Perciò la DC, non è stata abrogata dal MI, soltanto in quelle parti che fano riferimento ai canoni del
CIC abrogati per il MI, o a le disposizioni della DC contrarie al MI.
Lezione 2
La natura della Chiesa e la potestà giurisdizionale (giudiziaria).
La «communio» e l’esistenza dei contraddittori.
L’istintivo rifiuto del processo perché considerato la ritualizzazione del conflitto e, quindi,
incompatibile con l’insegnamento di Cristo:
Il Processo è condizione essenziale del diritto. Il diritto vive, anzi, nasce del processo. Il bene
viene protetto da una azione. Si prende coscienza del bene e del male nel processo.
Le parole del «sermone della montagna» significano, per tali autori, che «la rivendicazione dei
propri diritti può costituire una esigenza di giustizia, ma non è un essenziale elemento della condotta
cristiana», cioè che la Chiesa in terra potrebbe prescindere dal processo e dai tribunali, malgrado
l’esperienza bimillenaria contraria. Il processo esiste nella chiesa sin dal inizio.
S. Agostino, esponeva l’obiezione: «perché Cristo non agì come egli stesso aveva comandato?
Infatti, a colui che lo aveva percosso non doveva rispondere in tale modo, ma doveva offrire l’altra
guancia». Il vescovo di Ippona che la risposta di Cristo era nel contempo massimamente «vera,
mansueta e giusta».
Commento di S. Tomasso a la Lettera ai Corinzi, i discepoli di detta comunità vengono
rimproverati per la loro “litigiosità processuale” (cfr. 1 Cor 6, 1-7). Il divieto paolino riguardava, da una
parte, la scelta dei giudici infedeli, potendo i cristiani ottenere lo stesso risultato (l’efficace tutela dei
diritti) rivolgendosi ai giudici cristiani.
Appena riconosciuta la libertà della Chiesa, gli imperatori romani conferirono rilevanza statale
alle sentenze dei vescovi, ai quali era riconosciuta giurisdizione persino sui non cristiani e su materie
civilistiche. Si tratta dell’«episcopalis audientia», sancita da Costantino nel 318.
Perché non subire piuttosto l’ingiustizia?», Per armonizzare S. Tommaso accoglieva una
distinzione che mostra alcune conseguenze (persino sull’assiologia processuale) dell’antica
impostazione ecclesiologica attribuita a san Girolamo e recepita da Graziano, secondo cui «duo sunt
genera christianorum».
Primo genere di cristiani, i chierici. Costoro non hanno alcuna proprietà dovendo possedere
tutto in comune. Dall’altra parte, i laici. È permesso avere beni temporali, sposarsi, lavorare, fare
processi giudiziali…». Una sorta di relaxatio legis christianae perfectionis, implicherebbe che non siano
intrinsecamente e oggettivamente realtà «buone», cammino di santificazione.
I «perfecti» non potevano essere parte attrice in un processo «perfecti quidem proprium non
habent». Questi «perfecti» potevano invece essere parte attrice per tutelare beni «quae sunt communia».
La rivendicazione di tali beni da parte dei «perfecti» non solo era lecita ma era considerata meritoria.
Obbliga «omnes» – qualora siano parte attrice in un processo per la rivendicazione di beni
propri (gli «infirmi») o comuni (i «perfecti») – ad agire per giusta causa (evitando la cupidigia e l’avarizia)
e in modo corretto (evitando un atteggiamento di scontro, ogni frode processuale e gli scandali), giacché
il comandamento del Signore non vieta sempre, nel foro esterno, d’intraprendere un processo, ma
chiede di agire sempre, nel foro interno, con animo giusto. Anzi, sempre nel foro interno, la carità
potrà esigere di avviare un processo per rivendicare beni privati allo scopo di contribuire mediante una
sentenza di condanna alla salvezza di chi ha commesso un’ingiustizia.
L’obbligo imposto da Cristo al singolo fedele di cercare la correzione del fratello che ha
commesso una colpa (Mt 18, 15-18), brano cui la dottrina è solita richiamarsi per sostenere l’ecclesialità
del processo canonico.
La rilevanza dell’insegnamento di San José Maria Escrivá per capire la necessità del processo
canonico per la Chies «in via».
«Duo sunt genera christianorum» non appare più sostenibile. Infatti, essa presuppone la
negazione istituzionale dell’uguaglianza fra tutti i fedeli e della chiamata universale alla santità. San
Josemaría Escrivá, insistendo con la sua predicazione e il suo esempio proprio sul valore santificatore
e pastorale delle realtà umane nobili, fra le quali dobbiamo includere il sistema processuale di tutela
dei diritti.
Un elemento intrinseco alla dignità della natura umana, qual è la tutela e la necessariamente
connessa rivendicazione dei propri diritti, costituisce «un essenziale elemento della condotta cristiana».
Il fedele che rivendichi un diritto sarebbe perciò da considerare «infirmus», mentre sarebbe «perfectus»
qualora semplicemente vi rinunci e consenta l’ingiustizia.
«Più giustizia c’è nella Chiesa, meglio è», giacché, se i processi promuovono la giustizia, questi
contribuiscono al bene della Chiesa, quantunque sia evidente che l’ideale sarebbe l’assenza di processi
causata dal comportamento giusto di tutti e dalla capacità di perdonare gli inevitabili piccoli torti subiti
nella quotidianità.
Il diritto al equo processo: esigenza del diritto naturale reiteratamente proclamata dai pontefici
del secolo XX e, quindi, strumento di salvezza.
Gli elementi essenziali del diritto all’equo processo appartengano al diritto naturale, sono una
funzione nel disegno salvifico divino e, quindi, deve essere riconosciuto ed esercitato dalla Chiesa e dai
fedeli. Tra i requisiti primari della giustizia in astratto, una delle esigenze garantire il diritto di difesa
ascoltando la parte convenuta (l’accusato) da una posizione di serena e oggettiva imparzialità, prima di
prendere un provvedimento sulla sua eventuale colpevolezza (civile o penale).
Nel secolo XX la giurisprudenza della Rota Romana ha precisato le esigenze essenziali del
diritto di difesa giudiziario. In ambito magisteriale i Pontefici, in particolare a partire da Pio XII, hanno
indicato agli Stati alcune delle condizioni essenziali del giusto processo, specialmente della procedura
penale, quali la reale indipendenza del giudice e la possibilità per l’accusato di esercitare pienamente il
diritto di difesa.
Superare la tentazione di mortificare i diritti del singolo per proteggere quelli della comunità,
ma la Chiesa non ha mai cessato di proclamare “la dignità della persona umana”. La radicale
uguaglianza fra tutti i fedeli esige che nessuna autorità si sostituisca al singolo nel considerare se un
proprio diritto sia stato ingiustamente conculcato. Il principio di sussidiarietà trova qui piena
applicazione. Perciò la legge canonica deve offrire ad ogni persona umana i mezzi adeguati per garantire
la tutela dei diritti con rilevanza ecclesiale.
Il contenzioso amministrativo canonico non è una mera concessione democratica, ma
l’adempimento di un’esigenza di giustizia, utile per la santificazione della Chiesa, per il suo bene
comune e, in primo luogo, per quello dell’autorità.
Il diritto all’equo processo giudiziario appare quindi quale il mezzo che la cultura giuridica
(secolare ed ecclesiale, sin dalle loro prime manifestazioni, e collegandosi al diritto naturale) considera
assolutamente necessario per contemperare il bene comune e i diritti del singolo.
Ne deriva la necessità di rispettare fedelmente gli elementi essenziali del processo giudiziale,
quali, ad es., la presunzione d’innocenza dell’accusato (nel processo penale o di altra natura),
l’indipendenza del tribunale nei confronti dell’autorità che lo ha nominato (indipendenza che richiede
abitualmente la stabilità nell’ufficio e un notevole grado di competenza tecnica), la pubblicità delle prove
di accusa e il diritto dell’accusato di produrre prove a suo favore in un sistema di uguaglianza con la
parte accusante, la motivazione del provvedimento giudiziario e il diritto al doppio grado di
giurisdizione (ad impugnare la sentenza di prima istanza).
Nuove considerazioni assiologiche sul diritto e sul dovere al processo giudiziale ispirate
dal magistero di Benedetto XVI circa la necessità di «agire secondo ragione» nell’attività
ecclesiale.
Ogni bene ecclesiale deve essere protetto dal diritto di rivolgersi per la sua tutela a un giudice
indipendente. Ne deriva l’importanza dell’universalità della tutela giudiziale nella Chiesa, cioè di ogni
tipo di diritto: di natura “penale”, “contenzioso amministrativa” e “contenziosa simpliciter”.
Non può esserci una società giusta in cui non sia operante la potestà giudiziaria, con i suoi
elementi essenziali. La negazione (teorica o pratica) della potestà giudiziaria sarebbe equiparabile, ad
es., al rifiuto della volontà umana di Cristo, affermazione tipica dell’eresia monotelista.
Gli elementi essenziali della potestà giudiziaria: a) l’indipendenza o la terzietà del giudice
riguardo all’oggetto da decidere e b) l’uguaglianza delle parti riguardo al loro diritto di difesa. Tali
elementi sono richiesti dal diritto naturale. Il “diritto al giusto processo” è ulteriormente sintetizzato nel
“diritto di difesa”.
Impulso dal magistero di Benedetto XVI, fino al punto di suggerire l’opportunità di allargare
l’abituale espressione di “diritto al processo” a quella di “dovere del processo giudiziale”, obbligo che
riguarda, in particolare, i sacri pastori, i quali sono anche titolari dello speculare diritto. DRR (2006 ) a
mostrare la pastoralità del processo giudiziale. «Di fondamentale importanza, anche in questa materia,
è il rapporto tra ragione e fede. Se il processo risponde alla retta ragione, non può meravigliare il fatto
che la Chiesa abbia adottato l’istituto processuale per risolvere questioni intraecclesiali d’indole
giuridica».
L’efficacia pastorale di tale diritto-dovere al giusto processo emerge dalla prassi canonica in casi
talvolta molto complessi in cui è necessario tutelare il bene dei fedeli nei confronti della condotta deviata
di qualche vescovo. Infatti, adoperare i mezzi che garantiscono che il provvedimento dell’autorità rifletta
la verità e, quindi, sia giusto, ha un’importante valenza pedagogica.
L’ecclesialità del processo giudiziale secondo l’impostazione della legge come «ordinatio
rationis» e ill positivo influsso dell’illuminismo giusnaturalista per il recupero in ambito
canonico di qualche elemento essenziale del diritto al giusto processo.
Benedetto XVI, nel suo primo Discorso alla Rota, si sia posto il problema del fondamento
metafisico del processo canonico nell’analizzare la sua ecclesialità. «La convinzione che agire contro la
ragione sia in contraddizione con la natura di Dio» (Benedetto XVI, D. a Ratisbona). «Nonostante la
ricerca di razionalità e di libertà sia sempre stata presente nel cristianesimo, la voce della ragione era
stata troppo addomesticata. (Card. Ruin) È stato ed è merito dell’illuminismo aver riproposto, spesso
in polemica con la Chiesa, questi valori originari del cristianesimo e aver ridato alla ragione e alla libertà
la loro propria voce».
La necessità di adeguare il processo canonico alle esigenze della retta ragione e al diritto
naturale. L’opportunità del richiamo di Benedetto XVI al Vaticano II come tappa significativa della
reincorporazione all’ordinamento canonico di alcune esigenze del diritto naturale che erano state
percepite e riproposte dall’illuminismo. «L’elaborazione e la strutturazione del diritto non è
immediatamente un problema teologico, ma un problema della “recta ratio”… Questa retta ragione
deve cercare di discernere, al di là delle opinioni e delle correnti di pensiero, ciò che è giusto, il diritto
in se stesso, ciò che è conforme all’esigenza interna dell’essere umano di tutti i luoghi e che lo distingue
da ciò che è distruttivo dell’uomo. Compito della Chiesa e della fede è contribuire alla sanità della
“ratio”».
Benedetto XVI continua a fondare sul diritto naturale di origine metafisica le esigenze
universali di giustizia, da cui emergono limiti invalicabili al legislatore umano, giacché impediscono,
anche presso l’ordinamento ecclesiale, ogni volontarismo positivista in contraddizione con dette
esigenze.
È da questa impostazione ermeneutica che chi scrive ha insistito sull’ecclesialità del processo.
L’equilibrio fra la tutela dei diritti della comunità e del singolo: il diritto-dovere dei sacri pastori
al giusto processo.
I vescovi diocesani godono della potestà giudiziaria: sono i giudici “naturali” delle loro
portiones populi Dei e, nel caso del Romano Pontefice, dell’intero popolo di Dio. Essi sono i
«moderatori» dei tribunali e possono sempre esercitare personalmente la potestà giudiziaria. Ne
scaturisce l’obbligo di vigilanza nei confronti dell’attività dei loro tribunali. Implica un vero “dovere”
del pastore nei confronti del retto svolgimento del “giusto processo”.
Esiste il pericolo che le esigenze essenziali del processo (che sono complesse e richiedono
tempo e travaglio) possano essere considerate semplici disposti positivi del legislatore umano, senza
che ne sia colto il collegamento con il diritto naturale.
È, quindi, comprensibile che le garanzie giuridiche poste a protezione degli accusati possano
apparire come un ostacolo alla pace sociale e un pesante impegno per le rispettive autorità, già
sovraccariche di lavoro pastorale.
Il processo canonico (...) costituisce essenzialmente uno strumento per accertare la verità
L’istituto del processo in generale è uno strumento qualificato per ottemperare al dovere di
giustizia di dare a ciascuno il suo.
Nessun processo è a rigore contro l’altra parte, come se si trattasse di infliggerle un danno
ingiusto. L’obiettivo non è di togliere un bene a nessuno, bensì di stabilire e tutelare l’appartenenza dei
beni alle persone e alle istituzioni (...).
La dialettica processuale [è] volta ad accertare la verità (...). Il criterio della ricerca della verità,
come ci guida a comprendere la dialettica del processo, (...) può servirci per cogliere (...) il suo valore
pastorale, che non può essere separato dall’amore alla verità.
Lezione 3
La «salus animarum», la verità formale e la verità oggettiva: il «favor
veritatis: canonico.
1. La modifica del processo di nullità del matrimonio (m.p. Mitis Iudex e Mitis et
misericors Iesus) e la verità sulla validità del vincolo matrimoniale.
Considerazioni preliminari: Il processo di nullità matrimoniale dichiarano la verità
sull’esistenza o meno di un determinato vincolo matrimoniale (cioè dichiarare se due persone sono
veramente sposate). La sentenza è de tipo “dichiarativo”, non può essere di natura “costitutiva”, cioè
cambiare la realtà, sciogliere un matrimonio valido, l’indissolubilità del vincolo è una realtà
irrinunciabile.
Sul piano terminologico, nel caso della sentenza di natura dichiarativa se dice “quasi-giudicato”
o “giudicato formale”, e può essere impugnata con la nuova causae propositio. Nel caso costitutivo si
parla di res iudicata o verità quasi assoluta oppure di giudicato materiale (consente la modifica della
realtà) e che può essere appellato con la restituzione ad integrum.
Nel caso del matrimonio, sentenze costitutive sono impossibile, perché nessuno ha il potere di
sciogliere un matrimonio sacramentale valido. Allora come fare che il processo sia dichiarativo della
verità en non costitutivo.
In questa ricerca della verità, è adoperata dal processo cercando da risolvere:
La questio facti, ciò che è successo. La testimonianza non è del tutto infallibile, perché pur che
sia stata dichiarata con buona fede, sempre c’è una tendenza a riscostruire a posteriori i fatti, cercando
una giustificazione.
La questio Iuris, è sapere il diritto che si applica alla situazione concreta esposta nella questio
facti.
a. L’indissolubilità come ideale irrinunciabile, carisma personale, qualità
meramente etica, scioglibile dell’irreversibile separazione dei coniugi
seriamente pentiti, ecc.
La questio iuris fondamentale nelle cause di nullità matrimoniale è l’indissolubilità del
matrimonio. Tutte le altre questi iuris sono al servizio di questa. DRR 2004 Giovanni Paolo II,
l’indissolubilità del matrimonio è una verità oggettiva, un giusto processo che dichiara la nullità è al
servizio della verità sul matrimonio. Bisogna sempre una coerenza tra il insegnamento della Chiesa e
la pratica giudiziale.
Le sentenze nel giudizio di nullità è meramente dichiarativa e deve cercare la coincidenza tra
la verità materiale (verità oggettiva) e la verità formale (rappresentato dalla sentenza). In questo caso la
verità formale non ha il potere di cambiare la realtà, perciò la sua natura è dichiarativa non costitutiva.
Il giudicato formale, anche se è definitivo può essere impugnato con la “restitutio ad integro” e se non
è definitivo con “la nuova causa propositio”.
b. Il Magistero pontificio nei discorsi alla Rota Romana e nei documenti degli
ultimi Sinodi dei Vescovi.
Si deve riservare una special attenzione ai discorsi DRR, perché essi costituiscono uno
strumento per conoscere l’orientamento pontificio sull’attività giudiziaria dei tribunali ecclesiastici.
Nell’interpretazione della legge processuale quanto quella matrimoniale.
Benedetto XVI 2008, parlò del rischio che si creino “giurisprudenze locali”, sempre più distanti
dall’interpretazione comune delle leggi positive e persino alla dottrina sul matrimonio.
Molti contestano che il magistero e il diritto canonico sono privi di “sensibilità pastorale”, il
risultato è che pretendono dichiarare nullo qualsiasi matrimonio fallito facendo ricorso ai testi di legge
nel modo più formalisti e positivista possibile.
Giovanni Paolo II (DRR 2003): Il riduzionismo è molto pericoloso, quando si pretende
interpretare ed applicare le leggi ecclesiastiche distaccandole dalla dottrina del Magistero. Secondo una
visione riduzionista, i pronunciamenti dottrinali non avrebbero alcun valore disciplinare, valore che si
riconoscerebbe soltanto agli atti formalmente legislativi.
Benedetto XVI (DRR 2008): riprendendo il discorso (2003) Per una sana ermeneutica
giuridica è poi indispensabile cogliere l’insieme degli insegnamenti della Chiesa, collocando
organicamente ogni affermazione nell’albero della tradizione.
Sentenze giudiziali che non rispecchino la verità, contraddirebbero la dottrina del Magistero,
arrivando alla conclusione che qualsiasi matrimonio fallito può essere canonicamente dichiarato nullo.
Contro questa mentalità si pronunciò Benedetto XVI (DRR 2006): è ingannevole un servizio che
dimentiche l’indissolubilità della propria unione, agendo così l’intervento dei tribunali rischia di
apparire come mera pressa d’atto di un fallimento.
Giovanni Paolo II (DRR 2002): Ogni sentenza giusta di validità o nullità è un apporto ala
cultura dell’indissolubilità del matrimonio, sia nella Chiesa sia nel mondo, dando certezza non solo alle
persone coinvolte ma anche a tutti i matrimoni e alle famiglie.
La carità presuppone la verità La carità pastorale deve essere presente sempre in ogni attività
ecclesiale. Ma la carità non può intaccare l’imparzialità del giudice. Il giudice deve essere veramente
convinto che la sua decisione aiuterà la salus animarum dei coniugi nella misura in cui rifletterà la verità.
La misericordia non è contraria alla giustizia (Papa Francesco, Misericordiae vultus, 11-4-2015, n. 21).
Fondamentale per l’applicazione della misericordia alle cause di nullità del matrimonio è il §
6 del MI Proemio (riproposto da “Amoris laetitia” 244) laddove la misericordia si manifesta non nel
dichiarare nulli i matrimoni che non lo siano, bensì nel decidere la causa secondo verità in modo più
semplice.
2. La “nullità di coscienza” e la risposta del CIC 83, dell’Istruzione “Dignitas Connubi” e
del m.p. Mitis Iudex: il valore provatorio delle dichiarazioni delle parti, il “testis unus”
e la possibilità di prescindere dai periti.
1993 tre vescovi tedeschi hanno pubblicato una lettera che prevedeva la possibilità che un
sacerdote nel foro interno riconoscesse una sorta di nullità di coscienza che permettesse di comunicarsi
e confessarsi quado la nullità non era stata dichiarata.
1994, la CDF rispose che la nullità era riservata alla potestà giudiziaria, che non si poteva dare
in via amministrativa. È inammissibile che alla coscienza personale si attribuisca il potere de decidere
in ultima analisi, sulla base della propria convinzione del valore della nuova unione. Il giudizio della
coscienza sulla propria situazione matrimoniale non riguarda solo un rapporto immediato tra l’uomo e
Dio, come se si potesse fare a meno di quella mediazione ecclesiale, che include anche le leggi
canoniche obbliganti in coscienza.
Se un tribunale, dopo aver valutato le dichiarazioni delle parti e le altre prove, non può
raggiungere la “certezza morale” sulla verità della richiesta di nullità proposta da un coniuge, a maggior
ragione neppure potrà raggiungerla, un modo moralmente accettabile, il coniuge o un sacerdote
assistente spiritualmente privo dei dati che il tribunale ha potuto esaminare.
3. La natura meramente dichiarativa della decisione e la certezza morale.
Dichiarativo si contrappone a costitutivo, se dichiara ciò che esiste previamente, mentre
costitutivo crea qualcosa di nuovo. La nullità del matrimonio ha carattere dichiarativo, mente il divorzio
ha carattere costitutivo. La legge canonica chiede che le sentenze di nullità siano prive dell’efficacia
costitutiva tipica della “cosa giudicata”. Le sentenze sullo stato delle persone non passano mai in
giudicato (decretale di Alessandro III) potendo essere sempre modificate, qualora si dimostrino non
siano conforme alla verità. Allo stesso modo, il diritto (azione) di ricorrere al giudice perché si pronunci
sulla validità del matrimonio è imprescrittibile.
La natura dichiarativa della sentenza esige, l’utilizzo di tutti i mezzi razionalmente idonei a
conferire al contenuto della sentenza (verità formale) la corrispondenza alla “verità oggettiva” ciò che è
accaduto nella celebrazione del matrimonio. La realtà su cui si giudica ha un significato oggettivo.
Il concetto di certezza morale, Pio XII ha dato un concetto ben delimitato DRR 1942. Secondo
Pio XII esistono tre tipi di certezze:
La certezza assoluta, quella che esclude ogni possibile dubbio. Tale tipo di certezza non è
necessaria per dare una sentenza nelle cause di nullità matrimoniali.
La certezza probabile o quasi certezza, quando esiste una probabilità che qualcosa sia vero, ma
che non esclude ogni ragionevole dubbio, e lascia sussistere un fondato tenore di errare. Non è una
certezza sufficiente per dichiarate nullo il matrimonio. In caso di un dubbio ragionevole si considera a
favore della validità del matrimonio.
La certezza morale nel lato positivo, è caratterizzata da ciò che esclude ogni fondato o
ragionevole dubbio. Dal lato negativo, lascia sussistere la possibilità del contrario, ma questa possibilità
non è ragionevole. Questa certezza è necessaria e sufficiente per pronunciare una sentenza, anche se si
potrebbe avere una certezza assoluta, non si devono cercare altre prove, perché non sono necessarie.