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ISBN: 978-88-6538-027-7
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CRIMINOLOGIA
ed elementi di criminalistica
Presentazione 11
5 - L’imputabilità 79
15 - La criminalistica 323
Bibliografia 409
PRESENTAZIONE
è con immenso piacere che prendo visione del lavoro compiuto da Nicola Mali-
zia, che si compendia in un interessante e atteso volume che riassume, a scopo didat-
tico, il variegato complesso delle conoscenze che, a vario titolo, costituiscono il corpus
della criminologia.
Si tratta di un’opera intelligente che ha saputo fondere, nel presente volume, i
contributi multidisciplinari, in particolare del diritto, della psicologia, della sociologia,
della psichiatria, dell’antropologia criminale e della medicina-forense.
Infine, l’ultima parte del volume contiene cinque capitoli dedicati alla criminali-
stica. Si tratta, in realtà, di una visione scientifica che tiene conto della natura inter-
disciplinare e multidisciplinare della criminologia, cui si dedicano i primi quattordici
capitoli dell’Opera.
Tuttavia, in un’analisi protesa al futuro, come quella compiuta dall’Autore, non
si trascura la tendenza, ormai ampiamente realizzatasi nei Paesi di cultura anglosasso-
ne, di considerare le varie branche che compongono la criminologia, nell’ambito di un
più generale albero da cui si diramano i rami delle scienze forensi. In realtà, quella che
è ancora chiamata criminalistica, rappresenta uno spaccato sintetico ed essenziale del
contributo delle scienze forensi all’investigazione criminale.
All’inizio, l’Autore, esamina i cardini fondanti della disciplina, per poi procedere a
una disamina delle metodologie e delle fonti delle conoscenze criminologiche.
Analizza, altresì, le relazioni intercorrenti tra le fenomenologie delittuose e i fattori
sociali, economici, istituzionali, situazionali, al fine di identificare le fattispecie crimi-
nose più comuni, sia tradizionali, sia di più recente emersione, dedicando una parte
della trattazione alle teorie sociologiche, psicologiche e multifattoriali che concorrono
alle spiegazioni del delitto.
Lo studio delle implicazioni che seguono alla commissione dei crimini non può
prescindere, secondo il Malizia, da un approccio incentrato anche sul ruolo della vitti-
ma, sempre più ritenuta, oggi, soggetto interagente nella complessa dinamica relativa
alle origini, ai moventi e alle modalità dell’azione criminosa.
è superfluo dire che l’Autore puntualizza in modo moderno e aggiornato alcune
delle metodiche scientifiche della investigazione criminale che, oggi, sono molto note
anche al pubblico dei non addetti ai lavori, come, ad esempio, lo psicologico profiling e
l’analisi del DNA.
Queste metodiche, peraltro, non sono avulse dal contenuto più generale dell’Ope-
ra, ma sono inserite in un contesto appropriato che parte dall’analisi scientifica della
scena del crimine per individuarne i reperti fondamentali e per costruire, su di essi, le fasi
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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PARTE PRIMA
CRIMINOLOGIA GENERALE
CAPITOLO 1
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Mentre lo scopo della prima (politica sociale), infatti, consiste nella prevenzione
della criminalità, il secondo (diritto penale), definendo di fatto i singoli crimini e le ri-
sposte che a essi vanno date, diventa il mezzo di attuazione di tale politica.
Il diritto penitenziario è costituito dall’insieme delle disposizioni legislative che re-
golano la fase esecutiva del procedimento giudiziario penale. Recentemente, questa di-
sciplina ha allargato il raggio di azione del proprio intervento, dalla semplice carcera-
zione alle varie forme di misure sostitutive o alternative alla pena detentiva.
Legittimità di scienze criminali hanno anche la psicologia giudiziaria, che appro-
fondisce le interrelazioni psicologiche tra i vari protagonisti del procedimento giudi-
ziario (dalla persona offesa al testimone, dall’imputato al magistrato, sino all’operatore
amministrativo), e la psicologia giuridica, ramo della psicologia applicato al diritto.
Infatti, proprio lo studio e la comprensione dell’atteggiamento psicologico assun-
to dai vari soggetti che, direttamente o indirettamente, vengono in contatto con il pro-
cedimento giudiziario, si fà sempre più importante, anche dal punto di vista pratico:
pensiamo al perito che deve analizzare l’imputato, al difensore nell’ambito della scelta
delle strategie difensive, all’èquipe di osservazione e trattamento in ambito penitenzia-
rio, e così via.
Uno dei settori in cui, maggiormente, la ricerca è stata approfondita è quello della
psicologia della testimonianza; ma pensiamo, anche, alle tecniche di conduzione del-
l’esame incrociato nel processo penale, ai rapporti tra le varie figure professionali che
vengono a contatto – e talvolta collidono – nelle aule di giustizia, o, addirittura, tra i
componenti laici e togati di un medesimo collegio giudicante.
La criminalistica, invece, utilizza una serie di conoscenze, per far fronte ai problemi
di indagine di investigazione criminale. Può intendersi come l’insieme delle molteplici
tecnologie e saperi che vengono utilizzati per l’investigazione criminale, come la bali-
stica giudiziaria, la dattiloscopia, l’analisi di materiali biologici, dei gruppi sanguigni,
delle tracce ematiche, del DNA per l’identificazione del colpevole, la ricerca dei residui
di polveri da sparo, e inoltre, la medicina legale, la grafometria e la comparazione cal-
ligrafica, nonché, le indagini tossicologiche.
La medicina legale tratta dell’applicazione delle conoscenze mediche al diritto, con-
tribuendo alla elaborazione, interpretazione e applicazione di precetti giuridici che ri-
guardano la tutela della vita e dell’integrità psico-fisica. Se da un lato, mantiene an-
cora l’indirizzo giuridico-forense e i tradizionali rapporti con l’amministrazione della
giustizia occupandosi dello studio del cadavere e della medicina del delitto, dall’altro,
particolarmente in Italia, i suoi compiti investono, ormai, tutti i rapporti fra la persona
umana e l’ordinamento giuridico-sociale, trovando un’ampia collocazione nell’ambito
del S.S.N.; questa apertura sociale dipende dalla valorizzazione degli aspetti medico-
legali della malattia, affinché il cittadino sia reintegrato, non solo nello stato di salute,
se possibile, ma anche nello stato economico, fruendo di ogni altro beneficio ricono-
sciutogli in applicazione delle leggi sociali. Ogni fatto medico può nascondere svariati
risvolti giuridici; il compito della medicina legale è proprio quello di partire dalla situa-
zione clinica per verificare l’applicabilità di una normativa lungo un iter che, passando
attraverso una semeiotica, talvolta peculiare, non ha il fine diagnostico-terapeutico, ma
quello di determinare l’effettiva natura ed entità degli esiti di un particolare evento e di
accertare il nesso di causalità materiale fra tale evento e gli esiti stessi (giudizio medico-
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tativo di una sua espressione globale non strutturata: impedirebbe, cioè, quell’articola-
zione analitica e quel ripensamento critico originale e creativo che costituisce l’essenza
dell’assimilazione culturale della realtà da parte dell’uomo.
L’interdisciplinarità è accostamento e utilizzazione di teorie e modelli sviluppati
nell’ambito di determinati contesti e paradigmi dotati di linguaggi loro propri, e, come
tale, “porta a una semplice sovrapposizione di fuochi giungendo, quindi, nel migliore
dei casi, a enunciare proposizioni tautologiche, e, nel peggiore, alla confusione.”
Ponti, all’inizio, aveva caratterizzato la criminologia come scienza multidisciplinare
e interdisciplinare, successivamente rivede la propria posizione rispetto all’interdiscipli-
narità, affermando che la criminologia è scienza a carattere interdisciplinare, in quanto,
ha anche la necessità di coltivare rapporti interdisciplinari.
L’immagine della criminologia quale scienza sintetica si giustifica se essa è conce-
pita in termini di scienza empirica, caratterizzata dal metodo induttivo, e fondata sul-
l’osservazione tale che la scienza si riduce a un insieme di asserzioni che descrivono
osservazioni, e che aumenta e progredisce amplificando il volume delle asserzioni che
descrivono osservazioni.
Vassalli, afferma che la criminologia esprime, oramai, l’aspirazione a una visione
unitaria e sintetica del fenomeno individuale e sociale della delinquenza, nella quale
si compongono le diverse esperienze e le diverse conoscenze che, a tale visione, il più
possibile compiuta, possono contribuire, ordinate in relazione a chiari punti di parten-
za comuni e secondo una comune finalità di verità obiettiva, le conoscenze intorno al
fenomeno delittuoso, ai suoi fattori, al suo modo di manifestarsi, ai suoi effetti indivi-
duali e sociali, alla sua valutazione e comprensione.
Collegato a questo approccio è il metodo induttivo, secondo il quale la ricerca
scientifica parte dall’osservazione, per poi, con cautela, passare alle leggi generali.
Il passaggio da asserzioni particolari ad asserzioni generali viene, quindi, giustifi-
cato sulla base di un’accumulazione di fatti-asserzioni.
La codificazione della criminologia come scienza sintetica deriva dall’avere confu-
so la comprensibile aspirazione a un sapere, il più articolato possibile, sulla questione
criminale con la codificazione della criminologia quale scienza interdisciplinare, mul-
tidisciplinare.
Secondo questa interpretazione, alla criminologia può essere attribuito il compito
di comporre le diverse esperienze e conoscenze intorno al fenomeno delittuoso, alle sue
manifestazioni, ai suoi effetti, alla sua valutazione e comprensione, purché, si prenda
atto che la criminalità e il comportamento criminoso possono essere ricondotti ad unità,
unicamente se si abbandona l’illusione di poter costruire un’unità disciplinare sulla ba-
se di un’integrazione di conoscenze appartenenti a discipline e professioni diverse.
Allo stato attuale, tuttavia, i criminologi tradizionali non appaiono in grado di
risolvere le contraddizioni della loro codificazione di criminologia, soprattutto, per-
ché non hanno posto attenzione sul fatto che, allorché discipline e professioni diverse
interagiscono, non si limitano a offrire un contributo autoreferenziale, ma producono
frammenti di conoscenza e di operatività che sfuggono ai rispettivi vincoli.
Per la criminologia diventa, allora, necessario immaginare che i saperi costitutivi
del diritto, della medicina, della pedagogia, della psichiatria, della psicologia, della so-
ciologia, pur conservando autonomia e originalità, rappresentano frammenti conoscitivi
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Per questo motivo, non si può continuare a fare ciò che si è fatto da sempre, cioè
considerare l’uomo, di per sè, avulso da ogni rapporto e da ogni condizionamento o,
all’opposto, studiare i gruppi sociali come se fossero composti non da uomini, ma da
nuclei immutabili e scarsamente interagenti.
Al contrario, l’uomo non può essere studiato se non all’interno del suo ambiente e
in rapporto con i diversi sistemi cui può partecipare nell’ambito di un definito quadro
concettuale di realtà. Ne consegue che se ciò è vero, è vero anche il reciproco, quindi i
gruppi, gli insiemi e i sistemi non possono considerarsi se non nel rapporto essenziale
con l’uomo e nel significato e nella finalizzazione umani della loro esistenza.
Fino ad oggi è avvenuto l’esatto opposto, e gran parte delle nostre acquisizioni
scientifiche rappresentano, non l’immagine della realtà, ma quella di modelli estre-
mamente semplificati e astratti che tendono a comprendere le strutture elementari dei
fenomeni, talché si possa passare, successivamente, dal particolare al generale, e intuire,
così, le leggi che governano l’universo.
In altri termini, la scienza si è sempre affannata a ricercare, a tutti i livelli, gli ele-
menti significativi dell’ordine della natura, cercando di distinguerli da quelli che rap-
presentano i residui del caos primigenio.
All’inizio, tutto appariva semplice, tutto sembrava inquadrarsi in un grande e per-
fetto disegno, ma, poi, il progresso stesso della fisica ha finito per identificare delle
grandi contraddizioni che, tuttora, appaiono non risolte.
Lo stesso Einstein, che credeva di aver collocato ulteriori e rilevanti tessere alla ri-
costruzione del grande mosaico del sapere, morì, cercando, senza riuscirci, di elaborare
una teoria unificata delle forze che gli consentisse di dimostrare ciò che riassunse feli-
cemente nel celebre aforisma: Dio non gioca a dadi con l’universo.
Le scoperte della fisica sembrano, però, indurre a pensare il contrario: i principi
della termodinamica, l’incremento dell’entropia, il principio di non determinazione di
Heisemberg, la scienza dei quanti, ecc., dimostrano come la costruzione teorica non
possa essere mai considerata perfetta, e come nella natura e nell’uomo non regni la
perfezione, ma, al contrario, predomini l’imperfezione.
Nella natura non si riscontrano mai quelle perfette forme geometriche che l’uo-
mo riesce a concepire e ad elaborare, ma, al contrario, essa è fatta di forme complesse
ed irregolari che solo la moderna scienza ci consente di conoscere meno approssima-
tivamente.
In ogni caso, allo stato delle cose, è oggi evidente che caos ed ordine non sono ter-
mini rigidamente contrapposti, e che ognuno dei due può contenere l’altro.
La scienza moderna non può fare a meno di entrambi e, se da una parte prose-
gue nei suoi processi di astrazione per modelli, dall’altra cerca di capire i fenomeni
più complessi, attraverso tecniche che consentano un più diretto approccio alla realtà,
come ad esempio, la teoria dei sistemi. È importante che nelle scienze umane si adot-
tino approcci e modelli che siano considerati, oggi, più vicini alla realtà e che, se non
ne consentono ancora una perfetta comprensione, per lo meno, non siano fuorvianti o
addirittura mistificanti.
In criminologia, infatti, come in tutte le cosiddette scienze umane, è assai difficile
trovare le prove di quanto si sostiene, e ricerche, teoricamente e spesso anche metodo-
logicamente sbagliate, non solo non consentono di verificare le ipotesi poste, ma for-
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Lo studio della criminologia
• il concetto di realtà;
• il concetto di norma;
• il concetto di sistema.
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attori di queste fattispecie si diversifichino da altri attori comuni o criminali comuni per
la qualità delle ragioni ideologiche, dato che non sono mossi da motivazioni aggressi-
ve, egoistiche, lucrative, appropriative, che invece qualificano altri reati. Il compito del
criminologo, in questo scenario, dovrebbe essere quello di qualificare un delitto come
politico, ricercando la spinta ideologica che lo ha generato.
Al fine di delimitare i confini del campo degli interessi della criminologia, è op-
portuno sottolineare che le condotte illecite sono esclusivamente quelle definite dalla
legge e le indagini del criminologo devono avere origine da quelle definizioni.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
trollo; contribuisce all’adeguamento delle norme di diritto positivo, nonché, alle acqui-
sizioni scientifiche settoriali attraverso un’attività riformista.
Se è vero che la criminologia costituisce una specie di camera di compensazione
scientifica tra le varie discipline in lei convergenti, essa non può trarre vantaggio dalla
semplice giustapposizione di queste, ma, soltanto, da una loro armonica sintesi.
L’unico indirizzo suscettibile di garantirne lo sviluppo e l’efficacia operativa in
appoggio al diritto penale è, pertanto, la integrazione, cioè il superamento delle barrie-
re di parte, mitigando, quindi, le asprezze di alcuni suoi indirizzi più radicalizzati, co-
gliendo, nel singolo caso, le costanti e, nell’insieme, le differenze, legate all’aspetto na-
turalistico, usando tutti i mezzi scientificamente adeguati per una valutazione clinica
individualizzata e per una corretta impostazione su base empiricamente documentata
dei problemi più generali.
Dal ruolo originale di scienza ausiliaria, la criminologia, è venuta così acquisendo
il più penetrante ruolo di metascienza del diritto penale e della politica criminale, con
funzione, non più soltanto descrittiva ed esplicativa del dato (accettato senza appro-
fondimenti) della criminalità, ma critica rispetto ai processi selettivi dei fatti criminosi,
della stessa definizione di criminalità e criminalizzazione, dei meccanismi e delle fina-
lità dei controlli sociali. Il terreno sul quale diritto penale e criminologia più costruttiva-
mente si incontrano è quello della politica criminale, in cui, autonomia di dati e di pro-
poste, competenza in progettazione, elaborazione sistematica dell’impegno operativo,
tecnica di attuazione, rappresentano terreno di verifica e di feed-back reciproco.
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CAPITOLO 2
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Tutto ciò si poneva in antitesi con lo spirito illuminista che contrastava energica-
mente il potere assoluto delle classi fino ad allora dominanti, la corruzione, la supersti-
zione, l’arbitrio, contrapponendo - a tali dimensioni - la ragione, quale unica soluzione
e come luce eterna ed universale, facendo riferimento al principio della libertà dell’uo-
mo e dell’uguaglianza di tutti gli uomini, principio che si era oscurato per effetto della di-
sfunzione delle strutture sociali.
Cesare Beccaria e Pietro Verri, illustri esponenti dell’illuminismo giuridico italia-
no, ritenevano che l’obiettivo di riforma dell’ordinamento giudiziario potesse essere
raggiunto attraverso una rigida rottura con il passato e che, comunque, dovesse essere
improntato: a) alla semplificazione del sistema; b) alla formulazione di leggi chiare e
di pronta e facile comprensione; c) alla meccanica applicazione del dettato legislativo
da parte del giudice. Tutto ciò fa, inequivocabilmente, pensare a un manifesto etico-
politico pensato quale risposta immediata ai bisogni, non più rinviabili, della giustizia
penale.
Non possono essere sottesi i meriti che vanno riconosciuti alle riflessioni giuridico-
illuministiche, che immaginarono un sistema giuridico, coerentemente e direttamente
ancorato ai principi cui si ispiravano le nuove ideologie, anche se, in quelle meditate
proposte di riforma, si notava l’assenza di una sistematica ricostruzione tecnico-giuri-
dica delle delicate argomentazioni in discussione.
La corrente di pensiero, ampiamente diffusa, che coincide, nella sostanza, con le
proposte di riforma avanzate dagli illuministi del tardo settecento, votati alla distruzio-
ne di un apparato inefficiente e sostanzialmente iniquo, ancor prima di porsi il proble-
ma di costruirne uno nuovo, lascia, comunque, nell’ombra, quei progetti, come quello
di Mario Pagano, che ideò una riforma integrale del sistema penale che trovava le radici
nelle correnti di pensiero che, in quel periodo, puntavano a costruire solide basi di un
sostanziale progresso civile. Pagano era cosciente della inutilità di ogni qualsivoglia ten-
tativo di correzione legislativa priva di un’idonea valenza scientifica, e, quindi, si impe-
gnò nello studio di una riforma organica del sistema penale, con il fine di estirpare le
cause della crisi che imbrigliavano la giustizia penale.
Nella concezione paganiana erano fortemente avvertiti, in una perfetta sintesi, da
un lato, il rispetto dei diritti inalienabili dell’uomo, concepiti come diritti naturali e,
dall’altro, la ferma difesa dei diritti dello Stato.
Tenuto conto dell’insieme delle esigenze, particolarmente avvertite, della pratica
il Pagano predispose un sistema penale articolato e completo, tanto da comprendere
le parti tutte della ragion criminale: delitti, pene, prove, ordine di acquisire queste ed
imporre quelle.
L’oggetto del diritto criminale viene, pertanto, suddiviso in tre settori, dal momento
che le leggi criminali o numerano i delitti e le proporzionate pene, e ciò forma la prima
parte, ovvero fissano le prove richieste a dimostrare i delitti e questa è la seconda parte;
o, finalmente, prescrivono l’ordine di giudizi criminali, vale a dire il processo, e que-
st’oggetto è compreso nella terza parte.
Nella Considerazione sul processo criminale, tenta di delineare i caratteri fondamen-
tali della riforma del processo penale e viene indicato il processo di tipo accusatorio,come
quello che, meglio degli altri, è in grado di garantire la libertà dei cittadini ed assicura-
re, nel contempo, la giusta punizione dei colpevoli; nella Teoria delle prove, contro ogni
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La criminologia tra diritto ed evoluzione della società
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Il contributo dato dal Beccaria al progresso del diritto penale – con l’opera Dei de-
litti e delle pene – fu di indubbio valore, anche se non va sottovalutato che l’azione ri-
voluzionaria dell’autore, permeata da scopi prevalentemente umanitari, molto difficil-
mente avrebbe potuto consentire una costruzione tecnico-giuridica sistematica, poiché,
i riformatori illuministi, nell’ottica di perseguire la meta di razionalizzare il sistema, per
prevenire i reati e combattere l’arbitrio giudiziario, si comportarono più come politici
del diritto, e meno come giuristi in senso rigorosamente tecnico.
Quale espressione del pensiero francese, Dei delitti e delle pene, risente, secondo lo
stesso Beccaria, delle letture di D’Alambert, di Diderot, di Elvezio e di altri enciclope-
disti, incoraggiato, altresì, dal dibattito sui temi della giustizia che si svolgeva all’Acca-
demia dei Pugni, alla quale, partecipava sotto la continua insistenza dei fratelli Verri.
L’Accademia dei Pugni venne fondata nell’inverno 1761-1762, e la sua attività si
protrasse fino al 1764. Animatore di quest’ultima era Pietro Verri il quale, fungeva, al-
tresì, da coordinatore delle attività dei giovani che ne facevano parte. Nelle riunioni
della società, cominciate fra pochi compagni a partire dall’inverno del ‘61-’62 e prose-
guite con grande successo di adesioni e di consensi nel ‘63 e nel ‘64, gli adepti discu-
tevano, leggevano in comune, soprattutto le opere della letteratura inglese e francese
in voga.
Nessun programma od obiettivo preciso: l’atteggiamento complessivo dei soci era
quello suggerito da chi teneva le redini. Una sorta di irriverenza e scansonatezza ver-
so gli stereotipi della tradizione, e ancora, attenzione ed entusiasmo verso quello della
nuova cultura e del nuovo mondo.
Beccaria, che proveniva da un periodo di profondo sconforto, scopre nuovi stimo-
li, dopo aver pubblicato, appena un anno prima, un saggio intitolato Del disordine e dei
rimedii delle monete, nel 1762, nello stato di Milano.
Il Beccaria, a seguito della lettura delle opere degli enciclopedisti francesi e su spin-
ta dei fratelli Verri, che gli avevano fornito anche la tematica, si interessò a tal punto
che, entusiasta, iniziò a scrivere. Era, altresì, motivato dal forte stimolo ricevuto da Pie-
tro Verri e dall’esperienza estremamente pratica del fratello Alessandro, il quale aveva
ricoperto l’ufficio di Protettore dei carcerati, e, quindi, conosceva la penosa esperienza
e le ancor tristi condizioni in cui versava un sistema penale che necessitava di essere
transitato verso uno assolutamente nuovo.
Così nacque il libro, osservò acutamente il filosofo Ugo Spirito, e le idee proposi-
tive in questo contenute, più che il risultato del pensiero dell’autore, appaiono come la
sintesi di una intima collaborazione di tutti i componenti il gruppo del Caffè.
L’importanza di questo intenso e appassionato dibattito, realizzatosi in un mo-
mento storico irripetibile, e grazie a una convergenza di forze animate da alti ideali,
concepì un risultato importante, al quale presero parte e contribuirono tutti i parteci-
panti alle discussioni che avevano luogo nella c.d. Accademia dei Pugni.
Fu in questo clima che si sviluppò Dei delitti e delle pene, definito, più tardi, co-
me l’invocazione di un moralista che traccia le linee di una legislazione ideale, ispirata al
rispetto della libertà.
E anche se può essere condivisa l’opinione che tende ad escludere il Beccaria dal
novero dei giuristi, questo, se mai fu un difetto, è stato rilevato, fu causa della sua for-
za propulsiva e della sua capacità di imporre la riforma di leggi inumane e inique (Vas-
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La criminologia tra diritto ed evoluzione della società
salli, Cesare Beccaria nel bicentenario del Dei delitti e delle pene, in La Scuola Positiva,
1964, 586).
Dei delitti e delle pene era l’opera di un filosofo e non di un giurista. Le caratte-
ristiche di quest’opera, i suoi contenuti, l’origine dai testi degli enciclopedisti francesi,
procurano un’utile chiave di lettura dei suoi contenuti. I filosofi che frequentavano Il
Caffè, non ignoravano l’importanza di discutere le problematiche del diritto penale e
ne facevano anche oggetto di saggi, che, alla fine, però, non si prestavano ad essere con-
siderate opere, per mancanza di rigore sistematico.
L’opera di Beccaria può essere, pertanto, considerata come l’inizio della moderna
storia del diritto penale. Un’opera accreditata in tutto il continente europeo, e che rice-
vette il plauso da parte dei massimi pensatori dell’epoca. Va sottolineato che il fine che
l’autore si proponeva era quello di dare rilievo ai difetti delle legislazioni giudiziarie a
lui contemporanee, e, nello stesso tempo, di prospettare possibili soluzioni per porre
rimedio ai vuoti e alle ingiustizie dei numerosi sistemi penali.
Cesare Beccaria, pienamente convinto del valore e della genuinità delle teorie di
Jean Jacques Rousseau nel suo Contratto sociale, ed ammiratore del pensiero del filosofo
inglese Locke, muove dal concetto della convivenza comune: gli uomini, sostiene, han-
no sacrificato una parte delle loro libertà, accettando di vivere secondo le regole della
comunità, in cambio di una maggiore sicurezza e di una maggiore utilità. L’autorità
dello Stato e delle leggi è, quindi, da considerarsi legittima, finché non oltrepassi certi
limiti accettati dai governati in nome del bene comune. Richiamando direttamente
Montesquieu, l’autore sostiene come ogni punizione che non derivi dall’assoluta ne-
cessità sia tirannica. Il sovrano ha il diritto di punire, ma tale diritto, è fondato sull’esi-
genza di tutelare la libertà e il benessere pubblici dalle usurpazioni particolari: nessun
arbitrio deve essere perpetrato, poiché nel decidere l’entità della pena l’unico criterio
da seguire è l’utile sociale.
Muovendo da tali significative premesse, le proposte avanzate dal filosofo posso-
no, così, essere riassunte: una decisa battaglia contro l’oscurità delle leggi (perché questa
conduce a una varietà di interpretazioni, spesso arbitrarie, che favoriscono gli abusi); la
necessità di rendere pubblici i giudizi (per non dar adito a sospetti di ingiustizia e tiran-
nide, e allo scopo di estirpare il sistema delle denuncie anonime, pratica che alimenta i
riprovevoli istinti della vendetta e del tradimento); l’opposizione netta alla tortura e alla
pena di morte (in quanto la prima non garantisce l’emergere della verità, oltre ad esse-
re una pratica disumana, poiché davanti al dolore fisico, chiunque sarebbe disposto a
confessare qualsiasi delitto); siccome il diritto di punire non deve andare oltre la necessità
di tutelare i cittadini dagli elementi più pericolosi, non è giusto accanirsi sugli accusati,
prima di aver provato la loro colpevolezza. Riguardo la pena di morte, questa deve es-
sere abolita, in quanto viene meno allo spirito del contratto sociale (nessun uomo è di-
sposto a dare la propria vita in nome della convivenza comunitaria), e perché, inoltre,
non è un deterrente efficace contro la criminalità: secondo Beccaria, è indice di terrore
personale l’idea di una lunga pena detentiva che non l’idea di una pena durissima, ma
immediata.
Secondo Beccaria, inoltre, è importante, anche, che la pena segua in tempi brevi il
reato commesso, affinché l’indiziato non venga lasciato nell’incertezza riguardo la sua
sorte e per imprimere nella mente dei cittadini il rapporto consequenziale colpa/pena.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Di particolare importanza, inoltre, due principi fondamentali del trattato che sono:
l’attribuzione di un carattere laico alla pena e l’importanza della prevenzione dei delitti.
Beccaria opera una distinzione tra la nozione di peccato e quella di crimine, in quanto
ritiene che la punizione per non avere osservato la legge non ha niente a che fare con
l’espiazione di un peccato nel senso cristiano: la pena irrogata dall’autorità giudiziaria
è solo uno strumento per impedire che avvengano o si ripetano determinate violazioni.
Ma è particolarmente importante cercare di prevenire i crimini, educando alla legalità;
bisogna, altresì, adoperarsi e fare in modo che le leggi siano chiare e facili da compren-
dere per tutti, che siano rispettate e temute.
Lo scopo ultimo della pena è quello di evitare il ripetersi di un danno commesso
nei confronti della società, scoraggiandone, al contempo, altri: la pena non è più, nella
visione di Beccaria, uno strumento per raddoppiare con altro male il male prodotto dal
delitto commesso, ma un mezzo per impedire che al male già arrecato se ne aggiunga al-
tro ad opera dello stesso criminale o a opera di altri che, dalla sua impunità, potrebbero
essere incoraggiati. La pena è un mezzo di difesa, un mezzo di prevenzione sociale.
Nell’opera di Beccaria emerge un convincimento molto chiaro in ordine alla uti-
lità pratica dei provvedimenti presi o da prendere, e che lascia uno spazio ridotto a
considerazioni di ordine morale, così come ben si evidenzia la posizione dell’autore nei
confronti della pena di morte: questa va abolita perché non consegue gli scopi prefissi, so-
prattutto per tale motivo va eliminata: la sua crudeltà, la sua irreparabilità sono marginali.
Beccaria, nel suo trattato, indica anche delle rare eccezioni nelle quali il ricorso alla pe-
na capitale è ammissibile. Questo tipo di atteggiamento ha innescato numerose cri-
tiche alla sua opera in tempi recenti, poiché è stato ritenuto che il calcolo utilitaristico
dei vantaggi e degli svantaggi delle pene non può essere considerato la sola base dei si-
stemi penali, ma, in essi, deve trovar posto il rispetto della persona umana e di quei di-
ritti inviolabili dell’uomo che ancora oggi molto fanno dibattere. Va sottolineato che,
se è possibile individuare prese di posizione discutibili in alcune pagine de Dei delitti e
delle pene, in altre, Beccaria mette in risalto come l’imputato debba essere sempre conside-
rato persona e non cosa e come non possa esistere libertà laddove questo principio non venga
rispettato. Malgrado alcune affermazioni non consone, l’opera di Cesare Beccaria pone
le basi per il corretto progresso dello sviluppo civile del mondo occidentale, tenuto con-
to del fatto che molte coscienze furono scosse in ordine ad argomenti basilari per la for-
mazione di una società giusta e democratica, sia per l’utilità pratica che dimostrò, visto
che molte delle misure auspicate nel trattato vennero effettivamente seguite ed applicate
in diversi Stati.
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La criminologia tra diritto ed evoluzione della società
della ferocia delle pene. Questa dottrina, che fa propria una concezione metafisica del
diritto, pone a fondamento del diritto penale i seguenti principi:
La Scuola Classica fonda l’imputabilità sul libero arbitrio, cioè sul potere di auto-
determinarsi secondo una libera e totale scelta della propria volontà. Secondo tale con-
cezione, la pena, quale castigo per il male commesso, viene applicata se l’uomo ha vo-
lontariamente e consapevolmente scelto la violazione della norma, pur avendo, invece,
la possibilità di sceglierne l’osservanza. Il reato, pertanto, rappresenta la violazione co-
sciente e volontaria del comando penale; ma perché la volontà sia colpevole, l’autore
del reato, posto davanti all’alternativa tra il bene e il male, deve avere la concreta capaci-
tà di intendere il valore etico-sociale delle proprie azioni e di determinarsi liberamente alle
medesime, sottraendosi all’influsso dei fattori interni ed esterni.
Da questa interpretazione deriva che gli individui affetti da anomalie di interes-
se psichico o comunque immaturi, non essendo liberi (perché privi di questa libertà di
scelta fra il bene e il male), non possono essere biasimati per il male commesso e quin-
di non possono essere puniti; e inoltre, in caso di una libertà non del tutto assente, ma
limitata, la pena dovrà, in tali casi, essere diminuita.
La Scuola Classica annoverò tra i suoi maggiori esponenti Francesco Carrara, il
quale, in ordine al c.d. esame del reato e del suo autore, formulò teorie ben precise: in-
nanzitutto, il pensiero giuridico di Carrara si differenzia da quello Positivo per uno stu-
dio che porta a definire il reato non come un’anomalia del commettere il male derivante
da fattori antropologici o sociali, che vanno in sintesi a paragonare il criminale ad un in-
dividuo atavico e non sviluppato ma, viceversa, l’illecito penale è un ente giuridico. Il de-
litto infatti non è un ente di fatto, perché viene ad essere sintetizzato con una definizio-
ne generale, oltre ogni riferimento empirico, ossia come la violazione della legge della
ragione rivelata, per Carrara, direttamente da Dio.
È, infatti, alla divinità, che viene fatta risalire la nascita del diritto naturale di cui
l’uomo deve servirsi, al fine di disciplinare la vita sociale, nata con l’inizio della civil-
tà stessa.
Le teorizzazioni del Carrara condurrebbero al superamento degli orientamenti del
Lombroso e del Ferri, infatti, essendo il reato un ente giuridico, significa che esso non ha
bisogno di riferimenti ad altre definizioni appartenenti a scienze che vi confluiscono.
Quindi, se un soggetto, ad esempio, viene a commettere un reato, esso è lesione del-
l’ordine esterno della società, non necessita di ulteriori specificazioni come quella che
egli infranga la legge, perché mosso da fattori sociali estranei alla realtà giuridica. Que-
sta considerazione riporta il reato ad una visione che appartiene al diritto penale, che
lo rende per così dire autosufficiente. E ha, come seconda conseguenza, che esso trova
nel diritto il proprio fondamento che è connaturato all’uomo e, dunque, viene allarga-
to l’orizzonte del campo d’indagine della materia, che va oltre le riforme e i codici at-
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tualmente vigenti. In altri termini, il richiamo è ad una sorta di jus naturale, a principi
fondanti della legge; la legislazione penale è così ricondotta a un’analisi che non è una
pura e infruttuosa interpretazione del diritto positivo. Tutto ciò non porta a negare la
visione particolare delle norme giuridiche, ma, si ammette l’esistenza di un principio
che non accetta l’esistenza di leggi contrarie alla natura dell’uomo stesso. Inoltre, va ri-
cordato che per Carrara, il diritto deve studiare l’ordine che si origina dalla divinità ma
che può essere letto solo dalla ragione; esso viene, in tal modo, a essere imposto prima
ancora della legislazione stessa; è quella struttura che si può sintetizzare come della li-
bertà; nel senso che il sistema penale viene definito come la libertà di un individuo di
non sopraffare in alcun modo un altro.
L’ulteriore conseguenza del delitto, come divieto di ledere l’ordine sociale esterno,
è che, chi commette tali azioni deve essere punito, per definizione, solo se capace e li-
bero; esclusivamente in questo caso si delinque, cioè, quando si possiedono queste due
peculiarità: quella d’autodeterminare le proprie azioni e quella dell’intelligenza.
Ciò contribuisce ad interpretare validamente la c.d. esimente valevole per la minore
età; infatti, se si vaglia la maturità intellettiva e la responsabilità penale come parametri
primi del delinquere, ci si trova a giustificare l’esclusione della pena per chi non si trovi
in tale situazione. La questione pone un interrogativo: così procedendo, non si vengo-
no a trattare in modo uguale, situazioni differenti, in contraddizione con il principio
espresso nell’articolo 3 della Costituzione?
Inoltre, stabilendo che il delitto è ente giuridico, lo si diversifica da quel diritto pena-
le che lo porta a coincidere con la velleità dei codici e delle leggi, che sono transitorie.
Tale considerazione, non è da interpretare in modo abnorme, in quanto porte-
rebbe a definire il sistema penale come scollegato dalle leggi positive e, quindi, que-
st’ultime sarebbero sempre poste a distanza dai principi della verità, rivelandosi, anzi,
un freno, degli elementi che impediscono la realizzazione della giustizia sulla terra,
giustizia amministrata solo da Dio. Secondo tale concezione, il reato si configurereb-
be quale divieto posto ad un’intelligenza libera di sovvertire l’ordine stabilito dalla legge,
che non è quella regolamentata dallo jus positum, ma è quella venuta al mondo con
l’uomo.
Il dibattito si sposterebbe, inevitabilmente, sul campo del diritto penale, poiché,
quest’ultimo, era considerato dipendente da altre discipline non giuridiche, mentre,
adesso, si getterebbero le basi per ammettere la possibilità che uno Stato formuli del-
le leggi contrarie a quello che è il diritto naturale, superiore alle norme codificate. Al-
tro passaggio importante riguarderebbe la funzione della pena come funzione di man-
tenere l’equilibrio stabilito al di sopra dell’uomo, che diventa, pertanto, una tutela
giuridica, prima ancora di essere una tutela sociale. Se si definisce il delitto come ente
giuridico, lo si priva di ogni altro riferimento e, quindi, tale interpretazione portereb-
be alla rilevante conseguenza che esso verrebbe ad essere definito un imperativo assolu-
to. Quando poi si vuole differenziare la quantità e la qualità del reato, il riferimento è
al c.d. grado del delitto, anche se la sua obiettività è strettamente collegata al divieto. In
tale contesto, la pena verrebbe ad essere spiegata in funzione del divieto, quindi, il di-
ritto penale non sarebbe tale se non esistesse la repressione per farlo rispettare. Se si pensa
al rapporto reato/soggetti minorenni, una pena come quelle che prevedono il perdono
giudiziale dei minori non sarebbe neanche ammissibile.
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Altra funzione basilare della pena è quella della c.d. minaccia, poichè, essa diviene
capace di incutere timore nel violare la legge. La quantità delle pene sono dunque rica-
vabili rispetto al grado del delitto, e la diretta conseguenza è rappresentata dal divieto,
per il legislatore, di eccedere con pene che puntino a mortificare la personalità dell’uo-
mo e siano maggiori della rilevanza dell’azione illecita.
Se è vero che siamo in presenza di una concezione moderna, sia del delitto che del-
la pena, è altrettanto vero, però, che tale impianto non ammetterebbe l’esimente ( reati
commessi da minorenni), in quanto, sarebbe lo stesso sistema a non prevedere alcuna
esclusione o alcuna riduzione della misura sanzionatoria.
Significativa, inoltre, l’analisi del Carrara in ordine agli scopi ed alle funzione del-
la procedura penale: in primo luogo, l’identificazione dei colpevoli, che non deve con-
durre, però all’applicazione di una pena superiore rispetto a quanto commesso dagli
stessi. Pertanto, il fatto, il giudizio, altro non sono che l’applicazione diretta e concre-
ta del diritto; il Carrara, non prevede altra definizione del giudicato che non sia la se-
guente: o si è colpevole o innocenti, o si ammette un grado di colpevolezza o lo si esclude; la
questione fondamentale non è tanto quella di prevedere per il reo un inserimento nel-
la collettività, quanto, invece, salvaguardare l’applicazione corretta della legge, che, in
tal senso, significa porre in essere gli strumenti utili, affinché il sistema del diritto non
venga violato.
Un paragone efficace riguarda il rapporto tra diritto penale e procedura penale: la le-
gislazione penale rimane, essenzialmente, estranea alla realtà dei fatti, anche se incapace
di modificare, se non attraverso la repressione, quella realtà di cui è solo un’astrazione. Il
diritto penale ha, quindi, la funzione di proteggere un ordine superiore alla realtà giuri-
dica degli ordinamenti, attraverso lo strumento del divieto, confermando il diritto della
pena, poiché, mediante la repressione, la legge diventa efficace, ed il giudizio si trasfor-
ma in strumento per farla osservare.
Anche in questo caso, mancherebbe la c.d. esimente per escludere la pena, oppure di
un tipo di sanzione che abbia lo scopo di raddrizzare, ma non di punire. Secondo Car-
rara, però, una punizione che miri a modificare i comportamenti dei criminali sarebbe
priva del fondamentale requisito di una misura penale, consistente nel condurre il cri-
minale ad avere timore della pena, intesa quale funzionale deterrente. Qual è l’origine di
tale impostazione? Il punto di partenza è, sia la cieca fede in un’entità superiore custode
della giustizia, che la capacità dell’uomo di farsi garante con la ragione della legge.
Secondo Carrara, amministrare in modo pieno la giustizia è compito di Dio, mentre,
per l’uomo, l’unico itinerario percorribile è difendere quella collettività nata con lui. In
tale ottica, il diritto penale assurgerebbe a difensore dell’uomo e di quell’ordinamento
assoluto che ha il suo ultimo referente in una visione spirituale del diritto. Molteplici
sarebbero le implicazioni: a) la metodologia proposta non punta ad approfondire la
funzione della pena come processo migliorativo dell’uomo che è custode di una verità;
b) rimane senza risposta la domanda in ordine a quale legge ideale possa essere supe-
riore all’uomo.
L’analisi del Carrara, da molti considerata legata ad un pensiero giuridico ormai
datato per essere identificata come criterio di ricerca, ha lasciato, comunque, aperto un
fervido dibattito. In primo luogo, il reato viene definito, in modo chiaro, quale ente
giuridico, e, dunque, viene salvaguardata l’autonomia della ricerca giuridica; da una
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cognizione certa del diritto, si procede alla deduzione di tutti gli altri corollari legali,
ed anche quella della minore età (esimente). In secondo luogo, si rappresenta la non
completa esaustività delle leggi positive, e al contrario, è prospettabile una legge supe-
riore che non vada mai a ledere, ad esempio, con pene superiori alla gravità del reato, la
natura e la dignità dell’uomo. Ciò ha come conseguenza che lo jus positum possa essere
oggetto di critica rispetto alla legge naturale, quando esso giunge a deprezzare l’uomo,
che, almeno in questo caso, torna ad essere baricentro. Per concludere, la Scuola Classi-
ca opera una scissione tra ciò che la legge giuridica, come quella morale, disciplina, (ad
esempio, un individuo dotato di intelligenza e capacità di scelta), e ciò che invece è di-
sciplinato dalle leggi fisiche e naturali. Queste due dimensioni non potranno mai dive-
nire coincidenti, o almeno interferire tra di loro, perché il soggetto giuridico, pienamen-
te imputabile, è in grado di scegliere di infrangere, o meno, le norme giuridiche.
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Nello scritto dal titolo Le regole del metodo sociologico, l’autore approfondisce il de-
litto nel capitolo Le regole relative alla distinzione fra normale e patologico, in cui egli af-
fronta la dimensione del delitto mediante i concetti biologici di disfunzione e patologia,
spiegando, altresì, che il delitto debba essere considerato come fatto normale e, pertanto,
funzionale all’esistenza stessa dell’ordine sociale. Queste ultime teorizzazioni si scontra-
vano apertamente con le teorie dominanti in un’epoca di positivismo imperante e di let-
tura dei conflitti che percorrevano la società (di cui il crimine era un’espressione).
Durkheim giunge ad affermare che il crimine non ha nulla di morboso, e la pena
non può avere lo scopo di guarirlo, quindi la sua vera funzione deve (...) essere cercata altro-
ve, indicando questa funzione nella sua capacità di produrre solidarietà, essendo la pe-
na stessa espressione dell’esistenza di un ordine sociale.
Va sottolineato che per la prima volta dallo sviluppo del pensiero positivista e dal-
la formalizzazione delle scienze umane e sociali, vi sia stato chi, studiando e approfon-
dendo il crimine, non lo affronti quale fenomeno patologico individuale, ma ne sottoli-
nei i caratteri della normalità e della funzionalità per l’ordine sociale stesso: il crimine ed
il diritto penale che lo definisce altro non sono che l’espressione delle demarcazioni mo-
rali di una data società.
È importante notare come tali teorie abbiano lo scopo di evidenziare nuovamente
la sostanza normativa e convenzionale del fattore crimine, persa sostanzialmente a cau-
sa del ricorso alle simbologie di cui le scienze umane e sociali si servivano ampiamente
nella fase del loro primo sviluppo. Attraverso Durkheim, pertanto, il problema del cri-
mine ritorna ad essere un dilemma strettamente legato alla situazione storica delle so-
cietà del tempo, in cui il progressivo frazionamento (o divisione sociale) del lavoro ral-
lenta i legami sociali, facendo perdere di vista, al singolo individuo, il continuum che
lo lega alla società, aumentando, al contempo, i conflitti e gli antagonismi. Tutto ciò è
il risultato di anomia, (cioè assenza di norme), disinteresse per l’ordine sociale e per le regole
di condotta che implica. Il diritto penale si configura, pertanto, quale unico ed efficace
strumento per punire gli scostamenti dall’ordine stabilito e rinvigorire la coscienza col-
lettiva sociale, lesa dall’infrazione.
Non poche, nel merito, le critiche mosse a Durkheim: innanzitutto, nell’impian-
to teorico sulle funzioni del diritto penale, egli, pur individuando nell’anomia il pro-
blema della deviazione individuale, ritiene già esistente una coscienza collettiva su cui si
dovrebbe fondare l’ordine sociale, dimostrando, così, un’eccessiva fiducia nella capa-
cità degli organismi intermedi (le corporazioni professionali) che, secondo il teorico,
avrebbero contribuito fattivamente a evitare fenomenologie anomiche, promuovendo
azioni socializzanti negli individui, in ordine ai valori espressi dalla coscienza comune,
nonché, porre in essere strumenti di mediazione nei conflitti. Il diritto penale, in tale
ottica, assurge a mezzo (seppur estremo) di socializzazione, al fine di reintegrare la co-
scienza oltraggiata dall’infrazione.
Quelli che Durkheim identificava come fattori accidentali della società, (l’anomia
e i conflitti) conferendo al diritto penale il compito di integrare la maggioranza sociale
non deviante, si rivelarono, successivamente, come fattori normali nello sviluppo del-
le società industriali.
Tutta l’opera di Durkheim è orientata ad individuare quella coscienza collettiva sul-
la quale erigere l’ordine sociale, obiettivo che, nella società in cui visse ed operò il socio-
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Il terzo fattore che contribuì a dare origine al nuovo indirizzo fu l’inefficacia dell’al-
lora vigente sistema penale per frenare l’esponenziale aumento del crimine.
Per la Scuola Positiva, il principio base per il quale si devono spiegare tutti i feno-
meni, fisici e psichici, individuali e sociali, è quello di causalità. Sulla base di tale as-
sunto, per i Positivisti, il delitto è il risultato, non di una scelta libera e responsabile del
soggetto, ma di un triplice ordine di cause: a) antropologiche; b) fisiche; c) sociali. Mentre
la Scuola Classica, come è noto, considerava il reato come ente giuridico astratto stacca-
to dall’agente, per la concezione Positivista, il reato è un fenomeno naturale e sociale, un
fatto umano individuale, indice rivelatore di una personalità socialmente pericolosa. L’at-
tenzione del diritto penale, pertanto, si sposta dal fatto criminoso in astratto, alla per-
sonalità del delinquente in concreto, dalla colpevolezza per il fatto, alla pericolosità sociale
dell’autore, intesa come probabilità che il soggetto, per certe cause, sia spinto a commettere
fatti criminosi.
Ciò equivale ad affermare che il principio di responsabilità individuale, adesso,
viene sostituito dal principio di responsabilità sociale.
Tale nuova teorizzazione rinforza il principio secondo cui non avrebbe più alcun
senso castigare con la pena il reo, perché fatalmente spinto da forze che agiscono dentro e
fuori di lui e, obiettivo dei provvedimenti repressivi, deve essere la difesa sociale; per cui,
coloro che delinquono devono essere sottoposti a misure di sicurezza che hanno lo sco-
po di prevenire nuove manifestazioni criminose, mediante il loro allontanamento dalla
società e, ove possibile, il loro reinserimento nella dimensione sociale.
Le misure individuate, al contempo, non devono essere proporzionate alla gravità
del fatto, ma alla pericolosità del reo e, nella loro applicazione, devono differenziare nella
forma, per adattarsi alle differenti tipologie psichiche del delinquente; devono, altresì,
essere indeterminate nella durata, e derogabili con l’esaurirsi della pericolosità. Tenuto
conto che anche i fattori psichici rispondono al principio di causalità (determinismo
psichico), il libero arbitrio (valutato quale illusione psicologica) non ha più alcun valo-
re. Sulla base di tale impianto teorico, la Scuola Positiva giunge fatalmente a negare la
stessa categoria dell’imputabilità e della distinzione fra soggetti imputabili e non imputa-
bili; e ciò in funzione di quanto sostenuto in ordine alla funzione della sanzione penale,
che servirebbe solo come mezzo per impedire la commissione di crimini; tale asserzione
non motiverebbe l’esclusione dalla sua applicazione degli autori di reato con problema-
tiche di natura psichiatrica.
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chiudere, in nome del diritto della difesa della società che, in questi casi, si sostituisce al
diritto di punizione. Il fulcro di questa teoria è che una certa percentuale di criminali,
dal 35 al 40%, sono nati con disposizioni criminali, e che in essi si possono accertare,
scientificamente, caratteristiche anatomiche e fisiologiche particolari; 1) il criminale epi-
lettico; 2) il delinquente per impeto passionale (forza irresistibile); 3) il delinquente pazzo
(criminale pazzo e debole di mente), inclusi gli individui di mentalità limitata (mattoi-
di); 4) il delinquente occasionale, proiettato al delitto da fattori causali diversi da quelli
del delinquente nato; su questa ultima tipologia di soggetti, il Lombroso ritiene debba
essere svolta un’opera di rieducazione in istituti carcerari ben organizzati.
Importante sottolineare come i primi tre di questi gruppi, abbiano tutti in co-
mune una caratteristica di natura psico-patologica. Lo stesso Lombroso definisce il cri-
minale nato come pazzo morale, e di fatto, la sua classificazione può essere ricondotta
alla principale distinzione tra criminali normali e anormali. Lombroso, inoltre, opera
una ulteriore suddivisione del gruppo dei delinquenti occasionali, in tre sottogrup-
pi: a) gli pseudo-criminali, cioè, individui che sono imputabili di un reato commesso
senza intenzione o sotto l’influenza di circostanze affatto eccezionali (autodifesa e si-
mili); b) i criminaloidi, cioè individui con una più mite variante del criminale nato;
c) i delinquenti abituali di tipo non anormale, inclusi molti appartenenti alle bande
criminali.
Inoltre, la criminalità femminile, secondo Lombroso, trova la sua massima espres-
sione nella mercificazione del corpo della donna.
Tra gli elementi che concorrono nell’attuazione dell’azione delittuosa, egli consi-
derò: i fattori meteorici, climatici e geologici, la razza, il tipo di alimentazione, l’alcooli-
smo, le condizioni culturali ed economiche, la religione, l’età e il sesso.
Dalle teorie lombrosiane, la criminologia moderna ha guadagnato un insieme di
saperi altamente scientifici, e la genialità del pensiero del medico torinese è ancora pre-
sente nelle pagine delle trattazioni del crimine. Lombroso aderì totalmente alle teorie
fisiognomiche, tanto da sostenere che, una mattina, in un nuvoloso giorno di dicembre,
nel teschio di un brigante trovò una lunga serie di anomalie ataviche analoghe a quelle che
si riscontrano negli invertebrati inferiori. Questo concetto, quindi, precorse, seppur par-
zialmente, l’evoluzionismo darwiniano.
Infatti, quasi nello stesso arco di tempo, una identica relazione tra fisiognomica e
antropologia, venne stabilita da Charles Darwin, il quale sostenne come alcuni tipi di
espressione, sia negli umani che nelle scimmie, fossero sempre e comunque determinati da fi-
nalità naturali, esprimendo, pertanto, un concetto che, opportunamente, operava una
scissione significativa tra mente e corpo.
Si deve ancora al genio lombrosiano l’intuizione secondo cui lo sviluppo embrio-
nale dell’uomo ripercorre la filogenesi, e in qualche modo, nel delinquente, questo sviluppo
può essere disturbato o interrotto.
Il lavoro scientifico di Lombroso si orientò, inoltre, a paragonare il criminale al
cosiddetto selvaggio, al primitivo, facendo discendere il crimine da un comportamen-
to naturale. Quest’ultima teoria etnologica, oggi improponibile, già nel 1800, venne
aspramente criticata da un altro autore contemporaneo, J. J. Rousseau, il quale propo-
se la teoria del buon selvaggio, giungendo ad affermare che solo il progresso e l’evoluzione,
potevano corrompere veramente l’innocenza primitiva dell’uomo. Comunque, nel clima
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una serie di misurazioni e analisi statistiche, dal prof. Ernest A. Hooton di Harvard, su
di una massa di americani.
La sua dottrina, neo-lombrosiana, sostiene che i criminali, in media, sono distin-
tamente inferiori in peso (anche dopo la correzione per le differenze d’età); essi sono
più piccoli di statura; la larghezza delle spalle, la larghezza e lo spessore del torace, co-
me pure la circonferenza della testa sono, in essi, minori; la loro altezza facciale è signi-
ficativamente più piccola come pure l’altezza del naso; i loro orecchi sono più corti, la
larghezza del naso maggiore, le orecchie sono più larghe in confronto della lunghezza e
la faccia più bassa in confronto della larghezza.
Per ciò che attiene i peli, le investigazioni, dimostrano che il gruppo dei criminali
ha probabilmente meno barba, meno peli sul corpo e più capelli. I capelli rosso/bruni,
sono più frequenti nei criminali che non nei non-criminali, e così pure il colore degli
occhi che sono, o molto chiari, o molto scuri.
La conclusione generale dell’investigazione, la quale contiene anche un certo nu-
mero di caratteristiche sociologiche, è che i criminali, considerati come insieme, sono
un gruppo di individui inferiori sociologicamente e biologicamente, e la loro inferiorità
fisica è soprattutto di natura ereditaria.
Tutto ciò premesso, probabilmente, condurrebbe ad un vero e proprio ritorno alla
fisiognomica lombrosiana che si basa sulla relazione esistente tra le differenti caratteri-
stiche fisiche di un individuo e la sua personalità.
Anche se le teorizzazioni lombrosiane sono state spesso, oggetto di critica, è co-
munque indiscutibile come ciascuno di noi, ogni qual volta si trovi di fronte ad un
nuovo interlocutore, tenti di intuire, istintivamente, se la persona che ha di fronte a
sé è cattiva o buona, sincera o antipatica, e così via. Ed è altresì innegabile come le
emozioni suscitate dalle esperienze di vita, spesso tragiche, di una persona, segnino
in qualche modo il suo viso, modificando i lineamenti del volto in un modo piutto-
sto che in un altro.
Da qui, l’intreccio della fisiognomica con la psicologia, laddove, entrambe, cercano
di intuire e dedurre, dal visibile, i moti più intimi dell’animo umano.
La fisiognomica, nelle sue tre linee distintive, assume significati diversi, e ciò in rap-
porto agli approcci volgare, mimico e scientifico utilizzato dagli studiosi della materia.
L’approccio volgare è caratterizzato dall’utilizzo dell’astrologia e della chiromanzia,
e l’aspetto simbolico-intuitivo viene espressamente enfatizzato e privilegiato. Nell’ap-
proccio mimico vengono messi in evidenza gli elementi della comunicazione non ver-
bale (tratti somatici, espressione corporea e facciale, segni del volto, tono della voce),
che sono ritenuti elementi rivelatori del carattere di una persona. L’approccio scientifi-
co, infine, ha l’obiettivo di seguire le teorie darwiniane e antropologiche.
L’impalcatura teorica di Lombroso verrà sostenuta, più tardi, dalla figlia Gina, dal
genero Ferrero, da Niceforo e Di Tullio, e anche dallo stesso Pende, malgrado la diffe-
rente posizione ideologica. La figlia Gina negli anni ‘20, si occupa di opere giovanili,
tra cui risalta, in particolare, La donna delinquente, dove viene rappresentata la ormai
famosa corrispondenza tra prostituzione e criminalità. Si legge, infatti: “l’identità, psico-
logica come l’anatomica, tra il criminale e la prostituta-nata, non potrebbe essere più com-
piuta: ambedue identici al pazzo morale, sono per assioma matematico eguali fra loro”. Gi-
na, comunque, non si occupa solo di riproporre i testi del celebre padre, ma rivolge la
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sua attenzione alle difficoltà della condizione femminile, e si impegna nel promuovere
l’elevazione culturale e l’emancipazione sociale della donna.
Alcuni scienziati, sulla base di ricerche nel campo psicologico e neurologico, sono
giunti alla conclusione che, nelle persone che formulano idee creative, risulta partico-
larmente attiva la zona frontale del cervello che emette onde alfa da parte di entrambi
gli emisferi. Secondo la fisiognomica, inoltre, concorre ad ottenere un quadro più esau-
riente possibile dell’individuo, un complesso di informazioni sulle tre fasce del volto
che sono l’intellettiva, la sensitiva e la materiale; lo sviluppo maggiore di una fascia del
volto rispetto ad un’altra, ne determina una maggiore influenza sul temperamento. La
fascia intellettiva è costituita dalla fronte e indica ingegno, curiosità, fede negli ideali;
la fascia sensitiva è costituita dalla base del naso, tra le ciglia e le narici, e si configura
come un indicatore dell’emotività e della sensibilità dell’individuo; infine, la fascia ma-
teriale, localizzabile tra la base del naso e la punta del mento, esprime l’istintività e la
sensualità.
Per la fisiognomica, anche il colorito dell’individuo costituisce uno degli elemen-
ti chiave per l’analisi della personalità: un colorito pallido indicherebbe mancanza di
energia, malumore e pigrizia, mentre un colorito rosa acceso, esprimerebbe sensualità
ed estroversione; un colorito spento e grigiastro indica ipocondria, pessimismo e scar-
sa fiducia negli altri; infine un colorito che tende al giallastro è un segnale di forte ira-
scibilità, ma anche di ascolto verso l’altro e di lealtà. Ancora secondo la fisiognomica,
l’analisi delle singole parti del viso, fornisce preziose informazioni sulla personalità del-
l’individuo che si osserva: 1) una fronte molto alta indica la tendenza alla superficialità e
all’imitazione degli altri, mentre, se è molto bassa, indica scarso sviluppo intellettuale e
atteggiamento ipercritico; 2) una fronte proporzionata al resto del viso, esprime chiusura
mentale e forte senso di responsabilità, ma se è alta, e presenta un rigonfiamento nel-
la parte superiore, determinerà, in chi la possiede, difficoltà di concentrazione e stra-
vaganza. Secondo la fisiognomica, l’analisi della personalità di un individuo sarà tanto
più attendibile quanto più informazioni si avranno sulle varie parti del volto, non solo,
ma se è vero che ogni parte rappresenta una caratteristica di personalità, è altresì vero
che solo dall’interpretazione armonica dei vari elementi si potrà capire al meglio chi è
la persona che abbiamo di fronte. Meritano particolare attenzione alcune caratteristi-
che del mento e del naso: un mento aguzzo, indica vivacità intellettuale con tendenza al-
l’analisi e all’approfondimento; un mento tondo segnala creatività ed energia e capacità
di mettere a proprio agio gli altri; il doppio mento indica insicurezza, bisogno di prote-
zione e instabilità emotiva, mentre, se un mento è ben equilibrato con il resto del viso,
segnala grande tenacia.
Il naso è importante perché conferisce carattere al volto: il naso camuso (schiac-
ciato e largo alla radice), indica forte empatia e personalità affettuosa; il naso all’insù
indica instabilità emotiva e diffidenza; il naso greco (lungo e stretto) lascia intuire che
la persona sia molto sensuale, di animo buono e leale ma anche superficiale; il naso
aquilino indica forza interiore e grande carisma, energia e tendenza all’ira; il naso a
patata indicherebbe tendenza all’idealismo ma, anche, una certa predisposizione alla
tristezza.
La fisiognomica, si basa, inoltre, sull’analisi degli occhi e della bocca: gli occhi gran-
di, denotano tendenza al misticismo, avversione al materialismo e insicurezza; occhi
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piccoli indicano intuito, vitalità e furbizia; occhi rotondi segnalano creatività e bontà
d’animo, vivacità intellettuale; degli occhi all’ingiù, esprimono un animo romantico,
sensibile con tendenza alla depressione; gli occhi all’insù, indicano timidezza, introver-
sione e scarsa coerenza.
La bocca, si analizza attraverso le labbra: le labbra carnose indicano sensualità e
istintualità, nonché capacità di instaurare rapporti di coppia armoniosi; labbra sottili,
indicano introversione e tendenza al romanticismo, forte senso del dovere; un labbro
superiore sollevato con gengive in evidenza denoterebbe aggressività e scarso autocontrol-
lo, chiusura mentale; un labbro superiore ad emme, identifica un individuo con partico-
lare senso dell’ironia e tendenza al buon umore, estroversione e avversione per la mono-
tonia; le labbra a bocciolo, esprimono tendenza alla malinconia con instabilità emotiva
e poca sensibilità verso gli altri.
Altre importanti informazioni sul temperamento individuale si possono leggere,
secondo la fisiognomica, anche attraverso i segni della pelle, come i nei e le rughe di
espressione, segni, soprattutto questi ultimi che, derivando dalla mimica facciale, ren-
dono unico ed espressivo un volto, raccontando molto sulla vita intima della persona.
Altri teorici della fisiognomica hanno sostenuto che il volto rivela qualsiasi cosa ed è
possibile analizzare la personalità di un individuo attraverso l’osservazione del suo viso,
seguendo la tecnica dell’analisi facciale. È possibile, altresì, determinare attraverso i se-
gni del viso, persino la forma e le dimensioni degli organi sessuali maschili e femminili.
Esistono anche delle caratteristiche nell’analisi facciale che sono comuni sia agli uomini
che alle donne: se, ad esempio, l’angolo esterno dell’occhio presenta delle linee, queste
indicano forte inclinazione sessuale e disponibilità, caratteristiche che sono tanto più
intense quanto più sono profonde e numerose le linee.
L’esistenza di pieghe profonde ai lati della bocca, indica forte desiderio sessuale,
ed ancora, una persona con mento lungo, sarà in possesso di una forte spinta sessua-
le. Inoltre, la quantità delle caratteristiche che si combinano tra di loro, nonché la loro
intensità, contribuiscono a determinare la forza dell’inclinazione sessuale. In generale,
un volto ovale, sinonimo di perfezione estetica, indica un temperamento ipersensibile,
tendente alla dolcezza, creatività ma anche instabilità e timidezza; un volto quadrato,
indica grande forza interiore, un carattere energico e pratico, pazienza e determinazio-
ne; un volto triangolare, denota intelligenza brillante ma scarsa fantasia, mentre un viso
rettangolare o lungo, denota elasticità mentale, apertura alle novità, evoluzione intellet-
tuale, senso estetico.
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La criminologia tra diritto ed evoluzione della società
Garofalo, in particolare, appare più attento alla dimensione psicologica che sot-
tende la criminalità; Ferri, invece, volge lo sguardo alla dimensione sociale del delitto.
Garofalo, studioso di psicologia criminale, anche se sostanzialmente più vicino alle po-
sizioni teoriche lombrosiane, intitola, però, Criminologia, il suo saggio più noto, svin-
colando la sua opera dai risultati più espliciti della ricerca antropologico-criminale. An-
che per Garofalo, comunque, il delitto non è una mera convenzione definita dal codice
legale, come vuole fare intendere la Scuola Classica, ma è, piuttosto, un fatto naturale, il
cui concetto è ben presente nel buonsenso popolare. Scrive Garofalo: “il delitto sociale o
naturale è una lesione di quella parte del senso morale che consiste nei sentimenti altruistici
fondamentali (pietà e probità) secondo la misura media in cui trovansi nelle razze umane
superiori, la quale misura è necessaria per l’adattamento dell’individuo nella società”. Il ri-
ferimento alle razze superiori viene ritenuto indispensabile per non creare confusione
con quanto si verifica nei selvaggi, dove mancano quegli istinti altruistici che sono in-
vece considerati fondamentali nelle società più evolute.
In Garofalo, mentre natura e società si accatastano e convergono, il concetto di
istinto assume coloriture etiche, e con chiari riferimenti alla frenologia che vanno ben
oltre la generica spinta biologica che lo caratterizza; la statistica non è poi un semplice
strumento conoscitivo, ma si identifica piuttosto con la forma stessa del conoscere. Se-
condo Garofalo, i delinquenti possono essere distinti in due categorie: a) la prima, ca-
ratterizzata da assenza di senso morale; b) la seconda, delineata dalla presenza di istinti
morali deboli o latenti; pur prendendo atto, però, della mancanza dell’istinto pietoso
e di probità, e della sostanziale perversità, non esiste alcun tipo di conclusione, in as-
senza di un vero e proprio delitto. Garofalo ritiene, inoltre, che la natura dell’anomalia,
morbosa o meno, risulti indifferente in riferimento alle esigenze della società. Ciò che è
opportuno conoscere è se l’anomalia sia permanente e l’infermità incurabile o duratura
nella sua forma pericolosa nei confronti della società, ovvero, se vi sia speranza di mi-
glioramento e di cessazione degli impulsi criminosi.
Nel primo caso, non vi è alcun motivo per non trattare il pazzo come il delinquen-
te istintivo, cioè, eliminarlo assolutamente; nel secondo caso, si avranno, da una parte,
delinquenti affetti da psico-nevrosi, curabili nei manicomi, e, dall’altra parte, delinquen-
ti per occasione e per abitudine, che possono correggersi attraverso l’imposizione di un
nuovo genere di vita.
Tutto ciò condurrà al tema della pericolosità sociale che sostanzierà la legge del
1904 sui manicomi e sugli alienati.
Il pessimismo radicale di Garofalo deriva dalla convinzione che tutti i delinquen-
ti sono uomini psichicamente anormali, molti anche antropologicamente; e del resto se, in
condizioni analoghe, fra tanti uomini, uno solo delinque, si deve coerentemente de-
durre che il fattore primo del delitto è sempre individuale, e che senza di esso le spinte
occasionali rimangono inefficaci.
Il delitto, pertanto, viene fatto discendere da un’anomalia individuale, e che le in-
fluenze familiari e sociali siano ritenute poco attendibili. Anche il disagio economico,
interviene con modesta incisività, tanto che, il malessere individuale connesso, appare
scarsamente attribuito alla sproporzione fra desideri e mezzi per soddisfarli.
Il Garofalo, legato fortemente al sostanzialismo evoluzionista, sembra aver perso di
vista la complessità familiare, economica e sociale della vita. Il suo contributo più origi-
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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La criminologia tra diritto ed evoluzione della società
palesemente polemici, rispetto alle teorie lombrosiane, nella loro classica formulazio-
ne. Per Colajanni, in particolare, alcoolismo e criminalità hanno infatti una radice co-
mune abbastanza semplice: la miseria con la carenza di educazione che la sostanzia. Per
estirpare questi mali è poi indispensabile, secondo Pistolese, la caduta del capitalismo:
“è il capitalismo che ha fatto l’alcool accessibile a tutti, perché a poco prezzo; è esso che lo
offre sovente in mille guise falsificato per l’ingordigia di maggiori guadagni da parte degli
speculatori”.
A Di Tullio, in particolare, si deve un noto trattato di antropologia criminale ag-
giornato con capitoli dedicati agli argomenti più recenti come l’endocrinologia. L’insie-
me delle teorie lombrosiane è ancora presente nel pensiero di Di Tullio, anche se non
si parla più di tipo delinquenziale, ma di personalità. Di Tullio, comunque, pur coscien-
te che l’antropologia criminale solleva numerosi e vasti problemi come quello del bene
e del male e quelli della libertà e della responsabilità umana, intende occuparsi solo di
delitto, inteso quale atto umano che va considerato e valutato in relazione al contesto
sociale dove viene consumato, prescindendo, in tal modo, da qualsiasi valutazione di
carattere filosofico. Di grande importanza, è poi ritenuto il rapporto con la psicopato-
logia, tanto più che ogni delitto è sempre l’espressione di un turbamento psichico.
Di Niceforo, si ricorda, invece, una imponente sintesi in merito ai contenuti e ai
dibattiti maturati attraverso il lungo itinerario della Scuola Positiva. L’opera di Nicefo-
ro, edita da Bocca in 6 volumi fra il ‘49 e il ‘54, si delinea come una sorta di riassunto
critico, dove vengono affrontati argomenti di carattere criminologico, da quelli biolo-
gici a quelli sociali e motivazionali.
Anche Pende, tomista in metafisica e costituzionalista in medicina, non è certo
lontano dalle influenze di Lombroso, specie, quando, per risolvere il problema relativo
alla sollecitazione di alcune aree encefaliche che possono provocare improvvisi focolai
di aggressività, propone interventi mirati di psicochirurgia per trasformare le turbe del-
l’umore che guidano il comportamento di alcuni criminali; a fronte di quanto soste-
nuto, riferisce il caso di un poveretto che aveva da molti anni fatto il giro di tutte le car-
ceri e che dopo adeguato intervento neurochirurgico poté essere trasformato in un pacifico
ed onesto lavoratore.
I contributi, sin qui descritti, testimoniano come l’opera lombrosiana sia stata effi-
cace, esercitando, nel tempo, vaste influenze nella cultura, indirizzando la pratica giu-
diziaria e psichiatrica, favorendo la ricerca, sia vincolandola a quanto è oggettivamente
visibile, che incoraggiando la statistica, in parallelo con la metodologia utilizzata. L’aver
promosso nuove tecnologie applicate allo studio del crimine, come la fotografia, che fa-
vorisce la documentazione realistica, sia in psichiatria che in criminologia, o aver fatto
comprendere il ruolo della statistica e della sociologia, sono solo alcune delle righe del
testamento culturale e scientifico di Lombroso.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
l’altra, accolgono posizioni proprie dei positivisti. Lo scontro dottrinale più forte si
avverte con i rappresentanti della Scuola Classica.
Secondo Mantovani, il movimento che ha realizzato il maggior sforzo di sintesi è
quello della Nuova Difesa Sociale, movimento di pensiero che non sopprime la nozio-
ne di responsabilità, non nega le libertà dell’uomo né rifiuta la possibilità della punizio-
ne, ma fonda la politica criminale della difesa sociale sulla responsabilità individuale, la
cui realtà esistenziale viene assunta come la molla ed il motore essenziale del processo di
risocializzazione e torna ad essere la giustificazione profonda della giustizia penale.
Tra queste correnti criminologiche va segnalata la Terza Scuola, il cui obiettivo era
quello di mediare le posizioni delle due Scuole (Classica e Positiva), infatti, da tale ten-
tativo si origina il c.d. sistema del doppio binario, fondato sul dualismo della responsabi-
lità individuale-pena retributiva e della responsabilità sociale-misura di sicurezza.
In ordine, invece, al fondamento del diritto di punire, tale nuovo indirizzo rigetta
il principio positivista della responsabilità sociale, e si accosta alla concezione classica,
incentrando il diritto penale sulla responsabilità del fatto commesso con volontà colpevole e
sull’ imputabilità, ma fonda, quest’ultima, non sul concetto del libero arbitrio, piuttosto
sui concetti di sanità mentale e di normalità (determinismo psicologico).
Per tale principio, l’uomo determina le sue azioni che derivano dal motivo con-
scio più forte. Alimena, a tale proposito, sostiene che, se di fronte alla stessa offesa, uno
uccide ed altri no, ciò avviene perché l’uno vuole uccidere e l’altro non vuole: ciò acco-
muna le tesi dei liberisti e dei deterministi. Il problema di fondo rimane, perché biso-
gnerebbe chiedersi: perché vuole uno, e l’altro non vuole, uccidere? Perché in quel mo-
mento, nell’uno, l’idea omicida costituisce il motivo maggiore, e nell’altro no, e forse
non si è nemmeno presentata?
Evitando dispute filosofiche e psicologiche, molti studiosi di criminologia, han-
no cercato di rappresentare il concetto di imputabilità su basi anche empiriche, dando
corso alla nascita di nuove teorie. In particolare, è stato autorevolmente ritenuto che
la scienza del diritto penale sia in grado di spiegare il tema dell’imputabilità non con-
siderando quale sia la soluzione teorica da prestare al problema filosofico del libero ar-
bitrio. Secondo Antolisei, le fondamentali teorie che hanno cercato di superare l’anti-
nomia tra libertà e causalità sono quelle della normalità, dell’identità personale e della
intimidabilità.
Per la teoria della normalità, l’imputabilità rappresenta la normale facoltà di deter-
minarsi, per cui, imputabile sarebbe solo chi reagisce normalmente, cioè l’uomo sano e
maturo; pertanto, se manca la normalità, è mancante la ragione stessa del punire. Que-
sta teoria è stata sostenuta in particolar modo da Liszt e, recentemente da Nuvolone,
che opera una distinzione tra il concetto di normalità per il diritto penale, da quello pro-
prio della psicologia e della psichiatria. Se, secondo un indirizzo prettamente psicologi-
co, non esiste un discrimen esatto tra normalità e anormalità, e tale impianto si rinviene
nel nostro codice alla distinzione infermità/seminfermità, per il diritto è indispensabile
assicurare un confine al di là del quale inizia la c.d. follia.
Ciò non equivale a sostenere che i soggetti considerati capaci ai sensi del diritto
penale siano conseguentemente normali anche per le altre scienze. Pertanto, continua
Nuvolone, la normalità, per il diritto penale, è la facoltà di intendere gli oggetti della
percezione, con una mente non viziata da infermità, e a un livello di maturità corri-
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La criminologia tra diritto ed evoluzione della società
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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La criminologia tra diritto ed evoluzione della società
che la delinquenza, in aree laddove l’economia e la socialità sono quasi assenti, è trasfe-
rita agli appartenenti delle stesse aree o ai gruppi che in esse transitano, e ciò a causa
delle cosiddette sottoculture criminali.
Non meno calzanti risultano le teorie di Merton, che obiettiva i suoi studi socio-
logici sul concetto di anomia, inteso quale squilibrio tra le mete poste dalla cultura alla
società e i mezzi, di fatto, forniti dalla stessa per conseguirle.
Cloward e Ohlin puntano, invece, la loro attenzione sul ruolo esercitato, nel dive-
nire criminali, dall’appartenenza all’uno o all’altro gruppo sociale.
Anche se di impronta liberale, questi indirizzi sociologici fanno risaltare, al con-
tempo, gli sbilanciamenti presenti nella società capitalistica, ne affermano l’indiscuti-
bilità tale da definire come deviante colui che si allontana dalle regole, ponendosi co-
me obiettivo la reintegrazione di tali individui nell’ambito sociale; per tale motivo, la
criminologia viene definita criminologia del consenso.
Alla criminologia del consenso, si contrappose la criminologia del conflitto che, ri-
prendendo le teorizzazioni sociali e politiche marxiste, ripropose, in chiave rivoluzio-
naria, la soluzione delle problematiche relative ai conflitti di classe. La nuova corrente
di pensiero, che contava al proprio interno marxisti di tutta Europa facenti capo alla
National Conference (Inghilterra 1968), ed un gruppo italiano che faceva riferimento
alla rivista La Questione Criminale, prese il nome di criminologia critica. Questa si pro-
poneva di indagare, non sulle caratteristiche del criminale, bensì sulle ragioni per cui,
una data società, qualifica come devianti certe condotte. La devianza, secondo la crimi-
nologia critica, non è più espressione di inosservanza delle norme, ma viene intesa qua-
le conseguenza dell’oppressione della società capitalistica, che si limita a perseguire, in
particolar modo, le condotte delle classi subalterne, definendole illegittime.
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CAPITOLO 3
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche
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I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche
- caratteristiche del reato: alcuni crimini è più difficile che passino inosservati (omi-
cidi), rispetto ad altri di cui spesso non se ne ha neppure notizia (truffe);
- atteggiamento della vittima: una delle fonti dalla quale emerge la conoscenza dei
delitti commessi è la denuncia della parte offesa, ma non tutte le vittime (o testi-
moni) rendono di dominio pubblico il danno subito;
- atteggiamento degli organi istituzionali: le iniziative di questi ultimi rappresentano
un’ulteriore fonte per l’evidenziazione dei fatti delittuosi. Spesso, però, queste in-
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Criminologia ed elementi di criminalistica
In conclusione, il campo della delittuosità reale è molto più ampio di quello che
convenzionalmente si ritiene, coinvolgendo larga parte della popolazione, e interessan-
do gran parte dei gruppi sociali.
Per crimine si intende qualunque fatto previsto dalla legge come reato che si ma-
nifesta, peraltro, con modalità differenti in funzione della posizione sociale e dei vari
status. Mentre i delitti che costituiscono la delittuosità convenzionale sono, statistica-
mente parlando, appannaggio dei gruppi sociali più squalificati, gli altri gruppi socia-
li commettono reati di diversa natura, che sono in genere quelli meno perseguiti. Co-
sì, ad esempio, un giovane immigrato manifesterà la sua indifferenza verso le norme,
rubando o rapinando in modo convenzionale, mentre il borghese disonesto, esplicherà
la propria antinormatività in settori suoi propri, nelle frodi del commercio, nella cor-
ruzione, e così via. Questi delitti non convenzionali avranno, però, la caratteristica di
comparire nelle statistiche redatte, sulla scorta dei soli delitti perseguiti e giudicati, in
modo poco rilevante rispetto alla loro entità, ingenerandosi, perciò, la erronea convin-
zione che i veri delitti sono quelli convenzionali, e che questi ultimi siano molto più
diffusi degli altri.
b) il metodo sperimentale
Come nel campo delle scienze cosidette esatte, anche in criminologia, si usa il me-
todo rigoroso della sperimentazione controllata. Esso consiste nel mantenere costanti
o controllati tutti i fattori e le condizioni che si ritiene influenzino i risultati dell’espe-
rimento, a eccezione della variabile o fattore ipotizzato come responsabile di deter-
minati comportamenti del soggetto sotto osservazione. Per esempio, alcune ricerche
criminologiche hanno focalizzato l’attenzione sullo sviluppo di diverse forme di tera-
pia farmacologica per ridurre l’aggressività e il comportamento delinquenziale dei mi-
nori. L’applicazione del metodo sperimentale in tale campo implica l’uso di due grup-
pi di soggetti.
L’uno, sperimentale o campione, l’altro di controllo. Entrambi, devono essere simili
per età, quoziente intellettivo, sesso, classe sociale e ogni altra caratteristica associabile
all’aggressività e al comportamento deviante. Al gruppo testato viene somministrato il
farmaco, mentre, al gruppo di controllo viene somministrata, senza che lo sappia, una
sostanza innocua, cioè un placebo.
Successivamente, vengono confrontati i differenti comportamenti aggressivi tra i
due gruppi. Vengono, infatti, svolte determinate misurazioni del comportamento ag-
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I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche
gressivo dopo l’assunzione del farmaco e confrontate con quelle fatte prima del tratta-
mento per entrambi i gruppi. La riduzione delle spinte aggressive e delinquenziali nel
gruppo sperimentale o in una sua parte, confrontate con quelle del gruppo di control-
lo, potrà considerarsi perciò come l’effetto della terapia farmacologica studiata. Nelle
ricerche sperimentali, inoltre, la criminologia, prova varie ipotesi su come due o più
variabili siano correlate ad altre. Anche in questo caso, si mantengono costanti o con-
trollati tutti i fattori considerati significativi per il risultato dell’esperimento (variabili
dipendenti), tranne la variabile indipendente, ipotizzata come determinante il cambia-
mento del soggetto o il comportamento allo studio. Quindi, la ricerca sperimenta-
le, deve utilizzare metodi molto più complessi di altre, poiché i risultati ottenuti po-
trebbero essere dovuti anche a fattori completamente ignorati nella sperimentazione
che potrebbero influenzare, contemporaneamente, i cambiamenti rilevati. Sebbene ta-
le modello metodologico sia considerato come ideale ed estremamente rigoroso, il suo
utilizzo in criminologia è abbastanza limitato, in quanto, può risultare particolarmen-
te costoso in termini di tempo e di economia, soprattutto se il campione e il gruppo di
controllo sono molto numerosi.
c) le metodologie d’inchiesta
d) la tecnica dell’intervista
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Il campione è, pertanto, un sottogruppo del contesto più ampio e deve essere rap-
presentativo di esso, il che significa che deve averne le stesse caratteristiche socio-demogra-
fiche (per es., in una ricerca sulle opinioni della popolazione di Palermo nei confronti
della tossicodipendenza, se il 25% di essa è costituita da soggetti di età superiore ai 49
anni anche il campione dovrà contenere la stessa percentuale di soggetti ultraquaranta-
novenni).
Va, infine, sottolineato che esistono due tipi di intervista: strutturata e semistrut-
turata.
La prima (strutturata) si basa, in effetti, sull’uso di un questionario che consente
di raccogliere sistematicamente un certo numero di informazioni di prima mano dalle
persone scelte per l’indagine. Il documento di base deve essere predisposto in modo ta-
le da soddisfare due esigenze fondamentali: trasformare in domande precise e specifiche
gli obiettivi della ricerca e prevedere l’elaborazione dei dati in rapporto a essi; coadiuvare
l’intervistatore nel preparare l’intervistato a collaborare.
L’intervista semistrutturata, invece, prende le mosse da uno schema di massima
con l’indicazione di aree tematiche obbligatorie. È informale in quanto all’interno di
tali aree, il colloquio si sviluppa in base anche alle risposte dell’intervistato, ed è utile,
soprattutto, per individuare fatti, credenze, sentimenti, criteri di azione, atteggiamenti
e comportamenti passati e attuali.
È, in effetti, dal punto di vista metodologico, molto simile al colloquio in profon-
dità, dove prevale la tecnica della non-direttività, definita anche del colpo di sonda (pro-
bing). Con essa, si provoca una reazione con una domanda-stimolo, posta con grande
apertura e calore comunicativo da parte dell’intervistatore, che consente al soggetto di
esprimere sentimenti e opinioni per i quali assume un atteggiamento difensivo.
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I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche
ricercatore nell’utilizzo dei questionari. Per esempio, molti soggetti preferiscono dare
risposte compiacenti, oppure, rispondono in modo differente alla stessa domanda po-
sta in momenti diversi (domanda di controllo sull’attendibilità); o, ancora, i pregiudi-
zi inconsci dello studioso potrebbero colorare le domande, in modo tale da giungere a
conclusioni predeterminate, senza valore scientifico.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
limitate. Nonostante ciò, diversi criminologi hanno continuato a utilizzare tale tecnica
anche per esaminare lo stile di vita di un singolo delinquente (Geis, 1968; Klockars,
1976; Steffensmeier, 1986).
Nel settore più strettamente sociologico, lo studio del caso si definisce anche storia
di vita, in quanto, descrive un tipo particolare ed emblematico di criminale o di car-
riera criminale, senza pervenire a interpretazioni o spiegazioni specifiche. In Italia, per
esempio, analisi di questo tipo sono state fatte su mafiosi, banditi, terroristi (Ghirotti,
1968; Vergani, 1968; Licausi, 1971; Marrazzo,1984).
L’inchiesta cross-sezionale è quella più diffusamente usata. Fornisce dati circa l’epi-
demiologia del delitto, ed entro certi limiti, sull’eziologia di un comportamento crimi-
nale. Essa comprende un campionamento di un insieme di individui o di gruppi, in
modo da poter generalizzare i risultati ad una più ampia popolazione (detenuti dimessi
dal carcere, studenti di scuola superiore, ecc.). Il campione è preso in un dato momen-
to, i soggetti vengono intervistati o sottoposti a questionario e i dati vengono analizzati.
Numerose critiche sono state rivolte a questa tecnica: in particolare, risulta difficoltoso
isolare gli effetti del trattamento o dei programmi di prevenzione del comportamento
criminale. I gruppi selezionati potrebbero differire tra loro già in precedenza, minando,
in tal modo, la validità interna della ricerca.
h) le indagini individuali
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I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche
lo studio potrebbero non essere rappresentativi della intera popolazione di quegli indi-
vidui o di quei gruppi. Oltre al suo impiego clinico in criminologia, l’approccio dello
studio dei casi è stato anche usato nella forma di storie di vita, osservazione e osserva-
zione partecipante. Il metodo della storia di vita comprende l’analisi di diari, biografie,
autobiografie, come pure interviste, al fine di ottenere una conoscenza profonda di sin-
goli individui o gruppi rappresentativi. Particolare attenzione viene riservata alla storia
individuale come raccontata dal soggetto, all’interpretazione che egli ne fornisce, non-
ché alle sue esperienze e al suo ambiente. L’osservazione e l’osservazione partecipante arric-
chiscono ulteriormente lo studio della vita sociale e della condotta deviante, attraverso
esperienze dirette con il reato e i criminali. Di solito, ciò implica il compilare un diario
dettagliato, magari comprendente anche un certo numero di interviste molto approfon-
dite. Altri ricercatori si avvalgono di registrazioni, fotografie, e così via.
Un inconveniente del metodo dell’osservazione e delle storie di vita è rappresenta-
to dall’estremo coinvolgimento personale richiesto al ricercatore, spesso causa di sgra-
devoli e dannose conseguenze. Contro tutte queste obiezioni, si potrebbe ribattere con
la considerazione che lo studio dei casi e l’osservazione partecipante potrebbero essere
utilizzati nella fase preliminare di ogni ricerca, al fine di arricchire una teoria e giun-
gere alla formulazione di ipotesi più efficaci e alla costruzione di strumenti più appro-
priati.
i) il metodo storico
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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I metodi e le fonti delle conoscenze criminologiche
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CAPITOLO 4
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Criminologia ed elementi di criminalistica
vita. Il secondo tipo, il teppista, non si prefigge alcun fine pratico, o almeno, esso non
è prevalente. Il crimine, per lui, non è un mezzo per raggiungere qualcosa di tangibile,
ma è fine a se stesso. Spesso, infatti, tale tipo di delinquente, appartiene a famiglia ab-
biente che gli soddisferebbe ogni esigenza.
Possiamo, quindi, cosi, sintetizzare le differenze: il primo compie un crimine per
l’utilità che ne può ricavare, mentre il secondo lo compie per se stesso, senza prefiggersi
una vera utilità, e, in genere, è poco curante delle conseguenze. Le azioni dei teppisti,
spesso, appaiono quindi illogiche e stupide. Il primo tipo, infatti, non ha origine nel-
la psicologia propria dell’infanzia, ma è semplicemente il risultato della delinquenza
adulta. Infatti, in questi casi, il minore è aggregato quasi come un apprendista a una
banda criminale, spesso incoraggiato dagli stessi genitori. L’attività criminale non deri-
va da problemi psicologici giovanili, ma dall’ambiente degli adulti in cui vive. Il teppista
minorile, invece, ha la sua origine proprio nell’animo dei ragazzi e sorge come rivolta
all’ordine costituito dei genitori, della società.
Il teddy-boy non ha appoggi nel mondo degli adulti, che lo deridono. La banda
dei delinquenti minorili può essere definita un gruppo che assume valori etici opposti
a quelli della società. I componenti odiano ferocemente tutto quello che è per bene.
Caratteristico è il vandalismo. Cercano di distruggere tutto quello che non appartie-
ne loro, senza nessuno scopo. La banda cerca, poi, di essere autonoma assolutamente
da interferenze esterne. Tale fine ha la chiusura ermetica agli estranei, il segreto che la
circonda. Ma se l’autonomia della banda è assoluta all’esterno, l’autonomia dei singo-
li membri all’interno è scarsissima. È importante da notare che, spesso, tali bande sca-
tenano deliberatamente l’ira di persone e di gruppi di persone per liberarsi dei legami
affettivi che ad essi li legano.
Come si può constatare, i caratteri delle gang sono molto simili a quelli delle ma-
nifestazioni più deleterie del gruppo infantile scolastico.
Naturalmente, nella delinquenza minorile, quei caratteri acquistano ben altra con-
sistenza e gravità, anche se si ritiene che la radice dei due fenomeni sia sostanzialmente
la stessa: lo sbandamento, l’incapacità a inserirsi armonicamente nella società, sia per i di-
fetti di essa, sia per le insufficienze personali, combinati variamente caso per caso. Co-
me il fanciullo, anche l’adolescente, esplode in rivolta contro la società che lo respinge.
Il delinquente minorile non riesce a inserirsi nella società per le più varie ragioni: allora,
per affermare la sua personalità, non gli rimane che aggregarsi a un banda che mostra di
combattere quell’ordine che lo ha respinto e, nella quale, i titoli che gli hanno impedito
di affermarsi rovesciano il loro valore e diventano ambiti titoli di merito.
Per ciò che attiene la delinquenza degli adulti, è necessario evidenziare che il quadro
dei reati in ogni Paese è sottoposto a continui mutamenti: dalle indagini, ma anche da
determinati servizi per la sicurezza pubblica (contrasto del traffico della droga e dello
sfruttamento di esseri umani ridotti in schiavitù, ad esempio), emergono, continua-
mente, delle nuove specificità dei territori, quale riscontro della straordinaria capacità
di adattamento della delinquenza alle occasioni. Si pensi al fenomeno cosiddetto delle
bande in trasferta. Il nomadismo della delinquenza va, inoltre, a rinforzare le tendenze at-
tivistiche della delinquenza locale.
In agglomerati urbani di ridotta ampiezza, la delinquenza è altrettanto presente in
minore intensità, segno che il controllo sociale spontaneo e la capillarità della presen-
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I fenomeni inducenti al delitto
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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I fenomeni inducenti al delitto
ta ha una composizione per sesso ed età diversa da quella italiana, nel senso che è più
giovane ed ha una quota di maschi più elevata. Questo elemento strutturale è di fon-
damentale importanza nell’analisi dei fenomeni criminali, in quanto, il genere e l’età as-
sumono un peso determinante nella propensione al crimine. Seguendo questo metodo,
si potrà verificare, ad esempio, se, a parità di sesso ed età, gli immigrati commettono,
più (o meno) spesso, alcuni reati rispetto agli italiani. L’idea di un rapporto diretto tra il
numero di immigrati presenti e reati commessi è ulteriormente indebolita dal fatto che
non tutte le nazionalità sono egualmente coinvolte in queste attività criminali.
Infatti, vi sono gruppi etnici numerosi che presentano indici di criminosità infe-
riori rispetto a quelli italiani; ovvero, comunità di immigrati che, pur non essendo tra
le più numerose, presentano indici di criminosità molto elevati; e infine, vi sono comu-
nità etniche di particolare consistenza che esprimono una criminalità preoccupante. Il
peso di ciascun gruppo, per di più, varia a seconda del reato e della posizione occupata
nel sistema di stratificazione delle attività illecite: i furti e le rapine vengono compiute
soprattutto dagli ex jugoslavi di entrambi i sessi (spesso minori nomadi), oltre che da
marocchini, algerini e tunisini; lo spaccio di eroina, da marocchini e tunisini (e solo di
recente anche dagli albanesi); il traffico di marijuana da albanesi, quello di cocaina da
sud-americani; lo sfruttamento della prostituzione da albanesi e nigeriani.
Questo aspetto si salda con la necessità di un’analisi di tipo culturale. Non si trat-
ta di compilare pagelle o di distinguere tra buoni e cattivi, né di sostituire lo stereotipo
dell’immigrato criminale con quello di una specifica nazionalità criminale. Si vuole
solo aprire un discorso sul confronto culturale. La tesi è che la criminalità sia un feno-
meno derivato anche da questo processo di confronto, che si verifica quando esso non
è sufficientemente gestito dalle istituzioni, in termini di politiche di promozione e
sostegno nella direzione dell’accoglienza e dell’integrazione. Il confronto può essere,
di fatto, più difficile per gli immigrati che provengono da alcune aree geografiche, in
quanto più complesso il processo di interazione tra la nostra cultura e quella di questi
gruppi. È chiaro che quando si parla di cultura, si fa riferimento a qualcosa di dinami-
co, che si sviluppa: l’immigrato, porta con sé non solo usi religiosi, familiari, alimentari
che perdurano nel tempo, ma, anche, atteggiamenti e opinioni che maturano nella si-
tuazione storica del Paese di origine.
In questo senso, isolare le nazionalità più produttive dal punto di vista criminale
non vuol dire proporre discriminazioni e chiusure selettive, bensì, indicare quelle com-
ponenti a maggior rischio criminale, in quanto, una situazione di protratta illegalità
nel Paese di origine può essere alla base di una maggiore propensione a comportamenti
aggressivi o violenti.
I dati disponibili, inoltre, dimostrano che la criminalità è appannaggio principal-
mente di chi si trova nel nostro Paese in una situazione di irregolarità: ad esempio, sul
totale dei cittadini extracomunitari denunciati per vari delitti, quelli senza permesso di
soggiorno sono oltre il 70%, per le lesioni volontarie, il 75% per gli omicidi, l’85% per
i furti e le rapine. Non v’è dubbio che la condizione di irregolarità crei le condizioni fa-
vorevoli al verificarsi di eventi criminosi; in primo luogo, perché costituisce un limite
all’inserimento nel circuito socio-economico legale; in secondo luogo perché l’irregola-
rità porta con sé la produzione di alcuni reati quali la falsità, la resistenza all’arresto, le
false generalità ecc. Inoltre, se si considera che una parte degli irregolari è composta dai
73
Criminologia ed elementi di criminalistica
clandestini, sarà facile immaginare che l’immigrato irregolare, già all’ingresso, o al mo-
mento dello scadere del permesso di soggiorno o del visto, entri in contatto con realtà
criminali che gli forniscono servizi di vario genere. Questo aspetto è particolarmente
importante perché spiega i rapporti di soggezione che legano gli immigrati ai gruppi
malavitosi organizzati che si occupano del traffico di migranti, della successiva gestione
degli stessi e, soprattutto, del loro conseguente inserimento nei circuiti della devianza
a tutti i livelli. Non vi è dubbio, infatti, che in questo traffico siano ravvisabili consi-
stenti interessi di gruppi criminali internazionali che gestiscono l’organizzazione del-
l’immigrazione in tutte le sue fasi: dal reclutamento nel Paese di origine al transito nei
diversi Paesi lungo il viaggio; dal reperimento di passaporti e documenti falsi al trasfe-
rimento e alla sistemazione iniziale nelle aree di destinazione. Ma, come avviene con
la droga, gli immigrati, al loro arrivo, trovano un’organizzata rete criminale pronta ad
accoglierli, destinarli, e inserirli in circuiti illeciti paralleli.
Dunque, se molti elementi possono suffragare l’ipotesi che esiste un rapporto di-
retto tra aumento dell’immigrazione ed aumento della criminalità, altri inducono a dubi-
tare della sufficienza delle basi scientifiche di tale tesi.
Finché si continuerà ad affermare che la delinquenza straniera aumenta in rap-
porto diretto con l’intensificarsi dell’immigrazione, e che gli stranieri delinquono più
dei nostri connazionali, si enunceranno delle verità generiche che non aiutano a capi-
re, veramente, quali dinamiche sociali siano in atto, e che certamente non aiutano ad
individuare strategie per la risoluzione del problema. Oggi, infatti, i fattori di spin-
ta all’immigrazione e l’orientamento dei flussi si presentano fortemente condizionati
dagli interessi criminali che hanno sfruttato i momenti di crisi della società civile ed
hanno modificato, di fatto, i rapporti tra immigrazione e criminalità. Normalmente,
coloro che sostengono che gli immigrati provocano un aumento delle forme di de-
vianza forniscono tre prove che considerano inconfutabili: a) gli immigrati sono coin-
volti nelle attività illecite del traffico e dello spaccio della droga; b) immigrate sono
le donne che esercitano la prostituzione sulle strade; c) gli immigrati sono fortemen-
te rappresentati nelle statistiche giudiziarie. Se le prime due affermazioni sono sicu-
ramente efficaci, in quanto fanno riferimento a realtà di immediata percettibilità da
parte dell’opinione pubblica, il terzo argomento, invece, necessita di alcune conside-
razioni. La valutazione quantitativa della criminalità straniera si fonda su dati rela-
tivi a situazioni differenti, quali il numero degli stranieri entrati nelle carceri, degli
arrestati, dei denunciati, dei condannati e dei detenuti. Le diverse rilevazioni, che do-
vrebbero costituire il termine di confronto con la criminalità degli italiani e misurare
il grado di incidenza sulla criminalità complessiva nel nostro Paese, in realtà, eviden-
ziano numerose lacune e forniscono un quadro parziale e distorto del rapporto im-
migrazione-criminalità. Vi sono, infatti, molte buone ragioni per ritenere questi dati
come i meno affidabili tra gli indicatori dei reati commessi dagli stranieri. Tra i fattori
distorsivi, basti ricordare la proliferazione dei dati quantitativi in riferimento allo stes-
so individuo e la difficile attribuzione temporale dei fatti delittuosi. Per quanto riguar-
da il primo punto, vi è da dire che, per il censimento dei dati provenienti dalle diverse
istituzioni (Ministero dell’Interno, Ministero di Grazia e Giustizia, ecc.), non è previ-
sto, ad oggi, un sistema per eliminare l’inconveniente di segnalare un episodio di recidi-
va come fatto riferito ad un soggetto diverso. L’omessa rilevazione dei fatti commessi
74
I fenomeni inducenti al delitto
dalla stessa persona produrrà, dunque, l’effetto di gonfiare i dati quantitativi delle di-
verse rilevazioni.
Quanto al secondo punto, occorre precisare che non tutti i dati riescono a stabili-
re una connessione temporale tra l’evento criminoso e il momento repressivo: ad esempio,
mentre i dati sui denunciati si riferiscono, di norma, ai soggetti segnalati per fatti av-
venuti nell’anno di riferimento, quelli relativi alle condanne, viceversa, si riferiscono a
manifestazioni criminose verificatesi anche negli anni precedenti. La conseguenza è che
solo attraverso alcuni dati è possibile rilevare la fenomenologia criminale nell’anno pre-
so in considerazione. Più in generale, l’imprecisione della rilevazione della criminalità
degli immigrati non dipende solo da fattori di distorsione, ma anche dall’eterogeneità
dei dati, dalla mancanza di razionalità e di selezione qualitativa degli stessi, dalla man-
canza di indici-standard di rilevazione. Spesso, si è in presenza di indagini campionarie,
poi proiettate a livello nazionale. Manca un confronto tra le rilevazioni effettuate dal-
le diverse istituzioni; manca un censimento della titolarità o meno di un permesso di
soggiorno in capo al soggetto della rilevazione; manca un censimento del numero degli
stranieri come persone offese dal reato. Tutte carenze, queste, che inficiano la corretta
comprensione della realtà che si va a studiare.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Sul primo elemento, si ritiene che, pur in presenza di un tasso di criminalità in lie-
ve ma costante aumento, negli ultimi anni, questo non appare sufficiente a giustifica-
re l’aumento dell’insicurezza generale e lo spropositato allarme sociale che crea. I dati
statistici rivelano, anche, un altro aspetto interessante: in Italia, è la medio-alta bor-
ghesia, la fascia sociale che risulta più a rischio di rimanere vittima dei reati, per con-
tro, l’insicurezza e la paura di rimanere vittima di reati è più diffusa negli strati sociali
poveri, nonostante le statistiche indichino, in questa categoria, una minore diffusione
dei fenomeni criminali, mentre, ad esempio, negli Stati Uniti, la situazione è completa-
mente rovesciata, in quanto, le statistiche sulla criminalità indicano una maggiore dif-
fusione nella popolazione più povera ed emarginata.
Il crescente divario tra le diverse aree del Paese, la disoccupazione strutturale di
massa, l’emergere di aree sempre più consistenti di povertà ed emarginazione, l’incre-
mento dei flussi migratori, la riduzione dei sentimenti di solidarietà, la crescita del-
l’esclusione sociale, la criminalità indotta e l’aumento della microcriminalità defini-
scono un contesto in cui è facile prevedere sia l’aumento di fenomeni di criminalità,
che l’intreccio sempre più stretto tra questione criminale e questione sociale.
Lo sviluppo urbanistico, in questi anni, ha fortemente risentito dell’aumento di
questi fenomeni. Gli stessi spazi urbani stanno assumendo una fisionomia nuova; da
una parte, assistiamo alla configurazione di spazi in cui prevale la tendenza alla co-
struzione di quartieri-fortezza, ove i nuovi ricchi vivono protetti da sistemi di allarme
sofisticati e da polizie private. Dall’altro, crescono, sempre più, aree di città blindate,
abitate da nuovi poveri, zone che tendono a diventare dei moderni ghetti.
Una città blindata alimenta il sentimento d’insicurezza che si esplicita, non solo
nella paura di rimanere vittima di azioni delittuose (furti, scippi, borseggi ecc.), ma,
anche, delle diverse forme in cui si diffonde il disagio urbano.
La sociologia moderna ha messo in luce il nuovo concetto di povertà, non più intesa
come la mancanza di beni primari di consumo, ma come assenza di strumenti, ad esem-
pi tecnologici, che interagiscono con la vita quotidiana.
76
I fenomeni inducenti al delitto
presenta uno degli strumenti attraverso cui viene svolto il controllo sociale, anche se
non è l’unico. Il diritto viene considerato come potere, ed esercitato per mezzo dello
strumento dell’interdizione, cioè l’imposizione di un divieto o un obbligo (il precetto)
e la reazione alla trasgressione (la sanzione); tenuto conto che il diritto interviene nei
settori più importanti della vita associata, questo non implica, in linea di principio,
che sia effettivamente il precetto, con la relativa sanzione, posto per legge, ad assicura-
re la conformità alla norma nei soggetti cui questa si rivolge. Si pone, però, un doppio
problema: da un lato, il diritto non è l’unico agente del controllo sociale, cui, al con-
trario, sembrano funzionali anche meccanismi persuasivi oltre che coercitivi; dall’altro
lato, il diritto stesso, la sua nascita ed il suo funzionamento concreto, sono immersi nel
contesto socio-culturale, in cui un precetto assume vigore, cosicché, è possibile arriva-
re a distinguere tra la sfera della validità di una norma giuridica e la sfera della sua ef-
fettività.
Il tema dell’efficacia delle norme giuridiche e del loro funzionamento effettivo
rappresenta un impegno classico della sociologia giuridica; essa, studierebbe la società
nel diritto, cioè la realtà concreta del fenomeno normativo, quella sorta di diritto libero
che è il comportamento umano, più o meno difforme rispetto alle norme giuridiche,
sempre pronto, nella prassi di tutti i giorni, a ricodificarle.
Più precisamente, la sociologia giuridica, così intesa, andrà ad occuparsi di tutto
quell’insieme di comportamenti che:
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Da ciò si comprende come il potere necessiti di diventare potere creativo e non re-
pressivo, coinvolgendo gli uomini nel meccanismo del potere stesso; ciò non equivale
a dire che il potere debba essere democraticamente diviso – in forma piramidale – ar-
rivando sino alla base, ma, al contrario, è connaturato da relazioni che, interamente
sommate, costituiscono un enorme processo d’interazione, attraverso il quale le nostre
società (in maniera più o meno conflittuale, con maggiori o minori resistenze) costrui-
scono dei significati condivisi in grado di orientarne l’azione sociale. Lo stesso Gramsci
sottolineva la necessità di comprendere i meccanismi dei poteri moderni, a partire da
una riconsiderazione del concetto di diritto. Più in generale, il concetto stesso di Stato
che Gramsci formula è composto da un misto di forza e consenso, coercizione − auto-
rità − e capacità di creare consensi mobilitando le forze sociali − egemonia. Secondo la
visione gramsciana, lo Stato, esplica inoltre, un compito educativo che ha sempre il fine
di creare nuovi e più alti tipi di civiltà, di adeguare la civiltà e la moralità delle più vaste
masse popolari alla necessità del continuo sviluppo dell’apparato economico di produ-
zione, quindi di elaborare anche fisicamente dei nuovi tipi di umanità.
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CAPITOLO 5
L’imputabilità
79
Criminologia ed elementi di criminalistica
grado di lasciarsi motivare dalla minaccia stessa. Allo stesso modo, se l’esecuzione in
concreto della pena deve tendere alla rieducazione del reo, è necessario che il condan-
nato sia in grado di cogliere il significato del trattamento punitivo.
Tale motivabilità normativa non è presente allo stesso modo in tutti gli individui.
La categoria della imputabilità trova in ultima analisi il suo fondamento nel principio
della libertà dell’uomo. Il contenuto di tale libertà è stato interpretato da diverse con-
cezioni paradigmatiche. Il principio della libertà del volere è un postulato necessario
al diritto penale, in particolare per giustificare la pena in senso retributivo, per cui la
pena trova la sua giustificazione solo attraverso il riconoscimento della libertà dell’uo-
mo. Senza tale libertà di scelta, nel senso di libertà psicologica del soggetto di agire in
un senso piuttosto che in un altro, la nozione di colpevolezza, quale rimproverabilità,
diventa priva di significato, poiché non è logicamente possibile rimproverare a qualcu-
no di aver commesso un dato fatto se era necessitato a farlo. Il giudizio di rimprovero
suppone la libertà di agire.
La giurisprudenza, ha, in parte, condiviso tali affermazioni, ritenendo moralmente
e penalmente imputabile ogni uomo la cui autodeterminazione, risultante dall’intelletto e
dalla volontà, non sia impedita o turbata dall’organismo corporeo e psichico dell’agente; per
cui, il delitto è penalmente perseguibile ogni qualvolta sia dovuto non a malattia del
corpo o della mente, bensì a deviazioni del sentimento e al male dello spirito.
Analogo trattamento viene riservato ai soggetti psicopatici, i quali, a parere della
Cassazione, sono anormali nel carattere e come tali pienamente imputabili, e ciò in quan-
to sono in possesso di quelle condizioni psico-biologiche richieste dalla legislazione vigente
affinché l’azione del soggetto venga ritenuta come causa eticamente e psicologicamente vo-
luta dal soggetto.
Attualmente, il paradigma più osservato, non solo in Italia, è quello che è stato
definito di relativo indeterminismo. Questo modello è stato in prevalenza assunto an-
che dalla giurisprudenza più recente, che ha affermato che la capacità di volere indica
l’attitudine del soggetto ad autodeterminarsi in relazione ai normali impulsi che motivano
l’azione.
Secondo tale orientamento, ciò che rileva sono i processi psicologici di motiva-
zione alla condotta, indipendentemente da un giudizio di responsabilità eticamente
fondata sulla capacità di distinguere il bene dal male. L’imputabilità penale deve esse-
re intesa come attitudine del soggetto a valutare il significato e gli effetti della propria con-
dotta, ad autodeterminarsi nella selezione dei molteplici motivi. È questo l’orientamento
suggerito dallo stesso codice Rocco per il quale, perché sussista la imputabilità morale,
occorre la facoltà di scelta.
In tal senso, il libero arbitrio, inteso quale capacità di discernere, di selezionare i
motivi e di inibirsi, acquista un significato più vivo.
L’art. 85 c.p. dopo aver sancito che nessuno può essere punito per un fatto preveduto
dalla legge come reato, se al momento in cui lo ha commesso non era imputabile, stabilisce
che è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere.
Lo stesso articolo regola la generica capacità di agire nel campo penale, senza rife-
rimento ad un determinato fatto concreto, ossia, nella imputabilità, la volontà è con-
siderata al momento della possibilità, mentre, nella effettiva responsabilità penale, la
volontà è considerata nel momento della sua attuazione.
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L’imputabilità
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Criminologia ed elementi di criminalistica
giudizio di valore (espresso dalla norma) che impone l’inflizione di un castigo. Per cui,
la rivolta contro l’ordine giuridico si compie nella specifica dimensione individuale in
cui viene sentita l’importanza dei valori tutelati e della pretesa normativa.
I fondamenti del diritto penale consentono di giungere ad una conclusione di to-
tale e reciproca indipendenza concettuale. Il giudizio di imputabilità, infatti, riguarda
la irrogabilità della pena, mentre la colpevolezza si riassume in due passaggi fondamen-
tali, l’attribuibilità del fatto-reato e la riprovazione che ne deriva, la quale legittima la
soggezione a pena. Infatti, fra quelle azioni che, in quanto coscienti e volontarie, sono
attribuibili all’agente, potranno essergli imputate solo quelle commesse in uno stato di
capacità di intendere e di volere. L’anima originaria della colpevolezza resta, quindi, la
paternità del fatto quale responsabilità in senso meccanicistico, restando impregiudi-
cate la punibilità del soggetto sano e maturo, e la non punibilità del soggetto insano e
non maturo, e come tale non rimproverabile. Come tale, quindi, la colpevolezza è ri-
portabile a tutte le persone fisiche. Infatti, anche prescindendo dalle ipotesi specifiche
indicate agli artt. 222 e 224 c.p., è accertato che meccanismi psichici di rappresentazio-
ne e di volizione agiscono, comunque, nella mente del non-imputabile, anche se tratta-
si di meccanismi abnormi e distorti. Ed il compiuto giudizio di incapacità, presuppone
che tali meccanismi siano stati individuati anche in relazione al fatto.
Ai sensi dell’art. 85 c.p., perché un soggetto sia imputabile e quindi punibile, oc-
corre che abbia la capacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto.
La giurisprudenza di legittimità ha ribadito che delle tre facoltà psichiche, cioè, senti-
mento, intelligenza e volontà, che caratterizzano l’azione nel suo lato subiettivo, il codi-
ce penale, ai fini della imputabilità, e quindi anche della infermità di mente, prende in
considerazione soltanto le ultime due, e non la prima: pertanto, le anomalie del carat-
tere e l’insufficienza di sentimenti etico-sociali non possono essere di per se stesse con-
siderate indicative di infermità di mente, ove ad esse non siano associati disturbi nella
sfera intellettiva o volitiva di indubbia natura patologica.
La capacità di intendere è stata definita, in dottrina, come la idoneità del soggetto
a conoscere, comprendere e discernere i motivi della propria condotta e, quindi, a valutare
questa, sia nelle sue relazioni col mondo esterno, nonché nella sua portata e nelle sue
conseguenze; in breve, a rendersi conto del valore sociale delle proprie azioni. Ciò non
ha nulla a che vedere con la coscienza della illiceità penale del fatto. La capacità di vole-
re è l’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con la possibilità di op-
tare per la condotta adatta al motivo che appare più ragionevole e, quindi, di resistere
agli stimoli degli avvenimenti esterni: più brevemente, è la facoltà di volere ciò che si giu-
dica doversi fare. Il concetto di capacità di intendere esprime, dunque, l’attitudine alla
comprensione corretta della realtà, la quale, è il risultato di funzioni variabili per quan-
tità e qualità, da individuo a individuo, o anche nella stessa persona, a seconda degli sta-
di e stati di vita. L’apprezzamento e la graduazione della capacità di intendere implica-
no una valutazione dell’intelligenza e, quindi, un’analisi dei suoi vari fattori: il grado di
comprensione, l’astrazione, l’ideazione, il giudizio, il pensiero logico, la capacità critica, la
rappresentazione simbolica, l’associazione di idee, l’immaginazione.
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L’imputabilità
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Criminologia ed elementi di criminalistica
L’utilizzazione di tali contributi in sede giuridica non può tuttavia essere mecca-
nica. Innanzitutto, diverse sono le finalità del diritto penale rispetto a quelle della psi-
chiatria. Nel diritto penale, la ricostruzione di determinate condizioni soggettive è in
prevalente funzione dell’assoggettabilità a pena e del tipo di trattamento sanzionatorio
che deve applicarsi.
In psichiatria, invece, l’accertamento delle medesime condizioni è preminente-
mente in funzione della terapia. È ovvio, quindi, che le medesime situazioni natura-
listiche possano avere rilevanza diversa, a seconda che vengano prese in considerazio-
ne nell’ambito giuridico o in quello psichiatrico. Nella prospettiva psichiatrica, tutte
le alterazioni mentali classificabili secondo gli schemi della nosografia ufficiale, sono
considerate e trattate come malattie mentali.
Il giudice penale, sulla base di una valutazione diversamente orientata, potrebbe
invece disconoscere a quei disturbi psichici rilevanza giuridica di infermità di mente. È
infatti possibile che alterazioni mentali, classificabili come malattie in senso psichiatri-
co, siano giuridicamente irrilevanti come infermità, per non aver influito sulla capacità
di intendere e di volere. Infatti, ai fini del giudizio di non imputabilità, non basta l’ac-
certamento della infermità, ma, occorre che vi sia una connessione tra questa e l’inca-
pacità di intendere e di volere al momento del reato.
Nella normativa attuale, l’oggetto del giudizio di imputabilità passa attraverso due
fasi:
La giurisprudenza, ai fini del giudizio di cui agli artt. 88 e 89 c.p., deve, quindi,
richiamarsi al concetto di infermità elaborato dalle scienze psicopatologiche. Ma queste
scienze sono caratterizzate dalla presenza di differenti paradigmi, ciascuno dei quali defi-
nisce in maniera diversa il concetto di malattia mentale. Ciò individua una delle ragioni
della situazione di disagio e di incertezza in cui è venuta a trovarsi la giurisprudenza.
È possibile, quindi, rintracciare orientamenti giurisprudenziali contrastanti, a se-
conda del paradigma psicopatologico, di volta in volta, assunto, quale parametro valu-
tativo del disturbo psichico.
I tre paradigmi fondamentali di definizione della malattia mentale sono:
a) quello medico;
b) quello psicologico;
c) quello sociologico.
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L’imputabilità
psichico trovi riscontro in una deficienza organica. Allo stesso paradigma vanno ascrit-
te quelle decisioni che, pur non facendo riferimento alla causa organica della malattia
mentale, affermano la necessità che l’alterazione biologica sia almeno riconducibile alle
classificazioni nosografiche elaborate dalla psichiatria. In tale ottica, la giurisprudenza
ha ritenuto di escludere dalla nozione di infermità: i difetti del temperamento; i vizi del
sentimento, morali o sociali, che non siano conseguenti a una malattia clinicamente ac-
certata e catalogata dalla nosologia psichiatrica.
Tuttavia, non tutti i disturbi psichiatricamente catalogati possono essere consi-
derati infermità rilevanti ex art. 88 c.p. Infatti, le nevrosi e le psicopatie non esclude-
rebbero la capacità di intendere e di volere. In tali casi, la ragione della non rilevanza
ai fini della incapacità affonda le proprie radici in considerazioni politico-criminali di
natura general-preventiva. Seguendo tali criteri, la giurisprudenza ha eletto la psicosi a
tipologia esponenziale del vizio di mente, ritenendo che la nozione giuridica di infer-
mità, rilevante per l’esclusione o la diminuzione della capacità di intendere e di volere,
è compiutamente integrata nell’ipotesi di accertata malattia di mente in senso medico-
legale, con tale espressione facendosi riferimento a quelle alterazioni psichiche che la
scienza psichiatrica definisce psicosi e che prendono vita da processi morbosi somatici,
siano essi noti, come nelle cosiddette psicosi organiche, ovvero ignoti ma comunque
postulati, come nelle cosiddette psicosi endogene (schizofrenia e psicosi maniaco-depres-
siva), alle prime assimilate in relazione al quadro psicopatologico e alle caratteristiche
nosografiche che presentano.
Non mancano, tuttavia, sentenze che, pur ancora riconducibili al paradigma me-
dico, ritengono sufficiente, per riconoscere il vizio totale o parziale di mente, l’esistenza
di uno stato o processo morboso, indipendentemente dall’accertamento di un suo sub-
strato organico o da una sua classificazione nella nosologia psichiatrica.
Tale prospettiva può essere definita psicopatologica, ed in tale ottica, la Cassa-
zione ha precisato: l’infermità mentale rilevante ai fini dell’imputabilità deve sempre
dipendere da una causa patologica e, quindi, esulano dalla nozione di essa quelle ano-
malie caratteriali e altre anomalie del comportamento che, pur influendo sul processo
di determinazione o inibizione, non siano conseguenti ad uno stato patologico suscet-
tibile di alterare la capacità di intendere e di volere, intesa quale attitudine del soggetto
a valutare il significato, gli effetti della propria condotta e autodeterminarsi nella sele-
zione dei molteplici motivi.
Alla prospettiva psicopatologica è riconducibile anche l’orientamento che vede nel
criterio del valore di malattia il parametro di riferimento per riconoscere efficacia scu-
sante ai disturbi psichici abnormi, non inquadrabili nelle psicosi e ai limiti della salute
mentale.
All’orientamento della giurisprudenza fondato sul paradigma medico, si contrap-
pone quello fondato sul paradigma cosiddetto psicologico. In esso, si possono far rientrare
quelle sentenze che affermano la necessità di una concreta valutazione del disturbo psi-
chico, e che rifiutano riferimenti e classificazioni scientifiche enunciate in astratto. Si
sostiene infatti che, per la sussistenza del vizio di mente, non è sufficiente che il giudice
riconduca l’azione dell’imputato sotto un modello di infermità apoditticamente affer-
mato, ma è necessario che lo stesso indichi i dati anamnestici, clinici, comportamentali
o sorgenti dalle stesse modalità del fatto, rilevatori dell’asserito quadro morboso.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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L’imputabilità
so, divenendo così l’emozione spinta positiva che concretizza l’azione ragionata, altre
volte, invece si scindono, potendo l’emozione causare un’azione non voluta o, addirit-
tura, non condivisa dalla ragione. Affermava, pertanto, che un’azione umana nasce da
un desiderio emozionale, oppure dalla consapevolezza di ciò che è bene, ma se l’armo-
nia tra desiderio e consapevolezza viene meno, sarà inevitabilmente la passione a pren-
dere il sopravvento. L’istintualità dell’essere umano è rappresentata dalle emozioni che
non rientrano nella sfera della ragione; ciò viene confermato anche dal fatto che due
diversi soggetti, di fronte a un’identica situazione che sia di una certa valenza affettiva,
potranno reagire con modalità completamente diverse, a seconda dell’impianto carat-
teriale; ciò equivale a dire che l’emozione va studiata nelle sue modalità di integrazione
nella struttura della personalità.
Ferracuti definisce l’emozione quale intenso turbamento affettivo di breve durata
e in genere di inizio improvviso, provocato come reazione a determinati avvenimenti,
e che finisce col predominare sulle altre attività psichiche (ira, gioia, paura, spavento,
afflizione, sorpresa, vergogna, piacere erotico, ecc).
La passione è uno stato affettivo violento e più duraturo, che tende a predominare
sull’attività psichica in modo più o meno invadente o esclusivo, sì da comportare, talo-
ra, alterazioni della condotta, che può divenire del tutto irrazionale per difetto di con-
trollo. Ad essa sono riconducibili certe forme di amore sessuale, di odio, di gelosia, di
cupidigia, di entusiasmo, di ideologizzazione politica.
In termini giuridici, l’art. 90 c.p. recita che gli stati emotivi e passionali non esclu-
dono né diminuiscono l’imputabilità. Come appare evidente da tale dettato, ai fini del-
l’imputabilità, le alterazioni dell’affettività sono ritenute irrilevanti, a meno che, non
sottendano una comprovata infermità o seminfermità di mente, nel senso che una ma-
nifestazione dell’animo, per quanto violenta possa essere, non diminuisce la responsa-
bilità dell’individuo, fino a quando è espressione di una psiche normale, ovvero per-
fettamente in grado di controllare i propri impulsi, in quanto soltanto la malattia è
veramente idonea a conferire la certezza o quanto meno consentire un motivato giudi-
zio di inimputabilità al momento del fatto.
Nozione e fondamento dell’imputabilità è l’art. 85 del codice penale, esso costitui-
sce sicuramente uno dei cardini del diritto penale italiano. Nell’articolo in questione, si
fa, quindi, riferimento all’uomo nel suo complesso, dotato della facoltà di saper valuta-
re le possibili conseguenze del proprio agire e d’altra parte, di porre la propria volontà
quale inizio e causa dell’azione stessa. In altre parole, la capacità di intendere e di volere
può essere considerata come capacità di decidersi secondo ragione, libertà di autodetermi-
narsi razionalmente.
Il presupposto dell’imputabilità è, quindi, la libertà che va intesa non come liber-
tà di poter delinquere impunemente, bensì come libertà responsabile, ossia come as-
sunzione di responsabilità rispetto alle proprie azioni liberamente deliberate. Potrem-
mo dire che la responsabilità di ogni singolo uomo, soggetto ed oggetto di diritto,
risiede nel comprendere il valore dei propri atti, essendo tale responsabilità effettiva so-
lo in caso di maturità psichica e sanità mentale, consistendo l’imputabilità, in un modo
d’essere dell’individuo, uno status della persona, e deve sussistere nel momento in cui il
soggetto ha commesso il reato. Ciò impone, pertanto, una discriminazione, intesa in
senso psichico, tra soggetti normali ed anormali, ossia consapevoli o inconsapevoli al
87
Criminologia ed elementi di criminalistica
momento del reato. L’insorgenza di uno stato emotivo o passionale, in un soggetto au-
tore di reato non inficia l’imputabilità dello stesso, in quanto, in tal caso, manca il pre-
supposto dell’anormalità psichica.
Afferma il Beltrani: “dall’infermità di mente, vanno distinti gli stati emotivi (tur-
bamenti improvvisi e passeggeri della psiche del soggetto) e passionali (odio, amore, ge-
losia, ecc.), che non escludono né diminuiscono l’imputabilità (art. 90 c.p.), ma posso-
no, al più integrare gli estremi delle attenuanti di cui ai commi 2° (l’aver agito in stato
d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui) e 3° (l’avere agito per suggestione di una
folla in tumulto) dell’art. 62 c.p.”.
È opportuno sottolineare che, perché si possa riconoscere la circostanza attenuan-
te di cui al comma 2°, il citato stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui, de-
ve essere uno stato d’animo strettamente correlato e direttamente dipendente dal fatto
che lo ha causato e deve, soprattutto, possedere il carattere dell’immediatezza; ciò signi-
fica che non deve essere confuso con l’odio, la stizza o il risentimento, che subentrano
col passare del tempo all’originaria emozione e fanno maturare in un animo divenuto
pacato il desiderio della vendetta. Per quanto attiene al comma terzo, la circostanza di
avere agito per suggestione di una folla in tumulto va valutata con una particolare ana-
lisi; non è però applicabile se si tratti di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o
dall’Autorità, e se il colpevole è delinquente abituale o professionale.
Discorso a parte merita la gelosia, che si configura come stato emotivo originante
dall’amore tradito, realmente o solo fantasticamente, che nella storia della nostra legi-
slatura ha per decenni consentito la riduzione della pena del colpevole sotto il nome
di delitto per causa d’onore, in virtù dell’ormai abrogato art. 587 del c.p. che stabiliva:
“chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne
scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata
all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stes-
sa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in
illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”. L’art. 90 c.p.,
ponendosi in evidente contrasto con quanto affermato dall’art. 587 c.p., eliminava la
causa d’onore dalle attenuanti previste per il delitto di omicidio, in quanto stati emoti-
vi come l’ira e stati passionali come l’amore, l’odio o la gelosia non diminuiscono l’impu-
tabilità. Questo, però, sempre a patto che si tratti di stati d’animo che rispecchiano
un’affettività normale, in quanto altrimenti si sconfina nel vizio di mente.
Anche qui è necessario operare una distinzione tra gelosia normale e gelosia patologi-
ca ai fini dell’erogazione o meno della pena, anche se spesso, distinguere tra una forma
e l’altra si dimostra una mera speculazione, risultando molto arduo stabilire in qual mo-
mento dalla gelosia cosidetta normale si travalichi in quella certamente patologica, e quali
segni possano rilevare in quest’ultima l’insorgere di elementi di pericolosità.
Con l’art. 90 del codice penale, il legislatore, negando ogni qualsivoglia signifi-
cato di tutto ciò che possa essere attitudine o habitus comportamentale, vuole così af-
fermare l’inconsistenza della sfera affettiva e caratteriale ai fini dell’alterazione della ca-
pacità di intendere e di volere e, quindi, della negazione dell’imputabilità. Nasce così
l’esigenza di un’indagine psichica del reo, esperita di concerto dal medico-legale e dallo
psichiatra, in sede giudiziaria, per appurare se l’azione compiuta possa considerarsi con-
sona rispetto alla personalità dell’autore, oppure rivelatrice di una frattura della stessa,
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L’imputabilità
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l’art. 91 c.p.; salvo ammettere che il giudice possa ugualmente farvi ricorso, qualora do-
vesse ritenere l’agente pericoloso sulla scorta di un accertamento condotto ai sensi degli
artt. 202 e 203 c.p. Non fa scemare, né esclude l’imputabilità, l’ubriachezza volontaria
o colposa, ovvero l’ebbrezza contratta con il proposito di ubriacarsi, o colposa, cioè vo-
lontaria nella causa anche se involontaria nell’effetto.
L’art. 92 primo comma c.p. statuisce che l’ubriachezza non derivata da caso fortuito
o forza maggiore non esclude né diminuisce l’imputabilità; l’art. 93 c.p. estende poi tale
disciplina anche al soggetto che agisca sotto l’azione di sostanze stupefacenti volonta-
riamente o colposamente assunte.
Tale disciplina si è posta in aperto contrasto con quanto invece era previsto dal co-
dice Zanardelli che, all’art. 48, stabiliva forti diminuzioni di pena per il delitto commes-
so in stato di ubriachezza volontaria, e una circostanza attenuante per il reato commesso
in stato di ubriachezza abituale. Le dispute sorte in dottrina riguardano anzitutto il tito-
lo della responsabilità per il reato commesso. Le soluzioni prospettate sono state varie:
dalla responsabilità oggettiva alla responsabilità a titolo di colpa, dalla responsabilità a ti-
tolo di dolo o colpa in base all’atteggiamento psichico del soggetto nel momento in cui
si è ubriacato, alla responsabilità, sempre a titolo di dolo o colpa, ma sulla base dell’ele-
mento psicologico che ha sorretto il fatto commesso nello stato di ubriachezza.
Una parte della dottrina meno recente, riproponendo lo schema dell’actio libera
in causa, sosteneva che per accertare l’elemento psicologico del reato commesso dal-
l’ubriaco, occorresse risalire al momento nel quale egli si pone in stato di ebrietà: per
cui, se egli si è ubriacato intenzionalmente, risponderà a titolo di dolo; se si è ubriacato
per imprudenza o negligenza, risponderà a titolo di colpa. Ad esempio, se Caio parteci-
pando ad una allegra cena con alcuni amici non riesce a controllarsi nel bere e finisce,
suo malgrado, col perdere l’autocontrollo, ove provochi più tardi la morte di una per-
sona, risponderà, comunque, di omicidio colposo.
Ciò si verifica sia che l’evento letale consegua a un involontario incidente stradale
dovuto ad eccesso di velocità, sia che esso derivi da una decisione volontaria influenza-
ta proprio dallo stato di ubriachezza (Caio, in preda all’alcool, non riesce a controllare
lo scatto d’ira che lo spinge ad uccidere il commensale che lo prende in giro per scher-
zo). Per spiegare la ratio essendi della responsabilità nelle suddette ipotesi, si è fatto rife-
rimento alla categoria non dogmatica della actio libera in causa, elaborata dalla teologia
morale, per inquadrare le ipotesi in cui, pur mancando la libera volontà nel momento
dell’atto esteriore, il peccato sussiste ugualmente, in quanto può essere riportato ad un
precedente libero atto del volere.
Si è obiettato che, in tal modo, si confonde lo stato psicologico che provoca la con-
dizione di ubriachezza con quello che accompagna e provoca la successiva commissione
dello specifico reato. Una tale impostazione, inoltre, rischia di punire come colposi delit-
ti commessi volontariamente (come nell’esempio prima riportato di Caio che uccide il
commensale) e, viceversa, di punire come dolosi delitti involontari che seguono ad uno
stato di ubriachezza volontaria (ad esempio Caio, ubriacatosi volontariamente, provo-
ca successivamente la morte di un terzo a causa di un incidente automobilistico dovuto
ad imprudenza). Antolisei sostiene che una tale teoria non considera che, per la respon-
sabilità dolosa è necessario che il risultato sia voluto, il che non può dirsi per il solo fat-
to che l’agente si è ubriacato volontariamente. Per questo si ritiene che tale tesi non sia
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L’unica peculiarità dell’art. 92 comma 2, è data dal fatto che, in tal caso, a differenza
dell’art. 87 c.p., al reato commesso si applica un aumento di pena.
Entrambe le disposizioni sarebbero poi riconducibili, secondo parte della dottrina,
alla categoria dell’actio libera in causa.
Fiandaca e Musco sostengono che secondo tale principio l’incapacità preordinata
deroga alla regola della coincidenza temporale tra imputabilità e commissione del fatto
criminoso, senza disattendere il principio di colpevolezza. Infatti, nell’ipotesi prevista
al primo comma dell’art. 92 c.p., il soggetto, in un primo momento, si ubriaca (per il
piacere di farlo o per causa involontaria), e, successivamente, commette il reato (non
programmato in anticipo al momento di porsi in stato di ubriachezza).
Nel caso dell’ubriachezza preordinata, il soggetto si ubriaca allo scopo di commet-
tere un reato: ciò, perché, lo stato di ubriachezza, esercitando un’azione disinibente sul
soggetto, facilita la commissione del proposito criminoso.
Con la locuzione al fine di prepararsi una scusa, il legislatore fà riferimento non al
semplice porsi in stato di incapacità, ma alla prospettazione di uno stato di incapacità
tale da escludere il ricorso alla sanzione. Continuando l’esame delle disposizioni nor-
mative, l’art. 94 primo comma c.p. dispone: “se il reato è commesso in stato di ubriachez-
za (non accidentale) e questa è abituale, la pena è aumentata”. Agli effetti della legge pe-
nale, è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato
di frequente ubriachezza.
Il secondo comma dell’articolo prosegue: “l’aggravamento di pena previsto nella pri-
ma parte di questo articolo si applica anche quando il reato è commesso sotto l’azione di
sostanze stupefacenti da chi è dedito all’uso di tali sostanze”. Ai fini dell’aggravamento di
pena occorre quindi: a) uno stato di intossicazione alcolica (o da sostanze stupefacen-
ti) acuta volontaria o colposa; b) la commissione in tali condizioni di un reato; c) l’abi-
tualità.
Perché possa configurarsi la figura giuridica dell’abitualità, devono concorrere due
requisiti: la dedizione all’uso di alcolici e il frequente stato di ubriachezza. La dedizione
all’uso indica un vizio continuativo, una consuetudine viziosa di vita. I singoli episodi di
intossicazione, infatti, devono essere tali da dar luogo a ubriachezza, e inoltre, devono
essere frequenti, e cioè, tali da confermare la dedizione all’uso (e non la semplice pro-
clività).
In sostanza, occorre che lo stato di ebbrezza nel quale viene commesso il reato co-
stituisca un episodio del sistema di vita dell’individuo. Fatti saltuari, o anche periodici
di ubriachezza, non bastano a stabilire in concreto l’ubriachezza abituale. Per accerta-
re l’abitualità non è necessario che la prova di essa risulti da precedenti condanne per
reati commessi in stato di ubriachezza, o per il reato di manifesta ubriachezza ex art.
688 c.p.
È noto che si può essere dediti abitualmente all’ubriachezza, anche senza aver mai
subito tali condanne. L’ubriachezza abituale non esclude che quella crisi alcolica acuta
che si riconnette al reato attuale sia stata procurata per facilitare il reato o per procu-
rarsi una scusa. In tal caso, l’aggravante per l’ubriachezza abituale concorrerà con l’ag-
gravante per l’ubriachezza preordinata (art. 92 c.p.).
L’art. 94 c.p. non specifica quale aggravamento importi l’ubriachezza abituale. In
tal caso si applica l’art. 64 c.p., il quale dispone che quando ricorre una circostanza
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- fino a quattordici anni il minore non è mai imputabile, perché nei suoi confronti
è prevista una presunzione assoluta di incapacità, senza cioè prova contraria. L’art.
97 stabilisce, infatti, che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il
fatto, non aveva compiuto i quattordici anni;
- fra i quattordici e i diciotto anni il minore è imputabile solo se il giudice ha accer-
tato che al momento del fatto aveva la capacità di intendere e di volere. L’art. 98
rinuncia, infatti, a qualsiasi presunzione e subordina l’eventuale affermazione della
responsabilità penale al concreto accertamento della capacità naturale: è imputabi-
le chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto quattordici anni, ma
non ancora diciotto, se aveva la capacità di intendere e di volere.
L’art. 97 pone una presunzione assoluta di non imputabilità che prescinde dal-
l’effettivo riscontro della capacità di intendere e di volere e che quindi non può essere
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L’imputabilità
Se, infatti, la individuazione della natura del provvedimento (sentenza) non dà adi-
to ad incertezze quando a provvedere è il giudice dell’udienza preliminare o del dibat-
timento, il problema nasce quando il Pubblico Ministero si sia accorto, nel corso delle
indagini, della non imputabilità dell’indagato e abbia richiesto al giudice per le indagi-
ni preliminari, organo monocratico, espressa declaratoria di non imputabilità. Mentre la
giurisprudenza, infatti, sembra prevalentemente orientata verso un’applicazione lettera-
le della norma e quindi, conseguentemente, verso l’adozione di sentenze di non luogo a
procedere per difetto di imputabilità, indipendentemente dallo stato e grado del procedi-
mento, la dottrina, invece, pare orientata in senso opposto: il giudice per le indagini pre-
liminari, in presenza di un minore di quattordici anni, anche se il Pubblico Ministero
erroneamente richiede sentenza di non luogo a procedere per non imputabilità, dovreb-
be adottare decreto di archiviazione per infondatezza dell’accusa, potendo emettere sen-
tenza di non luogo a procedere solo nei casi in cui la declaratoria di non imputabilità sia
successiva all’effettivo esercizio dell’azione penale. Affinché venga pronunciato il pro-
scioglimento per inimputabilità dell’agente, occorre, peraltro, che il fatto realizzato sia
conforme al tipo legale e dunque, benché non colpevole, comunque antigiuridico.
Tutto questo, non vuol dire che il minore di quattordici anni, prosciolto per difet-
to di imputabilità, debba incondizionatamente essere lasciato libero, anche se è peri-
coloso: al minore non imputabile che viene contestualmente riconosciuto pericoloso può
essere applicata, infatti, una misura di sicurezza. Perché possa essere stabilita una tale
misura occorre, però, che la pericolosità sociale del minore sia stata concretamente accerta-
ta. Le presunzioni di pericolosità sociale sono state infatti abolite, dapprima in sede di
giurisprudenza costituzionale, poi, anche, in sede legislativa con la legge n. 663 del 10
ottobre 1986. Per quanto riguarda la nozione stessa di pericolosità del minore, bisogna
fare riferimento all’art. 37, comma 2, del D.P.R. n. 448/1988, che stabilisce requisiti
più specifici rispetto a quelli che integrano la nozione comune di pericolosità sociale
ricavabile dall’art. 203 del codice penale.
Gli infraquattordicenni
Per quanto concerne, invece, il minore che ha più di quattordici anni, ma non ha
ancora compiuto diciotto anni, il codice prevede che questi è imputabile solo se, al mo-
mento in cui ha commesso il fatto, aveva la capacità di intendere e di volere. Qual è il
significato di tale asserzione? Vuol dire che nei suoi confronti non opera nessuna pre-
sunzione, né di incapacità né di capacità, dovendo il giudice accertare, volta per volta,
se il soggetto era imputabile o meno.
Il non aver previsto una presunzione di imputabilità, ma l’aver previsto l’accerta-
mento caso per caso dell’effettiva acquisizione della capacità di intendere e di volere, è
una specifica scelta del nostro legislatore. Alla base di questa scelta, vi è la consapevolez-
za che fra i quattordici e i diciotto anni vi può essere la capacità di intendere e di volere
necessaria per essere considerati penalmente responsabili delle proprie azioni, come vi
può non essere - indipendentemente da patologie giuridicamente rilevanti - dato che si
tratta di una fascia di età in cui i soggetti raggiungono la maturità richiesta ai fini pe-
nali in momenti diversi, a causa delle multiformi varietà ambientali in cui si svolge tale
processo di maturazione.
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5.6 La recidiva
La recidiva, consistendo nella “ricaduta” nel reato, si presenta come un istituto
dogmaticamente complesso e non esente da contraddizioni. La recidiva è disciplinata
dall’art. 99 c.p., in forza del quale (1° co.) può essere considerato recidivo chi, dopo es-
sere stato condannato per un reato, ne commette un altro.
Presupposto per la dichiarazione di recidiva è, pertanto, una sentenza di condan-
na (art. 533 c.p.), ovvero un decreto penale (art. 459 ss c.p.), divenuti irrevocabili ex
art. 468 c.p.
Il 1° co. dell’art. 99 c.p. prevede la recidiva cosiddetta semplice: chi, dopo essere
stato condannato per un reato ne commette un altro, può essere sottoposto ad un au-
mento sino ad un sesto della pena da infliggere per il nuovo reato.
Il capoverso della stessa disposizione dispone che la pena può essere aumentata fi-
no ad un terzo nelle seguenti ipotesi di recidiva aggravata: 1) se il nuovo reato è della
stessa indole (recidiva specifica); 2) se il nuovo reato è stato commesso nei cinque an-
ni dalla condanna precedente (recidiva infraquinquennale); 3) se il nuovo reato è sta-
to commesso durante o dopo l’esecuzione della pena (recidiva vera), ovvero durante il
tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena (reci-
diva finta). Le tre ipotesi sono previste separatamente, nel senso che basta una sola di
esse per dar vita al previsto aumento di pena. Se, invece, esse concorrono tra di loro
(recidiva plurima), il 3° co. dell’art. 99, dispone che l’aumento della pena può elevarsi
sino alla metà.
L’ultima ipotesi è quella del 4° co. dell’art. 99: la recidiva reiterata, che si verifica
allorquando, il nuovo reato è commesso dal già recidivo. Infine, l’ultimo comma del-
l’art. 99, dispone che, in nessun caso, l’aumento di pena per effetto della recidiva può
superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione
del nuovo reato.
Devono, inoltre, definirsi reati della stessa indole (per ciò che attiene la recidiva spe-
cifica), non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli
che, pur se preveduti da disposizioni diverse del codice penale ovvero da leggi diverse,
nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinaro-
no, presentano, nei casi concerti, caratteri fondamentali comuni.
Parlando di recidiva in termini sociologici e giuridici, la precedente sentenza di
condanna acquista rilievo, perché il soggetto, nonostante l’esperienza del processo, no-
nostante il monito a non violare più la legge, nonostante la finalità rieducativa connes-
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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CAPITOLO 6
Forme di criminalità
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Criminologia ed elementi di criminalistica
esclusi dalle regole sociali, li spinge a trovare il modo di condividere la loro dissonanza
culturale, cercando di organizzare nuovi rapporti interpersonali, modificando le regole
del gruppo e introducendo propri criteri di status.
Per superare le paure che derivano da uno stile di vita, in parte o del tutto contra-
rio a quello del sistema normativo, mettono in atto un processo difensivo di tipo colletti-
vo (la formazione reattiva, che si vedrà meglio nel modulo sulla psicologia del ciclo di
vita), che ribalta totalmente la definizione positiva delle norme, con le sue mete e i suoi
ideali condivisi a livello generale. Il sistema dominante viene metabolizzato in maniera
diversa, con disgusto, e percepito come ingiusto, sbagliato e pregiudizievole; pertanto,
viene rifiutato e disprezzato. I comportamenti criminosi che si innescano a causa del
rifiuto totale del sistema sociale di cui si sentono vittime, sono privi, comunque, di una
sostanziale carica di tipo critico; non hanno nulla a che vedere con le azioni di protesta
organizzata, tipiche di chi ha assunto la tipologia adattativa del ribelle di Merton. In
quel caso, le condotte emergenti sono prive di una effettiva finalità, si presentano co-
me atti vandalici e non offrono vantaggi diretti sul piano economico. È evidente, tut-
tavia, che esistano delle mete secondarie che motivano la scelta antigiuridica di questi
soggetti, che Cohen identifica nel maggior prestigio che essi acquistano, tramite i loro
comportamenti, all’interno dei gruppi sociali di appartenenza.
L’analisi di Cohen non giunge, tuttavia, a proporre una vera e propria spiegazione
di questi fatti; egli si limita a descrivere il fenomeno, riconducendolo alle trasformazio-
ni sociali in atto negli Stati Uniti fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Interessan-
te, da questo punto di vista, può essere il pensiero di E. Erickson sulla formazione delle
disarmonie dell’identità personale. Quest’ultimo ritiene, infatti, l’identità come l’orga-
nizzazione di una immagine coerente, omogenea, continua e stabile dell’essenza della
propria personalità. La sua formazione dipende sia dai meccanismi di identificazione
coi vari modelli che si succedono nel corso dell’età evolutiva, sia nei confronti dei ruoli
che vengono proposti e assunti nell’ambito delle relazioni interpersonali.
Questi processi, raggiungono un punto nodale proprio durante l’adolescenza, e
cioè nel momento in cui vengono rimessi in discussione i modi del radicamento sociale
e dell’appartenenza culturale.
Durante l’adolescenza, e anche oltre, il soggetto è fortemente influenzato dall’atteg-
giamento degli altri, specie di coloro che vivono all’esterno del contenitore familiare. Se
questa cattiva organizzazione dell’identità dà luogo a qualche iniziale comportamento
problematico o deviante, si risvegliano nel prossimo aspettative negative nei confron-
ti di tali soggetti (es. “da te non posso aspettarmi niente di buono”); ciò, talvolta, fini-
sce con l’alterare l’identità del proprio Io (“io non posso fare niente di buono”): sicché,
l’attore realizza, mediante la condotta deviante, il giudizio negativo anticipato nei suoi
confronti (Ponti, 1990). Si struttura, pertanto, nel soggetto, la realizzazione di una sor-
ta di identità negativa, che conduce a un’immagine del sé svalorizzata e degradata, che
la società affronta, mediante gli strumenti di esclusione dal gruppo, ossia la reclusione,
la condanna, la stigmatizzazione.
Alla genesi dell’identità negativa corrisponde anche la formazione di un etichet-
tamento sociale, e cioè, l’attribuzione di un significato negativo alla condotta di un
soggetto (spesso un giovane), orientando il soggetto verso l’avvio di una carriera de-
viante.
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Forme di criminalità
a) le bande criminali sono formate da soggetti dediti alle abituali attività appropriati-
ve illecite, quali il furto, la rapina, il racket. Questi giovani diventano, in tal modo,
criminali, realizzando una più facile acquisizione degli status symbol proposti dalla
cultura della classe media;
b) le bande conflittuali sono invece dedite alla violenza e al vandalismo sistematico,
senza finalità primariamente appropriative, ma mirando a distruggere i simboli ir-
raggiungibili e a esprimere, così, irrazionalmente, con la violenza gratuita, appun-
to, la protesta di essere esclusi. Si effettua, in tal modo, un’aggressione violenta nei
confronti del sistema: con l’associazione in tali bande, infatti, i giovani esprimono
una ribellione e un’opportunità che combatte, mediante modalità del tutto irrazio-
nali, gli emblemi e le mete che la società propone;
c) le bande astensionistiche, infine, sono composte da quei giovani nei quali la frustra-
zione ha provocato una fuga che esprime il rifiuto globale della cultura stessa, dalla
quale cercano di evadere mediante la tossicomania o l’alcolismo.
È evidente come queste teorie siano il prodotto della cultura statunitense degli an-
ni Cinquanta e Sessanta, mentre, oggi, presentano numerosi punti deboli.
In primo luogo, la teoria che la condotta deviante debba essere una caratteristica
delle classi meno agiate ha perso qualunque tipo di validità, soprattutto se si considera-
no i c.d crimini dei colletti bianchi, caratterizzati da ampi fenomeni di corruzione, traf-
fico di denaro sporco, ed ancora, crimini finanziari e dell’imprenditoria.
Gli studi di Sutherland, infatti, hanno mostrato, fin dagli anni Quaranta, che la
criminalità non era solo una caratteristica delle classi sociali meno abbienti, ma pote-
va estendersi anche al mondo delle classi agiate (da qui il termine ‘colletti bianchi’).
Questo comportava, di fatto, una forte critica a tutte quelle ipotesi teoriche che vede-
vano le cause della criminalità nelle deviazioni di una classe, quella più umile, obiet-
tivata a trovare i mezzi leciti per conquistare le mete sociali quasi irragiungibili, pro-
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Criminologia ed elementi di criminalistica
poste dal sogno americano. Il fenomeno della delinquenza appariva, per la prima volta,
nella sua complessità ed estensione; interessava tutti i gruppi sociali, compresi quelli
più alti, benché, le sue forme, apparissero differenti e variegate. Ma ciò che particolar-
mente occorre segnalare è la tendenza, spesso implicita, nelle considerazioni sociolo-
giche sulla devianza e la delinquenza, a valutare le condotte criminose come effetti di
fenomeni sociali (come, appunto, l’appartenenza a classi svantaggiate), che si presen-
tano col carattere del determinismo, quasi a giustificare ogni condotta, svincolando
l’azione antigiuridica da aspetti di responsabilità. In realtà, oggi, sappiamo che la que-
stione criminale comprende una grande quantità di fattori e, comunque, non può pre-
scindere dalla valutazione in termini di scelta, rispetto all’azione di chi commette un
crimine. Scelta che poi dà avvio al procedimento legale di sanzionamento, compresa
la comminazione graduata della pena. Solo in questo modo è possibile sfuggire al pe-
ricolo insito nelle ipotesi di tipo deterministico e causalistico che finiscono con l’assu-
mere posizioni assolutamente assolutorie, considerando la delinquenza come un fatto
subìto dal criminale, prima che agito dallo stesso, in prima persona. Su questo piano
si incontrano sia le posizioni dei sostanzialisti di provenienza positivistica, sia quelle
del sociologismo più acritico.
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Forme di criminalità
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Criminologia ed elementi di criminalistica
liate, hanno combattuto, si sono prostituite, sono fuggite, sono morte di stenti, tutto
per proteggere i loro figli e/o per garantire loro la sopravvivenza e una vita decorosa. E
se questo ha significato il loro annientamento, la loro mortificazione, il loro sangue,
è andato bene lo stesso, perché una donna prima di essere un individuo come tutti è
una madre. Il concetto di madre rimanda a quello della Madonna, simbolo di tutte le
madri, Vergine, con la sua fede sacrificale e con il suo amore, ambedue materni e in-
condizionati, con la sua virtù di pietà e di devozione tipicamente femminili. Proprio
per questo, il valore della maternità non ha più una funzione sociale, ma un compito
trascendente, all’insegna di un forte spirito di sacrificio che avvicina la donna a Dio.
Per tutto questo, l’infanticidio e l’omicidio di un bambino per mano materna oltre
ad essere umanamente inaccettabile, è anche culturalmente destabilizzante; ecco che
allora, nel momento in cui vengono compiuti atti tanto efferati e apparentemente in-
comprensibili, viene chiamato in causa un deus ex machina, una presenza divina, su-
periore, che impone il proprio arbitrio alle donne, guidandole nel più abominevole
dei delitti. Il deus ex machina è la pazzia. È come se uno spirito maligno entrasse nel
corpo della donna, che diventa solo involucro, carne, senza più volontà o capacità di
comprendere e la portasse a compiere l’assassinio: infatti, spesso, durante i processi, si
invoca da parte della difesa l’incapacità di intendere, intesa, al contrario, quale assen-
za della normale capacità di valutazione dei propri atti e l’incapacità di volere, come
mancanza di determinazione libera e volontaria del proprio comportamento. I due
requisiti definiscono la responsabilità giuridica di un soggetto. In caso di omicidio o
infanticidio, dovranno essere tenuti in considerazione quei due requisiti per una giu-
sta valutazione di ciò che è stato commesso. E il tecnico chiamato a fare le perizie è lo
psichiatra, sarà lui a dover dare giudizi di normalità o infermità mentale. Da questo
dipenderà anche il tipo di detenzione a cui l’omicida sarà sottoposta. Se le imputate
saranno dichiarate sane di mente saranno recluse in un carcere comune, se invece ver-
ranno considerate incapaci, e nello stesso tempo pericolose socialmente, due pesanti
stigma, entreranno nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (dalla forte caratterizzazio-
ne carceraria). Tuttavia, la discriminante è già a monte: di fronte ad un fatto di sangue
si cerca, come afferma P. Barbetta, di affermare lo stato di ragione della criminale. La
trasformazione cioè della trasgressione morale in trasgressione giuridica. La difficoltà
di trovare un movente, o anche solo un interesse a commettere il gesto, crea uno spa-
zio perché la difesa possa far riconoscere la malattia mentale. Sempre più spesso infat-
ti, le Medee usufruiscono delle attenuanti. L’infanticidio è un tipo di reato particolare,
tale che gli ordinamenti penali di quasi tutti i paesi del mondo limitano la pena per la
madre, considerandolo meno grave rispetto al figlicidio. L’infanticidio, in Italia, è tale
se avvenuto immediatamente dopo il parto (per altri paesi i tempi sono più lunghi co-
me ad esempio il codice penale canadese che lo considera fino a 12 mesi dopo il par-
to), in una condizione fisica e psichica alterata da parte della donna, in cui viene dato
particolare risalto alla situazione psicopatologica temporanea delle funzioni mentali
relativa appunto alla fase post-parto. Non vi è, però, nella letteratura specializzata una
chiara definizione psicologica o psicopatologica della personalità dell’infanticida, pro-
prio perché, non sono solo questi gli elementi da prendere in considerazione. Infatti,
un altro motivo legato alla ridotta severità della pena, alle volte, è ricercato nelle parti-
colari condizioni culturali, sociali ed economiche in cui la donna viene a trovarsi, con
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Forme di criminalità
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Nel management del fattore capitale, la rilevanza delle tecnologie illegali di ge-
stione è cresciuta di pari passo con lo sviluppo dei processi di globalizzazione e con il
diffondersi del loro impatto a livello locale. L’evoluzione del riciclaggio internazionale
evidenzia, sempre più, come tale fenomeno non risponda unicamente alla logica di co-
pertura dell’origine illecita dei flussi finanziari, ma risulti governato dalla dinamica dei
rendimenti e della rischiosità dei diversi impieghi. Come le tecnologie lecite di gestio-
ne, anche quelle illecite, determinano cambiamenti e mutamenti dei flussi internazio-
nali in risposta alle variazioni delle politiche di repressione e controllo, che ne alterano
le convenienze relative (Savona, De Feo 1997).
Anche sul piano delle strategie competitive, le tecnologie illegali si caratterizzano
come un’alternativa al management con strumenti leciti della concorrenza di merca-
to. L’uso della violenza criminale costituisce lo strumento concorrenziale estremo, per
la possibilità che offre, a chi ne fa uso, di competere con i concorrenti sulla definizio-
ne stessa dei diritti di proprietà sulle risorse e sui prodotti oggetto dell’attività econo-
mica (Lasco 1997). Ma anche frodi (Levi 1981), contraffazione di marchi, corruzione
(Van Duyne 1997), costituiscono elementi di uno strumentario competitivo crimina-
le, la cui funzionalità può emergere nello svolgimento di attività economiche sia ille-
cite che invece perfettamente legali, almeno sotto il profilo formale. Le frodi possono
assumere un ruolo importante anche nella gestione dei rapporti con fornitori e clienti,
costituendo un elemento rilevante del meccanismo di regolazione dei legami verticali
tra i settori industriali. Analizzare i crimini economici come attività economiche, ge-
stite utilizzando tecnologie illecite, mette, inoltre, a disposizione dell’analista, un equi-
paggiamento concettuale indispensabile per far luce su due fenomeni emergenti sullo
scenario della criminalità economica: la progressiva sovrapposizione tra criminalità or-
ganizzata e criminalità economica (Savona, Lasco, Di Nicola, Zoffi 1997), da un la-
to, e lo sviluppo di crescenti interdipendenze tra i principali reati economici (Savona
1997), dall’altro.
Le organizzazioni criminali convenzionali, tradizionalmente dedite allo sfruttamen-
to criminale del territorio in cui sono localizzate, tramite l’estorsione generalizzata, il
controllo degli appalti pubblici e dei mercati illegali locali, il traffico di stupefacenti, si
muovono verso nuovi business tipici della criminalità economica (frodi, contraffazio-
ne, ecc.), tanto più che le tecnologie illegali, su cui è costituita la loro attività tradizio-
nale (violenza e corruzione), divengono strumenti utili a ridurre i costi di gestione di
tali nuovi business e per competere con gli altri concorrenti illegali.
Specularmente, le nuove opportunità per i criminali economici tradizionali, carat-
terizzate da una più ampia dimensione geografica delle attività (si pensi alle frodi in-
ternazionali o a quelle contro gli interessi della Comunità Europea) e da una maggio-
re complessità delle procedure necessarie, rendono indispensabile, per un loro efficace
sfruttamento, che si possa contare su strutture criminali organizzate in grado di operare
su scala transnazionale.
Similmente, l’accresciuta complessità delle opportunità di affari per la criminalità
economica rende necessario gestire concatenazioni anche complesse di differenti con-
dotte illecite, nelle quali, la frode, la corruzione, il riciclaggio e la violenza costituiscono
tasselli indispensabili per il successo dell’intera attività. La combinazione di tali con-
dotte illegali interdipendenti può assumere la forma di transazioni tra differenti sog-
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Forme di criminalità
getti criminali, generando veri e propri mercati di servizi illegali, oppure può materia-
lizzarsi in accordi di cooperazione tra differenti soggetti criminali più o meno stabili ed
efficaci, ovvero, ancora, può portare alla creazione di strutture organizzate in grado di
governare al proprio interno le differenti fasi dell’attività illecita.
Considerare la criminalità economica utilizzando il concetto di tecnologia illegale
per la gestione delle attività economiche, sollecita, rispetto all’analisi dei due trend de-
scritti sopra, due quesiti strettamente connessi tra loro.
In quali condizioni la tecnologia illegale richiede organizzazione per essere attivata
efficientemente, ovvero in quali condizioni richiede una divisione del lavoro criminale?
Quali legami esistono tra differenti tecnologie illegali (la frode, la corruzione, la violen-
za, etc.) e a quali condizioni tali legami si manifestano all’interno di una stessa struttura
organizzata, ovvero assumono la forma di transazioni tra strutture differenti?
La teoria economica dell’organizzazione industriale ha costruito strumenti analitici
per rispondere a domande simili in relazione a tecnologie lecite, ma tali strumenti, se
opportunamente riconsiderati (Fiorentini, Peltzman 1995), possono fornire elementi
di riflessione utili per analizzare le tecnologie illegali.
La nuova agenda per la ricerca in tema di criminalità economica è ancora tutta da
scrivere e richiede che gli economisti si abituino a considerare gli affari anche dal punto
di vista della rilevanza penale, e che i sociologi e i criminologi prendano sempre più in
considerazione la criminalità propria del mondo economico.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
legati al settore delle comunicazioni, con particolare riguardo alle attività illecite svolte
in seno alle grandi associazioni di stampo mafioso.
Nel 1996, l’attività di questa équipe di esperti è stata ricondotta al settore più am-
pio delle attività di contrasto ai crimini commessi nel settore delle telecomunicazioni,
dando vita al Nucleo Operativo di Polizia delle Telecomunicazioni. La creazione di questo
ufficio è stato il preludio di una vasta riorganizzazione di tutta la specialità: con decreto
del Ministro dell’Interno del 31 marzo 1998, è stato creato il Servizio Polizia Postale e
delle Comunicazioni all’interno del quale sono confluite le risorse del N.O.P.T. e del-
la Divisione Polizia Postale. L’articolazione attuale prevede una struttura centrale, co-
stituita appunto dal Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni, incardinato all’in-
terno della Direzione Centrale (in Roma). Mentre la Direzione Centrale sovrintende
ai servizi delle singole Specialità della Polizia di Stato (Stradale, Ferroviaria, Postale, di
Frontiera e dell’Immigrazione), il Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni presie-
de al supporto e al coordinamento dell’attività operativa di 19 Compartimenti regio-
nali (localizzati nelle principali città italiane) e 76 Sezioni provinciali, contando su un
organico di circa 2000 agenti.
L’indagine informatica non è prerogativa esclusiva della Polizia di Stato, ma attività
cui si dedicano anche altre forze dell’ordine, come Carabinieri e Guardia di Finanza.
In particolare, presso quest’ultima, è stato istituito, nel luglio 2000, il Gruppo Anti-
crimine Tecnologico (GAT). Il Gruppo ha un campo d’azione particolarmente ampio
investendo tutti i settori in cui viene impiegata la tecnologia per commettere reati: da
internet al telefonino, fino ad arrivare ai sistemi di pay TV.
Il coordinamento delle attività della Polizia delle Comunicazioni col GAT avviene
sempre tramite la Direzione Centrale di Roma.
La minaccia criminale nel mondo virtuale si distingue da quella tradizionale per-
ché caratterizzata dal superamento delle classiche categorie di tempo e di spazio.
La condotta delittuosa può concretizzarsi in più azioni svolte in tempi diversi o con-
temporaneamente, da più soggetti o da uno solo, in luoghi diversi o in uno spazio vir-
tuale; la condotta innesca più processi elaborativi e di trasferimento di informazioni che
passano, in tempi lunghi o in tempo reale, attraverso spazi indeterminati; possono essere
colpiti immediatamente, o a distanza di tempo, una o più vittime, in uno o più luoghi.
La velocità con la quale la tecnologia permette di trasferire, alterare o distruggere
grandi quantità di dati e informazioni e, più in generale, di portare a termine un cri-
mine, nonché la aterritorialità del fenomeno che può assumere una connotazione tran-
snazionale svincolandosi dai confini dei singoli Stati, rappresentano i limiti più gravi
alla persecuzione di tali forme di offesa.
La diffusione a livello mondiale della rete e la scomparsa del luogo del delitto hanno
creato gravi problemi di competenza territoriale, di giurisdizione, nonché, di norme
applicabili, laddove vengano coinvolti più paesi e, conseguentemente, più magistrature
e diverse forze dell’ordine.
Tuttavia, se un crimine è commesso tramite un server situato all’estero, viene da-
ta comunicazione della notizia di reato all’Interpol (Roma), che prosegue le indagini, e
alla Procura, competente per territorio (nel nostro caso quella di Firenze). Quest’ulti-
ma, verifica dove risiede il server, e inoltra (entro 24 ore) la comunicazione all’autorità
giudiziaria estera.
116
Forme di criminalità
Se il sito risiede sul server di un dato paese, ma è registrato presso un altro Stato,
la comunicazione della Procura deve essere effettuata ad entrambe le autorità giudizia-
rie. Esistono, inoltre, dei paradisi internet, come le Isole Samoa, la cui legislazione non
permette alcuna forma di intervento. Internet è infinitamente vasta e i crimini che pos-
sono essere compiuti, per suo tramite, sono numerosi e articolati. Se, da un lato, buo-
na parte degli interventi della Polizia delle Comunicazioni è promossa da specifiche
richieste di singoli utenti (aziende o privati cittadini), dall’altro, emerge un dato piut-
tosto significativo: una notevole discrepanza tra gli attacchi ai sistemi informatici sta-
tisticamente rilevati (di numero relativamente esiguo) e quelli effettivamente portati a
termine. Alla base di questo fenomeno vi sono diverse ragioni. Innanzitutto, può acca-
dere che il soggetto colpito non sappia di essere tale, non si accorga, cioè, di essere stato
vittima di un’aggressione informatica. Chi commette l’illecito può essere un esperto del
settore e, trattandosi, come spesso avviene, di un soggetto interno all’azienda, può es-
sere a conoscenza di informazioni preziose, di tipo tecnico o organizzativo, che lo pon-
gono in una situazione tale da impedire qualsiasi rilevamento.
In tal senso, gioca ovviamente il suo ruolo una inadeguata politica di sicurezza in-
terna: responsabilità di security manager impreparati, che devono, tra l’altro, aggiornarsi
continuamente, data la rapidità con la quale vengono scoperte nuove debolezze e falle
di sistemi e protocolli di comunicazione, ma anche responsabilità del personale dipen-
dente che può mettere in crisi, per ignoranza, anche la più sofisticata predisposizione di
misure di garanzia (basti pensare ai famosi post-it presenti su monitor o scrivanie che
riportano login e password di accesso). In altri casi, invece, è stata riscontrata nei siste-
misti, sia di enti pubblici che di aziende private, una forma di ritrosia nel considerare
l’attacco subìto come un fatto di reato, quando l’illecita intrusione non provoca danni.
Con questi termini, ci si riferisce a quel particolare tipo di attacco, prodromico
alla realizzazione di ulteriori reati, tecnicamente denominato hacking, ovvero, accesso
abusivo ad un sistema informatico o telematico (art. 615 ter c.p.). A questo proposito,
non bisogna, però, sottovalutare il fatto che un’illecita intrusione in un dato sistema
che non ha causato alcun danno, può essere utilizzata dall’autore come ponte per en-
trare in altri sistemi, reali bersaglio e oggetto di operazioni di cancellazione di dati o di
altre condotte criminose.
Inoltre, se l’ipotesi delineata, ex art. 615 ter, primo comma, è perseguibile a quere-
la della persona offesa, è pur vero che, quasi sempre, questo fatto è connesso con l’ille-
cita acquisizione del file delle password, condotta che integra il reato di cui all’art. 615
quater procedibile d’ufficio.
Ciò impone l’obbligo (almeno per i sistemisti di enti pubblici) di denuncia ai sen-
si dell’art. 331 c.p., obbligo sanzionato penalmente ai sensi degli artt. 361 e 362 c.p.
in caso di omissione. Ancora, si deve tener presente che, a volte, le aziende colpite pre-
feriscono non ricorrere alla denuncia perché il fatto di aver subìto un attacco è indice
di vulnerabilità, anche di fronte a clienti attuali e potenziali. Il prezzo da pagare per la
pubblicità del fatto criminoso subìto, può essere troppo alto, specie nel campo della re-
putazione e della credibilità.
Questo fenomeno interessa, soprattutto, certi tipi di aziende come banche, istituti
finanziari, compagnie assicurative, società quotate in borsa, imprese specializzate in si-
curezza informatica, in altri termini, tutti quei soggetti per i quali l’offerta di sicurezza
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Forme di criminalità
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Criminologia ed elementi di criminalistica
l’ex Unione sovietica. Le organizzazioni criminali hanno esperti finanziari sempre più
specializzati a condurre transazioni economiche a livello internazionale. Il crimine orga-
nizzato non ha bisogno di sviluppare la perizia tecnica necessaria per navigare su inter-
net: può impiegare i migliori esperti informatici mondiali, utilizzando (secondo i casi)
ricompense o minacce pur di raggiungere i propri obiettivi. La criminalità organizzata
è continuamente alla ricerca di luoghi privi di controllo, in cui condurre, con tranquil-
lità, i propri affari illeciti. Internet rappresenta, senza dubbio, una zona franca, perché è
in grado di fornire sufficienti garanzie di sicurezza e anonimia offrendo, al contempo,
adeguata tutela nei confronti delle varie normative internazionali.
Nel mondo virtuale non ci sono confini, e questo costituisce una caratteristica
molto attraente per quasi tutte le attività criminali. Quando le autorità tentano di sorve-
gliare questo mondo virtuale, incontrano non poche difficoltà. Internet offre le occasio-
ni per la commissione di varie tipologie di reato. Offre nuovi strumenti per commettere
reati quali la truffa e l’estorsione (crimine, quest’ultimo, che è stato sempre una delle pe-
culiarità delle organizzazioni di mafia). L’anonimato fornisce uno strumento ideale per
molte attività proprie della criminalità organizzata. La segretezza è, solitamente, una
chiave strategica e internet offre opportunità eccellenti per la realizzazione di reati, in
maniera quasi completamente anonima. Il crimine organizzato si è spesso infiltrato nel
sistema economico del proprio paese. Nel passato, ad esempio, la mafia, aveva propri
interessi in vari settori dell’economia del paese di appartenenza. Oggi non vi sono più
confini cosi ben delineati, infatti, la stessa mafia italiana, ad esempio, ha interessi eco-
nomici nel sistema delle industrie chimiche di vari paesi dell’Europa, cosi come in indu-
strie dei paesi dell’ex blocco sovietico e dell’America. Internet e il crescente sviluppo del
c.d. e-commerce, presentano un nuovo terreno fertile per le infiltrazioni criminali. Tutto
ciò, dovrebbe suggerire alle varie componenti del sistema economico finanziario (con-
nesse con internet) di prestare attenzione ai futuri soci e sostenitori finanziari. In buona
sostanza, il sinergismo fra crimine organizzato e internet è, non soltanto molto naturale,
ma anche destinato a fiorire e a svilupparsi ancora in avvenire. Internet fornisce nuove
frontiere e permette guadagni considerevoli con un livello molto basso di rischi.
La multiformità delle varie forme del crimine informatico è collegata, strettamen-
te, a una seconda tendenza, distinguibile, soprattutto, nel settore economico finanzia-
rio, individuabile nel contesto penalistico, nell’area dei c.d. crimini dei colletti bianchi.
Durante la fine gli anni ‘90, numerosi sono stati i casi di organizzazioni criminali che
hanno sfruttato internet, soprattutto nel settore del c.d. e-commerce. Tutto questo è sta-
to fatto con coercizione e attraverso il controllo totale degli istituti di mediazione eco-
nomico-bancaria. Internet, inoltre, è stato usato per distribuire informazioni che hanno
determinato artificialmente il prezzo dei mercati borsistici. Negli Stati Uniti, i clan ma-
fiosi coinvolti in questo genere di affari erano membri delle famiglie Bonnano, Genove-
se e Colombo, come pure membri immigrati appartenenti alla mafia russa. La relativa
compiacenza ad usare la forza e l’intimidazione si adatta molto bene allo sviluppo della
cyber-estorsione. Nei confronti dell’industria di internet, ad esempio, l’estorsione si concre-
tizza, spesso, nella minaccia di interrompere le informazioni e i sistemi di comunicazio-
ne e di distruggere dati importantissimi. Lo sviluppo dell’estorsione telematica è una nuova
tendenza significativa della criminalità moderna. Gli schemi di un’estorsione nel mondo
reale, a volte, sono individuabili; al contrario, in rete, possono essere realizzati, anoni-
120
Forme di criminalità
mamente, subendo rischi modesti e realizzando alti profitti. Questa potrebbe essere una
forma di reato notevolmente sottostimata. Il crimine organizzato si sta spostando dalla
dimensione reale a quella virtuale, spinto dalle numerose vulnerabilità che derivano dai
sistemi informatici. I cybercrimes, quando sono collegati al crimine organizzato, presen-
tano molteplici problematiche che coinvolgono sia i meccanismi di indagine, sia quelli
giurisdizionali. Un esempio delle problematiche suddette proviene proprio dal virus in-
setto dell’amore, che si è diffuso in molti Stati ed è costato migliaia di milioni di dollari.
Quando gli agenti del FBI sono riusciti a identificare il colpevole, uno studente
filippino, hanno scoperto che nella sua Nazione non c’erano leggi in virtù delle qua-
li lo stesso poteva essere incriminato. Le Filippine, successivamente, hanno adottato
una legislazione sui cybercrimes e molti altri paesi di quell’area hanno fatto lo stesso.
Nonostante ciò, i vuoti legislativi e giurisdizionali rimangono, consentendo, ai crimi-
nali e agli hackers, l’impunità. Effettivamente, è possibile che alcuni Stati cerchino di
sfruttare sempre di più un atteggiamento permissivo per attrarre il commercio illecito
e garantire zone franche in cui sicurezza ed impunità sono caratteristiche essenziali. È
sempre più probabile che internet sia usato per le attività di riciclaggio di denaro sporco,
trasformandosi, così, nel mezzo con cui si sta sviluppando il commercio internaziona-
le. Le aste in linea, ad esempio, offrono opportunità di spostare denaro attraverso gli
acquisti apparentemente legittimi, pagando molto di più del valore reale delle merci.
Con questi ed altri meccanismi, è possibile spostare soldi verso i centri finanziari dei
c.d. paradisi fiscali (es. Caraibi). Inoltre, poiché le operazioni bancarie elettroniche di-
ventano sempre più diffuse, le occasioni per celare il movimento dei proventi del cri-
mine e delle transazioni illegali si sta perfezionando di giorno in giorno. Lo svilupparsi
dei collegamenti tra hackers e crimine organizzato è sempre più preoccupante. Nel mese
di settembre del 2002, per esempio, due membri di un gruppo conosciuto in America
con il nome di Phonemasters sono stati condannati per la violazione dei sistemi di ela-
borazione dati di numerose aziende di telecomunicazioni. I due cibercriminali avevano
rubato vari sistemi cifrati di crittografia che hanno venduto ad alcuni gruppi apparte-
nenti alla criminalità organizzata americana ed italiana.
La nuova criminalità organizzata utilizza internet per le comunicazioni cifrate e
per tutti gli altri scopi, di conseguenza, un sistema cifrato di crittografia può essere molto
vantaggioso (es. ordinare un omicidio via internet o reclutare donne per lo sfruttamento
della prostituzione o vendere armi e organi umani). Perciò, il crimine organizzato, si sta
dimostrando flessibile all’utilizzo di tutte le opportunità offerte dalla telematica. Le im-
plicazioni sono di grande portata e naturalmente richiedono una risposta forte dei vari
governi a più livelli (nazionale ed internazionale). La risposta alla sovrapposizione cre-
scente fra crimine organizzato e cybercrime richiede una strategia completa.
121
Criminologia ed elementi di criminalistica
giamento colposo, spesso cosciente, cioè consapevole delle gravità delle possibili conse-
guenze, pone a grave rischio l’incolumità altrui. Peraltro, si è correttamente osservato
che, nell’ordinamento giuridico italiano, il legislatore è orientato nel senso tradizionale
di considerare il delitto colposo come meno grave e, perciò, sanzionabile più lievemen-
te di quello doloso. Si tratta di un punto di vista classico, incentrato, soprattutto, sulla
colpevolezza, ma che tiene poco conto della pericolosità, oggettiva e soggettiva, della
delinquenza colposa della società moderna. In effetti, la tendenza alla deresponsabiliz-
zazione della criminalità colposa, propugnata dalla volontà del legislatore e dallo stesso
orientamento, assolutamente prevalente della giurisprudenza, non può assolutamente
essere supinamente condivisibile, in ragione della gravità e della frequenza del fenome-
no, fortemente legato al progresso tecnologico, all’automazione dei procedimenti indu-
striali, all’enorme diffusione della motorizzazione e ai mille riflessi della trasformazione
scientifica e tecnica della società contemporanea.
Vi è, infatti, una considerazione fondamentale da svolgere, gravida di conseguen-
ze sotto il profilo dell’effettività delle sanzioni e perfettamente coerente con i princi-
pi generali regolanti il nostro codice penale: se, in astratto, può essere condivisa una
minore colpevolezza del criminale colposo rispetto a quello doloso, tuttavia, non cer-
to minore è la pericolosità sociale dell’autore del reato, che anzi, sovente, manifesta pe-
culiarità di particolare valenza criminogena, al punto che si è ritenuto di equipara-
re, per esempio, il delinquente stradale ad una specie di bomba innescata, pronta ad
esplodere contro chiunque. Sotto un profilo vittimologico, inoltre, il pirata della stra-
da presenta connotati di elevata pericolosità, poiché agisce contro vittime fungibili,
cioè, non pone in essere la propria illecita condotta nei confronti di un soggetto ben
individuato, ma è pronto a rivolgerla verso un’amplissima generalità di consociati,
che si traduce in veri e propri bollettini di guerra che quantificano quotidianamen-
te i caduti per causa della circolazione stradale, con picchi particolarmente elevati a
ogni fine settimana.
Si è proposto di classificare i rapporti tra il criminale e la sua vittima nella circo-
lazione stradale, di non semplice delineazione dogmatica, in alcune situazioni fonda-
mentali: a) reati stradali in cui si può rilevare la presenza di particolari rapporti comuni
tra criminale e vittima; b) reati stradali senza vittime, tipica la guida in stato d’ebbrezza
allorquando il criminale sia fermato prima di provocare incidenti; c) reati stradali con
vittime ma senza trasgressori, perché gli stessi si danno alla fuga e restano ignoti; d) rea-
ti stradali in cui il trasgressore è anche vittima, tipici gli incidenti in cui il conducente ri-
porta lesioni per un incidente dovuto ad eccesso di velocità.
Tali situazioni si aggiungono a quella della c.d. vittima innocente, che non influi-
sce in alcun modo sulla genesi del reato e subisce solo gli effetti della condotta del reo,
situazione che contraddistingue la maggior parte degli eventi infortunistici.
Il bene primario da tutelare in tale contesto, la sicurezza della circolazione, è costi-
tuito dall’interazione di tre elementi, e cioè, anzitutto, la strada, con le sue caratteristi-
che fisiche e strutturali su cui possono influire sensibilmente le condizioni metereolo-
giche; in secondo luogo il veicolo, con i suoi dispositivi di sicurezza, ed infine l’uomo,
che riveste una priorità centrale essendo la causa largamente principale degli infortuni
sulla strada.
Un approccio corretto del fenomeno, quindi, non può prescindere da una preci-
122
Forme di criminalità
1) sotto il primo profilo, devono essere attentamente valutati gli standard qualitati-
vi nella costruzione di autoveicoli e dispositivi di sicurezza in genere, dall’altro, la
realizzazione di strutture stradali sicure ed idonee a sostenere il peso del traffico
stradale attuale, nelle più diverse condizioni climatiche. Il bilancio può conside-
rarsi sufficientemente positivo sotto il primo aspetto, giacché, significativi miglio-
ramenti, sia nella struttura degli autoveicoli( difesa dell’abitacolo mediante scocca
assorbente l’urto) sia nei sistemi di sicurezza attiva (ABS, sistemi di navigazione
antisinistro ecc.) e passiva (cinture di sicurezza, poggiatesta anatomici a sella, air-
bags ), si sono indubbiamente avuti grazie agli investimenti di ricerca delle case
automobilistiche;
2) il fattore uomo è assolutamente centrale nell’ottica della sicurezza stradale, giacché
ricerche attendibili hanno dimostrato come ad esso vada ricondotta una percen-
tuale elevatissima dei sinistri, non inferiore al 80/90% degli eventi dannosi.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
terminati connotati fisiologici, quali la resistenza alla stanchezza e al sonno, che svolga
un ruolo educativo sul conducente in relazione alla sua condotta futura.
Quanto poi alle condizioni psichiatriche, è fondamentale individuare tutte le psi-
cosi incompatibili con la sicurezza della circolazione che potrebbero risolversi in fatto-
ri criminogeni particolarmente gravi: si è, per esempio, potuta riscontrare un’elevata
correlazione tra il c.d. disturbo antisociale della personalità e la sinistrosità stradale; come
pure si sono individuate alterazioni quantitative di caratteri psicologici normali (psico-
patie legate a caratteri aggressivi, esibizionisti, stressati), tra le quale la c.d. risk taking
behaviour (propensione a comportamenti a rischio), che costituiscono fattori predispo-
nenti alla violazione di regole di sicurezza stradale, assimilabili all’assunzione di bevan-
de alcoliche o sostanze stupefacenti. La guida in stato di ebbrezza e sotto l’influenza di
stupefacenti è un fenomeno di drammatica gravità in relazione ai fatti criminosi da cir-
colazione stradale, al punto che, su questo versante della sicurezza, è necessario estende-
re significativamente la prevenzione e la vigilanza, individuate dalla dottrina anglosas-
sone come law enforcement, giacché, gran parte delle contravvenzioni per guida in stato
di ebbrezza vengono rilevate solo in occasione dei sinistri, circostanza che ben illustra
la carenza di controlli preventivi.
Si sono potute individuare alcune caratteristiche personali strettamente correlate
a fatti infortunistici. Si tratta, anzitutto, di connotati psicosomatici, costituiti da al-
terazioni, insufficienze o disfunzioni tali da implicare difficoltà nella realizzazione di
manovre di media ed alta complessità, che si risolvono in vere e proprie predisposizioni
agli incidenti (accident prones).
Tali fattori possono avere non solo natura fisiologica o psicomotoria, ma anche psi-
cologica, con particolare riferimento alla c.d. recidiva sinistrosa e alla conseguente pau-
ra di rivivere l’esperienza del sinistro, che paralizza il conducente e lo predispone a su-
bìre altri incidenti (fenomeno particolarmente diffuso per il sesso femminile), oppure,
infine, sociale: infatti, la frequentazione di discoteche, con la conseguente prolungata
esposizione a giochi violenti di luci e a rumori costanti superiori a 40 decibel, costi-
tuisce, a prescindere dall’assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti, un rilevante
fattore predisponente al sinistro; analogamente, l’uso ormai frequentissimo di telefoni
cellulari in assenza di dispositivi viva-voce determina una rilevante menomazione della
condotta dell’autovettura (specie se priva di cambio automatico) e nel livello di concen-
trazione alla guida, senza che a tale comportamento consegua un trattamento sanziona-
torio adeguato. Non si può sottacere, in una siffatta analisi del fenomeno, l’incidenza
rilevante del fattore inerente la nazionalità: è dato di fatto, inequivoco ed evidente, che
i cittadini extracomunitari si rendono responsabili al volante di autoveicoli di condot-
te criminali di elevatissima pericolosità, e altrettanto alta incidenza statistica, per una
molteplicità di fattori spesso interattivi: nella normalità dei casi, gli extracomunitari
hanno conseguito la patente di guida nei loro paesi d’origine, ove le condizioni di traf-
fico sono imparagonabili a quelle della nostra realtà sociale, per intensità e strutture
viarie; ciò fa sì che gli stessi siano gravemente inabili e pericolosi nel coinvolgimento in
condizioni di traffico denso e complesso, e di fatto, determinano con elevata frequenza
sinistri anche gravi; in talune situazioni patologiche ad elevatissima frequenza, gli ex-
tracomunitari, approfittando delle difficoltà di accertamento e controllo, si pongono
alla guida privi di adeguati corsi di apprendimento e con patenti false, apparentemente
124
Forme di criminalità
rilasciate dai paesi di origine; in casi assai frequenti, le condizioni di disagio personale
e sociale, dovute alle difficoltà di inserimento nel nostro Paese, determinano l’abuso di
sostanze alcoliche se non stupefacenti, i cui riflessi sull’idoneità alla guida sono triste-
mente e tragicamente noti: ciò ha portato a numerose recenti stragi, poste in essere, ir-
responsabilmente, da extracomunitari.
La necessità di verificare l’idoneità psicotecnica, sotto ogni profilo, alla guida di vei-
coli a motore di ogni tipo da parte di tali soggetti, è, pertanto, un dovere ineludibile da
parte delle autorità preposte nel nostro ordinamento giuridico.
In una prospettiva generale, l’autorevole dottrina penalistica (Mantovani) ricon-
duce la predisposizione a violare norme sulla circolazione stradale a: 1) cause psicosoma-
tiche, tra le quali la carenza di intelligenza e la conseguente limitata capacità di prevede-
re ed evitare il sinistro; 2) fattori caratteriali quali l’aggressività, l’asocialità e la tendenza
a commettere comportamenti devianti; 3) trasmissione subculturale dei comportamen-
ti illeciti stradali. Lo stesso autore, in un’ottica criminologica, distingue i delinquenti
stradali in: a) conducenti accident prones per cause psicosomatiche o psicotecniche, per
i quali, la prevenzione si esplica mediante interventi restrittivi o limitativi della patente
di guida (divieto di guidare di notte o in strade a scorrimento veloce ecc.); b) conducen-
ti che sono criminali della strada così come sono criminali comuni, per i quali, la attività
preventiva si deve ispirare alle strategie generali per la prevenzione dei comportamen-
ti devianti; c) conducenti normali che trasgrediscono le norme stradali per assimilazione a
modelli sottoculturali appresi per imitazione, che sono la tipologia più numerosa e in
relazione ai quali l’attività preventiva, di tipo culturale ed educativo, potrebbe determi-
nare i risultati più significativi.
È necessario intervenire con urgenza sul trattamento giudiziario e sulla politica cri-
minale cui si ispira il legislatore, che non può prescindere dagli apporti empirici delle
scienze criminologiche.
125
Criminologia ed elementi di criminalistica
della criminalità dei colletti bianchi sono la frode fiscale, la frode commerciale, e così via.
La mancanza, a volte, di un rapporto diretto dell’autore del reato con la vittima e la dif-
ficoltà, a volte, di individuare una vittima specifica, sono fattori importanti nella valu-
tazione sociale del reato. Un aspetto rivelatore del basso livello di reazione sociale e di
censura sociale è l’uso frequente dell’aggettivo disonesto, invece che criminale, nei con-
fronti degli autori di questi reati: essi, spesso, non vengono stigmatizzati come delin-
quenti dalla collettività, e non si considerano delinquenti. Tre aspetti, soprattutto, sono
messi in rilievo da Sutherland e dagli studiosi che hanno sviluppato queste tematiche:
1) la criminalità dei colletti bianchi è assassina, sia nel senso che, spesso, le conseguen-
ze dei reati sono devastanti non meno di quanto avviene con la violenza persona-
le. Basti pensare al campo delle sofisticazioni alimentari o al traffico di rifiuti tossici:
questo tipo di criminalità ha indubbiamente conseguenze assassine e per numeri
elevati di persone. In particolare, nota Sutherland, questo tipo di criminalità ucci-
de il senso di responsabilità e di civismo: mentre una violenza personale riunisce i
cittadini nel deprecare quanto avvenuto e li induce a riaffermare i principi fonda-
mentali della convivenza, la criminalità dei colletti bianchi mina la fiducia nelle
leggi e nello Stato, distrugge la certezza del diritto e le motivazioni dell’agire mora-
le. È assassina sia delle nostre vite sia della possibilità di stare insieme decentemen-
te e umanamente;
2) la criminalità dei colletti bianchi tende naturalmente a nascondersi, a mimetizzarsi, a
camuffarsi. Poiché la criminalità dei colletti bianchi è propria delle alte sfere della
società (anche se poi si allarga socialmente e coinvolge un ampio numero di per-
sone), questi reati vengono occultati in un’ampia gamma di modi. Chi detiene il
potere ha i mezzi per tentare efficacemente di nascondere la propria criminosità,
oppure di presentarla sotto una falsa luce, o ancora di dare informazioni erronee,
oppure di minimizzare il senso di informazioni vere, o di sopprimere la possibilità
di diffusione e di circolazione di alcune informazioni. In conclusione, la crimina-
lità dei colletti bianchi è misconosciuta;
3) la criminalità dei colletti bianchi è impunita, anche perché misconosciuta, è spesso
assassina. I motivi sono molteplici e anche facilmente intuibili. Innanzitutto, la pos-
sibilità di scoprire e provare questo tipo di crimine è in larga misura possibile soltan-
to ai poteri pubblici, che, teoricamente, hanno i mezzi per scalfire il muro di omer-
tà, di connivenza, di protezione che circonda questo tipo di crimini. Gli stessi poteri
pubblici sono, però, in larga misura, connessi con le stesse persone che dovrebbero
perseguire. La connessione contempla un grande numero di possibilità, che vanno
dalle parentele vere e proprie alle parentele più efficaci in questo ambito: affari in
comune, favori reciproci, divisioni di un bottino che spesso proviene dall’affarismo
della politica e dell’intervento pubblico. La fonte primaria per la criminalità dei col-
letti bianchi è la collusione con i poteri pubblici, dunque, come può meravigliare
che il potere pubblico nelle sue molte facce (di vigilanza e di controllo, di investi-
gazione e di repressione) lasci spesso impunita questo tipo di criminalità? Questi
aspetti della criminalità dei colletti bianchi, sottolineati da Sutherland e da tutti gli
studiosi interessati al tema, hanno enorme rilevanza per quanto riguarda l’ingiustizia
amministrativa che vorrebbe spesso risultare assassina, misconosciuta, impunita.
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Forme di criminalità
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Forme di criminalità
con estrema mobilità nell’ambito di una rete transnazionale del terrore, nel cui ambito
vengono progressivamente superate anche le identità etnico-nazionali.
Anche gli obiettivi di ciascun gruppo possono essere distinti, pur essendo tutti acco-
munati da un denominatore comune: la guerra santa contro gli apostati e i miscredenti.
Il complesso delle cellule disseminate in Italia, in Europa e in Medio Oriente, rico-
stituitesi a partire quantomeno dalla prima metà del 2002, in continua interazione tra
loro e portate alla luce dalle indagini, costituisce una realtà stabile e consolidata, uno
strumento pronto ad entrare in azione nella catena dei singoli segmenti operativi (dallo
spostamento di un militante allo studio di un obiettivo, da un messaggio telefonico in
codice alla collocazione finale di un ordigno), che è destinata a concludersi con l’atten-
tato terroristico vero e proprio.
Se, o forse si può dire quando, dove e in danno di quale obiettivo, ciò avverrà
(contro uno Stato estero in territorio estero, contro una rappresentanza straniera o un
organismo internazionale sedente in Italia, contro un obiettivo italiano all’estero o, in
ipotesi, contro un obiettivo italiano in Italia), dipenderà dalle contingenze politiche del
momento o dalle concrete occasioni e dagli ordini ricevuti, ma, è certo, anche in ragio-
ne dei propositi politico-religiosi di guerra a tutto l’Occidente, resi manifesti ed esplici-
ti quasi quotidianamente, che il momento della decisione troverà le singole cellule già
pronte a portare a termine la loro parte di compito.
Sotto questo profilo appare evidente che, non solo la materiale detenzione di esplo-
sivi, ma gli spostamenti di militanti, di somme di danaro, di cellulari, le comunicazio-
ni criptate secondo concordati codici numerici, lo scambio di materiale di propaganda
finalizzato al reclutamento, la disponibilità di alloggi e soprattutto la produzione co-
stante di documenti falsi costituiscono, anche nei momenti di attesa e anche per molto
tempo, le condizioni senza le quali la catena che porta all’attentato terroristico non po-
trebbe mettersi in moto, sono strettamente funzionali al buon esito di un’azione.
Soprattutto la produzione di documenti falsi e sicuri, in cui le cellule italiane sem-
brano le più abili, costituisce uno strumento essenziale per l’organizzazione, in quanto,
tramite essi, i suoi membri possono muoversi abbastanza tranquillamente per i Paesi
europei e del Medio oriente, mantenendo i rapporti con gli associati (ben più essenziali
e intensi tra paese e paese di quelli che avevano caratterizzato le organizzazioni terrori-
stiche tradizionali), e, portandosi, al momento necessario, sugli obiettivi.
Le indagini dirette all’accertamento di tali condotte richiedono un rilevantissimo
impegno di mezzi umani, materiali e finanziari, spesso protratto per anni.
Ebbene, se non è dubbio che le valutazioni di tali aspetti debbano fare esclusiva-
mente carico all’organo inquirente, mentre il giudice deve restarvi indifferente nel mo-
mento decisionale, è evidente che nella valutazione del P.M. in ordine alla impostazio-
ne delle indagini, le decisioni dell’organo giudicante assumono un peso determinante.
Da qui, l’esigenza non solo di P.M. specializzati, ma anche di giudici specializza-
ti, i quali – nella loro funzione di controllo e garanzia – sappiano cogliere, fin dal pri-
mo momento degli atti di indagine, la valenza indiziaria degli elementi acquisiti, e poi
controllare per tutto il corso delle indagini lo sviluppo coerente del quadro indiziario
dalla sufficienza alla eventuale gravità necessaria per l’emissione del provvedimento cu-
stodiale. Dalla valutazione differenziata di materiali processuali, sostanzialmente iden-
tici e, in definitiva, dal diverso approccio giurisprudenziale al fenomeno del terrorismo
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Forme di criminalità
altro impiego nella zona dove risiedono, se già licenziati. Persistono, sempre, le con-
dotte estorsive poste in essere, anche da stranieri, con la tecnica del cosiddetto cavallo
di ritorno.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
affermare che ciò dipenda dai mezzi di difesa passiva, ormai assai sofisticati e sempre
più diffusi.
In forte aumento anche i furti di automezzi, e ormai è improcrastinabile che si pro-
ceda a investigazione sulle vere e proprie centrali che dirigono questo traffico, sia per
quanto concerne il prelievo delle vetture, sia per quanto riguarda la loro destinazione, una
volta, in qualche, modo camuffate e (apparentemente) regolarizzate.
La riposta alla criminalità comune non può che consistere in un dispiegamento di
forze, organizzate in pattuglie operanti a presidio di aree che, solitamente, non vedevano
la presenza di pattuglie di polizia, e che hanno sicuramente ottenuto, grazie alla loro vi-
sibilità, risultati non indifferenti dal punto di vista della prevenzione e della deterrenza,
Una categoria di reato contro il patrimonio particolarmente dilagante è quella del-
le truffe alle assicurazioni, che ha visto lo sviluppo di diverse indagini tese alla repres-
sione di veri e propri sodalizi organizzati per frodare le compagnie. Al di là della pecu-
liarità dei singoli gruppi (taluni dediti alla falsificazione della documentazione per la
emissione delle polizze, di prestiti da ottenere dalle finanziarie, altri all’alterazione delle
polizze stesse, ovvero alle denunzie di falsi sinistri stradali), ciò che colpisce è l’estrema
invasività del fenomeno, causata dal fatto che i soggetti che si rivolgono ai truffatori per
ottenere significativi risparmi sul premio non percepiscono, a pieno, la valenza illecita
della propria e dell’altrui condotta, giustificandosi con l’enorme diffusione della prassi
di ottenere un enorme sconto rispetto a premi avvertiti come particolarmente esosi.
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Forme di criminalità
n. 22/97 che, rarissimamente, vengono eseguiti in danno dei responsabili e/o soggetti
obbligati.
Ancora vaste dimensioni, assumono i reati commessi in violazione delle norme di
tutela del territorio e dell’ambiente. Nell’ambito di tale quadro, vengono spesso rilevati
traffici riguardanti rifiuti tossici nocivi provenienti dal nord Italia che, attraverso sofi-
sticati meccanismi di falsificazione di documenti di viaggio, vengono depositate presso
discariche illegali.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Da più parti si invoca un intervento del legislatore che ponga freno a questo gene-
re di attività. Anche se la legge già se ne occupa, è sicuramente non sufficiente, e una
rapida sintesi, anche se non esauriente, ma indicativa, sui reati di maghi, veggenti, gua-
ritori, cartomanti, potrà, al momento, risultare uno stimolo a denunciare e segnalare
alle autorità giudiziarie. Lo svolgimento dell’attività di astrologo, grafologo, chiroman-
te, veggente, occultista non è, di per sé, vietato. Tale svolgimento diventa proibito, e
quindi il relativo contratto diviene nullo, per illiceità della causa, se contrario a norme
imperative, all’ordine pubblico, al buon costume o quando sia addirittura sanzionato
da norme penali.
Ciò premesso, va precisato che, seppur le predette attività non siano vietate, colo-
ro che le svolgono integrano, nella maggior parte dei casi, gli estremi del reato di cui
all’art. 661 del codice penale (abuso della credulità popolare: arresto fino a tre mesi o
ammenda fino a lire 2 milioni – vecchia valuta) e l’illecito di ciarlataneria (ora depena-
lizzato ex art. 33 legge 689 del 1981, con riferimento all’art. 121 t.u.p.s). È il caso, ad
esempio, dei maghi che pubblicizzano e magnificano le proprie capacità attraverso le
inserzioni pubblicitarie. In tal senso, merita segnalare le decine e decine di pubblicità
ingannevoli sospese dall’IAP e dall’Antitrust, perché contrarie alle norme che discipli-
nano la pubblicità (per citarne alcuni: Mago Otelma, Mago Benedetto dal Papa, Mago
don Cesare, Cartomanzia Servizio sociale, Talismani). Coloro che si professano guari-
tori, integrano, oltre a quelli sopra evidenziati, il reato di cui all’art. 348 del codice pe-
nale (abusivo esercizio di una professione – reclusione fino a tre mesi o multa da lire
duecentomila a un milione – vecchia valuta e procedibilità d’ufficio). Il reato di truffa
(che spesso ricorre) è più difficile da dimostrare ed è procedibile solo a querela di parte
(art. 640 cod. pen.: reclusione da sei mesi a tre anni e multa da lire centomila – vecchia
valuta). In tutti questi casi, il locale ove viene svolta l’attività illecita può essere seque-
strato e devono essere apposti i sigilli. Inoltre, le somme corrisposte dalle vittime-clienti
devono essere sequestrate e restituite.
Se venisse avviato un procedimento penale e tale procedimento dovesse dar luo-
go ad una assoluzione, i maghi potrebbero immediatamente essere contravvenzionati
ai sensi dell’art. 1 comma ultimo, legge 516 del 1982: omessa tenuta delle scritture con-
tabili e denunciati per l’omesso versamento dell’IVA e dell’IRPEF sui redditi degli ul-
timi cinque anni, compresa una sanzione del 100% sulle somme non versate all’erario.
Tutta la giurisprudenza esistente, fino ad oggi, è a favore dei maghi (tutti assolti) a ec-
cezione di quelli che si fregiavano del titolo di dottore, o, eventualmente, per quelli che
hanno commesso il reato di truffa, magari affiancato dal reato di abuso sessuale, ed altro.
Ma va precisato che la giurisprudenza esistente non fa testo, in considerazione del bas-
sissimo numero di denunce presentate negli ultimi anni. Il reato di abuso della credulità
popolare è facilmente dimostrabile. Molti antropologi si sono occupati del fenomeno
dei maghi e dell’occultismo nelle televisioni private; e hanno rilevato che se molti di que-
sti maghi sono di una evidente banalità e volgarità, molti altri, al contrario, sono di una
tale spregiudicata furberia e anche intelligenza e cultura, da poter facilmente imporsi
a gente fiduciosa e sprovveduta. Capire l’imbroglio, per persone evolute, è fin troppo
facile: ciò che colpisce è la modernissima organizzazione aziendale del tutto: la strega,
la cartomante, l’indovina, che una volta avevano la loro clientela nel quartiere, oggi, si
sono dilatate nell’etere. È quasi avvilente che oggi, a tre secoli dalla nascita di Voltaire,
134
Forme di criminalità
si debba assistere a questi fenomeni. Ma d’altra parte, lo stesso Voltaire, nel suo Dizio-
nario filosofico, scriveva: “dicono che il mondo vada affinandosi, sia pure lentamente. Ma
in realtà esso, dopo essersi ripulito per un pò, ricade nel fango; a secoli di civiltà seguono se-
coli di barbarie, come l’alternarsi del giorno e della notte”. La protezione degli sprovve-
duti, dei creduli è ovviamente la ratio della norma, la quale, peraltro, è di una chiarez-
za assoluta, tanto da rendere superflua qualunque attività interpretativa: in claris non
fit interpretatio. È anche ovvio, peraltro, che una certa attività possa essere vietata, cioè
costituire illecito amministrativo, pur senza costituire illecito penale. Approfittare del-
la credulità popolare non è consentito; la legge lo vieta per tutelare le masse ingenue e
ignoranti: purtroppo, questo ritorno in massa, dal più buio Medioevo dei sortilegi, dei
filtri, degli amuleti, delle cartomanzie, si collega, direttamente, al diffondersi nel mon-
do di superstizioni, di fanatismi, di integralismi più o meno camuffati di pretesa reli-
giosità, di violenze con pretesti ideologici.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Forme di criminalità
possono essere raggruppati movimenti che aderiscono alla visione teologica della Chie-
sa Cattolica, ma anziché rivolgersi a Dio, professano la loro fede nel Satana biblico. Ne-
gli Stati Uniti, questo genere di satanismo è il risultato di scismi nella Chiesa di Satana;
in Europa, si rifà di più all’occultismo della fine del secolo scorso. Il tempio di Set, una
sètta fondata nel 1975 a San Francisco da Michael A. Aquino, in seguito all’apparizio-
ne personale di Satana, da cui riceve il comando di venerarlo, non più con il vecchio
nome, ma con quello di Set, appartiene a questo gruppo.
Il Satanismo acido, invece, comprende gruppi a sfondo sadico, orgiastico o droga-
stico, dove il satanismo, secondo alcuni studiosi, è il pretesto per atti di violenza, orge e
droga-parties. Si tratta, in effetti, di piccolissimi gruppi non strutturati, che si formano
e si disfano solo per compiere qualche gesto particolare. Sono quindi gruppi effimeri e
disorganizzati, specializzati in crimini rituali e orge, anche se, non tutti i presunti crimi-
ni rituali e le orge, hanno sempre a che fare con il satanismo. I satanisti acidi formano
piccoli gruppi di circa dieci-quindici persone, sono spesso giovanissimi, si ritrovano per
consumare droga, leggere libri satanici e ascoltare il rock cosiddetto satanico. Qualche
volta si spingono fino alla profanazione di cimiteri e chiese, o alla messa in scena di ri-
tuali nei boschi attorno alle città o ai piccoli paesi.
La maggior parte delle notizie e degli allarmismi sul satanismo si riferisce proprio
a questi piccoli movimenti, i cui esponenti, o semplici partecipanti, vengono alla ri-
balta delle cronache, in occasione di omicidi in nome di Satana, commessi da zelanti
giovani servitori del demonio, plagiati e guidati dalla sètta, come spesso informano i
giornali, oppure spinti da problemi psicologici molto più profondi, che, a volte, tro-
vano origine nella situazione familiare, prima che in quella sèttaria, che spesso si rive-
la inesistente.
L’ultima corrente in cui viene classificato il satanismo è quella del Luciferismo, un
satanismo di orientamento manicheo o gnostico, che traduce in miti e riti, teologie in
cui Satana o Lucifero è oggetto di venerazione all’interno di cosmogonie che ne fanno
un aspetto buono o, comunque, necessario del sacro e della divinità. In questa corren-
te, il movimento organizzato più noto è quello nato a Londra nel 1961 e scioltosi nel
1974, denominato The Process.
Accanto a questa distinzione di gruppi dediti al culto di Satana, si può tracciare
una mappa dei soggetti che si muovono entro queste aree:
- isolati tradizionali: streghe e maghi che rivestono in società l’abito dello sciamano;
sono dotati di speciali legami con l’anti-dio, da consultare per ottenere fatture a
morte, imprecazioni, e così via;
- isolati dediti a droghe, che godono di visioni sabbatiche e infernali nel trip droga-
stico;
- isolati psicotici, sofferenti di follia religiosa a contenuto satanista. Tra gli associati,
sarebbero satanisti in senso proprio, puri, cioè legati al Satana biblico;
- i gruppi satanisti tradizionali, che celebrano messe nere e hanno una fede opposta,
ma parallela ai dettami cristiani;
- i gruppi dediti a droghe;
- gruppi di trasgressori sessuali, con tendenze sadomasochistiche e/o tendenze orgia-
stico-naturalistiche.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
- i seguaci di Baphomet (dio della sfera del divenire, contrapposto a Javè, dio dell’es-
sere, della sfera celeste);
- i carismatici, che credono nella rivelazione e nella venuta in terra di Satana, de-
miurgo buono, capace di riparare la Creazione;
- i razionalisti, che identificano il demonio con le forze compresse e represse della
nostra civiltà, forze che devono essere rivalutate e portate alla coscienza (influenza
junghiana).
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Forme di criminalità
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Criminologia ed elementi di criminalistica
- Ordine del lupo mannaro: un autore di scritti sul satanismo, Nikolas Schreck, fon-
da, nel 1984, l’Ordine del Lupo Mannaro (Werewolf Order). Schreck si ispira a La-
Vey, ma l’aggressività nei confronti del Cristianesimo è particolarmente violenta. I
riferimenti al nazional-socialismo hanno suscitato simpatie in ambienti particolar-
mente legati al neo-nazismo.
- Chiesa della guerra: la Chiesa della Guerra (COWAN) accetta molti degli insegna-
menti di LaVey: si dichiara pagana e atea, ma, allo stesso tempo, vuole mantenere
gli aspetti validi delle religione, cioè il rituale e i simboli. La Church of War, celebra
la vita come guerra di tutti contro tutti, dove non c’è misericordia e contano solo
la forza e il coraggio. Satana è il simbolo della guerra, e le guerre come grandi ri-
tuali satanici pubblici non devono essere evitate, ma favorite.
Non solo l’America è protagonista del fenomeno satanico, in quanto anche l’Italia
ha la sua collezione di Chiese Sataniche Ufficiali, gruppi dediti a un satanismo di-
chiarato, e sono:
- Chiese di Satana: a Torino sono presenti due differenti movimenti che si denomi-
nano Chiesa di Satana; un gruppo nasce negli anni Sessanta e segue l’impostazio-
ne filosofica della Chiesa di Satana di San Francisco, basandosi sulla Messa Nera
secondo la versione interna degli adepti di LaVey;
- Chiesa della liberazione satanica: trae la sua origine dai contatti con un occultista
francese degli inizi del 1970, Claude Seignolle, autore di una serie di opere sulle
presenza del Diavolo nella tradizione popolare francese, conquistando una fama
insolita. Questa seconda Chiesa di Satana è meno razionalista della precedente, e
tenta, con i suoi rituali dal sapore forte, di evocare un Diavolo reale.
- O.T.O (Ordo templi orientis): Roberto Negrini, dopo essersi interessato di dischi
volanti e avere avuto contatti con diverse branche straniere dell’O.T.O, ne fonda
una indipendente, che si denomina luciferiano.
Negrini, tuttavia, mantiene ferma l’ideologia originaria di Crowley, per cui solo
l’uomo è l’unico dio, anche se una certa dose di ambiguità nei manuali e riti del
movimento ha permesso a stampa e televisione italiane di vedere in Negrini un
prototipo di satanista italiano.
- Confraternita di Efrem del Gatto: Sergio Gatti, vero nome di Efrem del Gatto, fonda
nel 1980 a Roma la sua confraternita che ritiene Lucifero superiore a Satana e crede
che sia un personaggio realmente esistente. Gatti celebrava i riti luciferiani una vol-
ta al mese nel suo Tempio sito nella zona del Monte Sacro, ed esercitava un’attività
di mago a pagamento. È deceduto il dicembre del 1998 all’età di 54 anni.
- Bambini di satana: le origini del gruppo dei Bambini di Satana Luciferiani di Bolo-
gna risalgono ai primi anni Ottanta, e ruotano attorno alla figura del suo fondato-
re, Marco Dimitri (o Bestia 666, come si definisce lui stesso), ex guardia giurata e
ora sacerdote di satana a tempo pieno. Il gruppo celebrava i suoi rituali in casolari
diroccati o boschi, oggi ha un tempio a Bologna. I riti comprendono messe nere e
messe rosse in cui, secondo Dimitri, tutti hanno rapporti sessuali con tutti, anche di
tipo omosessuale, e si ricorre, se del caso, a pratiche sado-masochistiche per scate-
nare certe energie. Gli adepti possono usufruire di una serie di servizi, che vanno
dai matrimoni fra uomo e donna a quelli fra uomo e uomo o donna e donna, o,
ancora fra donna uomo e donna, e così via.
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Forme di criminalità
La loro filosofia satanica è riassunta in sei punti: l’esaltazione del vizio; l’arte; la
guerra; la scienza; lo spirito, che è orgogliosa confidenza in se stessi; la ricchezza.
Nel Vangelo Infernale, Dimitri proclama: “io, Marco Dimitri, dopo la morte di
Crowley, la caduta di LaVey e di Manson, data l’idiozia dell’idea dell’esistenza di
una Chiesa di Satana, ridicolo controsenso, mi propongo quale riferimento mon-
diale del culto demoniaco. Il mio fine è essere la giovane guida di tutti i demoni
della terra”.
Tra il 1989 e il 1992 infiltrati dei carabinieri hanno provocato noie per Dimitri e
perfino un’irruzione nel 1992 nel Savignano sul Rubicone, nel Riminese, mentre
una sacerdotessa giaceva nuda sull’altare. Le conseguenze penali sono state nulle,
ma è in quell’occasione che Dimitri ha perso il suo incarico di guardia giurata.
Sicuramente meno famose e ancora per la maggior parte coperte da un velato mi-
stero sono altre sette sataniche individuate: in Piemonte, i Figli di Satana; a Pescara,
Le Ierudole di Ishtar (gruppo satanista tutto al femminile); in Liguria, il Sacro Cerchio
dell’Alba Dorata.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
illeciti, di rifiuti e sostanze inquinanti, nonché alle attività della cupola del bestiame che,
dal furto di singoli capi, è passata ai trasferimenti occulti di intere mandrie o greggi per
frodare l’Unione Europea, sino ad arrivare alla macellazione clandestina e alla vendita
di carni infette.
Spesso, le organizzazioni criminali, avvalendosi della compiacenza di alcuni alleva-
tori, reperiscono animali privi di garanzie sanitarie o gravemente malati, che vengono
immediatamente macellati in luoghi clandestini. Le carni, previa compilazione di falsi
documenti identificativi, vengono immesse sul mercato attraverso una rete di grossi-
sti, collegata al più ampio circuito criminale. Il quadro delineato dimostra che le aree
rurali sono particolarmente esposte a forme diversificate di aggressione da parte di una
criminalità specializzata, con gravi rischi per l’imprenditoria agricola. Del resto, la na-
tura stessa dell’impresa agricola, assai articolata e sovente frazionata sul territorio, non
sempre agevola l’acquisizione di dati utili per attuare interventi mirati.
Quanto al primo punto, va subito precisato che molto spesso, soprattutto nelle zo-
ne ad alto rischio di criminalità organizzata, la famiglia svolge un ruolo fondamentale
per verificare l’incidenza delle riforme sociali, politiche, economiche e culturali dello
Stato. Tenuto conto che il livello di benessere economico nelle famiglie è migliorato ri-
spetto agli anni passati, deve precisarsi che la disoccupazione e il livello di povertà del
c.d. proletariato sono aumentati.
Il tutto non favorisce certamente la famiglia e gli aspetti che all’interno della stessa
possono rappresentare fattori di sviluppo della criminalità. Se a ciò si aggiunge l’assenza
o la scarsa cultura di base, e l’eventuale stato di disoccupazione, si assiste all’annienta-
mento dell’istituzione famiglia.
Le famiglie numerose, disagiate, multiproblematiche, l’uso di metodi educativi
errati, la disgregazione familiare e altri fattori contribuiranno, in alta percentuale, ad
agevolare l’ingresso dei soggetti più vulnerabili nel vortice del crimine. Nessuno può
negare che qualsiasi bambino, per crescere sano, ha bisogno di essere guidato, ha bi-
sogno di essere compreso, necessita di affetti e cure che, soprattutto una famiglia nor-
malmente strutturata, può garantirgli. Il fatto di avere genitori che vivono una vita
complicata, che forse sono già entrati nel circuito del crimine organizzato o che vivo-
no in zone dove l’illegalità è norma di vita, significa, per i componenti della famiglia,
assenza di punti di riferimento, e alta probabilità di percorrere la stessa strada del ge-
nitore o dei genitori.
A fronte di ciò, occorre che lo Stato, nell’estrinsecazione della sua politica di pre-
venzione criminale, intraprenda percorsi che limitino la possibilità che la famiglia si
presenti come fattore criminogenetico. Infine, se si pensa che i figli dei mafiosi sono,
spessissimo, obbligati ad intraprendere la carriera criminale dei loro genitori si compren-
de quanto sia importante agire sulle famiglie, non propriamente inserite nel circolo
142
Forme di criminalità
mafioso. A tali problematiche, dunque, si può porre rimedio solo mediante un’azio-
ne sinergica che promani dallo Stato e si rafforzi con il contributo di tutta la socie-
tà civile.
Gli studi sociali attuali e del passato, pur nella diversità degli approcci utilizzati,
hanno sempre cercato di ricondurre la famiglia a dei modelli: pattern. Questi ultimi,
purtroppo, non sono esaustivi per definire un ambito in continuo divenire e in repen-
tino modificarsi. Il momento storico-culturale attuale, sempre più improntato e per-
vaso da concetti quali globalizzazione e per molti aspetti, omogeneizzazione, vede, nello
stesso tempo, un concetto e una forma di famiglia sempre più differenziato e profonda-
mente caratterizzato dalla individualità. È opportuno, allora, cercare di capire perché
la famiglia, cellula base della società, sempre più spesso, diviene ambito in cui maturano
fatti di violenza che degenerano poi in tragedia. Le trasformazioni della società attuale
dovute a motivi politici, economici, allo sviluppo tecnologico, all’adozione di model-
li culturali distanti, hanno alterato drammaticamente gli equilibri all’interno della fa-
miglia, mettendo fortemente in discussione i ruoli da sempre stabiliti e deludendo, al
contempo, le aspettative reciproche dei membri della famiglia. L’Italia fortemente ca-
ratterizza e contraddistinta dal concetto di famiglia, rispetto ad altre nazioni europee,
travolta dal cambiamento, ha visto cedere uno dei pilastri della propria cultura. L’or-
ganizzazione, se vogliamo definirla primaria, il contenitore degli umori individuali, il
piccolo clan capace di decidere in maniera del tutto autoritaria del destino dei suoi sin-
goli membri, ora è svuotata del proprio significato. La difficoltà esistenziale nella ge-
stione quotidiana porta gli individui a una continua tensione, tensione dovuta anche
alla fortissima competitività su cui si basano molti rapporti sociali e lavorativi; i modelli
culturali che si impongono, poi, si basano sul successo ad ogni costo e senza scrupoli,
per cui, alla fine, l’individuo si ritrova stretto tra una realtà macrosociale difficile da af-
frontare e da superare, e una famiglia che non è più capace di dare certezze e stabilità.
In questo modo, la via più semplice è quella di scaricare le frustrazioni sui congiunti e
tra questi, quelli più deboli come donne e bambini. Non è infatti da sottovalutare l’in-
fluenza che i modelli culturali attuali esercitano sull’individuo.
b) la scuola
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Criminologia ed elementi di criminalistica
c) i mass-media
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Forme di criminalità
dal papato, che, quindi, è da considerare mandante e responsabile di tutti gli inenarra-
bili orrori che trasformarono l’Italia di quell’epoca in un deserto di fame e rovine.
Le stragi non si limitavano agli eretici, ma coinvolgevano anche gli ebrei che ad
Alessandria d’Egitto subirono lo sterminio parziale e la deportazione totale di questa
loro popolatissima comunità, la più numerosa della diaspora.
Per la repressione del paganesimo, l’imperatore Teodosio II varò un’ampia codifi-
cazione che prevedeva pene draconiane contro chiunque si ostinasse nei vecchi riti ido-
latrici: l’arte classica fu gravemente colpita da numerose devastazioni di insigni templi
e la cultura lo fu dall’incendio dei libri, accusati di essere strumento del culto pagano
(esempio famoso il rogo dei libri sibillini). Tutti i centri filosofici furono chiusi, i mae-
stri esiliati o uccisi, come la famosa Ipazia di Alessandria, assassinata con la co-respon-
sabilità del patriarca Cirillo; anche le Olimpiadi furono vietate, i teatri chiusi, trasfor-
mati in cave di pietra.
In quest’epoca, iniziano le prime stragi fra cattolici determinate dalle ambizioni
contrastanti dei diversi gruppi di potere clericali, sia a Roma sia in molte ricche sedi
diocesiane. Il 26 ottobre 366, ben 137 fedeli dell’antipapa Ursino, furono massacrati
all’interno della basilica di S. Maria Maggiore dai fautori di papa Damaso, tutti merce-
nari assoldati fra la manovalanza della criminalità dell’epoca.
Abbiamo anche i primi casi di papi morti improvvisamente in circostanze da far
sospettare un avvelenamento, ma il peggio in questo campo avverrà nei secoli seguen-
ti. La complicità fra alto clero e potere politico imperiale sono state ben evidenziate: la
situazione di sistematica intromissione aveva investito perfino la teologia dogmatica,
poiché tutti i concili ecumenici erano convocati dagli imperatori bizantini che, spes-
so vi imponevano la loro volontà autocratica. In tali assemblee, il potere dei papi non
era affatto preminente, come invece indicano i testi storici filo-cattolici. La pretesa
dei papi di avere un primato su tutta la cristianità, proprio perché a Roma sarebbe
morto l’apostolo Pietro, è polemicamente contestata dall’autore su basi scritturali e
storiche.
Ai nostri giorni, la situazione risulta ben diversa: la Chiesa non fomenta guerre,
non opera stermini, non diffonde l’odio: al contrario, è promotrice di pace. Solo al-
cune cellule del suo apparato hanno destato sgomento, apprensione, coinvolgendo, al
contempo, l’opinione pubblica sui drammatici episodi di pedofilia, antichi o recenti, in
cui sono stati purtroppo coinvolti sacerdoti o religiosi cattolici. Alcuni casi statuniten-
si e canadesi hanno avuto grande risonanza, e hanno indotto singole diocesi e le con-
ferenze episcopali nordamericane ad avviare inchieste e a proporre misure preventive.
Stabilire quanti sono i preti e i religiosi cattolici pedofili non è irrilevante. Le tragedie
individuali sono difficilmente descritte dalle statistiche, ma il quadro statistico può
aiutare a capire se si tratta di casi isolati o di epidemie, o se vi è qualche cosa nello stile
di vita del clero cattolico che rende questi episodi più facili a verificarsi, di quanto non
avvenga, per esempio, fra i pastori protestanti o fra i maestri di scuola laici. La Chiesa
cattolica, almeno in Nord America, ospita una percentuale di pedofili elevata e unica
rispetto a tutti i gruppi religiosi dotati di un clero o di religiosi. Le statistiche parlano
di migliaia di casi.
In tema di abusi sessuali, Shupe, sostiene che questi sono più diffusi fra il clero
cattolico che altrove, anche se le cifre correnti sono certamente esagerate. Il sociologo
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Forme di criminalità
registra una superiorità numerica maschile. Nella mafia, oggi, la donna sostituisce,
spesso integralmente, le funzioni dell’adepto-uomo, discostandosi dalle precedenti,
perché ha scelto l’impegno e il ruolo della donna di mafia, pretendendo e ottenendo
di agire all’interno dell’organizzazione. Questo ha portato alcune di loro, perfino, a
rinnegare mariti e figli perché pentiti, quasi che far propri i valori mafiosi fosse sino-
nimo di quel protagonismo negato che ha contrassegnato, e in parte ancora contrasse-
gna, il ruolo femminile all’interno di queste organizzazioni. Il più delle volte, però, si
è parlato delle donne di mafia che si sono schierate dalla parte della legalità. Una sorta
di evoluzione, quindi, sembra avere interessato anche le donne di questi ambienti co-
sì particolari. Specialmente le più giovani, infatti, non vedono più nella lealtà e nella
sottomissione ai loro uomini un univoco referente. I casi sono numericamente poco
rilevanti, ma forniscono una sia pur parziale smentita empirica del nesso tra eman-
cipazione femminile e aumento della partecipazione alla criminalità. D’altronde, in
questo caso particolare, le donne risentono del peso di un processo di liberazione mol-
to lento, faticoso e sofferto. Per chi, non per scelta, ma per forza maggiore, si è trovato
a vivere in tali organizzazioni, liberarsi dalla cultura mafiosa con le sue ferree regole di
sempre, è un’impresa difficile.
Per valutare se, e in che modo, la criminalità femminile è cambiata, è opportuno
fare riferimento alle statistiche criminali. Da un punto di vista strettamente quantitati-
vo, l’inferiorità numerica dei reati commessi da donne, rispetto a quelli dell’altro sesso,
è netta e costante. Negli ultimi dieci anni, i rapporti tra i sessi, in media, sono: per le
persone denunciate, 18 donne ogni cento uomini; per i condannati di 15,5; per gli en-
trati in carcere dallo stato di libertà si riduce a 8,2 donne ogni cento uomini. Valori che
non hanno subìto oscillazioni di rilievo nel periodo considerato. Si può ricordare che la
componente femminile è poco presente anche in altri comportamenti devianti. Ricerche
sui giovani confermano che tra le ragazze non compaiono ancora manifestazioni ca-
ratteristiche delle sottoculture e delle bande delinquenti. Per quanto concerne la situa-
zione italiana, si denota, nell’ambito dei reati, un aumento numerico delle fattispecie:
furto nei grandi magazzini, falsa testimonianza, infanticidio, e così via. Merita un parti-
colare cenno la c.d. attività di sfruttamento della prostituzione, laddove, un’altissima per-
centuale di donne sono effettive tenutarie delle case di appuntamento; accanto a questa
realtà ce ne sono altre, le cui protagoniste sono sempre donne, ma sfruttate, seviziate,
allontanate dalle famiglie, in situazione di subalternità, per puro business. Particolare
preoccupazione, desta l’aumento della criminalità femminile in ambito intra-familiare:
omicidi del coniuge, maltrattamento della prole, figlicidi, violenza generalizzata. Anche le
dinamiche delittuose sono mutate nel tempo: oggi, le donne, le mamme uccidono di
più (si pensi ai casi di incuria nei confronti di bambini che muoiono per denutrizio-
ne, a quelli in cui i bambini sono stati uccisi perché introdotti dentro una lavatrice, ad
altri che vedono bambini massacrati durante il sonno o in situazioni di veglia, oppure
affidati o venduti per placare il desiderio di qualche pedofilo). Anche per la crimina-
lità femminile è opportuno tenere in debito conto la c.d. cifra oscura, e ciò in ragione
di un’elevata quantità di reati che vengono consumati, ma di cui l’autorità giudiziaria
non ne viene a conoscenza.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Forme di criminalità
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Criminologia ed elementi di criminalistica
con estrema leggerezza, filmate attraverso le videocamere e diffuse, come fosse solo un
gioco.
Adolescenti con problemi di disabilità che vengono scherniti, minacciati, percossi,
ma, al contempo, ripresi da un occhio tecnologico, sempre più sofisticato. La spetta-
colarità di tale tipologie di violenza ha il solo compito di sbalordire gli altri, farli ridere
e divertirli. Accanto a questi nuovi e contemporanei tragici eventi, anche la sessualità
gioca la sua parte.
Dietro le violenze, gli stupri, i rapporti sessuali tra minorenni, le attività sessuali
generalizzate, queste ultime vissute precocemente, e, spesso consensualmente da parte
delle adolescenti, vi è, oggi, uno strumento, il telefonino, che può essere utilizzato co-
me un’arma: quella del ricatto. Tutti questi eventi sono il prodotto di una società che
è diventata incapace di gestire le nuove generazioni. L’uso distorto delle tecnologie de-
ve trovare soluzioni, anche drastiche. Occorrerebbero segnali, in particolar modo pro-
venienti dalla giustizia minorile, dinanzi a tali casi di indirizzo penalistico. Le famiglie
degli adolescenti non sono contrari all’uso del telefono cellulare da parte dei loro fi-
gli, anche perché, tale strumento consente il controllo, in ordine alla loro ubicazione,
quando sono fuori di casa; sarebbe opportuno, allora, che le memorie dei cellulari ve-
nissero, periodicamente, controllati dagli stessi genitori, per indagarne il contenuto, in
ordine a numeri, messaggi, foto e video.
Se tali fenomenologie delittuose, a opera di minori, dovessero moltiplicarsi, sarà
opportuno, in un immediato futuro, affidarne il controllo contenutistico ai fornito-
ri dei servizi di telefonia ed internet, e ciò a scopo di tutela e di promozione dei diritti
umani.
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Forme di criminalità
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Forme di criminalità
c) L’educazione di strada
In Italia, la figura professionale dell’educatore di strada acquista sempre maggior
rilevanza sia sul piano della riflessione pedagogica che su quello della progettazio-
ne di interventi. In alcune città (Palermo, Torino, Milano, Bologna, Napoli), sono
in atto modelli di intervento formulati intorno a quest’idea. L’idea di fondo è l’in-
versione di direzione: non è il minore che va o è condotto al servizio sociale, è il
servizio che va verso il minore e lo incontra o lo aggancia là dove si trova, ciò con-
sente di raggiungere utenti che forse non avrebbero mai incontrato i servizi e che
spesso sono quelli che ne hanno maggiore bisogno.
I presupposti sono quelli della pedagogia territoriale, particolarmente indicati ad
orientare l’intervento educativo in ambiti, in cui la devianza ha, o rischia di avere,
carattere strutturale e non occasionale, in quanto sostenuta e legittimata dal tessu-
to sociale e dalla cultura locale.
I caratteri distintivi di questo servizio sono: conoscenza delle categorie locali, rego-
le, norme e modelli di comportamento attraverso cui adulti e minori interpretano
e ordinano la loro realtà, stabiliscono significati, stringono alleanze, contrattano
modalità e margini di accesso al loro mondo, accordano fiducia o diffidenza.
La conoscenza di questo ordine di fattori è decisiva: un minore che ha abbandona-
to la scuola a Napoli e ha contatti con la criminalità, può aver trovato, in questo,
non solo una gratificazione economica personale, ma anche il modo di contribuire
responsabilmente al bilancio familiare.
L’educatore si troverà di fronte a una scelta che trova legittimazione sul senso del
dovere o sull’attaccamento familiare. Ancora, è stato accennato che la devianza
può funzionare come un vero e proprio percorso formativo, costellato da prove
d’iniziazione alla vita adulta in cui il coraggio, l’intraprendenza e la spregiudicatez-
za sono fondamentali. In questo senso, qualunque opportunità alternativa rischia
di non fare alcuna presa sul minore se non si inscrive sulle categorie locali, se non
risponde alle esigenze del tessuto sociale. L’accesso dell’educatore, la sua accetta-
zione da parte del quartiere, della strada, dei gruppi naturali, dipende largamente,
nelle prime fasi, dalla sua capacità di trovare dei margini di compatibilità tra il suo
ruolo, le sue funzioni e il campo in cui si trova.
La ricerca di una sinergia e di una reciproca legittimazione con la gente del luo-
go sono fondamentali. Il quartiere, la strada sono una rete di relazioni fortemente
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Criminologia ed elementi di criminalistica
- il primo ha a che fare con il confronto perdente con i guadagni che provengo-
no da un’economia illegale;
- il secondo concerne lo scontro con i modelli che i minori hanno assimilato.
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Forme di criminalità
detentiva, gestisce la misura della sospensione del processo e della messa alla prova e
segue complessivamente tutte le misure alternative e sostitutive.
Svolge, altresì, compiti di assistenza in ogni stato e grado del procedimento e pre-
dispone la raccolta di informazioni utili per l’accertamento della personalità del mino-
re su richiesta del P.M. L’Istituto Penale, spazio originariamente preposto all’esecuzione
della misura cautelare detentiva e della pena, vede una sua ridefinizione organizzativa
più funzionale a un’azione educativa sempre più integrata con i servizi della giustizia
minorile e del territorio. Il Centro di Prima Accoglienza (CPA) è una struttura filtro
che ospita i minori arrestati e fermati per un massimo di 96 ore in attesa dell’udienza
di convalida; si tratta di un servizio finalizzato a evitare l’impatto con il carcere e che si
connota strutturalmente come una casa, dove gli operatori minorili accolgono, infor-
mano, sostengono il minore e avviano una prima prefigurazione del progetto educati-
vo, se il minore resterà nell’area penale. Le altre nuove tipologie organizzative, comu-
nità e centri diurni polifunzionali, rappresentano servizi di supporto all’intervento in
area penale esterna e vedono attualmente prevalere la formula del convenzionamento o
della cogestione con le forze del privato sociale.
Il recente Progetto ’98, elaborato dall’Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile,
costituisce una sintesi delle esperienze maturate in quella fascia d’intervento nota come
‘area penale esterna’ (misure cautelari non detentive, messa alla prova, riconciliazione),
il cui aspetto caratterizzante è dato da una relazione operativa che si dispiega, oggi ed in
prospettiva, al di fuori degli ambienti istituzionali in un rapporto, sia pure non sempli-
ce, di stretta interdipendenza con i servizi locali e con i contesti socializzativi di appar-
tenenza del minore. La concretizzazione di tali presupposti prende avvio da una modi-
fica strutturale che, nelle future tendenze di politica preventiva, si realizza nel Centro
Polifunzionale di Servizi, una struttura situata nei territori di competenza dei diversi
Centri per la Giustizia Minorile. Il Centro Polifunzionale si compone di diversi servi-
zi: Servizio di prima accoglienza, Servizio sociale, Servizio diurno polifunzionale, Servizio
comunità, Servizio controllo rafforzato.
Appare ipotizzabile, per il prossimo futuro, che i primi due servizi evolveranno
coerentemente con gli sviluppi dell’innovazione in corso. Il servizio diurno rappresenta,
invece, l’espressione più immediata dell’obiettivo di garantire continuità con l’esterno.
Tale struttura, infatti, non è riservata esclusivamente agli autori del reato, ma si rivolge
ad un’utenza mista che accede alle attività proposte tramite invio nel territorio (scuole,
parrocchie, servizi sociali territoriali ecc.).
Gli ultimi due servizi, costituiscono quelli più direttamente organizzati in forma
istituzionale secondo modalità contenitive, diversamente articolate sulla base delle ca-
ratteristiche del ragazzo, della sua posizione giudiziaria o di problematicità presentate. Il
servizio di controllo rafforzato sostituisce l’Istituto Penale ma, sostanzialmente, ne ripro-
pone la logica per tutti quei casi che non possono accedere ad ipotesi meno strutturate.
I servizi comunità si differenziano, al loro interno, fra comunità filtro, con fun-
zioni di accoglienza, inserimenti comunitari a medio e lungo termine e comunità pro-
tette, rivolte a quei ragazzi per i quali risulta inadeguato o prematuro il collocamento
presso strutture territoriali.
Questa nuova articolazione dei servizi e la complessità della proposta organizza-
tiva, sempre più orientate ad un’apertura al territorio di appartenenza del minore a
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Forme di criminalità
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CAPITOLO 7
7.1 L’aggressività
Il termine aggressività indica sia il comportamento finalizzato all’adattamento del-
l’uomo, in modo attivo, creativo e disponibile, al mondo che lo circonda, sia il compor-
tamento violento, inteso come aggressività fisica verso un essere umano con l’intenzione
di fare del male.
La definizione di aggressività non è chiara: nella revisione della letteratura, infatti,
vari Autori, esponenti di impostazioni teoriche diverse, hanno affrontato il problema
privilegiando, maggiormente, lo studio delle origini e delle cause della condotta aggressiva,
piuttosto che il suo spessore clinico. Storicamente possiamo riconoscere tre posizioni
teoriche divergenti: 1) aggressività come fenomeno teso alla distruzione; 2) aggressività in-
tesa come istinto innato di controllo e comando; 3) aggressività come risultato di due istinti
umani fondamentali: quello della morte e della distruzione combinato a quello dell’amore e
della vita. In tutti i casi, l’aggressività si esprime con manifestazioni cognitive, emotive
e comportamentali (Rohrlich, 1998).
Il DSM-IV non prevede specificamente un disturbo aggressivo, ma il termine ag-
gressività compare nei criteri di diversi quadri clinici per cui la stessa si configura più
come una dimensione transnosografica che non come un elemento psicopatologico
nucleare e strutturante. Nel disturbo del controllo degli impulsi non classificati altrove
(NAS), esiste il disturbo esplosivo intermittente, i cui criteri diagnostici includono la pre-
senza di episodi ricorrenti, isolati, di incapacità di resistere agli impulsi aggressivi, che
causano gravi atti aggressivi o distruzione della proprietà.
Anche in altri disturbi mentali classificati nel DSM IV, l’impulsività, la rabbia e
l’aggressività fanno parte del quadro psicopatologico; nella schizofrenia, nell’episodio
maniacale, nella demenza, nell’abuso di sostanze, nell’alcolismo, nei disturbi di perso-
nalità (e in quelli borderline e antisociali in particolare), i comportamenti aggressivi sono
ben descritti. In altri disturbi, l’aggressività può essere presente in forma diversa, come
nel caso delle valenze suicidarie del depresso, degli attacchi di rabbia durante l’attacco
di panico, dell’intolleranza dell’ossessivo. La valutazione standardizzata, già comples-
159
Criminologia ed elementi di criminalistica
sa nelle forme di aggressività manifesta, pone problemi ancora maggiori quando l’ag-
gressività è mascherata o indiretta, sia per i pochi strumenti proposti, sia per la difficoltà
della raccolta dei dati mediante l’osservazione del comportamento, quando le condotte
aggressive sono meno obiettivabili
La valutazione dell’aggressività risulta particolarmente aleatoria quando si basa su
quanto il soggetto riferisce, come si verifica con gli strumenti di autovalutazione o con
le scale compilate dall’osservatore sulla base dei dati ricavati dal colloquio. Più atten-
dibile dovrebbe essere la valutazione del comportamento da parte di un osservatore
esterno anche se, in realtà, anche l’osservazione pone alcuni problemi, primo fra tutti,
quello più strettamente legato alla natura stessa dell’aggressività che, generalmente, è
un comportamento episodico, piuttosto che una condizione stabile o un comporta-
mento abituale o frequente. Di solito, nel caso dei comportamenti episodici, la va-
lutazione può essere effettuata sulla base dell’osservazione di un frammento del com-
portamento in questione, in quanto, esso sarà, con buona probabilità, rappresentativo
della condizione abituale del soggetto. Nel caso dell’aggressività, tuttavia, la normale
osservazione clinica offre difficilmente l’opportunità di coglierne direttamente anche
solo dei frammenti; spesso, solo un’osservazione del soggetto nel suo setting naturale
e per un periodo sufficientemente protratto può consentire di cogliere eventuali ma-
nifestazioni aggressive, anche se sporadiche. Si potrebbe pensare, in alternativa, a una
valutazione dell’aggressività in un setting sperimentale in cui, controllando e modi-
ficando la situazione e gli stimoli, il comportamento aggressivo possa essere in qualche
modo provocato e quindi misurato. Esperienze, in questo senso, sono state fatte, ma
restano limitate al campo della ricerca e avrebbe poco senso (né sarebbe comunque
agevole) trasferirle a quello clinico. Nonostante queste difficoltà e questi limiti, l’ag-
gressività può essere indagata e valutata con risultati soddisfacenti, non soltanto me-
diante i classici questionari di personalità, ma anche attraverso questionari specifici;
inoltre, utilizzando le tecniche proiettive, l’aggressività può essere studiata anche quan-
do non è espressa, quando investe i livelli più profondi. Poiché i soggetti con deficit
intellettivi o disfunzioni organiche cerebrali possono manifestare, con buona frequen-
za, comportamenti aggressivi, nella valutazione dell’aggressività di questi soggetti può
essere indicato l’uso di test di efficienza, come la Wechsler Adult Intelligence Scale -
WAIS (Wechsler, 1974) o il Bender Visual Motor Gestalt Test (Bender, 1938), anche
se, naturalmente, i risultati migliori si ottengono impiegando i test, i questionari, le
RS che indagano in maniera più mirata l’aggressività, sia essa espressa in maniera di-
retta o indiretta.
160
Aggressività ed anormalità personologica
Distinse, come è noto, due tipi di delinquenti: il delinquente nato, per il quale la
criminalità è insita nella propria natura; il delinquente occasionale, portato al delitto da
fattori causali diversi. Il delinquente nato era considerato un soggetto non recuperabile,
da sopprimere o da rinchiudere, mentre per i delinquenti occasionali si poteva prevede-
re la rieducazione in carcere. Nel suo lavoro principale, L’uomo delinquente, del 1876,
Lombroso sosteneva che i criminali non compiono azioni aggressive per un atto di vo-
lontà malvagio libero e cosciente, ma piuttosto perché hanno tendenze malvagie, origi-
nate da un’organizzazione fisica e psichica diversa dall’uomo normale. Lombroso stu-
diò a lungo i crani, le facce, i piedi, le abitudini di vita di famosi criminali, allo scopo di
dimostrare scientificamente che l’uomo delinquente possedeva tratti subumani che lo
differenziavano dal resto della popolazione ed erano responsabili delle sue tendenze ag-
gressive. Questi studi non hanno prodotto risultati scientificamente dimostrabili e oggi
questa teoria è stata definitivamente abbandonata.
Nella ricerca moderna sulle strutture neuroanatomiche, è parso chiaro che i siste-
mi neuronali coinvolti con il comportamento aggressivo sono localizzati soprattutto nel
sistema limbico e nel tronco dell’encefalo. Diversi studi hanno dimostrato, ad esem-
pio, che lievi stimolazioni elettriche del sistema limbico nei ratti, sollecitano violenti
attacchi nei confronti degli animali vicini. Ricerche sull’influenza del sistema neuroen-
docrino hanno individuato nel testosterone, ormone sessuale maschile, un importante
modulatore dei comportamenti aggressivi, che spiegherebbe anche la maggiore aggres-
sività dell’uomo rispetto alla donna. Anche nelle donne particolarmente aggressive so-
no stati trovati alti tassi di testosterone. Quello che non è ancora chiaro è se sia l’aggres-
sività che porta ad avere alti livelli di testosterone o se sia il testosterone che determina
i comportamenti aggressivi.
Come sempre, fra psicologia e biologia, la teorizzazione tende ad intrecciarsi. I dati
della ricerca più recente tendono, comunque, a lasciare aperta la possibilità che fattori
genetici influenzino l’aggressività, ma solo in modo indiretto, determinando problemi
nello sviluppo cognitivo (es. deficit dell’attenzione, basso Q.I, ecc.) che, a loro volta,
possono sfociare in condotte anti-sociali.
Naturalmente, oltre alla natura, è stata indagata anche la cultura, attraverso ricer-
che condotte su gemelli e bambini adottati, per vedere quale aspetto avesse la preva-
lenza nel determinare la condotta aggressiva. Questi studi hanno prodotto tuttavia ri-
sultati non sono sempre chiari e coerenti. è stato indagato l’ambiente sociale e non si
è potuto certo negare che la povertà, il sovraffollamento delle periferie metropolitane,
l’assenza di spazi per qualsiasi forma di attività ricreativa e la carenza di igiene, genera-
no sempre una sensazione di abbandono e di disperazione, che può condurre a com-
portamenti aggressivi come strumento di evasione e rivalsa sociale. Oltre a questo, le
crisi economiche, le guerre, la fame, le malattie, possono produrre fenomeni ancor più
evidenti di criminalità.
Anche la psicoanalisi si è occupata di trovare un’origine alle condotte aggressive, e
lo stesso Freud individuò, in un primo momento, l’aggressività come una reazione alla
frustrazione sperimentata da una persona durante la ricerca del piacere (ad esempio, il
neonato cerca il suo piacere nel cibo, che però non sempre gli viene dato al momen-
to in cui lui ne sente il bisogno; da qui la frustrazione e l’aggressività, che rappresenta
una strategia comportamentale per allentare lo stato di tensione generato dal mancato
161
Criminologia ed elementi di criminalistica
soddisfacimento immediato del suo bisogno). In una fase successiva, Freud formulò,
invece, la teoria della pulsione di morte, Thanatos, antagonista dell’istinto di vita, Eros.
Obiettivo dell’istinto di morte era quello di far tornare l’individuo allo stato inorganico
di partenza e, a questo, si opponeva l’amore, o Eros, con la sua forza vitale. Il compor-
tamento aggressivo, secondo questo modello, avrebbe dunque il duplice scopo di porta-
re all’esterno questa forza, altrimenti auto-distruttiva, e di ridurre lo stato di tensione
pulsionale. In entrambi i casi, però, Freud non mise in discussione il concetto per cui
l’aggressività era sostanzialmente una caratteristica innata dell’esistenza umana. E la sua
visione della vita era, non a caso, molto pessimista.
Le tesi di Freud sono state anche confermate dai c.d. etologi. Konrad Lorenz in te-
sta, che si chiede: cosa fanno gli animali a cui non è permesso lottare per il cibo, per
l’accoppiamento, per la difesa del territorio, per il rispetto della loro posizione gerarchi-
ca all’interno del gruppo? Esprimono aggressività, si cimentano in estenuanti lotte.
Da un punto di vista etologico dunque, l’aggressività è un istinto primario, trasmes-
so ereditariamente per favorire l’adattamento della specie, anche umana. Gli esemplari
maggiormente aggressivi infatti hanno sempre maggiori possibilità di successo nella sfi-
da per la sopravvivenza e possono riprodursi trasmettendo le proprie caratteristiche.
162
Aggressività ed anormalità personologica
colosità sociale era spesso oggetto di presunzione legale, senza bisogno di un accerta-
mento da parte del perito psichiatra. Si è visto, anche, come il concetto di pericolosità,
mentre continua ad avere notevole rilievo in campo giuridico penale, è stato nettamen-
te superato nelle normative riguardanti i servizi psichiatrici, cosicché, mentre la scien-
za psichiatrica si è rinnovata in modo radicale, la psichiatria forense ha ignorato ogni
sostanziale mutamento, spesso arroccandosi su posizioni e richieste, basate su conce-
zioni risalenti all’inizio del secolo, ormai del tutto superate. è forse in considerazione
della difficoltà di una prognosi criminale, oltre che per la consapevolezza delle conse-
guenze stigmatizzanti ed emarginanti che tale giudizio comporta, che il perito tende a
centrare tutto il suo elaborato sulla diagnosi psicopatologica, e trascura, o considera in
modo marginale, la valutazione relativa alla pericolosità sociale, che, in genere, è limi-
tata a poche righe della relazione conclusiva. Occorre, preliminarmente, notare come
l’attuale normativa in materia di misure di sicurezza manicomiali sia il frutto di riserve
e perplessità, anche per effetto di uno sviluppo della psichiatria che andava via via po-
nendo in dubbio la validità scientifica delle nozioni di imputabilità e pericolosità so-
ciale, sottoponendo, inoltre, a revisione critica, le tradizionali nosografie e il concetto
stesso di malattia mentale.
Il criterio classificatorio nosografico classico distingue i disturbi psichici in ano-
malie psichiche (distinte a loro volta in deficienze intellettive, reazioni psicogene ab-
normi e personalità abnormi) e malattie psichiche o psicosi (distinte a loro volta in
psicosi organiche e psicosi endogene). 1) Le deficienze intellettive sono caratterizzate
da uno sviluppo dell’intelligenza inferiore alla media, attribuibile a carenze congenite
o culturali ovvero, specie per le forme più gravi, a un processo morboso anteriore al-
l’età della maturità intellettiva che non viene mai raggiunta (idiozia, imbecillità, insuf-
ficienza mentale); 2) Le reazioni psicogene abnormi indicano anomalie episodiche, non
abituali, consistenti in una risposta psichica inadeguata per quantità, qualità o durata
a eventi esterni emotigeni o psicotraumatizzanti e chiaramente causata da tali eventi;
3) Le personalità abnormi indicano, invece, quelle anomalie praticamente costanti nel
soggetto, tali da potersi considerare attributi stabili della personalità. Le reazioni psi-
cogene e le personalità abnormi si distinguono ulteriormente, a seconda che presen-
tino tendenze nevrotiche (nevrosi d’ansia, isteriche, depressive, ossessive, compulsive,
postraumatiche, da indennizzo, neurastenie, ecc.), caratterizzate da stati d’ansia in mi-
sura eccedente e più duratura rispetto a quella presente in ogni persona, espressione
di una conflittualità non risolta, generata da conflitti interiori o interpersonali o con
l’ambiente sociale, ovvero, tendenze psicopatologiche (reazioni esplosive, a corto cir-
cuito, primitive, negativistiche; personalità istrioniche, esplosivi, impulsivi, disaffettivi,
fanatici sessuali, instabili, insicuri, ipomaniacali, ecc.), caratterizzate da anomalie del
carattere che favoriscono comportamenti di disturbo e di sofferenza per gli altri, men-
tre, di regola, mancano conflitti interiori. Dal punto di vista della pericolosità sociale,
si deve tener presente che le persone affette da disturbi nevrotici tendono a introietta-
re gli effetti dei propri conflitti e, quindi, di regola, non pongono problemi di notevo-
le disadattamento sociale e, da un punto di vista statistico, sono di scarso significato
criminologico, pur comportando sofferenze personali e familiari (salvo i casi di passag-
gio all’atto o acting out nevrotico, cleptomania a base ossessiva, e altri casi particolari);
le persone affette da psicopatie, invece, pongono più frequentemente problemi di disa-
163
Criminologia ed elementi di criminalistica
dattamento sociale, vivendo una maggiore conflittualità con il mondo esterno, e sono
statisticamente molto frequenti nell’ambito della delinquenza abituale e professionale,
violenta ed aggressiva.
164
Aggressività ed anormalità personologica
cheria, altri oggetti o sulla vittima; rilevare le impronte digitali nell’ambiente; reperire
sostanze ad azione afrodisiaca, stupefacente, narcotica o antifecondativa; individuare i
segni lasciati dalla colluttazione e dalla reazione difensiva della vittima; raccogliere resti
di indumenti stracciati, bavagli, lacci od oggetti di specifico significato sessuologico.
In caso di morte della vittima, occorre cercare sul suo corpo, oltre ai segni delle lesioni
mortali, quelle del delitto sessuale, le tracce di secreto spermatico, peli sulla cute e in
tutte le cavità. Per ciò che attiene la diagnostica dei delitti sessuali sulla vittima, essa si
divide in: 1) anamnesi, che serve soprattutto a mettere a suo agio l’esaminando. L’inter-
rogatorio su come si sono svolti i fatti consente di verificare concordanze o discordan-
ze con i risultati dell’istruttoria e mette in luce particolari utili per dedurre le modalità
della violenza e le sue conseguenze. Lo studio del comportamento dell’esaminando in que-
sta fase, ne permette di inquadrarne il carattere, la moralità, l’emotività, la ritrosia o la
sfrontatezza, permette di giudicare lo sviluppo mentale ed eventualmente la necessità
di un esame psichico approfondito per diagnosticare l’esistenza di una malattia mentale
che condizionasse un’inferiorità psichica, oppure, se residuano turbe psichiche impor-
tanti. Può aiutare, inoltre, a mettere in luce una simulazione di violenza, condotta fino
al punto da procurarsi ecchimosi e graffiature. Se è possibile, l’esame delle vesti della
vittima, permette di riconoscere strappi di allacciature, asportazione di bottoni, lace-
razioni indicative di una lotta. Potranno portare tracce organiche del colpevole o della
vittima quali sangue, sperma, peli, capelli, saliva e altre secrezioni. 2) Esame obiettivo,
che deve verificare se lo sviluppo somatico sia tale da consentire un’efficace resistenza
all’aggressore, quindi, si ricercano le lesioni somatiche accertando se sono riferibili al-
l’epoca in cui il reato fu consumato. E inoltre: a) lesioni da costrizione: possono essere
ecchimosi e graffi al viso, al collo, agli arti superiori, al torace, dovute a manovre di im-
mobilizzazione, sulla faccia interna delle cosce da divaricazione delle stesse, ma anche
più gravi, da corpi contundenti, nel tentativo di stordire la vittima o vincerne la resi-
stenza; b) lesioni da eccitazione sessuale, quali ecchimosi da suzione, ecchimosi digitali
da palpamento, ferite da morso; c) lesioni da perversione sessuale, quali percosse o flagel-
lazioni; d) lesioni da tortura, come tagli, pizzicotti, ustioni da sigaretta, ecc.; e) lesioni da
congiunzione carnale: 1. deflorazione, consistente nella rottura dell’imene durante il pri-
mo coito completo. L’imene presenta spesso delle incisure congenite che ne interessano
il bordo senza arrivare alla base d’impianto; le rotture da deflorazione sono profonde,
e distribuite solo nella metà posteriore, si mettono bene in evidenza stirandolo ante-
riormente con adeguato strumentario o premendo anteriormente durante esplorazione
rettale. Le lesioni recenti comportano tumefazione, arrossamento, ecchimosi e mode-
sto sanguinamento, ma già dalla terza giornata cominciano a ripararsi, completando-
si il processo in 8-10 giorni. Sono possibili deflorazioni senza coito e, viceversa, coiti
senza deflorazioni per particolare elasticità della membrana; 2. lesioni da coito violento:
nella donna adulta si producono ecchimosi ed escoriazioni sulla mucosa del vestibolo o
sulle grandi e piccole labbra. Se il coito, anzichè violento, è abusivo, la normale lubrifi-
cazione evita lesioni dei genitali. Se il fatto è molto recente, si possono repertare tracce
di sperma in vagina, peli vulvari; è sempre opportuno prelevare campioni di secrezione
vulvo-vaginale per esami di laboratorio. Nella bambina stuprata, le lesioni sono molto
profonde e gravi, possono interessare la vulva, la vagina, il perineo, il retto, la vescica o
i fornici vaginali; frequenti le complicanze emorragiche o infettive, anche mortali. Al-
165
Criminologia ed elementi di criminalistica
tre volte, l’atto sessuale di un adulto con bambine si limita al coito vestibolare, in que-
sto caso i residui di sperma si possono trovare intorno ai genitali o sulle vesti. L’uso di
falli artificiali o di altri corpi estranei può portare a lacerazioni della mucosa vulvo va-
ginale o rettale anche in donne adulte (atti di libidine violenta); 3. lesioni da coito ana-
le: lo sfintere anale contratto offre notevole resistenza alla penetrazione, per cui, sono
frequenti ecchimosi escoriate della mucosa rettale, rottura di vasi emorroidari o addi-
rittura lacerazioni dello sfintere. Le lesioni più superficiali riparano in pochi giorni. Lo
sperma viene eliminato alla prima evacuazione spontanea dell’ampolla rettale; 4. Lesio-
ni da coito orale: la vittima è in genere ridotta all’impotenza psichica, per cui, assecon-
da l’aggressore; questo ha il duplice effetto di evitare lesioni orali alla vittima e genitali
all’aggressore. Lo sperma può essere deglutito o sputato, nonostante la pulizia orale è
possibile rinvenire spermatozoi nella saliva se il prelievo è effettuato entro alcune ore
dalla violenza; 5. Lesioni da rapporti carnali ripetuti: nella violenza carnale continuata si
potranno riscontrare lesioni ecchimotiche o ferite in stadi evolutivi diversi, soprattutto
per manovre sadiche da parte dell’aggressore, poichè in genere, dopo la prima violen-
za, subentra uno stato di apatia e di passività che non permette ulteriori tentativi di re-
sistenza. Per ciò che attiene l’autore della violenza, l’esame del presunto colpevole ha lo
scopo di accertarne le tendenze sessuali, le condizioni mentali e fisiche, la forza musco-
lare, l’idoneità al coito. Talvolta si rilevano lesioni lasciate sul suo corpo dalla reazione
della vittima. Un tempo la violenza carnale era un delitto compiuto da una sola perso-
na; oggi invece assume sempre più le caratteristiche di un crimine di gruppo.
166
Aggressività ed anormalità personologica
Le pratiche di asfissia autoerotica sono state documentate fin dal 1600, principal-
mente in Oriente e successivamente in Sud America: esse venivano anche utilizzate co-
me trattamento per disfunzioni sessuali e impotenza. Generalmente, nei casi di asfissia
autoerotica una caratteristica costante della vittima è la sua nudità: sono molto rari, in-
fatti, i casi in cui i soggetti erano vestiti; qualora ci si trovasse di fronte a casi di questo
genere, è più probabile che si tratti di un vero e proprio suicidio e non di un incidente
di percorso.
Molto spesso, vengono ritrovati sulla scena del crimine materiale pornografico o
abiti femminili, che, probabilmente, il soggetto indossa giocando il doppio ruolo del
sadico, che immagina di essere l’assassino, e di una personalità masochista, femminile,
in cui una donna viene torturata. Purtroppo, su queste scene, si notano, spesso, tracce
di tentativi o meccanismi di autosalvataggio, evidentemente falliti.
Tecnicamente, la sindrome dell’asfissia autoerotica viene descritta dagli esperti co-
me impiccagione eroticizzata e ripetitiva, meglio conosciuta, appunto, come asphyxophi-
lia.
Viene praticata sia da uomini che da donne; può essere la causa di una morte per
apparente impiccagione o per asfissia, senza prove evidenti di un omicidio e senza in-
dizi per avvalorare la tesi del suicidio.
Anche i serial killer si sono spesso interessati particolarmente a questa modalità
erotica, primo fra tutti, l’agente di polizia Gerard Schaefer, in forza nella comunità ru-
rale di Brevard, in Florida. Schaefer rapiva giovani autostoppiste che poi conduceva nel
bosco, immobilizzandole o legandole strettamente fino al sopraggiungere della morte,
associando le torture all’impiccagione; alcune delle vittime, abbandonate nel bosco, fu-
rono rinvenute in avanzato stato di decomposizione mentre altre, invece, erano mira-
colosamente sopravvissute.
Anche i Serial Killer John Gacy, Joseph Berdella e Gianfranco Stevanin erano dedi-
ti a questo tipo di pratiche utilizzate per la soppressione delle loro vittime, strangolan-
dole, soffocandole e, addirittura, in alcuni casi, anche fotografandole, per perpetuare
l’estrema eccitazione dell’attimo fatale precedente alla morte.
Un maschio, bianco, età intorno ai 25 anni, venne trovato morto nella sua stanza
d’albergo. Il cadavere era completamente nudo e in posizione supina, il capo era alzato
da terra, poiché una cordicella di cuoio era stretta intorno al collo e legata ad una ma-
niglia; intorno a lui vi erano delle riviste pornografiche. Un’attenta indagine medico
legale chiarì che non si trattava nè di suicidio, nè di omicidio.
Come è possibile che un medico legale o un investigatore si trovi davanti a una
morte, avvenuta apparentemente per impiccagione, o tecnicamente per asfissia, senza
prove evidenti di un omicidio e in privazione totale di indizi atti ad avvalorare la tesi
del suicidio? La spiegazione, per quanto drammatica e sconvolgente, è, in realtà, terri-
bilmente semplice: la vittima stava cercando solo una gratificazione sessuale attraverso
l’utilizzo di una pratica erotica piuttosto desueta, ma in netta crescita, e terribilmente
pericolosa, anche se esaltante.
Si pensi che il fenomeno ha registrato, solo negli Stati Uniti, 320 casi nel 2002, sa-
liti drammaticamente a quasi 1.000 casi nel 2004.
Naturalmente, per ovvi motivi, non sempre è possibile determinare con certezza le
reali cause della morte o identificare il numero esatto dei decessi riconducibili a questa
167
Criminologia ed elementi di criminalistica
categoria, il che spiega l’estrema flessibilità delle statistiche, ma appare evidente che la
tendenza è in costante aumento.
Non si conosce dunque il numero esatto delle persone decedute nel corso del-
l’espletamento di tali pratiche erotiche, né il numero di soggetti che ne fanno regolar-
mente uso, ma si sa per certo che il fenomeno interessa comunemente maschi compre-
si nell’età adolescenziale tra i 12 e i 25 anni, per almeno il 71% dei casi accertati. Gli
aspetti medico legali che possono indurre gli investigatori a sospettare eventuali casi di
morte per autoasfissia erotica sono generalmente: strangolamento, impiccagione, le-
gacci da strangolamento, soffocamento e compressione del petto, e, più genericamente:
decessi sospetti avvenuti per infarto, colpo apoplettico o assideramento, che potrebbero
parimenti essere riconducibili alle più comuni pratiche autoerotiche.
Ultimamente, le modalità di esecuzione di queste particolari attività di autograti-
ficazione sessuale vengono parificate anche a una serie di fenomeni minori, tutti estre-
mamente pericolosi e in grado, se applicati in mancanza di condizioni di sicurezza, di
condurre alla morte del soggetto per: compressione del collo o del torace, esclusione
dell’ossigeno, chiusura delle vie aeree, elettrocuzione e inalazione di gas, assunzione di
veleni, eccitanti, sedativi o dopanti, miscugli di sostanze tossiche o non tossiche ma pe-
ricolose se mischiate assieme, somministrazione incontrollata di anestetici, bondage o
giochi erotici estremi di ruolo e di coppia.
Per quanto macabro possa sembrare, la diffusione massima di questa pratica si eb-
be quando, all’epoca delle impiccagioni, vennero notate nei cadaveri degli impicca-
ti tracce di erezione, e in alcuni casi anche di eiaculazione, sopravvenuta al momento
contestuale della morte.
Poi spiegato scientificamente, il fenomeno venne originariamente collegato alla
carenza di ossigeno e allo stato di asfissia che è legato all’impiccagione, anche se tutti i
patologi sanno che è cosa piuttosto comune riscontrare nei cadaveri, anche in assenza
di morti asfittiche, alcune gocce di sperma sull’orifizio uretrale, dovute semplicemente
alla paresi e al rilassamento post-mortem degli sfinteri.
Questo genere di pratiche, comunque, ebbe originaria diffusione in Oriente e in
Sud America; in India, ancora oggi, sono frequenti i giochi erotici tra bambini messi
in atto tramite soffocamento o impiccagione, e anche la letteratura non ha mancato di
dare il suo contributo, con opere quali Justine del Marchese de Sade, Billy Budd di Mel-
ville, e Godot di Beckett. Risale al 1856, invece, la prima pubblicazione scientifica sul-
l’argomento a firma dello psichiatra francese De Boismont, che riscontrava come circa
il 30% dei casi sospetti di adolescenti o adulti maschili deceduti per impiccagione era
legato a manifestazioni evidenti di erezione o eiaculazione.
In seguito, nel 1928, un’enciclopedia austriaca pubblicò la voce penis strangulation,
come pratica di asfissia autoerotica.
Successivamente, fu Bloch a descrivere le pratiche di soffocamento delle donne
durante i rapporti sessuali, e fu Ellis a narrare dell’impulso di strangolare l’oggetto di de-
siderio sessuale.
Gonzales, Vance e Helpburn furono i primi a introdurre l’argomento in ambito
forense.
Nel 1953, Stearn pubblicò uno studio effettuato su una casistica di 97 suicidi av-
venuti nel Massachusets tra il 1941 e il 1950, provando che 25 persone di quelle 97
168
Aggressività ed anormalità personologica
non avevano avuto alcuna intenzione di suicidarsi, ma erano piuttosto decedute nel
corso dell’espletamento di pratiche di asfissia autoerotica.
Successivamente, negli anni settanta, l’FBI commissionò un’apposita ricerca, ese-
guita dall’agente speciale Roy Hazelwood e dallo psichiatra Dr. Park Dietz, in collabo-
razione con la dottoressa Ann Burgess, i cui risultati vennero pubblicati nel libro Autoe-
rotic Fatalities, al momento, il trattato più completo ed esaustivo sull’argomento.
Originariamente, si pensava che questa pratica interessasse solo le fasce adolescen-
ziali, successivamente venne invece provato che, se pur con minore incidenza, il feno-
meno riguardava anche maschi in età adulta.
Uno dei casi più esemplificativi al riguardo concerne il caso di un maschio, adulto,
di 47 anni, divorziato, di professione dentista, rinvenuto cadavere nel suo studio con
una maschera da anestesia sul volto.
Anche le donne, che in un primo tempo si riteneva non fossero interessate dal fe-
nomeno, possono a volte essere dedite a questo tipo di pratica, che, per definizione, si
riterrebbe erroneamente maschile.
Caso esemplificativo quello di una donna di 35 anni, ritrovata impiccata nell’ar-
madio del bagno di casa sua: il cadavere, rinvenuto nudo in uno spazio angusto nei
pressi dell’anta dell’armadio, aveva i piedi appoggiati contro il muro ed era in posizione
prona, un vibratore ancora funzionante a contatto con la vagina della donna indirizzò
gli investigatori inizialmente verso altre piste, fino a quando la figlia, di soli nove anni,
della vittima testimoniò che erano sole in casa al momento del fatto.
In ogni caso, oggi, gli investigatori sanno che una nudità, completa o parziale, nei
casi di asfissia, strangolamento o impiccagione, può far propendere decisamente le in-
dagini verso la pista dell’asfissia autoerotica.
Confondono invece le statistiche: i casi in cui i parenti più prossimi, rinvenendo
il cadavere nudo, si affrettano a rivestirlo, inquinando le prove e modificando la scena
del crimine.
A volte, poi, la maggior parte delle morti autoerotiche sono caratterizzate da trave-
stitismo o masochismo; in questi casi, le vittime, eterosessuali e di sesso maschile, indos-
sano capi di abbigliamento femminile.
Si ipotizzano, allora, giochi di ruolo in cui il soggetto, indossando panni femmini-
li, simuli di immedesimarsi in una donna allo scopo di sdoppiarsi per creare una doppia
personalità, in cui, il lato maschile, di tipo sadico, possa infliggere punizioni erotiche al-
l’altra personalità, femminile, caratterizzata da un evidente masochismo, di modo che,
idealmente, è una donna ed essere torturata e seviziata.
Tracce di questa pratica, che non è mai stata riscontrata all’inverso, ossia casi di
donne travestite da uomini, si ritrovano nel film-cult, il Silenzio degli Innocenti.
Risale al 1994 un caso esemplificativo in questo senso: un ingegnere di 46 anni
viene trovato morto nella sua abitazione, appeso a un gancio e travestito da donna con
minigonna nera, collant e tacchi a spillo; nel video registratore, una cassetta hard che
riproduce la medesima simulazione, nell’esecuzione della quale, però, il malcapitato,
avrebbe avuto difficoltà a collegare il complicato marchingegno di cappi e nodi scorsoi,
inducendosi inconsapevolmente la morte.
Nel 1981, l’agente speciale dell’FBI, Roy Hazelwood, delineò le caratteristiche tipi-
che della scena classica di morte per asfissia autoerotica, che sono: prove di asfissia prodotte
169
Criminologia ed elementi di criminalistica
170
Aggressività ed anormalità personologica
sione e non interferisce con lo svolgimento di attività lavorative e/o sociali; allo stesso
modo, si definisce patologico, quando causa, anche ad uno soltanto dei partecipanti al-
l’attività, disagio, sofferenza, interferenze con le attività lavorative e/o sociali, quando
si compie come una compulsione, quando reca danni, quando causa problemi legali.
Vedendo così la questione, può sicuramente risaltare la macabra deumanizzazione del
partner che rende una tale scelta di condotta sessuale piena e colma di psicoticismo e
negazione del senso di realtà.
Freud suddivide le perversioni a seconda che sia mutato l’oggetto o la meta; è nella
prima categoria che egli include la necrofilia per la quale gli individui che pur preten-
dendo l’intero oggetto avanzano su di esso richieste ben determinate, strane o mostruo-
se, persino quella che debba essere un cadavere indifeso, e che tale rendono con crimi-
nale violenza per poterne godere. Freud sostiene, ancora, che proprio nel campo della
vita sessuale si incontrano difficoltà se si vuole tracciare un confine netto fra la mera
variazione all’interno dell’ambito fisiologico e i sintomi patologici. Tuttavia, certe per-
versioni dal punto di vista del contenuto, si allontanano talmente dalla normalità che
non possiamo fare a meno di dichiararle morbose, in special modo quelle nelle quali la
pulsione sessuale giunge nel superare le resistenze (pudore, disgusto, orrore, sofferenza)
ad atti stupefacenti (coprofilia, necrofilia).
Sembra quindi possibile dedurre, dalle parole di Freud, che le sole vere perversio-
ni siano queste, e ciò farebbe supporre che, proprio perché estreme, esse siano quan-
tomeno rare. Al contrario, anche queste vivono sempre presenti, anche se in parte ma-
scherate, in ognuno di noi. Questa affermazione tende ad essere provocatoria, ma ciò
non toglie che istinti necrofili, coprofili e cannibalici sono parte integrante della psi-
che umana.
Il mito, come sappiamo, è la rappresentazione di qualcosa che appartiene all’uma-
nità intera e la necrofagia è scritta nel mito: Zeus, figlio di Crono e di Rea, sarebbe sta-
to divorato come i fratelli, se la madre non lo avesse nascosto sul monte Ida. Se il mito
ci pare troppo lontano, basta cercare in epoche ben più recenti per ritrovare decine di
casi descritti e documentati anche in anni recentissimi.
Negli anni venti, Karl Denice, il cannibale della Slesia massacrò e divorò almeno
31 persone. In Germania, negli anni trenta, Peter Kuerten, il famoso mostro di Dus-
seldorf, assassinò nove bambine, delle quali bevve il sangue. In Russia, tra il 1978 e il
1990, Andrei Romanovich Chikatilo, soprannominato il mostro di Rostov, violentò,
uccise e in parte mangiò, 21 bambini, 14 bambine e 18 giovani donne. A Milwaukee,
alla fine degli anni ottanta, Jeffrey Dahmer, si cibò di almeno tre delle sue 17 vittime.
Nel 1995, i due fratelli Novinov, Anatolij di 23 anni e Andrij di 18, furono con-
dannati per aver ucciso e poi mangiato un vagabondo. “Non tutto − dichiararono al pro-
cesso - soltanto le parti più gustose”.
Le perversioni possono essere definite come comportamenti psico-sessuali che si
esprimono in forme atipiche rispetto alla norma. L’estensione di questo concetto è
dunque strettamente dipendente dal tipo di norma che si assume come criterio di rife-
rimento. Freud parla di completo sviluppo della libido che, dopo aver percorso la fase
orale, anale e fallica, si esprime in quella genitale come relazione eterosessule; defini-
sce perversa ogni condotta che si discosta dalla norma, o in ordine all’oggetto sessuale,
come nel caso dell’omosessualità, della pedofilia, della zooerastia, o in ordine alla zona
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Criminologia ed elementi di criminalistica
corporea, quando il piacere sessuale è raggiunto con parti del corpo di per sé non depu-
tate all’esercizio della sessualità, o in ordine alla meta sessuale che può essere raggiunta
solo in presenza di condizioni di per sé estrinseche, come nel caso del feticismo, del tra-
vestitismo, della scopofilia, dell’esibizionismo, del sadomasochismo e simili.
Da questo repertorio, risulta che Freud limita il concetto di perversione alla sfera
sessuale ma solo perché ritiene che queste deviazioni, come nel caso dei disturbi dell’ali-
mentazione, dipendano dalle ripercussioni della sessualità sulle funzioni nutritive.
Assunta come norma l’organizzazione genitale, tutte le forme di regressione o di
fissazione a stadi precedenti, in cui la sessualità si esprime attraverso pulsioni parziali
strettamente legate alle diverse zone erogene, sono considerate perverse.
Naturalmente, se si considera la sessualità originariamente perversa in quanto non
si stacca mai completamente dalla sua origine, quando il piacere non era cercato in
un’attività specifica, ma annesso ad attività dipendenti da altre funzioni come l’alimen-
tazione, la defecazione, ecc., allora, è perversa ogni attività sessuale che non si sia defi-
nitivamente staccata dalla polimorfia che caratterizza la sessualità infantile.
Freud definisce la perversione come il negativo della nevrosi, nel duplice senso che
il perverso mette in atto impulsi che il nevrotico rimuove, e che di fronte all’angoscia, il
perverso, si difende regredendo a forme di sessualità infantile, mentre il nevrotico adot-
ta altre forme di difesa successive o sostitutive della regressione.
Il termine necrofilia fu coniato dal belga Guislain verso la metà del diciannovesi-
mo secolo per definire una categoria di alienati distruttivi e che in seguito fu applicato
a ogni tendenza manifesta a compiere atti sessuali con un cadavere.
Galimberti definisce la necrofilia come un investimento erotico di scene macabre
che approda a rituali con significati funerei ricercati, contemplati, e talvolta eseguiti,
fino a giungere, in casi più rari, a rapporti sessuali con cadaveri.
Per E. Fromm, la necrofilia va letta come la forma più radicale dell’aggressività
umana che si oppone alla biofilia o amore per la vita. Associata a pulsioni sadiche, la ne-
crofilia non è esente da un tratto feticistico nell’accezione del feticismo del cadavere.
Rientrano in questo quadro la necrofagia che induce a cibarsi dei cadaveri e il ne-
crosadismo che sembra più prossimo alla necrofilia che al sadismo, dato che la vittima,
per ragioni evidenti, non prova dolore, e consiste nella mutilazione e nello scempio di
cadaveri, con i quali si sono generalmente avuti in precedenza rapporti sessuali. A vol-
te, il necrosadismo sostituisce interamente l’amplesso; altre volte, invece, come nel caso
di Jack lo Squartatore, il necrosadismo si manifesta come fase conclusiva dell’assassinio
sadico.
Il termine necrofagia (o cannibalismo) si riferisce invece alla pratica reale o rituale
di mangiare la carne dei propri simili; nel mondo animale è noto nella mantide religio-
sa e in alcune specie di ragni.
Il termine cannibalico, in particolare, è stato adottato dalla psicoanalisi in riferi-
mento alla fase orale dello sviluppo libidico, e, più specificamente, alla componente sa-
dica presente in tale fase dove si assiste al desiderio di incorporazione dell’oggetto amato
che sarà sostituito, nel corso dell’evoluzione psicosessuale, dall’identificazione. L’incor-
porazione, o introiezione, rappresenta una forma di identificazione primaria analoga
a quella che caratterizza il cannibalismo dei primitivi, motivato, secondo Freud, dalla
credenza che assimilando in sé, mediante ingestione, parti del corpo di qualcuno, ci
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Aggressività ed anormalità personologica
si impadronisce anche delle qualità che a costui erano proprie. Lo stesso significato di
appropriazione è attribuito da Freud al pasto totemico, compiuto agli albori della storia
dell’uomo, quando i figli si allearono tra loro e, dopo aver ucciso il padre che interdi-
ceva loro l’uso delle donne del clan, lo divorarono.
Il senso di colpa che ne seguì segnò la fine dell’orda primitiva e l’inizio dell’orga-
nizzazione sociale, della morale e della religione.
K. Abraham suddivide la fase orale in due sottofasi: di suzione, caratterizzata dalla
fusione di libido e aggressività, e di morsicamento e attribuisce l’aggettivo cannibalico
soltanto alla seconda, dove distingue un cannibalismo parziale da un cannibalismo tota-
le. Quest’ultimo senza alcuna limitazione, è possibile solo sulla base di un narcisismo
illimitato. In questo stadio è tenuto in considerazione soltanto il desiderio di piacere
del soggetto. L’interesse dell’oggetto non trova assolutamente considerazione; l’oggetto
viene distrutto senza alcuno scrupolo. Lo stadio del cannibalismo parziale porta anco-
ra in sé i chiari segni della sua origine dal cannibalismo totale, ma ne differisce anche
in modo radicale. Il primo inizio di considerazione dell’oggetto fa qui la sua comparsa.
Questo parziale riguardo è da considerare come primo inizio dell’amore oggettuale in
senso stretto, poiché significa l’inizio di un superamento del narcisismo. Aggiungiamo
subito che l’individuo, a questo stadio evolutivo, è ancora ben lontano dal riconosce-
re un altro individuo come tale accanto a sé, e dall’amarlo fisicamente o psichicamen-
te nella sua totalità. Il desiderio è ancora quello di prendere una parte dell’oggetto allo
scopo di incorporarlo; questo significa, nello stesso tempo, però, una rinuncia alla meta
puramente narcisistica del cannibalismo totale.
Anche Abraham afferma che gli stati più gravi di rifiuto dell’alimentazione del
melanconico rappresentano un’autopunizione per gli impulsi cannibaleschi, ma il suo
interesse per la rappresentazione cannibalica dell’oggetto perduto è rivolto al lavoro del
lutto in analogia alla concezione che il lutto, nella sua forma arcaica, si esprime nel di-
voramento dell’ucciso. Tuttavia, mentre con Abraham il gesto cannibalico viene esplora-
to soprattutto nel suo versante finalistico, con M. Klein, questo concetto è impiegato
soprattutto nell’area della patologia depressiva, dove la pulsione cannibalica, se è ec-
cessiva, è causa della melanconia: il processo fondamentale della melanconia, secondo
Freud ed Abraham, è quello della perdita dell’oggetto amato. La perdita reale di un og-
getto reale, o un evento analogo che abbia lo stesso significato, ha come risultato che
l’oggetto viene collocato nell’Io. A causa, tuttavia, di un eccesso di pulsioni cannibale-
sche nel soggetto, questa introiezione abortisce e ne consegue la malattia.
La fase cannibalesca è, quindi, la prima organizzazione della libido in cui l’attività
sessuale e il cibo non sono ancora differenziati e la meta sessuale consiste nell’incorpo-
razione dell’oggetto.
L’identificazione è la fase preliminare della scelta oggettuale: l’Io vorrebbe incorpo-
rare in sé tale oggetto e, data la fase cannibalesca, vorrebbe incorporarlo divorandolo.
L’aggressività mescolata alla pulsione sessuale è un residuo di appetiti cannibale-
schi a cui partecipa l’apparato di impossessamento che serve a soddisfare l’altro grande
bisogno (l’assunzione del cibo) ontogeneticamente più antico.
Freud sostiene che dei tre più antichi desideri pulsionali, cannibalismo, incesto e
omicidio, la nostra civiltà ha vietato a tutti solo il primo. Nel 1921, parlando dell’iden-
tificazione e del fatto che essa si comporta come un derivato della prima fase orale del-
173
Criminologia ed elementi di criminalistica
l’organizzazione lipidica, ricorda che il cannibale rimane fermo a tale stadio; egli ama i
nemici che mangia e non mangia se non quelli che in qualche modo può amare. Sartre
affermava che il più alto atto d’amore era divorare l’amato per portarlo in se per sempre.
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CAPITOLO 8
Le teorie criminologICHE
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Le teorie criminologiche
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Le teorie criminologiche
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Le teorie criminologiche
Sulla fine degli anni ’60, Burgess e Akers, riformulando la teoria di Sutherland, in-
trodussero come elemento fondamentale il c.d. stimolo rafforzatore. Secondo gli autori,
il comportamento criminale è acquisito secondo i principi del comportamento operante
e l’apprendimento si verifica sia in situazioni non-sociali, che sono rafforzanti o discri-
minative, sia nell’interazione sociale in cui il comportamento di altre persone è raffor-
zatore o discriminativo nei confronti di quello criminale.
La teoria dello stimolo rafforzatore differenziato sostiene che un contesto non-socia-
le può rinsaldare una determinata scelta, e, dunque, può sviluppare la nozione, secon-
do la quale il crimine è acquisito solo attraverso l’interazione sociale. In accordo con
Glaser, Burgess e Akers individuano l’importanza nel meccanismo di apprendimento,
anche dei gruppi di riferimento che non sono direttamente in contatto con il soggetto,
ma filtrati dai normali mezzi di comunicazione, oltre a quelli primari e agli altri con i
quali si è intrinsecamente associati.
183
CAPITOLO 9
Criminologia e psicologia
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Criminologia e psicologia
Nella fase del consenso mitigato possono emergere dei segnali che anticipano l’even-
to criminale; nella fase dell’assenso formulato, si riscontrano, talvolta, comportamenti
offensivi, di tipo legale, di tipo verbale, od omissioni; nella fase del periodo di crisi, il
soggetto coscientizza la necessità di passare all’atto ed entra nello stato pericoloso che
condurrà al crimine.
Un altro interessante contributo allo studio personologico dei delinquenti è sta-
to fornito da Pinatel (1968), che individua un nucleo centrale della personalità di ta-
luni criminali, costituito da quattro tratti fondamentali: l’egocentrismo (che consente
di ignorare i giudizi); la labilità emotiva (che consente di non tener conto delle con-
seguenze del crimine); l’aggressività (che consente di effettuare talune azioni criminali
e superare gli ostacoli) e l’indifferenza affettiva (che consente di ignorare le sofferenze
della vittima). Tra i contributi più recenti, riportiamo quello di Frechette e Le Blanc
(1987) che delineano una sindrome della personalità criminale, rappresentata da una
specifica struttura psicologica, che, in alcuni individui, si sovrappone ad altre struttu-
re di personalità, favorendo l’acting out. La sindrome, comprende tre tratti: l’iperattivi-
tà delittuosa, la dissocialità e un notevole egocentrismo. Le Blanc e Frechette affermano
che, nei delinquenti di spessore elevato, i fattori sociali ed ambientali ingeriscono con
il comportamento, ma sempre mediati dai tratti della sindrome della personalità crimi-
nale. Yochelson e Samenow (1976) sostengono che i tratti di personalità del delinquen-
te sono in realtà presenti in forma attenuata in tutti gli uomini. è la presenza intensa
di tali tratti che determina una specifica personalità criminale. I due autori statuniten-
si affermano che la mente del delinquente possiede generalmente una grande energia,
e presenta della caratteristiche ricorrenti: facilità di eccitamento, fantasie di dominio, di
potere e di trionfo, paura diffusa e persistente, sospettosità. Un’altra condizione tipica del
pensiero criminale è costituita, per Yochelson e Samenow, dallo stato zero, durante il
quale, nel soggetto, si rilevano una scarsa autostima e una sensazione di disperazione,
unite a sentimenti di superbia e ricerca spasmodica del potere. L’unione di questi fat-
tori sarebbe in grado di spingere alcuni criminali verso la ricerca del dominio e dell’il-
legalità. Le ricerche di Pinatel sono state sottoposte a verifica da Canepa (1974), che
ha condotto uno studio su un campione di delinquenti recidivi mediante colloqui e
strumenti psicodiagnostici, cercando di localizzare i tipici tratti di personalità. La ricer-
ca ha fornito poche conferme all’ipotesi di Pinatel. Altre indagini (Favard 1985) non
sono riuscite a determinare se i tratti di personalità tipici rappresentino una particolare
intensità di tratti diffusi in tutti gli individui e, soprattutto, se tali tratti siano la causa
o semplicemente l’effetto di una vita da delinquente.
187
Criminologia ed elementi di criminalistica
razza umana (casualità), ma anche dai suoi obiettivi e dalle sue aspirazioni (teleologia).
Sia il passato come realtà, sia il futuro come potenzialità, governano il nostro compor-
tamento presente.
Jung sostiene che entrambi le posizioni sono necessarie in psicologia per giunge-
re a capire perfettamente la personalità. Il presente, infatti, è determinato non solo dal
passato (casualità), ma anche dal futuro (teleologia). Un atteggiamento puramente ca-
suale conduce l’uomo alla disperazione, perché lo rende prigioniero del passato. L’at-
teggiamento finalistico, invece, dà all’uomo un senso di speranza e uno scopo per cui
vivere. La concezione junghiana della personalità considera la direzione futura dell’in-
dividuo e, nello stesso tempo, è retrospettiva, nel senso che si rifà al passato. Jung, vede
nella personalità dell’individuo il prodotto e la sintesi della sua storia ancestrale. Egli
pone l’accento sulle origini razziali dell’uomo. L’uomo nasce già con molte predisposi-
zioni trasmesse dai suoi antenati e queste lo guidano nella sua condotta. Quindi, esiste
una personalità collettiva e razzialmente preformata che è modificata ed elaborata dalle
esperienze che egli riceve.
La personalità consta di un certo numero di istanze e sistemi separati ma intera-
genti. I principali sono: l’Io, l’inconscio personale e i suoi complessi, l’inconscio collettivo
e i suoi archetipi, la persona, l’animus e l’anima, l’ombra: 1) l’Io è la mente cosciente; 2)
l’inconscio personale è formato dalle esperienze che sono state rimosse, represse, dimen-
ticate o ignorate, e da quelle troppo deboli per lasciare una traccia cosciente nella per-
sona; complessi: il complesso indica un contesto psichico attivo i cui elementi molteplici
(sentimenti, pensieri, percezioni, ricordi) sono unificati dalla comune tonalità affetti-
va. Un esempio è il complesso materno; 3) l’inconscio collettivo appare come il deposito
di tracce latenti provenienti dal passato ancestrale dell’uomo. Esso è il residuo psichi-
co dello sviluppo evolutivo dell’uomo, accumulatosi in seguito alle ripetute esperienze
di innumerevoli generazioni. Così, dal momento che gli esseri umani hanno sempre
avuto una madre, ogni bambino nasce con la predisposizione a percepirla e a reagire
ad essa. Tutto ciò che si impara dall’esperienza personale è sostanzialmente influenzato
dall’inconscio collettivo che esercita un’azione diretta sul comportamento dell’indivi-
duo sin dall’inizio della vita; 4) l’archetipo è una forma universale del pensiero dotato
di contenuto affettivo. Tale forma di pensiero crea immagini o visioni che corrispon-
dono, nel normale stato di veglia, ad alcuni aspetti della vita cosciente. Il bambino
eredita una concezione preformata di una madre generica, che, in parte, determina la
percezione che egli avrà dalla propria madre. In tal modo, l’esperienza del bambino è la
risultante di una predisposizione interna a percepire il mondo in un determinato mo-
do e dell’effettiva natura di tale realtà. Vi è, di regola, corrispondenza tra le due deter-
minanti, poiché l’archetipo stesso è un prodotto delle esperienze del mondo compiute
dalla razza umana, e tali esperienze sono in gran parte simili a quelle di ogni individuo;
5) la persona è una maschera che l’individuo porta per rispondere alle esigenze delle
convenzioni sociali. è la funzione assegnatagli dalla società, cioè il compito che essa at-
tende da lui. Questa maschera, spesso, nasconde la vera natura dell’individuo. La per-
sona è la personalità pubblica, quegli aspetti che si palesano al mondo o che l’opinio-
ne pubblica attribuisce all’individuo, in opposizione alla personalità privata che esiste
dietro la facciata sociale; 6) l’anima e l’animus: l’archetipo femminile nell’uomo è detto
anima, quello maschile nella donna animus; 7) l’ombra, è costituita dagli istinti animali
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Criminologia e psicologia
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Criminologia ed elementi di criminalistica
della specie: queste sono funzioni istintive. L’energia eccedente quella utilizzata dagli
istinti può essere impiegata in attività culturali e spirituali. Per Jung, lo sviluppo può
svolgersi in senso progressivo o regressivo. Per progressione, Jung intende un soddisfa-
cente adattamento dell’io alle richieste dell’ambiente esterno e ai bisogni dell’inconscio.
Se un evento frustrante interrompe il movimento progressivo, la libido non potrà più
essere investita in valori orientati verso il mondo o estroversi, di conseguenza, regredi-
rà verso l’inconscio, legandosi a valori introversi. Tuttavia, Jung ritiene che uno sposta-
mento in senso regressivo non debba avere necessariamente effetti negativi permanenti:
esso infatti può aiutare l’Io a trovare il modo di aggirare l’ostacolo e riprendere il suo
cammino.
Il fine ultimo dello sviluppo è rappresentato dall’autorealizzazione. Per raggiungere
tale scopo è necessario che le diverse istanze della personalità si differenzino ed evolva-
no completamente. Una personalità sana ed integra si otterrà solo consentendo a ogni
istanza di raggiungere il più alto grado di differenziazione e di sviluppo. Il processo at-
traverso il quale si raggiunge tale stato è detto processo di individuazione. La funzione
trascendente è in grado di conciliare gli indirizzi opposti dei diversi sistemi e di operare
per il raggiungimento del fine ideale della totalità perfetta. L’energia psichica può esse-
re spostata, cioè trasferita da un processo di un dato sistema ad un altro processo dello
stesso o di un sistema diverso. La sublimazione è lo spostamento dell’energia dai pro-
cessi primitivi, istintivi e meno differenziati, a processi altamente spirituali, culturali e
maggiormente differenziati.
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Criminologia e psicologia
tare la scienza delle connessioni tra stimoli ambientali e risposte, connessioni, che i pri-
mi behaviorismi concepivano soprattutto in termini di riflessi condizionati. L’influenza
dell’opera di Watson fu enorme, specialmente negli Stati Uniti (in Europa l’eco fu mino-
re e vi furono serrate polemiche contro il behaviorismo soprattutto da parte degli psico-
logi della Gestalt). L’estremo radicalismo della posizione di Watson non era però accetta-
bile e, dopo questa prima fase di behaviorismo, cosiddetto ingenuo, negli anni ‘20 e ‘30,
le concezioni behavioristiche ricevettero una nuova sistemazione a opera di altri autori.
Tra questi, particolare importanza si attribuisce a B. F. Skinner, che evidenziò la
necessità di distinguere il comportamento rispondente da quello operante: il primo, quale
frutto di riflessi innati o condizionati con un meccanismo pavloviano ed evocato dagli
stimoli appropriati (elicitato) indipendentemente dalla volontà del soggetto; il secon-
do, frutto di condizionamento operante, in cui, a differenza del pavloviano, l’apprendi-
mento si crea per associazione tra stimolo e risposta, e non tra due stimoli. Un notevole
apporto teorico fu fornito da C. Hull, che formulò una serie di postulati (la cui dimo-
strazione deve stare alla base dello studio del comportamento), e dai suoi collaboratori
della Scuola di Yale, in particolare da K.W. Spence, che pose l’accento sulla necessità di
studiare le variabili intervenienti, poste tra stimolo e risposta, nascoste nel sistema ner-
voso dell’organismo, come costrutti ipotetici che possiamo dedurre dal comportamen-
to in presenza di determinati stimoli.
E ancora, seppure in una posizione distaccata rispetto agli altri behavioristi, da cui
fu spesso accusato di mentalismo, E. C. Tolman, secondo il quale, il comportamento è in-
tenzionale (purposive behavior), in quanto, l’organismo (anche quello animale) appren-
de che un certo complesso di stimoli (segno) è legato a un altro complesso (significato),
determinandosi, così, una mappa cognitiva di situazioni ricorrenti. Questa fase, detta
del neo-b, pur non essendosi ancora esaurita (vitali sono ancora le scuole di Skinner e di
Spence), è stata seguita dopo la II guerra mondiale da una nuova fase, denominata da
Berlyne, del cenobehaviorismo. Tale fase è stata, comunque, contrassegnata da una serie
di apporti di diversa natura, ma anche di interpretazioni diverse, da autore ad autore,
tanto da render difficile darne un quadro riassuntivo globale. Questi apporti possono
essere comunque così sintetizzati: 1) la considerazione delle nuove scoperte che veniva-
no realizzate in campo neurofisiologico, e in particolare quelle sull’attività del sistema
reticolare e sull’arousal; 2) la scoperta delle opere di Jean Piaget, sino allora, per mo-
tivi prevalentemente linguistici, pressoché sconosciuto agli studiosi nordamericani, e
la conseguente rivalutazione della considerazione evolutiva nello studio del comporta-
mento; 3) la conoscenza del lavoro compiuto tra le due guerre dagli studiosi russi, che,
pur senza contatti con il mondo occidentale, si erano mossi in una direzione, sotto certi
aspetti, analoga a quella dei seguaci del behaviorismo.
A tali apporti, va aggiunta la profonda influenza che hanno avuto sulla psicologia,
soprattutto nordamericana, la cibernetica, la teoria dell’informazione, la teoria statisti-
ca della decisione e, più di recente, la linguistica, in particolare, l’opera di N. Chomsky
(pur essendo il pensiero di questo studioso criticato spesso dai behavioristi per il suo
innatismo).
Il panorama teorico si è venuto così articolando maggiormente, e si è fatto più
complesso e, se la collocazione di alcuni autori in questa corrente di pensiero è relativa-
mente agevole, per altri, soprattutto per quelli che hanno reagito al b. di tipo watsonia-
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Criminologia ed elementi di criminalistica
i padri dei ragazzi. Si è detto che l’estrazione socio-economica delle famiglie era, in en-
trambi i casi, bassa, nonostante ciò, nel gruppo dei delinquenti, i padri, in rapporto di 5
a 1, risultavano essere dei cattivi lavoratori, cioè soggetti pigri, svogliati, poco interes-
sati al lavoro, ed inclini a cambiarlo spesso. Inoltre, 4 famiglie su 5, contro 1 su 5 dei
non delinquenti, erano costrette a chiedere un aiuto esterno per risolvere i problemi
economici. Risulta evidente che, seppur i soggetti dei due gruppi fossero stati scelti in
un contesto di base simile, alcune differenze affioravano nella formazione e nella genesi
delle famiglie dei delinquenti, rispetto a quelle dei non delinquenti.
Famiglia: in questa parte della ricerca, vennero valutati aspetti che riguardavano
più da vicino la vita all’interno della famiglia dei due gruppi. In primo luogo, risultò che
le famiglie dei delinquenti tendevano molto di più a vivere alla giornata, contraendo con-
tinui prestiti e spendendo molto più di quello che guadagnavano; mancava, dunque,
un’oculata gestione familiare. Inoltre, guardando al decoro familiare, e cioè all’ambizio-
ne delle famiglie, la volontà di migliorarsi, la presenza del senso della responsabilità, e
la difesa del buon nome della famiglia, risultarono presenti solo in 1 su 10 delle famiglie
dei delinquenti, contro le 4 su 10 dei non delinquenti. Per quel che riguarda il rapporto
tra i genitori, risultò che esso era buono solo in un terzo delle famiglie dei delinquenti,
contro due terzi di quelle dei non delinquenti, ed inoltre, in 1 su 3 delle famiglie dei de-
linquenti, contro 1 su 7 di quelle dei non delinquenti, la crisi familiare era sfociata in un
abbandono del tetto coniugale da parte di uno dei due genitori, quasi sempre il padre.
In entrambe le famiglie, le madri si occupavano direttamente della gestione del focolare
domestico, ma in maniera molto diversa; ragazzi privi di appoggio domestico risultava-
no molto più numerosi tra i delinquenti, solo meno di 1 madre su 10 risultò schiava dei
divertimenti collettivi; regolari abitudini di questo tipo esistevano solo in 11 delle 500
famiglie di provenienza dei non delinquenti, contro le 50 dell’altro gruppo.
Ed ancora, solo in 2 famiglie su 10 dei delinquenti gli amici dei figli erano ben ac-
cetti in casa, contro un terzo di quelle dei non delinquenti; inoltre, nelle case delle fami-
glie dei delinquenti erano assenti i mezzi di svago per i ragazzi, come giocattoli o libri, ed
in generale, fu rilevato che solo in 20 delle 500 famiglie dei delinquenti era presente un
qualunque mezzo di svago, contro il 69% delle famiglie dei non delinquenti. Infine, per
quel che riguarda il senso di solidarietà familiare, esso era presente in meno di 2 famiglie
su 10, contro le 6 su 10 per i non delinquenti. Prima di soffermarsi sulla vita dei ragazzi
all’interno della famiglia, i Glueck, aprirono questa parte della loro ricerca con dei dati
di statistica anagrafica. Da ciò, si dedusse che 2 delinquenti su 10, contro 1 su 10 per i
non delinquenti, erano stati concepiti fuori dal matrimonio, e inoltre 6 ragazzi su 10, in
entrambi i gruppi, avevano un genitore nato all’estero. Le famiglie dei delinquenti erano
solo di poco più numerose rispetto a quelle dei non delinquenti, 7 membri in media con-
tro 6, ma, nelle prime, era più frequente il caso di seconde nozze di uno dei genitori, e
quindi della presenza di fratellastri e sorellastre. Negli alloggi dei delinquenti, si notava,
però, maggiore affollamento, con soggetti che vivevano, dormivano e mangiavano nella
stessa stanza, dunque, con una maggiore presenza di competizione emotiva per attirare
l’attenzione dei genitori, e una situazione di promiscuità sessuale più diffusa.
Per quel che riguarda l’ordine di nascita dei soggetti delinquenti, non furono rile-
vate differenze statistiche interessanti, e, dunque, i delinquenti non erano, come buona
parte della dottrina sosteneva, più numerosi tra i primogeniti o gli ultimogeniti.
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Criminologia e psicologia
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Criminologia ed elementi di criminalistica
fu riscontrato nei delinquenti una percentuale maggiore, 28% contro 14%, di sogget-
ti tendenti all’attività e al dinamismo. I sintomi del comportamento aggressivo erano
presenti in numero molto maggiore tra i delinquenti, mentre l’estroversione, intesa
come acting out, era presente nel 59% dei delinquenti, contro il 29% dei non delin-
quenti; la stabilità emotiva era riscontrata nel 18% dei delinquenti contro il 50% dei
non delinquenti.
Tendenze estetico-appetitive: più numerosi risultarono i delinquenti con spiccata
tendenza alla sessualità precoce e promiscua, 20% contro 6%, ed anche quelli tenden-
ti all’avidità, 21% contro 14%.
Orientamento della personalità: i dati ci dicono che solo il 25% dei delinquenti,
contro il 49% del gruppo di controllo, risultava essere convenzionale in tutti gli aspet-
ti della propria vita, e che solo il 9% dei delinquenti, contro il 54% dei non delin-
quenti, risultò essere coscienzioso. Molto scarsi tra i delinquenti anche i soggetti reali-
stici, 8% contro 29%, e i soggetti pratici, 19% contro 35%. Inoltre, fu riscontrata nei
delinquenti una quasi totale mancanza di autocritica, accompagnata da uno spiccato
egocentrismo.
Conflitti emotivi: traumi, paure, angosce, sensi di colpa e frustrazioni erano pre-
senti nel 75% dei delinquenti contro il 38% dei non delinquenti. Il piano emotivo dal
quale sorgevano, in massima parte, tali conflitti era il rapporto con il padre, 23% con-
tro 5%, e dall’incapacità dei ragazzi delinquenti di costruirsi una sana identificazione
sessuale, 30% contro 12%. Risultavano, al confronto, quasi assenti i conflitti esterni
alla famiglia, anche se il 33% dei delinquenti, contro il 18% dei non delinquenti, era
afflitto da un conflitto d’inferiorità fisico e psichico.
Metodologia di risoluzione dei conflitti: fu appurato che il 68% dei delinquenti,
contro il 31%, era solito risolvere i propri problemi riversandoli all’esterno, inoltre,
come gruppo, i delinquenti risultarono quasi immuni al senso di responsabilità, e ten-
denti all’acting out immediato, quando la pressione e l’ansia iniziavano a salire. Il mec-
canismo preferito per i non delinquenti risultò invece essere quello opposto, e cioè l’in-
troversione, 42% contro il 5% dei delinquenti.
Carattere e delinquenza: la prima parte della perizia psicologica e psichiatrica del-
la ricerca è stata integrata da una seconda parte che riguardava il carattere ed il tempe-
ramento dei soggetti analizzati. Il metodo d’indagine utilizzato fu la somministrazione
del test di Rorschach, utilizzato, anche oggi, nelle perizie psichiatriche e psicologiche.
I risultati furono divisi in varie categorie. In questo quadro furono valutati i seguenti
parametri: a) l’autoaffermazione, cioè la facoltà di affermare la propria personalità, le
proprie esigenze e la propria opinione in modo diretto ma senza aggressività esagerata.
Questo tratto fu riconosciuto in meno di un decimo dei delinquenti, e solo in un pic-
colo numero dei non delinquenti; b) l’affermazione sociale, cioè la volontà di affermarsi
nell’ambiente sociale. Questo tratto fu riscontrato nel 45% dei delinquenti e nel 27%
dei non delinquenti; c) la sfida, cioè un meccanismo reattivo, una forma di afferma-
zione aggressiva dell’Io in risposta ad un senso profondo di debolezza e insicurezza; d)
la remissività, cioè la rinuncia all’affermazione a tutti i costi del proprio sé, nel ten-
tativo di raggiungere la sicurezza sottomettendosi all’altrui autorità; questo tratto fu
riscontrato nel 27% dei delinquenti e nel 80% dei non delinquenti; e) il senso di insi-
curezza, cioè quella vaga impressione di non aver fatto presa sulla vita, fu riscontrato
196
Criminologia e psicologia
in maniera uguale, o quasi, in entrambi i gruppi, 89% dei delinquenti contro 96%
dei non delinquenti; f ) il senso di non essere amati e desiderati. Questo sentimento, an-
che se solitamente represso o inconscio, può condurre ad un eccessivo bisogno di at-
tenzione e dunque ad un forte desiderio di successo e riconoscimento. Anche questo
fattore fu riscontrato in percentuali molto elevate e pressoché identiche in entrambi i
gruppi, 92% dei delinquenti contro il 97% dei non delinquenti; g) il senso della pro-
pria nullità, cioè la sensazione per cui i nostri pensieri, sentimenti ed idee non sono
riconosciuti come validi o interessanti, fu riscontrato nel 59% dei delinquenti contro
il 64% dei non delinquenti, anche il senso di non essere apprezzati, molto simile co-
me concetto al precedente, risultò essere presente nel 36.1% dei delinquenti, contro il
24.5% dei non delinquenti; h) sentimenti che indicano una resa o una sconfitta. Questi
elementi si riscontrarono in percentuale molto maggiore tra i non delinquenti, e in-
fatti il senso di impotenza si riscontrò nel 42% dei delinquenti contro il 54% dei non
delinquenti, mentre il senso di insuccesso e di sconfitta fu riscontrato nel 44% dei
delinquenti contro il 63% dei non delinquenti; i) tendenze narcisistiche furono riscon-
trate nel 23% dei delinquenti contro il 14% dei non delinquenti; tendenze masochi-
stiche, si ritrovarono nel 15% dei delinquenti contro il 37% dei non delinquenti; l)
tendenze sadiche, si riscontrarono nel 49% dei delinquenti contro il 16% dei non de-
linquenti; m) la tendenza all’acting out fu riscontrata nel 44% dei delinquenti contro
il 19% dei non delinquenti; n) il potere di autocontrollo fu riscontrato nel 39% dei de-
linquenti contro il 66% dei non delinquenti. Le vere e proprie psicopatologie come:
psicosi, nevrosi, monomanie e forme schizofreniche furono riscontrate solo in pochissimi
soggetti che appartenevano al gruppo dei delinquenti, ma il dato statistico risulta ir-
rilevante. Con questi ultimi dati sulla presenza di vere e proprie patologie mentali si
chiude il dato psicologico della ricerca Glueck. Tale studio resta documento fonda-
mentale nella ricerca criminologica, anche se, successivamente, non mancarono cri-
tiche sui metodi scelti per eseguirlo, e soprattutto chiarisce che, sotto l’aspetto stret-
tamente psicologico, non esistevano differenze enormi tra i due gruppi analizzati. Le
differenze che infatti i ricercatori rilevarono non furono tali da poter affermare che il
crimine è una prerogativa di psicopatici e menti patologiche, né che i delinquenti siano
così diversi dai soggetti che non delinquono, e né che esistono dei tratti di personali-
tà specifici del crimine, sottolineando, dunque, che la psicologia di un criminale resta
dato fondamentale per comprendere i suoi atti, ma da integrare in una multidiscipli-
narietà auspicabile anche negli studi moderni.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Criminologia e psicologia
seconda generazione rispetto a quelli della prima. Anche in questo caso, la differenza
fu attribuita all’indebolimento dei fattori di contenimento della condotta deviante e,
in particolare, dei legami tra figli e genitori. La prima grande ricerca in merito fu con-
dotta nei primi decenni del secolo sui contadini polacchi immigrati negli Stati Uniti.
Si legge in questo studio che, quando questi vivevano nel loro Paese, erano organizzati
in famiglie forti e solidali e svolgevano la funzione educativa in modo molto più ricco
e meglio ordinato che in America. I figli venivano iniziati ben presto a tutte le attività
dei genitori e, in questo modo, assimilavano e imitavano in maniera irriflessa la loro
organizzazione di vita. Ma la situazione cambiava una volta giunti in America. I giova-
ni, sottoposti agli stimoli di una società più progredita, riducevano le partecipazioni al-
le attività dei genitori, apprendevano gli usi e i costumi della nuova società dalla vita di
strada e, spesso, erano essi stessi a fungere da mediatori tra la società circostante e i ge-
nitori. Così, veniva ad essere irrimediabilmente intaccata ogni autorità e controllo sui
figli che, anzi, quando entravano in contatto con la nuova realtà, si lasciavano sedurre
dai piaceri e dai desideri indotti da uno stile di vita completamente differente. In queste
condizioni, era naturale che, per ottenere ciò che soddisfacesse quei desideri e quei pia-
ceri, commettessero furti o rapine. Agli stessi risultati si giunse, qualche anno più tardi,
attraverso una ricerca effettuata sulle bande giovanili di Chicago.
Gran parte dei giovani che facevano parte delle centinaia di bande di quella cit-
tà provenivano da famiglie italiane, polacche, irlandesi, slave. Si sostenne che ciò era
dovuto alla progressiva perdita di controllo sui figli da parte degli immigrati, come del
resto era normale che accadesse in un ambiente sociale così diverso da quello origina-
rio. L’assimilazione troppo rapida e superficiale del modello americano aveva, di fatto,
accelerato la disintegrazione del controllo della famiglia sui figli e indebolito, di con-
seguenza, un importante contenitore della devianza. Non sono mancate, poi, ricerche
che hanno dimostrato il contrario e, cioè, che gli immigrati della seconda generazione
commettono meno reati di quelli della prima, anche se più frequentemente degli au-
toctoni. In questo caso, è stato dimostrato che le ragioni del minore tasso di crimina-
lità è da rapportare all’integrazione favorita dalle strutture istituzionali, quali ad esem-
pio, la scuola, che crea le condizioni favorevoli per ridurre gli svantaggi sociali iniziali
e rafforza i legami con figure significative di riferimento. Se, generalmente, la teoria del
controllo sociale arriva oltre il limite della teoria del conflitto culturale, anche per que-
sta, tuttavia, vi sono importanti obiezioni, in parte analoghe a quelle mosse per l’altra.
In primo luogo, la teoria del controllo sociale non riesce a dar conto delle trasformazio-
ni che nel corso del tempo hanno avuto i comportamenti devianti degli immigrati, né
tantomeno della differenza tra la devianza espressa dagli immigrati del Nord e quelli
del Sud del nostro Paese.
In secondo luogo, per comprendere gli effetti dell’indebolimento del controllo
sociale, sarebbe opportuno integrare detta teoria con i concetti di anomia, di stimolo-
risposta all’aggressione-frustrazione, di associazione differenziale, di identificazione dif-
ferenziale, secondo gli insegnamenti della sociocriminologia e nella prospettiva di una
devianza multifattoriale.
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CAPITOLO 10
Il comportamento umano
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Il comportamento umano
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Il comportamento umano
canalizzazione e scarico della pulsione aggressiva attraverso modalità legali (il classico
pugno sul muro o più frequentemente il semplice alzare la voce).
In realtà, la produzione di idee criminali, talora molto violente, avviene, di frequen-
te, anche nella mente di individui che non hanno commesso, e non commetteranno,
mai, alcun crimine. In queste persone, le regole morali, la compassione della vittima,
la paura della sanzione penale e sociale impediscono l’esecuzione dei crimini (ma non
sempre l’immaginazione).
Nei cosiddetti criminali, invece, per vari motivi, tale forma di ostacolo diviene
inefficace, e le pulsioni aggressive si materializzano attraverso un’azione violenta. La dif-
ferenza tra un uomo violento e uno non-violento è così dovuta solo in parte all’indole
(più o meno aggressiva), ed è invece fortemente connessa all’efficacia dei sistemi men-
tali di inibizione e canalizzazione dell’aggressività.
Anche il crimine violento, quindi, non è un irrefrenabile impulso animalesco, ma
un’azione, in parte razionale, diretta a uno scopo, condotta da un individuo ai danni di
altri individui (o dell’ambiente).
La logica che conduce l’individuo alla violenza può essere, ovviamente, fortemen-
te viziata dalla presenza di una dimensione psicopatologica, ma essa è da considerarsi,
comunque, una produzione del pensiero umano.
In tale ottica, il comportamento criminale può essere spiegato utilizzando le nor-
mali regole che valgono per il comportamento umano (normale e patologico). L’uomo,
orienta, infatti, le proprie azioni (comprese quelle criminali), attraverso un processo di
significazione della realtà esterna, attribuendo significato alle sue percezioni e fornendo
quelle risposte comportamentali che ritiene adatte alle sue esigenze personali.
Questo processo di significazione è inizializzato e influenzato da aspetti pulsionali
e motivazionali preesistenti (siano essi neurofisiologici, farmacologici, psicologici, psi-
cologico-sociali, sociologici, e psicopatologici), ma ciò non basta a provocare diretta-
mente il crimine.
10.4 Il cannibalismo
Il più famoso cannibale è sicuramente Hannibal Lecter, lo psichiatra antropofago,
personaggio sconvolgente nato dalla penna di Thomas Harris, autore del Silenzio de-
gli innocenti. E poi, c’è la strega cattiva della fiaba di Andersen Hansel e Gretel, la quale
attira i due bambini nella casa di marzapane allo scopo di mangiarli. Ma, al di là delle
pratiche cannibalistiche di gruppi etnici documentate dall’antropologia, non è neces-
sario cercare tra favole e film per trovare personaggi reali che, spinti da desideri ingo-
vernabili, hanno ucciso, sezionato e mangiato gli sventurati capitati tra le loro mani.
Uno dei primi serial killer cannibale documentato dalla storia è Gilles De Rais, com-
pagno d’armi di Giovanna D’Arco, che tra una battaglia e l’altra dava sfogo all’impulso
di rapire, uccidere, sezionare, e poi mangiare bambini. E poi c’è la Contessa Bàthory,
una sorta di Dracula al femminile, che uccideva giovani donne per poi berne il sangue,
convinta che questa pratica regalasse benessere al corpo e ringiovanisse la pelle. Più re-
centemente, Nikolai Dzhurmongaliev, un omicida seriale che dopo aver massacrato le
205
Criminologia ed elementi di criminalistica
sue vittime, si sbizzarriva nel preparare gustosi piatti etnici che offriva ai suoi sfortuna-
ti commensali.
Jeff Dahmer, passato alla storia come il mostro di Milwaukee, è uno dei più vio-
lenti serial killer della storia. Uccise, seviziò e tagliò a pezzi almeno undici persone e,
durante il processo, ammise che mangiare i cadaveri gli procurava un senso di totale
controllo e aumentava l’eccitazione sessuale. Dopo aver accuratamente depezzato il ca-
davere della vittima, Dahmer prelevava le parti più succulente, cuore, fegato e bicipiti,
e li cucinava in padella, oppure alla brace, gustandoli con salse per insaporirli, proprio
come se fossero bistecche di carne animale.
Ma cosa spinge un serial killer a diventare cannibale? Già all’inizio del secolo scor-
so, Sigmund Freud scriveva in Totem e Tabù, che la pratica di mangiare carne umana di
vittime corrispondeva a un impulso di interiorizzazione e di appropriazione dell’altro.
In realtà, spiega il padre della psicanalisi, la crescita del bambino nei primi anni di vita
è scandita da una serie di fasi: la prima è la fase orale. In questo periodo, il bambino si
nutre dal seno della madre e quindi la suzione diventa fonte di vita. Nel comportamen-
to cannibalico, l’appagamento di questo desiderio rimasto latente è esasperato, e diven-
ta l’unica modalità per instaurare un rapporto con l’altro. Bruno sostiene che nei serial
killer cannibali, gli impulsi normalmente presenti in tutti noi si ingigantiscono, fino a
diventare patologici. In molti serial killer, questo tipo di comportamento patologico è
irrefrenabile e ha la stessa radice di un qualsiasi comportamento affettivo che, mentre
nella persona normale si esaurisce in un bacio o in morsetti affettuosi, in un individuo
con disordini psicologici diventa un fatto da vivere fino in fondo. Infatti, secondo Fava,
impulsi e fantasie cannibaliche fanno parte della struttura profonda della psiche uma-
na. Si pensi alla madre che dice al bimbo “ti mangerei” o a certi comportamenti sessuali
o affettivi connessi con il mordere.
Secondo il Dipartimento di Studi Psicologici dell’Fbi, la differenza tra i serial killer
e i serial killer cannibali è che, mentre i primi, in genere, progettano l’omicidio e ucci-
dono con rapidità, i secondi sono più violenti ed efferati, adescano la vittima in maniera
casuale e dopo averla brutalmente massacrata, si accaniscono sul corpo sventrandolo.
Secondo Joel Norris, studioso americano dei serial killer, alla base del cannibali-
smo ci possono essere delle disfunzioni dell’ipotalamo, una regione del cervello che rego-
la l’attività sessuale, dell’umore e di altre funzioni primarie dell’uomo, come mangiare
e bere. Il cannibalismo sarebbe, dunque, causato da uno squilibrio ormonale che deter-
mina l’incapacità del cervello di misurare le proprie emozioni.
206
Il comportamento umano
diagnostiche incidenti sul giudizio di colpevolezza; negli USA, invece, fornisce solo
consulenze in merito alla presunta malattia mentale, senza alcuna possibilità di influen-
zare le scelte del giudice.
La psichiatria forense è stata definita come l’applicazione della psicopatologia, della
semiologia e della diagnostica psichiatrica ai problemi via via suscitati dai protagonisti
del processo penale, civile e canonico, in riferimento a norme e disposizioni contenute
nei rispettivi codici e in leggi complementari.
Da questa definizione si può agevolmente comprendere che questa disciplina esal-
ta e specifica il rapporto che intercorre fra la medicina e il diritto, rapporto alcune volte
misconosciuto, ed altre volte esasperato, che varia da Stato a Stato e di tempo in tem-
po. In particolare, appare quanto mai interessante procedere a un confronto fra la di-
sciplina come concepita in Italia e come intesa nel più importante stato di common law,
ossia gli Stati Uniti.
Storicamente, negli stati di civil law e almeno fino al secolo XVII, la medicina
non si occupò delle malattie mentali che, per ragioni di opportunismo o di voluta igno-
ranza e di paura, venivano eziologicamente spiegate in termini di possessione diaboli-
ca, eretismo, peccato. Dunque, il pazzo che commetteva un reato non era considerato
malato, bensì indemoniato.
Solo nel 1800, grazie alla Scuola francese, nelle persone di Esquirol, Georet, Marc,
Leuret, si introdusse nella pratica forense la nozione di monomania come causa che
escludeva la punibilità e si affermò, più in generale, un nuovo concetto di follia intesa
come malattia dell’anima, curabile con la terapia morale, purchè istituzionalizzata.
Di contro, in Italia, la psichiatria, conformandosi alla più rigida impostazione ora-
ganicista, propose una diversa interpretazione del problema riconducendolo nell’alveo
della biologia, della neurologia, dell’anatomia e finendo per definire le malattie mentali
come affezioni del cervello, acquisite o congenite, primitive o secondarie.
Con l’affermarsi della psichiatria scientifica, il rapporto fra quest’ultima e il diritto
appare mutare in maniera sostanziale.
In particolare, la psichiatria forense, con l’emanazione del codice Rocco e con la
fine delle grandi discussioni teoretiche sull’imputabilità, assunse un ruolo sempre più
evidente di strumento tecnico di garanzia della corretta applicazione delle previsioni
codicistiche in materia di capacità di intendere e di volere.
Ma la vera esaltazione del ruolo dell’operatore psichiatrico, e dunque della stessa
psichiatria forense, avviene con le previsioni del nuovo codice di procedura penale, in
cui egli calca la scena, tanto nella fase dibattimentale del processo, con l’intervento pe-
ritale, quanto, in seguito, nella fase della esecuzione della pena, con finalità terapeuti-
che e rieducative.
Ma, se nella fase di trattamento del reo, l’obiettivo è quello di recuperarlo attraver-
so modificazioni oggettive delle condizioni di vita, che favoriscano una nuova capacità
di socializzazione ed evitino la ricaduta nei delitti, nella fase processuale, il fine è quello
di diagnosticare la capacità di intendere e di volere dell’agente e, dunque, di formulare
un giudizio circa la sua imputabilità.
Inoltre, in virtù del combinato disposto degli artt. 88 e 222 c.p., il soggetto rico-
nosciuto non imputabile, dopo essere stato prosciolto, non viene abbandonato al pro-
prio destino, ma viene ricoverato in un ospedale psichiatrico o presso case di cura e
207
Criminologia ed elementi di criminalistica
custodia, ovvero in istituti o sezioni per infermi di mente, dove sarà approntata una te-
rapia adeguata diretta al recupero e alla risocializzazione dello stesso.
In tale contesto, appare opportuno distinguere alcune cause che, secondo il dettato
codicistico e la letteratura in argomento, escludono o diminuiscono l’imputabilità: 1)
cause fisiologiche: l’età (minore di anni 14 e minore degli anni 18 se nel momento che
ha commesso il fatto non aveva la capacità di intendere e di volere); 2) cause morbose: a)
infermità; b) sordomutismo; c) cronica intossicazione da alcool e/o stupefacenti.
Particolare rilievo rivestono ai fini della psichiatria forense le infermità che pos-
sono essere definite come diagnosi di stato o sindromica più estesa di quella di malattia.
Esse possono essere: 1) malattie mentali o psicosi dovute a motivi organici, a malattie
somatiche, a processi psicopatologici su base non funzionale (schizofrenia, psicosi ma-
niaco-depressiva) con alterazioni psichiche di tipo quantitativo; 2) malattie psichiche
non somatiche e prive di base organica comportanti disturbi della personalità. In questo
contesto, solo le reazioni abnormi, intese come interruzione di continuità con il prece-
dente stile di vita del soggetto (che devono presentarsi, cioè, come atti di sproporzione
evidente del rapporto causa-effetto riferito all’evento), possono associarsi a una possibi-
le compromissione dello stato di coscienza e a una possibile presenza di disturbi disper-
cettivi o idee di riferimento che, oltre ad essere di durata relativamente breve, hanno
valore di malattia e potrebbero configurare un vizio parziale o totale di mente.
208
Il comportamento umano
sui parametri psicofisici dell’esaminato. Questa fase può durare, a discrezione del-
l’esaminatore, circa 1 ora;
- design questions, dove l’esaminatore, alla luce della fase di pretest, definisce le do-
mande rilevanti per l’indagine;
- in-test, che segna l’inizio dell’esame; l’esaminatore pone circa dieci domande delle
quali solo 3 o 4 sono rilevanti per l’indagine; le altre domande sono domande di
controllo, molto generali, per verificare lo stato di normalità dell’esaminato, quello
che, in linea di principio, dovrebbe corrispondere alla verità;
- post-test, durante il quale l’esaminatore analizza i dati delle risposte fisiologiche e
determina se la persona ha detto la verità oppure ha mentito.
Così come per il tracciato cardiaco, si costituisce un tracciato come normale. Le dif-
ferenze rilevate dallo stato definito come normale devono essere spiegate, analogamente
a quanto, nelle patologie cardiache, certi tipi di alterazione del tracciato vengono con-
siderate segno di precise alterazioni patologiche.
Il poligrafo rileva, quindi, alcuni parametri fisiologici: respirazione toracica, respira-
zione addominale, conduttanza cutanea, pressione sanguigna.
Questi stessi parametri, vengono alterati da varie situazioni: guidare nel traffico,
ad esempio, è causa di un aumento dell’accelerazione cardiaca e respiratoria (e questo
spiega i nostri comportamenti patologici quando siamo alla guida).
Nel caso della macchina della verità, vengono poste due ulteriori relazioni: quella
tra normalità e verità, e quella fra scostamento dalla normalità e menzogna; lo scostamen-
to dalla normalità, secondo questi quattro parametri, è considerato un valido indicato-
re della presenza di una menzogna.
Secondo le ricerche di Daniel Langleben, docente dell’Università della Pennsylva-
nia, dire bugie, per il cervello, è una gran fatica. Infatti, ci sono una gran quantità di aree
cerebrali diverse che si mettono all’opera quando i soggetti dell’esperimento si trovano a dire
una bugia, rispetto alle aree cerebrali implicate in una risposta veritiera.
Ecco, in sintesi, il protocollo dell’esperimento: un gruppo di 18 volontari è stato
sottoposto al seguente test: è stata loro fornita una serie di oggetti da nascondere in ta-
sca; poi sono state loro mostrate immagini, alcune delle quali riproducevano gli oggetti
in loro possesso; infine, è stato chiesto loro di mentire alle domande dell’intervistatore
circa il possesso, o meno, di quell’oggetto. Per eseguire l’interrogatorio, ogni volontario
è stato fatto accomodare all’interno dell’apparecchiatura per la risonanza magnetica,
uno strumento che ha permesso di osservare cosa accadeva nel suo cervello. Le imma-
gini prodotte dalla risonanza hanno mostrato un’intensificazione dell’attività cerebrale,
nel momento in cui il soggetto ha iniziato a mentire, ma, solo in zone ben localizzate
del cervello: il giro del cingolo e il giro frontale. Il primo, coinvolto nell’inibizione della
risposta e nel monitoraggio degli errori, il secondo che pare rivestire un ruolo critico
nell’attenzione.
Da questo, gli sperimentatori che riportano l’esperimento, deducono che: il nostro
cervello è sempre pronto per dire la verità, mentre, per mentire, deve organizzarsi, attivar-
si ed agire, in una sorta di lavoro extra non previsto.
Attorno a queste ipotesi, si possono fare molte considerazioni, ma, badando a non
tirare in campo tutte le questioni filosofiche sulla verità e la menzogna, né le differenze
209
Criminologia ed elementi di criminalistica
tra verità soggettiva e verità condivisa, passando per il sottile confine tra fantasia e men-
zogna, è opportuno individuare due elementi:
Sembra, invece, che il valore positivo che viene attribuito alla verità abbia un si-
gnificato non tanto psichico o individuale, quanto sociale o socio-evoluzionistico, e che,
quindi, appartenga e debba restare di pertinenza dell’etica, più che della neurologia o
della psicofisiologia.
In una società, è importante che ciascuno si possa fidare dell’altro e la società si
evolve solo se ciascuno può contare su questo. Pertanto, la verità è una condizione del
vivere sociale e, come tale, va garantita e sancita, senza coperture ideologiche o pseudo-
scientifiche, ma in tutta la sua pragmatica utilità.
Al di là delle motivazioni ideologiche sul fondamento scientifico di questo tipo di
studi sperimentali e all’obiettivo di rilevare in modo inequivocabile la presenza di una
bugia analizzando il processo mentale che la bugia richiede, troveremo probabilmen-
te due differenti operazioni, laddove la risposta vera e sincera ne prevede una sola: se
a un soggetto viene chiesto, ad esempio, il nome, e lo stesso deve per qualche motivo
mentire, potrebbe avere un leggero ritardo nella risposta, dovuto al fatto che è abitua-
to a rispondere, ad esempio, Marco; il soggetto, pertanto, recupera l’operazione più fa-
cilmente disponibile (Marco, appunto), ma interviene un processo di controllo superiore
che gli impedisce di dirlo, per una serie di altre considerazioni; deve recuperare nella
memoria un altro nome disponibile da fornire come risposta all’interlocutore e dirlo:
il processo è più elaborato e dovrebbe richiedere, quindi, più tempo, una frazione di
secondo, un istante, ma sufficiente ad un orecchio allenato (o ad una macchina molto
sensibile) a dare perlomeno un allarme (se non un’indubitabile rilevazione). Se si pensa,
però, agli attori, e a come sanno essere più convincenti delle persone reali, stanno essi
mentendo? No, assolutamente. Dicono la verità utilizzando una tecnica che pare anco-
ra più complessa, ma probabilmente non lo è: credono alla storia che si sono costruiti o
che qualcuno ha costruito per loro, ci credono in ogni più piccolo dettaglio, e con tut-
to il loro essere. E agiscono, parlano e pensano secondo questa narrazione, forse come i
bambini, quando ci raccontano delle loro storie, e di loro stessi dentro le loro storie.
Raccontarsi una storia, convincente o meno, non importa, l’elemento fondamen-
tale è crederci; scriverla e riscriverla nella nostra mente: è questa complessa configura-
zione tenuta insieme dalla narrazione (dalle sue implicazioni, dalle contestualizzazioni
di cui è capace) ciò che va naturalmente a costruire la nostra verità; e se il narratore è
abile (e se la racconta ad arte) non c’è macchina della verità che tenga.
210
Il comportamento umano
Quando una persona dice una bugia, utilizza parti del cervello diverse da quan-
do dice la verità, e questi cambiamenti cerebrali possono essere misurati con la tecnica
della risonanza magnetica funzionale (FMRI). Lo sostiene uno studio presentato dal-
la Radiological Society of North America. I risultati suggeriscono che, un giorno, la
FMRI potrebbe essere usata come macchina della verità, con risultati più precisi del
poligrafo.
Misurando con la FMRI l’attività delle aree cerebrali associate alle bugie, sostiene
Scott H. Faro della Temple University, si potrà determinare se il soggetto sta dicendo
la verità.
A tal fine, è stato compiuto un esperimento con undici volontari. A sei di essi è
stato chiesto di sparare con una pistola giocattolo, mentre agli altri cinque, no. Tutti,
però, dovevano affermare di non aver sparato. I ricercatori hanno esaminato i singoli in-
dividui con la FMRI, e, contemporaneamente, con il normale poligrafo che viene usa-
to come macchina della verità. Il poligrafo misura tre risposte fisiologiche: il respiro, la
pressione del sangue e la capacità della pelle di condurre elettricità, che aumenta con la su-
dorazione. In tutti i casi, sia il poligrafo sia la FMRI sono riusciti a distinguere le rispo-
ste veritiere da quelle false. Durante le bugie, la FMRI ha mostrato l’attivazione di diverse
aree cerebrali nel lobo frontale (mediale inferiore e pre-centrale), temporale (ippocam-
po e temporale medio) e limbico (cingolato anteriore e posteriore). Nel caso delle rispo-
ste vere, la FMRI ha invece mostrato attivazione nel lobo frontale (inferiore e mediale),
temporale (inferiore) e nel giro cingolato. Nel complesso, quando un soggetto diceva una
bugia, si attivavano più aree cerebrali, rispetto a quando diceva la verità.
Poiché le risposte fisiologiche possono variare da individuo a individuo e, in alcu-
ni casi, essere regolate, il poligrafo non viene considerato uno strumento del tutto af-
fidabile per individuare una bugia. Secondo Faro, tuttavia, è ancora troppo presto per
affermare se la FMRI possa essere ingannata nello stesso modo.
211
CAPITOLO 11
213
Criminologia ed elementi di criminalistica
la legge n. 36 del 14 febbraio, che consta di soli undici articoli che prevedono le norme
di ammissione e di dimissione dall’istituto manicomiale, regolamentano il lavoro dei di-
rettori e impartiscono le regole amministrative da seguire. L’art. 1, comma primo di tale
legge definisce i malati di mente come persone affette per qualunque causa da alienazione
mentale, quando siano pericolose a sé o a gli altri o riescano di pubblico scandalo o non
siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi.
L’azione più importante era finalizzata, non alla cura basata sulla ricerca delle motiva-
zioni dei disagi provati e al successivo intervento terapeutico, quanto, piuttosto, all’iso-
lamento dell’individuo dalla società: rinchiudere uomini e donne che non agivano quoti-
dianamente secondo le regole dominanti nella cultura e nella società di riferimento era
fattore essenziale affinché la società stessa mantenesse il proprio equilibrio.
Ma isolare in strutture carcerarie, perché tali erano gli istituti manicomiali, non
equivaleva a risolvere il problema, anzi, dal momento che la tranquillità sociale era
considerata l’elemento più importante (così come importante era vivere in una società
sana, di buoni principi e profondamente religiosa), nei manicomi, molto spesso, veni-
vano rinchiusi anche quegli individui che, semplicemente, non vivevano secondo le re-
gole culturali dominanti di quella data società. Ovviamente, il malato non guariva ma,
piuttosto, sprofondava, sempre più, nei deliri della sua mente. Di particolare impor-
tanza, l’art.10 riguardante la gestione dei cadaveri degli alienati, che prevedeva l’uso dei
corpi e anche dei malati da parte degli uomini di scienza. In particolare, l’articolo reci-
ta: nelle città che sono sedi di facoltà medico-chirurgiche, gli ospedali sono tenuti a fornire
il locale e a lasciare a disposizione i malati e i cadaveri occorrenti per i diversi insegna-
menti. Tale articolo riguardava, anche, i manicomi pubblici e privati.
Nel secondo dopoguerra, la necessità di una normativa si ripresenta in maniera
pressante. Come scriveva il deputato Ceravolo nella sua proposta di legge alla Camera
dei Deputati il 17 novembre del 1953: “bisognava appellarsi a criteri di umanità e giu-
stizia perché sostituisce il concetto della custodia di chi è colpito da un male guaribile, il
concetto di cura, e redime l’infermo dalla ingiusta qualifica di delinquente potenziale”.
Dopo diverse proposte di legge, il 18 marzo 1968 fu varata la legge n. 431. è proba-
bilmente il primo vero tentativo di restituire dignità e dimensione umana all’individuo.
Ciò che fino a questo momento era considerato aberrante, mostruoso e disumano, ciò
che aveva alimentato a dismisura le paure della comunità, ciò che aveva portato ad azio-
ni e comportamenti deliranti perché basati sulla non conoscenza, adesso conquista una
categoria di riferimento e una definizione ben precisa: malattia mentale.
Questo restituisce, apparentemente, all’individuo, la sua vita. Il malato deve essere
considerato come tale, non più come un criminale, e la sua patologia va curata e preve-
nuta. Di importanza fondamentale, testimone di una reale volontà di cambiamento, è
l’art. 11 che, di fatto, abroga l’art. 604 n. 2 della legge 36/104, che prevedeva l’obbligo
della registrazione del malato nel casellario giudiziario. L’iscrizione in questo casellario
era come la marchiatura a fuoco, in Francia, dove secondo il Codice Penale del 1810,
si applicava sulla spalla la lettera P a coloro i quali erano condannati ai lavori forzati a
tempo, così come nel 1893, in Inghilterra, si tatuavano i delinquenti tra le gambe o nello
spazio interdigitale dei piedi. In questo modo, gli individui, anche una volta tornati in
libertà, o comunque reintegrati, avrebbero avuto per sempre, indelebilmente, il segno
dell’infamia. Ancora, con la legge n. 431 non si affronta il tema dei manicomi. La leg-
214
Criminalità e distrurbi mentali
ge 180 è da poco preceduta da un referendum abrogativo della legge 36 del 1904. Con
questa normativa, si apre una nuova era per la psichiatria, perché uno dei punti cardini
è il trattamento sanitario volontario.
La concezione dell’individuo malato è totalmente altra rispetto alle precedenti: l’in-
tervento terapeutico non è finalizzato a diminuire la sua pericolosità sociale ma a curar-
lo, a migliorare la convivenza con se stesso e, quindi, con gli altri. Anche la definizione
stessa della patologia cambia: da pazzia a disagio mentale. Si restituisce dignità anche
attraverso le definizioni, le parole. Se l’insanità mentale era legata a concetti di posses-
sione o di devianza, il disagio mentale esprime la difficoltà di vivere da parte di un essere
umano, ed è necessario, quindi, riequilibrare la sua salute.
E questo è un punto focale: il concetto di salute. In psichiatria, la salute è la condi-
zione di assenza della malattia, malattia che si rivela negando la salute. Ma come si de-
finisce la malattia? E soprattutto come si stabilisce il confine tra normale e patologico?
Come afferma M. Augè, la malattia è un paradosso, in quanto si presenta come fattore
meramente individuale, poiché si sperimenta sulla propria persona e, nello stesso tem-
po, è il più sociale degli eventi, perché le categorie per definirla sono sociali, apparten-
gono a quegli schemi di riferimento, a quelle norme che ogni data società umana si dà
e nelle quali si riconosce. Ogni anormalità costituisce il segno di qualcosa che è già av-
venuto o che sta per accadere: qualcosa che non tocca soltanto il soggetto individuale
ma, direttamente o indirettamente, coinvolge rapporti d’interesse comunitario (V. Lan-
ternari, 1994).
In antropologia, il concetto di salute non si costituisce a partire dalla sua contrap-
posizione con la malattia, ma è strettamente legato all’ambito culturale di riferimento.
Come afferma U. Fabietti: “l’analisi di tale dominio (concetto di salute) rivela le nume-
rose connessioni e la densità di significati sociali e culturali che investono il corpo uma-
no, sia laddove esso venga interpretato in una dimensione strettamente biologica, sia
laddove gli eventi che lo riguardano diventino il fulcro per un’elaborata riflessione sulla
costituzione della persona e sulle relazioni che la legano all’ordine sociale (2001)”. An-
che la malattia mentale, come il concetto più generale di malattia, va inteso in rapporto
alla propria cultura, quindi, solo individuando le coordinate culturali di riferimento, e
identificando il posto e il ruolo che ciascun individuo ricopre e svolge in una determi-
nata società si può comprendere la malattia.
Essa, quindi, deve essere interpretata, determinata di significato e questo può esse-
re sia di natura eziologica che sociale o anche entrambe. Comunque sia, è una manife-
stazione del sé che si esprime attraverso un suo proprio linguaggio e suoi propri rituali
che, ovviamente cambiano, a seconda del tipo di società: vi sono quelle in cui l’indivi-
duo è pensato come un insieme di elementi caldi e freddi in equilibrio e armonia e, quindi,
la malattia si insinua negli interstizi di questi elementi, nel punto esatto in cui si avvi-
cinano e corrono paralleli, e concorre a destabilizzare questa armonia, per cui, la cura
è finalizzata al ripristino delle proporzioni degli elementi; vi sono altre società in cui
l’individuo è considerato come agito da un principio spirituale (anima) e, quindi, la ma-
lattia può essere il furto o la compromissione di tale essenza vitale; o, ancora, società in
cui l’individuo è rappresentato come articolazione di una res extensa e di una (separata)
res cogitans, e quindi la malattia sarà affezione di ciascuno di questi domini, malattia del
corpo o della psiche (F. Vacchiano).
215
Criminologia ed elementi di criminalistica
è chiaro che ogni cultura, nel momento in cui si dà delle norme di riferimento
concepisce e sviluppa anche le devianze da tali norme. Ad esempio, presso i Wolof del
Senegal, la malattia mentale risulta essere una punizione per non aver rispettato alcu-
ni aspetti di un determinato rituale, mettendo, quindi, in evidenza tutta quella serie di
obblighi morali e pragmatici nei confronti dei defunti; presso i Wirràrika del Messi-
co, l’insanità mentale può essere frutto di un anatema scagliato da uno sciamano verso
il quale magari non si è portato rispetto; ancora, presso le culture animiste, la pazzia è
frutto di una contaminazione di uno spirito maligno che abita luoghi proibiti come fo-
reste, paludi, e così via. Per cui, le azioni insane dell’individuo saranno determinate da
questa possessione, così come accadeva durante il Medioevo quando l’Inquisizione ac-
comunava gli eretici ai pazzi: “non tutte le persone accusate di stregoneria erano inferme di
mente, ma, quasi tutti gli infermi di mente erano considerati streghe, maghi, posseduti
da incantesimi” (G. Zilboorg, H. Henry).
Ippocrate, nel V secolo a.c., considerava la follia una malattia del cervello, mentre
per il Cristianesimo era espressione della possessione da parte del demonio e pertanto
punibile con le più crudeli torture.
Nel Medioevo, invece, l’insano di mente era largamente accettato dalla comuni-
tà, ne era parte integrante e costituente; la follia era il lato oscuro della quotidianità,
era il male nel bene e l’esistenza tragica degli individui, che oscillava tra la vita e la
morte, conviveva con questa immagine inquietante e familiare. In un momento sto-
rico così fortemente impregnato di religione, il folle rappresentava la vacuità dell’esi-
stenza umana, la caducità delle speranze, il confine sottile tra la luce e le tenebre, e
proprio per questo, l’insano di mente era custode segreto di un sapere oscuro, altro, di
una dimensione parallela a quella della realtà quotidiana, che aveva in seno le verità.
è a partire dall’età moderna, che la pazzia comincia ad essere considerata una malat-
tia, ma una malattia morale piuttosto che mentale: la considerazione della follia come
crimine e non come malattia, determina la prevalenza della concezione etica su quella
giuridica e condanna al silenzio e alla vergogna tutte quelle forme di alterità che, nel
Medioevo e nel Rinascimento, avevano trovato la loro rappresentazione nel mondo
fantastico e miracoloso.
Il malato di mente comincia ad essere relegato in ambienti ben definiti, gli ex leb-
brosari: emblema di queste nuove locazioni è l’Hôpital General di Parigi, fondato nel
1656, che Foucault definisce il terzo stato della repressione. Questa struttura è del tutto
autonoma ed ha diritto di vita o di morte sull’esistenza dei suoi ospiti. Da qui, comin-
cia la storia dell’internamento, del maltrattamento, della deprivazione totale. è ovvio
pensare che in queste strutture era presente un’umanità molto varia: da veri malati a
criminali a dissidenti politici; ma anche individui dalla sessualità incerta o dediti a co-
stumi sessuali licenziosi. La follia, in questo periodo, veniva a rappresentare la diversi-
tà, la devianza, ciò che era contro natura, e si potrebbe affermare, contro cultura; era
associata al mostruoso, all’aberrante, al corrotto e al marcio. Nel tardo XVIII sec., si
comincia ad operare una distinzione, si libera la follia dalla collusione con altre forme
di devianza, ma viene ulteriormente isolata. Sul finire del XIX sec., diventa vera e pro-
pria malattia. Chiaramente, nel corso del tempo, anche gli interventi terapeutici sono
cambiati e sono proprio questi che ci danno la misura delle umiliazioni e le torture su-
bìte dai degenti. Possiamo parlare, ad esempio, della terapia dell’acqua, tanto usata in
216
Criminalità e distrurbi mentali
Francia nei primi anni del ‘800. Esquirol, medico e responsabile del manicomio Cha-
renton, dal 1826 al 1833, prescriveva vari tipi di bagni a seconda della gravità delle
patologie: potevano essere bagni tiepidi, bagni di immersione freddi o ancora bagni a
sorpresa, per cui, ad esempio, si prendeva un malato e lo si gettava di forza nelle acque
di un fiume anche in pieno inverno. Ma c’erano anche docce praticate inserendo il
tubo nel retto a diverse profondità. La terapia dell’acqua era legittimata dalla creden-
za che a seconda della temperatura, l’acqua potesse cambiare la circolazione del san-
gue e, quindi, il modo in cui questo affluisce alla testa, da cui dipendono le patologie.
Oltre a questi interventi, molto usato era il salasso (in realtà se facciamo un discorso
più ampio, il salasso, a quei tempi, era considerato la panacea per tutti i mali, perché,
per qualsiasi tipo di malattia, si interveniva prima in questo modo), praticato anche
attraverso l’uso di sanguisughe poste sugli organi genitali. Veniva praticata, anche la
flebotomia, consistente nell’immersione dei piedi in acqua bollente con l’aggiunta di
acido muriatico, purganti ecc.
Ciò, in quanto sopravviveva la concezione arcaica della malattia come punizione
di una cattiva condotta, come forma esplicita di una quotidianità vissuta non seguen-
do le regole della comunità; quindi, era necessario il rito purificatore attraverso la fuo-
riuscita di quei liquidi del corpo che avevano corrotto l’anima (e la testa). Usata era,
anche, l’elettricità galvanica o magnetica, per lo più posta, sempre, sulla zona anale o
testicolare, ma come afferma V. Andreoli, illustre psichiatra contemporaneo: “la forma
più spettacolare ed efficace però, era quella del ferro rovente applicato sulla nuca o sull’occi-
pite” (1991). C’erano fustigazioni con fasci di ortica o fruste di pelle. Ancor più dram-
matica, se possibile, è la sorte a cui erano destinate le donne, trattandosi di vere e pro-
prie sevizie: si va dalla clitoridectomia alla cauterizzazione, ma venivano praticate anche
l’ovariectomia e la dilatazione cruenta del collo dell’utero. Charcot, psicanalista, per cu-
rare l’isteria, utilizzava una cintura che, per mezzo di una vite a pressione, comprimeva
la regione ovarica di sinistra. Questi interventi non sono dissimili dalle sevizie che le
donne tutt’oggi subiscono in vari paesi del mondo.
Nella prima metà del ‘900 fa la sua comparsa l’elettroshock. è singolare la situazio-
ne da cui ha poi origine questa idea. è il 1937, il dott. U. Cerletti, allora direttore della
Clinica di Neuropatologia e Psichiatria di Roma, assiste, visitando il mattatoio di Ro-
ma, all’applicazione di corrente elettrica sulla testa dei maiali. Con questa tecnica ap-
plicata agli uomini, il paziente giunge al coma e all’arresto delle funzioni vitali: il cuore
e il respiro si fermano almeno per un pò di tempo; la rinascita è condotta con tecniche
di rianimazione e, nel giro di alcuni minuti, il folle cammina, rinato, nella sua stanza
(V. Andreoli, 1991). Non dimentichiamo, inoltre, gli interventi invasivi quali la lobo-
tomia che riduceva nell’individuo, da un lato, la patologia, ma, con essa, anche la sue
capacità critiche e relazionali.
Alla luce di tutto questo, ci rendiamo conto come con la legge 180 ci sia stata una
vera svolta epocale. L’art 1, comma 1, afferma: “gli accertamenti e i trattamenti sani-
tari sono volontari”. E il comma 2: “nei casi di cui per legge, e in quelli espressamente
previsti da leggi dello Stato, possono essere, invece, disposti dall’autorità sanitaria nel
rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costitu-
zione, compreso per quanto possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luo-
go di cura”.
217
Criminologia ed elementi di criminalistica
Già da questo primo articolo si evince la restituita dignità al malato come indivi-
duo e la restituzione del rispetto dei suoi diritti fondamentali quali, ad esempio, la li-
bertà di scelta.
L’art. 34 comma 4 della legge 833 del 1978, articolo che riguarda i casi in cui in-
vece si possa ricorrere al trattamento sanitario obbligatorio, afferma che: “questo può
svolgersi in condizioni di degenza ospedaliera, solo se esistano alterazioni psichiche tali
da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accertati dall’in-
fermo, e se non vi siano le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee
misure sanitarie extraospedaliere”.
Secondo la normativa attuale, la degenza in ospedale ha una durata massima di una
settimana rinnovabile, e ha inizio con la proposta del medico curante, rivolta al sindaco
che, nella sua qualità di autorità sanitaria, ne dispone il provvedimento. Da notare che
il sindaco − come si affretta a specificare anche l’art. 33, comma 3 della legge 833/78 −
interviene in virtù della sua autorità sanitaria e non anche di pubblica sicurezza come
invece era previsto per la legge 36 del 1904 e dall’art.1 del Testo Unico di Pubblica Si-
curezza. La proposta del medico, prima di giungere al Sindaco, deve essere convalidata
da un medico dell’unità sanitaria locale che deve motivare tale convalida, in relazione
all’art. 34, comma 4 della legge 833/78.
La nuova normativa sulle patologie psichiche ha una visione completamente diver-
sa: abolendo le strutture manicomiali, come nuovo territorio della psichiatria, utilizza
tutta una serie di istituzioni che possano essere alternative e interdipendenti tra di loro.
In questo modo, si intende realizzare una fitta rete di servizi, il cui scopo non sia quel-
lo di internare ma ricercare, continuamente, soluzioni riabilitative per quegli individui
che soffrono di disagio mentale. Di fondamentale importanza è anche il confronto con
chi soffre: concentrarsi sulle storie di vita, sull’ambiente in cui si è vissuto, sugli stimo-
li ricevuti e sulle esperienze avute, aiuta a comprendere. Dell’importanza della terapia
della parola già ne parlavano S. Freud e J. Breuer: “un’immagine che sia stata sfogata
a parole non si rivede più; solo con l’ultima parola dell’analisi scompare l’intero qua-
dro morboso” (J. Breuer, S. Freud, 1976). Ed ancora, in tempi più recenti: “la parola è
la rappresentazione di un sintomo, dunque, un segno che lo individua e lo maschera.
Gli rimane l’idea di una parola che, liberatasi nella ritualità della relazione terapeutica,
genera la soluzione d’un conflitto come se il conflitto fosse in quella parola, ora detta”
(V. Andreoli, 1991).
Se è vero che con la legge 180 c’è stata una reale svolta epocale nella considerazione
del disagio mentale, pur tuttavia, questa normativa non è esente da critiche. La gestio-
ne del problema psichiatrico da parte delle singole regioni non sempre ha dato risposte
soddisfacenti, e ciò per tutta una serie di motivazioni, non ultima proprio dal punto di
vista operativo, il passaggio da una normativa a un’altra. In realtà, i punti su cui si di-
batte da tempo, sono sia di natura tecnica che socio-sanitaria. Non sempre gli ex-mani-
comi, ad esempio, sono stati smantellati; più spesso, c’è stata una riconversione poiché
è stato impossibile creare strutture alternative e, parallelamente, vi è stata la prolifera-
zione di case di cura private che, molto spesso, salgono agli onori delle cronache (nere)
perché veri e propri lager; per quanto riguarda i Dipartimenti di Salute mentale, da più
parti, si lamenta la poca specializzazione del personale che dovrebbe essere sottoposto a
continua formazione; inoltre, c’è la gestione della malattia a livello sociale: la famiglia e
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Criminalità e distrurbi mentali
i cittadini. Molto spesso, le associazione dei familiari dei malati lamentano il loro stato
di abbandono da parte delle strutture psichiatriche e delle istituzioni; ci sono casi mol-
to gravi, in cui il trattamento sanitario obbligatorio, per il periodo di tempo sancito dalla
legge, risulta insufficiente; di contro, le strutture intermedie predisposte all’assistenza
psichiatrica risultano insufficienti per soddisfare tutte le richieste. Quindi, sarebbe ne-
cessario creare una rete di strutture con compiti differenziati che siano però interagenti
tra loro, al fine di affrontare la malattia in tutte le sue forme e le sue gravità. Ci sono,
poi, difficoltà di convivenza a livello sociale con i malati psichici. In moltissimi casi, la
situazione di stigma della malattia permane, per cui, è difficile trovare una locazione
indipendente per il disagiato che non viene accettato, ad esempio, dai vicini di casa.
Paradossalmente, mentre in passato la realtà manicomiale garantiva la sistemazione a
lungo termine dei malati, oggi, c’è un reale abbandono di chi soffre, e le famiglie, per la
maggior parte composte da persone anziane, non riescono a gestire le varie situazioni.
Molto spesso, poi, i casi più gravi di malattia mentale si riscontrano presso famiglie che
già vivono situazioni di indigenza o che comunque hanno problemi. La legge prevede
dei protocolli d’intesa con le varie ASL ed i Comuni, per trovare delle soluzioni e delle
locazioni ma, dopo un impegno formale iniziale, le aspettative vengono subito disatte-
se per tutta quelle serie di problemi su indicati.
1) il metodo psicologico normativo, che consiste nel valutare l’esistenza di malattie o di-
sturbi psichici e valutarne l’incidenza sulla capacità di intendere e di volere. Circa
i fattori psicopatologici, non sempre la legge li definisce, mentre si limita a far ri-
ferimento a concetti molto generali, che poi sono interpretati estensivamente. Per
quanto attiene la capacità di intendere e volere, nella maggior parte dei sistemi pe-
nali, che seguono tale metodo valutativo (e sono quello danese, francese, olandese,
austriaco, irlandese portoghese, svizzero, tedesco, greco e il nostro), è sufficiente
che manchi anche solo una di esse perché il soggetto non sia considerato punibi-
le. Come rileva Pulitanò, il primo metodo, quello misto, è fatto proprio dal nostro
codice penale. In base a tale metodo, quindi, non occorre solo individuare lo stato
patologico, ma, anche, la verifica normativo-giurisprudenziale della rispondenza di
tale stato a una condizione di infermità tale da escludere o scemare grandemente
la capacità di intendere o di volere o entrambe;
2) il metodo puramente psicopatologico considera non punibili i soggetti affetti da de-
terminate malattie mentali, senza valutarne la loro incidenza sulla capacità di in-
tendere e di volere (Norvegia e Svezia seguono questo metodo). Ne consegue, ed è
219
Criminologia ed elementi di criminalistica
l’esempio svedese, che il malato mentale venuto a contatto con la giustizia penale
non può essere sottoposto a sanzioni penali punitive, ma deve essere sottoposto a
misure di trattamento psichiatrico;
3) il metodo puramente normativo non considera i problemi psicopatologici, ma valu-
ta solo se, al momento del fatto, sussisteva la capacità di intendere e di volere. Tale
metodo non è seguito in nessuno dei paesi europei (almeno di quelli membri del-
l’U.E.) e fa capolino solo in quelli in cui l’elemento psicopatologico, interpretato in
modo estensivo, conduce a effetti distortivi e ad abusi contrari al senso di giustizia.
Occorre, anche, chiarire che esiste un legame tra il criterio utilizzato per definire
il disturbo psichico e il criterio per rilevare il rapporto tra disturbo e imputabilità:
quanto più è allargato il criterio diagnostico, più è vincolante il rapporto tra ma-
lattia mentale e comportamento.
Nonostante il maggior sforzo critico dei magistrati, ancora oggi, il legame tra di-
sturbo psichico e comportamento criminoso, soprattutto per quanto attiene i reati di
violenza, resta in piedi. Anche se non esiste più il meccanicismo per il quale il malato di
mente è solo per questo prosciolto, si cerca il legame di causalità tra lo stato patologico e
l’atto criminoso, come se questo fosse sintomo della malattia, del disturbo.
In realtà non sembra che si possa affermare che il reato sia sintomo della malattia,
e ciò anche nei casi più gravi ed efferati.
La valutazione dei problemi connessi con l’imputabilità e la responsabilità pena-
le a livello dei casi individuali, nel campo delle scienze di tipo clinico, come sono la
psicologia e la psichiatria, hanno evidenziato come i periti non sono scientificamen-
te qualificati per fornitore pareri, se non veri e propri giudizi, in merito a questioni
morali e filosofiche, come la responsabilità o l’imputabilità penale. Giustamente, Ca-
nepa, fà notare che il parere del perito è trasformato, dal magistrato, in un giudizio
morale sulla responsabilità, e, quindi, sulla libertà del soggetto che deve essere giudi-
cato; ma il perito non ha la competenza per esprimersi sulla responsabilità e sull’im-
putabilità; da qui, la richiesta di revisione di tali concetti in seno al codice penale.
Per Canepa, il perito dovrebbe limitarsi alla comprensione clinico-fenomenologica
dell’atto criminoso ed elaborare un programma di trattamento finalizzato alla riso-
cializzazione.
220
Criminalità e distrurbi mentali
221
Criminologia ed elementi di criminalistica
diritto, di risposte certe. L’ampliamento del ruolo e della responsabilità del perito psi-
chiatra, porta, quest’ultimo, ad esprimersi sulla pericolosità sociale, fino ad essere chia-
mato, tenuto conto dell’ampia delega operata abitualmente dai magistrati in favore dei
tecnici chiamati a esprimere il loro parere, a operare un giudizio che, secondo l’opinio-
ne dominante, non è da considerarsi di competenza medica e ad assumersi una respon-
sabilità che non gli compete, tra i due opposti rischi di sconfinare in una sovrastima
della pericolosità sociale o di agevolare i simulatori che, se giudicati inimputabili, e non
pericolosi, non subiranno alcuna sanzione. Meglio sarebbe, secondo tali autori, che allo
psichiatra fossero riservate considerazioni tecniche su elementi quali le caratteristiche
individuali della malattia, l’eventuale miglioramento o guarigione della stessa, le indi-
cazioni terapeutiche, la prognosi legata al tipo di interventi; elementi che poi il giudi-
ce utilizzerà per effettuare (egli stesso) il giudizio di pericolosità, non delegabile ad altri,
avvalendosi anche di tutti quei dati per la cui valutazione non è necessaria una compe-
tenza di tipo medico, quali la gravità del reato, l’allarme sociale, i fattori situazionali, i
precedenti penali, e così via.
Altri autori, poi, ammettono la competenza predittiva del perito psichiatra, ma,
solo se congiunta alla formulazione di un programma terapeutico. Il binomio prognosi-
terapia, dimostratosi valido in ogni settore della medicina, conserverebbe la sua validità
anche in psichiatria forense, coinvolgendo nei progetti terapeutici i servizi psichiatrici
civili territoriali, che sono, oggi, abilitati ad occuparsi anche dei malati di mente in de-
tenzione, siano essi imputati o condannati. Naturalmente, ciò che i critici della capaci-
tà predittiva della psichiatria contestano non è la necessità di formulare predizioni nella
quotidianità del vivere, bensì, il fatto di gabellare per scientifiche, prognosi che non sa-
rebbero più sicure di quelle basate sul senso comune. Resta però il fatto che, se si deve
ammettere che, al folle residua, pur sempre, uno spazio di libertà, sappiamo anche che
ogni disturbo mentale comporta una riduzione di questa area. Inoltre, le dinamiche
dei disturbi mentali sono note alla psichiatria, e le reazioni dei soggetti che ne sono af-
fetti sono più rigide di quelle delle persone sane, più frequentemente stereotipate e più
agevoli ad essere previste. Nonostante ciò, non sono possibili certezze, perché il malato
non è guidato, nella propria condotta, soltanto dalle dinamiche psicopatologiche, che,
seppur rilevanti, non eliminano la sua libertà di scelta.
Le predizioni psichiatriche sono, pertanto, possibili, ma contengono un margine
ineliminabile di errore, che impedisce di farle assurgere a dignità di certezze scienti-
fiche. Posto però che il diritto penale vigente deve poter disporre, per il suo corretto
funzionamento, così come dei giudizi di colpevolezza, anche di quelli di pericolosità
sociale del reo malato di mente, la psichiatria può fornire al giudice ulteriori elementi
di valutazione, ma la responsabilità ultima del giudizio di pericolosità è pur sempre del
giudice, nella veste di peritus peritorum, non potendo attribuirsi al perito la funzione di
arbitro del conflitto fra la sicurezza sociale e la libertà individuale. In conclusione, ai fi-
ni dell’accertamento della pericolosità sociale del soggetto affetto da malattia di mente,
occorre tener presente che nulla consente di affermare con certezza che in determina-
te circostanze di tempo e di luogo, o sotto determinate spinte emotive o psicologiche,
il malato di mente possa, o meno, porre in essere azioni delittuose che non sarebbero
compiute, nelle stesse condizioni, da una persona sana; ma, anche che in materia di
prognosi comportamentale, non può negarsi che l’esistenza di una malattia mentale o
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Criminalità e distrurbi mentali
di disturbi alla sfera neuro-psichica, costituisce un elemento tale da pesare in modo ri-
levante. Sotto tale profilo, il giudice dovrà attendersi, dall’indagine tecnica, specifiche
indicazioni circa l’attualità della malattia, il livello di intensità con cui essa si presenta,
la possibilità di attuare, in ambiente diverso dallo stato di libertà, adeguate terapie con
ragionevole previsione di efficacia, la compatibilità della condizione morbosa del sog-
getto con l’inserimento in un ambiente (sociale e familiare) di cui siano state preventi-
vamente valutate la natura e le caratteristiche di recettività, gli elementi di danno che
possono derivare al malato dalla privazione della libertà, nonché gli elementi che pos-
sono determinare il soggetto alla perpetrazione di nuovi reati. Acquisiti tali elementi
di valutazione tecnica, il giudice dovrà esprimere, sulla base di questi, ed utilizzando i
criteri di cui agli artt. 203 e 133 c.p., il giudizio circa l’esistenza, la permanenza, l’atte-
nuazione o il venir meno della pericolosità, pur tenendo presente che, in tali casi, l’in-
fermità psichica, in quanto condizionante l’attuazione stessa della prognosi di perico-
losità, è l’elemento di maggior peso ai fini di quest’ultima.
11.4 Le nevrosi
Il termine nevrosi (letteralmente impoverimento di ordine nervoso) fu preso in
prestito dalla metà del ‘800: questo comprendeva la neurastenia (o nevrastenia), che si-
gnifica mancanza di energia, e l’esaurimento nervoso (accezione di tipo popolare). Si
pensava che ogni malattia psichica fosse correlata a una patologia di un’area specifica
del cervello. Il quadro era molto vago, e solo verso la fine del ‘800, Freud cominciò ad
organizzare una comprensione eziopatogenetica delle nevrosi; il primo studio fu sul-
l’isteria, malattia già nota da tempo.
I primi psicopatologi che si occuparono delle nevrosi furono Janet e Charcot. Fu
quest’ultimo che diede una descrizione e un significato preciso al termine isteria che,
seppur introdotto da Ippocrate, era assai ampio. È una malattia dovuta a cause psico-
gene che produce uno stato di sofferenza importante (es. diminuzione delle capacità la-
vorative), con perdita delle capacità operative sia nel soggetto che ne è affetto, che nelle
persone che gli stanno attorno: è una malattia che produce una grossa quantità di sof-
ferenza familiare. Il modello freudiano parte da un’ipotesi della psiche, che risulta cen-
trata su una funzione principale che è l’Io, ed un’altra area importante che è l’inconscio,
del quale non siamo consapevoli. In un corretto funzionamento, queste due aree sono
in continuo scambio (omeostasi della coscienza dell’io): è uno scambio qualificato, pre-
ciso e selettivo (ad esempio, la città contenuta dalla muraglia che seleziona il passaggio).
Questo scambio è il luogo dove si verificano le alterazioni che originano le nevrosi.
I meccanismi di difesa dell’Io: i meccanismi di difesa dell’io sono dei meccanismi
presenti in tutti noi, sono una funzione psicologica, (sono le guardie della città) che so-
no in parte coscienti e in parte incoscienti. Ogni meccanismo di difesa è tipico di una
categoria di nevrosi: lo spostamento è relativo alla nevrosi fobica, la formazione reatti-
va è tipica della nevrosi ossessiva, la conversione invece è relativa all’isteria. Le nevrosi
d’ansia, invece, comprendono la nevrastenia e la nevrosi ipocondriaca.
Meccanismo di difesa della rimozione: ogni cosa alla quale non siamo attenti è ri-
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Criminologia ed elementi di criminalistica
mossa, questo avviene come un meccanismo fisiologico necessario per lasciare posto ad
una nuova informazione; è un meccanismo costante e continuo, la cui funzione avvie-
ne in modo selettivo e automatico dove alcuni contenuti hanno un carattere conscio,
mentre altri rimangono sempre inconsci. I contenuti psichici hanno una loro valenza
energetica; secondo questa valenza, sarà più o meno possibile rimuoverli. La rimozione
è un fenomeno per cui i contenuti della coscienza vengono gettati fuori dalla coscienza
stessa ma possono, in un soggetto sano, essere recuperati e riutilizzati.
Un contenuto psichico viene rimosso quando non ci serve più, o quando non è
coerente con l’orientamento che l’Io possiede; i nostri contenuti psichici scompaiono
da un lato, ma possono ricomparire da un’altra parte.
L’inconscio confonde, contamina, mette tutto insieme; la coscienza distingue, sepa-
ra, ha una funzione di discernimento, di distinzione. I nostri contenuti psichici quando
vengono allontanati, si mischiano in un unico contenitore, peraltro contaminato. L’at-
tività specifica della coscienza è quella di distinguere i contenuti psichici.
Psicopatologia della rimozione: ogni qualvolta un contenuto psichico con un certo
valore energetico viene eliminato, insieme a quelli che non hanno un valore energeti-
co, si realizza una rimozione psicopatologica. Ogni cosa che non è compatibile con la
struttura primaria della coscienza, viene rimossa (pregiudizi sentimentali come l’omo-
sessualità, il desiderio di uccidere, e così via). Per comprendere sostanzialmente qual è
la nostra area rimossa, bisogna pensare a tutto quello che ci fa vergognare, viceversa,
per l’area ideale, sarà tutto quello del quale siamo orgogliosi. Il nevrotico è colui che ri-
muove i contenuti psichici con una carica energetica importante perché non li ritiene
compatibili con la propria coscienza.
La differenza fondamentale è che un soggetto sano, prima o poi, si accorge dei
contenuti che ha eliminato e va a recuperarli, il nevrotico questo non lo farà mai. Se
si rimuove un contenuto con un elevato valore energetico (quantità di libido), questo
produce un’attivazione inconscia; l’inconscio attivato per mantenere rimosso il con-
tenuto ha bisogno di una grande quantità di energia. Il soggetto si troverà a spendere
un’enorme quantità di energia per evitare che il contenuto non torni a galla. Lo psico-
tico rimuove i contenuti psichici e non può più reintegrarli, dal momento che avesse
questa capacità non sarebbe psicotico ma verrebbe considerato nevrotico: la sua strut-
tura dell’Io, come contenitore, è troppo fragile.
Il rito nevrotico è diverso da un rito sano, il nevrotico evita il contatto con quella co-
sa da esorcizzare (esorcismo significa in greco: “giuro che no”), ponendo un muro.
È un rito fallimentare che ha come obiettivo la difesa del soggetto da questo evento
che crea paura, ma che, allo stesso tempo, è molto attraente. È un sistema di distanziar-
si dall’oggetto che necessita di riti sempre più potenti per mantenere questa distanza.
Nello psicotico, questi si presentano sotto forma di stereotipie e manierismi. Esi-
stono anche dei segni sintomatici di nevrosi infantili nei soggetti adulti:
224
Criminalità e distrurbi mentali
- pavor nocturnus: angoscia che insorge durante la notte, frequente nei bambini che
si risvegliano a occhi spalancati in preda al panico; solitamente, dopo una breve
rassicurazione, c’è una ripresa del sonno tranquillo e al risveglio, una totale am-
nesia dell’accaduto; inoltre, non è un sintomo isolato, ma si accompagna ad altri
disturbi quali l’enuresi, irrequietezza motoria, reazioni ansiose, solitamente dovu-
te a conflitti con l’ambiente familiare, e la conseguente incapacità di affrontare la
situazione;
- enuresi: perdita involontaria e incontrollata di urine dopo il quarto anno, età so-
glia, per l’autoregolazione dello sfintere urinario. Escluse le cause organiche, le ra-
gioni vanno ricercate nell’ambito psicogeno negativo dell’ambiente circostante,
che induce il soggetto ad atteggiamenti di protesta e di negativismo.
1) nevrosi d’ansia ipocondriaca (che si riscontra, soprattutto, in alcune aree della po-
polazione, ricorrente negli anziani, secondo il modello culturale, ed in quelle per-
sone che hanno una scarsa dimestichezza con il proprio lato psichico, emotivo,
sentimentale, e che esprimono i disagi piuttosto sul lato somatico; nel soggetto con
ansia ipocondriaca, c’è una sensazione che il corpo si rompa, come nella sintoma-
tologia dell’angoscia dove vi è la paura di avere dei problemi fisici (cardiopatie, tu-
mori, ecc.). La nevrosi d’ansia ipocondriaca è una lettura della cenestesia in modo
ansioso, dove vi è un’angoscia d’avere una malattia corporea;
2) nevrosi fobica: l’ansia viene canalizzata mediante il meccanismo di difesa dello spo-
stamento; il soggetto vive costantemente sulla difensiva, ha paura di tutto, soprat-
tutto di ciò che non conosce (nessuna nuova, buona nuova), non tollera il con-
fronto, desidera tanto che ci fosse qualcun altro al suo posto; quando dà la mano,
contemporaneamente la ritira. Teme tutto e organizza la sua vita su questo atteg-
giamento. È sempre in condizione di allarme e la fuga è un elemento ricorrente: è
l’antiesplorativo per eccellenza. Le fobie più diffuse sono:
- paura degli spazi aperti (agorafobia): l’ansia che insorge quando si tratta di
uscire di casa da soli può essere lieve o giungere a vere e proprie crisi di panico
che possono portare a svenimenti, sensazioni di vertigine e talvolta anche ad
una perdita del controllo sfinterico;
225
Criminologia ed elementi di criminalistica
- paura degli spazi chiusi (claustrofobia): paura dei luoghi chiusi o troppo affol-
lati, come ascensori, gallerie, scompartimenti dei treni, cabine telefoniche e si-
mili, dove, in alcuni casi, prevale la sensazione di soffocamento e oppressione,
in altri quella di essere rinchiusi o imprigionati. La claustrofobia e le reazioni
a essa associate rimandano filogeneticamente alle risposte di terrore degli ani-
mali posti in una situazione in cui non hanno la possibilità di fuga;
- paura dell’autostrada: è un percorso dove non si può ritornare in dietro (il tem-
po passa), quello che si è fatto è fatto, ed è irreversibile; chi può tornare indie-
tro è l’adolescente, capace di fantasticare;
- paura delle gallerie: la galleria può rappresentare il canale del parto, dunque
vi è una paura della nascita, anche questa è irreversibile; sul piano simbolico
indica la difficoltà di cambiamento, di passaggio. È un cambiamento da una
situazione a un’altra. La nostra coscienza è in grado di percepire la realtà in
base alle misure spazio/tempo. C’è un’evoluzione della coscienza umana in
base al bisogno; man mano che aumenta la rappresentazione di sviluppo che
si ha di sé, si cerca più spazio (scoperta dell’America, viaggi spaziali, ecc.);
- paura degli animali con tante zampe (ad esempio, ragno - aracnofobia): reazio-
ne fobica di repulsione nei confronti dei ragni, più diffusa tra le donne perché,
secondo la psicanalisi, questa fobia è legata alla paura della distruttività ma-
terna che la donna può inconsciamente avvertire dentro di sé e trasporre nella
realtà esterna, indirizzandola ad un oggetto sostitutivo che nella fattispecie è il
ragno;
- paura dei topi: sono delle organizzazioni di specie che, da sempre, si sono as-
sociate alle organizzazioni umane; queste si nascondono nei sottofondi, nelle
fogne, penetrano ovunque, sono dei portatori di malattie, stanno tra quello
che noi rimuoviamo, e noi rimuoviamo gli istinti (sesso, morte, ecc.);
- paura dei serpenti: il serpente è un animale che non si può addomesticare; sim-
bolicamente rappresenta l’istinto puro dove a uno stimolo c’è una risposta;
- paura dello sporco (rupofobia): fobia per lo sporco, che innesca un meccanismo
ossessivo che costringe il soggetto ad affaccendarsi in continue pulizie. Secon-
do la psicoanalisi, la rupofobia può nascondere un inconfessato rifiuto della
sessualità, dello sperma, delle mestruazioni, della gravidanza, che il soggetto
vive in modo conflittuale.
3) Nevrosi isterica: viene detta anche isteria di conversione, è una grande malattia con
una storia molto antica ed è molto complessa. Ha una connotazione etica negati-
va, soffre di una serie d’imputazioni mediche, dove oggi c’è ancora chi la conside-
ra come qualcosa di poco morale. Questo tipo di personalità nasce in un soggetto
che si sviluppa aderendo a una immagine ideale dell’Io e che non rispetta un reale
sentimento dell’Io. Questo capita se il soggetto cresce in un ambiente dove, per es-
sere amato, deve corrispondere a un certo modello, che finisce per adottarlo, non
essendo più quello che si sente di essere. Il soggetto isterico rifiuta la natura, rinvia
costantemente delle immagini di amabilità, per ottenere un consenso. Quando una
persona si trova in un ambiente di questo tipo, finisce per identificarsi con il mo-
dello che gli viene imposto per riuscire ad essere amata; si instaura quindi un mec-
226
Criminalità e distrurbi mentali
11.5 Le psicopatie
Le psicopatie, che includono anche le c.d. caratteropatie, rappresentano degli stati
e non delle malattie; esse non fanno parte del campo degli interventi psichiatrici; tutta-
via, da sempre, sono considerati dalla psichiatria, a seguito delle problematiche foren-
si indotte. Le psicopatie implicano una serie di comportamenti trasgressivi delle rego-
le sociali. Raramente gli interessati vengono ricoverati in ospedale psichiatrico se non
si innesta una psicopatologia secondaria (alcolismo, tossicomania, ecc.). Sulla genesi e
la problematica originaria, si è discusso per lungo tempo, dato che veniva considerata
frutto di una patologia cerebrale di derivazione epilettica, dovuta alle frequenti altera-
zioni dell’EEG, motivo per il quale, è sempre stata trattata con una terapia anticonvul-
siva, anche in assenza di crisi.
Uno dei collegamenti principali riguardava la caratteristica epilettica che si mani-
festava anche nelle psicopatie, termine attualmente non più in uso. Oggi, è noto che il
nucleo fondamentale risiede in un disturbo affettivo. La provenienza del soggetto a livel-
lo di nucleo familiare è fondamentale: si riscontra un’assenza di rete affettiva, manca un
referente affettivo che abbia una certa stabilità; la madre può essere prostituta, il padre
etilista, il fratello tossicodipendente o delinquente, e così via.
In realtà, non è indispensabile la presenza di una famiglia come quella su indicata;
è sufficiente, ad esempio, una situazione di separazione o di delega (perché si tratta di
una famiglia in carriera), da parte dei genitori, a cose come i giochi o a persone non
continuamente presenti, che acquisiscono il significato di sostituto affettivo, per indur-
re condizioni psicopatiche nel bambino. L’importanza di un oggetto amabile stabile,
nel senso di elemento proiettivo, è fondamentale, perché permette di introiettare que-
ste caratteristiche: la stabilità affettiva porta a un’inerzia che consente di assorbire il
mondo pulsionale e, quindi, la trasformazione in scelte comportamentali organizza-
te. Quello che accade tragicamente a una struttura psicopatica è la povertà di capacità
trasformativa; è la mancanza di trasformare un livello istintuale-pulsionale a un livello
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Criminologia ed elementi di criminalistica
affettivo, per cui, la risposta è conseguentemente un agito (acting out). Lo sviluppo af-
fettivo si realizza grazie alla capacità di sopportare le frustrazioni. Lo psicopatico è un
soggetto che non sa che cos’è una vita affettiva godibile: le emozioni in lui non esisto-
no, sono pulsioni, quindi agiti. Dal punto di vista clinico, gli elementi caratteristici si
notano molto precocemente in un soggetto psicopatico: già a livello di infanzia. La fa-
miglia di provenienza dello psicopatico, se così la si può definire, ha una struttura psi-
copatica: è piuttosto un’aggregazione sociale che altro. Analoga cosa avviene anche nei
bambini istituzionalizzati precocemente. Si tratta quindi di un bambino che non ha
limiti a livello di aggressività, non ha una distinzione tra oggetti propri e quelli altrui,
non ha una stasi spaziale, è irrequieto: nessun gioco o azione possono tranquillizzarlo.
Si osserva una precocità sessuale (e non solo), tipica di un’età più avanzata. Essendo
alterata la funzione affettiva, il soggetto psicopatico ha una difficoltà di apprendimento
sin dalla tenera età, in quanto, presuppone una capacità di sopportare le frustrazioni.
È ricorrente che diventi, in una scolaresca, il capro espiatorio, in quanto, la precocità in
vari ambiti, porta a uno sconvolgimento dell’ambiente scolastico stesso: piccola delin-
quenza, tossicodipendenza, precocità sessuale, e così via. Giunto alla maturità, lo psicopa-
tico si inventa il quotidiano: può diventare il gregario di una delinquenza organizzata,
diventare una prostituta, oggi non infrequente anche a livello maschile. Si innestano
patologie secondarie come la tossicodipendenza, alcolmanie che contribuiscono ad am-
plificare lo stato psicopatico; un evento molto frequente è che si producono degli ac-
cidenti dell’ordine suicidale: morte per overdose, morte per AIDS, ecc.
Vi è una capacità di percezione in questi soggetti su quello che accade a loro com-
prendono per un tempo troppo breve, per poi ripartire per il loro percorso patologico.
In casi meno estremi, paradossalmente opposti, in una famiglia in carriera, ad esempio,
vi possono essere i presupposti per una struttura psicopatica. L’ambiente tipico per uno
psicopatico è quello dell’uniforme, o dell’ambiente uniformato, dove vi è uno statuto
di organizzazione dell’aggressività: infermieri, psichiatri, forze dell’ordine.
Vi sono individui che, in seguito a patologie di ordine psichico, solitamente nel-
l’ambito nevrotico, si trovano in una posizione di vantaggio secondario, dove, ad esem-
pio, l’istituzionalizzazione crea una situazione di beneficio come poter mangiare, dor-
mire, non lavorare. Si trovano a mimare una patologia di ordine nevrotico: sanno tutto
sulla loro malattia, conoscono tutti i tipi di psicanalisi e sono stati in molti ospedali; si
tratta, in tali casi, di psicopatici pseudo-nevrotici.
Vi sono, invece, patologie a livello di turba della personalità dell’ordine psicopati-
co, che virano in un ambito psicotico.
La psicopatia non è una malattia bensì uno stato; da adulti, le cose non si modifi-
cano più. Con i bambini si può lavorare invece in modo efficace: famiglie affidatarie,
adozioni, e così via, rappresentano ambienti che hanno un certo spessore affettivo. Si
tratta, in realtà, di un’azione preventiva. Non esistono terapie, si possono proporre
dei contenitori, più che dare una certa stabilità; un’organizzazione comportamentale è
una valida soluzione che impedisce comunque di far acquisire al soggetto psicopatico
un’esperienza.
228
Criminalità e distrurbi mentali
11.6 Le psicosi
Il termine psicosi, in uso nella letteratura psichiatrica a partire dal XIX secolo, ve-
niva utilizzato per indicare le malattie mentali in generale.
Successivamente, è emersa, sul piano concettuale, la necessità di suddividere alcu-
ne di queste malattie con la denominazione nevrosi. Da allora, l’evoluzione dei due ter-
mini, si è espressa su piani diversi, ma entrambi validi. Il gruppo delle nevrosi si è len-
tamente delineato, sino a comprendere le affezioni nelle quali, in mancanza di lesioni
organiche, si imputava il disturbo a un cattivo funzionamento dell’apparato psichico
(malattie funzionali).
Questo concetto si basava principalmente sul criterio di disturbo di una sola fun-
zione, sulla sua reversibilità e su alcune caratteristiche intrinseche del disturbo stesso,
che seguiva leggi differenti dalle malattie a carattere organico. A loro volta, queste ulti-
me, erano contraddistinte con il termine di psicosi. Successivamente, questo criterio è
stato mitigato, e molte classificazioni moderne usano il termine psicosi anche per alcune
affezioni senza reperto anatomico (psicosi funzionali) che rientrano, però, più specifi-
camente, nella competenza della psichiatria, poiché si traducono in una sintomatolo-
gia essenzialmente psicopatologica per caratteristiche di gravità, di molteplicità dei fe-
nomeni morbosi e di irreversibilità dei disturbi. Attualmente, nella psichiatria clinica,
il concetto di psicosi è estremamente ampio e comprende tutta una gamma di malattie
mentali, sia manifestamente organiche, sia con eziologia ancora discussa e non suffi-
cientemente chiarita. Il raggruppamento di queste malattie, sotto il termine di psicosi,
si basa su criteri psicopatologici e sociali. Dal punto di vista psicopatologico, il concetto
di psicosi rimane definibile in modo presuntivo, sia per la gravità dei disturbi psichi-
ci sia per il decorso progressivo e per lo più irreversibile, con modificazione, non solo
quantitativa, ma anche qualitativa, nei confronti della normalità. Sotto un profilo so-
ciale, la psicosi è definibile in base al contegno spesso imprevedibile e genericamente
alienato dello psicotico, con scarsa partecipazione alla psicologia normale. Per queste
ragioni spesso compaiono nelle definizioni correnti delle psicosi criteri diversi, come
l’incapacità di adattamento sociale, la maggiore o minore gravità dei sintomi, la pertur-
bazione delle facoltà di comunicazione, la mancanza di consapevolezza della malattia,
la perdita del contatto con la realtà, il carattere non comprensibile dei disturbi, le alte-
razioni più o meno profonde e irreversibili dell’Io. Il contributo sperimentale al chia-
rimento del concetto di psicosi non sempre ha potuto basarsi su dati obiettivi di ana-
tomia clinica e di psicofisiologia, poiché la psicosi è strettamente legata a un profondo
disturbo della personalità in genere e non riducibile a elementi semplici. Pertanto, i dati
sperimentali che si sono potuti utilizzare a questo riguardo hanno un significato vago e
di valore molto particolare. Le osservazioni principali si riferiscono all’azione di alcune
sostanze tossiche (psicodislettici) capaci di produrre disturbi psicotici inquadrabili nel-
le psicosi modello. Questi disturbi, tuttavia, si sono rivelati per lo più transitori e non
hanno sufficientemente chiarito i presupposti anatomo-clinici sopra enunciati. Anche
il contributo dato dalle varie correnti psichiatriche e psicologiche alla definizione del
concetto di psicosi si è espresso in termini variabili a seconda dell’indirizzo seguito e
non ha permesso di ricavare una definizione unitaria, per cui, è opportuno esaminare
i vari punti di vista, per meglio chiarire il problema nei suoi termini generali. Gli indi-
229
Criminologia ed elementi di criminalistica
230
Criminalità e distrurbi mentali
11.7 La schizofrenia
Per molto tempo, la malattia mentale, e la schizofrenia in particolare, è stata studia-
ta da due punti di vista spesso tra loro contrapposti. Il primo approccio considera ogni
prodotto comportamentale della persona quale esito di normalità o anormalità della
struttura e del funzionamento del cervello (approccio biologico); il secondo, si interessa
invece ai comportamenti quale esito di modalità di relazione e di integrazione sociale
più o meno funzionali o disfunzionali (approccio psicologico e sociale).
I due approcci tendono, oggi, a integrarsi in una visione che considera struttura
(cervello) e funzione (mente) quali elementi indivisibili e mutuamente interconnessi al-
la base di ogni comportamento umano. Nelle malattie che coinvolgono il cervello o la
mente, il peso del danno strutturale può variare da situazioni, in cui è ravvisabile una
netta e pesante compromissione di quelle in cui più forte è la valenza psicologico-rela-
zionale (come nelle cosiddette nevrosi).
In ogni caso, pur con ruoli e importanza differenti, è sempre la struttura che de-
termina la funzione e, quest’ultima incide sulle modalità di esplicazione della struttu-
ra. Allo stato delle conoscenze attuali, se nella schizofrenia non è possibile parlare di
malattia cerebrale alla stregua dell’Alzheimer, il ruolo dei fattori biologici è comunque
centrale nel creare gli aspetti di vulnerabilità che, da un lato, favoriscono uno sviluppo
della personalità problematica e, dall’altro, costituiscono il terreno su cui si innestano i
fattori scatenanti, dati dagli eventi stressanti della vita o da stili disfunzionali di comu-
nicazione o relazione all’interno della famiglia.
Il progressivo affinarsi delle tecniche di indagine sul cervello e gli sviluppi della
genetica hanno consentito di individuare quattro principali fattori biologici che au-
mentano la probabilità di sviluppare una malattia schizofrenica: 1) fattori genetici; 2)
anomalie strutturali del cervello; 3) anomalie nel funzionamento del cervello; 4) problemi
nello sviluppo neurologico.
In particolare, le anomalie strutturali (per lo più a carico dell’emisfero sinistro o
dei lobi frontali) e del neurosviluppo (dovuto a mancanza di ossigeno alla nascita o a
malattie della madre in gestazione) sembrano correlati con i sintomi negativi della ma-
lattia; le anomalie di funzionamento (essenzialmente alterazioni nella circolazione dei
neurotrasmettitori cerebrali, specie la dopamina e la serotonina) sembrano invece più
legate alla produzione di sintomi positivi.
Un aspetto importante connesso ai fattori biologici è dato dal concetto di vulne-
rabilità: spesso, il danno cerebrale o le alterazioni del neurosviluppo rimangono silenti
fino a quando la maturazione di particolari sistemi neuronali in epoca adolescenziale
non mette a nudo, di fronte al moltiplicarsi degli stimoli esterni e alle maggiori richie-
ste di adattamento agli eventi stressanti, il deficit acquisito, esponendo la persona al-
231
Criminologia ed elementi di criminalistica
232
Criminalità e distrurbi mentali
Proprio il modo in cui l’individuo si è costruito, nel suo contesto sociale e fami-
liare e intorno ai propri elementi di vulnerabilità biologica, determina il modo in cui
risponderà all’ambiente. In questa ottica, le cause psicologiche e sociali sono date da
tutti quei fattori interni alla persona (peculiarità nello sviluppo della personalità, nel-
l’organizzazione delle funzioni cognitive, nello sviluppo emotivo e affettivo), ed esterni
(eventi particolarmente stressanti, per esempio un lutto, i momenti di passaggio quali
il matrimonio, il servizio militare, l’ingresso nel mondo del lavoro, o anche particolari
situazioni di emarginazione sociale ed economica) che, interagendo tra loro e sulla base
delle indicazioni fornite dal substrato biologico, scatenano la malattia.
La schizofrenia è una psicosi grave. Kraepelin l’aveva denominata dementia praecox.
Bisogna premettere che la schizofrenia è stata usata come etichetta per una tale quantità
di patologie e di sintomi che molti studiosi ne rifiutano la validità.
In realtà, se si presta attenzione al primo elemento che si presenta, emerge un dato
di fondo difficilmente contestabile: lo schizofrenico non è più pienamente responsabile
di se stesso. In secondo luogo, presenta una manifesta incapacità di organizzare coeren-
temente, o dialetticamente, le idee. Le conclusioni delle argomentazioni sono connesse
alle premesse solo lontanamente, o non lo sono affatto.
Talvolta, le associazioni di termini avvengono solo per assonanza, non per signifi-
cato o inerenza, ed allora si hanno catene verbali del tipo: abbondanza, eleganza, mat-
tanza, ignoranza, stanza, panza, riluttanza, oltranza. L’incidenza della schizofrenia a li-
vello mondiale pare sia dell’1% sull’insieme della popolazione. Stranamente, vi sono
aree geografiche nella quale l’incidenza è più alta come l’Irlanda occidentale. Più facile
comprendere come i grandi agglomerati urbani presentino percentuali più alte.
Di solito, si manifesta tra i 15 ed i 25 anni di età, e in media, cinque anni più tardi
tra le donne rispetto agli uomini.
Tra le cause, è spesso stato dimostrato che l’ereditarietà svolge un certo ruolo. I pa-
renti di primo grado di individui affetti da schizofrenia hanno una probabilità del 10%
di venire a loro volta interessati da questa psicosi. Secondo alcuni studi a indirizzo bio-
logico, alla base vi potrebbero essere dei danni cerebrali. Le tecniche di visualizzazione
cerebrale, soprattutto la T.C (tomografia computerizzata) e la scintografia a emissione
positronica, hanno evidenziato la presenza di anomalie strutturali e funzionali nel cer-
vello degli individui affetti da schizofrenia.
Inoltre, è stato dimostrato che l’assunzione di farmaci a contenuto anfetaminico
possano provocare un malessere di tipo schizofrenico.
Secondo alcuni studiosi, la schizofrenia può manifestarsi insidiosamente, a poco a
poco.
L’individuo diviene sempre più solitario e introverso, perde vitalità e motivazioni,
cessa di avere interessi culturali, arriva a dichiarare, come il filosofo Comte, che non ha
più alcun bisogno di tenersi informato e di leggere, perchè ha capito tutto.
Questo lento deterioramento può passare inosservato per mesi o persino per anni.
Solo ad un certo punto diviene chiaro che l’individuo soffre di fissazioni (le idee fisse
trovate da Pierre Janet) e/o di allucinazioni. Ma non è raro che la malattia si manifesti
improvvisamente, in seguito a forti eventi traumatici. Vi è una letteratura sterminata
riguardante le psicosi di guerra e sui reduci dalla guerra nel Vietnam. Le fissazioni pos-
sono assumere contenuti ideali svariati: come il credere di essere un personaggio famo-
233
Criminologia ed elementi di criminalistica
11.8 La paranoia
Il termine paranoia vuol dire pensare di traverso e, spesso, viene indicata ora co-
me l’espressione di una malattia mentale, ora di un’anomalia costituzionale, ora di un
complesso di disturbi ideativo-comportamentali con integrità delle funzioni affettive
e intellettive. Il disturbo primario consiste nella comparsa di un giudizio non correg-
gibile né con la critica, né con l’esperienza, né con la persuasione, e che innesca il delirio.
Il delirio è una condizione psicopatologica che è possibile trovare in diverse sindromi
psichiatriche. La terapia del delirio presuppone una valutazione diagnostica, quindi, al
fine di valutare l’efficienza di questo trattamento, è utile fare una approfondita analisi
semiologica di questa sindrome. Il delirio è definito come una falsa certezza soggettiva
non modificabile né con la logica, né con l’evidenza. Tuttora, tale definizione si basa
sui tre criteri fondamentali formulati da Jaspers. Egli delimitò, psicopatologicamen-
te, il delirio con le seguenti caratteristiche: 1) la certezza soggettiva, cioè la convinzione
straordinaria attraverso la quale viene mantenuta quella determinata idea; 2) l’incorreg-
gibilità, cioè, l’impossibilità di essere influenzati dall’esperienza concreta o da confu-
tazioni; 3) l’impossibilità del contenuto, cioè un alterato giudizio di realtà. Altra caratte-
ristica fondamentale che spesso si accompagna al delirio è la sua struttura autocentrica,
cioè il paziente è sempre e comunque elemento centrale all’interno della sua esperienza
delirante, rivestendo il ruolo di protagonista del suo mondo trasformato o in via di tra-
sformazione. La psicologia classica propone, inoltre, una serie di distinzioni puramente
descrittive di altre caratteristiche del delirio. La percezione delirante è, secondo Schnei-
der, l’attribuzione di un significato abnorme a una percezione corretta.
L’intuizione delirante è, invece, una nuova e inspiegabile certezza non basata su una
percezione. La rappresentazione delirante, infine, è secondo Jaspers, un ricordo o una rap-
presentazione mentale basata sul ricordo con l’attribuzione di un significato delirante.
La psicopatologia europea suddivide il delirio in primario e secondario, a seconda
che questo compaia rispettivamente, nell’esistenza dell’individuo come fatto puramen-
te nuovo non derivabile dalle esperienze di vita pregresse, oppure, abbia un carattere di
derivabilità comprensibile da una serie di eventi esperiti dal paziente o sia logica conse-
guenza di precedenti disturbi psicopatologici.
234
Criminalità e distrurbi mentali
235
Criminologia ed elementi di criminalistica
11.9 L’epilessia
L’epilessia è una malattia o, meglio ancora, una sindrome patologica. Questo è il
primo dato importante da sottolineare. Infatti, per moltissimo tempo, si associava la
crisi epilettica a qualcosa di demoniaco, di inspiegabile e, soprattutto, era considera-
ta un fenomeno da nascondere. Si dice soffrissero di tale patologia grandi personaggi,
come Alessandro Magno, Giulio Cesare, Giovanna D’Arco o Napoleone; certamente,
ne soffrivano Dostoevskij, Flaubert, Paganini, Van Gogh, una prova, comunque, che
l’epilessia non lede le capacità intellettive, né il rendimento nella vita pratica. Nelle for-
me abituali, non porta nessuna menomazione nell’ambito della vita quotidiana e del
successo professionale.
L’epilessia è caratterizzata dalla ripetizione di crisi epilettiche, dovute a una iperat-
tività delle cellule nervose cerebrali (i cosiddetti neuroni). Si verifica, infatti, parados-
salmente, un eccesso di funzione del sistema nervoso: alcune cellule del cervello inco-
minciano a lavorare a un ritmo molto superiore al normale, producendo la cosiddetta
scarica epilettica (che si registra con l’elettroencefalogramma) e la crisi epilettica (che si
riconosce dal resoconto o con l’osservazione del paziente).
Esistono due tipi di epilessia. Nel primo (epilessie primarie o idiopatiche), la tendenza
a provocare le crisi è costituzionale; questi pazienti non presentano alcuna lesione cere-
brale e sono, dal punto di vista neurologico, del tutto normali, a parte questa singolare
caratteristica. Nel secondo (epilessie secondarie o sintomatiche), che comprende la mag-
gioranza dei pazienti, l’epilessia si sviluppa in seguito ad una lesione cerebrale. Si va da
disturbi dell’ossigenazione cerebrale al momento della nascita (evento molto frequen-
te), a malformazioni della corteccia cerebrale, fino a tutte le patologie acquisite del cer-
vello, come infezioni, traumi, tumori, disturbi circolatori. Ogni evento morboso che
lede la corteccia cerebrale, può, infatti, dare origine, nel corso degli anni, a un focolaio
responsabile dell’epilessia. Questi pazienti presentano, talora, altri segni neurologici
quali disturbi motori, ritardi di sviluppo, deficit attentivi.
In un buon numero di casi, non si riesce a trovare la causa, e l’epilessia viene defi-
nita criptogenetica.
Le crisi si rivelano con un breve e improvviso disturbo delle funzioni nervose.
Hanno in genere durata breve (meno di un minuto) e si possono manifestare con sin-
tomi diversi da caso a caso, a seconda della funzione dei neuroni cerebrali coinvolti. Le
crisi possono essere rare, ma, nella maggior parte dei casi, si ripetono frequentemente,
anche molte volte nella giornata. Fra una crisi e l’altra non è presente, solitamente, al-
cun disturbo.
La manifestazione più importante è la sospensione improvvisa della coscienza, con
caduta a terra e comparsa di movimenti di tipo convulsivo (tremori e scosse muscolari).
In altri casi, la perdita di coscienza si accompagna ad azioni compiute in modo automa-
236
Criminalità e distrurbi mentali
tico (masticare, inghiottire, parlare, toccare o spostare gli oggetti), oppure a un blocco
motorio. A volte, la coscienza è conservata, e il malato può avvertire sensazioni partico-
lari quali lampi di luce, rumori, formicolii a una parte del corpo, gusti o odori strani,
improvvise sensazioni di angoscia o euforia, la sensazione di essere in sogno, immagini
di ricordi del passato. I caratteri comuni delle crisi sono: la loro imprevedibilità, l’im-
possibilità di controllare in quel momento le funzioni nervose e il proprio comporta-
mento, la breve durata (le crisi durano pochi secondi o pochi minuti, raramente più di
10 minuti), l’inizio e la fine improvvisi.
In generale, le crisi si dividono: in crisi generalizzate e crisi parziali. Le crisi genera-
lizzate, tipiche dell’epilessia primaria o idiopatica, consistono in mioclonie (improvvise
scosse muscolari degli arti o del tronco, che, raramente, provocano cadute a terra ma
spesso fanno cadere gli oggetti di mano); assenze (improvvise sospensioni della coscien-
za della durata di 5-30 secondi, talora accompagnate da qualche scossa dei muscoli pal-
pebrali; sono facilitate dalla respirazione forzata); crisi convulsive generalizzate, (o gran-
de male, caratterizzate da perdita di coscienza, irrigidimento tonico e scosse cloniche
di tutta la muscolatura, con caduta a terra, morsicatura della lingua e talora perdita di
urine; è la manifestazione epilettica più importante e impegnativa, per i rischi di trau-
ma, ma anche per l’impegno respiratorio e cardiovascolare prodotti dalle contrazioni
massive della muscolatura).
Le crisi parziali sono tipiche dell’epilessia secondaria sintomatica o criptogenetica.
Si dividono in due grandi categorie, le crisi parziali semplici e le crisi parziali complesse.
Le crisi parziali semplici, sono caratterizzate da segni di attività parossistica di una zona
del cervello con funzioni specifiche: scosse muscolari a un arto (crisi motorie), sensazio-
ni abnormi in un territorio cutaneo (crisi somatosensoriali), sensazioni visive (crisi visi-
ve), sensazioni acustiche (crisi uditive), sensazioni fastidiose allo stomaco e alla gola, con
palpitazione e rossore del volto (crisi vegetative, la cosiddetta aura epigastrica), impres-
sione di già visto o già vissuto (crisi dismnesiche), pensiero forzato, cioè una improvvi-
sa idea che domina la mente (crisi cognitive), stati di animo di paura improvvisa (crisi
affettive). In tutte le crisi parziali semplici, la coscienza è conservata. Nelle crisi parziali
complesse, invece, la coscienza è compromessa, e il paziente appare confuso (crisi con-
fusionali); talora, mostra movimenti automatici del volto e del tronco (crisi psicomoto-
rie). Sono tipiche dei focolai della corteccia dei lobi temporali o frontali. Tutte le crisi
parziali, semplici o complesse, possono diffondere all’intero cervello e concludersi con
una crisi convulsiva di grande male.
Il male principale è proprio il rischio di essere soggetti, in maniera imprevedibile
e incontrollabile, a momenti, seppure brevi, nei quali non si è più in grado di gover-
nare il proprio comportamento. In queste occasioni, si resta esposti a tutti i rischi am-
bientali, ad esempio, se il disturbo della coscienza compare improvvisamente, mentre
il paziente sta utilizzando una macchina utensile o mentre sta guidando l’auto, oppu-
re, mentre è in casa, e la perdita di coscienza avviene di fronte a un fornello acceso e
all’acqua che bolle. Inoltre, il frequente ripetersi degli episodi, specialmente in alcune
forme di epilessia del bambino, può comportare un ritardo dello sviluppo intellettivo.
Infine, le implicazioni sociali dell’essere epilettico possono costituire un problema gra-
ve per l’integrazione nella scuola, nel lavoro e nella realizzazione della propria vita af-
fettiva e dei diritti civili.
237
Criminologia ed elementi di criminalistica
11.10 Il border-line
La psicopatologia borderline, per molti anni, ha trovato difficile collocazione no-
sografica, al limite fra l’area delle nevrosi e quella delle psicosi, venendo, quindi, va-
riamente identificata come sindrome pseudonevrotica, stato limite, sindrome marginale.
Kraepelin ha descritto forme attenuate di demenza precoce già nel 1887.
Bleuler ha introdotto il concetto di schizofrenia latente, per indicare condizioni
cliniche particolari, in cui, questa latenza psicotica, sembra svolgere un ruolo rilevan-
te in quadri clinici, solo apparentemente nevrotici o caratteriali. Ey ha definito que-
sti quadri clinici schizonevrosi, considerandoli espressione dell’evoluzione dalle nevrosi
alle psicosi. Altri autori hanno considerato gli stati border-line come disturbi mentali
propriamente detti, dotati di stabilità e coerenza interna, dandogli dignità diagnosti-
ca autonoma. Nelle nosografie psichiatriche classiche, tali condizioni psicopatologiche
di confine erano descritte come quadri sindromici complessi e vari, che includevano:
1) sintomi d’ansia intensa, prolungata e pervasiva; 2) sintomi nevrotici (ossessioni, fo-
bie, manifestazioni isteriche, neurastenia, ecc.); 3) sintomi psicotici (idee di riferimen-
to, ideazione paranoidea, ecc.); 4) disturbi cognitivi transitori con episodi confusionali
occasionali; 5) comportamenti impulsivi ed aggressivi, tipici delle personalità psicopa-
tiche.
Recentemente, alcuni autori hanno dato specifico rilievo, in questi soggetti, al-
la presenza di un’inadeguata modulazione dell’impulsività, sottolineando la rilevan-
za clinica dei comportamenti aggressivi auto ed eterodiretti, dei gesti autolesivi, dei
sentimenti di rabbia, eccessiva e non proporzionata alle situazioni in cui si esprime,
nonché dell’incapacità di questi pazienti a dilazionare la gratificazione e a tollerare le
frustrazioni.
Contrariamente ai disturbi psicotici propriamente detti, il decorso di queste con-
dizioni patologiche viene descritto, classicamente, come cronico, con scarsa tendenza
al deterioramento, con ricorrenti crisi d’instabilità affettiva e frequenti comportamenti
disadattivi di natura impulsiva. Solo con la pubblicazione del Diagnostic and Statistical
Manual of Mental Disorders (DSM), III edizione e successive, la psicopatologia border-
line è stata inquadrata tra i disturbi di personalità.
Il DSM-IV definisce il Disturbo border-line di Personalità (DBP) come una mo-
dalità pervasiva d’instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e del-
l’umore con una marcata impulsività, comparse nel corso della prima età adulta e pre-
senti in vari contesti, come indicato da cinque o più dei seguenti elementi: a) sforzi
disperati di evitare un reale o immaginario abbandono; b) un quadro di relazioni inter-
personali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealiz-
zazione e svalutazione; c) alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé
marcatamente e persistentemente instabili; d) impulsività in almeno due aree che sono
potenzialmente dannose per il soggetto, quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida
spericolata, abbuffate; e) ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari o compor-
tamento automutilante; f ) instabilità affettiva dovuta a marcata reattività dell’umore
(es. episodica intensa disforia, irritabilità o ansia che di solito durano poche ore e sol-
tanto raramente più di pochi giorni); g) sentimenti cronici di vuoto; h) rabbia immo-
tivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia (es. accessi di ira, rabbia costante,
238
Criminalità e distrurbi mentali
ricorrenti scontri fisici, ecc,); i) ideazione paranoide o gravi sintomi dissociativi transi-
tori, legati allo stress.
Nelle società occidentali, secondo recenti studi epidemiologici, il Disturbo border-
line di Personalità (DBP) presenta tassi di prevalenza, morbilità e mortalità in rapido
aumento. Alcuni studi hanno evidenziato che la prevalenza del DBP, nella popolazione
generale, raggiunge l’1,8%, superando la prevalenza della stessa schizofrenia. I pazien-
ti con DBP rappresentano un’elevata percentuale dei soggetti per i quali sono richieste
ed effettuate consulenze psichiatriche. Secondo alcuni studi osservazionali, essi rappre-
sentano l’11% dei pazienti ambulatoriali e, in alcune strutture psichiatriche, il 23%
dei pazienti ricoverati. In uno studio su pazienti con DBP, circa la metà del campione
aveva fatto ricorso a un servizio ambulatoriale di salute mentale, nei sei mesi prece-
denti l’indagine, e il 19,5% era stato ricoverato, in una struttura psichiatrica, nell’an-
no precedente. La sintomatologia psicopatologica manifestata dai soggetti con DBP, in
genere, appare significativamente invalidante. In un campione di pazienti con DBP,
ricoverati consecutivamente presso l’Università di Pittsburgh, il 62,2% aveva avuto, in
passato, condotte suicidarie e circa il 50% aveva avuto altri comportamenti autolesivi. Il
numero di pazienti con DBP che si era ucciso variava tra il 3% e il 9,5% della popola-
zione di pazienti trattati, una percentuale simile a quella evidenziata nei soggetti affetti
da disturbi depressivi o da disturbi psicotici.
La definizione nosografica attuale del DBP prevede una sintomatologia clinica
meno ampia di quella attribuita, nelle descrizioni tradizionali, alle cosiddette sindromi
marginali. Il sistema diagnostico DSM permette un perfetto inquadramento nosogra-
fico del singolo caso clinico, ricorrendo all’utilizzo dei diversi Assi diagnostici, ma in-
troduce, inevitabilmente e implicitamente, un’artificiosa sovrastima della comorbidità
psichiatrica. Diverse ricerche hanno evidenziato, infatti, un’alta comorbidità fra DBP
e altri disturbi psichici d’Asse I. Lo studio di comorbidità della psicopatologia border-
line si presenta, oggigiorno, alla stregua di un’analisi di correlazione tra DBP ad altre
condizioni cliniche d’Asse I.
Recenti osservazioni hanno confermato un elevato tasso di comorbidità e sostan-
ziali affinità eziopatogenetiche fra disturbo borderline e disturbi dell’umore, al punto
che il disturbo depressivo maggiore sembrerebbe correttamente diagnosticabile, in cir-
ca la metà dei pazienti border-line.
In particolare, risulta che: a) i pazienti con DBP hanno una depressione più grave
dei soggetti con altri disturbi di personalità; b) i pazienti con DBP e con depressione
maggiore, in comorbidità, hanno una storia clinica con più numerosi e gravi tentativi
di suicidio, rispetto ai soggetti affetti da depressione maggiore; c) i pazienti con DBP,
depressione maggiore ed elevati livelli di impulsività/aggressività, presentano una più
alta incidenza di dipendenza da sostanze d’abuso.
Il rapporto intercorrente tra impulsività e condotte suicidarie è stato oggetto di
numerose indagini cliniche e neurobiologiche. L’impulsività sembra essere significati-
vamente associata a comportamenti autolesivi, tra i pazienti psichiatrici. Nei soggetti
con DBP, l’impulsività, è il tratto di personalità più fortemente correlato ai compor-
tamenti suicidari. Alcuni indici clinici e biologici d’impulsività risultano più elevati
nei soggetti con comportamenti d’automutilazione. Un basso livello del tono seroto-
ninergico centrale si correla significativamente tanto ai comportamenti impulsivo-ag-
239
Criminologia ed elementi di criminalistica
gressivi, quanto alle condotte suicidarie. Alcuni di questi studi, sembrano suggerire la
presenza di un comune substrato psicopatologico e/o neurobiologico tra impulsività
e suicidio.
In apparente contraddizione, numerose altre osservazioni cliniche sostengono che
i traumi infantili si associano significativamente a comportamenti autolesivi e suicidari,
espressi in età giovanile o adulta. Inoltre, un’alta frequenza di traumi infantili sembra
essere presente negli adulti depressi con alti livelli d’aggressività, impulsività e compor-
tamenti suicidari. Esperienze di abuso nell’infanzia si correlano a un’età più precoce
della condotta suicidaria, che può presentarsi già in età infantile o adolescenziale.
L’impulsività potrebbe essere considerata, in una prospettiva più ampia, un tratto
ereditario, aggravato da esperienze d’abuso e da traumi infantili, che si correla signifi-
cativamente all’aggressività e alle condotte suicidarie. Secondo alcune osservazioni, per
esempio, il livello d’impulsività e d’aggressività di tratto, non la gravità obiettivabile di
depressione, è direttamente correlato al numero e alla frequenza dei tentativi di suici-
dio. Nei parenti di primo grado di adolescenti suicidi, sono stati evidenziati alti livelli
d’aggressività e una forte familiarità per il suicidio. In uno studio, inoltre, la gravità del-
la depressione, valutata in modo obiettivo dal clinico, non ha permesso di distinguere
i pazienti con recente tentativo di suicidio dai pazienti depressi di controllo. Al contra-
rio, i livelli d’aggressività e d’impulsività sono risultati significativamente più elevati nei
soggetti con tentato suicidio.
Notevole rilevanza psicopatologica assume la comorbidità tra DBP e disturbo bi-
polare dell’umore. Sulla base degli elevati tassi di comorbidità familiare, evidenziata già
negli anni ‘90, numerosi ricercatori hanno suggerito una relazione tra DBP e disturbi
dello spettro bipolare, fino a ipotizzare di includere le manifestazioni del disturbo bor-
der-line fra quelle proprie dello spettro bipolare. Altri autori sostengono che sia impos-
sibile soddisfare i criteri del DSM-IV per un episodio maniacale in assenza di condotte
impulsive. Altri, ancora, riferiscono livelli d’impulsività, misurata con scale specifiche
di valutazione psichiatrica, costantemente presente negli episodi maniacali. Un’elevata
impulsività è evidenziabile nei pazienti bipolari, anche nelle fasi eutimiche. Ciò potreb-
be indicare che l’impulsività si esprime, nei disturbi bipolari e in quelli correlati, sia nel-
le componenti psicopatologiche di stato, sia in quelle di tratto. Da quanto premesso, è
possibile ipotizzare un modello interpretativo dell’impulsività nel soggetto border-line,
nel framework stress/vulnerabilità, in cui tratti biologici e di personalità possono predi-
sporre a un abbassamento della soglia individuale di passaggio all’atto, mentre, condi-
zioni di intenso stress ambientale, possono precipitare la condizione clinica.
Esiste una frequente comorbidità, ben nota in clinica, tra DBP e abuso d’alcol e dro-
ghe. Secondo alcune ricerche, circa il 75% dei pazienti con DBP presenta una condi-
zione d’abuso/dipendenza da sostanze, mentre circa il 20% dei soggetti, con abuso di
sostanze, presenta un DBP. L’abuso e la dipendenza da sostanze voluttuarie è un com-
portamento complesso, che non può essere considerato semplicisticamente e, sempre,
di natura impulsiva. Ciò nonostante, un soggetto con abuso/dipendenza da sostanze, in
condizioni di stress soggettivo, può assumere impulsivamente le droghe d’abuso, a vol-
te in modo repentino, imprevisto ed eccessivo. L’impulsività, sembra svolgere un ruo-
lo patogenetico nell’esordio e nel prosieguo della dipendenza da sostanze. L’abuso può
essere più frequente, più intenso e meno controllato, quindi, potenzialmente più peri-
240
Criminalità e distrurbi mentali
coloso, in soggetti impulsivi. Tassi più elevati di abuso e dipendenza da sostanze sono
presenti, in alcune osservazioni, tra aggressori impulsivi e soggetti con disturbo esplo-
sivo intermittente. Diversi studi hanno evidenziato livelli più elevati d’impulsività tra i
soggetti tossicodipendenti, rispetto ai controlli sani. Alcuni ricercatori hanno riscontra-
to, tra i pazienti con DBP e dipendenza da sostanze, l’utilizzo di un maggior numero
di differenti droghe e maggiore impulsività, rispetto ai soggetti non border-line. Altro
importante aspetto è quello dell’impulsività: nel XIX secolo, Pinel ed Esquirol hanno
introdotto in psichiatria il concetto di impulso istintivo coniando il termine di monoma-
nia istintiva. In origine, tra queste monomanie, erano incluse: l’alcolismo, la piromania
e l’omicidio. In realtà, la definizione stessa dell’impulsività è controversa e non univo-
ca, in ambito psichiatrico. Alcuni autori definiscono il comportamento impulsivo come
la tendenza a reagire immediatamente agli stimoli ambientali emotivamente rilevanti,
senza controllare a sufficienza l’intensità della risposta, altri considerano l’impulsività
una predisposizione, ossia un comportamento biologicamente determinato, caratteriz-
zato dalla tendenza ad agire rapidamente, senza pianificare la propria azione, in assenza
di una valutazione razionale e/o consapevole di tutte le conseguenze dell’atto.
Le caratteristiche essenziali dei disturbi del controllo degli impulsi sono: 1) l’inca-
pacità a resistere all’impulso, alla spinta o alla tentazione di eseguire un atto pericolo-
so per sé o per gli altri; 2) il crescente senso di tensione o attivazione prima di commette-
re l’atto; 3) un senso di piacere e/o gratificazione al momento di commettere l’atto con
successivo ed immediato rilassamento. Anche a una osservazione superficiale, non può
sfuggire l’affinità esistente tra i disturbi del controllo degli impulsi e la disregolazione
omeostatica edonica (disedonia). La stessa impulsività potrebbe essere interpretata co-
me espressione disadattiva del controllo motivazionale, esercitato da circuitazioni neu-
robiologiche, filogeneticamente arcaiche, che includono i nuclei della base, la corteccia
prefrontale, l’accumbens e l’amigdala. L’attività di tali strutture risulta orientata, infat-
ti, da un lato, a facilitare l’approccio agli stimoli ambientali gratificanti (ricerca del pia-
cere) e, dall’altro, al distanziamento attivo degli stimoli ambientali avversivi o poten-
zialmente pericolosi (aggressione/fuga).
Il DSM-I (1952) ed il DSM-II (1968) dell’American Psychiatric Association,
(APA) non includevano tra i disturbi mentali: il gioco d’azzardo patologico, la piroma-
nia e la cleptomania che, solo nel 1980, hanno avuto un inquadramento diagnostico
nel DSM-III. Quest’ultimo, accanto a questi disturbi del controllo degli impulsi, ha
riconosciuto una dignità diagnostica anche al disturbo esplosivo intermittente e al di-
sturbo esplosivo isolato. Solo sette anni dopo, nel DSM-III-R (APA, 1987) veniva eli-
minato il disturbo esplosivo isolato, per l’elevato rischio d’errore diagnostico correlato
ad un singolo episodio di comportamento aggressivo. Il disturbo esplosivo intermit-
tente è stato mantenuto, nonostante fossero emersi seri dubbi sulla sua validità ed è
stato riconosciuto valore diagnostico alla tricotillomania. La categoria diagnostica del
DSM-IV (APA, 1994) definita come disturbo del controllo degli impulsi, non altro-
ve classificati, è considerata una categoria diagnostica residua, anche se, nel DSM-IV,
non esiste un’altra aggregazione categoriale di disturbi dell’impulsività. In questo grup-
po diagnostico venivano inclusi: il gioco d’azzardo patologico, la piromania, la cleptoma-
nia, il disturbo esplosivo intermittente, la tricotillomania ed il disturbo del controllo degli
impulsi non altrimenti specificato (NAS). Fatte queste considerazioni, sembra evidente
241
Criminologia ed elementi di criminalistica
1. il disturbo interpersonale-relazionale;
2. la disregolazione comportamentale impulsivo-aggressiva;
3. la disregolazione affettiva con instabilità emotiva.
242
Criminalità e distrurbi mentali
vanni Jervis, nella sua definizione di perversione sessuale, evidenzia ulteriori aspetti di
questi comportamenti, mettendo in evidenza che: a) il soggetto ha da sempre difficoltà
a trattenersi dal soddisfare i propri impulsi; b) ha costanti difficoltà a valutare la discre-
panza dei propri atti rispetto alle norme dominanti e, insieme, ha difficoltà a valutare
le conseguenze di questi atti; c) procura, con questi atti, imprevisti seri danni (anche
psicologici) a se stesso e/o significative sofferenze ad altre persone; d) è di intelligen-
za normale e non presenta chiari disturbi nevrotici, né reali disturbi psicotici; e) tende
a reiterare, stabilmente, forme di comportamento disapprovate dalla mentalità domi-
nante, spesso, ma non sempre, a contenuto sadico. La prassi clinica evidenzia quadri
patologici non sempre così definiti, esistono anche altre forme di perversione, alcune
forme di perversione sconfinano in altre; spesso, il soggetto perverso mette in atto, nel-
lo stesso tempo, diversi tipi di perversione, o sostituisce una perversione con un’altra
meno pericolosa o più adatta alla situazione. Nella descrizione della psicanalista ame-
ricana Louise J. Kaplan, si definisce, come già evidenziato, la perversione come gesto
coatto, imperativo, ripetitivo, stereotipato, mettendo così in evidenza uno degli ele-
menti base della perversione e cioè il suo carattere di fissità, di ripetizione di una serie
di gesti e rituali sempre uguali. Questa caratteristica distingue la perversione dai com-
portamenti sessuali anomali o bizzarri, ma liberamente scelti e variati; comportamenti
cioè che due partner sessuali decidono di assumere se lo desiderano; partner che nor-
malmente vivono il sesso in maniere diverse, decidendo di volta in volta se farsi coin-
volgere o meno in giochi di particolare tipo, con la libertà di proporli e accettarli o
meno, e variando nel tempo i propri comportamenti e giochi sessuali. In altre parole,
a differenza di chi ha una sessualità libera e variata, chi mette in atto la performance
perversa, non ha scelte; la sua eccitazione passa solo attraverso quel comportamento e
non altri; attraverso la messa in atto della perversione, la persona cerca di combattere
uno stato di forte ansia, o di profonda depressione, o di disturbi psicologici così forti
ed invalidanti che possono sconfinare dal quadro delle nevrosi a quello delle psicosi.
E ancora, la perversione è una strategia psicologica che richiede, per essere soddisfat-
ta, una messa in atto, una cosiddetta performance, in genere di carattere sessuale. La
messa in atto della perversione placa le ansie e la disperazione del vivere, e dà alla per-
sona l’impressione di poter sopravvivere, superando i traumi subìti durante l’infanzia.
Il che significa che, quasi sempre, il perverso è una persona che, da bambino, ha su-
bìto traumi, spesso di carattere sessuale, che hanno lasciato dei danni nella struttura
della personalità. Questi danni non sono mai stati affrontati in maniera conscia; resta-
no presenti nell’inconscio della persona come nuclei che non hanno seguito la matu-
razione della sua personalità; colui che porta in sé questi danni è, quindi, spesso, un
portatore inconsapevole. Ma questi danni agiscono anche nel presente della persona,
divenuta adulta, e producono fortissimi malesseri, sull’origine dei quali, l’individuo
non ha coscienza. Attraverso la perversione, che possiamo vedere come drammatizza-
zione di questi eventi infantili, il perverso cerca di dominare ricordi di situazioni che
nell’infanzia erano troppo eccitanti, paurose o umilianti per essere dominate. La per-
versione rappresenta, quindi, per la maggior parte dei casi, il tentativo che un adulto
mette in essere, per cercare di esorcizzare i propri traumi infantili. Questo avviene, sia
attraverso la semplice replica del trauma (semplificando: se io da bambino venivo pic-
chiato sadicamente da un genitore, posso chiedere al partner sessuale di picchiarmi,
243
Criminologia ed elementi di criminalistica
ripetendo così la situazione infantile); sia attraverso una messa in scena a ruoli alterati
(nell’esempio di prima divengo io colui che picchia e assumo quindi il ruolo del ge-
nitore che sottometteva attraverso la violenza). Il bambino non amato o amato inade-
guatamente si convince di essere lui stesso la causa della mancanza di amore da parte
dei genitori, e può cercare di compensare questa perdita da grande mettendo in atto
un rapporto di dominazione, nel quale ha l’illusione (attraverso il dominio esercita-
to su un altro essere) di riacquistare i suoi poteri perduti nell’infanzia. Un rapporto
di dominazione può essere scelto, adottando la parte dello schiavo, anche per tenere
nascoste le proprie capacità, nella paura che vengano sottratte come una volta fecero i
genitori. Una tecnica simile, quella cioè di assumere il profilo più basso possibile, vie-
ne adottata in campo non sessuale, per dare agli altri la sensazione di debolezza e pro-
vocarne l’allentamento del controllo.
Altra caratteristica della perversione è che essa, finché dura (anni o tutta la vita),
diventa l’interesse centrale nella vita della persona. La perversione ha carattere di fissità,
cioè di comportamento coatto, ossessivo, ripetitivo. Si diversifica dai comportamenti
ossessivo-compulsivi (come ad es., il lavarsi continuamente le mani, il mettere sempre
in ordine la casa, i rituali rassicuranti del controllare se la porta è chiusa, se la manet-
ta del gas o dell’acqua sono sulla posizione spento, se l’interruttore generale della lu-
ce è chiuso, ecc.), perché questi rituali vengono vissuti, da chi li mette in essere, come
rassicuranti, curativi e buoni. Il perverso, invece, sa benissimo che sta facendo qualcosa
di cattivo, moralmente sbagliato, socialmente condannabile, ma parte del sollievo che
prova dalla perversione proviene anche dalla sfida e superamento dei codici morali co-
muni. Il perverso, inoltre, ha la necessità di tenere sempre in evidenza idee di peccato e
di colpa, anche se accompagnate dalla somministrazione a sé o agli altri di sofferenze; è
concentrandosi su queste sofferenze che il perverso riesce in qualche modo e per un pò
di tempo a dominare i terrori, le umiliazioni e le ferite morali e fisiche che hanno costi-
tuito il nucleo dei suoi traumi d’infanzia. In molti casi, la perversione serve a masche-
rare tendenze che l’educazione morbosa subìta dalla persona fa ritenere inaccettabili.
L’uomo che è stato allevato in un clima rigido e maschilista, nel quale ogni genere di
tenerezza viene proibita e condannata, da adulto, può assumere attraverso la perversio-
ne un comportamento di esagerata mascolinità, virilità, dominio, per nascondere, così,
la normale componente femminile del suo animo. La perversione trova alimento negli
stereotipi sociali di uomo e donna, nei ruoli e nell’identità di genere, cioè in tutti quei
comportamenti che la società ha codificato come da uomo e da donna. Le perversioni,
in altri casi, giocando sulle identità sociali, permettono all’uomo di identificarsi con il
ruolo della donna, senza però perdere la faccia della mascolinità.
11.12 Le parafilie
Parafilia è l’attuale termine scientifico per definire l’insieme di quelle condotte
sessuali più note con i nomi di perversioni o deviazioni sessuali.
Affrontare un discorso generale sulle parafilie senza suscitare anche un seppur mi-
nimo imbarazzo o prese di posizione nette sull’argomento è compito senza dubbio ar-
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Criminalità e distrurbi mentali
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Criminologia ed elementi di criminalistica
- masochismo sessuale: atto (reale, non simulato) di essere umiliati, picchiati, legati o
fatti soffrire in qualche altro modo;
- sadismo sessuale: azioni (reali, non simulate) in cui la sofferenza psicologica o fisica
(inclusa l’umiliazione) della vittima è sessualmente eccitante per il soggetto;
- feticismo da travestitismo: il travestimento di un maschio eterosessuale;
- voyeurismo: atto di osservare un soggetto che non se lo aspetta mentre è nudo, si
spoglia, o è impegnato in attività sessuali;
- parafilia non altrimenti specificata (NAS): questa categoria diagnostica viene inclu-
sa per codificare quelle parafilie che non soddisfano i criteri per nessuna delle pre-
cedenti. Gli esempi includono, ma non si limitano, a:
Va ricordato che ogni parafilia deve durare per almeno sei mesi e devono essere
presenti fantasie, impulsi sessuali, o comportamenti ricorrenti e intensamente eccitanti
sessualmente che comportino le azioni di cui sopra. Ogni condotta sessuale, per essere
definita parafiliaca, ha necessità di causare disagio clinicamente significativo o com-
promissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.
Il trattamento delle parafilie è piuttosto complesso, soprattutto quando il paziente
ha già messo in atto processi difensivi in grado di far negare che il comportamento sia
patologico. Occorre, sempre, un’attenta valutazione diagnostico-differenziale, soprat-
tutto, per escludere altre forme psicopatologiche, come ritardo mentale, disturbi gravi
di personalità (in particolare il disturbo border-line) e altre patologie. Una volta valu-
tato il funzionamento globale del paziente, sarà possibile orientare verso la forma di in-
tervento, quasi sempre piuttosto lunga e tortuosa, adatta per ogni specifico caso.
11.13 La pedofilia
La pedofilia rientra, infatti, nella grande classificazione delle parafilie e l’eziologia
delle parafilie rimane in gran parte intrisa di mistero. Nel corso degli anni, sono state
elaborate diverse ipotesi interpretative riguardo all’origine del comportamento pedo-
filo. Le teorie sessuologiche di vecchio stampo, che hanno dominato la psicologia e la
psichiatria fino ai primi del novecento, consideravano le perversioni sessuali sempli-
cemente come delle sindromi psicopatologiche caratterizzate da alterazioni qualitative
dell’istinto sessuale. Con lo sviluppo della scienza psicologica e psichiatrica sono state
prodotte varie teorie sull’origine della pedofilia, alcune in evidente contrapposizione
con altre.
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Criminalità e distrurbi mentali
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Criminologia ed elementi di criminalistica
nalità oggettuale (Mitchell, 1988). Molte persone che soffrono di parafilie si sono se-
parate e individuate in maniera incompleta dalle loro rappresentazioni intrapsichiche
della madre. Il risultato è che sentono che la loro identità come persone separate viene
costantemente minacciata da una fusione o da un inglobamento da parte di oggetti in-
terni o esterni. L’espressione sessuale può essere l’unica area nella quale riescono ad af-
fermare la loro indipendenza.
Un altro aspetto del sollievo esperito dai pazienti parafilici dopo che hanno messo
in atto i loro desideri sessuali è il loro sentimento di trionfo sulla madre che controlla
dall’interno (Gabbard, 1995). In particolar modo, i pedofili hanno bisogno di domi-
nare e controllare le loro vittime, come se supplissero ai loro sentimenti di impotenza
durante la crisi edipica.
Alcuni teorici, credono che la scelta di un bambino come oggetto d’amore da par-
te dei pedofili sia una scelta narcisistica. Secondo la visione classica, la pedofilia rap-
presenta una scelta oggettuale narcisistica; in quanto, il pedofilo vede il bambino come
un’immagine a specchio di se stesso bambino. Il narcisismo risulta dalla fissazione edi-
pica, dove il pedofilo si identifica con sua madre e vede sè stesso nel bambino.
Kaplan (1993) ritiene che i pedofili siano considerati degli individui deboli e im-
potenti; scelgono bambini come oggetto sessuale in quanto questi pongono meno resi-
stenza o creano minore ansia dei partner adulti, permettendo cosi ai pedofili di evitare
l’angoscia di castrazione. Si è, inoltre, appurato che molti pedofili soffrano di una pa-
tologia narcisistica del carattere, ivi comprese delle varianti psicopatiche del disturbo
narcisistico di personalità; l’attività sessuale con bambini prepuberi può puntellare la
fragile stima di sé del pedofilo. In maniera simile, molti individui con questa perver-
sione scelgono delle professioni nelle quali possono interagire con bambini perché le
risposte idealizzanti dei bambini li aiutano a mantenere la loro immagine positiva di
se stessi. D’altra parte, il pedofilo spesso idealizza questi bambini; l’attività sessuale con
loro comporta, pertanto, la fantasia inconscia di fusione con un oggetto ideale o di ri-
strutturazione di un sé giovane, idealizzato. L’ansia riguardo all’invecchiamento e alla
morte può essere tenuta a distanza attraverso l’attività sessuale con bambini. Quando
l’attività è associata a un disturbo narcisistico di personalità con gravi tratti antisociali,
come parte di un’evidente struttura caratteriale psicopatica, le determinanti inconsce
del comportamento possono essere strettamente collegate alle dinamiche del sadismo. I
pedofili sono frequentemente essi stessi delle vittime di abusi sessuali infantili e la con-
quista sessuale del bambino è lo strumento di vendetta, un senso di trionfo e di potere
può accompagnare la loro trasformazione di un trauma passivo in una vittimizzazione
perpetrata attivamente (Gabbard, 1995).
Kraemer (1976), ritiene che le origini delle tendenze pedofile vadano ricercate nelle
primissime interazioni madre-bambino, in quanto, i bisogni narcisistici di auto-amore
della madre potrebbero essere trasmessi al figlio in maniera eccessiva a causa del biso-
gno della madre di essere idealizzata dal figlio; ciò avrebbe come effetto la sostanziale
dilazione del processo di separazione-individuazione del bambino.
Alcuni psicoterapisti che trattano i colpevoli di abusi sessuali contro i bambini sem-
brano aderire alla teoria che la pedofilia è causata dal fatto che i colpevoli sessuali siano
stati loro stessi abusati durante l’infanzia (Groth, 1979). Garland e Dougher (1990)
coniano per questa nozione l’espressione: teoria dell’abusato abusatore.
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Criminalità e distrurbi mentali
Un’altra parte di ricerche sulle origini della pedofilia sostiene che gli aggressori ses-
suali sono, con molta probabilità, cresciuti in famiglie devianti. Tali studi affermano
che, statisticamente, i criminali sessuali appartengono con molta probabilità a famiglie
disfunzionali. In uno studio volto a ricercare il grado di identificazione genitoriale ri-
sultò, ad esempio, che soggetti definiti pedofili avevano un grado di identificazione
bassa verso i loro genitori, rispetto a un gruppo di controllo rappresentato da studen-
ti di un college o rispetto a un gruppo di soggetti definiti criminali in genere. Queste
scoperte supportano la nozione che i criminali sessuali sono differenti da altri criminali
nella loro percezione di identificazione genitoriale.
La mancata identificazione può evidentemente giocare un ruolo importante nello
sviluppo di un disordine psicosessuale. Esiste, anche, una pedofilia femminile, sebbene
il giudizio clinico tradizionale ha sostenuto che le perversioni sono rare nelle donne.
Questo punto di vista è cambiato negli ultimi anni, come risultato della ricerca empi-
rica e dell’osservazione clinica che hanno dimostrato come le fantasie perverse siano di
fatto comuni nelle donne. In uno studio esauriente sulle perversioni nelle donne, Ka-
plan (1991) sottolinea che i clinici non sono stati in grado di identificare le perversio-
ni nelle donne, poiché implicano delle dinamiche più sottili rispetto alla sessualità più
prevedibili delle perversioni maschili. Delle attività sessuali che derivano dalle parafilie
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Criminologia ed elementi di criminalistica
- una pedofilia primaria che comporta, in una certa misura, un’integrazione dell’io
pedofilo e una conseguente stabilità della sua personalità;
- una pedofilia secondaria, conseguente ad altre gravi psicopatologie come la schizo-
frenia, alcune psicosi organiche ed altre condizioni in cui la personalità si disinte-
gra, provocando una serie di comportamenti perversi.
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CAPITOLO 12
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Droga e alcool nell’agire delittuoso
ge, si differenzia per un sensibile inasprimento delle pene detentive e per una migliore
precisazione delle condotte criminose (art. 74). Tali norme si sono rivelate particolar-
mente efficaci nella repressione della produzione e del traffico della droga, soprattutto
nei confronti delle grandi organizzazioni criminali che operano a livello internazionale.
Nell’ambito del sistema repressivo penale delle condotte finalizzate alla produzio-
ne e al traffico di stupefacenti, l’ordinamento riserva un trattamento particolare al tos-
sicodipendente, privilegiando, nella fase detentiva, l’aspetto del recupero e assecondan-
do le scelte trattamentali e curative. In particolare, tra le misure cautelari alternative alla
custodia in carcere, il giudice può ritenere opportuno adottare nei confronti del tossi-
codipendente, gli arresti domiciliari nella comunità terapeutica o di riabilitazione pres-
so cui il tossicodipendente ha in corso un programma terapeutico di recupero, qualora
l’interruzione dello stesso possa pregiudicare la sua disintossicazione.
L’art. 89 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (provvedimenti restrittivi nei confron-
ti di tossicodipendenti) vieta, addirittura, che il giudice possa disporre la custodia in
carcere, salvo per esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, del tossicodipendente che
abbia in corso un programma terapeutico di recupero nell’ambito di una struttura au-
torizzata, nel caso in cui una forzata interruzione possa pregiudicare la disintossicazio-
ne dell’imputato.
Gli artt. 90 − 93 prevedono che, nei confronti di persona condannata a pena de-
tentiva non superiore a 3 anni per reati commessi in relazione al proprio stato di tossi-
codipendenza, il Tribunale di Sorveglianza possa sospendere l’esecuzione della pena per
una durata di 5 anni, qualora accerti che la persona si sia sottoposta o abbia in corso un
programma terapeutico. L’art. 94 prevede l’istituto dell’affidamento in prova al servizio
sociale, nel caso di pena detentiva inflitta nel limite di 3 anni.
Presupposti di questo istituto − così come di quello contemplato dall’art. 90 − so-
no il riconoscimento dello stato di tossicodipendenza e un programma terapeutico già
iniziato o concordato.
Il D.L. 14 maggio 1993 n. 139, convertito nella legge 14 luglio 1993, n. 222, con-
tenente disposizioni urgenti relative al trattamento di persone detenute affette da in-
fezioni da HIV e di tossicodipendenti, ha introdotto alcune importanti modifiche nel
regime della detenzione per il tossicodipendente. Ha, infatti, modificato parzialmente
l’art. 89, introducendo la possibilità di revocare la custodia cautelare già in fase di ese-
cuzione, qualora il soggetto manifesti l’intenzione di sottoporsi a un programma di re-
cupero, anche se non ancora iniziato.
L’art. 286-bis c.p. prevede il divieto di mantenere la custodia cautelare in carcere
nei confronti di chi sia affetto da infezione da HIV in stato avanzato, qualora si veri-
fichi una situazione di incompatibilità con lo stato di detenzione; inoltre, è stato mo-
dificato l’art. 146 c.p., mediante la sospensione temporanea dell’esecuzione della pena
detentiva nei confronti di persona affetta dalla medesima infezione.
Il D.P.R. 309/1990, pur rappresentando il cardine della normativa sulla tossicodi-
pendenza in Italia, è stato oggetto di aspre critiche che hanno condotto al referendum
dell’aprile del 1993, i cui esiti sono stati recepiti dal D.P.R. 5 giugno 1993, n.171. L’in-
tervento referendario ha abrogato alcune norme della legge del 1990, modificando in
parte l’approccio normativo, soprattutto per quanto riguarda il consumatore di droga.
In sintesi, il sistema legislativo italiano in materia di tossicodipendenza, dopo gli effetti
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Criminologia ed elementi di criminalistica
abrogativi del referendum del 1993, vieta penalmente solo le attività destinate alla pro-
duzione, vendita, spaccio e traffico di sostanze stupefacenti. È venuto meno − in base
all’abrogazione del comma 1 dell’art. 72 − il divieto dell’uso personale non terapeutico,
senza, tuttavia, optare per la liberalizzazione delle sostanze stupefacenti e mantenendo
l’illiceità dell’uso personale.
Altra conseguenza del referendum è stata l’abolizione della dose media giornalie-
ra, che non presenta più il discrimine per distinguere tra consumo personale e spaccio.
L’uso personale può essere, quindi, desunto da qualsiasi circostanza e non è più legato
a un prefissato parametro normativo.
Bisogna precisare che l’esclusione di ogni rilievo penale riguardo il semplice uso
personale non si è tradotto, però, in un atteggiamento di indifferenza dello Stato rispet-
to al fenomeno del consumo di droga.
Al contrario, in base alla normativa vigente (art. 75), il Prefetto convoca dinanzi a
sé o ad un suo delegato, la persona segnalata per uso personale di sostanze stupefacenti
al fine di accertare, a seguito di colloquio, le ragioni della violazione nonché individua-
re gli accorgimenti utili per prevenire ulteriori violazioni.
Il Prefetto, ove l’interessato volontariamente richieda di sottoporsi a un program-
ma terapeutico socio-riabilitativo, sospende il procedimento amministrativo avviato
dalla segnalazione e, decide l’invio del segnalato al Servizio per le Tossicodipendenze,
che predispone il programma terapeutico di disassuefazione e concorda il luogo più
idoneo dove svolgerlo.
Il programma deve essere, in ogni caso, formulato nel rispetto della dignità della
persona ed in considerazione anche delle esigenze di lavoro, nonché delle condizioni
familiari e sociali del tossicodipendente. Al termine del programma, il Servizio Sani-
tario pubblico locale, redige una relazione sul comportamento del soggetto, che dovrà
essere sottoposta al Prefetto per valutare in merito alla eventuale archiviazione del pro-
cedimento sanzionatorio.
Il mancato rispetto di tale programma prevede l’applicazione di sanzioni ammi-
nistrative.
Prima del referendum abrogativo del ‘93, i tossicodipendenti che persistevano nel
consumo di droga o non ottemperavano al programma terapeutico, erano passibili di
sanzioni penali mentre ora, il Prefetto dopo aver invitato − anche ripetutamente − il
tossicodipendente segnalato al rispetto del programma terapeutico, deve applicare le
sanzioni amministrative previste per legge.
Il T.U. 309/1990, oltre a regolare in termini giurisdizionali il consumo e il pos-
sesso di sostanze stupefacenti ha provveduto − in maniera organica e globale − a rego-
lamentare tutti i profili relativi alla politica contro la droga. Infatti, ha individuato gli
organismi preposti alle attività di coordinamento degli interventi, sia a livello centrale
(Governo, Ministeri) che periferico (Regioni, Province e Comuni).
Nel suddetto T.U., recentemente modificato per effetto dell’entrata in vigore della
legge 18 febbraio 1999, n. 45 (cosiddetta legge Lumia), sono state definite anche le ri-
sorse finanziarie per l’attuazione degli interventi (Fondo Nazionale di Intervento per la
lotta alla Droga, Fondo Sanitario Nazionale), nonché gli strumenti legislativi per l’or-
ganizzazione della lotta al traffico e gli ostacoli all’esplicazione delle attività delle gran-
di organizzazioni criminali.
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Droga e alcool nell’agire delittuoso
- nelle tabelle I e III sono ricomprese le c.d. droghe pesanti quali l’oppio e suoi de-
rivati, le foglie di coca e gli alcaloidi ad azione eccitante da queste estraibili, le so-
stanze di tipo amfetaminico ad azione eccitante, le sostanze di tipo barbiturico ad
effetto ipnotico e sedativo, nonché ogni altra sostanza che produca effetti sul siste-
ma nervoso centrale ed abbia capacità di determinare dipendenza fisica o psichi-
ca nell’assuntore. Vi rientrano, altresì, le preparazioni che contengono le sostanze
elencate nelle tabelle I e III;
- le tabelle II e IV contengono le c.d. droghe leggere (es. cannabis indica e i prodotti
da essa ottenuti − i.e. marijuana, olio di hashish) e le preparazioni che contengono
le sostanze in esse indicate.
Nella tabella IV sono comprese le sostanze di corrente impiego terapeutico, per le
quali sono stati accertati concreti pericoli di induzione di dipendenza fisica e psi-
chica di intensità e gravità minori rispetto a quelle delle tabelle I e III;
- nella tabella V sono elencate le preparazioni contenenti le sostanze indicate nelle ta-
belle I, II, III e IV quando, per la loro composizione qualitativa e quantitativa e per
le modalità del loro uso, non presentano rischi di abuso e, pertanto, non devono
essere assoggettate alla disciplina (penale) delle sostanze con cui vengono prodotte;
- nella tabella VI sono indicati i prodotti ad azione ansiolitica, antidepressiva o psi-
costimolante che possono dar luogo al pericolo di abuso e alla possibilità di farma-
codipendenza.
259
Criminologia ed elementi di criminalistica
a) Consumatori
260
Droga e alcool nell’agire delittuoso
ni di fumatori nel mondo, sette volte più dei consumatori di droga. L’Organizzazione
Mondiale della Sanità stima che circa 200.000 persone sono morte a causa dell’abuso
di droga durante il 2000, l’equivalente dello 0,4% di tutti i decessi nel mondo. Il tabac-
co, invece, vanta decessi pari a 25 volte (4,9 milioni), l’equivalente dell’8,8% di tutte le
morti. Se la misura usata per liquidare l’invalidità sono gli anni di vita, l’abuso di droga
causerebbe la perdita di 11,2 milioni di anni di salute di vita, ma il tabacco causerebbe
una perdita di cinque volte maggiore (59,1 milioni). Tra i punti salienti del World Drug
Report 2005, vi sono alcune buone notizie che giungono dalle due più vaste aree di pro-
duzione di droghe: nel sud-est asiatico, la coltivazione del papavero da oppio continua
a calare in Myanmar e Laos, mentre nella regione delle Ande la coltivazione di coca re-
gistra un sostanziale declino per il quarto anno di seguito in tutti e tre i principali pae-
si produttori (Colombia, Perù e Bolivia). In termini di impatto sulla salute, gli oppiacei
sono la droga più problematica del mondo. Essi causano la morte per il 67% dei trat-
tamenti per droga in Asia, per il 61% in Europa e per il 47% in Oceania. Nel sud-est
dell’Asia, le metamfetamine stanno costituendo il problema principale. La cocaina è an-
cora al primo posto nell’intero continente americano, ma negli USA, l’abuso di cocaina
tra gli studenti sta declinando. In Africa, la cannabis continua a dominare la doman-
da (65%). Ecco alcuni dei nuovi dati presentati nel rapporto: nel corso di dieci anni la
quantità complessiva di sostanze illecite sequestrate è cresciuta, con gli incrementi più
alti per le sostanze stimolanti di tipo amfetaminico (ATS); la conversione di quantità di
droghe sequestrate in unità equivalenti (una dose tipica assunta dai consumatori di dro-
ga) riflette un forte incremento del totale dei sequestri, da 14 bilioni di dosi nel 1990 a
26 bilioni nel 2000 con segnali di stabilizzazione nel 2001/2002. I sequestri in termini
unitari sono più alti nel continente americano (10,4 bilioni di dosi), seguito dall’Euro-
pa (7,4 bilioni), dall’Asia (5,5), dall’Africa (2,4) e dall’Oceania (0,08); su base pro-capi-
te, comunque, la classifica subisce questi cambiamenti: le Americhe (12,1 unità o dosi
sequestrati pro-capite), l’Europa (10,2), l’Africa (2,9), l’Oceania (2,6) e l’Asia (1,5); la
produzione illecita globale di oppio è rimasta stabile, tra le 4.000-5.000 tonnellate dai
primi anni ‘90, ma ha avuto un incremento quella concentrata in Afghanistan; le colti-
vazioni di coca sono diminuite del 30% dal 1999 al 2005 a seguito dell’incremento dei
sequestri dei laboratori dalla metà degli anni ‘90 nei paesi sviluppati, il consumo di so-
stanze stimolanti di tipo amfetaminico (ATS) sembra aver avuto un picco negli ultimi
due anni; il mercato della cannabis resta costante, con un incremento di consumo nel
Sud America, in espansione sui mercati dell’Europa occidentale ed orientale, così come
dell’Africa; sebbene il mercato delle sostanze stimolanti di tipo amfetaminico (ATS) sia
in espansione, il tasso di incremento sembra essere rallentato, rispetto al rapido incre-
mento che lo ha caratterizzato negli ultimi dieci anni.
b) Tossicodipendenza
261
Criminologia ed elementi di criminalistica
ultimi anni, il numero di giovani che ricorrono a sostanze psicoattive non ha cessato
di aumentare. Da alcuni anni, l’assunzione di droghe sembra sempre più motivata dal
desiderio del cosiddetto sballo o dalla volontà di aumentare le prestazioni. Per questi
motivi, le modalità di assunzione sono cambiate: si osservano maggiormente forme di
poliabuso per meglio controllare o sfruttare gli effetti delle singole sostanze, e anche per
riscontrare il rischio di dipendenza.
Mentre il numero dei tossicodipendenti da eroina in cura presso i Ser. T., cioè i
servizi per le tossicodipendenze, o le comunità terapeutiche, è relativamente costante
negli ultimi anni, si stima che più della metà dei ragazzi abbia fatto uso occasionale di
sostanze psicoattive o frequenti amici che le assumono.
Come tutte le condotte tossicomaniche, la dipendenza nei confronti di una droga
si manifesta con una serie di sintomi che si possono così riassumere: a) impossibilità
di resistere all’impulso di ricercare la sostanza; b) tensione interna crescente prima di
iniziare il comportamento; c) piacere o sollievo al momento dell’assunzione o della sua
preparazione; d) perdita del controllo già all’inizio del comportamento.
Almeno 5 degli 8 criteri seguenti:
La tossicodipendenza è un processo per cui sotto gli effetti associati della sostan-
za ripetutamente assunta (sia a livello dell’organismo che del sistema nervoso) e delle
condotte necessarie per procurarsela, si producono delle modificazioni a livello delle si-
napsi che portano l’individuo a desiderare sempre più di ripetere l’esperienza della tos-
sicomania.
c) Tossicomania
262
Droga e alcool nell’agire delittuoso
sazione di malessere e di inquietudine, secondo alcuni legata alla diminuzione dei livelli
ematici e cerebrali del farmaco.
Il soggetto sa che tale malessere va combattuto con un’ulteriore somministrazio-
ne di droga che produce in lui benessere ed euforia. Con il progredire della tolleranza
e dello stato di dipendenza fisica, l’intervallo di tempo che separa la somministrazione
della droga dalla comparsa dei sintomi di privazione diventa sempre più breve.
La tossicomania, infatti, è la condizione determinata dal ripetuto impiego di cer-
te sostanze psicoattive ed è caratterizzata da tre elementi: 1) assuefazione al farmaco; 2)
tolleranza ai suoi effetti; 3) tendenza alla intossicazione cronica.
1) L’assuefazione, si manifesta con il desiderio di un certo farmaco, dal cui im-
piego si ricercano effetti psichici piacevoli. Con la brusca sospensione del farmaco, si
viene a creare il cosiddetto quadro clinico della sindrome dell’astinenza e l’instaurarsi
della dipendenza; 2) la tolleranza, invece, può essere definita una forma di adattamen-
to cellulare a un ambiente chimico estraneo. A causa della tolleranza, l’attività del far-
maco psicoattivo diminuisce graduatamente; 3) tendenza alla intossicazione cronica: a
questi due aspetti possono essere attribuite le conseguenze nefaste delle tossicomanie.
Il desiderio di evitare la sofferenza della sindrome di privazione costituisce un poten-
te meccanismo di rinforzo dei fattori psichici che, in origine, hanno spinto il soggetto
all’uso di droghe voluttuarie, d’altra parte, la tolleranza obbliga ad usare dosi sempre
più elevate e rende perciò sempre più difficile, costoso e pericoloso evitare la sindrome
di astinenza.
L’assumere queste sostanze regolarmente fa si che l’organismo non abbia il tempo
di eliminare le sostanze tossiche ad esse associate, e si instaura lentamente un’intossica-
zione cronica con grave danno degli organi (es. fegato e cervello).
a) Eroina
L’eroina che si acquista nel mercato illecito è una polvere fine oppure in piccoli
granuli, di colore dal bianco al marrone chiaro, di odore leggermente pungente e dal
sapore amaro, costituita in realtà da una miscela di sostanze la cui composizione è mol-
to variabile.
La dose è, in genere, confezionata in un piccolo pezzo di carta argentata (quella
che si trova dentro i pacchetti di sigarette), oppure in bustine di plastica. Anche la per-
centuale di eroina contenuta nella dose o bustina può variare notevolmente a seconda
del numero di passaggi intermedi dal produttore al consumatore: si va dal 50% e oltre,
alla traccia minima (meno dell’1%). In media, la percentuale di eroina contenuta in
una dose, si aggira attorno al 10%. Proprio a causa della notevole variabilità della per-
centuale di eroina che si può trovare nella bustina, il consumatore, non ha alcun modo
263
Criminologia ed elementi di criminalistica
di sapere la quantità di eroina pura che sta per assumere. Le altre sostanze che possono
essere presenti nella eroina da strada sono classificabili in:
- sostanze che, pur non avendo effetto stupefacente, simulano alcune caratteristiche
dell’eroina (ad esempio, il sapore amaro). Queste sostanze sono indicate con il no-
me di adulteranti (ad esempio caffeina, procaina, lidocaina, fendimetrazina, ami-
nofenazone, barbiturici, chinina, stricnina);
- sostanze aggiunte con l’unico scopo di diluire l’eroina e di realizzare quindi un mag-
gior profitto dalla vendita. Queste sono indicate con il nome di diluenti (ad esem-
pio, zuccheri, acido citrico, bicarbonato, acido borico);
- sostanze estratte dall’oppio assieme alla morfina e presenti nella bustina da strada co-
me impurezze (ad esempio, acetilcodeina, narcotina, papaverina).
A volte, oltre all’eroina, possono essere presenti altre sostanze stupefacenti, come
ad esempio cocaina (la miscela di eroina e cocaina è nota con il nome di speedball) o
amfetamina (bombitas). Al contrario di quanto comunemente si crede e di quanto ge-
neralmente viene riportato dai media, quello che rende pericolosa l’eroina da strada, e
che in genere causa fenomeni di aumento della mortalità in un’area geografica e/o in
un ristretto arco di tempo, non sono le sostanze aggiunte all’eroina (il cosiddetto ta-
glio) ma, invece, la variabilità della percentuale di eroina che può essere contenuta nella
bustina che si acquista dallo spacciatore. All’origine di questi fenomeni, vi è, infatti, la
temporanea presenza sul mercato di preparati contenenti percentuali di eroina più ele-
vate di quelle normalmente reperibili e tali da non essere tollerate da molti consuma-
tori di eroina. In altre parole, non è la natura del taglio, ma la occasionale riduzione del
taglio a rendere pericolosa l’eroina da strada. Nei paesi occidentali, il modo più diffuso
di somministrazione o auto-somministrazione dell’eroina è l’iniezione in vena (pera,
buco) dopo avere sciolto il contenuto della bustina in acqua.
Gli strumenti che vengono utilizzati per il buco sono la siringa da insulina, dell’ac-
qua (spesso vengono usate le fiale di acqua distillata per preparati iniettabili che si com-
prano in farmacia), il cucchiaino, un accendino o un’altra fonte di calore, del succo di limo-
ne (che servono a sciogliere la polvere in acqua), e un filtro (per rimuovere sostanze non
disciolte dalla soluzione che verrà iniettata; in genere viene usato il filtro di una siga-
retta). Generalmente, l’iniezione viene fatta nelle vene degli avambracci; in alcuni casi,
vengono scelte altre aree del corpo che sono normalmente coperte da indumenti, come
le gambe, i piedi o anche gli organi genitali. L’eroina viene anche inalata (sotto forma di
polvere, sniffata), o fumata. Un’altra modalità di assunzione, indicata come “chasing the
dragon” (“inseguendo il drago”), consiste nel bruciare l’eroina sopra ad una lastra e nel-
l’inalare i fumi attraverso un piccolo tubo o una banconota arrotolata. La via inalatoria
viene in genere scelta, sia nella convinzione (sbagliata) che l’eroina se non è iniettata in
vena non produca dipendenza, sia per evitare i rischi di infezione che sono associati al
buco. Per questa ragione, è stata riscontrata una recente tendenza all’aumento della scel-
ta di questa via di assunzione rispetto all’iniezione in vena. Quest’ultima, è, in ogni caso,
la via di assunzione che produce un effetto stupefacente più rapido e più intenso.
Negli ultimi anni, si sta diffondendo tra i consumatori di eroina la tendenza ad as-
sumere anche altre sostanze d’abuso assieme all’eroina. Tra queste ci sono soprattutto
264
Droga e alcool nell’agire delittuoso
l’alcol, alcuni farmaci sedativi e tranquillanti (Valium, Darkene, Roipnol, Tavor) e altre
sostanze stupefacenti (cocaina, ecstasy, hashish e marijuana).
Questo comportamento è molto pericoloso perché agli effetti dell’eroina sull’or-
ganismo si possono aggiungere quelli prodotti dalla/e altra/e sostanza/e, aumentando
significativamente il rischio che si producano effetti tossici anche in soggetti consuma-
tori abituali di eroina.
Per la stessa ragione, è molto pericoloso, per un soggetto in trattamento con meta-
done o con altri farmaci sostitutivi dell’eroina (es. buprenorfina), continuare ad assu-
mere eroina, oppure, anche altre sostanze d’abuso (alcol, sedativi, tranquillanti, stupe-
facenti, ed anche altro metadone al di fuori di quello prescritto).
Un consumatore cronico di eroina assume, in genere, tra i 100 milligrammi ed 1
grammo al giorno, divisi in 2-4 dosi. L’eroina è una sostanza che produce assuefazione.
Ciò vuol dire che in un consumatore che continuasse ad assumere tutti i giorni sempre
la stessa dose, l’effetto prodotto sull’organismo sarebbe progressivamente minore. Per
questo motivo, i consumatori di eroina tendono con il passare del tempo ad aumenta-
re la dose assunta.
Questo fenomeno, legato al progressivo adattamento dell’organismo all’eroina (tol-
leranza), è reversibile: l’astinenza volontaria o forzata, per esempio conseguente ad un
periodo di detenzione in carcere, dall’eroina, per un periodo anche relativamente breve
(un paio di settimane sono sufficienti) causa una riduzione della tolleranza. Ciò signi-
fica che, se un soggetto, dopo un periodo di astinenza, riprende a usare l’eroina nelle
stesse dosi che assumeva prima, rischia di incorrere, quasi certamente, negli effetti tossici
della sostanza. Il fenomeno della perdita della tolleranza è considerato una delle prin-
cipali cause di morte per intossicazione acuta da eroina. Oltre ai segni più evidenti nei
consumatori di eroina per iniezione, e cioè i segni di agopuntura o buchi, generalmente
agli avambracci, ma anche in altre parti del corpo (gambe, piedi, organi genitali), sono:
a) la parola impastata; b) il rallentamento nei movimenti; c) la tendenza alla sonnolenza;
d) il prurito insistente; e) le pupille a spillo.
L’iniezione di eroina provoca nel giro di pochi secondi una forte sensazione di pia-
cere, denominata flash, spesso descritta come un intenso orgasmo sessuale, accompa-
gnata da una sensazione di euforia e da vampate di calore. Dopo questo effetto, che
dura pochi minuti, subentra una seconda fase caratterizzata da calma, rilassatezza, sod-
disfazione, e distacco da quanto succede all’esterno. Questo effetto si esaurisce, entro 2-
6 ore dall’iniezione. Se l’eroina viene inalata o fumata, gli effetti sono qualitativamente
uguali, ma sono meno rapidi e meno intensi. L’eroina ha anche una potente azione de-
pressiva sul sistema nervoso e ottunde sia gli stimoli esterni che quelli interni sgradevo-
li: il dolore, le angosce, le paure, l’urgenza del sesso. Entro un periodo di tempo che va da
2 sino a 6 ore dopo l’iniezione o l’inalazione di eroina, agli effetti piacevoli cominciano
a subentrare quelli spiacevoli: agitazione, dolori diffusi, bisogno che a poco a poco diventa
irrefrenabile di assumere un’altra dose. In un tempo piuttosto rapido (bastano poche do-
si), si sviluppa una forte dipendenza che si manifesta come desiderio prepotente di assu-
mere nuovamente la droga, e come spinta a procurarsela con ogni mezzo. L’assunzione
abituale di eroina determina una progressiva riduzione delle sostanze che nel cervello
agiscono sui meccanismi che regolano la percezione del dolore (le più note delle qua-
li sono le endorfine), oltre che la perdita di gran parte dei recettori, attraverso i quali
265
Criminologia ed elementi di criminalistica
la sostanza agisce sulle cellule nervose. Se non viene assunta una nuova dose di eroina,
la mancanza della sostanza, in aggiunta alla riduzione delle endorfine e dei recettori,
provoca la comparsa della crisi da astinenza. La crisi da astinenza comincia a manife-
starsi dopo poche ore dall’ultima assunzione e raggiunge il massimo di intensità entro
1 o 2 giorni. I principali sintomi della crisi da astinenza comprendono agitazione, allu-
cinazioni, insonnia, dolori diffusi, tremori, aumento della produzione di sudore, di saliva
e di muco nasale, nausea, vomito, diarrea e crampi addominali, e sono tanto più intensi
quanto maggiore è stata la durata del consumo di eroina. La crisi da astinenza scompare
dopo l’assunzione di una nuova dose o, nel caso in cui l’astinenza prosegua, nel giro di
3-7 giorni. Quando la dose di eroina è superiore a quella che l’organismo è in grado di
sopportare (overdose), o quando l’eroina viene assunta unitamente ad altre sostanze che
ne potenziano gli effetti (alcool, sedativi, tranquillanti), la sensazione di calma e rilassa-
tezza si trasforma in una progressiva depressione del respiro e del sistema circolatorio,
sino a giungere all’arresto cardiocircolatorio e quindi alla morte.
A parte il rischio di contrarre patologie infettive, l’uso prolungato di eroina produce
una progressiva debilitazione fisica. Gli organi più direttamente interessati sono fega-
to, reni e polmoni. La presenza di particelle insolubili nel liquido iniettato può causare
fenomeni di otturamento dei vasi sanguigni e la conseguente morte delle cellule irro-
rate da questi vasi. La reazione immunitaria ai vari contaminanti presenti nell’eroina
di strada è all’origine dell’artrite (infiammazione delle articolazioni) e di altri problemi
reumatici.
b) Cocaina
La cocaina è uno stimolante molto potente che ha effetto direttamente sul cervel-
lo. Conosciuta come la droga degli anni Ottanta e Novanta per la sua popolarità in
quel periodo, non è certamente una sostanza nuova, ma una delle più antiche. L’effetto
stimolante e di riduzione della sensazione di fatica che si ottiene masticando foglie di
coca è conosciuto da migliaia di anni, la sostanza pura è invece utilizzata da oltre 100
anni.
La cocaina è estratta dalle foglie di alcuni arbusti del genere delle eritoxilacee, diffu-
si e coltivati nel Sud America. Nei primi del Novecento, essa fu utilizzata come ingre-
diente principale di numerosi tonici ed elisir per alleviare i sintomi di diverse malattie.
Oggi, è considerata una sostanza estremamente pericolosa ed è classificata fra le più po-
tenti droghe d’abuso. La cocaina si trova nel mercato illecito in due forme: il cloridra-
to, che ha l’aspetto di una polvere bianca o bianco-avorio ed ha sapore amaro, e la base
libera che si presenta, invece, sotto forma di scaglie o tavolette di varia forma e dimen-
sioni e di colore dal bianco sporco al marrone. Il cloridrato può essere inalato, sciolto
in acqua, oppure iniettato in vena. La base libera normalmente viene fumata.
La cocaina venduta dagli spacciatori è spesso tagliata (diluita) con sostanze come
l’amido di granturco, lo zucchero a velo, raramente il bicarbonato o il talco. Nella co-
caina di strada, può anche essere presente procaina, lidocaina o altri anestetici locali
che simulano alcune caratteristiche della cocaina (sapore, effetto di anestesia locale sul-
la lingua). Inoltre, la cocaina può essere mischiata con altre droghe come l’eroina o le
amfetamine.
266
Droga e alcool nell’agire delittuoso
Crack è il nome in gergo che viene dato ai cristalli di cocaina (base libera). Il termi-
ne crack deriva dal particolare rumore che questa sostanza produce quando viene bru-
ciata. Il crack produce una forte euforia in meno di dieci secondi. La sua popolarità tra
gli emarginati delle periferie urbane, in particolare negli Stati Uniti, è dovuta ai bassi
costi di produzione e al prezzo contenuto. La cocaina può essere inalata, iniettata o fu-
mata (da sola o mescolata a tabacco o a marijuana). L’assunzione mediante masticazio-
ne delle foglie è limitata esclusivamente ad alcune popolazioni sudamericane. Se inala-
ta, normalmente con dei cannelli o con banconote arrotolate, la sostanza attiva passa
attraverso le mucose nasali nel sangue. L’iniezione, invece, è la via più diretta e produce
effetti istantanei e più marcati. Il fumo, attraverso speciali pipette, passa dai polmoni,
nel sangue, quasi con la stessa velocità dell’iniezione. Molti tossicodipendenti la inetta-
no o la inalano, mescolata all’eroina.
Il consumo di cocaina può variare da occasionale a ripetuto e compulsivo. Non
esiste una modalità di utilizzazione sicura o priva di rischi. Qualunque tipo di uso può
portare all’assunzione di quantità tossiche di sostanza, provocando seri problemi car-
diovascolari o cerebrali, che possono dar luogo anche a una morte improvvisa. L’uso
ripetuto di cocaina, in qualunque forma, provoca dipendenza e altri danni alla salute.
Sono state realizzate molte ricerche per studiare il modo in cui la cocaina produce i suoi
effetti piacevoli, e la ragione per cui provoca dipendenza. Ciò avviene, probabilmente,
attraverso il suo effetto sulle strutture profonde del cervello. Gli scienziati hanno sco-
perto che quando vengono stimolate alcune zone del cervello si produce una sensazione
di piacere. Uno dei sistemi neurali che sembra siano più interessati dalla cocaina trova
origine in una regione molto profonda del cervello chiamata area ventrale del tegmen-
to (Avt). Le cellule nervose che partono dalla Avt si estendono alla regione conosciuta
come nucleus accumbens, una delle aree chiave del piacere nel cervello. In studi su ani-
mali, ad esempio, tutto ciò che produce piacere, dal bere al mangiare, dal sesso a molte
droghe, aumenta l’attività del nucleus accumbens.
Gli studiosi hanno scoperto che quando si sta svolgendo un’azione che provoca
piacere, i neuroni nella Avt aumentano la secrezione di dopamina nel nucleus accum-
bens. I segnali di piacere vengono cioè comunicati da neurone a neurone, attraverso la
emissione di dopamina nei punti di connessione (sinapsi) tra i neuroni. Le droghe pos-
sono interferire proprio con questo processo. La cocaina, ad esempio, blocca l’elimina-
zione della dopamina dalla sinapsi provocandone l’accumulo. La conseguente stimola-
zione continua dei neuroni è all’origine dell’euforia riferita dai consumatori.
L’uso continuo di cocaina crea tolleranza. Ciò significa che la persona che la as-
sume, ha bisogno di dosi sempre maggiori e frequenti per ottenere lo stesso effetto.
Secondo recenti ricerche, durante il periodo di astinenza dall’uso di questa droga, il
ricordo dell’euforia associata al consumo o soltanto alla stessa può causare il deside-
rio incontrollabile di assumerla anche dopo lunghi periodi in cui non è stata consu-
mata.
Gli effetti della cocaina si manifestano quasi subito dopo il suo uso, e possono du-
rare da alcuni minuti ad ore. Coloro che utilizzano cocaina in piccole quantità (fino
a 100 milligrammi) si sentono euforici, pieni di energia, disposti alla conversazione e
mentalmente attivi, attenti, in particolare, alle sensazioni visive, uditive e tattili. La co-
caina può anche diminuire, temporaneamente, il desiderio di mangiare e dormire. Al-
267
Criminologia ed elementi di criminalistica
cuni consumatori riferiscono che la droga li aiuta a compiere sforzi intellettuali e fisici
più rapidamente; altri, parlano di effetti opposti.
La durata degli effetti euforici di questa droga dipende dal modo in cui è stata uti-
lizzata. Più veloce è l’assorbimento nel sangue (come nel caso dell’iniezione in vena o
dell’inalazione del fumo), più intenso è l’effetto e più breve la sua durata. Le sensazio-
ni di benessere provocate dall’inalazione possono durare dai quindici ai trenta minuti,
mentre, quelle conseguenti al fumo variano dai cinque ai dieci minuti.
Gli effetti fisiologici a breve termine che la cocaina produce sono: contrazione dei
vasi sanguigni, dilatazione delle pupille, aumento della temperatura corporea, del ritmo
cardiaco e della pressione arteriosa. Se le quantità utilizzate superano i 100 milligram-
mi, gli effetti si intensificano e possono provocare comportamenti inusuali e violenti.
I consumatori possono provare tremori, vertigini, spasmi muscolari, paranoia e, dopo
successive assunzioni, reazioni tossiche simili a quelle prodotte dall’avvelenamento da
amfetamina. Tra gli effetti a breve termine della cocaina, è da segnalare la riduzione
della percezione del rischio che può originare comportamenti pericolosi per il consu-
matore stesso e per la salute di terzi (ad esempio, guida pericolosa). Alcuni utilizzatori
riferiscono di sentirsi irritabili, agitati e di soffrire di ansia. In qualche rara occasione,
l’uso di cocaina per la prima volta può provocare una morte improvvisa. I decessi per
cocaina sono provocati generalmente da arresto cardiaco o da convulsioni causate da
blocco respiratorio.
La cocaina provoca una forte assuefazione. Una volta provata, è molto difficile
controllarne e limitarne l’uso. Si ritiene che la dipendenza da questa sostanza e i suoi
effetti stimolanti, siano il risultato della sua capacità di impedire l’assorbimento della
dopamina da parte delle cellule nervose e di provocarne, quindi, un accumulo nell’or-
ganismo. Il cervello produce dopamina come sistema di gratificazione e il funziona-
mento di molte droghe dipende, direttamente o indirettamente, dalla maggiore o mi-
nore presenza di questa sostanza nell’organismo.
La cocaina può, inoltre, provocare una considerevole tolleranza in chi la assume,
tanto che molti tossicodipendenti riferiscono di non riuscire a provare le stesse sensa-
zioni di piacere dopo un uso continuato. Allo stesso tempo, alcuni individui possono
sviluppare nel tempo una maggiore sensibilità agli effetti anestetici e convulsivi di que-
sta sostanza, tanto da provocarne la morte dopo l’assunzione di quantità relativamen-
te piccole.
Esiste una notevole quantità di complicazioni mediche associate all’uso di cocaina.
Fra le più frequenti: complicazioni cardiovascolari, come irregolarità nella frequenza
del cuore, malattie cardiache, problemi respiratori che provocano dolori al petto, effetti
neurologici che causano ictus, convulsioni ed emicranie, complicazioni gastrointestina-
li che provocano dolori addominali e nausea.
L’uso di cocaina provoca vari tipi di malattie cardiache. Si sa che questa droga cau-
sa fibrillazione ventricolare, accelera i battiti del cuore e la respirazione, aumenta la
pressione arteriosa e la temperatura del corpo. I sintomi fisici possono includere confu-
sione mentale, dolore al petto, febbre, spasmi muscolari, convulsioni e coma.
Gli effetti negativi della droga sono collegati alle diverse modalità di assunzione.
Quando la si inala regolarmente, ad esempio, la cocaina può provocare una perdita di
sensibilità dell’olfatto, causare emorragie nasali, problemi di deglutizione, raucedine ed
268
Droga e alcool nell’agire delittuoso
una irritazione del setto nasale che causa una condizione cronica di irritazione delle na-
rici e di secrezione di muco. Quando viene ingerita, la cocaina può provocare cancrena
all’intestino perché riduce il flusso di sangue. Coloro che la iniettano, possono contrar-
re flebiti ed altre infezioni, come anche reazioni allergiche alla droga o alle altre sostan-
ze da taglio ad essa associate. La cocaina tende a ridurre il desiderio di alimentarsi, per
cui il suo uso abituale provoca perdite di peso e malnutrizione.
Gli scienziati hanno dimostrato che esiste un’interazione potenzialmente perico-
losa tra cocaina e alcol.
c) Cannabis
269
Criminologia ed elementi di criminalistica
d) Allucinogeni
Gli allucinogeni naturali estratti dal psylocibe mexicana (fungo magico) furono, in
passato, utilizzati nelle cerimonie religiose dei popoli del Messico e dell’America Cen-
trale. In particolare, erano molto utilizzati, a tali scopi, i funghi di psilocibina, lunghi
funghi scuri che, con il deperimento, tendono a scurirsi ulteriormente, fino a diventare
bluastri, i quali contengono due sostanze allucinogene: la psilocibina e la psilocina. I sa-
cerdoti messicani pensavano che questo fungo (teonanacatl: “carne di dio”) permettes-
se di entrare in comunicazione con gli dei e portasse ad acquisire facoltà magiche e cu-
rative. Gli Aztechi, invece, ritenevano sacro il cactus peyotl, la pianta da cui si ricava un
allucinogeno naturale, la mescalina, che si consuma in forma di bottoni freschi o secchi
e da effetti simili a quelli dell’LSD. I mescaleros, indios del centro America, avevano
fatto dell’assunzione del cactus peyotl (peyote), il fulcro dei cerimoniali religiosi come
strumento di illuminazione e trascendenza.
La mescalina ha ispirato un’opera letteraria: Le Porte di Aldous Huxley, il quale ri-
teneva che tale sostanza fosse il mezzo più efficace per gettare luce su le zone della co-
scienza umana che la cultura occidentale, improntata alla razionalità, aveva messo in
ombra. L’autore fece anche da cavia agli esperimenti con cui gli psichiatri Osmond,
Smythies, Hoffer stavano indagando la possibilità di studiare i meccanismi biologici
della schizofrenia attraverso l’induzione di psicosi sperimentali con mescalina. Gli allu-
cinogeni non producono assuefazione ma ingenerano una fortissima tolleranza: la stes-
sa sostanza, assunta a distanza di pochi giorni, non fa più effetto.
L’LSD è un prodotto di sintesi che viene commercializzato sotto forma di pillole
di varia dimensione, di piccoli francobolli, o zollette di zucchero. La composizione del
prodotto è varia e incerta, così come i dosaggi: si pensa che esistano diversi tipi di LSD.
Questa è un’unica sostanza, ma compare sul mercato con diversi tagli (amfetamine, ec-
stasy, stricnina). I tagli influenzano fortemente gli effetti, in particolare la fase finale
nella quale l’effetto della sostanza scende.
La PCP (fenciclidina), altra sostanza di sintesi, può essere ingerita o fumata. La
dose efficace di questa sostanza è di 2-5 milligrammi. Essa viene spesso addizionata ad
altre sostanze per potenziarne gli effetti.
Il fungo psilocibina, l’LSD, la mescalina e il peyote sono assunti oralmente. Il
peyote e la fenciclidina (PCP) possono essere anche fumati. Raramente gli allucinogeni
sono assunti per endovena.
La dietilamide dell’acido lisergico o LSD è un allucinogeno di semisintesi derivato
dall’acido lisergico, presente negli alcaloidi della segale cornuta. L’LSD viene sintetiz-
zato a partire dall’acido lisergico che viene ottenuto da alcaloidi (ergometrina) estratti
dagli sclerozi, che rappresentano la forma vegetativa della Claviceps purpurea, parassita
sulle piante di segale. Sul mercato clandestino, l’LSD, nei primi anni ‘80, circolava in
270
Droga e alcool nell’agire delittuoso
forme diverse: polveri farmacologiche usate, poi, per riempire capsule di gelatina, cubet-
ti di zucchero e carta assorbente. L’LSD veniva anche incorporata in una matrice di ge-
latina che veniva tagliata, dopo solidificazione, in cubetti detti vetro di finestra. Attual-
mente, le formulazioni più frequenti sono strisce di carta o compressine. L’uso è per via
orale (compresse, micropunte o francobolli imbevuti di una soluzione alcolica di LSD),
specie in locali di ritrovo giovanile. Può causare l’insorgenza di bad trip (attacco di pa-
nico, talora episodi psicotici transitori) e flash-back che persistono per mesi dopo l’in-
terruzione dell’uso. Il problema più grave può essere l’insorgenza di una psicosi cronica,
probabilmente legata alla slatentizzazione di elementi psicopatologici in personalità ad
elevata vulnerabilità. A basse dosi possono intensificarsi i suoni e le luci, accentuando
gli impulsi sensoriali esterni. Non si è dimostrata l’instaurazione della dipendenza fisi-
ca dopo uso cronico, anche se si instaura il fenomeno della tolleranza. Un uso prolun-
gato di LSD, anche fino a diversi mesi dopo la cessazione dell’uso, provoca difficoltà
di memoria, turbe comportamentali, ansia e depressione fino all’allontanamento dalla
vita sociale. L’assunzione di allucinogeni, quindi di LSD, può comportare: allucinosi,
disturbo delirante, disturbo percettivo post-allucinogeno, disturbo dell’umore. Nell’al-
lucinosi si notano turbe percettive in stato di piena vigilanza (illusioni, allucinazioni, si-
nestesie). Nel disturbo delirante, il soggetto ha la convinzione che le turbe percettive di
cui fa esperienza nel corso dell’allucinosi corrispondano alla realtà. Il disturbo dell’umo-
re può insorgere entro 1-2 settimane dall’inizio dell’uso della sostanza e persistere per
più di 24 ore dopo la cessazione dell’uso stesso. Ci possono essere elementi depressivi
o maniacali. Il disturbo percettivo post-allucinogeno (flash-back) consiste nel ricorrere
all’esperienza allucinogena (pochi secondi), anche dopo diverso tempo (mesi) che la si è
interrotta. I flash back si fanno meno frequenti con l’andare del tempo.
Una reazione tossica comune a tutti gli allucinogeni è il viaggio (trip): una reazio-
ne ansiosa acuta simile a un episodio schizofrenico acuto. Tale effetto dura dalle quattro
alle dodici ore, ma può prolungarsi per giorni o mesi, in quanto gli allucinogeni sono
liposolubili e permangono nei depositi adiposi diversi tempo dopo l’assunzione. Per-
sone che hanno sperimentato il viaggio provano il fenomeno del flash-back, istanti nei
quali si ha l’impressione di rivivere la situazione psichedelica originale, anche quando la
sostanza non è stata assunta. L’uso prolungato può provocare psicosi; personalità fragili
e vulnerabili possono rimanere gravemente squilibrate per moltissimo tempo, fino ad
arrivare a danneggiare permanentemente l’equilibrio psichico. Gli effetti sono: vertigi-
ni, debolezza e sonnolenza, nausea, sinestesie; vedere/odorare i suoni, sentire/odorare
i colori, tensione interna che trae sollievo da risate o pianto; allucinazioni visive, ondate
ricorrenti di fenomeni percettivi, ipervigilanza e riflessi muscolari iperattivi, ipertensio-
ne e ipertermia, sudorazione e tremori, contrazioni uterine. I casi di morte che si sono
verificati sotto l’effetto di LSD e di altri allucinogeni derivano da azioni incontrollate
dovute all’alterata percezione della realtà circostante.
e) Amfetamine
271
Criminologia ed elementi di criminalistica
f ) Le nuove droghe
Ecstasy: è una droga sintetica con effetto allucinogeno e stimolante. I danni acu-
ti dell’ecstasy sono legati al rialzo termico (che può arrivare fino a 41 °C con rischio
di morte): coagulazione del sangue, autodistruzione delle cellule muscolari, alterazione
della funzionalità epatica (epatite acuta) e renale, attacchi cardiaci; in alcuni casi, si è
verificata un’epatite fulminante non collegata all’ipertermia. Fra le reazioni acute all’ec-
stasy si devono segnalare anche crisi d’ansia o depressive. I danni cronici sono soprat-
tutto psichici, in quanto la droga agisce sul sistema di recupero della serotonina: psicosi,
dissociazione dell’io e, probabilmente, con l’uso continuato, la lesione delle cellule cere-
brali che rilasciano e recuperano la serotonina. Accanto all’ecstasy, si stanno affermando
droghe naturali, un ulteriore esempio di come anche il naturale possa essere dannoso:
- Gotu kola − droga vegetale ricavata dalla centella asiatica; l’assunzione provoca ta-
chicardia, ipertensione, ansia, irritabilità e, a forti dosaggi, insonnia.
- Hoja madre − droga vegetale ricavata dalla calea zacatechichi, detta anche “hoja de
Dios”; l’assunzione a forti dosaggi provoca tachicardia, ipertensione, ansia, irrita-
bilità e insonnia.
- Lattuga silvestre − droga ricavata dalla lactuca virosa; l’assunzione inibisce la libi-
do.
- Kava o kawa − droga ricavata dalla pianta omonima (Piper mesthysticum) della fa-
miglia delle Piperacee diffusa in Polinesia e nelle Hawai; l’assunzione a forti dosag-
gi provoca tachicardia, ipertensione, ansia, irritabilità e insonnia. Da notare che
a bassi dosaggi è ansiolitica e sedativa. È stata comunque accertata la sua tossicità
epatica: dal 1999 si sono verificati in Germania, Svizzera e Stati Uniti 11 casi di
pazienti che, dopo aver assunto prodotti a base di Kava kava, hanno sviluppato un
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Droga e alcool nell’agire delittuoso
quadro clinico di insufficienza epatica tanto grave da richiedere il trapianto del fe-
gato.
- Yohimbe o iohimbe − droga ricavata dalla corteccia di una Rubiacea (Corynanthe
yohimbe) dell’Africa tropicale; l’assunzione provoca ansia, vomito, nausea, tachi-
cardia, ipertensione, vertigini e irritabilità.
- Muirapuama o mirapuama − droga ricavata da un albero (Lyriosma ovata) della
famiglia delle Olacacee, che cresce nel Brasile settentrionale, in Cile e in Guiana;
l’assunzione provoca tachicardia, ipertensione, ansia, irritabilità e, a forti dosaggi,
insonnia.
- Ska pastora − droga (detta anche “hierba de la virgin”) derivata dalla Salvia divino-
rum, la cui assunzione ad alti dosaggi causa distorsioni nella percezione spazio-
temporale; se fumata, provoca gravi irritazioni a naso, bocca e gola.
- Rosa lisergica − droga vegetale ottenuta dalla Argyreia nervosa, la cui assunzione
causa nausea e vomito.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Droga e alcool nell’agire delittuoso
- delitti compiuti allo scopo di procurarsi sostanze stupefacenti o i mezzi per acqui-
starle.
- soggetti che hanno conservato l’integrazione sociale: fanno uso di canapa, passano al-
le amfetamine, qualche volta agli oppiacei: la presunzione della loro pericolosità è
immotivata;
- soggetti inseriti nella sottocultura dei drogati: l’appartenenza ad una specifica asso-
ciazione differenziale costituisce un alto rischio di criminalità e gli appartenenti ne
subiscono le conseguenze;
- i dipendenti da eroina: essi stanno divenendo, nella quasi totalità, autori abituali di
atti criminosi, trovando solo nel delitto la possibilità di reperire i mezzi per procu-
rarsi la droga.
275
Criminologia ed elementi di criminalistica
12.5 L’alcolismo
L’alcoldipendenza o alcolismo è un fenomeno che si verifica in una percentuale di
consumatori di alcolici, ed è caratterizzata dall’impossibilità di smettere l’uso di alcol,
nonostante la persona si renda conto che quella sostanza (alcol etilico) le fa male e che
quindi voglia smettere di assumerla. In altre parole, quella persona si trova a essere
schiava dell’alcol e a non poterlo più controllare.
Si possono fare diagnosi di dipendenza alcolica se ci si trova in presenza di almeno
tre o più delle seguenti caratteristiche:
1. bisogno di dosi sempre più elevate di alcol per raggiungere l’effetto desiderato (au-
mento della tolleranza o assuefazione);
2. comparsa di malessere (fisico e/o psichico), se la persona non beve (sindrome di asti-
nenza);
3. impossibilità di controllarsi nel bere;
4. desiderio persistente della sostanza e impossibilità di ridurne l’uso;
5. continua ricerca della sostanza, fino ad arrivare al punto che gran parte del suo tem-
po viene speso in questa ricerca o per riprendersi dagli effetti dell’intossicazione;
6. interruzione di attività lavorative, ricreative, contatti sociali, a causa dell’uso della
sostanza;
7. persistenza nell’uso della sostanza, nonostante la consapevolezza delle conseguenze
negative (fisiche, psichiche, sociali).
Fino a non molti anni fa, si pensava che l’alcolismo fosse un vizio, cioè un compor-
tamento volontario negativo e quindi moralmente riprovevole.
Negli ultimi anni, invece, è apparso sempre più evidente, in seguito al progresso
delle conoscenze scientifiche sull’argomento, che la dipendenza da alcol è dovuta, non
tanto alla mancanza di volontà del soggetto, ma a una serie di fattori che possiamo rag-
gruppare in:
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Droga e alcool nell’agire delittuoso
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Criminologia ed elementi di criminalistica
ce, in cui, da un iniziale stato di eccitamento psicomotorio con euforia, senso di be-
nessere, iperattività, si passa, gradualmente, a uno stato depressivo con ottundimento
della coscienza, rallentamento ideomotorio, fino al sonno profondo o, in alcuni casi,
al coma; 2. l’ebbrezza complicata, le cui manifestazioni, simili alle precedenti, sono
più rilevanti; 3. l’ebbrezza patologica, caratterizzata da manifestazioni particolarmente
intense o abnormi, che compare anche per dosi modeste di alcol e si osserva in caso
di psicopatie, lesioni cerebrali, insufficienze mentali, epilessie.
b) L’alcolismo cronico, dovuto all’abuso prolungato di alcol, comprende alterazio-
ni della personalità e alterazioni psicotiche legate al danno cerebrale organico pro-
dotto dall’alcol. Il deterioramento della personalità si manifesta con accentuazione di
tratti del carattere, deficit dell’attenzione e della volontà, perdita di interessi, turbe
dell’emotività, labilità dell’umore, comportamento sociale inadeguato, diminuzione
della capacità di critica e di giudizio, turbe del pensiero e della memoria. La compro-
missione di tutte queste funzioni può condurre a un quadro di demenza alcolica. Tra
le alterazioni psicotiche (o psicosi alcoliche), si possono osservare: il delirium tremens;
il delirio di gelosia nei confronti del partner, spesso accompagnato da atteggiamen-
ti diffidenti e aggressivi; encefalopatie carenziali, come la encefalopatia di Wernicke
(quadro psicotico acuto con disturbi della coscienza, deliri, allucinazioni, ipertonia,
discinesie ecc.) e la sindrome di Korsakoff (con perdita della memoria, disturbi della
coscienza, discorsi sconnessi).
Terapia
Il trattamento dell’alcolismo nelle forme acute gravi (in particolare nel coma) pre-
vede una terapia intensiva con tutte le misure di rianimazione; impiego di antibiotici,
polivitaminici, soluzioni glucosate; con alcune cautele, si induce sedazione (particolar-
mente usate a tale proposito le benzodiazepine nella sindrome di astinenza). Nell’alco-
lismo cronico, il trattamento presenta maggiori difficoltà, per le implicazioni a livello
organico, psicologico e sociale: fondamentali, sono la motivazione e la collaborazione
del soggetto; a volte, si consiglia il ricovero in reparti specialistici. In questi casi, la te-
rapia, si basa sull’abolizione dell’alcol, sulla disintossicazione, cioè sul trattamento della
patologia organica (epatoprotettori, vitamine ecc.), e sul divezzamento, per annullare il
desiderio dell’alcol e la dipendenza. Indispensabili sono, inoltre, azioni psicoterapiche
individuali o di gruppo, nonché interventi psicosociali protratti in stretta collaborazio-
ne con l’ambiente familiare e sociale del soggetto.
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Droga e alcool nell’agire delittuoso
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Droga e alcool nell’agire delittuoso
zione di una sorta di immunità personale, rispetto alle conseguenze negative, come se
gli incidenti, ad esempio, capitassero solo agli altri, come se si fosse superiori anche al
contagio di malattie come l’Aids, insomma, come se gli eventi negativi reali della vi-
ta non riguardassero l’adolescente che, quindi, potrebbe ritenersi, sempre, al di sopra
di tutto questo. Purtroppo, le cronache, così come anche i dati statistici, confermano
il contrario.
Ritenere che l’adolescenza comporti inevitabilmente manifestazioni comportamen-
tali autolesive può indurre la convinzione che qualsiasi condotta bizzarra e pericolosa
rientri nella normalità; adottando un punto di vista simile, il rischio è quello di mini-
mizzare la gravità di certe manifestazioni e quindi di non prevenire e di compromettere
l’avvenire dell’adolescente (Carbone, 2000).
Una serie consistente di studi ha messo in rilievo che i comportamenti a rischio so-
no tra loro collegati; tali comportamenti includono il consumo di alcol, di tabacco e di
droghe, il sesso non protetto, la guida pericolosa.
Emerge, così, un altro aspetto molto importante dei comportamenti a
rischio, questi non si presentano in modo isolato, ma si collegano in vere e proprie
sindromi, o costellazioni, che comprendono differenti comportamenti (Bonino, Frac-
zek, 1996).
Gli adolescenti sarebbero protagonisti di rapporti sessuali promiscui e non protetti,
sono altresì coinvolti, rispetto ai soggetti non promiscui sessualmente, negli altri com-
portamenti a rischio. Nel sottogruppo dei promiscui, il consumo forte e abituale di ta-
bacco riguarda il 37% dei soggetti, il consumo forte di alcol riguarda il 60%, e quello
abituale di marijuana sfiora il 44%. Ma anche la guida pericolosa e la devianza sono
più frequenti fra gli adolescenti promiscui rispetto ai non.
Si riscontrano risultati analoghi anche esaminando la ricerca sul consumo di so-
stanze: gli adolescenti che usano abitualmente marijuana, sono in maggior misura for-
ti bevitori, forti fumatori di sigarette e sono maggiormente coinvolti nella guida peri-
colosa e nell’attività sessuale a rischio. Anche la guida spericolata, così come quella in
condizioni psicofisiche alterate, non si presenta come un comportamento isolato, ma è
legata ad altri comportamenti a rischio.
La metà dei soggetti che guidano pericolosamente è altamente implicata anche nel-
l’uso di sostanze psicoattive e nelle condotte devianti. All’interno del gruppo dei sog-
getti che guidano infrangendo il codice penale (poiché guidano in condizioni psicofi-
siche alterate) e che rappresentano il 10% del campione totale, i 2/3 fumano sigarette
e consumano alcolici, i 3/4 fumano spinelli e, inoltre, sono maggiormente coinvolti in
forme persistenti di devianza.
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CAPITOLO 13
La criminologia clinica
13.1 Introduzione
La funzione predominante della Criminologia clinica o applicata è quella di inte-
grare e far dialogare le scienze criminali con le scienze dell’uomo.
La sua utilizzazione pratica si riversa, soprattutto, nell’ambito della giustizia pena-
le, dove fornisce contributi interpretativi sulle dinamiche psicologiche e sociologiche,
che sono alla base del comportamento criminale, orientando, così, l’opera di applica-
zione della norma da parte del giudice. Il termine clinica è mutuato dalla scienza medi-
ca e si riferisce all’insieme degli interventi del criminologo che tendono a riconoscere,
interpretare, curare e prevenire i comportamenti illegali nel singolo individuo e che si
riflettono nella società, costituita da altri individui.
L’applicazione delle conoscenze della criminologia clinica si estrinseca, pertan-
to, nelle seguenti dimensioni: a) nella fase processuale, nella quale fornisce apporti sulla
personalità dell’imputato, così che il giudice possa disporre degli elementi conoscitivi
(componenti soggettive del singolo caso) per la migliore individualizzazione della san-
zione; b) al momento dell’esecuzione, mediante l’osservazione scientifica del condan-
nato, tecnica che, dalla magistratura di sorveglianza, viene utilizzata per l’individua-
lizzazione delle modalità secondo le quali la pena dovrà essere eseguita (es. affidamento
al servizio sociale, semilibertà, eccetera). L’osservazione tiene conto delle caratteristiche
personologiche, situazionali, microsociali e di pericolosità del soggetto. Attraverso l’osser-
vazione scientifica della personalità in prospettiva criminologica è possibile acquisire
informazioni su: 1. criminogenesi (caratteristiche individuali e sociali che hanno avu-
to peso nella scelta delittuosa); 2. criminodinamica (meccanismi interiori che hanno
condotto al delitto); 3. predizione (prospettive future di recidiva o di risocializzazio-
ne efficace); c. durante la detenzione: per indirizzare tecniche di trattamento risocia-
lizzativo.
L’osservazione criminologica prende, quindi, in considerazione i tratti della perso-
nalità del soggetto, le caratteristiche dell’ambiente sociale dove il soggetto è inserito e il
significato che psiche e ambiente hanno avuto nei confronti del comportamento delit-
283
Criminologia ed elementi di criminalistica
tuoso del singolo soggetto osservato. Comunemente, si articola in una fase diagnostica
e in una fase prognostica.
La fase diagnostica viene eseguita, solitamente, mediante i seguenti strumenti:
• colloquio criminologico;
• reattivi mentali (di efficienza intellettiva e di personalità);
• inchiesta sociale (condotta dall’assistente sociale) sull’abituale ambiente di vita del
soggetto;
• esame comportamentale fatto dall’educatore (atteggiamento nei confronti della di-
sciplina carceraria);
• dati documentali (curriculum criminoso, sentenza di condanna, precedenti sen-
tenze).
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La criminologia clinica
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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La criminologia clinica
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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La criminologia clinica
è basata sulla statistica, tramite la quale si vanno a considerare, ad esempio, quali tratti
sono frequenti in soggetti recidivi. Tuttavia, non è possibile sapere se il comportamento
futuro del delinquente sarà conforme a quello indicato dalla statistica, e ciò, rientra nel
campo delle incognite revisionali che dovranno tenere conto dei seguenti parametri:
- la persona è dotata di liberta di scelta, per cui ogni predizione contiene necessaria-
mente possibilità d’errore;
- la formulazione di una predizione comportamentale negativa viene, entro certi li-
miti, ad influenzare a condotta futura.
289
Criminologia ed elementi di criminalistica
- spirito d’avventura;
- tendenza al passaggio all’atto;
- suggestionabilità;
- caparbietà;
- instabilità emotiva.
È bene precisare che ogni caso osservato viene sottoposto a revisione periodica e
a un aggiornamento, soprattutto per valutare gli eventuali sviluppi degli aspetti della
personalità più suscettibili di evoluzione, per prendere atto di possibili cambiamenti,
e, soprattutto, per verificare il grado e la partecipazione del soggetto al programma di
trattamento ipotizzato nella relazione finale.
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La criminologia clinica
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Padovani afferma che sul piano strutturale esso differisce profondamente dal giu-
dizio di responsabilità. Quest’ultimo è, infatti, di tipo diagnostico, nel senso che si basa
interamente sull’accertamento e sulla valutazione di dati noti o comunque conoscibili.
Il giudizio di pericolosità, invece, è di tipo prognostico, nel senso che, mentre l’accerta-
mento si riferisce a determinati elementi che assumono valore indiziante, la loro valuta-
zione è orientata prospetticamente in funzione di un dato sconosciuto, costituito dalla
condotta futura del reo. La fondatezza del giudizio di pericolosità, secondo il Padovani,
dipende pertanto da due fattori: 1) dalla rilevanza dei fattori indizianti; 2) dai criteri
utilizzati nel procedimento di inferenza probabilistica .
Nell’accertamento del giudizio di pericolosità, oltre al reato commesso, entra in
gioco una serie di elementi indizianti, che il Padovani distingue in: elementi sintomatici
reali ed elementi sintomatici personali.
I primi gravitano intorno al reato, o perché ne implicano la reiterazione (come si
verifica nella abitualità o nella professionalità, artt. 102 e 105 c.p.), o perché ne sup-
pongono una particolare gravità (in astratto, come accade nell’art. 222, comma 1 e 2
c.p., per il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario; o in concreto, come nelle ipo-
tesi in cui viene richiamata l’entità della condotta inflitta: ad esempio nell’art. 229, nº
1 e nell’art. 230, comma 1 nº 1 c.p., ai fini della sottoposizione alla libertà vigilata),
oppure, infine, perché lo individuano come particolare tipo criminoso a rilevanza sinto-
matica privilegiata (come, ad esempio, nell’ipotesi dell’art. 538 c.p. che autorizza, e in
certi casi impone, l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva a chi sia condan-
nato per i delitti in materia di prostituzione).
Gli elementi sintomatici personali, sono, invece, connessi alle peculiarità del sogget-
to, considerato in rapporto a dati caratteriali (come, ad esempio, l’essere dedito al de-
litto ai fini della abitualità ritenuta dal giudice ex art. 103 c.p.), a condizioni incidenti
sull’imputabilità (come ad esempio nelle ipotesi dell’art. 222 c.p., per quanto riguarda
l’infermità psichica, e dell’art. 224 c.p. per quanto concerne l’età), o alla condotta di vita
(come nel caso dell’ubriaco abituale o della persona dedita all’uso di sostanze stupefa-
centi, art. 221 c.p.). Nella valutazione criminologica dei fattori indizianti, il Padovani
sostiene che gli elementi sintomatici reali assumano un peso dominante rispetto agli ele-
menti sintomatici personali, e che spesso i fattori indizianti reali sono assunti in una di-
mensione fortemente astratta, connessa a valutazioni di mera gravità edittale del reato
commesso (come, ad esempio, si verifica nelle ipotesi degli artt. 219, 222, 224, comma
2 e 3 c.p.), senza alcuna considerazione per il concreto atteggiarsi dell’episodio crimi-
noso nella personalità del soggetto.
Questa accentuata propensione ad affermare il primato di valutazioni puramente
legali nelle fattispecie sintomatiche di pericolosità deve considerarsi positiva, in rappor-
to al fatto che gli elementi indizianti reali servono a circoscrivere le situazioni tipo, in
presenza delle quali, il giudice deve poi procedere all’ulteriore accertamento della peri-
colosità in concreto. L’unico rischio è che, attraverso una troppo rigida predetermina-
zione di limiti normativi astratti, finiscano con l’essere sottratti al vaglio di pericolosi-
tà soggetti in effetti pericolosi. È un rischio che consiste in sostanza nella formazione
implicita di presunzioni di non pericolosità. Basti pensare, in proposito, alla ipotesi del
prosciolto per infermità psichica da una contravvenzione, da un delitto colposo o da un
altro delitto, punibile con la sola pena pecuniaria o con la reclusione non superiore nel
292
La criminologia clinica
massimo a due anni (art. 222 comma 1 c.p., per il quale è in pratica preclusa ogni for-
ma di intervento preventivo, anche se il reato commesso, pur nella sua ridotta gravità
legale, consenta di evidenziare in rapporto alla infermità che lo ha determinato, una
pericolosità molto elevata).
Ma un tale rischio, secondo Padovani, può essere considerato il prezzo inevitabi-
le che l’ordinamento deve corrispondere alla esigenza di tutela della libertà personale,
quando la sua restrizione si prospetta come conseguenza di un giudizio prognostico
inevitabilmente incerto. Tuttavia i rischi insiti in una tale regolamentazione erano di
altra natura.
La preponderanza di fattori indizianti reali non assumeva una funzione limitativa
dell’accertamento di pericolosità, bensì una funzione costitutiva. Il meccanismo di ap-
plicazione delle misure di sicurezza si riduceva, nella maggioranza dei casi, al riscontro
degli elementi indizianti, ai quali veniva collegato un significato sintomatico assoluto
senza alcun accertamento in concreto della pericolosità. In tale prospettiva, dunque, la
previsione di elementi sintomatici personali accanto ad elementi sintomatici reali, con-
sentiva, raramente, di incidere sull’automatismo della conseguenza sanzionatoria, dato
che, di norma, si trattava di elementi accertati in sede di valutazione della responsabilità,
ed assunti nella fattispecie sintomatica di pericolosità in una dimensione aprioristica.
Ad esempio, il prosciolto per infermità psichica, in quanto autore di un reato do-
loso punibile con la reclusione superiore nel minimo a due anni, era ricoverato per ciò
stesso, in ospedale psichiatrico giudiziario (art. 222 c.p.), a prescindere dal significato
che l’infermità, rilevante per escludere l’imputabilità, assumesse in chiave prognostica
di pericolosità.
13.5 La vittimologia
In criminologia, l’attenzione posta alla vittima e al suo ruolo, più o meno attivo o
passivo che sia stato, è di fondamentale importanza per capire la genesi e lo sviluppo
dell’evento criminale. Agli inizi della criminologia, l’attenzione veniva riposta comple-
tamente sul criminale o sull’azione deviante, mentre la vittima veniva percepita come
totalmente passiva ed in balia degli eventi. Quando è stato rilevato che alcuni soggetti
avevano avuto delle responsabilità per la propria vittimizzazione (ad es. avevano provo-
cato l’aggressore oppure avevano ignorato dei segnali di pericolo), il focus di indagine
si è spostato, comprendendo tutti gli attori della scena criminale.
In un ambito criminale, può essere utile una definizione di vittima di questo tipo:
quel soggetto che in maniera diretta o indiretta (ad es. attraverso minacce) ha subìto un
danno fisico, psicologico o economico durante la commissione di un crimine.
Le funzioni della vittimologia sono principalmente due: una funzione preventi-
va, con lo scopo di tentare di ridurre il numero di vittime e le circostanze contestua-
li nelle quali è più probabile essere vittimizzati (attraverso la ricerca e lo studio sulle
specifiche proprietà bio-psico-sociali della vittima e del suo rapporto con l’aggresso-
re), ed una funzione riparativa per ridurre gli effetti dei danni fisici e psicologici ar-
recati grazie allo studio degli effetti sulla vittima riscontrabili sia a breve che lungo
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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La criminologia clinica
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La criminologia clinica
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CAPITOLO 14
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Criminologia ed elementi di criminalistica
le sofferenze fisiche che quelle psicologiche, compresa la minaccia di tali azioni, la coer-
cizione o la privazione arbitraria della libertà nella vita privata e/o pubblica.
È violenza, ogni abuso di potere e controllo che si manifesti attraverso il sopruso
fisico, sessuale, psicologico ed economico. Questi diversi tipi di violenza possono pre-
sentarsi isolatamente o, come spesso accade, combinarsi insieme, in modo che una for-
ma di controllo apra le porte all’altra. Ciò accade, soprattutto, quando la vittima e chi
usa la violenza sono legati da un rapporto affettivo (il partner, il padre, l’amico di fami-
glia ecc.). Anche nelle aggressioni subite da estranei, tuttavia, la violenza fisica si può
accompagnare a minacce, umiliazioni e limitazione della libertà di movimento.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha suggerito di distinguere tre diverse for-
me di violenza perpetrata a danno delle donne:
300
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione
donna su cinque, subisce, nel corso della sua vita, uno stupro o un tentativo di stupro;
quasi tutte le donne hanno subìto una o più molestie di tipo sessuale quali: telefona-
te oscene, esibizionismi, molestie sul lavoro e così via; infine, una su quattro fa l’espe-
rienza di essere maltrattata da un partner o ex partner. A riguardo, la ricerca condotta a
Napoli dall’ISERS (Istituto di Ricerche Sociali) nell’ambito del Progetto URBAN, ha
evidenziato che il 66,2% dei maltrattamenti denunciati riguarda un partner maschile
come autore, e che nel 78,8% il luogo ove si manifesta la violenza è la casa.
Le statistiche comunitarie ci dicono, in base ad indagini sui dati inerenti i reati ne-
gli Stati membri, che in Europa, la violenza rappresenta la prima causa di morte delle
donne nella fascia di età tra i 16 e i 50 anni e nel nostro paese si ritiene che ogni tre mor-
ti violente, una riguardi donne uccise da un marito, un convivente o un fidanzato.
L’aspetto più inquietante della violenza contro le donne è il suo essere trasversa-
le. A differenza di quanto solitamente pensato, né l’etnia, né l’età, né lo status sociale,
né le condizioni economiche e culturali sono indicatori affidabili al fine di individuare
luoghi di possibile violenza. Un dato sconcertante, soprattutto per chi ha giustificato, o
meglio, ha dato una spiegazione della violenza sulla donna, individuando nella povertà
e/o mancanza di cultura le basi della sua esistenza, è dato dai risultati che ci vengono
forniti dai diversi Enti internazionali e non (ad esempio, Amnesty International) che si
occupano di analizzare il fenomeno.
Se per decenni, infatti, l’occidente ha sempre circoscritto la vessazione femminile
nei confini geografici e sociali dei paesi in via di sviluppo e nella povertà, ora deve fa-
re i conti con la realtà, che lo vede comparire sul banco degli imputati con l’accusa di
non esserne esente. Anche la faccia bella del mondo, fatta di ricchezza e istruzione, di
beni di consumo (spesso inutili) e paladina di politiche democratiche, ha qualcosa della
quale vergognarsi: non più l’indigenza economica o l’assenza di istruzione possono es-
sere considerate terreno fertile per la generazione dell’abuso e del maltrattamento fem-
minile. Accanto al mostro, privo di cultura e istruzione, vi è un altro soggetto, istruito
e benestante, spesso professionista o dirigente.
È altrettanto falso che tale fenomeno riguardi solo alcune fasce sociali, quelle svan-
taggiate ed emarginate in realtà, questo è un fenomeno trasversale, che può riguardare
chiunque: donne di ogni età, razza e classe sociale; così come di ogni età, razza e classe
sociale sono i soggetti che attuano la violenza.
Gli studi segnalano che la maggior parte degli episodi di violenza è posta in essere
da uomini privi di particolari problemi legati all’alcool, alle droghe e ai disturbi psichici,
e mostrano come la violenza non è da attribuire a uomini che nella loro storia familiare
sono stati vittime e/o testimoni di violenza. Da una parte alcool, droghe e disturbi psi-
chici non sono cause, ma elementi che possono far precipitare la situazione; dall’altra,
gli studi dimostrano che non tutti i bambini, vittime o testimoni della violenza, diventino
uomini violenti.
Gli operatori che lavorano sul campo, da sempre, hanno sottolineato come, an-
cora oggi, sia impossibile stabilire, con certezza, le proporzioni del fenomeno. Non si
può facilmente dare un quadro esaustivo dello stesso, infatti, i dati che emergono dai
diversi studi svolti in materia, risultano piuttosto approssimativi, per via di quel mec-
canismo psicologico di autodifesa dimostrato dalle donne che le porta a non denuncia-
re la propria condizione.
301
Criminologia ed elementi di criminalistica
Tale situazione si può constatare con maggior frequenza nel caso della violenza do-
mestica. Qui le cifre riflettono solo in modo molto limitato e approssimativo l’entità
effettiva del fenomeno. Le indicazioni che la vittima fornisce a una ricercatrice o ad un
agente di polizia, rispetto alle esperienze fatte in materia di violenza domestica, sono
influenzate dai più svariati fattori: una donna può voler serbare il silenzio perché teme
ulteriori repressioni; forse desidera dimenticare al più presto tutta la storia più che ot-
tenere giustizia, e quindi ritiene opportuno non parlarne in modo da poter dimentica-
re tutta la vicenda molto più velocemente; spesso la stessa vittima si sente il vero e uni-
co colpevole di tutta la faccenda, e ciò mostra la complessità della situazione che ella si
trova ad affrontare.
Simili situazioni contribuiscono a far sì che, accanto alla cosiddetta zona chiara,
ossia ai fatti noti, vi sia sempre anche una zona oscura. E sull’entità di queste cifre oscu-
re non è possibile dire molto.
Innanzitutto, la violenza sulle donne non è un fenomeno limitato: i dati forniti
dalle maggiori organizzazioni che si occupano della questione, mostrano l’esatto con-
trario. Alcune forme si trovano in molte culture: si pensi, per fare qualche esempio, allo
stupro o alla violenza domestica; altre, invece, sono specifiche di alcuni contesti socio-
culturali, ad esempio, le mutilazioni sessuali o gli omicidi a causa della dote.
La violenza agita contro le donne può essere occasionale, un evento isolato, oppu-
re una situazione continua che si protrae nel tempo. In quest’ultimo caso non si espli-
ca in forma singola, ma suole essere la combinazione tra diverse forme. Un esempio è
rappresentato dalla violenza domestica dove intervengono generalmente violenza fisi-
ca, psicologica, sessuale ed economica. Violenze diverse possono essere fra loro connesse:
la violenza contro i figli, ad esempio, è spesso accompagnata da violenza domestica contro
la madre.
Non è neanche possibile a livello empirico misurare un cambiamento dell’entità
delle violenze nel corso degli anni, a causa delle difficoltà che hanno impedito l’emer-
gere del fenomeno. Il catalogo delle forme di violenza si è sempre più ampliato: oggi,
vengono denunciati e scoperti nuovi fenomeni violenti che fino a non molti anni ad-
dietro erano considerati come dei comportamenti normali. Si tratta di situazioni che,
in passato o in altre aree culturali, non venivano o non vengono affatto considerate co-
me violenze, per esempio, lo schiaffo da parte del marito o, prima del matrimonio, dal
padre, come misura educativa; oppure lo stupro nell’ambito della relazione coniugale.
Ugualmente, la violenza nella sfera familiare era considerata una questione privata e
non giustificava nessun intervento, sia esso pubblico che privato.
Senza dubbio, oggi, è aumentata la percezione del fenomeno violenza, soprattutto
quella che avviene in ambito familiare. Se rispetto a qualche anno addietro oggi si sen-
te maggiormente parlare del fenomeno, ciò è da ricondurre, non ad un aumento della
violenza in seno alla società ma, probabilmente, alla crescente visibilità del fenomeno,
grazie all’attività delle varie associazioni che si occupano della questione ed ai mezzi di
informazione.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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Criminologia ed elementi di criminalistica
mente donne, sia adulte che bambine, le quali vengono destinate prevalentemente alla
prostituzione e alla pornografia.
Solitamente, si tratta di donne provenienti da Paesi poveri e in via di sviluppo che,
attraverso la forza o l’inganno (magari con la falsa promessa di un lavoro), vengono sot-
tratte dai loro luoghi d’origine per poi essere ridotte in schiavitù nei paesi occidentali.
Spesso, tale sottrazione, avviene ad opera dello organizzazioni criminali locali.
L’Italia è attivamente impegnata nella lotta contro il traffico di donne e bambini
a scopi di sfruttamento sessuale. A tal riguardo, l’articolo 18 del Decreto Legislativo n.
286 del 2003, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazio-
ne e norme sulla condizione dello straniero, prevede la concessione di un permesso di re-
sidenza speciale alle vittime di questo commercio, e prevede la loro partecipazione ad un
programma sociale di assistenza per l’integrazione. La durata del permesso di residenza
è di sei mesi e può essere rinnovato per un anno o più.
Nel caso di tale forma di violenza sessuale esiste una forte correlazione tra discrimi-
nazione sessuale e discriminazione razziale, spesso poco discussa. In altre parole, il traf-
fico di donne è stato accompagnato spesso da atteggiamenti razzisti, frequentemente
indirizzati contro le donne appartenenti ad alcuni gruppi razziali ed etnici (per esem-
pio, donne immigrate e indigene). Ciò significa che l’ideologia razzista alimenta la ten-
denza alla mercificazione della sessualità femminile.
Quello della mutilazione genitale femminile è un tema complesso e doloroso, che
comprende molti aspetti: le relazioni di genere, la sessualità, l’assistenza sanitaria, l’istru-
zione, i diritti umani, i diritti delle donne e dei bambini, il diritto allo sviluppo.
Per mutilazioni genitali femminili (m.g.f.) si intendono una serie di pratiche, che
mirano ad alterare la conformazione degli organi genitali esterni, non per finalità tera-
peutiche, ma per controllare il piacere e il corpo delle donne. Ogni definitiva e irrever-
sibile rimozione di un organo sano è una mutilazione. In situazioni di normalità, in-
fatti, non vi è assolutamente alcuna ragione medica, morale, o estetica, per sopprimere
alcune o tutte le parti che compongono gli organi genitali femminili esterni. Viene ef-
fettuata, quasi sempre, in condizioni sanitarie abominevoli, senza anestesia e, soprat-
tutto, su bambine, anche in tenerissima età. Gli effetti sulla salute sono devastanti, e
colpiscono le donne in ogni momento della loro vita sessuale e riproduttiva. La muti-
lazione genitale femminile viene distinta in tre differenti forme: la circoncisione, la cli-
toridectomia e l’infibulazione.
Gli strumenti impiegati per compiere la m.g.f. comprendono: coltelli, lame di ra-
soi, forbici e pezzi di vetro. Raramente vengono sterilizzati prima dell’operazione, e ciò
comporta l’insorgere di cistiti, ritenzione urinaria, infezioni vaginali, oltre all’alta pro-
babilità di contrarre l’AIDS. L’anestesia non è quasi mai impiegata.
L’età della circoncisione varia tra i diversi gruppi etnici. In genere, nelle bambine,
tra i tre e gli otto anni, ma può essere eseguita tra la prima settimana di vita e i venti
anni di età. Ad esempio, in Etiopia, viene eseguita nell’ottavo giorno dalla nascita; in
Egitto, dai tre agli otto anni, nella Tribù Masai, poco dopo il matrimonio. In alcuni ca-
si, la pratica segue dei veri e propri riti con canzoni, danze, abiti speciali e cibo.
Vi sono anche determinati periodi nei quali viene eseguita la mutilazione: nelle
aree urbane, l’operazione avviene durante le vacanze scolastiche, in genere giugno o lu-
glio per permettere alle ragazze di riprendersi dall’operazione; nelle aree rurali, il perio-
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La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione
do abituale è la fine della primavera o l’autunno, perché coincide con il termine della
stagione piovosa, e le ragazze sono ben nutrite e in grado di tollerare l’operazione.
La mutilazione genitale femminile è praticata, principalmente, in Africa e in Asia,
ma è stata riscontrata anche in alcune regioni dell’America Latina (Perù, Brasile, Mes-
sico), tra le tribù aborigene dell’Australia e in Russia. Anche in occidente si assiste a tale
fenomeno, infatti, gli immigrati africani hanno portato queste usanze negli Stati Uniti
e in Europa, in particolare in Gran Bretagna.
Anche se nessuna religione prevede espressamente tali pratiche, è proprio nelle
religioni che esse trovano maggior vigore. La religione che maggiormente abbraccia
tale pratica è l’islamismo, anche se è bene sottolineare che nessuna parte del Cora-
no le menziona e che in nessuna parte può individuarsi una giustificazione. Infatti,
non tutti i musulmani seguono il costume come, ad esempio, in Arabia Saudita, Iraq,
Iran, Algeria, Marocco, Tunisia e Libia. Tale appiglio deriva dal fatto che l’islamismo,
come la maggior parte delle altre religioni, considera la sessualità femminile come un
istinto primario che deve essere controllato. La visione comune sostenuta dalle reli-
gioni è che la sessualità femminile deve essere controllata e che il sesso, avendo solo
finalità riproduttive, deve essere praticato esclusivamente tra i due coniugi. La purezza
sessuale di una donna rappresenta l’onore della famiglia, quindi, la rimozione degli or-
gani genitali femminili esterni è un provvedimento atto a ridurre il desiderio sessuale,
necessario per salvaguardare la verginità e l’onore della donna e per rafforzare la sua
fedeltà. Viene inoltre considerata necessaria per impedire la masturbazione, proibita
dalla legge islamica.
Tale fenomeno non è diffuso solo tra gli islamici, ma anche tra i cristiani e gli
ebrei. Poco hanno a che fare le religioni con tali pratiche: si tratta, infatti, di fuorvianti
interpretazioni dei principi religiosi che hanno aiutato la sua legittimazione e che pre-
suppongono una visione contorta della sessualità femminile.
La m.g.f. viene giustificata, oltre che con la religione, anche con la tradizione e
con false credenze. Ad esempio, in alcune tribù in Costa D’Avorio, si ritiene che la cir-
concisione intensifichi la fertilità, mentre, spesso, il risultato è l’opposto; altre tribù, co-
me i Dogon del Mali, credono che la clitoride sia un organo pericoloso, perché si pensa
che durante il parto, il contatto con la clitoride possa provocare la morte del nascituro;
i Bambara del Mali credono, invece, che la clitoride possa uccidere un uomo se, du-
rante il rapporto, entra in contatto con il suo pene; in Egitto, nel Sudan, in Somalia
ed in Etiopia, considerano necessaria l’asportazione della clitoride per diventare puliti
e puri.
La mutilazione genitale femminile è, ancora oggi, ampiamente praticata. Sulla base
di una quantità limitata di dati disponibili, si è stimato che, a livello mondiale, abbia-
no subìto mutilazioni genitali tra i 100 e i 132 milioni di ragazze. Ogni anno, si calcola
che circa altri 2 milioni di ragazze, di solito bambine di età compresa tra i 4 e i 12 anni,
subiranno una qualche forma di mutilazione dei genitali.
I governi hanno, adesso, l’obbligo di adottare le misure necessarie per abolirla,
quale effetto degli impegni, da loro assunti, sottoscrivendo la Convenzione sui Diritti
dell’Infanzia.
Anche lo Stato italiano si è trovato nella necessità di dover affrontare il fenomeno
a causa delle numerose migrazioni degli ultimi anni. In Italia, vivono migliaia di don-
307
Criminologia ed elementi di criminalistica
ne infibulate e, ogni anno, numerose bambine con genitori provenienti soprattutto dai
paesi dell’Africa sub-sahariana rischiano di essere sottoposte a questo rituale. Sarebbero
oltre 40 mila nel nostro Paese le donne che hanno subìto mutilazioni sessuali e, ogni
anno, almeno 6 mila bambine di età compresa fra i 4 e i 12 anni sono sottoposte a que-
sto tipo di violenza.
Al fine di prevenire, contrastare e reprimere pratiche intollerabili che colpiscono
bambine e adolescenti, e che violano i fondamentali diritti della persona, primo fra tut-
ti quello all’integrità fisica, è stata emanata la legge n. 7 del 9 gennaio 2006, recante:
disposizioni concernenti “la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione geni-
tale femminili, […] in attuazione degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione e di quanto
sancito dalla Dichiarazione e dal Programma di azione adottati a Pechino il 15 settem-
bre 1995 nella quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne […], così
come dichiara l’articolo 1 della suddetta legge”.
Tale norma prevede, all’articolo 6, l’introduzione nel codice penale di due nuovi
articoli: l’art. 583-bis, intitolato: “pratiche di mutilazione degli organi genitali femmini-
li”, che prevede la reclusione da 4 a 12 anni a carico di chi praticherà la mutilazione, e
che tale pena verrà aumentata di un terzo se la mutilazione viene compiuta su una mi-
norenne, nonché in tutti i casi in cui viene eseguita per fini di lucro; e l’art. 583-ter,
pena accessoria.
Il provvedimento prevede, inoltre, la predisposizione di campagne informative ri-
volte agli immigrati provenienti dai paesi in cui sono effettuate tali pratiche, in modo
da diffondere la conoscenza dei diritti fondamentali della persona e il divieto vigente in
Italia delle pratiche di mutilazione genitale femminile.
308
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione
In molti Paesi in via di sviluppo, principalmente l’Asia del Sud, l’Africa del Nord,
il Medio Oriente e la Cina, le bambine ricevono meno cibo dei bambini. In tali Pae-
si, la mancanza di attenzioni e di cure, provocata dalla discriminazione tra bambine e
bambini, rappresenta la principale causa di malattia e di morte delle prime tra i due e
i cinque anni di età.
Non solo nei Paesi in via di sviluppo, ma anche nei paesi industrializzati, i soggetti
della violenza familiare sono soprattutto le donne, coniugate o conviventi, i figli e gli
ascendenti in linea retta.
Per quanto riguarda la relazione marito-moglie, le maggiori violenze possono essere
distinte in: psicologica, fisica, economica e sessuale.
Di solito, la violenza che viene compiuta sulla donna, in ambito familiare, non è
unica ma, contemporaneamente o in tempi successivi, convergono su di lei varie forme
di maltrattamento. Si caratterizza, quindi, per essere un fenomeno abbastanza comples-
so: tutte le molteplici forme (sessuale, fisica, psicologica e economica) si intrecciano
l’una con l’altra, tanto che risulterebbe alquanto difficile, nel caso concreto, individua-
re dettagliatamente le diverse forme.
Il danno arrecato alla donna sarà tanto più irreversibile quanto più la violenza si
protrae nel tempo e quanto più la vittima è isolata da una rete relazionale.
È violenza fisica ogni forma di intimidazione o azione in cui venga esercitata una
aggressione fisica su un’altra persona. Ma non riguarda esclusivamente quest’ultimo ti-
po di aggressione, che causa ferite richiedenti cure mediche di emergenza, ma anche
ogni contatto fisico mirante a spaventare e a rendere la vittima soggetta al controllo
dell’aggressore.
Tali comportamenti possono essere evidenti, come spintonare, costringere nei mo-
vimenti, privare del sonno, bruciare con le sigarette, privare di cure mediche, rompere
oggetti come forma di intimidazione, sputare contro, dare pizzicotti, tirare calci o pu-
gni, strappare i capelli, l’essere chiusi in una stanza o fuori di casa, l’essere tenuti for-
zatamente svegli o minacciati con un arma; altre sono più sottili e si rivolgono a qual-
cosa a cui la donna tiene (animali, oggetti, vestiti, e così via), o ai mobili della casa, o a
qualcosa che le è necessario (i documenti, il permesso di soggiorno). Si tratta di vere e
proprie dimostrazioni di forza o di crudeltà.
Tra i maltrattamenti fisici rientrano, pure, le pratiche tradizionali che recano danno
alle donne: mutilazione dei genitali femminili e l’ereditabilità della moglie (la pratica di
trasmettere in eredità la vedova e tutte le sue proprietà al fratello del marito deceduto).
In definitiva, per violenza fisica si intende ogni forma di aggressione contro la don-
na che abbia per oggetto il suo corpo e le sue proprietà. Nessuna di tali forme può e deve
essere sottovalutata, e deve essere valutata all’interno del contesto dove si compie.
L’aggressore agisce senza un motivo ben determinato, ciò mette la vittima in una
situazione di soggezione continua, poiché, non sa mai in quale momento verrà aggre-
dita e, qualsiasi motivo, può essere un pretesto scatenante.
È soprattutto la strategia della paura, più che i maltrattamenti fisici, che tengono
la donna in uno stato di timore costante. La componente psicologica più pesante, in-
fatti, consiste nell’imprevedibilità dell’aggressione. Pertanto, la vittima potenziale con-
suma ogni energia per evitare accuratamente ogni comportamento che potrebbe pro-
vocare una reazione aggressiva verbale o fisica del partner. La mancanza di controllo
309
Criminologia ed elementi di criminalistica
sulla propria incolumità fisica determina uno stato di incertezza e difficoltà permanen-
te che porta la donna a cercare di compiacere il partner per evitare che si verifichino
episodi violenti.
In ambito penale, la violenza fisica comprende tutti i tipi di lesioni personali (ex
art. 582 c.p.), le percosse (ex art. 581 c.p.), i maltrattamenti in famiglia (ex art. 572
c.p.), fino al tentato omicidio o all’omicidio (ex art. 575 c.p.).
Quando si parla di violenza psicologica, si fa riferimento a ogni comportamento
volto a intimidire e perseguitare la donna o a isolarla. Si pensi alle minacce di abban-
dono o di maltrattamenti, alla minaccia di allontanamento dai figli, alle aggressioni
verbali, alle continue umiliazioni, alla distruzione degli oggetti che hanno un valore
affettivo per lei, alle persecuzioni telefoniche e al controllo della posta. Per cercare di
isolarla, le si impedisce di lavorare, di andare in chiesa, di incontrare gli amici e gli altri
membri della famiglia, la si obbliga a rimanere in casa senza telefono e senza la dispo-
nibilità di un’auto.
La violenza psicologica accompagna sempre la violenza fisica e la prepara, anche
quando non degenera, verso questo tipo di maltrattamento.
Il messaggio che passa attraverso il maltrattamento psicologico è che, colui il quale
ne è oggetto è persona priva di valore. Ciò induce chi lo subisc, ad accettare, in seguito,
altri comportamenti violenti. Si tratta di atteggiamenti che si insinuano gradualmen-
te nella relazione e che finiscono, inconsciamente, per essere assecondati dalla donna,
senza che ella riesca a percepire quanto le siano dannosi. Allo stesso tempo, il maltratta-
mento psicologico procura una grande sofferenza, e, parte del dolore provato, dipende dal
non riuscire a dare un nome a questo stato di grave disagio: la donna continua a sentirsi
confusa e sofferente, ma senza capirne il perché. Le donne possono non rendersi conto
che quello che stanno subendo è un vero e proprio maltrattamento.
La violenza psicologica si configura come un insieme di strategie lesive della liber-
tà e dell’identità personale dell’altro, con conseguente insicurezza, paura e svalutazio-
ne di sé.
In questo tipo di maltrattamento, è sempre presente un’eccessiva responsabilizza-
zione della donna, che si attiva per far fronte a tutti i compiti e le richieste che le vengo-
no fatte dall’abusante, nella continua speranza di non adirarlo e dimostrare la propria
adeguatezza come partner e come madre. Anche se meno percepibile rispetto alle altre,
la continuata violenza psicologica, la tortura emotiva e la vita passata nel terrore, sono
spesso più insostenibili della brutalità fisica; e lo stress mentale provoca un’alta inciden-
za di suicidi e tentativi di suicidio.
In ambito penale, si possono ricondurre a tale forma di violenza, i reati di: lesione
(ex art. 582 c.p.), quando cagionano una malattia del corpo e della mente; ingiuria (ex
art. 594 c.p.); violenza privata (ex art. 610 c.p.); minacce (ex art. 612 c.p.); maltratta-
menti in famiglia (ex art. 572 c.p.); e il reato di sequestro di persona (ex art. 605 c.p.).
È violenza economica nell’ambito familiare, ogni condotta diretta a controllare e
limitare l’indipendenza economica della moglie. Con tale comportamento si vuole im-
pedire che la moglie diventi, o possa diventare, economicamente indipendente in mo-
do da poter esercitare su di essa un controllo indiretto, ma estremamente efficace. La
donna viene privata del diritto di decidere e agire autonomamente e liberamente rispet-
to ai propri desideri e scelte di vita.
310
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione
311
Criminologia ed elementi di criminalistica
14.4 L’uxoricidio
Dal latino uxor-oris, che significa moglie, con il termine uxoricidio, ci si riferisce, in
senso restrittivo, all’assassinio della moglie da parte del marito ma, in generale, con esso si
fa riferimento all’uccisione di uno dei due coniugi per mano dell’altro consorte.
Uno dei primi e interessanti studi scientifici sul tema dell’uxoricidio in Italia è sta-
to condotto nei primi anni ‘80, prendendo in considerazione, secondo un approccio
multidisciplinare (medico, psichiatra, psicologo, assistente sociale, educatore), 27 de-
litti che sono transitati nel Centro di Osservazione di Roma-Rebibbia nel periodo di
tempo compreso tra il 1955 ed il 1975.
Dall’analisi di questi casi, emersero alcuni dati degni di attenzione relativamente
all’autore del delitto, alla famiglia d’origine di quest’ultimo e alla vita all’interno del-
l’istituzione matrimoniale.
Dall’Indagine Istituzionale condotta dal centro Eures per l’anno 2000, è emerso
come il più alto numero di fatti di sangue, consumatisi tra le mura domestiche, si regi-
stri tra i coniugi con una percentuale del 27,7 %. Elevato è anche il numero degli omi-
cidi a carattere passionale che avvengono tra gli ex-coniugi o ex-partner con una per-
centuale dell’8,9 %, guadagnando così un quarto posto dopo l’uccisione dei genitori
da parte dei figli (15,0 %) e dei figli per mano dei genitori (12,7 %). I delitti a sfondo
passionale si consumano soprattutto nelle regioni del Centro e del Sud, con le rispettive
percentuali del 44,4 % e del 32,2 %. Per quanto concerne il sesso, a farne maggiormen-
te le spese sono le donne che, si è già visto, essere le vittime privilegiate di omicidi in
ambiente domestico con una percentuale del 58,7 % contro un 41,3 % degli uomini.
Oltre ai delitti a sfondo passionale, compiuti di impulso o forse covati sordamen-
te, il maggior numero di omicidi all’interno della coppia, di solito, è il risultato di una
separazione: in particolare, nel caso in cui non ci sono figli, tale separazione può essere
motivata dall’interesse economico e trattasi di omicidi molto rari; sono, invece, più dif-
fusi quei delitti che avvengono in coppie con figli in seguito ad una separazione.
Come emerge, infatti, da un’analisi statistica relativamente agli anni 2002 e 2003,
gli autori di omicidio sono per lo più uomini, con una percentuale dell’87,5 % e solo il
12,5 % sono donne. Inoltre, queste ultime costituiscono il 52,5 % delle vittime contro
un 37,5 % degli uomini.
La maggioranza di donne quali vittime di omicidio, la si può anche spiegare risalen-
do al diffuso clima di violenze e di maltrattamenti di cui, ancora oggi, continua ad essere
bersaglio la donna. Si parte, per esempio, dal maltrattamento psicologico e/o fisico e ses-
suale e si innesca come un circolo vizioso dal quale diventa difficile per lei uscire.
Un altro fattore che contribuisce all’aumento dei delitti familiari, con la donna
quasi sempre nel ruolo di vittima, è relativo al rapporto di struttura della società: il fat-
to che, oggi, marito e moglie lavorino, ha provocato non pochi problemi in seno alla
famiglia, la quale non ha trovato un sostegno adeguato nella nostra società e nelle isti-
tuzioni, e la coppia è stata costretta a decidere di troncare il rapporto. Le separazioni,
inoltre, implicano il dovere affrontare processi molto lunghi e faticosi che scatenano
aspri e duri contrasti e che, a volte, possono portare al delitto.
Come emerge dalle statistiche italiane, in una relazione conflittuale di coppia, so-
no soprattutto le donne a rimanere vittime di omicidio per mano del partner. In Italia,
312
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione
o comunque nei paesi occidentali, questi omicidi possono essere il risultato di continui
e ripetuti maltrattamenti o di separazioni non accettate o di gelosie o di interessi eco-
nomici. In altre parti del mondo, invece, una donna finisce per essere vittima di omi-
cidio da parte del partner, per altri motivi, difficili da comprendere per noi occidentali,
in possesso di una cultura totalmente opposta alla loro.
Prevalentemente nei paesi dove la maggioranza della popolazione è musulmana
(Bangladesh, Egitto, Giordania, Libano, Pakistan, Turchia), ma non solo limitatamen-
te ad essi, viene praticato il delitto d’onore, che consiste nell’uccisione della donna da
parte del partner maschio o da parte di un altro membro maschio della famiglia (pa-
dre, zio, fratello, ecc.), poiché sospettate di un comportamento considerato vergo-
gnoso o disonorevole. In più, nei processi penali, gli assassini vengono giustificati o
condannati a pene ridotte e viene rimproverato alla donna di tenere un comporta-
mento osceno. In quest’ultimo, non solo si annovera l’effettiva colpa di adulterio del-
la donna ma, anche il solo sospetto che una donna abbia una relazione sentimentale
non consentita dalla sua famiglia e dalla società: scambiare un sorriso o una parola
con un giovane che passa sotto casa, per una ragazza, può essere letale; avere prima
del matrimonio rapporti sessuali con l’uomo che si dovrà sposare è dannosissimo per
la donna, che rischia di essere uccisa se solo uno dei membri maschi della famiglia
lo viene a scoprire o ne abbia il sospetto. L’onore della famiglia è sacro, inviolabile e
deve essere protetto e difeso anche dal sospetto di infedeltà. Tale modus vivendi che
discrimina il sesso femminile viene giustificato nel nome di Allah e presentato come
legge islamica; in realtà si tratta di pure mistificazioni, infatti, il delitto d’onore è una
pratica pre-islamica, senza un reale presupposto religioso e si devono ricercare le sue
origini nel karo kari, una pratica tribale che prevede la morte per qualunque perso-
na sia sospettata di avere una relazione illecita. In Giordania, il paese dove tali delit-
ti sono più frequenti, gli assassini rischiano solo da tre a dodici mesi e non sempre
vengono arrestati, o perché riescono a fuggire, o perché giustificati come suicidi o
incidenti.
Nel caso in cui vengono presi dei provvedimenti, si tratta solo di sanzioni spro-
porzionatamente miti, specialmente se il responsabile ha meno di 18 anni. Le vittime
sopravvissute a tentativi di omicidio sono costrette a vivere sotto custodia protettiva in
prigione o in case di sorveglianza o di correzione a volte per anni, sapendo che rinun-
ciarvi significherebbe la morte per mano della famiglia. Mentre, chi minaccia la vita
di queste donne, gode della più completa libertà. L’indulgenza che viene praticata nei
confronti di questi carnefici è inammissibile: ciò succede perché il delitto d’onore non è
considerato un reato ma un giusto castigo per queste donne. Sono donne infelici e so-
le, soprattutto dentro le proprie famiglie, usate, sfruttate fino ad essere accusate di un
peccato di infedeltà che non hanno commesso e punite per un diritto che non viene
loro riconosciuto: il diritto a vivere.
Senza dovere andare troppo lontano nel tempo e nello spazio, anche nella nostra
cultura era d’uso il delitto d’onore. Il sistema di valori che vigeva fino a poco tempo fa
(anni ‘50 e ‘60) nelle famiglie italiane, soprattutto del centro-sud, obbligava i mariti, i
padri e i fratelli a sorvegliare rispettivamente le mogli, le figlie e le sorelle per smasche-
rare e ostacolare qualsiasi relazione illegittima e nemmeno il sistema legislativo puniva
tali atroci delitti.
313
Criminologia ed elementi di criminalistica
La legge a favore del cosiddetto delitto d’onore venne promulgata durante il fasci-
smo: il Codice Rocco, all’art. 587, prevedeva la riduzione di un terzo della pena nei
confronti di chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore suo
e/o della famiglia.
È solo dopo gli anni ‘70, successivamente alle battaglie a favore del divorzio e del-
l’aborto, e dopo la riforma del diritto di famiglia nel 1975, che si comincia a fare stra-
da una maggiore coscienza di cambiamento fino ad ottenere, il 5 Agosto 1981, con la
legge n. 442, l’abrogazione del matrimonio riparatore e del delitto d’onore.
Ancora oggi, come si legge dalle cronache, gli omicidi tra coniugi continuano ad
essere praticati ma l’espressione delitto d’onore ha lasciato il posto a ben altre locuzioni
(follia, delitti passionali, delitti per gelosia) che vogliono mostrare la progressiva tra-
sformazione verificatasi nel corso degli anni verso un modello di vita, di famiglia e di
coppia più democratico, basato sulla fiducia reciproca e sulla pari dignità tra uomo e
donna
314
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Uno degli strumenti che permettono di rileggere il lavoro fatto, è la raccolta dei
dati attraverso la scheda del colloquio, la cui funzione pratica è quella di razionalizzare il
lavoro del centro e rendere più semplice la ricerca e la conservazione delle informazioni.
Serve, anche, da contenimento e guida nel colloquio, rende confrontabili alcuni casi e
situazioni, dà valore e visibilità al colloquio d’accoglienza che viene, in questo modo,
almeno per alcuni aspetti, reso anche misurabile. La scheda attraverso cui si articola il
colloquio è, sicuramente, uno strumento attivo nello studio del fenomeno e inoltre è
anche attraverso questa raccolta di dati che si conserva la memoria e il senso del lavoro
che il centro fa, e come questo si evolva nel tempo.
Il colloquio d’accoglienza, oltre a servire alle donne che si rivolgono al centro per un
cambiamento di vita e per uscire dalla violenza, è anche uno strumento di studio. Esso
permette di entrare nel cuore del problema e di verificare alcune ipotesi di ricerca. Al
fine di un’analisi scientificamente corretta del fenomeno della violenza familiare che
rimane ancora oggi un problema tanto grave quanto sommerso, occorrono dati di rife-
rimento il più possibile omogenei e leggibili. La violenza di genere rimane ancora na-
scosta all’interno della struttura familiare, dove la sua presenza è negata dalle stesse vit-
time: spesso, neanche le donne che la vivono, si rendono pienamente conto di ciò che
realmente succede né attraverso quali canali se ne perpetua l’esistenza. Svolgere un’in-
dagine in questo complesso territorio è molto difficile e necessita che si faccia emergere
con più chiarezza il problema in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più oscuri, utiliz-
zando efficaci strumenti d’indagine in un’accurata analisi quantitativa.
Merita, inoltre, una riflessione, la questione della metodologia di lavoro con don-
ne che hanno subìto violenza e che sono ospiti delle case-rifugio. Laddove sono più
stretti i rapporti tra il centro e le case, specie al momento dell’ingresso, vi è una mag-
giore attenzione al percorso che la donna deve intraprendere; infatti, attraverso una
valutazione congiunta, tra il responsabile del centro e quello delle case, deriverà una
decisione finale, quale pre-condizione essenziale all’inserimento in struttura. In merito
agli aspetti legati alla quotidianità, in alcuni casi si preferisce che sia l’operatrice della
casa ad occuparsene, mentre l’operatrice del centro continua a seguire la donna in acco-
glienza nel suo percorso di uscita dalla violenza, mantenendo, per i colloqui, un assetto
ubicato fuori dalla casa, ossia presso il centro. Dunque, se da un lato in alcuni centri
si mantiene tale assetto, in altri, l’intreccio tra centro e casa è solo iniziale, rimanendo
l’operatrice di quest’ultima l’unico riferimento della donna ospite. Vi è, infatti, una dif-
formità tra l’intervento del centro di accoglienza e quello delle case. Vi è un rapporto di
scambio, di segnalazione, ma non viene concordato un progetto comune.
La valutazione dell’ingresso è fatta dall’operatrice della casa, così come tutto il
percorso successivo, molto centrato sul rinvenimento di strumenti concreti per la co-
struzione di autonomia delle donne, e condotto dalla stessa operatrice, in assoluta in-
dipendenza dal centro, potendosi, però, avvalere, se presenti, di alcuni consulenti dei
centri, quali avvocati e psicologi.
Le donne che vivono presso le case-rifugio sono obbligate a rispettare una serie di
regole. La trasgressione più grave al regolamento rimane, per tutte le case, quella del-
la segretezza. Rivelare la segretezza del luogo di rifugio può pregiudicare l’intero percorso
formativo non solo della donna che ha trasgredito ma di tutto il gruppo delle donne convi-
venti. Per tale motivo, i responsabili considerano importante valutare, al momento del-
318
La violenza sulle donne ed i processi di vittimizzazzione
l’ingresso, la percezione, da parte della donna, della pericolosità rispetto alla propria si-
tuazione, nonché della sua capacità di auto-tutela fortemente lesa dal maltrattamento.
L’indirizzo della struttura è segreto, e il riferimento pubblico è quello del centro di
accoglienza. La casa offre ospitalità temporanea a donne sole o con bambini per un pe-
riodo massimo di sei mesi; il possibile prolungamento di permanenze per altri sei mesi
a supporto del progetto concordato con la donna è valutato e deciso del responsabile
della casa, sentito il servizio sociale territoriale di riferimento del Comune.
L’attivazione dell’ospitalità si determina, allorquando, sia necessario l’allontana-
mento della donna e dei minori dalla casa coniugale a causa di una situazione di pe-
ricolo e a supporto di un percorso progettuale di risoluzione del rapporto violento.
Obiettivo dell’ospitalità è di concorrere congruentemente alla realizzazione del proget-
to di vita elaborato e concordato con la donna. Si tratta di fornire un luogo protetto a
garanzia dell’incolumità della donna a rischio, ma soprattutto di assicurare uno spazio
tempo di sospensione dell’agito conflittuale violento, che possa favorire nella donna
l’elaborazione e l’esplorazione per giungere a una ridefinizione di sé, al di fuori di un
rapporto violento.
Se non si fanno le opportune valutazioni, l’ingresso nella casa può essere, però, ri-
schioso perché può ostacolare il percorso della donna mortificandone le sue risorse au-
tonome.
È prevista la possibilità di effettuare ingressi urgenti. Si tratta di quei casi in cui il
rischio per l’incolumità della donna e dei minori è talmente alto da non essere compa-
tibile con il protrarsi della permanenza presso la casa coniugale. In queste situazioni,
l’ospitalità è immediata e vengono riservati i quindici giorni successivi all’ingresso per
effettuare il lavoro di analisi della condizione soggettivo-emotiva della donna. Questi
sono gli ingressi più problematici a causa della scarsa possibilità elaborativa dell’accadi-
mento traumatico e dello stato di choc.
Una spinosa questione riguarda le donne che presentano gravi manifestazioni psi-
copatologiche o tossicomaniche: la scelta metodologica è stata quella di non accogliere
queste donne, al di là dell’ipotesi eziologica abbracciata, che spesso rintraccia nella sto-
ria di maltrattamento l’origine dei disturbi. Inoltre, l’esclusione di donne che presenti-
no gravi manifestazioni di marca psicotica è da ricondurre anche alla specificità dell’in-
tervento che queste situazioni richiedono.
319
PARTE seconda
ELEMENTI DI CRIMINALISTICA
CAPITOLO 15
La criminalistica
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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La criminalistica
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Criminologia ed elementi di criminalistica
Gasti, dovendo organizzare il casellario d’identità, prese in esame i lavori già esegui-
ti in tal campo, sia dagli argentini che avevano realizzata la prima classifica al mondo,
che dagli inglesi, che avevano eseguiti i primi studi sull’argomento, ma non trascurò di
prendere visione dell’organizzazione che si erano dati gli austriaci. Sarebbe stato mol-
to più semplice adottare uno di questi sistemi, ma egli volle realizzare, personalmente,
l’originale sistema decadattiloscopico che prese il suo nome, e risulta ancora in uso presso
la Polizia Scientifica italiana.
Ellero realizzò vari dispositivi fotografici, sia nel campo del segnalamento, sia in
quello del sopralluogo. Giova ricordare il metodo originale con cui affrontò l’esigenza
di ottenere riprese fotografiche del soggetto di fronte e di profilo in un’unica espres-
sione. Usava due macchine fotografiche poste a 90°, i cui otturatori erano azionati
contemporaneamente da un sistema pneumatico, che venne denominato come siste-
ma delle gemelle Ellero.
Nel campo del sopralluogo, ideò e realizzo un cavalletto telescopico che permetteva
all’apparecchio fotografico di sopraelevarsi di oltre sei metri, infatti, all’epoca non era
passata di moda la foto dall’alto ed i grandangolari non erano molto spinti; tale attrez-
zo venne denominato cavalletto Ellero.
Ellero non si limitò soltanto a realizzare dispositivi fotografici, ma eseguì espe-
rimenti di teleiconotipia, il telefax dell’epoca, realizzando un metodo di trasmissione
dell’immagine che denominò ellerogramma che, pur permettendo di trasmettere im-
326
La criminalistica
magini di buona qualità, era estremamente lento (circa quattro ore per trasmettere una
fotosegnaletica).
Nel 1907, la Scuola di Polizia Scientifica ottenne una nuova e più consona sede.
Lo stesso anno, Ottolenghi, dopo aver rivisto e regolato tecnicamente l’attività di foto-
segnalamento, iniziò ad inviare circolari aventi per oggetto la metodologia corretta per
assumere le impronte digitali; istruzioni che nel 1910 formeranno oggetto di un’elegan-
te, e oggi ricercata, pubblicazione, a cura del Ministero dell’Interno, che venne distri-
buita, in modo capillare, a tutti gli Uffici di Polizia; a cura dello stesso Ufficio, il 24 ot-
tobre dello stesso anno, venne emanata la famosa circolare Fani, in cui venivano dettate
tutta una serie di prescrizioni sul corretto modo di eseguire l’ispezione del luogo del reato.
L’anno successivo, la nascente Polizia Scientifica iniziò a eseguire i sopralluoghi.
La Polizia Scientifica italiana era partita in leggero ritardo rispetto alle consorel-
le straniere, ma guadagnava terreno e prestigio a vista d’occhio: nel 1908, erano già
funzionanti ben 11 Gabinetti di Polizia Scientifica, mentre la Francia, alla stessa data,
ne aveva soltanto tre: a Parigi, Lione e Marsiglia. Con R.D. del 20.8.1909, il corso di
Polizia Scientifica era stato reso obbligatorio per tutti i Funzionari di P.S., ed era sta-
to stabilito che detto corso doveva avere una durata minima di tre mesi. L’instancabile
Ottolenghi riesce ad ottenere altri, attigui locali ma, l’organico è solo di undici perso-
ne. Il direttore coordina e indirizza l’attività del gruppo e cura i rapporti internaziona-
li; nel 1912, nel corso di un convegno internazionale entra in polemica con i colleghi
Edmond Locard e Reis, infatti, quest’ultimi asserivano che la nascente criminalistica
doveva investigare esclusivamente sul reo, mentre Ottolenghi propugnava che dovesse
estendere il proprio ambito, interessandosi anche del reato.
Intanto, l’Ottolenghi aveva messo a punto una metodica analitica, analoga al ritrat-
to parlato di Bertillon, ma applicata al sopralluogo, metodo usato ancor oggi da tutti i
criminalisti che eseguono diuturnamente l’esame della scena del crimine.
La direzione dei laboratori d’identità francesi erano ancora diretti da Bertillon nei
quali rimarrà sino al 13 febbraio 1914, quando morì, dopo aver accumulato onori, pre-
stigio, gloria e fama eterna, ma senza la soddisfazione di vedersi concedere la Legion
d’Onore, a causa della sua irremovibile posizione sul caso Dreyfus.
L’avvento della Grande Guerra porta dei cambiamenti nel gruppo di lavoro costi-
tuito da Ottolenghi; Gasti, viene chiamato a dirigere il nuovo organismo investigativo
per la sicurezza interna denominato U.C.I. e, mettendo a frutto le conoscenze crimina-
listiche, consegue brillanti risultati contro le organizzazioni spionistiche. Al settore so-
pralluoghi, si dedicano i valenti funzionari Sorrentino e Giri che conseguono risultati
notevoli.
In Francia, Locard, rendendosi conto dell’importanza di dare valore aggiunto, ma
soprattutto oggettività, ai rilievi fotografici, nel 1920, realizza un’embrionale, ma ori-
ginale, metodo fotogrammetrico, costituito da reticoli sovrapponibili.
Ottolenghi, pur essendo direttore della Polizia Scientifica, continua ad essere tito-
lare della cattedra di Medicina Legale della Sapienza e continua a intrattenere rapporti
ad altissimo livello col mondo accademico e scientifico, sino a fondare la rivista di me-
dicina legale, Zacchia, in ricordo del medico legale che, nel lontano 1650, eseguiva già
autopsie in Roma. Il Casellario Centrale d’identità era un sicuro punto di riferimento
per tutte le forze di Polizia; il fenomeno della tratta delle bianche, molto sentito all’inizio
327
Criminologia ed elementi di criminalistica
del secolo, venne affrontato, su indicazione della nascente Interpol, con il R.D. luogo-
tenenziale 1207, che disponeva l’istituzione, presso il suddetto casellario, di uno sche-
dario delle prostitute straniere.
La Prima Divisione
328
La criminalistica
L’insieme di questi 4 settori, costituisce l’U.A.C.V. (l’Unità per l’Analisi del Cri-
mine Violento). Scopo dell’Unità, è supportare gli organismi investigativi e l’Autorità
Giudiziaria nel caso, di omicidi senza apparente movente, negli omicidi di carattere se-
riale o di particolare efferatezza e nel caso di violenze a sfondo sessuale riconducibili a
un unico autore, attraverso un’attività di studio, analisi ed elaborazione di tutte le in-
formazioni disponibili, relative al particolare evento criminoso.
L’informatica, e più specificatamente diverse tipologie di software, subentrano a
dare ulteriore manforte a questa Unità: S.C.I.P.S. (Sistema Centrale Informativo di Po-
lizia Scientifica), per mezzo del quale tutti gli Uffici del Servizio possono scambiarsi da-
ti tecnici, immagini ed ogni tipo di informazioni. S.A.S.C. (Sistema per l’Analisi della
Scena del Crimine). La Sezione Indagini Speciali ha progettato e realizzato autonoma-
mente questo sistema per supportare le attività dell’A.I. e dell’A.C. Il S.A.S.C. è un ar-
ticolato sistema informativo in grado di gestire, in forma multimediale, e di collegare o
correlare, anche automaticamente, le informazioni sottoposte all’esame dell’U.A.C.V.
Sezione Terza: Didattica, Biblioteca e Pubbliche Relazioni.
Il settore didattica cura l’organizzazione e lo svolgimento dei corsi di specializzazio-
ne di Polizia Scientifica, per il conseguimento della qualifica di Videofotosegnalatore e
Dattiloscopista, riservati al personale della Polizia di Stato.
Il settore biblioteca si occupa dell’acquisto di volumi specialistici e della gestione
della Biblioteca del Servizio. Le Pubbliche Relazioni si occupano di organizzazione e
svolgimento di visite da parte di richiedenti italiani e stranieri.
La Seconda Divisione
329
Criminologia ed elementi di criminalistica
La Terza Divisione
La Quarta Divisione
330
La criminalistica
- il settore Revisioni dello sparo si occupa della ricerca e della relativa analisi delle
tracce di particelle generate dallo sparo di armi da fuoco su superfici di varia natu-
ra (carta, indumenti, cute, ecc.).
- il settore Esplosivistica cura: l’analisi di eplosivi integri, nonchè affini, come de-
tonatori, micce e dispositivi similari (per classificarli e stabilire la provenienza), lo
studio dei residui di esplosione (sottoposti a processi di estrazione e purificazione
messi a punto per isolare eventuali tracce) e trattamenti chimico-elettrolitici per la
rigenerazione dei numeri di matricola obliterati sulle armi da fuoco.
- il settore Analisi inorganiche provvede, invece, alla identificazione di solidi cristalli-
ni; inoltre, analizza e opera le comparazioni morfologico-compositivo tra campio-
ni solidi di terreni, vernici, vetri ecc.
331
Criminologia ed elementi di criminalistica
Per una suddivisione interna, che dipende dal tipo di analisi svolte, questa Sezione
è articolata in 2 settori denominati chimico e fisico.
Alla luce di tutto quanto fin qui esposto, si evince l’enorme importanza delle fun-
zioni svolte da parte della Polizia Scientifica, non solo a servizio della Magistratura e
della ricerca della verità, ma soprattutto come valido strumento per i singoli cittadini,
offesi e oltraggiati dal crimine.
I Reparti sono articolati in Sezioni responsabili delle singole branche della Cri-
332
La criminalistica
minalistica, quali: balistica, biologia, chimica degli esplosivi e degli infiammabili, dat-
tiloscopia e fotografia giudiziaria, fonica e grafica, telematica.
15.4 UACV
Negli omicidi cosiddetti seriali, in tutti quei casi in cui i delitti sono commes-
si senza un apparente movente o che sono di particolare efferatezza e nelle rapine che
in genere tendono ad essere seriali, interviene l’Unità per l’analisi del crimine violento,
(UACV).
Istituita nel 1995, la struttura, è formata da ispettori, fisici, chimici, biologi, psico-
logi, periti balistici, grafici, disegnatori, informatici e si inserisce all’interno della Dire-
zione Centrale di Polizia Criminale. L’Uacv si articola in varie diramazioni territoriali
che comprendono centri regionali di Polizia Scientifica, 14 gabinetti regionali dislocati
nei capoluoghi italiani (Padova, Milano, Torino, Firenze, Bologna, Roma, Ancona, Na-
poli, Bari, Reggio Calabria, Catania, Palermo, Cagliari) e 89 gabinetti provinciali.
Si tratta di un dipartimento specializzato nel crimine violento che si occupa, in
particolare, dell’esame e dell’analisi della scena del crimine, delle informazioni e del com-
portamento criminale. Quando avviene un delitto − ed è chiamata la polizia ad investi-
gare − l’Uacv è la prima struttura ad intervenire.
La grande difficoltà è quella di individuare gli elementi scientifici certi sulla scena
del delitto e mettere in correlazione la vittima con l’autore. Quell’unica interazione tra
vittima e colpevole ha lasciato gli esclusivi ingredienti che si hanno per indagare. Il so-
pralluogo sulla scena del delitto ha caratteristiche in comune con il lavoro del critico d’ar-
te, infatti, solitamente, ci si trova di fronte a un insieme di elementi che formano un
disegno, una scena; si studiano i particolari, i minimi dettagli, i punti di fuga e i punti
prospettici. Vengono scattate una cinquantina di fotografie; si riprende, altresì, la scena
del delitto con una telecamera; si registrano tutte le informazioni, gli oggetti presenti
sul luogo e la loro disposizione (dai mozziconi di sigaretta ai bicchieri d’acqua), le trac-
ce di sangue, i mobili. Tutte queste informazioni vengono inserite nel sofisticatissimo
sistema di memorizzazione Sasc, messo a punto proprio dalla sede romana di Polizia
Criminale.
Si tratta di una banca dati contenente informazioni su migliaia di omicidi, e con-
tiene, altresì, altre migliaia di immagini di scene di crimine, vittime, reperti e modus
333
Criminologia ed elementi di criminalistica
334
La criminalistica
bo o comunque fuorvianti alle indagini presenti sul luogo del delitto (come l’odore
del cadavere o gli oggetti della vittima), verranno eliminati dal campo d’investiga-
zione.
Tutte le procedure utilizzate dalle squadre antimostro per le indagini di crimine,
devono corrispondere a parametri stabiliti a livello europeo. Nel 1997, infatti, il Re-
gno Unito è stato incaricato di mettere a punto un manuale che standardizzasse tutte le
procedure e le tecniche utilizzate, il Good Manual Practice For Crimes Investigations che
garantisce la qualità delle indagini. A livello europeo, in nessun altro settore, come in
quello della Polizia Scientifica, esiste un’equivalenza di metodologia così efficace.
335
CAPITOLO 16
La medicina forense
16.1 Introduzione
La medicina forense è una scienza conosciuta da anni, ed è l’area meno critica tra
quelle relative allo studio delle prove indiziarie (in termini di ammissibilità), in quan-
to esiste una relazione abbastanza stretta tra la legge e la medicina. La patologia è un
ramo della medicina associato allo studio dei cambiamenti strutturali causati da ma-
lattia o trauma. La patologia forense aggiunge la parola innaturale o sospetto, dinanzi
la frase malattia o trauma. Ci sono, in realtà, due rami della patologia: anatomica, che
tratta delle alterazioni strutturali del corpo umano e clinica, che si occupa degli esami
di laboratorio dei campioni ottenuti dal corpo. La maggior parte dei patologi forensi è
esperta in entrambi questi rami.
Negli Stati Uniti, per diventare un patologo forense, sono necessari almeno due an-
ni di specializzazione dopo la laurea in medicina. In più, è necessario un ulteriore anno
per superare l’esame di ammissione all’American Board of Pathology.
Questi esperti sono abilitati per:
337
Criminologia ed elementi di criminalistica
I medical examiners operano al di fuori degli uffici centrali della capitale dello Sta-
to, o fanno anche parte di un accordo tra contee o regioni. Sono investiti sia di cariche
di Forze dell’Ordine (per poter assumere i propri investigatori in casi di omicidio), sia
di poteri simil-giudiziari (per aprire inchieste e raccogliere testimonianze giurate).
Tutti i casi di asfissia implicano il fatto che una quantità insufficiente di ossigeno
abbia raggiunto il cervello o i più importanti organi del corpo, e ci sono molte situazio-
ni in cui essa può verificarsi. Innanzitutto, ci sono alcune malattie naturali che possono
causare un blocco del sistema respiratorio, per esempio: enfisema, polmonite, influen-
za, asma, problemi laringei, ecc. A livello criminologico, ci sono tre modi: strangola-
mento, annegamento e soffocamento.
b) Strangolamento
c) Annegamento
Risulta dall’inalazione di acqua che causa soffocamento che, a sua volta, causa la
rapida formazione di muco nella gola e nell’albero respiratorio. La diffusione di questo
muco denso e schiumoso è, in realtà, ciò che causa la cessazione della respirazione, e le
vittime (anche in alcuni casi di overdose) saranno caratterizzate dalla presenza di un co-
no di schiuma che copre bocca e narici. In alcuni casi, si verifica un annegamento secco,
perché lo shock causa un rigonfiamento della laringe e nessun fluido arriva nei polmo-
ni o nello stomaco, come succede nei tipici casi di annegamento in cui grandi quan-
tità di liquido (e di fauna marina) sono spesso presenti. Il classico annegamento segue
cinque stadi:
338
La medicina forense
d) Soffocamento
Avviene quando le vie aeree sono chiuse da un oggetto ostruente, come un cusci-
no o una coperta. Se è stato utilizzato un oggetto soffice, il corpo non mostrerà alcun
segno di trauma, ma, spesso, ci sono piccole visibili contusioni o lacerazioni all’interno
delle labbra. Può essere presente o meno cianosi, ma, di solito, si ha quella che è chia-
mata emorragia petecchiale: piccoli punti a capocchia di spillo o macchie rosso scuro
sulla faccia, di solito nell’area circostante gli occhi.
e) Lesioni
f ) Lesioni da proiettile
339
Criminologia ed elementi di criminalistica
Le bruciature da polvere da sparo (se ne riscontra una piccola quantità che ustio-
na la cute più o meno profondamente) vengono esaminate per determinare la distan-
za e l’estensione del punto dello sparo. Il grado di ustione di solito rivela la distanza, e
l’anello di contusione (collare di abrasione) attorno alla lesione da proiettile, di solito,
indica l’angolazione (rotondo vuol dire direzione diritta, ovale è inclinazione angolare).
L’esatta identificazione di ogni residuo di polvere da sparo non spetta al patologo, ma
a un chimico esperto in esplosioni.
g) Lesioni da accoltellamento
340
La medicina forense
i) Lesioni da stupro
In questo caso, è necessario esaminare l’area genitale per cercare segni di lacerazio-
ni, graffi o contusioni. In caso di vittime di sesso femminile, viene sempre controllato
se il soggetto fosse o meno vergine, tramite l’esame dell’imene.
Viene anche determinata la presenza di una patologia venerea e/o di un’eventuale
gravidanza. Vengono anche raccolti peli pubici non appartenenti alla vittima, nonchè
macchie di sangue e di liquido seminale. Nel caso in cui l’assalitore abbia eiaculato, vie-
ne tipizzato il DNA per aiutare a identificare il colpevole.
l) Avvelenamento
m) Lesioni da ustione
n) Incidenti stradali
341
Criminologia ed elementi di criminalistica
16.3 Il DNA
Tutti i tipi di organismi possono essere identificati mediante l’esame delle sequen-
ze del DNA, che sono uniche per ogni specie. L’identificazione degli individui in seno
a una specie, al momento, è meno precisa, ma quando le tecnologie per l’identifica-
zione della sequenza del DNA progrediranno, sarà possibile effettuare una compara-
zione diretta e pratica di segmenti di DNA molto grandi, e anche di interi genomi, e
ciò permetterà un’identificazione precisa a livello individuale. Per identificare gli in-
dividui, gli scienziati forensi esaminano 13 regioni del DNA che variano da persona
a persona e utilizzano i dati per creare un profilo del DNA di quell’individuo (a volte
chiamato “impronta del DNA”). C’è una possibilità estremamente ridotta che un al-
tro individuo abbia lo stesso profilo del DNA per uno specifico gruppo di regioni.
Vediamo alcuni esempi di utilizzo del DNA per l’identificazione forense:
- identificare potenziali sospettati il cui DNA corrisponde alle prove lasciate sulla
scena del crimine;
- scagionare persone erroneamente accusate di crimini;
- identificare vittime di crimini e catastrofi;
- stabilire la paternità o altre relazioni familiari;
- identificare specie protette e in via di estinzione in aiuto alla guardia forestale (per
esempio, nel caso di bracconeria);
- rilevare batteri e altri organismi che possono inquinare aria, acqua, terreno e ali-
menti;
- determinare il pedigree per semi o razze di animali di allevamento;
- autenticare alimenti come caviale e vino.
L’identificazione del DNA può essere molto efficiente, se usata con intelligenza.
Devono essere utilizzate porzioni della sequenza del DNA che variano molto tra indi-
vidui umani; inoltre, le porzioni devono essere abbastanza grandi da superare il fatto
che, negli esseri umani, l’accoppiamento non è assolutamente casuale.
Si consideri, adesso, lo scenario di un’investigazione sulla scena del crimine. Si
immagini che del sangue del gruppo 0 sia rinvenuto sulla scena del crimine. Il gruppo
0 si trova nel 45% circa degli americani. Se gli investigatori determinano solo AB0,
allora, trovare che il sospettato di un crimine sia del gruppo 0 non rivela poi così tan-
to. Se, oltre che a essere del gruppo 0, il sospettato è biondo, e dei capelli biondi ven-
gono trovati sulla scena del crimine, allora ecco che si hanno due prove che possono
indicare chi sia veramente l’autore. Comunque, esistono un elevato numero di perso-
ne bionde di gruppo 0. Se sulla scena si trovano anche delle impronte di un paio di
Nike Air Jordans (che hanno un particolare disegno distintivo della suola) e il sospet-
tato, oltre a essere biondo e di gruppo 0 indossa anche un paio di Air Jordans con lo
stesso disegno distintivo, allora siamo molto più vicini a collegarlo alla scena del cri-
mine. In questo modo, raccogliendo frammenti di prove collegati tra loro in una ca-
tena, dove ciascun frammento di per sé non è molto significativo, ma forma insieme
agli altri qualcosa di molto solido, si può concludere che il sospettato sia veramente
la persona giusta.
342
La medicina forense
Col DNA viene utilizzato lo stesso tipo di percorso: è possibile cercare delle corri-
spondenze (basate sulla sequenza o su un numero di piccole unità di sequenze di DNA
ripetute) su diversi punti del genoma dell’individuo. Una o due (anche tre) non sono
sufficienti per dare la sicurezza che il sospettato sia quello giusto, ma ne vengono usate
quattro (a volte cinque): una corrispondenza di tutte e cinque è rara abbastanza da es-
sere sicuri (avere il ragionevole dubbio) che venga accusata la persona giusta.
Solo un decimo di una singola percentuale di DNA (circa 3 milioni di basi) è di-
verso da persona a persona. Gli scienziati possono utilizzare queste regioni variabili per
generare un profilo del DNA di un individuo mediante campioni di sangue, ossa, peli
o capelli e altri tessuti o annessi organici. Nei casi criminali, ciò, generalmente, impli-
ca l’ottenimento di campioni dalle prove repertate sulla scena del crimine e da un so-
spettato, l’estrazione del DNA, e l’analisi di esso, alla ricerca di un gruppo di specifiche
regioni (markers).
Gli scienziati ottengono i markers in un campione di DNA mediante la creazione
di piccole porzioni di DNA (sonde), ognuna delle quali cercherà e si legherà a una se-
quenza di DNA ad essa complementare, nel campione. Una serie di sonde legata a un
campione di DNA crea uno schema distintivo per ogni individuo. Gli scienziati fo-
rensi confrontano questi profili di DNA per determinare se il campione del soggetto
corrisponda a quello del reperto usato come prova. Un marker, da solo, generalmente,
non è unico per ogni individuo, ma se due campioni di DNA sono simili in quattro
o cinque regioni, ci sono ampie possibilità che i due campioni provengano dalla stes-
sa persona.
Se i profili dei campioni non coincidono, la persona non ha fornito DNA sulla
scena del crimine. Se gli schemi corrispondono, il sospettato può aver fornito il reperto
utilizzato come prova. Anche se c’è una possibilità che un’altra persona abbia lo stesso
profilo di DNA per un particolare gruppo di sonde, le probabilità sono estremamente
basse. La domanda è: quanto devono essere basse le probabilità quando ci sono in bilico
l’accusa di un colpevole o lo scagionamento di un innocente? Molti giudici considerano
questa questione come un argomento che il Collegio deve prendere in considerazione,
insieme alle altre prove del caso. Gli esperti fanno notare che l’utilizzo della tecnologia
del DNA forense è molto superiore al contributo dei testimoni oculari, in cui le proba-
bilità di una corretta identificazione sono del 50%. Più sonde vengono usate nell’analisi
del DNA, maggiori sono le probabilità di trovare uno schema unico e più basse quelle
di trovarsi di fronte a una coincidenza; ogni sonda in più apporta un grosso aumento di
tempo e di spese per i test. Si raccomandano da quattro a sei sondaggi.
È usata per creare milioni di copie esatte di DNA da un campione biologico. L’am-
plificazione del DNA tramite PCR ne permette l’analisi su campioni biologici piccoli
343
Criminologia ed elementi di criminalistica
come poche cellule epidermiche. Con la RFlP, i campioni di DNA devono essere gran-
di almeno come un quarto di dollaro.
La capacità della PCR di amplificare quantità così piccole di DNA, permette l’ana-
lisi di campioni anche altamente degradati. Ad ogni modo, deve essere posta grande
cura per prevenire la contaminazione con altri materiali biologici durante l’identifica-
zione, la raccolta e la conservazione di un campione.
È una tecnica per analizzare le lunghezze variabili di frammenti del DNA ottenu-
ti mediante la digestione di un campione di DNA, tramite un particolare tipo di enzi-
ma. L’enzima, un’endonucleasi limitante, taglia il DNA a livello di un particolare sche-
ma sequenziale conosciuto come sito di riconoscimento dell’endonucleasi limitante.
La presenza o l’assenza di certi siti di riconoscimento in un campione di DNA genera
lunghezze variabili di frammenti di DNA, che vengono separati mediante l’elettrofore-
si in gel. In seguito, vengono ibridizzati con sonde di DNA, che nel campione si lega-
no a una sequenza di DNA complementare. La RFlP è una delle applicazioni originali
dell’analisi del DNA nell’investigazione forense. Con lo sviluppo di tecniche di analisi
del DNA più nuove e più efficienti, la RFlP non è usata più come un tempo, perché
richiede quantità di DNA relativamente grandi. In più, campioni degradati da fattori
ambientali, come sporco o muffa, non sono ben utilizzabili con la RFlP.
Tecnologia usata per valutare specifiche regioni (loci) nel DNA nucleare. La va-
riabilità nelle regioni STR può essere usata per distinguere un profilo del DNA da
un altro. L’FBI usa un set standard di 13 regioni STR specifiche per il CODIS, che è
un programma di software che lavora su database locali, statali e nazionali di profili
di DNA ottenuti da criminali condannati, prove da scene di crimini irrisolti, e perso-
ne scomparse. Le probabilità che due individui abbiano lo stesso profilo di 13 loci del
DNA sono circa di una su un miliardo.
344
La medicina forense
lenti. L’indice forense contiene i profili del DNA ottenuti dal materiale biologico reper-
tato sulle scene del crimine. Tutti i profili del DNA conservati nel CODIS vengono
generati utilizzando la tecnica STR.
Il CODIS usa un software che cerca automaticamente nei due indici per profili di
DNA corrispondenti. Le agenzie delle Forze dell’Ordine possono prendere il DNA da
campioni biologici costituenti prova (per esempio sangue e saliva) ottenuti in crimini
per cui non ci sono sospettati e lo confrontano ai profili del DNA inseriti nel CODIS.
Se viene trovata una corrispondenza tra un campione e un profilo schedato, il CODIS
può identificare il colpevole. Questa tecnologia è autorizzata dal DNA Identification
Act del 1994. Tutti e 50 gli Stati degli USA hanno leggi che richiedono che i profili del
DNA di certi criminali siano inviati al CODIS. Al gennaio 2005 il database conteneva
più di un milione e mezzo di profili di DNA nel suo Indice dei Criminali Condannati,
e circa 48.000 profili di DNA, raccolti dalle scene del crimine, ma che non sono stati
collegati a nessun particolare criminale.
Dal momento che vengono raccolti sempre più campioni del DNA dei criminali e
le Forze dell’Ordine vengono addestrate ed equipaggiate sempre meglio per raccogliere
campioni di DNA sulle scene del crimine, la quantità arretrata di campioni in attesa di
test è aumentata esponenzialmente.
È una tecnica usata per esaminare il DNA proveniente da campioni che non pos-
sono essere utilizzati da RFlP o STR. Dai campioni, deve essere estratto il DNA nu-
cleare per analisi con RFlP, PCR e STR, ma, per l’analisi del DNA mitocondriale è ne-
cessario il DNA estratto da un altro organello cellulare chiamato mitocondrio. Mentre
campioni biologici datati, ormai privi di materiale cellulare nucleato come capelli, ossa
e denti non possono essere analizzati con STR e RFlP, possono invece essere analizzati
con la tecnica del DNA mitocondriale. Nell’investigazione di casi che sono rimasti irri-
solti per molti anni, il DNA mitocondriale è di grande valore. Tutte le madri hanno lo
stesso DNA mitocondriale delle figlie. Questo perché i mitocondri di ciascun nuovo
embrione derivano dall’ovulo materno. Lo sperma del padre contribuisce solo al DNA
nucleare. Il confronto del DNA mitocondriale di resti non identificati col profilo di un
materiale potenzialmente materno, potrebbe costituire un’importante tecnica di analisi
nelle investigazioni su persone scomparse.
345
Criminologia ed elementi di criminalistica
L’osservazione dell’attività degli insetti sulla scena del crimine può essere utile, per-
ché l’entomologo ha esperienza riguardo a un tipo di scienza diversa rispetto a quella
degli investigatori. Un entomologo, probabilmente, osserverà elementi che gli investi-
gatori ignoreranno (e viceversa).
Nella scena criminis dovrebbero essere ricercati o osservati attentamente:
346
La medicina forense
Di tutto ciò, dovrebbero essere fatte delle fotografie, compresi primi piani dei di-
versi stadi degli insetti trovati prima di prelevarli. Quando si stima il PMI, i dati clima-
tici sulla scena del crimine sono di fondamentale importanza. La lunghezza del ciclo
vitale degli insetti è determinata soprattutto dalla temperatura e dall’umidità relativa
dell’ambiente in cui lo sviluppo ha luogo.
I seguenti dati climatici dovrebbero essere raccolti sulla scena del crimine:
347
Criminologia ed elementi di criminalistica
e quantità delle precipitazioni. Ogni altra informazione va bene, e può aiutare nella ri-
costruzione degli eventi. I dati climatici dovrebbero risalire al momento in cui la vittima
è stata vista l’ultima volta.
Una tecnica passiva per raccogliere esemplari di insetti adulti sulla scena di un cri-
mine è quella di usare trappole alla colla, con una sostanza adesiva che si asciuga lenta-
mente. Queste trappole sono fatte di cartoncino cerato con una tendina posta ad un
angolo di 60° e materiale appiccicoso su entrambi i lati esposti. Possono raccogliere
molti insetti in pochi minuti. Una rete per insetti può essere usata per catturare quelli
che volano. Uova, larve, pupe e adulti sulla superficie di resti umani dovrebbero esse-
re raccolti e conservati per dimostrare lo stato dei dati entomologici al momento della
scoperta. Gli insetti all’interno del corpo non dovrebbero, invece, essere raccolti prima
dell’autopsia. Se ci sono abbastanza insetti, campioni di uova, larve e pupe, dovrebbero
essere prelevati vivi e messi in un mezzo nutriente, tipo fegato bovino crudo. Allevarli
fino all’età adulta ne rende l’identificazione più facile, e può dare indizi fondamentali
per la stima del PMI. È importante che la temperatura nel contenitore di mantenimen-
to sia più costante possibile, tra i 20 e i 27°C. È assolutamente necessario registrare la
temperatura nel contenitore.
Tutti i campioni, sia gli esemplari vivi che quelli morti, dovrebbero essere esamina-
ti più rapidamente possibile. Gli esemplari vivi sono messi in incubatrici con tempera-
tura e umidità controllate. Bisogna osservare questi contenitori diverse volte al giorno,
e annotare ogni cambiamento come la schiusa delle uova o delle larve, la metamorfosi
in pupa o in insetto adulto. Deve essere annotata l’ora precisa. Possono essere scatta-
te delle fotografie. Ogni tipo di larva e adulto dovrebbe, se possibile, essere classificata
con genere e specie. Ciò può richiedere l’assistenza di un esperto tassonomista. Può an-
che essere necessario condurre esperimenti all’aperto, vicino alla scena del crimine, per
ricreare le condizioni ambientali delle larve e stimare il PMI.
Quando sono disponibili tutti i dati, è il momento di trarre delle conclusioni:
- determinare se i resti sono stati alterati o disarticolati durante il PMI. Chiedere se c’è
la presenza di sostanze somministrate antemortem, tipo alcol, cocaina o eroina;
- stimare l’età di quanti più esemplari possibile, basandosi sulla presenza di sostanze
nel corpo e sulle condizioni di temperatura e umidità. Considerare se l’attività de-
gli insetti è stata in qualche modo ritardata dopo la morte.
- acari: gli acari sono piccoli organismi, di solito misurano meno di 1 mm. Si tro-
vano nel terreno sottostante il corpo, durante gli stadi più tardivi della decompo-
sizione. Molti acari vengono trasportati sul corpo da altri insetti, come le mosche
o i coleotteri; altri già vivono nel terreno, e possono essere predatori o alimentarsi
di funghi o di detriti. Molte specie possono essere trovate nei campioni di terreno
dalla zona di infiltrazione sotto il corpo;
- aracnea: sono i ragni e sono predatori degli insetti che si trovano sul corpo. Nessu-
na specie è specifica della fauna che si trova sul cadavere, infatti hanno valore limi-
tato per quanto riguarda la stima del PMI;
348
La medicina forense
- diptera: questo ordine comprende insetti con un paio di ali anteriori sviluppate
e il secondo paio posteriore modificato in bilancieri. La scienza ne conosce circa
100.000 specie, ma probabilmente molte altre sono ancora da scoprire. Tra le mo-
sche, troviamo molti componenti della fauna che si nutre di cadaveri. Le larve del-
le mosche vivono in habitat molto diversi, anche acquatici;
- trichoceridae: anche detti moscerini invernali, in quanto le specie comuni (Tricho-
cera regelationis, T. saltator, T. maculipennis, ecc.) si trovano in gran numero nei
mesi invernali, sebbene con frequenza minore, si trovano anche durante il resto
dell’anno. Gli adulti ricordano piccole mosche. Le loro larve sono saprofaghe e si
nutrono di materia organica in decomposizione. Le larve dei tricoceridi costitui-
scono una parte importante della fauna che si trova sui cadaveri durante i mesi in-
vernali, quando i mosconi non ci sono;
- cyclorrhapha-aschiza: una grande famiglia di mosche, comprendente circa 3000
specie. Ce ne sono da piccolissime a medie (0,75-8 mm), di colore nero opaco,
marrone o giallastro, dall’aspetto gibboso. Sono generalmente ispide con una ca-
ratteristica venatura delle ali. Volano in una maniera attiva irregolare, che ha val-
so loro il nome popolare di mosche in fuga. Si sviluppano su un’ampia varietà
di materia organica in decomposizione; inoltre, alcune si sviluppano su funghi
mentre altre sono parassiti. Nello stadio larvale alcune specie sono predatrici.
Diversi generi sono reperibili sui cadaveri dei vertebrati, come Anevrina, Coni-
cera, Diplonevera, Dohrniphora, Meopina, Triphleba e alcune specie di Megase-
lia;
- la Conicera Tibialis: è anche conosciuta come la mosca delle bare a causa della sua
associazione con i cadaveri sepolti che sono stati sottoterra per circa un anno. Gli
adulti di C. tibialis sono in grado di andare sottoterra a una profondità di 50 cm
in circa 4 giorni. Alla normale profondità delle tombe, 81-2 centimetri), la varia-
zione di temperatura è moderata, circa 5°C, per cui, lo sviluppo da uovo ad adul-
to, impiegherà un tempo considerevole. Lo sviluppo può avere luogo indipenden-
temente dalla stagione, in quanto il corpo è seppellito a una profondità in cui non
si ha congelamento;
- syrphidae: sono le comuni mosche che volano in un punto fisso, spesso camuffate
da vespe o calabroni. Tra le larve dei sirfidi troviamo le famose larve a coda di rat-
to. Si trovano nell’acqua stagnante e spesso nei cadaveri;
- acalyptratae: un piccolo gruppo di mosche relativamente rare. Molte specie vivo-
no nei boschi umidi, e le loro larve si trovano nella materia organica in decom-
posizione;
- coelopidae: queste mosche hanno dimensioni da piccole a medie, di solito, sono di
colore marrone scuro o nero, e hanno la parte superiore del torace appiattita. Cor-
po e zampe sono molto ispidi. Si trovano lungo le coste e sono molto abbondanti
nei punti in cui il mare ha depositato delle alghe. Occasionalmente, le larve posso-
no svilupparsi anche in altro materiale organico, come un cadavere che è rimasto
nei pressi della spiaggia;
- heleomyzidae: un gruppo abbastanza grande di mosche di dimensioni da piccole
a medie, spesso brunastre. Gli adulti si trovano con frequenza in luoghi umidi, le
larve in piante o animali in decomposizione, o in funghi;
349
Criminologia ed elementi di criminalistica
- sepsidae: mosche molto caratteristiche; gli adulti si trovano in gran numero attorno
escrementi o materiale in decomposizione, dove le larve si sviluppano. Gli adulti
hanno un modo del tutto particolare di battere le ali. Questa famiglia viene anno-
verata perchè si ciba di cadaveri umani in caso di fermentazione butirrica e prima
della fermentazione ammoniacale. Le uova dei Sepsidae hanno un tubercolo respi-
ratorio molto lungo, spesso più lungo dell’uovo stesso;
- sphaeroceridae: mosche di dimensioni da minuscole a piccole, scure, che prolifica-
no negli escrementi;
- piophilidae: mosche scure lucenti. Le larve sono saprofaghe e si trovano spesso sui
corpi morti da diverso tempo. Un esempio è la Piophila casei, anche chiamata
mosca salterina del formaggio, in quanto la larva è in grado di saltare a un’altezza
anche considerevole, se disturbata. Queste mosche infestano anche formaggi e in-
saccati immagazzinati, che sono, per loro, praticamente, la stessa cosa dei cadaveri
disidratati;
- ephydridae: vasto gruppo con diverse specie in comune. Le dimensioni vanno da
piccole a molto piccole. Gli adulti vivono in zone umide come i bordi degli acqui-
trini e la riva del mare. Le larve sono acquatiche, e quelle di molte specie si trovano
in acque salmastre ma anche fortemente saline o alcaline;
- drosophilidae: sono i ben conosciuti moscerini della frutta, di cui ogni biologo ha
sentito parlare, e probabilmente anche la maggior parte delle persone. Sono mo-
sche piccole o molto piccole, brune, gialle o grigie con occhi colorati. Le larve si
nutrono di materia vegetale in decomposizione, ma, alcune, anche di funghi. Al-
cune specie sono occasionalmente rilevabili su esseri umani morti, e probabilmen-
te sono quelle che si nutrono di funghi;
- milichiidae: minuscole mosche brune. Gli adulti e le larve sono saprofagi;
- calyptratae: tra i Sarcofagidi, troviamo i mosconi della carne con occhi rossi e addo-
me screziato di grigio. Queste mosche non depositano uova sul cadavere, ma larve.
Insieme ai Calliforidi sono le prime ad arrivare sul corpo. Le larve sono predatrici
di quelle del moscone verde, ma si cibano anche della carne in decomposizione.
Molti Sarcofagici mangiano anche lumache e vermi di terra;
- calliphoridae: sono i famosi mosconi verdi e blu. Ci sono molte specie e ognuna ha
la propria biologia. Alcune preferiscono depositare le uova in zone ombreggiate,
altre alla luce. Per quanto riguarda la distribuzione alcune sono prettamente urba-
ne, altre rurali;
- fanniidae: tra queste si annovera la mosca della casa più piccola, Fannia canicularis.
Queste mosche si riproducono soprattutto negli escrementi, ma si possono svilup-
pare anche nei cadaveri, specialmente se vi sono punti con tessuto semiliquido. Le
larve sono dotate di particolari strutture che ne permettono il galleggiamento;
- muscidae: in questa grande famiglia si trova la mosca della casa comune, Musca
domestica. Queste mosche vivono nelle case e sono una delle specie più diffuse sul
pianeta. Nei climi caldi può completare il ciclo di sviluppo in 14 giorni. Depone
le uova nella materia in decomposizione compresi i cadaveri.
Gli insetti possono anche aiutare a stabilire se il cadavere è stato spostato dopo la
morte, confrontando la fauna locale intorno ad esso con quella su di esso.
350
La medicina forense
In alcuni casi, con l’aiuto degli insetti, è possibile tracciare gli spostamenti di so-
spettati, merci, vittime o veicoli di sospettati. Insetti interi o parti di essi possono per
esempio essere rinvenuti in alcuni punti di un veicolo, come il radiatore o il battistrada
dello pneumatico. Con l’identificazione degli insetti trovati, il tracciamento della di-
stribuzione di ognuno e della biologia delle singole specie, è possibile trovare il massi-
mo livello di sovrapposizione e descrivere le aree in cui è stato il sospettato. In un caso
di spaccio di cannabis, per esempio, è stato possibile determinare da dove provenisse il
carico studiando gli insetti che si trovavano nel container della droga.
Dopo la decomposizione iniziale, quando il corpo inizia a mandare cattivo odore,
diversi tipi di insetti vengono attratti da esso. I primi ad arrivare sono i Ditteri, in par-
ticolare i mosconi verdi o Calliphoridae e le mosche della carne Sarcophagidae.
Le femmine depongono le uova sul corpo, specialmente attorno agli orifizi natu-
rali come il naso, gli occhi, le orecchie, l’ano, il pene e la vagina e dentro eventuali fe-
rite.
Dopo breve tempo, a seconda della specie, le uova si schiudono ed escono le larve.
Esse vivono sui tessuti morti e crescono rapidamente. Dopo poco tempo, la larva, mu-
ta ed entra nel secondo stadio larvale. Questa larva si alimenta molto e muta nel ter-
zo stadio. Quando la larva è cresciuta completamente inizia a spostarsi, si trova adesso
nello stadio prepupale. La prepupa muta in pupa, ma mantiene l’involucro del terzo
stadio larvale, che diventa il puparium. Di solito, ci vogliono da una a due settimane
dallo stadio di uovo a quello di pupa. Il tempo esatto dipende dalla specie e dalla tem-
peratura ambientale.
La teoria su cui si basa la stima del tempo della morte, meglio definito come in-
tervallo post mortem (PMI) tramite l’aiuto degli insetti, è molto semplice: poiché gli
insetti arrivano sul cadavere subito dopo la morte, la stima della loro età porterà alla
stima del momento in cui è avvenuta la morte.
351
Criminologia ed elementi di criminalistica
Se il meccanismo non può essere determinato, la morte può essere classificata co-
me maniera sconosciuta. Questo avviene in alcuni casi di avvelenamento e di altri fe-
nomeni insoliti (come la combustione spontanea). Se la causa ha aggravato una condi-
zione preesistente (causa contribuente), la morte deve essere classificata come naturale.
In caso di incidenti stradali, la morte, per lo più, è classificata come accidentale. Tutti i
suicidi sono classificati come omicidi, se un’altra persona, oltre alla vittima, è coinvolta
nella causa immediata di morte.
352
La medicina forense
eseguite a fini di giustizia, destinate cioè al giudice. Sul piano organizzativo ed ese-
cutivo, le indagini di tossicologia analitica e forense appaiono ben più complesse delle
analisi tipizzate, standardizzate e preordinate di biologia clinica e chimica e ciò, so-
prattutto, per il numero elevatissimo di sostanze potenzialmente responsabili d’intos-
sicazioni, la loro diversificata struttura chimica, l’ampio intervallo delle dosi efficaci e
assumibili e quindi delle concentrazioni raggiungibili nei liquidi biologici, l’eventua-
le assunzione simultanea di più agenti farmacologicamente attivi, la non infrequen-
te assenza di indicazioni utili alla scelta delle indagini da eseguire, l’incompletezza o
l’assenza di dati certi anamnestici, l’inattendibilità o la mancanza di certezza dei dati
d’interesse giudiziario, l’assenza di sintomatologie riconoscibili specie nell’avvelena-
mento acuto e nell’overdose.
Caratteristiche della tossicologia analitica e forense sono pertanto: dimostrazione
dell’analisi, specificità delle analisi, certezza del dato, valutazione del risultato, spiega-
zione del significato del risultato.
La struttura deputata all’esecuzione delle analisi tossicologiche deve rispondere ad
alcuni indispensabili requisiti: possibilità di fornire risultati in tempi brevi; disponibili-
tà di personale addestrato in modo specifico; disponibilità di attrezzature aggiornate e
degli standard di sostanze tossiche; controlli di qualità interni ed esterni; aggiornamen-
to scientifico; collaborazione con le altre discipline correlate.
Considerando che dalle attività di laboratorio si deducono esiti analitici, cui sono
connessi rilevanti decisioni di carattere medico-legale, i centri altamente specialistici ri-
sultavano davvero insufficienti. In tale situazione, il Ministero della Salute si è posto il
problema della tutela della qualità del dato analitico, procedendo ad istituire una rete
di sette laboratori tossicologici di riferimento nazionale presso le Università di Milano,
Padova, Modena, Roma Cattolica, Napoli, Bari, Palermo.
A tali strutture sono stati demandati, tra l’altro, compiti di: stesura e validazione
di protocolli nazionali per quanto concerne le tecniche analitiche, le procedure di rac-
colta e la conservazione dei campioni biologici; la verifica e il controllo di qualità nel-
l’ambito della determinazione delle sostanze tossiche e psicotrope compiute presso gli
altri laboratori territoriali di I e II livello; la comunicazione periodica al Ministero delle
attività svolte, in particolare relativamente all’incidenza, prevalenza e alla tipologia dei
fenomeni di abuso nelle regioni per le quali il centro svolge ruolo di coordinamento;
la collaborazione, su richiesta delle istituzioni sanitarie locali nelle attività di formazio-
ne del personale di laboratorio e la consulenza per la risoluzione di casi tossicologici di
particolare complessità.
Le principali finalità della tossicologia forense sono: l’individuazione e il dosaggio
del tossico implicato; la valutazione della sua presenza.
Con riferimento alla prima finalità, si deve tenere presente che prima dell’indivi-
duazione quali-quantitativa, si deve procedere alle seguenti operazioni: estrazione del/i
tossico/i; analisi del/i tossico/i.
Per quanto concerne la seconda finalità, si deve tenere conto che la concentrazione
del tossico nel mezzo biologico che si vuole esaminare dipende da: tempo trascorso tra
assunzione e decesso o prelievo; metabolismo e catabolismo; percentuale di recupero
nella estrazione; tecniche analitiche dipendenti dalla specificità e sensibilità dei metodi
e, quindi, da appropriate conoscenze scientifiche.
353
Criminologia ed elementi di criminalistica
354
La medicina forense
Peraltro, non definisce in alcun modo la natura di tali sostanze, nel valido presup-
posto che sia soprattutto importante dimostrare che la morte risulti cagionata da detto
mezzo e che, d’altro canto, la nozione appartenga sostanzialmente alla scienza e non al-
la legge. Il veleno è comunque inteso come mezzo insidioso e sotto questo profilo deve
configurarsi di estrema pericolosità per la sua occultabilità e per la possibilità di essere
dissimulato.
La gravità, quindi, deriva non tanto dalle caratteristiche proprie del mezzo venefi-
co o delle sostanze venefiche, ma dalle modalità dell’uso. Relativamente alle proprietà
della sostanza, l’unica qualità particolare che discende da tali premesse è che il veleno,
per essere insidioso, deve necessariamente agire in dosi piccole e inavvertibili. Come è
noto, i veleni sono sostanze chimiche prodotte dal regno minerale, animale e vegetale,
per cui, in prima classificazione, abbiamo: veleni minerali, veleni vegetali e veleni ani-
mali, classificazione superata nel tempo e sostituita con quella di veleni metallici, veleni
volatili, veleni organici non volatili, veleni dialisabili e veleni vari.
Una precedente classificazione di Fodèrè, modificata da Orfilia, distingueva i ve-
leni in: veleni irritanti,veleni narcotici,veleni narcotico-acri, veleni settici.
Veleni irritanti: fosforo, iodio, bromo, acido solforico (olio di vetriolo), acido azo-
tico (acido nitrico, acqua forte), acido cloridrico (idroclorico, muriatico), acido fosfo-
rico, acido ossalico.
Veleni alcalini: potassa, soda, barite, ammoniaca, calce, mercurio e preparati mer-
curiali, rame e suoi composti, piombo e sue preparazioni, altri veleni metallici, antimo-
nio e sue preparazioni, arsenico e sue preparazioni.
Veleni irritanti vegetali ed animali: creosolo, brionia, dafne, ricino, euforbio, sabi-
na, celidonia, narciso, ranuncolo, cantaridi, dattero di mare.
Veleni narcotici: oppio e derivati, giusquino nero, lattuca virosa, solamina, acido
idrocianico.
Veleni narcotico‑acri: squilla, scilla marittima, aconito, elleboro nero, veratrum al-
bum, veratrum sabatilla; colchicum autumnale, belladonna, datura stramonium, ni-
cotiana tobacum, digitalis purpurea, conicina, cicuta maggiore, piccola ed aquatica,
oleandro, cianuro di iodio, noce vomica, canfora, noce di levante, funghi, segala cor-
nuta, etere solforico, cloroformio.
Veleni settici: da vipera comune, serpenti a sonaglio, insetti velenosi, scorpione, ta-
rantola, ragno delle cantine, api, vespe, calabroni.
Ma esistono, anche, avvelenamenti prodotti dalla inspirazione, dolosa, colposa o
accidentale, di sostanze gassose, tra le quali devono essere ricordate: il gas ammoniacale,
il gas‑cloro, il gas acido solforico, il gas protossido di azoto, il gas idrogeno arseniato,
l’idrogeno fosforato, il gas illuminante, l’acido carbonico, l’ossido di carbonio, il vapo-
re di carbone e il gas delle fogne.
Tutti questi veleni non operano con la medesima energia, in quanto, alcuni di es-
si, anche se somministrati in piccolissime dosi, determinano la morte dell’uomo o de-
gli animali (anche i più robusti) quasi istantaneamente, quali, ad esempio, l’acido cia-
nidrico concentrato, la stricnina e il curaro (infuso velenoso estratto da alcune piante
americane e portato in Europa nel 1800), altri, invece, manifestano il loro effetto dopo
un certo periodo di tempo e solo se introdotti a forti dosi, come ad esempio il solfato
di zinco e il sedum acre.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
1. clinico;
2. circostanziale;
3. anatomo-patologico;
4. biologico;
5. chimico-tossicologico.
1. Criterio clinico
Il criterio clinico attiene alla conoscenza della sintomatologia presentata dal sogget-
to prima della morte, in base alla quale si possa desumere uno stato di avvelenamento
e anche individuare la qualità del veleno. È indubbio che se la raccolta di elementi cli-
nici è stata effettuata da personale sanitario esperto, il criterio avrà di certo maggior ri-
levanza. È vero anche che, di rado il quadro clinico, nei casi di intossicazione, presenta
i caratteri di specificità che permettano un riferimento concreto diretto verso un de-
terminato composto o gruppo di sostanze. È evidente, poi, che non sempre si hanno a
disposizione gli elementi di giudizio collegati al criterio clinico, essendo frequente, nel-
l’avvelenamento, che la morte sopravvenga prima che qualcuno abbia la possibilità di
osservare i fenomeni morbosi che l’hanno preceduta.
2. Criterio circostanziale
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La medicina forense
4. Criterio biologico
5. Criterio chimico-tossicologico
Si fonda sulla dimostrazione della presenza del veleno nel materiale biologico, e la
valutazione del dato ottenuto in relazione al suo significato farmaco-tossicologico, alla
capacità di indurre la lesività di tipo tossico riscontrata o che comunque poteva pro-
durre.
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Criminologia ed elementi di criminalistica
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La medicina forense
sio in alcool etilico). Nei casi di esumazione di cadavere, devono essere prelevati anche
pezzettini della cassa, in quanto, proprio nello zinco, si depongono alcuni veleni come
l’arsenico, per cui, tale riscontro, anche da solo, assume il valore di reperto perentoria-
mente dimostrativo. Procedure, queste, che rappresentano fasi delicate e importanti,
dalle quali può dipendere la correttezza delle successive analisi.
Sui prelievi necessari al fine di condurre una corretta ed esaustiva indagine chimi-
co-tossicologica nei decessi per avvelenamento, non si è tuttora raggiunta una posizio-
ne concorde, sia a livello nazionale, sia a livello internazionale. Non appare, peraltro,
ancora vicina, la possibilità d’adozione di un protocollo comune, la cui realizzazione
trova molti ostacoli nelle prassi procedurali, a volte derivanti da precise impostazioni
culturali, ormai consolidatesi nei diversi laboratori di tossicologia forense.
In linea di massima, nei decessi da imputarsi ad avvelenamento, debbono essere con-
siderati indispensabili i prelievi di sangue, urine, bile, e contenuto gastrico, mentre ul-
teriori campioni biologici possono essere fegato, rene, encefalo e polmoni, ma anche,
in aggiunta, capelli, umor vitreo, tamponi nasali, sede di iniezione. Va tuttavia sottoli-
neato che, in particolari situazioni legate sostanzialmente all’evento sul quale s’indaga,
la scelta del tipo di prelievi da effettuare deriva dalle richieste ritenute necessarie per la
risoluzione del caso, provenienti dall’autorità giudiziaria.
Le quantità di prelievo debbono essere abbondanti (ad es., 100 millilitri per san-
gue e urine, e 100 grammi per fegato, rene, encefalo e polmoni, la bile e il contenuto
gastrico per intero), in relazione al fatto che le procedure d’indagine sono complesse e
articolate e non escudono la possibilità che le diverse prove debbano essere ripetute e
anche rinnovate con tecniche diverse.
In realtà, tra tutti i prelievi necessari per l’indagine chimico-tossicologica, non v’è
dubbio che il campione ematico rappresenta il materiale di elezione, sia per il fatto che
il dato di concentrazione ematica è meglio correlato allo stato di intossicazione e al-
l’azione farmacologica in atto nel momento del decesso, sia perché i livelli nel sangue
dello xenobiotico, ritenuti tossici e letali, sono ugualmente riportati nelle casistiche tos-
sicologico-forensi e, quindi, permettono un fondamentale confronto.
È necessario, poi, tener conto del fatto che è stata ormai dimostrata una ridistri-
buzione post-mortale delle molecole esogene nei diversi distretti corporei, con scambi
tra sangue e tessuti.
In questa ottica, dal momento che la concentrazione post-mortem dell’analita nel
sangue cardiaco, in genere, può crescere per fenomeni di ridistribuzione, mentre nel
sangue periferico, meno soggetto a modificazioni, tende a rimanere costante, divie-
ne opportuno prelevare campioni ematici, sia dal cuore, sia da un vaso periferico, che,
per certo, rappresenta un reperto maggiormente indicativo della quantità presente al
momento del decesso. Inoltre, in determinate situazioni, il sangue cardiaco può essere
contaminato, sia a causa di traumi, sia per il rilascio di molecole esogene dai tessuti cir-
costanti; in questi casi, un campione di sangue che provenga da un altro distretto cor-
poreo può essere utile per l’ interpretazione dei risultati.
A volte, è opportuno procedere ad ulteriori prelievi rispetto a quelli di base. Se, ad
esempio, si sospetta una morte da arsenico, è bene avere a disposizione capelli ed un-
ghie, sedi peculiari di accumulo del veleno, così come frammenti di ossa, nell’ipotesi di
intossicazione da metalli.
363
Criminologia ed elementi di criminalistica
Nelle morti da droga, i capelli, la cui crescita è mediamente di circa cm. 1-1,5 al
mese, possono fornire utili informazioni in relazione al pregresso uso delle più comuni
sostanze stupefacenti che, come tali o trasformate nei loro metaboliti, si fissano nelle
strutture cheratiniche. Se si ha il sospetto di sostanze iniettate o applicate in una deter-
minata parte del corpo, è necessario analizzare tessuti provenienti da tali sedi.
Talvolta, è importante avere a disposizione l’umor vitreo, non solo perché dotato di
maggior resistenza ai fenomeni putrefattivi rispetto ad altri campioni biologici, ma an-
che per lo stretto legame riguardo al contenuto chimico con il liquido ematico.
È anche vero che l’analisi dell’etanolo nell’umor vitreo può aiutare nella interpre-
tazione della concentrazione post-mortale dell’alcool nel sangue.
Un aspetto fondamentale nell’approccio tossicologico-forense, nei casi di sospet-
to avvelenamento (da omicidio o suicidio) che ha destato sempre grande interesse sul
piano medico-legale, è quello del dato negativo, ma, soprattutto, della sua motivazione:
cioè il de cuius non è deceduto per avvelenamento, e ciò, per tali motivazioni. Infatti,
nell’ambito della tossicologia forense, possono essere distinti dei momenti ben precisi:
l’indagine di laboratorio che porta all’acquisizione qualitativa e quantitativa del dato
analitico (tossicologia analitica) e l’interpretazione e motivazione dello stesso. Nel nuo-
vo processo penale, si mira unicamente a provare l’ipotesi delittuosa, per cui, l’avvele-
namento va considerato nella motivazione del dato negativo: nel senso dell’esclusione
del sospetto.
L’eventualità che l’indagine generica non conduca a verificare la presenza nei visce-
ri e nei liquidi biologici di alcun composto, deve essere oggetto di attenta valutazione.
Oltre al convincimento, che peraltro dovrà essere confortato dagli altri elementi
di giudizio, che non sia stato assunto alcun veleno, sono da vagliare anche altre ipotesi:
che l’eventuale sostanza tossica non sia stata ricercata in quanto non compresa nel proto-
collo di analisi; che attraverso i metodi generali di screening non sia stata raggiunta una
sensibilità tale da permettere il ritrovamento delle molecole; che la sostanza abbia subìto
processi di trasformazione nel cadavere per cui non è più rintracciabile o comunque è
indistinguibile rispetto ai componenti biologici; o ancora, che il veleno assunto dalla vit-
tima, sia stato completamente eliminato, evenienza questa che si può verificare quando
un soggetto sopravvissuto a lungo all’intossicazione acuta sia poi deceduto a causa delle
modificazioni patologiche provocate dall’avvelenamento.
Il dato negativo non potrà pertanto essere inteso in senso assoluto, ma deve essere
valutato nel contesto di tutti gli altri criteri.
Nel caso poi che si raggiunga il convincimento di un avvelenamento anche in as-
senza di una risposta analitica affermativa, il dato negativo deve essere attentamente
giustificato.
Una risposta positiva, ossia il rinvenimento nei visceri di un composto di natura
esogena, se avviene nell’ambito di un’indagine generica, con il carattere precipuo del
dato qualitativo, deve essere seguita da una corretta determinazione quantitativa, da ef-
fettuarsi con metodiche specifiche ed idonee ad ottimizzare il recupero e che servano
anche a confermare il risultato.
Per l’interpretazione dei dati quantitativi, al fine di valutare se i livelli nei tessuti
e nei liquidi biologici siano indicativi di assunzioni in quantità terapeutiche, tossiche,
o addirittura letali, si deve fare affidamento alla letteratura che offre un’ampia casisti-
364
La medicina forense
ca degli avvelenamenti e, soprattutto, dei dati relativi alle concentrazioni ematiche, te-
rapeutiche e tossiche, di numerosi composti. I tentativi per conoscere la reale quantità
di sostanza assunta, quasi mai ottengono dei risultati, specialmente per l’insufficienza
dei dati a disposizione che non permettono una corretta ricostruzione dei processi far-
maco-cinetici.
Di notevole interesse, può essere, talvolta, la comparazione dei livelli di concentra-
zione di una sostanza tossica e dei suoi prodotti di trasformazione nei vari organi e tes-
suti per verificare che non si tratti di una penetrazione post-mortale e per valutare i dati
sotto il profilo temporale. In realtà, in alcune occasioni, lo studio dei processi metabo-
lici del composto tossico esogeno, alla luce della sua farmacocinetica, può essere impor-
tante e di notevole aiuto per la ricostruzione della cronologia della morte.
In ultima analisi, la valutazione del dato analitico deve condurre all’acquisizione
di elementi utili, che saranno finalizzati, non solo al consolidamento della diagnosi di
avvelenamento nell’insieme della criteriologia medico legale, ma anche all’ottenimento
di risposte importanti nel contesto delle indagini spesso complesse.
Diviene, quindi, di grande interesse, sia ricercare il nesso causale tra l’assunzione del-
la molecola e la morte attraverso la valutazione dei livelli tossici, sia poter ottenere no-
tizie sul tempo di sopravvivenza, sulla via di somministrazione, sugli effetti provocati
dalla presenza di altre molecole e su pregresse assunzioni.
Per quanto concerne la modalità di esecuzione della perizia tossicologica, l’esigenza
di prova che la caratterizza, non diversamente da qualsiasi altra materia applicata per
finalità di legge, comporta delle problematiche tutte particolari. Un primo punto, ri-
guarda la scelta della tecnica analitica: questa deve possedere caratteristiche di elezione,
vale a dire deve essere dotata di specificità, elevata sensibilità e affidabilità, intendendo
per affidabile, una metodica di indagine comparativamente e positivamente sperimen-
tata per un tempo adeguato. Un secondo aspetto attiene alla metodologia di esecuzio-
ne che deve offrire la possibilità, nei casi in cui è realizzabile, di confermare il dato ot-
tenuto con una diversa tecnica analitica, ed eventualmente, anche di salvaguardare la
ripetibilità dell’indagine medesima, mediante un’idonea conservazione del materiale.
Nell’ambito delle differenti possibilità di intervento tecnico previste dal Codice di pro-
cedura Penale, l’oppurtunità di eseguire indagini in epoche diverse, assume un’impor-
tanza notevole dal punto di vista procedurale.
Questione di elezione, se non esclusiva della tossicologia forense, è quella lega-
ta alla valutazione del dato analitico ottenuto. Ciò presuppone che non si debba ri-
tenere conclusa la propria opera con l’esecuzione pura e semplice delle analisi, bensì
valutare, ai fini della rilevanza giuridica, l’eventuale danno prodotto dalla sostanza
tossica.
365
Criminologia ed elementi di criminalistica
re, cui segue la fase dell’analisi propriamente detta, cioè il riconoscimento della sostan-
za estratta e, ove possibile anche la sua determinazione quantitativa. Talvolta, è possi-
bile far precedere l’indagine sistematica da test di screening da eseguire direttamente
sui liquidi biologici che comprendono saggi colorimetrici o spot test e tecniche immu-
nochimiche, che hanno validità specialmente come test di esclusione, e che in caso di
positività vanno sicuramente confermati. I quesiti fondamentali riguardano, pertanto,
l’accertamento della qualità del tossico e ove possibile la sua quantità, certa o presunta.
Se sul piano anamnestico e clinico si hanno sospetti su una determinata sostanza, il pe-
rito procederà con accertamenti sugli organi sui quali tale sostanza sospetta, sul piano
scientifico e dell’esperienza, è facilmente reperibile (l’arsenico, ad es., come anidride
solforosa nei polmoni ecc.).
Se, invece, non si hanno indicazioni orientative sospette, il perito dovrà usare il
metodo sistematico di ricerca, cioè, procedere per stadi secondo i seguenti raggruppa-
menti: veleni volatili, veleni metallici, veleni organici, anioni tossici, sostanze diverse
che richiedono speciali tecniche estrattive.
Veleni volatili o gassosi o comunque estraibili con una corrente di vapore, ottenen-
do dalla pappa cadaverica un distillato neutro, uno acido e uno alcalino, per cui, su
ognuna delle tre porzioni, con opportune reazioni, si procede alla ricerca della sostan-
za appartenente al gruppo specifico. Le sostanze reperibili in questo raggruppamento
possono essere l’etere, l’acetone, il cloroformio, il cloralioidrato, il tetracloruro di car-
bonio, le aldeidi, il cianuro, il fosforo, la canfora, e così via.
Veleni metallici estraibili dalla poltiglia dei visceri attraverso la bollitura con acido
cloridrico e con clorato potassico (metodo di Fresenius-Babo). Ma esistono anche altri
metodi più moderni. Nel liquido ottenuto, con procedimenti di chimica analitica, si
eseguono le ricerche dei singoli gruppi di metalli e le sostanze tossiche ottenute posso-
no essere mercurio, rame, piombo, arsenico (anche se metalloide con caratteri metalli-
ci), bario, bismuto, antimonio, argento, ecc.
Veleni organici estraibili dalla poltiglia dei visceri attraverso trattamento in alcool
diluito con l’aggiunta di acido tartarico. Per filtrazione e spremitura, si separa la solu-
zione idroalcoolica dalle parti organiche coagulate dall’alcool; con ripetute concentra-
zioni, si fanno precipitare i grassi che, pure, si asportano per filtrazione. Nel soluto re-
siduo rimangono le eventuali sostanze tossiche.
Tra tali veleni, rientra la stragrande maggioranza delle sostanze usate a scopo te-
rapeutico come medicinali, che generalmente sono dotati, al di là di una determinata
dose, di intrinseca tossicità, tanto che molte di esse, con varie ordinanze ministeriali,
sono state tolte dal commercio.
In questo gruppo, vengono inseriti i barbiturici, gli alcaloidi, le sostanze stupefa-
centi, i tranquillanti, gli psicofarmaci, i derivati dell’acido salicilico, le ammidi ipnoti-
che, in genere, gli anfetaminici, i farmaci psicoplegici, gli antidepressivi, e così via.
Gli avvelenamenti dovuti agli anioni tossici (permanganati, borati, clorati, ioduri,
ecc.) non sono frequenti. Il materiale di elezione da analizzare è di solito il contenuto
gastrico.
I test di identificazione sono applicati dopo una fase di separazione degli anioni
che può essere attuata o attraverso una semplice filtrazione, o per mezzo di dialisi, o
tramite precipitazione proteica.
366
La medicina forense
367
Criminologia ed elementi di criminalistica
368
CAPITOLO 17
Il Criminal profiling
369
Criminologia ed elementi di criminalistica
Un genere di letteratura che ha messo in risalto il lato oscuro che si cela nel genere
umano e sicuramente un genere che non ha perso di popolarità col passare del tempo,
anzi, si può dire che abbia acquisito ancora maggior notorietà; basti ricordare autori re-
centi come Thomas Harris ed il suo Hannibal Lecter, Patricia Cornwell e il suo perso-
naggio, la dottoressa Kay Scarpetta e molti altri autori, ancora.
Un contributo che se da una parte, inizialmente, aveva precorso i tempi stimolan-
do e indicando nuovi metodi e strade per l’investigazione, dall’altra, getta attualmente
dubbi sulla scientificità di questa metodologia di indagine, a causa dell’ormai mitizzata
figura del serial killer e del suo antagonista, il profiler. Difatti, pur essendo molto vasto
il campo di applicazione del criminal profiling, non essendo quindi solo legato allo stu-
dio degli omicidi seriali, anche se è a quest’ultimi che si deve il suo sviluppo, spesso, la
figura del profiler viene mentalmente associata e contrapposta a quella del serial killer.
Nella letteratura e nel cinema si è venuta a creare un’immagine del profiler: quella
di cacciatore dell’omicida seriale. Quando si parla di profiler, quindi, non si può non
riferirsi anche al serial killer, proprio in vista del loro legame nel mondo dell’imma-
ginario. Nell’immaginario collettivo, il serial killer letterario, cinematografico e quel-
lo della cronaca, finiscono a volte per confondersi, creando così un personaggio che se
da una parte terrorizza, dall’altra affascina. Un personaggio che non avrebbe tanto suc-
cesso, se la realtà venisse trasposta così com’è; in quanto, una fedele riproduzione della
realtà provocherebbe sensazioni opposte rispetto al personaggio del serial killer appar-
tenente all’immaginario; è per questo che l’immaginario va a mescolarsi alla realtà, le
paure al fascino della paura stessa.
Numerosi sono i film che vedono protagonisti serial killer e profiler, come il cele-
bre Collezionista d’ossa, tratto da un romanzo di Jeffery Deaver e in tempi meno recenti,
Il silenzio degli innocenti, tratto da un romanzo di Thomas Harris.
Prendendo in considerazione proprio quest’ultimo film, è interessante osserva-
re come un personaggio con una personalità come quella del dottor Hannibal Lecter,
può appartenere al mondo della letteratura, ma è improbabile che appartenga alla real-
tà poiché, nella vita reale, fantasie ossessive così intense non danno la possibilità di de-
dicarsi a una professione, a un’arte.
Il dottor Lecter è ritratto nelle pagine di Thomas Harris come un grande psichia-
tra, un esteta, un uomo colto anche in campo letterario, ma questa è un’immagine non
riscontrabile nel mondo reale, un’immagine che può portare ad essere affascinati anche
da un serial killer.
Opere come Il silenzio degli innocenti e molte altre ancora sono la testimonianza di
una fervida immaginazione che ha preso spunto da un’inquietante realtà. Anche nella
letteratura, infatti, si possono ritrovare elementi della realtà, tratti da pagine di crona-
ca, da eventi realmente accaduti.
L’abitudine (nel film in questione) di Ed Gein di realizzare vestiti di pelle di donna
staccando la pelle alle sue vittime, in modo tale da effettuare una sorta di metamorfosi
finalizzata a cambiare se stesso, viene fatta vivere intensamente, come intenso è l’inte-
resse della criminologia e della psicologia per tali personalità.
È grazie comunque a una maggior informazione e divulgazione dei delitti più ef-
ferati e dei processi giudiziari da parte dei mass media, che in Italia si è diffusa la con-
sapevolezza di non essere esenti da questo fenomeno.
370
Il criminal profiling
Il criminal profiling e la figura del serial killer, un tempo, non sembravano così vi-
cini al nostro Paese, come in questi ultimi anni.
La credenza che gli omicidi seriali appartenessero esclusivamente al mondo anglo-
sassone e agli Stati Uniti, viene smentita da diversi fatti di cronaca che hanno testimo-
niato la presenza di efferati delitti anche in Italia, di assassini seriali come Gianfranco
Stevanin, Luigi Chiatti, Donato Bilancia e il mostro di Firenze, fino a giovani assassini,
come, il caso Pietro Maso e il caso di Novi Ligure.
Le radici del criminal profiling sono lontane nel tempo: dalla frenologia di J. Gall
(1758-1828) all’antropologia criminale di Cesare Lombroso (1835-1919), all’antropo-
metria segnaletica di A. Bertillon (1853-1914) e al costituzionalismo, fino ad arrivare
all’attuale identikit poliziesco. Il suo inizio però, come strumento di supporto alle in-
dagini investigative, si ha a partire dagli anni ‘70 nell’ FBI, quando si viene a creare il
programma di profilo criminale, ad opera degli agenti speciali Howard Teten e Patrick
Mullany.
Il movente viene ritenuto un elemento centrale per la soluzione del crimine.
Nel 1972, Jack Kirsch crea la Behavioral Science Unit (BSU) all’interno dell’acca-
demia dell’FBI a Quantico, nel tentativo di provare l’utilità del profiling come stru-
mento nelle indagini investigative.
Nel 1976, Robert Ressler inizia ad intervistare in carcere i serial killer, per scoprire
le correlazioni tra la scena del crimine e le caratteristiche di personalità del reo. Giunge,
così, nel 1979, insieme a John Douglas, ad introdurre il concetto di modello organizza-
to/disorganizzato, suddivisione nata da un’esigenza investigativa di semplificazione.
Il successo del profiling nelle indagini è tale da venir messo a disposizione di tut-
te le forze dell’ordine degli Stati Uniti. Nel 1992, si arriva alla stesura del manuale di
classificazione del crimine violento, il Crime Classification Manual (CCM) ad opera di
John Douglas, Ann e Allen Burgess e Robert Ressler, dell’Accademia di Quantico. Ma-
nuale che propone una classificazione delle caratteristiche principali degli offender e del-
le vittime delle maggiori tipologie di crimine violento (omicidio, aggressione sessuale e
incendio doloso), basandosi sulle motivazioni al delitto dell’offender.
Il criminal profiling, però, non è solo un fenomeno che si limita al campo statu-
nitense, anche in Italia si è sentita la necessità di creare un’unità specifica per il crimine
violento: l’UACV (Unità di Analisi del Crimine Violento). Il criminal profiling di-
venta, in questo modo, una realtà anche italiana, che, parallelamente, ha iniziato a ri-
conoscere i contributi che la psicologia, attraverso metodi e strumenti, può offrire in
campo investigativo.
371
Criminologia ed elementi di criminalistica
L’esame della scena è una fase oggettiva, a cui solo un numero minimo di soggetti
dovrebbero avervi accesso al fine di evitare contaminazioni.
La ricostruzione della dinamica dei fatti e di chi potrebbe essere il possibile ag-
gressore viene fatta seguendo un profilo logico. Un profilo che si arriva a stendere,
partendo dall’analisi dei dati oggettivi raccolti sulla scena del crimine, e attraverso un
ragionamento logico che utilizza sia le conoscenze della psicologia in merito al com-
portamento umano sia le informazioni provenienti dall’ambiente. Si può dire che, in
qualche modo, la scena del crimine comunica. È ad Edmond Locard, responsabile del
laboratorio della polizia scientifica di Lione, nel periodo a cavallo tra il XIX e XX seco-
lo, a cui si deve un principio alla base della criminalistica: il principio di interscambio,
ovvero, ogni criminale lascia sulla scena tracce di sé e di ogni scena rimane traccia nel cri-
minale. I comportamenti evidenziabili sulla scena del crimine si possono suddividere
in: modus operandi (l’insieme dei comportamenti, delle azioni che il criminale compie
per realizzare il proprio delitto; non è stabile nel tempo, ma può modificarsi da un de-
litto al successivo in base all’esperienza); firma (non indispensabile per portare a termi-
ne l’azione criminale, rappresenta piuttosto un bisogno psicologico, più o meno consa-
pevole, lanciato agli investigatori e si ripresenta con costanza nei successivi delitti della
serie. È un comportamento statico a differenza del modus operandi); staging (la volon-
taria alterazione della scena del crimine); undoing (la deliberata modificazione della
scena del crimine, attribuita al rimorso dell’assassino che così cerca, almeno sul piano
simbolico, di distanziarsi dall’accaduto).
L’analisi della scena del crimine è il punto di partenza in qualunque indagine, e
deve essere effettuata prima di procedere all’elaborazione del profilo psicologico e com-
portamentale del reo.
Attraverso l’analisi degli elementi rinvenuti sulla scena del crimine, le tracce, le
prove fisiche e la ricostruzione della dinamica dell’evento, si cerca di determinare cosa è
successo, e in che modo. Successivamente, utilizzando le informazioni provenienti dal-
la scena del crimine (si cerca di comprendere quali possano essere state le motivazioni,
ovvero, il perché e le caratteristiche della personalità dell’autore del reato, ovvero chi è
stato), viene ad elaborarsi così il profilo criminologico del reo.
È importante sottolineare che l’elaborazione del profilo non va a sostituire l’analisi
investigativa ma la sua funzione è di supporto alle indagini, e non sempre risulta essere
necessario. In genere, l’elaborazione del profilo si usa in casi di omicidi senza apparente
movente e/o particolarmente efferati, o in casi di omicidi a sfondo sessuale caratteriz-
zati da serialità, ripetitività.
Nei delitti in cui la componente psicologica non è particolarmente forte e la mo-
tivazione riscontrata è di tipo materiale, l’elaborazione di un profilo non risulta essere
di grande utilità ai fini dell’investigazione, in quanto, potrebbe adattarsi a chiunque o
confermare l’aderenza al principale sospettato.
Il profilo tracciato è, comunque, un’ipotesi da cui partire in modo da accelerare i
tempi di investigazione; non è così accurato da permettere di individuare in modo pre-
ciso l’autore del reato, permette, però, di circoscrivere una cerchia di possibili sospetti.
Partendo dal concetto che il comportamento riflette la personalità, e che quindi il com-
portamento di un criminale durante l’esecuzione di un reato riflette le sue caratteristi-
che personologiche, si considerano gli elementi presenti sul luogo del crimine. Questi
372
Il criminal profiling
Si occupa delle tracce e delle prove fisiche, con l’obiettivo di determinare che cosa è
accaduto e in che modo è accaduto. Si parte dall’analisi delle prove rinvenute sulla scena e
dalla ricostruzione della dinamica dell’evento basata su tali prove, per affrontare la que-
stione del perché ciò è accaduto e cosa questo ci racconta del soggetto che lo ha compiuto.
L’analisi della scena del crimine è fondamentale e deve essere effettuata prima di poter af-
frontare qualunque passo del processo di elaborazione del profilo psicologico. Il motivo:
non ci sono le basi per comprendere il chi è stato e il perchè lo ha fatto fino a quando non
si conosce il cosa e il come è accaduto. I mezzi impiegati per la raccolta degli elementi di
prova prevedono l’utilizzo di tecniche tradizionali, accanto a strumentazioni sempre più
tecnologicamente evolute. Si utilizzano videocamere, apparecchi fotografici ad altissima
risoluzione; non infrequente è il ricorso a fotografie aeree, per collocare il teatro del de-
litto in un contesto geografico che può fornire importanti orientamenti d’indagine.
Vengono raccolti, inoltre, dati sulle caratteristiche socio-ambientali e demografi-
che della zona. Fondamentali sono i verbali di interrogatorio di tutti coloro che si ritie-
ne abbiano potuto, in qualsiasi modo, partecipare al delitto. Il rapporto medico-legale,
le fotografie e il verbale dell’autopsia, costituiscono altri elementi irrinunciabili per il
profilo psicologico. Già in fase di sopralluogo, i dati oggettivi vengono raccolti per es-
sere successivamente analizzati e interpretati.
373
Criminologia ed elementi di criminalistica
Ecco l’elenco degli elementi più importanti che possono essere rinvenuti sulla sce-
na di un crimine:
- zona in cui è stato rinvenuto il cadavere (città, periferia urbana, zona commer-
ciale, residenziale, agricola);
- luogo di rinvenimento (abitazione, parco, strada isolata, albergo).
Analisi vittimologica
- elementi anagrafici;
- stile di vita (convivenza, mezzo di trasporto abitualmente utilizzato);
- attività al momento dell’aggressione;
- descrizione del cadavere (conservazione, posizione, età apparente);
- connotati fisici della vittima (razza, corporatura, segni particolari);
- analisi degli indumenti e accessori utilizzati;
- costrizioni (mezzo utilizzato, localizzazione, possibilità di ricostruire se il mezzo
era presente sulla scena o portato con sè dall’aggressore);
- violenze sessuali subìte;
- causa di morte;
- mutilazioni del corpo;
- caratteristiche delle lesioni e loro localizzazione.
374
Il criminal profiling
Case linkage
- prove fisiche: similarità tra le prove fisiche presenti sulla scena del crimine, tra i ri-
scontri medico-legali raccolti in casi differenti;
- descrizioni fisiche: similarità tra le descrizioni fisiche di un offender fornite da vit-
time o testimoni;
- modus operandi: similarità tra modalità di azione di un offender necessarie alla
realizzazione del crimine;
- signature (firma): similarità tra modalità di azione di un offender non necessarie al-
la realizzazione del crimine, ma suggestive di un bisogno psicologico o emozionale
del reo;
- analisi della vittima: similarità o collegamenti tra le vittime, o tra le caratteristiche
in base alle quali le vittime sembrano essere scelte;
- analisi delle ferite: similarità tra le ferite riportate da una vittima e, in particolare,
con riferimento alla loro natura ed estensione;
- localizzazione geografica: aggressioni che avvengono nella medesima area o in aree
con caratteristiche simili.
375
Criminologia ed elementi di criminalistica
sopralluogo, insieme con le istruzioni per la compilazione della cartella biografica, indi-
cate come informazioni che hanno influenza, talora decisiva, sulle determinazioni del
Magistrato, tanto per l’applicazione della pena, quanto per la concessione degli specia-
li benefici (perdono giudiziale, sospensione condizionale della pena, ecc.) previsti dal
nuovo codice penale. Specialmente incaricati di vegliare sulla esatta compilazione della
cartella biografica e del ritratto parlato erano gli ufficiali dell’Arma, comandanti diret-
ti, in considerazione del nuovo compito importantissimo affidato dalla legge.
In atto, il ritratto parlato ha raggiunto la più valida forma dell’identikit, di pari pas-
so con l’adozione dei mezzi tecnici e dei procedimenti più progrediti per la lotta contro
la criminalità, non esclusi quelli computerizzati.
376
CAPITOLO 18
La scena criminis
18.1 Introduzione
La scienza, con le tecnologie sempre più sofisticate, è ormai da anni al servizio del-
la giustizia.
L’omicida di un tempo, oggi, sarebbe inchiodato alle responsabilità da una goccia
di sangue, da un mozzicone di sigaretta o da un sottilissimo lembo di tessuto. Perché
dove non possono arrivare l’intuizione e la bravura di un investigatore, adesso, può la
scienza. Una branca del sapere che ha un nome ben definito: criminalistica.
Il progresso tecnologico è riuscito a generare nuove strategie per il contrasto del
crimine e l’individuazione dei colpevoli. Strumentazioni all’avanguardia come i micro-
scopi elettronici e sistemi informatici di ultima generazione per la gestione di vastissi-
me banche dati.
La giustizia ha sempre più bisogno di certezze, di uomini e mezzi per evitare che
un delitto resti impunito. In quest’ottica, l’ingresso di nuove branche del sapere appli-
cate all’attività investigativa (scienze forensi) è il frutto di una precisa necessità: trasfor-
mare indizi e reperti in prove legali ai fini del procedimento giudiziario. Si tratta di un
passaggio obbligato alla luce dell’attuale codice di procedura penale, che stabilisce co-
me una prova di innocenza o colpevolezza debba formarsi, prevalentemente, in dibat-
timento, attraverso la dialettica tra difesa e accusa. Ecco perché gli accertamenti scien-
tifici assumono, oggi come non mai, un grande significato probatorio.
In Italia, un’immagine rappresentativa di questa nuova realtà investigativa viene
fornita dal Racis, dal Ris, dal Servizio di Polizia Scientifica, dai laboratori scientifi-
ci della Guardia di Finanza, dai contributi delle Università, da organizzazioni priva-
te, ditte che si specializzano nell’effettuare analisi di tipo scientifico-forense. Nei la-
boratori forensi, gli elementi che vengono analizzati assumono il termine di reperti.
Questi ultimi vengono individuati e raccolti dalla scena criminis per poi essere con-
servati ed analizzati quando si riterrà necessario. La fase nella quale sia i reperti che
le informazioni descrittive vengono estratti dalla scena criminis viene denominata so-
pralluogo.
377
Criminologia ed elementi di criminalistica
378
La scena criminis
cio (art. 507). L’art. 244, primo comma, contempla un decreto motivato, alludendo al-
le ispezioni eseguite dal Pubblico Ministero indagante: ma nel processo, le dispone chi
giudica e, l’ordinanza, sembra la forma naturale.
L’ispezione locale e sulle cose è regolata dall’art. 246 c.p.; la protezione costituzio-
nale offerta al domicilio dall’art. 14 Cost. sembra adeguatamente rafforzata dalla pre-
visione della consegna di copia del provvedimento alla persona che ha la disponibilità
del luogo, se presente.
Le indagini di sopralluogo, però, non sono solamente quelle comprese nell’attività
ispettiva dell’autorità giudiziaria, ma anche quelle espletate dalla Polizia Giudiziaria ai
sensi dell’art. 354, secondo comma, che così recita: “se vi è pericolo che le cose, le tracce
e i luoghi si disperdano o comunque si modifichino, e il Pubblico Ministero non può
intervenire tempestivamente, gli Ufficiali di Polizia Giudiziaria compiono i necessari
accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose”. Indagini di sopralluogo, sono,
anche, quelle effettuate dagli ausiliari di Polizia Giudiziaria, o dai consulenti tecnici
nominati dal Pubblico Ministero o dal difensore di una delle parti impegnate nel pro-
cesso penale, oppure, dai periti nominati dal magistrato giudicante. L’art. 348 c.p.p., al
quarto comma, recita: “la polizia giudiziaria, quando, di propria iniziativa o a seguito
di delega del Pubblico Ministero, compie atti od operazioni che richiedono specifiche
competenze tecniche, può avvalersi di persone idonee” e così via.
Analogamente, il Pubblico Ministero, qualora debba procedere a un’operazione
tecnica per cui sono necessarie specifiche competenze, può nominare e avvalersi di con-
sulenti (art. 359 primo comma). L’art. 360 (accertamenti irripetibili) dà alla persona
indagata la facoltà di nominare consulenti tecnici.
In base all’art. 220, la perizia è possibile quando occorre svolgere indagini che
richiedono specifiche competenze tecniche; tra le indagini del perito nominato dal
Giudice, possono rientrare indagini di sopralluogo, anche se la cosa è alquanto rara,
poiché non vi è più quell’immediatezza tra commissione del reato e attività di inda-
gine. Come si inserisce l’indagine tecnica di sopralluogo nel sistema probatorio delineato
dal codice?
Il Legislatore ha introdotto una distinzione (mezzi di prova e mezzi di ricerca del-
la prova) che ha un duplice fondamento, logico e tecnico-operativo. I mezzi di prova,
trattati nel titolo II del libro III (esame dei testimoni e delle parti, confronti, ricogni-
zioni, esperimenti giudiziali, perizia, documenti), si caratterizzano per l’attitudine ad
offrire al giudice risultanze probatorie direttamente utilizzabili in sede di decisione. Al
contrario, i mezzi di ricerca della prova, trattati nel titolo III del libro III (ispezioni,
perquisizioni, sequestri, intercettazioni), non sono, di per sé, fonte di convincimento,
ma rendono possibile acquisire cose materiali, tracce o dichiarazioni dotate di attitu-
dine probatoria.
Dal punto di vista tecnico processuale, i mezzi di ricerca della prova si caratteriz-
zano, altresì, in quanto, mirando a far penetrare nel processo elementi che preesistono
all’indagine giudiziaria, si basano sul fattore sorpresa e non consentono perciò, per la
loro stessa natura, il preventivo avviso ai difensori quando sono compiuti nella fase del-
le indagini. La prova è, in questi casi, precostituita, non deve essere perciò formata in
processo. La cura del Legislatore perde di tono sui modi di ricerca e di acquisizione e
non sulle modalità di assunzione come per i mezzi di prova.
379
Criminologia ed elementi di criminalistica
Preparazione
380
La scena criminis
381
Criminologia ed elementi di criminalistica
b) concentrarsi sulle prove più labili fino ad arrivare a quelle meno labili;
c) focalizzarsi prima le aree facilmente accessibili e visibili, per poi progredire
verso punti fuori dalla portata visiva, cercare oggetti nascosti di proposito;
d) considerare se le prove possono essere state spostate involontariamente;
e) valutare se la scena e le prove sembrano essere state volontariamente alterate.
382
La scena criminis
a) gestire la ricerca in base alla previa valutazione della possibilità di prove fisi-
che;
b) condurre la ricerca a partire da un esame generale per poi dedicarsi ai partico-
lari;
c) utilizzare speciali pattern di ricerca (ad esempio, griglia/lineare/spirale) quan-
do possibile;
d) fotografare tutti gli oggetti prima di prelevarli e annotare tutto nel registro fo-
tografico, ricordandosi di usare una scala di misurazione;
e) annotare la localizzazione delle prove sul disegno/diagramma;
f ) completare il registro delle prove con appropriate annotazioni per ogni ogget-
to costituente prova;
g) assicurarsi che sulle prove o sul contenitore delle prove vengano apposte le ini-
ziali dell’investigatore che le raccoglie;
h) non manipolare eccessivamente le prove dopo averle raccolte;
i) sigillare tutti i contenitori delle prove sulla SC;
l) non improvvisare l’imbustamento delle prove: diversi tipi di prove possono
necessitare di diversi tipi di buste/contenitori;
m) non dimenticare le vie di accesso/uscita per potenziali prove;
n) assicurarsi di ottenere appropriati standard riconosciuti (per esempio, cam-
pioni di fibre da un tappeto);
o) controllare costantemente gli incartamenti, le annotazioni sulle buste e altre
pertinenti registrazioni delle informazioni per eventuali errori che possono
causare confusione o problemi in un secondo momento.
383
Criminologia ed elementi di criminalistica
nazione delle prove; 2) dopo la ricerca cauta, una ricerca vigorosa delle zone nasco-
ste/poco visibili.
Impronte papillari
Solchi e creste formano un disegno del tutto originale, unico, sui polpastrelli delle
dita, sul palmo delle mani e sulla pianta dei piedi: queste vengono definite impronte.
Sulla loro presenza si basa la scienza della dattiloscopia, il metodo d’identificazione più
noto, più utilizzato e certamente uno dei più antichi, se pensiamo che già l’impronta
del dito e della mano era usata come marchio di autenticità dai vasai della Cina di due-
mila anni fa.
Il disegno papillare fa la sua comparsa già nel terzo o quarto mese di vita intraute-
rina e rimane immutato per tutta la vita e oltre, con la possibilità di essere evidenziato
anche nel cadavere, almeno sino a quando i processi biologici di smaltimento del corpo
lo consentono. Non solo i polpastrelli, anche il palmo delle mani e la pianta dei piedi,
presentano disegni epidermici caratteristici e unici, ma, ancora, non vi è accordo nel-
la comunità scientifica sulle modalità di classificazione. Solitamente, le impronte vi-
sibili sono dovute al precedente contatto delle dita con sostanze quali il sangue o l’in-
chiostro, con il risultato di un’immagine positiva; l’immagine sarà, invece, negativa se
i polpastrelli sono contaminati con polvere o gesso e si riproducono su fondo scuro. Le
impronte plastiche sono, invece, il risultato del contatto con una superficie in grado di
trattenere il segno come in un calco. Le impronte latenti, ovvero invisibili, sono quel-
le che richiedono la maggiore competenza e abilità per essere rilevate e raccolte per la
successiva comparazione.
La scelta del metodo e il buon esito della ricerca di impronte latenti, dipende dal
substrato sul quale ricercare, dal tempo trascorso tra la deposizione dell’impronta e la
sua rivelazione, dallo stato di conservazione del substrato (per temperatura e umidità),
e naturalmente, dalla qualità dell’impronta stessa. In condizioni ambientali ottimali,
viene definita impronta fresca quella rivelata nell’immediatezza, vecchia, quella deposta
da oltre 100 ore. Nella scelta del metodo da usare, si prediligono quelli che possono
agire in successione.
Per evidenziare impronte su buste da lettera, cartoncini, fogli o anche tessuti a tra-
ma fitta, tutte superfici porose lisce, possono essere utilizzati vari metodi:
1. Trattamento mediante DFO. Con questa sigla si indica la soluzione che viene co-
sparsa sulla probabile impronta per evidenziarla; il DFO (1,8 diazo-9-fluorenone)
reagisce con gli aminoacidi presenti nell’essudato che costituisce le impronte e, se
384
La scena criminis
colpito da luce laser, diventa fluorescente. Questo sistema va usato per primo e tra
i suoi vantaggi c’è il fatto che può essere applicato quando il substrato è molto co-
lorato oppure riflettente e non permette un buon contrasto con le linee dell’im-
pronta. Inoltre, le impronte evidenziate con il DFO, permangono a lungo, a dif-
ferenza di quelle trattate con un’altra sostanza chimica, la ninidrina.
2. Trattamento con ninidrina, una sostanza che reagisce con le componenti aminoa-
cidiche dell’essudato umano, formando un particolare complesso di colore ros-
so-violetto chiamato purple Ruhemann’s, che si deposita sulle creste papillari ed è
invisibile a occhio nudo. Questo sistema ha lo svantaggio di richiedere umidità
per agire adeguatamente e, inoltre, le impronte evidenziate tendono a sbiadire nel
tempo. Ma ha il vantaggio di essere veloce, pratico e poco costoso. L’impronta
può essere migliorata mediante cloruro di zinco il quale, legandosi alla ninidrina,
rende fluorescente l’impronta quando viene illuminata con una luce laser a ioni
argon.
3. Un’ottima tecnica (utilizzata sia per gli oggetti porosi che per quelli non porosi) è
quella della deposizione metallica. In genere, viene impiegata per ultima, al fine di
migliorare l’evidenziazione delle impronte papillari latenti, e il metodo funziona
bene, purchè non siano stati recentemente utilizzati sali metallici (come il cloruro
di zinco).
Per questa analisi, bisogna utilizzare una specifica apparecchiatura nella quale, in
condizioni di vuoto, viene, prima di tutto, fatto evaporare dell’oro che, conden-
sando sulla superficie in esame in uno strato monoatomico, privilegia, nella depo-
sizione, le parti non grasse. L’oro, in realtà, funge solo da supporto per lo zinco,
che viene vaporizzato nella seconda fase del trattamento, generando il contrasto
necessario all’individuazione dell’impronta.
385
Criminologia ed elementi di criminalistica
La pelle umana è tra i substrati più difficili sui quali ricercare le impronte papil-
lari, a causa della consistenza stessa dell’epidermide, continuamente cangiante, conta-
minata anche da sostanze lipidiche. L’evidenziazione delle impronte su tale substrato è
influenzata anche da fattori quali lo stato di conservazione della pelle (nel caso di ca-
davere), la traspirazione della pelle e il tempo trascorso dall’apposizione dell’impronta.
Per evidenziare le impronte papillari latenti su pelle umana, possono essere utilizzati i
seguenti trattamenti:
1. Il metodo dei fumi di iodio: prevede, inizialmente, l’applicazione dello iodio per
mezzo di un tubetto fumigatore e, quindi, la rivelazione di impronte latenti. Que-
sta reazione è propedeutica, in quanto, la colorazione evidenziata, che si presenta
debole e transitoria, consente l’evidenziazione dei frammenti di impronte papillari
(che possono essere tempestivamente documentati fotograficamente) e, nella fase
successiva, il loro trasferimento su una piastra lucida d’argento. Le impronte sono
successivamente rivelate dopo l’esposizione a forti sorgenti luminose della piastra
d’argento per formazione di composti bruno-scuri ottenuti dalla reazione tra iodio
e argento.
2. Il metodo anglosassone Krome-Kote, che richiede quale supporto la carta kromekrote
(speciale carta simile a quella fotografica). Mediante un’opportuna pressione eser-
citata sulla carta, posta sulla pelle umana, è possibile evidenziare l’impronta con
l’utilizzo della polvere di grafite. Risulta possibile, alle volte, che l’impronta rima-
sta sulla pelle (dopo il trattamento krome-krote), possa essere rivelata mediante
spolveramento diretto di sostanze esaltatrici in polvere.
3. Il metodo dell’elettronografia (una sorta di radiografia prodotta da un’emissione
elettronica) è basato sulla radiografia della pelle che precedentemente è stata trat-
tata con della polvere di piombo. In alternativa alla polvere di piombo, possono
essere usati tetrossido di rutenio, diossido di zolfo, cloruro di iodio, tiurea e solfuro
di sodio. Questo metodo presenta numerosi svantaggi inerenti l’utilizzo di sostan-
ze radioattive.
4. Il metodo della fluorescenza laser indotta richiede l’uso, quale sorgente di irraggia-
mento, di un laser modulato in frequenza e intensità in modo da stimolare l’emis-
sione in fluorescenza delle sostanze presenti nell’essudato. Questi composti, quali
le vitamine del gruppo B o i loro derivati, rivelano la presenza di eventuali impron-
te allo stato latente.
5. Anche sulla pelle si può provare a usare il metodo delle polveri esaltatrici. Viene utiliz-
zato un supporto di polietilene (PET) semirigido, preventivamente caricato elettro-
staticamente, e posto sulla pelle, nelle zone in cui si ritiene siano presenti impron-
te. Il supporto viene successivamente trattato con specifiche polveri, e le eventuali
impronte evidenziate possono essere fotografate mediante luce naturale, ultravio-
letta, oppure laser a ioni argon, qualora il foglio plastico sia stato trattato con pol-
veri fluorescenti.
6. In casi particolari viene usato anche il metodo dell’estere cianoacrilico, in questo
caso a entrare nella camera isolata sarà il corpo della vittima.
386
La scena criminis
Le armi da fuoco
a) mai inviare un’arma carica al laboratorio, a meno che non sia portata di persona. Le
cartucce non sparate possono essere lasciate nel caricatore di un arma, a patto di ri-
muovere il caricatore stesso. Un’arma da fuoco col caricatore inserito non dovrebbe
mai essere trasportata in alcun modo, nemmeno se l’arma ha la sicura inserita;
b) mai pulire la canna, la camera di sparo o il tamburo prima di sottoporla agli esami
di laboratorio e mai tentare di sparare con essa prima che sia esaminata;
c) mai prendere un’arma mettendo una matita o un altro oggetto all’estremità della
canna;
d) registrare numero di serie, marca, modello e calibro dell’arma e marcarla in modo non
appariscente, in modo da non diminuirne il valore prima di mandarla al labora-
torio. Marcare le armi da fuoco è importante perché, a volte, vengono trovati nu-
meri di serie duplicati su armi diverse della stessa marca e modello generale. Non
bisogna confondere i numeri del modello o del brevetto coi numeri di serie;
e) mettere le armi da trasportare in scatole di cartone resistente o di legno, ben imballate,
in modo da evitarne lo spostamento durante il tragitto;
f ) fucili o pistole non dovrebbero essere smontati;
g) se sull’arma è presente sangue o altro materiale di qualunque genere che riguarda
l’investigazione, avvolgere l’arma in un foglio di carta pulita e sigillarlo con nastro
adesivo per prevenire il movimento dell’arma e la perdita del reperto durante il tra-
sporto;
h) se l’arma deve essere esaminata per impronte digitali latenti, mettere in pratica le ap-
posite procedure;
i) mai marcare i proiettili;
l) avvolgere i proiettili recuperati in carta e sigillare in scatoline separate ed etichettate
o buste;
m) inviare tutti i proiettili recuperati al laboratorio. Un’identificazione decisiva può es-
sere possibile su uno solo dei diversi proiettili trovati, anche quando tutti sembra-
no essere in buone condizioni;
m) non tentare di pulire i proiettili recuperati, prima di inviarli al laboratorio;
n) proiettili recuperati da un cadavere dovrebbero essere asciugati all’aria e avvolti in
carta. Il lavaggio può distruggere importanti prove;
387
Criminologia ed elementi di criminalistica
Fibre e fili
Questo tipo di materiale, spesso, viene rinvenuto sulle abrasioni causate da tessuto
o su materiali strappati o ancora su aree colpite da veicoli che non si sono fermati. In
388
La scena criminis
alcuni casi di furto con scasso, questo materiale può essere trovato su porte scorrevoli
forzate, vetri rotti o altri punti interessati.
L’esame delle fibre aiuta a determinare il tipo o il colore delle stesse. È possibile
anche risalire al tipo di indumento o tessuto di cui facevano parte. Fibre e fili possono
anche essere confrontate con gli abiti dei sospettati, per stabilire se possono provenire
da essi.
Se vengono rinvenuti fili o grandi fibre, è possibile raccoglierle con le dita e inse-
rirle nelle apposite bustine, che poi andranno messe in una busta di carta più grande,
che verrà sigillata ed etichettata. Mai mettere le fibre direttamente in una busta da let-
tera, perché possono facilmente essere smarrite.
Se le fibre sono poche e di piccole dimensioni, e se è possibile farlo, avvolgere l’in-
tera area che le contiene con un foglio di carta e inviare il tutto al laboratorio. Racco-
gliere le fibre su nastro adesivo solo se il laboratorio lo permette e vi fornisce i requisiti.
Quando vengono rinvenute fibre e fili, è necessario inviare al laboratorio anche tutti gli
abiti delle persone da cui potrebbero provenire, a scopo di confronto.
Nei casi di assalto sessuale e in alcuni altri casi, è possibile indicare o dimostrare il
contatto tra due individui o tra un individuo e un oggetto, tipo il sedile di una macchi-
na, tramite il confronto delle fibre. Questi esami sono validi solo se è provato che non
c’è stato contatto tra i due individui o un individuo e un oggetto prima o dopo l’episo-
dio. Attenzione particolare deve essere posta nel tenere tutti i capi di vestiario di ognu-
no degli individui e l’oggetto separati. Ogni capo dovrebbe essere steso su un foglio di
carta pulita e arrotolato separatamente dopo essere stato etichettato. Se uno dei capi di
vestiario di un soggetto viene a contatto con uno dell’altro soggetto o viene disteso sul
tavolo o sul sedile che è stato toccato dagli abiti dell’altro sospettato, il confronto può
non essere valido.
Vetro
Frammenti di vetro possono provenire da finestre rotte durante un furto con scas-
so, fari in casi di pirateria stradale, e bottiglie o altri oggetti che possono rompersi e la-
sciare frammenti su effetti personali di sospettati coinvolti in vari tipi di crimini.
Scarpe e vestiti dei sospettati o altri oggetti riportanti schegge di vetro dovrebbero
essere avvolti in carta e mandati al laboratorio per essere esaminati.
Tutti i frammenti di vetro rinvenuti sulla scena di incidenti causati da pirateria
stradale dovrebbero essere raccolti. La ricerca non dovrebbe essere limitata solo al pun-
to dell’impatto, poiché i vetri dei fari anteriori possono cadere anche a una certa di-
stanza, mentre l’automobile lascia la scena dell’incidente. I vetri provenienti da diversi
punti devono essere tenuti in diversi contenitori. È importante raccogliere tutti i vetri,
perché ce ne possono essere di diversi tipi. Inoltre, se se ne conservano solo pochi cam-
pioni, c’è il rischio di lasciarsi sfuggire i singoli pezzi che potrebbero fisicamente com-
baciare col vetro che rimane nei fari dell’auto del sospettato.
Mettere piccoli frammenti di vetro in bustine di carta, da inserire poi in buste più
grandi o, in mancanza, nei contenitori di plastica dei rullini fotografici o in scatoline
porta pillole, basta che sia possibile sigillare ed etichettare il contenitore.
Mettere i frammenti più grandi in scatole di dimensioni adatte. Separare i singoli
389
Criminologia ed elementi di criminalistica
pezzi con cotone o carta, per evitare la rottura dei bordi durante il trasporto. Sigillare
ed etichettare il contenitore.
Finestre: se la finestra rotta è piccola, inviarla tutta intera (o comunque tutto il ve-
tro rimasto) al laboratorio. Se è grande, raccogliere diversi campioni da diversi pun-
ti della finestra. Se il vetro rotto è abbastanza grande da permettere il confronto con i
margini rotti o l’esame delle linee di frattura, di impronte, di abrasioni superficiali o
contaminazioni, è necessaria l’intera finestra rotta.
Vetri-fari di automobili: tutti i vetri rimasti nel telaio vanno raccolti. Se c’è il so-
spetto che sia stato montato un vetro nuovo, questo deve essere rimosso e il telaio va
accuratamente esaminato per cercare piccole schegge provenienti dal vetro che c’era
prima. In questi casi, inviare il nuovo vetro al laboratorio.
Altri tipi di vetro: quando si sono rotte bottiglie o altri oggetti, raccogliere tutti i
vetri presenti.
Fari e fanalini di coda di veicoli a motore. Nell’investigazione su incidenti di veicoli,
può essere importante determinare se i fari anteriori o posteriori del veicolo erano ac-
cesi nel momento in cui la luce si è rotta.
Il ritrovamento dei filamenti è di primaria importanza. Sono abbastanza piccoli e la
loro localizzazione può richiedere un’attenta ricerca.
Se vengono trovati, devono essere inseriti in una bustina di carta o una scatolina
da chiudere con nastro adesivo. Indipendentemente dal fatto che vengano trovati i fi-
lamenti grandi, tutte le parti rimanenti (l’alloggiamento della lampada, l’involucro del
vetro o l’intera unità del fascio sigillato del faro) devono essere avvolti in carta e inviati
al laboratorio.
Vernici
390
La scena criminis
niciata, possono essere di gran valore come prove, quando il veicolo responsabile viene
localizzato. In alcuni casi, frammenti di vernice possono essere rinvenuti anche sul ter-
reno vicino al punto d’impatto.
È necessario ottenere campioni per il confronto da tutte le zone che rivelano dan-
ni recenti sui veicoli sospetti. Questo è molto importante dal momento che la verni-
ce può essere di tipo e di composizione diversi in zone diverse, anche se il colore è lo
stesso. Se la vernice può essere scrostata, piegando leggermente il metallo, rimuoverla
in questo modo. Altrimenti, va grattata usando una lama pulita, da pulire nuovamente
dopo ogni prelievo. Prelevare tutti gli strati fino al metallo. Mettere ogni campione in
un contenitore diverso.
Trasferimenti reciproci di vernice si verificano, spesso, nei casi di pirateria stradale
tra due o più veicoli. Se vengono rinvenute delle schegge di vernice su uno di questi,
provare a rimuoverli e metterli in una bustina di carta. Se invece i trasferimenti sono
sotto forma di macchia sulle superfici, sfaldare le schegge o grattare la vernice dal vei-
colo, includendo sia quella trasferita, sia lo strato superficiale originale. Tenere tutti i
trasferimenti trovati in diverse aree in contenitori separati e non inserirli direttamente
nelle buste, prima metterli nelle apposite bustine.
Quando si verificano trasferimenti reciproci, raccogliere subito i campioni contami-
nati di ciascun veicolo trovati nelle aree immediatamente adiacenti a ogni trasferimento
raccolto. Ciò è molto importante, visto che questi campioni permettono al laboratorio
di distinguere tra la vernice trasferita e quella originariamente presente sul veicolo.
Gli strumenti usati per entrare negli edifici, forzare cassaforti e introdursi in altri
ambienti, spesso, contengono tracce di vernice, così come di altre sostanze come plasti-
ca, materiali isolanti, e così via. È necessaria la massima cautela affinché queste tracce
non vadano perdute. Se sono presenti questi trasferimenti, avvolgere l’estremità dello
strumento che li reca in carta pulita e sigillare con nastro adesivo per prevenirne la per-
dita. In nessun caso, si deve tentare di mettere lo strumento in segni o impronte trova-
te. Se si procede in tal modo, infatti, i trasferimenti di vernice o di altro materiale tro-
vati in seguito sullo strumento possono non essere validi come prove.
Raccogliere campioni di vernice da tutte le zone con cui gli strumenti possono es-
sere venuti in contatto sulla scena del crimine. Questi campioni dovrebbero includere
tutti gli strati presenti. Non rovinare il segno lasciato dallo strumento quando si racco-
glie la vernice. Se possibile, ritagliare tutto intorno al segno e inviare il materiale su cui
si trova al laboratorio.
Lo strumento stesso può contenere vernice o altri rivestimenti, tracce dei quali
possono essere state lasciate sulla scena del crimine. Dovrebbe essere svolta un’attenta
ricerca per tali materiali, in particolar modo, su ogni segno lasciato dallo strumento in
questione. Possono essere usate le apposite bustine di carta per raccogliere e conservare
molti campioni di vernice. Un metodo soddisfacente, è quello di attaccare col nastro
adesivo un lato della bustina al lato del veicolo, edificio o cassaforte, proprio sopra il
punto in cui deve essere raccolto il campione. Tenendo aperta la bustina con una ma-
no, e usando una lama pulita, la vernice può essere grattata facendola cadere nella bu-
391
Criminologia ed elementi di criminalistica
stina. Una volta che il campione è nella bustina, il nastro adesivo può essere rimosso e il
lato aperto della bustina chiuso con lo stesso. Il tutto va inserito in una busta più gran-
de, che deve essere etichettata e sigillata. Il nastro adesivo può essere usato per chiudere
le bustine, che non devono essere mai chiuse con una spillatrice.
Provette di vetro e altri contenitori vanno usati solo in mancanza di altro. Mai
mettere la vernice direttamente nelle buste più grandi a meno che non si tratti di grossi
pezzi. Molte buste non si chiudono bene ai lati e possono verificarsi perdita o conta-
minazione del materiale.
I liquidi infiammabili
392
La scena criminis
Questi dovrebbero essere impacchettati allo stesso modo dei materiali rinvenuti sulla
scena dell’incendio.
In molti casi, è possibile isolare i liquidi infiammabili da diversi oggetti parzial-
mente bruciati tramite l’analisi cromatografia dei gas e altri esami per determinare il ge-
nere di liquido presente. Comunque, di solito, non è possibile risalire alla marca o alla
casa di produzione del materiale.
I passi
I passi sono ciascuno dei movimenti alterni che si compiono procedendo in am-
bulazione. I passi portano moltissime informazioni sul soggetto, quindi se sono rile-
vabili le loro impronte (orme) è possibile dedurre alcune caratteristiche del soggetto
stesso.
I passi possono lasciare orme di calzature, del materiale che avvolge i piedi e di pie-
di nudi. L’identificazione di una traccia di passo (orma di scarpa) si basa, dapprima, sulle
caratteristiche generali (tipo, marca, modello, grandezza, disegno della suola); in segui-
to, con la messa in evidenza di elementi particolari caratteristici e individuali presenti
sulla suola (usura, difetti, lesioni ecc.), è possibile effettuare un’identificazione formale.
Le orme di passi rivelano presenze, tragitti, interazioni, azioni e interventi.
L’investigatore può trovarsi di fronte alle seguenti situazioni:
Se non ci sono tracce di passi, i significati possono essere: la superficie non è idonea al-
la conservazione delle tracce; le orme sono state cancellate; sono stati attuati stratagem-
mi e metodiche tali da non lasciare tracce; non ci sono tracce perché nessuno è passato
attraverso la scena.
In generale, si interviene con la fotografia (a luce radente), se è necessario si con-
trasta con spray colorato, usando un riferimento centimetrato ed eventualmente un di-
segno della traccia.
Nella pratica normale ci si trova di fronte a quattro tipi di impronta da rilevare per
poi interpretare:
393
Criminologia ed elementi di criminalistica
Per suole di comparazione si intendono le suole di quelle calzature che sono com-
parate alle impronte repertate per verificarne la compatibilità. Per tale prelievo, ci si
avvale di fogli adesivi trasparenti (suole delle scarpe inchiostrate con colore speciale,
lavabile) e delle fotografie della suola. Le tracce di passi vanno subito protette con ac-
corgimenti diversi (scatole, cartoni, triopan, delimitazioni, sacchi, ecc.); quando è pos-
sibile, bisogna apporre un’etichetta sul reperto in prelievo con i seguenti dati: luogo e
data del prelievo, generalità del proprietario o possessore (cognome, nome, data di na-
scita); caratteristiche principali delle calzature (marca, modello, tipo, taglia o numero,
se scarpa sinistra o destra). È opportuno porre attenzione allo staging, ovvero alle orme
impresse per fuorviare e depistare (valutare pressione, strategia di camminamento, di-
stanza tra le orme, ecc.). Per individuare il tipo di scarpa (marca e modello delle scarpe
in base al disegno delle suole) collegarsi alle collezioni di riferimento, tramite banche
dati informatizzate.
L’orma della scarpa è utile per:
394
La scena criminis
18.5 Il luminol
Il luminol, scoperto alla fine del XIX secolo, è una sostanza chimica (amino-2,3-
diidro-ftalazine-dione-C8H7N3O2,) che contiene carbonio, azoto, ossigeno e idroge-
no. Ha peso molecolare 177,16 e il suo punto di fusione è a 319-320°C. La sua solu-
bilità è inferiore a 0,1 grammi per 100 millilitri a 19°C e ha l’aspetto di una sostanza
granulosa gialla. Quando reagisce, emette una luminescenza verde-blu con varia inten-
sità. Si può quindi affermare che sia un composto chemioluminescente, ovvero, che
emette luce come risultato di una reazione chimica. In natura, troviamo questo feno-
meno nelle lucciole, la cui luminescenza non è altro che una forma di energia.
Quando il luminol è posto a contatto con una soluzione basica come il perborato,
il pergamanganato, l’iperclorito, lo iodio o il perossido di idrogeno e un catalizzatore
come il ferro, il manganese, il rame, il nickel o il cobalto, viene ossidato. Un catalizza-
tore è l’ingrediente fondamentale di questa reazione, in quanto più esso è potente, più
brillante sarà la luce. Molti metalli favoriscono la reazione, ma ve ne sono alcuni che
la inibiscono. Il perossido di idrogeno è la base più efficace, in quanto brucia il lumi-
nol. Il cobalto si è rivelato il miglior catalizzatore. Il luminol produce luce tramite l’os-
sidazione, in quanto i due atomi di azoto vengono facilmente sostituiti dai due atomi
di ossigeno. Mentre avviene questa reazione, viene rilasciato gas di azoto, che lascia il
luminol in uno stato di eccitazione, con un’energia addizionale che poi viene rilascia-
ta sotto forma di luce. Anche gli aminoacidi, il fruttosio, i gliceroli, i tioli e l’albumina
sierica possono reagire col luminol producendo un’intensa luce. Non è necessaria una
fonte di eccitazione per produrre una luminescenza, ma può essere utilizzato un tubo
fotomoltiplicatore per misurare la quantità di luce emessa.
Nel 1895, due scienziati, Wiedemann e Schmid, dissolsero degli ologenuri alcali-
ni, come NaCl, NaBr, KCl E KBr, irradiati con raggi catodici in acqua. Notarono una
debole luminescenza blu. Rilevarono, inoltre, una produzione di luce anche quando il
carbonato di calcio irradiato veniva attaccato da acido idrocloroacetico acquoso, o aci-
do fosforico. Più tardi, nel 1928, il chimico Albrecht, scoprì una sostanza chimica spe-
cifica che, quando veniva immersa in una soluzione alcalina acquosa, emetteva una lu-
ce blu-verde con una discreta intensità. Non veniva praticamente prodotto alcun calore
insieme alla luce. Questa soluzione conteneva perossido di idrogeno insieme a un cata-
lizzatore. Il catalizzatore era un elemento alcalino con pH tra 10 e 11. A questa sostan-
za chimica venne, più tardi, dato il nome di luminol. Albrecht, inoltre, determinò che
la massima intensità di luce di questa nuova sostanza era 424 nm, e scoprì anche che il
luminol fresco aveva una resa luminosa instabile e che questa resa luminosa proveniva
dall’ossigeno disciolto e preferiva un metallo in traccia. Queste scoperte portarono a un
composto che creava un’utile sorgente di luce fredda con relativa facilità.
Spesso, il luminol è usato in biologia e in biochimica per diversi tipi di test. La cro-
matografia (un metodo per separare le sostanze chimiche), le analisi immunologiche
(che misurano minime concentrazioni di materia biologica nel sangue), e alcuni esami
del DNA, usano tutti il luminol come reagente.
Il più importante e conosciuto uso del luminol è nel campo della scienza forense.
Nel 1937, uno scienziato forense tedesco scoprì l’uso del luminol nella ricerca del sangue.
Il sangue, che è leggermente alcalino, contiene cellule, acqua, enzimi, proteine ed emo-
395
Criminologia ed elementi di criminalistica
globina. L’emoglobina, che contiene ferro, trasporta l’ossigeno in varie parti del corpo,
e reagisce con il luminol come catalizzatore. Il luminol può aiutare a scoprire quantità
molto piccole di sangue anche molto vecchie. È così sensibile, infatti, che può rilevare il
sangue anche se diluito a una parte per milione. Per intenderci, se c’è una goccia di san-
gue in un contenitore con 999.999 gocce d’acqua, il luminol emetterà luminescenza.
Se si sospetta che su una superficie ci sia del sangue (anche se è stata pulita), ci si
può applicare del luminol.
Si spengono le luci, e dopo pochi secondi (approssimativamente 5), può apparire
una luminescenza. Solo perché una superficie diventa luminescente non è detto che sia
il sangue ad essere responsabile. La candeggina, dei coloranti e altro materiale organico
possono reagire col luminol. Ad ogni modo, la reazione chimica è diversa per le diver-
se sostanze, in termini di durata della luminescenza. I metalli, per esempio, provocano
un’immediata luminescenza che sparisce rapidamente, mentre col sangue, la lumine-
scenza dura più a lungo. Nella maggior parte dei casi, il luminol, è uno strumento mol-
to utile nelle investigazioni su omicidi e stupri: ha contribuito alla cattura di molti as-
sassini e stupratori, quando le prove sembravano essere nascoste. Anche se può mettere
in risalto minuscole quantità di sangue in modo efficiente, non significa che non abbia
degli svantaggi nella investigazione della scena del crimine. Dal momento che può sco-
prire anche altre sostanze chimiche e composti, è sempre necessario un esame appro-
fondito per determinare se la sostanza con cui reagisce è sangue. Se è così, allora, inizia
il processo per stabilire il tipo di sangue, e se sia il sangue della vittima. Se viene usato il
luminol, il sangue può venire degradato e perdere alcuni markers genetici usati nei test,
così come possono essere danneggiate altre importanti proprietà del sangue.
Mentre può far rilevare anche piccole quantità di sangue, lo svantaggio, spesso, è
che la piccola quantità trovata, viene ulteriormente diluita dalla soluzione di luminol.
Per queste ragioni, si consiglia di usare il luminol come ultima risorsa sulla scena
del crimine per proteggere il poco che resta delle prove fisiche.
Le proprietà di chemioluminescenza del luminol sono notevoli, per il fatto che le
reazioni in cui è coinvolto, invece di calore, producono una luce fredda, cosa che è di-
ventata un utile strumento sia per la ricerca scientifica che per le persone comuni (basti
pensare alle piccole luci di segnalazione che hanno vari usi civili).
18.6 La grafoscopica
La grafologia giudiziaria, (o grafoscopia) è una disciplina che vanta già centocin-
quant’anni di storia. Il più comune reato collegato alla grafica è certamente quello dei
testamenti, che possono essere stati contraffati o scritti sotto costrizione. Un aspetto
intrigante della falsificazione dei testamenti è dato dal tratto tremolante, caratteristico
della scrittura nella persona anziana, che il falsario si illude di potere imitare con succes-
so e che, invece, non ha nessuna possibilità di superare un’analisi grafologica. Sempre
a proposito di testamenti, è opportuno analizzare alcune caratteristiche della scrittura.
Un tratto grafico non è caratterizzato soltanto dalla forma che assumono le lettere, ma
anche dalla velocità con la quale queste sono scritte. Solitamente, la velocità di scrittu-
396
La scena criminis
ra è massima nei tratti rettilinei (ad esempio, nella asta di una “t”) e minima in quelli
circolari.
I testamenti e la grafologia
Ancora più difficile è il compito del grafologo quando bisogna verificare se il te-
stamento è stato scritto sotto dettatura o sotto costrizione e, quindi, non esprimeva le
reali volontà del soggetto (è stata questa una delle più appassionanti questioni del ca-
so Moro), o se il soggetto si trovava in una situazione psichica o neurologica da farlo
ascrivere in quella categoria che il nostro Codice classifica come persona incapace di
intendere e di volere.
Questa velocità di scrittura lascia delle precise tracce, in quanto il segno lasciato
dalla penna (sia essa una stilografica, una biro, una roller, una punta a feltro, un pen-
narello) tende a restringersi nei tratti veloci. Vi è da aggiungere, inoltre, che il tratto
tende a slargarsi verso la fine del documento se questo è abbastanza lungo, a causa del
calore generato dall’attrito della punta sul foglio, ma questo ha importanza solo se ci si
vuole accertare che il documento è stato scritto di getto. Va da sè che questa velocità è
influenzata da molti fattori (ad esempio, se il documento è stato scritto a letto o se la
397
Criminologia ed elementi di criminalistica
persona soffriva di artrite agli arti superiori), ed è una caratteristica rivelatrice, e ciò è
possibile analizzando la traccia lasciata dalla penna con l’uso di una lente di ingrandi-
mento o metodi più sofisticati quali il microscopio o la lampada di Wood.
Esistono innumerevoli modi per falsificare una firma o per scrivere una lettera
anonima. I più banali sono certamente quello del ricalco, dello stile a mano libera o di
inserire nel testo qualche errore grammaticale o ortografico per lasciar credere di essere
uno straniero o una persona di scadente livello culturale. Poi, vi sono altri metodi mol-
to più sofisticati che, forse, non è opportuno qui illustrare. Nonostante questi strata-
gemmi, chi scrive la lettera non potrà non lasciare nel testo la traccia che (se corretta-
mente interpretata) porterà a lui.
Il sistema utilizzato per identificare l’estensore di una lettera anonima è quello dello
scritto di comparazione. Se in sede giudiziaria il magistrato detta il testo della lettera ano-
nima alla persona imputata la quale dovrà trascriverlo su un foglio, successivamente, il
perito grafico, nominato dal tribunale, vaglierà i due scritti per emettere un responso.
Molto più spesso, comunque, quando sussistono esigenze di riservatezza (si pensi,
ad esempio, al classico caso dell’impiegato di banca che tramite lettere anonime inviate
alla direzione accusa delle peggiori nefandezze i propri colleghi o il proprio superiore),
il giudizio avviene in sede extragiudiziaria e lo scritto di comparazione viene effettuato
dall’impiegato sospettato alla presenza del solo responsabile della sicurezza e del perito
grafico nominato, senza tanta pubblicità, dall’azienda.
Un altro aspetto dell’analisi delle lettere anonime, soprattutto di quelle minatorie
finalizzate all’estorsione, è lo studio psicografologico, finalizzato a tracciare un identikit
psicologico e socioculturale dell’estensore.
Raramente chi scrive una lettera anonima utilizza un normografo, una macchina da
scrivere, una stampante per computer o incolla lettere ritagliate dai giornali (tutti siste-
mi dai quali, comunque, sia pure con una certa difficoltà, è possibile risalire all’estenso-
re del testo), ma si ingegna ad alterare la propria grafia, ad esempio utilizzando la ma-
no sinistra (se abitualmente destrorso), scrivendo caratteri in stampatello o rovesciati
o particolarmente grandi, impugnando la penna in maniera inconsueta, ritoccando il
testo con un pennarello.
Nel ricalco, si pone il foglio con la firma che si vuole imitare sul vetro di una fi-
nestra, vi si sovrappone un altro foglio e su questo, seguendo la traccia che traspare,
si copia. Va da sè che questo tipo di contraffazione difficilmente può passare inos-
servato. Il perché è da ricercare nella sostanziale innaturalezza della firma, i cui tratti,
dovendo seguire una traccia e non essendo, quindi, spontanei, risultano tremolanti,
indecisi.
398
La scena criminis
Un altro sistema utilizzato dal falsario è esercitarsi a riprodurre a mano libera la fir-
ma che si vuole contraffare fino a quando, convinto di essersi appropriato dell’impron-
ta grafica, scrive di getto la firma. Apparentemente, questo sistema può apparire meno
pericoloso del primo, in quanto il tratto grafico appare naturale, e quindi non suscita
l’attenzione di chi (ad esempio, il cassiere di una banca) non conosce la firma origina-
le; in realtà, è un sistema suicida per il falsario in quanto la firma contraffatta, non solo
non supererà una perizia grafica degna di questo nome ma, addirittura, rivelerà inevi-
tabilmente in alcuni tratti la sua identità.
Dallo studio di uno scritto, si possono ricavare parecchi dati che possono rivelare
particolari alterazioni psichiche (ad esempio, se l’anonimo è un relativamente innocuo
mitomane o uno psicopatico deciso a realizzare le sue minacce), precise caratteristiche
culturali, alterazioni fisiche (disturbi visivi, artrosi, arteriosclerosi), le modalità nelle
quali è stato scritto il testo che, complessivamente, possono essere di grande aiuto nella
delimitazione della cerchia dei sospettati e nella valutazione della potenzialità della mi-
naccia annunciata dalla lettera.
18.7 La biometria
A metà strada fra la scienza pura e la tecnologia applicata, la biometria si occupa di
capire come alcune caratteristiche del corpo umano, uniche per ciascun individuo, pos-
sano essere utilizzate come strumento di riconoscimento personale. La natura, infatti,
ha creato tutti uguali e, contemporaneamente, tutti diversi. Tutti noi abbiamo la stessa
struttura (occhi, braccia, cuore, gambe, peli), ma il viso, la voce, gli atteggiamenti, le
impronte digitali e della mano, la grafia, l’iride, etc., sono elementi unici, non riscontra-
bili in nessuno altro simile. Da una decina d’anni, grazie alla disponibilità di computer
con performances sempre migliori, alcune caratteristiche del corpo possono essere ri-
levate, classificate e usate come mezzo di riconoscimento. Come è stato anzidetto, la
biometria può essere definita come biologia quantitativa: essa consente di stabilire rela-
zioni tra le osservazioni, cui seguono le generalizzazioni per descriverle, e infine, la as-
sunzione per deduzione dei principi teorici per interpretarle.
La biometria, nel corso dei secoli, si è sempre più orientata verso quelle caratteristi-
che del corpo umano che possano essere identificative di un singolo individuo. Esisto-
no molte caratteristiche biometriche che possono essere rilevate. Tuttavia, la rilevazio-
ne automatizzata ed il confronto automatizzato con dati immagazzinati in precedenza,
prevede che le caratteristiche biometriche possiedano le seguenti proprietà: invaria-
bilità delle proprietà: cioè la costanza per un lungo periodo di tempo; misurabilità: le
proprietà devono poter essere rilevate in condizioni normali; singolarità: le caratteristi-
che devono avere proprietà sufficientemente uniche da permettere di distinguere una
399
Criminologia ed elementi di criminalistica
400
La scena criminis
se molto raramente, il sistema può commettere errori. La probabilità con cui si verifi-
cano tali errori è espressa da due parametri legati tra loro: FRR (False Rejection Rate),
che esprime la frequenza dei falsi rifiuti e specifica la frequenza con la quale il sistema
rifiuta ingiustamente individui che sono autorizzati all’accesso; FAR (False Acceptance
Rate), che è la frequenza delle false accettazioni, e specifica la frequenza con cui il si-
stema è ingannato da estranei che riescono a essere autorizzati, pur non avendo diritto
di accesso. Questo tipo di errore è sicuramente più grave. Il grado di sicurezza di un si-
stema biometrico può essere impostato dall’organo competente, agendo sulla soglia di
sicurezza, che stabilisce quanto stringenti debbano essere i requisiti di somiglianza delle
caratteristiche biometriche.
I due parametri FRR e FAR sono, infatti, funzione di tale soglia. Un’impronta di-
gitale è costituita da un insieme di linee dette ridge line o creste, che scorrono, per lo
più, in fasci paralleli, che a volte si intersecano, formando un disegno denominato ridge
pattern. Nell’analisi della struttura delle impronte digitali, ricorre anche il termine flow
line o linea di flusso: si tratta di un’ipotetica linea che corre parallelamente ad un insie-
me di creste contigue. L’andamento delle ridge line può essere efficacemente descrit-
to dall’immagine direzionale che è una matrice i cui elementi sono vettori non orien-
tati, ottenuti tramite la sovrapposizione di una griglia a maglia quadrata all’immagine
dell’impronta. Ogni vettore è posto in un nodo della griglia e ha direzione parallela a
quella della flow line che attraversa il medesimo. In altre parole, questi vettori denotano
l’orientazione della tangente alle ridge line in corrispondenza dei nodi della griglia. Esa-
minando accuratamente l’andamento delle creste, si possono notare delle regioni in cui
esse assumono andamenti particolari: curvature accentuate, terminazioni o biforcazio-
ni frequenti. Queste zone sono dette singolarità o regioni singolari e sono riconducibili
a tre tipologie distinte: core (o loop), caratterizzate da un insieme di creste che hanno un
andamento a U; whorl, caratterizzata da una struttura a U; delta, caratterizzate da creste
che delineano una struttura a forma di delta. A un’analisi più approfondita, si possono
osservare altre caratteristiche fondamentali delle impronte digitali: queste micro-singo-
larità, chiamate minutiae o caratteristiche di Galton, sono principalmente biforcazioni o
terminazioni delle ridge line e sono molto importanti per la discriminazione delle im-
pronte. Infatti, esse rappresentano i punti in cui si ha un comportamento anomalo del-
le ridge line, in cui ogni minuzia può essere descritta come un vettore con un attributo
che ne descrive il tipo. I sistemi automatici di verifica e riconoscimento considerano,
generalmente, le sole terminazioni e biforcazioni, perché tutte le altre minutiae possono
essere ricostruite tramite varie configurazioni di queste. Allo stato attuale, da un pun-
to di vista computazionale, in ambito scientifico e applicativo, esistono tuttavia diversi
approcci metodologici ai sistemi AFiS (Automatic Fingerprint Identification Systems).
Infine, per migliorare le prestazioni, soprattutto quando si lavora con grandi database
di sistemi automatici da interrogare in tempo reale, è possibile ricorrere a una combi-
nazione di più tecniche di verifica.
b) facciale
Altre impronte biometriche sono quelle realizzate utilizzando le tecniche per il ri-
conoscimento facciale. Sulla faccia, sono essenzialmente riscontrabili due tipi di carat-
401
Criminologia ed elementi di criminalistica
teristiche: caratteristiche olistiche (dove ogni tratto è caratteristica dell’intero volto) e ca-
ratteristiche parziali (come il naso, la bocca, etc.).
Le tecniche delle caratteristiche parziali prendono delle misure su molti punti cru-
ciali del volto, laddove le tecniche delle caratteristiche olistiche trattano il volto come
un insieme. Questi sistemi, dati dalle immagini ferme o video di una scena, consento-
no di identificare una o più persone presenti, utilizzando dei database, che contengono
dei volti immagazzinati. Il procedimento prevede che, in una prima fase, si segmenti
una determinata scena, all’interno di più scene in disordine, poi si procede alla estra-
zione delle caratteristiche della regione facciale, utilizzando una delle due metodiche
sopra indicate, e, infine, si perviene alla decisione che può riguardare l’identificazione,
il riconoscimento o la categorizzazione di una persona. Vale la pena citare due sistemi
classici per il riconoscimento facciale. Il meno recente è un sistema di riconoscimento
di immagini statiche, denominato Photobook, che utilizza un metodo statistico detto
PCA, acronimo di Principal Component Analysis, sviluppato dal MIT di Boston.
Il PCA interpreta la faccia come un punto in uno spazio n-dimensionale (spazio
delle immagini) e la proietta su un nuovo spazio attraverso una trasformazione lineare
che massimizza la varianza delle facce. Il sistema individua e acquisisce le caratteristi-
che discriminanti dell’intero volto, le memorizza nel database e le confronta con le al-
tre immagini acquisite, esprimendo, conclusivamente, un giudizio di somiglianza con
una o più immagini acquisite nel database. Altro sistema è il Local Component Analysys
(LCA), attraverso il quale si cerca di operare il riconoscimento automatico dei volti in
immagini sia statiche sia di movimento, indipendentemente dalle condizioni di varia-
bilità della scena e della faccia. Quest’ultimo sistema trova applicazione nelle investiga-
zioni di polizia, funzionali a individuare gli autori di un reato, ripresi da una telecamera
a circuito chiuso (banche, supermarket, uffici postali).
Negli ultimi anni, in relazione alle necessità internazionali, si stanno diffonden-
do sistemi automatizzati e real-time particolarmente sofisticati, che hanno l’obiettivo di
identificare una classe di individui ritenuti pericolosi, piuttosto che riconoscerli esatta-
mente. Il motivo di avere dei sistemi di identificazione di possibili candidati pericolosi,
nasce dalla necessità di effettuare una pre-selezione di individui da tracciare o seguire
in aree ad alta densità dove vi è un numero limitato di agenti.
c) dell’iride
La storia dell’iridologia affonda le radici nel passato più lontano, visto che già i ci-
nesi duemila anni prima di Cristo e i sacerdoti Caldei avevano considerato l’importan-
za dell’occhio nei loro scritti di scienza. Ma è solo nell’ottocento che l’iridologia trova
nel medico ungherese Ignaz von Peczely, il primo dei veri appassionati studiosi della to-
pografia dell’iride che nel ventesimo secolo si svilupperà come scienza iridologica.
L’iridologia è una scienza basata sulla lettura della morfologia e del cromatismo del-
l’iride come fonte di informazioni relative all’intero organismo, riguardo aspetti psi-
chici e fisici, sia normali sia patologici, di natura ereditaria, costituzionale o acquisiti.
L’indagine iridologica permette, quindi, di delineare un quadro completo del soggetto
esaminato che comprende caratteristiche e condizioni generali (personalità, vitalità, di-
fese immunitarie, stress ecc.) e condizioni di singoli apparati e organi, patologie pre-
402
La scena criminis
gresse e patologie in atto. Il bulbo oculare è costituito da tre strati sovrapposti di tessu-
to: la parte più esterna viene chiamata sclera, ed è quella che comunemente viene detta
bianco degli occhi; al centro della parte anteriore della sclera, è situata la cornea, che è un
tessuto trasparente e non vascolarizzato che fa parte della sclera, la quale ha il compito
di consentire il passaggio dei raggi luminosi. La seconda membrana, che si trova al di
sotto della sclera, assume il nome di coroide e, nella sua parte centrale anteriore, in una
zona che corrisponde anatomicamente alla collocazione della cornea, dà forma all’iride,
tessuto che è fortemente vascolarizzato ed innervato. Il terzo strato, il più interno, è la
retina che è sensibile alla luce che trasforma in segnali elettrici i quali, inviati al cervello
tramite il nervo ottico, ci consentono di vedere.
L’iride è una struttura circolare, posta dietro la cornea e anteriormente al cristalli-
no; al centro dell’iride si trova un’apertura circolare, la pupilla, che permette il passag-
gio dei raggi luminosi e ne regola l’intensità per mezzo dei muscoli ciliari, i quali fanno
parte dell’iride e che consentono i movimenti di apertura e chiusura della pupilla. L’iri-
de ha un diametro di circa 12 millimetri e uno spessore medio di 0,3 millimetri, che
non è uniforme su tutta la sua superficie. Essa è anatomicamente suddivisa in due parti
concentriche, l’iride pupillare, quella più interna, e l’iride ciliare, all’esterno. Da quan-
to detto si può affermare che l’iride sia lo specchio della nostra collettività con tutte le
sue differenze e singolarità. Proprio per tali singolarità, tra le tre metodiche analizzate
è la più sicura da utilizzare.
403
404
CAPITOLO 19
Il sangue ancora liquido (la tipica pozza) può essere raccolto tramite un tampone
di garza o un altro supporto di cotone sterile e va lasciato asciugare completamente al-
l’aria, a temperatura ambiente. Successivamente, dovrebbe essere refrigerato o conge-
lato appena possibile e portato rapidamente al laboratorio. Un ritardo di 48 ore può
rendere un campione di sangue inutilizzabile. È necessario, se si è poco distanti dal
laboratorio, portarvi il campione subito, se è impossibile farlo, va spedito per posta,
anche se è necessario farlo asciugare completamente prima di imbustarlo. Il materiale
ematico non va mai scaldato o fatto asciugare al sole. Se la macchia è su un indumento,
questo va appeso al chiuso con adeguata ventilazione; se non completamente asciutto,
etichettarlo e avvolgerlo in carta o inserirlo in un sacchetto di carta scura o in una sca-
tola, poi sigillare ed etichettare il contenitore. Impacchettare solo un oggetto alla volta,
non usare contenitori di plastica.
405
Criminologia ed elementi di criminalistica
chia con un coltello appena lavato e asciugato o uno strumento simile. Lo strumento
va lavato e asciugato ogni volta che si gratta una macchia diversa. Si deve sigillare ed
etichettare la busta. È importante non mischiare le macchie secche. Ogni macchia deve
essere posta in una busta separata. Le macchie di sangue secco da un oggetto non van-
no mai prelevate usando un panno umido o carta.
406
Scena criminis e reperti organici
19.4 Peli/capelli
- raccogliere tutti i peli presenti. Se necessario, usare le dita o delle pinzette, metterli
in bustine di carta che poi verranno raccolte in una busta più grande da sigillare ed
etichettare;
- se i peli sono appiccicati, per esempio in sangue secco, o impigliati in metallo o
schegge di vetro, non tentare di staccarli, ma piuttosto lasciarli intatti sull’ogget-
to. Se l’oggetto è piccolo, prelevarlo, imbustarlo ed etichettare il contenitore. Se è
grande, avvolgere l’area in cui si trovano i peli in carta, per evitarne la perdita du-
rante il trasporto;
- nei casi di stupro, la regione pubica della vittima dovrebbe essere spazzolata prima
di raccogliere i campioni. È necessario ottenere campioni di peli dalla vittima, dal
sospettato o da qualsiasi altra possibile fonte per compararli con campioni scono-
sciuti. Il metodo raccomandato per raccogliere i capelli è quello di far piegare la
persona in avanti, posizionandovi sotto un ampio foglio di carta pulita, e farle pas-
sare le proprie mani tra i capelli, in modo che cadano da soli sul foglio. È possibile
anche prelevarli direttamente dalla testa. Sarebbe meglio raccogliere almeno 50-
100 capelli. Non tagliarli. Lo stesso metodo può essere utilizzato per raccogliere
peli da varie parti del corpo. Sono necessari 30-60 peli pubici. Quando la persona
è un sospettato, dovrebbero essere raccolti peli da tutte le parti del corpo, anche se
al momento servono solo capelli.
407
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