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Per tutto il ‘500, in verità, sia Venezia sia Adria avevano dato il via a
lavori intensi di arginatura e di recupero di terre per le colture, i cosiddetti
“retratti”, ovvero terre sottratte alle acque e messe successivamente a
coltivazione, ma il problema non aveva sino ad allora trovato soluzioni
soddisfacenti.
Il dominio veneziano sul territorio palesano ebbe però più ombre che
luci.
Già la Pace di Bagnolo del 1484, che concludeva l’annoso conflitto tra
Ferraresi e Veneziani, consegnava a questi ultimi una terra sconvolta dalla
guerra, che aveva comportato, testimone il Bronziero, distruzioni di
raccolti e bestiame, violenze sulle cose e sulle persone, incendi di case e
ruberie, allagamenti provocati ad arte per ragioni strategico-militari,
pestilenze dovute a passaggi di eserciti e alle paludi malsane. Nonostante
Adria nel 1438 avesse patito la rovinosa rotta del Castagnaro, che,
secondo il Bocchi, “l’aveva ridotta a poche capanne di miseri pescatori”,
la conquista della città da parte di Venezia nel 1482 fu tutt’altro che
facile. Adria pagò a caro prezzo l’accanita resistenza contro i Veneziani, i
quali riuscirono a superare con estrema difficoltà la cinta muraria,
ulteriormente fortificata dagli Estensi ( lo stemma di Adria è infatti
costituito da tre torri). La città, racconta Marcantonio Sabellico, fu
abbandonata al saccheggio, agli incendi e alle stragi, e le cose
probabilmente sarebbero potute andare anche peggio se non vi fossero
stati gli autorevoli interventi di Cristoforo da Mula, che, narra il Silvestri,
“mosso a compassione di veder distrutta una città che aveva dato il nome
al Mare Adriatico [comandò] la sospensione d’ogni ostilità”, obbligando
l’esercito veneziano, costituito in parte da mercenari slavi e greci, gli
“stradiotti”, avidi di preda che spesso si abbandonavano a stupri, rapine e
ruberie, a una maggiore moderazione. Infatti durante l’accanito assedio
della città pare si fossero verificati episodi gravissimi di efferata crudeltà,
come quello ricordato da F. A. Bocchi, secondo il cui racconto i Veneziani
arrivarono al punto da massacrare i “fanciulli perché i padri non volevano
arrendersi”. Certo è che l’attacco veneziano su Adria fu durissimo,
lasciando la città prostrata. Su una situazione già di per sé estremamente
precaria, pesava poi una natura altrettanto inclemente. Gli anni del
dominio veneto vedono susseguirsi in tempi ravvicinati inverni
rigidissimi, come quello del 1492, che praticamente ghiacciò le paludi, al
punto che si ci poteva spostare a piedi, camminando sul ghiaccio, da una
località all’altra. Tra l’altro, nello stesso anno 1492, all’inverno
rigidissimo seguì anche una pestilenza, registrata dai canonici di Adria.
Poi, in rapida sequenza, i terribili inverni del 1503 e del 1561, quando si
videro scorrazzare i lupi per la campagna, e quelli del 1677, 1684, 1685,
1709, 1755, 1758, 1779.
Anni Abitanti
1371 - 2000
1436 - 2000
1499 - 2000
1540 - 1800
1594 - 1000
1606 - 2500
1627 - 3000
1766– 5664
1770 - 4300
1792 - 6000
1795 - 9501
Capponi : un paio L. 2
Galline : un paio L. 1, 10
Un prosciutto stagionato: L. 4
Nel 1751, in pratica, a 51 anni dai prezzi del 1699, un sacco di mais
costava quasi come la metà di un affitto di una casa o di una bottega, che
era, nel 1699, di 48 Lire, oppure come un carro di fieno, che si pagava a
18 Lire. E’ evidente che mais e frumento sono consumati dai più abbienti,
mentre contadini e proletari scarseggiano di quelle che venivano definite
“munizioni da bocca”, specie di grano e cereali, alimenti che potevano
aiutare meglio l’organismo a superare le epidemie.
Fiorenzo Rossi, che ha compiuto accurati studi sulla mortalità ad Adria fra
‘5 e ‘600, sembra non dare particolare importanza alla questione
dell’alimentazione, anche dopo rotte rovinose, in quanto fa notare come,
intorno al 1580, v’era intorno ad Adria una “… straordinaria quantità d’
uccelli palustri nelle valli estesissime; e siccome gran parte di cittadini di
Adria… viveva di pesce e caccia, pròvasi anche da ciò il danno molto
minore che recavano le rotte d’allora…”. F. Rossi però non sembra tener
conto di un paio di importantissimi fattori; ovvero, da un lato, del dato
certo che verso il Seicento e oltre le paludi cominciano ad arretrare, e, con
esse, le canne e gli “uccelli palustri”, che davano rispettivamente lavoro e
sostentamento ai “cannaroli”. Dall’altro il fatto notevole che i proprietari
non permettevano più la libera circolazione degli uomini nelle loro
proprietà, e di conseguenza le stesse possibilità di alimentarsi
scarseggiavano per molti popolani. Infatti, a partire dal 1647 Venezia dà il
via alla vendita massiccia dei beni comunali, su cui aveva dominio e che
erano stati dati in concessione e in uso alle comunità della Terraferma.
Secondo le stime di Beltrami furono venduti nel Veneto tra il 1646 e il
1727, ben 89.088 ettari, dei quali il 39% venne acquistato dai patrizi
veneziani e il 3,4 % dal patriziato di Terraferma. Per le bonifiche palesane,
in una nota del 1601, vengono indicate, in moggia, la quantità di terre
bonificate con il concorso di privati, tutti o quasi appartenenti alla nobiltà
locale : Pontecchio 1117, Selva 1200, Gavello 800, Dragonzo 200 [Adria],
Cuorcrevà 200, Crespino 222, Villa nova 192, Canalnovo 104. Papozze
254, Corbola 450. Per un totale di 4799 moggia. Ciò era il risultato di
numerosi “Consorzi” di comunità, unitesi per dar vita alla bonifica
polesana: quello “di destra del Canalbianco” comprendeva Pontecchio,
Selva Veneta, Selva ferrarese, Gavello, Dragonzo, Bellombra, con
Panarella, Bosco del Monaco, Crespino, Acque dolci di Donada, Acque
dolci di Contarina. Il Consorzio “di sinistra del Canalbianco”,
comprendeva Santa Giustina, Bresega, Campagna Vecchia inferiore,
Campagna Vecchia superiore, Borsea, Stellà e S. Apollinare, i SS. Pietro e
Paolo, Valli d’Adria e Amolara, Baricetta, Valleselle, Vallona, Valdentro,
Vespara e Presciane, Tartaro Osellin, Dossi Vallieri. Abbiamo anche le
cifre che ogni comunità elargì per i lavori, in una nota del 24 settembre
1601: Pontecchio pagò Lire 127, Selva L.174, Cuorcrevà L. 20, Corbola e
Bellombra L. 45, Crespino L. 22 (24), Canalnovo L. 10, Papozze L. 25.
Enzo
Sardellaro
Appendice documentaria
( Il Groto subì il processo a ventisei anni. Si salvò dal rogo perché fece
ammenda dei suoi “peccati” e negò tutto ciò che era possibile negare)
Vescovo- Groto, da quanti mai anni no’ ve comunicate? [Da quanti anni
non fate la comunione?]
Vescovo- Pensateci.
Vescovo- In che modo, voi, orbo, sapete tante cose della santa religione?
Vescovo- Da chi…?
Vescovo- Per che causa voi non avete ubidito [sic] ai vostri confessori?
Vescovo- Che pena merita uno che non voglia ascoltare queste
scomuniche, ma anzi le disprezza?
Note
Per i temi trattati nella presente ricerca, si rimanda alla seguente
bibliografia:
Per le date sugli inverni nel Polesine, cfr. L. Caniato, Rovigo, una città
inconclusa,, Canova, Treviso, 1975, pp. 13-14.
Per gli anni della peste, cfr. A. Corradi, Annali delle epidemie occorse in
Italia, Bologna, 1876, pp. 91-92 dell’indice.
Manoscritto dell’Accademia dei Concordi, Riassunto del Tomo II, Lib. III.
Per i dati sulle bonifiche del 1601, cfr. M.F. Turrini, Il Consorzio di scolo
e bonifica di Pontecchio, Due Selve ed aggregati, Rovigo, Ist. D’arti
grafiche, 1941, pp. 83, 108, 110.
Per le rese in agricoltura nel Veneto, cfr. G. Borelli, Del far bonifiche
nella Repubblica veneta, in Economia e Storia, 3, 1982, pp. 409-412.
Per gli estimi sulla Terraferma, cfr. ancora G. Borelli, Il problema degli
estimi, in Economia e Storia, n.1, 1980, pp. 127-130.