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“Oltre”
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Introduzione
Con questo nuovo libro vorrei raccontare di qualche idea e di
qualche strumento tecnico che mi son trovata a considerare utili nel
mio mestiere. E vorrei raccontare affinché se ne possa avviare una
discussione critica, affinché altri colleghi, se vogliono, ne testino
l’utilità e li correggano e li integrino in una sorta di ricerca aperta,
in cui il pensiero e la tecnica della psicoterapia moderna appartenga
a chiunque operi. È un pensare collettivo che circola, a me sembra
di averne intercettato alcuni aspetti e di questi riferisco qui. Per cui,
buon lavoro a chiunque vorrà maneggiarli assieme a me.
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che fa, di come lo fa, dello scopo verso cui si muove, dei criteri di
verifica del suo lavoro. Perché nell’incontro terapeutico la
responsabilità è inesorabilmente personale.
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Il setting
E per raccontare il mio modo di lavorare, cominciamo proprio
dall’ambiente che ho scelto. Il luogo fisico è importante, condiziona
e caratterizza gli eventi. Nel mio studio c’è uno spazio abbastanza
grande per ospitare gli incontri di gruppo, di coppia, di famiglia (e
anche gli appuntamenti con le persone dentro di noi ma di questo
parleremo più in là). Un cerchio di dieci poltroncine, tutte uguali,
una parete con un piccolo specchio unidirezionale e il microfono per
ascoltare, ambedue bene in vista affinché si dichiarino da subito
come strumenti possibili di lavoro, secondo l’ovvio principio che ciò
che non può essere detto non va neppure operato. Questo non è
tanto per me solo un principio etico quanto un confine di sicurezza:
se mi trovo ad aver qualcosa da nascondere non ho la libertà di
pensare e di lavorare che mi occorre, devo impegnare una parte di
energie per evitare di farmi scoprire, il mio passo inciampa confuso.
Uso questa stanza più grande anche come sala d’attesa. Il mio
studio ha due porte, una per entrare e una per uscire affinché sia
evitato l’incontro fra le persone e sia garantita la privatezza a
ciascuno. Fra un colloquio e l’altro cerco di avere almeno dieci
minuti per concludere dentro di me l’incontro appena finito, fare
una telefonata, prepararmi tutta nuova al prossimo. Tutti quelli che
hanno studiato l’effetto campo sanno bene a cosa mi riferisco.
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Del lettino, poi, non farei un tema troppo sacrale: ha dei vantaggi
perché svincola dal galateo cortese cui obbliga il guardarsi
direttamente (come si fa a restare in silenzio molto a lungo se io
sono lì in attesa, tutta pronta a raccogliere le perle del suo dire?),
permette una forte alterazione del tempo e un aggirarsi fra i propri
pensieri più agile e spregiudicato. Talvolta mi si chiede di
sospenderlo per quel giorno o, viceversa, di poterlo usare per
inseguire più liberamente una catena di pensieri: decidiamo
assieme, è uno strumento a disposizione.
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Il setting relazionale
Per poterlo seguire, occorre che mi senta a mio agio, libera di osare
e di astenermi, senza impacci fisici ma anche sciolta dalle
preoccupazioni di ciò che gli accade, di ciò che farà, di ciò che vorrà
rischiare o trattenersi dallo sperimentare. Posso lavorare bene
solamente se resto totalmente responsabile di ciò che faccio,
penso, provo, dico o taccio tanto quanto resta all’altro la piena
responsabilità di ciò che fa, pensa, prova, dice o tace. Assieme, ci
occupiamo del suo mondo, assieme ci prendiamo cura della sua
fatica e della sua pena, assieme cerchiamo risorse inesplorate e
possibilità innovative, assieme restiamo sotto scacco e sopportiamo
l’impotenza dello star dentro tollerando assieme di non vedere
uscita. Non intendo curare, probabilmente non saprei farlo,
prendermi cura sì. Con il suo permesso. Assieme all’altro.
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Tengo molto, e lo dico fin da subito alle persone con cui mi trovo a
lavorare, al mio segreto professionale: avverto che non parlerò
neanche della loro esistenza con me, tanto meno dei loro fatti
privati, con chiunque: genitori, medici invianti, mogli e mariti, amici
preoccupati. Anzi, per essere più chiara, non ne parlerò se non alla
loro presenza. Chiunque lavora con me può propormi di incontrare
qualcuno del suo mondo: valuteremo assieme l’opportunità della
sua richiesta, ne sonderemo il significato e le conseguenze, quel
che ci attendiamo da questo incontro. Se dovessimo decidere, e
talvolta accade, di invitare qualcuno a incontrarci, io resto
comunque vincolata al segreto per quanto ci siamo detti prima
dell’incontro. L’altro, ovviamente, è libero di dire ciò che vuole. Ci si
ragiona assieme, testiamo le convenienze, quasi sempre preferiamo
l’ipotesi del riserbo.
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Il pagamento
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tipo: non è l'altro a dover essere discreto, sono io che debbo saper
come rispondere nel contesto del mio studio.
Solo dopo che ci siamo rivisti perché abbiamo deciso che ci andava
bene, possiamo valutare assieme quanto deve essere il pagamento
giusto del mio tempo e del mio lavoro. Anche in questo caso,
l'onere di aprire il tema è mio, dichiaro la cifra che abitualmente
prendo per ciascun incontro e chiedo quale gli sembri adeguata.
Adeguata non per me, questo è un mio ambito, ma adeguata nel
senso che sia sufficiente a che possa entrare a testa alta e sentire
pienamente suo il tempo, il luogo, il lavoro ma senza che questo
debba comportare uno sbilanciamento troppo forte del suo vivere
quotidiano. Il discorso che ne facciamo, (talvolta in più tempi), il
modo come trattiamo l'argomento annoda e definisce il tipo di
relazione, scandisce il peso che il nostro lavoro andrà ad assumere.
Rilascio sempre fattura, se non serve che la gettino pure via, cosa
farne è ambito loro, farla è ambito mio.
La durata
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Questione di cornici
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Nel tempo d’oggi, penso che, proprio come accadde agli inizi del
secolo scorso, assistiamo a una dissoluzione radicale, non
drammatica ma seria sì, delle forme del pensare e del fare che ci
hanno accompagnato fedeli fino a pochi anni fa. Non solo perché,
come si dice, ogni generazione è una generazione di transizione e
la nostra con tutte, ma perché stanno verificandosi degli eventi su
scala mondiale che necessariamente pretendono attenzione: lo
spostamento di milioni di persone in cammino verso una speranza
di vita, la tecnologia del virtuale, la costituzione degli stati uniti
d’Europa, l’imponenza della comunicazione nella vita di ciascuno, la
globalizzazione politica ed economica, le prospettive di intervento
sulla fecondazione artificiale, il cibo, l’ambiente ne sono solo alcuni
esempi. Per non parlare della guerra che ha fatto nuovamente
irruzione impudente nei nostri giorni.
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Perché che cosa mai vuol dire, che cosa mai significa “essere se
stessi”? In un seminario di tanti anni fa sulla comunicazione, uno
psichiatra partecipante tentava di negare il successo palese di un
esercizio di induzione di comportamento avvenuto il giorno prima:
sì, certo, era vero, si era mosso effettivamente in quel tal modo ma
era confuso, forse era anche distratto, insomma ieri non era se
stesso. Il docente lo considera con attenzione, siamo tutti sospesi
in silenzio, poi si china verso di lui e, incuriosito, gli sillaba sul
volto: e quando tu non sei te stesso, chi sei? È una di quelle scene
che, come credo facciamo tutti, conservo come icona, nel
reliquiario dove ammasso i reperti che il mondo e l’esistenza mi
offrono e mi permettono di utilizzare. A fianco di questa, un
foglietto: Snoopy che sentenzia: nessuno è perfetto, ma chi vuol
essere nessuno?
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Ecco, a me questa idea non appaga, non mi sta tanto bene questa
visione di noi peccatori (o nevrotici, che differenza c’è?), sempre
tesi a redimerci dalla frammentazione, come dei cani da pastore
impegnati a far sì che le mille pecore si trasformino in un gregge
ordinato. Teniamola pure, questa idea che ha intriso
profondamente le nostre culture ma gliene possiamo affiancare
un’altra?
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Concetto suggestivo, quello del frattale, non solo per la sua ormai
leggendaria bellezza ed eleganza ma anche perché evade
dall'universo dei modelli ideali (il punto, la retta, il triangolo ma
anche il benessere psico-fisico, l’armonia, l’equilibrio) per cogliere
l'andamento del movimento vivo dell'esistente. Le montagne non
sono coni, il caos non è disordine che squassa l'ordine ma flusso di
vita impetuoso che, come un fiume, ha correnti e gorghi
riconoscibili ma non prevedibili compiutamente. Un cielo a pecorelle
ha un nome per tutti noi, lo riconosciamo ma non esiste una nube a
pecorella se non nell'intero cielo, nessuna nube è uguale all'altra
eppure tutte sono grandemente simili, avvengono insieme nello
stesso cielo. E, poi, soprattutto, le pecorelle vere brucano un po'
più in giù.
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Cattedrali
E' stato a quel punto che il cieco si è schiarito la gola, poi ha detto:
"Ho capito, fratello. Non è un problema. Mi è venuta un'idea.
Perché non ti procuri un pezzo di carta pesante? E una penna.
Proviamo a fare una cosa. Ne disegniamo una insieme. Coraggio,
fratello, trovali e portali qua" ha detto.
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sono seduto per terra vicino alle gambe del cieco. Ho spostato un
po' di roba, ho allisciato la busta e l'ho stesa sul tavolino.
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Emozionata, scosto una sedia, faccio per sedermi, esito, lui intanto
si sta togliendo l’impermeabile, va all’attaccapanni, poi prende
amorosamente fra le braccia il violoncello, mi mostra la protezione
per il puntale: non volevo sciuparle il tappeto, mi dice, lo sistema
per bene, si siede anche lui e mi guarda, sereno: le ho scelto dei
brani, vorrei dirle perché. E poi comincia e nel mio studio si
allargano delle note, un brano segue l’altro e sono note dedicate, è
una musica scelta per essere eseguita lì, per me. Con una strana
naturalezza, parliamo a bassa voce, dopo l’esecuzione di un pezzo
riprendiamo dei pensieri su suo padre, un altro vuol significare il
tempo del suo pensiero, quello dopo narra il dolore e la difficoltà di
dirlo. Lentamente, mai come oggi ogni minuto è dotato di
significato, il tempo raggiunge i quarantacinque minuti, ma guarda,
il concerto è finito giusto ora. Lui si alza, abbraccia nuovamente il
violoncello, mentre infila l’impermeabile sorride: sa che ho preso un
posto anche per lui accanto a me sull’aereo? Non potevo metterlo
fra i bagagli, esposto a sbalzi troppo forti di temperatura. Così
mangio due pasti, quelli vegetariani sono sempre miserelli!
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Dopo aver fatto uso per molto tempo del pensiero lineare (quello in
cui vige la regola della causa che provoca l’effetto), ha cominciato a
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molteplici anime, o non piuttosto da quelle del mio papà e della mia
mamma, e talvolta nemmeno se esse siano state un tempo reali o
non escano invece dalle bocche virtuali di personaggi di romanzo”.
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Ideologie a confronto
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Ecco che, allora, non è più tanto utile l’idea di un sapere che va
accumulandosi, di una biblioteca sempre più complessa e
voluminosa da portare con sé. Anche perché, banalmente, è forse
proprio questo peso che rende faticoso il passo, è proprio questo
grande ammasso di cose che sappiamo a vincolare il movimento
successivo, a imporci l’esigenza tanto indiscutibile quanto insana di
procedere in linea retta, coerenti con quello che già è stato, che
sappiamo essere avvenuto, da cui non possiamo prescindere. È
stato detto, e mi sembra realmente molto significativo, che il fatto
che una cosa sia vera non la rende di per sé importante: sono
miliardi le cose vere, infinito il loro elenco. E se veramente
volessimo comporle in elenchi ragionati, verificheremmo l’assoluta
incompatibilità di mille elementi, veri, senz’altro, ma che non
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Il moto è permanente
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Cercando la convenienza
Quello che sto cercando di dire è che in sé non esiste una gerarchia
stabile su cui collocare le nostre diverse persone, che in ogni
istante c’è una nostra persona che può risultare più adeguata di
altre, che sono competenze e risorse nostre. E che, dunque, più ce
ne sono, maggiormente si amplia il ventaglio delle opzioni, più ricco
e articolato si fa il formarsi dei pensieri, più largo il quadro delle
emozioni, più interessante lo scambio. Fra le stesse nostre persone,
con gli altri, con i nostri habitat, con l’incognito e nella
frequentazione del noto. L’importante è non lasciar cadere la palla,
arrestarsi stabilmente in una posizione, in un nodo, come
immaginare una rete ferma, definita, ordinata, non è pensabile, nei
termini più letterali: arrestare il movimento significa arrestare il
pensiero, lo stesso pensare viene sospeso, in una bolla fuori dal
tempo. Senza movimento, in un tempo che non scorre, l’attività del
pensare è impraticabile, l’angosciosa permanenza dell’attimo
immobile. Questa è la patologia, il tentativo disperato di fermare il
percorrere, irrigidire la rete, imprigionare la mobilità del pensiero.
Con l’intensa sofferenza di un movimento che, incarcerato, grida il
terrore di sentirsi condannato a morire, senza uscita in una morsa
che lo soffoca. Il pensiero bloccato cozza in un infinito reiterarsi,
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Vittorio Foa dice che la libertà è non sapere che cosa succederà
domani, Massimo Cacciari che la libertà non esiste ma per un
comportamento etico è bene fare come se esistesse, una scelta
voluta non è sempre una scelta libera, parole in libertà, libertà dai
vincoli, libertà di fare… ecco, basta una parola perché si affollino
tante persone, ognuna con il suo proprio convincimento, pensato,
testato, indiscutibile. È allora che si pone il problema: e come opero
la scelta? Quali sono i criteri? Quali persone ascolto, quali convoco,
per quanto tempo, a quali chiedo di attendere in stand by?
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Un maghrebino al semaforo
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Vincoli
In questo trasmigrare del navigatore, in questo discorrere dei nodi
che mi piace immaginare per descrivere il nostro pensare, esistono
dei vincoli. Penso, appunto, che i vincoli fondino la libertà della
persona umana, ne rendano possibile l’esercizio. Il vincolo, il limite,
le regole del gioco rappresentano per me l’elemento di maggior
fascino, la struttura aerea su cui inerpicarsi, poggiare il piede,
scegliere la direzione. Io i vincoli li amo, fra suggerimenti,
provocazioni, possibilità e sfida, li immagino come compagni severi
ma anche un po’ ridanciani, complici attenti che seguono
l’andamento del passo, presenze competenti su cui far conto.
Anche per superarli con qualche forzatura inventando con loro un
assetto inedito che marchi un tempo ancora tutto da vivere.
Comincio a identificarne qualcuno, ovviamente sarà solo un
assaggio di questo mondo complesso che, se conosciuto e
rispettato, ne facilita la frequentazione. Così che la complessità non
divenga complicazione. Cerco di spiegarmi affinché questa
distinzione non risulti solo un gioco di parole.
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Bipolarismo
Uno dei vincoli più evidenti, più cogenti, è proprio quello del
bipolarismo, della struttura binaria. Quella che, asserendo che il
mondo non è tutto bianco o tutto nero, privilegia, nel suo stesso
negarlo, la predominanza ovvia del bianco e del nero. Superiori a
qualunque altro colore proprio per la loro assolutezza, per il loro
comprenderli o escluderli tutti, i colori. A noi piacciono i colori, ne
amiamo qualcuno, ci teniamo distanti da altri ma nessun colore ha
il rango del bianco e del nero, nessuno ha questa definitività
appagante, risolutoria. Entriamo fra i contrafforti del bianco e del
nero, dispieghiamo l’iride intera e poi, dopo un percorso che
richiede il suo tempo, scegliamo, fissiamo un colore, una nuance,
un tono su tutti gli altri. E il bipolarismo si ripropone,
contrapponendo, ora, la tinta scelta a tutte le altre. Del bianco e del
nero non ci occupiamo più.
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sentimento di nessun tipo e l'altro non c'è. Però una volta che
questi operatori hanno detto: “Prendiamo la vecchietta e
mettiamola dentro questo quadro”, loro hanno cominciato a
vederla, no?
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Gianfranco: non può che esserci anche la pace, ed è quello che gli
operatori, diciamo, gli intervistatori, o i diplomatici ecc., vanno a
cercare in ogni struttura...
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Gianfranco: sì, guarda dei bambini neonati; però lei sceglie solo
bambini di meno di 8 mesi, e li tiene non più di 3 anni, fino a 3
anni: le piacciono i bambini così.
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Il corpo e la mente
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Annabella e lo stornello
Ci sono dei libri di cui non si può fare a meno, da una generazione
all’altra.
“Brava bambina!” disse la luce del sole “i tuoi occhietti sono celesti,
vedo il mio colore preferito. Ecco! Non si potrebbe trovare da
nessuna parte un paio d’occhi più luminosi!”
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“Io sono terra e aria e fuoco e acqua” disse dolcemente “vengo dal
Buio dove tutte le cose hanno il loro principio. (…) Vengo dal mare
e dai suoi flutti (…) vengo dal sole e dalla sua luce”.
(…)
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“Oh, non essere così sciocco!” gridò Annabella “il solo viaggio che io
abbia mai fatto è stato fino al Parco, stamattina. No, no, era
qualcosa d’importante. Qualcosa che cominciava per B. (…) Ho
trovato!” ella gridò “è biscotto. C’è un mezzo biscotto all’avena sul
caminetto. (…)”
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Dice Lia: “Pim, non ci sono gli archetipi, c’è il corpo. Dentro la
pancia è bello, perché ci cresce il bambino, si infila il tuo uccellino
tutto allegro e scende il cibo buono saporito, e per questo sono belli
e importanti la caverna, l’anfratto, il cunicolo, il sotterraneo, e
persino il labirinto che è fatto come le nostre buone e sante trippe,
e quando qualcuno deve inventare qualcosa di importante lo fa
venire di lì, perché sei venuto di lì anche tu il giorno che sei nato, e
la fertilità è sempre in un buco, dove prima qualcosa marcisce, e
poi ecco là, un cinesino, un dattero, un baobab. Ma alto è meglio
che basso perché se stai a testa in giù ti viene il sangue alla testa,
perché i piedi puzzano e i capelli meno, perché è meglio salire su
un albero a coglier frutti che finire sottoterra a ingrassare i vermi,
perché raramente ti fai male toccando in alto (devi essere proprio
in solaio) e di solito ti fai male cascando verso il basso, ed ecco
perché l’alto è angelico e il basso diabolico. Ma siccome è anche
vero quel che ho detto prima sulla mia pancina, sono vere tutte e
due le cose, è bello il basso e il dentro, in un senso, nell’altro è
bello l’alto e il fuori, e non c’entra lo spirito di Mercurio e la
contraddizione universale. Il fuoco tiene caldo e il freddo ti fa
venire la broncopolmonite, specie se sei un sapiente di quattromila
anni fa, e dunque il fuoco ha misteriose virtù, anche perché ti cuoce
il pollo. Ma il freddo conserva lo stesso pollo e il fuoco se lo tocchi ti
fa venire una vescica grossa così, quindi se pensi a una cosa che si
conserva da millenni, come la sapienza, devi pensarla su un monte,
in alto (e abbiam visto che è bene), ma in una caverna (che è
altrettanto bene) e al freddo eterno delle nevi tibetane (che è
benissimo). E se poi vuoi sapere perché la sapienza viene
dall’oriente e non dalle Alpi svizzere, è perché il corpo dei tuoi
antenati alla mattina, quando si svegliava che era ancora buio,
guardava a est sperando che sorgesse il sole e non piovesse
governo ladro.”
“Sì, mamma.”
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Sì, mamma.”
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tronco, con braccia, gambe, testa e pene sono sei, ma per la donna
sette, per questo mi pare che tra i tuoi autori il sei non sia mai
stato preso sul serio se non come doppio di tre, perché funziona
solo per i maschi, i quali non hanno nessun sette, e quando
comandano loro preferiscono vederlo come numero sacro,
dimenticando che anche le mie tette spuntano in fuori, ma
pazienza….
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Perché poi in fondo tutto sta lì, svincolare il passo da una realtà
stabilita e costringente, così nota da non permettere nessun rifiato,
trappola triste di cui conosciamo talmente bene tutto da non
poterne trovare l’uscita. Diceva il muezzin, all’alba di una giornata
tutta nuova: fratelli, sapete di che vi parlerò oggi? No, rispondono i
fedeli, dopo un rapido sguardo l’un l’altro di interrogazione. Bene,
se non lo sapete… e il muezzin si ritira all’interno del minareto. I
fedeli, perplessi e infastiditi, attendono il momento della prossima
preghiera. Si affaccia il muezzin, chiede: fratelli, sapete di che cosa
vi parlerò oggi? Sì, rispondono con fervore tutti i fedeli. Bene, se lo
sapete… e il muezzin rientra rapidamente. Il popolo dei fedeli
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Flash
“La Locandiera“
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Sì, ero alla stazione di Trento, stavo per prendere il treno per
tornarmene a Milano. Avevo concluso un ciclo di seminari, sedevo
impigrita sulla panchina, in attesa del treno. Che tardava. C’era
gente, movimento di borse poggiate e poi spostate, di cellulari
impazienti, ragazzi che ridevano, gli sci tenuti con noncuranza
spavalda. Alzo gli occhi dal libro, mi scosto per far posto a un
giovanottone che parla tedesco con voce assertiva, mentre torno
alle pagine colgo un quadretto carino: una giovane mamma, la
coda di cavallo, lo zaino sulle spalle, un bambinello ricciuto in
braccio di qualche mese, una borsona con rotelle ai piedi. Vicino,
sua madre, gli stessi occhi, gli zigomi alti, la pelle abbronzata da
montanara, tiene in braccio un’altra bambinetta, di forse due anni.
Chiacchierano, scherzano, trattengono i bambini che si vogliono
buttare giù dalle braccia o che hanno assolutamente bisogno di
bere, ora, proprio ora, alla fontanella. Le guardo un po’, mi
distraggo ancora sul mio racconto. L’altoparlante avverte “ulteriore
ritardo” del treno, brusio sulla banchina poi ci si adatta, tanto…ma
non tutti. No, la madre della ragazza entra improvvisamente in
agitazione, restituisce vivamente la piccola alle braccia della figlia
che già tiene l’altro bambino, affrettatamente “Sai, devo
raggiungere tuo padre, è là sulla piazza della stazione che aspetta
in macchina, ciao, cara, fa’ buon viaggio” e, lesta, scende le scale,
sparisce, riemerge al di là dei binari, la vediamo spingere le porte a
vetri, uscire del tutto. La figlia resta un po’ perplessa, ma poi
neanche tanto. Avvicina con i piedi la borsona a una panchina, ci
poggia sopra in piedi la bimba mentre cerca di quietare il più
piccolo che comincia a innervosirsi. Finalmente arriva il treno,
raccolgo per lei la mano della bambina e un manico della borsona,
saliamo e poi ognuna va a sistemarsi al suo posto. Fine della
scenetta. E non è stato un gran dramma. Però, in treno il pensiero
comincia a raccogliere qui e là ricordi, mini riflessioni, immagini.
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Ma quello su cui riflettevo della scenetta alla stazione non era tanto
questo aspetto quanto l’inevitabilità della scelta. Quella madre,
quella nonna, comunque ha dovuto scegliere. Non perché doveva
aprire il suo negozio, perché la sua classe o il suo ufficio o i suoi
clienti la aspettassero, perché chiudeva l’anagrafe o il banchetto del
mercato. Mai per sé. La scelta era fra due amori, fra due doveri
d’amore, la figlia e il marito. Mi posso immaginare facilmente la
trattativa per accompagnare figlia e nipotini alla stazione “ti aspetto
qui” dice il marito (perché non parcheggia e non aiuta anche lui?
Una donna l’avrebbe fatto) e già questa frase, ti aspetto, è una
clessidra che comincia a scorrere. Probabilmente, molto
probabilmente, senza che neanche lui l’abbia voluto ma è
un’abitudine che si è venuta strutturando, nel tempo, chissà come.
Fatto sta che la signora ha un buono per un tempo dato, con un
margine d’errore, certo, e dentro quel tempo è tranquilla, si gode la
figlia, è in regola. Ma il treno ritarda una volta di troppo (rispetto a
che?) e lei deve, deve fare come se avesse già concluso il suo
compito affettuoso. Infatti, scende le scale tranquilla, in pace, non
corre né si agita né si gira a salutare. Lei, la figlia l’ha
accompagnata e ora torna dal marito. Quante volte, in famiglia,
accade di trovarsi in questa trappola? La scelta fra marito e figli ma
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Certo, c’è anche la cura del corpo, diete, ginnastica, body building,
stretching eccetera ma anche qui è forse più accentuata
l’attenzione a modellare dall’esterno il proprio corpo forzandolo a
un modello desiderato piuttosto che ad abitarlo dall’interno e
sentircisi dentro, padroni e protagonisti. Soccorre, spesso, il
rivolgersi a dottrine e discipline di carattere mistico o religioso.
Yoga, massaggi shiatsu, meditazioni, arti marziali, una ricerca
dell’Oriente che non mi sembra più quell’avidità iniziale di conquista
e di conoscenza che comunque veicolava un messaggio vitale. Ora,
forse mi fa velo l’età, ma sa più di rifugio, di protezione, di riparo,
assieme ad altri, aggiungendo il proprio corpo al corpus della
disciplina. Evitando, con il prevalere del bianco, pensieri e
comportamenti rossi o altrimenti colorati, emozioni dissonanti,
crude, aspre, in qualunque modo forti che vengono come
dissociate, dimenticate al di là del lucente plexiglas dell’armonia. Sì
che non stupisce l’insorgere di quelle che i giornali chiamano
improvvisi raptus di violenza. Uno skin head era un buddista
fervente, un animalista militante venne un giorno a raccontarmi
scandalizzato di aver raccolto un piccione ferito, di averlo curato
ma se prendeva chi lo aveva ferito lo avrebbe ammazzato. Ma la
misura delle proprie emozioni, dell’articolazione e dell’interazione
fra diversi pensieri, della scelta conflittuale è profondamente
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Penso che sì, penso che ancora siano questi i nostri riferimenti,
sento le donne con cui lavoro (donne grandi e belle, studiose,
docenti, imprenditrici) asserire con certezza che il pensiero è
maschile, qualcuna mi ha detto che sente maschile anche l’utero.
Penso che facciamo fatica a immaginarci responsabili in proprio di
ciò che pensiamo e vogliamo, penso che non sentiamo il diritto di
intrecciare liberamente riferimenti culturali prelevati da ambiti
differenti, penso che abbiamo timore di uscire da categorie che
sentiamo consunte ma che, pure, in altri tempi, hanno garantito
sicurezza e stabilità. Penso che ci protendiamo a sfiorare il bordo
dell’oggi agganciati a forme di pensiero di cinquant’anni fa, incapaci
di scioglierci, forse nel timore di perdere il senno. Abitiamo il nostro
tempo come turisti, cercandovi con ansia i riferimenti di ciò che
conosciamo già, incapaci di esplorarlo con generosa e spregiudicata
curiosità: rattrappiti fra l’ansia e la nostalgia, aspettiamo di
ritornare nel conforto di una casa che non c’è più. Ma che
continuiamo a raccontarci, coprendo il mondo reale con la
diapositiva della nostra infanzia custodita e sicura. Donne e uomini,
stretti nel ribadirci l’un l’altro la certezza che abbiamo ragione,
infelicemente raccolti in una stasi che scambiamo per fermezza nel
tentativo disperato di evitare l’infelicità.
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Curare la vita con la vita
Comprare un bambino?
Beh, per noi del ricco primo mondo queste sono frasi che
sconcertano e scandalizzano: andiamo, un bambino, un essere
umano, non ha prezzo, non deve averlo, non può averlo. E chi fa di
queste cose è persona inqualificabile, anzi, signora mia, proprio non
riesco a comprendere come una madre possa vendere suo figlio!
Posso capire il desiderio generoso di dare una famiglia, di donare
un po’ di gioia a un piccolo sfortunato ma vendere un figlio, come
mai si può farlo?
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Curare la vita con la vita
sospiro in due ore non si sa bene che madre poi sarà, meglio, molto
meglio quella che si è squartata in lunghissime ore se non giorni di
travaglio. E vuoi mettere l’amore che sapranno dare a un bambino
due che sono passati attraverso una trafila estenuante, senza
cedere, senza titubare mai? Basta guardare quante ragazze un
figlio ce l’hanno avuto e lo danno via, questa gioventù d’oggi.
Talvolta accade perfino che il desiderio di chi vuole adottare un
bambino venga rinfacciato come una accusa infamante. C’era una
coppia giovane, sana, ben amalgamata, con un buon lavoro sia lui
che lei, l’assistente sociale chiede: dunque perché mai cercate
un’adozione? E alla risposta, per completare una vita già più che
soddisfacente, c’è un inalberarsi stizzoso che si riflette in una
relazione tecnica negativa, figuriamoci se un bambino deve servire
a completare la vita di questi due, un bambino è ben altro.
Qualunque desiderio può essere capovolto in un bisogno,
qualunque bisogno può indurre compassione solidale o rifiuto
moralistico. La coppia che si sottopone alla cosiddetta fecondazione
assistita ha diritto alla compassione solidale ma è bene che soffra
un po’, che non abbia successo subito, vorrà più bene e meglio al
figlio che finalmente arriverà. Pagato, in denaro, ansia, sofferenza,
delusioni, sconforto, tenacia. Pagato come equivalente di meritato.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Elogio dell’apparenza
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Figli e figliastri
Dal cucciolo quando è in culla via via nel corso degli anni tutti
quanti, genitori, parenti, educatori, riviste e specialisti, siamo lì ad
ammonire: attenzione, il bambino deve poter crescere sereno,
attenzione, il mondo attorno a lui deve mostrarsi un luogo sicuro,
attenzione, non litigate davanti a lui, non tenetegli il broncio la sera
che non vada a letto turbato, l’acqua del bagno sia giustamente
tiepida, il purè non scotti troppo, la maglietta a pelle sia di fibre
naturali e la merendina ecologica. Attenzione, un bambino che ha
visto violenza sarà un adulto violento, un bambino deve sorridere,
ridere, giocare, spensierato e con le guance arrossate dalla gioia. È
evidente per ciascuno quanto effettivamente la serenità fiduciosa di
un piccolo ci rassicuri e ci dia pace, quanto sia una carezza per un
momento di pena o una tristezza, i “pensieri” degli adulti sono
alleviati da una gioia infantile, la fronte si distende, un sorriso
emerge quasi senza permesso, le spalle si allentano atteggiandosi
all’abbraccio. Così anche sappiamo profondamente come sia
struggente assistere al dolore dei più piccoli, come sia una tensione
difficile da sopportare l’impotenza a consolare, distogliere, mettere
in fuga, scacciare la pena da quel faccino, da quel corpo contratto.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Forse, chissà, nel corso della vita partiamo da una posizione del
pendolo per cercarne l’altra con oscillazioni che ci descrivono nel
tempo e nello spazio. I figli legittimi imparando dagli emigranti ad
espatriare per assaporare l’insicurezza e cercare i modi e le risorse
di una sopravvivenza garantita, gli illegittimi accettando che
certezza può esserci, c’è. Intera, piena, appagante anche se fino a
domani. Talvolta, accade, anche a dopodomani.
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Curare la vita con la vita
Foglie d’erba
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Curare la vita con la vita
Altrimenti, non siamo stati bravi, non siamo stati efficaci, abbiamo
sbagliato.
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Curare la vita con la vita
sogni per lui, che ci piacerebbe vederli tutti belli, sani, allegri e
fattivi, sicuri di sé. Questo sarebbe il cambiamento, no? Certo, ed è
questo su cui anche loro concordano che sarebbe una gran bella
cosa. E concordano perché l’accordo è sul loro star male, allora il
cambiamento auspicato sarebbe non stare più male. E qui c’è un
passaggio indigeribile: non si può avere un progetto siglato dal
non, non più. Non è proprio possibile ottenere di non stare più
male, si può solo ottenere un’altra condizione. Ma a quell’altra
condizione, appunto, appartiene una differente, inedita
configurazione, i pensieri e le emozioni formano costellazioni e
figure diverse, che non si possono conoscere né immaginare fino a
che non vi siamo dentro, abbiamo traslocato, suoni e colori e vicini
sconosciuti, con noi oggetti e movenze che ci accompagnano nel
tempo ma che, collocati in quel nuovo ambiente, risaltano in modo
inesplorato.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
I confetti, tu li mastichi?
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Curare la vita con la vita
Così, almeno una volta l’anno faccio fare un giro a qualche mia
persona che abitualmente preferisco non mi rappresenti: quella che
fa gli occhiacci ai bambini e, al loro pianto, guarda con innocenza
compassionevole la madre, quella che non risponde a chi le chiede
un’indicazione, quella che getta una cosa consumata solo a metà.
Mi serve per ricordarmi quanto non mi piacciono le persone tutte
giuste, tutte perbene ma anche per tenere sotto controllo e
conosciute le mie di persone. Penso, infatti, che chi si considera un
non violento non saprebbe come gestire la sua persona violenta e
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Tanto vale cominciare con una confessione: a scuola non sono mai
riuscita a padroneggiare la storia, la studiavo, ci provavo
ciclicamente a farmela piacere ma è sempre stata una inimicizia a
pelle, ci fronteggiavamo con reciproco disgusto e rancore, quello
che scaturisce dall’amarezza di non sentirsi amati. Ce la
intendevamo con il latino, la matematica, la fisica, il greco, con la
storia no. Ho provato a darmi le spiegazioni più varie: era fatta
tutta sulle guerre, le date mi innervosivano, non era ben
raccontata, non mi permetteva di curiosarci dentro…tutte
chiacchiere che non risolvevano nulla. Però, proprio all’opposto del
mio malanimo verso la storia, c’era una passione grande per le
storie, per i romanzi, per i racconti, le biografie e i resoconti di
viaggi. La narrativa, insomma, che consumavo con la velocità e il
disordine allegro e casuale tipici di quella età.
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Curare la vita con la vita
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Intimità e verginità
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Curare la vita con la vita
La clinica e le donne
Forse una delle nostre competenze più abituali e diffuse, non a caso
archiviata dai maschietti nella sprezzante categoria delle
chiacchiere. Eppure, è proprio da qui che vorrei prendere le mosse:
troppo abituale, troppo diffusa, troppo femminile questa
competenza, tale che non ci sembra davvero di dover fare un salto
grandissimo “entrando”, come si dice, in terapia. E, allora, accade
spesso che esattamente questa facilità di giocarci nel rapporto ci
faccia velo alla necessità di un registro altro da attuare,
praticamente sovrapponibile ma con un filo di differenza che lo
rende sostanzialmente, radicalmente differente. Mi è capitato
spesso di sperimentare questa parete divisoria trasparente e in
gran parte indefinibile ma chi ci è passato credo sappia che cosa
intendo. Accade, allora, di trovarsi di fronte a una grandissima
difficoltà perché le parole stesse tradiscono il nostro pensiero
accoppiandosi velocemente con la predisposizione abituale alla
confidenza e nascondendo così il salto logico e relazionale che
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Non sarà che abbiamo bisogno anche nel nostro lavoro di cogliere e
realizzare una più attuale definizione dei sessi? Maneggiando con
nuova e diversa attenzione lo scambio e lo scarto fra le nostre
competenze “date” e le necessità richieste dall’esercizio
professionale? Potremmo provare a ricominciare a ragionarci con la
spregiudicatezza che esige l’avvento di un nuovo secolo, di un
nuovo millennio? Magari giurando che lasceremo comunque (per un
po’!) intatti i posti dirigenziali agli uomini?
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Curare la vita con la vita
La curva a tocchettini
Questo titolo ha una storia. Tanti anni fa, c’era il sole un po’
freddoloso di inizio primavera, ero in macchina, diretti da qualche
parte ma non ricordo assolutamente dove e tanto meno il perché.
Ricordo, però, il conducente dell’auto, un ragazzo alto, magro, con
gli occhi verdi stretti e le mani grandi. Allora ero troppo giovane per
avere la patente e lui faceva un po’ di scena, fiero della sua abilità.
Vedi, mi diceva con voluta noncuranza, il punto è come si prendono
le curve, se si tengono le mani sul volante seguendo l’andamento
della curva, (e lo mostrava, imboccando la curva con le mani ben
salde) va a finire che ci si ritrova con il corpo sbilanciato e le mani
impastoiate in una posa poco comoda (ed eccolo là che pende
verso il finestrino, i polsi torti a seguire la curva). Poi mi guarda,
per vedere l’effetto della mini pantomima, e continua, invece tu
non devi mai essere in curva, è pericoloso, hai visto?, devi essere
sempre in asse anche mentre stai eseguendo una curva, cioè la
prendi a tocchettini, curvi un attimo e raddrizzi il volante, poi
ancora una sterzata e ancora raddrizzi, così, e mi mostrava. Sarà
che è stato efficace nella dimostrazione, sarà che mi sembrava
bellissimo, fatto è che ho custodito l’idea della curva a tocchettini
come icona di un modo di procedere in sicurezza, nella professione
e non solo.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Con questa dedica Ann ha inviato questa poesia di Mary Carr che
ha tradotto per noi, la riporto di seguito:
Da allora in poi
la sua espressione
le fu un enigma. Quando sull'orlo
del sonno i suoi lineamenti
si ammorbidivano infantilmente,
era un istante.
Poteva solo stringere
la sua ampia spalla.
Cosa avrebbe
potuto insegnargli
della Perdita,
proprio a lui che ora l'infliggeva, entrando
nel regno della sua
propria volontà?
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Curare la vita con la vita
Tutto questo è ben presente nelle madri dei maschi che li vedono
crescere con un’ansia dibattuta fra il volerli modellati secondo le
esigenze femministe e la necessità che, all’opposto, vengano
coltivate e fatte crescere le caratteristiche “maschili”. Fra nostalgie
di un assetto ancora estremamente recente, in cui il passo si
muove sicuro su tracce ben note, con ruoli distinti e reciprocamente
specchiati e la voglia, la speranza di un assetto nuovo, dell’avvento
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Lei o lui?
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Curare la vita con la vita
La lingua mochena
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Magie
Per prima, voglio raccontare di Praga. Sapevo che era una città
magica ma non sapevo che mi avrebbe regalato una sua magia. La
storia comincia quando un caro amico appassionato di Mozart ci
propone di organizzare una gita a Praga per il duecentesimo
anniversario del Don Giovanni: grande divertimento, preparativi
accurati, obbligo per tutti (eravamo poi undici) di studiare a
memoria musica e libretto. Partiamo e Praga si apre in una
magnificenza stupefacente, velata dalla tristezza dell’occupazione
sovietica. Ci siamo organizzati per stare qualche giorno,
l’esecuzione del Don Giovanni è struggente, restano negli occhi i
giovani padri che con i bambini a cavalluccio sulle spalle fanno la
fila per i biglietti e la povertà dell’allestimento, amorosamente
curato con i mezzi disponibili.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Razzista anch’io
Ancora una volta solo un gioco di parole? Beh, ancora una volta le
parole sono importanti, è diverso discendere da qualcosa o
orientarsi verso qualcosa. Intanto, nella nostra abitudine mentale,
ciò da cui si discende è immutabile, eternamene scritto nella roccia,
mio padre emigrante, la mamma primogenita di una schiera di
fratelli, il nonno studioso o contadino, la nonna altera, scostante o
un po’ pettona, tutta morbida e profumata di mele. Geni e
cromosomi, abitudini, educazione, rituali, ecco di che cosa siamo
composti, e già facciamo fatica a modulare l’impasto a modo
nostro, figurarsi a modificare gli antecedenti! Tutt’al più, possiamo
dirazzare, deviare in alto o in basso la linea tracciata ma non
tornare sui passi antichi. Come pensiamo, più per cultura
dominante che per vera ingenuità, che il passato non si può
modificare, che la memoria è un archivio magari un poco
affastellato ma completo nel suo disordine, (ma di questo
parleremo meglio) così i sacri principi vengono posti all’origine del
nostro comportamento. Sì che, nell’ovvio divario fra il nostro
comportamento e loro, vediamo riaffacciarsi trionfante la metafora
del peccatore. Flagellatevi perché avete mancato, nascondete il
vostro operato se appena potete o, quanto meno, provatene
vergogna. E proprio come sui testi sacri non è ammessa vera critica
o discussione (tutt’al più interpretazioni differenti!), così sui
princìpi, signori miei, non si discute. Nemmeno per ischerzo,
aggiungerebbe mio suocero.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
uno dei nodi della rete, capaci di porgere il punto di vista del
razzista, del banale, dell’interventista, dell’ideologizzato, del cinico,
del laico e del laicista, affinché si possano raccogliere le diverse
informazioni, analizzare i suggerimenti, ascoltare e poi giudicare,
decidere, assumendosi la responsabilità di far proprio
quell’orizzonte che un tempo chiamavamo princìpi.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
“Concepita dalla NASA nei primi anni ’70, Galileo ha avuto degli
inizi difficili; la sua storia all’inizio è stata segnata da una serie di
ritardi. L’intero piano di volo è stato ridisegnato cinque volte, sia
per motivi di cambiamento delle specifiche tecniche che per il
cambiamento delle posizioni dei pianeti tra le date di lancio riviste.
E’ stata portata tra la Florida e la California numerose volte, ed è
stata smontata, pulita, messa in deposito e poi rimontata. Anche se
la navicella era un pezzo di tecnologia molto avanzato negli anni
settanta, quando finalmente è andata nello spazio nel 1989 molti
dei suoi sistemi erano già obsoleti.”
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Non voglio dire che la soluzione sia organizzare gite di gruppo per
rubare sellini di bicicletta ma alle prossime strisce pedonali da cui
trasborderanno impedendovi di muovervi, guardateli anche voi e
poi ci raccontiamo che ne pensiamo!
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Un polpo in Sardegna
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Curare la vita con la vita
Incontri
“Inchino“
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Curare la vita con la vita
Nota breve
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Frances: va bene.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Frances: è come se mi
biasimasse perché ho ripreso il
rapporto con Sandro.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
pungiglione.
Frances: sì.
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Curare la vita con la vita
Frances: no.
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Curare la vita con la vita
Frances. Sì.
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Curare la vita con la vita
Frances: sì.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
tranquillo!
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Parla Frances
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Curare la vita con la vita
-LUIS-
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Curare la vita con la vita
Mi sono vista, però, molto acritica nei suoi confronti, non succube.
Mi incuriosisce e affascina molto questa dimensione surreale; è una
chiave che mi permette di avere accesso a tante stanze chiuse che
altrimenti sarebbero rimaste sempre chiuse. Per esempio
attraverso la parte nera Luis mi chiede perdono di quello che non fa
nei miei confronti e che secondo lui dovrebbe fare. Sarà così,
oppure sono io che necessito di giustificarlo a tutti i costi? …
Torniamoci
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
subito dopo.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
tanto.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Ho la sensazione che mi
vedono, ho la sensazione. Ma
non vedo, non direttamente.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Sergio: sì.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
mette il volpino?
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Curare la vita con la vita
Sergio: si
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Sergio: sì.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Sergio: sulla sua mano, ha gli Sta con sé, e il suo furore
occhi fissi sulla sua mano, e un aumenta sulla terza
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
riesco a …
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Curare la vita con la vita
conferma e ribadisce
convenendo che è più forte
Giulietta: sì, sì! E quindi tornando dalla vacanza.
ritornando da un momento di
parentesi fuori dal consueto,
dal solito proprio
dall’abitudinario ovviamente
ne ritorno più rafforzata,
comprendendo anche quello
che è il lavoro, la città, il
discorso che tante volte fai…e
tutto…e quindi stare via una
settimana, come mi succede
sempre quando mi allontano
dal consueto, ovviamente
torno con questa cosa più
forte. Questo desiderio di
ricambiare tutto, di dare una
mossa, non lo so come dire,
però un cambiamento, proprio
rinnovo.
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Curare la vita con la vita
cambiamento di qualsiasi
genere.
Giulietta: assolutamente,
assolutamente non solo non le
usa, ma non le vuole
nemmeno!
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
domandasse, Giulietta?
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Non le dispiace se la
chiamiamo Viola.
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Curare la vita con la vita
Maria Cristina: sì
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Giulietta: (sovrapponendosi)
sì, qualcosa del genere.
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Giulietta: sì
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Giulietta: Maria.
Maria, ora molto differenziata
da Viola, donne ambedue ma
che distanza di posizione,
Maria Cristina: Maria, vero? E stile, funzione! Orma superato
la signora Viola è stata a il passaggi difficile
sentire oppure stava dell’affidamento impossibile,
ascoltando altro? (si ride siamo complici e alleate.
insieme)
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Curare la vita con la vita
Giulietta: cioè?
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Curare la vita con la vita
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Curare la vita con la vita
Maria Cristina Koch vive e lavora a Milano nel suo studio di via Grossich,
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