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QUADERNI DEL MUSA

Direttore: Mario Lombardo


Responsabile di Redazione: Grazia Maria Signore
Paul Arthur, Girolamo Fiorentino
Anna Maria Grasso, Marco Leo Imperiale

La storia nel pozzo


Ambiente ed economia di un villaggio bizantino in Terra d’Otranto
-Supersano 2007-
La mostra

La storia nel pozzo.


Ambiente ed economia di un villaggio bizantino in Terra d’Otranto
MUSA (Museo Storico - Archeologico), Università del Salento
“Complesso Studium 2000”, via di Valesio - Lecce
8 ottobre - 25 novembre 2011

La mostra è stata organizzata dal MUSA con la collaborazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Puglia nell’ambito del progetto “Dal Salento all’Oriente mediterraneo. Recenti ricerche di storia antica ed ar-
cheologia dell’Università del Salento” (Responsabile scientifico Mario Lombardo), cofinanziato dalla Fondazione
Cassa di Risparmio di Puglia.

Con il contributo di
Museo del Bosco, Comune di Supersano
NIKON
Curatori
Paul Arthur, Girolamo Fiorentino
Coordinamento tecnico e organizzativo
Grazia Maria Signore
Allestimento
Anna Maria Grasso, Marco Leo Imperiale, Grazia Maria Signore
Progetto grafico e immagine
altra.immagine.it
Testi pannelli didattici
Paul Arthur, Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Lucio Calcagnile, CEDAD - Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione - Università del Salento
Enrico Cappellini, Natural History Museum of Denmark - University of Copenhagen
Matthew J. Collins, Departments of Biology, Archaeology and Chemistry, BioArCh - University of York
Girolamo Fiorentino, Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
M. Thomas P. Gilbert, Natural History Museum of Denmark - University of Copenhagen
Anna Maria Grasso, Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti - Università Degli Studi di Siena
Marco Leo Imperiale, Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Traduzione in inglese dei testi
George Metcalf
Realizzazione plastico del pozzo
Fabrizio Ghio; Alberto Guercia
Modelli virtuali 3d e repliche dei reperti lignei
Adriana Bandiera; Francesco Montagna
Ricostruzioni grafiche
Studio Inklink, Firenze (per gentile concessione del Museo del Bosco - Supersano)
Video
per gentile concessione TeleRama
Documentazione fotografica
Paolo Pulli, Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Laboratorio di Archeologia Medievale (LAM), Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Laboratorio di Archeobotanica e Paleoecologia, Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Un particolare ringranziamento a
Domenico Laforgia, Magnifico Rettore dell’Università del Salento
Regina Poso, Preside della Facoltà di Beni Culturali, Università del Salento
Antonio Castorani, Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia
Marina Giacopino, Ufficio Attività Erogative della Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia
Antonio De Siena, Soprintendente per i Beni Archeologici della Puglia
Arcangelo Alessio, Funzionario Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia
Laura Masiello, Funzionario Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia
Roberto De Vitis, Sindaco comune di Supersano
Roberto Corrado, Ufficio Tecnico comune di Supersano
Mario Lippolis, Nikon
Famiglia Benegiamo, cantina L’Astore Masseria

Il Catalogo

Contributi di
Paul Arthur (P. A.), Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Adriana Bandiera (A. B.), Coordinamento Siba - Università del Salento
Eugenia Braione (E. B.), Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione - Università del Salento
Brunella Bruno (B. B.), Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Lucio Calcagnile (L. C.), CEDAD- Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione - Università del Salento
Enrico Cappellini (E. C.), Natural History Museum of Denmark - University of Copenhagen
Matthew J. Collins (M. J. C.), Departments of Biology, Archaeology and Chemistry, BioArCh - University of York
Simon J. M. Davis (S. J. D.), Istituto Portugês de Arqueologia
Marisa D’Elia (M. D’E.), Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione - Università del Salento
Jacopo De Grossi Mazzorin (J. D. G. M.), Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Girolamo Fiorentino (G. F.), Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Maria Errica Frigione (M. E. F.), Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione - Università del Salento
Valentina Gaballo (V. G.), Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione - Università del Salento
M. Thomas P. Gilbert (M. T. P. G.), Natural History Museum of Denmark - University of Copenhagen
Anna Maria Grasso (A. M. G.), Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti - Università Degli Studi di Siena
Marco Leo Imperiale (M. L. I.), Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Mario Lombardo (M. L.), Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Lucio Maruccio (L. M), Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione - Università del Salento
Alfonso Maffezzoli (A. M.), Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione - Università del Salento
Francesco Montagna (F. M.), Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione - Università del Salento
Florinda Notarstefano (F. N.), Di. S. Te. B. A. - Università del Salento
Gianluca Quarta (G. Q.), Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione - Università del Salento
Grazia Maria Signore (G. M. S), Museo Storico-Archeologico dell’Università del Salento
Referenze grafiche e fotografiche
Foto dei reperti: Paolo Pulli, Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento
Foto e documentazione grafica dello scavo archeologico: Laboratorio di Archeologia Medievale (LAM), Diparti-
mento di Beni Culturali - Università del Salento (www.archeologiamedievale.unisalento.it)
Foto dei resti archeobotanici e delle essenze vegetali: Laboratorio di Archeobotanica e Paleoecologia, Diparti-
mento di Beni Culturali - Università del Salento
Altre referenze fotografiche: Giovanni Murro (Figg. 1 e 3), Grazia Maria Signore (Fig. 2), Giuseppe Muci (Fig. 4),
Corrado Notario (Fig. 8)
Ricostruzioni grafiche
Studio Inklink, Firenze (per gentile concessione del Museo del Bosco - Supersano)

Un particolare ringraziamento a Carlo A. Augieri, Presidente del Comitato Tecnico Scientifico di UniSalento Press
Proprietà letteraria riservata
Tutti i diritti riservati. Nessuna parte del materiale protetto
da questo copyright potrà essere riprodotto in alcuna
forma senza l’autorizzazione scritta dell’Editore

UniSalentoPress
Piazza Tancredi
73100 Lecce

Paul Arthur, Girolamo Fiorentino, Anna Maria Grasso, Marco Leo Imperiale
La storia nel pozzo. Ambiente ed economia di un villaggio bizantino in Terra d’Otranto -supersano 2007-

Copertina: Tiziano Vantaggiato (www.altraimmagine.it)


Impaginazione grafica: Emanuele Augieri

1° edizione: ottobre 2011


Printed in Italy

Prodotto da
Lecce Città Universitaria
73100 - Lecce, Italy
sito:www.officinecantelmo.it
mail: info@officinicantelmo.it

ISBN 978-88-96-51
sommario

Il Musa 11

Il progetto 14
Introduzione alla mostra 15

Il villaggio 17
Archeologia dei villaggi bizantini in Terra d’Otranto 19
Il villaggio bizantino di Località Scorpo 23
Le abitazioni in materiale deperibile 29
I manufatti e le attività produttive 33
L’economia produttiva animale 36

Il pozzo 37

Il rinvenimento e le dinamiche di formazione del deposito 39


Datazione al radiocarbonio mediante AMS di resti vegetali 42
I manufatti dal pozzo 45
Analisi dei residui organici su campioni di anfore 47
I modelli 3D digitali dei reperti lignei 49
Replica dei reperti lignei per prototipazione rapida 51

L’ambiente 53
L’ambiente naturale 55
I resti vegetali dal pozzo: piante coltivate 59
La vite e il vino nel villaggio bizantino 62
Riconoscimento della varietà tra genetica e morfometria 66
Analisi del DNA antico da semi di vite (Vitis vinifera) 69
Il Bosco di Belvedere nella storia 71

La valorizzazione 75
Il Museo del Bosco a Supersano 77

Riferimenti bibliografici 81
11

Il Musa

Il Museo Storico-Archeologico dell’Università del Salento allestisce ed ospita la mo-


stra di archeologia medievale e paleobotanica oggetto di questo catalogo.
Il settore di studi storico-archeologici dell’Università del Salento da giugno 2007
dispone di un museo interamente dedicato alle sue attività didattiche e di ricerca1.
Il Museo, alloggiato al piano terra di“Studium 2000”, occupa circa 500 mq ripartiti
in cinque sale.
Nel MUSA non è stata realizzata una mera presentazione di oggetti ma piuttosto
un’esposizione in grado di trasmettere e mediare conoscenze scientifiche acquisite
in tanti decenni di ricerche da parte degli storici e degli archeologi del nostro Ateneo,
sposando rigore scientifico e nuovi strumenti e approcci comunicativi2.
I materiali archeologici utilizzati nel percorso espositivo, per la maggior parte pro-
venienti da scavi sistematici condotti nel Salento dalla nostra Università, sono stati
selezionati per il loro valore narrativo ed evocativo di luoghi, di contesti, di pratiche e
dinamiche socio-culturali, oggetto delle scoperte e dello studio dei nostri ricercatori.
Insieme con essi, immagini statiche e in movimento, plastici, modelli, calchi e ricostru-
zioni 3D aiutano il visitatore ad approfondire i temi dell’esposizione. L’allestimento,
quindi, concepito secondo i più recenti criteri museali, si avvale anche di un ampio
ricorso alle Information and Communication Technologies.
L’itinerario espositivo del MUSA inizia nella sala I presentando il percorso di cre-
scita del settore di ricerca in
Archeologia e Storia Antica Fig.1.
Una vista
dell’Università del Salento della sala II
e le tante risorse di cui oggi del Musa
dispone in termini di com-
petenze, metodologie e la-
boratori (Fig. 1).
Grazie all’ausilio di im-
magini, video, e di un do-
cumentario sono illustrate
le trasformazioni e gli svi-
luppi intervenuti nell’arco
di decenni di attività, con
riguardo a tre specifici
aspetti tra loro fortemente
collegati: tematiche e cam-
pi di indagine e di interven-
to; metodologie e strumentazioni; forme organizzativo-istituzionali e ‘politiche’ cultu-
rali (valorizzazione e tutela del patrimonio archeologico).

1
Il Museo è stato realizzato sotto la responsabilità scientifica del Prof. Mario Lombardo, grazie al Piano
Coordinato delle Università di Catania e Lecce (Iniziativa IN20), finanziato dal Ministero dell’Università e
della Ricerca Scientifica (MIUR) e dall’Unione Europea nell’ambito dei P.O.N. 1994/1999 e 2000/2006.
2
L’allestimento del MUSA ha visto l’ampio coinvolgimento dei docenti, dei gruppi di ricerca e del personale
tecnico del settore storico-archeologico dell’Università, oltre che di professionisti esterni all’Ateneo e di ditte
specializzate.
12

Dalla sala II e fino alla sala IV si svolge il percorso sull’Archeologia nel Salento,
tema al quale l’Università dedica da sempre particolare attenzione (Fig. 2). L’argo-
mento è illustrato per casi-campione e relativamente ad orizzonti tematico-cronolo-
gici: preistoria e protostoria (sala II), i Messapi (sala III), età romana, tardoantico e
medioevo (sala IV).

Fig.2.
La sala IV
del Musa

Nel percorso di visita il passaggio da un ambito cronologico-tematico a un altro è in-


dicato dal cambio di colore dell’allestimento e da una tela dipinta che riproduce una
mappa del Salento con i siti principali relativi alla fase storica di riferimento della sala.
Ciascun orizzonte cronologico è indicato da una “linea del tempo” luminosa posta
nella parte bassa delle strutture espositive.
Partendo dalla preistoria e fino al medioevo, i materiali esposti, insieme a pannelli
e contributi video, illustrano i contesti antichi che le ricerche sistematiche condotte nel
Salento hanno messo in luce.
Ormai da molti anni, gli storici e gli archeologi dell’Università del Salento sono
impegnati a svolgere indagini e ricerche anche in diverse aree del bacino del Me-
diterraneo. Nell’ultima sala del MUSA (sala V) sono presentati, con l’ausilio di una
serie di contributi video, gli scavi, le ricognizioni e gli studi sui materiali, che sono stati
eseguiti in Italia ma anche in Turchia, Ucraina, Siria, Egitto, Malta (Fig. 3). Nella sala
le riproduzioni di una parte della Tabula Peutingeriana e di un’immagine satellitare
del Mediterraneo intendono presentare l’area circumediterranea teatro delle ricerche
della nostra Università.
13

Fig.3.
La sala V.
Calco del-
la statua
di Apollo
Kareios da
Hierapolis
(Turchia)

Nel percorso espositivo del Museo sono state utilizzate strutture espositive che accol-
gono insieme vetrine per i reperti e monitor per la visione dei contributi-video e che,
al contempo, fanno da supporto ai pannelli didattici. In questo modo la comunicazio-
ne delle informazioni è strutturata su più livelli e gli strumenti comunicativi utilizzati
offrono al visitatore una conoscenza progressivamente sempre più dettagliata e, al
contempo, permettono gradi differenti di comprensione dei contenuti. In questo modo
si è lasciata ampia libertà all’utente nella visita al Museo e sono state rispettate le
esigenze dei diversi pubblici (per età, cultura, appartenenza sociale) che si avvicinano
alla struttura. Fin dalle fasi di progettazione dell’allestimento, infatti, si è pensato a un
museo non con funzioni autoreferenziali e quindi esclusivamente rivolto alla ricerca
e alla didattica universitaria ma piuttosto un’istituzione aperta anche all’esterno, alla
comunità locale, alle scuole, al turismo culturale. Da questo proposito nasce il proget-
to di realizzare una serie di piccole mostre temporanee che presentino, non solo agli
studenti universitari ma anche al pubblico più vasto, i progressi delle ricerche condot-
te dagli storici e dagli archeologi del nostro Ateneo.
Gli eventi espositivi, pur nella loro essenzialità, si pongono l’obiettivo di comu-
nicare, grazie ad un apparato espositivo semplice ma d’impatto, le preziose nuove
acquisizioni dell’archeologia nel Salento e, più in generale, nel Mediterraneo. La serie
dei quaderni del MUSA, che si inaugura con questo primo volume, serberà memo-
ria di queste iniziative e fornirà uno strumento agile attraverso il quale far circolare
le informazioni scientifiche derivanti dalle nuove ricerche e dagli scavi archeologici
dell’Università del Salento.
In tal modo il MUSA, in quanto museo universitario, intende promuovere la produ-
zione, la divulgazione e la mediazione del sapere scientifico.

(G.M.S.)
14

Il progetto

La mostra La storia nel pozzo: ambiente ed economia di un villaggio bizantino in


Terra d’Otranto inaugura un ciclo di tre eventi espositivi che costituiscono le azioni
del progetto “Dal Salento all’Oriente mediterraneo. Recenti ricerche di storia anti-
ca ed archeologia dell’Università del Salento”, presentato dal Dipartimento di Beni
Culturali dell’Università del Salento e cofinanziato dalla Fondazione Cassa di Ri-
sparmio di Puglia.
Il progetto ha lo scopo di far conoscere agli studenti di questa Università ma anche
al vasto pubblico, nella loro varietà e ampiezza di orizzonti sia tematici che metodolo-
gici, le esperienze didattiche e di ricerca sviluppate negli ultimi anni dagli studiosi del
settore storico-archeologico dell’Università del Salento.
Gli eventi espositivi sono allestiti nelle sale del Museo Storico-Archeologico
dell’Università del Salento (MUSA), museo universitario di recente istituzione, espres-
sione dell’impegno profuso in tanti decenni dal Dipartimento di Beni Culturali per la
conoscenza e la valorizzazione del patrimonio storico-archeologico dell’area salenti-
na, in primo luogo, ma più in generale del Mediterraneo.
Il progetto intende svolgere, su scala territoriale, attività di divulgazione culturale
e di promozione della conoscenza e della fruizione dei beni storico-archeologici allo
scopo di valorizzare l’eredità storica e culturale del nostro territorio e le attività di
ricerca che hanno per oggetto tale eredità e, più in generale, le civiltà antiche del
Mediterraneo.
Il progetto, inoltre, aspira ad incentivare forme di turismo alternativo e responsabi-
le e a differenziare e destagionalizzare l’offerta turistico-culturale del territorio; inoltre,
intende sviluppare e promuovere gli interessi e le iniziative locali sul terreno culturale,
grazie al potenziamento e all’integrazione dei servizi d’informazione e divulgazione.
Grazie alla Unisalento Press i contenuti scientifici della mostra non andranno di-
spersi ma sono stati raccolti in questo catalogo, il primo di una collana di quaderni
didattici del MUSA, rivolta innanzitutto agli studenti dell’Università del Salento.

(M.L.)
15

Introduzione alla mostra

In un torrido luglio del 2007 siamo riusciti, dopo tre anni di attesa, a svuotare il pozzo di
età bizantina rinvenuto negli scavi archeologici di località Scorpo, a Supersano. Ad una
profondità di quasi quattro metri, raggiunta la falda acquifera, il ‘tappo’ di terreno denso
e compatto che sigillava il pozzo è diventato melma. Ed era in questo strato, impregna-
to d’acqua, che si nascondeva il nostro tesoro: un rinvenimento subacqueo su terra-
ferma, composto letteralmente da migliaia di chicchi d’uva, scarti di potatura della vite,
legumi, frammenti di steli e spine, foglie e qualche oggetto in legno, il tutto databile,
grazie alle analisi al radiocarbonio, intorno all’VIII secolo d.C. La scoperta è, finora, uni-
ca in Italia Meridionale, in quanto i materiali organici non sopravvivono facilmente nei
siti archeologici, se non sottoposti (volontariamente o accidentalmente) a combustione
parziale. Perciò, il rinvenimento di Supersano, con il suo grande potenziale informativo
sull’economia alto medievale, sull’ambiente e sulla vegetazione spontanea e coltivata,
ha subito destato interesse a livello internazionale: una serie di analisi condotte dalle
Università di York e di Copenhagen hanno, perfino, documentato la conservazione,
all’interno dei vinaccioli, del proprio codice genetico. A quest’ultima scoperta è seguito
un incontro interdisciplinare nel 2008, ospitato dall’Ambasciata Italiana a Londra, per il
quale ringraziamo l’Addetto Scientifico Prof. Salvator Roberto Amendolia, ed una serie
di pubblicazioni scientifiche su riviste prestigiose quali Archeologia Medievale e Na-
turwissenschaften. La dott.ssa Anna Maria Grasso, allieva dell’Università del Salento,
sulla scorta del rinvenimento di Supersano, ha potuto svolgere un dottorato di ricerca
presso l’Università di Siena sull’archeobotanica nell’Italia meridionale medievale.
Inoltre, la scoperta era opportuna, in quanto già nel 2004 era stato finanziato dalla
Regione Puglia il progetto per la costituzione del “Museo del Bosco” (P.I.S. n. 14 –,
deliberazione di G.R. n. 1628 del 30.11.2004) presso il castello medievale di Supersa-
no, il cosiddetto Castello Manfredi, che è anche attuale sede municipale. Nel 2007, al
momento della scoperta in località Scorpo, la ristrutturazione del castello in visione del
costituendo museo stava giungendo a compimento e, all’elenco degli oggetti da met-
tere in esposizione, si potevano così aggiungere le notizie ed i nuovi reperti rinvenuti.
Il gentile invito dell’amico e collega Prof. Mario Lombardo ad allestire la mostra “La
storia nel pozzo: ambiente ed economia di un villaggio bizantino in Terra d’Otranto”
presso il MUSA (Museo Storico-Archeologico dell’Università del Salento), e il finan-
ziamento necessario fornito della Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia, ci per-
mette di esporre quest’importante rinvenimento, e di creare le basi per quella che,
speriamo, possa essere una mostra itinerante che illustri sia le potenzialità dell’ar-
cheologia medievale in Terra d’Otranto, sia il risultato di un lavoro interdisciplinare ed
interuniversitario che vede protagonista l’Università del Salento.
Presenti alla scoperta erano il Dott. Marco Leo Imperiale, che dal 2004 coordina
le indagini sul campo, assistito dalla dott.ssa Anna Maria Grasso, che cura il recu-
pero e le analisi dei resti archeobotanici. Insieme a loro, ringraziamo il Comune di
Supersano e le amministrazioni che si sono succedute guidate da Roberto De Vitis e
Giuseppe Stefanelli, per aver costantemente sostenuto le ricerche in località Scorpo,
e per essersi successivamente adoperati per costituire il Museo del Bosco, di pros-
sima apertura.

(P.A., G.F.)
Il villaggio
19

Archeologia dei villaggi bizantini in Terra d’Otranto

Ormai è certo che la crisi del mondo antico abbia portato ad una trasformazione radi-
cale nelle forme economiche, politiche e sociali del Mediterraneo. Nessuna area ne
è stata esclusa. Tuttavia, a causa di molteplici fattori di natura storica e ambientale,
i cambiamenti verificatisi nei vecchi territori romani hanno avuto forme e cronologie
diverse. L’Italia, per esempio, già indebolita dalla crisi economica del Tardo Impero
romano, patì in maniera particolare i vent’anni della guerra greco-gotica (535-554) e,
come il resto del mondo antico, anche gli effetti devastanti della peste bubbonica (dal
541) e il raffreddamento del clima (metà VI secolo). La Puglia meridionale, insieme
alla Calabria e la Sicilia, rimase nell’orbita politica dell’Impero bizantino dopo che gran
parte della penisola italiana fu ceduta rapidamente ai Longobardi tra la seconda metà
del VI e il VII secolo. Questa particolare situazione politica di parte della Puglia si
mantenne pressoché inalterata fino alla seconda metà dell’XI secolo con la conquista
normanna, facendo sì che per tutta la seconda metà del primo millennio, il Salento e
la città portuale di Otranto godessero di una posizione strategica nelle comunicazioni
tra Occidente e Oriente.
Sfortunatamente, la pressoché totale mancanza di fonti scritte, insieme ad un’ar-
cheologia dell’alto medioevo che sta compiendo i suoi primi passi, fanno sì che non sia
ancora possibile ricostruire con precisione e sicurezza le forme abitative e le modalità
di occupazione e sfruttamento del territorio. Molteplici insediamenti romani sembrano
essere stati abbandonati, comprese realtà urbane quali Rudiae, vicino a Lecce. Altri,
invece, sembra abbiano avuto una continuità di vita, ma in forme sostanzialmente
diverse e più povere rispetto al passato. Questi mutamenti insediativi traggono ori-
gine da una serie di fattori quali un allentamento, se non il venir meno, dei poteri
centrali (Stato, Chiesa) e di molti proprietari terrieri, una contrazione ed involuzione
del mercato e delle comunicazioni, un’aumentata mortalità ed un conseguente abbas-
samento demografico; il tutto avrà, verosimilmente, condotto ad un senso generale e
pervasivo di insicurezza, incrementando le tensioni sociali.
In questo nuovo clima generale, il movimento delle persone e delle famiglie indi-
cato dai cambiamenti insediativi, suggerisce la scomparsa di alcuni elementi ‘inibi-
tori’ della società, quali potevano essere le istituzioni e i proprietari terrieri (spesso
fonti di eccessive imposizioni, soprattutto fiscali), e la necessità di individuare degli
‘attrattori’ che potevano garantire delle condizioni indispensabili alla sopravvivenza.
Prioritario, ovviamente, era l’accesso diretto all’acqua e al cibo, magari attraverso
l’individuazione di terreni particolarmente fertili e ben irrigati da coltivare, evitando
aree eccessivamente erose o aride. Questo potrebbe spiegare l’apparente concentra-
mento di insediamenti rurali di età bizantina riscontrato nell’entroterra otrantino e nel
tratto tra Lupiae (Lecce) e il suo vecchio porto sul versante adriatico a San Cataldo,
e la relativa carenza in alcune aree verso sud ed ovest della penisola salentina (Fig.
4). Comunque, in un primo momento, forse tra il tardo VI e il VII secolo, non sembra
che si fosse ancora ricreata una rete insediativa stabile. Al di fuori delle città sopravis-
sute, non appaiono in genere grandi insediamenti nel territorio, e si ha l’impressione
di una certa mobilità delle persone (Fig. 5), in cerca di stabilità, con la creazione
di piccoli insediamenti temporanei. I pochi punti fissi di riferimento nelle campagne
sembrano comprendere alcuni monasteri, chiese e cimiteri, già costruiti durante l’età
20

tardo antica (IV- prima metà VI secolo). Possiamo annoverare fra i possibili monasteri
centri quali S. Nicola di Casole (Otranto), i SS. Cosma e Damiano (Giurdignano), S.
Giovanni Malcantone (Uggiano la Chiesa), tutti siti che hanno restituito abbondanti
resti di età tardo antica e bizantina. Chiese e cimiteri rurali con evidenza di continuità
comprendono il sito denominato SS. Stefani a Vaste (Poggiardo) e quello di S. Gio-
vanni a Piscopìo (Cutrofiano). Anche se continuavano ad esistere nel territorio punti
di riferimento per le comunità, quali le città ed i siti cultuali e funerari, la popolazione
rurale sembra essere stata piuttosto ‘libera’ di scegliere i luoghi dove abitare e colti-
vare, in un momento di sbandamento collettivo.

Fig.4.
Distribu-
zione dei
siti di età
bizantina
nel Sa-
lento
21

Una delle caratteristiche che sembrerebbe caratterizzare il villaggio è la presenza


di più famiglie all’interno della comunità (cfr. Callmer 1991). Chiaramente questo è
un problema per gli archeologi che, difficilmente, possono accertare la presenza di
più famiglie all’interno di un insediamento agglomerato senza il ricorso alle analisi
genetiche sugli individui sepolti nelle aree cimiteriali. La presenza di più gruppi fa-
miliari presuppone anche la possibilità di un’intensificazione dell’agricoltura e di una
differenziazione della proprietà agraria, delle colture dei campi e del bestiame, anche
se poteva prevalere una comunanza di lavoro, con la condivisione di strumenti quali
l’aratro e i mulini o macine.
Fig.5.
Di contro, gli agglomerati Alcuni
unifamiliari sarebbero pre- processi
vedibilmente piccoli e com- di mobilità
posti da pochi edifici. demo-
Presumibilmente, dopo grafica/
insediati-
una prima fase di riordino va: 1. Per-
demografico ed insediativo manenza;
tra VII ed VIII secolo, si è in- 2. Aggiu-
nescato un processo di ag- stamenti
minori; 3.
gregazione di gruppi fami- Mobilità
liari e persone intorno ad al- nel vici-
cune abitazioni rurali sparse nato; 4.
invece che di altre, portando Mobilità
così, gradualmente, alla for- su lunga
distan-
mazione di villaggi plurifa- za (da
miliari stabili. In alcuni casi i Callmer,
nuclei originari potevano an- 1991)
che essere state piccole fat-
torie o case coloniche di età
tardo antica. Forse non è un
caso che durante gli scavi
archeologici condotti nei vil-
laggi medievali abbandonati
di Quattro Macine (Giuggianello) e di Apigliano (Martano), siano state rinvenute trac-
ce di piccoli insediamenti esistenti già nel V-VI secolo. In entrambi i casi, comunque,
non sarà prima dell’VIII secolo, soprattutto come dimostrano una serie di datazioni al
radiocarbonio, che le evidenze sembreranno sufficienti per poter parlare di insedia-
menti di una certa dimensione, presumibilmente aggregati di più famiglie.
Quest’evidenza di una definizione insediativa intorno all’VIII secolo, sembra so-
stenuta anche dai dati della ricognizione attraverso il territorio salentino, tanto che
possiamo ipotizzare una vera e propria espansione, forse anche demografica, e pos-
siamo supporre la formalizzazione di proprietà agrarie e la creazione di confini, non-
ché la colonizzazione di alcune aree precedentemente ritenute marginali. È d’altronde
interessante notare che è proprio intorno all’VIII secolo che una zona intorno ai laghi
Alimini, a nord di Otranto, stando a dati ricavati dalle analisi polliniche, sembra essere
stata dissodata e messa a coltura con ulivi (Di Rita, Magri 2009). Nel tardo VIII secolo
lo storico longobardo Paolo Diacono lodava il commercio di Otranto (Historia Lango-
bardorum II, 21) e, più o meno nello stesso periodo, erano prodotte anfore presso il
porto per l’esportazione via mare (Leo Imperiale 2004).
22

Verso la fine del secolo successivo, è probabile che un ulteriore impulso allo svi-
luppo del territorio sia stato dato dalla cosiddetta riconquista bizantina sotto l’impe-
ratore Basilio I (867-886) e il suo generale Niceforo Foca il vecchio. La sua politica
tesa a scacciare i Saraceni dalle coste dell’Adriatico, ha portato sia all’espansione
del territorio bizantino in Italia meridionale, fino a comprendere Bari e nuove aree di
Puglia, Basilicata e Calabria, sia ad una maggior presenza dell’Impero nel Mediterra-
neo. Tutto ciò avrà stimolato la produzione e lo scambio nel Salento ed altrove, come
apparentemente è testimoniato da una rinnovata circolazione monetaria proprio dal
regno di Basilio I, soprattutto nei villaggi.
Probabilmente già verso la fine del millennio il sistema dei piccoli paesi salentini a
vocazione agricola era già ben formato, e si stava cristallizzando una gestione eccle-
siastica del popolamento rurale che agiva tramite la fondazione di chiese e la creazio-
ne di parrocchie (Arthur c.s.). Una sempre maggior produzione di surplus agricolo,
ed il graduale rinnovamento dei mercati a livello mediterraneo, avrà aiutato lo sviluppo
delle piccole comunità rurali, con maggior accesso a notizie, beni e servizi rispetto al
passato. Era nata la geografia dell’insegnamento rurale tutt’ora esistente.

(P.A.)
23

Il villaggio bizantino di località Scorpo

L’insediamento rinvenuto in località Scorpo è sito a ca. 2.1 km a nord del capoluogo
comunale di Supersano, lungo la vecchia strada che conduce a Cutrofiano (Arthur,
Fiorentino, Leo Imperiale 2008). È posizionato su di uno strato geologico assai com-
patto di colore giallognolo, le cosiddette ‘Sabbie di Cutrofiano’, che si estende sopra
il deposito denominato Formazione di Gallipoli, descritto dai geologi come ‘sabbie
argillose giallastre’. Il sottosuolo piuttosto impermeabile ed argilloso ha favorito la pre-
senza in quest’area sia del Bosco di Belvedere, sia della Palude di Sombrino, ormai
scomparsi, ma entrambi contesti ambientali piuttosto desueti in un Salento solitamen-
te caratterizzato da una struttura carsica con terra rossa in superficie. La coltivazione
di queste terre pesanti sembra essere stata evitata in età romana, come dimostra
l’estensione della centuriazione ricostruita dagli archeologi, che si interrompe ad est,
prima di giungere all’area dell’antico bosco. L’area piana e umida, verso ovest, inve-
ce, era delimitata da un rilievo collinare di natura calcarea, la cosiddetta ‘serra’.
Finora l’insediamento in località Scorpo risulta piuttosto unico nel panorama ar-
cheologico dell’Italia meridionale, per via di una serie di elementi che lo distinguono
da molti altri siti rurali ad esso anteriori o posteriori:

• il posizionamento su suoli pesanti;


• la fisionomia dell’insediamento caratterizzata da una rete di piccole costruzioni
invece che della fitta maglia caratteristica dell’età romana o del tardo medioevo;
• il quasi esclusivo impiego di materiali deperibili nelle costruzioni;
• la presenza di strutture apparentemente rudimentali.

Fig.6.
Super-
sano,
località.
Scorpo: la
fossa 1 in
corso di
scavo nel
1999
24

Fig.7.
Supersa-
no, locali-
tà Scorpo:
pianta
generale
dell’area
di scavo
25

Finora, il sito trova i suoi confronti più puntali con insediamenti dell’Europa centrale
e settentrionale e con pochi villaggi scavati in Italia, a nord di Roma, come quello di
Poggibonsi in Toscana.
Durante la prima campagna di scavo nel 1999 (Fig. 6) fu identificata una grande
fossa (fossa 1) troncata da uno sbancamento, ed una seconda fossa di dimensioni
minori (fossa 2) (Arthur 1999). La prima in particolare conserva similitudini con le
capanne a fossa del tipo riconosciuto nell’Europa centrale e settentrionale come Gru-
benhäuser. Le successive campagne di scavo, nel 2004 e nel 2007, hanno restituito
altre due fosse che potrebbero essere state anch’esse relative a delle strutture simili
(Fig. 7; Fig. 8). Abbiamo ipotizzato che la forma delle capanne potesse essere un
adattamento alle condizioni ambientali, in particolare all’umidità dovuta alla presenza
dalle paludi, come ha suggerito Santo Tiné per le capanne simili di età neolitica nel
Tavoliere foggiano, piuttosto che come espressione di un’architettura con connota-
zioni etniche, nonostante la loro similitudine ad edifici in uso presso la popolazione
longobarda. La realizzazione della fossa nella costruzione, come intercapedine ed
espediente atto a separare l’alzato della struttura dal suolo umido sottostante, sem-
brerebbe anche suggerito da analisi pedogenetiche condotte sui riempimenti.
Per chi possa avere dei dubbi sull’interpretazione di queste fosse, possiamo inoltre
osservare che finora, dopo tre campagne di scavo, non sono stati identificati altri resti
che potrebbero essere riconducibili con sicurezza a strutture abitative. Un dubbio
permane su un tratto di struttura muraria, con alla base rozzi blocchi di calcare locale,
messo in luce nella parte settentrionale dell’area di scavo (Fig. 9). Interpretato, in un
primo momento, come muro di recinzione, la prosecuzione dello scavo non ha ancora
né confermato nè smentito tale ipotesi.
Dopo l’abbandono delle strutture, la fossa 1 fu impiegata per scaricarvi dei rifiuti
domestici, compresa una notevole quantità di materiale bruciato, carboni e cenere,
forse residui di focolari. Inoltre, vi erano anche abbondanti frammenti di ceramica, ossa
di animali ed altri reperti. Gran parte della cultura materiale, comprese le ceramiche,
sembra essere stata di produzione locale, forse ottenibile nel raggio di pochi chilometri.
Un calderone in ferro e bronzo era, verosimilmente, prodotto nel Salento. Inoltre, veni-
va fatto uso di legno e osso per fabbricare semplici strumenti di prima necessità, per i
lavori agricoli, per la caccia e per le attività domestiche. Le poche importazioni riguar-
dano un calice in vetro, raro oggetto ‘di pregio’, forse proveniente dall’alto Adriatico, e le
macine per la preparazione della farina. Nonostante quest’ultime siano state importate
tramite i porti o approdi salentini, i contadini di località Scorpo certamente non avevano
accesso alle merci che erano state disponibili soltanto una o due generazioni prima.
Intanto, la ceramica e due datazioni al radiocarbonio di 530-660 (95,4%) e di 650-
780 (95,4%) (cfr. Calcagnile et al. infra) suggeriscono che il villaggio fu fondato verso
la fine del VI o forse più probabilmente durante il VII secolo, in un momento di piena
dominazione bizantina del basso Salento.
La campagna di scavo archeologico del 2007, con la scoperta di un pozzo, ha re-
stituito preziosi reperti archeobotanici, fondamentali per la caratterizzazione dell’am-
biente, l’economia agricola e l’alimentazione della piccola comunità alto medievale.
Sono stati rinvenuti indicatori per la produzione di grano, vino, lino, legname e altri
derivati del bosco, a cui possono essere aggiunti gli animali domestici e il consumo di
animali selvatici come componenti dell’economia alimentare nell’insediamento. Questi
rinvenimenti contribuiscono sostanzialmente a quel poco che conosciamo dalle fonti
scritte sullo sfruttamento delle aree boschive in Italia e nel mondo bizantino. Sembra-
no enfatizzare un notevole grado di autosufficienza di quello che potrebbe essere in-
terpretata come una comunità di contadini liberi, sottolineando un regime economico
con pochi legami rispetto alle più estese risorse offerte dal mondo mediterraneo.
26

Fig.8.
Supersa-
no, locali-
tà Scorpo:
foto da
pallone
dell’area
di scavo
nel 2004
27

Uno degli obiettivi futuri è quello di individuare il cimitero associato al villaggio e di


scavare le sepolture degli abitanti. Questo permetterebbe, fra l’altro, di analizzare gli
individui e di confrontare il loro stato di salute e la loro base alimentare con le risorse
naturali disponibili nell’area del Bosco di Belvedere.
Ora, tre datazioni al radiocarbonio ottenute da resti vegetali trovati nel riempimento
del pozzo restituiscono una datazione compresa tra il 660-890 cal AD (95,4%), e due
tra il 680-880 cal AD (95,4%). La loro continuità sino al IX secolo potrebbe suggerire
una più tarda datazione del riempimento del pozzo rispetto al riempimento dei fondi di
capanna, forse poco prima che fu abbandonato. L’idea che il pozzo sia andato fuori uso
con l’abbandono dell’insediamento stesso, o con il suo spostamento da quest’area,
è suggerita dal fatto che gran parte del suo riempimento sembra rappresentare un
accumulo naturale, e non la conseguenza di un’azione deliberata di chiusura.
L’estensione del villaggio nel tempo è ancora da definire e richiede uno scavo mol-
to più esteso. Peraltro, ad est della strada statale Supersano-Cutrofiano, sull’altro lato
rispetto all’area in cui sono
stati condotti gli scavi, sono Fig.9.
stati rinvenuti altri materiali di Super-
sano,
età bizantina durante attività località
di ricognizione, compreso un Scorpo: la
follis anonimo in bronzo di XI struttura
secolo (Fig. 10). muraria e
Questa ampia diffusione il pozzo
delle testimonianze archeolo-
giche, e questo excursus cro-
nologico tra il materiale restitu-
ito dallo scavo e la moneta di
XI secolo, potrebbero far ipo-
tizzare che, attraverso i seco-
li, l’insediamento abbia potuto
subire allargamenti, contra-
zioni e spostamenti. Infatti, è
probabile che il villaggio rien-
tri nel fenomeno dei “shifting
settlements” già riconosciuto
nell’Europa settentrionale da
alcuni anni. Si tratta di gruppi
demici che si spostano con le
proprie ‘case’, anche alcune
centinaia di metri, forse verso
terreni più favorevoli alla colti-
vazione.
La rete sparsa di piccole
costruzioni individuata finora
in località Scorpo, sebbene
nel suo insieme suggerisca
che possiamo utilizzare la
parola ‘villaggio’ per definire
il tipo di insediamento, più
genericamente appare come
un cluster di unità abitative di
28

coltivatori, ovvero un cluster di piccole fattorie. Ma è anche vero che non possiamo,
allo stato attuale, distinguere singole proprietà, ed è anche possibile che le varie unità
appartenessero ad un’unica famiglia, o come strutture diversificate per funzione, op-
pure come unità distinguibili cronologicamente.
Non sembra che la vita nell’insediamento sia continuata oltre l’età bizantina, e forse
già da prima si era verificato uno spostamento della popolazione verso altri luoghi.
Questo spostamento potrebbe essere stato causato da una riorganizzazione spaziale
da parte di nuovi o più efficienti proprietari terrieri verso i secoli finali del primo millennio.
Due casali medievali si trovano a circa 2 chilometri dall’insediamento in località Scorpo.
Sulla serra ad occidente insistono i resti del villaggio medievale abbandonato di Som-
brino, mentre il principale insediamento medievale era Supersano stesso, per il quale
non abbiamo ancora dati anteriori all’età normanno-sveva, momento in cui deve essere
stato edificato il primo impianto del castello Manfredi. Allo stesso periodo, tra la fine
dell’XI e la metà del XII secolo, sembra datare la prima fase dell’apparato pittorico della
chiesa rupestre della Madonna della Coelimanna, localizzata a soli 0,9 km di distanza
dal centro di Supersano, ai margini della serra, in una posizione che sovrastava il centro
e l’antico Bosco di Belvedere. Anche se è chiara la necessità di indagare di più la fon-
dazione dell’attuale centro di Supersano, allo stato attuale sembra che alla sua genesi
abbiano potuto partecipare gli abitanti dell’insediamento bizantino di località Scorpo.

(P.A.)
Fig.10.
Supersa-
no, locali-
tà Scorpo:
aree di
frammenti
fittili rin-
venute
durante il
survey
29

Le abitazioni in materiale deperibile

Le strutture ‘in negativo’ portate alla luce nell’insediamento bizantino di località Scor-
po appartengono ad una tipologia di resti noti in archeologia come “fondi di capanna”.
Si tratta, cioè, di fosse che erano parte di costruzioni in materiale deperibile (legno,
ramaglie, terra ecc.).
Negli ultimi anni, gli studi archeologici hanno posto al centro del dibattito sull’edili-
zia residenziale dell’altomedioevo proprio l’uso del legno e della terra come materiale
da costruzione, impiegati anche in aree dove la pietra era ugualmente di facile reperi-
mento. Seppure le interpretazioni riguardo questa forma dell’abitare e le ragioni della
sua forte rappresentatività nel record archeologico altomedievale non siano univoche,
oggi sono stati affinati una serie di strumenti e metodologie utili allo studio e alla cor-
retta valutazione delle evidenze in materiale deperibile (cfr. Fronza 2006; Id. 2008).

Fig.11.
Supersa-
no, locali-
tà Scorpo:
sezione
della fos-
sa 1

A Località Scorpo sono state rinvenute tre fosse assimilabili a questo tipo di struttura,
mentre una possibile quarta è ancora oggetto di scavo e di studio (Fig. 11). La fossa più
grande, tranciata dall’escavazione di una cava, in origine doveva avere forma ovoidale
e raggiungere dimensioni prossime ai 25 mq (Fig. 6). Sul fondo, relativamente piatto,
sono stati individuati due buchi da palo presumibilmente utilizzati per sostenere la tra-
vatura principale del tetto. Accanto ad essa, vi era una fossa più piccola, di forma sub-
circolare (ca. 2.20-2.55 m), poco profonda e caratterizzata da due piccoli fori tagliati nel
fondo, che presumibilmente ospitavano dei paletti in legno funzionali a qualche arredo
interno alla struttura. Le dimensioni ridottissime della fossa ovviamente lasciano pen-
sare che essa fosse adibita a magazzino o comunque avesse una qualche funzione di
servizio rispetto alla capanna attigua. La Fossa 3, anch’essa di forma ovoidale, è este-
sa circa 10 mq (Fig. 12). Il profilo è piuttosto regolare, con pareti verticali e un fondo
piano apparentemente privo di tagli o buche per l’alloggiamento di pali.
30

L’analisi stratigrafica ha ben evidenziato che le fosse sono state vuote per un certo
periodo. Lo indicano chiaramente gli strati di collasso delle pareti verticali negli angoli
del fondo, come anche i crolli di materiali litici che, in caduta dai bordi superiori, rag-
giungono la parte inferiore del taglio; manufatti ed ecofatti sono presenti in giacitura
orizzontale sul fondo, e sono pre-
Fig.12. senti depositi di sedimenti renosi/
Supersa- argillosi a grana fine a contatto
no, locali-
tà Scorpo:
con le pareti.
la fossa 3 Sebbene le arature profon-
in corso di de e probabili azioni di erosione
scavo dei suoli abbiano compromesso
in larghi tratti del sito la conser-
vazione dei piani d’uso, e non ci
siano elementi in situ pertinenti
all’alzato delle capanne, possia-
mo ipotizzare che le fosse fossero
collocate al di sotto del pavimen-
to delle strutture, probabilmente
costituito da un impalcato ligneo
ricoperto da uno strato di terra
argillosa. In questo modo, esse
avranno favorito il drenaggio delle acque di infiltrazione, mantenendo asciutto ed are-
ato il piano d’uso dell’abitazione. D’altronde, il villaggio si trovava ai margini di una
estesa zona umida, nelle fonti di età moderna nota come Lago Sombrino e, senza la
fossa sottostante, l’umidità avrebbe portato ad un rapido disfacimento delle strutture
in legno poste a diretto contatto con il suolo e a un elevato tasso di umidità all’interno
delle abitazioni.
I numerosi materiali litici rinvenuti nei riempimenti delle fosse e la carenza di buche
per l’alloggiamento di pali portanti, lascia presupporre che le capanne fossero costru-
ite su un basamento in pietra, nella quale veniva inserita l’intelaiatura lignea relativa
all’elevato.
Le analisi dei numerosi resti antracologici recuperati dai tre contesti avvalora que-
sta ipotesi, suggerendo che la struttura portante delle abitazioni fosse realizzata in
quercia caducifoglie, uno dei taxa maggiormente rappresentati nel record archeobo-
tanico. L’impiego di travi e pali in questa essenza è ipotizzabile anche per via delle
tracce di insetti lignivori da legno in opera su alcuni dei carboni indagati.
Dalle due fosse più grandi provengono, inoltre, diversi frammenti di ‘intonaco di
capanna’, un composto di terra argillosa e paglia che veniva steso sull’intelaiatura
di pali e ramaglie in opera. Su questi manufatti si conservano, infatti, le impronte di
paletti di modesto diametro relativi all’armatura lignea.
Per quanto riguarda la copertura delle abitazioni, il rinvenimento massiccio di an-
tracoresti di Erica arborea dalle fosse ha fatto pensare a coperture straminee, anche
in questo caso poggiate su assise e ramaglie in legno di quercia (Figg. 13 e 14). Que-
sta idea, già formulata durante lo studio delle evidenze relativa alle prime campagne
di scavo, è stata confermata ulteriormente dai rinvenimenti archeobotanici rinvenuti
nelle indagini successive. Tuttavia, resta da chiarire il motivo della presenza, seppure
quantitativamente molto limitata, di laterizi frammentati provenienti sia dalle fosse,
quanto dagli strati di riempimento del pozzo posteriori al suo abbandono. È possibile
che, almeno in parte, alcune delle strutture del villaggio potessero già impiegare tetti
‘pesanti’, maggiormente strutturati.
31

Fig.13.
Sezione
ricostrutti-
va di una
capanna
(fossa 1)

Fig.14.
Plastico
ricostrut-
tivo delle
capanne
1e2
(Realiz-
zazione
Fabrizio
Ghio)
32

La presenza di queste capanne nel Salento bizantino è senz’altro singolare. Que-


sta tipologia di strutture, per l’età medievale, è stata messa in relazione con culture
del nord Europa, dove le condizioni climatiche e la grande disponibilità di legname
indirizzavano naturalmente verso l’uso di questi edifici. In Italia l’elenco di costruzioni
siffatte si sta implementando sempre più con nuove attestazioni e soprattutto dove
un qualche nesso con i modelli costruttivi d’oltralpe appare possibile ma, nella Puglia
medievale, il significato di queste strutture è sicuramente differente. Esse riflettono
un tipo di abitato rurale, perfettamente integrato con l’ambiente circostante, finora
poco noto nel meridione. Durante gli scavi a S. Pietro a Canosa (BA), sono state
individuate tracce di una possibile struttura con fossa sottostante (Volpe et al. 2007,
pp. 1137, 1164, fig. 12), mentre un’altra struttura simile è stata portata alla luce negli
scavi del villaggio di Apigliano (Leo Imperiale 2009). In ogni caso, le strutture non sono
note comunemente nel mondo mediterraneo, e vale la pena ricordare la presenza di
esemplari in Macedonia, databili tra VII ed VIII secolo (Babic 1995).

(P.A, M.L.I.)
33

I manufatti e le attività produttive

Il sito ha restituito manufatti realizzati in gran parte in ceramica, ma anche in vetro, me-
tallo, pietra e legno. Prevalentemente si tratta di oggetti attribuibili a produzioni locali o
sub regionali, sebbene non manchino pochi manufatti chiaramente d’importazione.
Il vasellame in ceramica riflette in modo chiaro i cambiamenti occorsi a partire
dalla fine del VI-VII secolo, quando si assiste ad una netta semplificazione delle for-
me attorno a pochi tipi funzionali: la pentola
biansata, l’anfora globulare con collo Fig.15.
Pentola
cilindrico e fondo concavo, il coper- globulare
chio con sfiatatoio apicale, la broc- di pro-
ca ad orlo trilobato, il boccalino duzione
monoansato. A Scorpo più che in locale (h.
max. 10,6
altri siti coevi scavati, questa ri- cm)
gidità formale assume caratteri-
stiche ancora più nette, almeno
dal punto di vista quantitativo,
e possiamo affermare che circa
l’80% del record ceramico sia rappre-
sentato da due sole forme: la pentola (Fig.
15) e l’anfora d’uso domestico (Fig. 16).
A questa scarsa specializzazione funzionale del vasellame ceramico, per il quale
possiamo prevedere una certa versatilità d’utilizzo in ambito domestico (cottura di
alimenti, semplici processi di trasformazione – ad esempio in ambito caseario -, con-
servazione, stivaggio e trasporto a breve raggio di derrate), deve aver corrisposto una
certa pluralità di centri di produzione figula a piccola scala e dal limitato raggio di distri-
buzione. Non è un caso che gli abitanti del villaggio utilizzas-
sero anfore e pentole prodotte in almeno tre o quattro
impasti differenti e probabilmente fabbricate in al- Fig.16.
meno altrettante botteghe artigiane in alcuni casi Anfora
distanti anche alcune decine di chilometri dal sito. globulare
Così, oltre ad una caratteristica manifattura che in d’uso
domestico
altre sedi abbiamo definito ‘tipo Apigliano’, si di- (h. 32,5
stinguono una produzione in ceramica piuttosto cm)
depurata e di colore beige ed una produzione
di pentole che, invece, spicca per caratteristiche
tecnologiche opposte: corpi ceramici poco omo-
genei, pareti dei contenitori piuttosto spesse, su-
perficie esterna quasi sempre craquelé. Pentole
del genere, che hanno anche attributi morfologici
piuttosto caratteristici nel panorama salentino, sono
state riconosciute nell’insediamento di Masseria Petti/
Vocettina, distante circa 45 km a N/W del villaggio di lo-
calità Scorpo, mostrando comunque una certa capacità di circola-
zione di questi prodotti, apparentemente frutto di una produzione ‘rurale accessoria’.
34

Alcuni altri materiali fittili, significativamente realizzati in supporti di riuso, appaiono


indicatori ammissibili di una qualche attività tessile nel villaggio. Dal riempimento della
Fossa 1 proviene un peso da telaio tronco piramidale, forse più antico, sul quale era
stata incisa una croce nel suo utilizzo successivo. Altri due probabili pesi sono stati
rinvenuti nella Fossa 3; ricavati entrambi da laterizi, sono di forma circolare e hanno
un foro nel centro. In modo ipotetico, è stato attribuito ad un impiego nella tessitura
di filati anche un manufatto appuntito in osso (Fig. 17) dalla forma molto simile alle
broches de tisserand rinvenute in diversi siti d’Oltralpe come a Villiers-le-Sec (Cuise-
nier, Guadagnin 1988; per una tipologia di questi manufatti cfr. Goret 1997; Chandevau
2002, pp. 56 e ss.).
Fig.17.
Oggetto
appuntito
in osso
(h. 13,5)

Le comunità che abitavano località Scorpo e i villaggi della zona potevano essere
in gran parte autosufficienti come dimostrano l’esistenza di una produzione agricola
efficiente, lo sfruttamento delle risorse boschive per l’alimentazione, il materiale da
costruzione, gli utensili e il reperimento del combustibile per la cottura come anche
per processi pirotecnologici, l’utilizzo di forme ceramiche prodotte nel comprensorio.
Ciò nonostante, alcuni manufatti testimoniano l’esistenza di contatti commerciali e
scambi ad ampio raggio, in grado di fare arrivare merci anche da luoghi molto distanti.
Tra di essi vi sono delle macine rotatorie manuali, che servivano alla riduzione del
grano in farina (Fig. 18). La maggior parte di esse sono fabbricate in pietra vulcanica,
in parte proveniente sia dal monte Etna in Sicilia, sia dall’isola di Melo, nell’Egeo,
entrambe aree sotto il dominio bizantino durante il VII-VIII secolo. La pietra vulcanica
veniva utilizzata per la sua durezza, per la quale resisteva meglio della pietra locale
calcarea al continuo attrito che le macine dovevano soste-
nere. Le macine erano composte da
una pietra inferiore, fissa, e di una
superiore, ruotante su di essa; il
Fig.18. grano veniva introdotto in pic-
Fram-
mento di
cole quantità all’interno di
macina un foro ricavato nel mezzo
rotatoria della pietra superiore.
manuale Anche i manufatti in vetro
venivano importati, ed in partico-
lare i calici, dei quali lo scavo ha
restituito alcuni frammenti. In partico-
lare, dalla Fossa 1 proviene un bicchie-
re frammentario (Fig. 19) di un tipo piuttosto
raro e, per di più, attestato in aree distanti tra di
loro. Questo calice è caratterizzato da alcuni ele-
menti “a colonnine” tra lo stelo e la coppa, originati da
spessi filamenti che nella parte superiore aderiscono al bicchiere tracciando degli archi
(Uboldi 2009). Nel Salento un manufatto simile è stato rinvenuto negli scavi della ba-
silica di “Le Centoporte”, vicino Otranto (Bertelli 2009, p. 176), mentre altri esemplari
sono noti in Grecia settentrionale e nel monastero di S. Vincenzo al Volturno, in Molise
(Stevenson 2001, pp. 234-235). Tuttavia, il quadro geografico in cui questi calici sem-
brano essere più presenti è l’Italia settentrionale, dove i calici ‘a colonnine’ sono stati
35

segnalati in vari contesti


da Capodistria alla Ligu- Fig.19.
Calice in
ria occidentale (cfr. Uboldi vetro con
2009). Appare difficile sta- elementi “a
bilire quale fosse l’area di colonnina”:
produzione del bicchiere. a) località
Scorpo,
Nel IX secolo manufatti Super-
derivati venivano prodotti sano; b)
nelle officine vetrarie del Museo Ar-
già citato monastero di San cheologico
Vincenzo; non si può esclu- Nazionale
di Aquileia
dere che la nota tradizione (da Man-
nella lavorazione del vetro druzzato,
di alcune aree dell’Adria- Marcante
tico settentrionale possa 2005)
aver avuto un ruolo nella
genesi di calici siffatti.
Probabilmente importa-
to è un calderone o paiolo
in lega di rame, al quale appartengono due frammenti rinvenuti in uno dei fondi di
capanna. Si conserva un lembo dell’imboccatura, rinforzata con una fascia in ferro,
e un occhiello sormontante per l’aggancio del manico mobile (Fig. 20). Il calderone/
paiolo in metallo era ovviamente uno dei utensili principali dell’instrumentum domestico
e veniva utilizzato nella cucina per cuocere zuppe e stufati e, soprattutto quando di
più ampie dimensioni, per bollire il bucato o per altri impieghi specifici. Si conservano
diversi esemplari, anche in ambito bizantino, in qualche misura accostabili al recipiente
rinvenuto in località Scorpo. Si possono citare, ad esempio, i due calderoni che faceva-
no parte della dotazione di bordo nell’imbarcazione naufragata nei pressi di Yassi Ada,
al largo delle coste della Turchia occidentale (Katzev 1982, pp. 269-271) o ancora i cal-
deroni rinvenuti nelle botteghe artigianali di Sardi. Prova tangibile del valore attribuito
al calderone in metallo, ovviamente in buona parte per il materiale in cui è realizzato,
è l’esigenza di tesaurizzazione del quale viene fatto oggetto in taluni casi. Così calde-
roni compaiono in gruppi di manufatti in metallo più o meno prezioso nascosti, o stipati
in attesa del loro possessore. Nel cosiddetto ‘tesoro di Sevso’ un ampio calderone in
rame era stato presumibilmente nascosto assieme a un ricco arredo di preziosissime
suppellettili in argento (cfr. Mundell Mango 2009). Allo stesso modo, compaiono due
calderoni tra i manufatti in metallo rinvenuti in un ripostiglio di bronzi a Stara Zagora,
nella Bulgaria meridionale (Ilieva-Cholakov 2005). D’altronde, il calderone visto come
bene da tramandare da una generazione alla successiva nell’ambito di un medesimo
gruppo familiare è oggetto, a ben altre latitudini, in un proverbio kazaco in cui si ricorda
che “la vita di un uomo dura cinquant’anni, un calderone può essere usato per un se-
colo” (Maenchen-Helfen 1973, p. 334).
Fig.20.
Calderone
in bronzo
(M.L.I.) e ferro:
a) fram-
mento di
orlo, b)
occhiello
per l’ag-
gancio del
manico
mobile
a. b.
36

L’economia produttiva animale

I resti faunistici rinvenuti negli scavi condotti in località Scorpo, provenienti per la mag-
gior parte dalle fosse 1 e 3, ci forniscono un quadro della loro importanza economica e
alimentare a Supersano tra il VII e l’VIII secolo.3 La quantità di frammenti ossei riferibili
alle principali forme di animali domestici sembra indicare un sostanziale equilibrio tra i
principali domestici con una prevalenza di ovicaprini nella fossa 1 e di suini nella fossa
3. Il cavallo, meno documentato, probabilmente non era ancora utilizzato nell’alimen-
tazione ma solo per il trasporto.
Il campione bovino è composto esclusivamente da individui adulti macellati soltanto
alla fine del loro ciclo lavorativo nei campi. Gli ovicaprini sembrano essere costituiti da
capre e pecore in proporzioni equivalenti. La presenza di animali adulti, tra i due e i
tre anni di età, e in misura minore di pecore relativamente giovani (minori di un anno)
indica una pastorizia volta soprattutto allo sfruttamento della carne. I maiali sembrano
essere macellati a varie età, ma soprattutto entro il primo anno e mezzo, anche se alcu-
ni individui, tenuti forse per la riproduzione, oltrepassano i due anni. Il maiale, oltre ad
essere fonte di carne sia fresca che conservata, salata o affumicata, forniva anche la
gran parte dei grassi alimentari (lardo) usata nella preparazione dei cibi. Il consumo di
pollame, più scarso, sembra invece da riferirsi ad un’economia a conduzione domesti-
ca. L’allevamento degli animali da cortile, come galline, oche, colombi e piccioni doveva
infatti fornire un contributo soprattutto per l’economia familiare dei ceti meno abbienti.
La grossa selvaggina (cervo) è quasi assente ma è documentata la caccia degli
uccelli (tordo) e la raccolta di tartarughe e di chiocciole terrestri, oltre al consumo di
molluschi marini (ostriche).

(J.D.G.M.)

Fig.21.
Le specie
addomesti-
cate rinve-
nute nella
Fossa 1 e
nella Fos-
sa 3

3
Si ringrazia Simon J. M. Davis per aver condotto le analisi archeozoologiche sui resti osteologici rinvenuti
durante la campagna di scavo del 1999.
Il pozzo
39

Il rinvenimento e le dinamiche di formazione del deposito

Nel corso della campagna di scavo del 2004, l’attenzione degli archeologi si è spo-
stata in un’area posta a poche decine di metri dalla zona dove contemporaneamente
si erano individuati i ‘fondi di capanna’. Nonostante anche in quest’area le arature
avessero fortemente intaccato il deposito archeologico, la presenza di un canale di
bonifica ormai in disuso nella parte nordorientale del podere, aveva impedito la col-
tivazione lungo una larga fascia ad esso attigua. Questa superficie ha restituito le
uniche evidenze in costruito dello scavo, sepolte sotto uno strato di terreno umico
profondo appena 30 cm. Lo scavo ha rivelato la presenza di un muro conservato in
lunghezza per 7 m. e spesso circa 1 m. (Fig. 9), di un esteso crollo di blocchi lapidei,
di un piano di calpestio relativo ad uno spazio aperto e del pozzo (Fig. 22), al quale
questa mostra è dedicata.
A giudicare dai dati raccolti, quest’area poteva essere marginale rispetto al pic-
colo agglomerato di fosse/abitazioni scavate, motivo per il quale si è ipotizzato che
il muro potesse in
qualche modo re-
cingere il villaggio o Fig.22.
parte di esso. Inoltre, Supersa-
l’approfondimento no, Loc.
Scorpo: il
delle indagini negli pozzo
strati di terreno a ri-
dosso del paramento
orientale del muro,
hanno permesso di
individuare una fase
antecedente alla co-
struzione della strut-
tura, databile dalla
ceramica rinvenuta e
da un piede di calice
in vetro ad un oriz-
zonte cronologico
sostanzialmente simile e quindi, verosimilmente, anteriore tutt’al più di pochi decenni
rispetto alla costruzione.
Il pozzo si trova immediatamente a nord di questo muro, ne è costruttivamente
anteriore ma ad esso certamente coevo nelle fasi d’uso. L’apertura è parzialmente co-
perta da una lastra di calcare, forse di riutilizzo, che nello spessore reca i segni di scor-
rimento delle funi usate per attingere l’acqua. Il pozzo (Fig. 23), profondo circa 4,50 m,
è realizzato per due terzi con conci di diversa misura messi in opera senza l’ausilio di
legante, mentre la parte bassa della cavità non è stata rivestita in alcun modo, lascian-
do a vista l’escavazione praticata nel sedimento calcareo più compatto.
Al momento del rinvenimento, il pozzo era interamente riempito da un limo grigio
a grana fine, asciutto nei primi due metri e con una concentrazione d’acqua maggiore
man mano che ci si avvicinava alla linea piezometrica di falda. Gli ultimi 60/70 cm di
riempimento, costituiti da un sedimento molto liquido, hanno restituito alcuni materiali
relativi alla sua fase d’uso.
40

Fig.23.
Supersa-
no- Loc.
Scorpo: la
sezione
del pozzo
41

L’analisi dei depositi ha fornito diverse indicazioni sulle dinamiche di chiusura del
contesto, non colmato volutamente. In effetti, la composizione del terreno che riempie
la struttura è pressoché omogenea e riferibile ad un lento accumulo formatosi nel
pozzo in parte concomitante con il possibile abbandono e disfacimento delle strutture
che si trovavano nei pressi della cavità. Gli indizi di questo processo sono piuttosto
eloquenti: a circa 1,50 m. di profondità è stato rinvenuto un frammento relativo ad una
stessa pentola rinvenuta poco sopra il pozzo, nel crollo del muro; la maggiore concen-
trazione di laterizi e di materiale lapideo (quest’ultimo in verità ben poco), si trovava a
circa 3 m. di profondità e poi nell’ultimo strato del riempimento, indicando chiaramente
due distinti tempi di disfacimento delle costruzioni del villaggio prossime al pozzo.
L’ultimo indicatore di un possibile abbandono è fornito dalle analisi archeobo-
taniche: tutti i semi rinvenuti all’interno del pozzo appartengono a piante da frutto
che si caratterizzano per un periodo di maturazione che va da luglio ad ottobre (Fig.
24), così come i semi delle piante erbacee con un ciclo vegetativo che termina nello
stesso periodo (Grasso 2011). A questo si devono aggiungere i vari resti relativi alla
produzione del vino, testimoniati da un gran numero di vinaccioli, in parte frantuma-
ti, viticci, frammenti di acini ecc. Sebbene sia difficile stabilire le modalità d’ingresso
nel contesto di questi resti vegetali (butto intenzionale?), appare convincente l’ipo-
tesi che il villaggio fosse stato abbandonato durante l’autunno.

(M.L.I.)

Cornus mas L.
Fig.24.
Medicago polymorpha L. Periodo
Pistacia lentiscus L. di infio-
Prunus spinosa L. rescenza
Raphanus raphanistrum L. delle
Cydonia oblonga Mill. essenze
Olea europaea L. attestate
Ranunculus arvensis L.
(secondo
Urtica urens L.
Pignatti
1982)
Urtica dioica L.
Fumaria officinalis L.
Vitis vinifera L.
Agrostella githago L.
Avena sp.
Agrinomia cfr. eupatoria L.
Hordeum vulgare L.
Myrtus communis L.
Rumex obtusifolius/crispus
Rumex sp.
Stachis sylvatica L.
Chenopodium album
Poligonum persicaria L.
Xhantium italicum M.
Periodo di fioritura Onopordum acanthium L.
42

Datazione al radiocarbonio mediante AMS di resti vegetali

Tre campioni di resti vegetali rinvenuti nel pozzo individuato nel corso della campa-
gna di scavo 2007 sono stati sottoposti a datazione con il metodo del radiocarbonio
mediante la tecnica AMS (Accelerator Mass Spectrometry) presso il CEDAD (CEntro
di DAtazione e Diagnostica) dell’Università del Salento (Fig. 25).

Fig.25.
La sala
accelera-
tore Tan-
detron del
CEDAD

Il CEDAD dispone infatti di un acceleratore di particelle del tipo Tandetron con tensio-
ne massima di accelerazione di 3 MV. L’acceleratore è dotato di diverse linee speri-
mentali per la datazione con il radiocarbonio mediante AMS, l’analisi composizionale
con tecniche di IBA (Ion Beam Analysis) sia in aria che in vuoto e con risoluzioni spa-
ziali fino al micrometro. La Fig. 26 riporta lo schema dell’acceleratore Tandetron con
l’indicazione delle diverse linee sperimentali utilizzate per attività di ricerca nel campo
della Diagnostica dei Beni Culturali, la Scienza dei Materiali, le Scienze della Terra ed
il monitoraggio ambientale.
In particolare la tecnica AMS consente la determinazione dell’età radiocarboni-
ca di resti organici su campioni di massa dell’ordine del mg e con livelli di incertez-
za dell’ordine dei 25-30 anni. La tecnica consiste nella determinazione diretta della
concentrazione residua di atomi di radiocarbonio nel campione. Tale determinazione
viene ottenuta attraverso l’estrazione degli ioni di carbonio dal campione, convertito in
43

forma di grafite, mediante una sorgente ionica, nella loro analisi in massa ed energia
mediante complessi analizzatori elettrostatici e magnetici e nella misura del contenuto
di radiocarbonio mediante sistemi di rivelazione tipici della fisica nucleare. I vantaggi
di tale tecnica, rispetto alle tecniche tradizionali di datazione al radiocarbonio, consi-
stono nella riduzione di circa cento volte dei tempi di misura e di circa mille volte della
quantità di materiale necessario per le analisi.

Fig.26.
Schema
dell’acce-
leratore
del CE-
DAD con
indicazio-
ne delle
diverse
linee speri-
mentali

I tre campioni provenienti dal sito di Supersano, sono stati sottoposti ad una serie di
trattamenti chimico-fisici presso i laboratori di preparazione chimica del CEDAD, al
fine di rimuovere le contaminazioni presenti e convertire gli stessi campioni in grafite
per la misura dei rapporti isotopici con l’acceleratore. Il trattamento chimico di rimozio-
ne delle contaminazioni dal campione è stato effettuato sottoponendo il materiale se-
lezionato ad attacchi chimici alternati acido-alcalino-acido. Il materiale estratto è stato
successivamente convertito in anidride carbonica mediante combustione a 900°C in
ambiente ossidante, e quindi in grafite mediante riduzione. Si è utilizzato idrogeno
come elemento riducente e polvere di ferro come catalizzatore (Fig. 27).
L’età radiocarbonica è stata quindi determinata con il sistema AMS, confrontando
i valori delle correnti di 12C e 13C, e i conteggi di 14C con i valori ottenuti da campioni
standard di Saccarosio C6 forniti dalla IAEA (International Atomic Energy Agency).
La datazione convenzionale al radiocarbonio è stata quindi corretta per gli effetti di
frazionamento isotopico e per il fondo della misura. Per la determinazione dell’errore
sperimentale nella data al radiocarbonio è stato tenuto conto sia dello scattering dei
dati intorno al valore medio, sia dell’errore statistico derivante dal conteggio del 14C.
Le datazioni ottenute per i tre campioni sono riportate nella Tabella 1 come date ra-
diocarboniche non calibrate.
La datazione al radiocarbonio per i campioni è stata quindi calibrata in età di
calendario utilizzando il software OxCal Ver. 4.0 basato sui dati atmosferici (Reimer
et al. 2004). Il risultato della calibrazione delle datazioni è riportato nella Fig. 28 e
riassunto nella Tabella 2.

(L.C., G.Q., M.D’E., L.M., V.G., E.B.)


44

Fig.27.
Le linee ul-
trapulite di
grafitizza-
zione dei
laboratori
chimici del
CEDAD

Tab.1.
Valori
misurati
dell’età
radiocar-
bonica per
i campioni
analizzati

Fig.28.
Calibrazio-
ne delle
datazioni
radiocar-
boniche

Tab.2.
Datazioni
radiocar-
boniche
calibrate
45

I manufatti dal pozzo

Sul fondo del pozzo, immersi nell’acqua di falda, sono stati trovati alcuni manufatti;
in parte si tratta di brocche ed anfore cadute nella cavità mentre venivano impie-
gate per attingere l’acqua, in parte sono Fig.29.
frammenti di oggetti in cuoio, ceramica e Coppa in
legno già in disuso, probabilmente caduti legno di
quercia
o scaricati nel pozzo poco prima dell’ab-
bandono del contesto. Come è stato di-
mostrato dalle analisi archeobotaniche,
infatti, la maggior parte dei resti botanici
è stata immessa nel pozzo in un lasso di
tempo ben determinato e assai ristretto
probabilmente alla fine dei mesi estivi o
all’inizio dell’autunno.
La maggior parte dei manufatti in le-
gno non possono essere ricondotti a og-
getti specifici. Alcuni sono pezzi
con evidenti tagli realizzati con
asce o altri strumenti affilati,
tavolette di quercia di cui si
conservano frammenti di Fig.30.
pochi centimetri, ciocchi di Frammen-
to di asta
erica dai quali è stata volu- ricurva in
tamente eliminata la parte legno di
aerea della pianta e una pluralità di rami e rametti, in pero (h.
buona parte in legno di fico, tagliati nettamente lungo 10,2 cm)
la sezione trasversale. Gli oggetti in legno riconoscibi-
li, invece, sono una parte di una coppa in legno di quer-
cia caducifoglie (Fig. 29), realizzata al tornio e decorata
all’esterno con alcuni solchi orizzontali, un frammento di
un’asta ricurva in legno di pero (Fig. 30), forse parte di un
arco, ed un puntale in legno di quercia (Fig. 31), rozza-
mente affilato, che probabilmente serviva ai contadini per
forare la terra durante la semina.
Alcuni dei manufatti in ceramica si conservano pres-
soché integralmente, in altri casi sono preservate solo le
parti basse dei contenitori, altri ancora sono ricostruibili ad
eccezione dell’ansa alla quale verosimilmente era in origine
attaccata una fune. È evidente che alcuni di questi manufatti
sono stati persi, in altri casi le anfore o le brocche potevano spaccarsi
battendo sulle pareti in conci del pozzo. Così sono state recuperate due Fig.31.
anfore globulari a fondo umbonato (Fig. 32) e una brocchetta a fondo Puntale in
legno di
piatto (Fig. 33,b) riferibili ad una produzione locale fin ora nota solo dai rin- quercia (h.
venimenti di Località Scorpo, un’anforetta biansata pressoché integra con 16 cm)
decorazione a pettine sulla spalla (Fig. 33, a), tre esemplari frammentari
46

probabilmente dello stesso tipo ed una brocca monoansata (Fig. 34) prodotti in un im-
pasto grezzo che definiamo ‘tipo Apigliano’ dal nome dell’omonimo villaggio bizantino
e medievale.
Fig.32.
Alcuni altri frammenti ceramici erano caduti
Anfora accidentalmente nel pozzo. Tra di essi vale la
globulare pena menzionare due soli frammenti di un tipo
a fondo di anfora prodotta ad Otranto e destinata ai
umbonato commerci trans marini. Proprio per la partico-
lare destinazione d’uso di questo contenitore,
probabilmente impiegata nella commercializ-
zazione del vino prodotto nell’hinterland idrun-
tino, si tratta di uno dei rarissimi rinvenimenti di
questa forma nelle aree interne del Salento.
Più in generale, il gruppo di ceramiche rin-
venuto nel pozzo sembra confermare una certa
autosufficienza del sistema locale almeno in rela-
zione ai beni di largo consumo, quali il vino. Oltre
ai numerosi resti archeobotanici rinvenuti nel pozzo,
un dato ulteriore è rappresentato dalle analisi sui residui
organici praticato su sei campioni pertinenti ad anfore integre o parzialmente ricostru-
ibili. Tutti i campioni, come viene indicato nel contributo che segue, hanno rivelato
che questi contenitori erano rivestiti inter-
namente di resina o pece, espediente uti-
Fig.33. lizzato proprio per la conservazione del
a) anfora
con deco-
vino.
razione a
pettine sul-
la spalla (h. (P.A., M.L.I.)
23,5 cm);
b) brocca
(h. 18,4 cm)

a. b.

Fig.34.
Brocca
monoan-
sata (h.
19 cm)
47

Analisi dei residui organici su campioni di anfore

Le analisi chimiche condotte su alcuni campioni di anfore da Località Scorpo hanno


avuto come obiettivo la caratterizzazione chimica dei composti di natura organica
assorbiti dalla matrice ceramica e di quelli visibili come incrostazioni sulla superficie
interna dei contenitori.
Le analisi sono state realizzate attraverso l’impiego incrociato di due tecniche ana-
litiche: Gas Cromatografia associata a Spettrometria di Massa (GC/MS), applicata
alla componente lipidica, e Spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier (FT-IR),
applicata ai residui visibili sulla superficie interna dei contenitori4.
La tecnica GC/MS è in grado di separare, identificare e quantificare a livello
molecolare i singoli componenti che costituiscono una miscela organica. La prepa-
razione dei campioni prevede una serie di trattamenti chimici ad umido che consen-
tono di separare le sostanze organiche dalla matrice ceramica a cui sono legate.
Successivamente il campione viene iniettato nel gas cromatografo, all’interno del
quale le molecole vengono separate ed identificate. L’identificazione di un materiale
naturale in un residuo archeologico mediante GC/MS si basa sulla identificazione
di uno o più composti specifici (biomarker molecolari) che si sono conservati nel
corso del tempo e che sono riscontrabili anche in materiali a noi contemporanei. I
biomarker significativi possono essere anche prodotti di trasformazione indicatori
del degradamento sia di origine antropica (es. trattamenti termici) sia naturale (os-
sidazioni e degradazioni batteriche).
Fig.35.
Cromato-
gramma
ottenuto
mediante
GC-MS,
relativo
all’estratto
lipidico di
un cam-
pione di
anfora

4
Le analisi GC-MS sono state condotte presso il laboratorio di Chimica Organica del Di.S.Te.B.A. dell’Uni-
versità del Salento; quelle con spettroscopia FT-IR sono state realizzate presso il laboratorio di Spettrofo-
tometria FT-IR dell’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali (IBAM-CNR) di Lecce.
48

La metodica sopra descritta mira ad isolare esclusivamente la componente lipidi-


ca, ossia le sostanze grasse. Esistono, però, altre classi di alimenti prive di un com-
ponente lipidica (come, ad esempio, il vino) che non possono essere individuate ap-
plicando solo questa tecnica. I campioni sono stati quindi analizzati anche mediante
la tecnica FT-IR, che si basa sull’analisi delle bande di assorbimento della radiazione
infrarossa da parte di composti chimici diversi.
L’analisi GC/MS ha evidenziato la presenza di resine derivanti dalla specie della
famiglia delle Pinaceae (Fig. 35). In particolare i composti individuati sono da mettere
in relazione con una serie di processi subiti dal materiale resinoso durante un tratta-
mento termico, servito verosimilmente a ridurre la resina a materiale pecioso.
L’analisi con spettroscopia infrarossa ha confermato il risultato ottenuto con la GC/
MS e ha rivelato, inoltre, la presenza di segnali tipici dei tartrati di calcio, che possono
essere indicativi del vino. Si tratta di composti non particolarmente diffusi in natura,
derivanti dalla trasformazione dell’acido tartarico presente in considerevoli quantità
nelle uve e nei loro derivati.
L’insieme dei risultati ottenuti permette di affermare che le anfore di Supersano
avevano contenuto vino e che erano state rivestite internamente con materiale imper-
meabilizzante riconducibile a pece derivante da legno di Pinaceae.

(F.N.)
49

I modelli 3D digitali dei reperti lignei

Il Coordinamento SIBA5 dell’Università del Salento ha contribuito alla Mostra “La


storia nel pozzo: ambiente ed economia di un villaggio bizantino in Terra d’Otranto”
realizzando i modelli 3D digitali di 4 reperti lignei rinvenuti nel pozzo del villaggio
bizantino di Supersano (Fig. 36). Dal momento che i problemi di conservazione ne
impedivano l’esposizione in originale nell’allestimento della mostra, i curatori hanno
ritenuto necessario realizzare una loro riproduzione fisica.
Fig.36.
I modelli
3D digitali
dei quattro
reperti
lignei

Il lavoro di acquisizione e modellazione digitale dei reperti è stato realizzato presso


il Laboratorio 3D6 del SIBA, attivo da diversi anni e dotato di attrezzature hardware e
software per l’acquisizione, la modellazione e l’ispezione 3D. Per la realizzazione dei
modelli 3D dei reperti è stato utilizzato uno scanner 3D laser adatto all’acquisizione ad
altissima risoluzione di oggetti molto piccoli. Tale scanner è dotato di una base rotante
che ha consentito di effettuare le scansioni 3D attorno ai singoli reperti in maniera
completamente automatica, limitando al massimo la manipolazione dei pezzi. I reperti
sono stati acquisiti ad una risoluzione spaziale di 0.1 mm (Fig. 37).
Sono stati quindi realizzati 5 modelli poligonali: 4 dei singoli reperti ed un quinto in cui
due frammenti pertinenti lo stesso oggetto sono stati assemblati virtualmente (Fig. 38).
I modelli 3D digitali realizzati sono stati inviati al Laboratorio di Materiali polimerici
del Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione per la realizzazione della copia fisica.

5
Coordinamento Servizi Informatici Bibliotecari di Ateneo (http://siba2.unisalento.it)
6
Il Laboratorio 3D è stato attivato dal Coordinamento SIBA nell’ambito dell’Iniziativa I18 del Piano Co-
ordinato delle Università di Catania e Lecce ed ampliato nell’ambito dell’Attività 4 del Progetto Land-Lab
(entrambi cofinanziati dall’Unione Europea).
50

Fig.37.
Modello
3D del
puntale e,
sulla de-
stra, detta-
glio della
superficie
che rivela
la risolu-
zione spa-
ziale

I modelli digitali 3D, oltre a consentire una replica fisica particolarmente fedele all’ori-
ginale, contengono una quantità di informazioni che possono essere esaminate ed
analizzate per numerose applicazioni di conservazione, ricerca e visualizzazione.
Essi infatti, oltre a facilitare lo studio dettagliato dei reperti a prescindere dal contatto
diretto con gli stessi, offrono strumenti di analisi innovativi che vanno dalla semplice
possibilità di effettuare zoom sul modello per esaminare e misurare minuscoli dettagli
della superficie o per rilevare tracce lasciate dagli strumenti, fino alla possibilità di
realizzare infinite sezioni sull’oggetto senza distruggerlo (Fig. 39).

(A.B.)
Fig.38.
Ipotesi di
assem-
blaggio
dei due
frammenti
di coppa

Fig.39.
Modello
3D di
uno dei
frammenti
di coppa:
sezioni
orizzontali
e verticali
51

Replica dei reperti lignei per prototipazione rapida

Le repliche dei reperti lignei, esposte in questa mostra, sono state realizzate grazie alla
tecnica della prototipazione rapida. La prototipazione rapida è una tecnologia che con-
sente di realizzare componenti in diversi tipi di materiali avendo a disposi-
zione un disegno CAD. I materiali più diffusi sono diversi tipi di polimeri, Fig. 41.
sia termoplastici che termoindurenti, anche se sono usate anche alcune Replica del
leghe metalliche. Le tecnologie disponibili sono molto diverse ma tutte puntale in
legno di
caratterizzate dalla natura “additiva” del processo di fabbricazione. Infatti quercia
a differenza delle più convenzionali tecnologie di fresatura, che agiscono
sottraendo materiale da un blocco grezzo, in questo caso l’oggetto viene
costruito sovrapponendo una sezione sull’altra, dunque “addizionando” o
meglio aggiungendo materiale. Queste tecnologie nascono con la stereo
litografia laser a metà degli anni 80 per la realizzazione di parti meccaniche.
La stereo litografia, in questo caso utilizzata per la riproduzione di materiali
lignei non esponibili se non in replica (Fig. 40), permette di realizzare un og-
getto tramite la ricostruzione delle sezioni a partire da una resina epossidica
liquida, indurita grazie ad una reazione di fotopolimerizzazione indotta da
un fascio laser (Fig. 41).

Fig.40.
Schema
di princi-
pio della
stereo
litografia
52

Il laser scansiona selettivamente la superficie di un bagno di resina liquida deter-


minandone la polimerizzazione fino ad una profondità di 0.1 mm, per il caso in oggetto
(risoluzione nella direzione verticale).
La precisione nel piano ottenuta con lo stereolitografo utilizzato è pari a 0.1 mm.
La possibilità di ricostruire reperti archeologici in materiale plastico è stretta-
mente dipendente dalla possibilità di realizzare un’acquisizione della geometria del
pezzo e la sua conversione in un file CAD. La stereo litografia può essere anche
usata per la realizzazione di parti mancanti di oggetti in ceramica utilizzando la
parte realizzata con lo stereolitografo come modello per la realizzazione di stampi
in silicone o gesso (Esposito et al. 2005). Tali stampi poi potranno essere usati per
successive operazioni di formatura ad esempio con sospensioni ceramiche (Fersini,
Frigione, Matteo 2009).

(F.M., M.F., A.M.)


L’ambiente
55

L’ambiente naturale

Si provi a immaginare l’uomo medievale immerso nella realtà del bosco. La prima im-
magine che inconsciamente si affaccia alla nostra mente è quella di un uomo inquieto,
che vaga in un luogo orrido e sconosciuto: la “selva dantesca”. L’immaginario lettera-
rio medievale ha generato in noi questa associazione priva di profondità storica la cui
origine è da rintracciarsi nella nascente realtà urbana bassomedievale. In questa fase
il bosco era una realtà marginale nella quale si avventurano eremiti, carbonai, caccia-
tori, cercatori di miele ecc. Pochi abitanti vagabondi che per le loro caratteristiche di
rudezza e selvatichezza erano spesso “sospetti ai sedentari” (Le Goff 1988).
In realtà la percezione della realtà boschiva era ben diversa per i secoli che im-
mediatamente hanno preceduto questa fase. Per l’Altomedioevo, infatti, i pochi testi
pervenutici contengono raramente descrizioni o anche solo accenni ad essa. Questo
probabilmente perché la diffusione della selva “era tale che non se ne rendeva ne-
cessaria la descrizione” (Golinelli 1988). Il rapporto uomo ambiente doveva essere
di tipo simbiotico e non dicotomico così come l’abbiamo istintivamente immaginato.
Il bosco e la foresta erano soprattutto risorse, anzi vere e proprie ricchezze: si rac-
coglievano frutti spontanei, era il pascolo ideale per gli animali, si poteva cacciare e,
ove fossero presenti corsi d’acqua, si poteva praticare anche la pesca. Sembra che
in questo periodo vi siano state meno carestie rispetto all’età successiva e c’è chi
ipotizza che la motivazione possa essere cercata proprio nella possibilità alternativa
alle risorse della coltivazione offerta dalla foresta (Montanari 1984). Il paesaggio al-
tomedievale si sintetizza quindi nell’apparente ossimoro di “terra et silva”, “cultum et
incultum”, indicanti realtà ambientali, economiche e produttive sicuramente opposte,
eppure unite dalla componente antropica di uso e sfruttamento del territorio. Questa
ha fatto sì che, durante tutto l’Altomedioevo, spazi coltivati ed incolti si intersecassero
in un equilibrio delle parti volto sostanzialmente a garantire la sopravvivenza umana.
Gli studi condotti sull’insediamento bizantino in località Scorpo hanno evidenziato
in un contesto particolare proprio questo andamento generale.
La ricostruzione del rapporto tra l’uomo e l’ambiente vegetale è resa possibile
dall’analisi dei resti vegetali preservatisi all’interno degli strati archeologici che sono
oggetto di studio dell’archeobotanica. Il terreno campionato durante lo scavo viene
setacciato in acqua, in questo modo le componenti di maggiori dimensioni vengono
trattenute dal setaccio mentre le componenti sottili e pesanti, una volta sciolte, si
depositano sul fondo del contenitore. I materiali trattenuti dal setaccio vengono posti
ad asciugare in zone ombreggiate. Successivamente, in laboratorio e con l’ausilio del
microscopio, si passa alla loro selezione prelevando esclusivamente i resti di semi,
frutti, legni e carboni. Nel caso dei semi e dei frutti si osserva la loro struttura esterna
e, per confronto, si comprende a quale specie appartengano. Nel caso del legno e del
carbone di legna è invece necessario fratturare il campione, in modo da renderne vi-
sibile la struttura anatomica interna, osservata poi con un microscopio metallografico,
che consente ingrandimenti pari a 100-500 volte le dimensioni reali. La struttura mi-
croscopica cambia di specie in specie e, anche in questo caso, l’attribuzione avviene
per confronto (Fig. 42). Questa complessa procedura, utilizzata nel recupero ed ana-
lisi dei resti vegetali nei contesti asciutti del villaggio di Supersano come i riempimenti
delle fosse, è stata resa ancora più complessa nel caso del deposito del pozzo per la
56

presenza della falda freatica che ha imbibito i resti. La determinazione e l’attribuzione


tassonomica dei resti vegetali recuperati ha consentito di delineare l’ambiente natura-
le nel quale si collocava il villaggio bizantino di Supersano.

Fig.42.
Le fasi del-
la ricerca
archeobo-
tanica

Nell’area circostante l’insediamento doveva esservi un querceto misto di caducifoglie


e sempreverdi, in associazione con frassino (Fraxinus cfr. excelsior), carpino (Ostr-
ya carpinifolia Scop.) e corniolo (Cornus mas L.), composto da individui più o meno
isolati, forse residuo di un passato assetto vegetazionale. (Fig. 43). Probabilmente
questi individui più o meno isolati dovevano collocarsi a fondo valle. Nella stessa zona
doveva esservi una com-
Fig.43.
Partico-
presenza di aree incolte
lare della tendenzialmente ancora
pianta di più umide, come sembra-
quercia no suggerire le attestazio-
(Quercus ni di pioppo o salice (non
sp.)
è possibile distinguere le
due specie dall’anatomia
del loro legno), e la pre-
senza di semi della be-
tonica selvatica (Stachis
sylvatica L.), del romice
(Rumex obtusifolius/cri-
spus) e dell’ortica (Urtica
dioica L., Urtica urens L.)
(Fig. 44).
57

Al contrario sembra potersi ipotizzare che sulla Serra, ad ovest dell’insediamento,


vi dovessero essere ampie aree del bosco abbattute attraverso la tecnica del “ta-
glio e incendio”. Probabilmente in una fase precedente, ma non
meglio precisabile cronologicamente, si deve essere verificata Fig.44.
la necessità di mettere a coltura nuovi territori, da qui la Seme di
creazione di radure artificiali attraverso questa pratica. In ortica (Urti-
ca sp.)
seguito, le zone non utilizzate sono state colonizzate da
quelle essenze della macchia mediterranea che hanno
sviluppato capacità di adattamento agli incendi (Fig. 45).
La ripresa della vegetazione in seguito al passaggio del
fuoco si basa fondamentalmente su due meccanismi di
sopravvivenza: la capacità di alcune specie di ricostruire
la parte aerea, oppure la germinazione dei semi che si
trovavano nel terreno, favorita dalle alte temperature. Le
specie con questi adattamenti sono dette pirofite, e le es-
senze di tale tipo individuate archeobotanicamente sono l’eri-
ca (Erica cfr. arborea) (Fig. 46), il corbezzolo (Arbutus unedo
L.), il mirto (Myrtus communis L.), il lentisco (Pistacia lentiscus L.), il ramno (Rhamnus
sp.). Queste essenze caratterizzano una ripresa vegetativa volta alla formazione di un
ambiente di macchia mediterranea, costituita da arbusti in prevalenza sempreverdi,
xerofili, muniti di foglie rigide e coriacee, che prediligono condizioni di termofilia.

Fig.45.
La mac-
chia medi-
terranea

L’intervento dell’uomo nell’area è altresì testimoniato dalla presenza di alberi da frutto


quali pruni e pomi che, probabilmente, dovevano essere collocati nell’area di rispetto
tra la zona più propriamente abitativa e l’area boschiva ed incolta. Un’abitudine che
persiste ancora oggi: è possibile infatti vedere nelle campagne salentine esemplari
più o meno rinselvatichiti di queste specie (Fig. 47), che sono proprio posti a margine
degli appezzamenti coltivati.
58

Fig.46. Oggi la struttura origi-


Carbone di naria del Bosco non è
Erica sp. più chiaramente visibi-
vista al mi- le, trattandosi di indi-
croscopio
metallo- vidui isolati di querce
grafico di grandi dimensioni
nella piana, e solo ra-
ramente è possibile
incontrare una concen-
trazione di farnetti unita
ad elementi arbustivi
ed erbacei caratteristi-
ci del sottobosco. La
vegetazione distribuita
sui versanti della Serra
è caratterizzata da ele-
menti più o meno de-
gradati della macchia
mediterranea mentre la copertura arborea è il frutto di recenti rimboschimenti con pini ed
eucalipti e la presenza di specie infestanti come l’ailanto.

(A.M.G., G.F.)

Fig.47.
Particolare
della pian-
ta di pero
selvatico
59

I resti vegetali dal pozzo: piante coltivate

L’area occupata dal villaggio bizantino di Località Scorpo a Supersano è prevalente-


mente pianeggiante o sub- pianeggiante e, occupando una depressione nella quale
confluiscono le acque di scorrimento superficiali provenienti dai settori più elevati,
è soggetta, ora come in passato, a periodici allagamenti. Scrive Mainardi (1989, p.
28) “l’acqua in Belvedere non mancava affatto: gli antichi privilegi nobiliari vantati
sull’esercizio della pescagione, praticata lungo le sponde delle conche pluviali e degli
acquitrini, lo dimostrano ampliamente”. Le zone allagate si trasformavano facilmente
in zone paludose a causa della poca permeabilità del suolo. Le caratteristiche del
sottosuolo della zona ne hanno condizionato gli interventi agrari, portando a privile-
giare quelle piante che sviluppavano tecniche di adattamento all’ambiente, così come
dimostrano gli estesi oliveti tutt’ora presenti, che possiedono un apparato radicale ed
un fusto molto più sottile e sviluppato in altezza rispetto alla media (Fig. 48).
Probabilmente la scelta di zone meno interessate da possibili impaludamenti,
unita alla maestria dell’uomo e al possibile adattamento delle piante ha consentito,
anche nel periodo di vita del villaggio bizantino, di poter avere a diposizione i frutti
dell’agricoltura. Essi sono da sempre assai importanti nell’economia di un villaggio
poiché, come ricorda Fernand Braudel, “ su superfici uguali, non appena un’economia
si decide sulla base della sola aritmetica delle calorie, l’agricoltura riesce di gran lunga
superiore all’allevamento. Bene o male, nutre un numero di uomini dieci, venti volte
superiore che non il suo rivale” (Braudel 1982, p.81).

Fig.48.
Oliveti
nell’area
del Bosco
di Bel-
vedere
presso
Supersano
60

La conoscenza delle abitudini agricole e alimentari degli abi-


Fig. 49.
a) Fram- tanti del villaggio è demandata alle possibilità di sopravvivenza
mento di di resti di semi e frutti nel contesto archeologico, oggetto di stu-
lamina dio dell’archeobotanica. Nei siti asciutti la conservazione è
fogliare di possibile solo nei casi in cui i resti siano entrati in contatto
dicotile-
done; b)
volontariamente, o accidentalmente, con il fuoco: la parziale
legume di combustione, infatti, è l’unico strumento che ne garantisce
Medicago la sopravvivenza, rendendo il materiale inerte e quindi im-
polymor- mune dall’attacco di batteri. Ovviamente, ciò comporta che
pha L.; c) i semi di frutti con presenza di tessuti lignificati (es. il noc-
spina di
Rosacea ciolo dell’olivo) siano i più favoriti per la conservazione. Nel
caso del pozzo di Supersano, invece, ci si trova di fronte ad
un contesto eccezionale, poiché la presenza costante di
acqua nella falda ha consentito di preservare anche foglie
e infiorescenze: materiali vegetali assai delicati, che si sono
conservati grazie all’ambiente anaerobico creatosi (Fig. 49). Allo
stesso modo si sono mantenuti anche tutta una serie di semi e frutti,
a. che consentono di delineare in maniera chiara quali fossero le piante
presenti nei dintorni dell’insediamento (cfr. Fig. 24).
Il ritrovamento di cariossidi di grano, orzo e avena at-
testano innanzitutto il consumo di cereali nel villag-
gio. Inoltre l’identificazione di semi appartenenti a
piante che infestano i campi cerealicoli, quali il che-
nopodio (Chenopodium album L.), il ranuncolo dei
campi (Ranunculus arvensis L.) e il gittaione (Agro-
stemma githago L.) (Fig. 50), lascia supporre che
i cereali dovessero essere coltivati in loco, e non
rappresentare l’esito di una forma di scambio e/o
commercio. Il confronto con un altro villaggio bizan-
tino e medievale, quello di Apigliano (Martano- LE)
b. (Grasso, Fiorentino 2009a), contesto affine per localizza-
zione geografica e contestualizzazione storica, trova una
diretta corrispondenza nell’uso delle medesime graminacee, alle
quali va ad aggiungersi, nel caso di Supersano, l’avena. L’affinità individuata
permette, sinora, di avvalorare l’ipotesi fornita da alcuni storici (Licinio 1983;
Montanari 1979, 1988), in base alla quale nell’Italia centro meridionale per-
sisterebbe un sistema agrario basato sulla coltivazione del frumento
e dell’orzo mentre nell’Italia settentrionale trovava spazio anche
l’impiego di alcuni grani “minori” come la segale, il miglio ed
il panico (Grasso, Fiorentino 2009b). Le modalità di ri-
trovamento non consentono però di chiarire se l’uso
di queste risorse fosse finalizzato all’alimentazione
umana o anche del bestiame. Infatti, se pure orzo
e avena sono generalmente considerate essen-
ze foraggere, il loro consumo anche da parte dell’uomo sotto forma di
zuppe, poteva essere essenziale nei periodi di penuria.
Ci sono alcuni indicatori che consentono di ipotizzare che, nei pressi del
c. villaggio, vi dovesse essere anche un orto. Tra i manufatti del pozzo è stato
ritrovato, infatti, un puntale per la semina e, oltre ad esso, sono stati identifica-
61

ti i semi di alcune piante erbacee che generalmente infesta-


no gli orti, quali la fumaria (Fumaria officinalis L.) (Fig.
Fig.50.
51), la mercorella comune (Mercurialis annua L.) e il Seme di
ravanello selvatico (Raphanus raphanistrum L.). gittaione
Gli alberi da frutto non mancavano: oltre ai cor- (Agrostem-
bezzoli (Arbutus unedo L.), alle prugne selvatiche ma githago
(Prunus spinosa L.) e ai cornioli (Cornus mas L.) L.)
(Fig. 52) del vicino bosco infatti, gli abitanti aveva-
no a disposizione mele e/o pere (Malus/Pyrus), fichi
(Ficus carica L.), cotogni (Cydonia oblonga Mill.) e uva
(Vitis vinifera L.). I numerosi semi rinvenuti si presentavano
in associazione con legni e carboni delle medesime specie e di conseguenza, anche
in quest’ultimi casi, le piante erano coltivate in zona.
Resta incerta, invece, l’eventuale coltivazione dell’olivo. I Fig.51.
resti di legno combusto ed imbibito appartenenti a questa Seme di
specie (Fig. 53) sono infatti numerosi, ma a fronte di un fumaria
solo endocarpo di olivo intercettato risulta difficile avan- (Fumaria
zare una qualunque ipotesi. Questa essenza, infatti, è officinalis
L.)
presente da tempo sul territorio allo stato selvatico come
componente della macchia mediterranea (Olea europaea
subsp. sylvestris Brot.) ma registra un
incremento, a partire dal I secolo d.C.,
in relazione alla sua probabile coltivazio- Fig.52.
ne (Olea europaea subsp. sativa Hoffm. et Endocarpo
Link), così come evidenziato dalle recenti analisi polliniche di corniolo
effettuate presso i Laghi Alimini (LE) (Di Rita, Magri 2009). (Cornus
Tuttavia, nel caso specifico del villaggio di Supersano non mas L.)
è possibile distinguere la subspecie domestica da quella
selvatica solo sulla scorta delle caratteristiche anatomiche
del legno.
Concludendo può dirsi che, nonostante lo scarso peso
economico dei contatti esterni, gli abitanti del villaggio bi-
zantino avevano sicuramente una pluralità di risorse agroali-
mentari a loro disposizione.

(A.M.G., G.F.) Fig.53.


Carbone
di Olea
europaea
L. vista al
microsco-
pio metal-
lografico
62

La vite e il vino nel villaggio bizantino

La vite comune (Vitis vinifera L.) è un arbusto legnoso rampicante presente natural-
mente nella nostra flora (Pignatti 1982). Si distingue in una forma coltivata (Vitis vi-
nifera L. subsp. vinifera) e una selvatica [Vitis vinifera L. subsp. sylvestris (Gmelin)
Hegi]. La prima è la sub-
specie di maggiore valo-
Fig.54. re economico, poiché è
Differenze ricercata per i suoi frutti,
morfologi- il succo e soprattutto per
che tra vite la possibile produzione
coltivata e
selvatica
di vino. Essa ha fiori er-
(This et al. mafroditi, foglie intere
2006 mo- o suddivise in 3/5 lobi e
dificato) acini di dimensioni varia-
bili a seconda del vitigno.
Deriverebbe dalla forma
selvatica che ha piante
con fiori maschili ed altre
con fiori femminili, grap-
poli con pochi acini, ge-
neralmente piccoli e dal
sapore aspro (Fig. 54).
Sembra che alla base
del processo di domesti-
cazione vi sia stata una
selezione di genotipi più
adatti alle esigenze uma-
ne, accompagnata dalla
propagazione vegetati-
va, attraverso innesti ed
altre tecniche colturali.
Le prime tracce ar-
cheologiche della colti-
vazione e della domesti-
cazione della vite sono
attestate tra il VII ed il IV
millennio a.C., in un zona
geografica compresa tra
il Mar Nero e l’Iran mentre, in Italia, le testimonianze più antiche si hanno a partire
dal 1600 a. C. e sono costituite essenzialmente dal rinvenimento di semi (vinaccioli)
(McGovern 2006; Fiorentino et al. 2004; Fiorentino c.s.).
Il contesto archeologico di Località Scorpo è, attualmente, l’unico sito dell’Italia
Meridionale medievale nel quale sono state riconosciute, seppure indirettamente at-
traverso l’analisi archeobotanica, molte fasi del processo vitivinicolo. Infatti, in conse-
guenza dell’uso e graduale abbandono del pozzo che consentiva agli abitanti della
63

zona di prelevare acqua direttamente dalla falda acquifera, si sono riversati materiali
organici perfettamente conservati grazie all’ambiente anaerobico creatosi. Tra essi,
la disamina dei materiali ha portato al riconoscimento di 1204 vinaccioli integri e 227
frammentari, 1343 piccioli, 158 porzioni di acino d’uva oltre ad un ampio numero di
rami e rametti di vite (Fig. 55). Proprio la presenza di questi ultimi ha permesso di
avanzare l’ipotesi della presenza in loco della pianta, a discapito dell’idea d’importa-
zione dell’uva da luoghi limitrofi.
Fig.55.
Vinaccioli
integri
e fram-
mentati,
pedicelli e
acino dal
pozzo

L’assemblaggio rinvenuto presenta un altro importante elemento d’interesse per


quanto riguarda le modalità di vinificazione: l’associazione di vinaccioli integri e fram-
mentati, acini, porzioni di bucce, pedicelli ecc. è, infatti, quel che resta del processo di
pigiatura dell’uva. La rottura dei vinaccioli non può che essere dovuta all’intervento di
un’azione meccanica precedente il loro ingresso nel pozzo, anche perché gli altri semi
individuati nel riempimento sono pressoché integri. Studi etnografici e confronti arche-
ologici hanno evidenziato che la pigiatura dell’uva effettuata con i piedi comporta, solo
raramente, la rottura del vinacciolo (Margaritis, Jones 2006; Figueiral et al. 2010), di
conseguenza deve essere presa in considerazione la possibilità che nel processo
produttivo individuato vi sia stata anche una fase di “pressatura” dell’uva. All’interno
dell’insediamento non sono state individuate, ad oggi, strutture con questa funzione
ma è il caso di ricordare che, in antico, la pressatura non avveniva esclusivamente
tramite i torchi. Vi erano sistemi più semplici ed economici quali la “pressatura manua-
le” e la “pressatura per torsione” (Brun 2004). Nel primo caso l’uva era deposta in una
cavità o su un piano leggermente concavo, su essa si poggiavano una o più tavole di
legno e, in alcuni casi, il carico poteva essere rinforzato con una o più grosse pietre
(Fig. 56); nel secondo caso, invece, l’uva veniva deposta in un sacco, poi due o più
operai lo torcevano con l’ausilio di due aste di legno (Fig. 57).
64

Fig.56.
Sistema di
pressatura
manuale
dell’uva
(Brun
2004, mo-
dificato)

Fig.57.
Sistema di
pressatura
per torsio-
ne dell’uva
(Brun
2004, mo-
dificato)
65

Lo scavo del deposito all’interno del pozzo ha evidenziato inoltre come il vino non
fosse solo prodotto ma sicuramente anche consumato all’interno del villaggio. Il ritro-
vamento di anfore appartenenti ad una forma globulare a fondo umbonato, e le analisi
dei residui organici ad essa associati, hanno consentito di riconoscere residui del tar-
trato di calcio, una molecola che è naturalmente presente nell’uva e che si preserva
anche nel vino (Cfr. Notarstefano infra).
Concludendo, gli importanti rinvenimenti del villaggio bizantino di Supersano raf-
forzano l’ipotesi che la coltivazione della vite e la produzione di vino, doveva essere
una costante per l’intera età medievale. Il suo frutto poteva, infatti, integrare facilmen-
te la dieta degli uomini del tempo e il consumo di vino era altamente consigliato in virtù
delle proprietà igieniche che il basso contenuto alcolico garantiva. In virtù di ciò il vino
era spesso allungato con acqua e l’acqua era spesso mescolata con vino. Gli episo-
di miracolosi di conversione dell’acqua in vino, riportati dalla letteratura medievale,
avevano quindi, al di là del valore simbolico- religioso, una ragione pratica (Montanari
1988). Infatti, i medici medievali segnalavano la bevanda come elemento chiave nella
dieta di sani e malati per l’“azione altamente nutritiva e ricostituente, oltre che ema-
topoietica e confortativa, [per le] proprietà digestive, solutive, diuretiche, lassative,
espettoranti, lenitive ed euforizzanti” (Albuzzi 2003, p. 692). Bere vino rappresentava
una necessità dunque, più che un vizio, per l’uomo medievale.

(A.M.G.)
66

Riconoscimento della varietà tra genetica e morfometria

La distinzione delle diverse varietà coltivate di vite (cultivars) è basata su criteri morfo-
logici e fenologici propri dell’ampelografia ed ha origine almeno dal 1600 quando per
la prima volta è stato usato il termine Ampelographia. A partire dai secoli successivi
diverse opere a carattere nazionale o generale si sono poste l’obiettivo di sistematiz-
zare i criteri di distinzione per evitare sinonimie e ripetizioni. I moderni descrittori ed i
cataloghi internazionali riportano, ad oggi, almeno 6000 cultivars (http://www.eu-vitis.
de/index.php), distinte su base ampelografica, ampelometrica, chimica e biochimica.
Molte sono state sviluppate in età moderna per fare fronte alle diverse esigenze del
mercato, ma altrettante hanno un’origine più antica.
Attualmente si stanno vagliando nuovi approcci finalizzati alla ricostruzione della
storia della viticoltura e, in particolare, dell’evoluzione di alcune varietà. Essi prevedo-
no l’applicazione e l’integrazione di differenti metodologie d’indagine, quali la lettura
delle fonti scritte, e in particolare dei trattati agronomici, l’analisi del DNA antico e la
definizione morfologica e morfometrica del profilo del seme della vite. Il recente rinve-
nimento di vinaccioli imbibiti all’interno di un pozzo del villaggio bizantino di Supersa-
no ha consentito la definizione di un protocollo di analisi integrate in tal senso.
Le informazioni sulla storia dei vitigni erano, sino a non molto tempo fa, desunte
esclusivamente dalle fonti scritte. Gli autori classici fanno un riferimento saltuario alle
varietà presenti nei vari territori, mentre il primo elenco sistematico per il medioevo è
stato scritto da Pier de Crescenzi. L’autore, nel libro IV capitolo IV del suo “Trattato
della agricoltura” redatto intorno al 1305, descrive “delle diverse maniere delle viti”
che erano coltivate nel territorio bolognese, ricordando che “di quelle alcune sono
migliori e alcune men buone” (Pier de’ Crescenzi 1805). Per quanto riguarda il Salen-
to bisognerà attendere invece gli inizi del 1800, quando Marinosci, nella sua opera
postuma sulla flora salentina scriverà: “Le uve buone a mangiare sono l’Apiana o
Moscadella, la Sanguinella, la Duracina o Tostola, la Bumaste o a Zinna di vacca, la
Dactilites o Corniola, l’uva dura Duraga o Leptoraga detta Passolara ad acini grandi
e piccoli. Tra le uve da vino eccellono l’Elleantica o Glianica, l’Oleaginea od Olivella,
che son nere, quella a Piè di Colombo, ad acini rosseggianti; la Malvagia bianca e
nera, l’Asprinia che dà il vino greco, l’Aminea che dava il vino di durata, cui apparte-
nevano la Germana, la Gemella maggiore e minore, e la Lanata. Gli antichi avevano
le uve Graecola, Eugenia Sircula o Stacula, Murgentina, Pompeiana, Harconia, Ma-
ericana, Lagea, Metimnea, Thasia, Mareotide, Rhodia. Tralascio i tanti nomi volgari.”
(Marinosci M., 1870, Vol. I, p.100).
La ricerca in campo genetico sta, invece, aiutando innanzitutto a comprendere le
origini delle varietà coltivate. Sembrerebbe esserci un’elevata contiguità genetica tra
la vite silvestre e quella domestica, che orienterebbe i ricercatori verso un’origine co-
mune delle due sub specie, differenziatesi solo per la precocità con la quale sarebbe-
ro state sottoposte a selezione da parte dell’uomo. Lo strumento di ricerca e d’analisi
impiegato sono i “marcatori microsatelliti”: cioè delle zone non codificanti del DNA, che
restano neutre rispetto alla pressione operata dalla selezione naturale e dalla sele-
zione antropica. In queste particolari aree è scritta la storia evolutiva di ogni individuo
che gli permette di differenziarsi da tutti gli altri. Le prime applicazioni sulla vite sono
state effettuate da Thomas et al. (1993) ed hanno dimostrato come le sequenze di
microsatelliti siano abbondanti e molto informative, risultando, quindi, particolarmente
67

utili nell’identificazione varietale, consentendo la scoperta di sinonimi, relazioni gene-


tiche e la creazione di una mappatura (Sefc et al. 2001). Il lavoro recente di Cipriani
et al. (2010) è un primo tentativo di sintesi in questa direzione: analizzando il profilo
di 1005 campioni di Vitis vinifera L. sono stati, infatti, individuati molti casi di sinonimia
e di parentela e un’importante commistione di varietà di diversa origine geografica.
L’applicazione di questa tecnica ai campioni di vite provenienti dal villaggio bizantino
di Supersano, sembrerebbe aver indicato nell’area orientale del bacino del Mediterra-
neo la zona d’origine della varietà impiantata (Cfr. Cappellini et al. infra).

Fig.58.
a) acquisi-
zione del
profilo di
un vinac-
ciolo;
b) elimi-
nazione
delle in-
formazioni
ridondanti
della forma
e alline-
amento
delle coor-
dinate del
profilo

a.

b.
68

Insieme alla definizione del profilo genetico del campione archeologico si sta ten-
tando di affiancare, con varie tecniche di shape analysis, la definizione della sua
“forma biologica” secondo i principi teorizzati dalla Morfometria Geometrica (Cfr. Ro-
hlf, Bookstein 1990) (Fig. 58). Attraverso questo approccio metodologico vengono
parametrizzati i dati della forma del profilo del vinacciolo ed identificato quello “medio”
per varietà che, quindi, diviene confrontabile. Con questo scopo è stata allestita una
collezione di riferimento che include molte delle varietà attuali più diffuse a livello lo-
cale (come la malvasia, il primitivo ecc.), quelle citate dallo storico Marinosci oltre che
alcune tra quelle diffuse nel bacino del Mediterraneo, con particolare riferimento alle
varietà greche. Ottenuto il profilo identificativo per varietà si potrà procedere all’as-
segnazione di campioni archeologici incogniti. Un’analisi di questo tipo è in corso sui
resti di Supersano, con la finalità di produrre una metodologia replicabile per la gene-
ralità dei contesti archeologici nei quali si rinvengano solo resti combusti che, quindi,
difficilmente presentano tracce del profilo genetico.

(A.M.G.)
69

Analisi del DNA antico da semi di vite (Vitis vinifera L.)

Da diversi anni lo studio dei resti umani, zoologici e botanici da contesti archeologici
è stato supportato dall’analisi molecolare delle tracce di DNA antico conservate nei
reperti (Higuchi et al. 1984, Hofreiter et al. 2001, Reich et al. 2010). La lettura delle
sequenze dei seppur brevi frammenti di DNA antico ha consentito di avviare ricerche
archeogenetiche che hanno fornito contributi fondamentali in diverse discipline, tra cui
archeologia (Haak et al. 2008), evoluzione umana (Green et al. 2010) e paleontologia
(Rompler et al. 2006). Quest’approccio, specie nel caso dei reperti archeobotanici,
consente di ricostruire la diversità genetica antica e i processi di selezione, anche
quelli guidati dall’azione umana per preservare e diffondere tra le piante coltivate
alcuni tratti favorevoli alla produzione agricola (Goloubinoff, Pääbo, Wilson 1993, Jae-
nicke- Despres 2003). Il punto di forza dello studio del DNA antico sta nella capacità di
distinguere profili genetici diversi in campioni non distinguibili su base morfologica.
Da un seme di vite (Vitis vinifera L.), proveniente dall’insediamento rurale bizan-
tino di Supersano (LE), e rinvenuto in strati sommersi, è stato possibile estrarre un
campione di DNA antico e si è proceduto all’analisi di cinque marcatori microsatelliti
(VVS2, VVMD5, VVMD7, ZAG62 and ZAG79) (Fig. 59). Il profilo genetico così otte-
nuto è stato comparato con quelli corrispettivi ottenuti da numerose varietà moderne
di vite (Cappellini et al. 2010).

Fig.59.
Prepara-
zione dei
campioni
per l’estra-
zione del
DNA an-
tico
70

1
Tempranill
Fig.60. Jaen
Camarate
Dettaglio MalvasiaSc
del den- Croatina
Brachettod
drogram- Kolokythas
ma basato MalvasiaCa
su cinque Zierfandle
VeltlinerR
microsa- Barberabia
telliti: in Lambruscad
evidenza VeltlinerF
Neuburger
il campio- Barbera
ne di Moschofile
Teran
Supersano Gegic
Erbaluce
Teroldego
Avana
MuellerThu
Trebbianot
Refoscoped
PelavergaP
Skrlet
Konigsast
Airen
Mavrodaphn
VoidamatoL
Aetonychi
Supersano
York2
York1
OndarrabiB
Cortese
Dermatas
Syriki
Kristalli
Dafnia
BlancaCaye
BoalRatinh
Agiorgitik
Thrapsathi
Fokiano
Vespolina
Uvarara
NebbioloLa
Plavina
Blauburger
Jubilaeums
Nychato
Hravatica
SilvanerGr
VelaPergol
AzalBranco
Cabernetfr
Nerettacun
Avarengo
Merlot
VrbnickaZl
Monastrell
Trincadeir
L’analisi di soli cinque microsatelliti nonMouraton
fornisce una risoluzione sufficiente ad asse-
Mencia
gnare con precisione il campione antico a nessunaAkikivarietà moderna o a nessuna area
Tsaousi la distanza genetica tra i campioni
geografica in particolare. In base ai dati ottenuti, Vermentino
antichi e le varietà moderne è notevole (Fig. 60), il Akominato
che suggerisce che il materiale di
Babic
Supersano possa appartenere ad una varietà Rheinriesl
estinta o ad una moderna non tipizzata.
Elbling
Future analisi potranno chiarire meglio quest’aspetto. Nonostante questo, emerge
Kritikomav
che le varietà moderne più prossime al campione Eftakoilo antico di Supersano sono quelle
JuanIbanez
denominate: Dermatas, Syriki, Kristalli, Dafnia Oesterreic
e Agiorgitiko coltivate in Grecia. Tali
Chardonnay
risultati suggeriscono relazioni, in età bizantina
Gamay o in periodi precedenti, tra il territorio
di Supersano e l’area orientale del Mediterraneo Schlagerbl
basate sul commercio di uve o vino,
Orangetrau
o affinità dei due territori in termini diEsganaCao
produzione agricola.
Saborinho
Rufete
Semillon
ArintonoDo
(E.C., M.J.C., StLaurent
M.T.P.G.)
Pinot
Sauvignonb
Cheninblan
Fiano
TourigaNac
Aglianico
Syraz
  Quagliano
Zilavka
Ramisco
Vinhao
Sangiovese
71

Il Bosco di Belvedere nella storia

Il Bosco di Belvedere ha rappresentato, fino alla sua distruzione nel corso dell’Otto-
cento, una risorsa economica di fondamentale importanza per la sopravvivenza delle
comunità sparse nel territorio (Fig. 61). Già nel Paleolitico superiore, oltre 20.000
anni fa, il Bosco è stato luogo di caccia da parte dell’uomo, che ha lasciato traccia
del suo passaggio in due località, Scorpo e Madonna della Coelimanna. Al neolitico
finale (inizio del VI millennio a.C.) è riconducibile il primo abitato situato sulla serra
che sovrasta l’area boschiva, in località Falconiera. Qui sono state rinvenute tracce
di un insediamento di capanne con materiali ceramici e piccoli attrezzi funzionali alla
lavorazione dei cereali e soprattutto piccole asce per la lavorazione del legno, un ma-
teriale che certamente abbondava nell’area (Ingravallo 2004).

Fig.61.
Il Bosco di
Belvedere
(ricostru-
zione grafi-
ca, Studio
Inklink
Firenze)

È in età arcaica (VI sec.-primi decenni del V sec. a.C.) che sembrano formarsi nell’area
immediatamente ai margini del Bosco i primi nuclei abitati costituiti da capanne presu-
mibilmente non molto diverse dalla capanna i cui resti sono stati individuati nei pressi
di Masseria Scorpo.
Per tutta l’età romana il territorio è segnato dalla presenza di piccoli insediamenti
rurali, presumibilmente disposti lungo un antico asse viario, di cui l’indagine di super-
ficie ha restituito traccia in almeno due località, presso l’attuale Masseria Stanzie e a
Falconiera, quest’ultimo non lontano dal sito di età neolitica (Melissano 2004).
Pur non conoscendo in che modo le comunità umane abbiano interagito nello spe-
cifico con l’ampia area boschiva, il quadro finora presentato è frutto di ricognizioni di
superficie o rinvenimenti casuali, è certo che il Bosco di Belvedere abbia rappresen-
tato un’importante risorsa naturale la cui presenza sembra aver condizionato anche
il sistema di divisione agraria del mondo romano, la centuriazione, che non trova
applicazione in quest’area del basso Salento.
Grazie all’indagine di scavo nell’insediamento ubicato in località Scorpo le nostre
conoscenze sulle modalità di sfruttamento del Bosco si sono notevolmente accresciu-
te. Il villaggio, abitato tra il VII e l’VIII secolo, era formato da un agglomerato di piccole
72

capanne costruite con i materiali messi a disposizione dall’area boschiva, il legno di


quercia per la struttura e specie arbustive come l’erica per i tetti. Vari utensili della vita
quotidiana erano realizzati in legno e anche gran parte della sussistenza alimentare di-
pendeva dal bosco; dalla caccia ai piccoli volativi ai grossi mammiferi come cervi e cin-
ghiali, fino all’allevamento di ovini ed altre specie domestiche che, possiamo ipotizzare,
si cibavano di «ghiande, lizze, erbagi e frutti agresti»1 che abbondavano nel Bosco.

Fig.62.
Ricostru-
zione ipo-
tetica del
Bosco di
Belvedere
tra ‘500 e
‘700

1
ASL, Fondo Scritture Università e Feudi. Catasto Onciario Tricase, 1745.
73

Con il passaggio dai Bizantini ai Normanni nel corso dell’XI secolo, a controllo del
territorio e dell’importante risorsa rappresentata dal Bosco di Belvedere è costruita,
lungo la strada che collega Supersano a Ruffano, una torre in legno su un terrapieno
o motta, oggi nota come Specchia Torricella. Struttura di difesa tipica dei primi anni
della conquista normanna, la motta è costituita da un rilievo artificiale di terra circon-
dato alla base da un fossato sulla cui sommità è realizzata la torre.
In piena età medievale l’area doveva essere popolata da villaggi come il casale di
Sombrino o Sambrino, situato alle falde della serra, nell’area tra le attuali Masseria
Chiesa e Masseria Stanzie, il casale di Torricella (casale Turricelle), situato ai margini
del Bosco ed ancora abitato nel 1378, il casale di Francavilla situato a poca distanza
da Scorrano e ricordato per la presenza di fornaci per la cottura di tegole, attività poi
ereditata dagli abitanti della vicina Spongano che ancora nell’Ottocento conservavano
il diritto di «cuocere imprici nell’està»2 nel bosco (Fig. 62).
Al tramonto del Medioevo il territorio si popolerà di masserie spesso costruite sui
casali ormai abbandonati come Masseria Chiesa e Masseria Stanzie che, situate a
metà costa della serra, hanno dominato il Bosco di Belvedere fino alla sua scompar-
sa. A queste vanno aggiunte le masserie Fontana, Sombrino e della Torre menziona-
te in una fonte del Settecento per l’allevamento di ovini e bovini3.
In una fonte spagnola del Cinquecento sono riportate in maniera schematica le di-
mensioni del Bosco in quel momento, pari a 5 x 3 miglia, circondato da terreni seminativi
ed oliveti. Ma le informazioni più cospicue sull’immensa area boschiva sono contenute
principalmente nelle fonti del Settecento e dell’Ottocento, quando il Bosco di Belvedere
diviene oggetto di continue dispute tra i Principi Gallone di Tricase, la potente famiglia
feudataria che ne deteneva la proprietà fin dalla metà del Seicento, e le 15 Università
limitrofe cui spettavano una serie di usi civici distinti per ciascuna di queste. Muro Lec-
cese, ad esempio, esercitava «l’uso di legnare indistintamente», mentre Spongano,
Ortelle e Surano potevano «legnare da novembre ad agosto, pascere ed adacquare
da gennaro ad agosto». Montesano oltre che «pascere, adacquare e pernotare in tutto
l’anno alla Foresta», poteva far «pagliare, legnare e far carboni sugli alberi verdi caduti,
sulli alberi secchi, cuocere calce»; Scorrano aveva l’uso di «legnare al secco, pascere
ed introdurre un porco per ogni famiglia»4.
Ancora nella metà dell’Ottocento l’intera area boschiva era coperta da alberi di di-
verse specie («cerque, lizze ed altri alberi»), ma la regina incontrastata era la quercia
Farnea. Vi erano canali, sorgenti, piccoli corsi d’acqua, acquitrini, paludi e all’interno
era attraversata dalle cosiddette “Strade Regie”. Non mancavano sorgenti di acque
perenni come La Fontana del Curatolo, la Fontana dello Suercio, la Fontana Nova,
la Fontanella e la Fontana Vecchia. La Palude di Santo Donno, che ricadrà dopo la
suddivisione in quota nel Comune di Nociglia era la palude più estesa mentre di di-
mensioni molto più ridotte era la Palude Specchia, ai margini della quota di Scorrano
(Sancio 2008) (Fig. 63).
Lo sfruttamento del bosco, custodito dagli Armiggeri del Principe, costituiva una
delle maggiori risorse della famiglia Gallone e come tale le comunità limitrofe erano
obbligate a pagare per far pascolare gli animali. Ma il bosco era soprattutto la riserva
di caccia del Principe e vi si cacciavano uccelli, lepri, volpi, lupi, cinghiali ed altri ani-
mali selvatici.

2
ASL, Fondo Intendenza, Atti demaniali, busta 58, fasc. 684.
3
I dati riguardanti il territorio di Supersano in età moderna e le notizie d’archivio sul Bosco di Belvedere
sono parte del lavoro svolto rispettivamente dall’arch. A. Mantovano e dalla dott.ssa F. Ruppi, che si ringra-
ziano, nell’ambito del progetto di allestimento del Museo del Bosco.
4
ASL, Fondo Intendenza, Atti demaniali, busta 58, fasc. 684.
74

Nel corso dell’Ottocento le fonti archivistiche documentano il continuo restringi-


mento del manto boschivo a fronte dell’aumento di ampi tratti messi a coltura. In
seguito alle leggi eversive della feudalità agli inizi dell’Ottocento, il bosco oggetto di
una contesa tra i Gallone e i 15 comuni che vi esercitavano gli usi civici, venne diviso
in quote che ne sancì la definitiva scomparsa in poco meno di due decenni. Nel 1884
ancora si conservava una piccola parte a nord di Supersano, e con il bosco scompa-
rivano gli animali che lo popolavano come i cinghiali, l’ultimo dei quali fu ucciso nel
1864 (Mainardi 1989).
La definitiva scomparsa del Bosco di Belvedere ha decretato la fine di un modo
di vivere che per secoli aveva segnato la vita quotidiana delle piccole comunità che
vivevano in questa parte del territorio salentino.

(B.B.)

Fig.63.
La parte
“escorpo-
rata” del
Bosco di
Belvedere
suddivisa
in quote fra
i quindici
comuni
“usuari”
(ASL. Fon-
do Inten-
denza, Atti
demaniali,
busta 60,
fasc. 705,
1852)

Immagine su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Archivio di Stato di Lecce - riproduzione vietata
La valorizzazione
77

Il Museo del Bosco a Supersano

Proprio in seguito alla straordinaria scoperta del villaggio bizantino di località Scorpo,
è sembrato utile raccogliere l’entusiasmo della comunità di Supersano e dei suoi am-
ministratori proponendo la realizzazione di un museo civico, che potesse raccontare
la storia di un particolare ecosistema del territorio salentino attestato storicamente
almeno dall’età romana fino agli inizi del secolo scorso: il Bosco del Belvedere. Lì
dove oggi il paesaggio è dominato dalla monocoltura dell’olivo, fino a poco più di
cento anni fa si estendeva una vasta area boschiva che interessava il territorio di ben
quindici comuni. Per questo motivo il Museo vuole porsi come punto di riferimento per
un vasto territorio esteso ben oltre i limiti comunali di Supersano.
È nato così il Museo del Bosco, ospitato nell’edificio storico Castello Manfredi (Fig.
64), nel cuore del centro abitato del comune salentino. Il Museo è stato parzialmente
realizzato nel 2009 con fondi regionali PIS 14 ed è di prossima apertura.
L’allestimento tenta di coniugare le esigenze di carattere didattico, rivolte a un
vasto pubblico, con una scrupolosa ricostruzione ambientale, archeologica e storica,
garantita dalla partecipazione al progetto di docenti dell’Università del Salento sotto
la direzione scientifica del prof. Paul Arthur. Inoltre, l’idea del Museo del Bosco era
intesa come pendant al Museo del Borgo, inaugurato nel Palazzo del Principe di Muro
Leccese nel 2004.
Fig. 64.
Il Castello
Manfredi di
Supersano
prima dei
restauri.
78

Il percorso del Museo del Bosco si articola lungo sette sale espositive, un bookshop
e una torre di età medievale, primo nucleo del castello. Al piano terra l’allestimento
è dedicato agli aspetti ambientali legati al Bosco di Belvedere e a una raccolta etno-
grafica di strumenti legati agli antichi mestieri che utilizzavano il bosco come risorsa.
Di particolare impatto è una grande ricostruzione grafica dell’ambiente boschivo rea-
lizzata dallo studio grafico Inklink di Firenze. Il piano superiore ospita invece cinque
sale che ripercorrono la storia dell’occupazione e sfruttamento di quest’area da parte
dell’uomo dal paleolitico fino all’età moderna. In particolare, nelle due sale dedica-
te alla preistoria, oltre a materiali archeologici sono esposte numerose riproduzioni
di manufatti ceramici e strumenti litici che consentono ai visitatori di comprendere
l’utilizzo e le tecniche di realizzazione di questi manufatti. La sala centrale del piano
superiore è dedicata proprio ai materiali di località Scorpo che vengono esposti per la
prima volta in questa mostra al Museo Storico Archeologico dell’Università del Salen-
to. Seguono una sala dedicata al Medioevo (Fig. 65) e una dedicata allo sfruttamento
del territorio in età moderna. Degna di nota è la piccola sezione dedicata alla chiesa
rupestre della Madonna di Coelimanna e ai suoi splendidi affreschi di età medievale
recentemente restaurati.

(P.A., B.B., M.L.I.)

Fig. 65.
Museo del
Bosco, Su-
persano.
Dettaglio
di una del-
le sale in
fase di al-
lestimento
79

Fig. 66.
Musa. Det-
taglio del
plastico
ricostrut-
tivo del
pozzo (re-
alizzazione
Fabrizio
Ghio,
Alberto
Guercia)
81

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Finito di stampare
nel mese di ottobre 2011
da Martano - Lecce
per conto di Unisalento Press - Lecce

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