Sei sulla pagina 1di 40

STORIOGRAFIA

Carlos Petit, Culto e cultura della storiografia giuridica in Italia, in Il Contributo italiano alla storia
del Pensiero – Diritto (2012), risorsa disponibile on line:
http://www.treccani.it/enciclopedia/culto-e-cultura-della-storiografia-giuridica-in-
italia_(Il_Contributo_italiano_alla_storia_del_Pensiero:_Diritto)/

CARTOGRAFIA
http://www.itinerarimedievali.unipr.it/v2/www/main/html/cartine.htm

I. FONTI SECC. IV-VI

Legislazione imperiale in materia religiosa

a) Editto di tolleranza o di Milano (313)


Quando noi, Costantino e Licinio imperatori, ci siamo incontrati a Milano e abbiamo discusso
riguardo al bene e della sicurezza pubblica, ci è sembrato che, tra le cose che potevano portare
vantaggio all'umanità, la reverenza offerta alla Divinità meritasse la nostra attenzione principale, e
che fosse giusto dare ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che a ciascuno
apparisse preferibile; così che quel Dio, che è seduto in cielo, possa essere benigno e propizio a noi
e a tutti quelli sotto il nostro governo. (3) Abbiamo quindi ritenuto una buona misura, e consona a
un corretto giudizio, che a nessun uomo sia negata la facoltà di aderire ai riti dei Cristiani, o di
qualsiasi altra religione a cui lo dirigesse la sua mente, cosicché la Divinità suprema, alla cui
devozione ci dedichiamo liberamente, possa continuare ad accordarci benevolenza e favore.
(4) Di conseguenza vi facciamo sapere che, senza riguardo per qualsiasi ordine precedente
riguardante i Cristiani, a tutti coloro che scelgono di seguire tale religione deve essere permesso di
rimanervi in assoluta libertà, e non devono essere disturbati in alcun modo. (5) E crediamo che sia
giusto ribadire che, tra le cose affidate alla tua responsabilità, l'indulgenza che abbiamo accordato ai
Cristiani in materia religiosa è ampia e senza condizioni; (6) e che tu capisca che allo stesso modo
l'esercizio aperto e tranquillo della propria religione è accordato a tutti gli altri, alla stessa maniera
dei Cristiani. Infatti è opportuno per la stabilità dello stato e per la tranquillità dei nostri tempi che a
ogni individuo sia accordato di praticare la religione secondo la propria scelta; e su questo non
prevediamo deroghe, per l'onore dovuto a ogni religione.
(7) Inoltre, per quanto riguarda i Cristiani, in passato abbiamo dato certi ordini riguardanti i luoghi
di cui essi si servivano per le loro assemblee religiose. Ora desideriamo che tutte le persone che
hanno acquistato simili luoghi, dal fisco o da chiunque altro, li restituiscano ai Cristiani, senza per
questo chiedere denaro o un altro prezzo, e che questo sia fatto senza esitazione. (8) Desideriamo
anche che quelli che hanno ottenuto qualche diritto su questi luoghi come donazione, similmente
restituiscano tale diritto ai Cristiani: riservando sempre il diritto a costoro, che hanno acquistato per
un prezzo o ricevuto gratuitamente, di fare domanda al giudice del distretto per ottenere un bene
equivalente dalla nostra benevolenza. Tutti quei luoghi devono, in virtù del tuo intervento, essere
restituiti ai Cristiani subito e senza indugio. (9) E dato che sembra che, oltre ai luoghi dedicati ai riti
religiosi, i Cristiani possedessero altri luoghi che non appartenevano a singole persone ma alla loro
comunità, ovvero alle loro chiese, tutte queste cose vogliamo che siano comprese nella legge
espressa qui sopra, e desideriamo che siano restituite alla comunità e alle chiese senza esitazione né
controversia: sempre restando ferma la possibilità, da parte di quelli che restituiscono senza
domandare prezzo, di chiedere un'indennità affidandosi alla nostra benevolenza. (10) Nel mettere in
pratica tutto ciò in favore dei Cristiani, dovrai usare la massima diligenza, affinché i nostri ordini
siano eseguiti senza indugio, e soddisfatto il nostro obiettivo di assicurare la tranquillità pubblica.
(11) E così possa il favore divino, di cui abbiamo già goduto negli affari della più grave importanza,
continuare ad accordarci il successo, per il bene della cosa pubblica. (12) E affinché questo editto
sia noto a tutti, desideriamo che facendo uso della tua autorità tu faccia sì che sia pubblicato
1
ovunque.

FONTE: Lattanzio, De mortibus persecutorum, 48 (318-321) attribuzione presunta

b) Editto de Fide catholica (Cunctos populos), 380


Gli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio […] al popolo della città di Costantinopoli.
Vogliamo che tutti i popoli a noi soggetti seguano la religione che il divino apostolo Pietro ha
insegnato ai Romani e che da quel tempo colà continua e che ora insegnano il pontefice Damaso e
Pietro, vescovo di Alessandria, cioè che, secondo la disciplina apostolica e la dottrina evangelica, si
creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue
questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno stolti eretici, né le loro
riunioni potranno essere considerate come vere chiese; essi incorreranno nei castighi divini ed
anche in quelle punizioni che noi riterremo di infliggere loro.
FONTE: Codice Teodosiano, XVI, 1, 2 (27 febbraio 380).

Canoni conciliari
a) Concilio di Nicea (325)
4. Sull’ordinazione dei vescovi. Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti i
vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per sopravvenute difficoltà, o per la distanza,
almeno tre, radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima per iscritto il senso degli
assenti, celebrino la consacrazione. La conferma di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna
provincia al vescovo metropolita.
5. Sugli scomunicati. Quanto agli scomunicati, sia ecclesiastici che laici, la sentenza dei vescovi di
ciascuna provincia abbia forza di legge e sia rispettata la norma secondo la quale chi è stato cacciato
da alcuni non sia accolto da altri. È necessario tuttavia assicurarsi che questi non siano stati
allontanati dalla comunità solo per grettezza d’animo o per rivalità del vescovo o per altro
sentimento di odio. Perché poi questo punto abbia la dovuta considerazione, è sembrato bene che in
ogni provincia, due volte all’anno si tengano dei sinodi, affinché tutti i vescovi della stessa
provincia riuniti al medesimo scopo discutano questi problemi, e così sia chiaro a tutti i vescovi che
quelli che hanno mancato in modo evidente contro il proprio vescovo sono stati opportunamente
scomunicati, fino a che l’assemblea dei vescovi non ritenga di mostrare verso costoro una più
umana comprensione. I sinodi siano celebrati uno prima della Quaresima perché, superato ogni
dissenso, possa esser offerto a Dio un dono purissimo; l’altro in autunno.
6. Sul primato dei vescovi. In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche
consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al
vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre
province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è fatto
vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba
esser vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben meditato
e conforme alle norme ecclesiastiche degli altri, prevalga l’opinione della maggioranza.
7. Sulla carica del vescovo di Elia, ossia di Gerusalemme. Poiché è invalsa la consuetudine e
l’antica tradizione che il vescovo di Elia riceva particolare onore, abbia quanto questo onore
comporta, salva sempre la dignità propria della metropoli.
FONTE: I° Concilio di Nicea, capitoli 4-7.

b) Concilio di Calcedonia (451)

2
Sarebbe stato, dunque, già sufficiente alla piena conoscenza e conferma della pietà questo sapiente e
salutare simbolo della divina grazia. Insegna, infatti, quanto di più perfetto si possa pensare intorno
al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, e presenta, a chi l’accoglie con fede, l’inumazione del
Signore.
Ma poiché quelli che tentano di respingere l’annuncio della verità, con le loro eresie hanno coniato
nuove espressioni: alcuni cercando di alterare il mistero dell’economia dell’incarnazione del
Signore per noi, e rifiutando l’espressione Theotocos per la Vergine; altri introducendo confusione e
mescolanza e immaginando scioccamente che unica sia la natura della carne e della divinità, e
sostenendo assurdamente che la natura divina dell’Unigenito per la confusione possa soffrire, per
questo il presente, santo, grande e universale sinodo, volendo impedire ad essi ogni raggiro contro
la verità, insegna che il contenuto di questa predicazione è sempre stato identico; e stabilisce prima
di tutto che la fede dei 318 santi padri dev’essere intangibile […].
Seguendo, quindi, i santi padri, all’unanimità noi insegnamo a confessare un solo e medesimo
Figlio: il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero
Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e del corpo, consustanziale al Padre per la divinità,
e consustanziale a noi per l’umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato, generato dal Padre
prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da
Maria vergine e madre di Dio, secondo l’umanità, uno e medesimo Cristo signore unigenito; da
riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta
meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la
proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi. Egli non è diviso
o separato in due persone, ma è un unico e medesimo Figlio, unigenito, Dio, verbo e Signore Gesù
Cristo, come prima i profeti e poi lo stesso Gesù Cristo ci hanno insegnato di lui, e come ci ha
trasmesso il simbolo dei padri.
Stabilito ciò da noi con ogni possibile diligenza, definisce il santo e universale sinodo, che a
nessuno sia lecito presentare, o anche scrivere, o comporre una [formula di] fede diversa, o credere,
o insegnare in altro modo. Quelli poi che osassero o comporre una diversa formula di fede, o
presentarla, o insegnarla, o tramandare un diverso simbolo a quelli che intendono convertirsi
dall’Ellenismo alla conoscenza della verità, o dal Giudaismo o da un’eresia qualsiasi, costoro, se
sono vescovi o chierici, siano considerati decaduti: il vescovo dal suo episcopato, i chierici dal
clero; se poi fossero monaci o laici, dovranno essere scomunicati.
FONTE: Concilio di Calcedonia, Definizione della fede, (451).

Lettere papali e decretali

- Supremazia del papa


a) papa Leone I (390-461; papa dal 440)
Conservi pure la città di Costantinopoli – come noi stessi le auguriamo – la posizione onorata che le
spetta, e con la valida protezione di Dio possa a lungo godere dell’impero della vostra clemenza. Sta
di fatto però che altro è il criterio che regola le cose terrene, altro quello che regola le cose divine:
in queste non ci può essere nessuna stabilità di struttura al di fuori di quella pietra, che il Signore ha
posto come fondamento. Perde i propri diritti chi aspira a quelli che non gli sono dovuti. Perciò il
predetto vescovo deve pur contentarsi di aver ottenuto, grazie al vostro benigno aiuto ed al mio
consenso favorevole, l’episcopato di una città tanto importante: non disdegni di occupare questo
centro imperiale perché non può elevarlo a sede apostolica, e non si illuda di poter crescere in
dignità, recando offesa agli altri. Difatti le prerogative delle chiese, quali sono previste dai canoni
dei santi Padri e fissate dai decreti del venerando concilio di Nicea, non possono essere né abbattute
con sottile malizia, né modificate con la scusa del nuovo.

3
FONTE: Leone I, Lettere, PL 54, 104.

b) papa Gelasio I (400-496; papa dal 492) all'imperatore Anastasio (494)


Supplico la tua pietà di non considerare arroganza l’ubbidienza ai princìpi divini. Non si dica di un
imperatore romano, ti prego, che egli giudichi ingiuria la verità comunicata al suo intendimento.
Due sono infatti i poteri, o augusto imperatore, con cui questo mondo è principalmente retto: la
sacra autorità dei pontefici e la potestà regale. Tra i due, l’importanza dei sacerdoti è tanto più
grande, in quanto essi dovranno rendere ragione al tribunale divino anche degli stessi reggitori
d’uomini. Tu sai certo, o clementissimo figlio, che, pur essendo per la tua dignità al di sopra degli
uomini, tuttavia devi piegare devotamente il capo dinanzi a coloro che sono preposti alle cose
divine, e da loro aspettare le condizioni della tua salvezza; e nel ricevere i santissimi sacramenti e
nell’amministrarli come compete, tu sai che ti devi sottoporre agli ordini della religione, e non avere
funzioni di capo, e che pertanto in queste questioni tu devi essere sottomesso al giudizio degli
ecclesiastici e non volere che essi siano obbligati alla tua volontà. Se infatti anche gli stessi
sacerdoti ubbidiscono alle tue leggi, per quel che riguarda l’ordine pubblico, sapendo che l’impero
ti è stato dato per disposizione divina, e perché non sembri che persino nelle cose puramente
materiali essi si oppongano a un giudicato, che esula dalla loro giurisdizione; con che sentimento, io
ti chiedo, conviene che tu obbedisca a coloro che sono stati assegnati ad amministrare i divini
maestri? Dunque, come sui pontefici incombe il non lieve pericolo d’aver taciuto ciò che si
conviene, in rapporto al culto della divinità, così grave pericolo c’è per coloro – Dio non voglia –
che serbano un atteggiamento di disprezzo, quando debbono ubbidire. E se conviene che i cuori dei
fedeli siano sottomessi a tutti i sacerdoti in genere, che con giustizia amministrano le cose divine,
quanto più si deve dar consenso al capo della sede apostolica, a colui che la somma Divinità volle
superiore a tutti i sacerdoti, e che sempre dopo la pietà di tutta la Chiesa onorò come tale?
FONTE: Gelasio I, Lettere, PL 59, 8.
Pietatem tuam precor ne arrogantiam judices divinae rationis officium. Absit, quaeso, a Romano
principe, ut intimatam suis sensibus veritatem arbitretur injuriam. Duo quippe sunt, imperator
auguste, quibus principaliter mundus hic regitur: auctoritas sacra pontificum, et regalis potestas. In
quibus tanto gravius est pondus sacerdotum, quanto etiam pro ipsis regibus Domino in divino
reddituri sunt examine rationem. Nostri etenim fili clementissime, quod licet praesideas humano
generi dignitate, rerum tamen praesulibus divinarum devotus colla submittis, atque ab eis causas
tuae salutis expetis, inque sumendis coelestibus sacramentis, eiusque (ut competit) disponendis,
subdi te debere cognoscis religionis ordine potius quam praesse. Nosti itaque inter haec, ex illorum
te pende e judicio non illos ad tuam velle redigi voluntatem. Si enim, quantum ad ordinem pertinet
publicae disciplinae, cognoscentes imperium tibi superna dispositione collatum, legibus tuis ipsi
quoque parent religionis antistites, ne vel in rebus mundanis exclusae videantur obviare sententiae;
quo (rogo) te decet affectu eis obedire, qui pro erogandis venerabilibus sunt attributi mysteriis? Pro
inde sicut non leve discrimen incumbit pontificibus, siluisse pro divinitatis cultu, quod congruit; ita
his (quod absit) non mediocre periculum est qui, cum parere debeant, despiciunt. Et si cunctis
generaliter sacerdotibus recte divina tractantibus, fidelium convenit corda submitti, quanto potius
sedis illius praesuli consensus est adhibendus, quem cunctis sacerdotibus et divinitas summa voluit
praeminere, et subsequens Ecclesiae generalis jugiter pietas celebravit?
FONTE: Gelasio I, Lettere, PL 59, 8.

Monachesimo
a) Regola di S. Benedetto (534)
L’ozio è nemico dell’anima, e perciò i fratelli in certe ore devono essere occupati nel lavoro

4
manuale, in altre ore nella lettura divina. Di conseguenza riteniamo che entrambe le occupazioni
siano ripartite nel tempo con il seguente ordinamento: da Pasqua fino alle calende di ottobre,
uscendo al mattino facciano i lavori necessari dalla prima fin quasi all’ora quarta. Poi, dall’ora
quarta fino all’ora in cui faranno la sesta, attendano alla lettura. Dopo la sesta, alzandosi da tavola si
riposino nei loro letti in assoluto silenzio o, se qualcuno vorrà leggere per conto suo, legga in modo
da non disturbare nessuno. Si faccia nona un poco in anticipo, verso la metà dell’ora ottava, e di
nuovo lavorino a quello che c’è da fare sino al vespro. Se le esigenze del luogo o la povertà
richiedono che essi si occupino personalmente di raccogliere le messi, non se ne affliggano, giacché
allora sono veramente monaci, se vivono del lavoro delle proprie mani, come i nostri padri e gli
apostoli. Tutto però sia fatto con misura, avendo riguardo per i deboli. Invece dalle calende di
ottobre all’inizio della quaresima attendano alla lettura fino a tutta l’ora seconda. Dopo l’ora
seconda si faccia terza e fino a nona tutti eseguano il lavoro ché viene loro assegnato. Dato poi il
primo segnale dell’ora nona, ciascuno si stacchi dal proprio lavoro e stia pronto finché suonerà il
secondo segnale. Dopo il pasto attendano alle proprie letture o ai salmi. Nei giorni di quaresima, dal
mattino sino a tutta l’ora terza attendano alle proprie letture e sino a tutta l’ora decima eseguano il
lavoro che è loro assegnato. In questi giorni di quaresima tutti ricevano dalla biblioteca un libro a
testa e lo leggano ordinatamente per intero. Questi libri devono essere dati all’inizio della
Quaresima.
FONTE: Benedetto da Norcia, Regola, FV, 48.

b) Libri penitenziali
- Penitenziale di Finnian [Finnian di Clonard, m. 549, o Finnian di Mag-Bile, m. 579] (VI
secolo)
35. Per quel che riguarda i laici, se qualcuno, allontanandosi dalle cattive azioni, si sarà convertito al Signore dopo
aver però compiuto ogni sorta di malvagità, ad esempio fornicando od uccidendo, faccia penitenza per tre anni, e
vada senza armi, eccettuato un bastone, e non stia con sua moglie, e nel primo anno faccia penitenza a pane ed
acqua, e non stia con sua moglie. Dopo una penitenza di tre anni offra del denaro nelle mani del sacerdote, per la
redenzione della sua anima e come frutto della penitenza, e imbandisca una cena per i servi di Dio, e nella cena sia
riammesso alla comunione; e dopo aver portato integralmente a termine la penitenza potrà unirsi a sua moglie.
36. Se un laico avrà contaminato la moglie di un altro, o una vergine, faccia penitenza per un anno intero a pane
ed acqua e non si unisca a sua moglie, e dopo un anno di penitenza sia riammesso alla comunione, e dia
un’elemosina per la propria anima, e non commetta più fornicazione con un’estranea, finché avrà vita. […]
37. Se un laico avrà contaminato una vergine consacrata a Dio, privandola del suo merito, e avrà generato da lei
un figlio, faccia penitenza per tre anni: nel primo anno stia a pane ed acqua, e vada senza armi, e non si unisca a
sua moglie; negli altri due si astenga dal vino e dalla carne, e non si unisca a sua moglie.
38. Se però non avrà generato da lei, ma l’avrà soltanto contaminata, stia un anno intero a pane ed acqua, e per
metà anno poi si astenga dal vino e dalla carne, e non si unisca a sua moglie fino al termine della penitenza.
39. Se un laico ammogliato si sarà unito ad una sua schiava, si deve procedere così: che la schiava sia venduta, ed
egli per un anno intero non si unisca a sua moglie.
40. Se però avrà generato dalla schiava uno o due o tre figli, è giusto che egli liberi la schiava, e se volesse
venderla non deve essergli consentito; ma si separino, ed egli faccia penitenza per un anno intero a pane ed acqua,
e non si accosti più alla sua concubina ma si unisca a sua moglie.
41. Qualora uno abbia una moglie sterile, non la mandi via a causa della sua sterilità; ma devono vivere entrambi
nella continenza, e beati se persevereranno casti nel corpo fino a quando Dio non pronuncerà per loro un giudizio
vero e giusto. Credo, infatti, che se tali saranno stati quali furono Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, e Anna,
madre di Samuele, o Elisabetta, madre di Giovanni, andrà bene per loro nel giorno del giudizio. Dice infatti san
Paolo: E quelli che hanno moglie sia come se non l’avessero. Passa, infatti, l’apparenza di questo mondo. Se poi
rimarremo fedeli, qualunque cosa Dio ci avrà inviato, favorevole o contraria, sempre accoglieremo la gloria di Dio
con gioia.
42. Affermiamo che la moglie non debba separarsi dal marito; ma se si sarà separata deve rimanere senza nozze,
o riconciliarsi con il proprio marito secondo quanto dice l’Apostolo.
43. Se la moglie avrà commesso adulterio, ed abita con un altro uomo, il marito non deve prendere un’altra donna,
finché la moglie sarà viva.

5
44. Se quest’ultima si sarà volta a penitenza, e se proprio lo chiederà con buona disposizione, bisogna
riaccoglierla; ma non porterà dote e servirà il marito; finché avrà vita compia le funzioni di servo o di schiava
interamente e devotamente sottomessa.
45. Così se una moglie sarà stata mandata via del marito, non deve unirsi ad altro uomo finché il marito avrà vita;
ma dovrà invece attenderlo senza nozze, con pazienza e castità, nell’eventualità che Dio induca la penitenza nel
cuore del marito. E la penitenza dell’uomo adultero e della donna adultera è questa: facciano penitenza per un
anno intero a pane ed acqua, e non stiano nello stesso letto [con il proprio coniuge].

FONTE: Penitenziale di Finnian, 35-45.

II.

III.
Cambridge, Corpus Christi College, MS 190, p. 404.
G ýf hwýlc bisceop man ofslea · þolige his hades · & fæste ·
xii · gear · þa · vii · on hláfe & on þa · v · þrý dagas
on wucan · & þa oþre bruce his metes ·
6
If any bishop slays someone, he is to forfeit his orders and fast 12 years, 7 on bread and water, and
for 5 years 3 days each week, and on the others partake of his food.
Se un vescovo uccide qualcuno, sia privato dei suoi ordini e digiuni 12 anni, 7 a pane e acqua, e per
5 anni 3 giorni alla settimana, e gli altri dividano il suo cibo.

LEX ROMANA VISIGOTHORUM

Auctoritas Alarici (o Commonitorium = Avvertimento), 506

Amministrando col favore divino gli interessi del nostro popolo, correggiamo con migliore
meditazione anche ciò che nelle leggi appariva iniquo, sì che ogni oscurità delle leggi romane e
dell’antico ius, ricondotta con l’impiego di sacerdoti e nobili uomini alla luce di una migliore
comprensione, risplenda e nulla si abbia di ambiguo, onde combatta se stesso il durevole e
incostante contrastarsi dei litiganti. Il tutto posto in chiaro e raccolto in un solo libro dalla scelta
degli esperti, quanto è stato escerpito e composto con più chiara interpretazione lo ha rafforzato
l’approvazione dei venerandi vescovi e anche dei nostri provinciali insigni. …

FONTE: R. Lambertini, La codificazione di Alarico II, Torino 19912, p. 8.

GIUSTINIANO

Corpus iuris

Prammatica Sanzione di Giustiniano (554)

1. Ut omni firma sint, quae Amalasuinta vel Atalaricus 1. Che rimangano valide tutte quelle cose che avevano
vel Theodatus concesserunt. Pro petitione Vigilii concesso Amalasunta, Atalarico e Teodato. Dietro
venerabilis antiquioris Romae episcopi quaedam richiesta del venerabile Vigilio vescovo della Roma più
disponenda esse censuimus ad utilitatem omnium antica, abbiamo ritenuto fossero da stabilire alcune
pertinentia. Qui per occidentales partes habitare cose che riguardavano l’utilità di tutti quelli che
noscuntur. In primis itaque iubemus, ut omnia quae abitano le parti occidentali [dell’impero]. Prima di
Atalaricus vel Amalasuinta regia mater eius vel etiam tutto stabiliamo e ordiniamo che tutto ciò che
Theodatus Romanis vel senatu poscente concesserunt, concessero Atalarico, o Amalasunta madre del re, o
inviolabiter conserventum. Sed et ea quae a nobis vel a anche Teodato ai Romani o al Senato che lo richiedeva
7
piae memoriae Theodora augusta quondam coniuge siano mantenute inviolabili. Ma anche quelle cose che
nostra conlata sunt, volumus illibata servari, nulla sono state concesse da noi o dalla augusta Teodora di
quicumque danda licentia contra ea venire, quae a pia memoria, un tempo nostra moglie, vogliamo che
praedictis personis pro quibuscumque rebus vel titulis siano conservate intatte, senza che ad alcuno sia data
data vel concessa esse noscuntur; excepta videlicet licenza di andare contro di esse […].
donatione a Theodato in Maximum pro rebus habita
Marciani, ex quibus dimidiam portionem Liberio viro
gloriosissimo dedisse meminimus, reliqua dimidia
Maximo viro magnifico relicta; quas apud utrumque
firmiter manere censemus.
2. Ut per Totilanem factae donationes omnes irritae 2. Che le donazioni fatte da Totila siano tutte annullate.
sint. Si quid a Totilane tyrannum factum vel donatum Se si trova qualcosa che è stato fatto o donato dal
esse invenitur cuicumque Romano seu cuicumque alio, tiranno Totila ad un Romano o a chiunque altro, non
servari vel in sua firmitate manere nullo modo concediamo assolutamente che sia conservato e che
concedimus. Sed res ablatas ab huiusmodi rimango saldo, ma stabiliamo che i beni, tolti a tali
detentatoribus antiquis dominis reformari praecipimus. possessori siano restituiti agli antichi padroni. Ciò
Quod enim per illum tyrannidis eius tempore factum infatti che si trova fatto da quello al tempo della sua
esse invenitur, hoc legitima nostra notare tempora non tirannide, non concediamo abbia valore nei tempi del
concedimus. nostro legittimo governo.

11. Ut leges imperatorum per provincias ipsorum 11. Che le leggi degli imperatori si spandano su tutte le
dilatentur. Iura insuper vel leges codicibus nostris province dell’impero. Il diritto e le leggi inoltre inseriti
insertas, quas iam sub edictali programmate in Italiam nei nostri codici, che subito abbiamo trasmesso in Italia
dudum misimus, obtinere sancimus. Sed et eas, quas con un editto, stabiliamo che abbiano un valore. Ma
postea promulgavimus constitutiones, iubemus sub anche quelle costituzioni che abbiamo promulgato
edictali propositione vulgari, (et) ex eo tempore, quo successivamente ordiniamo che siano divulgate
sub edictali programmate vulgatae fuerint, etiam per mediante un editto, e che da quel momento nel quale
partes Italiae obtinere, ut una Deo volente facta saranno state rese note abbiano valore anche in Italia,
republica legum etiam nostrarum ubique prolatetur affinché, essendo stato con il volere di Dio riunito
auctoritas. l’impero, anche l’autorità delle nostre leggi si spanda
ovunque.

23 Che ai giudici siano sottoposte le cause civili.


Comandiamo inoltre che si affrontino, per
mezzo dei giudici civili, le controversie che
insorgono tra due cittadini romani, o in cui un
cittadino romano è citato in giudizio, perché
l'ordine non consente che in tali imprese o cause
intervengano i giudici militari. Nell'anno, nel
giorno e sotto il consolato di cui sopra

LEGISLAZIONE DEI LONGOBARDI

DOCUMENTARI
http://www.sibriumlangobardorum.org/litalia-dei-longobardi oppure
https://www.youtube.com/watch?v=S2tl0-BO8lY
ancora meglio
https://www.raiplay.it/video/2018/02/Italia-longobarda---b40a8406-8de7-45aa-bd05-
3642d562474e.html

CARTINA DELL’EUROPA E DELL’ITALIA AL TEMPO DEI LONGOBARDI


http://www.itinerarimedievali.unipr.it/v2/www/main/immagini/cartine/italia_longobarda.jpg

8
A. PROLOGO DI ROTARI (643) E DI LIUTPRANDO (721)

INCIPIT EDICTVM QVEM RENOVAVIT DOMINVS Inizia l’Editto che ha rinnovato Rotari signore,
ROTHARI VIR EXCELLENTISSIMO REX GENTI uomo eccellentissimo, re della stirpe dei Longobardi,
LANGOBARDORVM CVM PRIMATOS IVDICES con i suoi giudici preminenti
SVOS

Ego in dei nomine rotari, vir excellentissimus, et Nel nome del Signore, io Rotari, uomo eccellentissimo
septimo decimum rex gentis langobardorum, anno deo e diciassettesimo re della stirpe dei Longobardi,
propitiante regni mei octabo, aetatisque tricesimo nell’ottavo anno del mio regno col favore di Dio, nel
octabo, indictione secunda, et post adventum in trentottesimo anno d’età, nella seconda indizione e
provincia italiae langobardorum, ex quo alboin tunc nell’anno settantaseiesimo dopo la venuta nella
temporis regem precedentem divina potentia adducti provincia d’Italia dei Longobardi, dove furono condotti
sunt, anno septuagesimo sexto feliciter. Dato ticino dalla potenza divina, essendo in quel tempo re Alboino,
in palatio. [mio] predecessore, salute. Dato a Pavia, nel palazzo.
Quanta pro subiectorum nostrorum commodo nostrae Quanta è stata, ed è, la nostra sollecitudine per la
fuit sollicitudinis cura, et est, subter adnexa tenor prosperità dei nostri sudditi lo dimostra il tenore di
declarat; precipue tam propter adsiduas fatigationes quanto è aggiunto sotto, principalmente per le continue
pauperum, quam etiam superfluas exactiones ab his qui fatiche dei poveri, così come anche per le eccessive
maiore virtute habentur; quos vim pati cognovimus. Ob esazioni da parte di coloro che hanno maggior potere, a
hoc considerantes dei omnipotentis gratiam, causa dei quali abbiamo saputo che subiscono violenza.
necessarium esse prospeximus presentem corregere Per questo, confidando nella grazia di Dio onnipotente,
legem, quae priores omnes renovet et emendet, et quod ci è parso necessario promulgare migliorata la presente
deest adiciat, et quod superfluum est abscidat. In unum legge, che rinnova ed emenda tutte le precedenti ed
previdimus volumine conplectendum, quatinus liceat aggiunge ciò che manca e toglie ciò che è superfluo.
unicuique salua lege et iustitia quiete vivere, et propter Vogliamo che sia riunito tutto in un volume, perché sia
opinionem contra inimicos laborare, seque sousque consentito a ciascuno vivere in pace nella legge e nella
defendere fines. Tamen quamquam haec ita se habeant, giustizia e con questa consapevolezza impegnarsi
utilem prospeximus propter futuris temporis contro i nemici e difendere se stesso e il proprio paese.
memoriam, nomina regum antecessorum nostrorum, ex Tuttavia, sebbene le cose stiano così, ci è parso utile per
quo in gente nostra langobardorum reges nominati la memoria dei tempi futuri ordinare che siano annotati
coeperunt esse, in quantum per antiquos homines in questa pergamena i nomi dei re nostri predecessori,
didicimus, in hoc membranum adnotari iussimus. da quando i re cominciarono ad essere nominati nella
Fuit primus rex agilmund, ex genere gugingus. nostra stirpe dei Longobardi, così come lo abbiamo
Secundus laamisio. appreso tramite gli anziani.
Tertius leth. Il primo re fu Agilmundo, del lignaggio dei Gugingi.
Quartus kildeoch, filius leth. Il secondo Lamissione.
Quintus godeoch, filius kildeoch. Il terzo Leth.
Sextus claffo, filius godeoch. Il quarto Childeoch, figlio di Leth.
Septimus tato, filius glaffoni. Tato et winigis filii Il quinto Godeoch, figlio di Childeoch.
claffoni. Il sesto Claffone, figlio di Godeoch.
Octabus wacho, filius winigis, nepus tatoni. Il settimo Tatone, figlio di Claffone. Tatone e Winigis
Nonus walthari. erano figli
Decimus audoin, ex genere gausus. di Claffone.
Undecimus alboin, filius audoin, qui exercitum, ut L’ottavo Wachone, figlio di Winigis, nipote di Tatone.
supra, in Il nono Walthari.
italia adduxit. Il decimo Audoino, del lignaggio dei Gausi 4.
Duodecimus clep, ex genere beleos. L’undicesimo Alboino, figlio di Audoino, che, come
detto sopra,
condusse l’esercito in Italia 5.
Il dodicesimo Clefi, del lignaggio dei Belei.
ITEM CAPITVLA QVOD ADDIDIT Seguono i capitoli che ha aggiunto il signore re
DOMNVS LIVTPRANT REX Liutprando
Incipit Causas a Cominciano i casi
Legis quas christianus hac catholicus princeps Le leggi che un principe cristiano e cattolico ha deciso
instituere et prudenter cinsire disponit, non sua di stabilire e di valutare con saggezza non le ha
providentia, sed dei notu et inspiratione eas animo concepite nell’animo, ponderate nella mente e rese

9
concepit, mente petractat et salubriter opere conplit, proficuamente compiute con le opere per la propria
quia cor regis in mano dei est, atestante sapientissimo previdenza, ma per volontà e ispirazione di Dio, perché
salomonem, qui ait: Sicut impitus aquae, ita cor regis in il cuore del re è nelle mani di Dio, come attesta il
mano dei; si tenuerit eas, omnia siccabuntur, si autem saggissimo Salomone, che dice: “Come lo scorrere
clementer eas demiserit, universa inrigantur et replentur dell’acqua, così il cuore del re è nelle mani di Dio; se le
suavitatem. trattiene, tutte le cose seccano, ma se per la Sua
Quidem et apostulus domini iacobus in epistola sua clemenza le lascia andare, tutte le cose sono irrigate e si
ededit dicens: Omnem donum optimum et omnem colmano di dolcezza”. Certamente anche Giacomo,
datum perfectum desursum est, discendens a patre apostolo del Signore, lo ha dichiarato nella sua lettera,
luminum. His ergo expletis recolimus, quoniam dicendo: “Ogni ottimo regalo e ogni dono perfetto
rovustissimus decessor noster atque emenentissimus vengono dall’alto, discendendo dal Padre della luce”.
rothari rex, sicut ipse est in scriptis affatus suis Osservate quindi queste cose, abbiamo ricordato che il
superius, in langobardis edictum renovavit atque nostro fortissimo ed assai insigne predecessore re
instituit: ubi et prudenter hoc inserere curavit, dicens, ut Rotari, proprio come egli stesso dice sopra nei suoi
quis ille langobardorum princeps eius successor scritti, ha rinnovato ed istituito un editto per i
superfluum quid inibi reperit, ex eo sapienter auferret, Longobardi in cui ha avuto cura di introdurre con
et quod minus invenerit, deo sibi inspirante adicerit. saggezza anche questo, che quel principe dei
Post hoc enim gloriosissimus grimoald rex, quae illi Longobardi, suo successore, che vi avesse trovato
secundum deo placita fuerunt, minuit et ampliavit. qualcosa di superfluo, accortamente lo togliesse; e ciò
Cuius nos normam sequentes, divinitus ut credimus che vi avesse notato mancare, lo aggiungesse sotto
inspirati, simili modo ea quae iuxta dei legem nobis l’ispirazione di Dio. E difatti, dopo di questo, il
congrua paruerunt, subtrahere et addere previdemus, gloriosisimo re Grimoaldo ha levato ed accresciuto,
sicut et in presentem paginam scrivere iussimus. Ob come gli è piaciuto secondo Dio. Noi, seguendo la sua
hoc ego in dei nomine liutprand excellentissimus norma, ispirati, come crediamo, dalla volontà divina,
christianus langobardorum rex, anno deo protegente abbiamo analogamente provveduto a levare ed
regni mei primo, pridiae kalendarum martiarum, aggiungere quelle cose che ci sono parse conformi alla
indictione undecima, una cum omnibus iudicibus tam legge di Dio, come abbiamo ordinato di scrivere nella
de austriae et neustriae partibus, necnon et de tusciae presente pagina. Per questo io, Liutprando, in nome di
finibus, vel cum reliquis fedelibus meis langobardis et Dio eccellentissimo cristiano re dei Longobardi, nel
cuncto populo adsistente, haec nobis commune primo anno del mio regno con la protezione di Dio, nel
consilio, iuxta ob dei timore atquae amore ac sancta giorno precedente le calende di marzo, nell’undicesima
conparuerunt et placuerunt. indizione, assieme a tutti i giudici, sia delle parti
dell’Austria e della Neustria sia anche dei territori della
Tuscia, e con tutti gli altri Longobardi miei fedeli, alla
presenza di tutto il popolo, queste cose con consiglio
comune ci sono parse e piaciute sante e conformi al
timore ed all’amore di Dio.

B. L’APPROVAZIONE DELL’EDITTO DI ROTARI: CAPITOLO 386

Praesentem vero dispositionis nostrae edictum, quem Il presente editto delle nostre disposizioni, che
Deo propitio cum summo studio et summis vigilis a abbiamo composto con il favore di Dio, con il massimo
celestem faborem praestitis inquirentes et zelo e con le massime veglie concesseci dalla
rememorantes antiquas legis patrum nostrorum, quae benevolenza celeste, ricercando e ricordando le antiche
scriptae non erant, condedimus, et quod pro commune leggi dei nostri padri che non erano scritte, e che
omnium gentis nostrae utilitatibus expediunt, pari abbiamo istituito, ampliandolo, con pari consiglio e
consilio parique consensum cum primatos iudices consenso con i principali giudici e con tutto il nostro
cunctosque felicissimus exercitum nostrum augentes felicissimo esercito, quanto giova al comune interesse
constituimus, in hoc membranum scribere iussimus; di tutta la nostra stirpe, abbiamo ordinato che sia scritto
pertractantes et sub hoc tamen capitulo reservantes, ut, su questa pergamena, esaminandolo attentamente e
quod adhuc annuentem divinam clementiam per tuttavia riservandoci questa [sola] condizione di dover
subtilem inquisitionem de antiquas legis aggiungere a questo editto quanto ancora saremo in
Langobardorum, tam per nosmetipsos quam per grado di ricordare, consentendolo la divina clemenza,
antiquos homines, memorare potuerimus, in hoc con un'accurata ricerca delle antiche leggi longobarde,
edictum subiungere debeamus; addentes, quin etiam et sia da noi stessi sia grazie a uomini anziani; e inoltre
per gairethinx secundum ritus gentis nostrae anche confermandolo con il gairethinx, secondo l'uso
confirmantes, ut sit haec lex firma et stabilis, quatinus della nostra stirpe, in modo tale che questa legge sia
nostris felicissimis et futuris temporibus firmiter et stabile e sicura, perché nei nostri felicissimi tempi e in

10
inviolabiIiter ab omnibus nostris subiectis costodiatur. quelli futuri sia conservata in modo stabile ed
inviolabile da tutti i nostri sudditi.

C. COMPOSITIO E FAIDA: EDITTO DI ROTARI (643)

11. Della cospirazione per uccidere. Se degli uomini


liberi tramano fra loro per uccidere un altro, senza il
consenso del re, e [la vittima] non rimane uccisa in
seguito al complotto, ciascuno [di costoro] paghi una
composizione di 20 solidi, come sopra; ma se rimane
ucciso in seguito alla cospirazione, allora l’omicida
paghi una composizione per l’ucciso secondo quanto è
valutato, cioè il guidrigildo.
12. Se due, tre o più uomini liberi commettono un
omicidio e vogliono associarsi per pagare assieme la
composizione, secondo quanto [l’ucciso] è valutato, sia
consentito loro di associarsi. Se uno di costoro si
dissocia
dagli altri e non è in grado di discolparsi come richiede
la legge, [dimostrando] cioè di non aver provocato
nessuna ferita né alcuna lesione 19 a quell’uomo che è
stato ucciso, sia [ritenuto] colpevole come gli altri, che
hanno pagato la composizione. Ma se si discolpa, sia
libero dalla colpa di omicidio 20; se però ha partecipato
alla cospirazione, paghi una composizione di 20 solidi
come sopra, oppure si discolpi, se ne è in grado,
[dall’accusa di aver partecipato] alla cospirazione.
13. Se qualcuno uccide il proprio signore, sia egli
stesso ucciso. Se qualcuno vuole difendere l’omicida
che ha ucciso il proprio signore, sia condannato a
pagare 900 solidi, metà al re e metà ai parenti
dell’ucciso. E colui il quale neghi il proprio aiuto, se
qualcuno glielo chiede, per vendicare l’affronto di tale
uccisione paghi una composizione di cinquanta solidi,
metà al re e metà a colui al quale ha rifiutato l’aiuto.
48. De oculo evulso. Si quis alii oculum excusserit, pro 48. Dell’occhio levato. Se qualcuno strappa un occhio
mortuum adpretietur, qualiter in angargathungi, id est ad un altro, si calcoli il valore [di quell’uomo] come se
secundum qualitatem personae; et medietas praetii lo avesse ucciso, in base all’angargathungi, cioè
ipsius conponatur ab ipsum, qui oculum excusserit. secondo il rango della persona; e la metà di tale valore
sia pagata da quello che ha strappato l’occhio.
49. De naso absciso. Si quis alii nasum absciderit,
medietatem pretii ipsius conponat, ut supra. 49. Del naso tagliato. Se qualcuno taglia il naso ad un
altro, paghi la metà del valore di costui, come sopra.
50. De labro absciso. Si quis alii labrum absciderit,
conponat solidos sedicem, et si dentes apparuerint unus 50. Del labbro tagliato. Se qualcuno taglia il labbro ad
duo aut tres, conponat solidos viginti. un altro, paghi una composizione di 16 solidi e se si
vedono i denti, uno, due o tre, paghi una composizione
51. De dentes priores. Si quis alii dentem excusserit,
di 20 solidi.
qui in riso apparit, pro uno dentem dit solidos sidicem;
si duo aut amplius fuerint in risu apparentis, per hoc 51. Dei denti davanti. Se qualcuno fa cadere ad un altro
numero conponantur et adpretietur. un dente di quelli che si vedono quando si ride, dia per
un dente 16 solidi; se si tratta di due o più [denti], di
52. De dentes maxillares. Si quis alii dentem
quelli che si vedono quando si ride, si paghi e si calcoli
maxillarem unum aut plures excusserit, per unum
la composizione in base al loro numero.
dentem conponat solidos octo.
52. Dei denti della mascella. Se qualcuno fa cadere ad
53. De aure abscisa. Si quis alii aurem absciderit,
un altro uno o più denti della mascella, paghi per un
quartam partem pretii ipsius ei conponat.
dente una composizione di 8 solidi.
54. De plaga in facie. Si quis alii plagam in faciem
11
fecerit, conponat ei solidos sedicem. 53. Dell’orecchio tagliato. Se qualcuno taglia un
orecchio ad un altro, gli paghi una composizione pari
alla quarta parte del suo valore.
54. Della ferita al volto. Se qualcuno provoca una ferita
al volto ad un altro, gli paghi una composizione di 16
solidi.
75. Per tutte queste piaghe o ferite sopra descritte che
siano accadute tra uomini liberi, abbiamo perciò posto
una composizione di maggiore entità rispetto ai nostri
predecessori, affinché la faida, che è inimicizia, dopo
accettata la sopraddetta composizione, sia posposta
e non si richieda più oltre.

D. MUNDIO: EDITTO DI ROTARI (643) E LEGES DI LIUTPRANDO (721)

R. 204. Nulli mulieri liberae sub regni nostri ditionem 204. A nessuna donna libera che viva sotto la
legis langobardorum viventem liceat in sui potestatem giurisdizione del nostro regno secondo la legge dei
arbitrium, id est selbmundia, vivere, nisi semper sub Longobardi sia consentito vivere sotto la potestà del
potestatem virorum aut certe regis debeat permanere; proprio arbitrio, cioè selpmundia, ma al contrario debba
nec aliquid de res mobiles aut inmobiles sine voluntate sempre restare sotto la potestà degli uomini o del re; e
illius, in cuius mundium fuerit, habeat potestatem non abbia facoltà di donare o alienare alcunché dei beni
donandi aut alienandi. mobili o immobili senza il consenso di colui sotto il cui
mundio si trova.
L. 22. Si mulier res suas consentiente viro suo, aut 22. Se una donna vuole vendere i suoi beni [o
communiter venundare voluerit, ipse qui emere vult, semplicemente] con il consenso di suo marito o in
vel illi qui vindunt, faciant noditiam ad duos vel tres comune [con lui], colui che vuole comperare o coloro
parentes ipsius mulieris, qui propinquiores sunt. Et si in che vendono ne diano comunicazione a due o tre
presentia parenti della donna, di quelli che le sono più prossimi.
de ipsis parentibus suis mulier illa violentias aliquas se Se in presenza dei suoi parenti la donna dice di subire
dixerit pati, non sit stabilem quod vindederit. Nam si in una qualche costrizione, ciò che ha venduto non
presentia parentuum suorum vel iudici, qui in loco rimanga stabile. Se invece alla presenza dei suoi parenti
fuerit, violentias se pati non reclamaverit, nisi volontate o del giudice che è preposto a quel luogo afferma di
sua ipsas res se dixerit venundare, tunc ab illo diae non aver subito alcuna costrizione, ma anzi dice di
omni tempore, quod vindederit, stabile deveat vendere quei beni di sua volontà, allora ciò che ha
permanere, ita tamen, ut ipsi parentes, qui inter fuerent, venduto deve rimanere stabile da quel giorno, in ogni
aut iudex in cartola ipsa manum ponant. Et si contegerit tempo, purché i parenti, che hanno presenziato, o il
casus, giudice sottoscrivano quel documento. Se occorre
ut ille maritus moriatur, et ad alium ambolaverit, il caso che il marito muore e [costei] va ad un altro,
stabiles permaneat ipsa vinditio. Scriva autem, qui quella vendita rimanga stabile. Inoltre lo scriba che
cartola ipsa scripserit, non aliter presumat scrivere, nisi scrive quel documento non osi scrivere se non con
cum notitia parentum vel iudicis, sicut supra dictum est; l’autorizzazione dei parenti o del giudice, come si è
et detto sopra;
si aliter fecerit, sit ipsa vinditio vacua, et prefatus scriva se fa altrimenti, quella vendita sia senza validità e il
sit culpavelis, sicut qui cartola falsa scrivit. predetto scriba sia colpevole come chi scrive un
documento falso.

LEGGE PERSONALE – LEGGE TERRITORIALE

Rotari:
367. Del waregang (=straniero immigrato nel territorio del regno). Tutti i waregang che da territori
stranieri
vengono nei territori del nostro regno e si pongono sotto lo scudo della nostra potestà devono vivere
12
secondo le nostre leggi dei Longobardi, a meno che non abbiano meritato un’altra legge per nostra
grazia. Se hanno
figli legittimi, questi siano loro eredi come anche i figli dei Longobardi [lo sono]; se non hanno figli
legittimi, non sia loro facoltà donare a chicchessia i loro beni senza ordine del re o alienarli a
qualsivoglia titolo.

Liutprando:
91. Riguardo agli scrivani stabiliamo questo, che coloro che scrivono documenti lo facciano o
secondo la legge dei Longobardi, che è chiarissima e nota pressoché a tutti, o secondo [quella] dei
Romani e non facciano altrimenti, ma solo come è contenuto in queste leggi; e non scrivano contro
la legge dei Longobardi o dei romani. Se non sanno, chiedano ad altri e se non possono conoscere
pienamente tali leggi, non scrivano i documenti. Chi osa fare diversamente, paghi come
composizione il proprio guidrigildo, a meno che non ci si accordi su qualcosa tra colliberti; perché
se alcuni vogliono allontanarsi dalla loro legge e fanno degli accordi o delle convenzioni tra di loro
ed entrambe le parti sono d’accordo, ciò non sia considerato contro la legge, poiché entrambe le
parti lo fanno volontariamente. E coloro che scrivono questi documenti non siano riconosciuti
colpevoli. Invece, scrivano secondo la legge per quanto riguarda le eredità. Quanto è inserito nel
precedente editto circa i documenti falsi, rimanga così.

Esempio di “professio legis”:

Cartula venditionis, Piacenza, 14 novembre 1033 (Archivio délia cattedrale di Piacenza, Cassetta
16, Vendite, n° 98. 270x540 mm). Cunegonda/Cuniza, figlia del defunto Ansaldo e moglie di
Rotofredo, vivente sotto la legge longobarda, vende a Patéric/Amizo, figlio del defunto Gandolfo, il
castello di Ponciano con le sue dipendenze, per la somma di centro libre d’argento.

In nomine Domini Dei et salvatoris nostri Iesu Christi. Chuunradus gracia Dei inperator agusstus,
anno hinpirii eius Deo | propicio septimo, decimo die mense novemb(ris), ind(icione) secunda.
Constad me Cuniza, filia q(uon)da(m) Ansaldi et conius Rotefredi qui et Rozo, qui profesa sum ex
nacione mea legem vivere Lango-bardorum, ipso namque iugale et mundoaldo meo m(ihi)
conseciente et | subter confirmante et iusta legem una cum nuticia donni Adelberti cornes comitatu
Pla-centino, in cuius presencia vel testi|um certa facio profesione quod nulam me pati violencia
adque per iam ominum nec ab ipso iugale et mundoaldo meo nisi | mea bona expontanea
voluntatem, accepisem sicuti et in presencia testium accepi ad te Patericus qui et Amizo, filius
q(uon)da(m) | Gandulfi per misso tuo Savinus qui et Gariardus argentum denarios bonos libras
centum, finitum precium pro cuntis casis et omni|busa) rébus illis iuris mei quam abere viso sum in
loco et fundo Pon-ciano, cum Castro et turris seu muros circumdatum et capella | una infra eodem
Castro consecrata in noreb) sancte Dei genetricis Marie et sanctorum Martini et Georgic)

Fonte: F. Bougard, ***

E. PROCESSO LONGOBARDO E ORDALIA: LEGES DI LIUTPRANDO (721)

118. incerti sumus de iudicio dei, et multos audivimus Questo perché siamo insicuri riguardo il giudizio di
per pugnam sine justitia causam suam perdere; sed Dio, ed abbiamo sentito che molti hanno ingiustamente
propter consuetudinem genits nostrae Langobardorum perso la loro causa in duello, ma per la consuetudine
legem ipsam vetare non possumus. della nostra stirpe dei Longobardi non possiamo vietare
questa legge.

F. EDITTO DI ASTOLFO (750)

2. De illos homines, qui possunt loricam habere et minime habent, vel minores homines, qui possunt

13
habere cavallum et scutum et lanceam et minime habent, vel illi homines qui non possunt habere nec habent
unde congregare, debeant habere scutum et coccura. Et stetit ut ille homo, qui habet septem casas massarias,
habeat loricam suam cum reliqua conciatura sua, debeat habere et cavallos; et si super habuerit, per isto
numero debeat habere caballos et reliqua armatura. Item placuit, ut illi homines, qui non habent casas
massarias et habent quadraginta iugis terrae, habeant cavallum et scutum et lanceam; item de minoribus
hominibus principi placuit, ut, si possunt habere scutum, habeant coccora cum sagittas et arcum.
3. Item de illis hominibus, qui negotiantes sunt et pecunias non habent: qui sunt maiores et potentes,
habeant loricam et cavallos, scutum et lanceam; qui sunt sequentes, habeant caballos, scutum et lanceam; et
qui sunt minores, habeant coccoras cum sagittas et arcum.

2. Circa quegli uomini che possono avere una corazza e pure non ce l'hanno affatto, o quegli uomini
minori che possono avere cavallo, scudo e lancia e pure non li hanno affatto, oppure quegli uomini che non
possono avere, né hanno, di che mettere assieme, [stabiliamo] che debbano avere scudo e faretra. Resta
fermo che quell'uomo che ha sette case massaricie abbia la sua corazza con il restante equipaggiamento e
debba avere anche cavalli; e se ne ha di più, per questo numero deve avere i cavalli ed il restante armamento.
Piace inoltre che quegli uomini che non hanno case massaricie ed hanno 40 iugeri di terra abbiano cavallo,
scudo e lancia; così inoltre piace al principe circa gli uomini minori, che, se possono avere lo scudo, abbiano
la faretra con le frecce e l'arco.
3. Inoltre, circa quegli uomini che sono mercanti e che non hanno bestiame, quelli che sono maggiori e
potenti abbiano corazza e cavalli, scudo e lancia; quelli che vengono dopo abbiano cavalli, scudo e lancia;
quelli che sono minori abbiano faretre con le frecce e l’arco.

Fonti: C. Azzara – S. Gasparri (a cura di), Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo
germanico, Roma, Viella, 2005

CAPITOLARI CAROLINGI

Capitolare ecclesiastico di Olona (Corteolona, 825) emanato da Lotario I

Disposizioni emanate dall’Imperatore nel sesto anno del suo impero nel placito generale a
Corteolona.
Quanto all’istruzione, che per l’eccessiva incuria e il disinteresse di alcuni vescovi è dappertutto in
completo abbandono, questo da noi è stato stabilito, e questo da tutti sia osservato: coloro che per
nostra disposizione sono stati collocati in determinate località per istruire altri pongano la massima
cura a che gli scolari loro affidati traggano profitto dall’insegnamento e si applichino allo studio,
come la necessità del momento richiede. Tuttavia per la comodità di tutti abbiamo provveduto a
stabilire alcune località opportunamente distinte per l’esercizio degli studi, affinché l’impedimento
della distanza e la mancanza di mezzi non siano di scusa per nessuno.
Queste località sono le seguenti. A Pavia, presso il maestro Dungalo, converranno gli studenti di
Milano, Brescia, Lodi, Bergamo, Novara, Vercelli, Tortona, Acqui, Genova, Asti, Como. Ad Ivrea
il vescovo provvederà egli stesso alle scuole. A Torino converranno gli studenti di Ventimiglia,
Albenga, Vado, Alba. A Cremona andranno a scuola quelli di Reggio, Piacenza, Parma, Modena.
Firenze raccoglierà quelli della Tuscia. A Fermo converranno anche gli studenti delle città del
ducato di Spoleto. A Verona si recheranno da Mantova, da Trento. A Vicenza, da Padova, Treviso,
Feltre, Ceneda, Asolo. Gli studenti delle rimanenti città si raduneranno a Forlì.
Dato a Corteolona, nel dodicesimo anno dell’impero dell’imperatore Ludovico e nel sesto
dell’imperatore Lotario, nel mese di maggio.

FONTE: http://www.rm.unina.it/didattica/fonti/frova/sez1/par7.htm

SCUOLE E CULTURA ALTOMEDIEVALI

Carlo Magno, Admonitio generalis (789), par. 71


Ai vescovi.

14
Anche questo insistentemente chiediamo alla vostra benignità, che i ministri dell’altare del Signore adornino il
proprio ministero di buoni costumi; scongiuriamo perciò tutti coloro che seguono l’osservanza canonicale o la
regola monastica che tengano una condotta di vita retta ed esemplare, ottemperando al precetto evangelico:
«Risplenda la vostra luce di fronte agli uomini; in modo che vedano le vostre buone opere, e rendano gloria al
padre vostro che è nei cieli». Riuniscano e tengano presso di sé non solo i bambini di condizione servile ma anche i
figli dei liberi. Organizzino scuole di lettura per i ragazzi in ogni monastero o vescovado, dove si possano
apprendere i salmi, le note, il canto, il computo, la grammatica e trovare i libri canonici accuratamente corretti;
poiché spesso molti, desiderosi di pregare Dio rettamente, lo pregano male a causa della scorrettezza dei testi. Non
permettete che i fanciulli a voi affidati, leggendoli o copiandoli, ne traggano danno. E se è necessario copiare un
messale o un salterio, siano incaricati uomini esperti, che si dedichino al lavoro con ogni cura.

FONTE: http://www.rm.unina.it/didattica/fonti/frova/sez1/par2.htm

Testamento del marchese Eberardo del Friuli (864)

Libri della nostra cappella che vogliamo dividere.


Vogliamo anzitutto che Unroch abbia il nostro salterio doppio, la nostra Bibbia, il libro di
sant’Agostino Delle parole del Signore; i libri che contengono le leggi dei Franchi,
dei Ripuari, dei Longobardi, degli Alamanni e dei Bavari; il libro sull’arte
militare, il libro dei vari sermoni, il primo dei quali è dedicato a Elia e Achab; il libro
delle costituzioni dei principi e degli editti imperiali, i Sinonimi di Isidoro, il libro
delle quattro virtù, il vangelo, il bestiario e la Cosmografia del filosofo Aethicus.
Vogliamo che Berengario abbia l’altro salterio scritto in lettere d’oro, la Città di Dio di
sant’Agostino, il trattato delle parole del Signore, la storia dei pontefici romani, la storia
dei Franchi, il libro dei vescovi Isidoro, Fulgenzio e Martino, il libro di Efrem, i Sinonimi di
Isidoro, un glossario e un calendario.
Vogliamo che Adalardo abbia l’altro salterio che noi adoperiamo, il commento delle
Epistole di Paolo, il libro di sant’Agostino Delle parole del Signore, il commento al profeta
Ezechiele, il lezionario delle Epistole e dei vangeli scritto in oro, la vita di san Martino, il
libro di Aniano, i sette libri di Paolo Orosio, i libri di Sant’Agostino e del prete Gerolamo su
ciò che disse Giacomo: Chiunque, dopo aver osservato la legge, venga meno in un sol
punto, è giudicabile come tutti gli altri.
Vogliamo che Rodulfo abbia il salterio commentato di cui si serviva Gisella, l’opera di
Smaragdo, il Collectaneum, il libro di Fulgenzio, il messale quotidiano che era nella nostra
cappella, la Vita di San Martino, la Fisionomia del medico Losso e l’Elenco dei primi
principi.
Vogliamo che la nostra figlia maggiore Engeltrude abbia il libro chiamato vite dei Padri, il
libro dell’insegnamento di san Basilio, la storia di Apollonio, i Sinonimi di Isidoro.
Vogliamo che Giuditta abbia un messale e un libro che comincia con il sermone di
sant’Agostino sull’ubriachezza, la legge dei Longobardi, il libro di Alcuino al conte
Guido.
Vogliamo che Eilvince abbia un messale, un passionario, un libro di preghiere con i Salmi,
un libretto di orazioni.
Vogliamo che Gisella abbia il libro delle quattro virtù e l’Enchiridion di sant’Agostino.

FONTE: http://www.rm.unina.it/didattica/fonti/anto_ame/cap_VIII/VIII_5_it.htm#C

FONTI MEDIOEVO XI-XV

IL DIRITTO ROMANO NEL XI SECOLO

I. Placito di Marturi (Poggibonsi), 1076


In nome di Cristo.

15
A vantaggio dei tempi futuri si deve tener ben saldo il ricordo e viva la memoria della maniera in
cui alla presenza di Nordillo, messo di Beatrice, signora e marchesa, e di Giovanni visconte, nel
corso di un giudizio con alcuni residenti , cui parteciparono il giurista Pepone e il giudice
Guglielmo, unitamente a Rodolfo figlio di Signore, Rolando figlio di Rustico, Adilberto figlio di
Baroncello, Stefano figlio di Petronio, Benzo figlio di Benzo e Signorotto figlio di Bonito, ed
alcuni altri, Giovanni, avvocato della chiesa e del monastero di San Michele sito nel castello (che
è chiamato) di Martuli, insieme con Gerardo, preposto della stessa chiesa e del medesimo
monastero, si scontrò ed ottenne sentenza favorevole ai danni di Sigizone da Firenze a
proposito di alcune terre e della chiesa di Sant‘Andrea, situate nel luogo di Papiano che erano
state cedute al monastero dal marchese Ugo, cui, a sua volta erano state cedute da Vuinizio,
dandone prova attraverso una chartula.
Contro questa tesi il citato Sigizone fece obiezione, opponendo l‘intervenuta prescrizione e
dicendo che su quelle terre per le quali era causa era stato esercitato un possesso che fra lui e
suo padre ammontava a oltre quarant‘anni.
La difesa del cenobio, dopo aver replicato, confutò l‘eccezione di Sigizone, sostenendo che nel
periodo intercorso, durante la lite, i beni erano stati rivendicati. E prodotti tre testi adeguati,
nelle persone di Giovanni avvocato della citata chiesa, Stefano figlio di Petronio e Adilberto figlio
di Baroncello, tutti dissero che l‘Abate Giovanni aveva rivendicato quelle terre al marchese
Bonifacio e l‘abate Guidrico al duca Gotofredo ed alla contessa Beatrice: e giurarono in tal
senso.
E, proprio in questo modo, l‘avvocato Giovanni, con la mano sui vangeli fece giuramento; anche
Stefano e Adilberto volevano giurare, ma entrambe le parti furono d‘accordo che il giuramento
del solo avvocato fosse sufficiente.
Esposte le prove, il citato Nordillo, messo della signora Beatrice più volte nominata, considerata
con attenzione la normativa contenuta nei libri dei Digesta, per la quale il pretore sanciva la
restitutio in integrum a favore di quei soggetti che non avevano potuto far valere i loro diritti
per mancanza di giudici, dispose la restitutio in integrum a favore del monastero di San Michele
e della chiesa, concedendogli ogni diritto e l‘azione che aveva perduto in ordine alle terre ed ai
beni che furono di Vuinizo e che lo stesso marchese Ugo attribuì e conferì alla chiesa di San
Michele.
Atto redatto nell‘anno 1075 di nostro Signore Gesù Cristo, mese di marzo, nel borgo di Martuli,
nel territorio fiorentino.
Io Nordillo, in qualità di scrivente, confermo quanto detto.
Fonti: trad. B. Pasciuta

II. Placito di Garfagnolo (1098)


Affinché sia affidato al futuro ben vivo il ricordo, riteniamo necessario rendere brevemente
conto della lite che si tenne fra l'abate del monastero di San Prospero di Reggio e gli uomini
delle Valli.
L'abate con il suo avvocato, davanti al Giudice Ubaldo di Carpineti, si lamentè del fatto che detti
uomini delle Valli detenevano ingiustificatamente alcuni tenitori nella corte di Nasseto, tenitori
che, invece, erano di diritto della chiesa di San Prospero. Esaminata la questione con grande
attenzione dal giudice Ubaldo e decisa attraverso l'intervenuto giuramento di tre uomini della
corte di Nasseto, quest'ultimo restituì il possesso alla chiesa, come la notitia descrive.
Avvenuto ciò, gli uomini delle Valli fecero ricorso alla contessa Matilde sostenendo di essere stati
ingiustamente spogliati. Per questo motivo la contessa demandè la vertenza a Bono, giudice di
Nonantola, ed allo stesso Ubaldo, affinché ricercassero la verità ed invitassero entrambe le parti,
ove necessario, alla pugna.
Radunate le parti a tale scopo dinanzi ai predetti giudici, l'abate, mostrò immediatamente i
precetti degli imperatori Carlo ed Ottone, nei quali si dimostrava apertamente che i beni in
contestazione erano di proprietà della chiesa, come era scritto nelle carte della chiesa stessa.
16
Ed inoltre i causidici dell'abate mostrarono anche la legge dell'imperatore Giustiniano, in base
alla quale (si diceva che) le persone che avessero ricevuto qualcosa dall'erario o dalla casa del
principe dovevano ritenersi al sicuro da ogni pretesa o chiamata in giudizio, come chiaramente
è detto anche nel Codice e nelle Istituzioni giustinianee.
E nonostante molte altre ottime allegazioni furono addotte, i citati giudici le respinsero, dicendo
che in nessuno altro modo si sarebbe arrivati alla soluzione se non con la pugna. Pertanto,
benché la chiesa fosse contraria, cercarono di decidere l'esito della pugna, e fecero prestare
garanzia sotto penale di 10 lire lucchesi e, stabilito il giorno, preparati i campioni al
combattimento la chiesa ebbe tanta umiltà da concedere tutte le terre che erano oggetto di
contestazione agli avversali secondo il lodo dei missi della contessa, cosa che la parte avversaria
subito rifiutè.
Mentre i campioni erano stretti nella battaglia, il campione degli uomini delle Valli, prima che
iniziasse il combattimento, gettò, come maleficio, un guanto femminile di svariati colori sul capo
del campione della chiesa, fatto che le leggi vietano e puniscono.
Nel frattempo, benché combattessero, nessuno di loro cadeva, pertanto mentre
vicendevolmente si dilaniavano e si affrontavano a mani nude, una moltitudine di uomini delle
Valli si lanciè contro il campione della chiesa e lo tenne stretto, ma questi gli sfuggì di mano e
ritornato in campo, virilmente riprese a combattere. Di nuovo ammassatisi con violenza lo
ripresero e lo colpirono con grande crudeltà.
Gli uomini del partito della chiesa, numericamente più esiguo, volendo prestargli aiuto e
chiedendo una punizione, furono tutti percossi e feriti e a stento riuscirono a salvarsi. Poiché,
da un lato, gli uomini delle Valli dicevano di aver vinto il combattimento e, dall'altro, la fazione
della chiesa sosteneva di non esser stata affatto vinta ed il campione della chiesa parimenti
sosteneva di non esser stato battuto, ma anzi di essere pronto a riprendere a combattere
virilmente, nacque una contesa.
Così lo stesso giudice Ubaldo, che aveva richiesto la pugna, disse che la lite restava dubbia e
l'esito della controversia non poteva esser deciso attraverso quel combattimento. Per questo
motivo i giudici non emisero alcuna sentenza.
Questa causa avvenne alla presenza dei giudici Bono e Ubaldo, dei causidici Alberto e Ubaldino,
di Heriberto, avvocato della chiesa, e Giberto Carbone, Frogerio ed altri ancora, Adegerio e
Ugone figli di Manfredo di Gruppo, Gotofredo da Rosano, e Sigifredo Sigezone e Rozone di
Pallavo, Inghebaldo, Mazolino e suo figlio, Rodolfo di Pugliano e suo fratello e ancora Bitenengo
di Bundolo e Mainfredo di Vollola e moltissimi altri.
Nell‘anno 1098, 5 luglio, indizione 7°, nel borgo che si chiama Garfagnolo.

Fonte: www.historia.unimi.it/sezione/fonti/corsodiritto1/o-z/garfagnoloit.pdf

Matilde contessa di Canossa (1046-1115)

17
Abbazia di Nonantola

IRNERIO, I GLOSSATORI E LA SCUOLA DI BOLOGNA

18
IRNERIO

a) Testimonianze su Irnerio

- Cronaca di Burcardo di Biberach, abate del monastero di Ursperg, relativa al periodo


1124-1225: «In quei tempi [mentre era imperatore Lotario II, 1125-1138] il maestro
Graziano riunì canoni e decreti che erano dispersi in vari libri e, aggiungendo ad essi di tanto
in tanto le autorità dei santi Padri, ripartì la sua opera con razionalità secondo le sentenze
convenienti. Nei medesimi tempi, su richiesta della contessa Matilde il dominus Irnerio rinnovò
i libri delle leggi, che a lungo erano stati trascurati e ai quali nessuno si era applicato, e li
suddivise nel modo in cui erano stati compilati dall’imperatore Giustiniano di divina memoria,
interposte qua e là poche parole».
Fonte: Andrea Piazza.

- Odofredo: «Irnerio fu tra noi la lucerna del diritto (lucerna iuris), fu il primo ad avere
insegnato in questa città. Una volta, a Bologna, esisteva uno studio di arti liberali. Quando lo
Studium di diritto fu distrutto a Roma, i libri legali furono portati a Ravenna e poi a Bologna.
Così i libri legali finirono per essere studiati nella scuola di arti liberali. Pepo cominciò con la
sua autorità ad insegnare diritto (cepit auctoritate sua legere in legibus) ma, qualunque fosse la
sua scienza, non ebbe alcuna fama. Irnerio insegnava arti liberali a Bologna quando vi furono
trasferiti i libri legali. Cominciò a studiare per conto suo nei nostri testi e studiando cominciò a
insegnare le leggi (cepit per se studere in libris nostris et studendo cepit legere in legibus),
conseguì una grandissima fama e fu la prima luce (primus illuminator) della scienza giuridica.
Poiché fu il primo a fare glosse sui libri di Giustiniano, lo ricordiamo come lucerna del diritto
(lucerna iuris)».

- Landolfo di S. Paolo: «Al tempo della morte di Pasquale II, udita l’ambasciata dei Romani, l’im-
peratore dalle parti di Torino si affrettò a recarsi a Roma. Il 4 marzo, da questa città insieme ai
Romani inviò dei legati a Gaeta, ordinando a Giovanni di Gaeta – che era stato eletto papa –, e
parimenti ai cardinali e ai vescovi che erano con lui a Gaeta, di tornare a Roma e di compiere
con loro in modo giusto e cattolico ciò che doveva essere fatto per la sostituzione del pontefice.
Ma il 9 marzo, nella chiesa del Beato Pietro, al cospetto dell’imperatore Enrico e presenti alcuni
rappresentanti del popolo e del clero romano, fu riferita la risposta che i legati dell’imperatore e
dei Romani avevano udito e raccolto dall’eletto: che nel settembre seguente questi insieme ai
cardinali e ai vescovi delle province si sarebbe recato a Milano o Cremona, e allora i Romani e
l’imperatore avrebbero saputo che cosa si dovesse fare di lui a riguardo dell’elezione a papa e
dell’eventuale sostituzione, secondo la dottrina dei cardinali e dei vescovi. I Romani, pensando
che tale risposta non fosse sufficiente né conveniente alle leggi, ai canoni e alle loro richieste,
turbati gridarono: ‘Forse vogliono trasferire a Cremona l’onore di Roma? Che ciò non avvenga!
Ma per riuscire a sconfiggere l’astuzia di coloro che ci hanno abbandonati e sono fuggiti a Gaeta,
eleggiamoci un papa prudente e buono, secondo l’autorità delle leggi e dei canoni’. Dopo tali e
altre simili parole dei Romani il maestro Guarnerio di Bologna e molti esperti di legge (leges
periti) si mostrarono d’accordo sull’elezione del papa; e un lettore ben preparato dal pulpito di
San Pietro con una prolissa lezione chiarì i decreti dei pontefici circa la sostituzione del papa.
Terminate la lettura e la spiegazione, una gran quantità di popolo elesse papa un vescovo della
Spagna, lì presente insieme all’imperatore».
Fonte: Andrea Piazza

b) Teorie ed opinioni di Irnerio

La lex regia (glossa a D.1.3.32): «Questa legge [D. 1.3.32] è conforme ai propri tempi, nei
19
quali il popolo aveva la potestà di fare leggi, e perciò per tacito consenso di tutti esse erano
abrogate per consuetudine. Ma poiché oggi la potestà è stata trasferita all’imperatore, nulla
potrebbe fare la desuetudine [ossia l’inosservanza continuata della legge] del popolo».

Fonte: Andrea Piazza.

Le Novelle: glossa alla costituzione Cordi. «Le costituzioni nuove [novelle], delle quali si parla
qui [cioè nella costituzione Cordi, che ordina la compilazione della seconda edizione del Codex],
sono promesse soltanto su questioni nuove, che non siano mai state regolate con i lacci delle
leggi. Ma quelle leggi [quelle raccolte nell’Authenticum], se mai si dovesse chiamarle ‘leggi’, si
occupano soltanto di questioni che sono già regolate dal Codice, e per di più lo contraddicono su
molti punti. E dunque non è verosimile che Giustiniano, una volta terminato il suo lavoro a
prezzo di tanta fatica e di tanta attenzione, abbia immediatamente cominciato a promulgare
leggi contrarie, consentendo di trovare tra le leggi norme opposte al suo volere».
Fonte: E. Conte, Diritto comune, p. 79.

LIBRI LEGALES
- Littera fiorentina: Una pagina del Codex di Giustiniano, nel testimone del Codex Florentinus
(Italia, seconda metà del sec. VI)

20
La Glossa:
Digesto, Libro 31, con la Glossa di Accursio, Bologna, Collegio di Spagna, ms. 284, fol. 109v
(per concessione del Collegio di Spagna)

21
Una pagina del Digestum Vetus con la glossa accursiana, nel testimone dell’edizione a stampa
Venezia 1584

22
23
SCUOLA DI BOLOGNA E UNIVERSITA’ MEDIEVALI
1) Costituzione «Habita» di Federico I Barbarossa (novembre 1158)
Consultati con ogni diligenza su questo problema abati, duchi, conti, giudici e altre personalità
della nostra corte, concediamo per nostra magnanimità a tutti gli scolari che a motivo dello
studio si spostano da una località all’altra, e soprattutto ai professori di diritto canonico e civile,
questo privilegio, affinché sia essi sia i loro inviati possano recarsi ad abitare in piena sicurezza
nelle località nelle quali si praticano gli studi delle lettere. Riteniamo giusto infatti che,
esercitando una così lodevole attività, siano protetti dalla nostra approvazione e tutela, che siano
preservati da ogni offesa, per così dire, con uno speciale affetto, dal momento che illuminano il
mondo con la loro scienza ed educano i sudditi a vivere in obbedienza a Dio e a noi, suoi
ministri. E chi non proverebbe compassione di loro, quando, fatti esuli dall’amore della scienza,
volontariamente abbandonano la ricchezza per la povertà, espongono la vita ad ogni sorta di
pericoli, e, quel che è peggio, spesso sono costretti a subire senza motivo offese corporali dagli
uomini più vili! Pertanto con questa legge avente valore generale e perpetuo, stabiliamo quanto
segue: ci si guardi bene, d’ora in poi, dal recare a scolari qualsivoglia offesa; non si
sottopongano a condanna di alcun genere per delitti commessi in altra provincia, come – a
quanto abbiamo udito – accade talvolta per una esecrabile consuetudine; si sappia che ai
trasgressori di questa costituzione, e, qualora trascurino di farla applicare, agli amministratori
locali a quel tempo in carica, sarà richiesta la restituzione del quadruplo dei beni sottratti, e
decretata ipso iure la nota d’infamia, con la decadenza perpetua dal loro ufficio. Inoltre, qualora
gli scolari siano chiamati in causa da chiunque per qualsiasi motivo, potranno essere giudicati a
loro scelta dal signore, dal loro maestro o dal vescovo della città; ai quali concediamo la relativa
giurisdizione. Qualora si tenti di portarli di fronte a un altro giudice, anche se l’imputazione
fosse validissima, per questo solo tentativo cadrà. Comandiamo che questa legge sia inserita tra
le costituzioni imperiali sotto il titolo ne filius pro patre. Dato a Roncaglia, nell’anno del Signore
1158, nel mese di Novembre.

FONTE: http://www.rm.unina.it/didattica/fonti/frova/sez1/par9.htm

2) Statuti comunali di Parma (1347): immunità concessa ai giudici del collegio dei
giudici della città di Parma e agli scolari che studiano diritto civile e canonico.

Tutti i giudici che sono e 'à suo tempo saranno iscritti nel Collegio dei giudici della città di Parma
e tutti gli studenti di diritto civile e canonico non siano tenuti a partecipare a nessun esercito o
cavalcata né a fare alcun turno di guardia di giorno o di notte, ma siano immuni da tutti gli oneri
personali, questa immunità viene loro concessa affinché con bontà e misericordia, per amor di
Dio e in spirito di pietà prestino e offrano gratis e senza ricompensa alcuna il loro patrocinio ai
poveri, alle vedove, agli orfani e alle persone misere che ricorreranno a loro, e diano loro un
buon consiglio circa le questioni sulle quali saranno consultati. Siano anche tenuti e obbligati,
ogni qualvolta si alzeranno a parlare nell'arengo intorno a problemi relativi al comune, a dare
sempre il parere che riterranno giusto, ragionevole ed equo; e, in tutti i consigli e assemblee ad
attenersi sempre al partito che riterranno migliore, più equo, giusto e ragionevole.

FONTE: http://www.rm.unina.it/didattica/fonti/frova/sez6/par3.htm

24
IL METODO DELLA GLOSSA E IL METODO DEL COMMENTO.
1.La Glossa magna di Accursio
D 1. 1. 1 Proemio
...... Emaniamo in
conclusione quello che è
stato ritenuto necessario
perché, né in questa
splendidissima città, né
nella bellissima città di
Berito [oggi Beirut],
nessuno, tra colorof che
svolgono studi legali, osi f. glossa alle parole Ex iis.
esercitare giochi e (a coloro): cioè agli
perpetrare altri criminig ‘scholares’ (gli studenti
pessimi, anzi, di più, della ‘Scuola’) o ai
g. glossa alla parola servili e tali che il loro ‘doctores’ (i professori)
Crimina. (crimini) infatti effetto è un’ ingiuria, o
il gioco è vietato etc. contro i professori stessi,
i. glossa Prius animas. o contro i loro ‘soci’ [gli
(prima le anime) cioè il allievi] e soprattutto
senso naturale del fare il contro coloroh che,
bene ed evitare il male ‘rudes’ [cioè semplici,
ignoranti] pervengono a h. glossa In eos. (contro
recitare le leggi. Chi coloro) cioè i novizi, che
infatti potrebbe sempre credono di
chiamare giochi, quei essere presi in giro e fatti
comportamenti da cui oggetto di ingiurie.
originano crimini? Non Accursio.
sopportiamo infatti che
ciò si faccia in alcun
modo, ma consegniamo
in ottimo ordine questa
zona nei nostri tempi e la
trasmettiamo a tutto il
prossimo secolo: poiché
è necessario che prima le
animei e poi le lingue
siano eruditek. E
quell’uomo eccelso che è
il prefetto di questa
nobile città [il
‘praefectus urbis’] curerà
che tutte queste cose k. glossa Eruditas.
siano osservate in questa (erudite)
fiorentissima città e cioè ‘nel parlare’
curerà pure di punire i
delitti ed esigerà la
‘qualità’ tanto dei giovani
che degli scrittori. A
Berito se ne
25
occuperanno tanto
l’illustrissimo ‘praeses’
[presidente, autorità di
governo della regione]
della Fenicia Marittima,
quanto il santissimo
vescovo di quella città e i
professoril
di legge...

l. glossa Professores
(professori) si fa così
notare che gli ‘scholares’
hanno tre giudici: il
podestà, il vescovo e il
‘doctor’ e possono
scegliere quello che
vogliono, come (si legge)
nel Codex, titolo. Nec
filius pro patre. Legge
finale, e nell’authentica
‘Habita’ che è
dell’imperatore
Federico; e poiché
secondo questa legge (gli
studenti) sono
demandati specialmente
ai ‘doctores legum’ (i
professori di diritto), che
sono più importanti degli
altri insegnanti, non pare
che possano delegare ad
altri, come si legge in
detta legge finale. Ma
oggi sembra che questo
compito spetti per diritto
di ‘magistrato’ (cioè per
il fatto di essere
Maestro), dato che la
stessa facoltà viene
concessa a qualunque
Maestro, per cui, in
materia civile, si può
delegare, come si legge
infra, nel titolo de officiis
eius cui mandata est
iurisdictio, legge 1, §. 1

2. Lo schema del metodo del Commento esposto da Matteo Gribaldi Mofa nel
26
Cinquecento.

Praemitto, scindo, summo casumque figuro, perlego, do causas, connoto et obiicio


letteralmente: premetto, divido, faccio la summa, presento un caso, rileggo a fondo, enuncio le
cause, indico le cose notevoli e formulo i pro e contra).

- introduce la fattispecie (praemitto): lettura, esplicazione;


- scomposizione della norma (scindo) per analizzare le parti separatamente;
- ricomposizione della norma interpretata (summo);
- esempi pratici (casum figurum);
- si rilegge il tutto (perlego);
- si cerca la ratio, la finalità della norma (do causas);
- si esaminano la tesi e l’antitesi (connoto);
- do la risposta al caso concreto (obicio).
RIFORMA GREGORIANA, GRAZIANO E IL DIRITTO CANONICO

1. RIFORMA GREGORIANA

Il papa Gregorio VII scomunica l’imperatore Enrico IV


Beato Pietro, principe degli Apostoli, inclina, preghiamo, le pie tue orecchie a noi e ascolta me
tuo servo che dall'infanzia hai nutrito e fino a questo giorno hai liberato dalle mani dei malvagi,
che mi hanno odiato e mi odiano per la fedeltà verso di te. Tu mi sei testimone e Nostra Signora
madre di Dio, e il beato Paolo, fratello tuo fra tutti i beati, che la tua Santa Romana Chiesa trasse
me, contro mio volere, al suo governo, ed io ritenni di non ascendere di furto alla tua sede, e
avrei preferito finire la vita mia pellegrinando come monaco, anziché occupare il suo posto per
vanità mondana con animo secolare. E perciò, per grazia tua, non in virtù delle mie opere, credo
essere stato ed essere tuo volere che il popolo cristiano a te particolarmente commesso, a me
particolarmente obbedisca, per le tue veci che mi sono state affidate. E la grazia che mi viene
da te è la potestà data da Dio, di legare e sciogliere in cielo e in terra. Sorretto pertanto da
questa fiducia, per l'onore e la difesa della tua Chiesa, da parte dell'onnipotente Iddio Padre e
Figlio e dello Spirito Santo, con la potestà e l'autorità tua, ad Enrico re, figlio di Enrico
imperatore, che è insorto con inaudita superbia contro la tua Chiesa, interdico il regno dei
Teutoni e d'Italia, e sciolgo tutti i Cristiani dal vincolo del giuramento, che gli hanno prestato e
presteranno, e ordino che nessuno gli serva come a re. È giusto infatti che colui il quale cerca di
sminuire l'onore della tua Chiesa, perda egli stesso l'onore di cui sembra investito. E poiché ha
disdegnato di obbedire come Cristiano, e non è ritornato a Dio, da cui s'è allontanato,
partecipando cogli scomunicati sprezzando i miei ammonimenti, che, – tu mi sei testimonio, –
gl'inviai per sua salvezza, separando sé dalla sua Chiesa, tentando di scindere la Chiesa stessa, in
nome tuo lo costringo col vincolo dell'anatema e in virtù della tua fiducia lo lego per tal modo, che
sappiano le genti e riconoscano per provare che tu sei Pietro e sopra la tua pietra il Figlio del
Dio vivo edificò la sua Chiesa e le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa.
(Gregorio VII, Decreto di scomunica contro Enrico IV, da Falco, "La Santa Romana Repubblica",
Ricciardi, Milano-Napoli, 1968)
Dictatus papae (1075)

1. La chiesa romana è fondata dal solo Signore


2. Solo il vescovo di Roma a giusto titolo è detto universale.
3. Egli solo può deporre o riconciliare i vescovi.
4. Il suo legato presiede a tutti i vescovi in concilio, anche se è di grado inferiore, e può
emettere contro di loro sentenza di deposizione.
5. Il papa può deporre anche gli assenti.
27
6. Non dobbiamo, tra l'altro, rimanere nella stessa casa con coloro che sono stati da lui
scomunicati.
7. A lui solo è permesso, per quanto lo richiedono le circostanze, emanare nuove leggi,
formare nuove comunità, trasformare una canonica in una abbazia, e per contro suddividere un
vescovato ricco e riunire quelli poveri.
8. Egli solo può servirsi delle insegne imperiali.
9. Tutti i principi bacino i piedi del solo papa.
10. Solo il suo nome venga recitato nelle Chiese.
11. A questo nome nessun altro al mondo sia equiparato.
12. A lui è permesso deporre gli imperatori.
13. Egli può, se la necessità lo impone, trasferire vescovi da una sede ad un'altra.
14. In tutta la Chiesa egli può inviare un chierico ovunque voglia.
15. Chi viene da lui ordinato può presiedere ad una Chiesa, ma non essere vassallo, e non gli
è permesso accettare un rango più elevato da un altro vescovo.
16. Nessun sinodo deve essere detto generale senza il suo volere.
17. Nessuna legge e nessun codice sia considerato canonico senza il suo benestare.
18. Le sue sentenze non debbono essere respinte da nessuno, ed egli solo può respingere le
decisioni di tutti.
19. Egli non deve essere giudicato da nessuno.
20. Nessuno osi condannare chi si appella alla sede apostolica.
21. Le questioni più importanti di ciascuna Chiesa debbono essere riferite ad esso.
22. La Chiesa romana non ha mai sbagliato e, secondo la testimonianza delle Scritture, non
sbaglierà mai in futuro.
23. Il vescovo di Roma, se ordinato canonicamente, è senza alcun dubbio reso santo per i
meriti di San Pietro (...).
24. Col suo ordine e il suo permesso sia consentito ai sudditi di muovere accuse.
25. Egli può, senza convocazione sinodale, deporre e riconciliare vescovi.
26. Non sia considerato cattolico chi non concorda con la Chiesa di Roma.
27. Egli possa sciogliere i sudditi dalla fedeltà agli iniqui.

Ivo di Chartres (1040-1115) e il Prologo al Decretum (fine XI)

«Dei precetti e delle proibizioni, alcuni sono mutevoli (mobiles), altri immutabili (immobiles). I
precetti immutabili sono quelli che la legge eterna ha sancito: essi, se osservati arrecano la
salvezza, se non osservati, la tolgono ... I precetti mutevoli sono quelli che non sono stati sanciti
dalla legge eterna: piuttosto la diligenza degli uomini li ha escogitati non principalmente per
ottenere la salvezza, quanto per rafforzarla».

2. GRAZIANO

Graziano e Irnerio nel Chronicon Urspergense di Burcardo di Biberach, abate del


monastero di Ursperg (1230 circa)
«In quei tempi [mentre era imperatore Lotario II, 1125-1138] il maestro Graziano riunì in un
solo testo canoni e decreti che erano dispersi in vari libri e, aggiungendo ad essi di tanto in
tanto le autorità dei santi Padri, ripartì la sua opera con razionalità [rationabiliter distinxit]
secondo le sentenze convenienti. Nei medesimi tempi, su richiesta della contessa Matilde il
dominus Irnerio rinnovò i libri delle leggi, che a lungo erano stati trascurati e ai quali nessuno
si era applicato, e li suddivise nel modo in cui erano stati compilati dall’imperatore Giustiniano
di divina memoria, interposte qua e là poche parole».

Il Decretum o Concordia discordantium canonum (1140 circa)


28
- «Il diritto naturale, che ha inizio con l’apparire sulla terra della creatura razionale, ... resta
immobile ... La Santa Romana Chiesa può riservare un trattamento speciale a persone e valutare
taluni fatti in modo particolare al di là delle norme generali positive; ciò non per arbitrio ma per
l’attenzione che essa porge alle ragioni dell’equità, cosicché essa – che è madre di giustizia – da
questa non si discosta per niente».
- «Due sono i generi dei Cristiani. L’uno, dedito all’ufficio divino, nonché alla contemplazione e
alla preghiera, è bene che rinunci a ogni strepito delle cose temporali: questi sono i chierici, e i
devoti a Dio, cioè i conversi. È detto ‘cléros’ in greco, che in latino significa ‘sorte’. Dunque
costoro sono detti chierici, cioè eletti per sorte. Dio li elegge tutti tra i suoi. Questi sono re, in
quanto reggono se stessi e gli altri nelle virtù, e così hanno il regno in Dio: ciò significa la
corona sul capo. Hanno questa corona per istituzione della Chiesa romana in segno del regno
che è atteso in Cristo. La rasura del capo è deposizione di tutti i beni temporali. Essi, contenti del
vitto e del vestito, non avendo alcuna proprietà tra sé, devono avere tutto in comune. Vi è un
altro genere di Cristiani, i laici. ‘Laós’ in greco equivale a ‘popolo’ in latino. Ad essi è lecito
possedere beni temporali, ma esclusivamente per l’uso. Infatti nulla c’è di più misero che
disprezzare Dio per il denaro. Ad essi è concesso prender moglie, coltivare la terra, giudicare tra
uomo e uomo, far causa, deporre offerte sull’altare, pagare le decime; e così potranno salvarsi,
purché evitino i vizi facendo il bene».
3. Esempio di uso del «Decretum» di Graziano in una controversia tra canonici e monaci
(1150)
«Tali generi di negozi tra i canonici della Chiesa di Massa e l’abate di San Bartolomeo di Sestinga
sono stati ventilati di fronte a me, Ranieri, per grazia di Dio vescovo della Chiesa di Siena,
costituito giudice su questa causa per precetto del padre e signore mio Eugenio, sommo
pontefice della Sede di Roma.
Infatti i predetti canonici dicono che l’amministrazione della chiesa di Sant’Andrea, parrocchia
della loro pieve, sita nel castello di Valle, appartiene di diritto a loro e non all’abate, e ciò
affermano ‘sulla base dei sacri decreti di Urbano e Niccolò’, nei quali è stabilito che i monaci
‘nelle chiese che tengono nelle parrocchie dei vescovi, non collochino preti senza il consiglio dei
vescovi’ [C. 16, q. 2, c. 6; C. 16, q. 2, c. 8]. Per contrastare la loro intenzione, l’abate invece
oppone la prescrizione di quarant’anni, dimostrata sul fondamento di certi decreti e concili. Per
contro i canonici negano la prescrizione dal momento che il possesso è cominciato in modo non
legittimo, provandolo ‘sulla base del decreto di Gelasio’, nel quale è detto che lo statuto delle
parrocchie non può mutare per un motivo temporale [C. 16, q. 3, c. 5]. Questa è la prima
controversia. I canonici poi si lamentano per le decime che l’abate percepisce dai novali ricavati
dalle selve dello stesso abate. L’abate ha confessato di aver ricevuto di diritto la decima parte dei
frutti di quei novali, non per le decime, ma solo per diritto di reddito. E afferma che, al tempo
della sua consacrazione, un vescovo di Massa aveva concesso alla predetta chiesa di Sant’Andrea
le decime di numerosi luoghi di quei novali. Inoltre l’abate asserisce che le decime dei novali, i
quali sono fondi propri del monastero, ‘secondo il concilio di Mainz’ devono essere date solo al
cenobio e non a un’altra chiesa: in quel concilio si dichiara che ‘gli abati facciano portare alle
proprie chiese’ le decime ‘dei campi e delle vigne di cui dispongono per il sostentamento
proprio e dei confratelli’ [C. 16, q. 1, c. 46]».
3. Il Liber Extra di Gregorio IX (1234): la Bolla Rex pacificus

«Le diverse costituzioni e decretali dei nostri predecessori, dispersi in diversi volumi, essendo
alcune somiglianti tra loro, altre contraddittorie, altre ancora prolisse, generavano confusione.
Alcune, poi, si trovavano vaganti fuori di quei volumi ed erano pertanto usate in giudizio fra
grandi incertezze per il loro dubbio valore. Ora, per l’utilità di tutti e specialmente degli studiosi
[...], abbiamo voluto che quelle fossero riunite in un solo volume, eliminate quelle superflue, con
l’aggiunta delle nostre, nelle quali sia chiarito quanto nelle precedenti era dubbio. Vogliamo,
inoltre, che nei tribunali e nelle scuole si faccia uso solo di questa compilazione e proibiamo
29
severamente che alcuno presuma di farne un’altra senza speciale autorizzazione della Sede
Apostolica.»
Fonte: A. Padovani, Gregorio IX, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto (on line:
http://www.treccani.it/enciclopedia/gregorio-
ix_(Il_Contributo_italiano_alla_storia_del_Pensiero:_Diritto)/)
4. Decretisto e decretalisti

Stefano di Tournai o Tornacense (1128-1203):


«Il Salvatore ha istituito la santa Romana Chiesa in quella eminenza di dignità, affidando alle sue
mani la stadera della misericordia e del giudizio insieme, affinché, avuta considerazione delle
persone e delle circostanze, della volontà e dell’atto, dell’intenzione e dell’opera, ora superi
l’equità con il rigore, ora temperi il rigore con l’equità».

Fonti della sezione, ove non specificato diversamente: Il Secolo XII: la Renovatio dell'Europa
cristiana. Fatti, documenti, interpretazioni, dossier a cura di Andrea Piazza (on line:
http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/Piazza.htm)

IUS PROPRIUM

L’Imperatore, i diritti regi, i comuni

I. Le Quaestiones de iuris subtilitatibus e la difesa dell’unità del diritto.


«I popoli, differenti per luogo e per impero, seguono diritti diversi sotto un impero o un altro,
come gli Ateniesi e gli Spartani. Per quanto concerne coloro che invadono i nostri luoghi, non
discutiamo che i loro statuti (statuta) – in quanto statuti di nemici – abbiano valore finché essi
non possano essere cacciati via secondo il diritto delle genti. Ma se, estintosi il loro regno –
qualunque sia stato –, si mescolano a noi con nozze, tutte le volte che vantano il nome o gli
statuti della loro gente non fanno che riaprire la ferita di un antico dolore: infatti la forza dei
loro statuti – se mai vi fu – è venuta meno già da tempo con i loro autori. Invece alcuni si
richiamano ancora a quelle – come le definisco- no – ‘leggi’ (leges). Sulla base di tale esempio
anche altri, i cui antenati si sono qui trasferiti per un qualche caso, chiamano leggi le proprie
frivolezze, così che vi sono quasi tante leggi quante sono le case. Ma coloro che ora hanno
l’impero, permettono che avvengano cose di tal genere: non vedono quali conseguenze
derivino da tal nome. Chi infatti è investito del nome di impero, deve portarlo pure con
l’autorità (auctoritas) che gli compete, con la quale devono essere protetti i diritti che ne
derivano. O l’una o l’altra alternativa è valida: o uno è il diritto, perché l’impero è uno, o,
se molti e diversi sono i diritti, molti sono i regni. I nostri prìncipi non condividerebbero il
regno con coloro di cui utilizzano le leggi, se questi ultimi fossero vivi: dunque non tollerino
che essi continuino a comandare una volta morti. Si curino almeno di imitare coloro dei quali
vogliono essere successori».

Fonte: Il Secolo XII: la Renovatio dell'Europa cristiana. Fatti, documenti, interpretazioni,


dossier a cura di Andrea Piazza (on line:
http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/Piazza.htm)

30
II. I diritti regi secondo la dieta di Roncaglia (1158)

«Sono diritti regi le arimannie [censo reale e personale dovuto al sovrano in segno di
sudditanza], le vie pubbliche, i fiumi navigabili e le loro derivazioni navigabili, i porti, i
pedaggi sugli attracchi e quelli normalmente chiamati telonei [dazi in natura o moneta che
colpiscono le merci di consumo in entrata o in transito], la monetazione, gli utili derivanti dal
pagamento di multe e pene pecuniarie, i patrimoni rimasti senza legittimo proprietario e
quelli che per legge sono sottratti ai rei di colpe infamanti, se non sono specificamente
concessi ad altre persone, i patrimoni di coloro che contraggono nozze incestuose, dei
condannati e dei proscritti, secondo quanto è stabilito dalle nuove leggi, le angarie e le
perangarie [prestazioni straordinarie], i servizi di trasporto con carri e navi, i contributi
straordinari per la buona riuscita delle campagne militari regie, la potestà di nominare
magistrati per l’amministrazione della giustizia, il controllo delle miniere d’argento e il
dominio dei palazzi regi nelle città in cui il sovrano è solito recarsi, i redditi derivanti dalla
pesca e dalle saline, i beni dei rei del delitto di lesa maestà, la metà del tesoro rinvenuto in
territorio demaniale o in luoghi sacri. Là dove si danno, tutti questi diritti siano di pertinenza
regia».

Fonte: Il Secolo XII: la Renovatio dell'Europa cristiana. Fatti, documenti, interpretazioni,


dossier a cura di Andrea Piazza (on line:
http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/Piazza.htm)

TEORIE DELLA SOVRANITA’: permissio, iurisdictio, regimen

La pace di Costanza (25 giugno 1183)

In nome della santa individua Trinità. Federico per divina clemenza Imperatore dei Romani
Augusto e suo figlio Enrico Re dei Romani Augusto…

E però sappiano tutti i fedeli dell'Impero presenti e futuri, che noi per consueta benignità della
nostra grazia, aprendo le viscere della nostra innata pietà alla fede ed all'ossequio dei
Lombardi, i quali s'erano levati contro di noi e dell'Impero, li abbiamo ricevuti nella nostra
grazia colla Società loro ed i loro fautori; che noi clementi condoniamo loro tutte le offese e
le colpe colle quali avevano provocata la nostra indignazione, e che, avuto riguardo ai
servigi di leale affetto che noi speriamo da loro, giudichiamo di annoverarli tra i nostri diletti e
fedeli sudditi.

Per tanto abbiamo comandato di sottoscrivere e di confermare col sigillo della nostra autorità
la pace che nella presente pagina abbiamo loro benignamente accordata. Tale ne è il tenore e
la serie.

Noi Federico imperatore dei Romani ed il nostro figlio Enrico re dei Romani concediamo a
voi città, terre e persone della Lega le regalìe e le consuetudini vostre tanto in città che
fuori… Che nella città abbiate ogni cosa come avete avuto sin qui ed avete, fuori poi
esercitiate senza nostra contraddizione tutte le consuetudini come avete sino ad oggi
31
esercitate. Ciò sul fodro, sui boschi, sui pascoli, sui ponti, sulle acque e molini come usaste ab
antico o fate ora nel formare esercito, nelle fortificazioni delle città, nella giurisdizione, così
nelle cause criminali come pecuniarie entro e fuori, ed in tutte l'altre cose che
appartengono agli utili delle città…

In quella città dove il vescovo ha giurisdizione di conte per privilegio imperiale o reale, se i
consoli sogliono ricevere l'investitura della loro carica dal vescovo, continuino quell'uso. In
caso diverso ciascuna città riceverà da noi il consolato, ed ogni volta che in alcuna città siano
costituiti i consoli riceveranno l'investitura dal nostro nunzio che sarà nella città o nella
diocesi. Ciò vale per un quinquennio, finito il quale ciascuna città mandi un nunzio a ricevere
l'investitura da noi, e così di seguito in modo che ogni quinquennio ricevano l'investitura da
noi o dal nostro nunzio, se non fossimo noi in Lombardia, perché allora da noi la devono
ricevere. Quest'ordine sia osservato col nostro successore, e tutte le investiture devono farsi
gratuitamente… Dopo che fossimo morti od avessimo ceduto il regno a nostro figlio, da lui o
dal suo successore riceverete le investiture.

Si faccia appello a noi nelle cause che sorpassano la somma di venticinque lire… pure nessuno
deve essere costretto ad andare in Germania, ma noi avremo un nostro nunzio nella città o
diocesi che conosca degli appelli e giuri che in buona fede esaminerà e definirà le cause
secondo i costumi e le leggi di quella città, ed entro due mesi dalla contestazione della lite,
cioè dal tempo che ricevette la causa, se non rimanga per giusto impedimento o per consenso
delle parti… Non faremo dimora non necessaria nelle città e nelle diocesi a danno di nessuna
città.

Sia lecito alle città di fortificarsi e fare fortilizii anche fuori.

E potranno conservare la Lega che ora hanno, e revocarla quando loro piaccia…

Quei possessi che qualsiasi della Lega teneva legittimamente prima del tempo della guerra, e
che furono violentemente rapiti da quelli che non sono della Lega, siano restituiti senza
compenso di frutti e danni, e se vennero ricuperati non ne sia inquietato il possessore, ad
eccezione che gli arbitri eletti al riconoscimento delle regalìe non li assegnino a noi…

Tutti quelli della Lega che ci giureranno fedeltà aggiungeranno fedelmente nel giuramento,
che ci aiuteranno a mantenere i possedimenti e diritti che abbiamo e teniamo in Lombardia
fuori della Lega, ed a ricuperarli se li avessimo perduti, e ciò se sarà necessario, e saranno
richiesti da noi per mezzo di un nostro messo sicuro. Con tale ordine, però, che le città più
vicine al luogo dove occorre l'aiuto sieno le prime obbligate a prestarlo, le altre all'uopo
mandino competente soccorso. Le città della Lega fuori di Lombardia abbiano il medesimo
obbligo nei loro confini.

Se qualche città non osserverà quelle cose che nella convenzione di pace furono
convenute a nostro favore, sarà costretta in buona fede all'osservanza dalle altre città,
e, ciò non ostante, la pace resterà nel suo pieno vigore.

Quando noi entreremo in Lombardia quegli che sogliono e devono ci daranno nel tempo che
sogliono e devono il consueto fodro reale, e ci riatteranno sufficientemente le vie, e ci
appresteranno sufficiente vettovaglia in buona fede e senza frode per l'andata e il ritorno.

Richiedendolo noi o direttamente o per nostri nunzii ci rinnoveranno ogni dieci anni le fedeltà
per quelle cose che non ci avessero fatte…
32
- D 1. 1. 9 l. Omnes populi: Gaio, dal primo libro delle Istituzioni
Tutti i popoli che si reggono con leggi (leges) e consuetudini (mores), in parte usano un diritto
loro proprio, in parte un diritto comune a tutti gli uomini. Infatti ciò che ciascun popolo, da se
stesso, costituì come diritto per sé è proprio di quella stessa cittadinanza (civitas) e si chiama
ius civile, quasi sia diritto proprio (ius proprium) di quella città; ciò che invece la ragione
naturale ha costituito [diritto] tra tutti gli uomini, è custodito in modo assai equo presso tutti ed
è chiamato diritto delle genti (ius gentium), quasi che tutte le genti usino quel diritto.
Gaius, Libro primo Institutionum
Omnes populi qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium
hominum iure utuntur. Nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium
civitatis est vocaturque ius civile, quasi ius proprium ipsius civitatis: quod vero naturalis ratio
inter omnes homines constituit, id apud omnes peraeque custoditur vocaturque ius gentium,
quasi quo iure omnes gentes utuntur.

- Bartolo da Sassoferrato: iurisdictio


Comm ad D 1. 1. 9 l. Omnes populi
Ad ogni popolo che abbia giurisdizione è permesso statuire uno ius proprium, che è chiamato
ius civile ; mentre quello che è custodito egualmente da ogni gente è definito ius
gentium..................
(n.3) Risolti i casi diversi, poichè questa legge tratta del diritto proprio che la città stessa si
costituisce, cioè degli statuti, tocchiamo la materia degli statuti attraverso alcune questioni
principali ed alcune accessorie.
In primo luogo chiedo chi possa fare statuti
In secondo luogo (chiedo) in che modo
In terzo luogo (chiedo) su quali materie
In quarto luogo (chiedo) chi vincola lo statuto una volta fatto
In quinto luogo (chiedo) a partire da che momento vincola
In sesto luogo (chiedo) se gli statuti ammettano interpretazione
In settimo luogo (chiedo) in che modo gli statuti siano dedotti (citati) in giudizio.
In primo luogo pertanto chiedo chi possa fare statuti e, innanzi tutto, se ogni popolo possa
fare statuti per se stesso e senza l'autorità di un superiore .
Sembra che la autorità del superiore sia richiesta secondo quanto si legge nel Codex etc...perciò
dì così: o il quesito si riferisce (lett. chiedi riguardo a) ad un popolo che non ha alcuna
giurisdizione, come sono le villae e i castra che semplicemente soggiacciono ad una città o a un
signore; o (il quesito si riferisce) ad un popolo che ha tutta la giurisdizione concessa dal
principe o prescritta .....; o il quesito si riferisce ad un popolo che ha una giurisdizione limitata,
come solo nelle cause civili o criminali lievi, come sono molti castra nella Marca.............
(n.4) Nel secondo caso, quando il popolo ha tutta la giurisdizione, può fare statuti senza
aspettare l'autorità del superiore.....

- Baldo degli Ubaldi: regimen


Comm ad D 1. 1. 9 l. Omnes populi
Tutti i popoli possono farsi degli statuti, ed ove cessa lo statuto si applica lo ius civile ... ma,
poichè le città hanno propri statuti e leggi con i quali si reggono, ciò significa che questa legge
tratta di loro. Dunque i popoli o vivono con le leggi comuni o con propri statuti, come qui
detto, o con proprie consuetudini. Mi chiedo se tutti i popoli per ogni cosa vivano (si regolino)
con il diritto comune. Si risponde che non tutti; infatti in parte i popoli vivono secondo il
diritto comune, in parte secondo i propri statuti. Dove vige la sua autorità, il diritto comune è
chiamato ius civile, ma dove non vige, allora è chiamato ius commune, cioè ius communissimum,
33
cioè ius gentium; mentre lo ius proprium è detto propriissimum cioè il proprio statuto che ogni
popolo si costituisce.
(n.3) Nota perciò che i popoli possono farsi degli statuti...........
(n.4) Ora resta da vedere se per caso in tale statuto è richiesta l'autorità del superiore. Sembra di
no, poiché i popoli vivono secondo il diritto delle genti e perciò anche il regimen (il
governo, ciò che permette di reggersi) dei popoli è secondo il diritto delle genti… ma il
regimen non può esservi senza leggi e statuti, perciò, per il fatto stesso che il popolo esiste (lett.
ha un suo 'essere'), per conseguenza ha anche un regimen (un governo, un meccanismo di
funzionamento) nel suo esistere, così come ogni essere vivente si regge per suo proprio spirito
ed anima, e, se si regge bene, il superiore non può impedirglielo poiché le leggi proibitorie non
sono fatte per coloro che vivono bene, ma per gli erranti; infatti, se fanno spontaneamente (lett.
naturalmente) le cose previste dalla legge, essi sono legge per se stessi, ed al sano non serve la
medicina; se dunque gli statuti sono buoni secondo le esigenze e per la pubblica conservazione
di quel luogo, non occorre un altro direttore perchè sono confermate dalla propria giustizia
naturale.

1.
2. Il diritto delle città

3. Prologo di liber iurium (Genova, 1301)


A Genova, città eccellentissima e famosa per virtù e probità dei cittadini meritevoli di lode per le
molte e grandi vittorie conseguite nei tempi antichi e moderni, adornata degli onori e dei
successi di diversi avvenimenti passati, conviene non solo dedicare cura e attenzione a
custodire i diritti - ossia il prezzo della virtù che verrà pagato - i quali dunque lodevolmente
acquisì sia tramite la concessione di privilegi accordati da parte dei pontefici romani e degli
imperatori e degli altri re e principi della terra, sia tramite i contratti di feudi, fedeltà,
acquisizioni di uomini e acquisto di diritti e donazioni di castelli, di terre e di luoghi, di
convenzioni, di patti, di documenti di pace e di tregua che si sa essere in vigore tra la stessa
città, i cittadini e il comune della stessa e diversi re e principi, città e comuni e diverse nazioni
degli uomini del mondo, affinché tutto ciò che è annotato nei volumi dei registri si conservi
successivamente e con la massima chiarezza, ma invero anche a memoria delle generazioni
future, di modo che la posterità che verrà, guardando le vittoriose acquisizioni e anche i successi
gloriosi e lodati degli illustri predecessori e anche seguendo le orme degli stessi sia animata con
maggiore passione a conservare ed esaltare la repubblica affinché la prospera città, che si
riconosce destinata a conseguire in futuro tanto grandi onori non in forza del luogo o del nome,
trovandosi glorificata in tanto grandi vittorie, ma, per grazia di Dio, in forza della sola virtù e
solerzia dei cittadini, si rallegri per la successione di un'ottima discendenza e di una stirpe che
non degenera, e si accresca perseverando nella condizione di virtù e di onore sempre di bene in
meglio. Poiché dunque nel tempo in cui nella città di Genova i cittadini genovesi, mossi dal
consiglio del nemico del genere umano, si fecero tra loro stessi guerre atroci, cioè corrente
l'anno 1296, distrussero un certo volume o registro destinato all'uso continuo nel palazzo del
comune, con il fuoco o a causa dell'intervento di uomini perversi, senza speranza di
recuperarlo, ad opera di sapienti, temendo che l'altro unico volume o registro contenente parte
dei predetti diritti che rimase al comune venisse perso per qualche caso o danneggiato o
guastato in qualche sua parte, per il bene e l'utilità del comune in particolare fu stabilito e
approvato che oltre allo stesso volume dovessero essere scritti e copiati due registri, nei quali
tanto il contenuto dello stesso registro quanto tutti gli altri privilegi, documenti e negozi di
competenza del comune fossero scritti da mano pubblica. Per ricercare queste cose e per
portarle a compimento fu eletto dal consiglio il nobile uomo Porchetto Salvago del fu Guglielmo,
34
il quale attendendo all'esecuzione dell'opera con ogni cura e attenzione e con diligente
applicazione affidò i predetti due volumi o registri da scrivere a me Rolandino di Riccardo
notaio.

Il diritto regio: il Regno di Sicilia

I. Ruggero II re di Sicilia alle Assise di Ariano (1140)

È giusto e doveroso, o proceri, se non ascriviamo a merito ciò che riguarda la nostra persona e
le condizioni di tutto il nostro regno. Abbiamo ricevuto dalla generosità divina, per atto di
benevolenza, le cose che abbiamo conseguito; per non essere del tutto irriconoscenti verso
tanta benevolenza ricambiamo con la devozione i benefici divini grazie ai quali esiste il nostro
potere. Se dunque per Sua misericordia verso di noi il buon Dio, debellati i nemici, ha ridato la
pace ed ha ristabilito l’integrità del regno, con gratissima tranquillità, tanto nelle cose
materiali che nelle spirituali, noi ci sentiamo obbligati a ristabilire il corso ad un tempo della
giustizia e dell’equità (iustitie simul et pietatis itinera) quando lo vediamo
sorprendentemente deviato. Infatti accogliamo, come ispirazione, dalla generosità dello stesso
Benefattore proprio ciò che Egli dice, quando afferma: Per me reges regnant et conditores
legum decernunt iustitiam. Riteniamo infatti che nulla sia più gradito a Dio che se mostriamo
semplicemente questo, il sapere cioè che Egli è misericordia e giustizia. E in questa offerta il
compito di regnare rivendica a sé un certo privilegio sacerdo tale. Perciò chiunque sia
sapiente ed esperto di legge definisce gli interpreti del diritto sacerdoti del diritto. Così, a
giusto titolo, noi che otteniamo per Sua grazia l’autorità di emanare leggi le dobbiamo in parte
migliorare ed in parte riformare, e proprio noi che abbiamo ottenuto misericordia dobbiamo
applicarle sempre in modo più misericordioso ed interpretarle in modo più benigno,
soprattutto quando la loro severità comporta una certa crudeltà ...
Ordiniamo che siano osservate in via generale e da tutti le leggi testé promul gate dalla nostra
maestà, per mitigare con senso di equità (pietatis intuitu) l’eccessiva asprezza, per inasprire
con un certo equilibrio la mitezza, per chia rire i punti oscuri, senza che, per la molteplicità dei
popoli soggetti al nostro regno, si abbiano per annullati usi, consuetudini e leggi, così come
sinora si è ottenuto presso di loro, a meno che qualcosa in esse non risulti in evidentissimo
contrasto con queste nostre disposizioni.

Fonte: Il Secolo XII: la Renovatio dell'Europa cristiana. Fatti, documenti, interpretazioni,


dossier a cura di Andrea Piazza (on line:
http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/Piazza.htm)

II. Federico II e le Costituzioni di Melfi o Liber augustalis

I lavori preparatori. La testimonianza di Niccolò Rufolo.

“Ho sentito dal signor Benedetto [d’Isernia] che dispiacque molto al signor Imperatore il
sapere che fosse punito allo stesso modo chi camminasse armato [...] e chi fosse
responsabile di omicidio. E allora [l'Imperatore] interrogò lui ed altri giuristi presenti,
tra i quali v'era il giudice Mambro de Baro, per chiedere quale fosse la ratio che
presiedeva alla scelta del legislatore. Ed il predetto Mambro de Baro rispose che era
quella di prevenire azioni delittuose. Poiché la risposta non lo soddisfece ordinò che, sulla
base di questi elementi, fosse formulata una Costituzione nella quale fosse prevista una
35
punizione diversa per chi portasse l'arma, per chi la estraesse e per chi la usasse".
Fonte: O. Zecchino, Liber Constitutionum, in Enciclopedia federiciana (on line:
http://www.treccani.it/enciclopedia/liber-constitutionum_%28Federiciana%29/)

Proemio
Dopo che la divina provvidenza ebbe formato l'ordinato sistema dell'universo e distribuito la
materia nella forma delle cose per realizzare una più perfetta natura, Colui che aveva
preconosciuto ciò che doveva essere fatto, considerando quanto aveva creato e apprezzato ciò
che considerava, dispose con maturo consiglio di preporre l'uomo, ch'egli aveva formato a
propria immagine e somiglianza, a tutte le altre creature come la più degna tra quelle poste sotto
la sfera della Luna e che di poco aveva fatto inferiore agli angeli [cfr. Salmo 8]. Trattolo dal limo
della terra, lo vivificò nello spirito e, coronatolo col diadema dell'onore e della gloria, gli pose
accanto una moglie e compagna, parte dello stesso suo corpo, adornando tutti e due con la forza
d'una tanto grande capacità da renderli entrambi in principio immortali. Li pose però sotto una
legge, e poichè essi pervicacemente rifiutarono d'osservarla, li condannò alla pena meritata per
la loro trasgressione e li privò di quell'immortalità che prima aveva loro concessa. Perché,
tuttavia, non avesse a distruggere in tutto, tanto rovinosamente e tanto improvvisamente, ciò
che prima aveva formato e perché, una volta distrutta la forma dell'uomo, non ne derivasse di
conseguenza la distruzione di quella di tutte le altre creature, venendo loro a mancare il soggetto
preposto e la propria funzione, non servendo esse più all'uso dell'uomo, la divina clemenza fe-
condò col seme d'entrambi la terra di mortali e questa stessa diede loro in potestà. Essi, non
ignari della scelta paterna, ma avendo in se stessi propagato il male della disobbedienza,
concepirono vicendevoli odi e distinsero il possesso delle cose che per diritto di natura era
comune...
Così per la stessa necessità naturale, non meno che per ispirazione della provvidenza divina,
furono creati i prìncipi secolari, per cui mezzo potesse esser punita la sfrenatezza dei delitti e
che, arbitri della vita e della morte dei popoli, stabilissero, come - in certo modo - esecutori dei
decreti della provvidenza, quale stato, condizione e posizione dovesse avere ciascuno. Dalle loro
mani, affinché possano rendere buon conto dell'amministrazione loro commessa, il re dei re e
principe dei principi richiede soprattutto che essi non permettano che la sacrosanta chiesa,
madre della religione cristiana, venga macchiata dalla subdola perfidia dei detrattori della fede;
che la difendano dagli attacchi dei pubblici nemici con la potenza della spada materiale; che,
infine, per quanto possono, conservino ai popoli la pace e - una volta pacificatili - la giustizia,
che, come due sorelle, vicendevolmente si abbracciano.
Noi dunque, che solo la potenza della mano di Dio, al di là d'ogni umana speranza, ha sublimato
ai fastigi dell'impero romano e alla testa degli altri regni, volendo rendere raddoppiati al Dio
vivente i talenti affidatici, per reverenza verso Gesù Cristo - dal quale tutto quanto possediamo
abbiamo ricevuto - osservando la giustizia e stabilendo le leggi vogliamo immolare l'offerta delle
nostre labbra provvedendo in primo luogo a quella parte delle terre sottoposte al nostro
dominio, la quale al presente sembra avere il maggior bisogno del nostro intervento circa la
giustizia. Pertanto, poiché il regno di Sicilia - preziosa eredità della maestà nostra e che sempre
abbiamo trovato pronto e devoto all'ossequio della nostra serenità, nonostante la resistenza di
taluni che non facevano neppur parte dell'ovile del regno stesso né dell'impero - sia per la de-
bolezza della nostra età, sia per la nostra assenza, è stato finora lacerato dall'impeto delle passate
turbolenze, abbiamo ritenuto degno provvedere con ogni cura alla sua pace e all'osservanza
della giustizia. Perciò disponiamo che solo le presenti disposizioni emanate in nostro nome
abbiano vigore nel nostro regno di Sicilia ed ordiniamo che - cassata ogni altra legge e
consuetudine in contrasto con queste nostre costituzioni, come ormai superata - esse siano
d'ora innanzi da tutti inviolabilmente osservate. Nelle presenti disposizioni abbiamo ordinato
che fossero incluse le norme vigenti in precedenza nel regno di Sicilia e quelle da noi
promulgate, affinché non abbiano alcun vigore né alcuna autorità, in giudizio e non in; giudizio,
36
quelle che non sono comprese nel presente corpo delle nostre costituzioni.

[I, 4] CHE NESSUNO SI OCCUPI DELLE AZIONI O DELLE DECISIONI DEL RE.
Non bisogna discutere del giudizio, delle decisioni e delle disposizioni del re. Rientra infatti nella
fattispecie. del reato di lesa maestà discutere dei suoi giudizi, delle sue azioni, delle sue decisioni
e delle sue disposizioni e se chi egli ha scelto e nominato sia degno o no.

[I, 8] DELL'OSSERVANZA DELLA PACE E DELLA CONSERVAZIONE DELLA PACE GENERALE


NEL REGNO.
L'osservanza della pace, che non può essere disgiunta dalla giustizia e dalla quale la giustizia non
può essere separata, ordiniamo che sia praticata da tutte e da ognuna delle parti del nostro
regno, sicché nessuno d'ora innanzi debba vendicare con la propria autorità le offese e i danni
ricevuti o che gli dovessero esser arrecati, né esercitare presaglie e rappresaglie né muovere
guerra nel regno, ma secondo la regolare procedura giudiziaria porti la sua causa dinanzi al
maestro giustiziere e ai giustizieri delle varie regioni o davanti ai camerari delle diverse località
o ai bàili' o ai signori, secondo che ad ognuno di essi compete la cognizione della causa stessa.
Se poi accadesse che qualcuno, provocato da offesa violenta, per la tutela della sua persona e dei
suoi beni fosse costretto a difendersi, non vietiamo che egli lo faccia immediatamente, prima
cioè che trascenda ad azioni di diversa natura o non pertinenti, entro i limiti, tuttavia, della
legittima difesa; vale a dire, che si difenda con armi dello stesso tipo e della stessa efficacia di
quelle con le quali fu assalito, cosicché, se è stato attaccato con armi da taglio possa difendersi
con armi da taglio. [...]

maestro giustiziere: alto ufficiale del regno svevo che presiedeva il tribunale supremo,
esercitando altresì il controllo sui giudici inferiori (giustizieri).
camerari: pubblici ufficiali preposti al Fisco regio, e ai quali era anche demandata la risoluzione
delle controversie connesse alle finanze. Al vertice si situava il maestro camerario, presidente
del tribunale supremo delle finanze.
bàili: pubblici ufficiali con attribuzioni molto varie, a seconda dei luoghi. In età normanna, per
quanto concerne il Regno di Sicilia, stavano a capo delle città e dei territori limitrofi. Federico II
ne rafforzò i poteri, che rimasero a lungo preminenti, specie nel campo giudiziario. [La parola
ha in altri contesti anche il significato di ambasciatore]
signori: i feudatari maggiori.

[I, 9] DI COLORO CHE ABBIANO MOSSO GUERRA NEL TERRITORIO DEL REGNO E DELLA
PUNIZIONE DELLE RAPPRESAGLIE.

Il conte, il barone, il cavaliere e chiunque altro avrà mosso pubblica guerra nel regno, abbia
confiscati i suoi beni e sia punito con la morte. Chi poi avrà compiuto presaglie o rappresaglie,
sia condannato alla perdita di metà di tutti i suoi beni.

[I, 31] DELL'OSSERVANZA DELLA GIUSTIZIA.


I Quiriti, non senza aver prima 1ungamente pensato e gravemente meditato, con la Legge Regia
trasferirono il diritto di legiferare e il potere di governare al principe Romano, affinché dalla
stessa persona che dal fastigio della fortuna imperiale a lei affidata governava i popoli con la
propria autorità e dalla quale procedeva la difesa della giustizia, procedesse anche l'origine della
giustizia medesima. È pertanto evidente che, non tanto per utilità, ma per necessità, fu
provveduto a che, unendosi nella stessa persona queste due cose: la fonte del diritto e la sua
tutela, la forza non fosse separata dalla giustizia né la giustizia dalla forza. L'imperatore deve
dunque essere padre e figlio, signore e ministro della giustizia. Egli è padre e signore nel fissare
ciò che è giusto e nel curare poi l'osservanza di quanto ha ha fissato; e parimenti è figlio
37
nell'onorare la giustizia e ministro nell'amministrarla. Ammaestrati pertanto da questa
ponderata considerazione, noi, che dalla mano di Dio abbiamo ricevuto 1o scettro dell'impero e
il governo del regno di Sicilia, annunciamo le decisioni della nostra sovrana volontà a tutti i
nostri fedeli del regno predetto: e cioè che ci sta a cuore di amministrare tra loro - a tutti e ad
ognuno senza eccezione alcuna di persone - la giustizia con pronto zelo, in modo che essi
possano ovunque largamente ottenerla dai nostri ufficiali cui ne abbiamo affidata
l'amministrazione. Ordiniamo che le loro competenze siano distinte e ne preponiamo alcuni alle
cause civili, altri ai procedimenti penali.

[I, 62] PURITATEM

«Et quod secundum constitutiones nostras, et in defectu earum, secundum consuetudines


approbatas; ac demum secundum iura communia, longobarda videlicet et romana, prout
qualitas litigantium exegerit (iudices), iudicabunt». (“Si giudicherà secondo le nostre
costituzioni e, in mancanza di esse, secondo le consuetudini approvate; e infine
secondo i diritti comuni, cioè il longobardo e il romano, come esigerà la condizione dei
litiganti”).

[II, 33] IN QUALI CASI POSSA PRATICARSI IL DUELLO.


Vogliamo che per sempre tra i sudditi del regno sottoposti alla nostra giurisdizione, non abbia
luogo, eccetto che in pochi casi, la monomachia, che comunemente è detta duello, la quale non
costituisce tanto una vera e propria prova, quanto piuttosto una specie di divinazione, che non
è consona al diritto naturale, devia dal diritto comune e non risponde alle ragioni dell'equità... Da
questa umanitaria sanzione escludiamo gli omicidi che vengano accusati d'aver ucciso
qualcuno con veleno o con qualunque genere di morte a tradimento. Anche n questi casi però
non permettiamo che si cominci con la prova del duello, ma ordiniamo che si proceda dapprima
con l'esame delle prove ordinarie, se ve ne sono, e che infine, dopo che sia stata svolta dagli uffici
competenti della curia un'accurata indagine, se con essa non si potrà provare il delitto, solo
allora si passi alla prova del duello. Tutto ciò dovrà essere appurato dalla competenza di un
giudice esperimentato nella cognizione delle cause, che oculatamente e diligentemente vagli le
prove addotte in seguito all'inchiesta. Qualora egli non abbia trovato elementi di prova, come s'è
detto, dovrà concedere all'accusatore il permesso di proporre il duello, senza per questo recar
pregiudizio al suo diritto per il fatto di aver agito nell'esercizio della sua funzione di giudice. Se
tuttavia l'accusatore si offra prima di provare l'accusa per mezzo di testimoni e i suoi
argomenti di prova per loro mezzo si siano rivelati inidonei, allora, poiché la prova col duello
non ha alcun valore, il reo che non è stato convinto (e che viene quindi presunto innocente) sia
assolto... Facciamo eccezione anche per il delitto di lesa maestà, al quale... riserviamo il giudizio
per mezzo del duello. Né deve recar meraviglia se sottoponiamo al duello i rei di lesa maestà, i
rei di uccisione a tradimento e gli avvelenatori: non perché la nostra serenità ritenga giusto nei
loro confronti ciò che considera ingiusto nei confronti degli altri, ma perché (a loro castigo e ad
esempio per gli altri) intendiamo sottoporre pubblicamente gli omicidi - i quali non hanno
avuto alcun timore di tendere insidie alla vita degli uomini, che la divina potenza sola può creare
- a questa tremenda specie di prova. Coloro infatti che tramano qualcosa contro la nostra
sicurezza, che garantisce la sicurezza di tutti gli altri, poniamo al di fuori di ogni procedimento
conforme alle leggi

IL DIRITTO FEUDALE

38
I. L’ereditarietà dei comitati nel Capitolare di Quierzy di Carlo il Calvo (877)
9. Se sarà morto un conte, il cui figlio sia con noi, nostro figlio, insieme con gli altri nostri fedeli
disponga di coloro che furono tra i più familiari e più vicini al defunto, i quali insieme con i
ministeriali della stessa contea e col vescovo amministrino la contea fino quando ciò sarà
riferito a noi. Se invero [il defunto] avrà un figlio piccolo, questo stesso insieme con i
ministeriali della contea e il vescovo, nella cui diocesi si trova, amministri la medesima contea,
finché non ce ne giunga notizia. Se invece non avrà figli, nostro figlio, insieme con i rimanenti
nostri fedeli, decida chi, insieme con i ministeriali della stessa contea con il vescovo, debba
amministrare la stessa contea, finché non arriverà la nostra decisione. E a causa di ciò nessuno
si irriti se affideremo la medesima contea a un altro, che a noi piaccia, piuttosto che a colui il
quale fino ad allora la amministrò. Ugualmente, dovrà essere fatto anche dai nostri vassalli. E
vogliamo ed espressamente ordiniamo che tanto i vescovi, quanto gli abati e i conti, o anche gli
altri nostri fedeli cerchino di applicare le stesse regole nei confronti dei loro uomini.
10. Se qualcuno dei nostri fedeli, dopo la nostra morte, […] vorrà rinunciare al mondo, lasciando
un figlio o un parente capace di servire lo stato, egli sia autorizzato a trasmettergli i suoi onores
[…]. E se vorrà vivere tranquillamente sul suo allodio, nessuno osi ostacolarlo in alcun modo né
si esiga da lui null’altro che l’impegno di difendere la patria.
Fonte: http://fermi.univr.it/RM/didattica/fonti/anto_ame/cap_IX/IX_5_or.htm#A

II. Edictum de Beneficiis (=Costitutio de feudiis) di Corrado II Il Salico (1037).

Nel nome della santa ed indivisibile Trinità, Corrado II per grazia di Dio augusto imperatore dei
Romani. Vogliamo sia reso noto ai fedeli della Santa Chiesa di Dio e ai nostri sudditi, così
presenti come futuri, che noi, al fine di riconciliare gli animi dei signori e dei milites. sì che si
possano vedere sempre gli uni concordi con gli altri e servano devotamente con fedeltà e
perseveranza noi ed i loro seniores, ordiniamo e decidiamo con fermezza:
1) che nessuno, milite di vescovi, abati e abbadesse, di marchesi o conti o chiunque altro che
abbia un beneficio dai nostri beni pubblici o dalle proprietà ecclesiastiche o che lo abbia avuto,
anche se adesso lo abbia perso per ingiustizia, sia che appartenga ai nostri vassalli maggiori,
sia ai loro militi, non perda il suo beneficio senza colpa certa e dimostrata e se non secondo le
costituzioni dei nostri predecessori e il giudizio dei loro pari.
2) Se avverranno contese fra signori e militi, benché i loro pari abbiano giudicato che il milite
debba essere privato del beneficio, se egli dirà che ciò fu deciso ingiustamente e per odio, terrà
il beneficio stesso sino a che il signore e chi ha fatto l'accusa coi pari suoi si porteranno alla
nostra presenza e qui la causa sarà decisa secondo giustizia. Se tuttavia i pari dell'incolpato
verranno meno ai signori, egli manterrà il beneficio sino a quando verrà in nostra presenza col
suo signore ed i pari. Invece il signore o il milite incolpato che deciderà di venire da noi, renderà
nota la sua decisione con quello con cui ha la contesa sei settimane prima di mettersi in viaggio.
E ciò sarà rispettato dai vassalli maggiori.
3) Per i minori, invece, nel regno le cause saranno discusse di fronte al signore o al nostro
messo.
4) Comandiamo inoltre che quando un milite maggiore o minore muoia, suo figlio ne erediterà
il beneficio. Se il milite non avrà figli ma lascerà un nipote dal figlio, questi avrà parimenti il
beneficio con l'osservanza dell'uso seguito dai vassalli maggiori, per quanto attiene la consegna
dei cavalli e delle armi ai loro signori. Se egli non lascerà un nipote ma un fratello legittimo e
consanguineo, se questi avesse offeso il signore e volesse fare ammenda diventando suo milite,
avrà il beneficio che fu già di suo fratello.
5) Proibiamo inoltre che alcuno dei signori compia permute o precaria o livello dei benefici dei
suoi militi senza il loro consenso. Nessuno poi spogli ingiustamente il milite dei beni da lui
detenuti come proprietà o per ordine legale o per legittimo livello o precaria.
6) Noi anche pretendiamo il fodro riscosso dai nostri predecessori sui castelli e però non
39
esigeremo in alcun modo tributi che essi non godettero.
7) Chiunque andrà contro quest'ordine pagherà un'ammenda di cento libbre d'oro, metà alla
camera regia e metà a colui al quale avrà fatto danno.

Fonte: (traduzione Beatrice Pasciuta)

III. Oberto dall’Orto e la definizione di FEUDO (metà XII)


«Una specie di questo genere [cioè il beneficio preso come atto benevolo] è quel beneficio che
per benevolenza di qualcuno è dato in modo tale che, mentre la proprietà della cosa (res)
immobile beneficiata resta presso colui che la dà [il dominus quindi risulta nudo
proprietario], l’usufrutto della medesima cosa passa a colui che la riceve, cosicché esso
appartiene in perpetuo a lui, ai suoi eredi, maschi e femmine – se di queste è fatta menzione
espressa ... [Una seconda specie invece il vassallo risulta una sorta di proprietario di fatto,
dotato di una quasi-revindica] Della cosa di cui è investito secondo il diritto, il vassallo abbia
questa potestà: come signore (dominus) di poterla quasi rivendicare da ogni possessore».

40

Potrebbero piacerti anche