
La criminalistica

minalistica, quali: balistica, biologia, chimica degli esplosivi e degli infiammabili, dat-
tiloscopia e fotografia giudiziaria, fonica e grafica, telematica.

Le Sezioni Investigazioni Scientifiche (SIS)

Ai quattro Reparti Investigazioni Scientifiche sono affiancate 29 Sezioni Investi-


gazioni Scientifiche (SIS) che costituiscono, a livello interprovinciale, l’organo tecnico-
scientifico, specializzato nell’attività di sopralluogo e repertamento sulla scena del cri-
mine e nelle indagini tecniche relative alle sostanze stupefacenti. Le SIS includono i
laboratori per l’analisi delle sostanze stupefacenti, il personale addetto ai rilievi tecni-
ci e gli artificieri/antisabotaggio, inquadrati nei Reparti Operativi dei Comandi Pro-
vinciali.

15.4 UACV
Negli omicidi cosiddetti seriali, in tutti quei casi in cui i delitti sono commes-
si senza un apparente movente o che sono di particolare efferatezza e nelle rapine che
in genere tendono ad essere seriali, interviene l’Unità per l’analisi del crimine violento,
(UACV).
Istituita nel 1995, la struttura, è formata da ispettori, fisici, chimici, biologi, psico-
logi, periti balistici, grafici, disegnatori, informatici e si inserisce all’interno della Dire-
zione Centrale di Polizia Criminale. L’Uacv si articola in varie diramazioni territoriali
che comprendono centri regionali di Polizia Scientifica, 14 gabinetti regionali dislocati
nei capoluoghi italiani (Padova, Milano, Torino, Firenze, Bologna, Roma, Ancona, Na-
poli, Bari, Reggio Calabria, Catania, Palermo, Cagliari) e 89 gabinetti provinciali.
Si tratta di un dipartimento specializzato nel crimine violento che si occupa, in
particolare, dell’esame e dell’analisi della scena del crimine, delle informazioni e del com-
portamento criminale. Quando avviene un delitto − ed è chiamata la polizia ad investi-
gare − l’Uacv è la prima struttura ad intervenire.
La grande difficoltà è quella di individuare gli elementi scientifici certi sulla scena
del delitto e mettere in correlazione la vittima con l’autore. Quell’unica interazione tra
vittima e colpevole ha lasciato gli esclusivi ingredienti che si hanno per indagare. Il so-
pralluogo sulla scena del delitto ha caratteristiche in comune con il lavoro del critico d’ar-
te, infatti, solitamente, ci si trova di fronte a un insieme di elementi che formano un
disegno, una scena; si studiano i particolari, i minimi dettagli, i punti di fuga e i punti
prospettici. Vengono scattate una cinquantina di fotografie; si riprende, altresì, la scena
del delitto con una telecamera; si registrano tutte le informazioni, gli oggetti presenti
sul luogo e la loro disposizione (dai mozziconi di sigaretta ai bicchieri d’acqua), le trac-
ce di sangue, i mobili. Tutte queste informazioni vengono inserite nel sofisticatissimo
sistema di memorizzazione Sasc, messo a punto proprio dalla sede romana di Polizia
Criminale.
Si tratta di una banca dati contenente informazioni su migliaia di omicidi, e con-
tiene, altresì, altre migliaia di immagini di scene di crimine, vittime, reperti e modus

333
Criminologia ed elementi di criminalistica

operandi. E ancora, rapine in ambienti video-controllati, indagini su casi di violenze


sessuali, tutto ciò realizzato attraverso una sofisticata rete neuronale, cioè un sistema in-
formatico che riproduce le attività di elaborazione utilizzate dal cervello umano.
Ma non finisce qui: il sistema, che tra l’altro è stato adottato anche negli Stati Uni-
ti dall’FBI, è capace di individuare analogie tra i vari omicidi. È un sistema che impara
da ciò che succede. Quindi, se su sedici casi di omicidi di omosessuali, tredici sono sta-
ti commessi con un’arma contundente (un coltello per esempio) e due con un’arma da
fuoco, il sistema individuerà un’alta correlazione tra i due omicidi avvenuti con l’arma
da fuoco e si potrà, quindi, supporre che i due delitti siano legati. Grazie alle correla-
zioni e alle comparazioni tra i vari casi criminali, il Sasc guida l’investigatore all’indi-
viduazione di parametri necessari, anche per tracciare un primo profilo comportamen-
tale del colpevole.
Sul Sasc, l’investigatore può selezionare il nome di una vittima. Sullo schermo
apparirà una griglia di opzioni che darà tutte le informazioni del crimine con tanto di
immagini sull’omicidio.
Inoltre, cliccando su una delle tante opzioni presenti nel sistema, si può risalire a
tutti quei delitti che hanno un elemento in comune. Dal luogo del delitto (per esempio,
una spiaggia, un camper, un albergo), alle armi utilizzate (arma da fuoco, coltello, e co-
sì via), dalla modalità del delitto (cadavere legato con il filo del telefono o nascosto sotto
il letto), al mestiere della vittima.
Mentre una volta le conoscenze relative all’analisi della scena del crimine rimane-
vano di patrimonio dell’ispettore, ora, grazie a questo sistema, non solo è possibile esa-
minare e analizzare la scena del crimine anche molto tempo dopo l’accadimento, ma è
anche attuabile il confronto dei delitti, l’uno con l’altro.
Si supponga che a Palermo avvenga un omicidio, e sul corpo della vittima appaia
una ferita molto particolare, tale che gli investigatori non riescano a risalire all’arma
utilizzata. A distanza di qualche settimana, avviene un altro delitto a Trento. Anche sul
corpo di questa vittima appare la stessa identica ferita. Ma, questa volta viene trovata
l’arma utilizzata dall’omicida, un bastone. A questo punto, gli investigatori deducono,
che, in entrambi i delitti, è stato utilizzato un corpo contundente che ha caratteristiche
uguali. La memorizzazione di tutti i particolari del secondo caso, quindi, facilita le ri-
cerche del primo.
Un altro strumento tecnologicamente all’avanguardia usato dal laboratorio del-
la Uacv è la ricostruzione tridimensionale della dinamica dell’evento criminale. Per ta-
le operazione, il laboratorio fa uso di particolari tecnologie innovative: fotogrammetria,
fotografia digitale e stereoscopica, ricostruzione planimetrica tridimensionale e computer
grafica. Quindi, partendo dall’esame della scena del crimine, dalle fotografie scattate,
dalle perizie medico-legali e dalle testimonianze, è possibile arrivare a una simulazione
della dinamica del delitto.
Oltre allo sviluppo di metodi di identificazione delle persone mediante misurazio-
ni antropometriche (scienza che misura il corpo umano e le sue parti), legate a tecniche
di computer tridimensionali, è stata adibita una stanza che permetterà una ricostruzione
virtuale della scena del delitto in scala umana.
Un monitor di cinque metri e settanta centimetri per due metri e trenta proiette-
rà la scena accaduta, proprio come se fosse reale. In questo modo, gli stimoli di distur-

334
La criminalistica

bo o comunque fuorvianti alle indagini presenti sul luogo del delitto (come l’odore
del cadavere o gli oggetti della vittima), verranno eliminati dal campo d’investiga-
zione.
Tutte le procedure utilizzate dalle squadre antimostro per le indagini di crimine,
devono corrispondere a parametri stabiliti a livello europeo. Nel 1997, infatti, il Re-
gno Unito è stato incaricato di mettere a punto un manuale che standardizzasse tutte le
procedure e le tecniche utilizzate, il Good Manual Practice For Crimes Investigations che
garantisce la qualità delle indagini. A livello europeo, in nessun altro settore, come in
quello della Polizia Scientifica, esiste un’equivalenza di metodologia così efficace.

335
CAPITOLO 16

La medicina forense

16.1 Introduzione
La medicina forense è una scienza conosciuta da anni, ed è l’area meno critica tra
quelle relative allo studio delle prove indiziarie (in termini di ammissibilità), in quan-
to esiste una relazione abbastanza stretta tra la legge e la medicina. La patologia è un
ramo della medicina associato allo studio dei cambiamenti strutturali causati da ma-
lattia o trauma. La patologia forense aggiunge la parola innaturale o sospetto, dinanzi
la frase malattia o trauma. Ci sono, in realtà, due rami della patologia: anatomica, che
tratta delle alterazioni strutturali del corpo umano e clinica, che si occupa degli esami
di laboratorio dei campioni ottenuti dal corpo. La maggior parte dei patologi forensi è
esperta in entrambi questi rami.
Negli Stati Uniti, per diventare un patologo forense, sono necessari almeno due an-
ni di specializzazione dopo la laurea in medicina. In più, è necessario un ulteriore anno
per superare l’esame di ammissione all’American Board of Pathology.
Questi esperti sono abilitati per:

- stabilire la causa della morte;


- stimare il momento della morte;
- ipotizzare il tipo di arma utilizzata;
- distinguere l’omicidio dal suicidio;
- stabilire l’identità del deceduto.

E, inoltre, determinare l’effetto additivo del trauma o delle condizioni preesistenti.


I diversi Stati hanno, sia un sistema di coroner, sia un sistema di medical exami-
ner (ispettore medico). Per quanto riguarda il primo, il coroner, di solito, è un ufficiale
eletto e non ha nemmeno bisogno di essere un medico, sebbene sia necessario un cer-
to addestramento in medicina. In Texas, per esempio, il Giudice di Pace, soventemen-
te, è anche coroner (che richiede le indagini e ordina gli esami di laboratorio). I coroner
non sono dispensati dalla responsabilità civile per atti di negligenza, i medical exami-
ners, invece, sì.

337
Criminologia ed elementi di criminalistica

I medical examiners operano al di fuori degli uffici centrali della capitale dello Sta-
to, o fanno anche parte di un accordo tra contee o regioni. Sono investiti sia di cariche
di Forze dell’Ordine (per poter assumere i propri investigatori in casi di omicidio), sia
di poteri simil-giudiziari (per aprire inchieste e raccogliere testimonianze giurate).

16.2 Cause di morte


a) Asfissia

Tutti i casi di asfissia implicano il fatto che una quantità insufficiente di ossigeno
abbia raggiunto il cervello o i più importanti organi del corpo, e ci sono molte situazio-
ni in cui essa può verificarsi. Innanzitutto, ci sono alcune malattie naturali che possono
causare un blocco del sistema respiratorio, per esempio: enfisema, polmonite, influen-
za, asma, problemi laringei, ecc. A livello criminologico, ci sono tre modi: strangola-
mento, annegamento e soffocamento.

b) Strangolamento

La causa può essere omicidio, suicidio o accidentale. Nell’omicidio è attuato sia


manualmente (forza bruta che stringe il collo), sia tramite legatura (mediante una cor-
da, un filo elettrico). Nell’impiccamento, la vittima muore per la pressione del peso
corporeo o per spezzamento del collo. Tutti i casi di strangolamento sono caratterizzati
dagli elementi che seguono:

- intensa congestione cardiaca (dilatazione cardiaca, ventricolo destro);


- diltatazione venosa (vene dilatate sopra il punto del trauma);
- cianosi (colorazione bluastra di labbra e polpastrelli).

c) Annegamento

Risulta dall’inalazione di acqua che causa soffocamento che, a sua volta, causa la
rapida formazione di muco nella gola e nell’albero respiratorio. La diffusione di questo
muco denso e schiumoso è, in realtà, ciò che causa la cessazione della respirazione, e le
vittime (anche in alcuni casi di overdose) saranno caratterizzate dalla presenza di un co-
no di schiuma che copre bocca e narici. In alcuni casi, si verifica un annegamento secco,
perché lo shock causa un rigonfiamento della laringe e nessun fluido arriva nei polmo-
ni o nello stomaco, come succede nei tipici casi di annegamento in cui grandi quan-
tità di liquido (e di fauna marina) sono spesso presenti. Il classico annegamento segue
cinque stadi:

1) sorpresa (la persona è stordita e inala acqua);


2) trattenimento del respiro (la persona prova a trattenere il respiro mentre si dibatte);
3) schiuma rosa (la persona inala profondamente e viene espulsa schiuma rosa);

338
La medicina forense

4) arresto respiratorio (movimento toracico e dilatazione delle pupille);


5) lotta finale (3-4 veloci tentativi di respirare e trovare aria).

d) Soffocamento

Avviene quando le vie aeree sono chiuse da un oggetto ostruente, come un cusci-
no o una coperta. Se è stato utilizzato un oggetto soffice, il corpo non mostrerà alcun
segno di trauma, ma, spesso, ci sono piccole visibili contusioni o lacerazioni all’interno
delle labbra. Può essere presente o meno cianosi, ma, di solito, si ha quella che è chia-
mata emorragia petecchiale: piccoli punti a capocchia di spillo o macchie rosso scuro
sulla faccia, di solito nell’area circostante gli occhi.

e) Lesioni

Generalmente, tutte le lesioni rientrano nelle seguenti categorie: da arma da fuo-


co, da accoltellamento, da corpo contundente, da violenza sessuale, da avvelenamento
(considerato un tipo tossicologico di lesione), da ustione e da incidenti stradali. I pato-
logi forensi tentano di ricostruire cosa è accaduto, tramite l’analisi delle lesioni, e cer-
cano di stabilire se c’è stata autodifesa, e se la lesione è stata inferta, prima o dopo, la
morte. In casi di sparo, forniscono utili informazioni balistiche. A meno che l’oggetto
causante la lesione non abbia colpito un organo vitale, il più comune meccanismo di
morte è lo shock: il corpo, semplicemente, si blocca, in una consapevolezza più o meno
cosciente che il danno (al sistema circolatorio) è troppo grande per potersi riparare da
solo. Questo percorso verso la morte è più tipico del dissanguamento, ma dipende dal-
l’arma. I proiettili di solito causano uno shock mortale, i coltelli un’emorragia fatale.
Nelle lesioni sono sempre presenti emorragie sia interne che esterne.

f ) Lesioni da proiettile

Si seguono i principi della fisica. Maggiore è l’energia del proiettile al momento


dell’impatto, maggiore è la distruzione tissutale. L’energia dell’impatto di una pallot-
tola è il prodotto della sua massa o peso moltiplicato per il quadrato della sua velocità.
Poiché è al quadrato, il fattore più importante è la velocità, e non la dimensione o ca-
libro del proiettile. Le pallottole ad alto impatto, o magnum, hanno un potere distrut-
tivo maggiore nel causare uno shock fatale. Le punte cave, o altre munizioni a fram-
mentazione, sono studiate per sparpagliarsi e colpire gli organi vitali. Dal punto di vista
della letalità, comunque, i fucili ad alto potenziale uccidono molto più velocemente
dei revolver. Molti patologi forensi sono anche esperti nell’identificazione delle armi
da fuoco e in balistica.
I fori di entrata e di uscita dei proiettili sono molto importanti. Poiché un proiettile
ruota mentre colpisce il corpo, perfora la superficie della pelle in modo molto efficace.
Per cui, l’area di ingresso è, di solito, più piccola di quella di uscita, e, spesso, è possibile
determinare il calibro proprio dal foro di entrata. I fori di uscita sono di solito più gran-
di, sebbene, a volte, il proiettile rimbalzi all’interno del corpo (a causa della differente
resistenza dei tessuti), o segua un percorso che non è una linea retta (volo non assiale).

339
Criminologia ed elementi di criminalistica

Le bruciature da polvere da sparo (se ne riscontra una piccola quantità che ustio-
na la cute più o meno profondamente) vengono esaminate per determinare la distan-
za e l’estensione del punto dello sparo. Il grado di ustione di solito rivela la distanza, e
l’anello di contusione (collare di abrasione) attorno alla lesione da proiettile, di solito,
indica l’angolazione (rotondo vuol dire direzione diritta, ovale è inclinazione angolare).
L’esatta identificazione di ogni residuo di polvere da sparo non spetta al patologo, ma
a un chimico esperto in esplosioni.

g) Lesioni da accoltellamento

Includono ferite da taglio e da incisione. Le ferite da taglio tendono ad assomiglia-


re a lesioni da proiettile che hanno solo colpito la pelle di striscio. Altri tipi di ferite da
taglio vengono chiamati segni di esitazione, comunemente reperite nei casi di suicidio.
Hanno una forma tipicamente rettangolare, per esempio la lunghezza dei tagli è ugua-
le alla larghezza.
Le ferite da incisione, invece, hanno sempre la lunghezza maggiore della profondi-
tà, ed è possibile notare che è esposta una maggiore quantità di tessuto sottocutaneo in
una forma quasi ovale. Un altro tipo di ferita è quella da punta, che non ha forma geo-
metrica (eccetto forse circolare) ed è distinguibile, per lo più, dai bordi regolari.
Nel determinare se la ferita sia stata pre o post mortem, la regola generale è che una
ferita pre mortem si apre e sanguina copiosamente mentre una post mortem, no. Le feri-
te nelle quali l’assalitore non solo ha colpito la vittima con qualcosa, ma ha anche im-
presso all’oggetto una rotazione, causano lo shock maggiore e accelerano il processo di
morte, in cui l’emorragia vascolare è la principale causa di decesso. Di solito la profon-
dità della ferita non ha molta importanza.

h) Trauma da corpo contundente

Causato da bastonamento, calcio o comunque come colpo inferto alla vittima. Il


colpo produce un effetto di schiacciamento sul corpo umano, che risulta in contusio-
ni, abrasioni, lacerazioni, fratture o rottura di organi vitali. Contusioni di colore rosso-
bluastro sono sempre presenti, ma ciò varia con il peso dell’individuo (soggetti obesi
sviluppano ematomi più facilmente di quelli magri). Le contusioni cerebrali sono par-
ticolarmente difficili da analizzare.
La regola generale è che il trauma sarà più grave sul lato opposto a quello dell’im-
patto.
Questo perché il cervello fluttua all’interno del cranio e possono esserci dei con-
traccolpi; e, in questo caso, il percorso del trauma cerebrale va ricostruito. La morte ri-
sulta rapida, qualora sia implicata una frattura del cranio.
Le lesioni da corpo contundente a livello del corpo, di solito, impiegano più tem-
po a causare la morte, a volte giorni. Ad ogni modo, a volte, la morte avviene nel giro
di poche ore, dopo che il corpo ha subìto una lesione. Questo è dovuto al processo del-
l’embolia polmonare (a causa della quale dei coaguli di sangue arrivano fino al cervel-
lo). Alcune pratiche di rianimazione di primo soccorso causano più danno che benefi-
cio in caso di trauma da corpo contundente.

340
La medicina forense

i) Lesioni da stupro

In questo caso, è necessario esaminare l’area genitale per cercare segni di lacerazio-
ni, graffi o contusioni. In caso di vittime di sesso femminile, viene sempre controllato
se il soggetto fosse o meno vergine, tramite l’esame dell’imene.
Viene anche determinata la presenza di una patologia venerea e/o di un’eventuale
gravidanza. Vengono anche raccolti peli pubici non appartenenti alla vittima, nonchè
macchie di sangue e di liquido seminale. Nel caso in cui l’assalitore abbia eiaculato, vie-
ne tipizzato il DNA per aiutare a identificare il colpevole.

l) Avvelenamento

È generalmente determinabile controllando determinate colorazioni del corpo.


Una lividità di colore rosso ciliegia è di solito segno di un avvelenamento da monos-
sido di carbonio, per esempio. Altre tossine causano il rilascio di particolari odori. La
certezza della diagnosi, in ogni caso, richiede la conferma tossicologica. Devono essere
prelevati campioni dallo stomaco, di vomito, dai reni, dai polmoni e dal fegato.

m) Lesioni da ustione

Possono essere causate da calore, sostanze chimiche o elettricità. Le vittime di un


incendio, di solito, vengono trovate in una posizione pugilistica, a pugni chiusi. Il calo-
re, infatti, generalmente, causa una contrazione muscolare. Generalmente è necessario
prelevare campioni di sangue e di polmone.

n) Incidenti stradali

Vengono spesso analizzati per determinare se la vittima fosse il guidatore, un pas-


seggero o un pedone. Le lesioni da incidente motociclistico sono le più gravi, special-
mente a livello della testa (se non viene indossato il casco). I guidatori delle macchine,
di solito, presentano un’impressione circolare a livello del torace, mentre i passeggeri
hanno lesioni estensive a livello di ginocchia e colonna vertebrale. I pedoni, invece, pre-
sentano lesioni estensive a livello di caviglie o comunque del terzo inferiore del corpo
(chiamate fratture da paraurti). Più in basso sono queste fratture, più c’è la possibilità
che il guidatore abbia tentato di frenare o rallentare. Le lesioni da investimento seguito
dal passaggio del mezzo sopra la vittima sono diverse, e distinguibili dalla quantità di
danno da compressione tissutale. I patologi forensi, spesso, controllano i livelli di alcol
e di droga nel sangue, in tutti i casi che implicano incidenti stradali. Questo per deter-
minare il livello di negligenza della legge civile.

341
Criminologia ed elementi di criminalistica

16.3 Il DNA
Tutti i tipi di organismi possono essere identificati mediante l’esame delle sequen-
ze del DNA, che sono uniche per ogni specie. L’identificazione degli individui in seno
a una specie, al momento, è meno precisa, ma quando le tecnologie per l’identifica-
zione della sequenza del DNA progrediranno, sarà possibile effettuare una compara-
zione diretta e pratica di segmenti di DNA molto grandi, e anche di interi genomi, e
ciò permetterà un’identificazione precisa a livello individuale. Per identificare gli in-
dividui, gli scienziati forensi esaminano 13 regioni del DNA che variano da persona
a persona e utilizzano i dati per creare un profilo del DNA di quell’individuo (a volte
chiamato “impronta del DNA”). C’è una possibilità estremamente ridotta che un al-
tro individuo abbia lo stesso profilo del DNA per uno specifico gruppo di regioni.
Vediamo alcuni esempi di utilizzo del DNA per l’identificazione forense:

- identificare potenziali sospettati il cui DNA corrisponde alle prove lasciate sulla
scena del crimine;
- scagionare persone erroneamente accusate di crimini;
- identificare vittime di crimini e catastrofi;
- stabilire la paternità o altre relazioni familiari;
- identificare specie protette e in via di estinzione in aiuto alla guardia forestale (per
esempio, nel caso di bracconeria);
- rilevare batteri e altri organismi che possono inquinare aria, acqua, terreno e ali-
menti;
- determinare il pedigree per semi o razze di animali di allevamento;
- autenticare alimenti come caviale e vino.

L’identificazione del DNA può essere molto efficiente, se usata con intelligenza.
Devono essere utilizzate porzioni della sequenza del DNA che variano molto tra indi-
vidui umani; inoltre, le porzioni devono essere abbastanza grandi da superare il fatto
che, negli esseri umani, l’accoppiamento non è assolutamente casuale.
Si consideri, adesso, lo scenario di un’investigazione sulla scena del crimine. Si
immagini che del sangue del gruppo 0 sia rinvenuto sulla scena del crimine. Il gruppo
0 si trova nel 45% circa degli americani. Se gli investigatori determinano solo AB0,
allora, trovare che il sospettato di un crimine sia del gruppo 0 non rivela poi così tan-
to. Se, oltre che a essere del gruppo 0, il sospettato è biondo, e dei capelli biondi ven-
gono trovati sulla scena del crimine, allora ecco che si hanno due prove che possono
indicare chi sia veramente l’autore. Comunque, esistono un elevato numero di perso-
ne bionde di gruppo 0. Se sulla scena si trovano anche delle impronte di un paio di
Nike Air Jordans (che hanno un particolare disegno distintivo della suola) e il sospet-
tato, oltre a essere biondo e di gruppo 0 indossa anche un paio di Air Jordans con lo
stesso disegno distintivo, allora siamo molto più vicini a collegarlo alla scena del cri-
mine. In questo modo, raccogliendo frammenti di prove collegati tra loro in una ca-
tena, dove ciascun frammento di per sé non è molto significativo, ma forma insieme
agli altri qualcosa di molto solido, si può concludere che il sospettato sia veramente
la persona giusta.

342
La medicina forense

Col DNA viene utilizzato lo stesso tipo di percorso: è possibile cercare delle corri-
spondenze (basate sulla sequenza o su un numero di piccole unità di sequenze di DNA
ripetute) su diversi punti del genoma dell’individuo. Una o due (anche tre) non sono
sufficienti per dare la sicurezza che il sospettato sia quello giusto, ma ne vengono usate
quattro (a volte cinque): una corrispondenza di tutte e cinque è rara abbastanza da es-
sere sicuri (avere il ragionevole dubbio) che venga accusata la persona giusta.
Solo un decimo di una singola percentuale di DNA (circa 3 milioni di basi) è di-
verso da persona a persona. Gli scienziati possono utilizzare queste regioni variabili per
generare un profilo del DNA di un individuo mediante campioni di sangue, ossa, peli
o capelli e altri tessuti o annessi organici. Nei casi criminali, ciò, generalmente, impli-
ca l’ottenimento di campioni dalle prove repertate sulla scena del crimine e da un so-
spettato, l’estrazione del DNA, e l’analisi di esso, alla ricerca di un gruppo di specifiche
regioni (markers).
Gli scienziati ottengono i markers in un campione di DNA mediante la creazione
di piccole porzioni di DNA (sonde), ognuna delle quali cercherà e si legherà a una se-
quenza di DNA ad essa complementare, nel campione. Una serie di sonde legata a un
campione di DNA crea uno schema distintivo per ogni individuo. Gli scienziati fo-
rensi confrontano questi profili di DNA per determinare se il campione del soggetto
corrisponda a quello del reperto usato come prova. Un marker, da solo, generalmente,
non è unico per ogni individuo, ma se due campioni di DNA sono simili in quattro
o cinque regioni, ci sono ampie possibilità che i due campioni provengano dalla stes-
sa persona.
Se i profili dei campioni non coincidono, la persona non ha fornito DNA sulla
scena del crimine. Se gli schemi corrispondono, il sospettato può aver fornito il reperto
utilizzato come prova. Anche se c’è una possibilità che un’altra persona abbia lo stesso
profilo di DNA per un particolare gruppo di sonde, le probabilità sono estremamente
basse. La domanda è: quanto devono essere basse le probabilità quando ci sono in bilico
l’accusa di un colpevole o lo scagionamento di un innocente? Molti giudici considerano
questa questione come un argomento che il Collegio deve prendere in considerazione,
insieme alle altre prove del caso. Gli esperti fanno notare che l’utilizzo della tecnologia
del DNA forense è molto superiore al contributo dei testimoni oculari, in cui le proba-
bilità di una corretta identificazione sono del 50%. Più sonde vengono usate nell’analisi
del DNA, maggiori sono le probabilità di trovare uno schema unico e più basse quelle
di trovarsi di fronte a una coincidenza; ogni sonda in più apporta un grosso aumento di
tempo e di spese per i test. Si raccomandano da quattro a sei sondaggi.

16.4 Altre tecniche applicate al DNA

a) PCR (Polymerase Chain Reaction)

È usata per creare milioni di copie esatte di DNA da un campione biologico. L’am-
plificazione del DNA tramite PCR ne permette l’analisi su campioni biologici piccoli

343
Criminologia ed elementi di criminalistica

come poche cellule epidermiche. Con la RFlP, i campioni di DNA devono essere gran-
di almeno come un quarto di dollaro.
La capacità della PCR di amplificare quantità così piccole di DNA, permette l’ana-
lisi di campioni anche altamente degradati. Ad ogni modo, deve essere posta grande
cura per prevenire la contaminazione con altri materiali biologici durante l’identifica-
zione, la raccolta e la conservazione di un campione.

b) RFPL (Restriction Fragment Lenght Polymorphism)

È una tecnica per analizzare le lunghezze variabili di frammenti del DNA ottenu-
ti mediante la digestione di un campione di DNA, tramite un particolare tipo di enzi-
ma. L’enzima, un’endonucleasi limitante, taglia il DNA a livello di un particolare sche-
ma sequenziale conosciuto come sito di riconoscimento dell’endonucleasi limitante.
La presenza o l’assenza di certi siti di riconoscimento in un campione di DNA genera
lunghezze variabili di frammenti di DNA, che vengono separati mediante l’elettrofore-
si in gel. In seguito, vengono ibridizzati con sonde di DNA, che nel campione si lega-
no a una sequenza di DNA complementare. La RFlP è una delle applicazioni originali
dell’analisi del DNA nell’investigazione forense. Con lo sviluppo di tecniche di analisi
del DNA più nuove e più efficienti, la RFlP non è usata più come un tempo, perché
richiede quantità di DNA relativamente grandi. In più, campioni degradati da fattori
ambientali, come sporco o muffa, non sono ben utilizzabili con la RFlP.

c) STR (Short Tandem Repeat)

Tecnologia usata per valutare specifiche regioni (loci) nel DNA nucleare. La va-
riabilità nelle regioni STR può essere usata per distinguere un profilo del DNA da
un altro. L’FBI usa un set standard di 13 regioni STR specifiche per il CODIS, che è
un programma di software che lavora su database locali, statali e nazionali di profili
di DNA ottenuti da criminali condannati, prove da scene di crimini irrisolti, e perso-
ne scomparse. Le probabilità che due individui abbiano lo stesso profilo di 13 loci del
DNA sono circa di una su un miliardo.

d) Analisi del cromosoma Y

Questo cromosoma viene trasmesso direttamente da padre a figlio, così, l’analisi


dei markers genetici su di esso è particolarmente utile nel tracciare relazioni di parentela
tra maschi o per analizzare prove biologiche che provengono da più soggetti maschi.

e) CODIS (Combined DNA Index System)

Unisce le tecnologie informatiche e quelle di analisi del DNA in uno strumento


molto utile per la lotta contro il crimine violento. L’attuale versione del CODIS usa
due indici per generare delle guide investigative nel caso di crimini, sulla cui scena sia
stato repertato del materiale biologico. L’indice dei criminali condannati contiene il pro-
filo del DNA di tutti gli individui condannati per violenza sessuale o altri crimini vio-

344
La medicina forense

lenti. L’indice forense contiene i profili del DNA ottenuti dal materiale biologico reper-
tato sulle scene del crimine. Tutti i profili del DNA conservati nel CODIS vengono
generati utilizzando la tecnica STR.
Il CODIS usa un software che cerca automaticamente nei due indici per profili di
DNA corrispondenti. Le agenzie delle Forze dell’Ordine possono prendere il DNA da
campioni biologici costituenti prova (per esempio sangue e saliva) ottenuti in crimini
per cui non ci sono sospettati e lo confrontano ai profili del DNA inseriti nel CODIS.
Se viene trovata una corrispondenza tra un campione e un profilo schedato, il CODIS
può identificare il colpevole. Questa tecnologia è autorizzata dal DNA Identification
Act del 1994. Tutti e 50 gli Stati degli USA hanno leggi che richiedono che i profili del
DNA di certi criminali siano inviati al CODIS. Al gennaio 2005 il database conteneva
più di un milione e mezzo di profili di DNA nel suo Indice dei Criminali Condannati,
e circa 48.000 profili di DNA, raccolti dalle scene del crimine, ma che non sono stati
collegati a nessun particolare criminale.
Dal momento che vengono raccolti sempre più campioni del DNA dei criminali e
le Forze dell’Ordine vengono addestrate ed equipaggiate sempre meglio per raccogliere
campioni di DNA sulle scene del crimine, la quantità arretrata di campioni in attesa di
test è aumentata esponenzialmente.

f ) Analisi del DNA mitocondriale

È una tecnica usata per esaminare il DNA proveniente da campioni che non pos-
sono essere utilizzati da RFlP o STR. Dai campioni, deve essere estratto il DNA nu-
cleare per analisi con RFlP, PCR e STR, ma, per l’analisi del DNA mitocondriale è ne-
cessario il DNA estratto da un altro organello cellulare chiamato mitocondrio. Mentre
campioni biologici datati, ormai privi di materiale cellulare nucleato come capelli, ossa
e denti non possono essere analizzati con STR e RFlP, possono invece essere analizzati
con la tecnica del DNA mitocondriale. Nell’investigazione di casi che sono rimasti irri-
solti per molti anni, il DNA mitocondriale è di grande valore. Tutte le madri hanno lo
stesso DNA mitocondriale delle figlie. Questo perché i mitocondri di ciascun nuovo
embrione derivano dall’ovulo materno. Lo sperma del padre contribuisce solo al DNA
nucleare. Il confronto del DNA mitocondriale di resti non identificati col profilo di un
materiale potenzialmente materno, potrebbe costituire un’importante tecnica di analisi
nelle investigazioni su persone scomparse.

16.5 Le nuove frontiere dell’entomologia forense


L’entomologia forense può essere definita come l’applicazione dello studio degli
insetti e di altri artropodi a questioni legali. Si suddivide in tre sottocampi: urbana, dei
prodotti conservati e medico-legale. L’entomologia forense medico-legale è, sicuramente
la più interessante. Essa include il coinvolgimento degli artropodi in eventi quali l’omi-
cidio, il suicidio e lo stupro, ma comprende anche fatti come l’abuso fisico e il con-
trabbando.

345
Criminologia ed elementi di criminalistica

Poiché la terra è un mondo abitato prevalentemente da artropodi, non è infre-


quente che noi semplici umani veniamo in contatto con queste creature, in quanto im-
pollinano, si nutrono di altri artropodi, di piante e alberi viventi e anche di piante e al-
beri morti, di vertebrati vivi e morti e delle loro deiezioni, e di molte altre cose.
La caratteristica degli artropodi che riveste maggiore importanza nell’entomologia
forense medico-legale è che si nutrono di cadaveri di vertebrati, uomo compreso. In
questo modo, eseguono un’importante azione di riciclaggio di materiale organico nel
nostro ecosistema.
Uno dei primi gruppi di insetti che arriva su un vertebrato morto è quello dei mo-
sconi verdi (Diptera: Calliphoridae). Di solito, la femmina vi depone le uova nel giro
di due giorni dopo la morte. Il ciclo vitale del moscone verde è il seguente: uovo, larva,
prepupa, pupa nel puparium, imago.
Se sappiamo quanto tempo ci vuole all’insetto per raggiungere i diversi stadi della
sua vita, possiamo calcolare il momento della deposizione dell’uovo. Il calcolo dell’età
degli insetti può essere considerata una stima del momento della morte del vertebra-
to. Ma anche se la stima dell’età dell’insetto è corretta, la morte del soggetto, di solito,
è avvenuta prima della deposizione delle uova. Questo periodo di tempo è abbastanza
variabile e dipende dalla temperatura, dall’ora in cui è avvenuta la morte, dal periodo
dell’anno in cui è avvenuta la morte, se il corpo era all’aria aperta, sottoterra o immerso
in acqua. Come regola generale, gli insetti deporranno le uova su un corpo due giorni
dopo la sua morte.
Gli insetti possono anche aiutare a stabilire se il cadavere è stato spostato dopo la
morte, confrontando la fauna locale intorno ad esso con quella su di esso.
Per utilizzare al meglio le prove entomologiche sulla scena di un crimine, i prelievi
dovrebbero essere eseguiti da un entomologo forense esperto e ben addestrato. L’esatta
procedura sulla scena del crimine varia col tipo di habitat, ma, in generale, si può sud-
dividere il lavoro dell’entomologo forense in 5 parti:

1. osservazione visiva e annotazioni sulla scena;


2. inizio della raccolta dei dati climatici sulla scena;
3. raccolta degli esemplari dal cadavere prima della sua rimozione;
4. raccolta degli esemplari dalla zona circostante (fino a 6 metri dal corpo) prima del-
lo spostamento dei resti;
5. raccolta dei campioni dalla zona direttamente sottostante e da quella che circonda
i resti (1 metro o meno) dopo che il corpo è stato rimosso.

L’osservazione dell’attività degli insetti sulla scena del crimine può essere utile, per-
ché l’entomologo ha esperienza riguardo a un tipo di scienza diversa rispetto a quella
degli investigatori. Un entomologo, probabilmente, osserverà elementi che gli investi-
gatori ignoreranno (e viceversa).
Nella scena criminis dovrebbero essere ricercati o osservati attentamente:

- il tipo di habitat in cui la scena è localizzata. Se è rurale, urbano/suburbano o ac-


quatico. Se è un bosco, il margine di una strada, un edificio chiuso o aperto, un
acquitrino, un lago, un fiume o un altro tipo di habitat;

346
La medicina forense

- stimare il numero e il tipo di insetti che volano e brulicano sul corpo;


- annotare le zone di maggior infestazione associate al corpo e alla zona circostante.
Queste infestazioni possono essere di uova, larve, pupe o adulti, sia da sole che in
combinazione con le altre;
- notare gli stadi immaturi di particolari insetti adulti osservati. Questi stadi possono
includere uova, larve, pupe, involucri di pupe vuoti, rivestimenti di larve, materia-
le fecale e fori di uscita o segni di avvenuta alimentazione sui resti;
- notare tutti i tipi di predazione di insetti da parte di coleotteri, formiche, vespe o
insetti parassiti;
- annotare l’esatta posizione del corpo: orientamento dell’asse principale, posizione
delle estremità, posizione di testa e viso; notare quali parti del corpo sono in con-
tatto col substrato, notare quali parti si trovano al sole e quali all’ombra durante il
normale ciclo del giorno.
- notare l’attività degli insetti entro 3-6 metri dal corpo. Osservare quali insetti vola-
no, sono fermi o brulicano entro questa distanza dal corpo, siano essi adulti, larve
o pupe;
- notare ogni avvenimento inusuale, sia dovuto all’uomo che agli animali predatori,
che potrebbe alterare gli effetti dell’ambiente sul corpo (trauma o mutilazione del
corpo, bruciature, copertura, seppellimento, spostamento o smembramento).

Di tutto ciò, dovrebbero essere fatte delle fotografie, compresi primi piani dei di-
versi stadi degli insetti trovati prima di prelevarli. Quando si stima il PMI, i dati clima-
tici sulla scena del crimine sono di fondamentale importanza. La lunghezza del ciclo
vitale degli insetti è determinata soprattutto dalla temperatura e dall’umidità relativa
dell’ambiente in cui lo sviluppo ha luogo.
I seguenti dati climatici dovrebbero essere raccolti sulla scena del crimine:

- la temperatura ambientale può essere valutata prendendo letture ad altezze da 0,3 a


1,3 metri in stretta prossimità del corpo;
- la temperatura del terreno può essere ottenuta ponendo il termometro sul suolo,
immediatamente al di sopra di ogni superficie da valutare;
- la temperatura della superficie del corpo può essere ottenuta ponendo il termometro
sulla pelle;
- la temperatura della zona sottostante il corpo può essere ottenuta ponendo il termo-
metro tra il corpo (senza spostarlo) e il terreno;
- la temperatura della massa di larve può essere ottenuta inserendo il termometro di-
rettamente nella massa di larve;
- la temperatura del terreno deve essere rilevata subito dopo la rimozione del corpo
nel punto del suolo sottostante ad esso. Prendere la temperatura del suolo anche
a 1-2 metri di distanza dal corpo. Queste temperature dovrebbero essere rilevate a
tre livelli: direttamente sotto ogni cosa che può coprire il terreno (foglie, erba ecc.),
a 4 cm di profondità e a 20 cm di profondità.

I dati meteorologici riguardanti la scena dovrebbero essere raccolti presso la più


vicina stazione meteorologica. Dati minimi richiesti: temperature minime e massime

347
Criminologia ed elementi di criminalistica

e quantità delle precipitazioni. Ogni altra informazione va bene, e può aiutare nella ri-
costruzione degli eventi. I dati climatici dovrebbero risalire al momento in cui la vittima
è stata vista l’ultima volta.
Una tecnica passiva per raccogliere esemplari di insetti adulti sulla scena di un cri-
mine è quella di usare trappole alla colla, con una sostanza adesiva che si asciuga lenta-
mente. Queste trappole sono fatte di cartoncino cerato con una tendina posta ad un
angolo di 60° e materiale appiccicoso su entrambi i lati esposti. Possono raccogliere
molti insetti in pochi minuti. Una rete per insetti può essere usata per catturare quelli
che volano. Uova, larve, pupe e adulti sulla superficie di resti umani dovrebbero esse-
re raccolti e conservati per dimostrare lo stato dei dati entomologici al momento della
scoperta. Gli insetti all’interno del corpo non dovrebbero, invece, essere raccolti prima
dell’autopsia. Se ci sono abbastanza insetti, campioni di uova, larve e pupe, dovrebbero
essere prelevati vivi e messi in un mezzo nutriente, tipo fegato bovino crudo. Allevarli
fino all’età adulta ne rende l’identificazione più facile, e può dare indizi fondamentali
per la stima del PMI. È importante che la temperatura nel contenitore di mantenimen-
to sia più costante possibile, tra i 20 e i 27°C. È assolutamente necessario registrare la
temperatura nel contenitore.
Tutti i campioni, sia gli esemplari vivi che quelli morti, dovrebbero essere esamina-
ti più rapidamente possibile. Gli esemplari vivi sono messi in incubatrici con tempera-
tura e umidità controllate. Bisogna osservare questi contenitori diverse volte al giorno,
e annotare ogni cambiamento come la schiusa delle uova o delle larve, la metamorfosi
in pupa o in insetto adulto. Deve essere annotata l’ora precisa. Possono essere scatta-
te delle fotografie. Ogni tipo di larva e adulto dovrebbe, se possibile, essere classificata
con genere e specie. Ciò può richiedere l’assistenza di un esperto tassonomista. Può an-
che essere necessario condurre esperimenti all’aperto, vicino alla scena del crimine, per
ricreare le condizioni ambientali delle larve e stimare il PMI.
Quando sono disponibili tutti i dati, è il momento di trarre delle conclusioni:

- determinare se i resti sono stati alterati o disarticolati durante il PMI. Chiedere se c’è
la presenza di sostanze somministrate antemortem, tipo alcol, cocaina o eroina;
- stimare l’età di quanti più esemplari possibile, basandosi sulla presenza di sostanze
nel corpo e sulle condizioni di temperatura e umidità. Considerare se l’attività de-
gli insetti è stata in qualche modo ritardata dopo la morte.

Gli artropodi comunemente rinvenuti sui cadaveri sono:

- acari: gli acari sono piccoli organismi, di solito misurano meno di 1 mm. Si tro-
vano nel terreno sottostante il corpo, durante gli stadi più tardivi della decompo-
sizione. Molti acari vengono trasportati sul corpo da altri insetti, come le mosche
o i coleotteri; altri già vivono nel terreno, e possono essere predatori o alimentarsi
di funghi o di detriti. Molte specie possono essere trovate nei campioni di terreno
dalla zona di infiltrazione sotto il corpo;
- aracnea: sono i ragni e sono predatori degli insetti che si trovano sul corpo. Nessu-
na specie è specifica della fauna che si trova sul cadavere, infatti hanno valore limi-
tato per quanto riguarda la stima del PMI;

348
La medicina forense

- diptera: questo ordine comprende insetti con un paio di ali anteriori sviluppate
e il secondo paio posteriore modificato in bilancieri. La scienza ne conosce circa
100.000 specie, ma probabilmente molte altre sono ancora da scoprire. Tra le mo-
sche, troviamo molti componenti della fauna che si nutre di cadaveri. Le larve del-
le mosche vivono in habitat molto diversi, anche acquatici;
- trichoceridae: anche detti moscerini invernali, in quanto le specie comuni (Tricho-
cera regelationis, T. saltator, T. maculipennis, ecc.) si trovano in gran numero nei
mesi invernali, sebbene con frequenza minore, si trovano anche durante il resto
dell’anno. Gli adulti ricordano piccole mosche. Le loro larve sono saprofaghe e si
nutrono di materia organica in decomposizione. Le larve dei tricoceridi costitui-
scono una parte importante della fauna che si trova sui cadaveri durante i mesi in-
vernali, quando i mosconi non ci sono;
- cyclorrhapha-aschiza: una grande famiglia di mosche, comprendente circa 3000
specie. Ce ne sono da piccolissime a medie (0,75-8 mm), di colore nero opaco,
marrone o giallastro, dall’aspetto gibboso. Sono generalmente ispide con una ca-
ratteristica venatura delle ali. Volano in una maniera attiva irregolare, che ha val-
so loro il nome popolare di mosche in fuga. Si sviluppano su un’ampia varietà
di materia organica in decomposizione; inoltre, alcune si sviluppano su funghi
mentre altre sono parassiti. Nello stadio larvale alcune specie sono predatrici.
Diversi generi sono reperibili sui cadaveri dei vertebrati, come Anevrina, Coni-
cera, Diplonevera, Dohrniphora, Meopina, Triphleba e alcune specie di Megase-
lia;
- la Conicera Tibialis: è anche conosciuta come la mosca delle bare a causa della sua
associazione con i cadaveri sepolti che sono stati sottoterra per circa un anno. Gli
adulti di C. tibialis sono in grado di andare sottoterra a una profondità di 50 cm
in circa 4 giorni. Alla normale profondità delle tombe, 81-2 centimetri), la varia-
zione di temperatura è moderata, circa 5°C, per cui, lo sviluppo da uovo ad adul-
to, impiegherà un tempo considerevole. Lo sviluppo può avere luogo indipenden-
temente dalla stagione, in quanto il corpo è seppellito a una profondità in cui non
si ha congelamento;
- syrphidae: sono le comuni mosche che volano in un punto fisso, spesso camuffate
da vespe o calabroni. Tra le larve dei sirfidi troviamo le famose larve a coda di rat-
to. Si trovano nell’acqua stagnante e spesso nei cadaveri;
- acalyptratae: un piccolo gruppo di mosche relativamente rare. Molte specie vivo-
no nei boschi umidi, e le loro larve si trovano nella materia organica in decom-
posizione;
- coelopidae: queste mosche hanno dimensioni da piccole a medie, di solito, sono di
colore marrone scuro o nero, e hanno la parte superiore del torace appiattita. Cor-
po e zampe sono molto ispidi. Si trovano lungo le coste e sono molto abbondanti
nei punti in cui il mare ha depositato delle alghe. Occasionalmente, le larve posso-
no svilupparsi anche in altro materiale organico, come un cadavere che è rimasto
nei pressi della spiaggia;
- heleomyzidae: un gruppo abbastanza grande di mosche di dimensioni da piccole
a medie, spesso brunastre. Gli adulti si trovano con frequenza in luoghi umidi, le
larve in piante o animali in decomposizione, o in funghi;

349
Criminologia ed elementi di criminalistica

- sepsidae: mosche molto caratteristiche; gli adulti si trovano in gran numero attorno
escrementi o materiale in decomposizione, dove le larve si sviluppano. Gli adulti
hanno un modo del tutto particolare di battere le ali. Questa famiglia viene anno-
verata perchè si ciba di cadaveri umani in caso di fermentazione butirrica e prima
della fermentazione ammoniacale. Le uova dei Sepsidae hanno un tubercolo respi-
ratorio molto lungo, spesso più lungo dell’uovo stesso;
- sphaeroceridae: mosche di dimensioni da minuscole a piccole, scure, che prolifica-
no negli escrementi;
- piophilidae: mosche scure lucenti. Le larve sono saprofaghe e si trovano spesso sui
corpi morti da diverso tempo. Un esempio è la Piophila casei, anche chiamata
mosca salterina del formaggio, in quanto la larva è in grado di saltare a un’altezza
anche considerevole, se disturbata. Queste mosche infestano anche formaggi e in-
saccati immagazzinati, che sono, per loro, praticamente, la stessa cosa dei cadaveri
disidratati;
- ephydridae: vasto gruppo con diverse specie in comune. Le dimensioni vanno da
piccole a molto piccole. Gli adulti vivono in zone umide come i bordi degli acqui-
trini e la riva del mare. Le larve sono acquatiche, e quelle di molte specie si trovano
in acque salmastre ma anche fortemente saline o alcaline;
- drosophilidae: sono i ben conosciuti moscerini della frutta, di cui ogni biologo ha
sentito parlare, e probabilmente anche la maggior parte delle persone. Sono mo-
sche piccole o molto piccole, brune, gialle o grigie con occhi colorati. Le larve si
nutrono di materia vegetale in decomposizione, ma, alcune, anche di funghi. Al-
cune specie sono occasionalmente rilevabili su esseri umani morti, e probabilmen-
te sono quelle che si nutrono di funghi;
- milichiidae: minuscole mosche brune. Gli adulti e le larve sono saprofagi;
- calyptratae: tra i Sarcofagidi, troviamo i mosconi della carne con occhi rossi e addo-
me screziato di grigio. Queste mosche non depositano uova sul cadavere, ma larve.
Insieme ai Calliforidi sono le prime ad arrivare sul corpo. Le larve sono predatrici
di quelle del moscone verde, ma si cibano anche della carne in decomposizione.
Molti Sarcofagici mangiano anche lumache e vermi di terra;
- calliphoridae: sono i famosi mosconi verdi e blu. Ci sono molte specie e ognuna ha
la propria biologia. Alcune preferiscono depositare le uova in zone ombreggiate,
altre alla luce. Per quanto riguarda la distribuzione alcune sono prettamente urba-
ne, altre rurali;
- fanniidae: tra queste si annovera la mosca della casa più piccola, Fannia canicularis.
Queste mosche si riproducono soprattutto negli escrementi, ma si possono svilup-
pare anche nei cadaveri, specialmente se vi sono punti con tessuto semiliquido. Le
larve sono dotate di particolari strutture che ne permettono il galleggiamento;
- muscidae: in questa grande famiglia si trova la mosca della casa comune, Musca
domestica. Queste mosche vivono nelle case e sono una delle specie più diffuse sul
pianeta. Nei climi caldi può completare il ciclo di sviluppo in 14 giorni. Depone
le uova nella materia in decomposizione compresi i cadaveri.

Gli insetti possono anche aiutare a stabilire se il cadavere è stato spostato dopo la
morte, confrontando la fauna locale intorno ad esso con quella su di esso.

350
La medicina forense

In alcuni casi, con l’aiuto degli insetti, è possibile tracciare gli spostamenti di so-
spettati, merci, vittime o veicoli di sospettati. Insetti interi o parti di essi possono per
esempio essere rinvenuti in alcuni punti di un veicolo, come il radiatore o il battistrada
dello pneumatico. Con l’identificazione degli insetti trovati, il tracciamento della di-
stribuzione di ognuno e della biologia delle singole specie, è possibile trovare il massi-
mo livello di sovrapposizione e descrivere le aree in cui è stato il sospettato. In un caso
di spaccio di cannabis, per esempio, è stato possibile determinare da dove provenisse il
carico studiando gli insetti che si trovavano nel container della droga.
Dopo la decomposizione iniziale, quando il corpo inizia a mandare cattivo odore,
diversi tipi di insetti vengono attratti da esso. I primi ad arrivare sono i Ditteri, in par-
ticolare i mosconi verdi o Calliphoridae e le mosche della carne Sarcophagidae.
Le femmine depongono le uova sul corpo, specialmente attorno agli orifizi natu-
rali come il naso, gli occhi, le orecchie, l’ano, il pene e la vagina e dentro eventuali fe-
rite.
Dopo breve tempo, a seconda della specie, le uova si schiudono ed escono le larve.
Esse vivono sui tessuti morti e crescono rapidamente. Dopo poco tempo, la larva, mu-
ta ed entra nel secondo stadio larvale. Questa larva si alimenta molto e muta nel ter-
zo stadio. Quando la larva è cresciuta completamente inizia a spostarsi, si trova adesso
nello stadio prepupale. La prepupa muta in pupa, ma mantiene l’involucro del terzo
stadio larvale, che diventa il puparium. Di solito, ci vogliono da una a due settimane
dallo stadio di uovo a quello di pupa. Il tempo esatto dipende dalla specie e dalla tem-
peratura ambientale.
La teoria su cui si basa la stima del tempo della morte, meglio definito come in-
tervallo post mortem (PMI) tramite l’aiuto degli insetti, è molto semplice: poiché gli
insetti arrivano sul cadavere subito dopo la morte, la stima della loro età porterà alla
stima del momento in cui è avvenuta la morte.

16.6 Autopsia e interpretazione


Lo scopo fondamentale di un’autopsia è quello di osservare e di creare, prima pos-
sibile, una documentazione legale permanente delle particolarità anatomiche macro-
scopiche e microscopiche di un cadavere recentemente trovato.
In altri Stati, le autopsie, generalmente, sono effettuate presso l’ospedale locale o
l’obitorio della contea, sebbene alcune siano svolte negli uffici privati o presso le sedi
delle imprese funebri.
Gli esami anatomici possono bastare a stabilire la causa della morte, se il patologo
forense ha accesso ad altre informazioni (come le circostanze contingenti, la vita, i dati
psichiatrici e altre informazioni pertinenti relative al paziente). Inoltre i patologi forensi,
a volte, si cimentano in autopsie psicologiche, sebbene queste non vengano accettate così
prontamente dal sistema legale. L’esame clinico, o quello microscopico, di sezioni di or-
gani, spesso, è necessario per sostenere ulteriormente le conclusioni del patologo forense,
sebbene tale esame sia impossibile in caso di esumazione (o se la famiglia si oppone), in
quanto l’imbalsamazione, di solito, altera i risultati degli esami citologici e istologici.

351
Criminologia ed elementi di criminalistica

I patologi forensi, quasi sempre, dispongono l’effettuazione di esami radiografici,


in caso sia coinvolta un’arma da fuoco. Le radiografie, a volte, sono utili, anche in caso
di ferite da accoltellamento e in casi di abuso su minore. L’esame di sezioni di organi è
efficace in casi in cui è richiesta una perizia tossicologica, cioè ogni volta sono implicati
alcol o droga, o altre sostanze tossiche. L’ispezione del contenuto dello stomaco fa parte
di ogni esame postmortem, in quanto può fornire informazioni circa la causa di morte,
così come il momento della morte. L’esame clinico, inoltre, può confermare l’idea che
ci si è fatta riguardo ad età, razza, sesso, altezza, peso e condizioni di salute generale in
caso di resti non identificati.
Vanno fatte delle distinzioni tra:

- la causa contribuente al decesso: di solito è una condizione preesistente come una


malattia. Un esempio potrebbe essere asma o polmonite, che possono essere la ve-
ra causa di morte;
- il meccanismo di morte: per esempio, gli alveoli polmonari che hanno subito
un’ostruzione e non sono stati più in grado di scambiare ossigeno;
- la causa immediata di morte: per esempio contusione o asfissia o ferita perforante da
arma da fuoco alla testa;
- la maniera di morte: il patologo dichiara se la morte è stata causata da omicidio,
suicidio, se è accidentale, naturale o da causa sconosciuta.

Se il meccanismo non può essere determinato, la morte può essere classificata co-
me maniera sconosciuta. Questo avviene in alcuni casi di avvelenamento e di altri fe-
nomeni insoliti (come la combustione spontanea). Se la causa ha aggravato una condi-
zione preesistente (causa contribuente), la morte deve essere classificata come naturale.
In caso di incidenti stradali, la morte, per lo più, è classificata come accidentale. Tutti i
suicidi sono classificati come omicidi, se un’altra persona, oltre alla vittima, è coinvolta
nella causa immediata di morte.

16.7 La tossicologia forense


La tossicologia è una scienza che studia i meccanismi con i quali le sostanze chimi-
che o gli agenti fisici producono effetti dannosi nei sistemi biologici. È una disciplina
plurispecialistica che ricerca il nesso causale di danno nell’interazione tra un organismo
ed una sostanza chimica, organica o inorganica, semplice o complessa, che per il fatto
di agire in senso lesivo o distruttivo viene classicamente indicata come tossico.
La tossicologia è aggettivata in: clinica, alimentare, ambientale, sperimentale, indu-
striale, veterinaria, analitica-forense.
La tossicologia analitica è la disciplina che ha per oggetto la chimica analitica dei
veleni e, pertanto, il riconoscimento dell’agente che sostiene l’intossicazione, nonché
la sua determinazione quantitativa, in qual si voglia materiale contenuto biologico e
non a fini diagnostici, d’impostazione e controllo del trattamento, nonché a fini pro-
gnostici. La tossicologia forense si occupa delle indagini della tossicologia analitica

352
La medicina forense

eseguite a fini di giustizia, destinate cioè al giudice. Sul piano organizzativo ed ese-
cutivo, le indagini di tossicologia analitica e forense appaiono ben più complesse delle
analisi tipizzate, standardizzate e preordinate di biologia clinica e chimica e ciò, so-
prattutto, per il numero elevatissimo di sostanze potenzialmente responsabili d’intos-
sicazioni, la loro diversificata struttura chimica, l’ampio intervallo delle dosi efficaci e
assumibili e quindi delle concentrazioni raggiungibili nei liquidi biologici, l’eventua-
le assunzione simultanea di più agenti farmacologicamente attivi, la non infrequen-
te assenza di indicazioni utili alla scelta delle indagini da eseguire, l’incompletezza o
l’assenza di dati certi anamnestici, l’inattendibilità o la mancanza di certezza dei dati
d’interesse giudiziario, l’assenza di sintomatologie riconoscibili specie nell’avvelena-
mento acuto e nell’overdose.
Caratteristiche della tossicologia analitica e forense sono pertanto: dimostrazione
dell’analisi, specificità delle analisi, certezza del dato, valutazione del risultato, spiega-
zione del significato del risultato.
La struttura deputata all’esecuzione delle analisi tossicologiche deve rispondere ad
alcuni indispensabili requisiti: possibilità di fornire risultati in tempi brevi; disponibili-
tà di personale addestrato in modo specifico; disponibilità di attrezzature aggiornate e
degli standard di sostanze tossiche; controlli di qualità interni ed esterni; aggiornamen-
to scientifico; collaborazione con le altre discipline correlate.
Considerando che dalle attività di laboratorio si deducono esiti analitici, cui sono
connessi rilevanti decisioni di carattere medico-legale, i centri altamente specialistici ri-
sultavano davvero insufficienti. In tale situazione, il Ministero della Salute si è posto il
problema della tutela della qualità del dato analitico, procedendo ad istituire una rete
di sette laboratori tossicologici di riferimento nazionale presso le Università di Milano,
Padova, Modena, Roma Cattolica, Napoli, Bari, Palermo.
A tali strutture sono stati demandati, tra l’altro, compiti di: stesura e validazione
di protocolli nazionali per quanto concerne le tecniche analitiche, le procedure di rac-
colta e la conservazione dei campioni biologici; la verifica e il controllo di qualità nel-
l’ambito della determinazione delle sostanze tossiche e psicotrope compiute presso gli
altri laboratori territoriali di I e II livello; la comunicazione periodica al Ministero delle
attività svolte, in particolare relativamente all’incidenza, prevalenza e alla tipologia dei
fenomeni di abuso nelle regioni per le quali il centro svolge ruolo di coordinamento;
la collaborazione, su richiesta delle istituzioni sanitarie locali nelle attività di formazio-
ne del personale di laboratorio e la consulenza per la risoluzione di casi tossicologici di
particolare complessità.
Le principali finalità della tossicologia forense sono: l’individuazione e il dosaggio
del tossico implicato; la valutazione della sua presenza.
Con riferimento alla prima finalità, si deve tenere presente che prima dell’indivi-
duazione quali-quantitativa, si deve procedere alle seguenti operazioni: estrazione del/i
tossico/i; analisi del/i tossico/i.
Per quanto concerne la seconda finalità, si deve tenere conto che la concentrazione
del tossico nel mezzo biologico che si vuole esaminare dipende da: tempo trascorso tra
assunzione e decesso o prelievo; metabolismo e catabolismo; percentuale di recupero
nella estrazione; tecniche analitiche dipendenti dalla specificità e sensibilità dei metodi
e, quindi, da appropriate conoscenze scientifiche.

353
Criminologia ed elementi di criminalistica

16.8 Le sostanze tossiche


Per veleno s’intende quella sostanza chimica che distrugge la salute o annienta in-
teramente la vita, allorquando essa penetra nell’organismo per via orale o parenterale, o
quando questa sostanza, in qualsiasi maniera, agisca sopra un corpo vivente, e tutto ciò
in piccole dosi. Per veleno, in senso medico‑legale, si intende ogni sostanza che, intro-
dotta nell’organismo, cagiona malattia, eventualmente anche la morte, con meccanismo
chimico o biochimico, ovvero, ogni sostanza capace di sviluppare nei tessuti una energia
lesiva di natura chimica o biochimica, generalmente concentrate. In definitiva, è vele-
no qualunque sostanza che, introdotta nell’organismo animale, ne cagiona malattia con
meccanismo chimico o biochimico. Estensivamente, i veleni sono sostanze organiche o
inorganiche, vegetali o animali, organizzate o non organizzate, estrattive o sintetiche, so-
lubili o atte a divenire tali, le quali, quando penetrino per una qualsiasi via nell’organi-
smo anche in dosi relativamente piccole, siano tuttavia capaci di produrre un danno alla
persona (avvelenamento, intossicazione), di varia durata ed entità, agendo direttamente
sui tessuti con azione chimica, biochimica o anche fisico-chimica.
Il meccanismo chimico, brusco nei suoi effetti, determina alterazione grossolana
della materia vivente, che subisce modificazioni relativamente semplici quali le ossi-
do‑riduzioni, le coagulazioni o le idratazioni: ne consegue, in questi casi, il facile rilievo
medico legale‑tossicologico.
Il meccanismo biochimico, graduale nei suoi effetti, comporta un’alterazione del
protoplasma delle cellule dell’organo leso, le cui modificazioni sono difficili ad essere
reperite.
In alcuni casi, è di notevole importanza la elettività che alcuni veleni hanno nei
confronti di alcuni organi del corpo umano (fegato, rene, muscoli, ecc.), così come la
dose di veleno usato. Esiste, infatti, una dose indifferente, una dose innocua, un’even-
tuale dose terapeutica, una dose massima tollerabile, una dose minima tossica, una dose
minima letale, una dose sicuramente letale. Quindi, gli effetti dannosi per dosi tossiche
propriamente dette dipendono, oltre che dall’azione specifica, farmacologicamente de-
terminabile, dalla quantità, ma anche da circostanze attinenti alla persona, alla modalità
di assunzione del veleno, alla sua capacità di assorbimento (la quale può avvenire per via
gastrica o ematica o parenterale, o per via respiratoria, ureterale, vescicale, rettale, vagi-
nale) diversa, ovviamente, se il veleno è immerso direttamente nel circolo sanguigno, o
nelle vie respiratorie per i veleni volatili, o per via parenterale o alimentare.
Ovviamente, ha anche importanza il veicolo del veleno (alcool, acqua, caffé, solu-
zione fisiologica, ecc.).
Quello che è importante, nei casi di avvelenamento, è la valutazione della idoneità
del mezzo venefico usato, la valutazione del tempo necessario perchè l’azione venefica
raggiunga il suo obiettivo e le circostanze, e per alcuni veleni, di giungere alla c.d. azio-
ne cumulativa (stricnina, colchicina, ecc.), necessaria per il veneficio.
Il codice penale individua il veneficio come concetto giuridico, nel momento in
cui fra le circostanze aggravanti dell’omicidio considera il caso in cui si sia adoperato
un mezzo venefico o altro mezzo insidioso (art. 576) e reputa parimenti una aggravante,
il fatto che un qualsiasi omicidio sia commesso col mezzo di sostanze venefiche ovvero
con altro mezzo insidioso (art. 577).

354
La medicina forense

Peraltro, non definisce in alcun modo la natura di tali sostanze, nel valido presup-
posto che sia soprattutto importante dimostrare che la morte risulti cagionata da detto
mezzo e che, d’altro canto, la nozione appartenga sostanzialmente alla scienza e non al-
la legge. Il veleno è comunque inteso come mezzo insidioso e sotto questo profilo deve
configurarsi di estrema pericolosità per la sua occultabilità e per la possibilità di essere
dissimulato.
La gravità, quindi, deriva non tanto dalle caratteristiche proprie del mezzo venefi-
co o delle sostanze venefiche, ma dalle modalità dell’uso. Relativamente alle proprietà
della sostanza, l’unica qualità particolare che discende da tali premesse è che il veleno,
per essere insidioso, deve necessariamente agire in dosi piccole e inavvertibili. Come è
noto, i veleni sono sostanze chimiche prodotte dal regno minerale, animale e vegetale,
per cui, in prima classificazione, abbiamo: veleni minerali, veleni vegetali e veleni ani-
mali, classificazione superata nel tempo e sostituita con quella di veleni metallici, veleni
volatili, veleni organici non volatili, veleni dialisabili e veleni vari.
Una precedente classificazione di Fodèrè, modificata da Orfilia, distingueva i ve-
leni in: veleni irritanti,veleni narcotici,veleni narcotico-acri, veleni settici.
Veleni irritanti: fosforo, iodio, bromo, acido solforico (olio di vetriolo), acido azo-
tico (acido nitrico, acqua forte), acido cloridrico (idroclorico, muriatico), acido fosfo-
rico, acido ossalico.
Veleni alcalini: potassa, soda, barite, ammoniaca, calce, mercurio e preparati mer-
curiali, rame e suoi composti, piombo e sue preparazioni, altri veleni metallici, antimo-
nio e sue preparazioni, arsenico e sue preparazioni.
Veleni irritanti vegetali ed animali: creosolo, brionia, dafne, ricino, euforbio, sabi-
na, celidonia, narciso, ranuncolo, cantaridi, dattero di mare.
Veleni narcotici: oppio e derivati, giusquino nero, lattuca virosa, solamina, acido
idrocianico.
Veleni narcotico‑acri: squilla, scilla marittima, aconito, elleboro nero, veratrum al-
bum, veratrum sabatilla; colchicum autumnale, belladonna, datura stramonium, ni-
cotiana tobacum, digitalis purpurea, conicina, cicuta maggiore, piccola ed aquatica,
oleandro, cianuro di iodio, noce vomica, canfora, noce di levante, funghi, segala cor-
nuta, etere solforico, cloroformio.
Veleni settici: da vipera comune, serpenti a sonaglio, insetti velenosi, scorpione, ta-
rantola, ragno delle cantine, api, vespe, calabroni.
Ma esistono, anche, avvelenamenti prodotti dalla inspirazione, dolosa, colposa o
accidentale, di sostanze gassose, tra le quali devono essere ricordate: il gas ammoniacale,
il gas‑cloro, il gas acido solforico, il gas protossido di azoto, il gas idrogeno arseniato,
l’idrogeno fosforato, il gas illuminante, l’acido carbonico, l’ossido di carbonio, il vapo-
re di carbone e il gas delle fogne.
Tutti questi veleni non operano con la medesima energia, in quanto, alcuni di es-
si, anche se somministrati in piccolissime dosi, determinano la morte dell’uomo o de-
gli animali (anche i più robusti) quasi istantaneamente, quali, ad esempio, l’acido cia-
nidrico concentrato, la stricnina e il curaro (infuso velenoso estratto da alcune piante
americane e portato in Europa nel 1800), altri, invece, manifestano il loro effetto dopo
un certo periodo di tempo e solo se introdotti a forti dosi, come ad esempio il solfato
di zinco e il sedum acre.

355
Criminologia ed elementi di criminalistica

16.9 Le forme più frequenti di avvelenamento nell’uomo


L’avvelenamento acuto, quello più frequente e che pone problemi di pronto inter-
vento, può essere volontario, a scopo omicida, a fine suicida, o per droga, così come
può essere accidentale, per errore, per imprudenza, per reazioni idiosincrasiche, in se-
guito, cioè, a reazioni presenti solo in quel soggetto, ma non negli altri (ad esempio,
somministrazione di semplice aspirina o antibiotico) o per intossicazione alimentare.
In caso di avvelenamento acuto, bisogna ricordare le grandi variabili che condizio-
nano l’evolversi dell’avvelenamento stesso, quali, la via di introduzione, le condizioni e
le capacità di risposte bioumorali individuali, nonché le caratteristiche del veleno.
La valutazione di queste variabili è importante per la impostazione di un corretto
trattamento medico che possa tentare di antagonizzare gli effetti del veleno usato.
Tra le sostanze tossiche che mietono più vittime per intossicazione acuta, certa-
mente primeggia il monossido di carbonio (CO), un gas inodore, incolore, non irri-
tante, di densità molto vicina a quella dell’aria, che brucia con formazione di anidride
carbonica (CO2).
L’estrema pericolosità è data dal fatto che il gas è praticamente inavvertibile qua-
lora sia mescolato all’aria in dosi tossiche. È presente in natura nelle esalazioni vulca-
niche, ma può formarsi da qualsiasi processo di incompleta combustione di sostanze
contenenti carbonio (carbone, legno, olio, combustibile, idrocarburi liquidi e gassosi,
ecc.) in condizioni di carenza di ossigeno, tali da impedirne la completa ossidazione ad
anidride carbonica.
Le fonti di monossido di carbonio che epongono di più al rischio di intossicazione
acuta sono, senza dubbio, quelle presenti in ambienti domestici, quando si abbia a che
fare con apparati in cui vengono bruciati derivati del carbonio, quali ad esempio: stufe,
caldaie, scaldabagni, cucine, radiatori, camini, bracieri. Il pericolo, collegato al tempo
di esposizione e alla concentrazione del gas nell’ambiente, si concretizza nel momento
in cui la combustione avviene all’interno di uno spazio confinato senza le opportune
cautele, in presenza di limitate quantità di ossigeno, o allorché l’impianto manifesti un
cattivo funzionamento.
Un’altra fonte è data dal gas di città o gas illuminante, che contiene come com-
bustibile monossido di carbonio in quantità variabile dal 5% al 14%. Perdite o rottu-
re nel sistema di distribuzione possono portare ad una invasione di locali abitati senza
che il gas venga avvertito.
Anche lo scarico di autovetture ha la possibilità di provocare avvelenamento da
monossido di carbonio, soprattutto, se si lascia il motore acceso in uno spazio chiuso co-
me può esserlo un’autorimessa.
Il monossido di carbonio è anche un componente in piccolissime percentuali del-
l’atmosfera e, a causa soprattutto del traffico veicolare, ne rappresenta uno dei princi-
pali inquinanti.
La pericolosità per l’uomo è dovuta al fatto che il monossido di carbonio, posse-
dendo una affinità da 200 a 300 volte superiore a quella dell’ossigeno per l’emoglobi-
na, proteina contenuta nel sangue, e responsabile del trasporto di ossigeno ai tessuti,
nella respirazione, a livello alveolare nel plasma, si fissa ad essa in maniera preferenziale
dando origine alla carbossiemoglobina (HbCO) e impedisce invece la formazione di

356
La medicina forense

ossiemoglobina (HbO2), garante dei normali processi di ossigenazione. I sintomi del-


l’avvelenamento da monossido di carbonio dipendono dalle concentrazioni di HbCO
nel sangue. Valori che vanno fino al 10% rispetto alla emoglobina totale non compor-
tano segni evidenti di intossicazione, che si manifestano invece per percentuali di Hb-
CO, dal 20 al 60-70%. Si ritiene, a riguardo, che la concentrazione è fatale quando i
2/3 dell’emoglobina sono combinati con il monossido di carbonio (il coefficiente letale
è convenzionalmente indicato nel 66,6% di HbCO).
Va ricordato che può esservi una diversa risposta individuale all’agente tossico con
la possibilità di produrre anche un abbassamento della soglia da ritenersi mortale. Ne-
gli anziani, in ragione di una diminuita capacità respiratoria, il pericolo di morte viene
indicato per valori anche inferiori al 50% di HbCO.
L’estrema insidiosità del monossido di carbonio, gas subdolo perché inavvertibile,
che, per esempio, in concentrazioni dello 0,15%-0,2% nell’aria, conduce a morte in
circa mezz’ora, fa sì che numerosissime siano le intossicazioni acute mortali di natura
accidentale, meno frequenti i suicidi, estremamente rari i casi di omicidio.
La necessità di raggiungere risultati certi in relazione alla causa della morte, come
sempre deve avvenire quando si opera a fini di giustizia, impone che la diagnosi di in-
tossicazione acuta mortale da monossido di carbonio debba scaturire da una corretta valu-
tazione dei criteri a disposizione.
Alla ispezione esterna, l’avvelenamento da monossido di carbonio è ipotizzabile
allorchè il cadavere mostri le ipostasi di colore rosso vivo e, al riscontro dell’autopsia, sia
il sangue, sia i visceri, presentino anch’essi la stessa colorazione dovuta alla carbossie-
moglobina. Bisogna tuttavia fare attenzione perché lo stesso colore può essere provoca-
to anche da intossicazione acuta da cianuri o da prolungata esposizione del cadavere al
freddo. Particolare importanza riveste a fini giudiziari la determinazione del monossido
di carbonio nei soggetti periti per i traumi provocati da incidenti, nei quali si siano svi-
luppati incendi. La presenza in quantità di rilievo di HbCO nel sangue, è testimonian-
za del fatto che il deceduto fosse vivo durante l’incendio e sia venuto a morte successi-
vamente, dopo aver respirato in un ambiente ricco di monossido di carbonio, quale è
quello in cui si sviluppa una combustione disordinata.
L’assenza di HbCO o la presenza in trascurabili e usuali quantità rappresenta la
prova che il soggetto fosse morto prima del propagarsi del fuoco.
In sede di indagine tossicologica, la dimostrazione dell’ossido di carbonio nel san-
gue e nei tessuti cadaverici si effettua attraverso la spettroscopia di assorbimento, che con-
sente di evidenziare le bande di assorbimento della carbossiemoglobina.
Possiamo ricordare, l’avvelenamento da barbiturici, usati in terapia, perché agisco-
no sul sistema nervoso centrale, determinando effetti sedativi, ipnotici e anestetici;
adoperati anche come rimedio per l’epilessia. Per la loro capacità di dare, dopo prolun-
gato abuso, dipendenza psichica e fisica, con conseguenti crisi di astinenza e tolleranza,
sono stati inseriti tra gli stupefacenti.
L’abuso da barbiturici non è un fenomeno molto esteso nel nostro Paese, anche
perché l’uso terapeutico di tali farmaci, estremamente diffuso negli anni sessanta, è sta-
to, in parte, soppiantato da altri prodotti meno tossici, in particolare dalle benzodiaze-
pine, tranquillanti minori che, tuttavia, per la loro capacità di dare dipendenza, sono
stati inclusi tra gli stupefacenti.

357
Criminologia ed elementi di criminalistica

Più diffuso è l’avvelenamento da funghi. Le specie di funghi che determinano intos-


sicazioni e morte del soggetto assuntore sono: Amanita verna, Amanita virosa e Ama-
nita phalloides.
Questi funghi, che conducono il soggetto a morte dopo diversi giorni, sono re-
sponsabili dell’azione citotossica, con segni di compromissione cellulare a carico, pre-
valentemente, dei distretti cardiocircolatori, epatico-renale e del sistema nervoso.
Nell’avvelenamento da Amanita phalloides, i sintomi da intossicazione acuta in-
sorgono dopo 8-13 ore, con coinvolgimento iniziale a localizzazione gastro-enterica
(vomito, diarrea, spasmi addominali) e conseguenziale interessamento del sistema neu-
ropsichico per la presenza di ansia-reattiva, disorientamento, e stato di astenia generale.
Resta totalmente integro il sensorio con chiara coscienza dello stato generale.
La fase successiva è da considerare clinicamente la più pericolosa, in quanto inte-
ressa il fegato, con compromissione sia della struttura epatica, che dei valori degli en-
zimi (transaminasi) che appaiono, in toto, aumentati, con rischio di shock da insuffi-
cienza cardio-respiratoria e diminuzione della frequenza cardiaca.
La quantità in funghi ritenuta letale è attorno ai 50-70 grammi pro-capite, e tale
azione nefasta è inversamente proporzionale al peso corporeo, essendo molto più ac-
centuata nei bambini, ove si instaura un’azione venefica molto più veloce, per minore
resistenza dei soggetti.
In sede di indagine tossicologica si utilizza la cromatografia su strato sottile, con
estrazione, mediante metanolo e filtrato evaporato, che consente l’isolamento delle tos-
sine e la successiva conta percentuale.
Frequente, talvolta, l’avvelenamento da botulismo. Il meccanismo patogenetico del-
l’intossicazione da botulismo consiste nell’ingestione di alimenti in cui il bacillo sia
cresciuto e abbia prodotto tossine. Solitamente, i cibi alcalini, prodotti in casa e insca-
tolati o affumicati senza cottura sono capaci di elaborare la tossina, avvantaggiati dalla
condizione di anaerobiosi che fa germinare le spore. Poiché le spore del Clostridium
Botulinum si trovano distribuite nel suolo, avviene una contaminazione delle verdure
e della frutta. Inoltre, ciò si verifica per gli alimenti inscatolati e non sufficientemente
riscaldati, per mancata distruzione delle spore.
Dopo 20-100 ore dall’ingestione degli alimenti contenenti la tossina, ha inizio una
sintomatologia con disturbi visivi che interessano l’oculomozione con incoordinazione
motoria e diplopia. Tale quadro sindromico si aggrava, con difficoltà, sia nella parola
che nella deglutizione. L’evoluzione del quadro è drammatica, in quanto, si perviene ad
un interessamento dei centri cardio-respiratori bulbari, situati nel midollo cervicale. I
disturbi gastrointestinali sono relativi e di scarsa entità, mentre non si riscontra febbre,
e il sensorio è integro, con regolare orientamento temporo-spaziale. Il paziente resta lu-
cido e conscio sino alla morte.
Avvelenamento da nitriti sostanze che rappresentano uno dei gruppi delle sostanze
tossiche gassose, intese come veleni volatili, venendo adoperate, fin dagli anni settanta,
negli Stati Uniti e, recentemente, anche in Europa, nonché in Italia. I nitriti alchilici,
vengono definiti come la cocaina dei poveri e vengono commercializzate in bottiglie, sia
di nitrito di amile che di isobutile, ad un prezzo molto accessibile.
Nel nostro Paese, questo tipo di abuso è diffuso, specialmente, tra i tossicodipen-
denti in carcere, e ha usualmente per oggetto i gas propano e butano contenuti nelle

358
La medicina forense

bombolette di gas combustibile (camping gas). Questi preparati si trovano in svariati


deodoranti, e la loro inalazione determina una veloce vasodilatazione con ipertermia,
aumento della frequenza cardiaca e consensuale lieve senso di euforia che, dato l’azione
repentina, cessa nel breve volgere di alcuni secondi. L’effetto farmacologico si estrinse-
ca con la sola inalazione in quanto l’ingestione per via orale determina la degradazione
del nitrito alchilico in composti inattivi.
Negli ultimi tempi, la produzione clandestina di droga, soprattutto negli Stati
Uniti, si è indirizzata verso la produzione di analoghi di sintesi o designer drugs, potenti
droghe sintetiche ottenute a partire da stupefacenti già inseriti negli elenchi di legge.
Gli analoghi di sintesi, pur derivando da molecole sotto controllo, presentano delle
variazioni nella struttura chimica che ne fanno dei nuovi prodotti, che possono libera-
mente circolare, almeno per un certo periodo, perché non ancora inclusi negli elenchi
di legge.
Dal punto di vista chimico-tossicologico forense, risulta opportuno saggiare cam-
pioni sia di sangue che di urine, estendendo l’indagine al parenchima polmonare nei rari
casi mortali. Opportuno, nei casi di intossicazione da nitriti alchilici, adoperare il co-
siddetto metodo di cromatografia.
Negli ultimi anni, è aumentato l’uso di composti inquinanti definibili come so-
stanze aromatiche alogenate. Fra queste, vengono citate i clorofenoli che sono stati te-
stati nell’acqua delle condotte urbane e i policlorobifenili (PCB) con effetti di conta-
minazione sia sul suolo che sull’acqua.
Fin dal 1936, è stato messo in commercio il pentaclorofenolo come diserbante e
antiparassitario per le piante. Recenti studi condotti da un gruppo di ricercatori del-
l’Università tedesca di Bajereuth avrebbero stabilito la presenza di alti livelli di queste
sostanze nelle maglie di cotone e di altri indumenti. La causa della contaminazione, si
pensa sia dovuta alla presenza del penteclorofenolo (Pcp), una sostanza organica usa-
ta dall’industria tessile per il trattamento contro le muffe durante l’immagazzinamen-
to degli abiti.
Queste sostanze chimiche, venendo a contatto con la pelle, sono successivamente
assorbite dal corpo con conseguenze pericolose per la salute. Invece, l’esaclorofene vie-
ne adoperato come antibatterico in deodoranti e saponi ed è stato ritrovato in ambienti
esterni, in quanto capace di resistere alle trasformazioni biologiche, mentre il pentaclo-
rofene presenta elevato potere tossico con effetti neurotossici e possibilità di liberare
composti dibenzofuranici, e le cosiddette dibenzo-p-diossine con straordinario potere
tossico, nonché incidenze su vari distretti corporei.
Ed ancora, la TCDD (tetracloro-dibenzo-p-diossina) è un composto dotato di
potere sia tossico che teratogeno con influenze di tipo distruttivo sia sul parenchima
epatico che, principalmente, sul timo, con fenomeni di atrofia e che induce la forma-
zione di tumori. L’inquinamento ambientale del TCDD è da imputare al suo elevato
potere biologico con possibilità di cronicizzazione dei disturbi. Da stigmatizzare la pos-
sibilità, non ancora accertata, di rischi a carattere genetico con potenzialità di malfor-
mazioni, intese come danno futuro teratogeno.

359
Criminologia ed elementi di criminalistica

16.10 La perizia tossicologica


Al fine di svolgere indagini o acquisire valutazioni che richiedono specifiche com-
petenze tecnico-scientifiche, l’art. 220 e segg. del Codice di Procedura Penale, preve-
de che il giudice possa disporre la perizia tossicologica. Si tratta sempre di un mezzo di
prova ammessa, nei casi di lesioni o di morte, e cioè, quando occorre svolgere inda-
gini su organi in vivente, acquisendo dati o valutazioni circa l’azione lesiva prodotta
da una sospetta sostanza tossica o da un veleno introdotti subdolamente a fini lesivi
od omicidiari, ma anche liberamente, a fini suicidi, o sul cadavere in caso di deces-
so sospetto.
La diagnosi di avvelenamento deve trovare fondamento nel convergere in maniera
univoca in una serie di elementi di giudizio che scaturiscono dall’applicazione di più
criteri:

1. clinico;
2. circostanziale;
3. anatomo-patologico;
4. biologico;
5. chimico-tossicologico.

Si può porre diagnosi di avvelenamento quando tutti i criteri a disposizione con-


cordano o sono compatibili verso la stesa diagnosi e nessuno di questi è discordante.
Non è sufficiente identificare la sostanza chimica con cui l’organismo è venuto a con-
tatto, ma è necessario anche precisare se il contatto è avvenuto con dosi e concentrazioni
tossiche e per una via che consente, alla sostanza stessa, di superare le barriere naturali
dell’organismo e di raggiungere gli organi o tessuti bersaglio.

1. Criterio clinico

Il criterio clinico attiene alla conoscenza della sintomatologia presentata dal sogget-
to prima della morte, in base alla quale si possa desumere uno stato di avvelenamento
e anche individuare la qualità del veleno. È indubbio che se la raccolta di elementi cli-
nici è stata effettuata da personale sanitario esperto, il criterio avrà di certo maggior ri-
levanza. È vero anche che, di rado il quadro clinico, nei casi di intossicazione, presenta
i caratteri di specificità che permettano un riferimento concreto diretto verso un de-
terminato composto o gruppo di sostanze. È evidente, poi, che non sempre si hanno a
disposizione gli elementi di giudizio collegati al criterio clinico, essendo frequente, nel-
l’avvelenamento, che la morte sopravvenga prima che qualcuno abbia la possibilità di
osservare i fenomeni morbosi che l’hanno preceduta.

2. Criterio circostanziale

II criterio circostanziale o delle circostanze estrinseche si fonda sull’acquisizione e


valutazione di tutte le notizie collegate all’evento che ha portato all’avvelenamento, e
che vengono generalmente raccolte dall’autorità inquirente.

360
La medicina forense

Tale criterio, è detto anche storico-anamnestico, in quanto, l’anamnesi deve ri-


guardare le abitudini di vita e di lavoro, nonché la disponibilità di farmaci e di tossici.
Il criterio circostanziale attiene a dati raccolti dal paziente, dai familiari e cono-
scenti, o dai verbali delle forze dell’ ordine, di fatti e circostanze nelle quali le manife-
stazioni che hanno dato origine al sospetto di avvelenamento si sono verificate. Tali cir-
costanze possono riguardare l’ambiente, gli alimenti, i farmaci, e, così via.
La conoscenza dei fatti assume un ruolo fondamentale, non solo nel quadro ge-
nerale della diagnosi di avvelenamento, ma anche al fine di integrare gli altri elementi
di giudizio.
Peraltro, nel criterio circostanziale, confluiscono anche tutti i dati del sopralluo-
go che spesso possono essere di grande utilità. Il ritrovamento, ad esempio, di sostanze
(preparazioni farmaceutiche, prodotti chimici, ecc.) nei pressi del cadavere può rappre-
sentare un elemento di notevole aiuto per l’identificazione del veleno.

3. Criterio anatomo- patologico

Il criterio anatomo-patologico consiste nell’acquisizione e nel rilievo di tutti gli ele-


menti che provengono dall’esame esterno del cadavere e dall’autopsia.
Pur nella considerazione che non sempre il quadro anatomo-patologico offre dati
utili ai fini dell’inquadramento dell’avvelenamento, si deve ritenere tale criterio mol-
to importante, sia per il rilievo che può avere persino il dato negativo, ossia non aver
trovato altra causa di morte, sia per l’aiuto che, in determinate circostanze, può deri-
vare da una corretta valutazione di tutte le alterazioni microscopiche o macroscopi-
che presenti nei vari organi dovute all’azione tossica di una determinata molecola. Si
pensi, ad esempio, all’avvelenamento da monossido di carbonio, nel quale, il quadro
anatomo-patologico è caratterizzato da un colore rosso vivo, in special modo delle mac-
chie ipostatiche e dei visceri, dovuto alla presenza della carbossiemoglobina, compo-
sto estremamente stabile, la cui struttura chimica viene difficilmente alterata dai fe-
nomeni cadaverici.

4. Criterio biologico

II criterio biologico o fisiotossico consiste nella somministrazione ad animali, apposi-


tamente scelti per la loro sensibilità (rane, topi, pesci), o a preparazione di organi isolati
oppure a sangue fresco, di sostanze sospettate di contenere un determinato veleno.
Tale criterio, attualmente, riveste un ruolo secondario nel contribuire alla diagnosi
di avvelenamento, in quanto lo sviluppo del laboratorio di Tossicologia Forense ha re-
so obsoleto tale criterio.

5. Criterio chimico-tossicologico

Si fonda sulla dimostrazione della presenza del veleno nel materiale biologico, e la
valutazione del dato ottenuto in relazione al suo significato farmaco-tossicologico, alla
capacità di indurre la lesività di tipo tossico riscontrata o che comunque poteva pro-
durre.

361
Criminologia ed elementi di criminalistica

La tossicologia forense, come disciplina, è nata quale risposta al criterio chimico


della diagnosi di avvelenamento.
Invero dopo un periodo in cui si diede grande importanza alle prove che veniva-
no offerte dal laboratorio, dalla seconda metà del ‘800, la disciplina cadde in disgrazia.
Erano stati commessi evidenti errori che dimostravano come l’indagine chimico-tossi-
cologica non era ancora all’altezza del difficile compito.
Infatti, Selmi, nel 1872, identificò le ptomaine, sostanze endogene prodotte dalla
putrefazione, che potevano essere scambiate, con facilità, per alcaloidi naturali di origine
esogena e, quindi, indurre in errore riguardo la presenza di veleni assunti dalla vittima.
Peraltro, le ptomaine, dotate di elevata tossicità, erano in grado di falsare anche le
risposte che provenivano dal criterio biologico, causando, con la loro presenza negli
estratti dei visceri, la morte dell’animale al quale venivano somministrate. In questo
contesto, fu giustamente data maggiore importanza agli altri criteri, in base ai quali,
anche in assenza di dati chimico-tossicologici, si preferiva giungere ad una corretta dia-
gnosi di avvelenamento. Se da un lato fu necessario attribuire più valore alla valutazio-
ne delle circostanze del fatto, dall’altro, assunse notevole rilievo il cosiddetto criterio
antropologico, consistente in ogni investigazione sulle condizioni individuali, somati-
che e psicologiche, del presunto autore del reato.
Attualmente, la tossicologia analitica ha compiuto tanti e tali progressi da permet-
tere il riaffermarsi del ruolo fondamentale che compete al criterio chimico. Il raggiun-
gimento di elevate prestazioni del laboratorio di Tossicologia Forense, unito al livello
delle conoscenze farmaco-chimiche e tossicologiche, rende obbligatoria l’esecuzione
del criterio chimico nella diagnosi di avvelenamento.
La dimostrazione chimica della presenza del veleno nei visceri, pur nel contesto de-
gli altri criteri, per il suo carattere di concreta oggettività, rappresenta, sicuramente, un
elemento di valutazione di estremo rilievo.
La diagnosi di avvelenamento deve scaturire dall’insieme di tutti gli elementi di
giudizio emersi dai criteri atti a dimostrare un nesso causale tra l’azione lesiva di natura
chimica e la morte. Soltanto dopo averne verificato l’univoca corrispondenza, si potrà
giungere a una affermazione di certezza o di elevata probabilità.
Nell’ambito della perizia tossicologica, ordinata dal magistrato, a latere o come ap-
profondimento della perizia necroscopica, nelle autopsie giudiziarie, in circostanza di
sospetto avvelenamento, risulta essenziale e inevitabile la rilevazione sistematica estesa
sul cadavere. Per quanto concerne la metodologia dell’indagine chimico-tossicologica,
il punto di partenza risiede, sicuramente, nella raccolta e nella conservazione del mate-
riale biologico. Tutto quanto prelevato, non va lavato ai fini di evitare la diluizione di
eventuali tracce venefiche. Quanto prelevato, va depositato in vasi di vetro nuovi, pre-
ventivamente trattati con acqua acidulata, con piccole dosi di acido cloridrico e poi con
acqua ed alcool. Posti i campioni prelevati in questi barattoli di vetro, senza aggiunta di
alcuna sostanze o liquidi conservatori che falserebbero le successive indagini tossicolo-
giche, si procede alla loro chiusura ermetica.
Vengono, poi, mantenuti in congelatore ad una temperatura al di sotto di 20° C,
sino al momento dell’analisi clinico-tossicologica. Nel caso del sangue, è opportuno ag-
giungere a una frazione di esso un antifermentativo (ad esempio, fluoruro di sodio), al
fine di impedire alcune trasformazioni legate all’attività enzimatica (ad esempio gluco-

362
La medicina forense

sio in alcool etilico). Nei casi di esumazione di cadavere, devono essere prelevati anche
pezzettini della cassa, in quanto, proprio nello zinco, si depongono alcuni veleni come
l’arsenico, per cui, tale riscontro, anche da solo, assume il valore di reperto perentoria-
mente dimostrativo. Procedure, queste, che rappresentano fasi delicate e importanti,
dalle quali può dipendere la correttezza delle successive analisi.
Sui prelievi necessari al fine di condurre una corretta ed esaustiva indagine chimi-
co-tossicologica nei decessi per avvelenamento, non si è tuttora raggiunta una posizio-
ne concorde, sia a livello nazionale, sia a livello internazionale. Non appare, peraltro,
ancora vicina, la possibilità d’adozione di un protocollo comune, la cui realizzazione
trova molti ostacoli nelle prassi procedurali, a volte derivanti da precise impostazioni
culturali, ormai consolidatesi nei diversi laboratori di tossicologia forense.
In linea di massima, nei decessi da imputarsi ad avvelenamento, debbono essere con-
siderati indispensabili i prelievi di sangue, urine, bile, e contenuto gastrico, mentre ul-
teriori campioni biologici possono essere fegato, rene, encefalo e polmoni, ma anche,
in aggiunta, capelli, umor vitreo, tamponi nasali, sede di iniezione. Va tuttavia sottoli-
neato che, in particolari situazioni legate sostanzialmente all’evento sul quale s’indaga,
la scelta del tipo di prelievi da effettuare deriva dalle richieste ritenute necessarie per la
risoluzione del caso, provenienti dall’autorità giudiziaria.
Le quantità di prelievo debbono essere abbondanti (ad es., 100 millilitri per san-
gue e urine, e 100 grammi per fegato, rene, encefalo e polmoni, la bile e il contenuto
gastrico per intero), in relazione al fatto che le procedure d’indagine sono complesse e
articolate e non escudono la possibilità che le diverse prove debbano essere ripetute e
anche rinnovate con tecniche diverse.
In realtà, tra tutti i prelievi necessari per l’indagine chimico-tossicologica, non v’è
dubbio che il campione ematico rappresenta il materiale di elezione, sia per il fatto che
il dato di concentrazione ematica è meglio correlato allo stato di intossicazione e al-
l’azione farmacologica in atto nel momento del decesso, sia perché i livelli nel sangue
dello xenobiotico, ritenuti tossici e letali, sono ugualmente riportati nelle casistiche tos-
sicologico-forensi e, quindi, permettono un fondamentale confronto.
È necessario, poi, tener conto del fatto che è stata ormai dimostrata una ridistri-
buzione post-mortale delle molecole esogene nei diversi distretti corporei, con scambi
tra sangue e tessuti.
In questa ottica, dal momento che la concentrazione post-mortem dell’analita nel
sangue cardiaco, in genere, può crescere per fenomeni di ridistribuzione, mentre nel
sangue periferico, meno soggetto a modificazioni, tende a rimanere costante, divie-
ne opportuno prelevare campioni ematici, sia dal cuore, sia da un vaso periferico, che,
per certo, rappresenta un reperto maggiormente indicativo della quantità presente al
momento del decesso. Inoltre, in determinate situazioni, il sangue cardiaco può essere
contaminato, sia a causa di traumi, sia per il rilascio di molecole esogene dai tessuti cir-
costanti; in questi casi, un campione di sangue che provenga da un altro distretto cor-
poreo può essere utile per l’ interpretazione dei risultati.
A volte, è opportuno procedere ad ulteriori prelievi rispetto a quelli di base. Se, ad
esempio, si sospetta una morte da arsenico, è bene avere a disposizione capelli ed un-
ghie, sedi peculiari di accumulo del veleno, così come frammenti di ossa, nell’ipotesi di
intossicazione da metalli.

363
Criminologia ed elementi di criminalistica

Nelle morti da droga, i capelli, la cui crescita è mediamente di circa cm. 1-1,5 al
mese, possono fornire utili informazioni in relazione al pregresso uso delle più comuni
sostanze stupefacenti che, come tali o trasformate nei loro metaboliti, si fissano nelle
strutture cheratiniche. Se si ha il sospetto di sostanze iniettate o applicate in una deter-
minata parte del corpo, è necessario analizzare tessuti provenienti da tali sedi.
Talvolta, è importante avere a disposizione l’umor vitreo, non solo perché dotato di
maggior resistenza ai fenomeni putrefattivi rispetto ad altri campioni biologici, ma an-
che per lo stretto legame riguardo al contenuto chimico con il liquido ematico.
È anche vero che l’analisi dell’etanolo nell’umor vitreo può aiutare nella interpre-
tazione della concentrazione post-mortale dell’alcool nel sangue.
Un aspetto fondamentale nell’approccio tossicologico-forense, nei casi di sospet-
to avvelenamento (da omicidio o suicidio) che ha destato sempre grande interesse sul
piano medico-legale, è quello del dato negativo, ma, soprattutto, della sua motivazione:
cioè il de cuius non è deceduto per avvelenamento, e ciò, per tali motivazioni. Infatti,
nell’ambito della tossicologia forense, possono essere distinti dei momenti ben precisi:
l’indagine di laboratorio che porta all’acquisizione qualitativa e quantitativa del dato
analitico (tossicologia analitica) e l’interpretazione e motivazione dello stesso. Nel nuo-
vo processo penale, si mira unicamente a provare l’ipotesi delittuosa, per cui, l’avvele-
namento va considerato nella motivazione del dato negativo: nel senso dell’esclusione
del sospetto.
L’eventualità che l’indagine generica non conduca a verificare la presenza nei visce-
ri e nei liquidi biologici di alcun composto, deve essere oggetto di attenta valutazione.
Oltre al convincimento, che peraltro dovrà essere confortato dagli altri elementi
di giudizio, che non sia stato assunto alcun veleno, sono da vagliare anche altre ipotesi:
che l’eventuale sostanza tossica non sia stata ricercata in quanto non compresa nel proto-
collo di analisi; che attraverso i metodi generali di screening non sia stata raggiunta una
sensibilità tale da permettere il ritrovamento delle molecole; che la sostanza abbia subìto
processi di trasformazione nel cadavere per cui non è più rintracciabile o comunque è
indistinguibile rispetto ai componenti biologici; o ancora, che il veleno assunto dalla vit-
tima, sia stato completamente eliminato, evenienza questa che si può verificare quando
un soggetto sopravvissuto a lungo all’intossicazione acuta sia poi deceduto a causa delle
modificazioni patologiche provocate dall’avvelenamento.
Il dato negativo non potrà pertanto essere inteso in senso assoluto, ma deve essere
valutato nel contesto di tutti gli altri criteri.
Nel caso poi che si raggiunga il convincimento di un avvelenamento anche in as-
senza di una risposta analitica affermativa, il dato negativo deve essere attentamente
giustificato.
Una risposta positiva, ossia il rinvenimento nei visceri di un composto di natura
esogena, se avviene nell’ambito di un’indagine generica, con il carattere precipuo del
dato qualitativo, deve essere seguita da una corretta determinazione quantitativa, da ef-
fettuarsi con metodiche specifiche ed idonee ad ottimizzare il recupero e che servano
anche a confermare il risultato.
Per l’interpretazione dei dati quantitativi, al fine di valutare se i livelli nei tessuti
e nei liquidi biologici siano indicativi di assunzioni in quantità terapeutiche, tossiche,
o addirittura letali, si deve fare affidamento alla letteratura che offre un’ampia casisti-

364
La medicina forense

ca degli avvelenamenti e, soprattutto, dei dati relativi alle concentrazioni ematiche, te-
rapeutiche e tossiche, di numerosi composti. I tentativi per conoscere la reale quantità
di sostanza assunta, quasi mai ottengono dei risultati, specialmente per l’insufficienza
dei dati a disposizione che non permettono una corretta ricostruzione dei processi far-
maco-cinetici.
Di notevole interesse, può essere, talvolta, la comparazione dei livelli di concentra-
zione di una sostanza tossica e dei suoi prodotti di trasformazione nei vari organi e tes-
suti per verificare che non si tratti di una penetrazione post-mortale e per valutare i dati
sotto il profilo temporale. In realtà, in alcune occasioni, lo studio dei processi metabo-
lici del composto tossico esogeno, alla luce della sua farmacocinetica, può essere impor-
tante e di notevole aiuto per la ricostruzione della cronologia della morte.
In ultima analisi, la valutazione del dato analitico deve condurre all’acquisizione
di elementi utili, che saranno finalizzati, non solo al consolidamento della diagnosi di
avvelenamento nell’insieme della criteriologia medico legale, ma anche all’ottenimento
di risposte importanti nel contesto delle indagini spesso complesse.
Diviene, quindi, di grande interesse, sia ricercare il nesso causale tra l’assunzione del-
la molecola e la morte attraverso la valutazione dei livelli tossici, sia poter ottenere no-
tizie sul tempo di sopravvivenza, sulla via di somministrazione, sugli effetti provocati
dalla presenza di altre molecole e su pregresse assunzioni.
Per quanto concerne la modalità di esecuzione della perizia tossicologica, l’esigenza
di prova che la caratterizza, non diversamente da qualsiasi altra materia applicata per
finalità di legge, comporta delle problematiche tutte particolari. Un primo punto, ri-
guarda la scelta della tecnica analitica: questa deve possedere caratteristiche di elezione,
vale a dire deve essere dotata di specificità, elevata sensibilità e affidabilità, intendendo
per affidabile, una metodica di indagine comparativamente e positivamente sperimen-
tata per un tempo adeguato. Un secondo aspetto attiene alla metodologia di esecuzio-
ne che deve offrire la possibilità, nei casi in cui è realizzabile, di confermare il dato ot-
tenuto con una diversa tecnica analitica, ed eventualmente, anche di salvaguardare la
ripetibilità dell’indagine medesima, mediante un’idonea conservazione del materiale.
Nell’ambito delle differenti possibilità di intervento tecnico previste dal Codice di pro-
cedura Penale, l’oppurtunità di eseguire indagini in epoche diverse, assume un’impor-
tanza notevole dal punto di vista procedurale.
Questione di elezione, se non esclusiva della tossicologia forense, è quella lega-
ta alla valutazione del dato analitico ottenuto. Ciò presuppone che non si debba ri-
tenere conclusa la propria opera con l’esecuzione pura e semplice delle analisi, bensì
valutare, ai fini della rilevanza giuridica, l’eventuale danno prodotto dalla sostanza
tossica.

16.11 La prassi della perizia tossicologica


La prassi della perizia tossicologica, in senso stretto, consiste nella fase di estra-
zione del tossico dai tessuti degli organi o dai frammenti da essi prelevati, compresi il
sangue e, ove possibile, le urine prelevate nel corso dell’autopsia con apposito catete-

365
Criminologia ed elementi di criminalistica

re, cui segue la fase dell’analisi propriamente detta, cioè il riconoscimento della sostan-
za estratta e, ove possibile anche la sua determinazione quantitativa. Talvolta, è possi-
bile far precedere l’indagine sistematica da test di screening da eseguire direttamente
sui liquidi biologici che comprendono saggi colorimetrici o spot test e tecniche immu-
nochimiche, che hanno validità specialmente come test di esclusione, e che in caso di
positività vanno sicuramente confermati. I quesiti fondamentali riguardano, pertanto,
l’accertamento della qualità del tossico e ove possibile la sua quantità, certa o presunta.
Se sul piano anamnestico e clinico si hanno sospetti su una determinata sostanza, il pe-
rito procederà con accertamenti sugli organi sui quali tale sostanza sospetta, sul piano
scientifico e dell’esperienza, è facilmente reperibile (l’arsenico, ad es., come anidride
solforosa nei polmoni ecc.).
Se, invece, non si hanno indicazioni orientative sospette, il perito dovrà usare il
metodo sistematico di ricerca, cioè, procedere per stadi secondo i seguenti raggruppa-
menti: veleni volatili, veleni metallici, veleni organici, anioni tossici, sostanze diverse
che richiedono speciali tecniche estrattive.
Veleni volatili o gassosi o comunque estraibili con una corrente di vapore, ottenen-
do dalla pappa cadaverica un distillato neutro, uno acido e uno alcalino, per cui, su
ognuna delle tre porzioni, con opportune reazioni, si procede alla ricerca della sostan-
za appartenente al gruppo specifico. Le sostanze reperibili in questo raggruppamento
possono essere l’etere, l’acetone, il cloroformio, il cloralioidrato, il tetracloruro di car-
bonio, le aldeidi, il cianuro, il fosforo, la canfora, e così via.
Veleni metallici estraibili dalla poltiglia dei visceri attraverso la bollitura con acido
cloridrico e con clorato potassico (metodo di Fresenius-Babo). Ma esistono anche altri
metodi più moderni. Nel liquido ottenuto, con procedimenti di chimica analitica, si
eseguono le ricerche dei singoli gruppi di metalli e le sostanze tossiche ottenute posso-
no essere mercurio, rame, piombo, arsenico (anche se metalloide con caratteri metalli-
ci), bario, bismuto, antimonio, argento, ecc.
Veleni organici estraibili dalla poltiglia dei visceri attraverso trattamento in alcool
diluito con l’aggiunta di acido tartarico. Per filtrazione e spremitura, si separa la solu-
zione idroalcoolica dalle parti organiche coagulate dall’alcool; con ripetute concentra-
zioni, si fanno precipitare i grassi che, pure, si asportano per filtrazione. Nel soluto re-
siduo rimangono le eventuali sostanze tossiche.
Tra tali veleni, rientra la stragrande maggioranza delle sostanze usate a scopo te-
rapeutico come medicinali, che generalmente sono dotati, al di là di una determinata
dose, di intrinseca tossicità, tanto che molte di esse, con varie ordinanze ministeriali,
sono state tolte dal commercio.
In questo gruppo, vengono inseriti i barbiturici, gli alcaloidi, le sostanze stupefa-
centi, i tranquillanti, gli psicofarmaci, i derivati dell’acido salicilico, le ammidi ipnoti-
che, in genere, gli anfetaminici, i farmaci psicoplegici, gli antidepressivi, e così via.
Gli avvelenamenti dovuti agli anioni tossici (permanganati, borati, clorati, ioduri,
ecc.) non sono frequenti. Il materiale di elezione da analizzare è di solito il contenuto
gastrico.
I test di identificazione sono applicati dopo una fase di separazione degli anioni
che può essere attuata o attraverso una semplice filtrazione, o per mezzo di dialisi, o
tramite precipitazione proteica.

366
La medicina forense

Infine, abbiamo alcune sostanze di notevole interesse tossicologico costituite da


sali di ammonio quaternari (erbicidi, tensioattivi cationici ecc.), la cui caratteristica è
quella di essere insolubili in solventi organici, e, quindi, rendono necessario il ricorrere
a tecniche estrattive particolari (estrazione ion-pair, colonne a scambio ionico, ecc.).
Sul piano tossicologico e medico-legale, malgrado gli sforzi fatti dalla scienza mo-
derna, è impossibile l’individuazione specifica e singola dei vari veleni elencati.
Va anche sottolineato il fatto che è utopistica e tecnicamente irrealizzabile la ricer-
ca nel materiale cadaverico di tutte le potenziali sostanze tossiche, in quanto il concet-
to stesso di veleno assume caratteristiche di relatività che non consentono di coprire,
con l’analisi, la globale quantità delle sostanze conosciute. La risposta, invece, che deve
scaturire dall’applicazione del protocollo del laboratorio di tossicologia forense, con-
cerne soltanto la presenza, o meno, nel materiale analizzato, in quantità rintracciabili,
in riferimento alla sensibilità dei metodi analitici applicati, delle sostanze che sono sta-
te oggetto di ricerca.
L’indagine chimico-tossicologica può avere percorsi e caratteristiche diverse. Nel
caso in cui gli elementi di giudizio raccolti attraverso gli altri criteri inducano il sospet-
to che a provocare il decesso sia stata una determinata molecola o una specifica fami-
glia di composti, la ricerca ha i crismi di un’indagine specifica o mirata verso quel de-
terminato obiettivo.
Si tratta, invece, di effettuare una ricerca generica, nella quale le prove tecniche do-
vranno essere indirizzate nella maniera più ampia, quando non si ha il supporto di in-
dicazioni specifiche sulla natura del veleno. In concreto, l’indagine generica sta ad indi-
care, nella realtà del laboratorio di tossicologia forense, la messa in atto di un protocollo
di analisi, al fine di verificare o escludere la presenza del maggior numero possibile di
composti, che abbia la caratteristica di essere di rapida esecuzione e non eccessivamen-
te costoso.
La messa a punto di un’analisi tossicologica sistematica di reale validità è uno degli
obiettivi della chimica tossicologica forense, nel tentativo di ottenere i risultati anche
attraverso un’adeguata elaborazione statistica.
La medicina legale, oggi, procede utilizzando tecniche di ricerca e di individua-
zione per singoli gruppi analitici di veleni e ciò sulla base delle proprietà di gruppo di
essere separati dai tessuti, da oggetti o dal materiale organico di corruzione corporea
(in cadaveri riesumati dopo tanto tempo) per distillazione in corrente di vapore, me-
todologia usata per i veleni volatili; con solventi organici per i veleni organici non vo-
latili; attraverso quindi la loro scomposizione in composti acidi o basici o quaternari,
con tecniche microanalitiche, quali spot test a cromatografia su carta su strato sottile o
tecniche strumentali, quali la spettrofotometria nel visibile, la spettrofotometria di as-
sorbimento atomico e la polarografia, per i veleni metallici.
Per quanto concerne la ricerca dei veleni volatili nei liquidi organici, le moderne
modalità di ricerca sono i metodi gascromatografici per gli alcooli e i cloroderivati alifa-
tici, le tecniche cromatografiche su strato sottile o gas cromatografiche per gli anticritto-
gamici e gli insetticidi, le tecniche della spettrofotometria di assorbimento nell’ultravio-
letto o nell’infrarosso.
La ricerca dei veleni organici viene eseguita attraverso le tecniche cromatografiche
(su carta, su strato sottile e in fase gassosa), ma anche attraverso quelle spettrofotome-

367
Criminologia ed elementi di criminalistica

triche nell’ultravioletto e nell’infrarosso e quelle spettrofluorimetriche. Per ciò che con-


cerne i veleni metallici, quali l’arsenico, il mercurio, il bismuto, il tallio, l’antimonio,
ecc., si utilizzano le tecniche microanalitiche e strumentali, che trovano elettiva sede di
applicazione per quanto riguarda la tossicologia forense, proprio nella identificazione
e determinazione dei metalli.

368
CAPITOLO 17

Il Criminal profiling

17.1 Il criminal profiling


Anche la psicologia interviene nello studio di un delitto, attraverso un nuovo cam-
po di indagine, legato all’investigazione, il c.d. criminal profiling. Lo psicologo riveste
un nuovo ruolo, quello di collaboratore nelle indagini investigative, di profiler. Un ruo-
lo che, se in alcuni paesi europei è già ben definito grazie a norme che prevedono la pre-
senza obbligatoria dello psicologo sulla scena del crimine, in Italia sta emergendo.
Il criminal profiling si basa su una premessa: il comportamento riflette la personalità.
Diventa quindi indispensabile al fine di arrivare a stendere il profilo psicologico e com-
portamentale del reo, l’analisi della scena del crimine. Un’analisi che si svolge attraverso
il sopralluogo, l’identificazione della vittima, le cause e le modalità del decesso. È così
che il profiling si potrebbe definire: l’analisi di una scena del crimine (anche nei più pic-
coli dettagli), basata essenzialmente su studi medici, conoscenze cliniche e metodi scientifi-
ci, al fine di riuscire a tracciare il profilo psicologico dell’autore del reato violento.
Il criminal profiling sembra dividersi tra due mondi: quello del mito, legato alla
letteratura e al cinema, e quello della realtà. Due mondi, in cui, a volte, il confine non
sembra esser così ben definito.
Difatti, non solo le varie teorie criminologiche che si sono successe hanno dato il
loro apporto allo sviluppo del criminal profiling, ma anche la letteratura ha dato un
importante contributo, in modo particolare la narrativa poliziesca di fine Ottocento
con Edgar Allan Poe e I delitti della Rue Morgue e Arthur Conan Doyle ed il suo cele-
bre personaggio Sherlock Holmes. Attraverso i loro scritti, gli autori hanno permesso di
vedere l’investigazione sotto il punto di vista della logica deduttiva-induttiva, lascian-
do libero spazio all’interpretazione, aprendo così nuove vie nel campo delle indagini e
la strada verso il criminal profiling. Lo scritto di Edgar Allan Poe in particolare indaga
il crimine mediante la tecnica del profiler. Poe sembrava aver capito, attraverso il suo
personaggio-detective C. August Dupin, il valore del profiling, quando, da sole, le pro-
ve non sembrano esser sufficienti a risolvere crimini di particolare efferatezza e senza
apparente movente.

369
Criminologia ed elementi di criminalistica

Un genere di letteratura che ha messo in risalto il lato oscuro che si cela nel genere
umano e sicuramente un genere che non ha perso di popolarità col passare del tempo,
anzi, si può dire che abbia acquisito ancora maggior notorietà; basti ricordare autori re-
centi come Thomas Harris ed il suo Hannibal Lecter, Patricia Cornwell e il suo perso-
naggio, la dottoressa Kay Scarpetta e molti altri autori, ancora.
Un contributo che se da una parte, inizialmente, aveva precorso i tempi stimolan-
do e indicando nuovi metodi e strade per l’investigazione, dall’altra, getta attualmente
dubbi sulla scientificità di questa metodologia di indagine, a causa dell’ormai mitizzata
figura del serial killer e del suo antagonista, il profiler. Difatti, pur essendo molto vasto
il campo di applicazione del criminal profiling, non essendo quindi solo legato allo stu-
dio degli omicidi seriali, anche se è a quest’ultimi che si deve il suo sviluppo, spesso, la
figura del profiler viene mentalmente associata e contrapposta a quella del serial killer.
Nella letteratura e nel cinema si è venuta a creare un’immagine del profiler: quella
di cacciatore dell’omicida seriale. Quando si parla di profiler, quindi, non si può non
riferirsi anche al serial killer, proprio in vista del loro legame nel mondo dell’imma-
ginario. Nell’immaginario collettivo, il serial killer letterario, cinematografico e quel-
lo della cronaca, finiscono a volte per confondersi, creando così un personaggio che se
da una parte terrorizza, dall’altra affascina. Un personaggio che non avrebbe tanto suc-
cesso, se la realtà venisse trasposta così com’è; in quanto, una fedele riproduzione della
realtà provocherebbe sensazioni opposte rispetto al personaggio del serial killer appar-
tenente all’immaginario; è per questo che l’immaginario va a mescolarsi alla realtà, le
paure al fascino della paura stessa.
Numerosi sono i film che vedono protagonisti serial killer e profiler, come il cele-
bre Collezionista d’ossa, tratto da un romanzo di Jeffery Deaver e in tempi meno recenti,
Il silenzio degli innocenti, tratto da un romanzo di Thomas Harris.
Prendendo in considerazione proprio quest’ultimo film, è interessante osserva-
re come un personaggio con una personalità come quella del dottor Hannibal Lecter,
può appartenere al mondo della letteratura, ma è improbabile che appartenga alla real-
tà poiché, nella vita reale, fantasie ossessive così intense non danno la possibilità di de-
dicarsi a una professione, a un’arte.
Il dottor Lecter è ritratto nelle pagine di Thomas Harris come un grande psichia-
tra, un esteta, un uomo colto anche in campo letterario, ma questa è un’immagine non
riscontrabile nel mondo reale, un’immagine che può portare ad essere affascinati anche
da un serial killer.
Opere come Il silenzio degli innocenti e molte altre ancora sono la testimonianza di
una fervida immaginazione che ha preso spunto da un’inquietante realtà. Anche nella
letteratura, infatti, si possono ritrovare elementi della realtà, tratti da pagine di crona-
ca, da eventi realmente accaduti.
L’abitudine (nel film in questione) di Ed Gein di realizzare vestiti di pelle di donna
staccando la pelle alle sue vittime, in modo tale da effettuare una sorta di metamorfosi
finalizzata a cambiare se stesso, viene fatta vivere intensamente, come intenso è l’inte-
resse della criminologia e della psicologia per tali personalità.
È grazie comunque a una maggior informazione e divulgazione dei delitti più ef-
ferati e dei processi giudiziari da parte dei mass media, che in Italia si è diffusa la con-
sapevolezza di non essere esenti da questo fenomeno.

370
Il criminal profiling

Il criminal profiling e la figura del serial killer, un tempo, non sembravano così vi-
cini al nostro Paese, come in questi ultimi anni.
La credenza che gli omicidi seriali appartenessero esclusivamente al mondo anglo-
sassone e agli Stati Uniti, viene smentita da diversi fatti di cronaca che hanno testimo-
niato la presenza di efferati delitti anche in Italia, di assassini seriali come Gianfranco
Stevanin, Luigi Chiatti, Donato Bilancia e il mostro di Firenze, fino a giovani assassini,
come, il caso Pietro Maso e il caso di Novi Ligure.
Le radici del criminal profiling sono lontane nel tempo: dalla frenologia di J. Gall
(1758-1828) all’antropologia criminale di Cesare Lombroso (1835-1919), all’antropo-
metria segnaletica di A. Bertillon (1853-1914) e al costituzionalismo, fino ad arrivare
all’attuale identikit poliziesco. Il suo inizio però, come strumento di supporto alle in-
dagini investigative, si ha a partire dagli anni ‘70 nell’ FBI, quando si viene a creare il
programma di profilo criminale, ad opera degli agenti speciali Howard Teten e Patrick
Mullany.
Il movente viene ritenuto un elemento centrale per la soluzione del crimine.
Nel 1972, Jack Kirsch crea la Behavioral Science Unit (BSU) all’interno dell’acca-
demia dell’FBI a Quantico, nel tentativo di provare l’utilità del profiling come stru-
mento nelle indagini investigative.
Nel 1976, Robert Ressler inizia ad intervistare in carcere i serial killer, per scoprire
le correlazioni tra la scena del crimine e le caratteristiche di personalità del reo. Giunge,
così, nel 1979, insieme a John Douglas, ad introdurre il concetto di modello organizza-
to/disorganizzato, suddivisione nata da un’esigenza investigativa di semplificazione.
Il successo del profiling nelle indagini è tale da venir messo a disposizione di tut-
te le forze dell’ordine degli Stati Uniti. Nel 1992, si arriva alla stesura del manuale di
classificazione del crimine violento, il Crime Classification Manual (CCM) ad opera di
John Douglas, Ann e Allen Burgess e Robert Ressler, dell’Accademia di Quantico. Ma-
nuale che propone una classificazione delle caratteristiche principali degli offender e del-
le vittime delle maggiori tipologie di crimine violento (omicidio, aggressione sessuale e
incendio doloso), basandosi sulle motivazioni al delitto dell’offender.
Il criminal profiling, però, non è solo un fenomeno che si limita al campo statu-
nitense, anche in Italia si è sentita la necessità di creare un’unità specifica per il crimine
violento: l’UACV (Unità di Analisi del Crimine Violento). Il criminal profiling di-
venta, in questo modo, una realtà anche italiana, che, parallelamente, ha iniziato a ri-
conoscere i contributi che la psicologia, attraverso metodi e strumenti, può offrire in
campo investigativo.

17.2 Scopi del profiling


Il criminal profiling si occupa di comprendere le motivazioni che spingono il sog-
getto a commettere l’atto criminale e il suo scopo è quello di fornire informazioni suf-
ficienti da consentire di orientare le indagini, in modo da circoscrivere le persone at-
torno a cui investigare, prevenire altri possibili crimini da parte del reo, e indicare le
modalità di interrogatorio più opportune a seconda del tipo di reato.

371
Criminologia ed elementi di criminalistica

L’esame della scena è una fase oggettiva, a cui solo un numero minimo di soggetti
dovrebbero avervi accesso al fine di evitare contaminazioni.
La ricostruzione della dinamica dei fatti e di chi potrebbe essere il possibile ag-
gressore viene fatta seguendo un profilo logico. Un profilo che si arriva a stendere,
partendo dall’analisi dei dati oggettivi raccolti sulla scena del crimine, e attraverso un
ragionamento logico che utilizza sia le conoscenze della psicologia in merito al com-
portamento umano sia le informazioni provenienti dall’ambiente. Si può dire che, in
qualche modo, la scena del crimine comunica. È ad Edmond Locard, responsabile del
laboratorio della polizia scientifica di Lione, nel periodo a cavallo tra il XIX e XX seco-
lo, a cui si deve un principio alla base della criminalistica: il principio di interscambio,
ovvero, ogni criminale lascia sulla scena tracce di sé e di ogni scena rimane traccia nel cri-
minale. I comportamenti evidenziabili sulla scena del crimine si possono suddividere
in: modus operandi (l’insieme dei comportamenti, delle azioni che il criminale compie
per realizzare il proprio delitto; non è stabile nel tempo, ma può modificarsi da un de-
litto al successivo in base all’esperienza); firma (non indispensabile per portare a termi-
ne l’azione criminale, rappresenta piuttosto un bisogno psicologico, più o meno consa-
pevole, lanciato agli investigatori e si ripresenta con costanza nei successivi delitti della
serie. È un comportamento statico a differenza del modus operandi); staging (la volon-
taria alterazione della scena del crimine); undoing (la deliberata modificazione della
scena del crimine, attribuita al rimorso dell’assassino che così cerca, almeno sul piano
simbolico, di distanziarsi dall’accaduto).
L’analisi della scena del crimine è il punto di partenza in qualunque indagine, e
deve essere effettuata prima di procedere all’elaborazione del profilo psicologico e com-
portamentale del reo.
Attraverso l’analisi degli elementi rinvenuti sulla scena del crimine, le tracce, le
prove fisiche e la ricostruzione della dinamica dell’evento, si cerca di determinare cosa è
successo, e in che modo. Successivamente, utilizzando le informazioni provenienti dal-
la scena del crimine (si cerca di comprendere quali possano essere state le motivazioni,
ovvero, il perché e le caratteristiche della personalità dell’autore del reato, ovvero chi è
stato), viene ad elaborarsi così il profilo criminologico del reo.
È importante sottolineare che l’elaborazione del profilo non va a sostituire l’analisi
investigativa ma la sua funzione è di supporto alle indagini, e non sempre risulta essere
necessario. In genere, l’elaborazione del profilo si usa in casi di omicidi senza apparente
movente e/o particolarmente efferati, o in casi di omicidi a sfondo sessuale caratteriz-
zati da serialità, ripetitività.
Nei delitti in cui la componente psicologica non è particolarmente forte e la mo-
tivazione riscontrata è di tipo materiale, l’elaborazione di un profilo non risulta essere
di grande utilità ai fini dell’investigazione, in quanto, potrebbe adattarsi a chiunque o
confermare l’aderenza al principale sospettato.
Il profilo tracciato è, comunque, un’ipotesi da cui partire in modo da accelerare i
tempi di investigazione; non è così accurato da permettere di individuare in modo pre-
ciso l’autore del reato, permette, però, di circoscrivere una cerchia di possibili sospetti.
Partendo dal concetto che il comportamento riflette la personalità, e che quindi il com-
portamento di un criminale durante l’esecuzione di un reato riflette le sue caratteristi-
che personologiche, si considerano gli elementi presenti sul luogo del crimine. Questi

372
Il criminal profiling

permetteranno di identificare eventuali tratti di disturbo della personalità che, a loro


volta, aiutano a desumere altri pattern comportamentali tipici della struttura persono-
logica. La storia del reo e le vicende che hanno condotto allo sviluppo della sua perso-
nalità, rendono conto delle sue azioni, prima, durante, e dopo il crimine. Il confronto
tra i dati comportamentali desunti dalla scena del crimine e simili modalità d’azione
attribuite a criminali già identificati e arrestati, permette poi, per analogia, di acquisire
ulteriori informazioni sul sospetto sconosciuto.
Il profilo psicologico viene stilato su base statistica e in particolari circostanze, ovve-
ro, in presenza di una quantità sufficiente di elementi utili. Il profilo, suggerisce carat-
teristiche del soggetto quali: età, sesso, razza, stato coniugale/adattamento al rapporto,
status socioeconomico, lavoro, storia occupazionale e adattamento, abitudini di lavoro,
residenza in relazione alla scena del crimine, intelligenza, suddivisa in nella media, so-
pra o sotto la media, risultati scolastici e adattamento alla scuola, stile di vita e adatta-
mento sociale, ambiente educativo di provenienza, aspetto e cura della persona, prece-
denti contatti con la giustizia, caratteristiche di personalità, caratteristiche patologiche
di personalità, evidenza di scompenso psichico, adattamento sessuale, caratteristiche
del mezzo veicolare utilizzato, movente.
Gli elementi fondamentali del profiling sono:

1. analisi della scena del crimine;


2. analisi vittimologica (è lo studio della vittima e delle possibili relazioni con il suo
aggressore);
3. case linkage (il procedimento attraverso cui si possono stabilire legami tra casi in
precedenza non correlati).

Analisi della scena del crimine

Si occupa delle tracce e delle prove fisiche, con l’obiettivo di determinare che cosa è
accaduto e in che modo è accaduto. Si parte dall’analisi delle prove rinvenute sulla scena e
dalla ricostruzione della dinamica dell’evento basata su tali prove, per affrontare la que-
stione del perché ciò è accaduto e cosa questo ci racconta del soggetto che lo ha compiuto.
L’analisi della scena del crimine è fondamentale e deve essere effettuata prima di poter af-
frontare qualunque passo del processo di elaborazione del profilo psicologico. Il motivo:
non ci sono le basi per comprendere il chi è stato e il perchè lo ha fatto fino a quando non
si conosce il cosa e il come è accaduto. I mezzi impiegati per la raccolta degli elementi di
prova prevedono l’utilizzo di tecniche tradizionali, accanto a strumentazioni sempre più
tecnologicamente evolute. Si utilizzano videocamere, apparecchi fotografici ad altissima
risoluzione; non infrequente è il ricorso a fotografie aeree, per collocare il teatro del de-
litto in un contesto geografico che può fornire importanti orientamenti d’indagine.
Vengono raccolti, inoltre, dati sulle caratteristiche socio-ambientali e demografi-
che della zona. Fondamentali sono i verbali di interrogatorio di tutti coloro che si ritie-
ne abbiano potuto, in qualsiasi modo, partecipare al delitto. Il rapporto medico-legale,
le fotografie e il verbale dell’autopsia, costituiscono altri elementi irrinunciabili per il
profilo psicologico. Già in fase di sopralluogo, i dati oggettivi vengono raccolti per es-
sere successivamente analizzati e interpretati.

373
Criminologia ed elementi di criminalistica

Ecco l’elenco degli elementi più importanti che possono essere rinvenuti sulla sce-
na di un crimine:

1. Dati spaziali e temporali dell’evento:

- zona in cui è stato rinvenuto il cadavere (città, periferia urbana, zona commer-
ciale, residenziale, agricola);
- luogo di rinvenimento (abitazione, parco, strada isolata, albergo).

2. Caratteristiche del luogo di rinvenimento:

- se il corpo è stato rinvenuto all’interno di un’abitazione, indicare tipologia e


stato delle serrature, dei mezzi d’allarme, l’eventuale disattivazione della linea
telefonica, la presenza di scritte, l’evidenza di altre attività sulla scena (furto,
atto vandalico);
- mezzi lesivi utilizzati (loro rinvenimento, tipologia, idoneità).

3. Descrizione dei reperti:

- balistica (bossoli, proiettili, ecc.);


- fisica (presenza di sostanze esplosive, di residui di sparo, di terreno o fango);
- chimica (droghe, impronte latenti);
- merceologica (fibre, tessuto, nastro adesivo, corde);
- biologica (sangue, sperma, preservativi);
- grafica (macchine da scrivere, materiale manoscritto);
- caratteristiche dei veicoli eventualmente coinvolti nell’evento;
- caratteristiche dell’aggressore (ove possibile).

Analisi vittimologica

Si prendono in considerazione i seguenti dati riguardanti la vittima:

- elementi anagrafici;
- stile di vita (convivenza, mezzo di trasporto abitualmente utilizzato);
- attività al momento dell’aggressione;
- descrizione del cadavere (conservazione, posizione, età apparente);
- connotati fisici della vittima (razza, corporatura, segni particolari);
- analisi degli indumenti e accessori utilizzati;
- costrizioni (mezzo utilizzato, localizzazione, possibilità di ricostruire se il mezzo
era presente sulla scena o portato con sè dall’aggressore);
- violenze sessuali subìte;
- causa di morte;
- mutilazioni del corpo;
- caratteristiche delle lesioni e loro localizzazione.

374
Il criminal profiling

Case linkage

- prove fisiche: similarità tra le prove fisiche presenti sulla scena del crimine, tra i ri-
scontri medico-legali raccolti in casi differenti;
- descrizioni fisiche: similarità tra le descrizioni fisiche di un offender fornite da vit-
time o testimoni;
- modus operandi: similarità tra modalità di azione di un offender necessarie alla
realizzazione del crimine;
- signature (firma): similarità tra modalità di azione di un offender non necessarie al-
la realizzazione del crimine, ma suggestive di un bisogno psicologico o emozionale
del reo;
- analisi della vittima: similarità o collegamenti tra le vittime, o tra le caratteristiche
in base alle quali le vittime sembrano essere scelte;
- analisi delle ferite: similarità tra le ferite riportate da una vittima e, in particolare,
con riferimento alla loro natura ed estensione;
- localizzazione geografica: aggressioni che avvengono nella medesima area o in aree
con caratteristiche simili.

17.3 Il ritratto parlato


È l’esatta descrizione di un individuo, realizzata con metodo e termini scientifici ai
fini della sua ricerca e identificazione da parte della polizia giudiziaria.
Il ritratto parlato fu introdotto in Francia dopo il 1880 dal medico e antropologo
francese Alphonse Bertillon, capo dell’ufficio di identificazione della Prefettura di po-
lizia di Parigi, e costituì un notevole progresso nel sistema di riconoscimento delle per-
sone imputate o sospette, basato, prima di allora, su vaghe o generiche descrizioni.
Il metodo del dott. Bertillon (bertillonage) venne diffuso in Italia con il Manuale
del ritratto parlato per uso della polizia (Libreria internazionale Beltrami, Bologna, ed.
1907), tradotto per merito di D. Pico Cavalieri dal testo francese dello svizzero. R.A.
Reiss, professore di polizia scientifica e direttore dei lavori fotografici dell’Università di
Losanna, amico del Bertillon.
Il manuale comprendeva: un vocabolario italiano-francese-tedesco-inglese, relati-
vo agli elementi dei viso e ad altri concernenti la statura, la corpulenza, il portamento,
l’aspetto generale, il linguaggio, gli abiti ed i segni particolari; l’uso del ritratto parlato
nei riconoscimenti da fotografia commerciale e da quella segnaletica; l’adozione e l’im-
piego dell’album (D.K.V.), contenente, in formato ridotto e uniforme, le fotografie di
tutti gli individui pregiudicati.
Al manuale, il traduttore Cavalieri aggiunse un proprio testo integrativo in mate-
ria di identificazione, di fotografia giudiziaria, di dattiloscopia e d’impiego dei cani per
uso della polizia.
I metodi di cui sopra non potevano non essere applicati anche dall’Arma dei Cara-
binieri. Si cita come più autorevole conferma la circolare 868/4 del 5 aprile 1932 dira-
mata dal Comando Generale ai comandi dipendenti sulle norme del Ritratto parlato del

375
Criminologia ed elementi di criminalistica

sopralluogo, insieme con le istruzioni per la compilazione della cartella biografica, indi-
cate come informazioni che hanno influenza, talora decisiva, sulle determinazioni del
Magistrato, tanto per l’applicazione della pena, quanto per la concessione degli specia-
li benefici (perdono giudiziale, sospensione condizionale della pena, ecc.) previsti dal
nuovo codice penale. Specialmente incaricati di vegliare sulla esatta compilazione della
cartella biografica e del ritratto parlato erano gli ufficiali dell’Arma, comandanti diret-
ti, in considerazione del nuovo compito importantissimo affidato dalla legge.
In atto, il ritratto parlato ha raggiunto la più valida forma dell’identikit, di pari pas-
so con l’adozione dei mezzi tecnici e dei procedimenti più progrediti per la lotta contro
la criminalità, non esclusi quelli computerizzati.

376
CAPITOLO 18

La scena criminis

18.1 Introduzione
La scienza, con le tecnologie sempre più sofisticate, è ormai da anni al servizio del-
la giustizia.
L’omicida di un tempo, oggi, sarebbe inchiodato alle responsabilità da una goccia
di sangue, da un mozzicone di sigaretta o da un sottilissimo lembo di tessuto. Perché
dove non possono arrivare l’intuizione e la bravura di un investigatore, adesso, può la
scienza. Una branca del sapere che ha un nome ben definito: criminalistica.
Il progresso tecnologico è riuscito a generare nuove strategie per il contrasto del
crimine e l’individuazione dei colpevoli. Strumentazioni all’avanguardia come i micro-
scopi elettronici e sistemi informatici di ultima generazione per la gestione di vastissi-
me banche dati.
La giustizia ha sempre più bisogno di certezze, di uomini e mezzi per evitare che
un delitto resti impunito. In quest’ottica, l’ingresso di nuove branche del sapere appli-
cate all’attività investigativa (scienze forensi) è il frutto di una precisa necessità: trasfor-
mare indizi e reperti in prove legali ai fini del procedimento giudiziario. Si tratta di un
passaggio obbligato alla luce dell’attuale codice di procedura penale, che stabilisce co-
me una prova di innocenza o colpevolezza debba formarsi, prevalentemente, in dibat-
timento, attraverso la dialettica tra difesa e accusa. Ecco perché gli accertamenti scien-
tifici assumono, oggi come non mai, un grande significato probatorio.
In Italia, un’immagine rappresentativa di questa nuova realtà investigativa viene
fornita dal Racis, dal Ris, dal Servizio di Polizia Scientifica, dai laboratori scientifi-
ci della Guardia di Finanza, dai contributi delle Università, da organizzazioni priva-
te, ditte che si specializzano nell’effettuare analisi di tipo scientifico-forense. Nei la-
boratori forensi, gli elementi che vengono analizzati assumono il termine di reperti.
Questi ultimi vengono individuati e raccolti dalla scena criminis per poi essere con-
servati ed analizzati quando si riterrà necessario. La fase nella quale sia i reperti che
le informazioni descrittive vengono estratti dalla scena criminis viene denominata so-
pralluogo.

377
Criminologia ed elementi di criminalistica

Il risultato dell’analisi di reperto è rappresentata da una documentazione detta re-


ferto. Il sopralluogo è il punto focale di ogni adeguata investigazione, in quanto è op-
portuno tenere conto della controparte del processo, in caso di referti approssimati, o
inesatti.
Gli esami scientifici forensi, inoltre, vengono classificati in ripetibili e irripetibili: i
primi non alterano i reperti durante l’analisi, mentre i secondi li deteriorano, li distrug-
gono o li modificano in maniera irreversibile. Tale distinzione, inoltre, è fondamentale,
poiché può accadere che le parti processuali chiedano a propri specialisti di condurre
esami separati sullo stesso reperto, al fine di confrontare, poi, i referti. In presenza di
un esame del tipo irripetibile, il Codice di Procedura Penale dispone che le diverse parti
processuali possano far presenziare dei loro specialisti all’atto dell’esame scientifico per
una verifica, in tempo reale, delle procedure adottate.

18.2 Il sopralluogo: aspetti giuridici


Le indagini tecniche iniziano con il sopralluogo, ovvero con quell’insieme di atti-
vità eseguite sul luogo ove si è verificato un delitto, tendenti ad osservare, individuare
e raccogliere o fissare tutti quegli elementi utili alla ricostruzione del fatto delittuoso
e alla individuazione del colpevole. Al fine di rendere genuini ed efficaci i risultati del
sopralluogo, giova, in primo luogo, sottolineare la necessità che lo scenario del delitto
sia mantenuto inalterato dai primi operatori di polizia intervenuti, prima dell’accesso
del personale tecnico-scientifico e degli investigatori competenti per le indagini. Il loro
unico compito, in attesa del personale specializzato, è quello di isolare il luogo, onde
evitare manomissioni o alterazioni deleterie e insanabili.
La legislazione di diverse nazioni (ad esempio gli Stati Uniti) individua una par-
ticolare figura di Ufficiale di Polizia Giudiziaria che viene definita responsabile per la
preservazione della Scena del Crimine, e che ha il compito di far isolare detta scena, as-
sicurandone l’accesso al solo personale autorizzato. Tale figura, in Italia, non è ancora
presente istituzionalmente e la sua funzione viene, di volta in volta, portata avanti dalle
Forze di Polizia che intervengono sul posto.
Il codice di procedura penale non parla mai di sopralluogo, ma non v’è dubbio che
quando le norme parlano di ispezione di luoghi e di cose, esse si riferiscono alla mede-
sima attività.
L’art. 244 c.p. stabilisce, al secondo comma, che a poter disporre rilievi segnaletici,
descrittivi, fotografici e ogni altra operazione tecnica relativa alle indagini di sopralluo-
go sia l’Autorità Giudiziaria. I titolari di tale potere sono indicati, quindi, con un nome
collettivo: l’Autorità Giudiziaria.
Fino all’imputazione, provvede il pubblico ministero, eventualmente delegando
ufficiali di Polizia Giudiziaria, escluse le ispezioni personali: art. 354, terzo comma, e
370, primo comma; poi, fino all’accusa (art. 429), il giudice dell’udienza prelimina-
re, mai ex officio (è organo passivo, sul piano istruttorio: può soltanto indicare temi
nuovi e incompleti, stimolando le parti a ulteriori informazioni); formulata l’accusa, è
competente il giudice del dibattimento, su richiesta o, a prove acquisite, anche d’uffi-

378
La scena criminis

cio (art. 507). L’art. 244, primo comma, contempla un decreto motivato, alludendo al-
le ispezioni eseguite dal Pubblico Ministero indagante: ma nel processo, le dispone chi
giudica e, l’ordinanza, sembra la forma naturale.
L’ispezione locale e sulle cose è regolata dall’art. 246 c.p.; la protezione costituzio-
nale offerta al domicilio dall’art. 14 Cost. sembra adeguatamente rafforzata dalla pre-
visione della consegna di copia del provvedimento alla persona che ha la disponibilità
del luogo, se presente.
Le indagini di sopralluogo, però, non sono solamente quelle comprese nell’attività
ispettiva dell’autorità giudiziaria, ma anche quelle espletate dalla Polizia Giudiziaria ai
sensi dell’art. 354, secondo comma, che così recita: “se vi è pericolo che le cose, le tracce
e i luoghi si disperdano o comunque si modifichino, e il Pubblico Ministero non può
intervenire tempestivamente, gli Ufficiali di Polizia Giudiziaria compiono i necessari
accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose”. Indagini di sopralluogo, sono,
anche, quelle effettuate dagli ausiliari di Polizia Giudiziaria, o dai consulenti tecnici
nominati dal Pubblico Ministero o dal difensore di una delle parti impegnate nel pro-
cesso penale, oppure, dai periti nominati dal magistrato giudicante. L’art. 348 c.p.p., al
quarto comma, recita: “la polizia giudiziaria, quando, di propria iniziativa o a seguito
di delega del Pubblico Ministero, compie atti od operazioni che richiedono specifiche
competenze tecniche, può avvalersi di persone idonee” e così via.
Analogamente, il Pubblico Ministero, qualora debba procedere a un’operazione
tecnica per cui sono necessarie specifiche competenze, può nominare e avvalersi di con-
sulenti (art. 359 primo comma). L’art. 360 (accertamenti irripetibili) dà alla persona
indagata la facoltà di nominare consulenti tecnici.
In base all’art. 220, la perizia è possibile quando occorre svolgere indagini che
richiedono specifiche competenze tecniche; tra le indagini del perito nominato dal
Giudice, possono rientrare indagini di sopralluogo, anche se la cosa è alquanto rara,
poiché non vi è più quell’immediatezza tra commissione del reato e attività di inda-
gine. Come si inserisce l’indagine tecnica di sopralluogo nel sistema probatorio delineato
dal codice?
Il Legislatore ha introdotto una distinzione (mezzi di prova e mezzi di ricerca del-
la prova) che ha un duplice fondamento, logico e tecnico-operativo. I mezzi di prova,
trattati nel titolo II del libro III (esame dei testimoni e delle parti, confronti, ricogni-
zioni, esperimenti giudiziali, perizia, documenti), si caratterizzano per l’attitudine ad
offrire al giudice risultanze probatorie direttamente utilizzabili in sede di decisione. Al
contrario, i mezzi di ricerca della prova, trattati nel titolo III del libro III (ispezioni,
perquisizioni, sequestri, intercettazioni), non sono, di per sé, fonte di convincimento,
ma rendono possibile acquisire cose materiali, tracce o dichiarazioni dotate di attitu-
dine probatoria.
Dal punto di vista tecnico processuale, i mezzi di ricerca della prova si caratteriz-
zano, altresì, in quanto, mirando a far penetrare nel processo elementi che preesistono
all’indagine giudiziaria, si basano sul fattore sorpresa e non consentono perciò, per la
loro stessa natura, il preventivo avviso ai difensori quando sono compiuti nella fase del-
le indagini. La prova è, in questi casi, precostituita, non deve essere perciò formata in
processo. La cura del Legislatore perde di tono sui modi di ricerca e di acquisizione e
non sulle modalità di assunzione come per i mezzi di prova.

379
Criminologia ed elementi di criminalistica

Il sopralluogo è, dunque, un mezzo di ricerca della prova, perché rende possibile


l’acquisizione di cose o tracce dotate di attitudine probatoria e costituite prima del pro-
cesso. La sua natura di mezzo di ricerca della prova non varia, anche qualora costituisca
parte integrante di una perizia che è, come visto, un mezzo di prova.
La perizia differisce sostanzialmente dal sopralluogo che è un atto ispettivo mirante a
descrivere il più fedelmente possibile la scena di un delitto; il sopralluogo è una serie di
atti, limitata a rendere obiettiva una situazione di fatto, senza alcun giudizio tecnico
sulle cause: è un accertamento statico.
La perizia, invece, è un accertamento di carattere dinamico che esprime giudizi va-
lutativi il più possibile precisi e coerenti, in risposta a specifici quesiti posti dal Magi-
strato. Il giudice non è vincolato dai giudizi valutativi espressi dal perito, ma non può
certamente ignorare gli elementi oggettivi costituiti da cose o tracce, raccolti dal perito
durante l’attività di sopralluogo. Ciò dimostra che il sopralluogo è, anche in questo ca-
so, un mezzo di ricerca della prova, perché, comunque, rende possibile l’acquisizione
di cose o di tracce con attitudine probatoria. La documentazione del sopralluogo, es-
sendo normalmente relativa ad atti irripetibili, entra a far parte del fascicolo per il di-
battimento (art. 43 1 lett. b).

18.3 Scena criminis: organizzazione e procedure per le


operazioni di ricerca
Esistono operazioni ben precise che gli esperti della scena criminis devono segui-
re, al fine ottimizzare le operazioni di ricerca; di seguito, se ne indicano le procedure,
in maniera schematica:

Preparazione

È necessario: a) valutare le correnti ramificazioni legali delle ricerche sulla scena


del crimine (per esempio, ottenere mandati di perquisizione); b) discutere l’imminente
ricerca col personale coinvolto nell’investigazione prima dell’arrivo sulla scena; c) se-
lezionare, quando possibile, una persona responsabile delle ricerche prima dell’arrivo
sulla scena; d) considerare la sicurezza e la comodità del personale coinvolto nell’in-
vestigazione, in modo da non farsi cogliere impreparati quando si trova una SC (sce-
na crimins) potenzialmente pericolosa o condizioni meterologiche avverse. Quindi, è
necessario, curare: vestiario, comunicazioni, illuminazione, ripari, trasporti, cibo, assi-
stenza medica, sicurezza della scena, equipaggiamento. Inoltre, è necessario organizzare
le comunicazioni con i servizi ausiliari (per esempio, medico legale, avvocato), in modo
che eventuali problemi che emergano durante le investigazioni sulla SC possano essere
risolti, nonché, procedere per l’organizzazione di un quartier generale per le comuni-
cazioni; ed inoltre, le decisioni da prendere, quando si ha a che fare con investigazioni
importanti/complicate.

380
La scena criminis

Fasi principali di una ricerca

Le fasi di una ricerca:

1. Avvicinare la SC (scena criminis):

a) fare attenzione a prove scartate;


b) annotarsi in modo appropriato vie di accesso/fuga.

2. Mettere in sicurezza e proteggere la SC:

a) assumere il controllo della scena all’arrivo;


b) determinare se e come la scena è stata protetta fino a quel momento;
c) assicurare un’adeguata sicurezza alla SC;
d) ottenere informazioni dal personale che ha fatto ingresso nella SC e che cono-
sce le sue condizioni originali − documentare chi è stato sulla scena;
e) prendere nota di tutto, non basarsi sulla memoria;
f ) tenere fuori persone non autorizzate, registrare chi entra e chi esce.

3. Iniziare investigazione preliminare/determinare i confini della SC:

a) l’investigazione è uno stadio organizzativo da programmare per l’intera ricerca;


b) è importante svolgere un’accurata osservazione preliminare;
c) la persona responsabile deve mantenere un definito controllo amministrativo
ed emozionale;
d) selezionare un’appropriata tecnica di descrizione narrativa;
e) acquisire fotografie preliminari;
f ) delineare l’estensione dell’area di ricerca; di solito deve essere allargato il peri-
metro iniziale;
g) organizzare metodi e procedure necessari, riconoscere aree con particolari pro-
blemi;
h) determinare il personale e l’equipaggiamento necessario, assegnare specifici
compiti;
i) identificare e proteggere prove fisiche labili;
l) ipotizzare una teoria generale sul crimine;
m) prendere appunti dettagliati per documentare la scena, le condizioni fisiche e
ambientali, le assegnazioni degli incarichi, il movimento del personale, ecc.;
n) dei veicoli, prendere numero di identificazione, di targa, posizione della chia-
ve d’accensione, la lettura del contachilometri, la posizione del cambio, la
quantità di carburante nel serbatoio, se le luci sono accese o spente.

4. Valutare le possibilità di prove fisiche:

a) basandosi sull’osservazione preliminare, determinare quali prove è probabile


che siano presenti;

381
Criminologia ed elementi di criminalistica

b) concentrarsi sulle prove più labili fino ad arrivare a quelle meno labili;
c) focalizzarsi prima le aree facilmente accessibili e visibili, per poi progredire
verso punti fuori dalla portata visiva, cercare oggetti nascosti di proposito;
d) considerare se le prove possono essere state spostate involontariamente;
e) valutare se la scena e le prove sembrano essere state volontariamente alterate.

5. Preparare una descrizione narrativa:

a) la finalità di questa fase è di fornire un’istantanea della SC al momento. Con-


siderare cosa dovrebbe essere presente sulla scena (es., veicolo della vittima o
borsa) e cosa è fuori luogo (es., occhiali da sci);
b) rappresentare la scena in uno schema da generale a specifico;
c) considerare vari fattori: luci accese/spente, riscaldamento acceso/spento, gior-
nale sul vialetto d’accesso/in casa, tende tirate o aperte, porta aperta/chiusa;
d) non permettere che l’intento descrittivo generi un disorganizzato tentativo di
trovare prove fisiche, si raccomanda di non cercare prove in questa fase;
e) metodi descrittivi: annotazioni scritte, audio, video.

6. Ritrarre la scena fotograficamente:

a) iniziare a fotografare appena possibile, programmarlo in anticipo;


b) documentare l’attività fotografica con un registro;
c) assicurarsi che venga stabilito un protocollo in cui siano incluse fotografie in
grandangolo, a media distanza e in primo piano;
d) usare una scala di misurazione riconosciuta per determinare le dimensioni;
e) quando viene utilizzata una scala di misurazione, prima scattare una foto sen-
za questo apparato;
f ) fotografare le prove prima della loro raccolta e imbustamento;
g) osservare e fotografare le aree limitrofe alla SC: punti di acesso, uscite, fine-
stre, zone attigue, e così via;
h) considerare la possibilità di scattare fotografie aeree;
i) fotografare oggetti, luoghi, eccetera, che siano di supporto alle dichiarazioni
di testimoni, vittime, sospetti;
l) scattare fotografie a livello dello sguardo, se possibile, per rappresentare la sce-
na da un punto di osservazione naturale;
m) la pellicola fotografica è relativamente economica paragonata ai vantaggi che
offre: non esitare a fotografare qualsiasi cosa anche priva di apparente signifi-
cato al momento. In seguito potrebbe rivelarsi un elemento d’importanza cru-
ciale nell’ambito dell’investigazione;
n) prima di rilevare impronte latenti, dovrebbero essere scattate foto in scala 1:1
o con scala appropriata.

7. Preparare un diagramma/disegno della scena:

a) il disegno stabilisce una registrazione permanente di oggetti, condizioni e rap-

382
La scena criminis

porto distanza/grandezza; il diagramma è un supporto alle fotografie;


b) una bozza è disegnata all’arrivo sulla scena (normalmente non è in scala) e uti-
lizzata come modello per il disegno definitivo;
c) tipici soggetti di una bozza: luogo specifico, data, ora, identificazione del ca-
so, responsabile, condizioni meteo, condizioni di illuminazione, scala di mi-
surazione, orientamento punti cardinali, prove, misurazioni, legenda;
d) le designazioni numeriche sul disegno possono essere coordinate con le stesse
designazioni numeriche sul registro delle prove in molti casi;
e) progressione generale dei disegni: disegnare il perimetro di base, aggiungere
i principali oggetti fissi, mobili, ecc., registrare la posizione delle prove, regi-
strare le appropriate misurazioni e controllarle, stabilire chiave di lettura/le-
genda, orientamento cardinale, e così via.

8. Condurre una ricerca dettagliata:

a) gestire la ricerca in base alla previa valutazione della possibilità di prove fisi-
che;
b) condurre la ricerca a partire da un esame generale per poi dedicarsi ai partico-
lari;
c) utilizzare speciali pattern di ricerca (ad esempio, griglia/lineare/spirale) quan-
do possibile;
d) fotografare tutti gli oggetti prima di prelevarli e annotare tutto nel registro fo-
tografico, ricordandosi di usare una scala di misurazione;
e) annotare la localizzazione delle prove sul disegno/diagramma;
f ) completare il registro delle prove con appropriate annotazioni per ogni ogget-
to costituente prova;
g) assicurarsi che sulle prove o sul contenitore delle prove vengano apposte le ini-
ziali dell’investigatore che le raccoglie;
h) non manipolare eccessivamente le prove dopo averle raccolte;
i) sigillare tutti i contenitori delle prove sulla SC;
l) non improvvisare l’imbustamento delle prove: diversi tipi di prove possono
necessitare di diversi tipi di buste/contenitori;
m) non dimenticare le vie di accesso/uscita per potenziali prove;
n) assicurarsi di ottenere appropriati standard riconosciuti (per esempio, cam-
pioni di fibre da un tappeto);
o) controllare costantemente gli incartamenti, le annotazioni sulle buste e altre
pertinenti registrazioni delle informazioni per eventuali errori che possono
causare confusione o problemi in un secondo momento.

9. Registrare e raccogliere prove fisiche:

Considerazioni di base: le migliori opzioni di ricerca sono tipicamente le più diffi-


cili e lunghe; non è possibile documentare troppo le prove fisiche; c’è solo una pos-
sibilità di svolgere il lavoro correttamente. Ci sono due approcci base di ricerca: 1)
una cauta ricerca delle aree visibili, avendo cura di evitare la perdita o la contami-

383
Criminologia ed elementi di criminalistica

nazione delle prove; 2) dopo la ricerca cauta, una ricerca vigorosa delle zone nasco-
ste/poco visibili.

18.4 Reperti della scena criminis: tecniche di raccolta e di


conservazione

Impronte papillari

Solchi e creste formano un disegno del tutto originale, unico, sui polpastrelli delle
dita, sul palmo delle mani e sulla pianta dei piedi: queste vengono definite impronte.
Sulla loro presenza si basa la scienza della dattiloscopia, il metodo d’identificazione più
noto, più utilizzato e certamente uno dei più antichi, se pensiamo che già l’impronta
del dito e della mano era usata come marchio di autenticità dai vasai della Cina di due-
mila anni fa.
Il disegno papillare fa la sua comparsa già nel terzo o quarto mese di vita intraute-
rina e rimane immutato per tutta la vita e oltre, con la possibilità di essere evidenziato
anche nel cadavere, almeno sino a quando i processi biologici di smaltimento del corpo
lo consentono. Non solo i polpastrelli, anche il palmo delle mani e la pianta dei piedi,
presentano disegni epidermici caratteristici e unici, ma, ancora, non vi è accordo nel-
la comunità scientifica sulle modalità di classificazione. Solitamente, le impronte vi-
sibili sono dovute al precedente contatto delle dita con sostanze quali il sangue o l’in-
chiostro, con il risultato di un’immagine positiva; l’immagine sarà, invece, negativa se
i polpastrelli sono contaminati con polvere o gesso e si riproducono su fondo scuro. Le
impronte plastiche sono, invece, il risultato del contatto con una superficie in grado di
trattenere il segno come in un calco. Le impronte latenti, ovvero invisibili, sono quel-
le che richiedono la maggiore competenza e abilità per essere rilevate e raccolte per la
successiva comparazione.
La scelta del metodo e il buon esito della ricerca di impronte latenti, dipende dal
substrato sul quale ricercare, dal tempo trascorso tra la deposizione dell’impronta e la
sua rivelazione, dallo stato di conservazione del substrato (per temperatura e umidità),
e naturalmente, dalla qualità dell’impronta stessa. In condizioni ambientali ottimali,
viene definita impronta fresca quella rivelata nell’immediatezza, vecchia, quella deposta
da oltre 100 ore. Nella scelta del metodo da usare, si prediligono quelli che possono
agire in successione.

a) Impronte latenti su substrati porosi

Per evidenziare impronte su buste da lettera, cartoncini, fogli o anche tessuti a tra-
ma fitta, tutte superfici porose lisce, possono essere utilizzati vari metodi:

1. Trattamento mediante DFO. Con questa sigla si indica la soluzione che viene co-
sparsa sulla probabile impronta per evidenziarla; il DFO (1,8 diazo-9-fluorenone)
reagisce con gli aminoacidi presenti nell’essudato che costituisce le impronte e, se

384
La scena criminis

colpito da luce laser, diventa fluorescente. Questo sistema va usato per primo e tra
i suoi vantaggi c’è il fatto che può essere applicato quando il substrato è molto co-
lorato oppure riflettente e non permette un buon contrasto con le linee dell’im-
pronta. Inoltre, le impronte evidenziate con il DFO, permangono a lungo, a dif-
ferenza di quelle trattate con un’altra sostanza chimica, la ninidrina.
2. Trattamento con ninidrina, una sostanza che reagisce con le componenti aminoa-
cidiche dell’essudato umano, formando un particolare complesso di colore ros-
so-violetto chiamato purple Ruhemann’s, che si deposita sulle creste papillari ed è
invisibile a occhio nudo. Questo sistema ha lo svantaggio di richiedere umidità
per agire adeguatamente e, inoltre, le impronte evidenziate tendono a sbiadire nel
tempo. Ma ha il vantaggio di essere veloce, pratico e poco costoso. L’impronta
può essere migliorata mediante cloruro di zinco il quale, legandosi alla ninidrina,
rende fluorescente l’impronta quando viene illuminata con una luce laser a ioni
argon.
3. Un’ottima tecnica (utilizzata sia per gli oggetti porosi che per quelli non porosi) è
quella della deposizione metallica. In genere, viene impiegata per ultima, al fine di
migliorare l’evidenziazione delle impronte papillari latenti, e il metodo funziona
bene, purchè non siano stati recentemente utilizzati sali metallici (come il cloruro
di zinco).
Per questa analisi, bisogna utilizzare una specifica apparecchiatura nella quale, in
condizioni di vuoto, viene, prima di tutto, fatto evaporare dell’oro che, conden-
sando sulla superficie in esame in uno strato monoatomico, privilegia, nella depo-
sizione, le parti non grasse. L’oro, in realtà, funge solo da supporto per lo zinco,
che viene vaporizzato nella seconda fase del trattamento, generando il contrasto
necessario all’individuazione dell’impronta.

b) Impronte papillari latenti su superfici non porose

1. Nell’immediatezza dell’evento criminoso, quando l’impronta è fresca, durante il


sopralluogo giudiziario, l’evidenziazione può essere effettuata utilizzando polve-
ri esaltatrici (di alluminio, magnetiche o fluorescenti) che, spolverate con speciali
pennelli, sono assorbite dalla componente acquosa e lipidica delle creste papillari
colorandole.
2. Per evidenziare impronte allo stadio latente, apposte su tutte le superfici di pla-
stica, vetro o metallo, ovvero tutte le superfici non porose che però hanno la ca-
ratteristica di essere lisce, può essere utilizzato il metodo dell’estere cianoacrilico.
Tale reattivo, vaporizzato in condizioni di umidità e temperatura controllate, al-
l’interno di una speciale camera barica, reagisce selettivamente con i componenti
lipidici del secreto papillare, formando un composto di colore bianco corrispon-
dente all’impronta. Successivamente, specialmente se il colore del substrato non
permette una buona visione dell’impronta, viene utilizzato un colorante di colore
rosa: la rodamina 6G la quale, legandosi all’estere cianoacrilico e alle componenti
lipidiche dell’essudato, emette fluorescenza quando viene sottoposta alla radiazio-
ne emessa da un laser a ioni argon, determinando un contrasto più evidente all’im-
pronta.

385
Criminologia ed elementi di criminalistica

c) Impronte papillari su pelle umana

La pelle umana è tra i substrati più difficili sui quali ricercare le impronte papil-
lari, a causa della consistenza stessa dell’epidermide, continuamente cangiante, conta-
minata anche da sostanze lipidiche. L’evidenziazione delle impronte su tale substrato è
influenzata anche da fattori quali lo stato di conservazione della pelle (nel caso di ca-
davere), la traspirazione della pelle e il tempo trascorso dall’apposizione dell’impronta.
Per evidenziare le impronte papillari latenti su pelle umana, possono essere utilizzati i
seguenti trattamenti:

1. Il metodo dei fumi di iodio: prevede, inizialmente, l’applicazione dello iodio per
mezzo di un tubetto fumigatore e, quindi, la rivelazione di impronte latenti. Que-
sta reazione è propedeutica, in quanto, la colorazione evidenziata, che si presenta
debole e transitoria, consente l’evidenziazione dei frammenti di impronte papillari
(che possono essere tempestivamente documentati fotograficamente) e, nella fase
successiva, il loro trasferimento su una piastra lucida d’argento. Le impronte sono
successivamente rivelate dopo l’esposizione a forti sorgenti luminose della piastra
d’argento per formazione di composti bruno-scuri ottenuti dalla reazione tra iodio
e argento.
2. Il metodo anglosassone Krome-Kote, che richiede quale supporto la carta kromekrote
(speciale carta simile a quella fotografica). Mediante un’opportuna pressione eser-
citata sulla carta, posta sulla pelle umana, è possibile evidenziare l’impronta con
l’utilizzo della polvere di grafite. Risulta possibile, alle volte, che l’impronta rima-
sta sulla pelle (dopo il trattamento krome-krote), possa essere rivelata mediante
spolveramento diretto di sostanze esaltatrici in polvere.
3. Il metodo dell’elettronografia (una sorta di radiografia prodotta da un’emissione
elettronica) è basato sulla radiografia della pelle che precedentemente è stata trat-
tata con della polvere di piombo. In alternativa alla polvere di piombo, possono
essere usati tetrossido di rutenio, diossido di zolfo, cloruro di iodio, tiurea e solfuro
di sodio. Questo metodo presenta numerosi svantaggi inerenti l’utilizzo di sostan-
ze radioattive.
4. Il metodo della fluorescenza laser indotta richiede l’uso, quale sorgente di irraggia-
mento, di un laser modulato in frequenza e intensità in modo da stimolare l’emis-
sione in fluorescenza delle sostanze presenti nell’essudato. Questi composti, quali
le vitamine del gruppo B o i loro derivati, rivelano la presenza di eventuali impron-
te allo stato latente.
5. Anche sulla pelle si può provare a usare il metodo delle polveri esaltatrici. Viene utiliz-
zato un supporto di polietilene (PET) semirigido, preventivamente caricato elettro-
staticamente, e posto sulla pelle, nelle zone in cui si ritiene siano presenti impron-
te. Il supporto viene successivamente trattato con specifiche polveri, e le eventuali
impronte evidenziate possono essere fotografate mediante luce naturale, ultravio-
letta, oppure laser a ioni argon, qualora il foglio plastico sia stato trattato con pol-
veri fluorescenti.
6. In casi particolari viene usato anche il metodo dell’estere cianoacrilico, in questo
caso a entrare nella camera isolata sarà il corpo della vittima.

386
La scena criminis

Le armi da fuoco

Le analisi sulle armi da fuoco vengono effettuate al fine di determinare le seguenti


caratteristiche: condizione generale dell’arma (se funziona, se in condizioni di sparare
in un dato momento o in una data situazione); sensibilità del grilletto (qualità di pres-
sione necessaria sul grilletto al fine di esplodere il colpo); alterazione dell’arma rispetto
al prodotto originario costruito e/o venduto (alterazione di arma giocattolo in metallo
o plastiche speciali che divengono armi funzionanti, oppure le modifiche di armi semi-
automatiche in automatiche); il numero seriale dell’arma, al fine di verificare abrasatu-
re o modificazioni; tipo di rigatura e modifica strutturale imposta al proiettile e bossolo
quando esploso con una data arma. L’esperto è solitamente un ingegnere in meccanica
o elettronica in grado di utilizzare gli strumenti sofisticati per l’analisi delle armi.
Esistono alcune specifiche cautele che gli specialisti dovranno porre in essere:

a) mai inviare un’arma carica al laboratorio, a meno che non sia portata di persona. Le
cartucce non sparate possono essere lasciate nel caricatore di un arma, a patto di ri-
muovere il caricatore stesso. Un’arma da fuoco col caricatore inserito non dovrebbe
mai essere trasportata in alcun modo, nemmeno se l’arma ha la sicura inserita;
b) mai pulire la canna, la camera di sparo o il tamburo prima di sottoporla agli esami
di laboratorio e mai tentare di sparare con essa prima che sia esaminata;
c) mai prendere un’arma mettendo una matita o un altro oggetto all’estremità della
canna;
d) registrare numero di serie, marca, modello e calibro dell’arma e marcarla in modo non
appariscente, in modo da non diminuirne il valore prima di mandarla al labora-
torio. Marcare le armi da fuoco è importante perché, a volte, vengono trovati nu-
meri di serie duplicati su armi diverse della stessa marca e modello generale. Non
bisogna confondere i numeri del modello o del brevetto coi numeri di serie;
e) mettere le armi da trasportare in scatole di cartone resistente o di legno, ben imballate,
in modo da evitarne lo spostamento durante il tragitto;
f ) fucili o pistole non dovrebbero essere smontati;
g) se sull’arma è presente sangue o altro materiale di qualunque genere che riguarda
l’investigazione, avvolgere l’arma in un foglio di carta pulita e sigillarlo con nastro
adesivo per prevenire il movimento dell’arma e la perdita del reperto durante il tra-
sporto;
h) se l’arma deve essere esaminata per impronte digitali latenti, mettere in pratica le ap-
posite procedure;
i) mai marcare i proiettili;
l) avvolgere i proiettili recuperati in carta e sigillare in scatoline separate ed etichettate
o buste;
m) inviare tutti i proiettili recuperati al laboratorio. Un’identificazione decisiva può es-
sere possibile su uno solo dei diversi proiettili trovati, anche quando tutti sembra-
no essere in buone condizioni;
m) non tentare di pulire i proiettili recuperati, prima di inviarli al laboratorio;
n) proiettili recuperati da un cadavere dovrebbero essere asciugati all’aria e avvolti in
carta. Il lavaggio può distruggere importanti prove;

387
Criminologia ed elementi di criminalistica

o) avvolgere in carta bossoli recuperati e sigillarli in separate scatoline o buste etichet-


tate;
p) le cartucce esplose possono essere marcate sia all’esterno che all’interno della parte
di carta o plastica della cartuccia stessa;
q) se è necessario un esame per determinare se una cartuccia esplosa o un bossolo sono
stati sparati da un’arma specifica, inviare l’arma e tutte le munizioni inesplose re-
cuperate;
r) inviare tutti i bossoli o cartucce al laboratorio. Alcuni reperti possono contenere più
dettagli utili all’identificazione di altri;
s) avvolgere ogni bossolo in carta per evitare di danneggiarne il fondello, l’innesco o
altre parti tramite il contatto con altri bossoli. Mettere i bossoli avvolti in carta, in
scatoline o buste. Etichettare e sigillare il contenitore;
t) tentare sempre di recuperare tutte le munizioni non usate a scopo di confronto quan-
do armi da fuoco vengono acquisite come prove. Anche se non dentro le armi stes-
se, i sospettati, spesso, tengono ulteriori munizioni anche in macchina, in tasca,
in altre parti della casa. È molto importante ai fini degli esami, poter duplicare
esattamente la marca, il tipo e l’età delle munizioni usate nel crimine, in modo da
dimostrare che altre munizioni in possesso del sospettato sono identiche a quelle
esplose durante lo svolgimento dell’azione criminale;
u) le munizioni inesplose non dovrebbero essere marcate. La scatola delle munizioni può
essere marcata all’esterno, senza dover marcare ogni proiettile rimasto dentro;
v) inviare abiti o altro materiale che riporta residui di polvere da sparo o fori di proiettili
al laboratorio. Gli abiti dovrebbero essere cautamente avvolti in carta pulita e pie-
gati il meno possibile per prevenire lo spostamento di particelle di polvere. Foto-
grafare la configurazione della distribuzione della polvere non serve perché spesso
devono essere condotti anche esami microscopici e test chimici sulle prove stesse.
Imballare ogni oggetto separatamente;
w) per i test sulla configurazione della polvere da sparo o dello sparo stesso è essenziale
poter ottenere munizioni identiche in marca, tipo ed età a quelle usate sulla sce-
na del crimine. Le munizioni duplicate sono necessarie per spararle con l’arma in
questione per determinare la distanza della bocca dell’arma dalla vittima o da un
altro oggetto nel momento in cui l’arma ha sparato;
z) i residui da polvere da sparo sono prove molto delicate e dovrebbero essere raccolte pri-
ma possibile (preferibilmente entro tre ore dal momento in cui sono state emesse
dall’arma da fuoco). Usare i kit GSR forniti dal laboratorio e seguire attentamente
le istruzioni. Nel caso di soggetti in vita, se sono passate più di sei ore o se il sogget-
to si è lavato le mani, è improbabile che possano essere ottenuti risultati significa-
tivi. Se è necessario, ottenere dei campioni da un cadavere, se possibile, la raccolta
di residui di polvere da sparo dovrebbe essere effettuata prima di spostare il corpo.
Se questo non è possibile, proteggere le mani del corpo con sacchetti di carta.

Fibre e fili

Questo tipo di materiale, spesso, viene rinvenuto sulle abrasioni causate da tessuto
o su materiali strappati o ancora su aree colpite da veicoli che non si sono fermati. In

388
La scena criminis

alcuni casi di furto con scasso, questo materiale può essere trovato su porte scorrevoli
forzate, vetri rotti o altri punti interessati.
L’esame delle fibre aiuta a determinare il tipo o il colore delle stesse. È possibile
anche risalire al tipo di indumento o tessuto di cui facevano parte. Fibre e fili possono
anche essere confrontate con gli abiti dei sospettati, per stabilire se possono provenire
da essi.
Se vengono rinvenuti fili o grandi fibre, è possibile raccoglierle con le dita e inse-
rirle nelle apposite bustine, che poi andranno messe in una busta di carta più grande,
che verrà sigillata ed etichettata. Mai mettere le fibre direttamente in una busta da let-
tera, perché possono facilmente essere smarrite.
Se le fibre sono poche e di piccole dimensioni, e se è possibile farlo, avvolgere l’in-
tera area che le contiene con un foglio di carta e inviare il tutto al laboratorio. Racco-
gliere le fibre su nastro adesivo solo se il laboratorio lo permette e vi fornisce i requisiti.
Quando vengono rinvenute fibre e fili, è necessario inviare al laboratorio anche tutti gli
abiti delle persone da cui potrebbero provenire, a scopo di confronto.
Nei casi di assalto sessuale e in alcuni altri casi, è possibile indicare o dimostrare il
contatto tra due individui o tra un individuo e un oggetto, tipo il sedile di una macchi-
na, tramite il confronto delle fibre. Questi esami sono validi solo se è provato che non
c’è stato contatto tra i due individui o un individuo e un oggetto prima o dopo l’episo-
dio. Attenzione particolare deve essere posta nel tenere tutti i capi di vestiario di ognu-
no degli individui e l’oggetto separati. Ogni capo dovrebbe essere steso su un foglio di
carta pulita e arrotolato separatamente dopo essere stato etichettato. Se uno dei capi di
vestiario di un soggetto viene a contatto con uno dell’altro soggetto o viene disteso sul
tavolo o sul sedile che è stato toccato dagli abiti dell’altro sospettato, il confronto può
non essere valido.

Vetro

Frammenti di vetro possono provenire da finestre rotte durante un furto con scas-
so, fari in casi di pirateria stradale, e bottiglie o altri oggetti che possono rompersi e la-
sciare frammenti su effetti personali di sospettati coinvolti in vari tipi di crimini.
Scarpe e vestiti dei sospettati o altri oggetti riportanti schegge di vetro dovrebbero
essere avvolti in carta e mandati al laboratorio per essere esaminati.
Tutti i frammenti di vetro rinvenuti sulla scena di incidenti causati da pirateria
stradale dovrebbero essere raccolti. La ricerca non dovrebbe essere limitata solo al pun-
to dell’impatto, poiché i vetri dei fari anteriori possono cadere anche a una certa di-
stanza, mentre l’automobile lascia la scena dell’incidente. I vetri provenienti da diversi
punti devono essere tenuti in diversi contenitori. È importante raccogliere tutti i vetri,
perché ce ne possono essere di diversi tipi. Inoltre, se se ne conservano solo pochi cam-
pioni, c’è il rischio di lasciarsi sfuggire i singoli pezzi che potrebbero fisicamente com-
baciare col vetro che rimane nei fari dell’auto del sospettato.
Mettere piccoli frammenti di vetro in bustine di carta, da inserire poi in buste più
grandi o, in mancanza, nei contenitori di plastica dei rullini fotografici o in scatoline
porta pillole, basta che sia possibile sigillare ed etichettare il contenitore.
Mettere i frammenti più grandi in scatole di dimensioni adatte. Separare i singoli

389
Criminologia ed elementi di criminalistica

pezzi con cotone o carta, per evitare la rottura dei bordi durante il trasporto. Sigillare
ed etichettare il contenitore.
Finestre: se la finestra rotta è piccola, inviarla tutta intera (o comunque tutto il ve-
tro rimasto) al laboratorio. Se è grande, raccogliere diversi campioni da diversi pun-
ti della finestra. Se il vetro rotto è abbastanza grande da permettere il confronto con i
margini rotti o l’esame delle linee di frattura, di impronte, di abrasioni superficiali o
contaminazioni, è necessaria l’intera finestra rotta.
Vetri-fari di automobili: tutti i vetri rimasti nel telaio vanno raccolti. Se c’è il so-
spetto che sia stato montato un vetro nuovo, questo deve essere rimosso e il telaio va
accuratamente esaminato per cercare piccole schegge provenienti dal vetro che c’era
prima. In questi casi, inviare il nuovo vetro al laboratorio.
Altri tipi di vetro: quando si sono rotte bottiglie o altri oggetti, raccogliere tutti i
vetri presenti.
Fari e fanalini di coda di veicoli a motore. Nell’investigazione su incidenti di veicoli,
può essere importante determinare se i fari anteriori o posteriori del veicolo erano ac-
cesi nel momento in cui la luce si è rotta.
Il ritrovamento dei filamenti è di primaria importanza. Sono abbastanza piccoli e la
loro localizzazione può richiedere un’attenta ricerca.
Se vengono trovati, devono essere inseriti in una bustina di carta o una scatolina
da chiudere con nastro adesivo. Indipendentemente dal fatto che vengano trovati i fi-
lamenti grandi, tutte le parti rimanenti (l’alloggiamento della lampada, l’involucro del
vetro o l’intera unità del fascio sigillato del faro) devono essere avvolti in carta e inviati
al laboratorio.

Vernici

Le tracce di vernice sono frequentemente riscontrate in casi di pirateria stradale,


sugli strumenti usati dai ladri e, occasionalmente, in altri tipi di casi. Della vernice può
essere trovata sugli abiti di pedoni investiti. Esaminare tutte le aree, con particolare at-
tenzione a quelle riportanti segni di pressione, strappi o altri segni di contatto.
Se viene trovata, la vernice non va rimossa, ma il capo di abbigliamento va contras-
segnato e inviato al laboratorio.
Questa vernice dovrebbe almeno rivelare il colore dell’automobile responsabile. Va
tenuto a mente, comunque, che molte automobili moderne hanno più di un colore e
che la vernice trasferita sul punto d’impatto può rappresentare solo il colore della par-
ticolare area del veicolo che è venuta a contatto con la vittima.
Raramente l’esame della vernice trasferita sugli abiti della vittima indicherà la mar-
ca e il modello del veicolo coinvolto, visto che, di solito, solo alcune porzioni dello
strato ossidato superiore vengono trasferite. Inoltre, molti veicoli vengono riverniciati
usando colori e tipi di vernice che possono essere diversi da quelli specificati dalla casa
costruttrice del veicolo. Il colore e tipo di vernice scelta dal proprietario della macchina
per riverniciarla possono anche corrispondere a quelli usati da un’altra casa produttrice,
il che può causare confusione nella ricerca dell’autovettura responsabile.
A volte, interi frammenti di vernice verranno trasferiti ai vestiti. Se questi fram-
menti contengono diversi strati, e in particolare se provengono da una macchina river-

390
La scena criminis

niciata, possono essere di gran valore come prove, quando il veicolo responsabile viene
localizzato. In alcuni casi, frammenti di vernice possono essere rinvenuti anche sul ter-
reno vicino al punto d’impatto.
È necessario ottenere campioni per il confronto da tutte le zone che rivelano dan-
ni recenti sui veicoli sospetti. Questo è molto importante dal momento che la verni-
ce può essere di tipo e di composizione diversi in zone diverse, anche se il colore è lo
stesso. Se la vernice può essere scrostata, piegando leggermente il metallo, rimuoverla
in questo modo. Altrimenti, va grattata usando una lama pulita, da pulire nuovamente
dopo ogni prelievo. Prelevare tutti gli strati fino al metallo. Mettere ogni campione in
un contenitore diverso.
Trasferimenti reciproci di vernice si verificano, spesso, nei casi di pirateria stradale
tra due o più veicoli. Se vengono rinvenute delle schegge di vernice su uno di questi,
provare a rimuoverli e metterli in una bustina di carta. Se invece i trasferimenti sono
sotto forma di macchia sulle superfici, sfaldare le schegge o grattare la vernice dal vei-
colo, includendo sia quella trasferita, sia lo strato superficiale originale. Tenere tutti i
trasferimenti trovati in diverse aree in contenitori separati e non inserirli direttamente
nelle buste, prima metterli nelle apposite bustine.
Quando si verificano trasferimenti reciproci, raccogliere subito i campioni contami-
nati di ciascun veicolo trovati nelle aree immediatamente adiacenti a ogni trasferimento
raccolto. Ciò è molto importante, visto che questi campioni permettono al laboratorio
di distinguere tra la vernice trasferita e quella originariamente presente sul veicolo.

Casi di furto con scasso

Gli strumenti usati per entrare negli edifici, forzare cassaforti e introdursi in altri
ambienti, spesso, contengono tracce di vernice, così come di altre sostanze come plasti-
ca, materiali isolanti, e così via. È necessaria la massima cautela affinché queste tracce
non vadano perdute. Se sono presenti questi trasferimenti, avvolgere l’estremità dello
strumento che li reca in carta pulita e sigillare con nastro adesivo per prevenirne la per-
dita. In nessun caso, si deve tentare di mettere lo strumento in segni o impronte trova-
te. Se si procede in tal modo, infatti, i trasferimenti di vernice o di altro materiale tro-
vati in seguito sullo strumento possono non essere validi come prove.
Raccogliere campioni di vernice da tutte le zone con cui gli strumenti possono es-
sere venuti in contatto sulla scena del crimine. Questi campioni dovrebbero includere
tutti gli strati presenti. Non rovinare il segno lasciato dallo strumento quando si racco-
glie la vernice. Se possibile, ritagliare tutto intorno al segno e inviare il materiale su cui
si trova al laboratorio.
Lo strumento stesso può contenere vernice o altri rivestimenti, tracce dei quali
possono essere state lasciate sulla scena del crimine. Dovrebbe essere svolta un’attenta
ricerca per tali materiali, in particolar modo, su ogni segno lasciato dallo strumento in
questione. Possono essere usate le apposite bustine di carta per raccogliere e conservare
molti campioni di vernice. Un metodo soddisfacente, è quello di attaccare col nastro
adesivo un lato della bustina al lato del veicolo, edificio o cassaforte, proprio sopra il
punto in cui deve essere raccolto il campione. Tenendo aperta la bustina con una ma-
no, e usando una lama pulita, la vernice può essere grattata facendola cadere nella bu-

391
Criminologia ed elementi di criminalistica

stina. Una volta che il campione è nella bustina, il nastro adesivo può essere rimosso e il
lato aperto della bustina chiuso con lo stesso. Il tutto va inserito in una busta più gran-
de, che deve essere etichettata e sigillata. Il nastro adesivo può essere usato per chiudere
le bustine, che non devono essere mai chiuse con una spillatrice.
Provette di vetro e altri contenitori vanno usati solo in mancanza di altro. Mai
mettere la vernice direttamente nelle buste più grandi a meno che non si tratti di grossi
pezzi. Molte buste non si chiudono bene ai lati e possono verificarsi perdita o conta-
minazione del materiale.

I liquidi infiammabili

La ricerca di liquidi infiammabili in casi di incendi dolosi dovrebbe includere un


approfondito esame dell’intera scena dell’incendio. L’esame dovrebbe estendersi anche alle
aree dove non è stato bruciato niente, dal momento che i liquidi infiammabili possono
essere stati messi anche in altri punti dove il fuoco non ha preso
Tracce di liquidi infiammabili possono essere rinvenute in barattoli sulla scena di
un incendio doloso. Anche materassi, tappeti, tappezzeria, pannelli di rivestimento e
altri oggetti sulla scena possono contenere liquidi che il laboratorio può isolare e identi-
ficare, anche se gli oggetti in questione sono parzialmente bruciati. Il legno su cui que-
sti liquidi sono stati versati e incendiati può ancora contenerne tracce rilevabili, sempre
che il legno non sia stato completamente carbonizzato dal fuoco. A volte, anche quan-
do si è verificato un incendio molto vasto e caldo, tracce di questo liquido vengono
trovate quando è colato nel terreno attraverso crepe del pavimento o si è infiltrato sot-
to battiscopa e lavandini.
Mentre molti liquidi infiammabili comunemente usati hanno odori caratteristi-
ci, alcune sostanze non difficili da reperire sono pressoché inodori e sfuggono all’in-
vestigazione abbastanza facilmente. Queste sostanze includono alcuni alcool, kerosene
deodorizzato, liquidi per l’accensione della carbonella, e altri. Se vengono trovati dei
liquidi volatili in contenitori aperti, mettere una piccola quantità della sostanza in una
provetta di vetro pulita con una chiusura ermetica, in modo da prevenire la perdita.
Non usare tappi circondati da gomma o contenitori di plastica.
Piccoli campioni di terreno, legno, tessuto, carta, e così via, dovrebbero essere mes-
si in barattolini di metallo puliti da sigillare immediatamente per prevenire la perdita di
eventuali componenti volatili per evaporazione.
Pezzi di legno di grandi dimensioni, tappezzeria e simili oggetti che non entrano
nei barattoli, devono essere messi nella plastica KAPAK da sigillare a caldo. Assicurarsi
che il laboratorio abbia esaminato un campione di plastica da ogni partita prima che
venga usata.
Quando gli oggetti stessi possono essere etichettati, ciò dovrebbe essere fatto. In
tutti i casi è necessario etichettare il contenitore o la busta in cui sono stati inseriti.
Anche campioni di liquidi infiammabili, normalmente presenti sulla scena di in-
cendi, dovrebbero essere inviati al laboratorio insieme a qualsiasi materiale recuperato
da sostanze parzialmente bruciate a scopo di confronto.
Lo stesso vale per campioni di liquidi infiammabili in possesso di ogni sospetta-
to. Questo include abiti, tappeti o altri materiali che hanno odori o macchie sospetti.

392
La scena criminis

Questi dovrebbero essere impacchettati allo stesso modo dei materiali rinvenuti sulla
scena dell’incendio.
In molti casi, è possibile isolare i liquidi infiammabili da diversi oggetti parzial-
mente bruciati tramite l’analisi cromatografia dei gas e altri esami per determinare il ge-
nere di liquido presente. Comunque, di solito, non è possibile risalire alla marca o alla
casa di produzione del materiale.

I passi

I passi sono ciascuno dei movimenti alterni che si compiono procedendo in am-
bulazione. I passi portano moltissime informazioni sul soggetto, quindi se sono rile-
vabili le loro impronte (orme) è possibile dedurre alcune caratteristiche del soggetto
stesso.
I passi possono lasciare orme di calzature, del materiale che avvolge i piedi e di pie-
di nudi. L’identificazione di una traccia di passo (orma di scarpa) si basa, dapprima, sulle
caratteristiche generali (tipo, marca, modello, grandezza, disegno della suola); in segui-
to, con la messa in evidenza di elementi particolari caratteristici e individuali presenti
sulla suola (usura, difetti, lesioni ecc.), è possibile effettuare un’identificazione formale.
Le orme di passi rivelano presenze, tragitti, interazioni, azioni e interventi.
L’investigatore può trovarsi di fronte alle seguenti situazioni:

1. presenza di orme definite;


2. presenza di orme non definite e parziali;
3. presenza di orme riferibili a un solo soggetto;
4. presenza di orme riferibili a più soggetti;
5. presenza di orme cancellate o inquinate;
6. presenza di orme del tipo misto (più soggetti) definite, confuse, sovrapposte.

Se non ci sono tracce di passi, i significati possono essere: la superficie non è idonea al-
la conservazione delle tracce; le orme sono state cancellate; sono stati attuati stratagem-
mi e metodiche tali da non lasciare tracce; non ci sono tracce perché nessuno è passato
attraverso la scena.
In generale, si interviene con la fotografia (a luce radente), se è necessario si con-
trasta con spray colorato, usando un riferimento centimetrato ed eventualmente un di-
segno della traccia.
Nella pratica normale ci si trova di fronte a quattro tipi di impronta da rilevare per
poi interpretare:

a) le impronte a piatto: sono positive se vi è stato deposito di materiale o negative se


vi è stata asportazione di materiale. Il prelievo è attuato tramite fogli adesivi di ce-
russa neri o eventualmente bianchi (se necessario, previa rivelazione con polvere
d’argentoratum o Magnabrush).
b) le impronte latenti: su tappeti o su linoleum e su tutte le superfici lisce non metal-
liche sono prelevate tramite il sistema elettrostatico Fabrimex; quelle su superfi-
cie ruvida, sono rilevate con la polvere Magnabrush o trasferite mediante ESDA;

393
Criminologia ed elementi di criminalistica

quelle su vetri sono evidenziate tramite vapori di cianoacrilato o polverina; le im-


pronte insanguinate sono cercate ed esaltate tramite Luminol e LCV.;
c) le impronte incavate: sono prelevate tramite calco di gesso o polvere di ceramica (sia
nella terra che nella neve);
d) le microtracce (eventuali) e altri residui (vetro, terra, altro materiale) presenti sotto
le suole dei soggetti presenti sulla scena, al sopralluogo o che hanno transitato, so-
no presenti sulla scena del crimine.

Per suole di comparazione si intendono le suole di quelle calzature che sono com-
parate alle impronte repertate per verificarne la compatibilità. Per tale prelievo, ci si
avvale di fogli adesivi trasparenti (suole delle scarpe inchiostrate con colore speciale,
lavabile) e delle fotografie della suola. Le tracce di passi vanno subito protette con ac-
corgimenti diversi (scatole, cartoni, triopan, delimitazioni, sacchi, ecc.); quando è pos-
sibile, bisogna apporre un’etichetta sul reperto in prelievo con i seguenti dati: luogo e
data del prelievo, generalità del proprietario o possessore (cognome, nome, data di na-
scita); caratteristiche principali delle calzature (marca, modello, tipo, taglia o numero,
se scarpa sinistra o destra). È opportuno porre attenzione allo staging, ovvero alle orme
impresse per fuorviare e depistare (valutare pressione, strategia di camminamento, di-
stanza tra le orme, ecc.). Per individuare il tipo di scarpa (marca e modello delle scarpe
in base al disegno delle suole) collegarsi alle collezioni di riferimento, tramite banche
dati informatizzate.
L’orma della scarpa è utile per:

- la determinazione e la tracciatura/mappatura del tragitto o dei tragitti dei soggetti


sulla scena del crimine;
- la determinazione dell’altezza approssimativa di una persona (a partire dalla lun-
ghezza dell’orma della scarpa, tenere conto del margine di tolleranza e del tipo di
suola) ed eventualmente del peso approssimativo; tale scopo è utile per la lunghez-
za del passo;
- la possibilità di stabilire sesso, età e altre caratteristiche;
- lo studio della figura di marcia (andatura veloce, di persona che trasporta pesi,
zoppicante, che indietreggia, che ruota, ecc.);
- la possibilità di stabilire l’identità dell’individuo che ha calzato le scarpe tramite
ricerca di secrezioni (sudore) per l’eventuale determinazione del DNA, esame po-
dologico (comparazione della forma del piede);
- la determinazione del numero degli autori del reato, le vie d’introduzione e di fu-
ga, le eventuali misure antropometriche, la conoscenza del tragitto, dei luoghi e del
territorio (familiarità con l’ambiente, facilità di movimenti, territorialità, ecc.);
- ottenere informazioni sui percorsi e sui tragitti di persone, sulla ricostruzione di
circostanze e situazioni, comprese le interrelazioni della diade criminosa (criminale
e vittima).

394
La scena criminis

18.5 Il luminol
Il luminol, scoperto alla fine del XIX secolo, è una sostanza chimica (amino-2,3-
diidro-ftalazine-dione-C8H7N3O2,) che contiene carbonio, azoto, ossigeno e idroge-
no. Ha peso molecolare 177,16 e il suo punto di fusione è a 319-320°C. La sua solu-
bilità è inferiore a 0,1 grammi per 100 millilitri a 19°C e ha l’aspetto di una sostanza
granulosa gialla. Quando reagisce, emette una luminescenza verde-blu con varia inten-
sità. Si può quindi affermare che sia un composto chemioluminescente, ovvero, che
emette luce come risultato di una reazione chimica. In natura, troviamo questo feno-
meno nelle lucciole, la cui luminescenza non è altro che una forma di energia.
Quando il luminol è posto a contatto con una soluzione basica come il perborato,
il pergamanganato, l’iperclorito, lo iodio o il perossido di idrogeno e un catalizzatore
come il ferro, il manganese, il rame, il nickel o il cobalto, viene ossidato. Un catalizza-
tore è l’ingrediente fondamentale di questa reazione, in quanto più esso è potente, più
brillante sarà la luce. Molti metalli favoriscono la reazione, ma ve ne sono alcuni che
la inibiscono. Il perossido di idrogeno è la base più efficace, in quanto brucia il lumi-
nol. Il cobalto si è rivelato il miglior catalizzatore. Il luminol produce luce tramite l’os-
sidazione, in quanto i due atomi di azoto vengono facilmente sostituiti dai due atomi
di ossigeno. Mentre avviene questa reazione, viene rilasciato gas di azoto, che lascia il
luminol in uno stato di eccitazione, con un’energia addizionale che poi viene rilascia-
ta sotto forma di luce. Anche gli aminoacidi, il fruttosio, i gliceroli, i tioli e l’albumina
sierica possono reagire col luminol producendo un’intensa luce. Non è necessaria una
fonte di eccitazione per produrre una luminescenza, ma può essere utilizzato un tubo
fotomoltiplicatore per misurare la quantità di luce emessa.
Nel 1895, due scienziati, Wiedemann e Schmid, dissolsero degli ologenuri alcali-
ni, come NaCl, NaBr, KCl E KBr, irradiati con raggi catodici in acqua. Notarono una
debole luminescenza blu. Rilevarono, inoltre, una produzione di luce anche quando il
carbonato di calcio irradiato veniva attaccato da acido idrocloroacetico acquoso, o aci-
do fosforico. Più tardi, nel 1928, il chimico Albrecht, scoprì una sostanza chimica spe-
cifica che, quando veniva immersa in una soluzione alcalina acquosa, emetteva una lu-
ce blu-verde con una discreta intensità. Non veniva praticamente prodotto alcun calore
insieme alla luce. Questa soluzione conteneva perossido di idrogeno insieme a un cata-
lizzatore. Il catalizzatore era un elemento alcalino con pH tra 10 e 11. A questa sostan-
za chimica venne, più tardi, dato il nome di luminol. Albrecht, inoltre, determinò che
la massima intensità di luce di questa nuova sostanza era 424 nm, e scoprì anche che il
luminol fresco aveva una resa luminosa instabile e che questa resa luminosa proveniva
dall’ossigeno disciolto e preferiva un metallo in traccia. Queste scoperte portarono a un
composto che creava un’utile sorgente di luce fredda con relativa facilità.
Spesso, il luminol è usato in biologia e in biochimica per diversi tipi di test. La cro-
matografia (un metodo per separare le sostanze chimiche), le analisi immunologiche
(che misurano minime concentrazioni di materia biologica nel sangue), e alcuni esami
del DNA, usano tutti il luminol come reagente.
Il più importante e conosciuto uso del luminol è nel campo della scienza forense.
Nel 1937, uno scienziato forense tedesco scoprì l’uso del luminol nella ricerca del sangue.
Il sangue, che è leggermente alcalino, contiene cellule, acqua, enzimi, proteine ed emo-

395
Criminologia ed elementi di criminalistica

globina. L’emoglobina, che contiene ferro, trasporta l’ossigeno in varie parti del corpo,
e reagisce con il luminol come catalizzatore. Il luminol può aiutare a scoprire quantità
molto piccole di sangue anche molto vecchie. È così sensibile, infatti, che può rilevare il
sangue anche se diluito a una parte per milione. Per intenderci, se c’è una goccia di san-
gue in un contenitore con 999.999 gocce d’acqua, il luminol emetterà luminescenza.
Se si sospetta che su una superficie ci sia del sangue (anche se è stata pulita), ci si
può applicare del luminol.
Si spengono le luci, e dopo pochi secondi (approssimativamente 5), può apparire
una luminescenza. Solo perché una superficie diventa luminescente non è detto che sia
il sangue ad essere responsabile. La candeggina, dei coloranti e altro materiale organico
possono reagire col luminol. Ad ogni modo, la reazione chimica è diversa per le diver-
se sostanze, in termini di durata della luminescenza. I metalli, per esempio, provocano
un’immediata luminescenza che sparisce rapidamente, mentre col sangue, la lumine-
scenza dura più a lungo. Nella maggior parte dei casi, il luminol, è uno strumento mol-
to utile nelle investigazioni su omicidi e stupri: ha contribuito alla cattura di molti as-
sassini e stupratori, quando le prove sembravano essere nascoste. Anche se può mettere
in risalto minuscole quantità di sangue in modo efficiente, non significa che non abbia
degli svantaggi nella investigazione della scena del crimine. Dal momento che può sco-
prire anche altre sostanze chimiche e composti, è sempre necessario un esame appro-
fondito per determinare se la sostanza con cui reagisce è sangue. Se è così, allora, inizia
il processo per stabilire il tipo di sangue, e se sia il sangue della vittima. Se viene usato il
luminol, il sangue può venire degradato e perdere alcuni markers genetici usati nei test,
così come possono essere danneggiate altre importanti proprietà del sangue.
Mentre può far rilevare anche piccole quantità di sangue, lo svantaggio, spesso, è
che la piccola quantità trovata, viene ulteriormente diluita dalla soluzione di luminol.
Per queste ragioni, si consiglia di usare il luminol come ultima risorsa sulla scena
del crimine per proteggere il poco che resta delle prove fisiche.
Le proprietà di chemioluminescenza del luminol sono notevoli, per il fatto che le
reazioni in cui è coinvolto, invece di calore, producono una luce fredda, cosa che è di-
ventata un utile strumento sia per la ricerca scientifica che per le persone comuni (basti
pensare alle piccole luci di segnalazione che hanno vari usi civili).

18.6 La grafoscopica
La grafologia giudiziaria, (o grafoscopia) è una disciplina che vanta già centocin-
quant’anni di storia. Il più comune reato collegato alla grafica è certamente quello dei
testamenti, che possono essere stati contraffati o scritti sotto costrizione. Un aspetto
intrigante della falsificazione dei testamenti è dato dal tratto tremolante, caratteristico
della scrittura nella persona anziana, che il falsario si illude di potere imitare con succes-
so e che, invece, non ha nessuna possibilità di superare un’analisi grafologica. Sempre
a proposito di testamenti, è opportuno analizzare alcune caratteristiche della scrittura.
Un tratto grafico non è caratterizzato soltanto dalla forma che assumono le lettere, ma
anche dalla velocità con la quale queste sono scritte. Solitamente, la velocità di scrittu-

396
La scena criminis

ra è massima nei tratti rettilinei (ad esempio, nella asta di una “t”) e minima in quelli
circolari.

I testamenti e la grafologia

I testamenti sono scritti solitamente da persone anziane, in molti casi affetti da


gravi disfunzioni (disturbi visivi, artrosi, arteriosclerosi, demenza senile) che influenza-
no non poco il tratto grafico. In queste circostanze, col passare degli anni, la scrittura
conosce una sempre più marcata trasformazione e questo può spingere qualche disin-
volto familiare a scrivere, di suo pugno, un testamento da esibire dopo la morte del-
l’anziano. Di fronte all’impugnazione del testamento da parte di altri potenziali eredi,
il problema che si pone al perito grafoscopico, è davvero complesso: ricostruire il ductus,
e cioè il tratto grafico dell’anziano defunto, attraverso una serie di documenti spesso
davvero limitati (ad esempio, la richiesta di una carta di identità o una domanda pre-
sentata all’INPS anni prima per ottenere una pensione).

I documenti scritti sotto costrizione

Ancora più difficile è il compito del grafologo quando bisogna verificare se il te-
stamento è stato scritto sotto dettatura o sotto costrizione e, quindi, non esprimeva le
reali volontà del soggetto (è stata questa una delle più appassionanti questioni del ca-
so Moro), o se il soggetto si trovava in una situazione psichica o neurologica da farlo
ascrivere in quella categoria che il nostro Codice classifica come persona incapace di
intendere e di volere.

La falsificazione dei documenti

La casistica di falsificazione di testamenti è pressoché sterminata: gli annali della


grafologia annoverano perizie effettuate su testamenti contestati scritti da persone cie-
che o addirittura da persone che, non potendo utilizzare le mani, afferravano la penna
con la bocca (boccografia) o con i piedi (podografia) o che erano afflitte da malattie
quali il morbo di Parkinson (che produce, com’è noto, continue contrazioni nelle brac-
cia). Eppure, anche in questi casi, esistono precisi metodi di indagine, codificati da de-
cenni di indagini grafologiche, capaci di giungere, al di là di ogni ragionevole dubbio,
all’accertamento della verità.

La velocità della scrittura

Questa velocità di scrittura lascia delle precise tracce, in quanto il segno lasciato
dalla penna (sia essa una stilografica, una biro, una roller, una punta a feltro, un pen-
narello) tende a restringersi nei tratti veloci. Vi è da aggiungere, inoltre, che il tratto
tende a slargarsi verso la fine del documento se questo è abbastanza lungo, a causa del
calore generato dall’attrito della punta sul foglio, ma questo ha importanza solo se ci si
vuole accertare che il documento è stato scritto di getto. Va da sè che questa velocità è
influenzata da molti fattori (ad esempio, se il documento è stato scritto a letto o se la

397
Criminologia ed elementi di criminalistica

persona soffriva di artrite agli arti superiori), ed è una caratteristica rivelatrice, e ciò è
possibile analizzando la traccia lasciata dalla penna con l’uso di una lente di ingrandi-
mento o metodi più sofisticati quali il microscopio o la lampada di Wood.

Falsificare una firma

Esistono innumerevoli modi per falsificare una firma o per scrivere una lettera
anonima. I più banali sono certamente quello del ricalco, dello stile a mano libera o di
inserire nel testo qualche errore grammaticale o ortografico per lasciar credere di essere
uno straniero o una persona di scadente livello culturale. Poi, vi sono altri metodi mol-
to più sofisticati che, forse, non è opportuno qui illustrare. Nonostante questi strata-
gemmi, chi scrive la lettera non potrà non lasciare nel testo la traccia che (se corretta-
mente interpretata) porterà a lui.
Il sistema utilizzato per identificare l’estensore di una lettera anonima è quello dello
scritto di comparazione. Se in sede giudiziaria il magistrato detta il testo della lettera ano-
nima alla persona imputata la quale dovrà trascriverlo su un foglio, successivamente, il
perito grafico, nominato dal tribunale, vaglierà i due scritti per emettere un responso.
Molto più spesso, comunque, quando sussistono esigenze di riservatezza (si pensi,
ad esempio, al classico caso dell’impiegato di banca che tramite lettere anonime inviate
alla direzione accusa delle peggiori nefandezze i propri colleghi o il proprio superiore),
il giudizio avviene in sede extragiudiziaria e lo scritto di comparazione viene effettuato
dall’impiegato sospettato alla presenza del solo responsabile della sicurezza e del perito
grafico nominato, senza tanta pubblicità, dall’azienda.
Un altro aspetto dell’analisi delle lettere anonime, soprattutto di quelle minatorie
finalizzate all’estorsione, è lo studio psicografologico, finalizzato a tracciare un identikit
psicologico e socioculturale dell’estensore.

Scrivere una lettera anonima

Raramente chi scrive una lettera anonima utilizza un normografo, una macchina da
scrivere, una stampante per computer o incolla lettere ritagliate dai giornali (tutti siste-
mi dai quali, comunque, sia pure con una certa difficoltà, è possibile risalire all’estenso-
re del testo), ma si ingegna ad alterare la propria grafia, ad esempio utilizzando la ma-
no sinistra (se abitualmente destrorso), scrivendo caratteri in stampatello o rovesciati
o particolarmente grandi, impugnando la penna in maniera inconsueta, ritoccando il
testo con un pennarello.

Falsificare una firma: il ricalco

Nel ricalco, si pone il foglio con la firma che si vuole imitare sul vetro di una fi-
nestra, vi si sovrappone un altro foglio e su questo, seguendo la traccia che traspare,
si copia. Va da sè che questo tipo di contraffazione difficilmente può passare inos-
servato. Il perché è da ricercare nella sostanziale innaturalezza della firma, i cui tratti,
dovendo seguire una traccia e non essendo, quindi, spontanei, risultano tremolanti,
indecisi.

398
La scena criminis

Falsificare una firma: lo stile a mano libera

Un altro sistema utilizzato dal falsario è esercitarsi a riprodurre a mano libera la fir-
ma che si vuole contraffare fino a quando, convinto di essersi appropriato dell’impron-
ta grafica, scrive di getto la firma. Apparentemente, questo sistema può apparire meno
pericoloso del primo, in quanto il tratto grafico appare naturale, e quindi non suscita
l’attenzione di chi (ad esempio, il cassiere di una banca) non conosce la firma origina-
le; in realtà, è un sistema suicida per il falsario in quanto la firma contraffatta, non solo
non supererà una perizia grafica degna di questo nome ma, addirittura, rivelerà inevi-
tabilmente in alcuni tratti la sua identità.

Il carattere dalla scrittura

Dallo studio di uno scritto, si possono ricavare parecchi dati che possono rivelare
particolari alterazioni psichiche (ad esempio, se l’anonimo è un relativamente innocuo
mitomane o uno psicopatico deciso a realizzare le sue minacce), precise caratteristiche
culturali, alterazioni fisiche (disturbi visivi, artrosi, arteriosclerosi), le modalità nelle
quali è stato scritto il testo che, complessivamente, possono essere di grande aiuto nella
delimitazione della cerchia dei sospettati e nella valutazione della potenzialità della mi-
naccia annunciata dalla lettera.

18.7 La biometria
A metà strada fra la scienza pura e la tecnologia applicata, la biometria si occupa di
capire come alcune caratteristiche del corpo umano, uniche per ciascun individuo, pos-
sano essere utilizzate come strumento di riconoscimento personale. La natura, infatti,
ha creato tutti uguali e, contemporaneamente, tutti diversi. Tutti noi abbiamo la stessa
struttura (occhi, braccia, cuore, gambe, peli), ma il viso, la voce, gli atteggiamenti, le
impronte digitali e della mano, la grafia, l’iride, etc., sono elementi unici, non riscontra-
bili in nessuno altro simile. Da una decina d’anni, grazie alla disponibilità di computer
con performances sempre migliori, alcune caratteristiche del corpo possono essere ri-
levate, classificate e usate come mezzo di riconoscimento. Come è stato anzidetto, la
biometria può essere definita come biologia quantitativa: essa consente di stabilire rela-
zioni tra le osservazioni, cui seguono le generalizzazioni per descriverle, e infine, la as-
sunzione per deduzione dei principi teorici per interpretarle.
La biometria, nel corso dei secoli, si è sempre più orientata verso quelle caratteristi-
che del corpo umano che possano essere identificative di un singolo individuo. Esisto-
no molte caratteristiche biometriche che possono essere rilevate. Tuttavia, la rilevazio-
ne automatizzata ed il confronto automatizzato con dati immagazzinati in precedenza,
prevede che le caratteristiche biometriche possiedano le seguenti proprietà: invaria-
bilità delle proprietà: cioè la costanza per un lungo periodo di tempo; misurabilità: le
proprietà devono poter essere rilevate in condizioni normali; singolarità: le caratteristi-
che devono avere proprietà sufficientemente uniche da permettere di distinguere una

399
Criminologia ed elementi di criminalistica

persona da qualsiasi altra; accettabilità: l’acquisizione di tali caratteristiche deve essere


possibile per un’ampia percentuale della popolazione; riducibilità: i dati acquisiti devo-
no poter essere riassunti in un file di facile gestione; affidabilità: il procedimento deve
garantire un grado elevato di affidabilità e di riproducibilità; privacy: il procedimento
non deve violare la privacy della persona. Date queste proprietà, il numero di caratte-
ristiche biometriche utilizzabili si riduce significativamente.
Altre caratteristiche, come per esempio il peso, le dimensioni, il colore degli occhi
e dei capelli e proprietà speciali, riscontrabili nei passaporti, non possono essere utiliz-
zate, poiché non soddisfano criteri come la singolarità, la misurabilità o l’invariabilità.
La biometria, dunque, in primo luogo, esamina tutti questi dati fisionomici (legati alle
caratteristiche anatomiche e di comportamento di un individuo) andando a evidenziare
quelle particolarità, spesso minuscole, che ci rendono unici al mondo; quindi, stimola
la tecnologia a creare strumenti appropriati per far diventare tali peculiarità la chiave ne-
cessaria e indispensabile per aprire una porta, avviare la propria automobile, accedere a
un computer, utilizzare i servizi del bancomat o di altre reti telematiche ma, soprattutto
in ambito governativo o di polizia, sono uno strumento insostituibile per individuare,
ad esempio, un individuo da seguire in un aeroporto, poiché considerato pericoloso.
Apparentemente, un tale sistema potrebbe sembrare futuristico; il caso o la fortu-
na, invece, hanno fatto sì che le ricerche relativamente all’analisi avanzata, automatizzata
e intelligente delle immagini nell’ambito della ricerca scientifica in fisica nucleare e in
astrofisica, ponessero, con qualche anno di anticipo, quelle problematiche computazio-
nali che, oggi, concernono la sicurezza internazionale, la riduzione dei crimini, l’indivi-
duazione di soggetti potenzialmente pericolosi e, conseguentemente, il riconoscimento
di azioni criminose in atto e dei loro autori già schedati negli archivi delle FF.PP.

a) delle impronte digitali

L’uso delle impronte digitali come strumento di autenticazione e/o di firma di un


documento è particolarmente antico. I primi sistemi automatici per il riconoscimento
di impronte digitali furono sviluppati nel 1950, dall’F.B.I., in collaborazione con il Na-
tional Bureau of Standards, con il Cornell Areonautical Laboratory, e con la Rockwell
International Corp. Per il giudizio di comparazione fra due impronte digitali si ha co-
me metodo quello del numero di punti di riferimento uguali fra le due impronte. La do-
manda che ci si pone è come si possa effettuare un test sulle impronte digitali, utiliz-
zando le nuove tecnologie. Visti gli sviluppi tecnologici, è sufficiente la realizzazione di
un sistema software basato sull’analisi dell’immagine e di sensori-scanner per l’acqui-
sizione delle immagini dell’impronta. Tali sistemi, inoltre, se architettati correttamen-
te, permettono di tenere conto anche delle diverse condizioni in cui l’impronta viene
acquisita. Tuttavia, si verificano delle differenze tra acquisizioni successive della stessa
caratteristica e le principali cause sono: variazioni sopravvenute nella caratteristica bio-
metrica (ad esempio, tagli o escoriazioni nelle impronte digitali); errato posizionamen-
to rispetto al sensore di acquisizione; salienti variazioni dell’ambiente di acquisizione
(variazioni di illuminazione, temperatura, umidità, etc.).
Risulta, quindi, necessario, attribuire alla frase “due caratteristiche biometriche coin-
cidono”, il significato di: “sono sufficientemente simili” ed essere coscienti che, anche

400
La scena criminis

se molto raramente, il sistema può commettere errori. La probabilità con cui si verifi-
cano tali errori è espressa da due parametri legati tra loro: FRR (False Rejection Rate),
che esprime la frequenza dei falsi rifiuti e specifica la frequenza con la quale il sistema
rifiuta ingiustamente individui che sono autorizzati all’accesso; FAR (False Acceptance
Rate), che è la frequenza delle false accettazioni, e specifica la frequenza con cui il si-
stema è ingannato da estranei che riescono a essere autorizzati, pur non avendo diritto
di accesso. Questo tipo di errore è sicuramente più grave. Il grado di sicurezza di un si-
stema biometrico può essere impostato dall’organo competente, agendo sulla soglia di
sicurezza, che stabilisce quanto stringenti debbano essere i requisiti di somiglianza delle
caratteristiche biometriche.
I due parametri FRR e FAR sono, infatti, funzione di tale soglia. Un’impronta di-
gitale è costituita da un insieme di linee dette ridge line o creste, che scorrono, per lo
più, in fasci paralleli, che a volte si intersecano, formando un disegno denominato ridge
pattern. Nell’analisi della struttura delle impronte digitali, ricorre anche il termine flow
line o linea di flusso: si tratta di un’ipotetica linea che corre parallelamente ad un insie-
me di creste contigue. L’andamento delle ridge line può essere efficacemente descrit-
to dall’immagine direzionale che è una matrice i cui elementi sono vettori non orien-
tati, ottenuti tramite la sovrapposizione di una griglia a maglia quadrata all’immagine
dell’impronta. Ogni vettore è posto in un nodo della griglia e ha direzione parallela a
quella della flow line che attraversa il medesimo. In altre parole, questi vettori denotano
l’orientazione della tangente alle ridge line in corrispondenza dei nodi della griglia. Esa-
minando accuratamente l’andamento delle creste, si possono notare delle regioni in cui
esse assumono andamenti particolari: curvature accentuate, terminazioni o biforcazio-
ni frequenti. Queste zone sono dette singolarità o regioni singolari e sono riconducibili
a tre tipologie distinte: core (o loop), caratterizzate da un insieme di creste che hanno un
andamento a U; whorl, caratterizzata da una struttura a U; delta, caratterizzate da creste
che delineano una struttura a forma di delta. A un’analisi più approfondita, si possono
osservare altre caratteristiche fondamentali delle impronte digitali: queste micro-singo-
larità, chiamate minutiae o caratteristiche di Galton, sono principalmente biforcazioni o
terminazioni delle ridge line e sono molto importanti per la discriminazione delle im-
pronte. Infatti, esse rappresentano i punti in cui si ha un comportamento anomalo del-
le ridge line, in cui ogni minuzia può essere descritta come un vettore con un attributo
che ne descrive il tipo. I sistemi automatici di verifica e riconoscimento considerano,
generalmente, le sole terminazioni e biforcazioni, perché tutte le altre minutiae possono
essere ricostruite tramite varie configurazioni di queste. Allo stato attuale, da un pun-
to di vista computazionale, in ambito scientifico e applicativo, esistono tuttavia diversi
approcci metodologici ai sistemi AFiS (Automatic Fingerprint Identification Systems).
Infine, per migliorare le prestazioni, soprattutto quando si lavora con grandi database
di sistemi automatici da interrogare in tempo reale, è possibile ricorrere a una combi-
nazione di più tecniche di verifica.

b) facciale

Altre impronte biometriche sono quelle realizzate utilizzando le tecniche per il ri-
conoscimento facciale. Sulla faccia, sono essenzialmente riscontrabili due tipi di carat-

401
Criminologia ed elementi di criminalistica

teristiche: caratteristiche olistiche (dove ogni tratto è caratteristica dell’intero volto) e ca-
ratteristiche parziali (come il naso, la bocca, etc.).
Le tecniche delle caratteristiche parziali prendono delle misure su molti punti cru-
ciali del volto, laddove le tecniche delle caratteristiche olistiche trattano il volto come
un insieme. Questi sistemi, dati dalle immagini ferme o video di una scena, consento-
no di identificare una o più persone presenti, utilizzando dei database, che contengono
dei volti immagazzinati. Il procedimento prevede che, in una prima fase, si segmenti
una determinata scena, all’interno di più scene in disordine, poi si procede alla estra-
zione delle caratteristiche della regione facciale, utilizzando una delle due metodiche
sopra indicate, e, infine, si perviene alla decisione che può riguardare l’identificazione,
il riconoscimento o la categorizzazione di una persona. Vale la pena citare due sistemi
classici per il riconoscimento facciale. Il meno recente è un sistema di riconoscimento
di immagini statiche, denominato Photobook, che utilizza un metodo statistico detto
PCA, acronimo di Principal Component Analysis, sviluppato dal MIT di Boston.
Il PCA interpreta la faccia come un punto in uno spazio n-dimensionale (spazio
delle immagini) e la proietta su un nuovo spazio attraverso una trasformazione lineare
che massimizza la varianza delle facce. Il sistema individua e acquisisce le caratteristi-
che discriminanti dell’intero volto, le memorizza nel database e le confronta con le al-
tre immagini acquisite, esprimendo, conclusivamente, un giudizio di somiglianza con
una o più immagini acquisite nel database. Altro sistema è il Local Component Analysys
(LCA), attraverso il quale si cerca di operare il riconoscimento automatico dei volti in
immagini sia statiche sia di movimento, indipendentemente dalle condizioni di varia-
bilità della scena e della faccia. Quest’ultimo sistema trova applicazione nelle investiga-
zioni di polizia, funzionali a individuare gli autori di un reato, ripresi da una telecamera
a circuito chiuso (banche, supermarket, uffici postali).
Negli ultimi anni, in relazione alle necessità internazionali, si stanno diffonden-
do sistemi automatizzati e real-time particolarmente sofisticati, che hanno l’obiettivo di
identificare una classe di individui ritenuti pericolosi, piuttosto che riconoscerli esatta-
mente. Il motivo di avere dei sistemi di identificazione di possibili candidati pericolosi,
nasce dalla necessità di effettuare una pre-selezione di individui da tracciare o seguire
in aree ad alta densità dove vi è un numero limitato di agenti.

c) dell’iride

La storia dell’iridologia affonda le radici nel passato più lontano, visto che già i ci-
nesi duemila anni prima di Cristo e i sacerdoti Caldei avevano considerato l’importan-
za dell’occhio nei loro scritti di scienza. Ma è solo nell’ottocento che l’iridologia trova
nel medico ungherese Ignaz von Peczely, il primo dei veri appassionati studiosi della to-
pografia dell’iride che nel ventesimo secolo si svilupperà come scienza iridologica.
L’iridologia è una scienza basata sulla lettura della morfologia e del cromatismo del-
l’iride come fonte di informazioni relative all’intero organismo, riguardo aspetti psi-
chici e fisici, sia normali sia patologici, di natura ereditaria, costituzionale o acquisiti.
L’indagine iridologica permette, quindi, di delineare un quadro completo del soggetto
esaminato che comprende caratteristiche e condizioni generali (personalità, vitalità, di-
fese immunitarie, stress ecc.) e condizioni di singoli apparati e organi, patologie pre-

402
La scena criminis

gresse e patologie in atto. Il bulbo oculare è costituito da tre strati sovrapposti di tessu-
to: la parte più esterna viene chiamata sclera, ed è quella che comunemente viene detta
bianco degli occhi; al centro della parte anteriore della sclera, è situata la cornea, che è un
tessuto trasparente e non vascolarizzato che fa parte della sclera, la quale ha il compito
di consentire il passaggio dei raggi luminosi. La seconda membrana, che si trova al di
sotto della sclera, assume il nome di coroide e, nella sua parte centrale anteriore, in una
zona che corrisponde anatomicamente alla collocazione della cornea, dà forma all’iride,
tessuto che è fortemente vascolarizzato ed innervato. Il terzo strato, il più interno, è la
retina che è sensibile alla luce che trasforma in segnali elettrici i quali, inviati al cervello
tramite il nervo ottico, ci consentono di vedere.
L’iride è una struttura circolare, posta dietro la cornea e anteriormente al cristalli-
no; al centro dell’iride si trova un’apertura circolare, la pupilla, che permette il passag-
gio dei raggi luminosi e ne regola l’intensità per mezzo dei muscoli ciliari, i quali fanno
parte dell’iride e che consentono i movimenti di apertura e chiusura della pupilla. L’iri-
de ha un diametro di circa 12 millimetri e uno spessore medio di 0,3 millimetri, che
non è uniforme su tutta la sua superficie. Essa è anatomicamente suddivisa in due parti
concentriche, l’iride pupillare, quella più interna, e l’iride ciliare, all’esterno. Da quan-
to detto si può affermare che l’iride sia lo specchio della nostra collettività con tutte le
sue differenze e singolarità. Proprio per tali singolarità, tra le tre metodiche analizzate
è la più sicura da utilizzare.

403
404
CAPITOLO 19

Scena criminis e reperti organici

19.1 Macchie di sangue umido e secco


a) macchie di sangue umido

Il sangue ancora liquido (la tipica pozza) può essere raccolto tramite un tampone
di garza o un altro supporto di cotone sterile e va lasciato asciugare completamente al-
l’aria, a temperatura ambiente. Successivamente, dovrebbe essere refrigerato o conge-
lato appena possibile e portato rapidamente al laboratorio. Un ritardo di 48 ore può
rendere un campione di sangue inutilizzabile. È necessario, se si è poco distanti dal
laboratorio, portarvi il campione subito, se è impossibile farlo, va spedito per posta,
anche se è necessario farlo asciugare completamente prima di imbustarlo. Il materiale
ematico non va mai scaldato o fatto asciugare al sole. Se la macchia è su un indumento,
questo va appeso al chiuso con adeguata ventilazione; se non completamente asciutto,
etichettarlo e avvolgerlo in carta o inserirlo in un sacchetto di carta scura o in una sca-
tola, poi sigillare ed etichettare il contenitore. Impacchettare solo un oggetto alla volta,
non usare contenitori di plastica.

b) macchie di sangue secco

Se la macchia di sangue secco si trova su un indumento, se è possibile, bisogna av-


volgere l’intero indumento in carta pulita, poi è necessario metterlo in una busta di car-
ta scura o in una scatola; va sigillato e il contenitore va etichettato.
Se si trova su piccoli oggetti solidi, va inviato l’intero oggetto al laboratorio, dopo
averlo impacchettato ed etichettato.
Se si trova su grandi oggetti, l’area macchiata deve essere coperta con carta pulita
e bisogna sigillare i margini con del nastro adesivo per evitare la perdita o la contami-
nazione. Se è impossibile, inviare l’intero oggetto al laboratorio; bisogna grattare via il
sangue su un foglio pulito di carta, che poi verrà ripiegato e inserito in una busta. Non
si deve grattare il sangue secco direttamente nella busta. È necessario grattare la mac-

405
Criminologia ed elementi di criminalistica

chia con un coltello appena lavato e asciugato o uno strumento simile. Lo strumento
va lavato e asciugato ogni volta che si gratta una macchia diversa. Si deve sigillare ed
etichettare la busta. È importante non mischiare le macchie secche. Ogni macchia deve
essere posta in una busta separata. Le macchie di sangue secco da un oggetto non van-
no mai prelevate usando un panno umido o carta.

19.2 Campionamenti di sangue


Per i campioni di sangue da autopsia, generalmente, il patologo preleva il campio-
ne direttamente dal cuore e lo mette in una provetta vacutainer (sottovuoto, ndt) col
tappo giallo o viola (diversi tipi di anticoagulanti all’interno, ndt). In rari casi, quando
non c’è disponibilità di sangue liquido, il patologo può prelevare un campione di fega-
to, osso e/o tessuto muscolare profondo per la tipizzazione. Per i campioni di sangue da
individui vivi, anche qui, il sangue va raccolto in provette vacutainer col tappo giallo e
viola. Se la vittima è stata ferita in modo talmente grave da richiedere una trasfusione,
bisogna fare in modo che il prelievo di sangue da essa avvenga prima, oppure dare il via
alle necessarie procedure per ottenere i campioni di sangue del prelievo pre-trasfusio-
nale fatto in ospedale. È importante notare che questi campioni, spesso, non vengono
conservati a lungo, per cui è necessario adoperarsi in fretta. Inoltre, è opportuno fare
in modo che eventuali indumenti macchiati di sangue, indossati dalla vittima, vengano
asciugati all’aria e congelati per conservarli in caso di necessità.

19.3 Liquidi organici


Particolarmente importanti, ai fini investigativi, la presenza dei c.d. liquidi orga-
nici. La saliva va raccolta su un tampone sterile, che va fatto asciugare all’aria, e im-
pacchettato con carta. Non vengono usati contenitori di plastica. Il liquido seminale
spesso, ma non sempre, viene rinvenuto su vestiti, coperte e lenzuola. Le macchie van-
no asciugate all’aria, avvolte in carta e impacchettate in sacchetti di carta. Non vengo-
no usati sacchetti di plastica. Nei casi di violenza sessuale, la vittima deve sempre essere
esaminata da un medico. Un kit-stupro per la raccolta delle prove nei casi di violenza
sessuale viene usato per prelevare le prove dalla vittima. È molto importante seguire le
istruzioni sul kit per ottenere il massimo dalla raccolta delle prove. Tutti gli indumenti
vanno etichettati e impacchettati separatamente.
Se i tessuti sono umidi, è necessario farli asciugare all’aria prima di impacchettarli;
i tessuti vanno maneggiati il meno possibile.

406
Scena criminis e reperti organici

19.4 Peli/capelli

Occasionalmente, un esame di peli/capelli umani può rivelare la possibile razza del-


l’individuo e la parte del corpo da cui provengono. Peli/capelli umani possono essere
confrontati per stabilire se due campioni possono avere un’origine comune. La validità
degli esami di laboratorio su tali campioni dipenderà dalla quantità di materiale raccol-
to e dalle sue caratteristiche.
Le operazioni sono le seguenti:

- raccogliere tutti i peli presenti. Se necessario, usare le dita o delle pinzette, metterli
in bustine di carta che poi verranno raccolte in una busta più grande da sigillare ed
etichettare;
- se i peli sono appiccicati, per esempio in sangue secco, o impigliati in metallo o
schegge di vetro, non tentare di staccarli, ma piuttosto lasciarli intatti sull’ogget-
to. Se l’oggetto è piccolo, prelevarlo, imbustarlo ed etichettare il contenitore. Se è
grande, avvolgere l’area in cui si trovano i peli in carta, per evitarne la perdita du-
rante il trasporto;
- nei casi di stupro, la regione pubica della vittima dovrebbe essere spazzolata prima
di raccogliere i campioni. È necessario ottenere campioni di peli dalla vittima, dal
sospettato o da qualsiasi altra possibile fonte per compararli con campioni scono-
sciuti. Il metodo raccomandato per raccogliere i capelli è quello di far piegare la
persona in avanti, posizionandovi sotto un ampio foglio di carta pulita, e farle pas-
sare le proprie mani tra i capelli, in modo che cadano da soli sul foglio. È possibile
anche prelevarli direttamente dalla testa. Sarebbe meglio raccogliere almeno 50-
100 capelli. Non tagliarli. Lo stesso metodo può essere utilizzato per raccogliere
peli da varie parti del corpo. Sono necessari 30-60 peli pubici. Quando la persona
è un sospettato, dovrebbero essere raccolti peli da tutte le parti del corpo, anche se
al momento servono solo capelli.

407
BIBLIOGRAFiA

ABRAM D., ACIERNO M., Le violenze domestiche trovano una risposta normativa,
in “Legge e istituzioni”, Questioni Giustizia 2001.
ADAMI C. et al., Libertà femminile e violenza sulle donne. Strumenti di lavoro per in-
terventi con orientamenti di genere, Franco Angeli, Milano, 2000.
ADLER, A. (1923) Prassi e teoria della psicologia individuale. Tr. it. Astrolabio, Ro-
ma 1949.
ADLER, F. (1988) Evoluzione della criminalità femminile. In: FERRACUTI, F. (a cu-
ra di) Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense. Giuf-
frè, Milano.
ADORNO, T. W. (1947) Dialettica dell’illuminismo. Tr. it. Einaudi, Torino.
ALBERONI, F., VECA, S. (1988) L’altruismo e la morale. Garzanti, Milano.
ALEXANDER, F., STADB, H. (1929) Il delinquente, il giudice e il pubblico. Tr. it.
Giuffrè, Milano 1978.
ALLPORT, G. W. (1937) Personality. A Psychological Interpretation. Holt, Rinehart
& Winston, New York.
AMBRUOSO, P., CIAPPI, S., TRAVERSO, G. B. (1997) L’omicidio in Italia: un’ana-
lisi quantitativa (1900-1993). Rass. It. Criminol., 2, pp. 273-302.
AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION (1994) Manuale diagnostico e stati-
stico dei disturbi mentali, 48 ed. (DSM-IV). Tr. it. Masson, Milano 1995.
AMNESTY INTERNATIONAL, Bosnia Erzegovina: rapporto sulle violazioni dei di-
ritti umani, Sonda, Torino, 1993.
ANCEL, M. (1954) La nuova difesa sociale. Tr. it. Giuffrè, Milano 1966.
ANCONA, L. (1972) Nuove questioni di psicologia. La Scuola, Brescia.
ANDERSON D., SOLOMON, P., Tossicomanie, in: Solomon P., Patch V.D., Ma-
nuale di Psichiatria, Piccin Ed., Padova, 1974, pp. 388-407.
ANDREOLI, V. (1984) La norma e la scelta. Mondadori, Milano.
ANTOLISEI, F. (1980) Manuale di diritto penale. Parte generale. Giuffrè, Milano.
ARDIZZONE, S. (1978) Elementi per una valutazione giuridica del terrorismo. In:
Prospettive sul terrorismo. Quaderni ISISC, Siracusa.
ARNAO, G., Il dilemma eroina: rituali e ricerche, Feltrinelli, Milano, 1985.
ARNAO, G., Rapporto sulle droghe, Feltrinelli, Milano, 1982.
BAGOZZI, F. (1998) “Self Naif.” Comunicazione al Convegno internazionale “Per-
corsi della notte”, Bologna.
BALLONI, A. (1983) Criminologia in prospettiva. Clueb, Bologna.
BALLONI, A. (1984) La nuova criminalità. Clueb, Bologna.

409
William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin

BANDINI, T. GATTI, D. (1987 a) Delinquenza giovanile. Giuffrè, Milano.


BANDINI, T., GATTI, D. (1987b) La crisi del paradigma eziologico e il nuovo ruolo
della criminologia clinica. Criminologia, 13, 16.
BANDINI, T., GATTI, D., MARDGO, M. I., VERDE, A. (1991) Criminologia.
Giuffrè, Milano.
BARASH, D.P. (1977) Sociobiologia e comportamento. Tr. it. Franco Angeli, Milano
1980.
BARATTA, A. (1975) Criminologia liberale e ideologia della difesa sociale. La Que-
stione Criminale, 1, 1,7.
BARBAGLI, M. (1995) L ‘occasione fa l’uomo ladro. Furti e rapine in Italia. Il Muli-
no, Bologna.
BARROW, .T. D. (1988) Il mondo dentro il mondo. Tr. it. Adelphi, Milano 1991.
BASAGLIA, F., BASAGLIA ONGARO, F. (1971) La maggioranza deviante. Einaudi,
Torino.
BASSIOUNI, S. (1978) Methodological Options for International Legal Control of
Terrorism. In: Prospettive sul terrorismo. Quaderni ISISC, Siracusa.
BATESON, G. (1972) Verso un’ecologia della mente. Tr. it. Adelphi, Milano 1976.
BECCARIA, C. (1764) Dei delitti e delle pene. Tr. it. Rizzoli, Milano 1994.
BECKER, G. S. (1968) Crime and Punishment: An Economic Approach. ]. of Politi-
cal Economy, 76, 169.
BECKER, H. S. (1963) Outsiders. Tr. it. Abele, Torino 1987.
BERGERET, J. (1974) La personalità normale e patologica. Tr. it. Raffaello Cortina
Editore, Milano 1984.
BERKOWITZ, L. (1962) Aggression. McGraw-Hill, New York.
BERLIN, 1. (1948) Il riccio e la volpe. Tr. it. Adelphi, Milano 1986.
BERLIN, 1. (1969) Quattro saggi sulla libertà. Tr. it. Feltrinelli, Milano 1989.
BERTALANFFY, H. (1969) Teoria generale dei sistemi. Tr. it. Boringhieri, Torino
1983.
BERTOLINO, M. (1995) Verso un nuovo diritto penale? Marginalità e Società, 32.
BINSWANGER, L. (1942) Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins.
Nichans, Zurich.
BLACKBURN, R. (1993) The Psychology of Criminal Conduct. Wiley, Chichester.
BOBBIO, N. (1973) “Empirismo e scienze sociali in Italia.” Atti XXIV Congr. Naz.
Filosofia, voI. 1.
BONGER, W. A. (1905) Tr. it. in: PISAPIA, G.V. (a cura di) Criminalità e condizioni
economiche. Unicopli, Milano 1982.
BORRUSO, R., BUONOMO, G., CORASANITI, G., D ‘AIETTI , G., (1994) Pro-
fili penali dell’informatica. Giuffrè, Milano.
BOWLBY, J. (1944) Forty-four Juvenile Thieves: their Characters and Home life.
Int.]. PsychoAnal., voI. XXV, IV, 6. BOWLES, R. (1985) Diritto ed economia. Il
Mulino, Bologna.
BROWN, P., BLOOMFiELD, T. (1979) Legality and Community. The Politics o/Ju-
venile Justice in Scotland. Aberdeen People Press, Aberdeen.
BRUNO, F., TORNIELLI, A., Analisi di un mostro, 1996. Arbor.
BRUNO, F., Aspetti sociologici e criminologici delle tossico-dipendenze, in: Città, cri-

410
Il disturbo post-traumatico da stress

mine e devianza, n. 3, 1980, pp. 47-68.


BRUNO, F. (1987) La psiconeuroendocrinologia in criminologia. In: FERRACUTI,
F. (a cura di) Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria foren-
se, voI. 5. Giuffrè, Milano.
CANCRINI, L. (1973) Esperienze di una ricerca sulle tossicomanie giovanili in Italia.
Mondadori, Milano.
CANCRINI, L., Tossicomanie, Ed. Riuniti, Roma, 1980.
CANEPA, G. (1987) Imputabilità e trattamento del malato di mente autore di reato.
Rass.Criminol., 12, 2.
CANEPA, M., MERLO, S. (1991) Manuale di diritto penitenziario. Giuffrè, Mila-
no.
CANTARELLA, E. (1991) I supplizi capitali in Grecia e a Roma. Rizzoli, Milano.
CAPRI, P., LANOTTE, A. (1996) Criminalità al femminile: personalità, compor-
tamenti e struttura affettiva in prospettiva psicodinamica. In: DE CATALDO
NEUBURGER, L. (a cura di) La criminalità femminile tra stereotipi culturali e
malintese realtà. Cedam, Padova.
CARRIERI, F., GRECO, O., CATANESI, R. (1992) La vecchiaia. Aspetti criminolo-
gici e psichiatrico-forensi. Giuffrè, Milano.
CARRIERI, F., GRECO, O., CATANESI, R., Le tossicodipendenze, Liviana Ed., Pa-
dova, 1989.
CATTANEO, M. A. (1990) Pena diritto e dignità umana. Giappichelli, Torino.
CAZZANIGA, A. (1955) Programma di medicina legale. La Sorgente, Milano. CAZ-
ZANIGA, A. (1960) Criteriologia medico-forense. Pavex, Pavia.
CAZZULLO, CL. Cito in: MANTOVANI, F. (1984) Il problema della criminalità.
Cedam, Padova.
CERETTI, A. (1997) Progetto per un Ufficio di Mediazione Penale presso il Tribuna-
le per i Minorenni di Milano. In: PISAPIA, G. V., ANTONUCCI, D. (a cura di)
La sfida della mediazione. Cedam, Padova.
CESARANI, G. P. (1982) Peccati di testa. Laterza, Bari.
CHAPMAN, D. (1968) Lo stereotipo del criminale. Tr. it. Einaudi, Torino 1971.
CHRISTIE, N. (1981) Abolire le pene? Tr. it. Abele, Torino 1985.
CLARK, CS. (1993) La violenza in TV. Tr. it. in: POPPER, K., CONDRY, J. (a cura
di) Cattiva maestra televisione. Ed. Raset, Milano 1996.
CLEMMER, D. (1940) The Prison Community. Christopher House, Boston.
CLOWARD, R. A., OHLIN, L. E. (1960) Teoria delle bande delinquenziali in Ame-
rica. Tr. il. Laterza, Bari 1968.
COHEN, A. K. (1955) Ragazzi delinquenti. Tr. it. Feltrinelli, Milano 1963.
COLAJANNI, N. (1889) La sociologia criminale. Tropea, Milano.
CORRERA, M., MARTUCCI, P. (1986) I reati commessi con l’uso di computer. Ce-
dam, Padova.
CURRAN, D., RENZETTI, C (1994) Theories of Crime. Allyn and Bacon, Boston.
D’ARIENZO, A., Sulle tracce del killer, Fratelli Palombi, 1999
DE CATALDO NEUBURGER, L. (1988) Psicologia della testimonianza e prova te-
stimoniale. Giuffrè, Milano.
DE CATALDO NEUBURGER, L. (a cura di) (1996) La criminalità femminile tra ste-

411
William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin

reotipi culturali e malintese realtà. Cedam, Padova.


DE FAZIO, F. (1981) Medicina legale, psichiatria forense e criminologia in rapporto
agli sviluppi del processo penale. Riv. It. Med. Legale, 3, 2, 381.
DE LEO, G. (1981) Devianza, personalità e risposta penale: una proposta di riconcet-
tualizzazione. La Questione Criminale, 2, 239.
DE LEO, G. (1987) Appunti di psicologia della criminalità e della devianza. Bulzoni,
Roma.
DI GENNARO, G. (1968) La criminalità femminile. In: AA.VV. Gli aspetti generali
della criminalità femminile. Centro Naz. Prev. e Difesa Sociale. Giuffrè, Milano.
DI GENNARO, G., FERRACUTI, F. (1987) Aree urbane e criminalità. In: FERRA-
CUTI, F. (a cura di) Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria
forense, vol. 4.Giuffrè, Milano.
Di Girolamo F., Nesci A., L’uxoricidio in Italia, in Rassegna Penitenziaria e
Criminologia, 1980.
DI TULLIO, B. (1940) Antropologia criminale. Pozzi, Roma.
DI TULLIO, B. (1972) Principi di criminologia generale e clinica. Lombardo, Roma.
DOLLARD, J. (1939) Frustration and Aggression. Yale Univo Press, New Haven.
DONATO, F. Lineamenti di criminalistica forense, Ed. Olimpia, 1995
DURKHEIM, E. (1897) La divisione del lavoro. Tr. it. Comunità, Milano 1965.
ELLIOTT, FA (1988) I fattori neurologici del comportamento violento. In: FERRA-
CUTI, F. (a cura di) Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria
forense, vol. 7.Giuffrè, Milano.
ERIKSON, E. H. (1963) Infanzia e società. Tr. it. Armando, Roma 1966.
ERIKSON, E. H. (1968) Gioventù e crisi di identità. Tr. it. Armando, Roma 1974.
EUSEBI, L. (1983) La nuova retribuzione. Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 3, 914.
FENICHEL, O. (1951) Trattato di psicoanalisi. Tr. it. Astrolabio, Roma 1951.
FERRACUTI, F. (1967) L’emigrazione europea e la criminalità. Rass. di Profilassi Cri-
minale e Psichiatrica, settembre-dicembre 1968, pp. 102-139.
FERRACUTI, F., BRUNO, F. (1988) La criminalità organizzata nella prospettiva
criminologica. In: FERRACUTI, F. (a cura di) Trattato di criminologia, medicina
criminologica e psichiatria forense, voi. 9. Giuffrè, Milano.
FERRACUTI, F., WOLFGANG, M. E. (1966) Il comportamento violento. Giuffrè,
Milano.
FERRAROTTI, F. (1984) Ri/lemoni preliminari sulla mafia. Cir. in: BALLONI, A.
La nuova criminalità. Clueb, Bologna.
FERRI, E. (1884) Sociologia criminale, 2” ed. Utet, Torino.
FiANDACA, G., MUSCO, E., Diritto penale – Parte generale, Zanichelli, 2005.
FiANDACA, G., MUSCO, E., Diritto penale – speciale, Vol. 1°, Zanichelli, 2002.
FiLO DELLA TORRE, A. (1998) in La Repubblica, 29 settembre.
FlORES D’ARCAIS, P. (1997) Etica del finito. MicroMega, p. 7.
FORNARI, U. (1989) Psicopatologia e psichiatria forense. Utet, Torino.
FOUCAULT, M. (1975) Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Tr. it. Einaudi,
Torino, 1976.
FRANCHINI, A., INTRONA, F. (1977) Delinquenza minori/e. Cedam, Padova.
FRÉGIER, HA (1840) Cit. in: RADZINOWICZ, L. (1966) Ideologia e criminalità.

412
Il disturbo post-traumatico da stress

Tr. it. Giuffrè, Milano 1968.


FROMM, E. (1955) Psicoanalisi della società contemporanea. Tr. it. Comunità, Mi-
lano 1960.
FROMM, E. (1975) Anatomia della distruttività umana. Tr. it. Mondadori, Milano
1983.
FROMM, E. (1976) Avere o essere. Tr. it. Mondadori, Milano 1977.
GALIMBERTI, U. (1979) Psichiatria e Fenomenologia. Feltrinelli, Milano.
GALIMBERTI, G. (1992) Dizionario di psicologia. Utet, Torino.
GALLINA FIORENTINI, P., FRIGERIO, E. (1995) Il coinvolgimento dei minori da
parte della criminalità organizzata. Rass. It. Criminol., aprile-luglio.
GAMELLA, J. F., AL V AREZ ROLDAN, A. (1997) Drogas de sintesis en E,pana. Pa-
trones y tendencias de adquisiciòn y consumo. Plan Nacional sobre Drogas, Edi-
ciones Doce Calles, Madrid.
GARAVAGLIA, G. (1969) Aspetti e problemi di antropologia criminale. Ed, Torino.
GATTI, U., VERDE, A. (1989) Il sistema della giustizia minorile alla riconquista dei
territori perduti. In: PAZÉ, P. (a cura di) I minori e il carcere. Unicopli, Milano.
GATTI, U. et al. (1994) La devianza «nascosta» dei giovani. Una ricerca sugli studenti
di tre città italiane. Rass. It. Criminol., 2, pp. 247-267.
GEYMONAT, L. (1981) Storia del pensiero filosofico e scientifico, voI. 1. Garzanti,
Milano.
GIDDENS, A. (1994) Oltre la Destra e la Sinistra. Tr. it. Il Mulino, Bologna 1997.
GLASER, D. (1956) Criminality Theories and Behavioral Images. Am. J. of Socio-
logy, 61. GLUECK, S., GLUECK, E. (1950) Dal fanciullo al delinquente. Tr. it.
Giunti-Barbera, Firenze 1968.
GLUECK, S., GLUECK, E. (1971) Nuove frontiere della criminologia. Tr. it. Giuf-
frè, Milano.
GOFFMAN, E. (1961) Asylums. Le istituzioni totali. Tr. ir. Einaudi, Torino 1968.
GOODWIN, F. K. (1992) Cit. in: WOLFE, T. (1997) Il cervello senz’anima. Inter-
nazionale,170, 11.
GOTTLIEB, B. G. (1971) Development of Species Identification. Univo of Chicago
Press, Chicago.
GRAMATICA, F. (1961) Principi di difesa sociale. Cedam, Padova.
GREVI, V. (1988) L’ordinamento penitenziario dopo la riforma. Cedam, Padova.
Guenivet K., Stupri di guerra , Sossella, Roma, 2002.
GULOTTA, G. (1976) La vittima. Giuffrè, Milano.
GULOTTA, G. (a cura di) (1987) Trattato di psicologia giudiziaria. Giuffrè, Milano.
GULOTTA, G. (1996) Considerazioni psicosociali in tema di devianza femminile. In:
DECATALDO NEUBURGER, L. (a cura di) La criminalità femminile tra stereo-
tipi culturali e malintese realtà. Cedam, Padova.
HALEY, J. (1963) Le strategie della psicoterapia. Tr. it. Sansoni, Firenze 1980.
HALL, C. S., LINDZEY, G. (1957) Teorie della personalità. Tr. It Boringhieri, Torino
1966.
HARTLEY, E. L. (1952) Readings in Social Psychology. Holt, Rinehart & Winston,
New York.
HARTMANN, H. (1966) Psicologia dell’Io e problemi dell’adattamento. Boringhieri,

413
William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin

Torino.
HENDERSON, M., HOLLIN, C. R. (1986) Social Skills Training and Delinquency.
In:HOLLIN, C. R., TROVER, B. (a cura di) Handbook of SocialSkills Training.
Pergamon Press, Oxford.
HILDE, R. A. (1974) Basi biologiche del comportamento umano. Tr. it. Zanichelli,
Bologna 1977.
HOWELLS, K. (1986) Social skilling and criminal and antisocial behaviour in adults.
In: HOLLIN, C. R., TROVER, B. (a cura di) Handbook of Social Skills Training.
Pergamon Press, Oxford.
HUSSERL, R. (1950) La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale.
Tr. h. Il Saggiatore, Milano 1961.
INGRASSIA, G., Elementi fondanti di medicina legale, etica, assicurativa, previden-
ziale. Dario Flaccovio, Palermo, 1999.
INGRASSIA, G., Su alcuni aspetti delle alterazioni del comportamento, in Quaderni
di criminologia clinica, n. 3, 1967.
INGRASSIA, G., Su alcune note metodologiche in tema di antropologia criminale,
Prilla, Palermo, 1968.
JASPERS, K. (1959) Psicopatologia generale. Tr. it. Il Pensiero Scientifico, Roma
1965.
JOHNSON, H. M. (1960) Trattato di sociologia. Tr. it. Feltrinelli, Milano 1970.
JUNG, C. G. (1928) L’Io e l’inconscio. Tr. it. Boringhieri, Torino 1948.
JUNG, C. G. (1963) Realtà dell’anima. Tr. it. Boringhieri, Torino.
KATZ, D. (1948) Psicologia della forma. Tr. it. Boringhieri, Torino 1961.
KITSUSE, J.1. (1962) Social Reaction to Deviant Behavior: Problems of Theory and
Method. Social Problems, 9, 253.
KORF, DJ., WURTH, B. (1995) “New drugs in Europe. An overview of trends and
minitiring systems in Europe 1995.” Strasbourg, Report to Council of Europe,
Pompidou Group.
KRETSCHMER, H. (1950) Manuale teorico e pratico di psicologia medica. Tr. it.
Sansoni, Firenze 1950.
KUPPERMAN, R. H., TRENT, D. M. (1981) Terrorismo, minaccia, realtà, difesa.
Bulzoni, Roma.
LANZA, L. (1996) La variabile del genere nelle dinamiche della decisione in Corte di
Assise.In: DECATALDO NEUBURGER, L. (a cura di) La criminalità femminile
tra stereotipi culturali e malintese realtà. Cedam, Padova.
LANZA, L. (1986) Appendice. In: MERZAGORA, L L’incesto. Giuffrè, Milano.
LEA, J., YOUNG, J. (1984) What is to be done about Law and Order. Penguin
Books, Harmandworth.
LEMERT, E. M. (1967) Human Deviance, Social Problems and Social Control. Pren-
tice Hall,Englewood Cliffs.
LEMERT, E. M. (1975) Rules, Values and the Negotiation ofDeviance. President’s Ad-
dress, Pacific Sociological Ass.
LEONE, U., ZVEKIC, U. (1987) Sviluppo e criminalità. In: FERRACUTI, F. (a cu-
ra di) Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol.
2. Giuffrè, Milano.

414
Il disturbo post-traumatico da stress

LEWIN, K. (1935) Principi di psicologia topologica. Tr. it. OS, Firenze 1961.
LINDZEY, G. (1966) Teorie della personalità. Boringhieri, Milano.
LOMBROSO, C. (1876) L’uomo delinquente. Hoepli, Milano.
LOMBROSO, C. (1927) La donna delinquente. Ultima ed. rinnovata. F.lli Brocca
Ed., Torino.
LORENZ, K. (1963) Il cosiddetto male. Tr. it. Garzanti, Milano 1974.
MACCHIA, T., CIOCE, A.M., MANCINELLI, R. (1995) MDMA ed altri amfeta-
minici:uso e abuso. Boll. Farmacodip. e Alcoolis., XVIII, 1.
MAGGIORE, G. (1950) Diritto penale. Parte generale. Zanichelli, Bologna.
MAILLOUX, N. (1968) Psychologie clinique et délinquance juvénile. In: Criminolo-
gie en action. Presses de l’Université de Montréal. Montréal.
MAIOLI, L. (1995) Gli ibridi di Yale. Una nuova proposta punitiva per i delitti eco-
nomici.Riv. It. Criminol., pp. 534-545.
MALIZIA, N., A proposito del traffico di organi umani, in Elementi fondanti di me-
dicina legale, etica, assicurativa e previdenziale, ( G. Ingrassia), Dario Flaccovio,
1999.
MALIZIA, N., Le incapacità della persona aventi rilevana giuridica sul piano medico-le-
gale, in Elementi fondanti di medicina legale, etica, assicurativa e previdenziale, (
G. Ingrassia), Dario Flaccovio, 1999.
MALIZIA, N., Profili antropocriminologici e medico-legali dei fenomeni di abuso sui mi-
nori, G. Giappichelli, Torino, 2003.
MALIZIA, N., I vizi del consenso, in Elementi fondanti di medicina legale, etica, assi-
curativa e previdenziale, ( G. Ingrassia), Dario Flaccovio, 1999.
MALIZIA, N., Il principio di colpevolezza,, in Elementi fondanti di medicina legale,
etica, assicurativa e previdenziale, ( G. Ingrassia), Dario Flaccovio, 1999.
MALIZIA, N., A proposito della responsabilità aggravata ( art. 96 C.p.c), in Elementi
fondanti di medicina legale, etica, assicurativa e previdenziale, ( G. Ingrassia), Da-
rio Flaccovio, 1999.
MALIZIA, N., Stili di devianza e condotte trasgressive, in Criminologia e psicopatologia
forense, Anno XV, 1999.
MALIZIA, N., Le strategie di recupero dei minori devianti: aspetti antropologico-crimina-
li, in Criminologia e psicopatologia forense, Anno XVI, 2000.
MALIZIA. N., A proposito dei principi direttivi del trattamento penitenziario, in Crimi-
nologia e psicopatologia forense, Anno XII, 1996.
MANTOVANI, F. (1984) Il problema della criminalità. Cedam, Padova.
MARCUSE, H. (1964) L’uomo a una dimensione. Tr. it. Einaudi, Torino 1967.
MAROTTA, G. (1987) “La criminalità femminile in Italia.” Commissione Naz. per
la realizzazione della parità fra uomo e donna. Presidenza Consiglio dei Ministri,
Roma.
MATZA, D. (1964) Delinquency and Drr/t. Wiley & Sons, New York.
MATZA, D. (1969) Come si diventa devianti. Tr. it. Il Mulino, Bologna 1976.
MAYEHW, H. (1861) Cit. in: RADZINOWICZ, L. (1966) Ideologia e criminalità.
Tr. it. Giuffrè, Milano 1968.
MC GRATH, J. E. (1970) Social and Psychological Factors in Stress. Holt, Rinehart
& Winston, New York.

415
William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin

MEAD, G. H. (1934) Mente, Sé e società. Tr. it. Giunti-Barbera, Firenze 1966.


MELOSSI, D., PAVARINI, M. (1977) Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema pe-
nitenziario. Il Mulino, Bologna.
MERTON, RK. (1938) Tr. it. in: Teoria e struttura sociale. Il Mulino, Bologna 1966.
MERZAGORA, L. (1986) L’incesto. Aggressori e vittime, diagnosi e terapia. Giuffrè,
Milano.
MERZAGORA, L. (1987) Il colloquio criminologico. Unicopli, Milano.
MERZAGORA BETSOS, L. (1997) Cocaina: la sostanza, i consumatori, gli effetti.
Franco Angeli, Milano.
MERZAGORA, L., TRAVAINI, G., ZANCHI, A. (1996) Ricerca su un campione di
consumatori di ecstasy. Rass. It. Criminol., pp. 465-489.
MINISTERO DELL’INTERNO, Dipartimento della Pubblica Sicurezza: La polizia
scientifica.
MONTAGU, M. F. A. (1966) La razza. Analisi di un mito. Einaudi, Torino.
MURRAY, C., HERNSTEIN, R. (1994) La curva a campana. Tr. it. Rizzoli, Milano
1985.
MUSATTI, C. (1961) Psicoanalisi e vita contemporanea. Boringhieri, Torino.
NEISSER, U. (1967) Psicologia cognitivista. Giunti Barbera, Firenze.
NEPPI MODONA, E. (1992) in La Repubblica, lO luglio. Cit. in: PONTI, G. Sul
mito rieducativo della pena. Rass. It. Criminol., 1-2, pp. 197-204.
NICEFORO, A. (1953) Criminologia: ambiente e delinquenza. Bocca, Milano-Ro-
ma.
NUVOLONE, P. Cito in: MANTOVANI, F. (1984) Il problema della criminalità. Ce-
dam, Padova.
OTTOLENGHI Salvatore, Trattato di polizia scientifica, Roma, 1910.
Palidda R., Progetto Urban: dentro e fuori la famiglia. Violenza sulle donne e ser-
vizi in un contesto meridionale urbano. Il caso Catania, Franco Angeli, Milano,
2002.
PALOMBA, F. (1989) Il sistema del nuovo processo minorile. Giuffrè, Milano.
PANEBIANCO, A. (1998) La giustizia che non c’è. Corriere della Sera, 22 febbraio.
PARADISO, P. (1983) La criminalità negli affari. Cedam, Padova.
PARSONS, T. (1937) La struttura dell’azione sociale. Tr. it. Il Mulino, Bologna
1972.
PAVARINI, M. (1980) Introduzione alla criminologia. Le Monnier, Firenze.
PAVARINI, M. (1985) Introduzione a: CHRISTIE, N. Abolire le pene? Tr. ir. Abele,
Torino.
PAVARINI, M. (1994) Editoriale. Rass. It. Criminol., p. 436.
PISAPIA, G. V. (1978) Contributo a un’analisi socio-criminologica della devianza. Ce-
dam, Padova.
PISAPIA, G. V. (1983) Fondamento e oggetto della criminologia. Cedam, Padova.
PLATT, A. M. (1975) Prospects for a Radical Criminology in the USA. In: TAYLOR,
L, WALTON, P., YOUNG, J. (a cura di) CriticaI Criminology. Rourledge & Ke-
gan Paul, London.
POLLACK, O. (1950) The Criminality of Women. Univo of Pennsylvania Press, Phil-
adelphia.

416
Il disturbo post-traumatico da stress

PONTI, G. (1968) Il trattamento dei criminali adulti mediante la tecnica dei group
counseling. Quaderni di Criminol. Clin., 2, 115.
PONTI, G. (a cura di) (1995) Tutela della vittima e mediazione penale. Giuffrè, Mi-
lano.
PONTI, G., FORNARI, U. (1995) Il fascino del male. Raffaello Cortina Editore, Mi-
lano.
PONTI, G. Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina, 1999.
POPPER, K. R. (1963) Congetture e confutazioni. Tr. it. Il Mulino, Bologna 1972.
POPPER, K. R. (1974) Logica della scoperta scientifica. Tr. it. Il Mulino, Bologna.
POPPER, K. R. (1994) Cattiva maestra televisione. Tr. it. Ed. Raset, Milano 1996.
POPPER, K. R., LORENZ, K. (1985) Ilfuturo è aperto. Tr. it. Rusconi, Milano
1989.
PORTIGLIATTI BARBOS, M. (1976) La predizione del comportamento crimina-
le. In: CHIODI, V. et al. (a cura di) Manuale di medicina legale, voI. 2. Vallardi,
Milano 1976.
PRATTICO, F. (1995) La tribù di Caino. Raffaello Cortina Editore, Milano.
PRINS, A. (1886) Criminalité et répression. Bruxelles.
PROSPERI, A. (1977) Tribunali della coscienza. Einaudi, Milano.
RADZINOWICZ, L. (1966) Ideologia e criminalità. Tr. it. Giuffrè, Milano 1968.
RAPAPORT, D. (1967) The Autonomy of the Ego. The Collected Papers of D. Rapa-
port, New York.
RECKLESS, W. C. (1961) La teoria dei contenitori. Tr. it. in: FERRACUTI, F. (a cu-
ra di) Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol.
5. Giuffrè, Milano 1987.
REIK, T. (1962) L’impulso a confessare. Tr. it. Feltrinelli, Milano.
REMBERG, B. (1996) “Amphetamine-Type Stimulants. A global review.” Relazio-
ne presentata al Convegno “Expert Meeting on Amphetamine-Type Stimulants.”
Vienna, 12-16 febbraio.
ROMITO P., La violenza di genere su donne e minori: un’introduzione, Franco Ange-
li, Milano, 2000.
ROMITO P., Violenza alle donne e risposte delle Istituzioni , Franco Angeli, Milano,
2000.
RUGGIERO, V. (1986) La criminologia critica? Un ricordo. Criminologia, 7.
RUGGIERO, V. (1996) Economie sporche. L’impresa criminale in Europa. Bollati
Boringhieri, Torino.
SARTRE, J. P. (1963) Questioni di metodo. Tr. it. Il Saggiatore, Milano.
SAVITSKIJ, V. M. (1987) Le corti dei camerati in URSS. In: FERRACUTI, F. (a cu-
ra di) Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol.
5. Giuffrè, Milano.
SAVONA, E. U. (1990) Oltre il diritto penale. Sociologia del diritto, 2.
SAVONA, E. U., DI NICOLA, A. (1998) Migrazioni e criminalità. Trent’anni dopo.
Rass. It. Criminol., 1, pp. 171-206.
SCATOLERO, D. (1995) Gli interventi sociali in favore delle vittime. In: PONTI, G.
(a cura di) Tutela della vittima e mediazione penale. Giuffrè, Milano 1995.
SCHAFER, E. H., FERRACUTI, F. (1987) La tipologia in criminologia. In: FERRA-

417
William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin

CUTI, F. (a cura di) Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria


forense, voI. 5. Giuffrè, Milano.
SCHIEDT, F. (1936) Ein Beitrag zum Problem des Rueckfallsprognose. Piper, Mi-
inchen.
SCHWENDIGER, H., SCHWENDIGER,]. (1975) Defenders of Order or Guard-
ians of Human Rights? In: TAYLOR, L, WALTON, P., CONGOUNG,. (a cura
di) Criminologia sotto accusa. Tr. it. Guaraldi, Rimini-Firenze 1975.
SCLAFANI, F. (1998) Tradizioni e sviluppo della scienza criminologica nell’Est euro-
peo, Riv. It. Criminologia.
SELLIN, T. (1938) Culture COI~flicI and Crimes. Social Science Research Council,
New York.
SELVATICI, F. (1999) Elaborazione CNCA (Coordinamento Nazionale Comunità
di Accoglienza) su dati del Ministero di Grazia e Giustizia. La Repubblica, 4 gen-
naio.
SEMERARI, A., CITTERIO, C. (1975) Medicina criminologica e psichiatria foren-
se. Vallardi. Milano.
SHAW, C. R. (1929) Deliquency Areas. Univ. of Chicago Press, Chicago.
SHAW, C. R., Mc KAI, H. D. (1942) Juvenile Delinquency and Urban Areas. Univ.
of Chicago Press, Chicago.
SHELDON, W. H. (1942) The Varieties of Temperament. Harpers & Brothers, New
York.
SILVESTRI, A., Il Punto K, Istituto Superiore di Giornalismo, Palermo, 2000.
SKINNER, B. F. (1953) Science and Human Behavior. Macmillan, New York. Tr. it.
Scienza e comportamento. Angeli, Milano 1971.
SORRENTINO, U.,, La scienza contro il crimine, Roma, 1946.
SPENCER, H. (1862) I primi principi. Tr. it. Bocca, Milano 1901.
STEFANIZZI, S. (1997) “Infraquattordicenni e criminalità. Un’analisi delle statisti-
che del Tribunale per i Minorenni di Milano dal 1993 al 1996. “Atti XI Congr.
Soc. It. Criminologia., Gargnano, maggio.
STERN, G. (1933) Neurologische Beguntachtung. Springer, Berlin.
STRANO, M., Rivista telematica Criminologia.org.
SULLIVAN, H. S. (1940) La moderna concezione della psichiatria. Tr. it. Feltrinelli,
Milano. 1961.
SUTHERLAND, E. H. (1934) Principles of Criminology. Lippincott, Philadelphia.
SUTHERLAND, E. H. (1940) Tr. it. in: CERETTI, A., MERZAGORA, I. (a cura di)
La criminalità dei colletti bianchi ed altri scritti. Unicopli, Milano 1986.
SYLOS LABINI, F. (1986) Le classi sociali negli anni ‘80. Laterza, Bari.
SYKES, G. H., MATZA, D. (1957) Techniques of Neutralization: a Theory of Delin-
quency.Am. Socio l. Rev., 22, 6, 664.
TANCREDI, O. (1985) Psicologia per operatori clinico-sanitari. Unicopli, Milano.
TARDE, G. (1886) La criminalité comparée. Paris.
TAYLOR, E. B. (1958) Primitive Culture. Harper & Row, New York.
TAYLOR, I., W. ALTO N. P., YOUNG, J. (1975) Criminologia sotto accusa. Tr. it.
Guaraldi, Rimini - Firenze.
THORWALD, J., La scienza contro il delitto, Milano, 1965.

418
Il disturbo post-traumatico da stress

TIEDEMANN, K. (1988) Criminalità da computer. In: FERRACUTI, F. (a cura di)


Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol. 10.
Giuffrè, Milano.
TOMEO, V. (1977) Marginalità ed emarginazione. Rass. Studi Penitenziari, 4, 13.
TRAVERSO, G. B., VERDE, A. (1981) Criminologia critica. Cedam, Padova.
TRAVERSO, G. B., MARUGO, M. I. (1984) Cir. in: BANDINI, T., GATTI, U.,
MARUGO, M. I., VERDE, A. Criminologia. Giuffrè, Milano 1991.
TREMBLAY, R (1997) Reasearch Unit on Children’s. Psychological Maladjustment.
Presse Université de Montréal.
TURATI, F. (1883) Il delitto e la questione sociale. Utet, Torino.
VASSALLI, G. (1959) Criminologia e giustizia penale. In: FERRACUTI, F. (a cura di)
Appunti di criminologia. Bulzoni, Roma 1969.
VASSALLI, G. (1982) Una battuta d’arresto nella lunga marcia verso l’abolizione della
pericolosità presunta. Giustizia e Costituzione, 5.
VENTIMIGLIA C., Disparità e disuguaglianze: molestie sessuali, mobbing e dintorni,
Franco Angeli, Milano, 2003.
VITELLO, F., STEFANIZZI, S. (1996) Genere e criminalità: alcune considerazioni
sui dati delle statistiche giudiziarie italiane. In: DE CATALDO NEUBURGER,
L. (a cura di) La criminalità femminile tra stereotipi culturali e malintese realtà.
Cedam, Padova.
WALKER, F. (1984) Cit. in: MANTOVANI, F. Il problema della criminalità. Cedam,
Padova 1984.
WATSON, J. B. (1914) Behaviorism. Norton & Co., New York.
WATZLAWICK, P. et al. (1967) Pragmatica della comunicazione umana. Tr. it. Astro-
labio, Roma 1971.
WILSON, E. O. (1975) Sociobiologia. La Nuova Sintesi. Tr. it. Zanichelli, Bologna
1979.
WOLFE, T. (1997) Il cervello senz’anima. Internazionale, 170, Il.
WOLFGANG, M. E., WEINER, N.A. (1987) Il comportamento violento. Teorie
applicative. In: FERRACUTI, F. (a cura di) Trattato di criminologia, medicina
criminologica e psichiatria forense, vol. 5. Giuffrè, Milano.
WOOTTON, B. (1963) Crime and the Criminal Law. Stevens & Sons, London.
YOUNG, J. Z. (1982) I filosofi e il cervello. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1988.
ZUCCONI GALLI FONSECA, F. (1996) Relazione sull’amministrazione della giu-
stizia nell’anno 1995. Documenti di giustizia, 1, 178.

www.oasivip.com 419

Potrebbero piacerti anche